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Full text of "DAL MURATORI AL CESAROTTI TOMO IV CRITICI E STORICI DELLA POESIA E DELLE ARTI NEL SECONDO SETTECHENTO"

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1-850  E59d   v.4    61-11989 

*-igi 

Dal  Muratorl  al  Cesarotti 


1-850 

Bigi     I12'00 

Dal  Muratori  al  Cesarotti 


DATE  DUE 


LA   LKTTKRATURA  ITALIANA 
STOKIA  K  TKSTI 


.K   MATTtOM  *  1MHTRO    PANCHA7.I 
A1,FHF.1H>   SCIUAFKIN1 


Voi.tiMR  44  *  TOMO  IV 


DAL  MURATORI  AL  CESAROTTI 
TOMO  IV 

CRITICI  E  STORICI 

BELLA  POESIA  E  DELLE  ARTI 

NEL  SECONDO   SETTECENTO 


DAL  MURATORI  AL  CESAROTTI 

'f\       t 

TOMO  IV 

CRITICI  E  STORICI 

BELLA  POESIA  E  DELLE  ARTI 

NEL  SECONDO  SETTECENTO 


A  CURA 
DI  EMILIO  BIGI 


RICCARDO  RICCIARDI  EDITORE 
MILANO  •  NAPOLI 


TUTTI    I    DIRITTI   RISERVATI  *  ALL  RIGHTS  RESERVED 
PRINTED   IN   ITALY 


DAL  MURATORI  AL  CESAROTTI 

TOMO  IV 

CRITICI  E  STORICI  DELLA  POESIA  E  DELLE  ARTI 
NEL  SECONDO  SETTECENTO 


INTRODUZIONE  XI 

BIBLIOGRAFIA  XIX 

MELCHIORRE  CESAROTTI  3 

GIROLAMO  TIRABOSCHI  561 

PIETRO  NAPOLI  SIGNORELLI  5^9 

GIAN  FRANCESCO  GALEANI  NAPIONE  647 

MATTEO  BORSA  695 

CLEMENTINO  VANNETTI  747 

AURELIO  DE>  GIORGI  BERTOLA  7§5 

FRANCESCO  TORTI  843 

FRANCESCO  SAVERIO  SALFI  927 

FRANCESCO  MILIZIA  1031 

GIUSEPPE  SPALLETTI  Io87 
LUIGI  LANZI 


NOTA  AI  TESTI 


1169 


INTRODUZIONE 


INTRODUZIONE 


ll  panorama  che  risulta  dagli  scrittori  compresi  in  questo  volume 
appare  alquanto  vario,  almeno  rispetto  a  quello  che,  nelFambito 
del  Settecento,  puo  offrire  la  critica  dell' Arcadia  o  del  pieno  Illu- 
minismo;  ne  per  parte  nostra  si  e  cercato  di  schematizzare  tale 
varieta,  anzi,  proprio  per  evitare  questa  tentazione,  e  sembrato  op- 
portuno  dedicare  ai  singoli  autori  profili  separati,  nei  quali  tro- 
vassero  posto  piu  agevolmente  quei  riferimenti  alle  personal!  espe- 
rienze  letterarie,  filosofiche,  politiche  e  pratiche,  che  giovassero 
a  caratterizzare  nella  sua  individualita  ciascuno  di  essi.  Riconoscere 
e  rispettare  questa  diversita  di  posizioni  non  signifLca  pero  esclu- 
dere  la  esistenza  di  rapporti  e  di  convergenze  di  interessi,  di  pro- 
blemi  e  di  risultati,  che  valgano  a  stabilire  dei  legami  intend  fra 
questi  scrittori  e  insieme  a  distinguerli  nel  piu  ampio  quadro  della 
critica  settecentesca,  e  che  giustifichino  il  loro  raggruppamento  in 
uno  stesso  volume.  A  tali  rapporti  e  convergenze  si  e  avuto  cura, 
naturalmente,  di  accennare  di  volta  in  volta  nei  singoli  profili:  ma 
non  sara  inutile  insistervi  piu  esplicitamente  e  di  proposito  in  queste 
pagine  introduttive. 

II  primo  e  piu  generale  aspetto  che  accomuna  gli  autori  qui  rac- 
colti,  e  che  per  essi  la  cultura  del  pieno  Illuminismo,  quella  cioe 
rappresentata  nei  decenni  centrali  del  secolo  dalFAlgarotti,  dal 
Gozzi,  dal  Bettinelli,  dal  Baretti,  dai  Verri,  dal  Beccaria,  dal  Parini 
(per  ricordare  i  nomi  piu  significativi  nelPambito  della  critica  e  della 
storiografia  letteraria  e  artistica),  costituisce  un  precedente,  un 
punto  di  partenza  piuttosto  che  un  punto  d'arrivo.  Questo  comune 
carattere  non  e  da  intendere  -  e  cio  vale  anche  per  coloro,  come  il 
Torti  e  il  Salfi,  la  cui  attivita  si  esercita  soprattutto  nei  primi  de 
cenni  deirOttocento  -  nel  senso  che  essi  si  pongano  in  esplicito  e 
consapevole  contrasto  con  i  loro  predecessori,  che  insomma  giun- 
gano  a  concezioni  estetiche  e  ad  orientamenti  di  gusto  integral- 
mente  nuovi.  In  tutti  rimangono  piu  o  meno  forti  ma  sempre  pre- 
senti  alcune  convinzioni  tipiche  della  critica  arcadica  e  illumini- 
stica,  che  cioe  1'  opera  dell'artista  e  il  giudizio  del  critico  debbano 
essere  guidati  da  principii  che,  siano  essi  dedotti  a  priori  o  progres- 
sivamente  formati  attraverso  I'esperienza,  e  compito  della  «filo- 
sofia»  ritrovare  e  indicare;  che  le  bellezze  « universal! »  abbiano  la 


XII  INTRODUZIONE 


supremazia  sulle  bellezze  «particolari»  o  «nazionali»,  alle  quali  si 
riconosce  al  massimo  la  funzione  di  servire,  se  impiegate  giudizio- 
samente,  come  accessor!  o  contorni  delle  prime;  che  il  freno  della 
convenienza,  del  decoro,  della  misura  e  in  genere  della  «ragione» 
non  possa  che  giovare  al  poeta.  Ne  per  contro  si  puo  dire  che  essi, 
anche  quelli  che  pur  ne  conoscono  e  ne  ammirano  1'opera,  come  il 
Cesarotti,  il  Napoli  Signorelli,  il  Salfi,  intendano  in  modo  dawero 
approfondito  il  pensiero  del  Vico  sulla  natura  appassionata  e  fan- 
tastica  della  poesia;  che  accolgano  il  concetto,  bandito  proprio  in 
quegli  anni  dall'Alfieri,  della  poesia  come  espressione  totale  di  un 
individualissimo  «  forte  sentire»  (proprio  all'Alfieri  il  Salfi,  che  pure 
tra  questi  scrittori  e  quello  che  meglio  ne  comprende  la  grandezza, 
rimprovera  «d'avoir  mele  un  peu  trop  de  sa  trempe  dans  la  refonte 
de  ces  etres  qu'il  a  voulu  nous  represented));  che  giungano  ad  una 
rivalutazione  integrale  dei  veri  «geni»  della  poesia,  di  Dante,  di 
Omero,  dello  Shakespeare,  o  guardino  con  piena  simpatia  la  nuova 
arte  che  comincia  a  fiorire  intorno  a  loro  in  Italia  e  in  Europa.  La 
loro  qualita  di «  successori  »  dei  critici  del  pieno  Settecento  e  invece 
da  intendere  in  un  senso  piu  modesto,  nel  senso  cioe  che  essi  ne 
riprendono  ed  elaborano  alcuni  motivi  caratteristici,  ora  limitandosi 
ad  applicarli  in  nuovi  campi  non  ancora  sistematicamente  indagati 
e  magari  solo  a  riecheggiarli  e  a  cristallizzarli,  ora  e  piu  spesso  svol- 
gendone,  attraverso  nuove  esperienze,  gli  elementi  meno  razio- 
nalistici. 

^  Questa  elaborazione  si  polarizza  intorno  ad  alcuni  problemi  cri 
tici,  e  prima  di  tutto  intorno  alle  discussion!  sulle  opere  straniere, 
dai  canti  ossianici  alle  poesie  e  prose  dello  Young,  del  Gray  e  degli 
altri  scrittori  preromantici  inglesi  e  tedeschi,  che  vengono  cono- 
sciute  e  tradotte  in  Italia  all'incirca  tra  il  1760  e  il  1780.  Seguendo 
queste  discussioni  ci  si  accorge  subito  che  e  in  giuoco  non  tanto 
la  questione  del  valore  dell'una  o  dell'altra  opera  straniera,  quanto  il 
problema  ben  piu  importante  e  generale  dell'allargamento  della 
sensibilita  critica  e  quindi  dell'estetica  a  nuovi  contenuti  e  moduli 
poeto,  nuovi  e  sconcertanti,  nelk  loro  sia  pur  limitata  (comeoggi 
sembra)  tendenza  al  primitivo,  al  patetico,  al  fantasioso,  aH'inego- 
lare,  airmdefinito,  rispetto  al  medio  gusto  contemporaneo  italiano 
sohdamente  ancorato  ai  criteri  delk  chiarezza,  deUa  verosixniglianza' 
deOa  precxsione.  A  questo  allargamento  della  sensibilita  critica  e 
dellestetica  muministica  contribuiscono  soprattutto  il  Cesarotti  e 


INTRODUZIONE  XIII 

il  Bertola,  traduttori  ed  illustrator!  entusiasti  di  quelle  opere  stra- 
niere ;  ma  ne  essi  ne  gli  altri  che  operano  nella  stessa  direzione  sono 
o  vogliono  ess  ere  del  rivoluzionari :  e  non  solo  in  quanto  nelle  loro 
traduzioni  e  interpretazioni  tendono  costantemente  ad  una  ridu- 
zione  della  poesia  straniera  in  forme  piii  ragionevoli  e  piu  concrete, 
ma  anche  perche,  quando  tentano  di  giustificarne  gli  aspetti  meno 
accettabili  dai  loro  contemporanei,  non  si  valgono  di  miovi  ca- 
noni,  bensi  preferiscono  insistere  su  motivi  gia  affacciatisi  nella 
critica  e  nelPestetica  arcadica  e  illuministica,  come  Tidea  delTin- 
finita  del  Bello,  rintracciabile  dal  critico  aweduto  in  ogni  tempo 
e  sotto  ogni  cielo,  il  riconoscimento  della  poesia  di  «natura»,  il  culto 
della  «sensibilita»,  il  criterio  dell'«  interesse  ».  Tutti  questi  motivi  si 
trovano  compresenti  nelle  opere  del  Cesarotti:  ed  e  proprio  questa 
compresenza  che  fa  di  lui  il  critico  piu  aperto  e  geniale  del  secondo 
Settecento  italiano,  anche  se  la  sua  azione  piuttosto  che  attraverso 
sistematici  lavori  di  critica  e  di  estetica  (a  cui  la  sua  mente,  in  parte 
per  difetto  di  capacita  speculativa  e  in  parte  per  la  sua  stessa  viva- 
cita  e  mobilita,  era  scarsamente  portata)  si  esercita  sul  piano  piu 
generale  e  piu  elastico  del  rinnovamento  del  gusto,  risolvendosi  in 
suggerimenti,  in  osservazioni,  in  rapidi  giudizi  affidati  magari  alia 
breve  e  non  impegnativa  misura  della  lettera.  Dal  Cesarotti  pro- 
cedono  il  Bertola  e  il  Torti,  i  quali,  dotati  di  una  preparazione  cul- 
turale  meno  solida  e  di  una  intelligenza  meno  acuta  ed  aperta,  ma 
in  grado  di  valersi  di  altre  esperienze  speculative  e  artistiche,  hanno 
il  merito  di  imprimere  a  qualcuno  dei  motivi  compresenti  nel 
Cesarotti  un  piu  forte  rilievo  e  di  sfruttarne  al  massimo  le  possibilita 
sul  piano  critico.  II  primo,  aiutato  cosi  dalla  sua  personale  attivita 
di  imitatore  dello  Young,  di  traduttore  dei  lirici  tedeschi  e  in  genere 
di  letterato,  come  dalla  meditazione  di  alcunl  concetti  dell'estetica 
sulzeriana,  approfondisce  soprattutto  il  motivo  della  (csensibilita», 
e  per  tale  via  riesce  non  solo  a  descrivere  criticamente  la  poesia 
dei  suoi  tedeschi,  ma  anche  a  tracciare  un  ritratto  assai  aderente 
del  Metastasio  e  ad  offrire  acute  indicazioni  su  certi  aspetti  raffi- 
natamente  ccnaturali))  dell'arte  di  alcuni  scrittori  classici  come  Teo- 
crito,  Esopo,  Virgilio,  nonche  di  poeti,  pittori  e  musicisti  moderni, 
dal  Sacchetti  al  Goldoni,  dal  Correggio  al  Pergolesi.  II  secondo, 
discepolo  ideale  del  Cesarotti,  ammiratore  di  Ossian  e  di  Gessner, 
ma  anche,  sia  pure  attraverso  la  suggestione  del  giovane  Monti, 
della  Bibbla  e  della  Divina  Commedia,  giunge,  attraverso  un  im- 


XIV  INTRODUZIONE 

piego  integrate  del  canone  deir«  interesse »,  ad  una  revisione,  o, 
come  egli  dice,  ad  un  «prospetto»  della  nostra  letteratura,  in  cui 
figurano  interpretazioni  e  valutazioni  di  Dante,  del  Petrarca,  del- 
PAriosto  e  della  poesia  del  Seicento  e  del  Settecento,  gia  singolar- 
mente  vicine  nei  risultati,  se  non  nello  spirito  che  le  muove,  a  quelle 
romantiche- 

Se  si  passa  dalle  ariose  e  sensibili  pagine  del  Cesarotti,  del  Ber- 
tola,  del  Torti  a  quelle  dei  loro  awersari,  del  Galeani  Napione, 
del  Borsa,  del  Vannetti  (per  non  parlare  di  altri  non  compresi  in 
questo  volume,  come  il  De  Velo  e  il  Rubbi),  non  ci  si  pu6  sottrarre 
ad  una  impressione  di  ristrettezza  ed  aridita,  di  retrivo  e  ottuso 
conservatorismo ;  la  stessa  impressione  che  si  prova  leggendo  gli 
scritti  piu  tardi  del  Bettinelli,  dai  quali  soprattutto  gli  scrittori  ri- 
cordati  prendono  Pawio  per  la  loro  polemica  contro  la  validita 
poetica  non  solo  dei  testi  preromantici  inglesi  e  tedeschi  ma  di  ogni 
opera  straniera  contemporanea  e  particolarmente  contro  ogni  ten 
tative  di  accoglierne  i  temi  e  le  forme  nella  nostra  letteratura.  An- 
ch'essi  tuttavia,  a  ben  guardare,  non  sono  del  tutto  estranei  alle 
nuove  tendenze.  La  loro  polemica,  se  per  gran  parte  riecheggia  i 
vecchi  pregiudizi  retorici  e  accademici  gia  combattuti  dai  migliori 
illuministi,  contiene  pure  in  se,  certo  debole  e  confusa,  ma  non 
per  questo  trascurabile,  la  tendenza  ad  un  contatto  meno  spregiu- 
dicatamente  critico,  piu  attento  e  amoroso  con  la  componente  clas- 
sica  e  umanistica  della  nostra  culrura  letteraria,  una  tendenza  che 
collabora  anch'essa,  seppure  in  modo  meno  vivo  e  fecondo,  allo 
spostamento  del  pensiero  estetico  e  del  gusto  illuministico  verso 
posizioni  meno  razionalistiche,  piu  rispettose  dei  diritti  del  senti- 
mento,  della  fantasia,  della  tradizione.  In  tal  senso  appunto  possono 
assumere  un  significato  positive  sia  il  misogallismo  e  le  apologie 
nazionalistiche  del  Napione,  sia  Phisistenza  sui  danni  prodotti  dal- 
Pimitazione  degli  stranieri  sulla  coscienza  letteraria  italiana  e  la  ra- 
gionata  difesa  della  « fantasia »  contro  Pintrusione  dello  spirito  fi- 
losofico  da  parte  del  Borsa,  sia  le  polemiche  del  Vannetti  per  Pim- 
piego  moderno  del  latino  e  il  suo  culto  di  Orazio,  come  mo  dello 
di  una  poesia  piu  attenta  alia  «  parola  »  e  allo  stile* 

Questa  convergenza  fra  preromantici  e  classicisti  trova  conferma 
nelTambito  particolare  delle  discussioni,  che  si  fanno  piu  vivaci  e 
frequenti  negli  ultimi  decenni  del  secolo,  intorno  alia  questione 
delk  lingua.  Anche  in  tale  campo  la  posizione  piu  aperta  e  feconda  e 


INTRODUZIONE  XV 

quella  del  Cesarotti,  accolta  in  sostanza  dal  Bertola  e  dal  Torti 
(che  tuttavia  per  questo  aspetto  e  piuttosto  un  ritardatario)  e  da 
altri  scrittori,  non  rappresentati  in  questo  volume,  come  FArteaga, 
il  Colle  e  in  parte  il  Pindemonte.  Pur  assumendo  anche  in  tale 
problema  la  veste  non  del  rivoluzionario  ma  del  « giudizioso  »  rin- 
novatore,  e  riallacciandosi  da  un  lato  al  Vico  e  agli  arcadi  e  dalFal- 
tro  al  sensismo,  il  letterato  padovano  offre  la  risposta  piu  avanzata 
e  matura  che  il  Settecento  italiano  potesse  dare  alia  richiesta  di  una 
lingua  piu  aderente  alia  vita  del  sentimento  e  della  fantasia,  e  ca- 
pace  al  tempo  stesso  di  servire  come  efficace  strumento  di  unita 
nazionale.  Ma  a  queste  esigenze  cercano  di  rispondere,  da  un 
punto  di  vista  certamente  piu  ristretto  e  insistendo  su  alcuni  aspetti 
particolari  del  problema,  e  il  Napione,  quando,  forte  della  sua  espe- 
rienza  di  piemontese,  batte  vivamente  sul  rapporto  fra  la  lingua  di 
un  popolo  e  la  sua  indipendenza  ed  unita  politica;  e  il  Borsa,  al- 
lorche  nel  «neologismo  straniero»  vede  il  rischio  di  uno  snatura- 
mento  della  nostra  tradizione  culturale  e  nel  ccgergo  filosofico» 
un'insidia  contro  Pautonomia  del  linguaggio  poetico ;  e  il  Vannetti, 
il  cui  intransigente  purismo  vuol  essere  anche  un  richiamo  a  non 
dimenticare  i  tesori  espressivi  offerti  dalla  lingua  latina  e  da  quella 
trecentesca  e  cinquecentesca.  E  se  tutti  e  tre  si  accordano  fra  loro 
nel  combattere  il  presunto  « lassismo » linguistico  del  Cesarotti,  non 
e  senza  significato  che  consentano  col  loro  awersario  in  piu  di  un 
punto  importante:  il  Napione  e  il  Borsa  nel  respingere  le  pretese 
municipalistiche  dei  cruscanti,  e,  almeno  il  primo,  anche  nelPam- 
mettere  la  necessita  di  uno  snellimento  della  paludata  lingua  lette- 
raria  italiana;  il  Vannetti  neiraccogliere  la  distinzione  fra  genio 
rettorico  e  genio  grammaticale  e  nelPindicare  la  dote  fondamentale 
di  una  lingua  nella  sua  capacita  di  offrire  ad  ogni  scrittore  la  possi- 
bilita  di  esprimere  liberamente  il  proprio  pensiero  e  il  proprio  sen 
timento. 

Un  altro  interessante,  anche  se  forse  meno  osservato,  punto  di 
convergenza  fra  i  critici  del  secondo  Settecento  e  Faccentuarsi  del- 
Finteresse  storiografico.  Basterebbe  ricordare  che  proprio  nel  loro 
gruppo  nascono  la  Storia  della  letteratura  italiana  del  Tiraboschi, 
la  Storia  critica  de'  teatri  antichi  e  moderni  e  le  Vicende  della  coltura 
nelle  due  Sicilie  del  Napoli  Signorelli,  la  continuazione  della  His- 
toire  litUraire  d'ltalie  e  il  Resume*  de  Vhistoire  de  la  literature  ita- 
lienne  del  Salfi.  Ma  non  va  dimenticato  che  rapidi  e  succosi  disegni 


XVI  INTRODUZIONE 


storici  si  incontrano  nelle  opere  del  Cesarotti,  come  lo  schizzo  di 
storia  delFarte  poetica  nel  giovanile  Ragionamento  su  questo  tema, 
la  delineazione  dello  svolgimento  nei  secoli  della  questione  della 
lingua  nel  Saggio  sulla  filosofia  delle  lingue,  la  narrazione  delle  vi- 
cende  del  « gusto »  letterario  italiano  nel  Saggio  sulla  filosofia  del 
gusto ;  che  il  Napione,  autore  di  un  Saggio  sopra  Varte  istorica  e  di 
un  Discorso  intorno  alia  storia  del  Piemonte,  conduce  (come  i  suoi 
amici  della  Sampaolina  e  della  Filopatria)  indagini  particolari  sulla 
storia  letteraria,  civile  e  militare  della  sua  regione;  che  il  Vannetti 
imposta  storicamente  le  sue  Osservazioni  sopra  il  sermone  oraziano 
imitato  dagli  italiani\  che  il  Bertola,  per  non  parlare  del  suo  trattato 
Della  filosofia  della  storia,  traccia  nella  Idea  della  bella  letter atur a 
alemanna  lo  svolgimento  della  letteratura  tedesca  e  nel  Saggio 
sopra  la  favola  descrive  Pevoluzione  di  quel  genere  letterario; 
che  una  storia  della  poesia  italiana,  per  quanto  non  si  configuri 
esplicitamente  come  tale,  viene  ad  essere  il  Prospetto  del  TortL 
Neppure  questo  comune  interesse  per  la  storiografia  deve  essere 
sopravalutato,  poiche  tutte  le  opere  ricordate  rimangono  ancora 
lontane  dal  tipo  romantico  di  storia  letteraria,  modellate  come  sono 
sullo  schema  tipicamente  settecentesco  della  narrazione  dei  pro- 
gressi,  o  dei  regressi,  della  ragione  e  del  buon  gusto,  e  costante- 
mente  rispettose  delle  partizioni  classicistiche  dei  generi  letterari. 
Anzi  il  merito  maggiore  di  taluna  di  queste  opere,  di  quelle  ad 
esempio  del  Napoli  Signorelli,  va  indicato  nell'aver  appHcato  i 
metodi  illuministici  in  zone  culturali  non  ancora  sistematicamente 
esplorate  con  tali  metodi;  ne  manca  qualche  autore,  come  il  Tira- 
boschi,  in  cui  i  piu  vitali  concetti  storiografici  deirilluminismo,  il 
senso  in  particolare  dei  rapporti  fra  la  letteratura  e  la  civilta  tutta, 
appaiono  solo  pallidamente  e  di  riflesso. 

^  Se  tuttavia  si  considera  nel  complesso  tutta  questa  attivita  sto- 
riografica,  bisogna  riconoscere  che  attraverso  di  essa  si  vengono 
variamente  arricchendo  quella  sensibilita  ai  valori  del  sentimento, 
delk  fantasia  e  della  tradizione,  quelFattenzione  piu  amorosa  per 
la  poesia  classica,  quel  senso  dell'unita  e  della  vitalita  deUa  storia 
letteraria  e  culturale  itaKana,  quei  motivi  insomnia  che  si  sono 
veduti  accentuarsi  nelle  discussioni  critiche  e  linguistiche.  Nello 
stesso  Tiraboschi,  che  poi  e  il  massimo  rappresentante  di  tutta 
una  serie  di  ricercatori  e  raccogHtori  di  document!  e  di  notizie,  lo 
scrapolo  erudito,  oltre  che  cercare  una  giustificazione  nel  compito 


INTRODUZIONE  XVII 

di  illustrate  le  glorie  letterarie  e  cultural!  italiane,  si  fa  a  volte 
consapevole  volonta  di  accertare  quelle  «verita  di  fatto»,  quei 
particolari  concreti  (e  saranno  magari  sempre  esterni)  che  sfuggo- 
no  ai  costruttori  di  «filosofici  quadriw;  n6  e  da  trascurare  che  la 
ricerca  di  questi  particolari  egli  conduce  di  preferenza  nelle  zone 
piu  oscure  della  cultura  e  della  storia  civile  e  religiosa  del  Medioevo. 
Al  Medioevo,  e  naturalmente  al  Medioevo  piemontese,  volge  la  sua 
attenzione  anche  il  Napione,  a  cui  non  sfugge  il  sapore  carat- 
teristico  di  certe  manifestazioni  cultural!  e  civili  di  quell'antica 
eta;  mentre  il  Napoli  Signorelli  nelle  Vicende  della  coltura  nel 
le  due  Sicilie  ribatte  i  giudizi  bettinelliani  intorno  alia  barbaric 
deiritalia  e  specialmente  delPItalia  meridionale  prima  del  Mille. 
Ed  e  ancora  il  Napoli  Signorelli,  scolaro  del  Genovesi  ma  anche 
studioso  del  Vico  e  amico  del  Tiraboschi,  che  nel  tracciare  la  storia 
dei  teatri  non  solo  si  sofferma  con  curiosita  sulle  forme  primitive  di 
rappresentazione  scenica,  ma  sa  altresi  accostarsi  ai  grandi  scrit- 
tori  classic!  e  in  particolare  greci  con  una  viva  simpatia  per  la  gran- 
diosa  e  patetica  « semplicita »  della  loro  poesia.  II  senso  della  tra- 
dizione  italiana  antica  e  recente  si  fa  luce  spesso,  in  modo  meno 
geloso  e  polemico  ma  anche  piu  aperto  e  dinamico,  nelle  opere  e 
nelle  pagine  storiografiche  del  Cesarotti,  del  Bertola  e  del  Torti. 
Nel  Prospetto  di  questo,  poi,  appare,  seppure  non  costante  e  non 
pienamente  consapevole,  una  attenzione  assai  viva  alia  genesi  sto- 
rico-biografica  delle  opere  poetiche,  di  quelle,  ad  esempio,  di  Dante, 
del  Metastasio,  del  Goldoni,  Ma  la  storiografia  letteraria  settecen- 
tesca  trova  la  sua  espressione  piti  alta  nelle  opere  del  Salfi.  Uomo 
di  formazione  tipicamente  illuministica,  seppure  non  ignaro  del 
Vico,  illuminista  fino  all'ultimo  anche  nel  gusto,  per  certi  aspetti 
piu  arretrato  di  quello  di  un  Cesarotti  e  di  un  Torti,  egli  pu6  va- 
lersi  per6  di  un  privilegio  che  manca  a  tutti  gli  altri  critici  di  questo 
volume,  della  sua  esperienza  di  patriota  « giacobino »  e  unitario; 
un'esperienza  che  nelle  opere  composte  durante  Pesilio  parigino, 
al  fecondo  contatto  con  gli  ideologi,  gli  consente  di  rivivere  con 
una  piii  vitale  intensita  il  concetto  illuministico  del  rapporto  tra 
letteratura  e  vita  civile  e  quindi  di  accogliere,  spogliandolo  di  ogni 
residuo  accademico  e  conservatore  e  riempiendolo  invece  di  un'an- 
sia  risorgimentale,  Torientamento  nazionalistico  degli  storiografi 
precedent!. 

Nella  critica  e  nella  storiografia  delle  arti  figurative  i  fermenti 


XX  BIBLIOGRAFIA 

quata  &  Top  era  di  G.  SAINTSBURY,  A  History  of  Criticism  and  literary  Taste 
in  Europe,  Edinburgh  1900-1904;  mentre  quella  recentc  di  R.  WKLLKK, 
A  History  of  modern  Criticism  1750-1950 :  I,  The  later  eighteenth  Century, 
New  Haven,  Yale  University  Press,  1955  (traduzione  italiana  di  A,  Lom- 
bardo,  Bologna,  Societa  Editrice  «I1  Mulino»,  1958),  e  di  fondamentale 
importanza,  piu  ancora  che  per  le  rapide  pagine  dedicate  alia  critica  italiana, 
quale  aiuto  per  cogliere  i  rapporti  fra  questa  e  le  contcmporancc  corrcnti 
critiche  ed  estetiche  europee. 

Vanno  poi  naturalmente  tenuti  presenti,  anche  perche*  contengono  spesso 
indicazioni  che  interessano  l'attivit&  piu  propriamente  critica  e  storiogra- 
fica,  alcuni  studi  intorno  alle  idee  estetiche  di  questo  pcriodo  e  in  gcnere 
del  Settecento.  Anzitutto,  di  B.  CROCE,  i  capitoli  intorno  alia  storia  deircste- 
tica  settecentesca,  nell'Estetica,  Bari,  Laterza,  I9468;  e  i  saggi  L1  estetica  del 
Gravina  ed  Estetici  italiani  della  seconda  meta  del  Settecento^  nei  PrMemi  di 
estetica,  Bari,  Laterza,  1949*;  e  Iniziazione  all' estetica  del  Settecento  y  ne#H 
Ultimi  saggi,  Bari,  Laterza,  I9533;  poi  il  volume  di  R.  SPONGANO,  La  poe- 
tica  del  sensismo  e  la  poesia  del  Paring  Messina-Milano,  Principato,  s.  a. 
(ma  1934) ;  e,  tra  gh  studi  particolari  che  non  vertono  direttamcnte  su  atitori 
compresi  in  questo  volume,  A.  GALLETTI,  Le  teorie  drammatichc  e  la  tra- 
gedia  in  Italia  nel  secolo  XVIII,  P.  7,  7700-1750,  Cremona,  Fern,  igoi ; 
S.  CARAMELLA,  /  problemi  del  gusto  e  delVarte  nella  mentc  di  P.  Verri,  in 
«LaRassegna»,  S.  iv,  xxxn  (1924),  pp.  1-14,  88-97,  217-35;  R-  MoNnou-'o, 
Introduzione  al  volume  Operescelte  di  C.  Beccaria,  Bologna,  Cappclli,  1925 ; 
E.  BONORA,  Pietro  Verri  e  /'« Entusiasmo »  del  Bettinelli>  in  « Giorn.  stor. 
d.  lett.  it. »,  cxxx  (1953),  pp.  304-25.  II  saggio  di  S.  CARAMEU.A,  L'esMtca 
italiana  dalV Arcadia  all'Illuminismo,  neH'opera  miscellanea  Momcnti  e  pro 
blemi  di  storia  dell 'estetica,  P.  H,  DalV Illuminismo  al  Romanticmno,  Mihmo, 
Marzorati,  1959,  PP-  874-980,  e  stato  pubblicato  quando  il  presence  vo 
lume  era  gi£  in  corso  di  stampa.  Fra  le  operc  piu  gencralniente  dedicate 
all' estetica  europea  del  Settecento,  ricordo:  W.  FouciERSia,  fintrtr  k  Classi- 
cisme  et  le  Romantisme,  £tude  sur  Vesth&iqite  et  le  sesthtticiens  du  XVIU 
siecle,  Paris- Craco vie  1935 ;  e  dello  stesso,  L'dtat  pr&ent  des  recherches  sur  t&$ 
rapports  entre  les  lettres  et  les  arts  au  XVIII  sificle,  in  Atti  del  V  congresso 
di  hngue  e  letterature  moderne,  Firenze  1955;  E.  CASSHUJR,  il  capitolo  //>w- 
blemifondamentali  dett9 estetica,  nel  volume  Lafilosafia  ddVllluminismo,  tra- 
duzione  italiana  di  E.  Pocar,  Firenze,  LaNuova  Italia,  1936;  V.  K.  Ar.FiKRi, 
Ly estetica  dalV Illuminismo  al  Romanticismo,  Milano,  Mar/orati,  1957,  utilc 
anche  per  Tampia  ed  accurata  bibliografia  (c  si  veda  anche  il  «aggio,  pKi 
breve,  sullo  stesso  argomento  nell'opera  miscellanea  citata  Moment  i  e  pro 
blemi  di  storia  dell' estetica). 

Sulle  discussioni  linguistiche  bastera  qui  citare:  G.  MAZZONI,  La 
questions  della  lingua  nel  secolo  XVIII,  in  Tra  libri  e  cartt,  Roma 
Pasqualucci,  1885,  pp.  115-68;  TH.  LABANDB-jHANROY,  La  question  <le 
la  langue  en  Italie  de  Baretti  d  Manzoni,  Paris  1925;  A,  ScmATONl 
Aspetti  della  crisi  linguistica  italiana  del  Settecento  (1937),  ora  in  Momcnti 
di  storia  della  lingua  italiana,  Roma,  Editrice  Studium,  I9532,  PP  Oi-na 
(studio  fondamentale);  A.  VISCARDI,  II  proUema  della  costntzionc  nelk  po- 
Lemiche  linguistiche  del  Settecento,  in  «Paidcia»,  n  (1947),  pp.  x 97.^14* 


BIBLIOGRAFIA  XXI 

B  MIGLIORINI,  La  questione  della  lingua,  nel  volume  miscellaneo  citato 
Questioni  e  correnti  di  storia  letteraria',  e  dello  stesso,  il  capitolo  sul  Sette- 
cento  dclla  Storia  della  lingua  italiana,  Firenze,  Sansoni,  1960,  pp.  497- 
583 ;  M.  PUPPO,  Introduzione  al  volume  Discussioni  linguistiche  del  Sette- 
cento,  Torino,  U.T.E.T.,  1957. 

Sulla  stonografia  letteraria:  B.  CROCE,  Storia  della  cntica  e  storia  della 
storia  letteraria,  in  Problemi  d'estetica,  cit.,  pp.  425-33;  M.  GENTILLE, 
Vongine  del  tipo  di  storia  letteraria  nazionale,  in  «Annali  della  Scuola 
Normale  Supenore»  di  Pisa,  xxix  (1927),  PP-  9-40;  e  soprattutto  G.  GETTO, 
Storia  delle  stone  letterarie,  Milano,  Bompiani,  1 9472.  E  si  aggiunga  1'interes- 
sante  indagine  di  E.  MERIAN-GENAST,  Voltaire  und  die  Entwicklung  der 
Idee  der  Weltliteratur,  in  « Romamsche  Forschungen »,  XL  (1927),  pp.  1-226. 
Sulla  critica  e  sulla  storiografia  delle  arti  figurative  non  sono  molti  gli 
studi  complessivi.  Per  un  orientamento  generale  si  vedano  i  cenni  sull'ar- 
gomento  di  L.  VENTURI,  II  gusto  dei  primitwi,  Bologna,  Zanichelli,  1926; 
e  Storia  della  cntica  d'arte,  Roma-Firenze-Milano,  Edizioni  U,  1945;  e 
J.  SCHLOSSER-MAGNINO,  La  letteratura  artistica,  traduzione  italiana  di 
F.  Rossi,  Firenze,  La  Nuova  Italia,  1935.  Indicazioni  piu  precise  nello 
studio  di  A.  M.  GABRIELLI,  VAlgarotti  e  la  cntica  d'arte  in  Italia  nel  Set 
tecento,  in  « Critica  d'arte »,  in  (1938),  pp.  155-69,  e  iv  (1939),  PP-  24-31; 
discutibili,  anche  se  non  privi  di  qualche  osservazione  degna  di  nota,  i  saggi 
contenuti  nei  volumi  di  F.  ULIVI,  Gallena  di  scritton  d'arte,  Firenze,  San 
soni,  1953;  e  Settecento  neoclassico,  Pisa,  Nistn  e  Lischi,  1957. 

Notizie  c  giudizi  utili  e  spesso  important!  si  trovano  anche  in  non  poche 
opere  di  storia  letteraria.  Fra  le  storie  e  i  compendii  generali  della  letteratura 
italiana  vanno  ncordati  almeno  il  Resume  de  Vhistoire  de  la  literature  ita- 
lienne  di  F.  S.  SALFI,  per  i  due  capitoli  (riportati  anche  in  questo  volume) 
sulla  critica  arcadica  e  illuministica,  la  Storia  della  letteratura  italiana 
di  F.  DE  SANCTIS,  quella  di  A.  MOMIGLIANO,  e  il  Compendia  di  storia  della 
letteratura  italiana  di  N.  SAPEGNO.  Fra  le  trattazioni  relative  al  Settecento: 
C.  UGONI,  Della  letteratura  italiana  della  seconda  meta  del  secolo  XVIII, 
Milano,  Bottom,  1820-1822  (ripubblicata  postuma  con  molte  modifiche  a 
Milano  1856-1858);  A.  LOMBARDI,  Storia  della  letteratura  italiana  nel  se 
colo  XVIII,  Modena,  Tipografia  Camerale,  1827-1830  (e  poi,  a  Venezia 
1832);  S.  TICQZZI,  continuatore  di  G.  B.  CORNIANI,  I  secoli  della  letteratura 
italiana  dopo  il  suo  risorgimento,  Milano,  Ferrario,  1833;  E.  DE  TIPALDO, 
Biografia  degli  italiani  illustri  nelle  scienze,  lettere  ed  arti  del  secolo  XVIII 
e  de'  contemporanei,  Venezia,  Alvisopoli,  1834-1835;  M.  LANDAU,  Ge- 
schichte  der  italienischen  Literatur  im  achtzehnten  Jahrhundert,  Berlin  1899; 
A.  D'ANCONA  e  O.  BACCI,  Manuale  di  storia  della  letteratura  italiana,  iv  e 
v,  Firenze,  Barbera,  1913-1914  (nuova  edizione  rifatta);  T.  CONCARI,  II 
Settecento,  Milano,  F.  Vallardi,  1899;  G  NATALI,  //  Settecento,  Milano, 
F.  Vallardi,  I9SOS  (n£  si  trascuri  la  precedente  edizione  del  1929,  dove  sono 
indicazioni  bibliografiche  tralasciate  nellc  due  cdizioni  successive) ;  e  dello 
stesso,  le  due  raccolte  di  saggi  Idee,  costumi,  uomini  del  Settecento,  Torino, 
S.T.E.N.,  I9262,  e  Cultura  e  poesia  in  Italia  nelVeta  napoleonica,  Torino, 
S.T.E.N.,  1930;  B,  CROCK,  La  letteratura  italiana  del  Settecento,  Ban, 
Laterza,  1949 ;  i  profili  e  le  note  di  E.  BONORA,  nel  volume  Letterati,  memo- 


XXII  BIBLIOGRAFIA 

ridisti  e  viaggiatori  del  Settecento,  Milano-Napoli,  Ricciardi,  1951 ;  e,  per  il 
preromanticismo,  U.  Bosco,  Preromanticismo  e  Romanticismo,  nel  volume 
miscellaneo  citato  Questioni  e  correnti  di  storia  letteraria.  Per  i  rapporti  con 
le  letterature  straniere  bastera  citare:  A.  GRAF,  L'anglomania  e  Vinflusso 
mglese  in  Italia  nel  secolo  XVIII,  Torino,  Loescher,  191 1;  H.  BEDARIDA 
e  P.  HAZARD,  L}  influence  francaise  en  Italie  au  XVIII  siecle,  Paris  1934; 
P.  VAN  TIEGHEM,  Le  Preromantisme .  Etudes  d'histoire  litUraire  eitropfonne, 
Paris  1948;  a  cui  si  possono  aggiungere  i  volumi  di  M,  PRAZ,  La  came,  la 
morte  e  il  diavolo  nella  letteratura  romantica,  Firenze,  Sansoni,  1948s;  c 
Gusto  neoclassico,  Napoli,  Edizioni  Scientifiche  Italiane,  i9S9a. 

Tra  le  opere  sulla  filosofia  del  Settecento  sono  da  tener  present!,  oltre  il 
volume  citato  del  Cassirer,  G.  GENTILE,  Storia  delta  filosofia  italiana  dal 
Genovest  al  Galluppi,  Firenze,  Sansoni,  I937a;  F.  CHABOD,  Illuminismo, 
voce  deirEncidopedia  italiana;  C.  CAPONE-BRAGA,  La  filosofia  francese  e 
italiana  nel  Settecento,  Padova,  Cedam,  I94o-i9422;  C,  ANTONI,  La  lotta 
contro  la  ragione,  Firenze,  Sansoni,  1942;  P.  HAZARD,  Lap&ns4e  europfonm 
de  Montesquieu  a  Lessing,  Pans  1946;  G.  DE  RUGGIERO,  Storia  delta 
filosofia',  P.  IV,  La  filosofia  moderna,  II,  L'etd  dell'illuminismo,  e  ///,  Da 
Vico  a  Kant,  Bari,  Laterza,  1950*.  Assai  utile  la  Bibliografia  vichiana,  di 
B.  CROCE  e  F.  NICOLINI,  Napoli,  Ricciardi,  1947-1948. 

In  particolare  sul  pensiero  stonografico :  E.  FUETER,  Storia  delta  storio- 
grafia  moderna,  traduzione  italiana  di  A.  Spinelli,  Napoli,  Ricciardi,  1944; 
il  capitolo  sulla  stonograna  delPIlluminismo  in  B,  CROCE,  Teoria  e  storia 
della  storiografia,  Bari,  Laterza,  1917;  e,  molto  important!  anche  per  Testc- 
tica  e  la  cntica,  F.  MEINECKE,  Le  ongmi  dello  storicismo,  traduzione  italiana 
di  M.  Biscione,  C.  Gundolf,  G.  Zamboni,  Firenze,  Sansoni,  1954;  e, 
dello  stesso,  il  saggio  Classicismo,  Romanticismo  e  pensiero  storico  nel  secolo 
XVIII,  nel  volume  Senso  stonco  e  significato  della  storia,  traduzione  italiana 
di  M.  T.  Mandalari,  Napoli,  Edizioni  Scientifiche  Italiane,  1948,  pp.  45-62. 
Per  la  storia  politica,  sociale  ed  economica  sar&  qui  sufficiente  ricordare 
le  trattaziom  generali  di  E.  ROTA,  Le  origini  del  Risorgimento,  Milano, 
F.Vallardi,  1938;  A.  OMODEO,  Veto,  del  Risorgimento  italiano,  Napoli, 
Edizioni  Scientifiche  Italiane,  1946^  G.  CANDELORO,  Storia  della  eta  mo 
derna,  /,  Le  origini  del  Risorgimento  (1700-181$),  Milano,  Peltrinelli,  1956; 
F.  VALSECCHI,  L? Italia  nel  Settecento  dal  1714  al  x?88,  Milano,  Monda- 
dori,  1959;  e  quelle  piti  particolari  di  L.  SALVATORELLI,  //  pensiero  politico 
italiano  dal  1700  al  1870,  Torino,  Einaudi,  i9498;  G.  DE  RUGGIERO,  // 
pensiero  politico  meridionale,  Bari,  Laterza,  1922;  A.  GERBI,  La  politica 
del  Settecento,  Bari,  Laterza,  1928;  D.  CANTIMORI,  Utopisti  e  riformatori 
italiani  (1794-1547),  Firenze,  Sansoni,  1943;  Fintroduzione  e  i  profili  di 
F.  VENTURI  nel  volume  Illuministi  italiani,  in,  Riformatori  lombardi,  pie- 
montesi  e  toscani,  Milano -Napoli,  Ricciardi,  1958;  e  infine  gli  studi  ancora 
del  Cantimori  e  del  Venturi,  e  poi  di  G.  FALCO,  F.  VALSECCHI,  R.  ROMEO, 
E.  PASSERIN,  U.  SEGRE,  contenuti  nel  volume  miscellaneo  citato  La  cultura 
illuministica  in  Italia. 


MELCHIORRE  CESAROTTI 


NOTA  INTRODUTTIVA 


Spirito  vivacemente  aperto  ad  ogni  novita  ma  sempre  attento 
a  non  oltrepassare  i  Hmiti  di  una  diberta  giudiziosa)),  fedele  fino 
all'ultimo  alia  filosofia  dei  lumi  ma  buon  conoscitore  del  Vico  e 
dello  Shaftesbury,  lettore  appassionato  e  traduttore  di  testi  pre- 
romantici  stranieri  ma  anche  ottimo  scrittore  latino  ed  espertissimo 
di  greco,  dotato  di  notevoli  interessi  speculativi  e  insieme  di  sottile 
sensibilita  linguistica  e  stilistica,  polcmista  brillante  eppure  rispet- 
toso  delle  ragioni  degli  avversari,  Melchiorre  Cesarotti  rappresenta 
nella  cultura  italiana  del  Settecento  il  punto  massimo  a  cui  po- 
teva  giungere  I'llluminismo  neiraccogliere  i  motivi  nuovi  nati 
nel  suo  stesso  seno  senza  giungere  ad  una  drammatica  rottura 
con  se  medesimo.  Nel  carattcre  pacifico  di  questo  accoglimento 
risiede  il  limite  ma  anchc  la  forza  deir opera  cesarottiana:  ch6,  se 
vi  mancano  Ic  intuizioni  lampeggianti  e  il  drammatico  fervore 
di  un  Herder  o  di  un  Diderot,  &  anche  vero  che  essa  in  tal  modo 
viene  a  configurajrsi  come  una  prima  sistemazione  concreta  e  orga- 
nica,  e  sia  pure  di  una  organicita  spesso  provvisoria  e  superficial, 
delle  nuove  esigenze  preromantiche  sul  terreno  della  antica  e  re- 
cente  tradizione:  una  sistemazione  che  perci6  potra  anche  costi- 
tuire  una  provvidcnziale  base  di  partenza  per  la  cultura  roman- 
tica  italiana,  e  in  particolare  per  alcuni  dei  suoi  scrittori  piu  rap- 
prcsentativi  dall'Alfieri  al  Foscolo  al  Manzoni  al  Leopardi. 

Al  formarsi  di  questa  vocazione  di  intelligente  e  sensibile  con- 
ciliatore  non  £  estranea  la  sua  educazione  giovanile  nell'ambiente 
letterario  e  culturale  di  Padova,  dove  egli  era  nato,  di  famiglia 
nobile  ma  non  ricca,  il  15  maggio  1730.  Allievo  del  scminario 
di  Padova,  celebre  per  la  sua  tradizione  nel  campo  della  filologia 
classica,  e  poi  quivi  assunto,  ancora  giovanissimo,  come  profes- 
sore  di  retorica,  egli  acquist6  subito  una  notevole  padronanza 
delle  lingue  antiche  tale  da  conciliargli  la  bcnevolenza  dei  circoli 
classicistici  padovani,  e  in  particolare  di  Giovanni  Antonio  Volpi, 
che  gli  apri  la  sua  biblioteca  ricchissima  di  autori  greci  e  latini, 
e  di  Paolo  Brazzolo,  maniaco  ammiratorc  di  Omero  e  della  lette- 
ratura  ellenica,  che  lo  spinse  a  tradurre  alcune  odi  di  Pindaro  e  il 
Prometeo  di  Eschilo.  Ma  proprio  nel  seminario  padovano  egli 
ebbe  come  professore,  e  poi  collega  ed  amico,  F  abate  Giuseppe 


4  MELCHIORRE    CESAROTTI 

Toaldo,  che  egli  riconobbe  poi  sempre  come  suo  primo  vero 
maestro  (lo  chiamava  il  suo  « Socrate ») :  per  merito  soprattutto 
di  lui,  uomo  di  notevole  apertura  mentale,  matematico  e  astro- 
nomo  di  valore  ma  anche  dotato  di  non  comuni  interessi  filoso- 
fici  e  letterari,  il  Cesarotti  non  solo  fu  spinto  a  leggere  e  meditare 
i  maggiori  filosofi  illuministici  europei,  da  Voltaire  a  Hume,  ma 
pote  anche  conoscere  gli  scritti  di  Antonio  Conti,  e  attraverso  que- 
sti -scrim,  o  tramite  il  Toaldo  stesso,  avere  fin  d'allora  qualche 
notizia  di  pensatori  come  il  Vico  e  lo  Shaftesbury.  E  non  <b  impro- 
babile  che  ancora  il  Toaldo  gli  abbia  indicato  il  libro  che,  secondo 
le  dichiarazioni  del  Cesarotti  stesso,  oper6  piu  di  ogni  altro  sulla 
sua  formazione  spirituale  giovanile,  La  sagesse  dello  Charron,  di 
cui  dovette  attrarlo  soprattutto  il  tentative,  congeniale  alia  sua 
intima  natura,  di  conciliare  con  equilibrata  moderazione  ragione 
e  sentimento,  persuasione  religiosa  e  spirito  critico. 

Ben  s'intende  come  nel  suo  animo  esaltato  e  arricchito  da 
queste  letture  si  sviluppasse  Faspirazione  ad  uscire  dal  ristretto 
cerchio  padovano  e  ad  entrare  in  contatto  diretto  con  ambienti 
umani  e  culturali  piu  vari  e  aperti;  e  come  nel  1760  non  si  lascias- 
se  sfuggire  Poccasione  di  trasferirsi  a  Venezia,  quale  precettore 
dei  figli  del  patrizio  Girolamo  Grimani.  Gli  otto  anni  del  suo 
soggiorno  a  Venezia  costituiscono  un  episodic  importante  nella 
sua  vita,  che  va  ricordato  a  chi  accolga  senza  riserve  la  deplora- 
zione  foscoliana  sulla  sua  mancanza  di  una  concreta  esperienza 
del  mondo,  di  viaggi,  di  uomini.  Nella  Venezia  di  allora,  in  realta, 
senza  troppo  muoversi,  un  osservatore  aperto  e  intelligent^  come 
il  Cesarotti  poteva  bene  aver  modo  di  apprendere  molto  sulla 
varia  natura  degli  uomini  e  di  tenersi  al  corrente  delle  piu  recenti 
novita  culturali  italiane  ed  europee,  come  e  documentato  del 
resto  dalle  sue  vivaci  lettere  scritte  al  Toaldo  e  al  Taruffi  in  que- 
gli  anni.  A  Venezia  non  soltanto  ebbe  qualche  esperienza  amorosa 
(che  tuttavia  non  giunse  mai  alia  passione),  ma  conobbe  anche 
qualcuna  delle  piu  illustri  personality  politiche  del  tempo,  come 
Angelo  Querini  e  Angelo  Emo,  e  soprattutto  entr6  in  contatto 
con  i  maggiori  esponenti  della  cultura  letteraria  veneziana,  dal 
Gozzi  al  Goldoni,  sull'arte  del  quale  fin  d'allora  egli  non  temeva 
d'esprimere  giudizi  nettamente  positivd. 

Al  Goldoni  appunto,  approfittando  del  trasferimento  di  questo 
in  Francia,  egli  affidava  nel  1762  Pincarico  di  consegnare  al  Vol- 


NOTA  INTRODUTTIVA  5 

taire  un  volume,  appena  pubblicato,  contenente  la  sua  traduzione 
in  versi  sciolti  di  due  tragedie  dello  stesso  Voltaire,  la  Morte  di 
Cesare  e  il  Maometto,  traduzione  corredata  di  postille  critiche 
e  di  due  Ragionamenti,  il  primo  Sopra  il  diletto  della  tragedia, 
il  secondo  Sopra  rorigine  e  i  progressi  dell' arte  poetica.  Sono  queste 
le  sue  prime  opere  veramente  impegnative,  ben  piu  che  i  sonetti 
petrarcheggianti  e  gli  apologhi  scritti  pure  in  questo  periodo: 
soprattutto  i  due  Ragionamenti,  in  grazia  dei  quali  -  dichiara- 
va  parecchi  anni  dopo  in  una  importante  e  poco  nota  lettera  ad 
un  francese  sconosciuto  -  egli  aveva  stampato  la  versione  delle 
due  tragedie.  Piu  strettamente  legato  alia  mentalita  e  al  gusto  del 
pieno  Illuminismo,  a  quello  per  intenderci  del  Voltaire  o  del 
Marmontel  (a  cui  risale  Tidea  prima  dello  scritto),  e  il  Ragionamen- 
to  sopra  il  diletto  della  tragedia.  Dal  punto  di  vista  teorico  Tin- 
teresse  dell' operetta  consiste  soprattutto  nel  fatto  che  Pautore  ar- 
disce  affrontare,  e  con  notevole  informazione,  un  problema,  come 
quello  dichiarato  nel  titolo,  tra  i  piu  dibattuti  nella  contemporanea 
speculazione  estetica  europea  e  del  quale  si  erano  occupati,  fra 
gli  altri,  il  Gravina,  il  Dubos,  il  Fontenelle,  il  Calepio,  il  Bodmer, 
il  Conti  e  lo  Hume.  Non  molto  originale  e  invece  la  soluzione 
che  Tautore  offre  a  sua  volta,  dopo  aver  discusso  le  spiegazioni 
del  Dubos,  del  Fontenelle  e  dello  Hume:  che  il  diletto  tragico 
nasca  «dall'accordo  del  risultato  dramatico  coll'interesse  e  Fi- 
struzione  morale)),  dal  fatto,  in  altre  parole,  che  alia  compassione 
e  al  terrore  suscitati  dai  personaggi  della  tragedia  si  mescola, 
rafforzandosi  in  questa  mescolanza,  Tinteressamento  o  piacere 
morale,  derivante  dall'insegnamento  che  «le  pene  e  le  disgrazie 
che  piu  . . .  affliggono  [gli  uomini]  sono  figlie  delle  passioni  e  degli 
errori,  mali  ambedue  che  possono  evitarsi  o  superarsi  da  loro  quan- 
do  vogliano  far  uso  della  liberta  e  della  ragione ».  Tale  soluzione, 
infatti,  se  confrontata  con  quelle  proposte  dal  Dubos  e  dallo 
Hume,  che  piu  consapevolmente  degli  altri  tendevano  a  spostare 
il  diletto  tragico  (e  in  genere  artistico)  fuori  della  sfera  della 
razionalita,  pu6  sembrare  un  regresso,  o  al  massimo  un  ingegnoso 
compromesso  tra  razionalismo  e  sensismo,  ottenuto  reintrodu- 
cendo  una  moralita  razionale  come  il  termine  di  un  processo  psi- 
cologico  fondato  su  effetti  piacevolmente  patetici.  Tale  compro 
messo  tuttavia  acquista  un  concreto  significato  e  valore  se  viene 
riportato  dal  piano  teorico  a  quello  della  critica  militante,  se  viene 


6  MELCHIORRE    CESAROTTI 

cioe  interpretato  come  difesa  e  illustrazione  dell'ideale  di  una 
tragedia  nutrita  di  contenuto  « filosofico  »  e  al  tempo  stesso  capace 
di  interessare  pateticamente  lo  spettatore,  ugualmente  lontana  dal- 
Porrore  «gratuito»  della  tragedia  greca  e  inglese  come  dalla  frivo- 
lezza  galante  e  romanzesca  di  quella  seicentesca;  e  piu  generalmente 
dell'ideale  di  una  arte  viva  e  moderna,  attraente  e  di  serio  e  uni- 
versale  contenuto  umano. 

In  tal  modo  il  Cesarotti  gia  con  questo  Ragionamento  si  pone 
sulla  linea  della  piu  alta  critica  illurninistica  italiana,  che,  ripren- 
dendo  con  nuovo  vigore  polemico  le  idee  del  Muratori  e  del 
Gravina,  proprio  in  nome  di  quell'ideale  stava  conducendo  con 
le  discussioni  teoriche  e  critiche  e  con  1'esempio  la  sua  feconda 
battaglia  di  rinnovamento.  Ma  piu  consapevolmente,  e  anche  con 
apporti  piu  originali,  il  Cesarotti  partecipa  a  tale  battaglia  con 
Paltro  Ragionamento  sopra  Vorigine  e  i  progressi  delVarte  poetica.  II 
motive  fondamentale,  che  anima  tutto  lo  scritto  e  gli  conferisce 
unita,  e  infatti  il  proposito  di  mostrare  Pillegittimita  di  ogni  re- 
gola  basata  sulPautorita  e  su  ogni  altro  pregiudizio  particolare, 
soprattutto  del  piu  radicato  e  pericoloso,  quello  fondato  sul  cieco 
rispetto  per  gli  autori  antichi.  L'argomento  fondamentale  di  cui  il 
Cesarotti  si  vale  per  la  sua  dimostrazione  e  tutto  illuministico, 
anzi  razionalistico :  il  concetto  cioe  della  esistenza  di  «rapporti 
eterni  ed  immutabili  fra  gli  oggetti  e  Puomo»,  la  cui  conosccnza 
una  volta  raggiunta  possa  servire  di  base  per  un'arte  poetica  e 
quindi  per  una  poesia  valida  per  ogni  tempo  e  luogo :  un  concetto 
in  lui  cosl  saldo  che  per  esso  egli  rifiuta  vivacemente  Pafferma- 
zione  dello  Hume  sulla  inesistenza  di  principii  che  non  siano 
a  posteriori.  E  ancora  tipicamente  illuministici,  se  non  raziona- 
listici,  sono  altri  argomenti  di  rincalzo:  come  la  storia  «genetica» 
della  poesia  con  cui  il  Ragionamento  si  apre,  e  di  cui,  sulle  orme  del 
Condillac,  Pautore  si  serve  a  mostrare  Panteriorita  della  poesia  stes- 
sa  rispetto  ai  precetti  dei  retori;  o  come  la  distinzione,  quasi  certa- 
mente  ripresa  dalVEssai  sur  la  potsie  tyique  del  Voltaire,  tra  genio 
(o  gusto)  universale  e  genio  particolare  delle  singole  nazioni  e  che 
viene  richiamata  per  chiarire  che  <cchi  aspira  alia  gloria  di  poeta 
universale  delle  nazioni  e  dei  secoli,  deve  afferrarsi  alle  grandi  ed 
universali  bellezze  della  natura,  e  delPaltre  servirsi  solo  come  di 
un  abbigliamento  che  non  deformi  ma  rilevi  i  lineamenti  di  un 
volto»,  come  di  uno  strumento  insomnia  tollerabile  e  anche  uti- 


NOTA   INTRODUTTIVA  7 

le,  ma  da  usare  sempre  con  la  massima  cautela  in  quanto  capace 
di  reintrodurre  gli  aborriti  pregiudizi.  Ma  sempre  nelPambito 
della  battaglia  per  una  poesia  libera  dalle  regole,  e  pacificamente 
accordati  con  gli  argomenti  razionalistici  e  illuministici  sopra  ri- 
cordati,  si  fanno  luce  due  altri  e  piu  interessanti  motivi:  un  senso 
vivissimo,  anzitutto,  della  individualita  e  originalita  del  «genio» 
poetico,  al  quale  il  Cesarotti  perviene  rielaborando  in  modo  forte- 
mente  soggettivistico  il  vecchio  argomento  deirinfinita  degli  og- 
getti  imitabili,  e  un'insistenza,  altrettanto  viva,  sul  carattere  istin- 
tivo,  fantastico-passionale  della  poesia.  Si  tratta,  abbiamo  detto, 
di  due  « motivi»,  piuttosto  che  di  concetti  ragionati,  e  di  motivi, 
neppure  veramente  nuovi,  poiche  del  primo  e  facile  rintracciare 
i  precedenti  nello  Shaftesbury,  nello  Young  e  anche  in  alcuni 
estetici  intellettualistici,  come  il  Bodmer;  mentre  per  il  secondo  e 
agevole  richiamare  il  Vico,  il  Dubos  e  i  sensisti  in  genere.  Tuttavia, 
a  parte  il  loro  stesso  accoglimento,  ci6  che  importa  notare  e  la 
loro  compresenza  (non  diciamo  dialettizzazione),  per  cui  il  Ragio- 
namento  assume  a  buon  diritto  un  posto  importante  nella  storia 
del  pensiero  estetico  e  critico  almeno  italiano,  specialmente  se  si 
consideri  che  esso  precede  nel  tempo  sia  le  prime  riflessioni  sulFar- 
te  del  Verri  e  del  Beccaria  (1764-1766),  sia  VEntusiasmo  (1769) 
del  Bettinelli,  sia  il  Discours  barettiano  (1777). 

Nella  storia  interna  dello  svolgimento  del  pensiero  e  del  gusto 
del  Cesarotti  stesso  il  Ragionamento  riveste  poi  un  singolare  in- 
teresse,  in  quanto  dimostra  come  Fincontro  con  Ossian,  avvenuto 
giusto  qualche  mese  dopo,  verso  la  fine  del  1762,  sia  stato  per  il 
Cesarotti  non  tanto  una  improwisa  e  miracolosa  rivelazione,  quan 
to  piuttosto  una  splendida  occasione  per  consolidare  e  sviluppare  un 
orientamento  al  quale  il  suo  personale  temperamento  e  la  sua  pre- 
cedente  formazione  culturale  lo  avevano  gia  predisposto.  In  que- 
sto  senso  appunto  va  intesa  la  sua  dichiarazione,  contenuta  nel- 
Timportante  lettera  gia  citata,  che,  fra  tutte  le  sue  opere,  solo  la 
traduzione  di  Ossian  egli  aveva  intrapresa  «par  un  mouvement 
spontan6»,  per  una  intima  congenialita  fra  se  stesso  e  Tautore 
tradotto.  In  che  cosa  precisamente  consista  tale  congenialita;  che 
cosa  egli  abbia  trovato  o  ritrovato  in  Ossian,  e  piu  volte  e  in  varie 
sedi  chiarito  dal  Cesarotti  stesso,  ma  bastera  ricordare  quanto  egli 
dice  nella  famosa  lettera  al  Macpherson,  scritta  fra  la  fine  del  1762 
e  Tinizio  del  1763,  quando  cioe  il  suo  entusiasmo  conservava  tutta 


8  MELCHIORRE   CESAROTTI 

la  freschezza  della  prima  impressione :  «[Ossian]  fait  voir  par 
son  exemple  combien  la  poesie  de  nature  et  de  sentiment  est 
au  dessus  de  la  poesie  de  reflexion  et  d' esprit,  qui  semble  etre 
le  partage  des  modernes.  Mais  s'il  demontre  la  supe"riorite  de  la 
poesie  ancienne,  il  fait  aussi  sentir  les  defauts  des  anciens  poetes 
mieux  que  tous  les  critiques.  L/Ecosse  nous  a  montr6  un  Homere 
qui  ne  sommeille  ni  ne  babille,  qui  n'est  jamais  ni  grossier  ni 
trainant,  toujours  grand,  toujours  simple,  rapide,  pr6cis,  6gal  et 
varie».  Nei  poemi  ossianici  egli  aveva  cioe  ritrovato  un  esempio 
luminoso  di  quell'ideale  di  poesia  in  nome  del  quale  aveva  scritto 
i  suoi  Ragionamenti:  di  una  poesia  nata  dalla  «  natura »  e  dal  «sen- 
timento  »,  e  tale  da  agire  sulla  natura  e  sul  sentimento  del  lettore, 
senza  tuttavia  oltrepassare  quei  limiti  di  biensdance,  di  conve- 
nienza,  di  misura  morale  e  artistica,  che  il  classicismo  illuministico 
giudicava  essenziali  alFopera  d'arte;  di  una  poesia  libera  dalle 
regole  arbitrarie  fondate  sui  difetti,  elevati  a  virtu,  di  Omero  e 
degli  altri  poeti  antichi,  ma  obbediente  agli  « immutabili »  prin- 
cipii  della  semplicita,  della  rapidita,  della  precisione,  dclFunita 
nella  varieta.  Una  interpretazione  in  tal  senso  dei  poemi  ossianici 
intende  appunto  essere,  consapevolmente,  la  traduzione  del  Ce- 
sarotti,  non  a  caso  accompagnata  da  tutta  una  serie  di  ragiona- 
menti  critici,  di  osservazioni,  di  note,  di  indici,  che  hanno  il  com- 
pito  preciso  di  spiegare  e  giustificare  tale  interpretazione:  la  qua 
le,  dunque,  per  essere  rettamente  compresa  e  valutata,  va  giudi- 
cata  non  tanto  con  un  criterio  di  poesia  e  non  poesia,  quanto  sul 
piano  della  critica  militante,  della  poetica,  quasi  manifesto  esem- 
plare  di  una  posizione  di  gusto.  Considerata  da  questo  punto  di 
vista  la  traduzione  cesarottiana  si  rivela  nella  storia  della  nostra 
cultura  letteraria  come  un  testo  di  fondamentale  importanza.  Pro- 
prio  la  caratteristica  tendenza  dell'autore  a  conciliare  libert&  e 
giudizio,  ragionevolezza  e  sentimento,  grazia  e  barbaric,  in  questo 
caso  si  risolve  in  un' opera  efficacemente  idonea,  per  ripetere  una 
calzante  defmizione  del  Binni,  a  ccmettere  in  luce  il  nuovo»  e 
insieme  a  «renderlo  assimilabile  alia  letteratura  italiana».  Queste 
novita  erano  anzitutto  alcuni  temi  psicologici  gik  da  tempo  pre- 
senti  in  forma  piu  o  meno  vaga  nelle  letterature  nordiche,  ma 
per  la  prima  volta  in  Ossian  esplicitamente  accentuati  e  compre- 
senti:  il  gusto  della  passione  violenta  e  barbarica,  della  malinco- 
nia  indefinita  e  inesplicabile,  di  una  natura  animata  da  una  vita 


NOTA   INTRODUTTIVA  9 

possente  e  misteriosa,  tradotta  in  paesaggi  desertici  e  nebbiosi, 
lugubri  e  tetri.  E  gia  per  questa  parte  e  significative  come  gli 
interventi  del  Cesarotti  (e  le  relative  note)  tradiscano  sempre  una 
preoccupazione  costante  di  accordare  questa  psicologia  irrazionale 
con  le  esigenze  del  «buon  senso»,  della  logica,  della  verosimiglian- 
za.  Ma  il  problema  del  Cesarotti,  piu  che  quello  deH'adattamento 
di  determinati  contenuti  nuovi,  era,  come  egli  stesso  piu  volte 
dichiara,  soprattutto  un  problema  di  adattamento  stilistico.  Nella 
lettera  piu  volte  citata  1'autore  stesso  riconosce  che  in  quella  tradu- 
zione  «s'il  y  a  quelque  chose  d'original,  cela  ne  regarde  que  le 
style»:  un  giudizio  a  cui  faceva  eco  il  Foscolo,  altrove  assai  se- 
vero  con  il  suo  vecchio  maestro,  ammettendo  che  questi  «con 
gli  stessi  materiali  adoprati  dagli  altri  creo  una  poesia  tutta  sua, 
che  appariva  scritta  in  un  modo  e  in  un  linguaggio  diverso  da 
quello  d'ogni  precedente  poeta»,  e  in  particolare  rilevando  il 
(ccarattere  interamente  nuovo»  della  sua  metrica.  In  che  cosa  con- 
siste  dunque  il  problema  stilistico  affrontato  dal  Cesarotti  e  la 
originalita  della  sua  soluzione  ?  Anche  a  questo  risponde  con  par 
ticolare  chiarezza  e  consapevolezza  1'autore  nella  stessa  lettera: 
«Le  style  d'Ossian  ne  trouvoit  dans  nos  <§crivains  rien  d'analogue 
a  son  caractere.  Notre  langue,  toute  feconde  et  flexible  qu'elle  est, 
<§toit,  grace  a  nos  grammairiens,  devenue  st6rile,  pusillanime, 
superstitieuse,  et  notre  sciolto  n'avoit  jusqu'alors  re$u  de  nos 
auteurs  plus  cel&bres  qu'une  majestueuse  sonorit6  periodique,  un 
peu  monotone.  J'osai  braver  les  prejuges  de  Pusage  et  les  criail- 
leries  des  p6dans:  je  hazardai  de  nouveaux  tours,  je  donnai  au 
vers  un  m6chanisme,  si  j'ose  le  dire,  pantomime,  et  mes  efforts 
ont  ete  assez  heureux  pour  trouver  quelque  grace  aupres  du 
public  ».  Nasce  in  tal  modo  una  nuova  lingua  poetica,  nuova  perche* 
costituita  di  «scorci  e  atteggiamenti  di  nuova  specie)),  e  pure  non 
estranea  al  gusto  italiano,  poich<§  a  questi  nuovi  scorci  e  atteggia 
menti  Tautore  giunge  proprio  attraverso  un  sapiente  impiego  dei 
materiali  linguistici  e  metrici  offertigli  dalla  secolare  tradizione 
letteraria  italiana.  Quale  sarebbe  stato  Teffetto  di  questa  sua  fatica, 
il  Cesarotti  ben  vedeva,  quando,  nel  Saggio  sulla  filosofia  del  gusto, 
si  lusingava  che  «per  questo  mezzo  gli  venisse  fatto  di  arricchir 
Ferario  della  lingua  di  qualche  felice  espressione,  di  dar  qualche 
nuova  tinta  al  colorito  poetico,  di  variar  con  qualche  nuova  fles- 
sione  quella  musica  imitativa  che  dipinge  col  suono,  e  insieme  col- 


10  MELCHIORRE    CESAROTTI 

1'oggetto  porta  nelPanima  la  sensazione  che  lo  accompagna ».  IT 
realta  le  sue  immagini  suggestivamente  indefinite  ma  sempre  rifi- 
nite  con  una  certa  precisione,  i  suoi  « interrogativi  ansiosi  e  af- 
fettivi»  (Binni)  ma  pur  sempre  letterariamente  sostenuti,  la  mu- 
sica  patetica  e  insieme  vigorosa  prodotta  dal  suo  sciolto  variamentc 
spezzato  e  accentato  costituiscono  un  complesso  di  moduli  stili- 
stici  in  se  non  privi  talora  di  una  loro  propria  suggestione  poetica 
ma  soprattutto  suscettibili  di  servire  da  modello  e  da  stimolc 
per  artisti  come  PAlfieri,  il  Foscolo,  il  Leopardi,  i  quali,  sia  pure 
con  ben  altra  intensita  e  originalita,  aspirassero  essi  pure  ad  ur 
« canto  che  fosse  misura  e  sentimento:  sentimentd  ordinato  ir 
una  misura  che  non  era  piu  quella  tradizionale,  ma  di  quella  ri- 
portava  il  carattere  di  perfezione,  di  conclusione,  di  vittoria  for- 
male»  (Binni). 

L'opera  di  cauta  conciliazione  fra  vecchio  e  nuovo,  fra  razio- 
nalismo  illuministico  e  nuova  sensibilita,  iniziata  nel  Ragionamentc 
giovanile  e  poi  brillantemente  proseguita  nella  traduzione  ossia- 
nica,  trova  conferma  e  sviluppo  durante  gli  anni  succcssivi  in  una 
serie  di  lavori  di  carattere  prevalentemente  critico,  tutti  composti 
a  Padova,  dove  il  Cesarotti  si  era  trasferito  verso  la  fine  del  1768, 
in  seguito  alia  nomina  a  professore  di  lingua  greca  ed  cbraica 
presso  lo  Studio  di  quella  citta.  II  documento  teorico  piu  signifi- 
cativo  per  intendere  i  criteri  che  guidano  qucsta  attivita  piu  ma- 
tura,  e  in  particolare  il  suo  stretto  legame  con  quella  degli  anni 
precedenti,  va  indicato,  piuttosto  che  neH'mcompiuto  Saggio  sul 
bello  (che  si  impiglia  in  un  tentative  poco  felice  di  teorizzare 
Fesigenza  di  una  poesia  soggettiva  e  irrazionale  entro  strutture 
oggettivistiche  e  razionalistiche,  sulPesempio,  spesso  pcdissequa- 
mente  ricalcato,  del  Marmontel),  nel  Saggio  sulla  filosofia  del  gusto, 
inviato  nel  1785  alP Arcadia  romana,  che  aveva  solennemente  col- 
locato  il  ritratto  del  Cesarotti  « nella  sala  del  Serbatoio,  fra  le 
immagini  degli  uomini  piu  celebri  d'Europa  aggregati  all* Arca 
dia  ».  In  questo  Saggio,  in  cui  Tautore  espone  sinteticamcnte  le 
sue  idee  estetiche,  appare  forse  piu  accentuato  che  negli  scritti 
precedenti  il  concetto  della  libera  individuality  del  «genio»  crea- 
tore;  ma  e  assai  significative  che  il  Cesarotti,  al  tempo  stesso, 
quasi  a  compensare  tale  ardimento,  si  preoccupi  di  presentare  e 
questo  concetto  e  gli  altri  che  formano  la  sua  ccfilosofia  del  gusto  » 
come  uno  sviluppo  conseguente  di  quelli  propugnati  dall'estetica 


NOTA   INTRODUTTIVA  II 

arcadica  e  illuministica.  Questa  esigenza  di  inquadrare  pacifica- 
mente  la  propria  afilosofia  del  gusto » in  quella  arcadica  e  illumini 
stica  e  confermata  dal  rapido  schizzo  storico  che  egli  traccia  della 
letteratura  italiana  attraverso  i  secoli,  seguendone  lo  svolgimento 
dal  suo  momento  creative,  rappresentato  da  Dante  e  dal  Petrarca; 
al  Cinquecento,  illustrate  da  geni  «originali»  come  1'Ariosto  e  il 
Tasso,  ma  anche  aduggiato  e  isterilito  dall'imitazione  e  dalla  critica 
pedantesca;  alia  intemperante  e  licenziosa  reazione  del  Marino  e 
dei  suoi  seguaci;  alia  sana  opera  riformatrice  dell* Arcadia  e  dei 
suoi  critici  e  poeti:  uno  schizzo  storico,  in  cui  i  poeti  creator!  e 
originali  vengono  ad  avere  un  piu  netto  rilievo,  ma  che  poi  non  si 
allontana  nel  complesso  da  quello  tracciato  dai  primi  Arcadi,  dal 
Muratori  e  dal  Gravina,  e  poi  accolto  dalla  successiva  critica  illu 
ministica. 

Guidato  ancora  da  questo  spirito  di  conciliazione,  egli  si  preoc- 
cupa  nel  medesimo  Saggio,  come  si  e  visto,  di  presentare  la  pro 
pria  traduzione  di  Ossian  come  un  cauto  e  rispettoso  rinnova- 
mento  di  motivi  e  di  forme  effettuato  non  contro  ma  in  piena 
aderenza  con  i  principii  della  riforma  arcadica.  Allo  stesso  modo 
egli  cerca,  sempre  in  queste  pagine,  di  giustificare  come  un  altro 
contributo  a  quella  riforma  T opera  alia  quale  si  era  dedicate 
subito  dopo  aver  terminato  la  traduzione  ossianica,  e  che  insieme 
con  questa  inviava  in  omaggio  agli  Arcadi,  il  Cor  so  ragionato  di  let 
teratura  greca,  pubblicato  nel  1781 :  «Bramoso  di  rianimar  il  com- 
mercio  alquanto  languente  colla  greca  letteratura,  mi  proposi  di 
farla  conoscer  meglio  airuniversale,  onde  gli  uomini  di  gusto  non 
abbiano  a  parlarne  a  caso  sulla  fede  non  sempre  sicura  degli  eru- 
diti,  ne  sulle  dicerie  degli  spiriti  superficial!  e  leggieri,  ma  a  darne 
matura  sentenza  fondata  sul  proprio  senso  e  su  i  lumi  d'una  lim- 
pida  e  incontaminata  ragionew.  E  in  effetto  questo  Corso,  che 
contiene  una  serie  di  traduzioni  di  oratori  greci,  accompagnate 
da  introduzioni  e  da  ampio  apparato  di  note  critiche,  cosi  come 
la  traduzione  commentata  di  Demostene,  compiuta  qualche  anno 
prima  (1774-1779),  si  ricollega  anzitutto  alia  battaglia  razionali- 
stica  contro  il  « culto  esclusivo  e  superstizioso »  degli  antichi,  pro- 
duttore  di  tanti  pregiudizi  non  ancora  pienamente  domati.  Ma  se 
questo  e  il  motivo  fondamentale  del  Cor  so,  c'e  anche  in  esso, 
per  riprendere  una  frase  del  Cesarotti  proprio  nel  passo  citato,  la 
brama  di  « rianimar  il  commercio  alquanto  languente  colla  greca 


12  MELCHIORRE    CESAROTTI 

letteratura»,  1'esigenza  cioe,  che  e  una  forma  aurorale  di  storicismo, 
di  ristabilire  con  i  classici  un  piu  libero  e  spregiudicato  e  dirctto 
contatto :  una  esigenza  che,  presente  nella  piu  matura  critica  illu- 
ministica  italiana  ed  europea,  trova  particolare  risonanza  ncl  Ict- 
terato  padovano,  non  solo  dotato  di  specifica  compctenza  filolo- 
gica,  ma  anche  sorretto  dal  suo  stesso  spirito  conciliante  e  aperto, 
e  ancor  piu  dalla  sua  sensibilita  all'mdividualita  soprattutto  stili- 
stica  dei  singoli  scrittori.  Ne  sono  prova  non  pochc  osservazioni, 
quelle  ad  esempio  sulla  lingua  energica  e  vigorosa  di  Demostenc, 
e  la  lunga  nota,  pure  a  proposito  di  questo  scrittore,  su  quelli  che 
oggi  chiameremmo  i  «valori  tonali»  dello  stile  antico,  e  sulla  dif- 
ficolta  di  renderli  in  una  traduzione  moderna. 

Come  una  ideale  continuazione  del  Corso  ragionato  va  intesa 
la  tanto  discussa  attivita  che  il  Cesarotti  consacr6  ad  Omero,  pub- 
blicando  fra  il  1786  e  il  1794  una  versione  «letterale»  in  prosa 
dell'Iliade,  corredata  di  ragionamenti  storico-critici  e  di  un  am- 
plissimo  apparato  di  note,  e  una  «poetica»  in  versi  sciolti,  che  e 
un  vero  e  proprio  rifacimento,  e  che  fu  ristampata  come  opera  a 
parte,  con  ulteriori  modifiche  e  col  titolo  Morte  di  Ettore,  nel  1795. 
L'autore  adduce  piu  volte,  come  motivo  di  questa  sua  attivita, 
un  indebolimento  della  vista  che  lo  avrebbe  costretto  a  sospendere 
il  Corso  ragionato  per  dedicarsi  a  uno  scrittore,  che  conosceva 
tutto  a  memoria,  come  Omero.  In  realta  (a  parte  il  fatto  che  fin  dal 
1778  egli  aveva  tentato  la  traduzione  di  alcune  centinaia  di  versi 
deH'IKade,  come  e  detto  in  una  lettera  al  Mattei  di  quell'anno), 
egli  era  mosso  da  una  ragione  ben  piu  profonda,  dal  proposito 
cioe  di  proseguire  la  revisione  della  letteratura  antica,  iniziata  nel 
Corso  ragionato,  su  un  terreno  piti  rischioso  e  affascinante,  appli- 
cando  proprio  al  piia  venerato  fra  i  classici  la  sua  «filosofia  del 
gusto »,  con  le  due  anime  che  pacificamente  vi  coesistevano.  Anzi 
tale  duplicita  si  rivela,  questa  volta,  in  maniera  clamorosa  nolle 
giustificazioni  che  il  Cesarotti  stesso  offre  di  ciascuna  delle  due 
versioni,  e  nelle  due  versioni  stesse  che  sono  una  fedele  realizza- 
zione  dei  suoi  propositi.  Nella  versione  poetica  -  egli  spiega  - 
suo  intento  era  stato  di  far  «gustare»  Omero:  egli  aveva  cioi 
seguito  il  criterio  di  «consultar  la  natura  piu  che  le  parole  del 
testo»,  di  estrarre  e  accentuare  le  «bellezze  eternc»,  la  « parte 
divina»  del  poeta  antico,  rendendo  «piu  espressi .  .  .  quei  carat- 
teri  di  unite,  di  morale,  di  religione  che  i  commentatori  preten- 


NOTA    INTRODUTTIVA  13 

dono  »,  ed  eliminando  invece  quella  che  egli  giudicava  la  parte  ca- 
duca,  legata  al  tempo  e  alle  circostanze,  facendo  insomma  quel 
che  avrebbe  fatto  lo  stesso  Omero,  se  fosse  vissuto  «in  questo 
secolo,  che  e  quello  delParte  educata  dalla  ragione  e  dal  gusto ». 
Una  riforma,  questa,  che  non  era  tanto  un  capriccioso  arbitrio 
del  Cesarotti,  quanto  (come  ricorda  il  Fubini)  (cl'ultima  delle  de- 
formazioni  fatte  subire  nel  secolo  decimottavo  ad  un  testo  poetico 
del  passato  »,  in  nome  appunto  della  « ragione »  e  del  « gusto ». 
Come  si  sa,  questa  deformazione  non  ebbe  fortuna  in  Italia,  dove 
a  condannarla  si  trovarono  concordi  sia  i  vecchi  classicisti  acca- 
demici  sia  i  nuovi  letterati  che,  come  il  Monti  (a  cui  risale  I5 idea 
della  famosa  caricatura  rappresentante  la  testa  di  Omero  sulla 
figuta  di  un  damerino  abbigliato  alia  francese)  o  come  il  Foscolo 
(di  cui  sono  noti  gli  aspri  giudizi),  guardavano  alia  poesia  del 
passato,  e  in  particolare  a  quella  omerica,  con  diversa  e  piu  sto- 
rica  sensibilita.  Eppure  (come  ancora  ha  osservato  il  Fubini)  costo- 
ro  dimenticavano  che  «a  formare  questa  sensibilita  in  Italia  aveva 
pure  contribuito  il  Cesarotti »;  e,  si  pu6  aggiungere,  nel  caso  spe- 
cifico  di  Omero,  con  Taltra  sua  versione,  quella  « letterale »,  alia 
quale  i  precedenti  traduttori  illuministici  non  avevano  pensato, 
e  di  cui  proprio  il  Monti  e  il  Foscolo  si  varranno  per  le  loro: 
una  versione  nata  -  come  Tautore  dichiara  -  dal  proposito  di 
far  «conoscer»  Omero,  di  « contemplarlo  in  tutti  gli  aspetti,  dal 
lato  debole  come  dal  lato  forte,  ravvisarne  le  diiferenze  specifiche, 
le  singolarita,  le  fralezze  che  gli  vengono  dalla  natura  o  dal  tempo, 
in  somma  tutto  quell' accozzamento  di  circostanze  individuali  che 
ne  costituiscono  1'identita  »,  e  sia  pure  senza  la  precisa  consapevo- 
lezza  che  il  conoscere  questa  identita  dovesse  servire  ad  agevolare 
1'integrale  comprensione  storica  del  poeta  antico. 

Ma  ad  un  risultato  piu  originale,  e  piu  fecondamente  operante 
giunge  il  Cesarotti  quando  applica  la  propria  mente  e  il  proprio 
gusto,  con  il  loro  caratteristico  contemperamento  di  razionalismo  e 
di  storicismo,  al  problema  del  rinnovamento  della  lingua  letteraria 
italiana.  Questo  problema,  come  e  noto,  comincia  ad  essere  agi 
tato  gia  nel  Seicento;  ma  soltanto  nel  Settecento,  in  relazione  con 
la  revisione  critica  che  awiene  in  ogni  campo  della  tradizione  in 
nome  della  « ragione »  e  del  «buon  gusto »,  con  le  nuove  esigenze 
espressive  portate  dai  nuovi  contenuti,  e  con  Pintensificarsi  dei 
contatti  con  le  altre  letterature  e  lingue  europee,  esso  diviene  il 


14  MELCHIORRE   CESAROTTI 

tema  di  serie  e  approfondite  discussioni,  a  cui  partecipano  si  pu6 
dire  tutti  i  principal!  scrittori  arcadici  e  illuministici.  Attraverso 
queste  discussioni  si  vengono  profilando  due  posizioni  fondamcn- 
tali:  da  un  lato  quella  degli  innovator!,  che,  partendo  piu  o  meno 
consapevolmente  dal  concetto  razionalistico  della  parola  come  « se 
gno  »  della  cosa  o  dell'idea,  ma  soprattutto  preoccupati  di  trovare 
un  tipo  di  lingua  capace  di  esprimere  in  modo  preciso  e  largamente 
comprensibile  le  nuove  cose  e  le  nuove  idee,  sostengono  non  solo 
la  definitiva  sostituzione  dell'italiano  al  latino  ma  anchc  la  ne- 
cessita  di  sottrarre  questo  alle  norme  irrazionalmente  e  tirannica- 
mente  fondate  sulPautorita  degli  antichi;  e  dalPaltro  quella  dei 
tradizionalisti,  i  quali,  sia  perch6  ancora  fermi  al  concetto  retorico 
di  una  lingua  «modello»,  sia  perche  in  qualche  caso  effettivamente 
piu  sensibili  alPaspetto  estetico  della  lingua  stcssa,  e  in  particolarc 
ai  diritti  del  glorioso  passato  letterario  di  quella  italiana,  difendono 
in  tutto  o  in  parte  quelle  norme  e  soprattutto  la  «  purita »  dell'idio- 
ma  italiano  contro  il  pericolo  di  contaminazioni  e  snaturamenti. 
Queste  due  posizioni  rimangono  in  concrete,  nei  singoli  parted- 
panti  alia  discussione  e  nelPambito  dei  vari  problemi  particolari, 
tutt'altro  che  nettamente  distinte :  e  mentrc  pu6  accadere  che  tra  i 
piu  decisi  awersari  della  Crusca  e  del  primato  del  toscano  e  del 
Trecento  si  schierino  dei  tradizionalisti  come  il  Borsa  e  il  Napione, 
si  deve  riconoscere  che  il  razionalismo  degli  innovator!,  dal  Mura- 
tori,  al  Gravina,  alPAlgarotti,  al  Baretti,  al  Bettinelli,  agli  stessi 
scrittori  del  «  Gaffe »,  e  sempre  temperato  da  un'attenzione  spesso 
assai  viva  ai  valori  estetici  della  lingua  e  ai  diritti  del  «gcnio»  na- 
zionale,  come  mostra  ad  esempio  Postiliti  di  un  Baretti  o  di  un 
Bettinelli  alPinnovazione  del  francesismo.  Ma  &  merito  proprio 
del  Cesarotti  aver  chiaramente  compreso  i  motivi  vitali  dclPuna 
e  delPaltra  posizione,  e  Paverne  tentato  una  conciliazione  e  siste- 
mazione,  se  non  speculativamente  rigorosa,  certo  efficaccmcntc 
operante,  appunto  per  la  sua  illuminata  medieta,  sul  piano  della 
poetica  e  del  gusto.  A  intendere  la  genesi  di  questa  conciliazione 
e  sistemazione  bisogna  richiamarsi  anzitutto  alia  sua  espcrienza 
di  scrittore  e  specialmente  di  traduttore.  Appunto  attraverso  que 
sta  esperienza  egli  aveva  potuto  rendersi  conto  non  solo  delPin- 
capacita  della  vecchia  lingua  letteraria  italiana,  codificata  dalla 
Crusca  e  dei  grammatici,  a  esprimere  i  nuovi  concetti  filosofico- 
scientifici  e  i  nuovi  sentimenti,  ma  anche  della  inadeguatezza  della 


NOTA    INTRODUTTIVA  15 

stessa  lingua  degli  scrittori  illuministici  a  rendere  certi  inaspettati 
contenuti  poetici  piu  energicamente  passional!  e  fantastici  come 
appunto  quelli  di  Ossian.  A  questi  problemi  egli  aveva  allora  rispo- 
sto  concretamente  sul  piano  letterario,  offrendo,  come  si  e  visto, 
una  soluzione  non  rivoluzionaria  ma  mediatrice,  una  lingua  cioe, 
in  cui  senza  urti  e  rotture  con  la  tradizione  antica  e  recente  veni- 
vano  giudiziosamente  a  mescolarsi  nuovi  «scorci»,  nuove  «tinte» 
e  nuove  «flessioni))  musicali.  Come  un  primo  tentativo  di  teoriz- 
zare  questa  esperienza  linguistica  vanno  interpretate  alcune  pro- 
lusioni  latine,  composte  nel  1769  e  negli  anni  immediatamente 
successivi:  De  linguarum  studii  origine,  progressu,  vicibus,  pretio, 
De  naturali  linguarum  explicatione,  e  De  universae  et  praedpue 
graecae  eloquentiae  originibus.  Concetto  fondamentale  della  prima  e 
TafFermazione  dell'intimo  legame  che  corre  fra  lo  sviluppo  delle 
lingue  e  quello  della  civilta  delle  nazioni  che  le  parlano;  mentre 
nella  seconda  si  espone  la  teoria  deH'origine  «  naturale  »,  meccanica, 
istintiva  delle  lingue;  e  nella  terza  si  distinguono  i  caratteri  del 
linguaggio  poetico,  tutto  senso  e  immagini,  da  quello  oratorio  che 
invece  obbedisce  alia  ragione  e  alia  logica.  Considerate  nella  storia 
della  filosofia  queste  idee  non  si  possono  definire  vere  e  proprie 
novita:  il  concetto  del  rapporto  fra  lingua  e  civilta  risale,  come  & 
noto,  al  Muratori,  al  Gravina  e  soprattutto  al  Dubos,  ed  &  larga- 
mente  rintracciabile  nella  successiva  cultura  illuministica;  la  teo 
ria  deirorigine  « naturale »  del  linguaggio  h  esplicitamente  attinta 
al  pensiero  sensistico  e  in  particolare  al  Condillac  e  al  de  Brosses ; 
il  riconoscimento,  infine,  dei  caratteri  sensibili  e  fantastici  del  lin 
guaggio  poetico,  se  &  piu  accentuate  che  nei  sensisti,  in  grazia 
delle  coloriture  vichiane  di  cui  si  riveste,  risulta  in  definitiva  limi- 
tato  da  sempre  rinascenti  preoccupazioni  razionalistiche. 

N6  diverse  giudizio,  sempre  da  un  punto  di  vista  strettamente 
teorico,  si  pu6  dare  intorno  alle  idee  che  costituiscono  Pimpal- 
catura  del  Saggio  sopra  la  filosofia  delle  lingue  (1785).  Vi  ritornano 
sia  la  teoria  delPorigine  « naturale »,  istintiva  delle  lingue,  sia  il 
riconoscimento  dei  caratteri  sensibili  e  fantastici  del  linguaggio 
poetico,  ma  con  i  medesimi  limiti  e  anzi  perdendo  qualche  piu 
energica  coloritura  vichiana.  Piu  nettamente  vi  riappare  il  senso 
delPinesauribile  svolgimento  dei  linguaggi  in  relazione  con  la  sto 
ria  dei  singoli  popoli,  ma  senza  atteggiarsi  neppure  qui  in  modo  in- 
tegralmente  storicistico,  frenato  com'e  dalla  persuasione  che  esista- 


l6  MELCHIORRE   CESAROTTI 

no  delle  leggi  che  si  mantengono  inalterate  in  ogni  tempo  e  luogo : 
persuasione  che  limita  anche  Faltra  e  connessa  idea  -  che  nelle  pro- 
lusioni  non  e  svolta,  e  a  cui  ha  dato  molto  rilievo  il  Puppo  -  della 
liberta  linguistica  dello  scrittore,  come  dimostra  la  persistente  fidu- 
cia  in  norme  oggettive  che  fissino  la  bellezza  intrinseca  dei  voca- 
boli  e  costrutti.  E  questa  pacifica  incertezza  si  riflette  nelle  formule 
cardinali  del  Saggio:  nella  massima  che  «la  lingua  scritta  dee 
avere  per  base  1'uso,  per  consigliere  Tesempio  e  per  direttrice  la 
ragione » ;  in  quella  corrispondente  che  « la  giurisdizione  sopra  la 
lingua  scritta  appartiene  indivisa  a  tre  facolt&  riunite,  la  filosofia, 
Ferudizione  e  il  gusto  »;  e  infine  nella  distinzione  fra  (cgenio  gram- 
maticale))  e  «genio  rettorico»  della  lingua,  il  primo  di  natura  logica, 
immutabile  quindi,  anche  se  vario  da  lingua  a  lingua,  e  il  secondo 
invece  legato  ai  sentimenti  e  ai  gusti  dei  singoli  popoli  e  dei  singoli 
scrittori,  e  suscettibile  perci6  di  arricchimento  e  di  svolgimento. 
Vero  e  che  il  Cesarotti  non  aveva  bisogno  di  altri  piu  nuovi  o  piu 
organici  concetti:  questi  che  abbiamo  elencato,  con  tutti  i  limiti 
che  ora  noi,  dopo  quasi  due  secoli,  possiamo  rilevarvi,  anzi  dirci 
proprio  in  virtu  di  quei  limiti,  erano  in  realta  i  piu  adeguati  a 
sorreggere  teoricamente  e  a  generalizzare  quella  soluzione  media- 
trice,  giudiziosamente  audace,  del  concrete  problema  della  lingua 
letteraria  italiana,  che  egli  aveva  messo  in  atto  nei  suoi  scritti  e 
soprattutto  nella  traduzione  ossianica:  i  piu  adeguati  poich.6,  con 
il  loro  compromesso  di  razionalismo  e  irrazionalismo,  di  oggettivi- 
smo  e  soggettivismo,  di  naturalismo  e  storicismo,  gli  conscntivano 
di  giustificare  la  legittimita  di  un  arricchimento  della  lingua  lette 
raria  italiana  che  corrispondesse  alia  nuova  sensibilita  e  in  genere 
garantisse  la  liberta  espressiva  dei  singoli  scrittori  contro  ogni 
norma  assurdamente  limitatrice,  senza  per6  disconoscere  n6  le  esi- 
genze  di  chiarezza  logica,  di  equilibrio  razionale,  di  larga  comunica- 
zione  che  erano  proprie  del  gusto  illuministico,  no  i  diritti,  e  le 
feconde  possibilita  di  ricupero,  della  secolare  tradizionc  italiana.. 
Che  il  Saggio  non  si  proponga  un  problema  di  scienza  pura, 
ma  di  scienza,  per  cosl  dire,  «  applicata  »,  6  detto  gia  nel  titolo  stcsso 
che  e  propriamente  Saggio  sopra  la  filosofia  delle  lingue  applicato 
alia  lingua  italiana  (e  piu  esplicitamente,  nella  prima  edizionc, 
Saggio  sopra  la  lingua  italiana)]  e  che  tale  problema  sia  proprio 
quello  che  si  e  accennato,  e  apertamente  dichiarato  in  quel  bril- 
lante  e  profondo  esame  di  coscienza  che  e  la  Lettera  al  Galeani 


NOTA    INTRODUTTIVA  17 

Napione:  «Io  m'era  prefisso  di  toglier  la  lingua  al  despotismo  del- 
Tautorita  e  ai  capricci  della  moda  e  delFuso,  per  metterla  sotto  il 
governo  legittimo  della  ragione  e  del  gusto;  di  fissare  i  principii 
filosofici  per  giudicar  con  fondamento  della  bellezza  non  arbitraria 
dei  termini,  e  per  diriger  il  maneggio  della  lingua  in  ogni  sua  par- 
te  .  .  . ;  di  far  ugualmente  la  guerra  alia  superstizione  ed  alia  licen- 
za,  per  sostituirci  una  temperata  e  giudiziosa  liberta;  di  combattere 
gli  eccessi,  gli  abusi,  le  prevenzioni  d'ogni  specie;  di  temperare 
le  vane  gare,  le  cieche  parzialita;  di  applicar  alfine  le  teorie 
della  filosofia  alia  nostra  lingua,  d'indicar  i  mezzi  di  renderla  piu 
ricca,  piu  disinvolta,  piu  vegeta,  piu  atta  a  reggere  in  ogni  maniera 
di  soggetto  e  di  stile  al  paragone  delle  piu  celebri,  come  lo  pu6 
senza  dubbio,  quando  saggiamente  libera  sappia  prevalersi  della 
sua  naturale  pieghevolezza  e  fecondita».  Ispirata  appunto  all'in- 
tento  di  «  eseguir  questo  piano  »,  e,  come  egli  spiega  nella  medesima 
Letter  a,  la  struttura  del  Saggio,  articolata  in  quattro  parti  distinte : 
la  prima  polemica,  intesa  a  « combattere  alcune  opinioni  domi- 
nanti)),  nate  da  quei  «pregiudizi»  che  mettono  ostacolo  alia  « li 
bera  vegetazion  della  lingua)),  la  seconda  teorica,  volta  «a  de- 
terminare  colle  teorie  filosofiche  la  bellezza  intrinseca  ed  essen- 
zial  delle  lingue,  fissandone  i  canoni,  e  applicandoli  a  ciascheduna 
delle  loro  parti  cosl  logiche  che  rettoriche » ;  la  terza  normativa, 
contenente  le  «regole  che  possono  dirigere  uno  scrittore  giudizioso 
nel  far  uso  delle  varie  parti  della  lingua  » :  la  quarta,  infine,  esplici- 
tamente  applicata  alia  questione  della  lingua  italiana,  e  nella  quale, 
dopo  una  rapida  storia  della  nostra  lingua  letteraria,  si  mostra  «  qual 
sia  lo  spirito  dominante  del  secolo  rispetto  ad  essa,  le  cause  che  lo 
produssero,  i  due  scogli  tra  i  quali  &  posta,  i  pericoli  imminent!  del 
libertinaggio,  Pinutilita,  anzi  il  mal  effetto  del  rigorismo»;  si  indi- 
cano,  quindi,  «i  mezzi  di  evitar  Tuno  e  1'altro  col  temperare  e 
dirigere  la  corrente  del  gusto  nazionale,  senza  affrontarla  onde  non 
rompa  gli  argini  e  non  tragga  tutto  in  ruina»;  e  si  propone,  sem- 
pre  a  questo  scopo,  Pistituzione  di  una  «  magistratura  permanente  », 
composta  dal  fiore  dei  letterati  d' Italia  ma  diretta  dall'Accademia 
Fiorentina,  e  che  «con  un  sistema  concertato  d'operazioni  vegli  a 
depurare  e  ad  accrescere  il  fondo  della  lingua,  e  a  mantenerla  in  uno 
stato  di  libert^  giudiziosa  e  di  sana  e  florida  vitalita».  Del  tipo  di 
lingua  teorizzato  e  raccomandato  nel  Saggio,  o  meglio  del  suo  im- 
piego  nella  prosa,  &  intanto  un  esempio  letterariamente  felice  (co- 


l8  MELCHIORRE   CESAROTTI 

me  del  resto  il  contemporaneo  Saggio  sulla  filosofia  del  gusto  e 
anche  altri  scritti  critici  precedent!)  lo  stile  del  trattato  stesso, 
col  suo  lessico  ricco  e  colorito,  la  sua  sintassi  pieghevole  e  varia, 
in  cui  la  chiarezza  della  costruzione  «diretta»  si  alterna  alia  ef- 
ficacia  di  quella  «inversa»,  con  la  sua  vivace  mescolanza  di  im- 
magini  e  citazioni  letterarie  e  di  espressioni  attinte  alia  viva  fa- 
vella  contemporanea.  Quale  poi  sia  stata  Fimportanza  dell' opera 
nella  successiva  storia  della  questione  della  lingua  e  piu  in  generale 
nella  formazione  della  coscienza  linguistica  italiana,  e  mostrato, 
oltre  che  dalle  vivaci  discussioni  da  essa  immediatamente  suscitate 
(non  tutte,  a  dire  il  vero,  sia  in  favore  che  contro,  intelligent!  ed 
equanimi),  dall'eco  profonda  che  le  dottrine  e  i  consigli  cesarot- 
tiani  ebbero  sui  piu  illuminati  spiriti  del  nostro  Romanticismo, 
dalFUgoni  al  Borsieri,  al  di  Breme,  al  Manzoni,  al  De  Sanctis 
stesso,  i  quali  tutti,  pur  tra  parziali  dissensi  e  sottolineandone  piu 
vigorosamente  e  con  nuova  consapevolezza  alcuni  motivi,  appunto 
a  quelle  dottrine  e  a  quei  consigli  si  richiameranno  esplicitamente 
nella  loro  battaglia  per  una  lingua  letteraria  libera  da  regole  acca- 
demiche  e  pedantesche  e  aperta  a  giudiziose  innovazioni,  soprat- 
tutto  aderente  alia  vita  storica  e  culturale  della  nazionc  e  insieme 
capace  di  fornire  allo  scrittore  gli  strumenti  adatti  alia  libera 
espressione  del  suo  mondo  sentimentale  e  fantastico. 

Oltre  che  attraverso  questo  complesso  di  opere  di  critica  mili- 
tante,  la  vocazione  cesarottiana  di  pacifico  rinnovatore  della  cul- 
tura  italiana  si  esprime,  in  questi  anni  maturi,  attraverso  altre 
minori  ma  non  trascurabili  forme.  Attraverso,  anzitutto,  la  sua 
attivita  in  seno  alia  Accademia  padovana  di  Scienze,  Arti  e  Lettere, 
fondata  nel  1779,  e  nella  quale  il  Cesarotti,  in  qualita  di  scgretario, 
lesse  annualmente  una  serie  di  applauditissime  Relazioni  accadmi- 
che,  intorno  ai  lavori  scientific!  degli  accademici :  una  attivita  sen- 
za  dubbio  informata,  come  appare  nelle  sue  Riflessioni  sopra  i  do- 
veri  accademici)  da  una  fiducia  tipicamente  illuministica  nell'opera 
congiunta  della  ragione  e  deU'esperienza  e  nella  funzionc  positiva 
del  lavoro  accademico,  dei  «piani  concertati»  in  vista  di  un  futuro 
illuminato  e  pacifico,  ma  anche  sostenuta  da  una  rara  larghczza  di 
interessi,  da  una  viva  persuasione  dell'efficacia  della  circolazione 
e  della  discussione  delle  idee,  da  una  spregiudicata  curiosita  per 
ogni  novita  culturale.  Non  diversamente  ispirato  era  il  suo  inse- 
gnamento  universitario,  in  cui  portava  non  soltanto  -  come  rico- 


NOTA    INTRODUTTIVA  19 

nosceva  il  Salfi  -  «le  talent  de  communiquer  a  ses  £l£ves  une 
veritable  passion  pour  une  litterature  a  la  fois  fondee  sur  le  gout 
des  anciens,  affranchie  de  prejuges  et  d'entraves,  et  propre  a 
satisfaire  aux  besoins  des  modernes  » ;  ma  anche  una  simpatia  uma- 
na,  una  cordialita  affettuosa,  un  rispetto  per  la  personalita  dei 
suoi  allievi,  che  spiega  la  suggestione  da  lui  esercitata  su  intelli- 
genze  e  temperamenti  cos}  diversi,  sui  fratelli  Olivi,  sul  Barbieri, 
sul  Fieri  e  persino  su  un  Foscolo.  Ma  forse  piu  ancora  che  at- 
traverso  I'insegnamento  universitario  e  le  libere  conversazioni  con 
cui  egli  lo  integrava,  la  feconda  azione  educatrice  del  Cesarotti 
maturo  si  esercita  nelle  pagine  del  suo  vastissimo  epistolario,  uno 
dei  piu  interessanti  del  Settecento,  pur  cosi  ricco  di  epistolari, 
e  nel  quale,  senza  guardare  troppo  alia  qualita  dei  corrispondenti, 
fossero  essi  personaggi  piu  o  meno  illustri  della  cultura  contempo- 
ranea  come  1'Alfieri,  il  Galiani,  il  Mazza,  il  Mattel,  il  Vannetti, 
il  Merian,  il  van  Goens,  o  amici  e  scolari,  oppure  dame  colte  e 
« sensibili »,  viene  esponendo  con  pazienza  e  cordialita,  e  talora 
con  sviluppi  o  anticipazioni  notevoli,  le  sue  idee  estetiche  e  i 
suoi  giudizi  su  scrittori  antichi  e  moderni.  Ma  Pepistolario  offre 
anche  la  viva  testimonianza  di  un  altro  aspetto  del  Cesarotti, 
anch'esso  non  inutile  alia  piena  conoscenza  della  sua  personalita 
e  non  privo  di  suggestione  sui  suoi  contemporanei,  e  che  esso 
pure  si  era  venuto  lentamente  costituendo  nei  lunghi  e  tranquilli 
anni  della  vita  padovana:  del  suo  carattere,  cioe,  di  uomo  seden- 
tario  e  fantasioso,  pacifico  e  sensibile,  fondamentalmente  lieto  ma 
amante  del  «piacere  delle  lacrime)).  Oltre  che  esprimersi  nelle 
lettere  agli  amici  piu  cari,  questo  carattere  si  rifletteva  nella  fisio- 
nomia  che  aveva  fatto  assumere  alia  sua  villetta,  unico  lusso  che 
si  era  concesso,  di  Selvaggiano,  distante  pochi  chilometri  da  Pado- 
va:  un  ritiro,  egli  scriveva,  «destinato  a  perpetuare  la  memoria 
degli  oggetti  piu  interessanti  del  mio  cuore,  e  ad  alimentarlo  di 
quelle  idee  sentimentali  che  anche  nella  loro  tristezza  riempiono 
Tanima  di  soavitaw.  Nella  villetta  aveva  intitolato  alcune  sale 
rispettivamente  alia  filosofia  razionale,  alia  filosofia  morale  e  alia 
letteratura;  e  vi  aveva  annesso  un  museo  naturalistico  e  una 
« grotta  del  lavoro  solitario » ;  ma  ancor  piu  orgoglioso  egli  era  del 
piccolo  parco,  che  chiamava  il  suo  «poema  vegetabile »,  ispirato 
com'era  ad  una  drregolare  regolarita»,  con  i  suoi  vialetti  ordinati  e 
coltivati  con  artistica  naturalezza,  col  suo  «boschetto  funebre»  co- 


20  MELCHIORRE    CESAROTTI 

sparse  di  iscrizioni  e  busti  dedicati  agli  amici  defunti,  e  nel  quale 
amava  passeggiare  e  meditate,  solo  o  con  chi  veniva  a  visitarlo. 
II  corso  di  questa  vita  cosi  serenamente  sistemata  tra  Padova  e 
Selvaggiano,  tra  gli  studi,  Finsegnamento  universitario,  Tattivita 
accademica  e  il  tempo  dedicate  agli  amici  e  ai  corrispondenti, 
subisce  se  non  una  interruzione  certo  una  brusca  scossa  dalPim- 
prowisa  tempesta  prodotta  dalla  Rivoluzione  francese.  Come  ri- 
sulta  dalle  sue  lettere,  specialmente  da  quelle  allo  Zacco  e  al  Bar- 
bieri  con  i  quali  egli  apriva  di  piu  il  suo  animo,  e  dalle  sue  stesse 
azioni,  il  suo  atteggiamento,  paragonato  a  quello  di  tanti  altri 
uomini  di  cultura  del  suo  tempo,  se  non  appare  eroico,  non  & 
neppure  da  giudicare  in  modo  del  tutto  negative.  II  Foscolo,  come 
si  sa,  biasim6  il  suo  antico  maestro  per  la  scarsa  «costanza  nella 
condotta  politica»,  pur  adducendo  a  scusa  Teta  di  lui,  e  la  sua  vita 
di  ccsacerdote  e  di  uomo  che  non  aveva  mai  pellegrinato  al  di  la 
degli  stretti  confini  della  sua  patria,  la  quale  per  piu  di  un  secolo 
aveva  goduta  la  quiete  piu  profonda».  In  realta  per  giudicare 
equamente  1' atteggiamento  politico  del  Cesarotti,  occorre  richia- 
marsi,  piuttosto  che  ad  aspetti  particolari  della  sua  vita,  a  quel- 
Taperto  e  attivo  ma  sempre  conciliante  e  moderate  riformismo, 
al  quale  abbiamo  visto  ispirarsi  tutta  la  sua  attivitk  precedente  di 
letterato  e  di  uomo.  In  accordo  appunto  con  questo  suo  fondamen- 
tale  riformismo,  il  suo  ideale  in  campo  politico,  fu,  fin  dall'inizio 
della  Rivoluzione  francese,  il  Necker,  con  il  suo  umanitarismo 
paternalistico,  con  i  suoi  propositi  di  riforme,  per  usare  ancora  la 
parola  cara  al  Cesarotti,  « giudiziose »,  con  il  suo  aborrimento  per 
ogni  forma  di  rivoluzione  violenta.  «Per  Puomo  saggio  ed  onesto», 
egli  scrive  in  quella  Letter  a  al  Merian  (1801),  che  e  forse  Fespres- 
sione  piu  sincera  del  suo  intimo  sentire  politico,  «il  migliore  e  il 
piu  conveniente  dei  governi  deve  essere  sempre  Tattuale  qualun- 
que  sia:  e  il  solo  mezzo  permesso  di  migliorarlo  6  quello  di  com- 
pier  ciascheduno  i  propri  uffici  sociali  col  puro  zelo  della  virtu,  e 
riformar  colPesempio » ;  e  se  «e  lecito  . . .  bramare  e  coadiuvar  le 
riforme»,  «una  rivoluzione  propriamente  detta  non  pu6  essere  nc 
ideata  che  da  un  fanatico,  n6  promossa  che  da  uno  scellerato ». 
Qualora  si  tengano  presenti  queste  dichiarazioni  bisogna  ricono- 
scere  che  ad  esse  si  conformano  abbastanza  coerentemente,  e  il 
Cesarotti  lo  sottolinea  nella  lettera  citata,  i  suoi  atteggiamenti  du- 
rante  quegli  anni  cosi  difficili:  l'«aspettazione  inquieta»,  il  «tu- 


NOTA   INTRODUTTIVA  21 

multo  straordinario  di  affetti»,  il  «cumulo  di  belle  ma  titubanti 
speranze»,  suscitati  in  lui  dalla  fase  «legale»  della  Rivoluzione; 
il  sentimento  di  orrore  e  di  esecrazione  per  i  successivi  avvenimenti ; 
la  sua  ostilita  alia  venuta  dei  Francesi  in  Italia  e  nel  Veneto. 
Questa  ostilita  non  gli  impedl,  e  vero,  di  «piegar  il  capo  con 
buona  grazia  al  peso  della  necessita»,  di  accettare  da  Bonaparte, 
antico  ammiratore  di  Ossian  e  del  suo  traduttore,  una  lauta  pensione 
e  il  titolo  di  professore  soprannumerario  di  eloquenza  alPUniver- 
sita,  e  di  indirizzargli  un  sonetto  di  elogio,  che  gli  fu  piu  tardi 
rinfacciato  dal  Denina;  n6  bast6  a  fargli  rifiutare  la  carica  di 
«  aggiunto  libero »  nel  Comitato  di  istruzione  pubblica  della  nuova 
Municipalita.  A  buon  diritto,  tuttavia,  egli  poteva  pretendere  di 
non  essere  confuso  « coi  Monti  e  coi  Gianni ».  Che,  nei  limiti  che 
gli  erano  consentiti  dal  suo  carattere,  anche  in  questa  circostanza 
avesse  mantenuto  fede  alle  sue  intime  convinzioni,  e  confermato 
da  due  opuscoli  che  egli  pubblic6  nel  1797  per  incarico  del  Comitato 
a  cui  apparteneva,  la  Istruzione  d'un  cittadino  a'  suoi  fratelli  meno 
istruiti  e  //  patriottismo  illuminate :  nel  primo  dei  quali  egli  aveva 
inteso  fare  «il  ritratto  della  democrazia .  .  .,  considerandola  astrat- 
tamente  e  nel  suo  stato  di  perfezione,  e  indicando  quel  bene  che 
poteva  aspettarsene  ove  fosse  amministrata  nel  suo  vero  spirito 
e  diretta  dalla  virtu » ; .  mentre  nel  secondo  aveva  voluto  rappre- 
sentare  «la  democrazia  nel  fatto  qual  gia  cominciava  ad  esser  tra 
noi,  e  qual  purtroppo  suol  essere »,  fame  «sentire  i  pregiudizi  e  i 
pericoli »,  e  combattere  « gli  eccessi  del  fanatismo  repubblicano  col 
zelo  deirumanita  e  della  ragione»,  osando  « primo  e  solo  . . .  aprir 
bocca  con  generosa  arditezza  a  difesa  degli  aristocrati  veneti  fatti 
bersaglio  di  vessazioni  e  d'insulti».  E  parimenti  condotto  con  cri- 
teri  di  illuministica  moderazione  e  insieme  con  intenti  di  larga 
utilita  sociale,  &  il  Saggio  sopra  le  instituzioni  scolastiche  private 
e  pubbliche,  pure  composto,  per  invito  dello  stesso  Comitato,  nel 
1797;  dove  6  notevole,  ad  esempio,  la  proposta  di  ridurre  Tinse- 
gnamento  del  latino  nelle  scuole  medie  e  di  allargare  invece  quello 
della  lingua  italiana,  delle  lingue  straniere  e  delle  scienze  na- 
turali. 

Meno  simpatiche  possono  invece  apparire  certe  manifestazioni 
di  pubblica  adesione  agli  Austriaci  dopo  Campoformio:  due  so- 
netti  scritti  rispettivamente  per  la  conquista  di  Padova  e  per  la  resa 
di  Mantova,  e  una  «  cantata »,  VAdria  consolata,  composta  nel  1803 


22  MELCHIORRE   CESAROTTI 

per  celebrare  il  genetliaco  di  Francesco  III;  anche  se  egli  tent6  di 
giustificarsi  dichiarando  che,  sebbene  il  suo  vero  ideale  fosse  «una 
democrazia  saggia,  tranquilla  e  temperata »,  pure  «ad  una  mal 
accozzata  o  fanatica»  preferiva  di  cuore  d'equabilita  del  governo 
unitario,  che  opprime  le  fazioni  e  il  tumulto  delle  vane  speranze 
col  peso  dell'autorita ».  Piu  sincera  fu  indubbiamente  la  sua  sod- 
disfazione,  quando  nel  1806  il  Veneto  ritornb  sotto  la  Francia:  e 
non  solo  perche  Napoleone  gli  dimostrb  di  nuovo  la  sua  simpatia 
e  il  suo  rispetto,  restituendogli  la  pensione  toltagli  dagli  Austriaci, 
conferendogli  onorificenze  e  accogliendolo  benevolmente  a  Milano, 
dove  i  Padovani  lo  avevano  inviato  loro  ambasciatore.  Vero  e  che 
il  governo  di  Napoleone  imperatore  rispondeva  tutto  sommato 
abbastanza  bene  alle  sue  esigenze  congiunte  di  «  democrazia »  e  di 
«equabilita».  E  proprio  questa  rispondenza  converra  non  dimenti- 
care  per  intendere  nel  giusto  senso  anche  la  sua  ultima  opera,  la 
Proneay  poema  in  versi  sciolti  in  esaltazione  deirimperatore  e  com- 
posto  circa  un  anno  prima  della  sua  morte,  awenuta  il  4  novembre 
1808.  «Misera  concezione,  frasi  grottesche,  verseggiatura  di  dram- 
ma  per  musica,  e,  per  giunta,  gran  lezzo  di  adulazione,  infame  ad 
ogni  scrittore,  ma  piu  infame  ad  un  ottuagenario,  che  non  ha 
bisogno  di  pane,  e  poco  pu6  ormai  temere  dalla  fortuna»:  cosi 
definiva  la  Pronea  il  Foscolo,  in  una  lettera  al  Niccolini  dell'ii 
novembre  1807.  Ma  se  il  suo  severe  giudizio  sul  valore  artistico 
del  poema  rimane  tuttora  indiscutibile,  non  definiremmo  piu  win- 
fame))  (o  «schifoso))  come  rincalzera  il  Carducci)  Tatteggiamento 
Iperbolicamente  adulatorio  verso  Napoleone,  quanto  piuttosto  (col 
Fubini)  «ingenuo».  La  mancanza,  sottolineata  dal  Foscolo,  di  un 
movente  economico  o  di  altra  necessitk  personale  e  infatti  nel  suo 
caso  la  prova  non  di  una  abbietta  libido  adsentandi,  bensl  della 
sostanziale  sinceritk  dell'autore,  coerente  con  se  stesso  anche  nella 
senile  persuasione  (o  illusione)  di  ritrovare  nel  governo  napo- 
leonico  una  di  quelle  soluzioni  intermedie  e  concilianti  tra  vecchio 
e  nuovo,  tra  liberta  e  autorita,  a  cui  per  intima  natura  e  per  edu- 
cazione  culturale  tendeva  tutto  il  suo  spirito. 


Tutte  le  opere  approvate  dall'autore  sono  raccolte  nell'edizione  com- 
plessiva  delle  Opere  in  quaranta  volumi,  di  cui  undici  (i,  Saggi  sulla  filosofia 
delle  lingue  e  del  gusto,  1800;  n-v,  Poesie  di  Oman,  1801 ;  vi-ix,  La  Iliade  di 
Omero  [ragionamenti  critici  vari  e  La  morte  di  Ettore],  1802;  xvn-xviir, 


NOTA   INTRODUTTIVA  23 

Relazioni  accademiche,  1803)  furono  stampati  a  Pisa,  presso  la  Tipografia 
della  Societa  Letterana;  altri  ventisei  (x-xvi  [il  primo  e  Pultimo  constano 
di  due  tomi  ciascuno],  Versione  letter  ale  delVIhade,  1804;  xix,  Satire 
di  Giuvenale,  1805;  xx-xxn,  Corso  ragionato  di  letteratura  greca,  1806; 
xxiii-xxvin,  Le  opere  di  Demostene  tradotte  e  illustrate,  1807;  xxix-xxx, 
Prose  di  vano  genere,  1808-1809;  xxxi,  De  lingua  praecipue  graeca  acr oases, 
1810;  xxxil,  Poesie  originali,  1809;  xxxin,  Versioni,  poesie  latine  e  iscri- 
zioni,  1810;  xxxiv,  Vite  del  primi  cento  pontefici,  1811;  xxxv-xxxvii, 
Epistolario,  1811)  a  Firenze,  presso  Molini,  Landi  e  C.;  e  infine  gli  ultimi 
tre  (XXXVIII-XL,  Epistolario ,  1813)  di  nuovo  a  Pisa,  presso  Capurro.  Que- 
sta  edizione  fu  curata  e  seguita  personalmente  fino  alia  morte  dal  Cesarotti, 
e  perci6  i  testi  contenuti  nei  volumi  dal  I  al  xxix  rappresentano  effettiva- 
mente  Tultima  volonta  dell'autore,  che  apport6  spesso  ritocchi  e  corre- 
zioni  alle  opere  precedentemente  edite.  I  volumi  seguenti  furono  invece 
ordinati  e  curati  dal  suo  discepolo  Giuseppe  Barbieri.  Su  questa  edizione 
sono  condotte  alcune  scelte  pubblicate  successivamente :  Opere  scelte, 
Milano,  Tipografia  de'  Classici  italiani,  1820,  in  quattro  volumi;  Prose 
edite  ed  inedite,  a  cura  di  G.  Mazzoni,  Bologna,  Zanichelli,  1822  (dove, 
accanto  a  vari  scritti  in  prosa  gia  pubblicati,  figurano  anche  i  seguenti 
inediti,  Piano  ragionato  di  traduzioni  dal  greco,  Osservazioni  sul  Caio 
Gracco  di  Vincenzo  Monti,  Sommano  d'un  commento  a  un  passo  d'Omero, 
Letter  a  al  Wolf) ;  Opere  scelte,  a  cura  di  G.  Ortolani,  Firenze,  Le  Monnier, 
1945,  in  due  volumi  (i,  Operette  estetiche  e  politiche;  n,  Poesie  d'Ossian 
\Fingal  e  alcuni  poemetti  minori],  Letter  e  scelte),  edizione  condotta  con 
intenti  critici  (ma  non  priva  di  sviste  e  di  trascuratezze)  e  corredata  di  un 
commento  illustrative,  utile  soprattutto  per  le  lettere. 

Ultenori  notizie  sulle  vane  edizioni  dei  singoli  scritti  riprodotti  in 
questo  volume  e  sui  criteri  testuali  seguiti  si  troveranno  nella  Nota  intro- 
duttiva  ad  ognuno  degli  scritti  stessi. 

Tra  i  non  molti  studi  di  carattere  complessivo  ricordiamo:  G.  BARBIERI, 
Elogio  deW  abate  Cesarotti,  in  appendice  al  volume  XL  delle  Opere  del  Cesa 
rotti,  pp.  LXXIX-CXXIII  ;  U.  FOSCOLO,  Saggio  sulla  letteratura  contemporanea 
in  Italia,  in  Opere,  xi,  a  cura  di  C.  Foligno,  Firenze,  Le  Monnier,  1958, 
pp.  403-12;  C.  UGONI,  Della  letteratura  italiana  della  seconda  meta  del  se- 
colo  XVIII,  Brescia,  Bettoni,  1822,  m,  pp.  174-248;  F.  DE  SANCTIS,  Storia 
della  letteratura  italiana,  cap.  xx;  V.  ALEMANNI,  Un  filosofo  delle  lettere, 
parte  i  (la  parte  II  non  fu  mai  pubblicata),  Torino,  Loescher,  1894  (su  cui 
cfr.  la  recensione  di  E.  BERTANA,  in  «Giorn.  stor.  d.  lett.  it.»,  xxvi,  1895, 
pp.  237-44);  M.  FUBINI,  M.  Cesarotti,  nell'antologia  /  classed  italiani 
diretta  da  L.  Russo,  Firenze,  Sansoni,  1953  (i  edizione  1939),  n,  pp. 
1117-27;  W.  BINNI,  Cesarotti  e  il  preromanticismo  italiano,  in  «Civilta 
moderna»,  1941-1942,  rifuso  nel  volume  Preromanticismo  italiano,  Napoli, 
E.S.I.,  1948,  pp.  185-252;  G.  NATALI,  //  Settecento,  Milano,  F.  Vallardi, 
1 9443,  pp.  532-3  e  1176-81;  G.  ORTOLANI,  Prefazione  alle  Opere  scelte, 
cit.  (1945);  G.  MARZOT,  II  gran  Cesarotti,  Firenze,  La  Nuova  Italia,  1949. 

In  particolare  sulla  biografia  del  Cesarotti  si  vedano :  I.  TEOTOCHI  AL- 
BRIZZI,  Ritratti,  a  cura  di  G.  Bozza,  Roma,  Tumminelli,  1946  (i  edizione 


24  MELCHIORRE   CESAROTTI 

1808);  G.  BARBIERI,  Memorie  intorno  alia  vita  ed  agli  studi  dell' abate  Cesa 
rotti,  in  appendice  al  volume  XL  delle  Opere  del  Cesarotti,  pp.  XLIII-LXXVI  ; 
V.  MALAMANI,  Proemio  al  volume  Cento  letter e  inedite  di  M.  Cesarotti  a 
Giustina  Renier  Michiel,  Ancona,  Morelli,  1885;  G.  GAMBARIN,  M.  Cesa 
rotti  e  il  Monti,  in  «Giorn.  stor.  d.  lett.  it. »,  LXV  (1915),  pp.  355-69; 
G.  MAZZONI,  U  abate  Cesarotti  e  urfattrice  famosa,  in  Abati,  soldati,  attori, 
autori  del  Settecento,  Bologna  1924,  pp.  299-326;  M.  ScHERiLLO,  /  pri 
mer  di  del  Foscolo  e  gli  ammonimmti  del  Cesarotti,  in  «  Nuova  Antologia », 
LXXIII  (1928),  pp.  165-70  e  273-88;  N.  VACCALLUZZO,  Un  accademico 
burlesco  contro  un  accademico  togato  (Carlo  Gozzi  e  il  Cesarotti),  Livorno 

I933- 

Sulla  traduzione  di  Ossian :  G.  ZANELLA,  J  poemi  di  Ossian  e  M.  Cesa- 
rottiy  in  Paralleli  letterari,  Verona,  Minister,  1885,  PP-  H3-73J  M. 
SCHERILLO,  Ossian,  Milano,  F.  Vallardi,  1895;  A.  GRAF,  Uanglomania  e 
Vinflusso  inglese  in  Italia  neJ  secolo  XVII,  Torino,  Loescher,  1911,  pp. 
291-8;  P.  VAN  TIEGHEM,  Le  prfromantisme,  I,  Paris,  Alcan,  1924,  pp. 
226-7  e  passim;  G.  BALSAMO  CRIVELLI,  Prefazione  al  volume  Poeste  di 
Ossian,  Torino,  Paravia,  1924. 

Sulle  traduzioni  omeriche :  U.  FOSCOLO,  Sulla  traduzione  dell\(  Odissea », 
in  Opere,  vn,  a  cura  di  E.  Santim,  Firenze,  Le  Monmer,  1933,  pp.  210-5; 
G.  DAL  PINTO,  VQme.ro  del  Cesarotti,  in  «Rivista  d'  Italia »,  in  (1898), 
pp.  348-55;  C.  OSTI,  M.  Cesarotti  e  la  sua  versione  poetica  deWIliade, 
Trieste  1913. 

Sugli  scntti  linguistici:  G.  MAZZONI,  La  questione  della  lingua  nel  secolo 
XVIII,  in  Tra  libri  e  carte,  Roma,  Pasqualucci,  1887,  pp.  115-68;  C. 
TRABALZA,  Storia  della  grammatica  itahana,  Milano,  Hoepli,  1908,  pp. 
416-29;  TH.  LABANDE-JEANROY,  La  question  de  la  langue  en  Italie  de  Baretti 
a  Manzoni,  Pans  1925;  A.  SCHIAFFINI,  Aspetti  della  crisi  hnguistica  ita 
hana  del  Settecento  (193?),  ora  in  Momenti  di  stona  della  lingua  italiana, 
Roma,  Editrice  Studium,  i9532>  PP-  9*-*32;  R.  SPONGANO,  Nota  finale 
al  volume  M.  CESAROTTI,  Saggio  sulla  filosofia  delle  lingue,  Firenze,  Sansoni, 
1943;  A.  VISCARDI,  II  problema  della  costruzione  nelle  polemiche  hnguistiche 
del  Settecento,  in  «Paideia»,  n  (i94?)>  PP-  193-214;  G.  NENCIONI,  Quid- 
quid  nostri  predecessor es  ...,  in  «Atti  e  Memorie  dell' Arcadia »,  S.  Ill, 
vol.  ii  (1950),  pp.  10  e  20-8;  M.  PUPPO,  Stoncita  della  lingua  e  liberta  dello 
scrittore  nel  ((Saggio  sulla  filosofia  delle  lingue »  del  Cesarotti,  in  «Giorn. 
stor.  d.  lett.  it.»,  cxxxin  (1956),  pp.  510-43;  poi  riprodotto  nell'introdu- 
zione  al  volume  Discussioni  linguistiche  del  Settecento  t  Torino,  U.T.E.T., 
1957,  PP.  55-83. 

Sulle  idee  estetiche  e  critiche:  B.  CROCE,  Estetica,  Bari,  Laterza,  1946**, 
pp.  265-6;  M.  PUPPO,  Un  giudizio  inedito  del  Cesarotti  su  Chateaubriand, 
in  «Giorn.  stor.  d.  lett.  it.»,  cxxxin  (1956),  pp.  74-8;  R.  WELLEK,  A 
History  of  modern  Criticism,  I,  New  Haven,  Yale  University  Press,  1955, 
pp.  138-40;  E.  BIGI,  Le  idee  estetiche  del  Cesarotti,  in  «Giorn.  stor.  d.  lett. 
it.)),  cxxxvi  (1959),  pp.  341-66. 

Sulle  idee  politiche:  G.  MAZZONI,  Testimonianxe  stonche  di  un  letter -ato 
(Cesarotti  e  la  Rivoluzione  francese),  in  Tra  libri  e  carte,  cit,  pp.  169-89; 


NOTA   INTRODUTTIVA  25 

G.  GAMBARIN,  La  politico,  del  Cesarotti  e  la  « Pronea »,  in  «  Giorn.  stor.  d. 
lett.  it.»,  LXIX  (1917),  PP-  94-H5;  S.  ROMAGNOLI,  Melchiorre  Cesarotti 
politico,  in  «Belfagor»,  in  (1948),  pp.  143-58. 

Per  altre  indicazioni  bibliografiche  si  pu6  ricorrere,  oltre  che  ai  repertori 
generali  del  Prezzolmi,  delPEvola,  ecc.,  all'ampia  e  utile  ricerca  di  G. 
MARZOT,  Cesarotti  e  cesarottismo  nella  cultura  italiana,  in  appendice  al 
volume  citato  //  gran  Cesarotti. 


RAGIONAMENTO 
SOPRA  IL  DILETTO  DELLA  TRAGEDIA 


Questo  bizzarro  fenomeno  dello  spirito  umano  che  si  compiace 
di  veder  la  rappresentazione  d'uno  spettacolo  la  di  cui  realta  lo 
affliggerebbe  sensibilmente,  sembr6  degno  di  riflessione  e  d'esa- 
me  a  tutti  i  filosofi  che  presero  a  ragionare  di  cose  poetiche. 
L'ab.  Dubos  attribuisce  ci6  all'estremo  abborrimento  che  ha 
1'animo  nostro  per  Tinazione,  per  liberarsi  dalla  quale  egli  cerca 
d'esser  agitato  e  commosso  an  che  a  prezzo  di  fatiche,  afflizioni 
e  danni  grandissimi ;  dal  che  ne  inferisce  che  la  tragedia  trovando 
il  modo  di  separar  il  piacer  delPagitazione  dalle  conseguenze 
funeste  ch'ella  trae  seco,  col  procurarci  passioni  fattizie  e  super- 
ficiali,  ella  deve  recarci  un  diletto  tanto  piu  vivo  quanto  piu  gagliarda 
sara  la  perturbazione  che  in  noi  risveglia.1 

Poco  diverso  da  questo  si  e  il  sentimento  del  Fontenelle.  Egli 
pianta  per  base  che  il  piacere  e  il  dolore,  benche  siano  sentimenti 


Questo  Ragionamento  fu  pubblicato  per  la  prima  volta  nel  volume  II 
Cesare  e  il  Maometto,  tragedie  del  signor  di  Voltaire,  trasportate  in  versi 
italiani,  ton  alcuni  ragionamenti  del  traduttore,  Venezia,  Pasquali,  1762, 
pp.  187-224.  Tale  volume  fu  spedito  dal  Cesarotti,  tramite  il  Goldoni, 
in  omaggio  al  Voltaire,  che  rispose  ringraziando  e  manifestando  la  sua 
appro vazione,  sia  pure  in  forma  generica,  tanto  per  la  traduzione  come 
per  i  due  Ragionamenti  (la  lettera  &  riportata  nell'epistolario  del  Cesarotti, 
in  Opere,  XXXV,  pp.  55-7).  Che  1'autore  rimanesse  anche  in  seguito  sod- 
disfatto  della  soluzione  da  lui  proposta  sul  dibattuto  problema,  e  confer- 
mato  dal  giudizio  che  egli  ne  dava  dopo  piu  di  quarant'anni  in  una 
lettera  (riportata  anche  in  questo  volume)  a  Giovanni  Carmignam  del  25 
novembre  1806:  dove,  parlando  del  teatro  alfieriano,  aflermava:  « quanto 
alia  parte  morale  di  queste  tragedie  avr6  forse  occasione  di  spiegarmi 
in  un  discorso  che  medito  di  aggiungere  ad  un  altro  gi&  da  me  stampato 
circa  quarant'anni  fa,  e  del  quale  non  so  pentirmi,  sopra  il  diletto  della 
tragedia ».  Egli  stesso,  del  resto,  cur6  la  ristampa  del  suo  giovanile  Ragio 
namento  nel  volume  xxix  delle  Opere,  pp.  117-63.  pur  apportandoyi  qual- 
che  notevole  ritocco.  A  questa  seconda  redazione  ci  siamo  attenuti  segna- 
lando  in  nota  le  differenze  pii*  importanti  con  la  prima  del  1762. 

i.  Dubos . . .  risveglia:  riassume  le  idee  esposte  dal  Dubos  specialmente  nel- 
la  sezione  vn  della  parte  I  delle  sue  Reflexions  critiques  sur  la  poesie  et  la 
peinture  (1719),  testo  canonico  dell'estetica  settecentesca.  Si  veda  su  questa 
opera  il  giudizio  del  Cesarotti  stesso  nel  Ragionamento  sopra  I'origine  e  ipro- 
gressi  dell'arte  poetica,  in  questo  volume  a  p.  82. 


28  MELCHIORRE   CESAROTTI 

cosi  diversi,  pure  non  differiscono  molto  nella  loro  causa.  «Col- 
ljesempio  del  solletico  »  aggiunge  egli  « si  scorge  che  il  movimento 
del  piacere  spinto  troppo  innanzi  divien  dolore,  e  che  il  movimento 
del  dolore  un  poco  moderate  divien  piacere.  Quindi  awiene  che 
v'e  una  tristezza  dolce  e  aggradevole,  la  quale  e  un  dolore  inde- 
bolito  e  scemato.  Questo  dolore  indebolito  che  si  cangia  in  piacere 
6  quello  della  tragedia.  Per  quanto  uno  spettacolo  s'impadronisca 
deH'imaginazione,  resta  sempre  nel  fondo  dello  spirito  qualche 
idea  della  falsita  di  quel  che  si  vede,  e  questa  basta  per  ridurrc  il 
dolore  a  quel  grado  in  cui  comincia  a  trasformarsi  in  diletto.  Si 
piangono  le  disgrazie  d'un  eroe  che  si  ama,  e  nello  stesso  tempo  ci 
consoliamo  pensando  esser  questa  una  fmzione;  e  da  questa  me- 
scolanza  di  sentiment!  si  compone  un  dolore  aggradevole,  e  n'e~ 
scono  lagrime  che  ci  fanno  piacere)).1 

Queste  due  soluzioni  sembrano  ingegnose  e  convincenti  al  sig. 
Hume;2  contuttoci6  egli  crede  che  lascino  qualche  cosa  a  desi- 
derare;  e  che  non  possano  applicarsi  in  tutta  la  sua  estensione 
al  soggetto  di  cui  si  tratta.  Poich6,  quanto  al  principio  dell'ab. 
Dubos,  se  1'agitazione  bastasse  per  farci  trovar  piacere  in  uno 
spettacolo  doloroso,  sembrerebbe  che  le  disgrazie  rappresentate 
nelle  tragedie  recar  ci  dovessero  maggior  diletto  quando  realmcnte 
accadessero  sotto  i  nostri  occhi,  poiche  allora  sarebbero  il  rimcdio 
il  piu  efficace  contro  il  languore  e  1'indolenza:  eppure  6  fuor  di 
dubbio  che  ci  cagionerebbero  un'afflizione  vera  e  sensibilissima. 
Riguardo  alia  diminuzione  del  dolore  in  cui  si  fonda  il  Fontenelle, 
egli  dice  che  per  quanto  s'indebolisse  per  gradi  un  dolor  realc 
sino  a  farlo  cessare,  non  si  risentirk  piacere  in  alcuna  delle  sue 
degradazioni,  e  che  il  piacere  non  si  forma  se  non  se  dall'infusione 
d'un  nuovo  sentimento.  Quanto  alia  falsita  dello  spettacolo,  col- 
Tesempio  delle  perorazioni  patetiche  di  Cicerone,  e  specialmente 
deiringiusto  supplicio  dei  capitani  di  Sicilia  trucidati  per  comando 


i.  Traduce  il  paragrafo  xxxvn  delle  Reflexions  sur  la  po&ique,  pubblicate 
dal  Fontenelle  nel  1685,  e  di  ispirazione  nettamente  razionalistica.  Cfr. 
anche  su  quest'opera  quanto  dice  il  Cesarotti  nel  Ragionamento  citato,  a 
p.  82.  2.  Queste  . .  .  Hume:  allude  al  saggio  Of  Tragedy,  pubbhcato  per 
la  prima  volta  dallo  Hume  in  Essays  and  Treatises  on  several  Subjects} 
London  1753-1754.,  ma  che  il  Cesarotti  lesse  certamente  nella  versione 
francese  di  J.  B.  Merian,  Dissertations  sur  les  passions,  sur  la  tragtdie,  sur 
la  regie  du  gout,  Amsterdam,  Schneider,  1759. 


SOPRA    IL    DILETTO    DELLA   TRAGEDIA  29 

di  Verre,1  mostra  che  la  verita  del  fatto  non  impedisce  che  non 
si  senta  sommo  diletto  da  un  discorso  oratorio,  e  per  conseguenza 
da  una  tragedia. 

Per  ispiegar  questo  fenomeno  ricorre  egli  dunque  ad  un  altro 
principio  piu  universale.  Egli  stabilisce  con  molte  ragioni  e  molti 
esempi  che  le  passioni  subordinate  si  cangiano  nella  passion  do- 
minante  e  la  fortificano  maggiormente,  quand'anche  fosse  di  na- 
tura  diversa  ed  alle  volte  contraria.  Ora,  secondo  questo  autore, 
Timpression  dominante  prodotta  da  un'opera  oratoria  o  poetica 
e  quella  del  diletto,  e  la  passion  del  dolore  e  subordinata:  per  con 
seguenza  « il  sentimento  del  bello  da  una  nuova  direzione  ai  moti  di 
tristezza,  di  compassione  e  di  terrore.  Le  immagini  forti,  Tespres- 
sioni  energiche,  un  discorso  armonioso,  una  bella  imitazione,  Tar- 
te  che  raduna  tutti  i  tratti  toccanti,  il  giudizio  che  li  colloca  cia- 
scheduno  a  suo  luogo,  produce  no  una  mistura  di  vari  diletti,  che 
riuniti  insieme  assorbono  la  passione  subordinata,  la  sforzano  a 
cangiar  natura  e  ad  ingrossar  la  somma  totale  del  piacere  ».2 

Se  mi  si  permette  di  avanzar  la  mia  opinione  dopo  quella  di 
tanti  illustri  ragionatori,  parmi  che  questi  correttivi,  benche  ab- 
biano  ciascheduno  per  se  molta  forza,  e  molto  maggiore  riuniti 
insieme,  pure  non  siano  bastanti  a  cangiar  in  piacere  il  dolore 
dello  spettacolo,  e  che  bisogni  cercarne  qualche  altro  piu  intrin- 
seco  tratto  dalla  natura  stessa  dell'azione,  il  quale  ove  manchi,  lo 
spettatore  provera  un  sentimento  doloroso  piu  o  meno  temperato, 
ma  sempre  superiore  al  diletto. 

Bench6  Tab.  Dubos  dica  che  le  passioni  destate  dalla  tragedia 
sono  artificial!  e  fattizie,  pure  egli  calca  tanto  sopra  il  massimo 
piacer  della  commozione,  ch'egli  mostra  chiaramente  di  credere 
che  questo  piacere  basti  per  superar  il  dolore  d'uno  spettacolo 
anche  reale.  Egli  raduna  una  gran  copia  d'esempi  che  tendono  a 
provare  il  suo  principio:  ma  esaminandoli  con  piu  d'attenzione 


i.  specialmente . . .  Verre:  cfr.  II  in  V err  em,  v,  xxxi,  82  sgg.  2.  Ecco  il  passo 
corrispondente  nella  citata  traduzione  francese  del  Merian,  pp.  68  e  73  : 
« Le  sentiment  du  beau  donne  une  nouvelle  direction  aux  mouvements  im- 
pe"tueux  de  la  tristesse,  de  la  pitie  et  de  la  colere  .  . .  Les  images  fortes,  les 
expressions  6nergiques,  un  discours  bien  cadenc6,  une  belle  imitation,  cha- 
cune  de  ces  choses  a  son  agre"ment  propre:  lorsque  tous  ces  agre"ments  se 
re"unissent  en  un  seul  objet  qui  tient  a  quelque  passion  subordonnee,  ils 
1' absorbent,  la  forcent  a  changer  nature,  et  a  grossir  la  somme  totale  du 
plaisir  ». 


30  MELCHIORRE    CESAROTTI 

si  trovera  die  non  convincono  bastantemente.  Lasciamo  stare  i 
giuochi  d'azzardo :  essi  non  presentano  per  se  stessi  nulla  di  funesto ; 
perci6  il  piacer  dell'agitazione,  ch'io  riconosco  per  vero  e  grande, 
non  trovando  ostacolo,  pu6  aver  pienamente  il  suo  effetto.  Osser- 
viamo  quegli  spettacoli  che  hanno  maggior  relazione  coll'atrocita 
della  tragedia.  Tali  sono  i  gladiatori,  i  duelli,  le  giostre  antiche, 
le  esecuzioni  dei  malfattori  e  finalmente  i  combattimenti  sanguinosi 
degli  animali:  spettacoli  tutti  che  in  ogni  tempo,  com'egli  dice, 
attrassero  gran  moltitudine  di  popolo,  e  furono  risguardati  con  un 
diletto  che  degenerava  talvolta  in  furore. 

Ma  quanto  ai  gladiatori  bisogna  osservare  che  costoro  erano 
parte  malfattori  gia  condannati  alia  morte,  parte  persone  vilissime 
ed  infami  che  vendevano  a  prezzo  la  loro  vita.  II  titolo  piu  igno- 
minioso  insieme  ed  orribile  che  potesse  darsi  ad  un  romano  era 
quello  di  gladiator e\  egli  corrisponde  al  nostro  boia,  e  Cicerone 
non  trovo  il  piu  energico,  per  qualificare  Antonio,1  di  questo. 
Ora  qual  compassione  poteano  destare  uomini  di  tal  carattere,  a 
cui  gia  si  dovea  la  morte  per  mille  titoli  ?  Di  piu  costoro  si  face- 
ano  uno  studio  di  morir  non  solo  con  fermezza,  ma  con  disin- 
voltura  e  con  brio.  «Si  vis  me  flere,  dolendum  est  primum  ipsi 
tibi»:2  per  la  stessa  ragione  se  tu  non  piangi,  se  non  sei  sensibile 
alia  tua  disgrazia,  non  vorrc-  gia  io  sentirla  per  te. 

Lo  stesso  pu6  dirsi  dei  delinquenti  condotti  al  supplicio.  Co 
storo  sono  scelerati  e  nemici  deirumanita.  Giova  a  tutti,  e  a  ciasche- 
duno  in  particolare,  che  sia  punito  chi  nuoce  o  e  gia  preparato  a 
nuocere:  lungi  dall'eccitar  compassione,  il  loro  supplicio  non  pu6 
essere  che  approvato,  e  destar  un  sentimento  nel  quale  predomini 
il  piacere.  Io  ammiro  le  leggi,  godo  che  siano  vendicati  gli  offesi, 
spero  di  veder  con  questo  esempio  stabilita  e  fortificata  la  mia  si- 
curezza:  la  compassione  machinale3  e  subordinata  al  piacer  domi- 
nante,  e  secondo  la  dottrina  dell'Hume  si  trasfonde  nella  sua  na- 
tura.  Ma  donde  awiene,  si  pu6  domandare  all'ab.  Dubos,  che 
quando  il  carnefice  non  e  destro  nel  fare  il  suo  uffizio,  quando  la 
morte  non  e  presta,  quando  il  delinquente  e  straziato,  il  popolo 
si  rivolta  con  alte  grida  contro  il  ministro4  e  mostra  la  sua  inde- 

i.  Cicerone  .  .  .  Antonio:  cosl  infatti  Cicerone  chiama  spesso  Antonio  nellc 
Filippiche  (cfr  ,  per  es.,  Phil,  n,  m,  7:  « Contentio  erat  cum  uno  gladiatore 
nequissimo »).  2.  Orazio,  Ars  poet.,  102-3  («Se  vuoi  ch'io  pianga,  devi 
commuoverti  per  primo  tu  stesso »).  3.  machinale:  meccanica.  4,  mini 
stro:  carnefice. 


SOPRA   IL   DILETTO   DELLA   TRAGEDIA  31 

gnazione  ?  £  forse  commozion  di  piacere,  o  pur  di  dolore,  quella 
che  lo  fa  prorompere  in  queste  voci?  Questo  spettacolo  peraltro 
non  attrae  ugual  concorso  per  tutto,  ne  sveglia  il  medesimo  senti- 
mento.  In  Italia  non  vi  accorre  se  non  la  plebe  piu  vile;  in  altri 
luoghi  la  consuetudine  debilita  il  senso  della  compassione ;  in  altri 
finalmente,  per  1'abitudine  giornaliera,  si  rintuzza  colla  compassio 
ne  anche  il  senso  della  commozione  interna,  e  si  lasciano  i  rei  al 
loro  destino  senza  porvi  cura. 

I  duelli  offendono  veramente  Pumanita  e  la  ragione :  ma  quando 
un  pregiudizio  ha  preso  forza  di  legge  e  color  di  virtti,  egli  deve  pro- 
durre  un  effetto  simile  a  quello  che  produrrebbe  la  virtu  stessa. 
Stabilito  che  sia  una  volta  che  Tonore  comandi  di  vendicare  un'of- 
fesa  di  qualunque  genere,  e  di  terminar  una  gara  colla  spada  alia 
mano,  quelli  che  a  ci6  si  espongono,  debbono  eccitare  piu  stima 
che  compassione,  ed  essere  riguardati  come  persone  capaci  di  sa- 
crificar  la  vita  alPonore  e  al  dovere.  Una  prova  di  ci6  si  e  che  se 
Tuno  o  1'altro  non  avesse  fatta  o  accettata  la  sfida,  sarebbe  passato 
per  vile  nell'opinione  comune,  e  che  gli  stessi  amici,  anzi  i  padri, 
Pavrebbero  voluto  piuttosto  morto  che  disonorato.  Inoltre  in  tali 
occasion!  non  v'fe  quasi  alcuno  che  resti  indifferente,  e  che  non 
prenda  parte  per  1'uno  o  per  Taltro  dei  due  campioni.  Non  e  dun- 
que  il  solo  desiderio  di  commozione  che  li  spinga  a  veder  lo  spetta 
colo,  ma  la  speranza  di  veder  Peroe  favorito  vittorioso,  e  Paltro 
soccombente.  Una  simile  spiegazione  pu6  darsi  alle  giostre.  Un 
principe,  un  cavaliere,  che  per  dar  prova  del  suo  coraggio  e  per 
acquistar  gloria  si  espone  a  pericolo  della  vita,  inspira  col  suo 
esempio  magnanimita,  fortezza,  disprezzo  della  morte,  e  pero  see- 
ma  la  compassione. 

Quanto  ai  combattimenti  degli  animali,  Pinumano  pregiudizio 
in  cui  siamo,  di  poter  abusare  a  nostro  talento  della  lor  vita,  ci 
rende  insensibili  a'  loro  strazi :  io  non  credo  peraltro  che  un  pita- 
gorico  avesse  assistito  con  piacere  a  un  simile  spettacolo.1  Da  questo 
esame  si  scorge  che  in  tutti  gli  esempi  accennati,  ed  in  altri  simili, 
la  commozione  non  cangia  il  dolore  in  diletto,  ma  il  dolore,  mi- 
tigato  e  cangiato  in  un  sentimento  aggradevole  da  qualche  intrin- 
seca  cagione,  lascia  agir  liberamente  il  piacer  della  commozione 
delPanimo,  ed  unito  con  esso  ci  compone  un  diletto  piu  vivo. 

i.  non  credo  .  .  .  spettacolo:  perche"  i  pitagorici  pensavano  che  le  anime  de 
gli  uomini  potessero  reincarnarsi  in  corpi  di  animali. 


32  MELCHIORRE   CESAROTTI 

La  falsita  dello  spettacolo  (col  qual  termine  il  sig.  di  Fon- 
tenelle  non  intende  che  il  fatto  che  si  rappresenta  sia  falso,  come 
mostra  di  credere  il  sig.  Hume,  ma  solo  che  allora  non  succede 
realmente)  non  mi  par  che  basti  per  diminuir  il  dolore.  lo  non 
ardirei  di  asserire,  come  il  Gravina1  ed  altri,  che  la  rappresenta- 
zione  faccia  un'illusione  completa  e  continua  aH'animo  degli  spet- 
tatori:  ma  non  mi  par  nemmeno  che  possa  assolutamente  sta- 
bilirsi  ch'ella  non  abbia  luogo  almeno  per  qualche  spazio  di  tempo. 
Una  meditazione  piu  intensa  deirordinario,  una  passione  che  ac- 
cenda  la  fantasia,  ci  trasporta  per  modo  fuor  di  noi  stessi,  che  non 
si  vede  chi  ci  sta  intorno,  ne  si  ascolta  quel  che  si  dice;  anzi, 
quel  ch'e  piu,  talvolta  si  vede  e  si  sente  quel  che  non  e.  Or  per- 
ch6  non  potra  fare  lo  stesso  effetto  1'incanto  della  rappresentazion 
teatrale,  che  assedia  con  tante  macchine  la  fantasia  ?  Si  piange  per 
un  eroe  amato,  dice  il  Fontenelle,  e  nel  tempo  stesso  si  conosce 
che  le  sue  disgrazie  sono  finte.2  Non  sarebbe  egli  piu  verisimile 
che  non  ci  accorgessimo  della  finzione,  se  non  per  intervalli  e 
come  a  scosse  ?  Per  quanto  poco  voglia  supporsi  che  duri  1'illusio- 
ne,  egli  e  certo  che,  se  in  quel  punto  il  sentimento  doloroso, 
ch'esce  dal  fondo  delPazione,  supera  il  diletto,  lo  spettatore  pro- 
vera  un  dolore  reale,  o  almeno  assai  grande.  Se  alcuno,  come 
spesso  accade,  avesse  un  sogno  funesto  di  qualche  minuto,  ma 
interrotto  e  ripigliato  alternamente  piu  volte;  crediamo  noi  che  il 
dolore  ch'ei  sentirebbe  nei  brevi  istanti  del  sonno,  sarebbe  compen 
sate,  anzi  superato  dal  suo  disinganno  nel  risvegliarsi  ?  e  si  tro- 
verebbe  alcuno,  che  volesse  sognar  di  nuovo  per  procacciarsi  que- 
sto  piacere?  Ma  volendosi  anche  concedere  che  Pillusione  non 
abbia  mai  luogo  in  alcun  punto  della  tragedia ;  io  dico  che  quando 
il  dolore  dell'azione  tragica  non  sia  corretto  da  verun  lenitivo  in- 
trinseco,  ella  cagionera  sempre  un  dolore,  che  deve  escludere  o 


i.  come  il  Gravina:  1'Ortolani  cita  il  seguentc  passo  del  trattato  Della  tra 
gedia:  «la  tragedia  e  .  .  .  piii  perfetta  delPepica  poesia,  perch6  imita  intic- 
ramente  Pazione,  e  la  rappresenta  appunto  come  vera  e  reale »  (cfr.  Opere 
scelte,  Milano  1819,  p.  255);  ma  il  Cesarotti  allude,  forse,  anche  al  lib.  I, 
cap.  II  della  Ragion  poetica,  dove  si  afferma  pifr  generalmentc  che  «il  poe- 
ta  per  mezzo  delle  immagini  esprimenti  il  naturaie,  e  della  rapprcscnta- 
zion  viva  e  somigliante  della  vera  esistenza  e  natura  delle  cose  immaginate, 
commove  ed  agita  la  fantasia  nel  modo  che  fanno  gli  oggetti  rcali »  (cfr. 
Opere  scelte,  ed.  cit.,  p.  io).  2.  Si  piange  .  .  .finte:  cfr.  Reflexions  sur  la 
po&ique,  cit.,  §  xxxvi. 


SOPRA   IL    DILETTO    DELLA   TRAGEDIA  33 

prevalere  al  diletto.  Nelle  storie  certo  non  puo  esservi  luogo  al- 
Fillusione;  esse  raccontano  casi  accaduti  in  paesi  stranieri  e  in 
tempi  remoti.  Pure  chi  puo  leggere  senza  orrore  gli  assassinii  e  i 
parricidii  dei  successor!  di  Alessandro,  le  barbare  perfidie  degPim- 
peratori  greci  e  le  brutalita  de'  primi  imperatori  romani?  Se  la 
storia  non  presentasse  altri  spettacoli  che  questi,  ognuno  rivolge- 
rebbe  altrove  lo  sguardo,  e  si  abborrirebbero  quei  monumenti  che 
conservarono  la  memoria  di  fatti  che  doveano  star  sepolti  nelle  te- 
nebre,  per  non  funestar  rimmaginazione  degli  uomini,  e  fargli 
inorridir  della  propria  natura.  Le  proscrizioni  di  Silla  e  de' 
Triumviri  ributtano;  la  guerra  tra  Pompeo  e  Cesare,  e  le  morti 
degli  eroi  repubblicani  interessano:  perche  ci6?  vi  sono  de'  fatti 
atroci  dalPuna  parte  e  dall'altra;  ma  quelli  spirano  puro  orrore, 
in  questi  il  dolore  e  temperato  dalFammirazione  e  dalla  bene- 
volenza. 

Resta  da  esaminare  Popinione  delFHume.  II  suo  principio  del- 
la  trasfusione  delle  passioni  subordinate  nella  passion  dominante 
e  veramente  filosofico  e  atto  piu  d'ogni  altro  a  scioglier  la  nostra 
questione.  Ma  non  so  poi  se  Fapplicazione  ch'egli  ne  fa,  sia  intie- 
ramente  giusta.  Egli  suppone  che  il  sentimento  dominante  in 
un'opera  d'eloquenza  e  in  una  tragedia  sia  quello  del  diletto,  e  il 
subordinate  sia  il  dolore.  Vediamo  se  ci6  sia  vero  assolutamente. 
Di  due  sentimenti  contrari,  che  ci  colpiscano  in  un  tempo  stesso, 
sembra  che  il  dominante  debba  esser  quello  che  per  sua  natura 
agisce  con  maggior  forza  e  fa  un'impressione  piu  gagliarda  e  piu 
viva.  Ora  la  ragione  e  Fesperienza  fa  vedere  che  i  sentimenti  pia- 
cevoli  sono  assai  piu  deboli  dei  dolorosi.  II  piacere  solletica,  il 
dolore  lacera  e  strazia.  L'impression  del  piacere  sfuma,  per  cosl 
dire,  e  svapora  in  pochissimi  istanti;  quella  del  dolore  stampa  or- 
me  profonde  e  durevoli.  Mille  piaceri  non  compensano  un  dolore:1 
un  dolor  solo  basta  a  distruggere  tutti  i  piaceri.  Si  trovano  vera 
mente  persone  che,  colPidea  d'un  piacere  appreso,  si  espongono 
a  pericoli  di  tormenti  e  di  morte ;  ma  ci6  accade  perche  non  veg- 
gono  questi  mali  che  in  lontananza.  Allorche  sono  vicini,  Fespe- 
rienza  ci  mostra  che  si  sacrificano  gli  stessi  oggetti  dianzi  ido- 
latrati  alia  sola  speranza,  anche  vana,  di  liberarsene.  Di  piu,  e  da 
osservarsi  che  il  piacere  non  ci  spinge  ad  esporsi  a  questi  pericoli, 

i.  Mille  .  .  .  dolore:  adattamento  del  Petrarca,  Rime,  ccxxxi,  4:  «mille  pia- 
cer  non  vaglion  un  tormento ». 


34  MELCHIORRE   CESAROTTI 

se  non  quando  ha  generate  un  desiderio  pungente  ed  insofferibile ; 
cosicche  non  si  cerca  tanto  Facquisto  del  piacere  quanto  la  libe- 
razion  dal  dolore. 

La  gelosia  e  una  passione  disaggradevole,  dice  il  sig.  Hume, 
e  pure  Famor,  ch'e  un  piacere,  non  sa  esser  ben  vivo  senza  di  essa; 
ma  la  comparazione  non  mi  sembra  giusta,  e  parmi  anzi  ch'ella 
comprovi  la  mia  opinione  pru  che  la  sua.  L/amore  e  un  desiderio 
di  possedere;  la  gelosia  e  un  timor  di  perdere:  come  non  si  teme 
se  non  perche"  si  desidera,  cosi  e  naturale  che  la  gelosia,  finch6 
non  giunge  a  distruggere  Famore,  gli  serva  di  stimolo  e  d'alimento. 
Ma  Famore  e  un  sentimento  piacevole,  la  gelosia  un  sentimento 
doloroso:  s'interroghi  Otello,  Orosmane,  Erode1  se  in  un  amante 
geloso  predomini  il  diletto  o  il  tormento.  Quel  che  accade  nei 
piaceri  e  dolori  reali  e  sensibili,  perche"  non  accadera  in  quelli 
dell'immaginazione  ?  In  fatti,  se  in  una  compagnia,  ove  regni  la 
giocondita,  sopraggiunge  persona  che  racconti  qualche  atroce  di- 
sgrazia  di  se  o  d'altrui,  la  giocondita  si  cangia  tosto  in  tristezza, 
oppure  le  s'impone  silenzio :  segno  che  il  dolore  non  pu6  cangiarsi 
cosi  facilmente  in  allegrezza,  e  che  si  teme,  per  lo  contrario,  che 
la  sua  forza  preponderi. 

Parmi,  in  secondo  luogo,  che  di  due  sentimenti  contrari,  1'uno 
de'  quali  sia  prodotto  dal  soggetto,  Faltro  dagli  ornamenti,  Fin- 
trinseco  debba  prevalere  alFesterno  e  trasfonderlo  nella  sua  na- 
tura.  Che  un  uomo  voluttuoso  o  irreligioso  dipinga  ne'  suoi  versi 
o  ne'  suoi  discorsi,  con  tutta  la  vivacita  e  Feloquenza  possibile,  i 
suoi  lascivi  piaceri  o  i  suoi  empi  sentimenti,  egli  6  certo  che  gli 
orecchi  delle  persone  pie  ne  resteranno  tanto  piu  offesi,  quanto  la 
pittura  sara  piu  energica  e  viva.  Tutta  Farte  d'un  poeta  non  ren- 
dera  mai  bello  ed  interessante  un  soggetto  vile  e  spiacevole;  la 
luce  ch'egli  vi  sparge  sopra,  ne  far&  meglio  apparire  la  deformita; 
il  ridicolo  della  materia  ricadera  sulla  forma.  Se  un'opera  di  simil 
genere  ha  qualche  successo,  ci6  accaderk  o  perch<§  il  soggetto  sar& 
solamente  mediocre,  e  non  basso  e  vile;  o  perche"  in  un  soggetto 
ributtante  tutte  le  parti,  o  principal!  o  episodiche,  non  lo  sono 

i .  Otello  e  il  protagonista  delFomonima  tragedia  di  Shakespeare ;  Orosmane 
&  un  personaggio  della  Zaire  di  Voltaire;  Erode,  come  personaggio  tmgi- 
camente  dominate  dalla  gelosia,  compare  in  varie  tragedie,  quali  la  Ma- 
rianna  di  Ludovico  Dolce,  il  Tetrarca  de  Jerusalem  del  Calderon,  la  Ma 
rianne  del  Voltaire,  rappresentata  nel  1724,  e  che  il  Cesarotti  ha  certo  so- 
prattutto  in  mente. 


SOPRA   IL    DILETTO   DELLA   TRAGEDIA  35 

egualmente,  e  la  loro  bellezza  fara  che  si  soffrano,  ma  non  che 
piacciano,  Taltre.  Gli  abbigliamenti  vistosi  danno  risalto  a  un 
bell'aspetto,  aiutano  un  mediocre,  ma  deformano  maggiormente 
un  brutto. 

Questo  principio  dee  molto  piu  verificarsi  nella  tragedia,  perche 
lo  stile  in  essa  deve  rigidamente  servire  al  soggetto,  a  segno  che  qua- 
lunque  bellezza,  che  non  fosse  necessaria  all'azione,  diverrebbe  un 
difetto  gravissimo.  Vi  e  molta  differenza  fra  la  tragedia  e  gli  altri 
generi  di  poesia;  quelli  presentano  Timitazion  della  cosa,  questa 
pone  sotto  gli  occhi  la  cosa  stessa:  in  quelli  1'imitatore  si  mostra 
ed  esce  a  riscuotere  gli  applausi;  in  questa  si  nasconde  totalmente, 
e  crede  d'esser  giunto  al  colmo  della  perfezione  quando  gli  spet- 
tatori,  assorti  negli  eroi  del  suo  dramma,  si  scordano  intieramente 
di  lui.  Pu6  bensl  qualche  causa  esterna  prevenir  lo  spettatore  con- 
tro  Tillusione  dello  spettacolo;  ma  se  il  poeta  coopera  al  suo  di- 
singanno  col  palesarsi,  egli  ignora  i  principii  della  sua  arte.  Quindi 
le  descrizioni  pompose,  le  comparazioni,  i  pensieri  ingegnosi,  il 
fraseggiare  immaginato,  i  numeri  lavorati  e  sonanti,  che  sono  essen- 
ziali  al  poeta  lirico  ed  all'epico  moderatamente  permessi,  o  sono 
severamente  proibiti  al  tragico,  o  non  sono  tolerati  che  con  gran- 
dissime  restrizioni.  Parmi  che  il  sig.  Hume  non  abbia  abbastan- 
za  esaminato  questo  punto,  e  che  abbia  invertito  1'ordine  della 
cosa,  quand'egli  dice  che  le  immagini  forti,  1'espressioni  energiche, 
una  bella  ed  artificiosa  imitazione  hanno  ciascheduna  il  loro  pro- 
prio  diletto;  e  che  pero  un  tal  sentimento  deve  debilitar  la  forza 
del  dolore  e  trasformarlo  in  piacere.  L'espressioni  svegliano  Tim- 
magine  o  1'idea  delle  cose,  e,  in  quanto  le  rappresentano,  non  hanno 
alcuna  propria  e  particolar  qualita,  ma  prendono  quella  della  cosa 
stessa.  In  quanto  poi  lo  spirito  le  considera  come  parto  della  fan 
tasia  del  poeta,  allora  vestono  il  carattere  di  belle  e  dilettevoli, 
qualunque  sia  la  cosa  da  loro  rappresentata.  Ma  lo  spirito  non  pu6 
considerarle  per  tali  se  non  per  mezzo  d'un  confronto  piu  o  meno 
rapido  ch'egli  fa  tra  un  qualche  modello  della  cosa  e  1'espressioni 
di  quel  poeta,  ed  altri  vari  modi  di  esprimersi,  che  avrebbero  po- 
tuto  adoperarsi  dagli  altri.  Per  quanto  rapido  e  simultaneo  sembri 
questo  confronto,  egli  e  certo  che  non  pu6  farsi  cosi  agevolmente 
se  non  da  uno  spirito  assai  pronto  ed  esercitato,  specialmente 
quando  la  cosa  che  si  rappresenta  e  composta,  come  un'azione 
tragica,  di  varie  parti  connesse  ed  awiluppate  insieme,  cosicche* 


36  MELCHIORRE    CESAROTTI 

bisogni  tutto  ad  un  tempo  architettarsi  in  mente  un  modello  gran- 
de  e  proporzionato,  e  rawisarne  in  un  colpo  d'occhio  Tordine 
e  la  simmetria:  e  per  quanto  poi  sia  pronto  ed  esercitato  lo  spirito, 
e  certo  che  rimmaginazione  che  percepisce  e  piu  rapida  del  ri- 
flesso  che  confronta;  e  che  per  conseguenza  il  sentimento  che  ri- 
sulta  dal  soggetto  dev'essere  immediato  e  dominante,  e  quel  dello 
stile  susseguente  e  subordinate.  Sul  principio  dell'azione,  quando 

10  spirito  non  e  ancora  intorbidato  dalle  passioni,  Tattenzione  pu6 
fissarlo  abbastanza  per  fargli  rawisare  ad  un  tempo  e  la  cosa  e 
Timitazione,  ma  quando  il  bollore  degli  affetti  si  solleva  e  s'ac- 
cende,  il  modello  si  perde  di  vista,  e  non  si  sente  che  Timpressionc 
della  cosa  imitata. 

II  contrario  per6  pu6  accadere,  ed  in  fatti  accade  nella  poesia 
lirica.  L'imitatore  vi  si  scopre  palesemente:  Tespressioni,  le  frasi, 

11  numero,  tutto  porta  scolpito  il  lavoro  della  fantasia  e  deH'intel- 
letto;  la  materia  resta  quasi  assorta1  dalla  forma;  non  c'e  talvolta 
che  un  sentimento  vestito  con  magnificenza  e  presentato  sotto 
•diversi  aspetti  ingegnosi  e  fantastici :  lo  spirito  deve  dunque  fissarsi 
piu  suH'imitazione  che  sull'oggetto,  e  il  piacere  dcve  dominate. 
Ma  la  tragedia  stessa  presenta  una  prova  sensibile  dell'uno  e  del- 
Taltro  effetto.  Nel  tempo  che  si  rappresenta  Pazione,  lo  spcttatore 
•s'interessa,  piange,  s'adira  e  trasfonde  i  suoi  affetti  dagli  eroi  agli 
attori  stessi;  quando  lo  spettacolo  e  terminato,  allora  si  volge  a 
fare  i  meritati  elogi  al  poeta.  Nella  prima  rappresentazione  pre- 
vale  il  dolore  e  il  terrore;  nelle  susseguenti,  e  molto  piu  in  una 
lettura,  il  dolore  svanisce,  e  il  diletto  prepondera.  Perch<§  questa 
inversione?  Perch6  lo  spirito,  saziata  la  curiosita  ed  acchetato  il 
movimento  tumultuoso  degli  affetti  svegliati  dall'efficacia  e  dalla 
natura  dello  spettacolo,  resta  libero  e  pu6  tranquillamentc  esa- 
minare  1'ingegno  dell'imitatore,  congegnar  meglio  il  suo  modello, 
confrontar  con  esso  la  copia,  e  gustar  a  parte  a  parte  la  rara  mae- 
stria  del  lavoro. 

II  sig.  Hume  allega  Tesempio  della  pittura,  in  cui  quanto 
piu  e  doloroso  1'oggetto,  tanto  e  maggior  il  piacere:  ma  la  diffe- 
renza  e  grande  e  sensibile.  L'imitazione  della  pittura  &  molto  im- 
perfetta  in  confronto  di  quella  d'una  tragedia.  La  superficie  piana 
d'un  corpo  immobile  potra  somigliare  ad  un  uomo,  ma  non  lo 
sara  mai.  II  pittore  non  mostra  che  un  punto  di  qualche  fatto; 
i.  assorta:  assorbita. 


SOPRA   IL   DILETTO   DELLA   TRAGEDIA  37 

non  spiega  le  cause  e  le  macchine  deirazione,  non  sviluppa  il  ca- 
rattere,  i  pensieri,  i  sentiment!  degli  attori,  non  rileva  le  relazioni 
e  le  circostanze  che  rendono  il  fatto  veramente  interessante  ed 
atroce.  Non  e  Ifigenia1  sacrificata  dal  padre  per  la  salute  delFar- 
mata,  quella  ch'io  veggio  su  quella  tela;  non  e  Oreste,2  che  uccide 
la  madre:  io  non  ci  scorgo  che  una  fanciulla  sacrificata  e  una 
femmina  uccisa.  Se  la  storia  o  la  favola  non  c'istruisse,  noi  non 
giungeremmo  che  con  gran  pena  a  rilevar  il  vero  soggetto  d'un 
quadro.  Queste  imperfezioni  dello  strumento  del  pittore,  oltre  il 
scemar  Pinteresse,  fanno  che  Timitazione  a  suo  mal  grado  si  scopra, 
e  per  ci6  che  si  fissi  Focchio  principalmente  sopra  il  valor  delParte- 
fice,  il  quale  ha  saputo,  per  quanto  gli  permettea  Parte  sua,  dar 
anima  e  sentimento  alia  tela. 

Le  perorazioni  di  Cicerone  non  provano  molto  di  piu.  II  peri- 
colo  d'un  esiglio  e  alquanto  diverso  da  un  parricidio.  Benche 
Foratore  debba  servire  alia  causa,  pure  e  molto  piu  libero  del  poe- 
ta  tragico  e  pu6  far  uso  piu  scoperto  del  suo  talento.  Tra  gli  udito- 
ri,  altri  credevano  1'accusato  veramente  colpevole  e  degno  di  pena; 
altri  lo  giudicavano  innocente  e  lo  bramavano  salvo:  quelli  non 
potevano  risguardare  nella  perorazione  di  Cicerone  se  non  se  Far- 
tificiosa  eloquenza  delForatore,  che  sapeva  interessare  gli  animi  per 
una  persona  si  poco  degna  di  compassione;  in  questi  la  speranza 
di  vedere  assolto  un  reo,  in  grazia  particolarmente  delle  patetiche 
lamentazioni  oratorie,  rendeva  dolce  la  loro  amarezza;  e  per6  ne- 
gli  uni  e  negli  altri  dovea  predominare  il  diletto.  II  supplizio  del 
capitani  di  Sicilia  e  veramente  atroce.  L'aringa  ch'espone  questo 
fatto,  non  fu  recitata,  come  suppone  il  sig.  Hume,  ma  composta 
solo  da  Cicerone  per  suo  esercizio.  Quando  fosse  stata  pronunciata, 
non  ho  difficolta  di  credere  che  il  dolore  si  sarebbe  trasformato  in 
piacere;  ma  ci6  non  a  cagion  dello  stile,  ma  per  il  desiderio  e  la 
speranza  della  vendetta,  la  qual  tanto  piu  facilmente  doveva  ot- 
tenersi,  in  quanto  piu  atroce  vista  erano  poste  le  crudelta  di  Verre. 
Ma  supponiamo  che  Verre  fosse  stato  assolto  dai  giudici,  e  che 
uno  dei  capitani  siciliani  scappato  in  qualche  modo  di  mezzo  ai 


i.  Ifigenia:  figlia  di  Agamennone,  fu  sacrificata  in  Auhde  per  placare  Arte- 
mide  che  impediva  la  partenza  delle  navi  dei  Greci  verso  Troia.  6  la  prota- 
gonista  di  due  tragedie  di  Euripide.  2.  Oreste:  figlio  di  Agamennone  e  di 
Clitennestra,  uccise  la  madre  per  vendicare  il  padre  da  lei  assassinate.  £ 
personaggio  delle  Coefore  di  Eschilo  e  felVElettra  di  Sofocle  e  di  Euripide. 


38  MELCHIORRE   CESAROTTI 

supplizi,  fosse  andato  in  qualche  provincia  a  deplorar  con  tutta 
Penergia  di  Cicerone  Forribile  strazio  de'  suoi  compagni,  la  scelera- 
tezza  del  pretore  e  Tingiusto  giudizio  di  Roma:  allora  il  dolore, 
non  trovando  compenso  nell'idea  della  vendetta,  avrebbe  sover- 
chiati  tutti  gli  animi  degli  ascoltanti  e  riempiutigli  di  angoscia  e  di 
disperazione. 

Ma  finalmente  anche  il  sig.  Hume  sembra  riconoscer  Tinsuf- 
ficienza  dello  stile  e  la  necessita  di  cercar  un  altro  correttivo  piu 
intrinseco,  poich'egli  confessa  che  persino  i  sentimenti  piu  comuni 
di  compassione,  per  dar  una  soddisfazione  intiera,  dimandano 
d'esser  temperati  da  qualche  affetto  aggradevole.  Per6  accettan- 
do  la  sua  confessione,  e  adottando  pienamente  il  suo  principio 
delle  passioni,  io  dico  che  la  rappresentazione  di  un'azione  tra- 
gica  fa  un'impressione  similissima  a  quella  dell'azione  realc,  e 
che  il  sentimento  che  domina  nell'una,  e  pur  dominante  nel- 
1'altra. 

Ora  in  un  fatto  reale  possono  distinguersi  due  specie  d'impres- 
sione,  Tuna  intrinseca,  Faltra  esterna.  Quella  risulta  dalla  natura  del 
fatto,  questa  dalla  vista  del  fatto  istesso.  Parler6  per  ora  della  pri- 
ma.  QuelPazione  vera,  che  riguardata  per  qualunque  vista  presenta 
un'amarezza  tutta  pura  e  un  dolore  eccessivo  senza  mistura  o  com 
penso  di  verun  bene,  o  riferita  o  veduta  o  rappresentata  sara 
sempre  ingrata  ed  orribile,  ne  alcun  lenitivo  esterno  potra  mai  farle 
cangiare  la  sua  natura :  pel  contrario  quel  fatto  reale  la  di  cui  acer- 
bita  tende  per  sua  natura  a  destar  un  sentimento  che  preponderi 
a  quel  del  dolore,  in  qualunque  modo  sia  esposto  fara  un'impressio 
ne  mista,  nella  quale  il  diletto  crescera  irji  proporzione  della  tri- 
stezza,  e  la  sforzera  a  renderlo  piu  toccante  e  piu  vivo. 

Ma  donde  potra  nascere  un  diletto  di  tanta  efficacia,  che  possa 
operare  una  cosi  prodigiosa  trasformazione  ?  Per  ridurre  i  vari  sen 
timenti  di  piacere  ad  un  principio  generate,  io  dir6  che  qucsto 
non  pu6  nascere  che  dall'accordo  del  risultato  dramatico  coll'in- 
teresse  e  Tistruzione  morale.  L'interesse  suppone  affetto,  e  Taf- 
fezione  &  proporzionata  alle  qualita  amabili  di  chi  patisce.  Ora 
Taffezione  non  e  mai  senza  qualche  dolcezza  che  s'insinua  nel  do 
lore  istesso.  Le  lagrime  della  pieta  sono  una  crisi  del  dolore  che  va 
sciogliendosi.  Dall'interesse  dramatico  derivano  ugualmente  la 
compassione  e  il  terrore.  La  disgrazia  di  chi  si  ama,  ci  addolora; 
il  pericolo  ci  spaventa.  La  moralita  si  mescola  ad  ambedue  queste 


SOPRA   IL   DILETTO   DELLA   TRAGEDIA  39 

perturbazioni,  ed  alPinteresse  che  le  sveglia,  aggiunge  il  suo  pro- 
prio.  Quest'e  di  dar  agli  uomini  Pistruzione  piu  necessaria  alia 
vita,  vale  a  dire  che  le  pene  e  le  disgrazie  che  piu  gli  affliggono 
sono  figlie  delle  passiom  e  degli  errori,  mali  ambedue  che  possono 
evitarsi  o  superarsi  da  loro  quando  vogliano  far  uso  della  liberta 
e  della  ragione.  Con  questa  idea  la  rappresentazione  delle  sciagure 
altrui  diventa  uno  specchio  dei  pericoli  nostri,  e  1'interesse  ch'io 
sentiva  per  gli  altrui  mali,  risveglia  il  piu  intrinseco  ch'io  sento  per 
me.  L'uomo  ama  i  suoi  simili  perche  ama  s6,  e  per  legge  di  na- 
tura  ama  piu  s6  che  i  suoi  simili.  Spettatore  delPaltrui  sciagure,  si 
sostituisce  a'  suoi  attori  e  si  mette  nei  loro  casi.  Compassiona  le 
sventure  deiruomo  virtuoso  o  amabile,  ma  la  causa  che  le  produsse 

10  chiama  a  se,  e  concentrando  col  terrore  il  di  lui  spirito  nel  peri- 
colo  proprio,  gli  da  forze  per  sottrarsi  a  resistere  alPesche  e  agli 
impeti  di  quelle  passioni  che  potrebbero  sedurlo  e  trarlo  a  mal  fine. 

11  fatto  reale  non  avrebbe  permesso  allo  spettatore  di  coglier  il 
frutto  di  questa  grande  istruzione,  e  Pangoscia  avrebbe  forse  do- 
minato  sola  nel  di  lui  ammo ;  ma  presentata  in  lontananza  di  tempi, 
di  luoghi,  di  relazioni,  da  campo  alia  riflessione  di  svilupparsi, 
e  il  diletto  gia  tinto  delle  dolcezze  delPaffetto,  colpito  dai  tocchi 
delPammirazione,  rinforzato  dalPidee  d'utilita  pu6  serpeggiar  li- 
beramente  in  mezzo  al  cordoglio,  e  sparso  di  care  lagrime  passar 
ben  accolto  nei  recessi  del  cuore.1 

Ma  per  distinguer  piu  esattamente  da  quali  azioni  risultar  possa 
questo  vantaggio,  e  con  ci6  fissar  meglio  la  natura  e  la  differenza 
della  compassione,  del  terrore  e  dell'orror  tragico,  si  supponga  che, 
innanzi  che  uno  spirito  si  unisca  al  corpo,  qualche  genio  gli  pre- 
senti  dinanzi  lo  spettacolo  della  vita  umana.  Veggasi  dunque  una 
grandissima  moltitudine  d'ombre  rappresentanti  tutto  Puman  ge- 
nere  profondato  in  un  abisso  di  atroci  sventure:  altro  non  si  scor- 
ga  che  tradimenti,  sceleraggini,  nozze  incestuose,  parricidii,  lacci, 
pugnali,  veleni:  gl'infelici  viventi,  parte  disperati  cerchino  dalla 


i .  Ma  .  .  .  cuore :  tutto  questo  capoverso,  che  contiene  la  formulazione  sin- 
tetica  del  punto  di  vista  del  Cesarotti,  fu  profondamente  rielaborato  dal- 
Pautore  nelPedizione  pisana.  Nella  prima  edizione  egli  insisteva  piu  cru- 
damente  sulPidea  del  vantaggio  personale,  la  quale  in  noi  nasce  natural- 
mente  —  egli  diceva  —  per  forza  delFamor  proprio,  «principio  in  cui .  .  .  sta 
la  soluzione  di  tutti  i  fenomeni  del  cuore  umano » :  idea  che  probabilmente 
egli  derivava  dal  trattato  De  V esprit  dell'Helvetius  (1758). 


40  MELCHIORRE    CESAROTTI 

morte  rimedio  alia  loro  funesta  esistenza,  parte  alzino  gli  occhi 
pieni  di  lagrime  al  cielo  per  implorar  vanamente  soccorso.  Penda 
di  sopra  il  destine  inesorabile,  che  con  una  invisibil  catena  awolga 
indistintamente  i  giusti  e  gPingiusti  in  un  labirinto  di  mali;  e 
quel  ch'e  piu  orribile,  gli  awolga  per  quelle  strade  istesse  per  cui 
cercano  di  sfuggirli:  stiensi  daH'altro  lato  gli  dei  oziosi  e  indolenti 
spettatori  di  questo  vasto  teatro  d'iniquita  e  di  sciagure.1  Che  di- 
rebbe  lo  spirito  ad  una  tal  vista  ?  fremerebbe  d'orrore,  rivolgerebbe 
altrove  lo  sguardo  inferocito,  abborrirebbe  gli  dei,  detesterebbe 
1'esecrabile  dono  della  vita  e  vorrebbe  tornar  ad  immergersi  nelle 
tenebre  del  nulla,  piuttosto  che  rimirar  un'altra  volta  rimmagine 
non  che  la  realita  d'uno  spettacolo  cosi  spaventevole.  Ma  se  innanzi 
d'aprir  la  scena  il  genio  dicesse  allo  spirito :  —  lo  voglio  rattristarti 
per  tua  salute:  tu  vedrai  molti  mali,  molte  disgrazie  atroci;  ma 
non  mormorare,  non  disperarti:  sappi  che  queste  non  sono  uni- 
versali  ne  ingiuste  ne  inevitabili ;  esse  sono  tutte  o  una  conseguenza 
necessaria  de1  vizi  e  delle  debolezze  umane,  o  un  effetto  della  giu- 
stizia  particolar  degli  dei.  Tu  porti  in  te  stesso  i  germi  della  tua 
rovina  senza  saperlo.  Tu  non  conosci  la  forza  delle  passioni;  la 
ragione  e  imperfetta  senza  Tesperienza;  Paffezione  la  piu  ragione- 
vole,  Tinclinazione  la  piu  indifferente,  se  non  e  ben  diretta,  sc  si 
lascia  crescere  senza  freno,  puo  divenir  lo  strumento  della  tua 
perdita,  e  pu6  condurti  ad  essere  infelice  e  malvagio.  Gli  escmpi 
degli  altri  faranno  la  tua  scuola;  dall'atrocita  degli  effetti,  conoscc- 
rai  la  malignita  della  causa.  Fatti  forza,  osserva,  e  rifletti.  —  A  tali 
parole  lo  spirito  s'accenderebbe  di  desiderio  d'istruirsi,  e  pieno 
d'una  grata  perturbazione  dimanderebbe  con  impazienza  che  si 
alzasse  il  sipario.  Compariscano  dunque  su  la  scena  varie  persone, 
parte  disgraziate,  parte  ministre  di  disgrazia;  vediamo  qual  di- 
versa  impressione  egli  ne  sentira,  e  quai  saranno  i  suoi  sentimenti. 
Sia  il  primo  uno  scellerato,  che  non  si  prefigga  altro  frutto  delle 
sue  scelleraggini,  che  la  compiacenza  di  farle,  un  inventore  e  raf- 
finatore  di  crudelta  che  costringa  il  padre  a  cibarsi  delle  membra 
del  figlio  ed  a  berne  il  suo  sangue:  un  tal  personaggio  produrra 
nello  spirito  osservatore  un  orrore  eccessivo.  Com'egli  non  pu6 
creder  d'essere  o  di  poter  divenir  tale,  cosi  non  nc  cava  alcuna  istru- 
zione:  il  supplizio  di  costui  non  basta  per  appagarlo;  perch6  nis- 

i.  Penda  .  .  .  sciagure'.  allude  alia  tragedia  greca,  della  quale  parleti  pKi 
ampiamente  nelle  ultime  pagine  del  Ragionamento, 


SOPRA   IL   DILETTO   DELLA   TRAGEDIA  41 

suna  pena  non  pu6  essere  adeguata  alia  sua  malvagita;  resta  dun- 
que  che  lo  spirito  abborrisca  la  natura  umana  capace  di  produrre 
un  mostro  che  solo  basterebbe  a  distruggerla. 

Ma  se  lo  scellerato  fosse  tale  per  qualche  gran  cagione,  come  per 
un  trono,  lo  spirito  entrerebbe  tosto  in  se  stesso,  e  direbbe:  «Io 
mi  sento  strascinato  invincibilmente  a  cercar  la  mia  felicita:  cosi 
saranno  gli  altri  uomini;  tutte  le  loro  virtu  e  i  loro  vizi  saranno 
indifferentemente  conseguenze  necessarie  d'un  tal  desiderio :  se  un 
oggetto  promette  un  massimo  bene,  e  che  non  si  possa  giunger 
a  questo  fine  se  non  per  mezzo  d'un  delitto,  1'amor  proprio  im- 
picciolira  o  anche  nobilitera  1'idea  d'esso;  il  temerlo  si  credera 
debolezza.  II  trono  potrebbe  farmi  questa  funesta  illusione?  Pur 
troppo :  io  veggo  la  potenza,  la  gloria,  tutti  i  piaceri  che  lo  circon- 
dano.  Io  trovo  in  esso  tutti  i  mezzi  d'esercitar  la  stessa  virtu: 
un  delitto,  che  apre  la  strada  a  mille  azioni  virtuose,  resta  assorto 
nel  loro  splendore.  Ce  molto  di  che  tentarmi.  Io  potrei  divenir 
scelerato  come  costui.  Osserviamo  le  sue  awenture».  II  personag- 
gio  diventa  istruttivo;  specialmente  se  lo  spirito  dovesse  essere  un 
sovrano,  o  una  persona  grande;  e  Torrore  si  cangia  in  terrore. 

Se  lo  scelerato  e  basso  e  vile,  il  dispregio  si  unisce  all'odio: 
ma  se  alia  sua  sceleratezza  egli  congiunge  qualche  gran  qualita, 
come  una  vastita  di  mente,  un'intrepidita  di  spirito,  una  costanza 
straordinaria,  Pammirazione  mitighera  Torrore.  Detestando  il  suo 
delitto,  Fosservatore  e  costretto  ad  apprezzare  e  ad  invidiare  gli 
altri  suoi  pregi.  Non  potendo  separarli,  egli  sarebbe  quasi  tentato 
a  desiderarseli  cosl  come  sono,  misti  col  male.  Tanto  piu  dunque 
Tistruzione  &  necessaria.  Esaminando  meglio  le  circostanze  e  le 
conseguenze  d'un  tal  carattere,  egli  si  determina  a  rigettar  il  vi- 
zio  bench6  ricoperto  d'uno  splendore  che  abbaglia,  si  risana  da 
un'ammirazione  pericolosa,  imparando  a  distinguer  la  virtu  dalle 
qualita  straordinarie,  le  quali  se  non  incontrano  un  ammo  retto, 
divengono  il  piu  efficace  e  il  piu  formidabile  strumento  del  vizio. 

Se  lo  scelerato  e  un  impostore,  questo  personaggio  puo  esser 
puramente  orribile,  ma  potrebbe  altresi  recar  istruzione  e  diletto. 
Se  la  sua  impostura  consiste  in  un  tradimento,  da  cui  ad  un  uomo 
illuminato  non  sia  possibile  di  guardarsi,  Tartificio  congiunto  alia 
malvagita  riunisce  tutti  i  punti  delPorrore;  ma  se  Pimpostura  6 
fondata  sopra  un  errore  o  un  pregiudizio  specioso  e  rispettabile, 
che  possa  e  debba  sgombrarsi  colla  luce  della  ragione,  lo  spirito 


42  MELCHIORRE    CESAROTTI 

godra  tanto  piu  della  sua  scoperta,  quanto  piu  sarebbe  in  pericolo 
di  lasciarsi  infettare  dalFuniversale  contagio,  ed  apprendera  a  te- 
ner  deste  ed  armate  tutte  le  sue  interne  potenze  per  impedir 
Fingresso  della  sua  mente  a  questi  mostri  insidiosi,  che  dopo  la 
seduzione  deirintelletto  si  traggono  dietro  la  seduzione  del  cuore,1 

Se  finalmente  lo  scelerato  non  fosse  stato  tale  di  sua  natura, 
ma  ci  fosse  diventato  per  gradi,  e  ci6  per  aver  lasciato  crescere 
una  passione  che  prima  sembrava  leggera  e  scusabile,  la  quale 
avesse  gettate  a  poco  a  poco  nel  suo  animo  profonde  radici,  e  che, 
dopo  molte  fluttuazioni  tra  la  forza  della  passione  e  lo  stimolo 
de'  rimorsi,  egli  si  trovasse  strascinato  a  qualche  gran  delitto, 
quasi  contro  sua  voglia,  ed  al  fine  restasse  vittima  della  sua  colpa; 
questo  personaggio  sarebbe  sommamente  istruttivo  e  desterebbe 
salutevole  compassione  e  terrore.  «Vedi»  direbbe  lo  spirito  «da 
che  piccioli  semi  che  gran  passioni  germogliano!  lo  credeva  im- 
possibile  di  diventar  scelerato.  Ora  scorgo  che  non  v'e  nulla  di 
piu  facile.  Dalla  debolezza  al  delitto  non  v'e  talvolta  che  un  passo. 
Profittiamo  di  questo  terribile  esempio». 

Ma  finalmente,  perch6  lo  spirito  possa  trarre  istruzione  da  queste 
diverse  specie  di  malvagi,  e  necessario  che  li  vegga  tutti  puniti. 
II  vizio  felice  disgusta  della  virtu.  Ma  se  la  punizione  nasce  dal 
caso,  cessa  d'essere  punizione,  e  non  istruisce,  Se  lo  scelerato  e 
punito  da  altro  scelerato  con  una  nuova  sceleraggine,  Porrore, 
in  luogo  di  scemarsi,  si  raddoppia;  il  punito  re  merita  anch'csso 
d'esser  punito;  non  sembra  ch'egli  abbia  distrutto  il  malvagio  per 
amor  della  giustizia,  ma  per  gareggiar  con  lui  di  malvagita.  L'osser- 
vatore  non  apprende  nulla,  e  gli  detesta  ambedue. 

II  malvagio  che  unisce  Timpostura  alia  sceleraggine,  s'cgli  e 
di  quel  genere  che  istruisce,  non  e  necessario  che  sia  punito, 
Com'egli  non  pu6  giungere  ad  effettuare  i  suoi  disegni  se  non  per 
mezzo  de'  pregiudizi  altrui,  il  suo  trionfo  non  sar&  tanto  un'esalta- 
zione  del  vizio,  quanto  un  castigo  della  credulita.  II  terrore  c  la 
compassione  insegnerk  all'osservatore  a  guardarsi  da  questa  peri- 
colosa  debolezza,  e  Podio  istesso  ch'egli  porta  airimpostore,  accre- 
scera  Tistruzione  e  '1  diletto. 

i.  Se  la  sua  .  .  .  cuore:  il  Cesarotti  pensa  probabilmente  al  Maometto  di 
Voltaire,  da  lui  tradotto,  e  pubblicato  proprio  insieme  al  Ragionamento. 
Nella  postilla  cntica  a  tale  traduzione  egli  dice  che  la  tragedia  del  Voltaire 
«squarcia  il  velo  a  quella  formidabile  impostura»  che  e  la  superstizione 
(cfr.  Opere,  xxxm,  p.  230). 


SOPRA   IL    DILETTO   DELLA   TRAGEDIA  43 

Dopo  i  personaggi  odiosi,  compariscano  sulla  scena  gl'interes- 
santi  ed  amabili,  sia  per  le  qualita  nobili  e  grandi,  sia  per  le  dolci 
e  toccanti.  Un  uomo  che  abbia  tutti  i  dritti  alia  nostra  benevo- 
lenza  per  tutte  le  doti  piu  luminose  e  piu  belle,  dia  ricetto  nel  suo 
animo  ad  una  debolezza,  o  ad  una  passione  scusabile  o  anche 
amabile,  e  questa  poscia  lo  tragga  in  qualche  atroce  disgrazia:1 
lo  spirito  ne  sentira  dapprima  compassione  e  dolore.  Ma  se  doman- 
dera  a  se  stesso  la  ragione  d'un  tal  sentimento,  egli  trovera  che  non  si 
compatiscono  se  non  quelle  debolezze  delle  quali  ci  crediamo  ca- 
paci.  lo  avrei  perdonato  un  tal  difetto  a  quest'uomo:  molto  piu 
lo  perdonerei  a  me.  Se  ricoperto  da  tante  belle  qualita  appena  lo 
rawiso  in  lui  per  difetto,  come  potrei  scoprirlo  in  me  stesso? 
Lo  scelerato  mi  ributtava  da  s6;  questo  avria  potuto  sedurmi.  lo 
mi  specchier6  sempre  in  questo  esempio  necessario  e  funesto. 

L'istruzione  sarebbe  piu  grande,  se  la  persona  interessante,  per 
cagion  d'una  passione  mal  regolata,  fosse  condotta  a  commetter 
una  sceleraggine  involontaria.  Non  si  pu6  punir  piu  acerbamente 
n6  piu  fruttuosamente  la  virtu  debole,  quanto  col  farla  cader  in 
un  delitto.  L/osservatore  che  si  compiaceva  di  rassomigliare  a 
queiruomo  amabile  e  si  sostituiva  a  lui,  si  raccapriccia  di  tro- 
varsi  scelerato,  quando  piu  si  lusingava  d'esser  virtuoso. 

Se  il  delitto  delPeroe  debole  cade  sopra  una  persona  amabile  o 
innocente  o  virtuosa,  il  terrore  e  la  compassione  saranno  spinti 
all'ultimo  eccesso;  ma  il  pericolo  d'una  morte  orribile  e  certa 
deve  render  piacevole  il  ferro  e  '1  fuoco  che  ci  risana. 

Se  il  debole  interessante  e  punito  da  un  uomo  indifferente  o 
malvagio,  lo  spirito  sara  piu  disgustato  del  punitore  che  istruito 
dalla  punizione,  e  lo  spettacolo  sara  vicino  aU'orrore.  L'uomo  che 
non  e  indulgente  ai  difetti  dell'umanita,  6  piu  degno  di  castigo 


i.  Un  uomo  .  .  .  disgrazia:  tale  sara  il  personaggio  di  Ettore  nel  rifacimento 
cesarottiano  dell'//zVz<fe.  Cfr.  il  Parallelo  dell '« Iliade* greca  e  dell'italiana,  in 
Operey  vn,  p.  XXli:  «I1  poema  in  tal  guisa  [cioe  con  la  trasformazione  del 
carattere  di  Ettore]  riesce  perfettamente  uno  e  di  tessitura  drammatica; 
esso  s'accosta  a  quelle  tragedie  del  primo  genere  istruttivo  e  patetico,  nelle 
quali  (come  con  piu  esattezza  d'Aristotele  mostr6  il  Terrasson)  un  eroe  in 
teressante,  ma  soggetto  ad  una  passione  o  una  debolezza  scusabile,  in- 
corre  a  cagion  di  essa  in  qualche  disgrazia  che  desti  compassione  o  terro 
re  ».  La  debolezza  di  Ettore,  come  spiega  piti  avanti  Pautore,  consistera  nel 
voler  sostenere,  per  un  falso  sentimento  d'onore,  la  causa,  che  pure  egli  n- 
conosce  ingiusta,  di  Paride  fedifrago  e  adultero. 


44  MELCHIORRE   CESAROTTI 

d'ogn'altro.  La  pena,  per  esser  fruttuosa,  deve  essere  una  disgrazia 
nata  da  se  per  la  natura  medesima  della  colpa,  o  un'operazione  de- 
gli  dei,  o  un  effetto  della  disperazione  delPeroe  difettoso. 

Se  il  castigo  dell'eroe  debole  nascesse  dalPoggetto  medesimo 
della  sua  debolezza,  come  se  il  credulo  restasse  vittima  dell'impo- 
store,  1'amante  della  persona  amata,  crescerebbe  Tistruzione.  Niuna 
cosa  piu  giova  a  purgar  gli  animi  dalle  passioni  disordinate,  quan- 
to  il  trovar  la  nostra  miseria  in  quegli  oggetti  che  ci  promettono 
felicita. 

Se  1'eroe  infetto  d'una  debolezza  perdonabile  fosse  per  un'altra 
debolezza  perdonabile  punito  da  un  altro  eroe  interessante,  e  che 
questo  poscia  fosse  punito  daj  suoi  rimorsi  o  dalla  forza  del  suo 
dolore,  la  compassione  sarebbe  doppia  e  maggiormente  istruttiva. 

Se  finalmente  il  debole  interessante  per  ragion  di  dovere  fosse 
punito,  ma  con  dolore,  da  un  uorno  virtuoso  ed  unito  al  primo 
per  amicizia  o  per  sangue,  Tistruzione  pure  sarebbe  doppia,  e  la 
compassione  saria  temperata  dairammirazione  e  dal  diletto.  Lo 
spirito  osservatore  apprenderebbe  dalPuna  parte  che  qualunque 
colpa  e  seguita  dalla  pena;  dall'altra,  che  bisogna  sacrificar  alia 
virtu  anche  gli  oggetti  piu  cari. 

—  Fino  ad  ora  —  dovrebbe  dire  il  genio  allo  spirito  —  tu  hai  vedu- 
to  il  vizioso  e  il  debole  infelice,  e  1'innocente  dopo  molti  travagli  li- 
berato  e  contento.  Ma  io  non  debbo  ingannarti.  II  fatto  accadc  ge- 
neralmente  cosi,  ma  pur  non  accade  sempre.  Qualche  volta  la  forza 
della  malvagita  prevale,  e  1'innocenza  soccombe.  Se  tu  non  sei 
virtuoso  che  colla  lusinga  d'un  evento  felice,  ti  troverai  forsc  in 
pericolo  di  pentirti  della  virtu  e  d'abbandonarla.  6  necessario  cor- 
roborare  il  tuo  spirito  e  dar  alia  tua  virtti  una  tempera  cosi  forte 
che  resista  a  qualunque  scossa  della  fortuna  e  a  qualunque  strazio 
della  malvagita.  Io  ti  mostrer6  cogli  esempi  che  la  virtu  pu6  esser 
vinta  dalle  forze  esterne,  ma  non  oppressa;  ch'ella  trova  in  s6 
medesima  mille  conforti,  ch'ella  piacc  a  se  stessa  nolle  sventure 
piu  gravi,  e  ch'ella  e  piii  grande  e  piu  felice  in  mezzo  a'  supplicii, 
che  il  vizio  coronato  e  trionfante  in  mezzo  ai  piaccri. 

Mira  cola  quell'eroe,  che  per  cagion  della  sua  virtii  divenuto 
scopo  dell'invidia  e  della  calunnia,  si  vede  in  preda  ai  piu  atroci 
insulti  della  fortuna.  Con  qual  indifferenza  volge  alternamente  il 
guardo  alle  passate  grandezze  ed  alia  miseria  presente,  ne"  mostra 
d'accorgersi  di  cambiar  oggetto!  Pago  del  testimonio  della  propria 


SOPRA   IL   DILETTO   DELLA   TRAGEDIA  45 

coscienza,  egli  muore  senza  dolersi,  senza  applaudirsi,  senza  la- 
gnarsi  d'alcuno ;  e  non  sente  di  morire,  se  non  per  la  compiacenza 
ch'ei  prova  di  morire  per  la  virtu. 

Osserva  quell'altro,  che  ridotto  all'alternativa  di  macchiar  la  sua 
virtu  o  di  morir  tra  gli  strazi,  non  bilancia  un  momento,  affronta 
intrepidamente  i  piu  atroci  supplicii,  e  ne  fa  gloria;  ogni  tormento 
e  per  esso  un  nuovo  trofeo ;  sgrida  e  dispregia  il  tiranno  come  uno 
scelerato  impotente,  e  spira  alfine  vittorioso  e  trionfante,  lasciando 
Panimo  del  suo  persecutore  piu  lacerato  dal  furore  e  da*  rimorsi, 
che  non  lo  fu  da'  supplicii  il  suo  corpo. 

Volgi  Tocchio  a  quel  terzo:  miralo  afferrar  con  giubilo  un  pu- 
gnale,  piantarselo  in  mezzo  al  petto,  e  intriso  volontariamente  nel 
proprio  sangue,  rallegrarsi  con  se  stesso,  e  dire:  « Ora  finalmente 
son  libero:  la  mia  gloria  e  in  sicuro;  finche  le  resta  Pasilo  della 
morte,  la  virtu  non  sara  mai  sforzata  a  smentir  se  stessa». 

Tutti  questi  spettacoli  infonderebbero  nell'animo  delPosserva- 
tore  una  inespugnabil  fortezza;  egli  invidierebbe  le  nobili  disgrazie 
di  quegli  eroi,  e  si  sentirebbe  incoraggito  a  sfidar  la  fortuna  e  la 
malvagita  per  aver  la  gloria  di  trionfarne. 

Ma  Pamor  della  vita  non  e  sempre  il  piu  forte,  specialmente 
in  un  animo  nobile  e  delicato :  un  padre,  un  figlio,  una  sposa,  un 
amico  sono  oggetti  che  lo  toccano  molto  piu  al  vivo,  e  che  soli 
potrebbono  abbattere  la  sua  fortezza.  Se  dunque  il  genio  mostrasse 
allo  spirito  un  eroe,  che  per  giovar  al  pubblico  bene,  o  per  non 
tradir  il  suo  dovere,  giungesse  a  sacrificar  uno  di  questi  oggetti 
cari  ed  innocenti,  questo  sarebbe  il  trionfo  piu  luminoso  della 
virtu.1  La  compassione  cadrebbe  piu  sul  sacrificatore  che  sulla 
vittima,  e  resterebbe  vinta  dairammirazione. 

Ma  se  il  virtuoso  sacrificasse  un  innocente  per  un  funesto  pre- 
giudizio,  appreso  irragionevolmente  come  un  dovere,  questo  spet- 
tacolo  non  sarebbe  tanto  d'ammirazione  quanto  d'orrore.  Lo  spi 
rito,  in  luogo  di  rispettar  Peroismo  del  sacrificante,  detesterebbe  il 
dono  infelice  della  ragione,  la  quale  e  soggetta  a  cosi  mostruose 
illusioni  e  giunge  a  trasformare  in  virtu  le  azioni  piu  ingiuste  e 
crudeli. 

Maggiormente  s'innorridirebbe  lo  spirito,  se  il  virtuoso  dovesse 

i.  un  eroe  .  .  .  virtu:  allude  probabilmente  al  personaggio  di  Bruto,  nella 
tragedia  voltairiana  La  morte  di  Cesarey  pure  tradotta  dal  Cesarotti  e  pub- 
blicata  insieme  al  presente  Ragionamento. 


46  MELCHIORRE    CESAROTTI 

spargere  un  sangue  innocente  per  ubbidire  alPingiusto  voler  degli 
dei.1  Possono  questi  compiacersi  dell'infelicita  dei  mortali?  Tin- 
nocenza  sara  perseguitata  da  chi  dovrebbe  proteggerla  ?  e  dovremo 
anche  adorare  i  nostri  tiranni?  che  disperazione!  che  orrore! 

Se  1'innocente  che  resta  vittima  d'una  vera  virtu,  partecipasse 
alPeroismo  di  chi  lo  sacrifica  col  soffrir  la  sua  sventura  costante- 
mente  o  col  sollecitar  egli  stesso  la  propria  morte,  1'ammirazione 
s'accrescerebbe,  e  scemerebbesi  il  dolor  della  compassione.  Ma 
s'egli  s'abbandona  al  dolore,  se  si  lagna  degli  dei  e  della  virtu, 
se  compiange  la  sua  sventurata  innocenza,  i  gemiti  di  questo  in- 
felice  nuoceranno  airammirazione  dell'eroe,  e  Tosservatore  s'in- 
debolira  troppo  e  sara  tentato  di  riguardar  la  virtu  sotto  Faspetto 
di  crudelta:  1'istruzione  si  perde,  e  lo  spettacolo  e  vicino  alForrore. 

A  piu  forte  ragione,  se  una  persona  d'un  carattere  n6  odioso  n6 
interessante,  cade  da  se  stessa  o  per  altrui  malvagita  in  qualchc 
atroce  disgrazia,  senza  averla  ne  meritata  per  qualche  colpa  ne 
incontrata  volontariamente  per  la  sua  virtu,  e  ch'ella  soccomba 
aH'acerbita  delPangoscia,  Tosservatore  sentira  una  pura  amarczza 
senza  nissun  compenso,  e  restera  inorridito.  Egli  non  impara  ne 
a  fuggir  il  vizio,  ne  ad  incontrar  il  male,  ne  a  tollerarlo.  Impara  solo 
che  la  natura  umana  e  in  preda  ad  ingiuste  e  crudeli  sciagure,  e 
che  non  ha  dal  suo  canto  forza  che  basti  a  sostenerne  i  colpi  funesti. 

Parmi  d'aver  scorso  tutti  i  generi  d'atrocita  e  di  sciagura  che 
costituiscono  il  soggetto  delle  rappresentazioni  teatrali.  L'efFetto 
che  farebbe  il  genio  sopra  lo  spirito,  additandogli  i  casi  futuri,  lo 
fa  a  un  di  presso  la  tragedia  sopra  gli  spettatori,  esponendo  come 
presenti  le  awenture  passate.  Dopo  ci6  non  sara  difficile  di  fissar 
la  natura  della  compassione,  del  terrore  e  dell'orrore  tragico,  e  di 
conoscer  quali  siano  Pazioni  in  cui  deve  predominar  il  diletto  o 
il  disgusto. 

La  compassione  e  un  dolore  mitigato  dalla  moralita,2  per  una 
disgrazia  atroce,  procacciatasi  da  un  personaggio  interessante  a 
cagion  di  qualche  imperfezione  di  cui  ci  crediamo  capaci. 

II  terrore  e  un  timore  violento,  ma  mitigato  dalla  moralita, 
per  cui  lo  spirito  si  concentra  in  se  stesso  affine  di  premunirsi 

i.  il  virtuoso  .  .  .  dei:  come  Agaxnennone  costretto  a  far  sacrificare  la  figlia 
Ifigenia.  2.  moralita:  nella  prima  edizione  1'autore,  qui  e  nei  due  periodi 
seguenti,  aveva  scritto  « utilita » :  il  cambiamento  e  in  rapporto  con  la  riela- 
borazione  illustrata  nella  nota  a  p.  39. 


SOPRA    IL   DILETTO   DELLA    TRAGEDIA  47 

contro  1'idea  di  un  male  atroce  ch'egli  potrebbe  tirarsi  addosso 
per  qualche  colpa  o  difetto. 

L'orrore  e  un  fremito  dell'anima,  che  tenta  di  rispinger  da  s6 
la  vista  o  1'idea  d'un  fatto  atroce,  in  cui  1'eccesso  del  male  non  e 
temperate  da  verun  bene,  ne  compensato  dalla  moralita. 

Quelle  azioni  dunque,  in  cui  la  disgrazia  serve  a  punir  le  colpe 
o  le  debolezze,  sono  compassionevoli  o  terribili,  o,  come  spesso 
accade,  terribili  e  compassionevoli  insieme  (riferendosi  la  compas- 
sione  particolarmente  al  paziente,  il  terrore  all'agente  o  all'azione 
istessa),  ed  in  queste  1'istruzione  del  fatto,  correggendo  intrinseca- 
mente  il  dolore  e  facendolo  diventare  una  passione  subordinata, 
mescolatasi  con  tutti  i  lenitivi  esterni  accennati  dagli  altri,  tra- 
sformera  compiutamente  il  dolore  nella  natura  del  diletto  predo- 
minante,  e  trarra  dagli  occhi  degli  spettatori  lagrime  dolci  ed  ag~ 
gradevoli. 

L'orrore  prodotto  da  un  personaggio  o  da  una  parte  dell'azione, 
se  inserve  alia  compassione,  al  terrore  o  airammirazione  prodotta 
dal  fondo  del  soggetto,  non  fa  che  Pazione  cangi  natura,  e  il  diletto 
ancora  prevale. 

Le  azioni  in  cui  la  compassione  e  il  terrore  e  congiunta  colPam- 
mirazione  o  col  diletto,  sia  per  la  fortezza  dell'eroe,  sia  per  la  pu- 
nizion  de'  malvagi  e  per  la  liberazione  de'  buoni,  sono  visibilmente 
piu  dilettevoli  che  dolorose. 

Finalmente  quelle  azioni  che  rappresentano  sceleraggini  basse, 
raffinate,  gratuite,  disgrazie  ingiuste,  accidentali,  fatali,  volute  ed 
operate  dagli  dei,  che  cadono  sopra  persone  poco  interessanti, 
che  non  tendono  n6  a  punir  la  colpa  ne  ad  esercitar  la  virtu  la 
quale  volontariamente  le  incontri,  che  sono  sofferte  con  debo- 
lezza  e  deplorate  miseramente:  queste  azioni  tutte  sono  intrin- 
secamente  ed  essenzialmente  orribili  e  disgustose. 

lo  non  dico  per  altro  che  non  possano  in  alcun  modo  recar  di 
letto.  In  un'azione  spiacevole,  come  s'e  detto  di  sopra,  vi  possono 
esser  molte  parti  belle,  aggradevoli,  ammirabili.  Lo  stile  e  la 
bellezza  dell'imitazione,  in  quei  luoghi  in  cui  si  pu6  rawisarla 
piu  agevolmente  e  separarla  dal  fondo  dell'azione  stessa,  avra  molta 
forza:  la  commozione  degli  affetti,  fmch.6  sta  fra  certi  limiti,  e 
pur  dilettevole;  fmalmente,  finch6  Fazione  e  sospesa,  si  spera  di 
vederla  sciogliersi  nel  modo  che  si  desidera,  e  questa  speranza 
diletta.  Ma  quando  lo  scioglimento  ci  tradisce,  il  dolore  intenso  che 


48  MELCHIORRE   CESAROTTI 

si  prova  in  quel  punto,  si  rifonde  sopra  le  parti  antecedent!  del- 
1'azione,  ed  amareggia  anche  la  dolcezza  passata. 

Chi  si  prendera  la  cura  di  esaminare  con  questi  principii  le  tra- 
gedie  de'  Greci  e  quelle  dei  loro  imitatori,  ne  trovera  assai  poche 
che  non  pecchino  gravemente  per  la  parte  del  soggetto.  UEdippoyl 
per  non  parlar  dell'altre,  ch'e  la  piu  perfetta  nella  condotta,  riu- 
nisce  quasi  tutti  gli  orrori  sopraccennati.  Per6  non  v'e  nulla  di  piu 
vano  ne  di  piu  falso  quanto  1'utilita  dell'antica  tragedia,  tanto  de- 
cantata  da'  critici  prevenuti.  II  Gravina  da  una  spiegazione  parti- 
colare  alia  bizzarra  dottrina  d'Aristotile  sopra  la  purgazion  degli 
affetti.2  L'utilita  della  tragedia,  secondo  lui,  consiste  in  queslo, 
che,  awezzandosi  alia  compassione  ed  al  terrore  ne'  casi  find, 
si  viene  a  perderne  il  senso  nej  veri,  appunto  come  quelli  ch'essen- 
dosi  assuefatti  al  veleno,  giungono  a  non  riceverne  piu  nocumento. 
Ma  se  per  compassione  e  terrore  egli  intende,  come  si  dovrebbe, 
quello  che  nasce  da  una  disgrazia  accaduta  in  pena  d'un  delitto 
o  d'una  debolezza,  la  tragedia,  in  vece  di  giovare,  verrebbe  a  pro- 
durre  il  massimo  de'  mali:  poich6  quando  il  vizioso  perde  il  senso 
del  dolore  e  del  danno  a  cui  possono  condurlo  i  suoi  vizi,  non  vje 
argine  o  freno  che  possa  ritenerlo.  Se  poi  sotto  questi  nomi, 
come  apparisce,  egli  comprende  indistintamente  tutti  i  generi  di 
disgrazie,  non  considerandole  che  come  miserie  inevitabili  attac- 
cate  all'umanita,  io  crederei  che  gli  spettacoli  tragici  servissero 
piuttosto  ad  accrescere  ed  a  moltiplicare  il  dolore,  che  a  sminuir- 
lo.  Non  v'e  nulla  di  piu  afflittivo,  dice  il  sig.  di  Montesquieu, 
quanto  le  consolazioni  tratte  dalla  necessita  delle  cose  e  dalla  con- 
catenazion  delle  cause.  —  Perche  piangi,  —  diceva  uno  a  Solone 
afflitto  per  la  morte  del  figlio  —  se  il  male  &  irrimediabile  ?  —  Ap 
punto  per  questo  io  piango,  —  rispose  —  perch'e  irrimediabile.  — 
Ma  posto  che  Torror  della  tragedia  potesse  per  questa  parte  gio- 
varci,  ci6  non  sarebbe  se  non  in  caso  ch'ella  ci  presentasse  escmpi 
di  fortezza  e  costanza  nelle  disgrazie;  dal  che  sono  molto  lontane 
le  greche  tragedie,  in  cui  gli  eroi  soffrono  i  loro  mali  con  estrema 
debolezza.  Come  potr6  consolarmi  nelle  mie  sventure,  s'io  veggo 
gli  uomini  piu  grandi  che  si  disperano  nelle  proprie? 

i.  VEdippo:  YEdipo  re  di  Sofocle.  2.  //  Gravina  .  .  .  qffetti:  cfr.  Della 
tragedia,  cap.  iv,  in  Opere  scelte,  ed.  at.,  pp.  258-9.  Sulla  interpretazione 
graviniana,  che  e  poi  quella  prevalente  nel  Rinascimento,  cfr.  B.  CROCE, 
Problemi  di  estetica,  Bari,  Laterza,  1949*,  pp.  370-1. 


SOPRA   IL   DILETTO   DELLA   TRAGEDIA  49 

II  padre  Brumoy1  crede  trovare  un  altro  vantaggio  nelle  anti- 
che  tragedie  per  rapporto  agli  Ateniesi.  Egli  dice  che  i  tragic! 
greci  mettevano  sotto  gli  occhi  del  popolo  le  sventure  delle  case 
regali  per  fargli  sempre  piu  abborrire  la  monarchia,  e  fomentar 
in  esso  lo  spirito  repubblicano.  Ma  per  produr  questo  effetto, 
sarebbe  stato  d'uopo  rappresentar  disgrazie  che  fossero  accadute 
per  soverchia  brama  di  regnare,  o  almeno  che  nascessero  dalla 
natura  istessa  del  governo  monarchico,  e  che  non  potessero  cadere 
che  sopra  un  sovrano.  Or  io  vorrei  che  mi  si  mostrassero  tre  sole 
tragedie  antiche  che  avessero  per  soggetto  una  disgrazia  la  quale 
non  potesse  accadere  ugualmente  bene  in  una  repubblica  che  in 
una  monarchia;  ad  un  cittadino,  che  ad  un  re.  Tutte  le  difese  di 
una  causa  debole  servono  piu  ad  aggravarla  che  a  sostenerla. 

Suppongono  la  maggior  parte  de'  critici,  tra'  quali  il  Gravina 
stesso,2  che  1'orrore  delle  greche  tragedie  sia  scemato  abbastanza, 
rimovendo,  com'essi  fanno,  dalla  vista  gli  spettacoli  atroci,  e  cre- 
dono  questo  punto  tanto  importante  che  lo  stabiliscono  per  una 
regola  inviolabile  di  teatro.  Questa  e  appunto  quelPimpressione 
esterna  accennata  di  sopra,  di  cui  m'ho  riserbato  di  parlare.  Io 
accordo  veramente  che  quando  alPorror  essenzial  d'un'azione  s'ag- 
giunga  1'orror  della  vista,  come  nelP  Andronico,  ndV  Hamlet,  nel- 
1J  Arrigo  VI  di  Shakespeare  e  nella  maggior  parte  delle  tragedie 
inglesi,  lo  spettacolo  avra  tutti  i  numeri  per  far  fremer  Pumanita. 
Contuttoci6  la  morte  violenta  non  e  sempre  il  punto  piu  orribile 
del  soggetto.  La  ricognizione  di  Edippo  con  Giocasta  appresso 
Sofocle  reca  piu  orrore  di  quel  che  farebbe  la  sua  morte.  Benche 
il  senso  della  vista  sia  piu  intense  di  quello  deirimmaginazione, 
pure  qualche  volta  la  narrazione  aggrava  il  fatto  piu  dello  spetta 
colo  istesso.  NelPazione  molte  circostanze  si  confondono  e  af- 
follano  insieme  con  tanta  prestezza  che  divengono  quasi  istantanee, 

i.  II  gesuita  Pierre  Brumoy  (1688-1742),  noto  soprattutto  per  Le  theatre  des 
Grecs  (1730),  contenente  una  serie  di  drammi  greci  tradotti,  con  discorsi  in- 
troduttivi  e  comment!.  L'osservazione  ncordata  dal  Cesarotti  si  trova  ap 
punto  in  questo  lavoro,  e  precisamente  nel  Discours  sur  I'origine  de  la  tra 
gedie  (cfr.  edizione  1763,  I,  pp.  108-9):  «On  y  vit  [sur  la  scene],  entre  les 
dieux,  des  grands  princes  et  des  rois  perdre  la  couronne  ou  la  vie  et  y 
Staler  a  une  republique  jalouse  de  sa  Iibert6  des  malheurs  d'autant  plus 
int^ressants  pour  elle,  qu'ils  flattoient  son  orgueilleuse  compassion,  et 
qu'ils  n'excitoient  dans  les  coeurs  republicams  qu'une  majestueuse  terreur 
a  la  vue  des  te"tes  couronn6es  qu'on  sembloit  lui  immoler».  2.  il  Gravina 
stesso:  cfr.  Delia  tragedia,  cap.  xin,  in  Opere  scelte,  ed.  cit,  pp.  274-5. 


SO  MELCHIORRE    CESAROTTI 

n6  si  distinguono  bastantemente.  La  narrazione  le  spiega  a  parte 
a  parte  Tuna  dopo  Taltra,  le  dilata,  le  aggrava,  le  ingrandisce  col- 
respressioni  e  fa  che  lo  spirito  si  fermi  sopra  ciascheduna  e  ne 
senta  tutta  la  forza.  II  mostro  mandate  da  Nettuno  contro  Ippolito 
fa  piu  terrore  nella  descrizione  di  Teramene,  che  se  si  fosse  veduto 
sul  teatro.1  Del  resto  abbiamo  veduto  di  sopra  colPesempio  delle 
storie  che  i  fatti  veramente  orribili  ributtano  senza  vederli.  Quan- 
to  alle  azioni  che  secondo  la  nostra  definizione  sono  terribili  e 
compassionevoli,  benche*  la  vista  colpisca  vivamente  e  prevenga  il 
riflesso,  pure  il  rimedio  interno,  che  ne  scema  e  corregge  la  forza, 
deve  impedir  lo  spettacolo  dal  degenerar  in  orrore.  Molte  delle 
azioni  gia  riferite,  quando  accadessero  realmente,  si  risguardercb- 
bero  con  una  dilettevol  tristezza,  e  taluna  con  diletto.  La  compas- 
sione  prodotta  dal  supplizio  d'un  eroe  imperfetto,  ma  piu  in- 
teressante,  e  la  piu  soggetta  a  cader  nelPeccesso.  Ma  in  questo 
punto  io  credo  che  abbia  tutto  il  suo  luogo  il  principio  del  sig. 
di  Fontenelle,  e  che  il  conoscer  che  il  fatto  non  accade  attualmcnte, 
prevenga  abbastanza  Porrore. 

6  poi  da  osservare  che  alcune  azioni  non  inorridiscono  tanto  per 
esser  atroci,  quanto  perch6  sono  sozze  e  schifose.  Su  questo  punto 
i  tragici  greci  non  furono  poi  tanto  delicati.  Pu6  immaginarsi  cosa 
che  cagioni  ad  un  tempo  nausea  e  ribrezzo  maggiore,  quanto  il 
veder  Edippo,  trafittosi  gli  occhi  colla  fibbia  della  cintura  di  Gio- 
casta,  uscir  sulla  scena  tutto  imbrodolato  il  volto  di  sangue,  a 
deplorar  cogli  ululati  e  colle  strida  la  sua  sventura?2  Polinnestore 
pure,  accecato  da  Ecuba  e  dalle  sue  donne  a  colpi  di  spille,  che 
va  brancolando  per  afferrarla,3  non  fa  una  vista  molto  piu  amcna. 
Filottete,  che  infetta  Paria  col  puzzo  della  pestilente  sua  piaga,4 
non  e  forse  uno  spettacolo  piu  da  spedale  che  da  teatro  ? 

La  tragedia  della  Matrigna  ambiziosa*  accennata  dalPHume, 
pecca  per  questa  parte.  Non  e  tanto  la  morte  di  quel  vecchio  vcne- 
rabile  che  fa  orrore,  quanto  la  schifezza  di  veder  un  cranio  spez- 
zato  e  la  colonna  intrisa  di  cervello  e  di  sangue. 

i.  //  mostro  .  .  .  teatro:  il  racconto  della  morte  di  Ippolito,  fatto  da  Tcra- 
mene,  e  nell' Ippolito  di  Euripide,  nella  Phaedra  di  Seneca,  e  nella  Phedre 
di  Racine,  che  il  Cesarotti  probabilmente  ha  soprattutto  presente.  2.  veder 
Edippo  .  .  .  sventura:  nell'Edipo  re  di  Sofocle.  3.  Polinnestore  .  .  .  offer- 
rarla:  neWEcuba  di  Euripide.  4.  Filottete .  .  .piaga:  nel  Filottete  di  So 
focle.  5.  Matrigna  ambiziosa:  e  The  ambitious  Stepmother  dello  scrittore 
inglese  Nicholas  Rowe  (1674-1718),  rappresentata  a  Londra  nel  1700. 


SOPRA   IL   DILETTO    BELLA   TRAGEDIA  5! 

Oltre  questa  circostanza,  lo  stesso  genere  di  morte  fa  orrore  in 
questa  e  in  simili  tragedie.  I  lacci,  i  precipizi  e  Paltre  morti  dispe- 
rate  mostrano  un  animo  perturbato  e  sconvolto  da  un'angoscia 
eccessiva,  e  trasfondono  negli  spettatori  il  medesimo  sentimento. 
II  ferro  e  il  veleno  conservano  maggior  dignita,  sono  indizi  d'uno 
spirito  piu  sedato  e  piu  grande,  e  che  sembra  meno  fuggir  dal  ma 
le,  che  correre  incontro  ad  un  bene:  per6  corroborano  Panimo 
degli  spettatori,  e  gli  awezzano  al  dispregio  della  morte.  Mar- 
ziale  esalta  un  certo  Festo  perch6,  volendosi  privar  di  vita,  abbia 
fatto  uso  del  ferro  piuttosto  che  d'altro  strumento,  come  di  un 
genere  di  morte  piu  eroico  e  da  vero  romano: 

sanctam  romana  vitam  sed  morte  peregit; 
dimisitque  animam  nobiliore  via.1 

Se  le  circostanze  schifose  ributtano,  le  basse  e  vili  pregiudicano 
alPammirazione,  che  deve  esser  inchiusa  necessariamente  in  ogni 
tragica  rappresentazione.  Per6  i  supplicii  de'  condannati  si  rimo- 
vono  a  ragione  dalla  vista  del  pubblico,  perche"  non  possono  ge- 
neralmente  eseguirsi  senza  essere  accompagnati  da  qualche  per 
sona  o  da  qualche  cosa  che  porta  seco  un'idea  di  bassezza. 

Quel  ch'e  ordinario  e  comune,  confma  col  basso.  Noi  siamo  tan- 
to  prevenuti  per  i  personaggi  grandi  ed  interessanti,  che  c'immagi- 
niamo  che  non  possano  morir  come  gli  altri,  e  che  ogni  circostanza 
della  lor  morte  debba  aver  qualche  cosa  di  particolare  e  maraviglio- 
so.  Pure  non  &  sempre  cosi.  Alle  volte  un  eroe  non  cade  altrimenti 
che  un  uomo  del  volgo.  Allora  Taspettazione  delusa  lascia  lo  spet- 
tatore  freddo  e  malcontento.  In  tali  casi  convien  ricorrere  alia 
narrazione,  che  nobiliti  le  circostanze  e  le  vesta  d'una  cert'aria 
di  meraviglia,  che  impone  e  seduce,  e  ci  fa  veder  piu  di  quello  che 
avremmo  veduto  in  effetto. 

Talora  si  asconde  il  fatto  per  accender  maggiormente  la  curiosita 
dello  spettatore.  Giocasta  riconoscendosi  madre  e  moglie  di  Edip- 
po,  parte  inorridita  con  un  atroce  silenzio.2  Se  lo  spettatore  la 
seguisse  cogli  occhi,  la  vedrebbe  perir  d'una  morte;  seguendola 
coirimmaginazione,  ne  vede  mille.  L'esercizio  della  sua  fantasia, 

i.  Cfr.  Epigr.j  I,  LXXVIII,  7-8  («ma  con  morte  romana  concluse  la  sua  santa 
vita;  e  conged6  la  sua  anima  per  una  piti  nobile  via»).  Gli  editor!  modern! 
leggono  «rogo»  invece  che  via.  2.  Giocasta  .  . .  silenzio:  nelYEdipo  re  di 
Sofocle. 


52  MELCHIORRE    CESAROTTI 

le  varie  idee  che  gli  si  affollano,  e  la  fluttuazione  dell'incertezza 
accrescono  la  perturbazione  e  il  diletto. 

Finalmente,  se  la  vista  del  fatto  non  e  necessaria  ne  per  1'interes- 
se  ne  per  lo  scioglimento  dell'azione,  se  lo  spettatore  non  la  desi- 
dera  e  non  Taspetta,  se  una  narrazione  vi  pu6  supplire  ugualmente, 
sara  bene  non  funestare  inutilmente  gli  sguardi. 

Orazio  ndl'Arte  poetica  allontana  dal  teatro  i  fatti  atroci  e  pro- 
digiosi,  come  inverisimili.  « Medea »  dic'egli  «non  deve  uccider  i 
figli  dinanzi  al  popolo)).1  Se  la  scena  si  suppone  in  una  stanza, 
io  non  ci  trovo  inverisimile  alcuno.  Se  poi  Tazione  si  eseguisce, 
o  anche  si  medita,  dinanzi  un  coro  di  donne,  come  nelle  tragedie 
greche,  la  cosa  e  veramente  assurda.  « Progne »  soggiunge  lo  stes- 
so  poeta  «non  si  cangi  in  uccello,  Cadmo  in  serpente.  Se  mi  pre- 
senti  un  fatto  in  tal  guisa,  io  scopro  Tinganno  e  me  ne  disgusto  ».2 
Ma  questi  fatti,  uditi  a  raccontare,  diverrebbero  forse  piu  verisi- 
mili?  Si  fatte  stravaganze  non  possono  dar  soggetto  che  ad  una 
farsa,  o  non  sono  degne  che  se  ne  parli.  Quanto  ai  fatti  veramente 
tragici,  se  Orazio  col  suo  precetto  risguarda  rinverisimiglianza 
esterna,  che  nasce  dalla  difficolta  di  ben  rappresentarli,  questa  6 
una  cosa  che  appartiene  agli  attori  ed  ai  macchinisti  (i  quali  allc 
volte  eseguiscono  a  meraviglia  si  fatte  cose);  per6  non  mcritava 
che  se  ne  stabilisse  una  regola  per  il  poeta. 

Conchiudiamo  dunque  che  se  la  vista  del  fatto  terribile  o  com- 
passionevole  non  contiene  nulla  di  sozzo  o  di  vile,  s'ella  <b  necessa 
ria  al  compimento  delPazione,  se  accresce  Tinteresse,  se  giova  a 
render  piu  importante  la  massima  della  tragedia,  s'6  desiderata  dal- 
lo  spettatore,  se  una  narrazione  messa  in  suo  luogo  riusdrebbe 
fredda,  poco  naturale  e  noiosa,  i  tragici  fanno  egregiamente  a  con- 
sultar  in  questo  punto,  come  negli  altri,  piu  la  ragione  e  1'esperienza 
che  Tautorita. 

Tutto  &  narrazione  appresso  i  Greci,  tutto  azione  appresso  gl'In- 
glesi;  non  fe  proprio  che  degli  spiriti  d'un  gusto  delicatissimo  e  di 
un  giudizio  assai  fino,  di'sfuggir  ugualmente  il  difetto  degli  uni  e 
degli  altri,  e  distinguer  con  precisione  quali  fatti  debbano  na- 
scondersi  intieramente,  quali  intieramente  mostrarsi,  e  quaii  in 
parte  esporli  alia  vista,  in  parte  rimetterli  airimmaginazione. 

i.  Cfr.  Arspoet.,  185 :  «Ne  pueros  coram  populo  Medea  trucidet »,  2.  Cfr. 
Ars  poet.,  187-8:  «[ne]  in  avem  Procne  vertatur,  Cadmus  in  anguem.  / 
Quodcumque  ostendis  mihi  sic,  incredulus  odi». 


SOPRA   IL    DILETTO    DELLA   TRAGEDIA  53 

Del  resto  tutta  la  presente  questione  sara  giudicata  da  ciasche- 
duno  secondo  il  suo  proprio  sentimento.  Le  persone  deboli  e  di 
spirito  femminile  svengono  ad  una  emisslone  di  sangue,  non  che 
ad  una  morte  violenta;  i  caratteri  atroci,  o  per  temperamento  o 
per  abitudine,  e  i  cuori  poco  sensibili  restano  indifferent!  nelle  piu 
gravi  e  reali  calamita.  II  popolo  piu  vile,  incapace  di  principii  e  di 
comparazioni,  troppo  rozzo  per  lasciarsi  sedurre  dall'illusion  d'un'a- 
zione  ben  imitata,  non  vede  vedendo,  si  sbalordisce  in  luogo  d'am- 
mirare,  ride,  piange,  si  distrae,  s'interessa  nel  tempo  stesso  ugual- 
mente  senza  soggetto.  Ma  oltre  gli  spiriti  illuminati,  che  intendo- 
no  il  vero  fine  della  tragedia,  ed  hanno  conoscenza  e  sentimento 
dell'ottimo,  i  quali  non  dubito  che  non  siano  per  appro vare  la 
mia  opinione,  v'e  un'altra  specie  di  popolo,  composto  di  persone 
mezzane,  n6  dotte  n6  ignoranti,  fornite  d'un  gusto  naturale,  e  di 
un  buon  senso  non  prevenuto  da'  precetti  ne  schiavo  della  con- 
suetudine:  questo  e  quel  popolo  che  Tabate  Dubos  fa  giudice 
delle  cose  poetiche;1  a  questo  pure  io  m'appello,  e  credo  che  que 
sto,  unito  alle  altre  persone  dotte  e  sensate,  faccia  un  numero 
abbastanza  grande  per  poter  fissar  della  mia  opinione  una  regola 
tanto  generate,  quanto  pu6  stabilirsi  nelle  materie  di  gusto. 


i .  questo  ,  ,  .  poetiche :  questo  concetto  e  svolto  dal  Dubos  soprattutto  nelle 
ultime  sezioni  della  II  parte  delle  sue  Reflexions  citate. 


RAGIONAMENTO 

SOPRA  L'ORIGINE  E  I  PROGRESSI 
DELL'ARTE  POETICA 

Tutte  le  arti,  le  quali  al  bisogno  o  al  piacere  degli  uomini  si  ri- 
feriscono,  germogliano  dalla  radice  d'una  potenza  o  facolta  natu- 
rale  atta  a  produrle  e  perfezionarle.  Ma  come  appunto  nel  feto  le 
membra  non  ben  ancora  formate,  cosi  negli  uomini  del  mondo 
appena  nascente  le  facolta  delPanimo  stannosi,  per  cosi  dire, 
rannicchiate  e  ristrette;  ne  si  fanno  conoscere  o  sentire  alPanima 
stessa  che  le  contiene.  Tra  esse  per6  quelle  che  per  sostegno  della 
vita  date  ci  furono,  piu  presto  e  piu  agevolmente  sviluppansi, 
perche  la  natura,  la  quale  veglia  attentamente  alia  conservazione 
delle  sue  produzioni,  agita  e  mette  in  movimento  tutte  le  macchine 

Come  appare  da  una  lettera  del  15  dicembre  1760  (riprodotta  anche  in 
questo  volume)  a  Giuseppe  Toaldo,  il  Cesarotti  fin  da  quel  tempo  medi- 
tava,  probabilmente  per  incitamento  del  Toaldo  stesso,  un  saggio  sull'arte 
poetica.  Questi  propositi  trovarono  una  prima  realizzazione  nel  presentc 
Ragionamento,  che  venne  pubblicato  nel  1762  di  seguito  al  Ragionamento 
sopra  il  diletto  della  tragedia  nel  volume  citato  (cfr.  p.  27)  //  Cesar  e 
e  tl  Maometto  ecc.,  alle  pp.  225-65.  Nell'edizione  definitiva  delle  sue 
Opere  il  Cesarotti  non  credette  opportune  ristamparlo:  e  le  ragioni  della 
mancata  pubblicazione  vennero  cosi  spiegate  in  una  Nota  degli  editon, 
inserita  nel  volume  xxix  delle  Opere  stesse,  pp.  164-5,  e  ccrtamente  re- 
datta  o  ispirata  dall'autore :  «  Fece  esso  quando  comparve  molta  sensazione 
in  Italia  e  fuori,  a  segno  che  giunto  a  caso  in  Olanda  fu  da  un  dotto  di 
cola  tradotto  nella  sua  lingua  nazionale,  e  insento  per  intcro  nel  "Giornale 
letterario"  dell'Haja.  Pure  volendo  noi  ora  darlo  nuovamente  alia  luce, 
non  potemmo  dall'autore  impetrar  Tassenso  di  porlo  nella  collezione 
dell'altre  sue  Opere  da  lui  sanzionate,  risguardandolo  egli  come  un  frutto 
alquanto  immaturo  del  suo  talento  giovenile.  Noi  non  diremo  se  i  nostri 
lettori  dovessero  bramar  meglio  ch'ei  fosse  severe  o  indulgente,  diremo 
solo  che  chi  legge  quello  scritto  trovcra  sin  d'allora  nell'autore  quel  fondo 
di  filosofia  e  quella  libert£  generosa  di  pensamento  e  di  stile  che  distinse 
in  ogni  tempo  tutte  le  di  lui  opere  di  letteratura  e  di  critica.  Di  fatto  le 
idee  dominant!  di  questo  Ragionamento  sono  sparse  occasionalmentc  in 
vari  dei  di  lui  scritti,  e  segnatamente  nel  Saggio  sulla  filosofia  del  gusto ». 
Ma  e  pure  probabile  che  il  Cesarotti,  quando  faceva  stampare  questa 
Nota,  pensasse  ancora  di  poter  terminare  quel  Saggio  sul  Bello  (rimasto  poi 
incompiuto),  in  cui  le  sue  idee  estetiche  avrebbero  dovuto  trovare  la 
loro  espressione  sistematica  e  definitiva.  Dopo  la  morte  del  Cesarotti, 
tuttavia,  il  Barbieri  prowide  ugualmente  a  far  ristampare  il  Ragionamento 
nel  volume  XL  delle  Opere,  alle  pp.  1-56.  II  testo  qui  riprodotto  segue 
naturalmente  quello  dell'edizione  1762,  che  e  Tunica  appro vata  dall'au- 
tore.  Le  note  del  Cesarotti  sono  seguite  dalla  sigla  C. 


L'ORIGINE   E   I    PROGRESSI   DELL'ARTE   POETICA  55 

dell'anima,  onde  corra  per  mezzo  dell'arti  a  rintracciar  i  soccorsi 
che  le  abbisognano,  o  a  distornare  i  mali  che  la  minacciano.  Non 
e  cosi  di  quelle  facolta  che  tendono  solamente  a  procacciarle  diletto. 
Lo  sviluppo  di  queste,  come  meno  necessarie,  fu  abbandonato 
al  tempo  e  alle  circostanze :  per  lo  che  non  sogliono  esse  spiegarsi, 
se  qualche  felice  occasione  o  qualche  osservazione  accidentale,  co 
me  acciaio  da  selce,  non  ne  fa  uscire  i  semi  fecondi  della  fiamma 
nascosta.  Cosi  le  arti,  che  belle  per  eccellenza  si  chiamano,  benche 
siano  altrettanti  rami  dell'universal  facolta  imitatrice,  non  deono 
contuttoci6  la  loro  origine  aH'interno  anteriore  conoscimento 
d'essa  facolta,  ma  solo  all'  istinto,  al  caso  ed  alle  osservazioni  par- 
ticolari.1 

Nella  dispersione  delle  genti  succeduta  al  diluvio,  quando  gli 
uomini  abbandonati  a  se  stessi,  in  preda  ai  bisogni,  lottando  colla 
fame,  col  freddo,  coi  disagi,  in  perpetua  guerra  colle  fiere,  non  si 
distinguevano  da  esse  che  per  la  possibilita  di  diventar  uomini, 
ben  altro  doveano  aver  nella  mente  che  di  riflettere,  per  cagion 
d'esempio,  alia  flessibilita  e  perfettibilita  della  voce  e  airarmonia 
che  potea  risultarne.  I  loro  organi  informi  ed  irrigiditi  li  rendeano 
ben  piu  atti  ad  imitare  gli  ululati  dei  lupi  e  i  ruggiti  dei  leoni, 
che  il  canto  degli  usignoli.  Acchetate  le  grida  della  natura  coll'in- 
venzione  delle  arti  piu  necessarie,  stabilita  qualche  societa,  for- 
mato  un  corpo  di  lingua,  volti  gli  uomini  a  procacciarsi  diletto, 
avranno  fatta  maggior  attenzione  al  sibilo  de'  zefiri,  al  gorgoglio 
de'  ruscelli,  onde  si  saranno  formata  la  prima  idea  d'un  suono 
aggradevole ;  il  canto  degli  uccelli  gli  avra  rapiti,  ed  alcuni  suoni 
usciti  a  caso  in  qualche  trasporto  di  gioia,  facendo  una  sensazione 
piacevole  e  svegliando  il  riflesso,  gli  avranno  awertiti  che  la  voce 
umana  conteneva  in  s6  una  soavita  non  preveduta.  Sara  questa 
la  prima  origine  della  musica.  Ma  quanta  distanza  v'e  ancora  tra 
un  accozzamento  di  suoni  per  cosi  dire  inanimati  e  queirarmonia 
imitatrice,  la  quale  coll'espression  degli  affetti  si  fa  sovrana  dei 
cuori?  Certo  a  parer  mio  non  minore  di  quella  ch'6  tra  la  voce 


i.  Cosi .  .  .  particolari:  il  concetto  delPorigine  della  poesia  dairistinto  e  dal 
caso  risale  al  trattato  Sur  la  pohie  en  general  del  Fontenelle  (pubblicato  nel 
1751,  ma  scritto,  a  quanto  pare,  prima  del  1700)  e  al  Vico;  la  fonte^del 
Cesarotti,  per6,  e  soprattutto  il  cap.  Sur  V origine  de  la  poesie  ddl'Essai  sur 
I' origine  des  connaissances  humaines  del  Condillac  (cfr.  Oeuvres  philosophiques , 
Paris  1947,  I,  PP-  79-82). 


56  MELCHIORRE    CESAROTTI 

selvaggia  ed  aspra,  e  la  distinta  ed  armonizzata:  n6  per  conse- 
guenza  tra  i  suoni  e  la  musica  dovea  passare  minor  spazio  di  tempo 
di  quello  ch'era  passato  tra  la  voce  e  i  suoni.  Quasi  nel  tempo 
stesso  si  saranno  fissati  gli  uomini  ad  osservar  1'ombre  formate 
dall'opposizione  che  fanno  al  sole  i  corpi  solidi;  quindi  un  amico, 
o  piuttosto  un  amante  desideroso  di  custodir  Timmagine  delPog- 
getto  amato  (come  appunto  dicesi  aver  fatto  Dibutadi),1  si  sara  in- 
gegnato  di  delineare  i  contorni  con  qualche  rozzo  strumento,  il 
quale,  dando  luogo  successivamente  ad  altri  piu  perfetti,  avra  fi- 
nalmente  prodotta  Tarte  maravigliosa  di  raddoppiar  la  natura. 

La  poesia  e  Farte  fra  tutte  1'imitatrici  la  piu  complessa;  e  quan- 
tunque,  ad  esaminar  profondamente  Timitazione  che  ne  costituisce 
Pessenza  e  la  natura  dello  strumento  di  cui  si  serve,  si  scorga  ch'el- 
la  non  potea  giungere  alia  sua  perfezione  senza  quelle  parti  ond'e 
presentemente  composta,  pur  convien  confessare  che  Ic  suddette 
parti  possono  stare  cadauna  da  se  indipendentemente  dalPaltrc, 
e  non  hanno  tra  loro  un  vincolo  necessario  ed  indissoluble  che 
le  unisca  in  un  tutto.  Perci6  e  manifesto  che  doveano  prima  nasce- 
re  separatamente  le  membra,  e  che  poscia  il  caso  dovea  accoz- 
zarle  insieme  a  formarne  un  corpo.  II  medesimo  sentimento  di  gioia 
il  quale,  come  abbiam  detto,  espresse  dalla  bocca  degli  uomini  i 
suoni,  avra  pure  espresse  alcune  parole  che  disposte  accidental- 
mente  in  un  certo  ordine  doveano  piacevolmente  colpirli:  la  vocc 
ripercossa  nelle  spelonche  avra  svegliata  Pidea  delle  consonanzc: 
dalPuna  e  Paltra  di  queste  cose  si  saranno  avveduti  che  le  parole 
erano  suscettibili  d'un'armonia  diversa  da  quella  de'  suoni,  e  piu 
di  essa  pregevole,  poich6  quella  non  parla  che  agli  orecchi,  lad- 
dove  questa  parla  di  piu  allo  spirito  e  al  cuore.  DalPaltra  parte  la 
malignita  delPamor  proprio  ci  stimola  ad  inalzar  noi  stessi  anche 
nelle  picciole  cose  colla  depressione  altrui :  quindi  si  spiano  at- 
tentamente  le  parti  difettose  degli  altri,  si  rilevano,  si  mettono  in 
vista,  e  per  renderle  maggiormente  osservabili  si  contrafanno  e  si 
caricano  coi  gesti  e  colle  parole  i  loro  moti,  detti  e  sentimenti. 
A  questo  principle  per  vero  dire  poco  onorifico  (giacche*  si  tratta 
d'uno  sviluppo  accidentale)  noi  dobbiamo  le  prime  traccc  scnsibili 


i .  Dibutadi :  propriamente  Biitade  di  Corinto,  che  sarebbc  vissuto  nel 
VII  secolo  a.  C.,  e  che,  secondo  la  Icggenda,  avrebbe  per  primo  foggiato 
un  ritratto  fittile  m  nlievo,  ntraendo  Tmnamorato  dclla  propria  figlia. 


L'ORIGINE   E   I    PROGRESSI   DELL'ARTE   POETICA  57 

delFimitazione.  Un  altro  principle  pero  piu  naturale  ed  universale 
del  prime,  benche  la  faccia  meno  sentire,  la  produce  ugualmente 
ma  con  estensione  maggiore.  Quest' e  la  compiacenza  che  hanno 
tutti  gli  uomini  di  raccontar  agli  altri  quelle  cose  che,  vedute  o 
sentite,  hanno  fatta  in  essi  qualche  impressione.  Sembra  che  Fuo- 
mo  non  sappia  o  non  osi  ne  pensare  ne  sentire  da  se  solo ;  egli  cerca 
Faiuto  degli  altri,  e  crede  di  moltiplicar  se  stesso  trasfondendo 
in  altrui  i  suoi  propri  sentimenti.  Secondo  la  natura  della  cosa  che 
piu  o  meno  interessa,  e  secondo  le  qualita  della  fantasia  piu  o  meno 
lucida  e  vivida,  ne  risulta  o  la  narrazione^  ch'e  il  discorso  che  fa 
intendere,  o  Vimitazione,  ch'e  il  discorso  che  fa  sentire.  Tanto 
Timitazione  che  nasce  dal  contraffacimento  de'  modi  altrui,  quanto 
quella  che  si  fa  colla  semplice  rappresentazione  d'un  oggetto  o 
d'un  avvenimento,  reca  diletto:  poiche  nell'una  gli  uomini  godono 
di  vedersi  esenti  dai  difetti  derisi  negli  altri,  e  li  sacrificano  volen- 
tieri  al  ridicolo,  sembrando  loro  cosi  di  partecipare  alia  superiorita 
del  derisore:  nel  secondo  imparano  senza  fatica,  si  commovono 
senza  danno  e  restano  internamente  sorpresi  di  veder  senza  gli 
occhi  e  di  sentire  senza  esser  colpiti.  Questo  eifetto  succede  quan- 
do  Fuomo  che  parla  e  dotato  di  fantasia  ben  disposta  e  tersa  come 
uno  specchio,  che  rende  gli  oggetti  co'  suoi  naturali  lineamenti. 
Ma  se  la  fantasia,  benche  vivida,  sia  sconnessa  e  mal  assettata, 
o  se  le  passioni,  per  cosi  dire,  col  loro  fuoco  fummoso  Finfiammano 
ed  offuscano,  Fimitazione  di  chi  parla  e  molto  diversa.  Simile 
appunto  ad  un  vetro  colorato  o  ad  uno  specchio  mal  costrutto, 
la  fantasia  spoglia  gli  oggetti  de'  loro  colori  naturali  e  li  tinge  de' 
suoi;  gli  altera,  gl'ingrandisce,  gFimpicciolisce,  gli  difforma  e  tra- 
sforma  in  mille  diverse  guise,  ed  alle  volte,  come  in  uno  specchio 
cilindrico  accade,  degFinformi  e  sconnessi  abbozzi  di  oggetti  e 
d'idee  si  crea  una  figura  quando  regolare  e  quando  mostruosa. 
Se  poi  la  religione  o  Fignoranza  o  la  tradizion  popolare  favorisce 
queste  produzioni,  esse  prendono  una  tal  forza  che  la  fantasia  vi 
presta  un'intera  fede  e  vi  si  abbandona.  L'espressioni  d'un  tal 
uomo  sentono  la  forza  del  suo  concepimento ;  quindi  entrano  con 
piu  veemenza  nelF  altrui  spirito  e  vi  si  stampano  profondamente ; 
Felettricismo  della  fantasia  si  comunica  dalFuno  alF altro,  ed  il 
maraviglioso  credibile  cagiona  negli  ascoltanti  maggior  movimento 
e  diletto.  Ecco  naturalmente  prodotte  tutte  le  membra  della  poe- 
sia:  versificazione,  imitazione  icastica^  o  sia  rappresentativa,  ed 


58  MELCHIORRE    CESAROTTI 

imitazione  fantastica,  o  sia  creativa*  che  porta  seco  necessariamente 
il  linguaggio  entusiastico,  il  mirabile  e  la  finzione.  Ma  da  quel 
ch'abbiam  detto  ben  si  scorge  che  queste  membra  possono  star 
separate,  e  recar  separatamente  quel  diletto  che  basti  per  non  pen- 
sare  al  loro  congiungimento.  Veggiamo  tuttora  che  gli  agricoltori 
e  le  persone  del  volgo  mettono  in  rozzi  versi  i  loro  semplici  sen- 
timenti  senza  verun  colore  poetico,  e  se  ne  appagano.  E  comune- 
mente  parlando  in  prosa  altri  particolareggiano  o  una  storia  o  una 
novella,  altri  inventano  una  favola,  altri  usano  linguaggio  immagina- 
to  e  fantastico,  tutti  con  piacere  degli  ascoltanti. 

Cosi  ciascuna  di  queste  parti  avra  per  lungo  tempo  dilettati  colla 
bellezza  sua  propria  quegli  uomini  rozzi;  sino  a  tanto  che  alcuno 
dotato  ad  un  tempo  di  questi  diversi  talenti,  naturalmente,  e  sen 
za  pensare  che  una  tal  facolta  ne  abbisognasse,  avra  fatta  sentirc 
Pattivitk  e  1'aiuto  reciproco  delle  loro  forze  congiunte.  II  diletto 
dovea  crescere  in  proporzione;  la  comparazion  del  migliore  avrk 
reso  disgustoso  quel  ch'era  da  prima  piacevole ;  e  ben  tosto  si  co- 
minci6  a  non  riconoscer.  per  poeta  se  non  chi  sapea  colpir  Tammo 
con  questi  vari  piaceri  uniti  in  un  solo.  Abbiamo  finalmente  tutto 
il  corpo  della  poesia.  Ma  come  perfezionarne  cadauna  parte  ?  co 
me  dar  loro  un  moto  regolare  ?  come  servirsene  ?  con  qual  ordine  ? 
con  qual  proporzione  ?  con  qual  scelta  d'oggetti  ?  Questo  e  quello 
che  la  facolta  poetica  non  pu6  mai  giunger  ad  indovinare,  senza 
Taiuto  della  filosofia.  Un'arte  che  imita  Fuomo  e  le  cose  non  pu6 
perfezionarsi  se  non  colla  perfetta  conoscenza  della  natura  del- 
Tuomo  e  delle  cose,  e  della  relazione  tra  Puomo  e  le  cose.  Questa 
mancando  necessariamente  nei  primi  secoli,  I'ingrandimento  di 
quest' arte  dovea  per  conseguenza  restar  abbandonato  al  caso  e 
alPistinto  medesimo  che  la  produsse.  Simili  a  queiramericano, 
quei  rozzi  poeti  doveano  servirsi  di  questa  grand'arme  da  fuoco 
come  d'un  legno,  e  scagliarlo  senz'arte  cosi  alia  cieca.  Niun  vincolo 
tra  Tidee,  niuna  delicatezza  nei  sentimenti,  niuna  scelta  nelle  pa 
role,  niun  disegno  nei  tutto,  niuna  proporzione  nelle  parti.  La 
loro  fantasia  era  come  un  caos  da  cui  scappava  di  tratto  in  tratto 
qualche  scintilla  di  luce,  che,  a  chi  avesse  saputo  accorgersene, 
serviva  a  rilevarne  meglio  la  difformita.  Dirozzati  a  poco  a  poco 

i.  Questa  distinzione  fra  imitasione  icastica  e  imitazione  fantastica  e  proba- 
bilmente  attinta  da  Antonio  Conti  (cfr.  la  Prefazione  al  volume  I  delle 
Prose  e  poesie,  Venezia  1739,  p.  21). 


L'ORIGINE   E    I    PROGRESSI   DELL'ARTE   POETICA  59 

gli  spirit!,  cominci6  a  polirsi  anche  Parte,  la  lingua  acquist6  qualche 
regolarita,  forza  ed  armonia;  s'inventarono  vari  modi  d'imitare;  si 
moltiplicarono  le  osservazioni.  In  queste  felici  disposizioni  compar- 
vero  alcuni  spirit!  particolari,  i  quali  congiungendo  a  tutto  il  ge- 
nio  poetico  qualche  cognizione  deiruomo  in  generale,  la  scienza 
dei  caratteri,  usi,  costumi  de'  suoi  nazionali,  e  la  notizia  d'altre 
arti,  produssero  una  nuova  specie  di  poesia,  appresso  la  quale 
quella  che  dianzi  piaceva,  non  era  che  un  balbettar  di  fanciulli  o  un 
farneticar  d'ammalati.  Tali  autori  diventarono  i  numi  della  poe 
sia,  ognuno  rivolse  gli  occhi  a  questa  nuova  luce,  ognuno  Iasci6 
ammaliarsi  da  si  piacevole  incanto :  ecco  le  selve  e  le  fiere  amman- 
sate  ed  animate  da  Orfeo.  II  loro  esempio  servi  di  scorta;  le  loro 
produzioni  furono  la  pietra  del  cimento  degringegni  poetic!;  la 
gloria  maggiore  fu  quella  di  rassomigliarli ;  i  principii  del  gusto  si 
svilupparono  e  s'affinarono;  imitator!,  osservatori,  interpret!  ven- 
nero  in  folia :  finalmente  qualche  ragionatore  piu  destro  degli  altri, 
esaminando  minutamente  le  loro  opere  e  TefTetto  che  produceano, 
si  diede  a  rintracciarne  le  cagioni,  le  ridusse  a  principii,  stabill 
regole  e  leggi  fondate  sull'osservazione,  e  formo,  per  cosi  dire,  un 
codice  poetico,  che  servisse  di  norma  a  chiunque  aspirava  al  ti- 
tolo  di  poeta. 

Tali  sono  i  principii  essenziali,  tale  lo  sviluppo,  il  progresso, 
Fingrandimento  si  della  facolta  che  delFarte  poetica,  appresso  tutte 
le  nazioni  che  la  coltivano;  e  per  tal  via  e  da  credersi  che  se  ne 
svilupperanno,  quando  che  sia,  i  germi  nascosti  appresso  le  nazio 
ni  non  ben  ancora  civilizzate.  Ma  da  questo  sviluppo  naturale,  e 
quasi  necessario,  si  la  pratica  che  la  teorica  della  poesia  contrae 
molti  pregiudizi,  da!  quali  per  depurarle  non  ci  vuol  meno  che  il 
corso  di  molti  secoli  e  la  riunione  di  molti  ingegni.  E  primieramente 
egli  6  certo  che  un  poeta  (e  posseda  pur  egli  al  piu  alto  segno  la 
facoltk  imitatrice)  non  potra  mai  delibare  che  una  menomissima 
parte  della  natura.  Gli  oggetti  sono  infiniti:  le  loro  parti,  le  loro 
configurazioni,  le  minute  differenze  che  1!  distinguono  tra  loro, 
le  quali  non  debbono  sfuggire  alPocchio  d'un  buon  imitatore,  sono 
innumerabili.1  Tutti  quest!  oggetti  hanno  poi  tra  se  stessi  infiniti 

i.  Gli  oggetti  .  .  .  innumerabili:  il  concetto  dell'mfinita  degli  oggetti  imi- 
tabili  e  comune  nella  speculazione  estetica  settecentesca:  cfr.  J.  B.  Dubos, 
Reflexions  critiques  sur  la  poesie  et  la  peinture,  parte  I,  sezione  xxvil  (i  edi- 
zione  1719) ;  A.  Conti,  Prose  e  poesie,  ed.  cit.,  n,  p.  124;  e  Ch.  Batteux,  Les 


60  MELCHIORRE   CESAROTTI 

rapporti.  Ogni  cosa  e  simile  o  dissimile  ad  un'altra;  una  invisibil 
catena  lega  insieme  tutti  i  generi  degli  enti  e  tutti  gli  enti  di  cia- 
scun  genere,  e  li  subordina  1'uno  airaltro.  Ma  nissun  calcolo  pu6 
giungere  a  rilevare  tutti  i  rapporti  e  le  relazioni  che  questi  oggetti 
hanno  con  Tuomo.  Essi  formano  un  nuovo  mondo  intellettuale  e 
sensibile,  piu  vasto  e  piu  vario  deiruniverso  visibile.  Che  infinita 
varieta  di  pensieri,  di  ragionamenti,  di  giudizi  sopra  la  stessa  cosa! 
Chi  pu6  sperar  di  comprendere  col  suo  spirito  tutte  le  modifica- 
zioni  possibili  dei  sentiment!  e  delle  passioni  ?  il  loro  meccanismo 
cosl  contradditorio  e  cosi  regolare,  le  loro  graduazioni,  i  loro  equi- 
libri,  i  loro  travestimenti  impercettibili  e  le  trasformazioni  dal- 
Funa  nelPaltra,  fatti  alle  volte  o  cosi  insensibilmente  che  sfuggono 
airanimo  istesso,  o  per  vie  cosi  tortuose  ed  intralciate  ch'egli  vi  si 
smarrisce  e  ne  perde  la  vera  traccia?  Ora  se  nessun  occhio  vede 
precisamente  lo  stesso  oggetto  che  un  altro,  egli  e  ancora  piu  certo 
che  non  possono  trovarsi  due  uomini  i  quali  abbiano  individual- 
mente  il  medesimo  sentimento,  non  che  la  stessa  passione.  Da 
ci6  risulta  che  la  natura  pu6  essere  risguardata  sotto  infmiti  punti 
di  vista,  ed  ugualmente  bene  sotto  questi  tutti  rappresentata ;  ma 
che  contuttoci6  ognuno  che  voglia  imitarla,  per  1'impulso  e  '1 
moto  delle  forze  esterne  ed  interne  che  agiscono  in  lui,  e  costrctto 
a  non  risguardarla,  ne  per  conseguenza  a  dipingerla  che  sotto  un 
tal  punto  determinato,  cioe  sotto  quello  in  cui  ella  gli  si  prcsenta, 
e  con  quei  colori  che  gli  si  presenta.  Ora  volendo  regolar  Fimitazion 
generale  suirimitazion  particolare  d'un  autore,  seguira  facilmente 
che  non  si  creda  di  poter  rappresentar  con  successo  ed  applauso 
se  non  quella  picciola  parte  che  fu  da  quelPautore  rappresentata, 
e  che  non  possa  imitarsi  se  non  in  quel  tal  modo.  Niente  pu6  es- 
servi  di  piu  pregiudicievole  alia  poesia  quanto  una  tal  opinione. 
Non  v'e  piu  varieta  ne  novita  nei  soggetti  o  nello  stile ;  ii  gusto  par 
ticolare  di  queir autore  diventa  il  gusto  nazionale;  un'insipida  uni- 
formita  regnera  nelPopere  di  tutti  gli  scrittori.  Gringegni  fecondi 
s'insteriliscono ;  sforzati  dalla  prevenzionc  a  veder  colFaltrui  fan 
tasia,  a  sentire  coll'altrui  cuore,  a  rinunziare  a  se  stessi  per  con- 
traffar  gli  altri,  non  avranno  quell'aria  di  verita,  quell'energia  di 
sentimento  che  acquista  fede  e  favore  sino  alle  stravaganze;  le  loro 

beaux  arts  reduits  a  un  m§me  principe,  Paris  1747,  p.  108.  Ma  si  noti  la  rie- 
laborazione  in  senso  fortemente  soggettivistico  che  di  questo  concetto  fa 
il  Cesarotti  nelle  pagme  che  seguono. 


L'ORIGINE   E   I    PROGRESSI   DELL'ARTE   POETICA  6l 

opere  non  saranno  tinte  di  quei  forti  colori,  di  quel  marchio  di 
cui  s'impronta  una  fantasia  gagliarda  che  si  fa  suggello  della 
natura,  non  saranno  infiammate  di  quel  fuoco  vitale  che  non  si 
attinge,  come  Prometeo,  se  non  dal  sole,1  non  si  sentira  scorrer 
per  esse  quello  spirito  animatore  che  porta  la  fecondita  sin  nelle 
menti  di  chi  legge:  s'ammireranno  i  primi  imitatori,  come  quelli 
che  andarono  alia  prima  fonte;  ma  gli  autori  susseguenti  come 
imitatori  d'imitatori,  snervati,  scoloriti,  contraffatti,  porteranno  lo 
sforzo,  la  languidezza  e  il  gelo  neiranima  di  chi  e  capace  di  fissar 
gli  occhi  nelle  vive  bellezze  del  vasto  originale  della  natura.  Que- 
sta  imitazione,  per6,  quantunque  dalla  vera  e  primitiva  molto  di- 
stante,  non  lascera  contuttocib  d'allettare  ed  appagare  gli  spiriti 
incapaci  di  preveder  le  varie  modificazioni  del  bello  universale. 
Tutto  quello  che  somiglia  ad  un  oggetto  che  piace,  ha  dritto  an- 
ch'esso  di  piacere.  Un  amante  vagheggia  con  diletto  anche  Tom- 
bra  dell'amata.  L'animo  vola  rapidamente  dalPoggetto  somigliante 
all'oggetto  rassomigliato ;  la  sua  bellezza  che  si  mostra  improwisa- 
mente  allo  spirito  si  trasfonde  nell'imitazione  e  supplisce  aj  suoi 
difetti,  e  per  una  grata  illusione  noi  crediamo  di  gustar  la  copia 
quando  realmente  non  ammiriamo  che  il  suo  modello. 

Questo  inconveniente  accadera  nella  poesia,  quand'anche  il  poe- 
ta  che  divien  dominante  fosse  perfetto.  Ma  quando  e  dove  s'e 
mai  trovato  o  troverassene  un  tale  ?  Se  la  perfezione  non  e  propria 
d'alcuna  cosa  umana,  perche"  lo  sara  d'uno  scrittore?  Egli  e  dimo- 
strabile  che  vi  sono  dei  talenti  i  quali  si  escludono  quasi  necessa- 
riamente  1'un  Paltro.  La  gran  fantasia  non  fa  lega  col  gran  giudizio; 
lo  spirito  pregiudica  al  sentimento ;  la  grandezza  non  soffre  i  vin- 
coli  della  regolarita;  chi  dipinge  vivamente  i  dettagli,  manca  nel 
tutto ;  chi  ha  vastita  ed  ordine  nel  disegno,  non  ha  vivezza  di  co- 
lorito.  Di  piu,  qual  e  il  poeta  che  trovi  sempre  in  se  stesso  il  dio 
che  lo  agita,  ne  mai  senta  Tuomo  ?  che  ogni  giornata  gli  sia  madre, 
nessuna  madrigna?  che  mai  non  s'addormenti,  mai  non  si  dimenti- 
chi,  che  non  s'abbandoni  a  se  stesso,  che  non  pecchi  almeno  nel- 
Teccesso  della  sua  virtu  dominante  ?  che  come  un  perfetto  capitano 


i.  quel  fuoco  .  .  .  sole:  Pimmagine  di  Prometeo  era  stata  gia  impiegata  a  in- 
dicare  Tattivita  del  poeta  creatore  dallo  Shaftesbury,  in  Characteristics, 
London  I7233  (i  edizione  171 1),  i,  p.  207.  II  Cesarotti  potrebbe  avere  avuto 
notizia  dello  Shaftesbury  attraverso  le  carte  (possedute  dal  Toaldo)  del 
Conti,  il  quale  certamente  conobbe  le  opere  del  filosofo  inglese. 


62  MELCHIORRE    CESAROTTI 

(chimerico  al  par  del  poeta)  tenga  sempre  in  un  proporzionato  equi- 
librio  il  sangue  freddo  che  regola  e  il  calore  che  agisce?  Se  questi 
difetti  debbon  trovarsi  necessariamente  nei  poeti  d'ogni  secolo, 
quanto  piu  in  quelli  de'  primi  tempi  ?  Ma  che  ne  avverra,  svilup- 
pandosi  nel  modo  sopraccennato  1'arte  poetica?  Tali  difetti  per 
lungo  tempo  non  si  distingueranno.  La  troppa  luce  non  lascia 
scorger  le  macchie  del  sole.  Rinforzata  un  poco  la  vista,  forse  s'an- 
dranno  travedendo,  ma  non  vi  si  far&  riflesso :  Panimo  tutto  volto 
alia  parte  dilettevole  d'un  oggetto,  appena  suppone  Pesistenza  del- 
Paltre.  Ma  vi  si  rifletta,  che  perci6  ?  Non  se  ne  restera  molto  col- 
pito ;  Pocchio  vi  sara  awezzo ;  quej  difetti  che  non  offendeano  prima 
per  ignoranza,  non  offenderanno  dopo  per  Pabitudine.  Questo  & 
poco;  si  giungera  perfino  a  trasformarli  in  bellezze.  L'awenenza  o 
la  deformita  eminente  d'un  oggetto  asperge  1'altre  parti  della  sua 
qualita  dominante  e  fa  quasi  perder  loro  la  sua  natura.  Se  poi  vi  si 
mescola  la  passione,  1'illusione  e  naturalissima.  I  difetti  delle  in- 
namorate  diventano  vezzi,  perche  sono  parti  d'un  tutto  che  piace 
e  si  ama.  Per  questa  strada  si  divinizzano  a  poco  a  poco  anche  i 
vizi  degli  scrittori,  come  si  divinizzavano  gli  antichi  eroi  coi  loro  vi 
zi  medesimi.  I  difetti  troveranno  piu  facilmente  imitatori  che  le 
virtu,  e  si  abitueranno.  Se  poscia  in  capo  a  qualche  tempo  una 
persona  di  gusto  piu  delicato  e  d'uno  spirito  men  prevenuto  si 
avvisa  di  fame  conoscere  la  sconvenienza  colla  sua  importuna  ra- 
gione,  e  troppo  tardi.  II  pregiudizio,  il  nome  combatte  contro  di 
lui :  il  genio  della  poesia  come  poteva  ingannarsi  ?  quanto  piu  stra- 
vagante  sembra  Perrore,  tanto  meno  sembra  credibile,  e  si  gareg- 
gia  colPautor  suo  nella  stravaganza  delle  difese,  s'inventano  allu- 
sioni,  sensi  nascosti;  in  ogni  caso  un'allegoria  e  sempre  pronta  al 
soccorso;  finalmente  si  declama  contro  il  censore,  come  contro 
un  empio  e  reo  d'aver  violata  la  Poetica  Divinita. 

Ma  molto  maggiore  e  il  pregiudizio  che  la  poesia  risentc  dal 
genio  particolare  della  nazione  che  la  coltiva.1  Ogni  popolo  ha 
religione,  leggi,  costumi,  opinioni,  usanze  e  capricci.2  Chi  ricer- 

i.  genio  .  .  .  coltiva\  la  distinzione  fra  genio  (o  gusto)  particolare  o  nazio- 
nale  e  genio  (o  gusto)  umversale  e  tipica  della  cultura  illuministica.  Ma  il 
Cesarotti  ha  forse  presente  soprattutto  VEssai  sur  la  pohie  tpique  del  Vol 
taire,  da  lui  citato  piu  avanti.  2.  Basta  confrontare  le  idee  della  Divinit& 
lasciateci  dagli  antichi  poeti,  che  furono  i  teologi  del  paganesimo,  con  quelle 
della  poesia  ebraica.  In  questa  sola  si  vede  1'opera  di  Dio,  in  tutte  Faltre 
la  stravaganza  umana  (C.)- 


L'ORIGINE   E   I    PROGRESSI    DELL'ARTE   POETICA  63 

casse  in  questo  ammasso  di  cose  principii,  sistema,  ragionevolezza, 
s'ingannerebbe  di  molto.  Come  possono  trovarsi  tali  qualita  in  cose 
prodotte  dal  caso,  dalla  passione,  o  dalPignoranza  ?  Contuttocio  ogni 
popolo  si  vagheggia  i  suoi  costumi  come  piu  perfetti  e  piu  nobili 
di  qualunque  altro ;  e  come  no,  se  sono  suoi  ?  Un  poeta  che  vuol  pia- 
cere  a'  suoi  cittadini  deve  adattarvisi ;  ma  una  sana  filosofia  che 
spezzasse  i  vincoli  dei  pregiudizi  nazionali  e  il  commercio  cogli  al- 
tri  popoli,  cosicche*  si  potesse  mirar  piu  dawicino  i  costumi  stra- 
nieri  e  paragonarli  coi  nostri,  insegnerebbe  a  prestarsi  ai  pregiu 
dizi  della  sua  nazione,  non  ad  abbandonarvisi,  a  sceglier  per  oggetto 
della  sua  imitazione  quell'usanze  che  sono  meno  irragionevoli, 
non  ad  abbracciarle  tutte  indifferentemente,  a  volger  agli  occhi 
di  chi  legge  la  parte  piu  brillante  e  far  si  che  la  deformita  resti 
o  nascosta  o  abbellita;  fmalmente  a  presentir  le  rivoluzioni  che  la 
ragione  coltivata  dovea  finalmente  portar  nella  massa  del  pensar 
umano,  volgersi  qualche  volta  alia  posterita  e  cercar  di  conciliarsi 
il  piacer  de'  presenti  senza  perder  di  vista  Pammirazion  dei  fu- 
turi;  tentar  anche  di  far  pregustar  alia  sua  nazione  qualche  prin- 
cipio  di  questo  felice  cangiamento,  e,  vestendo  la  verita  de*  colori 
piu  vivi  e  piu  belli,  render  gli  uomini  ragionevoli  per  mezzo  del- 
Tillusione.1  Questo  sarebbe  Fultimo  segno  di  gloria  al  quale  po 
tesse  aspirar  un  poeta;  e  1'alloro  gli  sarebbe  dovuto  ben  con  piu  ra 
gione  che  ai  conquistatori  e  agli  eroi.  Ma  per  tal  fine  era  d'uopo 
d'uno  spirito  troppo  penetrante,  d'un  sentimento  troppo  delicato, 
d'un  animo  troppo  nobile  e  grande.  Possono  ben  dirlo  le  favole, 
puo  bene  qualche  commentatore  idolatra  attribuir  queste  viste 
morali  e  politiche  al  suo  autor  favorito ;  ma  Fautor  istesso  smentisce 
il  panegirista.  0  i  poeti  antichi  non  si  sono  mai  sognati  di  risanar 
le  menti  de'  loro  nazionali;2  o  se  aveano  questa  buona  intenzione, 
bisogna  confessare  ch'erano  medici  ben  poco  destri,  e  che  aveano 
dei  secreti  assai  strani.  Doveano  dunque  i  primi  poeti  adular  la 
loro  nazione,  fomentar  le  loro  idee,  per  quanto  stravaganti  elle 
fossero,  accrescerle  e  spingerle  innanzi  per  mezzo  del  mirabile. 
Una  tale  poesia,  quantunque  forse  per  Paltre  parti  eccellente,  pure 
non  solo  pecca  per  la  parte  del  soggetto,  il  quale  essendo  pieno 

i.  render  .  .  .  illusione:  si  ricordi  la  famosa  definizione  del  Gravina:  la  poe 
sia  e  « una  maga  ma  salutare,  ed  un  delirio  che  sgombra  le  pazzie »  (Delia 
ragion  poetica,  lib.  I,  cap.  vn,  in  Opere  scelte,  Milano  1819,  p.  22).  2.  O  i 
poeti .  .  .  nazionali:  potrebbe  essere  un'eco  di  ben  noti  concetti  vichiani. 


64  MELCHIORRE    CESAROTTI 

d'assurdita  e  rozzezze  non  potra  mai  dilettare  le  menti  ben  fatte, 
ma  di  piu  ripugna  allo  spirito  intrinseco  dell'imitazione,  le  di  cui 
regole  ben  intese  s'accordano  perfettamente  con  quelle  del  buon 
senso  e  della  ragione.  II  popolo  intanto,  vedendo  lusingati  tutti  i 
suoi  sentiment!,  non  fu  parco  d'elogi  e  d'onori.  Si  form6  tosto  una 
folia  di  maniere,  d'idee,  d'immagini  relative  a  queste  usanze,  le 
quali  costituirono  il  corpo  del  linguaggio  poetico.  Non  si  vide  nel- 
la  natura  altro  carattere  che  quello  della  nazione,  non  si  credette 
che  le  passioni  fossero  suscettibili  d'altra  modificazione  che  di 
quella  che  riceveano  dalle  loro  proprie  circostanze.  Che  risulta 
da  ci6  ?  O  molti  popoli  coltivano  con  successo  nello  stesso  tempo 
1'arte  poetica  e  se  ne  disputano  la  gloria,  o  una  sola  nazione  e 
colta  in  quest'arte  in  mezzo  alia  rozzezza  universale.  Nell'uno  e 
nelPaltro  caso  nasceranno  due  massimi  inconvenienti.  Se  due  o 
piu  nazioni  gareggiano  insieme,  si  formeranno  altrettanti  gusti 
poetici  nazionali,  che  pretenderanno  di  darsi  Tesclusione  Tun  Tal- 
tro.  Non  si  riconoscera  la  natura  se  non  abbigliata  alia  foggia  del 
suo  paese.  Noi  soli,  dira  ciascun  popolo,  facciamo  ritratti  al  natu- 
rale;  quei  degli  altri  non  sono  che  caricature,  aborti,  stravaganze, 
Donde  han  cavato  costoro  quei  caratteri,  quei  costumi,  quel  lin 
guaggio,  se  non  dalla  loro  sregolata  fantasia?  qual  uomo  pensa, 
sente  o  parla  cosi  ?  Ne  s'accorgeranno  che  prendono  se  stcssi  per 
tutto  il  genere  umano.  Quindi  mille  falsi  ed  ingiusti  giudizi  di- 
struttivi  del  buon  senso  e  del  buon  gusto  generale;  quindi  un'av- 
versione,  un  dispregio,  una  guerra  reciproca  forse  maggiore  di 
quella  che  risulta  dalla  contrarieta  d'interessi  politici,  essendo  gli 
uomini  piu  gelosi  della  gloria  dello  spirito  che  di  qualunque  altra, 
come  di  cosa  piu  immediatamente  e  particolarmente  sua:  n6  la 
sana  ragione  arrivera  se  non  assai  tardi,  e  con  pena  grandissima, 
a  dividere  giustamente  cd  imparzialmente  agli  scrittori  di  tutte  le 
nazioni  quella  porzione  di  gloria,  di  cui  essa  e  la  sola  legittima 
distributrice.  Se  poi  un  solo  popolo  brilla  nella  camera  luminosa 
di  quest' arte,  e  col  favore  delFarmi  e  del  commercio  giugnc  a 
risplendere  anche  agli  occhi  dcll'altre  nazioni,  questo  esercitera  un 
despotismo  universale  sopra  il  gusto ;  gli  altri  popoli  non  awerten- 
do  che  i  semi  della  poesia  sono  ugualmente  dalla  natura  distribuiti 
a  tutti  i  climi,  ma  che  secondo  la  diversa  indole  dei  terrcni  la 
pianta  poetica  diversamente  cresce  e  germoglia,  in  vece  di  atten- 
dere  a  sviluppare  e  coltivare  gl'innati  gcrmi  alia  foggia  del  loro 


L'ORIGINE   E    I    PROGRESSI    DELL'ARTE   POETICA  65 

paese,  con  che  sarebbe  cresciuta  ugualmente  rigogliosa  e  feconda, 
andranno  a  trapiantar  nel  proprio  clima  quella  precisa  ch'e  nata 
in  quel  clima  straniero,  di  cui  la  crederanno  un  dono  particolare. 
Ond'essa  necessariamente,  non  trovando  piu  lo  stesso  alimento, 
produrra  frutti  acerbi  o  sciapiti,  e  degeneranti  dalla  sua  prima 
natura.  Cosa  in  fatti  assai  strana  che,  mancando  quasi  affatto  tutte 
le  cose  che  formano  il  soggetto  e  il  modo  delljimitazione,  si  voglia 
prendere  per  regola  una  modificazion  d'imitazion  particolare,  che 
poggia  sopra  fondamenti  tanto  diversi.  Una  tal  imitazione  non 
potra  mai  ottenere  il  suo  vero  fine:  sia  pur  ella  eseguita  con  tutta 
la  maestria  possibile,  siano  pur  esatte  le  sue  pitture,  gli  uomini 
ne  cercheranno  gli  originali,  e  non  trovandoli  resteranno  piutto- 
sto  confusi  che  commossi.  La  poesia  piu  perfetta  non  sara  al  piu 
che  un  bel  cadavere :  si  desteranno  immagini  senza  corpo,  passio- 
ni  morte,  ombre  di  diletto.  II  pregiudizio  dell' abitu dine  giugnera 
a  segno  che  appresso  la  stessa  nazione,  essendosi  cangiato  col 
tempo  il  sistema  della  religione  e  del  governo,  pure  si  sosterranno 
ancora  per  lungo  spazio  gli  antichi  modi  e  Tantico  meraviglioso 
poetico,  appunto  come  in  un  governo,  cangiati  i  costumi,  si  con- 
servano  generalmente  le  leggi.  II  diletto  andra  a  poco  a  poco  sce- 
mandosi:  come  un  liquor  prezioso,  ma  svaporato,  la  poesia  antica 
non  destera  piu  quello  spirito  che  rawiva:  se  ne  restera  stupito, 
ma  non  si  osera  dirlo  a  se,  non  che  ad  altri ;  si  procurera  di  dimostra- 
re  a  se  stesso  che  si  deve  provarne  piacere;  a  forza  di  creder  di 
doverlo  sentire,  si  giugnera  a  darsi  ad  intendere  di  sentirlo,  ma 
non  si  sentira  giammai.  Se  qualche  buono  spirito,  colpito  dalPassur- 
dita  della  cosa,  ne  tentera  la  riforma,  e  che  per  mancanza  di  fuoco 
e  di  genio  poetico  non  riesca  nel  suo  disegno ;  in  luogo  d'incolpare 
PinsufEcienza  pratica  dell'autore,  si  credera  che  la  colpa  venga 
dalla  natura  stessa  della  riforma,  e  si  conchiudera  che,  a  prendere 
tutto  insieme,  si  guadagna  piu  ad  attenersi  alia  foggia  antica,  che 
a  lasciarsi  sedurre  dalla  nuova.  Svegliatosi  fmalmente  nella  nazione 
qualche  spirito  filosofico  insieme  e  poetico  (senza  la  qual  mi- 
stura  non  si  dara  mai  poesia  perfetta),  e  tentando  di  dar  nuova 
vita  a  questa  facolta  languente,  benche  lo  faccia  con  successo,  gli 
converra  prima  asciugare  tutto  il  fuoco  della  noiosa  e  qualche  volta 
perniciosa  ciurmaglia  de'  critici. 

6  ancora  da  osservarsi  un'altra  cosa,  la  quale,  se  non  pregiudi- 
ca  direttamente  all'arte,  serve  nondimeno  ad  inceppare  gli  scrit- 


66  MELCHIORRE    CESAROTTI 

tori  e  ad  angustiarli  con  regole  non  necessarie.  Fra  gli  errori  chc, 
secondo  il  gran  Bacone,  pregiudicano  alia  filosofia,  uno  si  e  chc  gli 
autori  celebri  tingono  la  loro  dottrina  sopra  questa  scienza  d'altre 
opinioni  e  d'altri  concetti  che  sono  loro  particolarmente  favoriti, 
come  fece,  dic'egli,  Platone,  che  alia  sua  filosofia  frammischi6  la 
teologia;  Aristotele,  la  logica;  Proclo,  e  gli  altri  della  seconda  scuola 
platonica,  le  matematiche.1  Lo  stesso  accadera  nella  poesia.  Uno 
scrittore,  che  nel  tempo  stesso  coltivera  felicemente  qualche  altra 
scienza  o  arte,  aspergera  le  sue  produzioni  del  sapore  d'essa,  e 
faralle  gustare  al  pubblico.  Di  piu,  nel  primo  sviluppo  della  poe 
sia  si  mescolera  con  essa  qualche  circostanza  puramente  acciden- 
tale,  che  non  fara  nulla  alia  essenza  dell'arte.  Gli  uomini  scorgendo 
che  le  opere  poetiche  dilettano  tinte  di  questo  colore  straniero  o 
accompagnate  da  quella  circostanza,  non  avvertendo  che  altro  e 
piacer  con  una  cosa,  altro  piacer  per  una  cosa,  le  crederanno  ne 
cessarie  ed  essenziali  alia  poesia,  e  si  avvezzeranno  ad  esigerle  da 
tutti  i  poeti.  Quindi  un'usanza  personale  o  locale,  per  sua  natura 
arbitraria  o  indifferente,  acquistera  generalita  e  forza  di  legge. 

L'ultimo  pregiudizio  della  poesia,  non  minore  degli  altri,  viene 
dalle  regole  e  precetti  dell'arte.  Osserva  lo  stesso  Bacone,  colla  sua 
solita  perspicacia  e  solidita,  che  la  prematura  riduzione  delle  dot- 
trine  in  arti  e  in  metodi  fa  che  la  scienza  stessa  poco  o  nulla 
s'avanza;  appunto  come,  dic'egli,  quando  le  membra  e  i  lineamenti 
tutti  d'un  giovine  hanno  ricevuto  troppo  presto  forma  e  compi- 
mento,  il  corpo  non  suol  piu  crescere;  cosl  la  scienza,  fmch6  e 
sparsa  in  osservazioni  ed  aforismi  puo  acquistare  aumento  c  gran- 
dezza,  ma  circoscritta  una  volta  e  rinchiusa  dai  metodi  potr&  pulirsi 
forse  e  rendersi  atta  agli  usi  degli  uomini,  ma  non  potra  piu  cre 
scere  e  dilatarsi.2  E  ci6  accade  tanto  piu  quando  i  maestri  di  quel- 

i.  Fra  gli  errori .  .  .  matematiche:  cfr.  Bacone,  Novum  Organum,  lib.  I,  afo- 
risma  xcvi  (cfr.  ed.  J.  Spcdding,  London  1857,  i,  p.  201):  «Naturalis 
Philosophia  adhuc  sincera  non  invenitur,  sed  infecta  et  corrupta:  in  Ari- 
stotelis  schola  per  logicam,  m  Platonis  schola  per  theologiam  naturalem; 
in  secunda  schola  Platonis,  Procli  et  aliorum,  per  mathematicam ».  2.  Os- 
serva  .  .  .  dilatarsi:  cfr.  Bacone,  De  dignitate  et  augmentis  scientiarum,  lib.  I 
(cfr.  ed.  cit.,  i,  p.  460):  ccAlius  error  .  .  .  est  praematura  atque  proterva 
reductio  doctrinarum.  in  artes  ct  methodos;  quod  cum  fit,  plerunque  scien- 
tia  aut  parurn  aut  nihil  proficit.  Nimirum  ut  ephebi,  postquam  membra 
et  lineamenta  corpons  ipsorum  perfecte  efTormata  sunt,  vix  amphus  cre- 
scunt;  sic  scientia,  quamdm  m  aphorismos  et  obscrvationes  spargitur, 
crescere  potest  et  exurgere;  sed  methodis  scmel  circumscnpta  et  conclusa, 


L'ORIGINE   E   I    PROGRESS!   DELL'ARTE   POETICA  67 

la  dottrina  usano  un  tuono  dogmatico,  che  impone  aH'intelletto 
senza  illuminarlo,  piantano  autorevolmente  i  loro  principii  senza 
additar  la  strada  per  cui  sono  giunti  a  formarseli,  onde  gli  altri, 
riandando  le  stesse  tracce,  possono  esaminare  se  quella  fosse  la 
piu  diritta,  e  se  nella  stessa  le  loro  guide  avessero  qualche  poco  tra- 
viato;  col  qual  modo  definitive,  posto  anche  che  non  avessero  er- 
rato,  con  tuttocio  le  loro  opere  non  istruiscono ;  e  quel  che  forse 
era  scienza  in  loro,  diventa  fede  negli  altri.  Cosi  la  poetica  facolta 
sul  fondamento  di  alcune  poche  osservazioni  (che  poche  saranno 
sempre,  quando  nascano  dalle  opere  d'alcuni  poeti  o  dal  genio  d'u- 
na  nazione,  e  non  da  un  esame  filosofico  della  natura  deiruomo  si 
in  generate  che  in  particolare,  o  dal  confronto  dei  vari  modi  d'imi- 
tare  delle  diverse  nazioni)  ridotta  troppo  presto  in  arte,  s'isterilira 
ed  inceppera  da  se  stessa,  chiudendo  Tadito  alle  osservazioni  nuo- 
ve,  si  togliera  il  suo  proprio  alimento;  tutte  le  sue  produzioni 
avranno  fra  loro  una  noiosa  rassomiglianza,  ed  acquistando  rego- 
larita  di  lineamenti,  perdera  la  vigoria,  la  mole  e  la  pieghevolezza  del 
corpo.  II  metodo  poi  sintetico  ed  il  tuono  autorevole  de'  primi 
maestri  produrra  due  generazioni  d'uomini  ugualmente  molesti  e 
dannosi  a  quest'arte,  voglio  dire  i  poeti  mediocri  e  i  critici  pedan- 
teschi.  I  primi  credendo  che  i  precetti  bastino  per  far  un  poeta, 
vorranno  volar  senz'ali  e  riscaldar  senza  fuoco ;  e  purch6  colla  mec- 
canica  osservazione  de'  precetti  giungano  a  comporre  un  piano 
ben  congegnato  ed  ottengano  la  gloria  d'annoiar  tutto  il  mondo 
secondo  le  regole,  si  arrogheranno  il  privilegio  esclusivo  del  gusto : 
il  che  se  fosse,  le  mummie  e  gli  scheletri  anatomici  per  la  stessa  ra- 
gione  avrebbero  dritto  di  innamorarci,  perche  tutta  Tarmonica 
tessitura  del  corpo  umano  vi  si  rawisa  perfettamente.  I  secondi, 
come  i  custodi  dei  libri  sibillini,  col  sacro  testo  del  loro  autore  alia 
mano,  che  andranno  rawiluppando  in  un  ginepraio  di  sofistiche 
e  vane  questioni  e  d'interpretazioni  vuote  di  senso,  faranno  la 
guerra  agli  spirit!  superiori,  vorran  fissare  a  loro  arbitrio  la  stima 
del  pubblico,  non  permetteranno  che  un'opera  piaccia,  se  non  si 
confronta  co*  loro  magri  principii;  e  quando  i  voti  communi  si 
saranno  riuniti  in  favor  di  una  nuova  produzione,  citeranno  il 
sentimento  al  loro  tribunale,  come  giudice  illegittimo,  e  proveranno 
giuridicamente  che  quell'opera  non  doveva  piacere.  A  forza  di 

expoliri  forsan  et  illustrari  et  ad  usus  humanos  edolari  potest,  non  autem 
porro  mole  augeri». 


68  MELCHIORRE   CESAROTTI 

spacciarsi  per  dittatori  nelle  materie  poetiche,  giungeranno  ad  im- 
porre  agli  spirit!  piccioli,  che  sono  i  piu ;  i  geni  piu  elevati  resteran- 
no  per  qualche  tempo  defraudati  della  loro  gloria,  e  qualche  volta, 
per  timore  di  queste  vespe  importune,  le  api  poetiche  si  rimarranno 
di  formare  il  loro  mele. 

Una  infinita  d'esempi  comprova  la  verita  di  quanto  abbiam  detto. 
Omero  compose  Ylliade,  i  maestri  delFarte  presero  da  quella  le 
regole  del  poema  epico:  ma  egli  compose  pur  VOdissea,  poema 
di  natura  molto  diversa.  Omero  non  poteva  errare ;  bisognc-  dun- 
que  conciliarlo  con  se  stesso ;  si  racconciarono  le  regole  alia  meglio 
e  si  fecero  cangiar  aspetto,  come  un  vasellaio,  accorciando  o  al- 
lungando  la  stessa  creta,  d'un  orciuolo  fara  una  pentola.  Suppon- 
ghiamo  ora  che  Omero  non  avesse  cantato  che  Fira  d'Achille: 
crediamo  noi  che,  dopo  le  regole  delFarte,  un  altro  avrebbe  avuto 
coraggio  di  celebrare  i  viaggi  d'Ulisse?  e  se  Pavesse  fatto,  i  critici 
sarebbero  stati  forse  tanto  indulgenti?  Quante  speciose  ragioni 
per  negargli  il  titolo  di  poeta  epico!  Per  non  parlar  della  somma 
differenza  del  luogo,  del  tempo  e  dell'azione  dei  due  poemi,  punti 
tanto  essenziali  secondo  i  critici,  che  meschinita  di  soggetto  (si 
sarebbe  detto),  indegna  della  maesta  delFepopea!  wAVIliade  il 
fiore  degli  eroi  della  Grecia  assedia  la  capitale  dell' Asia,  nelPO&- 
sea  un  uomo  piuttosto  padre  di  famiglia  che  re,  con  una  banda  di 
compagni  ignobili,  sconosciuto,  mal  in  arncse,  si  mette  in  viaggio 
per  rivedere  il  nativo  suo  scoglio :  ivi  gli  uomini  e  gli  dei  sono  in 
guerra;  qui  il  re  travestito  fa  alle  pugna  con  un  pezzente:  ivi  il 
figlio  d'una  dea,  il  piu  forte  degli  uomini,  nel  solo  Ettore  rovescia 
Troia;  quivi  Feroe  assistito  da  un  porcaio  uccide  alquanti  scia- 
gurati,  che  manomettono  la  sua  casa.  Certamente  tra  YOdissea  e 
Ylliade  non  v'e  minor  distanza  di  quella  che  passa  fra  la  commcdia 
e  la  tragedia.  Quanti  critici  vi  furono,  e  quanti  vi  sono  ancora, 
che  seguono  a  perfidiare1  ridicolarmente  che  Milton  non  e  poeta 
epico,  non  per  altra  ragione  che  perche  Adamo  non  e  Achille,  e  la 
perdita  delFEden  non  e  Passedio  di  Troia?  Se  Dante  fosse  nato 
dopo  il  Tasso,  nel  secolo  in  cui  le  regole  e  gli  esempi  degli  antichi 
avevano  un'autorita  religiosa,  la  forza  e  la  vastita  della  sua  fantasia 
sarebbe  sembrata  stravaganza  e  vaneggiamento.  II  solo  titolo  avreb 
be  dato  a7  critici  materia  per  un  in  folio  di  censure.  Ma  Paver  egli 
fiorito  in  un  tempo  in  cui  Paver  solo  inteso  il  nome  della  Poetica 
i .  perfidiare :  insinuate  perfidamente. 


L'ORIGINE   E    I    PROGRESSI    DELL'ARTE   POETICA  69 

d'Aristotile  era  una  prova  d'erudizione  poco  comune;  in  cui  per  la 
generale  barbaric,  da  cui  appena  usciva  P  Italia,  egli  potea  risguar- 
darsi  per  il  primo  poeta  dell'universo ;  in  cui  fmalmente,  bench'egli 
dicesse  che  VEneide  era  sua  ((mamma  e  nutrice)),1  pochi  contuttoci6 
erano  in  caso  di  confrontar  la  balia  coirallievo ;  queste  cose,  ancor 
piu  del  vero  suo  merito,  gli  stabilirono  una  soda  ed  universale 
riputazione.  Per  lo  contrario  il  Tasso,  poeta  il  piu  regolare  di 
tutti  gli  altri  italiani,  e  che  piu  d'ogni  altro  segui  le  tracce  degli 
antichi,  per  esser  stato  nel  secolo  della  piu  raffinata  superstizione 
letteraria,  fu  censurato  e  perseguitato  dagli  stessi  idolatri  del- 
Pautorita  e  delPesempio.  I  pregiudizi  non  guardano  di  distruggersi 
Tun  T altro,  purche  distruggano  la  ragione.  La  tragedia  appresso  i 
Greci  non  era  che  la  rappresentazione  d'una  disgrazia  fatale  ed 
inevitabile,  che  inorridiva  piu  di  quello  che  interessasse.  La  su 
perstizione  per  gli  antichi  fece  che  si  escludessero  dal  teatro 
molti  altri  soggetti  piu  delicati,  piu  interessanti,  piu  istruttivi  ed 
atti  a  recare  nuove  spezie  di  diletto.  L' Italia  particolarmente  non 
e  ancora  ben  rinvenuta  ne  praticamente  ne  teoricamente  da  questo 
error  grossolano,  cosicche  si  durera  fatica  a  trovar  quattro  critici, 
di  quei  che  si  piccano  di  buon  gusto,  che  non  si  facessero  scrupolo 
di  dar  il  titolo  di  vere  tragedie  a  molte  insigni  produzioni  di 
Cornelio  o  di  Racine,  e  che  non  preferissero  a  un  Maometto*  la  piu 
difettosa  tragedia  d'Euripide.  La  commedia  parimenti,  ai  tempi  di 
Plauto  e  di  Terenzio,  era  una  pittura  caricata  dei  difetti  e  dei 
ridicoli  piu  grossolani  degli  uomini,  o  al  piu  un'imitazione  di 
qualche  awentura  ordinaria  delle  persone  mezzane.  Quando  do- 
po  molti  secoli  il  sig.  de  La  Chauss6e3  in  Francia  arricchi  il  teatro 
di  un  nuovo  genere  di  commedia,  rivolgendola  ad  imitare  un 
fatto  interessante  ed  istruttivo  della  vita  privata,  quanti  censori 
non  si  scatenarono  contro  di  lui,  inventando  il  nome  derisivo  di 
comico  lagrimante,  e  trattando  simili  opere  da  mostri  composti  di 
parti  eterogenee,  sconosciuti  alPantichita  per  la  sua  incomparabile 
squisitezza  di  gusto  ?  II  Petrarca,  uomo  di  sentimento  dilicatissimo, 


1 .  Cfr.  Purg.,  XXI,  97-8 :  «  delYEneida  dico,  la  qual  mamma  /  fummi  e  fummi 
nutrice  poetando  ».  Queste  parole  sono  messe  in  bocca  a  Stazio,  ma  certo 
Dante,  come  vuole  il  Cesarotti,  allude  anche  ai  propri  debiti  verso  Virgilio. 

2.  Maometto:  la  tragedia  del  Voltaire  tradotta  dal  Cesarotti  nel  1762  e  pub- 
blicata  insieme  al  presente  Ragionamento.      3.  Nivelle  de  La   Chaussee 
(1691-1754)  e  considerate  Pmiziatore  del  genere  della  comddie  larmoyante. 


70  MELCHIORRE    CESAROTTI 

d'animo  nobile  ed  onesto,  d'  ingegno  perspicace  e  scientifico  e  di 
gentilissima  fantasia,  risentiva  una  specie  di  amore  singolare,  o 
certo  rarissimo,  e  di  cui  appresso  gli  scrittori  greci  e  latini  non 
se  ne  trova  alcun  vestigio.  Egli  lo  dipinse  come  il  sentiva,  e  facendo 
servire  il  suo  raro  taiento  poetico  alia  passione,  non  la  passione 
ad  esso,  giunse  a  render  credibile  una  cosa  che,  secondo  il  pensar 
comune,  fu  sempre  riputata  chimerica,  e  a  far  gustar  la  sua  poesia 
a  persone  che  appena  avranno  sognata  la  possibitita  di  un  tale 
affetto,  non  che  lo  provassero;  di  cui,  a  parer  mio,  non  pu6  darsi 
lode  maggiore.  Come  il  Petrarca  era  il  solo  poeta  lirico  che  avesse 
1'Italia,  si  credette  ben  tosto  che  in  versi  non  si  potesse  amare 
che  alia  foggia  di  quell'autore ;  ed  eccoti  Tltalia  inondata  da  un 
diluvio  di  verseggiatori,  che  tutti  aveano  il  Petrarca  sulla  penna 
e  forse  nessuno  nel  cuore.  Non  essendo  questa  passione  nata  in 
lor  casa,  ma  portatavi  altronde,  non  potevano  cssi  per  conseguenza 
cavar  dal  proprio  fondo  i  pensieri,  i  sentimenti  e  Tespressioni  atte 
a  vivamente  dipingerla :  per6  furono  costretti  a  ricorrere  allo  stesso 
Petrarca,  e  prender  da  quello  tutti  i  colori.  Ma  questi  ornamenti 
accattati  e  posticci,  e  qualche  volta  usati  a  rovescio,  piangevano 
loro  intorno,  come  appunto  un  bel  vestito,  aggiustato  sopra  un 
corpo  vistoso  ed  armonico,  se  si  trasporta  ad  un  altro  disadatto 
e  di  mal  garbo,  ne  acquista  esso  pure  deformita.  Le  movenze  deli 
cate  e  gli  atteggiamenti  inimitabili  del  Petrarca  diventarono  con- 
trafacimenti  e  contorsioni :  traspirava  Paria  di  donna  volgare  sotto 
gli  abbigliamenti  di  una  divinita.  Amando  come  Anacreonte,  si 
voile  parlar  come  Platone;  nessuno  seppe  andar  al  cielo  se  non 
per  la  scala  degli  occhi  della  sua  donna,  e  quel  linguaggio  platonico 
che  stemperato  nella  poesia  del  Petrarca  diletta,  perch6  si  scorge 
ch'egli  entra  naturalmente  a  modificare  in  quella  guisa  la  sua  pas 
sione,  ne'  suoi  imitatori  divent6  un  freddo  ed  oscuro  gergo  sco~ 
lastico,  non  meno  ridicolo,  alle  persone  non  prevenute,  di  quella 
galanteria  metafisica  colla  quale  molti  francesi  condiscono  tutti 
i  loro  soggetti  piu  seri  e  piu  appassionati.  Cosl  la  piu  parte  de' 
poeti  petrarcheschi,1  che  a  differenza  di  tutti  i  poeti  della  sua  e 

i.  L'eccezione  ha  luogo  in  ogni  giudizio  generate,  ma  il  giudizio  sussiste. 
lo  potrei  nommare  un  vero  Petrarca  veneto,  che  nissuno  ammira  piu  di  me. 
La  somiglianza  del  suo  animo  fa  la  somiglianza  natural  del  suo  stile.  Ma 
chi  ha  bisogno  di  copiar  un  aitro  non  lo  somiglia  (C.).  Penso  che  il  Cesa- 
rotti  alluda  a  Gaspare  Gozzi,  autore  di  un  piccolo  canzomere  petrarcheg- 


L'ORIGINE   E    I   PROGRESSI   DELL'ARTE   POETICA  71 

delle  straniere  nazioni  si  arrogano  la  vera  delicatezza  di  gusto  nelle 
materie  amorose,  e  che  ad  ogni  parola  si  rimenano  la  natura  per 
bocca,  vanno  piu  di  tutti  gli  altri  fuor  di  natura,  perche  la  passione 
che  imitano  non  si  trova  ne  negli  altri  ne  in  loro  medesimi,  e  fa 
solo  vedere  che  quattro  secoli  fa  esisteva  un  uomo  il  quale  era 
non  meno  poeta  che  amante  straordinario. 

Per  conoscer  poi  come  i  difetti  degli  autori  si  erigano  in  virtu, 
basta  gittar  Tocchio  sopra  i  Dacier,  i  Bossu,  i  Mazzoni1  e  gli  altri 
innumerabili  alchimisti  letterari,  che  nelle  cose  poetiche  hanno  tro- 
vata  la  pietra  con  cui  trasformano  il  ferro  in  oro;  se  non  che  1'im- 
postura  di  questi  come  di  quelli  o  tosto  o  tardi  si  scorge. 

Quanto  ai  difetti  che  dai  costumi  delle  nazioni  si  trasfondono 
nei  poeti,  ognuno  pu6  facilmente  chiarirsene.  II  carattere  degli  dei 
e  degli  eroi  d'Omero,  le  passioni  ancora,  per  cosi  dire,  selvagge 
dei  tragici  greci,  le  awenture  romanzesche  e  grincantesimi  del- 
TAriosto,  il  vuoto  e  le  generalita  dei  verseggiatori  italiani,  le  ampol- 
lose  mostruosita  degli  spagnuoli,  la  noiosa  galanteria  e  il  rafrma- 
mento  dei  franzesi,  le  irregolarita  e  carnificine  del  teatro  inglese, 
tutte  son  cose  che  debbonsi  al  sistema  religioso,  politico  e  morale 
de'  vari  popoli. 

II  gusto  nazionale  trapiantato  in  colonie  non  e  mai  riuscito  fe- 
licemente.  Non  pu6  negarsi  agF  Italiani  la  gloria  d'aver  richiamate 
in  vita  Parti  e  le  lettere.  Essi  rawivarono  1'antica  Grecia,  che  co- 
nosceano  perfettamente,  ma  non  conobbero  abbastanza  PItalia. 
Se  i  tragici  del  secolo  sedicesimo  si  fossero  trasportati  in  Atene, 
la  Grecia  non  avrebbe  creduto  d'aver  perduti  giammai  i  Sofocli 
e  gli  Euripidi,  ma  Sofocle  ed  Euripide  trasportati  in  Italia  non 
ritrovavano  piu  gli  Ateniesi.  Come  se  una  nazione  avesse  a  invi- 
diare  i  ridicoli  dell'altra  e  non  ne  fossero  tutte  egualmente  feconde, 

giante,  e  con  cui  era  entrato  in  amicizia  appunto  in  quegli  anni  a  Venezia. 
i.  i  Dacier,  i  Bossu,  i  Mazzoni:  i  comugi  Andr<§  Dacier  (1651-1722)  e  Anne 
Lefevre  Dacier  (1654-1720),  filologi  e  strenui  difensori  degli  antichi:  in 
particolare  la  Dacier,  che  nel  1699  aveva  stampato  una  traduzione  letterale 
delVIliade,  nel  1715  pubbhc6  il  libro  Des  causes  de  la  corruption  du  gout,  in 
cui  rispondeva  aspramente  alle  censure  mosse  dal  La  Motte  contro  Omero, 
insistendo  soprattutto  sul  contenuto  morale  e  religioso  delVIhade  e  del- 
VOdissea.  II  padre  Rene  Le  Bossu  (1631-1680),  noto  soprattutto  per  il  suo 
Traitd  du  poeme  tyique  (1675),  e  Qui  ricordato  come  dilensore  del  Boileau 
e  m  genere  del  partito  degli  antichi.  lacopo  Mazzoni  (1548-1598)  scnsse 
una  celebre  e  volummosa  Difesa  delta  «  Commedia »  di  Dante,  in  cui  il  valore 
di  Dante  come  poeta  viene  posto  nel  suo  contenuto  filosofico  e  morale. 


72  MELCHIORRE    CESAROTTI 

i  comici  italiani  vollero  dileggiare  nei  lor  nazionali  i  difetti  dei 
Romani  e  dei  Greci,  e  rappresentar  come  accaduta  ai  loro  tempi 
un'avventura  di  molti  e  molti  secoli  prima.  Mancava  all' Italia  la 
poesia  entusiastica  che  ha  per  soggetto  I'ammirazione.  II  pregiudi- 
zio  facea  credere  che  il  genio  della  lingua  non  ammettesse  questo 
stile:  il  Chiabrera  mostro  il  contrario;  e  T Italia  ebbe  in  esso  il 
suo  Pindaro.  Grandissima  obbligazione  gli  si  dee  certamente,  ma 
se  gliene  avrebbe  maggiore  se  avesse  voluto  piuttosto  crear  questo 
genere  di  poesia  (ed  avea  senza  dubbio  talento  da  ci6)  che  rinno- 
varla;  se  non  si  fosse  gittato  cosi  a  corpo  morto  nelPimitazione  del 
suo  originate;  se  avesse  fatto  meno  scialacquo  di  favole,  le  quali 
non  essendo  attaccate  alia  religione  o  all'interesse  nazionale,  ne 
trovando  credenza  nelFopinione  del  popolo,  perdono  la  maggior 
parte  del  loro  incanto ;  se  fosse  stato  piu  parco  nei  luoghi  communi, 
nelle  sentenze  generali,  nelle  lodi  vaghe,  come  lo  fu  qualch'altro 
poeta  dej  tempi  nostri.  Ronsardo,  con  molto  minor  genio  poetico,1 
fece  da  prima  in  Francia  quel  che  il  Chiabrera  fece  in  Italia. 
Egli  impose  per  qualche  tempo;  ma  giunto  il  secolo  del  gusto, 
la  sua  poesia  parve  tanto  barbara  e  strana  quanto  dianzi  sembrava 
ammirabile.  II  Desportes2  e  altri  poeti  amatorii  franzesi  dei  primi 
tempi  non  ebbero  scrupolo  di  far  a  gara  cogl'italiani  nello  spogliare 
il  Petrarca,  ma  la  delicatezza  passionata  e  spirituale  di  questo 
autore,  mescolata  coll'arguzia  che  fu  sempre  il  gusto  dominante 
di  questa  nazione,  venne  a  formare  un  innesto  assai  bizzarro.  Al 
presente  in  cui  1'Europa,  siccome  nelle  materie  filosofiche  ha  scosso 
del  tutto  il  giogo  della  stupida  adorazion  degli  antichi,  cosl  1'ha 
scosso  in  buona  parte  nelle  belle  arti,  tre  nazioni  si  disputano 
Timpero  della  gloria  poetica,  Pitaliana,  la  franzese  e  Fmglese. 
A  riserva  di  alcuni  pochi  geni  elevati,  che  purificando  il  gusto 
della  loro  nazione  si  attaccarono  particolarmente  a  quelle  bellezze 
universali  di  natura  che  hanno  dritto  di  piacere  a  tutti  i  popoli, 
e  che  si  conoscono  e  si  pregiano  vicendevolmente,  qual  dispregio 
reciproco  non  hanno  gli  uni  per  gli  altri?  Ai  Franzesi  la  poesia 
inglese  sembra  gigantesca,  sregolata  e  precipitosa,  Pitaliana  digiu- 


i.  Ronsardo  .  .  .poetico:  il  giudizio  del  Ccsarotti  sul  Ronsard  riechcggia 
quello  limitative  dei  critic!  razionahsti  francesi.  II  valorc  poetico  del  Ron 
sard  era  stato  invece  polemicamente  nvendicato  in  Italia  dal  Manfrccli  e 
dal  Martello  (cfr.  M.  FUBINI,  Dal  Muratori  al  Baretti,  Ban,  Laterza,  1954, 
p.  147).  2.  Philippe  Desportes  (1546-1606),  lirico  petrarchista  francese. 


L'ORIGINE   E   I    PROGRESSI   DELL'ARTE   POETICA  73 

na,  plena  di  parole  e  vuota  di  senso.  Gl'Inglesi  dalla  lor  parte 
trattano  i  Frances!  da  petits  maitres  non  meno  nella  poesia 
che  nelle  maniere:  e  gl'Italiani  credono  e  gli  uni  e  gli  altri,  benche 
per  vie  diverse,  ugualmente  lontani  dal  dritto  sentiero  della  natura, 
da  loro  soli,  dopo  i  Greci  e  i  Latini,  battuto. 

La  maggior  parte  di  questi  difetti  furono  corroborati  e  resi  per 
lungo  tempo  insanabili  dalle  regole  dell'arte,  formate  con  troppa 
fretta  e  dettate  con  metodo  sintetico  e  con  tuono  autorevole  da  un 
filosofo  assai  rispettabile,1  ma  che  non  era  contuttoci6  ne  la  natura 
n6  la  ragione.  Quindi  la  servitu  degl'ingegni,  Fadito  chiuso  ad 
ogni  riflesso  e  trovato  nuovo,  le  pretensioni  esclusive  del  gusto, 
le  sentenze  ingiuste  sopra  il  merito  degli  scrittori,  le  vane  brighe 
letterarie,  che  alle  volte  si  cangiarono  in  acerbe  persecuzioni,  le 
librerie  intere  composte  per  diciferar  un  passaggio  di  due  righe 
molto  indifferenti,  i  commenti,  le  censure,  le  apologie  ugualmente 
ridicole,  piene  di  erudite  inezie  e  di  sottili  meschinita,  che  anne- 
garono  il  buon  senso  in  un  mare  d'inchiostro  assassinato,  ed  eres- 
sero  in  uomini  grandi  tanti  pedanti.  Se  poi  le  regole  bastino  per 
formare  un  poeta,  serva  d'esempio  per  tutti  il  signor  d'Aubignac,3 
autore  della  Pratica  del  teatro,  il  quale  avendo  composta  una  tra- 
gedia  assai  fredda,  ed  allegandosi  per  difenderla  ch'ella  era  pur 
composta  secondo  le  regole  d' Aristotile :  —  lo  non  posso  —  rispose 
con  vivacita  e  sensatezza  il  principe  di  Conti  —  non  lodare  il  sig. 
d'Aubignac  d'aver  eseguite  le  regole  d' Aristotile,  ma  non  perdo- 
ner6  mai  ad  Aristotile  d'aver  fatto  comporre  una  cosi  cattiva  trage- 
dia  al  povero  sig.  d'Aubignac.  —  II  fatto  e  che  il  sig.  d'Aubignac, 
che  avea  studiato  tutte  le  regole,  non  avea  pero  studiata  questa 
ch'e  la  prima  d'ogn'altra,  cioe  che  tutte  le  regole  del  mondo, 
senza  il  talento  poetico,  giovano  tanto  quanto  Tarte  di  Marcello3 
per  far  danzare  uno  sciancato.  Pure  quanti  Aubignac  ha  prodotto 
1J Italia!  Qual  confronto  fra  le  regole  del  Gravina  e  le  sue  tragedie!4 
quelle  sono  scritte  da  filosofo,  e  queste  da  giurisconsulto. 


i.  un  filosofo  assai  rispettabile'.  Aristotele.  2.  Francois  d'Aubignac  (1604- 
1676)  pubbhc6  nel  1657  la  Pratique  du  theatre,  trattato  di  precettistica  tea- 
trale,  e  compose  quattro  tragedie.  II  giudizio  del  Cesarotti  risale  probabil- 
mente,  come  pensa  TOrtolani,  al  Voltaire.  3.  Benedetto  Marcello,  il  famoso 
musicista  veneziano  (1686-1739).  4.  Qual  confronto  .  .  .  tragedie:  allude 
alle  cinque  tragedie  che  il  Gravina  pubblico  nel  1712  em  cui  tent6  di  at- 
tuare,  con  risultati  poeticamente  poco  felici,  il  suo  ideale  di  un  teatro  tra- 


74  MELCHIORRE    CESAROTTI 

Questi  pregiudizi,  o  tutti  o  la  maggior  parte,  si  sarebbero  pre- 
venuti,  se  qualche  spirito  vasto,  penetrante  e  delicato,  appena 
sviluppate  le  prime  tracce  dell'imitazione  poetica,  si  fosse  fatto 
ad  esaminare  le  vere  fonti  del  piacere  che  ne  risulta,  la  natura  degli 
oggetti,  lo  stato  dell'uomo  considerato  in  se  stesso,  e  lo  stato  del- 
1'uomo  considerato  nelle  diverse  societa.  Egli  avrebbe  allora  chia- 
ramente  compreso  che  la  natura  e  inesausta,  che  Tinfinita  diversita 
degli  oggetti,  risguardata  sotto  divers i  punti  di  vista,  fa  diverse 
impressioni  negli  animi  umani,  secondo  le  infinite  diversita  delle 
loro  disposizioni  interne  ed  esterne,  e  che  queste  impressioni  in 
tante  diverse  guise  modificate,  quantunque  per  Pestremo  difetto 
de'  termini  si  comprendano  sotto  un  solo  nome,  sono  per6  tra  loro 
intrinsecamente  diverse,  come  diverse  sono  tutte  le  spezie  degli 
animali,  benche  comprese  sotto  lo  stesso  nome  generico ;  che  ogni 
passione  ha  il  suo  linguaggio  ed  i  colori  suoi  propri,  e  che  quando 
sia  con  essi  vivamente  rappresentata,  rechera  sempre  diletto;  che 
il  cuore  umano  ha  dritto  sopra  tutti  i  vari  diletti  che  possono  risul- 
tare  dalla  imitazione  delle  varie  passioni,  e  che  una  imitazione  non 
deve  escluder  1'altra  ne  prender  da  un'altra  i  colori;  che  per6  il 
restringer  Tepopea  o  la  tragedia  tra  i  limiti  di  certi  determinati 
soggetti,  e  il  pretender,  per  cagion  d'esempio,  che  i  diversi  amori 
degli  uomini,  come  hanno  abusivamcnte  lo  stesso  nome,  abbiano 
pure  il  linguaggio  e  i  colori  medesimi,  &  lo  stesso  che  dire:  —  lo 
ho  veduto  con  piacere  un  cavallo  ben  dipinto,  dunque  la  pittura  o 
non  pu6  dipingere  altro  animal  che  il  cavallo,  o  tutti  gli  animali 
debbono  esser  dipinti  come  il  cavallo.  —  Egli  avrebbe  compreso 
parimenti  che  il  piacer  delFimitazione  &  in  ragion  composta  della 
imitazione  stessa  e  deila  bellezza  delle  cose  imitate,  che  le  cose 
o  della  natura  o  degli  uomini,  non  essendo  mai  o  rade  volte  per- 
fette,  per  produrre  il  massimo  diletto  &  necessario  o  sceglierle  o 
perfezionarle ;  che  essendovi  due  sorte  d'imperfezione,  Tuna  che 
consiste  nella  mediocrita  del  bello,  1'altra  nella  mistura  del  difetto- 
so,  conveni  perfezionare  in  ambedue  queste  parti  non  meno  gli 
oggetti  che  i  caratteri,  le  passioni  e  le  azioni.  Avrebbe  finalmente 
compreso  che  nelle  cose  le  quali  imitate  dilettano,  vi  son  due  spe 
zie  di  piaceri:  1'uno  che  vien  da  natura,  Paltro  che  nasce  dall'edu- 


gico  ispirato  ad  un  severe  classicismo  grecheggiante.  Le  regole  sono  natural- 
mente  quelle  dettate  nei  trattati  Della  ragion  poetica  e  Della  tragedia. 


L'ORIGINE    E    I    PROGRESSI    DELL'ARTE   POETICA  75 

cazione,  dall'uso  e  da'  pregiudizi.  II  primo  e  assoluto,  universale, 
immutabile,  1'altro  relative,  nazionale  e  soggetto  a  mille  cambia- 
menti;  quello  simile  al  sole  risplende  immancabilmente  a  tutto 
I'universo,  questo  come  una  meteora  brilla  per  poco  ad  un  paese 
e  svanisce:  che  sopra  quest'ultimo  e  fondata  in  gran  parte  la  fin- 
zione  e  il  maraviglioso  poetico ;  che  ogni  nazione  avendo  religione, 
costumi  ed  opinioni  diverse,  Ha  pure  un  diverse  mirabile,  il  quale 
trasportato  nella  poesia  di  un  altro  popolo  sembrerebbe  strava- 
gante  e  bizzarro ;  che  per6  chi  aspira  alia  gloria  di  poeta  universale 
delle  nazioni  e  dei  secoli,  deve  afferrarsi  alle  grandi  ed  universal! 
bellezze  della  natura,  e  dell'altre  servirsi  solo  come  di  un  abbiglia- 
mento  che  non  deformi  ma  rilevi  i  lineamenti  di  un  volto:  che 
deve  di  piu  esaminare  la  massa  indigesta  degli  usi  ed  opinioni  po- 
polari  e  purificarla,  sceglier  tra  esse  quelle  che  confrontandosi 
piu  colla  ragione,  universale  a  tutti  gli  uomini,  possono  piu  uni- 
versalmente  esser  gustate;  e  perche  le  piu  strane  costumanze  non 
mancano  di  qualche  principio  ragionevole,  far  sentir  questo  viva- 
mente  e  nasconder  con  destrezza  1'altre  assurdita  che  1'accompa- 
gnano;  ingentilire  e  nobilitar  fmalmente  anche  i  pregiudizi,  e  far 
si  che  o  si  cangino  in  virtu,  o,  conosciuti  a  suo  tempo  per  quei  che 
sono,  quegli  stessi  che  li  disapprovano,  incantati  e  commossi  dalla 
magia  poetica,  ringrazino  quel  felice  errore  che  produsse  in  loro 
cosi  ragionevol  diletto.  Per  quest'orme  camminando  i  piu  bei  geni 
delle  nazioni,  e  prendendo  ad  imitare  ciascuno  alia  sua  maniera 
qual  una  qual  altra  parte  della  natura,  avrebbero  assai  per  tempo 
prodotta  una  poesia  infinitamente  varia,  ma  universale,  che  in 
mezzo  agPinnumerabili  cangiamenti  di  religioni  e  di  govern!,  sotto 
diversi  aspetti  tutti  piacevoli,  sarebbe  stata  la  stessa;  ed  un  pieno 
corso  d'esperienze  poetiche  avrebbe  confermata  la  verita  de'  prin- 
cipii,  regolati  i  giudizi  e  servito  di  scorta  non  ingannevole  agli 
artefici  e  agli  amatori  delParte. 

Questo  sviluppo  filosofico  sembra  impossibile  a  un  gran  ragio- 
natore  del  nostro  secolo,  voglio  dire  al  sig.  Hume.  «Egli  e  evidente» 
dic'egli  nel  suo  eccellente  discorso  Sopra  la  regola  del  gusto  «che 
nissuna  delle  leggi  che  si  osservano  nella  composizione,  non  poteva 
discoprirsi  a  priori:  queste  leggi  non  sono  di  quelle  conseguenze 
astratte  che  Tintelletto  cava  dai  rapporti  eterni  ed  immutabili  delle 
idee;  il  loro  fondamento  e  lo  stesso  che  quello  di  tutte  le  scienze 
pratiche,  Tesperienza:  queste  non  sono  che  osservazioni  generali 


76  MELCHIORRE    CESAROTTI 

sopra  quel  ch'e  piaciuto  in  tutti  i  secoli  ed  in  tutti  i  paesiw.1 
Parmi  che  da  tutfaltri  dovesse  aspettarsi  un  tal  sentimento,  fuor- 
che  da  uno  scrittore  che  seppe  cosi  felicemente  far  uso  della 
filosofia  nelle  materie  del  gusto,  e  fissarne  i  principii  stabili  in 
mezzo  a  tante  apparent!  contraddizioni.  Se  per  esperienza  egli 
intende  le  osservazioni  fatte  sopra  la  natura  e  sopra  Tanimo  umano, 
egli  e  in  fatti  evidente  che,  senza  di  queste,  le  regole  dell'arte  non 
avrebbero  potuto  esistere;  ma  se,  come  apparisce,  egli  crede  che 
1'arte  per  svilupparsi  dovesse  necessariamente  attender  la  pratica 
e  Tesempio  degli  scrittori,  io  confesso  liberamente  che  non  ci 
scorgo  questa  necessita.  Quantunque  Tarte  poetica  sia  una  scienza 
pratica,  ella  e  per6  molto  diversa  dall'altre.  La  medicina,  la  nauti- 
ca,  1'arte  militare  si  fondano  in  gran  parte  sopra  scoperte  fortuite, 
le  quali  era  impossibile  1'indovinare.  Non  e  cosi  della  poesia,  clla 
non  ha  bisogno  di  strumenti;  ella  non  dcve  i  suoi  principii  ad  al- 
cuna  cosa  esterna,  ella  li  trova  tutti  nelPanimo  ove  rinchiusa  fer- 
menta;  le  passioni  la  svegliano,  la  fantasia  la  veste;  chi  studiera 
bene  il  suo  spirito  ed  il  suo  cuore,  trovera  tutte  le  regole  della  poc- 
sia  scritte  in  se  stesso,  e  vedra  che  senz'altro  aiuto  ella  pu6  nascer 
dalla  sua  mente,  formata  ed  abbellita,  come  Pallade  dal  cervello 
di  Giove.  Del  resto,  Tesperienza  istessa  combatte  questa  opinione. 
Non  si  credera  certo  che  Omero  abbia  composto  Vlliade  senza  di- 
segno.  Senza  prestargli  le  viste  morali  e  politiche  de'  comentatori, 
egli  e  certo  che  nella  mente  d'Omcro  il  modello  avra  preceduto  la 
fabbrica,  come  il  Canone  di  Policleto2  la  statua.  Egli  avra  saputo 
render  la  ragione  della  macchina  e  dellc  parti  del  suo  poerna,  e 
stabilirle  sopra  certi  principii.  Egli  avea  dunque  trovate  le  regole 
dell'arte  innanzi  di  eseguirle:  ma  donde  le  aveva  cavate?  non  dal- 
Tesempio  d'altri  poeti,  perche"  innanzi  d'Omero  non  ve  ne  fu  alcuno 

i.  Anche  per  questo  passo  riporto  il  testo  della  traduzionc  francesc  del  Me- 
nan,  nel  volume  Hume,  Dissertations  sur  les  passions,  sur  la  trag^die,  sur  la 
regie  du  goftt,  Amsterdam,  Schneider,  1759,  p.  89 : « II  est  evident  qu'aucune 
des  lois  qu'on  observe  dans  la  composition  n'a  pu  Stre  decouverte  en  rai- 
sonnant  a  priori:  ces  lois  ne  sont  pas  de  ccs  consequences  abstraites  que 
1'entendement  tire  des  rapports  6ternels  et  immuablcs  dcs  idees;  leur  fon- 
dement  est  le  m£me  que  celui  de  toutes  sciences  pratiques,  F  experience: 
ce  ne  sont  que  des  observations  generates  sur  ce  qui  a  plu  dans  tous  les 
siecles  et  dans  tous  les  pays ».  2.  il  Canone  di  Policleto :  cosi  era  mtitolato 
il  trattato  del  famoso  scultore  greco  sulle  leggi  della  simmetria  della  figura 
umana,  e  cosi  venne  chiamato  anche  il  Doriforo  in  cui  egli  applic6  queste 
leggi. 


L'ORIGINE   E   I    PROGRESSI    DELL'ARTE   POETICA  77 

die  potesse  esser  maestro  d'un  tanto  discepolo ;  e  se  ve  ne  fu,  fa- 
remo  a  questo  la  stessa  domanda:  donde  avea  egli  cavate  queste 
regole?  Dalla  osservazion  della  natura,  ((a priori)),  dall'esame  phi 
o  meno  esatto  del  «rapporti  eterni  ed  immutabili »  tra  gli  oggetti  e 
Fuomo.  Ora  se  Omero  fosse  stato  tanto  filosofo  quanto  poeta, 
egli  e  chiaro  che  avrebbe  potuto  trovare  il  sistema  perfetto  dell'ar- 
te,  poiche"  in  qualunque  modo  ne  trov6  uno.  Siccome  dunque  la 
poesia  nacque  dall'istinto,  cosi  1'arte  poetica  poteva  e  doveva  na- 
scere  dallo  spirito  filosofico;  ed  allo  sviluppo  piu  o  meno  celere  di 
questo  si  devono  i  progressi,  i  ritardi,  la  rozzezza,  la  delicatezza, 
1'ecclissamento,  il  risorgimento  e  la  perfezion  di  quest'arte. 

Conseguentemente  a  ci6  egli  era  riserbato  al  nostro  secolo,  in 
cui  questo  spirito,  raffinato  dal  commercio  e  dalla  coltura  dej  co- 
stumi,  col  suo  soffio  vitale  s'e  diffuso  per  tutto  il  corpo  dello  sci- 
bile  e  lo  anima,  di  veder  un'arte  cosi  interessante  per  il  cuore 
umano,  sciolta  da'  pregiudizi,  purificata  e  stabilita  sopra  i  suoi  veri, 
universali  e  fecondi  principii.  Sara  qui,  cred'io,  cosa  non  meno 
utile  che  dilettevole  di  riandar  brevemente  i  principii  e  i  progressi 
dell'arte  poetica,  e  di  esaminare  i  caratteri  de'  principal!  scrittori 
di  essa.  Platone  e  Tautore  piu  antico  che  abbia  parlato  di  poesia, 
benche  in  una  maniera  vaga  ed  ambigua,  secondo  lo  stile  dei  suoi 
Dialoghi.  II  luogo,  dov'ei  si  spiega  piu  chiaramente,  sono  i  libri 
della  Repubblica.  Egli  awilisce  Timitazione  poetica  con  ragioni 
che  non  fanno  molto  onore  al  suo  raziocinio :  egli  conobbe  la  scon- 
venevolezza  degli  dei  e  degli  eroi  omerici,  ma  condannandoli  per 
la  parte  della  teologia  e  della  morale,  li  rispett6  per  la  parte  della 
poesia,  con  che  diede  a  vedere  ch'egli  non  s'avea  fatto  una  giusta 
idea  della  vera  imitazione  poetica,  e  fece  poi  gran  torto  alia  poe 
sia  non  meno  che  alia  filosofia,  discacciando  dalla  sua  repubblica 
1'epopea  e  la  tragedia,  le  quali  col  maneggio  ben  regolato  delle 
passioni  possono  essere  le  piu  efficaci  ministre  della  virtu.  Pure 
e  degno  di  scusa.  L'Odissea  non  era  il  Telemaco,1  ne  VEdipo 
VAlzira? 

Aristotele  pretese  di  darci  un  sistema  dell'arte,  ma,  per  vero  dire, 
molto  imperfetto,  oscuro  e  confuso.  La  lirica  vi  e  trascurata; 

i.  Telemaco \  il  romanzo  del  F6nelon,  Aventures  de  T6lemaque  (1699),  citato 
dal  Cesarotti  anche  in  altre  sue  op  ere,  come  esempio  di  arte  istruttiva  e 
sensibile.  2.  Alzira:  VAlzire,  una  delle  piu  celebri  tragedie  del  Voltaire, 
rappresentata  nel  1736. 


7  MELCHIORRE    CESAROTTI 

Pepopea  appena  abbozzata;  quasi  per  tutto  si  trovano  cenni  in 
vecc  di  ragioni.  La  sua  idea  della  tragedia  e  poco  esatta:  le  sue  dot- 
trine  sopra  il  soggetto  e  il  protagonista  sono  cavate  piu  dalla  sua 
fantasia  che  dalla  ragione.  La  sua  purgazione  degli  affetti  e  parti- 
colare  e  bizzarra.  Egli  e  un  medico  che  vuol  curar  solamente 
una  o  due  infermita,  e  curarle  per  via  deirinfermita  stessa.1  II 
tuono  e  definitivo;  il  metodo  non  &  che  apparente.  Vi  sono  vera- 
mente  dei  precetti  sani  e  delicati  sopra  Punita,  la  condotta  e  la 
regolarita  della  favola;  ma  in  generale  Popera,  piena  di  minuzie 
grammaticali  e  scolastiche,  di  nozioni  vaghe  e  confuse,  di  defmizio- 
ni  nominali  ed  esclusive,  di  distinzioni  e  divisioni  superflue,  e 
molto  piu  atta  a  ristringere  e  raffreddar  il  genio  di  quello  che  a 
guidarlo,  ad  imbarazzar  lo  spirito  che  a  dirigerlo,  a  render  il  gusto 
capricciosamente  schizzinoso  piuttosto  che  a  purificarlo  ed  illu- 
minarlo.  II  Gravina  fece  piu  onore  ad  Aristotele  di  tutti  i  suoi  pa- 
negiristi ;  egli  non  crede  la  Poetica  opera  di  questo  filosofo,  oppurc 
la  suppone  una  selva  di  materie  ancora  indigeste.2 

Orazio,  bello  spirito  e  cortigiano,  nella  sua  lettera,  com'io  credo, 
di  risposta  alle  ricerche  di  due  nobili  suoi  allievi,3  tocc6  con  vi- 
vezza,  sensatezza  e  precisione  le  regole  piu  comuni,  ne  per6  meno 
important!,  dell'arte.  Ma  siccome  non  le  dedusse  da'  suoi  principii 
e  non  le  consolid6  con  ragioni  (cosa  piu  conveniente  ad  un  trattato 
che  ad  una  lettera),  cosi  le  sue  dottrine  poetiche  sono  bensi  bastanti 
per  diriger  il  criterio  e  il  sentimento  d'un  uomo  di  mondo,  ma  non 
gi&  per  formare  un  conoscitor  filosofo  che  risguardi  nel  suo  pieno 
lume  tutta  Pampiezza  della  materia. 

II  rinascimento  delle  lettere  in  Italia  non  fu  molto  favorevolc  a' 
progress!  delParte.  Persuasi  che  Aristotele  avesse  pensato  abba- 
stanza,  gPinterpreti,  secondando  le  loro  disposizioni  naturali,  si 
dispensarono  dal  pensar  essi  e  non  permisero  che  pensassero  gli 
altri ;  la  critica  tenne  luogo  di  filosofia,  la  regola  di  genio.  Siccome 
il  despotismo  degenera  in  anarchia,  cosi  al  secolo  della  superstizione 
successe  quello  della  sfrenatezza  e  della  stravaganza,  molto  peg- 
giore  della  primiera  servitu.  Ciascuno  si  fece  la  legge  da  s6,  o 


i.  Egli .  .  .  stessa :  il  Cesarotti  accoglie  Pinterpretazione  rinascimentalc  e  gni- 
viniana  della  catarsi  anstotelica,  interpretazione  da  lui  gia  ricordata  e  di- 
scussa  nel  Ragionamento  sopra  il  diletto  della  tragedia.  2.  egli .  .  .  indigeste: 
cfr.  Gravina,  Delia  tragedia,  cap.  xi,  in  Opere  scelte,  ed.  cit.,  p.  272.  3.  let 
tera...  allievi:  1'epistola  Ad  Pisones,  pih  nota  sotto  il  titolo  di  Ars  poetica. 


L'ORIGINE   E   I    PROGRESSI   DELL'ARTE   POETICA  79 

piuttosto  non  ne  riconobbe  alcuna,  e  Teccesso  d'un'arte  troppo 
rigida  pregiudic6  al  legittimo  imperio  della  vera. 

II  primo  scrittore  che  abbia  aspersa  questa  arte  di  filosofica 
luce,  fu  Vincenzo  Gravina,  uno  de'  piu  elevati  ingegni  d'ltalia. 
Egli  tento  non  meno  di  depurar  la  poesia  dal  gusto  infetto  del  se- 
colo,  che  di  liberarla  dalla  servilita  delle  regole  digiune  ed  arbi- 
trarie;  egli  nobilitb  ed  abbelli  la  poetica,  e  d'un'arte  pedantesca 
la  fece  diventare  scienza  da  filosofi,  mostrando  evidentemente  che 
non  merita  minor  lode  uno  squisito  conoscitore  d'un  compositor 
perfetto,  e  che  un  estimator  giusto  e  piu  difficile  a  ritrovarsi  che 
uno  scrittore  mediocre.  La  sua  opera  e  piena  di  principii  scienti- 
fici,  luminosi  e  fecondi  e  di  quei  tratti  sicuri  e  forti,  che  negli 
errori  stessi  caratterizzano  uno  spirito  elevato  e  di  non  comune 
dottrina;  ed  e  poi  perpetuamente  animata  da  un  calore  di  stile 
che  ispira  la  poesia,  mentre  Topera  istessa  Finsegna,  cosicche  e 
cosa  che  sorprende  e  diletta  a  veder  il  Gravina,  che  fu  mediocre 
prosatore  in  versi,  diventare  in  prosa  nobil  poeta.  Ma  se  io  non 
m'inganno,  parmi  che  alle  volte  vi  sia  piu  pompa  filosofica  che 
sostanza,  piu  entusiasmo  che  precisione,  piu  rapidita  che  ordine: 
al  gergo  dialettico  di  Aristotele  egli  sostituisce  di  tratto  in  tratto 
un  gergo  metafisico;  egli  distrugge  alcuni  pregiudizi,  ma  ne  cor- 
robora  degli  altri,  e  li  rende  tanto  piu  nocivi  quanto  che,  appoggiati 
sopra  base  filosofica  e  vestiti  con  magnificenza  poetica,  impongono 
e  piacciono  maggiormente.  Nei  suoi  giudizi  potrebbe  desiderarsi 
qualche  volta  minor  parzialita  e  un'analisi  piu  delicata.  La  sua  elo- 
quenza  maestosa,  ma  alquanto  torbida,  abbaglia  e  riscalda  piu  di 
quello  che  illumini  e  convinca.  Comunque  sia,  la  sua  Ragion  poetica 
fa  onore  all' Italia  ed  all'arte,  e  i  suoi  errori  sono  cosi  speciosi  e  cosl 
finitimi  al  vero  che  e  degno  di  stima  chi  la  gusta,  e  di  gloria  chi 
la  confuta. 

Con  minor  apparato  di  dottrina,  ma  con  molta  sensatezza,  il 
Muratori  rintracci6  le  fonti  del  Bello  poetico  e  sviluppb  egregia- 
mente  tutto  il  lavoro  della  fantasia  e  delPintelletto  in  quelle  parti 
ove  il  poeta  pu6  liberamente  mostrarsi.  Ma  siccome,  e  per  tenv 
peramento  e  per  professione,  egli  intendeva  piuttosto  le  passioni 
di  quello  che  le  sentisse;  e  di  piu  mancava  di  quel  tatto  fino  e 
delicato  che  distingue  le  minime  differenze  e  pu6  chiamarsi  quasi 
il  fiore  del  gusto ;  cosi  conobbe  assai  poco  la  poesia  di  sentimento : 
e  quel  ch'e  piu,  confuse  spesso  il  linguaggio  della  passione  col 


8o  MELCHIORRE   CESAROTTI 

linguaggio  delFintelletto  e  della  fantasia,  che  riflette  e  lavora  sopra 
la  passione.  Am6  le  virtu  dello  stile,  ma  piu  quelle  che  sono  piu 
finitime  ai  vizi,  i  colori  vivaci  piu  de'  convenienti,  1'arte  pomposa 
e  sfacciata  piu  di  quella  che  con  delicata  modestia  sa  trasformarsi 
in  natura:  in  fatti  la  sua  Perfetta  poesia1  sembra  patteggiar  molte 
volte  coirimperfezioni  del  secolo  da  cui  usciva. 

Poco  avanti  T Italia,  la  Francia  ebbe  in  Pietro  Cornelio  il  padre 
non  meno  della  tragedia  che  dell'arte  tragica.  I  suoi  Esami  critic?1 
sopra  le  sue  opere  dramatiche  meritano  1'autorita  dei  Commentari 
di  Cesare  e  delle  Riflessioni  militari  del  marescial  di  Sassonia.3 
Egli  e  un  capitano,  che  con  ingenua  grandezza  parla  non  meno 
delle  sue  perdite  che  delle  sue  vittorie,  ed  istruisce  egualmentc 
coll'une  e  coll'altre.  Sarebbe  desiderabile  che  tutti  i  gran  professori 
delle  arti  e  delle  scienze  pratiche  con  ugual  candore  ci  avessero 
data  un'analisi  delle  loro  opere.  Col  fondamento  della  propria  spe- 
rienza  essi  ci  avrebbero  insegnati  i  colpi  secreti  dell'arte  e  quei 
tratti  inaspettati  che  gli  speculatori  piu  fmi  non  possono  se  non 
presentir  confusamente  ed  indicar  di  lontano. 

L'esempio  di  Cornelio  fu  imitato  in  parte  tra  i  nostri  dall'ab. 
Antonio  Conti,4  nelle  cui  dotte  Prefazioni  si  scorge  quanto  la 
scienza  intima  del  cuore  umano  e  la  sua  profonda  cognizione  di 
storia  e  di  politica  gli  abbiano  giovato  per  rappresentar  vivamente 
e  stemperar  nelPazione  i  tre  stati  e  i  tre  diversi  caratteri  del  ro- 
mano  impero  con  una  dignita  e  semplicita  di  stile,  che  non  e  n6 
inferiore  ne  superiore  al  soggetto. 


1.  Perfetta  poesia:  il  trattato  Della  perfetta  poesia  italiana,  pubblicato  ncl 
1706.  Questo  giudizio  del  Cesarotti  &  assai  notevole,  perche  d&  la  misura 
della  diflerenza  del  suo  gusto  rispetto  a  quello  della  generazione  arcadica, 

2.  Esami  cntici:  allude  ai  giudizi  cntici  stesi  dal  Corneille  su  ognuna  delle 
sue  tragedie  per  1'edizione  completa  delle  sue  opere  (1660).     3.  Riflessioni 
.  .  .  Sassonia:  le  Reveries  militaires  di  Maunzio  di  Sassonia,  pubblicate 
nel  1731.     4.  Antonio  Conti  (1677-1749),  una  delle  menti  piu  acute  della 
cultura  itahana  ed  europea  del  pnmo  Settecento,  scnsse  quattro  tragodic 
di  argomento  romano,  corredate  di  lunghe  Prefaxwni  (cfr.  Quattro  tragedie, 
Firenze  1751),  in  cui  1'autore  illustra  e  difende  1'ideale  di  una  tragedia  am- 
mata  da  intenti  di  educazione  morale  e  civile  ma  fondata  ngorosamentc  sulla 
realta  storica.  In  particolare,  nella  prefazione  al  Druso,  cgh  dichiara  di 
aver  voluto  rappresentare  (cTinstituzione  della  liberta  c  del  consolato»  nel 
Giunio  Bruto;  «il  tentative  di  cangiar  la  repubblica  in  monarchia»  nel 
Giulio  Cesare  (lodato  dal  Cesarotti  nella  postilla  critica  alia  sua  traduzione 
della  Morte  di  Cesare  di  Voltaire) ;  e  infine  « lo  sforzo  di  restituir  con  la  pn- 
ma  liberta  la  repubblica,  uccidcndo  il  tiranno »  nel  Marco  Bruto. 


L'ORIGINE    E   I    PROGRESSI   DELL'ARTE   POETICA  8l 

Ma  per  tornare  alia  Francia,  poco  dopo  Cornelio,  insorte  le  gare 
tra  i  partigiani  degli  antichi  e  quei  de'  moderni,  svegliarono  gli 
spirit!  a  pensare  piu  ampiamente  sopra  tutta  la  scienza  poetica. 
La  disputa  fra  Perrault  e  Despreaux1  non  fu  che  un  preludio  di 
veliti.  Perrault,  con  un  buon  senso  qualche  volta  grossolano, 
mancava  di  cognizione  della  lingua  e  de'  costumi  dei  Greci; 
egli  era  un  forastiero,  che  volea  censurar  le  usanze  d'un  paese 
innanzi  di  conoscerle:  ma  Despreaux  dall'altra  parte  credeva  che 
un  tratto  spiritoso,  e  il  rilevare  con  picciola  malignita  qualche 
errore  molte  volte  indifferente  del  suo  awersario,  bastasse  per 
assicurar  la  vittoria  al  suo  partito. 

II  partito  di  Perrault  fu  sostenuto  da  successori  molto  meglio 
agguerriti.  II  sig.  de  La  Mothe2  avanz6  nelle  cose  poetiche  molte 
proposizioni  ardite  e  le  sostenne  con  forza  di  discorso.  Egli  posse- 
deva  la  logica,  ma  non  sapeva  che  la  logica  della  poesia  e  alquanto 
diversa  dalla  ordinaria;  egli  avea  molto  spirito  ma  non  conoscea 
che  lo  spirito;  e  non  sembra  che  intendesse  bene  quanta  distanza 
passi  ancora  tra  una  prosa  sensata  e  viva  e  la  poesia.  II  vero  Omero 
co'  suoi  difetti  aggradevoli  gradira  sempre  piu  che  il  suo  Omero 
riformato  colle  sue  fredde  ed  affettate  virtu. 

La  Dissertazione  critica  delFab.  Terrasson  sopra  Ylliade3  con- 
tiene  le  regole  piu  perfette  del  poema  epico:  egli  rilev<b  egregia- 
mente  i  difetti  d' Omero,  ma  e  gran  difetto  suo  di  non  sentirne  le 
bellezze.  Questa  sara  forse  la  ragione  per  cui  il  sig.  di  Voltaire, 
con  un  giudizio  veramente  alquanto  rigido,  chiama  il  suo  esame 
critico  «  senza  gusto  » :4  non  era  certo  il  gusto  di  raziocinio  che  gli 
mancava.  In  generale  i  censori  dichiarati  d' Omero  misurano  e 
calcolano  troppo,  e  sentono  troppo  poco;  i  partegiani  fanatici  cre- 

i .  La  disputa  .  .  .  Despreaux :  la  «  querelle  des  anciens  et  des  modernes  »  si 
fa  miziare  con  il  poema  sul  Siecle  de  Louis  le  Grand,  letto  airAccademia  il 
2,6  gennaio  1687,  del  Perrault  e  i  Paralleles  des  anciens  et  des  modernes,  pub- 
blicati  fra  il  1688  e  il  1697,  dello  stesso;  a  cui  il  Boileau  rispose  nel  1694  con 
le  prime  nove  Reflexions  sur  Longin,  in  cui,  senza  entrare  nella  questione 
generale,  difendeva  Omero  e  Pindaro.  2.  Antoine  Houdar  de  La  Motte 
(1672-1731)  scrisse  delle  Reflexions  sur  la  critique  (1716),  dove  difendeva 
il  suo  famoso  nfacimento  dzll'Ihade  (1713),  al  quale  allude  piu  avanti  il 
Cesarotti.  Nel  suo  giudizio  questi  riecheggia  probabilmente  il  Voltaire, 
Du  siecle  de  Louis  XIV,  in  Oeuvres,  xn,  Paris,  Hachette,  1904,  p.  418. 
3.  Dissertazione  .  .  .  Iliade:  la  Dissertation  critique  sur  l\Iliade »  d'Homere  di 
Jean  Terrasson  (1670-1750),  pubblicata  nel  1715,  e  tipico  esempio  di  cri 
tica  razionalistica.  4.  Cfr.  Du  siecle  de  Louis  XIV,  in  Oeuvres,  xn,  ed. 
cit.,  p.  103. 


82  MELCHIORRE    CESAROTTI 

dono  di  sentire  piu  di  quel  che  sentono,  e  mostrano  d'intender 
meno.  Quelli  prendono  sempre  Omero  per  poeta  moderno  o 
franzese,  essi  fanno  il  processo  ad  un  americano  sopra  le  leggi 
europee;  questi  si  abusano  troppo  spesso  della  scusa  del  secolo: 
le  leggi  della  ragione  sono  di  tutti  i  secoli  e  di  tutti  paesi:  chi  le 
ha  trasgredite,  potra  forse  meritar  scusa;  ma  chi  merita  scusa,  e 
molto  vicino  alia  colpa. 

Uno  de'  migliori  libri  che  esistano  sopra  queste  materie,  sono 
le  Riflessioni  dell'ab.  Du  Bos  sopra  lapoesia  e  lapittura.1  Esse  sono 
ugualmente  fine,  delicate  e  giudiziose;  vi  si  scorge  Puomo  che 
sente  e  che  pensa.  Nissuno  meglio  di  lui  conobbe  quali  siano  le 
qualita  che  costituiscono  essenzialmente  un  poeta  e  gli  assicurano 
I'immortalita,  ne  su  qual  base  debba  appoggiarsi  il  ragionamcnto 
intorno  le  cose  poetiche;  egli  os6  appellarsi  al  giudizio  di  quel 
popolo  istruito  dalla  natura,  e  dar  1'esclusiva  al  tribunale  incompe- 
tente  de'  freddi  speculatori,  i  quali  mancando  di  sentimento,  ch'e 
Panima  ugualmente  del  genio  e  del  gusto,  non  possono  che  dar 
giudizi  simili  a  quello  di  quel  cieco  filosofo,  il  quale  decise  che  il 
color  rosso  e  simile  al  suon  della  tromba.  Pure  sembra  qualche 
volta  che  egli  per  correggere  un  eccesso  cada  in  un  altro,  e  che, 
compensando  negli  scrittori  troppo  facilmente  i  difetti  colle  virtu, 
possa  dar  ansa  a  molti  cervelli  gagliardi  di  abbandonarsi  all'istinto 
e  alia  fantasia.  I  poeti  non  debbono  veramente  esser  ritenuti  per 
un  filo  come  i  piccioli  augelli ;  si  lascino  pure  spaziare  Hberamente 
per  Tana  come  i  falconi,  purche  al  primo  cenno  del  padrone  tor- 
nino  al  pugno. 

Esenti  da  questo  difetto,  piu  metodiche  ed  ugualmente  cccellenti 
sono  le  Riflessioni  sopra  la  poetica  del  sig.  Fontenelle.2  Si  sentc  per 
esse  lo  spirito  filosofico,  che  bisogna  guardarsi  di  confonder,  come 
molti  fanno,  col  geometrico:  sicch£  non  pu6  sembrar  che  assai 
strano  ed  ingiusto  il  giudizio  del  sig.  C16ment,3  il  quale  chiama 
la  sua  poetica  senza  gusto  di  poesia.  Naturalmente  il  desiderio 

i .  Riflessioni  .  .  .  pittura :  le  Reflexions  critiques  sur  la  pofaie  et  la  peinture, 
piti  volte  ricordate  dal  Cesarotti  nel  Ragionamento  precedente.  z,  Rifles 
sioni  .  .  .  Fontenelle:  le  Reflexions  sur  la  poe'tique,  anch'esse  citate  dal  Cesa 
rotti  nel  Ragionamento  precedente;  ma  e  probabile  che  qui  egli  abbia  pre- 
sente  anche  il  trattato  Sur  la  podsie  en  general,  su  cui  cfr.  la  nota  a  p.  55. 
3.  giudizio  .  .  .  Clement:  1'Ortolani  ritiene  che  il  Cesarotti  alluda  a  Pierre 
Clement  (1707-1767),  che  pubblic6  dal  1749  al  1754  Les  cinq  ann&es  litte- 
raires  ou  Lettres  sur  les  ouvrages  de  litterature. 


L'ORIGINE   E   I    PROGRESSI   DELL'ARTE   POETICA  83 

di  tratteggiare1  non  Iasci6  ben  riflettere  questo  scrittor  spiritoso 
a  quel  die  dicesse:  questo  non  n'e  il  solo  esempio. 

II  Saggio  sopra  il  poema  epico  del  sig.  di  Voltaire2  e  degno 
dello  scrittor  dell'Enriade:  la  sensatezza  de'  suoi  principii  e  Fim- 
parzialita  e  finezza  de'  suoi  giudizi  sono  atte  a  formar  un  poeta  di 
tutte  le  nazioni  come  lo  e  egli  medesimo,  quando  per6  si  trovi 
un  genio  poetico  simile  al  suo. 

II  Corso  di  belle  lettere  dell'ab.  Batheux3  h  utilissimo  per  for 
mar  il  gusto  de'  giovani,  e  il  suo  discorso  preliminare  pu6  illuminare 
i  provetti.  Ma  neH'applicazione  de'  suoi  principii,  particolarmente 
sopra  la  tragedia  e  il  poema  epico,  egli  si  mostra  alquanto  prevenuto 
per  le  opinioni  comuni. 

Molti  principii  di  gusto,  molti  lumi  filosofici,  molti  giudizi  fini 
e  sensati  si  trovano  sparsi  nella  Teoria  de'  sentimenti  aggradevoli 
del  sig.  Farmers,4  nei  Ragionamenti  e  nelle  Prefazioni  dell'ab. 
Conti,5  nello  « Spettatore »  dell'Addisson,6  nel  Saggio  di  critica  e 
ne'  Discorsi  sopra  Omero  del  Pope,7  nel  ragionamento  del  cavalier 
Temple  Sopra  lapoesia*  nel  libro  del  sig.  Elvezio9  e  nella  disserta- 
zione  del  sig.  Hume  Sopra  la  regola  del  gusto™  la  quale  e  come 
il  filo  d'Arianna,  che  dirige  perfettamente  in  questo  complesso 

i.  tratteggiare:  pronunciare  tratti,  motti  di  spirito.  2.  Saggio  .  .  .  Voltaire: 
VEssai  sur  lapo&ie  epique,  pubblicato  per  la  prima  volta  in  inglese  nel  1726, 
e  poi  in  francese  nel  1733,  e  uno  dei  testi  fondamentali  del  pensiero  estetico 
deirilluminismo.  3.  Corso  .  .  .  Batheux:  il  Cours  de  belles  lettres  di  Char 
les  Batteux  (1713-1780),  piu  noto  per  il  trattato  Les  beaux  arts  reduits  a  un 
memepnncipe  (1746),  ispirato  a  criteri  fortemente  intellettualistici.  4.  Teo 
ria  .  .  .Pamiers:  come  nota  I'Ortolani,  la  Theorie  des  sentiments  agreables  non 
appartiene  al  Pamiers,  ma  a  Louis  Jean  LeVesque  de  Pouilly  (1691-1750), 
che  la  pubblic6  nel  1747 :  e  un  trattato  di  orientamento  empiristico.  5.  Ra 
gionamenti  .  .  .  Conti:  allude  ai  trattati  di  estetica  pubblicati,  o  riassunti 
dal  Toaldo,  nelle  Prose  epoesie  citate;  e  alle  Prefazioni,  pure  citate,  alle  sue 
quattro  tragedie.  6.  nello  « Spettatore »  dell'Addisson:  TAddison  pubblic6 
nello  «  Spectator))  vari  saggi  di  estetica:  nel  n.  62  (1711)  il  saggio  sul  «wit »; 
nel  n.  160  (1711),  sul  «genius»;  nel  n.  409  (1712),  sul  « taste »;  nei  nn.  411- 
21,  sui  ((pleasures  of  imagination  ».  7.  Saggio  .  .  .  Pope:  allude  all' Essay  on 
Criticism  (1711),  diffusissima  volgarizzazione  dell'estetica  empiristica  (in 
Italia  fu  tradotto  dal  Gozzi  nel  1758),  e  ai  tre  discorsi  rispettivamente  in 
elogio  di  Omero,  sulla  sua  vita  e  sui  combattimenti  dell'Iliade,  premessi 
alia  traduzione  in  inglese  dell'Iliade  (1715-1720).  8.  ragionamento  .  .  . 
poesia:  il  saggio  Of  Poetry  di  William  Temple  (1628-1699),  anch'esso 
ispirato  all'estetica  empiristica.  9.  libro  .  .  .  Elvezio:  allude  al  trattato  De 
I' esprit  (1758)  -  senza  citarne  il  titolo,  forse  perche",  come  pensa  I'Ortolani, 
il  libro  era  stato  condannato  -,  in  cui  si  trattano  anche  questioni  estetiche 
con  metodo  prevalentemente  sensistico.  10.  Sopra.  .  .  gusto:  il  saggio, 
piu  volte  ricordato,  Of  the  Standard  of  Taste. 


84  MELCHIORRE    CESAROTTI 

ed  awiluppato  labirinto,  da  cui  a  prima  vista  sembra  impossible 
trovar  Tuscita. 

Per  mezzo  di  questi  celebri  scrittori  Farte  poetica  sembra  ormai 
giunta  al  piu  alto  grado  di  perfezione.  Contuttoci6  parmi  ancora 
che  manchi,  particolarmente  all' Italia,  un'opera  piu  ampia,  piu 
metodica,  piu  universale;  in  cui,  prescindendo  intieramente  da 
qualunque  esempio,  autorita  o  stabilimento,  si  cerchino  nello  spi- 
rito  e  nel  cuore  umano  le  prime  tracce  della  poesia,  ed  accompa- 
gnandole  passo  passo  colla  scorta  della  ragione,  senza  mai  perderla 
d'occhio,  si  facciano  scorrer  le  regole  necessariamente  dal  loro 
primo  fonte,  distinguendo  quelle  che  sono  essenziali  e  di  natura, 
da  quelle  che  non  sono  che  di  riflesso  e  di  congruenza;  ed  espo- 
nendole  con  quel  metodo  con  cui  si  sono  scoperte,  senza  imporre 
e  preoccupar  1'animo  con  definizioni,  le  quali  senza  premetter1 
le  osservazioni  non  possono  ne  formarsi  ne  intendersi  esattamente ; 
in  cui  s'insegni  a  distinguere  e  ad  appreziare  secondo  il  lor  giusto 
valore  le  bellezze  universali  e  di  natura  dalle  locali  e  particolari; 
in  cui  finalmente,  escludendo  tutte  le  ridicole  prevenzioni  per  an- 
tichi,  moderni,  nazionali  e  stranieri,  si  esamini  la  religionc,  le 
leggi  e  i  costumi  di  tutti  i  popoli  cogniti  e  la  influenza  che  dcbbono 
aver  necessariamente  sopra  la  poesia,  i  pregiudizi  cd  i  vantaggi 
che  ne  risultano,  e  Tuso  ragionevole  che  potrebbe  farsene,  c  su 
quesfuso  dei  rispettivi  costumi,  non  sopra  i  costumi  medesimi, 
si  fondi  una  ragionevole  ccnsura  de'  principali  poeti,  che  diriga  il 
genio  e  fissi  il  gusto  per  modo  che  in  mezzo  al  conflitto  di  tante 
varie  opinioni  e  costumi,  c  nella  immensa  distanza  di  paesi  e  di 
secoli,  la  perfetta  poesia  sia  universalmente  ed  ugualmente  rico- 
nosciuta  e  gustata,  e  quel  ch'ella  ha  di  straniero  serva  non  a  ributtar 
chi  la  legge,  ma  a  condirla  di  novita,  e  a  renderla  piu  istruttiva  e 
piu  dilettevole.  Con  un  tal  metodo  si  spargerebbe  sopra  le  vere 
regole  un  lume  che  non  lascerebbe  luogo  al  dubbio  o  aH'ambiguitk; 
d'un'arte  incerta,  appoggiata  su  principii  vaghi  e  precari,  se  ne 
farebbe  una  scienza  suscettibile  di  dimostrazione ;  si  fuggirebbero 
ugualmente  gli  eccessi,  e  di  quei  che  dispregiano  1'arte  indistinta- 
mente,  e  di  quei  che  col  compasso  alia  mano  giudicano  delle  bel 
lezze  poetiche;  di  quelli  che  giustificano  tutto  coi  costumi  stra 
nieri,  e  di  quei  che  giudicano  di  tutto  secondo  i  costumi  della  loro 

i. premetter:  cosl  sembra  di  dover  corrcggcrc  «permetter»,  che  si  legge 
neU'edizione  1762  e  che  e  accolto  anche  dal  Barbieri  c  daH'Ortolani. 


L'ORIGINE   E    I    PROGRESSI   DELL'ARTE   POETICA  85 

nazione;  si  reciderebbero  mille  precetti  arbitrari,  si  troncherebbero 
mille  vane  contese,  si  toglierebbero  le  ridicole  pretensioni  esclu- 
sive  e  le  avversioni  di  gusto,  si  prevenirebbero  mille  ingiusti  giu- 
dizi,  e  si  assicurerebbe  ad  ogni  poeta  quel  giusto  grado  di  gloria 
di  cui  per  la  prevenzione  sono  generalmente  defraudati  in  vita, 
e  di  cui  rari  godono  pienamente  ancor  dopo  morte. 

Con  queste  viste  io  mi  sono  abbozzato  in  mente  il  piano  d'un'o- 
pera,  di  cui  per  ora  mi  contenterc-  di  presentar  al  pubblico  il  solo 
disegno.  L'opera  dovrebb'essere  divisa  in  due  libri,  e  il  primo 
libro  in  due  parti.  Nella  prima  si  supporrebbe  che  non  esista  an- 
cora  ne  la  poesia  ne  Tarte  poetica,  e  prenderebbesi  a  rintracciare 
per  quali  strade  un  ragionatore  illuminato  di  qualsivoglia  nazione 
avrebbe  potuto  accorgersi  della  possibilita  d'una  tal  arte,  e  come 
per  quelle  medesime  1'avrebbe  perfezionata:  ognuno  si  vedria  na- 
scere  e  crescere  la  poesia,  per  dir  cosi,  tra  le  mani,  e  potrebbe  assi- 
curarsi  della  verita  dei  principii  col  testimonio  del  proprio  interno 
sentimento :  nella  seconda,  prescindendo  da  qualunque  fatto  istori- 
co,  si  esaminerebbe  colla  pura  ragione  quali  modificazioni  debba 
ricever  la  poesia  da'  diversi  sistemi  religiosi,  politici  e  morali  de' 
vari  popoli.  II  secondo  libro  conterrebbe  un'istoria  ragionata  della 
poesia  di  tutte  le  nazioni  ed  un'analisi  imparziale  delle  opere  de' 
piu  famosi  poeti,  la  quale  serviria  di  esempio  e  di  prova  di  fatto 
a  quanto  si  fosse  stabilito  nel  libro  precedente  sopra  i  soli  ragiona- 
menti.  Una  Storia  filosofica  della  poesia  era  gia  stata  progettata 
dall'ab.  Antonio  Conti,  il  quale  nella  Prefazione1  alle  sue  opere 
ne  apre  un  prospetto  magnifico  e  corrispondente  alia  sua  vasta  let- 
teratura  ed  al  suo  spirito  sistematico.  Capace  di  adeguare  Tampiezza 
della  materia  sarebbe  pure  tra'  nostri  la  dotta  penna  delPeccellen- 
tiss.  sig.  Sebastiano  Molino,2  il  quale  in  un  discorso  manoscritto 
da  lui  composto  molt'anni  fa  e  ben  degno  della  pubblica  luce, 
ragiona  deU'origine  della  poesia  con  sublimita  di  principii,  nobilta 
di  stile  ed  erudizione  poco  comune,  cosicche  farebbe  desiderare 
ch'egli  potesse  rivolgersi  intieramente  a  siffatti  studi,  se  la  dignita 
sua  non  lo  richiamasse  a  piu  giovevoli  ed  importanti  soggetti. 

Quanto  a  me,  bench'io  conosca  assai  bene  che  un  tal  progetto 
richiederebbe  ingegno  e  dottrina  molto  maggior  della  mia,  pure 

i.  La  Prefazione  pubblicata  dal  Conti  stesso  in  testa  al  I  volume  dell'edi- 
zione  citata  delle  sue  Prose  e  poem.  2.  Sebastiano  Molino  (1701-1768), 
uomo  politico  veneziano. 


86  MELCHIORRE    CESAROTTI  * 

non  e  impossibile  ch'io  m'accinga,  quando  che  sia,  ad  eseguirlo: 
ne  per6  mi  rincrescera  di  vedermi  prevenuto  da  qualche  altro, 
e  mi  compiacerc-  abbastanza  d'aver  additata  quella  via  ch'io  credo 
la  migliore  e  la  piu  sicura  d'ogn'altra. 


DALLE  ((POESIE  DI  OSSIAN 
ANTICO  POETA  CELTICO» 

DISCORSO  PREMESSO  ALLA  SECONDA  EDIZIONE 
DI   PADOVA  DEL   1772 

L'edizione,  che  ora  si  presenta  al  pubblico,  dei  poemi  di  Ossian 
trasportati  in  verso  italiano,  oltre  Tesser  compiuta,  contenendo 
tutti  i  componimenti  di  questo  poeta,  che  uscirono  finora  alia  luce, 
ha  di  piu  molli  notabili  vantaggi  sopra  la  precedente,  anche  ri- 
spetto  alia  parte  gia  pubblicata  nel  1763.  Innanzi  a  tutto  si  ebbe 

La  prima  conoscenza  di  Ossian  da  parte  del  Cesarotti  risale  agli  ultimi 
mesi  del  1762,  quando  egli  a  Venezia  ebbe  la  possibilita  di  leggere,  aiu- 
tato  dall'amico  Carlo  Sackville,  il  Fingal,  pubblicato  Panno  precedente 
dal  Macpherson.  II  suo  entusiasmo  fu  tale  che  egli  si  accmse,  sempre 
con  Paiuto  del  Sackville,  a  tradurre  in  versi  italiam  e  quel  poema  e  gli  altn 
che  il  Macpherson  era  venuto  pubblicando  nel  frattempo.  La  traduzione, 
miziata  probabilmente  tra  la  fine  del  1762  e  il  principio  del  1763,  e  uscita 
nel  dicembre  del  1763  in  due  volumi,  a  Padova  presso  il  Commo,  compren- 
deva  tutti  i  poemi  ossianici  stampati  dal  Macpherson  nel  1762  (tranne 
Oitona  e  Berato),  ed  era  corredata,  oltre  che  dalle  note  esplicative  del  lette- 
rato  scozzese,  anche  da  una  sene  di  osservazioni  di  carattere  morale  ed  este- 
tico,  aggiunte  dal  Cesarotti  stesso  alia  fine  di  ogni  canto  o  di  ogni  poemetto. 
II  favore  con  cui  fu  accolta  tale  edizione,  e  soprattutto  il  suo  personale 
appassionamento  per  Ossian,  spmsero  il  Cesarotti  a  stampare  una  seconda 
edizione  nel  1772  (ancora  presso  il  Comino  di  Padova)  in  quattro  tomi, 
i  quah  comprendevano,  oltre  le  traduzioni  rivedute  e  corrette  dei  poemetti 
gia  stampati  nella  prima,  anche  quelle  di  tutti  gli  altri  scritti  ossianici 
pubblicati  dal  Macpherson  dopo  il  1762.  In  questa  seconda  edizione 
vennero  soppresse  le  osservazioni  del  traduttore,  solo  in  piccola  parte 
riprese  e  rifuse  in  alcune  note  a  pie  di  pagina;  ma  in  compenso  vi  com- 
parve  un  Discorso  mtroduttivo,  il  Ragionamento  preliminare  intorno  i 
Caledom,  la  traduzione  della  Dissertazione  cntica  del  Blair,  un  Indice  dei  no- 
mi  e  delle  cose  principali  contenute  nelle  poesie  di  Ossian  e  un  Dizionano 
di  Ossian,  ossia  Raccolta  delle  parole  ed  espressioni  piu  singolari  e  notabili 
che  s'incontrano  in  queste  poesie,  colla  dichiarazione  dei  modi  piu  oscuri. 
Nella  terza  e  definitiva  edizione,  pubblicata  a  Pisa  nel  1801,  pure  in 
quattro  tomi  (Opere,  n-v),  il  Cesarotti,  come  dice  VAvviso  degli  editori 
(certo  scritto  o  ispirato,  al  solito,  dall'autore  stesso),  «si  compiacque  di 
riveder  nuovamente  la  sua  traduzione  da  capo  a  fondo,  collazionandola 
col  testo  inglese,  e  insieme  anche  colla  traduzione  francese  del  Le  Tour- 
neur,  revisione  che  produsse  alcuni  leggeri  cangiamenti  atti  a  fissare, 
sviluppare  e  far  gustar  meglio  il  senso  delPautor  celtico.  Quel  ch'e  piu, 
ci6  gli  diede  occasione  di  spargere  per  tutto  il  corso  dell'opera  una  folia 
di  piccole  ma  preziose  annotazioni,  nelle  quali,  confrontando  le  sue  espres 
sioni  con  quelle  del  testo,  rende  ragione  delle  piccole  diversity  che  ci 
corrono,  come  pure  delle  hbert£  ch'egli  non  ebbe  scrupolo  di  prendersi, 
ove  gli  parve  d'esser  autonzzato  o  dal  buon  senso  o  dal  gusto ».  Ma  oltre 


88  MELCHIORRE    CESAROTTI 

principal  cura  di  rischiarare  il  testo  delPautore,  di  spianarne  le 
difficolta  e  di  aiutare  ancor  piu  che  per  Pinnanzi  Pintelligenza  e  la 
memoria  de'  leggitori.  E  siccome  Pimbarazzo  di  chi  legge  pu6  ri- 
sultar  e  dall'oscurita  dei  fatti  e  dalla  novita  dello  stile,  s'e  cercato  di 
provvedere  ugualmente  alPuno  ed  all'altro.  A  questo  fine  si  e  pre- 
messo  all'opera  un  ragionamento  preliminare,  che  prepari  gli  spiriti 
a  questa  lettura,  presenti  un  compendio  delle  cose  piu  necessarie 
a  sapersi  e  prevenga  quella  sorpresa  che  suoi  arrestare  e  confon- 
dere;  si  e  largheggiato  nelle  annotazioni,  che  tendono  a  fissar  il 
senso  piu  volte  ambiguo  delPoriginale  e  a  ricordar  le  usanze  de' 
Caledoni,  a  cui  fa  allusione  il  poeta;  finalmente  si  aggiunsero  ncl 
fine  due  indici  copiosi  ed  esatti,  Puno  dei  nomi  e  delle  cose,  Paltro 
delle  maniere  e  locuzioni  piu  singolari  o  notabili  colle  loro  oppor- 

che  per  questa  revisione  e  per  Paggiunta  di  qucste  nuove  note,  la  terza 
edizione  si  distingue  dalla  scconda  in  quanto  riprende  quasi  tutte  le  os- 
servazioni  della  prima,  in  parte  mserendole  fra  le  note  a  pie  di  pagina, 
m  parte  raggruppandole  alia  fine  di  ogm  tomo.  Inoltre  VIndice  dei  nomi 
e  delle  cose  viene  ora  sostituito  da  un  Indice  poetico  « non  gia  disposto  per 
alfabeto,  ma  classificato  e  distribuito  secondo  1'ordme  c  le  division!  del- 
1'artew,  in  cui  sono  «accennati  coll'mdicazion  delle  pagme  i  luoghi  pid 
distinti,  nei  quali  risplende  Peccellcnza  di  Ossian  in  ciascheduno  dei  vari 
pregi  poetici»;  mentre  il  Dizionano  e  ampliato  con  Taggiunta  di  altre 
frasi  ed  espressioni  caratteristiche,  tra  le  quali  sono  « anche  cornprese  e 
contrassegnate  molte  locuzioni  del  traduttore ».  Invece  la  traduzione  della 
Dusertazione  del  Blair  e  qui  sostituita  da  un  Compendio  della  stessa  fatto 
dal  Cesarotti,  e  da  lui  corredato  di  nuove  note.  Su  questa  terza  e  dcfimtiva 
sono  condottc  tutte  le  numerose  edizioni  successive  complete  c  parziali 
(un  elenco  in  K.  WEITNAUER,  Ossian  m  der  ttahenischen  Literatur,  in  « Zeit- 
schrift  fur  vergleichende  Literaturgeschichte »,  Neue  Folge,  xvi,  Berlin 
1906).  Le  miglion  scelte  commentate  sono:  Poesie  di  Ossian,  a  cura  di 
G.  Balsamo  Cnvelh,  Torino,  Paravia,  1924,  che  pero  riproduce  solo  in 
parte  le  note  del  Cesarotti;  e  quella  comprcsa  nelle  Opere  scelte,  a  cura 
di  G.  Ortolani,  citate,  che  riporta  invece  tutte  queste  note,  aggiungendo 
anche  le  vananti  pnncipali  tratte  dalle  due  edizioni  precedent!,  Nella 
nostra  scelta,  neccssanamcntc  hmitata,  si  sono  riportati,  oltre  I'lmportante 
Discorso  mtroduttivo,  Fmgal,  il  primo  poema  tradotto  c  quello  corredato 
dalle  note  piu  abbondanti  ed  intcressanti,  e,  tra  i  pocmctti  mmori,  Cartons, 
I  canti  di  Selma  e  La  notte,  non  tanto  pcrch6  sumo  in  senso  assoluto  i 
migliori,  quanto  perche"  sono  sembrati  i  piti  adatti  a  mostrare  nei  suoi  vari 
aspetti  ed  anche  nei  suoi  limit!  il  gusto  del  Cesarotti  traduttore,  e  anche 
perch6  sono  tra  i  piti  ricchi  di  quclle  immagini  e  di  quei  moduli  stilistici, 
di  cui  si  varranno  i  poeti  successivi  c  particolarmcnte  il  Foscolo  e  il  Leo- 
pardi.  II  nostro  testo  riproduce  quello  dell'edizione  pisana  del  1801,  ma 
tiene  presenti  le  due  edizioni  antcriori,  non  solo  per  correggere  gli  eventuali 
errori  della  terza,  ma  anche  per  trarne  le  vananti  nspetto  a  questa,  va- 
rianti  che  ci  e  sembrato  opportune  riprodurre  mtegralmente  (indicando 
quellc  della  pnma  edizione  con  la  sigla  I  e  quella  della  scconda  con  la 


POESIE   DI    OSSIAN  89 

tune  dichiarazioni.1  Molti  di  quest!  modi  di  dire  non  sono  vera- 
mente  di  Ossian;  tutti  per6,  s'io  non  m'inganno,  sono  lavorati  sul 
medesimo  tornio  e  corrispondono  alia  forma  di  concepire  e  di  espri- 
mersi  ch'e  naturale  a  questo  poeta.  lo  so  bene  che  alcune  di  queste 
locuzioni  non  sarebbero  sofferte  in  una  poesia  che  fosse  origina- 
riamente  italiana,  ma  oso  altresi  lusingarmi  che  abbia  a  trovarsene 
piii  d'una,  che  possa  forse  aggiungere  qualche  tinta  non  infelice  al 
colorito  della  nostra  favella  poetica,  e  qualche  nuovo  atteggiamento 
al  suo  stile.  Questo  e  il  capo  per  cui  specialmente  puo  rendersi 
utile  una  traduzione  di  questo  genere,  e  questo  e  Toggetto  ch'io  mi 
sono  principalmente  proposto.  lo  osai  dire  a  me  stesso  con  Orazio: 

.  .  .  Ego  cur,  acquirere  pauca 
si  possum,  invideor?2 

I  poemi  gia  pubblicati  furono  da  me  riveduti,  ritoccati  e  corretti 
in  piu  d'un  luogo ;  avendo  io  profittato  assai  volentieri  degli  awisi 
delle  persone  d'intelligenza  e  di  gusto  in  queste  materie.  E  qui, 
poiche  mi  cade  in  acconcio,  e  ben  dritto  ch'io  renda  onorata  testi- 
monianza  a  quelli  che  furono  distintamente  benemeriti  di  questa 
fatica.  S'io  potei  far  qualche  piacere  agli  amatori  della  poesia,  pre- 
sentando  loro  le  opere  di  Ossian  tradotte  nella  nostra  lingua,  pro- 
testo  dinanzi  al  pubblico,  con  una  dolce  compiacenza,  di  doverlo 
principalmente  al  signor  Carlo  Sakville,3  gentiluomo  inglese,  a  cui 
da  molto  tempo  sono  stretto  coi  vincoli  della  piu  cara  amicizia. 
Questo  giovine  signore,  intendentissimo  della  lingua  italiana  e  di 
ottimo  gusto  nella  poesia  come  in  tutte  le  buone  arti,  abitando 
allora  in  Venezia,  non  solo  mi  diede  le  prime  notizie  di  questo 

sigla  n),  dato  Finteresse  che  esse  rivestono  per  chi  voglia  seguire  Pelabo- 
razione  stihstica  di  opere  cosl  important!  appunto  nella  storia  dello  stile 
preromantico  e  romantico  italiano.  Sono  poi  nportate,  naturalmente,  le 
note  a  pie  di  pagina  del  Cesarotti  e  quelle  del  Macpherson  da  lui  tradotte, 
e  che  verranno  indicate  rispettivamente  con  le  sigle  C  ed  M.  Per  mag- 
gior  chiarezza  le  abbiamo  fatte  precedere,  in  corsivo,  dalle  parole  cui  si 
riferiscono.  Nelle  citazioni  in  nota  dtWIliade  il  Cesarotti  rinvia  alia  propria 
traduzione  in  versi,  intitolata  Morte  di  Ettore  (i?95);  fra  parentesi  quadre 
diarno  i  numen  dei  versi  del  testo  greco.  II  Discorso  premesso  alia  seconda 
edizione  di  Padova  del  1772  e  tratto  dalle  Opere,  II,  pp.  1-19;  nella  edizione 
del  1772  il  titolo  era  //  traduttore  italiano  a  chi  legge. 

i.  A  questo  fine  .  .  .  dichiarasioni:  cfr.  il  cappello  che  precede.  2.  Cfr.  Ars 
poet.,  55-6  («Se  io  posso  acquistare  [alia  lingua  latina]  qualche  nuova 
espressione,  perch6  impedirmelo ? »).  3.  Carlo  Sakville:  o  Sackville,  nato 
a  Venezia  di  padre  inglese. 


QO  MELCHIORRE   CESAROTTI 

straordinario  poeta  e  me  ne  fece  gustar  qualche  saggio,  ma  m'ina- 
nim6  gagliardamente  a  intraprender  questa  fatica ;  tuttoch6  allora 

10  non  fossi  atto  ad  eseguirla  da  me,  avendo  appena  qualche  tintura 
della  lingua  inglese.  Scortato  dalla  sua  perpetua  assistenza  per  Pin- 
telligenza  letterale  del  testo,  giunsi  a  metter  in  verso  la  prima  parte 
di  queste  poesie;  e  mi  resi  poi  atto  a  compier  da  me  solo  ii  restante 
delPopera,  quando  comparvero  gli  altri  componimenti  di  Ossian. 
La  parte  gia  data  al  pubblico,  e  molti  poemi  della  seconda,  furono 
ultimamente  riveduti  da  capo  a  fondo  e  confrontati  col  testo  inglese 
dal  signor  Domenico  Trant,  gentiluomo  d'Irlanda,  fregiato  ugual- 
mente  della  soda  e  della  polita  letteratura  e  di  candidissimi  costumi ; 

11  quale,  a  riserva  d'alcuni  pochi  luoghi,  onoro  la  mia  opera  della  sua 
lusinghiera  ed  autorevole  approvazione.  Nella  stessa  guisa  avrei 
fatto  uso  assai  di  buon  grado  dei  consigli  di  tutte  le  persone  illu 
minate,  se  gli  uomini  fossero  tanto  pronti  ad  ammonire  cortese- 
mente,  quanto  lo  sono  a  vilipendere  e  a  mordere. 

Ad  ogni  modo  per6  mi  sarcbbe  stato  impossibilc  di  soddisfare  al 
desiderio  di  tutti  i  lettori.  Alcuni  brameranno  forsc  un'esattezza 
piu  scrupolosa;  altri  per  avventura  avrebbero  voluto  ch'io  mi  fossi 
scordato  affatto  che  Ossian  fosse  caledonio,  e  che  lo  avessi  sfigurato 
per  farlo  italiano :  ciascheduno  legge  una  traduzione  con  uno  spirito 
differente,  e  in  questo  genere,  come  negli  altri,  il  pregiudizio  tiene 
spesso  il  luogo  della  ragione.  Quanto  a  me,  ho  scguito  costante- 
mente  lo  stesso  metodo  di  tradurre,  cioe  d'esser  piu  fedele  allo 
spirito  che  alia  lettera  del  mio  originale,  e  di  studiarmi  di  tener  un 
personaggio  di  mezzo  fra  il  traduttore  e  Pautore.  Scorgo  con  molta 
compiacenza  che  tutte  le  mie  idee  precedenti  intorno  Parte  del 
tradurre  si  accordano  perfettamente  colle  dottrine  che  ne  (1&  il  si 
gnor  d'Alembert  nelle  sue  osservazioni  sopra  quest'arte,  premesse 
alia  sua  traduzione  d'alcuni  squarci  di  Tacito.1  II  giudizio  e  Pcsem- 
pio  di  questo  grand'uomo  compensa  largamente  i  buoni  traduttori 
dell'ingiustizia  che  loro  vien  fatta  dal  volgo  letterario;  il  quaie  suol 
mettergli  sempre  al  di  sotto,  non  dir6  dei  geni  original!,  che  ci6 
e  ben  giusto,  ma  anche  degli  scrittori  mediocri,  i  quali  si  crcdono 
originali,  perch6  il  loro  nome  campcggia  solo  ncl  frontispizio  d'un 

i.  dottrine  .  .  .  Tacito:  cfr.  d'Alcmbert,  Observations  sur  Vart  dc  tradtiire, 
in  Melanges  de  litterature,  d'histoire  et  de  philosophie>  in,  Amsterdam 
1756,  pp.  3-32.  Queste  osservazioni  costituirono,  ncl  Settcccnto,  un  punto 
di  partenza  obbhgato  per  ogni  discussione  sul  problema,  allora  vivissimo, 
del  tradurre. 


POESIE   DI    OSSIAN  91 

libro,  in  cui  bene  spesso  non  hanno  quasi  altro  di  proprio  che  la 
freddezza.  Le  osservazioni  del  signor  d'Alembert  meriterebbero 
d'esser  trascritte  da  capo  a  fondo :  i  traduttori  ed  i  critici  possono 
trovare  ugualmente  da  profittarci.  Permettano  questi  ch'io  ne  al- 
leghi  qui  un  solo  squarcio,  contenente  alcuni  riflessi,  di  cui  alcuni 
di  loro  mostrano  piu  d'una  volta  d'aver  bisogno.  «  Fra  tutte  le  in- 
giustizie  delle  quali  i  traduttori  sono  in  dritto  di  reclamare,  la 
principale  si  e  la  maniera  che  sogliono  tenere  i  critici  per  censurarli. 
Non  parlo  delle  censure  vaghe,  puerili,  infedeli,  che  non  meritano 
veruna  attenzione :  parlo  d'una  censura  appoggiata  alle  sue  ragioni, 
ed  anche  giusta  in  apparenza,  e  sostengo  che  questa  medesima  in 
materia  di  traduzioni  non  basta.  Si  pu6  dar  giudizio  d'un' opera 
libera,  ristringendosi  ad  esporre  in  una  critica  ragionata  i  difetti 
che  vi  si  trovano,  perche  1'autore  era  padrone  del  suo  piano,  di 
ci6  che  dovea  dire  e  della  maniera  di  dirlo :  ma  il  traduttore  si  trova 
in  uno  stato  sforzato,  rapporto  a  tutti  questi  punti,  ed  e  costretto 
a  marciare  per  un  sentiero  stretto  e  sdrucciolevole  che  non  e  di 
sua  scelta,  e  a  gittarsi  talvolta  da  un  lato  per  iscansare  il  precipizio. 
Perci6  volendo  censurarlo  con  giustizia,  non  basta  mostrare  che 
egli  e  caduto  in  qualche  errore,  convien  inoltre  convincerlo  ch'egli 
poteva  far  meglio  o  ugualmente  bene,  senza  cadervi.  In  vano  gli  si 
rimprovera  che  la  sua  traduzione  manca  d'una  esattezza  rigorosa, 
se  non  gli  si  mostra  ch'egli  potea  conservarla  senza  perder  nulla 
dal  canto  della  grazia:  invano  si  pretende  ch'egli  non  abbia  spie- 
gata  tutta  1'idea  dell'autore,  se  non  gli  si  prova  ch'ei  potea  farlo 
senza  render  la  copia  debole  e  languida:  invano  si  taccia  la  sua  tra 
duzione  di  soverchia  arditezza,  se  alle  sue  maniere  non  se  ne  so- 
stituiscono  alcune  altre  piu  naturali  ed  ugualmente  energiche.  Non 
bisogna  dunque  stupirsi  se  in  questo  genere  di  scrivere,  come 
in  tutti  gli  altri,  le  buone  critiche  sono  ancora  piu  rare  delle  buone 
opere.  »J  Se  mai  traduttore  merit6  questa  equita  o,  se  cosi  vuol 
chiamarsi,  condiscendenza  da'  suoi  lettori,  par  certo  che  debba 
meritarla  chi  si  mette  a  lottare  con  un  originale  della  tempra  di 
Ossian.  Mi  sarebbe  stato  assai  grato  di  poter  presentare  ai  lettori, 
a  fronte  della  traduzione  poetica,  il  testo  istesso  di  Ossian  tradotto 
letteralmente  in  prosa  italiana:  si  conoscerebbe  allora  chiaramente 
con  qual  atleta  io  fossi  alle  prese.  Qualche  luogo  citato  qua  e  la  in 
quest'opera  potra  dar  qualche  piccolo  saggio  del  suo  stile.  Le  sue 
i.  Cfr.  d'Alembert,  Observations  ecc.,  m,  ed.  cit.,  pp.  30-2. 


92  MELCHIORRE   CESAROTTI 

virtu  e  i  suoi  difetti  sono  ugualmente  intrattabili,  ed  egli  resiste 
per  ogni  lato  alia  forza  e  alia  desterita  di  chi  vi  si  accosta.  lo  non 
avea  per  istrumento  della  mia  fatica  che  una  lingua  felice  a  dir  vero, 
armoniosa,  pieghevole  forse  piu  di  quaiunque  altra,  ma  assai  Ion- 
tana  (dica  pur  altri  checche  si  voglia)  dall'aver  ricevuto  tutta  la 
fecondita  e  tutte  le  attitudini  di  cui  e  capace,  e  per  colpa  de'  suoi 
adoratori  eccessivamente  pusillanime.  Aggiungesi  anche  la  natura 
del  metro,  che  quantunque  sembrasse  il  piu  acconcio,  pure  non  si 
accordava  molto  collo  stile  del  mio  originale.1  Del  resto,  se  mi  si 
mostra  che  ho  sbagliato  il  senso  dell'autore,  ch'io  1'ho  sfigurato  o 
gli  ho  fatto  perdere  qualche  parte  di  bellezza  o  di  forza,  io  accettcr6 
queste  censure  per  buone  e  valide,  e  soffrirb  volentieri  d'esserne 
corretto  o  ripreso.  Ma  se  mi  si  vuol  dar  carico  di  aver  procurato 
in  vari  luoghi  di  rischiarar  il  mio  originale,  di  rammorbidirlo  e  di 
rettificarlo,  e  talora  anche  di  abbellirlo  e  di  gareggiar  con  csso, 
confesso  ch'io  sar6  piu  facilmente  tentato  di  pregiarmi  di  questa 
colpa  che  di  pentirmene.  Ragionando  un  giorno  un  mio  dotto  e 
colto  amico  con  varie  persone  di  lettere,  ed  essendosi  detto  da  non 
so  chi  che  P  Omero  inglese  di  Pope2  non  era  Omero :  —  No  invero,  — 
diss'egli  —  perch'egli  e  qualche  cosa  di  meglio.  —  Felice  il  tradut- 
tore  che  pu6  meritar  una  tal  censura! 

Rechera  forse  meraviglia  ad  alcuno  di  non  vedere  in  questa  edi- 
zione  le  osservazioni  che  si  trovano  nella  preccdente  al  fine  di  ca- 
daun  poema  e  tendono  a  sviluppare  il  merito  poetico  di  Ossian, 
Ma  oltre  che  io  non  avrei  potuto  continuar  sullo  stesso  piano  senza 
accrescer  soverchiamente  la  mole  delFopera,  altre  ragioni  m'in- 
dussero  ad  abbandonarlo.  Io  avea  dapprima  creduto  necessario 
il  far  ci6,  per  metter  in  cammino  i  lettori  affatto  nuovi  nella  storia 
e  nell'idee  particolari  di  questo  poeta;  per  awezzarli  ad  entrar  nello 
spirito  di  Ossian,  e  a  sentir  meglio  certe  bellezze,  che  la  novita 
e  rapidita  dello  stile  non  avrebbe  da  principio  lasciato  ravvisarc 
si  agevolmente.  Ora  che  queste  poesie,  e  con  loro  le  mic  osserva 
zioni  medesime,  sono  gik  sparse  per  le  mani  di  tutti  i  letterati  d' Ita 
lia,  rinunzio  assai  volentieri  al  personaggio  talora  utile  c  piii  spesso 

i.  Vedasi  osserv[azione]  i  al  poema  drammatico  di  Comala  (C.).  Cfr.  Opere, 
III,  p.  341.  Nell'edizione  1772  due  passi  di  questa  osservazione  erano  in- 
seriti  nel  testo,  appunto  in  questo  luogo.  2.  Omero  .  .  .  Pope:  allude  alia 
traduzione,  in  heroic  couplets,  ddl'Ihade,  fatta  dal  Pope  tra  il  1715  e  il 
1720,  e  seguita  da  quella  ddl'Odissea,  compiuta  tra  il  1725  e  il  1726. 


POESIE    DI    OSSIAN  93 

noioso  di  comentatore,  e  pago  di  aver  procurato  di  far  intendere  il 
mio  poeta,  Iascer6  agli  altri  la  cura  di  esaminarlo.  Ma  cio  che  sopra 
tutto  fece  ch'io  credessi  superflue  le  mie  osservazioni,  fu  la  disser- 
tazione  del  signer  Blair,  professore  di  belle  lettere  in  Edimburgo, 
la  quale  si  trovera  nel  4°  volume  di  questa  edizione.1  Ella  usci  alia 
luce  1'anno  dopo  che  fu  pubblicata  in  inglese  la  prima  parte  delle 
poesie  di  Ossian,  che  si  credeva  che  avesse  ad  esser  la  sola;  e  non 
giunse  a  mia  conoscenza  se  non  poscia  che  la  mia  traduzione  era 
gia  uscita  da'  torchi.  Questo  dotto  critico  mostra  assai  bene  sotto 
qual  punto  di  vista  debbano  riguardarsi  i  poemi  di  Ossian;  ed 
esamina  partitamente  cadauno  di  essi,  rilevando  il  loro  merito 
particolare  con  molta  accuratezza  e  dottrina.  Egli  fa  inoltre  un 
parallelo  nelle  forme  fra  Omero  ed  Ossian,  cosa  ch'io  pure  aveva 
fatta  talora  occasionalmente  in  alcune  delle  mie  osservazioni.  Esa- 
minando  con  attenzione  i  sentiment!  dell'erudito  scozzese,  si  tro 
vera  che  in  questo  confronto  i  suoi  giudizi  s'accordano  assai  spesso 
co'  miei,  tuttoche  egli  si  spieghi  in  un  modo  piu  circospetto  e  meno 
sensibile.  Molti  diranno  ch'io  pure  avrei  dovuto  farmi  una  legge 
della  medesima  ritenutezza:  ma,  quanto  a  me,  confesso  d'aver 
creduto  che  quanto  si  dona  alia  circospezione,  tanto  si  tolga  alia 
schietta  verita  dovuta  alia  buona  critica,  e  che  il  non  osare  mostrarsi 
pienamente  libero  in  materia  di  lettere,  sia  una  specie  troppo  me- 
schina  di  servitu. 

M'e  no  to  che  le  mie  osservazioni  non  andarono  molto  a  grado  di 
quella  classe  d'uomini  che  vorrebbe  stabilire  un'idolatria  lette- 
raria,  e  ch'essi  affettarono  di  crederle  prodotte  da  quelle  disposi- 
zioni  di  spirito  da  cui  mi  glorio  d'essere  maggiormente  lontano. 
Siccome  non  v'e  nulla  di  piu  comune  quanto  Talterar  i  colori  delle 
cose,  e  attribuir  a  quelli  che  dissentono  da  noi  quelle  opinioni  che 
possono  metterli  in  odiosita  presso  il  maggior  numero;  cosi  credo 


i.  Nella  nostra  si  troveranno  le  osservazioni;  e  per  ovviare  allo  sconcerto 
di  veder  ripetute  le  stesse  cose,  1'autore  ha  compendiato  la  dissertazione 
del  Blair,  come  si  e  detto  nel  nostro  awiso  (Nota  degli  editon  di  Pisa). 
Hugh  Blair  (1718-1780),  critico  inglese  di  formazione  tra  empiristica  e 
classicistica,  fu  tra  i  primi  banditori  di  Ossian  in  Europa  con  la  disserta 
zione  ncordata  dal  Cesarotti  (A  critical  Dissertation  on  the  Poems  of  Ossian, 
1763),  nella  quale  paragonava,  e  per  vari  aspetti  anteponeva,  il  poeta  celtico 
ad  Omero.  Un  regresso  verso  il  classicismo  rappresentano  invece  le  sue 
diffusissime  Lectures  on  Rhetoric  and  Belles  Lettres  (1782),  compendiate 
in  Italia  dal  Soave  e  dal  Galeani  Napione. 


94  MELCHIORRE    CESAROTTI 

necessario  di  spiegar  con  precisione  e  candorc  i  miei  sentiment!  a 
quelli  da  cui  solo  pu6  esser  prezzo  dclPopera  il  farsi  intendere. 
Quest!  non  sono  ne  i  malevoli  che  non  si  disarmano  a  vcrun  patto, 
ne"  quei  pesanti  eruditi  a  cui  una  stupida  ammirazionc  tien  luogo  di 
gusto,  e  1'autorita  di  ragione:  sono  i  giovani  chiamati  dalla  natura 
allo  studio  delle  lettere,  ma  che  non  hanno  ancor  formalo  abba- 
stanza  il  loro  giudizio;  sono  i  ragionatori  che  fondarono  le  loro 
opinioni,  qualunque  sieno,  non  sulla  prevenzione,  ma  su  i  principii; 
sono  finalmente  anche  certe  persone  assennate,  moderate  c  candide, 
ma  che  non  sembrano  conoscere  abbastanza  in  che  diiferiscano  tra 
loro  una  liberta  nobile  e  una  condannabile  temerita.  A  tutti  questi 
io  dichiaro  ch'io  non  ho  mai  preteso  di  levare  ad  Omero  la  giusta 
riputazione  che  gli  e  dovuta,  come  a  «primo  pittor  delle  mcmorie 
anticho);1  come  ad  inventor  fra  noi  e  padre  della  poesia  cpica; 
come  finalmente  a  quello  il  di  cui  genio  diversamente  modificato 
inspire-  poscia  tutti  quelli  che  si  distinsero  in  questa  gloriosa  car- 
riera:  ch'io  non  ho  mai  negato  ch'egli  non  sia  un  poeta  grandc  cd 
ammirabile  per  molti  capi;  ch'egli  non  abbia  regolaritk  di  condotta, 
ricchezza  d'espressione,  varieta  di  carattcri,  armonia  imitativa  di 
numero,  pieghevolezza  di  stile,  grandissima  naturalezza  animata 
spesso  da  molta  sublimita:  ma  ho  negato  ci6  non  per  tanto,  e  nego 
tuttora,  ch'egli  perci6  debba  risguardarsi  come  il « pontefice  »  della 
poesia;  ch'egli  solo  abbia  il  privilcgio  dell'infallibilita,  e  debba 
essere  adorato  piuttosto  che  giudicato;  che  le  sue  virtu  siano  in- 
commensurabilmente  superiori  a  quelle  degli  altri;  ch'egli  debba 
in  ogni  sua  parte  considcrarsi  come  modcllo ;  che  o  non  si  trovino 
difetti  nelle  di  lui  opere,  o  questi  non  sieno  che  picciole  macchie 
che  si  ecclissano  nella  sua  luce;  che  finalmente  egli  sia  tanto  mcra- 
viglioso  e  perfetto,  quanto  avrebbe  potuto  esserlo  in  mezzo  alle  sue 
circostanze.  Dall'altro  canto  io  conosco  tutto  ci6  che  pu6  ragione- 
volmente  opporsi  al  mio  originale;  conosco  che  mancano  ad  Os- 
sian  quasi  tutti  quej  pregi  che  nascono  dai  raffinamcnti  convenzio- 
nali  delParte  e  dalla  perfezione  della  societa;  ch'egli  ha  spesso  del- 
Puniforme,  del  cupo,  del  faticante,  delPinesatto  e  talora  anche  dello 
strano  e  delPimprobabile :  ma  sostengo  che  i  suoi  difetti  sono  assai 
piu  scarsi  di  quel  che  poteva  aspettarsi  dalla  sua  eta,  e  che  sono  su- 
perati  di  gran  lunga  da  molte  sue  proprie,  singolari  e  sorprendenti 

i.  6  un  verso  del  Petrarca,  Trionfo  della  Fama,  in,  15;  ma  gli  editori 
moderni  leggono  « pintor »  in  luogo  di  pittor. 


POESIE   DI    OSSIAN  95 

virtu;  ch'egli  ha  non  solo  tutte  quelle  che  poteva  dare  il  suo  secolo, 
spinto  ad  un  grado  eminente,  ma  che  egli,  solo  fra  gli  antichi,  ne 
possede  inoltre  alcune  altre  che  potrebbero  far  onore  ai  poeti  del 
secoli  piu  raffinati.  Dati  i  costumi,  le  opinioni,  le  circostanze  dei  tempi: 
trarne  il  miglior  uso  possibile  per  dilettare,  istruire  e  muovere  con  un 
linguaggio  armonico  e  pittoresco :  ecco  il  problema  che  un  poeta  si 
accinge  a  sciogliere  colla  sua  opera,  ed  io  osai  credere,  forse  a  torto 
ma  non  gia  temerar  lament  e,  che  Ossian  per  piu  d'un  capo  Tabbia 
sciolto  piu  felicemente  d'Omero.  Del  resto,  non  bisogna  mai  sba- 
gliare  il  punto  di  vista  sotto  cui  dee  riguardarsi  un  poeta,  ne  col- 
locarlo  in  una  classe  non  sua.  Non  dee  ricercarsi  da  Ossian  la  ele 
gante  aggiustatezza  di  Virgilio,  ne  la  nobile  e  conveniente  eleva- 
tezza  del  Tasso,  ne  le  viste  filosofiche  e  lo  stile  pensato  e  brillante 
che  distingue  Tautor  dell'Enriade.1  Ossian  e  il  genio  della  natura 
selvaggla:  i  suoi  poemi  somigliano  ai  boschi  sacri  degli  antichi  suoi 
Celti :  spirano  orrore,  ma  vi  si  sente  ad  ogni  passo  la  Divinita  che  vi 
abita. 

Alcuni  per6  avrebbero  voluto  ch'io  dichiarassi  le  mie  opmioni  in 
un  modo  men  vivo,  astenendomi  da  qualche  tratto  che  non  poteva 
riuscire  a  tutti  ugualmente  piacevole.  A  ci6  rispondo  ch'e  proprio 
della  prevenzione  che  detta  leggi  e  da  sentenze  arbitrarie  con  aria 
di  despotismo,  di  generare  negli  uomini  liberi  un  misto  d'indigna- 
zione  e  di  nausea,  che  alle  volte  traspira  nei  loro  scritti,  anche  suo 
malgrado;  e  che  qualora  essi  combattendo  il  fanatismo  si  restrin- 
gono  a  qualche  scherzo  ingenuo,  che  ferisce  le  opinioni,  non  le 
persone,  meritano  piuttosto  lode  di  moderazione,  che  taccia  d'acer- 
bita.  Si  pensi  con  qual  dileggio  puerile  e  insultante  il  satirico  fran- 
cese  schernisca  e  vilipenda  Perault,  autore  del  Parallelo  fra  gli 
antichi  e  i  moderni,  perche  os6  credere  che  la  prima  strofa  di  Pin- 
daro  possa  esser  un  pomposo  guazzabuglio  d'immagini:2  con  che 
tuono  da  invasato  il  Gravina,  critico  per  altro  fra  i  nostri  di  prima 
sfera,  faccia  1'apoteosi  d'Omero,  e  con  quali  dottrine  tratte  dagli 
esempi  omerici  prenda  a  screditare  il  nostro  Tasso,3  poeta  per  cui 
possiamo  francamente  gareggiar  colFantichita:  con  qual  dispettosa 


i.  Vautor  dell'Enriade:  Voltaire.  2.  il  satirico  francese  .  .  .  d'immagini:  al 
lude  alia  polemica  fra  il  Boileau  e  il  Perrault,  gia  ricordata  nel  Ragiona- 
mento  sopra  Vorigine  e  i  progressi  deWarte  poetica,  qui  a  p.  81,  e  cfr.,  ivi, 
la  nota  i.  3.  tl  Gravina  .  .  .  Tasso:  nella  Ragion  poetica,  lib.  n,  cap.  xvm, 
in  Opere  scelte,  Milano  1819,  pp.  178-80. 


96  MELCHIORRE   CESAROTTI 

amarezza  mad.  Dacier  si  spieghi,  non  dir6  intorno  il  signer  dc  La 
Mothe,  ma  intorno  il  Pope  medesimo,  scrittore  ugualmcnte  bene- 
merito  d'Omero,  pel  doppio  titolo  di  traduttore  e  di  critico:1 
si  consider!  con  qual  sordida  parsimonia  i  critici  di  profcssione 
parlino  quasi  a  forza  e  di  fuga  del  merito  dei  moderni,  mentre 
hanno  sempre  Tincensiere  alia  mano  per  profumarne  gli  antichi :  e 
quanto  piu  spesso  e  con  qual  accanimento  abbiano  fatto  la  guerra 
ai  piu  celebri  poeti  d'ltalia  e  di  Francia,  per  alcuni  difetti  scusabili, 
e  spesso  anche  immaginari;  chiudendo  gli  occhi  alle  tante  luminose 
virtu  che  brillano  nelle  loro  opere:  si  pensi,  dico,  a  tutto  ci6,  e  poi 
mi  condanni  chi  vuole,  sc  talora  ho  cercato  di  far  sorridere  il  buon 
senso  a  spese  della  pedanteria. 

Nam  quis  iniquae 
tarn  patiens  critices,  tamferreus,  ut  teneat  sc?2 

lo  per6  non  avea  mestiere  di  ricorrerc  col  pensicro  ad  esempi 
antichi  o  stranieri  dello  stile  che  suol  tenersi  dalla  maggior  parte 
degli  entusiasti  d'Omero,  avendo  dinanzi  agli  occhi  un  cscmpio 
singolare  d'invasamento  in  questo  genere,  nella  persona  d'un  mio 
concittadino  allora  vivente  ;3  uomo  bensl  dotto  e  pregcvole  per  moltc 
sue  qualita,  ma  che  certo  era  il  piu  trasportato  e  feroce  omerico  che 
mai  fosse  al  mondo.  Egli  avrebbe  assai  volentieri  fondato  un  online 
di  cavalleria  militare  a  gloria  di  Omero,  e  sarebbc  ito  in  capo  al 
mondo  per  battersi  in  campo  chiuso  con  chiunque  non  giurava 
che  la  sua  Dulcinea  letteraria4  era  il  modello  archetipo  della  per- 
fezione.  II  termine  di  Dulcinea  spiega  appunto  adeguatamente  le 
sue  strane  immaginazioni  intorno  a  questo  poeta.  Imperciocch6 
TOmero  ch'egli  adorava  non  era  quello  che  tutti  leggono;  egli  era 
un  altro  concepito  nel  suo  capo,  a  cui  egli  attribuiva  certe  sue 
strane  e  particolari  bellezze,  che  non  solo  non  furono  mai  in  Omero, 
ma  non  vi  furono  neppure  mai  ravvisate  da  veruno  do*  piiji  felici 
sognatori  d'alcuna  eta.  Un  saggio  delle  sue  bizzarre  teorie  pu6  ve- 
dersi  nella  prefazione  da  lui  premessa  alia  sua  traduxione  del  pocma 

i.  mad.  Dacier  .  .  .  critico:  allude  alle  Causes  de  la  corruption  du  gout>  su 
cui  cfr.  la  nota  a  p.  71.  2.  Giovenale,  Sat.,  I,  30-1  («Chi  potrebbe 
essere  tanto  paziente,  tanto  ferreo  di  fronte  alia  critica  ingiusta,  da  domi- 
narsi? »).  3.  concittadino  .  .  .  vivente:  allude  al  gentiluomo  padovano  Paolo 
Brazzolo,  che  il  Cesarotti  conobbe  in  gioventd,  c  per  mvito  del  qualc 
tradusse  il  Prometeo  di  Eschilo  4.  La  Dulcinea  letteraria  del  Brazzolo  e 
evidentemente  la  poesia  omerica. 


POESIE   DI    OSSIAN  97 

d'Esiodo,1  intitolato  VOpere  e  i  giorni:  ed  e  poi  noto  a  chiunque 
ebbe  occasione  di  conoscerlo,  con  qual  ingenua  schiettezza  e  con 
che  aurea  semplicita  di  stile  egli  usasse  parlare  dei  piii  celebri  poeti 
di  tutte  le  nazioni,  cominciando  da  Virgilio,  e  di  tutti  i  loro  estima- 
tori,  fregiando  tratto  tratto  gli  uni  e  gli  altri  del  nome  di  quel  mo- 
desto  quadrupede3  a  cui  Omero  s'avvis6  di  paragonar  il  suo  Aiace. 
Ad  onta  di  ci6,  la  sua  profonda  cognizione  della  lingua  greca,  la 
sua  facondia  entusiastica,  il  suo  gergo  peripatetico-platonico  ac- 
creditavano  in  qualche  modo  le  sue  medesime  stravaganze,  impo- 
nevano  agl'inesperti  che  non  possono  giudicar  da  se;  e  valevano 
a  dar  animo  ad  altri  che,  indifferent!  al  vero  ed  al  falso,  fanno  servir 
le  opinioni  letterarie  e  1'altrui  autorita  a  sfogo  della  propria  male- 
volenza.  Infastidito  dalla  lettura  di  vari  scoliasti  e  dottori  dell'arte 
poetica  e  pieno  gli  orecchi  da  lungo  tempo  delle  prefate  declama- 
zioni,  credetti  che  Ossian  allora  uscito  mi  desse  opportuna  occa 
sione,  non  gia  di  ricreder  questo  uomo,  ch'era  impossibile,  ma  di 
convincer  i  giovani  e  i  men  prevenuti,  con  questo  esempio,  che 
Omero  non  era  ne  1'unico  ne  il  perfetto  neppur  nel  suo  genere,  e 
ch'egli  per  piu  d'un  capo  aveva  pagato  un  tributo  non  indifferente 
airumanita.  Imperciocche  mostrando  1'esempio  d'un  poeta  il  quale 
posto  in  circostanze  somiglianti  da  un  lato  a  quelle  d' Omero,  e  da 
vari  altri  assai  piu  svantaggiose  e  infelici,  seppe  contuttoci6  scan- 
sare  alcuni  difetti  important!  del  poeta  greco  e  distinguersi  per  al- 
cune  virtu  non  molto  familiari  al  primo;  ne  risultava  di  conse- 
guenza  che  Omero  avrebbe  potuto  essere  piu  perfetto  di  quello 
ch'egli  e,  e  che  il  suo  esempio  non  doveva  in  ogni  punto  passar  per 
legge.  Questo  e  ci6  che  mi  ha  determinato  a  far  nelle  mie  osserva- 
zioni  il  confronto  tra  Omero  ed  Ossian,  e  questo  e  lo  spirito  con  cui 
quelle  furono  scritte.  Del  resto,  tuttoche  io  creda  d'aver  ragioni 
valevoli  per  giustificare  in  gran  parte  le  osservazioni  suddette,  io  le 
abbandono  senza  pena  al  giudizio  degli  uomini  di  lettere,  che  tutti 
hanno  dritto  d'esser  liberi  al  par  di  me.  Pensi  e  parli  ciascuno 
d' Omero  e  di  Ossian  come  gli  piace,  io  non  me  ne  offender6  punto, 
ne  mai  la  semplice  differenza  nelle  opinioni  letterarie  fara  ch'io 
perda  ai  miei  awersari  la  stima  che  pu6  esser  loro  dovuta.  Si  con- 
futi  uno  scrittore,  si  opponga  sentimento  a  sentimento,  principii  a 

i.  Stampato  in  Padova  presso  il  Conzatti  Tanno  1765  (Nota  degli  edi- 
tori  pisani).  2.  quadrupede:  Tasino,  a  cui  e  paragonato  Aiace  nell'Ihade, 
si,  558-62. 


98  MELCHIORRE    CESAROTTI 

principii,  tutto  e  permesso.  Ma  ci6  che  non  e  permesso  ne  dal  buon 
senso  ne  dalla  liberta  fondamentale  della  repubblica  delle  lettere, 
ci6  che  sara  sempre  una  vergognosa  e  stomachevole  pedanteria, 
indegna  dello  spirito  illuminate  del  secolo,  si  e  Pintrodurre  in 
questo,  o  negli  studi  innocenti,  una  superstiziosa  tirannide,  Taccusar 
d'empieta  chi  osa  dubitare  della  divinita  degli  antichi,  lo  scatenarsi 
contro  di  esso,  il  fargli  una  guerra  insidiosa,  o  il  risponder  agli 
argomenti  con  gPimproperi  e  combatter  la  ragione  con  Parme  del 
pregiudizio. 

lo  ho  sempre  creduto  che  in  questo  genere  di  cose  si  dovesse 
far  uso  coi  vivi  di  politezza  e  coi  morti  di  liberta;  ma  troppo  spesso 
alcuni  critici  danno  un  esempio  contrario,  e  si  pregiano  di  super- 
stizione  coi  morti  e  d'insolenza  coi  vivi.  Comunque  sia,  io  fo 
intorno  la  mia  traduzione  di  Ossian  la  stessa  protesta  che  ho  fatto 
intorno  le  osservazioni.  Non  mi  sara  mai  discara  una  censura 
onesta  ed  ingenua,  che  mi  faccia  conoscere  gli  abbagli  che  ho  preso 
o  gli  errori  in  cui  sono  caduto.  Ma  se  alcuno  crede  meglio  di  usar, 
invece  di  ragioni,  villanie  o  satire  o  altri  modi  scortesi  e  mordaci, 
non  si  aspetti  da  me  altro  in  risposta  che  ci6  che  dissero  gli  Spartani 
a  quei  di  Chio,  che  avevano  lordata  la  sala  delle  pubbliche  cene 
con  mille  brutture:  «Si  permette  a  quei  di  Chio  d'operare  villa- 
namente  ». 


FINGAL1 

POEMA   EPICO 

Introduzione. 

Arto,  supremo  re  cTIrlanda,  essendo  venuto  a  morte,  ebbe  per  sue 
cessore  Cormac  suo  figliuolo,  rimasto  in  minorita.  Cucullino  fi 
gliuolo  di  Semo,  signore  dell'isola  della  nebbia,  una  delPEbridi,  ri 
trovandosi  a  quel  tempo  in  Ulster,  ed  essendo  rinomatissimo  per  1< 
sue  grandi  imprese,  fu  in  un'assemblea  di  regoli  e  capi  delle  tribi 
radunate  per  quest'oggetto  a  Temora,  palagio  dei  re  d'Irlanda,  elet- 
to  unanimamente  custode  del  giovine  re.  Non  avea  governati  moltc 
a  lungo  gli  affari  di  Cormac,  quando  fu  recata  la  novella  che  Sva- 
rano  figliuolo  di  Starno,  re  di  Loclin,  o  sia  della  Scandinavia,  avea 
disegnato  d'invader  Plrlanda.  Cucullino  a  tal  nuova  spedi  tosto 
Munan  figliuolo  di  Stirmal,  guerriero  irlandese,  a  Fingal,  re  o  capo 
di  quej  Caledoni  che  abitavano  la  costa  occidentale  della  Scozia, 
per  implorarne  soccorso.  Fingal,  mosso  non  meno  da  un  principio 
di  generosita  che  dall'affinita  che  passava  tra  lui  e  la  famiglia  regale 
d'Irlanda,  risolse  di  far  una  spedizione  in  quel  paese:  ma  prima 
ch'egli  arrivasse,  il  nemico  era  gia  approdato  ad  Ulster.  Cucullino 
in  questo  frattempo  aveva  raccolto  il  fiore  delle  tribu  irlandesi  a 
Tura,  castello  di  Ulster,  e  mandati  scorridori  lungo  la  costa,  perch6 
gli  dessero  pronte  notizie  dell'arrivo  del  nemico.  Tal  &  lo  stato  degli 
affari,  quando  il  poema  incomincia. 

L'azione  del  poema  non  comprende  che  cinque  giorni  e  cinque 
notti.  La  scena  e  nella  pianura  di  Lena,  presso  una  montagna 
chiamata  Cromla,  sulla  costa  di  Ulster. 


i.  Dalle  Opere,  n,  pp.  127-329. 


CANTO  I 


ARGOMENTO 

Cucullino  postosi  a  seder  solo  sotto  d'un  albero  alia  porta  di  Tura, 
mentre  gli  altri  capitani  erano  iti  a  caccia  sul  vicino  monte  di  Cromla, 
e  awisato  dello  sbarco  di  Svarano  da  Moran  figliuolo  di  Fitil,  uno 
de'  suoi  scorridori.  Egli  raduna  i  capi  della  nazione;  si  tiene  un  con- 
siglio,  nel  quale  si  disputa  se  debbasi  dar  battaglia  al  neniico.  Conal 
regolo  di  Togorma,  ed  intimo  amico  di  Cucullino,  e  di  parere  che 
debbasi  differire  sino  airarrivo  di  Fingal;  ma  Calmar,  figlio  di  Mata, 
signer  di  Lara,  contrada  del  Conaught,  e  d'opinione  che  si  attacchi 
tosto  il  nemico:  Cucullino,  gia  desideroso  di  combattere,  s'attiene 
al  parere  di  Calmar.  Nella  rassegna  de'  suoi  soldati,  non  vede  tre 
de*  suoi  piu  valorosi  campioni,  Fergusto,  Ducomano  e  Catbar. 
Giunge  Fergusto,  e  da  notizia  a  Cucullino  della  morte  degli  altri  due 
capitani.  L'armata  di  Cucullino  £  scoperta  da  lungi  da  Svarano,  il 
quale  rnanda  il  figliuolo  di  Arno  ad  osservarc  i  movimenti  del  nemico, 
mentre  egli  schiera  le  sue  truppe  in  ordine  di  battaglia.  Descrizione 
del  carro  di  Cucullino.  Le  armate  s'azzufFano;  ma,  sopraggiunta  la 
notte,  la  vittoria  resta  indecisa.  Cucullino,  secondo  1'ospitalita  di 
que'  tempi,  invita  Svarano  ad  un  convito  per  mezzo  del  suo  bardo 
Carilo.  Svarano  ricusa  ferocemente  Tinvito.  Carilo  narra  a  Cucullino 
la  storia  di  Grudar  e  Brassolis.  Si  manda,  per  consiglio  di  Conal, 
alcune  scorte  ad  osservare  il  nemico:  e  con  questo  termina  1'azione 
del  primo  giorno. 

JL/i  Tura  accanto  alia  muraglia  assiso, 
sotto  una  pianta  di  fischianti  foglie 
stavasi  Cucullin:  11  presso,  al  balzo 


i.  Di  Tura  accanto  alia:  i:  «Appo  di  Tura  la».  3.  Cucullin:  Cuculli 
no,  figliuolo  di  Semo  e  nipote  di  Caithbath,  druido  cclebre  nolla  tra- 
dizione  per  la  sua  saviezza  e  pel  suo  valoro.  Nella  sua  gioventCi  sposd 
Bragela,  figliuola  di  Sorglan;  ed  csscndosi  trasferito  ncH'Irlanda,  vissc 
qualche  tempo  con  Connal,  nipotc,  per  via  d'una  figlia,  di  Congal,  regolo 
di  Ulster.  Dopo  una  serie  di  grand' imp  rese  fu  ucciso  in  una  battaglia 
in  un  luogo  della  provincia  di  Conaughi.  Vcdi  il  poemetto  intitolato  La 
morte  di  Cucullino.  Era  tanto  rinomato  per  la  sua  fortezza  che  passo  in 
proverbio  per  dinotare  un  uomo  forte:  «egh  ha  la  fortezza  di  Cucullino ». 
Si  mostrano  le  reliquie  del  suo  palazzo  a  Dunscaich  ncll'isola  di  Schye: 
ed  una  pietra,  alia  quale  egli  Ieg6  il  suo  cane  Lualh,  conserva  ancora  il 
suo  nome  (M.);  #  presso,  al  balzo:  i:  « presso  alia  rupc»;  n:  «non  lungi 
al  balzo  ». 


POESIE    DI    OSSIAN  •  FINGAL  IOI 

posava  1'asta,  appie  giacea  lo  scudo. 

Membrava  ei  col  pensiero  il  pro'  Cairba  5 

da  lui  spento  in  battaglia,  allor  che  ad  esso 

Pesplorator  delPocean  sen  venne, 

Moran  figlio  di  Fiti.  —  Alzati,  —  ei  disse 

—  alzati,  Cucullin:  gia  di  Svarano 

veggo  le  navi;  e  numerosa  Foste,  10 

molti  i  figli  del  mar.  —  Tu  sempre  tremi, 

figlio  di  Fiti,  —  a  lui  rispose  il  duce 

occhi-azzurro  d'Erina  —  e  la  tua  tema 

agli  occhi  tuoi  moltiplica  i  nemici. 

Fia  forse  il  re  de'  solitari  colli,  15 

che  a  soccorrer  mi  vien.  —  No,  no,  —  diss'egli 

—  vidi  il  lor  duce:  al  luccicar  delParme, 
alia  quadrata  torreggiante  mole, 

parea  masso  di  ghiaccio :  asta  ei  solleva 

pari  a  quel  pin  che  folgore  passando  20 

disfrondato  Iasci6:  nascente  luna 

sembra  il  suo  scudo.  Egli  sedea  sul  lido 

sopra  uno  scoglio,  annubilato  in  volto 


5.  i  e  n:  «Erano  i  suoi  pensier  col  pro'  Cairba ».  7.  i:  «esplorator  del- 
Focean  sen  venne ».  n.  i  figli:  1'originale  ha:  «eroi».  Questo  termine  nel 
testo  inglese  vale  semplicemente  « un  guerriero ».  Tra  noi  ha  un  senso  piu 
magnifico,  e  perci6  sconveniente  alia  circostanza  (C.).  I  e  n:  «gli  eroi». 
13.  occhi-azzurro:  nell'originale  sono  frequenti  le  parole  composte.  II  tra- 
duttore  non  ha  trascurata  questa  energica  bellezza,  di  cui  la  lingua  ita- 
hana  e  suscettibile ;  ma  nel  tempo  istesso  procur6  di  sfuggir  la  durezza  e 
la  stravaganza  della  composizione  (C.);  Erina:  Erin,  nome  dell'Irlanda, 
da  ear,  o  jar,  «  Occident  e  »,  e  da  in,  «isola»  (C.).  15-  d  re  de'  solitari  colli: 
Fmgal  (C.).  1 7-2 1 .  duce . . .  nascente  luna :  i : « duce,  torreggiante,  sodo  /  qual 
montagna  di  ghiaccio:  a  quell'abete  /  pari  e  la  lancia  sua,  nascente  luna»; 
n :  «  duce,  torreggiante,  sodo  /  qual  montagna  di  ghiaccio :  asta  ei  solleva  / 
pari  a  quel  pin  che  folgore  passando  /  disfrondato  lascio:  nascente  luna». 
1 9.  parea  masso  di  ghiaccio:  neH'origmale  non  vi  sono  che  queste  parole: 
«alto  come  una  rupe  di  ghiaccio ».  Si  e  cercato  di  sviluppar  il  senso  di 
questa  espressione,  come  si  fece  in  altri  luoghi,  avendo  per6  sempre  cura 
di  non  pregiudicare  alPenergia  e  vivacita  della  locuzione  caratteristica  del 
nostro  autore  (C.)-  20-1.  pari...  lascio:  questa  iperbolica  immagine 
della  persona  di  Svarano  cornsponde  alia  gigantesca  statura  dei  popoli 
settentrionali,  attestata  da  tutti  gli  storici.  Awertasi  moltre  che  quel  che 
parla  e  un  uomo  spaventato  (C.).  23-4.  sopra  .  .  .  colle:  il  testo  ha:  « simile 
a  nuvola  di  nebbia  sul  colle)).  Non  e  sempre  facile  scorger  il  rapporto  di 


IO2  MELCHIORRE    CESAROTTI 

come  nebbia  sul  colle.  « 0  primo »  io  dissi 

«tra'  mortali,  che  fai?  son  molte  in  guerra  25 

le  nostre  destre,  e  forti;  a  ragion  detto 

il  possente  sei  tu;  ma  non  pertanto 

piu  d'un  possente  dalPeccelsa  Tura 

fa  di  s6  mostra».  «Oh,»  rispos'ei  col  tuono 

d'un'infranta  allo  scoglio  e  mugghiant'onda  30 

«chi  mi  somiglia?  al  mio  cospetto  innanzi 

non  resistono  eroi;  cadon  prostrati 

sotto  il  mio  braccio.  II  sol  Fingallo,  il  forte 

re  di  Morven  nembosa,  affrontar  puote 

la  possa  di  Svaran.  Lottammo  un  tempo  35 

sui  prati  di  Malmorre,  e  i  nostri  passi 

crollaro  il  bosco;  e  traballar  le  rupi 

smosse  dalle  ferrigne  ime  radici; 

e  impauriti  alia  terribil  zuffa 

fuggir  travolti  dal  suo  corso  i  rivi.  40 

Tre  di  pugnammo  e  ripugnammo:  i  duci 

stetter  da  lungi  e  ne  tremar.  Nel  quarto 

vanta  Fingal  che  '1  re  dcH'oceano 


quest!  modi  comparativi  assai  spesso  vaghi  c  confusi.  Io  cerco  di  fis- 
same  il  senso  possibilmente.  La  rupc  di  ghiaccio  rappresentava  la  sta- 
tura;  ho  creduto  che  la  nuvola  di  nebbia  non  possa  rifcrirsi  che  al  volto 
(C.)-  I  e  II:  «sopra  uno  scoglio,  somigliante  in  vista  /  a  colonna  di  nebbia ». 
34.  Morven  in  lingua  celtica  sigmfica  una  «fila  d'altissimi  colli».  Proba- 
bilmente  sotto  questo  nomc  si  comprendc  tutta  la  costa  fra  il  settentrione 
e  1'occidente  della  Scozia  (M.)-  36.  Malmorre :  Meal-mor, « collina  grandc ». 
Questo  deve  essere  uno  dei  monti  di  Morven,  come  apparisce  dal  c.  6, 
v.  181  (M.).  36-7.  i  nostri . .  ,  bosco:  si  sono  ammollite  un  poco  1'espres- 
sioni  caricate  dell' originale :  «i  nostri  talloni  rovcsciarono  il  bosco,  le 
rocce  caddero  dal  loro  sito».  La  traduzione  di\  a  qucste  parole  Taria  di 
quella  figura  che  attribuisce  il  senso  alle  cose  inanimate  (C.).  43-  Fingal; 
siccome  i  nomi  caledoni  sono  poco  favorevoli  aH'armonia  del  verso  ita- 
Jiano,  cosl  il  traduttore  si  e  prcso  la  liberta  di  farvi  qualchc  cangiamcnto. 
Si  awerte  particolarmente  che  in  questa  traduzione  i  nomi  i  quali  termi- 
nano  in  al  e  in  art  ora  hanno  1'accento  sulla  pcnultima  sillaba,  come 
nell'onginale  mglese,  e  ora  si  prendono  ali'italiana,  come  accorciamenti 
dei  nomi  in  alle  e  in  arre,  nel  qual  caso  hanno  Taccento  sull'ultima, 
Un'orecchia  esercitata  pu6  sentir  facilmente  quando  Farmonia  del  verso 
richiede  una  tal  differenza.  Contuttocid  s'e  creduto  bene  di  porre  ne' 
luoghi  piu  dubbi  il  segno  dcll'accento,  per  facilitar  la  buona  lettura  ai  meno 


POESIE    DI    OSSIAN  •  FINGAL  103 

cadde  atterrato;  ma  Svaran  sostenta 

ch'ei  non  pieg6  ginocchio  e  non  die  crollo.  45 

Or  ceda  dunque  Cucullino  oscuro 

a  lui,  che  nelFindomita  possanza 

Torride  di  Malmor  tempeste  agguaglia». 

—  No,  —  grid6  il  duce  dal  ceruleo  sguardo 
—  non  ceder6  a  vivente:  o  Cucullino  50 

sara  grande,  o  morra.  Figlio  di  Fiti, 
prendi  la  lancia  mia;  vanne,  e  con  essa 
batti  lo  scudo  di  Cabar  che  pende 
alia  porta  di  Tura:  il  suo  rimbombo 
non  e  suono  di  pace:  i  miei  guerrieri  55 

Tudiran  da'  lor  colli.  —  Ei  va;  phi  volte 
batte  il  concavo  scudo:  e  colli  e  rupi 
ne  rimbombaro,  e  si  diffuse  il  suono 
per  tutto  il  bosco.  Slanciasi  d'un  salto 
dalla  roccia  Curan;  Conallo  afferra  60 

la  sanguinosa  lancia;  a  Crugal  forte 
palpita  il  bianco  petto;  e  damme  e  cervi 
lascia  il  figlio  di  Fai.  —  Ronnar,  Lugante, 
questo  e  lo  scudo  della  guerra,  &  questa 
1'asta  di  Cucullin:  qua,  qua,  brandi,  elmi,  65 

compagni  aH'arme:  vestiti  Tusbergo, 
figlio  dell'onda:  alza  il  sanguigno  acciaro, 
fero  Calmar:  che  fai?  su  sorgi,  o  Puno, 
orrido  eroe;  scotetevi,  accorrete, 
Eto,  Calto,  Carban:  tu  il  rosseggiante  7° 

alber  di  Cromla,  e  tu  lascia  le  sponde 


esperti  (C.);  */  re  delVoceano:  cio&  lui.  Cosl  sono  spesso  chiamati  in 
queste  poesie  i  re  della  Scandinavia  (M.)«  44.  sostenta:  sostiene.  53.  bat 
ti:  I  e  n :  «picchia»;  Cabar:  Cathbait,  avolo  di  Cucullino,  rinomato  pel 
suo  valore.  Lo  scudo  d'un  eroe  antico  si  conservava  nella  famiglia  con 
una  specie  di  rispetto  religioso;  e  i  suoi  posteri  ne  facevano  spesso  uso 
per  chiamar  le  genti  a  battaglia  (C.).  62.  damme:  cerbiatti.  63.  Ronnar, 
Lugante:  i  due  guerrieri  qui  nominati  si  chiamano  vicendevolmente,  e 
s'incitano  Fun  Paltro  alia  guerra  (C.).  71.  Cromla:  Crom-leach  signi- 
ficava  tra'  druidi  un  «luogo  religioso ».  Qui  e  il  nome  proprio  d'un 
monte  sulla  spiaggia  d'Ullina  o  di  Ulster  (M). 


104  MELCHIORRE   CESAROTTI 

del  patrio  Lena,  e  tu  t'avanza,  o  Calto, 
lunghesso  il  Mora,  e  Tagil  piede  impenna.  — 

Or  si  gli  scorgo:  ecco  i  campion  possenti 
fervidi,  accesi  di  leggiadro  orgoglio.  75 

La  rimembranza  dell'imprese  antiche 
sprona  il  valor  natio.  Sono  i  lor  occhi 
fiamme  di  foco,  e  dei  nemici  in  traccia 
van  dardeggiando  per  la  piaggia  i  sguardi. 
Stan  su  i  brandi  le  destre:  escon  frequenti  So 

dai  lor  fianchi  d'acciar  lampi  focosi. 
Ciascun  dal  colle  suo  scagliossi  urlando 
qual  torrente  montan.  Brillano  i  duci 
della  battaglia  nei  paterni  arnesi, 
precedendo  ai  guerrier:  seguono  qucsti  85 

folti,  foschi,  terribili  a  vedersi, 
siccome  gruppo  di  piovose  nubi 
dietro  a  rosse  del  ciel  meteore  ardenti. 
S'odon  1'arme  stridir;  s'alzan  le  note 
del  bellicoso  canto;  i  grigi  cani  90 

le  interrompon  cogli  urli,  e  raddoppiando 
Findistinto  fragor  Cromla  rintrona. 
Stettersi  tutti  alfin  sopra  il  deserto 
prato  di  Lena,  e  Padombrar,  siccome 
nebbia  la  per  Pautunno  i  colli  adombra,  95 


72.  Lena:  fiume  nell'Ulster  presso  una  pianura  dello  stesso  nome,  ch'c 

il  teatro  della  presente  guerra  (C.).     73-  d  Mora:  neH'originale  chiamasi 

«il  fischiante  scopeto  di  Mora».  V'e  un'altra  contrada  di  qucsto  nomc  in 

Morven,  di  cm  si  fa  menzione  in  altn  luoghi  di  qucste  pocsie  (C,);    « 

/  agtlpiede  impenna:  in  luogo  di  questo  emistichio  nel  tcsto  si  ha:  «il  tuo 

candido  fianco,  il  tuo  fianco  ch'&  candido  come  la  spuma  del  turbato  marc 

quando  gli  oscuri  venti  lo  spingono  contro  la  mormorante  roccia  di  Cuton »' 

JNell  ediziom  precedent!  questo  luogo  s'era  tradotto  Icttcralmcntc,  Ora 

non  ebbi  cuore  di  farlo,  e  volh  salvar  1'onore  piuttosto  chc  le  parole  di 

Ussian.  Jira  questo  il  momento  di  osservar  la  bianchcswa  del  fianco  di 

Calto  e  di  rappresentarlo  con  questa  importuna  prohssita?  Se  per6  acl 

alcuno  non  placesse  il  cambio,  ecco  la  traduzione  precedente:  dunchcsso 

il  Mora,  e  Piega  il  bianco  lato,  /  sinule  a  spuma  di  turbato  mare,  /  se  ai 

scogh  di  Cuton  1'mcalza  il  vento.  (C.).     74-5-  ecco  .  .  .  orgoglio:  il  testo- 

«ora  lo  scorgo  i  duci  nell'orgoglio  delle  loro  passate  gesta).  (C.)      8c  fire- 

cedendo  ai  guerrier:  i:  «e  precedon  gli  eroi». 


POESIE   DI    OSSIAN  •  FINGAL  105 

quando  oscura,  ondeggiante  in  alto  poggia. 

—  lo  vi  saluto,  —  CuculHn  comincia 

—  figli  d'anguste  valli,  oh  vi  saluto, 
cacciatori  di  belve;  a  noi  ben  altra 

caccia  s'appresta,  romorosa,  forte  100 

come  quell'onda  che  la  spiaggia  or  fere. 

Dite,  figli  di  guerra:  or  via,  dobbiamo 

pugnar  noi  dunque,  od  a  Loclin  la  verde 

Erina  abbandonar?  Park,  Conallo, 

tu  fior  d'eroi,  tu  spezzator  di  scudi,  105 

che  pensi  tu  ?  piu  d'una  volta  in  campo 

contro  Loclin  pugnasti;  ed  or  vorrai 

meco  la  lancia  sollevar  del  padre? 

—  Cucullino,  —  ei  par!6  placido  in  volto 

—  acuta  e  1'asta  di  Conallo,  ed  ama  no 
di  brillar  nella  pugna  e  diguazzarsi 

nel  sangue  degli  eroi:  pur  se  alia  guerra 

pende  la  man,  sta  per  la  pace  il  core. 

Tu  che  alle  guerre  di  Gorman  sei  duce, 

guarda  la  flotta  di  Svaran:  stan  folte  115 

sul  nostro  lido  le  velate  antenne 

quanto  canne  del  Lego;  e  le  sue  navi 

sembran  boschi  di  nebbia  ricoperti, 

quando  gli  alberi  piegano  alle  alterne 

scosse  del  vento;  i  suoi  guerrier  son  molti:  120 

per  la  pace  son  io.  Fingal,  non  ch'altri, 

Tincontro  scanseria,  Fingallo  il  primo, 

Tunico  tra  gli  eroi,  Fingal,  che  i  forti 


1 01,  come  .  .  .fere\  questo  tratto  serve  alPevidenza  del  momento.  Ma  la 
forza  e  il  rimbombo  d'un'onda  pu6  mai  paragonarsi  al  romore  d'una  batta- 
glia?  (C.)«  103.  Loclin:  nome  celtico  della  Scandinavia.  In  un  sense  piu 
nstretto  s'intende  per  questo  nome  la  penisola  di  lutlanda  (C.).  104.  Co 
nallo:  Connal,  amico  di  Cucullino,  era  figliuolo  di  Cathbait,  principe 
di  Togorma,  probabilmente  una  dell'isole  Ebridi  (C.)-  H4-  Gorman: 
Cormac,  figlio  di  Arth,  re  d'Irlanda,  rimasto  erede  del  regno  in  eta  assai 
tenera,  sotto  la  reggenza  di  Cucullino  (M.)-  117.  Lego:  lago  nella  pro- 
vincia  di  Conaught,  appresso  il  quale  rest6  ucciso  Cucullino  (M.)- 
123-4.  Fingal .  .  .  arena:  nelle  ediziom  precedenti  tutto  il  luogo  fu  tra- 
dotto  letteralmente  cosi:  «...  Fingal  dei  forti  /  disperditor,  come  minuta 


106  MELCHIORRE   CESAROTTI 

sperde,  qual  turbo  la  minuta  arena.  — 

A  lui  rispose  disdegnosamente  125 

Calmar  figlio  di  Mata:  —  E  ben  va',  fuggi, 

tu  pacifico  eroe,  fuggi,  e  t'inselva 

tra'  colli  tuoi,  dove  giammai  non  giunse 

luce  d'asta  guerriera:  ivi  di  Cromla 

i  cervi  insegui,  ivi  coi  dardi  arresta  130 

i  saltellanti  cavriol  del  Lena. 

Ma  tu  di  Semo  occhi-ceruleo  figlio, 

tu  delle  pugne  correttor,  disperdi 

la  stirpe  di  Loclin;  scagliati  in  mezzo 

dell'orgogliose  schiere  e  latra  e  ruggi.  135 

Fa'  che  naviglio  del  nevoso  regno 

piu  non  ardisca  galleggiar  sull'onde 

oscure  d'Inistor.  Sorgete  o  voi, 

voi  d'Inisfela  tenebrosi  venti, 

imperversate  tempeste,  fremete  140 

turbini  e  nembi.  Ah  si,  muoia  Calmarre 

fra  le  tempeste  infranto,  o  dentro  a  un  nembo 

squarciato  dall'irate  ombre  notturne; 

muoia  Calmar  fra  turbini  e  procelle, 

se  mai  grato  gli  fu  suono  di  caccia  145 

quanto  di  scudo  messagger  di  guerra. 
—  Furibondo  Calmar,  —  Conai  riprese 

posatamente  —  &  a  me  la  fuga  ignota; 

misi  Tale  al  pugnar;  bench'anco  £  bassa 


arena  /  disperde  il  vento,  allor  che  i  gonfi  rivi  /  scorron  per  mezzo  a 
Cona,  e  sopra  i  monti  /  con  tutti  i  nembi  suoi  la  notte  siede ».  Ora  si 
e  pensato  di  omettere  questo  strascico  imbarazzante  di  circostanze  ozio- 
se,  che  affogano  1'idca  principale,  e  ne  smaccano  la  forza  invece  di  ac- 
crescerla  (C.).  133-  correttor:  signore.  135.  ruggi:  roriginale:  «rug- 
ghia  tra  le  file  del  loro  orgoglio»  (C.).  136.  del  nevoso  regno:  dclla  Scan 
dinavia.  In  senso  pita,  nstretto  s'mtcndo  con  questo  nomc  la  pcnisola  di 
lutlanda  (M.).  138,  Inistor:  Innis-torc,  propriamente « 1'isole  dellc  balene » : 
ma  spesso  vengono  comprcse  sotto  questo  nome  tutte  1'isole  Orcadi  (M,). 
139.  Inisfela:  altro  nome  dcll'Irlanda,  cosi  chiamata  a  cagione  d'una  colo- 
nia  di  Falani  coU  stabilita.  Inis-fail,  cioe  «l'isola  dei  Fail,  o  Falani»  (M,). 
148.  ^  a  me  la  fuga  ignota:  I  e  n:  «io  non  fuggii  giammai ».  149-50.  ^ 
bassa  .  .  .  Conallo :  Teroe  paria  cosl  per  eccesso  di  modestia,  poich6  anzi 


POESIE   DI    OSSIAN  •  FINGAL 


I07 


la  fama  di  Conallo,  in  mia  presenza  150 

vinsersi  pugne  e  s'atterrar  gagliardi. 

Figlio  di  Semo,  la  mia  voce  ascolta: 

cura  ti  prenda  del  regal  retaggio 

del  giovine  Gorman;  ricchezze  e  doni 

e  la  meta  della  selvosa  terra  i55 

offri  a  S varan,  finche  da  Morven  giunga 

il  possente  Fingallo  in  tuo  soccorso. 

Quest' e  '1  consiglio  mio;  die  se  piuttosto 

la  pugna  eleggi,  eccomi  pronto;  e  lancia 

brandisco  e  spada;  mi  vedrai  tra  mille  160 

ratto  awentarmi,  e  1'alma  mia  di  gioia 

sfavillera  nei  bellicosi  orrori. 

—  Si  si,  —  soggiunse  Cucullin  —  m'e  grato 
il  suon  dell'armi,  quanto  a  primavera 
tuono  forier  di  desiata  pioggia.  165 

Su  dunque  tosto  si  raccolgan  tutte 
le  splendide  tribu,  sicch'io  di  guerra 
rawisi  i  figli  ad  un  ad  un  schierarsi 
sulla  pianura,  rilucenti  come 

anzi  tempesta  il  sol,  qualora  il  vento  170 

occidental  le  nubi  ammassa,  e  scorre 
il  sordo  suon  per  le  morvenie  querce. 

Ma  dove  son  gli  amici?  i  valorosi 
compagni  del  mio  braccio  entro  i  perigli? 
Ove  se'  tu,  Catbarre?  ove  quel  nembo  175 

in  guerra  Ducomano  ?  e  tu,  Fergusto, 
m'abbandonasti  nel  terribil  giorno 
della  tempesta?  tu  de'  miei  conviti 
nella  gioia  il  primier,  figlio  di  Rossa, 
braccio  di  morte.  Eccolo;  ei  vien,  qual  leve  180 

cavriol  da  Malmorre.  Addio,  possente 
figlio  di  Rossa,  e  qual  cagion  rattrista 
^  quell'anima  guerriera?  —  In  su  la  tomba 

di  Catbarre,  —  ei  rispose  —  in  questo  punto 

era  uno  dei  principal!  campioni  di  quei  tempi,  e  Cucullmo  in  questo  poe- 
ma  istesso  si  pregia  d'aver  appresa  da  lui  Farte  della  guerra  (C.).  172.  quer 
ce:  i:  «querci». 


I08  MELCHIORRE  CESAROTTI 

s'alzano  quattro  pietre,  e  queste  mani  185 

sotterrar  Ducoman,  quel  nembo  in  guerra. 

Catbarre,  o  figlio  di  Torman,  tu  eri 

raggio  sul  colle;  o  Ducoman  rubesto, 

nebbia  eri  tu  del  paludoso  Lano, 

che  pel  fosco  d'autunno  aer  veleggia  190 

e  morte  porta  al  popolo  smarrito. 

0  Morna,  o  tra  le  vergini  di  Tura 

la  piu  leggiadra,  e  placido  il  tuo  sonno 

nell'antro  della  rupe.  Ah  tu  cadesti 

come  stella  fra  tenebre  che  striscia  195 

per  lo  deserto,  e  '1  peregrin  soletto 

di  cosi  passagger  raggio  si  dole. 

—  Ma  di',—  riprese  Cucullin—  ma  dimmi: 
come  cadder  gli  eroi?  cadder  pugnando 
per  man  dei  figli  di  Loclin?  Qual  altra  200 

cagion  racchiude  d'lnisfela  i  duci 
nelPangusta  magion  ?  —  Catbar  cadeo 
per  man  di  Ducomano  appo  la  quercia 
del  mormorante  rio;  Ducoman  poscia 
venne  all'antro  di  Tura,  e  a  parlar  prese  205 


185.  quattro  pietre:  le  quattro  pietre  appresso  gli  antichi  scozzesi  contras- 
segnavano  costantemente  la  sepoltura  (M.).  187.  Tormani  tuono.  Que 
sta  e  la  vera  origine  del  Giove  Taramis  degli  antichi  (M.).  187-8.  tu 
eri  raggio  sul  colle:  sembra  che  presso  i  Caledoni  fosse  un'usanza  statuta- 
ria  di  non  nominar  mai  un  uomo  morto  di  fresco  senza  un'apostrofc  e 
una  comparazione  di  lode.  Quest'era  per  loro  una  specie  del  nostro 
Requiem  (C.).  189.  II  Lano  era  un  lago  della  Scandinavia,  che  in  tempo 
d'autunno  esalava  un  vapore  pestilenziale  (M.).  192-4.  O  Morna  .  .  . 
rupe:  da^  queste  parole  niuno  potrebbe  immaginare  il  genere  tragico  di 
morte  di  cui  mori  questa  bella  (C.).  197.  passagger:  i:  « passegger ». 
1 99.  cadder:  i:  «cader».  202.  angusta  magion:  cosi  spesso  vien  chiama- 
to  da  Ossian  il  sepolcro :  « Ubi  constituta  est  domus  omni  viventi »  [« Do 
ve  e  stabihta  1'abitazione  per  ogni  vivente»],  Giob.,  c.  30,  v.  23  (C.); 
Catbar  cadeo:  risponde  Fergusto.  L'autore  colla  sua  cstrema  rapidit^ 
tralascia  spesso  d'avvertire  chi  parli  o  risponda.  II  traduttore  ha  creduto 
di  poterlo  imitare  anche  m  qualche  luogo  ove  il  nome  non  e  soppresso. 
Questa  omissione  sara  contrassegnata  colla  lineetta  -  (C.).  L'avvertcnza 
del  Cesarotti  non  vale  naturalmente  per  questa  edizione,  in  cui  si  £  adot- 
tata  la  punteggiatura  moderna.  202-4.  Catbar  ...  no:  non  si  dice  per 
qual  cagione  Catbar  fosse  ucciso  da  Ducomano,  ma  da  quel  che  segue 
e  facile  intendere  che  ci6  fu  per  furore  di  rivahtk  (C.). 


POESIE   DI    OSSIAN  •  FINGAL 


ICQ 


alPamabile  Morna:  «O  Morna,  o  fiore 

delle  donzelle,  a  che  ti  stai  soletta 

nel  cerchio  delle  pietre,  entro  lo  speco? 

Sei  pur  bella,  amor  mio:  sembra  il  tuo  volto 

neve  la  nel  deserto,  e  i  tuoi  capelli  210 

fiocchi  di  nebbia  che  serpeggia  e  sale 

in  tortuosi  vortici,  e  s'indora 

al  raggio  occidental.  Sembran  le  mamme 

due  liscie,  tonde,  luccicanti  pietre 

che  spuntano  dal  Brano;  e  le  tue  braccia  215 

due  tornite  marmoree  colonne, 

che  sorgon  di  Fingallo  entro  le  sale». 

«E  donde  vieni?»  Pinterruppe  allora 
la  donzelletta  dalle  bianche  braccia 
«donde  ne  vieni,  o  Ducoman,  fra  tutti  220 

i  viventi  il  piii  tetro?  oscure  e  torve 
son  le  tue  ciglia,  ed  hai  gli  occhi  di  bragia. 
Comparisce  Svaran?  di',  del  nemico 
qual  nuova  arrechi,  Ducomano  ? ».  «  O  Morna, 
vengo  dal  colle,  dal  colle  de'  cervi  225 

vengone  a  te;  colTinfallibil  arco 
tre  pur  or  ne  trafissi,  e  tre  ne  presi 
coi  veltri  della  caccia.  Amabil  figlia 
del  nobile  Cormante,  odimi:  io  t'amo 
quanto  Panima  mia:  per  te  col  dardo  230 

uccisi  un  cervo  maestoso;  avea 
alta  fronte  ramosa  e  pie  di  vento. » 

((Ducoman,»  ripiglio  placida  e  ferma 
la  figlia  di  Cormante  «or  via,  non  t'amo, 
non  t'amo,  orrido  ceffo;  hai  cor  di  selce,  235 

ciglio  di  notte.  Tu,  Catbar,  tu  solo 
sei  di  Morna  Pamor,  tu  che  somigli 
raggio  di  sole  in  tempestoso  giorno. 


208.  entro  lo  speco:  segue  nel  testo:  «Roco  mormora  il  rio,  s'ode  nell'aria  / 
gerner  la  quercia  antica,  il  lago  e  torbo,  /  scure  le  nubi ;  ma  tu  sembri, 
o  bella »  ec.  Ma  che  ha  a  fare  questo  preambolo  colla  bellezza  di  Morna 
per  appiccarvi  un  mat  Intendea  forse  di  fare  un  contrapposto ?  (C.).  I 
versi  citati  comparivano  in  I  e  n.  215.  Brano:  torrente  nell'Irlanda  (C.). 


110  MELCHIORRE    CESAROTTI 

Di',  lo  vedesti  amabile,  leggiadro 

sul  colle  de'  suoi  cervi  ?  in  questa  grotta  240 

la  sua  Morna  l'attende».  «E  lungo  tempo 

Morna  Fattendera, »  ferocemente 

riprese  Ducoman  «siede  il  suo  sangue 

sopra  il  mio  brando.  Egli  cadeo  sul  Brano : 

la  tomba  io  gli  alzer6.  Ma  tu,  donzella,  245 

volgiti  a  Ducomano,  in  lui  tu  fisa 

tutto  il  tuo  core,  in  Ducoman  che  ha  '1  braccio 

forte  come  tempesta».  «0ime!  cadeo 

il  figlio  di  Torman  ? »  disse  la  bella 

dairocchio  lagrimoso  «il  giovinetto  250 

dal  bel  petto  di  neve  ?  ei  ch'era  il  primo 

nella  caccia  del  colle  ?  il  vincitore 

degli  stranier  dell'oceano  ?  Ah  truce, 

truce  sei,  Ducoman;  crudele  a  Morna 

e  '1  braccio  tuo :  dammi  quel  brando  almeno,          255 

crudo  nemico,  ond'io  lo  stringa;  io  amo 

il  sangue  di  Catbar».  Diede  la  spada 

alle  lagrime  sue:  quella  repente 

pass6gli  il  petto :  ei  rovin6  qual  ripa 

di  torrente  montan;  stese  il  suo  braccio,  260 

e  cosi  disse:  « Ducomano  hai  morto; 

freddo  e  Facciaro  nel  mio  petto;  o  Morna, 

freddo  lo  sento.  Almen  fa'  che  '1  mio  corpo 

1'abbia  Moina;  Ducomano  il  sogno 

era  delle  sue  notti;  essa  la  tomba  265 

innalzerammi ;  il  cacciator  vedralla, 

mi  lodera:  trammi  del  petto  il  brando, 

Morna,  freddo  e  ljacciar».  Venne  piangendo; 

trassegli  il  brando:  ei  col  pugnal  di  furto 


253.  degli  stranier  dell'oceano:  cioe  dei  popoli  della  Scandinavia.  «Stra- 
niero»  appresso  di  Ossian  prendesi  alle  volte  per  « nemico ».  Lo  stesso 
doppio  senso  aveva  hostis  appresso  gli  antichi  Latini  (C.).  263-4.  -Al- 
men  .  .  .  Moina:  i:  « Almen  dammi  a  Moina,  /  la  giovinetta».  264-5.  Du 
comano  .  . .  notti:  ella  era  innamorata  di  me  (C.).  269.  ei  .  .  .  di  furto:  il 
testo  ha  solo :  « egli  le  trapassd  il  bianco  lato  coll'acciaro ».  Ma  di  qual  ac- 
ciaro  si  parla  ?  La  spada  era  gi£  in  mano  di  Morna.  Parmi  che  questo  ter- 
mine  non  possa  aver  altro  senso  che  quello  che  gli  si  e  dato  da  me.  L'av- 


POESIE   DI    OSSIAN  -  FINGAL  III 

trafisse  il  bianco  lato  e  sparse  a  terra  270 

la  bella  chioma:  gorgogliando  il  sangue 

spiccia  dal  franco;  il  suo  candido  braccio 

striscian  note  vermiglie:  ella  prostesa 

roto!6  nella  morte,  e  a'  suoi  sospiri 

1'antro  di  Tura  con  pieta  rispose.  275 

—  Sia  lunga  pace  —  Cucullin  soggiunse 
—  alPalme  degli  eroi ;  le  loro  imprese 
grandi  fur  ne'  perigli.  Errinmi  intorno 
cavalcion  sulle  nubi,  e  faccian  mostra 
de'  lor  guerrieri  aspetti;  allor  quest'alma  280 

forte  fia  ne'  perigli,  e  1  braccio  mio 
imitera  le  folgori  del  cielo. 
Ma  tu,  Morna  gentil,  vientene  assisa 
sopra  un  raggio  di  luna,  e  dolcemente 
t'affaccia  allo  sportel  del  mio  riposo,  285 

quando  cesso  lo  strepito  deH'arme, 
e  tutti  i  miei  pensier  spirano  pace. 
Or  delle  mie  tribu  sorga  la  possa, 
alia  zuffa  moviam;  seguite  il  carro 
delle  mie  pugne:  a  quel  fragor  di  gioia  290 

brillivi  Talma;  mi  sien  poste  accanto 
tre  lance,  e  dietro  all'anelante  foga 
de'  miei  destrier  correte.  lo  vigor  quindi 
novo  concepiro,  quando  s'offusca 
la  mischia  ai  raggi  del  mio  brando  intorno.  —          295 

Con  quel  rumor,  con  quel  furor  che  sbocca 
torrente  rapidissimo  dal  cupo 
precipizio  di  Cromla,  e  '1  tuon  frattanto 
mugge  su  i  fianchi,  e  sulla  cima  annotta; 

verbio  difurto  aggiunto  rende  il  fatto  un  po'  piu  credibile.  All'incontro  il 
Le  Tourneur  colla  sua  traduzione  lo  rende  ancor  piu  difficile  a  concepirsi: 
«Elle  retire  T6p6e  du  sein  du  guerrier:  Ducomar  en  tourne  la  pointe  sur 
elle,  et  perce  son  beau  sein»  (C.).  Pierre  Le  Tourneur  (1736-1788)  pub- 
blic6  una  traduzione  completa  dei  poemi  ossianici  nel  1777.  i  e  n:  «ei  di 
soppiatto  intanto».  289.  zuffa:  i:  «pugna»;  carro:  i  regoli  e  signori  della 
Brettagna  usavano  il  carro  in  segno  del  loro  grado  (C.).  290-1.  delle  mie 
pugne.  .  .mi  sien:  i:  « delle  battaglie  mie,  con  gridi  e  canti  /  1'accpmpa- 
gnate:  mi  sien».  293-4.  Jo  ...  concepiro:  nelP originate:  «cosi  la  mia  ani- 
ma  sara  forte  ne'  miei  amici»  (C.).  i:  «Io  la  dall'alto  /  vigor  v'infonder6 ». 


112  MELCHIORRE    CESAROTTI 

cosi  vasti,  terribili,  feroci  3°° 

balzano  tutti  impetuosamente 

d'lnisfela  i  guerrier.  Precede  il  duce, 

siccome  immensa  d'ocean  balena 

die  gran  parte  di  mar  dietro  si  tragge. 

Lungo  la  spiaggia  ei  va  rotando,  e  a  rivi  305 

sgorga  valor.  L'alto  torrente  udiro 

i  figli  di  Loclin :  Svaran  percosse 

10  scudo,  e  a  s6  chiamb  d'Arno  la  prole: 

—  Dimmi,  che  e  quei  mormorio  dal  monte, 

che  par  d'un  sciame  di  notturni  insetti?  310 

scendono  i  figli  d'lnisfela,  o  '1  vento 

freme  lungi  nel  bosco  ?  In  cotal  suono 

romoreggia  Gormal,  prima  che  s'alzi 

de'  flutti  miei  la  biancheggiante  cirna. 

Poggia  sul  colle,  o  figlio  d'Arno,  e  guata  315 

Poscura  faccia  della  piaggia.  —  Andonne, 

ma  tosto  ritornb:  tremante,  ansante 

sbarra  gli  occhi  atterriti,  e  il  cor  nel  petto 

sentesi  palpitar;  son  le  sue  voci 

rotte,  lente,  confuse.  —  Alzati,  o  figlio  320 

dell'ocean,  veggo  il  torrente  oscuro 

della  battaglia,  I'affollata  possa 

della  stirpe  d'Erina:  il  carro,  il  carro 

della  guerra  ne  vien,  fiamma  di  morte, 

11  carro  rapidissimo  sonante  325 
di  Cucullin  figlio  di  Semo.  Addietro 

curvasi  in  arco,  come  onda  allo  scoglio, 
come  al  colle  aurea  nebbia:  i  fianchi  suoi 
son  di  commesse  colorate  pietre 


309-10.  Dimmi .  .  .  insetti:  questo  tratto  sarebbe  insigne  e  convenientis- 
simo  al  carattere  di  Svarano  trasmodatamente  orgoglioso.  Ma  convemva 
arrestarsi  qui,  e  non  guastarlo  colla  mterrogazione  che  segue.  Allora  si 
sarebbe  ammirata  cotesta  grandezza  d'orgoglio,  al  quale  il  romor  dell'eser- 
cito  nemico  non  sembra  che  il  ronzio  d'uno  sciame  d'insetti.  Ma  quando  ei 
dubita  che  possa  anche  essere  il  vento  che  rugge  nel  bosco,  non  si  vede 
prii  che  la  sproporzione  della  prima  similitudme  (C.).  313.  Gormal:  mon- 
tagna  della  Scandinavia  (C.).  322-3.  Vaffollata  .  .  .  Erina:  i  poderosi  guer- 
rieri  irlandesi  che  si  precipitano  in  folia. 


POESIE   DI    OSSIAN  •  FINGAL  113 


variati  e  distinti;  e  brillan  come  330 

mar  che  di  notte  ad  una  barca  intorno 

de'  remi  all'agitar  lustra  e  s'ingemma. 

Forbito  tasso  e  Jl  suo  timone,  e  '1  seggio 

di  liscio  e  lucid' osso:  e  quinci  e  quindi 

aspro  e  di  lance,  e  la  piu  bassa  parte  335 

e  predella  d'eroi:  dal  destro  lato 

scorgesi  il  generoso,  il  ben-crinito, 

di  largo  petto,  di  cervice  altera, 

alto-sbufTante  nitritor  destriero; 

Tunghia  sfavilla,  ed  i  suoi  sparsi  crini  340 

sembran  quella  cola  striscia  fumosa. 

Sifadda  ha  nome,  e  Duronallo  e  Taltro, 

che  al  manco  lato  del  terribil  carro 

stassi,  di  sottil  crin,  di  robusta  unghia, 

nelle  tempeste  delFacciar  bollente  345 

veloce  corridor,  figlio  del  colle. 

Millq  strisce  di  cuoio  il  carro  in  alto 

legano;  aspri  d'acciar  bruniti  freni 

nuotano  luminosi  in  biancheggiante 

corona  ampia  di  spume,  e  gemmi-sparse  350 

lisce  sottili  redini  scorrendo 

libere  van  su'  maestosi  colli 

dej  superbi  destrieri:  essi  la  piaggia 

libano  velocissimi,  qual  nebbia 

le  acquose  valli,  e  van  ferocemente  355 

con  la  foga  de'  cervi,  e  con  la  possa 

d'aquila  infaticabile  che  piomba 

sulla  sua  preda,  e  col  fragor  del  verno 

la  per  le  terga  di  Gormal  nevose. 

Sul  carro  assiso  alto  grandeggia  il  duce,  360 

il  tempestoso  figlio  della  spada, 


331-2.  mar  .  .  .  s'ingemma:  si  accenna  il  lume  fosforico  che  manda  di  not 
te  1'acqua  del  mare  agitata  e  rifranta.  Nella  pnma  edizione  non  si  era  ben 
colto  il  senso  dell' originate.  II  traduttore  confessa  con  vera  compiacenza  di 
dover  la  correzione  di  quest o  luogo  e  d'alcuni  altri  ai  giudiziosi  awer- 
timenti  del  signor  Domenico  Trant,  dottissirno  e  gentilissimo  cavalier  e 
irlandese  (C.)-  i:  «mar  che  alia  nave  si  rifrange  e  vibra».  342.  Sifad 
da:  Sulin-Sithfadda,  «lungo  passo»  (C.). 


MELCHIORRE    CESAROTTI 

il  forte  Cucullin,  prole  di  Semo, 

re  delle  conche:  le  sue  fresche  guance 

lustrano  a  paro  del  mio  tasso,  e  '1  guardo 

de7  cerulei  suoi  lumi  ampio  si  volve  365 

sottesso  all'arco  delle  ciglia  oscuro. 

Volagli  fuor  come  vibrante  fiamma 

del  capo  il  crin,  mentr'ei  spingesi  innanzi 

crollando  1'asta  minacciosa:  fuggi, 

o  re  delFocean,  fuggi,  ei  s'avanza  370 

come  tempesta.  —  E  quando  mai  —  rispose 

—  mi  vedesti  a  fuggir  ?  quando  ho  fuggito, 

figlio  di  codardia?  Che?  di  Gormallo 

le  tempeste  affrontai,  quando  dei  flutti 

torreggiava  la  spuma;  affrontai  fermo  375 

le  tempeste  del  cielo,  ed  or  vilmente 

fuggir6  da  un  guerrier?  Foss'ei  Fingallo, 

non  mi  si  abbuieria  Talma  di  tema. 

Alzatevi,  versatemivi  intorno, 

forti  miei  mille,  in  vorticosi  giri  380 

qual  rotante  profondo;  il  brando  vostro 

segua  il  sentier  del  luminoso  acciaro 

del  vostro  duce,  e  dei  nemici  all'urto 

siate  quai  rupi  del  terren  natio, 


363.  re  delle  conche:  s'e  gia  detto  che  gli  Scozzesi  ne'  loro  conviti  usavano 
di  bear  nelle  conche,  come  pure  lo  usano  i  montanari  ai  giorni  nostri. 
Perci6  il  termine  di  conche  in  queste  poesie  si  usa  spesso  in  cambio  di 
«convito».  Re  delle  conche  significa  «re  de'  conviti »,  cioe  re  ospitale  e 
cortese  (C.).  364.  a  paro  del  mio  tasso:  cioe,  a  paro  del  mio  arco  di  tasso. 
Del  resto,  credo  d'aver  colto  il  vero  senso  delle  parole  deH'originale : 
«lasiaa  rossa  guancia  e  simile  al  mio  polito  tasso  ».  II  Le  Tourneur  sup 
pose  che  questa  somiglianza  stesse  nel  colore,  e  da  alia  guancia  di  Cucul- 
lino  la.  tinta  basanee  in  cambio  di  vermiglia,  affine  di  accostarla  a  quella 
del  tasso.  Ma  questa  tinta  non  e  mai  quella  dcgli  eroi  di  Ossian,  e  Tepiteto 
di  polito  mi  parve  determinar  il  rapporto  (C.).  364-6.  e  'I  guardo  .  .  . 
air  arco:  I  e  n:  «e  '1  guardo  /  de'  ceruleo-giranti  occhi  ben  sotto  /  giace 
dell'arco».  377.  guerrier:  I:  «eroe».  380.  Mille  appresso  di  Ossian  signi 
fica  K  esercito »,  benche  composto  di  maggior  moltitudine.  II  numero  finito 
e  posto  per  Pinfinito.  Cosl  Virgilio,  [Aen.,  I,  491]:  «mediisque  in  millibus 
ardet»  [«arde  in  mezzo  a  migliaia  di  guerrieri))],  C.  381.  rotante:  vor- 
tice,  gorgo.  381-2.  il  brando  .  .  .  sentier:  I  en:  «e  vi  spingete  /  dictro  al 
sentier ».  383-4.  e  dei  nemici  .  .  .  rupi:  i  e  ii:  «radicati,  immoti  /  come  le 
rupi». 


POESIE   DI    OSSIAN  •  FINGAL  115 

che  baldanzosamente  alle  tempeste  385 

godon  di  farsi  incontro,  e  stendon  tutti 
al  vento  irato  i  tenebrosi  boschi.  — 

Come  d'autunno  da  due  baize  opposte 
iscatenati  turbini  focosi 

s'accavallan  tra  lor,  cosi  Tun  Faltro  390 

s'awiluppan  gli  eroi;  come  dall'alto 
di  rotte  rupi  rotolon  cadendo 
due  torrenti  spumosi  urtansi  in  giostra 
con  forti  cozzi,  e  giu  con  le  miste  onde 
van  rovinosi  a  tempestar  sul  piano;  395 

si  romorose,  procellose  e  negre 
Inisfela  e  Loclin  nella  battaglia 
corronsi  ad  incontrar:  duce  con  duce 
cambiava  i  colpi,  uomo  con  uom,  gia  scudo 
scudo  preme,  elmetto  elmo,  acciar  percosso  400 

rimbalza  dall'acciaro:  a  brani,  a  squarci 
spiccansi  usberghi,  e  sgorga  atro  e  fumeggia 
il  sangue,  e  per  lo  ciel  volano,  cadono 
nembi  di  dardi  e  tronchi  d'aste  e  schegge: 
quai  circoli  di  luce,  onde  s'indora  405 

di  tempestosa  notte  il  fosco  aspetto. 

Non  mugghiar  d'oceano  e  non  fracasso 
d'ultimo  tuono  assordator  del  cielo 
pu6  uguagliar  quel  rimbombo.  Ancor  se  presso 
fosservi  i  cento  di  Gorman  cantori,  410 


391.  s*awiluppan  gli  eroi:  1'espressione  dell'onginale  e  languida  in  tal  cir- 
costanza:  « s'awicinano »  (C.).  391-3-  come . . .  giostra:  v.  Om.,  [//.],  c.  4,  v. 
515  [452-5],  C.  398-401 .  duce  con  duce. . .  acciaro :  Omero,  ivi,  v.  506  [446-9]. 
II  traduttore  mglese  cita  qui  due  versi  di  Stazio,  [Theb.,  vin,  398-9]:  « lam 
clypeus  clypeis,  umbone  repellitur  umbo,  /  ense  minax  ensis,  pede  pes, 
et  cuspide  cuspis  »  [« Gia  scudo  e  respinto  da  scudo,  umbone  da  umbone, 
spada  minacciosa  da  spada,  piede  da  piede,  asta  da  asta»].  Egli  loda  il 
poeta  latino  d'aver  imitate  felicemente  Omero.  6  pero  da  osservarsi  che 
nei  versi -di  Stazio  v'e  piuttosto  simetria  che  intrecciamento.  Omero  di- 
pinse  una  battaglia;  Stazio  rappresenta  una  scherma  (C.).  409.  Ancor  se: 
i  e  II :  «  ancor  che ».  410.  cantori:  il  costume  di  condur  seco  i  cantori  nelle 
battaglie  era  comune  non  meno  ai  Celti  che  ai  popoli  della  Scandinavia. 
Olao  Triggueson,  re  di  Norvegia,  ne  condusse  seco  alquanti  in  una  spe- 
dizione,  e  collocatigli  in  una  certa  distanza:  «Voi  non  canterete»  disse 


Il6  MELCHIORRE    CESAROTTI 

per  dar  al  canto  le  guerresche  imprese; 

pur  di  cento  cantor  foran  le  voci 

fiacche,  per  tramandar  ai  di  futuri 

le  morti  degli  eroi;  si  folti  e  spessi 

cadeano  a  terra,  e  de'  gagliardi  il  sangue  415 

si  largo  trascorrea.  Figli  del  canto, 

piangete  Sitalin;  piangi,  Fiona, 

sulle  tue  piagge  il  grazioso  Ardano. 

Come  due  snelli  giovinetti  cervi 

la  nel  deserto,  essi  cader  per  mano  420 

del  feroce  Svaran:  che  in  mezzo  a  mille 

mugghiava  si  che  il  tenebroso  spirto 

parea  della  tempesta,  assiso  in  mezzo 

dei  nembi  di  Gormal,  che  della  morte 

del  naufrago  nocchier  s'allegra  e  pasce.  425 

Ne  gia  sul  fianco  ti  dormi  la  destra, 
sir  della  nebulosa  isola;  molte 
del  braccio  tuo  furon  le  morti,  e  il  brando 
era  un  foco  del  ciel  quando  colpisce 
i  figli  della  valle :  incenerite  430 

cadon  le  genti,  e  tutto  il  monte  e  fiamma. 
Sbuffan  sangue  i  destrier;  nel  sangue  guazza 
Tunghia  di  Duronal,  Sifadda  infrange, 
pesta  corpi  d'eroi:  sta  raso  il  campo 
addietro  lor,  quai  rovesciati  boschi  435 

nel  deserto  di  Cromla,  allor  che  '1  turbo 


rivolto  loro  con  fierezza  «  quel  che  avete  udito,  ma  quel  che  avete  veduto ». 
Mallet,  Introd.  alia  storia  di  Danim.  (C.)-  Paul  Henri  Mallet  (1730-1807) 
di  Ginevra,  pubblic6  nel  1755  V Introduction  a  Vhistoire  du  Danemark, 
che  molto  contribui  al  sorgere  dell'interesse  per  il  primitive  nordico. 
4.1 1.  per .  .  .imprese:  il  testo:  «per  dar  la  guerra  al  canto »  (C.).  ten: 
«per  intonare  il  bellicose  carme».  412.  foran:  i  e  u:  «eran».  422.  il 
tenebroso:  i:  «lo  squillante».  427.  sir  ...  isola:  Cucullino,  signore  del- 
Pisola  di  Schy,  non  impropriamente  chiamata  V isola  della  nebbia,  perch6 
gli  alti  suoi  monti,  sopra  di  cui  s'arrestan  le  nuvole  dell'oceano  occidentale, 
vi  cagionano  una  quasi  perpetua  pioggia  (M.).  429.  foco  del  ciel:  nel- 
1' originate  vi  e  «raggio»,  che  talora  presso  Ossian  dinota  la  folgore.  lo 
non  volli  abusare  di  questo  bel  termine  (C.).  434.  pesta  .  .  .  eroi:  v.  Om., 
[//.]»  c.  20,  v.  412  [394],  C.  434-5.  sta  .  .  .  lor:  1'onginale:  «la  battagha 
giace  dietro  loro»  (C.).  i:  «rasa  la  pugna  sta  dietro  lor». 


POESIE    DI    OSSIAN  •  FINGAL  117 

sulla  piaggia  pass6  carco  de'  tetri 

spirti  notturni  le  rugghianti  penne. 

Vergine  d'Inistorre,  allenta  il  freno 

alle  lagrime  tue,  delle  tue  strida  440 

empi  le  baize;  il  biondo  capo  inchina 

sopra  1'onde  cerulee;  o  tu  piu  bella 

dello  spirto  del  colli  in  su  '1  meriggio, 

che  nel  silenzio  dei  morveni  boschi 

sopra  d'un  raggio  tremulo  di  luce  445 

move  soavemente;  egli  cadeo. 

E  basso  il  tuo  garzon,  pallido  ei  giace 

di  Cucullin  sotto  la  spada;  e  '1  core 

fervido  di  valor  piu  nelle  pugne 

non  fia  che  spinga  il  giovinetto  altero  450 

de'  regi  il  sangue  ad  emular.  Trenarre, 

Pamabile  Trenar,  donzella,  e  morto. 

Empion  la  casa  d'ululati  i  fidi 

grigi  suoi  cani,  e  del  signor  diletto 

veggon  1'ombra  passar.  Nelle  sue  sale  455 

pende  1'arco  non  teso,  e  non  s'ascolta 

sul  colle  de'  suoi  cervi  il  corno  usato. 

Come  a  scoglio  mille  onde,  incontro  Erina 
tal  di  Svaran  va  1'oste;  e  come  scoglio 
mille  onde  incontra,  di  Svaran  la  possa  460 

cosi  Erina  incontro.  Schiude  la  morte 
tutte  le  fauci  sue;  tutte  1'orrende 
sue  voci  inalza  e  le  frammischia  al  suono 
dei  rotti  scudi:  ogni  guerriero  e  torre 
d'oscuritade,  ed  ogni  spada  e  lampo.  465 

Monti  echeggiano  e  piagge,  al  par  di  cento 
ben  pesanti  martelli  alternamente 


437-8.  carco . . .  penne :  I :  « carco  dei  tetri  /  spirit!  della  notte  ambe  le  penne » ; 
n :  «ambedue  l'ale».  439.  Vergine  d'Inistorre:  forse  la  figlia  del  re  cTIni- 
storre,  ossia  delle  Orcadi.  Trenar  era  figlio  del  re  d'Iniscona,  che  si  suppo- 
ne  una  delle  isole  di  Settland  (M.).  446.  egli  cadeo:  chi?  bella  ed  interes- 
sante  sospensione!  (C.).  447.  £  basso:  e  a  terra,  e  morto.  461-2.  Schiu 
de  .  .  .  sue:  «dilatavit  mfernus  animam  suam,  et  aperuit  os  suum  absque 
ullo  termino »  [« 1'inferno  dilat6  la  sua  anima,  e  spalanc6  simsuratamente 
la  sua  bocca»],  Isaia,  c.  5,  v.  14  (C.). 


Il8  MELCHIORRE    CESAROTTI 

alzantisi,  abbassantisi  sul  rosso 

figlio  della  fornace.  E  chi  son  questi, 

questi  chi  son,  che  tenebrosi,  orrendi  470 

vanno  con  tal  furor  ?  Veggo  due  nembi, 

due  folgori  vegg'io :  turbati  intorno 

sono  i  colli  minori,  e  trema  il  musco 

sull'erte  cime  delle  rupi  annose. 

E  chi  son  questi  mai,  fuorche  il  possente  475 

figlio  dell'oceano,  e  il  nato  al  carro 

d'Erina  correttor  ?  Tengon  lor  dietro 

spessi  sul  piano  ed  anelanti  sguardi 

dei  fidi  amici,  alia  terribil  vista 

turbati,  incerti:  ma  gia  gia  la  notte  480 

scende,  e  tra  nubi  i  due  campioni  involve; 

e  alPorribil  conflitto  omai  da  posa. 

Di  Cromla  intanto  sull'irsuto  fianco 
pose  Dorglante  i  cavrioli  e  i  cervi, 
felici  doni  della  caccia,  innanzi  485 

che  lasciassero  il  colle  i  forti  eroi. 
Cento  guerrieri  a  raccor  scope  in  fretta 


468-9.  rosso  figlio  della  fornace:  il  ferro  rovente  (C.);  E  chi  son  questi: 
questa  e  una  maniera  generalmente  usata  da  Ossian  per  scuotere  improv- 
visamente  lo  spirito,  e  fissar  Tattenzione  sopra  un  oggetto  importante. 
Un  tal  modo  &  pur  frequentissimo  nella  poesia  ebraica,  che  ha  moltissima 
affinita  con  quella  di  Ossian  (C.).  471.  nembi:  I  e  n:  «tuom».  476.  nato 
al  carro:  la  voce  car-born  deU'originale  pud  significare  ugualmente  «por- 
tato  sul  carro »  e  « nato  al  carro ».  Quantunque  il  primo  significato  sembri 
il  piii  naturale  e  *1  piti  semplice,  il  traduttore  s'e  attenuto  al  secondo  ch'e 
piti  poetico,  e  in  fondo  vale  lo  stesso:  specialmente  che  si  trova  spesso 
in  queste  poesie  figlio  del  carro,  usato  nel  medesimo  senso.  Cosi  nato 
al  carro  e  quanto  dire  fra  noi  «nato  al  sogho»  (C.).  477-80.  Tengon  .  .  . 
incerti:  1*  originate:  «molti  sono  gli  ansiosi  occhi  dei  loro  amici,  mentre 
veggono  loro  oscuri  sopra  la  piaggia»  (C.).  485.  felici  .  .  .  caccia:  1'ori- 
ginale:  «la  fortuna  della  caccia »  (C.).  487-90.  Cento  .  .  .  convito:  la 
tradizione  ci  ha  trasmessa  Pantica  maniera  d'apprestar  il  convito  dopo  la 
caccia.  Formavasi  un  pozzo  intonacato  di  pietre  lisce.  Intorno  ad  esso  si 
raccoglieva  un  cumulo  d'altre  pietre  lisce  e  piatte  del  genere  delle  focaie. 
Queste  ugualmente  che  il  pozzo  si  riscaldavano  con  le  scope.  Poi  si  de- 
poneva  una  parte  della  cacciagione  nel  fondo  del  pozzo,  ricoprendola  con 
uno  strato  di  pietre,  e  cosl  facevano  successivamente,  sin  che  il  pozzo  ve- 
niva  a  riempiersi.  II  tutto  poi  si  ricopriva  con  le  scope  per  impedir  il  fumo. 
Se  ci6  sia  vero,  non  posso  dirlo.  So  bene  che  si  mostrano  anche  al  giorno 


POESIE   DI    OSSIAN  •  FINGAL  IIQ 

dansi,  trecento  a  seer  le  lisce  pietre, 

died  accendon  la  fiamma,  e  fuma  intorno 

Fapprestato  convito.  Allor  d'Erina  490 

il  generoso  duce  il  suo  leggiadro 

spirito  ripiglic-r  sulla  raggiante 

landa  chinossi  e  a  Carilo  si  volse, 

canuta  prole  di  Chinfena,  e  dolce 

figlio  de'  canti :  —  E  per  me  solo  adunque  495 

s'imbandira  questo  convito,  e  intanto 

stara  il  re  di  Loclin  sulla  ventosa 

spiaggia  d'Ullina  abbrividato,  e  lungi 

dai  cervi  de'  suoi  colli  e  dalle  sale 

de'  suoi  conviti?  Or  via,  Carilo,  sorgi,  5°° 

porta  a  Svaran  le  mie  parole:  digli 

che  la  mia  festa  io  spargo :  ei  venga  in  queste 

ore  notturne  ad  ascoltare  il  suono 

de'  miei  boschetti,  or  che  gelati,  acuti 

pungono  i  venti  le  marine  spume.  505 

Venga,  e  la  dolce  arpa  tremante  e  i  canti 

ascolti  degli  eroi.  —  Carilo  andonne 

con  la  voce  phi  dolce,  e  cosi  disse 

al  re  dei  bruni  scudi :  —  Esci  dall'irte 

pelli  della  tua  caccia,  esci,  Svarano,  51° 


d'oggi  alcuni  pozzi,  i  quali  il  volgo  dice  che  solevano  servir  a  quest'uso 
(M.).  490-2.  Allor  .  .  .  ripiglio:  le  parole  del  testo  sono:  «Cucullino,  duce 
della  guerra  d'Erina,  ripigli6  la  sua  possente  anima ».  Da  ci6  che  segue  e 
visibile  che  il  senso  non  pu6  esser  che  questo:  che  quel  duce  torn6  alia 
sua  naturale  generosita.  Se  cosl  e,  1'aggiunto  di  possente  non  e  il  piu  pro- 
prio,  o  certo  non  il  piu  chiaro.  II  termine  di  leggiadro  quadra  assai  me- 
glio,  avendo  presso  i  buoni  scrittori  un  senso  misto  di  gentilezza  e  nobilta 
d'animo,  qualitk  caratteristiche  di  questo  eroe.  Del  resto,  il  traduttor  fran- 
cese  non  colse  nel  segno  quando  tradusse :  «  Cucullin  a  recueilli  sa  grande 
ame»  (C.).  II  traduttore  francese  a  cui  si  accenna  e  il  Le  Tourneur.  i:  «il 
generoso  duce  in  cotal  guisa  /  se  stesso  rampogn6».  493.  Carilo:  celebre 
cantore  di  Cucullino  (C.).  498.  Ullina:  Ulster,  provincia  dell'Irlanda,  il 
di  cui  nome  sar&  sempre  al  traduttore  di  gratissima  ricordanza,  per  la 
dolce  memoria  che  gh  risveglia  di  Mylord  Hervey,  vescovo  di  London- 
Derry  (C.).  Frederick  August  Hervey  (1730-1803),  fautore  delle  riforme 
irlandesi.  508.  con  la  voce  piu  dolce:  i:  «con  Farmonica  voce».  509- 
10.  Esci . . .  caccia:  cioe:  «lascia  le  pelli  delle  fiere  uccise  in  caccia,  sopra  le 
quali  ti  stai  sdraiato  »  (C.). 


120  MELCHIORRE    CESAROTTI 

signer  dei  boschi:  Cucullin  diffonde 

la  gioia  delle  conche  e  a  se  t'invita. 

Vieni,  o  Svaran.  —  Quei  non  par!6,  muggio, 

simile  al  cupo  brontolio  di  Cromla 

di  tempeste  forier:  —  Quand'anche,  Erina,  515 

le  giovinette  tue  mi  stendan  tutte 

le  lor  braccia  di  neve,  e  faccian  mostra 

dei  palpitanti  petti,  e  dolcemente 

girino  a  me  gPinnamorati  sguardi; 

fermo  quai  mille  di  Loclin  montagne  520 

qui  Svaran  rimarra,  finche  '1  mattino 

venga  co'  raggi  suoi  dal  mio  oriente 

a  rischiarar  di  Cucullin  la  morte. 

Grato  mi  freme  nelForecchio  il  vento 

che  percote  i  miei  mari:  ei  nelle  sarte  525 

parlami  e  nelle  vele,  e  mi  rimembra 

i  verdi  boschi  di  Gormal,  che  spesso 

a*  miei  venti  echeggiar,  quando  rosseggia 

la  lancia  mia  dietro  le  belve  in  caccia. 

A  Cucullin  tu  riedi:  a  ceder  pensi  530 

Fantico  trono  di  Cormano  imbelle; 

o  i  torrenti  d'Erina,  al  nuovo  giorno, 

alle  sue  rupi  mostreran  la  spuma 

rossa  del  sangue  del  domato  orgoglio.  — 

Carilo  ritorno :  —  Ben  —  disse  —  e  trista  535 

la  voce  di  Svaran.  —  Ma  sol  per  lui;  — 
ripigli6  Cucullin  —  tu  la  tua  sciogli, 
Carilo,  intanto,  e  degli  antichi  tempi 
rammenta  i  fatti;  fra  le  storie  e  i  canti 
scorra  la  notte:  entro  il  mio  core  infondi  540 


521-2.  fincM .  .  .oriente:  il  Le  Tourneur  fece  svanire  affatto  la  bellezza 
singolare  di  questa  espressione  traducendo  «jusqu'a  ce  que  Faurore  se 
levant  sur  mes  6tats».  Ho  sviluppato  altrove  i  pregi  originali  di  questa 
parlata,  unica  nella  sua  brutale  sublimita  (C.).  II  Cesarotti  allude  alia  sua 
«osservazione»  relativa  appunto  a  questi  versi.  537.  npiglio  Cucullin:  Cu- 
cullino  non  degna  nemmeno  d'mformarsi  di  quel  che  Svarano  ha  nsposto, 
e  senza  curarlo,  lo  abbandona  al  suo  brutale  carattere  (C.).  540-5.  en 
tro  .  .  .  monti :  il  senso  piu  chiaramente  e  questo :  « cantaci  qualche  stona 
o  irlandese  o  scozzese;  qualche  canzone  o  tua  o  di  Ossian»  (C.). 


POESIE    DI    OSSIAN  •  FINGAL  121 

la  dolcezza  del  duol;  che  molt!  eroi 

e  molte  vaghe  vergini  d'amore 

gia  fioriro  in  Erina,  e  dolci  air  alma 

scendon  le  note  del  dolor,  che  s'ode 

Ossian  cantar  la  dj Albion  su  i  monti,  545 

quando  cess6  la  romorosa  caccia, 

e  s'arresta  ad  udir  Tonda  del  Cona. 

—  Venne  in  Erina  nei  passati  giorni  — 
ei  cominci6  —  dell'ocean  la  stirpe. 
Ben  mille  navi  barcollar  sulPonde  550 

ver  Tamabile  Ullina.  Allor  s'alzaro 
i  figli  d'Inisfela,  e  fersi  incontro 
alia  schiatta  dei  scudi.  Ivi  Cairba, 
cima  dei  duci,  ed  ivi  era  pur  Gruda, 
maestoso  garzon:  gia  lunga  rissa  555 

ebber  tra  lor  pel  variato  toro, 
che  nella  valle  di  Golbun  muggia., 
Ciascun  volealo,  e  fu  spesso  la  morte 
gia  per  calar  sulle  taglienti  spade. 
Pur  nel  gran  giorno  Fun  dell'altro  a  lato  560 

pugnar  que'  prodi;  gli  stranier  fuggiro. 
Qual  nome  sopra  il  colle  era  si  bello 
quanto  Gruda  e  Cairba?  Ah  perche  mai 
torno  '1  toro  a  muggir?  quelli  mirarlo 
trescar  bizzarro  e  saltellar  sul  prato,  565 

candido  come  neve,  e  si  raccese 
1'ira  dei  duci:  in  sulPerbose  sponde 
del  Luba  essi  pugnaro,  e  Jl  maestoso 


545.  Ossian:  si  awerte  che  questo  nome  e  sempre  dissillabo,  e  dee  pro- 
nunziarsi  costantemente  coll'accento  nella  penultima  (C.) ;  Albione  e  il 
nome  generale  della  Brettagna.  Ma  in  queste  poesie  si  prende  per  la  Scozia 
occidentale  in  un  senso  piu  ristretto  e  piu  proprio.  La  voce  Albione 
denva  dall'altra  alpe,  «paese  montuoso»  (M.).  547-  e  s'arresta  .  .  .  Cona: 
Poriginale:  «  e  i  ruscelli  di  Cona  rispondono  alia  voce  di  Ossian ».  Ma  poich6 
i  ruscelli  non  lasciano  di  mormorare,  sia  che  Ossian  canti  o  che  taccia, 
questo  mormorio  non  e  un  onor  particolare  fatto  dal  Cona  alia  voce  d' Os 
sian  ;  tanto  piu  che  il  suo  rumore  poteva  affogarla.  L'immagine  sostituita 
ci  parve  piu  conveniente  (C.).  558-9.  efu.>.  spade:  i:  «e  fu  piu  volte  il 
sangue  /  sopra  la  punta  delle  forti  spade ».  568.  Luba:  Lubar,  fiume  in 
Ulster  (C.)- 


122  MELCHIORRE    CESAROTTI 

Gruda  cadeo.  Venne  Cairba  oscuro 

alia  valle  di  Tura.  Ivi  Brasilia,  570 

delle  sorelle  sue  la  piu  leggiadra, 

sedea  soletta,  e  gia  pascendo  il  core 

coi  canti  della  doglia.  Eran  suo  canto 

le  prodezze  di  Gruda,  il  giovinetto 

de'  suoi  pensier  segreti;  ella  il  piangea  575 

come  gia  spento  nel  campo  del  sangue. 

Pur  sosteneala  ancor  picciola  speme 

del  suo  ritorno.  Un  cotal  poco  uscia 

fuor  delle  vesti  il  bianco  sen,  qual  luna 

che  da  nubi  trapela:  avea  la  voce  580 

dolce  piu  ch'arpa  flebile  gemente: 

fissa  in  Gruda  avea  Talma,  era  di  Gruda 

il  suo  segreto  sospiretto  e  il  lento 

furtivo  sogguardar  delle  pupille: 

«Gruda,  quando  verrai?  guerriero  amato,  585 

quando  ritorni  a  me?»  Venne  Cairba, 

e  si  le  disse:  «Or  qua,  Bresilla,  prendi 

questo  sanguigno  scudo,  entro  la  sala 

1'appendi  per  trofeo:  la  spoglia  e  questa 

del  mio  nemico)>.  Alto  tremor  le  scosse  590 

il  suo  tenero  cor;  vola  repente 

pallida,  furibonda,  il  suo  bel  Gruda 

trov6  nel  sangue,  e  gli  spir6  sul  petto. 

Or  qui  riposa  la  lor  polve,  e  questi 

due  mesti  tassi  solitari  usciro  595 

di  questa  tomba,  e  s'affrettar  Tun  Taltro 

ad  abbracciarsi  con  le  verdi  cime. 

Tu  sul  prato,  o  Bresilla,  e  tu  sul  colle 

bello  eri,  o  Gruda;  il  buon  cantor  con  doglia 

rimembrera  i  tuoi  casi,  e  co'  suoi  versi  600 


575.  de*  suoi  pensier  segreti:   Toriginale:   « della  sua  anima  segreta»  (C.)- 

576.  nel  campo  del  sangue:  nella  guerra  contro  quegh  di  Loclm  (C.).     590- 
I.  Alto  .  .  .  cor:  Cairba  non  avea  detto  che  «il  mio  nemico»,  col  qual  ter- 
mine  poteva  intendersi  un  danese :  ma  per  il  cuor  d'una  amante  la  possi- 
bihta  equivale  alia  certezza  (C.).     596.  e  s'affrettar  Pun  Valtro:  I  e  n: 
«e  corsero  anelanti». 


POESIE    DI    OSSIAN  •  FINGAL  123 

consegnera  questi  amorosi  nomi 
alia  memoria  di  remote  etadi. 

—  Dolce  e  la  voce  tua,  Carilo,  e  dolce 
storia  narrasti:  ella  somiglia  a  fresca 

di  primavera  placidetta  pioggia,  605 

quando  sorride  il  sole,  e  volan  levi 

nuvole  sottilissime  lucenti. 

Deh,  tocca  1'arpa,  e  fammi  udir  le  lodi 

delFamor  mio,  del  solitario  raggio 

dell'oscura  Dunscaglia;  ah  tocca  Parpa,  610 

canta  Bragela:  io  la  lasciai  soletta 

neirisola  nebbiosa.  II  tuo  bel  capo 

stendi  tu,  cara,  dal  nativo  scoglio, 

per  discoprir  di  Cucullm  la  nave? 

Ah  che  lungi  da  te  rattienmi,  o  cara,  615 

1'invido  mar:  quante  fiate  e  quante 

per  le  mie  vele  prenderai  la  spuma 

del  mar  canuto,  e  ti  dorrai  delusa! 

Ritirati,  amor  mio;  notte  s'avanza, 

e  '1  freddo  vento  nel  tuo  crin  sospira.  620 

Va'  nelle  sale  de'  convrti  miei 

a  ricovrarti,  e  alle  passate  gioie 

volgi  il  pensier;  che  a  me  tornar  non  lice, 

se  pria  non  cessa  il  turbine  di  guerra. 

Ma  tu,  fido  Conal,  parlami  d'arme,  6zs 

parla  di  pugne,  e  fa'  m'esca  di  mente, 

che  troppo  e  dolce  la  vezzosa  figlia 

del  buon  Sorglan,  Tamabile  Bragela 

dal  bianco  sen,  dalle  corvine  chiome. 

—  Figlio  di  Semo,  —  ripigli6  Conallo  630 
a  parlar  lento  —  attentamente  osserva 

del  mar  la  stirpe ;  i  tuoi  guerrier  notturni 

manda  all'mtorno,  e  di  Svaran  la  possa 

statti  vegliando.  II  pur  dir6  di  nuovo, 

per  la  pace  son  io,  finche  sia  giunta  635 

6 io.  Dunscaglia:  Dunscaich.  Nome  del  palagio  di  Cucullino  (C.).  616- 
8.  quante  .  .  .  delusa:  1'originale:  «e  la  sua  bianca  spuma  t'ingannera  per 
le  mie  vele»  (C.). 


124  MELCHIORRE    CESAROTTI 

la  schiatta  del  deserto,  e  che,  qual  sole, 

1'alto  Fingallo  i  nostri  campi  irraggi.  — 

Cucullin  s'accheto;  colpi  lo  scudo 

di  scolte  ammonitor:  mossersi  tosto 

i  guerrier  della  notte,  e  su  la  piaggia  640 

giacquero  gli  altri  al  zufolar  del  vento. 

L'ombre  de}  morti  intanto  ivan  nuotando 

sopra  ammontate  tenebrose  nubi; 

e  per  lo  cupo  silenzio  del  Lena 

s'udiano  ad  or  ad  or  gemer  da  lungi  645 

le  fioche  voci  e  querule  di  morte. 


638-9.  lo  scudo  .  .  .  ammonitor:  Toriginale:  «lo  scudo  del  suo  allarme»  (C.)- 
I  e  II :  « ministro  di  terrore  ». 


CANTO  II 


ARGOMENTO 


L'ombra  di  Crugal,  uno  degli  eroi  irlandesi  ch'era  stato  ucciso  in 
battaglia,  apparisce  a  Connal  e  predice  la  sconfitta  di  Cucullino  nel 
prossimo  combattimento.  Connal  comunica  a  questo  la  sua  visione,  e 

10  sollecita  vivamente  a  far  la  pace  con  Svarano:  ma  Cucullino  e 
inflessibile  per  principio  d'onore,  ed  e  risoluto  di  proseguir  la  guerra. 
Giunge  il  mattino.  Svarano  propone  a  Cucullino  disonorevoli  condi- 
zioni,  le  quali  vengono  rigettate.  La  battaglia  incomincia,  e  dura  osti- 
natamente  per  qualche  tempo,  finche"  alia  fuga  di  Grumal  tutta  1'ar- 
mata  irlandese  va  in  rotta.  Cucullino  e  Connal  coprono  la  ritirata, 
Carilo  conduce  i  soldati  irlandesi  ad  un  monte  vicino,  dove  sono 
tosto  seguiti  da  Cucullino  medesimo,  il  quale  scopre  da  lungi  la  flotta 
di  Fingal,  che  s'avanzava  verso  la  costa:  ma  sopraggiunta  la  notte, 
la  perde  di  vista.  Cucullino,  afflitto  ed  abbattuto  per  la  sua  sconfitta, 
attribuisce  questo  sinistro  awenimento  alia  morte  di  Ferda  suo 
amico,  qualche  tempo  innanzi  da  lui  ucciso.  Carilo,  per  far  vedere  che 

11  cattivo  successo  non  seguita  sempre  coloro  che  innocentemente 
uccidono  le  persone  a  lor  care,  introduce  Tepisodio  di  Comal  e  di 
Galvina. 

Fosan  gli  eroi,  tace  la  piaggia.  Al  suono 

d'alpestre  rio,  sotto  1'antica  pianta 

giace  Conallo :  una  muscosa  pietra 

sostiengli  il  capo.  Delia  notte  udia 

stridula  acuta  cigolar  la  voce  5 

per  la  piaggia  del  Lena.  Ei  dai  guerrieri 

giace  lontan,  che  non  temea  nemici 

il  figlio  della  spada.  Entro  la  calma 

del  suo  riposo,  egli  spiccar  dal  monte 

vide  di  foco  un  rosseggiante  rivo.  10 

Per  quell'ardente  luminosa  riga 

a  lui  scese  Crugallo,  uno  dei  duci 


5.  la  voce:  cioe  il  vento  notturno;  oppure  le  voci  dell' ombre  accennate 
sul  fine  del  canto  antecedente  (C.).  9.  spiccar:  n:  «spicciar».  11-4.  Per 
quelV  ardente .  .  ,  Svaran:  pu6  paragonarsi  questa  apparizione  con  quella 
delPombra  di  Patroclo  ad  Achilla,  Hi.,  c.  23,  v.  116  [65  sgg.],  e  quella  di 
Ettore  ad  Enea  presso  Virgilio,  [Aen.],  1.  2,  [270  sgg.],  C. 


126  MELCHIORRE    CESAROTTI 

poc'anzi  estinti,  che  cadeo  per  mano 

del  fier  Svaran.  Par  di  cadente  luna 

raggio  il  suo  volto;  nugoli  del  colle  15 

forman  le  vesti:  sembrano  i  suoi  sguardi 

scintille  estreme  di  languenti  faci. 

Aperta,  oscura,  nel  mezzo  del  petto 

sospira  una  ferita.  —  O  Crugal,  —  disse 

il  possente  Conal  —  figlio  di  Dedga,  20 

chiaro  sul  colle,  o  frangitor  di  scudi, 

perche  pallido  e  mesto  ?  lo  non  ti  vidi 

mai  nelle  pugne  impallidir  di  tema. 

E  che  fattrista  ?  —  Lagrimoso  e  fosco 

quegli  si  stette:  sull'eroe  distese  25 

la  sua  pallida  man,  languidamente 

alz6  la  voce  in  suon  debole  e  roco 

come  1'auretta  del  cannoso  Lego: 

— •  Conal,  tu  vedi  1'ombra  mia  che  gira 

sul  natio  colle,  ma  il  cadaver  freddo  3° 

giace  d'Ullina  sulPignude  arene. 

Piu  non  mi  parlerai,  ne  le  mie  orme 

vedrai  sul  prato:  qual  nembo  di  Cromla 

son  vuoto  e  lieve,  e  per  Taere  galleggio 

come  nebbia  sottile;  odimi,  o  duce:  35 

veggio  1'oscuro  nugolo  di  morte 

che  sul  Lena  si  star  cadranno  i  figli 

d'Inisfela,  cadran:  da  questo  campo 

ritirati,  o  Conallo ;  e  campo  d'ombre.  — 

Disse;  e  sparl  come  offuscata  luna  40 

nel  fischiante  suo  nembo.  —  Ah  no,  t'arresta, 
t'arresta,  o  fosco  rosseggiante  amico,  — 
disse  Conal  —  vientene  a  me ;  ti  spoglia 
di  quel  raggio  celeste,  o  del  ventoso 
Cromla  guerriero.  In  qual  petrosa  grotta  45 

ricovri  tu  ?  qual  verdeggiante  colle 


35.  come  nebbia  sottile:  i  e  n:  «qual  ombra  nella  nebbia ».  39.  campo 
d'ombre:  cioe,  destinato  a  raccoglier  Pombre  d'un  gran  numero  de*  tuoi 
guerrieri  che  vi  resteranno  uccisi,  se  arrischi  la  battaglia  (C.).  40-1.  spa 
rl ...  nembo:  [Omero],  lit.,  c.  23,  v.  164  [100],  C. 


POESIE    DI    OSSIAN  •  FINGAL  127 

datti  albergo  e  riposo?  e  non  udremti 

dunque  nella  tempesta  o  nel  rimbombo 

dell'alpestre  tor  rente,  allor  che  i  fiacchi 

figli  del  vento  a  cavalcar  sen  vanno  50 

per  1'aeree  campagne?—  Ei,  cosi  detto, 

rizzasi  arrnato;  a  Cucullin  s'accosta, 

picchia  lo  scudo ;  risvegliossi  il  figlio 

della  battaglia.  —  E  qual  cagion  ti  guida?  — 

disse  del  carro  il  reggitor  sublime  55 

—  per  che  nel  buio  della  notte  armato 

vieni,  o  Conal?  Potea  la  lancia  mia 

volgersi  incontro  a  quel  rumore,  ond'io 

piangessi  poi  del  mio  fedel  la  morte. 

Conal,  che  vuoi?  Figlio  di  Colgar,  parla;  60 

lucido  e  '1  tuo  consiglio  a  par  del  sole. 

—  Duce,  —  ei  rispose  —  a  me  pur  ora  apparve 
1'ombra  di  Crugal:  trasparian  le  stelle 
fosche  per  la  sua  forma;  avea  la  voce 
di  lontano  ruscello:  egli  sen  venne  65 

messaggero  di  morte;  ei  favellommi 
dell'oscura  magion.  Duce  d'Erina, 
sollecita  la  pace,  o  a  sgombrar  pensa 
dalla  piaggia  del  Lena.  —  Ancor  che  fosche 
per  la  sua  forma  trasparian  le  stelle,—  70 

soggiunse  Cucullin  —  teco,  o  Conallo, 
Pombra  par!6  ?  Questo  fu  '1  vento,  amico, 
che  nelle  grotte  mormoro  del  Lena. 
O  se  pur  fu  Crugal,  che  nol  forzasti 


[.7-9.  e  non  udremti .  .  .  torrente:  in  una  nota  delPedizione  1763,  poi  sop- 
>ressa  nelle  edizioni  seguenti,  il  Cesarotti  spiegava,  citando  il  Vico  e  il  Fon- 
enelle,  come  sia  propno  dei  popoh  primitivi,  e  dei  fanciulli,  dar  senso  e 
dta  alle  cose  inanimate.  49-50.  i  fiacchi  figli  del  vento:  le  aeree  ombre  dei 
aoiti.  Cfr.  anche  al  v.  77:  ospite  dei  venti.  60.  Sembra  chefigho  in  questo 
uogo  non  sigmfichi  altro  che  «  discendente  » ;  poiche  Connal  non  era  figlio, 
na  nipote  di  Colgar,  o  Congal,  essendo  nato  da  Fioncoma,  figlia  di  questo 
M.)-  63-4.  trasparian.  .  .forma:  cfr.  Carducci,  Per  il  quinto  anniversario 
lella  battagha  diMentana,  13-4:  «Per  le  ferite  ridono  /  pie  le  virginee  stel- 
*  ».  64.  avea  la  voce :  da  questa  espressione  apparisce  che  i  Caledoni  sup- 
•onevano  che  Tanirna  dei  morti  fosse  materiale,  e  simile  all'idolon  dei 
Jreci  (M.)- 


128  MELCHIORRE    CESAROTTI 

di  comparirmi  innanzi  ?  e  non  gli  hai  chiesto  75 

dove  sia  1'antro  suo,  dove  1'albergo 

delFospite  del  venti?  Allor  potrebbe 

forse  il  mio  brando  rintracciar  cotesta 

presaga  voce,  e  trar  da  quella  a  forza 

il  suo  saper:  ma  '1  suo  saper,  Conallo,  So 

credimi,  e  poco.  Or  come?  Egli  poc'anzi 

fu  pur  tra  noi:  piu  su  che  i  nostri  colli 

ei  non  varco;  chi  della  nostra  morte 

potriagli  adunque  rivelar  Tarcano  ? 

—  L'ombre  su  i  venti  e  sulle  nubi  in  frotta          85 
vengono  e  vanno  a  lor  piacer,  —  soggiunse 
il  senno  di  Conal  —  nelle  spelonche 
fanno  alterni  colloqui  e  degli  eventi 
parlano  de'  mortali.  —  E  dej  mortali 
parlino  a  senno  lor,  parlin  di  tutti,  90 

di  me  non  gia,  che  1  ragionarne  e  vano. 
Scordinsi  Cucullin,  perch'io  son  fermo 
di  non  fuggir.  Se  fisso  e  pur  ch'io  caggia, 
trofeo  di  gloria  alle  future  etadi 
sorgera  la  mia  tomba;  il  cacciatore  95 

versera  qualche  lagrima  pietosa 
sopra  il  mio  sasso,  e  alia  fedel  Bragela 
saro  memoria  ognor  dolce  ed  acerba. 
Non  temo  di  morir,  di  fuggir  temo 
e  di  smentirmi:  che  piu  volte  in  guerra  100 

scorsemi  vincitor  Palto  Fingallo. 
0  tenebroso  fantasma  del  colle, 
su  via  mostrati  a  me,  vien  sul  tuo  nembo, 
vien  sul  tuo  raggio;  in  la  tua  man  rinchiusa 
mostrami  la  mia  morte,  aerea  forma;  105 


87.  il  senno  di  Condi:  cioe,  il  saggio  Connal.  Questa  maniera  e  frequente 
appresso  i  poeti  greci  e  latini :  «  sententia  dia  Catonis  »  [« la  divma  massima 
di  Catone»,  Orazio,  Sat.,  i,  n,  32],  C.  89-91.  E  de'  mortali .  .  .  e  vano: 
questa  risposta  e  simile  a  quella  di  Ettore  a  Polidamante.  V.  [Omero],  Ili.t 
c.  12,  v.  259  [230  sgg.],  C.  94-5.  trofeo  .  .  .  tomba:  Porigmale:  «s'alzera 
la  mia  tomba  tra  la  fama  dei  tempi  futuri»  (C.)-  98.  sard  .  .  .  acerba:  cfr. 
Leopardi,  Le  ncordanze,  58-60,  101-3,  171-3. 


POESIE   DI    OSSIAN  •  FINGAL  129 

non  fuggiro.  Va',  va',  Conal,  colpisci 

lo  scudo  di  Cabar  che  giace  appeso 

la  tra  quell'aste;  i  miei  guerrier  dal  sonno 

sveglinsi  tutti  e  alia  vicina  pugna 

s'accingan  tosto.  Ancor  che  a  giunger  tardi  no 

Feroe  di  Selma  e  la  robusta  schiatta 

de?  tempestosi  colli,  andianne,  amico; 

pugnisi,  e  sia  con  noi  vittoria  o  morte.  — 

Si  diffonde  il  romor;  sorgono  i  duci: 
stan  su  la  piaggia  armati  al  par  d'antiche  115 

querce  crollanti  i  noderosi  rami, 
se  gelata  onda  le  percote,  e  al  vento 
s'odon  forte  stormir  Taride  fronde. 

Gia  la  nebbiosa  dirupata  fronte 
di  Cromla  appar;  gia  '1  mattutino  raggio  120 

tremola  su  la  liquida  marina, 
ne  fosca  piu  ne  ben  lucente  ancora. 
Va  roteando  lentamente  intorno 
la  grigia  nebbia,  e  d'lnisfela  i  figli 
nasconde  agli  occhi  di  Svaran.  —  Sorgete,  —  125 

disse  il  signor  dei  tenebrosi  scudi 
—  sorgete  o  voi  che  di  Loclin  dall'onde 
meco  veniste:  gia  dairarmi  nostre 
fuggir  d'Erina  i  duci.  Or  che  si  tarda? 
S'inseguano,  s'incalzino.  Tu,  Morla,  130 

tosto  alia  reggia  di  Gorman  t'awia: 
comanda  a  lui  che  di  Svaran  la  possa 
prostrato  inchini,  anzi  che  '1  popol  tutto 
nella  morte  precipiti,  ed  Ullina 


in.  Selma:  nome  del  palagio  reale  di  Fingal  (C.).  m-2.  la  robusta .  .  . 
colli:  i  Caledoni  (C.).  113.  sia  ..  .morte:  il  testo:  «noi  combatteremo 
e  morremo  nella  battaglia  degli  eroi».  Ma  perche  rinunziare  alia  spe- 
ranza  della  vittoria?  (C.).  H4-  sorgono  i  duci:  segue  nell*  originate: 
«come  lo  spezzarsi  d'un'onda  azzurro-rotante ».  Talvolta  s'e  creduto 
di  poter  tralasciare  alcuna  di  queste  maniere  comparative;  si  perche" 
nell'originale  sono  tratto  tratto  ripetute;  si  anche  perche  non  si  scor- 
ge  precisamente  in  che  convengano  1'oggetto  della  comparazione  e 
1'oggetto  comparato  (C.).  121.  tremola  .  .  .  marina:  cfr.  Dante,  Purg.,  I, 
117:  «conobbi  il  tremolar  della  marina ».  134-5.  e&  Ullina  ...  tomb  a: 
« Memphis  in  solitudinem  erit,  /  erit  Babylon  in  tumulos »  [« Menfi  sara 


130  MELCHIORRE    CESAROTTI 

altro  non  resti  che  deserto  e  tomba.  —  135 

S'adunano  color,  simili  a  stormo 
d'augei  marini,  quando  il  flutto  irato 
li  rispinge  dal  lido;  e  fremon  come 
nella  valle  di  Cona  accolti  rivi, 

qualor  dopo  notturna  atra  bufera  140 

alia  sbiadata  mattutina  luce 
volvon  riflussi  vorticosi  oscuri. 
Sfilan,  quai  succedentisi  sul  monle 
nugoloni  d'autunno,  orride  in  vista 
le  awerse  schiere:  maestoso  e  grande,  145 

a  par  del  cervo  de'  morvenii  boschi, 
Svaran  s'avanza,  e  fuor  dell'ampio  scudo 
esce  il  fulgor  della  notturna  fiamma, 
che  per  la  muta  oscurita  del  mondo 
fassi  guida  e  sentiero  alPerranti  ombre:  150 

guatale  il  peregrin  pallido,  e  teme. 

Ma  un  nembo  alfin  sorto  dal  mar  la  densa 
nebbia  squarci6:  tutti  apparir  repente 
d'Inisfela  i  guerrier  schierati  e  stretti, 
qual  catena  infrangibile  di  scogli  155 

lungo  la  spiaggia.  —  Oh,  —  disse  allor  1'altero 
dei  boschi  regnator  —  vattene,  o  Morla, 
offri  pace  a  costoro,  offri  quei  patti 
che  diamo  ai  re,  quando  alia  nostra  possa 
piegan  le  vinte  nazioni,  e  spenti  160 


ridotta  ad  un  deserto,  Babilonia  in  sepolcn»],  Geremia,  [46,  19  e  51,  37], 
C.  136-8.  sirmli .  .  .  hdo:  «...  aut  ad  terram  gurgite  ab  alto  /  quam 
multae  glomerantur  aves,  ubi  fngidus  annus  /  trans  pontum  fugat  et  terris 
immittit  apricis»  [«o  quanti  uccelli  dall'alto  mare  si  affollano .  verso  la 
terra,  quando  il  freddo  mvernale  li  caccia  oltre  il  mare  e  h  spinge  verso 
spiagge  aprichea],  Virg.,  [Aen.],  1.  6,  v.  3io-[a],  C.  143-4.  Sfilan  .  .  . 
autunno:  i:  «sfilan  come  d'autunno  i  foschi  spettri  /  su  1'erbose  collme». 
146.  a  par .  .  .  boschi:  e  vensimile  che  questo  fosse  un  cervo  particolare  di 
Fingal,  di  straordmaria  grandezza  e  maesta,  poiche  il  poeta  lo  crede 
degno  di  rappresentarci  Svarano.  Ad  onta  di  cio,  non  par  che  il  cervo  sia 
Tanimale  piu  appropriato  d'lmmagine  a  questa  gran  bestia  (C.).  148-9.  esce 
.  .  .  mondo:  cfr.  Leopardi,  La  gmestra,  165-6:  «tutto  di  scintille  in  giro  / 
per  lo  voto  seren  brillare  il  mondo »,  e  anche  Foscolo,  Sepolcri,  203-4: 
«vedea  per  Pampia  oscurita  scintille  /  balenar  d'elmi». 


POESIE   DI    OSSIAN  •  FINGAL  131 

sono  i  guerrieri,  e  le  donzelle  in  lutto.  — 

Disse.  Con  lunghi  risonanti  passi 

Morla  awiossi,  e  baldanzoso  in  atto 

venne  dinanzi  al  condottier  d'Erina, 

che  stava  armato,  e  gli  fean  cerchio  intorno  165 

gli  eroi  minori.  —  O  Cucullino,  accetta  — 

diss'ei  —  la  pace  di  Svaran,  la  pace 

ch'egli  offre  ai  re,  quando  alia  sua  possanza 

piegan  le  nazioni;  a  lui  tu  cedi 

la  verdeggiante  Ullina,  e  in  un  con  ess  a  170 

la  tua  sposa  e  il  tuo  can:  la  dal  ricolmo 

e  palpitante  sen  bella  tua  sposa 

ed  il  tuo  can  raggiungitor  del  vento. 

Questi  a  lui  cedi  in  testimonio  eterno 

della  fiacchezza  del  tuo  braccio,  e  in  esso  175 

scorgi  il  tuo  re.  —  Porta  a  quel  cor  d'orgoglio, 

porta  a  Svaran  che  Cucullin  non  cede. 

Egli  m'offre  la  pace:  io  offro  a  lui 

le  strade  dell'oceano,  oppur  la  tomba. 

Non  fia  giammai  ch'uno  stranier  possegga  180 

quel  raggio  di  Dunscaglia;  e  mai  cervetta 

non  fuggira  per  le  loclinie  selve 

dal  pie  ratto  di  Lua.  —  Vano  e  superbo 

del  carro  guidator,  —  Morla  riprese 

—  vuoi  tu  dunque  pugnar  ?  pugnar  vuoi  dunque      185 
contro  quel  re,  di  cm  le  navi  figlie 

di  molti  boschi  trar  potrian  divelta 

tutta  Tisola  tua  seco  per  1'onde  ? 

Si,  quest' Ullina  e  meschinetta  e  poca 

contro  il  signor  del  mar.  —  Morla,  —  ei  soggiunse      190 

—  cedo  a  molti  in  parole,  a  nullo  in  fatti. 

162-4.  Disse  .  .  .  venne:  i:  «E  cosi  detto  a  passeggiar  si  pose  /  crollando  il 
capo  alteramente.  Morla  /  venne ».  178-9.20  offro  ...  tomba:  le  parole 
precise  delForiginale  son  queste:  «io  gli  do  il  fosco-azzurro  rotear  del- 
Foceano,  oppur  le  tombe  del  suo  popolo  in  Erina».  II  traduttore  premise 
quelle  parole,  egli  m'offre  la  pace\  affinche  la  risposta  spiccasse  piii  viva- 
mente;  e  levd  gli  aggiunti  per  renderla  piu  vibrata  e  pHi  energica  (C.). 
183.  Lua:  nome  del  cane  di  Cucullino  (C.).  191.  cedo  .  .  .fatti:  «Dummo- 
do  pugnando  superem,  tu  vmce  loquendo»  [«Purche  io  prevalga  com- 
battendo,  tu  vinci  pure  a  parole »],  Ovid.,  [Metam.,  IX,  30],  C. 


132  MELCHIORRE    CESAROTTI 

Rispettera  la  verdeggiante  Erina 

10  scettro  di  Gorman,  finche  respiri 
Conallo  e  Cucullin.  Conallo,  o  primo 

tra'  duci,  or  che  dirai?  Pur  or  di  Morla  195 

le  voci  udisti;  o  generoso  e  prode, 

saran  pur  anco  i  tuoi  pensier  di  pace? 

o  spirto  di  Crugallo,  e  tu  di  morte 

m'osasti  minacciar?  Schiudimi  il  varco 

dell'angusta  tua  casa:  ella  fra'  raggi  200 

m'accogliera  della  mia  gloria  involto. 

Su,  su,  figli  d'Erina,  alzate  1'asta, 

piegate  Tarco;  disperatamente 

sul  nemico  awentatevi,  ond'ei  creda 

che  a  lui  dall'alto  si  rovescin  sopra  205 

tutti  i  notturni  tempestosi  spirti.  — 

Or  si  mugghiante,  orribile,  profondo 
volvesi  il  buio  della  zufTa:  nebbia 
cosi  piomba  sul  campo,  allor  che  i  nembi 
invadono  il  solar  tacito  raggio.  210 

Precede  il  duce;  irata  ombra  il  diresti, 
che  dietro  ha  negra  nube  ed  infocate 
meteore  intorno  e  nella  destra  i  venti. 
Carilo  era  in  disparte:  ei  fa  che  s'alzi 

11  suon  del  corno  bellicoso;  e  intanto  215 
scioglie  la  grata  voce,  ed  il  suo  spirto 


216.  scioglie  la  grata  voce:  s'e  gia  veduto  altrove  che  i  cantori  accompa- 
gnavano  i  capitani  alia  battaglia.  II  loro  sacro  carattere  h  rendeva  sicuri 
e  rispettabili  agli  stessi  nemici.  Perci6  essi  potevano  cantar  tranquillamente 
in  mezzo  al  fragor  delFarmi  senza  tema  d'alcun  pericolo  (C.).  216-7.  ed 
il  suo  spirto  .  .  .  eroi:  1' originate:  «e  sgorga  la  sua  anima  nella  mente  degli 
eroi ».  Nella  prima  edizione  s'era  tradotto :  « ed  il  suo  spirto  /  sgorga  nel- 
1'alme  degli  estinti  eroi».  Questo  senso  di  fatto  sembrava  il  piu  convene- 
vole.  La  canzone  di  Carilo  non  si  riferisce  per  nulla  ai  guerrieri  irlandesi 
viventi,  ma  solo  a  Crugal  gia  morto.  La  mischia  era  gia  appiccata,  e  i  com- 
battenti  avevano  altro  che  fare,  che  badare  al  canto  di  Carilo,  che  in  luogo 
d'ispirar  loro  entusiasmo  di  guerra,  avrebbe  illanguidito  il  loro  spinto 
colla  sua  patetica  lamentazione.  Pure  se  il  principio  di  questa  canzone 
appartiene  ai  morti,  vedremo  che  il  fine  va  a  terminar  nei  viventi,  e  il 
dolore  serve  di  stimolo  alia  vendetta.  Quest' e  forse  I'mtendimento  della 
frase  di  Ossian,  che  perci6  questa  volta  si  e  conservata  come  sta.  Del 
resto,  chi  e  in  caso  d'intender  Poriginale,  e  conosce  quanto  spesso  le 


POESIE   DI    OSSIAN  •  FINGAL  133 

sgorga  nel  cor  de'  bellicosi  eroi. 

—  Dove,  dove  e  Crugal?  —  disse  la  dolce 
bocca  del  canto  —  ei  basso  giace ;  e  muta 
la  sala  delle  conche;  oblio  lo  copre.  220 

Mesta  e  la  sposa  sua,  che  peregrina 
entro  le  stanze  del  suo  lutto  alberga. 
Ma  qual  raggio  vegg'io,  che  tra  le  schiere 
del  nemici  si  scaglia?  Ella  e  Degrena, 
la  sposa  di  Crugallo :  addietro  ai  venti  225 

lascia  la  chioma;  ha  rosseggiante  sguardo, 
strillante  voce.  Ahi  lassa!  azzurro  e  vuoto 
e  ora  il  tuo  Crugal :  sta  la  sua  forma 
nella  cava  del  colle:  egli  al  tuo  orecchio 
fessi  pian  plan  nel  tuo  riposo,  alzando  230 

voce  pari  al  ronzio  d'ape  montana. 
Ve'  ve'  cade  Degrena,  e  sembra  nube 
che  striscia  in  sul  mattino:  e  nel  suo  fianco 
la  spada  di  Loclin:  Cairba,  e  spenta, 
cadde  Degrena  tua.  Degrena,  il  dolce  235 

risorgente  pensier  dej  tuoi  verd'anni.  — 


espressioni  del  bardo  caledonio  sieno  ripiene  d'ambiguita  e  d'imbarazzo, 
trovera  forse  che  il  traduttore  ha  fatto  uso  di  qualche  sagacita  non  disprege- 
vole  per  fissarne  il  senso,  e  d'una  industria  non  indifTerente  per  farlo 
gustare  (C.).  n :  «  degli  azzuffati  eroi ».  219.  bocca  del  canto :  Teocrito  chia- 
ma  un  cantore  «la  calda  bocca  delle  grazie»  (C.).  219-20.  e  muta  ...  co 
pre  :  I  e  il :  «  e  mute  /  son  le  sue  conche :  e  lo  ricopre  obblio  » ;  la  sala  delle 
conche:  cioe  la  sala  ov'egli  accoglieva  gli  stranieri  a  mensa  ospitale  (C.). 
221-2.  peregrina  .  .  .  alberga:  Crugal  avea  sposata  Degrena  pochissimo  tem 
po  innanzi  la  battaglia,  e  in  conseguenza  ella  pu6  chiamarsi  propriamente 
«peregrina  nelle  stanze  del  suo  lutto »  (M.).  223.  raggio:  cosi  talora  ven- 
gono  chiamate  da  Ossian  le  belle.  Questa  volta  la  denominazione  di- 
venta  propria,  perche*  Degrena  in  lingua  celtica  significa  appunto  « raggio 
di  sole»  (M.).  224-5.  Etta .  .  .  Crugallo:  questa  non  e  gia  una  visione 
fantastica.  Carilo  vede  realmente  Degrena,  che  cerca  la  morte  per  non 
soprawivere  al  suo  sposo  (C.).  22 7.  strillante:  i  e  n:  « squillante ». 
229-30.  egli .  .  .  riposo:  1'originale:  «egh  viene  all'orecchio  del  riposo »  (C.). 
Prima  s'era  tradotto :  « fassi  pian  pian  nel  tuo  riposo,  ed  alza  »,  come  appun 
to  ha  il  testo.  Ma  quello  era  tempo  di  tutt'altro  che  di  riposo.  S'e  dunque 
sostituito  il  tempo  passato  al  presente,  come  piu  adattato  al  luogo  (C.). 
231.  d'ape  montana:  nell'originale  segue:  «o  dei  raccolti  insetti  della  sera». 
S'e  creduto  che  Tape  potesse  bastar  per  tutti  (C.).  234.  di  Loclin:  di 
qualche  guerriero  danese  (C.);  Cairba:  il  padre  di  Degrena  (C.). 


134  MELCHIORRE    CESAROTTI 

Udi  Cairba  il  mesto  suono,  e  vide 
la  morte  della  figlia;  in  mezzo  a  mille, 
qual  balena  che  '1  mar  frange  col  pondo, 
slanciasi  e  mugghia:  la  sua  lancia  incontra  240 

il  cor  d'un  figlio  di  Loclin:  s'ingrossa 
la  sanguinosa  mischia.  In  bosco  annoso 
ben  cento  venti,  o  tra  ramosi  abeti 
di  cento  colli  violenta  fiamma, 

potriano  appena  pareggiar  la  strage,  245 

la  rovina,  il  fragor  deH'affollate 
schiere  cadenti.  Cucullin  recide 
come  cardi  gli  eroi;  Svaran  devasta, 
diserta  Erina:  di  sua  man  Curano 
cadde,  e  Cairba  dal  curvato  scudo.  250 

Giace  Morglano  in  ferreo  sonno,  e  Calto 
guizza  morendo:  del  suo  sangue  ha  tinto 
il  bianco  petto;  e  strascinata  e  sparsa 
la  gialla  chioma  per  la  molle  arena 
del  suo  terren  natio:  spesso  ov'ei  cadde  255 

gia  conviti  imbandi;  spesso  dell'arpa 
la  voce  sollevo;  festosi  intorno 
saltellavangli  i  veltri,  e  i  giovinetti 
stavansi  ad  assettar  faretre  ed  archi. 

Gia  Svaran  cresce,  e  gia  soverchia  come  260 

torrente  che  trabocca,  e  i  minor  poggi 
schianta  e  travolve,  e  i  maggior  pesta  e  sfianca. 
Ma  s'attraversa  Cucullin,  qual  monte 
di  nembi  arrestator:  cozzano  i  venti 
sulla  fronte  di  pini,  e  i  massi  informi  265 

la  ripercossa  grandine  flagella: 


237.  II  canto  di  Carilo  &  terminate.  Ossian  comincia  la  sua  narrazione  (C.). 
239.  qual .  .  .  pondo:  il  testo  non  aggiunge  nulla  alia  balena.  Si  e  creduto 
che  questa  immagme  debba  riferirsi  all'atto  di  piombar  disperatamente 
e  con  tutto  il  peso  del  corpo  sopra  il  nemico.  La  frase  aggiunta  fa  sentire 
questo  rapporto  (C.).  260-2.  come  .  .  .  sfianca:  v.  Om.,  [//.],  c.  5,  v.  107 
[87-8]  e  c.  n,  v.  587  [492-5],  C.  263-8.  qual .  .  .  valle:  simile,  benche"  in 
apparenza  diversa,  e  la  comparazione  presso  Omero  di  Polipete  e  Leonteo 
a  due  querce.  V.  //.,  c.  12,  v.  154  [131-4],  C. 


POESIE   DI    OSSIAN  -  FINGAL  135 

quello  in  sua  possa  radicato  e  fermo 
stassi,  ed  adombra  la  soggetta  valle. 
Tal  Cucullino  ombra  faceasi  e  schermo 
ai  figli  d'lnisfela:  a  lui  d'intorno  270 

di  palpitant!  eroi  zampilla  il  sangue, 
come  fonte  da  rupe:  invan,  ch'Erina 
cade  pur  d'ogni  parte,  e  si  dilegua 
siccome  neve  a  caldo  sol.  —  Compagni,  — 
Gruma  grid6—  Loclin  conquista,  e  vince:  275 

che  piu  dunque  pugnar,  palustri  canne 
contro  il  vento  del  cielo?  al  colle,  al  colle 
fuggiam,  compagni.  —  Ed  ei  fuggissi  il  primo 
come  cervo  inseguito,  e  la  sua  lancia, 
simile  a  raggio  tremulo  di  luce,  280 

dietro  traea.  Pochi  fuggir  con  Gruma, 
duce  di  picciol  cor:  gli  altri  pugnando 
caddero  e  '1  Lena  ricoprir  coi  corpi. 
Vede  dalPalto  del  gemmato  carro 
la  sconfitta  dej  suoi,  vedela,  e  freme  285 

d'Erina  il  condottier:  trafisse  il  petto 
a  un  fier  nemico,  indi  a  Conal  si  volse. 
—  0  Conallo,  —  esclamo  —  tu  m'addestrasti 
questo  braccio  di  morte:  or  che  farassi? 
ancor  ch'Erina  sia  fugata  o  spenta,  290 

non  pugnerem  perci6  ?  Si,  si,  tu  vanne, 
Carilo,  e  i  sparsi  fuggitivi  avanzi 
di  nostre  schiere  la  raccogli  e  guida 
dietro  quell'erto  cespuglioso  colle. 
Noi  stiam  fermi  quai  scogli,  e  sostenendo  295 

Timpeto  di  Loclin,  de'  fidi  amici 
la  fuga  assicuriam.  —  Balza  Conallo 
sopra  il  carro  di  luce;  i  due  campioni 
stendono  i  larghi  tenebrosi  scudi, 
come  la  figlia  dei  stellati  cieli  300 

lenta  talor  move  per  Paere  e  intorno 
di  fosco  cerchio  s'incorona  e  tinge. 


300.  la  figlia  dei  stellati  cieli:  la  luna. 


136  MELCHIORRE    CESAROTTI 

Palpitante,  anelante,  e  spuma  e  sangue 

spruzza  Sifadda,  e  Duronallo  a  cerchio 

volvesi  alteramente,  e  calca  e  strazia  3°5 

nemici  corpi:  quei  serrati  e  fold 

tempestano  gli  eroi,  quai  sconvolte  onde 

sconcia  balena  d'espugnar  fan  prova. 

Di  Cromla  intanto  sul  ciglion  petroso 
si  ritrassero  alfine  i  pochi  e  mesti  310 

figli  d'Erina,  somiglianti  a  un  bosco 
cui  strisciando  Iambi  rapida  fiamma, 
spinta  dai  vend  in  tempestosa  notte. 
Dietro  una  quercia  Cucullin  si  pose 
taciturno,  pensoso:  il  torbid'occhio  315 

gira  agli  astand  amici.  Ecco  venirne 
Moran,  del  mare  esplorator :  —  Le  navi, 
le  navi ;  —  egli  grid6  —  Fingal,  Fingallo, 
il  sol  dei  duci,  il  domator  d'eroi, 
ei  viene,  ei  vien:  spumano  i  flutti  innanzi  320 

le  nere  prue;  le  sue  velate  antenne 
sembran  boschi  tra  nubi.  —  O  vend,  o  voi 
vend,  —  soggiunse  Cucullin  —  che  uscite 
dalFisoletta  dell'amabil  nebbia, 

spirate  tutte  favorevoli  aure,  325 

secondate  il  guerrier:  vientene,  amico, 
alia  morte  di  mille,  amico,  ah  vieni. 
Nubi  deH'oriente  a  questo  spirto 
son  le  tue  vele,  e  Faspettate  navi 
luce  del  cielo;  e  tu  mi  sei  tu  stesso  330 

come  colonna  d'improwiso  foco 
rischiaratrice  della  notte  oscura. 
O  mio  Conal,  quanto  graditi  e  cari 
ci  son  gli  amici!  ma  s'abbuia  intanto 
la  notte:  ov'e  Fingal?  noi  le  fosch'ore  335 

stiam  qui  passando,  e  sospiriam  la  luna.  — 

Gia  sbuffa  il  vento;  dalle  fesse  rupi 
gia  sboccano  i  torrenti;  al  capo  irsuto 

308.  sconcia:  enorme. 


POESIE   DI    OSSIAN  •  FINGAL  137 

di  Cromla  intorno  s'aduno  la  pioggia, 
e  rosse  tremolavano  le  stelle  340 

per  le  spezzate  nubi.  Appresso  un  rivo, 
di  cui  la  pianta  al  gorgoglio  risponde, 
mesto  s'assise  il  condottier  d'Erina. 
Carilo,  il  buon  cantor,  stavagli  accanto 
e  '1  pro'  Conallcf.  —  Ah,  —  sospirando  disse  345 

di  Semo  il  figlio  —  ah  che  infelice  e  fiacca 
e  la  mia  man*  dacch6  Tamico  uccise! 
O  Ferda,  o  caro  Ferda,  io  pur  t'amava 
quanto  me  stesso. —  Cucullin,  deh  dinner  — 
•  Tinterruppe  Conal  —  come  cadeo  350 

quelFillustre  guerrier?  Ben  mi  sowengo 
del  figlio  di  Damman:  grande  era  e  bello 
come  Tarco  del  ciel.  —  Ferda,  signore 
di  cento  colli,  d' Albion  sen  venne. 
Nella  sala  di  Muri  ei  da'  prim'anni  355 

Parte  del  brando  apprese,  e  d'amistade 
strinsesi  a  Cucullin;  fidi  alia  caccia 
n'andammo  insieme;  era  comune  il  letto. 
Era  a  Cairba,  gia  signor  d'Ullina, 
Deugala  sposa:  avea  costei  nel  volto  360 

la  luce  di  belta,  ma  in  mezzo  al  core 
la  magion  delPorgoglio.  Ella  invaghissi 
di  quel  raggio  solar  di  gioventude, 
del  figlio  di  Damman.  «  Cairba, »  un  giorno 
disse  la  bella  ccorsii  dividi  il  gregge;  365 

dammi  la  mia  meta:  restar  non  voglio 
nelle  tue  stanze:  il  gregge  tuo  dividi, 
fosco  Cairba».  «  Cucullin »  rispose 
«lo  divida  per  me:  trono  e  Jl  suo  petto 
di  giustizia:  tu  parti ».  Andai:  la  greggia  370 

divisi:  un  toro  rimaneva,  un  toro 
bianco  di  neve;  al  buon  Cairba  il  diedi; 
Deugala  n'awampb:  venne  all'amante: 

355.  sola  di  Muri:  scuola  in  Ulster,  per  ammaestrarsi  nel  maneggio  del- 
Fanni  (C.)«  359-  Cairba:  signore  irlandese,  diverse  dal  padre  di  De- 
grena  (C.). 


138  MELCHIORRE    CESAROTTI 

«Ferda,»  diss'ella  «Cucullin  m'offende; 

fammi  udir  di  sua  morte,  o  sul  mio  corpo  375 

scorrera  il  Luba:  la  mia  pallid' ombra 

staratti  intorno,  e  del  mio  orgoglio  offeso 

piangera  la  ferita:  o  spargi  il  sangue 

di  Cucullino,  o  mi  trapassa  il  petto ». 

«0ime,»  disse  il  garzon  «  Deugala,  e  come?          380 
io  svenar  Cucullino?  egli  e  Tamico 
de'  miei  pensier  segreti,  e  contro  ad  esso 
solleverb  la  spada  ? »  Ella  tre  giorni 
pianse;  nel  quarto  di  cesse  al  suo  pianto 
Pinfelice  garzon.  «  Deugala, »  ei  disse  385 

« tu  Jl  vuoi,  combattero :  ma  potess'io 
cader  sotto  il  suo  brando!  Io  dovrei  dunque 
errar  sul  colle,  e  rimirar  la  tomba 
di  Cucullin  ? »  Noi  presso  a  Muri  insieme 
pugnammo:  s'impacciavano  Tun  Taltro  390 

ad  arte  i  brandi  nostri,  il  fatal  colpo 
sfuggendo,  sdrucciolavano  sugli  elmi, 
strisciavano  su  i  scudi.  Eragli  accanto 
Deugala  sua:  con  un  sorriso  amaro 
diedesi  a  rampognarlo:  «O  giovinetto,  395 

debole  e  '1  braccio  tuo ;  non  e  pel  brando 
questa  tenera  eta;  garzone  imbelle, 
cedi  al  figlio  di  Semo;  egli  pareggia 

10  scoglio  di  Malmor».  Corsegli  all'occhio 

lagrima  di  vergogna;  a  me  si  volse,  400 

e  par!6  balbettando :  « Alza  il  tuo  scudo, 

alzalo,  Cucullino,  e  ti  difendi 

dal  braccio  delFamico:  ho  grave  e  negra 

Fanima  di  dolor,  che*  uccider  deggio 

11  maggior  degli  amici  e  degli  eroi».  405 
Trassi  a  quei  detti  alto  sospir,  qual  vento 

da  fessa  rupe:  sollevai  del  brando 
Tacuto  filo:  ahi  lasso!  egli  cadeo. 

390-2.  s'impacciavano  .  .  .  elmi:  i:  «si  sfuggiano  i  brandi  nostri  /  I'un  Tal- 
tro,  sdrucciolavano  sugli  elmi».  399-400.  Corsegli  .  .  .  vergogna:  Torigi- 
nale:  «stassi  la  lagrima  suirocchio  di  gioventu»  (C.). 


POESIE   DI    OSSIAN  •  FINGAL  139 

Cadde  il  sol  della  pugna,  il  caro,  il  primo 

tra'  fidi  amici:  sciagurata,  imbelle  410 

e  la  mia  man,  dacche  Pamico  uccisi. 

—  Figlio  del  carro,  dolorosa  istoria  — 
Carilo  ripigli6  —  narrasti :  or  questa 
mi  rimanda  alia  mente  un  fatto  antico, 
che  puo  darti  conforto.  lo  spesso  intesi  415 

membrar  Comallo  che  1'amata  uccise; 
pur  sempre  accompagn6  vittoria  e  fama 
la  sua  spada  e  i  suoi  passi.  Era  Comallo 
un  figlio  d'Albion,  di  cento  colli 
alto  signor:  da  mille  rivi  e  mille  420 

i  suoi  cervi  beveano,  e  mille  scogli 
rispondeano  al  latrar  de5  veltri  suoi. 
Era  soavita  di  giovinezza 
Tamabile  suo  volto;  era  il  suo  braccio 
morte  d'eroi.  De'  suoi  pensier  Tobietto  425 

uno  era  e  bello,  la  gentil  Galvina, 
la  figlia  di  Colonco:  ella  sembrava 
sol  tra  le  donne,  e  liscia  ala  di  corvo 
la  sua  chioma  vincea;  sagaci  in  caccia 
erano  i  cani  suoi,  fischiava  al  vento  430 

la  corda  del  suo  arco.  I  lor  soavi 
sguardi  d'amor  si  riscontrar  sovente: 
uno  alia  caccia  era  il  lor  corso,  e  dolci 
le  lor  segrete  parolette  e  care. 

Ma  per  la  bella  si  struggea  d'amore  435 

il  fier  Gormante,  il  tenebroso  duce 
d'Arven  nembosa,  di  Comal  nemico. 
Egli  tuttor  della  donzella  i  passi 
sollecito  esplorava.  Un  di  che  stanchi 
tornavano  da  caccia,  e  avea  la  nebbia  440 

tolti  alia  vista  lor  gli  altri  compagni, 
si  riscontraro  i  due  teneri  amanti 


416.  Comallo'.  guernero  scozzese.  Non  bisogna  confonderlo  con  un  altro 
Comal,  padre  di  Fingal  (C.).  437-  Arven:  contrada  appartenente  a  Mor- 
ven  (C.). 


140  MELCHIORRE  CESAROTTI 

alia  grotta  di  Ronna.  Ivi  Comallo 

facea  spesso  soggiorno;  ivi  del  duce 

pendean  disposti  i  bellicosi  arnesi:  445 

cento  scudi  di  cuoio  e  cento  elmetti 

di  risonante  acciar.  «Qui  dentro»  ei  disse 

«riposati,  amor  mio,  riposa,  o  luce 

dello  speco  di  Ronna:  un  cervo  appare 

su  la  vetta  di  Mora;  io  la  men  volo,  45° 

ma  tosto  torner6  ».  « Comal, »  rispose 

«temo  Gormante  il  mio  nemico;  egli  usa 

in  questa  grotta:  io  posero  fra  Parmi; 

ma  fa*  tosto,  amor  mio».  Vol6  Peroe 

verso  il  cervo  di  Mora.  Allor  la  bella  455 

voile  far  prova  sconsigliatamente 

delPamor  del  suo  caro:  il  bianco  lato 

ella  coperse  di  guerriere  spoglie 

e  della  grotta  usci.  Comal  Padocchia, 

credela  il  suo  nemico;  il  cor  gli  balza:  460 

iscolorossi,  intenebrossi ;  incocca 

Parco;  vola  Io  stral;  cade  Galvina 

nel  sangue  suo.  Quei  furibondo,  ansante 

vola  alPantro,  e  la  chiama:  alcun  non  s'ode; 

muta  e  la  rupe.  «O  dolce  amor,  rispondi,  465 

dove  sej  tu  ? »  Torna  alPestinto,  e  vede 

il  cor  di  quella  palpitar  nel  sangue 

dentro  il  suo  dardo:  «0  mia  Galvina,  oh  vista! 

or  se*  tu  quella?»  E  le  cadeo  sul  petto. 

Vennero  i  cacciatori  e  ritrovaro  470 

la  sventurata  coppia.  II  duce  ancora 
err6  sul  colle;  ma  solinghi  e  muti 

443.  Comallo:  guerriero  scozzese,  la  di  cui  morte  e  riferita  nel  9  frammento 
di  poesia  antica,  pubblicato  nel  1761  dallo  stesso  valente  traduttore  in- 
glese  (C.).  Si  tratta  dello  stesso  guerriero  nominato  al  v.  416.  II  Cesarotti 
ha  evidentemente  dimenticato  la  nota  apposta  a  quel  verso.  450.  Mora : 
monte  della  Scozia.  Erane  un  altro  di  simil  nome  in  Irlanda,  di  cui  si  fa 
menzione  nel  canto  I,  e  in  altri  luoghi  di  questo  poema  (C.).  455-9-  Al 
lor  .  .  .  usci :  forse  per  fargli  una  dolce  sorpresa  ?  o  pmttosto  per  un  prin 
ciple  di  gelosia?  (C.).  465-6.  O  dolce  .  .  .  tu?:  cfr.  Leopardi,  Le  ricor- 
danze,  138-40:  «Dove  sei  gita,  /  che  qui  sola  di  te  la  ncordanza  /  trovo, 
dolcezza  mia  ? » 


POESIE   DI    OSSIAN  •  FINGAL  141 

erano  i  passi  suoi  presso  Poscura 

magion  delPamor  suo.  Sceser  le  navi 

delPoceano;  egli  pugn6;  fuggiro  47S 

dal  suo  brando  i  stranier:  cerco  la  morte, 

ma  chi  dar  la  poteagli  ?  A  terra  irato 

scagli6  lo  scudo;  una  volante  freccia 

riscontr6  alfine  il  maschio  petto.  Ei  dorme 

con  Pamata  Galvina  in  riva  al  mare;  480 

e  fendendo  il  nocchier  le  nordiche  onde, 

scorge  le  verdi  tombe,  e  ne  sospira. 


474-5.  Sceser. . .  oceano:  cioe:  vennero  i  Danesi  per  far  un'invasione  nella 
Scozia  (C.).  479-  Ei  dorme:  e  nel  sepolcro  (C.).  481-2.  Cfr.  Foscolo, 
Sepolcrij  201-3 :  «I1  navigante  /  che  veleggi6  quel  mar»,  ecc. 


CANTO  III* 

ARGOMENTO 

Cucullino,  essendosi  molto  compiaciuto  della  storia  di  Carilo,  in- 
siste  perche  canti  piu  a  lungo.  II  bardo  riferisce  le  azioni  di  Fingal  in 
Loclin  e  la  morte  di  Aganadeca,  la  bella  sorella  di  Svarano.  Soprag- 
giunge  Calmar,  ed  espone  loro  il  disegno  di  Svarano  di  sorprender 
il  rimanente  delFesercito  irlandese.  Propone  di  resistere  egli  solo  a 
tutte  le  forze  del  nemico  in  un  angusto  passaggio,  finche  1'armata 
irlandese  possa  ritirarsi  in  buon  ordine.  Cucullino,  ammirando  la 
coraggiosa  proposizione  di  Calmar,  risolve  d'accompagnarlo,  e  co- 
manda  a  Carilo  di  scortar  al trove  que'  pochi  irlandesi  che  rima- 
nevano.  Venuta  la  mattina,  Calmar  muore  dalle  sue  ferite;  e  com- 
parendo  i  navigli  de'  Caledoni,  Svarano  tralascia  d'inseguire 
gl' Irlandesi,  e  torna  addietro  per  opporsi  allo  sbarco  di  Fingal. 
Cucullino,  vergognandosi  di  comparire  innanzi  a  Fingal  dopo  la  sua 
sconfitta,  si  ritira  nella  grotta  di  Tura.  Fingal  attacca  la  zuffa  col  ne 
mico  e  lo  mette  in  fuga.  Ma  la  notte  che  soprawiene  fa  che  la  vittoria 
non  sia  compiuta.  II  re  che  aveva  osservato  il  valore  e  '1  coraggio 
dj  Oscar  suo  nipote,  gli  da  alcuni  ammaestramenti  per  ben  condursi 
in  pace  ed  in  guerra.  Storia  di  Fainasollis  figlia  del  re  di  Craca,  cui 
Fingal  aveva  preso  a  proteggere  nella  sua  gioventu.  Fillano  ed  Oscar 
sono  inviati  ad  osservar,  durante  la  notte,  i  movimenti  dei  nemici. 
Gaulo,  figliuolo  di  Morni,  domanda  il  comando  deH'armata  nella 
seguente  battaglia,  e  Fingal  glielo  accorda. 

—  Soavi  note,  dilettose  istorie, 

raddolcitrici  de'  leggiadri  cori!  — 

soggiunse  Cucullin  —  tal  molce  il  colle 

rugiada  del  mattin  placida  e  fresca, 

quando  il  sogguarda  temperate  il  sole,  5 

e  la  faccia  del  lago  e  pura  e  piana. 

Segui,  Carilo,  segui:  ancor  satollo 

non  £  Jl  mio  cor.  La  bella  voce  sciogli, 

dinne  il  canto  di  Tura,  il  canto  eletto 

che  soleasi  cantar  nelle  mie  sale;  10 

quando  Fingallo,  il  gran  signer  dei  brandi, 


*  Continua  la  seconda  notte.  Cucullino,  Connal  e  Carilo  sono  tuttavia 
nel  luogo  descritto  nel  canto  precedente  (C.). 


POESIE   DI    OSSIAN  •  FINGAL  143 

v'era  presente,  e  s'allegrava  udendo 
o  le  sue  proprie,  o  le  paterne  imprese. 

—  Fingallo,  uom  di  battaglia,  —  in  cotal  guisa 
Carilo  incomincio  —  prevenne  gli  anni  15 

la  gloria  tua.  Nel  tuo  furor  consunta 
resto  Loclin,  che  la  tua  fresca  guancia 
gara  avea  di  belta  con  le  donzelle. 
Esse  amorosamente  alia  fiorita 

vezzosa  faccia  sorridean,  ma  morte  20 

stava  nella  sua  destra.  Avea  la  possa 
della  corsia  del  Lora;  i  suoi  seguaci 
fremeangli  addietro  come  mille  rivi. 
Essi  il  re  di  Loclin,  Taltero  Starno, 
presero  in  guerra,  e  Jl  ricondusser  poi  25 

alle  sue  navi:  ma  d'orgoglio  e  d'ira 
rigonfiossegli  il  core,  e  nel  suo  spirto 
piantossi  oscura  del  garzon  la  morte: 
perch£  non  altri  che  Fingallo  avea 
vinta  di  Starno  rindomabil  possa.  30 

Stava  in  Loclin  costui  dentro  la  sala 
delle  sue  conche,  e  a  s6  chiamo  dinanzi 
il  canuto  Snivan;  Snivan  che  spesso 


17.  che:  quando  ancora.  22.  corsia:  corrente.  23.  come  mille  rivi:  questa 
maniera  e  frequente  nella  poesia  ebraica:  «sonabunt  fluctus  eorum  quasi 
aquae  multae»  [«risuoneranno  i  loro  flutti  come  molte  acque»],  Ger., 
c.  51,  v.  55;  «sonabit  super  eum  sicut  sonitus  maris»  [«risuonera 
su  di  lui  come  il  suono  del  mare»],  Is.,  c.  5,  v.  30  (C.).  24.  Starno 
era  padre  di  Svaran  e  di  Aganadeca.  Vedi  1'atroce  carattere  di  costui 
nel  poema  mtitolato  Calloda  (C.).  27-8.  nel  suo  spirto  .  .  .  la  morte: 
nelP originale:  «e  se  gli  oscur6  nell'alma  la  morte  del  giovinetto»  (C.). 
33.  Snivan:  questo  Snivano  doveva  essere  uno  degh  scaldi  danesi,  ordine 
similissimo  a  quello  dei  bardi  scozzesi.  Non  sara  discaro  agh  amatori  della 
poesia,  che  io  ponga  qui  sotto  uno  squarcio  del  sig.  Mallet,  il  quale  fa 
iredere  in  qual  venerazione  fosse  quest'arte  appresso  le  nazioni  credute 
Darbare  ed  insensibili  a  queste  delizie  di  spirito:  «La  storia  della  poesia 
ion  pud  citare  alcun  paese  che  le  sia  stato  piu  favorevole  della  Scandi- 
lavia,  ne  alcun  secolo  piti  glorioso.  I  monumenti  storici  del  Nord  sono 
Dieni  di  testimonianze  d'onon  resi  loro  dai  popoli  e  dai  re.  I  re  di  Dani- 
narca,  Svezia,  Norvegia  andavano  sempre  accompagnati  da  uno  o  piu 
jcaldi.  Araldo  ctda'  bei  capelli''  nei  conviti  dava  loro  il  primo  posto  tra  gli 
afiziali  della  corte.  Molti  principi  e  in  guerra  e  in  pace  confidavano  loro 


144  MELCHIORRE    CESAROTTI 

cantava  intorno  al  circolo  di  Loda, 
quando  la  pugna  nel  campo  del  forti  35 

volgeasi,  e  a'  canti  suoi  porgeva  ascolto 
la  pietra  del  poter.  «Snivan  canuto, 
va5 »  disse  Starno  «  alle  dal  mar  cerchiate 
arvenie  rocce;  ed  al  possente  e  bello 
re  del  deserto  tu  dirai  ch'io  gli  offro  40 

la  figlia  mia,  la  piu  gentil  donzella 
ch'alzi  petto  di  neve;  essa  ha  le  braccia 
candide  al  par  della  marina  spuma; 
dolce  e  nobile  il  cor.  Venga  Fingallo, 
venga  co'  suoi  piu  forti  alia  vezzosa  45 

vergine  figlia  di  segreta  stanza ». 
Alle  colline  d' Albion  ventose 
venne  Snivano,  e  Jl  ben  chiomato  eroe 
seco  n'and6 :  dinanzi  a  lui  volava 
rinfiammato  suo  cor,  mentr'ei  Pazzurre  5° 

nordich'onde  fendea.  «Ben  venga  a  noi,» 
Starno  grido  «ben  venga  il  valoroso 
re  di  Morven  scoscesa;  e  voi  ben  giunti 
siate  pur  suoi  guerrieri,  illustri  figli 
deirisola  solinga:  in  feste  e  canti  55 


gli  ufizi  i  piii  important!.  Non  si  faceva  alcuna  spedizione  militare,  senza 
che  vi  fossero  presenti.  Aquino,  conte  di  Norvegia,  ne  condusse  seco 
cinque  in  una  famosa  battaglia,  ove  ciascheduno  cant6  un  inno  per  mfiam- 
mar  il  coraggio  de*  soldati.  Le  loro  poesie  erano  ricompensate  coi  piu  ma- 
gmfici  doni.  II  rispetto  che  si  avea  per  essi  gmngeva  a  segno  di  rimetter 
loro  la  pena  di  qualche  delitto,  a  condizione  che  domandassero  la  loro  gra- 
zia  in  versi;  ed  esiste  ancora  1'ode,  colla  quale  un  celebre  poeta,  chiamato 
Egil,  si  riscatt6  da  un  omicidio.  Finalmente  i  principi  e  i  re  si  apphcavano 
seriamente  a  quest'arte,  come  Ronvaldo,  conte  delle  Orcadi,  Regner  Lod- 
brog,  re  di  Danimarca,  ed  altri.  Un  principe  spesse  volte  non  esponea  la 
sua  vita  se  non  per  esser  lodato  dal  suo  scaldo,  rimuneratore  del  suo  va- 
lore.  Gli  scaldi  cantavano  poscia  i  loro  versi  nei  conviti  solenni  e  nelle 
grandi  assemblee,  al  suono  del  flauto  e  del  lmto».  Introd.  alia  stor.  di 
Danim.  (C.).  34-  Questo  passo  allude  certamente  alia  religione  di  Loclin. 
II  circolo  di  Loda  dovrebbe  essere  quel  doppio  recinto  di  pietre,  con  cui 
gli  Scandinavi,  come  rapporta  il  sig.  Mallet,  circondavano  1'altare  del  loro 
idolo,  e  la  collina  sopra  di  cui  era  collocato  (C.).  37-  La  pietra  del  potere 
e  rimmagine  del  dio  Odin,  o  di  qualche  altra  divimta  della  Scandinavia. 
Vedi  il  poema  di  Carritura  [nota  al  v.  291,  in  Opere,  iv,  pp.  33-5],  C. 
40.  re  del  deserto:  Fmgal  (C.).  46.  figlia:  abitatnce  (C.). 


POESIE   DI    OSSIAN  •  FINGAL  145 

vi  starete  tre  giorni,  e  tre  le  belve 
seguirete  alia  caccia,  affin  die  possa 
giunger  la  vostra  fama  alia  donzella 
della  segreta  stanza  abitatrice ». 

Si  fmtamente  favello  Paltero  60 

re  della  neve,  e  meditava  intanto 
di  trarli  a  morte.  Nella  sala  ei  sparse 
la  festa  delle  conche.  Avea  sospetto 
Fingal  di  frode,  ed  awedutamente 
Tarme  ritenne;  si  sguardar  Fun  Paltro  65 

pallidi  in  volto  i  figli  della  morte, 
e  taciti  svanir.  S'alzan  le  voci 
della  vivace  gioia:  arpe  tremanti 
mandan  dolce  armonia;  cantano  i  vati 
scontri  di  pugna  o  tenerelli  petti  70 

palpitanti  d'amor.  Stava  tra  questi 
il  cantor  di  Fingallo,  Ullin,  la  dolce 
voce  di  Cona.  Ei  celebro  la  bella 
vergine  della  neve  e  '1  nato  al  carro 
signer  di  Selma:  la  donzella  intese  75 


56.  tre  giorni'.  sembra  che  le  nazioni  antiche  siansi  accordate  nelTaver 
una  particolare  venerazione  per  il  numero  tre.  Gli  scandinavi  lo  riguardava- 
no  come  un  numero  sacro  e  particolarmente  grato  agli  dei.  Una  simile 
opinione  doveano  aver  gli  Scozzesi.  Ossian  ne  fa  uso  non  solo  nelle  cose 
solenm  o  di  costume,  come  in  questo  luogo,  ma  anche  nelle  piu  acciden 
tal!,  e  che  non  dipendono  che  dalla  elezione;  in  cui  per  conseguenza  la 
determinazione  costante  di  questo  numero  non  sembra  che  possa  aver 
luogo.  Tre  giorni  sta  prigione  un  guerriero,  nel  quarto  vien  liberate; 
tre  giorni  una  donna  piange,  nel  quarto  ottiene  il  suo  intento;  tre  giorni 
un'altra  rafrrena  il  suo  amore,  nel  quarto  vi  si  abbandona.  Questo  sarebbe 
un  bel  soggetto  per  qualche  pittagorico.  lo  mi  contentero  di  aggiunger 
quest'osservazione  all'altre  del  Matanasio  a  quelle  parole  della  sua  cele- 
bre  canzone:  «Trois  fois  frappa»  (C.).  Allude  al  Chef  d'oeuvre  d'un  inconnu, 
poeme  heureusement  decouvert  et  mis  au  jour  par  le  docteur  Chrysostomc 
Mathanasius,  pubblicato  nel  1714  da  Hyacinte  Cordonnier  (1684-1746), 
e  che  vuol  essere  una  burlesca  parodia  dei  commenti  eruditi  alia  Dacier. 
61.  Starno  e  qui  poeticamente  chiamato  re  della  neve,  dalla  gran  quantita 
che  ne  cade  ne'  suoi  dominii  (C.).  66.  i  figli  della  morte:  cioe  i  sicari  ap- 
postati  da  Starno  per  uccider  Fingal.  In  altro  senso  Davidde  e  chiamato  da 
Saule  « filius  mortis  »,  nel  libro  i  dei  Rey  c.  20,  [3 1],  vale  a  dire  « persona  desti- 
nata  alia  morte »  (C.)-  72.  Ulhn:  questo  e  il  pnmo  dei  cantori  di  Fingal, 
ed  il  suo  araldo  nelle  battaglie.  Ne  vien  fatta  spesso  onorevol  menzione 
in  queste  poesie  (C.).  74.  della  neve:  cioe  del  paese  nevoso  (C.). 


MELCHIORRE    CESAROTTI 

Famabil  canto,  e  abbandon6  la  stanza 

segreto  testimon  de'  suoi  sospiri. 

Usci  di  tutta  sua  bellezza  adorna, 

quasi  luna  da  nube  in  oriente. 

Le  leggiadrie  cingevanla  e  le  grazie,  80 

come  fascia  di  luce:  i  passi  suoi 

movean  soavi,  misurati  e  lenti 

come  armoniche  note.  II  garzon  vide, 

videlo  e  n'arse.  «O  benedetto  raggio» 

disse  tra  se.  Gia  del  suo  core  egli  era  85 

il  nascente  sospiro,  e  a  lui  di  furto 

spesso  volgeasi  il  desioso  sguardo. 

Tutto  raggiante  il  terzo  di  rifulse 
sul  bosco  delle  belve.  Usci  Fingallo, 
signor  dei  scudi,  e  '1  tenebroso  Starno.  9° 

Del  giovin  prode  rosseggio  la  lancia 
nel  sangue  di  Gormallo.  Era  gia  '1  sole 
a  mezzo  il  corso  suo,  quando  la  bella 
figlia  di  Starno  al  bel  Fingal  sen  venne 
con  amorosa  voce  e  coi  begli  occhi  95 

in  lagrime  girantisi  e  tremanti; 
e  si  parlo:  « Fingallo,  ah  non  fidarti 
del  cor  di  Starno;  egli  nel  bosco  agguati 
pose  contro  di  te:  guardati,  o  caro, 
dal  bosco  della  morte;  ad  awisarti  100 

spronami  amor:  tu,  generoso  eroe, 
rammenta  Aganadeca,  e  mi  difendi 
dallo  sdegno  del  padre ».  II  giovinetto 
1'udl  tranquillo,  ed  awiossi  al  bosco 
spregiantemente :  i  suoi  guerrier  possenti  105 

stavangli  a  fianco.  Di  sua  man  cadero 
i  figli  della  morte,  e  a'  loro  gridi 


76-7.  abbandono  .  .  .sospiri:  neir  originate:  «lasci6  la  sala  del  suo  segreto 
sospiro  »  (C.)-  81-3.  i  passi  .  .  .  note:  le  parole  dell' originate  sono  queste: 
«i  suoi  passi  erano  simili  alia  musica  dei  canti».  II  traduttore  ne  ha  svi- 
luppate  le  idee,  che  forse  non  tutti  avrebbero  cosi  agevolmente  distinte 
nell'espressione  ristretta  e  precisa  di  Ossian  (C.).  92.  nel  sangue  di  Gor 
mallo:  cioe,  nel  sangue  delle  fiere  del  monte  Gormal  (C.). 


POESIE   DI    OSSIAN  •  FINGAL  147 

Gormallo  rimbombo.  Rimpetto  all'alta 

reggia  di  Starno  si  raccolser  tutti 

gli  stanchi  cacciatori.  II  re  si  stava  no 

torbido,  in  se  romito;  avea  sul  ciglio 

funesta  nube,  atro  vapor  negli  occhi. 

«  Ola, »  grid6  Taltero  « al  mio  cospetto 

guidisi  Aganadeca;  ella  ne  venga 

al  re  di  Selma,  al  suo  leggiadro  sposo.  115 

Gia  del  sangue  de'  miei  tinta  e  la  destra 

del  suo  diletto ;  inefficaci  e  vane 

non  fur  sue  voci:  del  fedel  messaggio 

e  giusto  il  guiderdon».  Venne  la  bella, 

sciolta  il  crin,  molle  il  ciglio:  il  bianco  petto  120 

le  si  gonfiava  air  aura  de'  sospiri, 

come  spuma  del  Luba.  II  fero  padre 

Tafferr^,  la  trafisse.  Ella  cadeo 

come  di  neve  candidetta  falda 

che  dalle  rupi  sdrucciolar  del  Rona  125 

talor  si  scorge,  quando  il  bosco  tace, 

e  basso  per  la  valle  il  suon  si  sperde. 

Giunse  Fingal,  vide  la  bella;  il  guardo 
vibro  sopra  i  suoi  duci,  e  i  duci  suoi 
Farme  impugnaro:  sanguinosa  e  negra  130 

pugna  mugghio;  Loclin  fu  spersa  o  spenta. 
Pallida  allor  nella  spalmata  nave 
la  vergine  ei  racchiuse:  in  Arven  poi 
le  alzo  la  tomba;  or  freme  il  mar  d'intorno 
alFoscura  magion  d* Aganadeca.  135 

—  Benedetto  il  suo  spirto,  e  benedetta 


in.  in  sd  romito :  cfr.  Dante,  Purg.y  vi,  72:  «l'ombra,  tutta  in  se  romita». 
1 1 1-2.  avea  .  .  .  nube:  cfr.  Foscolo,  Sepokri,  194-5 :  «avea  sul  volto  /  il  pal 
lor  della  morte ».  116-7.  Gtd •  -  -  diletto:  convien  supporre  che  Starno  fos 
se  stato  awertito  in  qualche  modo  dell'awiso  dato  dalla  figlia  a  Fingal  (C.). 
128-9.  Giunse  .  .  .  duci:  neH'originale  non  vi  sono  che  queste  parole:  «adoc- 
chi6  allora  Fingal  i  valorosi  suoi  duci».  Si  sono  premesse  queste  altre, 
acci6  non  sembrasse  che  Fingal  fosse  gia  presente  a  questa  tragedia,  il 
che  non  pu6  supporsi  (C.).  135.  Ma  che  e  divenuto  di  Starno?  Ma  in- 
torno  a  questa  stona  vedi  1'osservazione  (C.).  Come  osserva  anche  1'Or- 
tolani,  nulla  si  trova,  fra  le  Osservazioni  del  Cesarotti,  a  proposito  di 
Starno. 


148  MELCHIORRE    CESAROTTI 

sii  tu,  bocca  del  canto ;  —  allor  riprese 

di  Semo  il  figlio  —  di  Fingal  fu  forte 

il  braccio  giovenil,  forte  e  Tantico. 

Cadra  Loclin  sotto  Pinvitta  spada,  14° 

cadra  di  nuovo.  Esci  da'  nembi,  o  luna; 

mostra  la  bella  faccia,  e  per  1'oscura 

onda  notturna  le  sue  vele  aspergi 

della  serena  tua  Candida  luce. 

E  se  forse  lassu,  sopra  quel  basso  145 

nebuloso  vapor  sospeso  alberghi, 

o,  qual  che  tu  ti  sia,  spirto  del  cielo, 

cavalcator  di  turbini  e  tempeste, 

tu  proteggi  1'eroe,  tu  le  sue  navi 

dagli  scogli  allontana,  e  tu  lo  guida  150 

securo  e  salvo  ai  desiosi  amici.  — 

Si  parlo  Cucullin;  quando  sul  colle 
sali  di  Mata  il  valoroso  figlio, 
Calmar  ferito:  egli  venia  dal  campo 
nel  sangue  suo;  ne  sostenea  la  lancia  155 

i  vacillanti  passi:  ha  fiacco  il  braccio, 
ma  indomabile  il  cor.  —  Gradito  a  noi 
giungi,  —  disse  Conal  —  gradito,  o  forte 
figlio  di  Mata.  Ond'e  ch'esce  il  sospiro 
dal  petto  di  colui  che  in  mezzo  all'arme  160 

mai  non  teme  ?  —  Ne  temera  giammai, 
sir  dell'acuto  acciar.  Brillami  Talma 
entro  i  perigli,  e  mi  festeggia  il  core. 
Son  della  schiatta  delPacciaro,  a  cui 
nome  ignoto  e  '1  timor.  Cormar  fu  '1  primo  165 

della  mia  stirpe.  Eran  suo  scherzo  e  gioco 
flutti  e  tempeste:  il  suo  leggiero  schifo 
saltellava  sull'onde,  e  gia  guizzando 
su  le  penne  dei  venti.  Un  negro  spirto 
turb6  la  notte.  II  mar  gonfiasi,  i  scogli  170 

rugghiano,  i  venti  vorticosi  a  cerchio 


147.  Le  parole  qual  che  tu  ti  sia,  aggiunte  dal  traduttore,  indicano  la 
natura  indeterminata  di  questo  spirito.  Vedi  il  Ragionamento  sopra  i  Cale- 
doni  (C.)-  Cfr.  Opere,  n,  p.  41. 


POESIE   DI    OSSIAN  -  FINGAL  149 

strascinano  le  nubi;  ale  di  lampi 

volan  focose.  Egli  smarrissi,  a  terra 

ei  ricovro;  ma  s'arrossi  ben  tosto 

del  suo  timore:  in  mezzo  al  mar  di  nuovo  175 

scagliasi,  il  figlio  a  rintracciar  del  vento. 

Tre  giovinetti  del  suo  legno  han  cura 

e  ne  reggono  il  corso.  Egli  si  stava 

col  brando  ignudo :  ecco  passar  Foscuro 

vapor  sospeso:  ei  I'afferr6  pel  crine  180 

rapido,  e  con  1'acciaro  il  tenebroso 

petto  gli  ricerc6:  Faereo  figlio 

fuggi  stridendo,  e  comparir  le  stelle. 

Tal  fu  1'ardir  de'  miei:  Calmar  somiglia 

ai  padri  suoi:  dalPinalzata  spada  185 

fugge  il  periglio:  uom  c'ha  fermezza,  ha  sorte. 

Ma  voi,  progenie  delle  verdi  valli, 

dalla  del  Lena  sanguinosa  piaggia 

scostatevi;  adunate  i  tristi  avanzi 

dei  nostri  amici,  e  di  Fingallo  al  brando  190 

ad  unirvi  correte.  II  suono  intesi 

delFoste  di  Loclin  che  a  noi  s'avanza. 

Partite,  amici,  restera  Calmarre, 

Calmar  combattera:  bench'io  sia  solo, 

tal  dar6  suon,  come  se  mille  e  mille  195 

fossermi  a  tergo.  Or  tu,  figlio  di  Semo, 

rammentati  Calmar,  rammenta  il  freddo 

corpo  giacente.  Poi  ch'avra  Fingallo 

guasto  il  campo  nemico,  appo  una  pietra 

di  memoria  ripommi,  onde  il  mio  nome  200 

passi  ai  tempi  futuri,  e  si  rallegri 

la  madre  di  Calmar,  curva  sul  sasso 

della  mia  fama.  ~  Ah  no,  figlio  di  Mata,  — 


176.  il  figlio  .  .  .  del  vento:  e  il  negro  spirto  di  cui  al  v.  169.  186.  uom  . .  . 
sorte:  «audentes  fortuna  iuvat»  [«la  fortuna  aiuta  gli  audaci»,  Virgilio, 
Aen.,  x,  284],  C.  199-200.  una  pietra  di  memoria:  una  pietra  in  que'  rozzi 
tempi  era  il  solo  mezzo  di  conservar  in  generate  la  memoria  d'una  per 
sona  o  d'un  awenimento  notabile.  II  canto  e  la  tradizione  spiegavano 
particolarmente  i  nomi  e  le  cose  (C.). 


150  MELCHIORRE    CESAROTTI 

rispose  Cucullin  —  non  voj  lasciarti ; 

io  sar6  teco:  ove  piu  grande  e  certo  205 

rischio  s'affaccia,  ivi  piu  '1  cor  di  gioia 

m'esulta  e  ferve  e  mi  s'addoppia  in  petto. 

Forte  Conallo,  e  tu  Carilo  antico, 

voi  d'Inisfela  i  dolorosi  figli 

scorgete  altrove;  e  quando  al  fin  sia  giunto  210 

Paspro  conflitto,  rintracciate  i  nostri 

pallidi  corpi:  in  questo  angusto  passo, 

presso  di  questa  pianta  ambedue  fermi 

staremci  ad  affrontar  1'atro  torrente 

della  pugna  di  mille.  O  tu,  va',  corri,  215 

figlio  di  Fiti,  ale  di  vento  impenna. 

Vanne  a  Fingal,  digli  ch'Erina  e  bassa, 

fa'  die  s'affretti.  Oh  venga  tosto  a  noi 

qual  vivo  sole,  e  le  tempeste  nostre 

sgombri  coi  raggi  e  rassereni  il  colle.  —  220 

Grigio  in  Cromla  e  '1  mattin;  sorgono  i  figli 
dall'oceano:  usci  Calmar  fumante 
di  bellicoso  ardor;  ma  pallida  era 
la  faccia  sua:  chinavasi  sull'asta 
de'  padri  suoi,  sopra  quelPasta  istessa  225 

che  dalle  sale  egli  port6  di  Lara, 
e  stava  mesta  a  risguardar  la  madre. 
Ma  or  languido,  esangue  a  poco  a  poco 
manca  e  cade  Peroe,  qual  lentamente 
cade  sul  Cona  sbarbicata  pianta.  230 

Solo  rimane  Cucullin  qual  rupe 
nell'arenosa  valle:  il  mar  coi  flutti 


221-2.  sorgono  i  figli  dalVoceano:  tutte  e  tre  le  edizioni  hanno  cosi;  ma  forse 
si  dovra  leggere  i  figli  delVoceano,  cioe  i  guerneri  di  Loclin,  venuti  dal 
mare.  231-5.  qual  rupe ...  spuma:  Om.,  [I/.],  c.  15,  v.  699  [618-21].  Ossian 
e  ancora  piu  somigHante  a  Virgilio:  «ut  pelagi  rupes  magno  veniente  fra- 
gore,  /  quae  sese,  multis  circum  latrantibus  undis,  /  mole  tenet ;  scopuh 
nequicquam  et  spumea  circum  /  saxa  fremunt,  laterique  illisa  refunditur 
alga»  [«come  una  rupe  in  mezzo  all'assalto  del  grande  fragore  del  mare, 
la  quale  si  tiene  salda  nella  sua  mole,  mentre  mtorno  latrano  numerose 
le  onde;  invano  intorno  fremono  gli  scogli  e  le  rocce  spumeggianti,  e  Palga 
e  travolta  e  sbattuta  contro  i  suoi  fianchi»],  En.,  1.  7,  v.  sSy-foo],  C. 


POESIE    DI    OSSIAN  •  FINGAL  151 

viensene  e  mugge  su  i  petrosi  fianchi; 

stridono  i  massi,  e  la  scoscesa  fronte 

spruzza  e  ricopre  la  canuta  spuma.  235 

Ma  gia  fuor  fuor  per  la  marina  nebbia 
veggonsi  a  comparir  le  di  Fingallo 
bianco-velate  navi;  e  maestoso 
s'avanza  il  bosco  dell'eccelse  antenne. 
S varan  Tadocchia,  e  di  combatter  cessa  240 

d'Inisfela  Peroe.  Qual  per  le  cento 
isole  d'Inistor  s'arretra  e  ferve 
gonfia  marea;  si  smisurata  e  vasta 
la  possa  di  Loclin  scese  a  rincontro 
air  alto  re  dei  solitari  collL  245 

Ma  lento,  a  capo  chin,  mesto,  piangente, 
la  lunga  lancia  traendosi  dietro, 
Cucullin  ritirossi,  e  si  nascose 
dentro  il  bosco  di  Cromla,  e  amaramente 
pianse  gli  estinti  amici.  Egli  temea  250 

1'aspetto  di  Fingal,  che  tante  volte 
seco  gia  s'allegr6,  quand'ei  tornava 
dal  campo  della  fama.  —  Oh  quanti,  oh  quanti 
giaccion  cola  dej  miei  possenti  eroi, 
sostegni  d'Inisfela!  essi  che  un  tempo  255 

festosi  s'accogliean  nelle  mie  sale, 
delle  mie  conche  al  suon.  Non  piii  sul  prato 
le  lor  orme  vedro ;  non  piu  sul  monte 
udr6  Fusata  voce.  Or  la  prostesi, 
pallidi,  muti,  in  sanguinosi  letti  260 

giacciono  i  fidi  amici.  O  cari  spirti 
dei  dianzi  estinti,  a  Cucullin  venite; 
con  lui  vi  state  a  favellar  sul  vento 
quando  Talbero  piegasi  e  bisbiglia 
su  la  grotta  di  Tura:  ivi  solingo  265 

giacerb  sconosciuto;  alcun  cantore 
non  membrera  '1  mio  nome,  alcuna  pietra 
a  me  non  s'ergera.  Bragela,  addio: 

242.  s'arretra:  i:  «sbattesi».     244.  scese  a  rincontro:  i:  «volsesi  incontro». 
254.  Parole  di  Cucullmo  (C.). 


152  MELCHIORRE    CESAROTTI 

gia  piu  non  son,  gia  la  mia  fama  e  spenta; 

piangimi  cogH  estinti,  addio,  Bragela.  —  270 

Si  parlo  sospirando;  e  si  nascose 
ove  la  selva  e  piu  selvaggia  e  cupa. 

Ma  d'altra  parte  maestosamente 
passa  Fingal  nella  sua  nave,  e  stende 
la  luminosa  lancia:  orrido  intorno  275 

folgoreggia  1'acciar,  qual  verdeggiante 
vapor  di  morte  che  talor  si  posa 
su  i  campi  di  Malm6r:  scura  e  nel  cielo 
la  larga  luna,  il  peregrin  soletto. 

—  Terminate  e  il  conflitto;  io  veggo  il  sangue     280 
de'  nostri  amici ;  —  il  re  grido  —  le  querce 
gemon  di  Cromla,  e  siede  orror  sul  Lena. 
Cola  cadero  i  cacciatori:  il  figlio 
di  Semo  non  e  piu.  Rino,  Fillano, 
diletti  figH,  or  via,  suonate  il  corno  285 

della  battaglia  di  Fingal;  salite 
quel  colle  in  su  la  spiaggia,  e  dalla  tomba 
del  buon  Landergo  il  fier  nemico  in  campo 
sfidate  alia  tenzon.  La  vostra  voce 
quella  del  padre  nel  tonar  pareggi,  290 

allor  che  nella  pugna  entra  spirante 
baldanza  di  valor:  qui  fermo  attendo 
questo  possente  uom  tenebroso;  attendo 
con  pie  fermo  Svarano.  E  venga  ei  pure 
con  tutti  i  suoi;  ch6  non  conoscon  tema  295 

gli  amici  degli  estinti.  —  II  gentil  Rino 
vo!6  qual  lampo;  il  brun  Fillano  il  segue, 
pari  ad  ombra  autunnal.  Scorre  sul  Lena 
la  voce  loro :  odon  del  mare  i  figli 
il  roco  suon  del  bellicoso  corno,  300 

del  corno  di  Fingallo;  e  piomban  forti, 
grossi,  mugghianti,  qual  riflusso  oscuro 
del  sonante  ocean,  quando  ritorna 

284.  Rino  era  il  minore  dei  figli  di  Fingal.  Ossian,  Fillano,  Fergusto  era- 
no  gli  altn  (C.).  288.  Landergo:  guernero  irlandese,  di  cui  si  ha  la  stona 
nel  canto  5  (C.). 


POESIE   DI    OSSIAN  •  FINGAL  153 

dal  regno  della  neve:  alia  lor  testa 

scorgesi  il  re  superbo;  ha  tetro  aspetto  305 

d'ira  awampante,  occhi  rotanti  in  fiamma. 

Lo  rimiro  Fingallo,  e  rammentossi 
d'Aganadeca  sua:  perche  Svarano 
con  giovenili  lagrime  avea  pianto 
la  gentil  suora  dal  bel  sen  di  neve.  310 

Mand6  Ullino  dai  canti,  e  alia  sua  festa 
cortesemente  Finvit6;  che  dolce 
del  nobile  Fingal  ricorse  alPalma 
del  suo  primiero  amor  la  rimembranza. 

Venne  Fantico  Ullin  di  Starno  al  figlio,  315 

e  si  par!6 :  —  Tu  che  da  lungi  alberghi 
cinto  dall'onde  tue,  come  uno  scoglio, 
vieni  alia  regia  festa  e  '1  di  tranquillo 
passa;  doman  combatterem,  domani 
spezzeremo  gli  scudi.  —  Oggi  —  rispose  320 

—  spezzinsi  pur,  staro  domani  in  festa; 
domani  si,  che  fia  Fingal  sotterra. 

—  E  ben,  spezzinsi  tosto,  e  poi  festeggi 
doman,  se  puo ;  —  con  un  sorriso  amaro 

Palto  Fingal  riprese  —  Ossian,  tu  statti  325 

da  presso  al  braccio  mio;  tu,  Gaulo,  inalza 

il  terribile  acciar;  piega,  Fergusto, 

Fincurvato  tuo  tasso ;  e  tu,  Fillano, 

la  tua  lancia  palleggia:  alzate  i  scudi 

qual  tenebrosa  luna,  e  ciascun'asta  330 

sia  meteora  mortal:  me  me  seguite 

per  lo  sentier  della  mia  fama,  e  sieno 

le  vostre  destre  ad  emularmi  intese.  — 

Cento  nembi  aggruppati,  o  cento  irate 
onde  sul  lido,  o  cento  venti  in  bosco,  335 

o  cento  in  cento  colli  opposti  rivi, 
forse  con  tale  o  con  minor  fracasso 


323.5  ben\  s'intenda  che  Ullino  avea  riportata  a  Fingal  la  risposta  di 
Svarano.  Non  v'e  poeta  piu  rapido,  ne  piti  parco  di  parole  di  Ossian  (C,). 
326.  Gaulo  era  figlio  di  Morni,  ed  uno  de'  piu  gran  guerrieri  di  Fingal  (C.). 
334-8.  Cento  .  .  .  Valtro:  v.  [Omero],  II.,  c.  15,  v.  32  [xiv,  394-401],  C. 


154  MELCHIORRE    CESAROTTI 

strage,  furia,  terror  s'urtan  Tun  Taltro, 

di  quel  con  cui  le  poderose  armate 

vannosi  ad  incontrar  nell'echeggiante  340 

piaggia  del  Lena:  sparges!  su  i  monti 

alto  infinito  gernito  confuso, 

pari  a  notturno  tuon,  quando  una  nube 

spezzasi  in  Cona,  e  mille  ombre  ad  un  tempo 

mandan  nel  vuoto  vento  orrido  strido.  345 

Spinsesi  innanzi  in  la  sua  possa  invitta 
Talto  Fingal,  terribile  a  mirarsi, 
come  lo  spirto  di  Tremmor,  qualora 
vien  sopra  un  nembo  a  contemplar  i  figli 
della  possanza  sua;  crollan  le  querce  350 

al  suon  delle  sue  penne,  e  innanzi  ad  esso 
s'atterrano  le  rupi.  Atra,  sanguigna, 
era  la  man  del  padre  mio  rotando 
il  balenante  acciar;  struggeasi  il  campo 
nel  suo  corso  guerrier.  Rino  avanzossi  355 

qual  colonna  di  fuoco;  e  scuro  e  torvo 
di  Gaulo  il  ciglio;  rapido  Fergusto 
corre  con  pie  di  vento;  erra  Fillano 
come  nebbia  del  colle.  lo  stesso,  io  stesso 
piombai  qual  masso:  alle  paterne  imprese  360 

mi  sfavillava  il  cor:  molte  le  morti 
fur  del  mio  braccio,  ne  di  grata  luce 
splendea  la  spada  di  Loclin  sul  ciglio. 
Ah,  non  avea  cosi  canuti  i  crini 

Ossian  allor,  ne  in  tenebre  sepolti  365 

eran  quest'occhi,  ne  tremante  e  fiacca 
Pantica  man,  ne  '1  pie  debole  al  corso. 

Chi  del  popol  le  morti,  e  chi  le  gesta 
pu6  ridir  degli  eroi,  quando  Fingallo 
nella  sua  ardente  struggitrice  fiamma  370 

348.  Tremmor:  bisavolo  di  Fingal  (C.).  351-2.  innanzi ...  rupi:  questa 
immagine  ricorda  la  frase  scritturale :  « montes  fluxerunt  a  facie  Domini » 
[«i  monti  rovmarono  dinanzi  alia  faccia  del  Signore»],  Giud.,  c.  5,  v.  5  (C.). 
370-1.  nella  .  .  .  Loclin:  «misisti  iram  tuam  quae  devoravit  eos  sicut  sti- 
pulam»  [« scagliasti  la  tua  ira,  che  li  ha  divorati  come  paglia»],  Esodoy  c. 
15,  v.  7  (C.). 


POESIE   DI    OSSIAN  •  FINGAL  155 

divorava  Loclin  ?  Di  colle  in  colle 
gemiti  sopra  gemiti  s'affollano 
di  morti  e  di  spiranti,  infin  che  scese 
la  notte,  e  tutto  in  tenebre  rawolse. 

Smarriti,  spauriti,  sbalorditi  375 

come  greggia  di  cervi,  allor  sul  Lena 
strinsersi  i  figli  di  Loclin:  ma  noi 
lietamente  sedemmo  in  riva  al  vago 
ruscel  di  Luba,  ad  ascoltar  le  gaie 
note  dell'arpa.  II  gran  Fingal  sedea  .  380 

non  lungi  dai  nemici,  e  dava  orecchio 
ai  versi  del  cantor.  S'udian  nel  canto 
altamente  sonar  gli  eccelsi  nomi 
di  sua  stirpe  immortale.  Ei  sullo  scudo 
piegava  il  braccio,  e  ne  bevea  tranquillo  385 

la  soave  armonia.  Stavagli  appresso, 
curvo  sulla  sua  lancia,  il  giovinetto, 
il  mio  amabile  Oscarre.  Ei  meraviglia    ' 
avea  del  re  di  Selma,  e  i  suoi  gran  fatti 
scorrean  per  Talma  e  gli  scoteano  il  core.  390 

—  Figlio  del  figliuol  mio,  — •  disse  Fingallo 
—  onor  di  gioventu:  vidi  la  luce 
del  tuo  brando,  la  vidi,  e  mi  compiacqui 
della  progenie  mia:  segui  la  fama 
de'  padri  tuoi,  segui  Tavite  imprese.  395 

Sii  quel  ch'essi  gia  fur,  quando  vivea 
Talto  Tremmor,  primo  tra'  duci,  e  quando 
Tratal,  padre  d'eroi.  Quei  da'  prim'anni 
pugnar  da  forti:  or  son  dej  vati  il  canto. 
Valoroso  garzon,  curva  i  superbi,  400 

ma  risparmia  gPimbelli:  una  corrente 
di  molt'acqua  sii  tu  contro  i  nemici 
del  popol  tuo;  ma  a  chi  soccorso  implora 
sii  dolce,  placidissimo,  qual  aura 
che  lusinga  Terbetta  e  la  solleva.  405 

388.  Oscarre:  figho  di  Ossian  (C.).  389-90.  e  i  suoi  .  .  .  core:  F  originate: 
«e  le  sue  imprese  gli  si  gonfiavano  nelTamma»  (C.).  39^.  Tratal:  avolo 
di  Fingal  (C). 


156  MELCHIORRE   CESAROTTI 

Cosi  visse  Tremmor,  Tratal  fu  tale, 
tal  e  Fingallo.  II  braccio  mio  fu  sempre 
schermo  degl'infelici,  e  dietro  al  lampo 
della  mia  spada  essi  posar  securi. 

Oscarre,  io  era  giovinetto  appunto  410 

qual  se'  tu  ora,  quando  a  me  sen  venne 
Fainasilla,  la  vezzosa  figlia 
del  re  di  Craca,  vivida  soave 
luce  d'amore.  Io  ritornava  allora 
dalla  piaggia  di  Cona,  avea  con  meco  415 

pochi  de?  miei.  Di  bianche  vele  un  legno 
da  lungi  apparve,  che  movea  sull'onde 
come  nebbia  sul  nembo.  Awicinossi, 
la  bella  compari.  Salia,  scendea 

il  bianco  petto  a  scosse  di  sospiri,  420 

e  le  strisciavan  lagrimose  stille 
la  vermiglietta  guancia.  «E  qual  tristezza 
alberga  in  si  bel  sen, »  placido  io  dissi 
«o  figlia  di  belta?  poss'io,  qual  sono 
giovine  ancor,  farmi  tuo  schermo  e  scudo,  425 

donna  del  mar?  Non  ho  invincibil  brando, 
ma  cor  che  non  vacilla».  «A  te  men  volo, » 
sospirando  rispose  «o  prence  eccelso 
di  valorosi,  a  te  men  volo,  o  sire 
delle  conche  ospitali,  alto  sostegno  430 

della  debile  destra.  II  re  di  Craca 
me  vagheggiava,  qual  vivace  raggio 
della  sua  stirpe;  ed  echeggiar  sovente 
le  colline  di  Cromala  s'udiro 

ai  sospiri  d'amor  per  Pinfelice  435 

Fainasilla.  II  regnator  di  Sora 
bella  mi  vide,  e  n'arse:  ha  spada  al  fianco 
qual  folgore  del  ciel;  ma  torvo  ha  1  ciglio 
e  tempeste  nel  cor:  da  lui  men  fuggo 
sopra  il  rotante  mar;  costui  m'insegue».  440 

413.  £  probabile  che  questa  Craca  fosse  una  dell'isole  di  Setland.  Nel 
sesto  canto  hawi  una  storia  intorno  la  figlia  del  re  di  Craca  (C.)-  436.  So 
ra:  paese  della  Scandinavia  (C.). 


POESIE   DI    OSSIAN  •  FINGAL  157 

«  Statti  dietro  al  mio  scudo  e  posa  in  pace, 

raggio  amoroso;  fuggira  di  Sora 

il  fosco  re,  se  di  Fingallo  il  braccio 

rassomiglia  al  suo  cor:  potrei  celarti 

in  qualche  cupa  solitaria  grotta:  445 

ma  non  fugge  Fingallo  ove  tempesta 

d'aste  minaccia;  egli  Paffronta  e  ride.» 

Vidi  la  lagrimetta  in  su  le  guance 
della  belta:  m'intenerii.  Ma  tosto, 
come  da  lungi  formidabil  onda,  450 

del  tempestoso  Borbaro  la  nave 
minacciosa  appari;  dietro  alle  bianche 
vele  vedi  piegar  1'eccelse  antenne; 
fiedono  i  fianchi  con  le  bianche  spume 
Tonde  rotanti;  mormora  la  possa  455 

delPocean.  «  Lascia  il  muggir  del  mare, » 
io  dissi  a  lui  « calpestator  dei  flutti, 
e  vienne  alia  mia  sala;  essa  e  Palbergo 
degli  stranieri)).  Al  fianco  mio  si  stava 
la  donzelletta  palpitante;  'ei  Parco  460 

scocc6 ;  quella  cadeo.  « Ben  hai  del  paro 
infallibile  destra,  e  cor  villano» 
dissi;  e  pugnammo:  senza  sangue  e  leve 
non  fu  la  mortal  zuffa:  egli  pur  cadde; 
e  noi  ponemmo  in  due  tombe  di  pietra  465 

1'infelice  donzella  e  '1  crudo  amante. 

Tal  fui  negli  anni  giovenlli:  Oscarre, 
tu  la  vecchiezza  di  Fingallo  imita. 
Ma  non  andarne  di  battaglia  in  traccia, 
ne  la  sfuggir  giammai  quando  a  te  viene.  470 

Fillano  e  Oscarre  dalla  bruna  chioma, 
figli  del  corso,  or  via  pronti  volate 
sopra  la  piaggia,  ed  osservate  i  passi 


441.  Statti:  risponde  Fingal  (C.).  447-  Ma  egli  potea  non  fuggire  e  prov- 
veder  meglio  alia  salvezza  della  bella  (C.).  45 1.  Borbaro:  il  re  di  Sora, 
come  spiega  il  Cesarotti  nell'Indice  delFedizione  1772.  452-3.  dietro  .  .  . 
antenne:  i:  ccvolano  attorte  /  vele  di  neve  alle  sublimi  antenne ».  466.  Su 
questa  storia  e  sulle  moralita  che  seguono  vedi  Posservazione  (C.). 


158  MELCHIORRE    CESAROTTI 

dei  figli  di  Loclin;  sento  da  lungi 

il  trepido  rumor  della  lor  tema,  475 

simile  a  mar  che  bolle.  Itene,  ond'essi 

non  possano  sottrarsi  alia  mia  spada 

lungo  1'onde  del  Nord:  son  bassi  i  duci 

della  stirpe  d'Erina,  e  molti  eroi 

giaccion  sul  letto  squallido  di  morte.  —  480 

Volaro  i  due  campion,  come  due  nubi, 
negri  carri  delPombre,  allor  che  vanno 
gli  aerei  figli  a  spaventar  la  terra. 

Fecesi  innanzi  allor  Gaulo,  il  vivace 
figlio  di  Morni,  e  si  piant6  qual  rupe.  485 

Splendea  Tasta  alle  stelle:  alzo  la  voce 
pari  al  suon  di  piu  rivi :  —  O  generoso 
delle  conche  signor,  figlio  di  guerra, 
fa'  che  '1  cantor  con  1'arpa  al  sonno  alletti 
d'Erina  i  stanchi  figli.  E  tu,  Fingallo,  49° 

lascia  per  poco  omai  posar  sul  fianco 
la  tua  spada  di  morte,  e  alle  tue  schiere 
permetti  di  pugnar:  noi  qui  senz'opra 
stiamci  struggendo  inonorati  e  lenti; 
poiche  tu  sol,  tu  spezzator  di  scudi  495 

sei  solo,  e  sol  fai  tutto,  e  tutto  sei. 
Quando  il  mattin  su  i  nostri  colli  albeggia, 
statti  in  disparte,  le  prodezze  osserva 
de'  tuoi  guerrieri.  Di  Loclin  la  prole 
provi  di  Gaulo  la  tagliente  spada;  500 

onde  me  pur  cantino  i  vati,  e  chiaro 
voli  il  mio  nome  ancor:  tal  fu  '1  costume 
della  nobil  tua  stirpe,  e  tale  il  tuo. 

—  Figlio  di  Morni,  —  a  lui  Fingal  rispose 
—  gioisco  alia  tua  gloria:  e  ben,  combatti,  505 

prode  garzon,  ma  ti  fia  sempre  a  tergo 


478.  Sud,  Nord,  Est  e  Ovest  nella  mitologia  dei  Celti  danesi  erano  i 
nomi  di  quattro  nani,  che  sostenevano  la  volta  del  cielo  formata  dal  cranio 
del  gigante  Ymer.  Mallet,  Introd.  alia  stor.  di  Dan.  (C.).  485.  Morm: 
capo  d'una  tribu  che  per  lungo  tempo  disput6  la  premmenza  allo  stesso 
Fingal  (C.). 


POESIE    DI    OSSIAN   •    FINGAL 

la  lancia  mia,  per  arrecarti  aita 

quando  sia  d'uopo.  O  voi,  la  voce  alzate, 

figli  del  canto,  e  '1  placido  riposo 

chiamatemi  sul  ciglio.  lo  giacerommi  510 

tra  i  sibili  del  vento:  e  se  qui  presso, 

Aganadeca,  amabile  t'aggiri 

tra  i  figli  di  tua  terra,  o  se  t'assidi 

sopra  un  nembo  ventoso  in  fra  le  folte 

antenne  di  Loclin,  vientene,  o  bella,  515 

rallegra  i  sonni  miei,  vieni  e  fa'  mostra 

del  tuo  soave  rilucente  aspetto.  — 

Piu  d'una  voce  e  piu  d'un'arpa  sciolse 
armoniose  note.  Essi  cantaro 

le  gesta  di  Fingallo  e  dell'eccelsa  520 

stirpe  di  Selma;  e  nelFamabil  canto 
tratto  tratto  s'udia  sonar  con  lode 
dell'or  cosi  diverso  Ossian  il  nome. 

Ossian  dolente!  io  gia  pugnai,  gia  vinsi 
spesso  in  battaglia:  or  lagrimoso  e  cieco,  525 

squallido,  inconsolabile  passeggio 
coi  piccioli  mortali.  Ove,  Fingallo, 
o  padre,  ove  se'  tu?  piu  non  ti  veggo 
con  Feccelsa  tua  stirpe;  erran  pascendo 
cervetti  e  damme  in  su  la  verde  tomba  530 

del  regnator  di  Selma.  O  benedetta 
ranima  tua,  re  delle  spade,  altero 
esempio  degli  eroi,  luce  di  Cona! 


CANTO  IV* 


ARGOMENTO 

Ossian  riferisce  la  storia  de'  suoi  amori  giovanili  con  Evirallina 
madre  di  Oscar,  gia  morta,  e  le  sue  imprese  per  ottenerla  in  isposa. 
Dopo  questo  episodic,  introdotto  assai  felicemente,  ritorna  alPazion 
del  poema.  L'ombra  d'Evirallina  gli  apparisce,  e  gli  dice  che  Oscar, 
spedito  sul  far  della  notte  ad  osservar  il  nemico,  era  alle  mani  con  un 
corpo  di  truppe  avanzate  e  quasi  vicino  a  restar  vinto.  Ossian  accorre 
in  soccorso  di  suo  figlio;  e  si  da  1'awiso  a  Fingal,  che  Svarano  s'awi- 
cinava.  II  re  s'alza;  chiama  a  raccolta  la  sua  armata,  e  siccome  avea 
promesso  la  notte  antecedente,  ne  da  il  comando  a  Gaulo,  figlio  di 
Morni,  e  si  ritira  sopra  un  colle,  donde  scorgeva  tutto  il  combatti- 
mento.  La  mischia  s'attacca;  il  poeta  celebra  le  prodezze  di  Oscar. 
Ma  mentre  questi  unito  al  padre  vince  in  un'ala,  Gaulo,  assalito  da 
Svarano  in  persona,  era  sul  punto  di  ritirarsi  nell'altra.  Fingal  invia 
Ullino  suo  bardo  ad  incoraggiarlo  con  una  canzone  militare:  cio 
nullostante  Svarano  riman  superiore;  e  Gaulo  e  1'esercito  de'  Cale- 
doni  sono  costretti  a  cedere.  Fingal  scendendo  dalla  collina  riordina 
le  sue  genti.  Svarano  desiste  dall'inseguirle ;  s'impadronisce  d'una 
eminenza  ed  attende  che  Fingal  s'accostL  II  re  dopo  aver  animati  i 
soldati  da  gli  ordini  necessari,  e  rinnuova  il  combattimento.  Cucul- 
lino,  il  quale  insieme  con  Tamico  Connal  e  con  Carilo  s'era  ritirato 
nella  grotta  di  Tura,  udendo  il  romore,  sale  sulla  cima  del  monte  che 
dominava  il  campo  di  battaglia,  ove  vede  Fingal,  ch'era  alle  prese 
col  nemico.  Cucullino,  essendogli  impedito  di  andare  a  raggiunger 
Fingal  ch'era  per  ottenere  una  compiuta  vittoria,  manda  Carilo  a 
congratularsi  con  quest' eroe  del  suo  buon  successo. 

Chi  dal  monte  ne  vien,  bella  a  vedersi 

siccome  il  variato  arco  che  spunta 

di  sopra  il  Lena?  La  donzella  e  questa 


*  Questo  canto  puo  supporsi  che  mcominci  dopo  la  meta  della  terza  not 
te  (C.)-  1-3.  Chi  .  .  .  Lena?:  « Quae  est  ista  quae  ascendit  per  desertum ? » 
[«Chi  e  costei  che  sale  per  il  deserto?],  Cant.,  c.  3,  v.  6;  «Quae  est  ista 
quae  progreditur  quasi  aurora  consurgens?»  [«Chi  e  costei  che  avanza 
come  aurora  che  sorge? »,  Cant.],  c.  6,  v.  9  (C.).  i:  «Chi  dal  monte  ne  vien 
pari  al  piovoso  /  arco  del  Lena?».  3-5.  La  donzella  .  .  .  braccia:  Malvi- 
na,  sposa  di  Oscar,  figlio  di  Ossian.  Siccome  questo  canto  contiene  in 
gran  parte  le  prodezze  di  questo  giovine  eroe,  cosl  il  poeta  con  molta 
naturalezza  introduce  Malvina  che  viene  per  ascoltarle  (C.). 


POESIE    DI    OSSIAN  •  FINGAL  161 

dalla  voce  d'amor;  la  bella  figlia 

del  buon  Toscar,  dalle  tornite  braccia.  5 

Spesso  udisti  il  mio  canto,  e  spesso  hai  sparse 

lagrime  di  belta:  vieni  alle  pugne 

del  popol  tuo  ?  vieni  ad  udir  1'imprese 

del  tuo  diletto  Oscarre  ?  E  quando  mai 

cesseranno  i  miei  pianti  in  riva  al  Cona?  10 

Tutta  la  mia  fiorita  e  verde  etade 

pass6  tra  le  battaglie,  ed  or  tristezza 

i  cadenti  anni  miei  turba  ed  oscura. 

Vezzosa  figlia  dalla  man  di  neve, 
non  ero  io  gia  cosi  dolente  e  cieco,  15 

si  fosco,  abbandonato  allor  non  ero, 
quando  m'amo  la  vaga  Evirallina: 
Evirallina,  di  Gorman  possente 
dolce  amor,  bruna  il  crin,  Candida  il  petto. 
Mille  eroi  ne  fur  vaghi,  e  a  mille  eroi  20 

ella  niego  '1  suo  core :  eran  negletti 
i  figli  dell'acciar,  perch' Ossian  solo 
grazia  trovo  dinanzi  agli  occhi  suoi. 

Alle  nere  del  Lego  onde  n'andai, 
per  ottener  la  vaga  sposa.  Avea  25 

dodeci  meco  valorosi  figli 
delFacquosa  Albion.  Giungemmo  a  Brano, 
amico  dei  stranieri.  —  E  donde  —  ei  disse 
—  son  quest' arme  d'acciar?  Facil  conquista 
non  e  la  bella  vergine  che  tutti  30 

spregio  d'Erina  gli  occhi-azzurri  duci. 
Benedetto  sii  tu,  sangue  verace 
del  gran  Fingallo!  awenturata  sposa 
ben  e  colei  che  del  tuo  cor  fai  degna. 
Fossero  in  mia  balia  dodeci  figlie  35 

d'alta  belta,  che  tua  f6ra  la  scelta, 
o  figlio  della  fama.  —  Allora  aperse 


1 1.  6  un  verso  del  Petrarca,  Rime,  cccxv,  I.  17.  Evirallina:  figlia  di  Brano, 
signore  irlandese  (C.).  18.  Corman:  nobil  signore  irlandese,  diverse  da 
van  altri  di  questo  nome  (C.)- 


l62  MELCHIORRE   CESAROTTI 

la  stanza  della  vergine  romita, 

d'Evirallina.  A  queiramabil  vista, 

dentro  i  petti  d'acciar  corse  a  noi  tutti  40 

subita  gioia  e  ci  sorrise  al  core. 

Ma  sopra  noi  sul  colle  il  maestoso 
Cormano  apparve,  ed  un  drappel  de'  suoi 
traea  pronto  alia  pugna.  Otto  i  campioni 
eran  del  duce,  e  fiammeggiava  il  prato  45 

del  fulgor  di  lor  arrne.  Eravi  Cola, 
Durra  dalle  ferite  eravi,  e  Tago 
e  '1  possente  Toscarre  e  '1  trionfante 
Frestallo  e  Dairo  il  venturoso  e  Dala, 
rocca  di  guerra.  Scintillava  il  brando  5° 

di  Gorman  nella  destra,  e  del  guerriero 
lento  volgeasi  e  grazioso  il  guardo. 

D'Ossian  pur  otto  erano  i  duci:  Ullino 
figlio  di  guerra  tempestoso  e  Mullo 
dai  generosi  fatti  ed  il  leggiadro  55 

Selaca  e  Oglano  e  Piracondo  Cerda 
e  di  Dumarican  Tirto-vellute 
ciglia  di  morte.  Ove  te  lascio,  Ogarre, 
si  rinomato  sugli  arvenii  colli? 

Ogar  si  riscontro  testa  con  testa  60 

col  forte  Dala:  era  il  conflitto  un  turbo 
sollevator  della  marina  spuma. 
Ben  del  pugnale  rammentossi  Ogarre, 
arme  ad  esso  gradita;  egli  di  Dala 
nove  fiate  lo  piant6  nel  fianco.  65 

Cangi6  faccia  la  pugna:  io  sullo  scudo 
del  possente  Gorman  ruppi  tre  volte 
la  mia  lancia,  ei  la  sua.  Lasso,  infelice 


38.  vergine  romita:  espressione  accolta  dal  Foscolo  nel  famoso  episodio 
delle  Grazie.  49.  venturoso:  I  e  II:  « armisonante ».  68-71.  Lasso  ... 
fuggiro:  nella  prima  edizione  s'era  tradotto  cosi:  « Lasso,  infelice  /  giovi- 
netto  d'amore!  io  1'afferrai  /  gagliardamente,  e  lo  crollai  pei  crini  /  ben 
cinque  volte,  e  gli  recisi  il  capo.  /  Cadde  il  tronco  sanguigno:  i  suoi  fug- 
giro  ».  Cosi,  il  crollar  del  capo  sembrava  un  atto  necessario  per  uccidere  il 
rivale;  laddove  nel  testo  sembra  un  tratto  di  ferocia  gratuita,  che  non 


POESIE   DI    OSSIAN  •  FINGAL  163 

garzon  d'amore!  io  gli  recisi  il  capo, 
e  per  lo  ciuffo  il  sanguinoso  teschio        .  70 

crollai  ben  cinque  volte :  i  suoi  fuggiro. 
Oh  chi  m'avesse  allor  detto,  chi  detto 
m'avesse  allor,  vaga  donzella,  ch'io 
egro,  spossato,  abbandonato  e  cieco 
trarrei  la  vita,  avria  costui  dovuto  75 

usbergo  aver  ben  d'infrangibil  tempra, 
petto  di  scoglio  e  impareggiabil  braccio. 
Ma  gia  del  Lena  su  la  piaggia  oscura 
a  poco  a  poco  s'accheto  la  voce 
dell'arpe  e  dei  cantor.  Buffava  il  vento  80 

vario-stridente,  e  m'ondeggiava  intorno 
Tantica  quercia  con  tremanti  foglie. 
Erano  i  miei  pensier  d'Evirallina, 
d'Evirallina  mia,  quand'ella  in  tutta 
la  luce  di  beltade,  e  cogli  azzurri  85 

ocelli  pregni  di  lagrime,  m'apparve 
sopra  il  suo  nembo ;  e  in  fioca  voce :  —  Ah  sorgi, 
Ossian;  —  mi  disse—  il  figlio  mio  difendi, 
salvami  Oscar:  presso  la  rossa  quercia 
del  ruscello  di  Luba  egli  combatte  go 

coi  figli  di  Loclin.  —  Disse;  e  s'ascose 
nella  sua  nube.  Io  mi  vestii  Tusbergo, 
m'appoggiai  sulla  lancia;  uscii  sonante 
d'arme  il  petto  e  le  terga:  a  cantar  presi, 
qual  solea  ne'  perigli,  i  canti  antichi  95 

de'  valorosi  eroi.  Loclin  m'intese 
come  tuono  lontano;  essa  fuggio; 
inseguilla  mio  figlio.  Io  pur  da  lungi 
lo  richiamai:  —  Figlio,  —  diss'io  —  deh  riedi, 
riedi  sul  Lena,  ancor  ch'io  stiati  appresso,  100 


s'accorda  molto  colla  solita  umanita  di  Ossian,  n<§  colla  patetica  esclamazio 
ne  che  lo  precede  (C.)«  78.  II  poeta  ritorna  al  suo  soggetto  (C.).  96.  Lo 
clin  rrfintese:  Oscar  non  era  alle  mani  che  con  una  picciola  banda  di  nemici, 
che  andava  errando  senz'ordine.  Questa  dovette  credere  che  il  canto  di 
Ossian  fosse  il  segnale  della  battaglia,  e  che  Fingal  lo  seguitasse.  Un  .si 
mile  inganno  trovasi  nel  poema  intitolato  Latmo  (C.). 


164  MELCHIORRE    CESAROTTI 

e  cessa  d'inseguirli.  —  Egli  sen  venne, 

ed  agli  orecchi  miei  giunse  giocondo 

il  suon  delFarmi  sue.  —  Perche  —  diss'egli 

—  m'arrestasti  la  destra  ?  Avria  ben  tosto 

morte  d'intorno  ricoperto  il  tutto:  105 

che  oscuri,  formidabili,  Fillano 

e  il  figlio  tuo  fersi  ai  nemici  incontro, 

che  per  la  notte,  alle  sorprese  arnica, 

del  loro  campo  erano  a  guardia.  Alquanti 

le  nostre  spade  n'abbatter.  —  Ma  come  no 

spingono  i  negri  venti  onda  dopo  onda 

cola  di  Mora  su  le  bianche  arene, 

tal  Tun  Taltro  incalzandosi  i  nemici 

inondano  sul  Lena:  ombre  notturne 

stridon  da  lungi,  ed  aggirarsi  io  vidi  us 

le  meteor  e  di  morte:  il  re  di  Selma 

corrasi  a  risvegliar,  1'eccelso  eroe 

sfidator  di  perigli,  il  sol  raggiante 

dissipator  di  bellicosi  nembi. 

Erasi  appunto  allor  da  un  sogno  desto  120 

Fingallo,  e  sullo  scudo  erto  si  stava, 
lo  scudo  di  Tremmor,  famoso  arnese 
de'  padri  suoi:  nel  suo  riposo  avea 
veduta  il  padre  mio  la  mesta  forma 
d'Aganadeca;  ella  venia  dal  mare  125 

e  sola  e  lenta  si  movea  sul  Lena. 
Faccia  avea  ella  pallida  qual  nebbia, 
guancia  fosca  di  lagrime:  piii  volte 
trasse  Pazzurra  man  fuor  delle  vesti, 
vesti  ordite  di  nubi,  e  la  distese  130 

accennando  a  Fingallo,  e  volse  altrove 
i  taciturni  sguardi.  —  E  perche  piangi, 
figlia  di  Starno  ?  —  domando  Fingallo 
con  un  sospiro  —  a  che  pallida  e  muta, 
bell'ospite  dei  nembi?  —  Ella  ad  un  tratto  135 


108-9.  che  •  -  •  guardia:  il  testo:  «essi  vegliavano  i  terrori  della  notte »  (C.). 
i:  «n6  gia  senza  lor  danno  essi  aspettaro  /  i  due  spaventi  della  notte ». 


POESIE   DI    OSSIAN  •  FINGAL  165 

sparve  col  vento,  e  lo  lascio  pensoso. 

Piangeva  il  popol  suo,  che  sotto  il  brando 

del  re  di  Selma  era  a  cader  vicino. 

L'eroe  svegliossi,  e  pieni  ancor  di  quella 

avea  gli  occhi  e  la  mente.  Ode  appressarsi  140 

d'Oscarre  i  passi,  e  n'adocchi6  lo  scudo, 

che  incominciava  un  deboletto  raggio 

via  via  d'Ullina  a  tremolar  sulPonda. 

—  Che  fa  '1  nemico  fra  i  terrori  involto  ?  — 
richiese  il  re  —  fugge  sul  mare,  o  attende  145 

la  novella  battaglia?  A  che  tel  chiedo? 
Non  odo  io  gia  la  voce  lor  che  suona 
sul  vento  del  mattin?  Vattene,  Oscarre; 
desta  gli  amici.  —  II  re  s'alzo ;  piantossi 
presso  il  sasso  di  Luba,  e  in  tuon  tremendo  150 

ben  tre  volte  rugghio :  balzaro  i  cervi 
dalle  fonti  di  Cromla,  e  tremar  tutte 
le  rupi  e  i  monti.  Come  cento  alpestri 
rivi,  sboccando  con  mugghianti  spume, 
si  confondon  tra  lor;  come  piu  nubi  155 

s'ammassano  in  tempesta  e  alia  serena 
faccia  del  ciel  fan  velo ;  in  cotal  guisa 
si  ragunaro  del  deserto  i  figli 
del  lor  signore  alia  terribil  voce: 
terribile  ai  nemici,  a'  suoi  guerrieri  160 


143.  onda:  i:  «onde».  150.  in  tuon  tremendo:  Ossian  da  sempre  a'  suoi  eroi 
un  tuono  straordinario  di  voce ;  e  ne  parla  come  d'una  qualita  assai  comune. 
Troviamo  lo  stesso  anche  in  vari  luoghi  d'Omero.  II  modo  pero  con  cui 
si  esprime  Ossian  dee  parere  a'  tempi  nostri  oltremodo  iperbolico  e  stra- 
vagante.  Ma  egli  dovea  ben  sapere  meglio  di  noi  di  chi  parlava;  e  si  sa- 
rebbe  reso  ridicolo  a*  suoi  nazionali,  s'egli  avesse  attribuita  loro  una  qua 
lita  smentita  dall'esperienza  e  npugnante  alia  natura.  Questa  voce  formi- 
dabile  dovea  convenirsi  alia  vasta  corporatura  d'uomini  nati  in  quei  climi, 
in  quei  secoli,  e  con  una  educazione  rozza  e  selvaggia.  L'autore  della  vita 
di  Tamas  Koulikan  ci  assicura  che  la  sua  voce  era  straordinariamente  al- 
ta  e  forte,  di  modo  che  sovente,  senza  far  alcuno  sforzo  per  inalzarla, 
faceva  intender  i  suoi  ordini  a  piu  di  300  piedi  di  distanza.  Che  sarebbe 
poi  stato,  s'egli  avesse  voluto  spingerla  quanto  piu  alto  poteva,  per  ispirar 
ardor  militare,  o  per  metter  terror  nei  nemici  ?  (C.).  1 60.  terribile  ai  nemici : 
questo  emistichio  s'e  aggiunto:  il  testo  dopo  la  terribil  voce  segue:  «perche 


l66  MELCHIORRE    CESAROTTI 

grata  e  gioconda;  perche  spesso  ei  seco 
li  condusse  alia  pugna,  e  dalla  pugna 
carchi  tornar  di  gloriose  spoglie. 

—  Su  su,  —  diss'egli  —  alia  zuffa,  alia  morte, 
figli  della  tempesta:  a  risguardarvi  165 

starassi  il  vostro  re.  Sopra  quel  colle 
balenera  *1  mio  brando,  e  sara  scudo 
del  popol  mio ;  ma  non  awenga,  amici, 
che  n'abbiate  mai  d'uopo,  or  che  di  Morni 
per  me  combatte  il  valoroso  figlio.  170 

Egli  fia  vostro  duce,  onde  il  suo  nome 
sorger  possa  nel  canto.  O  voi  scendete, 
ombre  dej  morti  duci,  ombre  dei  nembi 
correggitrici,  i  miei  guerrier  cadenti 
accogliete  cortesi,  e  i  vostri  colli  175 

sien  lor  d'albergo :  oh  possan  quei  su  Tale 
del  nembo  rapidissimo  del  Lena 
per  Taereo  sender  varcar  sublimi 
i  flutti  de'  miei  mari,  e  al  mio  riposo 
cheti  venirne,  ed  allegrar  sovente  180 

con  la  piacevol  vista  i  sogni  miei. 

Fillano,  Oscarre  dalla  bruna  chioma, 
e  tu  Rino  gentil,  fate,  o  miei  figli, 
d'esser  forti  in  battaglia:  i  vostri  sguardi 
stien  fisi  in  Gaulo,  ond'emularne  i  fatti.  185 

Brando  a  brando  non  ceda,  o  braccio  a  braccio ; 
si  gareggi  in  valor :  del  padre  vostro 
proteggete  gli  amici,  e  stienvi  in  mente 
gli  antichi  duci.  Se  cader  sul  Lena 
doveste  ancor,  non  paventate,  o  figli,  190 

vi  rivedr6:  di  cava  nube  in  seno 
le  nostre  fredde  e  pallid'ombre  in  breve 
s'incontreranno,  o  figli;  e  andrern  volando 
spirti  indivisi  a  ragionar  sul  Cona.  — 

Simile  a  nube  tempestosa,  orlata  195 

piacevole  era  la  voce  del  re  ai  guerrieri  della  sua  terra »;  il  che  senza  la 
nostra  aggiunta  avrebbe  un'apparenza  di  contradizione  (C.).  165.  figli 
della  tempesta:  cioe,  «abitatori  di  monti  soggetti  a  tempeste»  (C.). 


POESIE    DI    OSSIAN  -    FINGAL  167 

di  rosseggiante  folgore  del  cielo, 

che  in  occidente  dal  mattin  s'avanza, 

il  re  s'allontan6.  Funesto  vampo 

esce  dalFarrni  sue;  nella  man  forte 

crolla  due  lance;  la  canuta  chioma  200 

giu  cade  al  vento;  tre  cantor  van  dietro 

al  figlio  della  fama,  a  portar  pronti 

i  suoi  cenni  agli  eroi.  Sull'erto  fianco 

di  Cromla  ei  si  poso,  volgendo  a  cerchio 

il  balen  dell'acciar.  Lieti  alia  pugna  205 

movemmo  intanto.  Sfavillo  sul  volto 

d'  Oscar  la  gioia:  vivida  vermiglia 

era  la  guancia  sua;  spargono  gli  occhi 

lagrime  di  piacer:  raggio  di  foco 

sembra  la  spada  nella  destra:  ei  venne;  210 

e  con  gentil  sorriso  in  cotai  detti 

ad  Ossian  favello :  —  Sir  delle  pugne, 

ascolta  il  figlio  tuo:  scostati,  o  padre, 

segui  Feroe  di  Selma,  e  la  tua  fama 

lasciala  intera  a  me.  Ma  s'io  qui  cado,  215 

rammentati,  o  signor,  quel  sen  di  neve, 

quel  grazioso  solitario  raggio 

deH'amor  mio,  la  tenera  Malvina 

dalla  Candida  man.  Parmi  vederla 

curva  sul  rivo  risguardar  dal  monte  220 

con  la  guancia  infocata;  e  i  lisci  crini 

sferzanle  il  sen,  che  per  Oscar  sospira. 

Tu  la  conforta,  e  di*  ch'io  son  gia  fatto 

dei  venti  albergator,  che  ad  incontrarmi 

venga,  mentre  io  pe'  colli  miei  sul  nembo  225 

m'affretto  a  ri vederla. —  Oscar,  che  dici? 

A  me  piuttosto,  a  me  la  tomba  inalza. 

No,  non  cedo  la  pugna:  il  braccio  mio 

piu  sanguinoso  e  piu  di  guerra  esperto 

tutta  di  gloria  t'aprira  le  strade.  230 

Ma  ben  tu,  figliuol  mio,  s'awien  ch'io  caggia, 

questa  spada,  quest' arco,  e  questo  corno 

rammenta  di  riporre  entro  Fangusta 


l68  MELCHIORRE    CESAROTTI 

scura  magion;  fa'  che  una  bigia  pietra 

1'additi  al  passeggero:  alia  tua  cura  235 

alcun  amor  non  accomando,  o  figlio, 

che  piu  non  e  la  vaga  Evirallina, 

la  madre  tua.  —  Cosi  parlammo ;  e  intanto 

crebbe  sul  vento  e  piu  e  piu  gonfiossi 

Talta  voce  di  Gaulo ;  ei  la  paterna  240 

spada  rotando  con  furor  si  spinse 

alia  strage,  alia  morte.  Appunto  come 

candido-gorgogliante  onda  colmeggia 

e  scoglio  assale;  e  come  scoglio  immoto 

Porrid'urto  sostien,  cosi  i  guerrieri  245 

assalir,  resistero:  acciar  si  frange 

contro  acciaro,  uom  contr'uom;  suonano  scudi, 

cadono  eroi.  Quai  cento  braccia  e  cento 

della  fornace  sul  rovente  figlio, 

cosi  s'alzano,  piombano,  martellano  250 

le  loro  spade :  orrido  in  Arven  turbo 

Gaulo  rassembra;  in  sul  suo  brando  siede 

distruzion  d'eroi:  parea  Svarano 

foco  devastator.  Come  poss'io 

dar  tanti  nomi,  e  tante  morti  al  canto  ?  255 

D'Ossian  pur  anco  fiammeggi6  la  spada 

nel  sanguigno  conflitto:  e  tu  pur  anco 

terribil  fosti,  Oscarre,  o  de'  miei  figli 

il  maggiore,  il  miglior.  Nel  suo  segreto 

gioiami  il  cor,  quand'io  scorgea  '1  tuo  brando          260 

arder  sul  petto  dei  nemici  ancisi. 

Essi  fuggiro  sbaragliati,  e  noi 

inseguimmo,  uccidemmo:  e  come  pietre 

235.  cura:  cosi  la  n;  1'edizione  1801  ha  «cara»,  ma  si  tratta  evidente- 
mente  di  errore  di  stampa.  249.  della.. .  figlio:  il  ferro  rovente.  251.  or 
rido  .  .  .  turbo :  «  Dominus  turbo  confringens  »  [« II  Signore  .  .  .  turbine 
devastatore »],  Is.,  c.  28,  v.  2;  « quasi  vastitas  a  Domino  veniet»  [«verra 
come  la  devastazione  mandata  dal  Signore,  Isai.],  c.  13,  v.  6  (C.).  258-9.  de* 
miei .  .  .maggiore:  da  questo  luogo  apparisce  che  Ossian  ebbe  altri  figli, 
oltre  Oscar,  ma  in  tutte  queste  poesie  non  se  ne  trova  fatta  menzione 
o  cenno  di  sorta.  Convien  dire  che  sieno  morti  in  et£  assai  tenera,  giac- 
che"  il  poeta  da  a  divedere  in  piu  d'un  luogo  che  nella  morte  di  Oscar 
venne  a  perire  tutta  la  discendenza  di  Fingal  (C.). 


POESIE   DI    OSSIAN  -  FINGAL  169 

van  saltellon  di  balza  in  balza,  o  come 

scuri,  di  quercia  in  quercia,  in  bosco  annoso  265 

erran,  colpi  alternando;  o  come  tuono 

di  rupe  in  rupe  si  rimbalza  in  rotti 

spaventosi  rimbombi:  in  cotal  guisa 

colpo  a  colpo  succede,  e  morte  a  morte 

dalla  spada  d'Oscarre  e  dalla  mia.  270 

Ma  gia  Svaran  Gaulo  circonda,  e  freme 
qual  corsia  d'Inistor,  Fingallo  il  vede, 
vedelo,  e  gia  gia  s'alza  e  gia  gia  Pasta 
solleva.  —  Ullin,  va',  mio  cantore,  —  ei  disse 
—  vattene  a  Gaulo,  e  gli  rammenta  i  fatti  275 

de'  padri  suoi;  la  disugual  contesa 
col  tuo  canto  sostien:  rawiva  il  canto 
e  rinfranca  gli  eroi.  —  Mossesi  Ullino, 
venne  a  Gaulo  dinanzi  e  '1  canto  sciolse 
infiammator  dei  generosi  cori:  280 

—  Combatti,  combatti, 

distruggi,  abbatti, 

figlio  del  sir  dei  rapidi  destrieri, 

fior  dej  guerrieri. 

Pugna,  pugna,  o  braccio  forte,  285 

in  fatica  aspra  ed  estrema; 

sir  d'acute  arme  di  morte, 

duro  cor  che  mai  non  trema. 
Figlio  di  guerra, 

atterra,  atterra,  290 

fa'  che  piu  Candida 

vela  non  tremoli 

sulPonde  d'Inistor. 
Alza  scudo  orrendo  qual  nembo, 

che  di  morte  ha  gravido  il  grembo;  295 


272.  corsia:  corrente.  281.  La  canzone  di  Ullino  anche  neH'onginale  dif- 
ferisce  dal  restante  del  poema  nella  versificazione.  II  costume  d'incorag- 
giare  gli  uomini  in  battaglia  con  versi  composti  sul  fatto,  s'e  quasi  con- 
servato  sino  ai  giorni  nostri.  Esistono  varie  di  queste  canzoni  militari; 
ma  la  maggior  parte  non  e  che  un  gruppo  d'epiteti,  senza  alcun  poetico 
merito  (M.). 


170  MELCHIORRE   CESAROTTI 

il  tuo  brando  -  baleni  rotando 

qual  sanguigno  notturno  vapor. 
II  tuo  braccio  sia  tuono  sul  campo; 

sia  Pocchio  di  lampo, 

di  scoglio  sia  *1  cor.  300 

Combatti,  combatti, 

distruggi,  abbatti; 

figlio  del  sir  dei  rapidi  destrieri, 

doma  gli  alteri.  — 

Gaulo  awampa  a  tai  note;  il  cor  gli  balza;          3°5 
fassi  di  se  maggior.  Ma  Svaran  cresce, 
e  soverchia  il  garzon:  fende  in  due  parti 
lo  scudo  a  Gaulo;  del  deserto  i  figli 
sbigottiti  fuggiro.  Allor  Fingallo 
nella  possanza  sua  sorse,  e  tre  volte  310 

la  voce  sollev6.  Cromla  rispose 
al  forte  tuono;  s'arrestaro  a  un  punto 
del  deserto  i  guerrier;  piegaro  a  terra 
rinfocate  lor  facce,  e  a  quella  voce 
di  se  stessi  arrossiro.  Egli  sen  venne,  315 

come  in  giorno  di  sol  piovosa  nube 
move  sul  colle  tenebrosa  e  lenta: 
stan  muti  i  campi  ad  aspettar  la  pioggia. 
Vide  Svaran  da  lungi  il  formidato 
signor  di  Selma,  ed  arrestossi  a  mezzo  320 

del  corso  suo.  Fosche  aggrott6  le  ciglia; 
alia  lancia  s'attenne,  e  i  rosseggianti 
occhi  intorno  rivolse.  Ei  muto  e  grande, 
quercia  parea  sopra  il  ruscel  di  Luba, 
cui  gia  rapida  folgore  del  cielo  325 

Iasci6  brulla  di  foglie  e  incotta  i  rami: 
quella  pende  sul  rio,  sibila  il  musco. 


305.  Gaulo  . . .  balza:  nel  testo  non  vi  sono  che  queste  parole:  «il  cuor  del- 
1'eroe  batte  alto»  (C.).  306-7.  Ma  Svaran  .  .  .  garzon:  qui  pure  1'espres- 
sione  delPoriginale  e  debole:  «ma  Svaran  venne  colla  battaglia».  In  am- 
bedue  quest!  luoghi  il  traduttore  voile  far  sentir  di  piii  e  I'efTetto  del  canto 
d'Ullino  sopra  Gaulo,  e  lo  sforzo  maggior  di  Svarano  per  soprafTarlo  (C.). 
319.  formidato :  temuto.  326.  incotta  i  rami:  con  i  rami  bruciati. 


POESIE   DI    OSSIAN  -  FINGAL  171 

Tal  si  stava  Svarano:  ei  lento  lento 

si  ritiro  sopra  il  ciglion  del  Lena: 

1'accerchiano  i  suoi  mille;  e  sopra  il  colle  330 

s'addensa  il  buio  delPorribil  zuffa. 

Ma  in  mezzo  al  popol  suo  splendea  qual  raggio 
Fingallo;  e  tutti  intorno  a  lui  festosi 
s'accolgono  i  suoi  duci.  Alza  la  voce 
del  suo  poter:  —  Su  su,  miei  fidi,  ergete  335 

tutti  i  stendardi  miei:  spieghinsi  al  vento 
sulla  piaggia  del  Lena,  e  vibrin  come 
fiamme  su  cento  colli:  essi  ondeggiando 
s'odano  alPaure  sibilar  d'Erina, 

e  guerriera  armonia  spirinci  in  petto.  340 

Qua  qua,  figli,  compagni:  al  vostro  duce 
fatevi  appresso,  e  della  sua  possanza 
le  parole  ascoltate.  O  Gaulo,  invitto 
braccio  di  morte,  o  generoso  Oscarre 
dai  futuri  conflitti,  o  delle  spade  345 

figlio  Conallo,  o  bruno  il  crin  Dermino, 
o  tu  re  della  fama,  Ossian,  dei  canti 
alto  signer;  voi  le  vestigia  e  '1  corso 
seguite,  o  figli,  del  paterno  braccio; 
imitatelo,  o  prodi.  —  Alzammo  il  raggio  350 

solar  della  battaglia,  il  luminoso 
regio  stendardo,  e  lo  seguian  volando 
gli  spirti  nostri.  Sventolava  altero 
quello  per  Faere,  ori-lucente  e  tutto 
gemmi-distinto,  qual  la  vasta  azzurra  355 

stellata  conca  del  notturno  cielo. 
Avea  pur  ciascun  duce  il  suo  vessillo ; 


341.  figli:  1'originale:  « figli  di  mugghianti  ruscelli,  che  scaturiscono  da 
mille  colli »  (C.)-  346.  Conallo:  questo  non  e  1'amico  di  Cucullino,  ma  un 
celebre  guerriero  scozzese,  figlio  di  Ducaro,  di  cui  le  imprese  e  la  morte 
vengono  riferite  nel  poema  di  Temora,  canto  3  (C.);  Dermino:  Dermid, 
figlio  di  Dutno,  di  cui  pure  molto  si  park  nello  stesso  poema  (C.)-  350-1.  «7 
raggio  solar:  lo  stendardo  di  Fingal  distinguevasi  col  nome  di  « raggio 
solare»;  probabilmente  dallo  splendor  che  mandava,  per  esser  coperto 
d'oro.  « Inalzar  il  raggio  solare »  nelle  antiche  poesie  significa  il  dar  prin- 
cipio  alia  battaglia  (M.). 


172  MELCHIORRE   CESAROTTI 

ciascun  vessillo  i  suoi  guerrier.  —  Mirate,  — 

disse  il  prence  ospital  —  mirate  come 

Loclin  sul  Lena  si  divide  e  parte.  360 

Stanno  i  nemici  somiglianti  a  rotte 

nubi  sul  colle,  o  a  mezzo  arso  e  sfrondato 

bosco  di  querce,  quando  il  ciel  traspare 

fra  ramo  e  ramo,  ed  il  vapor  trasvola. 

Amici  di  Fingal,  ciascun  di  voi  365 

scelga  una  banda  di  color  che  stanno 

minacciosi  lassuso;  e  non  si  lasci 

che  alcun  nemico  dei  sonanti  boschi 

sull'onde  d'Inist6r  ricovri  e  fugga. 

—  E  ben,  —  Gaulo  grid6  —  miei  fieno  i  sette        370 
duci  del  Lano.  —  D'Inistorre  il  fosco 
sovrano  —  Oscar  grido  —  vengane  al  brando 
del  figlio  d'Ossian.  —  Venga  al  mio  —  soggiunse 
Conallo,  alma  d'acciaro  —  il  bellicoso 
sir  d'Iniscona.  —  O  '1  re  di  Muda  od  io  375 

oggi  per  certo  dormirem  sotterra  — 
disse  Dermino.  Ossian,  bench'or  si  fiacco 
e  si  dolente,  di  Terman  s'elesse 
1'atroce  re:  —  Non  torner6  —  gridai 

—  senza  il  suo  scudo.  —  O  generosi,  o  forti,  —         380 
disse  Fingal  col  suo  sereno  sguardo 

—  sia  vittoria  con  voi.  Tu  re  delPonde, 
Svaran,  la  scelta  di  Fingal  tu  sei.  — 

Disse;  e  quai  cento  vari  venti  in  cento 
diverse  valli  a  imperversar  sen  vanno,  385 

cosi  divisi  noi  movemmo ;  e  Cromla 
scossesi  e  n'echeggi6.  Cotante  morti 
chi  pu6  narrar  ?  Bella  di  Toscar  figlia, 
le  nostre  destre  eran  di  sangue,  e  folte 
cadder  le  squadre  di  Loclin,  quai  ripe  390 

traportate  dal  Cona:  alle  nostr'armi 
tenne  dietro  vittoria:  ognun  dei  duci 
la  promessa  adempie.  Spesso,  o  donzella, 

368.  nemico  .  .  .  boschi:  cioe,  nemico  deH'Irlanda  (C.).     388.  Bella  ..  .fi 
glia:  Malvina, 


POESIE   DI    OSSIAN  -  FINGAL  173 

sedesti  in  riva  al  mormorevol  Brano, 

mentre  il  bianco  tuo  seno  alternamente  395 

s'alzava  all'alternar  de'  bei  respiri, 

qual  piuma  candidissima  gentile 

di  liscio  cigno,  che  soave  e  lento 

veleggia  per  la  liquida  laguna, 

qualor  di  fianco  una  scherzosa  auretta  400 

con  dolce  sferza  la  sommuove  e  sparge. 

Spesso,  o  bella,  sedesti;  e  spesso  hai  visto 

dietro  una  nube  rimpiattarsi  il  sole 

lento,  infocato,  e  notte  rammassarsi 

d'intorno  al  monte,  e  'I  variabil  vento  405 

romoreggiar  per  le  ristrette  valli. 

Cade  alfin  pioggia  grandinosa:  il  tuono 

rotola,  ulula;  il  fulmine  scoscende 

gli  erti  dirupi;  sui  focosi  raggi 

van  cavalcando  orridi  spettri;  e  in  basso  4» 

rovesciasi  precipitosa  e  torba 

Turlante  possa  de'  torrenti  alpini. 

Tal  della  pugna  era  il  fragor.  Malvina, 

perche  piangi,  perche?  Piangan  piuttosto 


394-7.  al  mormorevol .  .  .  gentile:  i:  «al  mormorio  del  Brano  /  mentre  dolce 
cresceva  il  morbidetto  /  tuo  bianco  sen,  qual  candidissima  ala ».  400- 
i .  qualor  .  .  .  sparge :  I :  «  se  '1  vago  veleggiar  Paura  seconda  ».  412.  A  questa 
insigne  descrizione  pu6  paragonarsi  la  seguente  di  Virgilio  nelle  Georgiche, 
1.  i,  v.  322-[34] :  «  Saepe  etiam  immensum  coelo  venit  agmen  aquarum,  / 
et  foedam  glomerant  tempestatem.  imbribus  atris  /  collectae  ex  alto  nubes ; 
ruit  arduus  aether,  / .  .  .  /  cum  sonitu  fervetque  fretis  spumantibus  aequor.  / 
Ipse  pater,  media  nimborum  in  nocte,  corusca  /  fulmina  molitur  dextra; 
quo  maxima  motu  /  terra  tremit,  fugere  ferae  et  mortalia  corda  /  per  gentes 
humilis  stravit  pavor.  Ille  flagranti  /  aut  Athon,  aut  Rhodopen,  aut  alta 
Ceraunia  telo  /  deicit;  ingeminant  Austri  et  densissimus  imber:  /  mine  ne- 
mora  ingenti  vento,  mine  litora  plangunt»  [« Spesso  anche  si  forma  nel 
cielo  una  massa  immensa  di  acque,  e  le  nubi  raccoltesi  dall'alto  mare 
addensano  una  paurosa  tempesta  con  oscuri  rovesci;  1'alto  cielo  rovina 
con  gran  rumore,  e  ribolle  il  mare  di  gorghi  spumeggianti.  Giove  stesso 
in  mezzo  alia  notte  dei  nembi  scaglia  con  la  destra  fulmini  fiammeggianti  ; 
e  a  quel  movimento  tutta  Pimmensa  terra  trema,  fuggono  le  fiere,  e  di 
gente  in  gente  una  paura  tremenda  abbatte  i  cuori  mortali.  Egli  col  dardo 
folgorante  abbatte  o  TAthos  o  il  Rodope  o  gli  Acrocerauni;  raddoppiano 
gli  Austri  e  i  densissimi  rovesci;  ora  i  boschi  ora  i  lidi  gemono  percossi 
dal  vento  impetuoso»],  C. 


174  MELCHIORRE   CESAROTTI 

le  figlie  di  Loclin,  che  n'han  ben  donde.  415 

Cadde  di  lor  contrada  il  popol,  cadde, 

perche  di  sangue  si  pasceano  i  brandi 

della  stirpe  de'  miei.  Lasso!  infelice! 

qual  fui!  qual  sono!  abbandonato  e  cieco, 

non  piu  compagno  degli  eroi  passeggio,  420 

piu  quelPOssian  non  sono.  A  me,  donzella, 

quelle  lagrime  a  me,  ch'io  con  quest'occhi 

di  tutti  i  cari  miei  vidi  le  tombe. 

Nella  confusa  mischia  il  re  trafisse 
guerriero  ignoto.  Ei  la  canuta  chioma  425 

per  la  polve  traendo,  i  languid'occhi 
ver  lui  solleva.  II  rawis6  Fingallo, 
ed:  — •  Ahi,  —  grido  —  tu  di  mia  man  cadesti, 
d'Aganadeca  amico  ?  io  pur  ti  vidi 
gli  occhi  molli  di  lagrime  alia  morte  430 

deiramata  donzella,  entro  le  stanze 
di  quel  padre  crudel:  tu  de'  nemici 
delFamor  mio  fosti  nemico,  ed  ora 
cadi  per  la  mia  mano  ?  Ullin,  la  tomba 
ergi  all'estinto,  ed  il  suo  nome  aggiungi  435 

d'Aganadeca  alia  canzon  dolente. 
Addio,  donzella  dell'arvenie  valli 
abitatrice,  a  questo  cor  si  cara.  — 

Giunse  all'orecchio  a  Cucullin  nel  cupo 
speco  di  Cromla  lo  scompiglio  e  '1  tuono  440 

della  turbata  pugna:  a  se  Conallo 
e  Carilo  chiam6.  L'udiro  i  duci, 
presero  Taste:  ei  della  grotta  uscio, 
e  a  mirar  s'affacci6.  Veder  gli  parve 
faccia  di  mar  rimescolato  e  smosso  445 

dal  cupo  fondo,  che  flagella  e  assorbe 
con  bollenti  onde  1'arenoso  lito. 
A  cotal  vista  Cucullino  a  un  punto 
s'infiammb,  s'oscurb:  la  mano  al  brando, 
1'occhio  corre  al  nemico:  egli  tre  volte  450 


425.  guerriero  ,  .  .chioma;  i:  « ignoto  eroe.  Quei  la  canuta  chioma ». 


POESIE   DI    OSSIAN  •  FINGAL  175 

si  scagli6  per  pugnar,  tre  Io  rattenne 

Conal.  —  Che  fai,  sir  di  Dunscaglia  ?  —  ei  disse 

—  Fingallo  e  vincitor;  gia  tutto  ei  strugge, 

tutto  conquide  ei  sol;  non  cercar  parte 

nella  fama  del  re,  ch'e  tardi  e  vano.  455 

—  E  ben,  —  quei  ripiglio  —  Carilo,  vanne 
al  re  di  Selma,  e  poiche  spento  in  tutto 
sia  il  rumor  della  pugna,  e  che  dispersa 
fugga  Loclin,  qual  dopo  pioggia  un  rivo, 
seco  t'allegra;  il  tuo  soave  canto  46o 

gli  lusinghi  Porecchio;  inalza  al  cielo 
Tinvincibile  eroe.  Carilo,  prendi, 
reca  a  Fingal  questa  famosa  spada, 
la  spada  di  Cabar,  che  d'inalzarla 
non  e  la  man  di  Cucullin  piu  degna.  465 

Ma  voi  del  muto  Cromla  ombre  romite, 
spirti  d'eroi  che  piu  non  son,  voi  soli 
siate  oggimai  di  Cucullin  compagni; 
voi  venitene  a  lui  dentro  la  grotta 
del  suo  dolor:  piu  tra'  possenti  in  terra  470 

nomato  io  non  sar6;  brillai  qual  raggio, 
e  qual  raggio  passai;  nebbia  son  io, 
che  dileguossi  alPapparir  del  vento 
rischiarator  delFoffuscato  colle. 

Conal,  Conal,  non  mi  parlar  piu  d'armi;  475 

gia  svani  la  mia  gloria:  i  miei  sospiri 
di  Cromla  i  venti  accresceran,  sintanto 
che  i  miei  vestigi  solitari  e  muti 
cessino  d'esser  visti.  E  tu,  Bragela, 
piangi  la  fama  mia,  piangi  me  stesso :  480 

tu  piu  non  mi  vedrai;  raggio  amoroso, 
non  mi  vedrai,  non  ti  vedr6;  son  vinto. 


477-  gloria:  I  e  11:  «fama». 


CANTO  V* 


ARGOMENTO 

Continua  la  battaglia.  Fingal  e  Svarano  s'azzuffano.  Svarano  e  vinto 
e  dato  come  prigioniero  in  custodia  ad  Ossian  e  Gaulo.  Fingal,  i  suoi 
pifr  giovani  figliuoli  ed  Oscar  inseguiscono  gli  avanzi  deH'armata 
nemica,  S'introduce  Tepisodio  d'Orla,  uno  dei  capitani  di  Loclin, 
ch'era  stato  mortalmente  ferito  nella  battaglia.  Fingal,  commosso 
dalla  morte  di  Orla,  comanda  che  si  cessi  dall'inseguire  il  nemico; 
e  chiamando  a  se  i  suoi  figliuoli,  viene  informato  che  Rino,  il  piti  gio- 
vine  di  essi,  era  stato  ucciso.  Compiange  la  sua  morte,  ode  la  storia 
di  Landergo  e  di  Gelcossa,  e  torna  verso  il  luogo  ove  avea  lasciato 
Svarano.  In  questo  mezzo  Carilo,  ch'era  stato  inviato  da  Cucullino 
a  congratularsi  con  Fingal  della  sua  vittoria,  si  trattiene  con  Ossian. 
La  conversazione  di  questi  due  cantori  termina  1'azione  del  quarto 
giomo. 

Al  generoso  reggitor  del  carro 
Conal  si  volse,  e  con  soavi  detti 
preselo  a  confortar:  —  Figlio  di  Semo, 
perche  ti  lasci  alia  tristezza  in  preda? 
Son.  nostri  amici  i  forti,  e  rinomato  5 

se'  tu,  guerrier:  molte  le  morti  e  molte 
gia  fur  del  braccio  tuo;  spesso  Bragela 
con  ceruleo-giranti  occhi  di  gioia 
il  suo  sposo  incontro,  mentr'ei  tornava 
cinto  dai  valorosi,  in  mezzo  ai  canti  10 

dei  festosi  cantori,  e  rosseggiante 
avea  il  brando  di  strage;  e  i  suoi  nemici 
giacean  sul  campo  della  tomba  esangui. 
Datti  conforto,  e  '1  re  di  Morven  meco 
statti  lieto  a  mirar.  Ve'  com'ei  passa  15 

qual  colonna  di  foco,  e  tutto  incende! 
qual  vigor!  qual  furor!  non  par  di  Luba 
la  correntia?  non  par  di  Cromla  il  vento 
schiantator  di  ramose  alte  foreste  ? 
Awenturato  popolo  felice,  20 


*  Continua  la  quarta  giornata  (C.).     20.  Priamo,  presso  Omero,  [//.],  c.  3, 
v.  328  [182-3],  alia  vista  delParmata  greca  fa  un'esclamazione  simile  e 


POESIE    DI    OSSIAN  •   FINGAL 


177 


Fingallo,  e  '1  tuo!  tu  gli  sei  fregio  e  schermo! 

Tu  prime  in  guerra,  e  tu  nei  di  di  pace 

in  consiglio  il  maggior.  Tu  parli,  e  mille 

s'afTrettano  a  ubbidir:  ti  mostri,  e  innanzi 

ti  cadono  gli  eroi.  Popol  felice!  25 

popolo  di  Fingal,  d'invidia  degno! 

Chi  e,  chi  e,  figlio  di  Semo,  osserva. 
Chi  e  costui  si  tenebroso  in  vista, 
che  tonando  ne  vien?  Questo  e  1'altero 
figlio  di  Starno.  Oh!  con  Fingal  s'affronta:  3o 

stiamo  a  veder.  Par  d'ocean  tempesta 
mossa  da  due  cozzanti  aerei  spirti, 
che  van  delFonde  a  disputar  1'impero: 
trema  dal  colle  il  cacciator,  che  scorge 
ergersi  il  fiotto  e  torreggiargli  a  fronte.  —  35 

Si  Conallo  par!6,  quando  a  scontrarsi 
in  mezzo  al  loro  popolo  cadente 
corsero  i  due  campion.  Questa  e  battaglia, 
questo  e  fragor:  qui  ciascun  urto  e  turbo, 
ciascun  colpo  e  tempesta:  orrore  e  morte  40 

spirano  i  sguardi.  Ecco  spezzati  scudi, 
smagliati  usberghi  e  sminuzzati  elmetti 
balzan  fischiando :  ambi  i  guerrieri  a  terra 
gettano  Farmi,  e  con  raccolta  possa 
vannosi  ad  afferrar.  Serransi  intorno  45 

le  noderose,  nerborute  braccia. 
Si  stirano,  si  scrollano,  s'intrecciano 
sotto  e  sopra  in  piu  gruppi  alternamente 
le  muscolose  membra:  ai  forti  crolli, 
alPalta  impronta  dei  tallon  robusti,  50 

scoppian  le  pietre,  e  dalle  nicchie  alpestri 
sferransi  i  duri  massi,  e  van  sossopra 
rovesciati  cespugli.  Alfin  la  possa 
a  Svaran  manca;  egli  e  di  nodi  awinto. 


diversa.  Egli  chiama  felice  Agamennone  a  cagion  del  suo  popolo:  qui 
Conallo,  con  piu  ragione,  chiama  felice  il  popolo  a  cagion  del  suo  re  (C.). 
45-53-  Serransi .  .  .  cespugli:  puo  paragonarsi  questa  lotta  a  quella  d'Aia- 
ce  e  d'Ulisse:  [Omero],  77. ,  c.  23,  v.  810  [710  sgg.],  C. 


178  MELCHIORRE    CESAROTTI 

Cosi  sul  Cona  gia  vid'io  (ma  Cona  55 

non  veggo  piu),  cosi  vid'io  due  sconci 
petrosi  scogli  trabalzati  e  svelti 
dall'orrid'urto  di  scoppiante  piena; 
volvonsi  quei  da  un  lato  alPaltro,  e  vanno 
ad  intralciarsi  le  lor  querce  antiche  60 

colle  ramose  cime;  indi  cozzando 
piombano  assieme,  e  si  strascinan  dietro 
sterpi  e  cespi  ammontati,  e  pietre  e  piante: 
svolvonsi  i  rivi,  e  da  lontan  si  scorge 
il  vuoto  abisso  della  gran  rovina.  65 

—  Figli,  —  grid6  Fingal  —  tosto  accorrete, 
statevi  a  guardia  di  Svaran,  che  in  forza 
ben  pareggia  i  suoi  flutti:  e  la  sua  destra 
mastra  di  pugna;  egli  e  verace  germe 
di  schiatta  antica.  O  tra'  miei  duci  il  primo,  7° 

Gaulo,  e  tu  re  dei  canti,  Ossian  possente, 
aHJamico  e  fratel  d'Aganadeca 
siate  compagni,  e  gli  cangiate  in  gioia 
il  suo  dolor:  ma  voi  Fillano,  Oscarre, 
Rino,  figli  del  corso,  i  pochi  avanzi  75 

di  Loclin  disperdete,  onde  nemica 
nave  non  sia  che  saltellare  ardisca 
sull'onde  d'Inist6r.  —  Simili  a  lampo 
volaron  essi.  Ei  campeggi6  sul  Lena 
posatamente,  come  nube  estiva  80 

lento-tonante  per  lo  ciel  passeggia: 
tace  sott'essa  la  cocente  piaggia. 
Vibra  il  raggiante  suo  brando,  cui  dietro 
striscia  spavento.  Egli  da  lungi  adocchia 
un  guerrier  di  Loclin:  ver  lui  s'awia,  85 

e  cosi  park:  —  E  chi  vegg'io  li  presso 
alia  pietra  del  rio?  Tenta,  ma  indarno, 
di  var carlo  d'un  salto:  agli  atti,  al  volto 
sembra  eroe  d'alto  affar;  pendegli  a  fianco 
il  curvo  scudo,  ed  ha  lung'asta  in  mano.  90 

Giovine  eroe,  di',  chi  se'  tu?  rispondi, 

56.  sconci\  enormi.     75.  figli  del  corso:  abili  nella  corsa. 


POESIE   DI    OSSIAN  •  FINGAL  179 

sej  tu  nemico  di  Fingallo  ?  —  lo  sono 

un  figlio  di  Loclin,  di  forte  braccio. 

La  sposa  mia  nella  magion  paterna 

stassi  piangendo,  e  mi  richiama:  invano;  95 

Orla  non  tornera.  —  Combatti  o  cedi  ?  — 

disse  Talto  Fingallo.  —  I  miei  nemici 

lieti  non  son;  ma  ben  famosi  e  chiari 

sono  gli  amici  miei.  Figlio  dell'onda, 

seguimi  alia  mia  festa:  i  miei  cervetti  100 

vientene  ad  inseguir.  —  No,  no,  —  rispose 

—  ai  deboli  io  soccorro ;  e  la  mia  destra 
schermo  dej  fiacchi.  Paragon  non  ebbe 
mai  la  mia  spada.  II  re  di  Morven  ceda. 

—  Garzon,  Fingal  non  cede.  Impugna  il  brando,    105 
e  t'eleggi  un  nemico:  i  miei  campioni 
son  molti  e  forti.  —  E  la  tenzon  ricusi  ?  — 
grido  '1  guerriero.  —  Orla  e  di  Fingal  degno ; 
e  degno  e  Fingal  d'Orla,  e  Fingal  solo. 
Ma  se  cader  degg'io,  die  pur  un  giorno  no 

cade  ogni  prode,  odimi,  o  re,  la  tomba 
alzami  in  mezzo  al  campo,  e  fas  che  sia 
la  maggior  di  tutt'altre:  e  giii  per  Fonda 
manda  il  mio  brando  alia  diletta  sposa, 
onde  mesta  il  ricovri,  e  lagrimando  115 

lo  mostri  al  figlio,  ed  a  pugnar  Pinfiammi. 

—  Giovine  sventurato,  a  che  con  questi 
funesti  detti  a  lagrimar  m'invogli  ?  — 

disse  Fingallo.  —  6  ver  pur  troppo!  il  prode 

deve  un  giorno  cader,  debbono  i  figli  120 

vederne  1'armi  inutili  e  sospese. 

Pur  ti  conforta:  io  t'alzero  la  tomba, 

Orla,  non  dubitarne;  e  la  tua  sposa 


96.  La  storia  di  Orla  nelP originate  e  cosi  bella  e  patetica  che  molti  del  nord 
della  Scozia  la  sanno  a  memoria,  benche  non  abbiano  mai  udita  una  sillaba 
del  restante  del  poema  (M.).  118.  a  lagrimar  m'invogli:  cfr.  Tasso,  Ger. 
lib.j  xii,  66:  «gli  occhi  a  lagrimar  gli  invoglia  e  sforza».  122.  io  .  .  .  tomba: 
s'intende:  s'egli  e  pur  destin  che  tu  muoia.  Fingal  era  ben  lungi  dal  pen- 
siero  d'ucciderlo  (C.)« 


l8o  MELCHIORRE  CESAROTTI 

avra  '1  tuo  ferro,  e  il  bagnera  di  pianto.  — 

Presero  essi  a  pugnar,  ma  '1  braccio  <TOrla          125 
fiacco  fu  contro  il  re:  scese  la  spada 
del  gran  Fingallo,  e  in  due  parti  lo  scudo. 
Cadde  quegli  rovescio;  sopra  Fonda 
Parme  riverberar,  come  talvolta 
sopra  notturno  rio  riflessa  luna.  130 

—  Re  di  Morven,  —  diss'ei  —  solleva  il  brando, 
passami  il  petto:  qui  ferito  e  stanco 

dalla  battaglia  i  fuggitivi  amici 

m'abbandonaro :  giungera  ben  tosto 

lungo  le  sponde  delPacquosa  Loda  135 

alFamor  mio  la  lagrimosa  istoria; 

mentre  romita  e  muta  erra  nel  bosco, 

e  tra  le  foglie  il  venticel  susurra. 

—  Orla,  ch'io  ti  ferisca  ?  ah  non  fia  vero :  — 

disse  Fingal  —  lascia,  guerrier,  che  in  riva  140 

del  patrio  Loda,  dalle  man  di  guerra 

sfuggito  e  salvo,  con  piacer  t'incontri 

Paffannoso  amor  tuo;  lascia  che  '1  padre 

canuto,  e  forse  per  Feta  gia  cieco, 

senta  da  lungi  il  calpestio  gradito  145 

de'  piedi  tuoi:  lascia  che  lieto  ei  sorga, 

e  brancolando  con  la  man  ricerchi 

il  figlio  suo.  —  Nol  rinverra  giammai : 

io  vo'  morir  sul  Lena;  estrani  vati 

canteranno  il  mio  nome:  un'ampia  fascia  150 

copremi  in  petto  una  mortal  ferita; 

ecco  io  la  squarcio  e  la  disperdo  al  vento.  — 

Sgorg6  dal  fianco  il  nero  sangue;  ei  manca, 
ei  more;  e  sopra  lui  pietosamente 
Fingal  si  curva;  indi  i  suoi  duci  appella:  155 

—  Oscar,  Fillan,  miei  figli:  alzisi  tosto 
la  tomba  ad  Orla:  ei  posera  sul  Lena, 
lungi  dal  grato  mormorio  del  Loda, 


125-6.  ma  ...  re:  Orla,  come  si  vede  piu  sotto,  era  gia  ferito  gravemente,  e 
sembra  che  non  abbia  provocato  Fingal  se  non  affine  d'aver  la  gloria  di 
morir  per  mano  di  quell'eroe  (C.)« 


POESIE   DI    OSSIAN  -  FINGAL  l8l 

lungi  dalla  sua  sposa:  un  giorno  i  fiacchi 

vedranno  1'arco  alle  sue  sale  appeso,  160 

ma  non  potran  piegarlo:  tirlano  i  cani 

sopra  i  suoi  colli,  esultano  le  belve 

ch'ei  soleva  inseguir:  caduto  e  '1  braccio 

della  battaglia,  il  fior  dei  forti  e  basso. 

Squilli  il  corno,  miei  figli,  alzate  il  grido,  165 

torniamcene  a  Svaran;  tra  feste  e  canti 

passi  la  notte.  0  voi  Fillano,  Oscarre, 

Rino,  volate;  ove  se'  tu  mio  Rino, 

Rino  di  fama  giovinetto  figlio  ? 

Pur  giammai  tu  non  fosti  a  correr  tardo  170 

al  suon  del  padre  tuo.  —  Rino  —  rispose 

Pantico  Ullin  —  de'  padri  suoi  sta  presso 

le  venerande  forme;  egli  passeggia 

con  Tratal,  re  dei  scudi,  e  con  Tremmorre 

dai  forti  fatti:  il  giovinetto  e  basso,  175 

smorto  ei  giace  sul  Lena.  —  E  cadde  adunque,  — 

grido  Fingal  —  cadde  il  mio  Rino  ?  il  primo 

a  piegar  1'arco,  il  piu  veloce  in  corso  ? 

Misero!  al  padre  i  primi  saggi  appena 

davi  del  tuo  valor:  perche  cadesti  180 

si  giovinetto  ?  Ah  dolcemente  almeno 

posa  sul  Lena:  in  breve  spazio,  o  figlio, 

ti  rivedr6:  si  spegnera  ben  tosto 

la  voce  mia;  de'  passi  miei  sul  campo 

svaniran  Forme:  canteranno  i  vati  185 

di  me  soltanto,  e  parleran  le  pietre. 

Ma  tu,  Rino  gentil,  basso  per  certo, 

basso  se*  tu:  tu  la  tua  fama  ancora 

non  ricevesti.  Ullin  ricerca  Farpa, 

parla  di  Rino,  e  di'  qual  duce  un  giorno  190 


171-3.  Rino  .  .  .forme:  la  risposta  d'Ullino  ricorda  quella  del  messo,  ap- 
presso  Ctesia,  alia  madre  di  Giro:  «Ciro  dov'e?  -  Ove  esser  debbono  i  va- 
lorosi»  (C.).  179-80.  al  padre.  .  .valor:  Poriginale:  « appena  eri  tu  da 
me  conosciuto  ».  Parmi  che  queste  parole  non  possano  aver  altro  senso  che 
quello  ch'io  loro  ho  dato  (C.).  188-9.  l°>  tua  fama  •  •  •  ricevesti:  cioe:  tu 
non  hai  ancora  ricevuti  gli  elogi  che  i  cantori  sogliono  fare  agli  eroi:  tu 
non  hai  ancora  fatto  imprese  degne  d' esser  celebrate  coi  canti  (C.)- 


l82  MELCHIORRE   CESAROTTI 

f6ra  stato  il  garzone.  Addio,  tu  primo 
in  ogni  campo:  il  giovenil  tuo  dardo 
piii  non  godr6  di  regolare.  O  Rino, 
o  gia  si  bello,  ah  tu  sparisti:  addio.  — 

Scorgevasi  la  lagrima  sospesa  195 

sulle  ciglia  del  re :  pensa  del  figlio 
al  crescente  valor;  figlio  di  speme! 
Pareva  un  raggio  di  notturno  foco, 
che  gia  spunta  sul  colle;  al  fischio,  al  corso, 
piegan  le  selve:  il  peregrin  ne  trema.  200 

—  In  quell'oscura  verdeggiante  tomba  — 
riprese  il  re  —  chi  mai  sen  giace  ?  lo  scorgo 
quattro  pietre  muscose,  indizio  certo 
della  magion  di  morte.  Ivi  riposi 

anche  il  mio  Rino,  e  sia  compagno  al  forte.  205 

Forse  e  cola  qualche  famoso  duce, 

che  con  mio  figlio  volera  su  i  nembi. 

Ullin,  rianda  le  memorie  antiche, 

sciogli  il  tuo  canto,  e  ci  rammenta  i  fatti 

degli  abitanti  della  tomba  oscuri.  210 

Se  nel  campo  dei  ford  essi  giammai 

non  fuggir  dai  perigli,  il  figlio  mio, 

benche  lungi  da1  suoi,  sul  Lena  erboso 

riposera  tranquillo  ai  prodi  accanto. 

—  In  questa  tomba—  incomincio  la  dolce  215 
bocca  del  canto  —  il  gran  Landergo  e  muto 

e  Jl  fero  Ullin.  Chi  e  costei,  che  dolce 
sorridendo  da  un  nembo,  a  me  fa  mostra 


196-7. pensa.  .  .speme:  nell' originate :  «perche  terribile  era  suo  figlio  in 
guerra » ;  espressioni  che  sembrano  contradire  a  cio  che  Fingal  disse  di  so- 
pra  intorno  a  Rino.  L'emistichio  figlio  di  speme  e  1'epiteto  di  crescente  dato 
al  valore  sono  awertenze  del  traduttore  per  levar  la  contradizione  (C  ). 
201-2.  In  quelVoscura . . .  giace?:  nelPoriginale :  «la  fama  di  chi  e  in  quell'o 
scura  verdeggiante  tomba? » (C.).  208.  Fingal  non  avea  bisogno  di  ricor- 
rere  ad  Ullino  per  sapere  che  quello  era  il  sepolcro  di  Landergo.  II  poeta  s'e 
lasciato  sfuggir  di  mente  che  Fingal,  nel  canto  3  [w.  286-9],  ordina  a* 
suoi  figli  di  salir  sulla  tomba  di  Landergo,  per  indi  sfidar  a  battaglia 
Svarano(C.);  nanda:  ripercorri.  217.  Ulhn:  si  tratta  evidentemente  di 
un  altro  Ullino,  diverse  dal  cantore  dello  stesso  nome. 


POESIE    DI    OSSIAN  -  FINGAL  183 

del  suo  volto  d'amor?  Figlia  di  Tutla, 

0  prima  tra  le  vergini  di  Cromla,  220 
perche"  pallida  sei?  dormi  tu  forse 

fra  i  due  forti  rivali  in  queste  pietre? 

Bella  Gelcossa,  tu  Pamor  di  mille 
fosti  vivendo,  ma"  Landergo  solo 
fu  Tamor  tuo :  ver  le  muscose  ei  venne  225 

torri  di  Selma;  e  '1  suo  concavo  scudo 
picchiando,  favel!6:  «Dov'e  Gelcossa, 
dolce  mia  cura?  lo  la  lasciai  pocanzi 
nella  sala  di  Selma,  allor  che  andai 
a  battagliar  contro  1'oscuro  Ulfadda.  230 

"Riedi  tosto,"  diss'ella  "o  mio  Landergo, 
ch'io  resto  nel  dolore".  Ed  umidetta 
avea  la  guancia  e  sospiroso  il  labbro. 
Ma  or  non  la  riveggio :  a  che  non  viene 
ad  incontrarmi  e  a  raddolcirmi  il  core  235 

dopo  la  pugna?  Tacito  e  1'albergo 
della  mia  gioia:  in  sull'amata  soglia 
Brano  non  veggo,  il  fido  can,  che  crolli 
le  sue  catene  e  mi  festeggi  intorno. 
Ov'e  Gelcossa?  ov'£  '1  mio  amor?».  « Landergo, »    240 
Ferchio  rispose  «ella  sara  sul  Cromla: 
ella  con  le  sue  vergini  dell'arco 

1  cervi  inseguira».  « Ferchio,))  riprese 

di  Cromla  il  sire  «alcun  romor  non  fiede 
Porecchio  mio,  taccion  del  Lena  i  boschi;  245 

non  e  cervo  che  fugga;  ah  ch'io  non  veggo 
la  mia  Gelcossa,  ella  spari:  Gelcossa 


222.  fra  i  due  for  ti  rivah:  i:  «fra  '1  nemico  e  ljamante».  226.  Selma:  que- 
sto  non  e  il  palagio  di  Fingal  nella  Scozia:  ma  dovrebbe  essere  un  luogo  sul 
monte  di  Cromla,  ove  fosse  1'abitazione  di  Tuathal,  padre  di  Gelcossa. 
Conviene  far  molta  attenzione  ai  nomi  di  queste  poesie,  alcuni  dei  quali  ap- 
partengono  spesso  a  luoghi  e  a  persone  diverse  (C.)-  238.  Brano:  Bran  e 
un  nome  che  fino  al  giorno  d'oggi  continua  a  darsi  ai  cani  levrieri.  Si  co- 
stuma  nel  nord  della  Scozia  d'imporre  ai  cani  i  nomi  degli  eroi  celebrati  in 
questo  poema.  Ci6  prova  che  sono  familiari  aH'orecchio,  e  noti  general- 
mente  a  tutti  (M.).  241.  sul  Cromla:  cioe,  in  altra  parte  del  Cromla  (C.)- 
242.  vergini  deWarco :  cacciatrici  (C.). 


184  MELCHIORRE  CESAROTTI 

bella  qual  luna  che  pian  pian  s'asconde 

dietro  i  gioghi  di  Cromla.  O  Ferchio,  vanne 

a  quel  canuto  figlio  della  mpe,  250 

al  venerabil  Allado :  ei  soggiorna 

nel  cerchio  delle  pietre,  ei  di  Gelcossa 

avra  novelle».  And6  d'Adone  il  figlio, 

ed  all'orecchio  dell'eta  si  fece: 

«Allado,  abitator  della  spelonca,  255 

tu  che  tremi  cosi,  di',  che  vedesti 
cogli  antichi  occhi  tuoi?».  «Vidi»  rispose 
aUllino,  il  figlio  di  Cairba;  ei  venne 
come  nube  dal  Cromla,  alto  intonando 
disdegnosa  canzon,  siccome  il  vento  260 

entro  un  bosco  sfrondato.  Ei  nella  sala 
entr6  di  Selma:  "Esci,"  grido  "Landergo, 
terribile  guerriero,  escine;  o  cedi 
a  me  Gelcossa,  o  con  Ullin  combatti". 
"Landergo  non  e  qui;"  rispose  allora  265 

Gelcossa  "ei  pugna  contro  Ulfadda:  o  duce, 
ei  non  e  qui,  ma  che  percio?  Landergo 
non  fia  che  ceda,  egli  non  cesse  ancora; 
combattera".  "Se*  pur  vezzosa  e  bella/' 
disse  1'atroce  Ullin  "figlia  di  Tutla.  270 

lo  ti  guido  a  Cairba,  e  del  piii  forte 
sara  Gelcossa;  io  restero  sul  Cromla 
tre  di  la  pugna  ad  aspettar;  se  fugge 
Landergo,  il  quarto  di  Gelcossa  e  mia"». 

«Allado,  or  basta,»  ripiglio  Landergo  275 

«sia  pace  a'  sonni  tuoi.  Suona  il  mio  corno, 


251.  Allado  e  certamente  un  druido.  Vien  chia.ma.to  figlio  della  rupe,  per- 
che  abitava  in  una  grotta ;  e  il  cerchio  delle  pietre  e  la  circonf erenza  del  tem- 
pio  de'  druidi.  Vien  egli  qui  consultato  com'uno  che  si  credeva  che  avesse 
una  cognizione  soprannaturale  delle  cose.  Non  v'ha  dubbio  che  non  sia 
venuta  dai  druidi  la  ridicola  opinione  della  seconda  vista,  che  prevale 
nella  Scozia  e  nell'isole  (M.).  253.  d'Adone  il  figlio:  Ferchio,  figlio 
di  Aidon  (C.).  254-  all'orecchio  dell'eta:  all'orecchio  senile  (C.).  256.  che 
vedesti:  cosi  spesso  si  legge  appresso  i  Profeti:  «Quid  vides?»  Anzi  nel 
medesimo  senso  i  Profeti  stessi  appresso  gli  Ebrei  erano  chiamati  «veg- 
genti»(C.)-  271.  a  Cairba:  a  suo  padre,  perche"  stesse  come  in  custo- 
dia  (C.). 


POESIE    DI    OSSIAN  •  FINGAL  185 

Ferchio,  si  ch'oda  Ullino».  E  si  dicendo, 
sali  sul  colle  in  torbido  sembiante 
dalla  parte  di  Selma:  a  cantar  prese 
bellicosa  canzone,  in  tuon  d'un  rivo  280 

d'alto  cadente.  Alfin  del  monte  in  cima 
egli  si  stette;  volse  intorno  il  guardo, 
qual  nube  suol  che  al  variar  del  vento 
varia  d'aspetto:  roto!6  una  pietra, 
segno  di  guerra.  II  fero  Ullin  Fudio  285 

dalla  sala  paterna,  udi  giulivo 
il  suo  nemico,  ed  impugno  la  spada 
de'  padri  suoi.  Mentr'ei  la  cinge  al  fianco, 
illumino  quel  tenebroso  aspetto 

un  sorriso  di  gioia:  il  pugnal  brilla  290 

nella  sua  destra;  ei  s'avanzo  fischiando. 
Vide  Gelcossa  il  sir  torbido  e  muto, 
che  qual  lista  di  nebbia  iva  poggiando 
f erocemente :  si  percote  il  seno 

candido  palpitante,  e  lagrimosa  295 

trema  per  Famor  suo.  «  Cairba  antico, » 
disse  la  bella  «a  piegar  Farco  io  volo, 
veggo  i  cervetti».  Frettolosa  il  colle 
sali,  ma  indarno ;  gFinfiammati  duci 
gia  tra  lor  combatteano.  Al  re  di  Morven  300 

io  narrer6  come  pugnar  sien  usi 
crucciati  eroi?  Cadde  il  feroce  Ullino. 
Venne  Landergo  pallido  anelante 
alia  donzella  dalla  liscia  chioma, 
alia  figlia  di  Tutla.  «  Dime  che  sangue,  305 

che  sangue  e  quello»  ella  grido  «che  scorre 
sul  fianco  all' amor  mio  ? ».  «  Sangue  d'Ullino, » 
disse  Landergo  «o  piu  Candida  e  fresca 
della  neve  di  Cromla:  o  mia  Gelcossa, 
lascia  ch'io  mi  riposi».  Ei  siede,  e  spira.  3*0 

301-2.  io  .  .  .  eroi?:  I:  «perche  deggio  narrar  come  pugnaro  /  gFirati  eroi? » 
310.  Ci6  viene  a  dire  che  Landergo  era  stato  anch'egli  ferito  mortalraente 
da  Ullino.  II  poeta  1'avea  dissimulato  per  sorprendere  e  colpir  con  piu  for- 
za,  com'e  solito  costume  di  Ossian  (C.). 


l86  MELCHIORRE    CESAROTTI 

ccCosi  cadi,  o  mio  ben?»  Stette  tre  giorni 

lagrimandogli  appresso:  i  cacciatori 

la  trovar  morta;  e  su  i  tre  corpi  estinti 

ersero  questa  tomba.  O  re,  tuo  figlio 

pu6  qui  posar,  che  con  eroi  riposa.  315 

—  E  qui  riposera:  gli  orecchi  miei 
spesso  feri  della  lor  fama  il  suono  — 
disse  1'alto  Fingal.  —  Fillan,  Fergusto, 
Orla  qua  mi  s'arrechi,  il  valoroso 
garzon  del  Loda;  ei  giacera  con  Rino,  32° 

coppia  ben  degna:  sopra  entrambi  il  pianto 
voi,  donzelle  di  Selma,  e  voi  di  Loda, 
sciogliete,  o  figlie:  ambi  crescean  a  prova 
come  vivaci  rigogliose  piante; 

e  come  piante  or  li  giaccion  prostesi,  325 

che  sul  ruscel  riverse,  al  sole,  al  vento 
tutto  il  vitale  umor  lasciano  in  preda. 
Oscarre,  onor  di  gioventu,  tu  vedi 
come  cadder  da  forti.  A  par  di  questi 
fa'  tu  d'esser  famoso,  e  sii  com'essi  330 

subietto  dei  cantor:  menavan  vampo 
essi  in  battaglia,  ma  nei  di  di  pace 
faccia  avea  Rino  placida  ridente, 
simile  al  variato  arco  del  cielo 

dopo  dirotta  pioggia,  allor  che  spunta  335 

gaio  sull'onde,  e  d'altra  parte  il  sole 
puro  tramonta,  e  la  collina  e  cheta. 
Statti  in  pace,  o  bel  Rino,  o  di  mia  stirpe, 
Rino,  il  minor:  ti  seguiremo,  o  figlio; 
che  tosto  o  tardi  han  da  cadere  i  prodi.  —  340 

Tal  fu  la  doglia  tua,  signor  dei  colli, 
quando  giacque  il  tuo  Rino.  E  qual  fia  dunque 
d'Ossian  la  doglia,  or  che  tu  giaci,  o  padre? 
Ah  ch'io  non  odo  la  tua  voce  in  Cona, 


311.  Cosi...  ben?:  parole  di  Gelcossa  (C.)-  313.  la  trovar  morta:  le  storie 
di  Ossian  sono  quasi  tutte  tragiche.  Si  scorge  sin  d'allora  il  genio  britannico 
per  gli  spettacoli  tetri  (C.).  321-3.  sopra  .  .  .  figlie :  questa  frase  manca  in  I. 
331.  menavan  vampo:  s'infiammavano. 


POESIE   DI    OSSIAN  •  FINGAL  187 

ah  die  piii  non  ti  veggo!  Oscuro  e  mesto  345 

talor  m'assido  alia  tua  tomb  a  accanto, 

e  vi  brancolo  sopra.  Udir  talvolta 

parmi  la  voce  tua,  lasso!  e  m'inganna 

il  vento  del  deserto.  £  lungo  tempo 

che  dormi,  o  padre;  e  ti  sospira  il  campo,  350 

alto  Fingal,  correggitor  di  guerra. 

Lungo  Perboso  Luba  Ossian  e  Gaulo 
sedean  presso  a  Svarano.  lo  toccai  Tarpa 
per  allegrare  il  cor  del  re,  ma  tetro 
era  il  suo  ciglio;  ad  ogn'istante  al  Lena  355 

girava  il  bieco  rosseggiante  sguardo; 
piangeva  il  popol  suo.  Gli  occhi  ver  Cromla 
anch'io  rivolsi,  e  riconobbi  il  figlio 
del  generoso  Semo.  Ei  tristo  e  lento 
si  ritrasse  dal  colle,  e  volse  i  passi  360 

alia  di  Tura  solitaria  grotta. 
Vide  Fingal  vittorioso,  e  in  mezzo 
della  sua  doglia  involontaria  gioia 
venne  a  mischiarsi.  Percoteva  il  sole 
sull'armi  sue:  Conal  tranquillo  e  cheto  365 

lo  venia  seguitando;  alfine  entrambi 
si  celar  dietro  il  colle,  appunto  come 
doppia  colonna  di  notturno  foco, 
via  via  spinta  dal  vento.  £  la  sua  grotta 
dietro  un  ruscel  di  mormorante  spuma  370 

entro  una  rupe;  un  albero  la  copre 
con  le  tremanti  foglie,  e  per  li  fianchi 
strepita  il  vento.  Ivi  riposa  il  figlio 
del  nobil  Semo;  i  suoi  pensier  son  fisi 
pur  nella  sua  sconfitta;  aride  strisce  375 

gli  segnano  la  guancia:  egli  sospira 
la  fama  sua,  che  gia  svanita  ei  crede 
come  nebbia  del  Cona.  O  sposa  amata, 
o  Bragela  gentil,  perche  si  lungi 


346.  talor  .  .  .  accanto:  cfr.  Leopardi,  La  vita  solitaria,  23:  « Talor  m'assido 
in  solitaria  parte».  347.  e  vi  brancolo  sopra:  cfr.  Foscolo,  Sepolcri,  281-2: 
« e  brancolando  /  penetrar  negli  avelli ». 


l88  MELCHIORRE   CESAROTTI 

se'  tu  da  lui,  che  serenar  potresti  380 

I'anima  delPeroe?  ma  lascia,  o  bella, 

che  sorga  luminosa  entro  il  suo  spirto 

I'amabile  tua  forma:  i  suoi  pensieri 

a  te  ritorneranno,  e  la  sua  doglia 

dileguerassi  al  tuo  sereno  aspetto.  385 

Chi  vien  coi  crini  dell'etade  ?  II  veggo, 
egli  e  '1  figlio  dei  canti.  lo  ti  saluto, 
Carilo  antico,  la  tua  voce  e  un'arpa 
nella  sala  di  Tura,  e  i  canti  tuoi 
son  grati  e  dolci,  come  pioggia  estiva  390 

la  nel  campo  del  sol.  —  Carilo  antico, 
ond'e  che  a  noi  ne  vieni  ?  —  Ossian,  —  diss'egli 
—  delle  spade  signor,  signor  dei  canti, 
tu  m'avanzi  d'assai.  Molt'e  che  noto 
a  Carilo  sei  tu:  piu  volte,  il  sai,  395 

nella  magion  del  generoso  Brano, 
dinanzi  alia  vezzosa  Evirallina 
ricercai  Parpa:  e  tu  piu  volte,  o  duce, 
le  mie  musiche  note  accompagnasti : 
e  talor  la  vezzosa  Evirallina  400 

tra  i  canti  del  suo  amor,  tra  i  canti  miei, 
mescea  la  soavissima  sua  voce. 
Un  giorno  ella  canto  del  giovinetto 
Gorman,  che  cadde  per  amarla:  io  vidi 
sulle  guance  di  lei,  sulle  sue  ciglia  405 

le  lagrime  pietose:  ella  commosso 
sentiasi  il  cor  dairinfelice  amante, 
bencb.6  pur  non  amato.  X)h  come  vaga, 
come  dolce  e  gentile  era  la  figlia 
del  generoso  Brano!  —  Ah  taci,  amico,  410 

non  rinnovar,  non  rinnovarmi  alPalma 
la  sua  memoria:  mi  si  strugge  il  core, 
e  gli  occhi  mi  ringorgano  di  pianto. 
II  diletto  amor  mio,  la  bella  sposa 
dal  soave  rossor,  Carilo,  e  spenta.  415 

386.  coi  crini  dell'etade:  coi  capelli  canuti  (C.)- 


POESIE    DI    OSSIAN  •   FINGAL  189 

Ma  tu  siedi,  o  cantore,  e  le  nostr'alme 
mold  col  canto  tuo,  dolce  ad  udirsi 
quanto  di  primavera  aura  gentile, 
che  nell'orecchio  al  cacciator  sospira, 
quand'ei  si  sveglia  da  gioioso  sogno,  420 

tra  '1  bel  concento  dei  notturni  spirti. 


CANTO  VI* 

ARGOMENTO 

Viene  la  notte.  Fingal  da  un  convito  alia  sua  armata,  al  quale 
Svarano  e  presente.  II  re  comanda  ad  Ullino  suo  bardo  di  cantare  una 
Canzone  di  pace,  costume  che  sempre  si  osserva  al  fine  d'una  guerra. 
Ullino  narra  le  imprese  di  Tremmor,  bisavolo  di  Fingal,  nella 
Scandinavia,  e  i  suoi  sponsali  con  Inibaca  sorella  del  re  di  Loclin, 
ch'era  un  antenato  di  Svarano.  Fingal  generosamente  rimette  Sva 
rano  in  liberta,  e  gli  permette  di  ritomare  col  rimanente  del  suo 
esercito  a  Loclin.  Fingal  dimanda  a  Carilo  nuove  di  Cucullino. 
Storia  di  Grumal.  Giunge  la  mattina.  Svarano  parte.  Fingal  va  alia 
caccia;  poscia  s'incammina  alia  volta  di  Cucullino.  Lo  ritrova  nella 
grotta  di  Tura;  lo  conforta,  e  lo  lascia  consolato.  II  giorno  dietro 
egli  fa  vela  per  la  Scozia,  con  che  si  chiude  il  poema. 

Precipitaro  i  nugoli  notturni 

e  si  posar  su  la  pendice  irsuta 

del  cupo  Cromla.  Sorgono  le  stelle 

sopra  Tonde  d'Ullina,  e  i  glauchi  lumi 

mostrano  fuor  per  la  volante  nebbia.  5 

Mugge  il  vento  lontano:  e  muta  e  fosca 

la  pianura  di  morte.  Ancor  gli  orecchi 

dolce  fiedea  rarmoniosa  voce 

del  buon  cantore.  Ei  celebro  i  compagni 

di  nostra  gioventude,  allor  che  prima  10 

noi  c'incontrammo  in  sull'erboso  Lego, 

e  la  conca  ospital  girava  intorno. 

Tutte  del  Cromla  le  nebbiose  cime 

risposero  al  suo  canto,  e  Tombre  antiche 

dej  celebrati  eroi  venner  sull'ale  15 

ratte  dei  nembi,  e  con  desio  fur  viste 

piegarsi  al  suon  delle  gradite  lodi. 

Benedetto  il  tuo  spirto  in  mezzo  ai  venti, 
Carilo  antico.  Oh  venistu  sovente 


*  Questo  canto  incomincia  dalla  quarta  notte,  e  termina  al  principio  del 
sesto  giorno  (C.).  19.  Ossian,  dalla  conversazione  avuta  allora  con  Carilo, 
passa  ora  a  pensar  airombra  di  quel  cantore  gia  morto,  e  parla  con  essa  del 
suo  stato  presente  (C.);  venistu:  venissi  tu. 


POESIE   DI    OSSIAN  •  FINGAL  191 

la  notte  a  me,  quando  soletto  io  poso.  20 

E  tu  ci  vieni,  amico:  odo  talvolta 

la  tua  maestra  man,  ch'agile  e  leve 

scorre  per  Parpa  alia  parete  appesa: 

ma  perche  non  favelli  alia  mia  doglia? 

perche  non  mi  conforti?  i  cari  miei  25 

quando  mi  fia  di  riveder  concesso  ? 

Tu  taci  e  parti;  e  '1  vento  che  t'e  scorta 

fischiami  in  mezzo  alia  canuta  chioma. 

Ma  dal  lato  di  Mora  intanto  i  duci 
s'adunano  al  convito.  Ardon  nell'aria  30 

cento  querce  ramose,  e  gira  intorno 
il  vigor  delle  conche.  I  duci  in  volto 
splendon  di  gioia:  sol  pensoso  e  muto 
stassi  il  re  di  Loclin;  siedongli  insieme 
ira  e  dolor  sull'orgogliosa  fronte.  35 

Guata  il  Lena,  e  sospira:  ha  ferma  in  mente 
la  sua  caduta.  Sul  paterno  scudo 
stava  chino  Fingallo:  egli  la  doglia 
osservo  di  Svarano,  e  cosi  disse 
al  primo  de'  cantori :  —  Ullino,  inalza  40 

il  canto  della  pace,  e  raddolcisci 
i  bellicosi  spirti,  onde  Torecchio 
ponga  in  oblio  lo  strepito  delParmi. 
Sien  cento  arpe  dappresso,  e  infondan  gioia 
nel  petto  di  Svaran.  Tranquillo  io  voglio  45 

che  da  me  parta:  alcun  non  fu  per  anco 
che  da  Fingal  mesto  partisse.  Oscarre, 
contro  gli  audaci  e  valorosi  in  guerra 
balena  il  brando  mio:  se  cedon  questi, 
pacatamente  mi  riposa  al  fianco.  50 

—  Visse  Tremmorre,  —  incomincio  dei  canti 
la  dolce  bocca—  e  per  le  nordiche  onde 


32.  II  vigor  delle  conche  significa  il  liquor  che  beveano  i  guerrieri  scozzesi: 
ma  di  qual  sorta  egli  si  fosse  non  e  facile  il  determinarlo.  Vedi  il  Ragiona- 
mento  preliminare  intorno  i  Caledoni  (C.)-  Cfr.  Opere,  II,  p.  65.  34-5.  sie 
dongli  .  .  .fronte:  Toriginale:  «la  tnstezza  rosseggia  negli  occhi  del  di  lui 
orgoglio»  (C.). 


192  MELCHIORRE    CESAROTTI 

di  tempeste  e  di  venti  err6  compagno. 

La  scoscesa  Loclin  coi  mormoranti 

suoi  boschi  apparve  al  peregrine  eroe  55 

tra  le  sue  nebbie:  egli  abbasso  le  vele, 

balzo  sul  lido,  ed  insegui  la  belva 

che  per  le  selve  di  Gormal  ruggia. 

Molti  eroi  gia  fugo,  molti  ne  spense 

quella,  ma  Tasta  di  Tremmor  Puccise.  60 

Eran  tre  duci  di  Loclin  presenti 
all'alta  impresa,  e  raccontar  la  possa 
dello  straniero  eroe:  disser  ch'ei  stava 
qual  colonna  di  foco,  e  d'arme  chiuso 
raggi  spandea  d'insuperabil  forza.  65 

Festoso  il  re  largo  convito  appresta, 
ed  invita  Tremmorre.  II  giovinetto 
tre  giorni  festeggi6  nelle  ventose 
loclinie  torri;  e  a  lui  diessi  la  scelta 
dell'arringo  d'onor.  Loclin  non  ebbe  70 

si  forte  eroe  che  gli  durasse  a  fronte. 
N'and6  la  gioia  della  conca  in  giro; 
canti,  arpe,  applausi:  alto  sonava  il  nome 
del  giovine  regal  che  dal  mar  venne, 
delle  selve  terror,  primo  dei  forti.  75 

Sorge  il  quarto  mattin.  Tremmor  nell'onde 
Ianci6  la  nave,  e  a  passeggiar  si  pose 
lungo  la  spiaggia  in  aspettando  il  vento, 
che  da  lungi  s'udia  fremer  nel  bosco. 
Quand'ecco  un  figlio  di  Gormal  selvoso,  80 

folgorante  d'acciar,  che  a  lui  s'avanza. 
Gota  vermiglia  avea,  morbida  chioma, 
mano  di  neve;  e  sotto  brevi  ciglia 
placido  sorridea  ceruleo  sguardo; 
e  si  prese  a  parlargli:  «Ola  t'arresta,  85 

arrestati,  Tremmor:  tutti  vincesti, 
ma  non  hai  vinto  di  Lonvallo  il  figlio. 
La  spada  mia  de'  valorosi  il  brando 
spesso  incontr6 :  dal  mio  infallibil  arco 

57.  belva:  probabilmente  un  cinghiale  (C.)- 


POESIE   DI    OSSIAN  •  FINGAL  193 

s'arretraro  i  piu  saggi».  «O  giovinetto  90 

di  bella  chioma,»  ripiglio  Tremmorre 

«teco  non  pugnero.  Molle  e  '1  tuo  braccio, 

troppo  vago  sei  tu,  troppo  gentile: 

torna  ai  cervetti  tuoi».  «Tornar  non  voglio 

se  non  col  brando  di  Tremmor,  tra  '1  suono  95 

della  mia  fama:  giovinette  a  schiere 

circonderan  con  teneri  sorrisi 

lui  che  vinse  Tremmor;  trarran  del  petto 

sospiretti  d'amore,  e  la  lunghezza 

della  tua  lancia  misurando  andranno,  100 

mentr'io  pomposo  mostrerolla  e  al  sole 

ne  inalzero  la  sfavillante  cima. » 

«Tu  la  mia  lancia  ?»  disdegnoso  allora 
soggiunse  il  re  «la  madre  tua  piuttosto 
ritroveratti  pallido  sul  lido  105 

del  sonante  Gormallo,  e  risguardando 
verso  Poscuro  mar,  vedra  le  vele 
di  chi  le  uccise  il  temerario  figlio». 

«E  ben, »  disse  il  garzon  ccmolle  dagli  anni 
e  il  braccio  mio;  contro  di  te  non  posso  no 

Pasta  inalzar,  ma  ben  col  dardo  appresi 
a  passar  petto  di  lontan  nemico. 
Spoglia,  o  guerrier,  quel  tuo  pesante  arnese; 
tu  sei  tutto  d'acciaro :  io  primo  a  terra 
getto  Pusbergo,  il  vedi;  or  via,  Tremmorre,  115 

scaglia  il  tuo  dardo  ».  Ondoleggiante  ei  mira 
un  ricolmetto  seno.  Era  costei 
la  sorella  del  re.  Vide  ella  il  duce 
nelle  fraterne  sale,  ed  invaghissi 

del  viso  giovenil.  Cadde  la  lancia  xao 

dalla  man  di  Tremmorre:  abbassa  a  terra 
focoso  il  volto:  Pimprowisa  vista 
sino  al  cor  lo  colpi,  siccome  un  vivo 
raggio  di  luce  che  diritto  incontra 
i  figli  della  grotta,  allor  che  al  sole  125 

escon  dal  buio  e  al  luminoso  strale 

125.  i  figli  della  grotta:  gli  abitatori  della  grotta  (C.). 


194  MELCHIORRE  CESAROTTI 

chinano  i  sguardi  abbarbagliati  e  punti. 

«  O  re  di  Morven, »  comincio  la  bella 
dalle  braccia  di  neve  « ah  lascia  ch'io 
nella  tua  nave  mi  riposi,  e  trovi  130 

contro  Tamor  di  Corlo  asilo  e  schermo. 
Terribile  e  costui  per  Inibaca, 
quanto  il  tuon  del  deserto:  amami  il  fero, 
ma  dentro  il  buio  d'un  atroce  orgoglio; 
e  diecimila  lance  all'aria  scuote  135 

per  ottenermi)).  «E  ben,  riposa  in  pace» 
disse  1'alto  Tremmor  «dietro  lo  scudo 
de'  padri  miei;  poi  diecimila  lance 
scuota  Corlo  a  suo  senno,  io  non  pavento; 
venga,  Pattendo».  Ad  aspettar  si  stette  140 

tre  di  sul  lido:  alto  squillava  il  corno 
da  tutti  i  monti  suoi,  da  tutti  i  scogli 
Corlo  sfido,  ma  non  apparve  il  fero. 
Scese  il  re  di  Loclin:  rinnovellarsi 
i  conviti  e  le  feste  in  riva  al  mare,  145 

e  la  donzella  al  gran  Tremmor  fu  sposa. 

—  S varan,  —  disse  Fingal  —  nelle  mie  vene 
scorre  il  tuo  sangue :  le  famiglie  nostre 
sitibonde  d'onor,  vaghe  di  pugna, 
piu  volte  s'affrontar,  ma  piu  volte  anco  150 

festeggiarono  insieme,  e  Tuna  alPaltra 
fer  di  conca  ospital  cortese  dono. 
Ti  rasserena  adunque,  e  nel  tuo  volto 
splenda  letizia,  e  alia  piacevol  arpa 
apri  Porecchio  e  '1  cor.  Terribil  fosti  155 

qual  tempesta,  o  guerrier,  de'  flutti  tuoi; 
tu  sgorgasti  valor;  Palta  tua  voce 
quella  valea  di  mille  duci  e  mille. 
Sciogli  doman  le  biancheggianti  vele, 
fratel  d'Aganadeca;  ella  sovente  160 

viene  aU'amma  mia  per  lei  dogliosa, 
qual  sole  in  sul  meriggio:  io  mi  rammento 


131.  Questo  Corlo  deve  esser  qualche  re  dell'isole  Orcadi  (C.). 


POESIE    DI    OSSIAN  •    FINGAL  195 

quelle  lagrime  tue;  vidi  il  tuo  pianto 
nelle  sale  di  Starno,  e  la  mia  spada 
ti  rispett6  mentr'io  volgeala  a  tondo  165 

rosseggiante  di  sangue,  e  colrni  avea 
gli  occhi  di  pianto,  e  '1  cor  ruggia  di  sdegno: 
che  se  pago  non  sei,  scegli,  e  combatti. 
QuelParringo  d'onor,  che  i  padri  tuoi 
diero  a  Tremmor,  Tavrai  da  me:  gioioso  170 

vuo'  che  tu  parta,  e  rinomato  e  chiaro 
siccome  sol  che  a  tramontar  sfavilla. 
—  Invitto  re  della  morvenia  stirpe, 
primo  tra  mille  eroi,  non  fia  che  teco 
piu  mai  pugni  S varan:  ti  vidi  in  pria  175 

nella  reggia  paterna,  e  i  tuoi  freschi  anni 
di  poco  spazio  precedeano  i  miei. 
E  quando,  io  dissi  a  me  medesmo,  e  quando 
la  lancia  inalzero,  come  1'inalza 

il  nobile  Fingal?  Pugnammo  poi  180 

sul  fianco  di  Malmor,  quando  i  miei  flutti 
spinto  m'aveano  alle  tue  sale,  e  sparse 
risonavan  le  conche:  altera  zuffa 
certo  fu  quella  e  memoranda:  or  basta; 
lascia  che  il  buon  cantore  esalti  il  nome  185 

del  prode  vincitor.  Fingallo,  ascolta: 
piu  d'una  nave  di  Loclin  poc'anzi 
resto  per  te  de'  suoi  guerrieri  ignuda; 
abbiti  queste,  o  duce:  e  sii  tu  sempre 
Pamico  di  Svaran.  Quando  i  tuoi  figli  190 

all'alte  torri  di  Gormal  verranno, 
s'appresteran  conviti,  e  lor  la  scelta 
della  tenzon  s'ofFerira.  —  Ne  nave  — 
rispose  il  re  —  ne  popolosa  terra 

non  accetta  Fingal:  pago  abbastanza  195 

son  de'  miei  monti  e  dei  cervetti  miei. 
Conserva  i  doni  tuoi,  nobile  amico 
d'Aganadeca:  al  raggio  d'oriente 
spiega  le  bianche  vele,  e  lieto  riedi 
al  nativo  Gormallo.  —  O  benedetto  200 


196  MELCHIORRE    CESAROTTI 

lo  spirto  tuo,  re  delle  conche  eccelso;  — 

grid6  Svaran,  di  maraviglia  pieno 

—  tu  sei  turbine  in  guerra,  auretta  in  pace. 

Prendi  la  destra  d'amistade  in  pegno, 

generoso  Fingallo.  I  tuoi  canto ri  205 

piangano  sugli  estinti,  e  fa'  ch'Erina 

i  duci  di  Loclin  ponga  sotterra 

e  della  lor  memoria  erga  le  pietre: 

onde  i  figli  del  Nord  possano  un  giorno 

mirare  il  luogo  ove  pugnar  da  forti  210 

i  loro  padri,  e  '1  cacciatore  esclami, 

mentre  s'appoggia  a  una  muscosa  pietra: 

«Qui  Fingallo  e  Svaran  lottaro  insieme, 

que*  prischi  eroi».  Cosi  diranno,  e  verde 

la  nostra  fama  ognor  vivra.  —  Svarano,  —  215 

Fingal  riprese  —  oggi  la  gloria  nostra 

della  grandezza  sua  giunse  alia  cima. 

Noi  passerem  qual  sogno:  in  alcun  campo 

piu  non  s'udra  delle  nostr'arme  il  suono: 

ne  svaniran  le  tombe,  e  '1  cacciatore  220 

invan  sul  prato  del  riposo  nostro 

1'albergo  cerchera:  vivranno  i  nomi, 

ma  fia  spento  il  valor.  Carilo,  Ullino, 

Ossian,  canton,  a  voi  son  noti  i  duci 

che  piu  non  sono.  Or  via,  sciogliete  i  canti  225 

dej  tempi  antichi,  onde  la  notte  scorra 

tra  dolci  suoni,  ed  il  mattin  risorga 

nella  letizia.  —  Ad  allegrare  i  regi 

sciogliemmo  il  canto,  e  cento  arpe  soavi 

la  nostra  voce  accompagnar:  Svarano  230 

rasserenossi  e  risplende,  qual  suole 

colma  luna  talor,  quando  le  nubi 

sgombran  dalla  sua  faccia,  e  lascian  quella 

ampia,  tersa,  lucente  in  mezzo  al  cielo. 

Allor  Fingallo  a  Carilo  si  volse,  235 

e  prese  a  dirgli:  —  Ov'e  di  Semo  il  figlio? 
ov'e  il  re  di  Dunscaglia?  a  che  non  viene? 
come  basso  vapor  forse  s'ascose 


POESIE   DI    OSSIAN  •  FINGAL  197 

nella  grotta  di  Tura  ?  —  Ascoso  appunto  — 

rispose  il  buon  cantor  •—  sta  Cucullino  240 

nella  grotta  di  Tura:  in  su  la  spada 

egli  ha  la  destra,  e  nella  pugna  il  core, 

nella  perduta  pugna.  6  cupo  e  mesto 

il  re  delPaste,  che  piu  volte  in  campo 

gia  vincitor  si  vide.  Egli  t'invia  245 

la  spada  di  Cabarre,  e  vuol  che  posi 

sul  fiance  di  Fingal,  perche"  qual  nembo 

i  poderosi  suoi  nemici  hai  spersi. 

Prendi,  o  Fingal,  questa  famosa  spada, 

che  gia  la  fama  sua  svani  qual  nebbia  250 

scossa  dal  vento.  —  Ah  non  fia  ver  —  rispose 

1'alto  Fingal—  ch'io  la  sua  spada  accetti; 

possente  e  Jl  braccio  suo :  vattene,  e  digli 

che  si  conforti;  gia  sicura  e  ferma 

e  la  sua  fama,  e  di  svanir  non  terne.  255 

Molti  prodi  fur  vinti,  e  poi  di  nuovo 

scintillaron  di  gloria.  E  tu  pur  anche, 

re  dei  boschi  sonanti,  il  tuo  cordoglio 

scorda  per  sempre:  i  valorosi,  amico, 

benche  vinti,  son  chiari:  il  sol  tra  i  nembi  260 

cela  il  capo  talor,  ma  poi  ridente 

torna  a  guardar  su  le  colline  erbose. 

Viemmi  Gruma  alia  mente.  Era  gia  Gruma 
un  sir  di  Cona:  egli  spargea  battaglia 
per  tutti  i  lidi;  gli  gioia  Porecchio  265 

nel  rimbombo  delParmi  e  '1  cor  nel  sangue. 
Ei  spinse  un  giorno  i  suoi  guerrier  possenti 
sulPecheggiante  Craca;  e  il  re  di  Craca 
dal  suo  boschetto  Pincontro,  che  appunto 
tornava  allor  dal  circolo  di  Brumo,  270 

ove  alia  pietra  del  poter  poc'anzi 
parlato  avea.  Fu  perigliosa  e  fera 
la  zufTa  degli  eroi  per  la  donzella 


258.  re  .  .  .  sonanti:  si  rivolge  a  Svarano.  270.  circolo  di  Brumo:  si  allude 
alia  religione  del  re  di  Craca.  Vedi  Pannot[azione]  al  v.  34  del  canto  3  (C.). 
271.  pietra  del  poter:  cfr.  Pannotazione  del  Cesarotti  al  v.  37  del  canto  in. 


198  MELCHIORRE    CESAROTTI 

dal  bel  petto  di  neve.  Avea  la  fama 

lungo  il  Cona  natio  portato  a  Gruma  275 

la  peregrina  amabile  beltade 

della  figlia  di  Craca,  ed  egli  avea 

giurato  d'ottenerla  o  di  morire. 

Pugnaro  essi  tre  di:  Gruma  nel  quarto 

annodato  resto.  Senza  soccorso  280 

lungi  da'  suoi,  rimmersero  nel  fondo 

delPorribile  circolo  di  Brumo, 

ove  spesso  ulular  Pombre  di  morte 

diceansi  intorno  alia  terribil  pietra 

del  lor  timor.  Ma  che?  da  quell'abisso  285 

usci  Gruma  e  rifulse.  I  suoi  nemici 

cadder  per  la  sua  destra;  egli  riebbe 

Tantica  fama.  O  voi  cantor,  tessete 

inni  agli  eroi,  che  dalla  lor  caduta 

sorser  piu  grandi,  onde  il  mio  spirto  esulti  290 

nella  giusta  lor  lode,  ed  a  Svarano 

il  cordoglio  primier  tornisi  in  gioia.  — 

Allor  di  Mora  su  la  piaggia  erbosa 
si  posero  a  giacer.  Fischiano  i  venti 
tra  le  chiome  agli  eroi.  S'odono  a  un  tempo  295 

cento  voci,  cento  arpe:  i  duci  antichi 
si  rimembrar,  si  celebraro.  E  quando 
udr6  adesso  il  cantor?  quando  quest'alma 
s'allegrera  nelle  paterne  imprese? 
L'arpa  in  Morven  gia  tace,  e  piu  sul  Cona  300 

voce  non  s'ode  armoniosa;  e  spento 
col  possente  il  cantor;  non  v'e  piu  fama. 

Va  tremolando  il  mattutino  raggio 
su  le  cime  di  Cromla,  e  d'una  fioca 
luce  le  tinge.  Ecco  squillar  sul  Lena  3°s 

il  corno  di  S varan:  delFonde  i  figli 
si  raccolgon  d'intorno,  e  muti  e  mesti 
salgon  le  navi:  vien  d'Ullina  il  vento 
forte  soffiando  a  rigonfiar  le  vele 
candido-galleggianti,  e  via  gli  porta.  310 

280.  annodato:  prigioniero.     284.  diceansi:  i:  «s'udiano». 


POESIE   DI    OSSIAN  •  FINGAL  199 

—  Ola,  —  disse  Fingal  —  chiaminsi  i  veltri, 
rapidi  figli  della  caccia,  il  fido 
Brano  dal  bianco  petto,  e  la  ringhiante 
forza  arcigna  di  Lua.  Qua  qua,  Fillano, 
Rino,  ...  ma  non  e  qui:  riposa  il  figlio  315 

sopra  il  letto  feral.  Fillan,  Fergusto, 
rintroni  il  corno  mio,  spargasi  intorno 
la  gioia  della  caccia:  impauriti 
Podan  del  Cromla  i  cavrioli  e  i  cervi, 
e  balzino  dal  lago.  —  Erro  pel  bosco  320 

1'acuto  suon:  dello  scoglioso  Cromla 
s'alzano  i  cacciator;  volano  a  slanci 
chi  qua,  chi  la  mille  anelanti  veltri 
sulla  lor  preda  ad  awentarsi.  Un  cervo 
cade  per  ogni  can:  ma  tre  ne  afferra  325 

Brano,  e  gli  addenta,  e  di  Fingallo  al  piede 
palpitant!  gli  arreca.  Egli  a  tal  vista 
gongola  di  piacer.  Ma  un  cervo  cadde 
sulla  tomba  di  Rino,  e  risvegliossi 
il  cordoglio  del  padre.  Ei  vide  cheta  330 

starsi  la  pietra  di  colui  che  '1  primo 
era  dianzi  alia  caccia:  —  Ah  figlio  mio, 
tu  non  risorgi  piu!  tu  della  festa 
a  parte  non  verrai;  gia  la  tua  tomba 
s'ascondera,  gia  Perba  inaridita  335 

la  coprira:  con  temerario  piede 
calpesteralla  un  di  la  schiatta  imbelle, 
senza  saper  ch'ivi  riposa  il  prode. 

Figli  della  mia  forza,  Ossian,  Fillano, 
Gaulo  re  degli  acciar,  poggiam  sul  colle  340 

ver  la  grotta  di  Tura,  andiam,  veggiamo 
d'Erina  il  condottiero.  (Dime,  son  queste 
le  muraglie  di  Tura?  ignude  e  vuote 
son  d'abitanti,  e  le  ricopre  il  musco. 
Mesto  e  '1  re  delle  conche,  e  desolato  345 

sta  Palbergo  regal:  venite,  amici, 

332-4.  Ah  figlio  .  .  .  verrai:  cfr.  Leopardi,  Le  ricordanze,  160-1:  «o  Nerina, 
a  radunanze,  a  feste  /  tu  non  ti  acconci  piu,  tu  piu  non  movi ». 


200  MELCHIORRE    CESAROTTI 

al  sir  dei  brandi,  e  trasfondiamgli  in  petto 

tutto  il  nostro  piacer.  Ma  che?  m'inganno? 

Fillano,  e  questi  Cucullino?  oppure 

e  colonna  di  fumo?  Emmi  sugli  occhi  350 

di  Cromla  il  nembo,  e  rawisar  non  posso 

Pamico  mio.  —  Si,  Cucullino  e  questo  — 

gli  rispose  il  garzon.  —  Vedilo,  e  muto 

e  tenebroso,  ed  ha  la  man  sul  brando. 

—  Salute  al  figlio  di  battaglia:  addio,  355 

spezzator  degli  scudi.  —  A  te  salute,  — 

rispose  Cucullin  —  salute  a  tutta 

Palta  schiatta  di  Selma.  O  mio  Fingallo, 

grato  e  Paspetto  tuo ;  somiglia  al  sole, 

cui  lungo  tempo  sospir6  lontano  360 

il  cacciatore,  e  lo  rawisa  alfine 

spuntar  da  un  nembo.  I  figli  tuoi  son  vive 

stelle  ridenti,  onde  la  notte  ha  luce. 

0  Fingallo,  o  Fingal,  non  tale  un  giorno 

gia  mi  vedesti  tu,  quando  tornammo  365 

dalle  battaglie  del  deserto,  e  vinti 
fuggian  dalle  nostr'arme  i  re  del  mondo, 
e  tornava  letizia  ai  patrii  colli. 

—  Gagliardo  a  detti,  —  Finterruppe  allora 
Conan  di  bassa  fama  —  assai  gagliardo  370 

se'  tu  per  certo,  Cucullin:  son  molti 

1  vanti  tuoi,  ma  dove  son  Fimprese? 

or  non  siam  noi  per  Focean  qua  giunti, 

per  dar  soccorso  alia  tua  fiacca  spada? 

Tu  fuggi  alFantro  tuo:  Conanno  intanto  375 

le  tue  pugne  combatte.  A  me  quelFarme, 

cedile  a  me,  che  mal  ti  stanno.  —  Eroe 

alcun  non  fu  che  ricercare  osasse 


355-6.  Salute  .  .  .  scudi:  parole  di  Fingal  a  Cucullino  (C.).  357-8.  a  tut 
ta.  . .  Selma :  i :  «  a  tutti  /  i  tuoi  figli  possenti ».  367.  i  re  del  mondo :  gl'impe- 
ratori  di  Roma.  Questo  e  '1  solo  passo  in  tutto  il  poema  in  cui  s'alluda  alle 
guerre  di  Fingal  contro  i  Romam  (C.).  370.  Conan  era  della  famiglia  di 
Morni.  Egli  vien  nominato  in  molti  altri  poemi,  e  sempre  comparisce  con 
lo  stesso  carattere,  che  somiglia  alquanto  a  quello  del  Tersite  d'Omero  (C.). 


POESIE   DI    OSSIAN  •  FINGAL  2OI 

Tarme  di  Cucullin ;  —  rispose  il  duce 

alteramente  —  e  quando  mille  eroi  380 

le  cercassero  ancor,  sarebbe  indarno, 

tenebroso  guerriero:  alia  mia  grotta 

non  mi  ritrassi  io  gia,  finche  d'Erina 

vissero  i  duci.  —  Ola,  —  grid6  Fingallo 

—  Conan  malnato,  dall'ignobil  braccio,  385 

taci,  non  parlar  piu.  Famoso  in  guerra 

e  Cucullino,  e  ne  grandeggia  il  nome. 

Spesso  udii  la  tua  fama,  e  spesso  io  fui 

testimon  de*  tuoi  fatti,  o  tempestoso 

sir  d'Inisfela.  Or  ti  conforta,  e  sciogli  390 

le  tue  candide  vele  in  ver  Tazzurra 

nebbiosa  isola  tua;  vedi  Bragela 

che  pende  dalla  rupe;  osserva  Tocchio 

che  d'amore  e  di  lagrime  trabocca. 

I  lunghi  crini  le  solleva  il  vento  395 

dal  palpitante  seno.  Ella  I'orecchio 

tende  air  aura  notturna,  e  pure  aspetta 

il  fragor  de'  tuoi  remi  e  '1  canto  usato 

de'  remiganti  e  '1  tremolio  dell'arpa 

che  da  lungi  s'avanza.  —  E  lungo  tempo  400 

stara  Bragela  ad  aspettarlo  invano. 

No,  piu  non  torner6 :  come  potrei 

comparir  vinto  alia  mia  sposa  innanzi, 

e  mirarla  dolente?  II  sai,  Fingallo, 

io  vincitor  fui  sempre.  —  E  vincitore  405 

quinci  inanzi  sarai,  qual  pria  tu  fosti :  — 

disse  Fingal  —  di  Cucullin  la  fama 

rinverdira  come  ramosa  pianta. 

Molta  gloria  t'avanza,  e  molte  pugne 

t'attendono,  o  guerriero,  e  molte  morti  410 

usciran  dal  tuo  braccio.  Oscarre,  i  cervi 

reca  e  le  conche,  e  '1  mio  convito  appresta. 

I  travagliati  spirti  abbian  riposo 


382.  tenebroso:  Ossian  dinota  spesso  le  qualita  dell'animo  colle  qualita 
esterne  del  corpo  (C.).  398.  '/  canto  usato :  1'uso  di  cantar  quando  remano, 
e  universale  fra  gli  abitanti  della  costa  settentrionale  della  Scozia  (M ). 


202  MELCHIORRE    CESAROTTI 

dopo  lunghi  perigli:  e  i  fidi  amici 

si  rawivin  di  gioia  al  nostro  aspetto.  —  415 

Festeggiammo,  cantammo.  Alfin  lo  spirto 
di  Cucullin  rasserenossi :  al  braccio 
torn6  la  gagliardia,  la  gioia  al  volto. 
Ivano  Ullino  e  Carilo  alternando 
i  dolci  canti:  io  mescolai  pin  volte  420 

alia  lor  la  mia  voce,  e  delle  lance 
cantai  gli  scontri  ove  ho  pugnato  e  vinto: 
misero!  ed  or  non  piu:  cesso  la  fama 
di  mie  passate  imprese,  e  abbandonato 
seggomi  al  sasso  de'  miei  cari  estinti.  425 

Cosi  scorse  la  notte,  infin  che  '1  giorno 
sorse  raggiante.  Dall'erbosa  piaggia 
alzossi  il  re,  scosse  la  lancia,  e  primo 
lungo  il  Lena  movea:  noi  lo  seguimmo 
come  strisce  di  foco.  —  Al  mare,  al  mare  430 

spieghiam  le  vele,  ed  accogliamo  i  venti 
che  sgorgano  dal  Lena  —  egli  si  disse. 
Noi  salimmo  le  navi,  e  ci  spingemmo 
tra  canti  di  vittoria  e  liete  grida 
delPocean  per  la  sonante  spuma.  435 


OSSERVAZIONI 


CANTO    I 

v.  i.  II  poeta  si  mostra  tosto  quale  egli  e  in  tutte  le  sue  opere. 
Egli  entra  francamente  in  materia,  e  senza  perdersi  in  preamboli. 
La  proposizione  veramente  serve  alia  chiarezza,  e  fissa  1'idea  e  I'unita 
dell'azione:  pure  non  e  assolutamente  necessaria.  Tutto  giorno  si 
raccontano  mille  storie  e  novelle,  senza  premettervi  alcuna  cosa.  La 
Musa  era  una  divinita  incognita  ad  Ossian:  percio  non  poteva  im- 
plorarne  il  soccorso.  Ma  quando  egli  Tavesse  conosciuta,  io  credo 
che  potesse  dispensarsi  da  questo  cerimoniale.  L'invocazione,  dicono 
i  critici,  acquista  fede  alle  cose,  giustifica  il  mirabile,  e  concilia  di- 
gnita  al  poeta,  facendolo  comparire  ispirato.  Quanto  al  primo,  po- 
trebbe  dirsi  piuttosto  ch'ella  genera  diffidenza.  «  Sappiamo »  dicono 
le  Muse  appresso  Esiodo  «  raccontar  molte  bugie,  simili  al  vero  ».x 
Riguardo  al  mirabile,  se  questo  mal  s'accorda  col  verisimile  e  col 
conveniente,  1'invocazione  disonora  la  Musa,  in  luogo  di  giustificar  il 
poeta.  Ossian  il  di  cui  mirabile  non  ripugna  al  buon  senso,  non  avea 
bisogno  di  mallevadori.  Finalrnente  e  meglio  che  1'ispirazione  appa- 
risca  dallo  stile,  che  dalFawiso  dell'autore.  Ossian  non  espone  Vaf- 
fisso  di  poeta.  Si  crede  d'ascoltar  un  uorno  ordinario,  che  racconti  un 
fatto.  Ma  la  divinita  che  lo  agita  non  si  fara  sentire  che  con  piu  forza. 
« Non  fumum  ex  fulgore,  sed  ex  fumo  dare  lucem  /  postulat.  »z 

v.  24.  Le  relazioni  per  dialogismo  sono  molto  in  uso  appresso  i 
poeti  antichi.  Esse  hanno  molta  energia  ed  evidenza,  e  percid  sono 
piu  confacenti  alia  poesia.  Ma  e  da  osservarsi  che  questa  bellezza 
poetica  deve  1'origine  alia  rozzezza  delle  menti  nei  secoli  primitivi. 
II  rilevar  lo  spirito  d'un  discorso  e  farlo  suo  nel  riferirlo,  non  e  proprio 
che  d'un  ingegno  riflessivo  ed  esercitato.  Cosi  vediamo  che  le  rela 
zioni  delle  persone  del  volgo  sono  quasi  sempre  drarnmatiche. 

v.  33.  Una  delle  regole  intorno  al  carattere  dell'eroe  d'un  poema 
si  e  che  la  prima  idea  che  si  presenta  di  lui,  ci  prevenga  favorevol- 
mente.  Alcuni  poeti  fanno  essi  medesimi  i  ritratti  dei  loro  eroi.  Ma  il 
modo  piu  semplice  insieme  e  piu  artifizioso  e  quello  di  farli  risaltare 
indirettamente.  Nessuno  conobbe  questa  finezza  meglio  di  Ossian. 
Fingal  non  comparisce  che  nel  terzo  canto,  e  sembra  che  il  principale 
attore  sia  Cucullino.  Ma  il  suo  nome  si  presenta  sul  bel  principio  in 
un  tale  aspetto  che  fa  presentir  ben  tosto  1'eroe  del  poema.  Svarano, 

i.  Traduce  Esiodo,  Theog.,  27.  2.  Cfr.  Orazio,  Ars poet.>  143-4,  dove  pero 
si  legge  « cogitat »  in  luogo  di  postulat  (« II  poeta  cerca  di  produrre  non  fumo 
dal  fulgore,  ma  luce  dal  fumo  »). 


204  MELCHIORRE    CESAROTTI 

il  suo  nemico,  Tinvasor  dell'Irlanda,  in  mezzo  alle  sue  bravate  non 
teme  che  il  paragone  di  Fingal.  Qual  idea  non  dobbiam  concepirne! 
Vedremo  vari  altri  tratti  d'ugual  finezza.  Omero  non  si  e  piccato 
d'una  condotta  si  delicata.  Appresso  di  lui  gli  eroi  piu  importanti 
dello  stesso  partito,  non  che  i  nemici,  si  trattano  reciprocamente  da 
codardi  e  da  vili.  Come  potra  ammirarli  il  lettore,  se  si  dispregian 
tra  loro? 

v.  51.  Fingal  e  il  primo  eroe  del  poema:  Cucullino  il  secondo.  II 
carattere  dell'uno  e  delPaltro  e  grande,  generoso  ed  interessante.  Ma 
quel  che  piu  particolarmente  distingue  Cucullino  in  questo  poema, 
si  e  un  delicatissimo  senso  d'onore.  Ossian  con  uno  squisito  giudizio 
distribui  le  parti  a  questi  due  gran  personaggi,  senza  che  lo  splendor 
dell'uno  pregiudicasse  a  quello  delPaltro.  Cucullino  e  1'eroe  del  primo 
atto:  Fingal  compisce  1'azione. 

v.  59.  Puo  vedersi  un  quadro  piu  vivo,  piu  animato,  piu  varia- 
mente  atteggiato  di  questo  ? « L'arte  del  poeta,  considerate  puramente 
come  descrittore, »  dice  un  celebre  autor  moderno  « e  di  non  ofFrir 
alia  vista  se  non  se  oggetti  in  moto,  ed  anche  di  ferir  se  si  puo 
molti  sensi  ad  un  tempo  ».T  Se  cosi  e,  Ossian  merita  il  nome  di  poeta 
per  eccellenza. 

v.  74.  Questo  e  '1  quadro  istesso  sotto  un  altro  punto  di  vista.  II 
primo  cagiono  una  cornmozione  piu  viva:  questo  fa  una  impression 
piu  forte  e  profonda. 

v.  87.  Ossian  e  abbondantissimo  di  comparazioni :  qualita  la  quale 
e  comune  ai  poeti  piu  antichi  di  tutte  le  nazioni.  L'imperfezion  della 
lingua  le  introdusse,  e  il  grand'effetto  che  fanno,  le  accredito  nella 
poesia.  La  loro  soverchia  frequenza  puo  bene  esser  disapprovata  dai 
critici  rigidi  che  meditano  a  sangue  freddo:  ma  qualora  questo  ma- 
gnifico  difetto  ci  si  presenta,  esso  abbaglia  e  seduce  nel  punto  che  si 
vorria  condannarlo;  e  il  sentimento,  com'e  dritto,  la  vince  sopra  il 
riflesso.  Giova  qui  di  osservare  che  lo  spirito  di  comparazione  e 
forse  la  qualita  piii  essenziale  della  poesia.  L'ufizio  del  poeta,  come 
rappresentatore  fantastico,  e  di  raccoglier  tutte  le  somiglianze  delle 
cose:  e  il  corpo  del  linguaggio  poetico  e  in  gran  parte  composto  di 
comparazioni  ristrette.2  Del  resto,  le  frequenti  comparazioni  sono 
comuni  ad  Ossian  e  a  tutti  i  poeti  antichi :  ma  pochi  dividono  con  lui 
la  gloria  della  loro  straordinaria  bellezza. 

i.  II  passo  sembrerebbe  del  Dubos;  ma  non  sono  riuscito  a  rintracciarlo 
nelle  Reflexions  critiques  sur  la  poesie  et  la  pemture.  Probabilmente  il  Cesa- 
rotti  cita  a  memoria.  2.  Uufizio  .  .  .  nstrette:  cfr  Vico,  La  scienza  nuova, 
in  Opere,  a  cura  di  F.  Nicolini,  Milano-Napoli,  Ricciardi,  1953,  p.  539: 
« simiglianze  o  comparazioni,  che  .  .  .  fanno  tutta  la  suppellettile  della  fa- 
vella  poetica». 


POESIE   DI    OSSIAN  -  FINGAL 


205 


v.  109.  II  carattere  di  Connal  e  anch'esso  d'un  genere  di  cui  non 
v'ha  esempio  in  Omero.  Egli  e  un  eroe  saggio  e  moderate.  Benche 
gran  guerriero,  consiglia  sempre  la  pace.  E  prudente,  ma  non  della 
prudenza  ciarliera  di  Nestore.  Non  si  altera  ne  per  la  poca  riuscita 
de'  suoi  consigli,  ne  per  gli  altrui  rimproveri  ingiusti :  ma  segue  tran- 
quillamente  a  far  1'ufizio  di  saggio  capitano  e  d'amico  fedele. 

v.  114.  Notisi  questo  tratto.  II  dissuader  Cucullino  dal  combattere 
colFidea  del  suo  pericolo,  sarebbe  stato  un  oflendere  la  grandezza 
di  animo  di  quell' eroe.  Connal  con  queste  parole  gli  mette  in  vista 
che  qui  non  si  tratta  principalmente  della  sua  gloria,  ma  della  sal- 
vezza  del  suo  pupillo;  ed  insinua  questa  eccellente  massima,  che 
1'onor  privato  deve  ceder  al  dovere. 

v.  121.  Questo  sentimento,  benche  sembri  derogare  alTeroismo  di 
Fingal,  pure  tende  ad  inalzarlo.  Egli  e  qui  rappresentato  come  il  mo- 
dello  del  valore ;  e  il  dire  ch'egli  scanserebbe  la  battaglia,  non  e  per 
altro  se  non  perche  Cucullino,  troppo  delicato  in  queste  materie, 
non  si  recasse  a  disonore  di  far  lo  stesso.  Cos!  Agamennone  nel  7 
deiriliade  per  dissuader  Menelao  dal  combatter  contro  di  Ettore, 
gli  dice  che  Achille  istesso  tremava  di  scontrarsi  con  quel  guerriero,1 
quantunque  sapesse  ch'Ettore,  all'opposto,  non  osava  uscir  delle 
mura  per  timor  d* Achille.  Ove  si  osservi  ch'ivi  Agamennone  dice 
crudamente  a  Menelao  ch'Ettore  e  assai  piu  forte  di  lui.  Qui  Connal 
non  paragona  il  valore  di  Svarano  con  quello  di  Cucullino,  ma  solo 
la  superiorita  delle  forze  del  prirno  colla  scarsezza  delle  truppe  ir- 
landesi. 

v.  147.  La  sedatezza  eroica  di  Connal  fa  un  eccellente  contrasto 
con  la  ferocia  di  Calmar,  espressa  poc'anzi  coi  piu  forti  colori. 
Questo  discorso  e  nel  suo  genere  un  modello  di  perfezione.  Connal 
ribatte  con  dignita,  e  con  una  modestia  piena  di  grandezza,  gl'insulti 
di  Calmar;  poi  trascurandolo,  si  rivolge  gravemente  a  Cucullino;  lo 
consiglia  a  sacrificar  la  sua  gloria  alia  sicurezza  del  suo  pupillo,  e 
termina  con  una  risoluzione  rispettosa  insieme  ed  eroica. 

v.  183.  Ossian  e  fecondo  d'episodi.  Le  regole  piu  severe  vorreb- 
bero  che  questi  fossero  come  strumenti  dell'azion  principale,  e  ser- 
vissero  di  mezzo  o  d'ostacolo.  Ma  nissun  poeta  si  assoggetto  perpe- 
tuamente  a  questa  eccessiva  e  non  necessaria  rigidezza.  Quasi  la 
meta  deU'Eneidc  e  composta  d'episodi,  che  potrebbero  levarsi  sen- 
za  che  1'azion  principale  ne  soffrisse  danno.  Basta  dunque  che  gli 
episodi  sieno  chiamati  naturalmente  da  qualche  circostanza  del 
soggetto,  e  che  sieno  collocati  in  luogo  opportune.  II  presente  e 
van  altri  hanno  tutte  e  due  queste  qualita.  In  qualche  altro  sembra 

i.  Cosi .  .  .guerriero:  cfr.  Omero,  //.,  vn,  109-19. 


206  MELCHIORRE    CESAROTTI 

che  manchi  un  poco  la  prima.  Vedi  piu  sotto  Fosservazione  al  v.  548. 

v.  211.  Chi  avrebbe  mai  creduto  che  la  nebbia  potesse  presen- 
tarci  una  comparazione  cosi  gentile?  Peccato  che  la  bocca  d'un 
brutale,  come  costui,  la  disonori  un  poco.  Certo  non  poteva  immagi- 
narsi  una  cosa  piu  vaga,  piu  fina  e  piu  propria,  per  rappresentar  con 
un  solo  oggetto  una  chioma  liscia,  bionda,  crespa  e  ondeggiante  tutto 
ad  un  tempo.  Ecco  di  quelle  squisitezze  che  si  cercherebbero  in- 
darno  in  Omero.  L'autor  degli  «Annali  tipografici »,  parlando  della 
differenza  che  passa  tra  Omero  ed  Ossian,  trova  un  vantaggio  a 
favor  del  primo  nella  natura  del  clima.  «Egli  e  ridente»  dic'egli 
«  nella  Grecia  e  nell'Asia  minore :  laddove  il  nostro  poeta  non  aveva 
altri  spettacoli  che  immense  foreste,  vasti  e  sterili  deserti,  montagne 
coperte  di  neve,  nebbie  eterne,  mari  burrascosi  e  cinti  d'orribili 
scogli)).1  Cio  e  verissimo.  Contuttocio  non  si  vede  che  il  clima  ri- 
dente  di  Grecia  abbia  ispirata  ad  Omero  una  gentilezza  d'immagina- 
zione  molto  distinta.  Laddove  1'occhio  sagace  di  Ossian,  rischiarato 
dalla  finezza  del  suo  spirito,  fa  scorger  in  quei  tetri  spettacoli  delle 
grazie  invisibili  a  qualunque  altro,  e  talora  la  sua  fantasia  sforza  la 
natura  a  cangiar  d'aspetto. 

v.  218.  II  carattere  di  Morna  e  quello  d'una  donna  accorta  insieme 
e  risoluta.  Ella  sfugge  una  dichiarazione,  e  cerca  di  distrar  Duco- 
mano  con  una  ricerca  che  dovrebbe  interessarlo.  Quando  si  vede 
stretta,  abbandona  le  riserve,  e  lo  rigetta  con  un  sangue  freddo  il  piu 
disperante. 

v.  274.  « Moriensque  suo  se  in  vulnere  versat. »  Virg.2 

L'espressione  di  Virgiho  e  pui  naturale,  quella  di  Ossian  piu 
energica.  La  morte  dice  molto  di  piu.  Una  ferita  fa  una  sola  imma- 
gine  visibile :  la  morte  ne  presenta  un  ristretto,  e  lo  spirito  del  lettore 
ha  la  compiacenza  di  svilupparlo. 

v.  275,  Non  v'e  poeta  paragonabile  ad  Ossian  nelle  narrazioni 
tragiche.  Questa  ha  tutte  le  qualita  per  sorprendere  e  scuoter  lo 
spirito.  II  carattere  fiero  di  Ducomano;  Patroce  negligenza  colla 
quale  colui  riferisce  la  morte  del  suo  rivale;  1'accortezza  donnesca 
e  1'arditezza  virile  di  Morna;  lo  stile  rapido  e  conciso;  infine  que' 
due  gran  colpi,  ambidue,  benche  simili,  inaspettati,  percotono  e 
crollano  1'anima,  e  lascianvi  un'impressione  profonda  e  complessa, 
che  poi  va  a  sciogliersi  in  una  dolce  tristezza.  lo  osservero  un  artifizio 
ch'egli  usa  costantemente  in  si  fatte  narrazioni,  e  che  mostra  il  gran 
maestro.  Egli  da  prima  interessa  il  cuore  coi  modi  i  piti.  toccanti.  Come 

i.  Non  saprei  da  dove  il  Cesarotti  abbia  tratto  questa  citazione.  Nessuna 
nvista  francese  o  inglese  porta  il  titolo  di « Annali  tipografici ».  2.  Aen.,  xi, 
669  («e  morendo  si  contorce  sulla  sua  ferita))). 


POESIE   DI    OSSIAN  •  FINGAL  207 

se  n'e  reso  padrone,  lo  precipita  violentemente  alia  meta,  senza  dargli 
tempo  di  presentirlo.  Di  piu,  egli  omette  spesso  qualche  circostanza 
che  rischiarerebbe  il  fatto,  ma  ne  snerverebbe  la  forza.  Come  qui 
non  si  concepisce  chiaramente  il  modo  onde  Ducomano  ferisce 
Morna.  Ma  Ossian  sa  troppo  bene  i  colpi  segreti  delParte  per  non 
curarsi  di  cio.  Scoppia  il  fulmine,  stordisce,  abbaglia,  e  lascia  in 
un'oscurita  che  mette  il  colmo  all'orrore. 

v.  323.  Questa  e  la  descrizione  piu  ricca,  piii  magnifica  e  piu 
ampia  di  quante  si  trovino  in  Ossian,  e  somiglia  piu  d'ogni  altra  alia 
maniera  abbondante  d' Omero.  Se  questo  carro  si  considera  isolata- 
mente,  esso  sfolgora  di  vivacita  e  di  bellezze.  Ma  1'aggiustatezza 
imparziale  della  critica  ci  obbliga  a  confessare  che  la  descrizione  pecca 
alquanto  d'intemperanza,  e,  quel  ch'e  piu,  non  s'accorda  coi  rapporti 
delle  persone  e  del  tempo.  L'esploratore  torno  troppo  presto,  ed  e 
troppo  spaventato  per  aver  osservate  tutte  queste  particolarita,  e 
riferite  cosl  distesamente,  quasi  anche  con  un'oziosa  compiacenza. 
Svarano  era  poi  egli  uomo  da  ascoltar  tranquillamente  questi  det- 
tagli,  che  tendevano  a  magnificar  la  pompa  del  suo  nemico  e  ad 
esortar  lui  alia  fuga  ?  Sembra  che  questo  carro  abbia  qui  abbagliato 
co'  suoi  lumi  lo  stesso  Ossian,  ne  gli  abbia  lasciato  scorgere  abba- 
stanza  chi  parlava,  e  a  chi  parlava.  La  convenienza  e  la  misura  sono 
le  due  ministre  del  gusto,  e  non  v'e  bellezza  poetica,  se  non  s'accorda 
con  esse. 

v.  377.  II  poeta  non  ci  lascia  dimenticar  del  suo  eroe.  Noi  eravamo 
immersi  in  Cucullino,  e  nel  suo  terribile  apparato.  Fingal  si  mostra 
obliquamente,  e  ci  richiama  a  se.  Non  c'e  pericolo  che  la  sua  assenza 
gli  pregiudichi.  La  sua  immagine  ci  segue  per  tutto. 

v.  405.  Questa  adattissima  e  vaga  comparazione  slancia  un  colpo 
di  luce  improwisa  sulla  terribile  scena  di  questa  descrizione,  e  fa 
sullo  spirito  dei  lettori  un  efTetto  del  tutto  corrispondente  a  cio 
ch'ella  rappresenta. 

v.  435.  Non  si  puo  ammirare  abbastanza  la  forza,  Taggiustatezza 
e  la  finezza  di  queste  comparazioni.  Non  puo  negarsi  che  Omero 
non  ne  abbia  molte  piene  di  sublimita  e  d'evidenza:  ma  bisogna 
parimente  accordare  ch'egli  ne  ha  forse  altrettante  basse  e  sconve- 
nienti :  e  quelle  stesse  che  sono  le  piu  pregevoli,  rare  volte  abbracciano 
insieme  tutte  le  qualita  necessarie.  Di  piu,  nelle  sue  comparazioni 
non  si  scorge  certa  rarita  di  scelta,  ne  molta  lode  d'ingegno.  Omero 
per  lo  piu  accetta  gli  oggetti  che  si  presentano :  Ossian  spesso  gli 
sceglie,  e  talvolta  in  certo  modo  gli  crea. 

v.  439.  Osservisi  questa  artificiosa  alternativa  d'affetti  forti  e  pa- 
tetici.  Poco  e  ad  Ossian  d'esser  ammirabile :  il  suo  massimo  studio  e 
d'esser  toccante.  Sono  ran  in  Omero  questi  tratti  preziosi  di  senti- 


208  MELCHIORRE    CESAROTTI 

mento,  o  appena  abbozzati.  Egli  tocca  alle  volte  qualche  particolarita 
interessante,  ma  lo  fa  con  uno  stile  cosi  disteso  ed  unito  che  fa  po- 
chissimo  effetto.  II  tuono  delle  sue  narrazioni  somiglia  molto  al  canto 
delle  sue  cicale:  e  lungo  ed  uniforme.  La  tenera  apostrofe  di  Ossian 
rompe  la  monotonia  dello  stile,  e  corregge  la  ferocia  che  ispirano 
le  scene  di  guerra.  Solo  sarebbe  stato  desiderabile  che  quell'amabile 
guerriero  avesse  potuto  piuttosto  cadere  per  man  del  feroce  Svarano, 
che  del  virtuoso  Cucullino.  Ma  questi  almeno  non  1'insulta  villana- 
mente  come  fa  quel  brutale  d'Idomeneo  col  generoso  giovine  Otrio- 
neo  nel  13  dell'Iliade.1 

v.  466.  Cento  martelli  sembrano  piccola  cosa  dopo  tanto  fracasso. 
Ma  il  poeta  non  intende  qui  di  spiegare  la  grandezza  del  rimbombo, 
ma  solo  il  frequente  e  vicendevole  rimbalzo  delPeco :  nel  qual  senso 
la  comparazione  ha  tutta  la  proprieta. 

v.  480.  Dopo  averci  messi  in  un'aspettazione  si  grande,  il  poeta  ci 
pianta,  e  copre  la  scena.  Questa  e  una  crudelta  molto  artificiosa.  Ella 
attacca  e  tiene  in  moto  lo  spirito:  delude  la  curiosita  per  eccitarla 
maggiormente  e  per  soddisfarla  a  suo  tempo  con  maggior  diletto. 

v.  513.  Non  ci  volea  meno  per  prepararci  a  una  risposta  cosl  bru 
tale. 

v.  515.  II  Vico  riconoscerebbe  con  piacere  nella  cruda  selvati- 
chezza  di  costui  que*  primi  Polifemi,  che  secondo  Platone  erano  i 
capi  di  famiglia  nella  natura  selvaggia,  e  viveano  nelle  loro  grotte, 
ricusando  qualunque  commercio  e  societa.2  «Nec  visu  facilis,  nee 
dictu  afTabilis  ulli.  »3  Abborre  tutto  quello  che  non  e  suo,  e  si  fa  centro 
della  natura.  II  mattino  non  ha  altro  ufncio  che  di  servir  alia  sua 
fierezza.  L'oriente  appartiene  a  lui.  Se  il  sole  spuntasse  dall'Irlanda, 
Taborrirebbe  come  suo  nemico.  II  suismo4  di  questo  gran  carattere 
ciclopico,  e  la  stranezza  che  ne  segue,  sono  scolpiti  con  una  forza 
che  sbalordisce. 

v.  536.  In  due  sillabe  che  gran  senso!  Notisi  la  naturalezza  e  la 
disinvoltura  del  passaggio  per  introdurre  il  seguente  episodio. 

v.  548.  Se  qualcheduno  domandasse  qual  relazione  abbia  quest'epi- 
sodio  con  1'azion  principale,  si  puo  rispondere  che  nelle  parti  oziose 
di  un  poema  il  poeta  e  libero  d'inserirvi  quelle  descrizioni  che  gli 

i.  come  .  .  .  Iliade:  cfr.  Omero,  //.,  xm,  374-82.  Veramente  Idomeneo  non 
insulta  villanamente  Otrioneo,  ma  piuttosto  lo  apostrofa  con  feroce  sar- 
casmo.  2.  77  Vico . . .  societa :  cfr.  La  scienza  nuova,  ed.  cit.,  p.  470 : « Appres- 
so  Strabone  e  un  luogo  d'oro  di  Platone,  che  dice,  dopo  i  particolari  diluvi 
ogigio  e  deucalionio,  aver  gli  uommi  abitato  nelle  grotte  sui  monti,  e  gli 
riconosce  ne'  polifemi,  ne'  quah  altrove  rincontra  i  primi  padri  di  famigha 
del  mondo».  3.  Virgdio,  Aen.,  m,  621  («ne  facile  a  vedersi,  n6  agevole  a 
descriversi  da  alcuno»).  L'espressione  virgiliana  e  riferita  a  Polifemo. 
4.  suismo:  egocentrismo. 


POESIE   DI    OSSIAN  •  FINGAL  2OQ 

sembrano  piu  natural!  e  opportune.  Quindi  in  tutti  i  poemi  veggiamo 
grintervalli  dell'azione  riempiuti  con  giochi,  feste,  sagrifizi  e  altre 
cose  relative  ai  riti,  agli  usi  e  ai  trattenimenti  di  quella  nazione.  Ora 
bisogna  mettersi  seriamente  nello  spirito  che  il  canto  appresso  i 
Celti  era  tutto,  e  che  nulla  si  facea  senza  il  canto.  II  passar  la  notte 
fra  i  canti  era  costume  solenne  ed  universale.  Le  loro  istorie,  la  sacra 
memoria  de'  lor  maggiori,  gli  esempi  degli  eroi,  tutto  era  confidato 
alle  canzoni  dei  bardi.  II  bisogno,  il  diletto,  la  gloria,  la  pieta,  il 
dovere,  tutto  cospirava  a  fomentar  in  quelle  nazioni  il  violento 
trasporto  che  nutrivano  per  la  poesia.  Ora  se  i  canti  dei  bardi  aveano 
tanti  dritti  per  esser  introdotti  nel  poema  di  Ossian,  e  se  il  canto, 
come  tale,  non  ha  veruna  relazione  al  soggetto,  io  non  ci  veggo  mag- 
gior  necessita  che  le  storie  contenute  in  quei  canti  debbano  riferirsi 
al  medesimo.  Ma  se  alcuni  dei  canti  episodici  di  Ossian  non  hanno 
una  relazione  diretta  al  soggetto  particolar  del  poema,  tutti  per6  si 
riferiscono  allo  spirito  ed  al  fine  generale  di  questo  e  degli  altri  poemi 
di  Ossian;  il  qual  e  d'ispirar  grandezza  d'animo  e  sensibilita  di  cuore 
col  racconto  d'awenture  eroiche  e  compassionevoli. 

v.  574.  Una  delle  maggiori  bellezze  di  Ossian  sono  gli  amori,  i 
quali>vengono  da  lui  maneggiati  con  una  delicatezza  cosi  particolare 
che  merita  d' esser  esaminata.  Basta  notare  la  diversita  con  cui  fu 
trattata  questa  passione  dai  poeti  dell' altre  nazioni.  L'amore  dei  Greci 
e  dei  Latini  e  un  bisogno  fisico  e  materiale:  quello  degritaliani  e 
spirituale:  quel  dei  Francesi  bel-esprit.  L'amore  di  Ossian  e  di  un 
genere  che  non  rassomiglia  a  verun  di  questi.  Egli  ha  per  base  il 
sentimento,  percio  e  tenero  e  delicate,  e  '1  suo  linguaggio  non  e  spi- 
ritoso,  ma  toccante.  Si  riferisce  ai  sensi,  ma  tra  questi  sceglie  i  piti. 
puri,  quali  sono  la  vista  e  Pudito :  quindi  non  e  ne  astratto,  ne  gros- 
solano,  ma  naturale  e  gentile.  Ossian  parla  spesso  del  seno,  e  mostra 
di  compiacersi  nel  dipingerlo.  Questo  oggetto  appresso  gli  altri  poeti 
s'accosta  al  lascivo:  ma  cio  nasce  perch'essi  accompagnano  le  lor 
descrizioni  con  tali  sentimenti  che  mostrano  di  non  appagarsi  della 
sola  vista.  In  tutto  Ossian  non  si  trovera  un'espressione  che  si  rife- 
risca  al  tatto.  Da  tutto  cio  risulta  che  1'amore  di  Ossian  e  decente, 
senza  afTettazion  di  modestia.  La  ritenutezza  degli  altri  porta  seco 
un'aria  di  mistero,  ch'e  piu  un  incentive  che  un  freno.  Ossian  scorre 
con  una  franca  innocenza  sopra  tutti  gli  oggetti  del  bello  visibile,  e 
in  lor  si  riposa  cosi  naturalmente  che  non  da  luogo  al  sospetto.  Non 
si  va  piu  oltre,  perche  non  si  crede  che  si  possa  andarvi.  Dopo  il 
cuore  e  la  vista,  non  c'e  altro  da  bramar  da  una  donna. 

v.  626.  Che  bel  cangiamento  d'affetti  e  di  sentimenti!  che  contrasto 
toccante  fra  lo  sposo  e  Peroe!  Non  si  sa  se  debbasi  ammirar  piu  questo 
o  interessarsi  per  quello. 


210  MELCHIORRE    CESAROTTI 

v.  631.  Epiteto  convenientissimo  alia  pmdenza  e  al  sangue  freddo 
di  Connal. 

v.  637.  Ecco  di  nuovo  in  campo  Fingal  per  la  quinta  volta.  No; 
senza  di  lui  non  v'e  speranza.  Cucullino  e  un  gran  guerriero:  pure 
la  salute  dell'Irlanda  dipende  dal  solo  Fingal.  Questa  e  1'idea  con 
cui  il  poeta  ci  congeda. 

CANTO   II 

v.  22.  Dopo  la  precedente  descrizione,  questa  domanda  a  dir  vero 
sembra  alquanto  strana.  Viene  alia  mente  la  risposta  di  colui  ad 
uno  che  gli  domandava  perche  piangesse:  « Minim  quin  cantern: 
condemnatus  sum)).1 

v.  29.  Ottimamente  il  poeta  scelse  fra  tutti  il  personaggio  di  Con 
nal,  per  fargli  comparire  questa  visione.  II  suo  carattere  sedato  lo 
rendeva  piu  atto  a  prestarle  fede,  ad  inspirarla  agli  altri  e  a  dar  au- 
torita  al  consiglio  deH'ombra. 

v.  72.  Come  riluce  questo  tratto  di  spirito,  in  mezzo  alle  tenebre 
di  queste  superstizioni!  Lo  spirito  puo  trovarsi  unito  alPignoranza, 
come  la  dottrina  alia  stupidita.  II  sentimento  di  Cucullino  fa  onore 
alia  svegliatezza  del  poeta,  e  mostra  che  la  sua  mente  era  anco  in 
questo  superiore  al  suo  secolo.  Del  resto,  le  parti  di  questo  dialogo 
sono  egregiamente  distribute  e  convengono  perfettamente  ai  carat- 
teri.  Connal  teme :  il  timore  e  padre  dei  fantasmi  e  dispone  alia  cre- 
dulita.  Cucullino  non  sente  che  il  suo  eroismo,  ed  e  passionatissimo 
per  la  gloria.  Questo  carattere  non  s'accorda  molto  con  la  super- 
stizione. 

v.  101.  Non  e  proprio  che  dei  gran  maestri  il  far  sentir  della 
differenza  nei  caratteri  simili.  Sembra  che  Peroismo  di  Cucullino 
sia  spinto  al  piu  alto  segno :  pure  Ossian,  senza  pregiudicare  a  questo 
eroe,  trova  il  modo  di  farci  concepir  nel  suo  Fingal  qualche  cosa 
ancor  di  piu  grande.  Cucullino  non  puo  risolversi  a  fuggire:  ma 
perch6?  perche  ha  vergogna  di  Fingal.  Sembra  che  questi  sia  Tidea 
archetipa  della  perfezione  eroica.  Cucullino  riguardo  ad  esso  ha  quella 
inferiorita  che  ha  un  particolare  rispetto  al  suo  universale,  una  per- 
fetta  copia  rispetto  al  suo  modello. 

v.  191.  Non  si  fara  certamente  ad  Ossian  il  rimprovero  che  Omero 
fa  a  se  stesso,  che  i  suoi  eroi  garriscono  e  si  svillaneggiano  come  fem- 
minelle,  nel  che  certamente  egli  si  fa  giustizia  ed  ha  piu  buona 

i .  Citazione  a  memona  (donde  il  quin  cantem  invece  del  piu  corretto  e 
testuale  «ni  cantem)))  d'un  passo  d'una  «atellana»  di  Novio  presso  Cice 
rone,  De  orat.,  n,  LXIX,  279  («£  veramente  strano  che  io  non  canti:  sono 
stato  condannato  ». 


POESIE    DI    OSSIAN  •  FINGAL  211 

fede  de'  suoi  difensori.  Le  risposte  degli  eroi  di  Ossian  sono  brevi, 
gravide  di  senso  e  piene  di  dignita. 

v.  193.  L'azione  di  un  poema  e  tanto  piu  nobile  ed  interessante, 
quanto  meno  ella  si  riferisce  all'interesse  personale  dell'eroe.  Ab- 
biamo  pochi  poemi  epici  d'una  tal  nobilta,  Enea  vuol  fondare  un 
impero  negli  stati  altrui  con  dritti  molto  equivoci.  Achilla  non  pensa 
che  a  soddisfar  ciecamente  una  privata  vendetta.  II  poema  di  Ossian 
anche  in  questa  parte  e  uno  dei  piti  perfetti.  Cucullino  espone  la  vita 
per  il  suo  pupillo,  Fingal  per  1'alleato  e  per  rarnico. 

v.  194.  La  condotta  reciproca  di  questi  due  eroi  ha  qualche  cosa 
d'ammirabile.  Connal  consiglia  costantemente  la  pace,  Cucullino 
vuol  sempre  la  guerra.  Contuttocio  questi  e  sempre  pieno  di  rispetto 
e  di  fiducia  neH'amico,  e  quegli  sempre,  senza  mai  smentire  i  suoi 
sentimenti,  lo  assiste  con  fe delta  e  con  zelo.  Questa  e  una  vera  scuola 
di  politezza  e  di  virtu.  Qual  delicatezza  di  spirito  non  dovea  esser 
quella  di  Ossian,  per  osservare  in  un  secolo  barbaro  questi  esatti  e 
gentili  riguardi,  che  sembrano  il  frutto  della  piu  colta  e  piu  raffinata 
societa  ? 

v.  197.  Quanto  e  mai  nobile  questa  indignazione!  E  come  cresce 
per  gradi  proporzionatamente!  Comincia  da  un  dolce  e  rispettoso 
rimprovero  a  Connal ;  s'accende  al  confronto  della  morte  minacciata 
daH'ombra  e  del  disonore;  e  termina  con  una  esortazione  ai  soldati, 
piena  di  fuoco  e  di  forza. 

v.  218.  «Virgilio  ci  lascia  lettori,  Omero  ci  fa  spettatori»,  dice  il 
Pope.1  Questo  riflesso  puo  applicarsi  con  piu  ragione  ad  Ossian. 
Omero  racconta  e  particolareggia.  Ossian  e  presente  alTazione,  e  ne 
risente  tutti  gli  afTetti.  I  vari  slanci  del  suo  cuore,  espressi  nel  suo 
stile  patetico,  rimbalzano  sopra  il  nostro.  La  narrazione  di  Omero 
e  troppo  distesa  per  poterci  fare  illusione.  In  Omero  si  ascolta,  in 
Ossian  si  sente. 

v.  263.  II  traduttore  inglese  cita  qui  un  luogo  di  Virgilio  nel  12 
deU'Eneide,  v.  701 -[3]: 

Quantus  Athos,  aut  quantus  Eryx,  out  ipse  coruscis 
cum  f remit  ilicibus,  quantus,  gaudetque  nivali 
vertice  se  attollens  pater  Apenninus  ad  auras.2 

i.  La  citazione  e  tolta  dal  primo  dei  discorsi  su  Omero  contenuti  nella  pre- 
fazione  alia  traduzione  inglese  di  Omero  (1720).  II  passo,  nella  traduzione 
francese  (Paris,  Duchesne,  1779)  che  probabilmente  il  Cesarotti  tenne  pre 
sente,  suona:  «Entraines  par  Homere,  nous  ne  pensons  pas  tant  a  r^crivain 
qu'en  lisant  Virgile,  dont  la  froide  imagination  nous  interesse  moins  dans 
ce  qu'il  d6crit :  Pun  nous  rend  auditeurs ;  Fautre  nous  laisse  apercevoir  que 
nous  lisons».  2.  «Cosi  e  grande  1'Athos  o  1'Erice,  o  lo  stesso  padre  Ap- 
pennino  quando  freme  con  le  sue  elci  agitate  dal  vento  e  gode  di  innalzarsi 


212  MELCHIORRE    CESAROTTI 

Ma  non  mi  sembra  che  quest!  due  luoghi  abbiano  piena  rasso- 
miglianza.  Ossian  intende  di  rappresentare  la  resistenza  di  Cucul- 
lino  e  lo  schermo  ch'ei  presta  a'  suoi.  Virgilio  non  rappresenta  che  il 
rimbombo  dell'armi  e  la  grandezza  d'Enea.  Percio  la  comparazione 
di  Ossian  e  perfettamente  appropriata  al  suo  oggetto;  laddove  1'im- 
magine  di  Virgilio  sembra  eccessiva  e  poco  confacente  al  suo  per- 
sonaggio.  Si  fatte  comparazioni  non  si  adattano  bene  se  non  se  ad 
uomini  feroci  e  d'una  statura  gigantesca. 

v.  318.  Non  e  da  tutti  il  produrre  sulla  scena  il  suo  eroe  a  tempo. 
Se  Fingal  fosse  giunto  prima,  il  suo  arrivo  non  avrebbe  fatta  un'im- 
pressione  cosi  gagliarda.  Lo  stile  tronco  ed  esultante  del  nunzio 
mostra  1'importanza  della  sua  venuta.  Pure  Fingal  non  e  ancor  giunto, 
ma  solo  annunziato.  II  poeta  lo  riserba  per  un  colpo  di  maggior  ef- 
ficacia. 

v.  347.  II  rimproverarsi  le  colpe  involontarie  e  I'ultima  delica- 
tezza  della  virtu. 

v-  353-  Questa  istoria  e  d'un  genere  diverso  dalPaltre,  ed  interessa 
in  un  modo  particolare.  Ella  presenta  un  eccellente  contrasto  fra 
Tamore  e  1'amicizia.  II  carattere  di  Ferda  e  veramente  tragico.  Egli  e 
virtuoso,  ma  debole,  e  resta  vittima  della  sua  debolezza.  II  lettore  lo 
condanna  e  lo  compiange. 

v.  360.  In  Deugala  e  rappresentato  vivissimamente  il  modello 
d'una  donna  superba,  imperiosa  ed  artificiosa;  che  si  abusa  della 
debolezza  del  suo  amante,  e  lo  conduce  ad  un  delitto  per  un  suo  vano 
puntiglio.  Questa  parte  e  maneggiata  con  un'eccellenza  che  sor- 
prende.  Osservisi  il  tuono  brusco  e  tronco  con  cui  parla  allo  sposo; 
la  precisione,  1'imperiosita  coll'amante.  —  M'offese,  si  uccida.  —  £ 
amico.  —  E  che  percio  ?  io  lo  voglio.  —  Poi  si  viene  alia  malia  delle 
lagrime :  per  ultimo  si  punge  Tamante  nella  parte  prd  delicata  per  un 
eroe,  cioe  nell'onore.  Quante  Deugale  pronte  a  rovinar  gli  amanti  per 
una  spilla,  non  che  per  un  toro!  Giovani  Ferda,  specchiatevi. 

v.  469.  Nell'estremo  delle  passioni  il  poeta  non  mette  per  lo  piu 
che  due  o  tre  parole  in  bocca  de'  suoi  personaggi ;  e  molte  volte  egli 
esprime  I'affetto  con  un  silenzio  piu  eloquente  d'ogni  discorso.  Que- 
sto  e  il  velo  di  Timante  sul  volto  d'Agamennone,  nel  sacrifizio  d'lfi- 


genia.1 


Curae  leves  loquuntur,  ingentes  stupent.2 


nel  cielo  con  le  sue  cime  nevose. »  II  paragone  virgiliano  si  riferisce  ad 
Enea  che  si  appresta  al  duello  finale  con  Turno.  i.  il  velo  .  .  .  Ifigenia:  in 
un  quadro  famoso  del  pittore  greco  Timante  (V-IV  secolo  a.  C.),  rappre- 
sentante  il  sacnficio  di  Ifigenia,  Agamennone  era  effigiato  col  volto  nco- 
perto,  a  sigmficare  I'inesprimibihta  del  suo  dolore.  2.  Seneca,  Hipp., 
607  («I  lievi  dolori  si  sfogano  parlando,  i  grandi  tacciono  stupefatti»). 


POESIE   DI    OSSIAN  •  FINGAL  213 


CANTO   III 

v.  14.  Giudiziosamente,  dice  il  traduttore  inglese,  viene  introdotta 
la  storia  d'Aganadeca,  perche  grand'uso  ne  vien  fatto  nel  restante 
del  poerna,  e  perche  in  gran  parte  ne  produce  la  catastrofe.  Con- 
tuttocio  parmi  che  questo  episodic  avrebbe  potato  inserirsi  molto 
piu  opportunamente  sul  fine  del  canto,  dopo  la  venuta  di  Fingal; 
e  che  sarebbe  stato  meglio  in  bocca  di  Ullino,  che  di  Carilo.  Ivi  il 
progresso  delFazione  e  Finteresse  di  Fingal  lo  chiamava  naturalrnente, 
anzi  lo  rendea  necessario :  laddove  qui  non  sembra  che  un  abbelli- 
mento  senza  disegno  e  senza  conseguenza;  e  la  sua  singolar  bellezza, 
perch6  non  e  precisamente  a  suo  luogo,  non  fa  tutto  TefTetto  ch'ella 
potrebbe. 

v.  115.  La  fredda  amarezza  di  queste  parole  e  piu  terribile  di 
qualunque  dimostrazion  di  furore.  Le  passioni  determinate  pren- 
dono  un'aria  di  sedatezza  atroce,  che  non  lascia  luogo  alia  speranza. 

v.  157.  Connal  era  stato  vivamente  punto  da  Calmar  nel  consiglio 
di  guerra.  Ma  1'animo  grande  di  Connal  non  se  ne  rammenta,  o  si 
vendica  con  un  tratto  d'amicizia  e  di  politezza. 

v.  185.  II  parlar  per  sentenze  universali  ed  astratte  e  proprio  dei 
filosofi  e  degli  oziosi  ragionatori.  Gli  uomini  rozzi  ed  appassionati 
singolarizzano  e  parlano  per  sentimenti.  Se  questa  e  la  qualita  piu 
essenziale  del  vero  linguaggio  poetico,  come  vuole  il  Vico,1  Ossian 
e  '1  piu  gran  poeta  d'ogn'altro.  Non  ve  n'ha  alcuno  piti  ricco  di  sen- 
timenti  e  piu  scarso  di  sentenze  di  lui.  La  presente  e  forse  Tunica 
che  s'incontri  in  tutte  le  sue  poesie.  Del  resto,  la  sentenza  di  Calmar 
sembra  assai  particolare  in  bocca  d'un  uomo  che  per  frutto  del  suo 
coraggio  avea  riportata  una  ferita  mortale.  Bisogna  che  costui  non 
computasse  tra  i  pericoli  la  morte. 

v.  198.  La  vittoria  di  Fingal  e  dunque  certa.  II  suo  valore  maggior 
d'ogn'altro  non  ammette  dubbi.  Questo  sentimento  e  d'un  gran  peso, 
specialmente  in  bocca  d'un  uomo  del  carattere  di  Calmar. 

v.  228.  La  morte  di  quest'eroe  non  corrisponde  molto  alia  nostra 
aspettazione.  Dopo  1'alta  idea  che  il  poeta  ci  avea  fatta  concepire 
del  suo  valore,  s'era  in  dritto  d'attenderne  dei  prodigi  e  di  esiger  da 
lui  un  genere  di  morte  assai  meraviglioso  e  straordinario.  Non  oc- 

i.  come  . . .  Vico\  cfr.  La  scienza  nuova,  ed.  cit.,  p.  455:  le  « sentenze  poe- 
tiche  .  .  .  sono  formate  con  sensi  di  passioni  e  d'affetti,  a  difTerenza  delle 
sentenze  filosonche,  che  si  formano  dalla  riflessione  con  raziocini:  onde 
queste  piu  s'appressano  al  vero  quanto  piu  s'innalzano  agli  universali,  e 
quelle  sono  piu  certe  quanto  piu  s'appropiano  a'  particolari ». 


214  MELCHIORRE    CESAROTTI 

correva  erger  tant'alto  questo  colosso,  s'egli  dovea  cadere  con  si 
poco  strepito.  Parmi  che  qui  il  gran  genio  di  Ossian  paghi,  come  tutti 
gli  altri,  il  suo  tribute  alFumanita.  Awertasi  per  altro  che  questa  e 
piuttosto  una  mancanza  che  un  errore.  Non  v'e  nulla  di  piu  naturale 
quanto  che  un  guerriero  muoia  dalle  sue  ferite.  Ma  la  nostra  imma- 
ginazione  stende  le  sue  pretensioni  molto  innanzi.  Quando  il  poeta 
ha  cominciato  a  solleticarla,  ella  si  lusinga  che  il  suo  diletto  debba 
andar  sempre  crescendo.  II  dono  del  poeta  divien  dovere.  Quanto 
piii  ella  e  soddisfatta,  tanto  pretende  di  piu;  e  s'egli  non  giunge  ad 
appagarla  pienamente,  ella  quasi  gli  sa  rnal  grado  anche  dei  diletti 
antecedent!. 

v.  240.  La  condotta  del  poeta  mi  sembra  in  questo  luogo  di  cosi 
meraviglioso  artifizio,  che  ben  merita  i  riflessi  di  tutte  le  persone  di 
gusto.  Cucullino  avea  perduta  la  battaglia,  non  per  mancanza  di 
valor  personale,  ma  per  la  scarsezza  delle  sue  truppe.  Questa  taccia 
d'inferiorita,  benche  senza  sua  colpa,  doveva  esser  insoffribile  ad  un 
eroe  come  Cucullino.  Egli  tenta  dunque  di  risarcir  il  suo  onore  con 
un  colpo  grande  ed  ardito.  Pensa  d'andar  solo  incontro  airarmata  di 
Svarano,  ma  non  gia  colla  speranza  di  porla  in  rotta,  ma  col  pensiero 
di  combatter  a  corpo  a  corpo  col  suo  nemico,  di  vincerlo  o  di  monre 
gloriosamente.  Ma  qual  doveva  esser  1'esito  di  questa  battaglia? 
Se  vince  Svarano,  la  gloria  di  Cucullino  resta  offuscata,  e  un  eroe 
virtuoso  ed  amabile  e  sacrificato  ad  un  brutale.  Se  la  vittoria  si  di- 
chiara  per  Cucullino,  la  venuta  di  Fingal  e  inutile.  Sembrava  inevi- 
tabile  1'inciampare  in  uno  di  questi  due  scogli.  Ossian  seppe  scansarli 
felicemente  ambedue  con  una  destrezza  che  non  puo  ammirarsi 
abbastanza.  Cucullino  sta  per  azzuffarsi,  comparisce  Fingal,  Svarano 
vola,  pianta  Cucullino;  e  questi  si  trova  improwisamente  solo  e 
deluso,  senza  poter  far  prova  di  se,  ne  ottener  la  consolazion  della 
morte.  Con  ci6  si  cagiona  una  gran  sorpresa  in  chi  ascolta,  e  si  salvano 
tutti  i  riguardi.  L'onor  del  trionfo  sopra  Svarano  si  riserba  intatto 
per  Fingal.  Cucullino  non  perde  nulla  dal  canto  della  gloria,  ed 
acquista  infinitamente  da  quello  dell'interesse.  Bisognerebbe  esser 
privo  di  sentimento  per  non  esser  commosso  insino  aH'anima  dal  suo 
patetico  lamento.  La  vergogna  ch'egli  ha  di  presentarsi  innanzi  a 
Fingal,  la  commiserazione  de*  suoi  amici  morti  in  battaglia,  la  de- 
plorazione  della  sua  farna,  il  suo  tenero  addio  alia  sposa  lontana 
formano  un  nuovo  genere  di  patetico,  un  misto  di  mirabile  e  com- 
passionevole  che  c'intenerisce  e  c'incanta.  Infine  quest 'eroe  sven- 
turato,  non  potendo  soffrire  il  suo  appreso  disonore,  va  a  nascondersi 
in  una  grotta.  Cio  mette  il  colmo  alia  fmezza  dell' artifizio  del  poeta. 
Questa  risoluzione  toccante  all'estremo  grado  rimove  il  confronto 
pericoloso  fra  i  due  eroi  principali.  La  scena  resta  vuota  per  Fingal. 


POESIE    DI    OSSIAN  •   FINGAL  215 

Cucullino  parte,  e  porta  seco  i  nostri  affetti :  resta  Fingal  a  riempirci 
lo  spirito. 

v.  273.  II  carattere  di  Fingal  e  uno  de'  piu  perfetti  che  sia  mai 
stato  immaginato  da  vemn  poeta,  e  forse  a  certi  riguardi  egli  e  piti 
perfetto  d'ogni  altro.  La  perfezione  morale  dei  caratteri  e  diversa 
dalla  poetica.  Consiste  la  prima  in  un  aggregate  delle  piu  belle 
qualita:  la  seconda  nell'idea  astratta  ed  universale  d'una  qualita,  o 
buona  o  viziosa,  applicata  ad  un  personaggio.  Quand'io  dico  che  il 
carattere  di  Fingal  e  perfetto,  intendo  non  solo  di  quest'ultima  per 
fezione,  ma  specialmente  della  prima.  La  perfezione,  ossia  I'eroismo 
di  Fingal,  e  d'una  specie  particolare,  e  pressoche  unica.  II  distintivo 
specifico  di  questo  carattere  e  rumanita.  Fingal  e  acceso  dalPentu- 
siasmo  di  gloria,  ma  non  vagheggia  altra  gloria  che  quella  acquistata 
per  mezzo  d'imprese  benefiche,  non  perniciose  e  funeste.  Benche 
sia  il  piu  grande  de'  guerrieri,  non  ama  pero  la  guerra;  anzi  com- 
piange  piu  d'una  volta  se  stesso  d'esser  costretto  a  passar  la  vita  tra  le 
battaglie  e  le  stragi.  Egli  non  combatte  mai  che  per  difesa  propria  o 
dell'innocenza ;  e  cerca  di  vincere  ancor  piu  colla  generosita  che 
coirarmi.  £  grande,  non  strano ;  forte,  non  duro ;  sensibilissimo  senza 
esser  debole:  amantissimo  de'  suoi,  cortesissimo  verso  gli  estrani, 
amico  disinteressato,  nemico  generoso  e  clemente.  Compassiona  gl'in- 
felici,  e  sente  i  mali  delPumanita;  ma  non  cede,  e  si  consola  col  sen- 
timento  della  sua  virtu  e  x;oll'idea  della  gloria.  lo  non  so  se  Fingal 
sia  veramente  padre  di  Ossian,  o  figlio  della  sua  fantasia.  E  credibile 
che  la  natura  e  il  poeta  abbiano  gareggiato  in  formarlo.  Comunque 
siasi,  un  tal  carattere  e  glorioso  alTumanita  e  alia  poesia.  Omero  e 
un  gran  ritrattista.  Le  sue  copie  sono  eccellenti,  ma  i  suoi  original! 
non  hanno  nulla  di  comune  con  Fingal.1 


i.  Nella  prima  edizione  del  1763  questa  nota  era  molto  piu  ampia,  poich.6 
comprendeva  anche  una  discussione  teorica  intorno  alia  « perfezione »  dei 
caratteri  dei  personaggi,  in  polemica  con  quei  critici  i  quali,  suggestionati 
dalPesempio  omerico,  avevano  sostenuto  che  «i  caratteri  poetici  debbano 
esser  cosi  mescolati  di  contraddizioni  e  di  difetti,  come  li  veggiamo  comu- 
nemente  negli  uornini »,  e  in  particolare  col  Gravina,  il  quale  giungeva  ad 
escludere  che  la  perfezione  morale  potesse  esser  suscettibile  di  rappre- 
sentazione  poetica  (cfr.  Della  ragion  poetica,  lib.  I,  cap.  vi,  in  Opere  scelte, 
ed.  cit.,  pp.  17-21).  Secondo  il  Cesarotti,  e  antipoetica  solo  una  perfezione 
intesa  come  « rigidita  di  natura,  che  si  rende  insensibile  a  tutte  le  passioni 
umane»,  e  non  perche  inverosimile,  ma  in  quanto  pnva  di  interesse;  poe 
tica  e  invece  quella  perfezione  che  consiste  «nel  dirigger  le  passioni  al 
bello  assoluto  o  al  relative »,  una  passione  virtuosa,  insomnia,  che  domini 
e  governi  le  altre.  La  poesia,  infatti,  al  contrario  della  storia  che  rappre- 
senta  il  vero  particolare,  deve  rappresentare  il  vero  universale  e  metafisico, 
i  modelli  eterni  del  vero,  non  le  sue  copie  imperfette;  e  al  tempo  stesso 


2l6  MELCHIORRE    CESAROTTI 

v.  307.  Ecco  il  primo  tratto  deH'umanita  di  Fingal.  Vede  il  suo 
nemico,  ma  non  lo  riconosce  per  tale:  non  iscorge  in  lui  che  il 
fratello  della  sua  amata;  e  la  tenerezza  che  Svarano  avea  mostrata 
per  la  sorella,  gli  fa  dimenticare  la  di  lui  feroce  natura. 

v.  309.  Parra  forse  ad  alcuni  che  questa  tenerezza  di  Svarano  mal 
s'accordi  col  suo  selvaggio  carattere.  Ma  Faffetto  domestico  non  e 
mai  piu  forte  che  nello  state  primitivo  di  societa.  I  selvaggi  americani, 
crudelissimi  contro  i  nemici,  hanno  pei  lor  congiunti  un  trasporto 
sorprendente.  E  quanto  alle  lagrime,  la  forza  d'un  caratter  selvaggio 
non  consiste  nel  superar  le  passioni,  ma  nel  sentirle  con  estrema 
veemenza  ed  abbandonarvisi.  Le  lagrime  nel  dolore  sono  tanto  natu- 
rali  ad  uomo  di  tal  fatta,  quanto  i  ruggiti  nello  sdegno. 

v.  364.  Ossian  non  e  solo  poeta,  ma  uno  dei  principal!  attori  del 
suo  soggetto.  Cio  mette  nelle  sue  narrazioni  un  calore  ed  un  interesse 
che  non  puo  trovarsi  nell'opere  degli  altri  poeti,  per  quanto  eccellenti 
essi  sieno.  Alia  descrizione  delle  sue  prodezze  giovanili  egli  fa  sempre 
succedere  la  commiserazione  dell'mfelice  stato  della  sua  vecchiezza : 
e  questo  contrasto  patetico  fa  un  massimo  effetto. 

v.  374.  La  descrizione  di  questa  battaglia  e  molto  piu  breve  delle 
antecedent!.  Svarano  e  Cucullino  erano  pari  in  valore,  percio  la  vit- 
toria  dovea  disputarsi  piu  a  lungo.  Ma  Fingal  era  superiore  al  para- 
gone.  La  brevita  della  descrizione  mostra  la  maggior  facilita  della 
vittoria. 

v.  391.  Questa  conversazione  e  molto  ben  collocata  e  toccante. 
Ella  spira  virtu  ed  amor  domestico.  Oscar  e  un  giovine  amabile, 
pieno  di  tenerezza  per  il  padre  e  d'entusiasmo  per  1'avo,  che  arde 
di  desiderio  di  rendersi  degno  d'entrambi.  Fmgal  si  compiace  della 
sua  generosa  indole,  e  gli  da  le  lezioni  del  vero  eroismo.  Che  bel 
soggetto  per  un  quadro!  Fingal  in  mezzo,  appoggiato  sullo  scudo  in 
atto  d'ammaestrar  il  nipote:  i  cantori  stan  con  le  mani  sospese  sul- 
Tarpa  per  ascoltarlo.  Gli  altri  eroi  siedono  per  ordine  con  diversi 
atteggiamenti  d'animirazione,  piu  sedata  nei  guerrieri  provetti,  nei 
giovani  piu  vivace.  Gaulo  in  disparte,  pensoso  ed  alquanto  torbido. 


rispondere  al  suo  «gran  fine»,  che  e  quello  di  interessare,  di  muovere,  e  di 
eccitare  alia  virtu.  Molto  discutibile  e  d'altro  lato,  per  il  Cesarotti,  1'idea 
del  Conti,  che  cerca  di  giustificare  i  caratteri  viziosi,  in  quanto  valgono  a 
far  abornre  il  vizio  al  lettore.  Piuttosto,  egli  precisa,  e  da  dire  che  la  per- 
fezione  morale  e  obbhgatona  solo  per  1'eroe  principale.  Infine  il  critico 
distingue  due  specie  di  tale  perfezione:  «perfezione  di  natura »,  che  con 
siste  « nel  depurar  la  natura  e  secondarla »,  e  « perfezione  di  societa »,  che 
consiste  «nel  cancarla  ed  alterarla  speziosamente ».  II  piu  bel  carattere 
poetico  e  quello  in  cui  i  due  eroismi  appaiono  mescolati:  tale  e  appunto 
Fingal. 


POESIE   DI    OSSIAN  •  FINGAL  217 

Oscar  in  piedi  dirimpetto  a  Fingal,  pendente  dalla  sua  bocca,  con  la 
gioia  e  '1  trasporto  dipinto  sul  volto:  ed  Ossian  tra  Tuno  e  Taltro  con 
la  lagrima  all'occhio,  e  diviso  tra  1'ammirazione  del  padre  e  la  tenera 
compiacenza  pel  figlio. 

v.  406.  Fingal  era  figlio  di  Comal.  6  cosa  degna  d'osservazione, 
che  Fingal  il  quale  fa  sempre  Pelogio  di  Tremmor  e  di  Tratal,  suoi 
progenitori,  non  fa  mai  alcuna  menzion  di  suo  padre.  Parmi  che  la 
spiegazione  sia  questa.  Da  qualche  luogo  di  questi  poemi  apparisce 
che  Comal  fosse  un  guerriero  soverchiamente  feroce.  Cio  basta  per- 
che  1'umanita  di  Fingal  non  possa  molto  compiacersi  della  gloria  pa- 
terna.  Egli  ricopre  il  nome  del  padre  in  un  silenzio  che  equivale  ad 
una  rispettosa  condanna. 

v.  468.  Parrebbe  che  Fingal  avesse  proposta  questa  sua  impresa 
giovanile  come  un  esempio  da  imitarsi :  ma  da  queste  parole  sembra 
piuttosto  ch'egli  non  se  ne  compiaccia  gran  fatto.  Non  si  scorge  per 
altro  chiaramente  sotto  qual  vista  egli  disapprovi  la  sua  condotta. 
Forse  gli  sembrera  imprudente  la  sua  soverchia  fiducia,  per  cui  egli 
non  permise  che  la  donzella  si  nascondesse  in  qualche  grotta,  e 
trascuro  le  cautele  per  assicurarla.  6  certo  ch'egli  fu  inescusabile, 
ma  non  e  molto  piu  scusabile  Ossian  d'avere  scelto  a  preferenza  una 
storia  di  tal  fatta,  per  farla  il  soggetto  delle  sue  lezioni  d'eroismo  be- 
nefico  date  al  nipote.  Era  questa  molto  propria  per  dare  ai  lettori  o 
ascoltatori  un'idea  ben  augurata  delle  imprese  cavalleresche  di  quel- 
Teroe?  Aggiungo  ch'ella  non  quadra  bene  ne  co'  sentimenti  prece- 
denti  di  Fingal,  ne  colla  moralita  ch'egli  ne  deduce.  Fingal  avea 
detto  di  sopra  che  il  suo  «braccio  fu  sempre  schermo  degl'infelici, 
e  che  posarono  sempre  sicuri  dietro  il  lampo  della  sua  spada».  Chi 
non  avrebbe  aspettato  in  conferma  di  cio  Pesempio  d'un'impresa  for- 
runata  di  questo  genere  ?  Non  fu  ella  ben  sicura  la  povera  Fainasilla 
alTombra  della  spada  di  Fingal?  Qual  e  poi  la  sentenza  ch'ei  cava 
da  un  tal  fatto  per  Tistruzione  d'Oscar?  « Ch'egli  non  imiti  la  gio- 
ventu,  ma  la  vecchiezza  dell'avo :  che  non  vada  mai  in  traccia  di  bat- 
taglie,  ne  le  ricusi  quando  gli  vengono  incontro. »  Ma  in  quest'azione 
non  puo  dirsi  che  avesse  cercata  la  battaglia,  ne  egli  potrebbe  con- 
dannar  se  stesso  percio,  senza  contradire  alia  sua  massima  di  dar 
soccorso  agrinfelici.  Farei  io  torto  al  sig.  Macpherson  se  osassi  du- 
bitare  che  questo  episodic,  cantato  forse  isolatamente,  fosse,  come 
tanti  altri,  appiccato  con  qualche  inawedutezza  ad  un  luogo  non 
suo  ?  Se  cio  non  vuol  credersi,  converra  dire  che  lo  spirito  d' Ossian 
nella  scelta  e  collocazione  di  quest'awentura  si  risentisse  alquanto 
delle  nebbie  caledonie. 

v.  484.  II  carattere  di  Gaulo  ha  qualche  cosa  di  vizioso.  II  suo 
entusiasmo  di  gloria  non  e  interamente  puro.  II  suo  coraggio  s'ac- 


2l8  MELCHIORRE   CESAROTTI 

costa  alia  presunzione.  Par  ch'ei  voglia  gareggiar  di  gloria  con  Fingal . 
Con  questa  tinta  caricata  Ossian  diversifica  questo  carattere  dagli  altri 
di  simil  genere,  fa  spiccar  maggiormente  la  generosita  e  la  politezza  di 
Fingal,  ed  eccita  grande  aspettazione  per  la  battaglia  seguente. 

v.  495 .  Si  puo  lodare  con  piu  finezza  ?  Questo  e  un  panegirico  in 
aria  di  lamento. 

v.  516.  II  poeta  ci  prepara  al  sogno  di  Fingal  nel  canto  seguente. 

Veggasi  se  questo  non  sarebbe  stato  il  luogo  opportune  per  1'epi- 
sodio  d'Aganadeca. 

CANTO   IV 

v.  20.  Quest'episodio,  benche  sembri  estraneo  al  soggetto,  pur  na- 
sce  felicemente  da  quello,  quantunque  cio  non  si  scorga  che  nel  pro- 
gresso.  Evirallina  era  comparita  ad  Ossian,  per  muoverlo  a  soccorrer 
suo  figlio.  Egli  era  a  questo  passo  del  suo  poema,  ed  avea  pieno  lo 
spirito  della  memoria  della  sua  sposa.  Giunge  Malvina  nel  punto 
ch'egli  stavasi  per  narrare  la  sua  visione.  Nulla  di  piu  naturale  quanto 
ch'egli  sospenda  per  un  poco  il  filo  della  sua  narrazione  per  introdur 
la  storia  de'  suoi  amori  con  la  sua  sposa  e  delle  sue  giovenili  prodezze ; 
il  di  cui  confronto  collo  stato  infelice  della  sua  vecchiaia  e  il  fonte 
principale  del  gran  patetico  delle  sue  poesie. 

v.  103.  Ossian  attribuisce  costantemente  un  carattere  nobile  e  vir 
tuoso  all'amato  suo  figlio.  II  pronto  ritorno  di  Oscar  e  le  sue  parole 
mostrano  la  sommissione  dovuta  ad  un  padre  e  il  calore  che  si  con- 
viene  ad  un  giovine  guerriero. 

v.  136.  Si  loda  giustamente  il  silenzio  d'Aiace  neirOdissea,  e  di 
Didone  ntlYEneide.1  Vi  sono  molti  generi  di  silenzio,  come  di  di- 
scorso:  e  potrebbe  farsene  un  trattatello  rettorico,  che  non  sarebbe 
il  meno  importante.  Nissun  poeta  ne  fece  maggior  uso  ne  piu  giudi- 
zioso  di  Ossian. 

v.  154.  Non  puo  negarsi  che  non  si  trovi  qualche  uniformita  nelle 
comparazioni  di  Ossian.  Ma  questo  difetto  non  e  piu  suo  che  degli 
altri  piu  antichi  poeti,  e  distintamente  di  Omero.  Ossian  per  altro 
ha  dei  titoli  ben  piu  giusti  di  lui  per  giustificarsi  appresso  i  lettori  di- 
screti.  La  sfera  dell'idee  del  poeta  celtico  dovea  essere  senza  confronto 
piu  ristretta  che  quella  del  greco.  La  natura  e  Parte  erano  piu  fe- 
conde  delle  loro  ricchezze  per  Omero,  di  quello  che  fossero  per 
Ossian,  e  gli  presentavano  molto  maggior  copia  d'oggetti  di  tutti  i 
generi.  Si  detraggano  inoltre  dall'Iliade  tutte  le  immagini  e  le  com 
parazioni  basse,  le  quali  Omero  credette  di  potersi  permettere,  e  da 

i.  silenzio . . .  Eneide:  cfr.  Omero,  Od.,  xi,  541-67  e  Virgilio,  Aen.,  vi,  469-71. 


POESIE   DI    OSSIAN  •  FINGAL  219 

cui  lo  spirito  nobile  di  Ossian  religiosamente  si  astenne;  si  vedra 
che  a  proporzione  questo  non  avanza  meno  il  primo  nella  varieta, 
di  quello  che  nella  scelta  e  nella  finezza. 

v.  170.  Che  nobile  sentimento!  DalParia  con  cui  parlo  Gaulo  nel 
canto  antecedente,  ben  si  scorge  che  non  gli  sarebbe  riuscito  discaro 
che  Fingal  si  trovasse  in  pericolo  di  soccombere,  per  aver  la  gloria 
di  dargli  soccorso.  Ma  la  magnanimita  di  Fingal  non  conosce  queste 
piccolezze ;  e  la  sua  gloria  e  tanto  grande  che  non  puo  discendere  ad 
invidiar  I'altrui. 

v.  185.  Gaulo  non  era  che  un  capitano  subalterno,  come  gli  altri. 
Ma  Fingal  1'avea  creato  suo  luogotenente.  Gli  stessi  suoi  figli  do- 
veano  prestargli  deferenza.  Fingal  con  un  discorso  molto  onorifico 
per  Gaulo  previene  le  gare  di  dignita,  e  non  ispira  se  non  quella 
d'una  rispettosa  emulazione.  I  suoi  eroici  conforti  ai  figli  somigliano 
quel  di  Leonida  a'  suoi  Spartani:  «Pranziamo  lietamente,  o  com- 
pagni,  che  cenerem  sotterra»:  se  non  che  qui  c'e  un  grado  di  tene- 
rezza  paterna. 

v.  198.  II  poeta  artificiosamente  fa  che  Fingal  s'allontani  accioc- 
che  il  suo  ritorno  riesca  piu  magnifico  e  faccia  maggior  impressione. 
v.  207.  Negli  atti  e  nelle  parole  di  Oscar  e  vivamente  dipinto  1'ine- 
briamento  d'un  giovine  che  pregusta  il  piacer  della  gloria,  e  che 
brama  d'attuffarvisi  senza  ritegno.  Pure  anche  Famor  filiale  v'ha  la 
sua  parte,  e  sembra  ch'egli  preghi  il  padre  a  scostarsi,  anche  per  al- 
lontanarlo  dal  pericolo  che  potea  sovrastargli. 

v.  226.  Come  e  bella  questa  gara  di  morire  tra  padre  e  figliol 
Euripide  ce  ne  presenta  un'altra  alquanto  diversa  nella  sua  Alceste. 
Veggasi  la  scena  tra  Ferete  e  Admeto. 

v.  238.  Osservisi  con  che  amabile  semplicita  Ossian  tocca  1'illiba- 
tezza  della  sua  fedelta  coniugale. 

v.  246.  Questa  e  quasi  la  stessa  descrizione  che  abbiam  veduta  nel 
canto  I.  Meno  profusione  e  un  po'  piu  d'economia  nelle  descrizioni 
antecedenti  1'avrebbe  salvato  dalla  necessita  di  ripetersi.  lo  che  non 
amo  i  comenti  a  la  Dacier?  mi  fo  un  dovere  non  solo  di  non  palliare, 
ma  di  neppur  dissimulare  i  luoghi  difettosi  del  mio  autore.  Ma  questa 
obiezione  avrebbe  assai  mal  earbo  in  bocca  degli  adoratori  d'Omero, 
appresso  di  cui  si  trovano  si  frequentemente  ripetute  non  solo  le 
descrizioni,  ma  i  discorsi  interi. 

v.  273.  Fingal  s'alza,  ma  non  si  da  fretta  d'accorrere.  Egli  non 
vuol  rapire  a  Gaulo  1'onor  di  rimettersi.  Troppa  sollecitudine  sarebbe 
stata  un'ofTesa  alia  sua  gelosa  delicatezza  su  questo  punto. 

i.  &  la  Dacier:  cioe  ispirati,  come  appunto  quelli  di  madame  Dacier  (cfr. 
la  nota  a  p.  71),  al  proposito  esclusivo  di  difendere  da  ogni  accusa  Ome- 
ro  e  in  genere  gli  scrittori  antichi. 


220  MELCHIORRE    CESAROTTI 

v.  306.  La  soverchia  fidanza  di  quest'eroe  ci  avea  preparati  a  que- 
sto  colpo :  ne"  displace  molto  al  lettore  di  veder  Famabile  Oscar  vin- 
citor  da  una  parte,  e  il  baldanzoso  Gaulo  umiliato  dall'altra. 

v.  313.  Non  par  che  Fingal  sia  il  Giove  Statore,1  che  arresta  tutto 
in  un  punto  i  fuggitivi  Rornani?  La  vergogna  de'  soldati  in  un  tale 
state  e  '1  piii  grand'elogio  e  '1  piu  delicate  che  possa  farsi  ad  un  ca- 
pitano. 

v.  341.  La  condotta  di  Fingal  co}  suoi  guerrieri  e  veramente  am- 
mirabile.  Lungi  dal  rimproverarli,  egli  parla  a  tutti  con  espressioni 
di  politezza  e  di  lode,  e  specialmente  a  Gaulo.  Egli  vide  la  loro 
fuga:  questo  e  Jl  rimprovero  piii  grande  d'ogn'altro;  e  la  fiducia  ch'ei 
mostra  in  loro,  e  lo  stimolo  il  piu  efficace  per  emendar  il  passato. 

v.  370.  Questa  nuova  foggia  di  battaglia  la  diversifica  in  un  modo 
particolare.  Qual  prontezza,  qual  vivacita  negli  eroi!  qual  energia  e 
varieta  neU'espressioni!  e  con  qual  giudizio  Svarano  e  lasciato  ulti 
mo,  come  degno  unicamente  di  Fingal! 

v.  387.  Omero  ed  Ossian  nelle  descrizioni  delle  battaglie  seguono 
una  condotta  direttamente  opposta.  Omero  e  pieno  di  minuti  rac- 
conti:  Ossian  gli  sfugge  a  piu  potere.  L'uno  ammassa,  e  1'altro 
sceglie.  Appresso  Omero  tutti  i  guerrieri  agiscono,  ma  non  sempre 
si  osserva  la  proporzione  e  la  convenienza  dovuta  ai  loro  caratteri. 
Ossian  per  lo  piu  sceglie  un  eroe  principale,  e  lo  fa  brillare,  lasciando 
i  subalterni  confusi  tra  la  folia.  Questi  fa  qualche  volta  abortir  le 
idee  con  la  soverchia  precisione,  e  ci  defrauda  di  qualche  piacere 
che  si  sarebbe  aspettato :  quello  dilaga  lo  spirito  in  un  mare  di  par- 
ticolarita  poco  interessanti,  e  non  lo  lascia  fissare  distintarnente  sopra 
alcun  oggetto.  L'abbondanza  dell'uno  e  Taggiustatezza  dell'altro 
temperate  insieme  avrebbero  fatto  un  misto  perfetto. 

v.  413.  Chi  avrebbe  atteso  questo  slancio  improvviso?  e  chi 
avrebbe  creduto  di  dover  passar  in  un  tratto  da  un  orrido  cosi 
grande  ad  un  patetico  cosi  toccante? 

v.  429.  Un  incidente  di  tal  genere  val  ben  per  molte  delle  parti- 
colarita  d' Omero. 

v.  448.  Questa  e  una  pittura  eccellente,  ma  non  &  meno  meravi- 
gliosa  per  la  finezza  che  qui  mostra  il  poeta.  Cucullino  non  puo 
raffrenarsi.  Ma  il  suo  arrivo  in  tale  stato  di  cose  e  pericoloso.  Che 
fara  egli  ?  verra  ad  usurpar  la  gloria  di  Fingal,  o  a  perder  quella  del 
suo  valor  personale?  Non  si  puo  ammirar  abbastanza  la  finezza  del 


i.  Giove  Statore:  il  Cesarotti  ha  presente  un  passo  di  Livio  (i,  12),  in  cui 
si  narra  come  Giove,  accoghendo  la  preghiera  di  Romolo,  fosse  interve- 
nuto  a  fermare  i  Romani  in  fuga  davanti  ai  Sabini :  episodic  da  cui  avrebbe 
avuto  ongme,  appunto,  il  culto  di  Giove  Statore. 


POESIE   DI    OSSIAN  •  FINGAL  221 

ripiego.  Connal  con  estrema  delicatezza  ha  salvato  Finteresse    di 
Cucullino  e  quel  del  poeta. 


CANTO  v 

v.  15.  Noi  siamo  sul  monte  di  Cromla  insierae  con  Cucullino. 
Le  prodezze  di  Fingal  accadono  sotto  i  nostri  occhi. 

v.  38.  NelP ultima  zufTa  del  canto  antecedente  il  poeta  disse  che 
ciascheduno  de'  guerrieri  scozzesi  aveva  attenuta  la  sua  promessa  di 
vincer  il  nemico  ch'ei  s'avea  scelto.  Si  sara  dimandato :  e  di  Svarano 
e  Fingal  non  si  sa  nulla  di  piu  ?  Ossian  con  sommo  giudizio  ha  riser- 
bata  la  zuffa  dei  due  massimi  eroi  al  presente  canto.  Ell'era  troppo 
importante.  Conveniva  separarla  dall'altre,  collocarla  in  un  sito  piu 
luminoso  e  preparar  lo  spirito  di  chi  ascolta,  perch'ella  facesse  tutta 
1'impression  conveniente. 

v.  49.  Questo  e  forse  1'unico  luogo  in  tutto  il  poema  che  possa  con 
qualche  fondamento  chiamarsi  gonfio.  Pure  egli  e  molto  probabile 
che  quello  che  ai  tempi  nostri  ci  sembra  gonfio,  ai  tempi  di  Ossian 
non  sembrasse  che  meraviglioso.  L'idea  di  forza  e  interamente  rela- 
tiva;  e  si  prenderebbe  un  grosso  equivoco,  se  si  volesse  misurar  dalla 
nostra  la  forza  degli  antichi  Celti.  Qual  proporzione  tra  la  tessitura 
di  corpi  nati  da  germi  viziati,  ristretti  dal  primo  lor  nascimento  tra 
mille  nodi,  cresciuti  aU'ombra  e  nelTinazione,  custoditi  con  mille 
dannose  riserve  e  guasti  interamente  dalla  mollezza;  e  tra  la  vasta 
corporatura  d'uomini  nati  tra  i  boschi,  che  aveano  per  vestiti  le  carni, 
per  letto  la  terra,  per  tetto  il  cielo,  indurati  al  sole,  al  ghiaccio,  a 
tutte  le  inclemenze  dell' aria,  ed  affaticati  continuamente  in  esercizi 
di  guerre,  ove  tutto  si  decidea  con  la  forza  P1  Non  e  egli  visibile  che 
il  nostro  vigore  appetto  a  quello  non  deve  esser  che  un'ombra?  In 
fatti,  tutti  i  monumenti  che  restano  dell'antiche  nazioni  celtiche, 
sono  indizi  d'una  robustezza  prodigiosa.  Trasportlamoci  dunque  nei 
tempi  d'Ossian;  e  rinettiamo  di  piu  che  il  poeta  in  Fingal  e  Svarano 
vuol  darci  un'idea  del  piu  alto  grado  a  cui  possa  giunger  la  forza; 
che  Svarano  era  un  gigante;  che  Fingal  non  poteva  esser  molto 
minore,  se  dovea  vincerlo;  e  si  vedra  allora  che  queste  iperboliche  im- 
magini  sono  meno  lontane  di  quel  che  si  credea  a  prima  vista,  dal 
verisimile  o  almeno  da  quel  possibile  che  solo  basta  al  poeta.  In 
oltre,  Ossian  ci  avea  gia  preparati  a  questi  prodigi ;  ed  egli  ci  racconta 
il  fatto  con  tal  semplicita  di  termini  e  con  una  certa  aria  di  buona 


i.  tra  la  vasta  .  .  .forza:  evidente  riecheggiamento  di  immagini  vichiane. 
Cfr.  soprattutto  La  scienza  nuova,  ed.  cit.,  pp.  498-9. 


222  MELCHIORRE    CESAROTTI 

fede,  che  sarebbe  discortesia  il  non  credergli  almen  la  meta  di  quel 
ch'ei  dice. 

v.  72.  Per  un  altro  poeta,  il  poema  sarebbe  terminate,  ma  per 
Ossian  ci  manca  ancora  la  piu  bella  parte  dell'azione.  Fingal  non  ha 
riportato  che  una  vittoria  volgare.  Egli  se  ne  promette  una  molto 
piu  nobile.  Vuol  trionfar  dello  spirito  di  Svarano,  sopraffarlo  di 
generosita  e  rimandarlo  consolato  e  tranquillo.  Ma  questa  vittoria 
non  e  ancor  matura;  ci  volcano  dei  preparativi.  La  presenza  di  Fingal 
non  poteva  in  quei  primi  momenti  che  aggravar  la  tristezza  di  Sva 
rano.  Fingal  parte,  per  dar  soddisfazione  a  chi  bramasse  di  far  prova 
del  suo  valore,  e  per  accoglier  cortesemente  chi  volesse  arrendersi; 
e  lascia  Svarano  tra  le  mani  di  Gaulo  e  di  Ossian.  L'idea  del  van- 
taggio  che  Svarano  avea  riportato  sopra  Tuno,  e  la  soavita  dell'altro 
erano  atte  a  mitigar  la  sua  tristezza,  ad  ammollir  la  sua  ferocia  e  a 
disporlo  meglio  all'eroica  bonta  di  Fingal. 

v.  117.  Abbiam  gia  detto  in  altro  luogo  che  Fingal  e  Feroe  della 
natura.  Eccone  una  prova  sensibile.  Egli  s'intenerisce  sopra  i  mali 
deirumanita,  e  la  compiange.  Le  sue  lagrime  sono  date  alia  natura 
umana,  non  a  lui  stesso.  Egli  trova  in  se  medesimo  dei  conforti  ben 
degni  di  lui;  e  sa  darli  anche  agli  altri  opportunamente.  Ma  non 
lascia  di  sembrar  duro  e  strano  ad  un  cuore  sensibile,  che  gli  uomini 
anche  i  piu  grandi  debbano  perire  come  i  piu  vili.  Non  bisogna  equi- 
vocare,  come  molti  fanno,  tra  rinsensibilita  e  la  fortezza.  Esse  sono 
qualita  molto  diverse;  anzi  Tuna  esclude  1'altra. 

v.  176.  Questo  lamento  fa  sentir  il  padre  e  Teroe.  £  tenero,  ma 
d'una  tenerezza  sedata  e  decente.  In  generale  il  poeta  non  ama  i 
lunghi  e  stemperati  piagnistei.  Egli  sfiora  gli  affetti,  non  gli  esaurisce. 
Nessuno  intese  piu  di  Ossian  la  verita  di  quel  detto:  «Nihil  citius 
arescit,  quam  lacryma».J 

v.  332.  Ossian  non  loda  mai  i  suoi  eroi  per  le  sole  qualita  di  guerra; 
ma  vi  aggiunge  sempre  il  contrapposto  delle  qualita  pacifiche  e 
dolci.  II  vero  eroismo  risulta  dalla  felice  temperatura  dell'une  e 
dell'altre. 

v-  359-  Presso  i  grandi  maestri  Tallontanamento '  de'  protagonisti 
non  pregiudica  al  decoro  di  quelli,  e  serve  alia  bella  economia  del- 
Tazione.  Achille  sta  lontano  dalla  scena  pressoche  per  la  meta  del- 
Ylliade  senza  cessare  d'essere  Achille.  Appresso  Ossian,  Fingal  non 
comparisce  che  alia  meta  del  terzo  canto,  e  nel  punto  ch'ei  giunge, 
Cucullino  sparisce.  Ma  siccome  Tassenza  di  Fingal  serve  ad  eccitar 

i.  Cfr.  Rhet.  ad  Herennium,  n,  xxxi,  50:  «nihil .  .  .  lacrima  citius  arescit » 
(«nulla  si  asciuga  piu  presto  delle  lagrime »).  E  cfr.  anche  Cicerone,  De 
inv.f  i,  LV,  109. 


POESIE   DI    OSSIAN  -   FINGAL  223 

Paspettazione,  cosl  la  ritirata  di  Cucullino  non  lascia  languir  Pinte- 
resse.  Questa  e  la  seconda  volta  ch'egli  si  mostra,  e  sempre  opportu- 
namente,  e  con  grand'effetto.  Che  gran  colpo  d'occhio  non  fa  egli, 
veduto  cosi  in  distanza  nella  sua  mesta  e  muta  grandezza!  Anche 
Tattitudine  di  Connal  e  conveniente  al  suo  carattere.  II  vero  amico 
tenta  di  mitigar  la  passione  dell'altro  con  le  ragioni  opportune: 
quando  cio  e  vano,  egli  la  rispetta  con  un  affettuoso  silenzio. 

v.  363.  La  felicita  degli  altri  desta,  se  non  invidia,  almeno  rancore 
negl'infelici :  specialmente  quando  la  disgrazia  di  questi  nasca  da  un 
difetto,  e  1'altrui  felicita  da  un  merito.  La  vittoria  di  Fingal  dovea 
sembrar  un  rimprovero  a  Cucullino.  Pure  lungi  dal  rattristarsene, 
egli  ne  risente  qualche  conforto.  II  suo  punto  d'onore  non  ha  nulla 
che  offenda  la  nobilta  del  suo  animo.  Chi  puo  lasciar  d'interessarsi 
per  un  tal  carattere? 

v.  404.  Evirallina  era  degna  sposa  di  Ossian.  Che  beiranimo  non 
mostra  il  suo  canto,  e  le  sue  lagrime  donate  alia  mernoria  delFinfelice 
Cormano!  Nella  morte  di  quest* amante  disamato  rnolte  donne  non 
avrebbero  scorto  che  un  oggetto  di  compiacenza  e  d'orgoglio.  Cor 
mano  sarebbe  stato  una  vittima  sacrificata  a  un  idolo  superbo,  che  la 
riguarda  con  indifferenza.  Tale  appunto  e  il  senso  che  mostra  Elena 
nel  canto  3  dtll'Iliade*  ove  sta  ricamando  nella  tela  le  battaglie  che 
si  facevano  per  lei  fra  i  Troiani  e  i  Greci,  battaglie  che  potevano  de- 
cidere  della  vita  o  di  Menelao  o  di  Paride. 


CANTO   VI 

v.  i .  « Se  Ossian »  dice  Fautore  degli  Annali  tipografici  «  ha  preso 
il  colorito  cupo  degli  oggetti  del  suo  clima,  con  qual  forza  e  con  qual 
verita  non  ne  ha  egli  rappresentata  Fimmagine  ?  E  queste  immagini 
appunto  e  questo  colorito  cupo,  ma  sublime,  sbalordiscono  e  tras- 
portano  Tanima  quasi  ad  ogni  pagina  del  suo  poema».2  Egregia- 
mente.  Noi  per  altro  abbiam  veduto  che  Ossian  sa  maneggiar  con 
ugual  maestria  tutte  le  specie  di  colon.  E  s'egli  fa  piii  spesso  uso  del 
cupo,  quest'e  perche  il  cupo  e  piu  spesso  confacente  a'  suoi  soggetti. 

v.  51.  Artificiosamente  il  poeta  introdusse  quest'episodio,  come 
il  piu  acconcio  a  dispor  gli  animi  alTesito  felice  dell'azione. 

v.  147.  Tutte  le  parlate  di  Ossian  sono  ragguardevoli  per  molti 
pregi :  ma  questa  mi  sembra  d'un'eccellenza  superiore  ad  ogni  altra. 
Non  so  se  sia  piu  ammirabile  la  generosita  di  Fingal  o  1'artifizio  con 
cui  egli  s'insinua  nelT animo  di  Svarano.  Poteva  questi  esser  esacer- 

i.  Tale  .  .  .  Iliade:  cfr.  Omero,  //.,  in,  125-8.     2.  Cfr.  la  nota  i  a  p.  206. 


224  MELCHIORRE   CESAROTTI 

bato  verso  di  Fingal  per  quattro  motivi:  per  Finimicizia  nazionale 
degli  Scozzesi  e  dei  Danesi ;  per  Finimicizia  personale  tra  lui  e  Fingal  ; 
per  la  vergogna  della  sua  sconfitta;  e  per  desiderio  di  risarcirsi. 
Fingal  prende  a  superar  tutti  questi  ostacoli  con  la  nobilta  dej  suoi 
sentimenti ;  e  lo  fa  con  un  ordine  il  piu  conveniente.  Comincia  dal 
primo,  prendendo  occasione  dal  canto  di  Ullino,  e  mostra  colFesem- 
pio  di  Tremmor  che  le  guerre  delle  loro  famiglie  non  venivano 
da  un  odio  ereditario,  ma  da  una  gara  di  gloria,  e  che  anzi  esse 
da  principio  erano  amiche  e  congiunte.  Passa  indi  ad  allontanargli 
dalFanimo  Fidea  della  vergogna,  ch'era  il  punto  piii  delicato  e  piu 
necessario;  e  f a  un  grand'elogio  del  valore  di  Svarano,  indicando 
che  nel  suo  spirito  egli  non  ha  perduto  nulla  delFantica  sua  gloria. 
La  lode  non  e  mai  piCi  lusinghiera  quanto  in  bocca  d'un  nemico. 
Riconfortato  Famor  proprio  di  Svarano  con  questo  calmante,  Fingal 
mette  in  uso  i  modi  piu  blandi.  Lo  chiama  delicatamente  fratello 
d'Aganadeca,  per  destar  in  lui  sentiment!  teneri  ed  amichevoli  col- 
Fimmagine  d'una  sorella  amata  non  meno  da  lui  che  da  Fingal.  Mo 
stra  che,  sin  dal  tempo  di  quella,  egli  avea  concepita  molta  propen- 
sione  per  lui,  e  gli  rammemora  la  prova  sensibile  che  gliene  diede  in 
quella  occasione.  Con  cio  egli  induce  Svarano  a  vergognarsi  di  con- 
servar  odio  e  rancore  con  una  persona  che  gia  da  gran  tempo  Favea 
provocato  in  affetto  e  in  benevolenza.  Finalmente  mette  in  opera  un 
tratto  di  generosita  singolare,  che  doveva  espugnar  Fanimo  il  piii  in- 
domabile.  Svarano  era  vinto:  Fingal  era  padrone  della  sua  vita  e 
della  sua  liberta.  Ma  questi  si  scorda  della  sua  vittoria :  suppone  che 
Svarano  sia  libero  come  innanzi  la  battaglia,  e  propone  per  soddi- 
sfarlo  un  nuovo  cimento  personale,  come  se  il  passato  non  dovesse 
decidere.  Svarano  non  e  un  nemico  vinto,  ma  un  ospite  nobile  a  cui 
si  desidera  di  far  onore.  Se  Dionigi  d'Alicarnasso1  avesse  avuto  da 
analizzare  discorsi  di  questo  genere,  egli  avrebbe  fatto  ben  miglior 
uso  della  sua  critica,  di  quello  che  nello  sviluppare  lo  strano  artifizio 
d'Agamennone  nel  2  doll'Iliade.* 

v.  173.  La  generosita  di  Fingal  va  operando.  Svarano  non  e  piti 
quel  brutale  che  rispose  con  tanta  asprezza  a*  cortesi  inviti  di  Cucul- 
lino  e  di  Fingal.  Un  confronto  si  luminoso  dovea  farlo  troppo  ar- 
rossire  della  sua  prima  natura.  La  rozzezza  di  Svarano  s'ingentilisce, 
e  la  sua  ferocia  si  va  cangiando  in  grandezza. 

v.  1 80.  Svarano  rammemora  piia  volentieri  la  zurTa  di  Malmor  che 
la  presente.  Abbiam  veduto  nel  principio  del  poema  ch'egli  volea  far 

i.  Dionigi  d'Alicarnasso  (30-8  a.  C.),  storico  e  retore  greco,  che  studi6  in 
particolare  lo  stile  degli  oratori  ellenici.  2.  lo  strano  .  .  .  Iliade:  la  falsa  pro- 
posta  di  ritorno  in  patria,  fatta  da  Agamennone  per  tentare  Fanimo  dei 
Greci.  Cfr.  Omero,  //.,  u,  110-41. 


POESIE    DI    OSSIAN  -  FINGAL  225 

credere  di  non  esser  rimasto  inferiore  in  quella  battaglia.  Ma  dalle 
sue  stesse  espressioni  si  scorge  che  questa  non  era  che  un'illusione 
del  suo  amor  proprio.  La  straordinaria  gentilezza  di  Fingal  e  vicina 
a  strappargli  di  bocca  la  confessione  della  sua  inferiorita;  ma  egli  si 
spiega  in  un  modo  alquanto  indiretto  ed  equivoco.  La  virtii  sta  per 
vincerla;  ma  la  natura  fa  ancora  qualche  resistenza. 

v.  193.  Gli  eroi  de'  poeti  greci  erano  molto  lontani  da  questi 
magnanimi  sentimenti.  Achille  nel  24  dell'Iliade,  avendo  reso  a 
Priamo  il  corpo  di  Ettore,  fa  le  sue  scuse  coH'ombra  di  Patroclo  per 
aver  usato  questo  atto  di  pieta;1  e  potendo  allegare  per  sua  giusti- 
ficazione,  se  non  i  sentimenti  naturali  d'umanita,  almeno  il  comando 
di  Giove  e  1'esortazioni  di  sua  madre  Tetide,  egli  lascia  questa  ra- 
gione  plausibile  (giacche  pur  credea  d'aver  bisogno  di  scusa)  e  ad 
duce  unicamente  quest 'altra,  che  Priamo  gli  avea  fatto  dei  doni  che 
non  erano  da  dispregiarsi.  Hawi  un  luogo  nelle  Supplici  d'Euripide 
che  ha  una  relazione  piij.  piena  con  tutta  la  condotta  di  Fingal  in 
questa  guerra,  e  ch'e  un  esempio  luminoso  della  somma  differenza 
che  passava  tra  lo  spirito  degli  antichi  poeti  greci  e  quello  di  Ossian. 
Adrasto,  re  di  Argo,  ricorre  personalmente  a  Teseo,  re  d'Atene,  af- 
fine  d'indurre  col  suo  soccorso  i  Tebani  a  dar  sepoltura  agli  estinti 
uccisi  nella  passata  guerra.  Teseo,  dopo  avergli  fatto  1'uomo  addosso2 
con  poca  discrezione  e  con  molta  superiorita,  gli  da  crudamente  una 
negativa.  Mosso  poi  dalle  persuasioni  della  madre  piu  che  dall'onesta 
della  causa  o  dai  sentimenti  d'un  animo  generoso,  si  determina  con 
malissimo  garbo  a  sostener  Adrasto  con  le  sue  armi.  Dopo  la  sua  vit- 
toria  segue  a  trattar  Adrasto  con  disprezzo:  nnalmente  per  compir 
1' opera  comparisce  Minerva,  per  ricordar  a  Teseo  ch'egli  si  faccia 
dar  la  sua  mercede  da  Adrasto  pel  suo  benefizio,  e  che  per  assicurar- 
sene  lo  costringa  ad  un  giuramento.  Questa  e  la  delicatezza  inirnita- 
bile  del  poeta  greco.  Si  esamini  ora  la  condotta  del  barbaro.  Fingal, 
intesa  Tinvasione  meditata  da  Svarano,  corre  in  soccorso  di  Cucullino 
e  salva  Flrlanda.  Lungi  dal  rimproverar  la  sua  disgrazia  alPamico, 
lo  conforta  e  lo  esalta;  e  in  luogo  d'esiger  guiderdone  dall'alleato, 
ricusa  Fomaggio  del  suo  stesso  nemico. 

v.  202.  Ecco  il  trionfo  di  Fingal  interamente  compiuto.  Avrebbe 
potuto  il  poeta  far  che  Svarano  persistesse  nella  sua  ferocia,  che  vo- 
lesse  di  nuovo  combattere,  e  che  morisse  pugnando.  Ma  il  suo  can- 
giamento  e  molto  piu  glorioso  per  Fingal,  piu  interessante  e  piti. 
istruttivo.  Ossian  c'insegna  con  quest' esempio  che  la  virtii  doma  i 
cuori  piu  barbari,  e  ch'ella  trionfa  alle  volte  dell'educazione  e  della 

i.  Achilla  .  .  .  pieta:  cfr.   Omero,  IL,  xxiv,  592-5.     2.  avergli  .  .  .  addosso: 
averlo  trattato  con  sgarbato  sussiego. 


226  MELCHIORRE   CESAROTTI 

natura.  Lezione  utilissima,  e  ch'e  d'un  massimo  stimolo  per  corri- 
sponder  colla  beneficenza  a  coloro  che  ci  provocarono  colle  offese. 

v.  235.  La  presenza  di  Carilo  risveglia  in  Fingal  1'idea  di  Cucullino, 
ma  egli  non  s'indirizza  a  quest'eroe  se  non  dopo  la  partenza  di  Sva 
rano,  Questa  mi  sembra  un'avvertenza  assai  delicata.  Cucullino  e 
Svarano  non  erano  caratteri  da  potersi  conciliar  insieme  cosi  age- 
volmente.  La  presenza  del  primo  avrebbe  destato  nell'altro  qualche 
movimento  d'orgoglio;  e  quella  di  Svarano  non  poteva  che  accrescer 
la  vergogna  e  1'afflizione  di  Cucullino.  Cosi  la  loro  reciproca  vista 
era  piu  atta  ad  inasprir  gli  animi  che  a  riconciliarli.  Fingal  giudizio- 
samente  allontana  prima  1'uno,  e  poi  pensa  a  consolar  1'altro. 

v.  328.  Questo  incidente  e  molto  toccante.  D'ugual  finezza  e  il 
tratto  di  sopra,  ove  Fingal,  chiamando  i  suoi  figli,  nomina  Rino. 
I  gran  poeti  sanno  far  nascer  di  questi  incidenti  quando  meno  si 
aspettano:  gli  altri  non  veggono  i  piu  owi  e  presentati  spontanea- 
mente  dal  soggetto. 


CARTONE1 

ARGOMENTO 

Al  tempo  di  Comhal,  figlio  di  Trathal  e  padre  di  Fingal,  Cles- 
samorre,  figlio  di  Thaddu  e  fratello  di  Morna,  madre  di  Fingal, 
fu  spinto  dalla  tempesta  nel  fiume  Clyde,  sulle  rive  del  quale  stava 
Balclutha,  citta  che  apparteneva  ai  Britanni  di  qua  dal  muro.  Egli 
fa  ospitalmente  ricevuto  da  Reuthamiro,  ch'era  il  re  o  signore  del 
luogo,  e  n'ebbe  in  moglie  Moina,  unica  figlia  di  quel  re.  Reuda> 
figlio  di  Cormo,  ch'era  un  signore  britanno  irmamorato  di  Moina, 
venne  in  casa  di  Reuthamiro  e  tratto  aspramente  Clessamorre. 
Vennero  alle  mani,  e  Reuda  resto  ucciso.  I  Britanni  del  suo  se- 
guito  si  rivolsero  tutti  contro  di  Clessamorre,  di  modo  ch'egli  fu 
costretto  a  gettarsi  nel  fiume  e  ricovrarsi  a  nuoto  nella  sua  nave. 
Spiego  le  vele,  ed  essendogli  il  vento  favorevole,  gli  venne  fatto  di 
uscir  in  mare.  Tent  6  piu  volte  di  ritornarsene  e  di  condur  seco 
in  tempo  di  notte  la  sua  diletta  Moina;  ma  rispinto  sempre  dal 
vento,  fu  forzato  a  desistere.  Moina,  lasciata  gravida,  diede  alia 
luce  un  fanciullo,  e  da  li  a  poco  mori.  Reuthamiro  impose  al  fan- 
ciullo  il  nome  di  Carthon,  cioe  mormorio  dellsonde,  in  memoria  della 
tempesta  che,  come  credevasi,  avea  fatto  perire  suo  padre.  Avea 
Carthon  appena  tre  anni,  quando  Comhal,  padre  di  Fingal,  in  una 
delle  sue  scorrerie  contro  i  Britanni,  prese  ed  abbrucio  Balclutha. 
Reuthamiro  fu  ucciso  in  battaglia,  e  Carthon  fu  trafugato  dalla 
nutrice,  che  si  rifugio  neirinterno  della  Brettagna.  Carthon,  fatto 
adulto,  delibero  di  vendicare  la  distruzione  di  Balclutha  sopra  la 
posterita  di  Comhal.  Fece  vela  colle  sue  genti  dal  fiume  Clutha, 
e  giunto  sulla  costa  di  Morven,  abbatte  sulle  prime  due  dei  guerrieri 
di  Fingal:  finalmente  venuto  a  singolar  battaglia  con  Clessamorre, 
suo  padre,  da  lui  non  conosciuto,  resto  da  quello  miseramente  uc 
ciso.  Questa  e  la  storia  che  serve  di  fondamento  al  presente  poema, 
il  quale  contiene  la  spedizione  e  la  morte  di  Carthon.  Le  cose  an- 
tecedenti  vengono  artificiosamente  raccontate,  come  per  episodic, 
da  Clessamorre  a  Fingal.  II  poema  si  apre  la  notte  precedente  alia 
morte  di  Carthon,  mentre  Fingal  tornava  da  una  spedizione  contro 
i  Romani  stabiliti  nelFInghilterra.  £  indirizzato  a  Malvina,  vedova 
di  Oscar,  figlio  del  poeta. 

i.  Dalle  Opere,  iv,  pp.  189-218.  Al  titolo  in  I  era  apposta  questa osservazione 
poi  eliminata:  «Questo  poema  e  forse  il  meglio  condotto  di  quanti  si  tro- 
vano  in  questa  raccolta,  e  senza  dubbio  il  piti  interessante  d'ogn'altro.  lo 
non  ne  indicher6  le  bellezze:  il  cuore  le  fara  sentire  assai  meglio  di  qua- 
lunque  discorso». 


2Z8  MELCHIORRE   CESAROTTI 

Storie  de'  prischi  tempi  e  forti  fatti 

il  mormorio  delle  tue  onde,  o  Lora, 

mi  risveglia  nelPalma;  e  dolce,  o  Garma, 

e  a  quest'orecchio  de'  tuoi  boschi  il  suono. 

Malvina,  vedi  tu  quelPerta  rupe  5 

che  al  cielo  inalza  la  petrosa  fronte  ? 

Tre  pini  antichi  cogli  annosi  rami 

vi  pendon  sopra,  ed  al  suo  pie  verdeggia 

pianura  angusta:  ivi  germoglia  il  fiore 

della  montagna,  e  va  scotendo  al  vento  10 

Candida  chioma;  ivi  soletto  stassi 

Tispido  cardo:  due  muscose  pietre 

mezzo  ascoste  sotterra  ai  riguardanti 

segnan  quel  luogo:  dall'alpestre  balzo 

bieco  il  sogguarda  il  cavriolo,  e  fugge  15 

tutto  tremante,  che  nell'aere  ei  scorge 

la  pallid'ombra  ch'ivi  a  guardia  siede. 

Per6  che  la  nella  ristretta  valle 

dell'alta  roccia,  ineccitabil  sonno 

dormon  Talme  dei  forti:  or  odi,  o  figlia,  20 

storie  de'  prischi  tempi  e  forti  fatti. 

Chi  e  costui,  che  daU'estrania  terra 
vien  tra'  suoi  mille?  Lo  precede  il  sole, 
e  sgorga  lucidissimo  torrente 

innanzi  ad  esso,  e  de'  suoi  colli  il  vento  25 

vola  incontro  al  suo  crin:  sorride  in  calma 
placido  il  volto,  come  suole  a  sera 
raggio  che  fuor  per  Pazzurrino  velo 
di  vaga  nuvoletta  in  occidente 

guarda  di  Cona  su  la  muta  valle.  3° 

Chi,  fuor  che  il  figlio  di  Comallo,  il  prode 
di  Morven  re,  dai  gloriosi  fatti? 
Ei  vincitor  ritorna,  e  i  colli  suoi 


3 .  Garma :  Garmallar,  monte  di  Lora  (C.)-  5  •  erta :  I :  « alta ».  20.  dei  forti : 
di  Cartone  e  di Clessamorre  (C.)-  I :  « grandi ».  22.  dalVestrania  terra:  Fin- 
gal  era  di  ritorno  da  una  spedizione  contro  i  Romam.  II  poeta  incommcia 
la  sua  narrazione  da  questo  punto,  e  si  esprime  col  suo  solito  modo  interro 
gative,  come  se  Fmgal  tornasse  allor  allora  dalla  sua  impresa  (C.)« 


POESIE    DI    OSSIAN  •   CARTONE  22Q 

di  riveder  s'allegra,  e  vuol  che  mille 

voci  sciolgansi  al  canto.  —  Alfin  fuggiste,  35 

audaci  figli  di  lontana  terra, 

domati  in  guerra  -  lungo  i  campi  vostri 

dai  brandi  nostri;  -  e  con  dolor  profondo 

il  re  del  mondo  -  che  la  strage  or  sente 

della  sua  gente  -  ed  il  suo  scorno  vede,  40 

la  guancia  fiede,  -  e  giu  balza  dal  soglio 

rosso  d'orgoglio :  -  il  fero  sguardo  gira, 

lampeggia  d'ira  -  a'  suoi  danni  pensando, 

e  indarno  il  brando  -  de'  suoi  padri  afFerra: 

fuggiste,  o  figli  di  lontana  terra.  —  45 

Si  parlaro  i  cantor,  quando  alle  mura 
giunser  di  Selma:  scintillaro  intorno 
mille  tolte  ai  stranier  candide  luci. 
Si  diffonde  il  convito,  e  in  feste  e  canti 
passa  la  notte.  —  Ov'e  —  Fingallo  esclama  50 

—  il  nobil  Clessamorre  ?  ov'e  '1  compagno 
del  padre  mio  ?  perche  non  viene  anch'egli 
il  giorno  a  festeggiar  della  mia  gioia? 

Ei  sulle  rive  del  sonante  Lora 

vive  mesto  ed  oscuro.  Eccolo,  ei  scende  55 

dalla  collina;  e  nelle  vecchie  membra 

porta  fresco  vigore,  e  par  destriero 

che  fiuta  Paura  de5  compagni  e  scuote 

lucide  giubbe.  Oh  benedetta  1'alrna 

di  Clessamorre!  perche  mai  si  tardo  60 

giungesti  in  Selma  ?  —  Ah  tu  ritorni  —  ei  disse 

—  in  mezzo  alia  tua  fama,  o  duce  invitto. 
Tal,  mi  rimembra,  era  Comallo  il  padre 
nelle  battaglie  giovenili:  insieme 

spesso  varcammo  de'  stranieri  a  danno  65 

le  sponde  del  Carron,  ne  i  brandi  nostri 
tornar  digiuni  di  nemico  sangue, 


35.  Questo  e  il  canto  dei  bardi  per  la  vittoria  di  Fingal  (C.).  39-  H  re  del 
mondo :  I'imperator  de'  Romani  (C.).  41.  fiede:  colpisce.  48.  mille... 
luci:  probabilmente  candele  di  cera  (C.)-  58-9-  che  .  .  .  giubbe:  I  e  II :  «cui 
scosse  al  vento  le  lucenti  giubbe  /  sferzan  le  spalle ». 


230  MELCHIORRE    CESAROTTI 

ne  11  re  del  mondo  ebbe  cagion  di  gioia. 

Ma  perche  rammentar  battaglie  e  fatti 

di  giovinezza?  I  miei  capelli  omai  70 

fans!  canuti,  la  mia  man  si  scorda 

di  piegar  1'arco,  e  1'infiacchito  braccio 

inalza  asta  piu  lieve.  Oh  se  tornasse 

la  mia  freschezza  ed  il  vigor  primiero 

nelle  mie  membra,  come  allor  ch'io  vidi  75 

il  bianco  seno  di  Moina  e  gli  occhi 

fosco-cerulei!  —  E  in  questo  dir  sul  labbro 

spunta  un  sospiro.  Allor  Fingallo  a  lui: 

—  Narraci  —  disse  —  la  pietosa  istoria 

des  tuoi  verd'anni.  Alta  mestizia,  amico,  So 

fascia  il  tuo  spirto,  come  nebbia  il  sole: 

son  foschi  i  tuoi  pensier;  solingo  e  muto 

lungo  il  Lora  ti  stai;  di  sgombrar  tenta, 

sfogando  il  tuo  dolor,  della  tristezza 

la  negra  notte  che  i  tuoi  giorni  oscura.  85 

—  Era  —  quei  ripiglio  —  stagion  di  pace, 
quando  mi  prese  di  mirar  talento 
le  di  Barcluta  torreggianti  mura. 
Soffiava  il  vento  nelle  bianche  vele, 
e  '1  Cluta  aperse  alia  mia  nave  il  varco;  90 

cortese  ospizio  nel  regale  albergo 
ebbi  tre  di  di  Rotamiro,  e  vidi, 
vidi  quel  raggio  d'amorosa  luce, 


76.  Moina,  «soave  di  temperamento  e  di  persona ».  I  nomi  britanni  in  que- 
ste  poesie  sono  denvati  dal  celtico,  il  che  mostra  che  1'antico  linguaggio 
di  tutta  Tisola  era  lo  stesso  (M.)-  77-  fosco-cerulei:  i:  « nero-cerulei ». 
77-8.  E  in  questo  .  .  .  sospiro :  veramente  Ossian  non  aggmngc  che  Clessa- 
morre  sospirasse;  ma  io  ne  sono  tanto  certo  come  se  Favessi  mteso,  e  le 
parole  seguenti  me  ne  assicurano  (C.).  83-5.  di  sgombrar  .  .  .  oscura:  I'on- 
ginale:  «facci  udir  il  cordogho  della  tua  gioventu,  e  Foscurita  de*  tuoi  gior 
ni  ».  Cosl  par  che  Fingal  lo  stimoli  a  parlare  per  semplice  cunosita.  Io  volli 
dargli  un  motivo  piu  interessante  (C.).  86.  La  narrazione  di  Clessamorre 
e  per  se  stessa  eccellente;  ma  la  sua  bellezza  ci  far£  molto  maggior  im- 
pressione  sul  fin  del  poema,  perch6  per  mezzo  di  essa  ci  troveremo  istruiti, 
senza  saperlo,  di  tutto  ci6  ch'era  necessario  per  prepararci  allo  sciogli- 
mento  dell'azione  (C.).  88.  Barcluta:  Bal-clutha,  «la  citta  del  Clyde », 
probabilmente  1'Alcluta  di  Beda  (M.)- 


POESIE   DI    OSSIAN  -   CARTONE  231 

la  figlia  sua.  N'ando  la  conca  in  giro 

portatrice  di  gioia:  il  vecchio  eroe  95 

diemmi  la  bella.  Biancheggiava  il  petto 

come  spuma  sull'onda;  erano  gli  occhi 

stelle  di  luce,  e  somigliava  il  crine 

piuma  di  corvo;  era  gentile  e  dolce 

quel  caro  spirto:  amor  mi  scese  alPalma  100 

profondamente,  ed  al  soave  aspetto 

sentia  stemprarsi  di  dolcezza  il  core. 

Giunse  in  quel  punto  uno  stranier,  che  ambiva 
di  Moina  Pamor;  parlommi  altero, 
e  la  man  nel  parlar  correagli  al  brando.  105 

«Ov'e»  diss'egli  d'inquieto  errante 
figlio  del  colle?  ov'e  Comallo?  Ei  certo 
poco  lungi  esser  dee,  poiche  si  ardito 
qua  s'inoltra  costui ».  «  Guerrier, »  risposi 
« Talma  mia  d'una  luce  arde  e  sfavilla,  no 

ch'e  propria  sua,  ne  la  mendica  altronde: 
benche  i  forti  sien  lungi,  io  sto  fra  mille, 
ne  m'arretro  al  cimento.  Alto  favelli 
perche  solo  son  io;  ma  gia  1'acciaro 
mi  trema  al  fianco  e  impaziente  agogna  115 

di  scintillarmi  nella  man:  t'accheta, 
non  parlar  di  Comal,  figlio  superbo 
del  serpeggiante  Cluta».  A  cotai  detti 
tutta  la  possa  del  feroce  orgoglio 
sorse  contro  di  me;  pugnammo,  ei  cadde  120 

sotto  il  mio  brando:  al  suo  cader,  le  rive 
sonar  del  Cluta,  e  mille  lance  a  un  punto 
splender  io  vidi  e  mille  spade  alzarsi. 
Pugnai,  fui  vinto;  io  mi  slanciai  nell'onda, 
spiegai  le  vele  e  in  mar  mi  spinsi.  Al  lido  135 

venne  Moina,  e  mi  seguia  cogli  occhi 
rossi  di  pianto,  e  verso  me  volava 
sparsa  al  vento  la  chioma;  io  ne  sentia 


106.  La  parola  che  qui  si  traduce  per  inqmeto  errante,  nelP originate  e  a  scu 
ta  »,  dal  qual  termine  i  popoli  della  nostra  provincia  ebbero  la  denomina- 
zione  di  «Scoti».  Vedi  il  Ragionamento  prelim.  (M.)-  Cfr.  Opere,  n,  p.  31. 


232  MELCHIORRE    CESAROTTI 

le  amare  strida,  e  gia  piu  volte  il  legno 

di  rivolger  tentai;  prevalse  il  vento,  130 

ne  piu  il  Chita  vid'io  ne  il  candidetto 

sen  di  Moina.  Ella  morio,  m'apparve 

la  bell'ombra  amorosa:  io  la  conobbi 

mentre  veniane  per  Poseur  a  notte 

lungo  il  fremente  Lora,  e  parea  luna  135 

teste  rinata,  che  traluce  in  mezzo 

di  densa  nebbia,  allor  che  giii  dal  cielo 

fiocca  spessa  la  neve  in  larghe  falde, 

e  '1  mondo  resta  tenebroso  e  muto.  — 

Tacque,  cio  detto,  e  a'  suoi  cantor  rivolto  140 

disse  1'alto  Fingal:—  Figli  del  canto, 
aH'infelice  e  tenera  Moina 
lodi  tessete,  e  coi  leggiadri  versi 
la  belPombra  invitate  ai  nostri  colli, 
ond'ella  possa  riposarsi  accanto  145 

alle  di  Morven  rinomate  belle, 
raggi  solari  dei  passati  giorni, 
e  dolce  cura  degli  antichi  eroi. 
Vidi  Barcluta  anch'io,  ma  sparsa  a  terra, 
rovine  e  polve:  strepitando  il  foco  150 

signoreggiato  avea  per  1'ampie  sale, 
ne  piu  citta,  ma  d'abitanti  muto 
era  deserto:  al  rovinoso  scrollo 
delle  sue  mura  avea  cangiato  il  Cluta 
Pusato  corso:  il  solitario  cardo  155 

fischiava  al  vento  per  le  vuote  case, 
ed  affacciarsi  alle  fenestre  io  vidi 
la  volpe,  a  cui  per  le  muscose  mura 
folta  e  lungh'erba  iva  strisciando  il  volto. 
Ahi  di  Moina  e  la  magion  deserta,  160 

silenzio  alberga  nei  paterni  tetti: 
sciogliete  il  canto  del  dolore,  o  vati, 
su  i  miseri  stranieri:  essi  un  sol  punto 


I57~9-  edaffacciarsi  .  .  .  volto:  cfr.  L,eopaTdi,Aunvtncitorenelpallone,  44-6: 
«le  citta  latine  /  abitera  la  cauta  volpe,  e  1'atro  /  bosco  mormorera  fra  le 
alte  mura». 


POESIE   DI    OSSIAN  •   CARTONE  233 

prima  di  noi  cadero;  un  punto  poi 

cadrem  noi  pur,  si  cadrem  tutti.  O  figlio  165 

del  giorni  alati,  a  che  le  sale  inalzi 

pomposamente  ?  Oggi  tu  guardi  altero 

dalle  tue  torri:  attend!  un  poco,  il  nembo 

piombera  dal  deserto;  ei  gia  nel  vuoto 

tuo  cortil  romoreggia  e  fischia  intorno  170 

al  mezzo  infranto  e  vacillante  scudo. 

Ma  piombi  il  nembo :  e  che  sara  ?  Famosi 

fieno  i  di  nostri;  del  mio  braccio  il  segno 

stara  nel  campo,  e  andra  '1  mio  nome  a  volo 

su  le  penne  dei  versi.  Alzate  il  canto,  175 

giri  la  conca,  e  la  mia  sala  echeggi 

di  liete  grida.  0  tu  celeste  lampa, 

dimmi,  o  sol,  cesserai?  verrai  tu  manco, 

possente  luce?  Ah,  s'e  prescritto  il  fine 

del  corso  tuo,  se  tu  risplendi  a  tempo,  180 

come  Fingallo,  avrem  camera,  o  sole, 

di  te  piu  lunga;  Palta  gloria  nostra 

sorvivera  nel  mondo  ai  raggi  tuoi.  — 

Cosi  canto  Falto  Fingallo:  i  mille 
cantori  suoi  da'  lor  sedili  alzarsi,  185 

e  s'affollaro  ad  ascoltar  la  voce 
del  loro  re,  che  somigliava  al  suono 
di  music'arpa,  cui  vezzeggia  auretta 
di  primavera.  Eran  leggiadri  e  dolci, 
Fingallo,  i  tuoi  pensieri:  ah,  perche  mai  190 

Ossian  da  te  la  gagliardia  non  trasse 
delFalma  tua?  Ma  tu  stai  solo,  o  padre, 
e  qual  altro  oseria  portisi  accanto  ? 

Passo  in  canti  la  notte,  e  Jl  di  rifulse 
sulla  lor  gioia:  gia  le  grige  cime  195 

scopron  le  rupi,  al  loro  pie  da  lungi 
rota  Fonda  canuta,  e  in  lievi  crespe 
Tazzurra  faccia  sorridea  del  mare. 


165-6.  O  figlio  .  .  .  alati:  o  uomo  figlio  del  tempo,  cioe  mortale  (C.). 
177-9.  O  tu...  luce?:  questo  motive  sara  sviluppato  dal  Leopardi  nel  Can- 
tico  del  gallo  silvestre.  192.  tu  stai  solo:  tu  non  hai  chi  ti  pareggi  (C.). 


MELCHIORRE   CESAROTTI 

S'alza  nebbia  dal  lago,  e  in  se  figura 

forma  di  veglio :  le  sue  vaste  membra  200 

lentamente  s'avanzano  sul  piano, 

a  passi  no,  che  la  reggeva  un'ombra 

per  mezzo  aU'aria;  nella  regia  sala 

entra  di  Selma,  e  si  discioglie  in  pioggia 

di  nero  sangue.  II  re  fu  '1  sol  che  scorse  205 

Forrido  obietto,  e  presagl  la  morte 

del  popol  suo.  Tacito  ei  sorge  e  afferra 

Fasta  del  padre;  gli  fremea  sul  petto 

ferrato  usbergo;  ergonsi  i  duci,  e  muti 

si  risguardan  Tun  Faltro,  e  spiano  intenti  210 

del  re  gli  sguardi:  a  lui  pinta  sul  volto 

veggon  la  pugna,  e  suU'acuta  lancia 

scorgon  la  morte  delParmate  intere. 

Mille  scudi  impugnarsi,  e  mille  spade 

s'imbrandiro  ad  un  punto,  e  Selma  intorno  215 

suona  d'arme  e  sfavilla:  urlano  i  cani, 

non  respirano  i  duci,  e  in  aria  Taste 

sospese  stanno,  e  nel  re  fitti  i  sguardi. 

—  0  di  Morven  —  diss'ei  —  figli  possenti, 
tempo  or  non  e  di  ricolmar  la  conca  220 

gioiosamente ;  sopra  noi  s'abbuia 
aspra  battaglia,  e  su  le  nostre  terre 
vola  la  morte.  A  me  Tannunzio  arnica 
ombra  rec6 :  vien  lo  stranier  dal  mare 
fosco-rotante,  che  dall'onde  il  segno  225 

venne  del  gran  periglio.  Ognuno  impugni 
la  poderosa  lancia,  ognuno  al  fianco 
cinga  il  brando  paterno ;  ad  ogni  capo 
il  nero  elmo  s'adatti,  e  in  ogni  petto 
splenda  1'usbergo :  si  raccoglie  e  addensa,  230 

come  tempesta,  la  battaglia,  e  in  breve 
udrete  intorno  a  voi  Turlo  di  morte.  — 

Mosse  1'eroe  delle  sue  squadre  a  fronte, 
simile  a  negra  nube,  a  cui  fa  coda 
verde  striscia  di  foco,  allor  che  in  cielo  235 

s'alza  di  notte  ed  il  nocchier  prevede 


POESIE   DI    OSSIAN  •   CARTONE  235 

vicino  nembo.  Si  ristette  Toste 

sopra  il  giogo  di  Cona,  e  lei  daH'alto 

le  verginelle  dal  candido  seno 

rimirano  qual  bosco :  esse  la  morte  240 

preveggon  gia  dei  garzonetti  amati, 

e  paurose  guardano  sul  mare 

e  fansi  inganno;  ad  ogni  candid'onda 

credon  mirar  le  biancheggianti  vele 

degli  stranieri,  e  sulle  smorte  guance  245 

stannosi  Tamorose  lagrimette. 

Sorse  dal  mare  il  sole,  e  noi  scoprimmo 
lontana  flotta:  lo  stranier  sen  venne, 
come  dalljocean  nebbia;  sul  lido 
balza  la  gioventu.  Sembrava  il  duce  250 

cervo  in  mezzo  al  suo  gregge;  asperso  d'oro 
folgoreggia  lo  scudo,  e  maestoso 
s'avanza  il  sir  delPaste;  awiasi  a  Selma, 
seguonlo  i  mille  suoi.  —  Vattene,  Ullino, 
col  tuo  canto  di  pace  al  re  dei  brandi;  —  255 

disse  Fingal  —  digli  che  siam  possenti 
nelle  battaglie,  e  dei  nemici  nostri 
molte  son  Tombre;  ma  famosi  e  chiari 
son  quei  che  festeggiar  nelle  mie  sale. 
Essi  de'  padri  miei  mostrano  Parme  260 

nelle  terre  straniere,  e  lo  straniero 
n'ha  meraviglia,  e  «Benedetti»  ei  grida 
(csien  di  Morven  gli  amici».  I  nostri  nomi 
suonan  da  lungi,  e  ne  tremaro  in  mezzo 
dei  popoli  soggetd  i  re  del  mondo.  —  265 

Ullino  ando  col  suo  canto  di  pace, 
e  sopra  1'asta  riposossi  intanto 
Palto  Fingallo.  Ei  scintillar  nell'armi 
vide  il  nemico,  e  benedisse  il  figlio 
dello  stranier.  —  Prole  del  mare,  —  ei  disse  270 


237.  Voste:  Tesercito.  251-2.  asperso  .  .  .  scudo:  Carthon  essendo  un  bri- 
tarino  della  provincia  romana,  o  a  quella  contiguo,  poteva  esser  fornito 
d'oro  piii  abbondevolmente  dei  Caledoni  (C.).  260.  Vedi  il  Rag.  prelim. 
(C.).  Cfr.  Opere,  n,  p.  63. 


236  MELCHIORRE    CESAROTTI 

—  deh  come  arieggi  maestoso  e  bello! 
Raggio  di  forza  che  ti  splende  al  fianco 
e  la  tua  spada,  e  la  tua  lancia  un  pino 
sfidator  di  tempeste,  e  della  luna 

lo  scudo  uguaglia  il  variato  aspetto  275 

in  ampiezza  e  splendor:  vermiglia  e  fresca 
la  faccia  giovenil,  morbide  e  lisce 
sono  le  anella  della  bruna  chioma. 
Ahi,  ma  cader  poria  si  bella  pianta, 
e  la  memoria  sua  svanir  per  sempre!  280 

Trista  sara  dello  stranier  la  figlia, 
e  guardera  sul  mare:  i  fanciulletti 
diran  tra  lor:  «Nave  vediamo,  oh!  nave! 
Questo  e  '1  re  di  Barcluta».  II  pianto  corre 
agli  occhi  della  madre,  e  i  suoi  pensieri  285 

sono  a  colui  che  forse  in  Morven  dorme.  — 
Si  disse  il  re,  quando  a  Carton  dinnanzi 
sen  giunse  Ullin,  getto  la  lancia  a  terra, 
e  cosi  sciolse  della  pace  il  canto : 

—  Vieni  alia  festa  di  Fingallo,  oh  vieni,  290 
figlio  del  mar:  vuoi  del  regal  convito 

venirne  a  parte,  o  sollevar  ti  piace 

1'asta  di  guerra?  de'  nemici  nostri 

molte  son  1'ombre;  ma  famosi  e  chiari 

gli  amici  son  della  morvenia  stirpe.  295 

Mira,  Carton,  quel  campo:  ivi  s'inalza 

verde  collina  con  muscose  pietre 

e  susurrante  erbetta,  ivi  le  tombe 

son  dei  nemici  di  Fingallo  invitto, 

audaci  figli  del  rotante  mare.  3oo 

—  0  —  rispose  Carton  —  delFarborosa 
Morven  cantor,  che  parli  ?  a  cui  favelli  ? 
forse  al  debol  nell'armi?  e  la  mia  faccia 
pallida  per  timor,  figlio  canuto 

del  pacifico  canto?  E  perche  dunque  305 

pensi  il  mio  spirto  d'atterrir,  membrando 
le  morti  altrui  ?  Fe'  di  se  prova  in  guerra 

300.  rotante:  turbmoso.     301.  arborosa:  ncca  di  alberi. 


POESIE   DI    OSSIAN  •   CARTONE  237 

spesso  il  mio  braccio,  e  la  mia  fama  e  nota. 

Vanne  a'  fiacchi  neirarmi,  ad  essi  impera 

dl  cedere  a  Fingal.  Non  vidi  io  forse  310 

Parsa  Barcluta?  e  a  festeggiar  andronne 

col  figlio  di  Comal?  col  mio  nemico? 

Misero!  io  non  sapea  fanciullo  allora 

per  che  acerba  cagion  dal  mesto  ciglio 

delle  vergini  affitte  e  delle  spose  315 

sgorgasse  il  pianto,  e  s'allegravan  gli  occhi 

nel  mirar  le  fumose  atre  colonne 

ch'alto  s'ergean  su  le  distrutte  mura. 

Spesso  con  gioia  rivolgeami  indietro, 

mentre  gli  amici  dissipati  e  vinti  320 

lungo  il  colle  fuggian.  Ma  quando  giunse 

Peta  di  giovinezza,  e  '1  musco  io  vidi 

delPatterrate  mura,  i  miei  sospiri 

usciano  col  mattino,  e  con  la  sera 

da  quest'occhi  scendean  lagrime  amare.  325 

Ne  pugnero,  meco  diss'io,  coi  figli 

de'  miei  nemici?  ne  faro  vendetta 

delParsa  patria?  Si,  cantor,  battaglia 

voglio,  battaglia,  che  nel  petto  io  sento 

gia  palpitar  la  gagliardia  delPalma.  —  330 

Strinsersi  intorno  delPeroe  le  squadre, 
e  si  snudar  le  rilucenti  spade. 
Qual  colonna  di  foco  in  mezzo  ei  stassi: 
tralucongli  le  lagrime  sugli  orli 

mezzo  ascose  degli  occhi:  ei  volve  in  mente  335 

Tarsa  Barcluta,  e  Fimpeto  dell'alma 
sorge  affollato  e  balza  fuor;  la  lancia 
tremagli  nella  destra,  e  pinta  innanzi 

10  stesso  re  par  che  minacci.  —  Oh,  —  disse 

11  nobile  Fingal  —  degg'io  si  tosto  340 
farmegli  incontro  ed  arrestarlo  in  mezzo 

del  corso  suo,  prima  che  in  fama  ei  saiga? 
Ma  dir  potria  nel  rimirar  la  tomba 
delPestinto  Carton,  futuro  vate: 


337.  affollato:   incalzante. 


238  MELCHIORRE    CESAROTTI 

«Fingal  co'  suoi  Palto  garzone  oppresse,  345 

pria  ch'ei  salisse  in  rinomanza  e  in  fama». 

No,  future  cantor,  no,  di  Fingallo 
non  scemerai  la  gloria:  i  duci  miei 
combatteran  col  giovinetto,  ed  io 
staro  la  pugna  a  riguardar:  s'ei  vince,  350 

10  piombero  nel  mio  vigor,  simile 
alia  corsia  del  romoroso  Lora. 

Chi  primo  il  figlio  del  rotante  mare, 
miei  duci,  affrontera?  Molti  ha  sul  lido 
prodi  guerrieri,  e  la  sua  lancia  e  forte.  —  355 

Primo  nel  suo  vigor  sorse  Catillo, 
possente  figlio  di  Lormar;  trecento 
giovani  Io  seguian,  prole  animosa 
del  suo  flutto  natio :  fiacco  e  '1  suo  braccio 
contro  Cartone;  i  suoi  fuggiro,  ei  cadde.  360 

Scese  Conallo  e  rinnovo  la  pugna, 
ma  spezzo  Pasta  poderosa:  avvinto 
giace  nel  campo,  i  suoi  Cartone  insegue. 
—  Clessam6r,  —  disse  il  re  —  dov'e  la  lancia 
del  tuo  vigor  ?  puoi  tu  mirar  senz'ira  365 

Conallo  avvinto,  il  tuo  Conallo,  all'acque 
del  patrio  Lora?  Ah  ti  risveglia,  e  sorgi 
nello  splendor  del  tuo  possente  acciaro, 
tu  di  Conallo  amico,  e  faj  che  senta 

11  giovinetto  di  Barcluta  altero  37° 
tutta  la  possa  del  morvenio  sangue.  — 

S'alza  Feroe,  cinge  Pacciaro,  impugna 

10  scudo  poderoso:  esce  crollando 

11  crin  canuto,  furibondo  e  pieno 

della  baldanza  del  valore  antico.  375 

Stava  Carton  sulPalta  roccia:  ei  vede 
appressarsi  il  guerriero,  in  lui  s'affisa. 


361.  Conallo :  questo  dovrebbe  essere  quello  stesso  Connal,  che  accompagn6 
Fmgal  nella  sua  spedizione  contro  Svarano  Egh  e  famosissimo  nell'antiche 
poesie  per  la  sua  prudenza  e  valore.  Sussiste  ancora  presentemente  nel 
nord  una  picciola  Inbu  che  pretende  discender  da  lui  (M.).  374-5.  pieno 
.  .  .  antico:  I'onginale:  «nell'orgoglio  del  valore »  (C.)- 


POESIE   DI    OSSIAN  •   CARTONE  239 

Piacegli  la  terribile  del  volto 
serenitade,  e  in  canutezza  antica 
il  vigor  giovenil.  —  Degg'io  —  diss'egli  380 

—  quell'asta  sollevar  che  non  colpisce 
piu  che  una  volta?  o  salvero  piuttosto 
con  parole  pacifiche  la  vita 
del  vecchio  eroe  ?  Sta  maesta  ne'  suoi 
passi  senili,  e  de'  suoi  giorni  sono  385 

amabili  gli  avanzi.  Ah!  forse  questo 
e  Famor  di  Moina,  il  padre  mio: 
piu  volte  udii  ch'egli  abitar  solea 
lungo  il  Lora  echeggiante.  —  Ei  si  parlava, 
quando  a  lui  giunse  Clessamorre,  ed  alto  390 

sollevo  la  sua  lancia;  il  giovinetto 
la  riceve  sopra  lo  scudo,  e  a  lui 
volse  cosi  pacifiche  parole: 

—  Dimmi,  guerriero  dalPantica  chioma, 
mancan  giovani  forse  alia  tua  terra  395 

che  impugnin  Pasta?  o  non  hai  figlio  alcuno 
che  in  soccorso  del  padre  alzi  lo  scudo 
e  della  gioventude  il  braccio  affronti? 
non  e  piu  forse  del  tuo  amor  la  sposa? 
o  siede  lagrimosa  in  su  la  tomba  400 

de'  figli  suoi?  Deh  di',  sarestu  mai 
un  dei  re  de'  mortali  ?  e  se  tu  cadi, 
qual  fia  la  fama  del  mio  brando  ?  —  Grande, 
figlio  delP alter ezza,  —  a  lui  rispose 
Feccelso  Clessamor  —  famoso  e  noto  405 

in  guerra  io  son ;  ma  ad  un  nemico  il  nome 


378-9.  la  terribile . . .  serenitade:  nel  testo :  « la  terribile  gioia  della  sua faccia ». 
La  voce  serenita  sembro  piu  adattata  ad  un  vecchio  guerriero,  sicuro  di  se 
stesso  (C.)-  384-5.  Sta  .  .  .  senili:  Toriginale:  «maestosi  sono  i  suoi  passi 
dell' eta »  (C.).  402.  un  .  .  .  mortali:  uno  dei  capi  di  tribu,  o  uno  dei  piti 
famosi  guerrieri  (C.).  406-7.  ma  .  .  .  giammai:  vedi  il  Rag.  prelim.  (C.). 
Cfr.  Opere,  II,  pp.  63-4.  Vi  si  spiega  che  «se  nel  calor  della  battaglia  due 
nemici  venivano  a  scoprire  che  i  loro  antenati  avessero  avuto  insieme  rela- 
zione  d'ospizio,  si  deponevano  rarme  sul  fatto,  e  si  rinnovava  tra  loro 
Pantica  amicizia.  Quindi  e  che  il  ricercare  il  nome  del  suo  nemico,  o  lo 


24°  MELCHIORRE  CESAROTTI 

non  scopersi  giammai.  Figlio  dell'onda, 
cedimi,  allora  saprai  die  in  piu  d'un  campo 
rimase  impresso  del  mio  braccio  il  segno. 

—  Ch'io  ceda,  o  re  dell'aste  ?  —  allor  soggiunse     410 
del  giovinetto  il  generoso  orgoglio. 
—  lo  non  cessi  giammai:  spesso  in  battaglia 
ho  pur  io  combattuto,  e  vidi  I'ombra 
di  mia  fama  futura;  o  de'  mortali 
capo,  non  mi  spregiar:  forte  e  '1  mio  braccio,          415 
forte  la  lancia  mia,  va'  fra'  tuoi  duci 
a  ricovrarti,  e  le  battaglie  e  Tarmi 
lascia  ai  giovani  eroi.  —  Perche  ferisci 
Talma  mia  d'una  lagrima  pietosa  ?  — 
replico  Clessamor.  —  L'eta  non  trema  420 

nella  mia  destra,  inalzar  posso  il  brando. 
Io  fuggir  di  Fingallo  innanzi  agli  occhi? 
innanzi  agli  occhi  di  Conal?  No,  figlio 
del  fosco  mar,  non  ho  fuggito  ancora, 
non  fuggiro ;  stendi  la  lancia,  e  taci.  —  425 

Essi  pugnar,  come  contrari  venti 
ch'onda  frapposta  d'aggirar  fan  prova. 
Ma  }l  garzon  comandava  alia  sua  lancia 
ch'ella  sfallisse,  perche  pur  credea 
che  il  nemico  guerriero  esser  potesse  430 

10  sposo  di  Moina.  Egli  in  due  tronchi 
1'asta  spezz6  di  Clessamorre,  il  brando 
gli  strappo  dalle  man;  ma  mentre  ei  stava 
per  annodarlo,  Clessamorre  estrasse 

11  pugnal  de'  suoi  padri;  inerme  il  fianco  435 
vide,  e  1'aperse  di  mortal  ferita. 


svelare  il  suo  proprio  si  riguardava  in  que'  tempi  come  atto  <Tun  codardo, 
che  cerca  pretesto  di  sottrarsi  al  cimento».  413-4.  vidi .  .  .futura:  cioe, 
diedi  tali  saggi  di  valore  che  posso  lusingarmi  d'una  gloria  ancora  piu 
grande  (C.)-  418-9.  Perch6 . . .  pietosa  ? :  parmi  che  il  senso  sia  questo : « per- 
ch6  m'offendi  tu  con  cotesta  tua  pieta  inopportuna  ed  umiliante  ? »  (C.). 
436.  Clessamorre  non  s'era  arreso,  ma  seguitava  a  difendersi,  benche  Car- 
tone  lo  computasse  per  vinto,  e  1' orgoglio  del  vecchio  guerriero  doveva  es 
ser  irntato  dal  vedersi  sul  punto  d' esser  fatto  prigioniero  da  un  giovinet- 


POESIE    DI    OSSIAN  -   CARTONE  241 

Scorge  abbattuto  Clessamor  dalPalto 
Fingallo,  e  rapidissimo  discende 
d'arme  sonando:  in  faccia  a  lui  si  stette 
1'oste  in  silenzio;  neireroe  son  fitti  440 

tutti  gli  sguardi.  Somigliante  ei  venne 
al  fragor  cupo  di  negra  tempesta 
pria  die  i  venti  sollevinsi:  smarrito 
il  cacciator  nella  vicina  valle 
Pode,  e  ricovra  alia  montosa  grotta.  445 

Stava  il  garzone  immobile;  dal  fianco 
scorreagli  il  sangue:  il  re  scendere  ei  scorse, 
e  dolce  speme  nel  suo  cor  destossi 
d'ottener  fama;  ma  la  faccia  avea 
pallida,  svolazzavano  i  capegli  450 

sciolti,  lo  scudo  vacillava,  in  testa 
Telmetto  tremolavagli :  la  forza 
mancava  in  lui,  ma  non  mancava  il  core. 

Vide  Fingal  del  duce  il  sangue,  e  Pasta 
sollevata  fermo :  —  Cedimi,  —  ei  disse  455 

—  re  degli  acciar,  veggo  il  tuo  sangue:  forte 
fosti  nella  battaglia,  e  la  tua  fama 
non  fia  mai  che  s'oscuri.  —  Ah  se'  tu  dunque,  — 
rispose  il  giovinetto  al  carro  nato 
— -  se'  tu  '1  re  si  famoso  ?  or  se'  tu  quella  460 

luce  di  morte,  orror  dei  re  del  mondo? 
ma  perche  domandarne?  e  non  ti  veggo 
pari  al  torrente  nel  deserto?  forte 
come  un  fiume  in  suo  corso,  e  al  par  veloce 
delFaquila  del  cielo?  Eh  teco  avessi  465 

pugnato  almen,  che  soneria  nel  canto 
alto  il  mio  nome,  e  '1  cacciator  potria 
dir,  rimirando  il  mio  sepolcro:  aQuesti 
combatte  con  Fingallo ».  Or  sconosciuto 
more  Carton,  ch'esercit6  sua  possa  470 


to.  Percio  Tazione  di  Clessamorre  non  pu6  riguardarsi  come  proditoria,  ma 
come  una  difesa  permessa  dalle  leggi  della  guerra  (C.)-  44§-9-  «  dolce  .  .  . 
fama:  sperando  d'aver  la  gloria  di  morire  per  mano  di  Fingal  (M.)-  459-  d 
carro  nato:  nato  per  la  battaglia. 

16 


242  MELCHIORRE    CESAROTTI 

contro  grimbelli.  —  Sconosciuto,  o  prode,  — 

soggiunse  il  re  —  tu  non  morrai;  son  molti 

i  miei  cantori,  e  ai  secoli  remoti 

passano  i  loro  canti:  udranno  i  figli 

dei  di  futuri  di  Carton  la  fama,  475 

mentre  in  cerchio  staran  sedendo  intorno 

1'accesa  quercia,  e  passeran  le  notti 

tra  i  canti  e  i  fatti  delPantica  etade. 

Udra  sul  prato  il  cacciatore  assiso 

la  susurrante  auretta,  e  gli  occhi  alzando  480 

vedra  la  rupe  ove  Carton  cadeo, 

e  volgerassi  al  figlio  e  '1  luogo  a  dito 

gli  mostrera  dove  pugnaro  i  prodi: 

«La  combatte»  diragli  «il  giovinetto 

re  di  Barcluta,  in  suo  vigor  simile  485 

di  mille  fiumi  all'affollata  possa».  — 

Gioia  si  sparse  del  garzon  sul  volto, 
alza  gli  occhi  pesanti,  ed  a  Fingallo 
porse  il  suo  brando,  onde  pendesse  in  mezzo 
della  sua  sala,  perche  in  Morven  resti  490 

del  giovine  regal  la  rimembranza. 
Cesso  la  pugna,  che  il  cantore  avea 
gia  pronunziata  la  canzon  di  pace. 
S'afTollarono  i  duci,  e  cerchio  ferno 
al  cadente  Cartone,  e  sospirando  495 

udir  1'estreme  moribonde  voci. 
Taciti  s'appoggiavano  sull'aste 
mentre  Teroe  par!6;  fischiava  al  vento 
la  sparsa  chioma;  debolette  e  basse 
n'uscian  le  voci.  —  O  re  di  Morven,  —  disse  500 

—  io  cado  in  mezzo  del  mio  corso,  accoglie 
tomba  straniera  nei  verd'anni  suoi 
1'ultimo  germe  della  schiatta  illustre 
di  Rotamiro:  oscuritade  e  notte 
siede  in  Barcluta:  spaziando  in  Cratmo  505 

van  Pombre  del  dolor.  Ma  sulle  sponde 
del  Lora,  ove  i  miei  padri  ebbero  albergo, 

486.  affollata,'.  incalzante,  impetuosa. 


POESIE   DI    OSSIAN  •   CARTONE  243 

alzate  voi  la  mia  memoria,  o  duci; 

che  forse  qualche  lagrima,  se  vive, 

dara  lo  sposo  di  Moina  airombra  5IO 

del  suo  spento  Carton.  —  Mortal!  punte 

scesero  al  cuor  di  Clessamorre :  ei  cadde 

muto  sul  figlio.  Tenebror  si  sparse 

su  tutta  Foste;  non  sospir,  non  voce 

sentesi  in  Lora;  usci  la  notte,  e  fuori  515 

delle  nubi  la  luna  in  oriente 

getto  gli  sguardi  sul  campo  del  pianto. 

Stette  tutto  Fesercito  li  li 

senza  parole,  senza  moto,  come 

muto  bosco  che  in  Gorma  alza  la  fronte,  520 

quando  stan  cheti  i  romorosi  vend, 

e  sovrasta  alle  piagge  autunno  oscuro. 

Tre  di  si  pianse  il  giovinetto;  al  quarto 
mori  suo  padre;  or  nelFangusta  valle 
giacciono  della  roccia,  e  un'orrid'ombra  525 

ne  difende  la  tomba.  Ivi  sovente 
fassi  veder  la  tenera  Moina 
quando  del  sole  il  ripercosso  raggio 
sulla  rupe  risplende,  ed  alFintorno 
e  tutto  oscuro.  Ella  cola  si  scorge;  530 

ma  gia  figlia  del  colle  ella  non  sembra. 
Son  le  sue  vesti  dall'estrania  terra, 
e  soletta  si  sta.  Tristo  Fingallo 
stavasi  per  Cartone;  a'  suoi  cantori 
egli  commise  di  segnare  il  giorno,  535 

quando  ritorna  a  noi  Fombroso  autunno. 


509.  se  vive:  si  e  aggiunta  questa  condizionale,  prima  perch' e  ben  certo  che 
se  il  padre  di  Cartone  era  vivo,  avrebbe  pianta  la  di  lui  morte,  poi  perehe 
e  un  po'  strano  che,  se  lo  credea  veramente  vivo,  non  abbia  tosto  cercato  di 
lui,  ne  si  sia  curato  di  farsi  conoscere.  Forse  per6  anch'egli  temeva  il  rim- 
provero  di  codardia  dato  a  quelli  che  passavano  il  loro  nome  al  nemico,  e 
perci6  si  ristrinse  a  far  alcune  interrogazioni  a  Clessamorre  coll'idea  di  ri- 
levare  se  questo  potesse  esser  suo  padre.  Awertasi  inoltre  ch'egli  ardeva  di 
brama  di  vendicar  la  distruzione  di  Barcluta  sopra  il  figlio  di  Comal,  il  che 
non  era  forse  conciliabile  colla  troppo  sollecita  scoperta  del  padre  nel  caso 
ch'ei  fosse  in  vita  (C.).  531 .  figlia .  .  .sembra:  non  somiglia  alle  donne 
caledome  (C.). 


244  MELCHIORRE    CESAROTTI 

Essi  il  giorno  segnaro,  e  al  ciel  le  lodi 
inalzar  dell'eroe: 

—  Chi  dal  muggito 

vien  dell'oceano 

al  nostro  lito,  540 

torbido  come  nembo  tempestoso 

d'autunno  ombroso? 
Nella  man  forte 

trema  la  morte, 

e  sono  gli  occhi  suoi  vampe  di  foco.  545 

Chi  mugghia  lungo  il  roco 

Lora  fremente  ? 

Ah  lo  rawiso!  egli  e  Carton  possente, 

Falto  re  delle  spade. 

II  popol  cade:  550 

vedi  come  s'avanza,  e  come  stende 

Tasta  guerriera: 

Fombra  severa 

par  che  a  Morven  selvosa  in  guardia  siede. 

Ahi  giovinetta  pianta,  555 

tu  giaci,  e  turbin  rio  t'atterra  e  schianta. 
Nato  al  carro  inclito  giovine, 

quando  quando  t'alzerai, 

di  Barcluta  o  gioia  amabile, 

negli  amabili  tuoi  rai?  560 

Chi  dal  muggito 

vien  dalFoceano 

al  nostro  lito, 

torbido  come  nembo  tempestoso 

d'autunno  ombroso  ?  —  565 


538.  Questo  canto  funebre  e  per  mio  awiso  quello  che  fa  men  d'onore 
d'ogn'altro  alia  maestria  di  Ossian.  Certo  e  che  leggendolo  niuno  potrebbe 
farsi  un'idea  deirawentura  singolare  di  Cartone.  Un  fatto  cosl  nuovo  ed  in- 
teressante  meritava  qualche  cosa  di  piii  che  un  « luogo  comune  »  sulla  morte 
d'un  giovine  guerriero  (C.)-  553-  Vombra  severa:  Torigmale:  « simile  al 
torvo  spirito  di  Morven ».  Ci6  parrebbe  indicar  uno  spirito  particolare  de- 
stinato  alia  custodia  di  Morven.  Forse  per6  quest' espressione  si  riferisce 
unicamente  aH'ombra  di  Tremmor,  progenitore  di  Fingal  e  protettor  na- 
turale  del  suo  paese.  Tremmor  e  comunemente  rappresentato  in  aspetto 
terribile  (C.). 


POESIE   DI    OSSIAN  •  CARTONE  245 

Tai  fur  le  note  del  cantor  nel  giorno 
del  loro  pianto.  Accompagnai  dolente 
le  loro  voci,  e  canto  a  canto  aggiunsi. 
Era  Tanima  mia  trista  e  invilita 
pel  misero  Cartone;  egli  cadeo  570 

nei  di  della  sua  gloria.  O  Clessamorre, 
ov'e  nell'aria  il  tuo  soggiorno  ?  dimmi, 
essi  scordato  ancor  della  ferita 
il  caro  giovinetto  ?  e  vola  ei  teco 
sopra  le  nubi,  e  alFamor  tuo  risponde?  575 

Sento  il  sole,  o  Malvina:  al  mio  riposo 
lasciami:  forse  quelle  amabili  ombre 
scenderan  ne'  miei  sogni:  udir  gia  parmi 
una  debole  voce:  il  solar  raggio 
gode  di  sfavillare  in  su  la  tomba  580 

del  garzon  di  Barcluta;  io  sento  il  suo 
dolce  calor  che  si  diffonde  intorno. 

O  tu  che  luminoso  erri  e  rotondo, 
come  lo  scudo  de'  miei  padri,  o  sole, 
donde  sono  i  tuoi  raggi  ?  e  da  che  fonte  585 

trai  rimmensa  tua  luce  ?  Esci  tu  fuora 
in  tua  bellezza  maestosa,  e  gli  astri 
fuggon  dal  cielo :  al  tuo  apparir  la  luna 
nelFonda  occidental  ratto  s'asconde 
pallida  e  fredda:  tu  pel  ciel  deserto  59° 

solo  ti  movi.  E  chi  potria  seguirti 
nel  corso  tuo  ?  Crollan  le  querce  annose 
dalle  montagne,  le  montagne  istesse 
sceman  cogli  anni,  Tocean  s'abbassa 
e  sorge  alternamente;  in  ciel  si  perde  595 

la  bianca  luna;  ma  tu,  sol,  tu  sei 
sempre  lo  stesso,  e  ti  rallegri  altero 
nello  splendor  d'interminabil  corso. 


573.  essi:  si  e.  583.  O  tu:  si  notino  in  tutta  questa  strofa  le  rispondenze 
col  Canto  notturno  del  Leopardi.  586,  rimmensa:  i:  «la  viva»;  n:  «Teter- 
na».  590-1.  tu  .  .  .  movi:  il  solo  e  di  Ossian;  il  cielo  deserto  e  di  Pindaro. 
Ho  unito  insieme  le  espressioni  di  questi  due  geni,  che  dicono  lo  stesso,  ed 
eran  fatte  Tuna  per  1'altra  (C.). 


246  MELCHIORRE    CESAROTTI 

Tu  quando  il  mondo  atra  tempesta  imbruna, 

quando  il  tuono  rimbomba  e  vola  il  lampo,  600 

tu  nella  tua  belta  guardi  sereno 

fuor  delle  nubi  e  alia  tempesta  ridi. 

Ma  indarno  Ossian  tu  guardi:  ei  piu  non  mira 

i  tuoi  vividi  raggi,  o  che  sorgendo 

con  la  tua  chioma  gialleggiante  inondi  605 

le  nubi  orientali,  o  mezzo  ascoso 

tremoli  d'occidente  in  su  le  porte. 

Ma  tu  forse,  chi  sa?  sei  pur  com'io 

sol  per  un  tempo,  ed  avran  fine,  o  sole, 

anche  i  tuoi  di:  tu  dormirai  gia  spento  610 

nelle  tue  nubi  senza  udir  la  voce 

del  mattin  che  ti  chiama.  Oh  dunque  esulta 

nella  tua  forza  giovenile.  Oscura 

ed  ingrata  e  I'ela,  simile  a  fioco 

raggio  di  luna,  allor  che  splende  incerto  615 

tra  sparse  nubi,  e  che  la  nebbia  siede 

su  la  collina:  aura  del  nord  gelata 

sofHa  per  la  pianura:  e  trema  a  mezzo 

del  suo  viaggio  il  peregrin  smarrito. 


I  CANTI  DI  SELMA1 


ARGOMENTO 

Questo  poema  stabilisce  Tantichita  d'un  costume  ricevuto  ed 
osservato  per  molti  secoli  nel  settentrione  della  Scozia  e  nell'Irlanda, 
e  rischiara  vari  luoghi  dell'altre  poesie.  Nella  Scozia  e  nelTIrlanda 
i  cantori  in  una  festa  anniversaria,  ordinata  dal  re  o  capo  di  quelle 
nazioni,  usavano  di  ripeter  solennemente  le  loro  canzoni.  Una  di 
queste  occasion!  somministro  ad  Ossian  il  soggetto  del  presente 
poema.  S'introducono  in  esso  alcuni  cantori  di  Fingal,  gia  morti, 
i  quali  in  una  di  quelle  feste  cantano  alcune  awenture  dei  loro  tempi. 

L'argomento  del  primo  canto  e  questo:  Salgar  e  Colma  erano 
due  amanti,  ma  di  famiglie  nemiche.  Colma  delibero  di  fuggirsene 
col  suo  amante  in  una  determinata  notte,  e  ando  ad  aspettarlo  sopra 
una  collina,  ov'egli  le  avea  promesso  di  venire  ad  unirsi  con  lei. 
Ma  essendosi  questo  scontrato  alia  caccia  col  fratello  di  Colma  sopra 
un  colle  poco  discosto  da  quello  ov'ella  stava  ad  aspettarlo,  appic- 
catasi  zuffa  tra  loro,  restarono  ambedue  uccisi  quasi  sotto  gli  occhi 
di  Colma. 

II  secondo  canto  e  un'elegia  funebre  in  morte  d'un  certo  Morar, 
uno  dei  loro  eroi. 

Nel  terzo  s 'introduce  Armino,  signor  di  Gorma,  a  raccontar  la 
morte  di  Daura  e  d'Arindallo,  suoi  figli.  Egli  avea  promessa  Daura 
in  isposa  ad  Armiro,  guerriero  illustre.  Erath,  nemico  d'Armiro, 
travestito  venne  sopra  un  legno  a  Daura,  fingendo  d'esser  mandato 
dal  suo  sposo  per  condurla  al  luogo  ov'egli  stava  ad  attenderla 
sopra  una  rupe  cinta  dal  mare.  Condotta  Daura  cola,  e  trovandosi 
tradita,  quando  gia  cominciava  ad  insorgere  una  burrasca,  diessi 
ad  alta  voce  a  chiamar  soccorso.  Arindallo,  suo  fratello,  accorse  alle 
sue  grida.  Ma  giunto  nel  punto  stesso  da  un'altra  parte  lo  sposo 
Armiro,  e  volendo  scoccar  1'arco  contro  di  Erath,  colpi  inaweduta- 
mente  Arindallo.  Poscia  salito  sul  legno  per  salvar  la  sua  Daura, 
resto  miseramente  affogato  dalla  tempesta:  e  Daura,  spettatrice 
d'una  si  atroce  tragedia,  mori  di  dolore.2 


i.  Dalle  Operey  iv,  pp.  219-40.  2.  Segue  in  i :  « II  poema  e  interamente  li- 
rico,  ed  ha  una  gran  varieta  di  versificazione.  L'invocazione  alia  Stella  not- 
turna,  con  cui  si  apre,  ha  tutta  Fannonia  che  i  numeri  possono  dare;  e  i  versi 
scorrono  con  quella  delicata  soavita  che  inspira  una  scena  cosi  piacevole 
della  natura». 


248  MELCHIORRE    CESAROTTI 

Stella  maggior  della  cadente  notte, 

deh  come  bella  in  occidente  splendi! 

e  come  bella  la  chiomata  fronte 

mostri  fuor  delle  nubi,  e  maestosa 

poggi  sopra  il  tuo  colle!  E  che  mai  guati  5 

nella  pianura  ?  I  tempestosi  venti 

di  gia  son  cheti,  e  'I  rapido  torrente 

s'ode  soltanto  strepitar  da  lungi, 

che  con  1'onde  sonanti  ascende  e  copre 

lontane  rupi:  gia  i  notturni  insetti  10 

sospesi  stanno  in  su  le  debili  ale, 

e  di  grato  susurro  empiono  i  campi. 

E  che  mai  guati,  o  graziosa  Stella? 

Ma  tu  parti  e  sorridi;  ad  incontrarti 

corron  Tonde  festose,  e  bagnan  liete  15 

la  tua  chioma  lucente.  Addio,  soave 

tacito  raggio:  ah  disfavilli  omai 

neH'alma  d'Ossian  la  serena  luce! 

Ecco  gia  sorge,  ecco  s'awiva;  io  veggo 
gli  amici  estinti.  II  lor  congresso  e  in  Lora,  20 

come  un  tempo  gia  fu;  Fingal  sen  viene 
ad  acquosa  colonna  somigliante 
di  densa  nebbia  che  sul  lago  avanza. 
Gli  fan  cerchio  gli  eroi:  vedi  con  esso 
i  gran  figli  del  canto,  Ullin  canuto  25 

e  Rino  il  maestoso,  e  '1  dolce  Alpino 
dalParmonica  voce,  e  di  Minona 


i.  Parla  alia  Stella  di  Espero  (C.).  1-5.  Stella  .  .  .  colle!:  cfr.  Leopardi, 
Ultimo  canto  di  Saffo,  i  -4 :  « Placida  notte,  e  verecondo  raggio  /  della  ca 
dente  luna ;  e  tu  che  spunti  /  fra  la  tacita  selva  in  su  la  rupe,  /  nunzio  del 
giorno»,  e  anche  Tinizio  delle  Ricordanze:  ccVaghe  stelle  dell'Orsa», 
22-3 .  ad  acquosa  .  .  .  avanza :  questa  somiglianza  non  nguarda  Fmgal  vivo, 
ma  Tapparizione  della  di  lui  ombra  che  la  fantasia  esaltata  del  poeta  gli  fa 
immaginar  di  vedere  (C.).  26.  Alpino  ha  la  stessa  radice  che  Albione,  o 
piuttosto  Albino,  antico  nome  della  Brettagna.  Alp,  «paese  montuoso » (C.). 
27.  Minona;  sembra  da  ci6  che  le  donne  fossero  ammesse  nell'ordine  dei 
bardi.  Esse  doveano  certo  esser  particolarmente  ammaestrate  nella  musica, 
poiche  Ossian  non  parla  quasi  mai  d'una  donna  senza  attnbmrle  un'ar- 
monia  distinta  di  voce  (C.). 


POESIE   DI    OSSIAN  •  I    CANTI    DI    SELMA  249 

il  soave  lamento.  Oh  quanto,  amici, 

cangiati  siete  dal  buon  tempo  antico 

del  convito  di  Selma!  allor  che  insieme  30 

faceam  con  canto  graziose  gare; 

siccome  i  venticelli  a  primavera, 

che  volando  sul  colle  alternamente 

piegan  Terbetta  dal  dolce  susurro. 

Suonami  ancora  nella  memoria  il  canto,  35 

ricordanza  soave.  Usci  Minona, 
Minona  adorna  di  tutta  beltade; 
ma  il  guardo  ha  basso  e  lagrimoso  il  ciglio, 
e  lento  lento  le  volava  il  crine 

sopra  Tauretta,  che  bufFando  a  scosse  40 

uscia  del  colle.  Degli  eroi  nell'alma 
scese  grave  tristezza,  allor  che  sciolse 
la  cara  voce:  che  di  Salgar  vista 
spesso  aveano  la  tomba  e  '1  tenebroso 
letto  di  Colma  dal  candido  seno.  45 

Colma  sola  sedea  su  la  collina 
con  la  musica  voce;  a  lei  venirne 
Salgar  promise;  ella  attendealo,  e  intanto 
giu  dai  monti  cadea  la  notte  bruna. 
Gia  Minona  incomincia:  udite  Colma,  50 

quando  sola  sedea  su  la  collina: 

COLMA 

—  £  notte:  io  siedo  abbandonata  e  sola 
sul  tempestoso  colle:  il  vento  freme 
sulla  montagna,  e  romoreggia  il  rivo 
giu  dalle  rocce,  ne  capanna  io  veggo  55 

che  dalla  pioggia  mi  ricovri:  ahi  lassal 


28.  il  soave  lamento:  Minona  dotata  di  voce  soavemente  lamentevole  (C.). 
36.  Usci  Minona:  Ossian  introduce  Minona  non  nella  scena  ideale  della  sua 
immaginazione,  dianzi  descritta,  ma  in  un  annuo  convito  di  Selma,  ove  i 
bardi  recitavano  le  loro  opere  in  presenza  di  Fingal  (M.).  43-5-  che  •  •  • 
seno :  la  storia  di  Salgar  e  Colma  doveva  esser  il  soggetto  del  suo  canto  (C.)- 
50.  udite  Colma:  cioe,  udite  il  canto  che  Minona  mette  in  bocca  di  Col 
ma  (C.)- 


250  MELCHIORRE   CESAROTTI 

che  far  mai  deggio  abbandonata  e  sola 

sopra  il  colle  dej  venti?  Luna,  o  luna, 

spunta  dalle  tue  nubi,  uscite,  o  voi 

astri  notturni,  e  coH'amico  lume  60 

me  conducete  ove  il  mio  amor  riposa, 

dalle  fatiche  della  caccia  stanco. 

Parmi  vederlo:  Farco  suo  non  teso 

giacegli  accanto,  ed  i  seguaci  cani 

gli  anelano  alPintorno:  ed  io  qui  sola  65 

senza  lui  deggio  starmi  appo  la  rupe 

deH'umido  ruscel  ?  Susurra  il  vento, 

freme  il  ruscel,  ne  posso  udir  la  voce 

dell'amor  mio.  Salgar  mio  ben,  che  tardi 

la  promessa  a  compir?  Talbero  e  questo,  70 

questa  e  la  rupe  e  '1  mormorante  rivo. 

Tu  mi  giurasti  pur  che  con  la  notte 

a  me  verresti:  ove  se'  ito  mai, 

amor  mio  dolce?  ah  con  che  gioia  adesso 

1'ira  del  padre  e  del  fratel  Torgoglio  75 

fuggirei  teco!  Lungo  tempo  insieme 

furon  nemiche  le  famiglie  nostre; 

ma  noi,  caro,  ma  noi  non  siam  nemici. 

Cessa,  o  vento,  per  poco,  e  tu  per  poco 
taci,  o  garrulo  rio:  lascia  che  s'oda  80 

la  voce  mia,  lascia  che  m'oda  il  mio 
Salgar  errante :  o  Salgar  mio,  rispondi, 
chiamati  Colma  tua:  Talbero  e  questo, 
questa  e  la  rupe:  o  mia  diletta  speme, 
son  io,  son  qui :  perch6  a  venir  sei  lento  ?  85 

Ecco  sorge  la  luna,  e  ripercossa 
Fonda  risplende,  le  pendici  alpine 


70-1.  I'albero  .  .  .  rivo:  questo  e  1'albero  e  questa  la  rupe  ove  mi  ordinasti 
di  venire  ad  aspettarti  (C.).  74-6.  adesso  .  .  .  teco:  le  parole  precise  del- 
1'originale  nella  lingua  e  colla  puntuazione  del  traduttore  inglese  sono  le 
seguenti : « with  thee  I  would  fly,  my  father,  with  thee  my  brother  of  pride  ». 
Parmi  visibile  che  la  puntuazione  e  sbaghata.  II  testo  non  pu6  aver  che  il 
senso  che  gh  ho  dato,  e  cosl  spiega  anche  il  Le  Tourneur  (C.).  I  e  u:  «  ades 
so  /  fuggirei  teco!  tu  fratel,  tu  padre,  /  tu  mi  sei  tutto». 


POESIE   DI    OSSIAN  •  I    CANTI    DI    SELMA  251 

gia  si  tingon  d'azzurro,  e  lui  non  miro; 

ne  de'  suoi  fidi  cani  odo  il  latrato 

forier  della  venuta:  afflitta  e  sola  90 

deggio  seder.  Ma  che  vegg'io  ?  chi  sono 

que'  duo  cola  sopra  quelFalta  vetta? 

son  forse  il  mio  fratello  e  Tamor  mio  ? 

Parlate,  amici  miei:  nissun  risponde, 

freddo  timor  Talma  mi  stringe.  Oime!  95 

essi  son  morti;  dalla  zuffa  io  veggo 

le  spade  a  rosseggiar.  Salgar,  fratello, 

crudeli!  ah  mio  fratello,  e  perche  mai 

Salgar  mio  m'uccidesti  ?  Ah  Salgar  mio, 

perche  m'hai  dunque  il  mio  fratello  ucciso  ?  100 

cari  entrambi  al  mio  cor,  che  dir  mai  posso 

degno  di  voi  ?  tu  fra  mill'anni,  o  Salgar, 

bello  su  la  collina,  e  tu  fra  mille 

terribile,  o  fratel,  nella  battaglia. 

Parlate,  o  cari,  la  mia  voce  udite,  105 

figli  dell'amor  mio:  lassa!  son  muti; 

muti  per  sempre,  e  son  lor  petti  un  gelo. 

Ah  per  pieta  dalla  collina  ombrosa, 
ah  dalla  cima  delPalpestre  rupe, 
parlate,  ombre  dilette,  a  me  parlate:  no 

non  temer6:  dove  n'andaste,  o  cari, 
a  riposarvi?  in  qual  petrosa  grotta 
trovero  i  cari  spirti?  Alcun  non  m'ode; 
ne  pur  si  sente  una  fiochetta  voce 
volar  per  Faere,  che  s'affoga  e  sperde  115 

fra  le  tempeste  del  ventoso  colle. 


101-2.  che. . .  voi?:  il  dir  tosto  qualche  cosa  in  lode  d'un  morto  era  pei  Ca- 
ledoni  lo  stesso  ch'e  a  noi  il  recitar  le  preci  religiose  all'ombra  d'un  tra- 
passato  (C.).  107.  son  .  .  .gelo:  1'originale:  afreddi  sono  i  lor  petti  di 
creta».  Sara  questa  la  creta  fina  che  si  usava  nelle  sepolture;  e  il  poeta  in- 
tendera  con  ci6  di  spiegar  la  candidezza  e  la  finezza  della  lor  carnagione. 
Ma  questa  creta  appresso  di  noi  non  rappresenta  che  1'idea  d'una  pen- 
tola  (C.).  112-3.  in  Qual  •  •  •  spirti?:  I'origmale  ha:  «in  qual  grotta  del  colle 
trover6  voi  ? »  Ma  e  chiaro  che  qui  si  parla  dei  loro  spiriti,  poiche  quanto  al 
luogo  ove  riposavano  i  corpi,  non  avea  bisogno  di  domandarlo  (C.); 
spirti:  i:  «corpi». 


252  MELCHIORRE    CESAROTTI 

Misera!  io  siedo  nel  mio  duolo  immersa 
fra  le  lagrime  mie,  fra  i  miei  sospiri, 
ed  attendo  il  mattino.  Alzate,  amici, 
la  mesta  tomba  agl'infelici  estinti,  120 

ma  non  la  chiudan  le  pietose  mani, 
finche"  Colma  non  vien ;  via  la  mia  vita 
fugge  qual  sogno :  a  die  restarne  indietro  ? 
Qui  poserommi  a'  miei  diletti  accanto, 
lungo  il  ruscel  della  sonante  rupe.  125 

Quando  sul  colle  stendera  la  notte 
le  negre  penne,  quando  il  vento  tace 
su  Terte  cime,  andra  '1  mio  spirto  errando 
per  I'amato  aere,  e  dolorosamente 
pianger6  i  miei  diletti:  udra  dal  fondo  130 

della  capanna  la  lugubre  voce 
il  cacciator  smarrito,  e  ad  un  sol  tempo 
e  temenza  e  dolcezza  andragli  al  core; 
ch6  dolcemente  la  mia  flebil  voce 
si  lagnera  sopra  gli  estinti  amici,  135 

del  paro  entrambi  a  lo  mio  cor  si  cari.  — 

Cosi  cantasti,  o  figlia  di  Tormante, 
gentil  Minona  dal  dolce  rossore. 
Sparse  per  Colma  ognun  lagrime  amare, 
e  Tanime  assali  dolce  tristezza.  140 

Ullin  venne  con  1'arpa,  ed  a  noi  diede 
d'Alpino  il  canto.  Era  ad  udir  gioconda 
d'Alpin  la  voce,  e  Talma  era  di  Rino 
raggio  di  foco,  ma  da  lungo  tempo 


117-9.  io  siedo  .  .  .  mattino:  cfr.  Leopardi,  Le  ncordanse,  53-5*-  «nella  buia 
stanza  /  per  assidui  terrori  io  vigilava  /  sospirando  il  mattin».  124.  pose 
rommi:  I : « sederommi ».  128.  andra  . .  .  errando :  cfr.  Foscolo,  Sepolcri,  43 : 
«  errar  vede  il  suo  spirto ».  135.  gli  estinti  amid:  cfr.  Foscolo,  Sepolcri,  32 : 
«per  lei  si  vive  con  1'amico  estinto».  137.  Tormante:  Torman,  figlio  di 
Carthul  signer  d'Imora,  una  dell'isole  occidentali.  Egli  era  padre  di  Mi 
nona  e  di  Morar,  di  cui  si  parla  ben  tosto  (M.).  141-2.  Ullin  .  .  .  canto: 
cioe  Ullino  cant6  sull'arpa  una  canzone  da  lui  composta,  nella  quale  s' in 
troduce  Alpino,  cantor  gia  morto,  a  far  Telogio  funebre  di  Morar  (C.). 
143.  Rino:  altro  bardo  gi&  morto,  di  cui  si  par!6  in  altri  poemi  (C.). 


POESIE   DI    OSSIAN  •  I    CANTI    DI   SELMA  253 

giaceano  entrambi  nell'angusta  casa,  145 

ne  piu  sonava  la  lor  voce  in  Selma. 

Tornava  un  giorno  dalla  caccia  Ullino 

pria  che  fossero  spenti,  ed  ei  gl'intese 

dalla  collina.  Dolce  si,  ma  mesto 

era  il  lor  canto :  essi  piangean  la  morte  150 

del  gran  Moradde,  tra'  mortal!  il  primo. 

Ei  Talma  all'alma  di  Fingallo,  e  '1  brando 

aveva,  Oscar,  mio  figlio,  al  tuo  simile. 

Pure  anch'egli  cadeo:  piansene  il  padre, 

e  fur  pieni  di  lagrime  i  begli  occhi  155 

della  sorella,  di  Minona  gli  occhi, 

sorella  sua,  di  lagrime  fur  pieni. 

Ella  al  canto  d'Ullin  ritorse  il  volto, 

ne  voile  udirlo:  tal  la  bianca  luna, 

qualor  pressente  la  vicina  pioggia,  160 

tra  nubi  asconde  la  polita  fronte. 

lo  toccai  Tarpa  accompagnando  Ullino, 

e  incominciammo  la  canzon  del  pianto: 

RING 

—  Gia  tace  il  vento,  ed  il  meriggio  e  cheto, 
cess6  la  pioggia,  diradate  e  sparse  165 

erran  le  nubi;  per  le  verdi  cime 
lucido  in  sua  volubile  camera 
si  spazia  il  sole,  e  giu  trascorre  il  rivo 
rapido  via  per  la  sassosa  valle. 

Dolce  mormori,  o  rio;  ma  voce  ascolto  170 

di  te  piu  dolce,  ella  e  d'Alpin  la  voce, 
figlio  del  canto,  che  gli  estinti  piagne. 
Veggo  1'annoso  capo  a  terra  chino, 
e  lagrimoso  gli  rosseggia  il  guardo. 
Alpin,  figlio  del  canto,  onde  si  solo  175 

su  la  muta  collina?  a  che  ti  lagni, 


145.  nelVangusta  casa:  nella  tomba.  151.  Moradde:  di  questo  eroe  non  si 
trova  presso  Ossian  altra  menzione  che  questa  (C.)-  164-9.  Gia  tace  .  .  . 
valle:  cfr.  Tinizio  della  leopardiana  Quiete  dopo  la  tempesta. 


254  MELCHIORRE    CESAROTTI 

come  nel  bosco  venticello,  o  come 
su  la  deserta  spiaggia  onda  marina? 

ALPINO 

—  Queste  lagrime  mie  sgorgano,  o  Rino, 
pel  prodi  estinti,  e  la  mia  voce  e  sacra  180 

agli  abitanti  della  tomba.  Grande 
sei  tu  sul  colle,  e  bello  sei  tra  i  figli 
della  pianura;  ma  cadrai  tu  stesso 
come  Moradde,  e  sulla  tomba  avrai 
pianti  e  singulti:  a  questi  colli  ignoto  185 

sarai  per  sempre,  e  inoperoso  Parco 
dalle  pareti  pendera  non  teso. 

Tu  veloce,  o  Morad,  com'agil  cervo 
sul  colle,  tu  terribile  in  battaglia 
come  vapor  focoso :  era  il  tuo  sdegno  190 

turbine,  e  '1  brando  tuo  folgor  ne'  campi. 
Gonfio  torrente  in  rovinosa  pioggia 
parea  tua  voce,  o  tra  lontane  rupi 
tuon  che  rimbomba  ripercosso:  molti 
cadder  pel  braccio  tuo,  consunti  e  spersi  195 

del  tuo  furor  nelle  voraci  fiamme. 

Ma  cessato  il  furor,  deposte  Tarmi, 
come  dolce  e  sereno  era  il  tuo  ciglio! 
Sol  dopo  pioggia  somigliavi  al  volto; 
oppur  di  luna  grazioso  raggio  200 

per  la  tacita  notte,  o,  cheto  il  vento, 
placida  limpidissima  laguna. 

Angusto  e  ora  il  tuo  soggiorno;  oscuro 
di  tua  dimora  il  luogo,  e  con  tre  passi 
la  tua  tomba  misuro,  o  pria  si  grande.  205 

Son  quattro  pietre  la  memoria  sola 
che  di  te  resta,  e  un  arboscel  gia  privo 
delPonor  delle  foglie,  e  la  lungh'erba 
che  fischia  incontro  '1  vento,  addita  al  guardo 

192.  pioggia:  i:  «piaggia».     195.  pel:  i:  «dal».     200.  di  luna  grazioso  rag- 
gio:  cfr.  Leopardi,  Alia  luna,  i:  «graziosa  luna». 


POESIE   DI    OSSIAN  •  I    CANTI    DI    SELMA  255 

del  cacciator,  del  gran  Morad  la  tomba.  210 

Tu  se'  umile,  o  Morad;  tu  non  hai  madre 
che  ti  compianga,  o  giovinetta  sposa 
che  d'amorose  lagrime  t'asperga. 
Spenta  e  colei  che  ti  die  vita,  e  cadde 
di  Morglano  la  figlia.  E  quale  e  questo  215 

che  curvo  pende  sul  baston  nodoso? 
chi  e  quest'uom  che  ha  si  canuto  il  capo, 
tremulo  passo  e  rosseggiante  sguardo? 
Moradde,  egli  e  tuo  padre,  ahi!  Porbo  padre 
non  d'altri  figli  che  di  te.  Ben  egli  220 

udi  '1  tuo  nome  nelle  pugne,  intese 
de'  nemici  la  fuga,  intese  il  nome 
del  suo  Morad;  perche  non  anco  intese 
la^sua  ferita?  Piangi,  o  padre,  piangi 
il  figlio  tuo;  ma  il  figlio  tuo  sotterra  225 

non  t'ode  piu:  forte  6  de'  morti  il  sonno, 
e  basso  giace  il  lor  guancial  di  polve. 
Tu  non  udrai  la  voce  sua,  ne  questi 
risveglierassi  di  tua  voce  al  suono. 
E  quando  fia  che  sulla  tomba  splenda  230 

giorno  che  desti  addormentato  spirto? 
Addio,  piu  forte  de'  mortali,  addio, 
conquistator  nel  campo;  or  non  piu  '1  campo 
ti  rivedra,  ne  piu  1'oscuro  bosco 
risplendera  dal  folgorante  acciaro.  235 

Prole  non  hai,  ma  fia  custode  il  canto 
del  nome  tuo;  Peta  future  udranno 
parlar  di  te,  vivra  Moradde  estinto 
nell'altrui  bocche,  e  via  di  figlio  in  figlio 
tramanderassi  Tonorato  nome.  —  240 

Tutti  gemean,  ma  sovra  ogn'altro  Armino 
a  cotai  voci,  che  nel  cor  si  sveglia 

215.  di  Morglano  la  figlia:  evidentemente  la  sposa  di  Morad.  226.  forte 
.  .  .  sonno :  « Olli  dura  quies  oculos  et  ferreus  urget  /  somnus »  [«  Una  dura 
quiete  e  un  ferreo  sonno  gli  preme  gli  occhi»],  Virg.,  [Aen.,  x,  745-6],  C. 
241.  Armino:  questi  era  capo  o  regolo  di  Gorma,  cioe  «isola  azzurra», 
che  si  crede  esser  una  delPEbridi  (M.)- 


256  MELCHIORRE    CESAROTTI 

la  rimembranza  dell'acerba  morte 

deirinfelice  figlio,  il  qual  cadeo 

nei  di  di  giovinezza.  A  lui  dappresso  245 

sedea  Cram6r,  di  Gamala  echeggiante 

Cramoro  il  sire.  —  E  perche  mai  —  diss'egli 

—  sulle  labbra  d' Armin  spunta  il  sospiro  ? 

ecci  cagion  di  lutto  ?  Amabil  canto 

Tanima  intenerisce  e  riconforta:  250 

simile  a  dolce  nebbia  mattutina 

che  s'inalza  dal  lago,  e  per  la  muta 

valle  si  stende,  ed  i  fioretti  e  1'erbe 

sparge  di  soavissima  rugiada; 

ma  il  sol  s'inforza,  e  via  la  nebbia  sgombra.  255 

O  reggitor  di  Gorma  ondi-cerchiata, 

perche  si  mesto  ? 

ARMING 

—  Mesto  son,  ne  lieve 
e  la  cagion  di  mia  tristezza.  Amico, 
tu  non  perdesti  valoroso  figlio, 

ne  figlia  di  belta.  Colgar,  il  prode  260 

tuo  figlio,  e  vivo,  ed  e  pur  viva  Annira, 
vaga  pulcella.  Rigogliosi  e  verdi 
sono,  o  Cram6ro,  di  tua  stirpe  i  rami; 
ma  della  schiatta  sua  Tultimo  e  Armino. 
Daura,  oscuro  e  '1  tuo  letto,  o  Daura,  forte  265 

e  '1  sonno  tuo  dentro  la  tomba:  e  quando 
ti  svegHerai  con  la  tua  amabil  voce 
a  consolar  Taddolorato  spirto  ? 

Oh  sorgete,  soffiate  impetuosi, 

venti  d'autunno,  su  la  negra  vetta;  270 

nembi,  o  nembi,  affollatevi,  crollate 
Tannose  querce;  tu,  torrente,  muggi 
per  la  montagna,  e  tu  passeggia,  o  luna, 
pel  torbid'aere,  e  fuor  tra  nube  e  nube 

265.  Daura:  si  rivolge  alia  figlia  morta  (C.). 


POESIE    DI    OSSIAN  •   I    CANTI    DI    SELMA  257 

mostra  pallido  raggio,  e  rinnovella  275 

alia  mia  mente  la  memoria  amara 
di  quell' amara  notte,  in  cui  perdei 
i  figli  miei  diletti,  in  cui  cadero 
il  possente  Arindal,  Tamabil  Daura. 

O  Daura,  o  figlia,  eri  tu  bella,  bella  280 

come  la  luna  sul  colle  di  Fura, 
bianca  di  neve  e  piu  che  auretta  dolce. 
Forte,  Arindallo,  era  il  tuo  arco,  e  Tasta 
veloce  in  campo;  era  a  vapor  sull'onda 
simil  Tirato  sguardo,  e  negra  nube  285 

parea  lo  scudo  in  procelloso  nembo. 

Sen  venne  Armiro  il  bellicoso,  e  chiese 
Famor  di  Daura,  ne  resto  sospeso 
lungo  tempo  il  suo  voto,  e  degli  amici 
bella  e  gioconda  rifioria  la  speme.  290 

Fremette  Erasto,  che  il  fratello  ucciso 
aveagli  Armiro,  e  medito  vendetta. 
Cangio  sembianze,  e  ci  comparve  innanzi 
come  un  flglio  dell'onda:  era  a  vedersi 
bello  il  suo  schifo;  la  sua  chioma  antica  295 

gli  cadea  su  le  spalle  in  bianca  lista; 
avea  grave  il  parlar,  placido  il  ciglio. 
«  O  piu  vezzosa  tra  le  donne, »  ei  disse 
«bella  figlia  d'Armin,  di  qua  non  lunge 
sporge  rupe  nel  mar,  che  sopra  il  dorso  300 

porta  arbuscel  di  rosseggianti  frutta. 
Ivi  t'attende  Armiro;  ed  io  men  venni 
per  condurgli  il  suo  amor  sul  mare  ondoso». 
Crede  Daura,  ed  ando :  chiama,  non  sente 
che  il  figlio  della  rupe:  «Armir,  mia  vita,  305 

amor  mio,  dove  sei?  per  che  mi  struggi 


287.  Armiro:  Armar  (C.).  291.  Erasto:  Erath,  figlio  di  Odgal  (C.). 
294.  come  .  .  .  onda:  come  un  nocchiero  (C.)-  305.  il  figlio  della  rupe:  Peco. 
Era  opinione  del  volgo  che  questa  repetizione  del  suono  provenisse  da  uno 
spirito  che  stava  dentro  la  rupe.  Percio  1'eco  era  dai  Caledoni  detta  mac-tal- 
la,  vale  a  dire  «il  figlio  che  abita  nella  roccia».  La  rnitologia  nellaprima 
epoca  fu  la  fisica  delle  nazioni,  e  questa  fisica  fu  sempre  a  un  di  presso  la 

17 


258  MELCHIORRE    CESAROTTI 

di  tema  il  core  ?  o  d'Adanarto  figlio, 

odi,  Daura  ti  chiama».  A  queste  voci, 

fugginne  a  terra  il  traditore  Erasto 

con  ghigno  amaro.  Essa  la  voce  inalza,  310 

chiama  il  fratello,  chiama  il  padre:  «Armino 

padre,  Arindallo,  alcun  non  m'ode?  alcuno 

non  porge  aita  all'infelice  Daura  ?» 

Passo  il  mar  la  sua  voce;  odela  il  figlio. 
Scende  dal  colle  frettoloso,  e  rozzo  315 

in  cacciatrici  spoglie;  appesi  al  fianco 
strepitavano  i  dardi,  in  mano  ha  Parco, 
e  cinque  cani  ne  seguian  la  traccia. 
Trova  Erasto  sul  lido,  a  lui  s'awenta 
e  Tannoda  a  una  quercia;  ei  fende  invano  320 

Taria  di  strida.  Sovra  il  mar  sul  legno 
balza  Arindallo,  e  vola  a  Daura.  Armiro 
giunge  in  quel  punto  furibondo,  e  1'arco 
scocca;  fischia  lo  strale,  e  nel  tuo  core, 
figlio  Arindallo,  nel  tuo  cor  s'infigge.  325 

Tu  moristi,  infelice,  e  di  tua  morte 
ne  fu  cagion  lo  scellerato  Erasto. 
S'arresta  a  mezzo  il  remo;  ei  su  lo  scoglio 
cade  rovescio,  si  dibatte,  e  spira. 

Qual  fu,  Daura,  il  tuo  duol,  quando  mirasti        330 
sparso  a'  tuoi  piedi  del  fratello  il  sangue 
per  la  man  dello  sposo?  il  flutto  incalza, 
spezzasi  il  legno;  Armiro  in  mar  si  scaglia 
per  salvar  Daura,  o  per  morir;  ma  un  nembo 
spicca  dal  monte  rovinoso,  e  sbalza  335 

sul  mar;  volvesi  Armir,  piomba,  e  non  sorge. 

Sola  dal  mar  su  la  percossa  rupe 
senza  soccorso  stava  Daura,  ed  io 

stessa  (C.).  Per  questo  concetto  cfr.  Vico,  La  scienza  nuova,  in  Opere,  a 
cura  di  F.  Nicolini,  Milano-Napoli,  Ricciardi,  1953,  pp.  684-6.  307.  d'A 
danarto  figlio-.  Armino,  sposo  di  Daura  (C.).  314.  il  figlio :  Arindallo,  fi 
glio  di  Armino,  che  parla,  e  fratello  di  Daura.  325.  Convien  supporre  o 
che  Arindallo  fosse  poco  discosto  da  Erasto,  e  che  Armiro  pieno  d'agita- 
zione  colpisse  involontariamente  1'uno  per  Taltro:  o  che  questo,  accecato 
dalla  passione,  prendesse  Arindatlo  per  Erasto  medesimo  (C.). 


POESIE   DI    OSSIAN  •   I    CANTI   DI    SELMA  259 

ne  sentia  le  querele;  alte  e  frequent! 

eran  sue  strida;  I'infelice  padre  340 

non  potea  darle  aita.  lo  tutta  notte 

stetti  sul  lido,  e  la  scorgeva  a  un  fioco 

raggio  di  luna;  tutta  notte  intesi 

1  suoi  lament! :  strepitava  il  vento, 

cadea  a  scrosci  la  pioggia.  In  sul  mattino  345 

infiochi  la  sua  voce,  e  a  poco  a  poco 

s'ando  spegnendo,  come  suol  tra  Ferbe 

talor  del  monte  la  nofturna  auretta. 

Alfin,  gia  vinta  da  stanchezza  e  duolo, 

cadde  spirando,  e  te,  misero  Armino,  350 

lascio  perduto ;  ahi,  tra  le  donne  e  spenta 

la  mia  baldanza  e  la  mia  possa  in  guerra. 

Quando  il  settentrion  1'onde  solleva, 

quando  sul  monte  la  tempesta  mugge, 

vado  a  seder  sopra  la  spiaggia,  e  guardo  355 

la  fatal  roccia:  spaziar  li  miro 

mezzo  nascosti  tra  le  nubi,  insieme 

dolce  parlando.  «Una  parola,  o  figH, 

pieta,  figli,  pieta !»  Passan,  ne  '1  padre 

degnan  d'un  guardo.  Si,  Cramor,  son  mesto,  360 

ne  leve  e  la  cagion  del  mio  cordoglio. — 

Si  fatte  usciano  dei  cantor  le  voci 

nei  di  del  canto,  allor  che  il  re  festoso 

porgeva  orecchio  alParmonia  dell'arpa, 

e  udia  le  gesta  degli  antichi  tempi.  365 

Da  tutti  i  colli  v'accorreano  i  duci 

vaghi  del  canto  e  n'avea  plauso  e  lodi 

di  Cona  il  buon  cantor,  primo  tra  mille; 

ma  siede  ora  1'eta  sulla  mia  lingua, 

e  vien  manco  la  lena.  Odo  talvolta  370 


358-9.  «  Una  parola . . .  pieta!  » :  P  originate :  «  nissuno  di  voi  parlera  con  pieta, 
o  per  pieta  ?»,  owero  «nissun  di  voi  col  parlarmi  mostrera  d'aver  pieta  di 
me?»  (C.).  359-60.  Passan  .  .  .  guardo:  cosi  dovea  sembrar  ad  Armino, 
perch* egli  avea  qualche  rimorso  di  non  aver  dato  soccorso  alia  figlia  (C.)- 
368.  il  buon  cantor:  Ossian  (C.). 


260  MELCHIORRE   CESAROTTI 

gli  spirti  de'  poeti,  ed  i  soavi 

modi  ne  apprendo,  ma  vacilla  e  manca 

alia  mente  memoria;  ho  gia  dappresso 

la  chiamata  degli  anni,  ed  io  gl'intendo 

Tun  contro  Taltro  bisbigliar  passando:  375 

—  Perche  canta  costui  ?  Sara  fra  poco 

nella  picciola  casa;  e  alcun  non  fia 

che  col  suo  canto  ne  rawivi  il  nome.  — 

Scorrete,  anni  di  tenebre,  scorrete, 

che  gioia  non  mi  reca  il  corso  vostro.  380 

S'apra  ad  Ossian  la  tomba,  or  che  gli  manca 

Tantica  lena:  gia  del  canto  i  figli 

riposan  tutti:  mormorar  s'ascolta 

sol  la  mia  voce,  come  roco  e  lento 

mugghio  di  rupe  che  dall'onde  e  cinta,  385 

quando  il  vento  cess6:  la  marina  erba 

cola  susurra,  ed  il  nocchier  da  lunge 

gli  alberi  addita  e  la  vicina  terra. 


371.  gli  spirti  de'  poeti:  gia  morti:  i  canti  delle  loro  ombre  (C.).  377.  pic- 
oiola  casa:  la  tomba.  377-8.  alcun.  .  .  tl  nome:  Ossian  fa  spesso  inten- 
dere  d'esser  egli  stato  1'ultimo  de'  guernen,  non  meno  che  de'  canton 
illustri  della  sua  schiatta  (C  ). 


LA  NOTTE* 

I   CANTORE 

Trista  e  la  notte,  tenebria  s'aduna, 

tingesi  il  cielo  di  color  di  morte: 

qui  non  si  vede  ne  Stella  ne  luna, 

che  metta  il  capo  fuor  delle  sue  porte. 

Torbido  e  Jl  lago,  e  minaccia  fortuna;  5 

odo  il  vento  nel  bosco  a  ruggir  forte: 

giu  dalla  balza  va  scorrendo  il  rio 

con  roco  lamentevol  mormorio. 

Su  quelPalber  cola,  sopra  quel  tufo, 
che  copre  quella  pietra  sepolcrale,  10 

il  lungo-urlante  ed  inamabil  gufo 
1'aer  funesta  col  canto  ferale. 

Ve'  ve': 

fosca  forma  la  piaggia  adombra: 
quella  e  un'ombra:  15 

striscia,  sibila,  vola  via. 
Per  questa  via 

tosto  passar  dovra  persona  morta: 
quella  meteora  de'  suoi  passi  e  scorta. 

II  can  dalla  capanna  ulula  e  freme,  20 


*  In  piii  d'un  luogo  di  queste  poesie,  e  segnatamente  nel  poemetto  di  Cro- 
ma,  al  v.  191  [cfr.  Opere,  IV,  p.  162],  si  fa  menzione  di  canti  fatti  alTim- 
prowiso.  Furono  questi  tenuti  in  grandissimo  pregio  dai  bardi  dei  tempi 
susseguenti.  Cio  che  ci  riman  di  quel  genere  mostra  piuttosto  il  buon  orec- 
chio  che  il  genio  poetico  degh  autori.  II  traduttore  inglese  non  ha  incontra- 
to  che  una  sola  di  queste  composizioni  che  meriti  dosser  conservata,  ed  e 
per  Fappunto  la  presente.  Ella  e  di  mille  anni  piii  recente  del  secolo  di 
Ossian,  ma  sembra  che  gli  autori  si  sieno  studiati  d'imitar  lo  stile  di  questo 
poeta,  e  di  adottarne  molte  espressioni.  Eccone  il  soggetto.  Cinque  bardi,  o 
cantori,  passando  la  notte  in  casa  d'un  signore,  o  capo  di  tribu,  il  quale  era 
anch'esso  poeta,  uscirono  a  far  le  loro  osservazioni  sopra  la  notte,  e  ciasche- 
duno  ritorn6  con  una  improwisa  descrizione  della  medesima.  La  notte  de- 
scritta  e  nel  mese  d'ottobre,  e  nel  nord  della  Scozia  elTha  veramente  tutta 
quella  varieta  che  i  cantori  le  attribuiscono  (C.)-  Dalle  Opere,  iv,  pp,  365- 
78.  Contrariamente  a  quanto  afferma  rOrtolani,  questo  poemetto  fu  pub- 
blicato  per  la  prima  volta  gia  nell'edizione  1762,  e  precisamente  nella 
osservazione  finale  del  poemetto  Croma. 


262  MELCHIORRE    CESAROTTI 

il  cervo  geme  -  sul  musco  del  monte, 

1'arborea  fronte-il  vento  gli  percote; 

spesso  ei  si  scuote  -  e  si  ricorca  spesso. 

Entro  d'un  fesso  -  il  cavriol  s'acquatta, 

tra  Tale  appiatta  -  il  francolin  la  testa.  25 

Teme  tempesta  -  ogni  uccello,  ogni  belva, 

ciascun  s'inselva-e  sbucar  non  ardisce; 

solo  stridisce  -  entro  una  nube  ascoso 

gufo  odioso; 

e  la  volpe  cola  da  quella  pianta  3° 

brulla  di  fronde 

con  orrid'urli  a'  suoi  strilli  risponde. 

Palpitante,  ansante,  tremante 
il  peregrin 

va  per  sterpi,  per  bronchi,  per  spine,  35 

per  rovine, 
che  ha  smarrito  il  suo  cammin. 

Palude  di  qua, 
dirupi  di  la, 

teme  i  sassi,  teme  le  grotte,  40 

teme  Tomb  re  della  notte, 
lungo  il  ruscello  incespicando, 
brancolando, 
ei  strascina  Pincerto  suo  pie. 

Fiaccasi  or  questa  or  quella  pianta,  45 

il  sasso  rotola,  il  ramo  si  schianta, 
Paride  lappole  strascica  il  vento; 
ecco  un'ombra,  la  veggo,  la  sento: 
trema  di  tutto,  ne  sa  di  che. 

Notte  pregna  di  nembi  e  di  venti,  50 

notte  gravida  d'urli  e  spaventi! 
LJ  ombre  mi  volano  a  fronte  e  a  tergo: 
aprimi,  amico,  il  tuo  notturno  albergo. 


25.  francolin:  uccello  selvatico.  3 3 -44.  Palpitante  .  .  .pie:  si  pu6  notare 
qualche  rispondenza  fra  questi  versi  e  la  strofa  del  « vecchierello »  del 
Canto  notturno  leopardiano.  47.  lappole:  erbe  secche. 


POESIE    DI    OSSIAN  •  LA   NOTTE  263 


II   CANTORE 

Sbuffa  '1  vento,  la  pioggia  precipitasi, 
atri  spirti  gia  strillano  ed  ululano,  55 

svelti  i  boschi  dall'alto  si  rotolano, 
le  fenestre  pel  colpi  si  stritolano. 
Rugghia  il  flume  che  torbido  ingrossa: 
vuol  varcarlo  e  non  ha  possa 
Taffannato  viator.  60 

Udiste  quello  stride  lamentevole  ? 
Egli  e  travolto,  ei  muor. 

La  ventosa  orrenda  procella 
schianta  i  boschi,  i  sassi  sfracella: 
gia  Pacqua  straripa,  65 

si  sfascia  la  ripa; 

tutto  in  un  fascio  la  capra  belante, 
la  vacca  mugghiante, 
la  mansueta  e  la  vorace  fera 
porta  la  rapidissima  bufera.  7° 

Nella  capanna  il  cacciator  si  desta, 
solleva  la  testa, 

stordito  awiva  il  fuoco  spento:  intorno 
fumanti 

stillanti  75 

stangli  i  suoi  veltri;  egli  di  scope  i  spessi 
fessi  riempie,  e  con  terrore  ascolta 
due  gonfi  rivi  minacciar  vicina 
alia  capanna  sua  strage  e  rovina. 

La  sul  franco  di  ripida  rupe  80 

sta  tremante  -  Terrante  pastor. 

Una  pianta  sul  capo  risuona, 


57.  le  fenestre . . .  stritolano:  questo  e  uno  di  quei  vari  tratti  di  questi  canti 
dai  quali  il  Macpherson  e  il  Blair  conchiudono  che  questo  poema  sia  po- 
steriore  di  piu  secoli  ai  tempi  di  Ossian.  Le  finestre  nel  secolo  di  quel  poeta 
erano  un  capo  di  lusso  incognito  ai  Caledoni.  lo  osserver6  soltanto  che 
dopo  i  boschi  rovesciati  lo  sbattimento  delle  finestre,  come  sta  nel  testo, 
e  troppo  picciola  cosa  per  far  onore  a  questa  burrasca.  lo  volli  almeno  che 
le  finestre  fossero  stritolate  piuttosto  che  sbattute  o  peste  (C.)- 


264  MELCHIORRE    CESAROTTI 

e  1'orecchio  gli  assorda  e  rintrona 
il  torrente  col  roco  fragor. 

Egli  attende  la  lima,  85 

la  luna  che  risorga, 
e  alia  capanna  co'  suoi  rai  lo  scorga. 

In  tal  notte  atra  e  funesta 
sopra  il  turbo  e  la  tempesta, 

sopra  neri  nugoloni,  90 

vanno  Tomb  re  a  cavalcioni. 

Pur  e  giocondo 
il  lor  canto  sul  vento: 
che  d'altro  mondo 
vien  quel  novo  concento.  95 

Ma  gia  cessa  la  pioggia:  odi  che  soffia 
1'asciutto  vento,  1'onde 
si  diguazzano  ancora,  ancor  le  porte 
sbattono:  a  mille  a  mille 

cadon  gelate  stille  100 

da  quel  tetto  e  da  questo.  Oh!  oh!  pur  veggo 
stellato  il  cielo:  ah  che  di  nuovo  intorno 
si  raccoglie  la  pioggia;  ah  che  di  nuovo 
Toccidente  s'abbuia. 

Tetra  e  la  notte  e  buia,  105 

Faer  di  nembi  e  pregno : 
ricevetemi,  amici,  a  voi  ne  vegno. 


Ill   CANTORE 

Pur  il  vento  imperversa,  e  pur  ei  strepita 
tra  1'erbe  della  rupe:  abeti  svolvonsi 
dalle  radici,  e  la  capanna  schiantasi.  no 

Volan  per  1'aria  le  spezzate  nuvole, 
le  rosse  stelle  ad  or  ad  or  traspaiono; 
nunzia  di  morte  1'orrida  meteor  a 
fende  co'  raggi  Taddensate  tenebre. 
Ecco  posa  sul  monte:  io  veggo  Tispida  115 

vetta  del  giogo  dirupato,  e  Parida 
felce  rawiso  e  Tatterrata  quercia. 


POESIE   DI    OSSIAN  •  LA   NOTTE  265 

Ma  chi  e  quel  cola  sotto  quell'albero, 
prosteso  in  riva  al  lago 

colle  vesti  di  morte?  120 

L'onda  si  sbatte  forte 
sulla  scogliosa  ripa,  e  d'acqua  carca 
la  piccioletta  barca, 
vanno  e  vengono  i  remi 

trasportati  dalPonda  125 

ch'erra  di  scoglio  in  scoglio:  oh!  su  quel  sasso 
non  siede  una  donzella? 
Che  fia?  L'onda  rotante 
rimira, 

sospira  130 

misero  Pamor  suo!  misero  amante! 
Ei  di  venir  promise, 
ella  adocchio  la  barca, 

mentre  il  lago  era  chiaro:  —  Oh  me  dolente! 
oime  questo  e  Jl  suo  legno!  135 

oime  questi  i  suoi  remi! 
questi  sul  vento  i  suoi  sospiri  estremi!  — 

Ma  gia  s'appresta 
nuova  tempesta; 

neve  in  ciocca  140 

fiocca,  fiocca; 

biancheggiano  dei  monti  e  cime  e  fianchi; 
sono  i  venti  gia  stanchi, 
ma  punge  1'aria  ed  e  rigido  il  cielo: 
accoglietemi,  amici,  io  son  di  gelo.  145 

IV    CANTORE 

Vedi  notte  serena,  lucente, 
pura,  azzurra,  stellata,  ridente; 
i  venti  fuggiro, 
le  nubi  svaniro, 
si  fan  gli  arboscelli  150 

140.  in  ciocca:  con  grande  abbondanza. 


266  MELCHIORRE   CESAROTTI 

piu  verdi  e  piu  belli; 

gorgogliano  i  rivi 

piu  freschi  e  piu  vivi; 

scintilla  alia  luna 

la  tersa  laguna.  i55 

Vedi  notte  serena,  lucente, 
pura,  azzurra,  stellata,  ridente. 

Veggo  le  piante  rovesciate,  veggo 
i  covoni  che  il  vento  -  aggira  e  scioglie, 
ed  il  cultor  che  intento  160 

si  curva  e  li  raccoglie. 

Chi  vien  dalle  porte 
oscure  di  morte 
con  pie  pellegrin? 

Chi  vien  cosi  leve  165 

con  vesta  di  neve, 
con  candide  braccia, 
vermiglia  la  faccia, 
brunetta  il  bel  crin  ? 

Questa  e  la  figlia  del  signer  si  bella,  170 

che  pocanzi  cadeo  nel  suo  bel  fiore: 
deh  t'accosta,  t'accosta,  o  verginella, 
lasciati  vagheggiar,  viso  d'amore. 
Ma  gia  si  move  il  vento,  e  la  dilegua; 
e  vano  e  che  cogli  occhi  altri  la  segua.  175 

I  venticelli  spingono 
per  la  valle  ristretta 
la  vaga  nuvoletta: 
ella  poggiando  va: 

finche  ricopre  il  cielo  180 

d'un  candidetto  velo, 
che  piu  leggiadro  il  fa. 
Vedi  notte,  serena,  lucente, 
pura,  azzurra,  stellata,  ridente. 

Bella  notte,  piu  gaia  del  giorno :  185 

addio,  statevi,  amici,  io  non  ritorno. 

162.  II  cantore,  vedendo  una  nuvola  variamente  colorata  che  in  qualche 
guisa  raffigurava  una  donna,  crede,  o  finge  di  credere,  secondo  1'opinion 
di  que'  tempi,  che  questa  sia  la  figlia  del  suo  signore  (C.). 


POESIE   DI    OSSIAN  •  LA   NOTTE  267 


V  CANTORE 

La  notte  e  cheta,  ma  spira  spavento; 
la  luna  e  mezzo  tra  le  nubi  ascosa: 
moves!  il  raggio  pallido  e  va  lento ; 
s'ode  da  lungi  Tonda  romorosa.  190 

Mezza  notte  varc6,  die  '1  gallo  io  sento: 
la  buona  moglie  s'alza  frettolosa, 
e  brancolando  pel  buio  s'apprende 
alia  parete,  e  '1  suo  foco  raccende. 

II  cacciator,  che  gia  crede  il  mattino,  195 

chiama  i  suoi  fidi  cani,  e  piu  non  bada; 
poggia  sul  colle  e  fischia  per  cammino: 
colpo  di  vento  la  nube  dirada; 
ei  lo  stellato  aratro  a  se  vicino 

vede,  che  fende  la  cerulea  strada:  200 

—  Oh,  —  dice—  egli  e  per  tempo,  ancora  annotta.— 
E  s'addormenta  sull'erbosa  grotta. 
Odi,  odi: 

corre  pel  bosco  il  turbine, 

e  nella  valle  mormora  205 

un  suon  lugubre  e  stridulo : 

quest 'e  la  formidabile 

armata  degli  spiriti, 

che  tornano  dairaria. 

Dietro  il  monte  si  cela  la  luna  210 

mezzo  pallida  e  mezzo  bruna: 
scappa  un  raggio  e  luccica  ancora, 
e  un  po'  poj  le  vette  colora: 
lunga  dagli  alberi  scende  Tombra, 
tutto  abbuia,  tutto  s'adombra,  215 

tutto  e  orrido  e  pien  di  morte: 
amico,  ah!  non  tardar,  schiudi  le  porte. 


199.  lo  stellato  aratro :  la  costellazione  dell'Orsa  maggiore;  rinunagine  risale 
probabilmente  alTAriosto  (Or/.  fur.y  xx,  82). 


268  MELCHIORRE   CESAROTTI 


IL  SIGNORE 

Sia  pur  tetra  la  notte,  ululi  e  strida 
per  pioggia  o  per  procella, 

senza  luna  ne  Stella;  22° 

volino  1' ombre,  e  '1  peregrin  ne  tremi, 
imperversino  i  venti, 
rovinino  i  torrenti,  errino  intorno 
verdi-alate  meteore;  oppur  la  notte 
esca  dalle  sue  grotte  22s 

coronata  di  stelle,  e  senza  velo 
rida  limpido  il  cielo; 
e  lo  stesso  per  me:  1'ombra  sen  fugge 
dinanzi  al  vivo  mattutino  raggio, 
quando  sgorga  dal  monte,  230 

e  fuor  dalle  sue  nubi 
riede  gioioso  il  giovinetto  giorno: 
sol  Tuorn,  come  passo,  non  fa  ritorno. 

Ove  son  ora,  o  vati, 

i  duel  antichi?  ove  i  famosi  regi?  235 

Gia  della  gloria  lor  passaro  i  lampi. 
Sconosciuti,  obliati 
giaccion  coi  nomi  lor,  coi  fatti  egregi, 
e  muti  son  delle  lor  pugne  i  campi. 
Rado  awien  ch'orma  stampi  240 

il  cacciator  sulle  muscose  tombe, 
mal  noti  avanzi  degli  eccelsi  eroi. 
Si  passerem  pur  noi;  profondo  oblio 
c'involvera:  cadra  prostesa  alfme 
questa  magion  superba,  245 

e  i  figli  nostri  tra  F  arena  e  Ferba 
piu  non  rawiseran  le  sue  rovine. 
E  domandando  andranno 


234-9.  Ove  .  .  .  campi'.  cfr.  Leopard! ,  La  sera  del  di  di  festa,  33-9:  «Or 
dov'e  il  suono  /  di  que'  popoli  antichi  ?  or  dov'e  il  grido  /  de*  nostri  avi 
famosi  ? .  .  .  /  Tutto  e  pace  e  silenzio,  e  tutto  posa  /  il  mondo,  e  piu  di  lor 
non  si  ragiona».  242.  degli:  cosi  la  I  e  n  edizione;  mentre  Tedizione  pi- 
sana  ha  «  dagli ». 


POESIE    DI    OSSIAN  -   LA    NOTTE  369 

a  quei  d'etade  e  di  saper  piu  gravi: 
—  Dove  sorgean  le  mura  alte  degli  avi  ?  —  250 

Sciolgansi  i  cantici, 

Tarpa  ritocchisi, 

le  conche  girino, 

alto  sospendansi 

ben  cento  fiaccole;  255 

donzelle  e  giovani 

la  danza  intreccino 

al  lieto  suon. 

Cantore  accostisi, 

il  qual  raccontimi  26o 

le  imprese  celebri 

del  re  magnanimi, 

del  duci  nobili, 

che  piu  non  son. 

Cosi  passi  la  notte,  265 

finche  il  mattin  le  nostre  sale  irraggi. 
Allor  sien  pronti  i  destri 
giovani  della  caccia  e  i  card  e  gli  archi. 
Noi  salirem  sul  colle,  e  per  le  selve 
andrem  col  corno  a  risvegliar  le  belve.  270 


ELEGIA  DI  TOMMASO  GRAY  SOPRA 
UN  CIMITERO  DI  CAMPAGNA 

Parte  languido  il  giorno;  odine  il  segno 
die  il  cavo  bronzo  ammonitor  del  tempo 
al  consueto  rintoccar  diffonde. 
Va  passo  passo  il  mugolante  armento 
per  la  piaggia  awiandosi:  dal  solco  5 

move  alPalbergo  Parator  traendo 
Taffaticato  fianco,  e  lascia  il  mondo 
alle  tenebre  e  a  me.  Gia  scappa  al  guardo 
gradatamente,  e  piu  e  piu  s'infosca 
la  faccia  della  terra,  e  1'aer  tutto  10 

silenzio  in  cupa  maestade  ingombra. 
Se  non  che  alquanto  lo  interrompe  un  basso 
ronzar  d'insetti  e  quel  che  il  chiuso  gregge 
tintinnio  soporoso  al  sonno  alletta. 
E  la  pur  anco  da  quelPerma  torre,  15 

ch'ellera  abbarbicata  ammanta  e  stringe, 
duolsi  alia  luna  il  pensieroso  gufo 
di  quei  che  al  muto  suo  segreto  asilo 
d'intorno  errando,  osan  turbare  i  dritti 
del  suo  vetusto  solitario  regno.  20 

Sotto  le  fronde  di  quegli  olmi,  all'ombra 

La  Elegy  written  in  a  Country  Churchyard,  pubblicata  nel  1750,  e  il  ca- 
polavoro  di  Thomas  Gray  (1716-1771),  uno  dei  piomeri  della  nuova  sen- 
sibilita  preromantica,  come  appare  anche  da  altre  sue  poesie,  ispirate  dalle 
antiche  letterature  gallese  e  scandinave,  The  Bard,  The  fatal  Sisters,  The 
Descent  of  Odin.  Tale  elegia  ebbe  subito  grandissima  fortuna  in  Europa 
e  in  Italia,  dove  fu  tradotta,  oltre  che  dal  Cesarotti,  da  Giuseppe  Torelli, 
da  Giuseppe  Gennari,  da  Giovanni  Costa  (in  distici  latini),  e  da  altri. 
Fra  tutte  la  traduzione  cesarottiana  si  distingue  non  solo  per  rintrinseco 
valore  poetico,  ma  anche  per  la  suggestione  che  esercito  sui  poeti  roman- 
tici  (cfr.  W.  BINNI,  Preromanticismo  italiano,  cit.,  pp.  249-50),  come  di- 
mostrano  per  esempio  le  non  rare  immagini  che  verranno  riecheggiate 
dal  Foscolo  (cfr.  per  es.  i  w.  17,  65-9,  87-8,  134-6,  140-1)  e  dal  Leopardi 
(w.  15,  115-7,  143,  155,  158-9,  1 66).  La  traduzione  del  Cesarotti  venne 
pubblicata  per  la  prima  volta,  insieme  con  quella  del  Gennari  e  del  Costa, 
a  Padova,  Comino,  1772,  e  poi  ristampata  nelle  Opere,  xxxin,  pp.  331-8, 
ristampa  a  cui  si  attiene  il  nostro  testo. 

1-3.  Par te  ...  diffonde:  cfr.  Dante,  Purg.,  vm,  5-6:  « squilla  . .  .  /  che 
paia  il  giorno  pianger  che  si  more». 


ELEGIA   DI   TOMMASO    GRAY  Zji 

di  quel  tasso  funebre,  ove  la  zolla 

in  polverosi  tumuli  s'inalza, 

ciascun  riposto  in  sua  ristretta  cella, 

dormono  i  padri  del  villaggio  antichi.  25 

Voce  d'augello  annunziator  d'albori, 

auretta  del  mattin  che  incenso  olezza, 

queruli  lai  di  rondinella  amante, 

tonar  di  squilla  o  rintronar  di  corno 

non  gli  alzeran  dal  loro  letto  umile.  30 

Piii  per  essi  non  fia  che  si  raccenda 

il  vampeggiante  focolar;  per  essi 

non  piu  la  fida  affacendata  moglie 

discorrera  per  la  capanna,  intesa 

di  scars  o  cibo  ad  apprestar  ristoro.  35 

Non  correran  festosi  i  figliuoletti 

al  ritorno  del  padre,  e  balbettando 

vezzi  indistinti  aggrapperansi  a  prova 

sul  ginocchio  paterno,  a  c6rre  il  bacio, 

della  dolce  famiglia  invidia  e  gara.  40 

Quante  volte  cadeo  sotto  i  lor  falci 

la  bionda  messe!  Tostinata  zolla 

quante  dei  loro  vomeri  taglienti 

cesse  airimpronta!  come  lieti  al  campo 

traean  cantando  gli  aggiogati  bovi!  45 

Come  al  colpir  delle  robuste  braccia 

gemeano  i  boschi  disfrondati  e  ignudi! 

No,  della  rozza  villereccia  gente 
le  pacifiche  ed  utili  fatiche, 

le  domestiche  gioie  e  '1  fato  oscuro  50 

non  dispregiarlo,  Ambizion  superba; 
ne  sdegni  il  Fasto  con  sorriso  altero 
della  semplice  e  bassa  Povertade 
gli  oscuri  si  ma  non  macchiati  annali. 
Pari  e  di  tutti  il  fato:  avito  ceppo  55 

nella  notte  de'  secoli  nascoso, 

26-7.  Voce .  .  .  olezza:  cfr.  Dante,  Purg.,  xxiv,  145-6:  «E  quale  annunzia- 
trice  delli  albori,  /  1'aura  di  maggio  movesi  ed  olezza ».  28.  queruli  . . . 
amante:  cfr.  Dante,  Purg.,  IX,  13-4:  «Nell'ora  che  comincia  i  tristi  lai/ 
la  rondinella  presso  alia  mattina». 


272  MELCHIORRE    CESAROTTI 

'    pompa  di  gloria  e  di  possanza,  e  quanto 
puo  ricchezza  ottener,  donar  beltade, 
tutto  sorprende  inevitabil  punto, 
e  ogni  via  dell'onor  guida  alia  tomba.  60 

Vano  mortal,  non  recar  loro  ad  onta 
se  su  i  sepolcri  lor  trofeo  non  erge 
la  pomposa  Memoria  ove  per  Palte 
volte  dei  tempii  ripercossa  echeggia 
canora  laude.  Ah  Fammirato  busto  65 

o  Purna  effigiata  al  primo  albergo 
pu6  richiamar  lo  spirito  fugace  ? 
Pu6  risvegliar  la  taciturna  polve 
voce  d'onore?  o  adulatrice  lode 

il  freddo  orecchio  lusingar  di  Morte?  7° 

Ma  die  ?  negletto  in  questo  angolo  oscuro 
un  cor  gia  pregno  di  celeste  foco 
forse  e  riposto,  e  qualche  man  possente 
a  regger  scettro  di  fiorito  impero 
o  ad  awivar  Tarmoniosa  cetra,  75 

rapitrice  deiranime  gentili. 
Sol  non  apri  Dottrina  ai  loro  sguardi 
il  suo  misterioso  ampio  volume 
delle  spoglie  del  Tempo  altero  e  carco. 
La  freddolosa  Povertade  il  sacro  80 

foco  ne  sperse,  ed  inceppo  dell'alma 
Pagile  vividissima  corrente; 
che  molte  gemme  di  serena  luce 
disfavillanti  T ocean  rinserra 

nelljime  grotte,  e  molti  fior  son  nati  85 

a  vagamente  colorarsi  invano 
non  visti,  e  profumar  Taer  solingo 
di  loro  ambrosia  genial  fragranza. 
Questa  zolla,  chi  sa?  forse  ricopre 
rustico  Hamdeno,  che  de'  patri  campi  90 

al  picciolo  tiranno  oppose  il  petto. 
La  forse  giace  inonorato,  ignoto 

90.  Hamdeno:  John  Hampden  (1594-1643),  cugino  di  Cromwell  e  tenace 
oppositore  di  Carlo  I. 


ELEGIA   DI    TOMMASO    GRAY  273 

Miltone  agreste,  e  Cromoel  poc'oltre, 
cui  non  brutto  della  sua  patria  il  sangue. 

Attrar  con  lingua  imperiosa  i  plausi  95 

d'attonito  senate,  ire,  minacce 
di  tiranni  sfidar,  bear  contrade 
coi  doni  d'uberta,  legger  negH  occhi 
d'intenerito  popolo  confuso 

la  grata  istoria  de'  suoi  fatti  egregi  100 

vieto  la  sorte  a  que'  negletti  ingegni. 
Pur  se  basso  natal  rattenne  il  volo 
delle  innate  virtu,  represse  ancora 
di  vizi  e  di  misfatti  il  germe  e  Pesca. 
Fortunata  impotenza  a  lor  non  diede  105 

per  mezzo  il  sangue  farsi  varco  al  trono, 
ne  di  pietade  al  meschinello  in  faccia 
chiuder  le  porte,  ne  affogar  le  strida 
di  coscienza  roditrice,  e  '1  foco 

delFingenuo  pudor  spegnersi  in  petto,  no 

ne  del  lusso  e  del  fasto  arder  sull'are 
incenso  acceso  airapollinea  face. 
Lungi  dal  folle  vaneggiar  del  volgo, 
dai  desiri  infiniti  e  gare  insane, 

non  traviar  giammai  le  innocue  genti  115 

dal  sentier  di  natura,  e  per  la  cheta 
della  vita  mortal  solinga  valle 
tennero  un  corso  tacito  e  tranquillo. 

Or  a  guardar  le  fredde  ignobili  ossa 
dalFingiurie  del  ciel,  qui  presso  eretto  120 

di  fragil  terra  un  monumento,  adorno 
di  rozze  rime  e  disadatte  forme, 
dal  molle  cor  del  passaggero  implora 
picciol  tributo  di  sospir  pietoso. 
I  lor  nomi,  i  lor  anni,  informe  scritto  125 

d'inerudita  Musa,  alPombre  oscure 
servon  di  fama  e  d'eleghi  dolenti. 


127.  eleghi:  elegie;  forse  con  allusione  al  fatto  che  le  iscrizioni  sepolcrali, 
o  i  versi  in  elogio  dei  defunti  illustri  erano  spesso  in  distici  elegiaci 
latini. 

18 


274  MELCHIORRE    CESAROTTI 

E  sparse  miri  le  pareti  intorno 

di  sagrate  sentenze  a  scolpir  atte 

ne'  rozzi  petti  il  gran  dover  di  morte.  130 

Poiche  chi  tutta  mai  cesse  tranquillo 

in  preda  a  muta  obblivion  vorace 

questa  esistenza  travagliosa  e  cara? 

chi  del  vivido  giorno  i  rai  sereni 

abbandono  senza  lasciarsi  addietro  135 

un  suo  languente  e  sospiroso  sguardo? 

Ama  posar  su  qualche  petto  amato 

1'alma  spirante,  e  i  moribondi  lumi 

chieggono  altrui  qualche  pietosa  stilla. 

Fuor  della  tomba  ancor  grida  la  voce  140 

della  natura,  e  sin  nel  cener  freddo 

degli  usati  desir  vivon  le  fiamme. 

Ma  tu,  che  serbi  ricordanza  e  cura 
d'obbliati  mortali  e  in  questi  versi 
la  lor  semplice  istoria  altrui  disveli,  145 

che  fia  di  te?  Se  in  queste  piagge  errando, 
pien  d'un  alto  pensier  che  lo  desvia, 
qualche  spirto  romito  al  tuo  conforme 
chiede  mai  del  tuo  fato,  in  tali  accenti 
forse  awerra  che  di  lanuta  greggia  150 

qualche  canuto  pascitor  risponda: 
—  Spesso  il  vedemmo  alPalbeggiar  del  giorno 
scoter  le  fresche  rugiadose  stille 
con  frettoloso  passo,  e  farsi  incontro 
sulPerma  piaggia  a'  primi  rai  del  sole.  155 

Sotto  quel  faggio,  che  in  bizzarri  scherzi 
colle  barbe  girevoli  serpeggia, 
sdraiar  soleasi  trascuratamente 
in  sul  meriggio,  muto  muto  e  fiso 
li  su  quelPonda  che  susurra  e  passa.  160 

Presso  quel  bosco  or  con  sorrisi  amari 
gia  seco  stesso  barbottando  arcani 
fantastici  concetti,  or  s'aggirava 

147.  un  alto  .  .  .  desvia:  cfr.  Petrarca,  Rime,  CLXIX,  i :  «un  vago  pensier  che 
me  desvia  /  da  tutti ». 


ELEGIA   DI   TOMMASO    GRAY  275 

mesto,  languido,  pallido;  Taresti 

detto  uom  per  doglia  trasognato,  o  folle  165 

per  cruda  sorte,  o  disperato  amante. 

Spunto  un  mattin;  sopra  1'usato  poggio, 

lungo  la  piaggia,  sotto  il  faggio  amato 

piu  non  si  scorse;  altro  mattin  succede, 

ne  sul  rio,  ne  sul  balzo,  ne  sul  bosco  170 

piu  non  apparve;  il  terzo  giorno  alfine 

con  mesta  pompa  e  con  dovuti  ufizi 

a  lenti  passi  per  la  strada  al  tempio 

lo  vedemmo  portar:  t'accosta,  e  leggi 

(che  cio  solo  a  te  lice)  il  verso  inciso  175 

in  quel  sasso  cola  ch'e  mezzo  ascosto 

da  quel  folto  spineto.  «I1  capo  stanco 

qui  della  terra  in  grembo  un  garzon  posa 

alia  fortuna  ed  alia  fama  ignoto. 

Bella  scienza  la  sua  culla  umile  180 

non  ebbe  a  sdegno,  e  di  gentile  impronta 

melanconia  nell'anima  marchiollo. 

Larga  avea  carita,  sincere  il  core, 

largo  a'  suoi  voti  guiderdon  pur  anco 

concesse  il  Cielo :  alia  miseria  ei  diede  185 

quanto  aveva,  una  lagrima;  dal  Cielo 

ebbe,  quanto  bramava,  un  fido  amico. 

I  merti  suoi,  le  sue  fralezze  ascose 

da  quel  che  le  ricopre  augusto  abisso 

non  cercar  di  ritrarre:  e  quelli  e  queste  190 

in  palpitante  dubitosa  speme 

al  suo  Padre,  al  suo  Dio  posano  in  grembo. » 


191.  dubitosa   speme  \  cfr.  Petrarca,  Rime,  cxxvr,  21-2:  «se  questa  spene 
porto  /  a  quel  dubbioso  passo ». 


RIFLESSIONI 
SOPRA  I  DOVERI  ACCADEMICI 

II  primo  pensiero  d'un  Accademia  sembra  che  debba  esser  quello 
di  farsi  un'idea  precisa  ed  esatta  de'  suoi  doveri,  e  di  cercar  seco- 
stesso  qual  sia  il  miglior  mezzo  di  soddisfare  alia  sua  destinazione, 
alia  fiducia  deireccellentissimo  Magistrate1  e  all'aspettazione  del 
pubblico. 

Su  questo  soggetto  avendo  io  fatte  per  mio  uso  alcune  riflessioni, 
ho  deliberato  di  comunicarle  con  voi,  egregi  accademici,  con  una 
schietta  ed  amichevol  fiducia;  non  perch'io  m'arroghi  di  potervi 
dar  consigli,  e  molto  meno  precetti,  ma  piuttosto  per  sottoporre  al 
vostro  giudizio  que'  pensieri  che  mi  furono  unicamente  dettati 
dal  zelo  che  ho  comune  con  tutti  voi  dell'utilita  e  del  decoro  di 
questo  corpo. 

Chi  dice  accademia  dice  una  societa  d'uomini  di  lettere  radunati 
insieme  a  fine  di  cooperare  in  comune  ad  aumentare  e  perfezionare 
le  discipline  e  le  arti.  Due  sono  adunque  le  qualita  essenziali  che 
debbono  caratterizzar  le  fatiche  di  tutto  il  corpo  accademico:  im- 
portanza  nella  scelta  delle  materie  e  piano  concertato  e  sistematico 
d'operazioni.  L'una  di  queste  qualita  sembra  che  difficilmente  si 
possa  ottener  senza  1'altra;  ed  ambedue  son  tali  che,  qualunque  di 
esse  ci  manchi,  oso  dubitare  che  possa  da  noi  soddisfarsi  pienamente 
alToggetto  del  nostro  uffizio  e  alia  qualificazione  del  nostro  nome. 
Senza  la  prima  potremo  bensi  chiamarci  letterati,  non  accademici; 
e  senza  la  seconda  non  saremo  riuniti  che  in  apparenza:  e  ciasche- 

Nel  1779,  per  iniziativa  dei  Riformaton  dell'Universita  di  Padova,  fu 
costituita  anche  in  questa  citta  una  Accademia  di  Scienze,  Lettere  ed 
Arti,  della  quale  il  Cesarotti  fu  nominato  segretano  perpetuo.  In  tale 
qualita  egli  lesse  all' Accademia,  nel  marzo  1780,  queste  Riflesstom,  che 
mtendevano  fissare  le  linee  fondamentali  del  future  lavoro  degli  accademici. 
Esse  furono  pubbhcate  per  la  prima  volta  nei  « Saggi  scientifici  e  lettera- 
n »  dell'Accaderma  stessa,  I  (1786),  pp.  LXXII-LXXXIII,  e  poi  nstampate 
dallautore,  senza  modifiche  di  nlievo,  nelle  Opere,  xvn,  pp  i-2i  in 
testa  alia  raccolta  delle  Relazioni  accademiche,  che  il  Cesarotti  era've- 
nuto  leggendo  fra  il  1780  e  il  1798.  II  nostro  testo  riproduce  quest'ultima 
e  derimtiva  edizione. 

i.  Magistrate:  la  magistratura  composta  dai  tre  Riformatori,  o  sovrinten- 
denti  dell  Universita  di  Padova,  i  quali  avevano  promosso  la  creazione 
dell  Accademia. 


RIFLESSIONI    SOPRA   I    DOVERI   ACCADEMICI  277 

duna  facolta  non  ritrarra  da  un  corpo  niente  di  pin  di  quel  che  po- 
tevano  prestarle  le  forze  separate  degli  individui. 

Al  primo  requisite  del  nostro  uffizio  sara  da  noi  soddisfatto,  se 
avremo  sempre  dinanzi  allo  spirito  che  ogni  produzione  accademica 
dee  riunire  essenzialmente  tre  pregi,  verita,  novita  ed  utilita.  La 
verita  deve  esser  lo  scopo  di  tutte  le  nostre  ricerche,  il  genio  che 
deve  ispirarci,  1'idolo  a  cui  dobbiamo  sacrificare  ogn'altro  rispetto, 
e  sin  Tamor  proprio  medesimo.  Verita  di  ragionamento,  verita  di 
sentimento,  verita  di  fatto  abbracciano  tutti  i  generi  delle  umane 
conoscenze ;  e  in  ognuna  di  queste  verita  ne  campeggiano  tre  altre 
relative  alPesercizio  del  nostro  spirito  intorno  di  esse,  verita  d'os- 
servazione,  verita  d'induzione,  verita  d'applicazione.  Le  verita  di 
ragionamento  sono  appunto  Poggetto  della  ragione,  del  gusto  Paltre, 
rultime  del  criterio.  Andiamo  in  traccia  di  queste  diverse  verita  cia- 
scheduno  pei  lor  diversi  sentieri;  e  facciamo  uso  del  lor  naturale 
strumento,  guardandoci  di  snaturarle  con  principii  eterogenei  e 
stranieri.  Non  si  provi  che  un  fatto  non  doveva  essere,  quando  te- 
stimoni  irrefragabili  depongono  altamente  che  fu:  non  vaglia  a 
convalidar  un'opinione  Pautorita  d'intere  nazioni  o  la  prescrizione 
dei  secoli,  quando  una  sola  luminosa  dimostrazione  ne  rivela  la 
falsita:  non  si  citi  il  sentimento  al  tribunale  della  fredda  ragione, 
ma  il  gusto  assistito  dalla  ragione  rintracci  le  vie  per  cui  opera  il 
sentimento,  e  le  indichi  a  chi  vuol  destarlo,  acciocche  ottenga  piu 
sicuramente  il  suo  fine.  Awertasi  sopra  tutto  che  contro  la  verita 
puossi  peccar  doppiamente,  o  per  errore  o  per  scelta:  e  che  il  primo 
peccato  puo  talora  e  forse  dee  trovar  grazia;  il  secondo  e  indegno 
assolutamente  di  scusa.  Lungi  da  noi  adunque  la  vana  idea  di 
brillar  con  un  paradosso,  d'abbagliar  in  luogo  d'illuminare,  di 
sedurre  in  cambio  di  convincere,  di  far  pompa  d'ingegno  a  spese 
della  verita,  di  mostrarsi,  per  cosi  dire,  ambidestro  di  spirito  e  di 
sostener  con  uguale  indifferenza  ambedue  le  parti,  imitando  quei 
ciarlatori  forensi  pronti  di  due  cause  contrarie  ad  abbracciar  quella 
o  questa,  secondo  che  piu  gPinvita  non  il  chiaror  della  verita,  ma 
il  baglior  delPoro.  Lungi  da  noi  parimenti  la  vilta  d'animo  di  pen- 
sar  sempre  dietro  gli  altri,  di  creder  piu  vero  quel  ch'e  piu  antico 
o  piu  recente,  di  adorar  un  nome  sulPaltrui  fede,  di  prediliger  un 
popolo :  lungi  da  noi  sopra  tutto  il  basso  indegno  artifizio  di  far 
la  corte  alPopinion  dominante,  di  lusingar  i  pregiudizi  d'un  paese 
o  d'una  setta  a  fine  di  aver  un  appoggio,  e  sopraffare  gli  altri  col 


278  MELCHIORRE  CESAROTTI 

numero  o  Fautorita  assai  phi  che  colla  ragione.  Abbiasi  il  nobile 
orgoglio  di  pensar  da  se  stesso;  non  c'imponga  il  fantasma  del- 
Fantichita,  il  brillante  fantoccio  della  moda  non  ci  seduca;  niente  si 
adotti  senza  un  esame  severe,  senza  una  piena  conoscenza  di  causa; 
tutto  sia  dettato  dalPintima  persuasione,  e  vogliasi  piuttosto  errar 
giudicando,  di  quello  che  appagarsi  di  coglier  nel  vero  credendo. 
Ne  gia  dee  pretendersi  da  noi  che  si  trovi  sempre  la  verita,  ma  sol 
che  si  cerchi  con  buona  fede  e  con  industria  e  con  zelo.  Nelle  te- 
nebre  che  la  cingono,  nei  laberinti  fra  cui  s'awolge,  perderemo, 
e  vero,  piu  d'una  volta  fatica  e  passi.  Ma  qualora  con  una  sagace 
osservazione  si  cammini  dirittamente  per  le  sue  orme;  quando  af- 
ferrato  un  principio  sicuro  e  fecondo  si  segua  il  filo  d'una  esatta 
induzione ;  quando  con  una  accurata  analisi  si  sgombri  il  viluppo 
eterogeneo  che  talor  Faffoga  e  nasconde;  quando  raccogliendone 
le  parti  disperse,  connettendole  insieme,  se  ne  formi  un  esatto  rag- 
guaglio ;  quando  il  soggetto  contemplato  per  tutte  le  facce  possibili 
non  solo  colPocchio  ignudo,  ma  coi  vetri  delParte,  ci  riveli  sino 
nei  menomi  element!  la  sua  interna  struttura,  ci  giova  sperare  che 
i  nostri  sforzi  non  abbiano  sempre  a  riuscir  vani;  senzache  la  sola 
agitazione  dello  spirito  e  lo  sfregamento,  diro  cosi,  delPidee  spri- 
giona  talora  alcune  improwise  scintille,  per  cui  quasi  involontaria- 
mente  traluce  il  vero.  So  che  vi  sono  in  certe  materie  alcuni  sog- 
getti  che  sogliono  risguardarsi  come  problematic!,  in  cui  perci6 
Tingegno  si  crede  comunemente  permesso  di  sbizzarrirsi  a  suo 
senno,  prefiggendosi  per  oggetto  piuttosto  Puso  e  la  pompa  delle 
sue  forze,  che  la  scoperta  del  vero.  Ma  quando  la  cosa  si  esamini 
profondamente,  si  trovera  che  cosi  fatti  argomenti  il  piu  delle  volte 
non  sono  problematic!  che  per  equivoco  di  termini  o  per  poca 
esattezza  e  precisione  d'idee,  e  che  perci6  il  nostro  intelletto  non  e 
mai  libero.  II  sistema  del  probabilismo  deve  essere  ugualmente 
proscritto  nella  letteratura  e  nella  morale.  Dobbiamo,  non  v'ha 
dubbio,  contentarci  piu  d'una  volta  del  verisimile,  finche  ci  riesca 
di  essere  o  piu  fortunati  o  piu  sagaci;  ma  v'e  una  scala  di  verisimili 
per  cui  dee  sempre  poggiarsi ;  e  Pultimo  grado  della  verisimiglianza 
forma  il  limitar  della  verita. 

La  verita  non  basta  se  non  e  unita  alia  novita.  Novita  di  scoperte, 
novita  di  prove,  novita  di  metodo,  novita  di  viste,  novita  di  applica- 
zioni:  alcuna  di  queste  specie  dee  sempre  trovarsi  in  ogni  produ- 
zione  accademica,  di  cui  forma  essenzialmente  il  pregio.  Due  sono 


RIFLESSIONI    SOPRA   I   DOVER!   ACCADEMICI  279 

gli  error!  in  cui  si  potrebbe  cadere  su  questo  articolo:  Tuno  appa- 
gandosi  d'una  novita  piu  apparente  che  reale,  Paltro  sdegnando 
tutto  cio  che  non  ha  tutta  la  pompa  e  la  freschezza  ancora  intatta 
della  novita.  Non  dee  credersi  nuovo  un  argomento  perche  vestito 
con  maggior  eleganza  e  con  varieta  di  stile,  o  trattato  con  maggior 
lusso  d'erudizione  o  con  maggior  ampiezza  e  abbondanza,  o  consi 
derate  vagamente  e  preso  in  generale,  cose  tutte  che  non  apparten- 
gono  all'essenza  del  soggetto,  e  possono  bensi  far  il  merito  d'un 
retore  o  d'un  compilatore  o  d'un  declamatore,  non  gia  quello  d'un 
accademico.  Ne  pero  dee  sdegnarsi  come  mancante  di  novita  un 
argomento  per  cio  solo  che  fu  prima  trattato  da  altri,  o  perche 
comunemente  si  tien  per  vero  senza  bastevole  fondamento,  o  per- 
ch6  nelle  opere  degli  scrittori  se  ne  fa  qua  e  la  un  qualche  cenno 
fuggitivo  ed  ambiguo.  II  timore  talor  puerile  di  riandare  sulle  cose 
gia  dette,  e  la  vanita  di  cercar  punti  del  tutto  nuovi  fece  abbandonare 
molti  soggetti  importanti,  che  percio  rimasero  imperfetti  o  pieni  di 
confusione  e  d'equivoci,  fonti  di  vane  alter azioni,  preda  della  pe- 
danteria  o  giuoco  della  temeraria  opinione  dei  semidotti.  Finche 
il  soggetto  non  e  provato  con  quel  rigor  di  ragionamento  che  lo 
porta  alia  dimostrazione,  finche  non  si  e  risalito  alia  prima  origine 
ed  all'essenza  della  cosa,  finche  il  pregiudizio  non  e  snidato  da  tutti 
i  suoi  trinceramenti,  finche  la  materia  non  e  posta  in  quel  lume 
vittorioso  che  trionfa  dei  sofismi  e  del  dubbio,  finche  tutte  le  parti 
integral!  d'una  dottrina  non  sono  raccolte,  rawicinate  e  connesse, 
finche  non  se  ne  sono  sviluppate  tutte  le  ultime  conseguenze,  il 
soggetto  e  sempre  nuovo  e  sempre  degno  delle  nostre  discussion! 
e  ricerche. 

Ma  la  corona  degli  altri  due  pregi,  Toggetto  massimo  e  il  fine 
delle  nostre  fatiche  e  1'utilita.  Senza  di  questa  ogni  nostro  lavoro 
non  e  che  abuso  d'ingegno,  e  in  questo  senso  e  vero  il  detto  di 
Fedro: 

Gloria  ch'util  non  e,  gloria  e  da  stolti.1 

II  volgo,  ordine  d'uomini  che  serpeggia  per  tutte  le  condizioni  e  le 
class!,  crede  inutile  e  vano  tutto  cio  che  non  ha  un'innuenza  im- 
mediata  ne'  suoi  bisogni:  ma  i  dotti  vicendevelmente  non  sarebbero 
talora  soggetti  a  dar  troppo  di  peso  e  d'importanza  a  tutto  cio  che 

i.  Traduce  Fedro,  Fab.,  m,  xvn,  12:  «Nisi  utile  est  quod  facimus,  stulta 
est  gloria  ». 


280  MELCHIORRE  CESAROTTI 

ha  qualche  relazione  col  loro  studio  favorito?  e  nell'assegnare  il 
prezzo  alle  varie  class!  di  studi  non  consultano  piu  volentieri  la 
prevenzione  dell' amor  proprio,  che  il  loro  valore  intrinseco  e  la 
pubblica  utilita?  Vi  sono  alcune  verita  infeconde  e  insociabili,  da 
cui  non  si  puo  aspettare  alcun  frutto;  ve  ne  sono  di  gregarie  che 
non  servono  che  a  far  numero;  d'ignobili  divenute  scienza  di 
pochi  che  s'impadronirono  d'un  fondo  abbandonato  dall'altrui 
disprezzo ;  di  vane  che  aumentano  il  lusso  e  la  pompa  senza  aumen- 
tar  la  ricchezza;  finalmente  ve  n'ha,  il  di  cui  merito  e  puramente 
convenzionale,  perche  dipendente  dalla  stima  a  cui  presso  certe 
nazioni  ed  in  certi  secoli  vengono  sollevati  alcuni  generi  di  studi  o 
dal  pregiudizio  o  dal  caso.  Confonderemo  noi  tutte  queste,  non 
diro  verita,  ma  notizie  e  realita  inanimate  con  le  verita  solide, 
vivifiche,  interessanti,  dirette  ad  alimentar  la  ragione,  a  perfe- 
zionar  le  discipline,  a  promuovere  i  vantaggi  della  societa?  Fa- 
remo  lo  stesso  conto  di  quel  viaggiatore  che  ci  ragguaglia  delle  mode 
e  dei  cerimoniali  delle  corti  straniere,  e  di  quello  che  ci  spiega  la 
legislazione,  i  costumi,  le  scienze  e  le  arti  di  vari  popoli  ?  di  chi  sa 
nel  germe  scoprir  la  pianta,  e  di  chi  ne  annovera  ad  una  ad  una 
le  foglie  ?  di  chi  sceglie  le  spighe,  e  di  chi  rammassa  le  paglie  ?  di 
chi  imbianca  le  pareti  della  casa,  e  di  chi  ne  rassoda  i  fondamenti 
che  crollano  ?  Crederemo  finalmente  che  basti  far  mostra  d'erudi- 
zione  o  di  ingegno,  qualunque  sia  la  materia  su  cui  si  eserciti,  a 
guisa  dei  pittori,  la  di  cui  gloria,  secondo  Topinion  comune,  dipende 
solo  dalla  maestria  del  lavoro,  non  dalla  scelta  e  la  qualita  del  sog- 
getto  ?  Se  alcuno  per  awentura  cosi  pensasse,  questi  mostrerebbe 
di  mal  conoscere  la  natura  delPuffizio  suo  e  le  note  caratteristiche 
che  lo  distinguono.  Se  Paccademico  e  un  personaggio  distinto  dal 
professore,  come  lo  mostro  egregiamente  il  mio  valoroso  collega,1 
esso  non  e  punto  meno  diverse  dal  letterato.  Siccome  questo  non 
s'applica  ad  uno  studio  che  per  esercizio  del  suo  spirito  o  per  di- 
porto  o  per  altre  sue  viste  particolari,  ne  scrive  soltanto  pei  dotti, 
ma  per  quei  lettori,  qualunque  sieno,  a  cui  le  sue  opere  possono 
riuscir  opportune,  qualunque  materia  ei  scelga,  in  qualunque 
modo  prenda  a  trattarla,  niuno  puo  esiger  da  lui  altra  cosa  o 

i.  mostro  .  .  .  collega:  il  conte  abate  Matteo  Franzoia,  segretario  dell'Acca- 
demia  per  le  Scienze,  nel  suo  Ragionamento  prehmmare,  letto  nella  prima 
sessione  pubblica  (29  novembre  1779)  e  stampato  nei  «Saggi  scientific!  e 
letterari))  dell'Accademia,  I  (1786). 


RIFLESSIONI    SOPRA   I    DOVERI   ACCADEMICI  28l 

piu  di  quello  che  vuol  offerire  egli  stesso ;  e  purche  eseguisca  feli- 
cemente  il  suo  assunto,  purche  gli  riesca  d'intrattener  un  qualche 
ordine  di  lettori  con  diletto  o  con  qualche  specie  d'utilita,  il  pub- 
blico  dee  sapergli  buon  grado  della  sua  fatica.  Riordini  egli  dun- 
que  o  classifichi,  immagini  o  scherzi,  rischiari  o  abbellisca,  scelga 
o  ammassi,  ristringa  o  amplifichi,  tutto  e  suo  dono,  tutto  e  oppor- 
tuno  a  qualche  uso,  tutto  merita  riconoscenza  e  favore.  Ma  1'ac- 
cademico,  membro  d'una  repubblica  sempre  intenta  a  migliorare 
e  a  dilatar  maggiormente  le  sue  conquiste,  1'accademico,  che  non 
parla  al  popolo  a  cui  tutto  e  nuovo  e  che  si  pasce  di  fronde  piu 
che  di  frutti,  ne  a  uno  stuolo  di  docili  e  rispettosi  discepoli  tanto 
piu  pronti  a  credere,  quanto  men  atti  a  giudicare,  ma  bensi  alia 
dieta  generale  di  tutti  i  dotti,  I'accademico,  la  di  cui  lode  privata 
dee  perdersi  nella  gloria  del  corpo,  questi  dee  prefiggersi  una 
meta  piu  nobile  e  piu  sublime.  A  lui  solo  e  lecito  di  piangere 
con  Alessandro  perche  di  tanti  mondi  non  abbia  ancora  fatto 
conquista  d'un  solo ;  a  lui  e  bello  d'esclamar  con  Cesare  che  nulla 
s'e  fatto,  ove  qualche  cosa  resti  da  farsi.  Inventare,  migliorare, 
perfezionare,  compire  son  le  sue  parti:  s'egli  non  aspira  che  al 
mediocre,  se  si  contenta  d'un  vano  e  sterile  applauso,  se  tien  sem 
pre  gli  occhi  dietro  di  se,  se  piantato  nel  centro  non  gira  intorno 
lo  sguardo  e  non  divora  la  vasta  estensione  che  gli  sta  innanzi, 
e  colFimpeto  deirimmaginazione  non  vi  si  slancia  nel  mezzo  alia 
prima  vista,  egli  smentisce  il  suo  nome  e  defrauda  la  giusta  espet- 
tazione  del  pubblico,  ch'e  in  dritto  di  esigere  dalle  sue  fatiche 
la  piu  estesa  e  solida  utilita.  Un  uomo  di  genio  travede  1'esistenza 
d'un  nuovo  mondo,  e  traccia  il  cammino  che  dee  condurvi.  Alia 
testa  d'una  truppa  d'animosi  e  scelti  seguaci  si  porta  cola  e  ve- 
rifica  le  sue  idee  credute  chimeriche.  II  drappello  balza  sul  lido, 
e  si  sparge  qua  e  la  a  far  le  scoperte  e  le  osservazioni  necessarie. 
Altri  esplora  1'indole  degli  abitanti,  altri  la  natura  del  paese, 
altri  i  suoi  vari  prodotti:  chi  scava  sotterra  per  trovar  le  vene 
di  qualche  prezioso  metallo,  chi  dirada  una  selva  che  serve  d'in- 
ciampo  a'  suoi  passi,  chi  s'adopera  a  disseccar  una  palude,  chi 
a  distrugger  le  serpi  e  grinsetti  venefici  che  fanno  guerra  agli 
ospiti  importuni,  chi  pianta,  chi  innesta,  chi  semina;  i  deserti 
divengono  colti,  le  spine  dan  luogo  alle  messi:  scelto  il  luogo  piu 
acconcio,  vi  stabilisce  una  colonia  e  la  rassoda  con  una  legislazione 
opportuna.  In  tanto  una  parte  di  questi  felici  venturieri  sopra 


282  MELCHIORRE    CESAROTTI 

navi  cariche  delle  piu  scelte  e  curiose  produzioni  d'un  mondo 
incognito  torna  in  Europa,  meno  per  far  pompa  delle  sue  scoperte, 
die  per  convertirle  in  uso  della  societa.  Al  loro  arrivo  mercatanti, 
coltivatori,  artefici,  curiosi,  amatori,  donne  ed  uomini  di  buon  gusto 
accorrono  in  folia.  Ciascuno  scorre  avidamente  con  Tocchio  le 
nuove  spoglie,  ciascuno  brama  di  possederne  una  qualche  parte. 
I  mercatanti  diffondono  per  la  nazione  le  nuove  ricchezze  e  le 
fanno  circolar  per  tutti  gli  ordini  e  tutte  le  classi;  i  coltivatori 
tentano  di  far  allignar  nel  lor  terreno  i  frutti  stranieri,  onde 
naturalizzarli  ed  accrescer  Tabbondanza  dei  generi;  i  curiosi  e 
gli  amatori  fanno  raccolta  delle  varie  produzioni,  quelli  per  ammas- 
sarle  e  pascersi  di  nomi  nuovi,  e  vantarsi  d'aver  appresso  di  se 
un  tesoro  concesso  a  pochi,  questi  per  sceglierle,  paragonarle, 
disporle  e  formarne  un  ben  inteso  gabinetto  e  museo ;  gli  artefici 
fmalmente  ne  fanno  acquisto  per  dar  a  quei  prodotti  in  certo  modo 
una  nuova  e  forse  piu  brillante  esistenza  lavorandogli,  frastaglian- 
doli,  configurandogli  in  varie  guise,  innestandogH  coi  nostri,  incas- 
sandoli  in  oro  o  in  pietre,  onde  servano  d'ornamento  e  di  lustro 
alle  donne  gentili  e  agli  uomini  di  bel  mondo,  e  diano  risalto  alia 
bellezza  e  decoro  alia  maesta.  In  questa  immagine  raffigurate,  o 
signori,  indicate  con  precisione  le  varie  classi  di  tutti  i  ministri 
della  letteratura,  e  le  diverse  lor  qualita.  Riconoscete  con  grati- 
tudine  nei  coltivatori  e  nei  mercatanti  i  benemeriti  professori  e  i 
giudiziosi  maestri  che  spargono  sulla  nazione  i  lumi  delle  discipline 
e  delParti;  osservate  nel  curioso  raccoglitore  quelPutile  e  laborioso 
erudito,  che  ammassa  nella  sua  memoria  que'  materiali  che  alia 
ragione  architettrice  servon  di  base  per  alzarvi  sopra  un  ben  inteso 
edifizio;  vedete  nel  facitor  d'un  gabinetto  il  conoscitor  giudizioso 
e  Tuomo  di  gusto,  che  apprezza  il  valor  delle  cose  e  ne  sa  far  uso ; 
applaudite  negli  artefici  agli  scrittori  d'immaginazione  e  di  spirito, 
che  abbelliscono  ed  awivano  le  cogniziom,  rendono  la  verita  piu 
brillante,  e  adornano  Minerva  della  cintura  di  Venere.1  Ma  chi 
indovina,  chi  scopre  una  verita  non  preveduta,  chi  acquista  un 
nuovo  regno  all'intelligenza,  chi  sbosca  la  selva  delle  difficolta, 
chi  si  fa  strada  fra  precipizi  e  torrenti,  chi  snida  gPinsetti  ve- 
nefici  del  pregiudizio,  chi  feconda  i  deserti  delPignoranza,  chi 
porta  la  face  tra  le  nebbie  delPerrore,  chi  osserva  sagacemente  le. 

i.  Minerva  qui  simboleggia  il  contenuto  morale  e  scientific©,  la  cintura 
di  Venere  gh  allettamenti  dell'arte. 


RIFLESSIONI    SOPRA    I    DOVERI   ACCADEMICI  283 

proprieta  delle  cose,  chi,  consultando  la  natura  colle  sperienze  o 
tormentandola  coll'analisi,  le  strappa  i  piu  profondi  segreti,  chi 
d'alcune  cognizioni  sparse  forma  un  corpo  sistematico  di  soda 
dottrina,  e  lo  incatena  colle  savie  leggi  del  metodo,  quest!  (con 
template  voi  stessi)  son  gli  accademici. 

Fra  queste  varie  operazioni  niuna  ve  n'ha  che  non  meriti  le 
nostre  cure,  niuna  che  non  sia  di  massima  utilita  ed  importanza, 
perche  non  awene  alcuna,  senza  di  cm  non  manchi  una  qualche 
parte  integrale  delle  rispettive  discipline.  Ma  a  quale  fra  tante  da- 
remo  noi  la  preferenza  delPordine?  con  qual  metodo,  con  qual 
distribuzione  di  forze  prenderemo  noi  ad  esercitarvisi  ?  qual  sara 
in  fine  il  piano  delle  nostre  operazioni  accademiche  ?  ch'e  appunto, 
come  abbiam  detto  sin  da  principio,  I'altro  requisite  essenziale  del 
nostro  uffizio.  Non  altro  certamente  deve  esser  questo  se  non 
quello  che  domandano  i  bisogni  reali  di  ciascheduna  facolta:  stan- 
teche,  benche  a  tutte  manchi  qualche  cosa  per  giungere  alia  per- 
fezione,  tutte  non  per  tanto  non  vi  sono  ugualmente  discoste,  ne 
tutte  percio  abbisognano  degli  stessi  aiuti.  Consultiamo  adunque 
le  facolta  istesse  piuttosto  che  il  nostro  genio  o  le  nostre  opportu- 
nita ;  e  sarem  certi  di  non  errar  nella  scelta.  Tre  cose  mi  sembrano 
necessarie  per  determinarsi  con  fondamento:  i.  di  aver  dinanzi 
allo  spirito  la  natura  e  Fessenza  di  ciascheduna  disciplina,  le  sue 
principali  diramazioni,  i  principii  su  cui  fonda,  e  1'oggetto  a  cui 
tende;  2.  di  riandarne  Torigine,  lo  sviluppo,  i  progressi,  i  ritardi, 
gli  errori  e  i  pregiudizi,  e  le  cagioni  di  essi;  3.  finalmente  di  fer- 
marsi  nello  stato  attuale  di  ciascheduna  facolta,  e  di  esaminarne  i 
bisogni.  Avendo  in  tal  guisa  dinanzi  agli  ocelli  lo  stato  della  nostra 
provincia  e  delle  sue  parti,  batteremo  il  cammino  piu  diritto  e 
sicuro,  ne  perderemo  di  vista  la  nostra  meta,  rawisando  gPintoppi 
che  si  attraversarono  ai  nostri  predecessori,  e  i  laberinti  che  gli  tra- 
viarono ;  apprenderemo  dal  loro  esempio  ad  essere  piu  aweduti  e 
guardinghi,  conoscendo  al  fine  con  esattezza  i  terreni  fruttuosi  o 
sterili,  i  ben  lavorati  o  grincolti,  la  fabbriche  rovinose  o  le  solide; 
vedremo  tosto  di  quale  industria  e  di  qual  riparo  abbisognino, 
e  ci  appresteremo  a  soddisfarvi  nel  modo  il  piu  salutare  ed  ac- 
concio.  Premesso  un  tal  esame,  potremo  rawisar  con  precisione 
qual  parte  dello  scibile  ricerchi  miglioramento  o  ristoro,  qual  man 
chi  di  principii  o  di  metodi  o  di  dettagli  interessanti  o  d'applicazioni 
felici;  quale  solleciti  Focchio  d'un  osservatore  sagace  o  le  ricerche 


284  MELCHIORRE    CESAROTTI 

d'un  raccoglitor  diligente ;  qual  altra  11  severe  giudizio  d'un  critico ; 
quale  i  tentativi  d'uno  sperimentator  giudizioso  o  le  viste  anima- 
trici  d'un  uomo  di  genio  o  Tindustria  d'un  assiduo  coltivatore 
che  la  renda  piu  feconda  e  piu  vegeta;  e  ci  accingeremo  a  pre- 
stare  ad  esse  queU'efficace  soccorso  che  ricerca  la  natura  di  ciasche- 
duna  e  la  loro  costituzione  presente.  II  primo  passo  adunque  che 
per  mio  awiso  dovrebbe  farsi  dal  nostro  corpo  si  e  questo,  che 
ciascheduno  dei  membri  metta  in  iscritto  le  sue  idee  e  i  suoi 
pensamenti  relativi  allo  stato  della  facolta  ch'ei  professa,  e  ai  meszi 
di  perfezionarla  tanto  nella  speculazione  che  nella  pratica.  Da  tutti 
questi  vari  scritti  esaminati  e  discussi  in  comune  tra  i  membri  di 
ciascheduna  classe,  e  combinati  insieme  giudiziosamente,  si  ver- 
rebbe  a  formar  un  piano  ragionato  di  ciascheduna  facolta;  e  dalla 
riunione  di  questi  piani  si  formerebbe  un  piano  universale  e  siste- 
matico,  che  sarebbe  come  la  carta  itineraria  del  nostro  viaggio 
accademico.  Fissate  le  materie  veramente  utili  ed  interessanti  su 
cui  e  necessario  di  versare,  ciascheduno  potrebbe  allora  appigliarsi  a 
quella  parte  che  piu  si  trovi  confacente  al  suo  carattere  e  alia  natura 
de'  suoi  talenti,  certo  di  meritar  sempre  lode  quando  vi  si  adoperi 
con  valore  e  con  zelo.  Questo  primo  passo  sarebbe  esso  medesimo 
una  delle  piu  grandi  ed  importanti  operazioni  accademiche,  ricer- 
cando  aggiustatezza  d'idee,  sagacita  di  viste  e  cognizione  estesa 
della  storia  fllosofica  d'ogni  facolta;  e  il  prospetto  di  questo  piano 
sarebbe  la  facciata  piu  luminosa  delFedifizio  letterario  che  deve 
alzarsi.  Oso  affermare,  illustri  accademici,  rimettendomi  al  giudizio 
delle  vostre  menti,  che  questo  e  1'assunto  il  piu  conveniente,  il 
piu  nobile,  il  piu  degno  del  vostro  nome  e  di  voi,  assunto  che  solo 
pu6  bastare  a  nobilitar  1'Accademia  di  Padova,  a  trarre  il  massimo 
frutto  dai  nostri  ingegni,  a  dar  un'idea  vantaggiosa  delle  nostre 
fatiche,  ad  impor  silenzio  ai  malevoli  ed  ai  semidotti,  razza  sempre 
collegata  coi  primi,  a  formar  lo  spirito  della  gioventu,  dandole  idee 
adeguate  delle  dottrine  e  dei  metodi,  a  diriger  infine  gl'incerti  e 
capricciosi  giudizi  del  pubblico,  animal  bizzarro,  raccozzato  di 
molti  capi,  tra  i  quali  i  meglio  assettati  non  sono  i  piu,  e  di  suono 
tumultuoso  e  discorde,  in  cui  la  debol  voce  della  modesta  ragione 
e  troppo  spesso  affogata  dalle  pazze  grida  dell'arrogante  ignoranza. 
Con  questo  modello  le  evoluzioni  del  nostro  corpo  saranno  ben 
intese  e  opportune,  i  movimenti  armonici  e  progressivi,  le  forze 
ben  distribuite  e  proporzionate :  con  questo  non  ci  sara  pericolo 


RIFLESSIONI    SOPRA   I    DOVERI    ACCADEMICI  285 

die  si  giri  senza  fine  intorno  un  soggetto  esaurito,  che  si  dia  troppo 

a  una  parte,  lasciando  1'altra  senza  coltura,  che  si  raccolgano  delle 

schegge  in  luogo  d'alzar  una  fabbrica;  il  piano  sara  concertato,  gli 

argomenti  ben  scelti,  le  materie  ponderate  e  discusse;  ognuno 

sara  certo  che  la  sua  fatica  riuscira  utile,  opportuna,  gradita,  per- 

che  avra  la  sanzione  della  comune  autorita;  e  le  produzioni  dei 

membri  saranno  come  il  risultato  delle  idee  generali  del  corpo. 

Si  dira  forse  che  Timpresa  e  troppo  vasta,  e  che  molta  e  bensi 

la  messe,  ma  gli  operai  troppo  scarsi.  A  questo  rispondo  che  1'acca- 

demia  e  una  repubblica  permanente  di  successivi  individui,  e  che 

perci6  i  presenti  possono  a  buon  diritto  associarsi  coirimmagina- 

zione  ai  posteri,  e  mettendo  mano  alia  fondazione  dell'opera  aver 

parte  precedentemente  nella  compiacenza  del  fine.  Si  tracci  il  cam- 

mino  e  s'irnpronti  delle  prime  orme;  il  buon  principio  e  malleva- 

dore  del  buon  progresso,  e  Tentusiasmo  cresce  per  via  come  il  fuoco. 

Che  se  pure  vogliam  pensare  soltanto  alle  nostre  forze  presenti, 

queste  non  son  gia  cosi  scarse,  come  potrebbe  sembrare  a  prima 

vista.  Abbiamo,  oltre  i  membri  naturali  di  ciascheduna  classe, 

il  corpo  de?  nostri  rispettabili  soci,  ai  quali  farei  troppo  torto 

se  osassi  dubitare  che,  per  indurli  a  cooperare  alle  nostre  fatiche, 

il  loro  animo  nobile  e  i  loro  attivi  talenti  avessero  bisogno  d'al- 

tro  stimolo  che  di  quello  delPonore  e  del  ben  comune:  abbiamo 

1'altro  corpo  non  men  ragguardevole  de'  soci  nazionali  e  stranieri, 

da  cui  siamo  in  dritto  di  sperar  non  lieve  soccorso,  e  che  tanto  phi 

volentieri  concorreranno  alle  nostre  viste,  quanto  piu  verranno 

invitati  dalla  nobilta  deirimpresa:  abbiamo  pur  anche  i  nostri  colti 

e  studiosi  alunni  volonterosi  e  disposti  ad  assumere  quella  porzion 

di  fatica  che  sembrera  convenirsi  alle  loro  forze:  abbiamo  al  fine 

tutto  il  ceto  letterario  diffuse  per  PEuropa,  che  sara  da  noi  annual- 

mente  allettato  co'  premi  ad  esercitarsi  in  qualche  soggetto  d'e- 

rudizione  o  di  scienza,  il  qual  soggetto  se  sara  sempre  de'  piu 

nuovi,  utili,  difficili,  interessanti,  non  vorremo  certamente  che 

quelli  scelti  da  noi  per  dover  d'uffizio  sieno  meno  importanti  o 

men  nobili;  ne  saremo  cosi  poco  sensibili  al  nostro  amor  proprio, 

che  contend  d'una  lode  mediocre  vogliam  cedere  agli  stranieri 

la  miglior  porzione  di  gloria.  Del  resto,  e  perche  non  dovremo 

sperare  che,  anche  senza  1'allettamento  del  premio,  1'idea  della 

nostra  impresa,  le  nostre  sollecitazioni,  la  nostra  attivita,  il  nostro 

esempio,  il  desiderio  di  ottener  gli  elogi  del  nostro  corpo  possano 


286  MELCHIORRE    CESAROTTI 

indur  molti  altri  a  marciar  nel  cammino  da  noi  segnato,  facendo 
a  noi  cortese  omaggio  de'  lor  felici  progress!  ?  Vi  sono  in  ogni  citta 
dei  giovani  pieni  d'ingegno,  dei  letterati  tranquilli  e  liberi,  ch'er- 
rano  incerti  coi  lor  pensieri  o  passano  con  indifferenza  da  uno  stu 
dio  alPaltro  senza  consacrarsi  ad  alcuno,  solo  per  mancanza  d'og- 
getto  die  gli  determini  alia  preferenza,  o  perche  non  hanno  chi 
gl'inanimi  nelle  loro  ricerche  e  dia  loro  le  viste  e  le  direzioni  op 
portune.  II  piano  da  me  proposto,  ove  si  pubblichi  e  si  diffonda, 
puo  diventar  un  segnale  di  riunione,  un  invito  generale  agli  studiosi 
ed  ai  dotti,  un  mezzo  atto  a  suscitar  delle  idee,  a  somministrar 
delle  viste,  a  porre  in  moto  e  in  fermento  tutti  gli  spiriti.  Qual 
compiacenza  per  noi  se  il  nostro  piano  servisse  di  codice  generale 
a  tutti  i  dotti  che  vogliono  coi  loro  scritti  rendersi  benemeriti  delle 
discipline  e  utili  alia  societa?  Ma  stendiamo  piu  oltre  le  nostre 
speranze  ed  i  nostri  voti.  L'  Italia  ha  fmalmente  nel  suo  seno  varie 
accademie  fornite  d'illustri  soggetti:  perche  non  tentare  di  riu- 
nirle  tutte  insieme  e  formarne  una  specie  di  repubblica  federativa> 
che  a  guisa  delle  repubbliche  civili  di  questo  genere  abbia  un  piano 
di  regolamenti  comune,  e  in  cui  ciascheduna  provincia  prenda 
in  comune  le  sue  deliberazioni  e  cospiri  al  maggior  bene  di  tutte  ? 
Osi  PAccademia  di  Padova  afferrar  quest'idea  sublime,  osi  comu- 
nicar  all'altre  le  utili  ed  interessanti  sue  viste,  concepisca  giudizio- 
samente  il  piano  il  piu  grande  e  il  meglio  architettato  d'ogn'altro, 
apra  un  trattato  di  commercio  reciproco  di  lumi  e  di  riflessioni,  e 
inviti  le  altre  accademie  a  collegarsi  con  lei  per  lavorar  di  con 
certo  alia  perfezione  del  sistema  universal  delle  conoscenze,  ch'e 
quanto  a  dire  alia  massima  gloria  dello  spirito  umano  e  al  massimo 
vantaggio  delPumanita.  Un  tal  fenomeno  sarebbe  Pepoca  la  piu 
luminosa  nei  fasti  della  letteratura :  io  v'invito  a  segnarla  coi  vostri 
nomi. 


RAGIONAMENTO  PRELIMINARE  AL  CORSO 
RAGIONATO  DI  LETTERATURA  GRECA 

Magni  sunt,  homines  tamen. 
Quinct.1 

La  vita  delle  lingue  non  e  immortale  ne  inalterabile  niente  piu 
che  quella  dell'uomo  che  ne  fa  uso.  Rozze  dapprima  e  selvagge, 
poetiche  per  necessita,  ridondanti  per  indigenza,2  crescono  colla 
nazione;  divengono  piu  sobrie  perche  piu  ricche;  imparano  a  di- 
stinguer  i  vocaboli  in  classi  ed  in  gradi;  acquistano  precisione  dalla 

Accettando  nel  1767  la  cattedra  di  lingua  greca  ed  ebraica  all'Universita 
di  Pad  ova,  il  Cesarotti  si  assumeva,  per  invito  dei  Riformatori  che  ave- 
vano  proposto  la  sua  nomina,  anche  1'incanco  di  «tradur  qualche  opera 
dal  greco  per  uso  delle  stampe  di  Venezia».  Quale  fosse  all'inizio  1'ani- 
mo  con  cui  egli  si  accingeva  a  tale  compito,  si  rileva  da  una  sua  lettera 
(nprodotta  anche  in  questo  volume)  al  van  Goens  del  marzo  1768:  «Un 
tal  progetto»  egli  scriveva  «non  e  molto  di  mio  genio,  ma  oltreche  mi 
conviene  ubbidire,  cotesti  signon  mi  persuadono  inoltre  con  un  argomento 
stringente,  quest'e  che  si  mostrano  disposti  a  pagare  le  mie  ^  fatiche ». 
II  lavoro  fini  tuttavia  per  interessarlo,  e  nel  1775,  approntato  un  primo  volu 
me  di  traduzioni  delle  orazioni  di  Demostene,  scrisse  una  Lettera  ai  Ri 
formatori  dello  Studio  di  Padova,  la  cui  pubblicazione  fu  per6  sospesa  dai 
Riformatori  stessi,  timorosi  delle  reazioni  che  avrebbe  potato  suscitare  la 
violenza  polemica  dell'autore  contro  gli  adoratori  delle  lingue  e  letterature 
antiche,  e  venne  effettuata  solo  molto  piii  tardi  nelle  Opere,  xxvni,  pp. 
395-406.  L'argomento  fu  allora  ripreso  dal  Cesarotti,  con  maggiore  mo- 
derazione,  in  un  Piano  ragionato  di  traduzioni  dal  greco,  steso  probabil- 
mente  intorno  al  1778  (come  mostra  un  accenno  ai  primissimi  tentativi 
di  traduzioni  omeriche,  effettuati  appunto  in  quell' anno)  e  che,  rimasto 
inedito,  fu  poi  stampato  postumo  dal  Mazzoni,  in  Prose  edite  ed  inedite, 
cit.,  pp.  3-36.  Una  rielaborazione  piu  che  altro  formale  del  Piano  ragionato 
e  appunto  il  presente  Ragionamento  preliminare,  pubblicato  per  la  prima 
volta  nel  1781,  in  testa  al  I  volume  del  Cor  so  ragionato  di  letter  atur  a  greca, 
e  poi  ripubblicato,  « con  giunte  e  correzioni »,  nelle  Opere,  XX,  pp.  i-xxx. 
A  quest 'ultima  e  definitiva  edizione  si  attiene  il  nostro  testo.  Le  note  del 
Cesarotti  sono  seguite  dalla  sigla  C. 

i .  Cita  a  memoria  Quintiliano,  Inst.  or  at.,  x,  1, 24 :  «  Demosthenes,  Homerus 
summi  sunt,  homines  tamen  »  (« Demostene,  Omero  sono  sommi,  ma  pure 
uomini »).  2.  Le  lingue  dei  popoli  rozzi  e  semibarbari  abbondano^di  pleo- 
nasmi,  di  ripetiziom  e  di  sinonimi:  prova  non  di  copia  d'osservazioni,  ma 
di  sterilita  d'idee  e  d'insufficienza  di  termini.  II  discorso  degl'idioti  e  Fesem- 
pio  del  carattere  delle  lingue  in  un  tale  stato  d'infanzia.  Non^e  ristretto 
nelle  espressioni  se  non  chi  possede  idee  aggiustate  e  termini  che  vi  si 
combaciano  (C.).  II  concetto  e  anche  vichiano,  ma  probabilmente  il  Ce 
sarotti  ha  presenti  piuttosto  analoghe  formulazioni  condillachiane,  come 
dimostra  anche  1'intonazione  negativa  del  giudizio. 


288  MELCHIORRE   CESAROTTI 

filosofia,  splendor  dalPimmaginazione,  finezza  dalFanalisi,  copia 
dal  commercio:  aspre  o  molli,  fastose  o  semplici,  prendono  i  ca- 
ratteri  del  clima,  della  nazion,  dello  stato:  maschie  e  schiette  nei 
governi  popolari,  polite  nelFaristocrazie,  nella  monarchia  lusin- 
ghiere  e  ingegnose,  alfme  capricciose  e  strane  si  corrompono  a 
poco  a  poco  coi  raffinamenti  d'un  lusso  barbarico,  sino  a  tanto  che 
percosse  gagliardamente  insiem  collo  stato  da  una  nazion  piu 
potente,  si  sfasciano  e  vanno  a  perdersi  nelPidioma  conquistatore, 
che  dovra  poi  per  le  stesse  vie  esser  ingoiato  da  un  altro  con  inter- 
minabil  vicenda.  La  vita  dunque  d'una  lingua  corrisponde  alia 
vita  di  una  nazione,1  e  il  dominio  di  essa  dipende  da  quello  del 
popolo  a  cui  s'appartiene.  Ora  il  dominio  d'un  popolo  e  di  due 
specie,  politico  e  intellettuale.  Ovunque  una  nazione  stende  le  sue 
armi  o  Fautorita  del  comando,  ivi  porta  pur  anche  la  sua  favella. 
Ma  questo  dominio  nato  sol  dalla  forza  dura  poco  piu  di  quel  che 
sussiste  la  forza  che  lo  fondo,  e  cede  a  un  altro  che  lo  incalza. 
AlPincontro  il  dominio  intellettuale,  piu  lusinghiero  e  piu  sta 
bile,  signoreggia  anche  nelle  straniere  provincie,  e  soprawive 
alle  mine  di  quella  nazione  appo  cui  fioriva.  D'ambedue  queste 
specie  di  dominii  ci  danno  un  esempio  luminoso  le  due  piu  celebri 
lingue  delPantichita.  La  romana  ebbe  Fimpero  della  potenza,  la 
greca  quello  del  sapere.  Di  fatto  quando  la  Grecia  era  la  culla  delle 
scienze,  il  teatro  delFarti,  quando  il  genio  di  Pericle  facea  pullulare 
in  Atene  tutte  le  specie  d'ingegni  e  spargea  per  ogni  parte  nume- 
rose  colonie  di  dotti,  quando  una  folia  di  spiriti  i  piu  penetranti 
faceva  a  gara  per  indovinar  la  natura,  quando  la  ragione  e  Feloquen- 
za  empievano  di  giornalieri  trofei  le  scuole,  la  bigoncia,z  i  tempii  e  le 
scene,  quando  nelle  sole  opere  dei  Greci  trovavansi  raccolti  e 
riuniti  i  tesori  di  Minerva  e  i  doni  delle  Muse,  forza  era  certa- 
mente  che  gli  stranieri  o  apprendessero  quella  lingua  che  sola  era 
Pinterprete  dei  misteri  del  scibile,  o  soffrissero  di  sentirsi  sfregiare 
col  nome  di  barbari,  condannati  a  vivere  tra  Pignoranza  e  Fob- 
brobrio.  Con  questi  titoli,  assai  piu  che  colParme  d'Alessandro, 
non  solo  la  lingua  greca  domino  nelPEgitto  e  nelPAsia,  ma  poiche 

i .  La  vita  .  .  .  nazione :  il  concetto  del  rapporto  fra  la  vita  della  lingua  e 
quella  del  popolo  che  la  parla,  ha  in  Italia  i  suoi  precedent!  nel  Gravina 
e  nel  Muratori  (cfr.  M.  PUPPO,  Storicitd  della  lingua  e  hbertd  dello  scrittore 
nel  ^Saggio  sulla  filosofia  delle  lingue*  del  Cesarotti,  cit.,  p.  522,  nota  2); 
ma  nel  Cesarotti,  qui  e  altrove,  acquista  maggiore  accentuazione  e  consa- 
pevolezza.  2.  bigoncia:  pulpito,  tribuna. 


CORSO   RAGIONATO   DI   LETTERATURA   GRECA  289 

la  Macedonia  e  PAcaia  accrebbero  il  numero  delle  provincie 
romane,  poiche  Atene  vide  desolati  i  sacri  boschetti  dell'Accade- 
mia  dall'arme  del  barbaro   Silla,  la  Grecia  debellata  soggiogo 
coll'erudizione  i  suoi  vincitori,  e  Roma  pago  alia  lingua  dei  Greci 
quel  tribute  d'omaggio  ch'ella  esigeva  dalla  nazione.  Da  indi  in 
poi  la  greca  lingua  divenuta  il  primo  elemento  dell'educazione  ro- 
mana,  la  caratteristica  delPuomo  ben  nato,  e  persino  il  vezzo 
delle  belle,  digross6  gli  spiriti  d'un  popolo  di  guerrieri,  e  comuni- 
co  un'armonia  e  una  eleganza  sconosciuta  alia  favella  rusticana 
ed  imperatoria  del  Lazio.  Roma  impar6  anch'essa  a  poco  a  poco  a 
sacrificar  alle  Muse  e  alle  Grazie,  e  i  grandi  scrittori  di  Grecia 
trovarono  imitatori  degnissimi  d'esser  imitati.  Ma  poiche  per  la 
feroce  ignoranza  settentrionale,  sprezzata  1'educazione  de'  Greci, 
obbliata  la  loro  favella,  rimasero  aboliti  anche  i  monumenti  del 
loro  spirito,  Pintelletto  perde  il  suo  strumento,  la  scienza  il  suo 
dizionario,  rimmaginazione  i  suoi  modelli:  la  capitale  del  mondo 
rest6  come  il  gran  corpo  del  Ciclope  privo  delPocchio,1  e  1'Europa 
per  molti  secoli  ebbe  a  dormire  il  sonno  della  piu  alta  stupidita, 
interrotto  soltanto  dalle  larve  della  Sofistica.2  Poiche  alfine  venne 
a  poco  a  poco  ad  acquistar  tanti  lumi  quanti  le  bastavano  a  rico- 
conoscersi  barbara,  s'accorse  che  per  dirozzarsi  non  aveva  altro 
mezzo  che  quello  di  ricorrere  agli  oracoli  delFantichita.  I  monu 
menti  dell'ingegno  dei  Latini,  disotterrati  dalle  rovine  dj  Italia, 
accrebbero  la  smania  di  rintracciare  e  possedere  anche  quelli  de* 
Greci,  che  dai  piu  famosi  Latini  erano  riconosciuti  per  esemplari 
e  maestri  nell'arte  di  ragionare  e  di  scrivere.  I  codici  greci  di- 
venuti  oggetto  di  lusso  principesco,  i  viaggi  di  vari  illustri  ventu- 
rieri  in  Oriente,  affine  di  tornarne  carichi  di  prede  in  ogni  senso 
preziose,  i  pericoli  e  fmalmente  la  ruina  dell'impero  greco,  che 
costrinse  i  dotti  nazionali  a  rifuggirsi  in  Occidente  senz'altre  ric- 
chezze  che  la  loro  lingua  e  i  lor  manuscritti,  riversarono  in  seno 
all'Europa  i  tesori  della  greca  erudizione,  appunto  nel  tempo  che 
Tarte  della  stampa  trovata  di  fresco  agevolava  i  mezzi  di  accomu- 
narli  e  diffonderli. 

L'Europa  e  1'Asia  nei  tempi  della  lor  piu  colta  floridezza  non 

i.  Si  allude  al  detto  di  Demade  intorno  la  Macedonia  (v.  Corso  di  lett. 
greca,  t.  2,  Rag.  critico  sopra  Demade).  L'applicazione  che  qui  si  fa  di  questa 
favola  e  forse  piu  felice  ed  acconcia  di  quella  di  Demade  (Nota  degli  edi- 
tori).  2.  Sofistica:  la  Scolastica. 

19 


MELCHIORRE   CESAROTTI 

furono  piu  favorabili  alia  riputazion  del  grecismo1  di  quel  che  lo 
fosse  allora  TOccidente  che  usciva  appena  appena  dalla  barbaric. 
Se  per  una  parte  il  gusto  ragionato  e  il  coltivato  giudizio  possono 
soli  far  sentir  al  vivo  e  appreziar  adeguatamente  quelle  perfezioni 
degli  scrittori  che  sfuggono  a  uno  spirito  inesercitato  e  incapace 
di  conoscere  la  fecondita  d'un  principio  o  la  squisitezza  d'un  rap- 
porto;  per  Faltra  la  mancanza  dell'idee  proprie  e  la  scarsezza  dei 
confront!  mettono  lo  spirito  in  uno  stato  direi  quasi  di  passivita, 
che  favorisce  quell' entusiasmo  di  prevenzione,  quell'acume  di 
stupidezza2  che  tutto  ammira,  tutto  difende,  ed  apre  la  strada 
alTidolatria  letteraria.  I  Greci  sarebbero  stati  in  ogni  epoca  uomini 
meravigliosi :  doveano  in  quella  esser  piu  che  uomini  perche  tutto 
in  essi  eccedeva  la  misura  dell'ingegno  umano  in  que'  tempi. 
Preceduti  dalla  fama  che  viaggiava  per  loro  da  tanti  secoli,  grandi 
pel  loro  merito  e  per  la  base  deH'opinione  su  cui  si  alzavano, 
doveano  comparire  agli  Europei  cio  che  gli  Europei  stessi  pochi 
secoli  dopo  comparvero  allo  sbalordito  americano,  che  faceva  un 
tutto  prodigioso  del  cavallo  e  del  cavaliere,  e  gli  eroi  non  conosciuti 
prendea  per  dei.  II  bisogno,  la  lusinga  di  trovar  nei  greci  autori  tutti 
i  tesori  del  scibile,  la  novita,  la  curiosita,  la  difficolta  istessa  che 
accresce  pregio  anche  alle  conoscenze  le  piu  indifferent!,  la  ragione 
infine  e  '1  pregiudizio  si  unirono  ad  impreziosire  tutte  le  cose  de1 
Greci,  e  fecero  che  il  grecismo  fosse  creduto  Tapice  e  la  perfe- 
zione  del  sapere  umano.  Intender  i  Greci,  interpretarli,  rassomi- 
gliarli  erano  tre  generi  principali  di  merito.  Quindi  tre  classi 
d'uomini  doveano  in  quei  tempi  dividersi  tra  loro  il  patrimonio  della 
fama,  i  filologhi,  gl'imitatori,  i  commentatori.  II  campo  delFerudi- 
zione,  ingombro  di  sterpi  e  di  spine,  esercito  utilmente  Pindustria 
degli  uomini  laboriosi  e  sagaci.  Gl'ingegni  ameni  ed  eleganti 
impararono  dai  grandi  esemplari  Parte  di  scrivere  con  quella  gra- 
zia  regolare,  senza  di  cui  non  v'e  opera  che  resista  al  tempo;  alfme 
gl'indagatori  della  verita,  superbi  di  poter  consultare  direttamente 
gli  oracoli  stessi  di  Grecia,  si  diedero  a  svilupparne  le  dottrine, 
che  tanto  piu  amavano  di  creder  vere,  perch6  Poscurita  delPorigina- 

i. grecismo:  civilta  greca.  2.1  Greci  collo  stesso  accozzamento  d'idee 
diedero  il  titolo  di  oximorosy  ossia  « acutofatue »,  a  quelle  espressioni,  che 
sotto  un'apparenza  ingegnosa,  contengono  un  pensiero  falso  o  puerile.  *Non 
e  scarso  il  numero  di  quelli  che  sono  tanto  piu  acuti  e  sagaci  nel  difendere 
un  pregiudizio,  quanto  hanno  meno  di  senso  nel  gustare  una  verita  (C.). 


CORSO  RAGIONATO  DI  LETTERATURA  GRECA     291 

le  lasciava  alFinterprete  partecipare  del  merito  dell'invenzione. 
Cosi  mentre  le  altre  facolta  s'incamminavano  alia  perfezione, 
la  ragion  sola  non  fej  guadagno  che  d'un  vassallaggio  piu  specioso 
e  d'un  esterior  meno  incolto:  i  sogni  brillanti  di  Platone  contra- 
starono  al  gergo  misterioso  d'Aristotele  la  gloria  di  sedurre  e 
d'imporre:  Fintelletto  non  ebbe  altro  ufizio  che  di  sceglier  fra  i 
due  quello  a  cui  doveva  servire;  tutti  i  dotti  gareggiavano  a  chi 
vaneggiasse  meglio  perche  Funo  o  Faltro  "avesse  ragione,  e  il 
vaneggiamento  piu  curioso  fu  quello  di  costringerli  ad  aver  ra 
gione  ambedue  ad  un  tempo,  e  di  provare  che  avevano  detto  lo 
stesso  senza  awedersene.  Rispettiamo  senza  approvarla  questa 
nuova  piega  dello  spirito,  riflettendo  che  il  pregiudizio  e  anch'es- 
so  un  di  quei  gradi  intermedi  per  cui  la  nostra  imperfetta  ragione 
si  strascina  lentamente  dalPignoranza  al  sapere.  Questi  due  stati 
possono  dirsi  i  punti  polari  della  nostra  mente,  e  per  disgrazia 
quel  della  scienza  non  e  il  boreale  per  noi.  Ora  tra  questi  due 
estremi  passano  per  mio  awiso  sei  altri  successivi  punti  o  stati 
dello  spirito,  per  cui  questo  si  conduce  progressivamente  dalFuna 
alFaltra  estremita.  II  primo  si  e  la  curiositd,  che  attizzata  dal  biso- 
gno  attizza  se  stessa:  la  curiosita  unita  all'ignoranza  produce 
Vopinione,  madre  delFerrore.  Questa  e  Fepoca  delFanarchia  del- 
Fidee;  son  questi  gli  atomi  d'Epicuro  che  s'accozzano  a  caso 
nel  vuoto  per  formar  dei  mondi  d'un  giorno.  L'anarchia  ben  tosto 
fa  luogo  al  despotismo.  In  questo  conflitto  d'errori,  il  piu  specioso,  il 
meglio  organizzato  si  configura  in  sistema  e  divien  dominante. 
Ecco  il  regno  del  pregiudizio:  Fimmaginazione  lo  ammira,  Finer- 
zia  lo  accarezza,  Fabitudine  lo  convalida,  lo  divinizza  il  partito.1 
Destasi  finalmente  il  dubbio,  prima  modesto  e  timido,  poi  bal- 
danzoso;  si  trova  il  debole  del  sistema  e  si  osa  attaccarlo;  il  pre 
giudizio  si  scandalezza,  s'irrita,  infuria  perche  teme,  ricorre  ai 
sofismi,  alle  ingiurie  e,  quando  il  possa,  agli  anatemi.  L'ingegno 
si  agguerrisce  in  questa  scherma  letteraria;  malgrado  gli  sforzi  dei 
dottori  e  dei  cattedranti,  il  sorriso  del  buon  senso  confonde  la 
pedanteria:  quando  tutto  e  preparato,  ecco  Fuomo  di  genio  che  asse- 
sta  il  colpo  fatale,  Fidolo  e  atterrato  e  la  ragione  in  liberta.  In  tale 
stato,  ben  diverse  dalFantica  licenza,  lo  spirito  ammaestrato  dalle 
sue  vicende,  in  guardia  ugualmente  contro  la  temerita  e  la  pre- 
venzione,  studia  le  sue  forze  e  la  natura  degli  oggetti  su  cui  si  eser- 

i .  il  partito :  il  partito  preso. 


MELCHIORRE   CESAROTTI 

cita,  e  cercando  prima  di  tutto  il  metodo  direttore  si  appiglia 
all2 ] osservazione,  ossia  Farte  di  ben  vedere,  e  accompagnato  dal- 
Panalisi  e  dalPesperienza  raccoglie  senza  fretta  gli  element!  del 
sapere,  e  rawicinandoli  e  connettendoli  ne  forma  a  poco  a  poco 
il  patrimonio  reale  dell'intelletto,  il  quale  non  ha  oggimai  che  a 
marciar  per  la  stessa  via  per  aumentarsi  di  sempre  nuove  ricchezze. 
«Tantae  molis  erat.  »*  Poiche  dunque  ognuno  di  questi  stati  e  una 
conseguenza  necessaria  del  precedente,  6  chiaro  che  la  mente 
umana  non  potea  giunger  alia  verita  senza  arrestarsi  qualche  tempo 
nella  stazione  del  pregiudizio.  Comunque  sia,  poiche  nel  secolo 
quindicesimo  e  nel  susseguente  fuor  di  Platone  e  d'Aristotele 
non  v'era  scienza,  poiche  Toscurita  naturale  del  loro  stile,  accre- 
sciuta  dalla  scorrezione  dei  codici,  dava  luogo  a  molte  ambiguita 
e  generava  sette  e  scismi  fra  i  commentatori  e  gl'interpreti,  e  cosa 
evidente  che  i  nodi  delle  quistioni  che  andavano  di  giorno  in  giorno 
nascendo,  non  potevano  sciogliersi  se  non  se  colla  profonda  cono- 
scenza  della  greca  lingua,  che  la  squisitezza  nel  cogliere  il  senso 
d'un  vocabolo  o  d'una  frase,  la  prontezza  nel  rawisar  le  pia- 
ghe  dei  testi,  la  sagacita  nelFindovinarne  i  rimedi,  1'analisi  delle 
varianti,  in  somma  tutto  1'apparato  della  scienza  grammatical 
era  cio  che  spianava  la  strada  alia  filosofia;  e  che  per  conseguenza  il 
trascurar  lo  studio  della  lingua  greca  era  in  que5  tempi  un  rinun- 
ciar  al  solo  mezzo  di  conoscer  il  vero  da  se,  e  un  voler  camminar 
al  buio  fra  precipizi  dietro  una  scorta  forse  inesperta  o  fallace. 
£  fuor  di  dubbio  che  se  la  filosofia  fosse  perpetuamente  rimasta 
nei  ceppi  delPautorita,  avrebbe  il  greco  idioma  continuato  neces- 
sariamente  ad  esser  la  lingua  universale  della  dottrina  e  dei  dotti. 
Ma  poiche  Galileo,  introdotta  una  nuova  maniera  di  filosofare, 
aperse  la  strada  alia  vera  fisica;  poiche  Cartesio  alzato  il  vessillo 
di  liberta  abbatte  Tare  del  Peripato;2  poiche  Copernico  mal- 
grado  la  deposizione  dei  sensi  costrinse  la  ragione  a  convincersi 
della  mobilita  della  terra;3  poiche  Locke,  rovesciate  1'idee  plato- 
niche,  capovolse  tutto  il  sistema  intellettuale,  quell'urto  che  crollo4 
la  filosofia  de'  Greci  fu  nel  tempo  stesso  funesto  alPautorita  della 

i.  Cfr.  Virgilio,  Aen.y  I,  33 :  «Tantae  molis  erat  romanam  condere  gentem» 
(«Tanta  fatica  richiedeva  il  fondare  lo  stato  romano»).  2. 1' are  del  Peri 
pato:  il  culto  di  Aristotele.  ^.  poiche  .  .  .  terra:  nella  prima  edizione  la 
frase  era  molto  piti  pittoresca:  « poiche  Copernico  sparse  il  cielo  dei  rottami 
degli  epicicli  tolemaici,  e  ordino  alia  terra  di  muoversi ».  4.  crollo :  fece 
crollare. 


CORSO   RAGIONATO   DI    LETTERATURA   GRECA  293 

loro  lingua,  la  quale  cessando  d'esser  la  chiave  del  scibile,  ne 
conservando  della  sua  antica  influenza  se  non  se  quella  d'una 
sterile  nomenclatura,  venne  a  perdere  il  massimo  e  yl  piu  essen- 
zial  de'  suoi  pregL  Esclusa  per6  ella  dal  regno  scientifico,  restava 
ancora  in  possesso  d'un  altro  assai  vasto,  quello  voglio  dire  della 
letteratura,  acquistato  a  piu  giusto  titolo.  Ma  questo  regno  fondato 
dapprima  sulla  necessita  e  sulla  ragione,  non  potea  rimanerle  as- 
soluto,  indiviso,  incomunicabile  se  non  per  mezzo  del  pregiudizio 
o  della  mediocrita.  Conveniva  che  le  lingue  vernacole,  lasciate 
alle  femminelle  ed  al  volgo,  restassero  eternamente  in  una  barbara 
infanzia;  conveniva  che  tutti  i  migliori  ingegni  credessero  1'apice 
della  gloria  e  1'ultimo  sforzo  possibile  dello  spirito  il  figurar 
nella  classe  subalterna  d'imitatori,  che  il  codice  d'Aristotele  esau- 
risse  tutta  la  fecondita  deirimitazione  poetica,  che  Ylliade  fosse 
il  canone  di  Policleto,1  che  senza  la  mitologia  greca  svanisse  affatto 
il  mirabile  della  poesia,  che  finalmente  in  una  cosi  immensa  di- 
versita  d'opinioni,  d'instituzioni,  d'idee,  la  tragedia  non  potesse 
interessarci  che  rappresentando  passioni  modificate  alia  greca,  n6 
la  commedia  purgarci  de'  nostri  difetti  se  non  prestando  a  personag- 
gi  moderni  costumi  ed  usanze  anteriori  di  venti  secoli.  Ma  questa 
massa  d'opinioni  pregiudicate  non  potea  resistere  a  lungo  al 
progressivo  sviluppo  della  ragione  e  agli  slanci  inaspettati  del 
genio.  Molti  buoni  spiriti  s'awidero  esser  cosa  insensata  il  trascu- 
rar  la  propria  lingua  per  intisichir  sulle  altrui,  piuttosto  che  pre- 
valersi  saggiamente  delle  lingue  antiche  per  incivilir  le  presenti. 
La  lingua  italiana,  che  doveva  a  Dante  un'energia  ch'ei  non  dovea 
che  a  se  stesso,  giunse  col  Petrarca  e  col  Tasso  a  una  perfezione 
non  sospettata:  le  altre  lingue  d'Europa,  scosse  a  questo  esem- 
pio,  acquistarono  un  po'  piu  tardi  quella  regolarita  e  quella  bel- 
lezza  che  potea  conciliarsi  colla  loro  costituzione  grammaticale : 
le  lingue  dirozzate  dai  primi  scrittori  prestarono  ai  susseguenti 
il  mezzo  di  maggiormente  abbellirle,  gli  uomini  di  genio  diedero 
a  ciascheduna  1'impronta  del  loro  carattere  e  seppero  trar  le  bel- 
lezze  dalle  imperfezioni  medesime.  Ben  tosto  1'Europa  vide  uscir 
d'ogni  parte  produzioni  originali  invidiabili  dalPantichita :  s'au- 
mentarono  le  modificazioni  del  Bello,  si  perfezionarono  gli  antichi 

i .  che  .  .  .  Policleto :  avesse  validita  normativa  come  il  modello  ideale  che  lo 
scultore  greco  Policleto  stabili  per  il  corpo  umano,  e  che  tradusse  nella  sua 
statua  piu  celebre,  il  Doriforo  (e  cfr.  p.  76  e  la  nota  2). 


294  MELCHIORRE   CESAROTTI 

generi,  se  ne  trovarono  di  nuovi;  Tepopea  seppe  farsi  ammirare 
senza  gli  del  della  favola;  la  lirica  imparc-  a  destar  Pentusiasmo 
anche  senza  le  irregolarita  e  le  aberrazioni  di  Pindaro;  la  galan- 
teria  prese  maniere  piu  decenti;  Tamore  non  fu  piu  soltanto 
un'ubbriachezza  del  sensi,  ma  un  sentimento  delicato  del  cuore; 
la  tragedia  acquisto  un'azione  piii  viva,  un  viluppo  piu  interes- 
sante,  una  sfera  piu  estesa  di  passioni  e  di  oggetti;  la  commedia 
fti  la  sferza  dei  nostri  ridicoli  o  la  pittura  delle  vicende  private; 
la  storia  divenne  la  scuola  dell'umanita,  non  il  giornal  delle  guerre; 
1'oratoria  apprese  ad  accomodarsi  alle  forme  dei  nostri  governi, 
e  a  farsi  piu  delicata  senza  essere  meno  efficace  e  toccante;  final- 
mente  il  gusto  del  ragionamento  e  delle  notizie  utili,  diffuse  per  le 
nazioni,  tinse  di  nuovi  colori  il  frasario  general  dello  stile,  fece 
che  le  immagini  servissero  di  veste  all'idee,  e  rese  Teloquenza 
piu  atta  a  propagar  fra  il  popolo  il  sapor  della  dottrina  e  le  viste 
della  ragione.  Dairaltro  canto,  colla  copia  dei  confronti  e  col 
perpetuo  esercizio  della  riflessione,  perfezionossi  la  critica,  detta 
a  ragione  da  un  gran  moderno  « la  decima  e  la  miglior  delle  Muse  », 
frutto  prezioso  di  quello  spirito  filosonco  che  vivifica  tutte  le  di 
scipline  e  le  arti.  Essa  insegno  a  render  giustizia  ai  Greci  senza  adu- 
larli,  e  in  luogo  del  cieco  entusiasmo  successe  il  gusto  che  assapora 
tanto  meglio  le  vere  bellezze,  quanto  piu  squisitamente  sente  i 
difetti  contrari.  Ci  mostro  ella  che  i  Greci,  dotati  di  sommi  doni 
di  spirito  non  erano  per6,  ne  poteano  essere,  niente  piu  di  ve- 
run'altra  nazione,  posseditori  esclusivi  delFidea  archetipa  ed  uni 
versal  del  perfetto ;  ci  fe'  gustar  al  vivo  quella  preziosa  naturalezza, 
quella  elegante  semplicita,  quella  forza  di  verita  e  d'evidenza, 
quelFunzione  toccante  di  sentimento  che  domina  nei  loro  grandi 
scrittori;  ma  ci  fe*  sentire  altresi  che  per  la  legge  costante  delPuma- 
nita  le  loro  virtu  non  mancano  della  loro  mistura  di  vizio,  che  se  la 
loro  maniera  ideale  e  sempre  la  piu  felice,  Tesecuzione  non  e 
sempre  la  piu  perfetta,  che  se  le  circostanze  morali  e  politiche  co- 
municarono  alle  loro  produzioni  molte  bellezze,  ne  tolsero  varie 
altre  non  men  pregevoli,  e  forse  in  qualche  senso  maggiori,  che 
noi  dobbiamo  ad  altre  circostanze  diverse;  e  che  finalmente  per 
la  perpetua  successione  e  complicazion  delle  cause  che  influiscono 
nella  massa  della  poesia  e  delPeloquenza,  e  una  vera  assurdita 
il  credere  che  i  Greci,  o  alcun  popolo  al  mondo,  possano  mai 
presentare  alle  nazioni  ed  ai  secoli  un  modello  in  ogni  sua  parte 


CORSO  RAGIONATO  DI  LETTERATURA  GRECA     295 

invariabile,  o  esaurire  tutte  le  forme  e  tutti  gli  atteggiamenti  del 
Bello. 

Queste  idee  che,  per  dir  cosi,  riumanavano  i  Greci  divinizzati, 
non  pregiudicarono  punto  presso  i  veri  uomini  di  lettere  al  fa- 
vore  e  allo  studio  del  loro  idioma.  Oltre  al  rispetto  e  alFinteresse 
che  conciliava  a  questa  lingua  il  pensiero  di  veder  in  lei  la  prima 
educatrice  delPintelletto,  quella  che  Iasci6  in  tutte  le  scienze  tracce 
indelebili  della  antica  benemerenza;  la  medesima  considerata 
in  se  stessa  avea  dei  titoli  singolari  che  doveano  renderla  cara  e 
pregevole  ai  letterati  piii  degni  di  questo  nome;  come  quella  che 
musicale,  pittoresca,  precisa,  varia,  flessibile  in  sommo  grado,  atta 
colla  natural  composizion  dej  suoi  termini  a  rappresentar  in  un 
sol  tratto  Faccoppiamento,  la  contemperazione,  il  contrasto  d'idee 
diverse,  si  prestava  con  ugual  felicita  alle  opere  d'urtmaginazione 
e  a  quelle  di  ragionamento,  quella  che  spesso  nella  radice  d'un 
vocabolo  presentava  il  cammino  della  mente  nello  sviluppo  e  nella 
progression  delle  idee,  quella  infine  che  ci  mostra  la  prima  origine 
di  molte  voci  tramandate  o  per  mezzo  della  sua  figlia  latina,  o 
anche  direttamente  per  se  nelle  nostre  lingue  moderne:  origine 
senza  la  quale  i  termini  divengono  cifre  inanimate  e  arbitrarie, 
e  la  di  cui  profonda  conoscenza  pu6  sola  insegnarci  quella  filoso- 
fia  delle  parole,  ben  diversa  dalla  grammatica,  ch'e  Telemento  pri- 
mario  e  fondamental  dello  stile.1  Inoltre  conoscevano  i  saggi  niente 
esser  piu  giovevole  alia  perfezione  d'un'arte,  quanto  di  studiarne 
progressivamente  la  storia  colTesame  dell'opere  dei  primi  autori, 
di  confrontar  la  diversa  maniera  dei  grandi  artefici  d'ogni  nazione, 
notarne  i  reciproci  vantaggi  o  discapiti,  i  pregi  o  i  difetti  prodotti 
in  essi  dalla  natura  dello  strumento,  dal  gusto  nazionale,  dal  carat- 
tere  particolar  delPartista,  ed  awezzarsi  a  distinguere  quelle  mi 
nute  e  pressoche  impercettibili  modificazioni  di  stile,  che  non 
possono  ne  prevedersi  ne  rawisarsi  senza  la  moltiplicita  e  Pap- 
prossimazion  dei  rapporti :  sapevano  che  in  parita  di  talenti  quegli 
tra  gli  scrirtori  avevano  il  gusto  piu  sicuro,  e  piu  stagionato  il 
giudizio,  che  s'erano  posti  sotto  la  disciplina  degli  antichi:  che 
finalmente,  dovendo  Tuomo  eloquente  procacciarsi  un  tesoro 
d'espressioni  e  di  modi,  atto,  per  quanto  puo,  a  rappresentare 

i.  quella  filosofia  .  .  .  stile:  questa  distinzione  fra  la  grammatica  e  Izfilosofia 
delle  parole  e  ragionata  piu  ampiamente  nel  Saggio  sulla  flosofia  delle  lin 
gue. 


296  MELCHIORRE   CESAROTTI 

tutte  le  combinazioni  possibili  degli  oggetti,  dei  pensieri  e  del 
sentiment!,  e  un  impoverirsi  gratuitamente  il  rinunciare  alle  ab- 
bondanti  miniere  di  Grecia,  miniere  che  dopo  tanti  secoli  presen- 
tano  un  fondo  assai  ricco  all'industria  d'un  esplorator  giudizioso. 
Malgrado  pero  alle  riflessioni  d'alcuni  pochi,  caduta  nelle  scien- 
ze,  scemata  nelle  lettere  1'autorita  dei  greci  autori,  vennero  in 
tal  guisa  a  mancare  in  tutto  o  in  parte  ambedue  le  cause  che 
aveano  impreziosita  cotanto  universalmente  la  loro  lingua.  Da 
quel  punto  ella  non  fu  piu  risguardata  come  la  base  delTeducazione 
e  la  favella  universal  dello  studio,  ma  solo  come  una  conoscenza 
arbitraria  d'una  classe  particolar  di  studiosi,  che  poteva  impune- 
mente  ignorarsi  dal  maggior  numero;  e  molti  ragionatori,  poco 
riverenti  dell'antichita  e  delle  usanze,  cominciarono  a  dubitare  se 
fosse  prezzo  dell' opera  il  comperare  con  dispendio  di  fatica  e  di 
tempo,  rubato  alle  discipline  piu  interessanti,  Tacquisto  d'una 
lingua,  se  non  del  tutto  inutile,  certamente  non  necessaria,  quan- 
do  le  recenti  ricche  d'ogni  specie  di  monumenti  letterari  ci  pre- 
sentano  spontaneamente  1'istruzione  e  '1  diletto  uniti  al  merito 
della  giornaliera  influenza  nell'uso  comun  della  vita.  L'esempio 
d'alcuni  uomini  di  genio  che  brillarono  nella  carriera  dell'eloquen- 
za,  senza  aver  se  non  di  volo  salutata  la  Grecia,  sedusse  anche 
molti  di  questa  sfera,  e  gl'indusse  a  credere  che  per  farsi  ammirare 
non  fosse  punto  necessario  d'intisichir  sopra  i  Greci,  bastando  di 
conoscere  la  loro  storia  letteraria  e  d'aver  letto  i  loro  autori  piu 
celebri  in  qualche  traduzione  ben  fatta,  persuasi  che  le  bellezze 
essenziali  e  solide,  quelle  per  le  quali  i  Greci  son  grandi,  possano 
conservarsi  in  qualunque  lingua,  e  che  quelle  che  svaporano  in 
questo  trasporto  non  siano  che  la  parte  la  piu  leggiera  delle  loro 
opere,  e  di  cui  la  perdita  non  val  gran  fatto  la  pena  d'esser  com- 
pianta.  Indarno  i  grammatici  e  i  minuziosi  eruditi  cercarono  di 
opporsi  a  queste  opinioni  scandalose  che  andavano  a  poco  a  poco 
minando  i  fondamenti  del  loro  regno  scolastico,  indarno  credette- 
ro  di  sollecitar  il  gusto  svogliato  colle  nuove  edizioni  corredate 
di  varianti  e  condite  di  tutte  le  delizie  della  critica  grammaticale ; 
indarno  finaimente  alcuni,  trasportati  da  un  entusiasmo  di  zelo 
per  1'ortodossia  letteraria,  tentarono  di  rinnovar  1'apoteosi  de'  gre 
ci  autori,  fulminarono  Tanatema  contro  lo  stile  di  tutte  Paltre 
nazioni,  e  stabilirono  per  dogma  che  nelle  lettere  non  v'e  salute 
fuori  di  Grecia.  Queste  declamazioni  non  fecero  che  verificare  il 


CORSO    RAGIONATO   DI    LETTERATURA   GRECA  2Q7 

detto  del  Savio,  che  «  chi  sorge  di  notte  e  sale  sul  tetto  per  esaltar  un 
amico,  equivale  nelFeffetto  al  suo  detrattore)).1  I  ragionatori  mo 
dern!  opposero  il  sarcasmo  e  la  finezza  del  dileggio  a  questo  tuono 
imponente:  Tamor  proprio  nazionale  gareggio  con  quel  della  setta, 
la  critica  perde  quello  spirito  di  moderazione  che  le  concilia  cre- 
denza  ed  autorita,  e  i  Greci  trovarono  dei  censori  acerbi  perche  avea- 
no  trovato  dei  lodatori  fanatici.  Quindi  e  che  intorno  i  Greci 
non  vi  sono  comunemente  che  due  opinioni  ugualmente  lontane 
dal  vero:  chi  li  sprezza,  chi  Tidolatra;  pochi  sanno  giudicarne 
e  trarne  profitto.  I  piu  modesti  o  Fipocriti  (giacche  anche  la  lette- 
ratura  ha  i  suoi)  si  pregiano  d'esaltar  Omero  e  Platone  per  sot- 
trarsi  al  peso  di  leggerli,  e  tra  quelli  stessi  che  si  piccano  di  col- 
tura  pochi  sono  che  abbiano  dei  greci  autori  una  maggior  cono- 
scenza  di  quella  che  suole  acquistarsene  a  dispetto  nelle  scuole,  asili 
della  decrepitezza  dei  metodi,  pochi  che  non  amino  meglio  di 
ammirarli  sulPaltrui  fede,  che  di  procacciarsi  il  mezzo  d'esaminarli. 
Quanto  alia  moltitudine,  incerta  di  quel  che  debba  pensarne,  e 
troppo  occupata  o  distratta  per  poter  ricorrere  ai  fonti,  consulta 
talora  svogliatamente  le  traduzioni  dette  fedeli,  e  trovandole  per 
la  piu  parte  stentate,  aride,  spoglie  di  finezza  e  desterita,  sorpresa 
d'incontrar  la  noia  dove  attendeva  il  diletto,  confonde  Foriginal 
coll'interprete,  e  condanna  Puno  e  Paltro  a  una  perpetua  dimen- 
ticanza. 

Per  questo  cumulo  di  cause,  se  gli  autori  detronati3  pregiu- 
dicarono  al  favor  della  lingua,  la  lingua  trascurata  pregiudico  al 
merito  degli  autori,  e  questo  ramo  importantissimo  d'erudizione 
si  va  perdendo  a  vista  d'occhio  con  danno  sensibile  dei  buoni 
studi  e  del  gusto.  Sia  permesso,  se  si  vuole,  ad  un  uomo  colto 
d'ignorare  1'idioma  greco,  ma  d'ignorar  la  letteratura  dei  Greci, 
il  carattere  dei  lor  famosi  scrittori,  le  bellezze  reali  delle  loro  opere, 
non  e  permesso  se  non  a  chi  si  compiace  del  nome  di  barbaro. 
Conversar  con  quella  nazione  che  civilizzo  due  volte  TEuropa; 
contemplate  m  una  storia  poetica  un  quadro  animato  de'  tempi 
eroici;3  accompagnar  dalla  culla  smo  al  trono  1'arte  dramma- 
tica;  veder  la  voce  d'un  oratore  rovesciar  i  progetti  del  piu  accor- 

i.  Parafrasa  un  versetto  dei  Prov.,  27,14:  «  Qui  benedicit  proximo  suo  voce 
grandi,  /  de  nocte  consurgens,  maledicenti  similis  erit».  2.  detronati:  de- 
tronizzati.  3.  contemplare  .  .  .  eroici:  allude,  con  espressioni  di  sapore  vi- 
chiano,  ai  poemi  omerici. 


298  MELCHIORRE   CESAROTTI 

to  conquistator  deU'antichita;1  legger  le  imprese  de'  Greci  scritte 
da  quel  capitano  che  dal  cuor  della  Persia,  di  mezzo  a  un'oste  in- 
numerabile,  trasse  salva  ed  illesa  alia  patria  una  brigata  de'  suoi, 
con  una  ritirata  superiore  alle  piu  brillanti  vittorie;2  addimesti- 
carsi  con  quella  capricciosa  ma  brillante  mitologia  che  ardma 
ancora  i  capi  d' opera  delle  bell'arti:  sono  oggetti  troppo  interessanti 
perch.6  possano  trascurarsi  senza  vergogna.  La  societa  in  questo 
secolo  ha  pressoche  in  tutte  le  classi  varie  persone  colte,  illuminate, 
atte  a  conoscere  e  gustare  il  bello  forse  piu  di  qualche  dotto 
di  professione,  perche  non  obbligate  dallo  spirito  del  corpo  a 
formarsi  un  gusto  fattizio  e  a  sforzarsi  di  sentire  quel  che  non 
sentono.  Se  la  loro  applicazione  a  studi  piu  gravi,  le  occupazioni 
sociali,  la  copia  dei  buoni  libri  moderni,  la  noia  della  fatica  e 
delle  spine  grammaticali  non  permettono  loro  di  addimesticarsi 
coiridioma  de'  Greci,  dovranno  percio  esser  escluse  da  qualun- 
que  commercio  con  quella  famosa  nazione?  e  il  cercar  il  miglior 
metodo  di  familiarizzar  questa  classe  d'uomini  colle  belle  forme 
dell'eloquenza  greca  non  sarebbe  questo  un  render  il  piu  opportune 
servigio  alia  fama  de'  greci  autori,  che  perduta  sempre  piu  nella 
lontananza  non  e  oggimai  per  la  moltitudine  che  un  suono  vano  ? 
Poiche  dunque  e  piu  da  desiderarsi  che  da  sperarsi  di  moltipli- 
car  i  proseliti  alia  greca  lingua,  altro  non  resta  che  di  esporre 
allo  sguardo  e  alPintelligenza  comune  lo  spettacolo  della  greca 
letteratura  con  una  serie  di  gmdiziose  traduzioni,  atte  a  mettere 
nel  miglior  lume  possibile  tutto  il  merito  degli  originali.  Ma  per 
tal  fine  dovrassi  regalar  il  pubblico  d'una  biblioteca  in  foglio, 
in  cui  gli  autori  greci  si  trovino  tradotti  quanti  sono  da  capo  a 
fondo?  Questo  sarebbe  intender  poco  lo  spirito  della  cosa  e  del 
secolo/  Cio  potea  farsi  due  secoli  fa,  quando  tutto  ci6  ch'era 
greco  si  adorava  indistintamente :  ma  ora  che  i  titoli  delPantichita 
hanno  cessato  d'imporre,  ora  che  il  nome  d'una  nazione  non 
fa  piu  diventar  perfetto  cio  ch'e  difettoso  o  mediocre,  come  at- 
tendere  un  buon  successo  da  questo  metodo?  II  fatto  stesso  ne 
dimostra  1'inutilita.  Tutte  1'opere  dei  Greci  non  sono  forse  tra- 
dotte  esattamente  in  latino,  lingua  universalmente  nota  se  non 
posseduta,  perche  di  maggior  uso  e  per  cosi  dire  inviscerata  colle 
moderne?  e  queste  opere  cosi  tradotte  non  uscirono  piu  volte 

1.  veder  .  .  .  antichita:  allude  alle  orazioni  di  Demostene  contro  Filippo. 

2.  legger  .  .  .  vittorie:  allude  dRAnabasi  di  Senofonte. 


CORSO    RAGIONATO   DI   LETTERATURA   GRECA  299 

alia  luce  con  tutto  quell' ammasso  di  notizie  filologiche  che  si 
credono  necessarie  per  facilitarne  Pintelligenza?  E  che?  Gli  scrit- 
tori  greci  son  forse  in  grazia  di  questo  piu  gustati,  piu  letti,  piu 
conosciuti,  fuorche  da  quelli  che  si  piccano  d'erudizione  ?  Non  gia. 
E  perche  cio  ?  Perche  tutto  nei  Greci  non  e  interessante,  tutto  puo 
forse  intendersi,  non  tutto  sentirsi,  tutto  non  e  conciliabile  col 
nostro  gusto,  perche  il  bello  nelle  migliori  produzioni  e  spesso 
affogato  nel  mediocre,  o  non  s'incontra  cosi  tosto  a  grado  della 
nostra  impazienza,  perche  pochi  hanno  il  coraggio  di  affrontar 
una  siepe  di  spine  per  coglierne  alcune  rose,  pochi  amano  di  cer- 
car  il  grano  confuso  tra  la  paglia,  laddove  ognuno  il  raccorrebbe 
assai  di  buon  grado  se  gH  si  presentasse  sceverato,  vagliato  e  mon- 
do.  Se  da  una  parte  Tignoranza  irreparabile  di  molte  notizie  a 
cui  si  fa  spesso  allusione  dai  greci  autori,  ci  fes  perdere  alcune  delle 
loro  bellezze,  dall'altra  il  cangiamento  della  religione,  del  governo, 
dei  costumi,  dell'usanze,  ciascheduno  dei  quali  punti  ha  una 
massima  influenza  sullo  stile  e  sul  gusto,  e  decide  dell'interesse 
delle  produzioni  letterarie,  la  copia,  e  sto  per  dire  la  sazieta  delle 
opere  eccellenti  di  cui  abbondano  le  piu  colte  nazioni  d'Europa,  i 
lumi  delle  discipline  e  delle  arti  diffusi  nella  societa,  che  nei 
piaceri  istessi  deirimmaginazione  fanno  sentir  alTintelletto  il  bi- 
sogno  del  suo  proprio  alimento,  finalmente,  per  dir  tutto,  anche 
la  volubilita,  la  mo  da,  il  disamore  delPerudizion  faticosa  non 
agguagliata  dal  frutto,  Pamor  proprio  delle  nazioni  e  del  secolo, 
tutte  queste  cause  riunite  resero  il  gusto  delicato,  difficile  e  a  dir 
vero  un  po'  schizzinoso  e  sofistico,  e  ci  fecero  ben  piu  sensibili  ai 
difetti  che  alle  virtu  degli  antichi.  I  Greci  (checche  si  dica)  non 
hanno  un  Cicerone  (parlero  sol  dei  Latini)  che  faccia  sentir  nel  suo 
stile  i  pregi  di  tutti  i  generi  d'eloquenza  e  raccolga  per  cosi  dire 
in  se  stesso  le  bellezze  di  tutte  Peta;  non  hanno  un  Livio,  la  di  cui 
narrazione  incantatrice  tenga  il  lettore  in  una  seduzione  perpetua, 
e  la  di  cui  facondia  gareggi  con  quella  de*  piu  perfetti  oratori; 
non  hanno  un  Tacito,  che  presentando  in  un  termine  un  gruppo 
d'idee  e  chiudendo  un  ragionamento  in  un  cenno,  abbia  Parte  di 
destar  neirintelletto  quella  sensazione  vivace,  profonda  e  rapida 
che  le  immagini  energiche  sogliono  comunicare  alia  fantasia.  Po- 
trei  forse  estendere  questo  confronto  negativo,  ma  mi  ristringer6 
a  dire  ch'io  trovo  nei  Greci  molte  cose  degnissime  d'esser  tradotte, 
e  pochi  autori  da  tradursi.  fe  perci6  vano  il  pensare  che  le  loro 


300  MELCHIORRE    CESAROTTI 

opere  possano  essere  generalmente  gustate  fuorche  in  que'  luo- 
ghi  ove  ci  presentano  le  grandi  ed  universali  bellezze  della  natura, 
bellezze  che  brillano  in  ogni  clima  e  resistono  ai  cangiamenti  de' 
secoli,  in  que'  luoghi  che  offrono  virtu  depurate  dalla  mistura  de'  vi 
zi,  che  riuniscono  tutti  i  pregi  di  cui  quel  genere  e  suscettibile,  che 
conciliano  le  qualita  che  sembrano  comunemente  esclusive,  e  che 
infine  o  non  ammettono  il  meglio  o  non  lasciano  spazio  a  pensarvi. 
Una  scelta  dunque  giudiziosa  di  quanto  si  trova  nell'opere  dei  Greci 
di  luminoso,  di  singolare,  di  grande  nei  vari  generi  d'eloquenza, 
sembra  la  sola  cosa  conveniente  al  gusto  del  secolo  e  alPoggetto 
che  si  contempla.  Una  tal  opera  presenterebbe  ai  giovani  modelli 
perfetti  in  ogni  specie,  servirebbe  a  formar  un  gusto  delicato  e 
solido,  offrirebbe  a  ciaschedun  dei  lettori  il  pascolo  piu  adattato 
al  suo  genio,  e  riunendo  la  varieta,  la  perfezione  e  la  serie,  incon- 
trerebbe  il  favor  universale,  perche  sodisfarebbe  ad  un  tempo 
a  tutte  le  disposizioni  dello  spirito  umano,  curioso  e  stancabile, 
avido  di  saper  tutto  e  impaziente,  amator  del  perfetto  e  poco  di- 
sposto  a  cercarlo,  e  bramoso  sempre  di  conciliare,  per  quanto  e 
possibile,  Pattivita  colPinerzia. 

Ma  la  scelta  non  basta  ad  ottenere  il  suo  fine,  se  il  genere  della 
traduzione  non  corrisponde  all'oggetto.  E  opinione  comune,  dettata 
dalla  mediocrita  ed  accolta  dal  pregiudizio,  che  niuna  traduzione 
possa  mai  uguagliare  il  suo  originale,  e  che  sia  molto  se  vi  si  ac- 
costa.  Niente  di  piu  vero  se  si  parla  di  quelle  traduzioni  fredde 
ed  esangui  che  ci  presentano  un  cadavero  in  luogo  d'un  corpo 
animate,  di  quelle  lavorate  con  quella  infedelissima  fedelta  che 
sacrifica  ad  una  parola  arbitraria  o  una  frase  inconcludente 
tutti  i  pregi  e  le  qualita  dello  stile,  o  con  quella  pedanteria  scola- 
stica  che  per  mostrar  d'intendere  1'etimologia  d'una  voce,  stem- 
pera  un'espressione  viva  e  rapida  come  un  lampo  in  una  fredda 
perifrasi  grammaticale,  o  fmalmente  con  quella  goffa  e  servil  timi- 
dezza  per  cui  1'interprete  sembra  uno  schiavo  cogli  abiti  del  suo 
padrone.  Ma  mi  si  dia  un  traduttore  che  sia  animato  dal  mede- 
simo  spirito  delPautor  favorito  e  ne  abbia  colto  perfettamente  il 
carattere,  che  conosca  a  fondo  il  genio  d'ambedue  le  lingue  e  la 
fecondita  della  propria,  che  posseda  tutti  i  segreti  della  sua  arte, 
che  sappia  a  tempo  modificare  o  sostituire,  sviluppare  o  compri- 
mere,  rinfrescar,  ove  occorra,  il  colorito  del  testo  senza  alterarlo, 
e  oso  credere  che  1'autor  originale,  se  non  conservera  sempre  le  sue 


CORSO    RAGIONATO    DI    LETTERATURA   GRECA  30! 

identiche  bellezze,  trovera  nella  traduzione  un  equivalente,  e  talor 
per  awentura  potra  far  guadagno  nel  cambio.  Con  questo  spirito 
Cicerone  crede  di  poter  con  qualche  gloria  tradur  le  aringhe  reci- 
proche  d'Eschine  e  di  Demostene,  e  vorrei  ben  sentire  se  cotesti 
rigoristi  della  fedelta  grammaticale  volessero  trattar  da  bastarda 
una  traduzione  del  primo  fra  gli  autori  classici,  perche  non  s'accorda 
colla  loro  scrupolosa  servilita.  Con  questo  spirito  medesimo  il 
Davanzati1  fra  i  nostri  os6  lottare  con  Tacito,  ne  sempre  usci 
soccombente  da  tanta  lotta:  con  questo  il  Pope  si  fe'  ammirare 
dalFInghilterra  per  la  sua  traduzion  ddl'Iliade  niente  meno  che 
per  il  Saggio  sulVuomo?  e  le  recenti  versioni  de'  signori  Rochefort3 
e  Delisle4  passeranno  alia  posterita  insieme  colle  piu  celebri  opere 
originali  di  cui  si  pregi  la  Francia. 

Ma  il  presentar  al  pubblico  le  sole  bellezze  dei  Greci  sarebbe 
una  specie  di  frode  ufficiosa,  un  volerli  far  ammirare  piu  che  co- 
noscere.  II  nostro  secolo  ama  di  giudicare  con  piena  conoscenza 
di  causa,  ne  sofTre  che  gli  s'imponga  o  nella  lode  o  nel  biasimo: 
si  vuol  vedere  lo  scrittore  al  paro  deH'uomo  nella  pienezza  del  suo 
carattere,  confrontarne  le  qualita,  pesarne  i  pregi  e  i  difetti,  che 
nei  grandi  autori  sono  forse  ugualmente  istruttivi.  Innoltre  anche 
per  gustar  il  bello  gli  spiriti  non  esercitati  abbisognano  di  prepa- 
razione  e  di  scorta;  specialmenteche  le  bellezze  dei  Greci  non  sono 
sempre  esattamente  le  nostre,  ed  anche  il  gusto  moderno  ha  la 
sua  pedanteria  e  i  suoi  pregiudizi.  Per  soddisfare  a  questo  ogget- 
to  dovrebbesi  accompagnar  1'accennata  scelta  con  vari  ragiona- 
menti  storico-critici,  nei  quali  si  contenesse  il  carattere  letterario 
e  morale  degli  autori  piu  illustri,  gli  aneddoti,  i  detti,  i  tratti  partico- 
lari,  il  giudizio  fatto  delle  loro  opere  dai  ragionatori  piu  celebri, 

i.  Bernardo  Davanzati  (1529-1606)  e  qui  ricordato  per  la  sua  traduzione  di 
tutte  le  opere  di  Tacito,  condotta  in  uno  stile  che  cerca  di  gareggiare  con 
I'originale  in  energia  e  concisione.  2.  Pope  .  .  .  uomo :  la  traduzione  del- 
Vlliade  in  heroic  couplets,  compiuta  dal  Pope  fra  il  1715  e  il  1720,  fu  in 
realta  ammiratissima  non  solo  in  Inghilterra,  ma  in  tutta  PEuropa  sette- 
centesca,  per  Paccorto  adattamento  del  wild  paradise  di  Omero  al  gusto  ele- 
gantemente  e  ordinatamente  classicistico  allora  dominante.  L3 'Essay  on  Man 
(1733-1734),  a  sua  volta,  dovette  lo  straordmario  favore  con  cui  fu  accolto 
alia  sua  consonanza  con  i  piu  diffusi  principii  della  morale  illuministica. 
3.  Guillaume  de  Rochefort  (1731-1788)  tradusse  in  versi  francesi  i  due 
poemi  omerici  e  tutte  le  tragedie  di  Sofocle.  4.  Jacques  Delisley  o  Delille, 
(173 8- 1813)  e  qui  ricordato  per  la  sua  fortunatissima  traduzione  delle  Geor- 
giche  (1770);  compose  anche,  fra  Taltro,  un  famoso  poema  didattico,  Les 
jar  dins  (1782). 


302  MELCHIORRE  CESAROTTI 

Tanalisi  imparziale  del  loro  principal!  componimenti,  il  parallelo 
cogli  altri  scrittori  antichi  o  moderni  che  si  esercitarono  sopra 
soggetti  analoghi  a  quelli  dei  Greci,  o  cercarono  di  seguirne  le 
tracce ;  in  somma  tutto  cio  che  la  loro  vita  e  le  loro  opere  possono 
sommmistrar  d'osservabile  e  d'interessante.  In  tal  guisa  il  pub- 
blico  colto,  ma  non  abbastanza  erudito,  avrebbe  il  fior  delPelo- 
quenza  greca  insieme  colla  storia  della  greca  letteratura;  e  la 
gioventu  studiosa  troverebbe  uniti  il  precetto  all'esempio,  Peru- 
dizione  alia  critica,  cio  che  puo  alimentare  il  gusto  e  ci6  che  cor- 
robora  e  perfeziona  il  giudizio. 

Tal  e  il  piano  sul  quale  si  e  architettata  1'opera,  di  cui  ora 
si  presenta  al  pubblico  il  primo  volume:  piano  simile  in  parte  a 
quello  che  desiderava  il  celebre  signor  d'Alembert,1  che  onoro 
questo  ramo  d'eloquenza  mal  conosciuto  non  meno  colla  teoria  che 
coll'esempio.  La  prima  divisione  dell'eloquenza  e  di  essere  o 
sciolta  o  legata.  La  sciolta  puo  ridursi  a  tre  classi,  oratoria,  storica 
e  filosofica:  e  nella  prima  si  comprendono  quattro  ordini  di  scrit 
tori,  gli  oratori  propriamente  detti,  i  sofisti,  gli  aringatori  storici, 
i  santi  padri.  Questo  primo  volume  conterra  dunque  le  aringhe 
scelte  degli  oratori  forensi  o  politici,  omesso  Demostene,  che  si 
suppone  abbastanza  noto.  Ciaschedun  volume  avra  due  parti, 
Tuna  rettorica,  Taltra  critica.  Quanto  alia  prima,  nemico  per 
sistema  di  quel  gusto  esclusivo  ch'e  fonte  di  tanti  ingiusti  giudizi, 
ne  punto  piu  disposto  ad  accarezzar  i  pregiudizi  del  secolo  che 
quei  della  scuola,  io  non  mi  propongo  di  prediligger  un  solo  stile, 
ma  seguendone  tutti  i  gradi  e  le  varie  modificazioni,  far6  in  tutto 
la  scelta  deirottimo,  formando  in  tal  guisa  una  specie  di  scala 
armonica  nella  quale  il  bello  rettorico  ricorrendo  dal  piu  basso 
grado  al  piu  sublime  e  mostrandosi  sotto  ogrd  forma,  si  fara  scor- 
gere  uniforme  nelPessenza,  nei  sembianti  e  nel  colorito  diverse. 
Non  si  daranno  pero  interi  se  non  quei  componimenti  che  con- 
servano  sino  al  fine  la  bellezza  del  loro  genere  convenevolmente  gra- 
duata,  o  quelli  in  cui  la  particolar  tessitura  e  disposizion  delle 
parti  forma  un  grado  principale  di  merito.  Ne  per6  mi  far6  scru- 
polo  di  ammetter  talvolta  anche  qualche  componimento  non  in- 
colpabile,  quando  i  difetti  siano  in  certo  modo  cosi  tessuti  colle 

i.  piano  .  .  .  d'Alembert:  allude  alle  Observations  sur  I' art  de  traduire,  gia 
ricordate  dal  Cesarotti  nel  Discorso  premesso  all'edizione  1772  di  Ossian 
(cfr.  in  questo  volume,  p.  90  e  la  not  a). 


CORSO    RAGIONATO    DI    LETTERATURA   GRECA  303 

virtu  che  ne  divengano  inseparabili,  o  quando  la  celebrita  del- 
Topera  o  i  vizi  speciosi  di  essa  possano  dar  soggetto  ad  utili 
riflessioni.  Gli  squarci  poi  luminosi  ed  interessanti,  ma  che  spesso 
sepolti  nel  mediocre  sono  perduti  per  la  fama  dej  loro  autori  e 
per  1'uso  di  chi  pu6  leggere,  si  troveranno  opportunamente  inse- 
riti  nella  parte  storico-critica  di  questo  e  dei  seguenti  volumi. 
Conterra  questa  parte  una  serie  d'osservazioni  non  meno  filosofiche 
che  letterarie,  nelle  quali  si  vedra  raccolto  quanto  di  piu  sensato  si 
trova  sparse  nelle  memorie  delle  diverse  accademie,  e  nelle  dis- 
sertazioni  particolari  dei  dotti,  dei  di  cui  lumi  mi  pregio  d'aver 
profittato,  senza  mai  giurare  nelle  parole  d'alcuno,  perche  la  repub- 
blica  delle  lettere  riconosce  molti  magistrati  e  niun  dittatore.  Per- 
suaso  che  ogni  membro  di  questa  repubblica  debba  goder  della 
stessa  facolta,  accogliero  volentieri,  anzi  con  senso  di  gratitudine, 
non  solo  tutti  i  lumi,  gli  awertimenti,  i  consigli,  ma  insieme  anche 
le  censure  oneste  e  imparziali  di  cui  volessero  onorarmi  quei  veri 
letterati  che  uniscono  Ferudizione  al  gusto,  e  la  dottrina  alFurba- 
nita. 

Sento  troppo  bene  quanto  io  debbo  esser  lontano  dalla  perfe- 
zione  di  cui  quest'opera  e  suscettibile :  ma  spero  che  i  giudici 
discreti  vorranno  donare1  qualche  difetto  d'esecuzione  al  concepi- 
mento  del  piano,  alPutilita  dell'assunto  e  alia  somma  difEcolta 
delFimpresa,  ricordandosi  dell'antico  detto 

Anco  il  voler  nelle  grand' opre  e  molto.2 


i.  donare:  perdonare.     2.  Traduce  Properzio,  n,  x,  6:  «in  magnis  et  vo- 
luisse  sat  est». 


SAGGIO    SULLA   FILOSOFIA   DELLE    LINGUE 
APPLICATO  ALLA  LINGUA  ITALIANA 

"CON   VARIE   NOTE,    DUE   RISCHIARAMENTI 
E  UNA  LETTERA 

Ut  sdvae  fohis  pronos  mutantur  in  annos, 
prima  cadunt,  ita  verborum  vetus  interit  aetas 
et  iuvenum  ntu  florent  modo  nata  vigentque. 

Horat.1 

AVVERTIMENTO 

L'autore  di  questo  scritto  avea  tutt'altro  in  pensiero  che  di  fame 
un  libro.  Aveva  egll  in  qualche  momento  di  maggior  ozio  gittato 
sulla  carta  alcune  idee,  che  formavano  lo  sbozzo  d'un'  opera,  e 

Come  sia  sorta  nella  mente  del  Cesarotti  1'idea  di  comporre  questo  Saggio 
e  spiegato  dairautore  stesso  neirAvvertimento.  La  prima  edizione  uscl  a 
Vicenza,  presso  la  stampena  Penada,  nel  1785,  col  titolo  Saggio  sopra 
la  lingua  italiana,  seguita  nel  1788  da  una  seconda  edizione,  con  lo  stesso 
titolo,  presso  la  stamperia  Turra  di  Vicenza.  II  Saggio  fu  infine  ristampato 
per  la  terza  volta  nel  1800  nelle  Opere,  I,  pp.  1-300,  con  il  titolo  Saggio 
sulla  filosofia  delle  hngue  applicato  alia  lingua  italiana  con  vane  note,  due 
rischiaramenti  e  una  letter  a,  tutto  inedito.  Tra  la  prima  e  la  seconda  edi 
zione  non  esistono  difTerenze  degne  di  nota;  nella  terza  invece,  a  parte  il 
mutamento  del  titolo,  e  la  soppressione  di  una  breve  lettera  di  dedica 
al  senatore  Andrea  Querini,  furono  aggiunte  molte  note  a  pie  di  pagina, 
le  quali  vennero  contrassegnate  con  asterisco.  Inoltre,  in  appendice  a 
questa  edizione,  il  Cesarotti  stampd  VAvvertimento  degli  editori,  i  due 
Rischiaramenti  apologetici  e  La  lettera  dell'ab.  Cesarotti  al  sig.  conte  Gian- 
Francesco  Galeani  Napione.  All' edizione  pisana  si  sono  attenute  quelle  re- 
centi  di  R.  Spongano,  stampata  a  Firenze,  Sansoni,  1943,  senza  commento 
ma  corredata  da  una  importante  Nota  finale;  di  G.  Ortolam,  nelle  Opere 
scelte,  cit.,  I,  pp.  3-197,  dove  sono  riportate  anche  le  poche  variant!  della 
I  e  il  edizione,  ma  annotata  un  po'  scarsamente;  e  di  M.  Puppo,  nel 
volume  Discussioni  linguistiche  del  Settecento,  cit.,  pp.  299-487,  fornita 
di  note  utili,  specie  per  i  riferimenti  alia  situazione  della  questione 
della  lingua  nel  Settecento.  Noi  pure  riproduciamo  il  testo  dell' edizione 
pisana,  tenendo  presenti  anche  la  prima  e  la  seconda  per  la  soluzione  di 
qualche  caso  dubbio  che  verra  di  volta  in  volta  segnalato.  Le  note  del 
Cesarotti  sono  seguite  dalla  sigla  C. 

i.  Ars  poet.,  60-2  («Come  le  selve  cambiano  le  foglie  col  rapido  passar 
degli  anni,  e  cadono  quelle  foglie  che  sono  nate  per  prime,  cosi  periscono 
le  parole  vecchie,  e  quelle  da  poco  nate  fioriscono  al  modo  dei  giovani  e 
raggiungono  il  pieno  vigore  »).  Questi  versi  famosi,  spesso  citati  a  comincia- 
re  da  Dante  (P<zr.,xxvi,  136-8),  sono  riprodotti  dal  Cesarotti  in  testa  al  suo 
trattato  per  significare  il  concetto,  fondamentale  nel  trattato  stesso,  dell'evo- 
luzione  storica  delle  lingue,  con  particolare  allusione  al  caso  della  lingua 
letteraria  italiana,  di  cui  i  puristi  avrebbero  voluto  arrestare  il  moto  vitale. 


SAGGIO    SULLA   FILOSOFIA   DELLE   LINGUE  305 

n'erano  come  il  sommario.  Ma  disperando  di  poterla  intrapren- 
dere  a  cagion  dell'altre  sue  occupazioni,  si  contento  di  comunicarle 
a  piu  d'uno  de'  suoi  amici  e  colleghi,  e  specialmente  ai  dottissimi 
signori  ab.  Sibiliato1  e  Francesco  Colle,2  ambedue  rinomati  acca- 
demici  di  Padova;3  i  quali  essendosi  talora  occupati  suirargomento 
della  nostra  lingua,  potevano  coi  loro  lumi  awalorare  o  rettificar 
Tidee  dell'autore.  Accadde  che  il  secondo  di  essi,  avendo  tessuto 
una  serie  di  lezioni  accademiche  sull'influenza  del  costume  nello 
stile,  condotto  dal  filo  del  suo  ragionamento  esprimesse  un  voto 
sopra  la  formazione  d'un  nuovo  vocabolario,  e  nell'accennare  il  me- 
todo  d'eseguirlo  facesse  onorifica  menzione  delle  viste  e  delPabboz- 
zo  della  presente  opera.  Essendosi  PAccademia  mostrata  deside- 
rosa  d'esserne  piu  ampiamente  istruita  dall'autore  stesso,  egli  si 
accinse  a  or  dinar  meglio  i  suoi  pensamenti,  e  a  dar  a  ciascheduno 
quel  tanto  di  diffusione  che  potesse  bastare  a  far  concepir  esatta- 
mente  Pintero  piano  e  la  connession  delPidee.  La  buona  accoglienza 
fatta  alia  prima  parte  lo  invit6  a  proseguir  il  lavoro,  dilatando 
Paltre  alquanto  di  piu.  Quindi  e  che  la  prima  &  piu  concisa  e  indi- 
retta,  perche  conserva  il  carattere  del  suo  primo  concepimento, 
laddove  le  altre  si  accostano  maggiormente  alia  dissertazione. 
L'autore  incoraggito  dal  favor  del  suo  Corpo,  essendosi  approfit- 
tato  dei  lumi  e  dei  consigli  di  ottimi  conoscitori  della  materia, 
presenta  questo  Saggio  al  pubblico  colla  lusinga  che  possa  aver 
qualche  utilita.  Egli  non  si  vanta  d'aver  detto  cose  del  tutto  nuove, 
assunto  in  un  tal  soggetto  impossibile  ad  eseguirsi  e  di  mal  augurio, 
anzi  si  pregia  d'aver  seguito  le  tracce  dei  piu  celebri  ragionatori 
del  secolo  sulla  parte  filosofica  delle  lingue,  pago  assai  se  ai  piu 

i.  Clemente  Sibiliato  (1719-1795),  gia  collega  del  Cesarotti  al  seminario 
e  poi  all'Universita  di  Padova  come  professore  di  lettere  greche  e  latine, 
scrisse  alcuni  notevoli  saggi  estetici  come  la  Dissertasione  sopra  il  quesito 
se  la  poesia  influisca  sul  bene  dello  Stato  (1770)  e  soprattutto  il  discorso 
Sopra  lo  spirito  filosofico  nelle  belle  lettere^  pubbhcato  nei  « Saggi  scienti 
fic!  e  letterari»  delTAccademia  di  Scienze,  Lettere  ed  Arti  di  Padova,  I 
(1786),  pp.  456-509,  ma  letto  fin  dal  1779,  e  in  cui,  utilizzando  anche 
ricordi  vichiani,  tenta  di  provare  sistematicamente  la  radicale  estraneita 
dello  «  spirito  filosofico  »  rispetto  alia  poesia  e  all'eloquenza.  2.  Francesco 
Maria  Colle  (1744-1815)  scrisse  alcune  memorie  Sopra  V influenza  del 
costume  nello  stile  letterarioy  ricordate  dal  Cesarotti  nel  periodo  seguente,  e 
delle  quali  egli  stesso  dette  ampia  notizia  nelle  sue  Relazioni  accademiche 
(cfr.  Opere,  xvn,  pp.  144-9  e  171-2;  xvni,  pp.  66-71).  3.  accademici  di 
Padova:  appartenenti  all'Accadeniia  di  Scienze,  Lettere  ed  Arti  di  Padova, 
di  cui  il  Cesarotti  era  segretario  perpetuo. 


306  MELCHIORRE  CESAROTTI 

aweduti  pu6  sembrar,  come  spera,  ch'egli  pure  abbia  lasciato 
qualche  orma  non  dispregevole  in  un  tal  cammino.  D'una  cosa 
si  crede  egli  in  diritto  di  pregar  i  lettori;  quest' e  di  non  voler 
giudicar  delF opera  da  qualche  proposizione  incidentale  o  inter 
media,  presa  in  generale  e  isolatamente,  ma  di  compiacersi  di 
paragonarla  colPaltre  che  ne  spiegano  o  ne  restringono  il  senso, 
e  di  seguir  la  progression  dell'idee  e  la  connession  del  ragionamento, 
innanzi  d'arrestarsi  al  minuto  esame  delle  parti. 

PARTE  i 
Si  confutano  alcuni  pregiudizi  che  regnano  intorno  le  lingue. 

SOMMARIO 

I.  Opinioni  dominant!  intorno  la  lingua,  i  e  sgg.  Serie  di  proposizioni 
che  restringono  o  combattono  le  prime.  II.  Del  dialetto  dominante,  e  dei 
vantaggi  e  discapiti  che  reca  alia  lingua.  III.  Differenze  tra  la  lingua  parlata 
e  la  scritta,  e  parallelo  fra  i  loro  vantaggi  e  svantaggi.  IV.  [1-2.]  Conseguen- 
ze  delle  teorie  precedent!.  3.  DelTautorita  delPuso.  4J>s].  DelPautorita 
delTesempio.  6.  DelPautorita  dei  grammatici.  7.  Conclusione. 

I.  Nella  classe  di  quei  letterati  che  si  dedicano  particolarmente 
allo  studio  delle  lingue  corrono  per  assiomi  alcune  opinioni,  che 
mal  fondate,  o  mal  applicate,  impediscono  costantemente  il  mi- 
glioramento  della  lingua  medesima.  Si  crede  da  loro  comunemente 
che  fra  le  lingue  altre  abbiano  qualche  peccato  d'origine,  altre  il 
privilegio  speciale  della  nobilta;  che  queste  siano  per  se  stesse  es- 
senzialmente  in  ogni  lor  parte  colte,  giudiziose,  eleganti  per  la 
sola  ragione  che  appartengono  a  qualche  privilegiata  nazione; 
le  altre  barbare,  grossolane,  disarmo niche,  incapaci  d'essere  ab- 
bastanza  civilizzate  o  purgate  dalla  loro  intrinseca  ruggine :  si  con- 
fonde  colla  lingua  il  dialetto  dominante  nella  nazione,  e  si  cre- 
dono  tutti  gli  altri  indegni  di  confluire  alPincremento  ed  abbelli- 
mento  di  essa:  si  suppone  che  tutte  le  lingue  siano  reciproca- 
mente  insociabili5  che  il  loro  massimo  pregio  sia  la  purita,  che 
qualunque  tintura  di  peregrinita  le  imbastardisca  e  corrompa:  si 
fissa  la  perfezione  d'ogni  lingua  ad  un'epoca  particolare  per  lo 
piu  remota,  dalla  quale  quanto  piu  si  scosta,  tanto  piu  si  de- 
grada,  e  «peggiorando  invetera)):1  s'immagina  che,  giunta  a  quel- 

i.  Adattamento  del  Sannazzaro,  Arcadia,  ecloga  vi,  112:  « '1  mondo  insta- 
bile  /  tanto  peggiora  piu,  quanto  piu  invetera ». 


SAGGIO    SULLA   FILOSOFIA   DELLE   LINGUE  307 

1'epoca,  elk  sia  ricca  abbastanza  per  supplire  a  tutti  i  bisogni 
dello  spirito,  e  che  Paumentark  di  voci  o  di  modi  non  sia  che 
un'affettazione  viziosa  che  la  guasta  in  luogo  d'arricchirla:  si  de- 
clama  contro  qualunque  innovazione,  e  si  pretende  che  la  lin 
gua  possa  e  debba  rendersi  in  ogni  sua  parte  inalterable ;  i  ter 
mini,  secondo  le  loro  massime,  non  hanno  veruna  bellezza  in- 
trinseca,  ma  tutto  il  loro  pregio  dipende  dal  trovarsi  registrati 
in  un  qualche  libro  canonico:  finalmente  si  stabilisce  per  prin- 
cipio  fondamentale  che  Puso,  Fesempio  e  Tautorita  dei  grammatici 
sono  i  legislatori  inappellabili  in  fatto  di  lingua. 

Prendendo  ad  esaminare  colla  scorta  della  filosofia  la  storia 
delle  lingue,  accompagnandole  dal  punto  della  loro  naturale  ori- 
gine  sino  a  quello  del  loro  scioglimento,  si  vedra,  s'io  non  erro, 
risultarne  alcune  proposizioni  quasi  direttamente  opposte  alle 
precedenti. 

i.  Niuna  lingua  originariamente  non  e  ne  elegante  ne  barbara, 
niuna  non  e  pienamente  e  assolutamente  superiore  ad  un'altra: 
poiche  tutte  nascono  allo  stesso  modo,1  cominciano  rozze  e  me- 
schine,  procedono  con  gli  stessi  metodi  nella  formazione  e  propa- 
gazione  dei  vocaboli,  tutte  hanno  imperfezioni  e  pregi  dello  stesso 
genere,  tutte  servono  ugualmente  agli  usi  comuni  della  nazion  che 
le  park,2  tutte  sono  piacevoli  agli  orecchi  del  popolo  per  cui  son 
fatte,  tutte  sono  suscettibili  di  coltura  e  di  aggiustatezza,  tutte  si 


i.  Le  lingue  o  nascono  o  derivano.  Nasce  una  lingua  qualora  si  sviluppa 
per  semplice  impulse  di  natura,  come  farebbe  la  lingua  d'una  famiglia  di- 
scesa  da  due  o  piu  fanciulli  d'ambedue  i  sessi  cresciuti  in  una  selva.  lo 
non  so  se  esistano  di  queste  lingue,  ma  so  che  possono  esistere,  e  in  tal  caso 
procederebbero  con  uno  stesso  metodo  naturale,  salvo  I'influenza  diversa 
del  vario  clima.  Nelle  derivate  c'e  qualche  differenza  nata  dal  vario  accoz- 
zamento  delle  due  lingue,  da  cui  risulta  la  terza.  Qualunque  sia  questo  ac- 
cozzamento,  ne  nasce  sempre  una  fermentazione  e  un  conflitto,  che  per 
qualche  tempo  sembra  nuocere  ad  una  lingua,  senza  giovar  molto  alTaltra. 
Ma  finalmente  la  lingua  nuova  prende  una  sintassi  regolare  e  un  color  di- 
stinto,  ed  allora  ha  quanto  basta  per  migliorarsi  a  segno  di  non  avere  ad 
invidiar  le  piu  celebri.  Awertasi  che  ogni  lingua  e  sempre  formata  dal 
popolo,  vale  a  dire  dagP ignoranti  che  procedono  per  istinto  o  per  caso: 
percio  anche  le  derivate  sono  a  un  dipresso  alia  condizione  di  quelle  che 
nascono.  Le  proposizioni  che  seguono  rischiarano  il  mio  intend imento. 
Ognuno  di  questi  articoli  domanderebbe  una  dissertazione;  ma  per  chi 
pu6  intendere  spero  di  dir  quanto  basta  (C.)-  2.  che  le  parla :  correggo 
Fedizione  pisana  («che  parla «),  seguendo,  con  rOrtolani,  le  due  prime 
edizioni. 


308  MELCHIORRE    CESAROTTI 

prestano  ad  un'armonia  imitativa,1  tutte  si  vincono  e  si  cedono  re- 
ciprocamente  in  qualche  pregio  particolare,  tutte  in  fine  hanno 
difetti  che  danno  luogo  a  qualche  bellezza,  e  bellezze  che  n'esclu- 
dono  altre  non  men  pregevoli.  Sicche  cotesta  gara  di  lingue,  coteste 
infatuazioni  per  le  nostrali  o  per  le  antiche  o  per  le  straniere 
sono  pure  vanita  pedantesche.  La  filosofia  paragona  e  profitta, 
il  pregiudizio  esclude  e  vilipende.2 

2.  Niuna  lingua  e  pura.  Non  solo  non  n'esiste  attualmente 
alcuna  di  tale,  ma  non  ne  fu  mai,  anzi  non  puo  esserlo :  poiche  una 
lingua  nella  sua  primitiva  origine  non  si  forma  che  dall'accozza- 
mento  di  vari  idiomi,3  siccome  un  popolo  non  si  forma  che  dalla 
riunione  di  varie  e  disperse  tribu.  Questa  originaria  mescolanza 
d'idiomi  nelle  lingue  si  prova  ad  evidenza  dai  sinonimi  delle  so- 
stanze,  dalla  diversita  delle  declinazioni  e  coniugazioni,  dall'irre- 
golarita  dei  verbi,  dei  nomi,  della  sintassi,  di  cui  abbondano  le 
lingue  piu  colte.  Quindi  la  supposta  purita  delle  lingue,  oltre  che  e 
affatto  falsa,  e  inoltre  un  pregio  chimerico,  poiche  una  lingua  del 
tutto  pura  sarebbe  la  piu  rneschina  e  barbara  di  quante  esistono, 
e  dovrebbe  dirsi  piuttosto  un  gergo  che  una  lingua.  Poiche  dun- 
que  molti  idiomi  confluirono  a  formar  ciascheduna  lingua,  e  vi- 
sibile  che  non  sono  tra  loro  insociabili,  che  maneggiati  con  giu- 
dizio  possono  tuttavia  scambievolmente  arricchirsi,  e  che   que- 
sto  cieco  abborrimento  per  qualunque  peregrinita  e  un  pregiu 
dizio  del  paro  insussistente  e  dannoso  al  vantaggio  delle  lingue 
stesse. 

3.  Niuna  lingua  fu  mai  formata  sopra  un  piano  precedente, 
ma  tutte  nacquero  o  da  un  istinto  non  regolato  o  da  un  accozza- 
mento  fortuito.  Quindi  sarebbe  una  vanita  il  credere  che  le  deno- 


i.  Cio  non  vuol  dire  che  non  vi  siano  difference,  ma  che  sono  poco  sensibili 
nel  loro  effetto.  E  chi  ne  dara  la  sentenza  ?  Ognuno  ha  ragione  in  casa  pro- 
pria.  Non  v'e  popolo  colto  che  creda  di  ceder  agli  altri  in  fatto  di  lingua, 
benche  rutti  convengano  nelPidee  che  ne  formano  la  perfezione;  segno  che 
ognuno  ha  cio  che  gli  basta,  ne  sente  che  gli  manchi  nulla  (C.).  2.  Sopra 
questo  e  i  seguenti  paragrafi  vedi  Rischiaramento  I,  §  2,  (C.).  3.  Finche 
una  famiglia  o  una  tnbu  vive  isolata,  non  ha  che  un  idioma  povero,  e  pres- 
soche  un  gergo.  Pochi  nomi  e  molto  linguaggio  d'azione  bastano  a'  suoi 
scarsi  bisogni,  e  alle  sue  piu  scarse  idee.  In  uno  stato  cosi  isolato  gl}idiomi 
sono  in  gran  parte  diversi  e  disanaloghi,  come  son  quelli  dei  selvaggi  d* Ame 
rica.  Convien  che  molte  tribu  s'accostmo  insieme  e  formino  un  popolo, 
perche  ne  risulti  una  vera  lingua.  Quindi  ella  fin  dal  suo  nascere  e  una 
mescolanza  d'idiomi  talora  dissonanti  e  discordi  (C.). 


SAGGIO    SULLA   FILOSOFIA  DELLE   LINGUE  309 

minazioni,  le  metafore,  le  maniere,  le  costruzioni  d'una  lingua 
qualunque  siasi,  abbiano,  specialmente  rapporto  ai  primi  tempi, 
un  pregio  intrinseco  che  le  renda  costantemente  migliori  di  quelle 
che  possono  appresso  introdurvisi,  in  guisa  che  Falterarle  o  poco 
o  molto  sia  un  deteriorate  la  lingua  e  renderla  scorretta  e  bar- 
bara. 

4.  Niuna  lingua  fu  mai  formata  per  privata  o  pubblica  autorita, 
ma  per  libero  e  non  espresso  consenso  del  maggior  numero.  Quin- 
di  niuna  autorita  d'un  individuo  o  d'un  corpo  puo  mai  nemmeno 
in  progresso  arrestare  o  circoscrivere  la  liberta  della  nazione  in 
fatto  di  lingua;  quindi  la  nazione  stessa,  ossia  il  maggior  numero 
dei  parlanti,  avra  sempre  la  facolta  di  modificare,  accrescere  e  con- 
figurar  la  lingua  a  suo  senno,  senza  che  possa  mai  dirsi  esser  que- 
sta  una  lingua  diversa  finche  non  giunge  a  perdere  la  sua  struttura 
caratteristica.  Quindi  e  ridicolo  il  credere,  come  si  crede  e  si 
afTerma,  che  la  lingua  latina,  per  esempio,  fosse  men  latina  nel 
secolo  detto  di  bronzo  che  in  quel  delVoro^  benchd  forse  potesse 
dirsi  men  pura,  poiche  nell'uno  e  nelPaltro  era  essa  la  lingua 
della  nazione  medesima,  sempre  libera  di  adottar  nuovi  termini 
e  nuove  fogge  d'esprimersi.  Ove  giovera  osservare  che  il  libero 
consenso  del  maggior  numero  presuppone  in  ciaschedun  indi 
viduo  la  liberta  di  servirsi  di  quel  termine  o  di  quella  frase  che 
gli  sembra  piu  acconcia,  onde  ciascuno  possa  paragonarla  con 
altre,  e  quindi  sceglierla  o  rigettarla,  cosicche  il  giudice  della  sua 
legittimita  non  puo  mai  esser  un  particolare  che  decida  ex  cathedra 
sopra  canoni  arbitrari,  e  nieghi  a  quel  termine  la  cittadinanza, 
ma  bensi  la  maggior  parte  della  nazione  che  coll'usarlo  o  riget- 
tarlo  o  negligerlo,  ne  mostri  Tapprovazione  o  '1  dissenso.  E  sicco- 
me  nella  lingua  parlata  (giacche  ora  non  si  favella  se  non  di  que- 
sta)  il  maggior  numero  dei  parlanti  e  quello  che  autorizza  un  vo- 
cabolo,  cosi  nella  scritta  una  voce  o  una  frase  nuova  non  puo 
ess  ere  condannata  a  priori  sulle  leggi  arbitrarie  e  convenzionali 
dei  grammatici,  ma  suiraccoglienza  che  vien  fatta  ad  esse  in 
capo  a  qualche  tempo  dal  maggior  numero  degli  scrittori,  inten- 
dendo  sempre  quelli  che  hanno  orecchio,  sentimento  e  giudizio 
proprio,  non  di  quelli  che  sono  inceppati  dalle  prevenzioni  d'una 
illegittima  autorita. 

5.  Niuna  lingua  e  perfetta:  come  non  lo  e  verun'altra  delle  isti- 
tuzioni  umane.  I  pregi  delle  lingue  si  escludono  reciprocamente. 


310  MELCHIORRE   CESAROTTI 

Una  collezione  di  termini  propri  e  distinti  per  ogni  idea  affoghe- 
rebbe  la  memoria,  e  toglierebbe  alia  lingua  la  vivacita:  il  sistema  dei 
traslati  e  delle  derivazioni  genera  confusioni  ed  equivoci.  La  co- 
struzione  logica  degl'Italiani  e  Francesi  rende  la  lingua  piu  pre- 
cisa  e  meno  animata,  le  inversion!  dei  Latini  interessano  il  senti- 
mento,  ma  turbano  Pintelligenza.  Se  pero  niuna  lingua  e  perfetta, 
ognuna  non  per  tanto  pu6  migliorarsi,  come  si  vedra. 

6.  Niuna  lingua  e  ricca  abbastanza,  ne  puo  assegnarsi  alcun 
tempo  in  cui  ella  non  abbia  bisogno  di  nuove  ricchezze.  Le  arti, 
le  scienze,  il  commercio  presentano  ad  ogni  momento  oggetti 
nuovi,  die  domandano  d'esser  fissati  con  nuovi  termini.  Lo  spirito 
reso  piu  sagace  e  piu  riflessivo  raggira  le  sue  idee  sotto  mille  aspetti 
diversi,  le  suddivide,  ne  forma  nuove  classi,  nuovi  generi,  ed  au- 
menta  Perario  intellettuale.  Come  lavorarci  sopra  senza  vocaboli 
aggiustati  che  si  prestino  alle  operazioni  dell'intelletto  ?  Allora 
solo  la  lingua  potra  cessar  d'arricchirsi,  quando  lo  spirito  non  avra 
piu  mil  la  da  scoprire  ne  da  riflettere.  £  dunque  un  operar  diretta- 
mente  contro  Foggetto  e  '1  fine  della  lingua  il  pretender  di  to- 
glierle  con  un  rigor  mussulmano  il  germe  della  sua  intrinseca  fe- 
condita. 

7.  Niuna  lingua  6  inalterable.  Le  cause  delF alter azione  sono 
Inevitabili  e  necessarie.  Ma  la  lingua  si  altera  in  due  modi,  dal 
popolo  e  dagli  scrittori.  La  prima  alterazione  cadendo  sulla  pro- 
nunzia,  sulle  desinenze,  sulla  sintassi,  tende  lentamente  a  discio- 
glierla,  o  agevola  una  rivoluzione  violenta:  quella  degli  scrittori 
cade  piuttosto  sullo  stile  che  sulla  lingua;  di  cui  se  altera  i  colori, 
ne  conserva  pero  la  forma,  fors'anche  a  perpetuita. 

8.  Niuna  lingua  e  parlata  uniformemente  dalla  nazione.  Non 
solo  qualunque  difrerenza  di  clima1  suddivide  la  lingua  in  vari 
dialetti,  ma  nella  stessa  citta  regna  talora  una  sensibile  diversita  di 
pronunzia  e  di  modi.  Le  diverse  classi  degli  artefici  si  formano  il  lo- 
ro  gergo:  i  colti,  i  nobili  hanno  anche  senza  volerlo  un  dialetto 
diverse  da  quello  del  volgo.  Tra  i  vari  dialetti  uno  diviene  il  pre- 
dominante,  e  questo  predominio  e  dovuto  ora  aH'autorita  d'una 


i .  clima :  questo  e  uno  dei  punti  in  cui  anche  il  Cesarotti  accoglie  il  concetto 
illuministico  (svolto  sistematicamente  per  la  prima  volta  dal  Dubos)  del- 
rinfluenza  del  clima  sull'evoluzione  della  civilta  dei  vari  popoli.  Un  altro 
accenno  e  nella  nota  i  riportata  a  p.  307. 


SAGGIO   SULLA   FILOSOFIA  DELLE   LINGUE  31! 

provincia  sopra  le  altre,  ed  ora  al  merito  degli  scrittori.  II  secondo 
titolo  potrebbe  rispettarsi  come  valido,  ma  quello  dell'altro  e  talora 
mal  fondato  e  illegittimo. 

ii.  E  qui  cade  in  acconcio  di  esaminare  se  il  predominio  d'un 
dialetto  giovi  o  nuoccia  maggiormente  alia  lingua.  Esso  giova: 
i.  perche  fissa  in  qualche  modo  Panarchia  della  prommzia;  2.  per 
che  accerta  un  sistema  di  costruzione,  essendo  meglio  finalmente 
una  sintassi,  qualunque  siasi,  che  cento;  3.  perche  comincia  a 
render  la  lingua  piu  polita,  invitando  i  piu  colti  ad  esercitarvisi ; 
4.  perche  ne  facilita  Pintelligenza  agli  stranieri,  a  cui  basta  d'ap- 
prendere  un  solo  dialetto  per  profittar  di  cio  che  in  esso  si  scrive, 
e  per  intendere  ed  esser  inteso  dalla  classe  piu  ragguardevole.  Ma 
dall'altro  canto  il  dialetto  dominante  pregiudica  per  molti  capi 
alia  lingua:  i.  perche  abbandona  al  volgo,  e  condanna  all'incoltura 
e  al  dispregio  altri  dialetti  non  punto  inferiori  ad  esso,  e  forse  talor 
piu  pregevoli;  2.  impoverisce  Perario  della  lingua  nazionale,  de- 
fraudandola  d'una  quantita  di  termini  e  d'espressioni  necessarie, 
opportune,  felici,  energiche,  che  si  trovano  negli  altri  dialetti; 

3.  genera  un  gusto  fattizio  e  capriccioso,  altera  il  senso  natural 
delle  orecchie,  introduce  le  simpatie  e  le  antipatie  grammaticali ; 

4.  autorizza  le  irregolarita  e  i  difetti  gia  preesistenti  in  quel  dia 
letto,  li  trasforma  in  virtu  col  nome  di  vezzi  di  lingua,  e  produce 
false  nozioni  d'urbanita  e  di  barbarismo,  deducendo  le  une  e  le 
altre  non  dalla  ragione,  ma  dall'uso.  Cosicche  sarebbe  forse  da 
desiderarsi  che,  siccome  appresso  i  Greci,  tutti  i  dialetti  principal! 
fossersi  riputati  ugualmente  nobili,  e  si  maneggiassero  ugualmente 
dagli  scrittori.  In  tal  guisa  sarebbero  essi  tutti  a  poco  a  poco 
divenuti  piu  regolari  e  piu  colti,  la  nazione  avrebbe  avuto  una 
maggior  copia  di  scrittori  illustri,  giacche  piu  d'uno  riesce  ec- 
cellente  nel  proprio  idioma  vernacolo,1  che  si  trova  imbarazzato 


i.*  In  prova  di  cio  il  dialetto  veneto  puo  vantarne  un  esempio  singolare 
nelle  poesie  di  Antonio  Lamberti,  che  non  solo  nei  soggetti  famihari  e  scher- 
zevoli,  ma,  quel  che  non  si  sarebbe  cosi  facilmente  creduto,  anche  nei  toc- 
canti,  nei  delicati  e  nei  filosofici  porto  il  suo  idioma  vernacolo  a  una  tal 
eccellenza  poetica  che  non  teme  il  confronto  dei  poeti  pih  celebri  delle  lin- 
gue  nobiH,  e  ci  fa  sentir  a  suo  grado  Anacreonte,  Petrarca  e  La  Fontaine. 
Potrei  aggiunger  al  Lamberti  Francesco  Gntti,  P.  V.  [patrizio  veneziano], 
che  ne'  suoi  apologhi  si  distingue  per  piacevolezza  d'espressione,  per  la 
finezza  delle  allusioni  e  per  una  sua  propria  e  singolare  vivacita:  ma  questo 
esempio  non  quadrerebbe  esattamente,  perche  il  Gritti  maneggia  la  lingua 


312  MELCHIORRE  CESAROTTI 

e  si  mostra  appena  mediocre  in  un  dialetto  non  suo:  finalmente 
da  tutti  questi  dialetti  approssimati  e  paragonati  fra  loro  avreb- 
besi  potuto  formare,  come  appunto  formossi  fra  i  Greci,  una  lin 
gua  comune,  che  sarebbe  stata  la  vera  lingua  nazionale,  la  lingua 
nobile  per  eccellenza,  composta  d'una  scelta  giudiziosa  dei  ter 
mini  e  delle  maniere  piii  ragguardevoli,  lingua  che  sarebbe  riu- 
scita  ricca,  varia,  feconda,  pieghevole,1  atta  forse  a  prestarsi  colle 
sole  derivazioni  sue  proprie,  senza  1'aiuto  di  linguaggi  stranieri, 
alia  modificazione  deU'idee  antiche,  o  alia  succession  delle  nuove 
che  s'introducono  dal  ragionamento  e  dal  tempo. 

m.  La  maggior  parte  di  cio  che  s'e  detto  finora  risguarda  la 
lingua  parlata;  passeremo  ora  a  ragionar  della  scritta,  e  paragonan- 
dole  tra  loro  noteremo  i  loro  vantaggi  e  svantaggi  reciproci.  La 
lingua  parlata  serve  agli  usi  comuni,  si  usa  sol  tra  i  present!,  si 
adopera  in  cose  che  direttamente  e  immediatamente  interessano; 
non  si  prefigge  che  1'intelligenza  degli  ascoltanti,  e  1'effetto;  non 
e  preceduta  da  pensamento  e  dall'arte;  il  piacere  che  puo  derivar- 
ne  in  chi  1'ascolta,  e  talora  la  conseguenza,  ma  non  1'oggetto  e  '1 
fine  primario  di  chi  favella.  La  scritta  per  lo  contrario  e  diretta 
ai  lontani,  tratta  di  argomenti  che  non  risguardano  i  nostri  bi- 
sogni  piu  immediati  e  pressanti,  e  usata  da  persone  tranquille  e 
colte  per  uso  d'altre  colte  e  oziose  persone,  si  fa  con  scelta  e  pen 
samento,  si  propone  non  solo  Pintelligenza  e  la  persuasione  di 
chi  legge,  ma  insieme  anche  il  diletto,  precede  con  arte  e  con 
regola.  Quindi  ne  derivano  diverse  qualita  di  carattere  nell'una 
e  nell'altra.  La  parlata  e  irregolare  e  negletta,  ama  a  preferenza  i 
termini  originari,  e  sparsa  di  maniere  familiari,  di  allusioni  par- 
ticolari  o  triviali,  e  piena  d'anomalie  e  d'ambiguita,  pero  senza 
conseguenza,  perche  Tazione  e  '1  gesto  che  1'accompagna,  e  la 
conoscenza  delle  persone  e  degli  oggetti  previene  abbastanza  gli 


italiana  con  ugual  maestria  e  felicita  che  la  veneta  (C.).  Antonio  Lamberti 
(1757-1832)  scrisse  Canzonette,  Apologhi  e  Idillii,  Stagioni  cittadmesche  e 
campestri  in  dialetto  veneziano.  Sua  e  la  famosa  Biondina  in  gondoleta. 
Francesco  Gritti  (1740-1811),  oltre  a  varie  opere  in  italiano,  compose  in 
veneziano  degli  Apologhi,  che  piacquero  anche  al  Foscolo.  i .  Alia  liberta 
di  far  uso  di  tutti  i  dialetti  e  di  mescolarli  fra  loro  attribuisce  il  Gebelin  la 
ricchezza,  la  forza  e  Tarmonia  della  lingua  greca,  e  in  gran  parte  il  genio 
originale  de'  suoi  scrittori  (C.).  Antoine  Court  de  Gebelin  (1725-1784) 
scrisse  fra  Faltro  una  Histoire  naturelle  de  la  parole  (1776),  ispirata  a  prin- 
cipii  sensistici,  a  cui  il  Cesarotti  qui  si  rifensce. 


SAGGIO    SULLA   FILOSOFIA  DELLE   LINGUE  313 

equivoci.  La  scritta  e,  e  dev'essere,  piu  regolare  e  grammaticale, 
poiche  senza  di  questo  i  lontani  sbaglierebbero  piu  d'una  volta 
il  senso  delle  parole:  e  piu  armoniosa  e  piu  nobile,  cerca  i  modi 
meno  ordinari,  ne  sfugge  le  allusioni  men  owie  e  i  termini  tratti 
da  lingue  o  dotte  o  talora  straniere  ma  cognite,  perche  serve  all'i- 
struzione  e  al  diletto  degli  scienziati  e  dei  colti,  che  ne  intendono 
ugualmente  il  senso,  e  ne  risentono  piacevolmente  1'effetto.  D'al- 
Paltro  canto  la  parlata  ha  dei  vantaggi  considerabili:  i.  ella  e  piu 
ricca,  perche  i  parlanti  sono  infinitamente  in  piu  numero  che  gli 
scriventi.  Niun  uomo  che  parla  si  trova  mai  imbarazzato  per 
mancanza  di  termini ;  2.  e  piu  animata,  perche  chi  parla  e  mosso  da 
un  senso  vivo  e  presente;  3.  e  piu  disinvolta  e  meno  affettata,  per 
che  non  porta  seco  la  solennita  e  la  compostezza  dell'arte;  4.  e  piu 
libera  e  piu  feconda,  perche  non  inceppata  da  regole,  ne  turbata 
da  scrupoli  grammaticali.  Chi  si  spiega  nel  suo  idioma  vernacolo 
non  s'informa  innanzi  di  parlare  se  il  termine  che  gli  vien  sulla 
bocca  siasi  usato  o  non  usato  prima  di  lui.  Avendo  il  senso  in- 
timo  del  genio  della  sua  lingua,  consapevole  del  valore  delle  termi- 
nazioni  e  dell'analogia,  si  abbandona  alFimpulso  interno,  conia 
sugli  stampi  antichi  cento  vocaboli  nuovi  senza  pensar  che  sien 
tali,  e  adotta  fra  gli  stranieri  tutti  quelli  che  gli  sono  opportuni. 
Cosi  la  lingua  si  riempie  d'espressioni  calzanti,  felici,  originali, 
e  spira  in  ogni  sua  parte  un'aura  di  vita.  La  scritta  alTopposto 
e  piu  povera,  piu  misurata,  piu  studiata  ne'  suoi  movimenti,  piu 
uniforme,  superstiziosa  e  infeconda.  Due  cagioni  afTatto  diverse 
riunite  insieme  producono  quest'ultimo  discapito:  Teccellenza  e  la 
mediocrita.  Alcuni  scrittori  di  genio,  essendosi  resi  celebri  per 
qualche  monumento  di  spirito,  destano  un'ammirazione  in  alcu- 
ni  pochi  ragionata,  stupida  nel  maggior  numero.1  Le  loro  opere 
diventano  soggetto  non  di  esame,  ma  di  adorazione.  Non  basta 
che  le  loro  parole,  i  loro  tornii2  siano  felici  e  convenient!;  devono 
essere  gli  ottimi  fra  tutti  i  possibili,  anzi  gli  unici  assolutamente. 
Si  forma  su  i  loro  scritti  una  specie  di  cabala,  si  osserva  con  su- 
perstizione  il  numero  degli  esempi,  si  suppone  una  ragione  a  priori 

i .  Alcuni  .  .  .  numero :  torna  qui,  spostata  sul  piano  linguistico,  la  polemic* 
contro  il  cieco  ossequio  all'autorita  dei  classici,  gia  condotta  dal  Cesarotti 
nei  suoi  precedent!  scritti  estetici,  a  cominciare  dal  Ragionamento  sopra 
Porigine  e  iprogressi  delP  arte  poetica.  2.  tornii:  giri  di  frase,  modi  di  espri- 
mersi. 


314  MELCHIORRE   CESAROTTI 

di  qualunque  loro  abitudine  indifferente,  quindi  se  ne  formano 
canoni,  e  si  proscrive  come  strana,  licenziosa,  illegittima  qualun 
que  parola  non  trovata  sul  loro  frasario,  e  qualunque  maniera 
discordante  dal  loro  uso.  I  mediocri,  die  sono  i  piu,  si  fanno 
sostenitori  di  queste  leggi  che  fanno  loro  un  merito  di  non  aver 
d'originale  nemmeno  un  termine:  i  pochi  che  avrebbero  spirito 
proprio,  parte  per  una  persuasione  pregiudicata,  parte  per  ti- 
mor  delle  sentenze  del  tribunal  della  prevenzione,  vi  si  adattano 
a  scanso  di  brighe:  cosi  il  pregiudizio  si  awalora  sempre  piu,  e 
dopo  aver  prodotta  Puniformita  degli  esempi,  si  prevale  della  stes- 
sa  uniformita  a  perpetuare  la  sua  tirannide.  Quindi  negli  scritti 
predomina  Paria  imitativa,  la  lingua  non  ha  che  un  colore  ed 
un  tuono,  e  ad  onta  della  sua  facolta  vitale  e  generativa  diventa 
sterile  e  morta. 

iv.  Da  queste  premesse  caveremo  per  corollari  alcune  propo- 
sizioni  che  serviranno  di  fondamento  a  quanto  sarem  per  dire 
in  appresso. 

1.  La  lingua,  e  molto  meno  la  scritta,  non  dee  confondersi  col 
dialetto  principale.  La  lingua  appartiene  alia  nazione,  il  dialetto 
alia  provincia.  La  lingua  si  forma  di  cio  ch'ella  ha  di  comune,  il 
dialetto  di  cio  che  v'e  di  particolare.  La  lingua  scritta  e  sempre 
piu  colta  e  piu  nobile  di  qualunque  dialetto. 

2.  La  lingua  scritta  dee  considerarsi  come  il  compimento  e  la 
perfezione  della  parlata,  dovendo  essa  aggiungere  alia  regolarita 
ed  alia  scelta  che  le  sono  proprie,  la  franchezza  e  la  fecondita 
che  caratterizzano  1'altra.  Di  fatto  sarebbe  strano  e  assurdamente 
contradittorio,  che  si  negasse  ai  colti  ed  agli  scienziati  che  scri- 
vono  pensatamente,  quella  facolta  che  si  accorda  ai  rozzi  o  al  co 
mune  del  popolo,  che  parla  senza  studio  ed  alia  sprowista. 

3.  La  lingua  scritta  non  dee  ricever  la  legge  assolutamente 
dalTuso  volgare  del  popolo.  L'uso  deve  dominar  nella  lingua  par 
lata,  non  nella  scritta.  Se  Puso  dovesse  prendersi  per  norma  ver- 
rebbero  ad  autorizzarsi  tutte  le  sconcordanze,  le  irregolarita  e  le 
storpiature  della  pronunzia,  che  pur  vengono  condannate  anche 
iai  grammatici,  tuttoche  questi  ne  approvino  altre  della  medesima 
jpecie.  Ne  mi  si  dica  che  le  sopraddette  sconcezze  sono  condanna- 
:>ili  perche  deviano  dalla  lingua  madre,  nascono  dall'ignoranza, 
ravisano  le  parole,  peccano  contro  Panalogia:  perche  Puso  e  cieco, 
ntrodotto  sempre  dagPignoranti,  che  formano  il  maggior  numero, 


SAGGIO    SULLA   FILOSOFIA   DELLE   LINGUE  315 

esso  non  segue  costantemente  verun  principio,  esso  formo  la  lin 
gua  parlata  come  piu  gli  piacque,  ne  puo  riconvenirsi1  di  nulla: 
astat  pro  ratione  voluntas».s  Se  dunque  Fuso  solo  nella  lingua 
scritta  dovesse  legittimar  le  parole  e  i  modi  di  dire,  mi  si  provi 
come  non  debba  pur  anche  legittimar  le  stravaganze  della  pro- 
nunzia,  e  come,  piantando  Tuso  per  norma  infallibile  di  chi  scrive, 
si  possa  approvar  alcuni  modi  e  condannarne  altri,  quando  hanno 
ugualmente  spaccio  presso  la  nazione. 

4.  La  lingua  scritta,  nella  scelta  delle  parole  e  delle  espressioni 
non  dee  nemmeno  aderir  ciecamente  alPuso  degli  scrittori  appro- 
vati,  ne  farsi  una  legge  di  non  dipartirsi  dal  loro  esempio  :3  perche 
non  tutti  gH  scrittori  furono  ugualmente  colti,  riflessrvi,  diligenti 
in  fatto  di  lingua;  perche  molti,  o  per  pregiudizio  o  per  maggior 
facilita,  presero  per  lingua  il  loro  dialetto;  perche  le  costruzioni 
e  le  maniere  che  piu  frequentano4  non  partono  sempre  da  cono- 
scenza  di  causa,  ma  dal  caso  o  dalFabitudine ;  perch6  gli  scrittori 
originali  non  intesero  ne  di  ricever  la  legge  ne  di  darla  agli  altri, 
ma  di  far  uso  della  comun  liberta  e  del  loro  proprio  giudizio, 
senza  pretender  di  togliere  lo  stesso  diritto  a  quelli  che  verreb- 
bero  dopo;  perche  tutti  hanno  le  loro  imperfezioni;  perche  in- 
fine  tutti  gli  scrittori  del  mondo  non  potrebbero  mai  giungere 
ad  esaurire  tutte  le  voci  e  tutte  le  maniere  possibili  che  successi- 
vamente  si  rendono  necessarie  o  proficue  ai  bisogni  dello  spirito  e 
della  lingua.  E  perch6  Tautorita  degli  scrittori  approvati  e  il  grande 
Achille5  dei  grammatici,  si  domandera  loro  se  gli  scrittori  faccia- 
no  legge  perche  si  conformano  alTuso,  o  perche  ne  discordano: 
se  dicono  il  primo,  sara  dunque  1'uso  il  supremo  arbitro  della  lin 
gua,  e  quindi  cadranno  nelTinconveniente  o  nelle  contraddizioni 
accennate  di  sopra.  Se  poi  fanno  legge  quando  si  appartano  dal- 
1'uso  comune,  domanderemo  con  quale  autorita  essi  lo  facciano, 
e  perche  non  debbano  chiamarsi  novatori  e  barbari  quando  usano 
termini  non  piu  adoperati,  e  tratti  da  lingue  straniere,  o  qualche 
neologismo  d'espressione,  che  sara  certo  neologismo  quando  si 
usa  la  prima  volta.  Ne  potrebbero  essi  rispondere  che  quei  ter- 

i.  riconvenirsi:  riprendersi,  essere  rimproverato.  2.  Cita  a  memoria  Gio- 
venale,  Sat.,  vi,  223 :  « hoc  volo,  sic  iubeo,  sit  pro  ratione  voluntas  »  («  questo 
voglio,  cosi  comando,  la  volonta  valga  in  luogo  di  ragione»).  3.  Vedi 
Risch.  I,  §  8  (C.).  4-  frequentano:  sono  frequentL  5.  il  grande  Achille: 
'argomento  fondamentale. 


316  MELCHIORRE  CESAROTTI 

mini  sono  espressivi,  chiari,  ben  derivati,  armoniosi,  giacche  i 
grammatici  niegano  la  cittadinanza  a  una  folia  di  vocaboli  mo- 
derni,  malgrado  queste  medesime  riconosciute  qualita,  per  la  sola 
ragione  che  sono  stranieri  o  non  prima  usati.  Che  se  pur  si  vuole 
che  gli  scrittori  avessero  autorita  di  coniar  termini  nuovi  perche 
il  fecero  con  ragioni  valide,  primieramente  avranno  la  bonta  di 
esporci  queste  ragioni,  onde  si  possa  esaminarle  e  confrontarle 
coi  termini  introdotti  dagli  scrittori:  poi  faranno  somma  grazia 
ad  istruirci  perche  facendo  uso  delle  medesime  ragioni  non  ah- 
biano  i  moderni  la  medesima  facolta,  e  per  quale  strana  metamor- 
fosi  cio  ch'era  un  merito  negli  antichi  diventi  un  delitto  nei  nostri. 
Che  se  per  ultimo  rifugio  verranno  a  dirci,  come  pur  troppo  si 
dice,  che  gli  scrittori  approvati  ebbero  questo  diritto  perche  ap- 
partenevano  alia  provincia  del  dialetto  dominatore,  primieramente 
dovranno  rispondere  a  quanto  si  e  detto  da  noi  rispetto  ai  dialetti 
e  alia  lingua,  poi  avranno  a  combattere  coiresempio  della  lingua 
latina,  presso  di  cui  gli  autori  classici,  trattone  alcuni  pochissirm 
romani,  sono  per  la  phi  parte  stranieri,  ne  d' Italia  sola,  ma  galli, 
spagnuoli,  e  per  sino  afrricani  e  traci ;  e  similmente  coll'esempio  del- 
la  scrupolosa  lingua  toscana,  la  qual  pure  concedette  il  diritto  del 
parlare  ad  alcuni  lombardi  e  regnicoli.1  Finalmente  volendosi  con- 
cedere  ai  grammatici  esser  questo  diritto  naturale  dei  soli  munici- 
pali  o  provinciali  di  quel  dialetto,  ne  risultera  che  1'aria  e  '1  clima 
sono  la  causa  causarum  della  giurisdizion  sulla  lingua,  ed  in  con- 
seguenza  chiunque  vive  sotto  quel  cielo  porta  seco  questo  ori- 
ginario  diritto,  ne  per  ottenerlo  fanno  di  mestieri  altri  titoli:  dun- 
que  il  popolo  sara  il  dittatore  e  '1  despota  della  lingua  e  d'ogni  sua 
parte:  dunque,  s'ella  e  cosi,  se  la  ragione  non  ha  veruna  parte 
nelPautorizzar  le  parole,  ma  tutto  dipende  dalPuso  fondato  sul 
beneplacito  della  nazione2  privilegiata,  Fuso  del  maggior  numero 
sara  sempre  piu  autorevole  che  quello  dei  pochi,  qualunque  siane 
la  ragion  che  li  guida,  ed  in  conseguenza  qualunque  novita  non 
autorizzata  dall'uso  comune  sara  ugualmente  illegittima,  scanda- 
losa  e  mal  sonante  tanto  negli  scrittori  antichi  che  nei  moderni,  e 
nei  provinciali  che  negli  stranieri. 

5.  Se  tutti  gli  scrittori  non  possono  mai  fondare  una  prescri- 
zione  inalterabile  rapporto  alia  lingua  scritta,  molto  meno  po- 

i.  regnicoli:  abitanti  del  regno  di  Napoli.     z.  nazione:  qui  nei  senso  di  re- 
gione,  citta. 


SAGGIO    SULLA   FILOSOFIA  DELLE   LINGUE  317 

tranno  produrla  gli  scrittori  d*un  certo  secolo,  e  ancora  meno 
quelli  de'  piu  remoti,  poiche  nelle  arti,  come  nella  vita,  1'eta  dell'in- 
fanzia  non  e  mai  quella  del  vigore.  II  progresso  della  lingua  e  sem- 
pre  in  proporzione  di  quei  dello  spirito.1  Quindi  in  una  nazione 
colta,  ricca,  scienziata,  fornita  d'arti  e  di  commercio,  tanto  piu 
la  lingua  si  accosta  alia  perfezione  quanto  piu  si  dilunga  dalle 
prime  epoche:  cosicche  non  dubitero  d'affermare,  malgrado  Pap- 
parenza  di  paradosso,  che  la  lingua  latina  per  esempio  era  a  mi- 
glior  condizione  nel  secolo  degli  Antonini  che  in  quello  d'Augu- 
sto;  anzi,  quando  volesse  accordarsi  cio  che  per  alcuni  si  crede, 
che  Feloquenza  si  corrompa  a  misura  che  le  scienze  si  perfezio- 
nano,  ne  seguirebbe  che  i  secoli  della  corruzione  sono  quelli  della 
maggior  fioridezza  della  lingua:  perciocche  la  lingua  non  dee 
confondersi  collo  stile,  come  suol  farsi  da  mold.  II  pregio  di  essa 
consiste  nelF  esser  ad  un  tempo  ricca,  precisa,  abbondante  di  colori 
e  d'atteggiamenti,  pieghevole  ad  ogni  argomento  e  ad  ogni  genere 
di  scritture.  L'ufizio  di  essa  e  di  presentar  i  materiali  allo  stile, 
e  lo  stile  e  Farte  di  fame  uso.  Quindi  puo  darsi  nello  scrittore  me- 
desimo,  non  che  in  vari,  ottima  lingua  senza  ottimo  stile,  benche 
uno  scrittore  non  possa  aver  ottimo  stile  senza  buona  lingua;  ma  la 
lingua  dello  scrittore  puo  esser  ottima  nella  sua  specie,  benche 
in  generale  la  lingua  della  nazione  sia  lontana  dalP  esser  F  ottima. 
La  poca  esattezza  e  precisione  di  queste  idee  genera  tutto  giorno 
dispute  di  parole  e  falsi  giudizi. 

6.  Meno  ancora  di  tutto  la  lingua  scritta  dovra  dipendere  dal 
tribunal  dei  grammatici,  poiche  non  hanno  ne  veruna  autorita  le- 
gislativa  ne  verun  titolo  per  meritarla.  Non  quella,  perche  ne  la 
nazione  ne  il  corpo  degli  scrittori  non  gli  fecero  depositari  dei  lor 
diritti;  ne  i  grammatici  forrnarono  gli  scrittori,  rna  gli  scrittori  i 
grammatici:  non  gli  altri2  poiche  riportando  tutto  alFuso  e  alFe- 
sempio,  mancano  di  mezzi  per  giudicar  a  priori  della  vera  bonta 
della  lingua.  Si  contentino  dunque  di  far  Fufizio  di  vocabolari,  e  si 
pregino  di  poter  dire  se  una  voce  siasi  usata,  e  quando,  e  da  chi, 
e  quante  volte,  ma  non  si  arroghino  di  dar  sentenza  sulla  bellezza 
ed  aggiustatezza  dei  termini  e  delPespressioni,  di  cui  solo  tocca  a 


1.  II progresso  .  .  .  spirito:  concetto  gia  svolto  nel  Ragionamento  prelimina- 
re  al  corso  ragionato  di  letteratura  greca  (cfr.  in  questo  volume,  p.  288). 

2.  gli  altri:  si  riferisce  a  verun  titolo. 


318  MELCHIORRE   CESAROTTI 

decidere  agli  scrittori  di  genio  e  agli  uomini  che  accoppiano  al 
gusto  il  ragionamento. 

7.  Conchiuderemo  che  la  lingua  scritta  dee  aver  per  base  1'uso, 
per  consigliere  Pesempio  e  per  direttrice  la  ragione:1  Puso,  per 
che  ove  si  prescinda  intieramente  da  esso,  la  lingua  non  sarebbe 
piu  intesa  dalla  nazione;  Pesempio,  perche  se  i  modi  dei  grandi 
scrittori  non  fanno  legge,  fanno  pero  una  presunzione  favorevole 
che  merita  esame  e  rispetto;  la  ragione  fmalmente,  perche  quanto 
si  fa  con  arte  puo  e  deve  essere  oggetto  di  scienza,  e  perche  la 
ragion  sola  puo  darci  i  mezzi  di  ben  giudicare  dell'uso  e  delPesem- 
pio,  e  di  distinguer  nelle  lingue  la  bellezza  intrinseca  dalla  con- 
venzionale  e  fattizia. 


PARTE  n 

Dei  principii  che  debbono  guidar  la  ragione  nel  giudicar  della 
lingua  scritta,  nel  perfezionarla  e  nel  fame  il  miglior  uso. 

SOMMARIO 

I.  Divisione  della  lingua  in  un  doppio  ordine  di  parti.  II.  Vocaboli  di  due 
specie.  Sviluppo  natural  della  lingua.  Onomatopea.  Rapporto  fra  le  lettere  e 
le  qualita  degli  oggetti.  III.  Metodo  della  natura  per  denominar  gli  oggetti 
visibili.  Osservazioni  sopra  il  medesimo.  IV.  Operazioni  dello  spirito 
nel  modificare  i  vocaboli.  V.  Terzo  fonte  di  vocaboli  naturali.  VI.  [Termini- 
figure  e  terrnini-cifre.]2  VII.  Doppio  rapporto  dei  vocaboli,  e  doppia 
bellezza  o  difettuosita  dei  medesimi  secondo  1'uno  o  1'altro  rapporto. 
VIII.  Del  pregio  dei  vocaboli  nel  rapporto  tra  1'oggetto  e  il  suono.  Esame 
d'un  detto  di  Quintiliano.  IX.  Del  pregio  dei  vocaboli  nel  rapporto  tra 
oggetto  e  oggetto.  X.  Nomi  delle  idee  spiritual!  tratti  da  oggetti  sensibili. 
XI.  Pregi  e  difetti  dei  vocaboli  derivativi  nel  rapporto  al  senso.  Esempi 
ed  osservazioni.  XII.  Dei  vocaboli  di  moltiplice  significato.  XIII.  Vicende, 
metamorfosi  e  invecchiamento  dei  vocaboli.  XIV.  [1-3.]  Corollan.  Soluzione 
d'alcuni  fenomeni.  4.  Necessita  di  rinfrescar  di  tempo  in  tempo  il  colorito 
della  lingua.  XV.  Delle  frasi.  Doppio  contrasto  che  vi  si  trova.  XVI.  Dei 
modi  proverbiali  e  dei  loro  fonti.  i.  Di  quelli  tratti  dalla  natura.  2.  Di 
quelli  tratti  dalle  scienze.  3.  Dalle  arti.  4.  Dalle  usanze.  Osservazioni 
sul  frasario  antico  dei  latinisti  moderni.  5.  Di  quelle  tratte  dalle  partico- 
larita.  XVII.  Della  sintassi:  materia,  forma  e  parti  della  medesima.  XVIII.  i. 

i .  la  lingua  scritta  .  .  .  ragione :  cfr.  su  questa  formula  conclusiva  le  osser 
vazioni  di  M.  PUPPO,  Discussioni  linguistiche  del  Settecento,  cit.,  Introdu- 
zione,  pp.  70-1.  2.  Aggiungo,  seguendo  1'Ortolani,  questo  titolo  che 
manca  nel  sommario  del  Cesarotti. 


SAGGIO    SULLA   FILOSOFIA   DELLE   LINGUE  319 

Desinenze,  concordanza,  reggimento.  2.  Delia  costruzione  elittica.  3.  Del- 
la  costruzione  diretta  e  inversa.  XIX.  Degl'idiotismi.  Loro  distinzione  in 
due  specie.  XX.  Doppio  genio  della  lingua. 

I.  La  giurisdizione  sopra  la  lingua  scritta  appartiene  indivisa  a  tre 
facolta  riunite,  la  filosofia,  1'erudizione  ed  il  gusto.  La  filosofia  ci 
mostrera  in  che  consista  la  vera  bellezza  ed  aggiustatezza  delle 
parole,  e  i  veri  bisogni  della  lingua;  Perudizione,  facendoci  risa- 
lire  ai  sensi  primitivi  dei  termini  e  informandoci  degli  usi,  costumi, 
circostanze  che  diedero  occasione  ai  van  vocaboli,  ce  ne  fara  sentir 
con  precisione  Pesatto  valore,  e  P  aggiustatezza  o  la  sconvenienza; 
finalmente  il  gusto  c'insegnera  quando  e  come  vogliasi  condi- 
scendere  all'uso  o  rettificarlo,  in  qual  modo  possano  conciliarsi  i 
diritti  della  ragione  e  quei  delPorecchio,  e  quali  siano  i  limiti  che 
dividono  la  saggia  liberta  dalla  sfrenata  licenza. 

Seguendo  la  scorta  della  prima  di  queste  facolta,  osserveremo 
che  la  lingua  come  materia  del  discorso  consta  di  due  parti,  Tuna 
delle  quali  chiameremo  logica,  e  1'altra  rettorica.  Logica  sara  quella 
che  serve  unicamente  alPuso  delPintelligenza,  somministra  i  se- 
gni  delle  idee,  del  vincolo  che  le  lega  tra  loro,  e  di  tutti  quei  rap- 
porti  di  dipendenza  che  ne  formano  un  tutto  subordinate  e  connes- 
so.  Rettorica  e  quella  parte  che,  oltre  alPistruir  Pintelletto,  colpisce 
rimmaginazione,  ne  contenta  di  ricordar  1'idea  principale,  la  di- 
pinge  o  la  veste  o  Patteggia  in  un  modo  piu  particolare  o  piu  vivo, 
o  ne  suscita  contemporaneamente  altre  d'accessorie,  le  quali  oltre 
alToggetto  hidicato  dinotano  anche  un  qualche  modo  interessante 
di  percepirlo,  o  un  grado  di  sensazione  che  comunica  una  specie 
d'oscillazione  al  cuore  o  allo  spirito  di  chi  ci  ascolta.  Parlero  in 
primo  luogo  della  parte  rettorica,  come  piu  suscettibile  di  bellezza 
o  difetto.  I  vocaboli,  le  frasi,  i  modi  proverbiali  e  gPidiotismi  ci 
daranno  materia  per  investigarne  le  sopraddette  qualita. 

II.  Quanto  ai  vocaboli  osservero  in  primo  luogo  generalmente 
che  tutti  possono  dividersi  in  due  classi,  vocaboli  memorativi  e 
vocaboli  rappresentativi:  quelli  ricordano  Foggetto,  questi  in  qual 
che  modo  il  dipingono ;  percio  i  primi  possono  chiamarsi  termini- 
cifre,  gh*  altri  termini-figure.  I  primi  a  guisa  delle  chiavi  cinesi1 
non  hanno  coll'idea  altro  che  un  rapporto  convenzionale  e  arbitra- 
rio,  gli  altri  lo  hanno  direttamente  o  indirettamente  naturale,  e  a 

i.  chiavi  cinesi:  i  monosillabi  radicali  della  lingua  cinese. 


320  MELCHIORRE    CESAROTTI 

guisa  della  scrittura  del  primi  secoli  possono  suddividersi  in  altre 
due  specie:  la  geroglifica  che  figura  Poggetto  stesso  prima  intero, 
poi  compendiato  o  indicato,  e  la  simbolica  che  colla  figura  d'un 
oggetto  ne  rappresenta  un  altro,  o  da  una  forma  sensibile  ad  un'idea 
intellettuale. 

Per  far  meglio  concepire  il  mio  intendimento,  tocchero  qual- 
che  cosa  dello  sviluppo  natural  della  lingua  e  delle  fonti  universal! 
dei  vocaboli.  £  certo  che  Puomo  porta  seco  dalla  natura  una  lin 
gua  incoata,  e  in  un  certo  senso  uniforme,  la  quale  serve  di  base 
comune  airimmensa  famiglia  di  tutte  le  lingue  dell'universo,  e 
della  quale  gli  eruditi  d'alta  sfera  scopersero  in  ciascheduna  trac- 
ce  profonde  e  sensibili.  Pressato  Tuomo  dal  bisogno  immediate  di 
fissar  con  un  qualche  nome  gli  oggetti  che  lo  interessano,  e  di 
farli  conoscere  agli  altri  con  ugual  prontezza  e  colla  minima  am- 
biguita,  non  potea  nella  sua  rozzezza  aiutarsi  con  altri  mezzi  che 
con  quei  due  di  cui  la  natura  gli  avea  fatto  un  dono  spontaneo: 
la  tendenza  all'imitazione  e  le  primitive  disposizioni  dell'organo 
vocale.  La  prima  operazione  delTuomo  sopra  la  lingua  dovea  ne- 
cessariamente  esser  quella  di  cogliere  ed  imitar  il  rapporto  posto 
dalla  natura  fra  il  suono  di  certi  oggetti  e  quel  della  voce,  e  di  dar 
agli  oggetti  stessi  un  nome  analogo  al  suono  ch'essi  tramandano.1 
Che  questa  fosse  la  prima  origine  natural  dei  vocaboli  ben  lo 
conobbero  e  ce  lo  insegnarono  i  Greci,  chiamando  questo  metodo 
per  eccellenza  onomatopea,  ossia  invenzione  dei  nomi.  Per  una  am- 
pliazione  di  questo  metodo  presero  gli  uomini  ad  esprimere  i 
rapporti  che  passano  fra  certe  proprieta  esterne  degli  oggetti  e  le 
articolazioni  vocali.  E  poiche  mi  trovo  d'aver  cio  spiegato  altre 
volte  latinamente,  prendero  la  liberta  di  ripeterlo  cosi  come  sta. 
«Nimirum  inter  litteras  et  certas  rerum  proprietates,  eas  praecipue 
quae  ad  auditum  ratione  aliqua  referuntur,  arcanam  analogiam 
natura  statuit,  quam  sagax  animus  arriperet,  eaque  ductus  ad  res 
ipsas  exprimendas  quamproxime  accederet.  Enimvero  cum  litterae 

i .  La  prima  .  .  .  tramandano :  vedi  de  Brosse  [cosi  scrive  costantemente  il 
Cesarotti],  Form,  mech,  des  long.  [Traitede  la  formation  mechamque  des  Ian- 
gues  et  des  principes  physiques  de  V etymologic,  Paris  1765],  1. 1  (C.).  II  Traite 
del  de  Brosses,  fondato  su  pnncipu  condillachiani,  e,  come  si  e  detto  nella 
Nota  mtroduttiva,  una  delle  principali  fonti  teoriche  dell' opera  cesarottia- 
na.  Oltre  che  per  questo  trattato,  Charles  de  Brosses  (1709-1777)  e  ricor- 
dato  come  autore  di  un  Voyage  en  Italie,  pubblicato  postumo,  e  come  col- 
laboratore  delV  Encyclopedic. 


SAGGIO    SULLA   FILOSOFIA  DELLE   LINGUE  321 

in  pronunciando  aliae  aegre  exploduntur,  aliae  elabuntur  atque 
effluunt;  nonnullae  abblandiuntur  organo;  nonnullae  vehemen- 
tius  impingunt;  quaedam  se  caeteris  facile  agglomerant ;  reluctan- 
tur  quaedam;  cum  sibilat  haec,  ilia  frendit,  altera  glocitat;  nonne 
propemodum  clamitant  esse  se  certissimas  notas  analogis  corpo- 
rum  proprietatibus  exprimendis  ab  ipsa  natura  constitutas?  Ita- 
que  dentales  litteras  constantibus  rebus  et  firmis ;  gutturales  hian- 
tibus  et  laboriose  excavatis;  fluidis,  laevibus,  volubilibus  liquidas; 
asperae  ac  rapidae  vehementiae  caninam;  anguineam  sibilae  cele- 
ritati  notandae,  natas  et  conformatas  verissime  dixeris.))1 

in.  Non  era  difficile  Pafferrar  questi  due  rapporti  intrinseci  e 
diretti  fra  il  suono  e  le  cose:  ma  come  denominar  gli  oggetti 
visibili  che  non  hanno  veruna  specie  d'analogia  colla  voce?  Qui 
fu  dove  Tindustria  aiut6  la  natura.  Tutto  e  legato  nelPuniverso, 
e  tutto  lo  e  bene  o  male  nel  nostro  spirito.  L'esatta  corrispondenza 
fra  Tidea  e  Poggetto  costituisce  la  verita,  la  corrispondenza  esat- 
ta  fra  il  legame  delPidee  nostre  col  legame  naturale  degli  esseri 
forma  la  scienza.  Ma  perche  queste  due  serie  si  corrispondano 
esattamente,  abbisognano  d'una  terza  che  ne  stabilisca  il  com- 
mercio,  e  le  annodi  reciprocamente.  I  vocaboli  sono  come  la  catena 
trasversale  che  riunisce  quella  degli  oggetti  con  quella  delPidee.  Un 
vocabolo  primitivo  tratto  dal  suono  non  risveglia  direttamente  se 
non  se  Pidea  del  corpo  sonoro,  in  quanto  egli  e  tale,  ma  con  una 
indiretta  celerita  risveglia  pur  anche  Pidea  dell'intera  sostanza  ri- 
vestita  delle  sue  intrinseche  proprieta.  Ora  questa  sostanza  ha 
molti  e  vari  rapporti  piu  o  meno  vicini  o  vividi  con  altre  infinite 

i .  La  citazione  e  tratta  dalla  prolusione  latina  De  naturali  linguarum  expli- 
catione\  cfr.  Opere,  xxxi,  pp.  71-2  («E  evidente  che  fra  le  lettere  e  deter 
minate  proprieta  delle  cose,  quelle  principalmente  che  si  riferiscono  in 
qualche  modo  alPudito,  la  natura  ha  stabilito  una  arcana  analogia,  tale  da 
poter  essere  awertita  daH'animo  sagace,  che  da  essa  guidato  giungesse  ad 
esprimere  le  cose  stesse  nel  modo  piu  aderente  possibile.  E  in  realta,  dato 
che  alcune  lettere,  quando  sono  pronunciate,  vengono  esplose  a  fatica, 
altre  scivolano  e  scorrono;  altre  accarezzano  Torgano  vocale;  altre  lo  sfor- 
zano  piu  energicamente;  altre  si  rifiutano ;  dato  che  una  sibila,  una  digrigna, 
un'altra  ancora  chioccia;  non  dichiarano  quasi  a  gran  voce  di  essere  dei 
segni  certissimi  stabiliti  dalla  stessa  natura  ad  esprimere  analoghe  pro 
prieta  dei  corpi  ?  Cosi  si  potrebbe  affermare  con  piena  verita  che  le  dentali 
sono  nate  e  conformate  a  denotare  cose  salde  e  ferme;  le  gutturali,  cose 
spalancate  e  laboriosamente  scavate;  le  liquide,  cose  fluide,  hsce  e  volubili; 
la  canina  a  esprimere  una  violenza  aspra  e  rapida,  1'anguinea,  una  sibilant  e 
celerita  »)•  La  lettera  « canina »  e  la  r  (cosi  chiamata  daunafrasedi  Persio> 
Sat.,  i,  109),  r«anguinea»  e  la  s,  di  forma  serpentina. 


322  MELCHIORRE   CESAROTTI 

sostanze;  siccome  il  primo  vocabolo  ha  per  mezzo  de'  suoi  pri- 
mitivi  element!  relazioni  moltiplici  con  altre  voci  die  risultano 
dalla  lor  mescolanza.  Percio  il  vocabolo  primigenio  formato  dal 
suono  generatore  e  come  I'ultimo  anello  a  cui  si  connettono  lateral- 
mente  quinci  la  catena  degli  oggetti,  quindi  Taltra  dei  vocaboli 
analoghi;  e  percio  qualunque  derivazione  da  cotesto  primo  vo 
cabolo  corrispondera  alia  derivazione  del  primo  oggetto,  e  ne  de- 
stera  nello  spirito  una  qualche  immagine.1  Giova  pero  di  osservare 
quattro  cose  di  molta  conseguenza.  i .  La  relazione  tra  i  suoni  e  gli 
oggetti  derivati  non  essendo  se  non  indiretta  e  mediata,  il  rapporto 
tra  i  vocaboli  e  gli  oggetti  di  questa  specie  sara  meno  sensibile  e 
meno  vivace  che  quello  tra  i  vocaboli  e  i  corpi  sonori.  2.  II  rapporto 
tra  il  suono  della  voce  e  quello  del  corpo  sonoro  e  unico,  precise  e 
distinto;  quello  tra  il  vocabolo  e  '1  corpo  visibile  e  vago,  confuso, 
moltiplice,  avendo  un  corpo  molti  e  molti  aspetti  per  cui  puo 
appartenere  ad  un  altro,  ne  potendo  chi  ascolta  aver  mezzo  di  cono- 

i.  *  Nelle  dottrine  metafisiche  che  formano  il  preambolo  del  mio  discorso, 
mi  sono  in  gran  parte  attenuto  al  sistema  del  sagace  ed  erudito  filosofo  de 
Brosse  nella  sua  insigne  opera  sulla  formazion  meccanica  delle  lingue. 
Siccome  pero  questo  non  era  1'oggetto  del  mio  libro,  cosi  non  ho  fatto  che 
toccar  di  volo  quel  tanto  delle  sue  dottrine  che  potea  bastar  al  mio  intento, 
sol  per  servirmene  come  di  base  alia  mia  teoria  sulla  bellezza  dei  termini. 
Quindi  e  che  per  esser  breve  e  passar  al  mio  vero  assunto,  sar6  forse  ad  al- 
cimi  riuscito  men  chiaro.  Osserva  sensatamente  il  Condillac  che  Tidea  d'un 
oggetto,  trattone  alcuno  de'  piu  emmenti,  non  si  sveglia,  o  non  si  arresta 
nella  memoria,  se  non  e  fissata  da  un  segno,  e  tra  questi  niuno  e  piu  sicuro, 
piu  distinto,  piu  dipendente  dal  nostro  arbitrio  dei  segm  vocali:  ma  per 
suscitar  prontamente  Fidea  convien  che  il  segno  vocale  abbia  qualche  rap 
porto  coll' oggetto  stesso,  e  questo  nel  primo  tempo  non  pu6  esser  altro  che 
il  suono.  Quindi  fra  gli  oggetti  fisici,  i  corpi  sonori,  o  quelli  che  hanno  una 
qualita  relativa  al  suono,  furono  denominati  i  pnmi.  Fissato  in  tal  guisa  il 
nome  d'un  oggetto  dal  rapporto  del  suono,  il  primo  vocabolo  per  mezzo  del 
suono  stesso  alquanto  diversificato  divenne  radice  d'un  altro  nome  per  in- 
dicar  un  secondo  oggetto,  che  avesse  qualche  rapporto  col  primo,  benche 
il  rapporto  non  fosse  piu  di  suono,  ma  d'altra  qualita  diversa.  Suppongasi 
che  1'oggetto  che  fissa  1'attenzion  dell'uomo  il  quale  s'inizia  nella  loquela, 
sia  il  mare,  ch'io  adesso  chiamo  A,  ma  ch'egli  vorrebbe  denominar,  ne  sa 
come.  Sente  che  questo  coll'onde  manda  un  suono  simile  a  B,  egli  imita 
quel  suono,  e  chiama  appunto  BA  quell' oggetto  incognito.  Cosi  dicendo 
BA,  la  somiglianza  del  suono  B  gli  svegliera  1s idea  dell' oggetto  A.  Ma  il  ma 
re  ha  un  rapporto  coi  legni  marinareschi,  non  pero  in  qualita  di  sonoro  ma 
di  navigabile.  II  nostro  uomo  vede  un  naviglio,  e  osserva  il  suo  rapporto 
col  mare,  e  avendo  chiamato  questo  BA,  chiama  il  naviglio  BARC;  cosi 
la  nuova  articolazione  BARC,  derivata  dal  suono  primitive  BA,  serve  a  in- 
dicar  un  oggetto  che  ha  bensi  relazione  col  primo  A,  ma  non  gia  col  suono  B 
che  servi  a  denominarlo.  Vedi  la  nota  seguente  (C.). 


SAGGIO    SULLA   FILOSOFIA   DELLE   LINGUE  323 

scere  in  che  si  faccia  consistere  cotesta  relazione.  3.  Un  corpo  ha 
infinitamente  piu  rapporti  con  altri  corpi  anche  della  medesima 
specie,  di  quello  che  im  suono  coi  suoni  della  medesima  classe: 
quindi  le  derivazioni  dell'idee  devono  essere  superiori  senza  con- 
fronto  di  numero  alle  derivazioni  vocali;  quindi  una  sola  articola- 
zione  comprendera  sotto  di  se  molte  e  varie  significazioni  d'oggetti 
derivati  per  diverse  strade  dal  primo;  quindi  alfine  potendo  cia- 
scheduno  osservar  contemporaneamente  van  e  diversi  rapporti 
tra  un  corpo  stesso  ed  altri  molti  della  stessa  o  di  diversissima 
specie,  e  dinotando  pur  ciascheduno  questi  rapporti  diversi  colla 
stessa  o  con  similissima  derivazione  vocale,  ne  risultera  che  chi 
ascolta  o  non  verra  facilmente  ad  intendere  qual  sia  la  sostanza 
indicata  con  quel  derivato  vocabolo,  o  sostituira  volentieri  le  idee 
proprie  a  quelle  degli  altri,  supponendo  che  chi  parla  intenda 
con  quel  termine  d'indicar  lo  stesso  rapporto  da  cui  egli  fa  mag- 
giormente  colpito.  4.  Potendo  ciaschedun  oggetto  derivato  in  gra- 
zia  degli  anzidetti  rapporti  diventar  centro  di  molti,  e  questi  suc- 
cessivamente  d'altri  in  infinite,  ne  segue  che  i  vocaboli,  quanto  piu 
si  slontanano  dal  primo  termine  radicale,  piu  vanno  deviando  dal 
significato  di  esso,  e  procedono  desultoriamente1  e  trasversalmente 
d'idea  in  idea,  in  guisa  che  non  possono  risalire  alia  prima  se  non 
se  per  un  laberinto  d'obliquita,  di  cui  e  talora  assai  malagevole 
trovar  il  filo.2 

i.  desultoriamente'.  a  salti.  2.  *  Sarebbe  desiderabile  aver  alle  mani  un 
esempio  tratto  da  un  corpo  sonoro  che  potesse  render  pienamente  sensibili 
le  rinessioni  del  testo;  ma  I'immenso  deviamento  delle  lingue  dalla  prima 
origine,  e  1'infinito  mescolamento  e  intralciamento  delle  medesime  non 
permette  di  trovame  alcuno  di  questa  classe  che  sia  pienamente  aggiustato, 
Fortunatamente  pero  ne  trovo  uno  presso  il  de  Brosse  [Traite  de  la  for 
mation  mechanique  des  langues  ecc.,  ed.  cit.,  i,  p.  261]  abbastanza  ricco  e  fe- 
lice,  benche  tratto  non  da  oggetti  sonori,  ma  da  una  qualita  analoga  al 
suono.  E  questa  la  fissita  e  1'arrestamento,  a  rappresentar  il  quale  sembra 
indicata  dalla  natura  rarticolazione  st  formata  dalla  dentale  t  piu  stabile 
d'ogni  altra  lettera,  a  cui  la  s  aggiunge  un  impulso  di  forza.  Ecco  dunque 
qual  moltiplicita  d'oggetti  e  d'idee  analoghe  e  disparate  sia  compresa  sotto 
una  sola  articolazione  di  suono  pochissimo  diversificata.  St  articolazione 
radicale.  I  Latini  con  questo  suono  intimavano  arrestamento  e  silenzio. 
Statore,  nome  di  Giove  che  arresto  i  nemici.  Sto,  da  cui  stanza,  exto,  resto, 
adsto ;  e  constare  e  constantia ;  e  praesto  e  praestantia  e  substantia,  nei  quali 
nomi  1'idea  di  stabilita  materiale  e  quasi  perduta  di  vista.  Stabilis,  statuo, 
constituo,  e  quindi  statute  e  constituzione,  indicanti  una  stabilita  morale,  o 
destituo,  e  substituo,  e  prostituo  da  cui  prostituzione,  nei  quali  la  traccia  del 
primo  senso  e  quasi  afFogata  dagli  accessori.  Statua,  stqffa,  stabulum  o 
stalla ;  e  Stallone  e  stabbio,  « letame  »,  per  il  solo  rapporto  d'appartener  alia 


3^4  MELCHIORRE    CESAROTTI 

Malgrado  le  imperfezioni  di  questo  metodo,  e  certo  esser  que- 
sto  il  piu  naturale  d'ogni  altro,  poiche  di  questo  non  solo  nei  roz- 
zi  secoli,  ma  in  ogni  tempo  fecero  gli  uomini  uso  costante- 
mente  per  denominare  gli  oggetti  nuovi  e  le  nuove  combinazioni 
d'idee. 

IV.  Quattro  sono  le  operazioni  dello  spirito  sopra  i  vocaboli 
rispetto  a  questo  rappoxto :  la  traslazione,  la  composizione,  Pappo- 
sizione,  la  derivazione.  Se  un  oggetto  nuovo,  benche  di  divers  a 
specie,  mostrava  una  somiglianza  o  un'analogia  fortemente  sen- 
sibile  col  primo,  si  connotava  questo  rapporto  accomunando  lo 
stesso  nome  ad  ambi  gli  oggetti.  Se  una  sostanza  sembrava  parte- 
cipar  di  due  altre,  se  ne  formava  il  nome  coiraccoppiamento  dei 
due  rispettivi  vocaboli.  Se  il  nomenclatore  osservava  nel  tempo 
stesso  cio  che  in  un  oggetto  v'era  di  somigliante  e  cio  che  di  pro- 
prio,  si  apponevano  1'uno  alPaltro  separatamente  due  termini,  il 
primo  dei  quali  mostrava  la  somiglianza,  il  secondo  la  differenza 
caratteristica:  cosi  i  Romani  chiamarono  gli  elefanti  buoi  lucani> 
gli  Americani  denominarono  il  leone  gatto  grosso  e  malvagio,  e  gli 
Ottentoti  non  trovarono  miglior  modo  di  rappresentar  il  cavallo 
che  chiamandolo  asino  selvatico.  Se  finalmente  una  sostanza  o 
un'idea  aveva  una  qualche  specie  di  dipendenza  o  di  connessione 
con  un'altra  gia  nota,  s'indicava  colFinflettere  e  modificare  in  va- 
rie  guise  il  vocabolo  gia  destinato  a  dinotar  la  sostanza  a  cui  la 
nuova  per  qualche  punto  attenevasi. 

v.  Ecco  dunque  due  fonti  universali  dei  vocaboli  indicatici  dalla 
natura:  i.  rapporto  fra  oggetti  e  suoni;  2.  rapporto  tra  oggetto 
e  oggetto. 

Non  dee  per6  dissimularsi  esservi  anche  un  terzo  fonte  af- 
fatto  di  verso,  in  cui  la  natura  non  e  guidata  da  veruna  specie  di 
rapporto.  Fra  i  vari  membri  dell'organo  vocale,  alcuni  si  mettono 

stalla.  Stella,  stellione,  stellionato,  oggetti  disparatissimi.  Vedi  di  questi 
PP-333  e  34i-  Stereos  in  greco,  «  fermo »,  sternon,  il « petto ».  Stipite, « tronco  », 
estipite,  «ceppo  di  famiglia».  Stipula,  stipulazione,  stih  m  greco,  «colonna». 
Stirps,  «radice»  e  «schiatta».  Stupore,  stupido.  Noi  veggiamo  che  mentre 
Tidea  del  vocabolo  and6  divagando  per  una  infinita  d'oggetti,  il  vocabolo 
stesso  si  attiene  sempre  alia  prima  articolazione  radicale  st  appoggiata  sol- 
tanto  ai  cinque  suoni  vocali  sta,  ste,  sti,  sto,  stu.  Apphcando  ora  a  questo 
esempio  le  nflessioni  poste  di  sopra,  sara  facile  osservare  la  marcia  irrego- 
lar  dello  spirito  nell'associazione  e  derivazion  dell'idee,  e  la  tendenza  piu 
naturale  degli  uomini  nella  denominazion  degli  oggetti,  e  gl* inconvenient! 
inevitabili  di  questo  metodo  (C.). 


SAGGIO   SULLA   FILOSOFIA   DELLE   LINGUE  325 

in  movimento  con  piu  prontezza  e  facilita,  e  come  per  impulse 
spontaneo.  £  dunque  credibilissimo  die  gli  uomini,  nella  fretta 
di  dar  un  nome  a  qualche  oggetto  visibile  di  cui  non  iscorgevano 
ancora  verun  rapporto,  abbiano  o  mandato  fuora  un  suono  vo- 
cale  inarticolato,  per  cui  non  v'e  bisogno  che  d'aprir  la  bocca,  o 
proferito  una  qualche  articolazione  organica  emanata  da  quella  par- 
te  che  prima  delle  altre  metteva  in  gioco  il  suo  meccanismo.  Tali 
sono  in  Europa  le  labbra:  quindi  le  prime  articolazioni  dei  bam 
bini  sono  labiali,  e  quindi  sogliono  essi  naturalmente  chiamar 
pappa  il  cibo,  bobb  il  cavallo,  benche  queste  voci  non  abbiano 
veruna  specie  di  relazione  con  quegli  oggetti.1 

Collo  stesso  metodo  debbono  presso  tutti  i  popoli  essersi  co- 
niati  molti  vocaboli  che  accompagnati  dal  gesto  avranno  indicate 
abbastanza  il  senso  del  primo  nomenclatore.  £  pero  da  awertirsi 
che  questo  fonte  e  il  piu  scarso  d'ogni  altro,  e  questo  metodo, 
benche  a  prima  vista  il  piu  owio,  e  pero  non  solo  il  meno  confa- 
cente  allo  sviluppo  dello  spirito,  che  non  si  fa  adulto  se  non 
colTassociazion  dell'idee  risvegliata  dalPassociazion  dei  vocaboli, 
ma  insieme  anche  il  piu  ripugnante  alia  natura,  poich6  dai  primi 
secoli  della  coltura  sino  ai  presenti  non  fu  mai  che  alcun  uomo 
ne  colto  ne  rozzo  dinotasse  verun  oggetto  della  natura  o  dell'arte, 
veruna  idea  o  complessa  o  semplice  con  un  vocabolo  induTerente  e 
gratuito;  tanto  in  qualunque  operazion  dello  spirito  e  necessaria 
una  ragion  sufEciente  che  lo  determini. 

vi.  Checche  ne  sia,  troviamo  nella  natura  le  due  classi  di  voca 
boli  sopraccennate,  voglio  dire  i  termini-figure  e  i  termini-dire. 


i.  *De  Brosse  mostra  con  un  copiosissimo  e  curioso  catalogo  d'esempi  di 
tutte  le  lingue  cognite  che  presso  tutte  le  nazioni  del  mondo  i  termini  in- 
servienti  al  primo  linguaggio  dei  bambini,  come  padre,  madre,  poppa,  pop- 
pare  e  simili,  sono  tatti  espressi  colle  lettere  labiali,  o,  in  difetto  di  queste, 
colle  dentali,  come  appartenenti  a  quelle  parti  dell'organo  vocale  il  di  cui 
giuoco  e  piu  pronto  e  facile  a  mettersi  in  moto.  II  catalogo  del  de  Brosse 
e  tratto  dalla  relazione  del  filosofo  viaggiatore  sig.  de  La  Condamine  e  da 
quelle  di  vari  dotti  missionari  rapporto  alle  lingue  d*  America,  e  sopra  tutto 
dalla  traduzione  d&WOrazione  Domenicale  in  tutte  le  lingue  del  mondo  pub- 
blicata  dal  Chamberlain  (C.).  II  catalogo  del  de  Brosses  e  nel  Traits  de  la 
formation  mechanique  des  langues  ecc.,  ed.  cit.,  I,  pp.  231-8.  Charles  Marie  de 
La  Condamine  (1701-1774)  scrisse  varie  relazioni  intorno  ai  suoi  viaggi  nel- 
1' America  centrale.  L'erudito  inglese  John  Chamberlayne  pubblicd  la  sua 
traduzione  in  centocinquanta  lingue  dell'Oratio  dominica  ad  Amsterdam 
(1715)- 


3^6  MELCHIORRE    CESAROTTI 

I  prirni  dedotti  da  qualche  principio,  e  per  conseguenza  soggetti 
ad  esame  e  giudizio:  i  second!  affatto  insignificant!  e  arbitrari, 
e  percic-  non  suscettibili  di  veruna  qualificazione  di  lode  o  di  bia- 
simo.  Non  e  possibile  di  conoscer  al  presente  in  veruna  lingua 
quali  siano  i  vocaboli  originari  di  questa  classe,  ma  divengono 
tali  rispetto  a  noi  tutti  quelli  di  cui  non  si  conosce  la  derivazione, 
e  che  abusivamente  sogliono  prendersi  per  radical!,  benche  non 
lo  siano  se  non  rapporto  ad  altri  che  da  loro  derivano. 

Giovera  di  osservare  innanzi  di  terminar  questo  punto,  che  in 
questo  sviluppo  natural  della  lingua  si  scorge  indiviso  Puniforme 
dal  diverso,  il  sistematico  dalParbitrario.  L'uniformita  ed  il  s!- 
stema  e  posto  nel  metodo,  la  diversita  e  Parbitrio  nelPapplica- 
zione.  Poiche,  tralasciando  Tinfinita  varieta  nella  derivazion  del- 
Tidee,  primieramente  ciaschedun  membro  dell'organo  vocale  non 
ha  una  sola  articolazione  che  gli  appartenga,  ma  varie  affini  nate 
dalla  sua  varia  flessione  e  dal  vario  grado  d'impulso,  che  si  diver- 
sifica  piu  o  meno  in  ciascheduno  degl'individui  parlanti ;  poi  regna 
necessariamente  molto  d'arbitrio  nelPaccozzamento,  nelPordine  e 
nella  temperatura1  delle  consonant!  e  delle  vocali;  finalmente  i 
segni  arbitrari  della  derivazione  prefissi,  inseriti  o  posposti  modi- 
ficano  i  vocaboli  nati  dallo  stesso  fonte  in  cento  guise  diverse: 
dal  che  appunto  deriva  che  pochi  germi  della  medesima  specie 
propagano  colPandar  del  tempo  la  selva  immensa  ed  intralciatis- 
sima  delle  lingue.  Quindi  al  proposito  nostro  ricaveremo  che  ogni 
lingua  in  ognuno  dej  suoi  element!  ha  una  parte  materiale,  e 
Paltra  per  cosi  dire  animata;  questa  degna  delP esame  del  retori 
e  dei  filosofi,  quella  soggetto  soltanto  delPosservazione  e  del  regi- 
stro  dei  grammatici. 

vii.  Premesse  queste  teorie  necessarie,  verremo  a  dedurne  le 
conseguenze. 

Sara  la  prima  che  le  voci  insignificant!  non  hanno  in  veruna 
lingua  alcun  pregio  particolare,  ne  le  nostrali  o  le  latine  di  questa 
classe  possono  vantare  maggioranza2  sopra  quelle  degridiomi  piu 
rozzi ;  se  non  in  quanto  talora  il  caso  o  il  capriccio  attacca  a  qual 
che  termine  un'idea  gratuita  di  politezza  o  di  nobilta. 

Sara  1'altra  che  i  vocaboli  da  noi  chiamati  figure  hanno  due 


i.  temperatura'.  varia  e  graduata  mescolanza.     2.   maggioranza:  maggior 
pregio. 


SAGGIO    SULLA   FILOSOFIA  DELLE   LINGUE  327 

specie  di  bellezza  o  difettuosita,  secondo  il  doppio  rapporto  so- 
praccennato  degli  oggetti  col  suono  e  degli  oggetti  fra  loro. 

vui.  Quanto  al  primo  saranno  belli  e  pregevoli  que'  vocaboli 
che  colla  natura  e  Paccozzamento  de'  loro  element!  rappresentano 
piu  al  vivo  le  qualita  esterne  degli  oggetti  che  hanno  una  qualche 
analogia  diretta  o  indiretta  coll'organo  della  voce:  men  belli  o 
difettosi  saranno  quelli  che  o  non  esprimono  adeguatamente  que- 
sta  analogia,  o  fanno  una  discordanza  col  suono  dei  corpi.  Sotto 
questo  aspetto  sara  migliore  la  voce  stabilis  dei  Latini  che  il 
bebaeos  dei  Greci,  flumen  di  potamos^  serpens  di  ophis,  grus  molto 
piu  bello  di  gheranos.1  Cosi  Yacqua  italiano  e  il  vague  francese  che 
si  diguazzano  nella  bocca,  avranno  piu  pregio  che  hydor  e  cyma\ 
guerra,  liscio,  tromba  saranno  da  preferirsi  a  bellum,  glaber,  tuba\ 
schiantare  avra  quella  bellezza  espressiva  che  manca  ad  evellere, 
e  cosi  d'altri  simili.2 

Vi  sono  delle  metafore  anche  di  suono.  Per  un' arcana  armonia 
hawi  un  occulto  rapporto  tra  certe  qualita  deiranimo  e  '1  suon 
della  voce.  La  riflessione  dirigendo  Pistinto  coglie  quest' affinita, 
e  la  rappresenta  per  mezzo  della  combinazion  delle  lettere,  il  che 
porge  ai  vocaboli  una  nuova  e  piu  distinta  bellezza.  Orgoglioso, 
baldanzoso,  tracotante,  colle  vocali  piene,  rinfiancate  dalle  acconce 
consonanti,  e  colla  moltiplicita  delle  sillabe  spirano  una  certa  au- 
dacia  di  suono:  umile,  timido,  stupido  colla  loro  esilita  vocale 
corrispondono  alle  accennate  meschinita  dello  spirito.  Di  questo 
merito  sembra  dotata  la  voce  francese  flatter,  che  rappresenta  la 
lusinga  come  un  soffio  d'aura  piacevole  che  solletica  e  vezzeggia 
Porecchio. 

Quintiliano  non  mostra  d'aver  sentito  abbastanza  questo  pregio 
singolarissimo  delle  parole.  «Laudamus»  dic'egli  «verba  bene  re 
bus  accomodata»;  ma  immediatamente  soggiunge:  «sola  est  quae 
notari  possit  vocalitas,  quae  su9covta  dicitur,  cuius  in  eo  delectus 
est,  ut  inter  duo  quae  idem  significant,  ac  tantundem  valent, 
quod  melius  sonat  malis  ».3  Con  cio  sembra  ch'egli  non  riconosca 


i.  stabilis  .  .  .  gheranos:  confronta  a  due  a  due  parole  latine  e  greche,  che  si- 
gnificano  rispettivamente:  stabile,  fiume,  serpente,  gru.  2.  II  francese 
vague  e  il  greco  cyma  significano  «onda»;  il  greco  hydor,  «acqua»;  bettumt 
glaber,  tuba,  evellere  sono  termini  latini  di  significato  rispettivamente  uguale 
a  quello  dei  termini  italiani  loro  opposti  dal  Cesarotti.  3.  Inst.  orat.,  I,  v,  3-4 
(« Lodiamo  le  parole  bene  appropriate  alle  cose.  La  sola  qualita  che  possa 


328  MELCHIORRE  CESAROTTI 

nelie  voci  altro  pregio  esterno  che  una  insignificante  e  materiale 
vocalita.  Ma  oltre  che  questa  non  puo  paragonarsi  colPaccozza- 
mento  imitativo  del  suoni,  da  cui  nella  prosa  non  meno  che  nella 
poesia  si  forma  1'armonia  pittoresca  ed  incantatrice  del  numero, 
deesi  anche  osservare:  i.  che  ogni  lingua  aborre  bensi  da  certe 
strutture  meccaniche,  ma  purche  queste  si  sfuggano,  non  vi  e 
nel  resto  alcun  suono  che  possa  dirsi  men  bello,  avendo  la  lin 
gua  ugualmente  bisogno  di  parole  sonanti  o  mute,  aspre  o  soavi, 
pesanti  o  agili,  ne  in  altro  essendo  mai  posto  il  loro  merito  fuor- 
che  nella  maggiore  o  minore  corrispondenza  coiroggetto  rappre- 
sentato,  cosicche  il  suono  piu  dissonante  fa  talora  una  consonanza 
piacevolissima ;  2.  che  questa  preconizzata  eufonia  e  spesso  capric- 
ciosa  e  fattizia.  «Scite»  dice  Cicerone  nell'Oratore  «maiores  no- 
stri  dixere  insipientem,  iniquum,  tricipitem)).1  lo  avrei  domandato 
ben  volentieri  al  gran  Tullio  in  che  stesse  mai  questo  «  scite  »,  e  se 
quando  gli  antichi  avesser  detto  insapientem,  inaequum,  tricapitem, 
le  sue  orecchie  non  vi  si  sarebbero  di  buon  grado  accomodate,  anzi 
non  avrebbero  trovato  barbaro  il  suono  contrario,  tanto  piu  perche 
discordava  dalla  sua  legittima  derivazione. 

Del  resto  a  proposito  di  questo  pregio  dei  termini  osservero  che 
avrebbe  gran  torto  chi  percio  rigettasse  come  spregevoli  tutti  quelli 
che  non  giungono  ad  una  tal  perfezione,  e  sfuggisse  affettatamente 
di  fame  uso,  perche  questi  possono  aver  pregi  piu  considerabili 
d'un'altra  specie,  come  vedremo  ben  tosto;  perche  non  sempre 
chi  scrive  vuole  ne  deve  dipingere,  bastando  assai  spesso  d'indi- 
care,  e  perche  finalmente  rarmonia  imitativa  non  dee  risultare 
da  ciascheduno  dei  termini,  ma  dalla  somma  totale  che  si  forma 
del  loro  reciproco  intrecciamento.  Sara  pero  sempre  vero  che, 
prendendo  ogni  parola  isolata,  ella  sara  per  questo  capo  tanto  piu 
bella  quanto  piu  mandera  un  suono  adeguato  alle  qualita  della 
cosa  che  si  rappresenta. 

ix.  La  bellezza  o  Jl  difetto  delle  parole  spiccano  maggiormente 


notarsi  e  la  vocalita,  che  chiamano  "eufonia",  il  cui  criterio  di  scelta  con- 
siste  nel  prefenre  fra  due  voci  di  uguale  signincato  e  valore  quella  che 
suona  meglio »).  Ma  gli  editori  moderni  di  Quintiliano  pongono  «  velut »  da- 
vanti  a  vocalitas.  i.  II  passo  di  Cicerone,  Or.,  XLVIII,  159,  suona  esatta- 
mente  cosi :  «  Quid,  in  verbis  iunctis  quam  scite  insipientem  non  insapientem, 
iniquum  non  inaequum,  tricipitem  non  tncapitem,  concisum  non  concaesuml  > 
(« Quanto  accortamente  [i  nostri  antenati  dissero]  insipientem^^  ecc.)- 


SAGGIO    SULLA   FILOSOFIA   DELLE   LINGUE  329 

nel  secondo  rapporto,  ch'e  quello  che  passa  tra  oggetto  e  oggetto. 
Tutti  i  termini  di  questa  specie  sono  tratti  dall'uno  di  questi  due 
fonti,  la  metafora  e  la  metonimia.  La  prima  segue  i  rapporti  di 
somiglianza,  Faltra  quelli  di  dipendenza  o  di  connessione  qualun- 
que  siasi.  Le  parole  che  si  riferiscono  alia  metafora  allettano  mag- 
giormente  Timmaginazione  a  cui  dipingono  un  oggetto  colle  sem- 
bianze  d'un  altro,  quelle  della  metonimia  appagano  Tintelletto 
coll'istruirlo  di  qualche  notizia  relativa  alia  natura,  alle  proprieta 
o  alia  storia  delPoggetto  stesso.  Quanto  piu  dunque  la  metafora  pre- 
sentera  una  somiglianza  vivace,  eminente,  adeguata,  piu  sara  bello  il 
termine  che  la  racchiude;  e  men  sarallo  all'opposto,  se  la  somi 
glianza  sara  languida,  oscura,  lontana,  ecclissata  da  altri  punti 
notabili  di  ^convenienza.  DalP altro  canto  avranno  maggior  pre- 
gio  intrinseco  quei  vocaboli  che  nella  loro  derivazione  da  un  altro 
contengono  una  specie  di  definizione  della  cosa,  o  la  dinotano 
da  una  proprieta  essenziale  o  da  un  accidente  luminoso  ed  insepa- 
rabile  o  da  un'idea  dominante  e  feconda  di  molte  altre  o  in  fine 
da  qualche  particolarita  propria,  inerente,  incomunicabile.  Quindi 
saran  piu  belli  i  termini  che  si  traggono  dalla  causa,  dall'effetto, 
dalla  forma,  dal  fine,  dalTuso,  dalla  connessione  prossima,  e  quelli 
ancora  piu  che  obbligandoci  ad  una  leggera  attenzione  ci  fanno 
con  un  picciolo  esercizio  di  spirito  scoprire  una  verita:  men  pre- 
gevoli  saranno  quei  che  si  deducono  dalla  materia,  dalPautore, 
dalla  causa  occasionale,  dal  paese:  difettosi  alfine  quei  che  derivano 
da  una  particolarita  accidentale  e  indifferente,  da  una  circostanza 
momentanea,  da  un  appicco  soverchiamente  lontano,  da  una  opi- 
nione  falsa,  da  una  qualita  comune  e  generica.  Meritano  il  vanto 
quei  termini  che  riuniscono  i  pregi  d'ambedue  le  specie,  vale  a  di 
re  che  ci  presentano  una  verita  in  una  immagine.  Nulla  di  piu 
felice  in  questo  genere  della  greca  voce  psiche,  «farfalla»,  applicata 
alPanima  nel  senso  appunto  che  fu  espresso  divinamente  dal  nostro 
Dante : 

non  v'accorgete  voi  che  not  siam  vermi 
noli  a  formar  I* angelica  farf alia?1 

x.  Tutte  le  idee  e  le  operazioni  spirituali,  tratte  necessaria- 
mente  dal  corpo,  sono  metafore  piu  o  men  belle,  secondo  i  gradi 

i.  Purg.,  x,  124-5. 


330  MELCHIORRE    CESAROTTI 

della  lor  convenienza  e  chiarezza.1  Bellissime  sono  le  voci  delibe- 
rare,  «star  in  bilancia»,  pensare,  cioe  «pesar  le  ragioni»,  rifiettere, 
come  a  dir  « ripiegarsi  e  reagire  sopra  gli  oggetti  o  le  idee  che  ci 
colpiscono».  Felici  son  pure  le  denominazioni  delle  qualita  del- 
1'animo  tratte  dagli  oggetti  fisici  e  dalle  loro  proprieta.  Rivali, 
che  val  propriamente  «uomini  che  gareggiano  per  1'uso  dello 
stesso  fiume)),  si  disse  egregiamente  di  due  che  contendono  per 
dissetarsi  ad  una  fonte  d'un'altra  specie,  espressione  che  divenne 
men  bella  quando  si  dilato  ad  oggetti  che  non  hanno  una  somi- 
glianza  cosi  marcata  col  primo  senso.  Inclinazione  mostra  bene  il 
pendio  dell'animo  verso  una  cosa;  modestia  dinota  misura  in 
ogni  genere ;  scrupolo  la  smania  cagionata  da  un  sassolino  che  pre- 
me  un  piede;  tribolazione  ci  fa  sentir  le  spine  che  pungono  il 
cuore;  coquetterie  rappresenta  al  vivo  il  carattere  d'una  donna  ga- 
lante  che  tiene  a  bada  molti  amanti,  a  guisa  d'un  gallo  che  vez- 
zeggia  cento  galline  ad  un  tempo,  dal  qual  termine  va  poco  lungi 
Taltro  italiano,  non  men  felice,  civetteria.2 

Ma  non  so  se  possa  lodarsi  ugualmente  la  metafora  dei  Latini 
congruere,  ch'e  quanto  a  dir  grueggiare,  per  «andar  djaccordo»,3 
o  Taltra  concilium,  «  radunanza  di  popolo  »,  tratta  da  condliare,  voce 
dei  tintori  che  fissano  i  panni,4  col  qual  rapporto  bensi  fu  esso 
verbo  impiegato  con  felice  traslazione  da  Lucrezio  in  quei  versi: 

omnia  quae  sursum  cum  concihantur  in  alto, 
corpore  concrete,  subtexunt  nubila  caelum.5 

XL  Venendo  alle  derivazioni,  il  nome  della  divinita  presso  di 
noi  non  parla  ne  all'intelletto,  ne  al  cuore:  presso  i  Greci,  signi- 
ficando  o  «corrente»  o  « spettacoloso »,  sembrava  indicare  il  culto 
degli  astri.6  II  Tien  dei  Cinesi,  nome  del  cielo  materiale,  procac- 
cio  loro  la  taccia  bene  o  mal  fondata  d'ateismo.  Presso  gli  Ebrei 


i.  [De  Brosses],  Form.  mech.  des  lang.,  [ed.  cit.,  i,  p.  270],  C.  2.  Scrupolo 
denva  infatti  dal  latino  scrupulus,  « sassolino » ;  tribolazione,  dal  latino  tri- 
bulus,  «spino»;  il  francese  coquetterie,  da  coq,  « gallo ».  3.  Di  congruere  il 
Cesarotti  accoglie  Tetimologia  di  Festo,  ma  ora  si  fa  denvare  la  parola 
da  cum  -f-  mere.  4.  L/etimologia  di  concilium  accolta  dal  Cesarotti  e  quella 
varroniana ;  ora  il  termine  viene  ricondotto  a  cum  +  calare  o  ad  altra  ori- 
gine.  5.  De  rer.  not,,  v,  465-6  («  quando  tutti  questi  atomi,  innalzatisi,  si 
uniscono  addensandosi,  allora  le  nubi  oscurano  il  cielo  »).  6.  presso  .  .  . 
astri:  allude  alia  voce  greca  -8-e6?,  «dio»,  di  cui  per6  gli  studiosi  moderni 
propongono  etimologie  diverse  da  quelle  accolte  dal  Cesarotti. 


SAGGIO    SULLA   FILOSOFIA  DELLE  LINGUE  331 

soltanto  ebbe  Dio  un  nome  degno  di  se  nella  voce  arcana  Jehova, 
che  dinota  1'Ente  per  eccellenza.  £  un  poj  strano  pero  che  gli  Ebrei 
si  servissero  comunemente  dell'altro  nome  Eloim>  che  sembra 
puzzar  di  politeismo.1  Gli  altri  orientali  denominarono  anch'essi 
Dio  dalla  potenza  o  dal  terrore.  E  qui  giovera  di  osservare  che  sa- 
rebbe  altamente  desiderabile  che  Dio  presso  tutti  i  popoli  avesse 
sortito  il  nome  da'  suoi  attributi  metafisici.  L'Eterno,  Pliifinito,  lo 
Stante-per-se,  la  Causa-prima,  e  simili,  essendo  titoli  coessenziali 
a  Dio  e  incomunicabili,  avrebbero  date  idee  piu  pure  della  natura 
divina;  laddove  gli  altri  vocaboli  che  vagliono  tutti  «forte»,  «ec- 
celso»,  «grande»,  «potente»,  «terribile»,  potendo  cader  anche 
sulPuomo,  possono  forse  aver,  se  non  generata,  almeno  mantenuta 
Tidolatria.  Relativamente  agli  uomini  miglior  degli  altri  e  il  nome 
tedesco  di  Dio,  Gott,  che  ce  lo  rappresenta  colP  attribute  adorabile 
della  bonta.2 

Religio  dei  Latini,  derivata  da  religare,  porta  seco  idee  di  timore 
e  di  scrupolo :  il  che  fu  espresso  da  Lucrezio  con  una  traslazione 
tanto  felice,  quanto  il  sentimento  n'e  detestabile: 

et  arctis 
religionum  animos  nodis  exsolvere  pergo.3 

Meglio  sarebbesi  ella  denominata  amor-di-Dio,  e  migliore  in 
questo  senso  e  la  nostra  voce  pietd,  anche  perche  coll'altro  senso 
di  compassione  ci  dinota  che  il  soccorrer  alle  miserie  degli  uomini 
e  un  atto  principalissimo  di  religione. 

Arete  e  virtus  portavano  presso  i  Greci  e  i  Latini  Pidea  di  forza. 
Quanto  meglio  sarebbesi  ella  denominata  filantropia,  umanital 
Con  questo  nome  non  si  sarebbe  dagli  antichi  eretto  in  virtu  il  fu 
ror  patriottico  o  lo  spirito  di  conquista,  ne  il  Machiavello  avrebbe 
rovesciate  tutte  le  idee  morali,  chiamando  virtuoso  un  Cesare 

i.  *Da  questa  osservazione  principalmente  trae  il  Clerc  argomento  di  cre 
dere  che  la  lingua  ebraica  non  fosse  altro  che  quella  dei  Palestine  Del  resto 
e  credibile  che  avendo  gli  Ebrei  un  sacro  ribrezzo  nel  proferire  il  nome  mi- 
sterioso  di  Jehova,  abbiano  santificato  il  nome  profano  di  Eloim,  dando  alia 
terminazione  plurale  un  senso  d'unicita  enfatica,  come  a  dire  «il  Dio  sopra 
tutti  gli  Dei»,  «il  Dio  che  val  solo  tutti  gli  Dei»,  espressioni  che  s'mcon- 
trano  assai  spesso  nei  testi  biblici  (C.)-  Jean  Clerc  (1657-1736).  teologo  gi- 
nevrino,  e  autore,  fra  1' altro,  di  un  commento  latino  della  Bibbia.  2.  Assi- 
mila  Go«,  «Dio»,  a  gut,  «buono»  o  «bene».  3.  Cfr.  De  rer.  not.,  I,  931-2 
(«e  continue  a  liberare  gli  animi  dagli  stretti  nodi  della  superstizione»). 


332  MELCHIORRE  CESAROTTI 

Borgia.  Solo  le  nostre  ninfe  di  teatro1  potrebbero  ancora  con- 
servar  un  equivalente  al  loro  titolo  di  virtuose  chiamandosi  uma- 
nissime. 

Astutia  e  urbanitas  sono  derivate  da  due  nomi  diversi  del  mede- 
simo  senso,  astu  ed  urbs,  e  significano  propriamente  costume  cit- 
tadmesco:  denominazione  felicissima,  perche  ci  dinota  che  gli 
uomini,  prima  semplici  e  rozzi  nelle  ville,  ragunatisi  nelle  citta 
acquistarono  ad  un  tempo  e  politezza  e  malizia. 

La  verita,  insignificante  tra  noi,  ha  fra  i  Greci  un  nome  insigne, 
alethla,  vale  a  dir  «  che  non  puo  star  nascosta ». 

All'incontro  la  voce  latina  ambitio  non  ha  niente  che  corri- 
sponda  ne  in  buona  ne  in  cattiva  parte  a  questa  qualita  deH'animo, 
perche  tratta  dalFatto  materiale  e  generico  dell'andar  attorno,  am- 
bire,  come  facevasi  nel  brigar  gli  onori ;  cosicche  per  se  stessa  de- 
sterebbe  qualunque  senso  innanzi  che  '1  vero. 

Opportuna  ai  Latini,  non  pero  in  se  stessa  bellissima,  era  Paltra 
candidatuS)  dall'imbiancatura  che  facevasi  colla  creta  alia  toga  dei 
concorrenti  agli  ufizi;  circostanza  particolar  dei  Romani,  e  che 
non  e  punto  connessa  coll'oggetto.  Persio  dall'accozzamento  di 
queste  due  voci  trasse  un'espressione  felicissima,  che  unisce  la 
vivacita  alia  convenienza:  «quos  ducit  hiantes  cretata  ambitio  ».2 

Tra  i  vocaboli  che  dinotano  Punione  legittima  della  donna  e 
delPuomo,  la  nostra  voce  maritaggio  e  insignificante,  la  latina 
nuptiae,  tratta  dal  velo  di  cui  le  spose  si  coprivano,  non  da  veruna 
idea  della  cosa.  Migliore  e  matrimonio,  che  indica  il  fine  di  render 
madre  la  femmina.  Ma  insigne,  perfetta  e  doppiamente  bellissima 
e  1'altra  voce  dei  Latini  coniugium,  che  ci  rappresenta  due  persone 
accoppiate  insieme  con  un  solo  nodo  per  vivere  in  pace  e  in  con- 
cordia,  aiutandosi  scambievolmente  a  portar  i  pesi  della  vita  so- 
ciale,  come  una  coppia  di  buoi  arnica,  laboriosa  e  pacifica,  dividen- 
do  il  peso  del  suo  giogo,  coopera  alia  fecondazion  della  terra. 

Ma  non  puo  lodarsi  in  verun  modo  il  termine  pontifex,  che  in 
luogo  di  spiegare  gli  ufizi  intrinseci  d'un  capo  della  religione, 
non  si  riferisce  che  ad  uno  accidentalissimo  e  per  niun  conto 
connesso  col  suo  carattere,  qual  fu  quello  di  presiedere  alia  fab- 

i.  ninfe  di  teatro \  le  cantanti  cTopera  lirica.  2.  II  passo  di  Persio,  Sat.,  v, 
176-7,  suona  esattamente  cosi:  «Ius  habet  ille  sui  palpo,  quern  tollit  hian- 
t em  /  cretata  ambitio  ?»  (« Quell'  adulatore,  che  1'ambizione  di  candidate 
rende  bramosamente  agitato,  e  forse  padrone  di  se? »). 


SAGGIO    SULLA  FILOSOFIA  DELLE   LINGUE  333 

brica  del  ponte  Sublicio.  Cosi  1'altro,  signum,  e  troppo  generico 
per  indicar  una  costellazione.  La  quin-quina,1  che  conserva  fra  noi 
il  suo  nome  originario,  ne  ha  uno  piu  bello  in  tedesco  che  ne 
spiega  1'uso  e  la  proprieta,  Fieberrinde,  ccscorza  della  febbre».2 

Fra  le  derivazioni  fondate  sopra  supposizioni  vane,  e  sopra 
rapporti  oscuri  e  sforzati,  parmi  curiosa  quella  dei  legist!  romani, 
a  cui  piacque  di  denominare  stellionato  un  contratto  fraudolento 
con  cui  Tizio  vende  a  Sempronio  una  cosa  non  sua,  o  venduta 
prima  ad  un  altro;  deducendo  un  tal  nome  dalla  tarantola,  detta 
in  latino  steltio,  e  cio  perche  questo  animate  invidioso  e  maligno, 
ma  dotto  di  storia  naturale,  sapendo  che  la  sua  pelle  e  un  gran  ri- 
medio  contro  il  mal  caduco,  la  si  divora  perche  non  serva  agli 
usi  dell'uomo.  Non  saprei  dire  se  sia  piu  grande  la  malizia  della 
tarantola  o  quella  dei  legisti  nomenclatori  che  ci  vollero  dar  la 
tortura  con  un  rapporto  cosi  recondito. 

Le  voci  terra  e  mare  al  presente  sono  puri  segni  indifferenti ;  ma 
se  dovesse  darsi  il  nome  al  primo  di  questi  elementi,  sarebbe  me- 
glio  il  chiamarla/<?£0wJ#,  o  tutto-madre,  come  la  denomina  Eschilo,3 
di  quello  che  salda,  o  rotonda.  o  anche  arida,  come  si  dice  in 
ebraico:  nome  che  non  poteva  esser  buono  se  non  col  rapporto 
alle  acque  del  caos  da  cui  era  dianzi  ingombrata,  o  a  quelle  del 
diluvio  da  cui  usciva:  cosi  il  mare  sarebbe  meglio  detto  namgabile^ 
o  abbraccia-terra,  che  sale,  come  lo  chiamarono  i  Greci  e  i  Latini.4 

xii.  Abbiam  gia  detto  come  un  vocabolo  e  spesso  carico  di  vari 
significati  diversi.  Tuttoche  questa  moltiplicita  possa  produrre 
oscurita,  errori  ed  equivoci,  ella  puo  altresi  avere  un  pregio  di- 
stinto,  e  generare  insieme  diletto  ed  utilita,  qualora  i  sensi  della 
parola  siano  cosi  fra  loro  connessi,  o  abbiano  un  cosi  felice  rapporto, 
che  1'uno  svegliando  1' altro,  s'illustrino  a  vicenda,  e  ci  facciano 
scoprire  qualche  verita  di  ragionamento  o  di  fatto. 

In  tal  senso  parmi  bello  il  doppio  significato  della  voce  greca 
anaestesia,  che  vale  ugualmente  «stupidezza»  e  «tracotanza»,  dal 

i.  quin-quina:  la  china.  2.  Michaelis,  Dissertation]  stir  Vinfl[uence]  re- 
cipr[oque]  des  opinions]  el  des  lang[ues],  C.  Quest'opera  di  Johann  David 
Michaelis  (1717-1791),  file-logo  orientalista  tedesco,  vinse  nel  1749  il  con- 
corso  bandito  suH'argoinento  dall'Accademia  di  Berlino,  e  fu  pubblicata, 
nella  traduzione  francese  del  Menan,  a  Brema,  nel  1762.  6  una  delle  prin- 
cipali  fonti  teoriche  del  Saggio  cesarottiano.  3.  come  . . .  Eschilo :  nel  Prom., 
90:  7ra£Z[i.7)TGdp.  4.  coTHB  .  .  .  Latini :  «mare»  si  dice  in  greco  0X5,  in  la 
tino  sal  (che  pero  e  voce  poetica). 


334  MELCHIORRE  CESAROTTI 

die  osserviamo  che  molti  non  per  altro  sono  bnitali  e  insolent!, 
se  non  perche  la  loro  stupidezza  non  permette  loro  di  conoscere  la 
propria  inferiorita  o  le  leggi  dei  riguardi  sociali.  Poco  dissimile  di 
pregio  e  di  senso  e  Faltra  voce  analgesia,  che  vale  «mdolenza»  e 
« stupidezza»,  con  che  ci  mostra  che  Tuna  di  esse  e  reciproca- 
mente  causa  dell'altra,  e  che  il  talento  e  Pindustria  sono  figli  della 
sensibilita  punta  dal  bisogno,  ch'e  un  dolore  incoato.1  II  verbo 
ebraico  halal,  che  vale  «lodare»  e  « ammattire »,  c'insegna  que- 
sta  verita,  che  nulla  piu  giova  a  sconvolger  lo  spirito  quanto  la 
lode  caricata  ed  adulatoria. 

Ma  non  puo  darsi  una  connessione  e  progressione  di  sensi  piu 
bella  e  piu  filosofica  di  quella  che  si  trova  nella  voce  greca  nomos, 
con  cui  si  dinotano  ad  un  tempo  cinque  cose  affatto  diverse, 
«pascolo»,  «ripartimentO)),  «armonia)),  (degge))  e  « matrimonio ». 
Questa  sola  parola  c'istruisce  che  gli  uomini  prima  pastori  divisero  i 
pascoli  comuni,  e  gli  ripartirono  equabilmente :  questo  riparti- 
mento,  producendo  il  tuo  e  '1  mio,  introdusse  le  leggi  per  custo- 
dirlo:  dal  ripartimento  dei  beni  sociali,  protetto  dalle  leggi,  ri- 
sult6  Parmonia  della  societa,  come  Parmonia  della  musica  nasce 
dal  ripartimento  proporzionato  dei  suoni:  effetto  utilissimo  di 
queste  leggi  e  il  sancir  colla  propria  autorita  Paccoppiamento  fra 
due  persone  de?  due  sessi,  e  formarne  sotto  certi  riti  un  con- 
tratto  pubblico,  di  cui  la  legge  stessa  e  garante.  Ecco  un  trattato 
di  ius  naturale  e  civile  racchiuso  in  un  termine. 

Abbiamo  recati  esempi  di  omonimie  felicissime  fondate  sopra 
rapporti  veri  e  non  difficili  a  scoprirsi;  ma  sarebbe  curioso  a  sa- 
persi  qual  rapporto  trovassero  gli  antichi  Latini  tra  il  brodo  e  la 
leggej  Per  dinotar  ambedue  queste  idee  con  un  solo  termine  ius.2 
Ne  molto  piu  agevole  e  lo  scoprir  prontamente  il  rapporto  che 
passa  tra  un  argomento  e  un  cristero,3  come  lo  scopersero  tosto 
i  venerabili  padri  della  nostra  lingua,  che  dinotarono  collo  stes- 
so  vocabolo  Poperazione  d'un  dialettico  e  quella  d'uno  speziale, 
forse  colPidea  espressa  posteriormente  dal  Berni,  parlando  d'Ari- 
stotele : 


i.  il  talento  .  .  .  incoato:  concetto  tipico  della  filosofia  sensistica,  e  che  risale 
al  Locke.  2.  ma  sarebbe..  .tus:  in  realtk  ius,  « brodo »,  e  ius,  a  legge », 
hanno  etimologia  del  tutto  diversa.  3.  cristero:  clistere. 


SAGGIO    SULLA   FILOSOFIA   DELLE   LINGUE  335 

Ti  fa  con  tanta  grazia  un  argomento, 
che  te  lo  senti  andar  per  la  persona 
sino  al  cervello,  e  rimanervi  drento.1 

xiii.  La  materia  dei  vocaboli  e  feconda  d'altre  osservazioni  re 
lative  alia  lingua:  andro  notandone  le  principali. 

1.  I  termini  oltre  il  senso  diretto  ne  hanno  spesso  un  altro 
accessorio  di  favore  o  disfavore,  d' appro  vazione  o  di  biasimo: 
questo  secondo  senso  ora  e  intrinseco,  ed  ora  estraneo.  Intrinseco 
quando  risulta  dalla  derivazione  originaria  del  termine;  estraneo 
quando  le  viene  appiccato  dall'uso  o  dal  capriccio  degli  ascoltanti. 
L'accessorio  intrinseco  non  pu6  cancellarsi  se  non  si  cancella  1'e- 
timologia  del  vocabolo,  ma  Pestraneo  puo  abolirsi  o  quando  il 
vocabolo  passa  da  una  nazione  alTaltra,  o  anche  nella  nazione 
stessa  col  progresso  del  tempo;  e  talora  uno  scrittore  riabilita  Te 
nor  d'un  termine,  usandolo  con  desterita  e  collocandolo  acconcia- 
mente.  II  senso  accessorio  e  quello  che  distingue  fra  loro  le  voci 
sinonime,  e  la  conoscenza  di  questo  doppio  senso  e  una  parte 
essenziale  del  gusto. 

2.  La  moltiplicita  dei  significati  d'un  termine  e  o  simultanea 
o  successiva.  I  termini  peregrinando  da  un  senso  all' altro  giun- 
gono  talora  ad  un  punto  non  sol  diverso,  ma  pressoche  opposto 
a  quello  della  loro  origine,  e  cio  con  alternative  or  di  vantaggio 
or  di  scapito. 

3.  II  significato  dei  vocaboli  si  dilata  e  restringe  a  vicenda.  I 
termini  dapprima  individuali  diventano  a  poco  a  poco  generici; 
o  dopo  aver  errato  pel  genere  discendono  alia  specie,  e  s'arrestano 
nuovamente  nelFindividuo.  Animate  e  la  denominazione  delle 
bestie,  pontum  dinota  il  mare  in  generale,  e  la  voce  generica 
aequor  e  discesa  a  indicare  unicamente  la  pianura  marittima.  Gli 
Assassini,  popolazione  dell' Asia,  i  Ribaldi,  specie  di  milizia,  son 
passati  a  caratterizzar  collettivamente  tutti  i  malfattori  e  i  sicari. 
Questi  passaggi  alterano  il  valor  delle  parole,  e  ne  diversificano 
Peffetto. 

4.  I  vocaboli  soggiacciono  ad  una  successiva  e  perpetua  meta- 
morfosi  di  propri  in  traslati,  di  traslati  in  propri;  nella  qual  tra- 
smigrazione  so  d'aver  mostrato  in  altro  luogo2  che  passano  per 

i.  Capitolo  In  lode  di  Aristotele,   34-6.      2.   Opere  di  Demostfene],  t. 
vi,  osserv[azione]   i  alia  Filipp.  II  (C.).  Cfr.   Opere,  xxvm,  pp.  151-62, 


336  MELCHIORRE  CESAROTTI 

tre  stati:  d'immagine,  d'indizio  e  di  segno;  secondo  che  la  metafo- 
ra  o  conserva  la  sua  freschezza  e  vivacita,  o  sfiorisce  a  poco  a  poco, 
o  viene  in  tutto  a  logorarsi  ed  a  spegnersi.  Cosi  nella  lingua  tutto  e 
alternamente  figura  e  cifra.  Questo  cangiamento  e  per6  utile  e 
necessario;  poiche  essendo  i  termini  per  la  piu  parte,  come  ab- 
biam  mostrato  di  sopra,  originariamente  traslati,  se  quest!  con- 
servassero  sempre  la  loro  doppia  sembianza,  lo  spirito  nell'ascol- 
tare  o  nel  leggere  resterebbe  stanco,  abbagliato  e  confuso  da 
una  folia  d'immagini  assai  spesso  incoerenti  e  contradittorie : 
laddove  essendosi  per  tal  guisa  introdotta  nel  linguaggio  una 
serie  di  termini  propri,  lo  scrittore  puo  far  scelta  di  quelli  che 
corrispondono  meglio  al  suo  soggetto  e  al  suo  fine:  le  voci  proprie 
servono  come  di  chiave  alle  figurate,  le  figurate  comunicano  il 
loro  lume  alle  proprie:  cosi  per  una  felice  mescolanza  s'aiutano 
reciprocamente  Pimmaginazione  e  lo  spirito. 

5.  Similmente  i  termini  derivativi  e  metonimici  ritornano  sem- 
plici  caratteri  qualora  vengono  a  perder  le  tracce  della  loro  deri- 
vazione,  o  perche  passarono  da  una  lingua  all'altra  scompagnati 
dal  primitivo  da  cui  derivano,  o  perche  la  cattiva  pronunzia  al- 
tero  in  essi  qualche  elemento  radical  della  voce,  o  perche  alfine  il 
tempo  logoro  la  memoria  di  quell'idea,  usanza,  particolarita  che 
diresse  il  primo  nomenclator  del  vocabolo.  Nel  mentovato  pas- 
saggio  d'ambedue  le  specie  di  termini  appassiscono  i  belli  e  i 
disacconci  migliorano,  coprendo  la  sconvenienza  originaria  sotto 
una  cifra  indifferente. 

6.  I  vocaboli  invecchiano  per  alcuna  delle  anzidette  ragioni,  per 
la  soprawenienza  d'altri  migliori,  per  la  rivoluzion  deiridee  che 
rende  piu  familiari  nuove  allusioni,  per  la  maggior  delicatezza  e 
talora  fastidiosita  delTorecchio,  per  il  reciproco  commercio  dei 
popoli,  per  Tautorita  di  qualche  scrittore  accreditato  che  inalzo  un 
qualche  vocabolo  sulle  rovine  d'un  altro,  finalmente  per  la  semplice 
sazievolezza  dell'uso  e  per  capricciosa  vaghezza  di  novita. 

Da  tutte  queste  osservazioni  fluisce  per  necessaria  conseguenza 
una  verita  non  osservata,  che  la  lingua  in  capo  a  qualche  secolo,  an- 
che  conservando  intatta  la  sua  forma  esterna,  diviene  per6  in- 
trinsecamente  ed  essenziaknente  diversa  nel  valore,  nel  color, 
nelTeffetto. 

dove  sono  svolte  anche  altre  idee  accennate  in  questo  paragrafo  e  nel 
seguente. 


SAGGIO    SULLA   FILOSOFIA  DELLE   LINGUE  337 

xiv.  Quindi  ne  seguono  alcuni  corollari  importanti  per  chi  ama 
di  filosofar  nelle  lettere. 

1.  Da   cio   si  rileva  Testrema  difficolta  di  giudicar  adeguata- 
mente  delle  opere  scritte  in  una  lingua  morta  o  straniera,  riu- 
scendo  spesso  impossibile  di  conoscer  con  precisione  qual  fos 
se  allora  lo  stato  attuale  e  individual  dei  vocaboli,  quale  il  senso 
accessorio  predominante,  se  i  colori  delle  metafore  fossero  viva- 
ci  o  sfumati,  e  se  le  voci  derivative  conservassero  1'impronta  ori- 
ginaria,  o  se  questa  fosse  gia  corrosa  dall'uso  e  ridotta  a  segno 
indistinto. 

2.  Questa  teoria  ci  presenta  la  soluzione  di  due  fenomeni,  in 
apparenza  contradittorii,  che  hanno  luogo  nei  nostri  giudizi  intorno 
gli  autori  classici:  1'uno,  che  molti  luoghi  delle  loro  opere  ci  sem- 
brano  appena  mediocri,  che  pur  sappiamo  aver  destato  negli  an- 
tichi  arnmirazione  ed  applauso:  Paltro,   che  spesso  troviamo  in 
essi  ammirabile  e  trascendente  cio  che  forse  i  contemporanei  tro- 
vavano  comune,  e  talor  anche  difettoso  o  disadatto;  come  sap 
piamo  aver  gli  antichi  trovata  la  « patavinita »  in  Livio1  e  il  «pin- 
gue  e  peregrino»  nei  poeti  di  Cordova,2  e  qualcheduno  anche  in 
Cicerone3  medesimo.  Poiche  per  Tuna  parte  gli  antichi,  conoscen- 
do  piu  intimamente  il  valor  dei  loro  vocaboli,  doveano  spesso 
gustar  un'occulta  allusione,  ove  noi  non  ne  scorgiamo  pur  Tom- 
bra,  e  rawisar  un'immagine  ove  noi  non  osserviamo  che  un  cenno ; 
dalPaltra,  facendoci  noi  uno  studio  ponderato  dell'opere  degli  an 
tichi,  qualora  i  termini  ci  presentano  un'etimologia  nota  o  una 
traslazione  sensibile,  crediamo  volentieri  che  quei  vocaboli  aves- 
sero  sempre  quelFenfasi  che  ci  troviamo  noi  stessi,  quando  forse 
elPera  in  tutto  o  in  parte  svanita ;  ne  sappiamo  inoltre  dubitare  che 
quelPespressioni  non  fossero  sempre  le  piu  aggiustate  e  felici, 
quando  per  awentura  i  lor  coetanei  dovevano  trovarne  piu  d'una 
di  strana,  disadatta  ed  audace.  Cosi  veggiamo  che  Eschine  chia- 

i.in  Livio:  cfr.  Quintiliano,  Inst.  orat.,  I,  v,  56,  dove  e  riferita  la  testi- 
monianza  di  Asinio  Pollione.  2.  nei  poeti  di  Cordova:  cfr.  Cicerone,  Pro 
Arch.,  10.  3.  «Rufus  qui  toties  Ciceronem  allobroga  dixit»,  Iuven[alls: 
cfr.  Sat.,  vn,  214,  «Rufo  che  tante  volte  chiamo  allobrogo  Cicerone »; 
ma  gli  editori  moderni  leggono:  «Rufum,  quern,  totiens  Ciceronem  allo 
broga  dixit»].  Sara  questa  una  calunnia,  ma  pure  doveva  avere  un  qualche 
fondamento,  almen  d'apparenza.  Chi  di  noi  saprebbe  dire  ove  stesse? 
Inoltre  Cicerone  alia  fazione  degli  atticisti,  e  forse  a  Bruto  stesso,  non  sem- 
brava  abbastanza  puro  (C.). 


MELCHIORRE   CESAROTTI 

ma  ccspauracchi))  e  «mostri»J  alcune  frasi  di  Demostene,  che  a  noi 
sembrano  vivaci  ed  energiche. 

3.  Quindi  pure  venghiamo  ad  intendere  come  accada  che  fra 
gli  scrittori  nostrali,  quelli  specialmente  che  si  distinguono  per 
sceltezza  ed  ornamenti  di  lingua,  molti  ci  colpiscano  al  vivo  e  ci 
sembrino  pieni  di  grazie,  che  riescono  freddi  ed  insipidi  agli  stra- 
nieri  che  pure  intendono  la  nostra  lingua,  e  come  poi  quegli  stessi 
in  capo  a  qualche  periodo  di  tempo  non  facciano  piu  nemmeno 
sul  nostro  spirito  la  stessa  impressione  di  prima,  in  guisa  che  ta- 
lora  siamo  tentati  di  ammirar  la  bonta  dei  nostri  maggiori  nelPam- 
mirarli  cotanto. 

4.  Finalmente,  quel  che  piu  importa,  viene  da  cio  a  dimo- 
strarsi  la  necessita  di  rinfrescar  di  tempo  in  tempo  il  colorito  della 
lingua  colPintrodur  nuovi  termini,  nuove  derivazioni  e  metafore, 
se  vogliamo  che  1'espressioni  siano  assortite  al  sentimento,  nel  che 
e  posta  tutta  la  bellezza  e  vivacita  dello  stile.  Questo  bisogno 
pero  non  e  sentito  al  vivo  che  da  due  classi  d'uomim,  i  ragionatori  e 
gli  appassionati :  i  primi  analizzando  piu  sottilmente  oggetti  ed  idee, 
e  colla  loro  chimica  intellettuale  sciogliendole  a  vicenda  e  ricom- 
ponendole,  e  formandone  or  gruppi  or  atomi,  trovano  scarsa  e  di- 
sadatta  la  lingua  per  dar  un  nome  adeguato  alia  popolazion  suc- 
cessiva  dei  loro  esseri  nozionali :  gli  altri  poi,  colpiti  profondamen- 
te  dagli  oggetti  della  loro  passione,  e  ingombri  di  sempre  nuovi 
fantasmi,  si  lagnano  di  non  trovar  nella  loro  lingua  se  non  colori 
svenuti2  e  logori,  e  d'esser  costretti  a  presentar  una  copia  langui- 
da  e  inanimata  del  quadro  che  il  cuore  dipinge  nella  loro  fantasia 
con  tratti  di  foco.  Perci6  quand'anche  volesse  fingersi  che  si  fossero 
gia  scoperti  e  denominati  tutti  gli  oggetti  possibili,  la  lingua  agli 
uomini  di  questa  specie  riuscirebbe  ancor  povera,  perche  il  frasa- 
rio  del  genio  e  del  sentimento  e  sempre  inesausto. 

xv.  Continuando  il  nostro  esame  sulle  parti  rettoriche  della  lin 
gua  faremo  un  cenno  delle  frasi.  Siccome  queste  constano  di  due 
termini,  Puno  dei  quali  modifica  o  determina  il  primo,  oppure 
riceve  1'azione  comunicata  dall'altro,  cosi  la  frase  dee  partecipar 
delle  qualita  dei  vocaboli  da  cui  e  composta.  Quindi  ci6  che  ab- 
biam  detto  dei  pregi  o  difetti  di  essi  pu6  bastare  per  le  frasi  me- 


i.  Oraz.  contro  Ctesifonte.  Vedi  Tosserv.  a  quel  luogo,  t.  vi,  Op.  di  Demost., 
p.  250,  ediz.  di  Padova  (C.)-     2.  svenuti:  sbiaditi. 


SAGGIO    SULLA   FILOSOFIA   DELLE   LINGUE  339 

desime:  quindi  le  frasi  formate  da  nomi  o  verbi  indifferent!  ser- 
viranno  bensi  all'uso,  non  pero  alFornamento  della  lingua,  ne  po- 
tranno  qualificarsi  per  bellezza  o  deformita,  come  le  altre  formate 
di  vocaboli  d'tm'altra  specie.  £  pero  da  osservarsi  che  la  frase  in 
forza  della  riunione  dei  termini  puo  anche  ricevere  un  altro  pregio 
distinto  da  quello  che  hanno  i  termini  stessi  presi  da  se.  Consiste 
questo  nel  contrasto  sia  del  nome  che  modifica  la  sostanza,  sia  del 
verbo  che  agisce  sopra  Foggetto.  Questo  contrasto  e  di  due  specie, 
contrasto  di  somiglianza  e  contrasto  di  riflessione.  Sitibondo  di 
sangue  presenta  un  contrasto  di  somiglianza:  uno  di  riflessione 
puo  scorgersi  nella  bella  frase  di  Cicerone  a  Cesare,  «tu  vincesti 
la  vittoria)).1  Perche  queste  frasi  sian  belle,  convien  che  il  loro 
contrasto  possa  conciliarsi  per  mezzo  o  delPanalogia  o  dell'analisL 
L'analogia  concilia  felicemente  il  primo,  poiche  sono  analoghi  tra 
loro  tanto  il  sangue  e  Facqua,  quanto  la  sete  e  il  desiderio  vio- 
lento:  il  secondo  e  conciliato  dalFanalisi,  poiche,  analizzando  le 
cause  della  guerra  e  gli  effetti  della  vittoria,  si  scorge  tosto  esser 
egregiamente  detto  che  vinca  la  vittoria  chi  trionfa  di  quelle  pas- 
sioni  che  sono  destate  e  fomentate  dalla  medesima.  AlFincontro 
il  celebre  «sudate,  o  fochi»2  delFAchillini  non  puo  conciliarsi  in 
verun  senso,  e  perci6  non  e  un  contrasto,  ma  una  contradizione 
nei  termini.  Cio  bastera  aver  toccato,  giacche  le  frasi  che  si  ricer- 
cano-  dagli  scrittori  appartengono  piuttosto  allo  stile  che  alia  lin 
gua.  Pure  la  lingua  stessa  ne  offre  da  se  molte  e  molte  rese  comuni 
dalFuso,  e  considerate  come  termini  semplici  e  propri,  le  quali  esa- 
minate  a  dovere  si  trovano  dedotte  dagli  accennati  principii,  e  percio 
possono  aver  pregio  o  biasimo,  secondo  la  lor  convenienza  o  stra- 
nezza.  Tal  e  la  frase  contadinesca  la  terra  va  in  mare,  usata  dai 
villani  senza  intenderci  mistero,  e  tale  sarebbe  il  gemmare  vites 
dei  Latini,  se  questa,  come  credea  Qmntiliano,3  fosse  una  vera 
metafora.  Ma  questo  ingegnoso  retore  prese  certamente  un  abbaglio, 
essendo  la  gemma  delle  vrti  termine  proprio,  perche  gli  uomini,  e 
molto  piu  i  Romani,  furono  prima  agricoltori  e  poi  ricchi;  e  le 
gemme  delle  viti  erano  conosciute  da  loro  molti  secoli  innanzi 


1.  Cfr.  Cicerone,  Pro  Marc.,  iv,   12:  «ipsam  victoriam  vicisse  videris». 

2.  Inizio  del  sonetto  indirizzato  dalFAchillini  a  Luigi  XIII  per  la  presa  di 
La  Rochelle  e  la  Hberazione  di  Casale.  Lo  citera  anche  il  Manzoni  nei 
Promessi  sposL     3.  Cfr.  Inst.  orat.,  vin,  vi,  4.  E  cfr.  anche  Cicerone,  De 
or  at.,  in,  xxxvn,  155. 


34°  MELCHIORRE    CESAROTTI 

che  quelle  del  monti.1  Bensi  eccellente  con  tal  parola  e  la  frase 
metaforica  di  Lucrezio  «herbae  gemmantes  rore  recent!  ».a 

xvi.  Al  fondo  material  della  lingua  appartengono  i  modi  pro- 
verbiali,  ossia  certe  frasi  contenenti  un  senso  allusivo  o  una  com- 
parazione  indiretta  o  in  generale  qualche  espressione  simbolica. 
Introdotti  questi  nei  discorsi  familiari  come  di  giurisdizione  co- 
mune,  e  registrati  ne'  vocabolari  dietro  Pesempio  di  qualche  clas- 
sico  scrittore,  sono  accolti  ben  volentieri  dagli  altri,  e  usati  indi- 
stintamente  per  buoni  come  si  fa  dei  vocaboli.  A  fine  pero  di  fissar 
con  qualche  maggior  esattezza  il  loro  pregio  legittimo,  osserveremo 
che  tutti  questi  modi  possono  dedursi  da  cinque  fonti:  natura, 
scienze,  arti,  usanze,  particolarita.  Giovera  arrestarsi  alquanto  su 
ciascheduno. 

i.  Alia  natura  si  riferiscono  quei  modi  che  si  fondano  sopra  le 
proprieta  degli  animali  o  d'altre  sostanze  fisiche.  Essendo  tali  pro 
prieta  reali,  permanenti,  e  potendo  comunemente  esser  note,  le 
allusioni  che  si  fanno  ad  esse,  istruttive  insieme  e  dilettevoli, 
avranno  tanto  maggior  pregio  e  vaghezza,  quanto  sara  piu  espres- 
sa  ed  aggiustata  la  convenienza  tra  il  soggetto  e  Pintendimento.  Tra 
queste  pero  sara  dovuta  la  preferenza  a  quelle  che  alia  bonta  as- 
soluta  aggiungono  la  relativa,  vale  a  dir  quelle  che  sono  tratte  da 
proprieta  cosi  note  e  familiari  che  al  solo  accennarsi  il  loro  rap- 
porto  balzi  agli  occhi  da  se,  e  colpisca  vivamente  chi  ascolta.  Con- 
ciossiache  una  nazione  grande  essendo  sparsa  per  molte  e  diverse 
provincie,  non  tutti  gli  abitanti  possono  aver  familiari  gli  og- 
getti  medesimi,  e  osservarne  le  qualita.  Quindi,  a  cagion  d'esem- 
pio,  una  frase  allusiva  ai  pesci  sara  meglio  intesa  e  gustata  dagli 
abitanti  delle  coste  marittime,  che  dai  mediterranei  o  dagli  alpi- 
giani.  Le  fiere  e  gli  uccelli  presenteranno  frasi  piu  vive  ai  popoli 
cacciatori  che  agli  agricoli,  i  quali  avranno  osservati  meglio  i 
fenomeni  delle  cose  rurali.  Ora  una  lingua  essendo  spesso  comune 
a  popoli  di  clima  e  situazione  diversi,  dal  trovarsi  in  qualche  buo- 

i.  Alia  prima  lettura  di  Quintiliano  io  aveva  portato  questo  giudizio,  che 
trovai  poscia  awalorato  dal  Du  Marsais  nella  sua  opera  dei  tropi  (C.)- 
Allude  al  Traite  des  tropes  (1730)  di  Cesar  Dumarsais  (1676-1756),  che  fu 
anche  collaboratore  dell' Encyclopedia  per  la  parte  grammaticale.  2.  II 
passo  di  Lucrezio,  De  rer.  nat.,  v,  461-2,  suona  esattamente  cosi:  «aurea 
cum  primum  gemmantis  rore  per  herbas  /  matutina  rubent  radiati  lumina 
solis »  (« appena  per  Terbe  ingemmate  dalla  rugiada  rosseggia  1'aurea  luce 
mattutina  del  raggiante  sole»). 


SAGGIO    SULLA   FILOSOFIA   DELLE   LINGUE  34! 

no  scrittore  usato  un  modo  proverbiale  non  ne  segue  percio  che  lo 
stesso  sia  ugualmente  buono  per  tutti  gli  altri,  potendo  darsi  che 
cio  ch'era  chiaro  e  spiritoso  in  un  luogo,  riesca  nell'altro  oscuro 
ed  insipido.  II  proverbio  quest* e  il  pesce  pastinaca,  applicato  a  una 
cosa  che  non  ha  ne  capo  ne  coda,1  sara  piu  gustato  dai  cenobiti 
ittiofaghi  che  dai  carnivori.  I  Latini  chiamano  stellio  un  uomo 
livido  e  maligno  per  la  storia  dianzi  accennata  della  sua  pelle: 
ora  chi  dicesse  d'uno  ctiegli  ha  Vanima  della  tarantola,  sarebbe 
per  awentura  inteso  in  Calabria  piu  che  fra  noi;  ove  un'anima  di 
scorpione  sarebbe  meglio  appropriata  a  quelPanime  nere  e  schi- 
fose  che  cercano  distinguersi  col  pungiglione  venefico. 

2.  Per  una  consimil  ragione  non  saranno  sempre  le  piu  acconce 
quelle  frasi  proverbiali  che  pur  avrebbero  in  se  stesse  il  massimo 
pregio,  voglio  dir  quelle  che  si  traggono  dalle  scienze,  e  si  vanno 
introducendo  dagli  scienziati;  e  cio  perche,  essendo  fondate  so- 
pra  rapporti  reconditi  e  comunemente  inosservati,  non  possono 
esse  sfavillar  negli  occhi  a  guisa  di  lampo,  e  destar  negli  anirni 
un  senso  vivido  e  pronto,  nel  che  e  posto  il  maggior  pregio  di 
questi  modi.  A  proporzione  pero  che  i  lurni  della  dottrina  si 
diffonderanno  per  la  nazione,  andra  essa  parimenti  addimestican- 
dosi  con  questi  modi,  e  il  maggiore  o  minor  uso  di  questi  potrebbe 
valere  a  darci  un'idea  dei  progressi  dello  spirito,  e  delle  conoscenze 
di  ciaschedun  popolo.  Tocca  agli  scrittori  di  genio,  a  quelli  che 
uniscono  la  scienza  alle  grazie  dello  stile,  di  spargerla  d'una  luce 
piacevole,  di  abituar  insensibilmente  la  massa  della  nazione  a 
quei  modi  che  nel  seme  d'una  frase  portano  il  germe  d'una  dot 
trina,  e  sarebbero  forse  il  mezzo  il  piu  efficace  di  accomunar 
senza  sforzo  colle  classi  inferiori  le  notizie  utili  e  i  risultati  della 
scienza.  Non  puo  negarsi  che  i  Francesi  in  questo  secolo,  ac- 
coppiando  i  lumi  dell'eloquenza  a  quelli  del  sapere,  non  siano 
altamente  benemeriti  colla  loro  nazione  di  questo  felice  progresso. 
L' Italia  partecipo  anch'essa  del  commercio  delle  loro  opere,  e  non 
e  raro  tra  noi  sentir  al  presente  anche  nella  bocca  d'uomini  non 
abbastanza  iniziati  nei  misteri  delle  facolta2  un  frasario  allusivo 
alle  facolta  stesse,  frasario  che  a  poco  a  poco  va  passando  anche 


i.  II proverbio  .  .  .  coda:  il  proverbio  nasce  dai  fatto  che  il  pesce  pastinaca, 
oltre  a  non  avere  la  testa  sporgente,  veniva  venduto  con  la  coda  mozzata 
(cfr.  il  Tornmaseo-Bellini,  s.  v.).  2.  facolta:  discipline  universitarie. 


342  MELCHIORRE    CESAROTTI 

negli  scritti.  Si,  ma  quest!  sono  francesismi :  ohime!  lasciamo  per 
ora  questa  piaga;  noi  la  toccheremo  a  miglior  tempo,  e  vedremo  al- 
lora  se  vi  sia  qualche  lenitive  che  possa  disacerbarla.  Osservere- 
mo  intanto  che  altro  e  la  frase  proverbiale,  altro  la  comparazione : 
questa  da  qualunque  scienza  sia  tratta  puo  sempre  esser  ottima, 
purche  sia  aggiustata;  perche  sviluppandosi  in  essa  il  punto  del 
rapporto  non  v'e  pericolo  d'imbarazzo  e  d'oscurita,  laddove  nella 
frase  proverbiale  la  notizia  si  suppone  e  si  accenna:  quindi  lo 
scrittore  nelPuso  di  queste  deve  esser  molto  piu  cauto  e  meno  ar- 
rischiato.  Quando  pero  io  dissi  che  le  frasi  dedotte  dalle  scienze 
non  sono  sempre  le  piu  acconce,  intesi  rapporto  agli  usi  che  puo 
farne  la  lingua  negli  scritti  destinati  alPintelligenza  del  maggior 
numero,  quali  sono  le  opere  d'istruzione  pratica,  la  poesia  tea- 
trale,  Teloquenza  sacra,  deliberativa,  forense,  la  storia,  i  romanzi 
e  simili  cose:  ma  qualora  un  uomo  dotto  ed  eloquente  prende  a 
trattar  con  facondia  di  cose  che  suppongono  dottrina  dinanzi  ad 
altri  dotti  suoi  pari,  non  potra  niegarglisi  il  diritto  di  far  uso  di 
allusioni  intese  e  gustate  ugualmente  dal  parlatore  e  dagli  ascol- 
tanti:  atractant  fabrilia  fabri)).1 

Non  Iascer6  d'osservare,  su  questo  articolo,  che  le  allusioni 
scientifiche  saranno  meglio  dedotte  da  fatti  e  leggi  naturali,  che  da 
sistemi  filosofici;  poiche  potendo  questi  esser  falsi,  come  troppo 
spesso  lo  furono,  le  frasi  che  ne  portassero  Timpronta  o  verrebbero 
a  perpetuar  Perrore,  o  essendosi  quel  sistema  mandato  da  li  a  qual 
che  tempo  nella  sua  patria,  voglio  dir  nel  paese  delle  chimere, 
rimarrebbero  esse  un  gergo  vano,  un  segno  insignificante.  Sono 
restate  ancora  fra  noi  alcune  frasi  di  questa  specie,  che  mostrano 
quanto  fosse  diffusa  comunemente  e  radicata  in  tutti  gli  spiriti 
Tastrologia  giudiziaria  :z  aver  ascendente  sopra  d'alcuno;  nascer  sotto 
cattiva  Stella.  La  seconda  ha  perduto  la  miglior  parte  della  sua  gra- 
zia,  poiche  ha  perduto  la  credenza  su  cui  fondavasi;  e  la  prima 
non  s'intende  piu,  e  desta  solo  un'idea  confusa  di  superiorita  trat 
ta  dallj ascendere  in  generale,  che  non  ha  piu  veruna  relazione 
€o!T ascension  delle  stelle.  Da  questo  fonte  ci  e  pur  derivata  la 
voce  dtsastro,  ossia  «influsso  di  Stella  malefica»:  senso  che  antica- 


1.  Orazio,  Epist.,  n,  i,  116  («ogni  artigiano  sa  maneggiare  i  propri  arnesi»). 

2.  astrologia  giudiziaria:  espressione  tecnica,  che  indicava  1'astrologia  che, 
dall'osservazione  degli  astri,  giudicava  il  destine  e  il  carattere  degli  uomini. 


SAGGIO    SULLA   FILOSOFIA   DELLE   LINGUE  343 

mente  dava  al  termine  molto  maggior  espressione  e  vivacita; 
laddove  non  prendendosi  ora  che  nel  senso  general  di  «sciagura», 
non  suscita  come  prima  un  gruppo  distinto  d'idee,  ne  gli  resta  altra 
bellezza  che  quella  del  suono,  che  le  conserva  un  posto  nello  stile 
maestoso  e  poetico. 

3,  Le  arti1  sono  pressoche  tutte  comuni  alle  nazioni  giunte  a  un 
grado  notabile  di  civilita:  percio  i  modi  proverbiali  che  ci  sommi- 
nistrano,  essendo  universalmente  intesi,  possono  produr  pronta- 
mente  il  loro  effetto,  e  trovarsi  opportuni  ed  acconci.  Se  non  che 
avendo  Fopinione  spesso  capricciosa  dei  popoli  attaccata  a  certe 
arti  Tidea  di  bassezza,  e  assai  comune  che  una  frase  di  questa 
specie,  graziosa  in  una  provincia,  riesca  sconcia  nell'altra,  e  forse 
nella  stessa  in  tempi  diversi.  Percio  non  tutti  i  modi  tratti  dalle 
arti  che  regnavano  nel  paese  ch'era  la  sede  della  lingua,  ossia  del 
dialetto  dominante,  devono  pero  credersi  ugualmente  belli,  e  de- 
gni  d'esser  ammessi  dagli  scrittori  che  vivono  in  un  altro  secolo 
ed  in  un* altra  citta. 

4.  Men  perfette  delle  frasi  delle  tre  specie  precedenti,  perche 
d'intelligenza  meno  universale,  son  quelle  tratte  dalle  usanze,  ben- 
che  forse  abbiano  per  qualche  tempo  una  piu  interessante  viva 
cita.  Ma  appunto  non  Phanno  che  per  qualche  tempo :  cangiano  le 
circostanze  della  nazione,  un'usanza  e  scacciata  da  un'altra,  Tin- 
teresse  dell'antica  svanisce,  a  poco  a  poco  se  ne  perde  anche  la 
memoria;  allora  il  modo  allusivo  e  come  un'essenza  svaporata,  ed 
esso  non  ha  piu  pregio  se  non  presso  qualche  erudito  che  vi  fa  so- 
pra  un  laborioso  commento,  e  se  si  continua  ad  usarla,  ella  non 
e  piu  che  un  segno  convenzionale  che  non  ha  veruna  influenza 
sul  gusto.  E  qui  non  sara  inutile  1'osservare  che  questo  smarri- 
mento  successive  delle  antiche  usanze,  siccome  sgraziatamente 
rende  sempre  meno  gustabili  gli  autori  delle  lingue  dotte,  cosl 
reca  un  pregiudizio  notabile  a  quelli  che  per  necessita  o  per  scelta 
continuano  ad  esercitarvisi.  Poiche  le  frasi  antiche,  fondate  sopra 
usanze  che  piu  non  esistono,  possono  tutto  al  piu  intendersi,  ma 
non  sentirsi;  giacche  in  luogo  d'un  color  vivace  non  mandano  che 
un'ombra  sfumata,  e  non  essendo  legate  colla  serie  delle  nostre  idee 
familiari,  non  destano  verun  interesse  se  non  sforzato  e  fattizio; 

i.  arti:  la  parola  e  qui  usata  nel  suo  sigmficato  piii  generate,  e  comprende 
anche  le  profession!  e  i  mestieri. 


344  MELCHIORRE    CESAROTTI 

anzi  talora  fanno  colPidee  nostre  una  discordanza  spiacevolissima, 
come  la  fece  il  Bembo,  il  Castiglione  e  qualche  altro  cinquecentista, 
adattando  le  frasi  idolatriche  dei  Roman!  alia  liturgia  del  Cristia- 
neslmo.1  Ma  lasciando  stare  anche  questa  troppo  palpabile  as- 
surdita,  qual  grazia  puo  aver  piu  la  formula  bonis  avibus2  attaccata 
a  un  pregiudizio  insensatissimo  dei  Roman!  ?  E  poiche  i  vecchi 
sessagenari  per  loro  fortuna  non  si  gettano  piu  giu  dal  ponte,  qual 
vivacita  puo  trovarsi  nel  dar  ad  alcuno  il  titolo  di  senex  depontanus  ?3 
E  se  il  mal  caduco  non  disturba  piu  i  comizi,  qual  pregio  vi  sara 
nel  chiamarlo  morbus  comitialis  ?4  IS  oleum  et  operam  perdere*  tratto 
dalla  lotta,  non  potrebbe  piu  riferirsi  se  non  all' olio  della  lucerna 
che  perde  invano  qualche  studioso,  stillandosi  il  cervello  con  poco 
frutto.  La  frase  comunissima  dei  Latini  in  arenam  descender ~e6  ha 
ella  piu  senso,  non  che  grazia,  in  bocca  d'un  cattedratico  che 
parla  la  prima  volta  dalPalto?  Percio  se  chi  scrive  latinamente 
vuole  spiegar  le  idee  presenti  colle  formule  antiche,  fa  lo  stesso 
come  chi  volesse  abbigliarsi  con  abiti  tagliati  sulFaltrui  dosso. 
Se  poi  scrivendo  di  cose  nostre  vuol  destar  un  senso  vivo  e  pro- 
porzionato,  si  trova  talora  costretto  a  inventar  nuovi  termini,  nuo- 
vi  accozzamenti,  nuove  allusioni,  e  farsi  trattar  da  barbaro  da 
tuttigliscolastici,  che  stabiliscono  per  dogma  di  religione  latina  non 
potersi  in  questa  innovar  un  iota  senza  sacrilegio;  benche  vi  sia 
qualche  ardito  eterodosso  che  crede  d'aver  buone  ragioni  di  pen- 
sar  anche  su  questo  alquanto  altrimenti.7 


i.  Poiche  .  .  .  Cristianesimo:  e  probabile  che  il  Cesarotti  abbia  presenti  le  os- 
servazioni  analoghe,  sulTimpossibilita  di  esprimersi  efficacemente  valen- 
dosi  di  parole  e  modi  latini,  deirAlgarotti  nel  Saggio  sopra  la  necessita  di 
scnvere  nellapropria  lingua  (1750).  Cfr.  M.  PUPPO,  Storiata  della  lingua  ecc., 
tit.,  pp.  539-40.  2.  boms  avibus:  letteralmente  «con  uccelli  favorevoli», 
con  rifenmento  all'uso  romano  di  prendere  gli  auspici  dal  volo  degli  uc 
celli  ;  quindi,  « con  f avorevoli  auspici ».  3 .  senex  depontanus :  allude  alia 
spiegazione  di  Festo:  ^depontani  senes  appellabantur,  qui  sexagenarii  de 
ponte  deiciebantur  ».  4.  morbus  comitiahs:  un  caso  di  epilessia  nei  giorni 
dei  comizi  veniva  considerate  di  cattivo  augurio,  e  provocava  1'annulla- 
mento  delle  deliberaziom  prese.  5.  oleum  .  .  .  perdere:  la  frase  si  riferiva 
al  costume  di  ungersi  d'olio  prima  di  accingersi  alle  gare  di  lotta.  6.  in 
arenam  descendere:  «scendere  neirarena»,  quindi  «entrare  in  gara». 
7.  *Dovea  bene  aver  Fanima  di  bronzo  quel  latimsta  che  os6  rimproverare 
aU'elegantissimo  Flaminio  il  nuovo  vocabolo  floncomus.  Ma  io  sono  ben 
certo  che  la  primavera  a  cui  egli  apphc6  queH'amenissimo  epiteto,  glie  ne 
avra  avute  molte  grazie.  II  Flaminio  rispose  sensatamente  al  Zanchi  sulla 
liberta  di  comar  voci  nuove  in  lingua  latina.  La  sua  opinione  fu  poi  com- 


SAGGIO   SULLA   FILOSOFIA   DELLE   LINGUE  345 

Tutte  le  lingue  sono  sparse  di  quest!  modi  proverbial!  tratti  dalle 
usanze.  Ottimi  fra  gli  altri  son  quelli  che  appartengono  a  co- 
stumanze  nazionali,  inveterate,  cognite  universalmente,  alle  leggi 
del  governo,  ai  riti  solenni  d'una  religione  diffusa,  qual  sarebbe 
per  esempio:  esser  iniziato  nei  misteri  della politico,,  o  della  filosofia\ 
giacche  i  misteri  di  Cerere  e  i  loro  arcani  veneratissimi  in  tutta 
I'antichita  sono  noti  e  celebri  anche  a!  tempi  nostri.  Quanto  agli 
altri  tocca  allo  scrittore  di  gusto  il  conoscer  il  punto  in  cui  ces- 
sano  d' esser  opportuni  e  calzanti,  e  non  son  da  darsi  che  ai  ferra- 
vecchi.  La  lingua  francese  ci  dara  un  esempio  degnissimo  dj esser 
qui  riferito.  La  guerra  detta  della  Fionda  ebbe  un'origine  assai 
curiosa.1  Nel  1648  una  frotta  di  garzoni  avea  preso  il  vezzo  di 
radunarsi  in  una  contrada,  e  dividers!  in  due  bande,  le  quali  gio- 
cavano  a  lanciarsi  dei  sassi  colla  fionda.  Questo  giuoco  avendo 
delle  conseguenze  serie,  gli  ufiziali  della  Police  vennero  piu  volte  a 
scacciarli ;  ma  quei  garzoni  fingendo  di  sbandarsi,  appena  gli  ufi 
ziali  aveano  rivolte  le  spalle,  che  tornavano  a  sasseggiarsi  come 
prima.  Nacquero  nel  tempo  medesimo  i  tumult!  fra  il  Parlamento 
e  la  Corte,  sotto  il  ministero  del  Mazarini;  e  temendosi  che  il 
Parlamento  non  prendesse  qualche  risoluzione  contraria  alle  mire 
del  governo,  il  duca  d' Orleans  intervenne  in  quell' adunanza,  a 
fine  di  tener  in  qualche  freno  gli  spirit!.  II  consiglier  Bachau- 
mont  vedendo  che  la  presenza  del  duca  impediva  che  i  membri 
del  Parlamento  parlassero  con  liberta:  «0ra»  disse  «e  forza  star 
cheti,  ma  quand'egli  sara  partito,  no!  torneremo  a  frombolar  come 
va».  Questo  detto  allusivo  al  giuoco  dei  fanciulli  fece  fortuna, 
e  giro  per  tutte  le  bocche.  I  malcontent!  comparvero  coll'insegna 


battuta  da  vari  critic!  nostrali  ed  esteri,  e  passa  generalmente  per  un  para- 
dosso.  Parmi  pero  che  questa  opinione  possa  piantarsi  sopra  una  base  piu 
salda,  ma  converrebbe  avanzar  qualche  teoria  che  parrebbe  un  paradosso 
piu  grande.  £  meglio  tacere,  e  contentarsi  d'errare  in  latinita  in  compagnia 
del  Flaminio  (C.).  Allude  alia  polemica  £ra  il  Flaminio  e  Basilic  Zanchi,  a 
proposito  del  neologismo  citato.  Invece,  a  provare  « contro  il  Flaminio  non 
potersi  aggiungere  nuove  voci  alia  lingua  latina»,  dedica  un  apposite  para- 
grafo  il  Galeani  Napione  nel  suo  trattato  DelVuso  e  deipregi  della  lingua  ita- 
liana  (lib.  in,  cap.  i,  §  6,  cfr.  edizione  di  Torino,  Balbino,  1791,  che  & 
quella  tenuta  presente  dal  Cesarotti,  II,  pp.  23-30)-  i-  Mem.  du  card,  de 
Retz,  t.  II ;  de  Brosse,  Form.  mech.  des  long.,  t.  n  (C.).  Paul  de  Gondi, 
cardinale  di  Retz  (1613-1679),  lascio  nei  suoi  Memoires  un  quadro  spre- 
giudicato  e  vivissimo  della  sua  vita  e  della  sua  epoca. 


34^  MELCHIORRE   CESAROTTI 

(Tuna  frombola  in  sul  cappello,  ed  ebbero  il  nome  di  frondeurs, 
o  di  «  frombolieri »,  e  da  indi  innanzi  il  verbo  fronder  non  ebbe  altro 
senso  che  quello  di  (cmormorar  del  governo».  Non  v'ha  dubbio 
che  Tespressione  non  avesse  allora,  e  non  dovesse  conservar  per 
qualche  tempo,  molta  grazia  e  vivacita,  anche  per  il  rapporto 
felice  che  avea  quella  guerra,  che  potea  dirsi  la  parodia  delle 
guerre  civili,  con  tin  giuoco  buffonesco  di  giovinastri  insolenti; 
ma  finalmente,  cangiate  affatto  le  circostanze,  cessati  gl'interessi 
e  scemandosi  la  memoria  della  prima  origine,  la  voce  fronder  non 
risveglio  piu  le  stesse  idee  accessorie  che  ne  facevano  il  principal 
merito,  e  rest6  solo  nella  lingua  per  significar  in  generale  la 
disposizione  di  mormorar  delle  cose  pubbliche.  £  verisimile  che 
col  tempo  ella  diventi  sempre  piu  generale  e  si  applichi  ad  ogni 
specie  di  mormorazione,  ne  le  restera  altra  bellezza  se  non  se  quel 
la  che  le  viene  dalla  somiglianza  tra  uno  che  scaglia  una  fionda 
contro  d'un  altro,  e  chi  fa  segno  ai  colpi  della  sua  maldicenza  la 
riputazione  altrui.  Le  allusioni  della  natura,  se  forse  hanno  una  gra 
zia  men  viva,  I'hanno  pero  ben  piu  stabile  e  universalmente  dif- 
fusa  che  quella  delle  usanze. 

5.  Di  assai  minor  pregio  di  tutte,  anzi  difettose  o  prossime 
al  difetto,  sono  le  frasi  proverbiali  tratte  dalle  particolarita,  voglio 
dire  relative  a  cose,  fatti,  persone,  accident!,  novelle  della  vita 
privata;  come  quelle  che  uniscono  Poscurita  alia  bassezza,  man- 
cano  d'utilita  e  d'interesse,  divengono  col  tempo  insipidi  enigmi, 
solo  degni  di  formar  il  gergo  dei  begli  spiriti  della  plebaglia. 
Tali  sono  quelli  ond'e  tessuto  il  Pataffio1  di  ser  Brunetto,  di 
cui  bastera  per  darne  un  saggio  il  principio: 

Squasimodeo,  introcque,  e  afusone, 
ne  hoi,  n£  hai,  pilorza  con  mattana, 
al  can  la  tigna}  egli  e  mazzamarrone : 


i.  II  Pataffio,  poemetto  in  terza  rima,  mtessuto  di  proverbi  e  riboboli  fio- 
rentini,  fu  un  tempo  attribuito  a  Brunetto  Latini,  ma  risale  certamente  a 
qualche  secolo  dopo.  Fu  stampato  per  la  prima  volta  a  Napoli  nel  1788, 
ma  il  Cesarotti  ne  avra  avuto  notizia  tramite  il  Varchi,  che  cita  appunto  i 
versi  ricordati  piu  avanti  nell5 Ercolano  (cfr.  edizione  di  Milano  1804,  i, 
P-  143). 


SAGGIO    SULLA   FILOSOFIA   DELLE   LINGUE  347 

tali  moltissimi  di  quelli  che  il  Varchi  raccolse  ntlVErcolano*  quasi 
fossero  gioie,  come:  piu  tristo  che  ire  assi,  piu  cattivo  che  Banchel- 
lino,  far  le  scalee  di  S.  Ambrogio,  dondolar  la  mattea,  far  come  il 
cavallo  del  Ciolle,  dire  a  uno  il  padre  del  porro,  vendere  i  merli  di 
Firenze,  aver  scopato  piu  d'un  cero,  e  cent'altre  spiritosaggini  di 
simil  fatta:  tali  al  fine  quei  tanti  che  sono  sparsi  nel  Morgante  e  nel 
Malmantile?  che  pur  da  piu  d'uno  si  tengono  per  le  delizie  della 
lingua,  e  che  propriamente  non  sono  che  il  frasario  di  quello  stile 
che  i  Francesi  chiamano  burlesco,  in  senso  di  buffonesco  e  plebeo, 
stile  che  pressoche  sino  ai  nostri  giorni  fu  da  molti  con  vergogna 
delPItalia  confuso  col  faceto,  il  che  sarebbe  presso  a  poco  lo 
stesso  come  confondere  le  caricature  d'un  Sosia3  colle  grazie  di 
Luciano. 

xvn.  Resterebbe  tra  le  parti  rettoriche  ad  esaminar  gl'idiotismi, 
ma  cio  che  abbiamo  a  dime  si  rendera  piu  chiaro,  poscia  che  avre- 
mo  parlato  delle  parti  logiche  della  lingua. 

Sono  queste  comprese  tutte  nella  sintassi,  della  quale  giova  di- 
stinguere  la  materia  e  la  forma.  Chiamo  materia  della  sintassi  la 
collezione4  di  tutte  le  parti  del  discorso  e  deiloro  accidenti:  forma, 
la  collezione  dei  segni  destinati  a  indicar  gli  accidenti  delle  stesse 
parti,  la  loro  relazione  reciproca,  i  loro  rapporti  di  dipendenza 
e  la  collocazione  di  ciascheduno  per  formar  un  tutto  coordinate 


i.  NelYErcolano,  dialogo  scritto  da  Benedetto  Varchi  nel  1560-1564  (ma 
pubblicato  postumo  solo  nel  1570),  Fautore  espone  le  proprie  idee  intorno 
alia  questione  della  lingua,  riallacciandosi  al  Bembo  e  allo  Speroni.  Le  frasi 
citate  piu  avanti  dal  Cesarotti  vengono  cosi  spiegate  dal  Varchi  stesso: 
piu  tristo  che  tre  assi  e  piu  cattivo  che  Banchellino  si  dicono  di  uno  « se  si 
vuol  mostrare  lui  essere  uomo  per  aggirare  e  fare  stare  gli  altri»;  far  le 
scalee  di  S.  Ambrogio  « significa  dir  mal  d'uno  » ;  dondolar  la  mattea  e  far 
come  il  cavallo  del  Ciolle  si  dice  «  di  quelli  che  si  beccano  il  cervello,  sperando 
vanamente  che  una  cosa  debba  loro  riuscire,  e  ne  vanno  cicalando  qui  e 
qua  » ;  dire  a  uno  il  padre  del  porro  «  significa  riprenderlo  e  accusarlo  alia  li- 
bera,  e  protestargli  quello  che  awenire  gli  debba,  non  si  mutando»; 
vendere  i  merli  di  Firenze,  si  diceva  di  quei  faccendieri  che  «  si  spogliavano 
in  farsettino  per  favorire  o  aiutare  qualcuno,  come  dice  la  plebe,  a  brache 
calate  » ;  aver  scopato  piu  d'un  cero,  di  chi  « per  essere  pratico  del  mondo^ 
non  e  uomo  da  essere  aggirato  o  fatto  fare»  (cfr.  Ercolano,  ed.  cit,  i, 
pp.  142-56,  168,  175,  183).  2.  //  Malmantile  racquistato,  poema  eroico- 
mico  di  Lorenzo  Lippi  (1606-1665),  e  scritto  in  una  lingua  ricca  di  idiotismi 
e  riboboli  fiorentini.  3.  Sosia:  e  il  servo  di  Anfitnone  noll'Amphitruo  di 
Plauto.  Con  la  frase  le  caricature  dyun  Sosia  il  Cesarotti  allude  in  genere  al 
linguaggio  comico  plautino,  a  cui  antepone,  con  significativa  preferenza, 
le  grazie  dello  stile  di  Luciano.  4.  la  collezione:  il  complesso. 


348  MELCHIORRE   CESAROTTI 

e  connesso.  Le  parti  del  discorso  ne  sono  i  membri  necessari,  ed 
ove  alcuno  ne  manchi,  il  discorso  riescira  manco  o  imperfetto. 
Finch6  la  lingua  non  ha  fissato  una  serie  di  segni  per  ciascheduna 
di  queste  parti,  ella  e  barbara,  imperfetta,  piena  d'oscurita,  inetta 
agli  usi  dello  spirito,  essa  e  la  lingua  d'un  popolo  balbo:1  non  e 
se  non  se  dopo  ch'ella  si  e  proweduta  di  questi  segni  che  si  rende 
atta  a  spiegar  esattamente  Tidee  e  le  loro  modificazioni,  e  si  presta 
alle  arti  di  filosofare  e  di  scrivere.  Le  lingue  dei  popoli  colti  hanno 
a  un  di  presso  lo  stesso  numero  di  queste  parti.  Esse  formano  il 
fondo  della  grammatica  naturale.  Nomi,  pronomi,  verbi,  av- 
verbi,  preposizioni,  congiunzioni  si  trovano  in  ogni  lingua.  Esse 
non  si  distinguono  se  non  nella  maggiore  o  minor  finezza  di  os- 
servar  gli  accidenti  dei  membri  principali,  e  di  contrassegnarli  in 
un  modo  fisso  e  distinto.  II  maggior  numero  e  la  maggior  pre- 
cisione  di  questi  segni  subalterni  rendono  la  lingua  piu  precisa 
e  piu  filosofica.  V'e  pero  talora  anche  in  questo  un'abbondanza 
superflua,  ch'e  piuttosto  una  ridondanza  imbarazzante.2  Tal  forse 
potrebbe  parere  il  duale  dei  Greci,  di  cui  essi  medesimi  fanno 
pochissimo  uso;  tale  la  terminazion  femminina  nelle  seconde  e 
terze  persone  dei  verbi  presso  gli  Ebrei.  Ewi  un'altra  abbondanza 
sterile  e  assolutamente  viziosa  benche  non  osservata,  che  trovasi 
in  tutte  le  lingue  piu  nobili:  quest' e  quando  si  moltiplicano  i 
segni  senza  che  sia  moltiplicata  1'idea  o  nella  sostanza  o  negli 
accidenti.  Che  giovano  mai  alia  lingua  latina  e  greca  le  varie  de- 
clinazioni  dei  nomi  ?  Qual  vantaggio  ne  viene  a  quelle  e  alle  nostre 
dal  noiosissimo  imbarazzo  di  tante  coniugazioni  che  fanno  la 
croce  di  chi  vuole  impararle  ?  Una  sola  forma  pei  nomi  sostantivi 
distinti  solo  nel  genere,  una  per  gli  adiettivi  ed  una  pei  verbi 
avrebbe  reso  la  lingua  piu  analoga  e  sempHce,  e  meno  tediosa  ed 
imbarazzata.  II  vantaggio  che  puo  risultarne  per  lo  stile  nella 
varieta  materiale  di  tanti  suoni,  pu6  mai  esser  posto  in  confronto 


i.  balbo:  balbuziente.  2.  *E  perd  curioso  ad  osservarsi  che  certe  ridon- 
danze  le  quali  sembrano  figlie  del  lusso  e  della  finezza  di  spirito,  si  trovano 
talora  nelle  lingue  dei  popoli  piu  meschini  e  piu  barbari.  La  lingua  dei 
Caraibi,  come  osserva  il  sig.  Herder,  si  divide  in  certo  modo  in  due, 
ogni  sesso  ha  la  sua:  quella  degli  Uroni  ha  tutti  i  verbi  doppi,  uno  per  le 
cose  animate,  1'altro  per  le  inanimate  (C.).  II  luogo  dello  Herder  ricordato 
dal  Cesarotti  si  trova  nel  Saggio  sulVorigine  del  linguaggio  (cfr.  la  traduzione 
di  G.  Necco,  Mazara-Roma,  S.E.S.,  1954,  p.  77). 


SAGGIO    SULLA   FILOSOFIA  DELLE   LINGUE  349 

colle  difficolta  e  colle  spine  di  cui,  merce  questa  inutile  varieta, 
e  seminata  la  lingua?  II  vantaggio  del  metodo  contrario  e  tanto 
sensibile,  ch'io  non  so  repeter  Porigine  delPuso  che  predomina  nelle 
antiche  lingue  e  nelle  nostre  se  non  se  dalPaccozzamento  primi 
tive  di  varie  popolazioni  e  dalla  somma  difficolta  di  ridur  tutti 
gPindividui  d'una  nazione  ancora  informe  ad  assoggettarsi  ad 
una  medesima  analogia  di  terminazioni. 

Lasciando  star  cio,  veggiamo  che  la  materia  della  sintassi  ci  e 
presentata  dalla  natura,  ed  ha  una  ragione  intrinseca  che  la  rende 
pregevole,  generale,  uniforme.  Ma  la  forma  di  essa  e  piena  di  di- 
versita :  la  scelta  dei  segni,  Pordine  materiale  dei  loro  rapporti  sono 
convenzionali  e  arbhrari.  Questa  parte  conseguentemente  non  am- 
mette  la  qualificazione  di  bella  o  difettosa,  poiche  non  e  diretta 
da  una  ragione  sensibile  di  preferenza,  ma  fiuisce  o  dalla  costi- 
tuzione  dei  primi  elementi  della  lingua,  o  dalle  circostanze  che 
decisero  della  sua  origine,  o  dai  motivi  incogniti  e  forse  capric- 
ciosi  che  determinarono  i  primi  fondatori  della  medesima.  Ne  in 
questa  parte  veruna  lingua  colta  puo  vantarsi  d'una  piena  supe- 
riorita  sopra  le  altre ;  poiche  quantunque  dalla  diversita  delle  forme 
sintattiche  ne  risultino  conseguenze  diverse  che  rendono  una  lin 
gua  piu  atta  delPaltra  ad  esprimere  le  modificazioni  dei  concetti 
o  dei  sentimenti,  tutte  pero  prese  nella  loro  totalita  producono 
un  effetto  uniforme,  poiche  tutte  diedero  alPEuropa  in  ogni  ge- 
nere  di  scrittura  autori  eccellenti,  che  non  lasciano  desiderare  i  piu 
celebri  delle  altre  nazioni;  e  gli  svantaggi  stessi  che  una  sintassi 
parrebbe  avere  rispetto  all'altra  su  qualche  articolo,  divengono 
strumento  di  bellezze  d'un'altra  specie,  in  guisa  che  tutte  le  Hn- 
gue  illustri  maneggiate  da  scrittori  di  genio  trovano  nelle  loro 
opere  un  equivalente  compenso. 

Se  pero  ogni  forma  di  sintassi  puo  dirsi  in  se  stessa  buona 
egualmente,  ella  non  e  del  pari  nelPuso  che  se  ne  fa  da  chi  scrive. 
A  fine  di  determinar  con  fondamento  cio  che  la  renda  o  difettosa 
o  pregevole,  la  divideremo  nelle  quattro  parti  che  la  compongono : 
le  desinenze,  la  concordanza,  il  reggimento,  la  costruzione.  Nelle 
tre  prime  il  merito  propriamente  non  consiste  che  nelTevitar  il 
difetto,  ma  la  quarta,  oltre  la  bonta  logica  e  grammaticale,  puo 
dar  luogo  ad  una  bellezza  rettorica.  Osserveremo  prima,  in  gene- 
rale,  che  Poggetto  della  sintassi  e  quello  di  render  il  discorso  chiaro, 
precise,  coerente  alPordine  e  alia  connessione  delle  idee;  tutto  cio 


35°  MELCHIORRE    CESAROTTI 

dunque  che  genera  oscurita,  imbarazzo  ed  equivoco  si  oppone  al 
fine  della  sintassi  e  Foffende,  ne  puo  mai  giustificarsi  dall'uso.  Ne 
vale  il  dire  che  Pabitudine  supplisce  al  difetto  e  raddrizza  il  senso, 
poiche  altro  e  Fesser  inteso,  altro  il  farsi  intendere,  e  chi  scrive 
non  parla  solo  a  chi  possiede  la  sua  lingua,  ma  insieme  ad  ogn'al- 
tro  che  vuole  apprenderla.  Quando  pero  Foggetto  della  sintassi 
sia  in  salvo,  qualche  piccola  negligenza  collocata  giudiziosamente 
puo  talora  diventar  una  grazia,  rappresentandosi  con  essa  la  fran- 
chezza  sicura  e  libera  del  discorso  naturale  e  non  lavorato.  Dopo 
cio  diremo  qualche  cosa  di  ciascheduna  di  queste  parti. 

XVIIL  i.  Le  desinenze  sono  il  segno  il  piu  caratteristico  della 
lingua.  Sono  esse  che  determinano  gli  accidenti  dell'azione  e  i 
rapporti  delle  sostanze.  La  sola  distinzione  dei  casi  rese  le  lingue 
latina  e  greca  piu  disinvolte,  piu  agili,  piu  passionate,  piu  armo- 
niche.  Ogni  desinenza  dee  dunque  esser  indizio  di  una  osservabile 
e  individuata  modificazione,  che  diversifica  in  qualche  senso  la 
cosa.  Se  questi  segni  si  confondono,  tutto  il  sistema  delle  idee 
sara  indistinto  e  confuso.  Due  percio  saranno  i  difetti  di  questa 
specie:  la  moltiplicita  delle  desinenze  per  una  sola  idea  e  la  mol- 
tiplicita  delle  idee  sotto  una  sola  desinenza.  Ma  il  primo  difetto, 
quando  una  desinenza  non  si  confonde  con  altre,  e  almeno  com 
pensate  dallavarieta  del  suono  utile  allo  stile  e  grato  alPorecchio, 
laddove  il  secondo  genera  un'ambiguita  in  ogni  senso  spiacevole. 
Dovra  dunque  aversi  per  imperfezione  della  lingua  greca,  che  pure 
e  cosi  abbondante,  Paver  negPimperfetti  e  negli  aoristi  la  prima 
del  singolare  affatto  la  stessa  colla  terza  plurale,  etypton,  etypton,1 
imperfezione  che  non  trovasi  nei  verbi  latini. 

2.  La  necessita  della  concordanza  si  rende  evidente  da  se.  II 
violarla  e  un  costringer  le  idee  a  far  a'  cozzi  tra  loro.  Benche  que 
sta  regola  sia  universalmente  ricevuta,  pure  tutte  le  lingue  si  per- 
mettono  delle  licenze,  alcune  delle  quali  non  possono  giustificarsi 
nemmeno  al  tribunale  della  piu  discreta  ragione.  Tal  b  quella 
stranissima  dei  Greci  che  accordano  i  nomi  neutri  plurali  col 
verbo  singolare.  Meritano  maggior  indulgenza  quelle  sconcordanze 
di  termini  che  nascono  dalla  concordanza  delPidea,  e  possono  dirsi 
sconcordanze  materiali  e  apparenti,  come  allorche  un  singolar  col- 


i.  etypton,  etypton:  prima  persona  singolare  e  terza  plurale  dell'imperfetto 
di  T^TTTCO,  «  batto  ». 


SAGGIO   SULLA    FILOSOFIA  DELLE   LINGUE  351 

lettivo,  ch'e  in  fondo  im  plural  travestito,  si  accorda  con  un  verbo 
plurale,  o  come  quando  Orazio,  avendo  chiamata  Cleopatra  «  fatale 
monstrum)),1  segue  a  parlar  di  lei  col  relativo  «quae»,  pensando 
che  cotesto  mostro  metaforico  era  una  donna.  Questa  specie  di 
sconcordanze  puo  talora  rappresentar  bene  il  color  del  discorso, 
a  cui  non  disdicesi  una  certa  sprezzatura  animata.  Ma  tutte  le 
altre  sconcordanze,  ad  onta  di  qualunque  esempio,  saranno  di- 
fetti  reali,  tuttoche  i  grammatici  vogliano  nobilitarle  col  nome  di 
certe  figure  scolastiche,  che  potrebbero  chiamarsi  i  palliativi  dei 
solecismi  degli  autori  classici. 

3.  II  reggimento  consiste  nella  forma  particolare  che  dee  pren- 
der  un  nome  per  indicar  la  sua  relazione  con  un  altro  nome,  o 
con  un  verbo  che  lo  precede  e  lo  regola.  Questa  forma  presso  i 
Greci  e  i  Latini  viene  indicata  dai  casi,  e  dai  moderni  che  ne  man- 
cano,  coi  vice-casi.2  Regna  in  questa  parte  nelle  lingue  molto 
d'arbitrio,  che  ne  rende  1'acquisto  malagevole,  a  dir  vero,  con  poco 
frutto.  Che  la  scelta  non  fosse  determinata  da  veruna  ragione  in- 
trinseca,  si  scorge  da  cio  che  nella  lingua  greca,  per  esempio,  si 
dara  il  genitivo  ad  un  verbo  che  domanda  1'accusativo  nella  latina, 
e  da  cio  pure  che  talora  nella  lingua  stessa  il  medesimo  verbo 
si  regge  in  due  modi,  come  fra  noi  domandare  ha  ugualmente  il 
terzo  caso  ed  il  quarto,  e  '1  plenus  presso  i  Latini  regge  a  suo  grado 
ora  il  secondo,  ora  il  sesto.  Ci6  serve  di  nuova  prova  a  cio  che 
abbiam  detto  sin  da  principio,  che  le  lingue  non  si  formarono 
sopra  un  piano  concertato  e  ricevuto  generalmente,  ma  sull'accoz- 
zamento  accidental  delle  varie  abitudini  d'uomini  liberamente 
parlanti,  abitudini  che  a  poco  a  poco  si  andarono  awicinando 
e  rassettando  alia  meglio  con  un'analogia  naturale,  che  non  pote 
per6  mai  togliere  affatto  le  irregolarita  originarie  introdotte  dal- 
Farbitrio  e  convalidate  dalTuso.  E  certo  sarebbe  stato  assai  meglio 
per  tutte  le  lingue  che  non  regnasse  in  esse  tanta  varieta  capricciosa 
di  reggimenti,  quando  una  o  due  forme  bastavano  a  segnar  la 
dipendenza  dei  nomi  dai  verbi.  Almeno  se  ne  fosse  usata  una  sola 
per  tutti  i  verbi  che  rappresentano  idee  della  medesima  specie: 
ma  no;  il  tatto  e  Todorato  presso  i  Greci  domandano  costante- 
mente  il  secondo  caso,  e  la  vista  il  quarto;  quando  il  gusto  e  1'u- 


i.  Carm.y  I,  xxxvii,  21  (« mostro  fatale »).    2.  vice-casi:  segnacasi,  prepo- 
sizioni. 


352  MELCHIORRE  CESAROTTI 

dito  hanno  il  privilegio  d'averne  due  a'  loro  servigi.  La  ragione 
di  queste  varieta  lascero  cercarla  agli  Edipi  grammatical!:1  quanto 
a  me  credero  sempre  che  tutto  questo  ammasso  di  regole  non 
serva  che  a  facilitare  i  solecismi,  e  a  difficoltar  le  lingue,  senza 
aggiunger  loro  ne  utilita  ne  bellezza. 

4.  La  costruzione2  abbraccia  le  leggi  della  collocazione  dei  ter 
mini  componenti  le  frasi,  a  fine  di  presentar  all'intelligenza  il  con 
cetto  in  quel  lume  che  lo  faccia  rawisar  meglio  e  nelle  parti  e  nel 
tutto.  Abbiam  detto  di  sopra  che  questa  parte,  a  differenza  delle  tre 
precedenti,  non  e  puramente  logica,  e  che  la  scelta  della  costru 
zione  non  ha  un  semplice  merito  grammaticale,  ma  insieme  an- 
che  e  suscettibile  d'una  bellezza  rettorica.  Per  farlo  sentire  riguar- 
deremo  la  costruzione,  prima  secondo  il  numero  dej  suoi  membri, 
poi  secondo  Tordine  della  loro  disposizione.  Quanto  al  primo  pun- 
to  la  costruzione  sara  piena  o  difettiva.  Ella  e  piena  quando  il 
sentimento  esce  corredato  di  tutto  punto,  e  d'ognuna  anche  delle 
minime  parti  che  lo  rendono  perfettamente  chiaro  e  compito: 
difettiva  all'opposto,  qualor  manca  d'alcuna  di  esse.  La  costru 
zione  difettiva  non  e  per6  sempre  difettosa;  anzi  talora  divien 
espressiva,  energica  e  pittoresca.  L'uomo  concepisce  un  pensiero, 
e  molto  piu  un  sentimento,  tutto  in  un  punto,  ma  non  pu6  spie- 
garlo  se  non  successivamente :  percio  tutto  quest' apparecchio  di 
termini  di  cui  fa  uso  non  e  dovuto  che  alia  necessita,  ed  egli  non 
ricorre  ad  esso  che  contro  voglia.  Nella  fretta  ch'egli  ha  di  co- 
municare  agli  altri  le  idee  che  lo  ingombrano,  vorrebbe,  se  fosse 
possibile,  esprimersi  con  un  sol  nome:  quindi  e  portato  natural- 
mente  a  sopprimere  tutto  ci6  che  non  &  precisamente  necessario 
o  che  pu6  facilmente  supplirsi.  Tal  e  la  disposizione  deUJuomo, 
specialmente  se  sia  riflessivo  e  troppo  affollato  d'idee,  e  molto 
piu  se  si  trovi  in  uno  stato  d'impazienza,  d'ansieta,  di  passione. 
Analoghe  sono  pur  anche  le  disposizioni  di  quei  che  ascoltano, 
e  cio  in  maggior  grado  a  proporzione  della  curiosita,  dell'affetto 


i.  Edipt  grammaticali:  allude,  con  un  certo  disprezzo,  ai  grammatici  che  si 
afFaticano  a  nsolvere  quesiti  che  al  Cesarotti  sembrano  futili  e  insolubih 
indovinelli.  2.  La  costruzione:  sulle  discussion!  settecentesche  intorno  a 
questo  problema,  e  in  particolare  sulla  posizione  del  Cesarotti,  cfr.  A.  Vl- 
SCARDI,  //  problema  della  costruzione  nelle  polemiche  hnguistiche  del  Sette- 
cento,  cit.,  pp.  193-214,  e  M.  PUPPO,  Storicita  della  lingua  ecc.,  cit.,  pp. 
532-6. 


SAGGIO    SULLA   FILOSOFIA   DELLE   LINGUE  353 

o  della  prontezza  e  vivacita  delFintelligenza  che  sdegna  i  ritardi, 
e  riguarda  come  un'offesa  del  suo  amor  proprio  la  soverchia 
sollecitudine  d'accuratezza.  La  costruzione  difettiva  o  ellittica  avra 
dunque  un  pregio  quando  serva  a  rappresentar  la  fretta,  la  rapi- 
dita,  il  tumulto,  il  turbamento  degli  affetti;  o  vagHa  a  fissar  lo 
spirito  sopra  un'idea  dominante,  o  a  vibrar  con  piu  forza  un  detto 
o  un  tratto  energico  e  caratteristico,  che  sarebbe  ritardato  o  rintuz- 
zato  dagPimbarazzi  d'una  costruzione  piu  regolare.  Questa  sin 
tassi,  se  non  e  bella,  e  pero  naturale  e  innocente,  qualora  il  ter- 
mine  soppresso  puo  supplirsi  prontamente  e  senza  veruno  sforzo; 
e  cosi  fatte  soppressioni  regnano  comunemente  in  tutte  le  lingue. 
Ma  ella  sara  difettosa  quando  genera  oscurita  ed  equivoci,  quando 
omette  un  termine  necessario  non  facile  ad  indovinarsi,  e  special- 
mente  se  cio  si  faccia  nei  discorsi  sedati,  istruttivi,  e  senza  verun 
oggetto  che  la  compensi.  La  costruzione,  rispetto  alFordine,  e  di  due 
specie:  diretta  e  inversa;  Tuna  s'attiene  alPordine  analitico  delle 
idee,  Paltra  al  grado  della  loro  importanza  e  dell'interesse  che  ne  ri- 
sente  chi  parla:  la  prima  serve  meglio  alPintelligenza,  Faltra  parla 
piu  vivamente  alPaffetto.  Si  e  creduto  generalmente  sino  a  questi 
giorni  che  la  costruzione  diretta  fosse  quella  della  natura,  quella  del- 
Farte  Finversa:  i  ragionatori  di  questo  secolo  osservarono  sagace- 
mente  che  la  cosa  e  tutta  alPopposto,  e  che  la  sintassi  inversa  e  figlia 
spontanea  della  natura,  la  diretta  e  frutto  della  meditazione  e 
delParte,  e  nata  solo  dalPimpotenza  di  spiegar  i  nostri  sentiment! 
colPaltra  in  un  modo  pienamente  e  costantemente  intelligibile.1 
Le  Hngue  antiche,  prowedute  di  casi  declinabili,  preferirono  Tin- 
versa,  e  quindi  ebbero  il  mezzo  di  presentar  le  idee  piu  impor- 
tanti  nel  punto  di  vista  il  phi  luminoso;  d'intrecciare  col  princi- 
pale  i  sentimenti  intermedi  che  lo  illustrano  e  lo  rinforzano;  di 
accrescer  Finteresse  colla  sospensione;  di  raccoglier  come  in  un 
centre  tutti  i  sentimenti  parziali  nelFultimo  termine,  e  colle  loro 
forze  riunite  piombar  sul  cuore ;  finalmente  di  formar  col  periodo 
una  specie  di  concerto  imitative  e  graduate  di  suoni  corrispon- 
denti  alia  scala  del  sentimento:  pregi  tutti  che  difficilmente  pos- 
sono  conseguirsi  allo  stesso  grado  colla  sintassi  diretta,  resa  ne- 

i.  i  ragionatori .  .  .  intelligibile:  allude  iiTparticolare  al  Dubos,  al  Batteux 
e  al  Condillac.  L/opinione  opposta  era  stata  invece  sostenuta,  fra  gli  altri, 
dal  Dumarsais,  dal  Beauzee  e  dal  Diderot  e,  in  Italia,  dal  Baretti  (cfr. 
A.  VISCARDI,  Tarticolo  citato  nella  nota  precedente). 


354  MELCHIORRE  CESAROTTI 

cessaria  alle  nostre  lingue  per  la  sola  mancanza  dei  casi.  Ma 
gli  scrittori  di  genio  sanno  indocilire  la  loro  lingua,  e  per  mezzo 
d'una  delicata  e  giudiziosa  desterita  rawlcinarla  senza  sforzo  ai 
pregi  delle  altre,  ed  aspergerla  di  straniere  bellezze.  Quindi  veg- 
giamo  che  la  francese  stessa,  ch'e  la  piu  schizzinnosa  fra  le  mo- 
derne,  s'accosta  talora,  ove  puo  farlo  senza  durezza  ed  oscurita, 
alia  sintassi  latina,  cercando  qualche  inversione  parziale  o  nei  sensi 
intermedi  o  nei  termini.  Lo  stesso  fecero  i  grandi  scrittori  italiani, 
tra  i  quali  mi  giova  ora  di  rammentar  il  luogo  del  Petrarca  nella 
sua  insigne  canzone  all' Italia,  ove,  dopo  aver  detto: 

Vedi,  Signer  cortese, 

di  che  lieve  cagion  che  crudel  guerra\ 

segue  con  felice  inversione: 

e  i  cor  che  indura  e  serra 

Marte  superbo  e  fero 

apri  tu}  Padre,  e  intenerisci,  e  snoda:1 

con  che  sembra  presentar  a  Dio  i  cuori  induriti  che  fanno  1'idea 
principale,  accio  egli  li  renda  soggetto  della  sua  azione  d'aprirli 
e  d'intenerirli.  II  Boccaccio,  seguito  dal  Bembo  e  da  tutti  i  cin- 
quecentisti,  trattone  il  Davanzati,2  per  dar  armonia  alia  lingua 
italiana  cerco  di  snaturarla,  afFettando  1'inversioni  della  latina  e 
Pondeggiamento  periodico.  II  francesismo,  che  sembra  il  gusto 
predominante  del  secolo,  tende  a  renderla  soverchiamente  pre- 
cisa  e  logica  nella  sua  costruzione  colla  frequenza  degl'incisi, 
colFinfilzar  i  sentiment!  Tun  dopo  Paltro  piuttosto  che  Tun  nelPal- 
tro  intrecciarli,  e  con  un  certo  tuono  familiare  o  filosofico,  che 
repugnano  ugualmente  alia  sintassi  indiretta.  Ma  i  pochi  italiani 
ben  disciplinati  non  men  che  liberi  sanno  coglier  i  vantaggi  pre- 
ziosi  della  costruzione  latina,  senza  rinunziar  a  quelli  della  loro 
propria.  Qualora  dunque  uno  scrittore  giudizioso  sapra  usar  di 
questa  liberta,  anche  in  modo  che  non  abbondi  d'esempi,  pur- 
che  non  generi  scompiglio  nei  senso  e  sforzo  nell'intendimento, 


i.  Cfr.  Rime,  cxxvm,  10-4.  La  lezione  esatta  e  un  po'  diversa:  «  Vedi,  segnor 
cortese,  /  di  che  lievi  cagion  che  crudel  guerra;  /  e  i  cor  che  'ndura  e  serra  / 
Marte  superbo  e  fero,  /  apri  tu,  padre,  e  'ntenerisci  e  snoda  ».  2.  Bernardo 
Davanzati:  cfr.  p.  301  e  la  nota  i. 


SAGGIO    SULLA   FILOSOFIA   DELLE   LINGUE  355 

non  dovra  percio  tacciarsi  (Tarditezza  condannabile  o  di  peccato 
di  violata  sintassi,  ma  piuttosto  credersi  benemerito  della  lingua, 
a  cui  procaccia  qualche  atteggiamento  nuovo  e  felice.  Ma  non 
sara  verun  pregio,  anzi  un'affettazion  puerile  e  un  difetto  del  pan 
grammatical  che  rettorico,  il  travolgere  1'ordine  fra  noi  naturale 
dei  termini,  e  dar  la  tortura  alle  frasi  a  fine  di  preparar  al  verbo 
il  posto  d'onore,  collocandolo  in  fin  del  periodo,  senza  verun  og- 
getto  utile  e  per  la  semplice  vaghezza  d'imitar  la  struttura  di 
due  secoli  fa,  e  di  generare  un  vano  e  insignificante  rimbombo; 
quando  la  sola  scelta  dei  vocaboli  maestrevolmente  disposti  con 
naturale  artifizio  puo  dar  ai  sentimenti  un'armonia  fluida,  espres- 
siva,  varia,  piacevole,  uscita  dalla  cosa,  non  estorta  sforzatamente 
dalTarte. 

xix.  Passeremo  ora  agridiotismi,  che  sono  certe  forme  di  dire 
irregolari,  elittiche,  meno  comuni,  e  phi  relative  al  modo  di  espri- 
mer  Tidea  o  '1  sentimento,  che  al  vocabolo  o  alia  frase  che  li 
rappresentano.  Di  questi  modi  ve  ne  sono  moltissimi  in  ogni 
lingua,  e  si  credono  comunemente  cosi  propri  di  ciascheduna, 
che  siano  assolutamente  incomunicabili.  Sopra  di  essi  io  non  faro 
che  una  distinzione  non  osservata,  ed  e  che  alcuni  di  questi  sono 
idiotismi  grammaticali,  ed  altri  rettorici.  I  primi  son  quelli  che  non 
esprimono  nulla  di  piu  di  quel  che  potrebbe  spiegarsi  con  una 
frase  o  una  costruzione  ordinaria,  e  perci6  non  avendo  veruna 
bellezza  particolare  sono  in  fondo  capimorti  della  lingua;  benche" 
dalla  corrente  dei  grammatici  o  dagli  scrittori  pregiudicati  si  chia- 
mino  vezzi.  Gli  altri  son  quelli  che  dinotano  un  modo  particolar 
di  percepire  o  di  sentire  in  chi  parla,  ed  insieme  colFidea  princi- 
pale  risvegliano  per  mezzo  della  struttura  le  idee  accessorie  di 
delicatezza,  d'ingegnosita,  di  rapidita  o  simili  altre  che  raccom- 
pagnano  nello  spirito  del  parlatore.  Quali  siano  le  conseguenze 
di  questa  distinzione,  lo  vedremo  in  altro  luogo. 

xx.  Abbiamo  esaminato,  quanto  basta  al  nostro  oggetto,  non  meno 
le  parti  logiche  che  le  rettoriche  della  lingua.  Dalla  riunione  d'am- 
bedue  queste  parti  formasi  cio  che  si  chiama  il  genio  delle  lin- 
gue:  idolo,  come  si  crede  comunemente,  superbo,  intrattabile, 
sufficiente  a  se  stesso,  sdegnatore  di  qualunque  comunicazione 
o  commercio.  Se  ci6  sia  vero,  e  sino  a  quanto,  mi  riserbo  a  trat- 
tarlo  nella  parte  terza,  contento  per  ora  di  osservar  una  sola  cosa: 
che  questo  genio  e  biforme,  e  pu6  distinguersi  in  due,  Puno  de'  qua- 


356  MELCHIORRE  CESAROTTI 

li  pub  chiamarsi  genio  grammaticale  e  Faltro  rettorico:  il  primo 
dipende  dalla  struttura  meccanica  degli  element!  della  lingua  e 
dalla  loro  sintassi;  Paltro  dal  sistema  generale  delPidee  e  del  sen 
timent!  die  predomina  nelle  diverse  nazioni,  e  che  per  opera  de 
gli  scrittori  impronto  la  lingua  delle  sue  tracce.  Questa  distinzione 
potra  darci  qualche  lume  atto  a  rischiarar  un  po'  meglio  un  ar- 
gomento  intorno  al  quale,  s'io  non  erro,  e  piu  facile  il  disputar 
che  Pintendersi. 


PARTE  in 

Delle  regale  che  possono  dirigere  uno  scrittor  giudizioso 
nel  far  uso  delle  varie  parti  della  lingua. 

SOMMARIO 

I.  Correzione  grammaticale  di  due  specie.  II.  Conseguenze  di  questa  di 
stinzione,  e  awertimenti  rispetto  airuso.  III.  Qualita  che  costituiscono 
la  bonta  intrinseca  d'un  vocabolo.  i.  Un  termine  proprio  non  esclude  il 
bisogno  d'un  altro  nuovo.  2.  Esempi  importanti  di  vario  genere.  3.  Dei 
sinonimi.  IV.  Diritti  degli  scrittori  rispetto  ai  vocaboli.  i.  Del  diritto  di 
ringiovenire  i  termini  antichi.  2.  Awertenze  e  applicazioni.  V.  Diritto  d'am- 
pliare  il  senso  dei  vocaboli :  piu  ristretto  dell'altro.  VI.  Utilita  della  scienza 
etirnologica  per  ben  usar  dei  vocaboli.  VII.  Diritto  di  coniar  termini 
nuovi.  Licenza  del  neologismo  condannata.  VIII.  Lingua  nazionale;  pri 
mo  fonte  di  vocaboli  nuovi.  IX.  Delle  parole  composte.  X.  Dialetti  nazio- 
nali;  secondo  fonte.  XI.  Lingua  latina;  terzo  fonte.  Proposizione  del  Sal- 
viati  densa.  Latinismi  del  Vocabolario  condannabili.  XII.  Lingua  greca; 
quarto  fonte.  Abuso  del  grecismo  in  alcune  scienze,  e  in  particolare  nella 
medicina,  XIII.  Lingue  straniere;  quinto  fonte.  DelTintroduzione  dei 
termini  francesi.  XIV.  Novita  di  frasi  denvata  dalla  novita  dei  vocaboli. 
Osservazioni  critiche  sulle  metafore  antiche  e  moderne.  XV.  Awertenze 
sopra  le  frasi  proverbiali.  XVI.  Discussione  sopra  gl'idiotismi.  XVII.  Esame 
da  farsi  rispetto  ad  essi.  XVIII.  Utilita  delle  traduzioni.  XIX.  Discussione 
filosofica  sul  genio  rettorico  della  lingua.  XX.  Conseguenza. 

i.  Quanto  siam  per  dire  in  questa  parte  non  sara  che  un'applica- 
zione  dei  principii  stabiliti  nella  precedente. 

Incominceremo  dalle  parti  logiche  e  grammaticali,  comprese 
tutte  nella  sintassi.  Questo  e  il  punto  nel  quale  i  zelatori  della  lingua 
fanno  piu  che  negli  altri  i  severi  e  gli  schizzinnosi,  e  dannano  senza 
pieta  chiunque  si  diparte  poco  o  molto  dai  loro  canoni.  £  fuor  di 
dubbio  che  deesi  rispettar  la  sintassi,  come  quella  che  forma 


SAGGIO   SULLA   FILOSOFIA   DELLE   LINGUE  357 

Fessenza  e  '1  carattere  delle  lingue,  ed  e  altresi  certissimo  che 
il  prime  pregio  d'uno  scrittore  e  quello  d'esser  corretto.  Ma  gio- 
vera  di  osservare  che  la  correzione1  e  di  due  specie,  le  quali  non 
debbono  confondersi  tra  loro,  come  suol  farsi  comunemente:  Tu 
na  e  assoluta  ed  intrinseca,  Taltra  arbitraria  e  convenzionale.  La 
prima  consiste  nell'osservanza  di  quelle  cose  che  rappresentano 
la  differenza,  Tordine  e  la  connession  delle  idee,  quali  sono  Ta- 
nalogia,  la  concordanza,  la  costante  distinzione  dei  segni,  e  la 
regolarita  ed  aggiustatezza  delle  costruzioni.  Questa  specie  di  cor 
rezione  serve  all'oggetto  e  alia  perfezion  delle  lingue;  ma  non 
v'e  forse  alcuna  lingua,  nemmeno  tra  le  piii  celebri,  ov'ella  sia 
compiutamente  e  costantemente  osservata.  In  tutte,  per  le  ragioni 
da  noi  mentovate  di  sopra,  regnano  piu  o  meno  anomalie,  contradi- 
zioni,  capricci,  da  cui  non  vanno  sempre  esenti  neppur  gli  scrittori 
piu  rinomati  e  primari.  La  correzione  convenzionale  e  posta  nella 
conformazione  alle  leggi  dell'uso :  ora  siccome  questo  e  o  ragionevo- 
le  o  mdifferente  o  vizioso,  cosi  una  tale  osservanza  partecipa  delle 
sopraddette  qualita;  e  talora  piuttosto  che  correzione  dovrebbe  dirsi 
una  scorrezione2  autorizzata.  Per  la  stessa  ragione  non  tutti  gli  er- 
rori  contro  la  sintassi  sono  dello  stesso  genere:  altri  di  loro  sono 
reali,  altri  d'opinione.  I  primi  sono  peccati  gravi,  gli  altri  non 
sono  che  venialita  di  picciol  conto,  e  talora  anche  liberta  meri- 
torie.  Alia  prima  classe  appartiene  tutto  cio  che  genera  contro- 
senso,  imbarazzo,  equivoco  ed  oscurita :  alia  seconda  gli  atti  di  ri- 
bellione  o  d'irriverenza  alle  pratiche  del  dialetto  principale,  o  agli 
usi  degli  scrittori  privilegiati,  o  alle  parzialita  e  awersioni  dei 
grammatici  per  certe  parole,  o  per  una  fra  molte  particolar  modi- 
ficazione  delle  medesime,  che  a  qualche  profano  potrebbe  per  av- 
ventura  sembrare  indifferentissima.  Di  questa  specie  sono  tra 
noi  il  delitto  del  per  il  in  luogo  di  per  lo  o  di  pel,  e  lo  scandalo 
dell'z7  zelo  per  lo  zelo,  e  Tenormita  del  buonissimo  per  bonisstmo, 
e  del  mat  senza  il  non,  e  delFz  Dei  per  gli  Dei,  e  del  devo  per  debbo, 
e  delYabbenche  per  benche,  e  del  sqffri3  per  sofferse,  cosi  giustamente 
rimproverato  al  Tasso,  e  le  bestemmie  del  red  in  cambio  di  rendei, 
e  del  vissuto,  empito,  concepito,  assolto,  piuttostoche  vivuto,  empiuto, 
conceputo,  assoluto:  modi  tutti  di  cui  non  so  se  sia  piu  evidente  la 

i.  correzione'.  correttezza,  regolarita  grammaticale.  2.  scorrezione:  scor- 
rettezza,  errore  di  grammatica.  3.  soffri:  nel  verso  «molto  soflEri  nel  glo- 
rioso  acquisto»  (Ger.  lib.,  i,  i,  4). 


358  MELCHIORRE    CESAROTTI 

reita  o  deplorabile  la  conseguenza.  Sopra  Tuna  e  1'altra  specie 
d* error!  suol  farsi  uguale  schiamazzo  dai  timorati  grammatici,  che 
in  cose  tanto  gelose  non  ammettono  parvita  di  materia :  pure  e  de- 
gno  d'osservazione  che  siccome  le  scorrezioni  della  prima  classe 
offendono  anche  i  men  colti,  cosi  quelle  della  seconda  non  fanno 
pressoche  alcuna  sensazione  nel  maggior  numero  dei  letterati,  trat- 
tone  quei  soli  che  si  sono  formati,  sto  per  dire,  un  « gusto  d'au- 
torita».  L'Ariosto  fra  i  nostri  autori  d'alta  sfera  e  in  questo  genere 
il  piu  licenzioso  d'ogn'altro  e  il  meno  scusabile:  le  scorrezioni  del 
Furioso  occupano  presso  il  Nisiely1  molte  e  mol.te  pagine.  Pure 
non  solo  questo  difetto  non  pregiudico  punto  al  favore  universale 
di  quel  poeta  in  tutta  1J  Italia,  ma,  quel  ch'e  piu  curioso,  lo  stesso 
Infarinato  Salviati,2  il  persecutore  del  Tasso,  il  capomastro  della 
«bigotteria»  della  lingua,  lo  ammise  senza  scrupolo  fra  i  pochi  eletti 
che  figuravano  alia  testa  del  Vocabolario.3  II  Goldoni  e  tutt'altro 
che  scrupoloso  su  questo  articolo,  e  se  Metastasio  non  e  scorretto, 
non  e  nemmeno  ricercatore  delle  schizzinnose  squisitezze  del 
toscanesimo :  pure  Tuno  e  Taltro  di  essi  ugualmente  insigne  nella 
sua  specie,  oltre  che  formano  le  delizie  di  tutta  T Italia,  resero  la 
nostra  lingua  alquanto  piu  nota  e  cara  all'Europa,  di  quel  che  fa- 
cessero  i  Villani  ed  i  Passavanti.4  Non  si  trova  presso  il  Parini  ne 
un  /',  ne  un  E\  ne  un  ribobolo  o  verun'altra  lascivia  del  parlar 
toscano,  per  usar  la  frase  del  Berni:5  contuttocio  non  so  credere 
che  i  Toscani  sensati  del  nostro  secolo  osassero  porre  in  con- 
fronto  i  Canti  Carnascialeschi  o  la  Compagnia  del  Mantellaccio^ 
col  Mattino  e  col  Mezzogiorno.  Ora  se  le  lingue  son  fatte  per  Puso 
delle  nazioni,  e  se  il  senso  di  chiunque  le  ascolta  o  legge  e  il 

i.  Nisiely:  con  lo  pseudonimo  di  Udeno  Nisieli,  Benedetto  Fioretti  (1579- 
1642)  pubblico  i  suoi  Proginnasmi  poetici,  raccolta  di  osservazioni  critiche 
spesso  pedanti  e  maligne,  ma  talora  acute,  intorno  all'Ariosto  e  ad  altri 
scrittori.  2.  Leonardo  Salviati  (1540-1589),  accademico  della  Crusca  (do 
ve  aveva  assunto  il  nome  di  Infannato),  principale  promotore  del  Vocabo- 
lario  deirAccademia  stessa,  pubblicd  censure  aspramente  polemiche  contro 
la  Gerusalemme  liber ata.  3.  Vocabolario:  della  Crusca.  4.  i  Villani  ed  i 
Passavanti'.  la  Cronaca  di  Giovanni,  Matteo  e  Filippo  Villani  e  lo  Specchio 
di  vera  penitenza  di  lacopo  Passavanti  sono  fra  i  testi  piu  frequent emente 
citati  nel  Vocabolario  della  Crusca.  5.  lascivia  .  .  .  Berni:  la  frase  non  e  del 
Berm  ma  del  Lasca,  in  un  sonetto  In  lode  delle  rime  di  Francesco  Berni,  i 2-3 : 
«non  offende  gli  orecchi  della  gente  /  colle  lascivie  del  parlar  toscano  »  (cfr. 
G.  GRAZZINI,  Scritti  scelti,  a  cura  di  R.  Fornaciari,  Firenze,  Sansoni,  1911, 
p.  248).  6.  Compagnia  del  Mantellaccio:  capitolo  burlesco  stampato  per 
la  prima  volta  anonimo  (ma  certo  di  autore  toscano)  nel  1568. 


SAGGIO   SULLA   FILOSOFIA   DELLE  LINGUE  359 

solo  tribunal  competente  in  tali  materie,  quai  pregi  o  quai  difetti 
son  questi,  che  non  sono  curati  o  sentiti  se  non  se  da  una  picco- 
lissima  parte  della  nazione,  la  quai  pure  non  saprebbe  allegare 
una  ragione  appagante  delle  sue  preferenze  o  della  sua  schifilta? 
Un'altra  prova  della  poca  importanza  di  questa  specie  di  scorre- 
zione  si  trae  dalFosservare  ch'ella  e  appena  riconosciuta,  non  che 
sentita,  dai  dotti  e  colti  stranieri,  anche  i  piu  versati  nelle  altrui 
lingue.  II  Voltaire  esalta  TAriosto  per  Tesarta  purita  dello  stile.1 
II  Vaugelas2  e  gli  altri  grammatici  francesi  trovano  piu  d'uno 
di  questi  difetti  nei  loro  scrittori  piu  celebri  e  in  Racine  stesso; 
il  Voltaire  ne  rilevo  un  gran  numero  nelle  sue  note  a  Cornelio:3 
pure  fra  tanti  italiani  appassionati  per  la  lingua  francese  appena 
oso  credere  che  uno  o  due  ci  avessero  posto  mente  senza  questi 
awisi,  e  sono  piu  certo  che  niuno  ne  resta  offeso,  o  trova  percio 
i  suddetti  autori  meno  pregevoli.4  AlPincontro  nelle  qualita  essen- 
ziali  della  sintassi,  sia  la  lingua  nostrale  o  straniera,  PEuropa  tutta 
non  ha  che  un  giudizio  e  una  voce,  perche  i  pregi  o  i  difetti  di 
questa  specie  hanno  un  fondamento  di  realita  e  non  d'opirdone. 
Checche  ne  sia,  quanto  si  e  detto  finora  dee  piu  servir  per  chi  giu- 
dica,  che  per  chi  scrive.  Un  saggio  scrittore  nelle  cose  che  non 
ammettono  una  poziorita5  sensibile,  cerchera  di  sfuggire  anche 
i  difetti  apparenti,  se  non  altro  per  non  irritare  il  « bigottismo », 
ugualmente  pericoloso  in  letteratura  ed  in  societa. 


i.  II  Voltaire  . .  .  stile:  veramente  nella  voce  Spopee  del  Dictionnaire philo- 
sophique  (cfr.  Oeuvres,  xvn,  Paris,  Hachette,  1903,  p.  419)  il  Voltaire  elogia 
PAriosto  solo  per  il  «molle  et  facetum»,  per  «l'urbanite»  e  « 1'atticisme » 
del  suo  stile.  2.  Claude  Favre  de  Vaugelas  (1585-1660),  uno  dei  prtnci- 
pali  compilatori  del  Dictionnaire  de  V Academic,  e  autore  di  Remarques  sur  la 
langue  francaise.  3 .  note  a  Cornelio :  i  Commentaires  sur  Corneille,  pub- 
blicati  nel  1764.  4.  *Probabilmente  doveano  esser  di  questo  genere  con- 
venzionale  le  scorrezioni  dell1  orator  Marco  Antonio,  il  quale  per  detto  di 
Cicerone  ccinquinate  loquebatur » ;  cosa  che  non  gl'impedi  di  dividere  la 
palma  delTeloquenza  col  suo  celebratissimo  collega  Marco  Crasso.  £  veri- 
simile  che  siano  dello  stesso  ordine  anche  quelle  tante  che  un  non  so  quai 
francese,  per  detto  del  sig.  Napione,  trovava  quasi  in  ogni  facciata  delle 
opere  del  Thomas,  e  delle  quali  1'Europa  o  non  s'awede  o  non  se  ne  cu- 
ra  (C.).  II  giudizio  di  Cicerone  su  Marco  Antonio  e  nel  Brutus,  xxxvn,  140, 
Antoine  Leonard  Thomas  (1732-1785)  fu  al  suo  tempo  notissimo  soprat- 
tutto  come  autore  di  eloges\  il  giudizio  su  di  lui  e  riportato  dal  Galeani 
Napione  nella  sua  opera  DelVuso  e  dei  pregi  della  lingua  italiana,  lib.  II, 
cap.  i,  §  2,  ed.  cit.,  i,  p.  102.  Cfr.  anche  la  discussione  intorno  al  Thomas 
nelle  lettere  scambiate  fra  il  Cesarotti  e  il  Vannetti,  e  riportate  in  questo 
volume.  5.  poziorita:  preferibilita. 


360  MELCHIORRE    CESAROTTI 

II.  Ma  per  dir  qualche  cosa  di  piu  preciso,  parmi  die  possano 
stabilirsi  due  canoni  atti  a  conciliar  la  ragione  e  Farbitrio. 

1.  L'uso,   qualunque  siasi,  fa  legge  quando  sia  universale  e 
comune  agli  scrittori  ed  al  popolo,  ne,  ove  sia  tale,  pub  mai  ripu- 
tarsi  vizioso,  poiche  finalmente  il  consenso  generale  e  Fautore  e  '1 
legislator  delle  lingue.  Ma  se  una  nazione  separata  in  diverse 
provincie,  senza  una  capitale  ch'eserciti  veruna  giurisdizione  mo- 
narchica  sopra  le  altre,  avra  un  dialetto  principale  e  una  lingua 
comune,  1'uso  anche  generale  del  dialetto  primario  non  potra  dirsi 
universale,  ne  per  conseguenza  aver  forza  di  legge  se  non  quan 
do  resti  autorizzato  dal  consenso  della  nazione,  e  accolto  dalla  lin 
gua  comune.  Cosi  gli  atticismi  non  erano  leggi  della  lingua  greca, 
ma  idiotismi  particolari  degli  Ateniesi,  e  cosi  tra  i  fiorentinismi 
quei  soli  debbono  risguardarsi  come  obbligatorii,  che  furono  una- 
nimemente  adottati  dagli  altri  celebri  scrittori  d'ltalia. 

2.  Qualora  fra  gli  scrittori  celebri  v'e  discordanza  nelFuso,  deve 
esser  lecito  a  chi  scrive  di  determinarsi  col  suo  giudizio,  nel  che 
non  dovra  consultare  il  maggior  numero  degli  esempi,  ma  la  mi- 
glior  ragion  sufficiente.  Conciossiache  per  una  parte  la  diversita 
delFuso  mostra  che  non  v'era  legge  precedente  che  obbligasse  piu 
a  quella  forma  che  a  questa,  e  che  ambedue  s'accordano  col  ge- 
nio  della  lingua;  dall'altra  la  moltiplicita  degli  esempi  deriva  spesso 
da  tutt'altro  che  da  ragioni  di  preferenza;  poiche  molti  autori, 
specialmente  del  dialetto  predominant^,  o  seguono  le  scorrezioni 
(del  popolo  o  non  la  guardano  in  questo  punto  troppo  sottilmente, 
e  trovando   due   o   piu  modi  ugualmente   autorizzati   dalFuso, 
colgono  assai  spesso  il  primo  che  lor  si  ofTre,  e  continuano  po- 
scia  ad  usarlo  per  accidentale  abitudine.  Cosi  noi  tutto  giorno 
nel  nostro  idioma  vernacolo  abbiamo  alia  bocca  un  qualche  ter- 
mine  piuttosto  che  un  altro  d'ugual  valore,  senza  che  sappiamo 
noi  stessi  il  motivo  di  questa  materiale  predilezione.  Ora  la  rego- 
larita  maggiore  della  sintassi  deve  essere  la  ragion  sufficiente  in 
queste  materie:  con  che  si  rettifica  Fuso  e  si  perfeziona  la  lin 
gua.  Che  se  la  moltiplicita  degli  esempi,  come  talora  accade,  sta 
per  la  parte  men  ragionevole,  osino  i  buoni  scrittori  sostener  la 
migliore,  e  in  poco  tempo  avra  ella  il  doppio  vantaggio  e  della 
ragione  e  del  numero. 

In  forza  di  questi  principii,  senza  mendicare  autorita,  condan- 
neremo  i  modi  voi  amasti  o  amassi,  io  andasse,  come  sconcordanze 


SAGGIO    SULLA   FILOSOFIA   DELLE   LINGUE  361 

patent! ;  e  '1  noi  amassimo  per  amammo  come  equivoco ;  e  '1  torniano 
per  torniamo,  e  M  e  lei  nel  retto,1  t  gli  nel  terzo  caso  plurale  o  nel 
singolar  femminino;  e  '1  siete  per  sete,  e  '1  mosterro  per  mostrerb, 
e  '1  mia  per  mid  o  TraV,  e  facessino,  e  mewo  o  risono,  come  forme 
tutte  viziose  o  strane  o  disanaloghe ;  tuttoche  proprie  del  dialetto 
fiorentino,  e  comunissime  qual  piu  qual  me  no  agli  scrittori  piu 
antichi  e  autorevoli  della  lingua.  Per  la  ragione  contraria  credere- 
mo  meglio  detto,  perche  inserviente  alia  distinzion  delle  persone, 
tu  abbi  che  tu  abbia,  ed  io  amavo  ch'zo  amava\  benche  il  primo 
sia  poco  approvato,  e  '1  secondo  proscritto  dai  grammatici  che 
fulminano  sentenze  coi  loro  testi  alia  mano.  Ne  perche  gli  an 
tichi  usino  egli  in  plurale,  vorremo  percio  lodarlo,  ne  perche  il 
Boccaccio  e  tutti  i  Fiorentini  senza  eccezione  siansi  fatto  una  leg- 
ge  di  dir  gliele  diede  per  glielo  diede,  cesseremo  di  crederlo  una 
sconcordanza  stranissima:  ne  adotteremo  gli  abusi  della  plebe  e  di 
qual  che  scrittor  fiorentino  nello  storpiare  e  travisare  i  vocaboli, 
come  in  oppenione,  sopperire,pistolenza*pricissione,  piuvico?  ritruo- 
pico*  obbrigare,  interpetre,  e  drieto,  e  albttrio,  e  lalde,5  e  cento  altri 
che  infettano  il  Vocabolario;  ne  ci  parra  un  bel  che  il  sostituire 
alia  loro  foggia  il  d  al  g,  o  il  g  all'w  consonante,  dicendo  diacere  e 
pagone  piuttosto  chegiacere  e  pavone  alia  foggia  comune  d' Italia; 
ne  supporremo  d'aver  colto  il  fiore  dell'atticismo  quando  con 
apparente  sconcordanza  avrem  detto  uom  leggieri,  roba  fine  alia 
fiorentina,  in  vece  di  leggier  o  e  fina  colla  terminazione  universale  e 
legittima ;  ne  ci  lasceremo  indurre  a  credere  che  le  figure  gramrna- 
ticali  e  gli  esempi  vagliono  a  giustificare  il  si  per  sino  a  tanto  che, 
o  il  non  fosse  per  se  non  fosse  stato,  o  varie  altre  costruzioni  oscure  ed 
equivoche,  che  si  trovano  nel  Boccaccio  e  negli  altri  autori  del 
beato  ed  aureo  Trecento;  ne  finalmente  raccoglieremo  come  gioie 
tutti  i  cosi  detti  vezzi  di  lingua,  il  piu  delle  volte  o  insignificant! 
o  viziosi:  ben  awisandoci  che  questi  son  di  quei  modi  che  carat- 
terizzano  i  dialetti  particolari,  e  che  una  citta  rimprovera  alFaltra 
come  difettosi  e  ridicoli,  e  che  in  conseguenza  possono  tutto  al 
piu  tollerarsi,  ma  non  meritano  d'essere  trasformati  in  bellezze 
e  cercati  smaniosamente  dagli  scrittori.  Ne  sempre,  ove  regna  la 
diversita  dell'uso,  dovra  lo  scrittor  giudizioso  attenersi  alia  maggior 
esattezza  della  sintassi,  ma  talora  fara  gran  senno  a  sacrificarla  o 

i.  retto:  nominativo.  2.  pistolenza;  pestilenza.  ^.piuvicoi  pubblico. 
4.  ritruopico:  idropico.  5.  lalde:  lode. 


32  MELCHIORRE   CESAROTTI 

alia  convenienza  del  numero  o  alPagilita  o  all'energia  o  alle  altre 
qualita  dello  stile,  e  talora  anche  a  una  giudiziosa  e  piacevole 
varieta,  specialmente  in  que*  luoghi  ove  si  tratta  piu  di  dipin- 
gere  o  muovere,  che  d'istruire.  Ma  il  sentire  ove  e  perche  si  con- 
venga  meglio  di  servire  all'accuratezza  o  all'espressione,  e  cosa 
di  finissimo  conoscimento,  che  puo  solo  ispirarsi  del1  gusto  in- 
terprete  nato  e  dominator  delle  regole. 

in.  Le  parti  logiche  danno  alia  lingua  perspicuita  ed  aggiu- 
statezza,  le  rettoriche  le  comunicano  bellezza  e  vivacita.  Tra 
queste  faremo  in  primo  luogo  alcune  osservazioni  pratiche  sopra 
i  vocaboli. 

1.  Attenendosi  ai  principii  da  noi  stabiliti  di  sopra,  chi  scrive 
non  avra  piu  mestiere  di  rimescolare  gli  archivi  delle  parole  per 
dar  adeguato  giudizio  della  loro  intrinseca  qualita.  Quando  un 
termine  e  conveniente  alFidea,  quando  rappresenta  vivamente  Pog- 
getto  o  colla  struttura  de'  suoi  elementi  o  con  qualche  somiglianza 
o  rapporto ;  quando  inoltre  e  ben  derivato,  analogo  nella  formazio- 
ne,  non  disacconcio  nel  suono,  di  qualunque  autore  egli  siasi,  a 
qualunque  data  appartenga,  sia  esso  parlato  o  scritto  o  immaginato, 
sara  sempre  ottimo,  e  da  preferirsi  ad  altri  insignificanti,  strani, 
disadatti,  che  non  abbiano  altra  raccomandazione  che  quella  del 
Vocabolario. 

2.  Debbonsi  rispettare  i  vocaboli  propri  quando  siano  unici,  ri- 
cevuti  generalmente  ed  intesi,  poiche,  quand'anche  fossero   di 
quella  specie  che  abbiam  di  sopra  chiamata  termini-cifre,  la  buo- 
na  sorte  d'esser  unici  e  costantemente  affissi  ad  un  oggetto  parti- 
colare  ne  suscita  immediatamente  Pidea,  e  la  rappresenta  spiccata 
nelle  sue  individual!  sembianze;  nel  che  consiste  il  primo  pregio 
e  Popportunita  dei  vocaboli.  Non  dee  credersi  non  pertanto  che 
Punicita  e  Puniversalita  d'un  termine  proprio  escluda  sempre  il 
bisogno  d'un  altro  nuovo,  in  guisa  che  Pintrodurlo  sia  in  ogni  caso 
un'affettazione  viziosa,  quando  all'opposto  molte  voci  per  van- 
taggio  della  lingua  e  per  uso  delljintelligenza  domanderebbero  il 
soccorso  d'un  qualche  termine  suffraganeo  che  supplisse  al  loro 
difetto.  Di  fatto  i  vocaboli  nozionali  essendo  rappresentativi  d'idee 
complesse,  e  queste  non  essendo  che  una  collezione  di  semplici, 
ne  ciascheduno  individuo  convenendo  sempre  nel  numero  delle 

i.  del:  1'edizione  pisana  ha  «dal»,  che  correggo  con  1'Ortolani,  seguendo 
i  edizione  del  1785. 


SAGGIO    SULLA   FILOSOFIA   DELLE   LINGUE  363 

semplici  che  formano  il  fascio  delle  altre,  ma  ora  soprabbondando, 
ora  mancandone  alcuna;  ne  segue  che  il  termine  unico,  destinato  a 
connotare  una  idea  complessa,  generi  equivoci,  oscurita  e  question! 
di  parole  che  si  sarebbero  prevenute  colla  distinzion  dei  vocaboli. 
Disputarono  molto  i  teologi  e  i  ragionatori  se  le  virtu  dei  pagani 
fossero  vere  virtu:  disputa  vana,  nata  solo  da  cio  che  gli  uni  nel 
formar  Fidea  complessa  di  virtu  v'includevano  quella  di  reli- 
gione,  che  dagli  altri  non  si  credea  necessaria.  La  guerra  pedan- 
tesca  suscitata  in  Parigi  contro  il  nuovo  genere  della  commedia 
passionata1  non  aveva  altro  fondamento  fuorche  il  non  esserci 
originariamente  un  termine  che  distinguesse  la  rappresentazione 
delle  awenture  interessanti  della  vita  privata  da  quelle  dei  di- 
fetti  ridicoli. 

Non  e  meno  desiderabile  la  duplicita  dei  termini  nelle  nozioni 
morali,  al  di  cui  vocabolo  e  annessa  dalPuso  1'idea  accessoria  di 
lode  o  di  biasimo,  benche  la  cosa  vi  sia  per  se  stessa  indifferente, 
ne  si  accosti  all'mnocenza  o  alia  colpa  che  per  1'oggetto,  le  mi- 
sure  o  le  circostanze.2  La  compiacenza  dehziosa  d'un  uomo  one- 
sto  per  le  sue  azioni  virtuose  non  ha  un  titolo  preciso  che  la  di- 
stingua  dalla  superbia;  ne  la  giustizia  che  un  Socrate  rende  tran- 
quillamente  a  se  stesso  e  segnata  con  un  carattere  proprio  e  di- 
verso  dalla  millanteria  d'un  Trasone;3  quindi  e  facile  al  volgo  e 
alFanime  basse  o  maligne  di  dare  ai  sentimenti  nobili  il  color 
del  difetto  o  del  vizio.  La  voce  voluptas  dei  Latini  scredito  piu  del 
dovere  la  dottrina  moral  d'Epicuro;  i  vocaboli  amor  proprio,  in- 


i.  commedia  passionata'.  il  Cesarotti  allude  alia  comedie  larmoyante,  i  cui  ar- 
gomenti  erano  appunto  i  casi  tristi  e  dolorosi  della  vita  quotidiana,  e  sulla 
cui  legittimita  estetica  molto  si  discusse  in  Francia  nel  secolo  XVIII,  con 
1'intervento  anche  del  Beaumarchais  e  del  Diderot.  2.  *Mai  non  si  rese 
piu  sensibile  rimportanza  della  duplicita  dei  termini  nelle  nozioni  ^morali 
quanto  ai  tempi  nostri,  nei  quali  pu6  dirsi  con  verita  che  il  mondo  e  posto 
sossopra  dalla  fraudolenta  e  tirannica  unicita  d'alcuni  vocaboli,  Odasi  come 
parla  un  celebre  scrittor  francese,  il  cui  testimonio  e  in  piu  d'un  senso 
autorevole.  «6  ben  da  compiangersi  che  la  lingua  non  abbia  che  un  solo 
termine  per  dinotare  alcune  nozioni  politiche,  e  che  abbia  confidato  agli 
adiettivi  e  alle  perifrasi  la  cura  di  marcame  le  distinzioni  anche  piu  nota- 
bili.  lo  dico  seriamente  che  se  ci  fossero  stati  due  nomi  particolari,  un  dei 
quali  designasse  la  liberta  saggia,  e  1'altro  la  liberta  senza  limiti,  questa  li- 
beralita  di  lingua  ci  avrebbe  risparmiate  molte  disgrazie»,  N.R.F.  (C.)-  La 
sigla  corrisponde  probabilmente  a  Necker,  \De  la]  Revolution  f ran faise, 
opera  pubblicata  a  Parigi  nel  1796.  3.  Trasone:  e  un  personaggio  dell^w- 
nuchus  di  Terenzio,  che  riprende  il  tipo  del  plautino  miles  gloriosus. 


3^4  MELCHIORRE   CESAROTTI 

teresse,  lusso,  usura,  passione,  presi  costantemente  in  senso  vizioso, 
generarono  idee  false,  persecuzioni  pericolose,  declamazioni  vio- 
lente. 

Hi  motus  animorum  atque  haec  certamina  tanta 
nominis  exigui  lactii  compressa  fatiscunt.1 

Quindi  i  ragionatori,  che  appunto  si  distinguono  dai  semidotti 
nella  maggior  aggiustatezza  dei  loro  gruppi  nozionali,  sentono 
spesso  il  bisogno  d'un  nuovo  segno  che  li  rappresenti  adeguata- 
mente,  bisogno  creduto  chimerico  da  tutti  quelli  il  di  cui  spirito, 
posto  al  livello  comune,  non  e  mai  tormentato  da  una  nuova  com- 
binazione  d'idee  che  tenti  di  sprigionarsi. 

Gli  oggetti  fisici,  come  reali  e  costanti,  qualora  abbiano  un 
nome  proprio,  sembra  che  debbano  andarne  contenti,  senza  ri- 
cercar  di  phi.  Pure  anch'essi  passano  per  vari  stati,  e  soggiacciono 
a  molte  modificazioni  esterne  ed  interne.  Chi  pu6  asserire  che 
non  sia  opportune  e  forse  talor  necessario  il  fissarne  alcuna  con 
un  vocabolo?  Gli  Ebrei  aveano  due  termini,  Tuno  appropriate 
alPerba  vergine,  e  Paltro  alia  fecondata.2  Questo  doppio  nome, 
se  si  fosse  trovato  nella  nostra  lingua,  non  avrebbe  agevolata  al 
popolo  e  diffusa  la  conoscenza  del  doppio  sesso  delle  piante? 
Dicesi  che  gli  Arabi  abbiano  200  vocaboli  per  dinotar  il  cavallo. 
Sia  questo,  se  vuolsi,  un  lusso  stranamente  eccessivo:  ad  ogni 
modo  e  certo  che  quella  nazione  deve  aver  osservato  in  quelPani- 
male  una  folia  di  differenze  mal  distinte  da  noi,  perche  compresse 
e  confuse  in  un  solo  termine.  II  comune  degli  uomini  e  degli 
scrittori  non  conosce  il  bisogno  di  questa  moltiplicita ;  solo  gli 
uomini  che  per  dovere,  per  professione  o  per  genio  si  applicano 
a  studiar  gli  oggetti  della  natura  e  delParte,  sentono  il  vantaggio 
di  aver  un  vocabolo  che  fissi  Pidea  senza  equivoco,  e  la  presenti  al- 
Pintelligenza  di  chi  gli  ascolta  per  fame  il  soggetto  delle  loro  ri- 
flessioni.  Lasceremo  ora  decidere  a  chi  sa  ragionare  qual  sia 
maggior  assurdita,  quella  d'immaginarsi  che  gli  scrittori  approvati 
abbiano  esaurito  tutti  i  termini  successivamente  necessari,  o  quel 
la  di  obbligar  tutti  g'individui  d'una  nazione  a  lasciar  abortire  le 

i.  Adatta  Virgilio,  Georg.,  iv,  86-7,  sostituendo  nomims  a  « pulveris »,  e  fa 
tiscunt  a  « quiescent »  (« Questi  movimenti  e  queste  cosi  grand!  lotte  degli 
animi  sono  frenati  e  dissolti  dal  getto  di  un  piccolo  nome »).  2.  Michaelis, 
Dissert,  sur  la  lang.  (C.).  Su  quest'opera  cfr.  la  nota  2  a  p.  333. 


SAGGIO    SULLA  FILOSOFIA  DELLE   LINGUE  365 

loro  idee  piuttosto  che  servirsi  d'un  termine  non  registrato  nelle 
tavole  della  lingua. 

3.  I  sinonimi  sono  assai  minori  di  numero  di  quel  che  si  pensa. 
Abbiamo  osservato  di  sopra  che  molte  voci  sinonime  nelPidea  prin- 
cipale  son  diverse  nelF  access  oria,  ne  possono  usarsi  indistintamente. 
II  conoscerne  le  difference  e  spesso  opera  di  molta  finezza  e  saga- 
cita.  Sarebbe  desiderabile  che  nella  lingua  itaiiana  si  facesse  una 
raccolta  di  sinonimi,  come  la  fece  nella  francese  Fab.  Girard;1 
ma  a  fine  di  renderla  preziosa  ed  utile  non  solo  ai  letterati,  ma  in- 
sieme  anche  agli  eruditi  filosofl,  converrebbe  aggiungere  alle  dif- 
ferenze  dell'uso  quelle  del  loro  senso  primitive  ed  intrinseco,  se- 
guendo  i  vestigi  dell'etimologia  e  le  loro  trasmigrazioni  successive, 
e  rintracciando  le  ragioni  che  finalmente  ne  determinarono  il 
significato  ad  un'idea  piu  che  all'altra:  notizia  ugualmente  oppor- 
tuna  e  a  chi  scrive  a'  tempi  nostri,  e  a  chi  vuol  giudicare  fondata- 
mente  delle  opere  di  quei  che  scrissero. 

Quando  i  sinonimi  siano  veramente  tali  in  ogni  senso,  e  non 
differiscano  fuorche  nel  materiale  della  parola,  lo  scrittore  giu- 
dizioso  non  si  fara  schiavo  degli  esempi  o  delTuso  piu  comune 
d'un  qualche  dialetto,  ma  fra  due  termini  ugualmente  analoghi 
ad  altri  gia  ricevuti  nella  lingua  scegliera  quello  che  colla  sua  strut- 
tura  o  colla  terminazione  corrisponda  meglio  all'effetto  che  vuol 
destarsi,  e  s'adatti  al  colore  o  alTintonazione  general  dello  stile. 
Non  solo  in  due  parole  di  suono  diverso,  ma  nella  stessa,  la  dif- 
ferenza  d'una  vocale,  la  semplicita  o  il  raddoppiamento  d'una 
lettera  non  sono  indifferent!  a  uno  squisito  conoscitor  di  queste 
materie,  che  distingua  la  natura  dei  vari  generi  e  i  diritti  della 
prosa  e  del  verso.  Per  un  orecchio  sensibile  ai  menomi  element! 
delPimitazione,  insuperbisce  o  insuperba,  inacerbire  o  inacerbare, 
intenebrito  o  intenebrato,  lieve  o  leve  non  son  lo  stesso.  Percio 
nelTuso  di  queste  e  simili  voci  lo  scrittore  non  si  fara  scrupolo 
di  discordare  da  se  medesimo,  purche  s'accordi  sempre  coll'esi- 
genza  particolare  della  cosa  e  del  senso  che  vuol  destare  in  chi 
ascolta. 


i  come  .  .  .  Girard:  allude  all' opera  Lajustesse  de  la  langue  franpaise  ou  les 
differences  significations  des  mots  qui  passent  pour  synonymes,  pubblicata  nel 
1718  dall'abate  Gabriel  Girard  (1677-1748)  e  ristampata  con  aumenti  nel 
1736,  con  il  titolo  Synonymes  franpais,  leurs  differentes  significations  ecc.: 
primo  tentative  di  un  vocabolario  di  sinonimi. 


366  MELCHIORRE  CESAROTTI 

4.  In  una  lingua  viva  e  vegeta,  coltivata  da  una  folia  d'ingegni 
forniti  d'erudizione  e  di  gusto,  non  altro  che  la  tirannide  d'un  ridi- 
colo  pregiudizio  puo  togliere  agli  scrittori  moderni  la  doppia  liberta 
conceduta  ai  loro  antecessori  di  dispor  dei  vocaboli  antichi  e  d'in- 
trodurne  di  nuovi;  purche  Tuna  e  Paltra  di  queste  operazioni  sia 
fatta  giudiziosamente  e  a  proposito.  Cio  potrebbe  al  piu  essere  un 
problema  se  si  trattasse  della  lingua  parlata,  che  servendo  agli 
usi  comuni  del  popolo  dee  dipender  in  gran  par-te  da'  suoi  capricci. 
Ma  noi  abbiam  gia  mostrato,  nella  prima  parte,  che  la  lingua 
scritta  ha  molte  intrinseche  diversita  che  le  danno  diritti  e  privilegi 
diversi:  ella  dee  considerarsi  come  il  dialetto  particolare  d'una 
nazione  non  ristretta  a  veruna  citta,  ma  diffusa  per  ogni  parte 
d'ltalia,  nazione  composta  del  fiore  degli  uomini  colti  delle  di 
verse  provincie,  che  si  regge  a  repubblica,  che  ha  per  tutto  gli 
stessi  principii  regolativi,  e  la  di  cui  liberta  non  riconosce  altri  vin- 
coli  che  quelli  della  ragione.  Essa  vive  in  ogni  luogo  confusa  col- 
Paltra  nazione  piu  numerosa  del  popolo,  si  adatta  alia  sua  capacita 
misuratamente,  ma  non  ne  riceve  la  legge;  ne  il  popolo  stesso  si 
e  mai  arrogato  di  dargliela,  anzi  ne  rispetta  le  usanze,  sa  che  la 
lingua  di  essa  non  puo  essere  perfettamente  intesa  che  dagl'mi- 
ziati,  che,  somigliante  alia  comune,  n'e  per  diritto  in  vari  punti 
diversa,  e  che,  come  la  lingua  degli  dei  presso  Omero,  ha  molte 
locuzioni  non  usate  ma  venerate  dagli  uomini.  Perci6  qualora  un 
letterato  scrupoleggia  sopra  un  termine  o  una  frase  non  comune, 
e  se  ne  mostra  offeso  per  la  semplice  ragione  che  quel  termine 
non  e  inteso  o  comunemente  usato  dal  popolo,  egli  si  degrada  da 
se  medesimo  e  si  confonde  col  volgo.  Egli  e  un  cittadino  illegitti- 
mo  che  si  fa  schiavo  dey  suoi  servi. 

iv.  Rapporto  ai  vocaboli  gia  ricevuti,  la  prima  facolta  che  si 
compete  ad  uno  scrittore  si  e  quella  di  ringiovenire  opportuna- 
mente  le  voci  invecchiate  e  richiamarle  alia  luce.  Questo  e  un  atto  di 
pieta,  un  vero  beneficio  fatto  alia  lingua  che  si  ripopola,  come  lo  fa- 
rebbe  a  un  conquistatore  chi  trovasse  il  modo  di  ringagliardire 
gPinvalidi  e  mandarli  di  nuovo  al  campo.  Questo  rinnovamento 
accade  alle  volte  naturalmente  in  ogni  lingua :  quel  che  si  fa  per  caso 
non  potra  farsi  per  arte  ?  «  Multa  renascentur »  dice  Orazio  «  quae 
iam  cecidere»:  e  vero  ch'egli  ci  aggiunge  «si  volet  ususw;1  ma 

i.  Cfr.  Ars  poet.,  70-1:  « Multa  renascentur  quae  iam  cecidere,  cadent- 
que  /  quae  nunc  sunt  in  honore  vocabula,  si  volet  usus »  («  Molti  vocaboli 


SAGGIO    SULLA   FILOSOFIA   DELLE   LINGUE  367 

quest'uso,  a  dirlo  una  volta  per  sempre,  non  deve  egli  aver  un  au- 
tore  che  gli  faccia  da  padrino  e  lo  introduca  nel  mondo  ?  Si  ripete 
eternamente  che  1'uso  e  il  sovrano  delle  lingue;  bel  sovrano  per 
mia  fe,  a  cui  s'impedisce  di  nascere!  I  Frances!  sono  ritrosi  forse 
piu  d'ogni  altro  popolo  a  questo  rinnovamento  delle  parole.  Molti 
dei  loro  scrittori  si  lagnano  che  siano  andati  in  disuso  vari  ter 
mini  espressivi  e  calzanti  di  Montaigne,  d'Amiot1  e  degli  altri 
antichi.  Si  lagnino  piuttosto  della  loro  pusillanimita,  che  non  ar- 
disce  di  rimetterli  in  voga.  Ma  presso  una  nazione  che  ha  una 
capitale  e  una  corte,  gli  scrittori  son  men  liberi,  e  le  idee  accessorie 
trionfano  delle  principali.3  Fra  noi  questa  liberta  e  la  meno  con- 
trastata  dalla  setta  dei  zelatori.  Non  ista  certamente  in  loro  che 
non  si  rinnovi  tutto  il  frasario  del  Trecento:  essi  piangono  a 
cald'occhi  sul  deperimento  giornaliero  dell'antica  lingua,  e  chi  osa 
di  rawivare  un  termine  dell'epoca  primitiva,  e  certo  di  farli 
rimbambolire  di  tenerezza.  Tutti  i  retori  convengono  che  un  certo 
colore  d'antichita  concilia  maesta  alle  parole,  come  alle  medaglie 
la  ruggine.  Benche  cio  sia  vero,  e  per  conseguenza  opportune  in 
qualche  circostanza,  specialmente  nella  poesia,  non  parmi  per6 
che  questa  sia  generalmente  una  ragione  bastevole  per  autorizzar 
un  termine  antiquato,  ma  che  vi  si  richiegga  qualche  raccomanda- 
zione  piu  intrinseca.  Secondo  Quintiliano,  fra  le  parole  antiche 
sono  migliori  le  piu  recenti,  come  fra  le  nuove  le  piu  antiche.3 
lo  direi  piu  volentieri  che  fra  le  nuove  sono  da  preferirsi  quelle 
che  sembrano  vecchie,  e  fra  le  vecchie  quelle  che  hanno  Papparen- 
za  di  nuove.  Abbiamo  osservato  nella  prima  parte  che  fra  i  ter 
mini  antichi  altri  vanno  in  disuso  per  qualche  difetto  intrinseco, 
altri  per  semplice  capriccio  o  vaghezza  di  novita.  I  primi,  che  si 
palesano  col  suono  disadatto,  colla  formazione  disanaloga,  colla 


che  gia  scomparvero,  rinasceranno,  e  invece  scompariranno  quelli  che  ora 
sono  in  onore,  se  lo  vorra  Puso»)  i.  Amiot:  Jacques  Amyot  (1513-1593), 
famoso  soprattutto  per  la  sua  traduzione  delle  Vite  parallels  di  Plutarco, 
fu  lodato  dallo  stesso  Montaigne  per « la  naivete*  et  la  purete  du  language, 
en  quoi  il  surpasse  tous  autres  ».  2.  *Quando  Pautore  scrisse  cosi  egli  era 
ben  lungi  dal  prevedere  che  1*85  fosse  cosi  presso  all'SQ.  Ma  1'epoca  della 
democrazia  fu  ella  piu  favorevole  alia  lingua  francese  che  quella  della 
corte?  II  problema  sarebbe  degno  delPAccademia  dei  quaranta,  ma  non 
so  se  la  liberta  permetta  di  scioglierlo  (C.).  3.  Secondo  . . .  antiche:  cfr. 
Inst.  orat.,  i,  vi,  41:  «Ergo  ut  novorum  [verborum]  optima  erunt  maxi- 
me  vetera,  ita  veterum  maxim  e  nova». 


3^8  MELCHIORRE   CESAROTTI 

insignificanza,  colla  stranezza,  si  fara  gran  senno  a  lasciarli  nelle 
tenebre  deU'oblivione :  ma  tutti  quelli  che  sono  ben  dedotti,  ben 
coniati,  che  rappresentano  un'idea  mancante  d'altro  segno  o  d'uno 
egualmente  espressivo,  che  nella  loro  etimologia  o  derivazione 
portano  scolpito  il  loro  senso,  che  con  una  desinenza  analoga  ad 
altri  della  sua  specie  possono  servire  ad  una  piacevole  varieta,  che 
in  fine  non  hanno  milla  in  se  stessi  che  ci  ammonisca  del  loro  deca- 
dimento;  hanno  un  pieno  diritto  alia  luce  ed  al  commercio  degli 
scrittori,  ed  annicchiati1  a  dovere  avranno  il  doppio  merito  di 
ferire  colla  novita,  mentre  esigono  rispetto  colPantichezza.  Per- 
ci6  non  sa  piacermi  di  veder  nel  Dizionario  marcati  indistintamente 
colla  lettera  del  disuso,  e  confusi  coi  vocaboli  rancidi  e  strani, 
molti  delPultima  specie,  senza  almeno  un  awiso  che  gli  distin- 
gua;  perche  i  giovani  inesperti  e  poco  atti  a  ragionare  gli  credono 
tutti  d'una  sfera,  e  si  awezzano  sempre  piu  a  giudicar  delle  parole 
dall'autorita,  piuttosto  che  dal  loro  intrinseco  pregio.  Boattiere? 
a  cagion  d'esempio,  e  nome  unico  di  professione  che  non  dee  per- 
dersi.  Incompassione  porta  un'idea  che  non  e  lo  stesso  che  crudeltd. 
Dringolare,  che  dinota  il  tremito  interno,  e  della  classe  dei  termini 
pittoreschi  preziosi  allo  stile.  Incominciaglia  colla  sua  desinenza 
rappresenta  felicemente  un  esordio  goffo  e  tedioso.  Disragione, 
opposto  a  ragione,  oltre  alTesser  secondo  Panalogia,  fa  un  belPef- 
fetto  nelTesempio  citato  di  fra  Giordano.3  Infamigliarsi,  infugare, 
innamicare,  rimbaldire  son  termini  tutti  opportunissimi  e  non  pun- 
to  strani.  Rischievole  e  accorgevole  spiegano  idee,  e  son  di  stampa 
comunissima.  Non  vorrei  perder  miraglio,  ben  piu  espressivo  di 
specchio.  Sceleranza  potrebbe  nel  verso  far  miglior  comparsa  di 
sceleraggine:  e  se  il  Boccaccio  uso  scropuloso  per  bernoccoluto,  dal 
latino  scrupulus,  parlando  dei  cedriuoli,4  non  sara  esso  meglio  ap- 
plicato  in  poesia  a  rappresentar  col  suono  la  schiena  scoscesa  d'un 
monte?  La  terminazione  -oso  significando  comunemente  ab- 
bondanza,  i  vocaboli  giocondoso  e  facondioso  non  potrebbero  ap- 


i.  annicchiati:  collocati  come  nella  loro  nicchia.  a.  Boattiere:  custode  o 
mercante  di  buoi.  I  vocabolari  citano  un  esempio  del  Sacchetti.  3.  Disra- 
gione . . .  Giordano:  il  Vocdbolario  della  Crusca  non  cita  esempi  di  fra  Gior 
dano,  ma  il  seguente,  tratto  dalle  Letter  e  di  Guittone:  «Non  ragione  ne 
sapienza  no :  ma  disragione  e  mattezza  disnaturata  dimora  loco ».  4.  il 
Boccaccio . . .  cedriuoli:  cfr.  Ninfale  d'Ameto,  ed.  N.  Bruscoli,  Bari,  Laterza, 
>  P-  ?i :  ((gli  scrupolosi  cedriuoli ». 


SAGGIO    SULLA   FILOSOFIA   DELLE   LINGUE  369 

plicarsi  felicemente  in  ischerzo  ad  un  uomo  perpetuamente  e 
stemperatamente  giocondo,  e  a  chi  si  compiace  d'una  pomposa 
loquacita?  Solettamente  non  val  nulla  nelPesempio  del  Vocabo- 
lario,1  ma  sarebbe  egregiamente  detto  d'un  amante  che  passeg- 
giando  co*  suoi  pensieri  si  delizia  nella  solitudine.  In  generale  la 
scelta  delle  parole  e  poca  cosa;  la  grand'arte  dello  scrittore  e 
quella  di  sceglier  il  luogo  di  collocarle,  e  di  sentir  le  circostanze 
che  possono  dar  loro  risalto.  Questo  e  il  solo  mezzo  di  far  cono- 
scere  la  ricchezza  della  lingua.  Tal  parola  isolata  riesce  strana,  che 
annicchiata  a  dovere  diventa  una  gemma  dello  stile. 

v.  La  seconda  facolta,  rapporto  a  questi  vocaboli,  sara  quella 
d'ampliarne  il  senso,  di  cui  pero  vuolsi  usare  con  vie  maggior 
sobrieta  e  awedutezza.  Questo  per6  e  quel  che  si  e  fatto  costante- 
mente  dall'uso  in  tutte  le  lingue.  Ma  una  tale  ampliazione  non  e 
permessa  se  non  quando  o  la  stretta  affinita  delle  idee  sembra 
attrarre  naturalmente  la  comunicazion  del  vocabolo,2  o  il  vo- 


i.  nelVesempio  del  Vocabolario:  che  e  il  seguente,  tratto  dalle  Meditazioni 
sopra  la  vita  di  Gesu  Cristo :  «  e  cosi  tutta  quella  sera,  solettamente,  quanto 
potea  onestamente  e  convenevolmente,  ando  cercando  di  lui ».  2.  *La  de- 
licatezza  del  sig.  co.  Napione  per  la  purita  della  nostra  lingua  giunge  a  far- 
gli  condannare  di  gallicismo  manifesto  1'espressione,  venuta  di  Francia  ma 
comunissima  in  Italia,  uomo  digenio.  Giova  sentirne  la  ragione.  «Tra  i  di- 
versi  significati»  dic'egli  «che  ha  in  lingua  italiana  la  voce  genio,  assai  pro- 
prio  e  comune  si  e  quello  d'un  ente  superiore  allo  spirito  umano.  Si  puo 
dire  pertanto  in  lingua  nostra  in  senso  traslato  che  un  uomo  grande  e  un 
genio;  per  denotare  esser  egH  in  certa  guisa  superiore  agli  altri  uomini  .  .  . 
Sarebbe  pero  un  gallicismo  manifesto  il  chiamare  qualche  scrittore  uomo 
di  genio,  ma  il  dirlo  un  genio  assolutamente,  ed  il  contrapporre  il  genio 
allo  spirito,  non  e  altro  se  non  prevalersi  in  nuovo  senso  traslato  di  una 
voce  antica  italiana  per  denotar  con  precisione  i  diversi  gradi  e  le  diverse 
specie  d'ingegno,  senza  offender  in  nulla  la  purita  dell'idioma  nostro  ».  lo 
osservo:  i.  che  tra  esser  un  genio,  e  accostarsi  al  gemo,  o  partecipar  d'un 
genio  v'e  qualche  difTerenza,  come  ce  n'e  tra  uom  divino  e  Dio;  perci6 
queste  idee  non  possono  scambiarsi  Tuna  per  1'altra,  e  dritto  e  che  Tuna  e 
Paltra  abbia  un'espressione  sua  propria  che  la  distingua.  2.  Che  1'usar  la 
voce  genio  in  questo  senso  originate  per  contrapporla  allo  spirito,  e  una 
sconcordanza  logica,  poiche  quest'e  paragonar  un  essere  a  un'idea,  una  so- 
stanza  a  una  qualita.  3.  Che  quasi  tutte  le  frasi  di  questo  genere  rese  fami- 
liarissime  in  tutti  gli  scritti,  molte  delle  quali  le  trovo  anche  usate  dal  sig. 
Napione  in  questa  istessa  sua  opera,  intese  con  questo  rapporto  diverreb- 
bero  poco  men  che  ridicole,  Che  \oiol  dire  il  genio  de*  poeti  che  si  conserua 
colle  traduzioni,  il  genio  deirinvenzione,  il  genio  originale  degV Italiani,  il  genio 
creator  d'Omero  paragonato  alia  squisitezza  di  Virgilio,  se  in  tutte  queste  e 
cento  altre  espressioni  sirnili  dee  sempre  ricorrersi  all' idea  di  un  vero  genio, 
d'un  essere  supposto  reale  ?  E  bene,  si  sostituisca  dunque  alia  voce  genio 

24 


37°  MELCHIORRE   CESAROTTI 

cabolo  stesso  par  che  c'inviti  colla  sua  etimologia  ad  usarlo  anche 
neiraltro  senso,  che  talor  per  awentura  e  il  piu  naturale  e  Jl  piu 
owio.  Indonnarsi  fu  sempre  usato  in  senso  d'«  insignorirsi »,  da 
donno:  ma  come  non  sara  dedotto  ugualmente  bene,  e  forse  me- 
glio,  da  donna!  O  chi  vorra  riprendere  un  poeta  moderno,  che 
parlando  alle  femmine  disse  con  espressione  energica  che  non 
debbono  pretendere  che, 

travolte  le  natie  sembianze, 
sformato  il  mondo  d  piedi  lor  s'indonnit 

Alcuni  termini  trovansi  usati  nel  senso  proprio,  e  non  mai  nel 
metaforico ;  altri  viceversa.  Sara  questa  una  legge  invariabile  ?  cosi 
vorrebbero  i  superstiziosi  che  fanno  un  precetto  d'ogni  accidente. 
II  trasporto  reciproco  da  un  senso  alPaltro  fu  sempre  liberta  origi- 
naria  e  coessenziale  alle  lingue.  La  Crusca  nota  che  acerbitd  si 
dice  in  senso  metaforico  per  asprezza  di  carattere;  che  vuolsi 
intender  con  cio?  Sarebbe  forse  mal  detto  in  senso  proprio  Va- 
cerbitd  delle  frutta  ?  o  Taltra  metafora  di  chi  disse  V acerbitd  de- 
gli  anni1  e  men  buona  della  precedente  ?  Delia  voce  vaporoso  non 
si  trovano  esempi  citati  che  nel  senso  proprio.  Ecco  come  un  mo 
derno,  conciliando  nello  stesso  termine  tre  sensi,  proprio,  me- 


quella  di  angelo,  demonio,  semideo,  ente  superior e\  e  si  veda  il  bel  senso  che 
ne  risulta.  Per  gmstificar  questi  modi  convien  dunque  stabilire  ci6  che  in 
fatto  e,  vale  a  dire  che  la  voce  gento,  in  grazia  delTafHnita  delPidea  e  insieme 
della  sua  etimologia,  pass6  a  significar  per  ampliazione  una  qualita  d'in- 
gegno  superiore  al  comune,  e  che  sembrava  appartenere  ai  soli  gem.  In 
questo  solo  significato  il  genio  pu6  contrapporsi  allo  spirito,  con  questo 
nuovo  significato  il  termine  di  genio  s'e  gia  da  gran  tempo  addimesticato 
colla  lingua,  e  in  questo  solo  esso  fa  un  senso  aggiustato  in  tante  frasi  che 
lo  ricevono.  Se  cosi  e,  ne  vengono  due  conseguenze  legittime.  i.  Che  chi 
primo  invento  la  voce  uomo  di  genio ,  voile  rappresentar  un'idea  diversa 
da  quella  di  genio  assoluto,  e  non  avea  torto  se  cercava  d'esprimersi  con 
qualche  diversita.  2.  Che  T espressione  uomo  di  genio,  in  qualunque  paese 
sia  nata,  e  ora  tanto  italiana  quanto  lo  e  uomo  di  spirito,  uomo  d'ingegno, 
uomo  di  senno,  e  tante  altre  simili.  Resta  a  desiderarsi  che  la  cosa  sia  tanto 
comune  in  Italia,  quanto  lo  e  divenuto  il  vocabolo  (C.)-  II  passo  citato  del 
Galeani  Napione  e  tratto  da  una  nota  dell' op  era  DelVuso  e  del  pregi  della 
lingua  itahana,  lib.  n,  cap.  v,  §  7,  ed.  cit.,  i,  pp.  264-6.  i.  chi  disse  .  . . 
anni:  allude  al  Tasso,  che,  nella  canzone  Al  Metauro,  44-6,  dice:  «anzi 
stagion,  matura  /  1'acerbita  de'  casi  e  de5  dolori  /  in  me  rende"  1'acerbita 
degli  anni ».  II  Vocdbolario  della  Crusca  cita  invece  un  esempio  del  Fili- 
caia,  che  imita  senza  dubbio  il  Tasso. 


SAGGIO    SULLA   FILOSOFIA  DELLE   LINGUE  371 

taforico  ed  allusivo,  indico  le  due  malattie  delle  belle,  la  vanita 
ed  i  vapori: 

Verra  stagion  che  di  mortal  bellezza 
fora  vedovo  il  tempio,  e  fredde  Pare, 
senza  Vonor  del  vapor osi  incensi. 

Acdaiato,  se  consult!  il  Vocabolario,  si  dice  solo  del  vino  medicato 
colTacciaio.  Perche  non  potra  applicarsi  ad  un  uomo  vestito  d'ac- 
ciaio?  o  dir  metaforicamente  che  un  tale  ha  1'anima  acdaiata, 
cioe  dura  e  indomabile? 

Fra  i  termini  antichi  trovasene  talora  alcuno  che  ha  un  senso 
contrario  alia  sua  forma:  un  saggio  scrittore  non  potrebbe  retti- 
ficarlo,  impiegandolo  nel  senso  piu  conveniente?  Sprovare,  voce 
antiquata,  e  posta  in  senso  di  provare  con  patente  contradizione. 
Ma  quanto  non  sarebbe  acconcia  se  si  dicesse  d'un  ragionatore 
inetto:  egli  non  provb  Vargomento,  ma  lo  sprovb! 

vi.  Del  resto  deesi  qui  awertire  che,  a  giudicar  esattamente  e  a 
ben  usar  de'  vocaboli,  si  rende  indispensabile  la  scienza  etimologica, 
studio  meschino,  sol  fecondo  d'inezie  finche  si  stette  fra  le  mani 
dei  puri  grammatici,  ma  che  ai  nostri  tempi,  maneggiato  da  pro- 
fondi  eruditi  ed  insigni  ragionatori,  divenne  fonte  di  utili  e  pre- 
ziose  notizie,  studio  a  di  cui  gloria  basta  il  dire  che  formava  le  de- 
lizie  del  gran  Leibnizio.1  Questo  solo  ci  rende  atti,  come  si  esprime 
un  dotto  francese,2  a  «dominare  il  valor  dei  termini »,  questo  ci 
fa  assistere  alia  loro  nascita  e  alle  circostanze  che  gli  produssero; 
esso  ci  porge  il  filo  che  puo  guidarci  nei  vari  loro  passaggi  da 
un  significato  alTaltro,  dal  senso  proprio  a  tanti  altri  o  traslati 
o  analogici,  che  non  sembrano  aver  fra  loro  veruna  specie  d'affinita: 
per  mezzo  di  esso  si  gusta  il  sapor  primigenio  dei  vocaboli  e 
delle  frasi,  si  giudica  fondatamente  dell'uso  o  delPabuso  fattone  da- 
gli  antichi  scrittori,  s'indovina  il  senso  de'  loro  contemporanei, 
si  risuscita  una  folia  di  sensazioni  gia  spente:  istruiti  da  questo, 
acquistiamo  maggior  sagacita  nell'impiegare  gli  antichi  termini,  e 
collocandoli  hi  un  certo  lume  ne  facciamo  distinguer  Timpronta  o 


i .  *Un  critico  italiano  chiama  con  enfasi  Petimologia  una  scienza  vana,  lo 
ho  la  debolezza  di  fidarmi  piii  del  Leibnizio;  e  il  Turgot,  il  Michaelis  e 
il  de  Brosse  sono  deboli  al  par  di  me  (C.)-  2.  M.  Gebelin  (C.)«  £  il  gia  ri- 
cordato  Antoine  Court  de  Gebelin.  Cfr.  la  nota  a  p.  312. 


MELCHIORRE   CESAROTTI 

logora  dal  tempo  o  sfigurata  dall'altrui  poca  desterita:  conoscendo 
alfine  per  questo  Tessenza  originale  del  termine  proprio,  imparia- 
mo  Parte  non  comune  di  adattarvi  le  piu  opportune  metafore,  e 
giudichiamo  con  precisione  dell'aggiustatezza  o  sconvenienza  delle 
medesime.  Cosi,  per  arrecarne  un  solo  esempio,  quando  sappia- 
mo  che  abbacinare  e  una  specie  d'accecamento  che  facevasi  con 
por  dinanzi  agli  occhi  un  bacino  d'argento  infocato,  si  vede  to- 
sto  ch'e  ben  detto  per  traslazione  essere  abbadnato  dalla  gloria, 
che  manda  uno  splendor  metaforico;  e  si  conosce  altresi  esser 
affatto  sconveniente  Puso  che  ne  fecero  due  scrittori  fiorenti- 
ni,  citati  nel  Vocabolario,  voglio  dire  il  Davanzati,  che  uso  que- 
sta  locuzione,  «si  abbacinarono  le  stelle)),1  e  1'autor  d'un'antica 
storia,  che  parlando  d'una  famiglia  disse  ch'ella  «rest6  abbaci- 
nata  per  la  morte»2  di  non  so  chi:  perche  1'abbuiamento  reale 
prodotto  dalle  nuvole,  e  molto  piu  il  metaforico  nato  dalla  mor- 
te,  non  hanno  veruna  analogia  con  quella  del  bacino  ardente. 
Bensi  Pespressione  sarebbe  stata  appropriatissima  e  vivacissi- 
ma,  se  il  Davanzati  avesse  detto  che  le  stelle  restano  abbacinate 
dal  sole. 

Quindi  chi  vuol  mantenere  la  squisita  conoscenza  dei  termini 
e  la  intrinseca  vivacita  delle  lingue,  dee  custodir  gelosamente 
le  notizie  etimologiche,  registrarle  con  diligenza  nei  dizionari,  e 
diffonderle  per  la  nazione :  senza  di  che,  perdendosene  la  memoria, 
i  vocaboli,  di  figurati,  particolari,  pieni  di  spirito,  divengono  ge- 
nerici,  insignificant! ;  e  tutta  la  loro  bellezza,  a  guisa  d'un'essenza 
mal  custodita,  svapora  insensibilmente  e  dileguasi. 

vn.  Dai  vocaboli  antichi  passiamo  ai  nuovi.  Dopo  cio  che  si  e 
detto  in  vari  luoghi  di  questo  ragionamento,  credo  superfluo  il 
diffondermi  a  mostrar  che  la  lingua  nostra,  al  pari  delle  altre, 
&  povera  in  proporzione  dei  bisogni  dello  spirito,  e  domanda  d'es- 
ser  arricchita  di  nuovi  termini.  Cristiano  Guglielmo  Buttner,  pro 
fessor  di  Gottinga,  come  riferisce  Michaelis  nella  sua  insigne  dis- 


i.  Evidentemente  il  Cesarotti  non  ricordava  bene  Fesempio  del  Davanzati 
che  nel  Vocabolario  della  Crusca  e  invece :  «  Tultimo  splendore  del  sole  che 
si  conca,  vi  dura  fino  a  tanto  che  si  leva  tanto  chiaro  che  abbacma  le 
stelle  »  (traduzione  della  Germania  di  Tacito,  cap.  XLV).  2.  Questo  esem 
pio,  dato  dalla  Crusca  sotto  abbadnato  e  tratto  dalla  Cronaca  di  Luca  di 
Totto  da  Panzano,  suona  propriamente  cosi :  « e  cosi  rimase  abbacinata  e 
disfatta  questa  famiglia  [de*  Ricasoh]». 


SAGGIO    SULLA   FILOSOFIA  DELLE  LINGUE  373 

sertazione  suirinfluenza  reciproca  delle  opinion!  e  delle  lingue,1 
stava  preparando  un  dizionario  poliglotto  per  mezzo  del  quale 
poteva  scorgersi  in  un  colpo  d'occhio  Pabbondanza  o  sterilita  re- 
lativa  degPidiomi,  e  distinguere  le  ricchezze  proprie  di  ciasche- 
duno  dalle  straniere  e  accattate.  Nel  fine  di  quest'opera  noi  propor- 
remo  qualche  cosa  di  simile,  indicando  un  metodo  forse  miglior 
di  quello  del  Buttner,  e  piu  atto  a  mostrar  tanto  quel  che  manca  alia 
nostra  lingua,  quanto  il  mezzo  di  acconciamente  supplirvi.  Posto 
il  bisogno,  ne  viene  di  conseguenza  il  diritto,  e  chi  ci  obbligasse 
a  provarlo,  sarebbe  piu  degno  di  compassione  che  di  risposta.  Ma 
per  prevenire  tutte  Perronee  o  maliziose  interpretazioni  che  po- 
trebbero  darsi  alle  nostre  idee,  protestiamo  prima  solennemente 
che  Pandare  smaniosamente  in  caccia  di  termini  nuovi  o  stranieri 
senza  veruna  necessita,  e  per  la  sola  vaghezza  di  distinguersi  dal 
comune,  e  una  affettazione  puerile,  viziosa  e  degnissima  d'esser 
censurata  non  men  delPaltra  di  cercare  i  vocaboli  piu  rugginosi  e 
piu  rancidi.  La  novita  delle  voci  dev'esser  autorizzata,  anzi  estorta 
da  qualche  novita  di  cosa:  ma  questa  novita  puo  trovarsi  o  nel- 
Poggetto  preso  in  generate,  o  nello  stesso  riguardato  sotto  qual 
che  aspetto  importante  e  considerabile,  o  nelle  idee  semplici  o 
nelle  loro  moltiplici  combinazioni,  e  finalmente  nella  complica- 
zione,  nei  gradi  e  nelle  tinte  del  sentimento.a 

vin.  Tolti  in  tal  guisa  gli  equivoci,  parleremo  dei  fonti  da  cui 
possono  trarsi  vocaboli  nuovi ;  dal  che  si  scorgera  inoltre  che  siamo 
ben  lungi  dalPautorizzare  in  questa  materia  una  indefinita  licenza, 
o  uno  sconsigliato  capriccio. 

II  primo  fonte  e  il  fondo  della  lingua  gia  ricevuta  e  approvata. 
II  diritto  di  trar  da  essa  nuovi  vocaboli  e  d'una  tale  evidenza 
che  sembra  stranissimo  che  potesse  mai  esser  posto  in  controversia 
da  alcuno.  Le  parole  portano  seco  i  loro  germi  indestruttibili,  atti 
a  propagar  la  lor  famiglia.  Qual  forza  legittima  puo  impedirne  la 
fecondita?  Sempre  un  verbo  potra  generare  i  suoi  verbali,  sem- 
pre  da  un  adiettivo  potra  dedursi  il  sostantivo  astratto,  o  dalla 
sostanza  generale  il  nome  adiettivo  che  ne  partecipa.  Non  e  egli 
strano  di  trovar  assai  spesso  nel  Vocdbolario  una  femmina  ver- 


i.  Michaelis  A  .  lingue:  nella  dissertazione  Sur  V influence  reciproque  des  opi 
nions  et  des  langues,  piti  volte  citata.  2.  Su  questo  luogo,  e  altri  sirnili, 
vedi  Rischiar.  n  e  Lett,  al  con.  Napione  (C.)- 


374  MELCHIORRE  CESAROTTI 

bale  e  di  cercarvi  indarno  il  mascolino  consorte?  I  grammatici 
notano  con  sacro  rispetto  queste  bizzarrie  come  misteri  dell'arte: 
essi  hanno  sempre  in  bocca  il  lor  «  non  si  dice»,  ma  che  s'intendono 
con  questo  termine?  Che  non  si  e  detto?  che  importa?  Che  non 
puo  dirsi  ?  questo  e  ci6  che  convien  provare,  e  che  non  proveranno 
giammai.  Le  occasion!  son  quelle  che  fanno  sentire  il  bisogno  dei 
vocaboli;  e  '1  gusto  ne  pressente1  Teffetto.  «Derivare,  flectere, 
componere  quando  desiit  licere  ? »  dice  Quintiliano  ;2  e  a  chi  non  e 
noto  il  (dicuit  semperque  licebit»  d'Orazio?3  Potrei  allegare  un 
fascio  d'autorita;  ma,  ove  parla  la  ragione,  Taltra  puo  tacersi.  Tutti 
i  grandi  scrittori,  presso  ogni  nazione,  convalidarono  questa  liber- 
ta  col  loro  esempio;  tutti  reclamarono  altamente  il  loro  diritto: 
pure  in  ogni  secolo  i  grammatici  i  piu  schiavi  deH'autorita  e  del- 
Tesempio  contrastarono  un  tal  diritto  ai  discendenti  di  quegli 
scrittori  medesimi,  che  tali  debbono  chiamarsi  tutti  gli  eredi  del 
loro  spirito.  Fanno  pieta  le  censure  del  Castelvetro  contro  la 
canzone  del  Caro,4  e  movono  a  sdegno  le  persecuzioni  contro  il 
Tasso  per  colpe  di  questa  specie.  I  Siri  adoravano  Belzebu,  vale 
a  dire  il  dio  delle  mosche.  La  pedanteria  parmi  appunto  la  stessa 
divmita:  non  si  cessera  mai  d'incensar  quest'idolo  molesto  e 
ridicolo  ? 

Del  resto  le  terminazioni  sono  come  le  matrici  dei  nuovi  voca 
boli,  e  Tanalogia  puo  dirsene  la  levatrice.  Altre  desinenze  si  pre- 
stano  a  tutte  le  idee,  altre  sono  consacrate  ad  alcune  classi  partico- 
lari:  ciascheduna  ha  un  carattere  che  la  distingue  nella  struttura 
e  nelPordine  de*  suoi  elementi.  Rawicinando  e  paragonando  fra 
loro  le  desinenze  di  diversa  specie,  e  analizzando  i  vari  termi 
ni  che  a  ciascheduna  appartengono,  si  viene  a  sentirne  con  pre- 
cisione  il  valore  e  a  notarne  esattamente  le  differenze  caratte- 


i.  pressente:  cosl  hanno  le  edizioni  di  Padova  e  di  Vicenza;  quella  di 
Pisa  ha  invece  «presenta».  2.  Cfr.  Inst.  orat.,  vm,  in,  36:  «At  deri- 
vare,  flectere,  coniungere,  quod  natis  postea  concessum  est,  quando  de 
siit  licere  ?»  («I1  derivare  una  parola  da  un'altra,  il  crearne  nuove  per 
mezzo  di  inflessioni  e  di  composizioni,  quando  cesso  di  esser  permesso  ? ») 
3*  Cfr.  Ars  poet.,  58-9:  «Licuit  semperque  licebit  /  signatum  praesente 
nota  producere  nomen»  («Fu  e  sempre  sara  lecito  mettere  in  circola- 
zione  una  parola  coniata  or  ora»)«  4-  censure .  . .  Caro:  la  canzone  Ve- 
nite  alVombra  de>  gran  gigli  d'oro  (1553),  in  lode  della  Casa  di  Francia, 
fu  acremente  censurata  dal  Castelvetro,  perche  infedele  al  modello  petrar- 
chesco. 


SAGGIO    SULLA   FILOSOFIA  DELLE   LINGUE  375 

ristiche.  Quindi  se  un  termine  nuovo  e  ben  gettato  nello  stam- 
po  della  sua  classe,  s'egli  n'esce  ben  conformato  in  ogni  sua 
parte  e  colle  sembianze  de'  suoi  fratelli,  se  Panalogia  lo  impronta 
del  suo  conio,  niuno  puo  non  riconoscerlo  per  nazionale  e  le- 
gittimo,  e  la  lingua  dee  lietamente  riceverlo  come  un  nuovo  suo 
cittadino. 

ix.  A  questo  medesimo  fonte  appartiene  Paccoppiamento  di  due 
vocaboli  noti:  invenzione  felicissima,  utile  ugualmente  allo  stile, 
a  cui  concilia  speditezza,  espressione  e  vivacita,  ed  alia  filoso- 
fia,  che  con  cio  acquista  il  mezzo  di  rappresentar  1'innesto,  la 
temperatura,1  il  contrasto  delle  idee  e  dei  sentiment!  die  si  mo- 
dificano  a  vicenda  nel  punto  stesso.  Questa  e  la  ricchezza  phi 
preziosa  della  lingua  greca:  ricchezza  invidiata  da  tutte  le  lin- 
gue,  ma  non  da  tutte  emulata,  piuttosto  per  dappocaggine  che 
per  importanza. 

Presso  i  Latini,  tuttoche  al  par  de'  Greci  abbondassero  di  de- 
clinazioni,  le  voci  composte  non  avevano  uno  spazio  cosi  comune, 
«neque  id»  aggiunge  Quintiliano  ((fieri  natura  puto,  sed  alienis 
favemus,  ideoque  cum  cyrtauchena  mirati  sumus,  incurvicervicum 
vix  a  risu  defendimus».2  Ma  i  Romani  aveano  ben  ragione  se 
ridevano  di  questo  pesante  e  disadatto  composto.  La  loro  lingua 
ne  avea  molti  altri  assai  piu  acconci  e  piacevoli,  e  non  e  che  loro 
colpa  se  non  ne  fecero  un  uso  piu  frequente  anche  nelle  prose.  La 
mancanza  dei  casi  nelle  lingue  moderne  le  rese  meno  suscettibili 
di  questa  bellezza.  Pure  la  tedesca  e  1'mglese,  benche  i  loro  nomi 
non  siano  punto  piu  declinabili  e  i  monosillabi  di  cui  abbondano 
ne  rendano  Taccozzamento  piu  disagevole,  s'impadronirono  fran- 
camente  di  questa  straniera  ricchezza.  La  lingua  italiana  non 
ha  nulla  che  vi  repugni,  pure  non  par  che  ancora  siasi  abbastanza 
addimesticata  con  questa  specie  di  vocaboli.  Quelli  a  cui  si  adatta 
piu  volentieri  sono  gli  adiettivi  composti  d'un  verbo  e  d'un  nome, 
indicanti  professione  e  abitudine  di  far  checchesia,  come  picchia- 
petto,  cattdbrighe,  e  simili.  Dell'accoppiamento  di  due  adiettivi 
pochi  esempi  se  ne  ha  fra  gli  antichi  innanzi  il  Redi,  che  gPintrodus- 

i.  la  temperatura:  il  contemperamento.  2.  Inst.  orat.,  i,  v,  70  («ritengo 
che  cio  awenga  non  per  gusto  naturale,  ma  per  ossequio  a  cio  che  e  stra- 
niero :  dopoche  abbiamo  arnmirato  cyrtauchena^  ci  tratteniamo  a  stento  dal 
ridere  di  fronte  a  incurvicervicum »).  Tanto  il  termine  greco  che  quello  la 
tino  (usato  da  Pacuvio)  significano  «dal  collo  ricurvo». 


37^  MELCHIORRE    CESAROTTI 

se  nella  poesia  ditirambica.1  II  Salvini2  nelle  sue  malaugurate  tra- 
duzioni  ne  invento  molti,  atti  ben  piu  a  screditarne  Tuso  che  a 
raccomandarlo.  Ma  ne'  tempi  recenti  alcuni  scrittori  d'ingegno  piu 
destro  e  d'orecchio  meglio  armonizzato  ne  formarono  vari  di 
felicissimo  effetto.3  Nella  prosa  potrebbero  per  awentura  sem- 
brare  un  ornamento  ricercato:  ma  quando  siano  opportuni  alia 
circostanza,  domandati  dal  bisogno,  non  intrusi  dalla  vanita,  per- 
che  proscriverli  ?  Perche  privarsi  d'uno  strumento  cosi  acconcio  e 
di  tanta  efficacia?  Ora  la  loro  opportunita  non  e  conosciuta  da 
chi  detta  leggi  unicamente  sull'esempio  dei  testi,  ma  da  chi  ha 
Tabitudine  di  scrivere  e  di  pensare  nel  tempo  stesso,  cose  che  non 
fanno  un  composto  de'  piu  comuni. 

x.  II  secondo  fonte  sono  i  dialetti  nazionali.  Pu6  permettersi 
al  dialetto  dominante  la  primazia4  sopra  gli  altri,  non  la  tirannide. 
Tutti  i  dialetti  non  sono  forse  fratelli?  non  son  figli  della  stessa 
madre?  non  hanno  la  stessa  origine?  non  portano  Pimpronta  co- 
mune  della  famiglia?  non  contribuirono  tutti  ne'  primi  tempi 
alia  formazion  della  lingua  ?  Perche  ora  non  avranno  il  diritto  e  la 
facolta  d'arricchirla  ?  I  dialetti  di  Grecia  non  mandavano  vocaboli 
alia  lingua  comune,  come  le  diverse  citta  i  loro  deputati  al  collegio 
degli  Anfmoni  ?  Non  dice  Quintiliano  ch'egli  reputa  romani  tutti 
i  vocaboli  italici?  Perche  vorremo  noi  stabilire  un  assioma  oppo- 
sto,  e  creder  barbari  tutti  gPitalici  fuorche  quelli  d'una  provincia, 
anzi  pure  d'una  citta  ?  II  diritto  della  Toscana  di  confluire  all'am- 
pliazione  della  lingua  non  soffrira  per  awentura  gran  controversia. 
Ma  come  accordarlo  senza  orrore  ai  Napoletani,  ai  Romagnuoli, 
ai  Lombardi?  Non  e  questo  un  imitar  la  pazzia  di  Caracalla, 
che  dono  la  cittadinanza  romana  a  tutto  1'imperio  ?  Si  certamente, 
quando  si  ammettessero  indistintamente  i  loro  vocaboli  senza  ne- 
cessita,  senza  bisogno,  senza  scelta,  lasciandogli  nella  loro  roz- 
zezza  e  nelle  spoglie  municipali:  ma  non  gia  quando  vengano  in 


i .  il  Redi  .  .  .  ditirambica :  nel  Bacco  in  Toscana  sono  in  effetto  frequenti  le 
parole  composte,  anche  se  son  rare  quelle  costituite  dairaccoppiamento 
di  due  aggettivi.  2.  Anton  Maria  Salvini  (1623-1729),  letterato  ed  eru- 
dito  fiorentino,  tradusse  moltissimo  dal  greco,  dal  latino,  dall'ebraico,  dal 
francese  e  dall'inglese.  Ma  il  Cesarotti  allude  qui  soprattutto  alle  sue  tradu- 
zioni  omeriche.  3.  alcuni  scrittori  .  .  .  effetto:  allude,  assai  probabijmente, 
anche  alia  propria  traduzione  ossianica,  dove  si  fa  molto  uso  di  parole 
composte.  4.  primazia:  primato. 


SAGGIO   SULLA   FILOSOFIA   DELLE   LINGUE  377 

supplemento  d'altri  che  mancano  al  dialetto  principale;  quando  si 
trascelgano  con  giudizio:  quando  si  raddrizzino  e  s'acconcino  alia 
foggia  gia  convenuta,  secondo  Tanalogia  delle  forme;  quando  infine 
siano  ben  costrutti,  ben  derivati,  espressivi,  noti  o  intelligibili  a 
tutta  1' Italia,  convenient!,  non  disarmonici:  del  qual  ordine  se  ne 
trovano  molti  in  ognuna  delle  nostre  citta,  piii  d'uno  de'  quali 
e  degno  forse  di  preferenza  sopra  il  suo  corrispondente  registrato 
nel  Vocdbolario.  Indarno  si  direbbe  che  non  essendosi  questi  dia- 
letti  introdotti  nelle  scritture  nobiK,  ma  servendo  solo  alFuso 
del  popolo,  i  loro  termini  hanno  in  se  stessi  una  bassezza  originaria 
che  ofTende  gli  orecchi  purgati:  poiche  primieramente  tutte  le 
lingue  piu  colte  furono  da  principio  e  sono  tuttavia  nello  stesso 
caso,  giacche  la  lingua  e  prima  nella  bocca  e  poi  negli  scritti,  ed 
ogni  termine  sarebbe  vile  se  per  cio  bastasse  d'esser  usato  dal 
popolo.  La  prima,  la  vera  bellezza  d'un  termine  e  la  convenienza: 
un  vocabolo  unico  e  proprio  e  sempre  bello  finche  non  se  ne  trova 
un  altro  piu  acconcio.  Gli  scrittori  son  quelli  che  colla  loro  scelta 
e  colle  giudiziose  collocazioni  fanno  sentir  piu  al  vivo  1'uso  oppor 
tune  dei  vocaboli  e  conciliano  ad  essi  splendore  e  grazia.  Or  se  i 
dialetti  italici  non  furono  nella  loro  totalita  nobilitati  dagli  scrittori, 
molti  per6  dei  loro  vocaboli,  trovandosi  sparsi  nelle  loro  opere,  sono 
gia  divenuti  abbastanza  nobili,  ed  entrano  a  formar  il  corpo  di 
quella  lingua  comune  di  tutti  gli  uomini  colti  d'ltalia,  che  non 
credono  lorda  e  schifosa  ogni  parola  che  non  sia  purgata  nell'Arno. 
Sia  permesso  di  far  gli  schizzinnosi  quando  non  siamo  stretti  da 
verun  bisogno ;  ma  il  rifiutar  le  voci  necessarie,  perche  non  son  frut- 
ti  del  nostro  terreno,  e  un'insensatezza  simile  a  quella  d'un  princi- 
pe  che  lasciasse  mancar  1'opportuno  alimento  al  suo  popolo,  per 
che  quel  genere  non  e  un  prodotto  della  sua  capitale. 

xi.  II  fondo  nazionale  non  basta  sempre  alTaumento  e  alia  dila- 
tazion  delle  idee:  convien  talora  ricorrere  ai  linguaggi  stranierL 
Questo  e  un  discapito,  1'accordo,  ma  esso  e  necessario  e  comune  a 
tutte  le  lingue  antiche  e  moderne.  Tutte  presero  i  nomi  degli  og- 
getti  della  natura  e  dell'arte  da  quei  popoli  ove  sono  piu  familiari, 
e  che  ce  ne  portarono  la  conoscenza.  Tutte  inoltre  si  recarono  a 
gloria  di  abbellirsi  colle  spoglie  delle  piu  antiche  e  autorevoli.  La 
lingua  latina  si  alimento  della  greca,  benche  non  avesse  la  stessa 
origine:  or  ella,  tuttoche  poco  opulenta,  e  in  possesso  d'esser  ge- 
nerosa  colle  piu  recenti.  Madre  delTitaliana,  ella  ha  un  titolo  le- 


37$  MELCHIORRE   CESAROTTI 

gittimo  di  soccorrer  ai  bisogni  della  figlia.  Essa  e  la  lingua  dell'eru- 
dizione,  della  religion,  delle  leggi:  non  solo  chi  assaggi6  le  buone 
lettere,  ma  chiunque  non  e  affatto  plebe,  ha  una  qualche  conoscen- 
za  de'  suoi  vocaboli  e  delle  loro  allusioni.  Forse  la  meta  delle  voci 
italiane  dei  primi  secoli  porta  Timpronta  patente  della  sua  origi- 
naria  latinita.  Ci6  dunque  che  si  prende  da  lei  non  puo  dirsi  asso- 
lutamente  straniero.  I  suoi  termini  giudiziosamente  trascelti  danno 
maesta  e  splendore  allo  stile:  essi  posson  specialmente  giovare  a 
coprir  d'un  velo  decente  un'idea  sconcia  o  a  nobilitarne  una  bassa 
in  quelle  scritture  ove  la  bassezza  e  difetto.  Dee  perci6  sembrar 
alquanto  strana  la  proposizione  del  Salviati  nej  suoi  Avvertimenti 
della  lingua,  il  quale  supponendo  gratuitamente  che  la  lingua  dal 
Boccaccio  in  giu  andasse  deteriorando  per  la  introduzione  di 
nuovi  ed  impuri  vocaboli,  deduce  cotesta  depravazione  dallo  stu 
dio  della  lingua  latina,  che  essendosi  diffuse  tra  '1  popolo  innest6 
nell'idioma  e  sparse  nelle  scritture  una  quantita  di  vocaboli  non 
prima  usati.  E  perche  era  troppo  visibile,  per  dissimularsi,  la  rispo- 
sta:  non  esser  ci6  punto  strano,  avendo  gia  i  nuovi  termini  latini 
nella  lingua  nostra  una  quantita  d'affini  e  di  consanguinei,  egli  la 
propone  con  ottima  fede,  sicuro  d'avere  una  replica  trionfante. 
Udiamola:  ella  e  veramente,  direbbe  un  francese,  impagabile.  «I 
termini  antichi  di  questa  specie  non  vennero  dal  latino,  ma  dalla 
corruzione  di  esso  e  dalla  mescolanza  colle  lingue  barbare,  ne 
accadde  per  umano  consiglio,  ma  per  opera  della  Prowidenza; 
laddove  i  moderni  si  traggono  dal  latino  puro,  e  sono  introdotti 
senza  autorita  delParte  e  dalParbitrio  degli  uomini.  »*  Ci6  vuol  dire, 
in  altro  linguaggio,  che  i  vocaboli  sono  puri  e  perfetti  quando  na- 
scono  dal  caso  e  dall'ignoranza,  ed  escono  da  un  fondo  guasto 
e  debbono  dirsi  viziosi  qualora  con  scelta  e  giudizio  si  traggono 
da  radice  sana  per  opera  di  persone  fornite  d'intelligenza  e  di  gusto. 
E  chi  poi  si  sarebbe  aspettato  di  veder  la  Prowidenza  impiegata  a 
dar  la  sanzione  divina  agli  spropositi  e  alle  storpiature  del  popo- 
laccio?  Aggiunge  poi,  con  una  logica  ugualmente  poderosa,  che 
se  questi  nuovi  vocaboli  fossero  stati  opportuni,  non  si  sarebbero 
in  quel  primo  tempo  lasciati  come  soverchi  e  disutili :  come  se  le 


i.  Cfr.  Degli  avvertimenti  della  lingua  sopra  il  «Decamerone»  (1584-1586), 
lib.  II,  cap.  vin  (Milano,  Tipografia  de'  Classic!  italiani,  1809, 1,  pp.  177-8). 
II  Cesarotti  non  cita  esattamente  il  testo,  ma  ne  riassume  il  contenuto. 


SAGGIO    SULLA   FILOSOFIA   DELLE   LINGUE  379 

lingue,  specialmente  in  tempo  di  barbarie  e  sconvolgimento,  si 
formassero  dal  popolo  con  antivedenza  e  consiglio,  e  non  piut- 
tosto  fossero  il  risultato  degli  accozzamenti  del  caso.  Noi  pero, 
raffazzonando  un  poco  questo  disacconcio  ragionamento,  diremo 
che,  qualunque  siano  le  prime  alterazioni  o  corruzioni  dei  vocaboli 
originari,  acquistano  dal  tacito  consenso  del  popolo  non  pregio 
intrinseco,  ma  bensi  autorita;  che  dietro  alle  prime  usanze,  buone 
o  ree  che  si  siano,  Tanalogia  forma  un  sistema  di  derivazione  che 
dee  rispettarsi,  perche  forma  il  carattere  della  nuova  lingua;  che  nel 
dedurre  nuovi  vocaboli  dall'antico  fondo  deesi  seguir  la  norma  dei 
primi  esempi,  ed  osservar  lo  stesso  metodo  nelle  desinenze,  nelle 
derivazioni,  nelPordine,  nelPalterazione  o  sostituzion  delle  let- 
tere;  e  che,  quando  cio  si  faccia,  le  voci  latine  di  piii  comune 
intelligenza,  abbigliate  alPitaliana,  serviranno  felicemente  agli  usi 
della  lingua,  e  coll'acconcia  mescolanza  d'un  colore  straniero  e 
domestico  possono  svegliar  la  riflessione  e  arrestare  piacevolmente 
gli  sguardi.  Del  resto  tanto  e  lungi  che  si  voglia  da  noi  autorizzar 
la  licenza  sconsigliata  di  latineggiare  italianamente,  che  vorremmo 
anzi  veder  purgato  il  Vocabolario  dalle  tante  voci  di  cruda  e  strana 
latinita,  che  non  potrebbero  far  buona  comparsa  fuorche  nello 
stile  fidenziano,1  delle  quali  appunto  il  secolo  del  Trecento,  ido- 
latrato  dal  Salviati,  ne  somministra  cosi  gran  folia  d'esempi.  Questi 
pero  possono  donarsi  a  quel  secolo,  nel  quale  la  lingua  latina  era 
tuttavia  usata  nella  predicazione  dei  tempii  nelle  occasioni  solenni, 
e  nelle  scritture  piii  autorevoli:  ma  chi  vorra  scusare  il  Machiavelli, 
che  senza  necessita  fece  scialacquo  di  latinismi  e  che  oso  dire 
contennendo  per  dispregevole?2 

xn.  La  Grecia  diede  al  mondo  le  arti  e  le  scienze:  quindi  non 
solo  comunico  a  tutte  le  lingue  sin  dai  primi  tempi  gran  parte  del 
suo  vocabolario  scientifico,  ma  tuttavia  al  presente  colla  sua  age- 
volezza,  colla  fecondita  delle  composizioni  e  colla  comprensiva 
espression  de'  suoi  termini  si  presta  felicemente  alle  successive  in- 
venzioni  e  scoperte,  e  in  luogo  d'una  circonlocuzione  ci  da  un 
vocabolo.  Noi  dobbiamo  ad  essa  barometro,  termometro,  telescopio, 

i.  stile  fidenziano:  questo  stile  (che  prende  nome  dai  Cantid  di  Fidensio 
Glottocrisio  Ludimagistro,  composti  fra  il  1540  e  il  1545  dal  vicentino  Ca- 
millo  Scroffa)  consiste  nell'applicare  la  morfologia  e  la  sintassi  del  volgare 
al  lessico  latino.  2.  Cfr.  J7  Principe,  xvi,  4: « intra  tutte  le  cose  di  che  uno 
principe  si  debbe  guardare,  e  lo  esser  contennendo  e  odioso  ». 


380  MELCHIORRE  CESAROTTI 

microscopic*,  e  per  essa  il  globo  aerostatico  s'aggira  per  le  bocche 
del  popolo,  come  per  Faria.  Ella  presentera  sempre  ai  dotti  una 
maniera1  inesausta  per  la  loro  nomenclatura,  e  qualche  allusione 
felice  agli  scrittori  di  non  volgare  eloquenza.  Ma  i  termini  di  questa 
specie  sono  poi  d'una  necessita  tanto  pressante  e  comune  quanto 
potrebbe  credersi  dal  linguaggio  generale  degli  scienziati  ?  possono 
servir  a  tutti  gli  oggetti  di  chiunque  scrive?  1'idioma  nostro  non 
ha  nulla  die  vi  si  approssimi  ?  Se  cosi  non  fosse,  potrebbe  dubi- 
tarsi  se  la  lingua  greca  renda  un  pieno  servigio,  e  non  piuttosto 
in  un  certo  senso  nuoccia  ugualmente  e  alia  scienza  stessa  e  alia  lin 
gua.  Quel  che  rende  piu  malagevole  ai  principianti  Facquisto  delle 
discipline,  quel  che  le  fa  piu  misteriose  ed  inaccessibili  al  popolo,  si 
e  la  difficolta  di  familiarizzarsi  col  loro  frasario.  Un  ammasso  di 
termini  esotici  che  non  hanno  veruna  affinita  coi  nostrali,  offende 
Porecchio  e  ributta  Pintendimento,  che  dovrebbero  allettarsi  e 
giovarsi  scambievolmente.  Termini  di  tal  fatta  non  sono  pel  mag- 
gior  numero  che  cifre  cinesi  e  geroglifici  egizi;  essi  tolgono  alle 
classi  medie  qualunque  comunicazione  colla  scienza,  e  ritardano 
i  progressi  dello  spirito  e  della  cultura  nazionale:  laddove  le  idee 
dottrinali  stemperate  nell'idioma  comune  spargerebbero  nel  po 
polo  qualche  barlume  di  scienza  utile  agli  usi  della  vita  e  ne  de- 
sterebbero  il  gusto.  La  lingua  dal  suo  canto,  costretta  ad  accattar 
altronde  termini  poco  sociabili,  perde  la  parte  piu  fruttuosa  della 
sua  ricchezza,  ch'e  quella  di  destar  vivamente  e  rapidamente  le 
idee  per  mezzo  di  vocaboli  d'un  rapporto  luminoso  e  sensibile. 
Sarebbe  dunque  desiderabile  che  le  scienze  e  le  arti  avessero  un 
bisogno  meno  universale  della  lingua  greca,  che  i  termini  tecnici  si 
lasciassero  al  commercio  dei  dotti,  ma  questi  pur  anche  trovassero 
nell'idioma  proprio  i  mezzi  di  accomodar  la  loro  dottrina  all'in- 
telligenza  comune.  La  botanica,  la  storia  naturale,  la  fisica,  Fana- 
tomia,  studi  di  cosi  estesa  utilita,  sono  seminate  di  termini  greci 
che  ne  tolgono  al  maggior  numero  quella  parte  di  conoscenza  che 
non  e  punto  superiore  alia  sfera  del  suo  intendimento.  La  medi- 
cina  sopra  tutto  e,  diro  cosi,  ammorbata  da  un  grecismo  perpetuo, 
che  ne  forma  un  gergo  vano  e  ributtante,2  il  quale  non  puo  tornare 
a  profitto  se  non  se  delFimpostura  e  delPignoranza.  Sia  lecito 
conservar  i  termini  gia  domati  dalFuso  e  fatti  cittadini  di  tutte  le 

i.  maniera'.  come  osserva  1'Ortolani,  sembrerebbe  da  correggere  in  «mi- 
niera».     2.  nbuttante:  che  ributta,  allontana  i  non  esperti. 


SAGGIO    SULLA   FILOSOFIA  DELLE   LINGUE  381 

lingue.  Ma  perche  grecheggiare  eternamente  senza  necessita,  anzi 
pure  senza  utilita  o  vaghezza  d'alcuna  specie,  quando  la  lingua  no- 
stra  ci  presenta  una  folia  di  termini  equivalent!  di  senso  e  per- 
fettamente  gemelli?  Perche  dir  sintoma  per  accidente,  narcotico 
per  sonniferO)  dialed  per  disposizioney  e  miasma^  e  marasmo,  ed 
emetico,  ed  altri  a  migliaia  che  non  hanno  verun  diritto  di  pre- 
ferenza  ?  Renderebbe  per  mio  awiso  un  servigio  non  indifferente 
alia  lingua  e  alia  societa  chi  prendesse  ad  esaminare  tutti  i  vocaboli 
greci  relativi  alle  scienze  ed  alle  arti,  tanto  quei  che  si  trovano  nelle 
opere  degli  scrittori  approvati,  quanto  quei  che  regnano  negli  scritti 
dei  professori  e  dei  dotti;  indi  cercasse  se  fra  i  nostrali  n'esistano  o 
possano  formarsene  altri  uguali  di  valore  e  di  pregio.  In  tal  guisa 
verrebbero  con  precisione  a  conoscersi  i  necessari,  gli  opportuni  e 
gFinutili ;  e  posta  in  chiaro  la  vanita  degli  ultimi,  potrebbe  a  poco 
a  poco  introdursi  un'acconcia  sostituzione  a  vantaggio  comune  ed 
a  vero  arricchimento  della  lingua.  La  ragione  awalorata  dall'esem- 
pio  prevale  alia  lunga  sopra  la  cieca  abitudine. 

xin.  II  quarto  ed  ultimo  fonte  sono  le  lingue  straniere,  le  quali 
ai  tempi  nostri  rapporto  all'italiana  si  riducono  alia  sola  francese, 
ch'e  appunto  la  sola  universalmente  nota  e  addimesticata  coll' Ita 
lia.  Questa  e  la  pietra  dello  scandalo,  il  porno  della  discordia, 
TElena  delle  nostre  Iliadi,  il  soggetto  eterno  delle  patetiche  la- 
mentazioni  dei  zelatori.1  lo  rinforzo  le  mie  proteste,  e  mi  dichiaro 
di  condannar  altamente  la  licenza  di  coloro  che  vanno  tutto  giorno 
infrancesando  la  lingua  italiana  senza  proposito.  Quando  non  ci 
fossero  altre  ragioni  di  condannar  questo  abuso,  converrebbe  an- 
cora  astenersene  per  non  offendere  la  vanita  nazionale,  che  nelle 
cose  picciole  si  fa  forse  sentir  piu  al  vivo  che  nelle  grandi.  Ma 
dalTaltro  canto,  se  la  lingua  francese  ha  dei  termini  appropriati 
ad  alcune  idee  necessarie  che  in  Italia  mancan  di  nome,  e  se  que- 
sti  termini  hanno  tutte  le  condizioni  sopra  richieste,  per  quale 
strano  e  ridicolo  aborrimento  ricuserem  di  accettarle?  Che  la 
Francia  abbia  molti  termini  di  questa  specie  non  e  permesso  di 
dubitarne  se  non  a  chi  e  affatto  digiuno  delle  conoscenze  del  secolo. 
Qual  insensate  patriottismo  ci  fa  dunque  sdegnar  i  frutti  stranieri 
che  possono  esserci  d'alimento  e  delizia?  II  Voltaire  disse  della 
sua  lingua  ch'ella  «e  una  pitocca  orgogliosa,  che  si  sdegna  che  le 

i.  Vedi  Rischiaram.  n,  §  2,  (C.). 


382  MELCHIORRE  CESAROTTI 

venga  fatto  limosina)).1  L'idioma  italiano  e  nel  caso  stesso:  la 
colpa  pero  non  e  degli  stessi  idiomi,  che  non  repugnano  punto  a 
queste  adozioni,  ma  degli  scrittori  pusillanimi  che  vezzeggiano  i 
pregiudizi  del  pedanti,  in  luogo  di  combatterli  con  giudiziosa  li- 
berta.  La  lingua  latina  non  si  fe'  scrupolo  di  adottar  molte  voci 
non  solo  degli  Etruschi  e  degli  Oschi,  ma  dei  Galli  pur  anche  e 
degli  Spagnuoli  e  degli  AiFricani  e  d'altri  popoli  barbari.  La  na- 
zione  inglese  si  pregia  d'una  liberta  nlosofica  anche  in  questo 
punto,  e  tuttoche  in  perpetua  gara  colla  Francia,  non  isdegna  d'ar- 
ricchirsi  colle  spoglie  della  sua  rivale.  I  Francesi  stessi,  benche 
schizzinnosi  al  par  di  noi,  danno  ai  nostri  giorm  la  loro  cittadinanza 
a  molti  vocaboli  italiani  senza  immaginar  d'awilirsi.  La  lingua 
francese  e  ormai  comunissima  a  tutta  1'Italia:  non  v'e  persona 
un  poco  educata  a  cui  non  sia  familiare  e  pressoche  naturale: 
la  biblioteca  delle  donne  e  degli  uomini  di  mondo  non  e  che  fran 
cese.  I  vocaboli  di  quella  lingua  hanno  in  gran  parte  molta  affinita 
coi  nostri,  come  tratti  dal  fondo  stesso,  e  sono  piu  chiari  forse  d'un 
terzo  di  quelli  registrati  nel  nostro  vocabolario.  La  lingua,  nobi- 
litata  da  un  gran  numero  di  scrittori  d'alta  sfera,  ricchissima  d'o- 
pere  piene  di  ragionamento  e  di  spirito  e  sparse  di  tutto  il  fiore 
delFurbanita,  acquist6  presso  Funiversale  quell'autorita  e  quella 
grazia  che  concilia  favore  e  pregio  ai  vocaboli.  Ma  quel  ch'e  piu 
curioso,  e  che  sembra  non  esser  noto  ai  nostri  puristi,  ella  e  gia 
in  possesso  fin  dai  primi  tempi  di  prestar  le  sue  voci  alP Italia: 
e  quel  ch'e  ancora  piu  singolare  si  e  che  le  voci  francesi  adottate 
dalla  nostra  lingua  nella  sua  origine,  nel  tempo  della  vantata  sua 
purita,  le  voci  autorizzate  nei  nostri  registri  sono  appunto  di  quelle 
che  dovrebbero  esserne  capitalmente  sbandite,  perche  prive  d'ogni 
titolo  d'esser  tollerate,  non  che  accolte.2  S'io  per  esempio  facessi 
uso  d'alcuna  delle  seguenti  locuzioni:  io  fui  aggiornato  per  la 
Tussanti\  Vanned  fu  trista;  balitemi  quel  libro;  colui  e  bornio\ 
sono  intoppato  in  un  buscione\  convien  ch'io  chitti  la  casa;  questa 
e  una  storia  controvata\  costui  e  convoitoso\  io  non  ridotto  nulla; 
egli  ha  commesso  dei  gran/orjfefr;  io  sono  invironnato  da  nemici; 
i  fisiciani  non  son  d'accordo  fra  loro ;  qual  discorso  fa  do ;  il  prin- 
cipe  deve  giuggiare  e  vengiar  i  torti;  plusori  pensano  altrimenti; 

i.  Cfr.  Voltaire,  lettera  del  15  gennaio  1768  al  Beauz6e:  «C'est  une  indi- 
gente  orgueilleuse  qm  craint  qu'on  ne  lui  fasse  I'aum6ne»  (in  Oeuvres, 
ed.  cit.,  XLII,  1893,  P-  39)-  2.  Vedi  Rischiar.  n  (C.). 


SAGGIO    SULLA   FILOSOFIA   DELLE   LINGUE  383 

la  fantesche  hanno  in  lei  una  buona  maestressa\  siate  visto  che  ho 
fretta;  certanamente  convien  ch'io  mi  faccia  segnare  dal  cirugiano:1 
s'io,  dico,  parlassi  o  scrivessi  cosi,  chi  non  crederebbe  ch'io  facessi 
la  caricatura  d'un  goffo  francese  italianato,  o  d'un  italiano  che 
franceseggia  burlescamente  ?  pure  io  non  farei  che  servirmi  di 
termini  toscanissimi,  tutti  autorizzati  dagli  esempi  dei  Boccacci, 
dei  Villani,  dei  fra  Giordani,2  e  degli  altri  scrittori  del  secol  d'oro 
della  lingua.  Or  non  e  egli  dunque  assai  strano  che,  poiche  la 
lingua  toscana  si  mostro  sin  dal  suo  nascere  cosi  corriva  nelTaprir 
il  seno  capricciosamente  a  tante  voci  disadatte  venute  di  Francia, 
si  pretenda  ora  ch'ella  divenga  ritrosa,  schizzinnosa  e  fantastica,3 
quando  si  tratta  di  accettarne  di  nuove  scelte  a  proposito,  au- 
torizzate  dal  bisogno  e  non  rifiutate  dal  gusto  ? 

xiv.  I  vocaboli  nuovi  generano  nuovi  traslati,  nuove  frasi  meta- 
foriche  ed  allusive.  Ammessa  dunque  la  novita  dei  vocaboli,  non 
puo  escludersi  la  novita  dei  traslati  e  delle  locuzioni  che  ne  derivano. 
Se  la  lingua  soffre  I'elettricita  nei  corpi,  dovra  ben  permettere  che 
si  elettrizzi  lo  spirito :  se  la  virtu  della  calamita  ha  il  nome  di  ma- 
gnetismo,  come  impedire  al  cuor  d'un  amante  di  sentir  la  forza 
magnetica  negli  occhi  della  sua  bella?  Quelle  stesse  ragioni  che 
mettono  in  voga  una  nuova  classe  di  vocaboli,  conciliano  anche  fa- 
vore  alle  locuzioni  metaforiche,  che  sono  i  rampolli  di  quel  germe. 
Quindi  ad  ognuna  delle  grandi  epoche  delle  nazioni  si  veggono  gli 
scrittori  attignere  i  loro  traslati  a  una  nuova  fonte,  e  la  lingua  rin- 
novarsi  e  ricolorirsi  sensibilmente.  Nel  tempo  della  rozzezza  re- 
gnano  i  traslati  di  somiglianza,  ne*  secoli  dell'ingegno  quei  del 
contrasto:  i  primi  si  colgono  dagli  oggetti  fisici,  i  secondi  si  trag- 
gono  piu  volentieri  dalle  conoscenze  e  dalle  arti:  quelli  son  figli 
della  poverta,  del  bisogno,  del  caso;  questi  delTabbondanza,  della 

i.  S'io  .  .  .  cirugiano:  diamo  la  spiegazione  solo  delle  parole  meno  chiare: 
Tussanti  (francese  Toussaint),  «  Ognissanti » ;  balitemi  (antico  francese  bail- 
tir),  «prestatemi»;  bornio  (francese  borgne),  «orbo»;  buscione  (francese  buis- 
sori),  «  cespuglio  » ;  controvata  (francese  controuvee),  « inventata  » ;  convoitoso 
(francese  convoiteux),  «voglioso»;  ridotto  (francese  redoute),  «temo»;/or- 
fatti  (francese  forfaits),  « misfatti » ;  fado  (francese  fade),  «sciocco»;  giug- 
giare  (francese  juger),  «giudicare»,  usato  anche  da  Dante  (Purg.,  xx,  48); 
plusori  (francese  plusieurs),  «  parecchi  » ;  segnare  (francese  saigner),  «  salas- 
sare»;  cirugiano  (francese  chirurgien),  «chirurgo».  2.  fra  Giordani:  fra 
Giordano  da  Rivalta  (o  da  Pisa),  vissuto  tra  il  1260  e  il  1311  e  famoso  pre- 
dicatore,  e  spesso  citato  nel  Vocabolario  della  Crusca.  3. fantastica: 
capricciosa. 


MELCHIORRE   CESAROTTI 

scelta,  del  lusso.  Gli  antichi  mancano  talora  d'aggiustatezza,  i 
nuovi  di  facilita:  negli  uni  e  negli  altri  scorgesi  un'audacia  diversa: 
quella  e  Timpeto  d'una  fantasia  senza  guida,  questa  e  la  baldanza 
dello  spirito  che  sente  le  proprie  forze  ed  ama  di  farle  conoscere. 
lo  non  mi  diffondero  piu  oltre  su  questo  articolo,  che  appartiene 
allo  stile  piu  che  alia  lingua.  Solo  non  so  astenermi  dall'osservare 
quanto  la  prevenzione  domini  spesso  nelle  materie  di  gusto,  e 
come  ella  renda  i  nostri  giudizi  inesatti  e  contraddittorii.  Gli  ama- 
tori  d'uno  stile  sobrio  e  castigato  sono  assai  disposti  a  trovar  o 
sfacciate  o  strane  le  locuzioni  metaforiche  degli  scrittori  piu  ani- 
mati  e  vivaci,  e  vi  oppongono  quelle  del  buon  tempo  antico,  che 
sembrano  loro  piu  misurate  e  d'una  modesta  semplicita:  questa 
non  e  che  un'illusione  nata  dalla  poca  awertenza  e  dall'abitudine. 
Le  frasi  metaforiche  de'  tempi  nostri,  essendo  tratte  da  somiglian- 
ze  o  da  contrasti  non  comuni,  colpiscono  con  tutta  la  forza  della 
no  vita  e  gittano  d'improwiso  una  luce  viva  che  abbaglia  le  viste 
piu  deboli:  laddove  le  metafore  antiche,  smaccate  dall'uso  e  rese 
a  noi  familiari  per  Pabitudine,  fanno  un'impressione  men  forte. 
Quindi  noi  per  un  errore  troppo  comune  trasportiamo  a  colpa 
della  cosa  cio  che  dee  mettersi  a  carico  delle  nostre  sensazioni: 
che  se,  analizzando  il  senso  primitive  ed  intrinseco  delle  locuzioni 
antiche  in  ognuna  delle  lingue  piu  celebri,  ne  facessimo  un  esatto 
ragguaglio  colle  moderne  piu  analoghe,  troveremmo  forse  piu  d'u- 
na  volta  che  quelle  in  origine  non  erano  punto  piu  sobrie,  ma 
solo  men  aggiustate  delle  recenti.  Lascio  stare  le  mascelle  del  fuoco, 
che  si  leggono  presso  Eschilo,1  e  Vinnumerabile  riso  del  mare2  del 
poeta  stesso,  che  Catullo  colla  stessa  metafora,  per6  in  luogo  piu 
conveniente,  chiamo  cachinno?  e  la  nave  dalle-guancie-di-minio 
del  buon  Omero,4  e  lo  strale  di  Pindaro  che-avea-le-gengive-di- 
bronzo*  e  tante  altre  locuzioni  di  simil  fatta  che  si  ammirano  nel 
cigno  dirceo,6  e  sarebbero  fischiate  nel  Ciampoli:7  ma  la  chioma 

i.  Cfr.  Prom.,  370:  TCOTOCfJLo!  Trupos  SCXTTVOVTE^  aypicag  yva&cnc;.  2.  Cfr. 
Prom.,  90:  TTOU-UCOVTS  xu[idhrcov  dcvqpi&piov  ysXaa^a.  3.  Cfr.  Carm.,  LXIV, 
273:  «[undae]  ^leviterque  sonant  plangore  cachinni».  4.  Cfr.  //.,  637: 
vvjeg. . . [xiXTOTOxpflot.  5.  Cfr.  Pyth.y  i,  44:  xaXxoTrapqcov  axovra.  (Propria- 
mente,  «  guance  »  e  non  gengive.)  6.  cigno  dirceo :  Pindaro.  L'immagine  e 
di  Orazio,  Carm.,  iv,  n,  25 :  «multa  dircaeum  levat  aura  cycnum ».  7.  Gio 
vanni  Czampoh  (1590-1643),  sull'esempio  del  Chiabrera,  cerco  di  reagire  al 
marinisrno  e  al  petrarchismo  attraverso  1'imitazione  dei  classici  latini  e  gre- 
ci,  e  specialmente  di  Pindaro. 


SAGGIO    SULLA  FILOSOFIA   DELLE   LINGUE  385 

parlante  (Tun  albero  mosso  dal  vento  non  s'accorda  molto  colla 
semplicita  di  Catullo;1  e  il  tagliar  le  midolle  (Tun  monte  presso  il 
medesimo,2  non  e  forse  gemello  di  sviscerar  i  monti  di  Paro,  come 
volea  rAchillini?3  Ne  so  dire  se  le  querce  orecchiute  d'Orazio4 
avrebbero  trovato  lo  stesso  favore  nel  Testi,  ne  se  le  mammelle  del 
terreno,  che  tanto  vale  uber  glebae,  si  passerebbero  al  Marino, 
come  si  rispettano  nel  misurato  Virgilio.5  Molti  esaltano  Dante  per 
la  proprieta  de'  vocaboli:  cosa  vera  specialmente  in  cio  che  per 
lui  non  v'e  nulla  d'improprio.  II  suo  frasario  spira  talora  la  felice 
arditezza  d'un  uomo  di  genio :  ma  molte  delle  sue  locuzioni  non 
dovrebbero  renderlo  degno  d'esser  alia  testa  dei  secentisti?  Tali 
sono  fra  cento  altre,  il  curro  o  carro  dello  sguardo,  far  monchi  i 
pensieri,  la  penna  tempra  del  sole  che  scioglie  le  nevi,  e  le  piaghe  che 
inebbriano  le  luci,  e  i  lamenti  che  lo  saettano  cogli  straliferrati  dipietd, 
e  la  notte  che  china  le  ale  de'  suoi  passi,  e  V  superbo  strupo,  o  stupro 
di  Lucifero,  e  la  rimembranza  che  da  delle  cakagna  ai  giusti,  e 
Vinvidia  che  move  il  mantaco  ai  sospiri,  e  Varco  del  dire  tratto  sino  al 
ferro,  e  ruomo  cavalcato  dal  buon  volere,  e  il  fummo  accidioso,  e 
la  cruna  del  desio,  e  Volvo  della  fiamma,  e  '/  seme  del  piangere, 
e  il  pagar  lo  scotto  della  colpa,  e  Vortica  del  pentimento,  e  '/  sole 
lucerna  del  mondo,  e  il  fiume  della  mente,  e  il  piede  dell*  animal 


i.  Cfr.  Carm.,  iv,  12:  «loquente  saepe  sibilum  edidit  coma».  2.  Cfr. 
Carm.,  LXVIII,  in:  «caesis  mentis  ...  medullis ».  3.  Cfr.  il  sonetto  ci 
tato  Sudate,  o  fochi,  2-3 :  « voi,  ferri  vitali,  itene  pronti,  /  ite  di  Paro  a  svi- 
scerare  i  monti ».  4.  Cfr.  Carm.,  I,  xn,  11-2:  ccauritas  .  .  .  quercus». 
5.  Cfr.  Aen.,  1,531:  « terra . . .  potens . . .  ubere  glebae  ».  6.  Ecco  per  ordine 
le  citazioni  complete  delle  locuzioni  dantesche  ricordate  in  questo  periodo : 
Inf.,  xvii,  61:  «Poi,  procedendo  di  mio  sguardo  il  curro »;  7w/.,  xin,  30: 
ah  pensier  c'hai  si  faran  tutti  monchi »;  Inf.,  xxrv,  6:  «ma  poco  dura  a  la 
sua  penna  tempra  »;  Inf.,  xxix,  1-2:  «La  molta  gente  e  le  diverse  piaghe  / 
avean  le  luci  mie  si  inebriate »;  Inf.,  xxix,  43-4:  « lamenti  saettaron  me 
diversi,  /  che  di  pieta  ferrati  avean  li  strali»;  Purg.,  ix,  7-9:  «e  la  notte  de' 
passi  con  che  sale  /  fatti  avea  due  nel  loco  ov'eravamo,  /  e  '1  terzo  gia  chi- 
nava  in  giuso  Tale  »;  Inf.,  vii,  11-2:  «dove  Michele  /  fe'  la  vendetta  del  su 
perbo  strupo»;  Purg.,  xn,  20-1 :  «la  puntura  de  la  rimembranza,  /  che  solo 
a'  pii  da  de  le  calcagne » ;  Purg.,  xv,  5 1 : « invidia  move  il  mantaco  a'  sospiri » ; 
Purg.,  xxv,  17-8:  «Scocca  /  1'arco  del  dir  che  'nfino  al  ferro  hai  tratto »; 
Purg.,  xvni,  95-6:  « color  .  .  .  /  cui  buon  volere  e  giusto  amor  cavalca»; 
Inf.,  vii,  123:  «portando  dentro  accidioso  fummo »  (1'esempio  ricordato 
dal  Cesarotti  compare  nelle  due  prime  edizioni,  ma  non  in  quella  di  Pisa) ; 
Purg.,  xxi,  37-8:  «S1  mi  die,  dimandando,  per  la  cruna  /  del  mio  disio»; 
Purg.,  xxvii,  25-6:  « dentro  a  1'alvo  /  di  questa  fiamma»;  Purg.,  xxxi,  46: 
apon  giu  il  seme  delpiangere  ed  ascolta»;  Purg.,  xxx,  144-5:  «sanza  alcuno 

25 


MELCHIORRE    CESAROTTI 

Niuno  certamente  dei  prosatori  o  del  poeti  di  quel  secolo  scomu- 
nicato  disse  nulla  di  piii  strano  o  in  vari  sensi  piu  sconveniente. 
lo  non  sar6  certamente  quello  che  voglia  bestemmiar  lo  stesso 
poeta  perche  abbia  detto  cibarsi  di  speranza,  dispiccar  tenebre  dalla 
luce,  arrivar  a  vari  porti  nel  gran  mare  dell'essere;  ne  faro  mal 
viso  zll'arco  degli  anni  che  scende,  o  al  nome  che  tien  f route  nel 
mondo,  o  al  parlor  visibile,  o  all'  or  lo  della  vita,  o  alia  navicella 
delTingegno  che  aha  le  vele,  o  al  luogo  muto  d'ogni  luce]  e  ne  pur 
mi  lascero  spaventare  dallo  spavento  che  bagna  la  mente  di  sudore:1 
diro  solo  che  tutte  queste  sono  locuzioni  dell'ordine  stesso  di 
quelle  che  tutto  giorno  nei  moderni  si  condannano  di  neologismo 
e  d'audacia.  Le  schiume  della  coscienza?  e,  per  mio  awiso,  un'espres- 
sione  di  Dante  non  mal  appropriata  a  rappresentar  le  sozzure 
deiranima:  ma  s'uno  de*  nostri  si  arrischiasse  a  dire  che  il  pen- 
timento  dischiuma  la  coscienza,  io  sono  ben  certo  che  i  delicati 
se  ne  farebbero  beffe,  ne  vorrebbero  vederci  che  la  schiumatura 
della  pentola:  bensi  sarebbero  contentissimi  se  si  dicesse  che  la 
penitenza  purga  Vamma,  senza  pensare  ai  purganti.  II  gentilissimo 
ed  aggiustatissimo  Petrarca  danteggio  alquanto  colle  ginocchia  della 
mente,  e  piu  col  sole  che  guarda  dal  balcon  sovrano}  Quand'egli 
ci  dice  che  Laura  portb  in  cielo  le  chiavi  del  suo  cuore,4  niuno  ci 
trova  a  ridire;  ma  se  uno  de'  moderni  avesse  introdotta  questa 
espressione,  non  si  direbbe  ch'egli  fa  della  sua  Laura  una  came- 


scotto  /  di  pentimento»;  Purg.,  xxxi,  85:  «Di  penter  si  mi  punse  ivi  1'or- 
tican;  Par.,  1,37-8:  « Surge  ai  mortali  per  diverse  foci  /  la  lucerna  del 
mondo»;  Purg.,  xm,  89-90:  «si  che  chiaro  /  per  essa  [la  coscienza]  scenda 
de  la  mente  il  fiume»;  Par.,  m,  27:  «sopra  '1  vero  ancor  lo  pie  non  fida». 
i.  Diamo  le  citaziom  complete  anche  di  queste  locuzioni  dantesche:  Inf., 
viii,  106-7:  «lo  spirito  lasso  /  conforta  e  ciba  di  speranza  buona»;  Purg., 
xv,  66:  «di  vera  luce  tenebre  dispicchi»;  Par.,  i,  112-3  :  «onde  si  muovono 
a  diversi  porti  /  per  lo  gran  mar  de  l'essere»;  Purg.,  xm,  114:  «gia  discen- 
dendo  Tarco  di  miei  anni»;  Inf.,  xxvn,  57:  «se  *1  nome  tuo  nel  mondo  te- 
gna  fronte»;  Purg.,  x,  95:  «esto  visibile  parlare»;  Purg.,  xi,  127-8:  «atten- 
de,  /  pna  che  si  penta,  Torlo  de  la  vita  »;  Purg.,  i,  1-2:  «Per  correr  migliori 
acque  alza  le  vele  /  omai  la  navicella  del  mio  ingegno»;  Inf.,  v,  28:  «Io 
venni  in  luogo  d'ogni  luce  muto»;  Inf.,  in,  131-2:  «de  lo  spavento  /  la 
mente  di  sudore  ancor  mi  bagna »  (dove  per6  il  soggetto  non  e  spavento, 
ma  mente).  2.  Cfr.  Purg.,  xm,  88-9:  «se  tosto  grazia  resolva  le  schiume  / 
di  vostra  coscienza ».  3.  Cfr.  Rime,  CCCLXVI,  63-4:  «Con  le  ginocchia  de 
la  mente  mchine  /  prego»;  e  Rime,  XLIII,  1-2:  «I1  figliuol  di  Latona  avea 
gia  nove  /  volte  guardato  dal  balcon  sovrano ».  4.  Cfr.  Rime,  cccx,  1 1 : 
« quella  ch'al  ciel  se  ne  porto  le  chiavi ». 


SAGGIO    SULLA   FILOSOFIA   DELLE   LINGUE  387 

riera  smemorata,  die  uscendo  di  casa  si  pose  in  tasca  le  chiavi  del 
gabinetto  del  suo  padrone,  sicch'egli  non  puo  piii  entrarci?  lo 
non  consiglierei  certamente  alcuno  a  dir  d'un  sopraffattore  che 
non  soffre  resistenza,  ch'egli  stupra  Paltrui  libertd]  ma  sosterrei  che 
questo  modo  e  assai  piu  appropriate  che  Paltro  comunissimo  di 
adulterar  le  droghe,  a  cui  pur  nessuno  pon  mente.  Chi  seriamente 
chiamasse  un  dialettico  sartor  e  di  ragionamenti*  Tespressione  si 
troverebbe  bassa  e  ridicola:  mi  si  mostri  perche  sia  piu  nobile  e 
piu  conveniente  Faltra  autorizzata  da  cento  esempi,  fabbro  del  par- 
lore?  applicata  a  un  oratore  o  a  un  poeta. 

Ne  solo  le  frasi  metaforiche  ricercate  per  ornamento,  ma  gli 
stessi  termini  propri  che  sembrano  portar  il  vanto  d'aggiustatezza 
e  sempHcita  sono  per  la  piu  parte  traslati  bizzarri  ed  audaci,  tratti 
da  un  rapporto  il  meno  opportune  e  conveniente:  in  prova  di 
che  bastera  ricordar  i  due  verbi  latini  da  noi  mentovati  nella  prima 
parte,  conciliare  e  congruere. 

Che  vuolsi  alfine  conchiudere  da  tutto  cio?  che  chi  scrive  del 
paro  e  chi  giudica,  dee  aver  principii  costanti  e  bilance  uguali. 
Finche  non  avremo  per  norma  che  le  date  del  tempo  o  i  nomi  de- 
gli  autori,  le  nostre  opinioni  saranno  sempre  capricciose,  inconse- 
guenti  ed  incerte.  L'esame  del  senso  radicale  e  del  successive,  del 
principale  e  degli  accessori,  e  sopra  tutto  della  convenienza  e  del 
cumulo  dei  rapporti  fra  le  cose  e  i  vocaboli,  potranno  soli  servirci 
di  guide  sicure;  e  se  non  ci  riuscira  sempre  di  migliorar  Fuso,  po- 
tremo  almeno  mantener  sano  il  giudizio. 

xv.  Cio  che  abbiam  detto  delle  frasi  proverbiali,  mostra  abba- 
stanza  quali  awertenze  vogliano  aversi  nella  loro  scelta,  e  come  pos- 
sano  meglio  impiegarsi.  Quelle  tratte  dalla  natura,  dalParti,  dalle 
costumanze  solenni  e  d'universal  conoscenza,  sia  nostrale  o  stra- 
niero  lo  scrittore  che  primo  ne  fece  uso,  non  debbono  credersi  pro- 
prie  di  veruna  nazione,  ma  comuni  a  tutte,  ne  possono  rifmtarsi 
da  veruna  lingua.  Ma  quelle  che  si  fondano  sopra  le  particolarita 
private,  sara  meglio  lasciarle  ai  dialetti  provinciali  dov'ebbero  ori- 
gine,  e  dove  trovano  chi  ne  conosca  i  rapporti,  se  pur  ancora 
non  se  n'e  spenta  la  memoria.  6  peccato  che  il  Davanzati,  scrittore 


i.  Cfr.  Dante,  Par.,  xxxii,  140-1:  «qui  farem  punto,  come  buon  sarto- 
re  /  che  com'egli  ha  del  panno  fa  la  gonna ».  2.  Cfr.  Dante,  Purg.t  xxvi, 
117:  «fu  miglior  fabbro  del  parlar  materno»  (Arnaldo  Daniello). 


388  MELCHIORRE    CESAROTTI 

che  nell'energia  e  neU'evidenza  puo  dirsi  il  Dante  dei  prosatori 
toscam,  abbia  talora  degradato  Tacito  con  qualche  locuzione  di 
questa  specie:  e  chi  poi  perdonera  a  Dante  stesso,  che  crede  di 
rappresentar  degnamente  la  giustizia  infallibile  dell' off esa  Di- 
vinita  coll'alludere  a  ima  sciocca  superstizione  della  plebaglia  di 
Firenze  in  quel  verso  singolare: 

la  vendetta  di  Dio  non  teme  supped1 

xvi.  NelPaltra  parte  non  abbiam  fatto  che  un  cenno  degl'idio- 
tismi:  e  questo  il  luogo  di  parlarne.  Essi  danno  alia  lingua  un 
certo  sapor  nazionale:  ognuna  ha  i  suoi,  e  questi,  secondo  la 
comune  opinione,  son  cosi  propri  di  ciascheduna,  che  non  pos- 
sono  trasportarsi  da  quella  a  questa  senza  snaturarla  e  corromperla. 
Questa  opinione  e  poi  tanto  vera  quanto  si  crede?  e  non  sofTri- 
rebbe  qualche  eccezione?  Vediamolo.  Presa  assolutamente,  ella 
sembra  contrastata  e  dalla  ragione  e  dal  fatto.  E  quanto  al  primo, 
Tidiotismo  considerate  nel  suo  materiale  non  altro  essendo  che 
una  configurazione  non  comune  di  parole  formanti  un  senso  in- 
telligibile,  e  chiaro  che  la  lingua  non  pu6  aver  alcuna  repugnanza 
intrinseca  e  veruna  configurazione  nuova,  se  non  qualora  ella 
sia  inconciliabile  colla  struttura  de'  suoi  elementi  grammaticali  o 
coll'ordme  dei  loro  rapporti,  in  guisa  che  ne  risulti  un  senso  oscuro 
contrario  al  suo  intendimento.  Ove  cio  non  abbia  luogo,  la  lingua 
dee  prestarsi  a  guisa  di  cera  a  tutte  le  forme.  Di  fatto  gl'idiotismi 
gia  ricevuti  non  s'introdussero  in  veruna  lingua  tutti  ad  un  tratto, 
ma  successivamente  o  dalFuso  del  popolo  o  dal  genio  particolare 
degli  scrittori.  Or  s'ella  in  ogni  tempo  si  mostro  passiva  alle  nuove 
configurazioni  nazionali,  donde  pu6  nascere  in  lei  questa  resisten- 
za  alle  straniere,  ove  queste  si  adattino  ugualmente  bene  alia  sua 
organizzazion  radicale  ?  Quanto  al  fatto,  le  stesse  cause  che  intro- 
dussero  in  una  lingua  i  vocaboli  stranieri,  vanno  insinuandoci 
insensibilmente  anche  gridiotismi.  Oltre  Paccozzamento  origi- 
nario  de'  vari  idiomi,  il  bisogno,  il  commercio,  rammirazione  per 


i.  Cfr.  Purg.,  xxxm,  35-6:  «dii  n'ha  colpa,  creda  /  che  vendetta  di  Dio 
non  teme  suppe».  Dante  allude  all'uso  del  suo  tempo  per  cui  Tomicida, 
che  per  nove  giorni  riusciva  a  mangiare  una  zuppa  sulla  tomba  dell'uc- 
ciso,  andava  libero  da  ogni  vendetta  e  condanna. 


SAGGIO    SULLA  FILOSOFIA   DELLE   LINGUE  389 

una  lingua  autorevole,  la  familiarita  coj  di  lei  scrittori  inducono  na- 
turalmente  una  comunicazione  reciproca  delle  fogge  di  parlare, 
come  dell'altre  usanze  socievoli.  Tutte  le  favelle  antiche  e  moderne 
ci  somministrano  esempi  costanti  di  tal  verita.  L'italiana,  oltre  i 
latinismi  originari,  n'ebbe  per  opera  del  Davanzati  vari  altri  che 
la  resero  piu  vibrata  e  piu  agile;  come  dal  Chiabrera  ebbe  piu 
djuna  maniera  greca  che  le  aggiunse  splendore  e  vivacita.  Sia  questo 
un  omaggio  permesso  che  si  rende  alle  lingue  madri.  Ma  che  sara 
della  purita  della  nostra  lingua  se  si  mostra  («  eloquar,  an  sileam  ?  »)r 
che  anche  in  questa  parte  vitale  ella  porta  seco  il  peccato  originale 
del  f rancesismo  ?  Nulla  di  piu  scandaloso,  ma  nulla  ancor  di  piu 
vero.  II  comunissimo  vi  ha  in  luogo  di  vi  e,  costmito  col  plurale, 
e  preceduto  dall'inutilissimo  egli,  non  e  forse  lo  stessissimo  idio- 
tismo  francese  il  y  a  des  gens  ?  idiotismo  inoltre  che  non  ha  altro 
pregio  se  non  la  singolarita  di  riunire  in  tre  parole  tre  solenni 
peccatacci  grammaticali  ?  Della  stessa  origine  sono  persona  usata 
per  niuno,  il  desinare  I  presto  per  alVordine,  avvisarsi  d'una  co- 
sa,  conoscersi  d'una  materia,  nulla  monta  per  nulla  rileva,  trop- 
po  bene  per  ottimamente,  amar  meglio,  tenter  forte,  stare  il  me- 
glio  del  mondo,  ed  altri  moltissimi.  Come  dunque  non  sara  stra- 
na  e  bizzarra  la  contradizione  d'alcuni,  che,  accarezzando  gli 
accennati  modi  come  graziosi  e  legittimi,  ove  poi  nelle  scritture 
moderne  s'incontrano  in  qualche  modo  francese,  rinculano  d'or- 
rore  quasi  alia  vista  d'una  serpe,  e  gittano  il  libro  piu  che  di 
fretta? 

xvii.  Ma  perche  le  nostre  awersioni  o  parzialita  abbiano  qual 
che  miglior  fondamento,  giovera  qui  di  ricordare  che  gl'idiotisnu, 
secondo  la  divisione  da  noi  fatta  nella  parte  seconda,  son  di  due  spe 
cie,  grammaticali  e  rettorici.  I  primi  essendo,  come  abbiam  detto, 
insignificanti,  o  non  significando  nulla  di  piu  d'altri  analoghi  che 
corrono  in  ciascheduna  lingua,  quand'anche  potessero  ugualmente 
bene  trasportarsi  dalFuna  all'altra,  ragion  vuole  che  si  lascino 
senza  invidia  a  quell' idioma  a  cui  per  natura  appartengono.  Chi 
dicesse  triveloce  o  triforte  in  luogo  di  fortissimo  e  velodssimO) 
sarebbe  inteso  ugualmente,  e  la  lingua  italiana  poteva  in  origine 
adottar  ugualmente  bene  un  modo  che  Faltro.  Ma  se  la  desinenza 
latina  da  lei  prescelta  spiega  egregiamente  lo  stesso,  sarebbe  una 

i.  Cfr.  Virgilio,  Aen.,  m,  39  («dovro  parlare  o  tacere?»). 


39<>  MELCHIORRE    CESAROTTI 

stravaganza  gratuita  il  sostituir  al  nostrale  un  segno  straniero. 
Ma  gPidiotismi  rettorici  essendo  di  natura  diversa,  possono  e  deb- 
bono  meritare  qualche  privilegio.  Sono  essi  configurazioni  espres- 
sive,  che  accennano  idee  accessorie,  atteggiano  i  sentiment!  e  ne 
rappresentano  i  diversi  gradi  e  il  modo  particolare  con  cui  ci 
affettano.  Sotto  questo  punto  di  vista  appartengono  phi  all'eloquen- 
za  che  alia  lingua,  e  per  conseguenza  non  sono  propriamente  piu 
d'una  nazion  che  delPaltra,  ma  di  giurisdizione  comune  di  chiun- 
que  sente  o  concepisce  in  un  modo  analogo.  Conciossiache  Pelo- 
quenza  considerata  nell'elocuzione,  come  nelPaltre  sue  parti,  ab- 
braccia  e  comprende  Paggregato  di  tutti  i  mezzi  possibili  di  rap- 
presentare,  d'illustrare,  di  dilettare  e  di  muovere.  Ora  la  lingua 
tanto  dovra  dirsi  migliore  e  piu  prossima  alia  perfezione,  quanto 
sara  piu  pieghevole  e  piu  ricca  di  maniere  che  servano  alFelo- 
quenza,  vale  a  dire  a  tutti  i  possibili  bisogni  della  vita,  dell'intellet- 
to  e  del  cuore.  La  cosa  stessa  non  e  veduta,  ne  sentita,  ne  concepita 
ugualmente  da  un  uom  volgare  e  da  un  dotto,  da  un  rozzo  e  da 
un  colto,  da  un  appassionato  e  da  un  freddo.  Se  ognuno  ha 
un  diritto  naturale  di  sentir  a  suo  modo,  come  non  lo  avra  pa- 
rimente  d'esprimersi  adeguatamente  ?  Ora  in  questa  infinita  d'uo- 
mini  circondati  da  oggetti  stessi,  dotati  degH  stessi  organi,  posti 
in  circostanze  analoghe,  soggetti  infine  alle  stesse  passioni  diversi- 
ficate  soltanto  nelle  combinazioni  e  nei  gradi,  non  e  egli  visibile 
che  in  tutte  le  nazioni  debbono  trovarsene  molti  che  s'incontrino, 
diro  cosi,  nelPatto  individuale  del  concetto1  o  del  sentimento? 
Che  importa  se  un  popolo,  che  accidentalmente  abbonda  d'uomini 
della  stessa  tempera  di  spirito,  usa  un  modo  piu  comunemente 
di  quel  che  si  faccia  tra  noi  ?  Ogni  nazione  ben  esaminata  raccoglie 
nei  caratteri  tutte  le  altre:  e  che  vuol  dire  originale,  se  non  uomo 
che  ha  qualche  cosa  nello  spirito  che  lo  distingue  dai  piu?  Se 
dunque  la  costituzione  interna  d'uno  scrittore  lo  approssima  ta- 
lora  ad  un'altra  nazione  piu  che  alia  sua,  com'e  possibile  che  le  sue 
maniere  non  sentano  di  questa  natural  somiglianza?  Servendosi 
delFespressioni  che  piu  gli  convengono,  egli  non  toglie  Paltrui,  anzi 
nemmeno  lo  riconosce  per  tale,  ma  si  prevale  del  proprio  ovun- 
que  lo  trovi,  ne  lo  attinge  dallo  scarso  erario  d'una  lingua,  ma  dai 


i.  concetto:  preferisco,  con  TOrtolani,  questa  lezione  che  figura  nella  i  edi- 
zione,  in  luogo  di  a  concerto »,  che  si  legge  nella  n  e  in  quella  pisana. 


SAGGIO    SULLA   FILOSOFIA   DELLE   LINGUE  39] 

tesori  inesausti  dell'eloquenza,  che  lo  presenta  senza  parzfaliti 
a  chiunque  ne  sente  il  bisogno  e  sa  fame  uso.  Con  questo  ragio- 
namento  non  si  pretende  di  provare  che  sia  lecito  a  chicchesia  d 
far  un  guazzabuglio  babelico  degl'idiotismi  di  varie  lingue,  ma  sole 
che  non  debbono  ne  accettarsi  indistintamente,  ne  ciecamente 
proscriversi.  II  gusto  e  Tanalisi  possono  esserci  di  scorta  per  giu- 
dicar  fondatamente  non  meno  di  questa  che  delFaltre  parti  dells 
lingua.  Sarebbe  percio  per  mio  awiso  utilissimo  di  esaminare 
i  van  idiotismi  delle  lingue  phi  celebri,  secondo  gli  oggetti  se- 
guenti : 

1.  Osservare  se  appartengano  all'una  o  all'altra  delle  due  men- 
tovate  specie,1  e  se  alcuno  della  prima  si  fosse  intruso  neU'idioma 
nostro,  farlo  almeno  conoscere,  perche  non  si  faccia  rispettare 
come  originario,  e  non  si  prenda  per  un  gioiello  della  lingua. 

2.  Analizzar  quelli  della  seconda  specie,  rilevarne  con  precisione 
il  valore,  gli  usi  e  le  minute  differenze  dagli  altri  della  medesima 
classe  nella  stessa  lingua:  operazione  necessaria  alia  finezza  dell'in- 
tendimento  e  alia  squisitezza  del  gusto. 

3.  Cercare  se  nella  nostra  lingua  ve  ne  siano  di  realmente  equi 
valent!,  nel  che  suol  prendersi  piu  d'uno  abbaglio;  fame  un 
esatto  ragguaglio  coi  nostri  analoghi,  notarne  le  somiglianze,  le 
approssimazioni,  i  gradi  maggiori  di  delicatezza  o  di  forza. 

4.  Ove  si  scopra  che  la  lingua  nostra  manchi  assolutamente 
d'alcuno  di  essi,  esaminar  prima  qual  effetto  farebbe  trasportato 
fra  noi,  e  in  quali  luoghi  potrebbe  piu  opportunamente  usarsi; 
indi  cercar  se  sia  gia  noto  e  comune  e  inteso  generalmente  e  usato 
o  nei  discorsi  familiari  o  negli  scritti  o  nell'opere  degli  uomini 
colti,  benche  non  per  anco  abbia  avuto  la  sanzione  legittima,  della 
quale  in  tal  caso  si  renderebbe  degnissimo. 

5.  Se  con  ugual  merito  non  fosse  pero  ancora  abbastanza  co 
mune,  cercar  se  repugni  alia  struttura  grammaticale  della  nostra 
lingua  e  sia  percio  necessariamente  da  escludersi,  o  se  possa  non 
disconvenirle  e  adattarsi  alia  sua  sintassi ;  se  abbia  neU'idioma  no 
stro  qualche  costruzione  analoga  che  lo  autorizzi,  o  se  finalmente 
con  qualche  modificazione  potesse  addimesticarsi  meglio  e  pren- 
der  un'aria  piu  nazionale,  conservando  o  la  stessa  sua  forza  o 
almeno  un  grado  assai  prossimo. 

i.  due .  .  .  specie:  graminatica  e  rettorica. 


392  MELCHIORRE   CESAROTTI 

xvin.  Del  resto  per  awezzarsi  a  sentire  squisitamente  queste 
fmezze,  e  per  dar  nuovi  atteggiamenti  e  nuove  ricchezze  alia  lin 
gua,  nulla  gioverebbe  maggiormente  che  Pinstituire  una  serie  di 
giudiziose  traduzioni  degli  autori  piu  celebri  di  tutte  le  lingue 
in  tutti  gli  argomenti  e  in  tutti  gli  stili;1  purche  queste  traduzioni 
non  siano  fatte  ne  dai  grammatici,  ne  da  quei  tanti  guastame- 
stieri  di  cui  abbonda  T  Italia.  Questo  e  il  solo  mezzo  di  conoscere 
con  esattezza  Fabbondanza  e  la  poverta  rispettiva  delFidioma  no- 
stro,  i  suoi  discapiti  e  i  soccorsi  che  possono  trarsi  dalla  sua  fe- 
condita,  dall'uso  libero  delle  sue  forze  o  dall'accortezza  nel  giovarsi 
degli  aiuti  stranieri.  La  corrente  degli  scrittori,  sia  per  mancanza 
d'un  carattere  proprio,  sia  per  una  meticulosa  deferenza  agli  usi 
ordinari,  accomoda  le  sue  idee  e  i  suoi  sentimenti  al  modello  co- 
mune,  e  non  tenta  nulla  di  piu;  quindi  la  lingua  resta  sempre 
sterile,  uniforme,  non  abbastanza  pieghevole.  Un  traduttore  di 
genio  prefiggendosi  per  una  parte  di  gareggiar  col  suo  originate, 
e  sdegnando  di  restar  soccombente ;  temendo  per  Paltra  di  riu- 
scire  oscuro  e  barbaro  ai  suoi  nazionali,  e  costretto  in  certo  modo 
a  dar  la  tortura  alia  sua  lingua  per  far  conoscere  a  lei  stessa  ttitta 
Festensione  delle  sue  forze,  a  sedurla  accortamente  per  vincer 
le  sue  ritrosie  irragionevoli  e  rawicinarla  alle  straniere,  a  inven- 
tar  van  modi  di  conciliazione  e  d'accordo,  a  renderla  in  fine 
piu  ricca  di  flessioni  e  d'atteggiamenti  senza  sfigurarla  o  scon- 
ciarla.  La  lingua  d'uno  scrittore  mostra  Fandatura  d'un  uomo 
che  cammina  equabilmente  con  una  disinvoltura  o  compostezza 
uniforme;  quella  d'un  traduttore  rappresenta  un  atleta  addestra- 
to  a  tutti  gli  esercizi  della  ginnastica,  che  sa  trar  partito  da  ognun 
de'  suoi  membri,  e  si  presta  ad  ogni  movimento  piu  strano  co- 


i.  *I1  sig.  Napione  riconosce  anch'egli  utilissime  le  traduzioni  per  miglio- 
rar  la  lingua,  ma  sembra  che  si  restringa  a  quelle  dei  classici  greci  e  latini. 
Pure  cotesti  autori  hanno  spesso  dei  modi  tanto  repugnanti  a  quelli  della 
nostra  lingua,  quanto  alcuno  de'  piu  disanaloghi  fra  le  moderne.  Se  v'e 
un  modo  di  ammorbidirli  e  conciliarli  col  genio  italiano,  perche  la  stessa 
industria  non  puo  esser  ugualmente  felice  applicandola  alia  traduzione 
d'un  autor  francese,  inglese  o  tedesco  ?  Mi  fu  domandato  dallo  stesso  critico 
qual  aiuto  io  abbia  tratto  dagli  autori  francesi  per  la  traduzione  di  Ossian: 
niuno  certamente,  ma  non  ne  trassi  niente  di  piu  dagFitaliani,  ne  potea 
trarne:  e  se  avessi  avuto  gli  scrupoli  di  questo  dotto  scrittore,  non  mi  sarei 
mai  accinto  a  questo  lavoro,  poiche  nulla  potea  darsi  di  piu  alieno  dal  genio 
della  lingua  e  della  poesia  italiana  delle  maniere  del  bardo  celtico.  E 
pure  .  .  .  (C.). 


SAGGIO    SULLA   FILOSOFIA   DELLE   LINGUE  393 

si  agevolmente  che  lo  fa  sempre  parere  il   piu  naturale,   anzi 
Punico.1 

xix.  Cio  che  abbiam  detto  intorno  agl'idiotismi,  ci  apre  la  strada 
all'altra  questione  sopra  il  genio  della  lingua.  Questo  e  il  nome 
che  domina  nella  bocca  di  chiunque  favella  di  tali  materie.  Ogmino 
si  appella  a  cotesto  genio,  e  chi  e  convinto  d'averlo  violate,  non 
ha  difesa.  Si  conviene  comunemente  che  qualunque  innovazione 
che  giunga  ad  alterarlo  sia  essenzialmente  viziosa  e  tenda  alia  distru- 
zion  della  lingua.  Cerchiamo  prima  di  farci  un'idea  esatta  della 
cosa  di  cui  si  park.  II  genio  della  lingua  non  puo  essere  che  il  ri- 
sultato  del  genio  particolare  di  tutte  le  sue  parti,  ossia  la  somma 
dei  caratteri  che  1'uso  della  nazione  impress  e  in  ciascheduna 
di  esse  e  nel  loro  scambievol  rapporto.  Ora  noi  abbiamo  gia  mo- 
strato  sin  dal  principio  che  le  parti  della  lingua  sono  di  due  classi, 
rettoriche  e  logiche,  o  vogliam  dire  grammaticali.  Quindi  ne  fluisce 
necessariamente  che  il  genio  della  lingua,  secondo  il  cenno  da  noi 
fatto  nel  fine  della  seconda  parte,  e  anch'esso  di  due  specie,  vale  a 
dire  grammaticale  e  rettorico.  Per  mancanza  di  questa  distinzio- 
ne  e  di  qualche  altra,  parmi  che  il  Condillac,  trattando  lo  stesso 
argomento,  non  abbia  fatto  spiccare  in  tutto  il  suo  lume  la  sua  solita 
aggiustatezza  e  sagacita.2  II  genio  della  lingua,  che  dee  riguardarsi 
come  propriamente  inalterabile,  e  il  grammaticale,  poiche  questo 
e  annesso  alia  natura  intrinseca  de'  suoi  elementi.  L'essenza  ma 
terial  d'una  lingua  dipende  dalle  desinenze  e  dalla  sintassi,  come 
Tessenza  dei  corpi  dipende  dalla  figura  degli  atomi  elementari  e 
dalle  loro  primitive  combinazioni.  La  sola  mancanza  dei  casi  de- 
clinabili  e  dei  participi3  rende  essenzialmente  diversi  ed  incon- 
ciliabili  il  genio  della  lingua  italiana  e  quello  della  latina.  Ma  il 
genio  rettorico,  derivando  da  principii  diversi,  non  puo  aver  come 
Paltro  una  rigidezza  immutabile.  Esso  e,  non  v'ha  dubbio,  il  risul- 
tato  del  mo  do  generale  di  concepire,  di  giudicar,  di  s  entire  che 


i.  Per  le  idee  espresse  in  questo  paragrafo  cfr.  soprattutto  il  Discorso  pre- 
messo  alia  traduzione  di  Ossian,  il  Ragionamento  preliminare  al  corso  ra- 
gionato  di  letter atur a  greca,  e  anche  le  lettere  al  Vannetti  riportate  esse  pure 
in  questo  volume.  2.  il  Condillac  .  .  .  sagacita:  cfr.  Essad  sur  V origins  des 
connaissances  humaines  (1746),  n,  I,  xv  (Du  genie  des  langues),  in  Oeuvres 
philosophiques,  I,  Paris  1947,  pp.  98-104.  L'opinione  del  Condillac  e  rias- 
sunta  dal  Cesarotti  piii  avanti.  3.  *Ai  quali  vanno  annessi  i  gerundi  e  i 
supini.  Molti  participi  sono  pero  ammessi  nella  lingua  italiana,  e  anche 
qualche  gerundio  comincia  ad  esservi  ben  accolto  (C.). 


394  MELCHIORRE    CESAROTTI 

domina  presso  i  vari  popoli,  quindi  il  genio  della  lingua  e  propria- 
mente  Pespressione  del  genio  nazionale.  Tutto  cio  dunque  che  can- 
gia  o  modifica  il  secondo  genio,  dee  necessariamente  portar  tosto  o 
tardi  anche  nel  primo  una  alterazione  corrispondente.  Ora  chi  non 
conosce  le  vicissitudini  mo  rail  e  politiche  delle  nazioni,  e  la  loro 
influenza  mal  contrastata  dal  clima,  influenza  che  trasforma  un 
popolo  d'eroi  in  una  greggia  di  schiavi,  e  al  rozzo  e  libero  lin- 
guaggio  della  schiettezza  repubblicana  sostituisce  la  politezza  lu- 
singhiera  e  Pingegnosa  urbanita  della  corte?1  Non  appartiene  al 
mio  assunto  il  diffondermi  su  questo  articolo,  e  sarebbe  ormai  va- 
no  il  farlo,  dopo  che  PElvezio  lo  pose  nella  piu  luminosa  e  trion- 
fante  evidenza.2  «I1  carattere  d'una  lingua »  dice  il  Condillac  «dura 
piu  a  lungo  dei  costumi  del  popolo  »:3  ma  nel  corso  di  questo 
ragionamento,  parmi  d'aver  mostrato  abbastanza  se  questa  sup- 
posizione  sia  ben  fondata  o  gratuita.  La  necessita  inevitabile  delle 
alterazioni  successive  della  lingua  e  i  loro  intrinseci  principii  furono 
egregiamente  sviluppati  da  un  valente  spagnuolo  benemerito  del- 
Tltalia  piu  di  vari  nazionali,  poiche  in  luogo  di  adularne  i  pregiudi- 
zi,  Ponora  ed  illustra  colPopere.4  lo  aggiungero  che  se  cotesta  rigi- 
dezza  di  genio  fosse  naturale,  ella  avrebbe  dovuto  conservarsi 
nelFantiche  lingue. 

£  noto  che  i  Greci  e  i  Romani  riguardavano  tutti  i  popoli 
come  barbari,  destinati  al  dispregio  e  alia  servitu:  i  loro  costumi, 
le  loro  opinioni  ed  usanze  non  erano  per  essi,  non  dir6  oggetti  di 


1.  *E  viceversa  cangia  un  popolo  di  filosofi  umanissimi  e  di  gentilissimi 
cortigiani  in  un  gran  club  d'eroi  sanculottici,  e  al  molle  frasario  del  bon  ton 
sostituisce  i  termini  origmali  e  sublimi  di  terrorism*},  guigliottina,  settembriz- 
zare,  ec.  ec.,  i  quali  saranno  un  ornamento  singolare  dei  glossari  della  lingua 
e  della  storia  politica  (C.).  Si  ricordi  che  questa  nota  fu  aggiunta  nel  1800. 

2.  Cfr.  De  V esprit  (1758):   specialmente  gli  ultimi  capitoli  del  discorso 
in.     3.  Cfr.  Essai  sur  I'origine  des  connaissances  humaims,  n,  i,  xv,  in  Oeu~ 
vres philosophiques,  ed.  cit.,  i,  p.  99:  «le  caractere  d'une  langue,  surtout  s'il 
est  fixe  par  des  ecrivains  celebres,  ne  change  pas  aussi  facilement  que  les 
moeurs  d'un  peuple».     4.  II  sig.  ab.  Stefano  Arteaga  nelle  sue  note  aUa 
dissertazione  del  sig.  Borsa  sul  recente  problema  deH'Accademia  di  Man- 
tova.  Innanzi  che  le  suddette  annotazioni  comparissero  al  pubblico,  il  sig. 
Francesco  Colle,  accademico  di  Padova,  avea  trattato  lo  stesso  argomento 
con  dottrina  e  sagacita  in  un  ragionamento  letto  alTAccademia,  e  degnis- 
simo  di  uscir  alia  luce  (C.).  Sul  Borsa,  sulla  sua  dissertazione,  sulle  note 
delF Arteaga,  e  su  quella  del  Colle  cfr.  la  Nota  mtroduttiva  alle  pagine  del 
Borsa  stesso  riprodotte  in  questo  volume.  Su  Francesco  Colle  cfr.  VAv- 
vertimento  che  precede  il  presente  Saggio,  e  la  nota  2  a  lui  relativa,  a  p.  305. 


SAGGIO    SULLA   FILOSOFIA   DELLE    LINGUE  395 

stima,  ma  nemmeno  di  curiosita  e  di  ricerche.  Inoltre  gridiomi 
di  quelle  nazioni,  prive  di  scrittori  illustri,  digiune  delle  discipline 
e  delParti,  non  aveano  di  che  adescar  le  lingue  dominanti  a  far 
alieanza  con  loro.  Or  se  ad  onta  di  cio  la  favella  de'  Greci  e  de* 
Romani  si  modifico  da  se  stessa  seguendo  1'impulso  progressive 
dello  spirito  e  le  vicende  dello  stato  sociale,  il  carattere  affatto  di- 
verso  del  nostro  secolo  rende  Pinalterabilita  delle  lingue  moderne 
pressoche  fisicamente  impossibile.  La  scoperta  d'un  mondo  in 
cognito,  il  commercio  e  la  comunicazione  universale  da  un  polo 
alPaltro,  la  propagazione  dei  lumi  per  mezzo  della  stampa,  le  co- 
noscenze  enciclopediche  diffuse  nella  massa  delle  nazioni,  che 
trapelano  insensibilmente  fmo  nel  popolo,  i  tanti  capi  d' opera  di 
cui  abbondano  tutte  le  lingue  piu  celebri,  e  attraggono  da  ogni 
parte  gli  sguardi,  i  pregiudizi  d'una  tolleranza  fHosofica  sostituiti 
in  ogni  genere  a  quelli  del  patriottismo,1  non  solo  hanno  prodotta 
una  rivoluzione  generale  in  tutti  gli  spiriti,  ma  insieme  atterrarono 
tutte  le  barriere  che  separavano  anticamente  una  nazione  dall'al- 
tra,  e  confusero  in  ciascheduna  le  tracce  del  loro  carattere  origi- 
nario.  Le  antipatie  religiose  e  politiche  non  si  conoscono  piu:2 
le  usanze  e  le  opinion!  sono  in  una  circolazione  perpetua:  PEuropa 
tutta  nella  sua  parte  intellettuale  e  ormai  divenuta  una  gran  fa- 
miglia,  i  di  cui  membri  distinti  hanno  un  patrimonio  comune  di 
ragionamento,  e  fanno  tra  loro  un  commercio  d'idee  di  cui  niuno  ha 
la  proprieta,  tutti  Puso.  In  tal  rigenerazione  di  cose  non  e  assurdo 
Pimmaginare  che  il  genio  delle  Hngue  possa  conservarsi  immuta- 
bile?  e  non  dee  piuttosto  scorgersi  in  ciascheduna  di  esse,  come 
presso  Ovidio, 

fades,  non  omnibus  una, 
nee  diversa  tamen,  qualem  decet  esse  sororum  ?3 

Tal  e  in  fatti  la  loro  tendenza  insensibile  a  rawicinarsi  e  a  pro- 
fittar  delle  altrui  ricchezze,  che  senza  il  genio  grammaticale,  da 

i .  *Chi  h  chiama  pregiudizi  non  vuol  certo  fame  un  elogio ;  ne  pero  vuolsi 
intendere  che  la  tolleranza  e  il  patriottismo  considerati  in  se  stessi  sian 
pregiudizi ;  ma  le  idee  nel  diventar  cose  cangiano  spesso  di  proporzioni  e  di 
forme  (C.)-  Si  ricordi  che  anche  questa  nota  e  la  seguente  furono  aggiunte 
nel  1800.  2.  *L'autore  non  prevedeva  che  dentro  pochi  anni  si  sarebbe 
trovato  il  modo  di  conciliar  Fantipatia  religiosa  coirindifTerenza,  e  il  pieno 
scetticismo  morale  col  piu  assoluto  dogmatismo  politico  (C.).  3-  Met.t  n, 
13-4  («una  fisionomia  non  uguale  in  tutte  e  tuttavia  non  diversa,  quale  si 
conviene  a  sorelle »). 


MELCHIORRE   CESAROTTI 

cui  solo  si  forma  la  linea  di  divisione  insormontabile  fra  Tuna  e 
Taltra,  diverrebbero  a  poco  a  poco  una  sola,  e  molte  opere  d'una 
lingua  non  parrebbero  die  traduzioni  dalFaltra.  lo  non  intendo 
ne  di  biasimar  ne  di  approvare  questa  tendenza:  dico  solo  ch'ella 
regna  nelle  lingue  moderne,  e  nell'italiana  sopra  d'ogn'altra.1  Qual 
miglior  prova  di  cio  del  testimonio  di  quegli  stessi  che  gridano 
piu  altamente  allo  scandalo?  Sono  incessanti  le  lor  querele,  che 
il  genio  della  lingua  nostra  si  sfigura  e  si  guasta  ogni  giorno  piu  per 
Tintroduzione  dei  modi  stranieri,  che  nelle  opere  pressoche  d'ogni 
specie  domina  il  colorito  francese,  che  il  buon  gusto  antico  d' Italia 
o  non  si  conosce  o  si  sprezza.  Or  io  domando  se  cio  possa  mai 
accadere  senza  che  la  nazione  vi  acconsenta  tacitamente,  e  s'ella 
possa  acconsentirvi  senza  esserci  predisposta  dai  cangiamenti  acca- 
duti  nel  sistema  di  pensare  del  maggior  numero.  Alcuni  ne  accu- 
sano  la  corrente  degli  scrittori  indisciplinati.  Io  non  temero  di 
avanzare  una  verita  che  ha  Paria  di  paradosso,  vale  a  dire  che  il 
genio  nazionale  si  scorge  appunto  nelPopere  degli  scrittori  di  questa 
sfera,  ben  piu  che  in  quelle  dei  castigati  e  saputi.  Questi  formano 
una  piccola  classe,  scrivono  studiatamente,  si  fanno  un  pregio  di 
discostarsi  dai  piu,  s'attengono  agli  esempi  antichi,  e  usano  della 
lingua  viva  come  fosse  morta:  quelli  alTincontro,  bramosi  solo  di 
piacer  alia  maggior  parte,  vanno  a  seconda  dell'uso,  e  accettano  per 
buone  quelle  espressioni  che  trovano  gia  familiari  nella  bocca  de 
gli  uomini  o  ben  nati  o  ben  educati,  ed  accolte  con  favore  negli 
scritti  comuni.  Or  se  i  componimenti  di  questa  specie,  come  se 
ne  lagnano  i  puristi,  riscuotono  applauso  generale  da  quella  parte 
della  nazione  che  giudica  per  istinto,  non  per  conoscenza;  se 
questi  corrono  per  le  mani  del  popolo,  quando  gli  altri  scritti  col- 
Tantica  accuratezza  non  appagano  che  pochi  lettori,  non  e  questa 
una  prova  convincente  che  i  primi  s'adattano  meglio  al  genio  at- 


i .  *Questa  protesta  nguarda  non  meno  cio  che  precede  che  cio  che  segue 
sino  al  fine  di  questa  parte.  L'autore  non  fa  1'elogio  ma  la  storia  del  gusto 
moderno,  ne  indaga  le  cause,  le  espone  imparzialmente,  e  mostra  colPespe- 
rienza  che  I'effetto  e  certo,  e  pressoch6  necessario.  In  tal  circostanza  il  con- 
siglio  piu  sano  pargli  quello  di  patteggiar  col  gusto  del  secolo,  e  cercar  di 
dominarlo  destramente  fingendo  di  cedere.  Solone  domandato  se  credesse 
che  le  sue  leggi  fosser  le  ottime  tra  le  possibili,  disse  che  le  credeva  le  ottime 
tra  quelle  che  poteano  riceversi  dagli  Ateniesi  (C.).  Sul  concetto  della  con- 
vergenza  delle  lingue  europee  cfr.  G.  NENCIONI,  Quidquid  nostri  predeces- 
sores,  citato  nella  bibliografia. 


SAGGIO    SULLA   FILOSOFIA   DELLE   LINGUE  397 

tual  della  lingua?  Quindi  e  che  quantunque  non  sappiano  forse 
trarne  il  miglior  uso  possibile,  e  talor  anche  ne  abusino,  pure  si 
rendono  piu  grati  di  quelli  che  vorrebbero,  a  dispetto  del  secolo, 
conservar  un  frasario  sfiorito,  il  di  cui  colore  non  corrisponde  ab- 
bastanza  a  quel  delPidee.  Altri  incolpano  di  tali  scandalose  novita 
qualche  scrittor  luminoso,  che  fa  prova  d'imbastardire  e  snaturare 
la  lingua.  Ma  s'egli  realmente  le  facesse  violenza,  se  la  sforzasse 
a  parlar  un  gergo  non  inteso,  se  volesse  costringer  la  nazione  a 
guardar  le  cose  sotto  un  aspetto  contrario  alle  sue  disposizioni  di 
spirito,  non  e  egli  evidente  che  in  luogo  di  riscuoterne  applauso 
e  favore,  sarebbe  riguardato  come  uno  stravagante  ed  esposto 
alia  derisione  e  al  disprezzo?  Che  se  pur  vuolsi  credere  che  lo 
stile  d'uno  scrittore  possa  esser  di  tanta  efficacia,  sara  questa  la 
prova  la  piu  convincente  delTinsussistenza  della  supposta  inalte- 
rabilita  del  genio  rettorico;  giacche  un  sol  uomo  basta  a  cangiarlo. 
E  poiche  questo  non  puo  alterarsi  senza  che  si  generi  una  rivolu- 
zione  nelle  menti  de'  coetanei,  restera  da  sapersi  se  questa  meta- 
morfosi  torni  a  danno  o  a  profitto  delta  nazione,  per  decidere  se 
chi  la  opera  debba  dirsi  corruttore  o  benefattore  della  lingua. 
Quello  stesso  scrittore,  secondo  il  Condillac,  che  nato  in  un'epoca 
perfeziona  il  linguaggio  materno,  ne  accelera  la  rovina  in  un'altra. 
«Quando  una  linguae  segue  lo  stesso  filosofo  «ha  degli  autori 
originali  in  ogni  genere,  chi  vien  dopo  loro  coi  talenti  medesimi 
trova  il  carattere  della  lingua  gia  fissato,  e  occupati  tutti  i  tornii 
dell'espressione:  quindi  volendo  segnalarsi  e  costretto  a  cercar  una 
strada  nuova,  a  dipartirsi  dall'analogia  ed  a  introdurre  un  neolo- 
gismo  vizioso)).1  Ma  ne  tutte  le  lingue  abbondano  in  tutti  i  ^ge 
neri  d'autori  classici,  ne  i  generi  possono  cosi  facilmente  esaurirsi. 
Essi  si  dividono  e  suddividono  assai  piu  di  quel  che  si  pensa.  Ogni 
secolo  ne  vide  nascere  piu  d'uno  di  non  preveduto:  e  quando  pure 
fossero  esauriti,  chi  puo  metter  un  termine  ai  modi  di  rappresen- 

i  Traduce  riassumendo  un  passo  del  Condillac,  Essai  sur  Vorigine  des  can- 
naissances  humaines,  II,  I,  XV,  in  Oeuvres  philosophiques,  ed.  cit.  i,  pp.  102-3, 
che  suona  esattamente  cosl:  «Quand  une  langue  a,  dans  chaque  genre, 
des  ecrivains  originaux,  plus  un  homme  a  de  genie,  plus  il  croit  apercevoir 
d'obstacles  a  les  surpasser.  Les  ^galer,  ce  ne  seroit  pas  assez  pour  son  am 
bition:  il  veut,  comme  eux,  etre  le  premier  dans  son  genre.  II  tente  done 
line  route  nouvelle.  Mais,  parce  que  tous  les  styles  analogues  au  catactere 
de  la  langue  et  au  sien  sont  saisis  par  ceux  qui  1'ont  precede,  il  ne  lui  reste 
qu'a  s'ecarter  de  Tanalogie». 


39^  MELCHIORRE    CESAROTTI 

tarli,  e  alle  loro  infinite  e  indefinite  combinazioni  ?  Cosi  nella  na- 
tura  se  le  specie  sono  limitate,  gl'individui  ci  mostrano  una  ine- 
sausta  diversita.  Quanto  agli  scrittori,  non  merita  il  nome  di 
grande  chi  cerca  la  novita  per  distinguersi,  ma  chi  sente  e  pensa 
in  un  modo  originale  e  si  esprime  adeguatamente.  Siano  questi 
men  ran,  si  abbandonino  alTimpulso  interne,  e  ci  daranno  del 
nuovo  senza  volerlo.  I  vizi  condannati  a  ragione  dal  Condillac, 
e  che  sogliono  tener  dietro  alia  novita,  appartengono  allo  stile, 
non  alia  lingua.  E  chi  poi  non  sa  che  1'affettazione  e  Feccesso  si  at- 
taccano  a  tutto,  e  lo  guastano?  II  bene  cessa  percio  d'esser  tale, 
perch'altri  ne  abusa?  Se  un  pazzo  fastoso  vuol  comparire  in  pub- 
blico  tutto  coperto  di  perle,  se  un  vecchio  ecclesiastico  sfoggia  nelle 
sue  vesti  gli  ornamenti  propri  d'una  donna  galante,  si  dira  per 
cio  che  le  perle  sono  da  sprezzarsi,  o  che  i  ricami  non  formano 
una  vaghezza? 

XX.  II  carattere  rettorico  di  tutte  le  lingue  e  dunque  progressiva- 
mente  e  necessariamente  alterabile.  Si  puo  forse  ritardarlo,  non 
impedirlo.  Le  cause  morali  e  politiche  colla  loro  lenta  influenza 
portano  un'alterazione  nel  sistema  intellettuale  del  secolo,  e  ne 
configurano  il  genio :  il  genio  nazionale  prepara  e  forma  a  poco  a 
poco  quello  degli  scrittori;  ma  siccome  Pesempio  e  Tautorita 
sono  i  due  numi  scolastici,  cosi  negli  scritti  degli  studiosi,  anche 
cangiato  Tantico  gusto,  continua  per  qualche  tempo  Tantico  gene- 
re:  si  fa  una  tacita  lotta  fra  il  senso  reale  e  Jl  fittizio:  molti  sentono 
i  ceppi,  ma  non  v'e  chi  ardisca  spezzarli:  alfine  uno  scrittore  piii 
animoso,  sospinto  imperiosamente  dal  genio,  presenta  i  suoi  pen- 
samenti  con  un  colorito  piu  vivace  e  piu  fresco,  nuovo  forse  negli 
scritti,  non  gia  nello  spirito  della  nazione  che  ne  vagheggia  Tidea: 
allora  essendo  la  materia  preparata  da  lungo  tempo,  la  scintilla 
desta  un  incendio;  il  genio  della  nazione  scoppia  con  forza  e 
trionfa  sul  despotismo  della  scuola.  Questi  cangiamenti  essendo  in 
ogni  tempo  proporzionali  ai  bisogni  dello  spirito  nazionale  nelle 
date  epoche,  non  possono  mai  tornare  a  discapito  della  lingua, 
se  non  qualora  la  nazione  ricada  nella  vera  barbaric,  ch'e  Figno- 
ranza.  II  grande  scrittore,  giudizioso  ed  originale  ad  un  tempo, 
non  vorra  anticipar  bruscamente  il  genio  ancora  acerbo  della  na 
zione,  ma  vegliera  al  suo  sviluppo,  e  sapra  coglierlo  nel  punto  della 
sua  maturita:  dall'altro  canto  il  buon  critico  non  sara  quello  che 
declama  e  cerca  di  contrastar  vanamente  al  gusto  del  secolo, 


SAGGIO    SULLA   FILOSOFIA   DELLE   LINGUE  399 

ma  quello  che,  conoscendone  squisitamente  1'uso  e  1'abuso,  si 
applica  solo  a  depurarlo,  illuminarlo  e  dirigerlo. 

PARTE  iv 
Delia  lingua  italiana  e  dei  modi  d'ampliarla  e  perfezionarla. 

SOMMARIO 

I.  Rimproveri    dei   latinisti   alia   lingua   italiana    smentiti   dal   successo. 

II.  Lingua  italiana  una  e  comune  a  tutta  la  nazione,  malgrado  la  diversita 
dei  dialetti.  III.  Sviluppo  della  lingua.  Sua  maggior  gloria  dovuta  a  Firenze. 
IV.  Dispute  sul  nome  della  nostra  lingua.  V.  Libro  di  Dante  della  volgare 
eloquenza.  VI.  Se  la  lingua  dei  primi  tre  padri  debba  dirsi  fiorentina  o 
italiana.  VII.  Dispute  intorno  al  secolo  classico  della  lingua.  Sentenza  del 
Salviati  disaminata.  VIII.  Fondazione  delPAccademia  della  Crusca.  IX.  Im- 
perfezioni  del  suo  vocabolario.  X.  Parzialita  e  contradizioni  nel  catalogo 
degli  scrittori  approvati.  XI.  Motivi  che  confluirono  a  stabilir  1'autorita 
della  Crusca.     XII.  Rivoluzione  d'idee  rispetto  alia  lingua,  e  cause  che 
la  produssero.  XIII.  Abusi  ed  eccessi.  XIV.  Necessita  di  stabilire  una  sana 
e  saggia  hberta.  XV.  Progetto  d'una  magistratura  italica  sopra  la  lingua. 
Ufizi  estesi  ed  operazioni  della  medesima.    XVI.  Piano  per  conoscer  la 
vera  ricchezza  e  i  veri  bisogni  della  lingua.  Compilazione  di  due  diversi  vo- 
cabolari,  e  oggetti  dell'uno  e  dell'altro.  Altre  operazioni  importanti,  e 
loro  utili  conseguenze. 

I.  Egregiamente  disse  il  Varchi  che  Pinondazione  dei  popoli 
settentrionali  produsse  due  grandissimi  beni  alPItalia:  la  repub- 
blica  di  Venezia  e  la  lingua  toscana.1  Ma  quella  sorta  da  principii 
tenui  bensi,  ma  pur  nobili,  potea  far  concepir  sin  d'allora  alte  e  ge- 
nerose  speranze:  delTaltra  non  potevano  farsi  che  molto  infelici 
pronostici.  Nata  dalla  corruzione  e  dalla  barbarie,  generata  da 
due  popoli,  Tuno  scordato  del  suo  sapere,  1'altro  istupidito  dalPi- 
gnoranza,  accozzata  da  vari  idiomi  o  guasti  o  selvaggi,  non  sem- 
brava  ella  condannata  fin  dal  suo  nascere  al  dispregio  e  alPoscurita  ? 
Se  nelPinfanzia  di  essa  qualche  antico  romano  sorto  dalla  tomba 
avesse  ragionato  in  tal  guisa,  sarebbe  stato  certamente  scusabile. 
Ma  chi  vorra  scusare  a'  tempi  nostri  quei  mediocri  latinisti  del  se 
colo  decimosesto  che  si  ostinarono  a  vituperarla,  malgrado,  non 

i.  Egregiamente  .  .  .  toscana:  cfr.  Ercolanoy  ed.  cit.,  n,  p.  17:  «Fra  tante 
miserie  e  calamita . .  .  ne  nacquero  due  beni,  la  lingua  volgare  e  la  citta 
di  Vinegia,  repubblica  veramente  di  perpetua  vita  e  d'eterne  lodi  degnis- 
sima  ». 


400  MELCHIORRE    CESAROTTI 

dir6  ai  dogmi  della  filosofia  delle  lingue,  di  cui  non  sospettavano 
neppure  il  nome,  ma  all'evidenza  contraria;  avendo  gia  la  nostra 
favella  nel  loro  tempo  piu  d'uno  scrittore  eminente  e  molti  assai 
ragguardevoli,  che  aveano  fatto  o  gustar  pienamente  o  presentire 
in  gran  parte  Fampiezza  e  '1  valore  delle  sue  forze  ?  Ad  onta  delle 
loro  declamazioni  pedantesche1  la  nostra  lingua,  nobilitata  e  ab- 
bellita  sempre  piu,  giunse  a  tal  grado  di  pregio,  che  presa  nella 
sua  totalita  cede  di  poco  alFantiche,2  puo  per  molti  capi  far  in- 
vidia  alle  moderne,  e  se  in  qualche  parte  e  forse  inferiore  ad 
alcuna,  non  e  certamente  colpa  della  sua  attitudine.  Questo  esem- 
pio  dovrebbe  bastare  a  distruggere  le  prevenzioni  nazionali  o 
scolastiche  sulla  nobilta  originaria  e  sulle  qualita  esclusive  delle 
lingue,  delle  quali  abbiam  gia  parlato  sul  principio  di  questo  ra- 
gionamento ;  a  mostrarci  che,  se  ogni  lingua  appassisce  fra  le  mani 
degl'idioti  e  dei  rozzi,  ognuna  alFopposto  si  perfeziona  e  risplende 
qualora  serve  agli  usi  d'un  popolo  ingegnoso  e  colto,  ed  e  maneg- 
giata  da  uomini  originali ;  ad  insegnarci  in  fine  che  le  lingue  fan- 
no  i  piccoli  scrittori,  e  i  grandi  scrittori  fanno  le  lingue. 

n.  Arrestandoci  nella  nostra,  siccome  comuni  all' Italia  furono 
le  rivoluzioni  politiche,  comuni  le  cagioni  che  le  produssero,  co- 
mune  Fantica  lingua  che  vi  dominava,  comune  ancora  doveva 
riuscir  il  nuovo  idioma  che  ne  deriv6.  Non  v'e  lingua  senza  dialetto 
come  non  v'e  sostanza  senza  i  suoi  modi:  ne  per6  la  lingua  cessa 
d'esser  una;  altrimenti  vi  sarebbero  tante  lingue  quante  citta.  La 
sintassi  uniforme,  le  desinenze,  la  massa  comune  dei  vocaboli, 
la  conservazione  delle  lettere  radicali  sono  i  caratteri  distintivi 
d'una  stessa  lingua:  i  termini  particolari,  le  frasi  proverbiali,  qual 
che  singolarita  nelle  parti  delPorazione,  e  sopra  tutto  le  alterazioni 
della  pronunzia,  costituiscono  i  dialetti.  Ora  in  ogni  citta  d' Italia 
regna  lo  stesso  sistema  di  costruzione  e  di  reggimento  anche  nella 
bocca  del  volgo ;  comune  e  la  maggior  parte  de5  vocaboli  e  comu- 
nemente  intesa,  perche  le  radicali  o  sono  le  stesse  o  affini  tra  loro. 
La  differenza  in  questa  parte  sta  solo  nelle  desinenze;  perche  i 
Lombardi  sino  a  Rimini,  ed  alcuni  altri,  troncano  le  parole  nel 

i.  Chi  vuol  vederne  un  esempio  che  val  per  tutti,  legga  il  ragionamento  di 
Lazaro  Bonamico,  celebre  professor  di  Padova,  nel  dialogo  di  Sperone  Spe- 
roni  sopra  le  lingue  (C.).  Nel  Dialogo  delle  lingue  dello  Speroni  Pumanista 
Lazzaro  Bonamico  e  introdotto  a  combattere  contro  il  volgare,  sostenuto  in- 
vece  dal  Bembo.  2.  *Se  pur  e  vero  che  ceda  assolutamente  (C.). 


SAGGIO   SULLA   FILOSOFIA   DELLE   LINGUE  401 

fine,  sicche  vengono  a  terminare  nelle  consonant!:  i  Toscani  al- 
1'opposto  e  pressoche  tutti  gli  aitri  da  Rimini  al  confine  dell'Italia, 
e  i  Veneti  parimente,  conservano  la  terminazione  vocale,  ter- 
rninazione  sana  e  legittima  e  riconosciuta  per  tale  da  quegli  stessi 
che  non  Fosservano  esattamente.  Non  so  dire  se  la  desinenza  con- 
sonante  provenga  dal  clima  o  dal  dialetto  antico  dei  Galli  domina- 
tori  della  Lombardia  innanzi  i  Romani,  come  crede  il  Muratori,1 
o  dalla  maggior  influenza  dei  Longobardi.  Potrebbe  pero  dubitarsi 
s'ella  fosse  originaria  e  propria  di  quelle  provincie  sin  dal  primo 
nascer  della  lingua,  o  non  piuttosto  introdotta  posteriormente  o 
dalTintrinseca  disposizione  degli  organi  vocali  di  quelle  genti  o 
da  qualche  altra  causa  difficile  ad  assegnarsi.  Di  fatto  la  terminazio 
ne  vocale  fluisce  naturalmente  dalla  corruzione  della  pronunzia 
latina,  colla  semplice  elisione  delle  due  lettere  finali  s  ed  m,  in- 
veterata  nel  popolo  di  Roma  fin  dai  primi  tempi :  dal  che  appunto 
principalmente  molti  dotti  uomini,  non  senza  apparenza  di  verita, 
vennero  in  opinione  che  la  nostra  lingua  volgare  non  fosse  altri- 
menti  una  lingua  nuova  sorta  dai  Goti  e  Lombardi,  ma  la  stessa 
antica  usata  comunemente  dalla  plebe  romana,  e  corrotta  sem- 
pre  piu  nella  successiva  declinazion  delTImpero.  Che  poi  questa 
pronunzia  debba  supporsi  non  antica,  ma  recentissima  nella  Ro- 
magna,  potrebbe  farcelo  credere  il  veder  che  Dante  nel  suo  libro 
Della  volgare  eloquenza,  esaminando  tutti  i  dialetti  dj  Italia,  attribui- 
sce  per  carattere  a  quello  dei  Forlivesi,  Imolesi  e  altri  Romagnoli 
una  mollezza  e  lenita  femminile,  molto  diversa  dal  suono  che 
fanno  al  presente  quegridiomi  alle  nostre  orecchie,  e  preferisce  agli 
altri  volgari  municipali  quel  di  Bologna,  come  piu  leggiadro  e 
piu  morbido,  il  che,  secondo  lui,  aweniva  da  cio  che  i  Bolognesi 
prendevano  qualche  cosa  dei  dialetti  d'Imola,  di  Ferrara  e  di  Mo- 
dena,  e  cosi  ammollivano  e  temperavano  il  proprio  idioma  colla 
mescolanza  degli  altri.2  E  verisimile  che  una  certa  celerita  di  pro- 

i.  come  .  .  .  Muratori:  cfr.  Antiquitates  italicae  Medii  Aevi,  dissertazione 
xxxn  (trad,  di  G.  Cenni,  Firenze,  Maxdim,  1833,  in,  p.  213).  2.  Dan- 
te  .  .  .  altri:  cfr.  De  vulg.  el.}  i,  xv,  2-5:  «non  male  oppinantur  qui  Bono- 
nienses  asserunt  pulcriori  locutione  loquentes,  cum  ab  Ymolensibus,  Fer- 
rariensibus  et  Mutinensibus  circumstantibus  aliquid  proprio  vulgari  ad- 
sciscunt  .  .  .  Accipiunt  etenim  prefati  cives  ab  Ymolensibus  lenitatem 
atque  mollitudinem,  a  Ferrariensibus  vero  et  Mutinensibus  aliqualem  gar- 
rulitatem  ...  Si  ergo  Bononienses  utrinque  accipiunt,  ut  dictum  est,  ra- 
tionabile  videtur  esse  quod  eorum  locutio  per  commistionem  oppositorum 
ad  laudabilem  suavitatem  remaneat  temperata ». 

26 


402  MELCHIORRE   CESAROTTI 

nunzia  naturale  a  quelli  e  ad  altri  popoli,  e  la  fretta  del  parlar  fa- 
miliare,  gl'inducesse  a  toccar  le  vocali  cosi  di  volo,  dal  che  poi 
passassero  a  perfettamente  ingoiarsele.  Checche  ne  sia,  poiche  que- 
sti  e  gli  altri  tutti  nei  loro  scritti  o  monument!  pubblici  posero  sem- 
pre  le  parole  intere  e  vocalizzate,  segno  e  che  credono  esser  que- 
sto  il  distintivo  della  loro  lingua  comune,  che  tutti  i  dialetti  italici 
riconoscono  ugualmente  per  madre.  Le  provincie  d' Italia  hanno 
dunque  comuni  tutte  le  parti  costitutive  della  lingua,  ed  hanno  per- 
cio  tutte  un  diritto  originario  ed  inalterable  sopra  di  essa.  Tutte 
pero  hanno  parimente  i  loro  termini  particolari  forse  intelligibili, 
come  attinti  a  una  fonte  comune,  non  pero  usati  ne  intesi  pronta- 
mente  dagli  altri:  tutte  hanno  alcune  proprieta  che  le  distinguono 
tra  loro,  altre  buone,  altre  indifferenti,  altre  viziose.  Se  alcuni  po 
poli  peccano  nella  terminazione,  altri  anche  de'  piu  riputati  gua- 
stano  le  parole  in  altra  guisa,  troncando  le  sillabe  intere,  omettendo 
o  permutando  le  lettere  o  intrudendone  di  soverchie;  sicche  il 
loro  linguaggio,  a  chi  non  1'ha  familiare,  non  riesce  gran  fatto  ne 
piu  chiaro  ne  piu  piacevole  degli  altri,  come  ciascheduno  ha  il 
sapore  il  piu  conveniente  alle  orecchie  di  chi  lo  parla.  Inoltre  deve 
awertirsi  che  ogni  dialetto  puo  suddividersi  in  due,  Funo  del 
volgo,  1'altro  degli  uomini  colti:  questo  e  sempre  poco  o  molto 
piu  regolato  ed  acconcio;  1'altro  per  tutto  senza  eccezione  ine- 
satto  nella  pronunzia,  sparso  di  solecismi  e  di  sconcordanze,  e 
pieno  di  storpiature  di  vari  generi.1  Da  quest' analisi  risulta  che 
ogn'uomo  colto  d' Italia  puo  aver  diritto  di  opinare  e  giudicar 
d'una  lingua  che  appartiene  a  lui  quanto  agli  altri ;  che  niun  dia 
letto  popolare,  come  precisamente  si  parla,  puo  prendersi  come 
modello  di  lingua  scritta;  niuno  ve  n'ha  che  possa  essere  corren- 
temente  inteso  da  un  capo  alTaltro  d'ltalia;  niuno  finalmente  che 
purgato  dagFidiotismi  plebei,  emendato  colle  regole  d'una  giudi- 
ziosa  grammatica  e  maneggiato  da  scrittori  illustri  non  possa  con- 
tribuire  alia  ricchezza  e  all'ornamento  della  lingua  scelta  d' Italia, 
che  sola  deve  dominare  nelle  scritture  piu  nobili.  Se  pero  niun 
dialetto  particolare  e  cosi  perfetto  che  possa  scambiarsi  per  la 
lingua,  awene  pero  alcuno  presso  ogni  nazione  che  piu  degli  altri 
s'accosta  alia  perfezione.  Sarebbe  ingiusto  e  insensato  chi  non 

i.  Lingua  vernacola  vuol  dir  propriamente  lingua  dei  servi.  V'era  dunque 
presso  i  Latini  anche  nella  citta  stessa  quella  dei  padroni  e  dei  liberi  (C.). 


SAGGIO    SULLA   FILOSOFIA   DELLE   LINGUE  403 

riconoscesse  in  Italia  Pidioma  toscano  per  piii  corretto  ed  elegante, 
e  degnissimo  del  primato  sopra  d'ogn'altro :  quindi  lo  scriver  esat- 
tamente  e  nobilmente  e  pei  Toscani  un'attenzione,  per  noi  uno 
studio. 

in.  La  lingua  volgare  non  comincio  a  farsi  conoscere  nelle  scrit- 
ture  fuorche  nel  secolo  duodecimo.  I  poeti  son  sempre  i  primi  a 
digrossare  ed  ingentilire  le  lingue,  ed  e  costume  troppo  naturale 
di  prender  dalle  straniere  piu  celebri  di  che  abbellire  la  propria. 
La  lingua  provenzale  avendo  il  vanto  tra  le  moderne,  specialmente 
nella  poesia  amatoria  e  nei  romanzi  di  cavalleria,  i  piu  colti  di 
tutta  Italia,  datisi  a  traslatar  le  opere  de'  Provenzali  e  ad  imitar 
i  loro  poeti,  arricchirono  Pidioma  italiano  di  moke  voci  e  locuzioni, 
che  formano  tutta  via  una  porzione  non  dispregevole  della  lin 
gua  comune.  I  Siciliani,  ossia  gli  scrittori  che  sotto  Federigo  se- 
condo  fiorirono  nella  real  corte  di  Napoli  dianzi  stabilita  in  Si- 
cilia,  si  distinsero  sopra  gli  altri,  e  diedero  tal  pregio  alia  nostra 
favella  che,  al  dire  di  Dante,  idioma  volgare  e  siciliano  valea  lo 
stesso.1  Ad  esempio  loro  i  piu  svegliati  spiriti  dell'altre  provincie 
d' Italia  impararono  a  civilizzar  i  loro  dialetti,  e  scegliendo  come 
meglio  potevano  Pottimo  da  tutti  gPidiomi,  formarono  il  primo 
fondo  della  lingua  italiana  piu  nobile,  che  doveva  esser  quella 
degli  scrittori.  Essa  pero  in  tutto  quel  secolo  non  fe'  che  saggiar 
le  sue  forze  quasi  brancolando:  lo  svilupparle  era  riserbato  al  se- 
guente.  Firenze  ebbe  la  gloria  di  alimentar  la  nostra  lingua,  invi- 
gorirla,  formarla.  II  genio  di  Dante,  il  gusto  squisitissimo  del  Pe- 
trarca,  la  copia  e  piacevolezza  del  Boccaccio  la  impress ero  de'  loro 
caratteri  e  le  comunicarono  colori,  armonia,  movimento  e  ricchezze 
proprie.  I  loro  scritti  furono  come  altrettante  facelle  che  sparsero 
sopra  la  lingua  la  luce  dell'analogia.  Tutta  F  Italia  rivolse  gli  occhi 
cola:  e  siccome  in  tutte  Paltre  citta  riunite  non  v'erano  scrittori 
che  potessero  in  verun  modo  paragonarsi  a  quei  tre,  cosi  tutti  si  po- 
sero  a  studiar  le  loro  opere  non  solo  come  esemplari  di  stile,  ma 
come  tesori  e  norme  perfette  di  lingua;  e  passando,  come  suol 
farsi,  dagli  autori  alia  patria,  credettero  volentieri  esser  privilegio 
special  di  Firenze  cio  ch'era  frutto  in  gran  parte  della  loro  mae- 


i.  al  dire  .  .  .  lo  stesso:  cfr.  De  vulg.  el,  I,  XII,  2:  «videtur  siciliamim  vul- 
gare  sibi  famam  pre  aliis  asciscere,  eo  quod  quicquid  poetantur  Ytali  si- 
cilianum  vocatur».  E  cfr.  anche  i,  xn,  6. 


4°4  MELCHIORRE   CESAROTTI 

strevole  desterita,  che  seppe  purgar  piu  o  meno  il  proprio  dia- 
letto,  e  acconciamente  temperandolo  fario  primeggiar  vagamente 
sopra  la  massa  dei  vocaboli  e  delle  maniere  comuni.  Quindi  il  loro 
merito  asperse  del  proprio  lume  anche  vari  altri  scrittori  fiorentini, 
che  circa  quel  tempo  si  esercitarono  in  altre  materie,  scrittori  non 
dispregevoli  rapporto  al  secolo,  ma  che  aveano  coi  mentovati 
triumviri  comune  il  dialetto  piu  che  lo  spirito.  In  tal  guisa  anda- 
rono  a  poco  a  poco  stabilendosi  due  opiniord  ricevute  per  assiomi 
dal  maggior  numero:  i.  che  la  lingua  degli  scrittori  abbia  a  dirsi 
fiorentina;  2.  che  gli  autori  del  Trecento  siano  la  norma  infallibile 
della  lingua.  Queste  due  opinioni  si  convalidarono  maggiormente 
dacche  il  Bembo,  scrittor  gia  celebre  in  ambe  le  lingue  per  dot- 
trina  e  per  eleganza,  sostenne  altamente  la  denominazione  so- 
praccennata  del  nostro  idioma,  e  dalle  opere  degli  autori  del  detto 
secolo  trasse,  dopo  il  Fortunio,  le  regole  sopra  la  lingua,  e  Pas- 
soggetto  in  awenire  alle  leggi  della  grammatica.1 

iv.  Siccome  pero  nel  secolo  decimosesto  anche  il  restante  d'  Ita 
lia  fioriva  di  scrittori  e  d'ingegni,  ne  fu  piu  d'uno  a  cui  le  due  sur- 
riferite  sentenze  parvero  tutt'altro  che  assiomi,  e  oso  provocar 
al  pubblico  da  questo  giudizio  tacciato  di  parzialita.  II  Tolomei2 
alia  testa  de'  suoi  Senesi  e  d'altri  Toscani,  a  cui  aderiva  il  Dolce,3 
pretese  con  legittimi  titoli  che  la  lingua  dovesse  dirsi  toscana  dalla 
provincia,  come  la  latina  dal  Lazio:  il  Trissino  dall'altro  canto, 
accordandosi  col  Castiglione,4  sostenne  che  non  potea  chiamarsi 
altrimenti  che  italiana,  senza  far  torto  ai  diritti  dell'intera  nazione; 
ed  a  far  il  secondo  al  Trissino  usci  poscia  in  campo  quel  gran 
«battagliere»  del  Muzio;5  mentre  intanto  il  Martelli,  il  Varchi,6  e  gli 


1.  il  Bembo  .  .  .  grammatica:  allude  alle  Prose  della  volgar  lingua,  pubbhcate 
dal  Bembo  nel  1525.  A  Gianfranco  Fortunio  si  deve  uno  dei  pnmi  tentativi 
di  grammatica  volgare :  Le  regole  grammaticali  della  volgar  lingua  (1516), 
ispirate  a  criteri  non  dissimili  da  quelli  seguiti  dal  Bembo  nelle  sue  Prose. 

2.  Claudio  Tolomei  (1492-1555)  sostenne  le  sue  idee  nel  Polito  (1525)  e 
piu  esplicitamente  nel  Cesano  (scritto  nel  1527-1528,  pubblicato  solo  nel 
1555).     3-  Ludovico  Dolce  (1508-1566)  partecipo  alle  discussioni  sulla 
lingua  con  le  Osservaziom  sulla  volgar  lingua  (1550).     4.  Giangiorgio  Tris 
sino  espose  la  sua  teoria  dell'«italianita»  della  lingua  volgare  in  una  Epistola 
(1524)  e  poi  nel  Castellano  (1529),  riallacciandosi  anche  ad  alcune  idee 
espresse  dal  Castighone  nei  capitoli  xxvin-xxix  del  I  libro  del  Cortegiano. 
5;  Si  allude  ai  di  lui  scritti  polemici  intorno  la  lingua,  intitolati  Battaghe 
[in  diffesa  deWitalica  lingua,  1582],  C.     6.  Lodovico  Martelli  nella  Risposta 
alia  « Epistola  »  del  Trissino  (1524);  il  Varchi  noWErcolano,  piu  volte  ricor- 


SAGGIO    SULLA   FILOSOFIA  DELLE   LINGUE  405 

altri  Fiorentini  combattevano  a  tutta  possa  per  la  sentenza  del 
Bembo,  che  insieme  col  nome  assicurava  alia  loro  patria  la  proprieta 
della  lingua.  Ciascheduna  delle  tre  denominazioni  poteva  ugual- 
mente  competere  alia  nostra  lingua,  secondo  rispetti  diversi,  e 
questa  gara  di  titoli  potrebbe  sembrare  una  vana  question  di 
parole:  ma  questa  differenza  di  nome  si  traeva  dietro  varie  diffe- 
renze  di  cose.  Di  fatto,  accordandosi  che  la  lingua  dovesse  dirsi 
fiorentina,  ne  veniva  di  conseguenza  che  Firenze  avesse  non  gia 
il  principato,  ma  la  dittatura  di  essa  lingua;  che  le  voci,  gPidioti- 
smi,  le  locuzioni  di  quel  popolo  fossero  tutte  le  ottime  fra  le 
possibili,  le  sole  legittime  ed  autorevoli;  che  le  scorrezioni  stesse 
facessero  legge,  giacche  un  popolo  parlante  un  linguaggio  clas- 
sico  non  riconosce  ragione  sopra  il  suo  uso ;  che  tutti  i  termini  de- 
gli  altri  dialetti  italiani  fossero  essenzialmente  sconci  e  spregevoli ; 
che  niuno  scrittore,  per  quanto  avesse  elevatezza  d'ingegno,  ric- 
chezza  di  conoscenze,  finezza  di  gusto,  non  avesse  autorita  d'in- 
trodurre  un  nuovo  vocabolo  o  un  nuovo  tornio  di  frase;  e  che 
ciascheduno  di  questi,  benche  opportuno  e  necessario,  dovesse  te- 
nersi  per  barbaro  sino  a  tanto  che  per  grazia  speciale  non  avesse 
ottenuto  da  Firenze  1'onore  delFadozione.  Awedutamente  percio 
i  sopraccitati  ragionatori,  benche  conoscessero  Teccellenza  del  tre 
che  nobilitarono  superiormente  il  dialetto  fiorentino,  contrastarono 
pero  al  dialetto  stesso  un  titolo  che  avrebbegli  conferito  un  do- 
minio  esclusivo,  e  dando  alia  lingua  la  denomination  d'italiana, 
conservarono  ad  essa  e  a  tutti  i  suoi  colti  scrittori  i  diritti  d'una 
giudiziosa  liberta.  Le  ragioni  da  loro  usate  furono  a  un  di  presso 
le  stesse  che  noi  abbiamo,  s'io  non  erro,  poste  in  miglior  lume  e 
piantate  sopra  una  base  piii  solida. 

v.  Ad  awalorare  altamente  la  sua  opinione,  diede  il  Trissino 
alia  luce  opportunamente  la  traduzione  delT  opera  di  Dante,  Della 
volgare  eloquenza,  pubblicata  poscia  nel  suo  latino  originale  dal 
Corbinelli,1  nella  quale  quel  filosofo,  non  men  che  poeta,  superiore 
a'  suoi  tempi,  troppo  grande  per  lasciarsi  dominare  dai  pregiudizi 


dato.  Fra  gli  altri  sostenitori  della  tesi  « fiorentina  »  vanno  ricordati  il  Ma- 
chiavelli,  il  Giambullari,  il  Gelli,  il  Lenzoni,  i  quali  tuttavia  (come  anche  il 
Martelli  e  in  parte  il  Varchi)  difendono  i  diritti  piuttosto  del  fiorentino 
vivo  che  di  quello  letterario  trecentesco.  i.  diede  .  .  .  Corbinelli:  il  Tris 
sino  pubblico  una  traduzione  del  trattato  dantesco  nel  1529.  L'edizione 
di  lacopo  Corbinelli  usci  a  Parigi  nel  1577. 


406  MELCHIORRE  CESAROTTI 

patriottici,  sostenne  due  secoli  innanzi  con  forza  di  ragionamento 
quella  sentenza  medesima.  Egli  mostra  ad  evidenza  che  la  lin 
gua  degli  scrittori  non  nacque  ne  fu  allevata  in  Toscana,  ma  si 
and6  formando  dai  migliori  spiriti  delle  diverse  citta,  fra  i  quali  con- 
ta  pure  un  Brandino  o  Ildobrandino  da  Padova,1  i  quali  andarono 
giudiziosamente  scegliendo  da  tutti  gridiomi  cio  che  v'era  di  piu 
leggiadro  e  piu  acconcio;  sostiene  che  tutti  i  dialetti  popolari 
sono  pieni  di  scorrezioni  e  deformita,  ed  esaminandoli  ad  uno  ad 
uno  specifica  i  loro  particolari  difetti,  e  taccia  segnatamente  i 
Toscani  di  vanita,  perche  menavano  vampo  del  loro  idioma  mu- 
nicipale,  come  fosse  il  piu  purgato  e  '1  piu  nobile;2  osserva  che 
gli  autori  piu  celebri  fur  sempre  quelli  che  piu  si  scostarono  dalle 
singolarita  e  dagl'idiotismi  de'  lor  dialetti;  conchiude  che  niuno  di 
questi  non  e  tale  che  possa  cosi  come  sta  esser  ammesso  neile  opere 
dedicate  alia  fama,  ma  che  queste  debbono  esser  dettate  nella  lin 
gua  comune  e  scelta  d'ltalia,  lingua  ch'ei  chiama  «aulica))  e  «cor- 
tegiana»,  perche  nelle  cord  usa  la  parte  meglio  educata  e  piu  colta 
delle  nazioni,  la  quale  si  fa  uno  studio  di  distinguersi  nel  favellare 
e  nello  scrivere  con  politezza.  Con  ci6  Dante  venne  a  rispondere 
anticipatamente  alPobiezione  del  Bembo,  che  questa  specie  di  lin 
gua  non  si  park  in  veruna  citta,  poich6  la  lingua  scritta  servendo, 
come  abbiamo  osservato  altrove,  ad  usi  diversi,  non  e  necessario 
che  sia  precisamente  la  stessa  colla  parlata,  come  non  lo  fu  forse 
mai  presso  verun  popolo,  ne  lo  e  nemmeno  tra  i  Fiorentini  mede- 
simi,  bastando  che  sia  intesa  comunemente  dalla  nazione.  Ne  tam- 
poco  farebbe  obietto3  il  dire  che  tutta  la  nazione  non  intende  per- 
fettamente  la  detta  lingua,  poiche  nemmeno  i  dialetti  stessi  verna- 
coli  sono  intesi  in  ogni  loro  parte  da  tutte  le  classi  del  popolo,  ne  la 
plebe  intende  i  dotti  quando  parlano  di  materie  ragionative,  ben- 
che  non  si  servano  se  non  di  voci  nazionali;  ne  i  dotti  intendono 
tutti  i  termini  dei  mestieri  ne  tutti  gPidiotismi  della  plebaglia.  Che 


i.  conta  .  .  .  da  Padova:  cfr.  De  vulg.  el.,  i,  xiv,  7:  « Inter  quos  [Venetos] 
omnes  unum  vidimus  nitentem  divert  ere  a  materno  et  ad  curiale  vulgare 
intend  ere,  videlicet  Ildebrandinurn  paduanum».  2.  E  noto  il  luogo  del 
Passavanti,  fiorentino  e  autor  classico  di  lingua,  che  taccia  specialmente 
i  Fiorentini  d'una  tal  boria,  e  rimprovera  al  loro  idioma  piu  d'un  difetto  (C.). 
II  luogo  del  Passavanti  (gia  citato,  come  osserva  il  Puppo,  dal  Bettinelli 
nel  Risorgimento  dy  Italia}  e  nello  Specchio  di  vera  penitenza,  Milano  1741, 
P-  3°3-  3-  farebbe  obietto:  sarebbe  obiezione  valida. 


SAGGIO    SULLA   FILOSOFIA   DELLE   LINGUE  407 

se  niuno  trova  a  ridire  che  gli  artefici  e  gli  agricoltori  abbiano  il  loro 
particolare  frasario,  non  inteso  correntemente  dagli  altri  ordini, 
come  puo  far  obietto  per  toglier  la  nazionalita  ad  una  lingua,  che 
i  piu  colti  nelle  scritture  abbiano  un  corpo  di  vocaboli  meno  vol- 
gari  e  bisognosi  di  spiegazione  presso  gPindotti?  Se  cosi  fosse, 
la  lingua  non  dovrebbe  constare  se  non  dei  termini  relativi  agli 
usi  piu  ordinari  e  alle  faccende  giornaliere  della  vita  comune.  Del 
resto  1'autorita  e  le  ragioni  di  Dante  erano  di  tal  peso  che  i  Fio- 
rentini  piu  appassionati  credettero  miglior  partito  il  negar  a  di- 
rittura  Fautenticita  di  quelPopera,  supponendola  gratuitamente  una 
impostura  del  Trissino  stesso;1  ma  secondo  il  giudizio  dei  ra- 
gionatori  che  vennero  appresso,  tutto  prova  e  niente  smentisce 
il  vero  autor  di  quel  libro,  degno  in  ogni  senso  di  Dante. 

VI.  Ma  perche  1'uno  e  1'altro  partito  conveniva  allora  perfetta- 
mente  che  i  tre  primi  lumi  di  Firenze  fossero  sovrani  maestri  di 
quella  lingua  leggiadra  e  nobile  che  si  cerca  dagli  scrittori,  in 
guisa  che  tutte  le  question!  di  questo  genere  si  decidevano  unica- 
mente  colla  loro  autorita,  non  aveano  il  Trissino  e  il  Muzio  gua- 
dagnato  nulla  se  non  giungevano  a  provare  che  il  linguaggio  dei 
loro  esemplari  non  era  quello  succhiato  dalle  balie,  ma  quel  che 
s'apprende  collo  studio,  ne  proprio  del  popolo  di  Firenze,  ma 
comune  ai  dotti  d'  Italia.  Non  fu  difficile  il  mostrar  ci6  del  Petrar- 
ca,  che  nato  in  Arezzo,  non  avendo  in  tutta  la  vita  posto  piu 
piede  in  Toscana,  aggiratosi  per  tutte  le  corti  italiane  e  straniere, 
fornito  sopra  ogn'altro  d'erudizione,  d'aggiustatezza  e  di  gusto,  cer- 
cava  Tottimo  in  ogni  cosa.  Quindi  le  sue  rime  non  solo  in  que* 
tempi  furono  intese  senza  intoppo  e  gustate  da  un  capo  alPaltro 
d'ltalia,  ma  sin  d' allora  formarono  nel  genere  amatorio  nobile  il 
fondo  di  quella  favella  poetica  che  in  capo  a  quattro  secoli  con- 
serva  tra  noi  la  sua  prima  intatta  freschezza,  e  incanta  tutta- 
via  chiunque  ha  senso  di  squisitezza  e  di  grazia.  II  genio  di  Dante 
mostra  abbastanza  che  non  era  schiavo  del  proprio  idioma:  il  suo 
zelo  era  piu  nazionale  che  patriottico:  creator  d'un  linguaggio 
filosofico,  egli  sacrifica  Peleganza  convenzionale  all'espressione  e 
alia  forza,  e  lungi  dalTadular  un  dialetto  particolare,  padroneggia  la 
lingua  stessa,  e  sembra  talora  strascinarla  dispoticamente  alia 

i.  i  Fiorentini .  .  .  stesso:  il  piii  accanito  impugnatore  delTautenticita del  De 
vulgari  eloquentia  fu  Ludovico  Martelli. 


408  MELCHIORRE    CESAROTTI 

liberta.  II  solo  Boccaccio  potrebbe  dirsi  che  scrivesse  nel  pretto 
idioma  fiorentino :  cio  per6  soltanto  fec'egli  nelle  novelle  i  di  cui 
soggetti  sono  spesso  popolari  e  scherzevoli,  e  vi  s' introduce  no 
personaggi  bassi  e  plebei:  ma  nelle  altre  d'argomento  piu  nobile 
si  diparti  anch'egli  dagl'idiotismi  del  suo  dialetto,  e  lo  arricchi  di 
varie  locuzioni  sue  proprie,  derivate  dal  fondo  comune  ai  colti 
scrittori  d'ltalia,  a  segno  che  il  Salviati  stesso,  quantunque  esta- 
tico  ammirator  del  Boccaccio,  lo  rimprovera  d'esser  alquanto  men 
puro  degli  altri  del  suo  secolo,1  ch'e  quanto  dire  men  fiorentino. 
Che  Popinione  dei  detti  critici  sopra  i  tre  luminari  dello  stile  non 
fosse  ne  falsa  ne  strana,  niente  puo  meglio  provarlo  del  testimonio 
del  Davanzati,  scrittore  zelantissimo  del  proprio  idioma  e  per  molti 
capi  pregevolissimo,  il  quale  schiettamente  distingue  la  lingua 
fiorentina  dalla  italiana  comune,  «la  quale))  dic'egli  «non  si  favella, 
ma  s'impara,  come  le  lingue  morte,  nei  tre  scrittori  fiorentini», 
nella  qual  pure  confessa  che  « molti  grandi  hanno  scritto  mirabil- 
mente »,  benche  soggiunga  che  «  avrebbero  fatto  prodigi » se  avessero 
fatto  uso  della  fiorentina  piu  pura.2  lo  non  diro  se  questa  asserzio- 
ne  sia  vera  o  falsa,  diro  solo  ch'io  credo  che  ogni  discrete  italiano, 
pago  assai  del  titolo  di  « mirabile »,  rinunziera  senza  pena  a  quello 
di  (cmiracoloso)). 

VII.  Ne  senza  contrasto  di  van  dotti  passo  1'altra  opinione,  che 
la  lingua  nostra  nel  secolo  del  Trecento  fosse  giunta  all'apice  della 
sua  floridezza.  Di  fatto  non  era  facile  il  persuadere  che  la  favella 
italiana,  a  differenza  d'ogn'altra,  fosse  perfetta  pressoche  nel  suo 
nascere;  che  il  secolo  piu  rozzo  nella  cultura  fosse  il  miglior  per 
la  lingua,  che  le  scritture  stese  senza  esemplari  e  senza  grammatica 
fossero  piu  corrette  di  quelle  che  uscirono  dopo  le  osservazioni  e  le 
regole;  che  nella  total  mancanza  di  molti  generi,  nella  scarsezza 
d'alcuni  altri,  senza  confronti  dell'altre  lingue,  senza  lumi  delle 
discipline,  senza  scorta  di  buona  critica,  quando  non  si  trattavano 
comunemente  che  argomenti  tenui  nel  dialetto  municipale  per  uso 
del  popolo,  la  lingua  potesse  essere  abbastanza  nobile,  morbida, 


i .  il  Salviati .  .  .  secolo :  cfr.  Degli  avvertimenti  della  lingua  sopra  il  « De- 
camerone»,  lib.  II,  cap.  xii,  ed.  cit.,  I,  pp.  244-8.  Va  notato  tuttavia 
che  le  riserve  del  Salviati  vertono  soprattutto  su  la  Fiammetta,  il  Filocolo 
e  VAmeto.  2.  Cfr.  la  lettera  a  messer  Baccio  Valori  del  20  maggio  1599, 
preposta  al  Volgarizzamento  di  Corneho  Tacito,  in  Opere,  Firenze  1853,  I, 
pp.  LXXIV-LXXV. 


SAGGIO    SULLA   FILOSOFIA   DELLE   LINGUE  409 

espressiva,  ornata,  flessibile,  regolata  nelle  costruzioni,  dovi- 
ziosa  di  termini  opportuni  e  di  locuzioni  acconce,  atta  infine  a 
soddisfare  ai  bisogni  progressivi  e  indefinibili  di  chiunque  scrive, 
sente  e  ragiona.  Indarno  si  faceano  sonar  alto  i  nomi  dei  tre  so- 
vrani  scrittori  di  quel  secolo,  poiche  tre  scrittori  non  fanno  una 
lingua.  Dante,  come  ogmm  sa,  ebbe  phi  genio  die  gusto:  tratto 
dal  bisogno  e  dall'arditezza,  tento  piu  di  quel  die  perfeziono,  ed 
afferro  spesso  in  luogo  di  scegliere.  II  Boccaccio,  ricco  delle  lo 
cuzioni  del  comico  familiare,  manca  dei  tornii  dell'urbanita  deli- 
cata,  e  da  lui  forse  e  addivenuto  die  P  Italia  in  questo  genere  e 
tanto  inferiore  alia  Francia;1  nei  soggetti  gravi  snaturo  la  lingua 
colle  sforzate  inversioni  latine,  e  diede  per  carattere  all'eloquenza 
italiana  la  sterile  abbondanza  delle  parole,  1'aggiramento  e  la  tedio- 
sita  periodica;  inoltre  s'attenne  anch'egli  di  soverchio  all'uso  del 
popolo,  e  la  sua  dicitura,  come  fa  osservato  dai  critici  posteriori, 
non  va  esente  da  varie  macchie  non  escusabili,  ed  e  gia  gran  tempo 
die  quella  maniera  di  scrivere  fu  abbandonata  generalmente  in 
Italia.  II  Petrarca,  solo  dei  tre  die  possa  dirsi  perfetto,  diede  vera- 
mente  alia  lingua  un  frasario  leggiadro  e  nobile;  ma  egli  non  e 
pienamente  benemerito  die  del  suo  genere,  anzi  pure  della  modi- 
ficazione  particolare  di  esso.  Egli  ha  quei  colori  che  convengono 
ad  un  amore  modesto,  rispettoso,  contemplative  e  quasi  divoto; 
ma  non  ha  quelli  dell' amor  comune  e  naturale  dei  Latini,  ne  del 
vivace  e  solazzevole  d'Anacreonte,  ne  del  candido  ed  innocente 
di  Gessner,2  ne  del  galante  e  spiritoso  dei  Francesi,  ne  del  pro- 
fondo,  ardente,  smanioso  di  vari  inglesi  e  tedeschi.  Gli  altri  po- 
chi  suoi  componimenti  di  soggetti  piu  grandi  sono  anch'essi  rag- 
guardevolissimi  per  una  sensatezza  toccante  e  per  una  equabile, 
inaffettata  e  signoril  dignita;  ma  non  vi  si  trova  ne  la  sentenziosa 
vibratezza  oraziana  espressa  dal  Testi,  ne  la  franchezza  pindarica 
del  Chiabrera,  ne  la  pensata  sublimita  del  Filicaia,  ne  Tinvasamento 
profetico  del  Guidi,  ne  la  splendidezza  fantastica  del  Frugoni. 


i.  *I1  primato  nelle  opere  di  urbanita  delicata  e  accordato  di  buon  grado 
alia  Francia  dal  co.  Napione  medesimo.  C'est  tout  dire  (C.).  Cfr.  il  trattato 
DelVuso  e  dei  pregi  della  lingua  italiana,  lib.  n,  cap.  ir,  §  7,  ed.  cit.,  I, 
pp.  169-70.  2.  Salomon  Gessner  (1730-1788),  soprattutto  con  i  suoi  Idyllen 
(1756  e  1772)  in  prosa  ritmica,  fu  uno  dei  piii  tipici  rappresentanti  del- 
1'idillico  sentimentalismo  del  Settecento.  Letto  e  tradotto  in  tutta  Europa, 
in  Italia  trovo  nel  Bertola  il  suo  piu  efficace  banditore. 


410  MELCHIORRE   CESAROTTI 

Gli  altri  scrittori  del  Trecento  non  sono  celebri  che  nel  Vocabola- 
rio,  e  trattone  alcuni  pochi  il  conoscerne  i  nomi  e  divenuto  un 
punto  d'erudizione :  benche  cio  non  tolga  che  possano  dalle  loro 
opere  estrarsi  alcune  locuziom  felici,  come  accade  in  qualunque 
idioma  piii  rozzo,  e  come  Virgilio  traeva  qualche  granellino  d'oro 
dalla  mondiglia  di  Ennio.1  II  Salviati  loda  altamente  gli  scrittori 
di  quel  secolo  per  la  purita:  sopra  di  che  non  so  astenermi  dall'os- 
servare  che  in  una  lingua  derivata  la  purita  dei  vocaboli  negli 
scrittori  piu  antichi  e  un  merito  pressoche  immaginario.  Perciocche 
s'e  vero  ch'ella  consiste  nella  nazionalita  originaria  di  essi  vocaboli, 
tanto  questi  debbono  sembrar  men  puri,  quanto  meglio  si  cono- 
sce  la  loro  origine  e  derivazione  straniera.  Quindi  le  voci  di  quel 
secolo  riescono  bensi  pure  a  noi  che  da  molto  tempo  siamo  awezzi 
a  riguardarle  come  italiane,  ma  non  potevano  assaporarsi  come  tali 
dai  coetanei  che  sapevano  1'una  esser  provenzale,  1'altra  francese  o 
lombarda,  oltre  infinite  latine.  Che  se  pure  volesse  dirsi  che  sin 
d'allora  si  avevano  per  nostrali,  dovrebbe  inferirsene  che  colla 
derivazione  erasene  anche  s  cor  data  Petimologia,  e  quindi  pure  la 
conoscenza  del  significato  primitivo  e  di  tutti  quei  rapporti  che  for- 
mano  il  pregio  intrinseco  dei  vocaboli,  e  che  i  piu  puri  fra  gli 
antichi  erano  gia  rientrati  nella  classe  di  quelli  che  furono  da 
noi  detti  cifre:  dal  che  verrebbe  a  risultarne  una  conseguenza  al- 
quanto  strana,  che  i  termini  abbiano  a  credersi  allora  appunto 
migliori,  quando  sono  per  se  stessi  insignificant!  e  privi  della  loro 
piu  essenziale  bellezza.  Del  resto  il  Salviati,  diviso  tra  il  culto  del 
Boccaccio  e  quello  della  purita,  trovo  un  mezzo  felicissimo  di 
conciliarsi  ambedue  e  di  far  che  un  pregiudizio  non  turbi  i  diritti 
dell'altro.  Egli  afferma  tranquillamente  che  non  pu6  ora  piu  di- 
sputarsi  se  qualche  voce  o  locuzione  del  Decamerone  sia  pura  o 
non  pura,  poiche  1'autore  «le  fe'  tutte  pure  ugualmente,  avendole 
bollate  col  marchio  di  quel  volume  ».2  Non  parrebbe  egli  che  il 
Boccaccio  avesse  il  segreto  di  purificar  le  parole,  e  che  questo  fos- 
sesi  perduto  con  lui? 


i.  Virgilio  .  .  .  Ennio:  cfr.  Donatus  Auctus,  71,  in  Vitae  Vergilianae,  ed.  E. 
Diehl,  Bonn,  Marcus  u.  Weber,  1911,  p.  35  :  « Vergilium  .  .  .  cum  aliquan- 
do  ipsum  [Enmum]  in  manu  haberet,  rogatum  quid  faceret,  respondisse 
se  aurum  colligere  ex  stercore  Ennii».  2.  Cfr.  Degli  avvertimenti  della  lin 
gua  sopra  il  «Decamerone»y  lib.  n,  cap.  xn,  ed.  cit.,  i,  p.  248.  II  Cesarotti 
cita  con  una  certa  liberta,  ma  senza  tradire  il  concetto. 


SAGGIO    SULLA   FILOSOFIA   DELLE   LINGUE  4!! 

vili.  Con  questa  diversita  d'opinioni  si  andarono  formando  due 
sette  di  scrittori  e  di  critici,  e  la  lingua  ebbe  anch'essa  i  suoi  gian- 
senisti  e  molinisti.1  L'Accademia  della  Crusca  dopo  la  meta  del 
secolo  decimosesto  awaloro  il  partito  dei  prinii.  Ella  fondo  un 
tribunale  rispettato  dai  piii  docili,  ma  le  di  cui  sentenze  non  furono 
da  tutti  credute  ne  imparziali  ne  inappellabili.  II  Tasso  perse- 
guitato  dalla  Crusca  diede  auspici  troppo  infausti  a  quell'acca- 
demia.  L'impresa  che  la  segnalo  maggiormente  fu  la  compila- 
zione  del  Vocabolario.  L'opera  utilissima  per  se  stessa  merita  cer- 
tamente  lode  ed  applauso,  ma  sarebbe  stata  assai  piii  pregevole  se 
non  avessero  presieduto  a  questa  fatica  due  speciosi  pregiudizi, 
quel  della  patria  e  quel  della  scuola.  Sembra  che  i  primi  che  posero 
mano  a  tale  impresa  si  siano  prefissi  di  stabilir  le  due  opinioni 
da  noi  esaminate  di  sopra,  e  di  costringere  gli  scrittori  tutti  d' Ita 
lia  ad  adottarle,  anche  lor  mal  grado,  sotto  pena  di  passar  per  igno- 
ranti  o  per  barbari.  In  conseguenza  di  questo  fine  il  Vocabolario 
riusci  un' opera  parziale  e  imperfetta;  e  quantunque  nelle  succes 
sive  edizioni  siasi  poi  sempre  migliorato  e  arricchito,  pure,  sussi- 
stendo  i  due  radicali  pregiudizi,  non  appag6  mai  abbastanza  le 
brame  universali  ne  soddisfece  interamente  all'oggetto  naturale 
d'un  tal  lavoro.  Di  fatto  come  dovra  realmente  chiamarsi  cotesto 
vocabolario?  Italiano?  no  certamente,  perche  le  provincie  d' Ita 
lia,  trattone  una,  non  ci  trovano  i  lor  comuni  vocaboli.  Toscano  ? 
neppure,  poiche  non  solo  vi  mancano  i  termini  particolari  delle 
diverse  citta,  ma  scarsissimo  e  inoltre  il  numero  degli  scrittori  della 
Toscana  che  vi  siano  ammessi  a  confronto  di  quei  di  Firenze. 
Sara  dunque  fiorentino?  mai  no,  perche  una  quantita  di  voci 
usate  dal  popolo,  e  riconosciute  dai  compilatori  stessi  per  buone, 
utili  e  necessarie,  non  osarono  essi  di  registrarle,  perche  non  le 
trovarono  usate  da'  buoni  scrittori.  E  bene:  sara  senza  fallo  il 
vocabolario  degli  scrittori  fiorentini:  no  ancora,  poiche  non  tutti 
gli  scrittori  di  Firenze  furono  posti  nel  ruolo  di  testi  di  lingua,  ne 
ottennero  1'onore  d'essere  citati.  Quale  specie  dunque  di  vocabo 
lario  e  mai  questa  ?  Eccolo :  esso  e  il  vocabolario  degli  scrittori  del 
Trecento  e  d'alcuni  altri  modern!  scelti  a  piacimento  dal  nuovo 
tribunale,  perche  scrissero  alia  maniera  dei  trecentisti.  Con  un 

i.  giansenisti  e  molinisti:  rigoristi  e  lassisti  in  fatto  di  lingua,  cioe  i  difensori 
del  purismo  fiorentino  o  toscano  e  i  sostenitori  di  una  illimitata  liberta  lin- 
guistica. 


412  MELCHIORRE   CESAROTTI 

tal  assunto  ognun  vede  quanto  scarso  e  insufficiente  riuscir  dovesse 
cotesto  tesoro  della  lingua. 

ix.  Di  fatto  del  due  oggetti  del  vocabolari,  Puno  di  far  intender 
la  lingua  nazionale  agli  stranieri,  1'altro  di  servir  alPuso  di  chi  scri- 
ve,  il  nostro  non  ne  adempie  perfettamente  veruno.  Viene  un 
forestiero  per  trattenersi  in  Italia:  il  suo  primo  pensiero  e  quello 
di  possederne  Tidioma,  per  non  esser  sordo  fra  i  parlanti:  si  prov- 
vede  a  tutto  costo  delPultima  edizione  del  Vocabolario,  e  con  que- 
sto  turcimano1  e  ben  certo  d'intendere  Tultime  differenze  dei  ter 
mini.  E  bene:  scorre  la  Romagna,  il  regno  di  Napoli,  il  Friuli,  la 
Lombardia,  ode  una  loquela  incognita;  consulta  1'interprete,  egli 
e  muto.  Passa  in  Toscana:  oh  qui  no  die  non  trovera  enigmi;  il 
suo  Edipo2  e  nato  in  questa  provincia,  essa  e  la  sede  della  lingua, 
e  le  diede  il  nome:  si  mescola  col  popolo  che  park  d'arti,  di  mestieri, 
di  faccende  comuni:  segna  molte  voci  che  lo  colpirono;  giunto  alia 
sua  stanza,  si  mette  attorno  al  suo  testo,  cerca  le  ignote:  qual 
sorpresa!  le  cerca  indarno.  Come  non  dovra  indispettirsene  ?  come 
potra  capire  che  un  termine  cittadino  nelPuso  sia  cacciato  come 
spurio  dal  ruolo  delle  parole  ?  DalPaltro  canto  un  uomo  scienziato, 
ragionativOj  eloquente,  ma  di  coscienza  timorata  in  fatto  di  lingua, 
col  capo  gravido  del  suo  soggetto  si  mette  a  scrivere:  gli  si  pre- 
senta  un'idea  nuova  che  sembra  domandar  un  termine:  non  e 
pago,  vuole  assicurarsi  della  sua  validita,  rifrusta  la  Bibbia  della 
lingua:  non  c'e.  Pure  e  bello,  ben  derivato,  acconcio  che  nulla  piu: 
che  importa?  non  e  il  merito,  ma  il  clima  che  fa  il  destine  de* 
vocaboli.  Ma  gli  pare  d'averlo  nelPorecchie,  lo  ha  letto  presso 
qualche  scrittore  italiano,  e  dei  celebri.  Che  Italia?  che  celebrita? 
in  fatto  di  lingua  non  v'&  salute  fuor  di  Toscana.  E  bene,  la  voce 
e  appunto  di  quel  paese;  ei  la  intese  a  pronunziare  da  un  viaggia- 
tor  di  cola:  non  basta;  per  legittimar  un  termine  la  lingua  non 
vale  senza  la  penna;  i  vocaboli  anche  delPuso  debbono  aver  per 
padrino  un  qualche  scrittore  autorevole.  Ma  se  il  termine  e  cosi 
sciaurato  che  non  trova  nemmeno  chi  lo  ricolga,  come  potra  usarsi 
senza  scandalo  ?  e  qual  sara  poi  quello  scrittore  privilegiato  sulla  cui 
penna  i  vocaboli  vili  ed  innominati  ringentiliscano  ?  Oh  questo  poi 


i .  turcimano :  turcimanno,  interprete.  2.  Edipo :  il  Vocabolario  della  Cru- 
sca,  cosi  chiamato  scherzosamente  in  quanto  dovrebbe  risolvere  gli  enigmi 
della  lingua. 


SAGGIO    SULLA   FILOSOFIA   DELLE   LINGUE  413 

e  un  segreto  die  sta  negli  abissi  della  grazia.  Ma  intanto,  che  sara 
di  quel  vocabolo?  Restera  barbaro  in  eterno,  o  finche  «si  voglia 
dove  si  puo  )).x  E  lo  scrittore  che  fara  egli  ?  Mandi  con  Dio  la  sua 
idea,  o  la  storpi  con  un  altro  termine  il  meglio  che  sa. 

x.  Anche  il  catalogo  degli  scrittori  aggiunti,  posto  in  fronte  del 
Vocabolario,  dovea  dar  luogo  a  querele  ed  a  rimostranze.  Non  e  ben 
chiaro  se  voglia  intendersi  che  gli  autori  registrati  siano  que'  soli 
da  cui  si  sono  presi  i  vocaboli,  o  che  gli  stessi  siano  i  soli  che  si 
distinguano  per  esattezza  di  lingua.  Se  il  primo,  chi  potra  credere 
che  in  tanta  moltitudine  d'autori  italiani  non  ve  ne  sia  neppur  uno 
in  cui  trovisi  un  solo  termine  che  meriti  d'esser  trascelto?  Se  il 
secondo,  quest'approvazione  esclusiva  non  dovra  ella  sembrar  odio- 
sa,  e  difficile  a  giustificarsi  ?  Che  se  alcuno  volesse  dire  che  gli 
altri  non  si  sono  citati  non  perche  fossero  inferior!  nel  pregio  di 
purgatezza,  ma  perche  niun  di  loro  avea  di  proprio  ne  una  locu- 
zione  ne  un  termine,  primieramente  cio  e  falsissimo  rispetto  a 
molti ;  poi,  quando  pur  cosi  fosse,  non  doveasi  ad  ogni  modo  va- 
lersi  anche  tratto  tratto  dej  loro  esempi  a  mostrar  la  continuazione 
dell'uso?  e  il  loro  merito  non  esigeva  che  se  ne  citassero  i  nomi, 
a  fine  di  prevenir  un  equivoco  ingiurioso  alia  lor  memoria,  e  atto 
a  traviare  il  giudizio  dei  mal  accorti?  Sembra  a  dir  vero  che  in 
cotesto  ruolo  regni  non  poco  di  parzialita,  di  contradizione  e 
d'arbitrio,  tanto  neirammettere  che  nell'escludere.  Chi  ha  scorso 
YEloquenza  italiana  del  Fontanini,2  e  ha  veduti  in  ogni  classe  tanti 
scrittori  accreditati  ed  illustri  per  dottrina  e  facondia,  come  non 
dee  credere  che  il  vocabolario  della  nostra  lingua  sia  formato  di 
tutte  le  voci  che  si  trovano  nelle  loro  opere?  E  come  poi  non 
dovra  farsi  le  meraviglie,  allorche  prendendo  in  mano  il  dizionario 
della  Crusca,  vede  che  i  compilatori  di  esso  non  hanno  aperto  la 
bocca  che  ad  un  centinaio  appena  dei  prefati  autori,  ed  hanno 
vietato  a  tutti  gli  altri  il  diritto  della  parola?  specialmente  che 
ne  tutti  i  termini  dei  classici  esauriscono  i  bisogni  della  favella, 
ne  quei  da  loro  trascelti  sono  sempre  i  migliori,  ne  i  piu  comune- 


i .  si  voglia  .  .  .  pud :  adatta  scherzosamente  il  dantesco :  «  vuolsi  cosi  cola  do 
ve  si  puote  /cio  che  si  vuole»  (Inf.,  in,  95-6).  2.  II  Cesarotti  allude  in 
particolare  alia  terza  parte  dell'opera  del  Fontanini  intitolata  Biblioteca 
delV  eloquenza  italiana  e  contenente  un  catalogo  degli  scrittori  italiani,  la 
quale  parte  fu  ripubblicata  nel  1753  con  important!  annotazioni  e  corre- 
zioni  di  Apostolo  Zeno. 


4H  MELCHIORRE    CESAROTTI 

mente  usati,  ne  i  meglio  intesi;  ne  molti  degli  autori  approvati 
sono  in  verun  senso  piu  pregevoli  di  molti  esclusi;  e  quando  lo 
fossero  nella  totalita  dello  stile,  niente  ripugna  che  si  prendano  gli 
ottimi  termini  anche  dagli  autori  non  ottimi.  Questo  rnetodo  non 
e  certamente  quello  del  celebre  lessico  latino,1  ove,  benche  siasi 
adottata  la  scolastica  distinzione  delle  voci  d'oro  e  d'argento, 
pure  si  veggono  registrati  tutti  gli  autori  d'ogni  secolo  e  d'ogni 
provincia,  senza  omettere  un  solo  de?  loro  vocaboli.  lo  lascero  che 
la  Toscana  e  Firenze  stessa  domandino  conto  ai  compilatori  del 
Vocabolario  perche  non  si  veggano  sul  loro  ruolo  tanti  altri  egregi 
lor  nazionali  cittadini,  che  nobilitarono  coi  loro  scritti  non  meno 
la  lingua  comune  che  il  loro  leggiadro  dialetto.  Ma  che  risponde- 
ranno  Fombre  degl'Infarinati,  e  degl'Inferrigni,2  e  degli  altri  loro 
consorti  alle  rimostranze  di  tutta  Italia,  che  di  tanti  rinomati  suoi 
figli,  sparsi  per  le  sue  citta,  ne  trova  appena  dieci  fatti  degni  di 
servir  agli usi  della  lingua:  cosicche  quand'ella  guardandosi  intorno 
si  gloriava  d'un'ampia  famiglia  benemerita  della  sua  favella,  ove 
poi  gitta  gli  occhi  sul  Vocabolario,  si  sorprende  della  sua  sterile 
mendicita?  Potrebbe  anche  domandarsi  modestamente  ragione  di 
alcune  scelte  e  predilezioni  d'autori,  o  di  opere,  che  sembrano 
contradittorie.  Perche  tanta  facilita  per  FAriosto,  che  largheggia 
sopra  d'ogn'altro  nella  liberta  della  lingua  ?  perche  il  Tasso  fu  pur 
ammesso  dopo  infiniti  contrasti?  o  perche  fu  tanto  contrastato, 
se  meritava  d'esser  ammesso?  perche  fra  Faltre  sue  opere  non 
si  citano  Le  sette giornate2  ne  le  sue  prose?  perche  fra  i  testi  di  lin 
gua  si  annovera  il  Castiglione  che  protesta  di  scriver  lombardo  ?4 
perche  d'Annibal  Caro  non  si  trascelgono  che  i  Mattacini3  e  le 
lettere,  omettendo  la  Rettorica  d'Aristotele  e  YEneide?  e  quel  ch'e 

i  celebre  lessico  latino:  il  Lexicon  totius  latinitatis  di  Egidio  Forcellini, 
pubblicato  postumo  a  Padova  nel  1771.  2.  Per  VInfarinato  cfr.  la  nota  2 
a  p.  358;  Inferrigno  era  il  nome  assunto  nell'Accademia  della  Crusca  da 
Bastiano  de'  Rossi.  3.  II  poema  in  versi  sciolti  Le  sette  giornate  del  mondo 
creato,  composto  dal  Tasso  fra  il  1592  e  il  1594.  4.  il  Castiglione  .  .  .  lom 
bardo:  cfr.  la  lettera  dedicatona  del  Cortegiano,  in  Opere  di  Baldassare 
Castiglione ,  Giovanni  Della  Casay  Benvenuto  Cellini,  a  cura  di  C.  Cordie, 
Milano-Napoli,  Ricciardi,  1960,  p.  n:  «ne  credo  che  rni  si  debba  impu- 
tare  per  errore  lo  aver  eletto  di  farrni  piu  tosto  conoscere  per  Lombardo 
parlando  lombardo  che  per  non  Toscano  parlando  troppo  toscano». 
5.  Mattacini:  dieci  sonetti  d'invettive  contro  il  Castelvetro,  allegati  al- 
Y Apologia,  nominata  piu  avanti.  6.  La  traduzione  della  Rettorica  di  Ari- 
stotele,  pubblicata  postuma  nel  1570,  e  quella,  piu  famosa,  dell'Eneide,  edita 
pure  postuma  nel  1581. 


SAGGIO    SULLA   FILOSOFIA   DELLE   LINGUE  415 

piu  P  Apologia,1  opera  squisitissima  per  grazia  di  stile,  non  meno 
che  per  sensatezza  di  critica?2  perche  del  Magalotti  si  trascurano 
le  lettere  scientifiche  e  le  familiari,  piene  di  termini  filosofici  e  di 
locuzioni  ingegnose  ?3  Perche  ? .  .  .  le  interrogazioni  non  finirebbero 
cosi  tosto.  Non  e  da  dubitarsi  che  quegli  accademici  non  avessero 
in  tutto  cio  le  loro  ragioni;  ma  piu  di  uno  poteva  desiderare  che 
si  fossero  rese  note,  onde  il  pubblico  fosse  in  caso  di  esami- 
narle. 

xi.  Malgrado  le  opposizioni  e  le  querele  di  alcuni,  Pautorita 
legislativa  della  Crusca  fu  riconosciuta  dal  maggior  mimero.  Gli 
scrupolosi  abbracciarono  il  sistema  del  tuziorismo4  che  calmava 
la  loro  coscienza;  gli  scrittoruzzi  subalterni  godettero  che  si  fosse 
formata  una  scienza  di  memoria,  nella  quale  speravano  di  sover- 

i.  Apologia-,  con  cui  il  Caro,  nel  1558,  rispose  alle  censure  mosse  dal  Castel- 
vetro  alia  sua  canzone  Venite  alVombra  de'  gran  gigli  d'oro.  2.  *Queste 
grazie  parvero  ad  alcuni  alquanto  acri.  Ma  il  disprezzo  insolente,  il  tuono 
da  oracolo  e  le  sofisticherie  pedantesche  dell'Aristarco  potean  mover  la 
bile  al  piii  flemmatico.  L'ape  e  tutta  mele,  ma  non  bisogna  irritarla,  se 
non  si  vuole  che  si  ricordi  del  pungiglione  (C.).  Col  nome  di  Aristarco  si 
allude  al  Castelvetro.  3.  *Questo  celebre  autore,  vantato  meritamente  per 
forbitezza  di  stile  ne'  suoi  Saggi  dell'Accademia  del  Cimento,  fu  accusato 
d'esser  poi  nelle  sue  lettere  familiari  scritte  in  eta  piii  matura  (si  noti  la 
circostanza)  caduto  in  neologismi,  gallicismi  e  barbarisrni  evidenti.  II  co. 
Napione,  che  ripete  i  pregi  e  le  colpe  del  Magalotti,  lo  scusa  in  parte  sulla 
necessita  in  cui  fu  di  crearsi  uno  stile  nuovo  di  conversazione  nobile  e 
disinvolta,  di  cui  nella  sua  lingua  toscana  non  avea  esempio ;  e  anche  perche 
avea  lungamente  praticato  le  corti  ed  i  letterati  oltramontani.  Cio  viene  a 
dirci  due  cose :  Tuna  che  di  questo  stile  di  conversazione  graziosa  e  nobile 
trovava  negli  scrittori  oltramontani  e  segnatamente  francesi  quel  modello 
che  non  gli  presentava  1' Italia;  1'altra,  ch'e  assai  difBcile  ricopiar  nel  suo  stile 
i  caratteri  rettorici  d'una  nazione  senza  accostarsi  poco  o  molto  a  quelle 
maniere  che  appunto  gli  rappresentano.  Resta  a  cercarsi  se  il  danno  sia 
maggior  delPacquisto.  Monsignor  Fabroni,  grande  ed  illustre  amatore  della 
nobile  e  purgata  eleganza  nelle  due  lingue  d' Italia,  afferma  che,  non  ostante 
i  suddivisati  difetti,  la  dicitura  del  Magalotti  e  « plena  di  maesta  splendida  e 
luminosa,  ha  somma  vaghezza  e  decoro,  e  porta  scolpita  (cio  che  fu  lodato 
nello  stile  di  Messala)  la  nobilta  dell' autore  ».  Piu  d'uno  per  awentura  sof- 
frirebbe  senza  gran  pena  le  censure  fatte  al  Magalotti  per  meritar  da  un  si 
buon  giudice  il  compenso  d'una  tal  lode  (C.)-  Angelo  Fabroni  (1732-1803), 
direttore  del  «  Giornale  dei  letterati »  di  Pisa,  e  ricordato  soprattutto  per  le 
Vitae  Italorum  doctnna  excellentium  qui  saeculis  XVII  et  XVIII  floruerunt 
(Pisa  1778-1805)  e  per  gli  Elogi  di  uomini  illustn  (Firenze  1773-1775);  il 
giudizio  sullo  stile  del  Magalotti  si  legge  nelle  Vitae  Italorum  ecc.,  xn,  Pisa 
I7^5,  P-  192:  «lucere  orationem  pompa  plenam,  illustrem,  splendidam, 
ut  habeat  summam  speciem  et  dignitatem,  prae  se  feratque,  quod  de  Mes- 
salla  olim  praedicatum  est,  auctoris  nobilitatem  ».  4.  tuziorismo:  dottrina 
teologica  secondo  cui  nel  dubbio  occorre  attenersi  alia  sentenza  piu  « sicu- 
ra  »  (cioe  piu  vicina  alia  legge),  anche  se  meno  probabile. 


4*6  MELCHIORRE    CESAROTTI 

chiar  i  loro  maggiori  piu  trascurati  o  -piu  indocili;  gli  accorti 
non  vollero  ne  cozzare  con  un  tribunale  autorevole,  ne  perder  un 
nuovo  capo  di  merito ;  e  i  grandi  stessi,  tranquilli  su  i  loro  diritti, 
non  disapprovarono  una  legislazione  severa  che  metteva  un  freno 
alia  licenza,  ben  sapendo  che  non  e  permesso  se  non  ai  geni  di 
dar  la  legge  a  se  stessi,  e  che  per  chi  non  sa  reggersi,  una  sconsigliata 
liberta  e  vie  peggiore  d'un'aweduta  tirannide.1  L'Accademia  della 
Crusca  predicava  ancora  meglio  coiresempio  che  col  precetto: 
la  singolar  gloria  di  Firenze  d'essersi  serbata  intatta  nel  contagio 
universale  del  cattivo  gusto  che  imperversava  in  Italia,  fu  non  a 
torto  da  un  giudizioso  moderno2  attribuita  appunto  alia  compila- 
zione  del  Vocabolario,  che,  obbligando  quegli  accademici  ad  aver 
sempre  alia  mano  gli  esemplari  d'un  miglior  secolo,  gli  abituava 
alle  schiette  grazie  d'uno  stile  piu  castigato  e  piu  sobrio.3 

xii.  Ma  la  rivoluzione  accaduta  nel  sistema  intellettuale  dopo 
la  meta  del  secolo  diciassettesimo  ebbe  una  nuova  e  piu  sensibile 
influenza  anche  sulla  lingua.  Firenze  merito  d'esser  chiamata 
per  doppio  titolo  1'Atene  d' Italia.  Ella  accese  e  propago  fra  noi  la 
luce  della  filosofia,  come  dianzi  avea  propagata  quella  delle  let- 
tere :  e  quasi  nel  tempo  stesso  Tuna  e  Paltra  brillavano  vivamente 
sopra  la  Francia.  Quindi  le  scienze,  lo  spirito  filosofico  e  il  france- 

i.  *Lettori  italiani,  non  v'ingannate:  io  parlo  di  letteratura  (C.)«  II  tono 
e  evidentemente  ironico,  poiche  il  Cesarotti,  quando  scriveva  questa  nota, 
nel  1800,  pensava  proprio  cosi  anche  in  politica.  2.  giudizioso  moderno: 
allude  quasi  certamente  al  Tiraboschi.  Cfr.  Storia  della  letteratura  ita- 
liana,  vin,  parte  i,  lib.  i,  cap.  xiv,  edizione  di  Milano  1824,  pp.  79-80. 
3.  *Questa  lode  ai  meno  aweduti  puo  sembrar  una  contradizione :  nulla 
meno.  Niente  repugna,  anzi  e  convenientissimo  che  i  compilatori  del  Vo- 
cabolano  scrivessero  con  piu  di  mondezza  e  d'eleganza  che  i  loro  contempo- 
ranei;  e  che  questa  1'avessero  specialmente  acquistata  dal  commercio  per- 
petuo  cogli  scrittori  d'un  secolo  piu  purgato.  E  chi  poi  puo  negare  che  il 
Firenzuola,  il  Gelli,  il  Caro,  il  Castiglione  e  vari  altri  non  avessero  e  casti- 
gatezza  e  grazia  ?  Ma  i  loro  vocaboli,  i  loro  modi  erano  gli  unici  ?  la  lingua, 

10  stile  eran  fissati  in  perpetuo  ?  qui  sta  il  torto  della  Crusca.  Vaglia  la  stessa 
risposta  per  chi  credesse  imbarazzar  Tautore,  e  farlo  cader  in  contradizione 
col  domandargli:  come?  il  tale  o  tal  altro  autore  di  stampa  rigorosamente 
italiana  non  e  forse  un  nome  giustamente  distinto  ?  non  sa  pensare  ?  non 
sa  scrivere  ?  le  sue  opere  non  sono  pregiate  e  pregevoli  ?  Si,  si,  si,  ma  che 
percio  ?  ha  egli  esaurito  tutti  i  generi  ?  ha  egli  riuniti  tutti  i  pregi  del  suo  ? 
Tha  fatto  in  modo  cosi  eminente  che  non  lasci  desiderare  ne  il  meglio,  ne 

11  piu,  ne  il  diverso?  Tra  il  bene  particolare  e  1'assoluto,  tra  1'ottimo  e  1'ec- 
cellente,  tra  1'eccellente  e  il  sublime  v'e  una  salita  di  molti  poggi,  e  piii 
strade  menano  ad  essa;  chi  vi  si  arrampica,  chi  sale  lentamente,  chi  marcia 
spedito,  chi  corre  e  si  stanca,  alcuni  s'arrestano  a  mezzo,  piu  d'uno  salta 
e  precipita,  pochi  si  slanciano  alia  cima  e  fissano  gli  sguardi  del  secolo  (C.). 


SAGGIO    SULLA   FILOSOFIA   DELLE   LINGUE  417 

sismo  furono  le  tre  cagioni  che  riunite  alterarono  non  poco  Fidee 
comuni  in  fatto  di  lingua.1  Le  discipline  fecero  sentire  al  vivo  il 
bisogno  incessante  di  nuovi  termini,  lo  spirito  di  ragionamento 
voile  separare  anche  in  tal  materia  i  diritti  della  ragione  da  quei 
deH'autorita,  mostro  la  vergogna  di  sacrificar  1'idea  al  vocabolo, 
e  insegno  a  distinguere  il  pregio  reale  della  lingua  dal  convenziona- 
le  e  arbitrario :  finalmente  il  predominio  del  gusto  francese,  lontano 
ugualmente  dalla  vuota  sonorita  italiana  e  dalla  gonfiezza  spa- 
gnuola,  e  spirante  una  sensata  vivacita,  abituando  le  orecchie  dei 
lettori  ad  un  frasario  diverso  e  percio  piu  dilettevole,  scemo  quel 
sacro  ribrezzo  ai  modi  stranieri,  che  formava  la  salvaguardia  della 
pudicizia  del  toscanesimo.  Da  quel  punto  ando  prendendo  sem- 
pre  piu  forza  uno  spirito  d'indipendenza  tanto  piu  pericoloso  per- 
che  fondato  su  principii  piu  seducenti.  Di  fatto  gli  scrittori  emi- 
nenti  fecero  sentire  dopo  quest'epoca  uno  stile  piu  ricco  d'idee, 
e  piu  atto  ad  appagare  e  a  tener  deste  nel  tempo  stesso  tutte  le 
facolta  dello  spirito,  reso  da'  suoi  progress!  piu  agile  nelle  sue 
operazioni  e  piu  bisognoso  di  pascolo  e  di  movimento.  Ma  che? 
si  abusa  di  tutto,  e  la  scienza  delle  misure  non  e  mai  quella  del 
maggior  numero.  A  poco  a  poco  si  and6  all'eccesso:  ogni  legge 
parve  tirannica,  ogni  regola  si  taccio  di  superstizione ;  una  folia 
di  voci  e  di  locuzioni  forestiere  introdotte  senza  necessita  e  senza 
scelta  inondo  P Italia;  i  nostri  scrittori  furono  obliati,  trascurate  le 
nostre  ricchezze.  Dall'altra  parte  il  zelo  cieco  dei  rigoristi  irrito 
il  libertinaggio  in  luogo  di  frenarlo ;  si  confuse  al  solito  il  vero  e  '1 
falso;  le  declamazioni  e  gli  scherni  tennero  luogo  d'analisi.  In 
questa  confusione  d'idee  vari  Aristarchi2  bastardi  acquistarono 
Pimpunita  di  dar  sentenze  e  bastonate  alia  cieca,  e  la  gioventu 
incerta,  non  sapendo  a  che  attenersi,  risolse  di  non  seguir  che  il 
suo  impeto  e  di  farsi  guida  a  se  stessa. 

xin.  I  piu  saggi  s'awidero  che  conveiuva  patteggiar  col  secolo, 
appagarne  i  bisogni,  temperarne  grimpeti  e  permetter  la  liberta 
per  impedir  la  licenza.  La  Crusca  allargo  la  mano,  ma  a  stento, 
ma  senza  abbandonar  le  sue  redini:  il  Vocabolario  ricomparve 

i.  Vedi  Rischiaram.  n,  6  (C.)-  2.  Aristarchi:  critici.  Come  altre  volte 
il  vocabolo  ha  per6  intonazione  spregiativa;  non  e  improbabile  che  qui  il 
Cesarotti  alluda  proprio  al  Baretti,  che  adotto,  coine  si  sa,  lo  pseudonimo 
di  Aristarco  Scannabue,  e  che  aveva  espresso  giudizi  poco  benevoli  sulla 
traduzione  cesarottiana  di  Ossian  (nella  Easy  Phraseology,  del  1775,  dia- 
logo  XLIII). 

27 


418  MELCHIORRE   CESAROTTI 

accresciuto,1  ma  la  facolta  di  accrescerlo  e  le  misure  di  farlo  di- 
pendevano  sempre  da  lei;  ella  volea  che  si  ricevesse  il  poco  per 
grazia,  quando  molti  gia  pretendevano  d'aver  diritto  sul  tutto.  A 
Napoli  si  fece  una  giunta  al  Dizionario?  qualche  erudito  ufizioso 
segno  i  vocaboli  omessi  disawedutamente  negli  autori  classici;3 
alfine  qualche  altro  a'  nostri  tempi  s'attento  di  autorizzar  molte 
voci  tratte  da  scrittori  piii  recenti  e  non  per  anco  approvati. 
Vani  compensi,  arditezze  pusillanimi  e  senza  frutto:  quest'e  far 
troppo  e  troppo  poco.  Chi  ha  dato  a  questi  privati  Pautorita  di 
legislatori  ?  con  qual  titolo  fecero  nuovamente  una  scelta  esclusiva  ? 
qual  e  il  principio  che  gli  diresse  ?  Basta  leggere  le  loro  prefazioni 
per  sentire  che  le  novita  da  loro  introdotte  non  sono  che  tentativi 
mal  sicuri  di  servi  tremanti.  Finche  dura  un  tribunale  riconosciuto 
inappellabile  dalla  prescrizione ;  finche  non  si  mostra  Pinsussistenza 
dei  fondamenti  su  cui  si  appoggia  Passoluta  sua  potesta,  ogni  inno- 
vazione  e  illegittima.  Inoltre  Poggetto  e  picciolo  e  vano.  Si  accresca 
pure  il  Dizionario  di  varie  migliaia  di  vocaboli:  gli  avremo  esau- 
riti  percio  ?  E  se  in  capo  a  dieci  anni  si  scopre  il  bisogno  d'un  altro 
termine,  presenteremo  un  memoriale  per  ottenerne  Pingresso?  o 
attenderemo  che  qualche  nuovo  tribuno  creato  da  se  si  faccia  autore 
di  nuove  tavole?  Non  c'e  mezzo:  o  convien  negare  i  principii  o 
adattarsi  alle  conseguenze  qualunque  siano.  Non  si  tratta  d'un 
aumento  precario  di  vocaboli,  si  tratta  di  liberta:  ma  d'una  liber- 
ta  permanente,  universale,  feconda,  lontana  dalle  stravaganze,  fon- 
data  sulla  ragione,  regolata  dal  gusto,  autorizzata  dalla  nazione 
in  cui  risiede  la  facolta  di  far  leggi.  E  tempo  omai  che  P Italia 
si  afrranchi  per  sempre  dalla  gabella  delle  parole  bollate,  come 
gl'insurgenti  d' America  si  affrancarono  da  quella  della  carta.4 


i.  il  Vocabolario . . .  accresciuto:  allude  alia  iv  edizione  del  Vocabolario  della 
Crusca,  curata  dal  Salvini,  dal  Bottari  e  da  altri,  e  pubblicata  fra  il  1729  e 
il  1738.  2.  A  Napoli . . .  Dizionario:  il  Vocabolario  della  Crusca  fu  ristarn- 
pato  a  Napoli  tra  il  1746  e  il  1748  con  una  Giunta  dey  vocaboli  raccolti  dalle 
opere  degli  autori  approvati  dalV  Accademia  della  Crusca\  e  piu  tardi,  nel 
1763,  1'editore  Pitteri  pubblico  a  Venezia  un'altra  edizione,  anch'essa  con 
aggiunte.  3.  qualche  .  .  .  classici:  allude  probabilmente  al  padre  Giampie- 
tro  Bergantini,  autore  di  varie  opere  lessicografiche,  fra  cui  una  raccolta  di 
Voci  italiane  d* autori  approvati  dalla  Crusca  nel  Vocabolario  d'essa  non  regi- 
strate,  con  altre  molte  appartenenti  per  lo  piii  ad  arti  e  scienze,  Venezia  1745. 
4.  come  .  .  .  carta:  fra  i  motivi  delTinsurrezione  delle  colonie  inglesi  in 
America  contro  la  madre  patria  vi  fu  1'imposizione  della  carta  bollata  da 
parte  di  questa  (1756). 


SAGGIO    SULLA   FILOSOFIA   DELLE   LINGUE  419 

xiv.  Questo  e  Foggetto  die  ci  siamo  proposti  nello  stender  il 
Saggio  presente :  questo  e  che  c'indusse  a  prender  la  cosa  dalFalto, 
e  a  dar  alia  materia  una  tessitura  alquanto  piu  solida  che  si  sosten- 
ga  da  se  e  resista  ai  cavilli  ed  ai  dubbi.  Se  al  pubblico  illuminate 
puo  sembrare  che  abbiamo  portato  in  questo  argomento  qualche 
maggior  accuratezza  d'idee  e  sparsovi  qualche  lume  filosofico  atto 
a  guidare  gFincerti,  ci  compiaceremo  d'aver  rischiarato  il  cam- 
mino  e  piantato  una  base  piu  ferma  alle  operazioni  susseguenti 
intorno  la  lingua.  Noi  ci  lusinghiamo  che  la  nostra  voce  sia  stata 
Forgano  del  voto  pressoche  universale  dei  buoni  spiriti  d' Italia, 
che  bramano  questa  liberta  giudiziosa;  ma  Fapplicazione  di  questi 
principii  airampliazione  ed  al  buon  uso  della  lingua  non  e  opera 
d'un  uomo  o  d'un  corpo  o  d'una  citta.  Lungi  dal  pretendere  di 
abolire  una  magistratura  legittima  sopra  la  lingua,  noi  bramiamo 
anzi  di  convalidarla  col  renderne  Fautorita  meno  concentrata  e  piu 
stabile.  Con  questa  idea  si  e  da  noi  concepito  un  piano  di  governo 
e  d'operazioni  che  osiamo  presentar  all' Italia. 

xv.  La  lingua  e  della  nazione:  ogni  novita  relativa  ad  essa  dee 
aver  la  sua  sanzione  dal  consenso  pubblico.  La  nazione  non  puo 
essere  rappresentata  che  da  un  Consiglio  nazionale,  ed  ogni  Con- 
siglio  dee  avere  un  senato  che  vi  presieda,  ed  un  centro  ove  si 
raccolgano  i  voti  comuni.  A  quest' onore  niuna  citta  ha  un  titolo 
piu  legittimo  di  Firenze,  niun  corpo  letterario  vi  ha  un  diritto 
piu  incontrastabile  di  quella  Accademia.  Rigenerata  al  presente 
sotto  un  nome  piu  adattato  allo  spirito  ragionativo  del  secolo; 
posta  sotto  gli  auspicii  d'un  sovrano  illuminato  che  mira  in  tutto 
al  vero  ed  al  solido,1  feconda  d'ingegni  sagaci,  riflessivi,  forniti  di 
tutti  i  presidii  delle  discipline  e  delle  arti,  ella  ha  troppe  ragioni 
alFautorita  per  aver  bisogno  di  mendicarla  dal  sostener  tenace- 
mente  le  pretensioni  mal  fondate  della  sua  antenata.  Ella  e  degna 
di  far  epoca,  non  di  seguire  i  fasti  d'un'altra:  nudrita  nella  filoso- 
fia,  inconciliabile  col  despotismo  d'ogni  specie,  ella  non  esige  una 
fede  cieca,  ma  un  ossequio  ragionevole,  ed  e  ben  certa  d'ottenerlo : 
superiore  alle  ristrettezze  d'un  patriottismo  maHnteso,  abbraccia 
col  suo  zelo  Fonor  nazionale  e  vagheggia  una  gloria  piu  nobile, 
quella  di  primeggiare  di  comun  consenso  sopra  uominl  liberi. 

i.  Rigenerata . . .  solido:  il  7  luglio  1783  un  decreto  del  granduca  Pier  Leo- 
poldo  di  Lorena  aveva  soppresso  TAccademia  della  Cmsca,  rifondendola, 
insieme  con  quella  degli  Apatisti,  nell* Accademia  Fiorentina. 


420  MELCHIORRE   CESAROTTI 

Alia  testa  del  Consiglio  Italico  potra  ella  esercitar  un  impero  meno 
assoluto,  ma  piu  rispettato  e  durevole.  Noi  prendiamo  la  liberta 
di  esporre  a  lei  stessa  le  nostre  idee  con  quella  nobil  fiducia  che 
la  onora  ben  piii  di  una  bassa  adulazione  o  d'un'insidiosa  mode- 
stia.  Ecco  dunque  come  ci  sembra  che  possa  meglio  configurarsi 
questo  Consiglio,  e  in  quai  modi  possa  rendersi  pienamente  operoso 
ed  utile. 

L'Accademia  Fiorentina  scelga  con  ponderato  esame  in  tutte  le 
citta  dj Italia,  o  almeno  nelle  principali,  alcuni  de'  piu  accreditati 
negli  studi  della  nostra  letteratura  e  noti  per  le  loro  op  ere,  i  quali 
presiedano  ciascheduno  dal  loro  canto  agli  esercizi  che  saranno 
dichiarati  qui  presso.  Questi  primi,  scelti  dalPAccademia,  for- 
mando  vari  Consigli  provincial!,  abbiano  la  facolta  di  sceglier 
colla  pluralita  dei  voti  nelle  citta  stesse,  o  nelle  finitime,  un  numero 
opportuno  di  soci  che  possano  cooperar  con  valore  alle  lor  fatiche, 
e  di  cui  si  rendano  mallevadori  all' Italia;  e  i  loro  nomi  appro vati  a 
Firenze  siano  pubblicati  a  notizia  comune  di  tutti  gli  altri.  I 
membri  dell' Accademia  Fiorentina,  dedicati  particolarmente  a  que- 
sto  ramo  di  erudizione,  saranno  chiamati  direttori  del  Consiglio 
Italico  per  la  lingua:  e  questi  avranno  la  sopraintendenza  e  Pin- 
spezione  generale  delle  operazioni  dei  vari  corpi. 

Saranno  queste  di  vario  genere,  ed  abbracceranno  tutto  cio  che 
puo  appartenere  alia  lingua  nostra  considerata  sotto  i  suoi  moltiplici 
rapporti:  vale  a  dire,  tutto  cio  che  interessa  1'uso,  il  ragionamento, 
la  critica,  Terudizione  ed  il  gusto. 

xvi.  Giovera  specificare  tutte  le  accennate  operazioni,  ridu- 
cendole  ai  capi  seguenti. 

1.  Ricercar  le  origini  italiane  coll' esame  e  '1  confronto  di  tutte 
le  lingue  le  quali  concorsero  a  formar  la  nostra,  quali  sono,  oltre 
la  latina,  e  in  parte  la  greca,  Tantica  gallica  o  celtica,  la  gotica, 
la  longobardica,  la  tedesca,  la  provenzale,  la  francese  moderna,  la 
spagnola,  Tarabica,  giovandosi  delle  conoscenze  e  delle  ricerche 
di  tanti  insigni  eruditi  che  illustrarono  qual  una  e  qual  altra  delle 
dette  lingue.  Queste  discussioni,  oltre  i  lumi  che  spargerebbero 
sulla  storia  della  nazione  e  della  favella,  potrebbero  specialmente 
rischiarare  la  parte  geografica  della  lingua,  e  in  conseguenza  la 
storia  fisica  delle  nostre  diverse  provincie. 

2.  Esaminar  di  proposito  Petimologia  delle  voci:  esame  che  puo 
darci  un  tesoro  di  conoscenze  preziose  si  per  la  storia  delle  idee, 


SAGGIO    SULLA   FILOSOFIA   DELLE   LINGUE  42! 

dei  costumi,  delle  usanze,  e  si  anche  per  giudicar  con  fondamento 
del  vero  valor  e  e  del  pregio  intrinseco  dei  vocaboli.  Le  regole  criti- 
che,  proposte  dal  presidente  de  Brosse  nelPinsigne  opera  Del 
meccanismo  delle  lingue,  possono  guidarci  felicemente  in  questo 
laberinto,  in  cui  tanti  eruditi  andarono  a  smarrirsi  per  mancanza 
di  buone  scorte. 

3.  Far  uno  studio  di  tutti  i  dialetti  nazionali,  e  tesserne  dei  par- 
ticolari  vocabolari,1  studio  raccomandato  a  ragione  dallo  stesso 
de  Brosse2  e  dal  sensato  Muratori:3  studio  curioso  insieme  e  ne- 
cessario  per  posseder  pienamente  la  lingua  italiana,  per  conoscer 
le  vicende  e  trasformazioni  dello  stesso  vocabolo,  e  sopra  tutto 
per  paragonar  tra  loro  i  diversi  termini  della  stessa  idea  e  le  varie 
locuzioni  analoghe,  valutarne  le  differenze,  rilevar  i  diversi  modi 
di  percepire  e  sentire  dei  vari  popoli,  indi  trarre  opportunamente 
partito  da  queste  osservazioni  e  supplir  talora  con  un  dialetto 
alle  mancanze  d'un  altro. 

4.  Legger  di  nuovo  con  attenzione  gli  autori  classici,  tanto  per 
notar  i  termini  che  possono  essere  sfuggiti  alia  diligenza  dei  com- 
pilatori,  quanto  per  esaminar  1'uso  da  loro  fatto  di  essi,  e  giudicarne 
con  buona  critica  ed  esatta  imparzialita. 

5.  Siniilrnente  dividere  tra  i  vari  membri  della  societa  la  lettura 
dell'opere  degli  altri  celebri  scrittori  si  toscani  che  italiani,  negletti 
dalla  Crusca;  notarne  i  vocaboli  e  le  locuzioni  particolari  e  gli  esem- 
pi  che  ne  fanno  risaltar  il  valore,  insieme  col  nome  dei  loro  autori. 

6.  Applicarsi  a  conoscer  con  precisione  le  vere  ricchezze  as- 
solute  e  comparative,  e  i  veri  bisogni  della  lingua,  onde  non  ecce- 
dere  nel  ricercare  il  soverchio,  ne  lasciarsi  mancare  del  necessario. 
A  tal  oggetto  il  metodo  phi  esatto  e  piu  filosofico  parmi  il  seguente. 

Facciasi  uno  spoglio  del  nostro  vocabolario,  classificandone  tutti 
i  termini  sotto  le  varie  categoric  di  oggetti  naturali,  arti,  scienze, 

i .  *Cosi  fece  nel  dialetto  padovano  il  fu  ab.  Gaspare  Patriarch!,  accademico 
di  Padova.  Intendentissimo  di  tutte  le  finezze  della  lingua  toscana,  egli 
voile  facilitarne  1'uso  ai  suoi  concittadini,  e  con  tale  oggetto  compile  un 
vocabolario  vernacolo  mettendo  a  fronte  d'ogni  vocabolo  e  idiotismo  pa 
dovano  1'equivalente  toscano  tratto  dai  migliori  autori,  senza  restringersi 
ai  soli  citati  dalla  Crusca.  II  paragone  non  e  sempre  a  svantaggio  nostro  (C.). 
Gaspare  Patriarchi  (1709-1780)  compile  un  Vocabolario  veneziano  e  pa 
dovano  colle  voci  e  locuzioni  toscane  corrispondenti,  Parma  1775.  2.  dallo 
stesso  de  Brosse:  cfr.  Traite  de  la  formation  mechanique  des  langues  ecc.,  ed. 
cit.,  n,  pp.  495-6.  3.  dal  sensato  Muratori:  nelle  Antiquitates  italicae  Me- 
dii  Aevi,  dissertazione  xxxin  (cfr.  trad,  cit.,  in,  pp.  238-9). 


422  MELCHIORRE   CESAROTTI 

usanze,  professioni  e  operazioni  d'ogni  specie.  Se  ne  formino  di- 
versi  cataloghi,  sotto  i  quali  si  pongano  i  diversi  vocaboli  estratti 
dagli  altri  autori  non  classici.  Questi  cataloghi  cosi  accresciuti 
si  diano  in  mano  ai  professori  delle  varie  facolta,  come  pure  agli 
artefici  e  ad  altri  uomini  versati  nelle  respettive  materie,  e  si  do- 
mandi  loro  se  in  essi  si  contengono  tutti  i  termini  relativi  alia 
data  classe.  Rispondendo  di  no,  si  esiga  che  segnino  appie  del 
catalogo  gli  altri  nomi  di  loro  uso,  siano  quest!  d'un  qualche  dia- 
letto  vernacolo  o  d'un'altra  lingua.  Tenuto  lo  stesso  metodo  nelle 
principal!  citta  d'ltalia,  si  giungerebbe  a  conoscere  esattamente 
quel  che  ci  manca,  e  si  avrebbe  il  mezzo  di  supplirvi  colla  mag- 
giore  aggiustatezza  possibile :  poiche,  paragonando  fra  loro  i  ter 
mini  de'  vari  dialetti  italiani  relativi  all'oggetto  stesso,  si  potrebbe 
scegliere  il  piu  chiaro,  il  piu  comune,  il  meglio  dedotto,  il  piu 
espressivo,  il  piu  conveniente;  e  questo,  approvato  dal  Consi- 
glio  Italico,  entrerebbe  senza  difficolta  nel  commercio  general  della 
lingua,  e  ne  accrescerebbe  il  patrimonio.  In  tal  guisa  si  verrebbe 
a  conoscere  con  molto  miglior  fondamento  la  copia  o  la  sterilita 
dei  dialetti  nostri,  e  quindi  la  totale  e  vera  ricchezza  della  lingua 
nazionale:  laddove  stando  al  sistema  presente,  e  ristringendola  al 
dialetto  d'una  sola  provincia,  anzi  d'alquanti  scrittori,  ella  dee 
necessariamente  comparire  assai  piu  povera  di  quel  che  in  fatti  lo  e. 
7.  Per  assicurarsi  della  ricchezza  relativa,  si  paragoni  il  voca- 
bolario  italiano  cosi  accresciuto  coi  vocabolari  delPaltre  lingue, 
e  siano  questi  i  piu  che  si  puo;  e  si  notino  con  diligenza  tutti  i 
termini  che  non  hanno  Tequivalente  fra  noi,  o  lo  hanno  soltanto  con 
una  approssimazione  imperfetta  ed  equivoca.  Se  i  termini  riguarda- 
no  oggetti  reali  della  natura  o  delParte,  rileveremo  con  precisione 
di  quali  generi  siamo  piu  scarsi  o  mancanti:  se  appartengono  alle 
nozioni  ed  ai  sentimenti,  potremo  arguirne  la  varia  tempera  di 
carattere  dell'altre  nazioni,  osservar  la  diversita  de'  colori,  esami- 
nar  se  giovasse  talora  d'appropriarseli,  e  come  cio  potesse  farsi 
acconciamente  e  senza  stranezza.  Le  ricerche  e  i  tentativi  per 
supplire  ai  difetti  nostri  o  per  gareggiar  colle  ricchezze  degli  altri 
popoli,  potrebbero  esercitar  utilmente  la  sagacita  dei  vari  membri 
del  Consiglio,  e  un  cumulo  d'osservazioni  di  questa  specie  pro- 
durrebbe  la  metafisica  del  gusto,  studio  ben  degno  d'un  filosofo, 
e  senza  di  cui  lo  scrivere  non  e  che  un  istinto  cieco  o  una  pra- 
tica  materiale. 


SAGGIO    SULLA   FILOSOFIA   DELLE   LINGUE  423 

8.  Con  questo  apparato  di  conoscenze  il  Consiglio  sarebbe  in 
caso  di  dedicarsi  alia  compilazione  di  due  vocabolari,  Funo  d'am- 
pia  mole  e  di  moltiplici  ed  important!  ricerche  per  utilita  delle 
varie  classi  degli  eruditi  e  ragionatori,  1'altro  piu  breve  e  fornito 
solo  del  necessario,  per  uso  giornaliero  di  chi  vuole  intendere  e 
maneggiar  la  lingua  scritta.  II  primo  dovrebbe  essere  un  vocabo- 
lario  veramente  e  pienamente  italiano,  cioe  contenente  tutte  le 
voci  e  locuzioni  di  tutti  i  dialetti  nazionali,  vocabolario  etimolo- 
gico,  storico,  iilologico,  critico,  rettorico,  comparative,  atto  a  ser- 
vir  a  tutti  gli  oggetti  per  cui  puo  studiarsi  una  lingua:  un  tal 
dizionario  sarebbe  la  fatica  permanente,  I'impresa  per  eccellenza 
del  Consiglio  Italico,  il  risultato  piu  prezioso  dei  travagH  comuni, 
largamente  compensate  dalla  pubblica  utilita.  Vorrebbe  questo 
esser  disposto  per  ordine  non  alfabetico,  ma  radicale,  il  che  non 
solo  gioverebbe  a  conoscer  con  facilita  le  diramazioni  delle  lin- 
gue  e  dei  dialetti,  le  mescolanze  dei  popoli,  le  prime  ragioni  dei 
termini,  le  derivazioni  o  ragionevoli  o  capricciose  dal  senso  primi- 
tivo  e  le  lor  cagioni  non  owie :  ma  insieme  anche  potrebbe  presentar 
qualche  anello  opportuno  alia  catena  general  delle  lingue,  tessuta 
sulle  prime  fila  d'una  lingua  naturale,1  catena  che  va  cercandosi 
in  questo  secolo  da  vari  eruditi  di  prima  sfera,  forse  indarno  per 
Peffetto  totale,  ma  certo  nelle  ricerche  parziali  con  dotta  e  non 
inutile  sagacita. 

9.  II  secondo  vocabolario  potrebbe  ordinarsi,  secondo  il  solito, 
per  alfabeto:  ma  il  fondo  attuale  domanda  d' esser  migliorato  in 
piu  guise.2  Vuolsi:  i.  aumentar  notabilmente  di  vocaboli  special- 


i.  catena  .  .  .  naturale:  nuova  allusione  al  problema  della  convergenza  delle 
lingue  europee.  Cfr.  p.  396  e  la  nota  relativa.  2.  II  voto  per  una  nuova 
compilazione  del  Vocabolario  fu  concepito  ed  espresso  quasi  nel  medesi- 
mo  tempo  da  molti  uomini  di  lettere,  e  specialmente  da*  due  miei  dotti  e 
ingegnosi  amici  sig.  cav.  Pindemonte  e  sig.  ab.  Arteaga.  Sentiamo  ora  con. 
vera  compiacenza  che  1'Accademia  di  Firenze  abbia  determinato  di  appa- 
gare  il  desiderio  del  pubblico.  Se  questa  notizia  non  mi  fosse  giunta  un  po1 
tardi,  e  a  cosa  gia  fatta,  avrei  risparmiata  questa  fatica.  L'erudizione  e  1 
buon  gusto  di  chi  presiede  a  questa  compilazione  non  lasciano  dubitar  del 
successo ;  ed  io  saro  contentissimo  che  questa  illustre  accademia  faccia  sen- 
tir  col  fatto  che  i  miei  awertimenti  erano  superflui.  N.B.  Questo  progetto 
quanto  onorifico  alia  Toscana,  altrettanto  utile  e  vantaggioso  al  resto  del- 
T Italia,  per  diverse  disgraziate  circostanze  sembra  inevitabilmente  svanito 
(C.).  II  Cesarotti  allude  al  piano  di  lavori  presentato  nel  1784  dal  padre 
Ildebrando  Frediani,  e  in  cui  erano  prese  in  considerazione  anche  le  voci 
tecniche. 


424  MELCHIORRE  CESAROTTI 

mente  relativi  alle  arti  e  alle  scienze,  e  di  molti  altri  opportuni 
ed  utili  autorizzati  dagli  scrittori,  o  dalPuso  di  chi  ne  abbisogna, 
e  approvati  dal  Consiglio  con  esami  e  confront!,  awertendo 
sempre  di  dar  a  cosa  pari  la  preferenza  ai  toscani,  indi  agli  altri 
italici,  e  di  non  ricorrere  agli  stranieri  se  non  in  caso  di  vero  bi- 
sogno,  o  di  riconosciuta  e  sensibile  poziorita.  2.  Purgarlo  dalle 
bnitture  e  storpiature  della  plebaglia.  3.  Bandirne  gli  arcaismi 
strani,  i  latinismi  pedanteschi  e  le  voci  disusate  e  inintelligibili, 
conservando  quelle  che  non  hanno  veruna  colpa  del  lor  disuso  e 
possono  essere  opportune  e  calzanti.  Dei  termini  antiquati  e 
degPidiotismi  oscuri  e  plebei,  potrebbe  farsi  un  piccolo  glossario 
a  parte  per  rintelligenza  degli  autori  antichi.  4.  Notar  nei  vocaboli 
non  meno  il  senso  accessorio  che  il  principale.  5.  Cercar  con  di- 
ligenza  il  senso  primitivo,  sia  generate,  sia  proprio,  talora  diverse 
dalPapparente ;  indi  per  ordine  i  successivi  e  dipendenti,  indicando 
gli  appicchi  per  cui  si  attengono  tanto  al  primo  quanto  fra  loro. 
6.  Apporvi  P  ethnologic,  non  pero  tutte,  ma  quelle  soltanto  che 
derivano  da  fondo  nostro,  alludono  a  rapporti  non  obliati  e  pos 
sono  servir  di  lume  nelTuso  de'  vocaboli.  7.  Ai  termini  greci  intro- 
dotti  nell'arti  e  accettati  nel  vocabolario,  aggiungerei  non  la  spie- 
gazione  soltanto,  ma,  quando  si  puo,  anche  la  traduzione  italiana: 
il  che  potrebbe  indur  taluno  ad  usar  il  termine  nostro  in  luogo  del- 
lo  straniero,  non  senza  vantaggio  della  lingua,  ove  cio  potesse  farsi 
con  ugual  chiarezza  ed  agilita.  8.  Mostrar  coi  vari  esempi  le  varie 
costruzioni  ed  applicazioni  de'  termini.  9.  Nella  scelta  degli  esempi 
aver  cura  di  non  preferir  sempre  i  piu  antichi,  ma  quelli  che  sono 
i  piu  atti  a  mostrar  il  buon  effetto  del  termine:  sendoche  talora  un 
termine  in  un  esempio  non  ha  verun  pregio,  e  spicca  mirabilmente 
in  un  altro.  Che  se  non  ve  ne  fosse  alcuno  di  ben  appropriate, 
potrebbesi  formarlo  appostatamente.  10.  Premettere  al  vocabolario 
un  trattatello  delle  terminazioni  italiane  e  del  lor  valore  e  inten- 
dimento  di  ciascheduna,  onde  possa  tosto  conoscersi  se  un  voca- 
bolo  nuovo  consuoni  col  genio  della  Hngua,  ed  occorrendo  di  for- 
marne,  si  abbia  una  norma  per  dirigersi.  Per  lo  stesso  fine  gio- 
verebbe  spiegar  la  forza  delle  preposizioni  che  si  annettono  ai 
verbi. 

10.  Occupazione  importante  di  questo  Consiglio  sarebbe  pur 
Pintraprendere  una  serie  di  traduzioni  degli  autori  originali  di 
tutte  le  lingue:  incominciando  dall'esaminare  le  piu  celebri  tra 


SAGGIO    SULLA   FILOSOFIA  DELLE   LINGUE  425 

quelle  ch'esistono,  e  segnatamente  quella  del  Davanzati,  che  po- 
trebbe  sopra  d'ogn'altra  presentar  molte  osservazioni  utilissime 
alia  perfezione  del  gusto.  Qual  debba  esser  Poggetto  e  lo  spirito  di 
cosi  fatte  traduzioni,  fu  da  noi  accennato  di  sopra. 

11.  Venendo  a  mancare  qualche  autor  celebre  per  opere  di 
amena  letteratura  o  d'altre  materie  trattate  con  qualche  pregio 
d'eloquenza,  il  Consiglio  fara  Tanalisi  delle  suddette  opere,  e  ne 
dara  coi  metodi  piu  autorevoli  modesto  e  imparziale  giudizio  ri- 
spetto  alia  lingua  e  allo  stile;  notera  la  voci  nuove  e  le  locuzioni 
a  lui  proprie,  le  quali,  ove  siano  approvate  a  tenore  dei  principii 
stabiliti  dal  comun  consenso,  saranno  registrate  in  un  nuovo  cata- 
logo  e  pubblicate  insieme  collo  stesso  giudizio. 

12.  Non  si  citeranno  autori  viventi,  n6  si  giudichera  delle  loro 
opere,  salvoche  di  quelli  che  cosi  bramassero,  e  indirizzassero  al 
Consiglio  il  loro  manoscritto  o  la  stampa  stessa  per  averne  un  giu 
dizio  privato  o  pubblico.  Per  tal  mezzo  gli  scrittori  sarebbero  giu- 
dicati  all'mglese,  vale  a  dire  da'  loro  pari;  potrebbero  esser  certi 
della  vera  opinione  del  pubblico  illuminato,  di  cui  tanto  si  abusa 
il  nome;  non  avrebbero  a  temere  ne  Tadulazion  ne  1'invidia:  il 
giudizio  delParistocrazia  italica  imporrebbe  silenzio  alia  maligna 
temerita;  e  quindi  essi  potrebbero  o  illuminarsi  daddovero  su  i 
lor  difetti,  o  goder  di  quella  piena  e  tranquilla  compiacenza  che 
un  autore  al  presente  non  puo  mai  gustare  con  sicurezza,  incerto 
sempre  tra  le  illusion!  delPamor  proprio,  le  punture  dei  rivali  e  le 
grida  degl'imperiti  o  malevoli. 

Questi  sono  gli  studi  che  possono  far  1'occupazione  permanente 
e  successiva  degli  amatori  della  nostra  lingua,  e  dar  loro  un  eser- 
cizio  corrispondente  al  genio,  aH'attivita  e  ai  vari  talenti  di  ciasche- 
duno.  L'ordine  e  la  distribuzione  di  questi  esercizi,  la  scelta  e  la 
sostituzione  dei  capi  primari  del  Consiglio,  i  metodi  delle  giudi- 
cature,  le  onorificenze  letterarie,  la  facolta  di  proporre,  Pultima 
sanzione  delPautorita;  tutto  cio  dritto  e  che  appartenga  al  Diret- 
torio  delTAccademia  di  Firenze. 

II  piano  da  noi  proposto  e  certamente  atto  a  nobilitar  lo  studio 
della  lingua  e  a  purgarlo  dalTantica  taccia  di  laboriosa  frivolezza; 
e  questa  nuova  magistratura  puo  lusingar  Famor  proprio  di  tutti 
i  membri  ed  accendere  il  loro  zelo.  Noi  abbiam  presentato  quel 
che  da  noi  si  poteva,  delle  idee  e  dei  voti :  saranno  questi  dispersi 
al  vento?  L'impresa  e  grander  ma  che  non  puo  il  zelo,  la  riunione, 


426  MELCHIORRE    CESAROTTI 

il  concerto?  L'ltalia  abbonda  d'ingegni  attissimi  a  verificarla: 
Firenze  gli  raccolga,  ne  formi  un  corpo,  lo  diriga,  lo  animi:  il 
volere  fu  sempre  la  cote  del  potere;  si  voglia  dawero,  e  si  potra. 


AVVERTIMENTO  DEGLI  EDITORI1 

A  fine  di  far  intendere  e  gustar  meglio  ai  lettori  il  senso  e  le 
allusioni  di  cio  che  contiensi  negli  scritti  die  stan  per  leggere, 
troviarno  necessario  di  premettere  alcune  notizie  relative  all' opera 
precedente. 

II  Saggio  sopra  la  lingua  venne  in  luce  la  prima  volta  in  Padova 
nel  1785,  e  fu  poi  ristampato  in  Vicenza  nel  1788  coll'aggiunta  del 
Ragionamento  all' Arcadia? 

L' opera  piena  di  filosofia  e  di  novita  fece  nel  pubblico  una  sen- 
sazione  assai  viva,  e  procaccio  all'autore  i  piu  giusti  elogi.  Bastera 
qui  riferire  il  giudizio  del  celebre  ab.  Andres,3  il  quale  nel  tomo  v 
della  sua  Storia  della  letter atur a  si  spiega  nei  seguenti  termini: 
«L3Italia  gode  in  questi  giorni  nel  Saggio  sulla  lingua  italiana  del 
Cesarotti  d'un'opera  grammatical,  quale  non  1'aveva  veduta  si- 
nora,  e  per  la  quale  solo  la  Francia  potea  fornirgliene  pochi  esem- 
pi.  Non  entro  a  decidere  dell'utilita  del  suo  progetto,  ne  della  ve- 
rita  di  ciascuna  sua  proposizione ;  ma  le  fine  osservazioni,  le  ri- 
flessioni  profonde,  le  ingegnose  e  giuste  viste,  Pesattezza  e  la  pre 
cision  delle  idee,  e  la  poliglottica  e  scientifica  erudizione  rendono 
quel  Saggio  1'opera  d'una  giusta  metafisica  e  d'una  sottile  gram- 
matica:  e  se  invece  d'abbondare  in  tanti  esempi  d'etimologia  e 
d'omonimie,  che  possono  sembrar  soverchi,  avesse  aggiunte  le 
necessarie  investigazioni  dello  stile  che  tanto  e  legato  colla  lingua,  e 
che  anzi  in  essa  in  gran  parte  comprendesi,  avrebbe  lasciato  poco 
da  desiderare  in  questa  materia  ai  grammatici  ed  ai  filosofi».4 


i.  Questo  Avvertimento,  molto  probabilmente  steso  dal  Cesarotti  stesso,  e 
comunque  da  lui  approvato,  fu  stampato  per  la  prima  volta  in  appendice 
all'edizione  pisana  del  Saggio.  2.  Ragionamento  air  Arcadia:  e  il  Saggio 
sulla  filosofia  del  gusto.  3.  L'abate  Giovanni  Andres  (1740-1817),  gesuita 
spagnolo  immigrate  in  Italia,  pubblico  a  Parma  tra  il  1782  e  il  1799  1'opera 
Dell'ortgine,  de'  progressi  e  dello  stato  attuale  d'ogni  letteratura,  in  7  volumi, 
poi  ristampata  con  aggiunte  e  correzioni.  4.  Cfr.  Andres,  DelV origine  ecc., 
Venezia,  Antonelli,  1832,  ill,  pp.  550-1. 


SAGGIO    SULLA   FILOSOFIA   DELLE   LINGUE  427 

Dovea  pero  awertire  il  dotto  storico  che  Tetimologia  nell'aspetto 
in  cui  la  riguarda  1' autore  apparteneva  direttamente  al  di  lui  sog- 
getto:  alFincontro  le  teorie  dello  stile  non  potevano  averci  luogo 
che  occasionalmente,  non  essendo  questa  unj opera  di  rettorica, 
ma  di  filosofia  grammaticale  considerata  ne'  suoi  rapporti  colla 
rettorica.  Se  pero  egli  non  s'arresta  di  proposito  sulle  varie  parti 
dello  stile,  non  puo  dirsi  che  lo  trascuri  quando  tratta  della  lingua 
e  delle  parole,  che  sono  gli  elementi  dello  stile  medesimo. 

Sarebbe  stato  un  prodigio  troppo  grande  se  un'opera  che  di- 
chiara  la  guerra  alle  prevenzioni  d'ogni  specie  fosse  andata  illesa  da 
ogni  censura.  Un  certo  ab.  Garducci1  avendo  nel  1786  pubblicata 
in  Vicenza  una  dissertazione  sopra  il  quesito  proposto  dalFAcca- 
demia  di  Mantova  intorno  i  Caratteri  del  gusto  italiano  presente, 
vi  premise  una  prefazione,  nella  quale,  senza  nominar  Tab.  Ce- 
sarotti,  prese  ad  impugnar  alcune  proposizioni  del  di  lui  Saggio 
male  interpretate  e  mal  esposte;  e  cio  con  un'aria  di  franchezza 
trascurata  e  d'autorita  superiore,  che  la  sproporzione  fra  il  cen- 
sore  e  il  censurato  rendea  per  lo  meno  indecente.  L'ab.  Cesarotti 
non  crede  di  dover  rispondere  a  quello  scritto  che  col  silenzio. 
Ma  un  altro  letterato,  che  non  voile  norninarsi,2  usci  a  sostener  la 
causa  del  nostro  autore  con  un  opuscolo  ingegnoso  e  piccante, 
pubblicato  col  titolo  curioso  di  Ristampa  d'un  articolo  del  Giornal 
d*Aletopoli.  £  prezzo  dell'opera  il  far  conoscer  il  disegno  e  il  tenore 
di  quest' opuscolo,  si  perche  serve  a  giustificar  le  opinioni  dell'ab. 
Cesarotti,  e  si  anche  per  la  singolarita  del  tornio  dato  dall'autore 
alia  sua  difesa.  Egli  si  assume  la  persona  d'un  giornalista  perfetta- 
mente  imparziale,  e  anche  piu  versato  nelle  materie  scientifiche 
che  in  quelle  di  letteratura.  Accenna  d'aver  gia  parlato  in  altro 
foglio  delle  dissertazioni  d'altri  illustri  letterati  sul  problema  propo 
sto  dalPAccademia  di  Mantova:  e  percio  trovando  nella  nuova  dis 
sertazione  delPab.  Garducci,  uscita  molto  tempo  dopo  quelle  del 


i.  ab.  Garducci:  pseudonimo  delT abate  vicentino  Giambattista  de  Velo 
(1752-1819),  che  fu  di  idee  liberali  in  politica  e  puristiche  in  letteratura. 
La  dissertazione,  a  cui  qui  si  allude,  e  Topuscolo  Del  carattere  nazionale 
del  gusto  italiano  e  di  certo  gusto  dominante  in  letteratura  straniera  (Vi 
cenza  1786),  in  cui  il  de  Velo  polemizzava  con  le  note  apposte  dall'Ar- 
teaga  al  trattato  di  Matteo  Borsa,  Del  gusto  presente  in  letteratura  italiana,, 
e  con  le  idee  del  Saggio  cesarottiano.  2.  un  altro  letterato  .  . .  nominar  si: 
autore  dell' opuscolo  era  in  realta  un  allievo  ed  amico  del  Cesarotti,  1' abate 
Angelo  Zendrini  (1763-1849), 


4^8  MELCHIORRE   CESAROTTI 

sig.  Borsa  e  del  cav.  Pindemonte,1  ripetute  in  gran  parte  (pero  con 
ordine  e  stile  affatto  diverse)  le  idee  dei  due  prelodati  scrittori,  si 
astiene  dal  dar  un  ragguaglio  esatto  del  discorso  del  Garducci, 
bastandogli  di  render  conto  d'alcuni  di  lui  pensamenti,  e  «di  dar 
un  saggio  della  lingua  e  dello  stile  ch'ei  crede  opportuno  di  ado- 
perare  scrivendo  un'opera  diretta  a  far  rivivere  il  buon  gusto  in 
Italia »:  protestando  pero  ch'ei  non  si  arroga  di  darne  giudizio, 
«  essendo  »  aggiunge  « nostra  costante  opinione  che  1'ufizio  di  gior- 
nalista  sia  quello  di  semplice  relatore,  o  al  piii  di  opinatore  privato, 
non  mai  di  giudice»  (verita  di  cui  piu  d'un  giornalista  si  scorda 
assai  volentieri).  Premesso  cio,  prende  ad  esporre  alcune  opinioni 
dell'ab.  Garducci,  e  attenendo  la  sua  parola  di  non  darne  verun 
giudizio,  trova  un  mo  do  originale  di  confutarle  assai  meglio  che 
se  il  facesse  espressamente  e  direttamente.  «  Giacche »  dic'egli  «l'ab. 
Garducci  con  molta  awedutezza  dedico  il  suo  libro  al  sig.  Bettinelli, 
celebre  dentro  e  fuori  d' Italia  per  le  sue  riputatissime  opere,  colla 
vista,  come  dee  credersi,  di  rendergli  un  omaggio  e  di  farlo  giudice 
arbitro  della  sua  fatica .  .  . ;  cosi  giacche  nelle  opere  del  suddetto 
sig.  ab.  Bettinelli,  le  quali  sono  un  testimonio  irrefragabile  delle 
sue  opinioni,  troviamo  aver  gia  egli  prevenuto  il  giudizio  che  sara 
per  dare  di  questo  opuscolo,  noi  ci  daremo  il  piacere  di  notarne 
i  luoghi,  da  cui  potra  raccogliere  Tab.  Garducci,  se  coll'ab.  Bettinelli 
abbia  nel  pensare  niente  di  comune».  Dopo  cio  prende  a  fare 
un  esatto  parallelo  fra  le  asserzioni  del  letterato  vicentino  e  quelle 
delTab.  Bettinelli,  estratte  dalla  collezione  delle  opere  del  mede- 
simo  stampata  in  Venezia  nel  1780  coll'approvazione  e  con  varie 
aggiunte  dell'autore,  le  quali  asserzioni  sono  quasi  direttamente 
opposte  a  quelle  del  Garducci;  alcune  s'accordano  affatto  con 
quelle  del  Cesarotti;  anzi  eccedono  di  molto  le  misure  di  quel- 
Farditezza  che  da  alcuni  vien  rimproverata  a  quest'ultimo.  In 
questa  condotta  del  supposto  giornalista,  oltre  la  finezza  manife- 
sta,  sembra  di  scorgerne  un'altra  meno  osservata  e  maggiore. 
Sembra  che  paresse  strano  alPautor  di  quest'opuscolo  che  Tab. 
Bettinelli,  dopo  aver  in  varie  opere,  e  segnatamente  nelle  sue  ce- 
lebri  Lettere  virgiliane  ed  inglesi,  parlato  della  lingua  e  degli  scrit- 


i.  Anche  Ippolito  Pindemonte  aveva  risposto  al  quesito  dell'Accademia  di 
Mantova  con  una  Dissertazione  pubblicata  nel  1783,  e  su  cui  cfr.  la  Nota 
introduttiva  alle  pagine  del  Borsa  nprodotte  in  questo  volume. 


SAGGIO    SULLA   FILOSOFIA   DELLE    LINGUE  429 

tori  italiani  con  una  liberta  che  da  molti  e  molti  fu  riguardata 
come  un'audacia  scandalosa;  dopo  aver  costituito  un  parallelo 
fra  la  letteratura  d'ltalia  e  Poltramontana,  che  non  era  sempre  a 
vantaggio  nostro;  scordandosi  di  tutto  questo,1  e  quel  ch'e  piu 
della  guerra  acerba  che  gli  suscito  in  Venezia  questa  arditezza, 
guerra  che  gli  trasse  addosso  una  tempesta  di  scritti  mordaci  e 
satirici;2  abbia  ora  sofferto  di  comparir  il  mecenate  e  il  padrino 
d'un  libro  diretto  a  pungere  Tab.  Cesarotti,  che  nel  suo  Saggio 
uso  ne'  suoi  giudizi  particolari  una  piu  severa  ritenutezza,  ed  ebbe 
cura  di  astenersi  da  ogni  confronto;  quell' ab.  Cesarotti  ch'egli  do- 
vea  piuttosto  riguardar  come  suo  collega  e  fratello  di  riputazione 
e  di  merito,  e  il  di  cui  nome  egli  non  puo  ignorare  che  passera 
unito  al  suo  alia  memoria  dei  posteri.  Questa  sconvenienza  e  cio 
che  Pautor  dell'opuscolo  voile  far  sentire  delicatamente  senza 
spiegarsi. 

Passa  poi  lo  stesso  ad  esaminar  quei  luoghi  nella  prefazione  del 
Garducci,  coi  quali  intende  di  combattere  le  opinioni  dell'ab.  Ce 
sarotti,  e  a  confutar  1'oppositore  si  vale  d'un  modo  assai  particolare, 
ch'e  quello  di  giustificarlo.  «Non  dobbiamo  dissimulare»  die' egli 
«che  piu  d'uno  voile  darci  ad  intendere  che  questa  prima  parte 
fosse  diretta  a  confutar  il  libro  dell'ab.  Cesarotti  uscito  poco  fa 
alia  luce,  che  ha  per  titolo  Saggio  sulla  lingua  italiana.  Da  cio 
noi  rileviamo  con  dispiacere  che  il  sig.  ab.  Garducci  ha  vari  nemici 
impegnati  a  renderlo  odioso  e  ridicolo.  Siccome  noi  crediamo 
che  uno  dei  doveri  principal!  d'un  giornalista  sia  quello  d'esser 
ingenuo  ed  onesto,  cosi  ci  troviamo  in  dovere  di  dichiarar  al 
pubblico  che  questa  e  una  solenne  calunnia;  che  Tab.  Garducci  e 
innocentissimo  di  questa  colpa,  e  che  tanto  e  lungi  ch'egli  abbia 
inteso  di  confutar  1'opera  dell'ab.  Cesarotti,  che  anzi  non  1'ha 
nemmen  letta.  Di  fatto  chi  potra  mai  darsi  a  credere  che  un 
onest'uomo  imprenda  a  confutar  le  proposizioni  d'un  autore 
dando  loro  il  senso  che  a  lui  piu  piace,  prendendole  staccate, 
mutilandole,  e  che  dia  poi  come  propri  ritrovati  le  cose  gia  dette, 
trattate  in  un  modo  superiore  dalPautore  stesso  ch'egli  pretende 

i .  scordandosi .  . .  questo :  sui  caratteri  e  sui  limiti  del  nuovo  orientamento 
(che  comincia  verso  il  1780)  del  Bettinelli  verso  un  purismo  nazionalistico 
cfr.  pure  la  Nota  introduttiva  al  Borsa.  2.  guerra  .  .  .  satirici:  allude  agH 
scritti  polemici,  contro  le  Lettere  virgiliane,  di  Gasparo  Gozzi,  del  Gen- 
nari,  del  Paradisi  e  delTAlgarotti. 


430  MELCHIORRE  CESAROTTI 

d'impugnare?  Eppure  cio  avrebbe  fatto  appunto  Tab.  Garducci, 
se  avesse  scritta  questa  prima  parte  colla  mira  che  gli  viene  appo- 
sta  . . .  Quanto  egli  sia  lontano  da  questa  imputazione  noi  ci  fare- 
mo  un  vero  placer  di  mostrarlo  confrontando  le  parole  del  sud- 
detto  coi  luoghi  dell'ab.  Cesarotti  a  cui  vuolsi  che  pure  alluda  . . . ». 
Quindi  confrontando  le  parole  citate  dal  Garducci  con  quelle  del 
testo,  mostra  ad  evidenza  che  1'oppositore  omettendo1  qualche 
termine  essenziale  venne  ad  alterare  il  sentirnento  per  impugnarlo, 
e  che  park  in  modo  come  se  Tab.  Cesarotti  favorisse  colle  sue 
massime  una  licenza  sfrenata,  e  avesse  ignorato  o  trascurato  quel 
le  salutari  awertenze  sulle  quali  appunto  egli  si  diffonde  di  propo- 
sito,  e  che  appunto  rendono  la  di  lui  « opera  originale,  filosofica, 
istruttiva  sopra  quante  ne  uscirono  su  tali  argomenti  in  Italia ». 

Mostra  in  fine  il  giornalista  di  temere  che  nemmeno  la  lingua 
e  lo  stile  dell'ab.  Garducci  possano  trovar  molta  grazia  presso 
Tab.  Bettinelli,  come  puo  arguirsi  da  vari  luoghi  delle  opere  di 
questo  egregio  scrittore;  sembrando  che  tutto  il  libro  del  cri- 
tico  sia  dettato  in  quello  stile  che  Tab.  Bettinelli  dichiara  il  piu  di- 
rettamente  contrario  al  gusto  italiano.  Ma  non  potendo  esso  gior 
nalista,  che  si  professa  non  molto  esperto  in  questo  ramo  di  studi, 
indursi  a  credere  che  un  uomo  ch'esce  gratuitamente  in  campo  a 
far  il  paladino  della  lingua  e  il  riformatore  del  gusto  italiano,  ne 
ignori  i  principali  elementi  e  voglia  comparir  al  pubblico  coperto 
di  tutti  quei  vizi  che  condanna  cosi  altamente  negli  altri,  vuole 
piuttosto  persuadersi  che  tutte  le  singolarita  di  stile  che  s'incontra- 
no  nella  di  lui  opera  siano  di  quei  tratti  originali  che  distinguono  i 
geni  privilegiati,  e  debbano  percio  riporsi  tra  i  gioielli  piu  preziosi 
del  vero  gusto.  In  conseguenza  egli  crede  di  far  cosa  utile  alia 
studiosa  gioventu  presentandone  a  parte  un  breve  catalogo  che 
merita  d'esser  letto  in  fonte,  e  accompagnando  ciascheduna  di 
quelle  veramente  singolarissime  locuzioni  con  qualche  riflessione 
ironica  che  ricorda  la  maniera  di  Voltaire  o  di  Swift. 

Non  dobbiamo  omettere  che  Tab.  Garducci  comparve  poscia 
al  pubblico  col  nome  dell'ab.  Velo,  e  ristampo  a  parte  la  sua 
prefazione  ridotta  a  ragionamento,2  omettendo  alcuni  passi  che 
aveano  dato  luogo,  dic'egli,  a  « false  ed  ingiuste  applicazioni». 

i.  omettendo:  cosi  mi  sembra  da  correggere  (con  POrtolani)  « mettendo » 
dell'edizione  pisana.  2.  Nell'opuscolo  Sulla  preminenza  di  alcune  lingue 
e  suWautoritd  degli  scrittori  approvati  e  del  grammatici,  Vicenza  1789. 


SAGGIO    SULLA   FILOSOFIA   DELLE   LINGUE  43! 

Confessa  egli  d'aver  tratte  le  proposizioni  ch'egli  impugna  dal- 
1'opera  dell'ab.  Cesarotti,  ma  si  duole  altamente  che  siasi  potato 
supporre  che  colle  sue  invettive  contro  gli  scrittori  intemperanti 
egli  possa  aver  preso  di  mira  Tab.  Cesarotti,  al  quale  protesta  esti- 
mazione  e  rispetto;  benche  la  niuna  cura  ch'egli  si  prese  nella  pre- 
fazione  d'allontanar  1'idea  contraria,  sembri  rendere  scusabile  il 
giornalista;  oltreche  il  rappresentar  alcuno  come  apologista  e  mae 
stro  delPintemperanza  di  stile  e  un  farlo  anche  reo  dell'intempe- 
ranza  degli  altri.  La  liberta  d'opinare  e  di  contradire  in  letteratura 
e  concessa  a  tutti,  ma  v'e  un'arte  di  conciliarla  col  rispetto  e 
colla  politezza,  e  questa  forma  una  teoria  importante  dello  stile 
e  della  societa,  ne  sembra  che  Tab.  Velo  la  possedesse  abbastanza. 
Usci  poi  al  pubblico  nel  1791  in  Torino  1'opera  in  due  volumi 
del  conte  Gian- Francesco  Galeani  Napione  Dei  pregi  della  lingua 
italiana.  Benche  le  opinioni  di  questo  dotto  scrittore  convengano 
esattamente  in  vari  punti  essenziali  con  quelle  dell'ab.  Cesarotti, 
pur  egli  mostro  di  non  awedersene,  ne  si  euro  di  farne  menzione: 
bensi  si  arresto  di  proposito  in  un  capo  intero  del  suo  libro1  a 
confutar  un  periodo  del  Saggio  sulla  lingua,  contenente  alcune 
proposizioni  preliminari,  senza  por  mente  alle  tante  spiegazioni 
delle  medesime  che  ne  rischiarano  il  senso.  Vari  altri  cenni  di 
censura,  anzi  di  rimprovero,  sono  sparsi  nel  decorso  dell1  opera, 
ma  separatamente  nella  lettera  del  conte  Napione  che  si  trova 
nel  secondo  volume,  diretta  alPab.  Bettinelli,  il  quale  gli  avea 
spedito  il  libro  dell'ab.  Garducci-Velo  a  lui  dedicate.  II  critico 
torinese  fa  molti  applausi  al  zelo  e  al  valore  del  critico  vicentino, 
ed  approva  e  convalida  le  opposizioni  fatte  al  Saggio  del  Cesarotti. 
Due  sono  i  capi  d'accusa  che  il  conte  Napione  crede  di  poter  fare 
all'autore:  i.  di  favorir  il  libertinaggio  della  lingua;  2.  di  esser 
partigiano  appassionato  del  francesismo.  L'ab.  Cesarotti,  rispet- 
tando  il  nome  e  il  carattere  del  conte  Napione,  non  avrebbe  tar- 
dato  a  dargli  risposta,  se  la  di  lui  opera  non  gli  fosse  giunta  alle 
mani  solo  tre  anni  poich'ella  usci.  Ora  che  il  suo  Saggio  si  ripro- 
duce  da  noi  alia  testa  delle  di  lui  opere,  colse  Foccasione  di  ri- 
sponder  al  nuovo  censore  con  una  lettera  che  sara  un  ornamento 
singolare  di  questa  ristampa.  In  essa  pero  egli  non  fa  che  difen- 
dersi  dalle  due  imputazioni  sovraccennate,  senza  curarsi  di  soste- 

i.  in  un  capo  .  .  .  libro:  e  il  §  i  del  cap.  n  del  lib.  n  delT opera  Dell'uso  e  dei 
pregi  della  lingua  italiana,  riprodotto  anche  nel  presente  volume. 


MELCHIORRE    CESAROTTI 

ner  le  sue  asserzioni  particolari;  pretendendo  d'averle  gia  espo- 
ste  e  specificate  per  modo  che  un  uomo  illuminate,  qual  era  il 
conte  Napione,  non  potesse  prendervi  abbaglio.  Voile  percio  che 
il  Saggio  fosse  ristampato  appunto  come  stava,  senza  cangiarvi 
ne  aggiungervi  una  parola.  Ma  per  accertar  pienamente  il  senso 
delle  sue  espressioni  e  prevenir  Fimpressione  che  potrebbero  fare 
su  i  piu  deboli  le  sinistre  interpretazioni,  risolse  di  unire  al  Saggio 
due  Rischiar amenti^  coi  quali,  conversando  coj  suoi  lettori  e  illu- 
strando  vari  luoghi  del  testo,  mostra  Finsussistenza  delle  opposi- 
zioni  dei  critici  e  le  ribatte  con  forza  e  vivacita. 

Dopo  questa  esposizione  non  ci  resta  che  a  por  qui  sotto  i 
luoghi  principal!  dell' opera  del  conte  Napione,  ai  quali  Tab.  Ce- 
sarotti  ora  allude  ed  ora  risponde,  tanto  nei  Rischiaramenti  che 
nella  Lettera. 

Nap[ione],  t.  i,  lib.  2,  p.  130.  «Ma  siccome  v'ha  chi  teme  che  le 
nuove  filosofiche  dottrine  di  questo  valoroso  poeta  non  siano  per  re- 
care  egual  giovamento  e  lustro  alia  prosa  italiana,  come  nuovi  spiriti 
e  vigore  infuse  nella  poesia  la  famosa  sua  traduzione  di  Os- 
sian  . .  *  »J 

p.  131.  «Tali  sono  i  dogmi  di  generate  tollerantismo  nelle 
cose  di  lingua  professati  dalTab.  Cesarotti;  tollerantismo  che  v'ha 
chi  crede  non  possa  riuscir  meno  fatale  alle  lettere  ed  al  carattere 
nazionale  di  quello  che  a'  buoni  costumi  il  tollerantismo  religioso; 
e  che  nel  resto  nulla  possa  produrre  di  buono,  ma  soltanto  in- 
trodurre  e  spargere  ogni  volta  piu,  sotto  il  pretesto  di  vantare  una 
maniera  di  pensare  spregiudicata,  la  disistima  della  lingua  propria 
ch'e  Timpronta  piu  viva  e  piu  palpabile  del  carattere  nazionale, 
ed  una  fredda  e  filosofica  indifTerenza  per  tutte.» 

ivi.  «  Che  se  egli  pretende  che  questi  pregi  debbano  esser  vinti 
da  altri,  e  queste  bellezze  particolari  n'escludano  altre  non  men 
lodevoli,  diremo  noi  non  sapere  come  possa  aver  egli  fatto,  quasi 
colla  bilancia  alia  mano,  esattamente  questo  confronto  di  tutti 
gridiomi,  e  come  dimostrar  possa  di  averli  trovati,  ragguagliata 
ogni  cosa,  tutti  appuntino  dello  stesso  e  medesimo  peso. » 

p.  134.  aE  non  dovra  egli  temere  che  da  certi  antichi  rigidi 
italiani  non  si  voglia  rawisare  questa  sua  soverchia  condiscen- 
denza  (rapporto  alTarmonia  delle  lingue)  come  nata  dal  pregiudi- 

i.  Questa  e  le  seguenti  citazioni  sono  tratte  dall'edizione  1791  del  trattato. 


SAGGIO    SULLA   FILOSOFIA   DELLE   LINGUE  433 

zio  pur  troppo  comune  di  affettar  i  costumi  e  di  adular  le  nazioni 
straniere;  e  non  come  proveniente  da  quella  gentilezza  e  cortesia 
connaturale  alle  anime  generose,  e  percio  propria  del  sig.  abate, 
di  voler  piuttosto  cedere  di  quello  che  ci  appartiene  che  usurpar 
Paltrui  ?  » 

p.  135,  annot.  «Non  pochi  italiani  resteranno  meravigliati  dal 
mostrar  che  fa  Tab.  Cesarotti  di  riguardar  come  inseparabili  in 
Italia  il  genio  filosofico,  la  coltura  delle  scienze  ed  il  francesi- 
smo  .  .  .  Non  concede  egli  che  Firenze  merita  d'esser  chiamata  per 
doppio  titolo  PAtene  d'ltalia? ...  I  nostri  politici,  i  nostri  filosofi, 
i  nostri  uomini  grandi  non  seppero  scrivere  senza  Paiuto  di  libri 
francesi  ? » 

T.  II,  p.  86.  «  Ma  i  Toscani  pur  troppo  non  sono  i  soli  in  Italia 
che,  scosso  ed  infranto  il  pesante  giogo  della  Crusca,  aspirino 
ad  una  liberta  che  degenera  in  Kcenza.  A  che  mai  tanto  si  vanta 
e  replicatamente  dal  celebre  ab.  Cesarotti  in  un  libro  diretto  per 
perfezionare  la  lingua  italiana,  la  lingua  e  la  filosofia,  il  genio  e  la 
galanteria  francese?  Non  si  vuol  essere,  e  vero,  piagnone  della 
Crusca  estinta,  ma  nemmeno  frivolo  damerino  francese  in  Italia. » 

ivi.  « I  gallicism!  sfuggiti  dalla  penna  dei  nostri  buoni  antichi  del 
Trecento  non  danno  diritto  ad  introdurne  di  nuovi  per  solo  vezzo, 
a  levar  via  ogni  freno  salutare  e  a  render  barbara  affatto  la  lingua. » 

p.  87.  «Tanto  non  mi  diffonderei  se  dal  modo  in  cui  e  detta- 
to  quel  per  altro  ingegnoso  ed  in  molte  parti  eziandio  giudizio- 
so  libro  dell'ab.  Cesarotti,  non  mi  sembrasse  di  poter  argomentare 
che  dalPabbagliante  liscio  oltramontano  alcun  poco  siasi  lasciato 
sedurre  quel  nostro  valoroso  poeta;  e  se  gia  stato  non  vi  fosse 
chi  awerti  aver  egli  alquanto  abusato  della  massima  sua,  e  cio 
non  solo  in  prosa,  ma  eziandio  nella  stessa  famosa  traduzione  di 
Ossian ...» 

Risposta  airdb.  Bettinelli,  p.  291.  «Io  non  le  so  dire  con  quanta 
compiacenza  abbia  letto  questo  ragionamento  del  sig.  ab.  Velo  .  .  . 
Piacquemi  pur  assai  che  da  coteste  provincie  sia  uscito  il  pro- 
pugnatore  delle  prerogative  di  nostra  lingua  e  della  veneranda 
autorita  dei  nostri  antichi  scrittori.  Che  non  pochi  scrittori,  che 
il  volgo  letterario  d'ltalia  scrivano  ne  da  Italiani  ne  italiana- 
mente,  e  male  antico  pur  troppo:  ma  che  un  letterato  di  grido 
prenda  sistematicamente  a  giustificarli  e  danno  grandissimo  in 
vero  e  nuovo;  ed  ognuno  affrettar  si  dee  a  correre  al  riparo,  a 

28 


434  MELCHIORRE   CESAROTTI 

prowedere  alia  salvezza  della  repubblica  letteraria  periclitante, 
tanto  piu  che  gia  si  scorge  che  fanno  progresso  queste  nuove 
dottrine. » 

p.  307.  «Ad  ogni  modo  chi  considerera  questo  sistema  del  Be- 
celli  (il  quale  volea  che  il  Trecento  fosse  il  secol  d'oro  della  lingua) 
non  sapra  darsi  pace  che  nella  contrada  medesima  e  nello  stesso 
secolo  un  altro  letterato  di  grido,  quale  si  e  Tab.  Cesarotti,  pretenda 
essersi  tenuta  la  lingua  sinora  in  fasce,  onde  abbisogni,  spez- 
zati  i  lacci  della  Crusca  e  d'ogni  autorita  d'antichi  scrittori,  d'invigo- 
rirsi,  prender  energia  e  spiegar  le  ali  a  piu  animosi  voli,  mediante 
lo  studio  delle  lingue  oltramontane  e  della  oltramontana  filosofia; 
pregiudicio  nazionale  e  vanita  pedantesca  chiamando  la  pretesa 
sua  superioritiL  » 

ivi.  «Molti  italiani  a'  giorni  nostri,  tacciando  di  fanatici  pane- 
giristi  e  di  adulatori  della  propria  nazione  quelli  che  lodano  le 
cose  italiane,  le  vilipendono  ingiustamente  per  acquistarsi  ripu- 
tazione  presso  gli  stranieri,  secondo  le  massime  del  moderno 
egoismo,  a  costo  della  riputazione  della  patria  stessa. » 

Se  ne  omettono  parecchi  altri,  perche  vengono  citati  co'  propri 
termini  nei  Rischiaramenti. 


RISCHIARAMENTI  APOLOGETICI1 

I 
SOPRA  ALCUNE  TEORIE  PRELIMINARI 

lo  aveva  detto  nella  nota  a2"  (parte  i)  che  «  per  chi  puo  intendere 
spero  di  dir  quanto  basta»:  ma  veggo  che  il  numero  di  quei  che 
intendono  e  alquanto  rninore  di  quel  ch'io  credeva,  e  che  inoltre 
c'e  piu  d'uno  che  non  vuole  intendere.  Dir6  qualche  cosa  di  piu 
per  chi  vuole  intendere  sinceramente,  ma  si  lascia  sopraffare 
da  chi  non  puo  e  parla  come  se  potesse,  e  da  chi  mostra  di  volere 
e  non  vuole. 

i.  «Niuna  lingua  originariamente  non  e  ne  elegante  ne  bar- 
bara»  (Saggio,  P.  i,  [art.  i],  §  i).  Non  elegante  perche  tutte  son 
barbare  nella  barbaric  natural  della  societa;  non  barbara  perche 

i.  Ricordiamo  che  anche  questi  Rischiaramenti  compaiono  nell'edizione  pi- 
sana  del  Saggio.     2.  nota  a:  e  la  nota  i  a  p.  307. 


SAGGIO   SULLA   FILOSOFIA  DELLE   LINGUE  435 

questo  termine  non  ha  luogo  ove  non  e  il  contrapposto  delTele- 
ganza.  Fu  detto  che  «in  alcune  possono  sin  da  principle  rawi- 
sarsi  i  segni  della  futura  grandezza»:  cio  si  riferisce  alle  due  lin- 
gue  classiche :  ma  ho  pena  a  credere  che  la  lingua  di  Romolo  pre- 
sagisse  quella  d'Augusto;  o  che  quando  i  Greci,  al  dir  di  Tucidide, 
vivevano  come  i  bruti,  pascendosi  di  radici  d'alberi,  ululassero  i  lo- 
ro  amori  colla  musica  d'Anacreonte. 

2.  «  Niuna  non  e  pienamente  e  assolutamente  superiore  ad  un'al- 
tra. »  lo  supponeva  che  questi  due  awerbi  specificassero  abbastanza 
il  mio  sentimento.  Si  voile  supporre  ch'io  negassi  qualunque  su- 
periorita  all'una  sull'altra  lingua,  e  siccome  in  piu  d'un  luogo  io 
mi  spiego  diversamente,  cosi  si  conchiude  ch'io  cado  in  contra- 
dizione  manifesta.  Io  avrei  creduto  che  in  forza  di  buona  logica 
e  di  buon  senso  si  dovesse  piuttosto  conchiudere  cio  ch'era  ma 
nifesto,  ch'io  riconosco  bensi  in  tutte  qualche  vantaggio  reci- 
proco,  ma  niego  ad  ognuna  di  esse  la  superiorita  assoluta,  vale  a 
dir  totale,  esclusiva,  incommensurabile  in  ogni  parte  ed  in  ogni 
grado.  Basterebbe  a  farmi  ragione  Tesempio  stesso,  recato  dai 
critici,  della  lingua  greca  e  latina.  La  greca,  dicesi,  e  la  piu  dolce, 
la  latina  la  piu  maestosa  delle  lingue.  Dunque,  rispondo,  la  greca 
e  meno  maestosa,  e  la  latina  men  dolce.  «La  lingua  francese» 
dice  mal  suo  grado  il  con.  Napione  «  e  pregevole  sopra  ogn'altra 
per  le  opere  di  stile  leggiadro,  disinvolto  e  di  buona  societa». 
Dunque  1'italiana  cede  alia  francese  per  questo  capo.  «  Ma  la  no- 
stra»  soggiunge  «ha  tanti  pregi  che  compensano  largamente  que 
sto  difetto)).1  Dunque  le  lingue  si  cedono  e  si  vincono  recipro- 
camente;  dunque  vi  sono  per  tutte  i  suoi  compensi:  e  questi 
compensi  possono  essere  o  in  una  qualita  eminente  o  in  un  maggior 
numero  di  qualita  o  in  una  certa  proporzione  che  formi  un  tutto 
aggiustato  ed  armonico.  Ma  i  compensi  in  tutte  non  sono  uguali. 
E  quando  ho  io  detto  che  lo  siano?  E  se  pur  io  1'avessi  detto, 
non  sarebbe  un'indiscrezione  assurda  1'esigere  ch'io  mostrassi  ri- 
gorosamente  esserci  in  questi  compensi  una  parita  geometrica? 
Non  basta  ch'ella  vi  si  trovi  a  un  di  presso?  specialmente  negli 
effetti  che  ne  risultano,  da  cui  soli  il  senso  universale  misura  i 
pregi  e  la  perfezion  delle  lingue?  Ed  e  poi  facil  cosa  il  bilanciare 


i.  Cfr.  DelVuso  e  dei  pregi  della  lingua  italiana,  lib.  11,  cap.  n,  §  7  e  8  (ed 
cat.,  i,  pp.  170  e  178). 


436  MELCHIORRE    CESAROTTI 

esattamente  cotesta  superiorita  dei  compensi?  L'amor  proprio, 
la  prevenzione,  Tabitudine  non  avranno  un' influenza  insensi- 
bile  nei  nostri  giudizi?  II  celebre  ab.  Denina  mostra  d'averne 
qualche  dubbio.  «Le  comparazioni »  dic'egli  «sono  per  Pordi- 
nario  difettose,  e  quella  delle  lingue  non  puo  essere  die  parziale»/ 
In  conseguenza  di  questo  dubbio  lo  stesso  letterato,  dopo  molti 
esami  su  varie  lingue,  conchiude  che  «  sarebbe  difficile  a  giudicare 
quale  tra  le  cinque  o  sei  lingue  che  si  scrivono  o  si  parlano  oggi 
in  Europa  abbia  una  superiorita  assoluta  e  intrinseca  in  paragone 
deH'altre».2  I  miei  awersari  sono  piu  decisivi  e  sicuri.  lo  non  mi 
pento  della  mia  ritenutezza,  e  credo  di  poter  confermare  che  «le 
differenze  tra  queste  lingue  rivali  non  sono  molto  sensibili  nel  loro 
effetto»:  ne  mi  rimovero  da  questa  opinione  se  non  mi  si  dimostra 
nelle  forme  che  la  diversita  della  lingua  rende  in  tutto  altamente 
e  sensibilmente  superiori 

Demostene  a  Bossuet  e  Rousseau; 

Cicerone  a  Massillon,3  Segneri; 

Polibio  a  Machiavello  e  al  card,  di  Retz;4 

Tucidide  a  Bentivoglio,  Robertson  e  Gibbon;5 

Guicciardini  a  Hume;6 

Quinto  Curzio  a  Gaillard;7 

Senofonte  a  Fenelon; 

Luciano  a  Voltaire  e  Swift; 

Platone  a  Shaftesbury  e  Speroni;8 

Teofrasto  a  La  Bruyere; 


i.  Cfr.  Sur  le  caractere  des  langues  et  particulierement  des  modernes,  nei 
«Nouveaux  m6moires  de  F  Academic  royale  des  Sciences  et  Belles-lettres », 
Berlin  1785,  p.  483.  2.  Cfr.  Sur  le  caractere  ecc.,  cit.,  p.  508.  3.  Jean- 
Baptiste  Massillon  (1663-1742),  celebre  oratore  religioso  francese.  4.  II 
card,  di  Retz  (cfr.  la  nota  a  p.  345)  e  qui  citato  per  le  osservazioni  politiche 
contenute  nei  suoi  Memoir es.  5 .  Guido  Bentivoglio  ( 1 579- 1 644)  e  ricordato 
per  la  'Storia  della  guerra  di  Fiandra\  William  Robertson  (1721-1793)  e 
Edward  Gibbon  (1737-1794)  sono  fra  i  piu  tipici  rappresentanti  della  sto- 
riografia  iUuministica  inglese  ed  europea.  6.  Anche  lo  Hume  e  qui  citato 
per  la  sua  attivita  storiografica  e  soprattutto  per  la  sua  History  of  Great 
Britain  (1754-1761).  7.  Gabriel-Henri  Gaillard  (1726-1806),  storiografo 
francese :  forse  qui  il  Cesarotti  pensa  soprattutto  alia  sua  Histoire  de  Char 
lemagne,  1* opera  che  si  puo  piu  facilmente  opporre  alia  Storia  di  Alessandro 
Magno  di  Curzio  Rufo.  8.  Assai  note  vole  la  menzione  di  un  filosofo  come 
lo  Shaftesbury  di  fronte  a  Platone ;  mentre  piuttosto  strano  figura  il  nome 
delTanstotelico  padovano  Sperone  Speroni  (1500-1588),  ricordato  forse 
per  carita  patria. 


SAGGIO   SULLA   FILOSOFIA  DELLE   LINGUE  437 

Seneca  a  Montaigne,  Charron,  Nicole1  e  La  Rochefoucault; 

Terenzio  a  Moliere  e  Goldoni; 

Fedro  a  La  Fontaine; 

Achille  Tazio  a  Richardson,  Wieland  e  Fielding;2 

Petronio  a  Crebillon  e  Marmontel;3 

Plinio  a  Buffon,  Bonnet  e  Bailly;4 

Omero  e  Virgilio  a  Tasso,  Milton,  Klopstock  e  Ossian; 

Esiodo  a  Thompson  e  Saint  Lambert;5 

Orazio  moralista  a  Pope  ed  Haller;6 

Teocrito  a  Gessner; 

Ovidio  alTAriosto  e  a  Fontenelle;7 

Anacreonte  e  Tirteo  a  Gleim;8 

Eschilo,  Sofocle,  Euripide  a  Cornelio,  Racine,  Voltaire,  Alfie- 

ri;  ecc.  ecc. 

Attendero  la  dimostrazione  senza  fretta,  e  intanto  godro  1'usura 
del  mio  pregiudizio. 

3.  «Tutte  si  prestano  ad  un'armonia  imitativa.»  Mi  si  domanda 
«con  qual  fondamento  io  asserisca  che  gli  altri  linguaggi  siano 
capaci  d'armonia  imitativa  al  paro  del  nostro».9  Domando  io  al- 

i.  II  trattato  di  Pierre  Charron  (1541-1603),  De  la  sagesse,  era  stato  uno  del 
libri  piu  cari  al  Cesarotti  giovane  (vedi  la  Nota  introduttiva) ;  Pierre  Ni 
cole  (1628-1695),  armco  e  collaborator  di  Pascal,  sara  qui  citato  per  i  suoi 
Essais  de  morale.  2.  Achille  Tazio  (V  secolo  d.  C.)  e  autore  della  Storia  di 
Leucippe  e  Clitqfonte.  A  lui  sono  opposti  tre  fra  i  piu  famosi  romanzieri  del 
Settecento:  gli  inglesi  Samuel  Richardson  (1689-1761),  autore  di  Pamela,  di 
Clarissa  e  della  History  of  Sir  Charles  Grandisony  e  Henry  Fielding  (1707- 
1754),  autore  fra  1'altro  di  Tom  Jones  e  di  Amelia-,  e  il  tedesco  Martin  Wie 
land  (1733-1813),  i  cui  piu  famosi  romanzi  sono  Musarion,  Don  Sylvio  von 
Rosalva  e  Die  Abderiten.  3.  Claude  Prosper  de  Crebillon  (1707-1777),  figlio 
del  tragediografo,  scrisse  dei  Conies  dialogues  di  gusto  esotico  e  licenzioso ; 
il  Marmontel,  scrittore  caro  al  Cesarotti  anche  per  i  suoi  scritti  di  esteti- 
ca,  e  qui  ricordato  per  i  Contes  moraux,  assai  letti  anche  in  Italia,  e  per  i 
romanzi  Belisaire  e  Les  Incas.  4.  Charles  Bonnet  (1720-1793),  natura- 
lista  e  psicologo  svizzero;  Jean  Sylvain  Bailly  (1720-1793),  francese,  astro- 
nomo  e  storico  deirastronomia.  5.  James  Thomson  (1700-1748)  e  ricordato 
per  il  poema  didascalico  The  Seasons;  Jean-Fran?ois  de  Saint  Lambert 
(1716-1803),  che  fu  anche  collaboratore  dell1 *  Encyclopedic,  per  il  poema,  di 
argomento  analogo,  Les  saisons.  6.  Albert  von  Haller  (1708-1777),  autore 
del  poemetto  Die  Alpen,  dove  esalta  i  semplici  e  sani  costumi  dei  montanari 
svizzeri,  contrapponendoli  a  quelli  corrotti  della  citta.  7.  Fontenelle  sara 
qui  ricordato  soprattutto  per  i  suoi  Dialogues  des  morts.  8.  Johann  Lud- 
wig  Gleim  (1719-1803)  e  contrapposto  ad  Anacreonte  per  gH  Scherzhafte 
Lieder  e  a  Tirteo  per  i  Preussische  Kriegslieder,  che  esaltano  Federico  il 
Grande.  9.  Cfr.  CJaleani  Napione,  Dell'uso  e  dei  pregi  della  lingua  italiana, 
lib.  n,  cap.  n,  §  i,  ed.  cit.,  i,  p.  134. 


438  MELCHIORRE  CESAROTTI 

rincontro  con  qual  titolo  siasi  aggiunta  alle  mie  parole  quella 
picciola  coda  «al  paro  del  nostro»,  in  cui  sta  il  veleno.  lo  dissi 
unlcamente  «  armonia  imitativa»,  e  questa  pub  trovarsi  in  una  lingua 
benche  meno  armonica  della  nostra;  basta  che  lo  sia  tanto  quanto 
il  comporta  la  sua  struttura  e  il  rapporto  tra  gli  oggetti  e  i  suoni 
della  detta  lingua.  II  Pope  asserisce  francamente  che  niuna  lingua 
dopo  la  greca  ha  un'armonia  tanto  imitativa  quanto  1'inglese. 
Niun  di  noi  e  obbligato  a  credergli;  ma  e  certo  che  i  critici  d'ogni 
nazione  riconoscono  nei  lor  poeti  e  prosatori  piu  celebri  i  diversi 
gradi  di  questo  merito.  Non  e  pero  cosa  ne  tanto  agevole  ne  molto 
sicura  1'assumersi  di  giudicare  dell'armonia  d'una  lingua  stra- 
niera.  V'e  un'arte  di  ben  pronunziare  e  un'altra  di  ben  intendere, 
e  dopo  esser  ben  certo  che  1'espression  vocale  del  parlante  e  la  piu 
esatta,  distinta  e  piacevole,  converrebbe  esserlo  altrettanto  che 
Porecchio  delTascoltante  e  con  essa  nella  miglior  proporzione,  e 
atto  a  risponder  prontamente  e  senza  sforzo  alia  varieta  dei  colpi 
vocali.  Men  sicuri  sono  i  giudizi  a  priori  fondati  sopra  argomenti 
esterni.  Quello  del  clima  a  cagion  d'esempio  e  alquanto  men  solido 
di  quel  che  puo  sembrar  a  prima  vista.  Si  crede  comunemente 
che  le  lingue  de'  paesi  freddi  debbano  esser  piu  aspre:  pure  la 
svedese,  per  attestato  dell'ab.  Denina,  e  piu  dolce  della  tedesca, 
e  lo  e  di  piu  nella  parte  settentrionale  che  nelle  altre.  La  polacca, 
aggiunge  il  medesimo,  e  piacevolissima  ad  udirsi,  e  la  russa  si 
accosta  piu  d'ogn'altra  alia  soavita  della  greca:1  pure  la  Svezia,  la 
Polonia  e  la  Russia  sono  i  paesi  piu  freddi  d'Europa.  Che  piu? 
fino  le  lingue  del  popoli  piu  barbari  non  sono  disarmoniche 
quant' altri  pensa.  Quella  degH  Uroni,2  se  crediamo  al  baron  La 
Hontanc,3  si  distingue  per  la  bellezza  del  suono.  Ma  lasciando  stare 
gPidiomi  selvaggi,  fra  le  nostre  lingue  sorelle  dal  lato  di  madre, 
la  spagnuola  nella  maestosa  sonorita  de'  suoi  vocaboli  non  avrebbe 
anch'essa  un  titolo  per  aspirare  alia  preminenza?  lo  pero,  guar- 
dando  al  tutto,  credo  assai  volentieri  che  la  superiorita  dell' armo 
nia  sia  il  pregio  piu  incontrastabile  della  nostra,  almeno  sopra  le 
altre  moderne:  ma  tanto  e  tanto  convien  confessare  che  un  tal  pre 
gio  ha  molto  del  relativo,  che  la  sensazione  e  in  parte  modificata 

i.  Cfr.  Denina,  Sur  le  caractere  ecc.,  cit.,  p.  509.  2.  Uroni:  popolazioni 
indigene  dell' America  settentrionale.  3.  Allude  al  Nouveau  voyage  du  ba 
ron  de  La  Hontan  dans  VAmerique  Septentrionale,  L'Aia  1702,  e  Amster 
dam  1705. 


SAGGIO    SULLA   FILOSOFIA   DELLE    LINGUE  439 

dalPabitudine,  e  che  anche  con  qualche  inferiorita  per  questo  capo 
una  lingua  puo  nel  suo  complesso  non  ceder  punto  ad  un'altra. 
Se  alcuno  da  queste  parole  volesse  arguire  ch'io  sono  poco  sen- 
sibile  alle  squisitezze  della  bella  armonia  imitativa,  spero  che  1' Ita 
lia  mi  permettera  di  sorridere. 

4.  «Tutte  hanno  difetti  che  danno  luogo  a  qualche  bellezza, 
bellezze  che  n'escludono  altre  non  men  pregevoli. »  Questa  as- 
serzione  sembro  tanto  vera  airAccademia  di  Berlino,  la  quale 
filosofo  molto  sopra  le  lingue,  che  un  celebre  accademico1  ne 
trasse  un  problema  che  gli  parve  non  facile  a  sciogliersL  Giova 
citar  le  sue  parole.  «Tale  essendo»  dic'egli  «la  debolezza  umana 
che  le  perfezioni  non  si  acquistano  se  non  se  a  spese  Tuna  delPal- 
tra,  io  proporrei  di  trovare  per  una  data  lingua  la  combinazione 
di  qualita  la  piu  felice,  e  da  cui  nel  complesso  risultasse  la  maggior 
perfezione  che  la  natura  d'una  tal  lingua  permettesse  di  ottenere. 
Dovrebbe  per  esempio  determinarsi  come  la  sua  regolarita  si 
concili  colla  ricchezza,  fino  a  quando  convenga  di  sacrificar  Tuna 
alTaltra,  e  in  quali  proporzioni  esse  debbano  bilanciarsi:  lo  stesso 
dicasi  della  forza,  delT armonia,  dell' altre  sue  qualita.  Le  lingue 
morte  e  le  vive  sarebbero  altrettanti  fenomeni  che  dovrebbero  ana- 
lizzarsi  e  paragonarsi  fra  loro».  I  miei  critici  mostrano  d'aver  gia 
sciolto  il  problema  senza  gran  difficolta,  ma  oso  dubitare  se  scri- 
vendo  per  il  concorso  avessero  riportato  il  premio. 

5.  aSicche  cotesta  gara  di  lingue,   coteste  infatuazioni  per  le 
nostrali  o  per  le  antiche  o  per  le  straniere,  sono  pure  vanita  pe- 
dantesche:  la  filosofia  paragona  e  profitta,  il  pregiudizio  esclude 
e  vilipende. »  Qual  e  il  senso  naturale  di  questo  periodo  ?  i.  Che  1'au- 
tore  non  ha  nessuna  prevenzione  eccessiva  ne  per  le  lingue  antiche 
ne  per  le  moderne,  ne  per  le  straniere  ne  per  la  propria.  2.  Ch'egli 
non  condanna  le  preferenze,  poiche  loda  i  paragon!  su  cui  si  fondano 
le  preferenze  medesime.  3.  Che  le  parole  «gare»  e  <c infatuazioni)) 
devono  intendersi  in  senso  composite,  e  non  diviso\  e  che  in  fine 
egli  non  vitupera  qualunque  gara,  ma  le  gare  ostinate,  le  riscaldate, 
le  esclusive,  le  orgogliose,  le  cieche,  quelie  che  produssero  le 

i.  un  celebre  accademico:  non  so  a  chi  il  Cesarotti  voglia  qui  alludere. 
Forse  al  Merian,  direttore  della  classe  di  belle  lettere  dell'Accademia 
di  Berlino,  e  amico  e  corrispondente  del  Cesarotti  stesso,  e  su.  cui  cfr.  la 
nota  2  a  p.  466.  II  concetto  esposto  nella  citazione  e  pero  gia  accennato 
sommariamente  dal  Condillac,  ndREssai  sur  I9 origins  des  connaissances  hu~ 
maims,  u,  i,  xv,  in  Oeuvres  philosophiques,  ed.  cit.,  i,  p.  102. 


440  MELCHIORRE    CESAROTTI 

estasi  fanatiche  del  Dacier1  per  tutti  gli  antichi,  la  nausea  di 
tanti  grecisti  per  tutto  cio  che  non  era  greco,  i  vilipend!  dei  latini- 
sti  alia  lingua  italiana,  il  purismo  persecutore  degPInfarinati,2 
i  panegirici  ridicolamente  trasmodati  della  lingua  francese  e  gl'im- 
properi  detri  alia  nostra  dal  p.  Bouhours,3  le  ingiustizie  fatte  alia 
stessa  dal  Condillac,4  e  le  impertinenze  d'alcuni  nostri  folliculari5 
e  faccendieri  di  letteratura  dette  in  onor  della  nostra  lingua  contro 
la  francese  e  contro  i  piii  celebri  scrittori  di  Francia.  Queste  sono 
le  gare  che  meritano  il  nome  d'infatuazioni,  e  alle  quali  confermo 
il  titolo  di  vanita  pedantesche.  Chi  avrebbe  creduto  che  un  dotto 
critico,  che  uno  scrittor  valoroso,  un  sig.  co.  Napione  dovesse  pren- 
der  tanto  scandalo  di  tutto  il  presente  paragrafo,  e  segnatamente 
di  quest'ultimo  sentimento  sino  ad  accusarmi  d'un  « tollerantismo 
che  mena  alia  disistima  della  nostra  lingua  »  (il  che  equivale  secondo 
lui  al  rinnegamento  della  patria),  «a  una  fredda  indifferenza  per 
tutte»,  e  che  infine  «puo  riuscir  non  meno  fatale  alle  lettere  ed  al 
carattere  nazionale  di  quello  che  ai  buoni  costumi  il  tollerantismo 
religioso?»  lo  credeva  («Vedi  il  giudizio  uman  come  spesso  er- 

i.  Sui  coniugi  Dacier  cfr.  la  nota  a  p.  71.  2.  Infarinati:  col  nome  che  ave- 
va  nella  Crusca  il  Salviati  designa,  come  altre  volte,  i  puristi  fanatici.  3.  II 
gesuita  cartesiano  Dominique  Bouhours  (1628-1702),  iniziatore,  con  la  Ma- 
mere  de  bien  penser  sur  les  ouvrages  de  V esprit,  della  famosa  polemica  che 
prende  nome  da  lui  e  dall'Orsi.  Ma  qui  il  Cesarotti  allude  al  secondo  degli 
Entretiens  d'Ariste  et  d'Eugene,  intitolato  De  la  langue  francaise,  e  che  con- 
tiene  una  serie  di  critiche  alia  lingua  italiana,  alle  quali  rispose  il  Muratori 
nella  Perfetta  poesia  italiana,  lib.  in,  cap.  ix,  Modena,  Soliani,  1706,  n, 
pp.  127-45.  4'  ingiustizie .  .  .  Condillac:  allude  a  un  passo  del  Cours  dye- 
tudes,  vi,  xx,  I  (cfr.  Oeuvres  philosophiqu.es,  ed.  cit.,  II,  1948,  p.  175),  che 
riporto  integralmente  poiche  spesso  ricordato  nelle  polemiche  settecente- 
sche  sulla  lingua  italiana:  «Je  crains  que  la  confiance  d'ecrire  si  bien  en 
latin  dans  le  seizieme  siecle,  n'ait  nui  a  la  langue  italienne  qui  se  cultivoit 
alors,  et  que  1'usage  ou  etoient  les  latinistes  d'ecrire  sans  trop  choisir  les 
tours,  n'ait  accoutume  les  Italiens  a  n'etre  pas  assez  difficiles.  Quoique  la 
beaute  du  style  exige,  pour  employer  toujours  le  terme  propre,  qu'on 
demele  jusqu'aux  nuances  qui  distinguent  deux  mots;  il  paroit  qu'a  cet 
egard  ils  ne  sont  pas  fort  scrupuleux,  et  que  leurs  meilleurs  ecrivains  ne  sont 
pas  a  1'abri  de  tout  reproche.  On  peut  encore  remarquer  que  s'etant  ac- 
coutumes  dans  les  commencemens  a  imiter  les  tours  de  la  langue  latine, 
ils  n'ont  plus  su  ecrire  qu'en  imitant  cette  langue  ou  quelque  autre,  et  c'est 
le  francais  qu'ils  imitent  aujourd'hui.  Aussi  leur  langue  est  elle  tres-pro- 
pre  a  contre-faire  toutes  les  autres ;  mais  elle  n'a  point  de  caractere  decide, 
et  n'en  aura  vraisemblablement  jamais  ».  Alia  confutazione  di  questa  tesi 
dedica  un  apposito  capitolo  del  suo  trattato  (lib.  n,  capo  IV,  §  4)  il  Galeani 
Napione,  capitolo  riportato  anche  nel  presente  volume.  $.folliculari\  adat- 
tamento  del  francese  folliculaire,  creato  dal  Voltaire  (cfr.  Candide,  xxi),  per 
indicare  un  « faiseur  de  feuilles »,  un  giornalista  da  strapazzo. 


SAGGIO   SULLA   FILOSOFIA  DELLE   LINGUE  44! 

rab)1  che  si  potesse  amar  la  patria,  anche  senza  far  Fapoteosi 
della  sua  lingua;  che  il  tollerantismo  di  questo  genere,  in  luogo  del- 
rindifferenza  per  tutte  le  lingue,  dovesse  produrre  una  stima  ge- 
nerale,  una  giustizia  equabile  e  una  giudiziosa  concordia;  e  non 
avrei  mai  pensato  che  I'intolleranza  in  letteratura  fosse  una  virtu. 
Veramente  un'Inquisizione  per  la  lingua  sarebbe  un  istituto  nuovo 
e  curioso.  Comunque  sia,  ho  detto  quel  ch'io  penso;  se  il  sig. 
co.  Napione  vuol  protegger  le  infatuazioni,  sel  faccia  in  pace; 
ma  se  mai  si  stabilisce  il  suo  SanfUfizio,  Dio  mi  guardi  dai  trasporti 
della  sua  divozione. 

6.  ccNiuna  lingua  e  pura»  ecc.  (P.  i,  [art.  i],  §  2).  Non  bisogna 
confonder  la  teoria  di  speculazione  colla  dottrina  di  pratica: 
quella  considera  la  cosa  in  se  stessa,  e  la  enunzia  nella  sua  ge- 
neralita;  questa  modifica  la  teoria  secondo  i  rapporti  estrinseci,  e 
la  proporzione  e  suggerita  dal  gusto.  Similmente  non  deesi  scam- 
biare  una  proposizione  negativa  colla  positiva  contraria,  ne  darle 
maggior  forza  ed  estensione  di  senso  di  quel  che  comporta  la 
negazione  medesima.  Se  qualche  censore  avesse  avuto  present! 
questi  due  canoni  di  buona  critica,  non  avrebbe  tosto  preso  fuoco 
al  solo  pronunziarsi  d'alcune  teorie  speculative  esposte  astratta- 
mente,  malgrado  i  cenni  abbastanza  espressi  di  quelle  modifica- 
zioni  il  di  cui  pieno  sviluppo  era  riserbato  all'altre  parti  dell'opera. 
Chi  nega  una  proposizione  assoluta,  non  ha  che  a  produrre 
un  solo  caso  in  cui  possa  aver  luogo  Popposta.  Chi  dice  che  gPi- 
diomi  non  sono  tra  loro  insociabili,  espone  un  fatto,  ne  pero  af- 
ferma  che  ogni  idioma  debba  associarsi  cogli  altri,  ma  che  lo  puo ; 
ne  che  lo  puo  sempre  ne  in  tutto  n6  a  caso  ne  a  capriccio,  ma 
talora  e  in  qualche  parte  e  ove  la  ragione  il  consigli:  chi  condanna 
il  trasmodato  ribrezzo  per  ogni  ombra  di  peregrinita,  non  biasima 
la  verecondia,  ma  la  superstizion  della  lingua,  o  a  meglio  dir  dei 
grammatici.  Merita  ogni  rimprovero  la  leggerezza  degli  Ateniesi  che 
fecero  lor  cittadino  un  cuoco  asiatico  per Tinvenzion d'una  salsa:  ma 
niuna  repubblica  virtuosa,  niun  principe  saggio  crede  mai  d'imba- 
stardire  o  di  degradar  la  sua  nazione,  ammettendo  alia  cittadinanza 
o  per  bisogno  o  per  premio  qualche  straniero  di  merito.  Del  re- 
sto,  e  qui  e  in  altri  luoghi,  Pautore  si  e  difFuso  alquanto  su  cotesta 
santissima  e  inviolabile  purita,  perche  s'impari  a  parlarne  con  piu 

i.  Cita  a  memoria  un  verso  dell'Ariosto,  Orl.fur.,  i,  7:  «ecco  il  giudicio 
unian  come  spesso  erral ». 


442  MELCHIORRE   CESAROTTI 

esattezza  d'idee,  e  perche  non  si  creda,  come  vorrebbero  far  cre 
dere  i  puristi,  ch'ella  sia  il  massimo  pregio,  per  non  dir  Punico, 
della  lingua,  e  che  basti  da  se  sola  a  conciliar  autorita  e  riverenza 
a  uno  stile  vuoto  d'idee,  freddo,  esangue,  senza  colore  e  purissimo 
d'ogni  infezione  di  spirito. 

7.  «Non  v'e  popolo  che  creda  di  cedere  agli  altri  in  fatto  di 
lingua))  (P.  i,  [art.  i],  §  2,  nota  b).1  Mi  fu  opposto  che  molti  dotti 
confessano  Pinferiorita  e  i  difetti  della  loro  lingua,  e  qui  si  rac- 
colse  una  folia  di  testimoni  d'autori  francesi  anche  d'alta  sfera,  co 
me  Fenelon,  Voltaire,  Delisle,2  non  che  Dacier,  Boutrier,3  Sana- 
don,4  Dubos,  i  quali  fanno  pressoche  la  satira  della  loro  lingua, 
ne  vanno  specificando  le  imperfezioni,  la  chiamano  povera,  imba- 
razzata,  antimusicale,  antipittorica,  schizzinnosa,  fredda,  monoto- 
na,  alcuni  anche  inferiore  alPitaliana,  non  che  alia  latina  e  alia 
greca.  S'io  mi  fossi  un  partigiano  appassionato  della  lingua  fran- 
cese,  come  vengo  gratuitamente  supposto,  mi  sarebbe  facile  Pin- 
debolir  di  molto  P  autorita  di  tutti  questi  testimoni,  e  dar  anche 
1'eccezione  a  piu  d'uno.  Potrei  osservare  che  Pautorita  degli 
eruditi  di  professione,  quali  erano  i  Dacier  ed  alcuni  altri,  e  di 
poco  peso  essendo  gia  note  le  loro  prevenzioni  scolastiche ;  che  i  tra- 
duttori,  come  Delisle,  sono  costretti  dal  loro  proprio  interesse  a 
magnificar  la  lingua  dei  loro  original!  e  umiliare  la  propria,  per 
che  in  tal  guisa  procacciano  o  scusa  all'imperfezione  o  gloria  al 
successo ;  che  i  grandi  autori  preferiscono  la  loro  lingua  alle  altre,  e 
se  stessi  alia  propria  lingua;  e  che  sogliono  apprezzarla  alternativa- 
mente  un  giorno  piu  e  un  giorno  meno,  secondo  che  la  trovano 
piu  cortese  o  ritrosa  ai  bisogni  del  loro  genio;  che  nulla  e  piu 
comune  quanto  di  veder  un  amante  indispettito  prorompere  in 
rimproveri  colla  sua  bella  senza  cessar  di  adorarla,  e  un  citta- 
dino  far  anche  nello  stesso  giorno  la  satira  e  il  panegirico  della  sua 
patria,  lacerarla  egli  stesso,  e  uscir  a  battersi  per  lei  sol  ch'altri 
la  punga;  che  niuno  si  distinse  per  un  tal  carattere  piu  di  Voltaire, 
niuno  fu  detrattore  piu  acre  della  sua  lingua,  ne  zelatore  piu 


i.  Cfr.  la  nota  i  a  p.  308.  2.  Su  Jacques  Delisle  o  Delille  cfr.  la  nota  4  a 
p.  301.  3.  Boutrier:  poiche  non  esiste  nessun  letterato  di  questo  nome,  e 
probabile,  come  pensa  TOrtolani,  che  il  Cesarotti  intendesse  Jean  Bouhier 
(1673-1746),  giureconsulto  francese  che  si  occupo  anche  di  letteratura  e 
tradusse  varie  opere  di  Cicerone.  4.  Jean  fitienne  Sanadon  (1676-1733), 
noto  soprattutto  per  la  sua  traduzione  e  commento  di  Orazio. 


SAGGIO   SULLA   FILOSOFIA   DELLE    LINGUE  443 

ardente;  e  che  dopo  aver  magnificata  la  lingua  italiana  in  una  sua 
lettera  al  Deodati  canto  poi  collo  stesso  la  palinodia,  facendo  della 
sua  e  della  nostra  un  confronto  poco  meno  sgraziato  che  quello 
del  p.  Bouhours.1  Tutto  cio,  dico,  potrei  allegare,  e  molto  di  piu; 
ma  siccome  una  tal  questione  particolare  non  ha  una  connessione 
necessaria  col  mio  soggetto,  cosi  lascero  che  chi  n'ha  voglia  con- 
fronti  le  accuse  accennate  colla  dissertazione  del  signer  Schwab2 
sulla  universalita  della  lingua  francese,  coronata  dalPAccademia 
di  Berlino,  e  giudichi  della  cosa  come  gli  pare.  lo  piuttosto  mi  re- 
stringero  a  far  alcune  osservazioni,  da  cui  apparira  che  il  mio 
rispettabile  censore  co.  Napione,  raccogliendo  tutte  le  citate  au- 
torita,  venne  a  convalidare  senza  awedersene  le  mie  principal! 
asserzioni. 

Osservo:  i.  Che  se  malgrado  i  vari  meriti  innegabili  della  lingua 
francese,  gli  autori  piu  illustri  di  quella  nazione,  quelli  che  la  resero 
piu  cara  e  apprezzata  in  Europa,  ci  trovano  ancora  tanto  soggetto 
d' accuse,  sembra  naturale  il  conchiudere  che  qualunque  altra,  esami- 
nata  con  severa  analisi  e  senza  parzialita,  darebbe  anch'essa  materia 
da  esercitarsi  alia  critica;  che  ognuna  avra  le  sue  mancanze  ed  im- 
perfezioni;  che  Teccellenza  delle  lingue  non  e  che  relativa;  e  che  il 
pregio  o  il  difetto  di  esse  e  piu  o  meno  sensibile  a  proporzion  del  bi- 
sogno  di  chi  ne  usa,  e  del  rapporto  col  soggetto  che  dee  trattarsi. 
2.  Che  le  mancanze  e  le  imperfezioni  delle  lingue,  inosservabili  al 
maggior  numero,  non  sono  sentite  che  dagli  scrittori  di  genio,  e  piu 
sempre  da  chi  ne  ha  piu.  3.  Che  le  censure  fatte  alia  lingua  fran 
cese  cadono  propriamente  su  i  grammatici  e  non  sulla  lingua, 
come  se  n'esprimono  chiaramente  gli  autori  stessi,  i  quali  la 
vorrebbero  svincolata  dai  loro  ceppi,  il  che  mostra  che  presso  ogni 
nazione  i  grammatici  furono  sempre  i  veri  eunuchi  letterari,  che, 
incapaci  di  fecondar  una  lingua  e  di  ottener  i  di  lei  favori,  fanno 
ogni  prova  per  mantenerla  in  perpetuo  in  una  sterile  schiavitu. 

i .  dopo  .  .  .  Bouhours :  allude  alia  lettera  scritta  dal  Voltaire  il  24  gennaio 
1761  a  Deodati  de*  Tovazzi,  autore  di  una  Dissertation  sur  V excellence  de 
la  langue  italienne  (cfr.  Oeuvres,  ed.  cit.,  xxxvin,  1891,  pp.  171-6).  In  essa 
effettivamente  il  Voltaire,  pur  riconoscendo  le  qualita  della  lingua  italiana, 
fa  soprattutto  rilevare  i  pregi  di  quella  francese.  2.  J.  Cristoph  Schwab 
(1743-1821)  vinse  nel  1784,  alia  pan  con  il  Rivarol,  il  concorso  bandito 
dall'Accademia  di  Berlino  sulle  cause  delPuniversalita  della  lingua  france 
se,  con  una  dissertazione,  di  cui  fu  pubblicato  un  compendio  in  francese  a 
cura  del  Merian  nei «  Nouveaux  memoires  de  TAcadeniie  royale  de  Sciences 
et  Belles  lettres »  di  Berlino,  1785. 


444  MELCHIORRE  CESAROTTI 

4.  Che  se  il  Fenelon  colla  sua  tanto  da  lui  rimproverata  lingua 
riusci  1'autor  del  Telemaco,  se  Voltaire  colla  stessa  ugualmente  e 
piu  da  lui  censurata  seppe  farsi  ammirare  come  il  Proteo  della 
letteratura  nazionale,  e  segno  evidente  che  o  le  lingue  piu  difet- 
tose  hanno  in  se  tali  compensi  che  fanno  scordar  i  difetti,  o  gli 
scrittori  di  genio  hanno  Parte  di  soggiogarli  e  di  trarne  anche  pro- 
fitto  col  farli  servire  a  qualche  virtu.  5.  Osservero  per  ultimo 
che,  poiche  il  Fenelon  consiglia  i  Francesi  ad  arricchire  e  miglio- 
rar  la  sua  lingua;1  poiche  oso  suggerire  in  piena  Accademia  non 
solo  d'inventar  voci  nuove,  ma  insieme  anche  nuove  frasi,  nuovi  e 
non  usati  accozzamenti  di  termini,  e  cio  ad  onta  del  tribunal 
grammaticale  e  accademico  che  avea  gia  proscritta  qualunque  inno- 
vazione,  e  senza  temer  di  passar  per  fautore  del  neologismo;  e 
manifesto  ch'egli  credeva  che  queste  arditezze  fossero  lodevoli, 
non  che  lecite.  Avrebbe  mai  il  castigate,  il  delicatissimo  Fenelon 
voluto  snaturar  Findole  e  guastar  il  genio  della  sua  lingua  ?  Or  a  si 
domanda  modestamente  come  le  opinioni  degne  d'esser  citate  con 
lode  in  bocca  del  Fenelon  quando  sono  applicate  alia  lingua  fran- 
cese,  possano  diventar  bestemmie  quando  sono  pronunziate  da  un 
italiano,  e  applicate  temperatamente  alia  nostra.  lo  non  trovo  che 
una  risposta:  quest' e  che  i  principii  del  Fenelon  erano  sani  e  lode 
voli  trattandosi  della  lingua  francese  che  sotto  Luigi  XIV  era 
meschina,  imperfetta  e  bambola,  come  ognun  sa;  ma  sono  assurdi 
e  pregiudiciali  alia  nostra  ch'e  ormai  giunta  al  colmo  della  sua 
ricchezza,  e  all'ultimo  termine  della  sua  perfettibilita,  che  ha  una 
superiorita  non  parziale  ma  assoluta  su  tutte  le  lingue  d'Europa, 
in  tutti  i  generi,  in  tutti  i  soggetti,  in  tutte  le  maniere  di  stile. 
Finche  non  mi  si  dimostri  ch'ella  e  realmente  tale  non  in  potenza 
ma  in  atto,  io  mi  vedro  in  dovere  di  ringraziar  il  mio  censore 
che  mi  aiuta  cosi  bene  a  sostener  la  mia  causa,  e  supporro  ch'egli 
abbia  voluto  meco  scherzare,  mostrando  di  togliermi  con  una  ma- 
no  cio  che  mi  dona  assai  largamente  colTaltra. 

8.  «La  lingua  scritta  nelTuso  delle  parole  non  dee  nemmeno 
aderir  ciecamente  alTuso  degli  scrittori  approvati,  ne  farsi  una  leg- 
ge  di  non  dipartirsi  dal  loro  esempio»  (P.  I,  art.  iv,  §  4). 

Si  e  voluto  dar  a  queste  parole  un  senso  odioso,  come  s'io  non 

i.  Fenelon  .  .  .  lingua:  allude,  qui  e  nei  period!  seguenti,  alia  Lettre  a  VAca- 
demie,  reflexions  particulieres  sur  la  grammaire,  la  rhetorique,  la  poetique  et 
rhistoire,  pubblicata  postuma  nel  1716. 


SAGGIO   SULLA   FILOSOFIA   DELLE   LINGUE  445 

volessi  che  si  rispettasse  1'autorita  degli  scrittori  piu  illustri.  Ma 
altro  e  far  autorita,  ed  altro  far  legge;  ed  io  non  mi  oppongo  che  a 
questa,  intesa  nel  senso  rigoroso  dei  camarlinghi1  dell'ortografia. 
Potrei  dir  molte  cose,  ma  lascero  che  parli  per  me  un  gran  maestro 
in  ogni  genere  e  in  ogni  maniera  d'eloquenza,  dico  il  celebre  Mar- 
montel.  Poscia  ch'ebbi  pubblicato  il  mio  Saggio,  mi  venne  alle 
mani  la  sua  memoria  sopra  1'uso,2  ed  ebbi  la  compiacenza  d'incon- 
trarmi  con  lui  non  solo  nelle  opinioni,  ma  talora  anche  nelTespres- 
sioni  medesime.  II  seguente  squarcio  spiega  con  precisione  tutte 
le  mie  idee  su  tal  proposito: 

«  Siamo  meno  superstiziosi ;  ma  per  evitar  un  eccesso,  guardiamo- 
ci  d'intoppar  nelF altro;  ricordiamoci  che  1'uso  ha  uguahnente  i 
suoi  diritti  e  i  suoi  limiti. 

Convien  distinguer  nelFuso  le  leggi  positive  dalle  proibitive. 
Rispettiamo  le  prime  quand'anche  fossero  contrarie  alia  ragione, 
dacche  ebbero  la  sanzione  pubblica  e  dalPesempio  e  dal  tempo. 
Ma  tenghiamoci  in  guardia  rispetto  alle  proibitive,  perciocche 
quanto  sarebbe  da  temersi  che  la  liberta  non  fosse  senza  freno, 
altrettanto  sarebbe  pericoloso  che  1*  autorita  fosse  senza  limiti. » 

Le  leggi  positive  restringono  la  liberta,  ma  le  proibitive  la  tol- 
gono  affatto.  L'uso  allora  e  un  tiranno,  i  di  cui  disgusti  si  anmm- 
ziano  colle  proscrizioni. 

«I  grand'uomini  del  secolo  passato  insegnarono  a  pensare  e  a 
parlare.  Fu  prima  Tautor  del  Ginna,  degli  Orazi,  del  PoUeuto,  e 
dopo  lui  La  Rochefoucault,  il  card,  di  Retz,  Pascal,  Bossuet, 
Bourdaloue,  Moliere,  Pelisson,3  Boileau,  Racine;  Fenelon,  La  Bru- 
yere,  che  formarono  lo  spirito,  la  lingua  e  '1  gusto  della  nazione. » 
aQuesti »  aggiunge  «diedero  all'uso  un'  autorita  legittima,  e  alia 
nazione  il  diritto  di  giudicar  della  lingua  scritta.  Ma  questo  diritto 
acquistato  da  una  nazione  coltivata  non  si  estende  sino  ad  inter- 
dire  agli  artefici  della  parola  ogni  specie  d'innovazione,  e  s'egli  ac- 
cadesse  che  il  gusto  diventasse  troppo  minuzioso,  schizzinnoso, 
timido,  e  che  pretendesse  di  marcar  a  suo  grado  i  confini  della 
lingua  scritta,  e  proibire  al  genio  di  oltrepassarli,  io  non  so  creder 


i.  camarlinghi:  custodi  e  amministratori.  2.  memoria  sopra  Vuso:  allude  al 
discorso  De  Vautorite  de  V usage  sur  la  langue,  Paris  1785.  I  passi  citati  pi\i 
avanti  sono  alle  pp.  8-9  e  13-5.  3.  Paul  Pellisson  Fontanier  (1624-1692), 
noto  soprattutto  per  la  sua  Histoire  de  VAcademiefranfaise,  scritta  in  colla- 
borazione  con  il  cT  Olivet. 


446  MELCHIORRE  CESAROTTI 

ch'ei  debba  una  cieca  deferenza  a  proibizioni  di  questa  fatta. 

Un  gusto  delicate  e  timido  si  crede  il  gusto  per  eccellenza 
quand'egli  s'astiene  da  cio  che  puo  dispiacere:  ma  un  gusto  ben 
superiore  sarebbe  quello  che  azzardasse  con  un'arditezza  illiuninata 
cio  che,  dopo  aver  dispiaciuto  per  alcuni  istanti,  e  fatto  per  piacer 
sempre. 

Diro  di  piu,  in  un  pubblico  imbevuto  d'una  sana  letteratura 
non  e  mai  ne  il  maggior  numero  ne  il  fiore  dei  veri  letterati  quel 
che  si  arrischia  di  offendere  con  qualche  innovazione  felice,  ma 
sono  alcuni  uomini  indegni  d'esser  liberi,  i  quali  vorrebbero  che 
tutti  fossero  schiavi  al  par  di  loro.  Egli  e  Scudery  che  vieta  a 
Cornelio  di  dire  .  .  .;*  ed  ecco  il  modello  di  quella  folia  di  critici 
da  cui  fu  assalito  Racine  allora  appunto  ch'egli  portava  la  sua 
Hngua  al  piu  alto  grado  di  gloria.  Quelle  che  oggi  si  ammirano  nel 
suo  stile  come  le  arditezze  d'un  maestro,  gli  furono  rimproverate 
al  suo  tempo  come  falli  d'uno  scolare.  Cosi  Focchio  losco  deH'invi- 
dia  o  Pocchio  torbido  delFignoranza,  esaminando  gli  scritti  dei 
grand  }uo  mini  viventi,  prende  per  scorrezioni  1'eleganze  le  piu  squi- 
site,  ed  e  sempre  Tuso  che  il  pregiudizio  mette  innanzi,  come  se 
Puomo  di  genio  non  avesse  mai  dritto  di  parlar  senza  Fuso,  ne 
innanzi  all'uso. 

O  Subligny,2  tu  pretendevi  di  saper  la  grammatica  meglio  di 
Racineh) 

0  Infarinati,  o  Inferrigni,3  voi  pretendeste  di  saper  gramma 
tica  e  poesia  meglio  del  Tasso!  O  Castelvetro,  tu  pretendevi  di 
sequestrar  in  bocca  al  Caro  tutte  le  voci  che  non  erano  del  Pe- 
trarca! 

O  . .  .,  O  .  . .,  O  .  . .,  o  razza  eterna  dei  Subligny,  tu  sei  pur  pro- 
pagata  in  Italia! 


i.  Scudery  .  .  .  dire:  allude  alle  Observations  sur  le  Cid  di  Georges  Scu 
dery  (1601-1667).  2.  Adrien-Thomas  de  Subligny,  letterato  francese  vis- 
suto  nella  seconda  meta  del  secolo  XVII,  fece  rappresentare  nel  1668  la 
Folle  querelle  ou  la  Critique  d? Andromaque,  parodia  della  tragedia  racinia- 
na.  3.  O  Infarinati^  o  Inferrigni:  cfr.  le  note  2ap.358ezap.4i4;  qui 
si  allude  in  genere  ai  critici  puristi  del  Tasso. 


SAGGIO   SULLA   FILOSOFIA   DELLE   LINGUE  447 

II 
SUL  FRANCESISMO1 

1.  «  Si,  ma  quest!  sono  francesismi.  Ohirne,  lasciamo  per  ora»  ecc, 
(Saggio,  P.  n,  p.  342). 

Ognuno  intende  o  deve  intendere  che  questo  non  e  che  uno 
scherzo.  Le  metafore  tratte  da  oggetti  di  scienza,  le  frasi  allusive 
ad  arti  o  a  scoperte,  non  appartengono  in  proprieta  a  veruna  lin 
gua,  ma  sonc  ricchezze  comuni  all'eloquenza  d'ogni  nazione,  Pu6 
bensi  un  popolo  aver  fatto  uso  di  queste  maniere  o  prima,  o  piii 
spesso,  o  con  piu  successo  degli  altri;  puo  un  altro  popolo  pro- 
fittar  di  questo  esempio  o  col  crearne  altre  di  nuove  e  sue  proprie, 
o  coll'adottar  quelle  stesse  che  furono  di  gia  introdotte  dal  primo, 
senza  che  cio  pregiudichi  punto  all'essenza  della  sua  lingua.  Le 
metafore  e  le  frasi  di  questa  specie  non  sono  dunque  francesismi, 
ma  si  spacciano  per  tali  da  una  classe  d'uomini,  che  intende  di 
proscrivere  con  questo  titolo  mal  definite  ogni  espressione  che 
suscita  la  riflession  coU'irnrnagine,  che  presenta  un'idea  in  un 
nuovo  lume,  che  colpisce  con  qualche  lampo  o  di  dottrina  o  d'in- 
gegno.  Se  i  gufi  s'awisano  mai  di  diventar  letterati,  queste  saran- 
no  probabilmente  le  loro  teorie  rettoriche. 

2.  «Ma  dall' altro  canto »  ecc.  (P.  m,  p.  381).  aQuando  man- 
ca»  risponde  il  conte  Napione  ccalla  lingua  nostra  il  termine  pro- 
prio,  e  che  la  francese  lo  abbia,  non  si  e  mai  avuto  ribrezzo,  e 
nuova  non  e  la  massima  dell'ab.  Cesarotti  ».2  Vi  sono  certi  dogmi 
di  buon  senso  che  il  pregiudizio  non  osa  di  negare  in  massima, 
e  si  riserba  a  contrastarli  nell'applicazione.  Temo  che  questo  sia 
il  caso  nostro,  ne  so  se  presso  certi  critici  un  termine  francese 
sia  mai  passato  impunemente.  Comunque  sia,  se  la  massima  e 
vera,  s'egli  stesso  Tapprova,  noi  siam  d'accordo.  A  che  dunque 
tanto  schiamazzo?  Ho  io  mai  sostenuto  altro  che  cio  che  concede 

1.  *Siccome  questo  articolo  e  quello  che  pose  maggiormente  in  ardenza  il 
zelo  del  mio  censore,  e  mi  procacci6  da  lui  replicati  e  gravi  rimproveri, 
piacemi  di  riunire  insieme  tutti  quei  luoghi  ove  mi  accadde  di  parlare  della 
lingua  o  della  letteratura  francese,  onde  i  miei  lettori  potranno  conoscer 
esattamente  tutta  la  gravezza  de*  miei  reati,  e  darne  adeguata  sentenza  (C.)- 

2.  Cfr.  DelVuso  e  dei  pregi  della  lingua  italiana,  lib.  in,  cap.  n,  §  8,  ed.  cit., 
n,  pp.  83-7,  da  cui  sono  tolti  anche  gli  altri  passi  riportati  in  questo 
paragrafo. 


44^  MELCHIORRE   CESAROTTI 

egli  stesso?  Non  ho  io  protestato  altamente  in  piu  luoghi  contro 
Fabuso  di  questa  liberta?  e  quel  ch'e  piu,  indicate  le  precauzioni 
da  usarsi  perche  non  ecceda  i  suoi  limiti  ?  E  non  ha  poi  egli  stesso 
pronunziata  espressamente  per  me  la  sentenza  die  «  Fabuso  d'una 
facolta  non  esclude  Fuso  legittimo  di  essa,  anzi  il  presuppone?» 
Potrei  citar  van  altri  luoghi  della  sua  opera  nei  quali  egli  sembra 
un'eco  ufiziosa  de'  miei  sentimenti.  Qualora  adunque  gli  piace  di 
declamar  cosi  all' aria  contro  le  mie  arditezze,  non  par  egli  un 
uomo  a  cui  abbia  preso  il  capriccio  di  combatter  colla  sua  ombra? 
Confesso  pero  che  in  un  certo  senso  noi  potremmo  essere  un  po' 
men  d'accordo  di  quel  che  sembra.  Egli  permette  di  usar  un  ter- 
mine  francese  in  caso  di  necessita;  ma  ho  gran  sospetto  che  egli 
intenda  di  restringer  il  bisogno  della  lingua  a  quella  necessita 
estrema  nella  quale  anche  la  Chiesa  permette  di  rubare.  Se  cosi 
e,  non  so  dissimulare  che  Fidea  di  bisogno  ha  presso  di  me  un 
senso  piu  largo.  Gli  agricoltori  non  conoscono  altro  prodotto  ne- 
cessario  che  il  grano  e  Tuva;  la  coltura  delFingegno,  come  quella 
della  societa,  esige  inoltre  e  manifatture  proprie  e  merci  straniere. 
«  Deesi  usar  con  gran  riserbo  »  die' egli  «  della  facolta  di  usar  voci 
nuove».  Benissimo:  «ne  dir  che  manca  la  voce  perche  s'ignora,  o 
perche  per  affettazione  piace  piu  la  straniera».  Egregiamente : 
ma  non  bisogna  nemmeno,  replico  io,  credere  d'aver  il  vocabolo 
quando  o  manca,  o  quando  non  corrisponde  adeguatamente  all'i- 
dea,  e  questo  esame  e  piu  difficile  di  quel  che  si  pensa.  No,  non 
dee  credersi  d'aver  il  vocabolo  quando  non  si  ha  che  un  termine 
solo  per  un  oggetto  di  molte  facce ;  non  dee  credersi  d'aver  nella  no- 
stra  un  equivalente  della  straniera,  quando  Fidea  delFuna  e  piu 
ristretta  o  piu  estesa;  quando  la  nostra  non  presenta  che  un'ap- 
prossimazione,  un'analogia  vaga  e  generate,  quando  colFidea  prin- 
cipale  non  si  conserva  1'accessoria,  o  quando  Fuso  fra  noi  ve  ne 
ammetta  un'altra  diversa,  e  talora  opposta,  di  lode  e  di  biasimo, 
di  nobilta  o  di  bassezza.  Se  mai  i  fHosofi  e  gli  scrittori  eminenti  si 
uniranno  tra  loro  a  formar  due  vocabolari  comparativi  di  tutte  le 
lingue,  Funo  scientifico  e  F  altro  rettorico,  solo  allora  potra  co- 
noscersi  la  vera  ricchezza  o  la  poverta  respettiva  di  ciascuna  lingua, 
non  meno  per  gli  usi  della  ragione  che  per  quelli  delFeloquenza; 
allora  ognuna  sentira  meglio  ove  abbondi  del  superfluo,  ove  manchi 
del  necessario,  se  sia  piu  in  caso  di  donare  o  di  ricevere,  e  in  che, 
e  come,  e  con  quale  delFaltre  lingue  possa  giovarle  d'instituire  un 


SAGGIO    SULLA   FILOSOFIA   DELLE   LINGUE  449 

regolato  commercio.  Finche  ci6  non  si  faccia,  si  parlera  sempre  a 
caso,  vagamente,  confusamente,  e  la  vanita  d'ogni  nazione  dara 
sempre  la  sentenza  per  se. 

3.  In  generale  per6  sembra  innegabile  che  ogni  lingua  deve 
abbondar  maggiormente  di  termini  relativi  a  quelle  facolta  che  da 
un  maggior  numero  di  scrittori  furono  coltivate  di  piu.  E  bene: 
quanti  terreni  non  presentano  le  provincie  dell'enciclopedia  che 
non  furono  ancor  dissodati  dagli  scrittori  d?  Italia  collo  strumento 
naturale  della  loro  lingua?  quanti  che  non  furono  collo  stesso 
coltivati,  n6  fertilizzati  abbastanza  in  proporzione  del  loro  fondo 
e  dei  metodi  di  coltivazione  introdotti  dalla  sagacita  ed  esperienza 
moderna?  AlFincontro  qual  e  il  ramo  di  scienze,  qual  e  Tarte  o  la 
disciplina  o  la  facolta  che  non  fosse,  non  diro  superiormente  colti- 
vata  in  Francia,  ma  illustrata  neH'idioma  della  nazione  e  resa 
oggetto  di  spettacolo  e  di  profitto  comune?  Qual  e  di  esse  che 
non  presenti  una  serie  successiva  di  scrittori  celebri  che  colle 
scoperte  e  coi  metodi  ne  arricchirono  il  vocabolario?  Basterebbe 
questa  notizia  per  far  tosto  presentire  senz'altro  esame  qual  delle 
due  lingue  debba  essere  piu  doviziosa  di  termini  di  questa  classe, 
e  quale  sia  piu  spesso  in  caso  dl  ricorrere  ai  soccorsi  dell'altra. 
Una  traduzione  del  dizionario  enciclopedico1  intrapresa  da  una 
societa  dei  piu  valorosi  scrittori  italiani,  tra  i  quali  io  conterei  volen- 
tieri  il  conte  Napione  medesimo,  sarebbe  un  lavoro  de'  piu  im- 
portanti,  e  potrebbe  doppiamente  giovarci,  e  facendo  conoscer 
con  precisione  i  nostri  bisogni,  e  obbligando  chi  pu6  a  supplirvi 
con  vantaggio  non  meno  del  saper  nazionale  che  della  lingua. 

4.  Ma  non  e  impossibile  di  far  sentire  anche  ai  piu  ritrosi  la 
necessita  di  prender  i  vocaboli  di  questa  specie  ovunque  si  trovano. 
V'e  un  altro  ordine  di  termini  d'un  bisogno  non  meno  reale,  benche 
meno  sentito  dal  maggior  numero,  i  quali  perch6  venuti  di  Fran 
cia  sono  guardati  di  mal  occhio  dai  puristi,  ancorche  abbiano 
tutti  i  titoli  per  esser  ben  accolti  come  italiani.  La  metafisica, 
come  ognun  sa  o  almeno  accorda,  e  la  scienza  madre  del  ragiona- 
mento,  e  il  di  lei  solo  spirito  distingue  in  ogni  classe  di  studi  1'uo- 
mo  superior  dal  comune.  Chiunque  vuol  analizzar  un  soggetto,  ra- 
gionarne  con  precisione,  distinguere  con  esattezza,  comporre  o  de- 
compor  Fidee,  fissar  una  nuova  teoria  intellettuale,  non  pu6  a 

i.  dizionario  enciclopedico:  V Encyclopedic. 
29 


450  MELCHIORRE    CESAROTTI 

meno  di  ricorrer  al  frasario  metafisico,  e  quanto  questo  e  piu 
esteso  e  individuate,  piu  lo  spirito  nelPesercizio  delle  sue  operazioni 
precede  con  sicurezza  e  facilita.  Perci6  ogni  pensatore  profondo, 
ogn'uomo  d'una  tempera  originale  di  mente  fu  spesso  costretto 
ad  ampliar  questo  frasario  con  nuovi  termini,  che  usati  poscia  dagli 
scrittori  eloquent!  passarono  talora  ad  arricchire  le  lingue.  La  tede- 
sca,  per  attestato  del  Michaelis,  ne  deve  molti  di  questo  genere 
alia  filosofia  volfiana.1  I  Francesi  piu  degli  altri  popoli  posero  in 
voga  il  frasario  metafisico  incorporandolo  nella  lingua  e  introdu- 
cendolo  in  tutti  i  soggetti,  e  anche  nelle  opere  di  spirito  e  di  so- 
cieta.  Non  cerco  se  ne  abbiano  sempre  usato  colla  debita  tempe- 
ranza,  dico  solo  che  in  conseguenza  lo  accrebbero  di  molti  voca- 
boli,  i  quali  poi  per  mezzo  delle  opere  divennero  piu  familiari 
air  Italia,  ove  per  conto  della  loro  origine  non  godono  ancora  un 
pieno  favore,  non  sono  ammessi  nei  nostri  vocabolari,  ne  usati 
senza  scandalo  o  senza  ribrezzo.  Ma  debbono  questi  dirsi  propria- 
mente  francesi?  Non  gia:  essi  son  tratti  pressoch£  tutti  dal  fondo 
della  lingua  latina,  madre  comune  della  francese  e  dell'italiana, 
e  da  quel  della  greca,  nonna  veneratissima  dell'una  e  deH'altra. 
Non  istava  dunque  che  negPItaliani  di  appropriarseli  fin  da  prin- 
cipio,  e  non  ista  che  in  loro  di  adottarli  come  propri,  anzi  ricono- 
scerli  per  fratelli  legittimi  di  tanti  altri  usciti  dallo  stesso  ceppo. 
E  non  e  egli  veramente  assurdo  che  quando  nel  Vocabolario  sono 
esattamente  raccolti  tanti  veri,  pretti  e  ridicoli  francesismi,2  ana- 
lizzare  non  ch'altro,  anzi  pure  analisi,  non  vi  si  trovino?  E  non 


i.  filosofia  volfiana:  cioe  del  filosofo  Christian  Wolff.  2.  *Nel  testo  ne 
ho  prodotti  molti  (P.  in,  art.  xm  e  art.  xvi).  II  mio  censore  parla  di 
ci6  in  piu  luoghi  come  s'lo  intendessi  di  prevalermi  di  questi  esempi 
per  autorizzare  i  gallicismi  d'ogni  specie  o  scappati  alia  inawertenza,  o 
introdotti  a  capnccio  e  cosl  per  vezzo.  Convien  che  la  prevenzione 
sia  molto  forte  per  intenderla  a  questo  modo.  6  visibile  che  il  mio  non  e 
che  uno  di  quegli  argomenti  che  diconsi  ad  hominem  o  ad  homines.  II  pro- 
scnver,  voleva  io  dire,  ogni  termine  francese,  sol  perch6  tale,  ancorch6 
fosse  il  piu  necessario,  sarebbe  assurdo  in  ciascheduno,  ma  e  stranamente 
ridicolo  in  voi,  puristi  sofistici,  compilatori,  patrocinatori,  adoratori  della 
buon'anima  della  Crusca;  in  voi  che  avete  posti  tra  gli  autori  classici  pri- 
mari  coloro  che  infettarono  senza  proposito  la  lingua  toscana  di  tanti  fran 
cesismi  goffi  e  disacconci,  in  voi  che  gli  avete  registrati  come  gioielli  nel 
codice  della  vostra  lingua,  e  che  volete  perpetuarli  colle  ristampe.  Oh,  an- 
date  prima  a  purgare  il  vostro  Vocabolario  di  cotesta  feccia  gallicana,  e  poi 
venite  a  fare  gli  schizzinnosi  contro  qualche  termine  di  schiatta  gallica  legit- 
timato  dalla  ragione  (C.). 


SAGGIO    SULLA   FILOSOFIA   DELLE    LINGUE  451 

temiamo  noi  che  FEuropa  creda  che  1'  Italia  manchi  del  termine, 
perch6  non  fa  uso  del  senso  ? 

5.  Sto  a  vedere  che  almeno  da  quanto  ho  detto  tragga  motivo  di 
ripetere  che  io  vezzeggio,  prediligo  e  magnifico  la  filosofia  francese 
per  mettermi  in  odiosita  di  quei  tanti  che  in  altro  aspetto  Paborro- 
no.  Nulla  di  piu  facile,  ne  per  disgrazia  di  piu  comune,  che  abusar 
d'un  termine  generale  per  fame  qualche  applicazione  inesatta,  e 
suscitar  idee  odiose  ad  altrui  discapito.  Niun  termine  ebbe  mai 
piu  sensi  che  quello  di  filosofia  e  di  filosofo.  Ma  di  che  si  tratta  in 
quest' opera?  di  letteratura  e  di  lingua:  e  di  qual  filosofia  si  park? 
non  d'altra  che  di  quella  che  puo  servir  agli  usi  delPuna  o  delTaltra. 
Che  ha  ella  dunque  di  comune  colla  morale,  colla  politica?  E  il 
lodar  un  popolo  per  aver  fatto  maggior  uso  di  termini  filosofici 
o  per  aver  qualche  pregio  di  stile  che  manca  al  nostro,  e  forse  lo 
stesso  che  adorarlo  ciecamente  e  sposar  in  tutto  la  di  lui  foggia  di 
pensare  o  di  vivere?  Cicerone,  quando  lodava  i  Greci  per  acume 
e  sagacita  d'ingegno,  n'approvava  egli  percio  le  usanze,  i  costumi,  il 
carattere?  Applaudiva  egli  alFaffettazione  d'un  Albuzio1  e  d'altri 
sguaiati  grecheggianti  ?  Quando  paragonava  la  sua  lingua  alia  gre- 
ca,  e  la  trovava  ora  piu  povera  e  talor  piu  ricca;  quando  bramava 
che  i  suoi  nazionali  rapissero  alia  Grecia  la  palma  in  ogni  ma- 
niera  di  scrivere,  amava  egli  meno  la  sua  lingua,  la  sua  patria, 
1'onor  del  nome  romano  ?  Quando  esalta  nei  Greci  lo  studio  della 
filosofia,  confonde  egli  questo  nome  generico  colle  sette  particolari, 
egli  che  combatte"  a  tutta  possa  1'epicureismo  dominante  in  Roma 
a'  suoi  tempi  ? 

6.  Ma  le  mie  espressioni  stesse  portano  testimonio  contro  di 
me.  Io  ebbi  il  coraggio  di  affermare  che  il  ctgenio  filosofico,  la 
cultura  delle  scienze  ed  il  francesismo  sono  inseparabili  in  Italia »: 
proposizione  della  quale  il  mio  censore  mostra  meraviglia,  anzi 
scandalo.  Ma  i  lettori  ingenui  saranno  meravigliati  alquanto  di  piu 
di  non  trovar  in  quel  luogo  ne  le  parole,  ne  il  senso  di  cui  mi  si 
vuol  fare  una  colpa.2  Io  cerco  in  esso  luogo  le  cause  che  dopo  la 
meta  del  secolo  diciassettesimo  confluirono  ad  alterar  le  idee  co- 
muni  in  fatto  di  lingua,  e  le  trovo  nella  combinazione  fortuita  di 
tre  cose  in  se  stesse  separabilissime,  le  quali  operando  ciascheduna 

i.  Albuzio,  o  Albucio,  e  un  personaggio  delle  satire  di  Lucilio,  canzonato 
per  la  sua  grecomania.  2.  Veggansi  i  precisi  termini  deirautore,  P.  iv, 
pag.  416-7  (C.)- 


452  MELCHIORRE   CESAROTTI 

dal  loro  canto,  acquistarono  piu  forza  dal  trovarsi  per  accidente 
riunite  nel  tempo  stesso.  Sono  queste  la  scienza,  vale  a  dire, 
com'io  mi  spiego  assai  chiaramente,  la  nuova  fisica,  di  cui  rispetto 
all' Italia  attribuisco  tutta  la  gloria  a  Firenze;  lo  spirito  filosofico 
in  genere,  vale  a  dire  quello  spirito  di  ragionamento  che  in  tutti 
gli  studi  umani  prescinde  dall'autorita  e  non  s'appaga  che  della 
ragione  e  dei  fatti,  spirito  che,  derivato  prima  dalla  liberta  di 
filosofare  introdotta  in  fisica,  fu  poco  dopo  dal  Cartesio  esteso 
anche  alle  scienze  razionali,  e  applicato  dal  gran  Bacone  a  tutti  i 
rami  dello  scibile;  e  finalmente  il  predominio  del  francesismo, 
termine  che,  preso  in  generale,  si  riferisce  alFascendente  sugli  spiri- 
ti  e  sulle  opinioni  preso  dalla  Francia  sotto  il  regno  brillante  di 
Luigi  XIV;  ma  che  qui  e  unicamente  applicato  alle  cose  di  lette- 
ratura,  nelle  quali  intorno  quel  tempo  la  Francia  ebbe  in  ogni 
genere  una  folia  di  scrittori  eminenti  per  un  cumulo  e  un'eccellenza 
di  qualita,  che  nella  stessa  epoca  aveano  ben  pochi  esempi  in 
Europa.  Veggasi  ora  se  ci6  sia  lo  stesso  che  il  dire  che  la  scienza 
e  lo  spirito  filosofico  siano  inseparabili  dal  francesismo;  e  veggasi 
se  con  questo  termine  intruso  con  poca  innocenza  si  possa  impu- 
tarmi  d'aver  voluto  insinuare  che  in  Italia  niuno  sapesse  ne  pen- 
sare  ne  scrivere  prima  dei  Francesi.  lo  avrei  creduto  che  il  ben 
leggere,  il  ben  comprendere  e  il  ben  esporre  fossero  tre  qualita 
veramente  inseparabili  in  un  critico,  e  piu  in  un  censore. 

7.  Ma  torniamo  al  nostro  primo  soggetto.  Ho  parlato  sinora  dei 
diritti  della  scienza  su  qualche  vocabolo  francese  necessario  al- 
1'una  o  alFaltra  delle  sue  facolta.  Ma  Teloquenza,  rimmaginazione, 
il  sentimento  non  hanno  anch'essi  i  loro  diritti  particolari  ?  E  sara 
uno  scrittore  obbligato  sempre,  sotto  pena  di  peccato  irremissibile, 
a  valersi  d'un  termine  anche  oscuro,  rugginoso,  inesatto,  sol  per- 
che  nostro:  piuttosto  che  adottarne  un  altro  noto,  calzante,  ade- 
guato,  in  ogni  senso  felice,  per  la  sola  colpa  d'essere,  Dio  ce  ne 
scampi,  francese?  Cosl  non  mostra  di  pensarla  il  prelodato  sig. 
Marmontel.  Odasi  com'ei  si  spiega  parlando  delle  traduzioni:  «Le 
lingue,  il  di  cui  scopo  comune  doveva  esser  quello  d'una  perfetta 
corrispondenza,  si  sono  insuperbite  ciascheduna  delle  sue  pro- 
prieta,  e  hanno  negletto  il  loro  commercio.  Toccava  agli  scrittori 
distinti  a  sapersene  prevalere.  Cosi  fecero  Montaigne,  Amiot,  La 
Fontaine,  spesso  anche  Racine:  la  loro  lingua  e  conquistatrice, 
ella  prende  i  tornii  e  le  forme  delle  lingue  eloquent!  e  poetiche 


SAGGIO   SULLA  FILOSOFIA   DELLE   LINGUE  453 

ch'ella  ha  per  awersarie,  come  i  Roman!  adottavano  Tarme  dei 
loro  stessi  nemicb.1  E  altrove,  parlando  dell'Inghilterra:  «I1  me- 
desimo  spirito  di  liberta  e  d'ambizione  che  anima  la  sua  politica  e 
il  suo  commercio,  la  indusse  ad  arricchir  la  sua  lingua  di  tutto  cib 
ch'ella  trov6  di  opportune  e  di  conveniente  a  se  nelle  lingue  de' 
suoi  vicini,  e  senza  il  vizio  indestruttibile  della  sua  formazione, 
ella  sarebbe  divenuta  a  cagione  de'  suoi  acquisti  la  piu  bella  lin 
gua  del  mondo».2 

8.  II  mio  censore,  per  iscusar  i  francesismi  degli  autori  del 
Trecento,  discende  generosamente  a  dire  che  non  si  ha  da  badare 
ad  alcune  voci  o  frasi  isolate,  ma  al  generale  impasto  della  lingua 
per  vedere  se  un  libro  sia  dettato  col  carattere  proprio  della  lin 
gua  e  della  nazione  italiana.  C'e  dell'ambiguita  molta  in  cotesti 
termini  vaghi  ftimpasto  e  carattere  di  lingua.  lo  credo  d'aver  fatta 
qualche  distinzione  importante  sul  carattere  o  genio  delle  lingue, 
ne  occorre  ch'io  perda  il  tempo  a  ripetermi.  Solo  mi  giova  d'ag- 
giungere  il  sentimento  del  de  La  Mothe.  «Le  lingue »  dic'egli 
«per  se  stesse  non  hanno  genio:  sono  gli  scrittori  celebri,  i  quali, 
per  Tuso  diverso  ch'essi  ne  fanno,  stabiliscono  quelle  prevenzioni 
confuse,  alle  quali  in  seguito  si  lascia  usurpare  il  nome  di  princi- 
pii».3  lo  cito  queste  autorita,  non  perche  creda  d'averne  bisogno, 
ma  perche  si  scorga  che  o  le  mie  non  sono  bestemmie,  o  se  lo  sono, 
io  bestemmio  almeno  in  buona  compagnia. 

9.  Del  resto  conservisi  pure  intatto  il  genio  grammaticale,  vero 
custode  della  lingua,  ma  non  si  tolga  al  genio  rettorico  il  diritto 
di  migliorarsi  e  perfezionarsi,  o  di  prender  a  suo  grado  tutte  le 
facce;  e  se  uno  scrittor  non  volgare,  pieno  lo  spirito  di  tutte  le 
forme  del  bello,  ricco  la  memoria  e  fecondo  rimmaginazione  di 
mille  colori  diversi,  presenta  un  impasto  di  stile  ben  temperato, 
che  ricordi  talora  lo  stile  d'una  nazione  diversa,  ma  si  conservi 
pur  nostro  ed  originate  nella  sua  mistura  medesima,  non  si  voglia 
tosto  accusarlo  senza  esame  come  depravator  della  lingua,  quando 
forse  dee  chiamarsi  benefattore  deireloquenza.  N6  gia  dissento 
che  si  conservi  saggiamente  anche  il  genio  dello  stile  italiano; 
ma  domando  prima  se  s'intenda  che  il  nostro  genio  debba  con- 


i.  Cfr.  De  Vautorite  de  Vusage  sur  la  langue,  ed.  cit.,  p.  21.  2.  Cfr.  op. 
cit,,  p.  7.  3.  Cfr.  de  La  Motte,  Reflexions  sur  la  critique  (1716).  II  con 
cetto  fu  poi  ripreso  dal  Condilkc. 


454  MELCHIORRE   CESAROTTI 

servarsi  in  cio  che  ha  di  pregevole,  o  anche  in  ci6  che  potesse  avere 
di  difettoso  e  imperfetto;  e  se  il  genio  d'ogn'altra  lingua  debba 
da  noi  ributtarsi  ne*  suoi  vizi,  o  insieme  anche  nelle  sue  virtu; 
domando  ancora  se  non  sarebbe  meglio,  potendo,  moltiplicar  i  pregi 
nostri  colFaggiunta  degli  stranieri,  guardandoci  ugualmente  dai 
difetti  stranieri  e  dai  nostri;  e  posto  che  il  genio  d'un'altra  lingua 
avesse  appunto  alcuni  pregi  che  mancano  al  nostro,  domando  per 
ultimo  se  non  gioverebbe  profittar  del  di  lui  esempio,  piuttosto  che 
perderne  il  frutto  per  mal  inteso  amor  proprio.  La  lingua  italiana 
e  certamente  in  se  stessa  leggiadra,  armoniosa,  imitativa,  feconda, 
pieghevole,  atta  a  prestarsi  felicemente  a  tutti  i  soggetti  ed  a  tutti 
i  generi;  la  questione  e  solo  s'ella  sia  ricca  quanto  potrebbe,  se 
non  sia  mceppata  e  isterilita  da*  suoi  grammatici,  e  se  i  suoi 
scrittori  ne  abbiano  fatto  il  miglior  uso  che  potea  farsene.  La 
poesia  italiana  ebbe  ed  ha  tuttavia  in  ognuna  delle  sue  parti  autori 
eminenti,  acclamati  dalPapplauso  universale,  e  tali  che  non  la 
lasciano  temere  di  veruna  rivalita:  ma  la  eloquenza  sciolta  non 
e  ancor  giunta  fra  noi  allo  stesso  apice  di  gloria.  Fornita  d'alcuni 
scrittori  distinti  e  memorabili  in  qualche  genere,  ella  ne  manca 
afTatto  in  alcuni,  scarseggia  in  altri,  e  tra  quelli  stessi  che  passano 
per  classici,  non  ne  ha  forse  alcuno  ch'ella  possa  oppor  al  confron- 
to  delle  rivali  straniere  con  sicurezza  di  piena  superiorita.  Molti 
fra  i  nostri  scrittori  hanno  ci6  che  basta  alia  fama,  pochi  cio 
ch'esige  la  gloria.  Paghi  di  distinguersi  per  un  qualche  carattere 
pregevole,  sensati,  eleganti,  dignitosi,  eruditi,  metodici,  mancano 
generalmente  di  quel  genio  che  fissa,  incanta,  trasporta,  che  non  la- 
scia  bramar  di  piu,  di  ci6  che  fa  circolar  un  libro  per  tutte  le  classi 
dei  lettori,  che  provoca  le  traduzioni  straniere,  che  resiste  alFin- 
stabilita  del  gusto,  alle  vicende  dei  secoli.  II  nostro  e  alquanto 
piu  difficile  a  contentarsi  che  quello  dei  precedenti.  Una  o  due  qua- 
lita  distinte  bastavano  allora  per  assicurar  il  credito  d'un'opera: 
ora  appena  ne  basta  un  cumulo,  e  si  crede  aver  nulla  se  non  si  ha 
tutto.  Lo  spirito  dei  lettori  piu  sagace,  piu  addottrinato  e  piu  pronto 
domanda  pascolo  ed  esercizio;  il  gusto  solleticato  da  tante  parti 
non  s'appaga  d'un  sapor  solo,  e  ricerca  in  tutto  il  piu  squisito  e  il 
piu  vario;  tutte  le  facolta  deiranima  pretendono  di  partecipar  in 
comune  del  piacere  che  par  destinato  a  una  sola;  si  vuol  che  la 
fantasia  si  unisca  alPingegno,  il  ragionamento  alia  grazia,  la  con- 
venienza  alia  varieta;  che  una  decente  vivacita  temperi  i  soggetti 


SAGGIO   SULLA   FILOSOFIA   DELLE   LINGUE  455 

piu  seri,  che  nei  piii  leggeri  una  riflessione  fuggitiva,  un  cenno 
pensato  arresti  lo  spirito  con  istruzione  e  diletto;  che  una  tintura  di 
sentimento,  un  tratto  di  carattere  dia  alle  materie  piii  indifferenti 
una  dose  d'interesse  morale,  che  Pautore  non  sia  mai  disgiunto 
dal  filosofo,  e  che  Pespressione  ora  precisa  ed  energica  scolpisca 
un'idea  profonda,  ora  immaginosa  e  vivace  dia  corpo  e  colore 
a  una  verita.  II  gusto  modificato  rapporto  al  carattere  generate 
dell'eloquenza  dovea  ugualmente  modificarsi  nella  parte  esterior 
dello  stile.  II  carattere  delPitaliano,  quello  che  predominava  ne- 
gli  scrittori  approvati  e  in  quelli  che  piu  si  piccavano  d'irnitarli, 
perde  gia  molto  del  suo  favore,  e  quelle  stesse  qualita  che  dianzi 
si  prendevano  per  virtu  sembrano  al  presente  partecipar  del 
difetto.  Generalmente  si  rimprovera  allo  stile  italiano  la  servil 
deferenza  alia  Crusca,  i  bassi  idiotismi  del  toscanesimo,  la  scarsezza 
d'idee,  la  prolissita,  la  vuota  sonorita  periodica,  le  inversion!  sfor- 
zate,  il  fraseggiamento  ozioso,  la  lentezza,  la  pesantezza,  il  por 
tamento  imbarazzato  e  soverchiamente  uniforme,  e  una  cert' aria  di 
soggezione  e  per  cosi  dire  di  cerimonia  coll'argomento  medesimo. 
Un'opera  anche  pregevole  per  le  cose,  ma  dettata  con  questo 
stile,  indarno  spera  d'esser  tra  quelle  di  cui  disse  Orazio: 

hie  meret  aera  liber  Sosiis,  hie  et  mare  transit.1 

Altro  &  quello  che  al  presente  sembra  aver  fissato  il  gusto  del- 
PEuropa.  Ella  e  da  qualche  tempo  awezza  ad  esigere  che  i  senti- 
menti  abbiano  piu  sostanza  che  diffusione,  che  la  sentenza  sia 
vibrata  a  guisa  di  strale  da  una  energica  brevita,  che  1'idea  prin- 
cipale  sia  fiancheggiata  utilmente  dalle  accessorie,  che  nulla  vi 
manchi,  nulla  ecceda,  nulla  soprabbondi,  che  si  trovi  in  ogni 
parte  quelFa  proposito,  quella  misura,  quella  convenienza  col 
soggetto,  quel  perfetto  accordo  fra  Pespressioni  e  Pidee  che  mo- 
stra  1'aggiustatezza  del  pensamento  e  del  gusto;  che  le  parole  siano 
pregne  di  senso,  la  dicitura  sia  sgombra  dagPimbarazzi  di  frasi  varie, 
d'aggiunti  vaghi  ed  inutili,  il  numero  sia  scorrevole,  espressivo 
e  vario;  in  fine  che  il  contesto  presenti  per  tutto  nella  proporzion 
la  piu  giusta  colore,  calore,  forza,  vivezza,  grazia,  disinvoltura, 
celerita,  pieghevolezza  di  movimenti  e  di  forme.  Non  pu6  negarsi 
che  questa  idea  d'eloquenza  e  di  stile  non  ispicchi  in  modo  parti- 

i.  Ars  poet.>  345  (« questo  libro  fa  guadagnare  denaro  ai  librai,  questo 
passa  anche  il  mare»). 


456  MELCHIORRE   CESAROTTI 

colare  nelle  opere  dei  grandi  scrittori  di  Francia:  ella  e  poi  dive- 
mita  piu  o  meno  familiare  anche  agli  altri,  e  quasi  propria  della 
nazione;  ed  e  a  questa  eloquenza  comprensiva,  e  ancor  piu  a 
questo  carattere  di  stile  agile,  aggiustato  e  leggiadro,  che  i  Fran- 
cesi  debbono  specialmente  quella  universale  avidita  colla  quale  in 
Europa  si  cercano  e  leggono  i  loro  libri  anche  indifferenti  da 
tutti  gli  ordini  di  persone  colte;  mentre  qualche  opera  forse  piu 
solida  d'altre  nazioni,  ma  spoglia  di  queste  attrattive,  non  e  ben 
nota  che  a  qualche  classe  di  dotti,  e  si  legge  piu  per  bisogno  che 
per  diletto.  Or  chi  vi  vieta  di  profittar  saggiamente  d'un  tal  esem- 
pio  e  d'imparar  dalla  Francia  Parte  d'emularla  e  di  vincerla? 
tutte  le  fogge  di  stile  non  appartengono  ugualmente  all'arte  co- 
mune  del  dire?  e  perche  Peloquenza  non  pu6  ella  rafFazzonar  in 
certo  modo  il  suo  costume  municipale,  e  giovarsi  di  quegli  abbi- 
gliamenti  che  possono  renderla  piu  cara  al  gusto  del  secolo? 
Giunone  era  bella,  e  degna  di  Giove,  ma  per  suscitarne  il  senso 
svogliato  si  prevalse  della  cintura  della  sua  rivale.1  Ella  non  fu 
men  Giunone,  ma  piacque  di  phi. 


i.  rivale-.  Venere. 


LETTERA  DELL'AB.  CESAROTTI 

AL  SIG.  CONTE  GIAN-FRANCESCO 

GALEANI  NAPIONE1 

Nello  stendere  il  vostro  trattato  panegirico-polemico  sui  pregi 
della  lingua  italiana  voi  non  vi  sareste  naturalmente  aspettato  che 
io  mi  sarei  uno  de'  piu  caldi  encomiatori  d'una  tal  opera,  e  che 
anzi  in  un  mio  scritto,  relative  alia  prima  educazione  scolastica,z 
Favrei  raccomandata  come  utilissima  all'istruzione  della  gioventu. 
Veramente  non  e  molto  comime  fra  gli  uomini,  e  ancora  meno  fra  i 
letterati,  di  risponder  cogli  elogi  a  chi  ci  previene  coi  biasimi. 
Ma  tal  e  il  mio  carattere,  che  la  scortesia  verso  di  me  non  ha  mai  pre- 
giudicato  nel  mio  animo  ai  dritti  del  merito:  e  questo  merito  non 
pu6  certamente  negarvisi  da  chi  si  pregia  d'imparzialita.  Che  im- 
porta  se  non  avete  creduto  necessario  di  usar  meco  tutta  quella 
urbanita  e  gentilezza  che  vi  distinguono?  Che  importa  se  non  vi 
siete  curato  d'intendermi  ?  se  vi  siete  compiaciuto  d'interpretar 
sinistramente  le  mie  opinioni,  malgrado  le  mie  non  equivoche  e 
reiterate  proteste?  Queste  sono  piccole  ingiustizie  private  rese 
scusabili,  e  fors'anche  meritorie,  dal  zelo  della  causa  pubblica 
del  bene  e  dell'onor  nazionale.  L' Italia  ha  certamente  a  voi  un'ob- 
bligazione  straordinaria:  fra  tutti  i  letterati  nostrali  voi  meritate 
per  eccellenza  il  soprannome  d'ltalico,  e  potreste  anche  alia 
maniera  dei  Latini  aver  quello  di  Gallicano,  giacche  dopo  Giu- 
lio  Cesare  niuno  piu  di  voi  fu  prossimo  a  trionfar  delle  Gallie. 
Sostener  il  solo  residuo  di  liberta  e  di  proprieta  che  avanza  ancora 
air  Italia,  la  sua  lingua,  onde  colla  lingua  non  vengano  del  tutto  a 
spegnersi  le  abitudini,  il  carattere,  il  nome  della  nazione;  vendicar- 
la  del  fasto  insultante  d'una  rivale  che  abusa  della  fortuna;  met- 
ter  in  pieno  lume  i  suoi  diritti,  i  suoi  pregi,  Panteriorita  della  sua 
cultura,  la  sua  influenza  generate  su  quella  d'Europa,  lo  splendore 
delTantica  sua  gloria;  rianimarne  nei  cuori  italiani  il  zelo  e  lo  stu- 

i.  Anche  questa  Letter  a  comparve  per  la  prima  volta  in  appendice  all'edi- 
zione  pisana  del  Saggio.  2.  un  mio  scritto  . .  .  scolastica:  allude  al  proprio 
Saggio  sopra  le  instituzioni  scolastiche  private  e  pubbliche,  scritto  nel  1797, 
dove  raccomanda  1'opera  del  Napione  come  base  per  gli  studi  «  elementari » 
(cioe  della  nostra  scuola  media  superiore),  riservando  il  proprio  Saggio 
«per  un'et^  piu  matura»  (cfr.  Opere,  xxix,  p.  20). 


458  MELCHIORRE   CESAROTTI 

dio;  far  sentir  meglio  a  lei  stessa  Festensione  delle  sue  forze; 
difenderla  daH'awilimento  suo  proprio,  dalFinvasione  delle  lin- 
gue  straniere,  dalla  seduzion,  dalle  insidie;  indicar  i  mezzi  di  ri- 
metterla  in  seggio,  di  propagarne  Fuso,  di  nobilitarla,  di  abbi- 
gliarla  meglio  de*  suoi  natural!  ornamenti,  onde  non  abbia  mestiere 
d'accattarne  altronde;  questo  e  Fassunto  che  vi  siete  proposto,  e 
ognuno  dee  confessare  che  niuno  concepi  un  piano  cosi  ampio, 
niuno  poteva  eseguirlo  con  piu  di  esattezza,  di  facondia,  d'erudi- 
zion,  di  calore.  lo  che,  senza  tanta  ostentazione  di  patriottismo, 
non  mi  sento  punto  meno  interessato  di  voi  per  Fonor  delF Italia 
(e  credo  d'averne  gia  dato  piti.  d'una  prova),  non  potei  non  applau- 
dire  al  vostro  nobile  e  generoso  progetto,  n6  seppi  per  lunga  pezza 
dubitare  d'aver  in  voi  un  collega  animoso  e  ben  agguerrito,  che 
palesava  arditamente  al  pubblico  ci6  ch'io  avea  piu  volte  sostenuto 
privatamente,  e  accennato  anche  in  vari  luoghi  delle  mie  opere. 
Se  talora  mi  parea  di  scorgere  nel  vostro  discorso  un  po'  di  pre- 
venzione  passionata  per  le  cose  nostre,  un  po?  d'intolleranza  ec- 
cessiva,  una  critica  non  abbastanza  imparziale  su  i  titoli  delFaltre 
lingue,  credetti  che  ci6  dovesse  donarsi  alle  circostanze  della  lingua 
nostra  in  Piemonte,  minacciata  piu  d'appresso  d'un'intera  ecclissi 
dalla  troppa  prossimita  e  mescolanza  della  francese;  e  dalFirrita- 
mento  giustamente  prodotto  in  voi  dalla  gallomania  d'ogni  specie 
che  domina  a'  giorni  nostri  in  Italia. 

Ma  oltre  Felogio  che  meritava  Fimpresa  e  il  piano  delFesecu- 
zione,  vari  squarci  considerabili  della  vostra  opera  avevano  un 
pieno  diritto  sulle  mie  lodi.  Ricordatevi  quanto  spesso  e  con 
quanta  facondia  vi  diffondete  a  difender  la  lingua  italiana  dalle 
tacce  pedantesche  datele  nella  sua  origine  dai  latinisti;  a  confutar 
le  pretese  dei  Fiorentini  e  dei  Toscani  stessi  sul  dominio  esclusi- 
vo  della  nostra  lingua;  a  sostener  il  diritto  dei  dialetti  italici  di 
confluire  ad  arricchirla  e  ad  accrescerla;  come  sostenete  Fautenti- 
cita  e  le  ragioni  di  Dante  sulla  volgare  eloquenza;  come  condan- 
nate  il  despotismo  della  Crusca,  la  persecuzione  fatta  al  Tasso; 
come  rilevate  i  difetti  del  Vocabolario,  il  bisogno  di  riformarlo  e 
aumentarlo:  infine  come  riconoscete  Futility  e  Fimportanza  delle 
traduzioni  per  dar  alia  lingua  nuove  ricchezze  e  maggiore  desterita. 
Su  tutti  questi  articoli,  per  tacer  d'altri,  io  era  invincibilmente  co- 
stretto  a  far  applauso  ai  vostri  sentimenti:  Famor  proprio  me  ne 
faceva  una  legge:  e  come  no,  se  sono  i  miei?  Essi  sono  i  corollari 


LETTERA  AL  CONTE  GALEANI  NAPIONE        459 

principal!  del  mio  Saggio  sopra  la  lingua  italiana\  essi  sono  tanto 

identicamente  i  miei,  che  in  piu  d'un  luogo  leggendovi  mi  parve 

di  trovare  un  ingegnoso  commento  e  un'erudita  parafrasi  delle 

mie  proposizioni.  Una  tal  conformita,  oltre  la  compiacenza  ragio- 

nevole  d'aver  pensato  aggiustatamente,  me  ne  diede  un'altra  d'un 

genere  nuovo  e  piccante.  lo  mi  congratulai  meco  stesso  d'un  po' 

di  dono  profetico,  poiche  sei  anni  innanzi  mi  venne  fatto  d'indovi- 

nare  e  di  dire  al  pubblico  cio  che  sei  anni  dopo  doveva  esser  pub- 

blicato  da  voi.  Ma  che?  non  v'e  consolazione  al  mondo  senza 

rammarico.  Vedete  qual  fatalita  e  la  mia!  lo  potei  presagire  cio 

che  voi  avreste  scritto  innanzi  di  leggervi :  voi  non  vi  siete  accorto  di 

quel  ch'io  scrissi,  nemmeno  dopo  avermi  letto.  Di  fatto,  in  tutti 

questi  e  simili  luoghi  voi  vi  scordate  cosi  perfettamente  di  me,  e 

mostrate  una  cosi  piena  e  tranquilla  persuasione  di  non  avermi, 

non  dir6  per  precursore,  ma  nemmen  per  collega,  che  piu  d'una 

volta  stetti  in  forse  d' esser  io  il  prevenuto  da  voi,  e  mi  convenne 

ricorrer  al  confronto  dei  millesimi  per  accertarmi  del  fatto.  Questo 

silenzio  era  a  dir  vero  un  po'  strano  e  difficile  a  spiegarsi  anche  in 

un  awersario,  non  che  in  un  alleato  qual  io  vi  credei  da  principio : 

perciocche,  s'e  naturale  il  censurar  alcuno  in  ci6  che  si  condanna 

da  noi,  sembra  e  naturale  ed  onesto  il  fargli  ragione  in  ci6  che 

s' appro va:  e  qual  altro  segno  piu  certo  d'approvazione  che  quello 

di  sostener  dopo  lui  le  sue  proposizioni  stesse,  facendo  uso  a  un 

di  presso  degli  argomenti  medesimi?  Ma,  compita  la  lettura  del 

vostro  libro,  il  fenomeno  cess6  di  sorprendermL  Voi  siete  un 

patriotta  pronunziatissimo  in  fatto  di  lingua,  e  credete  me  un 

professore  di  moderantismoy  come  di  fatto  lo  sono:  cio  basta  perche, 

secondo  lo  stile  del  patriottismo  moderno,  voi  non  vogliate  aver 

nulla  di  comune  con  me:  la  verita  stessa  vi  e  sospetta  e  discara 

nella  mia  bocca.  Voi  avete  imitato  quel  rigido  spartano  che  fece 

ripetere  da  un  senatore  di  specchiata  spartanita  una  sentenza 

giusta  ed  utile,  pronunziata  prima  da  un  altro  sospetto  d'indvismo, 

sdegnando  che  la  patria  avesse  a  lui  1'obbligazione  d'un  buon 

consiglio.  Taci,  o  profano,  avete  voi  detto  a  me,  tu  non  hai  dato 

il  tuo  giuramento  grammaticale  secondo  le  formule;  tu  sei  reo 

d'intelligenze  sospette;  ci6  che  tu  dicesti  lo  penso  anch'io,  e 

vero,  e  utile,  ma  e  detto  da  te.  Abbiasi  dunque  per  non  detto, 

e  lo  pronunzi  come  nuovo  un  buon  cittadino.  Quindi  essendo  voi 

uno  dei  migliori  fra  gli  ottimi,  risolveste  di  ripeter  voi  stesso  i  miei 


460  MELCHIORRE   CESAROTTI 

sentimenti,  e  di  profani  che  prima  erano,  eccoli  purificati  dalla 
vostra  penna* 

Ma  ci6,  com'io  dissi,  non  fu  da  me  rilevato  che  nel  progresso 
delPopera,  e  fino  al  punto  della  scoperta  io  fui  cosi  semplice  che, 
veggendo  scritto  alia  testa  dell'articolo  i,  capo  2,  « DelP  opinione 
deirab.  Cesarottb,  credei  con  ottima  fede  che  voleste  compia- 
cervi  di  far  onorata  menzione  di  me;  e  questa  lusinga,  nol  niego, 
mi  dest6  un  po'  di  solletico  di  vanita.  II « laudari  a  laudato  viro  »z 
mi  si  affacci6  piacevolmente  allo  spirito.  Ma 

quante  speranze  se  ne  porta  il  vento! 

dir6  col  Petrarca:2  e  qual  fu  la  mia  sorpresa  quando  m'accorsi 
che  il  mio  povero  nome  era  posto  li  non  ad  onore,  ma  bensl  a 
segnale  di  riprovazione,  a  bersaglio  di  censure  e  rimproveri,  sen- 
za  il  menomo  lenitivo  che  disacerbasse  le  piaghe  del  mio  trafitto 
amor  proprio!  Di  fatto,  come  non  dovea  sorprendermi  che,  dopo 
esservi  tenuto  in  un  assoluto  silenzio  sulle  parti  sane  e  lodevoli 
della  mia  opera,  voleste  tutto  ad  un  tratto  diventar  facondo  sul- 
1'altra  che  vi  parve  infetta,  quando  pure  o  Purbanita  sociale  parea 
suggerire  un  metodo  del  tutto  opposto,  o  certo  Pequita  letteraria 
esigeva  che  foste  ugualmente  giusto  e  coi  difetti  e  coi  pregi? 
Ben  e  vero  che  in  piu  d'un  luogo  vi  piace  di  qualificarmi  per  un 
valoroso  poeta;  ma  oltrech6  al  mio  qualunque  siasi  merito  poe- 
tico  contrapponete  per  correttivo  i  dubbi  di  qualche  timorato 
sul  pregiudizio  ch'io  posso  recar  alia  prosa,  il  titolo  di  buon  poeta 
nel  nostro  soggetto  non  mi  onora  niente  di  piu  che  se,  parlando 
della  mia  poesia,  m'aveste  lodato  come  filosofo.  Vero  £  parimente 
che  assai  tardi,  e  gia  sfogate  le  vostre  censure,  vi  siete  awisato  di 
dire  per  via  di  parentesi  intorno  al  mio  Saggio,  «quel  per  altro 
ingegnoso,  e  in  molte  parti  eziandio  giudizioso  libro»,  ma  di  que- 
ste  molte  parti  non  vi  curaste  di  accennarne  pur  una,  e  questo 
cenno  tardo,  fuggitivo  e  misterioso,  quando  sia  verace,  serve  solo 
a  provare  che,  trattandosi  di  me,  Tanalisi  e  la  diffusione  vi  parve 
piu  bella  nel  biasimo  che  nella  lode. 

Ne  potea  gran  fatto  piacermi  che,  avendo  meco  qualche  dif- 


i.  laudari  .  .  .  viro:  «esser  lodato  da  un  uomo  lodato ».  £  frase  tratta  da  Ci 
cerone,  Ad  font.,  xv,  vi,  i :  «Laetus  sum  laudari  me,  inquit  Hector  (opinor 
apud  Naevium),  abs  te,  pater,  a  laudato  viro».  2.  Rime,  cccxxix,  8. 


LETTERA  AL  CONTE  GALEANI  NAPIONE       461 

ferenza  d'opinione,  abbiate  voluto  piuttosto  parlar  di  me  che  con 
me.  Vivo  io  in  altro  emisfero  ?  son  io  un  di  quei  letterati  arcigni, 
irritabili,  serpi  awoltolate  nel  loro  orgoglio,  che  appena  tocche 
s'avventano?  Chiunque  mi  conosce,  vi  dira  se  questo  ritratto 
somigli  all'originale.  Senza  uscir  dal  Piemonte,  avreste  potuto  aver 
nozioni  piu  esatte  del  mio  carattere :  piu  d'uno  de*  vostri  concitta- 
dini  mi  onora  della  sua  benevolenza,  e  sono  ben  certo  che  verun 
di  loro  non  ha  di  che  lagnarsi  delPintemperanza  del  mio  amor 
proprio.  Perche  dunque  non  vi  compiaceste  di  espor  le  vostre 
opposizioni  a  me  stesso  ?  Una  censura  espressa  per  via  di  domanda 
o  di  dubbio  perde  ella  la  sua  solidita  ?  Io  mi  sarei  recato  ad  onore 
d'esser  invitato  da  voi  a  una  gara  insieme  d'opinione  e  di  genti- 
lezza;  ccvincitore  o  vinto,»  avrei  detto  con  Ettore  «sar6  degno 
di  tew.1  Spero  anzi  che  la  disputa  si  sarebbe  terminata  come  il 
duello  di  que*  due  campion!  omerici,  voglio  dire  con  pegni  re- 
ciproci  d'estimazione  e  concordia.  Una  spiegazione  alquanto  este- 
sa,  un  po'  di  rischiaramento,  avrebbe  levato  ogni  equivoco;  io, 
che  amo  le  conciliazioni,  mi  sarei  fatto  un  pregio  d'accostarmi 
a  voi,  e  Tavrei  potuto  far  senza  sforzo  n6  sacrifizi;  giacche  con 
vostra  buona  grazia,  e  malgrado  qualche  apparenza  diversa,  io 
pretendo  d'esser  nel  fondo  ben  piu  d'accordo  con  voi  di  quel  che 
voi  Io  siate  con  taluno  dei  vostri  fratelli  d'arme. 

Ma  forse  questa  disputa  ufiziosa  con  un  awersario  sentiva  al 
quanto  il  francesismo  della  penultima  data,  e  voi  credeste  meglio 
di  attenervi  alia  buona  schiettezza  italiana.  Questa  allocuzione 
diretta  vi  avrebbe  per  awentura  obbligato  a  sopprimere  qualche 
espressione  del  vostro  zelo,  perci6  voi  cautamente  schivaste  il 
pericolo  di  sacrificar  il  vero  ai  rispetti  umani,  e  voleste  scaricar 
in  piena  libertk  il  peso  della  vostra  coscienza.  E  bene  a  ragione; 
si  trattava  di  troppo;  non  c'era  tempo  di  complimenti.  Conveniva 
farmi  rawisar  dall' Italia  nel  mio  vero  lume,  prevenirla  contro 
la  seduzione  de*  miei  sofismi,  awertirla  di  star  in  guardia  dalle 
mie  trame.  Voi  certamente  non  mancaste  a  si  pio  ufizio.  Io  sono, 
secondo  i  vostri  detti,  neologista,  francesista,  tollerantista,  indif- 
ferentista  e  poco  meno  che  calvinista  e  certo  scismatico.  Le  mie 

i.  Queste  parole  non  si  trovano  nell' episodic  del  duello  fra  Ettore  e  Aiace 
Telamonio  (nel  vn  libro  dell' Iliade),  a  cui  il  Cesarotti  accenna  piti  sotto ; 
ma  sembrano  piuttosto  riecheggiare  il  discorso  di  Ettore  ad  Achille  nel 
xxn  libro,  w.  250-9. 


462  MELCHIORRE  CESAROTTI 

dottrine  sono  erronee  o  malsonanti;  io  non  riconosco  le  autoritd 
costituite,  non  rispetto  n£  Topinion  ne*  Tesempio;  abbagliato  dal 
liscio  oltramontano,1  io  non  cesso  di  encomiare  la  lingua,  la  let- 
teratura,  la  galanteria,  che  piu  ?  la  filosofia  francese.  Io  mi  fo  un 
pregio  d'imbastardire  la  nostra  lingua,  io  prendo  a  giustificar  ex 
professo  il  libertinaggio  dello  scrivere,  e  per  dir  tutto,  tratto  da 
prevenzione  pedantesca  Io  stesso  amor  della  patria.  Questo  cumulo 
d'accuse  mi  fece  stupire  come  avessi  potuto  farmi  reo  di  tante 
colpe  senza  awedermene.  Ma  quando  v'intesi  gridar  allo  scandalo, 
all'empieta;  esclamar  che  la  repubblica  letteraria  e  periclitante ; 
che  ognuno  deve  affrettarsi  d'accorrere  al  riparo;  invitar  i  fedeli 
a  una  specie  di  guerra  sacra;  allor  si  ch'io  raccapricciai  da  capo 
a  piedi,  e  mi  parve  di  veder  piombarmi  addosso  un  battaglione 
di  grammatici  e  di  scrittori  minorum  gentium,2  superbi  di  militar 
sotto  i  vostri  stendardi,  pronti  a  bersagliarmi  a  colpi  di  citazioni 
e  d'autorita;  e  far  piu  strazio  di  me  di  quel  che  fece  del  povero 
Berni  quell'altro  esercito  di  cui  cantava 

Non  mend  tanta  gente  in  Grecia  Serse, 
non  tanto  il  popol  fu  de*  Mirmidoni.3 

Spaventato  da  questa  immagine,  afferrai  con  dispetto  quel  mio 
sciaurato  libricciattolo,  disposto  di  gittarlo  alle  fiamme:  ma  pen- 
sando  poi  che  con  ci6  non  averei  posto  riparo  al  male  gia  fatto, 
risolsi  piuttosto  di  mettermi  tristamente  a  rileggerlo,  a  fine  di 
riconoscer  meglio  tutta  la  gravita  di  quelle  colpe  che  mi  attrassero 
il  pericolo  d'un  tal  flagello.  Degg'io  dirvelo  schiettamente  ?  que 
sta  lettura  mi  fe*  respirare,  e  il  timore  ch'io  avea  concepito  per  me, 
fu  mitigate  da  un  po'  di  compassione  per  voi.  Rispettabile  per 
carattere,  fornito  di  lumi,  zelator  della  buona  causa,  voi  siete, 
per  quel  che  mi  sembra,  in  disgrazia  del  dio  Pane,  che  gode  di 
turbarvi  co'  suoi  fantasmi,  e  di  farvi  temer  nemici  e  pericoli  dove 
non  sono :  «  omnia  tuta  timens  ».4  Di  fatto,  rileggendo  attentamente 
il  mio  SaggiOj  non  seppi  trovar  cosa  ehe  per  un  uomo  sanamente 


i.  liscio  oltramontano:  la  falsa  e  superficial  bellezza  della  lingua  e  della  let- 
teratura  francese.  2.  minorum  gentium:  di  scarso  valore.  3.  Sono  i  vv. 
151-2  del  Capitolo  al  Fracastoro,  nei  quali  si  allude  burlescamente  alia 
«turba  crudel  di  cimicioni»,  che  tormenta  il  poeta  durante  la  notte  passata 
in  casa  del  prete  di  Povigliano.  4.  Virgilio,  Aen.y  iv,  298  («temendo  tutto 
cio  che  invece  non  dovrebbe  destare  timore »). 


LETTERA  AL  CONTE  GALEANI  NAPIONE       463 

spregiudicato  potesse  aver  nulla,  direi,  d'allarmante,  se  non  temessi 
d'allarmarvi  con  questo  termine. 

lo  ho  sempre  creduto  che  le  leggi  della  buona  critica  esigano 
che  per  giudicare  d'un  libro  si  cerchi  prima  di  tutto  di  rilevar 
Pintenzion  delPautore  e  lo  spirito  dell'opera;  ne  questo  si  supponga 
ad  arbitrio,  ma  si  raccolga  dalPopera  stessa,  ne  da  pezzi  spiccati 
della  medesima,  ma  dalla  connessione  del  tutto  e  dall'analisi  com- 
parata  delle  sue  parti.  lo  aveva  anche  modestamente  pregato  di  cio 
i  miei  lettori,  prevenendoli  col  mio  avvertimento ;  ma  per  mia 
sfortuna  voi  non  credeste  di  dover  far  conto  d'una  preghiera  che 
aveva  tutto  il  diritto  d'esser  pretesa.  £  pur,  s'io  non  erro,  dettame 
di  sana  critica,  di  non  lasciarsi  traviare  ne'  suoi  giudizi  da  qualche 
proposizion  subalterna,  da  qualche  espressione  azzardata,  da  qual 
che  contradizione  apparente,  da  qualche  tratto  scappato  all'im- 
peto  o  dovuto  alle  circostanze  particolari  di  chi  scrive,  o  al  biso- 
gno  di  calcar  con  piu  forza  sopra  un  articolo  contrastato  piu  te- 
nacemente  dal  pregiudizio;  ma  di  attenersi  costantemente  al  sog- 
getto  principale,  alia  progression  del  discorso,  alle  dottrine  piu 
espresse,  alle  ragioni  piu  solide.  Se  cosi  aveste  fatto,  non  vi  sareste 
permesso  di  presentar  alcune  mie  proposizioni  come  generali  e 
assolute,  dissimulando  le  tante  spiegazioni  e  restrizioni  che  ne  in- 
dividuano  il  senso,  n6  di  suppor  nelP opera  disegni  odiosi  e  con- 
trari  allo  spirito  della  medesima,  e  in  piu  luoghi  solennemente 
smentiti.  Quand'anche  si  accordi  che  i  mezzi  da  me  usati  nel 
trattar  il  mio  assunto  non  fossero  sempre  i  piu  acconci,  il  suo 
fine  era  meritorio,  non  che  innocente.  lo  m'era  prefisso  di  toglier 
la  lingua  al  despotismo  deH'autorita  e  ai  capricci  della  moda  e 
deiruso,  per  metterla  sotto  il  governo  legittimo  della  ragione  e 
del  gusto ;  di  fissare  i  principii  filosofici  per  giudicar  con  fondamen- 
to  della  bellezza  non  arbitraria  dei  termini,  e  per  diriger  il  ma- 
neggio  della  lingua  in  ogni  sua  parte,  cosa  non  so  se  eseguita 
pienamente  da  altri,  e  certo  non  piu  tentata  fra  noi;  di  far  ugual- 
mente  la  guerra  alia  superstizione  ed  alia  licenza,  per  sostituirci 
una  temperata  e  giudiziosa  liberta;  di  combattere  gli  eccessi,  gtL 
abusi,  le  prevenzioni  d'ogni  specie;  di  temperare  le  vane  gare, 
le  cieche  parzialita;  di  applicar  alfine  le  teorie  della  filosofia  alia 
nostra  lingua,  d'indicar  i  mezzi  di  renderla  piu  ricca,  piu  disin- 
volta,  piu  vegeta,  piu  atta  a  reggere  in  ogni  maniera  di  soggetto 
e  di  stile  al  paragone  delle  piu  celebri,  come  lo  pu6  senza  dubbio, 


464  MELCHIORRE    CESAROTTI 

quando  saggiamente  libera  sappia  prevalersi  della  sua  naturale  pie- 
ghevolezza  e  fecondita.  Per  eseguir  questo  piano  presi  dapprima 
a  combattere  alcune  opinioni  dominant!,  non  perch6  io  le  creda 
assolutamente  false,  ma  perch6  non  le  credo  assolutamente  vere 
come  si  spacciano,  e  perch6  la  loro  supposta  assoluta  verita  e  ap- 
punto  quella  che  mette  ostacolo  alia  libera  vegetazion  della  lingua : 
nella  qual  disputa  preliminare,  se  forse  mi  espressi  talora  con  un 
po'  di  franchezza  inconsiderata,  il  che  pur  non  credo,  era  per6 
visibile  che  il  senso  delle  mie  asserzioni  era  piuttosto  negativo 
che  positive,  e  che  non  tendeva  ad  altro  che  a  temperare,  dir6  colla 
frase  di  Bacone,  d'iniquita  degli  assiomi  oppostiw.  Negai  la  no- 
bilta  in  cuna1  di  alcune  lingue  privilegiate,  la  superiorita  senza 
limiti,  la  perfezione  assoluta,  la  fissita  inalterabile,  la  ricchezza  non 
bisognosa  d'aumento,  il  pregio  inarrivabile  delPeterna  vestalita3 
delle  lingue:  perche  queste  opinioni,  o  mal  fondate  o  mal  applicate, 
producono  non  estimazioni  giuste,  ma  presunzioni  vane  e  infatua- 
zioni  scolastiche;  non  paragoni  ragionati  e  preferenze  imparziali, 
ma  disprezzi  ingiusti;  non  castigatezza  onesta,  ma  schizzinnosita 
fastidiosa  e  selvatichezza  insociabile ;  non  opposizione  alia  licenza, 
ma  cieco  abborrimento  alia  piii  sobria  e  ragionevole  liberta.  Mi 
opposi  alia  tirannide  delPuso,  alPidolatria  delPesempio,  accor- 
dando  alPuno  e  all' altro  quelPautorita  che  potea  conciliarsi  colla 
ragione,  giudice  legittimo  e  dell'esempio  e  delPuso:  provocai3 
alfine,  a  nome  degli  scrittori  non  volgari,  dal  tribunale  dei  gram- 
matici  pedanteschi  a  quello  dei  grammatici  filosofi,  i  quali  sanno 
che  la  lingua  e  Pinterprete  del  pensamento  e  la  ministra  del  gusto. 
Fatta  cosl  strada  al  mio  assunto,  passai  a  determinare  colle  teorie 
filosofiche  la  bellezza  intrinseca  ed  essenzial  delle  lingue,  fissan- 
done  i  canoni,  e  applicandoli  a  ciascheduna  delle  loro  parti  cosi 
logiche  che  rettoriche:  nella  qual  trattazione  mi  lusingo  d'aver 
in  poco  ristretto  molto,  detto  piu  cose  non  comuni  n6  inutili,  e 
gittato  sul  mio  soggetto  qualche  nuovo  colpo  di  lume,  atto  a 
rischiararlo  con  precisione  e  a  prevenir  molti  abbagli,  Imparziale 
con  tutte  le  lingue  feci  alia  nostra  senza  equivoco  quei  giusti  e 
fondati  elogi  che  le  convengono:  parlai  della  francese  quanto 
comportava  il  soggetto;  n6  sempre  con  lode,  ma  non  lasciai  d'in- 
dicare,  n6  potea  ometterlo  senza  ingiustizia  o  vilta,  quei  pregi 

i.  in  cuna:  in  culla,  cioe  originaria.  L'Ortolani  corregge  arbitrariamente  «al- 
cuna».  z.  vestalita:  purezza.  3.  provocai:  mi  appellai. 


LETTERA  AL  CONTE  GALEANI  NAPIONE        465 

particolari  nei  quali  i  loro  grandi  scrittori  la  resero  finora  superiors 
alia  nostra:  quindi,  dopo  aver  protestato  espressamente  contro  Ta- 
buso  del  francesismo,  mi  credei  permesso  di  far  anche  sentir  il 
ridicolo  di  quella  cieca  antipatia  che  vilipende  Topere  le  piii  di- 
stinte  o  d'eloquenza  o  d'ingegno  per  la  mescolanza  d'un  solo  ter- 
mine  o  d'un  idiotismo  francese  introdotto  con  la  sua  ragion  suf- 
ficiente  o  scappato  a  una  certa  nobile  negligenza,  e  li  vuol  tutti 
proscritti,  anche  in  urgenza  di  bisogno,  senza  esame  o  eccezione 
d'alcune  specie.  Fissai  sopra  fondamenti  piu  saldi  la  indestrut- 
tibile  liberta  della  lingua  di  crear  ove  sia  d'uopo  nuovi  vocaboli, 
traendoli  o  dal  fondo  proprio  o  talora  anche  dagli  stranieri;  nel 
che  per6  aggiunsi  tali  condizioni,  restrizioni,  awertenze,  che  niu- 
no  pu6  accusarmi  di  favorir  il  neologismo  nostrale  o  esotico,  senza 
taccia  o  di  mala  intelligenza  o  di  mala  fede.  Per  ultimo,  scorsa  la 
storia  della  lingua  italiana  e  di  tutte  le  sue  vicende,  m'arrestai 
al  suo  stato  attuale,  mostrai  qual  sia  lo  spirito  dominante  del 
secolo  rispetto  ad  essa,  le  cause  che  lo  produssero,  i  due  scogli  tra  i 
quali  e  posta,  i  pericoli  imminenti  del  libertinaggio,  Tinutilita,  anzi 
il  mal  effetto  del  rigorismo,  indicai  i  mezzi  di  evitar  Puno  e  Faltro 
col  temperare  e  dirigere  la  corrente  del  gusto  nazionale,  senza  af- 
frontarla  onde  non  rompa  gli  argini  e  non  tragga  tutto  in  ruina: 
per  assicurar  alfine  il  governo  giudizioso  e  stabile  della  lingua 
proposi  d'instituire  una  magistratura  permanente  composta  del 
fiore  dei  letterati  d' Italia,  la  quale  fissi  un  po'  meglio  le  idee  flut- 
tuanti  degli  studiosi,  accerti  piu  fondatamente  i  giudizi,  e  quel 
ch'e  piu,  con  un  sistema  concertato  d'operazioni  vegli  a  depurare 
e  ad  accrescere  il  fondo  della  lingua,  e  a  mantenerla  in  uno  stato 
di  libertk  giudiziosa  e  di  sana  e  florida  vitalita.  Tal  e  la  condotta 
e  il  ristretto  della  mia  opera.  Qual  poi  n'era  Toggetto  e  lo  spirito  ? 
Italiani,  voleva  io  dire,  che  aspirate  al  titolo  d'illustri  scrittori 
(giacche"  non  ho  inteso  mai  di  parlar  al  volgo),  non  v'e  eloquenza 
senza  stile,  n6  stil  senza  lingua;  ma  se  volete  maneggiarla  da  mae 
stri,  studiatela  prima  da  filosofi,  disponetevi  a  conciliare  il  ragio- 
namento  col  gusto  e  ambedue  coU'uso:  la  piu  estesa  lettura  sia 
sempre  accompagnata  dalla  riflessione,  esaminate  la  locuzione  nei 
suoi  piu  minuti  elementi,  abbiate  sempre  dinanzi  i  bisogni,  la 
convenienza,  i  rapporti,  paragonate  il  vocabolo  coU'idea,  la  vi- 
vacit&  e  le  tinte  delFespressione  coi  lumi  deiroggetto,  colla  mo- 
dificazion  del  pensiero,  coirimpasto  e  la  gradazion  degl'affetti; 


466  MELCHIORRE    CESAROTTI 

conoscete  Tindole  della  lingua  in  quel  che  fa  e  in  quel  che  pu6, 
specchiatevi  nelle  opere  dei  grandi  autori,  senza  farvi  servi  d'al- 
cuno,  e  nell'appropriarvene  le  maniere  phi  scelte,  investitevi  dello 
spirito  che  gli  anim6.  Fatti  gia  per  tal  modo  possessor!  tranquilli 
delle  ricchezze  e  dell'indole  della  vostra  lingua,  coltivate  saggiamen- 
te  il  commercio  colle  straniere,  notatene  i  caratteri,  i  pregi,  le  ric 
chezze  relative,  le  differ enze  e  le  affinita  colla  vostra,  e  troverete 
forse  in  esse  di  che  supplire  a  qualche  mancanza  domestica, 
di  che  aggiungere  all'idioma  nazionale  qualche  tinta  pellegrina  che 
dia  rilievo  alia  sua  bellezza  senza  alterarne  le  forme:  allora  prov- 
veduti  d'un  corredo  inesausto  di  segni,  di  colori,  di  tornii  ben 
distribuiti  e  graduati  nelle  loro  classi,  colla  facolt£  abituale  di 
paragonare  e  di  scegliere,  colla  moltiplicita  degli  esempi,  allora, 
dico,  sappiate  pensare  e  sentire,  e  la  figura  del  concetto  verrk  a 
stamparsi  nell'espressione,  che  sara  conveniente,  vivace,  italiana 
e  vostra:  voi  non  sarete  piu  schiavi  n6  dei  dizionari  n6  dei  gram- 
matici,  non  sarete  ne*  antichisti  ne"  neologisti,  ne*  francesisti  ne* 
cruscanti,  n£  imitatori  servili  n6  affettatori  di  stravaganze;  sarete 
voi\  voglio  dire  italiani  moderni  che  fanno  uso  con  sicurezza  na- 
turale  d'una  lingua  libera  e  viva,  e  la  improntano  delle  marche  ca- 
ratteristiche  del  proprio  individual  sentimento. 

Quest^,  sig.  conte  pregiatissimo,  quell'anarchia  senza  limiti 
ch'io  tendo  d'introdur  nella  lingua:  questi  i  principii  di  quel  dete- 
stabile  tollerantismo  che  minaccia  secondo  voi  ruina  al  linguaggio, 
al  costume,  e  pressoch6  alia  religion  dellltalia,  e  per  opporvi  al 
quale  vi  parrebbe  bella  una  crociata  e  fors'anche  un  auto  da  fe.1 
Malgrado  a  questo  schiamazzo  T  Italia  non  crederi  si  facilmente 
che  chi  diede  alia  sua  favella  Ossian,  Omero  e  Demostene  abbia 
in  animo  di  awilire  e  disonorar  la  sua  patria.  lo  pretendo  di 
amarla  al  par  di  voi,  bench6  non  in  tutto  alia  foggia  vostra;  ma 
spero  ch'ella  mi  permetta  di  aver  in  letteratura  dei  principii  al- 
quanto  piu  liberi.  Quali  essi  sieno  vel  dira  per  la  mia  bocca  il 
mio  celebre  e  rispettabil  collega  sig.  Merian2  che  espresse  con  pre- 


1.  auto  daft:  cosl  erano  chiamate  le  esecuzioni  ordinate  dalPInquisizione. 

2,  Johann  Bernard  Merian  (1723-1807)  di  Basilea,  fu  dal  1771  direttore  del- 
la  classe  di  belle  lettere  deHJAccademia  di  Berlino.   Filologo,  critico  e 
filosofo  di  ampia  cultura  e  di  mente  aperta,  buon  conoscitore  della  filosofia 
e  della  critica  inglese,  e  sensibile  alia  poesia  primitiva,  e  autore  fra  Taltro 
di  una  importante  dissertazione  sui  rapporti  fra  la  poesia  e  le  scienze,  che 


LETTERA  AL  CONTE  GALEANI  NAPIONE       467 

cisione  i  miei  sentiment!,  e  sembra  appunto  essersi  spiegato  per  me : 
« II  patriottismo  e  senza  dubbio  una  bella  virtu :  praticatela  come 
cittadino,  amate,  servite,  difendete  la  vostra  patria,  morite  per  lei 
se  bisogna:  ma  nella  vostra  qualita  d'uomo  di  lettere  voi  non  avete 
patria,  voi  siete  cittadino  del  mondo:  amate  il  vero,  gustate  il  bello, 
siate  giusto  con  tutte  le  nazioni.  E  quando  pur  vi  si  accordasse 
un  po'  d'entusiasmo  per  la  vostra,  perche  perdere  in  vane  querele 
un  tempo  che  potete  impiegar  assai  meglio?  Onoratela  coi  vostri 
scritti,  rendetevi  immortale  per  immortalare  la  vostra  lingua. 
Quanto  a  me  vorrei  potermele  appropriar  tutte,  e  ragunar  intorno 
di  me  le  ricchezze  letterarie  e  classiche  delle  nazioni  e  dei  secoli, 
farmi  a  vicenda  greco,  latino,  italiano,  spagnuolo,  inglese,  tedesco, 
e  assaporar  colla  stessa  delizia  i  frutti  i  piu  squisiti  di  tutti  i  climi. 
In  tal  guisa  crederei  di  compire  i  doveri  del  filosofo,  dell'accade- 
mico,  del  letterato,  deiruomo)).1  Eccovi  la  professione  esatta  del- 
la  mia  religion  letteraria;  se  non  che  al  voto  del  sig.  Merian  io 
ne  aggiungo  nel  mio  cuore  un  altro  piu  patriottico,  cioe  che  quelle 
ricchezze  di  tutte  le  nazioni  ch'egli  vorrebbe  radunare  d'intorno  a 
s6,  io  vorrei,  se  fosse  possibile,  vederle  trasfuse  nella  mia  lingua, 
cosicch6  in  luogo  d'aver  per  qualunque  capo  a  invidiarne  alcun'al- 
tra  d'Europa,  fosse  ella  a  tutte  1'altre  oggetto  d'ammirazione  e 
delizia,  e  che  a  guisa  dell'antico  alimento  giudaico  piovuto  dal 
Cielo,2  presentasse  nelFopere  de'  suoi  scrittori  al  vario  gusto  delle 
nazioni  tutti  i  piu  squisiti  sapori  dell'eloquenza.  Giudicatene  ci6 
che  vi  pare.  Io  per  me,  per  non  demeritar  il  titolo  che  voi  mi  date  di 
tollerante,  estender6  la  mia  tolleranza  fino  alle  ingiustizie  del  vo- 
stro  zelo,  e  pago  d'aver  esposto  con  precisione  la  sostanza  e  il 
vero  oggetto  della  mia  opera,  non  aggiunger6  una  parola  ne  per 
convalidar  le  mie  opinioni  ne  per  confutar  gli  argomenti  di  cui  vi 
servite  a  combattermi.  Io  ho  inteso  di  rispondere  al  vostro  nome, 
non  alle  vostre  ragioni,  perche  queste  io  suppongo  d'averle  pre- 
venute  prima  di  leggerle.  Vi  dir6  piu  volentieri  che  le  nostre  discre- 
panze  sono  piu  apparent!  che  reali,  che  i  punti  di  convenienza  tra 
noi  sono  in  piu  numero  e  piii  rilevanti  che  quei  di  discordia,  e  che 

veni  ricordata  nel  commento  alle  pagine  del  Borsa  riportate  in  questo  vo 
lume.  II  Cesarotti  ebbe  con  lui  un'assidua  corrispondenza,  e  gli  indirizzd, 
in  particolare,  una  lunga  lettera  in  difesa  del  proprio  atteggiamento  poli 
tico  (cfr.  Opere  scelte,  a  cura  di  G.  Ortolani,  cit.,  pp.  431-57)-  *•  Cfr-  il 
compendio  citato  nella  nota  2  a  p.  443  della  dissertazione  dello  Schwab, 
p.  399.  2.  antico  .  .  .  Cielo:  la  manna. 


468  MELCHIORRE   CESAROTTI 

in  questi  stessi  non  ci  manca  il  mezzo  termine  per  conciliar  un 
accordo.  Perche*  dunque  arrestarvi  piu  volentieri  sulle  apparenze 
d'opposizione  che  sulle  dimostrazioni  sicure  di  conformita? 

Soyons  amis,  Cinnat  c'est  moi  gui  fen  convie.1 

Noi  non  siamo  fatti  per  essere  awersari:  io  non  so  risolvermi  a 
credervi  tale,  e  vi  riguardo  come  un  amico  illuso  da  prevenzioni  e 
supposti.  Che  se  tanto  vi  sta  a  cuore  1'onor  delF Italia,  senza  met- 
tervi  ad  armeggiare  con  chi  Fama  non  men  di  voi,  avete  un  mezzo 
assai  facile  per  sostenerlo.  Attenetevi  al  consiglio  del  saggio  Me- 
rian.  Voi  avete  scritto  un  libro  in  molti  sensi  pregevole,  e  que- 
sto  non  e  il  solo :  scrivete  dunque  il  piu  che  potete,  ma  consigliate 
qualche  paladino  d'  Italia  a  scrivere  il  meno  che  pu6: 

Non  his  auxiliis  nee  defensoribus  istis 
tempus  eget.2 


i.  Corneille,  Cinna,  atto  V,  scena  in  (parole  di  Augusto).  2.  Cita  a  me- 
moria  Virgilio,  Aen.,  n,  521-2  «Non  tali  auxilio  nee  defensoribus  istis/ 
tempus  eget » (« La  gravit£  del  momento  non  ha  bisogno  di  tale  soccorso 
n6  di  tali  difensori »). 


SAGGIO  SULLA  FILOSOFIA  DEL  GUSTO 
ALL' ARCADIA  DI  ROMA 

EGREGIO  CUSTODE 
ARCADI  VALOROSISSIMI 

Sarei  reo  d'un  orgoglio  imperdonabile  se  nell'inviare  a  voi  la 
mia  effigie1  avessi  osato  concepire  Tidea  ch'ella  potesse  in  al- 
cun  tempo  meritar  un  posto  tra  i  simulacri  di  quegli  uomini  grandi 
che  onorano  i  fasti  d' Arcadia,  ch'e  quanto  a  dir  quei  della  lette- 
ratura  italiana.  Altro  e  il  mio  intendimento,  e  con  altro  spirito 
io  le  ho  permesso  di  comparirvi  dinanzi.  Ella  ne  viene  a  voi  a  so- 
stener  le  mie  veci,  e  ad  esser  la  muta  interpetre  de*  miei  sentimenti; 
e  siccome  s'io  avessi  la  sorte  di  spirar  Taure  del  Tebro,  mi  farei  un 
pregio  singolare  di  attestar  al  vostro  Corpo  la  grata  mia  riverenza, 
e  d'intervenire  alle  vostre  dotte  adunanze  a  fine  di  attrarre  in  me 
alcune  di  quelle  elettriche  scintille  che  brillando  nei  vostri  com- 


Le  circostanze  in  cui  questo  Saggio  fu  composto  sono  narrate  dal  Ce- 
sarotti  stesso  nella  sua  prima  nota  a  pie  di  pagina.  Dopo  la  prima  stampa  a 
Roma,  nel  1785,  per  cura  delPAccademia  dell* Arcadia,  in  un  opuscolo 
che  comprendeva  vari  componimenti  poetici  in  onore  del  Cesarotti,  Pau- 
tore  prowide  a  ripubblicarlo  in  appendice  alia  n  edizione  del  Saggio 
sopra  la  lingua  italiana,  Vicenza,  Turra,  1788,  pp.  173-84,  e  poi  in  appendi 
ce  al  Saggio  sulla  filosofia  delle  lingue,  nelle  Operet  I,  pp.  301-28.  A  questa 
ristampa  definitiva  si  attiene  il  testo  qui  riprodotto.  Che  il  Cesarotti  ri- 
tenesse  il  presente  Saggio  come  1'esposizione  definitiva  del  suo  pensiero 
estetico  risulta  dalla  Nota  degh  edttori  relativa  al  Ragionamento  sopra  Vo- 
rigine  e  i  progressi  delVarte  poetica,  e  che  abbiamo  riprodotta  nel  cappel- 
lo  introduttivo  a  quel  Ragionamento.  Le  note  del  Cesarotti  sono  seguite 
dalla  sigla  C. 

i.  Sulle  istanze  replicate  deiregregio  custode  d'Arcadia  ab.  Giovacchino 
Pizzi  e  d'altri  membri  ragguardevoli  di  quel  corpo,  Tab.  Cesarotti  invi6  a 
quell'adunanza  il  suo  ritratto,  che  fu  poi  collocato  solennemente  nella  sala 
del  Serbatoio  fra  le  immagini  degli  uomini  piu  celebri  d'Europa  aggregati 
air  Arcadia.  Al  ritratto  aggiunse  egli  un  esemplare  delle  sue  Poesie  di  Ossian 
e  un  altro  del  suo  Corso  ragionato  di  letteratura  greca,  accompagnando  il 
tutto  col  presente  Saggio  in  forma  di  lettera.  In  tal  occasione  1'Arcadia  ce- 
Iebr6  una  festa  pastorale  in  onor  dell'autore,  il  di  cui  Ragionamento  fu 
letto  dal  sig.  ab.  Luigi  Godar,  e  seguito  da*  vari  componimenti  poetici  in 
lode  del  nuovo  pastore,  a  cui,  secondo  il  rito  di  quefla  societa,  fu  dato  il 
nome  di  Meronte  Larisseo.  II  Ragionamento  e  i  componimenti  accennati 
furono  dati  alia  luce  in  Roma  nell'anno  1785  (C.).  Tralascio  una  Canzo 
ne  di  Michelangiolo  Monti  in  elogio  del  Cesarotti,  che  fu  recitata  nella 
suddetta  « festa  pastorale »,  e  che  e  riportata  nel  seguito  di  questa  nota. 


47°  MELCHIORRE  CESAROTTI 

ponimenti  comunicano  ad  un  tempo  il  fuoco  e  la  luce,  cosi  volli 
compensar  nel  solo  modo  ch'io  posso  i  discapiti  della  mia  lonta- 
nanza,  e  porvi  sotto  gli  occhi  un  testimonio  costante  di  quel  ch'io 
sento,  godendo  nel  pensare  che  quante  volte  vi  awenga  d'alzar 
lo  sguardo  verso  di  me,  altrettante  mi  vi  vedrete  dinanzi,  in  atto 
di  modesta  compiacenza,  dirvi  tacitamente  ch'io  son  pur  vostro, 
e  che  d'esser  vostro  mi  glorio.1  E  perch6  non  le  sole  esteriori  sem- 
bianze,  ma  insieme  anche  la  miglior  parte  di  me  vi  renda  1'omaggio 
dovuto,  volli  indirizzarvi  un  esemplare  di  quelle  tra  le  mie  opere 
che  la  fanno  piu  notabilmente  conoscere.  Scarsa  e  certamente  Pof- 
ferta  al  molto  di  cui  siete  degni,  ma  mi  conforta  a  sperare  che 
possa  esser  da  voi  accolta  cortesemente,  il  pensiero  che  ambedue 
queste  opere  siano  dettate  da  quel  medesimo  spirito  che  presie- 
dette  alia  fondazione  della  vostra  gloriosa  adunanza.  Una  tal  idea 
e  per  me  troppo  lusinghiera,  perch'io  non  vi  preghi  a  soffrire  ch'io 
mi  ci  arresti,  e  che  prenda  a  sviluppar  le  ragioni  che  m'inspirano 
una  cosi  nobil  fiducia. 

lo  ho  sempre  portato  credenza  che  il  talento  di  dominar  sopra 
gli  animi  con  sciolta  o  legata  favella,  e  quello  non  meno  raro  di 
sentirne  squisitamente  gli  effetti  e  darne  adeguato  giudizio,  non 
fossero  doni  spontanei  d'una  incolta  natura  n6  conseguenze  la- 
boriose  di  freddi  precetti  scolastici,  ma  frutti  preziosi  (Tuna  filo- 
sofia  particolare  alle  lettere  che  pu6  chiamarsi  fafilosofia  del  gusto. 
Ella  e  il  genio  che  presiede  alle  arti  del  bello ;  ella  dirigge  ugual- 
mente  il  conoscitore  che  giudica  e  1'inspirato  che  detta.  Lungi 
dal  concedere  la  facolta  di  giudicare  in  queste  materie  (facolta  che 
sembra  a'  di  nostri  divenuta  un  diritto  comune)  a  una  turba  spen- 
sierata  e  leggiera,  che  digiuna  degli  studi  istrumentali  e  delle 
cognizioni  sussidiarie  accorda  alia  lettura  qualche  momento  avan- 
zato  alia  gozzoviglia,  applaude  a  controsenso,  disprezza  sulPaltrui 
fede,  alterna  sentenze  e  sbadigli,  e  getta  per  noia  il  libro  che  avea 
preso  in  mano  per  noia,  questa  giudiziosa  e  sensibile  filosofia  non 
dubita  di  negare  una  tale  autorita  e  ai  dotti  anche  rispettabili  di 
varie  classi  e  a  molti  pur  di  coloro  che,  avendo  consacrata  la  vita 
allo  studio  dei  grandi  scrittori,  si  credono  dal  volgo,  e  piu  da  loro 
stessi,  giudici  nati,  anzi  arbitri  del  tribunal  letterario.  Si,  ella  la  ne- 

i.  II  ritratto  dell'ab.  Cesarotti  tenea  nella  mano  una  cartuccia  col  motto 
di  Virgilio  [Eel.,  x,  32-3]:  «soli  cantare  periti  /  Arcades »  [«i  soli  esperti  nel 
canto  sono  gli  Arcadi »],  C. 


SAGGIO    SULLA   FILOSOFIA   DEL    GUSTO  47! 

ga  francamente  alFaccigliato  geometra  che  vorrebbe  portar  la  squa- 
dra  e  Jl  compasso  nelle  produzioni  dell'entusiasmo;  la  nega  allo 
spinoso  dialettico  che  pretende  guidar  la  logica  delle  passion!  colle 
regole  del  sillogismo ;  al  fisico  severe  che  nel  regno  delPimmagi- 
nazione  cerca  inopportune  e  inamabili  verita;  all'erudito  che,  freddo 
in  mezzo  a  un  incendio,  si  occupa  a  raccorne  con  diligenza  tiz- 
zoni  e  cenere ;  al  pesante  commentatore  che  studia  il  suo  classico 
per  notomizzarlo  come  un  cadavere;  all'umanista  che  crede  di 
formar  un  poeta  con  un  ricettario  scolastico;  finalmente  al  fasti- 
dioso  grammatico  che,  piu  inanimato  del  suo  stesso  vocabolario, 
ne  consulta  ad  ogni  momento  gli  oracoli  per  chiamare  a  sindacato 
la  sacra  lingua  del  genio.  E  dir6,  cosa  strana  forse,  non  per6  men 
vera,  che  la  filosofia  del  gusto  non  accorda  indistintamente  la  fa- 
colt^i  legislativa  e  giudiziaria  nemmeno  a  quelli  che  piu  grandeg- 
giano  nella  camera  delFeloquenza,  e  rispettandogli  come  scrittori 
originali  osa  talora  negar  loro  il  titolo  e  '1  diritto  illimitato  di  critici. 
N6  a  torto :  perciocch6  essendo  in  ciaschedun  oggetto  rappresenta- 
bile  gli  aspetti  moltiplici,  e  pressoch6  infiniti  i  rapporti  coiruom 
che  sente,  n6  potendo  1'uomo  per  leggi  individuali  del  proprio  essere 
sentir,  concepire,  rappresentar  ci6  che  prova  se  non  se  in  una  de- 
terminata  guisa  e  con  certi  e  determinati  colori,1  ne  awerrebbe 
assai  facilmente  che  il  grande  scrittore,  allorch6  teorizza  sull'elo- 
quenza,  sedotto  dall'amor  proprio  erigesse  in  legge  il  suo  esempio, 
e  desse  per  norma  universale  del  bello  quella  particolar  maniera  di 
rappresentarlo  per  cui  egli  e  ammirato  e  distinto.  In  tal  guisa 
verrebbe  ad  autorizzarsi  quel  gusto  esclusivo,  figlio  d'una  ristret- 
tezza  di  spirito  che  il  nostro  orgoglio  vorrebbe  trasformare  in 
virtu,  il  quale  sembra  non  ammettere  nelParte  altro  che  una  for 
ma  del  bello,  ch'ei  chiama  arbitrariamente  perfetto  ed  unico, 
quando  pur  la  natura  con  pochi  colori  e  alquante  figure  ci  presen- 
ta  una  varied  infinita  di  combinazioni  e  di  forme,  e  popola  di 
sempre  nuove  bellezze  uguali  e  diverse  la  scena  incantatrice  del- 
Tuniverso  visibile.  Dalla  medesima  ristrettezza  di  spirito  e  dalla 
imperfezione  di  ragionamento  deriva  Taltro  pregiudizio  di  farsi 
schiavo  d'un  autore,  d'una  nazione,  d'un  secolo,  di  adorarne  i  di- 
fetti  stessi  e  dar  la  tortura  all'ingegno  per  giustificarli  a  dispetto 

n.perciocchd.  .  .  colori:  per  questo  concetto  dell' infinite  degli  oggetti  imi- 
tabili  e  dei  modi  deirimitazione  cfr.  il  Ragionamento  sopra  Vorigine  e  i  pro- 
gressi  delVarte  poetica,  in  questo  volume,  p.  59  e  la  nota. 


MELCHIORRE   CESAROTTI 

della  ragione  e  del  gusto,  di  confondere  colle  bellezze  essenziali  ed 
intrinseche  gli  accident!  locali  e  arbitrari  che  la  religione,  le  usanze, 
il  carattere  cangiabile  del  vari  popoli,  e  quello  particolar  degli  au- 
tori  introducono  nell'esercizio  dell'arte,  e  sopra  tutto  di  venerar 
come  testi  sacri  i  dettati  d'un  antico  ragionatore,  e  trattar  come 
irreligioso  chiunque  osa  talora  dubitare  modestamente  della  loro 
infallibile  autorita.  SifFatti  pregiudizi  debbono  essere  doppiamente 
aborriti  dal  gusto  e  dalla  morale ;  conciossiach6  non  solo  portano 
nelle  lettere  uno  spirito  di  superstizione  e  di  servitu,  ma  defraudano 
gl'ingegni  della  giusta  mercede  di  gloria,  somministrano  arme  con- 
tro  il  genio  alia  maligna  mediocrita,  generano  partiti  fanatici, 
invettive  sanguinose,  guerre  acerbissime,  delle  quali  T Italia  (o 
ombra  tardi  placata  del  Tasso!)1  fu  troppo  spesso  il  teatro.  Non 
ad  altri  dunque  concede  la  nostra  filosofia  il  diritto  del  voto  nel 
tribunal  letterario  fuorcb.6  a  coloro  che  partecipano  delle  qualita 
degli  autori  stessi,  e  a  cui  niuno  manca  degli  organi  che  formano 
il  sensorio2  del  gusto,  dico  orecchia  armonizzata,  fantasia  desta, 
cuore  presto  a  rispondere  con  fremito  istantaneo  alle  minime 
vibrazioni  del  sentimento,  prontezza  a  trasportarsi  nella  situazion 
delPautore,  celerita  nel  cogliere  i  cenni  occulti  e  i  lampi  fuggitivi 
delljespressione;  a  quelli  inoltre  che  aggiungono  a  questi  doni 
naturali  tutti  i  presidii  d'una  ben  intesa  disciplina,  vale  a  dire 
scienza  profonda  dell'uomo,  perizia  filosofica  della  lingua,  cono- 
scenza  squisitissima  dei  rapporti  fra  le  modificazioni  dell'amma  e 
le  tinte  dello  stile  che  le  dipingono,  fmalmente  uno  spirito  lon- 
tano  ugualmente  dalla  servitu  e  dalFaudacia,  superiore  ai  misera- 
bili  pregiudizi  del  secolo,  della  nazion,  della  scuola,  che  concittadino 
di  tutti  i  popoli  intende  tutti  i  linguaggi  del  bello,  lo  raffigura 
senza  equivoco,  lo  rawisa  in  qualunque  spoglia,  n6  lo  adora  stu- 
pidamente  sotto  una  forma,  ma  gli  rende  omaggio  in  tutti  gli 
aspetti  che  ne  rappresentano  acconciamente  rimmagine. 

N6  con  minor  sensatezza  la  medesima  filosofia  da  consiglio  ai 
cultori  delle  Muse.  Vuoi  tu,  dic'ella,  esser  poeta  ?  consulta  meglio 
te  stesso  per  conoscere  se  hai  pegni  legittimi  di  questa  missione 
d' Apollo:  guardati  dal  confondere  colla  sacra  fiamma  del  genio 

i.  o  ombra  .  .  .  Tasso:  le  critiche  mosse  al  Tasso  dai  critici  pedanti  e  dai 
puristi  cruscanti  sono  spesso  ricordate  dalla  cntica  illuministica  come  prova 
dell'assurdita  delle  regole  fondate  sulP autorita  degli  antichi.  2.  sensorio: 
senso,  facolta. 


SAGGIO    SULLA   FILOSOFIA   DEL    GUSTO  473 

il  fuoco  fatuo  d'una  puerile  immaginazione.  Se  alia  lettura  di 
qualche  grande  originale  non  balzi  e  fremi  come  Achille  travestito 
alia  vista  delle  armi  d' Ulisse;1  se  dopo  aver  meditato  un  soggetto 
non  ti  senti  inseguito  da  mille  fantasmi  che  sembrano  domandar 
la  vita  dalla  tua  penna;  se  non  puoi  a  tuo  grado  animar  i  corpi  e 
vestire  di  corpo  Fidee;  se  rivale  della  natura,  conciliando  il  possi- 
bile  colFimmaginario,  non  sai  popolar  il  mondo  di  esseri  piu  me- 
ravigliosi  e  perfetti  senza  snaturarne  le  specie;  se  credi  d'aver  fatto 
assai  ricopiando  in  te  stesso  qualche  esemplare  famoso,  e  ti  movi 
incerto  e  tremante  sull'altrui  orme,  cessa  d'affaticarti  per  annoiare 
i  tuoi  simili,  rinunzia  a  un'arte  non  tua.  Perche  stancarmi  1'orec- 
chio  con  una  vana  sonorita?  perche  con  un  gergo  ampolloso  far 
pompa  d'un  freddo  entusiasmo?  perche  affettar  un  sentimento 
smentito  da  un  linguaggio  suggerito  dalla  memoria  e  non  inspirato 
dal  cuore  ?  Aspiri  tu  alia  gloria  d'una  facondia  piu  libera?  distingui 
Peloquenza  degli  affetti  da  quella  della  ragione,  impara  a  con- 
temperarle  saggiamente  fra  loro,  e  rendi  la  fantasia  non  padrona, 
ma  ministra  giudiziosa  d'entrambe:  riempiti  del  tuo  soggetto;  vero 
camaleonte,  prendi  il  color  della  cosa  su  cui  t'arresti;  conosci  la 
scienza  delle  proporzioni  e  delle  misure;  abbi  sempre  dinanzi  la 
massima  delle  virtu  di  chi  scrive,  la  convenienza;  innanzi  di  pre- 
sentar  quadri  animati,  riflessioni  ingegnose,  espressioni  energiche, 
prepara  lo  spirito  degli  ascoltanti;  pressenti  il  momento  del  desi- 
derio  e  il  punto  della  sazieta;  sopra  tutto  abbi  vigoria  di  pensa- 
mento  e  quel  sublime  delFanima  senza  di  cui  la  sublimita  delle  pa 
role  non  e  che  fumo  e  rimbombo:  questo  solo  comunichera  alle 
tue  opere  energia,  calore,  interesse;  questo  ti  rendera  degno  a  cui 
la  verita  commetta  Ponor  di  difenderla,  e  la  virtu  di  premiarla. 

i.  Achille  .  .  .  Ulisse:  narra  il  mito  che  Achille,  travestito  da  donna  alia 
corte  di  Deidamia  per  sottrarsi  ai  rischi  della  guerra  troiana,  si  rive!6  alia 
vista  di  una  spada  astutamente  mostratagli  da  Ulisse,  che  si  era  camuffato 
da  mercante.  Tutto  questo  capoverso  riecheggia  un  passo  della  famosa  vo- 
ce  Genie  del  Dictionnaire  de  musique  del  Rousseau  (cfr.  Oeuvres,  vii,  Pa 
ris,  Hachette,  1906,  p.  125):  «Veux-tu  done  savoir  si  quelque  etincelle  de 
ce  feu  deVorant  t'anime;  cours,  vole  £  Naples  6couter  les  chefs-d'oeuvre 
de  Leo,  de  Durante,  de  Jomelli,  de  Pergolese.  Si  tes  yeux  s'emplissent  de 
larmes,  si  tu  sens  ton  coeur  palpiter,  si  des  tressaillemens  t'agitent,  si  Pop- 
pression  te  suffoque  dans  tes  transports,  prends  le  Metastase  et  travaille 
. .  .  Mais  si  les  charmes  de  ce  grand  art  te  laissent  tranquille,  si  tu  n*a  ni 
delire  ni  ravissement,  si  tu  ne  trouves  que  beau  ce  qui  transporte,  oses-tu 
demander  ce  qu'est  le  ginie  ?  Homme  vulgaire,  ne  profane  point  ce  nom 
sublime ». 


474  MELCHIORRE   CESAROTTI 

Questi  sono  i  dettami  generali  di  quella  filosofia  che  dee  regnar 
nelle  lettere,  Felici  quegli  spirit!  privilegiati  che  possono  awerarli 
colfopere!  io  non  so  che  pregiarmi  d'averne  fatto  uno  studio  e 
cercato  di  profittarne.  Tuttoch6  possa  lusingarmi  che  i  saggi  di 
vario  genere  da  me  scritti  nella  nostra  lingua  e  in  quella  del 
Lazio  non  siano  affatto  privi  di  qualche  carattere  proprio  che  li 
distingua,  sento  per6  abbastanza  qual  vasto  spazio  mi  divida  da 
quegPingegni  creatori  che  nobilitano  cotanto  la  letteratura  d?  Italia. 
Pure  se  la  mia  tenuita  non  mi  permise  di  rendermi  direttamente 
benemerito  della  poesia  nazionale,  ebbi  per6  la  sorte  di  procacciar- 
le  qualche  straniera  bellezza  e  d'arricchirla  delFaltrui  spoglie.  Chi 
avrebbe  pensato  che  le  montagne  di  Caledonia  dovessero  aprire  una 
miniera  poetica  del  tutto  nuova?1  Nel  cuore  della  barbarie,  nelle 
tenebre  della  piu  alta  ignoranza,  in  un  sistema  rozzo  ed  informe 
di  societa,  sotto  un  cielo  nebbioso,  fra  lo  squallor  dei  deserti,  in 
mezzo  al  rugghiar  dei  torrenti  e  delle  tempeste,  sorse  cola  un  es- 
sere  straordinario  che  la  natura  sembra  avere  espressamente  for- 
mato  per  fame  il  suo  poeta  per  eccellenza,  e  mostrar  quanto  ella 
possa  collo  sviluppo  pieno  e  libero  delle  sue  forze.  Un  cuore  pro- 
fondamente  sensibile  e  penetrato  da  quella  melanconia  sublime 
che  sembra  il  distintivo  del  genio,  una  fantasia  in  cui  s'impronta- 
no,  anzi  si  scolpiscono  tutti  gli  oggetti,  un'anima  che  trabocca  e 
riversasi  sopra  tutto  ci6  che  la  circonda,  sono  i  caratteri  principal! 
che  lo  rendono  singolare,  anzi  unico  nella  sua  specie.  Alternative 
perpetue  d'affetti  grandi  e  patetici,  quadri  i  piu  toccanti  di  te- 
nerezza  domestica,  narrazione  animata  che  ti  trasporta  imperiosa- 
mente  in  mezzo  all'azione,  scene  silvestri  spiranti  un  orrore  au- 
gusto,  fenomeni  della  natura  rappresentati  ora  con  imponente  mae- 
sta,  ora  col  piu  dolce  vaneggiamento,  espressione  pregna  della 
cosa,  brevitk  comprensiva,  energia  d'evidenza,  tratti  or  di  foco  or 
di  lampo,  vibratezza  e  rapidita  inarrivabile  formano  un  cumulo 
di  pregi  che  riuniti  e  portati  ad  un  grado  cosl  eminente  si  cerche- 
rebbero  indarno  in  tutto  il  regno  poetico. 

Quel  ch'fe  piii  singolare,  oltre  un  eroismo  d'umanita  che  fa  ver- 
gogna  ai  poeti  dei  piu  colti  secoli,  vi  si  scorge  una  composizione 
cosi  ben  intesa,  un  disordine  di  narrazione  cosl  giudizioso,  un'ac- 
cortezza  nelPannunziar  il  carattere  e  nel  preparare  o  nel  nascon- 
dere  Pevento,  indicazioni  e  talora  silenzi  cosi  eloquenti,  insomma 
i,  Chi . .  .  nuova:  allude  ad  Ossian. 


SAGGIO   SULLA  FILOSOFIA  DEL   GUSTO  475 

awedutezze  cosl  squisite  che  sembrano  eifetti,  se  lice  il  dirlo, 
di  un'arte  raffinatissima  della  natura.  D'un  cosi  grande  originale  eb- 
bi  Parditezza  di  fame  un  dono  alTItalia.  Senza  un  esempio  che  mi 
servisse  di  scorta,  con  una  lingua  feconda  si,  ma  isterilita  dalla 
tirannide  grammaticale,  a  guisa  d'atleta  mediocre  costretto  a  lot- 
tare  con  un  gigante,  a  fine  di  non  restarne  oppresso  dovetti  ricor- 
rere  a  una  scherma  particolare  e  inventare  scorci  ed  atteggiamenti 
di  nuova  specie.  Com'io  sia  riuscito  non  posso  dirlo:  ma  se  al 
vostro  purgato  giudizio,  valorosissimi  Arcadi,  pu6  sembrar  che 
per  questo  mezzo  mi  venisse  fatto  di  arricchir  Perario  della  lingua 
di  qualche  felice  espressione,  di  dar  qualche  nuova  tinta  al  colorito 
poetico,  di  variar  con  qualche  nuova  flessione  quella  musica  imi- 
tativa  che  dipinge  col  suono,  e  insieme  colFoggetto  porta  nelPa- 
nima  la  sensazione  che  lo  accompagna,  oser6  lusingarmi  che  la 
mia  impresa  sia  tutt'altro  che  un  lavoro  subalterno  e  meccanico. 
Pieno  dei  consigli  della  mentovata  filosofia,  m'accinsi  pur  an- 
che  a  trattare  argomenti  di  critica  letteraria,  segnatamente  nelTal- 
tra  opera  che  ho  1'onore  di  presentarvi.  Chi  non  conosce  i  Greci,1 
e  qual  uomo  di  buon  senso  non  gli  rispetta  come  i  padri  delle  arti 
del  gusto,  gPinventori  di  pressoche  tutti  i  generi  dell'eloquenza,  i 
maestri  di  quella  sensata  e  naturale  semplicita  che  ha  il  diritto  di 
farsi  ammirare  anche  adorna  sol  di  se  stessa  ?  Ma  non  basta  al  pre- 
giudizio  che  si  ammiri  il  suo  idolo :  vuol  che  si  adori  con  un  culto 
esclusivo  e  superstizioso :  e  la  superstizione  e  sempre  aborrita 
dalla  filosofia,  anche  perche"  tosto  o  tardi  conduce  naturalmente 
alFirreligione.  Ben  tosto  le  opinioni  dei  Greci  si  videro  trasformate 
in  oracoli,  gli  esempi  in  leggi,  le  usanze  arbitrarie  in  doveri 
universali  ed  essenzialissimi,  i  difetti  stessi  in  virtu.  Un  eccesso 
produsse  Faltro,  e  i  Greci  trovarono  bestemmiatori  e  idolatri  in 
luogo  di  conoscitori  e  di  giudici.  La  rivoluzione  accaduta  nel  si- 
stema  intellettuale  alter6  anche  a  poco  a  poco  quel  delle  lettere; 
i  nuovi  tesori  fecero  scordare  gli  antichi;  il  gusto  si  rese  piu  raffi- 
nato,  e  acquistb  bellezze  particolari  e  difetti  propri:  la  Grecia, 
trascuratane  la  lingua,  divenne  per  Funiversale  un  paese  incogni 
to,  intorno  al  quale  alcuni  pochi  viaggiatori  raccontano  in  bene  e  in 
male  prodigi  e  favole.  La  moltitudine  non  conserv6  per  gli  autori 

i.  Chi  .  .  .  Greci:  nella  pagina  che  segue  sono  riassunti  i  concetti  principal! 
del  Ragionamento  preliminare  al  corso  ragionato  di  letteratura  greca,  ripor- 
tato  anche  in  questo  volume. 


MELCHIORRE    CESAROTTI 

greci  che  una  stupida  e  confusa  venerazione,  e  i  nomi  loro  piu 
noti  delle  loro  opere  servirono  a  qualche  Aristarco1  di  spauracchio 
per  umiliar  i  talenti,  e  di  soggetto  a  molte  pie  lamentazioni  sulla 
perdizione  del  secolo.  Bramoso  di  rianimar  il  commercio  alquanto 
languente  colla  greca  letteratura,  mi  proposi  di  farla  conoscer  me- 
glio  aH'universale,  onde  gli  uomini  di  gusto  non  abbiano  a  par- 
larne  a  caso  sulla  fede  non  sempre  sicura  degli  eruditi,  n6  sulle 
dicerie  degli  spiriti  superficiali  e  leggieri,  ma  a  darne  matura  sen- 
tenza  fondata  sul  proprio  senso  e  su  i  lumi  d'una  limpida  e  incon- 
taminata  ragione.  Con  questo  disegno  volli  dar  al  pubblico  nella 
favella  d' Italia  le  piu  insigni  produzioni  degli  autori  di  quella  ce- 
lebre  nazione  nei  vari  generi  d'eloquenza,  accompagnandole  con 
osservazioni  e  ragionamenti,  nei  quali  sviluppandone  le  virtu  sen- 
za  dissimularne  i  difetti,  mi  sono  fatto  una  legge  di  render  ugual- 
mente  giustizia  ed  ai  Greci  e  alia  verita.  lo  assoggetto  rispetto- 
samente  quest'opera  al  vostro  dotto  consesso,  e  quando  esso  la 
trovi  non  inutile  alia  perfezione  del  gusto,  e  dettata  da  quello  spi- 
rito  di  libera  e  ponderata  equita,  ch'e  ranima  d'una  saggia  critica, 
sorTrir6  senza  pena  i  clamori  degrimperiti  e  gli  anatemi  inevita- 
bili  dei  settari. 

Da  quanto  ho  detto,  voi  scorgete  assai  chiaramente,  ornatissimi 
Arcadi,  ch'io  son  d'awiso  che  chiunque  si  consacra  alle  lettere 
debba  esser  filosofo  nella  teoria,  original  nella  pratica.  Che  questo 
medesimo  principio  fosse  la  base  su  cui  fondossi  la  vostra  gloriosa 
adunanza,  basta  a  provarlo  la  storia  della  sua  origine.  Soffrite 
ch'io  la  rammemori  scorrendo  prima  per  1'epoche  delPitaliana 
letteratura.  Fu  veramente  fortuna  per  la  poesia  nazionale  che  i 
primi  padri  di  essa,  Dante  e  Petrarca,  non  avessero  nei  grandi  scrit- 
tori  deH'antichita  verun  esemplare  del  loro  genere.  Senza  di  ci6, 
sedotti  da  una  giusta  riverenza,  sarebbero  probabilmente  stati 
imitatori  a  dispetto  della  lor  vocazione,  laddove  isolati  e  soli  con 
la  natura  e  se  stessi  comunicarono  alia  poesia  italiana  Timpronta 
originate  dei  loro  diversi  caratteri.  II  primo,  dotato  d'una  fantasia 
inventiva  e  robusta,  si  fa  creatore  della  sua  lingua,  la  doma  e 
1'atteggia  in  varie  guise,  affronta  con  essa  le  idee  piu  astratte  e  intrat- 
tabili  e  le  si  assoggetta:  concepisce  un  piano  vasto,  che  abbraccia 

i .  Aristarco :  col  nome  del  celebre  filologo  e  critico  alessandrino,  il  Cesa- 
rotti  anche  qui  indica,  come  altre  volte,  i  critic!  stolidamente  attaccati  alle 
regole. 


SAGGIO   SULLA   FILOSOFIA   DEL   GUSTO  477 

tutto  il  reale  e  rimmaginario,  ed  inalza  un  immenso  edifizio 
d'architettura  alquanto  grottesca,  ma  che  sorprende  per  Parditezza 
e  la  forza  delPesecuzione  anche  gli  amanti  cfun'esatta  regolarita: 
il  secondo,  fornito  d'organi  squisitissimi,  di  spirito  colto,  d'anima 
delicata  e  pendente  ad  una  nobile  melarxconia,  preso  da  un  amore 
che  avea  per  base  la  contemplazione  del  bello  piu  che  Tebbrezza 
dei  sensi,  ringentili  la  sua  favella  togliendole  quanto  avea  d'informe 
e  di  scabro,  e  porto  nello  stile  quella  dolce  gravita,  quel  fior  di  de- 
cenza,  queirarmonia  di  sentimento,  quel  colorito  leggiadramente 
modesto  che  lo  rendono  tanto  poeta  singolare,  quanto  amante 
straordinario.  Vanta  il  secolo  sedicesimo  due  altri  insigni  poeti,  ben- 
che  piuttosto  original!  che  creatori,  i  quali  ugualmente  celebri  per 
diverse  qualita  tengono  tuttavia  sospesa  1' Italia  sulla  preferenza 
del  merito.  Ambedue  pittori  insigni,  ma  Tuno  naturalista  felicis- 
simo  copia  il  vero  particolare,  Taltro  ci  presenta  il  bello  ideale: 
1'uno  ha  Fevidenza  del  dettaglio,  1'altro  quella  della  precisione  e 
delFenergia:  Funo  trattiene  colla  varieta,  Faltro  appaga  e  interessa 
colFordine :  il  macchinismo1  dell* Ariosto  scherza  alia  fantasia  con 
un  mirdbile  capriccioso  e  gratuito;  quello  delTasso,  fatto  stromento 
delFazion  principale,  alletta  la  ragione  colla  convenienza:  nel  pri- 
mo  la  piacevolezza  d'un  verseggiamento  spontaneo  sembra  impe- 
trar  perdono  alia  licenza  d'uno  stile  senza  pretensione,  talora  me- 
no  semplice  che  familiare  e  piu  trascurato  che  facile;  nelTaltro 
la  maestosa  compostezza  del  numero,  la  esatta  osservazion  del 
decoro,  i  tanti  lumi  di  locuzione  e  d'ingegno  rendono  piu  sensibili 
alcune  sconvenienze  di  stile,  e  trovano  il  lettor  piu  difficile  perchd 
costretto  ad  una  ammirazione  perpetua:  in  una  parola  in  quello 
si  scorge  la  fecondita  irregolare  della  natura,  nell'altro  la  sim- 
metria  e  il  lavoro  delFarte,  occupata  forse  di  soverchio  a  perfezio- 
narla.  Perci6  dei  quattro  grandi  originali  dj  Italia  parmi  che  Dante 
possa  dirsi  il  poeta  del  genio,  il  Petrarca  quello  del  gusto,  1'Ariosto 
della  verita,  il  Tasso  della  ragione :  la  lingua  nostra  deve  al  primo 
energia,  gentilezza  al  secondo,  al  terzo  facilita,  aH'ultimo  maesta, 
splendore  ed  aggiustatezza.  Mentre  Tepica  italiana  giungeva  a  si 
grande  altezza,  la  lirica  in  questo  secolo  langui  nell'imitazione. 
II  Costanzo  e  piu  pregevole  per  Tingegno  e  la  condotta  dej  suoi 
sonetti,  che  pel  sentimento  ch'e  Tanima  del  genere  amatorio;  e  il 

i.  il  macchinismo:  il  meccanismo,  il  complesso  delle  invenzioni  fantastiche. 


MELCHIORRE   CESAROTTI 

Casa,  cercando  la  gravita,  non  diede  al  numero  che  un  meccani- 
smo  sforzato,  e  allo  stile  che  qualche  frase  non  sempre  la  piu  assor- 
tita  al  soggetto.1  II  Tansillo,  il  Caro,  il  Coppetta2  vi  aggiunsero 
qualche  novita  di  pensiero  o  di  locuzione,  il  Chiabrera  v'introdusse 
felicemente  Paria  e  le  maniere  dei  Greci:3  ma  il  maggior  numero 
non  fe'  che  spogliare,  far  in  brand,  travestire  in  cento  guise  il  Pe- 
trarca.  La  fredda  uniformita,  il  platonismo  affettato,  il  vuoto  d'idee 
s'impadroni  dello  stile :  il  colorito  il  piu  leggiadro,  logoro  e  svenuto4 
dal  soverchio  uso,  perde  la  freschezza  e  la  grazia,  e  le  copie  ina 
nimate  fecero  al  fine  venir  a  noia  Toriginale  medesimo.  Nel  tempo 
stesso  la  critica  pedantesca  esercitava  il  suo  impero  su  tutta  Tarte ; 
i  commentatori  pretendevano  dar  leggi  al  genio;  il  teatro  italiano 
non  dovea  rappresentar  che  usanze  e  passioni  greche;  un  titolo, 
una  parola,  un  testo  equivoco  destavano  tra  i  dotti  guerre  civili 
tanto  piu  acerbe  quanto  il  soggetto  n'era  piu  vano  e  ridicolo.  Che 
ne  addivenne  fmalmente  ?  ci6  che  doveva  aspettarsi.  II  despotismo 
genero  Taudacia,  e  la  nausea  deirimitazione  dest6  la  passion  della 
novita.  Nel  letargo  della  noia  tutto  piace  purche  ci  scuota.  Un 
ingegno  troppo  felice5  accelero  la  rivoluzione  gia  preparata,  e 
abusando  delle  sue  ricchezze  abbagli6  gli  spiriti  con  un  falso  lume, 
e  gli  sedusse  colle  lascivie  d'una  intemperante  immaginazione. 
Ognuno  si  rivolse  con  trasporto  a  questa  brillante  meteora,  e  1'ap- 
plauso  comune  invito  la  moltitudine  ad  aprirsi  nuovi  sentieri, 
e  a  segnalarsi  nelParditezza.  La  moda  soggiogo  la  ragione;  la 
turgidezza,  1'affettazione,  Facume,  la  stravaganza  medesima  furono 
piu  ben  accolte,  quanto  piu  andavano  lungi  dalla  fastidiosita  del- 
Tesempio. 

Per  tal  via  si  propago  e  prese  forza  quella  corruzione  del  gusto, 
che  rese  ignominioso  nella  nostra  storia  letteraria  il  nome  di  un 

1.  I  giudizi  sul  di  Costanzo  e  sul  della  Casa,  due  fra  i  poeti  piu  cari  ai 
primi  Arcadi,  sembrano  riecheggiare,  con  piu  forti  limitazioni,  quelli  del 
Bettinelli  nelle  Letter  e  virgiliane  (ed.  V.  E.  Alfieri,  Bari,  Laterza,  1930,  p.  39) : 
« II  Casa,  per  non  so  quale  asprezza  e  violenza  posta  ne'  versi  suoi,  parve 
alquanto  acquistare  di  forza  e  di  gravita,  nel  Costanzo  trovavasi  una  certa 
disprezzatura,  che  semplice  e  graziosa  parea,  bench6  piuttosto  vicina  alia 
prosa  e  alPargomentazione  apparisse  che  alTottimapoesia.  Nelprimo  unpo' 
troppo  sentivasi  la  fatica  e  lo  studio,  nel  secondo  un  po'  troppo  poco». 

2.  II  perugino  Francesco  Coppetta  dej  Beccuti  (1509-1553),  autore  di  liriche 
petrarchistiche  che  si  distinguono  per  una  certa  varieta  di  argomenti  e  di 
toni,  e  che  furono  ammirate  anche  dal  Tasso.     3.  il  Chiabrera  .  .  .  Greci: 
imitando  Pindaro  e  Anacreonte.     4.  svenuto :  sbiadito.     5 .  Un  ingegno  trop 
po  felice:  il  Marino. 


SAGGIO   SULLA  FILOSOFIA   DEL    GUSTO  479 

secolo1  cosi  rispettabile  in  quella  della  filosofia.  Non  e  gia  che 
questo  secolo  stesso  non  conti  alcuni  poeti  assai  ragguardevoli  e 
che  vagliono  forse  ufi  centinaio  di  rimatori  del  precedente;  ma  pochi 
e  dispersi  per  T Italia  non  bastavano  a  far  fronte  all'anarchia  ge- 
nerale:  ci  voleva  una  confederazione  di  buoni  spiriti  autorevoli 
per  talenti  non  meno  che  per  dottrina,  i  quali  in  una  citta  rispetta 
bile  come  in  un  centro  comune  raccogliessero  le  loro  forze,  ani- 
massero  i  loro  alleati,  e  ne  formassero  un  solo  corpo  diretto  dagli 
stessi  principii  e  tendente  allo  stesso  fine  di  cooperar  giudiziosa- 
mente  alia  riforma  del  gusto.  Era  ben  giusto  che  Roma  desse  la 
legge  all' Italia.  Fu  qui  che  un  drappello  di  scelti  cultori  delle  Muse 
spieg6  il  vessillo  della  ragione  e  richiamo  i  traviati;  qui  fu  che  sotto 
il  nome  d}  Arcadia,  provincia  cosi  rinomata  per  la  disciplina  musi- 
cale,  alz6  un  riparo  contro  il  torrente  della  corruzione,  come  ap- 
punto  gli  antichi  Arcadi  eressero  la  citta  di  Megalopoli  per  far 
argine  all'insolenza  di  Sparta.  Ma  per  condurre  a  buon  fine  si 
grande  impresa  qual  fu  il  piano  di  direzione  che  voi  formaste?2 
Voi  dico,  perch6  scorgendovi  eredi  dell'antico  spirito,  contemplo 
in  voi  stessi  i  vostri  egregi  progenitori.  Per  opporvi  ai  vizi  del 
vostro  secolo  avete  voi  adottato  i  pregiudizi  del  precedente  ?  avete 
voi  sostenuto   che  tutto  il  codice  della  poesia  stava  racchiuso 
in  un  esemplare  anche  perfetto  nella  sua  specie?  che  in  questo 
naufragio  non  v'era  altra  tavola  che  Timitazione  ?  che  doveasi  avere 
assolutamente  per  guasto  qualunque  stile  che  scostavasi  da  un 
certo  e  determinato  modello?  No;  ch6  ben  altro  vi  dettava  la 
natura  vostra  educata  nella  filosofia  delle  lettere.  Conciossiache 
voi  ben  conosceste  che  Timitazione  della  natura  e  inesauribile  come 
la  natura  medesima;  che  la  verita  dell'imitazione  dipendendo  meno 
dal  rapporto  fra  essa  e  Toggetto,  che  da  quello  che  passa  fra  il  modo 
d'imitare  e  Timpression  dell'oggetto  fatta  neiranimo,  e  potendo 
la  ragione,  la  fantasia  e  il  sentimento  lavorare  o  sole  o  mescolate 
fra  loro  intorno  ad  un  oggetto  stesso,  tanti  per  conseguenza  possono 
esser  gli  stili  che  ne  risultano,  quante  sono  1'impressioni  degli  og- 
getti  e  le  combinazioni  delle  mentovate  facolta;  conosceste  che 

i.  un  secolo:  il  Seicento.  2.  Ma  .  .  .formaste?:  in  realta  &  piano  che  il  Ce- 
sarotti  espone  nella  pagina  che  segue,  contiene  non  tanto  i  principii  che 
guidarono  i  primi  Arcadi,  quanto  una  loro  interpretazione  e  rielaborazio- 
ne  alia  luce  della  poetica  del  Cesarotti  stesso.  Cfr.  su  questo  punto  la  No- 
ta  introduttiva. 


40  MELCHIORRE   CESAROTTI 

ogni  virtu  dello  stile  &  affine  e  contigua  ad  un  vizio  analogo,  e  che 
quelle  e  questi  scambiano  assai  spesso  sembianze;  che  perci6  & 
ufizio  d'un  buon  critico  di  distinguerli  esattamente  fra  loro  e 
fissarne  con  precisione  i  caratteri,  e  ch'e  ugual  fallo  confonder  il 
vizio  colla  virtu,  che  rigettar  una  virtu  per  la  somiglianza  del 
vizio:  che  tra  le  virtu  dello  stile  e  una  debolezza  irragionevole  il 
prediligerne  alcuna  a  preferenza,  non  che  ad  esclusione  delle  altre, 
quando  tutte  sono  ugualmente  necessarie,  e  la  migliore  d'ogni  al- 
tra  non  e  che  la  piu  opportuna  al  momento :  conosceste  finalraente 
che  ad  onta  di  ci6  ogni  secolo  per  la  necessaria  influenza  del  siste- 
ma  intellettuale  e  socievole  pende  a  favorir  maggiormente  quella 
maniera  di  stile  che  ha  piu  d'analogia  colla  generale  disposizion 
dello  spirito,  e  che  la  moltitudine,  mancante  d'esatto  criterio,  non 
ama  talora  il  difetto  che  per  Papparenza  di  una  virtu  da  cui  6 
colpita  piu  vivamente:  dal  che  saggiamente  inferiste  esser  follia 
il  pretendere  di  liberarla  dall'illusione  col  volerla  trarre  violente- 
mente  allo  stile  opposto,  ma  doversi  piuttosto  disingannarla  col 
presentarle  la  virtu  medesima  ch'ella  predilige,  nella  sua  vera  bel- 
lezza  e  depurata  dalla  mistura  del  vizio.  Con  queste  idee  vi  fu  age- 
vole  il  distinguere  con  esattezza  il  reale  dall'apparente,  il  difettoso 
dal  diverso,  il  gusto  particolare  dal  filosofico.  II  vostro  esempio 
sparse  un  nuovo  lume  sulla  faccia  della  letteratura  italiana;  a 
fronte  del  vero  sparirono  Pombre  e  le  larve;  il  bello  si  moltiplic6 
in  mille  forme,  ed  ebbe  aspetti  ed  atteggiamenti  diversi.  Altri  s'ap- 
pigliarono  al  nuovo,  altri  conservarono  il  color  delPantico,  ma 
nelle  loro  opere  si  scorsero  fisonomie  somiglianti  d'uomini  vivi, 
e  non  gia  maschere  di  cadaveri.  Si  trattarono  tutti  i  soggetti,  tutti 
gli  stili  si  coltivarono:  il  pensato,  il  grandioso,  il  galante,  Pinge- 
gnoso,  il  disinvolto,  il  vibrato,  Pimmaginoso,  il  fantastico,  generi 
o  ignoti  o  sospetti,  figurarono  accanto  del  semplice  non  disadorno 
e  del  modesto  toccante.  La  pastorale  si  nobilitb  senza  perdere  le 
innocent!  sue  grazie;  la  lirica  imparo  a  toccare  con  ugual  mae- 
stria  tutte  le  sue  corde;  alle  voci  delPamabile  Zappi,  del  fatidico 
Guidi1  e  degli  altri  illustri  figli  o  alunni  del  Tebro,  accorsero  i 
migliori  ingegni  d'ltalia;  P  Arcadia  aperse  il  suo  seno  e  si  po- 
po!6  di  nuovi  cittadini  tutti  animati  del  medesimo  spirito;  il 

i.  fatidico  Guidi:  1'appellativo  allude  alle  canzoni,  ricche  di  immagini  bi- 
bliche,  composte  dal  Guidi,  che  il  Leopardi  chiamera  «emulo  impotente 
di  Pindaro». 


SAGGIO    SULLA  FILOSOFIA   DEL    GUSTO  481 

bosco  Parrasio1  echeggib  al  suono  di  cento  cigni  diversi,  e  i  loro 
canti  diversamente  concordi,  le  zampogne,  le  trombe,  i  flauti,  le 
cetere  formarono  un'armonia  infinitamente  varia  ed  incantatrice, 
invidiabile  al  Parnaso  stesso.  A  voi  dunque,  valorosissimi  Arcadi, 
deve  Titalica  poesia  la  nuova  e  piu  vegeta  e  meglio  fondata  sua 
vita,  da  voi  riconosce  i  suoi  progress!  e  il  suo  stato  sempre  cre- 
scente  di  floridezza  e  di  gloria:  tutte  Topere  di  cui  si  pregia  sono 
frutto  de'  vostri  auspici,  o  ebbero  dal  vostro  esempio  il  primo  ger- 
me  vitale  per  cui  fiorirono.  L' Italia  non  vant6  poscia  alcun  valo- 
roso  poeta  che  non  fosse  o  cittadino  o  colono  vostro ;  fra  i  quali  non 
so  tacer  di  que*  due  che  soli  bastano  a  render  eternamente  me- 
morabile  la  nostra  eta.  L'uno  e  Feccelso  Comante,2  grand'artefice 
delFarmonia  libera  e  maestro  di  quella  splendida  e  immaginosa 
grandiloquenza  che  awera  1'antico  detto,  esser  la  poesia  piuttosto 
la  favella  degli  dei  che  degli  uomini:  Taltro  (i  vostri  cuori  gia 
mi  prevengono)  6  il  poeta  degno  soltanto  di  Roma,  il  mime  della 
scena  drammatica,  di  cui  che  dir6?  nulla:  perche  tutto  e  poco. 
Osserver6  piuttosto  che  niun  altro  piu  di  lui  pu6  giustificare  i 
nostri  comuni  principii:  niuno  pu6  mostrar  meglio  i  diversi  effetti 
della  prevenzione  e  del  genio,  del  gusto  fattizio  e  di  quello  della 
natura.  Un  dotto3  della  vostra  adunanza,  rispettabile  per  molti 
titoli,  prosator  tanto  nobile  quanto  sgraziato  verseggiatore,  cri- 
tico  prevenuto  ma  ragionator  imponente,  e  che  ardiva  credersi 
libero  coi  ceppi  al  piede,  sembrava  aver  preso  assunto  di  guastar 
colla  sua  disciplina  lo  spirito  il  piu  felice  del  secolo.  Egli  volea  ch'ei 
radesse  il  suolo,  schiavo  della  regola,  quand'era  fornito  di  penne 
per  tentar  un  volo  da  Dedalo,  e  che  apprendesse  le  leggi  del  tea- 
tro  dalPusanze  dei  Greci,  quando  per  inspirazion  di  Melpome 
ne  ne  leggeva  tutta  Tarte  dentro  il  suo  cuore:  fortunatamente  i 
principii  e  1'  esempio  di  tutto  il  Corpo  parlarono  piu  alto  che 
Tautorita  d'uno  de'  suoi  membri,  rinvigorirono  la  ragione  ed  ina- 


i.  bosco  Parrasio:  cosi  era  chiamato  il  luogo  dove  si  adunavano  gli  Arca 
di,  dal  bosco  omonimo  deir Arcadia.  2.  Comante  Eginetico  era  il  nome 
arcadico  di  Carlo  Innocenzo  FrugonL  3.  Un  dotto:  allude  al  Gravina,  che 
fu  in  realt^  uno  dei  pensatori  piu  robusti  e  geniali  delPet£  arcadica,  e  la 
cui  influenza  sul  Metastasio  fu  tutt' altro  che  negativa.  Ma  il  Cesarotti  qui, 
come  gi&  nel  Ragionamento  sopra  il  diletto  della  tragedia,  vede  in  lui  soprat- 
tutto  uno  strenuo  classicista.  Un  giudizio  piu  positive  sul  suo  pensiero 
estetico  si  legge  invece  nel  Ragionamento  sopra  Vorigine  e  i  progressi  del- 
Varte  poetica. 

31 


MELCHIORRE   CESAROTTI 


nimarono  il  genio:  qual  prodigiosa  diversita:  la  scuola  il  rese 
autor  del  Giustino*  1'  Arcadia  il  fe'  Metastasio.  Arcadia,  dopo  un 
tal  nome  non  si  pu6  aggiunger  di  piu  ne  al  mio  argomento  n6 
alia  tua  gloria. 


i.  Giustino:  tragedia  di  tipo  rigidamente  classicistico,  che  il  Metastasio 
compose  a  quattordici  anni,  quando  era  sotto  la  diretta  influenza  del  Gra- 


DALLE  LETTERE 
I 

A  GIUSEPPE  TOALDO1 

[Notizie  letterarie  da  Venezia.] 

Venezia,  15  dicembre  1760. 

Le  mie  cose  vanno  benissimo  in  tutti  i  sensi,  ed  io  non  ho 
niente  d'aggiungere  a  quel  che  ho  detto.  La  mia  abitazione  sara 
di  la  dal  Ponte  di  Rialto,  ma  vicinissimo  ad  esso,  in  calle  della 
Doana,z  ma  non  andr6  ad  abitarvi  che  ai  primi  del  venturo. 

6  uscito  il  primo  tomo  della  Storia  di  Moscovia  di  Voltaire.3 
£  scritta  sullo  stile  dell'altre  sue  cose  in  questo  genere.  II  russo  a 
Parigi  e  II  povero  diavolo*  sono  due  satire  assai  graziose  e  forti 

Le  lettere  qui  riprodotte  non  costituiscono  che  una  minima  parte  della 
vastissima  corrispondenza  del  Cesarotti,  ancora  in  buona  parte  inedita. 
Le  principal!  raccolte  pubbhcate  sono :  I'Epistolario,  che  occupa  i  volumi 
xxxv-xxxix  e  parte  del  volume  XL  delle  Opere,  e  comprende  anche  non 
poche  lettere  dei  corrispondenti,  ma  che  il  Barbieri  ordin6  con  scarso 
rispetto  della  successione  cronologica,  ed  escludendo  molte  lettere  di  ar- 
gomento  politico,  da  lui  giudicate  compromettenti;  1' Epistolario  scelto,  a 
cura  di  B.  Gamba,  Venezia,  Alvisopoli,  1826,  che  e  una  scelta  del  pre- 
cedente;  Cento  lettere  inedite  di  M.  Cesarotti  a  Giustina  Renier  Michiel,  a 
cura  di  Vittorio  Malamani,  Ancona,  Morelli,  1885  (tratte  dagli  autografi 
conservati  nel  museo  Correr  di  Venezia),  con  qualche  nota  non  sempre 
esatta;  e  infine  la  scelta  dell'Ortolani  nelle  citate  Opere  scelte,  corredata  di 
molte  e  preziose  note  illustrative.  Altre  lettere  sono  riportate  negli  articoli 
del  Gambarin  e  dello  Scherillo,  citati  nella  bibliografia,  in  numerose  pub- 
blicazioni  occasional!  per  nozze,  ecc.  L'indicazione  delle  fonti  da  cui  sono 
tratte  le  lettere  qui  riprodotte  e  data,  di  volta  in  volta,  nella  pnma  nota 
a  pie  di  pagina  di  ciascuna  lettera. 

i.  DaH'opuscolo  a  cura  di  Giuseppe  de  Leva,  Per  nozze  Valmarana- 
Cittadella  Vigodarzere,  Padova,  Tipografia  del  Seminario,  1879.  Giuseppe 
Toaldo  (1719-1797)  fu  professore  del  Cesarotti  al  seminario,  e  poi  suo 
collega  all'Universita  di  Padova,  dove  occup6  la  cattedra  di  astronomia 
e  meteore.  A  lui  si  deve,  fra  1'altro,  la  prima  edizione  delle  opere  di  Galileo 
e  quella  degli  scritti  di  Antonio  Conti.  Per  la  notevole  influenza  da  lui 
esercitata  sulla  formazione  culturale  del  Cesarotti  si  veda  la  Nota  intro- 
duttiva.  2.  calle  della  Doana:  calle  scomparsa  lungo  la  Dogana  da  terra 
(ossia  per  le  merci  di  terraferma),  situata  sulla  Riva  del  vin  (Ortolani). 

3.  B  uscito  .  .  .  Voltaire:   allude  alia  Histoire  de  I* empire  de  Russie  sous 
Pierre  le  Grand,  il  cui  primo  tomo  fu  pubblicato   appunto   nel  1760. 

4.  Le  Russe  a  Paris  (1740)  e  Le  pauvre  diable  (i758)- 


44  MELCHIORRE   CESAROTTI 

contro  Fr6ron,  Chaumeix,  Gauchat,  Palissot1  e  gli  altri  persecutor! 
ddVEncidopedia,  Sono  gia  state  trasmesse  all'ecc.  sig.  Angelo,3  e 
potrete  averle  da  lui. 

II  Goldoni  ha  fatto  una  graziosissima  commedia  veneziana,  in- 
titolata  //  trasporto  di  casa  o  La  casa  nova?  che  ha  incontrato  rni- 
rabilmente  e  con  tutta  raglone.  La  sua  bravura  in  dipingere  i 
caratteri  bourgeois,  e  la  vivezza  e  artifizio  del  dialetto  e  spiccato  in 
tutto  il  suo  lume.  Ho  letto  manoscritto  il  primo  canto  della  Morte 
d'Abel  tradotta  dal  Gozzi.4  Questo  poema  non  e  meno  semplice 
n6  meno  interessante  per  le  sue  bellezze  naturali,  di  quel  che  sia 
la  Morte  d'Adamo,5  la  traduzione  della  quale,  per  parentesi,  piac- 
que  tanto  in  Francia,  dove  Tha  mostrata  il  Tiepolo56  che  un  fran- 
cese  ha  risolto  di  tradurla  nella  sua  lingua  sul  testo  italiano. 
La  versificazione  del  poema  e  la  piu  bella  che  il  Gozzi  abbia  mai 
fatta.  Eccovi  le  nuove  letterarie:  non  credo  che  vi  curerete  ora  di 
essere  informato  d'una  miserabil  guerra  tra  le  Rane  o  i  Rospi  e  i 
Topi,  cioe  tra  i  Chiaristi  e  i  Granelleschi,7  che  sono  Lazaristi8 
maiorum  gentium.9  In  ogni  caso  potrete  consultar  la  «Gazzetta».10 

lo  ho  composto  alcuni  sonetti  che,  s'io  non  m'inganno,  sono 
i  migliori  ch'io  abbia  mai  fatto,  ed  e  molto  tempo  che  avea  voglia 
di  spedirveli.  Ma  siccome  versano  sopra  un  soggetto  che  poteva 

i.  filie-Catherine  Frfron  (1718-1778),  direttore  della  rivista  «L'annee  litte- 
raire »,  fu  il  piu  accanito  awersario  di  Voltaire ;  Abraham-Joseph  Chaumeix 
(1730-1790),  Gabriel  Gauchat  (1709-1780)  e  Charles  Palissot  (1730-1814) 
sono  figure  meno  important!  della  polemica  contro  Voltaire  e  gli  en- 
ciclopedisti.  z.  Probabilmente  Angela  Querini,  gentiluomo  veneziano  di 
sentiment!  democratici,  che  in  quel  tempo  ricopriva  la  carica  di  avogadore 
di  Comune,  magistratura  istituita  per  la  difesa  del  popolo ;  due  anni  dopo 
sara  arrestato  sotto  Faccusa  di  abuso  dei  suoi  poteri.  3.  La  casa  nova  fu 
rappresentata  per  la  prima  volta  1'  1 1  dicembre  1760.  4.  tradotta  dal  Gozzi : 
una  traduzione  parziale  della  Morte  d'Abele,  poemetto  in  prosa  del  Gessner 
(su  cui  cfr.  la  nota  2  a  p.  409),  fu  pubblicata  nel  numero  LXXIII  (15  ottobre 
1760)  della  «Gazzetta  venetaw.  5.  La  morte  di  Adamo  e  una  tragedia  del 
Klopstock,  di  cui  il  Gozzi  pubblic6  una  traduzione  nel  Mondo  morale  (1760). 
6.  Domenico  Almor6  Tiepolo,  ambasciatore  veneto  a  Parigi.  7.  I  Chiaristi 
sono  i  partigiani  del  Chiari;  i  Granelleschi,  gli  appartenenti  all'accademia 
omonima,  capeggiati  da  Carlo  Gozzi.  8.  Lazaristi:  e  probabile,  come 
pensa  TOrtolani,  che  si  debba  leggere  « Lazzarinisti »,  cioe  partigiani  di 
Domenico  Lazzarini  (1668-1734),  vissuto  a  lungo  a  Padova,  e  noto  per 
il  suo  intransigente  classicismo  grecheggiante,  a  cui  si  ispira  la  sua  tra 
gedia  Ulisse  il  giovane,  assai  famosa  nel  Settecento  e  lodata  anche  dal- 
1'Algarotti.  9.  maiorum  gentium:  propriamente  riferito  ai  patrizi  romani, 
«di  stirpe  piti  nobile»,  quindi,  per  estensione,  «di  genere  piu  elevato». 
10.  la  «.Gazzettay>-.  s'intende  la  «Gazzetta  veneta»  del  Gozzi. 


LETTERS  485 

forse  allarmare  la  vostra  prudente  tenerezza  verso  di  me,  mi  sono 
ritenuto  fino  ad  ora.  Adesso  poi  che  dopo  molte  prove  mi  sono 
assicurato  della  mia  fortezza,  ve  ne  mando  quattro  acci6  li  leggiate 
colPindifferenza  con  cui  leggereste  quattro  sonetti  del  Petrarca.  Vi 
consiglio  a  risparmiare  gli  awisi  su  questo  punto,  perch6  vera- 
mente  non  ne  ho  bisogno.  Dopo  avervi  cosi  prevenuto,  vi  dir6  il 
soggetto.  Madamigelle  Winne1  sono  state  a  Padova,  ed  ora  sono 
a  Venezia.  lo  le  ho  vedute  prima  in  un  luogo,  ed  ora  le  vedo 
nelPaltro.  Questo  ha  dato  occasione  cosi  scherzando  ai  sonetti 
che  vedrete,  i  quali  se  vi  piaceranno,  ve  ne  mander6  alcuni  altri .  .  . 
Amatemi.  Addio. 

P.  S.  In  questo  punto  ricevo  la  vostra.  Voi  mi  fate  quasi  pen- 
tire  d'avervi  mandato  questi  sonetti.  Pure  vi  consiglio  a  conten- 
tarvi  del  poco  ch'io  posso,  senza  volermi  imbarcare  senza  biscotto2 
nell'alto  mare  letterario.  Le  vostre  lodi  mi  stordiscono,  e  non  mi 
animano:  sono  troppo  sproporzionate,  perch'io  possa  addossar- 
mele  e  perche  mi  lusinghi  di  corrispondervi.  Bench6  voi  siate 
sempre  esatto  e  ragionevole  nei  vostri  giudizi,  pure  in  quel  che 
risguarda  a  me,  mi  sono  accorto  ch'e  un  pezzo,  e  m'accorgo  piu 
che  mai  da  questa  lettera,  che  Pamicizia  vi  fa  assolutamente  ec- 
cedere  tutti  i  limiti.  Potrebbe  darsi  per6  che  questa  Poetica2  si 
eseguisse:  io  cerco  ora  di  legger  quella  d'Aristotele  tradotta  dal 
Dacier,4  e  poi  forse  comincer6.  La  prefazione  di  Rousseau5  m'e 
sempre  paruta  un  vero  capo  d'opera.  Quanto  al  suo  discorso,  che 
anche  a  me  sembra  eccellente,  non  vi  pare  ch'egli  s'impegni  troppo 
nei  dettagli  della  vita  selvaggia,  e  che  voglia  venderci  molte  con- 
ghietture  per  moneta  contante  e  sicura? 

Dei  due  degni  rivali  non  so  nulla  piu  di  voi.  Se  non  che  il 
Metafisico  chiamo  il  Letterato6  «homunculum  inepte  dicentem»,7 


i.  Giustiniana,  Maria  Elisabetta  ed  Anna  Amalia  Wynne,  di  padre  inglese 
e  di  madre  veneziana.  2.  senza  biscotto:  senza  rifornimenti ;  quindi,  senza 
le  doti  necessarie.  3.  Poetica:  penso  che  alluda  al  Ragionamento  sopra 
Vorigine  e  i  progressi  delVarte  poetica,  stampato  nei  1762,  e  riportato  anche 
in  questo  volume.  4.  quella .  .  .  Dacier :  la  traduzione  di  Andr6  Dacier 
fu  pubblicata  nei  1692.  5.  La  prefazione  di  Rousseau:  quella  al  Discours 
sur  Vorigine  et  les  fondements  de  Vindgalite  parmi  les  hommes  (i755)»  come 
si  rileva  da  quel  che  segue.  6.  II  Metafisico  e  Clemente  Sibiliato  (su  cui 
cfr.  la  nota  i  a  p.  305)  e  il  Letterato  probabilmente  Natale  dalle  Laste 
(1707-1792),  latinista;  ambedue  concorrenti,  insieme  con  Gaspare  Gozzi, 
alia  cattedra  di  umane  lettere  dell' University  padovana,  che  fu  assegnata 
al  Sibiliato.  7.  «  Ometto  incapace  di  parlare. » 


486  MELCHIORRE   CESAROTTI 

e  questo  nomine-  Paltro  anescio  quern  de  faece  Romuli  et  de  rebus 
non  suis  temere  disputantem)).1  Come  sta  bene  quella  «feccia  di 
Romolo))  in  bocca  d'un  cosi  gran  cittadino  della  Repubblica  di 
Platone,  qual  e  il  nostro  Sibiliato!  Bisognerebbe  veder  le  orazioni, 
e  ne  ho  gran  voglia;  ma  non  m'arrischio  a  domandarle,  per  non 
esser  costretto  a  dichiararmi.  V'abbraccio  con  tutto  lo  spirito. 
Addio. 


II 

AL   MACPHERSON2 

[Ossian.] 

Permettez,  Monsieur,  qu'avec  toute  Fltalie  je  vous  felicite  sur 
Theureuse  decouverte  que  vous  avez  faite  d'un  nouveau  monde 
po6tique,  et  sur  les  precieux  tresors  dont  vous  avez  enrichi  la 
belle  litterature.  Vous  avez  de  grands  droits  a  la  reconnoissance 
de  votre  patrie,  et  le  public  doit  vous  tenir  compte  de  vos  voya 
ges  et  de  vos  travaux.  Cest  bien  autre  chose  que  de  nous  apporter 
une  plante  sterile  ou  quelque  medaille  rouillee.  Non,  je  ne  puis 
revenir  de  mon  ravissement.  Votre  Ossian  m'a  tout-a-fait  enthou- 
siasme.  Morven  est  devenu  mon  Parnasse,  et  Lora  mon  Hippocre- 
ne.3  Je  reve  toujours  a  vos  heros;  je  m'entretiens  avec  ces  admi- 
rables  enfants  du  chant;  je  me  promene  avec  eux  de  coteau  en 
coteau;  et  vos  rochers  couverts  de  chenes  touffus  et  de  brouillard, 
votre  ciel  orageux,  vos  torrens  mugissans,  vos  steriles  deserts,  vos 
prairies  qui  ne  sont  parses  que  de  chardons,  tout  ce  spectacle  grand 
et  morne  a  plus  de  charmes  a  mes  yeux  que  Tile  de  Calypso  et 


i.  «Non  so  chi,  discettante  a  vanvera  della  feccia  di  Romolo  [che  Cicero 
ne  contrapponeva,  appunto,  alia  Repubblica  di  Platone:  cfr.  Ad  Alt.,  II,  I, 
8]  e  di  cose  che  non  conosce. »  z.  Dalle  Opere,  xxxv,  pp.  9-15.  L'Orto- 
lani  ne  pone  la  data  fra  la  fine  del  1763  e  il  principio  del  1763,  poich6 
la  risposta  del  Macpherson  (nprodotta  in  Opere,  xxxv,  pp.  313-4,  e  su  cui 
cfr.  F.  VIGLIONE,  //  testo  originate  della  lettera  di  J.  Macpherson  all' abate 
M.  Cesar otti,  in  «Fanfulla  della  domenica»,  xxx,  7  settembre  1913)  porta 
la  data  del  4  maggio  1763.  3.  Morven  e  nei  poemi  di  Ossian  il  nome  di 
quella  parte  della  Scozia  dove  regnava  Fingal;  Lora  un  fonte  di  quella 
regione,  contrapposto  all' Ippocrene,  fatto  sgorgare  sulFElicona,  secondo  il 
rruto  greco,  dal  cavallo  Pegaso,  e  spesso  citato  dai  poeti  classici  a  simbo- 
leggiare  1'ispirazione  poetica. 


LETTERE  487 

les  jardins  d'Alcinoiis.1  On  a  dispute  longtemps,  et  peut-etre  avec 
plus  d'aigreur  que  de  bonne  foi,  sur  la  preference  de  la  po6sie 
ancienne  et  moderne.  Ossian,  je  crois,  donnera  gain  de  cause  a  la 
premiere,  sans  que  les  partisans  des  anciens  y  gagnent  beaucoup. 
II  fait  voir  par  son  exemple  combien  la  poesie  de  nature  et  de 
sentiment  est  au  dessus  de  la  poesie  de  reflexion  et  d' esprit,  qui 
semble  etre  le  partage  des  modernes.  Mais  s'il  demontre  la  superio- 
rit6  de  la  poesie  ancienne  il  fait  aussi  sentir  les  defauts  des  anciens 
poetes  mieux  que  tous  les  critiques.  L'Ecosse  nous  a  montre  un 
Homere  qui  ne  sommeille  ni  ne  babille,  qui  n'est  jamais  ni  gros- 
sier  ni  trainant,  toujours  grand,  toujours  simple,  rapide,  precis, 
6gal  et  vari6.  Mais  il  n'appartient  pas  a  moi  de  faire  1'eloge  d' Ossian 
a  celui  qui  a  su  rendre  ses  traits  avec  tant  de  force  et  de  precision, 
qu'on  pourroit  le  prendre  pour  modele.  Je  vous  dirai  plutot, 
Monsieur,  qu'en  marchant  sur  vos  traces,  je  pense  aussi  de  trans 
porter  ces  poesies  en  ma  langue  maternelle,  c'est-a-dire  en  vers 
blancs  italiens.  Non  que  je  me  flatte  d'approcher  des  beautes 
inimitables  de  ce  grand  genie;  mais  j'espere  par  ce  moyen  de  me 
remplir  mieux  1'esprit  de  mon  modele,  et  de  m'approprier  ses 
manieres. 

Mais  il  faut  tout  dire,  Monsieur.  Savez-vous  que  ce  poete  a  excite 
ici  de  terribles  querelles?  L'antiquite  d*  Ossian  trouve  ici  beaucoup 
d'incr6dules,  sur  tout  parmi  les  savans ;  on  dispute,  on  s'echauffe,  on 
vous  fait  votre  proces  dans  les  formes,  et  on  se  moque  de  moi, 
qui  donne  bonnement  dans  le  piege,  et  qui  le  crois  ancien  sur 
votre  parole.  A  la  verite  ce  ne  seroit  pas  une  petite  affaire  que  de 
vouloir  en  imposer  a  ces  messieurs.  Us  sont  presque  tous  dans  le 
cas  de  ces  Thessaliens,  qui,  a  ce  qu'en  disoit  Simonide,  etoient 
trop  sots  pour  etre  la  dupe  des  mensonges  poetiques.  Malheur  a 
tous  ceux  qui  ne  raisonnent  que  faute  de  sentiment.  Cependant 
ceux-ci  sont  de  bonne  foi.  II  y  en  a  d'autres  qui  n'agissent  pas 
aussi  simplement.  Get  Ossian  est  un  barbare;  son  nom  ne  se 
decline  point  a  la  grecque  ni  a  la  latine;  il  ne  connoit  point  les 
myst&res  de  la  mythologie;  il  n'a  point  lu  la  Poetique  d'Aristote, 
et  il  ose  faire  des  epop6es ;  et,  qui  pis  est,  sans  machines  et  sans  al 
legories.  Voila  qui  est  de  la  derniere  impudence.  Cependant  on  le 


i .  Vile  .  .  .  Alcinoiis :  Tisola  di  Calipso  e  i  giardini  di  Alcinoo  stanno  qui  a 
indicate  i  paesaggi  omerici  (Od.y  v  e  vn)  e  in  genere  classici. 


488  MELCHIORRE  CESAROTTI 

prone,  on  ose  le  mettre  en  parallele  avec  Homere,  et  la  comparaison 
ne  tourne  pas  toujours  a  1'avantage  du  poete  grec.  Cela  est  d6so- 
lant.  Comment  s'y  prendre  done?  On  n'a  qu'a  supposer  que  cet 
ouvrage  soit  forge  par  un  moderne,  pour  le  faire  tomber  aussitot. 
Car  vous  savez  bien,  Monsieur,  qu'il  est  demontre,  selon  ces  cri 
tiques,  que  les  modernes  ne  feront  jamais  rien  qui  vaille,  a  moins 
qu'ils  ne  pillent  les  anciens.  On  aura  beau  leur  faire  sauter  aux 
yeux  les  eclatantes  beautes  de  ces  poesies;  ils  seront  en  droit  de 
n'y  voir  rien,  et  ils  vous  diront  pour  toute  reponse:  —  II  est  mo 
derne.  —  Parmi  ces  gens  entetes  de  leurs  sots  pr6jug6s,  il  y  a  des 
personnes  de  bon  sens  et  d' esprit,  a  qui  toute  cette  dispute  est  fort 
indifferente;  qui  d'ailleurs  ne  seroient  point  f£ch6es  de  devoir  a 
notre  siecle  cette  excellente  production,  et  qui  trouveroient  bien 
plus  de  force  d'esprit  dans  un  moderne  qui  auroit  su  se  transformer 
en  Ossian,  qu'en  Ossian  lui-meme. 

Pour  moi,  s'il  m'etoit  permis  de  douter  apres  votre  temoignage, 
je  vous  dirois,  Monsieur,  que  comme  je  reconnois  dans  ces  po6sies 
une  grandeur  et  une  simplicite  qui  portent  en  soi  la  plus  forte  em- 
preinte  de  la  nature:  j'y  trouve  aussi  une  finesse  de  dessein;  un 
ordre  si  d£licatement  irr<§gulier;  une  si  sage  retenue  dans  les  vols 
les  plus  hardis;  une  precision  si  constante  et  si  f<§conde;  une  ju- 
stesse  si  exacte  pour  saisir  ce  pr£cieux  milieu  si  difficile  a  garder: 
enfin  un  choix  si  delicat  et  si  judicieux  d'objets  et  de  caract&res, 
que  tout  cela  semble  annoncer  Tart  le  plus  consomm6,  qui  sait 
d<§purer  la  nature  sans  y  toucher.  Quoiqu'on  en  pense,  la  chose  est 
en  tout  sens  surpr6nante:  mais  on  sait  que  la  Grande-Bretagne 
moderne  est  feconde  en  merveilles  d'esprit,  et  on  pourroit  douter 
si  Tficosse  au  troisi&me  si&cle  1'etoit  aussi.  Soit  raison,  soit  scrupule, 
soit  indulgence  pour  la  foiblesse  des  autres,  je  ne  puis  me  d6fen- 
dre,  Monsieur,  de  vous  faire  une  recherche,  que  je  vous  prie  de 
ne  pas  trouver  tem6raire.  De  bonne  foi,  Monsieur,  dois-je  vous 
admirer  comme  un  homme  plein  de  lumi&res  et  d' esprit,  ou  dois- 
je  r£v6rer  en  vous  le  plus  grand  peintre  de  la  nature?  Si  cela  est, 
je  serai  bien  loin  de  me  facher,  comme  Scaliger  contre  Muret.1 
Qu'Ossian  soit  ancien  ou  non,  il  le  sera  toujours  par  le  style. 
Ceux  qui  le  jugent  de  ce  cote-ci  sont  bien  surs  de  ne  s'y  pas 

i.  Scaliger  contre  Muret:  allude  ad  un  feroce  epigramma  scritto  dallo 
Scaligero  contro  il  Mureto,  che  per  beffarlo  gli  aveva  spacciato  come 
antico  un  proprio  epigramma. 


LETTERE  489 

meprendre.  Quoiqu'il  en  soil,  Monsieur,  si  ma  hardiesse  peut 
m'attirer  de  votre  part  1'honneur  d'une  reponse,  je  croirai  d'avoir 
toujours  gagne  beaucoup,  et  j'en  ferai  gloire.  En  voulant  bien 
m'honorer  de  cette  fa£on,  vous  pouvez  vous  adresser  a  M.r  Hudny,1 
consul  de  la  Nation  Britannique  a  Venise,  qui  a  beaucoup  d'a- 
mitie  pour  moi,  et  qui  est  ravi  devoir  pour  concitoyen  un  homme 
tel  que  vous. 

Je  suis,  Monsieur,  avec  tout  le  respect  votre  tres-humble  servi- 
teur  en  Iitt6rature,  et  votre  confrere  en  Ossian. 


in 

A   GIUSEPPE  ANTONIO   TARUFFI2 

[Confidence  sentimentali.] 

Au  diable  les  sto'iques  et  les  optimistes:  on  a  beau  etaler  des 
maximes;  la  nature  va  toujours  son  train.  Quoi!  quitter  une 
maitresse?  La  plus  chere  moiti6  de  soi  meme!  Voila  qui  est  tout- 
a- fait  desolant.  Ah  que  je  vous  plains!  «non  ignara  mali».3  Que 
T  homme  est  malheureux!  Les  chagrins  les  plus  cuisants  ne  nous 
viennent  que  du  sentiment,  et  sans  le  sentiment  ce  n'est  pas  la 
peine  de  vivre.  C'est  pourquoi,  quelques  soient  les  depresses  d'un 
homme  sensible,  je  ne  voudrois  point  les  changer  ni  avec  la 
froide  indolence  des  ames  lethargiques,  ni  avec  les  fades  et  bruyans 
plaisirs  du  vulgaire.  Aimons  toujours,  c'est  le  parti  plus  sur. 
L' amour  saura  bien  meler  quelque  douceur  a  ses  amertumes.  II 
est  d6sesperant,  je  Tavoue,  de  perdre  ce  qu'on  aime.  Mais  qu'il  est 
doux  d*en  emporter  avec  soi  les  regrets  et  les  soupirs!  Vous 
pleurez,  mais  ne  voyez  vous  pas  ses  larmes  qui  coulent  sur  les 
votres  ?  Vous  souffrez :  mais  on  souffre  aussi :  vous  fremissez,  mais 
c'est  que  vous  avez  un  coeur,  c'est  que  vous  etes  ne  tendre,  sen- 

i .  All' Hudny  il  Macpherson  indirizz6  in  effetti  la  sua  risposta.  2.  Dalle 
Opere,  xxxv,  pp.  42-6.  La  lettera  fu  scritta  da  Venezia  nel  giugno  1765, 
come  si  rileva  da  quella  del  TarufS,  a  cui  il  Cesarotti  risponde,  e  che  e 
riportata  pure  nelle  Opere,  xxxv,  pp.  36-42.  L* abate  Giuseppe  Antonio 
Taruffi  (1722-1786),  giurista  e  letterato,  visse  a  lungo  in  Polonia  e  poi 
a  Vienna,  dove  era  ritenuto  il  piu  brillante  ingegno  italiano  dopo  il  Me- 
tastasio.  3.  Virgilio,  Aen.,  i,  630,  «non  ignara  della  sofferenza»  (parole 
di  Didone  ad  Enea). 


49°  MELCHIORRE    CESAROTTI 

sible,  c'est-a-dire  honnete,  c'est  enfin  que  vous  avez  le  bonheur 
d'etre  a  la  fois  charmant  et  charme.  Est-ce  qu'il  y  a  d'idees  plus 
flatteuses,  est  ce  qu'il  y  a  des  plaisirs  plus  ravissants  et  plus  dignes 
d'une  &me?  Malheur  a  qui  le  croiroit.  Au  reste  souvenez  vous, 
mon  cher,  de  ces  vers  du  grand  poete  de  rhumanit6: 

Havvi  dentro  la  languida  tristezsa 
un  non  so  che,  che  Vanima  uezzeggia, 
quando  in  petto  gentile  abita  pace; 
ma  Vangoscioso  duol  strugge  il  piangente, 
diletta  figlia,  e  i  suoi  giorni  son  pochi.1 

Puisque  je  suis  tombe  sur  le  sujet  d' Ossian,  il  faut  vous  dire  que 
dans  le  a  Journal  de  Bouillon  »2  on  annonce  un  livre  d'un  anonyme 
anglois,  qui  traite  notre  venerable  barde  de  haut  en  bas,  et  lui 
prodigue  les  titres  polis  de  fou  et  d'insens6.  Le  journaliste  est 
plus  modeste,  il  se  borne  a  nous  dire  tres-positivement  qu' Ossian 
n'est  rien  moins  que  poete.  Assur6ment  vous  ne  voulez  pas, 
mon  cher,  que  je  m'en  etonne  et  encore  moins  que  je  m'en  fiche. 
Que  conclure  de  tout  cela?  Qu'il  y  a  de  franches  betes  a  Londres 
aussi  bien  qu'a  Venise,  et  que  pour  etre  journaliste  on  n'est  pas 
toujours  juge  competent.  Je  crois  que  la  meilleure  fa9on  d'y  r6- 
pondre  est  de  poursuivre  mon  travail3  sans  me  tourner  ni  a  droite 
ni  a  gauche.  Cependant  nous  verrons.  M.r  le  comte  Savioli4  m'est 
connu  depuis  quelque  temps  par  ses  vers :  et  votre  jugement  sur 
son  compte  ne  sauroit  etre  plus  juste.  Faites-lui  bien  des  compli- 
mens  de  ma  part,  mais  que  ce  soient  des  compliments  a  la  Ta- 
ruffi  et  a  la  Cesarotti.  Que  ne  vous  dois-je  pas,  mon  tres-cher? 
Votre  amitie  pour  moi  est  doue"e  de  la  vertu  electrique:  elle  se 
communique  aux  autres  sans  s'affoiblir.  Vous  m'accablez  de 
louanges.  Je  sais  bien  que  Tamiti6  ne  se  pique  point  d' exactitude, 
et  qu'elle  se  fait  m£me  gloire  d'un  peu  de  partialite".  Mais  c'est 
trop,  mon  cher,  votre  enthousiasme  sur  mon  compte  n'a  point  de 


i.  Sono  i  w.  60-4  della  traduzione  cesarottiana  del  poemetto  Croma  di 
Ossian.  2.  ((Journal  de  Bouillon*:  e  il  «Journal  encyclop6dique »,  diretto 
da  Pierre  Rousseau  e  pubblicato  nella  piccola  signoria  di  Bouillon,  or- 
gano  non  soltanto  francese  ma  europeo  del  partito  dei  filosofi  parigini. 
3.  mon  travail:  la  traduzione  completa  dei  poemi  di  Ossian,  che  fu  poi 
pubblicata  nel  1772.  4.  Dell' opera  piu  nota  di  Ludovico  Savioli,  gli 
Amori,  il  Taruffi  si  era  fatto  editore  nel  1758. 


LETTERE  49! 

bornes.  Je  vous  demande  quartier.  II  est  vrai  cependant  que  vous 
melez  1'antidote  au  doux  poison  de  la  seduction.  Le  moyen  de 
s'enyvrer  de  soi  meme  quand  on  a  sous  les  yeux  de  tels  modeles 
que  vos  lettres  ?  Savez-vous  qu'il  y  a  de  quoi  faire  enrager  1'elite 
des  plus  beaux  esprits  de  la  France?  Que  de  graces!  que  de  sens! 
et  au  surplus  quelle  aisance  inimitable  1  Votre  stile  coule  de  source, 
et  c'est  la  source  du  gout  le  plus  epure.  Je  me  traine  avec  effort 
dans  la  carriere  que  vous  parcourez  en  grand  maitre  nonchalam- 
ment.  II  me  semble  d'etre  Anacharsis  qui  se  m61e  d'ecrire  au 
plus  poli  des  Atheniens.1  Treve  done  de  louange,  s'il  vous  plait. 
J'aurois  trop  beau  jeu,  et  malgre  votre  delicatesse  je  vous  dirois 
vos  verites  trop  nettement.  D'ailleurs,  il  y  a  tant  de  gens,  et 
quelles  gens,  qui  se  font  un  m6tier  de  s'entre-louer.  ficartons-nous 
de  la  foule,  aimez-moi,  c'est  mon  eloge  le  plus  beau.  Dites  bien  des 
choses  de  ma  part  a  M.r  le  M.  Albergatif  mon  attachement 
pour  lui  est  extreme.  Je  suis  ravi,  enchante  de  la  noblesse  de  son 
caractere,  et  des  marques  singulieres  de  la  veritable  politesse  qu'il 
m'a  donnee  par  sa  lettre.  Voila  de  vos  tours:  c'est  vous  qui  1'avez 
prevenu  si  favorablement  pour  moi.  C'est  a  vous  aussi  d'achever 
votre  ouvrage.  En  lui  faisant  vos  adieux,  rappellez-lui  mon  sou 
venir:  faites  qu'il  me  regarde  comme  le  plus  zele  de  vos  amis. 
C'est  en  dire  assez.  Adieu,  mon  aimable  voyageur;3  voyagez 
done  puis qu'il  le  faut,  mais  comptez  que  mon  amitie  vous  suivra 
jusqu'au  bout  de  Tunivers.  Adieu,  je  vous  embrasse  de  tout  mon 
coeur.  Adieu. 


i.  Secondo  la  leggenda  Anacarsi  fu  un  savio  scita  che  percorse  a  lungo 
la  Grecia  ai  tempi  di  Solone.  A  lui  Tabate  Barthelemy  intitolera  il  suo 
celebre  romanzo  Le  voyage  du  jeune  Anacharsis  en  Grece  (1788).  a.  II 
marchese  Francesco  Albergati  Capacelli,  caratteristica  figura  della  cul- 
tura  bolognese  settecentesca,  noto  come  attore  e  commediografo.  3.  ^03;^- 
geur:  il  Taruffi  aveva  annunziato  al  Cesarotti  la  sua  prossima  partenza 
per  Varsavia. 


492  MELCHIORRE    CESAROTTI 

IV 
A  MICHELE  VAN   GOENS1 

[Giudizi  sul  Metastasio,  sul  Goldoni  e  su  Ossian.] 

Non  vi  lagnate  per  questa  volta  de'  vostri  librai,  ma  de'  miei. 
Quando  vi  scrissi,  consegnai  ad  un  di  costoro  i  libri,  ed  egli  mi  disse 
d'aver  occasione  di  spedirgli  per  la  via  d' Augusta:  con  tal  lusinga 
egli  mi  tenne  piu  d'un  mese,  mandandomi  sempre  d'oggi  in  do- 
mani :  annoiato  di  tali  stancheggi  ripresi  i  libri,  e  gli  raccomandai 
ad  un  amico,  il  quale  avendomi  detto  che  la  spesa  dirittamente 
per  la  posta  era  troppo  forte,  e  che  in  breve  s'attendeva  Fincontro 
d'una  nave  per  FOlanda,  aspettai  buona  pezza  invano.  Feci  per 
ultimo  ci6  ch'io  doveva  far  prima :  mi  rivolsi  al  sig.  ambasciador  di 
Francia,  il  quale  assunse  di  spedir  il  pacchetto  a  Parigi,  e  di  la 
farvelo  giunger  con  sicurezza.  Mi  vergogno  veramente  di  tanti 
ritardi,  e  non  vorrei  che  aveste  a  dir  con  ragione  che  la  cosa  non 
valea  la  pena  d'esser  tanto  aspettata. 

La  pittura  che  voi  mi  fate  del  vostro  carattere  e  appunto  qual 
io  la  desidero,  e  se  fosse  delFumor  d'una  volta  potrei  anch'io 
farmi  onore  dicendovi  con  Orazio:  «utrumque  nostrum  incredi- 
bili  modo  /  consentit  astrum  ».2  Voi  sete  « secondo  il  mio  cuore » 
quanto  il  buon  Davidde  lo  era  secondo  quello  di  Adonai.3  (Permet- 
tete  questa  allusione  ad  un  novello  professore  in  lingua  santa.)4 
Voi  sete,  posso  dir  Funico,  col  quale  io  abbia  intavolata  una  cor- 
rispondenza  letteraria:  io  ho  sino  ad  ora  costantemente  sfuggite 
siffatte  cose.  Convien  far  un  lago  di  cerimonie,  una  scherma  di 
lodi,  mostrarsi  sempre  nel  miglior  punto  di  vista:  ogni  lettera 
diventa  una  dissertazione  o  un  componimento :  tutto  ci6  m'annoia 

i.  Dalle  Opere,  xxxv,  pp.  129-40.  Questa  lettera  non  e  datata,  ma  deve 
essere  di  poco  posteriore  a  quella  del  van  Goens,  alia  quale  risponde, 
e  che  porta  la  data  dell' 8  febbraio  1768  (cfr.  Opere,  xxxv,  p.  107).  II 
filologo  olandese  Michele  Ryklof  van  Goens,  professore  di  greco  alPUni- 
versita  di  Utrecht,  era  entrato  in  corrispondenza  col  Cesarotti,  tramite  il 
matematico  Paolo  Frisi,  fin  dal  settembre  del  1767.  2.  Carrn.,  n,  xvn, 
21-2  («le  costellazioni  di  ognuno  di  noi  due  si  accordano  in  maniera  incre- 
dibile»).  3.  Voi .  .  .  Adonai:  penso  che  si  riferisca  al  versetto  biblico  // 
Reg.,  7,  21 :  «Propter  verbum  tuurn  et  secundum  cor  tuum  fecisti  omnia 
nxagnalia  haec».  4.  novello  .  .  .  santa:  in  quell'anno  il  Cesarotti  aveva  ot- 
tenuto  la  cattedra  di  lingua  greca  ed  ebraica  all' University  di  Padova. 


LETTERE  493 

a  morte.  Forse  per6,  senza  ch'io  m'accorga,  c'entra  qui  un  po'  di 
malizia  dell1  amor  proprio.  Per  esser  tenuto  da  qualche  cosa  con- 
vien  ch'io  sia  veduto  di  rado  e  in  iscorcio.  II  fondo  delle  mie 
cognizioni  e  la  dose  del  mio  spirito  non  sono  tali  da  poter  reggere 
alPosservazione  non  interrotta  d'un  occhio  perspicace;  e  dunque 
forza  ch'io  mi  tenga  in  economia,  e  ch'io  non  m'esponga  ad  una 
luce  troppo  viva  e  continua.  Percio  vorrei  che  aveste  la  generosita 
di  permettermi  d' esser  in  molti  e  in  molti  capi  un  vero  ignorante, 
e  di  mancar  di  spirito  tutte  le  volte  che  ne  avro  voglia.  Cosi,  pren- 
dendo  come  per  grazia  quel  poco  ch'io  posso  darvi,  ne  resterete 
abbastanza  contento;  laddove  promettendovi  molto,  v'accerto  che 
vi  trovereste  il  piii  delle  volte  deluso.  Questi  sono  i  preliminari  ne- 
cessari  se  volete  che  la  nostra  corrispondenza  proseguisca  con 
passo  eguale. 

Voi  avete  tutti  i  titoli  per  esser  detestato  dai  nostri  critici  di 
buon  gusto,  poiche  osate  stimar  Goldoni  e  Metastasio.  Sapete  voi 
che  cotesti  signori  si  beffano  altamente  del  primo  ?  e  se  pur  pure 
fanno  qualche  grazia  al  secondo,  darebbero  pero  tutti  i  suoi  dram- 
mi  per  VUlisse  dell'ab.  Lazarini,1  di  cui  se  avete  qualche  cono- 
scenza,  Dio  vel  perdoni.  lo  mi  compiaccio  per  altro  di  avervi 
per  compagno  in  questa  come  in  varie  altre  eresie  letterarie. 
Approvo  il  vostro  giudizioso  riflesso  sopra  1'ariette  di  Metastasio: 
non  parmi  per6  che  tutte  siano  cosi  spiccate  dalla  situazion  di  chi 
parla,  ne  che  contengano  una  comparazione  o  un  tratto  di  spirito. 
Quella  per  esempio  di  Sabina  neirAdriano,  «Digli  ch'e  un  in- 
fedelew,  e  nello  stesso  dramma  quella  di  Farnaspe,  «S'io  non  ti 
moro  a  lato»,  nel  Tito  quella  di  Sesto,  ccSe  mai  senti  spirarti  sul 
volto»,  quell'altra  di  Catone,  «Con  questo  nome  in  fronte»  non 
sono  di  questo  genere.2  Credo  che,  esaminando,  se  ne  troverebbero 
varie  altre.  Ma  generalmente  egli  pecca  assai  spesso  su  questo 
articolo.  Pure  confesso  ch'io  sono  piu  sensibile  agli  altri  suoi 
difetti,  come  alle  scene  oziose,  alle  galanterie  subalterne,  ai  colpi 


i.  Allude  alia  celebre  tragedia  Ulisse  il  giovane  del  gia  ricordato  Domenico 
Lazzarini  (cfr.  la  nota  Sap.  484),  che  il  Cesarotti  in  un'altra  lettera 
(del  15  gennaio  1801  a  Francesco  Rizzo,  qui  non  riprodotta)  defimva 
« fredda,  trista  e  servile  imitazione  delle  tragedie  greche  ».  2.  Quella  . .  . 
genere:  le  ariette  citate  appartengono  rispettivamente  ai  seguenti  melo- 
drammi:  Adriano  in  Siria,  atto  II,  scena  i;  e  atto  I,  scena  xrv;  La  clemenza 
di  Tito,  atto  n,  scena  xv ;  Catone  in  Utica,  atto  i,  scena  I. 


494  MELCHIORRE   CESAROTTI 

di  teatro  che  nascono  piu  dal  poeta  die  dalla  cosa.  Ma  lo  stile 
e  il  sentimento  compensano  di  gran  lunga  le  sue  mancanze:  una 
delle  sue  scene  patetiche  val  per  tutte  le  tragedie  di  costoro  che 
si  credono  in  dritto  di  annoiarci  con  Aristotele  alia  rnano. 

Quanto  a  Goldoni,1  s'egli  avesse  tanto  studio  quanto  ha  natura, 
s'egli  scrivesse  un  po*  piu  correttamente,  se  il  suo  ridicolo  fosse 
alle  volte  piu  delicato,  se  le  sue  circostanze  gli  avessero  permesso 
di  comporre  un  minor  numero  di  commedie  e  di  lavorarle  di  piu, 
parmi  che  potrebbesi  con  molta  franchezza  contrapporlo  a  Mo- 
liere,  il  quale  oser6  io  dirvi  che  mi  sembra  che  venga  piuttosto 
idolatrato  che  ammirato  da'  suoi  Francesi.  Egli  non  ha  che  quat- 
tro  o  cinque  commedie,  1'altre  son  farse  per  divertir  il  basso  popolo ; 
e  a  sentir  i  critici  nazionali  sembra  ch'egli  abbia  esauriti  tutti  i 
soggetti.  Goldoni  ha  spinta  molto  innanzi  la  commedia  morata? 
anzi  pu6  dirsene  il  padre,  giacche  egli  non  ha  tanta  coltura  per 
andarne  a  cercar  il  modello  appresso  1'altre  nazioni.  La  sua  me- 
diocrita  nell'erudizione  fa  in  questo  punto  il  suo  elogio;  egli  deve 
tutto  al  suo  genio.  II  sig.  Diderot  dice  che  sino  ad  ora  non  si 
sono  posti  sul  teatro  se  non  se  i  caratteri,  e  dice  che  sarebbe  un 
campo  nuovo  e  fecondo  il  mettere  in  scena  le  condizioni  della 
vita.3  Egli  s'e  scordato  che  Goldoni  aveva  molto  prima  eseguito 
con  gran  successo  ci6  ch'egli  progetta  compiacendosi  come  d'una 
sua  vista  particolare.  Non  e  per6  meraviglia  che  questo  illustre 
letterato  siasi  scordato  di  ci6,  giacch6  seppe  anche  scordarsi  che 
il  suo  Figlio  naturale  sia  precisamente  il  Vero  amico  del  comico 
veneto,  benche*  a  dir  vero  ingentilito  e  migliorato  dal  francese. 
Sopra  tutto  Goldoni  m'incanta  nelle  sue  scene  di  tableau*  Ma, 
convien  dirlo,  egli  e  troppo  fecondo:  dopo  Lopez  di  Vega  non  so 
qual  altro  abbia  scritto  tante  commedie.  Ora  se  ne  fa  in  Venezia 
un'edizione  compiuta  in  40  tomi,  di  cui  ne  sono  gia  usciti  io.s 
Egli  la  fa  in  vista  del  suo  interesse:  vorrei  che  ne  facesse  un'altra 
di  molto  minor  mole,  unicamente  per  la  sua  gloria.  Mi  duol  ve- 


i.  Quanto  a  Goldoni:  il  giudizio  che  segue  e  uno  dei  primi  veramente 
notevoli  nella  storia  della  critica  goldoniana,  anche  per  il  confronto  col 
Moliere,  che  qui  e  per  la  prima  volta  impostato.  2.  morata:  di  costume, 
di  carattere.  3.  //  sig.  Diderot .  .  .  vita:  negli  Entretiens  sur  le  «Fils  na- 
turel»  (1757),  e  nel  trattato  De  la  po&ie  dramatique  (1758).  4.  scene  di 
tableau:  d'assieme.  5.  edizione . . .  io:  allude  all'edizione  Pasquali,  inizia- 
ta  nel  1761  e  rimasta  interrotta  al  tomo  XVII. 


LETTERE  495 

ramente  di  veder  alcune  delle  sue  commedie  disgustar  i  conosci- 
tori,  quando  potrebbero  rendersi  perfette  con  leggerissimi  can- 
giamenti.  £  anche  gran  discapito  che  molte  delle  migliori  sono 
scritte  in  dialetto  veneziano,  che  non  pu6  esser  gustato  fuori 
d' Italia.  Del  resto  voi  mostrate  d'esser  all'oscuro  che  questo 
celebre  scrittore  si  trova  da  tre  anni  a  Parigi.1  L'aver  qui  a  fare 
con  un  gentiluomo  padron  di  teatro,2  che  conosceva  assai  meglio 
qual  differenza  passi  tra  cinque  e  tra  dieci  diecine  di  ducati  che  tra 
un'opera  di  genio  e  una  sconciatura,  lo  indusse  a  cercar  fortuna 
fuor  della  patria,  e  and6  a  Parigi  per  direttore  della  Commedia 
Italiana.3  Qui  pure  ebbe  le  sue  molestie,  e  il  sig.  Diderot  non 
credette  di  disonorarsi  col  tentar  di  screditare  un  ospite  cosi  illu- 
stre,  solo  perche  i  nemici  deirenciclopedista  trovavano  grandis- 
sima  somiglianza  tra  le  due  commedie  di  esso  e  quelle  del  Goldoni,4 
senza  che  questo  abbia  mai  mostrato  di  accorgersene.  L'aria  di  Pa 
rigi  non  giov6  molto,  a  dir  vero,  ai  talenti  del  nostro  comico: 
egli  cess6  d'esser  originale,  e  prese  ad  imitare  quella  certa  legge- 
rezza  delicata  che  caratterizza  le  petites  pieces3  francesi  senza  mol 
to  successo.  Le  due  ch'egli  di  la  mando  a  Venezia  confermano  il 
mio  giudizio.6  Dopo  varie  amarezze  pensava  di  lasciar  la  Francia, 
ma  inaspettatamente  trovo  grazia  alia  corte,  e  fu  fermato  per 
maestro  di  lingua  italiana  appresso  madama  Adelaide.7 

Niente  pu6  esservi  di  meglio  pensato  quanto  ci6  che  voi  dite 
intorno  la  sublimita  dello  stile  creduta  sinora  propria  degli  Orien- 
tali.  Ma  nelle  poesie  di  Ossian  io  ci  trovo  inoltre  una  sublimita 
di  sentimento  e  un  eroismo  cosi  delicato  che  non  sembra  molto 
conciliabile  col  carattere  del  suo  secolo  e  della  sua  nazione,  anzi  pur 

i.  questo  .  .  .  Parigi:  in  realta  il  Goldoni  era  a  Parigi  fin  dal  1762,  cioe 
da  sei  anni.  2.  gentiluomo  .  .  .  teatro:  Francesco  Vendramin,  proprietario 
del  teatro  di  San  Luca.  3.  andd  .  . .  Italiana:  non  ando  il  Goldoni  a 
dirigere  la  Commedia  Italiana,  ma  piu  umilmente  a  rinnovare  gli  scenarii 
invecchiati  di  quel  vecchio  teatro,  e  a  scriverne  di  nuovi  (Ortolam).  4.  tra 
.  .  .  Goldoni:  oltre  la  materia  del  Fils  naturel,  ricordato  sopra  dal  Cesarotti, 
Diderot  trasse  dal  Goldoni,  e  precisamente  dal  Padre  di  famiglia,  1'argo- 
mento  del  Pere  defamille.  Sull'atteggiamento  del  Diderot  verso  il  Goldoni 
cfr.  anche  i  Memoir  es,  m,  5.  5.  petites  pieces:  brevi  azioni  teatrali  comi- 
che  da  uno  a  tre  atti  che  venivano  rappresentate  dopo  quelle  in  cinque 
atti.  6.  Le  due  .  .  .  giudizio:  tra  il  1763  e  il  1768  il  Goldoni  mand6  da 
Parigi  a  Venezia  parecchie  commedie  (tra  cui  II  ventaglio,  la  trilogia  di 
Zelinda  e  Lindoro,  Gli  amanti  timidi)',  difficile  percid  stabilire  a  quali  tra 
queste  alluda  il  Cesarotti.  7.  madama  Adelaide:  la  primogenita  di  Lui- 
giXV. 


49^  MELCHIORRE   CESAROTTI 

della  natura  umana  in  un  tale  stato.  Quand'anche  voglia  supporsi 
che  quei  poem!  celticl  non  siano  veramente  del  figlio  di  Fingal, 
conviene  ad  ogni  modo  accordare  che  sono  d'una  antichita  cosi 
remota  che  la  mia  difficolta  conserva  ancor  la  sua  forza.  Per  po- 
terne  discorrer  con  fondamento  converrebbe  esser  al  fatto  del 
vero  spirito  di  quel  popolo,  ed  averne  una  storia  seguita  e  parti- 
colareggiata.  Ma  dove  sono  i  monument!  ?  Quel  poco  che  ne  sappia- 
mo  dagli  storici  greci  e  latini  ci  rappresenta  i  Caledoni  in  un 
punto  di  vista  affatto  diverse  da  quello  in  cui  Ossian  ce  li  dipinge. 
II  sig.  Blair,1  professor  di  belle  lettere  a  Edimburgo,  pubblic6  una 
dotta  Dissertazione  a  questo  proposito,  in  cui  raccoglie  una  serie 
di  circostanze  atte,  secondo  lui,  a  spiegar  questo  singolare  fe- 
nomeno.  Le  sue  osservazioni  son  giudiziose,  ma  confesso  che  non 
m'appagano  interamente.  Le  circostanze  ch/ei  mette  in  campo 
sono  in  gran  parte  comuni  a  molte  altre  nazioni,  pure  i  loro  anti- 
chi  poeti  non  somigliano  punto  ad  Ossian  per  questo  capo.  S'io 
compisco  mai  questa  traduzione,  penso  di  dime  anch'io  qualche 
cosa,  prendendola  per  un'altra  parte.  La  mia  idea  potra  sembrar 
una  stravaganza,  ma  s'io  giungessi  a  provarla,  converra  confessare 
che  Ossian  e  il  piu  gran  genio  che  sia  mai  comparso  sulla  scena 
poetica.  Attendo  intanto  il  vostro  giudizio  e  i  vostri  riflessi:  forse 
sono  anch'io  attaccato  senza  accorgermene  dal  contagio  dei  tra- 
duttori :  confesso  che  sento  per  questo  poeta  un  entusiasmo  straor- 
dinario.  Non  e  ch'io  non  ne  conosca  i  difetti;  ma  le  sue  bellezze 
mi  sembrano  innumerabili  e  trascendenti.  Correggetemi,  illu- 
minatemi. 

Non  so  dirvi  per  altro  quando  potr6  proseguire  il  lavoro  in- 
trapreso.  II  Magistrate  de'  Riformatori  dello  Studio  di  Padova 
s'e  fitto  in  capo  ch'io  debba  attendere  a  tradur  qualche  opera  dal 
greco  per  uso  delle  stampe  di  Venezia.2  Un  tal  progetto  non  e 
molto  di  mio  genio,  ma,  oltreche  mi  conviene  ubbidire,  cotesti 
signori  mi  persuadono  inoltre  con  un  argomento  stringente,  quest' 6 
che  si  mostrano  disposti  a  pagare  le  mie  fatiche.  L'autore  dell'opera 
la  piu  originate  ed  interessante  qui  tra  noi  potrebbe  benissimo 
consumarsi  d'inedia  tra  Jl  fumo  degrincensi,  come  quel  Mene- 
crate  alia  mensa  di  Filippo.  Per  me  confesso  che  ci  vuol  qualche 

i.  Sul  Blair  e  la  sua  Dissertazione  cfr.  la  nota  a  p.  93.  z.  II  Magistrate . . . 
Venezia:  cfr.  su  questo  punto,  a  p.  287,  il  cappello  al  Ragionamento  pre- 
Kminare  al  corso  ragionato  di  letteratura  greca. 


LETTERE  497 

cosa  di  piu  solido  che  un  po'  di  lode  per  impegnarmi.  II  sentimen- 
to  non  e  molto  eroico,  ma  e  assai  naturale  in  chi  ha  passata  la  prima 
gioventu.  Senza  esser  punto  interessato,  trovo  che  un  po'  di  agio 
e  la  quiete  e  quanto  si  pu6  ragionevolmente  bramar  nella  vita. 
Fuwi  un  tempo  in  cui  mi  lasciava  solleticar  un  po'  piu  della 
gloria  (benche  sarei  ridicolo  se  mi  dessi  a  credere  che  una  certa 
gloria  luminosa  potesse  giammai  appartenermi),  pure  questa  bella 
chimera  mi  sedusse  alcun  poco :  ma  poiche  osservai  piu  dappresso 
quanto  ella  sia  distribuita  a  capriccio,  quante  pene  ci  costi,  a  quan- 
te  brighe  ci  esponga,  quando  vidi  che  per  dieci  freddi  lodatori  ci 
procaccia  cento  invidiosi  malevoli,  mi  son  messo  in  una  calma 
perfetta  su  questo  punto,  e  pago  di  non  esser  disprezzabile  a  me 
stesso  e  agli  occhi  di  qualche  amico  sincere  e  discreto,  rinunziai  del 
tutto  al  progetto  di  farla  da  venturier  letterario.  S'io  fossi  uno  di 
quei  felicissimi  ingegni  a  cui  basta  il  volere  per  produr  sempre 
qualche  opera  singolare  e  distinta,  vorrei  anch'io  incalorirmi  un 
po'  piu  perche  la  gloria  e  '1  diletto  sarebbero  comperati  a  buon 
prezzo.  Ma  nella  mia  mediocrita  il  piu  picciolo  lavoro  di  spirito 
mi  gravita  nella  fantasia  e  la  soverchia.  Se  1* opera  e  un  po'  lunga, 
io  non  ho  mai  riposo  fincb.6  non  e  terminata:  quell'idea  mi  perse- 
guita  per  tutto  e  non  mi  lascia  un  momento  ne  solo  n6  accompa- 
gnato,  e  posso  dir  con  verita  che  ho  addosso  una  specie  di  febbre. 
Ora  senza  esser  molto  sparso  nella  societa  non  son  per6  uomo  da 
troncar  ogni  commercio  con  essa,  e  andarmi  a  seppellir  come  De- 
mocrito  per  trar  dal  suo  pozzo  la  verita.1  Ci6  fa  ch'io  mi  contento 
di  costeggiar  i  lidi  della  letteratura,  senza  mettermi  in  alto  mare, 
e  a  riserva  di  qualche  bagattella  galante  o  ufiziosa  non  ho  mai  fatto 
di  mio  cosa  che  vaglia  la  pena  d' esser  letta.  Io  mi  soglio  applicar 
alcuni  versi  d'un  uomo  di  spirito  mio  amico: 

Ve  I'ho  gia  detto,  ed  or  vel  torno  a  diret 

che  la  poltroneria  mi  da  la  vita, 

e  vo'  far  poco  e  adagio,  ovver  morire.2 


i.  seppellir  .  .  .verita:  Democrito  pass6  gran  parte  della  sua  vita  nella 
citta  natale  di  Abdera,  unicamente  intento  ai  suoi  studi.  2.  Sono  versi 
tratti  da  un  sonetto  Agli  amid  di  Gasparo  Gozzi,  raccolto  nelle  Rime 
piacevoli.  II  primo  verso  e  propnamente :  «  Gia  ve  Tho  detto  ed  or  torno 
a  ridire». 

32 


498  MELCHIORRE    CESAROTTI 

Eccovi  una  sincera  confessione  del  mio  carattere  e  della  mia  for 
ma  di  pensare  su  quest!  punti.  Pure  le  cortesi  espressioni  della 
vostra  dolce  amicizia  avrebbero  di  che  sedurmi,  e  s'io  non  fossi 
ora  alle  prese  colla  Legge  Vecchia,1  potrei  forse  mettermi  di  propo- 
sito  a  lavorar  questo  piano  di  Poetica?  bench'io  vegga  quanto  son 
lungi  dalTaver  i  talenti  e  i  lumi  necessari  per  questa  impresa. 
II  vostro  confronto  me  lo  fa  sentire  piu  vivamente;  veggo  dalle 
vostre  lettere  stesse  che  voi  possedete  il  sistema,  del  quale  io  non 
ho  se  non  se  qualche  idea  mal  seguita,  abbondate  di  cognizioni 
sussidiarie,  e  avete  il  dono  delle  lingue  quanto  un  apostolo  nella 
Pentecoste.  Invece  dunque  di  spronar  me,  stimolate  voi  stesso, 
ed  arricchite  le  lettere  di  questa  beH'opera  per  cui  siete  fatto. 
Intanto,  lungi  dal  far  qualche  conto  sopra  i  miei  sparsi  capitali, 
disponetevi  piuttosto  a  lasciarmi  bottinar3  sopra  i  vostri.  Fatemi 
parte  delle  produzioni  del  vostro  spirito :  e  ben  giusto  che  1'amico 
opulento  soccorra  all'indigenze  del  meno  agiato. 

Voi  m'avete  fatto  cenno  di  certi  componimenti  polari.4  Questo 
e  parlar  di  cibi  delicati  ad  un  ghiotto.  Se  vi  trovate  averli  alle  mani, 
mi  f arete  un  distinto  regalo  a  trasmettermegli. 

L'edizione  deH'Ariosto  fatta  dall'Orlandini5  &  compiuta,  ma  pie- 
na  di  scorrezioni.  Addio. 


i.  Legge  Vecchia:  il  Vecchio  Testamento,  al  cui  studio  il  Cesarotti  si  dedi- 
cava  in  qualit&  di  professore  d'ebraico.  2. piano  di  Poetica:  fin  dalla  sua 
prima  lettera  il  van  Goens  aveva  invitato  il  Cesarotti  a  realizzare  il  suo 
vecchio  progetto  di  un'opera  filosofica  sulla  poesia,  progetto  accennato 
nella  fine  del  Ragionamento  sopra  Vorigine  e  i  progressi  delVarte  poetica 
(qui  a  p.  85).  3.  bottinar:  far  bottino,  predare.  4.  componimenti  polari: 
nella  lettera  a  cui  il  Cesarotti  risponde,  il  van  Goens  aveva  fatto  cenno  ai 
frammenti  d&\VEdda,  pubblicati  dal  Mallet  nei  suoi  Monuments  de  la 
mythologie  et  de  la  po6sie  des  Celtes,  et  particuherement  des  anciens  Scandi- 
naves,  Copenhague  1756.  5.  L'edizione  Orlandini  deWOrlando  furioso 
era  uscita  a  Venezia  in  due  tomi  nel  1731,  seguita  nel  1741  da  una  seconda 
in  quattro  tomi. 


LETTERE  499 

V 
A  MICHELE  VAN  GOENS1 

[Poeti  tedeschi  e  poeti  primitivi.] 

lo  arrabbio  di  dispetto  e  di  noia:  il  mio  povero  Ossian  e  ben 
da  compiangersi:  non  c'e  alcuno  che  voglia  incaricarsi  di  que 
sto  deposito;2  ed  io  mi  trovo  costretto  a  scomparir  senza  colpa. 
Resta  dunque  ch'io  m'addrizzi  a  voi.  Prescrivetemi  il  modo  pre 
cise  ch'io  debbo  tenere  per  farvelo  giungere,  ed  io  lo  eseguir6 
puntualmente. 

Go  do  di  veder  la  vostra  giudiziosa  critica  libera  del  paro  e 
indulgente  conciliar  insieme  1'esattezza  ed  il  candor  d'animo. 
Questo  non  e  certo  il  metodo  della  corrente  de'  nostri  satrapi  let- 
terari.  Satirici  maligni  o  ridicoli  entusiasti,  mettono  in  cielo  gli 
antichi  per  cacciar  sotterra  i  moderni.  In  luogo  di  bilanciar 
i  pregi  e  i  difetti,  e  format  con  questo  mezzo  un  giudizio  esat- 
to  e  ragionevole,  non  rilevano  che  gli  ultimi,  come  se  alcuno 
scrittore  ne  andasse  esente,  e  con  un  maligno  silenzio  nei  loro 
artifiziosi  estratti  sorprendono  la  semplicita  dei  lettori,  e  danno 
loro  a  credere  che  Popera  censurata  non  sia  che  un  tessuto  d'er- 
rori  e  d'imperfezioni. 

Voi  mi  toccate  il  cuore  lodandomi  i  poeti  tedeschi.  Sapete 
voi  ch'io  ne  sono  innamorato  al  par  di  voi  stesso,  benche  non  sia 
in  caso  di  gustare  gli  originali,  e  non  ne  abbia  letto  che  alcu- 
ni  pochi  componimenti  nelle  traduzioni  francesi  ?  Parmi  che  Fes- 
ser  comparsi  piu  tardi  delFaltre  nazioni  sulla  scena  poetica  ab 
bia  confluito  molto  a  perfezionarli.  Essi  conservano  quell' amabi- 
le  semplicita  e  per  cosi  dire  quella  freschezza  di  natura  che  sembra 
caratterizzar  le  prime  produzioni  di  tutti  i  popoli,  e  sono  nel 
tempo  stesso  a  portata  di  profittar  dei  lumi  del  secolo,  della 
moltiplicita  dei  grandi  modelli  e  del  gusto  della  buona  critica 
che  la  vera  filosofia  ha  sparse  in  questo  genere  di  studL  Le  Poesie 


i.  Dalle  Opere,  xxxv,  pp.  157-61.  Anche  questa  lettera  non  ha  data,  ma  sai& 
di  poco  posteriore  a  quella  del  van  Goens,  scritta  il  24  marzo  1768  (cfe. 
Opere,  xxxv,  p.  141),  alia  quale  essa  risponde.  2.  di  questo  deposito:  doe 
di  far  pervenire  al  van  Goens,  che  li  aveva  chiesti,  i  volumi  delle  tradu 
zioni  ossianiche. 


S°°  MELCHIORRE   CESAROTTI 

di  Haller,  gVIdilli  di  Gesner  e  la  Morte  diAdamo  di  Klopstok1  sono 
le  sole  cose  che  mi  giunsero  alle  mani,  e  m'incantarono  estrema- 
mente.  lo  trovo  ch'essi  hanno  sfiorato  le  bellezze  delle  altre  nazio- 
ni  scansando  maestrevolmente  i  loro  difetti:  senza  esser  grossolani 
hanno  la  semplicita  del  Greci,  e  sono  ingegnosi  al  par  del  Frances! 
senza  far  sempre  pompa  di  spirito  a  spese  della  natura  e  del  senti- 
mento.  Ove  si  trova  in  tutta  Tantichitk  cosa  si  delicata  come 
//  primo  navigatore,  e  la  novella  di  Zemia  e  Gulindi  ?2  Ardo  sopra 
tutto  di  voglia  di  legger  la  Messiade:3  ragguagliatemi  se  siane  an- 
cora  uscita  la  traduzione. 

Dei  fabliaux  non  ho  altra  conoscenza  che  quella  che  ne  dk  il 
co.  di  Caylus4  nella  sua  Memoria  inserita  fra  Paltre  dell'Acca- 
demia.  lo  non  sono  di  quelli  che  trattano  da  rancidumi  tutte  le 
cose  scritte  in  un  linguaggio  alquanto  antico.  Per  lo  contrario 
quella  semplice  rozzezza  spesso  m'alletta  piu  che  il  raffinamento 
dej  tempi  piu  colti.  Mi  piace  di  veder  le  prime  tinte  dell'elegan- 
za  nascente.  lo  mi  sono  fatto  uno  studio  di  legger  tutti  i  nostri 
piu  antichi  italiani.  Non  pur  Dante  nelle  sue  poesie  liriche,  ma 
Guido,5  Cino  ed  altri  ancora  piu  antichi  hanno  delle  cose  ammira- 
bili,  espressioni  energiche,  immagini  vive,  tratti  toccanti.  Per 
esempio  non  e  forse  una  gentilissima  pittura  questa  di  Guido 
Cavalcanti  ? 

In  un  boschetto  trovai  pastorella 
piu  che  la  stella  bella  al  mio  par  ere: 
capelli  avea  biondetti  e  ricciutelli; 
e  gli  occhi  pien  d'amor,  cera  rosata: 
con  sua  verghetta  pasturava  agnelli, 
e  scalza,  e  di  rugiada  era  bagnata; 
cantava  come  fosse  innamorata, 
era  adornata  di  tutto  piacere  6 


i.  Su  Haller  e  su  Gessner  (autore  del  poemetto  II  primo  navigator  ey  ricor- 
dato  piu  avanti  dal  Cesarotti)  cfr.  le  note  6  a  p.  437  e  2  a  p.  409;  sulla 
Morte  di  Adamo,  la  nota  sap.  484.  2.  la  novella  .  .  .  Gulindi:  del  Wie- 
land,  su  cui  cfr.  la  nota  2  a  p.  437.  3.  La  Messiade:  il  capolavoro  del 
Klopstock,  pubblicato  fra  il  1748  e  il  1773.  II  van  Goens  gli  mandera  la 
traduzione  inglese  del  Colhser,  Tunica  allora  esistente  (cfr.  Opere,  xxxv, 
p.  1 66).  4.  co.  di  Caylus:  celebre  archeologo  e  letterato  francese  (1692- 
1765)*  pubblic6  una  raccolta  di  Fabliaux  nel  tomo  xx  dei  «Recueils  de 
1' Academic  des  Inscriptions)).  5.  Guido :  Cavalcanti.  6.  Sono  i  primi 
otto  versi  della  famosa  ballata.  Mantengo  naturalmente  il  testo  del  Ce 
sarotti. 


LETTERE  501 

La  mescolanza  della  religione  colla  galanteria,  regalo  dello  spi- 
rito  cavalleresco,  e  Fassurda  metafisica  di  que*  tempi  guasta- 
rono  le  opere  dei  nostri  antichi.  Essi  sminuzzarono  Panima  in 
mille  parti:  anima,  mente,  cuore,  spirito  sono  altrettanti  enti 
distinti  che  si  accapigliano  tra  loro,  benche  spesso,  rappattu- 
matisi  nello  stesso  componimento  quando  men  si  aspetta,  diventino 
una  cosa  stessa.  Lo  spirito,  di  piu,  genero  molti  figli  detti  (cspi- 
ritelli»  che  sono  i  principali  agenti  di  quelle  poesie:  Puno  par- 
la,  1'altro  risponde,  e  fanno  tra  loro  un  vero  galimatias.1  Del 
resto  quanto  ho  detto  di  sopra  basta  per  farvi  intendere  ch'io 
gradisco  al  sommo  il  regalo  che  meditate  di  farmi.z  Intanto  vi 
ringrazio  del  saggio  che  me  ne  avete  trasmesso.3  Quella  pecca- 
trice  m'ha  fatto  molto  ridere:  vi  so  dire  ch'ella  ha  ben  rotto  lo 
scilinguagnolo,  come  si  dice  tra  noi.  Ella  dice  a  que*  santi  le 
lor  verita,  ed  essi  ben  le  meritarono  per  la  loro  durezza.  Questo 
e  il  carattere  dei  divoti,  d'esser  importuni  vivi  e  morti.  La  can 
zone  del  salce  e  ancora  piu  di  mio  genio.  Ella  e  semplice  e  toc- 
cante,  ed  io  la  gustai  estremamente. 

Ho  letto  il  libro  di  M.r  Mallet,4  e  ne  ho  fatto  qualche  uso 
nelle  mie  Osservazioni  sopra  Ossian.  Accennandomi  dei  componi- 
menti  nati  sotto  il  polo,  io  credea  che  parlaste  in  rigor  di  terrnine, 
Lo  Scheffero5  rapporta  due  piccole  canzonette  lappone  ch'io  ho 
tradotte.  Mi  lusingava  che  La  Condamine6  o  Maupertuis7  potes- 
sero  averne  fatta  qualche  raccolta.  Addio. 


i.  galimatias:  chiacchierata.  2.  il  regalo  .  .  .farmi:  allude  alia  promessa, 
fattagli  dal  van  Goens  (cfr.  Opere,  xxxv,  p.  153),  di  inviargli  una  raccolta 
di  Fabliaux  et  conies,  dei  secoli  XII-XV,  e  un'altra  di  antiche  poesie  inglesi 
(Reliques  of  ancient  english  Poetry,  pubblicate  nel  1765  da  Thomas  Percy). 
3.  saggio  .  .  .  trasmesso:  il  van  Goens  gli  aveva  inviato,  in  appendice  alia 
sua  lettera,  la  trascrizione  (che  non  ci  e  pervenuta)  di  due  antiche  poesie 
inglesi.  II  Cesarotti  allude  appunto  ad  esse  nelle  righe  che  seguono.  4.  il 
libro  .  .  .  Mallet:  i  Monuments  ecc.  del  Mallet,  sui  quali  cfr.  la  nota  4  a  p. 
498.  5.  Scheffero:  Johann  Scheffer  (1621-1679),  erudito  alsaziano,  autore 
di  un' opera  intitolata  Lapponia,  sen  gentis  regionisque  lapponicae  descriptio 
accurata  (1673).  6.  Sul  La  Condamine,  celebre  viaggiatore  francese  del 
Settecento,  cfr.  la  nota  a  p.  325.  7-  Piuttosto  che  del  famoso  matematico 
penso  che  il  Cesarotti  intenda  parlare  di  Jean-Baptiste  Drouet  du  Mau- 
pertuy  (1650-1730),  autore  di  una  Histoire  generale  des  Goths  (1703)- 


502  MELCHIORRE   CESAROTTI 

VI 
A  SAVERIO  MATTEI1 

\Traduzioni  delta  BibUa  e  di  scrittori  greet.] 

Padova,  II  giugno  1778. 

Mi  rallegro  che  abbian  trovata  qualche  grazia  dmanzi  al  vostro 
tribunale  i  miei  Ragionamentf  che  vanno  dietro  alle  due  tragedie 
del  Voltaire.  lo  gli  ho  scritti  molti  anni  fa,  e  gli  avrei  certamente 
migliorati  e  rettificati  in  piu  d'un  luogo,  se  avessi  dovuto  ristam- 
parli,  specialmente  dopo  aver  letto  le  vostre  maravigliose  ed  in- 
comparabili  dissertazioni  su  queste  materie.3  Confesso  ch'io  stava 
con  molta  trepidazione  del  vostro  giudizio.  lo  vi  metto  assoluta- 
mente  alia  testa  dell'areopago  letterario,  n6  avrei  saputo  come  o 
a  chi  appellarmi  da  una  vostra  sentenza  condannatoria.  Or  che 
ho  la  buona  sorte  di  trovarvi  favorevole,  sfido  francamente  tutti 
gli  Eaci  e  i  Radamanti,  non  che  un  intero  esercito  de}  nostri  giu- 
dici  triobolari.4 

Ho  letto  nuovamente  il  vostro  discorso  sopra  i  tragici  greci,5 
<e  lo  trovo  sempre  piu  sorprendente.  Non  poteva  immaginarsi 
niente  di  piu  solido,  di  piu  nuovo  e  di  piu  felice,  ne  trattarsi  con 
maggiore  sceltezza  di  erudizione  e  forza  d'ingegno.  Questo  e  il 
solo  sistema  che  pu6  giustificare  i  tragici  greci  di  tante  apparenti 
incongruenze,  che  in  ogn'altro  modo  riescono  inescusabili.  Voi 
mi  consolate  facendomi  toccar  con  mani  che  la  scena  dei  Greci 
era  discretamente  variabile;  giacch£  non  ho  mai  saputo  adottare 
come  un  canone  inrefragabile  quella  scrupolosa  unita  di  luogo 
contraria  alia  natura  dej  fatti  che  hanno  preparamento  e  viluppo. 
Se  avessi  dovuto  tradurre  i  tragici  greci,  credo  che,  senza  essermi 


i.  Dalle  Opere,  xxxv,  pp.  270-6.  Saverio  Mattei,  giureconsulto,  orienta- 
lista  e  musicofilo  calabrese  (1742-1795),  noto  soprattutto  per  la  sua  tra- 
duzione  in  strofette  metastasiane  dei  Libri  poetici  della  Bibbia  (Napoli 
1766-1774).  2.  Ragionamenti:  quelli  Sopra  il  diletto  della  tragedia  e  So 
pra  Vorigine  e  i  progressi  delVarte  poetica,  ambedue  riportati  in  questo 
volume.  3.  dissertazioni  .  .  .  materie:  allude  alia  Dissertazione  sulla  «  Ohio- 
ma  di  Berenice »  di  Callimaco  e  di  Catullo  e  alia  Maniera  d'interpretare  i  tra 
gici  greci,  stampate  a  Siena  (1776-1778).  4.  triobolari'.  che  valgono  un 
triobolo  (moneta  greca  di  scarso  valore).  5.  discorso  .  .  .  greci:  la  Maniera 
d*interpretare  i  tragici  grecit  citata. 


LETTERE  503 

incontrato  col  vostro  sistema,  ci  avrei  aderito  cosi  per  istinto, 
trasportando  in  versi  lirici  rimati  i  pezzi  di  maggior  passione  e 
scritti  con  metodo  diverso.  Ma  certamente  adesso  disperarei  di 
potermi  accostare  all'eccellente  traduzione  che  avete  fatto  di  quel- 
la  scena  delVEcuba*  che  mi  mette  in  un  furioso  desiderio  di  ve- 
dere  un'intiera  tragedia  da  voi  tradotta  in  un  modo  cosi  naturale 
e  mirabile. 

In  prova  che  11  vostro  discorso  ha  fatto  un  vero  effetto  sopra 
il  mio  animo,  devo  chiamarmi  in  colpa  dinanzi  a  voi  d'un  pec- 
cato  non  indifferente,  ed  e  quello  di  aver  inawedutamente  aderito 
al  pregiudizio  de'  nostri  pedanti,  ch'escludono  i  drammi  del  Me- 
tastasio  dal  numero  delle  genuine  tragedie.  Ci6  fece  ch'io  non 
ne  parlassi  ne'  miei  giambi  intorno  a'  tragici  antichi  e  moderni.2 
Posso  per 6  pregiarmi,  a  differ enza  di  costoro,  di  aver  sempre 
ammirato  Metastasio  come  uno  dei  piu  sovrani  poeti  che  sieno 
mai  stati  al  mondo.3  Del  resto,  non  mi  crediate  punto  piu  parziale 
de'  moderni  che  degli  antichi.  lo  mi  pregio  in  queste  materie  della 
perfetta  neutralita;  e  se  talora  sembro  un  po'  piu  sensibile  a* 
difetti  che  alle  virtu  dei  Greci  questo  non  e  che  per  1'odio  che  mi 
destano  i  nostri  miserabili  critici,  che  esaltano  costantemente  gli 
antichi  a  spese  de'  moderni,  e  rinegano  il  buon  senso  per  tra- 
sformare  in  pregi  anche  i  loro  vizi. 

Veniamo  alle  cose  vostre.  Voi  v'ingannate  se  credete  che  io 
possa  adularvi,  e  che  le  mie  espressioni  non  nascan  dal  cuore. 
Voi  vi  offrite  di  cambiare  nella  vostr'opera  quel  che  a  me  non 
piacera  senza  esame,  come  se  il  mio  gusto  sia  piu  fino  e  piu  sicuro 
del  vostro.  Comunque  sia,  per  darvi  una  prova  del  mio  candore 
vi  compiego  un  foglio  de'  passi  che  crederei  che  potreste  ritoccare 
nella  vostra  traduzione.  Egli  e  certo  che,  quanto  alia  sagacita  cri- 
tica  che  risplende  nelle  dissertazioni  e  nelle  note,  non  vi  pu6  es- 
sere  che  una  voce  di  applauso.  La  traduzione  in  generale  e  feli- 
cissima,  disinvolta  ed  originate :  i  Salmi  possono  chiamarsi  vostri, 
giacch6  voi  per  lo  meno  fate  a  meta  con  Davide.  II  vostro  modo  di 

ifEcuba:  la  tragedia  di  Euripide.  2,.  giambi .  .  .  moderni:  allude  ai  suoi 
Iambi  de  poetis  tragicis,  stampati  la  prima  volta  nel  1762  con  le  traduzioni 
del  Cesare  e  del  Maometto  di  Voltaire  e  i  due  Ragionamenti.  Degli  italiani 
vi  sono  ricordati  solo  il  Maffei  e  il  Conti.  3-  Posso  . .  .  mondo:  sull'am- 
mirazione  del  Cesarotti  per  il  Metastasio  cfr.  qui,  a  pp.  481-2,  1'elogio 
nel  Saggio  sulla  filosofia  del  gusto,  e  il  giudizio  nella  lettera  al  van  Goens 
riportata  in  questo  volume,  a  p.  492. 


504  MELCHIORRE  CESAROTTI 

tradurre  adegua  tutte  le  mie  idee  in  questo  proposito.  Chi  sa  tradur 
cosi,  merita  di  esser  posto  fra  gli  originali  ben  piu  die  fra  i  tradutto- 
ri.  Potrebbe  non  pertanto  in  qualche  luogo  non  piacere  intera- 
mente  a  tutte  le  classi  per  qualche  negligenza,  per  qualche  scar- 
sezza  di  rime  nelle  canzoni  libere,  e  per  qualche  non  grato  concorso 
di  vocali,  che  non  di  rado  s'incontra  ne'  versi,  cose  a  cui  le  schiz- 
zinose  orecchie  de'  nostri  potrebbero  esser  troppo  sensibili.  Mi 
taccereste  voi  di  temerita,  se  osassi  confortarvi  a  ritoccare  alcuni 
luoghi  almeno  per  adattarvi  alia  nostra  superstizione,  e  sapete 
che  questa  e  una  divinita,  a  cui  bisogna  o  poco  o  molto  sacrificare 
ad  ogni  costo?  Ho  stimato  ancora  notarvi  tutti  i  versi  sdruccioli 
posti  a  caso:  non  parlo  dei  componimenti  intieri  in  tal  sorta  di 
versi,  parlo  di  quei  che  si  frammischiano  e  ch'io  vorrei  che  non 
si  frammischiassero  se  non  quando  esprimessero  qualche  cosa  che 
richiedesse  la  novita  di  tale  straordinaria  cadenza,  come  sono  que- 
gli  ammirabili  e  divini  sdruccioli  che  frammischiate  nella  tradu- 
zione  del  salmo  «Diligam  te,  Domine».  Ne'  luoghi  segnati  forse 
il  mio  affetto  per  voi  mi  avra  reso  un  poco  timido,  e  forse  io  stesso 
sono  un  poco  piu  superstizioso  di  quel  ch'io  creda,  e  mi  figuro  di 
poter  dispiacere  a  taluno  qualche  cosa  che  forse  non  dispiacera; 
ma  in  ogni  modo  la  nostra  amicizia  non  soffre  ch'io  vi  dissimuli 
ciocche  sento  e  che  parmi  di  esser  di  maggior  vostra  gloria. 

Intanto  datemi  ancor  voi  prova  della  vostra  sincerita.  Non  sara 
difficile  che,  dopo  terminata  la  traduzione  di  Demostene,  io  debba 
lavorare  intorno  alFOmero.  Per  dare  a  me  stesso  un  saggio  delle 
mie  forze  ho  tradotti  i  primi  500  versi  dell'Iliade,  e  se  tutto  po- 
tesse  continuar  cosi,  non  potrei  esser  discontento  della  mia  fatica. 
Se  mai  accadesse  ch'io  dovessi  daddovero  esercitarmi  in  questo  for- 
midabile  lavoro,  mi  raccomandero  caldamente  a'  vostri  lumi,  giac- 
che  in  tal  caso  sarebbe  mio  pensiero  di  arricchire  il  testo  di  tutte 
le  annotazioni  ed  illustrazioni  piu  ragionevoli.  Vi  accludo  anticipa- 
tamente  questi  500  versi,  su  de'  quali  aspetto  un  particolare  e 
minuto  vostro  giudizio;  ma  il  piacer  di  discorrer  con  voi  mi  fa 
abusar  della  carta  e  dell'ozio  vostro.  Continuate  ad  amarmi,  ed 
accertatevi  che  io  sono  con  tutto  Io  spirito. 


LETTERE  505 

VII 
A  CLEMENTINO  VANNETTI1 

[Sulle  epistole  del  Vannetti  al  Monti.] 

Ebbi  successivamente  e  lessi  con  sommo  piacere  le  due  sue  poe- 
tiche  epistole2  piene  di  sapore  e  di  grazia.  II  buon  gusto  critico, 
la  disinvoltura  dello  stile,  la  finezza  delle  allusioni,  il  sale  e  Tur- 
banita  degli  scherzi  che  regnano  ugualmente  in  ambedue,  le  ren- 
dono  cosi  pregevoli  che  potrebbero  far  onore,  per  non  dir  invidia, 
ad  Orazio.  Se  queste  espressioni  sembrano  forse  caricate  alia  sua 
modestia,  ella  non  deve  incolpar  che  se  stesso,  giacche  scrive  in 
mo  do  che  non  si  puo  con  lei  esser  ingenuo  senza  parer  lusinghiero. 
Merita  anche  somma  lode  il  suo  assunto  di  purgar  il  Parnaso  ita- 
liano  dalla  corruzione  che  lo  minaccia.  Vorrei  per6  ch'ella  non  si 
contentasse  di  compier  1'uffizio  sol  per  meta,  e  che  censurando  un 
difetto  non  usasse  troppa  clemenza  col  suo  contrario.  La  gonfiez- 
za,  la  preziosita  dello  stile,  il  francesismo,  il  barbarismo  e  la  pe- 
danteria  scientifica  erano  vizi  ben  degni  della  sua  sferza:  ma  non 
la  meritano  meno  la  vacuita  d'idee,  la  magrezza,  la  timida  su- 
perstizione,  la  servile  imitazione,  Tabuso  della  mitologia,  il  fra- 
seggiamento  ozioso,  le  cruscheggianti  ricerche  che  formano  tutto 
il  merito  d'un'altra  classe  de'  nostri  verseggiatori.  M'inganno  io 
forse  credendo  che  la  nausea  promossa  giustamente  in  lei  dagli 
sgraziati  e  fanatici  imitatori  degli  scrittori  oltramontani  1'abbia 
messo  di  mal  umore  anche  coi  loro  originali  innocenti  ?  A  cio  vorrei 
attribuire  Pepiteto  di  fumoso  e  quasi  idropico  che  da  a  Thomas,3 
qualita  ch'io  confesso  di  non  riconoscere  in  lui,  non  parendomi 
che  il  suo  stile  sia  sconveniente  ne  alia  grandezza  dei  soggetti,  n£ 
alia  sublimita  dell'oggetto  ch'ei  si  propone,  ne  alia  specie  di  lettori 

i.  Dalle  Opere,  xxxvi,  pp.  52-4.  La  lettera  non  ha  data,  ma  dalla  risposta 
del  Vannetti  (riprodotta  anche  in  questo  volume)  che  e  del  17  giugno  1780, 
si  trae  che  questa  del  Cesarotti  deve  essere  di  poco  anteriore.  Su  questa 
corrispondenza  tra  il  Cesarotti  e  il  Vannetti  cfr.  la  Nota  intraduttiva 
al  secondo.  2.  due .  .  .  epistole:  due  epistole  di  tipo  oraziano  indirizzate 
al  Monti  e  composte  nel  1779  e  nel  1780.  3.  Vepiteto  .  .  .  Thomas:  nella 
nota  14  alia  sua  seconda  epistola  al  Monti  il  Vannetti  aveva  defimto  il 
Thomas  « fummosissimo  e  direi  quasi  idropico »  (cfr.  C.  Vannetti,  Opere 
italiane  e  latine,  vi,  Venezia,  Alvisopoli,  1831,  p.  223).  Sul  Thomas  cfr. 
la  nota  4  a  p.  359. 


506  MELCHIORRE    CESAROTTI 

a  cui  s'indirizza.  lo  la  trovo  anche  un  po'  severe  coi  poeti  tedeschi, 
tra'  quali  vorrei  domandar  grazia  per  Tamabile  e  virtuoso  Gesner. 
Essi  hanno,  non  v'ha  dubbio,  i  loro  difetti;  ma  i  nostri,  i  latini  e  i 
greci  ne  mancano  ?  e  nella  letteratura  non  meno  die  nella  morale, 
non  e  questa  una  legge  inevitabile  dell'umanita,  che  Tuomo  il 
piu  grande  partecipi  almeno  del  vizio  ch'e  rmitimo  alia  sua  virtu  ? 
Ella  vede,  sig.  cavalier  gentilissimo,  ch'io  non  mi  sono  poi  fatto 
una  legge  di  lodar  tutto  senza  qualche  eccezione;  e  Taver  cuore 
di  avanzarle  questi  dubbi  malgrado  la  dolce  seduzione  d'un  cenno 
inaspettato  di  lode  uscito  dalla  sua  penna  sopra  di  me,1  parmi  un 
tratto  di  rigidezza  stoica  che  pu6  rassicurarla  per  sempre  sulla 
mia  eroica  sincerita.  Del  resto,  malgrado  qualche  apparente  di- 
versita  nelle  nostre  opinioni,  io  amo  di  credere  che  siam  d'accordo. 
Ho  troppo  interesse  a  pensar  cosi:  ella  non  ha  che  a  far  dei  versi 
per  aver  sempre  ragione.  L'ltalia,  com' ella  ben  dice  in  una  sua 
nota,2  aspetta  il  suo  Boileau.  II  sig.  cav.  Vannetti  pu6  esser  il 
Boileau  italiano  senza  che  disprezzi  Quinault3  o  faccia  una  cattiva 
apologia  della  prima  strofa  di  Pindaro.4  Mi  continui  la  sua  buona 
grazia,  e  mi  creda  colla  piu  affettuosa  stima. 


VIII 
A   CLEMENTINO  VANNETTI 5 

[((Arricchire  Verario  della  nostra  lingua.^ 

Padova. 

Io  ho  bisogno  di  tutta  quella  virtu  da  cui  deriva  il  suo  nome 
per  farmi  perdonar  Teccesso  della  mia  tardanza  a  rispondere  al 
suo  pregiatissimo  foglio  dei  17  dello  scorso.  Non  e  gia  ch'io  non 

1.  cenno  .  .  .  sopra  di  me:  nella  citata  epistola  al  Monti  il  Vannetti  aveva 
ricordato,  fra  i  migliori  poeti  contemporanei  d' Italia,  il  «caldo  Cesarotti». 

2.  in  una  sua  nota:  nella  nota  49  alia  stessa  epistola  il  Vannetti  aveva  detto: 
«Noi  abbiamo  de'  Perrault  e  de'  Marets  in  Italia,  e  aspettiamo  un  Boi 
leau  »  (cfr.  Opere  italiane  e  latine,  ed.  cit.,  VI,  p.  230).     3.  Philippe  Quinault 
(1625-1688),  autore  di  tragedie  e  di  libretti  per  musica,  e  ricordato  dal 
Boileau  neft'Art  poitique  con  i  versi  famosi:  «Si  je  veux  exp rimer  un 
auteur  sans  deiaut,  /  la  raison  dit  Virgile,  et  la  rime  Quinault ».     4./ac- 
cia .  .  .  Pindaro :  come  aveva  fatto  appunto  il  Boileau*  in  polermca  col 
Perrault,  nelle  Reflexions  critiques  sur  Longin.     5.  Dalle  Opere,  xxxvi,  pp. 
59-66.  Risponde  alia  lettera  del  Vannetti  del  17  giugno  1780,  pure  ripor- 
tata  in  questo  volume. 


3 


LETTERE  507 

potessi  scemar  la  mia  colpa  con  varie  scuse  plausibili,  ma  credo 
meglio  lasciar  a  lei  tutto  intero  il  merito  del  perdono,  valendomi 
per  mediatore  del  suo  favorito  Orazio.  La  sua  lettera  sopra  la  tra- 
duzione  del  Corsetti1  ch'io  non  ho  letta,  e  dopo  la  sua  censura 
non  ho  veruna  voglia  di  leggere,  e  plena  di  sensatezza  e  di  gusto. 
Ella  e  tra  i  pochissimi  che  a'  nostri  tempi  meritino  1'apostrofe  ora- 
ziana  «  docte  sermone  utriusque  linguae  »,2  e  si  mostra  perfettamente 
iniziato  in  tutti  i  misteri  dell'arte  dello  stile,  comunemente  scono- 
sciuta  in  Italia.  Alcuni  fra  noi  sono  come  i  Moscoviti,  cui,  al  dire 
di  Montesquieu,  bisogna  scorticare  per  dar  loro  del  sentimento,3 
e  per  cui  i  ^pungoli  delicati  della  locuzione  sono  interamente 
perduti:  altri  affettano  un  purimo  inanimate,  e  giudicano  del- 
1'espressioni  sull'autorita  dei  dizionari:  ma  il  senso  esquisito 
della  bellezza  intrinseca  dei  termini,  Tanalisi  filosofica  del  lo 
ro  valore,  la  fmezza  di  giudicar  fra  due  espressioni  apparente- 
mente  sinonime  &  un  dono  di  pochi  eletti,  fra  cui  ella  tiene  un 
posto  assai  ragguardevole.  In  somma  in  questa  sua  lettera  io 
non  trovo  che  da  lodarla  a  suo  dispetto.  Solo  volendo  sofisti- 
care,  affin  di  piacerle,  giacche  ella  brama  le  censure,  come  gli 
altri  vanno  a  caccia  degli  elogi,  potrei  dir  che  nell'esame  critico 
fatto  alFinterprete  parmi  di  subodorare  una  prevenzione  forse 
eccedente  per  Poriginale;  ma  siccome  ella  non  tratta  questo  pun- 
to  exprofesso,  cosi  non  mi  credo  in  diritto  di  fargliene  ancora  una 
colpa. 

Approvo  molto  ch'ella  si  proponga  di  estendere  la  sua  censura 
poetica  all'altra  classe  di  difetti  che  awilisce  il  Parnaso  italiano. 
Non  e  per6  mestieri  che  io  le  additi  o  i  componimenti  o  gli  autori. 
Oltrech6  io  amerei  piuttosto  la  critica  ideale  che  la  personale,  i 
vizi  accennati  si  trovano  sto  per  dire  in  quasi  tutte  le  opere  dei 
poeti  italiani  che  si  piccano  di  conservar  intatto  il  buon  gusto 
nazionale.  La  servile  imitazione,  la  superstizion  della  lingua,  la 
scarsezza  delPidee,  la  timidezza  eccessiva  nello  stile,  Pabborrimento 
a  tutto  ci6  che  sente  di  novita  o  d'arditezza  anche  la  piu  felice, 


i.  lettera .  .  .  Corsetti:  cfr.  la  nota  relativa  nella  lettera  del  Vannetti  del 
30  agosto.  2.  Orazio,  Carm.,  in,  vin,  5,  dice  esattamente:  « Docte  ser- 
mones  utriusque  linguae »  («Dotto  conoscitore  di  ambedue  le  lingue»); 
e  intende  del  latino  e  del  greco,  mentre  il  Cesarotti  allude  all'italiano  e  al 
latino.  3.  Moscoviti .  .  .  sentimento:  cfr.  De  V esprit  des  lois,  in  Oeuvres,  I, 
Paris,  Hachette,  1908,  p.  316. 


508  MELCHIORRE    CESAROTTI 

sono  i  caratteri  dominant!  delFitalianismo,1  e,  se  volessi  citar  del 
nomi,  Venezia,  Padova,  Verona,  per  non  estendermi  piii  oltre, 
potrebbe  somministrarmi  piu  d'un  esempio.  Un  vano  fraseggia- 
mento  detto  poetico,  tratto  dalla  mitologia,  forma  una  gran  parte 
del  merito  di  vari  altri.  La  cieca  adorazione  dei  Latini  e  dei  Greci, 
1'erudizione  grammatical,  la  critica  senza  filosofia  e  senza  gusto, 
la  ridicola  fedelta  delle  traduzioni  sono  i  difetti  comunissimi  della 
corrente  dei  maestri  e  dei  dotti,  e  sono  piu  perniciosi  degli  altri 
perch6  impongono  maggiormente  coH'autorita.  L'educazione  della 
gioventu  e  in  mano  di  pedanti  e  di  scrittori  mediocri  che  diffon- 
dono  il  pregiudizio  e  lo  awalorano  per  loro  proprio  interesse.  Gli 
oltramontani,  che  hanno  il  doppio  peccato  d'essere  moderni  e 
stranieri,  non  hanno  un  credito  cosl  radicato  che  basti  ad  im- 
porre  all'universale ;  i  loro  vizi  comunemente  non  seducono  che  le 
persone  di  mondo  o  quelli  d'ingegno  men  disciplinato  e  men 
colto;  e  combattuti  ragionevolmente  dai  pochi,  pedantescamente 
dai  molti,  liberalmente  dai  tutti,  non  possono  essere  gran  fatto 
pericolosi:  laddove  gli  antichi  e  i  principali  italiani  hanno  per  loro 
il  fanatismo  delPantichita,  la  fazione  autorevole  degli  eruditi,  la 
prevenzione  del  patriottismo,  ne  si  pu6  arrischiar  di  attaccarli  senza 
pericolo  d'aver  la  taccia  di  sacrilego.  lo  posso  dirlo  con  fonda- 
mento,  io  che  fui  trattato  poco  meno  che  da  eresiarca  perche  qua 
e  la  nelle  mie  opere  osai  parlare  su  questi  soggetti  con  una  onesta 
e  filosofica  liberta.  Ci6  deve  tanto  piu  animare  il  suo  zelo  ad  eser- 
citar  una  critica  pienamente  libera:  «Tros  Rutulusve  fuat  nullo 
discrimine  habeto».2  Io  non  condanno  adunque  la  censura  degli 
autori  grandi  purche"  sia  proporzionata  al  difetto  e  lontana  da 
qualunque  sospetto  di  prevenzione.  II  gusto  esclusivo,  la  scuola, 
Tautorita,  la  passione  ci  seducono  talora  malgrado  nostro.  Non  sa 
piacermi  il  metodo  di  condurre  i  lettori  nel  sentier  di  mezzo  col 
trarli  da  un  estremo  all'altro.  AlFincontro,  le  opinioni  estreme 
sembrano  autorizzar  le  contrarie,  e  Teccesso  o  la  parzialita  sce- 
mano  fede  alia  critica  meglio  fondata.  Confesso  che  trovai  strano 
nella  sua  bocca  il  titolo  di  fumoso  e  d'idropico  dato  a  Thomas.3 


i.  italianismo:  la  letteratura  italiana.  z.  Virgilio,  Aen.,  x,  108,  dice  esat- 
tamente :  «  Tros  Rutulusne  fuat,  nullo  discrimine  habebo » (« che  sia  troiano 
o  rutulo,  non  far6  alcuna  distinzione»).  3.  Confesso  .  .  .  Thomas:  sul  Tho 
mas  cfr.  la  lettera  precedente  e  la  nota  relativa. 


LETTERS  509 

M5e  noto  che  piu  d'uno  pensa  cosi,  ma  questo  appunto  parmi  uno 
di  que'  tanti  giudizi  dettati  dalla  prevenzione  di  cui  abbonda 
Tltalia,  e  che  mi  spiacque  di  veder  autorizzato  dalla  penna  d'uno 
scrittor  come  lei.  II  gonfio  e  lo  sproporzionato  nel  grande:  mi  si 
mostri  questa  sproporzione,  e  la  causa  e  vinta:  finche  non  si  fa 
questo,  il  denominar  un  autore  pieno  di  somme  virtu  da  un  difetto 
apparente,  e  ci6  con  un'espressione  caricata  ed  acerba,  e  un  tratto 
che  non  par  facile  a  giustificarsi.  lo  non  prendero  la  briga  di  far 
1' apologia  dei  poeti  tedeschi,  vorrei  solo  che  si  rendesse  adeguata 
giustizia  anche  ai  loro  rneriti,  e  questa  non  e  adeguata  quando  si 
scorre  leggermente  sopra  di  questi,  e  si  calca  soltanto  sopra  i  difetti. 
Cosa  ha  V Italia,  anzi  tutta  Pantichita,  che  uguagli  Ilprimo  naviga 
tor  e  di  Gesner  ?  che  meraviglie,  che  fanatismo  non  si  sarebbe  de- 
stato  giustamente  fra  i  dotti  se  questo  componimento  si  fosse  ri- 
trovato  in  un  codice  greco?  Ella  non  fa  parola  di  Haller  e  di 
Vieland;1  pure  le  Alpi>  la  Doride,  la  Morte  di  Marianna  nel  primo, 
la  novella  di  Zemin  e  Gulindy  nel  secondo,  sono  componimenti 
d'una  bellezza  straordinaria.  Hanno  questi  e  tutti  gli  altri  i  loro  di 
fetti:  ma  se  ci6  basta  per  farci  disprezzare  un  autore,  saremo  co- 
stretti  a  non  amarne  o  apprezzarne  alcuno.  Crede  ella  che  Omero, 
Pindaro,  il  suo  stesso  Orazio  non  abbiano  la  loro  gran  dose  d'uma- 
nita  ?  e  approverebbe  ella  un  critico  che  da  qualche  loro  imperfe- 
zione  si  credesse  autorizzato  a  parlar  di  loro  con  disprezzo  o  con 
leggerezza?  Le  qualita  essenziali  d'un  poeta  son  quelle  che  deb- 
bono  formarne  il  carattere.  Ella  confessa  che  Thomas  e  un  sicuro 
maestro  nelParte  d'imprimere  nei  lettori  qualunque  affetto  si  vo- 
glia.  Questo  giudizio  forma  il  sommo  elogio  d'un  oratore:  perch6 
dunque  denominarlo  da  una  equivoca  imperfezione,  piuttosto  che 
da  una  vera,  massima  e  riconosciuta  virtu?  Parmi  ch'ella  tema 
un  po'  troppo  di  veder  la  poesia  italiana  colorita  di  tinte  straniere. 
Perch6  creder  un  delitto  Tappropriarsi  le  altrui  bellezze  quando 
cio  possa  eseguirsi  felicemente  ?  Parmi  eziandio  che  comunemente 
si  confonda  il  genio  grammaticale  d'una  lingua  col  genio  retto- 
rico.2  Quello  e  sempre  stabile;  questo  si  modifica  tante  volte 
quanti  sono  gli  scrittori  originali  che  vi  fioriscono.  Quante  espres- 


i.  Sxil  Gessner,  sullo  Haller  e  sul  Wieland,  cfr.  a  p.  499  i  giudizi  del  Ce- 
sarotti  nella  lettera  al  van  Goens,  e  le  note  relative.  2.  Parmi . . .  rettorico: 
anticipa  uno  dei  concetti  cardinal!  del  Saggio  sulla  filosofia  delle  lingue. 


510  MELCHIORRE    CESAROTTI 

sioni  non  ha  Dante  che  dovrebbero  dirsi  audaci  e  repugnant!  al 
genio  italiano,  se  si  volesse  prender  norma  dai  susseguenti  poeti? 
Quanti  grecismi  non  furono  felicemente  introdotti  dal  Chiabrera  ? 
quanti  modi  energici  non  si  trovano  nel  Davanzati,  ch'ei  deve  solo 
alia  sua  gara  con  Tacito  ?  II  mal  e  che  pochi  fra  noi  conoscono  le 
regole  d'una  sobrieta  giudiziosa  e  d'una  delicata  desterita  nel  ram- 
morbidire  i  colon  stranieri:  ove  questa  si  possedesse  un  po'  me- 
glio,  crederei  che  un  certo  misto  di  sapor  peregrino  e  nostrale  do- 
vesse  conciliar  allo  stile  una  novita  piccante,  e  arricchir  1'erario 
della  nostra  lingua,  che  parmi,  checche"  se  ne  creda,  un  pos  scarso. 
Ohime,  io  non  volea  fare  che  alcuni  cenni,  e  a  poco  a  poco  ho  fatto 
una  dissertazione.  Vaglia  almeno  la  lunghezza  di  questa  lettera  a 
compensare  la  mia  tardanza,  se  pur  il  compenso  non  e  peggior 
della  colpa.  S'io  avessi  la  fortuna  d'esserle  vicino,  mi  sarebbe  un 
vero  piacere  il  trattenermi  con  lei  sopra  questi  soggetti;  e  credo 
che  non  ci  sarebbe  difficile  il  persuadersi  reciprocamente.  La  no 
stra  comunione  deve  essere  in  fondo  la  stessa,  e  quando  ci  fosse 
qualche  diversita,  e  certo  che  fra  noi  non  avrebbero  luogo  gli 
anatemi.  Tomato  in  citta  donde  fui  lontano  parecchi  giorni,  tro- 
vai  la  sua  operetta  latina1  di  cui  la  ringrazio  vivamente.  Fara 
questa  il  soggetto  d'un'altra  lettera,  ma  la  prevengo  che  questa 
non  potra  essere  molto  sollecita.  Mi  conservi  la  sua  pregiatissima 
grazia,  e  mi  creda  con  vera  e  singolare  compiacenza,  ec. 

IX 
A  CLEMENTINO  VANNETTI2 

[((Appropriarsi  felicemente  le  bellezze  straniere.v] 

Padova. 

Jbbbi  fuor  di  citta  la  sua  lettera  dei  30  scaduto,  e  non  mi  fu  pos- 
sibile  di  risponderle  nelPaltro  ordinario.  S'ella  vuol  ch'io  le  dica 
«  quanti  difetti  ho  notati »  nel  suo  Commentario  zorziano3  non  posso 
assolutamente  servirla.  Frema  quanto  vuole  la  sua  modestia,  io 

i.  operetta  latina:  il  Commentarius  de  vita  Alexandri  Georgii,  su  cui  cfr. 
la  lettera  del  Vannetti  del  30  agosto  e  la  nota  relativa.  2.  Dalle  Opere, 
xxxvi,  pp.  72-6.  Risponde  alia  lettera  del  Vannetti  del  30  agosto  1780, 
riportata  anche  in  questo  volume.  3.  Commentario  zorziano:  l'«  operetta 
latina »  ricordata  nella  lettera  precedente. 


LETTERE  511 

le  dico  in  faccia  schiettamente  ch'esso  m'incanto  da  capo  a  fondo. 
Ci  scorsi  un  candor  di  latinita,  un'eleganza,  una  grazia  naturale 
che  ricorda  il  secolo  d'Augusto.  Cicerone  (conviene  sofTrirlo)  avreb- 
be  scritto  cosi  Telogio  di  Attico.  Lo  stesso  merito  brilla  nelle  sue 
lettere  non  punto  inferior!  a  quelle  del  suo  degno  amico.  «Micat 
inter  omnes  )>T  quella  sopra  1'uso  della  lingua  latina.2  lo  sono  stato 
sempre  della  sua  opinione  su  questo  punto,  persuaso  a  un  dipresso 
delle  medesime  ragioni:  ma  ne  io  ne  alcun  altro  avrebbe  potato 
trattar  questa  causa  con  una  facondia,  un  acume,  una  sensatezza 
uguale  alia  sua.  La  questione  e  posta  in  tutto  il  suo  lume,  gli 
obbietti3  sciolti  con  ragioni  trionfanti,  e  dopo  la  sua  lettera  non 
e  piu  permesso  di  porre  la  cosa  in  problema.  Mi  permetta  per6 
di  dirle  che  tutta  la  sua  argomentazione  era  superflua.  Basta  ch'ella 
scriva  qualunque  cosa  latinamente,  e  il  suo  assunto  e  dimostrato 
senza  replica.  Del  resto,  la  materia  ch'ella  tratta  mi  ricorda  alcune 
riflessioni  da  me  scritte  pochi  anni  fa  che  hanno  qualche  relazione 
con  essa;  le  quali  mi  sarebbe  grato  ch'ella  leggesse.  Si  trovano 
queste  nel  torn.  6°  della  mia  traduzion  di  Demostene,  osservaz.  I 
alia  Filippica  2. 

Tornando  alle  nostre  differenze,  convengo  anch'io  che  per 
isciogliere  il  nodo  ci  vorrebbe  una  conclusione  nelle  forme,  e 
un'analisi  delle  opere  in  controversia.  Finche  si  parla  in  generale, 
ambe  le  parti  possono  cantar  vittoria.  Convien  fissar  con  precisione 
i  termini  della  questione,  definir  esattamente  e  poi  applicar  i 
principii,  senza  spaventarsi  dei  corollari  qualunque  sieno.  Ella 
dice  che  il  genio  grammaticale  influisce  talvolta  nel  rettorico ;  po- 
trei  forse  ridurmi  ad  accordarle  il  suo  talvolta,  ma  ella  deve  accor- 
darmi  altresi  che  molti  critici  gli  confondono  piu  spesso  di  quel 
che  bisogna  e  ne  traggono  conseguenze  che  possono  francamente 
negarsi.  La  poesia  italiana  secondo  lei  non  puo  appropriarsi  feli- 
cemente  le  bellezze  straniere.  Oso  temere  che  questa  asserzione 
sia  un  po'  gratuita.  Ella  non  trova  in  questo  genere  se  non  dei 
mali  esempi  di  depravazione.  A  me  sembra  che  ve  ne  siano  anche 
di  felici,  ma  non  mi  provo  a  citarli  perch6  darebbe  loro  Pesclu- 
sione,  e  mi  direbbe  ch'io  suppongo  quel  ch'e  in  quistione:  nil 
agit  exemplum.4  Quelli  del  Chiabrera  e  del  Davanzati  non  hanno 

i.  Orazio,  Carm.t  i,'xn,  46  («splende  fra  tutte»).  2.  quella. .  .  latina:  m* 
titolata  De  usu  linguae  latinae  ad  Alexandrum  Georgium  epistula,  e  scritta 
nel  marzo  1776.  3.  gli  obbietti:  le  obiezioni.  4.  «L'eseinpio  non  vale.» 


S12  MELCHIORRE    CESAROTTI 

forza  appresso  di  lei,  perche  la  lingua  greca  e  la  latina  sono  la 
madre  e  Favola  della  nostra.  Ma  io  sono  ben  certo  che  chi  tra- 
sportasse  alia  nostra  lingua  le  precise  locuzioni  di  Pindaro,  e 
talor  anche  quelle  di  Orazio,  farebbe  un  gergo  assai  strano.  Non 
e  dunque  la  simpatia  delle  lingue,  e  la  destrezza  degPimitatori,  che 
seppe  conciliar  grazia  alle  frasi  straniere  e  naturalizzarle.  Rendasi, 
da  chi  puo  e  sa,  lo  stesso  ufizio  agli  originali  oltramontani,  e  la 
nostra  poesia  potra  sobriamente  e  felicemente  arricchirsi.  Non  mi 
creda  pero  il  difensore  di  chi  fa  uno  studio  de'  colori  oltramontani. 
Lo  studio  confina  coll'affettazione  e  la  ricercatezza,  ed  io  lo  con- 
danno  generalmente.  Non  si  cerchino  i  colori  d'una  nazione  o 
delPaltra,  ma  i  colori  della  natura,  degli  oggetti  e  specialmente  delle 
modificazioni  del  cuore,  dello  spirito  e  della  fantasia  di  chi  parla, 
che  sono  infinite  ed  inesauribili.  Che  importa  che  la  lingua  italiana 
non  abbia  certa  affinita  colPinglese  o  colla  tedesca?  L'eloquenza 
d' Italia  simpatizza  con  quella  di  tutte  le  altre  nazioni  perche  in 
Italia  si  trovano  spiriti  ingegnosi  o  brillanti,  profondi  o  sensibili, 
cupi  o  energici  come  son  quelli  delle  nazioni  straniere.  E  che? 
dovra  taluno  soffocar  il  suo  carattere,  e  gittar  i  colori  naturali  della 
sua  passione  o  de'  suoi  concetti  per  non  sembrar  dissomigliante 
al  comune  degli  scrittori  non  originali  d'ltalia?  Pensi  ogni  uomo 
e  senta  secondo  se  stesso.  Sappia  esattamente  la  sua  lingua,  sia 
ricco  di  buone  letture  e  di  buona  critica,  sia  pieno  del  suo  soggetto 
e  si  metta  a  scrivere,  i  colori  si  presenteranno  da  se  e  non  saranno 
antichi  o  moderni,  nazionali  o  stranieri,  saranno  suoi.  «Ma  piu 
tempo  bisogna  a  tanta  lite)),1  ed  io  son  trascorso  piu  oltre  di  quel 
ch'io  voleva.  Ella  intanto  non  mandi  nel  paese  de'  sogni  le  sue 
Transazioni  poetiche.2  Niuno  e  piu  atto  di  lei  a  farla  da  concilia- 
tore,  purche"  stia  in  guardia  contro  lo  spirito  di  plausibile  patriot- 
tismo,  tanto  piu  seducente  quanto  piu  onesto.  Scusi  un'arditezza 

i.  Petrarca,  Rime,  CCCLX,  157.  2.  Transazioni poetiche:  allude  ad  un' opera 
cosi  intitolata  che  il  Vannetti,  nella  lettera  a  cui  il  Cesarotti  risponde,  ave- 
va  detto  di  accarezzare  nella  mente,  e  di  cui  cosl  abbozzava  lo  schema: 
«...  esaminare  profondamente  le  bellezze  e  i  difetti  de'  poeti  alemanni, 
inglesi,  ec.,  e  trarne  un  quadro  del  vero  lor  merito  e  del  genio  del  lor  Par- 
naso.  Indi  confrontare  insieme  le  poesie  greca,  latina  e  italiana,  e  rilevar 
1'influenza  e  Taffinita  delle  medesime  colla  nostra.  Poi  fissar  la  distanza 
di  questa  dall'inglese  e  tedesca  gia  ben  conosciute,  e  concludere  con  dimo- 
strare  quale  e  quanta  possa  essere  la  congruenza  e  1'accordo  delle  predette 
colla  nostra.  Finalmente  esibir  de'  modelli  perfetti  di  simile  mescolanza  ed 


LETTERS  513 


a  cui  ella  m'incoraggisce.  Non  mi  defraudi  delle  preziose  produ- 
zioni  del  suo  ingegno,  e  mi  creda  con  vera  stima  e  cordialita. 


x 

A   GIAMBATTISTA  GIOVIO1 


[Qualitd  e  doveri  del  buon  critico.] 

Padova,  27  luglio  1782. 

Il  favorevol  giudizio  che  ella  si  compiace  di  dare  sulla  mia  opera* 
mi  lusinga  oltre  modo.  lo  fui  sempre  d'opinione  che  sia  piu  facile, 
almeno  in  Italia,  trovar  un  mezzo  centinaio  di  buoni  autori  che 
una  dozzina  di  buoni  giudici.  Per  meritare  il  primo  titolo  basta 
esser  distinto  in  un  genere,  ma  per  esser  degno  del  secondo  convien 
possedere  tutte  le  modificazioni  del  gusto,  e  conoscerne  squisita- 
mente  tutti  i  rapporti  cogli  oggetti  di  cui  si  scrive.3  Cosi,  oltre  i 
pregiudizi  di  varie  specie  che  pervertiscono  il  criterio,  talora  quel- 
la  stessa  eminente  qualita  che  forma  il  grande  scrittore,  impedisce 
ch'esso  non  sia  il  critico  il  piu  aggiustato.  Inoltre  le  qualita  morali 
influiscono  il  piu  delle  volte  per  invisibili  strade  nei  nostri  giudizi: 
il  partito,  Tadulazione,  1'invidia  dettano  la  sentenza,  e  quando 
Toracolo  £  uscito,  Pamor  proprio  e  '1  puntiglio  sono  sempre  pronti 
a  difenderlo.  Le  modeste  sentenze  di  un  giudice  illuminato 
ed  onesto  devono  gradirsi  anche  quando  siano  contrarie.  Quanto 
piu  devono  esser  care  e  sto  per  dire  seducenti,  allorche  sono  favo- 
revoli  come  le  sue,  ed  entrando  nell'analisi  delP opera  mostrano 
di  non  essere  uscite  a  caso,  ne  dettate  dall'uffiziosita,  ma  da  un 
sincere  e  ponderato  sentimento?  lo  non  la  ringrazio  dunque,  sig. 
cav.  ornatissimo,  che  sarebbe  contradittorio  con  quanto  ho  detto, 
ma  le  rinnovo  le  proteste  della  mia  singolar  compiacenza4  del 
suo  cortese  giudizio,  e  mi  pregio  di  confermarmele,  ec. 


i.  Dalle  Opere,  xxxvi,  pp.  143-5.  Giambattista  Giovio,  comasco  (1748-1814), 
amico  del  Volta  e  del  Foscolo,  scrisse  moltissimo  in  ogm  campo  se^sa 
distinguersi  veramente  in  nessuno.  2.  opera:  il  tomo  I  del  Corso  ragto- 
nato  di  letteratura  greca,  pubblicato  a  Padova  nel  1781.  3- Per  menta- 
re  scrive:  queste  idee  sulla  critica  anticipano  in  parte  quelle  esposte 
nel  Saggio  sulla  filosofia  del  gusto.  4-  compiacenza:  compiacimento. 


5H  MELCHIORRE    CESAROTTI 

XI 
A   GIUSEPPE  ANTONIO  TARUFFI1 

[Breve  giudizio  sulP  Alfieri.] 

Vous  voulez  bien  me  permettre  que  je  reponde  en  frai^ais  a 
votre  belle  lettre  angloise  pleine  <T elegance  et  d' esprit  comme 
tout  ce  qui  coule  de  votre  plume.  Je  serai  charme  de  connoitre 
M.r  Alfieri,2  quoique  assurement  je  ne  vaille  pas  a  beaucoup  pres 
la  peine  de  son  voyage.  Mon  savoir  est  peu  de  chose,  et  je  crains 
bien  qu'il  ne  le  trouve  plus  apocryphe  que  les  cendres  de  Tite 
Live.3  Quoiqu'il  en  soit,  je  me  ferai  une  fete  de  Paccueillir  et  de 
lui  donner  tous  les  temoignages  de  1'estime  qu'on  doit  a  ses  talents. 
J'ai  lu  ses  pieces  de  th6atre;  elles  m'ont  frappe.  La  noble  simplicite 
du  plan,  la  chaleur  de  1'action,  la  verite  et  la  force  de  caractere, 
la  grandeur  des  sentiments,  le  langage  marque  au  coin  de  la  nature 
et  jamais  a  celui  de  1'ecole,  tout  cela  le  fait  connoitre  comme  un 
veritable  genie  dramatique.  Son  Antigone  sur  tout  m'a  touch6 
jusqu'aux  larmes,  et,  n'en  deplaise  aux  grecomanes,  Sophocle 
aupres  de  lui  ne  m'a  semble  en  plus  d'un  lieu  qu'un  apprentif 
maladroit.  Quel  dommage  que  tant  de  beautes  soient  presque 
fl6tries  par  le  style!  II  faut  absolument  qu'il  s'attache  a  le  soigner. 
S'il  apprend  a  sacrifier  aux  Graces,  comme  il  sait  sacrifier  au 
Genie,  notre  Melpomene4  levera  sa  t6te,  et  dira  fierement  aux 
nations:  respectez-moi ;  j'ai  aussi  mon  Alfieri. 

Souvenez-vous  que  j'ai  des  droits  incontestables  sur  votre  eloge 
de  Metastase.5  Vous  avez  beau  vous  retrancher  dans  votre  mode- 
stie  tres-d6placee ;  je  le  reclame  comme  mon  bien.  J'ai  meme 
promis  de  le  faire  tenir  a  des  gens  qui  vont  en  faire  Tusage  le  plus 
convenable  en  rimprimant  a  la  tete  d'une  edition  de  ce  grand  pretre 


i.  Dalle  Opere,  xxxvi,  pp.  177-8.  La  lettera  non  e  datata,  ma  si  pu6  collo- 
care  in  un  tempo  non  molto  anteriore  al  23  aprile  1783,  data  della  lettera 
con  cui  il  cardinale  Flangim  presentava  FAlfieri  al  Cesarotti.  Sul  Taruffi 
cfr.  la  nota  zap.  489.  2.  Je  .  .  .  Alfieri:  Tincontro  awenne  probabilmente 
nel  maggio  o  nel  giugno  del  1783.  Lo  ricorda  come  gia  lontano  TAlfieri 
in  una  lettera  al  Cesarotti  da  Siena  il  18  settembre  di  quell'anno.  3.  cen 
dres  de  Tite  Live:  allusione  scherzosa  alia  tomba  di  Tito  Livio,  conservata 
nella  Sala  della  Ragione  a  Padova.  4.  Melpomene:  la  musa  della  poesia 
tragica.  5.  votre  eloge  de  Metastase:  fu  pubbhcato  nel  dicembre  1783. 


LETTERS  515 

bien  digne  d'un  tel  orateur:  encore  une  fois,  point  de  quartier 
sur  cet  article. 

Aimez-moi  toujours,  comme  je  vous  aime. 

XII 
A  FERDINANDO  GALIANI1 

[Su  Omero  ed  Orazio.] 

20  agosto.2 

Sapete  voi  che  mi  farete  montar  in  superbia  quanto  un  Lucifero, 
quondam  Lucibello?  Una  lettera  del  consiglier  Galiani,  di  quel- 
Puomo  che  fece  ammirare  e  invidiar  le  sue  grazie  nella  capitale 
del  bel-esprit,  del  flagello  degli  economisti,  del  confidente  d'Orazio,3 
una  sua  lettera  dico  mi  sarebbe  sempre  stata  preziosa.  Ora  poi 
che  m?e  nota  la  vostra  antipatia  col  commercio  epistolare,  figura- 
tevi  quanto  mi  riesca  dolce  e  lusinghiera  la  distinzione  che  vi 
compiaceste  d'usarmi.  Se  il  mio  lavoro  omerico4  e  secondo  il 
vostro  cuore,  ci6  mi  assicura  ch'esso  ha  un  diritto  sull'approva- 
zione  del  filosofi  e  degli  uomini  di  gusto.  Quanto  agli  antiquari5 
non  me  ne  euro,  giacche  appunto  non  ho  preso  la  loro  maschera 
che  per  meglio  smascherarli,  ed  io  so  bene  che  saranno  assai  poco 
contend  della  mia  poco  ingenua  ufiziosita.  E  pur  bella  la  vostra 
idea  che  Omero  fosse  per  gli  antichi  un  libro  sacro!  Io  avea  gia 
detto  piu  volte  cosi  per  ischerzo  che  Omero  era  la  Bibbia  dej  pe- 
danti,  ma  voi  volete  ch'io  prenda  il  termine  alia  lettera,  e  che  Io 
estenda  a  tutte  le  classi,  ed  io  sono  vicinissimo  a  persuadermene. 
Trovo  in  Libanio6  un  passo  ch'e  fatto  precisamente  per  noi.  Tra  i 
capi  d'accusa  dati  a  Socrate  dall'agente  del  sacerdote  Anito  v'era 

i.  Dalle  Operey  xxxvn,  pp.  36-9.  II  destinatario  e  il  notissimo  abate 
Ferdinando  Galiani  (1728-1787),  una  delle  menti  pid  brillanti  dell'Illu- 
minismo  italiano.  II  Cesarotti  Io  aveva  conosciuto  di  persona  in  occasione 
del  suo  viaggio  a  Napoli  nel  1786.  2.  £  il  20  agosto  del  1787,  come  si  trae 
dalla  lettera  del  Galiani,  in  data  31  luglio  1787,  a  cui  il  Cesarotti  risponde. 
3.  confidents  d*  Orazio :  il  Galiani  si  occup6  molto  di  Orazio,  suo  poetapredi- 
letto  (cfr.  F.  NiCOLlNl,  Gli  studi  sopra  Orazio  deW  abate  Galiani,  in  «Atti 
dell'Accademia  Pontaniana»,  1910).  4.  lavoro  omerico:  la  traduzionc  del- 
Ylliade,  che  il  Cesarotti  aveva  cominciato  a  pubblicare  nel  1785.  5.  an 
tiquari:  gli  eruditi  fanatici  deirantichita.  6.  Libanio:  retore  e  gramiria- 
tico  greco  (3i4-circa  393  d.  C.),  autore  d'una  Difesa  di  Socrate  (afla  quaie 
il  Cesarotti  qui  allude)  importantissima  perch6  costruita  su  noateriali  au- 
tentici  dell'incipiente  IV  secolo  a.  C. 


5*6  MELCHIORRE    CESAROTTI 

questo,  ch'egli  parlava  con.  poco  rispetto  de'  poeti.  Non  e  questo 
un  dir  chiaramente  che  costoro  si  risguardavano  come  autori 
ispirati?  I  poeti  erano  i  rufHani  della  gerarchia  pagana.  Questi 
due  ordini  formavano  causa  comune:  i  poeti  mettevano  in  versi 
le  tradizioni  mitologiche,  componevano  gli  inni  e  gli  oracoli,  e  la 
pentola  degli  uni  e  degli  altri  bolliva  allo  stesso  fuoco.  Era  dun- 
que  ragionevole  che  il  clero  del  paganesimo  sostenesse  Tautorita 
sacra  dej  loro  terziari.  Ora  tra  questi  chi  vi  aveva  piu  diritto  d'O- 
mero?  Non  apparisce  che  innanzi  di  lui  vi  fosse  un  codice  tra- 
dizionale,  come  non  c'era  una  storia  della  nazione.  Tutte  le  ra- 
gioni  si  accordavano  perche  Ylliade  e  I'Odissea  fossero  risguardate 
come  il  Pentateuco1  de*  Greci.  Con  questo  principio  voi  osservate 
assai  bene  che  si  spiega  un  fenomeno  il  quale  senza  d'esso  parrebbe 
un  enigma  inconcepibile.  Passando  da  Omero  ad  Orazio  ricorda- 
tevi  ch'io  non  vi  perdonerb  mai  se  non  vi  risolvete  di  rivelar  al 
pubblico  i  di  lui  segreti  dei  quali  voi  solo  avete  la  chiave.  Ho 
propriamente  voglia  che  il  mondo  sappia  che  Orazio  non  sim- 
patizzava  punto  con  quell'ipocrita  di  Augusto,  e  che  costui,  che 
ben  sapeva  d'esserne  conosciuto,  non  lo  amava  di  cuore,  e  lo  pro- 
teggeva  per  vanita.  Mi  sta  sul  cuore  anche  quella  spada  di  Cesare 
Borgia  per  cui  non  avrei  mai  creduto  di  dovermi  interessare.  Voi 
fareste  pure  una  bella  cosa  se  voleste  dettare  a  qualcuno  le  vostre 
curiose  scoperte  sulla  storia  di  costui  poco  nota,  quanto  sugli  em- 
blemi  della  spada  che  possono  eccitar  la  curiosita  degli  eruditi 
piii  di  qualche  basso  rilievo  greco  o  romano.  Se  dopo  questa  det- 
tatura  vi  compiaceste  di  spedirmela  a  Padova,  mi  fareste  pure 
un  prezioso  regalo.  Oh  sjio  vi  fossi  vicino  so  ben  io  che  vorrei  ado- 
prarmi  tanto  finche  avessi  saccheggiato  quello  scrigno  che  avete 
nel  cervello,  che  somiglia  molto  al  pozzo  delle  Danaidi.  L/ottimo 
ed  egregio  Toaldo2  vi  fa  i  piu  affettuosi  complimenti.  I  miei  aurei 
amici  di  Venezia3  non  si  lasceranno  veder  da  me  che  in  autunno : 
ora  sono  cosi  occupati  a  raccoglier  palme  e  zecchini  che  non  dan- 
no  segni  di  vita.  Addio  con  tutto  lo  spirito.  Conservatevi  sano  e 
vegeto  per  decoro  dell'  Italia  e  della  vostra  Partenope,  e  ricorda- 
tevi  di  uno  che  si  gloria  d'essere,  ec. 

i.  Pentateuco:  i  primi  cinque  e  fondamentali  Hbri  deU'Antico  Testamento. 
a.  Sul  Toaldo  cfr.  la  nota  i  a  p.  483.  3.  aurei .  .  .  Venezia:  gli  awocati 
Cromer  e  Gallino,  che  avevano  accompagnato  il  Cesarotti  nel  suo  viag- 
gio  a  Napoli. 


LETTERE  517 

XIII 
A   COSTANTINO   ZACCO1 

[Prime  impressioni  di  front e  alia  Rivoluzione  francese.] 

Noventa,  12  agosto.2 

Veramente  le  nuove  di  Francia  non  mi  sono  tanto  care  quanto 
avrei  bramato,  pure  mi  e  carissima  la  vostra  ufiziosita.  Dio  mi 
guardi  dal  far  Tapologia  degli  orrori  parigini  come  il  dolce  Ca- 
veirac  la  fece  del  S.  Bartolommeo  :3  ma  poiche"  si  parla  tranquilla- 
mente  delle  guerre  politiche,  e  si  racconta  tutto  giorno  a  sangue 
freddo,  anzi  spesso  con  allegrezza  che  i  Turchi  o  gli  Austriaci,  i 
Svezzesi  o  i  Russi,  trucidarono  bravamente  dieci  o  venti  migliaia 
di  nemici,  e  desolarono  cento  villaggi  senza  ne  ragione  ne  collera, 
parmi  che  sia  da  stupirsi  un  po'  meno  degli  eccessi  a  cui  si  lascia 
trasportare  un  popolazzo  infuriate  che  crede  di  vendicare  i  suoi 
torti.  Del  resto  le  storie  di  tutte  le  nazioni  presentano  di  queste 
scene  d'atrocita  quando  appena  era  noto  il  nome  di  filosofia,  e  i 
fllosofi  appunto  diranno  che,  se  si  veggono  ancora  di  questi  spetta- 
coli,  quest' e  per  che"  lo  spirito  filosofico  non  e  diffuso  abbastanza. 
Voi  per6  ben  sapete  ch'io  sono  assai  lontano  dal  favorire  il  filoso- 
fismo  del  secolo,  e  che  se  fosse  stato  in  me,  avrei  da  molto  tempo 
confinati  alle  Petites-Maisons4  molti  di  cotesti  celebri  filosofanti, 
e  piu  d'uno  anche  in  galera.  La  mia  filosofia  non  e  che  quella  di 
Necker,5  e  questa  e  ugualmente  nemica  della  sedizione  che  della 
tirannide  e  abborrisce  la  violenza  di  qualunque  specie.  Tocca  a 
voi  a  rispondere  alle  accuse  contro  il  secolo  filosofico,  a  voi  dico 
begli  spiriti  libertini,  che  trattate  da  pregiudizi  tutti  quei  principii 
che  sono  Tunica  base  della  morale  e  della  politica,  1'unico  vincolo 
della  societa,  Tunico  freno  che  serve  a  reggere  e  ad  ammazzar 

i.  Dalle  Opere,  xxxvil,  pp.  329-31-  Costantino  Zacco,  gentiluomo  veneziano 
(1760-1841),  di  tendenze  liberali  e  non  privo  di  interessi  letterari,  fa  tra 
gh  amici  piii  can  del  Cesarotti.  2.  12  agosto:  certamente  del  1789,  come 
si  trae  dall'accenno  al  richiamo  del  Necker  dopo  la  caduta  della  Bastiglia. 
3 .  come . . .  S.  Bartolommeo :  allude  alia  Dissertation  sur  la  journee  de  Barthe- 
lemy  (1758),  dell' abate  Jean  de  Caveirac.  4.  Petites-Maisons •:  ixome  di  un 
ospedale  di  Parigi  dove  si  ricoveravano  i  pazzi.  5.  La  mia. . .  Necker : 
sull'ammirazione  del  Cesarotti  per  il  Necker  cfr.  la  Nota  introduttiva. 
Nella  tirata  predicatoria  che  segue,  sono  brevemente  esposte  le  idee  po 
litiche  alle  quali  egli  si  conformera  anche  in  seguito. 


5*8  MELCHIORRE   CESAROTTI 

questa  fiera  da  due  piedi,  chiamata  uomo,  e  che,  dopo  aver  diffuse 
in  tutte  le  classi  la  licenza  la  piu  sfrenata  di  spirito  e  abbolito  il 
fondamento  d'ogni  rimorso,  v'immaginate  poi  che  le  vostre  mi- 
serabili  leggi,  i  vostri  imperfettissimi  ordini,  la  vostra  forza  pre- 
caria,  i  vostri  sistemi  sofistici  possano  supplire  alia  religione,  alFi- 
dee  ingenite  dell'onesto  e  alle  speranze  future.  SI,  le  turbolenze 
istesse  di  Francia  rendono  un  tristo  omaggio  alle  dottrine  di 
Necker:  senza  religione  non  v'e  onesta  naturale,  senza  onesta  na- 
turale  non  v'e  dovere,  senza  dovere  non  si  ubbidisce  che  alia  forza. 
E  quando  &  cosi,  non  e  che  il  calcolo  delle  forze  che  decida  della 
ragione  fra  chi  comanda  e  chi  serve,  fra  il  povero  e  '1  ricco,  il  basso 
e  il  potente.  Scusate  questa  tirata  predicatoria.  Informatemi  di 
quanto  sapete  fuori  dei  fogli1  intorno  Parrivo  di  Necker.2  Que- 
sto  e  un  punto  di  massima  aspettazione.  Non  mi  stupirei  punto 
s'egli  restasse  la  vittima  della  sua  virtu;  ma  son  certo  che  il  suo 
fine  non  ismentira  la  sua  vita.  Addio  con  tutto  lo  spirito.  In  mezzo 
ai  nostri  piccoli  dispareri,  il  mio  cuore  portera  sempre  la  vostra 
coccarda.  Addio. 


XIV 
ALLA  CONTESSA  D'ALBANY3 

[Sul  «Panegirico»  delly Alfieri.] 

J  ai  Thonneur  de  vous  envoyer  le  troisieme  de  mes  travaux  ho- 
m6riques.  N'en  d6plaise  au  grand  Hercule,  j'ose  appeller  de  ce 
nom  mon  entreprise,  car  j'ai  aussi  a  lutter  avec  des  g6ants,  a 
combattre  des  hydres,  a  purger  des  etables,  a  ravir  la  ceinture 
a  une  amazone,  enfin  a  percer  de  fleches  quelque  centaure  de  nou- 
velle  espece:  je  ne  me  flatte  pas  pour  cela  d'egaler  ce  heros  de 
la  mythologie,  mais  je  me  croirai  fort  heureux  si  vous  ne  trouvez 
pas  toujours  en  moi  le  batard  d' Amphitryon  plutot  que  le  fils  de 
Jupiter. 

i,  fuori  dei  fogli:  oltre  che  dalle  notizie  riportate  dai  giornali.  2.  arrivo  di 
Necker:  allude  al  richiamo  del  ministro  dopo  la  caduta  della  Bastiglia. 
3.  Dalle  Opere,  xxxvn,  pp.  141-2.  Manca  la  data,  che  si  pu6  porre  tutta- 
via  intorno  al  1787,  per  1'accenno  sia  al  in  volume  della  traduzione  ome- 
rica  del  Cesarotti,  sia  al  Panegirico  dell' Alfieri,  Tuno  e  Taltro  pubblicati 
appunto  in  quell' anno. 


LETTERE  519 

Je  vous  dois  des  remerciments  bien  singuliers  pour  le  pre- 
cieux  morceau  dont  vous  m'avez  regale.  Notre  ami  fait  plus  d'hon- 
neur  a  Pline,  et  peut-etre  a  Trajan  meme,  qu'ils  ne  meritoient. 
Car,  pour  le  premier,  le  style  delicat  et  recherche  de  son  veri 
table  Panegyrique  decele  bien  plus  1'honnete  et  habile  courtisan 
que  Porateur  de  la  liberte.  Et  quant  a  Trajan  on  pourroit  douter 
qu'il  eut  agree  qu'on  lui  tint  en  plein  senat  des  propos  qu'Agrip- 
pa  n'osa  tenir  a  Auguste  qu'apres  avoir  ete  consulte  par  lui  dans 
un  tete-a-tete.  Au  reste  notre  Pline,  dans  cette  piece,  ne  dement 
ni  ses  id6es  ni  son  style.  J'y  admire  cette  grandeur  des  senti 
ments,  cet  amour  ardent  de  la  liberte,  cette  touche  fiere  et  har- 
die,  qui  caracterisent  chacun  de  ses  ouvrages.  Mais  quoi?  Vous 
en  avez  fait,  Mad.,  le  plus  energique  et  le  plus  juste  des  elo- 
ges,  en  disant  que  ce  morceau  est  digne  des  beaux  temps  de  la 
R6publique:  on  ne  feroit  que  gater  le  portrait  en  ajoutant  a  ce 
trait  unique;  il  est  tres-digne  de  son  sujet. 

Faites-lui,  Mad.,  bien  des  compliments  de  ma  part,  et  souvenez- 
vous,  je  vous  prie,  que  je  fais  gloire  d'etre  avec  tout  le  devoue- 
ment,  ec. 


xv 

A   GIAMBATTISTA  CORNIANI1 

[//  Bello  morale.] 

Padova,  n  dicembre  1790. 

Il  prezioso  saggio  del  suo  talento  e  del  suo  cuore  di  cui  ella  si  com- 
piacque  di  farmi  dono2  esige  da  me  tutt'altro  che  compatimento. 
Esso  corrispose  perfettamente  al  suo  titolo  poiche  m'inondfr  lo 
spirito  di  straordinario  piacere.  Ammirai  nella  sua  opera  la  triplice 
felicissima  unione  della  metafisica,  della  morale  e  del  gusto,  studi 
fatti  per  formar  una  lega  indissoluble  e  che  cosi  spesso  si  trovano 

i.  Dalle  Operey  XXXVTI,  pp.  146-9.  Giarribattista  Corniani  (1742-1813), 
noto  soprattutto  per  la  sua  opera  stonografica  I  secoli  della  letteratura 
italiana,  il  cui  primo  volume  fu  pubblicato  sei  anni  dopo  k  data  di  questa 
lettera.  2.  //  prezioso  .  .  .  dono:  il  saggio  su  /  piaceri  deUo  sptrito,  o$sia 
analisi  de'  principii  del  gusto  e  della  morale  (Verona  1790),  nel  quale,  scri- 
veva  Fautore  al  Cesarotti,  egli  aveva  tentato  di  «portare  k  metafisica  negli 
argomenti  del  gusto  e  della  morale »,  ma  che  e  opera  di  assai  scarso  valore. 


520  MELCHIORRE    CESAROTTI 

fatalmente  disgiunti.  Sopra  tutto  godei  di  vederla  uno  del  pochi 
zelatori  di  quella  filosofia  religiosa  e  nobile  die  solleva  Puomo 
sopra  la  sfera  dei  sensi,  ringentilisce  e  spiritualizza  gli  affetti, 
e  ci  fa  salire  per  una  scala  mistica  dalPultimo  degli  esseri  sino 
alPAutore  della  natura,  e  discendere  per  la  stessa  portando  Pidea 
del  primo  Autore  sino  al  piu  basso  degli  esseri.  Questi  sentimenti 
di  stima  mi  saranno  certamente  comuni  con  altri;  ma  quello  ch'e 
proprio  e  particolare  a  me  si  e  la  complacenza  di  veder  da  lei  egre- 
giamente  eseguito  pressoche  lo  stesso  progetto  ch'io  mi  vagheg- 
giava  da  hmgo  tempo.  Sono  piu  anni  ch'io  meditava  di  far  un'opera 
sopra  il  Bello  considerate  come  il  fondamento  delPeducazione 
morale,1  e  ci  avrei  certamente  posta  la  mano,  se  altre  fatiche  let- 
terarie,  piu  comandate  che  scelte,  non  mi  avessero  impedito  di  se- 
condare  il  mio  cuore.  Quel  che  &  piu  curioso  si  e  ch'io  pensava  pre- 
cisamente  di  far  uso  del  suo  medesimo  principio  mostrando  che 
gli  elementi  del  Bello  morale  non  son  altro  che  quelli  del  Bello 
fisico,  e  che  ambedue  questi  generi  possono  illustrarsi  e  convali- 
darsi  a  vicenda.  Lungi  dal  sentire  invidia  di  trovarmi  prevenuto 
(sentimento  che  troppo  disdirebbe  al  nostro  comune  sistema),  io 
mi  compiaccio  altamente  di  vedermi  cosi  alPunisono  col  suo  modo 
di  concepire  e  sentire,  e  guardo  la  sua  opera  con  una  predilezione 
quasi  paterna,  e  come  uno  sviluppo  di  quelPidee  che  mi  bollivano 
nello  spirito,  e  ch'ella  seppe  indovinare  da  s6  ed  esporre  in  modo 
che  non  lascia  desiderar  la  mano  d'un  altro  artefice.  «  Conobbi  al- 
lor  siccome  in  Paradiso  /  vede  Pun  Paltro.  »2  Non  e  gia  che  in  qual- 
che  proporzione3  subalterna  e  incidental  non  ci  sia  forse  nelle 
nostre  idee  qualche  picciola  differenza,  ma  oltrech6  questa  potrebbe 
agevolmente  conciliarsi,  essa  non  pu6  togliermi  la  compiacenza 
di  convenire  con  lei  nelle  basi  fondamentali  a  cui  s'appoggia  il  si 
stema.  Ella  mi  permetta  dunque  congratularmi  con  lei  e  con  me, 
e  se  prima  io  mi  pregiava  d'esser  suo  giusto  estimatore,  soffra 
ora  ch'io  mi  glori  di  esserle  confratello  nell'amor  del  Bello  e  nella 
filosofia  del  gusto  e  del  cuore.  Non  fo  torto  a  un  titolo  cosl  pre- 
zioso  profanandolo  con  quelli  delPetichetta,  e  semplicemente  mi 
segno,  ec. 

i.  opera.  .  .morale:  il  risultato  di  queste  meditazioni  sara  Pincompiuto 
Saggio  sul  Bello,  su  cui  cfr.  la  Nota  introduttiva.  2.  Petrarca,  Rime, 
cxxm,  5-6.  3.  proporzione:  cosl  e  stampato  nelle  Opere;  ma  si  dovii 
probabilmente  leggere,  come  pensa  POrtolani,  « proposizione ». 


LETTERE  521 

XVI 
A  COSTANTINO  ZACCO1 

[Altre  impressioni  sulla  Rivoluzione  francese.] 

lo  ben  m'immaginava  che  per  questa  volta  m'avreste  perdonato 
di  farla  da  deputato  deirassemblea  eccedendo  i  miei  poteri.2 
Al  mio  ritorno  a  Padova,  che  sara  forse  martedi,  trover6  il  libro  gia 
letto,  e  lo  rimanderb  tosto.  Ci6  vi  dice  che  al  presente  mi  trovo  nel 
mio  ritiro  di  Selvaggiano,  ch'e  divenuto  abitabile,  e  che  promette 
un  asilo  dolce  e  piacevole  alia  mia  sentimentale  e  un  po*  trista 
filosofia,  se  pure,  dopo  Pabuso  atroce  che  si  e  fatto  di  questo  nome, 
e  piu  permesso  a  un  uomo  onesto  di  chiamarsi  filosofo.  II  mio 
abbominio  anzi  orrore  per  cotesti  Masanielli  ragionatori3  non  pu6 
granger  piu  oltre,  n6  mi  consola  che  la  speranza,  anzi  certezza, 
che  il  loro  mal  accozzato  edifizio  cadra  necessariamente  su  i  loro 
capi,  e  i  loro  nomi  saranno  consacrati  alPesecrazione  dei  secoli. 
Mi  piace  per6  di  vedere  ch'io  non  mi  sono  ingannato  nel  giudizio 
che  ho  fatto  del  La  Fayette,4  ch'io  credei  sempre  condotto  da 
rette  intenzioni,  come  lo  erano  Necker,  Lally-Tolendal,5  Cler- 
mont  Tonnerre6  ed  alcuni  altri.  Ma  quelli  seppero  ritirarsi  a  tem 
po;  e  questi  forse  non  pu6  anche  volendolo,  trovandosi  in  tal 
situazione  ove  qualunque  suo  passo  e  ugualmente  pericoloso.  Cosi 
probabilmente  egli  dovra  soggiacere  al  destino  di  tutti  gli  uomini 
onesti  che  tentarono  di  quelle  imprese  nelle  quali  non  si  pu6  riu- 


1.  Dalle  Opere,  xxxvn,  pp.  332-4.  La  lettera  non  e  datata,  ma  le  allusioni 
storiche  in  essa  contenute  indurrebbero  a  porla  nel  1792.  Sullo  Zacco 
cfr.  a  p.  517  la  lettera  del  12  agosto  1789,  a  lui  indirizzata,  e  la  nota  relativa. 

2.  farla  .  .  .  poteri:  non  e  chiaro  a  quale  fatto  alluda  il  Cesarotti:  probabil 
mente  all* aver  trattenuto  piu  del  previsto  il  libro  di  cui  parla  nel  periodo 
seguente.     3.  Masanielli  ragionatori:  allude  al  Robespierre  e  in  genere 
ai  giacobini  francesi.     4.  non  mi  sono  .  .  .  La  Fayette :  allude  probabilmente 
al  manifesto  contro  i  giacobini  che  il  La  Fayette  scrisse  dal  campo  il  16 
giugno  1792.  Ma  contrariamente  alle  pessimistiche  previsioni  del  Cesa 
rotti,  esposte  nel  periodo  seguente,  il  La  Fayette  pote"  abbandonare  Te- 
sercito  rivoluzionario  e  la  Francia  il  20  agosto  dello  stesso  anno.     5.  II 
marchese  Lally-Tolendal,  gia  deputato  agli  Stati  Generali,  aveva  lasciato 
la  Francia  dopo  le  giornate  d'ottobre  del   1789.     6.  II  conte  Clermont 
Tonnerre,   deputato  all'assemblea  costituente,   prese  anch'egli  posizione 
contro  gli  estremisti  dopo  le  giornate  d'ottobre  del  1789,  e  fu  ucciso  a  furor 
di  popolo  il  10  agosto  1792. 


522  MELCHIORRE  CESAROTTI 

scire  senza  la  cooperazione  del  scelerati.  lo  compatisco  perfetta- 
mente  Hobbes,  che  divenne  partigiano  del  despotismo  per  Por- 
rore  concepito  delle  scelleraggini  prodotte  dal  fanatismo  di  liberta! 

Passando  ad  altro,  convien  dire  che  Famico  Cromer1  fosse  sme- 
morato,  o  che  voi  non  1'abbiate  inteso.  Egli  mi  par!6  bensi  con 
lode  delle  stanze  del  Lamberti,2  ma  non  avendole  seco  non  pote* 
leggermele,  e  solo  mi  fe'  sentire  la  sua  graziosa  canzone  alia 
Vadori.3  Vi  ringrazio  pero  d'avermele  comunicate.  Esse  m'inte- 
ressano  moltissimo  per  il  soggetto,  e  ci  trovo  del  merito,  ma  per 
dirvi  schiettamente  quel  ch'io  ne  penso,  parmi  che  1'autore  sia 
stato  sopraffatto  dal  suo  argomento,  e  non  abbia  avuto  quella  gra 
ziosa  disinvoltura  di  spirito  che  da  tanto  sapore  agli  altri  suoi 
componimenti.  Egli  ha  preso  la  cosa  sul  tuono  eroico,  e  le  Grazie 
vi  si  trovarono  imbarazzate.  Ci6  sia  detto  alia  vostra  discrezione; 
giacche  bramo  che  il  sig.  Lamberti  sappia  in  generale  ch'io  lo 
pregio  al  sommo  e  desidero  vivamente  di  conoscerlo. 

Non  so  cosa  sia  la  canzone  del  Pindemonte,4  e  perci6  non 
posso  giudicare  del  vostro  detto,  ma  la  credo  a  priori  aggiustatissi- 
ma  per  la  conoscenza  che  ho  del  lodato  e  del  lodatore. 

Ebbi  lettera  dal  nipote5  che  fece  la  sua  rinuncia  ed  ottenne  li- 
cenza  di  portarsi  tosto  a  Padova  per  indi  passar  a  Cologna  a  pren- 
der  possesso  del  noto  impiego;  pero  a  condizione  di  tornar  a  Pin- 
guente,  quando  non  riuscisse  a  quella  comunita  di  trovar  un 
successore  opportune  innanzi  il  termine  dei  quattro  mesi  di  ob- 
bligo.  Giova  per6  sperare  che  tutto  si  accomodera,  avendo  quei 
signori  mostrata  verso  il  nipote  tutta  la  gentilezza.  Ora  sono  in 
pensiero  per  la  rea  stagione,  temendo  che  possa  ritardar  la  sua 
venuta,  o  esporlo  a  qualche  pericolo.  Addio  con  tutto  il  cuore. 


i.  Vamico  Cromer\  awocato  veneziano  gia  ricordato  nella  lettera  al  Ga- 
liani  (cfr.  la  nota  3  a  p.  5 16).  2.  Antonio  Lamberti:  cfr.  la  nota  a  pp.  311-2. 
Le  stanze,  a  cui  qui  si  allude,  sono,  probabilmente,  come  pensa  TOrtolani, 
quelle  dell' Inverno  citadin,  comprese  nelle  Stagioni  cittadinesche  e  campe- 
stn.  3.  Annetta  Vadori,  veneziana,  vissuta  anche  a  Milano  e  a  Parigi, 
arnica  e  corrispondente  di  molti  letterati,  fra  cui  il  Foscolo  e  il  Monti. 
4.  la  canzone  del  Pindemonte:  I'Ortolani  pensa  che  si  alluda  alia  canzone 
Ad  Agnese  H***,  scritta  a  Londra  nel  1791.  5.  nipote:  Melchiorre  Capo- 
villa  Cesarotti,  medico. 


LETTERE  523 

XVII 
A  GIUSEPPE  OLIVI1 

[Per  un  corso  di  buone  letture.] 

Padova,  1792. 

JMi  console  di  sentirvi  occupato  in  un  ramo  di  storia  naturale 
piu  interessante  d'ogn'altro.  Un  bel  cuore  che  va  sviluppandosi 
felicemente  e  il  piu  prezioso  de'  vegetabili:  beato  chi  pu6  spe- 
rare  di  coglierne  il  frutto. 

La  coltura  piu  opportuna  alia  vostra  educanda  (o  almeno  quel- 
la  su  cui  posso  essere  consultato)  non  e  che  quella  della  poesia 
e  della  morale  accompagnata  dal  gusto  e  posta  in  azione.  Conver- 
rebbe  dunque  far  un  corso  di  buone  letture  di  questo  genere  nel- 
la  lingua  nostra  e  nella  francese.  II  Petrarca  e  il  Tasso  debbo- 
no  esser  posti  alia  testa  dei  nostri  poeti,  senza  parlar  di  Me- 
tastasio,  ugualmente  insigne  per  la  poesia  e  per  la  morale.  Non 
sono  da  trascurarsi  i  nostri  rimatori,  tra  i  quali  ve  ne  sono  va- 
ri  di  eccellenti.  Per  la  prosa  non  saprei  suggerire  che  I'Osser- 
vatore  del  Gozzi,  opera  sparsa  di  novelle,  dialoghi,  ritratti,  fa- 
volette  che  hanno  molta  eleganza,  sensatezza  ed  amenita.  I  Fran- 
cesi  abbondano  infinitamente  piu  di  noi  di  opere  di  questo  gene- 
re,  ma  ci  vuol  giudizio  nella  scelta  per  non  guastar  il  cuore, 
volendo  formar  il  gusto.  «  Lo  spettatore  »  inglese*  e  le  opere  di  ma- 
dama  di  Genlis3  possono  essere,  per  ora,  una  scuola  perfetta  di 
tutto  ci6  che  pu6  aver  bisogno  d'apprender  la  vostra  alunna.  Quan- 
to  alle  lettere  io  preferirei  quelle  della  Sevigne:  il  suo  diret- 
tore  pu6  sceglier  le  piu  opportune  e  piu  interessanti.  Esse  con- 
tengono  una  gran  varieta  di  soggetti  e  sono  il  modello  dello  sti 
le  epistolare  per  consenso  dei  Francesi  stessi. 

Cio  basti  per  ora.  Alia  vostra  venuta  ne  parleremo  piu  di  pro- 


i.  Dalle  Opere,  xxxvn,  pp.  187-9.  L'abate  Giuseppe  Olivi,  di  Chioggia 
(1769-1795),  autore  della  Zoologia  adriatica,  fu  assai  caro,  come  il  fratello 
Tommaso,  al  Cesarotti,  che  di  lui  morto  scrisse  un  Elogio  (cfr.  Opere, 
xxix,  pp.  167-228).  2.  «£o  spettatore^  inglese:  la  famosa  rivista  «The 
Spectator))  dell'Addison.  3.  madama  di  Genlis \  scrittrice  francese  (1746- 
1830),  autrice  di  drammi,  romanzi  e  racconti  animati  da  intenti  edu- 
cativi. 


MELCHIORRE    CESAROTTI 

posito.  lo  la  desidero  sollecita  con  tutto  il  cuore.  Greati,1  ch'e 
il  solo  de'  miei  amici  ch'io  veda  di  frequente,  vi  saluta,  e  si  consola 
con  voi.  lo  non  ebbi  difficolta  a  fargli  confidenza  della  vostra 
lettera. 

Addio  cordialmente. 


XVIII 
A   GIUSEPPE  WALKER2 

\SulVautentidta  dei  poemi  ossianici.] 

JLa  lettura  delPopera  di  cui  ella  voile  onorarmi  intorno  ai  poemi 
di  Ossian  mi  fa  passare  da  una  meraviglia  ad  un'altra  ancora  piu 
sorprendente.  Ella  prova  il  suo  assunto  con  argomenti  di  fatto 
cosi  decisivi  e  convincenti  che  sembrano  dover  trionfare  della 
piu  ostinata  prevenzione.  Dalla  mia  lettera  al  Macpherson  ella 
avra  gia  rilevato  che  sin  dal  principio  insorsero  nel  mio  spirito 
alcuni  dubbi,3  ma  questi,  il  confesso,  restavano  sopraffatti  dal 
cumulo  delle  prove  interne  ed  esterne  che  mi  sembravano  militare 
per  Fautenticita  dei  poemi  caledoni,  ne  avendo  contezza  che  questa 
fossesi  ancora  solennemente  smentita,  e  privo  d'ogni  mezzo  di  ri- 
schiarar  la  questione  di  fatto,  riposava  tranquillamente  nel- 
Padorazione  di  cosi  specioso  fantasma.  Ella  viene  ora  a  sgombrar 
il  mio  sogno  colla  luce  d'un'evidenza  a  cui  non  6  possibile  di  re- 
sistere.  Ma  qual  e  poi  la  conseguenza  di  questo  mio  risveglia- 
mento  ?  Eccola.  lo  ammirava  Ossian  come  un  genio  straordinario, 
difficile  a  concepirsi  qual  mi  veniva  rappresentato,  ma  pur  possibile ; 
ora  mi  veggo  costretto  ad  ammirar  il  Macpherson  non  solo  come 
un  genio  ugualmente  grande,  ma  come  un  fenomeno  unico  ed 
inesplicabile. 

lo  veggo  in  lui  un  poeta  che  comparisce  gigante  innanzi  d'essersi 

i.  L'abate  udinese  Giuseppe  Greati  o  Greatti  (1758-1812),  bibliotecario 
a  Padova  e  poi  prefetto  della  biblioteca  di  Brera  a  Milano.  2.  Dalle 
Opere,  xxxvn,  pp.  302-5.  Manca  la  data  di  questa  lettera,  che  si  pu6 
collocate,  per  alcuni  indizi  contenuti  nel  seguito  della  corrispondenza  col 
Walker,  verso  Tagosto  del  1793.  II  destinatano  dovrebbe  essere  Joseph 
Cooper  Walker  di  Dublino  (1766-1810),  autore  di  Memorie  storiche  sopra 
i  bardi  irlandesi  (1788).  3.  alcuni  dubbi:  cfr.,  a  p.  486,  la  lettera  al  Mac 
pherson,  in  cui  il  Cesar otti  effettivamente  espone  qualche  dubbio  sul- 
Pautenticita  dei  poemi  ossianici. 


LETTERE  5^5 

mostrato  uomo,  che  ha  la  forza  di  scordarsi  di  se,  del  suo  secolo, 
di  quanto  lo  circonda  per  trasportarsi  in  una  remotissima  eta  e 
vestire  un  personaggio  disparatissimo  senza  mai  lasciar  trasparire 
il  suo,  ne  ci6  in  un  breve  componimento  ma  per  tutto  il  corso  di 
due  inter!  volumi;  che  per  un  raffinamento  singolare  vuol  anche 
assumere  nello  stile  vari  difetti  non  suoi,  qual  e  un'estrema  conci- 
sione  che  rende  strane  e  improbabili  pressoche  tutte  le  sue  nar- 
razioni,  la  soverchia  uniformita  di  colori  e  di  fasti,  Poziosita  degli 
epiteti,  la  mancanza  totale  d'idee  religiose  e  del  macchinismo, 
mobile  potentissimo  della  poesia  e  strumento  general  del  mira- 
bile:  veggo  un  uomo  continuar  per  anni  ed  anni  con  faticosa 
intensione  di  spirito  a  rappresentare  il  personaggio  di  Ossian 
tessendo  una  lunga  serie  di  poemi,  quando  uno  o  due  componi- 
menti  bastavano  a  procurar  al  pubblico  una  illusione  che  assicu- 
rasse  Fautore  del  proprio  merito  e  gli  procacciasse  compenso 
d'ammirazione  e  di  lode;  un  uomo  finalmente  che,  potendosi  far 
venerar  dal  suo  secolo  come  un  genio  trascendente,  non  solo  ri- 
nunzia  alPamor  proprio  cedendo  la  sua  gloria  ad  un  vano  idolo, 
ma  soffre  di  guadagnarsi  i  titoli  d'impostore  e  falsario,  piuttosto  che 
depor  la  sua  maschera  ed  uscire  a  riscuotere  in  suo  nome  i  dovuti 
applausi.  Una  parte  della  mia  medesima  ammirazione  e  sorpresa 
e  parimenti  dovuta  al  sig.  Smith,1  che  si  mostra  gemello  del 
Macpherson  e  nei  talenti  e  nelForiginalita  del  carattere.  Questo 
cumulo  di  singolarita  6  cosi  strano,  bizzarro  e  fuor  di  natura  che 
confonde  e  sopraifa  il  mio  debole  intendimento.  lo  sono  ben  certo 
che  in  tutta  la  storia  umana  non  si  trova  esempio  d'una  dissimu- 
lazione  di  questa  specie.  Ella,  sig.  cav.  onoratissimo,  che  conosce 
con  precisione  non  solo  i  fatti  ma  le  persone  e  le  circostanze,  pu6 
trovar  la  spiegazione  d'un  tale  enigma,  e  darmi  il  filo  per  uscire 
da  questo  labirinto  in  cui  mi  perdo:  senza  di  ci6  io  non  osero 
certamente  sostenere  che  le  poesie  di  Ossian  siano  original!  ed 
autentiche,  ma  sar6  tentato  di  credere  che  il  capo  d'opera  piu 
sublime  della  poesia  sia  uscito  dalla  immaginazion  d'un  frenetico. 
Comunque  sia,  la  ringrazio  del  piacere  che  ella  mi  procaccib  con 
questa  sua  interessante  e  curiosa  storia,  e  pieno  di  riconoscenza  e  di 
stima  ho  Ponore  di  protestarmi,  ec. 

i.John  Smith,  che  aveva  pubblicato  nel  1780  undici  poemetti  barditi, 
uno  dei  quali,  La  morte  di  Gaulo,  apparve,  tradotto  dal  Barbieri,  nel 
volume  v  delle  Opere  del  Cesarotti. 


5^0  MELCHIORRE    CESAROTTI 

XIX 
A  ENRICHETTA  TREVES1 

[La  memoria  degli  amid  defunti.] 

JClla  mi  legge  nel  cuore,  tanto  i  di  lei  sentimenti  s'accordano  per- 
fettamente  co'  miei.  Si,  &  una  vilta  il  cercar  di  sottrarsi  alia  tristezza 
nata  da  una  causa  cosi  interessante.  Ci6  che  sempre  mi  ributtb  si  e  il 
vedere  come  in  cosi  fatte  occasioni  i  piu  familiari  e  domestici  si  fanno 
una  legge  di  non  far  piu  nemmeno  un  cenno  che  risvegli  Pidea  d'un 
caro  defunto,  e  di  usar  ogn'industria  perch6  Pamico  o  il  congiunto  ap 
passionato  ne  scordi,  se  fosse  possibile,  persino  il  nome.  lo  attribui- 
sco  questa  usanza  alPinfluenza  di  quella  trista  e  odiosa  filosofia  che 
tanto  predomina  ai  tempi  nostri.  Di  fatto,  se  tutto  termina  colla  vi 
ta  presente,  se  chi  muore  e  sparito  per  sempre  dai  regni  dell'esisten- 
za,  un'afflizione  ostinata,  un'angoscia  permanente  e  in  tal  caso 
ugualmente  cruda  ed  irragionevole.  Non  si  pu6  sentire  a  lungo  se 
non  per  chi  sente:  una  cosa  inanimata  pu6  esserci  cara,  ma  non  si 
ama  se  non  chi  pu6  amare  ed  intendere.  Un'amarezza  tutta  pura, 
un  dolor  disperato  soverchia  di  troppo  le  forze  della  natura  per 
ch' ella  non  rifugga  da  ci6  che  lo  eccita  ed  alimenta:  perci6  Puma- 
nita  e  la  ragione  si  accordano  in  questa  funesta  ipotesi  ad  allon- 
tanare  dal  nostro  spirito  un'idea  desolante  che  non  ammette  con- 
forto  e  manca  di  soggetto  reale.  Ma  se  il  nostro  caro  esiste  ancora 
in  qualche  mondo,  il  caso  e  affatto  diverse.  S'ei  vive,  egli  e  sen- 
sibile  al  nostro  affetto,  gradisce  le  nostre  lagrime,  si  compiace  dei 
nostri  elogi,  testimoni  del  suo  virtuoso  carattere,  interviene  col 
suo  spirito  ai  nostri  colloqui,  applaude  a  quelle  azioni  di  bonta, 
a  quei  sentimenti  onesti  ed  amabili  che  tanto  lo  interessavano. 
Queste  idee  consolanti  temperano  il  nostro  cordoglio,  e  lo  sciolgono 
in  quella  dolce  melanconia  ch'&  Palimento  dell'anime  delicate  e 
sensibili.  Ma  noi  nol  vediamo  piu:  no,  ma  egli  ci  vede:  questo 
pensiero  mette  in  picca  il  nostro  cuore  e  la  nostra  immaginazione, 

i.  Dalle  Opere,  xxxvi,  pp.  187-90.  La  lettera,  non  datata,  si  pu6  assegnare 
al  1795,  se  il  car<>  defunto  di  cui  vi  si  parla  e,  come  sembrerebbe  da  alcuni 
accenni,  il  naturalista  Giuseppe  Olivi  (su  cui  cfr.  la  nota  i  a  p.  523), 
morto  appunto  in  quelPanno.  Enrichetta  Treves,  gentildonna  veneziana, 
ma  residente  a  Padova,  dilettante  di  letteratura  inglese  e  di  botanica,  teneva 
anche  un  salotto  letterario. 


LETTERE  527 

e  fa  che  accrescano  le  loro  forze  per  compensarci  del  nostro  dan- 
no,  e  far,  s'e  possibile,  illusione  ai  sensi  medesimi.  Questa  sola, 
pregiatissima  sig.  Enrichetta,  pu6  essere  la  fonte  delle  nostre 
consolazioni:  con  questa  nulla  di  piu  dolce  che  parlar  di  lui,  deli- 
ziarsi  nel  rammemorar  le  sue  qualita,  nello  sviluppar  i  suoi  me- 
riti,  nel  riandar  collo  spirito  tutte  quelle  particolarita  che  ce  lo  re- 
sero  caro.  Che  bel  concerto  armonico  di  lugubre  dolcezza  non 
faressimo  insieme,  sig.  Enrichetta  amatissima,  sopra  questo  in- 
teressante  soggetto!  e  quanto  mi  riuscirebbe  caro  di  poter  pro- 
fittare  del  suo  grazioso  invitol  Ma  oltreche  varie  convenienze 
mi  obbligano  a  passar  1'autunno  in  queste  parti,  sono  ora  tratte- 
nuto  da  una  ragione  troppo  rispettabile,  voglio  dire  dallo  stesso 
amato  defunto.  La  sua  immagine  che  ho  voluto  rapire  alia  morte 
deve  adornare  un  deposito,  a*  piedi  del  quale  una  mia  iscrizione 
fara  sentire  a  chi  legge  la  perdita  che  fecero  in  lui  le  scienze  e 
rumanita.  lo  attendo  qui  il  di  lui  degno  fratello  per  concertar 
con  esso  i  modi  dell'esecuzione.  Ella  si  conforti  coll'idee  sopraccen- 
nate,  e  le  porti  seco  nella  scorsa  che  medita  di  far  sino  a  Pisa,  ch'& 
il  sollievo  il  piu  adattato  alia  circostanza.  Una  conferenza  col  dotto 
ammiratore  del  nostro  amico  relativa  a  un  ramo  delle  facolta  col- 
tivate  da  lui  medesimo  e  il  piu  grato  omaggio  che  possa  rendere 
alia  di  lui  ombra.  Essa  interverra  per  terzo  alle  sue  sessioni,  e  Tani- 
mera  a  mostrarsi  al  mondo  sua  degna  arnica,  perfezionandosi  in 
quegli  studi  che  non  sono  ormai  piu  separabili  dalla  sua  memoria. 
Prego  il  Cielo  che  il  suo  fisico  non  si  opponga  al  progetto,  e  desi- 
dero  che  i  suoi  nervi  non  siano  mai  mobili  fuorche  a  quelle  pla- 
cide  scosse  che  svegliano  nelle  anime  privilegiate  le  idee  del  Bello 
e  del  Buono.  Mi  conservi  la  sua  cordialita,  e  mi  creda  con  affettuo- 
so  sentimento,  ec. 

xx 

A  VITTORIO  ALFIERI1 

\Presentazione  di  Isabella  Teotochi.] 

Una  combinazione  inaspettata  mi  porge  occasione  di  rinfrescarvi 
la  memoria  d'un  vostro  zelante  ammiratore.  Non  pu6  certamente 

i.  Dalle  Opere,  xxxvin,  pp.  3-5.  La  data  della  lettera  sara  di  poco  ante- 
riore  a  quella  della  risposta  dell'Alfieri,  che  e  del  25  aprile  1796. 


5*8  MELCHIORRE   CESAROTTI 

riuscirvi  nuovo  il  nome  della  contessa  Isabella  Teotochi,1  fu 
Marini.  Voi  dovete  senza  dubbio  averlo  inteso  piu  volte  a  ram- 
mentare  dal  comune  amico  cav.  Pindemonte:*  egli  vi  avra  detto 
che  questa  dama  &  ugualmente  favorita  delle  Muse  che  delle 
Grazie,  ch'ella  £  piena  d'ottimo  gusto  in  letteratura,  che  unisce 
alPerudizione  solidita  e  svegliatezza  di  spirito,  che  non  v'6  forestie- 
ro  colto  in  Venezia  il  quale  non  si  pregi  di  conoscerla  e  di  fre- 
quentarla,  e  per  dir  tutto  in  poco,  ch'ella  &  d'una  classe  medesima 
colla  vostra  illustre  arnica  e  compagna,3  alia  quale  vi  prego  di  ri- 
cordare  la  mia  affettuosa  riverenza.  Ora  questa  dama  facendo  il 
viaggio  di  Roma  passa  per  la  Toscana.  Poteva  ella  non  desiderare 
di  conoscer  Punico  Alfieri?  e  potete  voi  non  compiacervi  della 
conoscenza  d'una  dama  che  pu6  render  giustizia  al  vostro  merito 
piu  di  molti  letterati  di  professione  ?  lo  forse  non  vi  sorprenderei 
gran  fatto  se  vi  dicessi  ch'ella  ammira  altamente  il  Sofocle  astigiano, 
ma  vi  aggiungerb  che  ammira  ugualmente  Pautore  del  Panegirico 
di  Plinio,  e  che  pu6  discorrer  con  voi  di  costituzioni  politiche 
quanto  di  drammatiche.  Permettetemi  adunque  ch'io  vada  su- 
perbo  d'esser  il  conciliatore  di  questa  conoscenza,  per  la  quale 
attendo  un  doppio  ringraziamento. 

Che  fa  la  vostra  Musa?  Chi  sa  quanti  tesori  poetici  avete  nel 
vostro  portafoglio!  Sarebbe  un  delitto  Pesserne  piu  oltre  avaro 
col  pubblico.  Non  vorrei  che  lo  spettacolo  di  tante  tragedie  reali 
v'avesse  fatto  abborrire  per  sempre  la  vostra  favorita  Melpomene. 
Ad  ogni  modo,  se  come  mi  fu  accennato,  Pavete  lasciata  per  far 
la  corte  a  Calliope,4  si  pu6  ancora  perdonarvi,  essendo  ben  certo 
che  saprete  servir  ugualmente  bene  una  sorella  che  Paltra.  Non  so 
se  le  vostre  idee  siano  tuttavia  democratiche ;  so  bene  che  il  pubblico 
vi  terra  sempre  per  uno  dei  maggiori  aristocrati  di  Parnaso,  e  il 
tiranno  della  scena  italica. 


1.  Isabella  Teotochi  (1763-1836)  e  la  notissima  gentildonna  e  letterata 
veneziana,  arnica  del  Pindemonte  e  del  Foscolo  e  di  altri  letterati.  Uno 
dei  prii  felici  dei  suoi  Ritratti  (1808)  e  dedicate  appunto  al  Cesarotti. 

2.  Ippolito  Pindemonte,  che  dedic6  alia  Teotochi,  chiamandola  Temira, 
alcuni  versi  d'amore.     3.  arnica  e  compagna:  la  contessa  d' Albany.     4.  Cal 
liope:  allude  alle  poesie  liriche  composte  dalP Alfieri  tra  il  1790  e  il  1799. 


LETTERS  529 

XXI 
A  UGO  FOSCOLO1 

Mo  gradito  le  vostre  notizie,  e  godo  che  vi  troviate  piu  in  calma 
e  disposto  a  trar  profitto  delPawersita.  Questa  e  una  scuola  dura  ma 
utile.  Voi  vivrete  in  pace  cogli  uomini  quando  avrete  appreso  a 
conoscerli  meglio,  amarli  meno  e  lusingarli  di  piu.  Bisogna  soffrir 
tutto  per  uscir  un  giorno  dalla  loro  dipendenza.  Costa2  vi  saluta, 
mi  ordina  di  rimproverarvi  di  non  aver  mai  risposto  alle  sue  lettere, 
e  di  aggiungere  che  il  march.  Ronconi  attende  con  premura  la 
dissertazione  a  voi  confidata  e  che  ha  trasmesso  a  lui  un  zecchino 
per  conto  vostro.  Addio.  Profittate  della  cara  conversazione  del 
sentimentale  e  sociabile  Olivi,3  e  immaginatevi  ch'io  sia  spesso 
in  terzo  con  voi. 

XXII 
A  TOMMASO   OLIVI4 

[La  sistemazione  di  Selvaggiano.] 

23  novembre  179  6. 

Sono  ancora  a  Selvaggiano,  beato  per  i  miei  lavori  e  per  la  spe- 
ranza  di  veder  nella  primavera  prossima  compita  pienamente 
la  divisata  sistemazione  della  mia  delizia  campestre.  Parmi  d'a- 
vervi  gia  detto  che  qui  pure  ebbe  luogo  una  rivoluzione.  Qualche 
disgusto  che  ebbi  dal  proprietario  del  campo  posto  dinanzi  al 
casino,  m'indusse  a  rinunziarne  la  fittanza.  Cio  venne  a  scomporre 
il  primo  piano:  addio  ingresso  sulla  strada  maestra,  addio  viale 
d'ingresso,  addio,  sopra  tutto,  stradoncino  lugubre,  boschetti  e 
prospettive  che  io  vagheggiava  cotanto.  Cosi  parrebbe  a  prima 
vista;  ma  il  fatto  sta  che  questo  disordine  porto  un  ordine.  Tutte 

i.  Dall'opuscolo  Per  nozze  Rasi-Vanzan,  a  cura  di  G.  Mazzoni,  Padova 
1891,  pp.  9-10.  Manca  la  data,  ma  la  lettera  deve  essere  stata  scntta  nello 
stesso  tempo  di  un'altra  indirizzata  a  Tommaso  Olivi  il  23  settembre 
1796,  e  nella  quale  era  acclusa  la  presente.  2.  Paolo  Costa  (1771-1836) 
di  Ravenna,  alunno,  come  il  Foscolo,  del  Cesarotti  a  Padova,  fu  uomo 
di  spiriti  democratici  e  buon  verseggiatore  neoclassico.  3.  Tommaso  Qli- 
vi,  fratello  di  Giuseppe,  e  amico  del  Cesarotti  e  del  Foscolo.  4.  Dalle 
Opere,  xxxvin,  pp.  18-22.  Su  Tommaso  Olivi  cfr.  la  nota  precedente. 


53°  MELCHIORRE   CESAROTTI 

le  mie  idee  possono  eseguirsi,  e  sono  gia  pressoche  affatto  ese- 
guite  molto  meglio  nel  mio  brolo1  e  nei  campi  miei.  lo  sono 
obbligato  di  cuore  alia  malagrazia  d'un  nostro  aristocrato  che  diede 
luogo  a  questo  felice  ripiego.  Mi  sono  sempre  ricordato  il  vostro 
detto  che  quel  ritiro  funebre  non  aveva  la  fisonomia  de'  miei 
disegni.  Spero  ora  d'averla  espressa  a  dovere,  ed  esulto  immagi- 
nando  Fimpressione  che  dovra  farvi.  Non  vi  prevengo  di  nulla; 
solo  esigo  da  voi  che,  quando  vi  scrivero  di  venirmi  a  trovare  a 
Selvaggiano,  dobbiate  subito  compiacermi,  nel  qual  caso  vi  ren- 
dero  la  pariglia.  Vengo  ora  alle  vostre  grazie.  Ho  gia  esaminate  le 
due  prime  casse,  e  separati  i  vari  corpi.  L'altre  due  sono  ancora  a 
Padova,  e  non  le  aprir6  se  non  sono  trasportate  qui.  Voi  foste 
troppo  generoso,  e  temo  che  diverr6  povero  per  la  soverchia  ric- 
chezza.  Preveggo  che  avr6  piu  tesori  che  luogo  per  collocarli  o 
mezzi  di  fame  uso.  Per  Pidea  principale  si  fara  la  scelta  dei  corpi 
piu  vistosi  e  durevoli  che  congegnati  con  altre  naturalita  montane 
faranno  ottimo  effetto.  Trovo  sparse  nelle  varie  classi  alcune  bagat- 
telle  che  mi  sembrano  preziosita  marittime  da  gabinetto,  e  queste 
potrebbero  incollarsi  sulla  carta  e  formarne  de'  quadri.  Altri  pezzi 
mi  sembra  che  possano  servire  a  incrostar  piedestalli  di  vasi ;  altri 
ad  abbellire  un  qualche  selciato :  insomma  si  vedra  di  trar  partito 
da  tutto.  Non  so  quel  che  contengono  T  altre  due  casse,  ma  sup- 
pongo  che  saranno  corpi  di  diverse  specie.  In  ogni  modo  ci6  che 
avete  spedito  e  piu  che  bastante  airoggetto,  ne  occorre  che  v'in- 
comodiate  di  piu.  Bensi  per  continuare  ad  abusarmi  della  vostra 
cordialita,  vi  pregherei,  se  avete  a  Murano  persone  di  cui  possiate 
fidarvi,  che  mi  procuraste  una  cassa  di  quei  pezzi  che  escono  da 
quelle  fornaci,  ma  facendo  una  scelta  dei  migliori  e  piu  curiosi  nel 
colorito  e  nelle  forme.  Parmi  confusamente  che  possano  questi 
servire  a  vari  dej  miei  oggetti.  Ma  questa  volta  esigo  formalmente 
da  voi  che  ci6  sia  senza  vostro  dispendio,  e  che  mi  awisiate  in 
prevenzione  del  prezzo.  Potrei  con  questa  disposizione  rivolgermi 
ad  altri,  ma  non  potrei  trovar  alcuno  che  avesse  la  vostra  cor 
dialita,  attenzione  ed  intelligenza.  I  cinquecento  olmi  potete  spe- 
dirli  per  la  ventura  settimana  supponendo  che  siamo  a  tempo  per 
la  piantagione.  Se  vi  sembrasse  troppo  tardi,  potrete  anche  dif- 
ferir  alia  primavera.  Di  Verona  non  so  dirvi  nulla  di  precise,  per- 
ch6  da  tre  giorni  manco  dalla  citta;  domenica  a  Padova  intesi  che 
i.  brolo:  giardino. 


LETTERE  531 

dopo  molte  battaglie  sanguinose  e  bilanciate  Davidovic1  avea  pas- 
sato  la  Chiusa,  e  dicevasi  anche  in  Verona:  ma  la  musica  infernal 
del  cannone,  che  in  questi  giorni  venne  a  funestar  le  mie  orecchie 
e  a  turbar  la  mia  pace  interna,  non  mi  lascia  senza  inquietudine 
per  quella  infelice  citta.  Caro  Tommaso,  amiamo  i  corpi  marini, 
gli  alberi  e  noi  e  i  pochi  della  nostra  spezie,  e  piangiamo  su  questo 
animale  indefinibile  chiamato  uomo,  che  ha  passioni  cosi  violente 
e  una  ragione  cosi  fragile,  losca,  cerea,  seducibile,  depravabile, 
che  cercando  la  suprema  felicita  si  fabbrica  la  suprema  miseria. 
V'abbraccio  con  tutta  1'anima:  fra  poche  ore  vado  a  stabilirmi 
a  Padova  a  far  il  dotto  e  il  cittadino  a  mio  dispetto.  Addio  senza 
fine  a  tutto  il  monte  OUmpo.2 

XXIII 
A   COSTANTINO   ZACCO3 

[Inquietudine  per  la  situazione  politica.] 

Padova,  1796. 

JLa  vostra  cordiale  inquietudine  merita  ch'io  faccia  il  sacrifizio  di 
scrivere.  Dico  sacrifizio  perch6  sono  cosi  svogliato  che  a  stento 
reggo  la  penna.  Tornai  iersera  da  Selvaggiano  per  intender  meglio 
lo  stato  degli  affari,  e  per  non  esser  al  caso  spettatore  se  non 
vittima  di  qualche  sopraffazione  violenta.  lo  per  altro  vi  accerto 
che  non  ho  nessun  timor  personale,  e  che  sono  preparato  a 
qualunque  evento;  solo  ho  Tanima  penetrata  da  un'amarezza 
cupa,  e  talora  da  un'apatia  disperata  e  stupida.  Ho  persino  per- 
duta  quelPaccensione  di  collera  e  quelFimpeto  declamatorio  che 
mi  teneva  in  vita.  Se  il  Cielo  vuole  che  costoro4  partano,  io  tor- 
ner6  ad  immergermi  nella  mia  solitudine  per  essere  aifatto  alPo- 
scuro  di  quanto  accade.  Vorrei  dormir  sempre  per  risvegliarmi 
tranquillo  o  non  risvegliarmi  mai  piu.  Intanto  vi  prego  a  non  mi 
scriver  piu  nulla  di  cose  politiche  d'alcuna  specie,  e  a  non  aspet- 
tarne  da  me.  Noi  non  potressimo  che  rattristarci  a  vicenda.  Scri- 
vetemi  di  amarmi,  che  questa  e  una  delle  poche  cose  che  m'inte- 
ressano.  V'abbraccio  di  cuore.  Addio. 

i.  Davidovic:  generate  austriaco,  che  pochi  giorni  dopo  sara  battuto  da 
Napoleone  a  Rovereto.  2.  monte  Olimpo:  allude  forse,  scherzosamente, 
ad  amici  comum.  3.  Dalle  Opere,  xxxvn,  pp.  339-40.  Sullo  Zacco  cfr. 
la  nota  lap.  517.  4.  costoro:  probabilmente  allude  all'esercito  francese. 


532  MELCHIORRE    CESAROTTI 

XXIV 
A  TOMMASO   OLIVI1 

[La  nuova  democrazia.] 

Padova,  15  decembre  1797. 

La  tua  lettera  mi  commosse  con  una  tenera  compiacenza.  Duolmi 
solo  che  questa  fosse  amareggiata  dalla  trista  notizia  della  mancan- 
za  del  fratello.2  Conservati,  caro  Tommaso,  a  te,  alia  tua  famiglia, 
a  me  che  ti  appartengo  col  cuore.  Conservati,  e  tienti  lontano 
quanto  puoi  da  tuttocio  che  pu6  agitare  soverchiamente  i  tuoi 
nervi.  Quante  volte  bramai  di  scriverti!  e  quante  mortificazioni 
ebbi  di  non  farlol  Ma  che  poteva  io  dirti,  e  come  spiegarmi?  Ci 
volevano  discorsi  troppo  lunghi,  troppo  liberi  per  farmi  inten- 
dere  con  qualche  speranza  di  frutto,  e  il  nostro  bel  sistema  di  li- 
berta  avea  posta  un'inquisizione  sulle  parole.  Io  non  sapeva  il  tuo 
incomodo  fisico,  ma  era  ben  certo  che  il  tuo  spirito  si  trovava  in 
burrasca,  e  quel  ch'e  piu,  che  tu  amavi  la  burrasca  medesima 
sperando  di  arrivar  per  essa  al  porto  della  felicita.  Illusione  fatale, 
rea  di  tutte  le  nostre  sventure!  Io  gia  conosceva  da  molto  tempo 
la  fallacia  di  quei  venti  insidiosi  che  ci  spingevano  nell'alto,  e 
non  presagiva  che  tempeste  e  naufragi;  ma  conveniva  essere  piu 
che  profeta  per  immaginare  che  cotesto  turbine  di  liberta  conducea 
direttamente  e  deliberatamente  alia  servitu.  Vaglia  almeno  questo 
singolare  esempio  a  guarirci  per  sempre  dalle  chimere  filosofiche, 
le  quali  non  servono  che  al  trionfo  degl'impostori.  Ma  io  ho  detto 
assai  piu  di  quel  ch'io  voleva.  Questi  discorsi  non  devono  riser- 
barsi  che  a  Selvaggiano.  Attendo  con  trasporto  la  primavera  e  te. 
Se  il  cielo  benedice  le  mie  piante,  spero  che  il  mio  boschetto  ti 
presenti  un  dolce  spettacolo.  Tutto  il  brolo  ha  una  faccia  nuova 
e  piu  interessante.  La  tua  allegrezza  per  la  mia  pensione3  me  la 

1.  Dalle  Opere,  XL,  pp.  38-40.  Su  Tommaso  Olivi  cfr.  la  nota  3  a  p.  529. 

2.  fratello:  non  Giuseppe  Olivi,  che  era  morto  nel  1795.     3.  pensione:  per 
iniziativa  di  Napoleone  stesso,  arnmiratore  di  Ossian  e  del  suo  traduttore, 
al  Cesarotti  era  stata  assegnata  una  pensione  di  tremila  franchi  annui  sul 
vescovado  di  Padova,  ed  era  stato  accordato  il  trasferimento  « dalla  cat- 
tedra  di  lingua  greca  a  quella  di  belle  lettere  col  titolo  rarissimo  di  so- 
praordinario  e  colla  permissione  di  leggere  quando  e  quanto  mi  piace», 
come  il  Cesarotti  stesso  scriveva  compiaciuto  in  una  lettera  ad  Angelo 
Mazza,  anch'essa  del  15  dicembre  1797  (cfr.  Opere,  XL,  pp.  29-30). 


LETTERE  533 

rende  assai  piu  grata.  La  mia  maggior  compiacenza  e  il  pensare 
che  questa  onorificenza  fu  perfettamente  gratuita,  e  ch'io  non 
me  1'ho  procacciata  neppur  coirombra  di  bassezza  d'alcuna  specie. 
Aggiungo  un  nuovo  solletico  alia  tua  cordialita  col  dirti  che  fui 
trasferito  alia  cattedra  d'eloquenza  senza  nuovi  aggravi,  e  con  un 
decreto  il  piu  lusinghiero.  Quando  sara  stampato,  te  ne  spedirb 
una  copia.  Saluta  caramente  la  famiglia  che  bramo  pur  di  rivedere. 
Mio  cognato,  io,  i  miei  domestici,  e  credo  anche  il  cane  e  il  gatto, 
tutti  ti  amano,  ti  salutano  e  non  cessano  di  desiderarti.  Addio 
con  vero  affettuoso  trasporto. 


xxv 

A  MONSIEUR.  .  .* 

[Sulle  proprie  traduzioni  ossianiche  e  omericke.] 

Ossian  et  moi  nous  avons  a  vous  des  obligations  communes, 
lui  a  votre  talent,  et  moi  a  votre  politesse.  L'impromptu  qui 
m'est  sorti  du  coeur  plus  que  de  la  plume  n'est  qu'un  petit  a 
compte  que  j'aime  a  vous  payer  pour  moi  et  pour  mon  vieux 
barde.  Dans  ma  lettre  a  la  comtesse  Albrizzi,2  dame  d'un  gout 
exquis  dans  la  belle  litterature,  j'ai  dit  nettement  ce  que  je  sens 
sur  vos  essais,  c'est  a  dire  que  tout  ce  qu'il  y  a  de  beau  vient  de 
votre  habilete;  ce  qu'on  pourroit  y  souhaiter,  ne  regarde  que  vo 
tre  langue.  Boileau  lui-meme  en  travaillant  sur  Ossian  ne  1'au- 
roit  trouv6  quelquefois  moins  rebelle.  Un  auteur  italien,  dans 
un  tel  travail,  avoit  bien  plus  facilite  et  dans  la  langue  plus 
libre  et  dans  le  vers  plus  harmonieux,  plus  varie,  plus  pitto- 
resque.  Ces  caracteres  appartiennent  en  particulier  a  nos  vers 
blancs,  que  le  comun  des  Francois  croit  invente  par  nous  afin 


i.  Dalle  Opere,  xxxvin,  pp.  61-4.  Di  questa  interessante  e  poco  nota 
lettera  non  e  indicate  il  destinatario,  n6  e  facile  scoprirlo  da  quanto  e  detto 
nel  testo  della  lettera,  dove  risulta  solo  che  si  tratta  di  un  francese  che  si 
era  provato  a  tradurre  Ossian.  Non  escluderei  che  possa  trattarsi  del 
Ginguen6,  che  intorno  al  1800  si  occupava  di  Ossian,  e  che  in  seguito 
cur6  una  ristampa  della  traduzione  del  Le  Tourneur.  Anche  la  data  manca, 
ma  Taccenno  alFedizione  veneziana  della  Morte  di  Ettore  la  sposta  a  dopo 
il  1795.  2.  la  comtesse  Albrizzi:  Isabella  Teotochi  (su  cui  cfr.  la  nota  i  a 
p.  528),  sposata  dal  1796  in  seconde  nozze  a  Giuseppe  Albrizzi. 


534  MELCHIORRE    CESAROTTI 

de  nous  soustraire  aux  entraves  de  la  rime,  au  lieu  que  c'est 
sa  propre  beaute  qui  le  recommande,  beaute"  qui  aux  oreilles  ita- 
liennes  ne  laisse  point  envier  Tagrement  de  la  consonnance,  et 
d'autant  plus  estimable  que  ses  charmes  se  font  plus  sentir  que 
pressentir.  On  pourroit  lui  appliquer  le  mot  d'Horace :  «ut  sibi  qui- 
vis  /  speret  idem,  sudet  multum  frustraque  laboret  /  ausus  idem)).1 
Vous  pouvez,  Monsieur,  assurer  vos  nationaux  qu'en  Italic  ne  fait 
pas  de  vers  blancs  qui  veut,  et  il  y  a  chez  nous  plus  d'un  rimeur 
tr&s-heureux  qui  dans  une  piece  de  vers  libres  y  perdroit  tout 
son  latin.  N'allez  pas  croire  cependant  qu'il  ne  me  fallut  aussi 
lutter  avec  des  obstacles  considerables:  si  j'ai  pu  les  vaincre, 
je  le  dois  bien  plus  a  ma  hardiesse  qu'a  mes  talens.  Le  style 
d'Ossian  ne  trouvoit  dans  nos  ecrivains  rien  d'analogue  a  son 
caractere.  Notre  langue,  toute  feconde  et  flexible  qu'elle  est, 
6toit,  grace  a  nos  grammairiens,  devenue  sterile,  pusillanime, 
superstitieuse,  et  notre  sciolto  n'avoit  jusqu'alors  re9u  de  nos 
auteurs  plus  celebres  qu'une  majestueuse  sonorite"  p&riodique,  un 
peu  monotone.  J'osai  braver  les  prejuges  de  1'usage  et  les  criail- 
leries  des  pedans:  je  hazardai  de  nouveaux  tours,  je  donnai  au 
vers  un  mechanisme,  si  j'ose  le  dire,  pantomime,  et  mes  efforts 
ont  ete  assez  heureux  pour  trouver  quelque  grace  aupres  du  public. 
Mais  malgr6  la  seduction  de  vos  louanges,  ne  saurois  accepter 
sans  scrupule  le  titre,  dont  vous  m'honorez,  du  Delille2  de  T  Ita 
lic.  Je  veux  croire  que  mes  vers  vaillent  les  siens,  mais  Delil 
le  a  donn6  beaucoup  du  propre,  et  moi  je  n'ai  bati  que  sur  les 
fonds  d'autrui.  Professeur  de  Iitt6rature  grecque  il  me  fallut 
travailler  sur  les  auteurs  de  cette  nation;  et  de  plus  presque 
tous  mes  ouvrages  de  prose  et  de  vers  ne  furent  que  command6s. 
II  n'y  a  qu'Ossian  dont  j'ai  entrepris  la  traduction  par  un  mou- 
vement  spontanS.  *Mais  enfin  ce  n'est  qu'une  traduction,  et  sjil 
y  a  quelque  chose  d' original,  cela  ne  regarde  que  le  style.  Quel 
que  droit  plus  solide  a  Toriginalite  pourroit  me  donner,  j'ose 
mjen  flatter,  mon  Homere,  tel  en  particulier  qu'on  l'a  public  a 
Venise  avec  le  titre  de  Vlliade  ou  la  mort  d* Hector.  Ce  n'est  pas 
une  traduction  ni  une  imitation,  mais  on  peut  1'appeler  une  re- 

i.  Ars  poet.,  240-2  («affinch6  chiunque  speri  di  poter  riuscire  ad  ottenere 
lo  stesso  risultato,  e  osando  tentare  il  medesimo  lavorp,  molto  sudi  e  invano 
si  affatichi »).  2.  Delille,  o  Delisle  (cfr.  la  nota  4  a  p.'  301),  e  qui  citato  per 
le  sue  traduzioni  delle  Georgiche  e  del  Paradise  perduto  di  Milton. 


LETTERE  535 

forme  et  presque  line  regeneration  de  Vlliade,  Cest  de  tous  mes 
ouvrages  celui  sur  lequel  le  public  et  les  connoisseurs  peuvent  for 
mer  un  jugement  plus  fonde  de  ma  faculte  poetique  quelle  qu'elle 
soit.  Mais  quoiqu'on  en  juge,  ma  carriere  est  fournie.  Fatigue  par 
de  longs  travaux,  et  de  plus  aifaisse  sous  le  poids  d'une  atmosphere 
qui  n'a  rien  d'electrique,  je  demandai  mon  cong6  aux  Muses,  et 
je  1'ai  obtenu  sans  peine.  A  present  retire  de  la  lice,  j'assiste  spec- 
tateur  tranquille  aux  jeux  des  talens,  pret  a  applaudir  sans  jalousie 
a  ceux  qui  remportent  le  prix.  Vos  essais  me  font  presager  que 
plus  d'une  couronne  vous  attend:  il  ne  tiendra  qu'a  vous  de 
I'obtenir.  Qu'il  me  sera  doux  de  1*  entendre!  et  que  je  serai  heureux 
de  votre  gloire.  Agreez,  Monsieur,  les  sentimens  sinceres  d'estime, 
de  reconnoissance  et  d'amitie  avec  les  quels  je  suis,  etc. 


XXVI 
A  FRANCESCA  MORELLI1 

[Le  consolazioni  delVamidzia  e  della  natura.] 

E  pur  troppo  vero  ch'io  sono  occupato,  ed  e  vero  altresi  che  la 
frequenza  e  la  moltiplicita  delle  lettere  mi  e  spesso  a  carico,  e 
talora  a  noia.  Ma  cosa  hanno  mai  di  comune  le  lettere  di  cotesta 
turba  di  scriventi  con  quelle  di  Fanny?  Dettate  dal  cuore,  in- 
gentilite  dalle  grazie  naturali  del  vostro  spirito,  esse  sono  il  vero 
specifico  contro  il  tedio  inspiratomi  dalle  altre,  e  mi  servono  d'una 
cara  distrazione  dalle  brighe  incessanti  che  mi  tira  addosso  il  mio 
affisso  di  letterato  in  titolo,  che  portai  sempre  a  dispetto,  e  che  mi 
diviene  di  giorno  in  giorno  piu  intollerabile.  La  collezione  delle 
vostre  lettere  e  per  me  un  tesoro  prezioso;  io  le  ricevo  con  traspor- 
to,  e  le  leggo  e  rileggo  con  vera  delizia.  II  piacere  di  legger  voi  non 
puo  essere  superato  che  da  quello  di  vedervi.  Voi  mi  date  percio 
la  piu  dolce  notizia  coirannunziarmi  che  avro  questo  bene  alia 

i  Dalle  Opere,  xxxix,  pp.  112-5,  Se  Taccenno  agli  odiosi  congressi  si  ijfei- 
sce,  com'e  probabile,  aUe  riunioni  che  precedettero  k  pace,  di  Luneville 
(o  febbraio  1801),  la  presente  lettera  dovrebbe  essere  stata  scntta  poco 
prima.  La  contessa  Francesco,  (o  Fanny)  Morelli  collabor6  col  Fieri,  il 
Furlanetto  e  il  giovane  Politeo  Niseteo  (col  quale  conviveva)  ad  un  «Cxior- 
nale  della  letteratura  straniera»,  uscito  per  sei  mesi  nel  1805. 


536  MELCHIORRE  CESAROTTI 

fine  di  Quaresima.  Immaginatevi  s'io  prepare  Fanima  a  dir  con 
divozione  alleluia.  Mi  congratulo  con  voi  che  andiate  diventando 
sempre  piu  insensibile  ai  frivoli  trattenimenti  del  sedicente  gran 
mondo,  che  non  e  grande  fuorche  nella  picciolezza.  L'amicizia  e 
la  natura  sono  le  due  uniche  fonti  dei  piaceri  solidi  ed  interessanti. 
II  fisico  nella  campagna  offre  lo  spettacolo  che  si  cerca  indarno 
dal  morale  nelle  citta.  La  generosita,  la  gratitudine,  la  beneficenza 
universale  risiedono  nella  madre  Terra;  lo  stato  d'innocenza,  la 
letizia  cordiale  e  semplice,  la  cortesia  ospitale  non  si  trova  che  tra 
gli  esseri  vegetabili.  II  mondo  morale  non  e  che  un  teatro  di  mal- 
vagita  e  di  miseria.  Quando  fmiranno  questi  odiosi  congressi?  lo 
vorrei  vederne  uno  tra  la  Ragione,  PUmanita  e  la  Giustizia.  Que- 
ste  dovrebbero  essere  le  vere  dominatrici  della  terra:  ma  esse  non 
sono  che  regine  detronate,  le  quali  non  sanno  nemmeno  sperare 
una  meschina  indennizzazione. 

Mi  consola  assai  la  salute  migliorata  delFottimo  Bepo1  e  la  spe- 
ranza  che  abbia  sempre  piu  a  convalidarsi. 

La  vostra  afTezione  alia  cara  Marina2  fa  ch'io  v'ami  di  piu  Tuna 
e  Paltra.  Interessante  per  la  sua  bonta  non  meno  che  per  la  bel- 
lezza,  ella  ha  il  privilegio  singolare  di  aver  tante  amiche  nel  suo 
sesso,  quanti  adoratori  nel  nostro.  Fatele  per  me  le  piu  cordiali 
carezze.  L'ultimo  periodo  del  povero  C  . .  .3  diede  qui  luogo  a 
molte  ciarle  divotamente  maligne.  lo  credo  che  anche  un  buon 
cristiano  possa  non  gradir  gran  fatto  gli  imponenti  prolegomeni 
della  sua  morte.  I  teologi  hanno  fatto  il  possibile  per  rendere 
sconsolante  e  inamabile  una  religione  ch'6  tutta  amore.  La  sua 
fisonomia  naturale  era  fatta  per  spargere  un  balsamo  di  consola- 
zione  e  di  speranze  sulFoccaso  del  nostro  giorno :  essi  la  sfigurarono 
a  segno  di  fame  uno  spettro,  e  ci  resero  piu  trista  la  morte  coi 
terrori  esagerati  d'un'altra  vita.  Se  i  frenetici  novatori  di  Francia 
in  luogo  di  abolir  il  cristianesimo  Pavessero  richiamato  al  suo  vero 
spirito,  spruzzandolo  d'un  po*  di  filosofia  temperante,  essi  avreb- 
bero  reso  un  grande  e  reale  servigio  alFumanita:  ma  fatalmente 
in  questi  tempi  la  ragione  stessa  non  fu  che  la  serva  del  male. 


i .  Bepo :  Giuseppe  Albrizzi,  il  marito  di  Isabella  Teotochi.  2.  Marina  Que- 
rini  Benzon  (1757-1839),  celebre  per  i  suoi  amori  e  per  le  sue  idee  demo- 
cratiche,  arnica  del  Foscolo  e  del  Pindemonte,  del  Byron  e  dello  Stendhal. 
Per  lei  il  Lamberti  scrisse  la  famosa  Biondina  in  gondoleta  (cfr.  la  nota  a 
pp.  311-2).  3. povero  C.  .  .:  non  saprei  a  chi  il  Cesarotti  alluda. 


LETTERS  537 

Ma  abbandoniamo  queste  idee,  pensiamo  a  vivere  e  ad  amarci. 
Addio  con  tutto  il  cuore. 


XXVII 
A  FRANCESCA  MORELLI1 

[Autoritratto  morale.] 

Grazie  intanto  alia  Battaglia,2  alia  sua  aria,  a'  suoi  monti  che 
sparsero  la  serenita  sullo  spirito  della  cara  Fanny,  e  grazie  alia 
cara  Fanny  che  s'affrettb  a  dar  questa  dolce  consolazione  al  suo 
Cesarotti  col  descrivergli  Pimpressione  piacevole  che  fecero  sopra 
lei  le  scene  campestri.  Possano  i  Bagni  consumar  P  opera  del 
suo  ben  essere,  e  renderla  a  chi  Pama  e  Papprezza  quanto  merita, 
sana  e  contenta  per  Ponore  della  Providenza  e  per  delizia  dei  suoi 
amici.  Voglio  darvi  una  notizia  che  pu6  forse  rendervi  piu  inte- 
ressante  il  paesaggio  che  vi  circonda,  Innanzi  di  arrivare  alia  Batta 
glia  rimpetto  al  Cataio,3  in  un  luogo  detto  il  Pigozzo,  lungo  il 
canale  v'e  un  casino  con  una  chiesetta,  e  un  picciolo  pozzetto  a 
fianco.  Ivi  per  qualche  anno  abit6  un  uomo  che  non  era  dei  piu 
comuni,  d'uno  spirito  tra  il  filosofico  e  il  poetico,  passionatamente 
innamorato  del  Bello  morale  che  ando  sempre  cercando  nelPamore, 
nelPaniicizia,  nei  caratteri  degli  uomini,  nella  contemplazione  del- 
Pordine  e  del  sistema  delPuniverso.  Trovatosi  fatalmente  illuso 
nelle  idee  piu  care,  costretto  a  rinunziare  ai  suoi  diletti  fantasmi, 
disgustato  di  tutta  la  sciaurata  razza  di  Prometeo,4  e  quasi  quasi  del- 
Pabilita  delPartista,  Iasci6  quelPabitazione  e  and6  a  ritirarsi  in  una 
perfetta  solitudine  campestre  ove  sfoga  Pattivita  del  suo  cuore  cogli 
esseri  vegetabili,  pascendosi  anche  talora  de'  suoi  favoriti  roman- 
zi,s  ma  senza  lasciarsi  tormentare  dalPidea  illusoria  di  vederli 
realizzati.  II  Cielo  finalmente  per  decoro  proprio,  e  per  premio 
delle  sue  buone  intenzioni,  gli  fece  conoscere  Fanny,  ed  egli  be- 
nedisse  tosto  Peconomia  della  Providenza,  che  nelP ultimo  pe- 


i.  Dalle  Opere,  XXXIX,  pp.  100-3.  Mancano  indizi  che  permettano  di  fis- 
sarne  la  data,  che  per6  non  dovrebbe  essere  lontana  da  quella  della  lettera 
precedente.  2.  Battaglia :  luogo  di  cure  termali  ai  piedi  dei  colli  Euganei. 
3.  Cataio:  nome  di  un  castello  situato  nei  pressi  della  Battaglia,  e  apparte- 
nente  alia  famiglia  padovana  degli  Obizzi.  4.  razza  di  Prometeo :  Puma- 
nita.  5.  romanzi;  sogni  romanzeschi. 


538  MELCHIORRE   CESAROTTI 

riodo  della  sua  vita  gli  riserbb  questo  bene,  e  gli  mostr6  che  gl'idoli 
del  suo  spirito  non  erano  tutti  assolutamente  chimere.  Di  quest' uo- 
mo  non  vi  dico  il  nome,  ma  quello  del  suo  eremo  e  Selvaggiano. 
Egli  lo  trova  delizioso,  e  oserebbe  preferirlo  alia  Battaglia,  se 
ora  la  Battaglia  non  fosse  abitata  da  Fanny,  Godo  immaginandomi 
che,  dopo  questa  storia,  al  vostro  ritorno  getterete  uno  sguardo 
di  compiacenza  su  quel  luogo  in  memoria  del  suo  antico  abitatore, 
e  godo  ancora  piu  colPidea  che  abbiate  a  bearlo  nel  suo  romitag- 
gio  colla  vostra  presenza. 

Per  me  al  certo  nori  v'e  spettacolo  cosl  pomposo  che  m'inte- 
ressi  piu  de'  miei  verdi ;  e  la  giocondita  e  I'affetto  de'  miei  domestic! 
ha  per  me  assai  maggior  pregio  che  tutte  le  societ&  di  ban  ton. 

Non  mi  stupisco  se  il  nostro  Z  . .  .*  s'annoia.  Egli  non  e  il  siba- 
rita  che  per  sazieta  brama  i  cibi  semplici;  e  il  buon  Adamo  che, 
avendo  per  cagion  vostra  gustati  i  frutti  dell'Eden,  non  sa  piu  adat- 
tarsi  a  quelli  d'una  terra  rivoluzionata.  Egli  ha  per6  torto  di  dedi- 
carsi  come  fa  a  certe  relazioni  che  egli  si  ostina  a  risguardare  come 
amicizie,  e  quasi  merita  il  suo  trattamento,  adattandosi  da  tanto 
tempo  a  soffrirlo.  Ma  Tattaccamento  a  Fanny  non  sark  senza  ef- 
fetto,  ed  io  gia  preveggo  che  voi  Pavrete  o  guarito  o  rovinato. 

Voi  m'avete  fatto  sorridere  pregandomi  d'instruirvi.  E  di  che 
volete  voi  ch'io  v'instruisca  ?  Io  non  potrei  che  insegnarvi  a  co- 
noscere  meglio  voi  stessa.  Ci6  che  dite  per  scemare  il  vostro  me- 
rito  fa  il  vostro  maggiore  elogio.  Non  credete  ch'io  vi  lusinghi: 

10  non  sar6  n6  il  primo  ne  il  solo  che  v'abbia  reso  giustizia.  La 
vanita  e  viziosa,  ma  un'onesta  compiacenza  di  se  stesso  e  una 
buona  compagna,  e  voi  avreste  gran  torto  di  ricusarla. 

Addio,  arnica  dilettissima.  Un  cordiale  saluto  alia  buona  Miml, 
che  ha  ben  dritto  d'esser  amata,  poich6  ama  voi.  Addio  con  tutto 

11  cuore. 


i.  il  nostro  Z .  .  . :  lo  Zacco  (cfr.  la  nota  i  a  p.  517). 


LETTERE  539 

XXVIII 
A  FRANCESCA  MORELLI1 

\pescrizione  di  Bassano.] 

Selvaggiano. 

1  ornai  da  Bassano  coll'ansieta  d'aver  nuove  di  vol.  Fortunatarnen- 
te  m'awenni  tosto  in  Zacco,  e  intesi  da  lui  che  vi  aveva  inaspetta- 
tamente  veduta  al  Terraglio2  e  trovata  in  ottimo  stato  di  salute;  e 
se  non  del  tutto  tranquilla,  almeno  tanto  padrona  del  vostro  spi- 
rito,  quanto  bastava  a  metterlo  in  commercio  nella  societa.  Ci6 
mi  diede  molta  consolazione,  facendomi  sperare  che  vogliate  coo- 
perar  efficacemente  a  ristabilire  il  vostro  fisico,  cercando  di  sere- 
nare  la  fantasia,  e  prestandovi  a  tutto  ci6  che  pu6  diradarne  le 
nuvole.  lo  passai  dieci  giorni  a  Bassano  in  casa  d'un  giovane 
monaco  di  Praglia,  ch'io  soglio  chiamare  il  figlio  della  mia  ultima 
eta,  e  talora  il  mio  Oscar,3  perche  ama  con  trasporto  Ossian  e  me, 
ed  ha  la  stessa  maniera  di  vedere,  di  sentire  e  di  scrivere.  In  conse- 
guenza  di  queste  disposizioni,  egli  e  incantato  di  Fanny,  di  cui  gli 
lessi  alcuni  scritti  che  lo  posero  in  entusiasmo.  Bassano,  voglio  dire 
la  sua  posizione,  sarebbe  degna  del  vostro  pennello.  Esso  po- 
trebbe  essere  una  scuola  di  pittura  per  i  paesisti;  esso  presenta  un 
aggregate  di  vedute  che  formano  un  teatro  di  spettacoli  naturali, 
sempre  inter essanti  e  sempre  vari.  II  coltivato  e  Jl  silvestre,  Pa- 
meno  e  Torrido,  le  colline,  i  monti,  le  montagne  offrono  gruppi, 
intrecci,  contrasti  di  forme,  di  colon,  di  aspetti,  che  arrestano  e 
trasportano  ad  ogni  passo.  Tutte  queste  scene  graduate  e  suc 
cessive  nel  territorio  sembrano  riunirsi  dinanzi  agli  occhi  dello 
spettatore  nella  citta  stessa  quando  si  guarda  dal  Castello,  gia 
soggiorno  d'un  tiranno,  e  ora  d'un  arciprete.  lo  lo  contemplai 
estatico,  ma  la  maggior  mia  sorpresa  fu  come  quel  mostro  d'Ez- 
zelino  potesse  pascere  lo  spirito  d'idee  di  sangue  in  un  sito  fatto 

i.  Dalle  Opere,  xxxix,  pp.  104-7.  L'allusione  alTincertezza  fra  pace  e 
guerra  indurrebbe  a  poire  la  data  della  lettera  nel  periodo  precedente  alia 
pace  di  Amiens  (marzo  1802).  2.  al  Terraglio:  sulla  riviera  trevigiana, 
probabilmente  nella  villa  Albrizzi,  come  si  rileva  dalla  notizia  in  fine  della 
lettera.  3.  il  mio  Oscar:  1'abate  Giuseppe  Barbieri,  su  cui  cfr.  la  nota  3 
a  p.  543- 


54°  MELCHIORRE  CESAROTTI 

per  inebbriare  Panima  del  nettare  dei  geni.  Passai  le  mie  giornate 
aggirandomi  per  le  terre  circonvicine,  specialmente  lungo  il  ca 
nal  della  Brenta,  ove  il  fiume  non  sente  ancora  il  torpore  della 
patavinita,1  ma  corre  e  sbalza  e  spuma  irritate  tra  gli  spezzoni 
dei  massi,  e  fa  presentire  una  forza  che  pu6  giustificare  il  detto 
d'Elvezio,  che  il  sublime  e  un  terribile  incoato.2  Allora  per6  il 
fiume  non  avea  che  una  vivezza  piacevole.  Le  persone  del  bel 
mondo  avrebbero  ben  riso  in  veder  me  col  mio  compagno  e  coi 
domestic!  aggirarci  tutti  attentamente  per  la  ghiaia  della  Brenta 
a  ricogliervi  petruzze  e  ciotoli  come  se  fossero  gemme.  Ben  per6 
piu  prezioso  di  tutte  le  gemme  dell' India  fu  per  me  il  gabinetto 
di  storia  naturale  ch'ebbi  a  vedere  in  Bassano.  Fra  le  cose  che  lo 
distinguono  non  &  la  meno  singolare  che  chi  lo  form6,  e  lo  possede, 
pu6  dirsi  con  esatta  proprieta  un  arlecchino3  naturalista,  poich<§  ap- 
punto  facendo  egli  il  personaggio  d'arlecchino  a  Parigi,  acquistc-  ric- 
chezze  considerabili,  una  parte  delle  quali,  per  una  inspirazione  che 
non  si  sarebbe  aspettata,  I'impieg6  a  procacciarsi  una  sceltissima 
collezione  di  corpi  naturali,  che  per  essere  ammirata  con  trasporto 
non  ha  bisogno  di  scienza,  Nella  mia  dimora  in  Bassano  io  m'era 
scordato  di  tutte  le  ribalderie  misteriose  della  politica:  appena 
giunto  a  Padova,  intesi  tosto  che  siamo  tuttavia  incerti  della  guerra 
o  della  pace,  ma  certissimi  della  miseria.  Per  iscappare  da  queste 
idee  sconsolanti  corsi  tosto  a  rintanarmi  nella  mia  selva,  ove  di- 
vido  le  ore  tra  il  mio  giardino  autunnale  e  il  mio  gabinetto  grot- 
tesco.4  Non  so  se  questo  sia  un  embrione  o  una  parodia  del  museo 
bassanese,  ma  so  che  in  ogni  modo  m'interessa  e  m'appaga.  Ebbi 
dalPaureo  e  amabile  Albrizzi  una  lettera  cordialissima  che  m'invita 
al  Terraglio.  Io  avea  tutta  Pintenzione  di  andare  a  passar  un  giorno 
con  lui,  ma  per  ora  sono  ritenuto  da  qualche  faccenda  morale, 
n£  so  quando  potr6  secondare  il  mio  desiderio.  Addio,  amatissima 


i.  il  torpore  della  patavinita'.  immagine  scherzosa,  tratta  forse  dalPaccusa 
di  « patavinitas »,  che  Asinio  Pollione  formu!6  contro  lo  stile  del  pado- 
vano  Livio.  2.  il  detto  .  .  .  incoato :  cfr.  Helvetius,  De  Vhomme,  London 
1777,  n,  p.  232:  «il  faut .  .  .  que  la  sensation  du  sublime  renferme  tou- 
jours  celle  d'une  terreur  commencee » :  concetto  ripreso  dal  Cesarotti  an- 
che  nel  Saggio  sul  Bello  (cfr.  Opere,  xxx,  p.  17).  3.  arlecchino:  Pattore 
Zanuzzi,  che  per6  era  stato  Yinnamoratot  non  Varlecchinot  della  Comedie 
Italienne.  Era  stato  lo  Zanuzzi  ad  invitare  nel  1761  il  Goldoni  a  Pari 
gi.  4.  grottesco :  qui  ha  il  senso  di  « ornato,  ordinato  in  modo  irrego- 
lare ». 


LETTERE  541 

Fanny:  confortatevi,  sollevatevi,  e  amate  chi  si  fa  una  gloria  d'esser 
vostro.  Addio. 


XXIX 
A  FRANCESCO  RIZZO  E  GIUSTINA  RENIER1 

[Elogio  del  Necker.] 

Aimiei  carissimi:  Rizzo-Giustina;  Giustina-Rizzo. 

La  vostra  lettera  e  il  vostro  dono  mi  furono  ugualmerxte  cari. 
La  rivoluzione  di  Francia  descritta  e  individuata  nelle  sue  epoche 
principal!  e  un'idea  curiosa,  felice  e  felicemente  eseguita.2  Ella 
e  istruttiva,  ma  trista  perche  fa  disperare  che  gli  esempi  del  passato 
servano  mai  di  scuola  per  Tawenire.  lo  per6 1'ho  letta  con  gran  pia- 
cere.  Tutto  e  ben  scelto  ed  appropriate,  e  Tultima  parte  che  ap- 
partiene  al  console  perpetuo3  chiude  egregiamente  il  discorso  con 
veracita  e  convenienza.  £  per6  un  po'  di  mal  augurio  per  Bona 
parte  che  gli  elogi  a  lui  fatti  sieno  quegli  stessi  che  furono  profusi 
a  Cesare  per  addormentarlo  sul  suo  destino.  Amerei  di  saper  il 
nome  del  traduttore  che  mi  parve  aver  colto  bene  il  senso  degli 
original!  (notate  che  non  scrivo  cosi  in  risposta  d'una  sua  lettera). 
Per  Paltra  opera  tradotta  e  comentata  dal  cittadino  Bettoni4  non 
ho  ne  tempo  ne  voglia  d'occuparmene.  Vedo  ch'ella  tende  tutta  a 
magnificar  le  glorie  della  Francia,  ed  io  non  posso  compiacermi 
dell'esaltazion  d'una  nazione,  la  di  cui  grandezza  ha  per  base  la 
sceleragine,  e  nella  quale  la  perfidia  ha  per  lo  meno  tanta  parte 


1.  Dall'articolo   di  A.   BENZONI,   Alcune  letter  e  inedite  del   Cesar  otti   al 
co.  Francesco  Rizzo,  in  «Ateneo  Veneto»,  settembre-ottobre   1904,  pp. 
144-7.  La  data  di  questa  lettera  si  pu6  porre,  per  1'accenno  a  Napoleone 
console  perpetuo,  probabilmente  nell'agosto  o  nel  settembre  1802.  Giusti- 
na  Renier  Michiel  (1755-1832)  tenne  il  piu  famoso  salotto  letterario  del 
Sette  cento  veneziano,  e  si  interess6  di  letteratura  e  di  scienze.  A  lei  si 
debbono  traduzioni  in  prosa  deH'Ote/fo,  del  Macbeth  e  del  Coriolano  e 
un'opera  storica  sull'origine  delle  feste  veneziane.  II  conte  Francesco  Rizzo 
Patarol,  piu  giovane  di  lei  di  quindici  anni,  fu  per  lungo  tempo  suo  amico. 

2.  La  rivoluzione  .  .  .  eseguita :  si  tratta  di  un'opera  straniera  tradotta  (come 
e  detto  in  seguito),  ma  gli  indizi  sono  troppo  generici  per  determinare 
quale  sia  precisamente.     3.  console  perpetuo :  Napoleone,  nominato  con 
sole  a  vita  nell'agosto   1802.     4.  Nicol6  Bettoni  e  il  noto  tipografo  ed 
editore  bresciano. 


S42  MELCHIORRE    CESAROTTI 

quanto  il  valore.  lo  Pabborro  ancor  di  piu  ora  che  ho  per  le 
mani  un'opera  tutta  celeste.  £  questa  il  corso  di  Morale  religiosa  di 
Necker.1  Non  posso  esprimervi  quanto  io  sia  incantato  e  rapito 
da  questa  lettura.  Tutti  i  piu  grandi  uomini  del  secolo  mi  paiono 
pigmei  appresso  un  gigante.  Nessuno  ha  saputo  al  par  di  lui 
smentir  la  falsa  filosofia  col  presentarci  lo  specchio  della  vera  filo- 
sofia  dell'uomo,  che  non  e  il  prodotto  della  sola  ragione,  ma  il  ri- 
sultato  di  tutte  le  facolta  dell'anima  combinate  e  illustrate  Tuna 
per  Faltra.  Ne  parimenti  alcuno  seppe  spogliare  con  piu  destra 
saviezza  la  religione  di  ci6  ch'ella  sembra  avere  di  aspro,  di  ribut- 
tante,  di  triste  per  farla  brillare  nel  suo  vero  carattere  consolatorio 
e  fecondo  delle  piu  dolci  virtu.  Una  metafisica  delicatamente  uma- 
nizzata,  una  morale  la  piu  pura  e  convincente,  un'unzione  sen- 
timentale  la  piu  toccante  formano  un  innesto  originale  e  perpetuo. 
II  suo  discorso  e  la  geometria  del  cuore  e  il  cuore  serve  di  scala 
al  suo  genio.  Lo  stile  e  sempre  animato  con  giuste  proporzioni 
e  sparso  d'un  lume  equabile  d'immaginazione  che  talora  si  cangia 
in  lampo  focoso,  talora  in  raggio  penetrativo  e  piccante.  Oso  dire 
che  se  un  abitante  di  qualche  sfera  celeste  avesse  presa  forma  e 
Hnguaggio  umano  non  avrebbe  altra  eloquenza  che  quella  di 
Necker.  Vari  pezzi  introdotti  naturalmente,  relativi  alle  tragedie 
di  Francia,  scritti  con  tutta  Tenergia  del  cuore  ma  senza  fiele, 
senzafurori,  senza  attizzamento  di  vendette,  sparsero  in  quest'opera 
un  interesse  ancora  piu  vivo.  Egli  ha  posta  in  pieno  lume  colla 
piu  limpida  e  sublime  filosofia  questa  gran  veritk  che  la  religione 
ben  intesa  e  il  fondamento  della  morale,  che  la  morale  e  Tunico 
fondamento  della  politica,  e  che  senza  una  politica  morale  e  reli 
giosa  non  pu6  esservi  felicita  n6  privata  ne*  pubblica.  Vengano 
ora  tutti  i  detrattori  di  Necker,  essi  non  faranno  mai  ch'io  nol 
creda  un  uomo  adorabile  e  benemerito  dell'umanita.  Io  sono  sem 
pre  piu  convinto  che  i  suoi  falli  politici  (se  debbono  chiamarsi  tali) 
nacquero  appunto  dalla  purita  della  sua  morale,  ed  io  amo  piu  gli 
errori  della  bonta  che  tutte  le  imprese  fortunate  della  malizia.  In 
mezzo  alia  delizia  di  questa  lettura  il  mio  piccolo  amor  proprio 
ha  talora  la  temerita  di  mortificarsi  poich6  pargli  che  Necker  siasi 
internato  ne'  suoi  pensieri,  e  gli  abbia  rapito  piu  d'una  idea  ch'ei 
si  vagheggiava  come  sua  propria.  Di  fatto  la  mia  filosofia  della 

i.  il  corso  .  .  .  Necker:  e  il  Cours  de  morale  religieuse,  stampato  a  Ginevra 
nel  1800. 


LETTERE  543 

Bibbia  era  un  dipresso  lo  stesso  piano  di  Necker,  ed  io  arrabbio 
colle  distrazioni  social!  e  colle  puerilita  letterarie  che  non  mi  per- 
mettono  d'abbandonarmi  ai  progetti  favoriti  del  mio  spirito  e  del 
mio  cuore.  Ho  gia  ordinata  quest'opera  che  leggo  ora  per  indul- 
genza  altrui:  prowedetela  anche  voi  e  sono  certo  che  insieme 
coll' arnica  mi  renderete  grazie,  e  amerete  di  piu  e  Necker  e  me. 
L'arTare  di  mio  nipote1  e  ancora  un  mistero.  Questa  dilazione 
sarebbe  vergognosa  per  il  governo,  se  chi  e  gia  carico  di  vergogne 
potesse  sgomentarsi  d'una  di  piu.  £  qui  Barbieri  che  va  in  estasi 
al  par  di  me  nella  lettura  di  Necker.  Perdonate,  cari  amici,  se  non 
vengo  a  trovarvi,  ma  siate  certi  che  vi  amo,  che  vi  desidero,  e  che 
la  vostra  idea  si  mescola  sempre  nei  miei  pensieri  piu  cari.  Zacco 
rende  alia  Giustina  affettuose  grazie  dej  suoi  sentiment!  per  lui, 
e  vi  saluta  entrambi  cordialmente.  L'amico  dubitativo,  la  matrimo- 
niata  Costanza,  TUnico  Assaggiatore,  il  primogenito  delPOssian,2 
tutti  mandano  all'uno  e  all'altra  affetti  di  tutti  i  colori.  Giovedi 
saranno  tutti  a  passar  meco  le  ore  delPamicizia.  Unitevi  a  noi 
collo  spirito.  Io  vi  stringo,  v'abbraccio  e  mi  amalgamo  a  voi  con 
tutta  Tanima.  Addio. 

xxx 

A   GIUSEPPE  BARBIERI 3 

\Giudizio  sullo  alacopo  Orttsv.] 

3  decembre* 

Mio  caro  figlio,  sento  che  ti  lagni  della  tua  salute,  e  me  ne  duole  vi- 
vamente.  Tu  hai  bisogno  d'un  sistema  di  vita  equabile  in  ogni  sen- 
so,  e  credo  che  ti  gioverebbe  sopra  tutto  un  po'  d'esercizi  spirituali 
per  metter  meglio  in  assetto  le  tue  idee  e  i  tuoi  sentimenti.  Nel 

i.  mio  nipote:  cfr.  lanota  sap.  522.  2.  Uamico  . . .  Ossian:  con  questi  ap- 
pellativi  scherzosi  sono  designati  alcuni  amici.  La  matrimoniata  Costanza 
e  la  moglie  del  giureconsulto  Girolamo  Trevisan ;  1'  Unico  Assaggiatore  e 
1'abate  Bmnetti,  amante  del  vino;  il  primogenito  dell' Ossian,  cioe  Oscar, 
e  il  Barbieri.  Non  e  chiaro  invece  chi  sia  Vamico  dubitativo.  3.  Dalle 
Opere,  xxxix,  pp.  6-8.  LJ abate  Giuseppe  Barbieri,  di  Bassano  (1774-1852), 
discepolo  prediletto  del  Cesarotti,  che  si  compiaceva  di  chiamarlo,  con 
nome  ossianico,  Oscar  (cfr.  p.  539),  e  suo  successore  all'Universita  di  Pa- 
dova,  fu  mediocre  poeta,  buon  predicatore  e  uomo  di  sentimenti  liberali 
4.  3  decembre:  certamente  del  1802,  come  si  rileva  dall'accenno 
foscoliano,  stampato  appunto  in  queiranno,  e  da  altri  indizi. 


544  MELCHIORRE  CESAROTTI 

comune  degli  uomini  6  il  corpo  che  nuoce  al  bene  deH'anima,  in  te 
tutto  all'opposto,  e  1'anima  che  nuoce  al  corpo,  poiche  sono  in 
origine  cause  morali  quelle  che  t'inducono  a  trascurar  il  tuo  fisico. 
fe  ben  dura  cosa  che  il  tuo  direttore  non  possa  esserti  vicino,  come 
bramerebbe  con  tutto  il  cuore.  Ma  possibile  che  per  Natale  almeno 
non  possiamo  accostarci  Puno  alPaltro  ?  II  tempo  che  si  va  lenta- 
mente  calmando  non  mi  toglie  affatto  la  speranza.  Ti  rimando  gli 
Amori  delle  piante*  che  sono  un  pezzo  delizioso.  Ho  per6  segnate 
alcune  bagattelle  che  puoi  rettificar  facilmente.  Ricorretto  che  tu 
Pabbia,  rimandalo  tosto.  Nella  stampa  non  vorrei  porre  il  tuo 
nome,  ma  lo  travestirei  alia  greca  dicendo  Fileremo  Limonio, 
ch'e  quanto  a  dire  monaco  di  Praglia.  Ho  bisogno  che  tu  mi 
mandi  tosto  tutti  i  tomi  d'Omero,  perche  ho  voglia  di  sbrigarme- 
ne  per  metter  subito  mano  alle  Relazioni  accademiche.2'  Leggo 
interrottamente  vari  libri  interessanti.  Mad.  Necker3  ha  molti 
pezzi  insigni  e  finissimi,  bench6  vi  domini  spesso  un  poj  di  mi- 
sterioso  e  di  raffinato:  ma  per  la  morale  ed  il  sentimento  ella  e 
degna  moglie  di  Necker.  Massa4  mi  spedi  da  Napoli  il  suo  poe- 
metto  sopra  Buonaparte,  che  farebbe  il  piii  grande  onore  a  qua- 
lunque  dei  piu  celebri  poeti  francesi.  Te  lo  spedisco,  ma  a  patto 
che  tu  nol  lo  distragga  in  altre  mani,  e  me  lo  rimandi  presto. 
II  gen.  Miollis5  fece  un'allocuzione  per  TAccademia  di  Man- 
tova  sopra  Fagricoltura,  che  pu6  farlo  stimare  e  amare  dagPIta- 
liani  come  letterato  e  come  uomo.  Ella  e  sparsa  di  cenni  allusivi 
che  saranno  poco  grati  .  .  .  Te  la  spedir6  un  altro  giorno.  Foscolo 
mi  spedi  la  sua  storia  ch'e  una  specie  di  romanzo  intitolato  Le 
ultime  lettere  di  lacopo  Ortis.  Egli  ha  ben  ragione  di  dire  che  lo 
«  scrisse  col  suo  sangue  ».  lo  mi  guarder6  bene  dal  fartelo  leggere  : 
perch6  e  fatto  per  attaccare  una  malattia  d'atrabile  sentimentale  da 
terminare  nel  tragico.  lo  lo  ammiro  e  lo  compiango.  Ma  parlando 


i.  Amori  delle  piante:  poemetto  didascalico  del  Barbieri.  2.  Ho  bisogno 
accademiche:  il  Cesarotti  stava  rivedendo  le  sue  opere  per  1'edizione  pisana. 
Le  Relazioni  accademiche  furono  stampate  nel  1803.  3-  Mad.  Necker: 
di  Suzanne  Curchod,  moglie  del  Necker,  furono  pubblicati  postumi  dei 
Melanges  extraits  des  manuscrits  de  madame  Necker  nel  1798,  e  dei  Nou- 
veaux  melanges  nel  1802.  4.  Flaminio  Massa  da  Pacentro,  discepolo  di 
Mario  Pagano,  fu  tra  i  giacobini  napoletani  della  Cisalpina,  dove  conobbe 
il  Monti  e  il  Foscolo;  mori  di  tisi  nel  1805.  5.  II  generale  S.  A.  Fra^ois 
Miollis  (1759-1828)  si  dilettava  di  letteratura  ed  era  in  particolare  ammi- 
ratore  di  Virgilio,  al  quale  fece  erigere  un  monumento  a  Mantova. 


LETTERS  545 

solo  delFopera,  ella  e  tale  che  farebbe  il  piu  grande  entusiasmo 
se  si  credesse  d'un  oltramontano.  Ella  ricorda  Werther,  ma  pu6 
farlo  anche  dimenticare.  Tu  per6  dei  astenerti  rigorosamente  da 
queste  letture  dolci  venefiche,  e  leggi  piuttosto  Bertoldo  o  le  no- 
velle  arabe.  Addio,  mio  caro  figlio,  governati  per  carita  in  ogni 
senso.  Un  bacio  a'  tuoi  compagni,  e  cento  a  te.  Quando  verr6 
a  gustare  il  vostro  groppello?1  Addio. 

XXXI 
A  GIUSTINA  RENIER  MICHIEL2 

\Giudizi  sul  Foscolo  e  suH'Alfieri.] 

Padova,  20  dicembre  1803. 

Selvaggiano  non  fu  da  me  visitato  che  coll'intenzione,  per- 
che,  malgrado  ai  cavalli,  m'avrebbe  convenuto  far  a  piedi  un 
miglio  di  gita  e  uno  di  ritorno,  il  che  allora  non  era  per  me.  Cosi 
dovei  contentarmi  di  passar  una  giornata  a  Brusegana,  insieme 
col  mio  caro  Barbieri.  Le  sue  qualita  me  lo  fanno  amar  con  tra- 
sporto,  ma  egli  fa  ugualmente  la  mia  delizia  e  la  mia  inquie- 
tudine.  La  sua  salute  instabile  non  mi  lascia  otto  giorni  tranquillo. 
Ci6  che  ha  finora  guadagnato  con  tanta  cura,  non  e  che  inter- 
mittenze  d'incomodi  sulle  quali  non  pu6  molto  contarsi.  Non  e 
pero  obbligato  al  letto  ne  al  ritiro  severo.  Si  aiuta  col  regime,  colla 
tolleranza,  collo  spirito,  e  mostra  nelPaspetto  e  nella  vita  giorna- 
liera  tutti  gli  attributi  del  sano.  La  sera  io  gli  rendo  la  pariglia 
tenendogli  compagnia.  Obbligato  a  dispetto  a  conversare  con  Escu- 
lapio,  egli  cerca  di  ristorarsi  col  padre  Apollo.  Attualmente  egli 
sta  lavorando  un  componimento3  sopra  Bassano  d'una  squisitezza 
di  gusto  e  di  stile  veramente  impareggiabile.  Non  mi  stupisco 
che  i  begli  spiriti  palustri  mi  taccino  di  esagerazione  per  Felogio 
fatto  ai  Morlacchi.4  Fa  sempre  piu  fortuna  chi  morde  che  quel 

i.  groppello:  un  vino  del  luogo.  2.  Da  Cento  lettere  inedite  a  Giustina 
Renier  Michiel,  cit.,  pp.  63-6.  Su  Giustina  Renter  Michiel  cfr.  la  nota  i  a 
p.  541.  3.  componimento:  un  poemetto  descrittivo,  intitolato  appunto 
Bassano.  4.  ai  Morlacchi:  ritengo  che  il  Cesarotti  alluda  al  romanzo  Les 
Morlaques  di  Giustiniana  Rosemberg  Wynne  (cfr.  la  nota  i  a  p.  485),  che 
egli,  forse  anche  in  grazia  degli  evident!  ricordi  ossianici  che  vi  compaiono, 
aveva  elogiato  nel  «  Giornale  di  Modena»,  XLH  (cfr.  G.  ORTOLANI,  Voci  e 
visioni  del  Settecento  veneziano,  Bologna  1926,  pp.  263-4). 

35 


546  MELCHIORRE  CESAROTTI 

che  loda.  Ma  io  consulto  la  ragione,  e  spiego  col  sentimento; 
n6  so  pentirmi  di  gustar  la  compiacenza  di  trovar  cose  degne 
di  esser  esaltate,  che,  pur  troppo,  non  sono  tante.  Non  leggendo 
mai  fogli,  non  so  nulla  delle  novita  letterarie  che  m'indicate.  Sen- 
tir6  volentieri  cosa  sia  Topera  di  Scrofani,1  il  quale  sempre  mi 
pesa  che  non  abbia  ricevuto  la  mia  lettera  di  risposta  alle  sue 
sulla  Grecia  come  pure  che  mi  sia  mancato  il  mezzo  d'inviargli 
la  seconda,  che  sta  ancora  sul  mio  tavolino.  Chi  dubitasse  ancora 
se  Foscolo  fosse  un  pazzo,  Callimaco2  potrebbe  convincerlo.  Non 
&  questo  un  bel  pendant  al  suo  Ortis  ?  Dopo  aver  assaporata  tutta 
la  dolcezza  del  suicidio,  eccolo  risuscitato  pedante.  Dico  cosi 
senz'averlo  letto,  giacch6  non  si  fa  un  tomo  sopra  Callimaco  senza 
pedanteria  poca  o  molta,  e  questa  era  Tultima  delle  stravaganze 
di  cui  lo  credeva  capace.  Ma  forse  egli  mira  a  qualche  cattedra, 
e  dopo  essersi  ammazzato  in  stampa,  ha  voglia  di  vivere  il  meglio 
che  pu6!  D'Alfieri,3  della  sua  apoteosi  e  delle  sue  opere,  sono 
anch'io  in  aspettazione.  Fra  queste  ho  piu  fede  che  ad  ogni  altra 
alia  sua  traduzione  di  Sallustio,  che  non  sara  eclissata  da  quella  del 
Dandolo.4  Anche  delle  sue  satire  pu6  farsi  un  pronostico  non  in- 
felice :  ma  per  le  commedie  non  so  crederlo.  Per  far  ridere,  convien 
saper  ridere,  e  chi  ha  mai  riso  nello  stato  abituale  del  delirio, 
in  mezzo  ai  pugnali  e  alle  Furie?  S'egli  non  dovea  morire  che 
dopo  aver  mosso  il  riso  del  pubblico,  egli  sarebbe  vissuto  eter- 
no.  Senonch6  il  grazioso  Mollo5  dira  che,  in  un  altro  senso,  egli 
dovea  morir  molto  prima,  perch6  il  suo  stile  fece  ridere  fin  da 
principio  ogni  uomo  di  gusto,  e  lo  fara  sempre  piu.  Avrete,  sup- 
pongo,  veduto  Rosini,6  e  parlato  delle  mie  cose.  Se  le  mie  Re- 
lazioni7  incontrano  qualche  favore,  ne  godo  ancor  piu  per  voi  che 


i.  II  siciliano  Saverio  Scrofani  (1756-1835)  aveva  pubblicato  fin  dal  1799  il 
suo  Viaggio  in  Grecia  fatto  nelVanno  IJ94-IJ95,  a  cm  piu  avanti  allude 
il  Cesarotti.  2.  Callimaco:  allude  al  commento  che  accompagna  la  tradu 
zione  della  Chioma  di  Berenice  (1803).  3.  Alfieri:  si  ricordi  che  era  morto 
T8  ottobre  1803.  4.  Matteo  Dandolo,  veneziano  (1741-1812),  aveva  pub 
blicato  nel  1802  una  sua  Storia  di  C.  C.  Sallustio,  preceduta  da  una  dis- 
sertazione.  5.  II  napoletano  Gaspare  Mollo  (1754-1823),  dei  duchi  di 
Lanciano,  noto  improwisatore,  fu  uno  degli  autori  della  famosa  parodia 
alfieriana  Socrate.  6.  Giovanni  Rosini  (1776-1855),  professore  di  elo- 
quenza  all'Umversita  di  Pisa  e  futuro  autore  della  Monaca  di  Monza,  si 
occupava  dell'edizione  delle  Opere  complete  del  Cesarotti.  7.  Relazioni: 
i  due  tomi  delle  Relazioni  accademiche,  stampate  appunto  a  Pisa  in  quel- 
1'anno  come  volumi  xvn  e  xvm  delle  Opere. 


LETTERS  547 

per  me,  perche  non  vorrei  che  perdeste  la  riputazione  colTesube- 
ranza  delle  vostre  lodi.  Perch6  non  crediate  ch'io  disaggradisca 
le  vostre  nuove  anglogalliche,  alle  quali  rare  volte  rispondo,  per 
che  non  sono  del  colore  che  si  vorrebbe,  vi  dir6  anch'io  questa  volta 
una  notizia  che  mi  sorprese.  II  marchese  Lazara,1  tomato  di  Parigi, 
tra  le  cose  esorbitanti  che  racconta  del  lusso  di  quella  nazione  ex 
giacobina,  ci  assicura  che  la  Gran  Sultana2  ha  sopra  di  se  diciotto 
perle  tutte  tutte  grandi  come  una  nostra  noce,  e  con  queste  com- 
parisce  in  pubblico  diademata  il  capo  e  brillante  il  collo.  Questo 
e  bene  far  le  fiche  a  Semiramide  e  a  Cleopatra.  D'altro  genere  e 
singolare  e  Taneddoto  del  Protoconsole  dei  despoti.3  II  giovine 
Lazara  tanto  si  adoper6,  che  gli  riusci  d'accostarglisi  e  accor  qual- 
che  sillaba  dalla  sua  bocca.  Oso  quello  farsi  conoscere  per  pado- 
vano:  —  Ah  si,  si .  .  .;  —  rispose  1'altro  —  parmi  d'essere  stato 
una  volta  a  Padova.  —  Padova  &  certo  assai  poca  cosa,  ma  questa 
affettata  smemorataggine  ha  un  sublime  originate,  e,  per  chi  in- 
tende,  vale  una  storia. 

In  questo  punto  mi  sopraggiunge  Barbieri  in  buono  stato  e 
d'ottima  voglia.  Immaginatevi  s'io  ne  godo:  egli  manda  a  voi  e 
airamico  saluti  e  desiderii  di  rivedervi.  Altrettanti  distribuitene 
per  me  a  quelle  belle  e  buone  anime  che  si  compiacciono  di  vo- 
lermi  bene.  A  Rizzo  e  a  Francesconi4  baci  extra  ordinem  comme  de 
raison.  Allo  spiritoso,  sensato  e  indulgente  signor  Rostagni,  pro- 
teste  ingenue  di  grata  e  affettuosa  stima.  A  voi  un  addio  ineffabile. 
Zacco  abbonda  tanto  d'interesse  per  Myledi,  che  non  sa  creder 
che  alcuno  possa  accostarsele  con  indifferenza.  lo  non  la  vidi  che 
una  volta,  e  la  trovai  veramente  piena  di  merito ;  ma  non  pertanto 
non  ho  nessuna  ansieta  di  frequentarla;  perche,  quantunque  mi 
sembri  amabile,  parmi  piu  amabile  ancora  la  liberta  del  mio  tempo. 
E  poi  che  bisogno  ho  io  di  cose  amabili?  Non  son  io  amato  da 
Giustina?  Addio  di  nuovo  con  tutto  il  cuore. 


i.  Domenico  Lazara,  gentiluomo  padovano  (Malamani).  2.  la  Gran  Sul 
tana:  Giuseppina  Beauharnais.  3.  Protoconsole  dei  despotic  Napoleone, 
primo  console.  4.  L'abate  Daniele  Francesconi  (1761-1835),  matematico 
e  fisico. 


54-8  MELCHIORRE   CESAROTTI 


XXXII 
A  VINCENZO  MONTI1 

[La  caricatura  del  ritratto  di  Omero.] 

Padova,  16  marzo  1805. 

C^omincio  a  trattarvi  da  amico:  rispondo  tardi,  e  non  mi  giu- 
stifico.  Voglio  sperare  che  il  nostro  Massa2  possa  ancora  esser 
tra'  vivi,  e  che  la  natura  smentisca  i  funesti  presagi  de'  medici. 
Abbiamo  qui  piu  d'un  esempio  di  questi  miracoli.  Possa  questo 
rinnovarsi  in  lui,  e  possa  egli  gradire  i  miei  cordialissimi  auguri 
e  i  miei  affettuosi  saluti. 

Vi  ringrazio  della  pena  che  vi  siete  presa  di  sincerarmi  sulla  ca 
ricatura  del  ritratto  d'Omero;3  ma  non  v'era  bisogno  di  tan- 
to.  Vi  parler6  anch'io  con  ingenuita  e  con  franchezza,  giacche 
non  intendo  di  cedere  ad  alcuno  in  queste  due  qualita.  M'era 
noto  che  il  mio  lavoro  omerico  non  incontrava  gran  fatto  la  vo- 
stra  grazia.  Perci6  quando  intesi  attribuirsi  a  voi  quel  ritrat 
to,  non  credei  a  dir  vero  la  cosa  impossibile,  ma  non  per  tanto 
non  prestai  fede  a  quella  voce,  perch6  non  amo  di  credere  rei 
d'una  scortesia  insolente  quei  che  io  stimo  e  rispetto  pei  lor 
talenti.  Vi  dir6  anzi  che  la  notizia  di  questo  ritratto  in  luogo 
di  farmi  adirare  mi  fe'  sorridere.  L'idea  mi  parve  spiritosa  e  fe- 
lice  nel  senso  di  chi  la  concepl,  bench6  non  credessi  di  meritar- 
la.  Io  non  sono  (perch6  mi  conosciate  meglio)  uno  del  « genus 
irritabile  vatum»,4  ne  mi  sono  mai  offeso,  n6  ho  meno  stimato  un 
uomo  di  merito  perche  discordi  da  me  in  materia  di  lettere,  o  per- 
ch6  non  apprezzi  le  mie  cose  a  grado  del  mio  discreto  amor  proprio. 
Sensibile  alia  lode  spontanea  che  mi  venga  da  un  uomo  giustamen- 

i.  Dalle  Opere,  xxxvni,  pp.  248-50.  Risponde  ad  una  lettera  del  Monti 
in  data  23  febbraio  1805  (cfr.  Epistolario,  n,  a  cura  di  A.  Bertoldi,  Firen- 
ze,  1928,  pp.  366-8).  2.  Flaminio  Massa:  cfr.  la  nota  4  a  p.  544.  3.  ca 
ricatura  .  .  .  Omero :  la  famosa  caricatura,  che  rappresentava  un  figurino 
vestito  alia  francese  con  la  testa  di  Omero,  chiara  allusione  al  travestimento 
compiuto  dal  Cesarotti  nella  sua  versione  poetica,  fu  realmente  ispirata 
dal  Monti  durante  una  conversazione  a  Roma  nel  gmgno  1790.  Cfr.  G. 
DEL  PINTO,  V Omero  del  Cesarotti,  in  «Rivista  d'Italia»,  in  (1898),  pp. 
338-55>  dove  e  anche  una  riproduzione  del  disegno.  4.  Cfr.  Orazio,  Epist., 
n,  n,  102:  « genus  irritabile  vatum»  («la  razza  irritabile  dei  poeti»). 


LETTERE  549 

te  lodato,  ho  sempre  sdegnato  di  procacciarmela  colle  ufiziosita 
della  politica  letteraria.  Accolgo  con  gratitudine  gli  awisi  e  le 
censure  stesse  esposte  colla  dovuta  decenza,  pronto  a  correg- 
germi  o  a  difendermi  con  urbanita.  Degli  oscuri  e  malnati  sdegno 
le  lodi  e  non  euro  i  biasimi,  e  ho  la  vanita  di  vendicarmene  con 
assoluto  silenzio. 

Mi  lusingo  che  questa  pittura  ingenua  del  mio  carattere  pos- 
sa  confluire  a  quel  sentimento  d'amicizia  che  mi  esibite,  e  che  mi 
da  motivo  di  giusta  e  cara  compiacenza. 

Ho  letto  il  vostro  giudizio  sopra  i  tre  satirici1  che  mi  par  giu- 
sto,  sensato,  espresso  con  precisione  e  con  grazia,  e  tale  che  in  tal 
proposito  non  puo  dirsi  n6  piu  ne  meglio. 

Conservatemi  il  vostro  aifetto,  e  credetemi  cordialmente  e  con 
piena  stima,  ecc. 

XXXIII 
A  GIUSTINA  RENIER  MICHIEL2 

[Elogio  della  Stael] 

Son  io  questa  volta  ch'ero  in  diritto  di  attender  primo  le  vo- 
stre  nuove,  e  di  fatto  mi  dolsi  d'esserne  stato  privo  per  otto 
giorni.  Non  fu  Petichetta,  ma  Tinteresse  deiramicizia  che  mi 
faceva  esigere  questo  diritto.  Quando  voi  partiste  da  me,  io  era 
libero  di  febbre,  ma  il  polso  del  vostro  cuore  non  batteva  ancora 
regolarmente.  Era  troppo  naturale  ch'io  fossi  impaziente  d'avere 
un  piu  esatto  ragguaglio  del  vostro  stato  attuale,  e  un  vivo  desi- 
derio  di  sentirvi  in  perfetta  calma.  Ho  finalmente  una  vostra  let- 
tera,  e  quantunque  ella  non  mi  specifichi  ben  chiaramente  la 
vostra  situazione  di  spirito,  parmi  contuttocio  di  poter  arguire  che 
siete  abbastanza  tranquilla,  e  Io  desidero  di  cuore  per  vostro  inte- 
resse  e  per  mio. 

Lasciate  dir  Venezia  e  il  mondo  di  madama  Stael;  ella  e  fatta  per 
suscitar  furori  pro  e  contro  di  s6.  Io  per  me  sono  infuriato  di 

i.  giudizio .  .  .  satirici:  il  parallelo  fra  Orazio,  Persio  e  Giovenale,  conte- 
nuto  in  una  nota  alia  versione  montiana  di  Persio  (Milano  1803).  2.  Da 
Cento  letter  e  inedite  a  Giustina  Renter  Michiel,  cit,,  pp.  97-9.  La  lettera 
non  ha  data,  ma  1'accenno  a  //  beneficio  montiano  induce  a  collocarla  in- 
torno  al  maggio  1805. 


LETTERE  551 

stra,  ma  sperava  che  Fautore,  o  altri  per  lui,  me  la  spedisse  (Tuna 
edizione  piu  degna  del  re  d'ltalia. 


xxxiv 

A  MADAMA  DE  STAEL1 

[Elogio  del  Necker} 

oi,  madama,  ho  letta  e  riletta  la  vostra  opera:2  ma  come  par- 
larne?  Come  esprinxervi  con  qual  trasporto  la  lessi,  e  qual  im- 
pressione  mi  Iasci6?  Voi  mi  avete  fatto  sentir  troppo  perche"  la 
lingua  possa  bastar  al  cuore.  Un  cumulo  di  pensieri,  un  tumulto 
di  affetti  mi  tengono  agitato  e  commosso.  lo  tengo  ancora  sotto 
gli  occhi  le  vostre  Memorie,  e  la  mia  immaginazione  e  *1  mio  sen- 
timento  passano  dalla  figlia  al  padre,  e  tornano  dal  padre  alia 
figlia  senza  saper  bene  dove  arrestarsi  di  piu,  e  terminano  col 
confondersi  Funo  colFaltro  e  far  d'ambedue  un  tutto  uno,  indi- 
visibile  ed  unico.  Dacch6  mi  vennero  alle  mani  le  opere  di  M. 
Necker,  furono  per  me  un  lampo  elettrico,  che  mi  sparse  lo 
spirito  d'una  luce  nuova  e  mi  scosse  tutte  le  fibre  deiranima.  II 
filosofo  sublime  e  sensibile,  Fapostolo  della  piu  pura  moralita, 
il  ministro  della  virtu,  il  genio  d'una  eloquenza  propriamente  «ete- 
rea»,  questo  composto  di  qualita  superiori  innestate  e  fuse  in 
un  solo  essere,  mi  colpl  della  piu  alta  sorpresa.  Vidi  per  esso 
realizzati  quegl'idoli  intorno  ai  quali  io  andava  vaneggiando  da 
lungo  tempo,  e  mi  si  affacci6  viva  e  spirante  quelPidea  di  per- 
fezione  ch'io  non  cessava  di  vagheggiare  con  piu  di  trasporto 
che  di  speranza.  Da  quel  punto  divenni  1'entusiasta  il  piu  appas 
sionato  e  poco  meno  che  Fadoratore  di  Necker  e  mi  feci  una  glo 
ria  di  riversar  su  quanti  mi  awicinarono  la  piena  della  mia  am- 
mirazione.  Intento  a  contemplar3  le  sue  massime  colla  condotta  po- 
litica,  lo  vidi  sempre  coerente  a'  suoi  virtuosi  principii,  stranie- 
ro  ai  partiti,  alle  passioni,  al  fanatismo  di  ogni  specie,  zelator 
del  bene  e  del  retto,  protettor  costante  delFumanita,  della  giu- 
stizia  e  dell'ordine,  inaccessibile  alia  corruzione,  inconcusso  nelle 

i.  Dalle  Opere,  xxxvin,  pp.  320-4.  Questa  lettera  e  senza  dubbio,  come  ap- 
pare  dall'accenno  alia  vita  di  Necker  scritta  dalla  Stael,  contemporanea 
alia  precedente.  2.  opera:  &  il  Du  caractere  de  Necker  et  de  sa  vieprivee, 
citata  nella  lettera  precedente.  3.  contemplar:  confrontare. 


552  MELCHIORRE   CESAROTTI 

tempeste,  incapace  di  timore,  di  servilita  e  di  lusinghe.  La  stess; 
rivoluzione  della  sua  fortuna  fu  per  me  la  prova  piu  autentic; 
della  sua  virtu,  e  in  mezzo  al  fumo  delPinvidia  e  alle  nebbi 
delPerrore  che  tentarono  di  denigrare  o  di  offuscar  la  sua  fama 
seppi  ravvisarlo  qual  era  nella  sua  limpida  luce,  e  lo  scorsi  ragiona 
tranquillo  colla  sua  coscienza  e  colla  posteritk.  Compiansi  < 
abbominai  la  Francia  che  lo  perd6.  Lo  seguitai  nel  suo  ritiro 
e  bench6  non  mi  fossero  noti  i  dettagli  della  sua  vita  domestica 
pure  io  me  lo  rappresentai  tanto  degno  di  venerazione  nella  su; 
augusta  solitudine,  quanto  lo  era  stato  d'ammirazione  nella  grai 
scena  del  mondo.  Ma  voi,  madama,  voi  eel  rendeste  animat< 
com1  era  e  spirante  da  ogni  parte  virtu.  Voi  eel  rendeste  nell'analis 
squisita  delle  sue  opere,  nelle  reliquie  preziose  del  suo  spirito 
in  ognuna  delle  quali  rawisai,  secondo  i  vari  soggetti,  ora  i  germi 
ora  i  saggi  di  quel  Necker  ch'io  aveva  tanto  ammirato  nelle  su< 
produzioni  complete,  il  segretario  della  Divinita,  il  filosofo  ch< 
trionfa  del  fato  e  sente  in  se  stesso  rimmortalitk  che  lo  attende 
il  conoscitor  fino  e  sagace  dei  caratteri  e  degli  affetti,  l'uom< 
infine  dotato  d'un  cuore  inesausto  e  ricco  di  forme  nuove  ed  in 
cognite.  Voi  ce  lo  rendeste  finalmente  colFimpronta  di  quello  still 
originate  tutto  paterno,  che  non  parla  solo  a  una  parte  dell'uonv 
ma  al  complesso  di  tutte  le  sue  facolta.  Quai  tratti  sublimi!  quant 
riflessioni  profonde!  qual  sicurezza  generosa!  qual  alterezza  ma 
gnanima!  qual  tinta  di  melanconia  interessante,  ora  profonda  ch< 
mi  concentra  nella  sorte  dell'uomo,  ora  tenera  che  mi  rende  dole 
le  lagrime.  Quel  che  mi  riuscl  piu  caro,  perch£  piii  nuovo  per  me 
fu  che  mel  faceste  contemplare  come  Peroe  della  vita  privata  < 
domestica,  personaggio  ben  piu  difficile  a  sostenersi  che  quell< 
d'un  eroe  teatrale.  Marito  e  padre  incomparabile,  consolatore 
soccorritore  generoso,  benefico,  modesto  e  grande,  austero  con  s£ 
indulgente  cogli  altri,  ignaro  d'ire  e  rancori,  immemore  delle  pom 
pe  e  delle  amarezze  mondane,  occupato  non  tanto  a  terminar  degna 
mente  la  vita  terrena,  quanto  a  contemplar  il  barlume  della  celeste 
io  rammirava  da  lungi,  voi  mel  faceste  adorar  dappresso.  Si,  io  veg 
go,  io  sento  tutto  Necker,  anzi  Tabbraccio,  e  lo  stringo  con  voi 
per  voi  ed  in  voi.  Quanto  sono  sensibile  alia  compiacenza  d'ave 
dalle  vostre  mani  un  si  caro  dono!  Per  pieta,  compite  la  vostr; 
benemerenza  colPumanitk  e  con  me,  pubblicate  anche  la  vita  poli 
tica  di  tanto  padre.  Non  omettete  il  piti  piccolo  aneddoto;  tuttc 


LETTERE  553 

e  troppo  interessante  e  prezioso.  Voi  avete  dinanzi  molto  spazio 
per  pubblicarla  a  grand'agio,  ma  io  ne  ho  troppo  poco  per  legger- 
la:  non  fate  ch'io  termini  la  mia  camera  senza  questa  consola- 
zione.  L'opere  di  vostro  padre  unite  alle  vostre  saranno  la  par- 
te  piu  cara  della  mia  biblioteca  del  cuore.  Scusate,  madama, 
questo  sfogo  soprabbondante  di  un'anima  che  avea  bisogno  di  ri- 
versarsi  sopra  un  soggetto  il  quale  non  dovea  cominciarsi  perch6 
non  dovea  finirsi.  Gradite  solo  la  causa  di  questo  impulse,  e 
credete  che  niuno  &  al  mondo  piu  attaccato  di  me  con  viva  e  pro- 
fonda  affezione  alia  memoria  di  Necker,  e  a  quella  che  cosi  espres- 
samente  lo  rappresenta,  ec. 


xxxv 

A   GIOVANNI  ROSINI1 

[La  traduzione  di  Giovenale.] 

Sono  assai  contento  degli  applausi  e  dei  presagi  che  fate  al  mio 
Giuvenale,2  e  approvo  il  ripiego  della  data.3  NelPultima  let- 
tera  che  avrete  ora  ricevuta  io  consigliava  di  ometter  due  pezzi, 
ora  mi  rimetto  a  voi.  II  correttivo  sulle  oscenita  del  testo  1'ho 
gia  posto  nella  nota  al  luogo  piu  osservabile,  ma  lo  ripeter6  anche 
nella  prefazione.  Questa  &  gik  cominciata,  ma  una  gita  d'alquanti 
giorni  fuori  di  citta  non  mi  permette  di  terminarla.  Tomato  che  sa- 
r6,  mi  spaccer6  tosto.  Accoglier6  volentieri  i  vostri  awisi  e  con- 
sigli:  ma  vi  domando  grazia  per  quello  «  sfoder6  »,4  il  quale  non  so 
intendere  perch6  non  vada  a  sangue  a  voi  e  agli  amici  vostri.  A  me 
certo  pareva  e  par  tuttavia  una  delle  piu  felici  espressioni  che  mi 
sian  cadute  dalla  penna.  « Sfoderare »  in  questo  senso  e  un  ter- 


i.  Dalle  Opere,  xxxvni,  pp.  229-30.  La  lettera  deve  essere  stata  scritta 
intorno  al  14  ottobre  1805,  data  di  una  lettera  alia  Renier  (cfr.  Cento  lettere 
inedite  ecc.,  cit.,  p.  in),  in  cui  e  detto:  «Ho  gia  spedito  a  Pisa  il  mio 
Giuvenale,  e  n'ebbi  da  Rosini  riscontri  pieni  d'entusiasmo  e  di  presagi 
felici ».  Giovanni  Rosini  (cfr.  la  nota  6  a  p.  546)  curava  1'edizione  pisana 
delle  Opere  del  Cesarotti.  2.  mio  Giuvenale:  la  traduzione  di  otto  satire 
di  Giovenale,  con  prefazione  e  note,  pubblicata  nel  1805  nel  volume  xix 
delle  Opere.  3.  il  ripiego  della  data:  cioe  Papposizione  della  data  1805,  in- 
vece  del  1806,  quando  fu  effettivamente  stampato  il  volume.  4.  «sfoderd»: 
cosl  il  Cesarotti  traduce  l'«ostendit .  .  .  ventrem»,  riferito  a  Messalina,  di 
Giovenale,  Sat.,  vi,  124. 


554  MELCHIORRE   CESAROTTI 

mine  che  aggiunge  alia  no  vita  1'arditezza  la  piii  conveniente  alia 
cosa,  poich6  mostra  con  precisione  e  vivacitk  e  la  prontezza  istan- 
tanea  dello  snudamento,  e  la  audacia  impudente  di  Messalina  che 
facea  pompa  della  sua  stessa  ignominia.  Non  &  questo  l'«6tala»  di 
Desalux,1  espresso  piu  vivamente?  Quest'&  ben  far  altro  uso  del 
termine  «sfoderare»  di  quello  che  fece  il  Davanzati,  quando  disse 
d'un  non  so  chi  che  « sfoderd  Marcello »,  per  dire  che  lo  fece  uscir 
fuora  per  sostener  le  sue  parti.3  In  somma  chiedete  scusa  ai  vostri 
amici,  ma  lasciate  quel  termine  sulla  mia  fede,  ch'io  ne  garantisco 
il  successo.  Addio  di  cuore. 


xxxvi 

A  FRANCESCO   RIZZ03 

[La  dolcezsa  delle  lacrime.] 

Voi  m'avete  reso  giustizia  credendomi  degno  d'accogliere  i  pri- 
mi  respiri  del  vostro  cuore.  L/angoscia  che  avete  sofferta  per 
questa  perdita4  fa  il  piu  belFelogio  del  vostro  carattere;  e  la 
mia  tenerezza  per  voi  si  &  accresciuta  sensibilmente.  Tutti  i 
motivi  piu  interessanti  esigevano  da  voi  questo  tribute  di  do- 
lore:  compiacetevi  d'averlo  pagato  coll'esuberanza  del  senti- 
mento.  Questa  compiacenza  aiutata  dal  tempo,  chiamato  a  ragione 
da  Voltaire  quel  che  consola,  cangerk  il  vostro  cordoglio  in 
quella  dolce  tristezza  ch'&  il  senso  il  piu  delizioso  deiranima. 
Voi  sapete  Fiscrizione  del  mio  boschetto  che  chi  «non  gusta 
la  dolcezza  delle  lacrime »  non  6  degno  porci  il  piede.5  Voi  ce  lo 
porrete,  mio  caro  amico,  e  noi  mesceremo  insieme  le  nostre  la- 
mentazioni,  che  non  saranno  forse  perdute.  Congratulatevi  con  voi 
stesso  di  non  esser  filosofo  alia  moderna.  Pur  troppo  &  vero  che 


i.  Desalux:  traduttore  francese  di  Giovenale.  2.  Davanzati  .  .  ,  parti:  al 
lude  all'esempio  del  Davanzati,  riportato  dalla  Crusca  sotto  la  voce  s/o- 
derare:  «Che  altro  che  la  tua  eloquenza,  sfoder6  poco  fa  Eprio  Marcello 
contro  all'ira  de*  Padri?».  3.  Dalle  Opere,  xxxvin,  pp.  215-6.  Questa  let- 
tera  deve  essere  di  poco  anterior©  a  quella,  in  data  28  aprile  1806  (ripor- 
tata  dall'Ortolani,  in  Opere  scelte,  cit.,  11,  pp.  448-9),  indirizzata  pure  al 
Rizzo  (cfr.  la  nota  i  a  p.  541)  in  occasione  della  morte  di  sua  madre. 
4.  perdita:  della  madre,  Laura  Patarol.  5.  Viscrizione  .  .  .  piede:  Piscnzione 
e  riportata  m  Opere,  xxxni,  pp.  424-5. 


LETTERE  555 

la  natura  dopo  averci  attaccati  con  tanti  nodi  all'esistenza,  li 
tronca  poi  d'improwiso  senza  pietk.  Ma  questa  natura  ha  certa- 
mente  una  causa,  che  opera  con  disegno ;  e  poiche  questa  ha  posto 
nel  solo  uomo  Pidea,  il  senso  e  il  desiderio  della  perennitk,  non 
pu6  credersi  che  voglia  render  frustranei1  questi  sentimenti 
e  contradire  a  se  stessa  unicamente  nell'essere  il  piii  privile- 
giato,  in  quel  solo  che  pu6  adorarla  e  conoscerla.  Se  questa 
fosse  un'illusione,  qual  verita  fu  mai  piu  preziosa  e  piu  conso- 
lante?  II  nulla  non  pu6  esser  un  conforto  che  per  lo  scellera- 
to  o  per  un'anima  di  fango.  Quanto  a  me,  io  voglio  credere  di 
poter  anch'io  metter  sul  mio  sepolcro  il  «non  omnis»  dell'Alga- 
rotti,2  ma  in  senso  piu  sublime  che  quello  della  vanita  letteraria. 
Addio,  mio  dolcissimo  amico;  v'abbraccio  e  vi  stringo  col  cuore. 
Addio. 


XXXVII 
A   GIUSTINA  RENIER  MICHIEL3 

\Giudizi  sulla  Stael  e  notizie  del  Foscolo.] 

Selvaggiano,  20  giugno  1806. 

Grazie  alia  mia  cara  e  fida  interprete,  del  disturbo  che  si  pre- 
se  per  darmi  la  chiave  di  quelle  cifre.4  Non  so  per6  s'io  deb- 
ba  ringraziarvi  dell'effetto  che  ne  risult6.  Mi  convenne  rispon- 
dere  a  quel  gentile  aiutante,5  ed  ebbi  una  nuova  occasione  di 
convincermi  della  mancanza  di  quella  facolt^6  che  voi  vi  ostinate 
a  supporre  in  me.  In  luogo  di  rispondere  in  verso,  come  avrei 
dovuto,  fui  costretto,  per  ripiego,  a  farlo  in  una  prosa  francese, 
della  quale,  per  giunta,  fui  anche  piti  scontento  dopo  che  rilessi  il 
vostro  ingegnoso  e  felicissimo  elogio.7  Io  si  persisto  con  ragione  a 
dirvi  che  avete  tutti  i  doni  per  questo  genere.  Voi  sapete  conciliare 


i.  frustranei:  vani.  2.  ((non  omnis»  dell*  Algarotti:  allude  all'epitaffio  com- 
posto  dall' Algarotti  stesso  per  la  propria  tomba:  «Hic  iacet  Algarottus, 
sed  non  omnis».  3.  Da  Cento  letter  e  inedite  a  Giustina  Renier  Michiel, 
cit.,  pp.  129-31.  4.  di  quelle  cifre:  cioe  della  lettera  scrittagli  con  pessima 
calligrafia  dal  generate  Miollis,  e  che  il  Cesarotti  aveva  pregato  la  Renier 
di  decifrargli  e  trascrivergli  (cfr.  Cento  lettere  inedite  a  Giustina  Renier 
Michiel,  cit.,  p.  128).  5.  aiutante:  il  Miollis,  su  cui  cfr.  la  nota  5  a  p.  544. 
6.facolta:  poetica.  7.  elogio:  del  Miollis. 


MELCHIORRE   CESAROTTI 

con  singolar  finezza  la  veracitk  colla  grazia;  senza  dissimular  a  Miol- 
lis  veruna  delle  «sue  verita»,  le  avete  presentate  in  modo  ch'ei  pu6, 
se  vuole,  compiacersi  del  suoi  difetti  medesimi.  Voi  siete  ad  un 
tempo  il  pru  lusinghiero  dei  censori  e  il  piu  sincero  degli  elogi- 
sti.  lo  non  saprei  bramar  al  mio  nome  sorte  migliore  che  quella 
di  passar  per  la  vostra  penna.  Sono  pure  del  parer  del  nostro 
Tonin1  rapporto  alia  lettera  che  avete  scritta  a  Bettinelli.  Aven- 
do  fissato  di  concepirla  cosl,  non  poteva  usarsi  n6  una  modestia 
prti  maliziosa  ne"  una  malizia  piu  semplice.  Godo  che  il  mio  Giu- 
venale2  incontri  la  vostra  grazia,  in  particolare  nelle  annotazioni, 
d'alcune  delle  quali  ho  anch'io  qualche  compiacenza,  bench6  ben 
prevegga  che  saranno  perdute  per  il  maggior  numero,  che  scorre 
talora  un  libro,  ma  n6  sa  n6  si  cura  di  leggerlo  .  .  .  Non  mi  saii 
discaro  che  esitiate  le  copie  che  vi  restano.  E  se  in  Venezia  si  tro- 
vassero  1'opere,  o  i  Frammenti,  come  sono  intitolate,  di  madama 
Necker,3  mi  riuscirebbe  gratissimo  di  cambiar  con  esse  il  ritratto 
di  Giuvenale,  aggiungendo,  se  occorresse,  il  di  piu.  Non  potei 
finora  andar  piu  oltre  del  primo  tomo  nella  lettura  di  Delfina*  ma 
avendone  scorso  Tindice  e  arrestandomi  qua  e  Ik  verso  il  fine,  temo 
anch'io  di  dover  conchiudere  come  voi.  Ad  ogni  modo  io  voglio 
aver  meco  tutto  ci6  che  appartiene  a  questa  sacra  famiglia.  Di 
ci6  che  bramate  da  me  sulla  vostra  annotazione,  non  posso  dirvi 
nulla  se  voi  non  mi  dite  di  pitu  Convien  che  sappia  di  chi  parla 
Tautore  e  come  ne  parla;  senza  questo  non  potrei  suggerir  niente 
di  precise  n6  di  approposito.  Ho  veduto  Foscolo  e  ne  fui  molto 
contento  in  ogni  senso.  Egli  parmi  un  orso  addimesticato  che 
pu6  anche  farsi  ballare,  per6  da  chi  lo  conosce  e  sa  maneggiarlo. 
Tonin  fu  presente  alia  conversazione  come  spettatore  muto;  e 
mi  dispiacque  di  non  poterlo  poi  vedere,  per  intendere  ci6  ch'ei 
ne  pensa.  Rizzo  mi  parve  un  convalescente  che  va  stando  meglio, 
senza  volerlo  n6  crederlo.  Mi  promise  di  essere  a  Selvaggiano  al 
suo  ritorno  da  Verona.  Ma  voi  quando  vi  risolverete  di  portarvi 
a  Padova?  Dopo  tante  promesse  e  proteste  di  desiderio  questa 
lentezza  e  quasi  repugnanza  ha  di  che  sorprendermi.  Ci  sarebbe 
mai  qui  sotto  qualche  mistero  ?  Venite  presto  o  a  spiegarmelo  o  a 
disingannarmi.  Addio  intanto  con  tutto  il  cuore. 

i.  Tonin:  fratello  della  Renier.  2.  il  mio  Giuvenale:  la  traduzione  ricor- 
data  a  p.  553.  3.  Frammenti .  .  .  Necker:  cfr.  la  nota  3  a  p.  544.  4.  Del- 
fina:  cfr.  la  nota  zap.  550. 


LETTERE  557 


XXXVIII 
A  GIOVANNI    CARMIGNANI1 

[Giudizio  sulVAlfieri] 

Padoua,  25  novembre  1806. 

Non  so  esprimerle  abbastanza  con  qual  grato  senso  di  compia- 
cenza  io  abbia  ricevuto  il  pregevolissimo  dono  della  sua  Disser- 
tazione  cosi  degnamente  coronata  per  solidita  di  dottrine,  finezza 
di  riflessioni  e  maestria  di  maneggio.  Ammirator  dell'Alfleri  nella 
forza  del  suo  pennello  politico,  che  lo  rende,  corn'ella  ben  dice, 
emulo  di  Tacito,  e  trasportato  talvolta  sino  all'entusiasmo  dalFar- 
ditezza  sublime  de'  suoi  sentimenti,  fui  perd  sempre  colpito  dalle 
stranezze  da  esso  introdotte  con  affettazione  e  sforzo  gratuito  per 
cieca  smania  d'originalita,  e  sopra  tutto  ributtato  altamente  da 
queirammasso  d'atrocita,  da  quei  raffinaiaenti  di  sceleraggine  e 
di  perfidia,  da  quell'odio  quasi  frenetico  contro  i  principi  di  qua- 
lunque  specie,  resi  tutti  tiranni  e  mostri,  che  renderono  la  tra- 
gedia  una  scuola  perpetua  di  massime  tiranniche  o  rivoluzionarie 
ancora  piti  perniciose  alia  morale  che  all'arte  drammatica.  Nella 
lettera  ch'io  scrissi  a  di  lui  richiesta  sul  principio  della  mia  co- 
noscenza  con  lui,z  e  nella  quale  perci6  cercai  piii  i  punti  della 
lode  che  quelli  della  censura,  non  ebbi  occasione  di  toccar  questo 
articolo.  Ben  lo  feci  in  un'altra  ch'io  gli  scrissi  sopra  la  Congiura  de' 
Pazzi,  ch'egli  lesse  in  Padova  in  un  circolo  priiua  di  stamparla,3 
lettura  che  mi  tenne  alia  tortura  facendomi  fremere  di  dispetto  e  di 
rabbia.  Parti  to  esso  il  giorno  dopo,  non  potei  astenermi  dallo  scri- 
vergli  Fimpressione  che  m'avea  fatta,  e  osai  anche  indicargli  come 
avrei  creduto  che  potesse  riformarsi  questa  tragedia  affine  di  ren- 
derla  interessante  (giacch6  non  aveva  ancora  penetrato  abbastanza 

i.  Dalle  Opere,  xxxvm,  pp.  296-300.  Giovanni  Carmignani  (1768-1847) 
aveva  pubblicato  in  quelFanno  una  Dissertazione  accademica  sulle  tragedie 
di  V.  Alfieri,  in  cui,  pur  tra  riserve  sul  contenuto  e  sullo  stile  alfieriano, 
appaiono  non  poche  osservazioni  acute.  2,.  lettera ,  . .  lui:  allude  alia  nota 
lettera,  scritta  il  25  marzo  1785,  e  contenente  una  serie  di  osservazioni 
critiche  intorno  sM'Ottavia,  al  Timoleone  e  alia  Merope  (cfr.  Opere,  xxxvi, 
pp.  286-331).  3.  ch'egli  lesse  .  .  .stamparla:  lo  ricorda  anche  T Alfieri  in 
una  sua  lettera  al  Cesarotti  del  18  setternbre  1783,  e  in  una  a  Pietro  Zaguri, 
del  24  giugno  dello  stesso  anno. 


55$  MELCHIORRE  CESAROTTI 

lo  spirito  rivoluzionario  d'Alfieri):  questa  lettera  non  so  perche" 
non  gli  arriv6  mai  alle  mani,1  e  duolmi  di  non  averne  serbato  copia. 
In  seguito  andai  gittando  sulla  carta  altre  osservazioni  sulle  tra- 
gedie  d'Alfieri  che  andavano  uscendo,  senza  pensiero  di  pub- 
blicarle,  abborrendo  io  all'estremo  il  dar  sospetto  d'invidiar  la 
gloria  degli  uomini  celebri,  quand'anche  mi  sembri  maggior  del 
merito.  Ora  il  farlo  sarebbe  una  vanita  senza  oggetto  dopo  la  sua 
luminosa  Dissertazione.  Bensi  quanto  alia  parte  morale  di  queste 
tragedie  avr6  forse  occasione  di  spiegarmi  in  un  discorso  che  me- 
dito  di  aggiungere  ad  un  altro  g&  da  me  stampato  circa  quarant'an- 
ni  fa,  e  del  quale  non  so  pentirmi,  sopra  il  diletto  della  tragedia.2 
Ma  da  ci6  che  ho  detto  ella  rileva  abbastanza  ch'io  convengo  con 
lei  nel  complesso  della  sua  Dissertazione,  e  credo  1'originalitk  d'Al 
fieri  piu  nociva  che  utile  a  chi  si  decida  alia  carriera  drammatica. 
Io  non  posso  perci6  che  aggiunger  un  fiore  alia  sua  corona  accs.- 
demica.  Ella  per6  ben  prevede  che  sara  tacciato  di  soverchia  se- 
verita,  e  le  sara  dato  a  carico  di  sviluppar  accuratamente  tutti  i 
difetti  di  quel  genio  senza  toccar  le  bellezze  se  non  di  volo.  Ma 
i  termini  del  problema  proposto  sembrano  difenderla  abbastanza 
da  questa  accusa.  Non  mi  resta  che  a  ringraziarla  d'avermi  fatto 
accorgere  d'una  mia  inawertenza  rapporto  alia  scena  2a  dell'atto  IV 
di  Merope.  La  bellezza  di  questa  scena  presa  isolatamfcnte  m'avea 
fatto  scordar  Merope  per  Polidoro,  come  Tavea  scordata  Al- 
fieri.  Ella  rilev6  a  colpo  d'occhio  la  nostra  comune  imprudenza. 
Ma  io  non  so  dolermi  del  mio  sbaglio,  che  mi  procaccib  da  lei 
nella  nota  apposta  un  cenno  particolare  della  sua  gentilezza. 

Scusi  la  prolissita  della  mia  lettera,  nella  quale  per6  ho  detto  as- 
sai  poco.  Io  non  potea  parlar  del  suo  discorso  che  in  generale. 
L'esaminarlo  a  parte  a  parte  arrestandosi  a  tuttoci6  che  potrebbe 
ammettere  riflessioni  o  discussioni  particolari,  domanderebbe  piu 
tempo  di  quel  che  m'avanza.  Ella  accolga  intanto  i  miei  cordiali 
ringraziamenti  e  le  ingenue  proteste  di  quella  giusta  e  affettuosa 
stima  colla  quale  me  le  dichiaro,  ecc. 


i.  questa  .  .  .  mani:  cosl  afferma  infatti  TAlfieri  in  una  sua  lettera  al  Cesa- 
rotti  del  30  marzo  1785.  Ma  esiste  un'altra  lettera  del  Cesarotti  all'Al- 
fieri,  m  data  19  settembre  1785,  che  parla  appunto  della  Congmra  dey 
Pazzi  (cfr.  Alfieri,  Opere,  vn,  Torino,  Paravia,  1903,  pp.  301-4).  2.  un 
altro  .  .  .  tragedia:  il  Ragionamento  riportato  anche  m  questo  volume. 


GIROLAMO  TIRABOSCHI 


NOTA  INTRODUTTIVA 


«lmmaginatevi  un  uomo  che  da  quarant'anni  in  qua  non  ha  avuto 
altra  malattia  se  non  qualche  febbricciatola  di  un  giorno  o  due, 
di  temperamento  non  freddo,  ma  tranquillo  e  regolare,  che  non  ha 
beghe  di  famiglia,  che  puo  anche  abbandonare  con  sicurezza  il  pen- 
siero  della  piccola  economia  domestica  a  qualche  fidato  suo  fa- 
migliare,  che  non  ha  altro  pensiero  che  quello  dei  suoi  studi,  che 
non  fa  I'amore,  benche  non  sfugga  le  piacevoli  conversazioni;  e 
forse  allora  vedrete  che  non  e  poi  meraviglia  che  io  faccia  quel  poco 
che  mi  viene  di  fare. »  A  questo  ritratto  del  proprio  temperamento 
e  del  proprio  metodo  di  vita,  che  il  Tiraboschi  tracciava  aHJamico 
Vernazza,  si  direbbe  che  si  ispirasse  il  Foscolo  quando,  in  un  arti- 
colo  londinese,  trovandosi  a  definire  spiriti  cosi  diversi  dal  suo  co 
me  il  Muratori  e  appunto  il  Tiraboschi,  proprio  in  una  particolare 
disposizione  d'animo  « tar  da  e  fredda»,  ma  a  suo  modo  geniale,  in- 
dicava  la  ragione  profonda  per  cui  essi  «possono  eseguire  ci6  che 
gli  altri  non  potrebbero  mai  fare »,  e  «  guardano  senza  sgomentarsi 
le  tradizioni,  le  opinioni  e  gli  errori  adunarsi  da  tutte  le  parti  a 
torrenti  da  secoli  e  popoli  e  religioni,  e  ne  seguono  il  corso;  e  vi 
s'immergono  a  trovare  alcune  poche  verita  di  fatto  ad  utilita  del 
genere  umano,  e  quel  che  &  piu  straordinario,  intraprendono  o  rie- 
scono  a  dar  ordine  e  forme  a  una  turba  innumerabile  di  testimoni, 
di  date  e  di  awenimenti,  che  sino  ad  allora  cozzavano  e  si  confon- 
devano  fra  loro».  Questo  giudizio  foscoliano,  inadeguato  rispetto 
al  Muratori,  ofTre  invece  tuttora  il  miglior  punto  di  partenza  per 
una  giusta  valutazione  della  personalita  del  Tiraboschi.  6  certo  pos- 
sibile  che  ad  orientare  questi  nella  sua  carriera  di  studioso  abbia 
contribuito  I'esempio  di  eruditi  come  Mario  Lupo  e  Antonio  Se- 
rassi,  viventi  ed  operanti  in  Bergamo,  dove  egli  era  nato  il  18  di- 
cembre  1731,  e  ancor  piu  Feducazione  ricevuta  a  Monza  e  a  Ge- 
nova  nell'ordine  dei  gesuiti,  nel  quale  era  entrato  a  quattordici  anni, 
vincendo  la  resistenza  del  padre.  Ma  che  nel  suo  caso  si  debba 
parlare  proprio  di  vocazione  intima,  di  innata  disposizione  spiri- 
tuale,  nel  senso  indicato  dal  Foscolo,  e  testimoniato  gia  dalla  sicu 
rezza  con  cui  fin  dalFinizio  il  Tiraboschi  sceglie  la  sua  strada.  Non 
e  privo  di  significato  il  fatto  che  la  sua  operosita  letteraria  abbia  ini- 
zio  con  un  lavoro  come  la  rielaborazione  del  vocabolario  latino  del 

36 


562  GIROLAMO    TIRABOSCHI 

Mandosio,  effettuata  quando  egli  ancora  insegnava  nelle  scuole 
inferior!.  Ma  ancor  meglio  la  vera  direzione  dei  suoi  interessi  si 
precisa  nell'entusiasmo  con  cui,  chiamato  nel  1755  alia  cattedra 
di  Retorica  di  Brera,  si  assume  spontaneamente  il  compito  di  rior- 
dinare  la  grande  biblioteca  delPistituto,  iniziandone  un  catalogo 
concepito  con  miovi  e  piu  razionali  criteri.  Qui  appunto,  nelPatmo- 
sfera  propizia  delle  ampie  sale  rivestite  di  libri  e  di  manoscritti,  na- 
scono  i  suoi  primi  lavori  scientifici,  dalla  prolusione  latina  De  pa- 
triae  historia  (Milano  1760),  che  e  una  minuta  rassegna,  corredata 
da  ampie  e  particolareggiate  annotazioni,  dei  milanesi  illustri  in 
ogni  campo;  fino  al  capolavoro  della  sua  operosa  giovinezza,  i  tre 
tomi  dei  Vetera  Humiliatorum  monumenta  annotationibus  ac  disser- 
tationibus  prodromis  illustrata  (Milano,  Galeazzi,  1766-1768).  Nella 
prefazione  di  quest' opera,  condotta  su  approfondite  e  originali  ri- 
cerche  di  archivio,  con  ampia  appendice  di  documenti  inediti  ed 
eruditamente  illustrati,  il  Tiraboschi  non  pu6  fare  a  meno  di  mani- 
festare  la  sua  soddisfazione  per  il  lavoro  compiuto,  e  in  particolare 
di  esprimere,  rivolgendosi  ai  competenti,  il  suo  orgoglio  per  aver 
saputo  portare  la  luce  della  verita  «in  obscurissimis  plerumque  in- 
certis  rebus  ac  nemini  fere  hactenus  tentatis».  In  realta  proprio 
quest'opera,  mentre  fece  conoscere  al  mondo  degli  eruditi  italiani 
ed  europei  il  nome  del  Tiraboschi,  dovette  anche  rivelare  definiti- 
vamente  all'autore  stesso  la  misura  e  la  qualita  delle  sue  doti.  Ad 
esplicare  appunto  tali  doti  non  poteva  darsi  occasione  migliore  del- 
Pufficio,  oifertogli  nel  1770,  di  direttore  di  quella  biblioteca  Estense 
in  cui  si  erano  succeduti  prima  di  lui  il  Bacchini,  il  Muratori  e  lo 
Zaccaria,  e  che  egli  avrebbe  dovuto  tenere  fino  alia  morte,  awe- 
nuta  il  3  giugno  1794. 

Con  quanta  serieta  egli  si  applicasse  al  suo  lavoro  di  bibliotecario, 
e  dimostrato  dalPimpegno  da  lui  spiegato  fin  dalPinizio  (come  do- 
cumentano  le  ricerche  del  Sandonnini)  nella  riorganizzazione  e 
neiraccrescimento  della  farnosa  biblioteca.  Ma  questa  assidua  e  ap- 
passionata  attivita  non  e  per  il  Tiraboschi  fine  a  se  stessa,  bensi, 
come  era  gia  accaduto  a  Milano,  gli  serve  quasi  da  atmosfera  sti- 
molante  per  la  creazione  di  tutta  una  serie  di  monumentali  lavori, 
progettati  e  condotti  a  termine  con  una  impressionante  regolarita, 
a  cominciare  dalla  Storia  della  letteratura  italiana,  compiuta  in 
dieci  anni,  dal  1772  al  1782.  La  migliore  caratterizzazione  di  questa 
opera  resta  tuttora,  in  quanto  ne  coglie  se  non  tutti  i  motivi  ispira- 


NOTA  INTRODUTTIVA  563 

tori  certo  il  fondamentale,  quella  espressa  nella  famosa  definizione 
foscoliana,  «archivio  ordinato  dej  fatti,  delle  date  e  dei  nomi  de* 
libri  e  de'  document!  letterari  di  molti  secoli»:  una  definizione  che, 
riportata  al  giudizio  generale  gia  citato  del  Foscolo  sul  Tiraboschi, 
appare  si  limitativa  (come  comunemente  la  si  intende),  ma  anche 
intesa  a  riconoscere  quanto  entro  questi  limiti  vi  e  effettivamente 
di  piu  positive  nella  Storia:  la  ricerca,  Tindividuazione  e  la  clas- 
sificazione  di  alcune  «  verita  di  fatto  ad  utilita  del  genere  umano». 
Che  proprio  questo  sia  consapevolmente  lo  scopo  primo  della 
Storia  del  Tiraboschi,  e  detto  chiaramente  nella  prefazione  alia  se- 
conda  edizione,  dove  1'autore,  rispondendo  a  chi  gia  allora  lo  accu- 
sava  di  non  aver  procurato  che  un  «ammasso  di  fatti  e  di  date»> 
non  esita  ad  esprimere  cosi  il  suo  pensiero:  «Io  son  persuaso,  e 
spero  che  nessuno  vorra  contrastarmelo,  che  la  verita  e  Pesattezza 
sono  la  prima  dote  che  in  uno  storico  si  richiede,  e  che  le  riflessioni 
e  i  sistemi  cadono  a  terra,  se  i  fatti,  a  cui  sono  appoggiati,  non  hanno 
che  fondamenti  o  rovinosi  o  incerti.  Percio  prima  di  ogni  altra  cosa 
io  mi  sono  studiato  di  scoprire  la  verita  e  le  circostanze  de'  fatti,  e 
poscia  ne  ho  tratte  le  riflessioni  che  mi  son  sembrate  opportune ». 
Appunto  per  questo  suo  concedere  alPaccertamento  dei  « fatti »  il 
primato  ideale,  1* opera  del  Tiraboschi  si  inserisce  anzitutto  (come 
ha  osservato  il  Getto)  nella  fervida  attivita  erudita  settecentesca  che 
di  tale  accertamento  faceva  il  suo  scopo  supremo.  Non  a  caso  il 
Tiraboschi  stesso  nella  prefazione  alia  prima  edizione  della  Storia, 
accingendosi  a  nominare  le  opere  da  cui,  pur  distinguendosi,  ha 
preso  le  mosse,  ricorda  anzitutto  con  gran  lode  i  due  massimi  ri- 
sultati  di  quelP attivita  nel  campo  letterario,  la  Storia  della  lettera- 
tura  veneziana  di  Marco  Foscarini  e  gli  Scrittori  italiani  del  Maz- 
zuchelli;  mentre  nella  prefazione  alia  seconda  si  soiferma  a  citare 
tutta  una  serie  di  dotti  dal  Napoli  Signorelli  al  Verci,  dal  Vernazza 
al  Bandini,  «i  quali  ben  conoscendo,  che  a  lui  non  era  possibile  il 
ricercare  e  Tindicare  ogni  parte  del  vastissimo  campo  ch'egli  aveva 
preso  a  correre,  quali  una  quali  altra  parte  ne  hanno  con  assai  mag- 
giore  diligenza  esaminata  e  illustrata»,  concludendo,  col  partico- 
lare  compiacimento  di  chi  sente  per  parte  sua  di  avervi  molto  con- 
tribuito,  che  « tutta  insomma  P  Italia  pare  ora  ardentemente  rivolta 
a  tali  studi,  che  forse  in  addietro  eran  troppo  trascurati  e  negletti». 
Quanto  poi  in  concreto  la  Storia  del  Tiraboschi  risponda  a  questa 
prima  e  fondamentale  intenzione  del  suo  autore,  e  noto  a  chiunque 


564  GIROLAMO   TIRABOSCHI 

abbia  avuto  modo  di  sfogliarne  i  volumi,  e  di  constatare  come  tutte 
le  volte  che  si  tratti  di  stabilire  la  forma  esatta  di  un  nome  o  di  un 
titolo,  di  accertare  un  particolare  biografico  o  una  data,  Tautore 
non  soltanto  si  dimostra  aggiornatissimo  sullo  stato  della  questione, 
ma  spesso  propone  soluzioni  nuove  e  non  di  rado  definitive,  sia 
che  porti  documenti  inediti  sia  che  sfrutti  quelli  gia  conosciuti  ed 
erroneamente  interpretati,  e  comunque  sempre  appoggiando  ogni 
sua  asserzione  su  citazioni  precise  e  da  lui  ricontrollate  con  scru- 
polo,  poich6  «Pesperienza  mi  ha  insegnato»  egll  afFerma  «che  & 
cosa  troppo  pericolosa  Faffidarsi  agli  occhi  o  alia  memoria  altrui». 
Ed  &  per  tale  aspetto  principalmente  che  la  Storia  ha  reso  in  pas- 
sato,  dal  Foscolo  al  De  Sanctis,  tanti  servizi,  e  costituisce  tuttora 
in  molti  casi  un' opera  di  utile  consultazione. 

Bisogna  tuttavia  aggiungere  subito  che  questo  non  e  Tunico 
aspetto  sotto  cui  Fopera  del  Tiraboschi  pu6  e  deve  essere  valutata. 
Quando  1'autore,  nella  prefazione  alia  seconda  edizione,  dopo  aver 
insistito  su  quello  scrupolo  di  «verita»  e  di  «esattezza»  che  e  in 
cima  ai  suoi  pensieri,  afferma  che,  spogliando  la  sua  Storia  delle 
«  cronologiche  discussioni »  e  delle  «  minute  ricerche »  e  traendone 
«solo  la  sostanza  de*  fatti  e  le  conseguenze  che  [egli]  ne  ha  dedotte, 
e  le  generali  considerazioni  sullo  stato  della  letteratura,  che  qua  e  la 
ha  sparso  in  piu  luoghi,  [si]  verrebbe  forse  a  formare  quel  filosofico 
quadro,  che  ad  alcuni  sembra  mancare  a  quest'operaw,  non  esprime 
una  oziosa  vanteria.  Anzi,  e  proprio  la  presenza  di  questa  inten- 
zione  c(filosofica»  che  distingue  la  Storia  dalle  <cbiblioteche»  e  da 
opere  del  tipo  di  quella  del  Mazzuchelli,  a  cui,  come  si  e  visto, 
egli  pure  si  riallaccia  cosi  strettamente.  Appunto  dopo  aver  parlato 
con  ammirazione  del  Foscarini  e  del  Mazzuchelli,  il  Tiraboschi,  gia 
nella  prefazione  alia  prima  edizione,  osserva  che  «niuna  di  queste 
o  di  altre  opere  di  somigliante  argomento  non  ci  oftre  un  esatto 
racconto  deH'origine,  dej  progressi,  della  decadenza,  del  risorgi- 
mento,  di  tutte  insomma  le  diverse  vicende  che  le  letter  e  hanno  in- 
contrato  in  Italia  ».  Tale  invece  vuol  essere  il  suo  lavoro :  «la  storia», 
come  ripete  piu  avanti,  « delPorigine  e  de'  progressi  delle  scienze 
tutte  in  Italia »:  una  storia,  cioe,  che  si  configuri  come  una  ordinata 
narrazione  dello  svolgimento,  attraverso  i  secoli,  dei  valori  ccfilo- 
sofici»  della  «ragione»  e  del  « gusto  ».  Un  simile  proposito  e,  come 
ognuno  sa,  tutt'altro  che  nuovo,  e  risale,  prima  ancora  che  alia 
critica  illuministica,  al  Muratori,  al  Gravina  e  in  genere  al  pensiero 


NOTA   INTRODUTTIVA  565 

arcadico  italiano.  N6  si  pub  dire  che,  nella  realizzazione  concreta 
di  tale  proposito,  il  Tiraboschi  si  dimostri  profondo  e  originale: 
anzi  per  questa  parte  egli,  volto  com'e  a  rispondere  ad  altre  e  per 
lui  piu  importanti  esigenze,  si  limita  ad  accogliere  e  a  riassumere 
rapidamente  e  pallidamente  i  giudizi  della  critica  arcadica  e  illu- 
ministica,  unicamente  preoccupato  di  attenersi  alia  «  media »  di  tali 
giudizi.  Lo  dimostra  la  linea  che  egli  traccia,  nei  primi  due  tomi, 
della  letteratura  romana,  che  egli  vede  lentamente  progredire  dalle 
sue  rozze  origini  fino  a  Plauto,  Terenzio,  Lucilio,  Lucrezio ;  rag- 
giungere  la  sua  perfezione  nell'eta  di  Cicerone  e  soprattutto  sotto  il 
mecenatismo  illuminate  di  Augusto,  con  Orazio  e  Virgilio ;  per  poi 
decadere,  a  causa  di  un  malinteso  desiderio  di  novita,  e  per  impulse 
specialmente  degli  scrittori  spagnoli  (soprattutto  Seneca  e  Mar- 
ziale),  nei  secoli  successivi.  Ma  la  sua  aderenza  alle  correnti  valu- 
tazioni  illuministiche  &  ancora  piu  evidente  nei  tomi  seguenti,  con- 
sacrati  alia  letteratura  latina  medioevale  e  a  quella  italiana.  Anche 
per  lui  il  Medioevo  e  sostanzialmente  un'epoca  di  oscurita  e  di 
barbaric,  da  cui  vede  cominciare  a  svincolarsi  faticosamente  gli 
Italian!  verso  il  Mille,  progredire  nei  Duecento  e  nei  Trecento, 
malgrado  le  lotte  politiche  a  suo  giudizio  cosi  funeste  ai  progressi 
delle  lettere,  emergere  col  geniale  e  strano  poema  di  Dante,  per 
poi  raggiungere  la  perfezione  poetica  col  Petrarca.  Ma  la  rinascita 
complessiva  della  cultura  comincia  anche  per  lui  solo  nei  Quattro 
cento,  il  secolo  vincitore  della  barbaric,  e  piu  glorioso,  per  questa 
ragione,  dello  stesso  Cinquecento,  che  a  sua  volta  supera  il  secolo 
precedente  per  il  numero  e  la  grandezza  degli  scrittori  (fra  i  quali, 
e  questo  e  forse  il  suo  giudizio  piu  ardito,  da  la  preferenza  airArio- 
sto,  anche  rispetto  al  Tasso),  favoriti  dalla  illuminata  protezione 
dei  principi.  Dalla  perfezione  del  Cinquecento  si  passa  alia  deca- 
denza  del  Seicento :  decadenza  strana,  a  suo  parere,  se  si  pensa  alia 
tranquillita  politica  delPepoca,  ma  che  egli  spiega  con  ragioni  ana- 
loghe  a  quelle  proposte  per  la  decadenza  postaugustea,  ed  entro 
la  quale,  in  ogni  modo,  non  manca  di  sottolineare  i  progressi 
effettuati  nelle  scienze  da  Galileo  e  dai  suoi  discepoli.  Del  Sette- 
cento,  per  espressa  decisione,  il  Tiraboschi  non  si  occupa,  ma  al- 
rinizio  delTultimo  tomo  egli  dedica  alcune  pagine  alPelogio  del 
suo  secolo,  ponendo  in  particolare  rilievo  i  meriti  del  Muratori, 
del  Maffei  e  dello  Zeno.  Tuttavia,  per  quanto  superficial  e  scar- 
samente  originale,  questa  preoccupazione  <cfilosofica»  del  Tira- 


566  GIROLAMO   TIRABOSCHI 

boschi  ha  una  importanza  che  non  deve  essere  trascurata.  Anzitutto 
Taccoglimento  dell'estensione  arcadica  del  concetto  di  lettera- 
tura  a  tutto  il  complesso  delle  manifestazioni  cultural!,  sia  pure 
diluito  m  una  trattazione  estremamente  analitica,  segna  pero  nel- 
1'ambito,  per  cosi  dire,  «tecnico  »  della  storiografia  letteraria  italiana, 
un  progresso  tanto  rispetto  ai  lavori  del  Crescimbeni  e  del  Qua- 
drio,  umanfsticamente  e  formalisticarnente  limitati  alle  « belle  let- 
tere»,  quanto  ai  caotico  tentative  del  Gimma,  i  cui  meriti  di  pio- 
niere  sono  comunque  onestamente  riconosciuti  dal  Tiraboschi  stes- 
so.  Per  quanto  poi  riguarda  phi  particolarmente  Faspetto  struttu- 
rale  delTopera,  la  preoccupazione  «filosofica»  porta  lo  storiografo 
ad  adottare  una  periodizzazione  in  gruppi  di  secoli,  o  in  secoli, 
centro  cui  ragionare  partitamente  di  ciascheduna  scienza  ed  esa- 
minare  quai  ne  fossero  allora  i  progress!  e  le  vicende»:  un  com- 
promesso  insomma  fra  Fordine  cronologico  e  Fordine  dei  generi, 
che  non  e  certo  una  invenzione  del  Tiraboschi,  caratteristico  com'e 
della  precedente  storiografia  settecentesca,  ma  che  egli  ha  co- 
inunque  il  merito  di  avere  trasportato  e  canonizzato  nel  campo  della 
storiografia  letteraria,  oltrepassando  le  pure  classificazioni  gene- 
riche  del  Crescimbeni,  del  Quadrio  e  dell1  Andres,  e  iniziando  una 
tradizione  a  cui  si  atterranno  il  Ginguene,  il  Salfi,  il  Napoli  Signo- 
relli,  il  Corniani  e  che  non  scomparira,  almeno  come  schema  este- 
riore,  neppure  nella  successiva  storiografia  romantica.  Anche  i  som- 
mari  giudizi  sui  singoli  scrittori  e  sulle  varie  epoche,  e  la  linea  di 
svolgimento  che  ne  deriva,  appunto  perche  riflettenti  la  « media » 
delle  valutazioni  illuministiche,  ne  rappresentano  una  consacra- 
zione,  e  se  si  vuole  una  cristallizzazione,  che  costituira  un  utile 
punto  «ufficiale»  di  riferimento  per  il  future. 

Alia  fisionomia  complessiva  della  Storia  del  Tiraboschi  concorre 
infine  un  terzo  motive  ispiratore:  «il  desiderio  . . .  di  accrescere 
nuova  lode  alFItalia,  e  di  difenderla  ancora,  se  faccia  d'uopo,  con- 
tro  Pinvidia  di  alcuni  tra  gli  stranieri»,  dimostrando  la  sua  legit- 
timita  a  fregiarsi  del  «glorioso  nome  di  madre  e  nudrice  delle 
scienze  e  delle  bell'artia.  6  quasi  superfluo  ricordare  che  anche  in 
questo  caso,  generalmente  parlando,  il  Tiraboschi  si  riallaccia  ad 
un  atteggiamento  comune  alia  cultura  italiana  settecentesca,  e  che 
nelTambito  delk  storiografia  letteraria  si  nota  gia  nel  Crescimbeni, 
n«l  Quadrio  e  nel  Gimma.  Va  precisato  tuttavia  che  rispetto  a  co- 
storo  il  nazionalismo  letterario  del  Tiraboschi  si  distingue  per  la 


NOTA   INTRODUTTIVA  567 

presenza,  sia  pure  non  molto  accentuata  (niente  e  veramente  ac 
centuate  in  lui,  salvo  lo  scrupolo  erudite),  di  un  sentimento  piu 
geloso  e  polemico  della  tradizione  letteraria  italiana:  un  sentimento 
che  vale  a  determinare  piu  esattamente  il  collocamento  storico  del- 
P  opera,  in  quanto  permette  di  riportarla,  almeno  per  questo  aspetto, 
entro  quell'orientamento  che  negli  ultimi  decenni  del  Settecento  si 
viene  costituendo  intorno  al  vecchio  Bettinelli,  e  che  e  rappresentato 
anche  dal  Borsa,  dal  Vannetti,  dal  Galeani  Napione  e  da  altri,  tutti 
non  a  caso  amici  e  corrispondenti  del  Tiraboschi  stesso.  Sul  piano 
storiografico  si  deve  a  questo  atteggiamento  (oltre  che  alia  preoc- 
cupazione  erudita  di  completezza,  di  cui  parla  il  Getto)  la  deci- 
sione  di  comprendere  nella  trattazione  anche  le  culture  deU'Etru- 
ria,  della  Magna  Grecia  e  di  Roma,  intese  come  fonti  genuine 
della  nostra  letteratura.  E  ad  esso  si  devono  ancora  (oltre  il  rilievo 
che  in  genere  il  Tiraboschi  non  manca  mai  di  dare  ai  contributi 
italiani  in  ogni  campo  della  cultura,  si  tratti  di  una  scoperta  scien- 
tifica  o  delPinvenzione  di  un  genere)  le  Riflessioni  sulVindole  della 
lingua  italiana,  premesse  al  tomo  in,  e  in  cui  Tautore  ribatte,  con 
argomenti  assai  simili  a  quelli  del  Napione,  del  Borsa,  del  Vannetti, 
le  accuse  di  «poverta»  e  «pusillanimita»  formulate  dal  cesarottiano 
Arteaga  nelle  sue  note  al  Gusto  presente  del  Borsa;  e  soprattutto 
la  famosa  dissertazione,  premessa  al  tomo  II,  SulVorigine  del  deca- 
dimento  delle  scienze,  nella  quale  6  svolta  la  gia  accennata  teoria  (che 
e  poi  uno  sviluppo  di  idee  bettinelliane  e  addirittura  umanistiche) 
delTinfluenza  esercitata  dai  letterati  spagnoli  sulla  decadenza  post- 
augustea  e  sulla  corruzione  letteraria  del  Seicento.  Questa  teoria, 
per  quanto  esposta  dal  Tiraboschi  con  la  consueta  moderazione, 
gli  attir6  tutta  una  serie  di  polemiche  in  cui  ebbe  difensori  e  com- 
pagni,  non  a  caso,  il  Bettinelli  e,  come  si  vedra,  anche  il  Vannetti  e 
il  Napoli  Signorelli.  Primo  a  risentirsi  ma  in  forma  cortese  fu  T An 
dres  (1776);  poi  segui  un  altro  gesuita  spagnolo,  Tommaso  Ser 
rano,  che  in  particolare  voile  difendere  Marziale  (1776)  e  che  fu 
confutato  dal  Vannetti;  infine  con  maggior  violenza  Saverio  Lam- 
pillas  (nel  Saggio  storico  apologetico  della  letteratura  spagnola,  Ge- 
nova  1778),  diretto  anche  contro  il  Bettinelli,  e  a  cui  rispose, 
uscendo  dal  consueto  riserbo,  il  Tiraboschi  stesso. 

Meno  sensibile  nella  Storia  Tinfluenza  (sottolineata  invece  dal 
Foscolo)  della  sua  formazione  gesuitica.  II  suo  conservatorismo 
politico,  filosofico  e  religiose,  la  sua  assoluta  incapacita  di  pene- 


568  GIROLAMO   TIRABOSCHI 

trare  anime  tempestose  e  rivoluzionarie  come  quelle  di  un  Dante 
e  di  un  Machiavelli,  per  quanto  senza  dubbio  favoriti  da  tale  for- 
mazione,  hanno  in  realta  la  loro  prima  origine  nella  natura  stessa 
della  sua  mentalita  di  pacifico  erudito.  Per  questa  parte,  anzi,  deve 
essere  ascritta  a  suo  vantaggio  (oltre  la  polemica  con  i  suoi  confra- 
telli  spagnoli,  della  quale  si  e  fatto  cenno)  la  guerra  mossagli  dal 
domenicano  Tommaso  Mamachi,  maestro  del  Sacro  Palazzo,  il 
quale,  avendo  osservato  nella  Storia  affermazioni  poco  ortodosse  o 
poco  rispettose  verso  i  pontefici,  si  era  preso  Parbitrio  di  far  ristam- 
pare  a  Roma  Popera  dapprima  con  correzioni,  e  poi  con  note  pole- 
miche:  arbitrio  a  cui  il  Tiraboschi,  turbato  nella  sua  tranquillita  di 
buon  cattolico  oltre  che  nel  suo  onore  di  studioso,  si  oppose  con  una 
decisione  e  una  violenza  che  non  aveva  mostrato  neppure  nella 
risposta  al  Lampillas. 

Ad  ogni  modo  una  chiara  riprova  che  gli  interessi  sia  filosofici 
sia  nazionalistici  sia  religiosi  erano  in  fondo  secondari  nella  sua 
mente  rispetto  a  quello  fondamentale  di  scrupoloso  indagatore, 
accertatore  e  classificatore  di  «fatti»,  e  fornita  dalla  natura  delle 
opere  compiute  dopo  la  Storia  della  letteratura  italiana,  tutte  con- 
cepite  con  uno  spirito  che,  meglio  che  da  altre  testimonialize,  & 
illustrate  da  queste  parole  premesse  alia  imponente  Storia  delVau- 
gusta  abbazia  di  San  Silvestro  di  Nonantola  (Modena,  Societa  tipo- 
grafica,  1784-1789):  «La  storia  di  un  monastero  in  due  tomi  in 
foglio!  Cosi  forse  al  primo  comparire  di  quest' opera  esclamera  al- 
cuno  de'  gravi  e  severi  filosofi  de'  nostri  giorni,  che,  tutti  occupati 
al  calcolar  le  forze  de*  regni,  Putilita  del  commercio,  Pinfluenza  del 
clirna,  le  vicende  delle  leggi  e  de'  costumi,  sdegnano  le  minute 
ricerche,  e  si  ridono  di  uno  storico  che  in  vece  di  adombrare  gli  av- 
venimenti  con  tratti  di  ardito  pennello,  freddamente  attiensi  a  fis- 
sarne  le  epoche  e  ad  esaminarne  le  circostanze.  Dovr6  io  dunque 
venir  con  essi  a  contesa,  e  mostrar  loro  il  vantaggio  che  dalla  storia 
che  or  do  alia  luce,  si  puo  raccogliere?  Ma  qual  sarebbe  il  frutto  di 
tal  controversia  ?  Io  mi  rimarrei  fermo  nella  mia  idea,  che  la  esat- 
tezza  delle  ricerche  e  uno  de'  principali  fondamenti  a  uno  storico 
necessari,  che  se  la  verita  e  le  circostanze  de'  fatti  non  si  stabiliscon 
dapprima,  cade  a  terra  qualunque  sistema  si  voglia  sopr'essi  innal- 
zare;  che  molti  moderni  i  quali  hanno  voluto  in  vece  di  una,  com' es 
si  la  dicono,  pedantesca  storia  darci  un  filosofico  quadro,  non  ci 
hanno  dato  ne  quadro  ne  storia,  ma  un  gruppo  di  errori  ne'  fatti, 


NOTA   INTRODUTTIVA  569 

e  un  ammasso  di  sogni  nelle  conseguenze  che  ne  han  dedotte». 

A  questa  limitazione  allo  studio  dei  «fatti»,  piu  consapevole  che 
nella  stessa  Storia  della  letteratura  italiana,  si  deve  un  gruppo  di 
opere  ignorate  dai  non  specialist!,  ma,  a  parte  il  loro  valore  intrin- 
seco,  essenziali  per  comprendere  la  personalita  del  Tiraboschi.  Esse 
vertono  tutte  su  argomenti  della  storia  letteraria,  civile  ed  eccle- 
siastica  di  Modena  e  della  sua  zona,  e  non  a  caso,  poiche  proprio 
in  questo  campo  Pautore  sapeva  di  potersi  fondare  su  ricerche  dav- 
vero  esaurienti,  come  egli  soprattutto  desiderava.  Bastera  qui  ricor- 
dare  -  oltre  la  citata  Storia  deiraugusta  abbazia  di  San  Silvestro  di 
Nonantolay  che  gli  fece  provare  una  delle  piu  grandi  emozioni  della 
sua  vita,  (da  sorte  a  niun  altro  finora  conceduta»  di  vedersi  «tutto 
schierato  innanzi  agli  occhi»  quell' archivio  delPabbazia  che  la  tra- 
dizione  diceva  smarrito,  e  da  cui  il  Muratori  stesso  non  era  riuscito 
ad  avere  piu  di  venti  pergamene  -  la  Biblioteca  modenese,  owero 
notizie  della  vita  e  delle  opere  degli  scrittori  di  Modena  (Modena, 
Societa  tipografica,  1781-1786),  nel  cui  ambito  rientra  anche  la 
Vita  di  Fulvio  Testi  (Modena,  Societa  tipografica,  1780);  le  Notizie 
de'  pittoriy  scultori,  incisori,  architetti  natii  degli  stati  del  duca  di 
Modena  (Modena,  Societa  tipografica,  1786);  le  Memorie  storiche 
modenesi  (Modena,  Societa  tipografica,  1793-1795);  il  Dizionario 
topografico  storico  degli  stati  estensi,  stampato  postumo  (Modena, 
Tipografia  Carnerale,  1824-1825);  e  infine  la  pubblicazione,  con 
introduzione  e  note,  dell' opera  Della  origine  della  poesia  rimata 
(Modena,  Societa  tipografica,  1790)  del  cinquecentista  modenese 
G.  M.  Barbieri,  e  della  quale  egli  ha  il  merito  di  aver  compreso 
rimportanza  nella  storia  degli  studi  romanzi  e  in  particolare 
provenzali. 

Anche  1'attivita  da  lui  esercitata  tra  il  1773  e  il  1790,  prima  come 
collaboratore  e  poi  come  direttore  del  «Nuovo  giornale  dei  lette- 
rati»  di  Modena,  rientra  perfettamente  nellj ambito  degli  interessi 
essenziali  del  Tiraboschi:  che  se  la  rivista,  soprattutto  per  la  colk- 
borazione  del  Bettinelli  e  del  Vannetti,  venne  assumendo  anche  un 
orientamento  classicistico  e  nazionalistico,  essa  rimase  fondameB- 
talmente,  come  era  appunto  nelle  intenzioni  del  direttore,  una  case- 
sta  e  scrupolosa  rassegna  informativa  della  contemporanea  cetera, 
quasi  ideale  continuazione  della  Storia  della  letteratura  it 


57°  GIROLAMO   TIRABOSCHI 

Un  elenco  complete  delle  opere  del  Tiraboschi,  stampate  e  inedite,  si  trova 
all'inizio  delTedizione  di  Milano  (Classic!  Italiani,  1822-1823)  della  Storia 
detta  letteratura  italiana,  I,  pp.  xxin-xxvii.  Qui  ricorderemo,  oltre  le  opere 
citate  nelle  pagine  precedent!,  la  vastissima  conispondenza  epistolare  del 
Tiraboschi  che,  per  quanto  di  scarso  valore  dal  punto  di  vista  letterario  e 
critico,  vale  a  documentare  la  genesi  laboriosa  della  Storia  della  letteratura 
italiana  e  degli  altri  lavori,  ed  e  anche  una  miniera  di  notizie  erudite  sui 
piii  vari  argomenti  della  storia  letteraria,  civile  ed  ecclesiastica  italiana.  Tale 
corrispondenza  e  stata  in  gran  parte  pubblicata  nelle  seguenti  raccolte,  cu 
rate  soprattutto  da  studiosi  della  scuola  storico-positivistica,  che  vedevano 
nel  Tiraboschi  uno  dei  loro  piu  autorevoli  predecessor! :  Corrispondenza  fra 
G.  Tirabosch^  L.  S.  Parenti  e  A.  P.  Ansaloni,  a  cura  di  V.  Santi,  in  « Atti  e 
memorie  della  deputazione  di  storia  patria  per  le  provincie  modenesi», 
S.  iv,  vol.  v  (1894);  Lettere  inedite  di  G.  Tiraboschi  al  can.  M.  Lupo,  a  cura 
di  G.  Ravelli,  Bergamo,  Bolis,  1894;  Lettere  di  G.  Tiraboschi  al  padre  L 
Affd,  a  cura  di  C.  Frati,  Modena,  Vincenzi,  1894-1896;  Carteggio  fra 
Fab.  G.  Tiraboschi  e  Favv.  E.  Cabassi,  a  cura  di  P.  Guaitoli,  in  « Memorie 
storiche  e  documenti  sulla  citta  e  sull'antico  principato  di  Carpi »,  vi 
(1894-1895);  Carteggio  fra  G.  Tiraboschi  e  Cl.  Vannetti  (1776-1793),  a  cura 
di  G.  Cavazzuti  e  F.  Pasini,  Modena,  Ferraguti,  1912;  Lettere  di  G.  Tira 
boschi  e  I.  Affd  a  eruditi  correggesi,  a  cura  di  G.  Simonetti,  in  « Atti  e  me 
morie  della  deputazione  di  storia  patria  per  le  provincie  modenesi »,  S.  v, 
vol.  IX  (1914);  L* epistolario  di  G.  Tiraboschi  a  G.  Cancellieri,  a  cura  di 
G.  Albertotti,  in  «Atti  del  R.  Istituto  veneto  di  Scienze,  Lettere,  Arti», 
xcin  (1933-1934),  pp.  1173-209;  Carteggio  inedito  dell'Avogaro  e  del  Ti 
raboschi,  a  cura  di  A.  Serena,  in  «Atti  del  R.  Istituto  veneto  di  Scienze, 
Lettere,  Arti»,  xcv  (1935-1936),  pp.  463-97;  A.  MONDOLFO,  II  Tiraboschi 
e  il  Bandini,  da  carteggi  inediti,  in  «Accademie  e  biblioteche  d*  Italia », 
x  (1937),  PP.  357-402- 

Manca  tuttora  un  esauriente  lavoro  complessivo  sul  Tiraboschi.  Per  un 
primo  orientamento  sono  utili:  C.  Cioccm,  Vita  e  opere  di  Girolamo  Tira 
boschi,  al  termine  della  II  edizione  della  Storia  della  letteratura  italiana, 
Modena,  Societa  tipografica,  1794;  C.  UGONI,  Della  letteratura  italiana 
della  seconda  meta  del  secolo  XVIII,  Brescia,  Bettoni,  1822,  in,  pp.  350-77; 
P.A.PARAVIA,  VitadiG.  Tiraboschi,mOpuscolivarii,Tormo  1837  (stampa- 
ta  anche  nel  de  Tipaldo,  Biografia  degli  italiani  illustri  ecc.,  n,  Venezia 
*&35,  PP-  347~52);T.  SANDONNINI,  CommemorazionediG.  Tiraboschi,  in  «  At 
ti  e  memorie  della  deputazione  di  storia  patria  per  le  provincie  modenesi », 
S.  iv,  vol.  vi  (1895),  pp.  xxvin-ucv;  V.  CIAN,  G.  Tiraboschi,  in  « Memorie 
della  R.  Accademia  di  Scienze,  Lettere,  Arti»  di  Modena,  S.  IV,  vol.  IV 
(i933-i934)>  PP.  2-13*  con  utili  note  bibliografiche;  G.  BERTONI,  voce  del- 
VEnciclopedta  italiana',  G.  NATALJ,  II  Settecento,  cit.,  pp.  427-31  e  478-9 
(bibliografia).  Qualche  utilita  ha  anche  il  modesto  volumetto  di  M.  LATER- 
ZA,  G.  Tiraboschi.  Vita  e  opere,  Ban,  Laterza,  1921. 

In  particolare  sulla  vita,  le  amicizie  e  le  relazioni  culturali  del  Tirabo 
schi,  si  vedano,  oltre  le  introduzioni  e  le  note  ai  carteggi  gi£  ricordati,  le 
rassegne  di  R.  RENIER,  nel «  Giorn.  stor.  d.  lett.  it. »,  xxvin  (1896),  pp.  430- 
40;  e  di  V,  CIAN,  nella  «Nuova  rivista  storica»,  xii  (1895),  pp.  463-82. 


NOTA   INTRODUTTIVA  571 

Sulla  Storia  delta  letteratura  italiana  si  vedano,  oltre  i  giudizi  di  U.  Fo- 
SCOLO,  in  Opere,  xr,  Firenze,  Le  Monnier,  1958,  parte  i,  pp,  138-9,  e 
parte  n,  pp.  302-5 ;  1'importante  capitolo  di  G,  GETTO,  in  Storia  delle  storie 
ktterarie,  Milano,  Bompiani,  1942,  pp.  101-27;  e  1'articolo  di  A.  BONFATTI, 
L'«eroey>  del  Tiraboschi,  in  «Let±ere  italiane»,  v  (1953),  pp.  236-47. 

Sull'attivita  giornalistica  del  Tiraboschi  si  veda  G.  CAVAZZUTI,  Tra  eru- 
diti  e  giornalisti  del  secolo  XVIII  (G.  Tiraboschi  e  il  *Nuovo  giornale  dei  let- 
terati»),  in  « Atti  e  memorie  della  deputazione  di  storia  patria  per  le  pro- 
vincie  modenesi »,  S.  vii,  vol.  m  (1924),  pp.  131-4,  studio  interessante  anche 
per  i  rapporti  col  Bettinelli,  col  Vannetti,  ecc. 


DALLA 
« STORIA  DELLA  LETTERATURA  ITALIANA* 

PREFAZIONE  ALLA  PRIMA  EDIZIONE 

Non  vi  ha  scrittore  alcuno  imparziale  e  sincere,  che  alia  nostra  Ita 
lia  non  conceda  volentieri  il  glorioso  nome  di  madre  e  nudrice 
delle  scienze  e  delle  bell'arti.  II  favore  di  cui  esse  hanno  tra  noi 
goduto,  e  il  fervore  con  cui  da*  nostri  si  son  coltivate  e  ne*  piu  lieti 
tempi  del  romano  impero  e  ne'  felici  secoli  del  loro  risorgimento,  le 
ha  condotte  a  tal  perfezione  e  a  tal  onore  le  ha  sollevate,  che  gli  stra- 
nieri,  e  quegli  ancora  tra  essi  che  della  lor  gloria  son  piu  gelosi, 
sono  astretti  a  confessare  che  da  noi  mosse  primieramente  quella 


Alia  composizione  di  una  Storia  della  letteratura  italiana  il  Tiraboschi 
pensava  gia  a  Milano,  incoraggiato  in  questo  proposito  dal  padre  Zac- 
caria  (cfr.  G.  BERTONI,  La  storia  del  Tiraboschi  e  A.  F.  Zaccaria,  in  «  Giom. 
stor.  d.  lett.  it. »,  cxvin,  1941,  pp.  200-1);  ma  alia  realizzazione  del  suo 
progetto  si  accinse  soltanto  dopo  il  1770,  appena  stabilitosi  a  Modena. 
La  prima  edizione,  in  nove  tomi,  fu  pubblicata  a  Modena,  presso  la 
Societa  tipografica,  fra  il  1772  e  il  1782,  al  ritmo  dunque  di  un  tomo 
all' anno.  I  primi  due  tomi  comprendevano  la  trattazione  della  letteratura 
deirEtruria,  della  Magna  Grecia  e  di  Roma;  il  terzo  quella  del  periodo 
che  va  dalla  caduta  delTimpero  romano  al  1183  (pace  di  Costanza).  I 
tomi  seguenti  contenevano  la  storia  della  letteratura  italiana  propriamente 
detta:  il  quarto  dal  1183  al  1300;  il  quinto,  diviso  in  due  volumi,  dal  1300 
al  1400;  il  sesto,  pure  in  due  volumi,  dal  1400  al  1500;  il  settimo,  distinto 
in  quattro  volumi,  dal  1500  al  1600;  1'ottavo,  in  due  volumi,  dal  1600 
al  1700;  mentre  il  nono  e  ultimo  tomo  era  riservato  alle  aggiunte  e  corre- 
zioni.  L' opera  ebbe  subito  grande  fortuna  e  difnisione,  tanto  che  ne  ven- 
nero  pubblicati  vari  compendi,  in  tedesco  da  Joseph  von  Retzer,  in  fran- 
cese  da  Antonio  Landi,  in  italiano  da  Lorenzo  Zenoni.  Spinto  anche  da 
questa  favorevole  accoglienza  il  Tiraboschi  si  accinse  a  pubblicare  una 
seconda  edizione,  in  cui,  pur  mantenendo  in  genere  inalterato  il  testo  della 
prima,  vi  inseri,  nelle  note  a  pie  di  pagina  e  piti  raramente  nel  testo  stesso 
fra  virgolette,  le  aggiunte  e  correzioni  gia  comprese  nel  nono  tomo,  e  altre 
ancora  resesi  necessarie  nel  frattempo.  II  nono  tomo  fu.  quindi  interamente 
consacrato  alTindice  analitico.  Questa  seconda  edizione,  pubblicata  pure 
a  Modena,  presso  la  Societa  tipografica,  fra  il  1787  e  il  1794,  rappresenta 
rultima  volonta  delFautore,  e  su  essa  sono  modellate  tutte  le  numerose 
edizioni  apparse  dopo  la  morte  del  Tiraboschi,  da  quella  stampata  a  Vene- 
zia,  dallo  Stella,  nel  1795-1796,  alle  milanesi  dei  Classici  italiani  (1822- 
1823),  del  Fontana  (1826-1829  e  1833-1837),  e  del  Bettoni  (1833)-  Per 
altre  notizie  sulla  fortuna  dell' opera  del  Tiraboschi  nelFOttocento  rrman- 
diamo  al  volume  citato  di  G.  GETTO,  Storia  delle  storie  letterarie.  II  passo 
qui  riprodotto  e  tratto  dalla  seconda  edizione  modenese,  I,  pp.  i-Xin. 
L/e  note  del  Tiraboschi  sono  seguite  dalla  sigla  T. 


574  GIROLAMO   TIRABOSCHI 

si  chiara  luce  che  baleno  a'  loro  sguardi,  e  che  gli  scorse  a  veder  cose 
ad  essi  finallora  ignote.  Potrei  qui  arrecare  molti  scrittori,  che  cosi 
hanno  pensato.  Ma  a  non  annoiare  i  lettori  fin  da  principio  con 
una  tediosa  lunghezza,  mi  bastin  due  soli.  II  primo  e  Federigo 
Ottone  Menckenio,1  il  quale  nella  prefazione  premessa  alia  Vita  di 
Angelo  Poliziano^  da  lui  con  somma  erudizione  descritta  e  stam- 
pata  in  Lipsia  Panno  1736,  cosi  ragiona:  «Ebbe  il  Poliziano  a  sua 
patria  PItalia,  madre  gia  e  nudrice  delParti  liberali  e  della  lettera- 
tura  piu  colta,  la  quale,  come  in  addietro  fiori  per  uomini  in  ogni 
genere  di  dottrina  chiarissimi  e  fu  feconda  di  egregi  ingegni,  cosi 
nel  tempo  singolarmente  in  cui  nacque  il  Poliziano,  una  prodigiosa 
moltitudine  ne  produsse,  talche  non  vi  ha  parte  alcuna  del  mondo, 
che  in  una  tal  lode  le  sia  uguale  o  somigliante.  II  che,  benche  sia 
per  se  stesso  onorevole  e  glorioso,  piu  ammirabile  sembrera  non- 
dimeno  a  chi  consideri  la  caKgine  e  Poscurita  de'  secoli  precedenti 
e  osservi  quanto  stento  e  fatica  dovesse  costare,  e  insieme  a  quanto 
onore  tornasse,  Puscire  improwisamente  dalla  rozzezza  e  barbaric 
delPeta  trapassate  e  il  terger  felicemente  le  macchie  tutte  di  cui 
Pignoranza  gia  da  tanto  tempo  avea  deformata  P Italia ».  L'altro  e 
il  sig.  de  Sade,2  autore  delle  Memorie  per  la  vita  di  Francesco  Pe- 
trarca,  stampate  colla  data  d' Amsterdam  Panno  1764,  che  nella  let- 
tera  agli  eruditi  francesi  premessa  al  primo  tomo :  «  Rendiam  giusti- 
zia»  dice3  «alPItalia,  e  sfuggiamo  il  rimprovero,  che  i  suoi  scrittori 
ci  fanno,  di  esser  troppo  invidiosi  della  sua  gloria  e  di  non  voler 
riconoscere  i  nostri  maestri.  Convien  confessarlo:  a'  Toscani,  alia 
testa  de'  quali  si  dee  porre  il  Petrarca,  noi  dobbiamo  la  luce  del 
giorno  che  or  ci  risplende:  egli  ne  e  stato  in  certo  modo  Paurora. 
Questa  verita  e  stata  riconosciuta  da  un  uomo  che  tra  voi  occupa  un 
luogo  assai  distinto.  Egli  c'insegna4  che  i  Toscani  fecer  rinascer  le 
scienze  tutte  col  solo  genio  lor  proprio,  prima  che  quel  poco  di 


i.  Menckenio:  Friedrich  Otto  Mencken  (1708-1754),  erudito  tedesco,  scris- 
se  oltre  alia  Historic,  vitae  inque  literis  meritorwn  A.  Politiani  (1736)  citata 
dal  Tiraboschi,  e  che  e  il  primo  studio  complessivo  sulPAmbrogini,  molte 
altre  opere,  fra  cui  un  volume  De  vita,  moribzis,  scriptis  meritisque  H. 
Fracastori  (1731).  2.  Jacques-Fran9ois  de  Sade  (1705-1778),  autore,  ol 
tre  che  dei  Memoires  pour  la  vie  de  F.  P&rarque,  tires  de  ses  oeuvres  et 
de  ses  auteurs  contemporains  (1764-1767),  indagine  erudita  fondamentale, 
anche  di  Observations  sulla  poesia  francese  primitiva.  3.  [Memoires  ecc., 
tit.],  pag.  xcm  (T.).  4-  Voltaire,  Hist[oire]  univ[erselle],  t.  n,  pag. 


STORIA   DELLA   LETTERATURA   ITALIANA  575 

scienza,  che  rimasta  era  a  Costantinopoli,  passasse  insiem  colla 
lingua  greca  in  Italia  per  le  conquiste  degli  Ottomani», 

Un  si  bel  vanto,  di  cui  I'ltalia  va  adorna,  ha  fatto  che  molti  era- 
diti  oltramontani  si  volgessero  con  fervore  alia  storia  della  nostra 
letteratura;  e  in  questi  ultimi  tempi  singolarmente  abbiam  veduto 
esercitarsi  in  questo  argomento  e  dare  alia  luce  opere  assai  prege- 
voli  Tedeschi  e  Francesi  di  non  ordinario  sapere.  Cosi  tra  i  primi 
Giovan  Burcardo1  e  il  sopraccitato  Otton  Federico  Menckenio, 
Giangiorgio  Schelornio2  e  Gian  Alberto  Fabricio  ;3  e  tra*  secondi  gli 
autori  delle  vite  degli  uomini  e  delle  donne  illustri  d' Italia,4  il  gia 
lodato  signor  de  Sade  ed  altri  han  preso  a  diligentemente  illustrare 
quali  uno  quali  altro  punto  della  nostra  storia  letteraria.  Egli  e 
questo  un  nuovo  argomento  di  lode  alia  nostra  Italia;  ma  potrebbe 
anche  volgersi  a  nostro  biasimo,  se,  mentre  gli  stranieri  mostrano 
di  avere  in  si  gran  pregio  la  nostra  letteratura,  noi  sembrassimo  non 
curarla,  ed  essi  avessero  a  rinfacciarci  che  ci  conviene  da  lor  me- 
desimi  apprendere  le  nostre  lodi.  E  veramente  ce  Thanno  talor  rin- 
facciato ;  come  fra  gli  altri  il  mentovato  autore  delle  Memorie  per 
la  vita  del  Petrarca,  il  quale  con  modesto5  bensi  ma  assai  pungente 
rimprovero  si  maraviglia  che  noi  non  abbiam  finor  sapute  non  sol 
le  picciole  circostanze,  ma  nemmen  Pepoche  principali  della  ^ita 
di  si  grand'uomo,  e  che  un  oltramontano,  qual  egli  e,  abbia  dovuto 
insegnarci  cose  che  egli  avrebbe  dovuto  apprender  da  noi.  Esami- 
neremo  a  suo  luogo  se  di  una  tale  trascuratezza  siam  noi  accusati  a 
ragione.  Ma  certo  pare  che  gli  stranieri  possan  dolersi  di  noi,  che 
in  un  secolo,  in  cui  la  storia  letteraria  si  e  da  noi  coltivata  singo 
larmente,  niuno  abbia  ancora  pensato  a  compilare  una  storia  gene- 
rale  della  letteratura  italiana. 


i.  Burcardo:  Jacob  Burckard  (1681-1753),  erudito  tedesco,  autore  di  in- 
dagini  sulla  cultura  umanistica  tedesca  ed  europea.  2.  Schelornio:  Johann 
Georg  Schelhorn  (1694-1773),  erudito  e  bibliografo  tedesco.  Penso  cbe  il 
Tiraboschi  alluda  in  particolare  alk  dissertazione  sulla  storia  delTarte  ti- 
pografica  premessa  alia  edizione  da  lui  curata  nel  1761  delTopera  De  op&- 
morum  scriptorum  editiorubus  quae  Romae  primum  prodierunt  del  cardmale 
Angelo  Maria  Querini.  3.  Fabricio:  il  tedesco  Johann  Albert  Fabrichis 
(1668-1736),  autore  di  monumental!  opere  di  erudizione,  fra  cui  ima 
Bibliotheca  latina  mediae  et  infimae  aetatis,  alia  quale  probabilmente  altefe 
il  Tiraboschi.  4.  vite  . .  .  Italia:  penso  che  alluda  ai  Memoires po&r  server 
a  rhistoire  des  hommes  fflustres  dans  la  rfyubtique  des  lettrez,  pebi)licati  a 
Parigi  tra  il  1727  e  il  1745  dal  barnabita  Niceron.  5.  modesto:  moderasta- 
mente  espresso. 


5?6  GIROLAMO   TIRABOSCHI 

Abbiamo,  e  vero,  moltissimi  libri  che  a  questo  argomento  appar- 
tengono;  e  per  riguardo  alle  biblioteche1  degli  scrittori  delle  nostre 
citta  e  provincie  particolari,  non  ve  n'ha  quasi  alcuna  al  presente, 
che  non  abbia  la  sua.  Talune  ancora  hanno  avuto  scrittori  che  la 
storia  delle  scienze  da  lor  coltivate  hanno  diligentemente  esami- 
nata  e  descritta,  fralle  quali  degna  d'immortal  lode  e  la  Storia  della 
letteratura  veneziana  delFeruditissimo  procuratore  e  poscia  doge 
(Ji  Venezia  Marco  Foscarini,2  a  cui  altro  non  manca  se  non  che 
venga  da  qualche  accurato  scrittore  condotta  a  fine.  Ma  fra  tutte  le 
opere  alFitaliana  letteratura  appartenenti  deesi  certamente  il  primo 
luogo  agli  Scrittori  italiani  del  ch.  conte  Giammaria  Mazzucchel- 
1L3  Noi  ne  abbiamo  gia  sei  volumi  che  pur  non  altro  comprendono 
che  le  prime  due  lettere  delPalfabeto ;  e  Ferudizione  e  la  diligenza 
con  cui  la  piu  parte  degli  articoli  sono  distesi,  ci  rende  troppo  do- 
lorosa  la  memoria  deirimmatura  morte  da  cui  fu  rapito  Fautore. 
Sappiamo  che  molti  articoli  e  copia  grandissima  di  notizie  pe'  se- 
guenti  volumi  egli  ha  lasciato  a'  suoi  degnissimi  figli,  e  noi  speriamo 
che  essi  alia  gloria  loro  non  meno  che  a  quella  di  tutta  1*  Italia  prov- 
vederanno  un  giorno  col  recare  al  suo  compimento  un'opera  a  cui 
non  potranno  le  straniere  nazioni  contrapporre  Fuguale.  Ci6  non 
ostante  niuna  di  queste  o  di  altre  opere  di  somigliante  argomento 
non  ci  offre  un  esatto  racconto  delForigine,  de'  progressi,  della  de- 
cadenza,  del  risorgimento,  di  tutte  in  somma  le  diverse  vicende 
che  le  lettere  hanno  incontrato  in  Italia.  Esse  sono  comunemente 
stone  degli  scrittori  anzi  che  delle  scienze;  e  quelle  a  cui  questo 
secondo  nome  pu6  convenire,  son  ristrette  soltanto  o  a  qualche 
particolare  provincia  o  a  qualche  secolo  determinato.  II  Leibnizio 

i.  biblioteche:  cosl  erano  chiamate  le  opere  contenenti  le  notizie  sulla  vita 
e  sugli  scritti  degli  autori  di  una  determinata  citta  o  regione,  o  anche 
nazione  (come  la  Biblioteca  delV  eloquenza  italiana  del  Fontanini).  2.  Mar 
co  Foscarini  (1698-1763),  doge  di  Venezia  dal  1762,  pubblic6  nel  1752  il 
I  volume  delFopera  storiografica  citata  dal  Tiraboschi,  e  che  e  in  effetto 
pregevole  per  Faccuratezza  delle  ricerche  (a  cui  contribul  anche  Gaspare 
Gozzi)  e  per  qualita  di  ordine  e  precisione.  3.  Giammaria  Mazzucchelli 
(o,  piu  esattamente,  Mazzuchelli,  1707-1768)  concepl  e  condusse  Fopera 
citata  dal  Tiraboschi  (il  cui  titolo  esatto  e  Gli  scrittori  d 'Italia,  cioe  notizie 
storiche  e  critiche  intorno  alle  vite  e  agli  scritti  de'  letterati  italianif  e  di  cui 
furono  pubblicati  tra  il  1753  e  il  1763  sei  grandi  volumi  in  folio,  com- 
prendenti  le  lettere  A  e  B)  come  un  grande  dizionario  bibliografico  alfabe- 
ticamente  ordinato:  tipica  opera  erudita  di  consultazione,  fondata  su 
indagini  ampie  e  sistematiche  (cfr.  G.  GETTO,  Storia  delle  storie  letterarie, 
cit.,  pp.  94-5). 


STORIA   BELLA   LETTERATURA   ITALIANA  577 

bramava  che  una  opera  di  tal  natura  fosse  intrapresa  dal  celebre 
Magliabecchi;1  ma  non  sappiamo  ch'egli  pensasse  a  compiacerlo. 
L'unico  saggio  che  abbiamo  di  una  storia  generale  dell'italiana  let- 
teratura,  si  e  YIdea  della  storia  delVItaUa  letterata  di  Giacinto  Gim- 
ma2  stampata  in  Napoli  Fanno  1723,  in  due  tomi  in  quarto,  opera 
in  cui  sarebbe  a  bramare  che  P  autore  avesse  avuto  eguale  a  una 
immensa  lettura  anche  un  giusto  criterio,  e  a  una  infinita  copia  un 
saggio  discernimento.  Se  vi  ha  alcuno  a  cui  io  cada  in  sospetto  di 
volermi  innalzare  sulle  rovine  altrui,  il  prego  a  leggere  egli  stesso 
1'opera  accennata,  e  a  giudicare  per  se  medesimo  se  io  abbia  recato 
troppo  disfavorevol  giudizio.  Certo  cosi  ne  ha  pensato  anche  chi 
naturalmente  dovea  esser  portato  a  lodarla,  cio&  il  dott.  Mauro- 
dinoia,3  che  ha  scritta  la  vita  di  questo  autore,  e  che  confessa  che 
in  quest'opera  deesi  bensi  lodare  1'intenzion  dell' autore,  ma  non 
il  modo  con  cui  1'ha  condotta  ad  effetto. 

II  desiderio  adunque  di  accrescere  nuova  lode  all' Italia,  e  di  di- 
fenderla  ancora,  se  faccia  d'uopo,  contra  1'invidia  di  alcuni  tra  gli 
stranieri,  mi  ha  determinate  a  intraprendere  questa  storia  generale 
della  letteratura  italiana,  conducendola  da'  suoi  piu  antichi  prin- 
cipii  fin  presso  a'  di  nostri.  Dovro  io  qui  forse  discendere  alle  usate 
proteste  di  essermi  accinto  a  un' opera  superiore  di  troppo  alle 
forze  del  mio  ingegno  e  del  mio  sapere?  A  me  pare  che  cotali 
espressioni  siano  omai  inutili  ed  importune.  Se  tu  non  ti  credevi 
uomo  da  tanto,  dicon  talvolta  i  lettori,  perche  entrasti  tu  in  si  dif- 
ficil  camera  ?  E  se  hai  pensato  di  poterla  correre  felicemente,  perch6 
ci  annoi  con  cotesta  tua  affettata  modestia?  Io  ho  intrapresa  que 
st' opera,  e  colla  scorta  di  tanti  valentuomini,  i  quali  or  1'uno  or 
1'altro  punto  di  storia  letteraria  hanno  dottamente  illustrate,  ho 
usato  di  ogni  possibile  diligenza  per  ben  condurla.  Come  io  siaci 
riuscito,  dovran  giudicarne  i  lettori.  Se  io  sono  stato  troppo  ardito 

i.  Ep\istolae  clarorum]  Germ[anorum]  ad  Malidb\ecchium,  Firenze  1745], 
p.  101  (T.)-  Antonio  Magliabecchi,  o,  piu  esattamente,  Magliabechi 
(1633-1714),  bibliotecario  di  Cosimo  III  de*  Medici,  non  pubblico  opere 
col  suo  nome,  ma  ni  ammirato  e  consultato  per  la  sua  straordinaria  eredi- 
zione  dai  dotti  di  tutta  Europa.,  2.  Giacinto  Gimma  (1668-1735),  erodito 
barese  di  formazione  seicentesca,  si  ricorda  solo  per  1s opera  citata  cM 
Tiraboschi,  piena  di  inesattezze  e  disordinata  nella  struttum,  ma  noCevole 
come  primo  tentative  di  storia  della  cultura  letteraria  italiana,  espikita- 
mente  animata  da  propositi  nazionalistici  (cfr.  G.  GETTO,  Storia  deO& 
storie  letterarie,  cit.,  pp.  65-75).  3-  Caiogera,  Racc\pltd\  d*opusc[Qltl,  t.  xvn, 
[i737]>  P.  4i8  (T.). 


37 


578  GIROLAMO   TIRABOSCHI 

nelPintraprenderla,  sar6  ancor  facile  a  condennarla,  quando  dal 
parer  comune  de'  dotti  io  veggala  condennata.  Nemmeno  mi  trat- 
terro  io  a  ragionare  deU'utilita  e  delTimportanza  di  questa  mia 
opera.  Se  essa  avra  la  sorte  di  essere  favorevolmente  accolta  e  posta 
tra  quelle  che  non  sono  indegne  d'esser  lette,  io  mi  lusinghero  di 
aver  fatta  cosa  utile  e  vantaggiosa.  Ma  se  essa  sara  creduta  mancante 
di  que'  pregi  che  le  converrebbono,  invano  mi  stancherei  a  mo- 
strarne  la  necessita  e  il  vantaggio.  Meglio  impiegato  per  awentura 
sara  il  tempo  nel  render  conto  a'  lettori  dell'ordine  e  del  metodo  a 
cui  in  questa  mia  storia  ho  pensato  di  attenermi. 

Ella  e  la  storia  della  letteratura  italiana,  non  la  storia  de*  letterati 
italiani,  ch'io  prendo  a  scrivere.  Quindi  mal  si  apporrebbe  chi  giu- 
dicasse  che  di  tutti  gritaliani  scrittori  e  di  tutte  Fopere  loro  io  do- 
vessi  qui  ragionare  e  darne  estratti  e  rammentarne  le  diverse  edi- 
zioni.  Io  verrei  allora  a  formare  una  biblioteca,1  non  una  storia;  e 
se  volessi  unire  insieme  Tuna  e  Taltra  cosa,  m'ingolferei  in  un' opera 
di  cui  non  potrei  certo  vedere  n6  altri  forse  vedrebbe  mai  il  fine. 
I  dotti  maurini,  che  hanno  intrapresa  la  Storia  letter  aria  diFranda? 
perche  han  voluto  congiungere  insieme  storia  e  biblioteca,  in  do- 
dici  tomi  hanno  compreso  appena  i  primi  dodici  secoli,  e  pare  che 
essi,  atterriti  alia  vista  del  grande  oceano  che  innoltrandosi  lor  si 
apre  innanzi,  abbiano  omai  deposto  il  pensiero  di  continuarla.  Per 
altra  parte  abbiam  gia  tanti  scrittori  di  biblioteche  e  di  catalogi,  che 
una  tal  fatica  sarebbe  presso  che  inutile;  quando  singolarmente 
venga  un  giorno  a  compirsi  la  grand'opera,  mentovata  di  sopra, 
degli  Scrittori  italiani.  Ella  e  dunque,  il  ripeto,  la  storia  della  lette 
ratura  italiana,  ch'io  mi  son  prefisso  di  scrivere;  cioe  la  storia  del- 
Torigine  e  de5  progressi  delle  scienze  tutte  in  Italia.  Percio  io  verr6 
svolgendo  quali  prima  delle  altre  e  per  qual  modo  cominciassero 
a  fiorire,  come  si  andassero  propagando  e  giugnessero  a  maggior 
perfezione,  quali  incontrassero  o  liete  o  sinistre  vicende,  chi  fosser 
coloro  che  in  esse  salissero  a  maggior  fama.  Di  quelli  che  col  loro 
sapere  e  colFopere  loro  si  renderon  piu  illustri,  parlero  piii  ampia- 
mente;  piu  brevemente  di  quelli  che  non  furon  per  ugual  modo 

i.  bibliotecai  nel  senso  illustrate  nella  nota  zap.  576.  2.  /  dotti  . .  .  Fran- 
da:  YHistoire  litter  air  e  de  la  France,  iniziata  nel  1733  dal  monaco  mau- 
rino  Antoine  Rivet  de  La  Grange  (1683-1749)  e  proseguita  fino  al  se- 
colo  XII  dai  suoi  confratelli,  e  la  prima  storia  letteraria  europea  di  ca- 
rattere  critico-erudito. 


STORIA  DELLA  LETTERATURA  JTALIANA       579 

famosi,  e  di  altri  ancora  mi  bastera  accennare  i  nomi,  e  rimettere  il 
lettore  a  quelli  che  ne  hanno  piu  lungamente  trattato.  Dalla  vita  de* 
piu  rinomati  scrittori  accennero  in  breve  le  cose  che  son  piu  note; 
e  cerchero  d'illustrare  con  maggior  diligenza  quelle  che  son  rimaste 
incerte  ed  oscure:  e  singolarmente  cio  che  appartiene  al  loro  ca- 
rattere,  al  lor  sapere  e  al  loro  stile.  La  storia  ancora  de'  mezzi  che 
giovano  a  coltivare  le  scienze,  non  sara  trascurata;  e  quindi  la  sto 
ria  delle  pubbliche  scuole,  delle  biblioteche,  delle  accademie,  della 
stampa  e  di  altre  somiglianti  materie  avra  qui  luogo.  Le  arti  final- 
mente  che  diconsi  liberali,  col  qual  nome  s'intendono  singolarmente 
la  pittura,  la  scultura,  Farchitettura,  hanno  una  troppo  necessaria 
connession  colle  scienze  perche  non  debbano  essere  dimenticate; 
benche  nel  ragionare  di  esse  saro  piu  breve,  poiche  non  apparten- 
gono  direttamente  al  mio  argomento. 

Sono  stato  lungamente  dubbioso  qual  metodo  convenisse  meglio 
seguire;  cioe  se  di  tutte  insieme  le  scienze  dovessi  formar  la  storia, 
seguendo  Fordin  de*  tempi,  o  di  ciascheduna  scienza  favellare  par- 
titamente.  L'uno  e  Faltro  metodo  parevami  avere  i  suoi  ineomodi 
non  meno  che  i  suoi  vantaggi.  L'ordine  cronologico,  che  e  piu 
secondo  natura,  sembra  che  rechi  confusion  tra  le  scienze,  sicch6 
non  possa  distintamente  vedersi  cio  che  a  ciascheduna  appartiene. 
L'ordine  delle  scienze,  che  potrebbe  credersi  piu  vantaggioso,  sem 
bra  che  rechi  confusione  ne'  tempi,  e  che  sia  noioso  al  lettore  quel 
dover  piu  volte  ricorrere  la  stessa  camera,  e  dall'eta  antiche  scen- 
dere  alle  moderne,  e  poi  di  nuovo  risalire  alle  antiche,  e  non  tenere 
mai  fisso  il  piede  in  un'epoca  determinata.  Per  isfuggire,  quanto 
sia  possibile,  gFincomodi  e  per  godere  insiem  de'  vantaggi  di 
amendue  i  metodi,  mi  e  sembrato  opportuno  il  seguir  Fordine  cro 
nologico,  ma  diviso  in  varie  epoche  piu  ristrette,  di  uno,  a  cagion 
d'esempio,  di  due  o  piu  secoli,  secondo  la  maggiore  o  la  minor  am- 
piezza  della  materia;  e  in  queste  diverse  epoche  ragionare  partita- 
mente  di  ciascheduna  scienza,  ed  esaminare  quai  ne  fossero  allora 
i  progressi  e  le  vicende.  In  questa  maniera  senza  andar  sempre 
salendo  o  discendendo  per  la  lunga  serie  de*  tempi  si  potra  age- 
volmente  vedere  cio  che  alia  storia  di  ciascheduna  scienza  appar 
tiene,  e  si  potra  insieme  vedere  qual  fosse  a  ciascheduna  epoea  il 
generale  stato  della  letteratura  in  Italia, 

Quando  io  dico  di  voler  scriver  la  storia  della  letteratura  italiana, 
parmi  ch'io  spieghi  abbastanza  di  qual  tratto  di  paese  io  intenda 


5§0  GIROLAMO   TIRABOS-CHI 

di  ragionare.  Nondimeno  mi  veggo  costretto  a  trattenermi  qui  al- 
cun  poco,  poiche  alcuni  pretendono  di  aver  de'  diritti  su  una  gran 
parte  d' Italia,  e  per  poco  non  gridano  all'armi  per  venirne  alia 
•conquista.  Convien  dunque  che  ci  rechiam  noi  pure  sulle  difese,  e 
ci  disponiarno  a  ribattere,  se  sia  d'uopo,  un  si  terribile  assalto.  Gli 
eruditi  autori  della  sopraccennata  Storia  letteraria  di  Francia,  par- 
lando  della  letteratura  de'  Galli  al  tempo  della  repubblica  e  deirim- 
pero  romano,1  ci  awertono  che,  se  volessero  usare  de'  lor  dritti, 
potrebbono  annoverare  tra'  loro  scrittori  tutti  que'  che  furon  nativi 
di  quella  parte  d' Italia  che  da'  Romani  dicevasi  Gallia  Cisalpina, 
perciocche  i  Galli,  ch'erano  di  la  dall'Alpi,  occuparono  400  anni 
innanzi  alFera  cristiana  tutto  quel  tratto  di  paese,  ed  erano  lor  di- 
scendenti  quei  che  poscia  vi  nacquero.  E  qual  copia,  dicon  essi,  di 
valorosi  scrittori  potremmo  noi  rammentare!  Un  Cecilio  Stazio, 
un  Virgilio,  un  Catullo,  i  due  Plinii  e  tanti  altri  uomini  si  famosi. 
Essi  son  nondimeno  cosi  cortesi  che  spontaneamente  ce  ne  fan 
dono,  e  ci  permetton  di  annoverarli  tra'  nostri;  e  si  aspettano  per 
awentura  che  di  tanta  generosita  ci  mostriam  loro  ricordevoli  e 
grati.  Ma  noi  Italiani  per  non  so  qual  alterigia  non  vogliam  rice- 
vere  se  non  cio  che  e  nostro,  e  nostri  pretendiamo  che  siano  tutti  i 
suddetti  scrittori  della  Gallia  Cisalpina.  Di  fatto,  come  allor  quando 
si  scrive  la  storia  civile  di  una  provincia,  altro  non  si  fa  se  non  rac- 
contare  cio  che  in  quella  provincia  accadde,  qualunque  sia  il  po- 
polo  da  cui  essa  fu  abitata,  cosi  quando  si  parla  della  storia  lette 
raria  di  una  provincia,  altro  non  si  fa  che  rammentare  la  storia 
delle  lettere  e  degli  uomini  dotti  che  in  quella  provincia  fiorirono, 
qualunque  fosse  il  paese  da  cui  i  lor  maggiori  eran  venuti.  A  qual 
disordine  si  darebbe  luogo  nella  storia,  se  si  volesse  seguire  il  sen- 
timento  de'  mentovati  autori  ?  Che  direbbono  essi  se  un  tedesco 
pubblicasse  una  Biblioteca  germanica,  e  vedessero  nominati  in  essa 
Fontenelle  e  Voltaire?  Eppure  non  discendono  eglino  i  Francesi  da' 
Franchi,  popoli  della  Germania?  Oltre  di  che,  come  proveranno 
essi  che  quegli  scrittori  discendessero  veramente  da?  Galli  Transal- 
pini  ?  Eran  forse  essi  i  soli  che  abitassero  que'  paesi  ?  Niuno  dunque 
eravi  rimasto  degli  antichi  abitatori  di  quelle  provincie  ?  Non  po- 
tevano  fors'anche  molti  dalTItalia  Cispadana  o  da  altre  parti  esser 
passati  ad  abitare  nella  Traspadana  ?  Gli  stessi  maurini  non  hanno 
essi  stesa  la  loro  storia  a  tutto  quel  tratto  di  paese  che  or  chiamasi 
i.  [Histoire  litteraire  de  la  France},  t.  i,  p.  54  (T.)- 


STORIA  BELLA  LETTERATURA  ITALIANA       581 

Francia?  Permettan  dunque  a  noi  pure  che,  usando  del  nostro  di- 
ritto,  nostri  diciamo  tutti  coloro  che  vissero  in  quel  tratto  di  paese 
che  or  dicesi  Italia.  Ad  essa  appartengono  similmente  1'isole,  che 
diconsi  adiacenti,  ed  esse  perci6  ancora  debbono  in  questa  storia 
aver  parte,  e  la  Sicilia  singolarmente,  che  di  dottissimi  uomini  in 
ogni  genere  di  letteratura  fin  da'  piu  antichi  tempi  fu  fecondissima* 

Gli  stessi  autori  della  Storia  letteraria  di  Francia  si  dichiarano1 
di  voler  dar  luogo  tra'  loro  uomini  illustri  per  sapere  anche  a  quelli 
che,  benche  non  fossero  nativi  delle  Gallic,  vi  ebbero  nondimeno 
stanza  per  lungo  tempo,  singolarmente  se  ivi  ancora  morirono.  Ed 
essi  hanno  in  cio  eseguita  la  loro  idea  piu  ampiamente  ancora  che 
non  avesser  promesso.  Perciocche  hanno  annoverato  tra'  loro  scrit- 
tori,  come  a  suo  luogo  vedremo,  anche  Timperador  Claudio,  per 
che  a  caso  nacque  in  Lione,  anzi  ancora  Germanico  di  lui  fratello, 
solo  perche  e  probabile  che  egli  pur  vi  nascesse.  Nel  che  non  parmi 
che  essi  saggiamente  abbiano  proweduto  alia  gloria  della  loro  na- 
zione.  Troppo  feconda  d'uomini  dotti  e  sempre  stata  la  Francia 
perche  ella  abbisogni  di  mendicarli,  per  cosi  dire,  altronde  e  di  usur- 
parsi  gli  scrittori  stranieri.  L'adornarsi  delle  altrui  spoglie  e  proprio 
solo  di  chi  non  puo  altrimenti  nascondere  la  sua  poverta.  lo  mi 
conterro  in  mo  do  che  alia  nostra  Italia  non  si  possa  fare  un  tale 
rimprovero.  Degli  stranieri  che  per  breve  tempo  vi  furono,  parlero 
brevemente  e  come  sol  di  passaggio.  Piu  lungamente  tratterrommi 
su  quelli  che  quasi  tutta  tra  noi  condussero  la  loro  vita,  perciocche, 
se  essi  concorsero  a  rendere  o  migliore  o  peggiore  lo  stato  delFita- 
liana  letteratura,  ragion  vuole  che  nella  storia  di  essa  abbiano  il 
loro  luogo. 

Ne  in  cio  solamente,  ma  in  ogni  altra  parte  di  questa  storia,  io 
mi  lusingo  di  adoperar  per  tal  modo  che  non  mi  si  possa  rimpro- 
verare  di  avere  scritto  con  animo  troppo  pregiudicato  a  favore  della 
nostra  Italia.  Egli  e  questo  un  difetto,  convien  confessarlo,  comune 
a  coloro  che  scrivono  le  cose  della  lor  patria,  e  spesso  anche  i  piii 
grandi  uomini  non  ne  vanno  esenti.  Noi  bramiamo  che  tutto  cI6 
che  torna  ad  onor  nostro,  sia  vero;  cerchiam  ragioni  per  persea- 
dere  e  noi  e  gli  altri;  sempre  ci  sembrano  convincenti  gli  argomenti 
che  sono  in  nostro  favore;  e  mentre  fissiamo  Tocchio  su  essi,  ap- 
pena  degniam  di  un  guardo  que'  che  ci  sono  contrari.  MoM  ancora 
de'  nostri  piu  valenti  scrittori  italiani  hanno  urtato  a  questo  scogfio; 
i.  [Histoire  litteraire  de  la  France},  Pref.,  p.  vii  (T.). 


582  GIROLAMO   TIRABOSCHI 

e  io  mi  rechero  a  dovere  il  confutarli,  quando  mi  sembri  che  qual- 
che  loro  asserzione,  benche  gloriosa  alFItalia,  non  sia  bastantemente 
provata.  Ma  gli  stranieri  ancora  non  si  lascian  su  questo  punto  vin- 
cer  di  mano;  e  i  gia  mentovati  dottissimi  autori  della  Storia  lette- 
raria  di  Franria  ce  ne  daranno  nel  decorso  di  quest'opera  non  pochi 
esempi.  Qui  basti  Paccennarne  un  solo  a  provare  che  anche  i  phi 
emditi  scrittori  cadono  in  gravi  falli,  quando  dall'amor  della  patria 
si  lasciano  ciecamente  condurre.  Essi  affermano1  che  i  Romani  ap- 
presero  primamente  da*  Galli  il  gusto  delle  lettere.  L'opinion  co- 
mune,  che  esamineremo  a  suo  tempo,  si  e  che  il  ricevesser  da' 
Greci;  e  niuno  avea  finora  pensato  che  i  Galli  avessero  a'  Romani 
insegnata  Peloquenza  e  la  poesia.  Qual  pruova  recano  essi  di  si 
nuova  opinione?  Lucio  Plozio  Gallo,  dicono,  fu  il  primo  che  inse- 
gnasse  rettorica  in  Roma,  come  aiferma  Svetonio.  Lasciamo  stare 
per  ora  che  non  sappiamo  se  Plozio  fosse  nativo  della  GalliaTransal- 
pina  o  della  Cisalpina,  e  se  debba  perci6  annoverarsi  tra'  Francesi 
o  tra  gl'Italiani.  Ma  come  e  egli  possibile  che  si  dotti  scrittori,  come 
essi  sono,  non  abbiano  posto  mente  al  solenne  equivoco  da  cui  sono 
stati  tratti  in  errore?  Svetonio  e  Cicerone,  come  a  suo  luogo  ve- 
dremo,  non  dicon  gia  che  Plozio  fosse  il  primo  professore  di  retto 
rica  in  Roma,  ma  che  fu  il  primo  che  insegnolla  latinamente,  poi- 
che  per  Faddietro  tutti  i  retori  usato  aveano  della  lingua  greca. 
In fatti Plozio  visse  a'  tempi  di  Cicerone:  e  il  gusto  delle  lettere  erasi 
introdotto  in  Roma  piu  di  un  secolo  innanzi.  Io  credo  certo  che, 
se  non  si  fosse  trattato  di  cosa  appartenente  alia  gloria  della  lor 
patria,  avrebbero  i  dotti  autori  riconosciuto  facilmente  il  loro  er 
rore;  ma  e  cosa  dolce  il  trovare  un  nuovo  argomento  di  propria 
lode,  e  quindi  un'ombra  vana  e  ingannevole  si  prende  spesso  per 
un  vero  e  reale  oggetto.  Forse  a  me  ancora  awerra  talvolta  ci6  che 
riprendo  in  altrui;  ma  io  sono  consapevole  a  me  medesimo  di  es- 
sermi  adoperato,  quanto  mi  era  possibile,  perche  Pamore  della  co- 
mun  nostra  patria  non  mi  acciecasse,  ne  mi  conducesse  giammai  ad 
affermar  cosa  alcuna  che  non  mi  sembrasse  appoggiata  a  buon 
fondamento. 

A  questo  fine  assai  frequenti  s'incontreranno  in  questa  mia  opera 
le  citazioni  degli  autori  che  servono  di  prova  alle  mie  asserzioni,  e 
posso  dire  con  verita  che  ho  voluti  vedere  e  consultare  io  stesso  quasi 
tutti  i  passi  da  me  allegati;  poiche  Fesperienza  mi  ha  insegnato  che 

i.  [Histoire  littfraire  de  la  France],  t.  i,  pag.  53  (T.). 


STORIA   DELLA   LETTERATURA   ITALIANA  583 

e  cosa  troppo  pericolosa  Paffidarsi  agli  occhi  o  alia  memoria  altruL 
Ne  io  per6  mi  sono  punto  curato  di  una  cotal  gloria,  di  cui  alcuni 
sembrano  andare  In  cerca,  colTaffastellare  citazioni  sopra  citazioni 
e  schierare  un  esercito  intero  di  autori  e  di  libri,  facendo  pompa 
per  tal  maniera  della  sterminata  loro  erudizione.  Io  saro  pago  di 
produrre  gli  autori  che  bastino  a  confermare  cio  che  avr6  asserito. 
Le  leggi,  che  in  cio  io  mi  sono  prefisso,  sono  di  appoggiarmi  singo- 
lannente  agli  autori  o  contemporanei  o  il  men  lontani  che  sia  pos- 
sibile  da'  tempi  di  cui  dovro  ragionare;  ad  autori  che  non  possan 
cadere  in  sospetto  di  avere  scritto  secondo  le  loro  proprie  passioni; 
ad  autori  che  non  mi  narrino  cose  che  la  ragione  mi  mostra  impos- 
sibili;  ad  autori  finalmente  che  non  vengano  contraddetti  da  piu 
autentici  monumenti.  Che  mi  giova,  a  cagion  d'esempio,  che  molti 
autori  moderni  mi  dicano  che  Pollione  prima  d'ogn'altro  apri  in 
Roma  una  pubblica  biblioteca?  Se  essi  non  mi  recano  in  pruova  il 
detto  di  qualche  antico,  la  lor  autorita  non  mi  convince  abbastanza. 
Ma  io  veggo  che  cio  si  afferma  da  Plinio  e  da  qualche  altro  antico 
accreditato  scrittore;  e  questo  mi  basta  perche  il  creda.  Se  in  ci6 
singolarmente  che  a  storia  appartiene,  Pautorita  di  uno  o  piu  scrit- 
tori  bastasse  a  far  fede,  non  vi  sarebbe  errore  che  non  si  dovesse 
adottare.  II  numero  degli  autori  copisti  e  infinito;  e  tosto  che  un 
detto  e  stampato,  sembra  che  da  alcuni  si  abbia  in  conto  di  ora- 
colo.  Io  dunque  piu  alia  scelta  che  al  numero  degli  autori  ho  posto 
mente,  e  nella  storia  antica  ho  allegati  comunemente  gli  autori 
antichi,  lasciando  in  disparte  i  moderni.  Questi  per6  ancora  ho  io 
voluti  leggere  attentamente,  quanti  ne  ho  potuti  aver  tralle  mani, 
che  trattassero  cose  attenenti  al  mio  argomento,  e  di  essi  mi  son 
giovato  assai,  e  si  vedra  ch'io  allege  spesso  il  lor  sentimento,  e  fo 
uso  delle  loro  scoperte,  e  talvolta  ancora  rimetto  il  lettore  agli  ar- 
gomenti  che  in  pruova  di  qualche  punto  essi  hanno  arrecato.  Ed 
io  mi  lusingo  che  niuno  potra  rimproverarmi  ch'io  siami  occulta- 
mente  arricchito  colle  altrui  fatiche,  poiche",  quanto  ho  trovato  di 
pregevole  e  d'ingegnoso  negli  altrui  Kbri,  tutto  ho  fedelmente  at- 
tribuito  a'  loro  autori. 

II  diligente  studio  ch'io  ho  dovuto  fare  sugli  antichi  scrittori  per 
trarne  quanto  potesse  essere  opportune  alia  mia  idea,  mi  ha  nfices- 
sariamente  fatto  scoprire  molti  errori  e  molte  inesattezze  degli  scrit 
tori  moderni.  Ma  ordinariamente  non  mi  son  preso  la  briga  di  rile- 
varli;  che  troppo  a  lungo  mi  avrebbe  condotto  il  fario,  e  spesso 


GIROLAMO   TIRABOSCHI 

avrei  dovuto  arrestarmi  per  dire  che  il  tale  e  il  tal  altro  hanno  er- 
rato,  senza  alcun  frutto  e  con  molta  noia  de'  miei  lettori.  Se  io 
comprovo  bene  il  mio  sentimento,  cade  per  se  stesso  a  terra  Top- 
posto.  Allor  solamente  ho  giudicato  che  mi  convenisse  di  farlo, 
quando  mi  si  offrisse  o  a  combattere  I'opinione  o  a  scoprire  1'errore 
di  qualche  autore  che  fosse  meritamente  avuto  in  pregio  di  dotto  e 
di  veritiero.  Le  opere  di  tali  scrittori  si  leggono  comunemente  con 
si  f avorevole  prevenzione  che  facilmente  loro  si  crede  quanto  essi  as- 
seriscono.  E  questo  e  il  motivo  per  cui  e  in  questa  prefazione  e  altre 
volte  nel  decorso  delP opera  ho  preso  a  esaminare  e  a  confutare  al- 
cuni  passi  della  piii  volte  mentovata  Storia  letter  aria  di  Francia,  nej 
quali  mi  e  sembrato  che  senza  ragione  si  volesse  scemar  Ponore 
alia  nostra  Italia  dovuto.  Ella  6  questa  un' opera  di  una  vastissima 
erudizione  e  di  un'immensa  fatica,  e  piena  di  profonde  e  diligenti 
ricerche;  e  troppo  e  facile  ad  accadere  che  Tautorita  di  si  dotti 
scrittori  sia  ciecamente  e  senza  esame  seguita.  Io  mi  son  dunque 
stimato  in  dovere  di  confutare,  ove  fosse  d'uopo,  cio  che  a  svan- 
taggio  delF  Italia  vi  si  afferma,  singolarmente  col  toglierle  alcuni 
uomini  illustri  che  noi  a  buon  diritto  riputiam  nostri.  Ma  nel  com 
battere  le  opinioni  di  questi  e  di  altri  accreditati  scrittori  io  ho 
usato  di  quel  contegno  che  e  proprio  d'uomo  che  si  conosce  infe- 
riore  di  molto  in  forze  al  suo  awersario,  e  che  spera  di  vincere  solo 
per  che  si  lusinga  di  avere  armi  migliori.  Si  pu6  combatter  con 
forza,  si  pu6  ancora  scherzare  piacevolmente,  senza  dire  un  motto 
onde  altri  a  ragione  si  reputi  offeso.  Le  ingiurie  e  le  villanie  troppo 
mal  si  confanno  a  uomini  letterati,  e  noi  Italiani  siamo  forse  non 
ingiustamente  ripresi  di  esserne  troppo  liberali  coj  nostri  awersari. 
A  questo  fine  mi  sono  astenuto  dalPentrare  in  certe  contese  sulla 
patria  di  alcuni  nostri  antichi  scrittori,  nelle  quali  Io  spirito  di  par- 
tito  regna  da  lungo  tempo  per  modo  che  non  e  possibile  il  mo- 
strarsi  favorevole  ad  una  parte  senza  che  1'altra  se  ne  dolga  troppo 
aspramente ;  e  nelle  quali  percio  il  voler  decidere  e  cosa  pericolosa 
al  pari  che  inutile.  Io  accenner6  le  ragioni  che  da  amendue  le  parti 
si  arrecano,  e  Iascer6  che  ognuno  senta  come  meglio  gli  piace. 

Tutta  1'opera  sara  divisa  in  sette  o  otto  volumi,  i  quali,  se  il  Cielo 
mi  concedera  vita  e  forze,  verrannosi,  colPintervallo,  come  spero, 
non  maggiore  di  un  anno  seguendo  Tun  Taltro.  Forse  sembrera  ad 
alcuni  troppo  ristretto  un  tal  numero  di  volumi  all'ampiezza  della 
materia.  Ma  nel  metodo  a  cui  ho  pensato  di  attenermi,  mi  lusingo 


STORIA  DELLA   LETTERATURA   ITALIANA  585 

che  possan  quest!  bastare  a  porre  in  sufficiente  luce  la  storia  della 
letteratura  italiana.  Chi  vuol  dir  tutto,  comunemente  non  dice  nulla; 
e  molte  opere  son  rimaste  e  rimarran  sempre  imperfette,  perche  gli 
autori  avean  preso  a  correre  troppo  ampio  campo.  Quando  io  ab- 
bia  condotta  a  fine  la  mia  opera,  se  alcuno  vorra  darle  una  maggior 
estensione,  potra  farlo  piu  agevolmente;  ed  io  mi  riputero  ono- 
rato  se  vedro  altri  di  me  migliori  entrare  piu  felicemente  di  me  in 
questa  stessa  camera. 

Per  ultimo,  comunque  io  abbia  usato  di  ogni  possibile  diligenza 
nel  compilar  questa  storia,  sono  ben  lungi  dal  credere  che  non  vi 
abbia  in  essa  errori  e  inesattezze  in  buon  numero.  E  percio,  anzi 
che  sdegnarmi  contro  chi  me  gli  additi,  io  gliene  sapro  grado;  e,  ove 
fia  d'uopo,  ne'  seguenti  volumi  inserir6,  come  in  altra  mia  opera 
ho  fatto,  le  correzioni  e  le  giunte  da  farsi  a*  volumi  precedenti.  Io 
non  so  intendere  come  alcuni  siano  cosi  difficili  a  confessare  di 
avere  errato ;  quasi  ci6  non  fosse  stato  comune  anche  a'  piu  famosi 
scrittori.  E  non  deesi  egli  scrivendo  cercare  il  vero  ?  Se  dunque  tu 
non  sei  riuscito  a  scoprirlo,  e  un  altro  cortesemente  te  Io  addita, 
perch6  chiuder  gli  occhi  e  ricusar  di  vederlo?  Io  certamente  da 
niuna  cosa  mi  stimero  piu  onorato  che  dal  vedere  uomini  eruditi 
interessarsi  per  dare  a  questa  mia  opera  una  maggior  perfezione;  e 
suggerirmi  perci6  lumi  e  notizie,  che  giovino  o  a  corregger  gli 
errori  nej  quali  mi  sia  awenuto  di  cadere,  o  ad  accrescere  pej  se 
guenti  volumi  nuovi  argomenti  di  gloria  aH'italiana  letteratura . .  .* 


i.  Tralascio  1'ultimo  capoverso  della  Prefazione,  nel  quale  il  Tiraboschi 
spiega  le  ragioni  per  cui  ha  esposto  solo  in  modo  concise  la  letteratura 


etrusca. 


PIETRO  NAPOLI  SIGNORELLI 


NOTA  INTRODUTTIVA 


Coetaneo  ed  amico  del  Tiraboschi  e  per  alcuni  aspetti  vicino  a 
lui  e  agli  altri  eruditi  contemporanei,  Pietro  Napoli  Signorelli 
se  ne  distingue  tuttavia  nettamente  per  assai  piu  spiccati  interessi 
e  qualita  di  critico  e  di  storiografo.  La  sua  stessa  prima  formazione 
non  e  tanto  di  un  erudito  quanto  piuttosto  di  un  letterato  vivamente 
partecipe  alia  vita  culturale  del  suo  tempo.  Nato  a  Napoli  di 
agiata  famiglia  il  28  settembre  1736,  fu  awiato  dal  padre  notaio 
agli  studi  di  giurisprudenza,  che  egli  segui  regolarmente  fino  ad 
ottenere  la  laurea  e  ad  esercitare  anche  per  qualche  tempo  la  pro- 
fessione  di  awocato.  Appunto  durante  questi  studi  egli  ebbe  la 
possibilita  di  ascoltare  le  lezioni  di  etica  di  Antonio  Genovesi, 
allora  nel  momento  piu  fervido  della  sua  battaglia  per  il  rinnova- 
mento  della  cultura  napoletana:  lezioni  alle  quali  egli  non  solo 
assistette  con  entusiasmo  per  due  anni  (come  ricordera  poi  nelle 
Vicende  della  coltura  nelle  due  Sicilie),  ma  si  ispir6  nel  «trattato  mo 
rale  esposto  ai  giovani»  Degli  affetti  umani  (Napoli,  Cirillo,  1754), 
che  e  la  sua  prima  opera  stampata.  Ne  e  inutile  ricordare  che  sem- 
pre  in  questi  primi  anni  il  Signorelli  si  provo  a  scrivere  anche  qual 
che  commedia,  che  non  ci  e  pervenuta,  ma  che  probabilmente  si 
ispirava  a  quelle  romanzesche  del  marchese  di  Liveri,  domina- 
tore  in  quel  tempo  della  scena  napoletana. 

Ma  un  periodo  ancor  piu  importante  nella  formazione  culturale 
e  letteraria  del  giovane  napoletano  fu  il  suo  soggiomo  a  Madrid, 
dove  si  trasferi  dopo  la  morte  del  padre,  verso  la  fine  del  1765, 
spinto  probabilmente  dalla  speranza  di  poter  migliorare  la  propria 
situazione  economica,  e  dove  rimase  ininterrottamente,  salvo  un 
viaggio  in  Italia  nel  1777-1778,  sino  al  1783.  «Io  sempre  mi  ram- 
menterb  con  tenerezza  e  con  diletto»  egli  scriveva  nel  1785  al- 
T Arteaga  «  di  una  gran  nazione,  dalla  quale  in  venti  anni  di  dimora 
non  ho  ricevuto  altro  disgusto  se  non  quello  di  vedermi  inutile  a 
servirla.  Posso  affermare  senza  mentire  che  in  essa  lascio  moltissi- 
mi  amici  veri  e  niun  nemico.  Nella  mia  abitazione,  concessami 
da  S.  M.  Cattolica,  contigua  al  Real  Palazzo  Nuovo,  io  vedeva 
passare  sotto  i  miei  occhi  il  di  Lei  patrio  Manzanare,  unico  testi- 
monio,  per  cosi  dire,  di  tante  dilettevolmente  vegliate  notti  in 
compagnia  delle  Muse.  Quante  volte,  spuntando  Falba,  mentre 


590  PIETRO   NAPOLI   SIGNORELLI 

vegliava  ancora,  io  vi  vagheggiai  in  distanza  i  monti  di  Segovia 
coperti  di  neve,  il  sito  del  Prado,  la  Quinta  e  la  Zarzuela.  Giorni 
felici . .  . ».  In  verita  il  Signorelli  non  aveva  torto  quando  ricor- 
dava  con  cosi  grata  e  commossa  nostalgia  gli  anni  trascorsi  in 
Ispagna.  Fin  dai  primi  tempi  del  suo  arrivo,  quando  era  ancora 
giovane  e  sconosciuto  nel  mondo  della  cultura,  aveva  trovato  un'ac- 
coglienza  piena  di  simpatia  non  solo  nel  piccolo  gruppo  degli  stu- 
diosi  italiani  stabiliti  a  Madrid,  come  Giambattista  Conti,  Gia- 
cinto  Ceruti  e  Placido  Bordoni,  ma  anche  tra  quegli  spagnoli  che 
nel  campo  culturale  partecipavano  alFopera  di  riforma  illumini- 
stica  iniziata  da  Carlo  III:  Nicolas  Fernandez  de  Moratin,  an- 
zitutto,  al  quale  il  Signorelli  fu  particolarmente  legato  e  che  pro- 
babilmente  gli  fece  ottenere  il  comodo  e  ben  remunerate  impiego 
di  (cprimo  custode  del  suggello  della  lotteria  reale»,  e  poi  il  figlio 
di  lui  Leandro,  Jose  Cadalso,  Ignazio  Ayala  e  Tommaso  Iriarte. 
Insieme  con  questi  letterati  troviamo  il  Napoli  Signorelli  nelle 
riunioni  della  cosiddetta  Tertulia  liter  aria  de  la  fonda  de  San  Se 
bastian,  durante  le  quali  i  partecipanti,  guidati  dall'intento  di 
«rinnovare»  la  letteratura  e  in  particolare  il  teatro  spagnolo,  in 
dichiarata  opposizione  sia  alia  tradizione  secentesca  e  ai  suoi  di- 
fensori,  come  Vicente  Garcia  de  la  Huerta,  sia  ai  contemporanei 
tentativi  di  gusto  popolareggiante,  quali  i  sainetes  di  Ramon  de 
la  Cruz,  leggevano  e  discutevano  i  maggiori  esemplari  della  lette 
ratura  classicistica  e  illuministica  francese  e  italiana,  i  poemi  del- 
PAriosto,  del  Tasso  e  del  Boileau,  le  liriche  del  Filicaia,  del  Chia- 
brera,  del  Frugoni,  di  J.  B.  Rousseau,  e  soprattutto  le  opere  tea- 
trali  del  Corneille,  del  Racine,  del  Moliere  e  del  Voltaire;  espesso 
sottoponevano  al  giudizio  degli  amici  i  propri  scritti  di  carattere 
letterario  o  critico.  Appunto  attraverso  queste  animate  riunioni, 
in  cui  sappiamo  che  il  Signorelli  si  distingueva  per  assiduita  e  spiri- 
to  battagliero,  si  viene  maturando  e  precisando  il  pensiero  e  il 
gusto  del  letterato  napoletano. 

Proprio  durante  il  soggiorno  spagnolo  nascono  le  sue  piu  no- 
tevoli  opere  letterarie:  le  Satire  (Geneva,  Stamperia  Gesiniana, 
1774)  in  versi  martelliani  e  su  argomenti  tipici  della  contempo- 
ranea  letteratura  illuministica  italiana,  come  le  lodi  della  vita  ru- 
stica,  Timpostura,  la  smania  del  francesismo,  ecc. ;  e  le  commedie 
Faustina  (Lucca  1778),  ricavata  da  un  racconto  del  Marmontel, 
Ueroismo  fra  i  nemid  (inedita,  ma  rappresentata  nel  1780)  e  La 


NOTA   INTRODUTTIVA  591 

tirannia  domestica  (stamp ata  nel  1793  negli  Opuscoli  variiy  ma  com- 
posta  dieci  anni  prima):  tre  commedie  «tenere»,  come  Pautore  le 
definiva  per  distinguerle  da  quelle,  da  lui  aborrite,  del  miovo  ge- 
nere  larmoyant,  e  che  cioe,  secondo  i  principii  del  Voltaire,  del 
Marmontel,  dei  due  Moratin,  intendono  svolgere  e  dimostrare  una 
tesi  moralistica  (che  e  sempre  la  vittoria  della  «ragione»  e  degli 
affetti  « naturali»  sugli  error!  e  i  pregiudlzi  social!)  attraverso  la 
rappresentazione  di  una  vicenda  dolcemente  patetica  ma  non  pri- 
va  di  tinte  comiche  accortamente  mescolate.  Ma  e  assai  piu  signi- 
ficativo  che  proprio  in  Ispagna  il  Napoli  Signorelli  prenda  coscien- 
za  della  sua  vocazione  di  critico  e  di  storiografo  della  letteratura 
e  della  cultura,  e  che  qui  componga  le  sue  opere  piu  important! 
in  questo  campo  e  in  genere  fra  tutte  quelle  da  lui  scritte,  La 
storia  critica  de'  teatri  antichi  e  moderni,  pubblicata  nel  1777,  e 
in  gran  parte  rielaborata  per  la  seconda  edizione,  prima  del 
ritorno  dell'autore  in  Italia,  e  le  Vicende  della  coltura  mile  due  Si- 
cilie,  stampate  fra  il  1784  e  il  1786,  ma  certo  gia  terminate  prima 
deirottobre  del  1782. 

Nell'una  e  nell'altra  opera  ha  senza  dubbio  parte  notevole  quel 
gusto  della  ricerca  erudita,  deiraccertamento  e  della  raccolta  or- 
dinata  delle  «verita  di  fatto»,  che  ispira  le  opere  del  Tiraboschi, 
delPAiFo,  del  Vernazza,  delFAmaduzzi,  con  i  quali  il  Signorelli 
stesso  teneva  assidua  corrispondenza  per  chiedere  e  fornire  a  sua 
volta  notizie  e  dati,  e  che  accolsero  con  molto  plauso  i  suoi  due 
lavori,  a  cominciare  dal  Tiraboschi,  il  quale,  come  si  e  visto, ,  cita 
con  onore,  nella  sua  Storia  della  letteratura  italiana,  fra  le  migliori 
indagini  erudite  contemporanee,  le  Vicende  della  coltura  nelle  due 
Sicilie,  e  che  certo  avrebbe  citato  anche  La  storia  critica  de'  teatri 
antichi  e  moderni,  se  avesse  gia  potuto  vederne  la  seconda  e  piu 
ampia  edizione  del  1787-1790.  Non  aveva  torto  per6  il  Napoli 
Signorelli  quando,  in  un  appunto  del  1786  destinato  alPamico  Ama- 
duzzi  (e  parzialmente  pubblicato  dal  Mininni),  pur  protestando  la 
sua  ammirazione  per  il  Tiraboschi,  teneva  a  distinguere  le  sue 
opere  da  quelle  delPerudito  bergamasco  non  solo  per  la  diversita 
degli  argomenti  ma  anche  e  soprattutto  per  la  presenza  e  la  pre- 
minenza  di  una  precisa  ispirazione  «nlosofica».  Questa  «filosofia», 
come  e  facile  immaginare  ripensando  alia  formazione  culturale  na- 
poletana  e  spagnola  del  Signorelli,  e  nel  suo  nucleo  fondamentale 
la  «filosofia  dei  lumi»  nella  forma,  che  aveva  preso  appunto  a 


5Q2  PIETRO    NAPOLI    SIGNORELLI 

Napoli  e  in  Ispagna,  di  voltairismo  moderate :  ed  anzi  va  precisato 
subito  die  il  carattere  e  il  merito  primo  delle  due  opere  del  Signo- 
relli  non  consiste  nella  novita  o  nelTarditezza  delle  idee  e  neppure 
in  quelle  sparse  anticipazioni  di  gusto  preromantico  o  neoclas- 
sico  sulle  quali  dovremo  pure  soffermarci,  ma  nell'aver  applicato 
i  criteri  di  valore  e  gli  schemi  storiografici  di  quella  filosofia  a  due 
campi  non  ancora  sistematicamente  esplorati  sotto  tale  punto  di 
vista. 

Concetto  fondamentale  della  Storia  critica  de'  teatri  antichi  e 
moderni  e  Fidea  che  «la  poesia  drammatica  e  la  stessa  morale  po- 
sta  in  azione»,  una  idea,  come  ognuno  sa,  propria  delFestetica 
classica  e  classicistica,  ma  che  il  SignorelH  intende  -  seguendo 
Tinterpretazione  in  cui  si  accordavano  il  Voltaire,  il  Cesarotti  (nel 
Ragionamento  sopra  il  diletto  della  tragedia)  e  i  suoi  amici  spagno- 
li  -  nel  senso  che  il  teatro  debba  purgare  «le  passioni  smoderate», 
specie  quelle  funeste  derivanti  dal  pregiudizio  e  dalFignoranza,  e 
quindi  consentire  il  trionfo  della  «ragione»  mediante  la  sugge- 
stione  esercitata  suir«interesse)>  dello  spettatore  dalla  rappresen- 
tazione  efficace  ma  verosimile,  varia  nelfintreccio  ma  chiaramente 
costruita,  di  fatti  esemplari  di  universale  signifkato  umano.  Que- 
sto  ideale  di  teatro  e  posto  dal  SignorelH  quale  punto  di  arrivo  di 
uno  schema  storiografico  generale,  comune  cioe  al  teatro  di  ogni 
nazione,  che  Fautore,  utilizzando  razionalisticamente  elementi  vi- 
chiani,  costruisce  alFinizio  della  sua  opera,  e  che  si  articola  come 
un  ccprogresso  »  dalle  originarie  rozze  e  istintive  «imitazioni)>  di  per- 
sone  e  di  fatti,  alle  prime  rappresentazioni  sceniche  regolari  an 
cora  limitate  agli  argomenti  sacri  e  scritte  in  versi,  alia  trasforma- 
zione  dei  teatri,  per  Fincremento  della  coltura,  in  «tante  scuole  di 
sana  morale))  volte  a  scoprire  e  a  correggere  «le  ingiustizie,  le 
stravaganze  e  le  ridicolezze »  della  societa,  fino  al  momento  in  cui 
tale  azione  moralizzatrice  viene  dalla  ccvigilanza  della  legge»  gui- 
data  e  frenata,  cosi  che  gli  autori  non  solo  sono  trattenuti  dal 
degenerare  in  eccessi,  ma  anche  stimolati  «ad  uscire  dall'uni- 
formita,  a  spianarsi  nuove  strade,  ed  a  rendere  il  teatro  piii  vago, 
piu  vario,  piu  delicate »:  uno  schema  a  cui  il  Napoli  SignorelH 
si  attiene  poi  in  effetto,  se  non  rigidamente,  abbastanza  fedelmente 
nel  tracciare  la  storia  del  teatro  presso  i  singoH  popoli,  mostrando 
per  esempio  il  « perfezionamento »  di  quello  greco  da  Eschilo  ad 
Euripide,  da  Aristofane  a  Menandro;  di  quello  latino  da  Pacuvio 


NOTA   INTRODUTTIVA  593 

a  Seneca,  da  Plauto  a  Terenzio;  di  quello  francese  dal  Corneille  al 
Moliere,  al  Racine,  al  Voltaire;  di  quello  inglese  dallo  Shakespeare 
all'Addison;  di  quello  italiano  dall'Ariosto  e  dal  Trissino  al  Me- 
tastasio,  al  Goldoni  e  airAlfieri;  di  quello  spagnolo  da  Lope  de 
Vega  ai  letterati  della  Fonda  de  San  Sebastian.  Ma  la  sua  adesione 
alPideale  illuministico  di  un  teatro  razionalmente  istruttivo  e  pia- 
cevolmente  patetico,  rispondente  nella  struttura  e  nello  stile  alle 
esigenze  della  chiarezza,  della  verosimiglianza  e  della  convenienza, 
trova  piu  ampia  conferma  nei  giudizi  particolari  sui  singoli  autori 
e  sulle  singole  opere,  sia  che  egli  si  richiarni,  citandoli  o  riassumen- 
done  il  pensiero,  ai  critici  che  quelPideale  avevano  soprattutto 
contribuito  a  formare,  quali  il  Voltaire  (che  ha  presente  nello  sten- 
dere  i  capitoli  sullo  Shakespeare,  sul  Corneille  e  sul  Racine),  il 
Brumoy  e  il  Batteux  (che  segue  nella  parte  relativa  al  teatro  greco), 
e  poi  gli  italiani  Maffei,  Calepio,  Martello  e  Bettinelli  (ai  quali  si 
ispira  speciahnente  nelle  pagine  sul  teatro  italiano);  sia  che  egli  si 
impegni  in  valutazioni  proprie,  come,  per  fare  solo  qualche  esem- 
pio,  nei  capitoli  dedicati  al  teatro  spagnolo,  i  quali  proprio  dal- 
Fapplicazione  dei  criteri  dell'estetica  illuministica  traggono  il  loro 
limite  (si  vedano  le  valutazioni  sostanzialmente  negative  del  Gon- 
gora,  di  Lope  de  Vega,  della  Celestina,  definita  addirittura  una 
ascandalosa  mostruosita  »),  ma  anche  il  merito  di  rappresentare  la 
prima  sistematica  trattazione  critica  dell'argomento ;  o  come  nei 
lungo  paragrafo  sulPAlfieri,  al  quale  il  Signorelli  giunge  a  ricono- 
scere  come  «pregio  singolare  . .  .  Tarte  grande  di  rintracciare  entro 
il  piu  intimo  del  cuore  umano  i  pensieri  che  contribuiscono  a 
consumare  i  delitti)),  ma  le  cui  tragedie  egli  classifica  poi  secon- 
do  questo  ordine  significativo :  «eccellenti»  Bruto  I,  Bruto  IT, 
Merope,  Oreste,  Timoleone,  Agide\  «buone  con  qualche  neo»  Saul, 
Agamennone,  Mirra,  Antigone,  Polinice,  Virginia,  Sofonisba,  Fitip- 
pOy  «inferiori  a  queste»  La  congiura  dei  Pazzi,  Ottavia,  Don  Gar- 
zia\  «tollerabili  appenaw  Maria  Stuarda  e  Rosmunda. 

Ancor  piu  evidente,  forse,  Filliiminismo  voltairiano  del  Signo 
relli  nelle  Vicende  della  coltura  nelle  due  Sidlie,  e  prima  di  tutto 
poiche  la  storia  vi  e  intesa  -  secondo  Pesempio  del  Voltaire  e  dei 
suoi  seguaci,  dal  Robertson  al  Bettinelli  al  Denina  (tutti  frequente- 
mente  citati,  anche  se  discussi  in  qualche  particolare)  -  come  imr- 
razione  delle  «vicende»  appunto  della  « coltura »  nella  $ua  batta- 
glia,  guidata  dai  «filosofi»  e  dai  principi  illuminati,  contro  Tigno- 

38 


594  PIETRO   NAPOLI   SIGNORELLI 

ranza,  la  barbaric,  i  pregiudizi  politici,  religiosi  e  letterari.  Ma  nel- 
lo  stesso  ambito  rientra  anche  quel  principio  dell'aamor  di  liberta» 
che  lo  storico  pone  quale  «  movimento  primario  inerente  all'umana 
natura»  in  sostituzione  del  principio  deir«amor  del  potere»  pro- 
posto  dalPHelvetius  e  dal  Filangieri,  e  nel  cui  soddisfacimento 
consiste  a  suo  giudizio  il  fine  di  ogni  buon  governo :  poiche  in  ef~ 
fetto  il  suo  concetto  di  «liberta»,  per  quanto  talora  espresso  con 
fornmle  rousseauiane,  non  ha  nulla  di  rivoluzionario,  ma  trova  la 
sua  perfetta  realizzazione  nel  quieto  benessere  assicurato  dalle 
prowidenze  escogitate  dai  «filosofi»  e  messe  in  atto  dai  principi. 
Ispirandosi  appunto  a  questi  criteri  egli  vede  la  coltura  nelle 
due  Sicilie  cominciare  e  progredire  nel  periodo  greco,  raggiun- 
gere  il  culmine  negli  ultimi  tempi  della  repubblica  romana  e  so- 
prattutto  sotto  Fimpero  illuminato  di  Augusto,  per  poi  decadere 
nei  primi  secoli  dell'era  volgare,  mandare  ancora  deboli  barlumi 
come  un  «languido  crepuscolo»  durante  le  invasioni  barbariche 
e  infine  quasi  del  tutto  oscurarsi  «nel  regno  de3  Longobardi  e 
nelle  accanite  contese  e  nelle  vittorie  sanguinose  de'  Greci  e  de' 
Saracini»;  rinascere  come  una  promettente  «alba»  sotto  i  monar- 
chi  svevi,  protettori  delle  arti  e  del  commercio,  rifiorire  sotto  gli 
Angioini  e  gli  Aragonesi  per  poi  decadere  di  nuovo  sotto  il  dominio 
spagnolo,  fra  I'indifferenza  e  1'incompetenza  dei  vicere,  le  pre- 
potenze  dei  baroni  e  le  astuzie  interessate  dei  legulei,  gia  in  quel 
secolo  XVI  che  «  chiamossi  per  adulazione  pedantesca  "illuminato" 
ed  "aureo",  attendendo  solo  all'erudizione  e  alPeleganza  introdotta 
nelle  lettere  »,  mentre  «  per  la  sobria  filosofia  si  considera  epoca  del- 
la  decadenza  delle  Sicilie »,  e  poi  ancor  piu  nel  secolo  successive, 
in  cui  le  Sicilie  non  solo  soffrono  mali  politici  maggiori  che  il 
resto  dell'Italia,  ma  subiscono  altresi  nella  letteratura  con  par- 
ticolare  intensita  1'influenza  deleteria  del  cattivo  gusto  spagnolo. 
In  questo  oscuro  quadro  del  Seicento  il  Napoli  Signorelli  non  tra- 
scura  di  porre  in  rilievo  quei  fatti  che  possano  testimoniare  la  re- 
sistenza  all'imbarbarimento  opposta  dai  popoli  meridionali,  ma  e 
sintomo  significativo  della  sua  mentalitk  «moderata»  sia  il  suo  giu 
dizio  sulle  rivolte  popolari,  come  quella  di  Masaniello,  che  gli 
sembrano  effetti  di  «una  sfrenata  anarchia  popolare  di  cui  non 
v'ha  tirannide  peggiore»,  sia  la  sua  tendenza  a  sottolineare  piut- 
tosto  Topera  di  scienziati  puri  come  il  Cristoforo  e  il  Borrelli,  che 
quella  di  filosofi  e  riformatori  come  il  Bruno  o  il  Vanini,  de 


NOTA   INTRODUTTIVA  595 

quali  condanna  o  cerca  di  attenuate  «l'empieta»,  o  come  il  Cam- 
panella,  di  cui  deplora,  in  pieno  accordo  col  Tiraboschi  e  col 
Buonafede,  la  partecipazione  alia  famosa  congiura.  Documento  non 
meno  significative  della  mentalita  e  dei  limiti  del  Napoli  Signorelli 
e  il  quadro  della  civilta  meridionale  nel  Settecento  die  egli  deli- 
nea  nel  prime  volume  del  Supplimento  alle  Vicende  della  coltura 
mile  Sitilie  (1791)  e  nel  Regno  di  Ferdinando  IV  (1798),  e  che  poi 
riassume  e  completa  nei  due  ultimi  tomi  della  seconda  e  defi- 
nitiva  edizione  delle  Vicende  (1811).  ccBorbonico  di  cuore,  liberale 
per  isbaglio  d'una  corte  accecata  dalFodio  che  portava  alia  liber- 
ta»,  lo  giudicava  severamente  ma  giustamente  il  Manzoni.  In  real- 
ta,  malgrado  che  egli  fosse  dovuto  andarsene  dalla  Spagna  per 
ordine  di  Carlo  III  e  che  Ferdinando  IV  lo  avesse  mandato  in 
esilio  nel  1799,  anche  nelle  pagine  scritte  piu  tardi  si  sente  come, 
malgrado  alcune  riserve  particolari,  rimanga  intatta  la  sua  ammira- 
zione  per  P opera  paternalisticamente  riformatrice  di  questi  sovra- 
ni  e  per  la  cultura  che  sotto  di  essi  si  era  sviluppata  e  in  seno  alia 
quale  egli  stesso  si  era  formato,  la  pacifica  cultura  del  Genovesi 
e  del  Filangieri,  ai  quali  dedica  elogi  piuttosto  generici  ma  pieni 
di  commosso  rimpianto.  E  ancor  piu  interessanti,  poich£  valgono 
a  far  misurare  la  sua  distanza  da  quei  «giacobini»  che  essi  pure 
si  erano  formati  in  seno  a  quella  cultura,  sono  i  suoi  duri  giudizi 
sulla  Repubblica  Napoletana  del  1799  (nella  quale  aveva  *ac- 
cettato  qualche  carica,  ma  solo  perche  tratto  dagli  eventi),  aVeftmera 
repubblica  che  .  .  .  crede  di  aver  per  se  stessa  conquistato  il  regno, 
e  si  organizz6  a  seconda  del  proprio  capriccio  ed  interesse,  e  dispo 
se  delle  cariche  e  delle  ricchezze  in  vantaggio  di  coloro  che  essi 
tenevano  per  patriotti,  escludendone  ogni  uomo  onesto  di  merito 
sperimentato,  e  fabbric6  su  questo  pantanoso  fondo  tutti  i  suoi  ca- 
stelli»  (Vicende  della  coltura  nelle  due  Sicilie,  vn,  p.  287);  e  la  sua 
esultanza,  certo  caricata  ma  nel  fondo  sincera,  quando  «tutto  di 
piacer  gestiente  ripieno  il  petto  »  si  accinge  a  descrivere  la  situazione 
politica  e  culturale  durante  il  regno  di  Giuseppe  Napoleone  e  poi 
di  Gioacchino  Murat. 

Di  questi  giudizi  bisogna  tener  conto  anche  per  valutare  esat- 
tamente  le  frequenti  polemiche,  a  cui  egli  volentieri  si  abbandona, 
in  difesa  della  cultura  italiana  e  che,  malgrado  la  violenza  verbale 
con  cui  sono  condotte,  non  oltrepassano  in  realta  i  limiti  di  un 
nazionalismo  accademico,  quale  e  quello,  per  intenderci,  di  un 


59^  PIETRO   NAPOLI    SIGNORELLI 

Tiraboschi,  al  cui  fianco  egli  si  trov6  non  a  caso  nella  piii  accanita 
delle  sue  battaglie  letterarie,  quella  contro  1'ex-gesuita  spagnolo 
Lampillas:  anche  se,  a  differenza  del  Tiraboschi,  per  questa  via 
egli  giunge  a  scrivere  qualche  pagina  criticamente  notevole,  co 
me  quando,  nella  Storia  critica  de*  teatri  antichi  e  moderni,  sotto- 
linea  Tefficacia  del  teatro  rinascimentale  italiano  sul  moderno  tea- 
tro  europeo,  o  quando,  nelle  Vicende  della  coltura  mile  due  Sicilie, 
discutendo  le  affermazioni  di  chi,  come  il  Bettinelli,  aveva  a  suo 
giudizio  eccessivamente  insistito  sui  debiti  del  Petrarca  verso  la 
cultura  provenzale,  cerca  di  mostrare  la  diversita  fra  la  profonda 
e  complessa  ispirazione  sentimentale  del  Canzoniere  e  gli  esercizi 
letterari  dei  lirici  provenzali. 

Piu  che  in  questo  nazionalismo  polemico,  comunque,  Taspetto 
piu  nuovo  del  Napoli  Signorelli  parrebbe  doversi  indicare  nella 
sua  esigenza  di  rendere  giustizia  ai  caratteri  e  ai  gusti  particolari 
di  ogni  epoca  e  di  ogni  popolo:  esigenza  spesso  apertamente  di- 
chiarata,  come  quando  egli  afferma  che  ccqualunque  produzione 
deiringegno  porta  la  divisa  del  proprio  secolo,  del  costume,  del 
gusto  corrente  impressovi  con  caratteri  indelebili»;  che  «per  giu- 
dicar  dritto  di  un  autor  comico  non  basta  intender  Parte,  ma  con- 
vien  trasportarsi  al  di  lui  secolo »;  e  ancora  che  ccogni  popolo  ha 
un  gusto  particolare,  ed  e  stravagante  il  pretendere  che  il  proprio 
gusto  abbia  ad  essere  norma  a  tutti  gli  altri»  (Storia  critica  de' 
teatri  antichi  e  moderni,  n,  p.  15;  vn,  p.  54;  in,  p.  54).  Certo 
sarebbe  incauto  prendere  troppo  alia  lettera  e  interpretare  come 
sintomo  di  una  mentalita  consapevohnente  storicistica  queste  affer 
mazioni,  che  in  realta  non  incrinano  affatto  (come  nel  Voltaire 
e  negli  altri  illuministi  in  cui  non  e  difficile  isolarne  di  simili)  la 
fiducia  altrettanto  chiaramente  proclamata  nelle  regole  eterne  del- 
la  ragione  e  nel  primato  delle  verita  e  delle  bellezze  universali, 
valevoli  per  ogni  tempo  e  luogo.  Va  detto  pero  che  nel  critico  na- 
poletano  il  riconoscimento  dei  caratteri  e  dei  gusti  particolari  delle 
varie  epoche  e  dei  vari  popoli  trova  effettivo  riscontro  in  alcuni 
notevoli  giudizi  critici. 

Tali  giudizi  non  si  incontrano  di  frequente,  come  forse  ci  si 
attenderebbe,  nelle  pagine  dedicate  ai  teatri  stranieri,  e  neppure 
nella  sezione  dedicata  alia  Spagna,  dove  invece  prevale  Tintento 
di  esaminare  alia  luce  dei  criteri  della  ragione  Pinesplorato  teatro 
di  quella  nazione,  e  dove  si  puo  al  massimo  indicare  il  capitolo 


NOTA   INTRODUTTIVA  597 

dedicate  al  Calderon  per  la  circostanziata  analisi  delle  opere  e 
per  rammissione  finale  che  esiste  in  lui  «uno  spirito  elettrico  che 
sfugge  al  tatto  grossolano  di  certi  freddi  censori».  Cosi  pure, 
nelle  Vicende  della  coltura  mile  due  Sicilie,  la  sistematica  difesa 
della  civilta  meridionale  si  risolve  piuttosto  nella  indicazione  e 
magari  esagerazione  degli  episodi  e  delle  figure  in  cui  brilli  la  luce 
della  « coltura»,  che  nella  individuazione  delle  forme  caratteri- 
stiche  di  quella  civilta:  e  cio  vale  anche  per  alcune  pur  notevoli 
pagine  in  cui,  polemizzando  ancora  col  Bettinelli,  Fautore  dimo- 
stra  come  anche  prima  del  Mille  non  fosse  mai  del  tutto  spenta  la 
cultura  nell'Italia  meridionale;  o  per  quelle,  pure  degne  di  rilievo, 
dove,  parlando  del  Meli,  sostiene  la  piena  legittimita  artistica  della 
poesia  dialettale. 

C'e  pero  effettivamente  una  zona  dove  i  suoi  giudizi  si  staccano 
piu  spesso  e  piu  consapevolmente  da  quelli  della  critica  illuministi- 
ca,  la  zona  cio&  della  poesia  classica  e  specialmente  greca.  Che  a 
questa  piu  positiva  valutazione  abbia  contribuito  la  suggestione 
del  Vico,  parrebbe  da  piu  di  un  accenno,  come  quando,  a  propo- 
sito  della  teoria  vichiana  su  Omero,  il  Signorelli  afTerma  che  il 
filosofo  «  voile  insegnarci  che  le  inarrivabili  dipinture  [omeriche] 
furono  eseguite  con  tale  evidenza  e  conoscimento  dei  costumi 
eroici  che  sembra  che  ciascuna  parte  della  Grecia  ancor  barbara 
ne  avesse  impastate  le  vivacissime  tinte»  (Vicende  della  coltura  nelle 
due  Sicilie,  I,  p.  201);  o  quando  rimproverava  i  censori  delle  in- 
giurie  violente  che  si  incontrano  nelYAiace  di  Sofocle,  «per  non 
avere  abbastanza  riflettuto  alia  natura  eroica  di  que'  tempi  lon- 
tani  che  i  tragici  intesero  di  ritrarre»,  e  in  particolare  al  Calepio 
(che  aveva  definite  una  «coda  oziosa»  la  scena  in  cui  Teucro 
insiste  perche  il  corpo  del  fratello  non  rimanga  insepolto)  ricorda 
che  adopo  la  vita  era  per  gli  antichi  il  piu  importante  oggetto 
la  sepoltura;  e  noi  nel  censurarli  non  dobbiamo  dimenticare  le 
loro  opinioni»  (Storia  critica  de*  teatri  antichi  e  moderni,  I,  pp. 
no  e  1 1 6).  Manca  tuttavia  al  Signorelli  un  effettivo  gusto  del 
primitivo  e  del  barbarico,  come  dimostra,  oltre  la  sua  gia  notata 
preferenza  per  gli  autori  piu  colti  e  raffinati  quali  Euripide  e  Me- 
nandro,  Seneca  e  Terenzio,  qualche  osservazione  particolare  rivela- 
trice,  per  esempio  quando,  proprio  dopo  aver  difeso  le  ingnirie 
deWAiace  con  le  considerazioni  citate,  egli  sente  il  bisogno  di  ag- 
giungere  che  in  fondo  non  si  tratta  di  ingiurie  veramente  triviali 


59  PIETRO   NAPOLI   SIGNORELLI 

e  grossolane  (Storia  critica  de'  teatri  antichi  e  moderni,  i,  p.  112). 
Alia  radice  della  sua  preferenza  per  la  poesia  classica  c'e  piuttosto 
il  gusto  di  un  patetico  grandiose  e  vario,  espresso  in  forme  solen- 
nemente  «  semplici »,  un  gusto  cioe  che  piu  che  al  Vico  si  riallaccia 
da  un  lato  agli  insegnamenti  graviniani  e  anche  a  quelli  dei « parti- 
giani  degli  antichi »  (da  lui  frequentemente  citati,  a  cominciare 
dai  Dacier),  e  dall'altro  si  accorda  con  le  tenderize  del  nascente 
neoclassicismo  italiano  ed  europeo.  £  appunto  a  questa  sua  sen- 
sibilita  che  si  deve,  per  esempio,  la  distinzione  fra  il  «pressoche 
immenso  e  nelle  sue  grandiose  fabbriche  mirabilmente  variato 
Omero»  e  «un  poeta  limitato  e  non  rare  volte  ridotto  a  ripetere 
le  stesse  immagini  e  dipinture  come  Ossian»  (Storia  critica  de' 
teatri  antichi  e  moderni,  I,  p.  17);  alcune  interessanti  analisi  del- 
la  Medea  e  di  altre  tragedie  di  Seneca,  nelle  quali  egli  sa  indi- 
care  tra  il  sentenzioso  e  Partificioso  «i  tratti  grandi  e  gravemente 
espressi»,  «le  passioni  grandi  rilevate  . . .  con  uno  stile  vigoroso 
•ed  energico»;  e  soprattutto  una  serie  di  acuti  confronti  fra  opere 
classiche  e  opere  classicistiche,  tra  YIppolito  di  Euripide  e  la  Fedra 
•del  Racine,  fra  VAnfitrione  di  Plauto  e  quello  del  Moliere,  ecc., 
in  cui  il  confronto  si  risolve  in  una  positiva  caratterizzazione  non 
solo  del  poeta  antico  ma  anche  del  moderno. 

Piu  particolareggiate  « analisi  comparative))  sono  contenute  nei 
tre  tomi  Delle  migliori  tragedie  greche  e  francesi  (1804-1805),  dove 
non  manca  qualche  altra  pagina  critica  notevole,  ma  si  fa  pero  piu 
evidente,  per  Taccentuarsi  della  tendenza  ad  erigere  la  tragedia 
greca  quale  modello  ideale,  la  distanza  che  separa  il  Signorelli 
da  una  mentalita  dawero  storicistica.  Questa  distanza  e  in  genere  la 
sua  incapacita  di  oltrepassare  veramente  i  limiti  del  pensiero  e 
del  gusto  illurninistico,  sono  testimoniate  anche  piu  chiaramente 
da  due  opere  teoriche  composte  e  pubblicate,  come  la  precedente, 
a  Milano,  dove  il  Signorelli  si  era  trasferito,  dopo  qualche  anno 
passato  in  Francia,  in  seguito  al  suo  esilio  da  Napoli,  e  dove  egli 
rimase  dal  1800  al  1804  esercitando  gli  incarichi  di  professore 
di  poesia  rappresentativa  al  Liceo  di  Brera  e  di  direttore  di  decla- 
mazione  nelTAccademia  del  Teatro  Patriottico.  Nella  prima  opera, 
nata  appunto  in  margine  a  queste  attivita  e  che  si  intitola  Elementi 
di  poesia  drammatica  (Milano  1801),  ritorna,  fondamentale,  il 
concetto  che  ceil  teatro,  che  abbraccia  cotanta  parte  della  societa, 
&  il  solo  atto  ad  occupare  Paltissimo  incarico  di  pubblico  educatore, 


NOTA   INTRODUTTIVA  599 

il  solo  educatore  bene  accolto  poiche  unisce  Futilita  al  diletto» 
(p.  i>)'  e  intorno  a  questo  concetto  si  dispongono  con  pacifico  eclet- 
tismo  i  principii  dell'estetica  razionalistica  e  sensistica,  da  quello 
dell'arte  come  (cimitazione  della  verita  velata  e  abbellita  dalla 
finzione»  a  quelli  della  verosimiglianza,  dell'unita  nella  varieta, 
del  patetico  educative  e  similL  Per  dare  un'idea  delFaltro  trattato, 
Del  gusto  (Milano,  Galeazzi,  1802;  ripubblicato,  con  poche  varia- 
zioni  e  col  titolo  Del  gusto  e  del  Bello,  a  Napoli,  Orsino,  1807), 
bastera  citare  le  definizioni,  che  vi  sono  contenute,  del  gusto,  «un 
sentimento  pronto  e  delicato  che  misura  il  piacere  e  rileva  Fessen- 
za  del  Bello  e  del  deforme,  rintracciando  le  regole  delFarte  sua 
imitatrice»  (p.  17),  e  del  Bello,  «ci6  che  in  s6  contiene  la  ragione 
di  eccitare  nel  nostro  intelletto  1'idea  piacevole  dei  rapporti  col- 
Funita  colla  proporzione  colFordine  colFarmonia  delle  parti »  (p. 
41):  definizioni  a  cui  Fautore  stesso  dichiara  di  esser  pervenuto 
acogliendo  il  piu  bel  fiore»  del  Crousaz,  delFHutcheson,  dell1  An 
dre  e  del  Pagano. 

Ne  diversamente  impostate  sono  altre  due  opere,  che  il  Signo 
relli  compose  negli  ultimi  anni  della  sua  lunga  vita,  pacificamente 
trascorsi  a  Napoli,  alFombra  del  governo  muratiano,  e  che  furono 
pubblicate  dopo  la  sua  morte,  awenuta  il  i°  aprile  1815:  il  trattato 
Sulla  satira  antica  e  moderna  (stampato  negli  «Atti  della  Societa 
Pontaniana»,  in,  1819)  e  le  Ricerche  sul  sistema  melodrammatico 
(negli  stessi  «Atti»,  IV,  1847),  fondate  queste  ultime  sulFidea, 
anch'essa  tipicamente  settecentesca,  che  Fopera  in  musica  e  «quel- 
la  azione  che  sulle  umane  modellata  si  espone  agli  ascoltatori 
per  trattenerli  gratamente»  e  naturalmente  per  contribuire,  at- 
traverso  questa  grata  emozione,  alia  purgazione  razionale  delle  lo- 
ro  passioni. 

L'elenco  complete  dei  molti  scritti  editi  ed  inediti  di  Pietro  Napoli 
Signorelli  si  trova  in  appendice  al  volume  del  Mininni  citato  piu  avanti. 
Le  opere  di  maggior  rilievo  sono  state  ricordate  nella  precedente  Nota 
introduttiva.  Aggiungiamo  qui  il  Discorso  storico  critico  da  servire  di  htme 
alia  «  Storia  critica  de'  teatri  »  e  di  risposta  alTautore  del « Saggio  apologetico  », 
Napoli,  Amato  Cons,  1783  (diretto  a  ribattere  le  accuse  mossegli  dal 
LampiUas  negli  ultimi  due  volumi  del  suo  Saggio  storico  apologetico  della 
letter atura  spagnola,  Genova  1778);  il  Discorso  istorico,  premesso  al  volu 
me  i  (1788)  degli  «Atti  della  R.  Accademia  napoletana  di  Scienze  e  Let- 
tere»,  di  cui  il  Signorelli  era  allora  segretario;  i  quattro  volumi  di  Opuscoh 


600  PIETRO   NAPOLI   SIGNORELLI 

varii,  Napoli,  Vincenzo  Orsino,  1792-1795  (dove  sono  raccolte,  fra  Paltro, 
le  commedie  Faustina  e  La  tirannia  domestica) ;  e  infine  i  tre  volumi  degli 
Elementi  di  critica  diplomatica  con  istoria  preliminare,  stampati  il  I  a  Parma, 
Mussi,  1805,  e  il  ii  e  m  a  Milano,  Stamperia  e  Fonderia  Al  Genio,  1805; 
ai  quali  fa  seguito  un  iv  volume  di  Elementi  di  diplomatica  politica,  Napoli, 
Vincenzo  Orsino,  1808. 

Gli  studi  complessivi  sul  Napoli  Signorelli  si  limitano  al  vecchio  scrit- 
to  di  P.  M.  AVELLINO,  Elogio  storico  di  P.  Napoli  Signorelli,  nel  «  Giornale 
enciclopedico »,  I  (1816),  pp.  160-201,  e  poi  in  «Atti  della  Societa  Ponta- 
niana»,  in  (1819),  pp.  XXXIV-LVII;  e  alia  monografia,  criticamente  assai 
modesta  ma  importante  per  le  notizie  sulla  vita  e  sugli  scritti,  di  C.  G. 
MININNI,  P.  Napoli  Signorelli.  Vita,  opere,  tempi,  amid,  con  lettere,  docu- 
menti  ed  altri  scritti  ineditit  Citta  di  Castello,  Lapi,  1914  (da  integrare  con 
le  recensioni  di  G.  BROGNOLIGO,  in  «Rass.  crit.  d.  lett.  it. »,  1914,  pp.  53-6; 
e  di  C.  CALCATERRA,  in  <cGiorn.  stor.  d.  lett.  it. »,  LXVI,  1915,  pp.  234-54). 

In  particolare  sulla  Storia  critica  de*  teatri  antichi  e  moderni  si  veda: 
V.  CIAN,  Italia  e  Spagna  nel  secolo  XVIII.  G.  B.  Conti  e  alcune  relazioni 
letter arie  fra  V Italia  e  la  Spagna  nella  seconda  meta  del  Settecento,  Torino, 
Lattes,  1896,  pp.  165-208  (soprattutto  sulla  parte  relativa  al  teatro  spa- 
gnolo).  Sugh  Elementi  di  critica  diplomatica'.  N.  BARONE,  Pagine  di  storia 
della  diplomatica,  in  «Atti  dell'Accademia  Pontaniana»,  1908;  R.  GUARI- 
GLIA,  P.  Napoli  Signorelli,  maestro  di  diplomazia,  in  « Nuova  Antologia », 
LXXXVIII  (1953),  fasc.  115,  pp.  3-18.  Non  vanno  infine  dimenticate  le  ra- 
pide  ma  criticamente  importanti  indicazioni  di  M.  FUBINI  nello  studio 
Racine  et  la  critique  italienne  (1939),  ristampato  nel  volume  Dal  Muratori 
alBaretti,  Bari,  Laterza,  1954  (cfr.  specialmente  lepp.  402-3 ;  408-9 ;  421-2). 


DALLA  ASTORIA  CRITICA  DE'  TEATRI 
ANTICHI  E  MODERNS 

[I] 
In  qudli  cose  si  rassomigU  ogni  teatro.1 

Una  catena  d'idee  uniformi  fece  spuntar  la  poesia  rappresenta- 
tiva  in  tanti  paesi  che  insieme  non  comunicavano ;  ed  il  concor- 
so  di  altre  simili  idee,  soprawenute  a  moltissime  societa  pure 
senza  bisogno  di  esempio,  le  condusse  a  produrre  alcuni  fatti  co- 
muni  a  tutti  i  teatri. 

L'idea  di  stendere  la  Storia  critica  de'  teatri  antichi  e  moderni  nacque  alia 
mente  del  SignorelH  durante  il  suo  soggiorno  in  Spagna,  e  in  particolare 
durante  le  fervide  conversazioni  tenute  nella  Tertulia  literaria  de  lafonda 
de  San  Sebastian,  conversazioni  in  cui  i  problemi  teatrali  avevano,  come 
sappiamo  dal  SignorelH  stesso,  parte  preponderante.  L'autore  aveva  gia 
pronta  la  sua  opera  quando  torno  in  Italia  nel  1777,  tanto  da  poterla  far 
stampare  in  quell5  anno  stesso  a  Napoli,  presso  la  Stamperia  Sansimoniana. 
A  questa  prima  edizione,  in  un  solo  volume,  il  Signorelli  ne  fece  seguire 
una  seconda,  gia  in  parte  iniziata  in  Spagna,  e  che  fu  pubblicata  a  Napoli, 
presso  Yincenzo  Orsino,  in  sei  tomi,  il  I  e  il  n  nel  1787,  il  in  nel  1788, 
il  iv  nel  1789  e  il  v  nel  1790:  edizione  assai  piu  ampia  della  prima,  per 
1'aggiunta  di  paragrafi  su  molti  scrittori  minori  e  di  analisi  di  parecchie 
opere,  ma  nella  struttura  e  nello  spirito  sostanzialmente  fedele  alia  prima. 
Un  volume  di  Addizioni  usci  poi  a  Napoli,  presso  Migliaccio,  nel  1798. 
Infine  una  terza  e  definitiva  edizione  della  Storia,  in  cui  venne  rifusa  la 
materia  delle  Addizioni,  e  corredata  di  nuove  aggiunte,  fu  pubblicata  ^ nel 
1813  a  Napoli,  presso  Vincenzo  Orsino,  in  dieci  tomi  (di  cui  I'ultimo 
distinto  in  due  volumi),  nei  quali  gli  argomenti  sono  cosi  distribuiti: 
nei  primi  due  tomi  si  tratta  del  teatro  greco,  nel  ill  e  nel  IV  del  teatro 
latino  e  di  quello  medioevale;  nel  v,  nel  vi  e  nel  vn  del  teatro  italiano, 
inglese,  francese,  tedesco  e  spagnolo  del  Cinquecento  e  del  Seicento: 
nell'vm,  IX  e  x  del  teatro  di  queste  e  altre  nazioni  nel  Settecento.  In 
appendice  al  iv  tomo  e  ristampata  la  Prolusione  alle  lezioni  di  poesia  rap- 
presentativa,  tenuta  e  pubblicata  per  la  prima  volta  nel  1801  (Milano, 
Veladini).  I  passi  qui  riprodotti  sono  tratti  da  questa  ultima  edizione. 
Le  note  del  Napoli  Signorelli  sono  seguite  dalla  sigla  N.  S. 

i.  Dalla  Storia  critica  de'  teatri  antichi  e  moderni,  ed.  cit.,  I,  pp.  12-22. 
Si  noti  in  questo  passo  come  il  Signorelli,  oltre  le  singole  remimscenze 
che  verranno  notate,  abbia  tratto  dal  Vico  e  appHcato  alia  storia  del  teatro 
il  principio  esposto  neUa  degnita  mi:  «Idee  uniformi  nate  appo  intien 
popoli  tra  essoloro  non  conosciuti  debbon  avere  un  motivo  comune  di 
vero»,  e  1'altro  fondamentale  principio,  espresso  nella  degnita  LUi  e  in 
tanti  altri  luoghi  della  Sdenxa  nuova,  del  ritmo  eterno  di  sens©,  fantasia 
e  raziocinio;  e  abbia  tenuto  presente  altresi  il  capitolo  intitokto  Istona  de 
poeti  dramatici  e  Uriel  ragionata  (cfr.  La  scienza  nuova,  in  Opere,  a  cura  di 
F.  Nicolini,  Milano-Napoli,  Ricciardi,  1953,  PP-  762-7)- 


602  PIETRO   NAPOLI   SIGNORELLI 

Come  il  genere  umano  diviso  in  grandi  famiglie  e  societa  ci- 
vili  ha  la  sussistenza  di  esse  assicurata  colPunione  delle  forze 
particolari,  e  proweduto  al  comodo  colla  fatica,  tosto  si  volge  a 
procacciarsi  riposo  e  passatempi.  Manifesta  allora  lo  spirito  imi- 
tatore,  e  chiede  un  teatro.  Ma  dall'idea  complicata  di  societa  non 
pu6  a  ragione  scompagnarsi  quella  di  una  divinita  e  di  un  culto 
religioso1  (malgrado  de'  sofismi  e  delle  sceme  induzioni  de'  mo- 
derni  lucreziani),  e  tali  idee  nelT  inf anzia  delle  nazioni  agisco- 
no  con  tanto  maggior  vigore,  quanto  minore  e  la  fiducia  che  al 
lora  ha  Tuomo  nella  debolezza  del  proprio  discorso.  Quindi  e  che 
non  si  tosto  egli  comincia  a  far  prova  delle  forze  del  suo  inge- 
gno,  che  ne  dirige  le  primizie  a  quella  Prima  Cagione  da  cui  sente 
interiormente  di  dipendere.  Troviamo  perci6  nella  storia  ante- 
riore  ad  ogni  profana  produzione  gli  oracoli  composti  da  sacer- 
doti  gentili,  le  greche  poesie  nomiche  e  ditirambiche  ad  Apollo  e  a 
Bacco,  i  versi  saliari  del  Lazio,  grinni  peruviani  al  Sole,  quel- 
le  de'  Germani  alle  loro  guerriere  divinita,  e  tanti  altri.  Pieni 
adunque  i  popoli  di  tali  idee  religiose  molto  naturalmente  le  tra- 
sportano  eziandio  ne5  loro  passatempi,  i  quali  in  tal  guisa  quasi 
consacrati  si  cangiano  in  una  specie  di  rito;  ond'e  che  per  primo 
fatto  generale  osserviamo  che  in  tanti  paesi  tutte  le  prime  rappre- 
sentazioni  furono  sacre. 

II  nostro  intendimento  poi,  il  quale  da'  sensi  attende  le  no- 
tizie  delle  cose  esteriori,  non  in  un  tratto  ma  successivamente 
si  arricchisce.  Egli  si  awezza  al  facile,  cioe  ad  osservare  i  parti 
colari  e  a  dipingerseli;  e  prima  di  avere  acquistata  una  gran  copia 
d'unmagini  e  di  averle  in  mille  guise  combinate,  non  pu6  per 
una  piena  induzione  sollevarsi  agli  universali,  donde  comincia  il 
sillogismo.  L'uomo  adunque  precede  per  gradi  ne'  lavori  del- 
Pingegno,  ed  e  naturalmente  prima  poeta  che  filosofo.  Perci6 


i.  Plutarco  nel  libro  Contra  Colote  [31,  1 125  e]  afferma  con  asseveranza  che 
possono  ben  trovarsi  nel  mondo  citta  senza  mura,  senza  lettere,  senza  re, 
senza  case,  senza  facolta,  senza  moneta,  senza  teatri,  senza  ginnasi;  ma  senza 
templi,  senza  numi,  senza  oracoli,  ou£si<;  Icmv  ouSl  laral  yeyovGi;  -8-ear^c;, 
n£  alcuno  la  vide  ne*  la  vedra  mai.  II  Warburton  nella  sua  Divina  missione 
di  Mose  validamente  sostiene  la  necessita  della  religione  per  la  societa 
(N.S.)-  L' opera  citata  del  teologo  inglese  William  Warburton  (1698-1779), 
Divine  Legation  of  Moses  demonstrated  on  the  Principles  of  a  Religious  Deist, 
fu  pubblicata  tra  il  1737  e  il  1741.  Ma  per  lo  stesso  concetto  cfr.  anche 
Vico,  La  sdenza  nuova,  ed.  cit.,  p.  480. 


STORIA   CRITICA  DE'    TEATRI   ANTICHI   E   MODERNI        603 

s'incontra  da  per  tutto  la  poesia  coltivata  prima  della  filosofia 
e  Pesercizio  del  verseggiare  anteriore  allo  scrivere  in  prosa.1  Co- 
minciando  dagli  Ebrei  Popera  letteraria  piu  antica  sono  i  Cantid 
del  loro  legislatore  Mose.  In  versi  erano  le  memorie  de'  defun- 
ti  scolpite  nelle  colonne  egiziane,  ed  intorno  alle  urne  lagrimali 
poste  ne'  sepolcri  d'Iside  e  di  Osiride  vedevansi  incise  alcune  can- 
zoni,  come  puo  leggersi  nel  primo  libro  della  storia  di  Diodoro 
Siculo.  Tra'  barbari  le  prime  leggi  dettaronsi  in  canzoni.2  Se- 
condo  Ateneo  nelle  feste  degli  Ateniesi  cantavansi  le  leggi  del 
nostro  Caronda.3  I  Goti,  feroci  popoli  antichi  della  Scandinavia 
die  abitavano  nelle  coste  del  Baltico,  ebbero  le  famose  poesie 
runiche  che  talora  erano  ancor  rimate,  e  i  loro  poeti  detti  ascal- 
di»,  i  cui  canti  chiamaronsi  zoyses.4  I  Celti,  nazione  piu  antica  e 
piu  potente  dej  Goti,  pregiarono  sommamente  i  loro  ccbardi».  Tra 
gli  antichi  Scozzesi  ed  Irlandesi  di  origine  celtica  fiorirono  mol- 
tissimi  cantori  appellati  parimenti  ccbardi»,  nel  cui  ordine  sembra 
che  avessero  luogo  ancor  le  donne  per  quello  che  apparisce  dal 
poema  di  Ossian  intitolato  Canti  di  Selma: 

.  . .  vedi  con  esso 

i  gran  figli  del  canto,  Ullin  canuto 
e  Pino  il  maestoso,  e  il  dolce  Alpino 


i .  Ci6  ne  sugerisce  un  f ondato  raziocinio  sostenuto  da  antichissime  tradi- 
zioni  e  dalla  storia :  che  che  ne  abbiano  pensato  in  contrario  Ludovico  Castel- 
vetro  nelle  sue  esposizioni  alia  Poetica  di  Aristotile,  Le  Batteux  nella  sua 
opera  Le  belle  arti  ridotte  ad  un  principio,  e  1'autore  [anonimo]  dell'articolo 
Prose  nel  dizionario  deWEnciclopedia  (N.  S.)-  L' opera  del  Castelvetro  a  cui  si 
allude  e  la  Poetica  d>  Aristotile  vulgarizzata  ed  esposta  (15?°):  quella  del 
Batteux  (e  non  Le  Batteux  come  il  Signorelli  costantemente  scrive)  il 
trattato  Les  beaux  arts  reduits  a  un  meme  principe  (1746).  L'idea  della 
precedenza  della  poesia  rispetto  alia  prosa  risale  in  ogni  modo  al  Vico  (cfr. 
La  scienza  nuova,  ed.  cit.,  p.  559  e  passim),  anche  se  si  ritrova  poi  nei 
pensatori  sensisti.  2.  Aristotile  nel  I  de'  Politici.  Pu6  anche  vedersi  su 
di  cio  Topera  di  Goguet,  De  Vorigine  des  loix,  [des  arts  et  des  sciences  et 
de  leurs  pr ogres  chez  les  anciens  peuples,  Paris  1758],  torn.  I,  part.  I,  lib.  I 
(N.  S.).  L' opera  del  Goguet,  piu  volte  ristampata,  e  importante  soprattutto 
in  quanto  viene  ad  infirmare  la  tesi  del  Rousseau  sullo  stato  di  natum 
II  luogo  di  Diodoro  Siculo:  I,  xxi,  9.  3.  Caronda,  uno  dei  piu  anticM  e 
famosi  legislatori  del  mondo  greco,  dette  le  leggi  alia  citta  di  Catania, 
4  Olao  Wormio,  De  litteratura  runica;  e  Mallet,  neWIntroduzione  alia 
storia  di  Danimarca  (N.  S.)-  L'opera  di  Ole  Worm  .(1588-1654),  ^edko 
ed  erudito  danese,  fu  pubblicata  nel  1636.  Per  quella  del  MaBet  cfr.,  alle 
pp.  115-6,  la  nota  al  v.  410  di  Fingal. 


604  PIETRO   NAPOLI   SIGNORELLI 

dalV  armomca  voce,  e  di  Minona 
il  soave  lamented 

Secondo  Tacito  i  German!  non  aveano  altra  storia  se  non  che  i 
canti  de'  loro  bardi.z  Lino,  Orfeo,  Museo,  Esiodo,  Omero,  ecc.  fio- 
rirono  in  Grecia  molto  tempo  avanti  che  scrivessero  in  prosa  Cad- 
mo  ed  Ecateo  milesii  e  Ferecide  siro,3  maestro  di  Pitagora.  Gli 
anzinominati  versi  saliari  latini  sono  anteriori  alia  prosa  usata 
la  prima  volta  da  Appio  Cieco  contro  Pirro.  AU'emergere  dalla 
seconda  barbaric  le  moderne  nazioni  europee,  prima  di  avere  chi 
potesse  dettare  uno  squarcio  di  prosa  competente,  abbondarono  di 
trovatori  provenzali  e  di  rimatori  siciliani.  I  Lapponi,  popolo 
assai  materiale  e  barbaro,  fanno  versi.  Ne  fecero  in  AfTrica  e  in 
Asia  molti  negri  ed  indiani  senza  lettere.  Nel  Nuovo  Mondo  i  Ca- 
raibi,  i  Brasiliani,  gli  abitanti  della  Florida  e  del  Mississipi, 
gFIrochesi  e  gli  Uroni  compongono  canzoni.4 1  Messicani  ne  inse- 
gnavano  alcune  aj  fanciulli,  le  quali  contenevano  le  imprese  de' 
loro  eroi  e  servivano  d'istorie.  ((Strana  cosa»  diceva  il  sig.  di 
Voltaire  «che  quasi  tutte  le  nazioni  abbiano  prodotto  poeti  pri 
ma  di  altri  scrittori».s  Non  v'ha  cosa  meno  strana  di  questa.  La 
prosa,  colla  quale  si  ragiona  ordinatamente,  abbisogna  di  metodo 
e  di  principii  che  non  si  acquistano  prima  che  Tintendimento  si 
perfezioni.  La  poesia  che  dipigne,  abbisogna  d'irnmagini  che  rap- 
presentano  le  cose,  la  cui  storia  dalla  prima  eta  si  va  imprimen- 


i-  Veggasi  la  bella  versione  de*  poemi  pubblicati  sotto  il  nome  di  Os- 
sian  fatta  dal  sig.  ab.  Melchiorre  Cesarotti  sulla  traduzione  inglese  di 
Macpherson,  impressa  in  Padova  nel  1763.  Questo  famoso  bardo  celtico 
di  Scozia,  figliuolo  di  Fingal,  che  scrisse  in  lingua  ersa  o  gallica,  merita 
un  posto  distinto  tra*  poeti,  bench6  al  pressoche  immenso,  e  nelle  sue 
grandi  fabbriche  mirabilmente  variato  Omero,  non  sembri  paragonabile 
un  poeta  limitato  e  non  rare  volte  ridotto  a  ripetere  le  stesse  immagini  e 
dipinture  come  Ossian  (N.S.).  Per  i  versi  citati  cfr.,  alle  pp.  248-9,  I  canti 
di  Selma,  24-8.  2.  Secondo  .  .  .  bardi:  cfr.  Germ.,  2.  3.  Gli  antichi  dispu- 
tavano  se  il  primo  prosatore  greco  fosse  Cadmo  di  Mileto,  presunto  autore 
di  una  Fondazione  di  Mileto  e  di  tutta  la  Ionia,  o  Ferecide  di  Siro,  che  scrisse 
una  cosmogonia  intitolata  VAntro  dai  sette  recessi:  Puno  e  1'altro  fioriti  nel 
VI  secolo  a.  C. ;  del  V  secolo  incipiente  e  Ecateo  di  Mileto,  il  maggiore  dei 
logografi.  4.  Vedi  la  Dissertazione  del  dottor  Browon  sulla  nascita,  1'u- 
nione,  il  potere,  i  progressi,  la  separazione  e  il  corrompimento  della  poesia 
e  della  musica,  stampata  in  Londra  nel  1763  (N.  S.).  5.  Cfr.  Essai  sur  la 
poesie  epique,  v,  in  Oeuvres,  vin,  Paris,  Hachette,  1902,  p.  22:  « chose 
estrange  que  presque  toutes  les  nations  du  monde  aient  eu  des  poetes 
avant  que  d'avoir  aucune  sorte  dJ6crivains ». 


STORIA   CRITICA   DE»    TEATRI  ANTICHI   E  MODERNI         605 

do  nella  fantasia.  Oltre  a  cio  gli  scrittori  primitivi  ambivano 
di  scostarsi  dal  favellar  volgare,  e  non  essendo  ancor  destri  abba- 
stanza  per  conseguirlo  nella  sciolta  orazione  che  aveano  comune 
con  tutti,  adoperarono  la  meccanica  dej  versi,  i  quali  subito  e  a 
poco  costo  allontanansi  dal  linguaggio  naturale.  Quindi  si  scorge 
perch6  tutte  le  prime  composizioni  sceniche  (come  non  molto  lon- 
tane  da'  primi  passi  delle  nazioni  verso  la  coltura)  si  trovino  scritte 
in  versi,  cbe  e  il  secondo  fatto  generale  da  notarsi  ne'  teatri. 

Ma  quando  le  societa  diventano  piu  colte,  veggonsi  tosto 
gPinconvenienti  che  produce  quel  mescolarsi  un  divertimento 
colle  delicate  materie  religiose.  Allora  le  classi  de'  cittadini  si 
vanno  aumentando,  si  assegnano  a  ciascuna  di  esse  i  lirniti  e  le 
cure  corrispondenti;  e  la  religione  intatta  e  rispettata  va  a  sedere 
in  un  trono  augusto  e  sublime,  donde  si  vede  a*  piedi  gli  autorevoli 
capi  delle  societa,  non  che  i  poetici  scherzevoli  capricci.  Da  tal 
punto  i  poeti  teatrali  tutta  rivolgono  la  curiosita  verso  gli  oggetti 
non  religiosi,  notano  le  grandi  rivoluzioni  e  gli  evenimenti  me- 
diocri,  ne  scuoprono  le  ingiustizie,  le  stravaganze,  le  ridicolezze, 
ne  tentano  la  correzione,  e  i  teatri  fortunatamente  si  cangiano  in 
tante  scuole  di  sana  morale.  £  questo  il  terzo  fatto  osservato  in 
tutti  i  teatri. 

Cresce  poi  nelle  nazioni  colla  coltura  la  popolazione,  colla  po- 
polazione  la  ricchezza,  colla  ricchezza  il  lusso,  e  col  lusso  cre- 
scono  nuovi  bisogni  e  nuovi  mali.  II  teatro  che  vuol  considerarsi 
come  uno  de'  pubblici  educatori,  per  rimediare  a  que'  mali  so- 
vente  eccede,  trascorre,  inveisce  e  degenera  in  malignita,  e  tal- 
volta  awiene  che  si  corrompa  coU'esempio  del  resto  della  societa. 
NelTuno  e  nelTaltro  caso  viene  dalla  vigilanza  della  legge  corretto 
e  richiamato  al  dovere.  Ma  questo  freno  che  apparentemente  avreb- 
be  dovuto  inceppare  Pattivita  degFingegni,  in  tutti  i  teatri  che  co- 
nosciamo  bene,  ha  prodotto  awenturosamente  un  effetto  assai 
diverso.  Imperciocche,  in  cambio  di  trattenere  il  volo  dell'immagi- 
nazione  de'  poeti,  la  legge  gli  ha  costretti  ad  uscire  dalVuniforanta^ 
a  spianarsi  nuove  strade,  ed  a  renders  il  teatro  piu  vago,  pill  vario^ 
piu  delicato.  Ed  e  questo  il  quarto  fatto  da  notarsi,  che  noi  trovere- 
mo  awerato  in  tutti  i  teatri  europei,  e  dall'analogia  delle  idee  ci 
sentiamo  inclinati  a  conchiudere  che  troveremmo  eziandio  ne* 
teatri  orientali  e  in  quello  del  Peru,  se  gli  storici  e  i  viaggiatori, 
da'  quali  soltanto  noi  possiamo  instruirci  sulla  legislazioae  e  la 


6o6 


PIETRO   NAPOLI   SIGNORELLI 


poesia  di  tali  region!,  si  fossero  awisati  di  riguardarli  nel  punto  di 
vista  die  qui  presentiamo. 

Or  da  quanto  si  e  ragionato  scende  per  natural  conseguenza 
che  la  poesia  rappresentativa  non  nasce  nelle  tribu  de'  selvag- 
gi,  perche  essa  richiede  maggior  complicazione  d'idee  per  saper 
volgere  rimitazione  in  satira  ed  istruzione.  In  fatti  nelle  picciole 
nascenti  popolazioni  del  vecchio  e  del  nuovo  continente  trovan- 
si  si  bene  i  semi  della  drammatica,  cioe  saltazione,  canto,  ver- 
si,  ma  non  rappresentazione  che  meriti  di  chiamarsi  teatrale. 
Ne  segue  parimenti  un'altra  filosofica  e  sicura  conseguenza,  cioe 
che  la  poesia  teatrale  prende  1'aspetto  della  coltura  di  ciascun  po- 
polo:  se  esso  non  eccede  i  costumi  primitivi  e  semplici,  Pimi- 
tazione  scenica  ne  secondera  la  materia:  se  ha  costumi  barbari, 
feroci,  romanzeschi,  il  teatro  gl'irnitera:  e  se  si  giunga  all'ultimo 
rafEnamento  e  alia  doppiezza  propria  de'  popoli  culti,  nasceranno 
i  Tartuffi  de'  Molieri  e  i  Cleoni  de'  Cresset.1 


[II] 
[L\(Ippolitoy>  d'Euripide  e  la  «  Fedra  »  di  Racine.}2 

La  scena  dell'atto  secondo,  in  cui  Fedra  manifesta  alia  nutrice 
la  cagione  del  suo  male,  fu  ancora  trasportata  quasi  interamente 
dal  Racine  nella  sua  tragedia,  a  riserba3  di  uno  squarcio  molto 
delicato,  in  cui  Fedra  risponde  alle  istanze  della  nutrice: 

Ah  prevenirmi  perche  mai  non  puoi? 
Perche  non  dir  tu  stessa 
do  che  forza  e  scoprire?4 

i.  i  Cleoni  dey  Gresset:  allude  al  protagonista  della  commedia  Le  mechant 
di  Jean-Baptiste  Gresset  (1709-1777),  in  cui  e  rappresentato  satiricamente 
un  carattere  egoista  e  maldicente,  per  puro  gusto  di  noirceur.  II  Napoli 
Signorelli  si  sofferrna  su  questa  commedia  nella  Storia  critica  de*  teatri 
antichi  e  moderni,  ed.  cit.,  viu,  pp.  147-53.  2-  Dalla  Storia  critica  de' 
teatri  antichi  e  moderni,  ed.  cit.,  I,  pp.  158-61.  Un  confronto  piu  ampio 
e  particolareggiato  fra  le  due  tragedie  verra  poi  svolto  dal  Signorelli  nella 
Analisi  comparativa  dett'tlppolito  »  greco  e  della  « Fedra  vfrancese,  nel  tomo  I 
delFopera  Delle  miglion  tragedie  greche  e  francesi,  ed.  cit.,  pp.  i-xxxii, 
come  introduzione  alle  proprie  traduzioni  delle  tragedie  stesse.  In  questo 
secondo  confronto  sono  piu  numerose  le  riserve  sulla  tragedia  francese. 
3.  a  riserba:  ad  eccezione.  4.  Traduce  liberamente  il  v.  345  deWIppolito 
di  Euripide,  che  letteralmente  suona:  «Ahime!  Perche  non  mi  dici  tu 
stessa  le  parole  che  io  dovrei  dire?». 


STORIA    CRITICA   DE>    TEATRI   ANTICHI   E  MODERNI         607 

Per  altro  Tillustre  txagico  francese  scorre  piu  rapido  e  con  maggior 
nerbo,  ne  si  ferma  come  fa  Euripide  a  far  dire  da  Fedra  alia  nu- 
trice:  «Sai  tu  che  mai  sia  una  certa  cosa  che  si  chiama  amore?»; 
e  giudiziosamente  si  appiglia  subito  a  quelle  parole:  «Conosci 
tu  il  figlio  dell'Amazone.V  Anche  la  scena  di  Teseo  ed  Ippo- 
lito  nell'atto  quarto  e  stata  dal  Racine  copiata  maestrevolmen- 
te ;  ma  la  greca  riesce  piu  tragica  e  importante  per  lo  spettacolo 
di  Fedra  morta.  Racine  in  somma  si  e  approfittato,  da  gran- 
de  ingegno  ch'egli  era,  della  tragedia  greca;  ma  avendo  preso 
un  cammino  alquanto  differente,  ne  ha  dovuto  perdere  non  poche 
bellezze,  come  il  dolore  di  Teseo  per  la  morte  di  Fedra  e  la  tra 
gica  scena  d'Ippolito  moribondo.  II  racconto  della  di  lui  morte  e 
vagamente  ornato  ma  con  sobrieta  e  naturalezza  nel  greco,  e  so- 
verchio  pomposo  e  poetico  nel  tragico  francese.  Osserva  il  lodato 
Brumoy  che  alTincontro  del  mostro  il  poeta  greco,  pieno  del  ter- 
rore  che  ne  presero  i  cavalli,  non  presta  ad  Ippolito  altro  pensiero 
se  non  se  quello  di  governarli.  Seneca  gli  diede  maggior  coraggio 
facendolo  disporre  ad  assalire  il  mostro.  Racine  passa  piu  oltre, 
e  fa  che  arrivi  a  lanciare  un  dardo  che  lo  ferisce.  ccNel  che»  sog- 
giugne  quell'erudito  «si  scorge  il  progresso  della  mente  umana  che 
tende  sempre  alia  perfezione  ».2  lo  ardisco  dissentire  dal  di  lui  av- 
viso.  Ognuno  de*  tre  potrebbe  trovare  qualche  partigiano  che  ne 
approvi  rimmagine  che  rappresenta;  ma  il  greco  a  me  sembra  assai 
piu  internato  nella  verita  delPorribil  caso.  E  questo  ne  addita  lo 
spirito  de*  Greci  ognora  intento  a  copiare  con  esattezza  la  natura 
e  lo  spirito  dej  moderni  propenso  a  spingerla  oltre,  a  manierar- 
la,  a  preferire  al  vero  lo  specioso.  Questo  confronto  degli  au- 
tori  antichi  e  moderni  in  un  medesimo  argomento  e  il  vero  modo 
di  pesarne  il  merito  rispertivo,  e  di  studiare  nel  tempo  stes- 
so  Tarte  drammatica  con  fondamento.  In  simil  guisa  si  rileva 
Fartificio  usato  da'  diversi  scrittori  nel  maneggiare  le  passianiy  ma- 
teria  essenziale  della  poesia  drammatica  che  non  varia  per  tempo 
ne  per  luogo.  II  tacciar  quelli  o  questi  per  le  maniere^  per  un  de- 
coro  locale,  variabile  e  incostante  al  pari  della  moda  (siccome  fanno 
certi  critici  moderni),  e  un  far  la  guerra  agli  accidenti  e  sfuggire  la 

1.  Traduce  liberamente  i  w.  347  e  351  dell5 'Ippolito  di  Eimpide,  cbe, 
esattamente  resi,  suonano :  « Che  e  dunque  ci6  che  si  chiama  amare  presso 
gli  uomini?»,  e  «Colui,  chiunque  esso  sia,  che  nacque  daIFAmazzaae»* 

2.  Cfr.  P.  Brumoy  (su  cui  vedi  la  nota  i  a  p.  49),  Le  th&&re  des 
Paris  1763,  n,  pp.  327-8. 


608  PIETRO   NAPOLI   SIGNORELLI 

sostanza  della  contesa,  e  un  volere  allucinar  volontariamente  se 
stessi  e  chi  loro  crede.  Di  grazia,  quando  anche  accorderemo  a 
Udeno  Nisieli,  a  Pietro  da  Calepio1  e  ad  ogni  altro  che  Ippolito, 
trafitto  dalla  sventura  che  soffre  immeritatamente,  sia  trascorso  in 
una  espressione  che  sente  alcun  poco  d'irreligione  verso  gli  del, 
che  cosa  avremo  appreso  de'  pregi  inimitabili  di  questa  bella  tra- 
gedia  ?  I  giovani  non  ne  sapranno  se  non  che  un  neo  forse  in  parte 
scusabile  per  la  veemenza  della  passione  che  rare  volte  lascia  al- 
Tuomo  tutto  1'uso  della  sua  ragione.  E  forse  da  queste  critiche 
esagerate  su  i  difetti  piii  che  su  i  pregi  degli  antichi  proviene  la 
moderna  non  curanza  delle  favole  greche,  e  1'idolatria  per  le  ro- 
manzesche  degli  ultimi  tempi. 

[in] 
[L'«Anfitrione»  di  Plauto  e  quello  di  Moliere.]2 

Moliere  accrebbe  la  piacevolezza  di  tale  argomento  col  dare  a 
Sosia  per  moglie  Cleanthis  che  e  il  personaggio  di  Tessala  intro- 
dotto  da  Plauto,  e  colTimmaginare  che  essa  al  pan  di  Alcmena 
sua  padrona  ammetta  in  casa  come  proprio  marito  un  altro  Sosia. 
Piace  oggi  questa  graziosa  ripetizione  de'  colori  comici  impie- 
gati  nelTazione  de'  personaggi  principali;  e  Moliere  stesso  se  ne 
valse  felicemente  nel  Dispetto  amoroso,3  e  la  praticarono  alcuni  ita- 
liani  del  Cinquecento  e  i  comici  detti  dell'arte,  ed  anche  nel  teatro 
spagnuolo  del  passato  secolo  il  grazioso*  ripete  colPinnamorate  le 
parole  dette  da'  padroni,  facendone  per  lo  piu  una  parodia.  Ma  agli 
antichi,  e  specialmente  a  Plauto,  forse  ci6  sarebbe  sembrato  una 
spezie  di  poverta.  Ogni  popolo  ha  un  gusto  particolare,  ed  e  stra- 
vagante  il  pretendere  che  il  proprio  gusto  abbia  ad  essere  norma 
a  tutti  gli  altri.  Comprendo  che  la  pratica  del  teatro  dimostra  non 
esser  priva  di  grazia  tale  ripetizione,  e  singolarmente  quando  si 

i.  U.  Nisieli  (Benedetto  Fioretti,  su  cui  cfr.  la  nota  i  a  p.  358),  Progim- 
nasmi  poetici,  Firenze,  Matini,  1695,  i,  P-  146;  e  P.  de'  conti  di  Calepio, 
Paragone  della  poesia  tragica  d*  Italia  con  quella  di  Francia  e  sua  difesa, 
Venezia,  Zatta,  1770  (i  edizione  1732),  pp.  112-3.  2.  Dalla  Storia  critica 
de'  teatri  antichi  e  moderni,  ed.  cit.,  in,  pp.  54-8.  3.  nel  Dispetto  amoroso: 
nel  Depit  amour eux  (1656)  alia  vicenda  principale  di  Eraste,  Valere  e  Lu 
cille  comsponde  quella  secondaria,  e  apertamente  comica,  di  Gros-Rene, 
Mascarille  e  Marinette,  loro  servL  4.  ilgrazioso:  cosl  era  chiamato  (pro- 
priamente  gracioso)  nel  teatro  spagnolo  il  personaggio  comico  di  una  corn- 
media  e  1'attore  che  lo  rappresentava. 


STORIA    CRITICA   DE'    TEATRI    ANTICHI    E   MODERNI         609 

colorisce  con  vivacita,  e  si  varia  in  alcuna  parte,  come  uso  Moliere. 
Ma  non  ardirei  per  questo  di  asserire  con  soverchia  franchezza 
(come  seguendo  Bayle1  fassi  da  alcuni  i  quali  sogliono  mirar  gli 
oggetti  da  un  lato  solo)  che  in  ci6  il  f  ranees  e  superb  il  suo  mo- 
dello.  Dicasi  la  stessa  cosa  dello  scioglimento  usato  dall'uno  e 
dall'altro  comico.  II  latino,  secondoche  ben  conveniva  in  un  teatro 
ripieno  di  superstiziosi  adoratori  di  Giove,  fa  che  questo  padre 
degli  dei  preceduto  dallo  strepito  de*  tuoni  comparisca  nel  teologiony 
o  pulpito  des  nurni,  manifesti  Taccaduto,  e  comandi  ad  Anfitrione 
di  rappacificarsi  colla  moglie,  e  che  costui  piegando  la  fronte  al 
decreto  soggiunga: 

Faciam  ita  ut  lubes  .  .  . 

Ibo  ad  uxorem  intro? 

Ma  il  francese  ora  che  tali  divinita  sono  appunto  divenute  comi- 
che  larve,  accomodando  Pazione  a'  tempi  moderni,  fa  che  Sosia 
con  molta  piacevolezza  tronchi  il  compimento  di  congratulazione 
di  Naucrate: 

Le  grand  dieu  Jupiter  nous  fait  beaucoup  d'honneur  .  .  . 
mais  enfin  coupons  aux  discours  .  .  . 
Sur  telles  affaires  toujours 
le  meilleur  est  de  ne  rien  dire2 

Egli  e  vero  che  non  senza  ragione  madama  Dacier4  imputa  a  Plau- 
to  lo  studio  di  filosofare  con  qualche  affettazione;  ma  in  questa 
favola  sparge  alcuna  massima  fHosofica  senza  gonfiezza,  e  come 
si  farebbe  in  una  conversazione.  Cosi  nel  prologo, 

.  .  .  iniusta  ab  iustis  impetrare  non  decet; 
iusta  autem  ab  iniustis  petere,  insipientia  *st.5 

E  pOCO  dopo, 

Virtute  ambire  oportet,  non  favitoribus. 
Sat  habet  favitorum  semper  qui  recte  facitf 

1.  Bayle:  nella  voce  su  Plauto  del  Dictionnaire  historique  et  critique  (1697). 

2.  Plauto,  Amph.,   1144-5   («Far6  come   comandi  .  .  .  Andro  in  casa  da 
mia  moglie  »).      3.  Moliere,  Amphitrion,  atto  in,  scena  x.     4.  Anne  Le- 
fevre  Dacier  (cfr.  la  nota  a  p.  71)   pubblic6  nel  1683  una  traduzione 
commentata   di   tre   commedie  plautine  (Amphitruo,  Rudens,  Epidicus), 
alia  quale  allude  il  Signorelli.      5.  Plauto,  Amph.,  35-6  («non  conyiene 
pretendere  dai  giusti  azioni  ingiuste;  ma  chiedere  azioni  giuste  dagli  in- 
giusti  e  una  sciocchezza»).     6.  Amph.,  78-9  («Bisogna  tendere  agli  onori 
con  la  -virtu,  non  grazie  ai  protettori.  Ha  sempre  abbastanza  protettori 
chi  agisce  rettamente»). 

39 


6lO  PIETRO   NAPOLI    SIGNORELLI 

E  nelPatto  n,  scena  2, 

.  .  .  ita  quoique  comparatum  est  in  aetate  hominum, 
ita  diis  placitum,  voluptati  ut  moeror  comes  consequatur. I 

Si  osservi  finalmente  in  qual  maniera  Anfitrione  adirato  nella  sce 
na  3  delTatto  iv  sollevi  il  tuono  del  dire,  e  minacci  udendo  che 
Alcmena  e  in  procinto  d*infantare, 

Numquam  aedepol  me  inultus  istic  ludificdbit,  quisquis  est,  etc.2 
A  nostra  istruzione  Orazio  aveva  gia  detto 

Interdum  tamen  et  vocem  comoedia  tollit, 
iratusque  Chremes  tumido  delitigat  ore.3 

Ma  che  pro  ?  I  pedanti  loschi  vorrebbero  ridurre  questo  poema  a 
quattro  riboboli  del  popolaccio,  e  Pimmaginazione  della  gioven- 
tu  a  un  limitato  numero  di  picciole  idee.  Ma  essa  che  e  la  speran- 
za  delle  belle  arti,  rompa  oramai  que*  ceppi  pedanteschi,  e  si  av- 
vezzi  a  studiare  la  natura,  a  consultare  il  proprio  cuore,  a  ritrarre 
la  societa,  a  ridere  sul  viso  degli  orgogliosi  pedagoghi,  ascoltando 
i  consigli  del  buon  gusto. 

[iv] 
[Analisi  della  aMedeav  di  Seneca.]* 

Se  v'ha  tralle  tragedie  latine  conservate  alcuna  che  sostenga  il 
confronto  delle  greche,  e  questa  Medea.  L'autore  manifesta  di  avere 
abbastanza  conosciuto  il  carattere  del  sublime  tragico  e  senten- 
zioso.  II  piano  semplice  e  lavorato  sulla  greca  di  Euripide;  ma 
in  alcune  parti  e  alterato,  e  talvolta  con  miglioramento.  Tutto  va 
senza  intoppi  al  suo  scopo,  tutto  e  animato  dalla  passione,  ed  hav- 
vi  pochi  passi  ne'  quali  possa  dirsi  di  aver  piu  parte  la  mente 
che  il  cuore.  II  soliloquio  di  Medea  che  forma  Fatto  i,  e  serve  d'in- 

i.  Amph.,  634-5  («cosi  neUa  vita  umana  e  prescritto  ad  ognuno,  cosl  e 
voluto  dagli  dei,  che  il  pianto  segua  quale  compagno  il  piacere  »).  2.  Am- 
ph.y  1041  (« Mai,  per  Polluce,  costui,  chiunque  sia,  mi  schernira  senza 
che  io  mi  vendichi»).  3.  Ars.  poet.,  93-4  («Talora  tuttavia  anche  la 
commedia  alza  la  voce,  e  Cremete  irato  contende  acerbamente  con  espres- 
sioni  violente»).  4.  DaUa  Storia  critica  de*  teatri  antichi  e  moderni,  ed. 
cit.,  in,  pp.  258-70. 


STORIA    CRITICA   DEJ    TEATRI   ANTICHI   E   MODERNI        6ll 

troduzione,  e  vigoroso.  Invocati  gli  del  che  presiedono  alle  nozze 
funeste,  come  furono  le  sue,  e  il  Caos  e  le  Furie  (che  pu6  risen- 
tirsi  alcun  poco  della  declamazione  senza  riserba  imputata  a  Se 
neca),  si  determina  a  una  vendetta  orrenda.  In  parole  altiere,  e 
quali  dalFacuto  critico  Boileau  si  concedono  allo  sdegno  e  allln- 
dignazione,1  da  ad  intendere  i  delitti  e  la  strage  che  va  meditando: 

Quodcumque  vidit  Pontus  out  Phasis  nefas, 
videbit  Isthmos.  Effera,  ignota,  horrida, 
tremenda  caelo  pariter  ac  terris  mala 
mens  intus  agitat;  vulnera,  et  caedem,  et  regum 
funus  per  artus.  Levia  memoravi  nimis: 
haec  virgo  fed;  gravior  exsurgat  dolor. 
Maiora  iam  me  scelera  post  partus  decent.2 

Neirepitalamio  cantato  dal  coro  per  le  nozze  di  Giasone  con 
Creusa,  vedesi  il  progresso  deirazione;  e  Medea  dice  nel  co- 
minciar  Tatto  n: 

Occidimus!  aures  pepulit  hymenaeus  meas  .  .  . 
Hoc  facer  e  lason  potuit?3  .  .  . 

Cresce  il  suo  furore;  numera  i  passati  delitti  da  lei  commessi  per 
amore,  e  soggiugne: 

,  .  .  nullum  scelus 
irata  fed  4 

Sommamente  energica  e  la  risposta  che  da  alia  nutrice  che  le 
rappresenta  di  trovarsi  priva  di  ogni  soccorso.  Ecco  le  parole  di 
entrambe: 

NUT.  Abiere  Colcki,  coniugis  nulla  est  fides, 

nihilque  superest  opibus  tantis  tibi. 
MED.  Medea  superest.5 

i.  Art  poetique,  [133]:  «La  colere  est  superbe,  et  veut  des  mots  altiers* 
(N.  SO-  2-  Seneca,  Med.,  44-50  (aQualunque  nefandezza  vide  il  Ponto 
o  il  Fasi,  la  vedra  Tlstmo.  Una  intenzione  feroce,  ignota,  orrida,  pari- 
mente  tremenda  al  cielo  e  alle  terre  mi  agita  1'animo;  ferite  e  ucci- 
sioni  e  funerali  di  re  [le  edizioni  moderne  hanno  pero  « vagum »  in  luogo 
di  regum]  con  le  membra  sparse.  Ho  ricordato  azioni  troppo  lievi:  le 
ho  compiute  da  vergine;  sorga  ora  piii  grave  il  mio  dolore.  Ora  che  ito 
partorito,  mi  convengono  piii  grandi  delitti »).  3.  Med.,  116  e  118  («Sonso 
perduta!  il  canto  dell'imeneo  ha  colpito  le  mie  orecchie  .  .  .  Questo  ha 
potuto  fare  Giasone  ?»).  4.  Med.,  135-6  («non  ho  commesso  alcun  de- 
litto  per  odio  »).  5.  Med.,  164-6  («Nur.  La  Colchide  e  lontana,  non  puoi 
fidarti  del  tuo  consorte,  e  nuia  ti  rimane  di  tanta  potenza.  MED.  Mi  ri- 
mane  Medea  »). 


6l2  PIETRO   NAPOLI   SIGNORELLI 

Questa  sublime  risposta  e  seguita  da  un  dialogo  enfatico  e  rapido : 

NUT.  Rex  est  timendus.     MED.  Rex  meus  fuerat  pater. 

NUT.  Non  metuis  arma?     MED.  Sint  licet  terra  edita. 

NUT.  Moriere.     MED.  Cupio.     NUT.  Profuge.     MED.  Poenituit  fugae. 

Medea  fugiam?    NUT.  Mater  es.     MED.  Cui  sim,  vides.1 

Nella  scena  con  Creonte  si  scorge  Partificio  medesimo  della  tra- 
gedia  greca;  ma  in  questa  latina  e  da  notarsi  die  Medea  in  mezzo 
alle  preghiere  serba  certo  nobile  contegno  che  tira  Pattenzione. 
Di  piu  Tinteresse  in  questa  par  maggiore,  perche  Seneca  ingegno- 
samente  suppone  esser  Giasone  astretto  a  sposar  Creusa  per  evi- 
tar  la  morte,  perche  Acasto,  figliuolo  di  Pelia,  minaccia  di  sac- 
cheggiar  Corinto,  se  Creonte  non  rende  i  colpevoli  al  castigo  che 
gli  attende.  Or  Giasone  prowede  alia  sua  salvezza  promettendo  di 
sposar  la  figlia  di  Creonte,  e  Medea  rimane  sola  la  vittima  dello 
stato;  per  la  qual  cosa  obbligata  ad  abbandonar  tosto  Corinto, 
ottiene  a  stento  la  dilazione  di  un  solo  giorno.  NelPatto  in  e  piena 
di  bellezza  la  scena  delPincontro  di  Giasone  e  Medea.  Vi  si  mo- 
stra  alia  prima  meno  odiosa  Pinfedelta  di  Giasone  ed  in  certo 
modo  scusabile,  trovandosi  egli  nella  dura  necessita  di  morire  in- 
sieme  coi  figliuoli  o  di  tradir  Medea: 

.  .  .  si  vellem  fidem 
praestare  meritis  coniugis,  leto  fuit 
caput  offerendum :  si  mori  nolimus,  fide 
misero  carendum  est.  Non  timor  vincit  virum, 
sed  trepida  pietas  .  .  . 
Nati  patrem  vicere.2 

I/indignazione,  Pimpeto,  Porgoglio,  tutta  in  somma  ad  ogni  trat- 
to  Medea  si  manifesta.  Awedutasi  di  Giasone  gli  va  incontro  con 
questa  amara  ironia: 


i.  Med.,  168-71  (« NUT.  Devi  temere  il  re.  MED.  Re  era  anche  mio  padre. 
NUT.  Non  temi  i  suoi  armati?  MED.  Neppure  se  nascessero  dalla  terra. 
NUT.  Morrai.  MED.  Lo  desidero.  NUT.  Fuggi.  MED.  Ho  dovuto  pentirmi 
di  essere  fuggita.  lo,  Medea,  fuggiro?  [le  edizioni  moderne  leggono  di- 
versamente  le  due  ultirne  parole:  NUT.  Medea.  MED,  Fiam].  NUT.  Sei 
madre.  MED.  Per  chi  lo  sia,  tu  ben  vedi»).  2.  Med.t  434-41  («se  avessi 
voluto  essere  fedele  ai  meriti  della  consorte,  avrei  dovuto  ofTrire  il  capo  alia 
morte :  se  non  voglio  morire,  sono  costretto,  infelice,  a  tradire  la  promessa. 
Non  il  timore  mi  vince,  ma  la  tremante  pieta ...  I  figli  hanno  vinto  il 
padre  »). 


STORIA   CRITICA  DEJ    TEATRI  ANTICHI   E  MODERNI        613 

Fugimus,  Ia$ony  fugimus:  hoc  non  est  novum: 
ma  dove  andra? 

.  .  .  Phasim  et  Colchos  petam, 
patriumque  regman?1 .  . . 

e  cio  e  tratto  dalla  Medea  di  Euripide.  Giasone  le  domanda: 
Obiicere  crimen  quod  potes  tandem  mihi? 

ed  ella  «  Quodcumque  feci  »*  risponde  con  enfasi,  disdegno  e  calo- 
re.  La  stessa  sublimita  spicca  nella  risposta  data  alPaltra  di  lui 
domanda: 

IAS.  Quid  facer  e  possim?  eloquere.  MED.  Pro  me  vel  scelus.3 

Si  scusa  lo  sposo  infedele  col  timore  de'  due  re  Creonte  ed  Aca- 
sto,  (chine  rex  et  illincs,  e  Medea  minaccevole  gli  ricorda  quanto 
sia  piu  da  temersi  la  sola  Medea: 

Est  et  his  motor  metus, 
Medea* 

ccAlta  extimesco  sceptra»  soggiugne  Giasone,  e  Medea  rinfaccian- 
dogli  le  di  lui  ambiziose  mire  replica:  «Ne  cupias  vide».5  Giaso 
ne  vuol  troncare  il  discorso,  ed  ella  freme,  invoca  Giove,  ne 
implora  i  fulmini  sopra  qualunque  di  loro  due.  Tenta  egli  infine 
di  moderarne  le  furie  ad  ogni  costo,  insinuandole  di  chiedere 
qualche  conforto,  al  che  ella  domanda  i  figliuoli  per  condurli  seco. 
Ma  il  padre  risolutamente  si  oppone,  manifestando  la  somma  te- 
nerezza  che  ha  per  essi: 

.  .  .  Spiritu  ritius  queam 
carere,  membris,  luce.6 


1.  Med.y  447  e  451-2  («Fuggiamo,  Giasone,  fuggiamo:  non  e  una  novi- 
ta. .  .  Raggiungero  il  Fasi  e  la  Colchide,  e  il  regno  di  mio  padre?*). 

2.  Med.,  497-8  («  GIAS.  Di  quale  colpa  infine  mi  puoi  accusare  ? . . .  MED.  Di 
tutto  quello  che  ho  fatto»)-     3-  Med.,  515  («GiAS.  Che  cosa  potrei  fare? 
Parla.  MED.  Per  me,  anche  un  delitto»).     4.  Med.,  516-7  (fiGiAS.  Da  ogni 
parte  un  re  mi  minaccia.  MED.  C*e  tin  timore  maggiore  anche  di  co- 
storo,  Medea  »).     5.  Med.,  529  (a  GIAS.  Temo  gli  alti  scettri.  MED.  Guarda 
di  non  desiderarli»).      6.  Med.,  548-9  («Preferirei  rimaner  privo  del  re- 
spiro,  delle  membra,  della  luce»). 


614  PIETRO   NAPOLI   SIGNORELLI 

Come?  tanto  trasporto?  «Sic  gnatos  amat?»  dice  Medea  maravi- 
gliata  «Bene  est;  tenetur;  vulneri  patuit  locus  w.1  Questa  bellezza, 
questa  giudiziosa  catena  di  pensieri,  questa  origine  dell'ultimo 
grande  delitto  di  Medea  cosi  scortamente  disviluppata,  e  pure 
sfuggita  ad  Euripide.  Ma  le  studiate  bellezze  poetiche  profuse 
nelFatto  rv,  allorche  la  nutrice  novera  i  veleni  raccolti,  e  gl'in- 
cantesimi  di  soverchio  particolareggiati  con  descrizioni  mitolo- 
giche  e  geografiche,  appartengono  a  tutt'altro  genere  che  al  dram- 
matico;  benche,  a  quel  che  io  ne  giudico,  1'azione  onde  venivano 
accompagnati,  doveva  forse  produrre  nella  scena  romana  un  vago 
effetto.  Bella  in  Euripide  e  la  narrazione  delPincendio  e  della  mor- 
te  di  Creonte  e  della  figliuola,  che  serve  a  far  trionfare  Medea 
per  la  ben  riuscita  vendetta.  Ma  forse  non  men  bellamente  Seneca 
se  ne  disbriga  in  quattro  o  sei  versi,  scorrendo  piu  rapidamente  alia 
tremenda  strage  de?  figliuoli  per  trafigere  nella  piu  tenera  parte 
il  cuor  del  padre.  La  nutrice  atterrita  esorta  Medea  a  fuggirsi: 
ccEgon'  ut  recedam?»  risponde  ella  colla  solita  energia  e  ferocia. 
«Si  profugissem  prius,  /  ad  hoc  redirem.))/  E  si  accende,  e  si  da 
moto  per  eseguire  ci6  che  le  rimane  a  fare.  «  Fas  omne  cedat .  .  . 
Quidquid  admissum  est  adhuc,  /  pietas  vocetur  . .  .  Prolusit  dolor  / 
per  ista  noster  . . .  Nescio  quid  ferox  /  decrevit  animus  intus  .  .  . 
Ex  pellice  utinam  liberos  hostis  meus  /  aliquot  haberet!  Quidquid 
in  illo  tuum  est,  Creusa  peperit.»3  Tratti  grandi  e  gravemente 
espressi,  che  manifestano  la  serie  de'  pensieri  che  la  conducono 
al  gran  misfatto.  £  parimente  maneggiata  con  vigore  Pesitazione 
ed  il  contrasto  di  Medea  madre  con  Medea  consorte  oltraggiata: 

.  .  .  Liberi  quondam  mei> 
vos  pro  patemis  sceleribus  poenas  date. 

Cor  pepulit  horror,  membra  torpescunt  gelu, 
pectusque  tremuit;  ira  discessit  loco, 
materque  tola,  coniuge  expulsa,  redit. 
Egon*  ut  meorum  liberum  ac  prolis  meae 
fundam  cruorem?  .  .  . 


i .  Med,,  549-50  («  Cosi  ama  i  suoi  figli  ?  Bene;  e  preso ;  si  e  scoperto  il  luogo 
dove  ferirlo»).  2.  Med.,  893-4  («Che  io  mi  ritiri?  Se  fossi  gia  fuggita, 
ritornerei  per  questo»).  3.  Med.,  900-22  («Ceda  ogni  legge  .  .  .  Quel  che 
ho  commesso  fino  ad  ora  si  chiami  pieta  .  .  .  Con  codeste  azioni  il  nostro 
dolore  ha  solo  cominciato  .  . .  Non  so  che  cosa  ha  stabilito  nel  suo  intimo 
il  mio  animo  feroce . . .  Avesse  il  mio  nemico  dei  figli  dall*adultera!  Tut- 
to  ci6  che  hai  da  lui,  Io  ha  partorito  Creusa »). 


STORIA    CRITICA   DEJ    TEATRI   ANTICHI   E   MODERNI        615 

.  .  .  Quad  scelus  miseri  luent? 
SceliLS  est  lason  genitor,  et  mains  scelus 
Medea  mater.  Occidant:  non  stint  mei. 
Pereant:  mei  sunt.1 

Ucciso  un  figlio  giugne  Giasone  e  porge  a  Medea  lo  spietato  pia- 
cere  di  trucidar  1'altro  sotto  gli  occhi  del  padre: 

.  .  .  Deerat  hoc  unum  mihi, 
spectator  ipse:  nihil  adhuc  factum  reor; 
quidquid  sine  isto  fecimus  sceleris,  periit.2 

Nuovo  interesse,  nuova  situazione  estremamente  tragica,  quadro 
fuor  di  modo  orribile.  Un  figlio  svenato,  una  madre  in  atto  di 
trapassare  il  cuore  all'altro,  un  padre  trafitto  dallo  spettacolo  del 
primo  e  spaventato  dalljirrevocabil  morte  imminente  dell'altro, 
Egli  prega,  piagne,  smania,  vuol  morire  in  vece  del  figlio  e  la 
madre  disumanata  insultandolo  risponde: 

Hac  qua  recusas,  qua  doles  ferrum  exigam  .  . . 
In  matre  si  quod  pignus  etiamnum  latet, 
scrutabor  ense  viscera,  et  ferro  extraham.3 

Che  idee!  che  terribili  pennellate!  Esse  risvegliano  il  fremito  del- 
Pumanita,  e  giustificano  il  gusto  di  cui  detestando  il  fatto  ne  ammira 
la  dipintura.  Non  aveva  torto  Orazio  allorche  del  latino  linguaggio 
affermava  che  aspirat  tragicum  satis,  et  feliciter  audet».4 

Da  alcuni  questa  Medea  latina  e  anteposta  alia  greca.  Noi 
non  osiamo  giudicare  del  patetico  che  in  entrambe  si  trova  espres 
so  con  tanta  verita  che  giugne  al  cuore.  Ma  la  condotta  della 
latina  sembra  piu  rapida  e  piu  regolare,  e  vi  si  eccita  il  terrore 


i.  Med.,  924-35  («Figli  una  volta  miei,  voi  pagate  il  fio  per  i  delitti  pa- 
terni.  II  mio  cuore  e  colpito  dall'orrore,  le  membra  intorpidiscono  di 
ghlaccio,  il  petto  trema;  1'ira  e  scomparsa,  e  la  madre,  cacciata  la  moglie, 
tutta  ritorna.  lo  dovrei  spargere  il  sangue  dei  miei  figli  e  della  mia  pro 
le  ?  ...  Di  quale  colpa,  miseri,  pagheranno  il  fio  ?  II  vostro  delitto  e  Ta- 
vere  Giasone  come  genitore,  maggior  delitto  Tavere  Medea  come  madre. 
Muoiano:  non  sono  miei.  Periscano:  sono  miei»).  2.  Med.,  992-4  («Mi 
mancava  solo  questo,  che  egli  stesso  fosse  spettatore:  ritengo  di  non  aver 
fatto  nulla  finora;  tutto  quello  che  ho  fatto,  quando  costui  non  c'era,  non 
conta»).  3.  Med.,  1006  e  1112-3  («Dove  tu  non  vuoi,  dove  ti  duole  cac- 
cero  il  ferro  .  .  .  Se  qualche  pegno  si  nasconde  ancora  nella  madre,  scnite- 
r6  le  mie  viscere  con  la  spada,  e  lo  estrarro  col  ferro  »).  4.  Epist.,  n,  I,  166 
(«spira  abbastanza  la  passione  tragica,  e  osa  felicemente »). 


6l6  PIETRO   NAPOLI   SIGNORELLI 

con  tratti  cosi  forti  e  vivaci  che  farebbero  nobile  comparsa  in  qua- 
lunque  tragedia  di  Eschilo  e  di  Euripide.1  Notava  il  signer  di  Vol 
taire  in  tal  tragedia  come  un  principal  difetto  che  non  produce  in- 
teresse,  al  suo  dire,  in  pro  di  veruna  persona.  «  Medee  »  diceva  «  est 
une  mechante  femme  qui  se  venge  d'un  malhonnete  homme.  La 
maniere  dont  Corneille  a  traite  ce  sujet,  nous  revoke  aujourd'hui, 
celle  d'Euripide  et  de  Seneque  nous  revolterait  encor  davantage  ».2 
AfTermava  ancora  che  essa  presso  i  Romani  non  ebbe  felice  in- 
contro.  Se  quest'ultima  notizia  e  vera  (di  che  non  mi  si  e  presen- 
tato  sinora  verun  documento),  non  debbe  essere  awenuto  perche 
Medea  e  malvagia  e  Giasone  perfido  e  senza  onesta.  Medea  tuttoche 
feroce  alia  prima  ha  dritto  di  lagnarsi  dell'mdegna  incostanza  di 
Giasone,  ed  allora  ha  per  se  tutto  Tinteresse  ed  i  voti  deU'uditorio ; 
Medea  indi  eccede  nel  vendicarsi  arrivando  alia  piu  inaudita 
spietatezza,  e  n'e  detestata,  e  fa  inorridire  lo  spettatore,  che  de- 
plora  un  padre  trafitto  e  punito  con  tale  eccesso.  L'una  situazione 
e  Taltra  deriva  con  naturalezza  dalle  loro  ben  dipinte  grandi  pas- 
sioni  che  perturbano  ed  interessano  alternativamente  per  1'uno  e 
per  Paltro  personaggio,  ed  attaccano  chi  ascolta  all'azione  intera. 
Queste  riflessioni  menano  a  conchiudere  Popposto  di  ci6  che  so- 
stenne  Voltaire.  Doppiamente  apparisce  poco  giusta  Tosservazio- 
ne  delTillustre  autore  francese,  se  si  considera  che  quest'atroce  ar- 
gomento,  che  per  suo  awiso  non  produce  interesse  per  veruno,  si 
e  conservato  per  tanti  secoli,  e  nelle  nazioni  piu  colte  ha  eccitato 
Tentusiasmo  di  tanti  tragici.  La  Grecia  ammir6  la  Medea  di  Euripi 
de.  Cicerone  e  Quintiliano  ed  altri  romani  intelligent!  non  rima- 
sero  nauseati  ne  dalla  Medea  di  Ennio,  ne  da  quella  di  Ovidio, 
ne  dalle  due  di  Pacuvio  e  di  Azzio,3  ne  probabilmente  da  questa 
di  Seneca.  Stile  e  grandi  affetti  comprendono  il  gran  secreto  della 
scena  tragica;  e  se  Targomento  di  Medea  non  esclude  le  passioni 
grandi,  e  Seneca  le  ha  rilevate  con  uno  stile  vigoroso  ed  energico, 
onde  viene  Tumore  che  prende  Voltaire  per  una  favola  tanto  dagli 
antichi  e  da'  modern!  maneggiata  e  ripetuta? 


i.£  da  vedersi  il  Teatro  greco  di  Pietro  Brumoy,  il  quale  in  parlando 
della  Medea  di  Euripide,  ne  ha  fatto  il  paragone  con  questa  di  Seneca, 
ed  in  questa  ha  notate  molte  rare  bellezze  e  vari  tratti  degni  di  ammira- 
zione  (N.  S.)-  Cfr.  P.  Brumoy,  Le  theatre  des  Grecs,  ed.  cit.,  iv,  pp.  355-79. 
2.  Commentaires  sur  Corneille.  Remarques  sur  Medee  (cfr.  Oeuvres,  XXI,  ed. 
cit.,  1893,  p.  4).  3-  Azzio:  Accio. 


STORIA   CRITICA  DE'    TEATRI   ANTICHI   E   MODERNI        6iy 

[V] 

\Giudizi  ml  Racine.]* 

Nel  medesimo  anno  1666  quando  si  rappresento  V  Agesilao  del 
Cornelio,2  comparve  sulle  scene  YAlessandro  di  Giovanni  Racine, 
nobile  e  giovane  poeta,  da  cui  cominci6  una  specie  di  tragedia 
quasi  novella.  Nelle  tragedie  del  Cornelio  grandeggia  la  virtu  e 
Peroismo  vi  si  tratta  con  una  sublimita  che  riscuote  ammirazione; 
ma  vi  si  accoppiano  certi  amori  per  lo  piu  subalterni  che  riescono 
freddi  e  poco  tragici.  In  quelle  del  Racine  trionfa  un  amor  tenero, 
semplice,  vero,  vivace,  forse  non  sempre  proprio  per  la  grandezza 
del  coturno  perche  non  sempre  principale  e  furioso,  ma  sempre 
idoneo  a  commuovere.  II  felice  pennello  del  Racine  con  grazia  e 
diligenza  al  vivo  e  maestrevolmente  ritrae  la  delicatezza  delle  ani- 
me  sensibili.  La  gioventu,  e  specialmente  le  donne  pieghevoli  alia 
tenerezza,  poco  intendono  e  poco  prendono  interesse,  p.  e.,  nelle 
vedute  politiche  di  un  tiranno,  nelTambizione  di  un  conquistatore, 
nel  patriotismo  eroico  di  un  romano  o  di  un  greco.  Ma  subito  pre- 
stano  attenzione  a  ci6  che  rassomiglia  a  quel  che  sentono  in  se 
stesse;  e  vanno  agevolmente  seguitando  il  poeta  nelle  commo- 
zioni  che  disviluppa,  e  ne  favellano  con  vivacita  e  conoscimento. 
Qual  giovinetta  posta  nelle  circostanze  di  Ermione  non  vi  fara  le 
medesime  richieste? 

Mais  as-tu  bien,  Cleone,  observe  son  visage? 
Goute-t-il  des  plaisirs  tranquilles  et  parfaits? 
N*a-t-il  point  detoume  ses  yeux  vers  le  palais? 
Dis-moi,  ne  fes-tu  point  presentee  a  sa  viie? 
Uingrat  a-t-il  rougi  lorsqu'tl  fa  reconnue?^ 

Tutte  le  donne  possono  comprendere  senza  stento  la  dolorosa  se- 
parazione  di  Tito  e  Berenice;  parra  loro  di  trovarsi  nel  caso;  al 
pari  di  quella  tenera  regina  si  sentiranno  penetrate  da  queste 
espressioni: 


i.  Dalla  Storia  critica  de*  teatri  antichi  e  moderni,  ed.  cit.,  vii,  pp.  180-5, 
191-5,  198-9.  2.  Cornelwi  Pierre  Corneille.  3.  Cfr.  Racine,  Andromaque, 
atto  v,  scena  n. 


6l8  PIETRO   NAPOLI   SIGNORELLI 

Je  riecoute  plus  rien,  et  pour  jamais  adieu 

Pour  jamais!  Ah  seigneur,  songez-vous  en  vous  m&me 

combien  ce  mot  cruel  est  affreux  quand  on  aime?1 

Siffatte  analisi  delicate  della  tenerezza,  o,  se  vuol  dirsi  alia  fran- 
cese,  del  sentimento^  anche  senza  tanti  pregi  che  adornano  le  fa- 
vole  del  Racine  avrebbero  bastato  a  farle  riuscire  in  Francia  e 
nella  corte  di  Luigi  XIV,  che  respirava  per  tutto  amoreggiamenti 
anche  nelle  spedizioni  militari.  Ma  Giovanni  Racine  al  tenero, 
al  seducente  accoppio  il  merito  di  una  versificazione  mirabilmente 
fluida  e  armoniosa,  correzione,  leggiadria  e  nobilta  di  stile,  ed  una 
eloquenza  sempre  eguale,  che  e  la  divisa  delPimmortalita  onde  si 
distinguono  i  poeti  grandi  da'  volgari.3 

In  questo  secolo  per  la  Francia  fortunatissimo  forse  la  poesia 
francese  pervenne  alia  possibile  venusta  per  le  favole  del  Racine 
e  pe'  componimenti  del  Boileau;  ma  il  drammatico  scrittore  ebbe 
sul  legislatore  del  Parnasso  francese  il  vantaggio  del  raro  dono  del- 
la  grazia,  che  la  natura  concede  a'  suoi  piu  cari  allievi,  agli  Apelli, 
a  i  Raffaelli,  a  i  Correggi,  a  i  Pergolesi,  a  i  Racini,  a  i  Meta- 
stasi. 

Tralle  tragedie  del  Racine,  senza  dubbio  piu  giudiziosamen- 
te  combinate,  meglio  ordinate  e  piu  perfette  di  quelle  di  Pietro 
Corneille,  per  awiso  dej  piu  scorti  critici,  trionfano  Vlfigenia,  rap- 
presentata  nel  1675,  in  cui  con  singolar  diletto  di  chi  non  ignora 
il  tragico  tesoro  greco,  si  ammirano  tante  bellezze  di  Euripide, 
mal  grado  delle  awenture  di  Erifile  che  muore  in  vece  d'lfigenia 
senza  destar  pieta,  trovando  lo  spettatore  disposto  unicamente  a 
compiangere  la  figliuola  di  Agamennone;  YAtalia,  uscita  nel  1691, 
ove  il  poeta  s'innalza  e  grandeggia  imitando  alcuna  volta  il  lin- 
guaggio  de'  profeti;  il  Britannico,  rappresentato  nel  1670,  in  cui  si 
eccita  il  tragico  terrore  per  le  crudelta  di  un  mostro  di  tirannia 
nascente  in  Nerone,  e  di  passaggio  s'insegna  a*  principi  ad  aste- 


i.  Cfr.  Racine,  Berenice,  atto  iv,  scena  V.  2.  «Ce  qui  me  distingue  de 
Pradon»  diceva  Racine  «c'est  que  je  sais  ecrire».  II  signer  di  Voltaire, 
ottimo  giudice,  cosi  si  esprime  in  tal  proposito:  ccC'est  la  diction  seule 
qui  abaisse  Campistron  au  dessous  de  Racine  ...  II  n'y  a  que  la  poesie 
de  style  qui  fasse  la  perfection  des  ouvrages  en  vers»  (N.  S.).  Nicolas 
Pradon  (1632-1698)  cerc6  di  rivaleggiare  con  Racine  scrivendo  fra  Taltro 
Phedre  et  Hyppolite;  Jean  Galbert  de  Campistron  (1656-1723)  compose 
tragedie  che  sono  pallide  imitazioni  di  quelle  raciniane. 


STORIA   CRITICA   DE»    TEATRI   ANTICHI   E   MODERNI        619 

nersl  da  certi  esercizi  disdicevoli  alia  maesta;  e  la  Fedra,  com- 
parsa  sulle  scene  nel  1677,  la  quale  per  tanti  pregi  contende- 
rebbe  a  tutte  il  primato  senza  il  freddo  inutile  innamoramento 
d'lppolito  ed  Aricia.  In  fatti  questa  galanteria,  per  dirla  alia  fran- 
cese,  sconvenevole  al  carattere  d'lppolito,  e  fredda  a  fronte  del 
tragico  disperato  amor  di  Fedra,  non  si  approve  ne  da*  contempo- 
ranei  ne  da'  poster! . .  .r 

Circa  lo  stile  di  esse,3  senza  derogare  ai  pregi  inimitabili 
di  Pietro  Corneille  e  di  Giovanni  Racine  e  di  altri  che  gli  se- 
guirono,  vengono  in  generale  tacciati  i  tragici  francesi,  e  singo- 
larmente  il  Cornelio,  dal  marchese  Scipione  Maffei,  dal  Mu- 
ratori,  dal  Gravina  e  dal  Calepio,  di  certo  lambiccamento  di 
pensieri,  di  concetti  ricercati  e  tal  volta  falsi,  di  tropi  profusi 
e  ripetuti  sino  alia  noia,  di  espressioni  aifettate,  di  figure  sconve- 
nevoli  alia  drammatica.3  A  ci6  che  fra'  Greci  e  gritaliani  chiamasi 
poesia,  trovasi  ne5  drammi  francesi  sostituito  certo  parlar  poetico 
particolare.  I  vizi  e  le  virtu  ed  anche  gli  attributi  accidentali  nelle 
loro  favole  (osserva  il  Calepio)4  diventano  le  persone  agenti.  L'odio 
giura,  vede,  teme;  il  furore  si  lascia  disarmare;  la  virtu  trema, 
1'ira  chiama;  1'amicizia  e  la  gloria  arrossiscono.  I  segni  si  usano 
per  le  cose,  come  i  «troni»,  le  «corone»,  gli  «scettri»,  gli  «allori», 
le  «catene».  Non  v'ha  scena  in  cui  non  s'incontri  «tempesta»  per 
awersita,  «abisso»  per  oppressione,  «ftilmine>>  per  castigo,  «sa- 
crificio»  per  sofferenza,  ecc.  Sono,  e  vero,  tali  figure  ammesse 
ancora  nelle  poesie  dej  Greci  e  degl'Italiani;  ma  da'  francesi  dram- 

i.  Tralascio  alcune  pagine  in  cui  1'autore,  richiamandosi  soprattutto  ad 
alcune  osservazioni  del  Voltaire  sulTargomento,  si  sofferma  a  mostrare 
come  anche  Racine,  seguendo  la  tradizione  francese,  abbia  spesso  peccato 
nel  rappresentare  1'amore  come  un  sentimento  molle  ed  elegiaco  e  non 
come  una  passione  furiosa  e  terribile,  quale  converrebbe  alia  vera  tra- 
gedia  2.  di  esse:  delle  tragedie  francesi  in  genere.  3-  vengono  .  .  .  dram 
matica:  1'accusa  risale  al  Muratori  (cfr.  Delia  perfetta  poesia  itaUana,  lib. 
II,  cap.  vii,  Modena,  Soliani,  1706,  n,  pp.  419-^3,  e  anche  altrove);  e  n- 
torna  poi  nel  trattato  Delia  tragedia,  cap.  XLI,  del  Gravina  (cfr.  Oparesc^U, 
Milano  1819,  pp.  388-404);  nell'introduzione  al  Teatro  itahano  del  MafTei, 
Verona  1723, 1,  pp.  xvi-xvii  (e  anche  nella  risposta  aUa  letter*  del  Voltaire 
sulla  Merope,  e  altrove);  e  infine  e  soprattutto  nel  Paragon*  detta  poesia 
traeica  d'ltalia  con  quella  di  Francia  e  sua  difesa  del  Calepio,  capo  VI, 
art.  iii-vni.  4.  osserva  il  Calepio:  cfr.  Paragone  della  poesia  tragica  ecc., 
ed.  cit.,  p.  117. 


620  PIETRO   NAPOLI    SIGNORELLI 

matici  usate  con  troppa  frequenza,  e  di  rado  variate  colla  mesco- 
lanza  di  altre  formole  poetiche  non  disdicevoli  alia  scena,  per  la 
qual  cosa  partoriscono  rincrescimento. 

Simili  maniere  abbondano  anco  nelle  tragedie  del  Racine;  ma 
ecco  in  qual  cosa  egli  si  distingue  da'  tragici  mediocri.  In  que- 
sti  quel  perpetuo  tessuto  di  astratti  i  quali  diventano  persone, 
e  la  ripetizione  de'  medesimi  tropi  forma  1'unico  fondo  del  loro 
stile;  ma  Racine  le  accompagna  con  altre  maniere  poetiche  cal- 
cando  da  gran  poeta  le  tracce  degli  antichi  tragici  che  studiava 
e  si  proponeva  per  modelli  e  per  censori.1  Non  e  percio  me- 
raviglia  che  avesse  portato  a  cosi  alto  punto  1'espressione,  1'ele- 
ganza,  rarmonia  e  la  vaghezza  dello  stile  ed  il  patetico.  Gli  si 
notarono  tal  volta  alcune  trasposizioni  inusitate,  e  certe  maniere 
non  sempre  limpide,  di  che  giudichino  di  pieno  diritto  i  nazionali. 
Certo  e  per6  che  specialmente  n.z\V  Alessandro  e  ne'  Fratelli  ne- 
mici  si  osservano  molti  concetti  ricercati,  il  dolore  espresso  con 
troppo  studio,  vari  contrapposti  non  propri  della  scena,  alcun 
sentimento  freddo  e  qualche  immagine  superflua.  Piu  rari  sono 
tali  difetti  nelle  altre  sue  favole,  benche  alcuni  se  ne  rinvengano 
anche  nel  Mitridate,  nell'Andromaca  e  nell! 'Ifigenia.  Nella  Fedra, 
piu  che  la  soverchia  pompa  del  racconto  di  Teramene  da  ognuno 
osservata,  ferisce  il  gusto  ed  il  buon  senso  il  sentire  con  figure 
intempestive  e  con  impropri  e  falsi  pensieri,  che  «il  cielo  guarda 
con  orrore  il  mostro  marino,  la  terra  n'e  scossa,  1'aria  infettata,  e  le 
onde  che  lo  condussero  alia  riva,  rinculano  spaventate».2  Ma  senza 
tali  nei  nel  Racine  che  studiava  si  felicemente  il  cuore  dell'uomo  e 
la  poesia  originate  de'  Greci,  Racine  che  possedeva  il  rarissimo 
dono  dello  stile  e  della  grazia,  che  avrebbe  mai  lasciato  alia  gloria 
della  posterita?  Quante  poche  tragedie  soffrono  il  confronto  del- 
Vlfigenia,  dell'Atalia,  del  Britannico  e  della  Fedral  Questi  com- 
ponimenti  saranno  sempre  le  piu  preziose  gemme  del  tragico  tea- 
tro,  per  le  quali  Racine  si  acclamera  come  principe  de'  tragici 


i.  Vedi  la  sua  prefazione  al  Britannico  (N.  S.).  Nella  prima  prefazione 
(1670)  a  questa  tragedia,  il  Racine  in  effetti  si  richiama,  nel  difendersi 
dalle  censure  dei  suoi  critici,  al  giudizio  «de  ces  grands  homrnes  de 
Fantiquite  que  j'ai  choisis  pour  modeles ».  2.  Sono  immagini  tratte  ap- 
punto  dal  racconto  di  Th6ramene  nella  Phedre,  atto  v,  scena  vi :  «  Le  ciel 
avec  horreur  voit  ce  monstre  sauvage;  /  la  terre  s'en  emeut,  Tair  en  est 
infect^;  /  le  flot,  qui  Papporta,  recule  6pouvante». 


STORIA   CRITICA   DE>    TEATRI   ANTICHI   E  MODERNI        621 

del  secolo  XVII  dovunque  regnera  gusto,  sapere,  giudizio,  sensi- 
bilita  ed  ingegno  .  .  * 

...  In  simil  guisa  declinando  il  passato  secolo  pose  in  Fran- 
cia  il  suo  seggio  una  specie  di  tragedia  inferiore  alia  greca  per 
energica  semplicita,  per  naturalezza  e  per  apparato,  ma  certa- 
mente  da  essa  diversa  per  disegno  e  per  ordigni,  forse  piu  no- 
bile  per  li  costumi,  fondata  su  di  un  principio  novello.  I  Gre- 
ci  che  nella  poesia  rawisarono  1'amore  per  Taspetto  del  piacer 
de}  sensi,  non  rammisero  nella  tragedia  come  non  convenevole. 
I  moderni  sulla  scorta  del  Petrarca  attinsero  nella  filosofia  pla- 
tonica  una  piu  nobile  idea  dell'amore,  e  ne  arricchirono  la  poesia, 
e  quindi  cosi  purificato  passo  alle  scene.  Pietro  Cornelio  non  mai 
se  ne  valse  come  oggetto  principale,  e  Racine  fa  il  primo  a  in- 
trodurlo  nella  tragedia  con  decenza  e  delicatezza;  per  la  qual  cosa 
dee  dirsi  che  da  lui  cominciasse  la  scena  tragica  ad  avere  un  ca- 
rattere  tutto  suo.  Adunque  la  tragedia  greca  e  la  francese  in  un 
medesimo  genere  presentano  due  specie  differenti;  e  giudicar  del- 
Tuna  col  rapportarla  all'altra,  e  veder  le  cose  foscamente,  e  quali 
d'alto  mare  veggonsi  le  terre,  che  paiono  un  groppo  di  azzurre 
nuvolette. 


i  Tralascio  altre  pagine  in  cui  1'autore  polemizza  duramente  centre  il 
critico  spagnolo  Vicente  Garcia  de  la  Huerta,  che  aveva  ndotto  il  mento 
di  Racine  alia  «esatta  osservanza  deUe  regole»  e  ad  una  «scrupolosa  pro- 
lissa  pazienza  in  lavorare  stentatamente »,  e  lo  aveva  accusato  di  mancare 
di  forza  di  ccmasculinidad»,  d'ingegno,  di  vivacita,  di  fuoco  e  dimma- 


ginazione. 


DALLE  « VICENDE  BELLA  COLTURA 
NELLE  DUE  SICILIE» 

I 

Prime  memorie  delle  nostre  popolazioni  e  del  gradb  di  coltura 
che  vi  pote  regnare.1 

In  ogni  uomo  la  robustezza  del  corpo  e  della  mente  cresce  per 
gradi,  e  si  rinforza  col  tempo,  procedendo  di  ordinario  in  lui 
con  ragion  reciproca  la  forza  e  Peta;  di  modo  che,  questa  saputa, 
puo  ad  un  di  presso  misurarsene  la  forza,  e  colla  forza  pu6  co- 
noscersene  Teta.  Un  popolo  intero  soggiace  al  medesimo  corso,  e 
si  avanza  con  pan  rapporto  del  tempo  in  cui  surse  e  crebbe,  e 
del  vigore  che  va  acquistando.  Si  pu6  in  ciascun  popolo,  come 
in  ciascun  uomo,  notare  in  prima  una  fanciullezza  rozza  e  curiosa, 
in  cui  per  essere  la  memoria  robusta  e  la  fantasia  vivace,  si  osser- 

Anche  questa  opera  fu  ideata  ed  elaborata  durante  il  soggiorno  del  Na- 
poli  Signorelli  in  Ispagna,  probabilmente  subito  dopo  la  Stona  critica  de* 
teatri  antichi  e  moderni,  fra  il  1778  e  il  1782,  anno  in  cui  1'autore  scriveva 
al  Vernazza  informandolo  di  aver  terminato  il  suo  lavoro.  La  prima  edi- 
zione  delle  Vicende  fu  pubblicata  per6  solo  dopo  il  ritorno  definitivo  del 
Signorelli  in  Italia,  col  titolo  Vicende  della  coltura  nelle  due  Sicilie  o  sia 
storia  ragionata  della  loro  legislazione  e  polizia,  delle  lettere,  del  commercio, 
delle  arti  e  degli  spettacoli  dalle  colonie  straniere  insino  a  not,  a  Napoli, 
presso  Vincenzo  Flauto,  in  cinque  volumi,  il  i,  n  e  in  nel  1784,  il  iv 
nel  1785,  e  il  v  nel  1786.  Tra  il  1791  e  il  1793  usci  poi  un  Supplimento 
alle  Vicende  della  coltura  nelle  Sicilie,  a  Napoli,  presso  Vincenzo  Orsino, 
in  due  parti,  la  prima  contenente  un  Prospetto  del  secolo  XVIII,  la  seconda 
una  serie  di  Addizioni  ai  volumi  gia  pubblicati.  Negli  anni  seguenti  il 
Signorelli  scrisse  poi  una  nuova  opera  intitolata  Regno  di  Ferdinando  IV, 
adombrato  in  due  volumi  in  continuazione  delle  Vicende  della  coltura  nelle 
Sicilie,  ma  non  fece  a  tempo  a  pubblicarne  che  il  primo  volume  (Napoli, 
Migliaccio,  1798),  mentre  il  secondo  e  il  terzo  rimasero  inediti  (ora  nella 
biblioteca  dei  Girolamini  a  Napoli).  La  materia  sia  del  Supplimento  che 
del  Regno  di  Ferdinando  IV  venne  poi  dall'autore  rifusa  e  condensata 
nella  seconda  e  defimtiva  edizione  delle  Vicende  della  coltura  nelle  due 
Sicilie,  pubblicata  a  Napoli,  presso  Vincenzo  Orsino,  in  otto  volumi,  i 
primi  quartro  con  la  data  del  1810  e  gli  altri  con  la  data  del  1811:  del 
tutto  nuovo  e  Pvm  volume,  che  comprende  il  primo  decennio  del  secolo 
XIX.  Per  i  passi  qui  riprodotti  ci  siamo  attenuti  al  testo  di  questa  edi 
zione.  Le  note  del  Napoli  Signorelli  sono  seguite  dalla  sigla  N.  S. 

i.  Dalle  Vicende  della  coltura  nelle  due  Sicilie,  ed.  cit.,  I,  pp.  25-32.  An 
che  in  questo  capitolo  e  facilmente  riconoscibile  la  reminiscenza  vichiana 
di  senso,  fantasia  e  raziocinio. 


VICENDE   DELLA   COLTURA   NELLE   DUE   SICILIE          623 

va  assai  e  si  ritiene,  ed  in  seguito,  come  frutto  proprio  di  tale  sta- 
gione,  si  disviluppa  lo  spirito  verseggiatore.  Vi  si  contempla  po- 
scia  una  virilita  colta  e  industriosa,  nella  quale  si  trova  la  forza 
dell'intendimento  gia  capace  di  combinare  e  ricavar  principii  dal 
le  cose  delle  quali  ha  fatto  tesoro,  e  si  diviene  prosatore  e  filosofo. 

Egli  e  assai  naturale  che  un  popolo  faccia  uso  de'  propri  lu- 
mi  a  seconda  delPeta,  e  che  nelTinfanzia,  non  potendo  in  altra 
forma  mostrare  ingegno,  si  awisi  di  verseggiare  e  descrivere  gli 
oggetti  particolari  che  gli  si  presentano.  Ed  e  naturale  altresi  che 
col  tempo  acquisti  forze  maggiori  atte  a  salire  agli  universali,  a 
ragionare  e  a  distinguersi  col  discorso  senza  bisogno  di  misurar 
le  sillabe  di  ogni  parola. 

Nella  storia  de'  popoli  selvaggi  e  barbari,  cioe  fanciulli,  ben 
presto  si  trovano  verseggiatori ;  ne  qui  fa  uopo  ripetere  cio  che 
molti  altri  e  noi  stessi  altrove  divisammo,1  cioe  rammemorare 
tanti  versi  sacri,  eroici,  amorosi  e  pastorali  de'  popoli  nascenti. 
Hawi  pero  un  genere  poetico,  in  cui  si  richiede  ingegno  piu  adul- 
to,  e  non  basta  lo  studio  d'incatenar  le  sillabe,  ma  si  vuol  ragionare 
e  osservare  e  dipignere  i  costumi  piu  che  le  cose.  Questa  e  la 
poesia  rappresentativa,  la  quale  nasce  contemporanea  colla  pro- 
sa  e  colla  filosofia,  e  percio  non  basta  che  fra  un  popolo  trovinsi 
inni  e  canzoni  per  rinvenirvi  drammi.  Non  se  ne  vede  alcun  vesti- 
gio  fra  i  Groenlandi,  i  Tongusi,  gli  Eschimali,a  gli  Uroni,  gli 
Otentotti:  non  tra'  bellicosi  Apachi  inquieti  vicini  della  Nuova 
Biscaglia  nel  Nuovo  Messico:  non  tra'  Guarauni,  Betoi,  Caver- 
ri,  Guami,  Otomachi  ed  altre  famiglie  disperse  per  grimmen- 
si  boschi  bagnati  dalTOrenoco,  intorno  a'  quali  selvaggi  puo  ve- 
dersi  singolarmente  El  Orinoque  ilustrado  del  p.  Gomilla.3  E  pure 

i.  altrove  dimsammo:  nella  Storia  critica  de'  teatri  antichi  e  moderni,  e  pre- 
cisamente  nel  cap.  In  quali  cose  si  rassomigli  ogni  teatro,  riportato  anche  in 
questo  volume  a  p.  601.  2.  Tongusi:  o  Tungusi,  popolazione  dell* Asia  set- 
tentrionale ;  Eschimali :  Esquimesi.  3 .  Quanto  al  non  credersi  da  noi  questi 
ed  altri  popoli  fanciulli  capaci  di  poesia  scenica,  noi  ne  siamo  persuasi  per 
una  copiosa  induzione.  Se  a  qualche  viaggiatore  moderno  e  sembrato  di 
aver  vedute  orme  di  teatral  poesia  regolare  in  alcuna  tribu  da  lui  stimata 
selvaggia,  bisogna  dire  che  cio  in  prima  potrebbe  essere  una  eccezione 
alTosservazione  generale.  Chi  sa  poi  che  non  siesi  reputata  selvaggia  una 
popolazione  che  non  era  tale  se  non  perch6  a  noi  non  rassomigliava? 
Chi  sa  ancora  se  Tignoranza  della  lingua  del  paese  non  facesse  parere 
quell'imitazione  un  dramma  conforme  alle  idee  nostrali  ?  Chi  sa  se  meglio 
osservando  que*  selvaggi  non  si  sarebbe  per  awentura  rinvenuto  fxa  essi 
qualche  altro  indizio  di  coltura  antica,  che  potrebbe  indurci  a  credere 


624  PIETRO   NAPOLI   SIGNORELLI 

tutti  questi  e  tanti  altri  selvaggi  hanno  versi,  e  canticchiando  ac- 
compagnavano  sovente  le  loro  marce  e  i  travagli  che  sostenevano 
della  pesca  e  della  caccia.  E  perche  mai?  Perche  non  si  eleva  la 
pesante  materialita  dell'uomo  fanciullo  sino  alia  idea  delicata  di 
correggere  1'uomo  coHJuomo,  facendone  imitazione  e  spettacolo. 
Diciamo  meglio:  1'uomo  non  ancora  addottrinato  nella  doppiezza 
de'  popoli  culti,  da  qual  bisogno,  padre  delle  arti,  pub  ricevere  sti- 
moli  a  notarla  e  a  dipignerla? 

Non  nasce  la  poesia  teatrale,  se  non  quando  gli  uomini  tro- 
vansi  raccolti  in  societa  fisse;  quando  le  mura  che  gli  circondano 
e  le  ceneri  degli  avi  per  essi  diventano  sacre:  quando  i  matrimoni 
certi  e  le  terre  dissodate  con  tanto  sudore  dirigono  gl'impulsi  del- 
1'amor  proprio  degrindividui  ad  esser  solleciti  del  corpo  intero. 
Allora  dalla  cura  di  se  stessi  e  delle  proprie  famiglie  vien  generata 
quella  del  tutto.  Allora  si  va  esaminando  1'indole  e  la  condotta 
de'  compagni,  se  ne  osservano  le  passioni  e  le  mire;  e  quando  si 
trova  che  queste  non  secondano  i  disegni  della  societa,  quando 
chi  debbe  esser  socio  e  custode  diventa  oppressore,  perche  man- 
cano  le  leggi  che  emendano  i  torti  privati  (come  delle  antichis- 
sime  repubbliche  no  to  Aristotile  ne'  Libri  politici),1  incominciano 
le  querele  secrete,  indi  le  pubbliche  rimostranze.2  Ed  allora  il  bi 
sogno  di  un  censore  e  la  paura  di  esporsi  al  risentimento  de'  po- 
tenti  apportano  naturalmente  il  desiderio  delle  favole  sceniche, 
le  quali  servono  per  denunciare  al  popolo  i  viziosi  senza  rischio 
delljaccusatore. 


che  fossero  discendenti  obbliati  di  qualche  popolo  un  tempo  culto? 
(N.  S.)-  i.  ne'  Libri politici:  piu  esattamente  nei  primi  capitoli  del  libro  v 
di  questa  opera.  2.  Cio  si  conferma  con  quanto  scrissero  lo  scoliasta  di 
Aristofane  e  Cassiodoro  citato  anche  dal  Bulengero  [Jules-Cesar  Bou- 
lenger,  erudito  francese,  vissuto  fra  il  1558  e  il  1582],  De  theatro:  «Olim 
ii  qui  iniuria  in  vicis  affecti  erant  a  civibus,  noctu  ventitabant  in  eum 
pagurn  ubi  morabatur  is  qui  laeserat,  dicebantque:  "In  hoc  pago  quidam 
est  qui  agricolas  vexat".  Hoc  facto  discendebant  eius  nomine  citato,  qui 
iniuriam  intulerat.  Ubi  illuxisset,  qui  laeserat  in  quaestionem  vocabatur, 
et  sic  pudore  affectus  ab  inferenda  vi  deterrebatur »  [«Una  volta  coloro 
che  nei  villaggi  avevano  subito  mgiustizie  dai  cittadini,  solevano  venire  di 
notte  in  quel  villaggio  dove  abitava  chi  aveva  commesso  Tingiustizia,  e 
dicevano:  "In  questo  villaggio  c'e  uno  che  vessa  i  contadim".  Fatto  que- 
sto,  se  ne  andavano,  dopo  aver  dichiarato  il  nome  di  colui  che  aveva  com 
messo  Tingiustizia.  Quando  si  era  fatto  giorno,  ForTensore  veniva  chiamato 
in  giudizio,  e  cosi,  preso  da  timore,  veniva  distolto  dal  commettere  pre- 
potenze»],  N.  S. 


VICENDE   DELLA    COLTURA  NELLE   DUE   SICILIE          625 

Ma  conoscenza  di  diritti,  osservazioni  sul  costume,  raziocini, 
artifizio  di  lamentarsi  impunemente,  sagacita  di  ottener  ci6  per 
via  di  giuoco,  sono  idee  di  popoli  gia  in  gran  parte  dirozzati,  e 
per  conseguenza  puo  bene  asserirsi  che  di  tutti  i  generi  poetici 
il  teatrale  singolarmente  alligna  nelle  societa  gia  stabilite  e  dove 
gia  regni  una  competente  coltura.  E  perche  poi  la  delicatezza  delle 
arti  viene  colle  filosofie,  questo  genere  di  poesia  non  tocca  Pec- 
cellenza  se  non  quando  la  nazione  giunta  sia  ad  uno  stato  florido, 
e  quando  i  vizi  delPuomo  colto  e  del  lusso,  i  quali  sono  si  compli- 
cati,  e  si  bene  nascondono  sotto  ingannevoli  apparenze  la  pro- 
pria  enormita  e  ridicolezza,  apprestano  al  poeta  drammatico  una 
materia  moltiforme  e  dilicata  che  sfugge  al  tatto  che  non  e  molto 
fine. 

Seguendo  queste  idee  somministrate  dalPordine  delle  cose  ci- 
vili,  possiamo  rawisare  tre  principali  eta  in  ogni  popolo  che  com- 
pia  il  suo  corso  intero:  quella  de'  versi,  nella  quale  per  la  corta 
durata  appena  si  danno  alcuni  pochi  passi  verso  I'umanita;  quella 
della  prosa  e  de'  prind  tentativi  scenici,  in  cui  col  tempo  acquistata 
consistenza  esso  perfeziona  la  lingua,  moltiplica  le  sue  idee  e 
s'innoltra  nella  coltura;  e  quella  delle  filosofie,  in  cui  sfoggia  di 
tutto  il  lume,  ed  ostenta  un  teatro  dilicato.  Ogni  sagace  leggitore 
applichera  da  se  stesso  simili  osservazioni  alle  nazioni  antiche  e 
moderne;  ne  si  fara  arrestare  dal  riflettere  alia  disuguaglianza  del 
tempo  speso  da'  popoli  a  passare  dall'una  alTaltra  eta,  conside- 
rando  che  le  cagioni  intrinseche  possono  aver  formati  i  corpi  po- 
litici  diversamente  organizzati,  e  le  cagioni  estrinseche  trattenerne 
o  accelerarne  il  corso. 

Prima  delle  colonie  straniere  meno  incerte,  diversi  popoli  occu- 
parono  le  terre  del  continente  che  ci  appartiene,  e  della  Sicilia 
e  delle  altre  isolette.  Appena  pero  ci  si  presentano  o  nello  stato 
famigliare,  o  erranti  a  guisa  delle  selvagge  tribu  americane  o  tar- 
tare,  ad  oggetto  di  cercar  nutrimento  o  dar  luogo  ad  altre1  phi 
marziali. 


i.  altre:  trihii. 
40 


626  PIETRO   NAPOLI    SIGNORELLI 

II 

[Discussioni  col  Bettinelli.]1 

.  .  .  Tali  riferiti  preziosi  rottami  di  edifizi  magnifici  possono  con- 
solarci  dell'esagerazione  poetica  del  fu  eruditissimo  Saverio  Bet- 
tinelli,  il  quale  nel  suo  Risorgimento  non  voile  vedere  in  Italia 
prima  del  Mille  se  non  che  im  «campo  di  stragi  e  d'ignoranza», 
una  apalude,  un  deserto,  case  di  paglia  e  di  fango».2  £  ben  vero 
che  gli  forni  questa  idea  una  dissertazione  del  dottissimo  Mura- 
tori,3  il  quale  osservo  un  gran  numero  di  simili  vili  ed  income de 
abitazioni  erette  a  que'  tempi  in  Italia  per  la  frequenza  delle  guerre 
e  delle  incursioni  straniere.  Ma  ci6  che  poteva  essere  un  punto  di 
storia  nel  guardarsi  generalmente  T  Italia,  divenne  nelle  mani  del 
Bettinelli  una  figura  oratoria  ingigantita  ed  approssimata  all'iper- 
bole,  e  falsa  senza  dubbio,  se  dee  servir  di  scorta  a  rinvenir  1'epo- 
ca  del  risorgimento  delle  arti.  Istoricamente  parlando  erano  quel- 
le  case  mal  costruite  piu  effetto  passeggero  delle  accennate  guerre 
che  mancanza  totale  di  gusto,  di  ricchezza  e  d'intelligenza.  Di  fat- 
ti  trovasi  a  que'  medesimi  tempi,  dovunque  si  miri,  copia  di 
magnifici  edifizi  che  ci6  comprovano,  distruggendo  Pepoca  del 
risorgimento  fissata  dal  lodato  esgesuita.4  E  quanto  noi  delle  pro- 
vincie  del  regno  di  Napoli  e  della  Sicilia  rechiamo  nel  presente 
volume,  dimostra  ad  evidenza  che  il  rinascere  delle  arti  e  della 
coltura  debba  stabilirsi  almeno  qualche  secolo  prima,  e  rinvenirlo 
gradatamente.  Ma  quando  anche  il  Bettinelli  non  avesse  distesa  la 
sua  occhiata  sino  alle  nostre  contrade,  ne  si  fosse  ricordato  se  non 
altro  di  Monte  Casino  e  di  una  intera  citta  forte  fondata  alle  radi- 
ci  di  quel  monte  dalF abate  Bertario,  cioe  di  san  Germano,  mu- 
nita  di  valide  difese  verso  Tanno  865,  e  del  monistero  di  Ca- 
sauria  in  Abruzzo  fondato  neH'866,  e  secondo  il  Muratori  nel- 
1*871 ;  quando,  dico,  avesse  questi  nostri  paesi  obbliati,  come  al 
meno  non  si  sowenne  delle  pinguissime  badie  di  Nonantola,  di 

i.  Dalle  Vicende  della  coltura  nelle  due  Sicilie,  ed.  cit.,  n,  pp.  105-9,  I92>~5> 
246-9.  2.  Cfr.  //  Risorgimento  d'ltalia,  parte  I,  cap.  I,  in  Opere,  vn,  Ve- 
nezia,  Cesare,  1799,  p.  103  e  passim.  3.  una  dissertazione  .  .  .  Muratori:  la 
dissertazione  xxi  delle  Antiguitates  italicae  Medii  Aevi  che  tratta  «dello 
stato  dell5  Italia,  dell'abbondanza  d'abitatori,  della  coltura  delle  campagne, 
mutazione  delle  citta,  felicita  e  infelicita  dej  secoli  barbarici ».  4.  esgesuita : 
ex-gesuita:  il  Bettinelli. 


VICENDE   DELLA   COLTURA   NELLE  DUE   SICILIE          627 

Farfa  e  di  Subiaco,  che  non  ebbero  giammai  fama  di  deserti  e  di 
capanne?  Come  si  dimentico  di  tante  e  tante  castella  fortificate 
nella  sua  Lombardia  specialmente  in  occasione  delle  dissensioni 
di  Guido  e  Berengario  e  delle  escursioni  degli  Ungari  al  cader 
del  nono  secolo  e  nej  primi  lustri  del  decimo  ?  Pote  scordarsi  del- 
la  ricchissima  e  popolatissima  Pavia  piena  di  chiese,  di  palagi  e 
di  monument!,  di  splendidezza,  incendiata  da  que'  barbari  1'anno 
922  P1  Verso  il  970  era  Ravenna  una  citta  magnifica,  e  non  un 
pantano,  allorche  Ottone  I  il  grande  vi  fe'  costruire  un  nuovo 
palazzo  per  propria  abitazione;2  ne  crederei  che  Pavessero  fatto 
elevare  sul  modello  di  qualche  abituro  di  capraio.  Di  porfido,  e 
non  di  loto,  fu  1'avello  in  cui  in  Roma  si  seppelli  Ottone  II  quivi 
morto  1'anno  981?  il  quale  avello  durava  tuttavia  a'  tempi  del  car 
dinal  Baronio  insieme  coU'immagine  del  Salvadore  nelTatrio  delk 
Basilica  Vaticana,  donde  poscia  fu  tolto  da  Paolo  V.  Di  grazia, 
poteva  essere  di  fango  e  di  paglia  il  ragguardevole  monistero  che 
si  trovava  unito  all'antichissima  chiesa  di  San  Salvadore  di  Pavia 
per  cura  della  santa  imperatrice  Adelaide  prima  del  988  ?  Intorno 
a  questi  tempi  (diro  colle  parole  del  Muratori)  «in  Parma  sorse 
il  monistero  di  San  Giovanni,  in  Brescello  quello  di  San  Genesio, 
in  Milano  quello  di  San  Celso,  in  Genova  quello  di  San  Siro, 
in  Firenze  la  badia  di  S.  Maria,  in  Reggio  il  monistero  di  San 
Prospero,  oggidi  di  San  Pietro,  in  Padova  Tinsigne  di  S.  Giu- 
stina,  per  tacer  di  altri».4  Nella  sola  Roma  poi  contavansi  quaranta 
monisteri  di  monaci,  venti  di  monache,  sessanta  collegiate  di  cano- 
nici.  Pietro  Orseolo  II,  doge  di  Venezia  (e  mancavano  ancora  set- 
te  anni  per  arrivare  al  Mille),  ristauro  la  citta  di  Grado,  la  cinse  di 
mura  (non  di  loto)  da'  fondamenti  e  vi  fabbric6  il  palazzo  du- 
cale  presso  alia  torre  occidentale.  Simil  copia  di  grandi  fabbri- 
che,  tanti  monisteri,  chiese,  palazzi  imperiali  e  principeschi,  tante 
fortezze  e  castella  munitissime  furono  erette  in  un  deserto,  in 
una  palude,  di  paglia  e  di  loto?  Pavia,  Ravenna,  Venezia,  Genova, 
Verona,  Ferrara,  Modena,  Reggio,  Milano,  Firenze,  Pisa,  Bolo- 

i  Vedi  le  Stone  di  Luitprando,  lib.  nr,  c.  IV  (N.  S.).  ABude  all'-dato- 
podosis  di  Liutprando.  2.  Vedi  il  placito  dato  alia  luce  dal  Murattm, 
nella  dissert,  xxxi  delle  Antickitd  itaL.  (N.  S.).  3-  Ditmaro,  Chyo^com\, 
Hb.  in;  e  Leone  Ostiense,  [Chronicon  Monasteri  Casinmsis],  lib.  n,  P 
medesimo  Muratori,  Armali  d'ltal  (N.  S.).  4-  C£r.  Muratori,  Annah 
talia,  vni,  Venezia,  Pasquali,  1753,  p.  206. 


628  PIETRO   NAPOLI   SIGNORELLI 

gna,  Roma,  ecc. ;  e  fra  noi  Salerno,  Benevento,  Manfredonia,  Ca 
pua,  Napoli,  Gaeta,  Amalfi,  Bari,  Taranto,  ecc.,  sedi  d'imperadori, 
di  principi  reali,  di  re,  capital!  illustri  di  grandi  stati  e  di  provin- 
cie,  che  resistevano  alia  violenza  delle  macchine  belliche  per  mesi 
ed  anni,  erano  tutte  prima  del  Mille  edificate  di  fango  e  coperte 
di  paglia,  e  nulla  piu  che  tuguri  ancor  piu  poveri  della  reggia  del 
re  Evandro?  lo  non  saprei  di  quale  Italia  potesse  esser  pieno  il 
capo  dell' elegante  scrittore  Bettinelli,  allorche  voile  tessere  la  bel- 
lissirna  tirata  del  suo  Risorgimento  . .  . 

...  Ed  e  questo  il  ritratto  istorico  del  secondo  periodo1  de' 
Longobardi,  de'  Greci  e  de'  Saracini  italiani.  Noi  ben  vi  rawi- 
siamo  le  orme  di  una  ferocia  stanca  e  spossata  piuttosto  che  am- 
mollita,  ed  un  misto  di  barbaric  vicina  a  cedere  alia  benignita 
del  clima,  ma  che  pure  ritorna  all'antico  vezzo.  Non  possiamo 
pero  rafEgurarvi  quel  deserto  e  quella  palude  italiana  sbucciata 
dalla  testa  poetica  del  pregiato  esgesuita  Bettinelli.  Se  tale  apparve 
alia  sua  immaginazione  F  Italia,  la  storia  rappresenta  a  noi  la  gran 
parte  dell'Italia  che  noi  abitiamo,  anche  in  tempo  cosi  fatale,  spar- 
sa  di  grandi  citta,  coltivata,  fiorente  e  navigatrice.  Noi  veggiamo 
che  essa  conserv6  le  arti;  raccolse  libri  per  mezzo  di  Autperto;2 
custodi  gran  parte  degli  eventi  per  opera  di  Giovanni  Diacono 
e  di  Erchemperto,3  senza  de'  quali  si  rimarrebbe  in  maggior  buio ; 
accolse  la  gioventu  nelle  scuole  basiliane4  di  Otranto  e  di  Nardo 
ed  in  piu  luoghi  della  Sicilia;  non  intermise  gli  studi  sacri  in  Mon 
te  Casino;  mand6  piu  pontefici  a  Roma  ed  alia  sede  patriarcale 
di  Costantinopoli  un  san  Metodio;5  si  esercit6  quasi  senza  inter- 
missione  nelle  greche  lettere.  Ora  siffatte  glorie  possono  uscire  dalle 
paludi  e  dai  deserti  ?  II  prelodato  Bettinelli  che  suol  restrignere  il 

i.  secondo  periodo:  cioe  del  periodo  che  va  dalla  fine  del  secolo  VIII  a 
tutto  il  X,  secondo  la  divisione  del  Napoli  Signer elli.  2.  Autperto :  abate 
del  monastero  di  Montecassino  fino  alT8s7,  autore  di  Omehe  e  assiduo 
raccoglitore  di  codici  (cfr.  Vicende  ecc.,  ed.  cit.,  n,  p.  198).  3.  Gio 
vanni  Diacono,  napoletano,  vissuto  fra  la  fine  del  IX  secolo  e  il  principio 
del  X,  autore  dei  Gesta  episcoporum  neapolitanorum  e  di  altre  op  ere  sto- 
riche ;  Erchemperto,  di  Benevento,  vissuto  nella  seconda  meta  del  secolo  IX, 
e  noto  soprattutto  per  un'opera  storica  sui  duchi  longobardi  di  Benevento 
(cfr.  Vicende  ecc.,  ed.  cit.,  n,  pp.  130-2  e  134-5).  4-  basiliane:  tenute  da 
monaci  greci  dell'ordine  basiliano.  5.  san  Metodio,  siracusano,  morto 
nell'847,  autore  di  opere  sacre  in  greco  (cfr.  Vicende  ecc.,  ed.  cit.,  u,  pp. 
140-3)- 


VICENDE  BELLA   COLTURA  NELLE   DUE   SICILIE          629 

significato  cTItalia  nella  Lombardia  e  poco  piu,  quando  Fltalia 
a  suo  credere  risorge,  e  ne  separa  le  due  Sicilie;  dovea  separarle 
ancora  quando  essa  era  una  palude,  giacche  le  Sicilie  conservarono 
le  vestigia  delle  arti,  dell'industria  e  della  ragione.  Ma  dovea 
singolarmente  awertire  quest'abile  letterato  che  le  idee  di  de- 
serto  e  di  palude  nel  Mille  mal  preparano  un  vicino  risorgimento, 
che  nascer  non  pote  come  un  fango  in  un  tratto  ed  in  pochi  anni. 
Dove  non  si  conservano  i  semi  delle  scienze  e  delle  arti,  Tamor 
dell'ordine,  una  immagine  non  totalmente  fosca  di  governo  e  di 
liberta;  non  basta  qualche  secolo  a  far  rinascere  la  colta  umanita. 
Se  Fltalia  risorse  dopo  il  Mille,  cio  awenne  appunto  perche  pri- 
ma  del  Mille  essa  non  era  in  ogni  parte  caduta  ugualmente.  Nel- 
le  Sicilie  specialmente  essa  lottava  colla  barbaric;  lottava  con  isvan- 
taggio,  ma  non  cedeva,  ma,  per  cosi  dire,  quasi  esangue  sdegnava  di 
soccombere  o  di  parer  vinta.  Cio  si  dovea  esaminare  ed  awertire 
se  si  voleva  sobriamente  rilevare  il  risorgimento  dell*  Italia.  Ma 
si  vede  chiaro  che  assai  piii  difficile  e  il  filosofare  sulle  nazioni 
e  veder  le  scintille  di  luce  in  mezzo  alle  tenebre,  che  declamare 
fuor  di  tempo  e  lanciar  dietro  di  una  siepe  languidi  e  insipidi  epi- 
grammi  e  strali  che  non  eccedono  la  durezza  de'  giunchi,  e  che 
si  sotterrano  usciti  appena  dalla  cocca.  Noi  abbiamo  fatto  il  possi- 
bile  per  dimostrare  la  sorgente  del  risorgimento  dell'Italia  mani- 
festando  colla  fiaccola  della  storia  e  della  critica  i  magnanimi  suoi 
sforzi  assai  prima  del  Mille.  Essi  supplirono  alia  debolezza  in  cui 
era  caduta,  e  Teroica  sua  pazienza  e  fatica  la  riserbo  al  gran 
trionfo  .  . . 

Ma  certi  eruditi  che  non  sanno  accordare  a  qualche  popolo 
progresso  veruno  se  non  vi  scorgono  una  successione  di  scuola, 
si  sono  occupati  a  indagare  il  fondatore  della  scienza  medica  in 
Salerno.  Non  basta  a  costoro  un  cumolo  di  fatti,  per  gli  quali  si 
prova  che  lo  spirito  d'industria  suole  sugerire  all'uomo  cognizioni 
ed  arti  senza  bisogno  di  acquistarle  coU'esempio.  Non  vogliono 
vedere  che  1'amore  di  sussistere  senza  dolore  e  una  delle  primi 
tive  molle  che  ci  muovono  a  cercare  la  guisa  di  respingere  i  mail 
fisici  del  proprio  individuo;  e  che  sebbene  gli  eventi  in  mille  popo- 
lazioni  possono  averla  rallentata  e  resa  inutile,  in  taluno  pero  puo 
essere  stata  di  tempra  tale  che  avra  conservata  una  parte  della 
propria  attivita.  Sin  che  non  trovino  un  egizio,  un  etrusco,  un 


630  PIETRO   NAPOLI   SIGNORELLI 

greco,  un  latino,  o  almeno  un  arabo  che  vada  di  paese  in  paese 
portando  la  fiaccola  dello  scibile,  essi  non  mai  crederanno  che 
Pumanita  possa  pensare,  operare  e  vivere.  Hanno  essi  di  piu  adot- 
tato  un  altro  pregiudizio  letterario,  sorgente  inesausta  di  errori, 
nel  rintracciare  il  risorgimento  della  coltura  deiringegno  in  Ita 
lia.  Suppongono  che  colle  incursioni  de'  barbari  tutta  essa  si  estinse, 
tutta  fini  a  un  tratto,  e  ritorno  Tantica  confusione  degli  elementi. 
Ma  non  riflettono  che  i  barbari  non  furono  una  fiamma  contempo- 
ranea  che  tutto  in  un  punto  solo  divor6  e  ridusse  in  cenere.  Men- 
tre  fumavano  varie  citta  combuste,  alcuna  ne  rimaneva  intatta, 
e  Fincendio  la  si  spegneva,  quando  qua  divampava.  Ora  in  tal  sue- 
cessione  d'incendi  la  coltura  perseguitata  e  fuggiasca  ancora  giva 
qua  e  la  lasciando  di  se  desiderio  e  qualche  striscia  di  lume  benche 
moribonda,  che  quando  non  altro  ne  conservava  la  memoria.  For- 
tunatamente  contribui  a  conservarla  alcun  intervallo  di  tranquilli- 
ta.  Contenne  di  tempo  in  tempo  gli  attentati  della  barbaric  un 
Teodorico,  un  Rotari,  un  Luitprando,  un  Arechi,1  un  Carlo  Ma- 
gno,  un  Ottone.  Se  la  Lombardia  inondata,  desolata  e  schiava 
attendeva  la  pace  di  Costanza  per  godere  un'ombra  di  liberta,  le 
nostre  provincie  contavano  diverse  repubbliche  quasi  indipenden- 
ti  non  allagate,  non  ridotte  a  un  deserto,  non  totalmente  imbarba- 
rite,  le  quali  conservarono  ancorche  in  parte  guasti  molti  semi 
delle  antiche  cognizioni.  Salerno  nel  secolo  piu  infelice,  nel  X, 
era  la  reggia  magnifica  de'  propri  principi  e  fioriva  singolarmente 
nella  medicina.  E  quando  i  Saracini  siciliani  passarono  ad  insul- 
tarla,  i  Normanni  vennero,  vinsero  e  fondarono  un  gran  regno, 
e  non  distrussero,  ma  fabbricarono  sulle  conservate  memorie  della 
coltura. 

in 
[Italianita  della  poesia  petrarchesca.f 

. . .  Quanto  al  Petrarca  che  nobilit6  ed  abbelli  la  poesia  italiana 
nel  genere  lirico  ed  amoroso  quanto  Dante  la  sublim6  nel  grande 
e  ranim6  nel  satirico;  c'invita  a  parlar  di  lui  alcun  poco  per  ven- 
dicarlo  di  alcuni  giudizi  diretti  a  minorarne  la  gloria.  Ed  e  ben  giu- 

i.  Arechi:  duca  longobardo  di  Benevento,  morto  nel  787.     a.  Dalle  Vi- 
cende  della  coltura  mile  due  Sicilie,  ed.  cit.,  in,  pp.  81-93. 


VICENDE  DELLA   COLTURA  NELLE   DUE  SICILIE         63! 

sto  che  a  lui  si  consacri  qualche  foglio  di  quest'opera  per  gratitu- 
dine  di  aver  egli  preferita  Napoli  a  Roma  e  a  Parigi  per  udire  il 
giudizio  sul  suo  merito  poetico,  ed  a  molti  poeti  italiani  ed  oltra- 
montani  suoi  contemporanei  anteposti  i  nostri  sulmonesi  e  na- 
poletani.1 

Strano  sembra  a  chi  ben  legge  le  Rime  del  Petrarca,  che  do- 
po  il  Bembo  alcuni  italiani  abbiano  asserito  ch'egli  studiasse  la 
poesia  provenzale.  Stranissimo  che  Saverio  Bettinelli,  il  quale, 
per  dipignere  in  grande  e  per  mostrarsi  scrittor  robusto,  cerca  ani- 
mare  1'epoche  del  risorgimento  degli  studi  colla  filosofia,  ritrovi 
poi  la  cagione  deir«eccellenza»,  della  «grazia»,  della  <cfinezza  poe- 
tica»  del  Petrarca  la  dove  men  dovrebbe  rintracciarla,  cioe  ne' 
disordini,  nella  licenza  e  neU'effeminata  urbanita  della  corte  d'A- 
vignone,  vale  a  dire  in  quelle  cose  che  atte  anzi  sembrano  ad  im- 
mollar  le  ali  delTentusiasmo.  «  Nella  Provenza  e  nella  corte  papa- 
le»  egli  dice  « Petrarca  trovo  esempio  ed  incitamento  al  suo  poe- 
tare  ».2  « Incitamento  »,  si,  perche  nulla  piu  stimola  Fuomo  di  genio 
che  vede  piu  oltre  della  sua  eta,  a  tramandar  fuori  di  se  quel  sacro 
fuoco  che  1'accende,  quanto  il  vedere  la  facolta  prediletta  da  mani 
volgari  strapazzata.  L'altrui  traviamento  e  mediocrita  oh  come  in- 
cita  a  fregiarsi  di  un  lauro  non  ancor  toccatol  « Esempio »,  no, 
perche  Petrarca  apprese  nej  propri  lari,  in  Italia,  gusto  piu  fine 
e  vide  migliori  scorte.  Splendeva,  quando  egli  venne  al  mondo, 
un  cielo  piu  depurato  in  Italia.  Piu  non  era  il  tempo  in  cui  i  mi 
gliori  italiani  illustravano  la  lingua  provenzale  adoperandola  per 
la  poesia.  I  trovatori  del  XII  e  XIII  secolo  cominciavano  a  tra- 
montare.  L'accademia  di  Toronetto  e  la  «  Gaia  Scienza  di  Tolosa»,3 
e  tutto  il  corredo  dell'enidizione  provenzale  spiegato  net  Risorgi 
mento  per  adornarlo,  se  conservava  la  propria  celebrita  oltramonti, 
in  Italia  piu  non  destava  Tinvidia  poiche  comparvero  le  tre  can- 


1 .  Veggasi  su  di  ci6  una  sua  lettera  pubblicata  dal  dotto  abate  de  Sade 
nel  torn,  in  delle  Memorie  della  vita  di  Francesco  Petrarca  (N.S.).  Allude 
alia  Fam.t  xni,  7,  indirizzata  a  Pietro,  abate  di  San  Benigno,  e  in  parti- 
colare  al  passo  di  questa  lettera  che  il  Signqrelli  traduce  piu  avanti. 

2.  Risorgimento,  parte  II,  c.  ill,  pag.  80  (N.  S.)-  Cfr.  Opere,  ed.  cit.,  rx, 
1799,    p.  129.      3.  Uaccademia . . .  Tolosa:  allude  airaccademia  tenuta 
intorno  al  1300  nelTabbazia  di  Toronetto  e  alle  gare  poetiche  («jeux 
floraux»)  indette  dal  1323  in  avanti  a  Tolosa  da  sette  rimatori  che  si 
dicevano  « mantenedors  del  gay  saber »,  ossia  della  <cgaya  sciensa»,  la  teo- 
rica  d'amore  gia  elaborata  nella  scuola  provenzale. 


632  PIETRO   NAPOLI   SIGNORELLI 

tiche  dantesche.  Petrarca,  nato  nel  1304,  crescendo  si  nutriva  delle 
robuste  dipinture  delTAlighieri  e  della  lirica  dolcezza  di  Cino  da 
Pistoia.  GPinspirarono  i  suoi  coetanei  compatriotti  1' amore  del- 
Perudizione  latina,  ed  accesero  nel  giovanetto  cuore  vivide  fiamme 
di  leggiadra  invidia,  onde  sursero  i  semi  della  futura  sua  grazia  e 
finezza  poetica.  Fini  di  assicurarne  il  gusto  il  dotto  Barlaamo1  con 
additargliene  i  veri  fonti  ne'  greci  esemplari  e  con  insegnarli  ad 
investigare  le  bellezze  di  Platone  e  di  Omero. 

Pieno  il  petto  di  greca  e  latina  sapienza,  di  ammirazione  per 
Cino  e  piu  per  Dante,  di  amore  pel  nativo  idioma  di  cui  tutta  com- 
prendeva  la  forza  e  la  venusta  nascente,  e  soprattutto  di  quel  genio 
grande  che  sorge  in  noi  colla  felice  organizzazione,  e  che  da  chi  nol 
sorti  per  natura  non  si  trova  ne  dentro  ne  fuor  di  casa,  ne  con  oro 
si  merca,  n6  con  diplomi  si  ottiene,  ne*  colla  spada  o  col  cannone 
si  conquista;  Petrarca  passo  le  Alpi  e  apparve  nella  Provenza. 
E  che  vi  apprese  in  poesia  ?  che  vi  trovo  ?  lo  mel  rappresento  in 
mezzo  agPistitutori  della  «Gaia  Scienza»,  tra'  parlamentari2  della 
aCorte  d' Amore)),  tra'  giudici  delle  atenzoni)),  porgendo  Pudito  a* 
nuovi  modi  dej  giuglari3  provenzali.  Apparentemente  egli  in  essi 
non  vide  che  un  giuoco  scenico  della  poesia,  non  la  poesia  stessa; 
un  pinger  di  maniera  non  naturale,  non  vero;  ne  dove  per  essi 
dimenticare  Parmonico  verseggiar  di  Dante,  Paurea  elegante  mae- 
stosa  sempKcita  virgiliana,  Penergia  oraziana  e  Peloquio  di  Pla 
tone  e  di  Tullio.  Firenze  dove  presentarglisi  al  pensiero :  gli  occhi 
suoi  talvolta  si  volsero  all'ingiu  cercando  lung'Arno  i  patri  ci- 
gni.  I  provenzali  Arnaldo  e  Folchetto  e  Sordello,  rimator  pro- 
venzale  nato  in  Mantova,  potevano  sfuggire  di  esser  da  lui  ra- 
pidamente  comparati  a  Cavalcanti,  a  Cino,  al  cantor  di  Ugolino? 
Piu  di  una  fiata  non  dovette  dire  a  se  stesso:  ccDov'e  la  mera- 
vigliosa  evidenza,  rarmonia  perenne,  il  robusto  colorito  della  gran 
Commediat  Perche  qui  non  si  studia  Tullio  e  Platone,  Virgilio 
ed  Orazio,  o  studiandosi  perche*  non  s'imitano?4  Non  e  dunque 
da  stupirsi  se  qui  si  parli  un  linguaggio  ben  diverso  dalTamante 

i.  Fini .  .  .  Barlaamo:  il  Petrarca  pens6  in  effetti  di  poter  apprendere  il 
greco  dal  monaco  calabrese  Barlaam,  col  quale  si  trov6  ad  Avignone  nel 
1342  e  nel  1346-1347,  ma  sembra  che  1'insegnamento  non  sia  andato  ol- 
tre  i  primi  element!.  2. parlamentari:  partecipanti.  3. giuglari:  italianizza 
ilpTOvenzalejoglar,  «giullare».  4.  II  signor  di  Fontenelle  nella  Storia  del 
teatro  francese  confessa  che  i  rimatori  provenzali  verseggiavano  per  abito 
amorosamente  senza  curar  di  Greci  e  di  Latini  (N.  S.)- 


VICENDE   DELLA   COLTURA  NELLE   DUE  SICILIE          633 

di  Beatrice,  se  qui  non  si  sospiri  con  quel  dolce  patetico  onde 
fu  pianta  Ricciarda)).1 

«Veggio  ben  io»  egli  pot6  aggiugnere  «su  qual  perno  si  ag- 
giri  il  rimar  de5  trovatori.  Delicatezze  argute,  arzigogoli  dello  spi- 
rito  piu  die  slanci  di  cuore  appassionato;  bellezze  ipotetiche  di 
convenzione  piu  che  spontaneita  inspirata  dalla  natura;  artificio 
nella  forma  delle  noiose  sestine  e  delle  ballate  e  de'  madrigaK 
piu  che  verita  e  scelta  di  concetti;  sonetti  epigrammatici  piu  che 
pindarici;  non  sublimita  nuova  nelle  canzoni,  non  epico  suono  ner 
capitoli  lontani  dalla  mollezza,  in  cui  si  congiunga  alia  forza  dan- 
tesca  un  colorir  gaio  e  gentile,  di  cui  Cino  abbozzo  rimmagine. 
La  patria  lingua  docile,  pieghevole,  armoniosa  per  natura,  tutto 
abbellira,  s'io  voglio,  quanto  quassu  si  ammira.  E  bene  io  ne  faro 
saggio  alcuna  fiata  mostrando  di  poetare  alia  lor  maniera  negli 
amorosi  deliri;  s'io  a  lor  non  discendo,  quando  mai  a  Dante  essi 
s'innalzeranno  ?  Cerchero  una  o  due  delle  loro  "trove"35  piu  pre- 
giate,  le  animero  colle  tosche  maniere  dandole  quelParmonia  me- 
trica  che  ricusa  di  ricevere  la  costituzione  del  loro  idioma;  essi 
vi  si  delizieranno  per  cio  che  loro  parra  produzione  del  paese, 
ed  intanto  si  addimesticheranno  alia  maniera  italiana.  Messer 
Jordi,  per  esempio,  poeta  valenziano  del  XIII  secolo,3  dice  in  una 
sua  "trova" : 

E  no  he  pau,  e  no  tine  quim  guarreig, 
vol  sobre  el  eel,  e  nom  movi  da  terra, 
e  no  strenc  res,  e  tot  lo  mon  abras. 

Io  prestero  a  questo  pensiero  oltramontano  armonia,  legiadria,  no- 
bilta  novella  in  simil  forma: 


i .  Petrarca  in  effetto  mostro  di  pensar  cosi  quando  nella  sopracitata  lettera 
rapportata  dalT abate  de  Sade,  affermo  che  dall'Inghilterra,  dalla  Francia, 
dalPAlemagna,  dalla  Grecia  de*  suoi  tempi  gli  piovevano  sopra  tanti  versi 
di  poetastri  che  si  strisciavano  pel  suolo,  e  che  solo  in  Italia  trovava  buoni 
poeti  (N.  S.).  Cfr.  a  p.  637  la  citazione  di  questo  passo  petrarchesco  e  la 
nota  relativa.  Ricciarda  e  certo  un  errore  di  memoria  per  Selvaggia,  la 
donna  cantata  e  pianta  da  Cino.  2.  trove:  italianizza  il  provenzale  troba, 
« maniera  di  trovare,  di  poetare*;  quindi,  « componimento  poetico*. 
3.  Messer  Jordi.  .  .  secolo:  in  realta,  come  poi  dimostrarcmo  gli  eruditi 
spagnoli  Sarmiento  e  Sanchez,  Timitatore  non  e  il  Petrarca,  ma  lo  Jordi, 
vissuto  non  nel  secolo  XIII,  ma  due  secoli  dopo  (cfr.  sulla  questione 
G.  Andres,  DeWorigine,  progressi  e  stato  attuale  di  ogm  lettcratura,  Ve- 
nezia,  Antonelli,  1830,  I,  parte  I,  pp.  455-64). 


634  PIETRO   NAPOLI   SIGNORELLI 

Pace  non  trovo,  e  non  ho  da  far  guerra,  .  .  . 
e  volo  sopra  il  cielo,  e  giaccio  in  terra; 
e  nulla  stringo,  e  tutto  il  mondo  ablraccio.1 

I  Provenzali  mi  leggeranno,  e  mi  fia  caro  poiche  qui  ora  dimo- 
ro;  forse  alcuna  bella  di  Avignone  se  ne  compiacera,  e  mi  udira 
cantare  in  mia  favella.  Prevedo  che  giugnendo  a'  posteri  que- 
sti  concetti  studiati,  queste  manifesto  attillature  parranno  ri- 
pugnanti  alia  verita  e  alia  passione;  taluno  me  ne  riprendera;  qual- 
che  valenziano  o  catalano  o  provenzale  ne  trionfera  ancora.2  Ma 
quel  fuoco  novello  che  tutto  mi  riscalda,  quelle  idee  piu  nobili 
che  attingo  nella  filosofia  di  Platone,  quelle  immagini  che  mi 
presenta  la  natura,  quel  bello  delle  greche  e  delle  latine  forme 
che  mi  rapisce,  gia  mi  eleva  sopra  cio  che  mi  circonda,  m'infonde 
nuovo  gusto  ed  una  leggiadria  originale  ignota  a'  parlamentari3  ol- 
tramontani.  Se  non  m'inganna  il  nume  che  mi  riempie,  io  ne  tra- 
smettero  si  gran  parte  nelle  mie  rime  che  i  posteri  ben  compren- 
deranno  che  io  scherzo  imitando  alcuna  volta  i  rimatori  della  Pro- 
venza  per  divertimento,  per  capriccio,  per  far  prova  del  mio  idio- 
ma  in  ogni  forma,  come  essi  forse  faranno  col  tempo  imitando  e 
traducendo,  e  forse  scempiatamente,  i  barbari  cantori  celtici  e  gli 
orientali;  ma  si  awedranno  poi  che  io  cerco  rimmortalita  per  sen- 
tiero  migliore». 

Petrarca  di  fatti  cosi  pens6,  giacche  veggiamo  quanto  si  di- 

i.  Petrarca,  Rime,  cxxxiv,  i  e  3-4.  2.  Saverio  Lampillas,  erudito  cata 
lano  esgesuita,  trionfa  appunto  nel  tomo  II  del  suo  Saggio  apol[ogetico] 
perch6  Petrarca  trascrisse  1'indicato  pensiero  di  messer  Jordi;  e  ne  de 
duce  che  i  suoi  paesani  avevano  influito  «ai  progress!  della  poesia  italia- 
na  »  e  alia  gloria  del  Petrarca.  Ci6  che  soggiugniamo  mostrera  al  pubblico 
in  che  sia  posta  la  vera  poesia  petrarchesca  (N.  S.).  Francesco  Saverio 
Lampillas  (1731-1810),  venuto  a  Geneva  dopo  Tespulsione  del  suo  or- 
dine  dalla  Spagna,  e  noto  soprattutto  per  il  Saggio  storico  apologetico  della 
letter atur a  spagnuola,  in  sei  volumi  e  pubblicato  fra  il  1778  e  il  1781,  nel 
quale,  polemizzando  col  Tiraboschi,  col  Bettinelli  e  col  Napoli  Signorelli, 
ribatte  le  accuse  relative  alia  dannosa  influenza  degli  scrirtori  spagnoli 
prima  sulla  letteratura  latina  (Seneca,  Lucano,  Marziale,  ecc.),  e  poi 
sulla  letteratura  italiana  del  Seicento.  Le  risposte  del  Tiraboschi  e  del 
Bettinelli  con  le  controrisposte  del  Lampillas  furono  raccolte  in  un  vo 
lume  pubblicato  a  Roma  nel  1781.  Ma  il  piu  acerrimo  awersario  del 
Lampillas  fu  il  Napoli  Signorelli,  che,  a  quanto  pare,  proprio  a  questa 
polemica  dovette  Tallontanamento  dalla  Spagna  (cfr.  C.  G.  MININNI, 
P.  Napoli  Signorelliy  cit.,  pp.  84-93).  3.  parlamentari:  cfr.  p.  632  e  la 
nota  2. 


VICENDE  DELLA   COLTURA   NELLE  DUE   SICILIE          635 

lunghi  dalla  maniera  provenzale  quel  gran  gusto  che  spieg6  nelle 
impareggiabili  sue  canzonL  E  che  ha  che  fare  colle  « trove »  di 
messer  Jordi  e  colle  «tenzoni»  provenzali  la  bellissima  graziosa 
dipintura  della  sua  donna  a  pie  di  un  albero  nella  canzone  Cfuare, 
fresche  e  dolci  acque,  cui  milk  adegua  se  non  qualche  tratto  mae- 
strevole  del  pennello  del  Correggio?  Qual  trovatore  ebbe  mai 
idea  del  seguente  ben  noto  quadro  ? 

Da'  bei  rami  scendea 
(dolce  nella  memona) 
una  pioggia  di  fior  sovra  il  suo  grembo; 
ed  ella  si  sedea 
umile  in  tanta  gloria, 
cover ta  gia  delV  amoroso  nembo. 
Qual  fior  cadea  sul  lembo, 
qual  sulle  trecce  bionde, 
ch*oro  forbito  e  perle 
eran  quel  di  al  vederle. 
Qual  si  posava  in  terra,  e  qual  sulVonde, 
qual  con  un  vago  errore 
girando  parea  dir  -  qui  regna  Amore.1 

Quando  mai  si  seppe  a'  suoi  di  oltramonti  nobilitar  piu  altamente 
1'oggetto  dell'amorosa  fiamma? 

In  qual  parte  del  cielo,  in  quale  idea 
era  Vesempio,  onde  natura  tolse 
quel  bel  viso  leggiadro  in  ch'ella  volse 
mostrar  qua  giii  quanto  lassu  potea? 

Qual  ninfa  in  fonte,  in  selva  mai  qual  dea 
chiome  d'oro  si  fino  air  aura  sciolse? 
quando  un  cor  tante  in  se  virtudi  accolse? 
Benche  la  somma  e  di  mia  morte  rea. 

Per  divina  bellezza  indarno  mira 
chi  gli  occhi  di  costei  giammai  non  vide, 
come  soavemente  ella  li  gira. 

Non  sa  come  Amor  sana,  e  come  ancide, 
chi  non  sa  come  dolce  ella  sospira, 
e  come  dolce  parla,  e  dolce  ride.2' 

Dove  si  vede  arte  pari  a  quella  che  si  pone  nelTaltro  bellissimo 
sonetto 

i.  Rime,  cxxvi,  40-52.     2.  Rime,  CLIX. 


636  PIETRO   NAPOLI   SIGNORELLI 

Chi  vuol  veder  quantunque  pud  natura* 

per  invogliar  chi  legge  a  veder  la  sua  donna?  Si  e  mai  piu  va- 
gamente  animate  il  passeggiar  semplice  ed  il  mirar  della  donna 
amata  prima  che  Petrarca  1'insegnasse  col  sonetto 

StiantOj  Amore,  a  veder  la  gloria  nostra? 
lo  non  posso  non  trascriverne  i  ternarii: 

L'erbetta  verde  e  i  fior  di  color  mille 
spar  si  sotto  queWelce  antica  e  negra 
pregan  pur  che  il  bel  pie  li  prema  e  tocchi. 

E  il  del  di  vaghe  e  lucide  faville 
s'accende  intorno,  e  in  vista  si  rallegra 
dresser  fatto  seren  da  si  begli  occhi. 2 

Ma  si  contenta  egli  delle  idee  che  gli  sugerisce  la  natura?  Egli 
segue  la  sua  donna  sin  nelPingresso  del  Paradiso.  Leggasi  il 
sonetto 

Gli  angeli  eletti  e  le  anime  beate.3 

E  come  meglio  dipingere  1'amorosa  invidia  ch'egli  porta  alia  terra 
ed  al  cielo  che  la  posseggono?  Leggasi  il  vago  sonetto 

Quanta  invidia  ti  porto,  avara  terra* 

Tronchiamo  questo  piacevole  esame,  che  oramai  ci  fa  perdere 
troppo  camino,  dopo  avere  additata  la  grata  visione  dipinta  nel 
sonetto 

Levommi  il  mio  pensiero  in  parte  ov'era, 

trascrivendone  la  leggiadrissima  chiusa: 

Deh,  perche  tacque,  ed  allargb  la  mano, 
che  al  suon  de  i  detti  si  pietosi  e  casti 
poco  manco  ch'io  non  rimasi  in  cielo.5 

Questo  e  Petrarca,  Pinimitabile,  il  non  traducibile  Petrarca,  e 
non  il  traduttore  di  tre  versi  di  messer  Jordi.  Ma  questo  Petrarca 
non  abbisognava  della  mollezza  licenziosa  della  corte  avignonese, 
che,  con  pace  del  cav.  Bettinelli,  non  gli  porse  veruno  esempio 

i.  Rime,  CCXLVIII.  2.  Rime,  cxcn,  9-14.  3.  Rime,  CCCXLVI.  4.  Rime,  ccc. 
5.  Rime,  cccn,  12-4. 


VICENDE   BELLA   COLTURA  NELLE  DUE  SICILIE          637 

di  simil  poetare.  Noi  converremo  con  lui  e  col  suo  confratello  Lam- 
pillas  tosto  che  ci  adducano  le  poesie  provenzali  e  valenziane  onde 
possono  esser  tratte  queste  bellezze  original!  del  poetar  petrar- 
chesco.  Ma  la  fonte  provenzale  non  getta  di  queste  acque,  ed  al- 
tronde  spiccia  la  vena  della  leggiadria  del  Petrarca  e  della  subli- 
mita  dell'Alighieri.  Quei  che  non  sono  nemici  della  storia,  osser- 
veranno  che,  nel  fiorire  della  poesia  italiana  merce  di  questi  due 
grandi  ingegni,  divenne  roca  ed  in  seguito  ammutoli  la  proven 
zale.  L'apologista  Lampillas  pretese  che  questa  decadde  nella  Pro- 
venza  al  mancar  de'  principi  catalani.  E  bene:  perche  pero  non 
conserv6  le  antiche  sue  glorie  in  Aragona  e  in  Catalogna?  Perche  la 
«  Gaya  Ciencia»  e  le  poesie  di  Febrer  e  di  Ausias  Marc1  non  tolsero 
il  primato  a  quelle  di  Dante  e  di  Francesco  Petrarca? 

Si  diffuse  per  1'Europa  lo  splendore  di  si  begli  astri,  e  spar- 
vero  le  facelle  nebulose  che  producevano  un  debole  crepuscolo. 
Petrarca  da  motivo  di  andar  fastose  del  suo  giudizio  le  citta  che 
prescelse.  Tra  gl'Inglesi,  i  Francesi,  i  Tedeschi,  i  Greci  e  gFItaliani 
stessi,  egli  trovo  poeti  veri  in  ben  pochi  paesi.  «Se  non  m'acceca» 
egli  scrive  nella  mentovata  lettera  «Famor  delk  patria,  io  ne  veggo 
in  Firenze,  in  Padova,  in  Verona,  in  Sulmona,  in  Napoli;  mentre 
altrove  veggo  sol  poetastri  che  strisciano  pel  suolo»2 . . . 

IV 

\Uamore  della  liberta,  primario  movimento  delta  natura  umana.]3 

Per  risalire  alPorigine  di  un  disordine  uopo  e  formarsi  chiara 
idea  del  principio  dell'ordine.  Per  vedere  se  una  costituzione  siesi 
alterata  con  vantaggio  o  detrimento  del  pubblico  bene,  che  e  lo 
scopo  di  un  buon  governo,  bisogna  investigare  il  principio  onde 

i .  Andreu  Febrer ,  poeta  catalano  della  prima  meta  del  secolo  XV,  noto, 
piu  che  per  le  sue  poche  liriche,  per  una  traduzione  della  Dwina  Comme- 
dial  Auzias  March  (1397-1459),  il  maggior  lirico  catalano  del  Quattro 
cento,  contimiatore  della  tarda  tradizione  provenzale  della  scuola  di  To- 
losa.  2.  Cfr.  Petrarca,  Fam.,  xin,  7,  15:  «unum  est  quod  patrie  niee 
gratuler  cui  inter  infelix  lolium  et  steriles  avenas  toto  orbe  difnisas,  ali 
quot  iuvenum  ingenia  feliciora  consurgunt,  nisi  me  amor  fallit,  non  ina- 
niter  fontem  potura  Castalium.  Tibi  quoque  dilecta  Musis  Mantua,  tibi 
Patavum,  tibi  Verona,  tibi  Cimbria,  tibi  Sulmo  meus  gratulor  et  tibi, 
domus  Maronea  Parthenope,  dum  alibi  poetantium  novos  greges  incertis 
tramitibus  late  vagos,  semper  aridos  sitientesque  conspicio*.  3.  Dalle 
Vicende  della  coltura  nette  due  Sicilie,  ed.  cit.,  IV,  pp.  6-13. 


638  PIETRO   NAPOLI   SIGNORELLI 

muovesi  ad  operate  ne'  diversi  govern!  ogni  individuo.  Monte 
squieu,  queirillustre  pensatore  del  secolo  XVIII,  che  voile  addi- 
tarci  il  codice  della  natura  manifestando  Lo  spirito  delle  leggi  delle 
nazioni,  rawis6  diversi  principii  di  azione  nelle  tre  principali  for 
me  di  governo,  il  timore  negli  stati  dispotici,  Vonore  nelle  monar 
chic  e  la  wrtii  nelle  repubbliche.  Ma  portando  lo  sguardo  filoso- 
fico  nelTultima  sorgente  delle  verita,  cioe  neirintimo  del  cuore 
umano,  si  vedra  che  questi  diversi  principii  discendono  come  sem- 
plici  effetti  da  una  cagione  singolare  che  muove  ogni  uomo. 
Ben  cio  vide  PElvezio;1  il  vide  Tincomparabile  Filangieri;2  e  mo- 
strai  nel  passato  secolo  di  vederlo  anch'io.3  II  leggitore  vedra  in 
che  cosa  io  discordai  da  si  illustri  pensatori.  Uni  Fautore  della 
Sdenza  della  legislazione  i  tre  principii  del  Montesquieu  sotto  Tu 
nica  universal  cagione  dell' amor  delpotere,  seguendo  in  cio  le  trac- 
ce  dell'autore  dell* Esprit,  che  diede  agli  uomini  tutti  un  desiderio 
di  esser  despoti.4  Ma  prima  delT a/nor  del  potere,  del  dispotismo, 
non  vi  e  un  movimento  che  lo  precede  e  che  ha  maggior  diritto 
ad  essere  unica  universal  cagione?  Un'analisi  piu  metafisica  mo- 
strera  che  il  primo  grado  di  piacere  a  cui  si  aspira,  sia  quello  di 
non  esser  soggetto,  da  cui  discende  poi  Taltro  piu  complicato  e 
piu  pernicioso  di  soggettar  gli  altri,  che  mette  in  contrasto  tutti  con 
tutti.  In  vece  dell'amor  del  potere  del  Filangieri,  che  e  Vamor  del 
comando  dell' Elvezio,  la  cercata  cagione  che  unisce  i  nominati 
principii  e  che  precede  qualunque  altro  desiderio,  e  per  me  Vamore 
della  libertd,  primario  movimento  inerente  all'umana  natura  che 
opera  ancor  quando  non  s'intende. 

Non  ci  vuole  una  lunga  dimostrazione  a  convincere  che  il  pia 
cere  sia  il  motivo  determinante  che  dopo  deU'amore  della  vita 
risveglia  in  noi  Tidea  e  I'amore  della  liberta  sin  dalTinfanzia. 
Un'occhiata  serena  dentro  di  noi  stessi  basta  a  provarlo.  La  prima 
passione  che  si  fa  sentir  nel  bambino,  e  quella  ch'egli  mostra  per 


i.  NelT.E!spn'*,  nel  cap.  17  del  in  discorso  (N.  S.).  2.  Nella  Scienza  della 
legislazione  (N.  S.)-  3-  Nel  tomo  iv,  pag.  6  di  quesfopera,  uscito  nel  1785 
(N.  S.).  4-  «Ce  d£sir  prend  la  source  dans  Famour  du  plaisir,  et  par 
consequent  dans  la  nature  m£me  de  Phomme.  Chacun  veut  6tre  le  plus 
heureux  qu'd  est  possible;  chacun  veut  ^tre  revetu  d'une  puissance  qui 
force  les  hommes  a  contribuer  de  tout  leur  pouvoir  a  son  bonheur:  c'est 
pour  cet  effet  qu'on  veut  leur  commanders  (N.  S.).  Cfr.  Helv6tius, 
De  Vesprit,  discorso  in,  cap.  17,  Amsterdam  1761  (i  edizione  1758),  i, 
p.  441. 


VICENDE   BELLA    COLTURA  NELLE   DUE  SICILIE         639 

Falimento  che  la  natura  gFinsegna  a  cercare  negK  oggetti  vicinL 
Quella  che  dopo  di  questa  si  disviluppa  e  la  passione  della  liberta 
di  soddisfarsi.  L'attitudine  del  suo  corpo,  i  movimenti  tutti  mani- 
festano  la  brama  di  frangere  gljiinpacci  delle  fasce  per  appressarsi 
airoggetto  che  Finvita.  Egli  coj  vagiti  richiama  la  facolta  che  gli 
s'impedisce  di  toccar  la  fiamma,  e  palesa  Paffetto  nascente  per 
la  liberta  di  operare  ed  il  piacere  che  attende  daiFappagarla.  Noi 
pensiamo  a  godere  della  liberta  prima  che  a  torla  ahriiL  Prima 
che  Fuomo  si  accorga  di  esser  soggetto,  si  vede  nascer  in  lui  Fidea 
della  libertd,  la  quale  non  lede  gli  altrui  diritti:  nasce  Fidea  del 
potere  e  del  comando  dei  due  celebri  scrittori  piu  tardi  dalla  co- 
noscenza  dello  stato  sociale,  e  per  natura  tende  alToppressione. 
Prima  dej  Montezumi  ed  Atabalipi1  corteggiati  dalle  serve  nazioni, 
errano  per  grimmensi  boschi  americani  quasi  solitari  i  selvaggi 
cercando  di  sussistere  nell'indipendenza  colla  caccia  e  colla  pesca. 
Poich6  ci  awediamo  di  esser  soci,  noi  non  cangiamo  natura,  ne 
perdiamo  la  cara  rimembranza  di  quel  diritto  primitivo  di  non  esser 
comandati;  e  con  ogni  sforzo  ne'  van  governi  cerchiamo  di  con- 
servarlo.  Per  non  perderlo  tutto,  ne  cediamo  di  buon  grado  una 
parte:  poco,  come  si  spera,  nelle  societa  popolari;  un  poco  piu 
e  da*  piu  nelle  aristocratiche;  molto  e  da  tutti  nelle  monarchic; 
quasi  tutto  e  con  minor  fiducia  nelle  dispotiche. 

Per  questo  amore  di  liberta  coltiviamo  la  virtit  nelle  repub- 
bliche,  come  quella  che  piu  di  qualunque  principio  motore  so- 
stenendo  il  diritto  di  ciascuno  alia  liberta,  inspira  Famor  della 
patria,  e  conduce  eziandio  a  partecipare  delFautorita.  Per  esso  nel 
le  monarchic  rawisando  nel  sovrano  la  sorgente,  per  cosi  dire, 
del  favore,  il  quale  puo  assicurarci  e  raddoppiare  la  liberta  qua 
lunque  sia  che  ci  rimane,  aspiriamo  a  fregiarci  di  quel  segno  di- 
stintivo,  che  ingrandisce  agli  occhi  della  moltitudine  colui  che  ne 
partecipa,  ed  in  cio  ponghiamo  Tidea  Aoffonore^  la  quale  non  esclu- 
dendo  la  virtu,  ci  fa  agire  in  tal  forma  di  governo.  Per  Fistesso 
amore  di  liberta  che  ci  sembra  vicina  a  pericolare  in  tutto  sorto 
di  un  despota,  si  eccita  in  noi  il  timore  di  una  possanza  arbitraria 
che  si  gran  parte  ha  soggiogata  della  liberta  universale.  lo  veggio 
nella  stessa  vogHa  di  divenir  despota  additata  dall'Elvezio,  se- 

i.  Montezumi  ed  Atabalipi:  cioe  i  monarchi  assoluti  come  Montezizma,  re 
del  Messico  (1440-1464),  e  Atabalipa  o  Atahualpa  (morto  nel  1533),  re 
del  Peril. 


640  PIETRO    NAPOLI   SIGNORELLI 

guito  dal  Filangieri,  operate  con  vigore  anticipatamente  1'amor 
primitive  della  liberta.  Questo  c'infonde  il  desiderio  di  partecipar 
corrmnque  della  suprema  potesta  come  mezzo  piu  sicuro  di  con- 
servar  la  nostra  libera  e  piu  che  si  possa  felice  sussistenza.  lo 
veggo  in  piu  di  un  petto  tacer  talora  Tamor  del  potere  e  del  coman- 
do,  ma  non  mai  quello  della  liberta;  sempre  si  vuol  esser  libero, 
sovente  si  vuol  comandare.  Elvidio,  Trasea1  ed  altri  prodigi  di  eroi- 
smo  e  di  virtu,  sotto  la  tirannide  piu  tremenda  e  capricciosa  di 
alcuni  primi  imperadori  romani,  rinunziarono  al  potere  e  non  alia 
virtu  e  alia  liberta.  Decio  che  si  precipita  nella  voragine,  usa  del 
diritto  di  liberta  per  salvar  la  patria  col  proprio  sacrificio,  e  moren- 
do  abbandona  ogni  idea  di  autorita.  Forse  un  inglese  col  privar- 
si  dell'esistenza  vorra  mostrare  di  partecipare  del  potere,  ma  co- 
mincia  dal  reclamare  la  liberta  di  correre  al  ponte  di  TamigL* 
AUorche"  da  lungi  ressero  queste  provincie  i  principi  spagnuoli 
per  mezzo  de'  vicere,  la  liberta  universale  e  particolare  si  trovb 
scossa  impetuosamente  da  venti  opposti  che  spiravano  da  diverse 
parti.  Pieno  il  sovrano  della  propria  potenza  volea  esercitarla  sen- 
za  molti  ceppi  tanto  riguardo  a*  vassalli  tutti  in  queste  terre, 
quanto  riguardo  a  chi  pretendeva  in  esse  partecipar  del  potere 
di  lui.  II  pontefice  sosteneva  gli  antichi  suoi  diritti  che  credeva  di 
derivare  dalle  investiture,  e  pensava  a'  mezzi  di  dilatarli.  I  grandi 
baroni  non  lasciavano  di  presumersi  regoli  pressoche  indipendenti. 
II  popolo  di  Napoli  tratto  tratto  ricalcitrava,  e  supponeva  di  potere 
ancora  dar  la  legge  ai  tribunal!  ed  a?  ministri,  come  segui  al  tempo 
di  Margherita  e  di  Ladislao  fanciullo.  I  vicere  investiti  di  una 
potesta  superiore  alia  classe  dej  baroni  e  alia  magistratura,  senza 
lasciare  le  passioni  e  gl'interessi  di  un  privato,  e  (si  pu6  aggiugnere) 
colla  facolta  di  eludere  le  private  e  le  pubbliche  rimostranze  come 
secreti  confidenti  del  gabinetto  del  principe,  destavano  ne*  soggetti 
rimpazienza  del  giogo. 


i.  Elvidio  Frisco  e  il  suocero  di  lui,  Trasea  Peto,  furono  tra  i  piii  austeri 
rappresentanti  delTopposizione  sanatoria  nel  I  secolo  d.  C.  2.  correre  al 
ponte  di  Tamigi:  per  suicidarsi. 


DA  « DELLE  MIGLIORI  TRAGEDIE 
GRECHE  E  FRANCESI» 

[Classid  e  classicistL] 

Certi  italiani  e  Perudito  ex-gesuita  spagnuolo  Andres,1  i  quali, 
dietro  le  tracce  del  Voltaire2  e  di  altri  oltramontani,  ripresero  il 
Trissino  ed  altri  nostri  tragici  cinquecentisti  singolarmente  per 
certo  «languore»  acquistato,  al  loro  dire,  dalP«  imitazione  de'  Gre- 
ci»,  soffrano  che  io  il  dica,  essi  non  lessero  o  non  ben  lessero  i 
greci  tragici.  Ne  dico  gia  che  in  qualche  greca  favola  tal  lan- 
guore  non  vi  si  scorga,  specialmente  in  quelle  che  abbondano 
soverchio  di  esseri  allegorici.  Nego  bensi  senza  veruna  esitanza 
che  esso  siasi  difetto  insito  naturalmente  e  necessario  del  tragico 
teatro  greco;  e  sostengo  che  si  appartenga  a  qualche  tragico  as- 
settatuzzo  simile  al  molle  Clistene  proverbiato  da  Aristofane,3  che 
non  seppe  guardarsene.  Che  se  talora  awiene  che  non  a  torto 
si  noti  ne'  cinquecentisti  italiani  la  rimproverata  languidezza,  essa, 
secondo  me,  da  tutt'altro  deriv6  che  dairimitazione  de'  Greci. 
Furonvi  essi  indotti  per  lo  piu  dalla  copia  stessa  della  propria  erudi- 
zione.  Sacrificarono  talvolta  la  verita  richiesta  dalla  passione  al 
piacere  d'inserire  in  una  patetica  situazione  una  frase  o  una  ma- 

Compiuta  a  Milano  nelTinverno  del  1804,  durante  i  ritagli  di  tempo  che 
gli  lasciava  il  suo  incarico  di  riordinatore  della  biblioteca  di  Brera,  questa 
opera  fa  pubblicata  col  titolo  Delle  migliori  tragedie  greche  e  francesi, 
traduzioni  ed  analisi  comparative,  a  Milano,  presso  la  Stamperia  e  Fonderia 
Al  Genio,  in  tre  tomi:  il  primo  (contenente  le  traduzioni  in  versi  sciolti 
doll' Ippolito  coronato  di  Euripide  e  della  Fedra  di  Racine,  con  un'  analisi 
comparativa  delle  due  tragedie)  e  il  secondo  (che  comprende  le  traduzioni 
della  Merope  e  dell'Orfano  della  China  del  Voltaire,  precedute  da  una 
Storia,  frammenti  ed  analisi  delV  argomento  del  Cresfonte,  cioe  del  tema 
tragico  di  Merope)  nel  1804;  il  terzo  (che  contiene  le  traduzioni  del- 
rifgenia  in  Aulide  di  Euripide  e  di  quella  del  Racine,  con  un' analisi 
comparativa  delle  due  tragedie)  nel  1805.  Le  pagine  qui  riprodotte  sono 
tratte  dal  tomo  in,  pp.  xxiv-xxvii. 

i .  Cfr.  DelVorigine,  progressi  e  stato  attuale  di  ogni  letter  atura^  Venezia,  An- 
tonelli,  1830,  I,  parte  I,  pp.  543-4:  al'attaccamento  agli  antichi  maestri 
li  fece  bensi  regolari  e  ordinati,  ma  non  li  Iiber6  dalla  freddezza  e  dalla 
lentezza  delTazione,  che  or  ne  rendono  stucchevole  la  lettura,  e  che  af- 
fatto  intollerabile  ne  renderebbero  la  rappresentazione  ».  2.  Cfr.  Disserta 
tion  sur  la  trage'die  ancienne  et  moderne,  in  Oeuvres,  IV,  Paris,  Hachette, 
1891,  p.  6.  3.  Clistene:  un  ateniese  deriso  per  la  sua  efTemminatezza  da 
Aristofane  (cfr.  Nub.,  355,  e  altrove)  e  da  altri  commediografi  greci. 

41 


642  PIETRO    NAPOLI   SIGNORELLI 

niera  di  qualche  classico  greco  o  latino.  L'arte  oratoria  che  posse- 
devano  a  meraviglia,  li  sedusse  non  rare  volte,  ed  aspirarono  a 
mostrarla  soverchio  la  dove  conveniva  sentire  e  far  sentire,  ap- 
passionarsi  ed  appassionare.  Arnatori,  com'erano  ancora  a  que'  di, 
di  manifestar  1'arte,  di  saper  far  versi  numerosi  e  sonori  e  mae- 
stosi,  questa  medesima  li  men6  oltre  i  confini  deU'armonia  dram- 
matica.  Simili  pregi  sul  teatro  sovente  intempestivi,  e  non  gia, 
come  si  disse  e  si  trascrisse  senza  mai  esaminare,  Fimitazione  de' 
Greci,  apport6  talvolta  il  languore  che  si  censura  ne'  tragici  cin- 
quecentisti. 

Ma  quale  languidezza  hanno  alcuni  nostri  troppo  eruditi  cin- 
quecentisti,  che  non  venga  sorpassata  da  quella  che  osservano 
gli  stessi  Francesi  nel  Sertorio,  nel  Pertarite,  nella  Sofonisba,  nel- 
VEdipo,  TitlV Agesilao,  nel  Pompeo  stesso  di  P.  Cornelio,  a  cagione 
della  galanteria  monotona  che  ne  deturpa  i  tragici  colori?  Qual 
maggior  languore  degli  amori  deirElettra  del  Crebillon,1  di  Filot- 
tete  e  di  Giocasta  ntNEdipo  del  Voltaire,  di  Porzio,  di  Marco,  di 
Giuba,  di  Marzia,  di  Lucia,  di  Sempronio  nel  Catone  delF Adisson  ? 
Per  questo  tedioso  languore  appunto  il  dotto  sig.  Dacier2  diede  a 
simili  componimenti  il  titolo  non  di  tragedie,  ma  di  commedie 
melanconiche.  Essi  intanto,  che  languidi  pur  sono  senza  contra- 
sto,  non  attinsero  certamente  codesto  languore,  che  gli  awelena, 
neH'imitazione  de'  Greci.  Desistano  dunque  gli  antiellenisti  dal 
copiarsi  Tun  Taltro  e  dal  ripetere  per  pappagallesche  giacolatorie 
le  invettive  inserite  nelle  Varietd  delle  gazzette  oltramontane,  nelle 
quali  si  riprende  negli  Italiani  1'imitazione  della  greca  languidezza. 
E  voi,  illustri  letterati  di  primo  ordine,  voi  Zeni,  Maffei,  Lami, 
Tiraboschi,  voi  dotti  Pisani  del  secolo  XVIII,  che  miraste  sem- 
pre  con  venerazione  i  Greci,  ma  che  talvolta  scendeste,  come  pur 
fece  il  Baile,  a  spargere  la  vostra  erudizione  in  qualche  foglio  perio- 
dico,3  perdonate  aj  modernissimi  gazzettieri  o  giornalisti  che  dir 

i.  Prosper  Jolyot  de  Crebillon  (1674-1762),  autore  di  tragedie  romanzesche 
e  convenzionali.  2.  Andre  Dacier  (cfr.  la  nota  a  p.  71),  il  filologo  fran- 
cese  pifc  volte  ricordato,  e  i  cui  giudizi  il  Napoli  Signorelli  cita  spesso 
con  lode,  insieme  con  quelli  della  moglie  Anne  Lefevre,  nelle  sue  pagine 
polemiche  in  difesa  della  poesia  classica.  3.  Zeni  .  .  .  periodico:  Apostolo 
Zeno  fondo  e  diresse  tra  il  1710  e  il  1718  il  «  Giornale  de'  letterati  d'Italia»; 
Scipione  Maffei,  dopo  aver  collaborato  alia  suddetta  rivista,  pubblic6  tra 
il  1737  e  il  1740  le  «  Osservazioni  letterarie»;  Giovanni  Lami  fu  il  princi- 
pale  compilatore  delle  «Novelle  letterarie»  di  Firenze  (1740-1768);  Gi- 
rolamo  Tiraboschi  fu  prima  collaboratore  e  poi  direttore  del  « Nuovo  gior- 


DELLE   MIGLIORI   TRAGEDIE   GRECHE  E  FRANCESI       643 

si  vogliano,  se  ardiscono  scagliarsi  contro  i  Teocriti,  I  Sofocli,  gli 
Eschili  e  gli  Euripidi;  essi  li  conoscono  per  pura  volgare  tradizione, 
come  i  Caffri  e  gli  Eschimali;1  essi  empiono  di  ciance  i  loro 
scartocci;  essi  scrivono  per  vivere,  mentre  abborriscono  la  zappa 
a  cui  la  natura  gli  fece  nascere. 


nale  dei  letterati  d'Italia»  di  Modena  (i773-i79°);  i  dotti  Piswn  dd  secolo 
XVIII  sono  i  professori  delTUniversita  di  Pisa  che,  sotto  la  direziooe  di 
Angelo  Fabroni,  collaborarono  tra  il  1771  al  1796  al  «Giornale  dei  I«t- 
terati»  di  Pisa.  II  Bayle  e  ricordato  per  le  cNouvelles  de  la  r£jmblique  des 
lettres*  da  lui  pubblicate  in  Olanda.  i.  Esckimali:  Esquimesi. 


GIAN  FRANCESCO  GALEANI  NAPIONE 


NOTA  INTRODUTTIVA 


ccPer  quasi  mezzo  secolo  di  questo  periodo  sono  pochi  i  periodic! 
in  cui  non  si  trovino  ricordati  il  nome  e  gli  elogi  del  Chiarissimo 
Signer  Conte  Gian  Francesco  Galeani  Napione  di  Cocconato» 
constatava  il  Foscolo  nel  suo  articolo  su  La  letteratura  periodica 
italiana  (1824),  burlescamente  sottolineando  la  <csonante»  im- 
ponenza  dei  nomi  e  dei  titoli  dello  scrittore  piemontese.  E  da  parte 
sua  opponeva  a  quella  vacua  fama  accademica  un  giudizio  assai 
severo  sull'opera  di  lui,  a  cominciare  dal  trattato  sulla  lingua  ita 
liana,  «ricco  d'erudizione  e  non  privo  di  senso  comune»,  ma  scritto 
in  modo  mediocre  e  gelidissimo,  e  ccinteso  espressamente  ad  adu- 
lare  la  vanita  degli  italiani»,  e  concludeva  che  non  avrebbe  fatto 
parola  «di  questo  nobile  autore,  s'ei  non  avesse  giovato  a  dare 
un'idea  delTaristocrazia  letteraria,  come  quello  che  e  il  piu  an- 
tico  e  venerabile  fra  gli  idoli  viventi  ai  quali  vien  tributata  pe- 
riodica  adorazione  da'  giornalisti  italiani»,  idolo  tanto  piu  peri- 
coloso  «per  il  proponimento  da  lui  avanzato  di  voler  istmire  i 
propri  concittadini  nell'arte  difficile  di  scordare  quanto  hanno  ap- 
preso  dalTanno  1790  ai  nostri  tempi ».  Anche  ad  un  lettore  mo- 
derno  che  ripercorra  e  il  trattato  sulla  lingua  e  gli  altri  infiniti 
scritti  del  Galeani  Napione,  non  e  certo  facile  sottrarsi  alia  sugge- 
stione  di  questo  spiritoso  e  amaro  giudizio  foscoliano,  e  non  awer- 
tire  quanto  di  accademica  presunzione,  di  erudizione  oziosa,  di 
retrivo  conservatorismo,  di  monotona  freddezza  aduggi  irrimedia- 
bilmente  tutti  quegli  scritti.  Ad  una  meditata  considerazione  sto- 
rica,  tuttavia,  Topera  del  Napione  puo  rivelarsi  non  priva  di  interes- 
se,  oltre  che  quale  testimonianza  fra  le  piu  significative  di  tutta 
una  zona  della  cultura  italiana  fra  la  fine  del  Settecento  e  il  prin- 
cipio  deirOttocento,  anche  per  qualche  aspetto  positive  piu  preciso 
del  generico  « senso  comune»  riconosciutogli  dal  Foscolo.  A  que 
sto  scopo  occorre  anzitutto  richiamare  almeno  sommariamente  la 
situazione  politico-culturale  del  Piemonte  verso  gli  ultimi  decenni 
del  Settecento,  Tambiente  cioe  entro  il  quale  si  forma  e  si  svolge 
Pattivita  del  Napione.  Di  questo  ambiente  e  stato  tracciato  da 
qualcuno,  soprattutto  dal  Calcaterra,  un  quadro  assai  positive,  in 
cui  si  e  dato  forte  rilievo,  in  particolare,  a  quei  gruppi  che  si 
raccolgono  intorno  alia  Conversazione  SampaoUna  e  alia  Societa 


648  GIAN   FRANCESCO   GALEANI   NAPIONE 

Filopatria,  e  che  hanno  come  loro  principal!  esponenti  il  con- 
te  Emanuele  Bava  di  San  Paolo,  il  conte  Felice  di  San  Martino, 
Giuseppe  Vernazza,  Prospero  Balbo,  Domenico  Azurri,  Giuseppe 
Franchi  di  Pont  e  il  Napione  stesso:  ai  quali  tutti  andrebbe  ri- 
conosciuto  il  merito  di  aver  elaborato  un  orientamento  politico- 
culturale  che,  pur  prendendo  1'awio  dalP  esigenza  rinnovatrice 
deirilluminismo,  si  verrebbe  arricchendo  di  vivi  fermenti  sto- 
ricistici  e  patriottici,  tanto  da  poter  essere  indicato  come  uno  dei 
piu  fecondi  preludi  al  ccnostro  imminente  Risorgimento  ».  In  real- 
ta  piu  recenti  e  spregiudicate  ricerche  storiografiche  hanno  per- 
suasivamente  dimostrato  quanto  scarsa  sia  stata  Tefficacia  di  que- 
sti  gruppi  nella  formazione  effettiva  della  coscienza  risorgimentale 
italiana,  specie  se  confrontata  con  quella,  per  esempio,  della  cor- 
rente  « giacobina »,  o,  tra  i  Piemontesi  stessi,  di  uomini  come  il 
Baretti,  il  Denina,  FAlfieri,  Giambattista  e  Dalmazzo  Vasco,  Gio 
vanni  Antonio  Ranza,  che  ebbero  aH'inizio  contatti  con  quei  grup 
pi,  ma  che  poi  non  a  caso  preferirono  svolgere  la  loro  attivita  fuori 
del  Piemonte,  owero  furono  qui  imprigionati  dal  sospettoso  gover- 
no.  Quel  che  invece  sta  soprattutto  a  cuore  ai  frequentatori  del- 
la  Sampaolina  e  della  Filopatria,  anche  quando  cercano  di  mante- 
nersi  al  corrente  del  movimento  culturale  europeo  e  propongono 
giudiziose  riforme  amministrative,  economiche  e  finanziarie,  non 
e  tanto  un  radicale  rinnovamento  in  senso  moderno  delle  strutture 
esistenti,  quanto  piuttosto  un  loro  aggiornamento  e  snellimento 
capace  di  permettere  ad  esse  di  affrontare  e  superare  senza  troppi 
danni  1'imminente  tempesta  rivoluzionaria.  Allo  stesso  modo  il  loro 
cosiddetto  nazionalismo,  la  loro  insistenza  sulla  italianita  culturale  e 
politica  del  Piemonte  e  sulla  necessita  di  una  unione  o  federazione 
degli  stati  italiani,  ha  alia  sua  radice  non  Pidea  di  una  nazione  ita 
liana  in  senso  risorgimentale,  bensi  da  un  lato  Pantico  programma 
piemontese,  che  risale  ad  Emanuele  Filiberto,  di  una  espansione  del 
Piemonte  verso  la  penisola,  e  dalPaltro  la  concezione  umanistica,  ri- 
presa  dal  vecchio  Bettinelli  e  dal  suo  gruppo,  del  primato  culturale 
e  soprattutto  letterario  italiano.  Fatte  queste  riserve  sulla  efficacia 
« italiana»  del  pensiero  e  delPazione  di  questi  «filosofi)>  piemontesi, 
nulla  poi  vieta  di  riconoscere  che  nelPambito  della  particolare  si- 
tuazione  storica  del  Piemonte,  culturalmente  arretrato  e  insieme 
fortemente  minacciato  daU'influenza  politica  e  culturale  della  vicina 
Francia,  essi  abbiano  esercitato  un*  opera  complessivamente  positiva. 


NOTA   INTRODUTTIVA  649 

Appunto  a  questi  principii  si  ispira,  con  una  coerenza  che  e 
doveroso  ammettere,  tutta  Fattivita  aimninistrativa,  politica  e  cul- 
turale  del  Galeani  Napione.  Nato  a  Torino  il  i°novembre  1748  da 
una  famiglia  di  funzionari,  da  poco  insignita  di  titoli  nobiliari, 
entro  a  ventotto  anni,  dopo  essersi  laureato  in  legge,  nella  camera 
amministrativa  quale  impiegato  delle  Regie  Finanze,  dove  rag- 
giunse  nel  1779  il  grado  di  Intendente,  nel  1796  quello  di  Consi- 
gliere  di  Stato  e  di  Sovrintendente  degli  Archivi,  e  infine,  nel  1797, 
Palta  carica  di  Generale  delle  Finanze,  dalla  quale  per6  dette  le 
dimissioni  dopo  qualche  mese  per  non  firmare  alcuni  prowedi- 
menti  d'emergenza  che  non  si  sentiva  d'approvare.  A  questa  sua 
attivita  amministrativa  si  lega  tutta  una  serie  di  studi  e  proposte 
di  riforme  di  carattere  soprattutto  economico  e  finanziario,  che 
rivelano,  oltre  ad  una  specifica  competenza,  acquistata  attraverso 
lunghi  anni  di  pratica,  dei  problemi  concreti  deireconomia  e  della 
finanza  piemontese,  anche  una  relativa  audacia  e  modernita.  Era 
convinto,  ad  esempio,  che  la  formazione  dei  grandi  latifondi  -  specie 
in  un  paese  come  il  Piemonte,  fondato  su  un'economia  prevalen- 
temente  rurale  -  fosse  causa  di  conseguenze  rovinose,  in  quanto  co- 
duceva  alia  scomparsa  di «  una  societa  fissa  e  stabile  tra  il  padrone 
e  il  lavoratore»  e  quindi  da  un  lato  alia  miseria  e  allo  scontento 
dei  contadini  e  dalTaltro  ad  una  riduzione  del  prodotto,  funesta 
per  tutto  lo  Stato;  e  per  owiare  appunto  a  tali  conseguenze, 
giungeva  fino  a  proporre,  richiamandosi  al  Mably,  una  riforma 
radicale  delle  leggi  sulle  succession^  che  avrebbe  dovuto  as- 
sicurare  un  frazionamento  della  proprieta  e  una  piu  equa  di- 
stribuzione  delle  ricchezze.  Ancora  ad  un  miglioramento  della 
economia  rurale  piemontese  egli  pensava  soprattutto  quando,  in 
altri  scritti,  combatteva  il  vincolismo  e  propugnava  una  perequa- 
zione  dei  tributi,  che  gravavano  soprattutto  sui  contadini;  ma  non 
gli  sfuggiva  il  beneficio  che  il  Piemonte  avrebbe  ricavato  anche 
da  uno  sviluppo  della  sua  scarsa  attivita  industriale  e  commerciale, 
e  a  tal  fine  suggeriva  una  serie  di  opportuni  prowedimenti.  Ma, 
a  parte  il  fatto  che  tutte  queste  proposte  non  sono,  considerate 
nel  quadro  del  pensiero  economico  italiano,  n6  nuove  ne"  partico- 
larmente  ardite,  e  che,  nel  Piemonte  stesso,  erano  state  sostenute 
con  ben  piu  viva  forza  da  Gian  Battista  Vasco  (formatosi  nella 
Filopatria,  ma  poi  costretto  a  rifugiarsi  a  Milano),  bisogna  tener 
presente  che  esse  sono  dettate  non  tanto  da  sensibilita  sociale, 


650  GIAN   FRANCESCO    GALEANI   NAPIONE 

quanto  invece,  come  dichiara  piu  volte  Tautore  stesso,  dalla  preoc- 
cupazione  di  impedrre  nel  Piemonte  i  pericolosi  sconvolgimenti 
social!  che  si  preannunciavano  o  stavano  gia  verificandosi  in  altri 
paesi:  e  non  a  caso,  proprio  in  uno  dei  suoi  scritti  economici, 
egli  tiene,  per  esempio,  ad  affermare  che  «non  sono  le  ordinarie 
entrate,  ma  Paffezione  e  il  coraggio  de'  popoli,  il  valore  e  Pingegno 
dej  capi,  le  armi  e  i  prodotti  delle  provincie,  in  una  parola  son  le 
forze  della  nazione  apparecchiate  e  disposte  e  pendenti  dal  cenno 
del  sovrano  che  i  piu  stabili,  i  piu  vantaggiosi  tributi  costitui- 
scono  ». 

Dalla  stessa  preoccupazione  si  rivelano  guidati,  a  ben  guardare, 
anche  i  suoi  numerosi  opuscoli  politici.  Molto  rilievo  e  stato  dato 
fra  questi,  dalla  storiografia  nazionalistica,  ad  alcuni  progetti,  pre- 
sentati  a  Vittorio  Amedeo  III  o  ai  suoi  ministri,  come  le  Osserva- 
zioni  intorno  al  progetto  di  pace  tra  Sua  Maesta  e  le  potenze  barba- 
resche  (1780),  VIdea  di'una  confederazione  delle  potenze  d*  Italia 
(1791)  e  la  Memoria  sulla  necessita  di  una  confederazione  delle  potenze 
d*  Italia  (1794),  dove  egli  era  venuto  esponendo  e  successivamente 
precisando  un  suo  piano  di  confederazione  dei  vari  stati  d'  Italia 
sotto  la  presidenza  del  papa,  confederazione  attraverso  la  quale 
sarebbe  potuta,  a  suo  giudizio,  rinascere  d'antica  potenza  e  Pan- 
tica  gloria  navale  d'Italia»,  ed  essere  assicurata  Pindipendenza  sia 
del  Piemonte  che  delP  Italia  contro  le  mire  espansionistiche  del- 
P  Austria  e  della  Francia.  Ma  quale  sia  il  fondo  vero  del  pensiero  po 
litico  del  Napione,  e  quanto  in  particolare  sia  lontano  da  una  con- 
cezione  delPunita  italiana  in  senso  risorgimentale,  e  dimostrato 
con  singolare  evidenza  da  un  altro  opuscolo,  non  a  caso  trascurato 
dagli  storici  nazionalisti,  che  e  intitolato  Del  nuovo  stabilimento 
delle  Repubbliche  lombarde.  In  questo  opuscolo,  scritto  nel  1797 
sotto  la  pressione  degli  awenimenti,  e  probabilmente  ispirato  dalla 
stessa  corte  torinese,  il  Galeani  Napione  combatte,  con  una  violen- 
za  insolita  in  uno  scrittore  solitamente  freddo  e  paludato  come  lui, 
il  progetto,  che  i  giacobini  della  Cisalpina  venivano  allora  elaboran- 
do,  di  una  «  repubblica  sola  e  indivisibile  »,  e  che  il  letterato  piemon- 
tese  aveva  conosciuto  specialmente  attraverso  la  pubblicazione  (da 
lui  ritenuta  scritta  da  un  francese  ma  in  realta  composta  da  Matteo 
Galdi)  su  La  necessita  di  stabilire  una  repubblica  in  Italia.  A  questo 
progetto  egli  oppone  il  suo  vecchio  piano  di  «una  confederazione 
ben  attuata  dagli  stati  attualiw;  ma  Faspetto  antirisorgimentale  del 


NOTA   INTRODTJTTIVA  651 

suo  scritto  non  consiste  tanto  in  questa  tesi,  quanto  nei  motivi 
che  egli  porta  per  dimostrare  pericolosa  quella  degli  awersari  e 
accettabile  e  vantaggiosa  la  propria:  nella  considerazione,  cioe, 
che  un  governo  unitario  repubblicano  in  Italia  significherebbe 
«  dark  in  preda  alia  discordia  la  piu  sfrenata  e  sterminatrice,  ac- 
cendere  un  incendio  inestinguibile  »,  significherebbe  in  altre  parole 
il  radicale  rinnovamento  di  quelle  strutture  prerisorgimentali  che 
invece  il  piano  confederativo  del  Napione  aveva  il  precise  scopo 
di  conservare.  E  non  e  meno  significativo  che,  per  rincalzare  que 
sta  considerazione,  egli  non  si  faccia  scnipolo  di  ripetere  (come 
ha  dimostrato  il  Vaccarino)  i  motivi  addotti  da  un  nemico  dichia- 
rato  delPindipendenza  e  delTunita  italiana,  quale  il  Lacretelle. 

Durante  Toccupazione  francese  del  Piemonte  il  Napione,  pur 
mantenendosi  in  disparte  e  non  accettando  cariche  governative, 
non  si  dimostra  ostile  ad  una  pace  dignitosa  con  la  Francia  e 
neppure  rifiuta  la  legion  d'onore  offertagli  da  Napoleone:  ma  la 
ragione  di  questo  atteggiamento  sara  da  cercare  non  in  un'evolu- 
zione  in  senso  democratico,  bensi  nella  persuasione,  del  resto  esat- 
ta,  che  Fawento  di  Napoleone  al  potere  significava,  se  non  un  ritor- 
no  alia  situazione  precedente,  certo  la  scomparsa  dei  piu  gravi  peri- 
coli  di  sconvolgimento  politico  e  sociale.  Ne  di  questa  relativa 
acquiescenza  a  Napoleone  gli  fecero  colpa  i  Savoia,  che  al  loro 
ritorno  lo  riassunsero  alia  carica  di  Sovrintendente  agli  Archivi, 
e  che  egli  riprese  a  servire  con  fedele  impegno  mostrandosi  fer- 
mamente  ostile  ad  ogni  awentura  liberale  (condanno  decisamente 
i  moti  del  '21)  fino  alia  morte,  awenuta  il  12  giugno  del  1830. 

La  conoscenza  delFattivita  e  delle  idee  del  Napione  nel  campo 
politico  e,  come  per  altri  scrittori  di  questo  periodo,  un  utile  punto 
di  partenza  per  intendere  e  valutare  la  sua  opera  di  storiografo  e  di 
critico  della  letteratura  e  delle  arti  figurative,  che  qui  soprattutto  ci 
interessa.  Gran  parte  di  questa  opera  nasce  soltanto  da  un  puro 
e  semplice  dilettantisms  erudito  o  addirittura  da  un  gusto  quasi 
di  grafomane,  pronto  sempre  a  buttar  giu  pagine  e  pagine  sui  piu 
svariati  e  anche  piu  futili  argomenti.  Se  tuttavia  si  ha  la  pazienza 
di  scorrere  i  suoi  scritti  storiografici  e  critici,  si  vede  che  un  motivo 
vi  ritorna  se  non  organicamente,  certo  con  particolare  frequenza: 
il  concetto,  appunto,  delle  relazioni  fra  la  vita  politica  e  la  cultura, 
un  concetto,  si  sa,  generalmente  illuministico,  ma  che  nel  Napione 
si  accentua  e  si  precisa  entro  i  caratteri  e  i  limiti  propri  delle 


652  GIAN   FRANCESCO    GALEANI   NAPIONE 

convinzioni  politiche  dell'autore.  Gia  nel  giovanile,  e  per  il  resto 
poco  interessante,  Saggio  sopra  Varte  istorica  (Torino,  Mairesse, 
1773),  si  afferma  esplicitamente  che  «se  la  storia  e  Pocchio  della 
politica, ...  si  potrebbe  dire  viceversa  che  la  politica  e  Focchio 
della  storia».  Appunto  all'intento  di  confermare  e  documentare 
attraverso  lo  studio  del  passato  le  sue  concezioni  politiche  -  Fidea 
di  una  unione  italiana  promossa  e  guidata  dal  Piemonte  e  quella 
di  rafforzare  le  strutture  preesistenti  contro  ogni  awentura  demo- 
cratica  -  si  ispirano  le  sue  successive  ricerche  storiografiche  che  si 
sollevano  dalla  pura  divagazione  erudita.  Questo  intento  si  ri- 
solve  talora  piu  crudamente  in  libelli  di  vera  e  propria  polemica  e 
propaganda  reazionaria,  come  ad  esempio  nel  Paragone  fra  la  ca- 
duta  deirimpero  romano  e  gli  evenimenti  del  fine  dello  scorso  seco- 
lo  XVIII  (1819),  in  cui  egli  cerca  di  provare  che  i  Francesi  erano 
stati,  sotto  tutti  gli  aspetti,  peggiori  dei  barbari  invasori  deirimpero 
romano;  owero  in  indagini  dettate  da  ambizioni  campanilistiche, 
come  quelle  volte  a  identificare  la  patria  di  Cristoforo  Colombo  col 
paese  di  Cuccaro  nel  Monferrato.  Non  manca  pero  qualche  scritto 
in  cui  quel  suo  proposito  si  traduce  in  attente  e  amorose  ricerche 
sulle  tradizioni  antiche  e  recenti  del  Piemonte,  ricerche  che  vorreb- 
bero  fornire  i  materiali  per  una  storia  complessiva  della  sua  regio- 
ne,  per  una  storia  -  come  egli  dichiara  in  un  saggio  intitolato  appun- 
to  Discorso  intorno  alia  storia  del  Piemonte  (1791)  -  «di  diverse  po- 
polazioni . . .  che  cio  non  ostante  si  radunarono  sotto  un  solo  sovra- 
no,  sovrano  i  cui  progenitori  ebbero  pero  insino  dal  Mille,  ora  piu 
ora  meno  esteso  dominio  nelle  contrade  medesime ; . . .  di  un  paese 
che  non  ostante  un  corso  di  interi  secoli  di  awersita,  acquisto  quel 
grado  di  prosperita,  di  popolazione,  di  coltura,  di  lettere  e  di  esti- 
mazion  di  cui  gode  al  presente ».  Questo  interesse  per  il  caratteri- 
stico  patrimonio  comune  di  tradizioni  politiche  e  culturali  del 
Piemonte  si  ritrova  nel  suo  studio  sui  Cronisti  piemontesi  (1784), 
come  quando  si  dichiara  animate  dal  consapevole  gusto  di  affon- 
dare  lo  sguardo  in  quei  « secoli  privi  di  luce»  ma  nei  quali  «la 
storia  della  moderna  Europa  incomincia»,  o  si  compiace  di  vedere, 
nelle  pagine  del  cronista  della  Novalesa,  rappresentata  «non  gia 
una  qualunque  siasi  immagine  di  grosso,  ma  que'  minuti  e  dilicati 
lineamenti,  que'  costumi,  que*  modi,  quella  foggia  di  pensare  e  di 
agire  che  una  eta,  una  nazione  rende  dalle  altre  totalmente  diversa» ; 
o  anche  nel  trattato  Dell'antica  milizia  del  Piemonte  e  del  modo 


NOTA   INTRODUTTIVA  653 

di  ristabitirla,  in  cui  lo  scopo  di  trarre  dalle  riforme  militari  di 
Emanuele  Filiberto  suggerimenti  per  la  costituzione  di  una  mili- 
zia  nazionale  atta  ad  opporsi  agli  eserciti  rivoluzionari  francesi, 
lo  conduce  a  ristudiare  con  attenzione  quelle  riforme. 

Nei  suoi  scritti  di  critica  letteraria  e  delle  art!  figurative  &  stata 
indicata  (ancora  dal  Calcaterra)  quale  motivo  centrale  la  cosiddetta 
dottrina  del  «  Bello  ideale  ».  In  realta,  a  ben  guardare,  se  e  vero  che 
egli  piu  di  una  volta  dichiara  la  sua  adesione  a  questa  dottrina, 
se  in  qualche  punto  sembra  inclinare  verso  il  concetto  di  un'arte 
che  dia  « riposo  »  e  «  quiete  »  e  lasci  un  «  appagamento  che  innalza 
1'animo));  si  deve  poi  concludere  che  il  suo  pensiero  estetico,  se 
proprio  di  pensiero  si  vuol  parlare,  si  riduce,  come  e  piu  che  nel 
vecchio  Bettinelli  (a  cui  il  Calcaterra,  questa  volta  a  ragione,  lo  ricon- 
duce),  ai  concetti  del  vecchio  classicismo  accademico  riverniciati 
superficialmente  e  confusamente  di  elementi  sensistici  e  neoclassici. 
1/aspetto  che  invece  caratterizza  la  sua  attivita  critica,  e  che  spiega 
e  precisa  la  sua  stessa  simpatia  per  il  Bettinelli,  per  il  Tiraboschi, 
per  il  Vannetti  e  in  genere  per  gli  esponenti  del  movimento  di 
reazione  classicistica,  e  non  tanto  un  principio  di  gusto  quanto 
piuttosto  il  suo  atteggiamento  politico,  gia  illustrato,  di  naziona- 
lista  conservator  e,  preoccupato  soprattutto  di  combattere  anche 
in  campo  letterario  i  pericoli  che  sarebbero  potuti  derivare  dalTin- 
filtrazione  e  dalla  difPusione  di  motivi  stranieri  o  comunque  in  qual 
che  modo  sowertitori  delTordine  costituito  e  delle  antiche  tradi- 
zioni  in  Italia  e  soprattutto  in  Piemonte.  Conseguenze  negative 
di  questo  punto  di  vista  sono  certamente  la  sua  costante  awersione 
(del  resto  condivisa  dai  suoi  amici  della  Sampaolina  e  della  Filopa- 
triay  e  persino  da  Giambattista  Vasco)  per  FAlfieri,  sottoposto  ad 
una  vera  e  propria  requisitoria  nella  Lettera  a  Francesco  Benedetti 
sul  merito  delV  Alfieri  paeta  tragico  (1818),  e  altrove  esplicitamente 
accusato  di  aver  infiuito  con  le  sue  tragedie  «sullo  stabilimento 
di  quelle  italiane  repubbliche  che  ebbero  vita  si  breve,  e  di  tanti 
mali  furono  cagione  » ;  la  sua  antipatia  per  la  cc  ruggine  »  e  per  «  Fan- 
tica  ferocia  ghibellina»  di  Dante,  e  per  i  suoi  moderni  irnitatori, 
i  quali,  come  il  Monti,  a  questa  avevano  congiunto  «il  genio  sangui- 
nario  straniero»;  e  ancora  il  suo  aborrimento  per  i «  carmi  barbari- 
ci  usciti  dalle  foreste  de'  druidi  e  tinti  di  sangue  »,  chiara  allusione 
alle  traduzioni  cesarottiane,  e  per  VOrtis  foscoliano,  il  cui  stile  (come 
quello  del  Cesarotti)  gli  sembrava  tanto  diverse  dal  suo  proprio  - 


654  GIAN   FRANCESCO    GALEANI   NAPIONE 

egli  dichiarava  con  involontario  umorismo  -  quanta  lo  e  il  sapore 
dell'acquavite  da  quello  delTacqua  chiara.  Ma  e  anche  giusto  rico- 
noscere  che  e  questo  stesso  punto  di  vista  che  spinge  il  Napione 
a  studiare  e  a  porre  in  rilievo  nel  quadro  della  storia  letteraria 
italiana  scrittori  piemontesi  come  il  Botero,  al  quale  egli  dedica  un 
lungo  saggio  (1781)  nato  si  anche  dal  proposito  di  rivaleggiare  in 
«  pompa  di  stile  »  con  gli  elogi  del  Thomas  e,  piu  ancora,  di  presen- 
tare  Fautore  della  Ragion  di  stato  come  modello  di  pensiero  politico 
« moderate »;  ma  pure  notevole  per  le  molte  notizie  raccolte  con 
pazienti  ricerche  d'archivio  e  per  Fattenzione  rivolta  agli  interessi 
economic!  dello  storico  piemontese;  e  il  Bandello,  di  cui  in  un 
altro  saggio  (1782-1783)  non  esita  a  difendere  lo  stile  dalle  riserve 
classicistiche  del  Tiraboschi  e  del  Mazzuchelli,  e  a  preferirlo  per  la 
sua  facilita  e  disinvoltura  a  quello  del  Boccaccio,  e  di  cui  piu  ge- 
neralmente  definisce  Popera  come  una  gustosa  e  varia  rappresen- 
tazione  della  vita  del  secolo  XVI. 

Scritti  di  questo  genere  non  si  ritrovano  invece  tra  quelli  dedicati 
alle  arti  figurative,  quasi  tutti  raccolti  nei  tre  tomi  dei  Monumenti 
delV  arckitettura  antica,  e  che,  quando  non  sono  pure  esercitazioni 
erudite,  si  ispirano  alia  dichiarazione,  contenuta  nella  prima  delle 
lettere  riunite  nei  Monumenti,  che  «il  sostanzialissimo  punto  di 
conformita  che  passa  tra  Perudizione  antiquaria,  il  genio  per  le 
belle  cose  antiche  e  gli  studi  di  morale)),  cioe  soprattutto  di  poli- 
tica,  consiste  nello  scopo  di  «schiarire,  ordinare  e  persuadere  le 
antiche  verita,  difenderle  e  sostenerle  contro  il  falso  sapere  e  gli 
speciosi  paradossi  dej  malvagi,  non  gia  d'inventar  cose  nuove». 
Questo  criterio  cosi  esplicitamente  conservatore  spiega  per  esem- 
pio,  oltre  i  frequenti  elogi  tributati  ai  principi  che  protessero  le 
arti  come  aistromento  di  buon  governo»,  la  preferenza  per  Farte 
romana  (a  cui  sono  dedicati  due  tomi  su  tre)  rispetto  a  quella 
greca;  1'antipatia  dichiarata  non  solo  verso  il  gotico  e  il  barocco, 
ma  anche  verso  Parchitettura  egiziana,  in  cui  egli  awerte  spiace- 
volmente  «un  non  so  che  di  mastino  e  di  tetro»,  paragonando  il 
nascente  appassionamento  verso  quell' arte,  con  significative  con- 
fronto,  alia  nuova  moda  dantesca  in  letteratura;  la  difesa  contro  il 
Milizia,  e  contro  la  stessa  teoria  del  «Bello  ideale»,  di  Michelange 
lo,  unicamente  perche  «  genio  della  nazione»;  la  diffidenza  verso 
il  Winckelmann  e  il  Mengs,  ai  quali  vengono  anteposti  due  italiani 
come  il  Lanzi  e  il  Visconti. 


NOTA   INTRODUTTIVA  655 

I  criteri  a  cui  si  ispira  la  critica  del  Napione  sono  anche  alia 
radice  della  sua  opera  piii  famosa,  il  trattato  Dett'tiso  e  del  fregi 
della  lingua  itaUana^  pubblicato  per  la  prima  volta  nel  1791.  Fissate 
le  premesse  fondamentali  che  « la  lingua  e  uno  dei  piii  forti  vincoli 
che  stringa  alia  patria»,  e  che  la  nazione  che  parla  una  sola  lin 
gua  sara  «piu  atta  a  spiegare  neU'originale  sua  forza  Poriginale  ca- 
rattere  di  cui  e  dotata»;  egli  applica  queste  premesse  al  caso  par- 
ticolare  del  Piemonte,  dimostrando  i  danni  del  suo  attuale  bilin- 
guismo  (o  trilinguismo,  se  si  tiene  conto  non  solo  delPitaliano  e 
del  francese  ma  anche  del  latino)  e  sostenendo  che  Tunica  lingua 
ccvolgare,  colta,  naturale»  di  esso  non  puo  essere  che  Pitaliano, 
sia  per  Findole  dello  stesso  dialetto  piemontese,  sia  per  Pimpo- 
nente  tradizione  letteraria  piemontese  di  scrittori  che  si  sono  valsi 
delPitaliano.  II  secondo  libro  e  dedicate  alia  discussione  degli  ar- 
gomenti  che  si  possono  opporre  all'accoglimento  di  questa  tesi,  e 
in  particolare  risponde  ai  sostenitori  delTuso  del  francese  con  un 
ampio  elogio  della  lingua  italiana,  di  cui  e  posta  in  rilievo  non  solo 
Farmonia  e  Fabbondanza,  ma  anche  la  capacita  intrinseca,  per 
quanto  poco  sfruttata,  di  essere  impiegata  in  opere  di  intratte- 
nimento  e  di  divulgazione  scientifica;  e  conclude  con  un  accenno  ai 
motivi  politici  che  consigliano  la  scelta  delFitaliano,  e  che  consi- 
stono  essenzialmente  nella  « inclinazione  e  spirito  italiano»  propri 
della  storia  politica  piemontese:  inclinazione  e  spirito  che  ccin 
nessuna  maniera  meglio  si  manifestano  che  nelFabbracciar  uni- 
camente  come  propria,  nel  far  uso  pubblico,  letterario  e  famigliare 
della  lingua  d' Italia ».  Nel  terzo  libro,  infine,  Fautore  passa  ad 
indicare  i  «mezzi  per  render  comune  e  popolare  la  Hngua  colta 
italiana  ».  Tali  mezzi  dipendono  in  parte  dai  letterati,  i  quali  do- 
vrebbero  scrivere  il  piu  possibile  in  italiano,  limitando  Puso  del 
latino  ma  tenendo  presenti  i  classici  quali  modelli  da  opporre 
come  «antemurale  contro  la  barbaric,  il  gusto  falso,  il  manierato, 
il  corrotto »,  e  svincolarsi  d'altro  lato  dalla  servitu  del  toscano  e 
della  Crusca,  aaccademia  di  una  lingua  municipale»;  mentre  ai 
governi  spetterebbe  il  compito  di  far  della  lingua  italiana  la  lin 
gua  delle  corti  e  della  pubblica  istruzione,  nonche  quello  di  agevo- 
lare  e  regolare  la  stampa  delle  opere  italiane  di  qualche  pregio. 

Come  appare  anche  da  questo  rapido  sonunario,  non  e  cer- 
to  Poriginalita  teorica  che  costituisce  il  pregio  del  trattato:  il  con 
cetto,  a  cui  egli  soprattutto  si  appoggia,  del  rapporto  che  inter- 


656  GIAN   FRANCESCO    GALEANI   NAPIONE 

corre  fra  la  civilta,  il  genio  nazionale  di  un  popolo  e  la  sua  lingua, 
e  un  comune  concetto  illuministico :  anzi  (ha  giustamente  osser- 
vato  il  Puppo)  nel  Napione  questo  rapporto  non  e  inteso  in  modo 
dinamico,  come  invece  per  esempio  nel  Cesarotti,  ma  statico,  co 
me  fedelta  ad  una  tradizione  costituitasi  una  volta  per  sempre, 
in  coerenza  con  il  suo  pensiero  politico  e  storiografico  e  in  genere 
con  la  sua  caratteristica  forma  mentale.  D'altra  parte  il  suo  pu- 
rismo  nazionalistico,  preoccupato  di  evitare  ogni  infiltrazione  stra- 
niera  e  particolarmente  francese,  che  possa  contaminare  le  « natie 
bellezze  pudiche»  della  lingua  italiana,  risale,  come  del  resto 
e  piu  volte  esplicitamente  dichiarato  dal  Napione  stesso,  al  Betti- 
nelli,  che  in  tal  senso  era  venuto  orientandosi  fin  dal  1780.  L'aspet- 
to  dawero  interessante  del  trattato  va  invece  indicato  nella  ener- 
gica  e  consapevole  insistenza  delFautore,  sia  pure  entro  i  limiti 
che  sappiamo,  suiraspetto  politico  della  lingua  e  in  particolare 
nelFapplicazione  di  questo  concetto  al  caso  specifico  del  Piemonte, 
minacciato  nella  sua  esistenza  e  nella  sua  italianita  dalla  suggestione 
fortissima  della  lingua  francese :  un  aspetto  questo  che  giustifica  al- 
meno  in  parte  (come  il  Cesarotti  acutamente  riconosceva)  la  sua 
polemica  contro  il  Saggio  sulla  filosofia  delle  lingue,  e  che  distin 
gue  comunque  nettamente  il  pensiero  linguistico  del  Napione  da 
quello  di  un  Vannetti  o  di  un  Cesari,  guidati  soprattutto  da  ragioni 
di  gusto,  e  che  non  a  caso  finivano  per  giudicare  troppo  « lassiste  » 
certe  proposizioni  dello  scrittore  piemontese,  preoccupato  non  tan- 
to  di  attenersi  rigorosamente  ad  un  ideale  puristico  quanto  di 
proporre  un  tipo  di  lingua  che  effettivamente  collaborasse  a  quel- 
rinserimento  culturale  e  politico  del  Piemonte  in  Italia,  che  a  lui 
stava  soprattutto  a  cuore. 


Manca  tuttora  una  bibliografia  degli  scritti  editi  e  inediti  del  Galeani 
Napione  che  possa  ritenersi  definitiva.  Elenchi  utili  ma  incompleti  sono 
negli  studi  del  Martini,  del  Gribaudi,  della  Fusani  e  del  Fossati  citati  piii 
avanti.  Qui  bastera  ricordare  le  raccolte  in  cui  Tautore  riuni,  negli  ultimi 
anni  della  sua  vita,  le  op  ere  a  cui  maggiormente  teneva:  Estratti  ragionati 
di  varie  opere  di  grido,  scritti  e  pubblicati  in  diversi  tempi,  or  a  raccolti,  riveduti 
e  corretti  ddWautoret  in  due  tomi,  Pisa,  Capurro,  1816  (contiene,  fra  1'altro, 
una  lunga  recensione  del  Voyage  du  jeune  Anacharsis  en  Grece  del  Bardie" - 
lemy,  la  recensione  al  volume  del  Milizia  DelVarte  di  vedere  nelle  belle  arti 
del  disegno,  e  due  ampi  estratti  dalle  Lezioni  di  belle  lettere  del  Blair) ;  Vite  ed 
elogi  d'illustri  italiani,  in  tre  tomi,  Pisa,  Capurro,  1818  (comprende,  fra 


NOTA   INTRODUTTIVA  657 

Paltro,  gli  elogi  del  Botero,  def  cronisti  piemontesi  e  del  Bandello,  la  vita  e 
Pelogio  del  Bettinelli,  e  la  vita  di  Federico  Asinari,  dove  si  legge  il  giudizio 
sulPAlfieri  citato  nella  Nota  introduttiva) ;  Monumenti  dell*  architettura  an- 
tica,  lettere  al  conte  Giuseppe  Francki  di  Pont,  in  tre  tomi,  Pisa,  Capurro, 
1820;  Opuscoli  di  letter atur a  e  belle  arti,  in  due  tomi,  Pisa,  Capurro,  1826 
(comprende,  fra  Paltro,  un  Discorso  sopra  la  scienza  militare  del  Tasso  e  un 
Discorso  intorno  al  canto  IV  dell\  Inferno  »  di  Dante}.  Alcuni  scritti  econo- 
mici  sono  stati  pubblicati  nella  Raccolta  d'opere  d'economia  politica  di  scrit- 
tori  piemontesi,  Torino  1820;  e  in  appendice  al  volume  del  Fossati  citato 
piu  avanti.  I  piu  important!  opuscoli  politici,  YIdea  di  una  confederations 
delle  potenze  d*  Italia  e  Del  nuovo  stabilimento  delle  Repubblicke  lombarde 
si  leggono  in  N.  BIANCHI,  Storia  delta  monarchiapiemontese  dal  1773  al  1861, 
Torino,  Bocca,  1877-1885,  in,  pp.  527-48  e  570-611.  L'opera  DeU'antica 
milizia  del  Piemonte  e  del  modo  di  ristabilirla  e  stata  pubblicata  da  E.  Scala 
nel  volume  Le  milizie  sabaude,  Roma  1937,  pp.  53-125.  Sul  trattato  Del- 
Vuso  e  deipregi  della  lingua  italiana  e  sul  Discorso  intorno  alia  storia  del  Pie 
monte  si  vedano  i  cappelli  alle  pagine  qui  riprodotte. 

Manca  intorno  al  Napione  un' opera  complessiva  condotta  criticamente. 
Tali  infatti  non  sono  n6  i  profili  di  L.  MARTINI,  Vita  del  conte  G.  F.  Ga- 
leani  Napione,  Torino,  Bocca,  1836  (che  e  un  «elogio»  in  stile  tacitiano); 
e  di  V.  GRIBAUDI,  Discorso  critico  su  G.  F.  Galeani  Napione,  Cuneo  1872; 
e  neppure  la  modesta  monografia  di  L.  FUSANI,  G.  F.  Galeani  Napione,  vita 
e  opere,  Torino,  Tip.  Baravalle  e  Falconieri,  1907.  L'opera  di  C.  CALCA- 
TERRA,  II  nostro  imminente  risorgimento,  Torino,  S.E.I.,  1935,  deve  essere 
tenuta  presente  per  le  molte  indicazioni  sia  suH'ambiente  culturale  della 
Conversazione  Sampaolina  e  della  Societa  Filopatria,  sia  sul  Napione,  ma 
va  adoperata  con  cautela  per  le  ragioni  accennate  nella  nostra  Nota  intro 
duttiva.  II  giudizio  del  Foscolo  si  legge  in  Opere,  xi,  a  cura  di  C.  Foligno, 
Firenze,  Le  Monnier,  1958,  pp.  360-1. 

In  particolare  sul  pensiero  economico  del  Napione  si  veda  A.  FOSSATI, 
Ilpensiero  economico  del  conte  G.  F.  Galeani  Napione,  Torino,  Fedetto,  1936. 
Sul  pensiero  politico  sono  important!  le  osservazioni  limitative  di  G.  VAC- 
CARINO,  I patrioti  «  anarchistes  »  e  Videa  delFunita  italiana  (1796-1799),  To 
rino,  Einaudi,  1955,  pp.  19-24  (a  cui  si  rimanda  anche  per  ulteriori  indica 
zioni  bibliografiche  sulPargomento).  Sul  pensiero  storiografico  qualche  in- 
dicazione  in  G.  NATALI,  Idee,  costurrti,  uomini  del  Settecento,  Torino, 
S.T.E.N.,  I9262,  pp.  72-5  (e  dello  stesso  si  veda  anche  //  Settecento,  cit, 
pp.  456-7,  461-2  e  1185-7).  Sulle  idee  estetiche  e  critiche,  C.  CALCATERRA, 
La  questione  estetica  delle  « Lettere  virgHiane ».  Dante  gotico  e  U  Petrarca 
creator  e  delTitalica  poesia,  in  <t  Archivio  storico  per  le  provincie  parmensi^ 
N.  S.,  xxxiv  (1934),  pp.  7-27,  poi  in  IlPamaso  in  rivolta,  Milano,  Mooda- 
dori,  1940,  pp.  259-80  (in  particolare  cfr.  le  pp.  267-74).  Sul  pensiero  lin- 
guistico,  si  veda  rottimo  capitolo  di  M.  PUPPO,  Discussioni  lingttistiche  dd 
Settecento,  Torino,  U.T.E.T.,  1957,  pp.  83-90  (a  cui  si  rimanda  andhe  per 
Pindicazione  dei  precedent!,  ma  tutti  poco  notevoli,  studi  sull'argoinento). 


DA«DELL'USO  E  DEI  PREGI 
DELLA    LINGUA    ITALIANA» 


LIBRO   I  •  CAPO   I 


\Intr  oduzi onel\ r 

QuelPistromento  dalla  natura  alTuomo  concesso,  per  via  di  cui 
non  solo  il  piacere  ed  il  dolore  si  manifesta,  ma  s'instruisce,  si 
delibera,  si  persuade,  si  comanda,  e  che  somrninistra  i  segni  me- 

Nella  dedica  al  conte  Felice  Durando  di  Villa,  premessa  alia  prima  edi- 
zione,  compiuta  nel  1791,  del  suo  trattato  DeJTuso  e  del  pregi  deUa  lingua 
italiana,  il  Napione  dichiarava  che  tcsebbene  piu  di  dieci  anni  or  sieno 
passati  da  ch6  Topera  gia  era  terminata,  le  incombenze  che  gli  vennero 
successivarnente  addossate  in  due  provincie,  e  le  domestiche  vicende  ezian- 
dio»  non  gli  avevano  permesso  di  attendere  alia  revisione  definitiva  e 
alia  pubblicazione  del  suo  lavoro.  Da  tale  dichiarazione  si  trae,  e  il  Na 
pione  stesso  lo  faceva  esplicitamente  rilevare  in  una  lettera  scritta  al  Betti- 
nelli  il  6  dicembre  1801  (e  pubblicata  da  M.  G.  MACCHIA  ALONGI,  Di 
alcuni  carteggi  piemontesi  col  Bettinelli,  in  « Atti  della  R.  Accademia  delle 
Scienze»  di  Torino,  LXXVII,  1941-1943),  che  il  trattato,  nella  sua  struttura 
generate,  sarebbe  stato  composto  prima  che  uscisse,  nel  1785,  la  prima  edi- 
zione  del  Saggio  sulla  lingua  italiana  del  Cesarotti;  anche  se  non  resta 
del  tutto  eliminato  il  sospetto,  affacciato  appunto  dal  Cesarotti  nella  sua 
Lettera  al  Napione  (err.  in  questo  volume,  pp.  457-68),  che  lo  scrittore  pie- 
montese,  almeno  nella  revisione  della  sua  opera,  abbia  potiito  tener  pre- 
sente  il  Saggio  cesarottiano  anche  per  confermare  e  precisare  alcune 
idee  —  la  polemica  contro  la  tirannia  della  Crusca,  il  concetto  di  una 
lingua  insieme  «colta»  e  «popolare»,  ecc.  -,  cosi  come  lo  tenne  presente 
per  discuterne  in  alcuni  appositi  paragrafi  varie  afFermazioni  con  le  qua- 
li  non  consentiva.  II  trattato  fu  dunque  pubblicato  per  la  prima  volta  a 
Torino  (Balbino,  1791),  in  due  tomi  contenenti  anche  alcuni  scritti  mi- 
nori  relativi  all'argomento  trattato  nelTopera  maggiore  (una  Lettera  del 
Tiraboschi  alTautore  e  la  Risposta  di  questo,  e  una  lunga  Lettera  del  Na 
pione  al  Bettinelli  intomo  al  discorso  del  de  Velo  Sulla  prerrtinenza  di 
alcune  lingue  e  sulVautorita  degli  scrittori  approvati  e  dei  gramatict),  e  inol- 
tre  il  Discorso  intomo  al  modo  di  ordinare  una  biblioteca  scelta  italiana 
e  il  Discorso  intorno  alia  storia  del  Piemonte.  Una  seconda  ediziooe  del 
trattato  e  degli  altri  scritti  minori,  «  diligentissimamente  purgata  dagli  er- 
rori  e  difetti  che  si  scorgevano  con  dispiacere  nella  prima  ediziooe  <fi 
essa»,  ma  senza  variazioni  sostanziali  fu  poi  stampata  a  Firenze,  presso 
Molini,  Landi  e  C.,  nel  1813.  Su  questa  seconda  edizione  sono  modellate 
tutte  le  successive  edizioni  a  cominciare  da  quella  di  Milano  (Silvestri, 
1819).  Alcuni  passi  del  trattato,  con  note  illustrative,  sono  stati  recen- 
temente  ristarnpati  da  M,  Puppo  nella  sua  antologia,  Discussiom  Ungui- 

i.  Dal  trattato  Dett'uso  e  dei  pregi  della  lingua  italiana,  ed.  cit.,  I,  pp.  1-2. 


660  GIAN  FRANCESCO    GALEANI   NAPIONE 

desimamente  per  mezzo  de'  quali  Fanima  richiama  tra  se  stessa 
le  idee  e  le  connette;  il  linguaggio,  in  una  parola,  dalle  diverse 
inclinazioni  di  una  nazione,  dai  diversi  studi  ed  arti  dominanti 
e  dalle  vicende  cui  va  soggetta,  pu6  ricevere  modificazioni  essen- 
zialissirne.  Dipende  adunque  in  gran  parte  dagli  uomini  mede- 
simi  il  perfezionare  quest' organo,  e  quanto  sara  desso  piu  per- 
fetto,  tanto  piu  facile  riuscira  Facquistare  il  sapere,  Fistruzione  piu 
pronta,  la  meditazione  piu  profonda,  piu  sensibile,  piu  generosa, 
piu  energica  Fanima  stessa,  ondeche  le  speculazioni  tutte  e  le 
cure  dirette  a  migliorare  un  si  fatto  universale  istromento,  sono 
troppo  piu  rilevanti  di  quello  che  a  prima  fronte  sembrar  possa. 
Gli  uomini  grandi  delFantichita  non  solo  della  lingua  loro  erano 
teneri  amatori  e  lodatori  continui,  ma  tale  sollecitudine  se  ne  pren- 
deano,  che  eccessiva  sembra  a'  giorni  nostri.  Cesare,  quel  lette- 
rato  guerriero,  le  di  cui  doti  erano  si  rare  e  si  risplendenti,  che 
per  poco  non  abbagliarono  la  posterita  nel  recar  giudizio  dell'uso 
abominevole  che  ne  fece,  in  mezzo  allo  strepito  delle  sue  vittorie, 
tra  le  pratiche  di  stato,  tra'  suoi  studi  e  tra'  suoi  amori  non  trala- 
sci6  di  dettar  trattati  appartenenti  a  cose  di  lingua.1  E  Cicerone, 
nel  tempo  istesso  in  cui  scoppiava  la  piu  gran  rivoluzione  del 
piu  grande  impero  della  terra  e  che  stava  pendente  la  rovina  che 
dovea  opprimerlo,  intorno  a  minuzie  gramaticali  consultava  il  suo 
arnico  e  confidente  Pomponio  Attico. 

In  questo  secolo  dietro  la  scorta  dei  Le  Clerc,  dei  Locke,  dei 
Leibnitz,  nomi  grandissimi,  i  Genovesi,  i  Du  Marsais,  i  Condillac, 
i  Michaelis,  i  Cesarotti2  ed  altri  sottili  ingegni  hanno  creduto  di 


stiche  del  Settecento,  cit.,  pp.  493-503.  Per  il  testo  dei  passi  riprodotti 
in  questo  volume  anche  noi  ci  siamo  attenuti  alTedizione  fiorentina  del 
1813,  pur  tenendo  presente,  per  qualche  caso  dubbio,  quella  torinese  del 
1791.  Le  note  del  Galeani  Napione  sono  seguite  dalla  sigla  G.  N. 

i.  Blackwalius,  De praest[antid\  class[icorum]  auct[orurn]y  cap.  n,  §  3  (G.  N.). 
Thomas  Blackwell  (1701-1757),  critico  inglese,  e  noto  soprattutto  per  la  sua 
Enquiry  into  the  Life  and  Writings  of  Homer  (1735),  tentative  di  interpre- 
tare  Omero  come  un  bardo  primitive.  Cesare  scrisse  un  trattato  De  ana- 
logia,  a  noi  non  pervenuto,  in  cui  era  difeso  il  principio  delTanalogia  con- 
tro  quello  dell'anomalia,  e  si  riven dicava  Fuso  dei  vocaboli  correnti  contro 
quello  dei  vocaboli  desueti  o  speciosi.  2.  dei  Le  Clerc  .  .  .  i  Cesar otti:  in 
questo  elenco  stupisce  un  po',  accanto  ai  nomi  del  Locke,  del  Leibniz, 
del  Dumarsais,  del  Condillac,  del  Michaelis  (sui  quali  cfr.,  in  questo 
volume,  il  Saggio  sulla  filosofia  delle  lingue  del  Cesarotti  e  le  note  rela 
tive)  e  del  Cesarotti  stesso,  la  citazione  di  quelli  del  BurTon  (Jean-Louis 


DELL'USO   E   DEI   PREGI   DELLA  LINGUA   ITALIANA         66l 

dover  esaminare  filosoficamente  la  natura  delle  lingue;  mentre 
altri  si  sono  applicati  piu  particolarmente  ad  osservare  e  descrivere 
il  genio,  Tindole,  la  storia  di  un  determinate  idioma.  Laonde  questa 
materia  di  gramaticale  e  letteraria  che  al  piu  era,  e  diventata  filoso- 
fica  e  diventar  dovrebbe  eziandio  politica,  merce  il  giovamento  che 
puo  arrecare  alia  civile  societa. 

§  i.  La  lingua  e  uno  deipiuforti  vincoli  che  stringa 
alia  patria.1 

Se  le  voci  di  nazione  e  di  patria  non  sono  del  tutto  vuote  di 
significato,  se  e  cosa  importante  che  ogni  societa  civile  abbia  un 
carattere  suo  proprio,  da  cui,  quasi  da  interne  spirito,  venga  animata 
ogni  singolar  persona;  se  i  maggiori  progressi  nel  sapere,  la  mag- 
gior  gloria  della  nazione,  i  maggiori  piaceri  e  la  maggior  coltura 
della  vita,  non  sono  oggetti  di  picciol  momento,  certa  cosa  e  che  ogni 
via  ed  ogni  spediente  atto  ed  opportune  per  accendere  vieppiu  que- 
sto  fuoco  e  per  istringere  si  fatti  awenturosi  nodi  non  si  dee  tra- 
scurar  di  ricercarsi  dagli  studiosi,  ne  di  porsi  in  pratica  da  chi 
Fautorita  alle  cognizioni  congiunge.  L'avere  una  lingua  propria, 
il  coltivarla,  Famarla,  F  apprezzarla,  il  fame  uso  non  meno  nelle 
solenni  pompose  occasion!  e  nelle  severe  che  nelle  familiari  e  bril- 
lanti,  non  e  Fultimo  motivo  che  stringa  gli  uomini  e  gli  affezioni 
alia  contrada  in  cui  vivono;  che  giovi  ad  imprimere  in  loro  cuore 
un  carattere  originale  e  si  fattamente  proprio  della  nazione,  talche 
ne  risulti  il  piu  vivo  interessamento  per  lo  pubblico  bene,  sparso  ne' 
diversi  membri  di  essa,  e  la  piu  intima  e  salda  unione  del  corpo 
politico  e  degli  ordini  di  persone  che  il  compongono.  Non  e  da 
dire  di  quanto  minuti  elementi  composte  sieno  le  piu  gran  moli, 
e  quante  picciole  cagioni  abbiano  avuto  parte  negli  effetti  piu 
strepitosi.  Quell' eroico  amor  della  patria,  che  sprono  Greci  e  Ro- 
mani  ad  imprese  cosi  magnanime,  procedeva  dal  gran  concetto 
in  cui  tenevano  ogni  cosa  loro  anche  oltre  il  dovere.  Alia  cura  che 
si  prendeano  per  diffondere  la  lingua  loro,  al  conto  che  ne  face- 

Le  Clerc  de  Buffon),  autore  del  Ltiscours  sur  le  style  (1753)7  Hnguistka- 
mente  poco  importante,  e  del  Genovesi,  che  si  occupo  di  qu^tkcd  lin- 
guistiche  senza  vera  originalita  negli  Elementorwn  artis  logico-criticae  (i745) 
e  nella  Logica  per  giovanetti  (1766).  i.  Dal  trattato  DeLTuso  e  dei  pregi 
della  lingua  italiana,  ed.  cit.,  I,  pp.  2-6. 


662  GIAN  FRANCESCO   GALEANI   NAPIONE 

vano,  all'ardore  con  cui  la  coltivavano  attribuir  si  dee  in  gran  parte 
quello  spirito  patriottico  che  tanto  in  essi  si  ammira,  quell'entu- 
siasmo  nazionale  produttor  di  azioni  si  straordinarie,  che  altri  e 
pressoche  tentato  di  negar  fede  agli  scrittori  da  cui  ci  vengono 
descritte. 

Quando  regnava  Pantica  diffidente  ed  esclusiva  politica,  bastava 
il  dire  nazione  che  parlasse  lingua  diversa,  per  intendere  nazione 
nimica.  Certamente  non  troppo  filosofica  ne  troppo  umana  era 
una  tal  foggia  di  ragionare;  conteneva  per6  questo  di  vero,  che  le 
nazioni,  le  quali  facevano  uso  di  lingua  diversa,  diverse  erano 
d'indole  parimenti  tra  di  loro;  il  che,  in  tempi  ne'  quali  le  societa 
eran  piene  di  sospetti,  perche  deboli  e  nascenti,  ed  in  cui  il  genio 
conquistatorio  delle  eta  barbariche  faceva  credere  che  non  si  po- 
tesse  esser  felice  se  non  se  distruggendo  il  ben  essere  altrui,  tanto 
valeva  quanto  nimiche.  I  climi,  i  costumi,  le  lingue  sono  mura 
di  divisione  che,  assai  meglio  di  quella  famosa  de'  Cinesi,  sepa- 
rano  e  distinguono  le  nazioni.  Si  potranno  talvolta  sforzare  in 
qualche  parte,  ma  non  riuscira  mai  di  rovinarle.  Dica  pure  a  suo 
senno  Luigi  XIV:  «Non  vi  sono  piu  Pireneb;  i  re  di  Germa- 
nia,  da  Ottone  il  grande  sino  a  Carlo  V,  scendano  a  piacer  loro 
in  Italia;  i  valorosi  Inglesi  conquistino  pure  provincie  francesi, 
e  salgan  pure  sul  trono  d'lnghilterra  i  duchi  di  Normandia;  que- 
ste  unioni  non  saranno  mai  se  non  se  violente  e  passeggere.  La 
massa  d'acqua  ritenuta  a  forza  rompe  gli  argini,  si  divide,  e  scor- 
re  tosto  di  bel  nuovo  naturalmente  ne'  propri  suoi  canali.  Se 
tutto  cio  e  in  natura,  non  solamente  riuscira  ognora  impresa  di- 
sperata  il  tentare  di  sradicarlo,  ma  conviene  inoltre  cercar  modo  di 
trarne  profitto,  non  essendovi  forza  veruna  in  natura,  la  quale, 
ben  maneggiata  e  diretta,  produrre  non  debba  vantaggiosissimi 
effetti. 

Che  il  materno  linguaggio  sia  un  segno  che  ad  un  tratto  natu 
ralmente  ci  metta  innanzi  tutti  i  vincoH  che  corrono  tra'  concitta- 
dini,  e  ci  rammemori  le  idee  tutte  piu  gioconde  della  patria  radu- 
nate  in  un  sol  punto,  pienamente  il  dimostra  il  singolar  senso  di 
piacere  che  si  prova  abbattendoci  in  lontan  paese  a  ragionare  con 
chi  parli  lo  stesso  Knguaggio.  Ed  in  vero  sara  il  cuor  dell'uomo  in 
tal  guisa  formato,1  che  con  dolce  interna  commozione  e  singolar 

i.  Embser,  La  paix  perp[etuelle\,  i  par.,  p.  60,  Manheim  (G.  N.). 


DELL'USO   E  DEI   PREGI   DELLA   LINGUA   ITALIANA         663 

diletto  si  ritorni  a  visitar  que'  luoghi  stessi  selvaggi  ed  alpestri, 
in  cui  altri  abbia  fatto  lunga  dimora,  tanta  e  la  forza  dell'abitudine,1 
e  non  debba  pigliar  affetto  a  que'  segni  che  le  prime  e  piu  gradite 
impressioni  gli  rammentano2  e  le  persone  piu  care  ed  i  momenti 
piu  felici  ?  E  se  quelli  che  in  loro  gioventu  in  piu  luoghi  si  trova- 
rono,  e  con  molti  di  nazioni  diverse  conversarono,  non  saranno  al 
certo  cotanto  della  patria  loro  innamorati  come  quei  buoni  alpi- 
giani  i  quali  per  la  sola  lontananza  da  essa  cadono  in  isfinimento, 
non  sara  forse  vero  che  quelle  nazioni  e  quelle  persone,  che  di  piu 
di  una  sola  lingua  fanno  uso,  meno  saranno  attaccate  al  suolo,  al 
pensare,  ai  costumi  nazionali,  in  confronto  di  quelle  che  di  un 
solo  idioma  principalmente  si  servono  ? 

Una  prova  di  questo  si  e  che  non  mai,  se  non  in  un  cogli  stra- 
nieri  costumi,  s'introdussero  ad  essere  comunemente  parlate  e 
adoperate  lingue  straniere.  Quando  i  Greci  portarono  le  arti  loro 
ed  i  loro  vizi  in  Roma,  la  lingua  greca  prevalse  pressoche  alia 
latina  tra  que'  leziosi  romani  che  alia  voluttuosa  attica  eleganza 
aspiravano.  Cosi  il  provenzale  fu  coltivato  e  si  sparse  in  un  coi 
costumi  di  quella  nazione  in  tutta  la  meridionale  Europa  dopo  il 
Mille:  e  dicasi  lo  stesso  deH'italiano  in  Francia,  al  tempo  delle 
arti  italiane  in  quel  regno  introdotte  dal  re  Francesco  I,  e  quindi 
sotto  le  reggenze  di  italiane  principesse.  Osserva  il  Bembo,3  fa- 
vellando  di  Alessandro  VI,  che  poiche  le  Spagne  aveano  mandati 
i  popoli  loro  a  servire  il  loro  pontefice  a  Roma,  e  Valenza4  il 
colle  Vaticano  occupato,  a*  nostri  uomini  ed  alle  nostre  donne 
altri  accenti  aver  in  bocca  non  piaceva  che  spagnuoli.  In  un  colla 

i .  Cic.,  De  amicitia,  n.  xix,  [68],  G.  N.  « In  iis  etiam  quae  sunt  inanima,  con- 
suetudo  valet,  quum  locis  ipsis  delectemur,  montuosis  etiam  et  silvestribus, 
in  quibus  diutius  commorati  sumus. »  2,.  Leone  Allacci,^avendo  perduta  la 
penna,  di  cui  erasi  per  quarant'anni  servito,  ne  senti  tal  dolore  che  a 
grande  stento  trattenne  le  lacrime.  Mabillon,  De  re  diplom[atica],  cap.  xi, 
p.  51,  Parigi  1704  (G.  N.).  Leone  Allacci  (1586-1669)  fu  uno  dei  piu  fa- 
mosi  e  tipici  rappresentanti  della  erudizione  secentesca,  noto  soprat- 
tutto  per  la  Drammaturgia,  catalogo  di  op  ere  teatrali.  3.  Prose  [della  vol- 
gar  lingua],  libro  I,  [cfr.  ed.  M.  Marti,  Padova,  Liviana,  1955,  p.  30: 
«poi  che  le  Spagne  a  servire  il  loro  pontefice  a  Roma  i  loro  popoli  man 
dati  aveano,  e  Valenza  il  colle  Vaticano  occupato  avea,  a*  nostri  uomini 
e  alle  nostre  donne  oggimai  altre  voci,  altri  accenti  avere  in  bocca  non 
piaceva,  che  spagnuoli »];  v.  Ariosto,  Satira  II,  [w.  76^84,  dove  e  argu- 
tamente  rappresentato  un  dialogo  fra  un  postulante  e  il  servo  spagnolo 
di  un  prelato  pure  spagnolo],  G.  N.  4.  Valenza:  la  famiglia  dei  Boigia, 
originaria  di  quella  citta. 


664  GIAN   FRANCESCO    GALEANI   NAPIONE 

politica,  co*  principi  e  co'  ministri  spagnuoli  s'introdusse  adunque 
sin  dal  principle  del  secolo  XVI  quella  lingua  tra  noi,  e  quindi 
piu  stabilmente  neirultimo  passato  col  lungo  dominio  avuto  da 
quella  nazione  sopra  una  gran  parte  d' Italia;  e  nel  presente  si  e 
stabilito  il  francese  idioma  colle  mode,  co'  romanzi,  co*  libri 
galanti. 

CAPO  II 

§  2.  [Scrittore  originale  e  solo  chi  scrive  la  propria  lingua.] x 

. . .  Chi  scrive  in  una  lingua  non  sua,  antica  e  straniera,  o  convien 
che  scriva  barbaramente,  o  e  necessario  che  scriva  con  istento  e 
con  fatica,  senza  speranza  di  poter  mai  giungere  alia  eleganza, 
alia  forza  di  quegli  scrittori  che  si  fatti  idiomi  adoperarono  come 
propri  e  nativi.  L'entusiasmo  ha  luogo  anche  nel  ragionare  piu 
astratto  e  nelle  materie  piii  spinose  e  sottili.  A  che  adunque  spe- 
gnerne  il  fuoco,  a  che  ritardarne  I'impeto  coll'impaccio  di  dover 
cercare  e  scegliere  voci  e  frasi  che  mai  non  si  affacceranno  alia 
mente  con  quella  prontezza  con  cui  si  presentano  le  proprie  ?  Chi 
aspira  alia  gloria  di  elegante  scrittore,  servendosi  di  lingua  diversa 
dalla  materna,  oserei  dire  che  non  pensera  mai  originalmente, 
non  sara  mai  genio  sommo,  nelle  scienze  non  meno  che  nelle  belle 
arti,  ne  potra  dire  giammai  con  Dante: 

.  . .  io  mi  son  un,  che  quando 
natura  spira  noto,  ed  a  quel  modo 
che  delta  dentro  vo  sigmficando.2 

II  comporre  a  centoni,  come  di  necessita  far  si  dee  adoperan- 
do  una  lingua  morta,  quando  si  voglia  che  elegante  riesca  la 

i.  Dal  trattato  DeWuso  e  deipregi  detta  lingua  italiana,  ed.  cit.,  I,  pp.  23-5. 
Ai  concetti  espressi  in  questo  passo  avra  forse  dato  lo  spunto  il  seguente 
passo  del  Bettinelli: « gl'idiomi  tutti  nella  rozzezza  dej  primi  lor  tempi  han 
forza  ed  energia  singolare,  e  si  dipingono  pei  traslati  di  colon  tanto  piu 
vivi  quanto  piu  naturali,  mentre  in  appresso  per  le  leggi  grammaticali, 
per  la  schiavitu  dello  stile  e  del  gusto  si  fan  timidi  e  fiacchi»  (cfr.  Risorgi- 
mento  d' Italia,  in  Opere,  iv,  Venezia,  Zatta,  178 1 ,  pp.  30-1).  2.  Purg.,  xxiv, 
52-4.  Come  ha  osservato  il  Puppo,  il  Napione  cita  questi  versi  danteschi 
secondo  la  lezione  (si  noti  in  particolare  la  sostituzione  di  natura  ad 
«Amore»)  dell'Algarotti  nel  Saggio  sopra  la  necessita  di  scrivere  la  propria 
lingua  (in  fine),  dal  quale  riprende  anche  i  concetti  fondamentali  che  ispi- 
rano  le  considerazioni  che  precedono. 


DELL'USO   E   DEI   PREGI   DELLA   LINGUA   ITALIANA         665 

dicitura,  suppone  una  lentezza  ed  un  freno  nello  scrivere,  che 
non  sara  mai  il  caso  ne  del  genio  profondo  investigator  delle 
cose,  ne  di  una  immaginativa  forte  e  creatrice.  Siccome  i  poemi 
affatto  nuovi  ed  original!  furono  tutti  dettati  in  lingue  viventi, 
parimente  in  idioma  materno  stesero  i  piu  acuti  pensatori  le  spe- 
culazioni  loro,  od  almeno  in  un  latino  cosi  fatto  che,  come  quello 
appunto  degli  scolastici,  piu  si  accostava  alia  latinita  di  Teofilo 
Folengo  che  a  quella  di  Cicerone.  Quanto  e  scorretto,  impuro, 
sgramaticato  e  barbaro  il  latino  in  cui  sono  dettati  diversi  inni 
della  Chiesa,  sequenze  e  ritmi  composti  ne'  secoli  di  mezzo,  che 
altronde  per6  sono  piu  teneri,  piu  immaginosi,  piu  affettuosi  ed 
espressivi  che  non  gli  inni  eleganti  del  Flaminio  e  del  Vida?1  In 
cosl  fatto  rozzo  latino  e  pure  dettato  il  libro  della  Imitazione  di 
Cristo,  che  dallo  spregiudicato  filosofo  Fontenelle2  e  riputato  il 
miglior  libro  che  uscito  sia  di  mano  d'uomo ;  latino  assai  piu  espres- 
sivo  che  non  sia  quello  ciceroniano,  in  cui  pretese  voltarlo  Papo- 
stata  savoiardo  Sebastiano  Castalione:3  e  tra  i  cronisti  parimente  de' 
tempi  di  mezzo,  raccolti  dal  Muratori,  riescono  assai  piu  piacevoli, 
piu  vivaci  ed  espressivi  quelli  che  affatto  barbaramente  scrissero 
e  senza  prendersi  cura  nessuna  della  lingua,  che  non  quelli  i  quali 
alcun  poco  conservarono  di  buona  frase  latina.  L'Azario  e  Gugliel- 
mo  Ventura4  sono  piu  originali  di  molti  altri,  perche"  piu  rozzi. 
Chi  ha  cose  nuove  da  dire  conviene  che  in  gran  parte  si  formi  una 
lingua,  come  una  nascente  repubblica  ordina  le  classi  de'  suoi  cit- 
tadini;  ed  allo  stesso  modo  che,  dopo  serrato  il  consiglio,  Tautorita 
sovrana  rest6  in  Venezia  presso  le  famiglie  in  esso  comprese,  cosi 
presso  degli  antichi  latini  scrittori  e  depositato  Ferario  delle  voci 


i.  Marcantonio  Flaminio  (1498-1550)  e  qui  ricordato  per  gli  inni  religiosi 
contenuti  nella  Paraphrasis  in  triginta  psalmos  e  per  i  carmi  De  rebus 
divinis'y  Marco  Girolamo  Vida  (1485-1566),  per  i  suoi  inni  sacri  pure  in 
latino  classico.  2.  [Oeuvres],  t.  n,  p.  74,  Amsterdam]  1754,  Vie  de  Cor- 
neille  (G.  N.).  3.  Fontanini,  Bibl\ioteca  delV eloquenza  italiana,  Venezia, 
Pasquali,  1753],  t.  n,  p.  456  (G.  N.).  Sebastiano  Castalione  (francese 
Chateillon),  vissuto  fra  il  1515  e  il  1563,  umanista  e  calvinista  dissidente, 
tradusse  in  latino  anche  la  Bibbia.  4.  Pietro  Azario  (nato  nel  1312), 
novarese,  e  noto  soprattutto  per  il  Liber  gestorum  in  Lombardia  per  et 
contra  Vicecomitesy  racconto  degli  awenimenti  dell*  Italia  settentrionale  fra 
il  1250  e  il  1364;  Guglielmo  Ventura  (vissuto  nella  seconda  meta  del  secolo 
XIII),  astigiano,  scrisse  un  Memoriale  de  gestis  civium  astensium.  SulPuno 
e  sull'altro  si  vedano  i  giudizi  piii  particolareggiati  del  Galeani  Napione 
nell'Elogio  dei  cronisti  piemontesi,  citato  nella  Nota  introduttiva. 


666  GIAN   FRANCESCO    GALEANI   NAPIONE 

latine,  il  quale  non  si  pu6  in  verun  modo  piu  accrescere  da'  mo- 
derni . . . 


CAPO   III 

§  i.  Diver  so  concetto,  in  cui  son  tenute  in  Piemonte  la  lingua 
italiana  e  la  francese;  conseguenze  che  ne  derivano.1 

Se  confessar  vogliamo  apertamente  il  vero,  Tattual  sistema  no- 
stro  in  fatto  di  lingua,  ed  in  cui  gia  da  gran  tempo  (qualunque 
siane  la  cagione)  ci  troviamo,  e  tale  che  la  lingua  italiana  viene 
riguardata  come  la  lingua  d'istruzione  popolare,  delle  cose  di  reli- 
gione  e  de'  tribunali  e  degli  autori  gravi;  la  francese,  all'incontro, 
come  quella  della  gente  leggiadra,  delle  gentili  brigate,  delle  no- 
bil  persone  e  segnatamente  delle  gentildonne  piu  spiritose  e  di 
chi  ambisce  la  gloria  di  persona  brillante.  Ora,  da  quanto  si  e 
detto  sopra,  ne  risulta  che  lo  esaminar  partitamente  se  gli  scritto- 
ri  piemontesi  d'ogni  maniera  servir  debbansi  tutti  di  una  sola 
lingua  scegliendo  tra  Pitaliana  e  la  francese;  oppure  se  gli  autori 
di  certi  generi  di  opere  valer  si  debbano  dell'una,  altri  deH'altra, 
non  e  quistione  meramente  letteraria,  ma  politica  altresi,  e  si  riduce 
a  considerare  se  sia  spediente  che  il  genio  della  nazione  divenga 
francese  del  tutto  o  del  tutto  italiano,  oppure  se  meglio  convenga 
lasciar  che  una  parte  della  nazione  resti  per  questo  rispetto,  a 
dir  cosi,  italiana  e  1'altra  francese,  quale  si  e  il  caso  nostro  pre- 
sentemente. 

Ed  in  fatti  certa  cosa  e  che  da  non  pochi  italiani  veniam  riguar- 
dati  come  nazione  appena  italiana,  tuttoche  da'  Francesi  in  nulla 
veniamo  per  nazion  francese  riconosciuti.  II  marchese  Orsi,  che 
prese  a  difendere  parecchi  scrittori  italiani,  a  torto  censurati  dal  p. 
Bouhours,*  abbattendosi  in  un'accusa  data  da  questo  letterato  fran 
cese  al  nostro  troppo  a'  suoi  tempi  famoso  abate  Tesauro,3  non  si 
credette  di  aver  miglior  modo  per  uscir  di  mano  deirawersario 


1.  Dal  trattato  DelVuso  e  dei  pregi  della  lingua  italiana,  ed.  cit.,  I,  pp.  45-8. 

2.  Consider az\ioni  sopra  «.La  maniera  di  ben  pensarev]  del  marchese  Orsi, 
Dial,  vn,  §  8,  p.  376,  Modena  1735  (G.  N.).  Le  Consider azioni  (i  edizione 
1703)  sono  Top  era  con  cui  Giuseppe  Orsi  rispose  per  primo  a  La  ma- 
mere  de  bien  penser  surles  ouvrages  de  ?  esprit  (1687)  del  padre  Bouhours: 
cfr.  la  nota  3  a  p.  440.     3.  nostro .  .  .  Tesauro:  Emanuele  Tesauro,  Tauto- 
re  del  Cannocchiale  aristotelicoy  era  nato  a  Torino  di  padre  fossanese. 


DELL'USO   E   DEI    PREGI   BELLA   LINGUA   ITALIANA         667 

e  difendere  in  questa  parte  1'onor  d'ltalia  (veramente  difficile  a  so- 
stenersi  qualora  fosse  stato  tutto  riposto  nel  buon  gusto  di  quel 
nostro  abate),  che  di  negarlo  per  italiano;  e  vediam  tutto  giorno 
riguardarsi  la  nazion  nostra  per  questo  rispetto  come  un  miscuglio 
difficile  a  definirsi.  Facciamoci  pertanto,  avanti  ogni  cosa,  a  con- 
siderare  se  il  rimanere  in  questa  situazione  indecisa  in  fatto  di 
lingua  non  porti  seco  alcuno  inconveniente  e  non  sia  per  arrecare 
danni  non  piccioli  alle  lettere,  ai  progressi  della  coltura  tra  noi, 
e  scemar  quella  affezion  medesima  che  verso  la  patria  nutrir  si  dee. 
Se  dicessi  che  nessun  ente  intermedio  nella  gran  catena  della 
natura  fu  giammai  riputato  perfetto,  che  gli  animali  anfibi  sono 
per  Pordinario  schifosi  e  deformi,  che  le  nazioni  semibarbare  peg- 
giori  sono  delle  barbare  affatto,  in  somma  che  nessun  ordine, 
che  nessun  istituto,  che  non  parta  da  un  solo  principio  e  che  da 
un  solo  spirito  mosso  non  sia,  non  potra  mai  riuscir  vantaggioso 
e  produrre  grandi  effetti,  se  tutto  cio  dicessi,  mi  servirei  di  argo- 
menti  od  oratorii  soltanto  o  soverchiamente  speculative  ed  astrusi. 
Quello  che  affermar  si  pu6,  senza  tema  di  errore,  si  e  che  una  na- 
zione,  la  quale  in  due  si  divida,  in  vece  di  avere  il  carattere  di  en- 
trambe,  non  ne  avra  veruno;  e  che  i  diversi  ordini  di  persone 
che  la  compongono,  non  saranno  mai  tra  di  loro  in  un  solo  corpo 
congiunti  a  quel  grado  che  il  sarebbono  qualora  non  regnasse 
questa  diversita  di  genio,  diversita  che  dall'uso  principalmente  di 
lingua  diversa  precede.  lo  non  asserir6  mai  che  un  popolo  per 
amar  la  patria  debba  avere  in  odio  le  altre  nazioni ;  convien  essere 
ben  poco  ragionevole  e  poco  umano  per  aver  mestieri  delFodio  per 
incentive  all'amore;  ma  per  lasciar  da  parte  che  quando  awien 
che  si  parli  di  classi  numerose  di  persone,  ancorche  della  nazion 
medesima,  si  vuol  concedere  assai  al  volgo  ed  a  quelli  che  volgar- 
mente  pensano,  sfido  Tanima  piu  spregiudicata  ed  il  cuor  piu  sen- 
sibile,  che  non  si  senta  con  minor  affezione  portato  verso  coloro 
che  hanno  un  genere  di  vita,  un  modo  di  conversare,  di  pensare, 
di  agire  diverso  dal  suo,  in  una  parola,  verso  le  persone  di  una 
nazione  diversa,  quali  nel  caso  divisato  diventerebbono  in  certo 
modo  le  diverse  classi  degli  stessi  concittadini  le  une  rispetto  a- 
le  altre. 


668  GIAN  FRANCESCO    GALEANI   NAPIONE 


LIBRO  II  -  CAPO  II 

§  i.  Opinione  dell 'abate  Cesar  otti  intorno  at  diver  si  pregi 
delle  lingue.1 

Vero  e  che  tutte  queste  nostre  ricerche  intorno  ai  pregi  delle 
due  lingue,  italiana  e  francese,  riuscirebbono  inutili  affatto,  anzi 
andar  non  potrebbono  esenti  dalla  taccia  di  vanita  pedantesche,  se 
attener  ci  dovessimo  in  fatto  di  lingue  a  ci6  che  ne  pensa  il  celebre 
abate  Cesarotti.  Ma  siccome  vi  ha  chi  teme  che  le  nuove  filosofiche 
dottrine  di  questo  valoroso  poeta  non  sieno  per  recare  ugual  gio- 
vamento  e  lustro  alia  prosa  italiana,  come  nuovi  spiriti  e  vigore 
infuse  nella  poesia  la  famosa  sua  traduzione  di  Ossian,  prima 
perci6  di  procedere  innanzi  resta  necessario  di  fermarsi  alquanto  ad 
esaminare  uno  di  que'  principii  sopra  dei  quali  egli  fonda  tutta  la 
macchina  del  suo  sistema.  Niuna  lingua,  dic'egli,2  originariamente 
non  e  ne  elegante  ne  barbara,  niuna  e  assolutamente  superiore 
ad  un'altra,  tutte  nascono  allo  stesso  modo,  cominciano  rozze  e 
meschine,  tutte  hanno  imperfezioni  e  pregi  dello  stesso  genere, 
tutte  sono  piacevoli  agli  orecchi  del  popolo  per  cui  son  fatte,  tutte 
son  capaci  di  armonia  imitativa,  tutte  si  vincono  e  si  cedono  reci- 
procamente  in  qualche  pregio  particolare.  Le  differenze  che  vi  sono, 
segue  a  dire,  non  esser  sensibili,  ognuno  aver  ragione  in  casa 
propria,  ne  esservi  popolo  colto  che  creda  di  dover  cedere  agli 
altri  in  fatto  di  lingua,  benche"  tutti  convengano  nelle  idee  che 
formano  di  perfezione;  tutte  le  lingue,  in  somma,  aver  difetti  che 
danno  luogo  a  qualche  bellezza,  e  bellezze  che  ne  escludono  altre 
non  men  pregevoli. 

Tali  sono  i  dogmi  di  generate  tollerantismo  nelle  cose  di  lingua 
professati  dall'abate  Cesarotti,  tollerantismo  che  v'ha  chi  crede 
non  possa  riuscir  meno  fatale  alle  lettere  ed  al  carattere  nazionale 
di  quello  che  a'  buoni  costumi  il  tollerantismo  religiose ;  e  che  nel 
resto  nulla  possa  produrre  di  buono,  ma  soltanto  introdurre  e  spar- 
gere  ogni  volta  piu,  sotto  il  pretesto  di  vantare  una  maniera  di 
pensare  spregiudicata,  la  disistima  della  lingua  propria,  che  e  Pim- 


i.  Dal  trattato  DelVuso  e  dei  pregi  della  lingua  italiana,  ed.  cit,  I,  pp. 
126-31.  2.  Saggio  sopra  la  lingua  italiana^  dell'abate  Cesarotti,  parte  i, 
§  i,  pag.  2  e  seg.,  Vicenza  1788  (G.  N.)-  Cfr.  in  questo  volume,  pp.  307-8. 


DELL'USO   E   DEI   PREGI   BELLA   LINGUA   ITALIANA         669 

pronta  piu  viva  e  piu  palpabile  del  carattere  nazionale,  ed  una 
fredda  e  filosofica  indifferenza  per  tutte.  Concederemo  che  le  lin- 
gue  nella  infanzia  loro  sieno  deboli,  mancanti,  imperfette,  sebbene 
anche  in  que'  principii  rawisar  si  possano  i  segni  della  futura  gran- 
dezza,  ed  Ercole  in  cuna  fosse  diverse  da  Tersite.  Ma  lasciando 
quegli  abbozzi,  e  paragonando  le  lingue  giunte  al  vigore  della 
florida  loro  eta,  non  riconosce  e  non  confessa  lo  stesso  autor  no- 
stro  che  le  une  possono  avere  qualche  pregio,  qualche  bellezza 
che  manchi  alle  altre  ?  Che  se  egli  pretende  che  questi  pregi  deb- 
bano  esser  vinti  da  altri,  e  queste  bellezze  particolari  escluderne 
altre  non  meno  lodevoli,  diremo  noi  non  sapere  come  possa  avere 
egli  fatto,  quasi  colla  bilancia  alia  mano,  esattamente  questo  con- 
fronto  di  tutti  gli  idiomi,  e  come  dimostrar  possa  di  averli  trovati, 
ragguagliata  ogni  cosa,  tutti  appuntino  dello  stesso  e  medesimo 
peso.  Crediamo  anzi  di  poter  senza  tema  di  errore  affermare  es- 
servi  lingue  che  vincono  le  altre  per  esser  dotate  di  maggior 
perfezione,  di  pregi  piu  luminosi  e  per  soggiacere  a  minori  difetti. 
Per  provare  una  verita  cosi  fatta  non  abbiam  mestieri  di  pro- 
fondarsi  in  troppo  astruse  e  sottili  speculazioni.  Ognun  sa  che  le 
lingue  sono  un  risultato  del  clima,  dell'indole,  del  naturale  ingegno, 
del  carattere  morale,  delle  arti  dominanti,  degli  studi,  delle  profes- 
sioni,  della  instituzione  politica  delle  nazioni  diverse.  Ora  chi 
negar  vorra  che  i  climi  piu  felici,  che  le  nazioni  piu  ingegnose  e  piu 
immaginose,  in  cui  le  nobili  passioni  delPamore  e  della  gloria  piu 
facilmente  si  accendono,  che  inventarono  e  perfezionarono  le 
bell'arti  e  le  scienze,  e  famose  furono  per  virtu  politiche  e  guer- 
riere,  non  debbano  avere  una  lingua  piu  pregevole  e  piu  perfetta? 
Ne  giova  il  dire  che  ogni  popolo  creda  perfetto  il  suo  linguaggio, 
perciocch.6  Terrore  per  esser  comune  a  tutti  non  diventa  per  que 
sto  verita;  ne  un  inganno,  anche  universale,  potrebbe  far  cangiar 
la  natura  delle  cose.  Con  questa  stessa  foggia  di  ragionare  tentaro- 
no  non  pochi  di  distruggere  non  solo  le  idee  fondamentali  del  Bello, 
ma  eziandio  i  principii  del  giusto  e  dell'onesto.  Non  vi  ha  deformita 
che  presso  qualche  barbara  popolazione  non  sia  stata  scambiata 
per  una  bellezza;  ne  vi  ha  costume  empio,  dissoluto  ed  inumano 
che  non  sia  stato  praticato  come  buono  e  giusto  da  qualche  popolo 
corrotto  o  feroce.  Diremo  perci6  che  non  esistano  i  principii  meta- 
fisici  del  Bello ;  e  che  la  intrinseca  bonta  e  reita  delle  azioni  sia 
una  invenzione  dei  moralisti  fanatici  o  degli  astuti  uornini  di  stato? 


670  GIAN   FRANCESCO    GALEANI   NAPIONE 

Del  rimanente,  e  poi  forse  cosa  posta  del  tutto  fuori  di  contro 
versia,  che  ogni  popolo  preferisca  la  lingua  propria  alle  straniere 
ed  alle  antiche?  Certamente,  se  intendiamo  per  popolo  coloro  che 
altra  lingua  non  sanno  salvo  la  propria,  la  terranno  questi  in  con 
cetto  della  prima  lingua  di  tutte,  non  avendo  il  modo  di  fame 
confronto  con  alcun  altro  idioma.  Ma  tra  coloro  che  arrivarono 
a  possedere  ad  un  certo  segno  le  lingue  antiche  o  straniere,  quanti 
non  confessarono  apertamente  i  difetti  del  proprio  linguaggio  natio 
e  riconobbero  il  pregio  degli  altri  ?  Tutti  i  dotti  delle  colte  nazioni 
non  sono  concordemente  d'awiso  che  la  lingua  greca  fu  la  piu 
bella,  e  la  lingua  latina  la  piu  maestosa  che  abbiano  mai  parlato 
gli  uomini  ?  E,  rispetto  alParmonia,  non  si  concede  da  tutti  la  palma 
alia  lingua  nostra,  anche  da  quelli  che  una  parola  sola  non  ne  capi- 
scono,  ed  il  suono  materiale  ne  intendono  soltanto  ?  Non  riconosco- 
no  tutti  i  popoli  non  barbari  che  T  Italia  e  il  nido  della  miglior 
musica  e  del  linguaggio  piu  musicale  di  Europa?  E  come  si  potra 
dipingere  con  lingue  antipittoriche,  antimusicali,  con  tanti  suoni 
indistinti,  con  tanti  monosillabi,  sia  veri  e  propri  che  tali  dive- 
nuti  per  la  pronuncia,  come  interviene  nella  lingua  francese,  che 
non  hanno  colore  ne  carattere  proprio  nel  suono,  secondoche  os- 
serva  giustamente  F  abate  Bettinelli,1  mentre  le  voci  italiane  han 
tutte  carattere  e  fisonomia  pittoresca  ?  Con  qual  fondamento 
adunque  potra  affermare  il  signor  abate  Cesarotti  che  gli  altri 
linguaggi  di  Europa  capaci  sieno  di  armonia  imitativa  al  pari  del 
nostro  ?  E  non  dovra  egli  per  awentura  temere  che  da  certi  antichi 
rigidi  italiani  non  si  voglia  rawisare  questa  soverchia  sua  condi- 
scendenza  come  nata  dal  pregiudicio  pur  troppo  comune  di  afTet- 
tare  i  costumi  e  di  adular  le  nazioni  straniere,  e  non  come  pro- 
veniente  da  quella  gentilezza  e  cortesia  connaturale  alle  anime  gene- 
rose,  e  percio  propria  del  signor  abate,  di  voler  piuttosto  cedere  di 
quello  che  ci  appartiene,  che  usurpar  deU'altrui?  Tanto  piu  che  i 
suddivisati  difetti  sono  pure  schiettamente  confessati  e  candida- 
mente  riconosciuti  da  non  pochi  valorosi  critici  francesi,  siccome 
abbiam  veduto  piu  sopra.2 


i.  Lettere  di  Diodoro  Delfico,  lett.  xi,  p.  46,  «Giornale  di  Modena»,  torn, 
xxxvin,  1787  (G.  N.).  2-  siccome  .  .  .  sopra:  nei  §263  del  capo  I  del  li- 
bro  II,  intitolati  rispettivamente  Giudicio  che  danno  della  lingua  francese 
i  piu  celebri  scrittori  di  quella  nazione  e  Giudicio  che  i  critici  francesi  recano 
della  loro  lingua,  in  ispecie  confrontandola  colla  lingua  greca  e  colla  latina. 


DELL'USO   E   DEI   PREGI   DELLA   LINGUA   ITALIANA         671 

E  per  rispetto  ai  pregi  della  lingua  italiana,  a  confronto,  non 
che  della  francese,  ma  di  tutte  le  altre  moderne,  ne  io  n6  qualunque 
panegirista  di  essa  riputato  da*  nostri  begli  ingegni  piu  fanatico  e 
piu  pregiudicato,  potrebbe  maggiormente  vantarli  di  quello  che 
fa  il  dotto  ed  ingegnoso  professor  di  belle  lettere  in  Edimborgo,  il 
signor  Blair.  Ragionando  egli  della  pieghevolezza  di  un  linguaggio 
o  sia  della  facolta  di  adattarsi  a  diversi  stili  e  maniere,  riconosce 
la  lingua  italiana  come  assai  piu  fornita  di  questa  dote  che  non  la 
francese.  Mediante  la  sua  copia  di  voci,  la  sua  libera  costruzione, 
la  straordinaria  bellezza  ed  armonia  dei  suoni,  felicemente,  die' egli, 
si  piega  ad  ogni  soggetto,  tanto  in  verso  come  in  prosa;  e  au- 
gusta,  energica  e  forte  al  bisogno,  del  pari  che  tenera  e  dilicata;  e 
conchiude  con  chiamarla  la  piu  perfetta  di  tutte  le  lingue  moderne 
che  sien  sorte  dalle  mine  delle  antiche.1 


§  4.  Costruzione  della  lingua  italiana :  si  difende  da  una  tacda 
datale  dair  abate  di  Condillac* 

Le  prerogative  suddivisate,  di  cui,  a  preferenza  del  francese, 
gode  il  nostro  idioma,  non  solo  piu  armonico  il  rendono,  ma  piu 
maneggevole  eziandio,  ed  una  lingua  maneggevole  ognun  vede  che 
a  qualunque  soggetto,  sia  grave  che  piacevole,  sia  dotto  e  severe  che 
ameno,  sia  recondito  che  comunale,  pu6  con  facilita  grandissima 
piegarsi.  La  lingua  latina  non  pu6  quasi  procedere  senza  invertir 
Fordine  naturale;  la  lingua  francese  non  ha  facolta  d'invertirlo ; 


i.  « Among  the  modern  tongues,  the  Italian  possesses  a  great  deal  more 
of  this  flexibility  than  the  French.  By  its  copiousness,  its  freedom  of 
arrangement  and  the  great  beauty  and  harmony  of  its  sounds,  it  suits  itself 
very  happily  to  most  subjects,  either  in  prose  or  in  poetry;  is  capable 
of  the  august  and  the  strong,  as  -well  as  the  tender;  and  seems  to  be  on 
the  whole  the  most  perfect  of  all  the  modern  dialects  which  have  arisen 
out  of  the  ruins  of  the  ancient »  [«  Tra  le  lingue  moderne  Titaliana  possiede 
questa  flessibilita  in  grado  molto  maggiore  della  francese.  Per  la  sua  ab- 
bondanza,  la  sua  liberta  di  atteggiamento  e  la  grande  bellezza  ed  armonia 
dei  suoni,  si  adatta  molto  felicemente  ai  piu  vari  argomenti,  sia  in  prosa 
che  in  poesia;  e  capace  del  tono  augusto  e  del  forte  come  del  tenero;  e 
sembra  nel  complesso  essere  il  piu  perfetto  di  tutti  i  dialetti  moderni 
che  sono  sorti  dalle  rovine  degli  antichi»],  Lectures  on  Rhetoric  and  Bdles 
Lettres  by  Hugh  Blair,  Lect.  ix,  The  English  language,  vol.  I,  p.  zoo,  Ba- 
sil[ea]  1788  (G.  N.)-  Sul  Blair  e  le  sue  Lectures  cfr.  la  nota  a  p.  93.  2.  Dal 
trattato  DeWuso  e  dei  pregi  della  lingua  italianaf  ed.  cit.,  i,  pp.  142-52. 


672  GIAN   FRANCESCO    GALEANI    NAPIONE 

la  lingua  italiana  pu6  ed  invertire  e  non  invertire,  secondo  che 
meglio  torna  in  acconcio,  e  secondo  che  meglio  si  confa  allo  stile 
in  cui  quegli  che  se  ne  serve  intende  di  adoperarla.  A  questo  pre- 
gio  della  lingua  italiana  non  pose  mente  il  dotto  abate  di  Condillac,1 
quando  asseri  esser  dessa  propria  a  contraffare  tutti  gli  altri  lin- 
guaggi,  ma  priva  di  carattere  proprio  ed  originale,  allegandone  per 
motivo  (giacch6  troppo  facil  cosa  si  e  il  trovare  la  supposta  ca- 
gione  di  un  effetto  immaginario)  che  i  nostri  scrittori,  usati  da 
prima  ad  imitare  i  modi  ed  il  giro  delle  frasi  della  lingua  latina, 
non  seppero  piu  scrivere  se  non  se  imitando  o  la  lingua  latina 
stessa  od  alcun  altro  idioma,  quasi  dipintori  privi  di  fuoco  ori 
ginale,  che  non  sanno  trarre  un  segno  senza  avere  davanti  una 
carta,  un  modello  od  un  gesso  per  guida.  N6  lascia  di  osservare 
in  appresso,  ascrivendo  ad  universal  difetto  della  nazione  ci6  che 
e  colpa  di  alcuni  soltanto,  che  al  presente  Pidioma  francese  si  e 
quello  il  genio  di  cui  ed  il  sapore  tentano  d'imitare  gli  Italiani, 
secondo  Tusato  loro  stile  di  appoggiarsi  sempre  ad  alcuna  lingua 
straniera. 

lo  ripiglier6  prima  di  tutto:  i  nostri  scrittori  piu  antichi,  piu 
riputati  e  classici,  e  chi  non  vede  che  quantunque  nudriti  de7  libri 
delPantichita,  hanno  tutti  un  carattere  loro  proprio  che  dai  latini 
li  distingue  ?  Non  parler6  dei  poeti  per  esser  la  cosa  troppo  mani- 
festa.  Veniamo  a1  prosatori,  ed  a  quelli  tra  essi  che  sono  piu  cono- 
sciuti  fuori  d'ltalia,  quai  sono  gli  storici.  Se  la  lingua  nostra  non 
avesse  un  carattere  originale,  come  sarebbe  possibile  che  avessimo 
storici  originali?  come  potremmo  in  questa  parte  superare  tutte 
le  nazioni  moderne  ?  Ne"  questi  sono  gia  vanti  e  pregiudici  nazionali ; 
che  anzi  vi  ha  taluno  tra*  nostri  letterati*  che  troppo  severamente 
ne  ha  recato  giudicio.  Qualunque  sieno  pertanto  i  difetti  di  cui 
possano  dessi  venir  tacciati,  il  Voltaire  confessa  in  piu  luoghi  non 

i.  Cours  deludes,  t.  xv,  p.  173  (G.  N.).  II  passo  a  cui  il  Napione  allude  e 
che  e  da  lui  riassunto  nelle  righe  che  seguono,  e  riportato  integralmente 
in  questo  volume,  alia  nota  4  di  p.  440.  2.  Bettinelli,  Pref.  al  Risorg. 
d'ltal.  (G.  N.).  Nell'Introduzione  al  Risorgimento  il  Bettinelli  rimprovera 
gli  storici  italiani  di  essere  stati  «piu  solleciti  dello  stile  e  de'  pensieri 
ingegnosi  che  della  comune  utilit&  e  della  buona  filosofia » ;  e  in  particolare 
elenca  i  seguenti  difetti:  1'aver  omesso  una  «esatta  cronologia»;  la  scar- 
sezza  di  precise  citazioni  di  documenti;  i  racconti  di  «prodigi»,  ad  imi- 
tazione  degli  storici  antichi;  Finserimento  di  rettorici  discorsi,  sempre  ad 
imitazione  degli  antichi;  la  parzialita  (cfr.  Opere,  ed.  cit,  in,  1780,  pp. 

XII-XVIIl). 


DELL'USO    E   DEI    PREGI   DELLA   LINGUA   ITALIANA         673 

aver  la  Francia  uno  storico,  qual  si  e  il  Guicciardini,  da  contrap- 
porre  all'Italia,  e  celebra  parimente  il  segretario  fiorentino,  nella 
pura  qualita  di  storico  considerandolo.  E  il  Bolingbroke,1  uomo  di 
lettere  e  di  maneggio,  e  die  conoscea  piu  che  mediocremente  la 
lingua  e  gli  scrittori  nostri,  non  ha  alcun  ribrezzo  di  collocare  il 
Guicciardini  succennato  sopra  Tucidide,  e  di  eguagliare  il  Davila 
a  T.  Livio;  che  anzi  per  combattere  quell'accusa  che  vien  data  a 
quest'ultimo  di  essere  troppo  sottile  e  fantastico  indagatore  dei 
secreti  istromenti  di  que'  gran  moti  che  ebbe  a  descrivere,  narra 
che  il  duca  di  Epernon,3  il  quale  tanta  parte  avuto  avea  nelle 
guerre  civili  di  Francia,  ancora  vivente  allorch6  usci  alia  luce  la 
storia  di  Davila,  non  solo  confermo  la  verita  delle  cose  ivi  rac- 
contate,  ma  facea  le  meraviglie  come  uno  straniero,  qual  egli  si 
era,  avesse  potuto  essere  appieno  informato  de'  consigli  piu  secreti 
e  delle  pratiche  e  negoziazioni  arcane  di  que'  tempi.  Osserva  al- 
trove3  lo  stesso  Milord  Bolingbroke  nulla  avervi  nella  storia  di 
piu  difficile  di  que'  ritratti  politici  in  generale,  che  presentano  1'a- 
spetto  dei  tempi  e  dej  paesi  diversi;  e  dopo  aver  accennato  che 
trovar  non  sapea  alcun' opera  di  tal  natura  presso  gli  antichi  ese- 
guita  a  dovere,  soggiunge  che  il  primo  libro  delle  Storie  fiorentine 
del  Macchiavelli  e  un  pregevolissimo  originale  in  questo  genere, 
e  che  alcun'opera  del  famoso  fra  Paolo4  in  questo  stesso  modo 
di  scrivere  e  forse  inimitabile.  La  contrada  dell'Europa,  dice  il 
signor  Blair,5  dove  il  genere  storico  abbia  fatto  maggior  pompa 
di  s6  negli  ultimi  secoli,  6  senza  dubbio  PItalia.  Tosto  dopo  il  rina- 
scimento  delle  lettere,  Macchiavelli,  Guicciardini,  Davila,  Benti- 
voglio,  fra  Paolo  si  distinsero  oltremodo  nella  storia.  Questi  tutti 
se  ne  formarono  le  idee  piu  giuste,  e  riuscirono  dilettevoli,  instrut- 
tivi  ed  interessanti  scrittori,  talche,  qualunque  sieno  i  difetti  loro, 
meritano,  ragguagliata  ogni  cosa,  di  venir  collocati  nel  primo  or- 
dine  degli  storici  moderni.  II  sign.  Gibbon  poi  ultimamente  af- 


i.  Bolingbroke's  Letters  on  study  of  Hist[ory,  pubblicate  postume  nel  1752], 
vol.  i,  p.  197  (G-  N.).  Henry  Bolingbroke  (1678-1751),  uomo  politico 
e  brillante  scrittore,  fu  uno  dei  piu  tipici  rappresentanti  del  deismo  in- 
glese  del  secolo  XVIII.  2.  Mori  il  duca  di  Epernon  nel  1642,  vecchio  di 
88  anni.  V[edi]  H6nault,  Abrege  de  Vhist\pire]  de  France  (G.  N.).  Jean- 
Louis  de  Nogaret,  duca  d'£pernon  (1554-1642),  fu  uno  dei  protagonist! 
delle  guerre  di  religione.  3.  Letters  on  study  of  History,  vol.  u,  p.  186 
(G.  N.)-  4.  Paolo:  Sarpi.  5.  Blair,  [Lectures]  on  Rhetoric  and  Bell.  Let., 
lect.  xxxvi,  Historical  Writings,  vol.  in,  p.  65  (G.  N.). 


43 


674  GIAN   FRANCESCO    GALEANI    NAPIONE 

ferm61  che  il  Guicciardini,  il  MacchiavelH,  fra  Paolo  ed  il  Davila 
erano  giustamente  riputati  i  primi  storici  delle  moderne  lingue  di 
Europa,  insino  a  tanto  che  in  questo  secolo  sorgesse  la  Scozia2  a 
contrastar  questa  gloria  all' Italia  medesima, 

Una  lingua  la  quale,  a  giudicio  degli  stranieri  medesimi  illu- 
minati,  pu6  vantare  scrittori  cosi  fatti,  io  non  so  con  qual  fronte 
potra  limitarsi  al  solo  uso  di  contraffare  gli  altri  idiomi,  quasi  a 
servile  e  buffonesca  condizione  condannata.  Egli  e  vero  che  il  Bet- 
tinelli  accusa  i  nostri  storici  di  aver  troppo  imitato  gli  scrittori 
dell'antichita,3  ma  io  son  certo  che  egli  con  questo  biasimo,  che 
credette  di  dover  dar  loro,  non  pretese  mai  di  negar  ad  essi  il  pre- 
gio,  ragguagliata  ogni  cosa,  di  essere  uomini  originali,  e  tanto 
meno  di  metterli  sotto  gli  storici  di  qualunque  altra  nazione  mo- 
derna.  Ragionavasi  una  volta,  tra  colti  ed  eruditi  soggetti,  degli 
storici  nostri,  e  venendosi,  per  quanto  mi  sowiene,  a  confrontarli 
co*  latini,  si  dovette  conchiudere  non  potersi  rawisare  tra  gli  uni 
e  gli  altri  se  non  rassomiglianze  generali,  e  queste  rassomiglianze 
risguardavano  la  qualita  delle  consimili  circostanze  estrinseche  de' 
tempi,  de'  luoghi,  delle  cariche  sostenute  e  de'  consimili  successi 
descritti,  piuttosto  che  una  intrinseca  conformita  ne'  concetti,  nel- 

10  stile  e  nel  sistema  delle  op  ere  loro ;  la  quale  difficolta  di  for  mare 
un  paralello  de'  nostri  cogli  antichi  vie  piu  dimostra  Toriginalita 
de'  primi. 

Non  niego  che,  se  a  giudicio  star  volessimo  di  alcuni  piu  del 
dover  affezionati  alia  latinita  vuota4  ed  a  ci6  che  alle  frasi  latine  ed 
alFonda  di  que'  periodi  si  confa,  tra'  classici  italiani  ammetterem- 
mo  scrittori  cosi  fatti  che  daremmo  peso  alia  prima  parte  dell' ac 
cusa  del  Condillac.  Ma  ognun  sa  che  il  Bembo  co'  suoi  seguaci, 

11  Casa  medesimo  nello  stile  didattico  ed  altri  scrittori  del  secolo 
XVI,  i  quali,  riguardando  la  lingua  nostra  come  morta,  racco- 

i.  Gibbon's  History  of  the  Ded\ine\  and  Fall  of  the  Roman  Empire,  chap. 
70,  not.  89  (G.  N.).  2.  sorgesse  la  Scozia:  allude  alle  opere  storiografiche 
dello  Hume  e  del  Robertson,  ambedue  scozzesi.  3.  il  Bettinelli  .  .  .  antichi- 
ta:  nelle  pagine  della  Introduzione  al  Risorgimento  d> Italia,  ricordate  nel- 
la  nota  zap.  672,  e  dove  in  particolare  si  afferma  (pp.  xn-xni)  che  «  siccome 
i  nostri  poeti  ed  oratori,  i  romanzieri  e  scrittori  di  novelle  sono  per  la  piu 
parte  copie  degli  antichi,  o  degli  imitatori  degli  antichi,  cosi  Io  furono  an- 
che  gli  storici  per  loro  e  nostra  disgrazia,  senza  awedersi  mai  che  prende- 
vano  dagli  antichi  la  sola  veste  e  il  colorito  per  dilettare  ed  esser  lodati;  tra- 
scurando  il  corpo  e  il  disegno  per  istruire  e  giovar  dilettando  ».  4.  latinita 
vuota :  la  lingua  la  tina  per  se  stessa. 


DELL'USO   E   DEI   PREGI   DELLA   LINGUA   ITALIANA         675 

gliean  frasi  da  quelli  del  Trecento,  ed  il  giro  del  periodo  imparava- 
no  da'  piu  pomposi  tra*  latlni,  non  sono  al  presente  riputati  assai 
ne  gran  fatto  studiati.  Che  piu?  II  Boccaccio  medesimo,  tuttoche" 
qualche  condiscendenza  usar  si  debba  al  primo  prosatore,  secondo 
Tordine  de'  tempi,  piu  regolato  e  gentile  della  lingua  nostra,  tut 
toche  inarrivabile  ei  sia  nella  imitazion  del  costume,  tuttoche  na- 
turale  ed  espressivo  in  quej  soggetti  delle  sue  novelle,  che  piu 
si  accostano  allo  stile  comico,  tutto  si  trasformi  nelle  cose  stesse 
ch'ei  narra,  con  tutto  questo,  a  cagione  appunto  di  quel  suo  sem- 
pre  pomposo  andamento  e  dell'affettata  dicitura,  non  ha  piu  quel 
si  gran  numero  di  adoratori  die  vantava  una  volta,  e  buona  parte 
vide  cader  a  terra  degli  altari  alzati  ad  onor  suo. 

Lo  stile  poi  adoperato  da*  moderni  Italian!  o  e  vizioso,  ristretto 
ad  alcuni  pochi  e  biasimato  dai  piu  savi,  ed  in  tal  caso,  sebben 
tolto  ed  imitato  dai  Francesi,  non  puo  recar  tal  danno  alia  lingua, 
da  farla  risguardar  come  tutta  generalmente  infetta  e  priva  di  ca- 
rattere  proprio:  o  e  uno  stile  naturale,  schietto,  elegante  ma  non 
affettato,  florido  ma  non  concettoso,  quello  stile  che  esprime  una 
nobile  e  disinvolta  conversazione,  instruttiva  e  dilettevoie ;  e  questo 
stile  non  pu6  esser  mai  imitato  da'  moderni  Francesi,  a*  quali, 
secondoche  osservo  lo  stesso  Voltaire,1  troppo  vanno  a  grado  il  dire 
sforzato,  1'epigrammatico,  il  sentenzioso  e  1'entusiastico.  Senzache 
questa  maniera  di  scrivere  schietta  e  naturale  ha  tra  noi  esemplari 
antichi  lodatissimi,  ed  anteriori  di  piu  secoli  a  quelli  del  regno  di 
Luigi  XIV.  Gli  scrittori  nostri  del  Mille  trecento  sono  tutti,  gene 
ralmente  parlando,  concisi,  se  ne  togliamo  ii  Boccaccio.  E  se  ri- 
fiutar  li  vogliamo  come  troppo  aridi,  digiuni  e  sparsi  di  voci  anti- 
quate,  abbiam  pure  il  Macchiavelli  sopraccitato,  lo  stile  di  cui  non 
ha  invecchiato  pressoche  punto  ne  poco,  il  Castiglione  nimico  di- 
chiarato  della  lingua  fiorentina  e  della  bocaccevole  dicitura;  il 
Bandello,  che,  scrivendo  novelle,  seppe  pigliar  nuova  strada,  che,  se 
non  &  migliore  di  quella  battuta  dai  Boccaccio,  alia  lingua  corrente 
a'  di  nostri  sicuramente  assai  piu  si  accosta.*  Tutti  questi  nacquero 
nel  1400  e  nel  principio  fiorirono  del  secolo  XVI;  e  di  un  tal  modo 

I,  secondoche .  .  .  Voltaire:  per  quanto  ho  potuto  vedere,  il  Voltaire  fa 
qualche  affermazione  in  tal  senso  solo  nella  voce  Esprit  del  Dictiormaire 
philosophique.  2.  il  Bandello  .  .  .  si  accosta:  questo  giudizio  sul  Bandello  si 
richiama  a  piu  ampie  considerazioni  in  proposito  contenute  ntWElogio  del 
Bandello  stesso,  citato  nella  Nota  introduttiva. 


676  GIAN   FRANCESCO    GALEANI    NAPIONE 

di  scrivere  si  piccarono  i  piu  rinomati  scrittori  di  quello  stesso 
secolo,  che  tuttora  vengono  riguardati  come  i  maestri  del  bel 
parlare.  II  sempre  gentile  e  colto  Annibal  Caro,  richiesto  dal  cele- 
bre  scrittore  delle  Vite  degli  artifici  del  disegno,  Giorgio  Vasari, 
a  spiegargli  il  parer  suo  intorno  allo  stile  di  cui  avea  stimato  do- 
versi  servire  nello  stenderle,  dopo  aver  lodata  Topera  di  lui,  come 
ben  si  meritava,  soggiunge  desiderar  soltanto  che  in  alcuni  luoghi 
si  levassero  via  certi  trasporti  di  parole  e  certi  verbi  posti  nel  fine, 
talvolta  per  eleganza,  che  nella  lingua  nostra  a  lui  generavano  fa- 
stidio.1  In  opere  simili,  ei  conchiude,  la  dettatura  vuol  essere 
appunto  come  il  parlare;  aver  piu  del  proprio  che  del  metaforico 

0  del  pellegrino,  e  del  corrente  piu  che  dell'affettato.  Ne  sola- 
mente  al  troppo  rumoroso  e  risonante  giro  de'  periodi  ed  ai  rimoti 
trasporti2  si  dimostra  contrario  il  Caro,  ove  si  tratti  di  opere  che, 
come  la  sopraccennata  del  Vasari,  sono  per  natura  loro  di  stile  me 
diocre;  ma,  quello  che  e  degno  di  maggior  considerazione,  non  sa 
neppure  appro var  tal  cosa  interamente  anche  nello  stile  oratorio. 
Di  fatti,  scrivendo  al  Salviati  e  ragionando  delPorazione  di  questo 
cruscante  in  lode  del  Varchi,  non  ha  alcun  ribrezzo  di  dirgli 
che  la  composizione  delle  parole,  per  bella,  artificiosa  e  figurata 
ch'ella  si  fosse,  gli  pareva  alle  volte  confusa:  ed  aggiunge  che  cre- 
deva  proceder  questo  dalla  lunghezza  de'  periodi,  per  esser  dessi 
di  piu  membri  che  non  bisogna  alia  chiarezza  del  dire,  il  che  fa 
confusione  e  si  lascia  indietro  gli  uditori.3  Finalmente  neirultimo 
scorso  secolo,  sebben  tanto  biasimato  da  chi  non  ne  conosce  che  gli 
ampollosi  scrittori,  il  Dati,  il  Magalotti,  il  Segneri,  il  Redi  erano 
gia  pervenuti,  secondo  che  osserva  il  nostro  abate  Denina,4  a  quel 
grado  di  precisione  e  di  costruzione  analitica,  di  cui  tanto  si  vantano 

1  Francesi,  e  prima  che  i  Francesi  medesimi  potessero  aspirarvi. 
Ecco  pertanto  che  lo  stile  chiaro,  preciso,  naturale  e  disinvolto  e 
tanto  antico  fra  noi  che  nessuna  moderna  nazione,  non  che  la  fran- 
cese,  puo  vantarsi  di  esserne  stata  maestra  alPItalia.  Ad  ogni  modo, 


1.  Caro,  Lettere  famil.,  vol.  i,   lett.  174,  p.  289,  Padova  1763   (G.  N.). 

2.  trasporti:  inversion!.     3.  Caro,  Lett[ere  familiari],  t.  n,  lett.  265,  p.  473 
(G.  N.).     4-  Lettr.  cntiq.  pour  servir  de  supplem.  au  Disc,  sur  la  question 
«Que  doit-on  a  l'Espagne?v>,  par  1'abbe  Denina,  Berlin  1788,  p.  14  (G.  N.). 
Nell' opera  citata,  cosi  come  nella  precedente  Reponse  a  la  question  «Que 
doit-on  a  VEspagne*  (1786),  il  Denina  difende  contro  le  accuse  degli 
enciclopedisti  la  cultura  cristiana  e  medioevale  della  Spagna. 


DELL*  USD   E   DEI   PREGI   DELLA   LINGUA    ITALIANA         677 

quello  che  evidentemente  dimostra  essere  la  lingua  italiana  do- 
tata  di  un  proprio  suo  e  special  carattere  originate,  si  e  che  ven- 
gono  meritamente  biasimati  anche  al  giorno  d'oggi,  sono  di  leggieri 
riconosciuti  per  corruttori,  e  non  sono  sicuramente  scrittori  di 
primo  ordine,  coloro  che  imitano  in  italiano  la  sintassi  e  la  ma- 
niera  di  fraseggiare  francese,1  e  trasportano,  senza  necessita  veruna, 
nel  nostro  idioma  le  voci  e  i  modi  di  dire  francesi.2 

Concederemo  al  Condillac  che  quelli  che  imitano  servilmente 
non  arrivino  giammai  ad  eguagliare  gli  autori  imitati.  Gli  uomini 
tutti,  come  awerti  assai  bene  il  solitario  meditativo  poeta  Young,3 
hanno  un  carattere  proprio,  che  si  travisa  e  si  perde  col  voler 
ciascheduno  diventar  altro,  per  via  d'imitazione,  da  quello  che 
naturalmente  si  e;  s'impiccioliscono  dessi  in  questa  guisa,  e  tutto 
quello  che,  abbandonato  aH'indole  spontanea,  riuscirebbe  grande, 


i.  V[edi]  Bettinelli,  Prefazione  alle  Opere  sue  (G.N.).  Allude  alia  polemi- 
ca  del  Bettinelli  contro  Pintrusione  del  francesismo  nella  lingua  italiana, 
che  e  uno  dei  motivi  fondamentali  del  discorso  Sopra  lo  studio  delle  belle 
letters,  e  sul  gusto  moderno  di  quelle,  premesso  alia  i  edizione  delle  Opere 
(1780),  e  in  particolare  ai  rimproveri  mossi  per  questa  ragione,  nelle 
ultime  pagine  del  medesimo  discorso,  ali'Elogio  del  Cavalieri  di  Paolo 
Frisi,  all'elogio  dello  Zanotti  di  uno  scrittore  che  non  nomina,  e  alia 
Storia  critica  de'  teatri  antichi  e  moderni  del  Napoli  Signorelli  (cfr.  Opere, 
ed.  at.,  i,  1780,  pp.  28-39).  2.  Non  pochi  italiani  resteranno  meravi- 
gliati  dal  mostrar  che  fa  1'abate  Cesarotti  di  risguardar  come  insepara- 
bili  in  Italia  il  genio  filosofico,  la  coltura  delle  scienze  ed  il  francesismo 
(Saggio  sopra  la  lingua  italiana,  [Vicenza  1788],  p.  157  e  p.  118).  A  me 
pare  che  il  francesismo  nulla  abbia  prodotto  che  il  francesismo,  vale  a  di 
re  una  ridicola  e  dannosa  imitazione  di  lingua  e  di  costumi  stranieri. 
Non  concede  egli  che  Firenze  merita  d'esser  chiamata  per  doppio  titolo 
1'Atene  d' Italia,  per  aver  propagata  tra  noi  e  difTusa  la  luce  della  filosofia, 
come  dianzi  avea  propagata  quella  delle  lettere?  I  nostri  politici,  i  nostri 
fUosofi,  i  nostri  uomini  grandi  in  ogni  maniera  di  scienze  non  seppero 
scrivere  senza  aiuto  di  libri  francesi  ?  Sarpi  non  iscrisse  prima  di  Bossuet, 
Galileo  prima  di  Cartesio?  L'Accademia  del  Cimento  non  fu  il  modello 
di  quella  delle  Scienze  di  Parigi?  La  Francia  non  cerco  Cassini  in  Italia? 
Quant  i  politici,  quanti  scrittori  di  guerra,  di  architettura,  d'ogni  facolta 
prima  del  predomimo  francese?  Qual  bisogno  adunque  di  libri  e  di  let- 
teratura  francese  tra  noi?  Qual  e  lo  scrittore  di  poesia  veramente  celebre 
che  abbia  affettato  il  francesismo  ?  Quale  aiuto  trasse  lo  stesso  signor  abate 
Cesarotti  dal  francesismo  per  tradurre  1'antico  poeta  celtico,  traduzione 
che  il  rese  celebre  in  Italia?  (G.  N.).  A  queste  osservazioni  il  Cesarotti 
rispose  nel  secondo  dei  Rischiaramenti  in  appendice  al  suo  Saggio,  e  ripor- 
tato  anche  in  questo  volume  a  pp.  447-56.  3.  Young,  La  comp[osizione] 
orig[inale],  (G.  N.).  Le  Conjectures  on  original  Composition  (1759)  di  Edward 
Young  sono  una  delle  prime  esplicite  difese  della  individualita  e  delTo- 
riginalita  della  creazione  poetica. 


678  GIAN  FRANCESCO   GALEANI   NAPIONE 

tanto  nella  letteratura  come  nelle  diverse  profession!  della  vita,  me- 
schino  ed  abbietto  per  via  delParte  diventa.  Ma  che  perci6?  L'ac- 
cusa  va  a  ferire  direttamente  i  francesi  scrittori,  gritaliani  non  mai. 
Se  gli  scrittori  francesi  non  imitano  quelli  di  alcun'altra  nazione, 
non  ne  segue  gia  da  questo  per  necessaria  conseguenza  che  non 
imitino  in  nessun  modo.  Concedendo  1'abate  di  Condillac  aver 
dessi  tutti  un  carattere  loro  proprio,  uno  stesso  colore  uniforme, 
anzi  per  questo  appunto  celebrandoli,  non  e  forse  costretto  a  con- 
fessare  che  tutti  s'imitano  vicendevolmente,  e  quasi  senz'aweder- 
sene  ?  Ora  non  e  forse  miglior  partito  (quando  pure  imitar  si  debba) 
che  ciascheduno  a  seconda  delFindole  sua,  del  genio  e  del  soggetto 
di  cui  intende  trattare,  si  rivolga  ad  esemplari  diversi,  piuttosto 
che  copiarsi  Tun  1'altro  nella  guisa  succennata?  Essendo  libera 
la  scelta,  ed  ampio  il  tesoro  da  cui  scegliere,  vale  a  dire  lingue 
ed  autori  d'ogni  contrada  e  d'ogni  secolo,  ciascheduno  imitatore 
perdera  meno  di  quel  carattere  originale  che  annida  in  lui,  e  che, 
a  giudicio  di  Young,  viene  dalla  educazione,  sia  letteraria  che  do- 
mestica,  soffocato  ed  oppresso. 

Inoltre,  se  si  dice  aver  un  carattere  suo  proprio  una  lingua, 
la  quale  fa  buona  prova  in  pochi  generi  di  stile,  in  ciascun  de' 
quali  domina  una  certa  uniformita,  che,  se  mal  non  m'awiso,  si 
e  il  caso  della  lingua  francese,  e  perche  mai  Fattitudine  di  poter 
riuscire  in  tutti  non  formera  il  carattere  speciale  di  un  altro  idio- 
ma?  tanto  piu  che,  tra  le  lingue  viventi,  appartenendo  per  awen- 
tura  questa  qualita  alia  sola  lingua  italiana,  giunto  alFessere  la  piu 
armoniosa  ed  espressiva,  il  pregio  di  lei  ed  il  carattere  principale 
e  dominante  ne  costituisce?  Lo  sbaglio  del  dotto  istitutore  del 
principe  di  Parma1  in  ci6  consiste,  che  non  fece  differenza  da  lin 
gua  a  stile.  Se  avesse  egli  affermato  la  lingua  francese  non  avere 
se  non  se  pressoche  uno  stile,  Titaliana  averli  tutti,  come  di  fatti 
la  cosa  sta,  non  avrebbe  sicuramente  con  una  si  fatta  asserzione 
dato  il  biasimo  alia  lingua  nostra  di  non  aver  carattere  proprio; 
ma  disse:  la  lingua  francese  non  imita  alcuna  altra  lingua;  Tita- 
liana  le  contraffa  tutte;  ed  il  contraffare  supponendo  ognora 
un  originale  od  un  modello,  molto  al  di  sotto  del  quale  restar  si 
dee  di  necessita,  venne  a  dare  una  taccia  non  picciola  al  linguaggio 
italiano.  E  questa  accusa  essendo  uscita  dalla  penna  di  un  uomo 

T.  dotto  ...  Parma:  il  Condillac. 


DELL'USO    E   DEI   PREGI   DELLA  LINGUA   ITALIANA         679 

istruito  assai,  e  che,  attesa  la  lunga  dimora  fatta  in  Italia,  avrebbe 
dovuto  conoscerne  Pidioma,  tenderebbe  a  deprimerlo  ed  awilirlo 
nel  concetto  degli  stranieri  troppo  ingiustamente,  se  non  si  fosse  ri- 
putato  egli  stesso  tenuto  a  soggiungere  che  arrischiato  per  awentu- 
ra  potea  essere  il  giudicio  suo  in  questo  particolare,  ondech6  ne 
lasciava  ad  altri  la  risoluzion  decisiva.  Siccome  quell*  istromento 
musicale  che  puo  adattarsi  a  tutti  i  tuoni,  e  assai  piu  perfetto  di 
quelli  i  quali  di  un  solo  o  di  pochi  son  capaci,  cosi  senza  contro- 
versia  riguardar  si  dee  per  maggiormente  perfetta  quella  lingua 
che  ad  ogni  stile  si  piega,  in  confronto  di  altri  idiomi  che  in  trop 
po  piu  angusto  giro  si  ritrovan  ristretti. 


LIBRO  in  •  CAPO  ii 
[Introduzione.]1 

Per  rendere  comune  e  popolare  la  lingua  colta  d*  Italia  non 
basterebbe  che  gli  scienziati  d'ogni  maniera  1'adoperassero  in  tutte 
le  opere  loro  da  cui  sperano  maggior  celebrita;  sarebbe  d'uopo 
eziandio  che  in  ogni  genere  di  scritti  si  pigliasse  una  cert'aria 
disinvolta  e  signorile;  lontana  del  pari  dalla  pedanteria,  dalla  seve- 
rita  austera,  dalla  astrusita,  che  dalla  frivolita  e  dalla  inesattezza  su- 
perficiale ;  una  certa  nobile  sprezzatura,  che  non  sentisse  la  ruggine 
de*  collegi  e  lo  stento  e  Timbarazzo  di  chi  da  studi  malinconici 
e  solitari  e  da  un  soggiorno  tenebroso  trovasi  trasportato  in  un 
tratto  in  mezzo  di  un'adunanza  di  persone  awezze  alia  pratica 
del  mondo,  spiritose  e  brillanti;  si  congiungesse,  in  somma,  al 
genio  originale,  alia  sensibilita,  alia  dottrina  ed  alia  maesta  ed  esat- 
tezza  italiana,  Turbanita,  il  brio  e  la  disinvoltura  francese.  II  mar- 
chese  Maffei,  il  conte  Algarotti,  il  consiglier  Bianconi2  ed  altri 
uomini  grandi  viventi,  per  non  parlare  del  Magalotti  e  di  altri  genti- 
luomini  della  corte  di  Toscana  de'  tempi  suoi,  gia  ci  hanno  fatto 
vedere  questo  fortunato  innesto;  e  non  e  da  dire  che  per  essere  e 
per  comparir  dotto  convenga  far  professione  di  esser  pesante,  ispi- 
do  e  sgarbato. 

i.  Dal  trattato  Dell'uso  e  dei  pregi  della  lingua  italiana,  ed.  cit.,  n,  pp. 
41-2.  2.  Giovanni  Ludovico  Bianconi  (1717-1781),  autore  di  prose  di 
argomento  scientifico  e  archeologico  e  di  vivaci  ed  acute  Lettere  sulla 
Baviera  e  altre  regioni  della  Gennania. 


680  GIAN   FRANCESCO    GALEANI   NAPIONE 


§  i.  Coltura  ed  eleganza  necessaria  a  tutti;  necessitd  di  arricchir 
la  lingua  di  opere  elementari  e  di  letter atur a  galante.1 

Non  e  soltanto  il  dilicato  nostro  secolo  che  esiga  dagli  scrittori 
di  congiunger  la  gentilezza  al  sapere;  non  sono  soli  gli  svogliati 
leggitori  dei  giorni  nostri  che  vogliano  essere  instruiti  per  via  del 
diletto.  In  ogni  eta,  in  ogni  contrada,  ed  in  Italia  singolarmente 
dopo  il  risorgimento  delle  lettere,  gli  uomini  veramente  grandi 
sagrificarono  alle  Grazie.  Talvolta  furono  innalzati  altari  al  gusto 
corrotto,  ma  il  vero  sapere  non  va  mai  disgiunto  da  un  sano  sa- 
pore  nella  letteratura  e  nelle  bell'arti.  Se  vi  furono  uomini  grandi, 
ingegni  straordinari  alieni  dalle  Muse,  ci6  segui  in  secoli  tenebrosi, 
quando  accendere  non  si  potea,  colpa  le  estrinseche  circostanze, 
quella  scintilla  di  fuoco  celeste,  che  tenean  dessi  per  avventura, 
senza  saperlo,  nella  piu  intima  parte  del  cuore  ristretta.  Tra'  prin- 
cipi  occupati  in  grandi  imprese  Cesare,  Federico,  Eugenio  di  Sa- 
voia,  tra  gli  spiriti  immersi  in  scienze  astratte  ed  in  meditazioni 
astruse  e  difEcili  Aristotile  e  Galilei,  per  citar  soltanto  i  piu  gran 
nomi,  tutti  unirono  la  coltura  e  Teleganza  alia  penetrazione,  alia 
attivita,  al  coraggio. 

Ne  dovrebbero  i  letterati  della  nazion  nostra  contentarsi  di  ab- 
bellire  con  appropriati  ornamenti  le  opere  originali  e  profonde,  e  di 
fornir  la  mente  di  belle  cognizioni  risguardanti  la  poesia,  il  dise- 
gno,  1'elegante  antichita  e  Tamena  erudizione.  Sarebbe  deside- 
rabile  che  alcuni  tra  essi  a  quella  specie  di  letteratura  si  volges- 
sero,  a  cui  e  debitrice  la  nazion  francese  di  quasi  tutta  la  sua  cele- 
brita.  Dopo  il  secolo  XVI  pare  che  Tltalia  abbia  alquanto  trascu- 
rata  questa  parte  del  saper  gentile  e  galante.  Pochi  de'  nostri  scien- 
ziati  si  curarono  di  avere  per  ascoltatrici  e  discepole  le  gentildonne, 
e  quand'anche  alcuna  volta  a  tal  cosa  si  ridussero,  il  fecero  con 
tanta  pompa  e  con  tanta  dottrina,  che,  ben  lungi  d'invogliar  dello 
studio  il  gentil  sesso,  contribuirono  non  poco  a  fare  che  il  sapere 
tenessero  in  concetto  di  inaccessibile  per  esse.  II  sempre  pomposo 
ed  erudito  Gravina,  avendo  preso  a  stendere  un  Regolamento  degli 
studi  di  nobile  donna,2  pare  che  da  capo  a  piedi  armare  intenda  le 

1.  Dal  trattato  DelVuso  e  deipregi  della  lingua  italiana,  ed.  cit.,  n,  pp.  42-5. 

2.  Regolamento  degli  studi  di  nobile  donna,  alia  principessa  di  Santa  Croce, 
Opere  italiane,  pag.  248  (G.  N.). 


DELL'USO   E   DEI    PREGI   DELLA   LINGUA   ITALIANA         68l 

eroine,  le  Marfise  e  le  Clorinde  della  letteratura,  piuttosto  che  le 
dame  dilicate  de'  giorni  nostri,  di  tal  peso  sono  le  armi  che  loro 
propone.  I  libri  di  Cicerone  Degli  uffici,  Forazione  d'Isocrate  a 
Demonico,  Tucidide,  Erodoto,  Sallustio,  Tacito,  non  che  il  Guic- 
ciardini  ed  il  Davila;  ed  Omero  e  Virgilio  e  Dante,  non  che  FA- 
riosto  ed  il  Tasso,  sono  i  libri  che  quelPuomo  imperturbabile, 
e  soverchiamente  dotto,  non  teme  di  metter  tra  le  mani  delle 
gentildonne,  quasi  fossero  libriccini  di  toeletta  e  di  trattenimento 
sollazzevole.  Per  vero  dire,  non  credo  che  di  cotesti  autori  for 
mate  sieno  le  biblioteche  delle  signore  francesi,  ed  anche  di  molti 
uomini  di  quella  nazione,  che  son  pure  stimati  colti  e  addottrinati. 
Lo  stomaco  della  gente  leggiadra  a'  di  nostri  non  e  piii  appropriato 
a  quella  carne  bovina,  a  quel  cibo  da  eroi.  Che  ne  venne  da  questo  ? 
Pochissimi  sono  in  grado  di  fare  studi  cosi  severi  e  fondati  nella 
letteratura;  si  lasciarono  percio  da  parte  dai  piu  i  libri  delFantichita 
ed  i  gravi  nostri  scrittori  medesimi  italiani,  e  si  rivolsero  ai  libri 
ed  alle  traduzioni  francesi.  E  perch6  non  potremmo  noi  arricchir 
la  letteratura  nostra  di  tutte  quelle  specie  di  opere  che  ci  vengono 
d'oltremonti,  dalle  quali,  tanto  originali  come  tradotte,  vien  con- 
tinuamente  corrotta  la  lingua,  ed  il  carattere  nazionale  travisato 
e  guasto  ?  E  perch6  non  potremmo  noi  pure  aver  libri  elementari, 
storie,  compilazioni  non  troppo  dotte  ne  pedantesche,  miscella- 
nee,  romanzetti  instruttivi,  lettere,  viaggi,  e  vadasi  dicendo  mille 
maniere  diverse  di  opere  di  amena  e  galante  letteratura,  proprie  ad 
ingentilire  gli  spiriti,  dirozzar  i  costumi,  ammaestrare  eziandio, 
od  almeno  prestar  materia  d'innocente  diletto? 

§  2.  Dialetti  italiani  e  lingua  universale  tratta  da  essi.1 

Certa  cosa  e  che  ad  una  si  fatta  impresa  si  oppone  il  sistema 
di  alcuni  toscani  ed  anche  non  toscani,  di  restringere  Fuso  ed  il 
dritto  di  dettar  le  leggi  e  di  mantener  in  vita  la  lingua  nostra  alia 
sola  Toscana,  per  questa  ragione  lingua  toscana  e  non  italiana  chia- 
mandola;  per  modo  che  siccome  la  solamente  pura  si  park,  cosi  a* 
soli  scrittori  che  in  quella  scuola  impararono  Farte  del  conversare, 
sia  dato  di  poterne  rappresentare  un'immagine  nelle  opere  loro. 
Ma  checche  sia  della  opinione  di  alcuni  vecchi  cruscanti  riformati, 

i.  Dal  trattato  DelVuso  e  dei  pregi  della  lingua  italiana,  ed.  cit.,  n,  pp. 
45-50- 


682  GIAN   FRANCESCO    GALEANI   NAPIONE 

maestri  di  collegio,  reliquie  ancora  delPantica  milizia,  nutrita  nelle 
civili  guerre  gramaticali  che  in  principio  del  corrente  secolo  insor- 
sero,  i  piu  chiari  letterati  de'  giorni  nostri,  quelli  per  cui  la  lingua 
italiana  e  viva  tuttora  e  spira;  quelli,  le  opere  de*  quali  passano 
le  Alpi  e  caratterizzano  la  nostra  nazione,  sono  oggimai  tutti  di 
awiso  che  ogni  particolar  dialetto  italiano  abbia  diritto  di  sommi- 
nistrar  voci  alia  lingua  colta  e  comune,  purche  intese  o  facili  ad 
intendersi  in  tutta  Italia;  che  anche  i  Toscani  hanno  d'uopo  di 
regola  e  di  gramatica,  non  essendo  lingua  vivente  che  non  ne 
abbisogni;  e  che,  all'ultimo,  gli  scrittori  toscani  pretti  e  che  fanno 
uso  soverchio  di  toscanesimi,  di  idiotismi,  di  riboboli,  non  sono 
al  piu  che  autori  del  miglior  dialetto  d'ltalia,  ma  non  gia  autori 
italiani.  Perci6  1'abate  Bettinelli  stabilisce  come  massima  fondamen- 
tale  che  non  solo  dai  dialetti  toscani  sceglier  si  dee  ci6  che  si  confa 
alia  lingua  italiana,  ma  che  inoltre  questa  scelta  pu6  estendersi  agli 
altri  dialetti  italiani,  che  hanno  pur  essi  i  loro  diritti,  le  loro  grazie 
e  ricchezze,  ove  con  occhio  critico  vengano  considerati.1  Cosi  usa- 
rono  di  fare  i  primi  padri  della  lingua  nel  Mille  trecento:  e  quante 
non  sono  le  voci  lombarde,  a  cagion  d'esempio,  espressive,  gentili, 
evidenti,  bench6  men  felicemente  pronunciate?  L'origine  di  esse  e 
molte  fiate  nobilissima.  Le  voci  latine  sono  sparse  a  piena  mano  in 
tutti  i  dialetti  d'ltalia,  come  a  tutti  e  palese;  molte  ne  lasciarono  i 
Greci  a  Venezia2  col  gran  commercio  che  vi  ebbero :  cosl  in  Sicilia, 
in  Puglia,  in  Calabria.  L'araba  lingua,  si  illustre,  molte  ne  Iasci6 
singolarmente  in  Sardegna,  in  Corsica,  in  Malta.  E  la  celtica,  si 
antica  e  diffusa,  £  forse  spenta  da  per  tutto  ?  E  le  reliquie  dell'idio- 
ma  degli  Etruschi,  cioe  de'  piu  possenti  e  celebrati  popoli  italici 


i.  ly abate  ...  considerati:  il  Bettinelli  dice  esattamente:  «Convien  dun- 
que  dai  dialetti  toscani  scegliere  esaminando  ci6  che  sta  bene  airindole 
della  lingua  italiana,  e  questa  scelta  pu6  stendersi  ancora  agli  altri  dia 
letti  italiani,  che  hanno  anch'essi  lor  dritti,  lor  grazie  e  ricchezze,  ove 
con  critico  awedimento  siano  considerati »  (cfr.  Risorgimento  d'ltalia,  in 
Opere,  ed.  cit.,  iv,  1781,  p.  33).  2.  «I1  dialetto  veneziano  e  ricchissimo 
di  voci  tutte  sue  proprie,  ed  &  quello  che  ha  piu  di  grazia  e  di  vezzo  fra 
quanti  se  ne  parlano  corrottamente  in  Italia.  Moltissime  di  queste  nostre 
voci  deriyano  a  dirittura  dai  greco,  daU'illirico  e  dall'arabico  e  da  altre 
lingue  orientali ;  il  che  provenne  dai  lungo  e  continuato  commerzio  che 
ebbero  i  nostri  con  quelle  nazioni.  Chi  si  mettesse  a  formare  espressa- 
mente  un  Vocdbolario  veneziano,  ne  farebbe  conoscere  Tanalogia  e  la  ric- 
chezza»,  Zeno,  note  al  Fontan[ini,  Biblioteca  delV  eloquenza  italiana,  ed. 
cit.],  torn.  I,  p.  72  (G.  N.). 


DELL'USO   E   DEI   PREGI   BELLA  LINGUA   ITALIANA         683 

prima  che  Roma  dominasse,  il  cui  impero  sino  alle  Alpi  si  esten- 
deva,  e  forse  da  credere  che  siensi  tutte  in  Toscana  riconcentrate  ? 
Inoltre,  parlandosi  i  dialetti  popolari  in  Italia  dalle  persone  gentili, 
nobili  e  dotte  e  ingegnose,  ne  segue  che  non  solo  dall'uso  continue 
acquistano  Pattitudine  di  esprimere  ogni  concetto,  ma  si  arric- 
chiscono  giornalmente  di  voci  e  modi  di  dire  pregevolissimi  e 
giungono  ad  una  perfezione  infinitamente  maggiore  di  quella  che 
ricever  possono  in  quelle  contrade  dove  vengono  unicamente  ado- 
perati  dal  popolo,  eziandio  il  piu  rozzo.  E  che  diremo  dei  dialetti 
d'  Italia,  dacche  persino  col  genovese  e  col  milanese  si  pote  giun- 
gere  a  tradurre  il  Tasso,  ed  in  versi  piemontesi  si  dettarono  ottimi 
sonetti  petrarcheschi  e  si  tent6  una  traduzione  di  Lucrezio  ?  Al- 
tronde  poi  i  dialetti,  a  guisa  delle  piante  e  degli  animali  lasciati 
in  balia  della  natura,  hanno  sempre  una  certa  maschia  energia  e 
vigorosa  mossa,  di  cui  mancano  alcune  volte  le  Imgue  troppo  li- 
mate  e  troppo  culte  dall'arte. 

Ora,  ci6  posto,  cotesti  vocaboli  e  modi  di  dire,  quando  intesi 
sieno  da  tutta  Italia,  quando  sieno  espressivi,  armoniosi  e  calzanti, 
e  perche  non  saranno  ammessi  nel  comune  erario  della  lingua  ita- 
liana?  Chiama  perci6  il  prelodato  Bettinelli  ottimo  consiglio  quel- 
lo  che  in  ciascuna  provincia  e  dialetto  si  formasse  un  proprio  vo- 
cabolario:  e  che  da  questi  particolari  scegliendosi  Tottimo,  si  ve- 
nisse  a  comporre  un  dizionario  universale  a  giudizio  di  tutta  la 
nazione,  che  si  potrebbe  allora  finalmente  vantare  di  avere  un  vero 
tesoro  di  lingua.1  Se  questo  possa  sperarsi  da  un'accademia  di 
gramatici  filosofi  spregiudicati  ed  intelligent!,  protetti  ed  aiutati 
da'  principi  italiani,  nol  saprei  dire.  Ad  ogni  modo,  si  e  per6  quello 
che  fecero  ognora  nel  loro  particolare,  leggendo  e  conversando  e 
viaggiando  eziandio  per  tutta  Italia,  gli  scrittori  tutti  di  maggior 
grido.  II  chiarissimo  nostro  abate  Denina,  dopo  aver  notato  che 
in  tutta  Italia  un  solo  si  e  Timpasto  ed  il  fondo  della  lingua,  e  dopo 


i.  Risorg.  d*  Italia,  torn,  n,  capo  i,  Lingua  [in  Opere,  ed.  cit.,  iv,  1781],  p. 
32  e  seg.  (G.  N.).  II  Bettinelli  dice  esattamente:  « Ottimo  certo  sarebbe  il 
pensiero  di  farsi  in  ciascun  dialetto  e  provincia  un  proprio  vocabolario, 
giacch6  si  saporite  e  si  grate  son  pure  le  poesie  gia  pubblicate  in  milanese, 
bergamasco,  genovese,  veneziano,  bolognese,  napoletano  ed  in  altri,  nelle 
quali  impiegarono  le  lor  penne  chiarissimi  ingegni.  Allor  da  questi  par 
ticolari  scegliendosi  1'ottima  parte  verrebbe  a  comporsi  un  dizionario 
universale  a  giudizio  di  tutta  la  nazione  provato,  e  s'avrebbe  allor  final 
mente  un  vero  tesoro  di  lingua ». 


684  GIAN   FRANCESCO    GALEANI    NAPIONE 

aver  biasimato  giustamente  chi  vorrebbe  fame  lingua  municipale, 
osserva  ottimamente  che  non  solo  le  scritture  nobili  e  dottrinali, 
le  storie,  le  opere  scientifiche  di  maggior  grido,  dettate  in  lingua 
italiana,  portano  Pimpronta  di  questa  lingua  italiana  universale, 
ma  che  il  Berni  ed  il  Mauro,1  tuttoche  padri  e  maestri  di  quello  stile 
piacevole  che  si  crede  proprio  soltanto  di  chi  abbia  bevuto  delle 
acque  di  Arno,  nacquero  in  Toscana  1'uno,  nel  Friuli  Taltro,  e 
fecero  uso  entrambi  di  una  lingua  comune,  intesa  in  tutta  Italia. 
Che  anzi  il  Berni,  che  dimor6  lungamente  in  Roma  ed  anche  in 
Lombardia,  ed  in  Verona  col  famoso  datario  Ghiberti,  venne 
celebrate  da  un  altro  toscano,  voglio  dire  dal  Lasca,  perch.6 

non  offende  gli  orecchi  delta  gente 
colle  lasdvie  del  parlor  toscano. 2 

E  per  mordere  cotesta  generazione  di  gramatici  e  di  piccioli  inge- 
gni,  di  soverchio  affezzionati  airidioma  che  si  parla  sulle  sponde 
delPArno,  il  Berni  medesimo  loda  facetamente  Aristotile,  perch6 

dice  le  cose  sue  semplicemente, 
e  non  affetta  il  favellar  toscano.3 

Riflette  inoltre  il  mentovato  abate  Denina,  che  moltissime  voci 
credute  dai  piu  tra  noi  unicamente  piernontesi  o  lombarde,  sono 
di  buona  lega,  e  gia  usate  da  approvati  autori  e  da  scrittori  toscani 
eziandio;  cosa  che  sempre  piu  Faffinit^  dimostra  che  passa  tra  tutti 
i  dialetti  italici,  anche  i  piu  rimoti  dal  ceppo  comune  della  lingua 
colta  e  regolare.  E  qui  si  vuole  awertir  un  difetto  in  cui  cadono  al- 
cuni  nostri  nazionali,  che  di  due  voci,  che  abbiano  lo  stesso  signifi- 
cato,  tengono  per  italiana  quella  soltanto  che  e.  piu  dal  nostro  dia- 
letto  diversa;  quandoche  ogni  qual  volta  che  non  si  tratti  di  due 
voci,  nobile  Tuna,  bassa  e  plebea  Paltra,  certa  cosa  e  doversi  sem 
pre  preferire,  come  piu  italiana,  quella  che  e  comune  al  dialetto 
toscano  e  ad  alcun  altro  dialetto  italiano,  a  quella  ch'e  meramente 
toscana. 

Dovrebbono  adunque  i  Toscani  ed  i  partigiani  del  caduto  impero 

i.Bibhopea,  [Torino  1776],  p.  80  (G.N.).  Giovanni  Mauro  (1490-1536), 
amico  e  imitatore  del  Berni.  2.  Questi  due  versi  del  Lasca  sono  citati 
anche  dal  Cesarotti  nel  Saggio  sulla  filosofia  delle  lingue  (cfr.  in  questo 
volume  p.  358  e  la  nota  5.)  3.  Capitolo  In  lode  di  Aristotele,  65-6. 


DELL'USO    E   DEI   PREGI   DELLA   LINGUA   ITALIANA         685 

della  Crusca  diportarsi  col  rimanente  de'  popoli  italiani  nelle  cose 
della  lingua  colle  stesse  massime  colle  quali,  per  rispetto  alle  cose 
politiche,  si  governarono  i  Romani  verso  le  antiche  nazioni  itali- 
che :  unirsi  tutti  e  cospirare  e  concorrere  unanimemente  a  parlare, 
ad  apprezzare,  a  coltivare  e  ad  avere  in  conto  di  propria  una  sola 
lingua,  e  non  gia  far  torto  alia  comune  patria  per  gara  di  primato, 
per  voler  trar  vanto  da  ci6  che  non  gia  una  lingua,  ma  il  primo, 
il  piu  elegante  ed  il  piu  purgato  dialetto  soltanto  costituisce.  E  la 
gente  colta  e  letterata  delle  altre  provincie  dovrebbe,  conversando 
con  civili  e  addottrinate  persone,  abbandonar  del  tutto  il  popolare 
rozzo  dialetto  natio,  e  servirsi  della  lingua  medesima  adoperata 
nelle  scritture,  nelle  istruzioni,  nei  dispacci,  avanti  a'  magistrati, 
nei  tribunali  e  sui  pulpiti.  Converrebbe  che  in  tutta  Italia,  come 
appunto  si  fa  in  tutta  Francia,  da'  Pirenei  e  dalle  Alpi  sino  all'Ocea- 
no  ed  alle  Fiandre,  in  ogni  civil  brigata  la  lingua  colta  si  parlasse, 
qualunque  sia  il  dialetto  popolare.  Allora  troppo  facile  riuscirebbe 
il  dialogizzare  in  lingua  purgata,  nei  che  tanta  difficolta  incontrasi 
da'  non  Toscani  al  presente;  maggiori  e  nuovi  pregi  acquistereb- 
be  la  lingua;  piu  agevole  diverrebbe  lo  spiegarsi,  il  pensare  (oserei 
dire);  piu  comune  la  scienza,  piu  celebri  gli  scienziati;1  e  non  po- 
tremmo  piu  lagnarci  che  mancasse  alia  massima  parte  d'ltalia  un 
modello  vivente  per  rappresentar  nelle  opere  d'ingegno  una  con 
versazione  nobile,  signorile,  disinvolta. 

La  precisione  che  manca,  secondo  certuni,  alia  lingua  italiana 
non  e  sicuramente  nello  stile  poetico,  pomposo  ed  oratorio,  e  nep- 
pure  nelPistruttivo  e  dottrinale;  si  e  nello  stile  tenue  soltanto.  La 
ragione  n'e  manifesta.  Non  si  conversa  in  istile  sublime  ne  scien- 
tifico.  £  questa  una  lingua  che  viene  parlata,  o,  per  dir  meglio, 

i.  V[edi]  Algarotti,  Dedica  dei  Dialoghi  sopra  Vottica  neutoniana  al  re  di 
Prussia  (G.  N.)-  Allude  al  noto  passo  in  cui  TAlgarotti  deplora  la  scarsa  ca- 
pacita  della  lingua  letteraria  italiana  «pour  ce  genre  d'ouvrages  qui  doivent 
rendre  1'air  et  le  tour  de  la  conversation  familiere»,  poiche,  egli  afferma, 
«notre  langue  n'est,  pour  ainsi  dire,  ni  vivante  ni  rnorte.  Nous  avons 
des  auteurs  d'un  siecle  fort  recule  que  nous  regardons  comme  classiques; 
mais  ces  auteurs  sont  parsem6s  de  tours  afTectes  et  de  mots  hors  d'usage. 
Nous  avons  un  pai's  ou  la  langue  est  plus  pure  que  dans  aucune  autre 
contree  de  1*  Italic;  mais  ce  pais  ne  sauroit  dormer  le  ton  aux  autres  qui 
pretendent  Tegalite  et  meme  la  superiorite  a  bien  des  egards.  Sans  capitale 
et  sans  cour  il  nous  faut  £crire  une  langue  presqu'ideale,  craignant  toujours 
de  choquer  ou  les  gens  du  monde  ou  les  savans  des  academies;  et  dans 
cette  caimere  on  n'a  pour  guide  que  le  gout,  dont  il  est  si  difficile  de  fixer 
les  loix»  (cfr.  Opere,  n,  Venezia,  Palese,  1791,  pp.  5-6). 


686  GIAN   FRANCESCO    GALEANI   NAPIONE 

scritta  in  ciascima  delle  provincie  italiane  da  pochi  personaggi  ad- 
dottrinati.  Questi  concordano  presto  cogli  altri  delle  altre  contrade 
italiche,  rispetto  alia  sceltezza,  al  valore,  al  significato  delle  voci 
che  adoperar  debbono.  Ma  ove  si  tratti  di  lingua  che  abbia  a  rap- 
presentare  il  conversar  Hbero  e  sciolto,  si  corre  rischio  di  scrivere 
lombardo,  infrancesato,  affettato  toscano,  pedantesco  antico,  e  qui 
sorgono  le  dubbieta  in  gran  numero,  difficolta  che  tutte  si  toglie- 
rebborxo  con  far  uso  favellando  della  buona  lingua  italiana  rego- 
lare  e  purgata. 


DAL  «DISCORSO  INTORNO  ALLA  STORIA 
DEL  PIEMONTE» 

§  ix.  Opposizioni  contro  al  disegno  di  una  storia  del  Piemonte. 

Ma  il  piu  grande  ostacolo  peraltro,  Pimpedimento  insuperabile  nel 
promuovere  gli  studi  della  storia  nostra,  non  e  che  manchino  si- 
nora  scrittori  degni  di  esser  letti,  ma,  quello  ch'e  piu,  si  &  che, 
a  giudicio  di  dotte  ed  ingegnose  persone  fra*  Piemontesi  medesimi, 
manca  soggetto  e  materia  per  la  storia.1  Se  dobbiamo  dar  retta  a 
quelli  tra'  nostri  scienziati  che,  lontani  dalla  polvere  critica,  vol- 
gendo  lo  sguardo  alia  storia  delle  grandi  nazioni  di  Europa,  e  ri- 
mirando  lo  spettacolo  magnifico  che  presentano  pei  gran  successi, 
per  la  gloria  delle  armi,  per  Pesteso  commercio  ed  i  lumi  delle  dot- 
trine,  giudicar  intendono  delle  cose  scevri  di  prevenzione,  scorn- 
pare  affatto  e  si  dilegua  airocchio  loro  filosofico  quella  che  alcuni 
buoni  cittadini,  piu  commendabili  per  buon  volere  che  per  lo 
buono  discernimento  e  per  ampiezza  di  mente,  credono  esistere 
nazion  piemontese.  Pieni  di  queste  idee  grandi,  non  altrimenti  che 
Scipione  Affricano,  dal  cielo  riguardando  la  terra2  fanno  le  mera- 

Come  dichiara  il  Napione  stesso  nella  dedica  del  suo  trattato  DelVuso  e 
dei  pregi  della  lingua  italiana  al  conte  Felice  Durando  di  Villa,  il  Discorso 
intorno  alia  storia  del  Piemonte  fu  opera  « breve  e  di  pochi  giorni»,  da 
lui  intrapresa  e  compiuta  poco  tempo  prima  che  si  accingesse  alia  revi- 
sione  del  suo  trattato,  quindi,  presumibilmente,  non  molto  tempo  prima 
del  1791,  data  della  prima  edizione  del  trattato  stesso,  in  appendice  alia 
quale  il  Discorso  fu  inizialmente  pubblicato.  Esso  comparve  poi,  senza 
mutamenti  degni  di  nota,  nelP edizione  fiorentina  del  1813  dell' opera 
maggiore  e  in  quelle  successive.  II  testo  dei  passi  qui  riprodotti  (§  ix  e  x) 
si  attiene  a  quello  definitive  delPedizione  fiorentina  del  1813.  Le  note  del 
Galeani  Napione  sono  seguite  dalla  sigla  G.  N. 

i.  Vi  sono  pure  altre  specie  di  persone. che  tengono  in  nessun  conto  gli 
studi  della  storia  patria,  e  questi  vengono  chiamati  dal  celebre  Tiraboschi 
(Depatriae  historia,  oratio,  Mediolani  1759,  p.  n):  « Homines  aut  discipli- 
narum  omnium  pene  rudes,  quosque  ea  tantum  literatura  delectat,  quae 
nullis  vigiliis,  nullo  incommodo  comparetur;  aut  scientiae  cuiuspiam  studio 
unice  addicti,  qui  ceteras  quotquot  sunt  omnes  post  habendas  putent» 
[ccUomini  o  pressoch6  inesperti  di  ogni  scienza  e  che  si  dilettano  solo  di 
quella  cultura  che  senza  alcuna  veglia,  senza  alcuna  fatica  si  acquista; 
o  dediti  unicamente  allo  studio  di  qualche  scienza,  e  che  ritengono  do- 
versi  a  questa  posporre  tutte  le  altre  quante  sono »],  G.  N.  2.  non  altri 
menti  .  . .  terra:  allude  al  sogno  di  Scipione  narrato  da  Cicerone  nel  Som- 
nium  Scipionis  (De  rep.,  vi,  xvi,  16  sgg.). 


688  GIAN    FRANCESCO    GALEANI    NAPIONE 

viglie  che  in  cosl  angusto  teatro  si  sforzi  di  spiegarsi  la  gloria  no- 
stra  nazionale.  0,  dicono  essi,  si  intende  di  scrivere  la  storia  dell'au- 
gusta  famiglia  che  ora  ci  governa,  e  questa,  abbench6  grande  ed  illu- 
stre  ab  antico,  picciol  dominio  tenne  ne'  tempi  andati  nelle  contrade 
che  al  presente  Piemonte  si  addimandano.  I  piu  ampi,  doviziosi  ed 
antichi  suoi  stati  erano  in  que'  tratti  di  paese  di  la  da'  monti, 
che  ora  formano  buona  parte  di  floride  provincie  della  Francia 
ed  il  piii  fertile  e  delizioso  de'  cantoni  elvetici,  compresa  la  repub- 
blica  di  Ginevra,  oltre  al  ducato  intero  della  Savoia;  n6  ebbero 
i  principi  nostri  fissa  residenza  in  Italia,  fuorch£  dal  duca  Ema- 
nuele  Filiberto  in  appresso,  nato  ancora  e  nodrito  di  la  da'  monti  al 
pari  de'  suoi  progenitori.  0  s'intende  di  descrivere  la  storia  di  quel 
paese,  che  ora  anche  nel  senso  phi  ampio  si  chiama  Piemonte,  e 
questa  non  &  storia  di  nazione  veruna  ne'  secoli  addietro,  ma  di 
diversi  piccioli  stati  divisi  e  di  alcune  citta,  che  nulla  ci  presentano 
che  degno  sia  di  considerazione ;  storia  che  non  &  possibile  di  riu- 
nire  sotto  un  solo  punto  di  vista  e  con  narrazion  continuata  prose- 
guire.  Che  anzi,  ancorch6  fosse  una  tale  impresa  meno  malagevole 
ed  una  si  fatta  storia  scrivere  si  potesse,  questa  non  sarebbe  storia 
del  Piemonte  per  ci6  che  appartiene  a'  tempi  antichi,  dacch.6  tal 
nome  nacque  soltanto,  come  ognun  sa,  poco  avanti  al  dominio 
avuto  da'  conti  di  Provenza  in  questa  parte  d' Italia  verso  la  meta 
del  secolo  XIII,  onde  soltanto  parimente  a  quell' epoca  dovrebbe 
avere  principio  la  storia. 

E  gli  avvenimenti  poi,  dicono  essi,  quai  sono  che  meritino  di 
esser  ricordati  ?  Sono  questi  forse  1'influenza  nella  politica  in  tutte 
le  corti  di  Europa,  la  maesta  della  religione,  la  potenza,  la  grandezza 
di  Roma  anche  dal  Mille  in  appresso  ?  le  strepitose  rivoluzioni  del 
regno  di  Napoli?  1'esteso  florido  commercio,  1'antica  gloria  na- 
vale,  la  potenza  orientale  di  Venezia?  la  navigazione,  i  traffici, 
la  coltura  delle  scienze  e  delle  arti  di  Pisa,  di  Firenze  e  di  tutta 
Toscana?  1'antica  potenza  marittima,  le  armi  trionfatrici  al  di  Ik 
delPEllesponto  de'  Genovesi?  1'opulenza  dello  stato  di  Milano, 
grande  anche  per  1'abuso  che  ed  i  Visconti  e  gli  Sforza  ne  fecero, 
e  per  li  saccheggi  e  per  le  depredazioni  a  cui  pot£  resistere  durante 
secoli  interi  ?  Che  piii  ?  proseguono  a  dire  con  ingenua  schiettezza 
questi  spregiudicati  piemontesi,  quante  citta  particolari  d' Italia 
somministrano  alia  storia  piu  importante  oggetto  da  per  s6  sole 
quanto  tutto  il  Piemonte  intero  ?  Cosl  Verona,  Bologna,  Modena, 


DISCORSO    INTORNO    ALLA   STORIA   DEL    PIEMONTE         689 

Mantova,  per  lettere,  per  antichi  monumenti,  per  illustri  perso- 
naggi  famose.  Che,  alPincontro,  nei  fasti  di  queste  provincie  che 
riunir  si  vorrebbono  per  formarne  una  storia,  altro  non  ci  rav- 
visano,  se  si  parla  de'  tempi  piu  antichi,  che  alcuni  cavalieri  erranti 
al  pie  delle  Alpi,  occupati  in  piccole  scaramucce,  in  amoreggia- 
menti  ed  in  fondar  badie  in  espiazione  de'  loro  falli;  e  ne'  tempi 
piu  a  noi  vicini  una  serie  non  mai  disco ntinuata  di  disastri  di  una 
popolazione  conculcata  dalle  grandi  potenze  di  Europa.  Si  lasci 
percio,  conchiudono  dessi,  alia  vanita  delle  private  famiglie  il  con- 
sultare  gli  antiquari  de'  tempi  di  mezzo,  altrettanto  rozzi  ed  ispidi 
quanto  i  documenti  e  le  carte  fra  le  quali  si  rawolgono  di  continuo, 
per  provare  una  genealogia,  una  discendenza  sempre  certa  airamor 
proprio  di  chi  la  riguarda,  e  sempre  dubbiosa  alia  invidia  altrui; 
si  lasci  all'interesse  de'  comuni,  de'  prelati,  de'  feudatari  il  far 
chiarire  e  decidere  i  punti  di  diritto,  i  privilegi  de'  loro  territori, 
delle  loro  giurisdizioni  e  badie;  ma  nessuno  si  lusinghi  mai  con 
questi  materiali  critico-giuridici  di  poter  formare  una  storia  colta 
e  filosofica  che  di  troppo  piu  grandiosi  fondamenti  abbisogna. 

Queste  ingegnose  osservazioni  son  frutto  in  vero  de'  progressi 
grandi  che  hanno  fatto  tra  noi  gli  studi  del  pubblico  diritto,  dello 
stato  politico  di  Europa  attuale  e  della  lettura  e  meditazione  delle 
storie  straniere,  scritte  con  vivacita  di  stile,  con  energia  e  con  pom- 
pa;  perciocch6  insino  al  fine  dello  scorso  secolo  sempre  si  e  cre- 
duto  non  impossibile  da*  nostri  men  dotti  maggiori  una  si  fatta 
intrapresa.  Dir6  di  piu,  procedono  eziandio  in  gran  parte  tali  oppo- 
sizioni  dalle  spine  colle  quali  sono  stati  a'  nostri  ultimi  tempi  cir- 
condati  questi  studi,  che  appunto,  come  congiunti  agli  studi  legali, 
gli  han  fatti  pigliare  in  abbominazione  da  ogni  bell'ingegno.  Ed  e 
cosa  in  vero  singolare  che  mentre  i  critici  tengono  che  si  debbano 
intraprendere  nuove  opere  colossali  per  illustrazkme  della  storia 
nostra,  e  che  bastanti  non  sieno  quelle  che  in  non  picciola  copia 
gia  abbiamo,  quegli  all'incontro  che  professano  letteratura  piu 
colta  e,  direi  cosl,  piu  disinvolta  e  lontana  da  ogni  ombra  di  spirito 
pedantesco,  credano  che  da  tutti  questi  materiali  impossibil  sia 
il  ricavar  un  volume  di  storia  patria,  di  cui  una  persona,  che  fana- 
tica  non  sia,  possa  sostener  la  lettura. 


690  GIAN   FRANCESCO    GALEANI   NAPIONE 

§  x.  Riflessioni  intorno  alle  oppodzioni  sopraccennate. 

Per  isciogliere  tutte  queste  opposizioni  e  per  conciliare  dispareri 
cosi  grandi,  non  vi  sarebbe  altro  mezzo  se  non  se  di  presentare 
una  storia  del  Piemonte  dettata  con  discernimento,  con  buon  crite- 
rio,  con  filosofia,  che  imparzialita  rigorosissima  vantasse  e  facesse 
pompa  di  eleganza  e  coltura  di  stile,  tale,  in  somma,  che  ottener 
potesse  lettori  ed  applausi  perfin  da  quelli  che  prevenuti  sono 
contro.  Ma,  come  ognun  vede,  se  per  un  canto  sarebbe  questo 
il  solo  modo  di  sciogliere  e  levar  via  vittoriosamente  le  allegate 
difficolta,  d'altra  parte  non  e  questa  materia  di  un  breve  discorso. 
Per  far  tuttavia  alcuna  generale  considerazione  intorno  a  questo 
rilevante  oggetto,  prima  che  qualche  anima  ben  nata  abbia  ozio, 
lumi,  ingegno,  volonta  e  favore  per  darvi  opera  daddovero,  si 
potrebbe,  avanti  ogni  cosa,  riflettere  che  non  trattasi  gia  di  tessere 
un  panegirico  della  nazion  piemontese  e  degli  antichi  abitatori  di 
queste  contrade,  ma  di  descrivere  con  sincerita  e  chiarezza  i  suc- 
cessi1  quai  furono;  perciocche  la  storia  dei  gloriosi  evenimenti 
serve  piii  ad  accrescere  il  fasto  nazionale  che  alia  istruzione  de' 
posteri.  Concedero  in  oltre  per  un  istante  che  la  storia  del  Pie 
monte  sia  un'iliade  miseranda  di  disawenture;  che  queste  contrade 
sieno  state  in  paragone  degli  altri  stati  d' Italia  pressoche  senza 
lettere,  senza  commercio,  e  che  le  armi  non  abbiano  mai  bastato 
e  difenderle  dalle  pubbliche  sciagure  dalle  quali  furono  nej  tempi 
andati  desolate;  e  dico  che  in  tale  supposizione  una  storia  di  di 
verse  popolazioni  (se  nazione  non  si  vuol  che  si  addimandi)  che 
ci6  non  ostante  si  radunarono  sotto  un  solo  sovrano,  sovrano  i  cui 
progenitori  ebbero  per6  sempre  insino  dal  Mille  ora  piu  ora  meno 
esteso  dominio  nelle  contrade  medesime ;  la  storia  di  un  paese  che 
nonostante  un  corso  d'interi  secoli  di  awersita  acquistb  quel  gra- 
do  di  prosperita,  di  popolazione,  di  coltura,  di  lettere  e  di  estimazion 
di  cui  gode  al  presente,  una  storia  cosi  fatta  presenta  un  raro  feno- 
meno  agli  occhi  non  meno  del  politico  che  del  filosofo  investiga- 
tore  delle  cagioni  delle  cose.  La  serie  perci6  di  queste  disgraziate 
awenture  meriterebbe  di  venire  diligentemente  esaminata,  dap- 
poiche  ebbe  piu  prospero  esito  che  non  il  gran  traffico  e  la  potenza 
di  mare  degli  altri  italiani.  E  que'  disastri  in  vero  furono  gloriosi, 
i.  i  successi:  gli  awenimenti. 


DISCORSO   INTORNO   ALLA   STORIA  DEL   PIEMONTE        691 

se,  non  altrimenti  che  le  sconfitte  del  Romani  nella  guerra  contro 
Pirro,  impressero  sentimenti  di  venerazione  nei  nemici  stessi  e 
fruttarono  in  fine  la  grandezza  e  la  prosperita  del  Piemonte.  E 
sebbene  non  vorrei  che  il  racconto  fedele  di  queste  sciagure  ed  il 
rinnovarne  pateticamente  la  rimembranza  risvegliasse  sentimenti 
di  sdegno  e  di  livore  contro  le  potenze  di  Europa  che  ne  furono 
le  infauste  cagioni,  perciocche  sono  cose  troppo  vili  1'astio  e  la  ven 
detta,  cio  non  toglie  pero  che  il  minuto  ragguaglio  di  questi  eve- 
nimenti,  deH'origine  che  ebbero,  del  corso  con  cui  seguirono,  delle 
conseguenze  che  produssero,  servir  non  possano  d'istruzione  in 
ordine  al  contegno  da  serbarsi  in  consimili  emergenze  ed  at  modo 
di  guardarsene  in  awenire. 

Senzach6  la  vastita  de'  dominii  non  basta  da  per  se  sola  a  rendere 
importante  la  storia  di  un  impero,  come,  d'altro  canto,  pu6  essere 
famosissimo  uno  stato  di  angusti  confini.  Alia  repubblica  di  Atene,1 
il  territorio  di  cui  forma  al  presente  una  picciolissima  non  curata 
sconosciuta  parte  di  un  barbaro  impero,  si  pregiano  di  paragonarsi 
le  piu  grandi  nazioni  delPEuropa:  gPInglesi  per  lo  spirito  di  com- 
mercio,  la  potenza  navale,  i  capricci  del  volgo  e  la  liberta  burra- 
scosa;  i  Francesi  per  Teleganza  della  vita  e  de'  piaceri;  per  lasciar 
da  parte  quelli  che  forse  han  maggior  diritto  di  venir  in  paragone 
per  politica,  per  traffici,  non  meno  che  per  letteratura  e  per  belle 
arti,  voglio  dire  gPItaliani.  Ne  ci6  tanto  attribuir  si  dee  alia  grandez 
za  delle  cose  operate,  come  alia  celebrita  degli  scrittori  da  cui  furono 
tramandate  a'  posteri.  Ad  ogni  modo  poi,  non  ostante  che  stata  vi 
sia  la  repubblica  romana,  la  storia  con  tutto  ci6  di  quella  di  Gine- 
vra  parimente  da  piu  di  un  autore  si  scrisse;  e  cosi  quantunque 
piu  clamorosi  evenimenti  contengano  le  storie  di  altre  contrade, 
a  noi  premono  piu  i  nostri  men  rumorosi  e  solenni  che  gli  altrui 
tanto  decantati.  Se  il  predicante  valdese  Leger  di  pochi  tumulti 
seguiti  in  un  angolo  delle  montagne  della  provincia  di  Pinerolo 
ne  scrisse  e  pubblic6  nello  scorso  secolo  un  volume  in  folio  in 
Olanda,  intitolandolo  Storia  delle  chiese  evangeliche  del  Piemonte? 
dove  non  mancano  effigiati  piemontesi  che  quali  antropofagi  divo- 

i.  The  History  of  Athens,  by  William  Young,  1786  (G.  N.).  Quest' opera, 
accompagnata  da  un  Saggio  «in  cui  si  ricercano  le  ragioni  immediate  di 
elevazione  e  di  decadenza  che  influiscono  in  uno  stato  libero  e  commer- 
ciale »,  ebbe  una  certa  rinomanza  in  Inghilterra  e  in  Europa.  2.  II  titolo 
di  quest' op  era  di  Giovanni  Llger  (1615-1670)  e  Histoire  generate  des  tglises 
dvangeliques  des  valUes  de  Piemont  ou  vaudoises;  fu  pubblicata  nel  1669. 


692  GIAN   FRANCESCO   GALEANI   NAPIONE 

rano  le  carni  abbrustolate  de'  Valdesi  trucidati,  e  perch6  mai 
non  sara  possibilc  il  mettere  insieme  una  storia,  meno  ingiurio- 
sa  alia  memoria  dei  nostri  maggiori,  di  tutte  le  contrade  e  di 
tutti  gli  avvenimenti  del  Piemonte?  Lascio  da  parte  che  a  man- 
tenerci  nella  picciolezza  non  vi  ha  forse  motive  piu  forte  che 
il  troppo  basso  concetto  appunto  delle  cose  proprie;  e  che  una 
delle  cagioni  della  grandezza,  non  solo  delle  antiche  nazioni,  ma 
eziandio  delle  singolari  persone  medesime  che  di  picciolo  stato 
salirono  a  gran  potenza,  si  &  Tessersi  ognora  credute,  sin  da*  loro 
principii,  destinate  a  cose  grandi.  Ed  in  ordine  appunto  alia  esten- 
sion  de'  paesi  ed  ai  success!  che  si  vorrebbono  comprendere  nel 
la  storia  di  cui  si  tratta,  a  me  sembra  che,  sebben  con  altro  nome 
questo  tratto  d'  Italia  si  chiamasse  negli  andati  tempi,  con  tutto  ci6 
non  sia  cosa  contraria  alia  pratica  serbata  dagli  storici  delle  altre 
nazioni  ed  alia  retta  ragione  il  formarne  un  solo  corpo,  un  sol  tutto, 
non  gia  colla  rigorosa  unita  di  azione  di  una  composizion  di  teatro, 
ma  con  quella  che  puo  ricevere  una  storia  alquanto  estesa,  sia 
rispetto  a*  tempi  che  a'  paesi.  Tutti  i  geografi  nostri  chiamarono 
Piemonte  i  dominii  della  real  casa  di  Savoia  in  Italia.  E  sebbene  il 
sagace  investigatore  delle  patrie  antichita,  Francesco  Agostino  del- 
la  Chiesa,1  non  abbia  ritrovato  documento  piu  antico  di  un  di 
ploma  del  conte  Amedeo  di  Savoia  del  1245,*  in  cui  venga  fatta 
chiaramente  menzione  del  Piemonte,3  nome  che  divenne  poi  comu- 
ne  in  queste  contrade  al  tempo  del  dominio  ch'ebbero  di  gran 
parte  di  esse  i  conti  di  Provenza,  conquistatori  del  regno  di  Na- 
poli,  ci6  non  trattenne  il  dotto  nostro  magistrato,  autore  del 
Piemonte  cispadano  anticoy  di  spingere  insino  a'  tempi  romani  le 
sottili  e  profonde  sue  geografiche  ricerche. 


1.  Francesco  Agostino  della  Chiesa  (morto  nel  1663),  vescovo  di  Saluzzo, 
autore  di  un  Catalogo  degli  scrittori  del  Piemonte  e  della  Savoia,  e  di  altre 
opere  sulla  storia  piemontese,  fra  cui  quella  citata  nella  nota  seguente. 

2.  V.  Corona  reale  di  Savoia,  torn.  I,  pp.  204-5  (G.  N.).     3.  venga . . .  Pie 
monte'.  in  Pietro  delle  Vigne  ed  in  un'antica  cronaca  trov6  il  signor  col- 
laterale  lacopo  Durandi  il  nome  di  Piemonte,  e  ci6  anteriormente  all'e- 
poca  del  diploma  del  conte  Amedeo,  di  cui  parlano  il  Monod  ed  il  Chiesa 
(G.  N.).  lacopo  Durandi  (1737-1817)  di  Santhia,   autore  di  un  Saggio 
sulla  storia  degli  antichi  popoli  d' Italia  (1769)  e  del  Piemonte  cispadano 
antico  (1774),  ricordato  piu  avanti  dal  Napione.  Pietro  Monod  (1586-1644) 
scrisse  varie  opere  storiche  sulla  casa  di  Savoia. 


MATTEO  BORSA 


NOTA  INTRODUTTIVA 

Se  il  richiamo  agli  insegnamenti  del  tardo  Bettinelli  pu6  essere 
utile  per  meglio  comprendere  la  formazione  e  Torientainento  del 
pensiero  e  del  gusto  di  un  Tiraboschi,  di  un  Galeani  Napione  e  di 
un  Vannetti,  esso  diventa  obbligatorio  nel  caso  di  Matteo  Borsa. 
AlPombra  del  Bettinelli  si  svolge  per  gran  parte  la  sua  stessa 
vita.  Nato  a  Mantova  nel  1751  da  una  cugina  dello  scrittore,  e 
probabile  che  proprio  per  suggerimento  di  questo  fosse  inviato  a 
frequentare  il  collegio  dei  gesuiti  di  Verona,  dove  il  Bettinelli  al- 
lora  si  trovava,  e  poi  il  collegio  dei  preti  secolari  di  Reggio  Emi 
lia,  dove  ebbe  modo  di  distinguersi  per  la  sua  inclinazione  alia 
filosofia  e  agli  studi  letterari.  Tale  inclinazione,  tuttavia,  fu  viva- 
mente  osteggiata  dal  padre  che  voleva  fare  del  figlio  un  medico, 
e  che  a  questo  scopo,  appena  terminate  le  scuole  secondarie,  lo 
invi6  a  studiare  medicina  presso  PUniversita  di  Bologna.  Pur  dedi- 
candosi  a  questi  studi  con  impegno  (fra  i  suoi  scritti  figurano  due 
opere  di  argomento  medico,  /  fisiologi  e  Gli  empirici)  fino  ad  ot- 
tenere  con  onore  la  laurea,  il  Borsa  anche  a  Bologna  continud  ad 
occuparsi  di  filosofia,  di  letteratura  e  di  musica,  e  in  particolare 
riuscl  ad  impadronirsi  delPinglese  tanto  da  poter  leggere  corren- 
temente  gli  autori  britannici  nella  loro  lingua.  Da  Bologna  si 
mosse  anche  per  qualche  gita  in  Toscana  e  nel  Veneto,  ma  que- 
ste  furono  le  sue  uniche  esperienze  di  viaggio,  poich6,  tornato  a 
Mantova  nel  1776,  non  si  allontan6  piu  dalla  citt&  nativa,  accon- 
tentandosi,  anche  perch<§  cagionevole  di  salute,  della  tranquilla  e 
oscura  vita  di  studioso  di  provincia.  A  Mantova  appunto  egli  ri- 
trov6  il  Bettinelli,  che  qui  si  era  ritirato  fin  dal  1773,  e  che  prese 
subito  in  simpatia  il  giovane  parente,  incoraggiandolo  agli  studi 
preferiti  e  certo  anche  favorendo  la  sua  nomina,  nel  1779,  a  se- 
gretario  delPAccademia  mantovana,  come  successore  delP abate  Gi- 
rolamo  Carli,  e  poi,  nel  1783,  a  professore  di  logica  e  metafisica 
nel  ginnasio  della  sua  citta.  E  i  legami  tra  il  Bettinelli  e  il  Borsa 
si  strinsero  ulteriormente  quando  questi  ne  spos6  una  nipote,  e 
soprattutto  allorche,  costretto  ad  uscire  dalla  casa  paterna  per 
«scontentezze  domestiche»,  entr6  insieme  con  la  moglie  in  quella 
dello  zio,  presso  il  quale  convisse  in  piena  armonia  fino  alia  morte, 
avvenuta  nel  1798. 


696  MATTED   BORSA 

Ma  anche  se  si  ignorassero  questi  vincoli  di  parentela  e  di  ami- 
cizia,  si  sarebbe  in  ogni  caso  costretti  a  ricollegare  strettamente  il 
Borsa  al  vecchio  letterato  mantovano  dalla  natura  stessa  della  sua 
opera  letteraria,  critica  e  filosofica,  la  quale  si  configura  esplicita- 
mente  come  un  tentativo  di  sistemare  e  approfondire  la  conta- 
minazione,  che  caratterizza  Porientamento  del  Bettinelli  dopo  il 
1780,  tra  i  motivi  moderatamente  preromantici  delVEntusiasmo 
delle  belle  arti  e  del  Risorgimento  d*  Italia  e  il  tradizionale  classi- 
cismo  accademico  e  xenofobo:  un  tentativo  che  si  traduce  spesso 
in  irrigidimenti  scolastici  e  pedanteschi,  ma  che  talora  perviene, 
almeno  sul  piano  critico  ed  estetico,  a  risultati  non  privi  di  origi- 
nalitk,  e  comunque  non  trascurabili  da  chi  voglia  seguire,  nel  suo 
complesso  rapporto  di  opposizione  e  di  convergenza  col  prero- 
manticismo,  la  formazione  del  movimento  neoclassico  italiano  sul 
finire  del  Settecento. 

I  primi  scritti  dedicati  dal  Borsa  a  problem!  estetici,  La  musica 
imitativa  (1781)  e  I  balli  pantomimi  (1783),  possono  interessare 
solo  in  quanto  dimostrano  come  Tautore  agli  inizi  fosse  rigidamente 
legato  ai  criteri  della  poetica  classicistica,  e  addirittura  ai  principii  di 
Orazio,  che  egli  definisce  «un  autore  un  po?  vecchio,  ma  un  autor 
sempre  classico  e  inappellabile  ».  Si  pu6  anzi  affermare  che  ci6  che 
distingue  il  Borsa  dai  pensatori  che  prima  di  lui  si  erano  volti  ai 
problemi  estetici  della  musica  e  della  danza  -  i  collaborator! 
dello  « Spettatore »,  lo  Hume,  il  Rousseau,  PAlgarotti  e  anche  il 
Bettinelli  -  e  proprio  la  rigorosita  spinta  fino  alia  pedanteria  con 
cui  egli  applica  a  quei  problemi  i  principii  oraziani  dell'imitazione, 
della  verosimiglianza,  della  convenienza  e  simili. 

L'aderenza  al  pensiero  e  al  gusto  del  tardo  Bettinelli  e  insieme 
la  pur  limitata  originalitk  del  Borsa  si  manifestano  invece  nel 
successive  e  piu  noto  saggio  Del  gusto  presente  in  letter atur a  ita- 
liana^  che  egli  stese  nel  1783  in  risposta  al  quesito  proposto 
daH'Accademia  mantovana  (e  ispirato  probabilmente  dal  Bettinelli) 
appunto  sul  gusto  contemporaneo  in  Italia,  pubblic6  nel  1784 
con  alcune  note  polemiche  dell'Arteaga,  e  ristamp6  nel  1795  con 
aggiunte  e  col  titolo  I  vizi  piu  comuni  e  osservabili  del  corrente  gusto 
italiano  in  belle  letter  e.  Per  comprendere  esattamente  Porientamento 
del  Borsa  non  e  inutile  ricordare  le  risposte  degli  altri  letterati  par- 
tecipanti  al  medesimo  concorso,  Ippolito  Pindemonte  e  Francesco 
Colle.  Un  franco  tentativo  di  giustificare  in  tutti  i  suoi  aspetti  il 


NOTA   INTRODUTTIVA  697 

<c  gusto  presente  »  italiano  appare  nella  risposta  di  Francesco  Colle, 
il  quale  poi  non  fa  che  svolgere  le  idee  che  Famico  Cesarotti  aveva 
gia  accennate  in  alcuni  scritti  precedenti  e  avrebbe  sistemati- 
camente  sviluppate  nel  Saggio  sulla  filosofia  delle  lingue  (1785). 
II  Pindemonte  a  sua  volta  assume  una  posizione  intermedia,  da 
un  lato  ammettendo  la  legittimita  del  filosofismo  didascalico  illu- 
ministico,  ormai  connaturato  al  ccgemo»  del  secolo,  e  Putilita  di 
«buone»  traduzioni,  dall'altro  raccomandando  quali  correttivi  lo 
studio  degli  antichi  e  F  opera  vigile  di  un'accademia  italiana;  cor 
rettivi  su  cui  insiste  particolarmente  in  una  seconda  redazione 
della  sua  risposta,  orientandosi  verso  una  sua  personale  poetica 
fondata  sulla  «bella  semplicita».  Rispetto  non  solo  al  Colle  ma 
anche  al  Pindemonte,  il  Borsa  appare  senza  dubbio  il  piu  legato 
al  classicismo  tradizionale,  ma  proprio  entro  questa  posizione  egli 
assume,  al  tempo  stesso,  Patteggiamento  piu  consapevolmente  po- 
lemico  nei  confronti  del  razionalismo  illuministico.  Questo  atteg- 
giamento  comincia  gia  a  profilarsi  nell'introduzione  del  suo  sag- 
gio,  dove  alia  condanna  dei  «vizi»  propri  del  « gusto  presente », 
vizi  in  quanto  deviazioni  dai  principii  del  classicismo,  si  intreccia 
la  constatazione  che  queste  deviazioni  sono  pure  qualcosa  di  ine- 
vitabile,  che  nasce  da  impulsi  che,  per  essere  non  razionali,  non 
possono  essere  semplicisticamente  negati,  ma  invece  debbono  es 
sere  ricercati  nella  complessa  evoluzione  storica  dei  popoli;  e  ai 
quali  perci6  si  pu6  e  si  deve  reagire,  come  Tautore  spiega  nella 
seconda  parte  del  suo  lavoro,  significativamente  richiamandosi  allo 
Shaftesbury,  non  tanto  facendo  appello  alia  ragione,  quanto  piut- 
tosto  agendo  sul  «sentimento»  del  lettore  attraverso  il  ridicolo. 
Questa  esigenza  di  intendere  proprio  nella  loro  natura  non  ra- 
zionale,  nella  loro  formazione  storica  le  deviazioni  del « gusto  pre 
senter,  appare  nelPanalisi  delle  ragioni  che  hanno  prodotto  il  pri- 
mo  vizio,  il  «neologismo  straniero».  Tale  analisi  prende  Tawio 
indubbiamente  da  alcune  considerazioni  del  Bettinelli  in  quel  Di- 
scorso  sopra  lo  studio  delle  belle  letter  e  in  Italia  e  sul  gusto  moderno 
di  quelle  (1780),  che  e  la  prima  dichiarazione  esplicita  delPorien- 
tamento  a  cui  il  vecchio  letterato  si  conformera  negli  ultimi  de- 
cenni  della  sua  vita.  Ma,  mentre  questi  si  era  limitato  ad  incolpare 
da  lettura  universale  dei  libri  francesi  e  degli  inglesi  eziandio  ve- 
nuti  alia  moda»,  il  Borsa  cerca  di  indagare  piu  a  fondo  la  genesi 
storica  del  «neologismo  straniero»  in  Italia.  Dopo  aver  stabilito 


698  MATTEO    BORSA 

il  principle  generate  che  la  lingua  di  un  popolo  influisce  su  quella 
di  un  altro  o  per  «  forza »  o  per  « sapere »,  per  supremazia  politica 
o  culturale,  il  Borsa  passa  ad  esaminare  il  caso  concrete  delP  Italia, 
constatando  che  su  di  essa  hanno  agito  concomitant!  Tuna  e  Pal- 
tra  causa.  Piu  precisamente,  egli  spiega,  la  lunga  servitu  politica 
ha  prodotto  lentamente  negli  Italian!  una  disposizione  psicologica 
a  subire  1'influenza  di  civiltk  straniere,  come  e  soprattutto  quella 
francese,  effettivamente  piu  avanzate  della  nostra:  influenza  che, 
nel  campo  particolare  della  letteratura,  si  va  concretando  nella  «  di- 
struzione  dello  spirito  nazionale»,  nella  progressiva  insensibilitk 
alia  speciale  armonia  della  lingua  italiana  (e  qui  sar£  da  vedere  un 
omaggio  al  Bettinelli,  che  tanto  spesso  insiste  su  questa  armonia), 
nella  tendenza  a  trascurare  lo  studio  della  lingua  latina,  «madre 
dell'italiana»,  e  infine  nella  «fiumana  lutulenta  e  fangosa»  delle 
traduzioni,  o  almeno  di  quelle  fatte  da  scrittori  ignoranti  della 
propria  e  dell'altrui  lingua.  Questa  limitazione,  che  manca  nel 
Bettinelli,  non  e  senza  significato.  Ma  la  relativa  apertura  mentale 
del  Borsa  meglio  si  rivela  in  alcune  precisazioni  aggiunte  nella  se- 
conda  edizione,  dove,  pur  mantenendo  ferma,  di  fronte  alle  obie- 
zioni  del  cesarottiano  Arteaga,  la  sua  condanna  del  «neologismo 
straniero »,  tiene  a  distinguersi  dai  ciechi  custodi  della  purit&,  che 
vogliono  non  «serbar  vergine  ma  stupida  la  lingua »,  e  giunge  ad 
ammettere,  accogliendo  in  parte  le  idee  del  Cesarotti,  la  legittimitk 
di  un  rinnovamento  continue  della  lingua,  di  un  «neologismo 
continue  nelle  lingue  di  qualunque  nazione,  il  quale  neologismo 
abbraccia  non  sol  le  parole  materiali,  ma  la  tessitura  grammatical 
eziandio  e  tutto  il  complesso  dello  stile,  e  quinci  va  ad  attaccare  i 
generi  stessi  e  le  maniere  di  scrivere  e  di  comporre». 

Piu  notevole,  ad  ogni  mode,  Tanalisi  del  secondo  vizio,  il  «filo- 
sofismo  enciclopedico ».  Anche  per  questa  parte  il  Borsa  trae  lo 
spunto  dal  citato  discorso  bettinelliano  Sopra  lo  studio  delle  belle 
lettere,  e  certamente  anche  da  alcuni  passi  contenuti  nella  con- 
temporanea  introduzione  alia  seconda  edizione  &$\V Entusiasmo 
(1780),  dove  il  letterato  mantovano,  nella  sua  difesa  deirimmagina- 
zione  e  della  sensibilita,  deplora  i  danni  prodotti  dall'intrusione 
della  ctragionatrice  e  osservatrice  filosofia»  e  delle  scienze  esatte 
nei  dominii  della  eloquenza  e  della  poesia.  Queste  e  simili  afferma- 
zioni  del  Bettinelli,  tuttavia,  interessanti  sul  piano  della  poetica  e 
del  gusto  ma  non  inquadrate  in  un  pensiero  organico  (basterk  ricor- 


NOTA    INTRODUTTIVA  699 

dare  che  nel  Saggio  sulV eloquenza,  del  1782,  si  sostiene  che  non 
solo  la  storiografia  e  Teloquenza  ma  la  stessa  poesia  moderna  sono 
migliori  delle  antiche  perch6  nutrite  di  «spirito  filosofico  »),  for- 
niscono  al  Borsa  non  piu  che  un  generico  suggerimento.  Piu  di- 
rettamente  egli  si  richiama  invece  ad  altri  due  studiosi  contempo- 
ranei,  lo  svizzero  Merian  e  il  veneto  Sibiliato:  due  studiosi  che 
sono  in  genere  trascurati  dagli  storici  delPestetica  e  della  critica 
settecentesca,  ma  che  sono  forse  i  primi  a  dar  forma  sistematica 
alia  polemica  contro  la  tendenza  didascalica  della  letteratura  illu- 
ministica.  II  Merian  -  assiduo  corrispondente  del  Cesarotti  e  buon 
conoscitore  della  estetica  empiristica  inglese  e  in  particolare  di 
quei  critici  come  il  Lowth,  il  Wood,  il  Warburton,  il  Blair,  che 
avevano  rivolto  il  loro  interesse  alia  poesia  biblica,  omerica,  ossia- 
nica  e  in  genere  primitiva  -  svolge  le  sue  argomentazioni  sul  pia 
no  critico,  passando  successivamente  in  rassegna  le  letterature  anti 
che,  dalFebraica  alia  greca  alia  latina,  e  poi  1'italiana  fino  al  Quat 
trocento,  e  facendo  notare  di  volta  in  volta  come  le  scienze,  ivi 
compresa  la  filosofia,  abbiano  sempre  influito  negativamente  sulla 
poesia.  II  Sibiliato,  studioso  di  letterature  classiche  e  non  ignaro 
del  Vico,  si  pone  invece  sul  piano  teorico,  e  dopo  aver  precisato 
che  lo  «spirito  filosofico  »  di  cui  vuol  provare  Pestraneita  alle  belle 
lettere  non  e  la  filosofia  intesa  come  <cdottrina  delle  proporzioni 
nelle  materie  di  gusto »  ma  piuttosto  lo  «spirito  dottrinario  e  ana- 
litico»,  dimostra  successivamente  la  diversita  del  principii  da  cui 
partono  rispettivamente  questo  spirito  e  le  attivita  letterarie,  delle 
facolta  spirituali  in  cui  risiedono,  degli  strumenti  di  cui  si  servono, 
e  degli  uditori  a  cui  si  rivolgono.  Nella  prima  edizione  del  suo 
saggio  il  Borsa  si  limita  a  ricordare  il  solo  Merian  (o  piu  esatta- 
mente  le  sue  prime  quattro  dissertazioni),  citando  in  particolare 
le  sue  analisi  di  poeti  greci  e  latini,  per  comprovare  «Tordin  con- 
trario  che  tengono  queste  due  facolta  [filosofia  e  poesia]:  talch6 
decadere  s'osserva  sensibilmente  la  poesia  quando  la  filosofia  va 
salendo  in  sommi  gradi,  e  cosi  viceversa».  Ma  in  alcune  pagine 
aggiunte  nella  seconda  edizione  allo  scopo  di  rispondere  alle  ri- 
serve  formulate  dalPArteaga,  che  in  sostanza  tornava  a  difendere 
la  funzione  didascalica  della  letteratura,  egli  si  fa  a  precisare,  que- 
sta  volta  con  Faiuto  del  Sibiliato,  ma  piu  risolutamente  e  con  piu 
sottili  distinzioni,  i  rapporti  fra  le  due  facolta.  In  un  primo  mo- 
mento  sembra  anch'egli,  con  il  Sibiliato,  concedere  alia  filosofia 


700  MATTED   BORSA 

la  funzione  di  una  anticipata  «meditazione)),  che  precede  1'ope- 
razione  e  dirige  la  esecuzione  dell'artista;  ma,  subito  dopo,  ridu- 
ce  tale  funzione,  sostanzialmente,  ad  una  osservazione,  inconsa- 
pevole  di  se  stessa,  dei  propri  sentimenti;  chiarendo  poi  ulterior- 
mente  il  suo  pensiero  mediante  una  netta  distinzione  fra  questa 
filosofia  e  « la  filosofia  pratica  delle  belle  lettere  »,  cioe  la  riflessione 
teorica  sull'arte,  a  sua  volta  distinta  da  una  terza  specie  di  filosofia, 
«la  filosofia  di  dogma,  di  teoria,  d'intelletto »,  che  e  poi  quella  so- 
prattutto  «viziosa»  se  introdotta  nelle  opere  letterarie.  Ispirata  dal- 
la  preoccupazione  di  separate  nettamente  il  dominio  della  filoso 
fia  da  quello  delle  lettere,  6  anche,  almeno  in  parte,  la  difesa  dei 
generi  letterari  che  occupa  il  terzo  capitolo  del  trattato :  il  pericolo 
maggiore,  infatti,  che  secondo  il  Borsa  nasce  dalla  « confusione  dei 
generi)),  6  proprio  Fintrusione  del  filosofismo  didascalico  in  opere 
che  per  loro  natura  intrinseca  sono  destinate  non  a  «  convincere », 
ma  a  «piacere»  e  a  « commuovere ». 

Un  tentative  di  ragionare  in  modo  piu  sistematico  questa  di 
stinzione  tra  poesia  e  filosofia  &  nel  trattato  Delia  fantasia  (1795), 
al  quale  il  Borsa  stesso  si  richiama  nella  seconda  edizione  del  saggio 
sul  «gusto  presenter  II  primo  spunto  a  occuparsi  dell'argomento 
gli  viene  ancora  una  volta  dal  Bettinelli,  che  (come  Tautore  dichiara 
neirawertimento  premesso  al  trattato)  lo  aveva  invitato  a  stendere 
alcune  «  riflessioni  sulla  natura  della  fantasia  »,  le  quali  furono  pub- 
blicate  nella  nota  in  della  seconda  edizione  doirEntusiasmo.  Della 
fantasia  il  Bettinelli  stesso  parla,  com'&  noto,  in  questa  sua  opera: 
ma  si  tratta  al  solito  di  accenni  piuttosto  che  di  definizioni  orga- 
niche.  L'autore  dell' Entusiasmo  si  limita  infatti  a  rammentare  che 
Bacone  aveva  attribuito  alia  fantasia  «tutto  il  talento  delle  bell'ar- 
ti»,  e  a  distinguere,  forse  ricordando  il  Conti,  fra  immaginazione 
attiva,  «madre  del  bello,  del  grande  e  dello  straordinario »,  e  pas- 
siva,  legata  ai  sensi  e  causa  di  errori,  concludendo  comunque  che 
le  due  specie  sono  in  concrete  inseparabili. 

II  Borsa  invece,  gi£  nella  sua  nota  e  poi  in  modo  piu  preciso 
e  particolareggiato  nel  saggio  Delia  fantasia,  parte  anzitutto  da 
una  breve  ma  serrata  critica  dei  pensatori  empiristi  e  sensisti,  dal 
Locke  al  Bonnet  al  Condillac  al  Soave,  facendo  notare  come  essi, 
che  pur  distinguono  sottilmente  le  varie  facoltk  delPanimo,  non 
diano  poi  alia  fantasia  un  posto  adeguato;  e  in  particolare,  pole- 
mizzando  con  il  Condillac,  insiste  in  una  notevole  pagina  sulla 


NOTA   INTRODUTTIVA  7OI 

necessitk  di  distinguere  nettamente  fra  la  a  percezione  »  e  P«imma- 
ginazione »,  che  «  non  sono  che  due  servili  ed  umili  pittrici  di  ritrat- 
ti»,  e  la  «fantasia»,  nome  che  egli  riserva  a  quella  facolta  (dibera, 
efficace,  operosa»,  la  quale  (cscorre  Pimmensa  galleria  del  ritratti  gia 
disegnati  dalPimmaginazione,  e  gli  scompone  e  ticompone,  e  ne 
combina  esseri  nuovi  e  nuove  forme,  e  di  mille  parti  proprieta 
indizi  illusioni  idoleggia  nuove  sostanze  e  colora  un  nuovo  mondo 
d'idee». 

Cosi  intesa  la  fantasia  non  pu6  essere  piu  considerata,  a  giudizio 
del  Borsa,  come  una  delle  tante  (e  per  giunta  delle  meno  impor- 
tanti)  operazioni  delPintelletto,  ma  si  rivela  invece  inerente  a  tutte 
le  operazioni  di  questo,  se  £  vero,  come  egli  ritiene,  che  tali  ope 
razioni  consistono  appunto  nello  scoprire  nuove  relazioni  fra  gli 
oggetti  e  le  idee :  la  fantasia,  insomma,  assurge  alia  dignita  di  un 
«modo  d'agire»  delPintelletto  stesso,  un  modo  di  agire  analogo 
per  importanza  al  « raziocinio »,  ma,  pure,  profondamente  diverso 
da  esso.  Se  infatti,  precisa  il  Borsa,  fantasia  e  raziocinio  hanno  in 
comune  il  compito  di  scoprire  nuove  relazioni,  differiscono  per6 
«nel  diverso  genere  di  relazioni  che  si  prefiggono  ad  oggetto.  La 
fantasia  per  s6  si  contenta  di  relazioni  prime,  di  somiglianze  su- 
perficiali . .  .,  di  ci6  che  all'occhio  si  appartiene  e  al  senso  esamina- 
tore,  e  il  raziocinio  al  contrario  ricerca  le  relazioni  essenziali  del- 
1' oggetto  esaminato:  quella  &  paga  di  similitudini,  vuol  questo  ana 
logic.  La  prima  si  limita  a  tali  cose  le  quali  possono  aver  comuni 
i  principii,  il  secondo  va  in  traccia  di  cagioni  e  di  effetti». 

A  chi  pensi  al  Vico,  allo  Shaftesbury,  al  Baumgarten  tali  idee 
non  possono  certo  apparire  una  novita.  Se  pero  si  tiene  presente 
Pestetica  empiristica  e  sensistica  che  &  quella  dominante  nel  pe- 
riodo  in  cui  scrive  il  Borsa,  e  da  cui  in  effetto,  come  si  e  visto,  egli 
prende  le  mosse,  mi  pare  che  non  si  possa  non  riconoscere  un 
certo  valore  a  questa  ragionata  accentuazione  delPufficio  della  fan 
tasia,  intesa  come  facolta  attiva  (non  solo  passiva  come  Pimmagi- 
nazione)  e  opposta  al  raziocinio,  nelPambito  della  vita  spirituale. 

A  questa  impostazione  preliminare  rimane  tuttavia  limitata  so- 
stanzialmente  Poriginalita  del  Borsa.  A  sviluppare  radicalmente  la 
sua  difesa  della  fantasia  egli  trova  anche  qui  un  ostacolo  proprio 
in  quella  sua  fedelta  al  classicismo  tradizionale  che,  mentre  lo 
spinge  a  rivalutare  Pattivita  fantastica  di  fronte  al  didascalismo  il- 
luministico,  d'altro  lato  lo  tiene  ancorato  ad  un  gusto  morale  e 


702  MATTEO   BORSA 

artistico  lontano  non  solo  dal  romanticismo  ma  anche  dal  neoclas- 
sicismo.  «Che  felice  invidiabile  rarissimo  veramente  e  quel  mezzo 
di  fantasia  e  raziocimo,  in  che  sta  1'eccellenza  de'  sommi  uomini» 
egli  dichiara  esplicitamente :  e  in  perfetta  coerenza  con  questo 
principio  generale,  se  ammette  che  la  fantasia  interviene  utilmente 
anche  nell'attivita  scientifica,  fa  per6  notare  che  a  sua  volta  «il 
raziodnio  ricambia  poi  i  buoni  servigi  alia  fantasia  del  poeta, 
il  quale  attinge  quell'aria  di  giudicio,  proporzione,  sobrieta,  cioe 
verita,  chje  Tunica  pietra  di  paragone  del  gusto  e  deiringegno ». 
E  se  in  qualche  punto  egli  sembra  orientarsi  in  senso  neoclassico, 
come  quando  addita  quale  meta  delle  belle  arti  quel « Bello  ideale 
sublime  perfetto  inesistente  che  da  Omero  e  Platone  ereditarono 
Fidia  e  Palladio,  e  appresero  poi  dalla  filosofia  Winckelmann  e 
Mengs»  e  idoleggia  «uno  stile  di  grazia  ignota  alia  natura»;  in 
realta  dal  contesto  si  chiarisce  che  il  « Bello  ideale »  e  la  « Grazia 
ignota  alia  natura»  di  cui  egli  parla,  sono  da  lui  concepiti  (come  dal 
Bettinelli)  quali  risultati  di  un  processo  intellettualistico  di  selezione 
piuttosto  che  come  irrazionale  intuizione  di  una  trascendente  idea 
di  nobile  e  remota  bellezza. 

I  limiti  del  classicismo  tradizionale  del  Borsa  si  chiariscono 
piu  nettamente  nelle  sue  prose  letterarie  e  nei  suoi  versi,  che  in 
genere  riprendono  temi  e  forme  del  Bettinelli  con  un  piu  angusto 
accento  moralistico  e  in  uno  stile  (come  e  anche  quello  delle  stes- 
se  opere  critiche  ed  estetiche)  che,  mentre  vuol  atteggiarsi  ad  una 
decorosa  scioltezza,  riesce  per  lo  piti  accademico  e  impacciato. 
Motivi  bettinelliani,  ma  svolti  senza  Pestro  polemico  del  letterato 
mantovano,  ritornano  nt\YElogio  di  Calandrino  bibliofago  e  nel- 
YElogio  di  me  stesso,  i  quali  vogliono  essere  una  satira  rispettiva- 
mente  degli  scrittori  seguaci  di  ogni  nuova  moda  e  in  particolare 
di  quella  degli  «elogi»,  e  dei  letterati  disonesti  che  intendono  la 
letteratura  solo  come  un  mezzo  per  arricchire  o  per  procurarsi 
privilegi.  Al  teatro  moraleggiante  del  Bettinelli  si  ispirano  a  loro 
volta  le  due  tragedie,  YAgamennone  e  Clitennestra  e  YAnfia\  an 
che  se  non  vi  manca  qualche  tratto  che  potrebbe  far  pensare  a 
suggestioni  alfieriane:  come,  nella  prima,  il  carattere  di  Clitenne 
stra,  dibattuta  fra  Pamore  per  Egisto  e  Paffetto  per  i  figli  e  per  il 
marito;  e,  nella  seconda,  il  personaggio  di  Panormo,  animato  da 
un  odio  cupo  e  inestinguibile  e  non  privo  di  una  sua  feroce  dignita. 
Tra  gli  altri  versi,  pochi  e  per  lo  piti  d'occasione,  si  possono  ricor- 


NOTA   INTRODUTTIVA  703 

dare  due  vision!  in  terza  rima,  scritte  rispettivamente  per  la  mor- 
te  di  Maria  Teresa  e  per  Fuccisione  di  Luigi  XVI,  e  che,  se  pos- 
sono  rappresentare  dal  punto  di  vista  stilistico  una  concessions 
alia  moda  varaniana  rimessa  in  onore  dal  Monti,  sono  per6  so- 
prattutto  un  documento  di  quel  rigido  conservatorismo  polltico 
sociale  che  costituisce  1'aspetto  piu  retrivo  della  personalita  del 
Borsa. 

Questo  conservatorismo  si  traduce  piu  sistematicamente  in  tre 
saggi  scritti  sotto  1'impressione  degli  sconvolgimenti  prodotti  dalla 
Rivoluzione  francese  e  probabilmente,  come  sembra  da  numerose 
allusioni,  durante  Fepoca  del  Terrore:  La  metafisica  popolare,  II 
patriotismo  e  La  noUlta.  Nel  primo  si  fa  esplicita  la  componente 
reazionaria  di  quella  polemica  contro  il  filosofismo  illuministico 
che  ispirava  i  saggi  sul « gusto  presente»  e  sulla  fantasia:  «Bisogne- 
rebbe  accorgersi»  egli  afferma  «e  penetrarsi  di  una  verita  infini- 
tamente  importante,  ed  e  che  siamo  nati  a  comprendere.soltanto 
una  porzione  delle  cose,  e  a  vedere  soltanto  certi  lati  degli  oggetti; 
che  oltre  a  ci6  non  bisogna  inoltrarsi:  che  siccome  sappiamo  di 
buona  coscienza  di  non  comprendere  intero  Poggetto,  cosl  non 
ci  dobbiamo  ostinare  su  tutta  intera  la  conseguenza;  e  che  vice- 
versa  la  conseguenza  per  poco  che  urti,  ci  deve  far  dare  addietro 
per  la  non  integrity  delle  premesse.  Sapersi  infine  fermare  a  metk 
di  viaggio,  contentarsi  della  meta  delPoggetto,  rassegnarsi  a  vedere 
quel  solo  che  realmente  si  vede,  e  la  virtu  piti  difficile  ma  la  piu 
necessaria  alia  ragione».  Ma  sotto  questa  cccritica  della  ragione» 
c'e  non  tanto  un  nuovo  pensiero,  quanto  -  per  riprendere  un'acu- 
ta  e  severa  osservazione  di  Pietro  Verri  a  proposito  delle  accuse  di 
«astrattismo»  mosse  contro  i  principii  dell'Ottantanove  -  «la  lun- 
ga  corruzione»  che  «ha  depressi  e  awiliti  gli  animi»;  c'e,  in  altre 
parole,  la  preoccupazione  di  difendere  quelle  strutture  politiche 
e  sociali  che  «Fabuso  della  ragione»  e  in  particolare  il  principio 
dell'uguaglianza  sociale,  affermato  dal  Rousseau,  minaccia  nei  loro 
fondamenti. 

Ad  opporre  un  efficace  riparo  a  questo  pericolo  sono  rivolti 
appunto  gli  altri  due  saggi.  II  principio  fondamentale  a  cui  il 
Borsa  si  richiama  e  quello  che  egli  defmisce  lo  «spirito  di  famiglia», 
cioe  quel  sentimento  «naturale»  che  lega  ogni  individuo  alia  fa- 
miglia  a  cui  appartiene,  e  in  particolare  al  capo  di  essa,  e  che, 
per  estensione,  diventa  piu  generalmente  d'idea  d'una  societa  che 


704  MATTED   BORSA 

tutta  dipende  da  un  capo  non  per  estrinseca  forza,  non  per  insi- 
nuazion  di  precetti,  non  per  sovvertimento  di  persuasione,  non 
per  condizione  di  patto,  ma  per  necessaria  tendenza  di  cuore,  per 
awiso  intimo  della  natura,  per  amor,  per  piacere,  per  abito,  infine 
per  rimmutabile  e  universale  sentimento  dell'ordine  ».  DalFidea  di 
famiglia,  cosi  intesa,  Pautore  nel  trattato  sul  Patriotismo,  svilup- 
pando  raffermazione  del  Montesquieu  che  la  patria  potesta  e 
necessaria  nelle  repubbliche,  giunge  alia  conseguenza  che  «Tidea 
di  patria,  nel  senso  universale  e  costante  di  tutti  gli  uomini,  non 
fu,  non  ^  n6  esser  pu6  mai  se  non  se  Tunica  unicissima  idea  di 
famiglia  insensibilmente  trasportata  dalle  case  al  f6ro,  dai  parenti 
ai  magistrati,  dal  privato  al  pubblico»:  giunge,  in  altre  parole, 
ad  una  difesa  delTassolutismo  contro  ogni  forma  di  stato  fondato  sul 
principio  «  astratto  »  e  «  metafisico  »  dell'uguaglianza.  Un  corollario 
di  questa  tesi  e  la  giustificazione  delle  distinzioni  sociali,  e  in  par- 
ticolare  della  classe  aristocratica,  nell'altro  e  piu  lungo  trattato  su 
La  nobiltd:  dall'idea  di  patria  intesa  come  estensione  dello  spirito 
di  famiglia,  deriva,  a  giudizio  del  Borsa,  la  legittimita,  anzi  la 
necessita,  di  una  classe,  come  quella  dei  nobili,  intermedia  fra  il 
sovrano  e  il  popolo,  che  assicuri  cioe  -  come  egli  dice,  sviluppando 
un'altra  e  ben  nota  osservazione  del  Montesquieu,  -  ccnella  ten 
denza  comune  di  tutti  gli  ordini  a  soverchiarsi  Tun  Taltro  .  . ., 
tutto  quelFequilibrio  che  si  possa  sperare  in  tante  collusion  di 
passioni».  In  questi  due  trattati,  tuttavia,  malgrado  Pesplicito  pro- 
posito  reazionario  che  li  ispira,  Taccusa  di  astrattismo  contro  i 
principii  illuministici  non  rimane  sempre,  come  nel  trattato  su 
La  metafisica  popolare,  un  semplice  pretesto  polemico.  Se  infatti 
in  queste  opere  non  si  arriva  ad  un  vero  e  proprio  storicismo,  se  vi 
affiora  solo  sporadicamente  quel  senso  delle  singole  individuality 
nazionali  che  invece  e  cosi  fervido  (per  ricordare  un  autore  dal 
Borsa  conosciuto  e  citato)  nel  Burke,  o  il  concetto  della  formazlone 
storica  delle  istituzioni  difese;  vi  si  fa  luce,  talora,  una  sensibilita 
viva,  se  pure  espressa  sempre  accademicamente,  del  valore  che 
hanno,  anche  nel  campo  politico,  i  vincoli  creati  dalFistinto,  dal- 
Taffetto,  da  una  lunga  consuetudine. 


Tutti  gli  scritti  del  Borsa  sono  raccolti  nei  sei  volumi  delle  Opere,  i  primi 
tre  stampati  a  Verona  (Giuliari,  1800),  e  gli  altri  tre  a  Mantova  (Agazzi, 
1813-1818):  edizione  postuma,  curata  dal  Bettinelli  e  da  Luigi  Tonni,  ma 


NOTA   INTRODUTTIVA  705 

su  material!  approntati  e  riveduti  dal  Borsa  stesso  (cfr.  il  Saggio  del  Betti- 
nelH,  citato  piu  avanti,  p.  xvi). 

Assai  scarsi  sono  gli  studi  critici  sul  Borsa:  1'unico  lavoro  di  carattere 
complessivo  e  ancora  il  Saggio  su  la  vita  e  le  opere  di  M.  Borsa,  anonimo, 
ma  di  S.  BETTINELLI,  premesso  all'edizione  citata  delle  Opere%  e  che,  seb- 
bene  impostato  come  un  « elogio »,  resta  sempre  utile  come  fonte  di  notizie 
e  anche  per  qualche  osservazione  critica.  Un  rapido  profile  e  dedicate  al 
Borsa  da  G.  NATALI,  nel  Settecento,  cit.,  pp.  1187-8  (e  cfr.  anche  p.  497). 

Cenni  degni  di  nota  alia  dissertazione  sul  « gusto  presente»  si  leggono 
neirarticolo  di  W.  BiNNl,  Lo  sviluppo  del  neoclassicismo  nelle  discussioni  sul 
<(gusto  presente»,  in  «Annali  della  Scuola  Normale  Superiore»  di  Pisa, 
S.  II,  vol.  xxn  (1953),  pp.  275-9;  e  nelPintroduzione  di  M.  PUPPO  al  vo 
lume  Discussioni  linguistiche  del  Settecentoy  Torino,  U.T.E.T.,  1957,  pp.  63- 
4.  Sulle  risposte  del  Pindemonte  e  del  Colle  al  concorso  mantovano  si  veda 
lo  studio  di  G.  FINZI,  Ippolito  Pindemonte  e  un  concorso  settecentesco  sul 
<tgusto-»t  in  «Archivio  Veneto»,  LXXXIX  (1958),  pp.  41-62. 

Per  una  trattazione  piu  particolareggiata  e  documentata  delle  idee 
esposte  in  questa  Nota  introduttiva  rimando  al  mio  studio  Tra  classicismo 
epreromanticismo:  M.  Borsa,  in  «Lettere  italiane»,  xi  (1959),  pp.  320-33. 


45 


DA  «I  VIZI  Pit!  COMUNI   E  OSSERVABILI 

DEL  CORRENTE  GUSTO  ITALIANO 

IN  BELLE  LETTERED 

[Introduzione.] 

Qualunque  volta  uno  si  pone  a  studiare  attentamente  la  storia 
delle  varie  nazioni,  e  con  accuratezza  va  dietro  agli  andamenti 
dei  vari  popoli  in  ogni  genere  di  cultura  e  di  lettere,  mi  pare 
ch'egli  non  abbia  a  potersi  levare  da  quelle  letture  e  medita- 
zioni  senza  una  grande  melanconia.  Perch6  passano,  e  vero,  d'un 

Questo  saggio  del  Borsa  fu  presentato  nel  1783  al  concorso  bandito  dal- 
1'Accadernia  di  Mantova  sul  tema:  «Qual  sia  presentemente  il  gusto  delle 
belle  lettere  in  Italia,  e  come  possa  restituirsi  se  in  parte  depravato », 
e  poi  pubblicato  col  titolo  Del  gusto  presente  in  letteratura  italiana,  disser 
tazione  del  signor  dottor  Matteo  Borsa,  regio  professore  nella  Universita  di 
Mantova,  data  in  luce  e  accompagnata  da  copiose  osservazioni  relative  al 
medesimo  argomento  da  Stefano  Arteaga,  a  Venezia,  Palese,  1784.  Le  os 
servazioni  dell' Arteaga  (ex-gesuita  spagnolo,  vissuto  fra  il  1747  e  il  1799, 
noto  soprattutto  per  1* opera  Le  rivoluzioni  del  teatro  musicale  italiano  dalla 
sua  origine  fino  al  presente)  sono  stampate  in  appendice  al  saggio  del  Borsa 
e  vertono  sui  seguenti  argomenti :  Riflessioni  intorno  al  primo  carattere  co- 
stitutivo  del  presente  gusto  (ciofc  sul  «  neologisrno  straniero  ») ;  Esame  d'un'opi- 
nione  del  signor  di  Merian  intorno  alV  influenza  ch'ebbe  la  filosofia  sulla  poesia 
de'  Greet  e  de'  Latini;  Osservazioni  su  i  due  principali  abusi  dell' eloquenza 
sacra  in  Italia\  Confutazione  d'una  opinione  circa  Vistinto\  Osservazioni 
sulVuso  della  parodia  e  del  ridicolo ;  Mezzi  di  restituire  il  gusto  depravato. 
La  dissertazione  del  Borsa  ottenne,  appena  stampata,  un  certo  successo, 
e  divenne  anzi  uno  dei  testi  piu  frequentemente  citati  dai  letterati  del 
movimento  di  reazione  classicistica.  Alle  note  critiche  dell' Arteaga  rispo- 
sero  in  particolare,  spesso  riprendendo  gli  argomenti  stessi  del  Borsa, 
Giambattista  de  Velo  nella  dissertazione  Del  carattere  nazionale  del  gusto 
italiano  e  di  certo  gusto  dominante  in  letteratura  straniera,  Vicenza  1786 
(dove  attraverso  1* Arteaga  era  attaccato,  come  si  &  visto  a  p.  427,  so 
prattutto  il  Cesarotti)  e  Andrea  Rubbi,  nei  Dialoghi  fra  il  signor  Arteaga 
e  A.  Rubbi  in  difesa  della  letteratura  italiana,  Venezia  1786.  A  sua  volta 
il  Borsa,  poco  prima  della  morte,  nel  rivedere  il  proprio  lavoro  prima  di 
ristamparlo  nelle  Opere,  vi  inserl  parecchie  aggiunte  intese  soprattutto  a 
rispondere  alle  due  prime  osservazioni  dell' Arteaga,  e  in  genere  a  chiarire 
e  a  precisare  il  suo  pensiero.  In  questa  seconda  redazione  Tautore  mut6 
anche  il  titolo  primitivo  col  seguente:  /  vizi  piu  comuni  e  osservabili  del 
corrente  gusto  italiano  in  belle  lettere,  «  per  il  ragionevole  scrupolo  »,  come  & 
spiegato  in  un'awertenza,  «  d'aver  esagerata  e  universalizzata  un  po*  troppo 
Tidea  del  carattere  nazionale  in  questo  genere  di  studi».  Nelle  pagine 
qui  riportate  riproduciamo  il  testo  di  questa  seconda  e  definitiva  redazione, 
pubblicata  postuma  nelle  Opere  (cfr.  II,  pp.  5-74);  ma  abbiamo  tenuto 
presente  anche  la  prima  per  correggere  qualche  errore  ed  omissione.  Le 
note  del  Borsa  sono  seguite  dalla  sigla  B. 


708  MATTEO   BORSA 

paese  nelFaltro  le  opinioni  ed  i  gusti;  cangian  colPandare  de' 
secoli  le  manierc  di  scrivere  e  di  pensare;  tutti  si  vantano  d'ag- 
giugner  grandi  ricchezze  al  tesoro  delFumana  sapienza;  e  ognu- 
no  guarda  con  occhio  di  compassione  or  gli  antichi,  ora  i  vi- 
cini.  Ma  che?  Si  migliora  ella  nel  totale  e  s'avanza  la  lettera- 
tura  per  le  frequenti  metamorfosi  che  soffre  nei  van  individui? 
Romanzieri  e  poeti,  oratori  e  filologi  pretendon  tutti  la  gloria 
di  creatori  e  inventori.  Eppure  centinaia  e  migliaia  di  mani  che 
altro  fan  mai  se  non  se  rimpastar  di  continue  la  medesima  cera? 
Pur  troppo  e  cosL  E  come  in  fisica,  presso  a  poco  anche  del  pari 
in  belle  lettere  la  quantita  della  materia  e  sempre  la  stessa,  e 
passano  le  forme  e  senza  posa  si  riproducono;  sempre  diverse 
bensl,  ma  simili  sempre  e  costanti.  Tutti  insomma  sono  gelosi 
alPestremo  della  indipendenza  nelle  idee,  anzi  pure  del  vanto  di 
dominar  coll'ingegno.  Ma  in  sostanza  son  eglino  i  dominati;  e 
senza  awedersene  van  seguendo  1'impulso  di  mille  circostanze 
e  combinazioni  estrinseche,  che  li  conducono,  li  modificano,  li 
formano.  Talche  giunti  che  siano  a  certi  punti,  tutti  s'incon- 
trano  in  certi  vizi,  in  certi  pregi,  in  certo  disprezzo  o  ravviva- 
mento  delle  idee  piu  antiche.  E  tutti  cosi  alia  fin  del  periodo  han- 
no  compiuto  un  medesimo  viaggio,  fatto  uno  stesso  cammino,  e 
niente  piu.  Finch<§  dopo  molto  ondeggiare  tra  il  bene  e  '1  male, 
un  turbine  di  guerra,  un  canale  abolito,  un  fiume  travolto,  un  tre- 
muoto  che  chiude  una  strada,  un  navigante  che  ne  apre  una  nuova, 
portano  altrove  coi  danari  i  soldati,  col  lusso  i  libri,  coi  letterati 
i  mercanti;  e  la  nazione  rientra  nell'antico  silenzio  della  sua  prima 
oscurita  per  dar  luogo  a  qualch'altra  in  sul  teatro  del  mondo. 

Ora  questi  pensieri  parvero  tutti  accorrere  in  folia  alia  so- 
luzione  del  problema  seguente.  Qual  &  il  gusto  d' Italia  in  belle 
lettere?  Qual  saranne  il  rimedio,  s'e  depravato?  Problema  im- 
portante,  ma  che  si  presenta  con  tanta  estensione  e  complicazione 
d'oggetti,  che  non  lascia  sperare  di  poter  esser  ridotto  a  tale  unita 
e  precisione  di  lineamenti  e  di  forme,  che  renda  compiuto  e  vero 
in  ogni  sua  parte  1'oggetto.  Perci6  e  prudenza  il  ristringerlo ;  e 
senza  volere  definir  veramente  qual  sia  cotesto  gusto,  accennarne 
alcuni  de'  piu  comuni  e  osservabili  caratteri.  Ma  e  tra  questi  ca- 
ratteri  perch6  scegliere  i  vizi  anzi  che  i  pregi,  quasi  che  non 
avesse  quest'eta  nostra  molti  altri  aspetti,  sotto  cui  venire  vantag- 
giosamente  a  confronto  colle  epoche  nostre  piu  belle  ?  Perch6  quelli 


I   VIZI   DEL    CORRENTE   GUSTO    IN   BELLE   LETTERE      709 

offrono  una  qualche  lusinga  di  frutto  nella  conversione  almeno  di 
qualche  individuo.  Anche  cosi  ristretto  per6  il  problema  conserva 
tanto  di  peso  e  di  gravita  che,  a  trattarlo  con  qualche  dignita,  ci 
par  necessario  il  confronto  de'  secoli  e  delle  nazioni. 

Cosi  e:  a  voler  trovare  rimedi,  risalire  bisogna  alle  cagioni  che 
a  tali  vizi  ci  guidano  e  ci  affezionano.  Mai  si  apporrebbe  quel 
medico  che  non  si  tosto  osservato  qualche  sintoma,  s'affrettasse 
a  ordinare  questo  o  quel  farmaco.  AH'origine  della  infermita,  alia 
natura,  alia  cagione  del  male  risalire  bisogna  attentamente,  onde 
n6  nuocere  colle  contrarie,  n6  vanamente  stancar  Tammalato  colle 
inutili  droghe.  Ed  ecco  come  quelle  antiche  riflessioni  su  le  lette- 
rarie  vicende  dei  vari  popoli  spontaneamente  accorrono  all' opera. 
Perch6  mostrandoci  esse  per  quali  cagioni  le  nazion  varie  subirono 
queste  e  quelle  metamorfosi  or  di  gusti  or  d'idee,  ci  fanno  certi 
altresi,  colla  ragione  e  col  fatto,  di  quelle  cagioni  che  tali  ora  ci 
rendono  quali  pur  siamo  in  realta. 

Quanto  a  queste  cagioni,  non  &  no  (o  almen  cosi  credo),  non 
e  per  un  principio  di  ragione,  n<§  per  un  intrinseco  merito  ed 
eccellenza  intima  e  reale  della  cosa  in  s£,  che  gli  uomini  d'or- 
dinario  decidansi  per  questo  stil,  per  quel  gusto,  per  un  tal  ge- 
nere  o  1'altro  di  produzioni,  di  studi  e  di  maniere  in  letteratura. 
Sono  le  circostanze  politiche  e  le  morali,  sono  le  combinazioni 
civili  e  religiose,  dai  letterati  per  lo  piii  indipendenti,  che  qua  e 
la  pieganli  e  volgono  potentemente.  Data  un'esatta  somiglianza  e 
riunione  di  tutte  queste  cagioni,  avremo  e  sempre  e  costantemente 
simili  anch'essi  gli  effetti  nelle  mode  letterarie,  nelPidee  del  Buono 
e  del  Bello>  nel  credito  delle  composizioni  e  dei  compositori  in 
ogni  popolo ;  senza  che  moltissimo  il  clima  e  pur  un  poco  le  cangi 
la  distanza  dei  secoli  diversi.  Ci  concorrera  talvolta  benissimo  il 
temperamento  e  la  situazione  speciale  di  qualche  grand'uomo,  che 
a  certi  tempi  si  trovi,  per  mandar  al  sommo  le  cose.  Ci  entrera  lo 
sforzo  di  migliorar  il  perfetto,  la  smania  di  raffinare  il  raffinato.1 
Ma  si  volga  e  rivolga  in  tutti  i  modi  la  cosa,  tutto  poi  va  a  finire 

i.  Ci  entrera  .  .  .  raffinato:  allude  probabilmente  alia  teoria  che  il  Tira- 
boschi  aveva  proposto,  nella  dissertazione  SuW origine  del  decadimento 
delle  science  (premessa  al  tomo  II  della  sua  Stona  della  letteratura  italiana), 
per  spiegare  la  decadenza  latina  dopo  Augusto  e  quella  italiana  del  Sei- 
cento,  decadenza  che  egli  attribuiva,  in  ambedue  i  casi,  all'ambizioso  de- 
siderio  di  offrire  qualcosa  di  nuovo,  che  potesse  superare  la  perfezione 
raggmnta  nelle  epoche  precedenti. 


7*O  MATTEO   BORSA 

in  cercar  gloria  e  fortuna.  E  perci6  quel  perfetto  non  sara  altro 
se  non  ci6  che  a  quel  tempo  passa  per  perfetto.  E  questo  perfetto 
si  vorra  migliorare  secondo  le  idee  di  perfezione,  di  utile,  d'irn- 
portanza  che  corrono;  o  almeno  secondo  idee  estremamente  ana- 
loghe.  Far  sensazione,  esser  cercato,  e  come  mai,  se  non  si  consul- 
tano  i  palati?  Dunque  raffinare  ci6  che  a  forza  d'abitudine  non 
riesce  piu  fino.  Dunque  aggiugnere  ogni  dl  qualche  cosa  per  velli- 
care;  ma  qualche  cosa  delle  droghe  accreditate.  Dunque  non  solo 
le  idee  generali  del  bene  e  del  male  e  le  nozioni  vaghe  e  indistinte 
del  gusto  sano  o  depravato,  ma  di  la  vengono  anche  quelle  parti- 
colari  piegature  e  modificazioni  per  cui  certi  generi,  certi  stili, 
certi  argomenti,  certi  soggetti  e  non  altri  salgono  in  moda  e  son 
trattati  e  maneggiati  a  gara  da  tutti.  Son  quelle  le  vere  cagioni  del 
fenomeno,  e  la  lor  forza  proviene  dalla  natura  stessa  delle  arti  di 
che  trattiamo. 

Infatti  a  due  soli  oggetti  tendono  sempre  gli  studi  di  belle  let- 
tere  (almeno  i  principali,  e  quelli  che  formano  Tintima  loro  so- 
stanza)  a  dipinger,  cio&,  ed  a  commuovere.  Ora  le  immagini  pre- 
sentate  dalFimitazione  e  quello  stesso  che  imita,  forse  che  non  di- 
pendono  affatto  dagli  originali  ?  E  col  cambiar  dei  prototipi  cangiar 
forse  non  debbono  anche  le  copie?  E  non  sara  dunque  lo  stesso 
di  quest'arti  pittrici  che  d'imitative  ebber  nome?  Vi  fu  gia  un 
inglese,1  che  scrisse  eccellenti  essere  riesciti  appunto  in  pittura 
Greci  e  Italiani  per  ci6  che  la  natura  benefica,  innamorata  quasi 
del  clima  dolce  e  ridente,  par  che  compiacciasi  d'abbellirne  e 
renderne  degni  gli  abitatori  colla  eleganza  delle  forme,  la  nobilta 
dei  contorni  e  la  leggiadria  delle  membra.  Ma  quando  occuparono 
i  barbari  queste  terre  felici,  e  fusi,  per  cosi  dire,  Tuno  neir altro 
furon  que*  popoli,  cangiarono  gli  uomini,  e  con  essi  ancora  le 
arti  che  nei  volti,  negli  atti,  nelle  fabbriche  stesse  un  continue 
ritratto  ci  serbano  di  quegli  inconditi  oggetti  che  loro  stavan  pre- 
senti.  Cosl,  per  passare  alia  letteratura,  dopo  la  guerra  di  Troia 
comunicossi  ai  poeti  Tamor  della  gloria,  e  dalle  ceneri  ancor  cal- 
de  di  lei,  dice  un  autore,  s'accese  ne'  Greci  quell'entusiasmo  fe- 
lice  per  cui  Omero  e  gli  altri  a  lui  posteriori,  massime  tragici,  tra 

i.  un  inglese:  non  so  a  quale  scrittore  inglese  alluda  il  Borsa;  il  concetto 
che  segue  &  in  ogni  modo  esposto  in  modo  particolareggiato  dal  Winckel- 
mann,  Storia  delVarte  presso  gli  antichi,  lib.  I,  cap.  in,  §  10-5  (cfr.  Opere, 
traduzione  italiana,  i,  Prato,  Giachetti,  1830,  pp.  105-13). 


I   VIZI   DEL   CORRENTE   GUSTO    IN  BELLE   LETTERS       711 

que'  gran  fatti  e  personaggi  sempre  s'aggirano  e  quelli  ad  ogni 
tratto  dipingono  e  non  san  ritrarre  il  pennello  da  que'  grandi  ori- 
ginali.  Che  se  si  tratti  dell'altro  oggetto  delle  arti  letterarie,  che  e 
la  commozione,  chi  e  che  possa  commuovere  e  piacere,  se  la 
disposizione  non  sente  e  non  seconda  de'  suoi  uditori;  se  gPinteressi 
non  tratta  che  stan  loro  a  cuore;  e  se  da  un  medesimo  spirito  non 
6  agitato  e  condotto  ?  Quindi  fu  che  investendosi  dell'amor  patrio, 
della  causa  pubblica,  della  religion  popolare  e  quasi  direi  roman- 
zesca  dei  Greci,  piacquer  cotanto,  e  in  tanto  numero  crebbero 
per  conseguenza  e  poeti  ed  artisti  incomparabili  in  si  piccolo  spa- 
zio  e  di  tempo  e  di  luogo.  Furon  le  adunanze  anfizionie,  istmiche, 
olimpiche,  che  lor  piegaron  la  testa  a  quegli  oggetti,  siccome  le 
dissensioni  interne  ed  esterne  produssero  tanti  oratori  e  si  gravi, 
i  quali  e  tutti  e  sempre  s'aggirano  nella  stessa  sfera  e  s'uniscono 
nelle  medesime  mire  e  tendono  ai'fini  medesimi.  Diversi  oggetti 
e  circostanze  ebbero  sotto  Augusto  i  Romani.  La  licenza,  anzi 
pure  la  dissolutezza  di  quella  corte  e  gli  spettacoli  assidui  e  il 
governo  inflessibile  estinse  gli  oratori  gia  divenuti  inutili  e  trascu- 
rati,  poich6  non  c'era  piu  un  popolo  a  cui  parlare.  La  poesia  amo- 
rosa  e  la  storica  adulatrice  raffinaronsi  in  cambio  estremamente 
nei  lirici  e  negli  epici,  perch£  que*  poeti  avean  sempre  presenti 
alia  fantasia  mollezze  e  lascivie  epicuree,  ma  insieme  anche  nitore, 
eleganza,  giustezza.  La  corte  e  i  palagi  non  eran  che  ci6.  Ecco 
per  Tuna  parte  chi  rese  celebri  e  Lesbia  e  Cinzia;  e  chi  su  Parte  di 
amare  alz6  una  cattedra.1  Ecco  per  Taltra  tutta  la  nazione  occupata 
d'un  uomo  solo,  e  tutti  i  letterati  vederlo  e  cercarvi  fortuna  col- 
Parmi  loro;  con  quel  senso  cioe,  che  hanno  acutissimo,  di  tutte  le 
piegature  le  piu  dissimulate  delPamor  proprio.  Questo  &  che  guid6 
la  mano  che  scrisse  quel  «tu  Marcellus  eris»;2  questo,  che  dett6 
tante  politiche  odi  ad  Orazio ;  e  che  alle  amiche  di  Tibullo  e  d'Ovi- 
dio  rub6  tanti  tratti  in  quell' elegie  cosi  tenere  e  appassionate. 
Rivali  assai  piu  soffribili  di  quelli  che  trovano  ora  le  nostre  donne 
negli  esseriy  i&lYumanita,  nell'elettricismo,  nella  chimica,  nel  patto 
sociale,  e  in  tante  altre  ridicolezze  rubate  alle  professioni  che  danno 
del  pane,  per  pur  veder  di  accattarne.  Per  non  dissimil  maniera 

i.  chi .  .  .  catteda:  Ovidio,  ricordato  come  autore  dell'Ars  a?natoria,  e  con- 
trapposto  cosl  a  Catullo  (peraltro  di  eta  cesariana)  e  a  Properzio.  2.  Al 
lude  ai  celebri  versi  di  Virgilio  (Aen.,  vi,  860-86)  in  onore  di  Marcello, 
nipote  e  genero  di  Augusto. 


712  MATTEO   BORSA 

Dante  e  Miltono  annebbiano  delle  oscurita  teologiche  i  lor  poe- 
mi  in  secoli  tutti  ispidi  di  teologia.  Camoens  trasporta  nel  suo 
Fentusiasmo  recente  delle  scoperte  americane  e  Voltaire  e  Aken- 
side1  e  tant'altri  fanno  echeggiar  ne'  lor  versi  la  legge  naturale,  il 
deismo  e  gli  altri  dogmi  anche  troppo  famosi  della  corrente  filo- 
sofia.  Che  piu?  Come  da  specchio  gli  oggetti,  cosi  dal  carattere 
della  letteratura  quello  altresi  rappresentato  ci  viene  che  una  nazio- 
ne  contrae  dalla  situation  sua  morale,  religiosa  e  politica.  £  certo 
che  la  mutazione  dei  re,  delle  sette,  dei  commerci,  dei  sistemi 
tosto  si  propaga  e  palesa  nelle  mode  letterarie,  nelle  opinioni,  nei 
gusti  degli  autori  anche  i  piu  leggieri  in  ogni  nazione,  come  si 
potrebbe  facilmente  mostrarlo  di  ciascheduna.  Ma  basta  il  detto 
fin  qui  a  provar  in  genere  vero  il  mio  pensiero  cosi  dal  canto  della 
ragione,  come  da  quello  del  fatto.  E  basta  Faverlo  provato  co 
si,  per  servire  alia  chiarezza  e  certezza  di  ci6  che  si  verra  osser- 
vando  in  appresso  piu  particolarmente.  Vedremo  allora  che  niente 
dissimili  sono  quei  principii  che  i  present!  gusti  in  Italia  hanno 
introdotti.  Vedremo  che  non  la  ragione  d'un'eccellenza  o  bonta 
intrinseca  e  indipendente  della  cosa  in  se  stessa  opera  questo  fe- 
nomeno;  ma  si  anzi  la  necessaria  sua  dipendenza  dagli  oggetti 
circostanti  ed  estrinseci  a  tutto  ci6  che  possa  esserci  in  lei  di  buono 
o  di  cattivo.  E  se  si  pensi  che  la  prepotente  influenza  di  questi  og 
getti  nasce  da  quel  principio  d'imitazion  materiale  insito  all'uo- 
mo,  da  quel  suo  desiderio  indeterminato  di  novita,  qualunque 
sia,  dalFinteresse,  dairambizion,  dal  bisogno,  tosto  vedremo  che 
non  ragione,  non  esame,  no  studio,  ma  una  mera  combinazione 
d'impulsi  necessari  e  da  noi  non  intesi,  ma  Tistinto,  quasi  direi, 
ha  condotta  a  questo  t ermine  la  letteratura  italiana  invincibilmente, 
e  per  quel  modo  medesimo  che  le  altre  nazioni  colte  g&  vi  condusse 
in  paritk  di  circostanze. 

Prima  per6  d'andar  oltre,  due  solenni  proteste  debbo  qui  fa 
re  ad  evitare  ogni  ingiusto  sospetto.  La  prima  risguarda  gli  au 
tori  viventi,  rispetto  ai  quali  mi  son  prefissa  una  legge  di  non 
nominarne  pur  uno  n£  in  ben  n6  in  male.  Ho  dovuto,  a  dir  vero, 
farmi  una  specie  di  violenza  per  tacer  molti  nomi  che  Fetk  no- 
stra  onoran  non  meno  che  la  nazione.  Ma  era  da  farsi  per  isfug- 

i.  Mark  Akenside  (1721-1770),  autore  del  poemetto  The  Pleasures  of  Ima 
gination  (1744),  ispirato  al  noto  saggio  omonimo  delPAddison  e  tradotto 
in  italiano  da  Angelo  Mazza  nel  1764. 


I   VIZI   DEL   CORRENTE   GUSTO   IN  BELLE   LETTERE       713 

gire  ogni  noioso  confronto  che  con  se  far  ne  potessero  gli  scrit- 
tori  tacciuti,  per  quanto  poco  debba  importare  ad  ognuno  il  mio 
giudicio.  L'altra  protesta,  ne  meno  solenne,  risguarda  Pautori- 
ta  del  passati  autori  italiani  nella  materia  medesima  di  che  si 
tratta.  Di  questa  parra  ch'io  non  usi  come  dovrei,  o  affetti  an- 
zi  di  non  usare,  citando  sempre  greci  e  latini,  ma  anche  piu  in- 
glesi  e  francesi,  di  cui  maggior  copia  abbondava  al  mio  intento. 
Riflettan  per6  che  abbiam  precettisti  d'ogni  genere  e  autori  d'ar- 
te  savi  e  accreditati;  ma  che  qui  non  si  cerca  di  dare  un  trattato 
su  Pessenza  della  buona  letteratura.  Cercasi  cosa  sien  gPitaliani; 
non  cosa  debban  essere  in  genere  i  buoni  letterati.  Ora  autori 
passati  che  applicare  si  possano  alle  stravaganze  presenti,  dove 
trovarli,  se  Italia,  dacch.6  Italia  e  rigorosamente  parlando,  mai  non 
trovossi  in  tai  circostanze,  sebben  vi  fosse  in  certa  maniera  ai  di 
dei  latini  ?  E  poi  non  si  provera  forse  che  la  massima  parte  degP ita 
liani  questi  vizi  di  gusto  ha  contratti  dagli  stranieri  per  quel  tra- 
sporto  che  mostrasi  verso  ogni  lor  cosa,  per  la  prontezza  ad  imi- 
tarli,  per  Pavidita  di  raccoglierli,  per  Padorazione  d'ogni  lor  detto, 
sentenza  e  dottrina?  E  non  &  egli  omai  certo  che  questi  stranieri 
medesimi,  i  quali  in  tale  periodo  ci  van  precedendo,  s'aweggono 
essi  stessi  in  gran  parte  de}  torti  loro,  e  contro  Pabuso  declamano 
e  predicano  la  riforma  ?  Giacche  dunque  P  Italia  si  fa  oggi  discepola, 
al  tribunal  provochiamola  de'  suoi  maestri  medesimi,  onde  pie- 
namente  convincerla;  e  se  si  pu6,  convertirla. 

PARTE  PRIMA 

PRIMO  VIZIO 
Neologismo  straniero. 

Premesse  quelle  considerazioni  sul  generale  andamento  del- 
lo  spirito  umano,  &  facile  trovare  Pimpronta  de'  suoi  passi  nel 
particolare  paese  che  andiamo  a  descrivere.  Cominciam  dalla  lin 
gua,  che  6  materia  a  ogni  stile  e  composizione.  Non  segui  ella 
forse  sempre  la  condizione  delle  nazioni?  Due  sono  i  modi  con 
che  la  lingua  d'un  popolo  diventa  conquistatrice,  e  soggioga  quella 
d'un  altro.  Quello  della  forza  egli  &  il  primo,  quel  del  sapere  il 
secondo.  Dal  grado  con  cui  questi  due  principii  equilibrando  si 
van  nei  due  popoli  e  resistendo,  il  vario  grado  pure  dipende  dei 


714  MATTEO   BORSA 

progress!  che  fa  Puna  lingua  ai  danni  delFaltra.  Ma  quando  dal- 
Funa  parte  e  si  trovano  riuniti  amendue  e  vanno  al  sommo,  s'e- 
stingue  allora  nelFaltra  a  poco  a  poco  ogni  principio  di  vita  lette- 
raria,  e  la  lingua  dileguasi,  e  '1  popol  si  perde  assorto  e  confuso 
nel  vincitore,  per  creare  un  popolo  nuovo  ed  una  lingua  novella. 
Vediamolo  nel  fatto.  Alia  politica  e  al  valore  romano  cesse  la  Gre- 
cia  ineguale  in  armi  al  confronto  a  que'  di.  Ma  perche"  serbava  an- 
cor  vivo  quel  sacro  fuoco  che  anim6  tanti  ingegni  e  tanta  luce  gia 
sparse  per  tutto  il  mondo,  pote"  colla  fama  degli  orator,  dei  poeti 
e  dei  filosofi  e  col  vigore  della  sua  letteratura  reggersi  a  segno  che 
seguit6  a  tenersi  con  assai  dignita  tra  le  nazioni  piu  celebri  per 
qualche  tempo  dopo  ancor  che  fu  vinta.  Anzi  i  suoi  padroni  me- 
desimi  fin  da  Roma  correvano  a  lei  per  apprendere  Parti  del  foro, 
e  le  dottrine  del  Portico1  insiem  colla  lingua  di  Pindaro  e  Seno- 
fonte.  Riescl  perci6  essa  a  mutare,  e  non  poco,  in  fatto  d'elocuzione 
e  sintassi  quella  del  Lazio;  vendicando  quasi  cosl  in  terreno 
straniero  la  domestica  servitu.  Cesse  di  poi  alPimpeto  de'  set- 
tentrionali  Fimpero  latino,  ma  allora  non  si  fermaron  piu  qui  le 
cose;  giacch6  per  mancanza  d'uomini  grandi  e  d'ingegni  domi- 
natori,  al  suo  destino  fatale  dov6  tener  dietro  quasi  immediata- 
mente  quello  ancor  della  lingua,  e  la  nazione  scomparve.  Ebber 
contraria  fortuna  le  lingue  in  Inghilterra,  perche"  contraria  in- 
contrarono  la  direzione  della  corrente.  Difatti  cotesta  Inghil 
terra  fin  dal  suo  nascere  dov6  piegarsi  per  poco  alia  violenza 
normanna,  e  nelle  sue  scuole,  negli  atti  pubblici,  nella  nazione 
insomma  vide  stabilita  a  forza  e  diffusa  la  lingua  de*  Franchi. 
Ma  tra  rozzi  e  rozzi  le  cose  rimaser  del  pari;  n6  i  Francesi  ten 
ner  Fimpero  sopra  le  menti,  come  ben  presto  il  perdettero  an- 
che  nel  resto.  Quindi  que'  fieri  isolani  misti  d'indigeni  e  Sas- 
soni  seguirono  a  farsi  una  propria  lor  lingua  che  in  molti  avan- 
zi  francesi  rimastile  mostra  non  rare  anche  al  dl  d'oggi  le  or- 
me  della  sofferta  schiavitu.  Ecco  tre  casi  assai  noti,  con  cui  Fesatta 
gradazione  si  mostra,  secondo  la  quale  la  forza  ed  il  saper  si  com- 
binano  ad  ottenere  Feffetto  proporzionato.  E  questi  assai  ci  di- 
spensano  dal  ricercarne  esempi  piu  oltre  in  altri  popoli  e  in  noi 
medesimi,  a  cui,  dopo  d'esserci  di  Latini  cangiati  in  Italiani, 
fu  dato  pur  risalire  di  nuovo  in  fama  e  splendore,  chiamando  qui 
d'ogni  parte  e  d'ogni  clima  a  discepoli  gli  stranieri.  Noi,  che  ora 
i.  del  Portico:  peripatetiche. 


I  VIZI   DEL   CORRENTE   GUSTO   IN  BELLE   LETTERE      715 

i  monti  passiamo  e  dalle  sponde  opposte  de'  mari  in  tanti  libri  ci 
chiamiamo  i  maestri  a  grandi  spese;  cosi  dalle  cattedre  alle  pan- 
che  discesi  miseramente. 

Con  questi  principii  date  le  varie  situazioni  d' Italia  nei  vari 
tempi,  non  &  egli  facile  assai  Findovinare  il  destino  della  sua 
lingua  e  la  sorte  della  sua  letteratura?  Fermiamoci  alle  circostanze 
present!.  Siam  d'ogni  parte  sotto  il  dominio  straniero:  dunque 
soggiacciamo  alia  forza.  E  sebbene  piuttosto  il  patrocinio  che  il 
dominio  d' Italia  diviso  si  sieno  i  nostri  signori,  cosl  temperati 
sono  nelFuso  del  lor  potere  e  cosi  le  leggi  nostre  generalmente 
sostengono1  ed  i  costumi ;  pur  mai  non  potra  la  lingua  nostra  sot- 
trarsi  al  destino  comune.  Chi  in  fatti  non  vede  che  il  dover  piacere 
a'  padroni,  il  cercar  cariche,  il  trattar  liti,  il  bisogno  d'impieghi, 
la  necessita  di  farsi  intendere,  tutto  infine  propagar  deve  lo  studio 
delle  lor  lingue,  delle  loro  storie,  delle  loro  costituzioni,  delle  leg 
gi,  degli  usi,  dei  pregiudici  e  delle  opinioni?  Chi  non  confessa 
che  ci6,  coirawezzarci  agFinteressi,  alle  idee,  alle  passioni  degli 
stranieri,  ci  abbia  anche  dovuti  awezzare  alle  lingue  e  facendocele 
stimare  e  diminuendoci  la  paura  della  fatica  a  studiarle  ?  Chi,  che 
abbia  dovuto  cosl  preparare  una  rivoluzione,  la  quale  dal  con- 
corso  di  circostanze  piu  efficaci  doveva  esser  poscia  operata?  Chi 
pu6  dissimulare  che  questo  non  sia  un  effetto  del  distruggersi  che 
faceva  lo  spirito  nazionale  per  condizione  politica  de*  popoli?  Se 
Fanalogia  delle  lingue,  che  di  tanto  decide  in  questo  affare,  si 
fosse  combinata  abbastanza  colla  gloria  letteraria  e  civile  di  altre 
nazioni  dominatrici,  chi  sa  che  il  neologismo  presente  non  fosse 
o  spagnuolo  o  tedesco  ?  lo  non  ci  so  vedere,  a  dir  vero,  difficolta. 
Ma  cosi  com'eran  le  cose,  non  potevano  che  preparar  la  materia  e 
dispor  le  provincie.  Fu  la  celebritk  della  Francia  prima  deirorribile 
suo  traviamento,  fu  Pintrinseco  merito,  Famenita  e  la  sorte,  quasi 
direi,  delle  sue  scienze  e  delParti,  della  dottrina  e  della  eleganza, 
della  vivacita  e  della  grazia,  della  varieta  e  del  capriccio,  della  ma- 
lizia  perfino  e  di  una  certa  amabilita  petulante,  che  vinse  Far- 
ringa  e  strascinb  la  fortuna.  Non  dunque  cieca  prevenzion  per 
Pltalia,  non  puerile  disprezzo  per  gli  stranieri,  che  mal  saria 
giustificato  dal  loro,  comunemente  parlando;  ma  il  vero  soltanto, 
ma  Fevidenza  mi  guida  a  sostener  questa  causa.  Si,  agli  stranieri 
il  dobbiamo  questo  neologismo.  N6  perch<§  al  saper  loro,  alle  opere 
i .  sostengono :  mantengono. 


716  MATTEO   BORSA 

ed  alia  gloria  si  debba,  egli  &  meno  vizioso.  N6  perche"  vizioso  sia 
evidentemente,  egli  e  men  necessario  e  inevitabile.  Due  cose,  in 
cui  debbo  con  diligenza  spiegarmi,  giacch6  massime  in  una  un 
cosi  buon  lettore,  come  certo  e  il  mio  dotto  amico  Arteaga,  non 
ha  per6  preso  bene  il  mio  pensiero  nelle  sue  note.1  Forse  anche 
fu  ch'egli  al  mio  volea  aggiugnerne  un  suo,  o  anche  semplice- 
mente  uno.  Quest'idea  mi  libera  dal  timore  d'aver  veramente  om- 
messa  cosa  che  fosse  importante  in  un  oggetto  che  non  pu6  da 
uomo  italiano  prendersi  a  cuor  per  meta. 

Intesi  dunque  allora,  come  intendo  anche  adesso,  che  vizio 
so  sia  non  g&  puramente  e  semplicemente  il  neologismo,  ma  il 
neologismo  straniero.  Quello  &  nella  natura,  e  nelFordine  intrin- 
seco  della  cosa,  ed  e  utile  perci6  e  ragionevole :  questo  non  e. 

Che  le  lingue  sieno  in  un  moto  perpetuo,  e  continuamente 
subiscano  mutazioni  necessarie  e  essenziali  cosl  nelle  voci  come 
nella  sintassi  e  nei  periodi  e  in  ogni  altra  parte  dello  stile,  col  se- 
condare  appunto  che  fanno  quelle  mutazioni  le  quali  van  succe- 
dendosi  nelle  idee  umane  tanto  riguardo  alle  nozioni  fisiche,  mo- 
rali,  politiche,  quanto  riguardo  agli  usi  stessi,  ai  bis  ogni  ed  ai  capric- 
ci,  questo  e  un  fatto  indubitabile  ed  evidente.  Dopo  che  per  opera 
massimamente  di  Sulzer,  di  Condillac,  di  Marsais,2  ec.,  la  metafisi- 
ca  delle  lingue  e  divenuta  la  metafisica  di  moda,  non  si  posson 
tai  cose  decentemente  ignorar  da  nessuno.  Tanto  piu  che  Tog- 
getto  e  di  tale  natura  che,  riflettendoci  un  po'  seriamente,  non  & 
possibile  il  non  indovinare  anche  da  s6  grandissima  parte  di  quel- 
lo  che  gli  altri  avean  detto ;  ond'e  che  come  e  in  Arteaga  e  in  Ce- 
sarotti  per  esempio  si  trovano  alcune  idee  di  que'  francesi,  cosl 
in  questi  se  ne  trovano  alcune  del  nostro  Vico,  e  di  forse  qualch'al- 
tro.  In  ci6  stesso  abbiamo  un  argomento  dell'evidenza  del  fe- 
nomeno  e  della  inesorabile  necessita  che  lo  conduce.  II  voler 
impedire  questa  successiva  e  tacita  metamorfosi  delle  lingue  sa- 


i.  non  ha  .  ,  .  note:  allude  alia  nota  intitolata  Riflessioni  intorno  al  primo 
carattere  costitutivo  del  presents  gusto,  in  cui  F  Arteaga  aveva  difeso  Top- 
portunitk  del  neologismo,  quale  mezzo  per  arricchire  e  rinvigorire  1'impo- 
verita  lingua  letteraria  itahana.  2.  Johann  Georg  Sulzer  (1720-1779)  si 
occup6  di  filosofia  delle  lingue  in  alcune  voci  della  sua  Allgemeine  Theo- 
rie  der  schdnen  Kunste  (1771-1774),  ma  limitandosi  a  riportare  le  idee 
correnti  del  secolo.  Ben  piu  important!  le  pagine  sull* argomento  del  Condil 
lac  e  del  Dumarsais,  piu  volte  ricordati  nelle  note  al  Saggio  sulla  filosofia 
delle  lingue  del  Cesarotti,  qui  a  pp.  304  sgg. 


I   VIZI   DEL   CORRENTE   GUSTO   IN  BELLE   LETTERE       717 

rebbe  tanto  pazzo  quanto  il  voler  metter  argine  al  successive 
cangiarsi  d'alveo  ne'  fiumi  e  al  progressive  moto  delPimmensa 
mole  dei  mari  d'Oriente  in  Occidente.  II  volerla  poi  accusare 
d'irragionevolezza,  sarebbe  tanto  irragionevole  e  sciocco  quanto 
il  volere  che,  parlando  pur  noi  per  esprimere  ci6  che  pensiamo, 
si  dovesse  parlare  in  un  modo  attualmente  diverso  da  quello  con 
cui  si  pensa;  e  che  leggendo  pur  noi  per  giudicare,  e  stampando 
pur  gli  altri  per  essere  giudicati,  i  giudicii  non  dovessero  essere 
secondo  i  nostri  attuali  studi  e  principii,  secondo  infine  il  com- 
plesso  delle  nostre  abitudini  intellettuali.  Sarebbe  cioe,  per  esem- 
pio,  tanto  irragionevole  quanto  il  pretendere  che  presentando  noi 
discorsi  e  scritture  sopra  oggetti  o  argomenti  che  nell'attuale  ac- 
cettazione  comune  non  significano  nulla,  o  esprimono  idee  da 
nulla,  idee  trite  e  puerili,  il  pubblico  ci6  non  ostante  ne  debba 
sentenziare  in  un  modo  opposto  a  quello  con  cui  pensa  attual 
mente,  e  abbia  torto  e  sia  di  gusto  diffamato  a  non  prenderle 
tutte  per  cose  important!,  fine,  deliziose.  Tanto  irragionevole  quan 
to  lo  &  1'affettazione  cinquecentistica  dei  piccoli  eleganti,  che  dila- 
vano  ancora  in  una  brodaglia  di  parolucce  vapide  e  aeree  quelle 
quattro  o  cinque  idee  anche  forse  important!  ma  rancide  di  cui 
si  propongono  di  comporre  un  libro  presentabile  a  un  secolo 
abituato  alia  precisione  e  alia  velocita,  e  avezzo  a  calcolar  i  suo- 
ni  per  suoni.  E  cosi  quel  travaglioso  getto  di  periodi  eterni 
a  stento  leggibili  e  meno  anche  intelligibili.  E  cosi  quei  riscon- 
tri  di  certe  corrispondenze  estrinseche  tra  le  forme  grammati- 
cali  ed  i  modi  rettorici  a  grande  fatica  e  a  gran  distanza  latina- 
mente  condotte,  in  un  secolo  in  cui  i  progress!  della  filosofia, 
dopo  quello  di  Cicerone,  consigliano  altra  chiarezza  e  precisio 
ne  nell'analizzare  e  dividere  le  idee  parziali  con  cui  va  perio- 
dicamente  al  suo  termine  un  ragionamento,  e  d'altro  or  dine  sono 
gli  ornamenti  accessori  che  si  desiderano.  Ornamenti  di  generaliz- 
zazione,  di  contrasto,  di  causalita  nella  sostanza  istessa  delle 
cose.  E  cosi  quella  miseria  di  aspirare  a  una  venusta  di  stil  fa- 
migliare  parlandosi  il  gergo  casereccio,  e  i  plateali  idiotismi  di 
tre  o  quattro  cent'anni  fa,  i  quali  non  hanno  piu  un  soffribile 
significato,  poich6  suppongono  evidentemente  usi,  costumi,  abi- 
ti,  mobili  perfino  e  abbigliamenti  totalmente  diversi  dai  no 
stri.  E  cosi  quella  meschinita  anche  peggiore  del  degradare  dalla 
dignita  letteraria  a  titolo  di  trascuratezza  e  ineleganza  quello  scrit- 


7l8  MATTEO    BORSA 

to  che  traducesse  in  letteratura  la  vivacitk,  la  disinvoltura,  lo  stile, 
la  grazia  conversevole  infine  della  nostra  gente  colta  e  gentile, 
usa  ad  idee  solide  e  decisive  e  alia  vellicante  urbanita  del  vero 
atticismo.  Questo  non  e  un  volere  serbar  vergine,  ma  stupida  la 
lingua.  Questo  e  un  non  accorgersi  che  ora  non  si  pu6  piu  attac- 
care  un'idea  molto  grandiosa  a  piccole  intarsiature  di  frasi  pue- 
rilmente  ricercate.  fe  un  non  sentire  che,  se  i  libri  italiani  sono  forse 
venuti  in  un  certo  discredito,  egli  e  perch6  s'e  sempre  scritto  da 
troppi,  come  allora  che  usavasi  scriver  moltissimo  e  non  pensare 
quasi  a  niente  al  di  la  della  penna  che  tenean  tra  le  dita,  mentre 
adesso  si  vorrebbe  tutto  pensiero  e  tutto  cosa.  Ci  son  de'  volumi 
e  de'  volumi  che  non  significano  un  atomo  piu  di  quel  che  fac- 
ciano  le  vocalizzazioni  nelFarie  teatrali.  Sono  vocalizzazioni  let- 
terarie,  sono  gorgheggi  stampati;  e  niente  piu.  Ma  non  cosl  Mac- 
chiavello,  Galileo,  fra  Paolo1  e  quelli  che  oggi  loro  rassomigliano, 
non  intendendo*  di  approvare  tutte  le  loro  dottrine.  £  dunque 
inerente  alPumana  natura  un  neologismo  continuo  nelle  lingue  di 
qualunque  nazione,  il  quale  neologismo  abbraccia  non  sol  le  pa 
role  materiali,  ma  la  tessitura  grammaticale  eziandio  e  tutto  il 
complesso  dello  stile,  e  quinci  va  ad  attaccare  i  generi  stessi  e 
le  maniere  di  scrivere  e  di  comporre.  Gli  esempi  addotti  non 
posson  lasciare  ombra  d'accusa  di  superstizion  nazionale  a  mio 
riguardo.  E  credo  anzi  che  se  mai  si  potesse  citare  una  lingua 
che  per  molti  secoli  fosse  restata  fissa  ed  immobile,  non  ci  sarebbe 
chi  non  ne  traesse  conseguenze  assai  svantaggiose  alPingegno, 
allo  spirito,  alia  capacitk  di  quella  nazione.  Dunque  c'e  un  lo- 
devole  neologismo;  ma  lodevole  solo  allor  quando  &  neologismo 
nostro,  neologismo  endemio,  neologismo  nazionale.  Quando  cioe 
allato  alle  nuove  idee  nascono  anche  nelle  parole  quelle  nuove 
inflessioni  e  piegature,  che  sono  e  necessarie  ad  esprimerle,  ed 
emanate  dal  fondo  istesso  della  lingua  nazionale.  Ecco  le  due 
condizioni  probabilmente  decisive  in  questo  affare.  Se  nelle  for 
me  giik  usate  si  trovi  con  che  destramente  poter  presentare  con 
lucidezza  e  vivacitk  Pidea  che  si  vuol  offerire,  sarebbe  irragione- 
vole  e  vizioso  il  moltiplicare  inutilmente  i  modi  col  pericolo  di 
indurre  delle  battologie3  e  deiranfibologie  ad  ogni  linea.  E  molto 


i .  fra  Paolo :  Sarpi.     2.  non  intendendo :  con  valore  concessive :  anche  se 
non  intendo.     3.  battologie:  ripetizioni  inutili  e  viziose  di  parole  e  di  frasi. 


I   VIZI   DEL    CORRENTE   GUSTO    IN  BELLE  LETTERE       719 

piu  col  pericolo  di  far  perdere  alia  lingua  quella  fisonomia  pro- 
pria  ed  originate  che  testifica  la  nobilti  di  sua  origine  e  la  bonta 
intrinseca  della  sua  costituzione.  Se  i  bisogni  della  cultura  richie- 
dono  nuovi  generi,  sarebbe  irragionevole  il  trasportarli  tra  noi  in 
abito  e  costume  straniero,  quando  i  nostri  abiti  e  costumi  si  po- 
tesser  piegare  senza  perdere  Tindole  nazionale.  Se  poi  le  forme 
gia  usate  non  somministrassero  materiali  opportuni  ai  nuovi  bi 
sogni,  si  dovrebber  bensi  coniar  parole,  frasi  e  modi,  e  usarvi 
coraggio  e  franchezza  pel  bene  comune;  ma  usarvi  anche  giudizio 
e  ponderazione.  Perch6  sarebbe  irragionevole  il  farlo  inventan- 
do  parole  radicalmente  straniere,  quando  nelle  vecchie  radici  del- 
la  nostra  si  potesser  trovare  dei  capitali  opportuni;  oppure  anche 
non  serbando,  potendolo,  una  ragione  qualunque  d'analogia  in- 
sita  e  originale;  come  sarebbe  a  dire,  preferendo  la  celtica  e  la 
germanica  alia  latina.  Sarebbe  irragionevole,  potendo  pure,  mo- 
dellare  ed  inflettere  a  nuovi  atteggiamenti  le  nostre  frasi  e  vi- 
brarle  e  discioglierle ;  il  ricorrere  a  frasi  e  modi  che  suppongono 
una  originaria  differenza  di  costituzione  grammaticale :  e  cosi  ma- 
no  a  mano.  Queste  son  pratiche  che  perderebber  la  lingua,  per- 
ch6  non  sarebbero  gia  una  rigenerazione  naturale  di  lei,  che  ri- 
producesse  essa  se  medesima  e  naturalmente  e  spontaneamente; 
ma  sarebbe  un  mescolare  e  confondere  elementi  eterogenei,  ma- 
terie  repellenti,  lingue  diverse  infine:  il  che  alia  lunga  termine- 
rebbe  neirannientamento  totale  della  lingua  nazionale. 

Ecco  il  neologismo  straniero  e  il  neologismo  che  nessun  pu6 
scusare.  Neologismo,  che  &  riprovabile  e  sempre  e  da  tutti  e  in 
qualunque  piccolo  grado  si  supponga,  giacch6  egli  £  il  genere  stes- 
so  che  &  vizioso.  Esso  sta  tutto  e  consiste  in  una  corruzione; 
n6  &  gia  che  la  corruzione  si  palesi  soltanto  in  qualche  grado  di  lui, 
come  se  spinto  a  quello  soltanto  cominciasse  a  corrompersi. 

Ma  posto  il  caso  dell'assoluta  necessita  di  quel  naturale  neo 
logismo  in  una  nazione,  si  pu6  egli  sperare  che  questa  nazione 
si  fermi  al  primo  neologismo  suo  e  proprio,  e  non  trascorra  al 
neologismo  stranierol  Un  popolo  intero,  una  nazione  fermarsi  e 
stare  a  differenze  cosl  sottili,  ad  awertenze  cosi  ingegnose  ?  Cam- 
minar  su  un  filo,  non  passar  una  linea  si  lubrica  e  nascosta? 
Quest^  un  voler  dei  miracoli.  In  Italia  poi?  Ora?  Sarebbe  il 
pui  miracoloso  tra  tutti  i  miracoli;  lusingata,  spinta,  adescata, 
come  Tabbiamo  veduta  da  mille  parti.  La  &  la  Francia  da  si  gran 


72°  MATTEO  BORSA 

tempo  potente,  ricca,  ambiziosa,  madre  di  mille  piaceri  e  no  vi 
ta  in  ogni  genere;  cara  alle  donne  e  ai  signori  per  i  comodi,  il 
lusso  e  le  mode;  rispettata  per  que'  tanti  geni  del  secolo  passa- 
to;  famosa  per  sei  o  otto  incomparabili  penne  del  presente  e  per 
centinaia  minori:  e  vero  die  assai  tra  queste  produssero  dottrine 
empie  e  sowertitrici  deirordine  e  delFarmonia  sociale,  bench6  ta- 
lora  feconde  di  libri  ora  facili  e  ameni,  or  singolari  e  spiritosi. 
Qui  la  Germania  e  Flnghilterra  mandano  sempre  nuove  colonie 
d'autori  ad  apprestarci  nuovi  sapor  letterari,  e  ad  imbandirci  la 
mensa  di  frutta  estranie  di  forma  e  di  color  e.  Si  traducono  a 
folia  prosatori  e  poeti,  e  gli  autor  d'ogni  sorte  si  moltiplicano  e 
spargono  rapidamente.  Tutto  infine  ci  alletta  e  ci  guida  allo  stu 
dio  dell'opere  straniere.  Sieno  per6  queste  e  belle  e  istruttive  e 
necessarie  quanto  si  vuole;  se  il  sapore  ed  il  gusto  costitutivo  ed 
essenziale  della  nostra  lingua  e  dello  stil  nostro  ci  tolgono,  ci 
fanno  un  gravissimo  danno.  E  tale  che  gravissimo  sempre  sara, 
per  quanto  le  cose  insegnateci  possan  parerne  un  compenso.  Ogni 
lingua  ha  le  sue  proprie  bellezze,  le  sue  venusta,  il  suo  intimo 
valore,  Parmonia  e  1'indol  nativa.  Ci6  tolto,  g&  piu  quella  non  e, 
Invano  altrove  si  cerca  quel  piacer  soavissimo  che  da  lei  dovrcb- 
be  venirci,  e  che  tanto  dev'esser  maggiore  quanto  piu  e  noi  per 
lei  siamo  fatti  ed  ella  per  noi  per  singolare  provedimento  della 
natura.  Invano  una  nazione  spera  fama  e  celebritk,  se  dall'altra 
e  costretta  a  mendicar  le  parole  ad  ogni  tratto.  Qual  segno  piii 
vergognoso  di  servitu,  che  il  perder  perfino  quella  caratteristica 
impronta  che  dalPaltre  nazion  ci  distingue,  che  ci  erige  in  na 
zione,  e  che  tale  agli  occhi  del  mondo  ci  costituisce  ?  Non  siamo, 
&  vero,  ancor  venuti  in  tanta  miseria;  ma  ogni  passo  di  decadenza 
la  c'incammina.  E  qual  infamia  saria  mai  per  P Italia,  se  si  lascias- 
se  a  tanto  d'indolenza  trascorrere,  che  non  sentisse  il  confronto 
delle  vicine  nazioni,  le  quali  sono  si  religiose  e  zelanti  delle  lor 
lingue,  e  che  con  ci6  sono  giunte  piu  che  con  altro  a  sparger  tanto 
splendore  ? 

Eppur  tutto  questo  e  inevitabile.  E  poich6  gli  uomini  non  per 
ragione  operano  in  quelle  cose  medesime  che  pur  sembrano  es- 
sere  oggetto  immediate  della  ragione;  cosl  noi  cedendo  a  tanti 
impulsi  stranieri  senza  avvedercene,  andiamo  perdendo  la  nostra 
lingua,  quando  anzi  tutto  invitarci  dovrebbe  a  guardarla  con  piu 
cautela.  Qual  maraviglia?  Cosi  in  ben  come  in  male  siamo  gli 


I   VIZI    DEL    CORRENTE   GUSTO    IN  BELLE   LETTERE       721 

stessi;  e  purch6  imitiamo  e  mutiamo  e  facciam  qualche  cosa,  tut- 
to  ci  alletta,  n6  cerchiamo  di  piu.  Tre  soli  oratori  venuti  di  Gre- 
cia  bastarono  a  trar  dietro  s6  tutto  il  fiore  di  Roma  a'  di  di  Ca- 
tone.1  Un  sol  uomo  grande  pot6  cambiar  faccia  alle  lettere  sotto 
Nerone.2  Alcuni  versi  e  le  cattive  opere  musicali  d' Italia  perver- 
tirono  quasi  Inghilterra,  se  non  vi  si  opponevano  lo  «Spettato- 
re»,3  la  Dmciade*  quegli  altri  famosi.  E  noi  resisteremo  ?  Ne  la 
nostra  lingua  colorir  non  dovrebbesi  di  quelle  tinte  non  nostre, 
come  gik  1'orazion  colorivasi  a  M.  Antonio  tra  le  sue  letture  poe- 
tiche,  per  parlare  con  Cicerone?  Tanto  pote  il  semplice  amore  di 
novita,  e  in  tempo  si  breve,  e  in  oggetti  talora  anche  piu  chiari  e 
piu  distinti ;  e  molto  piu  non  potranno  tante  e  si  gravi  cagioni,  e  si 
lungamente  e  con  tanto  vigore  ai  danni  riunite  della  lingua  italiana  ? 
Cos!  pur  troppo  era  stato  gia  sciolto  anticipatamente  quel  pro- 
blema  proposto  da  Arteaga,  come  secondario  bensl,  ma  come  inti- 
mamente  connesso  col  principale.  £  egU  possibil  dob  Vevitar  Vin- 
fluenza  del  neologismo  str  order  o? 

Per  molti  mezzi  pertanto  la  nostra  lingua  ci  tolgono,5  che  a 
quattro  ridurre  si  possono  principalmente.  II  primo  di  questi, 
e  forse  anche  il  piu  attivo,  quello  si  &  di  distruggere  lo  spirito 
nazionale.  Questo  forse  per6  ora  &  da  levarsi,  dopo  che  tal  verita 
fu  tanto  approvata  anche  da  Arteaga,  che  non  dubitb  di  levarla  egli 
pure  dal  testo,  e  porla  per  la  prima  di  quelle  quattro  cagioni 
ch'egli  per  fretta  ha  creduto  di  aver  tutte  aggiunte  alle  accennate 
da  me.  Fu  pure  per  fretta  ch'ei  registr6  in  secondo  luogo  la  pre- 
parazione  antecedentemente  accaduta  per  Tinfluenza  delPaltre  na- 
zioni;  e  Pammirazione  che  eccitava  il  nome  francese  per  la  sua 
politica  prosperitk :  erano  gia  state  calcolate  piu  sopra.  Aveva  io 
dunque  scordato  i  viaggiatori  nostri  da  lui  citati  per  terzo ;  ma  ci6 
fu  perch6  non  mi  parvero  tornar  di  Francia  in  tal  numero  da 


I.  Tre  .  .  .  Catone:  lo  stoico  Diogene,  il  peripatetico  Critolao  e  1'accade- 
mico  Carneade,  inviati  a  Roma  nel  155  dagli  Ateniesi  con  rincarico  di  chie- 
dere  la  remissione  della  pena  pecuniaria  loro  inflitta  per  la  devastazione  di 
Oropo,  furono  entusiasticamente  accolti  dai  giovani  romani.  2.  Un  sol . .  . 
Nerone:  Seneca  il  nlosofo.  L'accusa  di  aver  corrotto  lo  stile  latino,  che  risale 
a  Quintiliano,  era  stata  ripetuta,  fra  gli  altri,  anche  dal  Tiraboschi  nella 
dissertazione  gia  ricordata.  3.  lo  «Spettatoref>:  la  rivista  dell'Addison. 
4,  la  Dunciade:  la  Dunciad  del  Pope,  poema  satirico  in  cui  Tautore  de 
ride  i  vizi  del  mondo  letterario  del  suo  tempo,  dominato  dalla  dea  Stupi- 
dita.  5.  ci  tolgono:  gli  stranieri. 

46 


722  MATTED   BORSA 

presentare  un  elemento  molto  computabile  in  una  combinazione 
si  prodigiosa  di  tanti  altri.  E  sebben  fin  d'allora  mi  sembrasse 
prudente  il  tacere  dei  nostri  bisogni  letterari  (quarto  suo  assunto), 
pure  anche  senza  di  ci6  mi  parve  abbastanza  e  troppo  forse  pro- 
vata  la  trista  verita  di  quel  detto,  che  siam  divenuti  indifferenti 
per  tutto.  N6  gia  ci6  in  senso  di  non  prevenuti;  ma  in  senso  di  non 
curanti,  di  sprezzatori.  N6  questo  solo;  ma  siamo  anzi  avidi  e 
adoratori  superstiziosi  delle  cose  straniere,  e  per  le  nostre  al  con- 
trario  trascurati  e  mal  prevenuti.  Dimandate  a  un  libraio  operc 
italiane.  Ei  vi  chiede  perdono,  ma  per  la  difficoltk  dello  smercio  que- 
sta  classe  &  affatto  mancante.  Proponete  una  stampa.  Se  non  avrk 
tutta  Faria  di  traduzione  o  di  copia,  perfin  nel  titolo  spirante 
vezzi  francesi,  pani  che  chiediate  la  elemosina;  tanto  lo  stampator 
troverete  superbamente  fastidioso.1  Scorrete  finalmente  le  case. 
Vincontrerete  in  libri  stranieri  ad  ogni  angolo,  mentre  i  nostri 
buoni  italiani  dormon  coi  greci  nelle  pubbliche  librerie.  Ben  veg- 
go  che  ci6  succeder  doveva,  avendo  Italia  oggimai  per  lung'abito 
posta  cosl  tutta  la  mente  ed  il  cuore  nella  forestiera  letteratura; 
e  prendendo  i  molti  che  leggono  a  guida  del  lor  giudicare  que- 
gFistessi  inglesi  e  francesi,  che  dei  nostri  non  intendono  sillaba, 
eppur  si  pongono  a  scranna,  e  ci  condannan  dall'alto  senza  appel- 
lazione.  Or  che  far£  la  gioventu  fra  tali  esempi  e  si  gran  contagio- 
ne  ?  S'abbevera  ella  al  torrente,  e  per  parer  colta  nelle  cose  altrui, 
perde  la  cultura  nelle  sue;  e  per  correre  dietro  incessantemente 
airaltre  nazioni  abbandona  la  propria  e  se  ne  scorda.  Onde  non  & 
maraviglia  se,  poco  o  nulla  degli  autori  italiani  sapendo,  le  altre  gen- 
ti  le  paion  maggiori  di  noi  assai  piu  che  nol  sono,  Non  lo  e,  se 
uno  scrittore  cerca  mostrarsi  ai  pregiudicati2  italiani  straniero 
affatto  nei  modi,  nelle  frasi,  nei  pensieri.  Non  lo  e,  se,  perdendo 
infine  ogni  coscienza  del  suo  mal  fare,  collo  scandalo  pubblico  del 
proprio  esempio  e  promuove  e  dilata  questa  universal  letteraria 
scostumatezza.  Quanti  nomi,  ed  illustri,  qui  citar  non  potrebbersi, 
se  il  rispetto  e  Tonore  che  ai  viventi  e  dovuto,  non  lo  vietasse!  Ma 
ben  citerannogli  i  posteri  nei  secoli  venturi,  quando,  dopo  com- 


i.  superbamente  fastidioso:  insolente  e  schizzinoso;  fe  espressione  model- 
lata  su  Orazio,  Sat.,  n,  vi,  86-7;  «cupiens  varia  fastidia  cena/vincere 
tangentis  male  singula  dente  superbo*,  2.  pregiudicati:  dominati  dai 
pregiudizi. 


I  VIZI   DEL   CORRENTE   GUSTO   IN  BELLE   LETTERE       723 

piuto  Tintero  giro  del  suo  corrompimento,  tornera  un  di  questa 
terra  a  sentir  ci6  che  vaglia  e  ci6  che  possa. 

Intanto  in  questo  proposito  e  da  osservare  che  furon  ben  sem- 
pre  grandi  imitator  gPItaliani,  siccome  la  nazione  il  dimostra  or 
tutta  latinizzante  nel  perorare,  ora  platonica  negli  amori  poetici, 
or  cavalleresca  negli  epici,  e  cosi  mano  a  mano.  Ma  il  furon  perb 
di  tutt'altra  maniera  che  or  nol  sono.  Perche"  una  caratteristica 
differenza  del  secolo  nostro  consiste  nel  non  aver  esso,  come  gli 
altri,  un  uomo  grande  per  guida,  il  quale  fattosi  duce  e  signore, 
e  prevalendosi  dei  semi  g&  sparsi  d'una  rivoluzione,  abbia  man 
date  al  sommo  le  cose,  e  fatta  un'epoca  illustre  e  riconosciuta. 
Cosi  pur  fu  sempre  presso  1'altre  nazioni,  ma  fermiamci  sol  nel- 
la  nostra.  Dante,  Petrarca,  Marini,  per  esempio,  afferraron  le  re- 
dine  chi  in  ben  chi  in  male  nei  vari  tempi.  E  se  la  nazione  imit6, 
imit6  almeno  se  stessa  in  un  uomo  grande  e  sommo  ed  illustre  e 
suo  e  solo.  Ma  ora  tutto  e  perfetta  anarchia,  e  mille  stranieri 
conquistatori  c'invadono.  Chi  segue  Thomas1  negli  elogi.  Chi  cor- 
re  dietro  a  Voltaire  nella  varieta.  Chi  si  crede  d'aggiugner  Rous 
seau  a  forza  di  coraggio  indiscreto.  Chi  minia  con  Gesner.  Chi 
tratteggia  con  Young.  Eguali  tutti  in  ci6  solo  e  uniformi,  che  a 
maestri  e  esemplari  tutt' altri  si  propongono  che  italiani. 

Tolgonci  per  seconda  maniera  la  nostra  lingua  togliendo  agli 
orecchi  dei  piu  fra  gV  Italiani  quella  dilicatezza  e  sensibilitk  scru- 
polosa  onde  d'ogni  minimo  urto,  d'ogni  elision  la  piu  tenue, 
d'ogni  sospension  piu  sfuggevole  siamo  fedelmente  awertiti.  E 
certo,  che  se  altra  lingua  mai,  Pitaliana  in  fatto  d'armonia  e  super- 
bissima.2  Delle  minime  differenze  fra  la  sceltezza  delle  parole  e 
oltremodo  sollecita,  siccome  lo  e  della  loro  collocazione  e  d'una 
certa  proportion  tra  i  periodi  e  d'una  certa  organizzazion  nelle 
membra  e  del  vario  alternare  dei  vari  suoni  ora  molli,  or  flessibili, 
or  ritenuti,  ora  scabri.  Aggiungasi  a  tutto  ci6  sempre  e  la  ricchez- 
za  e  la  gravita  e  le  maniere  ampie  e  maestose.  Ma  chi  potr&  mante- 
nere  tanta  finezza  negli  organi  e  awedutezza  nella  mente  nelFatto 


I,  Sul  Thomas  e  i  suoi  Sloges  cfr.  la  nota  4  a  p.  359.  2.  certo  .  .  .  super- 
bissima:  e  probabile  che  per  questa  affermazione  e  per  le  osservazioni  che 
seguono  il  Borsa  abbia  present!  soprattutto  le  pagine  del  Bettinelli  intorno 
all'armonia  della  lingua  italiana  nel  Discorso  sopra  la  poesia  italiana, 
pubblicato  nel  1781  (cfr.  Letter  e  virgiliane  e  inglesi  e  altri  scritti  cntici, 
a  cura  di  V.  E.  Alfieri,  Bari,  Laterza,  1930,  pp.  186-99). 


MATTEO   BORSA 

stesso  che  non  solo  trascura  ogni  esercizio  opportune,  ma  in  cose 
affatto  contrarie  tutta  impiega  la  vita  e  ogni  studio  consuma? 
Qual  mai  orecchio  dopo  d'essersi  a  forza  d'ostinazione  piegato  ad 
ogni  sorta  di  suoni,  di  frasi,  di  modi,  dopo  d'aver  superata  a 
grave  stento  la  naturale  avversione  allo  scroscio  continuo  di  conso- 
nanti  le  piu  stranamente  accozzate,  al  fischio,  al  sibilo  di  tante 
smozzicature ;  e  dopo  esser  giunto  perfino  a  trovar  piacerc  e 
delizia  in  quella  cacofonia  di  tanti  monosillabi,  in  quello  sten 
to  d'andamenti,  in  quella  esilita  di  desinenze;  qual  mai  orec 
chio,  diss'io,  non  dovra  sentirsi  le  fibre  rese  insensibili  e,  per  cosi 
dire,  incallite  ad  ogni  intemperie  di  clima?  Molte  ragioni  for- 
tissime  qui  addur  si  potrebbero,  se  entrare  volessimo  in  quei  prin- 
cipii  che  legano  le  nostre  idee,  e  da  cui  i  giudizi  dipendono  dal- 
Pabitudine.  Molte,  se  della  natura  delle  umane  fibre  e  delle  modi- 
ficazion  sostanziali  che  vanno  ricevendo  dall'uso,  si  volesse  in- 
trodurre  disco rso.  Ma  n6  piacerebbero  ora  si  alte  ed  oscure  in- 
dagazioni;  n6  avrebber  gran  forza,  dove  Pesperienza  ed  il  fatto 
parlan  si  chiaro.  Intanto  non  &  gia  da  pretender  perci6  che  s'ab- 
biano  ora  a  rinnovare  gli  esempi  del  Cinquecento,  quando  Pestre- 
ma  paura  di  corrompere,  bench6  in  menoma  parte,  i  giudizi  se- 
veri  di  questo  orecchio,  facea  ai  nostri  latinisti  recitare  in  greco 
Pufficio  divino.  N6  troppo  accorto  pure  sarebbe  chi  a  questo  ti- 
more  non  anteponesse  il  vantaggio  infinito  che  da  tanti  autori 
eccellenti  francesi,  inglesi,  tedeschi  ed  altri  ci  viene  apprestato. 
Troppo  s'offenderia  la  giustizia  e  la  ragione,  anzi  pure  il  senso  co- 
mune.  Ci  sarebbe  anche  una  specie  d'ingratitudine  verso  quelle 
nazioni  che  di  tanta  copia  di  letterarie  delizie  tutto  il  dl  ci  forni- 
scono.  Sarebbe  inoltre  una  stolidita  il  non  confessare  che  scnza 
ricorrere  agli  autori  stranieri  pochissimo  o  nulla  e  omai  da  sperare 
nella  filosofia  e  nelle  scienze  pi.ii  utili,  non  meno  che  in  molti  ge- 
neri  di  bella  e  amena  letteratura.  Ma  e  ben  chiaro  egualmente 
che  se  a  queste  letture  non  si  frammischi  uno  studio  frequente 
de'  nostri  autori,  se  non  vi  s'aggiunga  Passiduo  e  paziente  eser 
cizio  della  penna,  se  non  si  risvegli  e  conservi  Pamore  delle  co 
se  nostre  colPattingere  spesso  a  quelle  fonti  donde  ogni  ben  let- 
terario  ne  deriv6,  ci  si  fara  tosto  sentire  la  prepotenza  delle  lin- 
gue  straniere  sopra  la  nostra.  Or  quanti  son  gPitaliani  che  con 
tale  awedimento  procedano  ne'  loro  studi  ?  Assai  eel  mostra  Pef- 
fetto.  Assai  ce  lo  dice  uno  sciame  infinito  di  libri  d'ogni  maniera. 


I  VIZI   DEL   CORRENTE   GUSTO   IN  BELLE   LETTERE       725 

Assai  ce  lo  scuopre  la  massima  parte  di  coloro  che  leggono.  Cice 
rone  correrebbe  pericolo  di  destare  le  risa  di  molti  a'  dl  nostri,  se 
con  quel  suo  zelo  del  bene  e  quel  profondo  sentimento  delle  cose 
ci  venisse  ora  a  dire  di  quelli  i  quali  non  intendon  ne"  sentono  1'ar- 
monia  dello  stile,  ch'ei  non  saprebbe  che  orecchie  s'avessero  mai, 
n6  in  che  s'assomigliassero  ad  uomo. 

A  questi  due  mezzi  con  cui  andiamo  perdendo  la  nostra  lin 
gua,  altri  due  ne  aggiugner6,  cui  per6  bastera  toccar  di  volo. 
Quanto  nella  presente  disgrazia  dell'italiano  quella1  influisca  a 
cui  va  soggiacendo  gia  da  gran  tempo,  si  potrebbe  mostrare  as- 
sai  lungamente.  L'autorita  per6  d'un  uom  grande  quello  fara  in 
un  tratto  ch'io  difficilmente  otterrei  con  molto  studio  e  fatica. 
Chiese  il  signor  della  Grange  al  signor  Bitaube,*  perch6  Pita- 
liano  e  '1  francese  nati  al  tempo  medesimo  pure  abbiano  avuta 
sorte  tanto  diversa,  che  mentre  la  lingua  nostra  fin  dalle  prime 
sue  mosse  rapidamente  vo!6  alia  perfezione,  Taltra  alPopposto 
dov6  languir  nell'infanzia  per  tanto  tempo.  E  di  ci6  il  signor  Bi- 
taub6  awedutamente  ritrova  un'amplissima  soluzione  nell'affini- 
ta  del  latino  coll'italiano,3  e  della  nostra  con  quella  nazione,4 
se  pur  cosi  si  pu6  separare  una  nazione  unica  e  sola.5  Di  piu  a 
somma  lode  della  sua  integrita  fa  vedere  come  dal  latino  ci  ven- 
ne  una  lingua  e  piu  sonora  e  piu  ampia  e  piu  nobile  e  piu  mae- 

i .  quella :  disgrazia.  2.  Giuseppe  Luigi  Lagrange,  o  Lagrangia  (1736-1813), 
famoso  matematico  torinese,  era  allora  direttore  della  classe  di  scienze 
deirAccademia  di  Berlino;  Paul-J6r6mie  Bitaubd  (1732-1808),  pure  mem- 
bro  dell'Accademia  di  Berlino,  &  noto  soprattutto  per  una  traduzione 
di  Omero  (1786),  condotta  con  scrupolo  letterale,  secondo  i  criteri  da  lui 
esposti  in  alcune  memorie  (pubbhcate  nei  « Nouveaux  m6moires  de  1' Aca- 
de"mie  royale  de  Sciences  et  Belles  Lettres»  di  Berlino,  vi,  1777,  pp.  455-90, 
e  x,  1781,  pp.  454-79),  dove  sosteneva  che  «il  y  a  des  beauty's  nationales 
qui  sont  d'aussi  vraies  beaut^s  que  celles  qui  sont  regues  chez  tous  les 
peuples»,  e  che  quindi  il  buon  traduttore  non  deve  trasportare  Pautore 
tradotto  nel  proprio  secolo,  ma  trasportarsi  lui  stesso  in  quello  dell'au- 
tore:  idee  assai  notevoli  per  il  tempo.  La  memoria  di  cui  qui  il  Borsa 
riassume  i  concetti  principal!  si  intitola:  Pourquoi  la  langue  italienne 
a-t-elle  eu  sur  toutes  les  autres  langues,  et  en  particulier  sur  la  langue  fran- 
poise,  la  prerogative  d'arrivert  presque  de  sa  naissance,  a  la  perfection,  pub- 
blicata  nei  citati  « Me"rnoires »  dell'Accademia  di  Berlino,  xxv  (1771),  pp. 
427-36.  3.  colVitaliano:  queste  parole  mancano  nell'edizione  Veronese  del 
1800,  ma  compaiono  in  quella  veneziana  del  1784.  4.  quella  nazione:  lati- 
na.  5.  se  .  . .  sola:  il  Borsa  vuol  dire  che  la  civilta  latina  e  Titaliana  for- 
mano  quasi  una  civilta  unica:  vecchio  concetto  umanistico,  ripreso  dai 
classicisti  di  fine  Settecento  e  codificato  nella  Storia  della  letteratura  ita- 
liana  del  Tiraboschi. 


MATTEO   BORSA 

stosa.  Piena  di  belle  cose  e  quella  sua  memoria  inserita  negli 
atti  dell'Accademia  reale  di  Berlino.  Ed  e  interessante  il  ve- 
derlo,  siccome  scorre  sicuro  per  le  varie  circostanze  morali  e 
politiche  che  fanno  al  suo  scopo.  Basta  per6  questo  cenno  a  con- 
chiuder  cosi.  Se  tanto  sono  congiunte  queste  due  lingue,  e  se  il 
destin  della  nostra  cosl  da  quella  dipende,  quanto  affrettar  mai 
non  deve  il  decadimento  dell'italiano  quella  che  omai  si  pu6  di- 
re  ignoranza  general  del  latino,  se  la  nazione  in  corpo  si  consi- 
deri?  «La  moderna  gracilit^  piii  non  soffre  quelle  lunghe  fatiche 
del  Cinquecento  sui  gran  modelli  di  tutte  le  colte  nazioni.  L'e- 
ducazione  e  troppo  rilasciata  e  indulgente;  i  letterati  troppo  dis- 
sipati;  i  maestri  troppo  imperiti;  gli  esercizi  pubblici  troppo 
ridotti  ad  una  vana  e  puerile  comparsa;  gli  studi  dej  piccoli 
fanciulli  troppo  sproporzionati  al  naturale  progresso  delle  lor  fa- 
coltk;  quei  di  rettorica  troppo  brevi  e  precipitati;  i  precettisti 
troppo  rivoltosi  e  impazienti  delFantica  autoritk»:  dicea  Carli1  in 
quei  giudicii,  che  delle  dissertazioni  concorse  egli  leggeva  al- 
TAccademia,  Carli,  che  dal  lungo  uso  d'una  scuola  severa  era 
disposto  a  veder  nelle  scuole  di  latinit&  e  di  rettorica  e  nella  no 
stra  socievole  dissipazione  Torigine  di  tutti  i  nostri  peccati.  Tutto 
vero;  ma  oltre  che  sono  le  circostanze  nostre  civili  che  col  cam- 
biarci  in  testa  le  idee  e  pratiche  e  teoriche  ci  fan  quali  siamo, 
qui  infin  non  resta  che  ad  esclamar:  colpa  nostra.  Per  altro  allato 
di  tutto  questo  si  potrebbe  proporre  una  domanda  curiosa  ed  ar- 
dita,  ma  ragionevole  insieme  ed  opportuna.  I  Latini  formarono 
i  cinquecentisti.  I  cinquecentisti  non  son  che  Latini  nella  so- 
stanza,  nel  succo,  nell'abito  e  nella  forma.  Quanto  hanno  di  buo- 
no  e  di  bello  e  tolto,  trasportato  di  pianta  dal  latino.  Giro,  periodo, 
sintassi,  disposizione,  ordine,  tutto.  Eppure  e  cosa  di  fatto  e 
d'esperienza  che  i  cinquecentisti,  e  quelli  che  lor  rassomigliano 
con  qualche  precisione  e  che  com'essi  con  un  po*  troppo  di  su- 
perstizione  si  conformano  ai  Latini,  si  trovano  ora  da  quasi  tutti 
noiosi  o  strascinati,  flacidi  o  freddi,  esili  o  affettati;  infine  me- 
schini  d'idee,  piccoli  nella  loro  ampiezza  medesima  e  poco  con- 
cludenti  anche  allora  che  pur  in  capo  a  certi  spazi  concludono 

i.  L'abate  Giovanni  Girolamo  Carli  (1719-1786),  archeologo  e  segretario 
perpetuo  dell'Accademia  di  Mantova  prima  del  Borsa.  Alcuni  dei  suoi 
giudizi  sulle  dissertazioni  presentate  al  concorso  mantovano  si  possono 
leggere  nell'articolo  di  G.  Finzi  citato  nella  bibliografia. 


I  VIZI  DEL   CORRENTE   GUSTO    IN  BELLE   LETTERE      727 

qualche  cosa.  Ecco  dunque  la  domanda.  Com'e  che  i  Latini  son 
necessari  a  formare  un  eccellente  scrittore  italiano,  eppure  i  La 
tini  stessi  lo  guastano?  In  che  sta  la  ragione?  In  che  il  confine, 
il  mezzo,  P  antidote  ?  Qual  differenza  ci  &  tra  noi  e  Taltre  nazioni 
in  questo  riguardo  ?  A  questa  domanda  per6  non  e  qui  da  rispon- 
dere,  perch6  molto  dipende  dalPesame  delle  opinioni,  degl'inte- 
ressi  e  piu  del  foro  e  della  filosofia  del  secol  d'oro,  che,  determi- 
nando  le  idee,  determinavan  con  esse  anche  uno  stile  ch'era  ec 
cellente  per  le  idee  che  correvano.  Per  altro  se  questa  riflessione 
pu6  circoscriver  in  parte  le  esagerazioni  e  giustificare  il  nostro  se- 
colo,  non  lo  scusa  perci6  dal  prendere,  ch'egli  ora  fa,  ogni  cultura 
antica  per  una  pedanteria,  e  del  non  awedersi  che  alia  pedanteria 
greca  e  latina  si  sostituisce  la  pedanteria  inglese,  la  francese,  la 
tedesca. 

E  chi  sa  che  tra  poco  non  venga  anche  la  russa,  ramericana? 
Raro  e  presentemente  e  mostrasi  a  dito  colui  che  cerchi  certa 
stravaganza  e  singolaritk  di  composti  greci  nelle  parole,  certe  al- 
lusioni  perpetue  e  appena  appena  accennate  a  cose  e  costu- 
manze  antichissime,  come  se  fossero  d'ultima  moda;  e  piu  quel 
tale  accavallar  figurati  Tun  sopra  Paltro,  senza  interstizi  di  frasi 
piu  chiare  che  gli  spieghino,  con  simili  altre  affettazioni  erudite, 
che  rendono  i  commenti  piu  necessari  ai  moderni  che  non  ai 
Greci  i  piu  remoti  e  ai  Latini.  Invece  di  ci6,  pongono  adesso 
un  testo  di  Pope  in  fronte  a  un'inezia  morale;  chiudon  due  stro- 
fette  amorose  con  un  passo  d'Addison;  mettono  una  letterina  fran 
cese  avanti  a  quattro  versucci  filosofici;  tutto  ammorbano  infine 
di  versi  anglo-toscani.  E  i  libriccini  e  i  fogli  volanti,  sebbene  ita- 
liani  nella  prima  destinazione,  sono  francesi  per6  almen  per  meta 
tra  prefazioni,  citazioni,  allusioni;  e  piu  francesi  son  anche  per 
quelParia  di  compassione  cordiale  con  cui  guardano  e  la  lor  patria 
ed  il  pubblico  italiano. 

Ma  che  si  dirk  in  ultimo  luogo  delle  traduzioni;  di  quella 
fiumana  lutulenta  e  fangosa,  che  tutte  inonda  oggimai  le  nostre 
contrade?  Se  il  dotto  Wezio1  giunse  a  sostenere  che  perfino  le 
traduzioni  le  piu  belle  non  son  mai  senza  danno  delle  buone 
lettere;  se  pot6  egli  trovare  tante  e  si  forti  ragioni  per  sostener 


i.  Wezio:  allude  probabilmente  all* erudite  tedesco  Joharm  Weitz  (1576- 
1642),  autore  di  molte  opere  nel  campo  della  filologia  classica. 


MATTEO   BORSA 

la  sua  tesi,  e  se  il  sig.  di  Vatry1  con  tanta  copia  (Targomenti  e 
filologici  e  fisici  e  metafisici,  dedotti  dalFintima  natura  delle  cose, 
e  colle  autorita  piu  rispettabili  e  cogli  esempi  piu  chiari  pot6 
tessere  un'ampia  dissertazione,  diretta  a  provare  che  una  tradu- 
zione  bella,  esatta  e  fedele  (e  in  qualunque  lingua  che  sia,  non  g& 
nelFitaliana  soltanto,  come  par  che  tema  Arteaga)  non  &  mai  da 
sperarsi  per  ingegno  ed  istudio  che  vi  s'impieghi;  che  resta  a  de- 
durne?  Certo  il  seguire  una  ragione  di  mezzo  non  potr&  sem- 
brare  a  nessuno  se  non  savia  cosa  e  discreta.  E  dovranno  ambi  i 
partiti  concedere  che  in  si  grande  difficoltk  di  riescimento  e  con 
tanta  fatica  che  vi  si  richiede,  le  traduzioni  tentar  non  debbonsi 
mai  che  da  scrittori  eccellenti  sopra  eccellenti  originali.  Ma  qui  e 
abbiam  d'ogni  parte  traduttor  prezzolati  che  da  un  libraio  ignoran- 
te  van  mendicando  il  lor  pane  a  tanto  per  pagina.  E  le  donne  ed  i 
giovani  per  loro  esercizio  traducono  i  libri  piu  a  loro  proporzio- 
nati,  cio&  poi  i  piu  vapidi  e  i  piu  leggeri.  E  infiniti,  per  dir  tutto 
in  un  tratto,  si  gettano  a  questa  agiatissima  strada  di  farsi  autori. 
Non  san  n6  la  propria  n6  la  lingua  tampoco  del  loro  scrittorc; 
ma  ogni  cosa  insieme  affastellano  indecentemente  senza  proprie- 
ta,  senza  sintassi,  senza  concordanza.  Traduzioni  insoffiribili,  ed 
anche  delle  peggiori  cose  straniere,  infarnano  i  nostri  teatri,  dove 
i  cattivi  e  piu  lugubri  romanzi  si  mettono  in  dialoghi  degni  de' 
pazzi  e  disperati.  Traduzion  nauseose  si  pu6  dir  che  compongano 
il  famigliare  carteggio  di  tante  e  tanti,  che  mai  non  sanno  ab- 
bastanza  ammirare  la  disinvoltura  e  la  leggerezza  delle  loro  leg- 
gerissime  idee.  Traduzioni,  infine,  quasi  direi  e  le  conversa 
zioni  e  le  cordialita  e  i  complimenti ;  giacch<§  quelle  formole, 
quelle  frasi,  quelle  affettazioni  o  dalle  traduzioni  si  spargono  per 
le  compagnie,  o  traducendo  contraggonsi  da  chi,  senza  nulla  saper 
della  propria,  studia  le  lingue  degli  altri,  e  vi  s'esercita  sotto  mae 
stri  niente  piii  dotti  di  lui.  Diremo  forse  che  questi  non  son  let- 
terati?  Guardi  il  ciel  che  lo  sieno.  Ma  intanto  il  mai  gusto  pro- 
pagasi  in  materia  di  lingua.  Anzi  pure  di  stile,  giacch6  ognun  vede 
che  di  lingua  parlando  si  &  accennato  tutto  ci6  che  a  quella  parte 
dello  stile  pu6  appartenere  la  quale  risguarda  la  propriety  la  sintas 
si,  la  maniera  di  figurare  e  simili  cose,  indipendentemente  dagli 

i.  Ren6  Vatry  (1697-1769),  erudito  e  filologo  francese,  autore  di  una 
Dissertation  sur  la  po&ie  dpique,  a  cui  probabilmente  allude  il  Borsa,  e  che 
fu  pubblicata  nel  tomo  ix  dei  «M6moires  de  1* Acad&nie  des  inscriptions)). 


I   VIZI   DEL    CORRENTE    GUSTO    IN    BELLE   LETTERE       729 

oggetti,  dagli  argomenti,  infin  dalle  cose.  Quella  porzione  intanto 
d'autori,  che  dal  giudizio  comune  condur  si  lascia  o  per  amore  di 
lode  o  per  debolezza  d'ingegno,  sempre  piu  coj  suoi  libri  tutto 
deforma  e  contamina.  Talche"  il  neologismo  straniero  gia  non  si  li- 
mita  adesso  alle  strane  parole  soltanto  e  alle  forme  di  dire  meno 
italiane;  ma  allo  stile  s'estende  inciso  nei  periodi,  impacciato 
nei  movimenti,  scabro  nella  tessitura,  arido  nelle  maniere,  sen- 
za  dignita,  senza  numero,  senza  armonia.  E  quindi  anche  in  ver 
so  quella  minutezza  d'ornato,  quella  esiguita  di  riflessioni  e  det- 
tagli,  quella  uniformita  di  pitture,  quella  umilta  quasi  prosaica 
d'espressioni  e  d'immagini,  che  al  carattere  della  nostra  poesia 
men  si  conviene  per  quella  intima  diversitk  che  dipende  dalla  na- 
tura  e  organizzazion  delle  lingue. 

SECONDO  VIZIO 

Filosofismo  endclopedico. 

Passiamo  ora  ad  altri  vizi,  che  dagli  stranieri  ci  vengono,  per 
dire  il  vero,  ma  che  son  di  natura  molto  diversa.  L'esaminato 
pur  ora  diventa  vizio  sol  quando  si  trasportan  tra  noi  quelle 
frasi  e  quelle  maniere  che  sono  altronde  ottime  in  loro,  perch6 
dipendenti  dal  genio  originale  e  dairintimo  meccanismo  di  quelle 
lingue.  Ma  non  cosl  gli  altri  di  che  son  per  parlare,  e  che  son 
vizi,  e  vizi  gravissimi,  presso  di  loro  medesimi.  Parlo  prima 
di  tutto  del  filosofismo  enciclopedico,  che  prima  altrove,  poi  in 
Italia  viene  ogni  di  dilatandosi  e  tutta  infestando  la  bella  lettera- 
tura.  Per  questo  riguardo  tutte  ora  le  colte  nazioni  fanno  una  sola 
famiglia  per  quel  vincol  comune  di  mutuo  corrompimento  onde  si 
stringono  insieme.  Tutti  ora  siamo  in  tale  combinazione  di  circo- 
stanze  in  cui  questo  filosofismo  universale  e  leggero  dovea  na- 
scere  naturalrnente.  Cosl  nato  e  cresciuto  propagarsi  doveva  ancor 
nelle  lettere.  Giuntovi  dovea  nuocer  loro  e  corromperne  Pintrin- 
seco  gusto  nativo,  siccome  sempre  successe  in  ogni  tempo  e  na- 
zione,  qualora  tai  circostanze  per  la  stessa  maniera  vi  si  riuni- 
rono. 

Ma  qui  convienmi  sospender  le  prove  di  queste  tre  proposi- 
zioni  per  levar  prima  ogni  occasione  agli  equivoci  che  per  Tin- 
certezza  de'  vocaboli  potessero  aver  luogo.  Ardisco  dire  che  per 
ci6  che  risguarda  cotesto  filosofismo  universale,  le  obbiezioni  del- 


730  MATTEO   BORSA 

1' abate  Arteaga  non  sol  contro  me  ma  contro  Merian,1  vengono  per 
la  massima  parte  da  un  equivoco  appunto  di  parole.  Per  dire  la 
veriti  m'era  lusingato  a  principle  d'andarne  esente.  Prima  per  quel 
termine  «  filosofismo  »,  che  suona  un  certo  disprezzo,  lontano  assai 
dalla  venerazione  che  devesi  alia  vera  filosofia.  Poi  per  quel  ag- 
giunto  d'«  enciclopedico  »,  che  notoriamente  ora  abbraccia  tutte 
quelle  che  propriamente  si  dicono  scienze;  e  le  esatte  cio6  e  le 
probabili  e  le  natural!  e  le  speculative.  Ma  poich£  veggo  essere  sue- 
ceduto  altrimenti,  tenterb  di  spiegare  1'oggetto  con  piti  di  avver- 
tenza.  Filosofia  e  amor  di  sapienza,  e  per  sapienza  propriamente 
e  comunemente  intendevano  i  Greci  la  prudenza  e  1'ampiezza  del- 
la  ragione  applicata  agli  oggetti  morali,  alle  cose  della  vita,  agl'inter- 
ni  ed  esterni  doveri,  alia  dignita  propria  ed  altrui,  agli  ordini  pub- 
blici  e  agli  uffici  privati.  Basta  osservare  che  le  occupazioni  per- 
petue  deirAccademia,  della  Stoa,  del  Peripato  versavano  sui  fini, 
sul  sommo  bene,  su  la  natura  degli  dei,  su  quella  delFanima,  ec. 
ec.  Basta  riflettere  che  i  sette  saggi,  cioe  i  sette  filosofi  per  eccel- 
lenza,  non  coltivarono  che  morale,  politica,  legislazione,  e  che  nel 
totale  quinci  non  dipartivasi  la  filosofia;  salvo  il  dilatarsi  con  qual- 
che  raro  (come  fece  con  Teofrasto)  oltre  al  prescriver  le  leggi  alle 
passioni,  a  descriverne  anche  1'indole  ed  il  carattere.  Dunque  seb- 
bene  per  filosofia  s'intendesse  talvolta,  e  anche  adesso  s'intenda, 
Tattuale  esercizio  degli  uffici  e  delle  virtti  del  saggio,  pure,  piii 
comunemente  intendendosene  la  contemplazione  e  la  discussione, 
ne  viene  che  Toggetto  prossimo,  immediate,  non  ricercato,  quello 
che  si  presenta  al  primo  pronunciar  quel  vocabolo,  egli  6  un  com- 
plesso  di  dogmi,  spiegazioni,  insegnamenti,  teorie,  discussioni,  ec, 
ec.  su  tutto  quello  che  alPanimo  nostro  appartiene.  E  perci6, 
quando  si  dice  « filosofismo  )>,  non  altro  s'intende,  o  pu6  intendersi 
comunemente,  che  Taffettazione  di  dogmatizzare,  esortare,  ad- 
dottrinare  fuor  di  luogo,  di  tempo,  di  misura,  in  fatto  di  costume, 
sia  morale,  sia  civile,  sia  socievole.  fe  egli  questo  o  non  ^  il  vizio 
epidemico  della  letteratura  corrente  ? 

Ma  alia  parola  « filosofismo »  quella  s'aggiunse  altresl  d'ccen- 
ciclopedico ».  S'insinu6,  cio^,   che  non  solo  la  filosofia  diviene 

i .  le  obbiezioni .  .  .  Merian :  si  riferisce  alia  seconda  nota  dell' Arteaga,  in- 
titolata  Esame  d'un'opinione  del  signor  di  Merianintorno  airinfluenza  ch'ebbe 
la  filosofia  sulla  poesia  de*  Greci  e  de*  Latini,  opimone  che  il  Borsa  cita  pid 
avanti. 


I  VIZI  DEL  CORRENTE  GUSTO  IN  BELLE  LETTERE   73! 

intemperante  dentro  1'ordine  degli  oggetti  accennati,  ma  che  va 
molto  al  di  la  di  questi  stessi,  e  che  ne  abbraccia  degli  altri  situa- 
ti  perfettamente  fuori  di  quella  sfera,  e  trascende  i  suoi  limiti  in 
ogni  senso.  E  questo  e  accaduto  per  lo  esserci  di  molte  cose  che 
o  contribuiscono  o  sono  anche  necessarie  del  tutto  al  ben  essere 
e  alia  sicurezza  cosl  degl'individui  come  dell'intera  societa:  fisica, 
geografia,  astronomia,  agricoltura,  arti,  medicina,  ec.  ec.  £  dun- 
que  (dissero)  del  filosofo  il  procurarle  alia  societa  ed  a  s6.  £  dun- 
que  (aggiunsero)  da  lui  ancor  lo  studiarle.  L'ultima  conseguenza 
non  e  in  tutto  rigore;  e  anzi  falsa  e  genera  una  gran  confusione 
d'equivoci  e  pretensioni.  La  volonta  dell'uomo  &  lo  studio  che 
appartiene  al  savio ;  le  cose  esterne  ma  utili  alFuomo  appartengono 
ad  altre  o  facolta  o  arti  o  profession!.  Quello  ordina  e  dispone  s6 
e  gli  uomini  al  bene  proprio  e  comune  secondo  Fattitudin  spe- 
ciale  di  ciascheduno.  Queste  ordinano  le  cose  natural!  o  fattizie 
al  fine  stesso.  Quello,  dunque,  a  non  eccedere  gli  uffici  d'uomo 
semplicemente  savio  e  prudente,  quando  voglia  promuovere  e 
procurare  Fuso  di  queste  cose  a  vantaggio  comune,  s'applica  di- 
rettarnente  a  dirigere  verso  di  quelle  le  idee,  gli  usi,  i  capricci 
degli  uomini  con  mezzi  politici  e  morali.  Su  le  cose  stesse  non 
opera  che  indirettamente.  E  con  cio  suo  studio  sempre  rimane 
Fuom  solo,  e  altrui  resta  lo  studio  deir altre  cose.  £  filosofo  Fim- 
perador  della  Cina,  quando  nelle  feste  solenni  pon  mano  alFara- 
tro,  perch6  non  intende  con  ci6  al  solco  che  fa,  ma  si  agli  animi 
d'un'immensa  nazione  che  dallo  splendor  del  suo  esempio  e 
animata  a  moltiplicare  i  doni  benefici  della  natura  co*  suoi  su- 
dori.  Pietro  Primo  era  un  grande  filosofo,  quando  calafatava  le 
navi  e  sudava  colla  sega  e  il  martello  alia  mano;  non  lo  son 
gia  i  marinari  e  i  falegnami  russi  che  ora  lavorano  tanto  meglio 
di  lui. 

Ma  che  perci6?  Dal  promovere  gli  studi  delle  cose  utili  al 
Fuomo  allo  studiarle  il  passo  era  piccolo.  L'idea  presto  con- 
fondevasi.  II  fine  ultimo  si  mescolava  colFoggetto  piu  prossimo. 
E  tutti  presto  furon  filosofi  quelli  che  s'applicarono  alle  utili  ve- 
rita  di  qualunque  genere  fossero;  dentro  o  fuori  delPuomo,  nella 
societa  stessa  o  ordinate  a  lei  semplicemente.  Cosl  la  filosofia  sorse 
in  monarchia  universale,  appena  salvandosene  le  belle  lettere,  piu 
per  gravita  e  alterigia  della  prima,  che  per  osservanza  dei  diritti 
e  dei  privilegi  delle  seconde.  S'aggiunse  a  ci6  1'autorita  di  que' 


732  MATTEO   BORSA 

grand!  che,  d'ogni  cosa  scrivendo  essi  soli,  come  gia  fecc  lo  sta- 
girita,  furon  detti  filosofi  anche  quando  di  filosofia  non  trattarono ; 
e  cosl  introdussero  Fopinione  che  tutto  lo  scibile  appartenessc  per 
proprio  diritto  alia  filosofia.  E  con  ci6  finl  la  cosa  che  furon  filo 
sofi  anche  Anassagora  colle  sue  omeomerie;  Anassimandro  cogli 
oroscopi  e  il  gnomone;  Diogene  rApolloniate1  colPAria-Dio ;  e 
Parmenide  e  Posidonio  e  cent'altri,  come  Newton  lo  fu  co'  stioi 
Prindpii  di  filosofic?  e  Cartesio  co'  «vortici».3  Ecco  Torigine  dello 
spirito  enciclopedico  che,  aggiunto  all'altra  parola  «  filosofismo » 
suona  uno  spirito  di  dogmatizzare  e  sentenziare  e  istruire  e  ad- 
dottrinare  prima  di  tutto  e  sopra  tutto  in  morale  e  costumi ;  ma  poi 
in  qualunque  genere  o  materia  che  sia  o  che  corra  sotto  la  no- 
zione  di  scienza,  per  qualunque  poi  ragione  od  equivoco  questo 
succeda. 

6  dunque  Tenciclopedismo  una  tendenza  che  nasce  quasi  dal- 
Tintima  e  originaria  natura  della  filosofia.  Ma  quando  poi  la 
cultura,  a  forza  d'estendersi  e  dilatarsi,  diventa  leggera  e  uni- 
versale,  questa  tendenza  &  inevitable,  irresistibile,  tirannica  perfino 
colle  belle  lettere;  no  certo  nate  a  tanta  gravitk  e  servitu,  n<5  a  si 
gran  pretensioni;  ma  di  costumi  piu  sciolti,  piu  conversevoli,  e 
quasi  direi  piu  liberali.  FinchS  i  primi  contemplatori  e  scopritori 
del  mondo  filosofico  si  trovano  a  certa  altezza  sopra  i  circostanti 
ingegni,  scrivono  liberamente,  arditamente  e  senza  studio  di  chia- 
rezza  volgare.  Seguon  perci6  rapidamente  la  serie  di  loro  idee, 
e  si  fanno  agli  altri  oscurissimi,  i  quali  gia  sono  disposti  a  trovargli 
oscuri,  anche  dove  nol  sono,  per  rimperizia  delle  menti  ancor  molli 
e  dilicate,  quasi  direi.  Ma  sopravvenendo  in  appresso  altri  filosofi 
a  diradare  ed  espandere,  v'ha  pur  chi  gli  ascolta;  e  1'udienza  s'ac- 
cresce,  e  si  sparge  la  fama.  Se  non  sono  intesi  del  tutto,  pure  or 
da  quello  or  da  questo  qua  e  &  si  comprendono.  E  cosi  i  minori 
ingegni  delle  minori  idee  cadute  ai  grand'uomini  s'impadroniscono 
e  in  commercio  le  mettono  e  le  maneggiano  e  impastano  in  varie 

i.  Diogene  VApolloniate:  filosofo  greco  del  V  secolo  a.  C.,  che  pone  quale 
principle  centrale  della  sua  cosmologia  appunto  il  concetto  citato  dai 
Borsa,  combinando  Anassimene  e  Anassimandro.  ^.  Prindpii  di  filosofia: 
i  Philosophiae  naturalis  principia  mathematica  (1687),  1'opera  fondamentale 
del  Newton,  importantissima  anche  dal  punto  di  vista  filosofico.  3. « vor~ 
ft'a»:  allude  alia  teoria  cosmogonica,  detta  appunto  « dei  vortici »,  che  Car 
tesio  espone  nei  Principia  philosophiae  (1644),  e  che  fu  combattuta  dal 
Newton  nei  suoi  citati  Principia. 


i 


I   VIZI    DEL    CORRENTE    GUSTO    IN   BELLE   LETTERE       733 

forme,  sicche*  una  filosofia  ne  emerga  proporzionata  a  lor  forze. 
E  questo  &  il  punto  in  cui  si  veggon  filosofi  pullular  d'ogni  lato. 
Massime  poi  se  alcuno,  accorgendosi  e  che  il  sommo  e  per  pochi 
e  che  dal  sommo  qualche  cosa  pu6  trarsi  che  gli  rassomigli  e  si 
adatti  alia  turba  ambiziosa  o  impotente,  s'appiglia  a  quest' ultimo 
partito.  Ecco  la  rapidita  dello  stile,  il  calor  delle  immagini,  il  fuo- 
co  delle  passioni,  Ten-are  per  ogni  facolta  a  lambirne  soltanto  la 
superficie,  i  paragon  disparati  e  la  confusione  delle  frasi  tecniche 
sottentrare  alia  meditazione,  alia  scienza,  alia  dottrina.  Si  sparge 
il  contagio  per  ogni  ceto  e  societa  di  persone.  S'impadronisce  per- 
fino  dei  giovani  e  delle  donne  piu  dissipate.  Non  e  infin  chi  non 
merchi  a  prezzo  si  tenue  quel  dolce  nome  di  filosofo. 

Non  sarebbe  dunque  un  gran  merito  il  far  da  profeta  in  cosi 
chiara  combinazione  di  cose.  Ma  per  quanto  sia  piccolo,  anche 
questo  eel  toglie  la  storia,  col  dimostrarci  quanto  sia  vecchia 
una  tal  verita.  Gik  ne  accennammo  in  prova  la  Grecia,  di  cui  non 
possono  a  questo  proposito  non  tornarci  a  memoria  i  sofisti,  i 
quali  a  poter  emulare  Aristotile  e  Platone,  crearonsi  quella  lo- 
ro  arte  eristica  con  cui  disputavano  prontamente  sopra  ogni  cosa 
a  forza  di  piccoli  artifici  metafisici  e  d'un'eloquenza  versatile,  co- 
lorita  e  capziosa,  e  con  cui  acquistarono  fama  di  scienza  universale. 
Dietro  G.orgia  e  Protagora  non  ci  voile  di  piu:  tutti  i  Greci  furono 
filosofi.  L'arti,  le  profession  si  confusero.  I  sessi,  le  condizion 
s'accostarono.  La  severita  repubblicana  in  questo  mezzo  ceder  do- 
vette  al  torrente.  E  quando  prima  nei  tempi  migliori  saggia  era  piu 
quella  donna  di  cui  meno  sapevasi  e  si  parlava  in  citta;  quando 
cioe  la  verecondia,  il  pudore  e  le  virtu  domestiche  sole  facevan 
Pelogio  di  quel  sesso  timido  e  gentile;  vidersi  le  Tergelie1  e  le 
Aspasie  del  titol  di  sofiste  insuperbirsi.  Per  poco  allora  nuovo  lu- 
stro  acquistarono  I'arti  del  dire  e  le  scienze  in  questo  universale 
fermento.  Ma  preparossi  altresl  la  lor  decadenza,  togliendosi  il  vero 
amor  dello  studio  e  della  profonditk  e  tutto  ponendo  nella  super 
ficie  e  nelFapparenza. 

In  Grecia  dunque  quella  progressione  ebbe  luogo.  E  in  noi? 
Vediam  come  i  secoli  niente  mutino  gli  uomini.  Cominciammo 
dagli  aristotelici,  da  cui  per  liberarci  tanto  sudarono  Ramo2  e 

i.  Tergelie-.  allude  all'etera  Targelia  di  Mileto,  poi  divenuta  moglie  di 
Antioco,  re  di  Tessaglia.  2.  Pietro  Ramo  (1515-1572)  sottopose  ad  esa- 
me  critico  soprattutto  la  logica  aristotelica. 


734  MATTED  BORSA 

Bacone.  Andarono  poi  avanti  le  cose,  finch£  Cartesio  e  Neutono 
per  varia  sorte  traendosi  dietro  la  filosofia,  tutta  infin  rinovaro- 
no  la  faccia  delle  scienze:  come  avria  fatto  piu  di  lor  Galileo, 
se  la  condizione  de'  luoghi  e  de'  tempi  non  se  gli  fosse  attra- 
versata.  Pochi  gl'intesero  quej  profondi  scrittori  in  su  le  pri 
me.  Ma  si  ampliarono  poi,  si  agevolaron  le  cose  dai  posteri.  Vi 
fu  chi  tra  le  spine  matematiche  stese  la  mano  a  c6rne  or  frutte 
ed  or  fiori;  e  ne  invaghl  gli  altri;  e  credette  di  far  intender  Neu 
tono  e  Cartesio  alle  dame1  col  raccontarne  loro  qualche  spe- 
rienza  piu  facile  e  qualche  massima  piu  generale  e  piu  trita. 
Furono  questi,  a  dir  vero,  colti  scrittori,  anche  dotti;  ma  cosl 
secondando  la  mollezza  comune,  accelerarono  la  rivoluzione.  Po- 
co  studiarono  i  lor  successori  le  scienze,  che  per  quelle  opere 
parver  si  facili;  e  del  loro  poco  di  scienza  a  vicenda  insuper- 
biti  non  curarono  piu  n6  lo  stil  n£  la  lingua.  Accrebbero  il  ma 
le  gFinfiniti  dizionari  moderni,  per  cui  phi  non  seppesi  n6  la 
filosofia  n£  la  letteratura.  E  quella  cotale  specie  d'autori  usci  fuori 
che  altro  non  san  veramente  se  non  d'avere  stampato.  Ci6  che 
dei  fisici,  dicasi  dei  metafisici  e  moralisti;  le  di  cui  piu  sublimi 
meditazioni  gia,  se  s'ascolti  la  moda,  non  ispaventano  piu  le  fan- 
tasie  meno  stabili  e  gl'ingegni  meno  pazienti.  Che  piu?  Dov'&  ora 
un  solo  che  di  filosofici  assiomi  non  faccia  vanit£,  e  di  filosofo  il 
nome  ad  ogni  tratto  non  vanti,  fino  quasi  a  arrossirne  chi  lo  &  ve 
ramente?  E  dove  il  libretto,  la  novelletta  o  la  canzone,  in  cui  di 
termini  astratti,  di  relazioni  lontane,  di  allusion,  di  sistemi  non 
si  scopra  una  pompa  tanto  piu  intollerabile  quanto  meno  conviene 
e  alia  persona  e  alia  cosa?  Si  comunica  intanto  il  moto  universale 
e  si  distende  per  tutto.  Penetra  anche  i  recessi  delle  dimestiche 
mura  e  le  giovanette  abbagliate  dai  moderni  Protagora,  che  scri- 
ver  voglion  di  tutto,  bench6  tutto  non  sappiano,  g&  sdegnano  le 
tranquille  lor  cure,  g&  sconosciuti  libri  sottentrano  ai  noti  lavori, 
gia  vogliono  anch'esse  sapere,  gik  decidon,  g&  innalzano  tribunali, 

i.  far  intender  , .  .  dame:  chiara  allusione  all'Algarotti,  autore,  oltre  che 
del  Neutonianismo  per  le  dame  (piu  tardi  ripubblicato  col  titolo  definitive 
di  Dialoghi  sopra  Vottica  neutoniana),  anche  di  un  Saggio  sopra  il  Cartesio 
(1754).  Proprio  FAlgarotti,  tuttavia,  aveva  biasimato  in  una  lettera  ad 
uno  sconosciuto  (4  aprile  1760)  1'usanza  di  «trattare  in  versi  cose  filosofiche 
che  non  sono  da  versi »  e  di  cacciar  « la  filosofia  in  soggetti  che  di  lor  natura 
non  la  comportano  e  1'aborriscono  piuttosto »  (cfr.  A.  GRAF,  Vanglomania 
ecc.,  cit.,  p.  367). 


I   VIZI    DEL   CORRENTE   GUSTO    IN  BELLE  LETTERE      735 

Quindi  poeti,  romanzieri,  novellisti,  storici,  eruditi  e  letterati  d'ogni 
maniera  non  piaccion  piu  a  se  medesimi  se  non  quanto  piacciono 
al  popolo  filosofante.  E  fanno  ogni  sforzo  per  parere  filosofi,  se 
non  per  esserlo.  E  con  muTarti  e  allusion!  astutamente  procaccia- 
no  di  metter  negli  altri  sospetto  che  nessuna  scienza  non  siavi  a  loro 
straniera. 

Ecco  dunque  introdotto  in  letteratura  il  filosofismo  enciclope- 
dico.  Ma  giova  o  nuoce  ?  II  modo  con  cui  ci6  e  seguito,  il  carattere 
delle  persone,  la  natura  del  fine,  gli  studi  e  le  letture  intraprese  per 
ci6  pur  troppo  eel  dicono ;  e  non  e  vano  alia  soluzion  del  problema 
in  questa  parte  il  prospetto  delle  cose  presenti  esposto  pur  or 
fedelmente.  Sebbene  e  pur  meglio  lo  spiegarsi  una  volta  aperta- 
mente.  Dir6  dunque  che  1'introduzione  del  filosofismo  non  solo  ha 
nociuto,  ma  che  doveva  nuocere  necessariamente  alle  lettere  e 
guastarle.  E  vaglia  il  fatto  a  troncar  la  quistione. 

II  chiarissimo  signor  di  Merian  ha  negli  Atti  della  R.  Acca- 
demia  di  Berlino  quattro  eccellenti  dissertazioni  su  Tinfluenza 
delle  scienze  in  poesia,1  le  quali  ci  mostrano  come  in  ogni  tempo 
i  poeti  si  sono  gittati  alia  filosofia  tosto  ch'ella  s'e  resa  facile  e 
agiata  all'universale ;  siccome  li  consiglia  ancor  essi  la  volontk  di 
piacere  e  ottener  fama.  Ma  ci  mostran  del  pari  come  quella  por- 
zione  di  filosofia  e  di  scienze,  a  cui  erano  essi  proporzionati,  e  le 
metamorfosi,  che  dovean  far  pure  subire  a  queste  scienze  per  pro- 
porzionarsele,  gli  abbian  sempre  corrotti  cosl  nello  stile  che  nei 
pensieri,  Sia  la  poesia  pertanto  la  misura  universale  d'ogn'altro 
ramo  di  belle  lettere,  siccome  il  grado  sommo  ella  &  a  cui  si  possa 
mirare  in  materia  di  gusto.  N6  gia  mi  giova  il  ricordare  quanto 
scrisse  Aristotile  contro  le  poesie  filosofiche;2  ne  quanto  severo 


I .  quattro  .  .  .  poesia :  allude  alle  prime  quattro  di  una  serie  di  dissertazioni 
che  J.  B,  Merian  (su  cui  cfr.  la  nota  2,  a  pp.  466-7  e  la  Nota  introduttiva  al 
Borsa)  pubblic6  nei « Nouveaux  m&noires  de  FAcade'mie  royale  des  Scien 
ces  et  Belles  Lettres»  di  Berlino,  tra  il  1776  e  il  1796,  col  titolo  complessivo 
Comment  les  sciences  influent  sur  la  poesie.  In  queste  prime  quattro  disserta 
zioni  il  Merian  tratta  successivamente  deH'origine  della  poesia  (attenendosi 
ai  Condillac),  della  poesia  ebraica,  di  Ossian  e  di  Omero  (iv,  1776,  pp. 
455-519);  poi  degli  altri  poeti  greci  e  in  particolare  di  Pindaro  e  di  Eu- 
ripide  (vn,  1779,  pp.  391-425);  e  infine  della  poesia  latina  (ix,  1780,  pp. 
351-494;  XII,  1783,  pp. 499-538).  2.  Aristotile  .  .  .filosofiche:  allude  pro- 
babilmente  a  quel  passo  del  capitolo  I  della  Poeticat  dove  Aristotele  afTer- 
ma  che  «non  c'e  niente  di  comune  fra  Omero  ed  Empedocle  all'infuori 
del  verso »  (traduzione  M.  Valgimigli,  Ban,  Laterza,  1934,  p.  52). 


736  MATTED  BORSA 

Zenon  si  mostrasse  contro  i  poeti;1  ne"  quanto  male  riescissero  in 
poesia  i  piu  grandi  filosofi.  Lascio  le  autorita,  le  opinioni  e  i  parti- 
colari  esempi  di  Socrate  e  di  Platone.  All'esperienza  universa- 
le  m'appello.  A  quella  stessa,  che  sola  persuase  il  signer  di  Me- 
rian  dell'ordin  contrario  che  tengono  queste  due  facolta;  talch6 
decadere  s'osserva  sensibilmente  la  poesia,  quando  le  dottrine  filo- 
sofiche  vanno  salendo  a  sommi  gradi  d'onore  ed  occupando  mag- 
gior  superficie  d'opinioni,  e  cosi  viceversa.  Diffatti  quale  istitu- 
zione  di  filosofia  mai  pu6  mostrarsi  che  esistesse  allor  quando 
Omero  divinamente  cant6  que'  suoi  poemi?  Ma  il  grande  Euri- 
pide,  sebben  per  ingegno  grande  al  pari  d' Omero,  pur  comincid  a 
lasciarsi  corrompere  dalPascendente  che  aveva  la  filosofia  a'  suoi 
giorni,  introducendo  in  teatro  sermoni  filosofici  e  raffinamento 
indiscreto  e  quasi  metafisico  di  passioni  e  di  morale.  L/approvava 
Socrate,2  &  vero:  ma  n6  in  poesia  vale  gran  fatto  il  giudizio  di  lui, 
come  or  ora  si  disse,  n6  dall'amor  proprio  esente  poi  era  questo 
giudizio  medesimo,  mentre  le  filosofiche  sue  dottrine  vedeva  egli 
da  Euripide  con  tanto  splendor  d'eloquenza  predicate.  Bene  in 
contraccambio  accusollo  altamente  Aristotile.3  E  la  gente  anzi  di 
gusto  piu  fino  lo  proverbiava  leggiadramente  con  quel  certo  ter- 
mine  che  quasi  suona  <c  euripideggiare  »,4  a  mostrare  una  cotale 
affettazione  di  sentimenti  sentenziosi  e  condotti  a  forza  di  stento 
e  d'ingegno.  Segui  poi  avanzandosi  la  filosofia,  la  qual  tocc6  il 
sommo  nei  tempi  de*  Tolomei  con  Euclide  e  quegli  altri  fa- 
mosi,  e  col  Museo  si  splendido  e  la  celebre  Biblioteca  d' Ales 
sandria.  Ma  la  vantata  Pleiade  greca,5  che  a  questi  giorni  ap- 
punto  vuolsi  ridur  come  a  centre,  secondo  Tautor  nostro,  ci 
somministra  ella  forse  un  sol  poeta  che  aggiunga  que*  grandi 
originali  e  inventori  d'ogni  poesia  piu  nobile  e  piii  sublime  ?  Che 
han  che  fare  con  questi  non  pur  Tarido  Nicandro  e  il  nebuloso 


i.  severo  Zenon  ,  ,  .  poeti:  la  notizia  e  tramandata  in  un  passo  di  Diogene 
Laerzio  (vii,  23).  2.  L'approvava  Socrate:  il  Borsa  si  riferisce,  come  il 
Merian  da  cui  egli  prende  la  notizia,  ad  Eliano,  Var.  hist,,  n,  13.  3,  ac 
cusollo  .  .  .  Aristotile:  in  realta  Aristotele,  se  fa  riserve  su  alcuni  partico- 
lari  tecnici  della  tragedia  euripidea,  ne  riconosce  piti  volte  Televata  arte 
tragica  (cfr.  Poetica,  ed,  cit.,  pp.  101-2).  4.  « euripideggiare »;  sOpt- 
TutS^eLv;  e  verbo  testimoniato  dagli  scolii  di  Aristofane.  5.  Pleiade  gre 
ca:  nome  con  cui  i  grammatici  antichi  designavano  un  gruppo  di  sette 
poeti  tragici  (fra  cui  Licofrone,  citato  pih  sotto  dal  Borsa),  nella  prima 
meta  del  III  secolo  a.  C. 


I  VIZI  DEL  CORRENTE  GUSTO  IN  BELLE  LETTERE   737 

Licofrone,1  ma  e  Mosco  e  Bione  e  Teocrito  stesso,  che  tanto  da 
quell'altezza  di  stile  e  d'argomenti  discesero?  Ecco  la  gradazio- 
ne  retrograda  cui  Perudito  accademico  va  fedelmente  seguendo 
fin  dove  e  la  filosofia  e  la  letteratura  e  ogni  scienza  ed  ogni 
arte  si  perde  nella  caligine  gotica,  e  al  ferro  cede  e  all'ignoranza 
barbarica. 

N6  meno  nocque  alia  letteratura  romana  il  filosofismo.  E  mi 
giova  il  narrarlo,  si  per  mostrare  piu  chiaramente,  non  gia  il 
pericol  soltanto,  ma  il  certo  danno  di  questo,  che  alcuni  preten- 
dono  essere  e  miglioramento  e  perfezionamento  dell' arte;  si  per- 
ch£  anche  piu  vivo  troveremo  in  Roma  il  ritratto  delle  nostre 
sventure.  Resisterono  infatti  que'  prodi  per  alcun  tempo  alia 
tentazione,  e  chiusero  ogn'adito  della  lor  poesia  alia  filosofia  greca, 
avvertiti  che  essa,  per  trapelare  ove  non  deve,  bisogna  che  si  assot- 
tigli,  si  sfibri,  s'attenui  e  che  corrompa  la  sua  intima  organizza- 
zione  e  Faltrui.  Ma  pur  soggiacquero  alfine  alFuniversale  destino 
degFingegni  umani.  «I1  gusto  squisito,»  dice  il  signor  di  Merian 
«il  sentimento  dilicato  e  finissimo  del  vero  e  del  bello;  Testrema 
avversione  ad  ogni  affettazion  bench.6  minima;  la  sobria  lontanan- 
za  da  tutt'ornamento  straniero;  ecco  ci6  che  forma  il  carattere  della 
poesia  del  secolo  d'Augusto.  Ma  quando  a  sottentrar  cominciano 
gli  opposti  difetti,  cio&  Taffettazion  della  scienza,  la  mania  di  filo- 
sofare  in  versi,  col  ricercato  ed  il  singolare  preferito  al  naturale 
ed  al  semplice,  g&  non  &  desso  piu  quello  n6  il  secolo  n£  la  poe 
sia  dell'eta  deH'oro».2  Cosl  il  dotto  uomo,  a  cui  non  si  peggiora 
la  causa  per  1'esempio  di  quel  gioviale  epicureo  d'Orazio,  che  si 
leggermente  tocca  ogni  cosa  e  sol  la  sfiora  ed  accenna,  e  par  che  si 
guardi  da  ogn'ombra  di  scienza  e  gravita  filosofica.  Ne  piu  gli 
nuoce  Lucrezio,  di  cui  s'6  detto  abbastanza,  sottilmente  in  lui 

-L.Nicandro  di  Colofone  (II  secolo  a.  C.)  e  qui  ricordato  come  autore 
di  due  poemi  didascalici,  i  Veleni  e  i  Controveleniy  Licofrone  di  Calcide 
(IV-III  secolo  a.  C,),  per  la  sua  tragedia  Alessandra,  di  lettura  difficile 
per  lo  stile  oscuro  e  i  numerosi  riferimenti  eruditi.  2.  Traduce  libera- 
mente  dalla  terza  dissertazione  del  Merian  (cfr.  «Nouveaux  m^moires» 
ecc,,  cit.,  IX,  1780,  p.  379):  «le  gout  exquis,  ce  sentiment  du  vrai  et  du  beau, 
cet  ^loignement  de  toute  affectation,  cette  justesse  d' esprit  qui  fait  rejeter 
les  ornemens  Strangers;  c'est  la  ce  qui  caractdrise  la  po^sie  du  siecle 
d'Auguste  .  .  .  Des  que  vous  verrez  les  d6fauts  opposes  prendre  le  des- 
sus,  j'entends  T affectation  de  la  science,  la  manie  de  philosopher  en  vers, 
la  preference  donn£e  &  ce  qui  est  singulier  et  recherch£  sur  ce  qui  est  simple 
et  naturel;  des  lors  ce  n'est  plus  ce  siecle,  ce  n'est  plus  cette  po£sie». 

47 


738  MATTEO   BORSA 

distinguendo  dal  poeta  il  filosofo,  che  si  vanno  sfuggendo  scam- 
bievolmente.  Ma  fu  sotto  Nerone  che  la  filosofia,  massime  stoica 
(siccome  a  lei  ricorrevano  per  indurarsi  contro  Torrore  di  quelle 
tirannie),  s'and6  avvanzando  e  intrudendo  in  letteratura.  Fu  allora 
che  questa  a  vicenda  s'and6  corrompendo  e  peggiorando  ognor 
piu.  E  in  veritk  quel  Persio  discepolo  dello  stoico  Cornuto,  quanto 
dai  buoni  non  6  gi&  lontano?  Persio,  che  parve  il  Licofron  dci 
Latini.  Quanto  non  ne  sono  lontani  i  figli  di  Seneca  il  retore,  dei 
quali  non  so  chi  piu  contribuisse  al  mal  gusto  o  Seneca  Gallione 
col  suo  stile  si  languido  e  effeminate,  che  appiccato  gli  venne  qua 
si  in  proverbio  quel  ((tinnitus  Gallionis));1  o  Mela  col  suo  figlio 
Lucano ;  o  Seneca  il  filosofo  finalmente,  che  colle  sue  tragedie  ed 
opere  varie  e  moltiplici  voile  essere  tutto;  fu  filosofo  in  poesia, 
poeta  in  filosofia,  e  in  ogni  cosa  poi  fu  uno  sforzato  declamatore  ?a 
Ecco  la  teoria  del  signer  di  Merian.  L'abate  Arteaga  per6  non 
ha  fatta  un'attenzione  abbastanza  paziente  a  queste  cose.  Altri- 
menti  non  avrebbe  creduto  di  scontare  i  peccati  del  filosofismo  coi 
meriti  della  filosofia  riguardo  alle  belle  lettere.  Una  massima  parte 
delle  operazioni  di  queste  &  diretta  ad  agire  su  la  fantasia  e  sul  cuore, 
ad  agire  cio&  su  gli  animi  umani  prevalendosi  della  sensibiliti,  dei 
pregiudici,  delle  inclinazioni.  La  vera  filosofia,  che  di  sua  natura  & 
indagatrice  delle  tendenze  di  quest'animo,  sta  in  questi  casi  in 
disparte,  osservando  quali  sono  gli  aditi  i  piu  molli,  le  piegature 
le  piu  scorrevoli  per  introdurcisi,  quale  il  modo  d'applicarvi  gli 
urti  e  gl'impulsi,  onde  sforzar  gli  uomini  a  sentire  e  vedere  in 
quel  modo  e  in  quel  lume  che  si  vuole,  e  a  non  poter  far  altri- 
menti.  Questa  filosofia  dunque  precede  1'operazione,  dirige  Pese- 
cuzione,  determina  cosi  la  disposizione  del  totale  come  i  tratti 
parziali.  fe  una  condizione  che  entra  nella  cosa  stessa,  ma  nascosta, 
ma  tacita,  ma  impercettibile;  ma  non  &  infine  la  cosa.  Nel  fatto 
pratico  non  si  accenna,  non  dee  trasparire  pur  da  lontano  1'anti- 

1.  fe  definizione  di  Tacito,  Dial,  de  orat.,  xxvi  (« scampanellio  di  Gallione »). 

2.  Giover&  qui  citare  le  parole  medesime  del  dotto  Merian,  le  quali  si  al 
vivo  nell'autore  latino  i  moderni  autor  ci  dipingono,  senza  egli  volerlo: 
« Les  objets  y  paroissent  dans  un  faux  jour  et  sous  dcs  couleurs  factices. 
Ce  sont  des  bluettes,  des  e"claires,  des  tours  de  force;  Ik  des  hyperboles 
qui  s'entrechoquent  dans  les  nues;  ici  des  petites  pens6es  qui  tournent 
sur  une  pointe,  partout  un  e"chaufTaudage  de  propos  sententieux,  qui  peu- 
vent  £blouir  les  jeunes  gens,  mais  qui  d^plaisent  a  quiconque  a  le  gout 
form6  sur  des  principes  solides»  (B.)-  Cfr.  la  terza  dissertazione  del 
Merian,  nei  «Nouveaux  m6moires»  ecc.,  cit,  ix  (1780),  pp.  414-5. 


I  VIZI   DEL   CORRENTE   GUSTO    IN   BELLE   LETTERE       739 

cipata  meditazione  e  artificiosa  dell'artista;  n£  lo  denno  quelle 
malizie  le  quali  piuttosto  qua  che  la  '£ anno  in  questo  o  quel  luogo 
volgere  il  corso  delPorazione.  Sembra  tutta  determinata  dal  mo- 
mento  presente,  dall'attual  commozione.  Si  dirige  tutta  ad  in- 
vadere  1'uditore  per  una  comunicazione  o  di  fantasmi  o  di  affetti ; 
nonsi  ripiega  sopra  di  s6;  e  non  sembra  accorgersi  pure  di  ci6 
che  fa,  non  che  guidarlo  colla  riflessione.  Ecco  la  vera  filosofia 
dell'oratore  e  del  poeta:  quella  delParti  d'imitazione,  d'immagina- 
zione,  di  commozione:  quella  delPeloquenza.  Sembra  ed  &  la  filo 
sofia  d'uno  che  attualmente  sente  egli  stesso,  osserva,  soffre  ed 
esulta,  e  che  vuol  propagare  ci6  che  sente  in  altrui  per  interno 
bisogno,  per  un  sentimento  impaziente  di  espandersi  e  diffondersi. 
Non  vuol  gia  insegnare  ad  altri  teoricamente  come  debbano  os- 
servare  e  sentire. 

Questa  filosofia  poi  che  parte  6  di  natura  e  parte  d'arte,  e  che 
&  la  filosofia  pratica  delle  belle  lettere,  si  spiega,  a  dir  vero,  e 
dimostra  assai  apertamente  per  una  cosa  assai  fina  e  sottile;  ma 
non  gia  nelle  opere  di  chi  fu  filosofo  in  belle  lettere  a  quel  modo 
che  lo  6  chi  scrivc  e  compone  per  un  senso  segreto  di  dettami  e 
principii  passati  in  abitudine.  A  quel  modo  che  Mengs1  lo  era  di- 
pingendo,  assai  diverso  da  quello  con  cui  eralo  mentre  sulle  cose 
dipinte  spargea  tanta  luce  di  metafisica.  Fina  e  sottilissima  invece 
si  palesa  nelle  sole  opere  di  chi  filosof6  su  le  belle  lettere,  espo- 
nendone  le  teorie  e  le  segrete  forme  analitiche,  come  Aristotile 
anticamente  e  piu  recentemente  Hume,  nella  filosofia  della  ret- 
torica  Blair,  Campbell,2  e  tanti  e  tant' altri.  Anche  la  discussione 
presente,  per  esempio,  non  &  gia  un  lavoro  di  belle  lettere;  n'6  uno 
di  filosofia  sopra  le  belle  lettere.  Ma  perch6  sia  sottile  e  fina  quella 
filosofia,  non  lascia  gi&  d'essere  percib  puramente  una  filosofia 
pratica  e  di  cuore  soltanto  e  di  fantasia.  Per  Popposto  la  filosofia, 
di  cui  sotto  nome  di  filosofismo  parlavamo  piu  sopra,  come  di 
cosa  viziosa,  nel  caso  &  filosofia  di  dogma,  di  teoria,  d'intelletto. 
Se  son  dunque  contrarie  d'  indole,  deve  nuocere  che  una  occupi 
il  luogo  dell'altra  contro  Toriginale  costituzione  della  cosa.  Su 
questa  contrariety  di  natura  assai  cose  sarebberci  a  dire,  ma  le 

i.  Sui  Mengs  e  le  sue  teorie  estetiche  cfr.  le  note  alle  pagine  del  Milizia 
e  dello  Spalletti  riprodotte  in  questo  volume.  2.  George  Campbell  (1719- 
1796),  autore  di  una  Philosophy  of  Rhetoric  (1776)  di  orientamento  em- 
piristico. 


740  MATTEO   BORSA 

dice  in  parte,  e  in  tutto  il  rigore  della  formalitk  metafisica,  il  sag- 
gio  prime,1  determinando  la  natura  della  fantasia  e  mostrandola  tut- 
ta  rivolta  ad  oggetti  estremamente  lontani  da  quelli  che  cerca  il 
raziocinio,  cio&  I'intelletto,  nelle  cose  di  filosofia.  E  negli  «Atti» 
poi  dell'Accademia  di  Padova  stampati  due  anni  dopo  questa  dis- 
sertazione,  &  piu  ampiamente  esposta  dal  chiarissimo  signer  Sibi- 
liato  la  diramazione  di  principii  assai  simili  in  una  gran  quantita 
di  relazioni  e  confronti.2 

Ora  ci6  posto,  non  &  perfettamente  ben  detto  (se  si  dice  in  un 
senso  d'opposizione  die  accuse  qui  date  al  filosofismo)  che  Omero 
filosofb  in  versi,  perch6  descrisse  tante  cose  fisiche  e  intellettuali 
e  politiche  e  religiose.  Tocchi  leggeri,  rapide  pitture  immaginose, 
semplice  esposizione  disinvolta  d'opinioni  e  di  riti  non  4  il  ragio- 
nare,  il  discutere,  il  teorizzare,  Panalizzare  minutamente,  artista- 
mente,3  scientificamente  su  quegli  oggetti,  come  si  fa  ora  per  tutti 
i  versi  possibili.  6  un  espor  da  poeta  un  qualche  lato  piu  vistoso, 
piu  sensibile,  piu  volgare  e  palpabile  d'un  qualche  soggetto  che 
per  s6  e  in  origine  appartiene  alia  filosofia.  Le  relazioni  ch'ei  cerca 
tra  le  parti  di  questo  soggetto  son  diversissime  da  quelle  che  vi 
cerca  la  filosofia.  L'uno,  le  somiglianze  superficial!  e  materiali; 

T.  il  saggio  primo:  allude  evidentemente  al  proprio  saggio  Delia  fantasia, 
pubblicato  nelle  «Memorie  della  reale  Accademia  di  Mantova»,  I  (1705), 
e  poi  ristampato  nelle  Opere,  tomo  in.  Sui  concetti  fondamentali  di  questo 
saggio  cfr.  la  Nota  introduttiva.  2.  negli « Atti » . . .  confronts:  allude  al  saggio 
dell' abate  Clemente  Sibiliato  (su  cui  cfr.  la  nota  i  a  p.  305  e  anche  la  Nota 
introduttiva  al  Borsa)  Sopra  lo  spirito  filosofico  nelle  belle  letter e>  pubblicato 
nei  «Saggi  scientifici  e  letterari»  dell' Accademia  di  Scienze,  Letters  ed 
Arti  di  Padova,  I  (1786),  pp.  456-509.  II  Sibiliato,  ricordando  che  talc  saggio 
era  stato  scritto  e  letto  fin  dal  1779,  si  vanta  di  essere  stato  il  primo  in 
Italia  e  fuori  che  «sotto  nuovo  intendimento  se  la  prenda  pubblicamente 
contro  lo  spirito  filosofico  introdotto  o  piuttosto  intruso  nelle  umane 
lettered  A  quanto  si  e  detto  su  di  esso  neila  Nota  introduttiva,  si  ag- 
giunga  che,  sebbene  egli  citi  il  Vico  solo  per  deplorare  che  abbia  vo- 
luto  trovare  neH'J/uzdfe  la  «storia  graduata  della  societ&»,  echi  vichiani 
si  avvertono  spesso  nelle  sue  pagine,  come  per  esempio  quando  dice  che 
la  «poesia  come  la  primogenita  del  coltivato  spirito  umano  ,  .  ,  in  ogni 
tempo  e  luogo  ebbe  a  fiorire  innanzi  alle  scienze,  appunto  come  la  fantasia 
spunta  prima  della  ragione,  tutta  grande  ed  attuosa  fin  dai  suo  nascere, 
lanciandosi  per  rapida  intuizione  nel  modo  che  gli  occhi  corporei  eserci- 
tano  il  loro  potere,  e  non  gi&  procedendo  per  consecutiva  serie  di  principii, 
siccome  fa  la  riservata  ragione»  (p.  470).  Delia  dissertazionc  del  Sibiliato 
dette  notizia  anche  il  Cesarotti  nelle  sue  Relaxioni  accademichc  (cfr.  Opere, 
xvil,  Pisa,  Tipografia  della  Societ&  Letteraria,  1803,  pp.  43-6),  ma  limi- 
tandosi  ad  appro varne  genericamente  gli  intendimenti.  3.  artistamente: 
artificiosamente. 


I  VIZI  DEL  CORRENTE  GUSTO  IN  BELLE  LETTERE   741 

1'altra,  le  condizioni  intime  essenziali.  L'uno,  una  qualche  simi- 
litudine;  Paltra,  le  analogic  gradatamente  condotte.  L'uno,  una 
qualunque  dipendenza  di  omogeneita  apparente;  Faltra,  Fintrinse- 
co  delle  cagioni  e  degli  effetti.  Uno  vede  e  narra  ci6  che  vede; 
I'altra  insegna  e  a  vedere  e  ad  intendere  anche  diversamente  da 
qucllo  che  si  vede.  Cosi  analizando  si  espose  nel  saggio  accen- 
nato.1  Neppur  e  perfettamente  ben  detto,*  in  quel  senso,  che  Pin- 
daro  fu  filosofo  per  la  gravita  ed  abbondanza  di  sentenze;  e  cosi 
Simonide  e  Alceo,  se  pur  somigliano  a  Pindaro,  giacch6  non  li 
conosco.  Anche  la  fantasia  ed  il  cuore  dan  delle  occhiate  alia  mo 
rale,  ma  piu  per  sentimento  che  per  dottrina.  Sfuggon  loro  tal- 
volta  delle  sentenze,  ma  su  la  morale  comune,  piana,  popolare, 
sui  dettami  universali  e  notissimi;  e  sono  subito  investite  dal- 
la  corrente  dell'affetto  e  dal  moto  delle  pitture,  come  da  loro  fu- 
ron  portate.  Non  sono  analisi  e  sminuzzamenti  pesati  e  sottili, 
non  alludono  alle  teorie  e  ai  segreti  speculativi  delle  scuole; 
che  sarebbe  una  ridicolezza,  per  convincere  e  commuovere  il  pub- 
blico,  proporgli  e  motivi  e  ragioni  che  non  pu6  intendere  n6  af- 
ferrare.  Neppure  e  detto  perfettamente  bene  che  Euripide  con- 
trar  non  pot6  dalla  filosofia  i  difetti  di  che  comunemente  £  ac- 
cusato,  perch6  la  filosofia  a  suoi  di  non  era  assai  raffinata  in 
morale;  contraendo  e  mutando,  non  so  come,  tutto  in  un  trat- 
to  la  mia  proposizione  col  dare  improwisamente  un  nuovo  senso 
alia  parola  « morale ».  Perch6  se  la  morale  in  quanto  scienza  del 
mondo,  come  qui  1'intende  Arteaga,  non  era  a  grande  altezza,  bol- 
liva  per6  un'infinita  di  quistioni  in  morale  speculativa,  in  teo- 
gonia,  ec.  ec.,  come  1'intendo  io.  L'esempio  poi  di  Dante  e  di 
Milton  conferma  anzi  la  mia  idea  egregiamente,  perch6  Dante  e 
Milton,  se  non  contrassero  dalla  filosofia  (trista  a  lor  di)  la  sma- 
nia  di  dogmatizzare  e  ammonticchiar  dottrinali  ne'  lor  poemi, 
la  contrassero  bene  dalla  teologia  speculativa,  che  &  la  filosofia 
metafisica  applicata  alle  cose  divine.  Tanto  &  prepotente  questo 
contagio,  che  non  rallenta  per  distanza  che  lo  separi  dalle  idee 
e  dai  bisogni  della  vita  comune.  Ma  Sofocle  e  Aristofane  ed  altri 
non  furon  cosi,  dice  Arteaga.  Ma  non  &  nemmen  detto  dal  si- 
gnor  di  Merian  che  tutti  senza  eccezione  lo  fossero,  come  pur  ades- 

i.  nel  saggio  accennato:  il  proprio  Delia  fantasia,  z.  Neppur  .  .  .  ben  detto: 
qui  e  in  seguito  ribatte  alcune  affermazioni  particolari  dell' Arteaga  nella 
sua  seconda  nota  citata. 


742  MATTEO   BORSA 

so  nol  sono.  Quanto  ai  Latini  poi,  vere  son  le  cagioni  delPelo- 
quenza  tra  loro  degenerata,  che  si  adducono  dal  mio  dotto  spa- 
gnuolo:  «L/arte  della  declamazione  introdotta,  i  retori,  la  libertk 
perduta,  1'affluenza  degli  stranieri,  il  desiderio  di  sorpassar  gli  ot- 
timi,  Timitazione  dej  Greci  viventi  gia  corrotti».  Ma  queste  a 
considerarle  dappresso  determinano  in  genere  Fanimo  alia  cor- 
ruzione  per  la  dimenticanza  e  il  fastidio  de'  modelli  eccellcnti: 
non  piu.  Onde  dunque  questa  speciale  indole  di  corruzion  filosofi- 
ca?  Dal  filosofismo,  ch'e  in  voga,  e  che  trovando  gl'ingegni  rilas- 
sati  e  gli  aditi  aperti,  gli  occupa  e  li  precipita  tosto  per  mancanza 
dei  ripari  distrutti.  Se  il  secolo  d'Augusto,  benche"  dalPavver- 
sario  di  Merian  si  dica  il  secolo  filosofico,  non  produsse  a  un  certo 
segno  questo  fenomeno,  egli  e  perch6  e  necessario  un  certo  spa- 
zio  di  tempo  al  dilatarsi  dei  gusti  e  delle  opinioni.  E  se  Lucrezio  fu 
grande,  nol  fu  gi&  perche"  prendesse  a  trattare  di  proposito  materie 
filosofiche,  ma  perche*  a  dispetto  dell'assunto  non  felice  fu  si  gran 
poeta  per6,  dove  poet6,  che  fe'  scordare  tutte  le  lungherie  della  sua 
fisica,  come  i  bei  passi  di  Milton  e  di  Dante  la  loro  teologia.  M'ap- 
pello  allo  stesso  Arteaga  nell'opera  delle  Rivoluzioni*  dove  si  di- 
chiara  ampiamente  ed  esplicitamente  di  questo  parere.  Di  Vir- 
gilio  e  d'Orazio  poi  si  posson  ripetere  le  stesse  cose  che  di  Pindaro 
e  Omero.  E  qualche  tratto  pivi  lungo  d'astronomia,  per  esempio, 
o  di  teogonia,  e  ci6  in  un  poema  didascalico,  e  ci6  lanciandosi  tosto 
immaginoso  attraverso  la  teoria  per  darle  anima  e  vita,  non  pro- 
van  contro  di  me.  Se  si  abbadi  anzi  al  modo  e  alia  proporzione, 
apparir&  una  opposizione  palpabile  colle  conseguenze  che  Top- 
portunitk  forse  piti  che  la  persuasione  ne  suggerisce  all' abate  Ar 
teaga.  Egli  troppo  e  gusta  e  sa  per  non  sentir  cosa'provi,  oltre  i 
citati,  Tesempio  del  filosoficissimo  Cicerone,  che  appena  lascia  fug- 
gire  nelle  sue  orazioni  qualche  raro  cenno  e  fugace  di  quelle  greche 
dottrine  che  pure  nelPaltre  opere  sue  indefessamente  ripete  sotto 
tutte  le  forme  possibili,  e  anche  sotto  le  oratorie.  Demostene,  cosl 
pieno  di  scienza  platonica,  pur  dalle  orazioni  sue  non  pare  che 
avesse  mai  dato  un  sol  passo  verso  TAccademia.  Cosl  erano  i  poeti 
del  secolo  d'Augusto,  coltissimi,  finissimi,  profondissimi,  tutto 
quello  che  vuole  il  nostro  Arteaga,  ma  quanto  alPessere  filoso- 
fi  nel  senso  di  questo  articolo,  ci  ho  una  infinita  difficoltJi.  Ca- 

i.  Le  rivolustioni  del  teatro  musicale  italiano  dalla  sua  origins  fino  al  presents 
(Bologna  1783  e  Venezia  1785). 


I    VIZI   DEL    CORRENTE   GUSTO    IN   BELLE   LETTERE       743 

tullo,  dice  il  signer  Sibiliato,  avea  il  soprannome  di  dotto.1 
Se  cosi  &,  in  verita  die  neppur  io  non  saprei  indovinare  cosa  ci 
restasse  per  gli  altri  di  questa  merce.  Ma  non  cosi  i  men  buoni 
scrittori,  sebben  forse  in  sostanza  niente  piii  dotti.  La  ricerca- 
tezza  e  la  stringatura  di  Persio;  la  declamazione  e  il  continue  dis- 
sertare  invece  d'agire  de'  personaggi  di  Lucano;  la  profusione  di 
teoremi  e  teorie  negli  altri  non  sono  filosofia  quanto  alia  materia 
che  hanno  per  mano,  ma  son  bene  vizi  filosofici,  perch6  affet- 
tano  lo  stile,  la  disposizione,  il  giro,  1'aspetto  che  da  alle  materie 
il  filosofismo  e  la  fredda  speculazione.  E  cosi  questo  filosofismo 
anche  dove  non  pu6  intrudere  le  sue  merci,  lavora  per6  sorda- 
mente  la  perdizione  delPeloquenza  ccalterando  lo  stile »  come  giu- 
stamente  accenna  Arteaga  «ed  ammorzando  1'entusiasmo  del- 
Pimmaginazione,  e  sostituendo  la  fredda  analisi  alia  vivacita  del 
sentimento,  e  ingombrando  d'inutilissime  astruse  teorie  quel  sen- 
tiero  ch'esser  dovrebbe  di  facilita  e  di  chiarezza».  Le  eresie  lettera- 
rie  de'  filosofanti  francesi,  ch'egli  ricorda,  non  fanno  che  aggiugnere 
un  novo  lume  alle  riflessioni  proposte  . . . 


i.  Catullo  .  . .  dotto:  cfr.  il  saggio  citato  del  Sibiliato,  p.  467. 


CLEMENTINO  VANNETTI 


NOTA  INTRODUTTIVA 

«La  mia  fir  a  Stella  m'ha  collocato  in  un  paese  piccolo,  senza 
maestri;  non  son  mai  uscito  di  queste  angustie;  ho  studiato  sem- 
pre  da  me  senza  metodo  e  per  diletto,  d'una  cosa  in  altra  passando, 
come  il  caso  ed  il  capriccio  volea.  Confesso  d'aver  sentito  diversi 
amori  quasi  periodic! ;  il  mio  primo  idolo  fu  Giampietro  Maffei, 
indi  Plauto  e  Terenzio,  poi  Cicerone  e  Ovidio  per  piu  anni,  final- 
mente  Plinio  ed  Orazio  e  fra  i  nostri  il  Chiabrera,  I'Algarotti,  il 
Frugoni,  Boccaccio  e  Petrarca.  Vegga  quale  irregolarita  di  studi 
e  in  conseguenza  che  scarso  e  povero  fondo  debba  esser  il  mio. » 
Cosl,  in  una  lettera  del  28  luglio  1784  a  Giambattista  Giovio,  il 
Vannetti  cercava  di  giustificare  i  risultati,  in  verita  alquanto  scarsi, 
della  sua  attivitk  letteraria.  Ma  era  dawero  colpa  di  una  fira 
Stella,  della  sua  nascita  in  un  paese  piccolo  e  privo  di  maestri, 
come  egli  affermava  (del  resto  senza  troppa  convinzione),  o  piut- 
tosto  della  sua  stessa  indole  aliena  per  natura  da  interessi  profondi 
e  costanti,  poco  portata  ad  impegnarsi  organicamente  in  una  dire- 
zione  ben  determinata?  Che  proprio  tale  fosse  Pindole  del  Vannet 
ti  &  testimoniato  anche  dalle  notizie  biografiche  che  si  possono  trarre 
dai  suoi  carteggi  e  dai  ricordi  dei  suoi  amici,  e  che  tutte  concor- 
dano  nel  delineare  il  ritratto,  se  non  di  una  «devota  animetta», 
come  diceva  il  Foscolo,  certo  di  un  uomo  di  ideali  e  affetti  umani 
alquanto  limitati,  dai  temperamento  cordiale  ma  incapace  di  veri 
e  propri  appassionamenti :  il  ritratto  insomma  di  un  uomo  in 
fondo  soddisfatto  della  comoda  e  tranquilla  monotonia  e  delle  mo- 
deste  glorie  della  sua  vita  di  agiato  letterato  di  provincia.  A  questa 
vita  egli  era  stato  senza  dubbio  avviato,  si  pu6  dire,  fin  dalla  nasci 
ta,  awenuta  il  4  novembre  1754.  II  padre,  Giuseppe  Valeriano, 
gentiluomo  d'origine  veneziana,  letterato  di  fama  locale  e  fonda- 
tore  della  roveretana  Accademia  degli  Agiati,  era  morto  poco  dopo 
la  nascita  del  figlio.  Ma  la  madre,  Luisa  Saibante,  autrice  di  prose 
e  di  versi  lodati  dai  Metastasio,  e  di  carattere  autoritario  (Clemen- 
tino,  nelle  lettere  agli  intimi,  la  chiamava  scherzosamente  «il  pa 
pa))),  assunse  personalmente  Teducazione  del  figlio,  e  se  ne  com- 
prese  e  second6  le  inclinazioni  per  gli  studi  letterari,  non  contri- 
bui  certo  a  spingerlo  ad  uscire  fuori  della  piccola  patria  per  allar- 
gare  le  sue  esperienze  e  la  sua  cultura.  Ma  che  il  Vannetti  da 


748  CLEMENTINO    VANNETTI 

parte  sua  si  acconciasse  di  buon  grado  alia  amorevole  tirannia  della 
niadre,  6  confermato  dal  fatto  che  anche  divenuto  mature  non  si 
mosse  da  Rovereto  che  una  sola  volta,  nel  1788,  per  compiere  un 
viaggio  di  poche  settimane  a  Verona,  a  Venezia,  a  Padova  e  in 
altre  citta  venete,  dove  solo  allora  pote  conoscere  di  persona  il 
Cesarotti,  il  Pindemonte,  il  Cesari,  e  frequentare  il  salotto  di  qual- 
che  dama  dilettante  di  letteratura,  come  Silvia  Curtoni  Verza  ed 
Elisabetta  Mosconi.  Da  allora  fino  alia  morte,  awenuta  il  13  marzo 
1795,  egli  non  cerc6  piu  di  uscire  da  Rovereto,  accontentandosi  di 
dividere  il  suo  tempo  fra  la  sua  casa  roveretana  e  la  villa  «Le 
Grazie»  (dove  il  Cesari  fara  svolgere  il  suo  dialogo  omonimo); 
fra  le  conversazioni  di  pochi  amici,  come  e  soprattutto  Fabate 
Giuseppe  Pederzani  e  Marianna  Chiusole  de'  Givanni,  alia  quale 
era  legato  da  un  moderate  affetto  tra  platonico  e  letterario,  e  le 
periodiche  adunanze  deirAccademia  degli  Agiati,  di  cui  era  stato 
nominato  fin  dal  1776  segretario  perpetuo;  fra  le  ore  dedicate  allo 
studio  e  quelle  consacrate  a  mantenere  tutta  una  serie  di  carteggi 
assidui  (che  gli  costavano  la  somma  annuale,  allora  enorme,  di 
quattrocento  fiorini)  sia  con  amiche  letterate  come  le  dame  gik 
ricordate,  sia  con  alcuni  scrittori  a  lui  piu  vicini  per  indole  e  per 
orientamento  di  gusto,  quali  il  Bettinelli,  il  Bertola,  il  Pindemonte, 
il  Monti,  e  soprattutto  il  Tiraboschi  e  il  Cesari. 

Tutto  preso  com'era  nel  cerchio  di  queste  occupazioni  egli  do- 
veva  sentirsi  perfettamente  in  pace  con  se  stesso  tanto  da  non 
awertire  il  bisogno  di  impegnarsi  in  attivitk  civili  o  comunque  di 
carattere  pratico.  Si  6  voluto  da  qualcuno  attribuire  al  Vannetti 
veri  e  propri  atteggiamenti  di  fattivo  « patriottismo  di  frontiera», 
e  addirittura  il  merito  di  aver  tenuto  desta  e  salva  Fanima  tren- 
tina,  «trasformando  FAccademia  degli  Agiati  in  un  focolare  d'ita- 
lianita))  (Natali).  In  realta,  se  6  vero  che  nelle  sue  lettere  e  altrove 
si  colgono  a  volte  espressioni  di  insofferenza  verso  i  Tedeschi  e 
rivendicazioni  della  italianitk  della  sua  regione  (dtaliani  noi  siam, 
non  tirolesi » scriveva  per  esempio  in  un  sonetto  al  Tiraboschi),  non 
&  meno  vero  che  queste  espressioni  e  rivendicazioni,  tradizionaii 
del  resto  nella  cultura  trentina  dal  Tartarotti  in  poi,  non  si  con- 
cretano  in  una  precisa  volonti  d'azione  come,  per  scegliere 
Fesempio  di  uno  scrittore  a  lui  per  vari  aspetti  paragonabile, 
in  un  Galeani  Napione.  N6,  malgrado  Finsistenza  del  Cesari  su 
questo  aspetto,  si  pu6  dire  che  la  sua  fede  religiosa,  senza  dubbio 


NOTA   INTRODUTTIVA  749 

sincera,  abbia  riflessi  degni  di  nota  nella  sua  vita  e  nella  sua  opera. 

Ma,  anche  senza  tener  conto  di  queste  indicazioni,  la  sua  intima 
incapacity  di  impegnarsi  in  modo  profondo  ed  organico  si  manifesta 
gia  chiaramente  nella  sua  stessa  attivitk  letteraria.  Di  non  possedere 
vere  e  proprie  doti  poetiche  era  consapevole  egli  stesso,  tanto  che 
si  Hmit6,  per  questa  parte,  a  comporre  alcuni  sermoni  ed  epistole 
in  sciolti  e  qualche  epigramma  e  capitolo  bernesco.  Piu  numerosi 
sono  i  suoi  scritti  in  prosa  latina  e  italiana:  ma  anche  quando  non 
si  tratta  di  « elogi »  di  concittadini  ed  amici,  essi  si  presentano  per 
lo  piu  come  opere  « occasionali »  nel  senso  piti  umile  della  parola, 
e  comunque  sempre  aduggiati  da  una  certa  accademica  e  oziosa  fri- 
volezza.  Neppure  fra  quelli  di  argomento  critico,  filologico  ed  eru- 
dito  si  ritrovano  lavori  condotti  con  informazione  dawero  esau- 
riente  e  sistematicitk  scientifica:  a  parte  la  sua  ignoranza,  se  non 
del  greco  (come  egli  affermava),  certo  del  tedesco  e  delFinglese, 
quasi  tutte  le  sue  indagini  in  questo  campo  nascono  come  recen- 
sioni  di  scritti  altrui  o  come  considerazioni  slegate  e  sparse;  e 
tali  sono  anche  le  Osservazioni  intorno  ad  Orazio,  P  opera  sua  di 
maggior  impegno,  costituitasi  a  poco  a  poco  durante  quattordici 
anni,  dal  1778  al  1792,  piuttosto  per  lenta  accumulazione  che  se- 
condo  un  piano  meditato.  Testimonianza  della  dispersivitk  della 
mente  del  Vannetti  &  per  altro  verso  la  sua  tendenza  ad  esprimere 
e  a  comunicare  le  sue  idee  e  i  suoi  sentimenti  soprattutto  nella 
forma  rapida  e  conversevole  della  lettera,  dove  egli  poteva  inserire 
un  giudizio  critico  o  una  notizia  erudita  tra  i  garbati  complimenti 
rivolti  al  corrispondente  e  le  informazioni  sulle  proprie  occupazio- 
ni  giornaliere  e  sulla  salute  della  madre. 

Entro  questi  limiti  va  riconosciuta,  tuttavia,  nell' opera  del 
Vannetti  la  presenza  di  un  motivo  costante  e  non  privo  di  origi- 
nalitk:  il  vagheggiamento  di  un  ideale  stilistico  che,  se  prende  le 
mosse  dal  classicismo  sensistico  del  Parini  e  dei  lirici  oraziani  e 
ancor  piu  dal  purismo  accademico  e  nazionalistico  del  tardo  Bet- 
tinelli,  del  Borsa,  del  Tiraboschi  e  del  Galeani  Napione,  se  ne 
distingue  per6  sia  per  una  piu  insistente  rivendicazione  del  valore 
delle  « parole»  rispetto  a  quello  delle  «cose»,  sia  soprattutto  per 
la  consapevole  volontk  di  rinnovare  e  potenziare  Pitaliano  let- 
terario  richiamandolo  alle  radici  originarie  del  suo  «genio»,  rin- 
vigorendolo  cio&  mediante  Tinnesto  di  saporosi  arcaismi  tratti  dal 
latino  e  specialmente  dalla  lingua  trecentesca  e  cinquecentesca. 


750  CLEMENTINO   VANNETTI 

Per  comprendere  esattamente  la  genesi  e  la  natura  di  questo 
orientamento  occorre  rifarsi  assai  piii  indietro  dell'episodio,  che 
si  suole  comunemente  citare,  del  cosiddetto  « ribattezzamento »  in 
Dante,  awenuto  nel  1786  per  merito  del  Pederzani:  occorre  rifarsi 
cio&  proprio  alia  «gioventu  latina»  del  letterato  roveretano.  Non 
sono  privi  di  interesse  ai  fini  di  questa  ricerca  neppure  i  primissi- 
mi  fanciulleschi  scritti  in  latino  di  cui  i  biografi  ci  serbano  noti- 
zia,  come  le  «imitazioni»  rispettivamente  dello  stile  del  gesuita 
cinquecentesco  Gian  Pietro  Maffei  in  una  traduzione  latina  del- 
la  vita  di  san  Gottardo,  e  di  quello  dei  comici  latini  nella  Lampa~ 
daria,  dove  ~  narra  il  Cesari  -  Fautore  «affermava  non  csservi 
modo  o  parola  che  inPlauto  io  non  avessi  potuto  trovare»:  precoci 
testimonianze  di  una  non  comune  sensibilita  linguistica,  e  in  par- 
ticolare  di  una  capacita  di  riprodurre  i  caratteri  stilistici  di  singoli 
scrittori  latini,  che  si  ritrova  poi  in  tutta  una  serie  di  brillanti  eserci- 
zi  prosastici  composti  negli  anni  seguenti,  dal  ciceroniano  Commen- 
tarius  de  vita  Alexandri  Georgii  (1779)  agli  elogi,  elaborati  nello 
stile  piano  di  Cornelio  Nipote  o  in  quello  « vibrato,  sentcnzioso 
e  nobile  »  di  Tacito,  alle  numerose  epistole  fra  ciceroniane  e  plinia- 
ne,  fino  a  quello  che  h  il  suo  capolavoro  in  questo  campo,  il  Liber 
memorialis  de  Caleostro  quum  esset  Roboreti  (1788),  dotta  e  spirito- 
sa  parodia  del  latino  evangelico. 

Ma  questa  sensibilita  stilistica  si  riflette,  fin  dalPinizio,  anche  sul 
piano  critico.  Non  possediamo  quelle  considerazioni  sulla  lingua  di 
Plauto,  stese  a  tredici  anni,  di  cui  parla  il  Cesari,  ma  rimangono 
due  brevi  lavori  sulla  lingua  di  Ovidio  (Lettera  al  cavalier  Carlo 
Rosmini  sopra  la  lingua  usata  da  Ovidio  e  De  Virgilii  et  Ovidii 
Orpheo)  e  uno,  in  italiano,  su  Plinio  il  Giovane  (1783),  nei  quali 
si  possono  cogliere  alcuni  precisi  e  gustosi  giudizi  sui  particolari 
atteggiamenti  stilistici  di  ognuno  di  questi  scrittori ;  alcune  epistole 
latine  in  cui  il  Vannetti  sostiene,  contro  il  d'Alembert  e  il  Giorgi,  la 
legittimita  di  impiegare  in  opere  letterarie  moderne  la  lingua  la 
tina;  e  infine,  piu  importante,  una  lettera,  pure  latina,  allo  spa- 
gnolo  Serrano,  intesa  a  ribadire  con  nuovi  argomenti  il  giudizio 
limitativo  del  Tiraboschi  su  Marziale  e  la  superiority  su  questo 
delFitalico  Catullo,  ma  soprattutto  utile  a  chiarire  come  il  culto  del 
latino  nel  Vannetti  si  venga  fin  d'ora  configurando  quale  difesa 
di  una  tradizione  linguistica  connaturata  alia  cultura  letteraria 
italiana  e  capace  di  operare  tuttora  efficacemente  su  di  essa. 


NOTA   INTRODUTTIVA  751 

In  questi  primi  scritti,  comunque,  il  classicismo  nazionalistico 
del  Vannetti  rimane  ancora  generico,  come  appunto  nel  Tiraboschi. 
Solo  in  un  secondo  momento,  attraverso  Pincontro  con  Orazio,  e 
soprattutto  con  1J  Orazio  delle  Satire  e  delle  Epistole,  tale  orienta- 
mento  si  viene  precisando  in  modo  piti.  originale  e  personale.  6 
senza  dubbio  possibile  che  a  questo  incontro  abbia  contribuito  an- 
che  una  certa  congenialitk  morale:  ma  dal  complesso  delle  Osser- 
vazioni  intorno  ad  Orazio  e  da  altre  testimonianze  contenute  nelle 
lettere  italiane  e  latine  si  vede  chiaramente  che  nella  preferenza 
del  Vannetti  per  Orazio  agiscono  soprattutto  ragioni  di  gusto:  «Egli 
&  stretto  e  conciso »  afferma  a  proposito  dello  stile  dei  Sermones « ma 
insieme  piano  ed  aperto.  Ingemmato  per6  a  luogo  e  tempo  di  gen- 
tili  ed  ingegnose  espressioni:  certo  non  mai  rozzo,  anzi  stu- 
diato,  ma  di  quello  studio  ch'esclude  la  rafEnatezza,  e  talora  imi- 
ta  la  negligenza.  Purissima  vi  risplende  la  lingua;  e  certi  vocaboli 
or  piccanti  e  propri  della  satira  secondo  il  latin  costume,  or  nuovi 
o  di  nuovo  significato  arricchiti,  or  anche  bassi  ma  dalla  colloca- 
zion  rilevati,  vi  fanno  ottima  prova  per  la  giudiziosa  distribuzione. 
Ed  havvi  eletta  copia  non  meno  di  detti  proverbiali  o  tolti  dal  po- 
polo  o  a  questo  donati  dal  bello  ingegno  del  poeta,  che  d'eccellenti 
sentenze  maestrevolmente  assestate.  N6  non  vi  mancan  figure  e 
metafore,  se  non  isfarzose,  certo  leggiadre  e  da  uomo  di  corte. 
Ma  due  cose  vi  si  paiono  specialmente :  viva  istanza  d'interroga- 
zioni  e  compendiosa  efficacia  d'epiteti»  (Opere,  iv,  pp.  25-6).  A 
restituire  appunto  la  saporosa  precisione  ed  energia  dello  stile  di 
Orazio,  trascurata  e  travisata  dalla  faciloneria  e  dalPignoranza  di 
commentator!  e  traduttori,  sono  volti  gli  scritti  filologici  delle  Os- 
servazioni  intorno  ad  Orazio :  come  quando,  per  portare  solo  qual- 
che  esempio,  il  Vannetti  fa  notare  Terrore  di  tradurre  (come  il 
Corsetti  aveva  tradotto)  con  il  generico  «vasi  di  creta»  Toraziano 
salinum,  che  invece  &  ricordato  espressamente  dal  poeta,  in  luogo 
di  altro  vasellame,  «perch6  il  sale  appo  i  Romani  era  sacro,  perch.6 
la  saliera  era  il  primo  arnese  di  che  si  fornivan  le  mense,  ed  il 
piij  caro  e  prezioso  di  quanti  Tuom  ne  lasciava  a'  suoi  discendenti » 
(Opere,  in,  p.  24) ;  o  quando  rimprovera  lo  stesso  Corsetti  di  aver 
mutato  un'altra  frase  oraziana  (Carm.,  in,  x,  5-8)  da  interrogativa 
in  affermativa,  senza  accorgersi  che  «togliendo  quinci  1'interro- 
gazione,  se  ne  toglieva  la  forza»,  con  pregiudizio  «se  non  in  tutto 
di  senso,  almen  di  poesia»  (Opere,  in,  p.  30).  Dal  rilevare  Tin- 


752  CLEMENTINO   VANNETTI 

comprensione  di  queste  caratteristiche  bellezze  di  Orazio  da  parte 
del  traduttori  e  commentatori,  al  tentative  di  renderle  egli  stesso 
in  versioni  proprie  il  passo  non  era  difficile:  ed  e  proprio  attra- 
verso  questo  tentative,  e  in  particolare  nella  versione  dell'epistola 
a  Mecenate  (Epist.,  i,  vn)  che  egli  g&  verso  il  1780  viene  a  porsi 
il  problema  di  innestare  «la  forza  e  il  nerbo»  dello  stile  oraziano 
nella  lingua  letteraria  italiana.  «  Converti  equidem »  scriveva  allo 
zio  Francesco  Saibante,  mandandogli  appunto  quella  versione 
«quam  potui  accuratissime  rebus,  ordine,  imaginibus;  addo  etiam 
stili  genere,  quantum  sermo  noster  patiebatur.  Nam  acriora  quae- 
dam  verba  ac  velut  abruptos  numeros  de  industria  sum  sequutus, 
quo  propius  ad  Horatii  vim  et  robur  accederem.  In  quo  fateor 
me  magnam  gratiam  habere  bono  illi  Chiabrerae,  qui  primus  hunc 
scribendi  characterem  Italiae  ostendit . .  .  Prudens  me  conieci  in 
angustias,  unde  vix  pedem,  ut  ipse  ait  Horatius.  Volui  enim  plane 
experiri,  quid  vel  sermo  noster,  vel  certe  ipse  possem»  (Opera, 
vni,  pp.  193-4).  Ispirati  ai  medesimi  propositi  sono  anche  al- 
cuni  sermoni  ed  epistole  in  versi  sciolti,  di  argomento  morale  e 
letterario,  pure  composti  intorno  al  1780.  Ma  il  problema  di  tra- 
sferire  nella  lingua  letteraria  italiana  i  caratteri  dello  stile  satirico 
oraziano  e  affrontato  con  piti  chiara  e  piu  polemica  consapevo- 
lezza  nel  discorso,  composto  qualche  anno  dopo,  Sopra  il  sermone 
oraziano  imitato  dagli  Italian^  in  cui  il  Vannetti,  prendendo  lo 
spunto  da  un'affermazione  del  Bettinelli,  che  nelle  Lettere  virgilia- 
ne  aveva  negato  alia  nostra  lingua  Tattitudine  alia  poesia  satirica, 
segue  lo  svolgimento  del  « sermone »  italiano,  attraverso  i  secoli, 
dal  Muzio  al  Gozzi.  Tale  discorso,  per  quanto  condotto  come 
storia  di  un  genere  letterario  che  ha  raggiunto  una  volta  per  sempre 
la  sua  perfezione  nei  sermoni  oraziani,  non  manca  di  acuti  giudizi 
critici,  per  esempio  sulk  scarsa  congenial^  spirituale  e  stilistica 
tra  TAlgarotti  e  Tautore  dei  Sermones  (« II  venosino  pativa  alcuna 
volta  di  mal  umore,  ed  allentavagli  il  freno,  esponea  qualche  vero 
poco  piacevole  a  lume  aperto  ed  affrontava  Paltrui  disdegno  senza 
temerlo.  II  vinizian  per  Topposito  se  non  era  sempre  dolce  in  cuor 
suo,  affettava  sempre  parere;  cercava  in  ogni  immagine,  in  ogni 
frase  una  cotal  vernice  di  galanteria  cortigiana;  e  come  colui  che 
della  satira  avea  sommo  ribrezzo,  molto  ben  si  guarclava  di  provo- 
carla.  Con  tanto  politica  dissimulazione  e  raffinata  dilicatezza  certo 
egli  non  poteva  dall'un  canto  afforzar,  dir6  cosl,  le  sue  pistole  della 


NOTA    INTRODUTTIVA  753 

critica  severita  d'Orazio,  e  non  dovea  dall'altro  imitar  di  questo 
poeta  se  non  i  felici  ardiri  e  le  vaghe  maniere,  schifando  a  un'ora 
quant'egli  ha  di  popolaresco,  non  che  di  mordace.  Or  come  spe- 
rare  che  PAlgarotti  ci  desse  dell'epistole  veramente  oraziane,  e 
non  anzi  d'una  sua  nuova  foggia,  pregna  bensi  di  quelle  grazie,  ma 
per6  tutta  sua?)),  Opere,  iv,  p.  52);  sul  Frugoni  («Quel,  sopra 
tutto,  che  mel  fa  in  ci6  riguardare  come  affatto  da'  venosini  modi 
lontano,  si  e  una  cotale  affluenza  di  parole  canora  insieme  e  sner- 
vata»,  Opere,  iv,  p.  70);  sui  sermoni  del  Gozzi  («Ha  certe  sue  fan- 
tasie  cosi  fra  Toraziano  e  il  lucianesco,  che  provocan  mirabilmente 
il  ghigno  satirico,  e  senza  esser  bernesche  sono  oltre  modo  gra- 
ziose.  Quando  descrive  che  che  sia,  spezialmente  se  stravaganze, 
fa  proprio  quello  a  che  &  nato.  Si  lascia  addietro  il  Chiabrera  an- 
che  nel  sapor  della  lingua  e  nel  concerto  de'  versi.  Brusco  &  talora 
piu  d'Orazio,  e  fa  sentir  nel  suo  stile  generalmente  come  una  cor- 
da  grossa,  possedendo  Tarte  difficile  di  ben  collocare  e  con  digni- 
ta,  non  che  i  proverbi,  ma  i  vocaboli  eziandio  bassi,  li  quali  sieno 
per6  nel  medesimo  tempo  risentiti  ed  asprigni »,  Opere,  iv,  p.  78) ; 
ed  anche  sul  Parini,  il  cui  stile,  «  creduto  da  alcuni  pretto  oraziano  », 
gli  sembra  invece  che  sormonti  «d'un  grado  almeno  quel  del  ser~ 
mone,  tuttoch6  n'abbia  qua  e  la  delle  tracce»  (Opere,  iv,  p.  99). 
Ma  sia  questi  giudizi,  sia  in  genere  tutto  il  discorso  sono  da  valu- 
tare  soprattutto  come  testimonianza  di  un  gusto,  e  in  particolare 
di  un  ideale  stilistico,  che  distinguendosi  dairorazismo  e  in  ge 
nere  dal  classicismo  «delicato»  e  conversevole  dell'Algarotti  e  da 
quello  «  canoro  »  e  «  snervato  »  del  Frugoni,  e  appoggiandosi  invece 
ai  modi  piu  sostenuti  ed  asprigni  di  un  Parini  e  di  un  Gozzi,  si  pro 
pone  di  richiamare,  mediante  un'accorta  conciliazione  fra  il  ge- 
nio  della  nostra  lingua  «piii  vereconda  e  phi  morbida»  e  i  modi 
rapidi,  energici,  talora  popolareschi  di  Orazio,  «gringegni  tra- 
viati  in  languide  inezie  od  in  gonfiezze  sonore  o  in  lugubri  e  spa- 
ventose  follie,  alia  solidita  delle  cose,  alia  purita  della  lingua  e  al 
vigor  dello  stile »  (Opere,  iv,  p.  114). 

C'6  in  quest'ultima  frase,  accanto  ad  una  chiara  allusione  alia 
poesia  arcadica  (« languide  inezie »  e  « gonfiezze  sonore »),  un  rife- 
rimento  non  meno  esplicito  alia  letteratura  preromantica  (« lugubri 
e  spaventose  follie »).  La  sua  opposizione  a  questa  letteratura  il 
Vannetti  aveva  chiarito  fin  dal  1780  soprattutto  in  una  epistola 
al  Monti,  e  poi,  nello  stesso  anno,  in  una  cortese  polemica  col 

48 


754  CLEMENTINO   VANNETTI 

Cesarotti,  occasionata  dalle  riserve  di  questo  su  qualchc  severe 
giudizio,  contenuto  nella  epistola,  intorno  al  Thomas  e  ad  alcuni 
poeti  tedeschi  tradotti  dal  Bertola.  £  evidente,  nel  Vannetti,  la 
suggestione  dei  solenni  ammonimenti  lanciati  dal  Bettinelli  nel 
suo  discorso  Sopra  lo  studio  delle  belle  lettere  in  Italia  (citato  del 
resto  in  una  nota  della  ricordata  epistola  al  Monti)  contro  i  peri- 
coli  deirimitazione  delle  nuove  mode  straniere.  Ma,  a  ben  guar- 
dare,  la  opposizione  del  Vannetti,  specialmente  nelle  lettere  al  Cesa 
rotti,  si  ispira  ad  un  classicismo  piu  dinamico  di  quello  del  lette- 
rato  mantovano,  e  tale  anzi  che  per  piti  di  un  aspetto,  per  quanto 
possa  sembrare  strano  a  prima  vista,  finisce  per  accordarsi  con  le 
idee  del  Cesarotti  medesimo.  Attraverso  Pamichevole  discussione 
con  questo  il  Vannetti  finisce  per  accogliere  da  lui  anzitutto  un 
concetto  fondamentale,  che  cioi  -  come  6  detto  nella  lettera  del  23 
settembre  1780  (riportata  anche  in  questo  volume,  a  pp,  772-7)  - 
il  primo  dovere  dello  scrittore  e  quello  di  «  cercar  i  colori  della  na- 
tura  e  Pespressione  del  proprio  sentimento  e  non  altro)>;  e  quin- 
di  che  a  tale  scopo  giova,  anzi  &  necessario,  arricchire  il  «gcnio  ret- 
torico»  della  lingua,  valendosi  anche  e  soprattutto  di  opportune 
traduzioni  da  altre  lingue.  La  divergenza  si  riduce  dunque  «a 
questo  solo,  se  molto  o  non  molto  possano  a  noi  sommmistrare 
gli  oltramontani  poeti » :  domanda  a  cui  il  Vannetti  risponde  nega- 
tivamente,  ma  proprio  richiamandosi  al  principio  cesarottiano  del- 
la  libera  individuality  della  poesia:  «Tengasi  dunque  la  natura  e 
Titaliano  segua  appunto  nello  scrivere  il  suo  spirito  ed  il  suo  cuore. 
S'egli  k,  ingegnoso,  lo  sia  alia  propria  maniera:  e  non  faccia  forza  a 
se  stesso  volendo  imitare  Pingegnoso  tedesco.  Infine  o  siam  cupi 
o  profondi  o  energici  o  teneri  o  immaginosi,  siamolo  alPitaliana, 
non  g&  per  studio  alia  tedesca,  alPinglese,  alia  moscovita  .  * .  Tutte 
le  nazioni  hanno  un  medesimo  volto ;  ma  pure  ciascuna  ha  la  sua 
speciale  fisionomia». 

fe  appunto  a  questo  classicismo  dinamico,  dichiaratamente  anti- 
preromantico,  ma  ravvivatosi  attraverso  le  Osservazioni  intorno  ad 
Qrazio  e  la  polemica  con  il  Cesarotti  di  fermenti  preromantici, 
che  occorre  richiamarsi  per  comprendere  esattamente  Pultima  e 
conclusiva  conversione  del  Vannetti  al  purismo  toscaneggiante, 
e  in  particolare  per  distinguere  tale  purismo  da  quello  dei  cruscanti 
settecenteschi.  II  Cesari  nella  sua  Vita  del  Vannetti  presenta  que- 
sta  conversione  come  una  specie  di  improwiso  miracolo,  inter- 


NOTA   INTRODUTTIVA  755 

cessore  Famico  Giuseppe  Pederzani,  studioso  di  Dante  e  fana- 
tico  del  Berni :  « il  fatto  e  che  dopo  assaporato  quelF  antico  Falerno 
[il  toscano  antico]  e  tutto  riconfortatosene,  questo  de'  moderni, 
sebben  piu  molle,  gli  sapea  un  acquerello  scipito».  Ma  che  il  let- 
terato  roveretano  fosse  consapevolmente  guidato  verso  il  toscano 
antico  da  quello  stesso  ideale  stilistico  che  abbiamo  visto  pro- 
gressivamente  precisarsi,  e  confermato  proprio  da  una  lettera  (ri- 
portata  in  questo  volume  a  pp.  778-82)  al  Cesari  medesimo  del  2 
giugno  1787.  Nella  quale  il  Vannetti,  pur  ammettendo  la  necessita  di 
rifarsi  ai  modelli  trecenteschi  toscani,  ne  limita  Fimitazione,  adot- 
tando  la  famosa  distinzione  cesarottiana,  al  solo  « stile  rettorico», 
contemperandola,  per  quanto  riguarda  lo  « stile  grammatico  »,  con 
quella  dei  «precisi»  e  «svelti»  cinquecentisti,  e  in  defmitiva  subor- 
dinando  Tuna  e  Paltra  all'esigenza  di  arricchire  e  rinvigorire  la  lin 
gua  letteraria  italiana  e  di  esprimere  meglio  in  tal  modo  il  proprio 
sentimento  individual:  «studiate  la  lingua  ne'  trecentisti,  poiche" 
di  tutt'i  buoni  italiani  la  lingua  esser  non  dee  che  una  sola:  lo 
stile  poi,  purche"  non  corrotto,  debb'esser  quello  delPanima  e  del 
cuor  di  ciascuno». 

Tenendo  present!  quest!  principii  sara  possibile  dare  degli  stessi 
scritti  in  volgare  del  Vannetti  un  giudizio  meno  severo  e  piu  pre- 
ciso  di  quello  del  Foscolo  che  li  definiva  « accademiche  lascivie». 
Essi  infatti,  se  non  rivelano  una  robusta  e  originate  personalita  di 
scrittore,  non  sono  privi  di  interesse  quando  li  si  valuti,  come  del 
resto  intendeva  Fautore,  quali  esercizi  ed  esempi  del  nuovo  stile 
italiano  da  lui  vagheggiato :  e  non  solo  i  tredici  Dialoghi,  composti 
fra  il  1783  e  il  1794,  intorno  ad  argomenti  vari  di  morale  e  di  let- 
teratura  (fra  cui  fe  notevole  La  scuola  del  buon  gusto  nella  bottega 
del  caffe  -  riportato  parzialmente  anche  in  questo  volume  -,  pa- 
rodia  della  poesia  lugubre  e  gessneriana),  le  novelle  in  stile  boc- 
caccesco,  le  rime  bernesche  e  il  vastissimo  epistolario ;  ma  anche  le 
stesse  Osservazioni  intorno  ad  Qrazio^  soprattutto  nella  revisione 
che  il  Vannetti  ne  fece  prima  di  raccoglierle  insieme  nel  1792,  dedi- 
candole  alFAccademia  della  Crusca,  e  piu  ancora  nella  rielabora- 
zione  preparata  per  una  seconda  edizione,  e  in  cui  furono  ag- 
giunte  non  poche  note  dirette  esplicitamente  a  giustificare  con 
esempi  boccacceschi,  danteschi,  petrarcheschi,  ecc.,  i  vocaboli  e  i 
modi  impiegati  dalFautore.  Interrotti  dalla  morte  precoce  furono 
invece  due  suoi  progetti,  ai  quali  accenna  il  Cesari,  rispettivamente 


756  CLEMENTINO    VANNETTI 

di  «un  solenne  trattato  sopra  Teleganza))  del  toscano,  che  avrebbe 
dovuto  integrate  Fopera  del  Deputati  sopra  il  Decamerone]  e  di  un 
altro  trattato  «in  cui  dimostrare  qual  dovesse  esser  lo  stile  del 
toscano  scrivere  che  fosse  oggidl  da  seguire»;  e  per  la  medesima 
ragione  rimasero  incompiuti  gli  spogli  linguistic!  di  trecentisti  e 
cinquecentisti  per  la  nuova  edizione  del  Vocabolario  della  Crusca^ 
dei  quali  era  stato  incaricato  fin  dal  1784.  Ma  se  qucsti  piti  am- 
biziosi  e  sistematici  progetti  non  furono  portati  a  compimento 
(e  forse  non  lo  sarebbero  stati  neppure  se  egli  fosse  vissuto  piu 
a  lungo),  la  sua  lezione  stilistica,  amabilmente  dispersa  negli  scritti 
rimastici,  resta  in  ogni  caso,  come  il  Cesari  stesso  per  primo 
riconosceva,  uno  dei  piu  efficaci  stimoli  per  la  formazione  del 
nuovo  gusto  puristico  e  piti  generalmente  del  neoclassicismo  ita- 
liano  del  primo  Ottocento. 


La  maggior  parte  delle  opere  del  Vannetti  &  raccolta  negli  otto  volumi 
delle  Opere  italiane  e  latine,  pubblicate  per  cura  dell' I.  R,  Accademia  di 
Rovereto,  a  Venezia,  Alvisopoli,  1826-1831.  In  particolare  il  volume  I 
comprende,  tra  1'aitro,  i  tredici  Dialoghi;  il  volume  n,  11  laxsaretto  lette~ 
rariO)  Le  cose  pliniane  e  La  questions  con  Clemente  Baroni  intorno  aWin- 
fluenza  della  filosofia  e  della  cultura  letter  aria  sulla  religione]  i  volumi  Hi,  IV, 
v  contengono  le  Osservazioni  intorno  ad  Orazio  (fra  cui,  nel  volume  IV, 
le  Osservazioni  indirizzate  alVab.  S.  Bettinelli  sopra  il  sermone  orasiiano  imi- 
tato  dagli  Italiani) ;  il  volume  vi,  oltre  a  varic  operette  in  prosa,  ie  poesie 
italiane  (fra  cui  le  Epistole  e  i  Sermoni)-  i  volumi  vii  e  VIII,  il  Liber  memo- 
rialis  de  Caleostro  e  le  altre  opere  in  latino.  Questa  edizione  deve  essere  in- 
tegrata  con  due  volumi  di  Prose  e  poesie  inedite,  Milano,  Bernardoni,  1836; 
e  con  molte  raccolte  di  lettere  pubblicate  in  vari  tempi.  Tra  queste  raccolte 
le  piu  ampie  e  important!  sono:  Epistularum  libri  V,  Pavia  1795 ;  Epistolario 
scelto,  a  cura  di  B.  Gamba,  Venezia,  Alvisopoli,  1831;  Veducastione  lette- 
raria  del  bel  sesso  promossa  dal  cav.  CL  Vannetti  in  alcune  sue  lettere  e  poesie 
inedite,  Milano,  Pirotta,  1835 ;  Lettere  di  CL  Vannetti  e  Ippolito  Pindemonte, 
a  cura  di  G.  Orti  Manara,  Verona,  Antonelli,  1839;  Carteggio  fra  G,  Ti- 
raboschi  e  CL  Vannetti  (1776-1793),  a  cura  di  G,  Cavazssuti  e  P.  Pasini, 
Modena,  Ferraguti,  1912  (su  cui  cfr.  V,  CIAN,  in  «Rass.  bibl.  d,  lett.  it. », 
xxi,  1913,  pp.  2-1 1).  Per  altre  edizioni  di  lettere  e  per  carteggi  vannettiani 
ancora  inediti  cfr. :  G.  PICCIOLA,  V Epistolario  di  CL  Vannetti,  Firenze,  Ti- 
pografia  del  Vocabolario,  1881 ;  e  C.  POSTINGER,  /  manoscritti  di  CL  Van 
netti,  in  «Atti  dell*  Accademia  degli  Agiati»  di  Rovereto,  xiv  (1908),  pp, 
199-224.  Postuma  &  stata  pubblicata  anche  la  Vita  di  Girolamo  Tartarotti, 
a  cura  di  G.  Amalfi,  Napoli,  Priore,  1889,  con  una  appendice  contenente 
un  elenco  degli  opuscoli  vannettiani  stampati  dopo  il  1800. 


NOTA    INTRODUTTIVA  757 

Scarso  valore  critico  ha  la  lunga  Vita  premessa  da  A.  Cesar!  all'edizione 
citata  delle  Opere,  la  quale  tuttavia  va  tenuta  presente  come  un  interes- 
sante  documento  dell'ammirazione  e  venerazione  del  letterato  Veronese  per 
il  Vannetti.  Piti  utili  lo  studio  citato  di  G.  Picciola;  i  lavori  di  F.  PASINI, 
La  personalita  di  CL  Vannetti,  Rovereto  1899;  //  Vannetti,  profilo,  Rove- 
reto  1907;  e  Di  alcuni  giudizi  di  CL  Vannetti  sulla  letter atur a  contempora* 
nea,  in  « Tridentum »,  x  (1901)  e  xr  (1902);  lepaginedi  G.  NATALI,  21  Set- 
tecento,  cit.,  pp.  1189-90  e  1204-5  (bibliografia) ;  e  soprattutto  di  W.  BINNI, 
Lo  sviluppo  del  neoclassicismo  nelle  discussioni  sul  ((gusto  presenter,  in  «An- 
nali  della  Scuola  Normale  Superiore»  di  Pisa,  S.  II,  vol.  xxxi  (1953),  pp. 
275-89. 


DAI  ccDIALOGHI)) 

DIALOGO  V 

La  scuola  del  luon  gusto  nella  bottega  del  caffe. 

. . .  E.  Capo  primo.1  «I1  Settentrione  &  la  scuola  delPottimo  gusto; 
pregiudizi  delP  Italia  su  ci6:  il  clima  gelato  influisce  a  maravi- 
glia  su  1'arti  di  fantasia.))  Questa  mi  sembra  una  proposizione 
affatto  nuova. 

A.  Ma  se  vi  dico  die  tutto  il  libro  &  una  novita:  tirate  innanzi. 

E.  Capo  secondo.  «Le  parole  non  sono  che  segni  di  conven- 
zione  a  spiegar  le  idee.  Dunque  Teleganza  e  una  chimera  fuor  di 
moda,  ed  il  progetto  d'un'accademia  di  lingua  e  ridicolo.»  Capo 
terzo.  «I1  linguaggio  degli  affetti  &  il  medesimo  in  tutti  i  po- 
poli,  ed  &  una  pedanteria  la  distinzione  fra  '1  genio  grammati- 
cale  e  '1  genio  rettorico  d'un  idioma.2  Dunque  liberta  di  voci  e  di 
sintassi  straniere  in  ogni  idioma. » 

I  Dialoghi  del  Vannetti  furono  pubblicati  per  la  prima  volta  nel  lunario 
roveretano  intitolato  «L'Eremita»,  tra  il  1783  e  il  1794,  uno  per  anno, 
e  quindi  ristampati  dopo  la  morte  deH'autore,  nella  rielaborazione  che 
questi  ne  aveva  fatto  nel  1794  e  con  1'aggiunta  di  un  tredicesimo  dialogo, 
La  moglie  (pubblicato  la  prima  volta  per  nozze  nello  stesso  anno),  nelle 
Opere,  I,  pp.  1-197.  In  tutti  i  dialoghi,  salvo  che  nell'ultimo,  protagoni- 
sta  e  sempre  1'Eremita,  al  quale  il  Vannetti  affida  il  compito  di  espnmere 
di  volta  in  volta,  sotto  il  velo  dell'ironia,  le  proprie  idee  morali  o  letterarie. 
Tra  essi  sono  degni  di  nota  il  n  (/  temi),  sulla  moda  delle  traduzioni 
di  opere  straniere;  il  in  (II  teatro),  sull'utilita  educativa  del  teatro,  il  iv 
(La  letterata),  satira  delle  donne  dilettanti  di  letteratura,  e  in  particolare 
delle  fanatiche  della  lingua  e  della  letteratura  francese;  Pxi  (Gli  studi), 
difesa  degli  studi  umanistici,  e  soprattutto  della  «cura  delle  parole » 
e  della  poesia.  I  due  passi  qui  riprodotti  (dalle  Opere,  I,  pp.  56-63  e 
68-70)  appartengono  al  dialogo  v,  intitolato  La  scuola  del  buon  gusto  nella 
bottega  del  caffe  (1787),  che  vuol  essere  una  satira  di  alcuni  aspetti  della 
contemporanea  letteratura  preromantica.  Gli  interlocutori,  oltre  1'Ere- 
mita  (E.),  sono  P  abate  Buonnaso  (A.),  il  conte  Russone  (C.)  e  Fabrizio 
(F.),  padrone  della  bottega  del  caffe. 

i.  Capo  primo:  nelle  pagine  che  precedono,  1'abate  Buonnaso  ha  mostrato 
all'Eremita  un  libro  intitolato  La  crisi  benefica  del  gusto  ovvero  Dettagli  e 
quadri  d'eloquenza  e  poesia  per  gVItaliani  del  secolo  illuminate.  Qui  1'Ere- 
mita  comincia  a  leggere  e  a  commentare  i  « sommari  de*  capi  della  parte 
teorica»  di  questo  libro.  2.  la  distinzione  .  .  ,  idioma:  e  la  nota  distinzione, 
che  il  Cesarotti  aveva  esposto  per  la  prima  volta  proprio  al  Vannetti  in 
alcune  lettere  del  1780  (nprodotte  anche  in  questo  volume,  a  pp.  506-13); 
e  poi  svolto  nel  Saggio  sulla  filosofia  delle  lingw\  e  che  il  Vannetti  stesso 
accoglie  anche  nella  lettera  al  Cesari  riportata  a  pp.  778-82. 


?o  CLEMENTINO   VANNETTI 

A.  Che  capo  divino  e  questo!  bisogna  vedere  come  bene  vi  si 
ribatte  mezza  la  poetica  d'Orazio,  massimamente  la  dove  si  dice 
ch'ei  dica  che  un  cittadino  di  Tebe  parlerk  altrimenti  che  un 
cittadino  d'Argo.1  Eh  son  finite  oggimai  le  superstizioni,  e  gl'idoli 
cadono  a  terra. 

E.  Capo  quarto.  «Essendo  Feloquenza  e  la  poesia  egualmente 
figlie  delle  passioni,  e  trovandosi  queste  nel  cuor  d'ogni  uo- 
mo,  si  rende  superfluo  il  ricorrere  a'  modelli  consecrati  dal  tempo. 
Danni  perci6  deirimitazione,  inutilita  de'  precetti,  e  bando  neces- 
sario  di  tutti  gli  antichi  autori,  che  sono  i  tiranni  dell'ingegno. » 

A.  lo  piango  ancora  i  miei  prim'anni  miseramente  perduti  dietro 
a  quej  barbogi  di  Cicerone  e  di  Virgilio.  Buon  per  me,  che  di  tut- 
ta  quella  broda  mi  s'e  appiccato  addosso  pochissimo.  Ma  fu  certo 
mia  gran  ventura  che  una  brutta  dama  contemplativa  mi  desse 
in  mano  le  Notti  dell' Young  ed  il  Messia  del  Klopstock;2  fu  allora 
che  mi  si  apersero  gli  occhi  dell'intelletto. 

c.  Oh  in  questo  poi,  bench'io  non  abbia  mai  atteso  a  tai  baie, 
dico  che  avete  cento  ragioni.  Ricordami  che  essendo  io  un  giorno 
in  camera  d'un  amico,  e  trovandogli  sul  tavolino  un  certo  Bocca  . .  . 
Bocca .  . . 

A.  Boccaccio. 

c.  Bravo;  ed  un  certo  Dante,  de'  quali  avea  gia  udito  maravi- 
glie,  mi  posi  a  scartabellarli  cosi  per  curiosita;  ma,  non  ne  po- 
tendo  piu,  li  gittai  a  Dio  gli  rivegga,  e  dissi  al  padrone:—  Che 
vergogna  e  egli  cotesta  di  adorar  libri  che  ti  fanno  dormire,  per 
ci6  che  sien  vecchi  ?  —  L'amico,  ch'era  benissimo  un'eccellenza,  fece 
bocca  da  ridere,  e  mi  confess6  ch'ei  gli  leggeva  per  tenersi  in  ripu- 
tazione,  ma  che  non  gli  era  mai  venuto  fatto  d'intenderne  fiato. 

A.  Ed  io  potrei  affermarle  la  stessa  cosa  di  me  senza  punto 
d'umilta.  Seguiamo  Telenco. 

E.  Capo  quinto.  «Natura,  genio,  sensibilita,  independenza,  in- 
farinatura  universale  sono  i  veri  e  soli  fondamenti  d'uno  scrittore. 

1.  dove  .  .  .  Argo:  allude  ai  vv.  114-8  dell' Ars poetica  di  Orazio,  citati  anche 
nella  lettera  al  Cesarotti  del  23  settembre  1780,  riportata  a  pp  772-7 

2.  I  Night  Thoughts  (1742-1745)  di  Edward  Young  (1683-1765),  uno  dei 
testi^  fondamentali  della  nuova  letteratura  preromantica,  erano  stati  tra- 
dotti  in  Italia  dalFAlberti  (1770),  dal  Bottoni  (1771)  e  dal  Loschi  (1774), 
e  imitati  dal  Bertola  nelle  Notti  Clementine  (1775).  Delia  Messiade  del 
Klopstock  la  prima  traduzione  italiana,  di  Giacomo  Zigno,  fu  pubblicata 
nel  1782. 


DIALOGHI  761 

Progetto  d'un'aria  infiammabile  particolare,  onde  caricato  per  la 
bocca  e  le  nari  il  cerebro  umano  possa  produrre  uno  stile  sinora 
incognito,  che  si  chiamera  stile  areostatico,  owero  montgolfilo- 
quio.»  E  viva!  almeno  in  questo  caso  non  c'&  pericolo  che  alcuno 
si  rompa  il  collo. 

A.  Mirate  un  poco  a  che  giugne  la  ragione  e  la  chimica  a'  giorni 
nostril  Dappoich6  si  e  trovato  modo  con  certe  caraffe  ed  ampolle 
empiriche  d'instillar  la  virtu,  si  va  meditando  come  infondere 
altresl  1'eloquenza.  Beati  noi,  se  si  potesse  fare  questo  gaz  del  cer- 
vello!  noi  diverremmo  un  popolo  di  grandi  autori,  come  i  Ro- 
mani  erano  un  popolo  di  eroi. 

C.  Si,  si,  un  popolo  di  parolai  e  di  pitocchi.  Svanito  il  gran 
progetto  di  convertire  in  oro  i  metalli,  io  m'ho  tutti  gli  altri  in  ta- 
sca,  io. 

E.  Siamo  al  sesto  capo.  «La  poesia  e  riposta  nella  sublimit^  del- 
le  idee,  nel  disordine,  nel  furore.  II  metro  e  estrinseco  all'essenza 
di  essa,  e  per6  superfluo.  Quindi  la  prosa  non  si  distingue  tal  volta 
dalla  poesia,  e  la  poesia  rimane  sempre  tale  anche  in  prosa. »  E 
nel  vero  io  m'abbattei  ieri  a  vedere  un  Elogio  cosi  pieno  zeppo  di 
ghirlande,  busti,  are,  geni;  con  orizzonti,  aquile,  torrenti  e  fiamme,1 
ch'io  tornai  al  titolo,  pur  credendo  aver  malamente  letto  Elogio 
scambio  di  Poema. 

A.  Quest' e  il  bel  dej  moderni,  ed  io  scrivo  sempre  i  miei  pa- 
negirici  a  questo  modo. 

E.  Ella  fa  cosi  ben  come  pensa.  Capo  settimo  . , . 

C.  Che  roba  eternal  oggi  io  non  mi  farei  che  sbadigliare.  Caro 
abate,  guardate  un  poco  che  ora  e, 

A.  Ho  dato  il  mio  orologio  a  racconciare  appunto  stamane. 

c.  (I/avra  dato,  cred'io,  al  calderaio.)  II  mio  infallibile  fa  le 
ventidue  . .  .  Che  miseria  non  saper  dove  s'andare!  e'  m'avea  detto 
di  capitar  qui  il  marchese  Sciancati,  quella  tromba  de'  segreti  scan- 
dalosi,  che  ci  da  tanto  gusto ;  ma  e'  non  si  vede  ancora.  Sara  dalla 
cantatrice,  dal  bell'avanzo  di  Troia. 

E.  (Costui  seccherebbe  le  pescaie.)2  Or  via,  non  rimangon  che 


i.  un  Elogio  .  .  .fiamme:  allude  al  Thomas  e  ai  suoi  imitator!  italiani.  Si 
vedano  i  giudizi  del  Vannetti  sul  Thomas  nelle  lettere  al  Cesarotti,  ripor- 
tate  a  pp.  767  sgg.  2.  seccherebbe  le  pescaie:  cioe  farebbe  piti  rumore, 
con  le  sue  chiacchiere,  dell'acqua  che  cade  giu  da  una  pescaia.  £  frase 
idiomatica  toscana  riferita  dal  Varchi  nvlVErcolano. 


7&2  CLEMENTINO    VANNETTI 

quattro  capi.  Capo  settimo.  (cVolendo  scriver  poesia  in  versi,  a- 
dattisi  il  metro  a*  pensieri,  e  quindi  in  uno  stesso  componimen- 
to  si  usin  piu,  metri  ad  arbitrio,  e  dagli  sciolti  si  passi  alle  ot- 
tave,  dalle  ottave  agli  sdruccioli,  dagli  sdruccioli  a*  terzetti,  ecc. ; 
il  che  sara  propriamente  Porgano  della  poesia.  Ciascun  poi  dej 
metri  dee  recarsi  alia  maggior  perfezione,  doe  alia  maggiore  so- 
norita.  6  ridicolo  Pelogio  che  vien  fatto  alia  durezza  delFAlighieri 
e  del  Petrarca,  chiamandola  or  energia,  or  varieta,  or  soavita 
amorosa ...» 

A.  Oh  come  bene  si  spiana  nell'articolo  questo  cenno!  si  ci- 
tano  vari  passi  di  Dante  come  quello  fra  gli  altri: 

Diverse  lingue,  orribili  favelle^  ec.; 

poi,  per  meglio  fame  intendere  la  fiacchezza,  vi  si  mettono  a 
rincontro  di  bellissimi  versi  tratti  da  un  moderno  poema,  YEner~ 
gumeneide,  che  cominciano: 

Fredde  stelle,  atra  luna,  erranti  masse 
di  vapor  negri,  rosseggianti  righe 
di  tuonifere  folgori,  stridore 
di  crollanti  le  selve  euri  frenetici, 
sfracellate  citta,  sconvolti  gorghi, 
sgominate  montagne,  aperU  foci 
alto  mugghianti  di  sulfurea  spuma, 
tenebria,  funestume^  urli  e  ruine 
seppellian  ne  Vorror  le  sfere  e  '/  mondo  .  .  .2 

Del  resto  non  mi  sowiene;  ma  voi  sentite  che  questi  son  versi, 
e  Dante  e  il  Petrarca  sono  tanta  stoppa.  Tiriamo  innanzi. 

E.  «La  maggior  nemica  dej  versi  sonori  e  la  lima ...» 

A.  Piano!  a  questo  proposito  si  nota  che  Orazio,  il  qual  solea 
tanto  limare  le  cose  sue,  incanutl  innanzi  tempo,  e  fece  i  piili 
sciancati  versi  del  mondo  in  que'  suoi  grami  sermoni.  Anzi  si  vuole 
ch'ei  divenisse  anche  lippo3  del  troppo  aguzzar  le  ciglia  su  le  cancel- 
lature. 

c.  Quest'Orazio,  che  facea  sermoni,  era  egli  un  parroco? 

A.  II  signer  conte  canzona,  Sermoni  vien  a  dir  satire. 

E.  ccFinalmente  e  una  sciocchezza  circonscriver  nel  verso  le 

i.  Inf.,  in,  25.  2.  Si  tratta,  naturalmente,  di  versi  inventati  dal  Varmetti, 
e  che  vpgliono  essere  una  parodia  della  poesia  notturna  e  lugubre  di  tipo 
younghiano.  3.  lippo:  cisposo:  «lippus»  si  defmisce  lo  stesso  Orazio. 


DIALOGHI  763 

cose  quando  si  hanno  i  lor  vocaboli  propri,  specialmente  scienti- 
fici.»  Oh  bravo!  se  il  poeta  &  un  galantuomo,  egli  ha  a  dire  al 
pan  pane,  e  alia  gatta  gatta,  e  non  mucia.1 

c.  Galantuomini  i  poeti?  essi  son  tutti  bugiardi  e  sviati:  adu- 
lar  le  donne,  andar  a  tavola  apparecchiata  e  grattarsi  la  pancia 
£  il  loro  mestiere.  Abate,  datemi  una  presa  del  vostro  tabacco, 
per  mutare. 

A.  Da  vero  ho  lasciato  la  scatola  a  casa. 

c.  O  Tavete  data  a  racconciare  insieme  con  Porologio  ?  (Per  al- 
tro  questi  abati  sono  o  canne  buge  o  pillacchere.)2 

A.  Anche  qui  si  espongon  delle  dottrine  eccellenti,  e  si  d& 
la  baia  al  Fracastoro,  al  Nocetti,  allo  Spolverini  e  a  tant'altri 
che  si  son  lambiccati  miseramente  il  cervello  in  mille  andirivieni 
e  involture,  per  venir  poi  a  divisare  il  legno  santo,  Piride,  il  riso3 
e  cosi  fatte  altre  novelle;  mostrandosi  inoltre,  che  gli  episodi  e  i 
passaggi  dolci  e  sfumati4  son  proprio  un'invenzione  diabolica  per 
menar  Fuomo  fuori  di  strada.  lo  ringrazio  il  cielo  di  non  aver 
mai  letto  simili  baionacci.5 

E.  E'  non  si  pu6  dir  meglio.  Capo  ottavo.  «Pregi  dello  stile 
nelPeloquenza  si  legata  che  sciolta;  irregolarita  originate,  concet- 
tosita,  patina  filosofica,  rompimento  del  discorso  in  piccoli  pe- 
riodi  a  beneficio  del  polmone;  industria  di  repetizioni  per  aiuto 
della  memoria;  scrupolosa  minutezza  di  particolareggiamenti,  on- 
de  non  lasciar  nulla  da  pensare  agli  altri ;  lusso  di  personificazioni, 
multiplicity  di  riflessioni  non  mai  abbastanza  inculcate,  sebben  co- 
muni;  effusioni  di  soliloqui  e  colloqui  etico-mistici;  raccapriccio 
di  convulsion!  spirituali  e  stcmperamento  di  teneri  deliqui;  rin- 
forzo  d'invocazioni  e  d'interiezioni  sospirose  ad  ogni  terza  parola; 

1.  mucia:  micia,  gatta  mansueta.  Tutta  la  frase  significa  «dir  le  cose  come 
stanno,  senssa  palliativi».  Anch'essa  e  riferita  dal  Varchi  noli'Ercolano. 

2.  canne  buge  o  pillacchere:  poveri  in  canna  o  avari;  idiotismi  toscani. 

3.  al  Fracastoro  .  .  « il  riso:  allude  ai  poemi  didascalici  Siphilis  sive  de 
morbo  gallico  (il  legno  santo  o  guaiaco  era  un  rimedio  per  questa  malattia) 
del  Fracastoro,  De  iride  di  Carlo  Noceti  (1694-1759),  e  La  coltivazione  dd 
riso  di  Gian  Battista  Spolverini  (1695-1762),     4.  gli  episodi. , .  sfumati:  al 
lude  al  precetto  di  Orassio  xitli'Arspottica,  99-100:  «Non  satis  est  pulchra 
esse  poemata;  dulcia  sunto,  /  et  quocumque  volent  animum  auditoris 
agunto»:  che  raccomanda  appunto  la  tecnica  della  «transizione  dissimu- 
lata »,  tipica  della  poetica  classicistica  (cfr.  L.  SPITZER,  Varte  della  « iron- 
sistione*  in  La  Fontaine^  in  Critica  stilistica  e  storia  del  linguaggio,  Ba- 
ri»  Laterxia,   1954,  pp.  161  sgg.)*      5-  baionacci:  burloni;  altro  idiotismo 
toacano. 


764  CLEMENTINO    VANNETTI 

sontuosita  ed  insieme  esattezza  compassata  di  paragon!  tolti  il  piu 
dalla  forza  elastica,  centripeta,  elettrica,  o  dall'aurora  o  clalla  pri- 
mavera;  cocior  di  metafore  arabico-rabbiniche ;  prepotenza  d'epi- 
teti  grandisonanti;  lusinga  di  nomi  speziosi,  quai  sono  amor  puro, 
cuor  sensibile,  innocenza,  virtu,  beneficenza,  ec.;  e  sopra  tutto  una 
bella  eguaglianza  di  tuono  declamatorio  anche  nelle  scosse  e  ne* 
voli  piu  rapidi,  che  per  la  loro  felice  sconnessione  somiglieranno 
quelli  d'un  maniaco. »  Respiriamo,  che  questa  volta  il  sunto  val  per 
un  capo. 

c.  lo  non  so  come  costoro  si  facciano  a  mettere  insieme  tante 
corbellerie  senza  stordirsi:  e'  convien  dire  ch'abbian  la  testa  di 
ferro.  La  mia,  sol  ch'io  detti  una  ricevuta,  comincia  a  girarmi 
come  una  trottola. 

A.  Credami,  signor  conte,  che  quando  vi  s'e  fatto  callo,  e 
un  piacere:  nulla  piu  costano  versi  e  prose.  In  sola  una  notte 
ben  cento  ottave  io  composi  sopra  la  torre  di  Babelle  per  1'ingres- 
so  d'un  curato,  che  fur  giudicate  veramente  di  nuovo  conio. 

E.  Veggiam  che  narri  il  capo  nono.  «Soggetti  piu  acconci  a 
vestirsi  del  suddetto  stile:  apparizioni,  meditazioni,  treni  pro- 
fetici,  romanzerie  pastorali,  sventure  d'amanti,  fulmini,  vulcani, 
comete,  tremuoti,  infermerie,  sepolcri,  eremi,  sacrilegii,  bestem- 
mie,  veleni,  stili,  catene,  cilicci,  disperazioni  eroiche,  suicidi,  ec. 
Bisogna  guardarsi  da  tutto  ci6  che  ha  troppo  del  naturale,  o  che 
non  giunge  alPeccesso,  perche"  non  fa  piu  colpo. » 

A.  Ecco  il  male  de'  nostri  italiani  sino  a  questi  ultimi  tem 
pi.  I  Manfredi,  i  Zanotti,  gli  Algarotti,  i  Lazzarini,  i  Bianconi1 
e  cent'altri  furono  tanti  cacastecchi,2  de'  quali,  per  nostra  sciagura, 
non  e  ancora  del  tutto  spenta  la  mala  semenza.  In  Verona  special- 
mente  si  mantien  viva  cotal  zizzania.3 

E.  Allegri,  signor  conte,  che  siam  giunti  al  decimo  ed  ultimo 
capo.  «Mezzi  per  disporsi  allo  stile  ed  a'  soggetti  descritti:  no- 
drirsi  di  castagne,  di  mele  cotogne  e  di  fave,  e  ber  acquavite  e 

i.  Eustachio  Manfredi  (1674-1739)  e  Francesco  Maria  Zanotti  (1692-1777) 
sono  tra  i  piti  noti  arcadi  del  gruppo  petrarchesco  bolognese;  Domenico 
Lazzarini:  cfr.  la  nota  Sap.  484;  Giovanni  Ludovico  Bianconi  (su  cui 
cfr.  la  nota  2  a  p.  679)  &  qui  citato  (come  anche  1' Algarotti)  per  la  sua 
correttezza  ed  eleganza  stilistica,  lodata  anche  dal  Galeani  Napione.  2.  ca- 
castecchi:  stitici,  eccessivamente  sobri  e  controllati.  3.  In  Verona  .  .  .  ziz~ 
zania\  allude  soprattutto  al  Cesari  e  al  Pindemonte,  amicissimi  del  Van- 
netti,  e  che  vivevano  appunto  a  Verona. 


DIALOGHI  765 

birra,  vestir  di  bigio,  abitar  presso  qualche  strepitosa  cascata  d'ac- 
qua  in  volte  terrene,  ove  il  sole  non  possa;  e,  s'&  fattibile,  vicino 
d'alcun  patibolo;  non  usar  altro  lume  che  di  poco  lucignolo;  non 
aver  altre  immagini  nella  camera  che  quelle  d'una  Giunia,  d'un 
Dullis,  d'una  Giulia,  d'un  Enrico  Mandeville,1  ec.;  guardare  tutti 
gli  oggetti  con  vetri  che  ingrandiscano  a  mille  doppi;  vagheggiar 
solitudini  e  temporali;  non  legger  che  traduzioni  di  romanzetti, 
di  commedie  piangolose  o  tragedie  e  di  piccole  enciclopedie  ingle- 
si,  francesi,  e  tedesche,  senza  cercar  indiscretamente  n£  lingua  n6 
fedelta;  tener  un  orologio,  la  cui  campanella  suoni  lento,  roco  e 
cupo;  andar  a  meditare  sotto  Pombre  di  cipressi  o  di  noci;  for- 
marsi  1'orecchio  al  rimugghiar  dell'eco  d'alcuna  grotta  frequentata 
da*  barbagianni,  leggendo  quivi  i  propri  scritti;  visitar  falliti,  ca- 
chettici,  vedove  d'uffiziali,  mogli  d'invalidi,  ec.,  e  passeggiare  al 
raggio  di  luna  pe'  cimiteri» .  . . 

...  A.  Ah  ma  quant' &  singolare  il  componimento  che  viene  ap- 
presso!2 

E.  Come  s'intitola  egli? 

A.  Bertoldo  e  Cacasenno,  o  vero  La  voce  del  cigno,  Idilio.  Per- 
mettete  che  io  mel  venga  rileggendo,  per  carita!  Com'&  bello  il 
principio!  «I1  canuto  Bertoldo  in  grembo  ad  una  collina  ricevea 
supino  dallj astro  diurno  i  benefici  influssi.  Un'estasi  tranquilla  lo 
possedeva:  le  sue  cispose  palpebre  erano  immobili.  Fra  tanto  Ca- 
casenno,  il  suo  nipote,  guardavalo  non  veduto.  II  buon  vecchio 
rapito  sospirava.  II  nipote  sentiva  dei  fremiti  di  gioia.  —  Amato 
nonno,  —  proruppe  al  fin  questi  con  la  voce  tremola  della  tene- 
rezza  —  a  quai  deliziosi  trasporti  s'abbandona  ora  il  tuo  spirito  ? 
II  globo  s'incupa  e  s'annichila  dinanzi  al  tuo  sguardo  che  non 

i.  Giunia  .  .  .  Mandeville'.  forse  nomi  di  personaggi  di  romanzi  «neri»  o 
sentimental!  del  tempo.  Giulia  (Julie)  e  la  protagonista  della  Nouvelle  He- 
loise  del  Rousseau.  Enrico  Mandeville  potrebbe  essere  un  errore  per  Ber 
nard  Mandeville  (1670-1733),  filosofo  pessimista  inglese.  2.  che  viene  ap- 
presso:  nelle  pagirie  che  abbiamo  tralasciato  1'Eremita  ha  gia  letto  alcuni 
dei  « quadri  oratorii  e  poetici,  che  formano  la  seconda  parte  del  libro », 
e  che  sono  poi  esempi  burlescamente  caricaturati  di  varie  maniere  della 
letteratura  contemporanea :  il  romanzo  sentimentale  alia  Richardson,  la 
commedia  lagrimosa,  il  poema  di  argomento  filosofico-scientifico,  Tode  li- 
rica  di  tipo  tedesco.  Nella  pagina  che  segue  TEremita  legge  una  parodia 
di  uno  degli  idilli  del  Gessner  tradotti  dal  Bertola,  La  canzone  d'autunno 
(cfr.  Idea  della  bella  letteratura  alemanna,  Lucca,  Bonsignori,  1784,  n,  pp. 
71-5)- 


766  CLEMENTINO   VANNETTI 

lo  cura.  Tu  segui  a  sospirare!  O  nonno  mio,  ti  vorrei  chieder  una 
grazia.  —  Caro  nipote  —  disse  allora  Bertoldo  ...» 

E.  Al  vedere,  ei  non  avea  per6  legato  Pasino  a  si  buona  caviglia,1 
come  qui  il  nostro  conte. 

A.  Zitto!  «...  —  Caro  nipote,  chiedi  pur  francamente;  vieni  al 
mio  seno,  ch'io  voglio  stemprare  il  mio  cuore  in  baci  su  la  tua 
fronte  onorata.  —  Cacasenno  si  pose  a  sedere,  e  Bertoldo  non 
saziavasi  di  baciarlo.  —  Solea  raccontarmi  —  disse  il  giovane  — 
la  mia  madre  Menghina,  die  su  1'aprile  degli  anni  tuoi  tutto  ii 
paese  ti  rispettava  qual  vate  estemporaneo,  e  che  nellc  tenzoni 
riportasti  un  giorno  in  premio  del  canto  piu  d'un  bccco.  Ah  se 
di  nuovo  tu  volessi,  caro  il  mio  nonno,  tentare  il  canto!  —  Si,  — 
rispose  Bertoldo  con  un  parossismo  di  dolcezza,  che  gli  fece  bril- 
lar  gli  occhi  della  rugiada  del  cuore,  —  si,  il  tenter6;  e  tu  udirai 
Tultima  canzone  delFavolo.  —  Cacasenno  gli  sugge  le  lagrime 
con  le  sue  labbra:  egli  si  raccoglie  un  momento,  e  prende  a  cantar 
cosl:  —  0  maccheroni,  una  volta  ancora  beatemi  del  vostro  sa- 
pore!  Gli  anni  m'opprimono;  gli  anni,  che  m'invidiano  il  trattar 
la  mestola  e  la  forcina2  con  la  fcrmezza  d'un  giorno!  lo  tremo, 
o  maccheroni,  quasi  come  tremano  le  gocce  di  burro,  allorch6  careg- 
giano3  spumose  la  superficie  delle  vostre  creste!  Cadrei,  se  non 
mi  sostenesse  la  speranza  di  rigustarvi.  Oh  maccheroni,  il  vostro 
bacio  e  il  balsamo  del  mio  essere!  La  morte  m'adocchia:  io  qual 
campione  mi  calco  in  testa  il  cappello,  e  pronunzio  il  vostro  nome: 
ella  fugge.  Ah  che  questa  bocca,  eziandio  fatta  polvere,  parlera 
sempre  di  voi  — ».  Oh  semplicitk  inarrivabile,  oh  verita!  lasciate 
ch'io  mi  rasciughi  gli  occhi .  . . 

E.  fe  forse  anch'ella,  come  Bertoldo,  facile  a  schizzar  fuori  la 
«  rugiada  del  cuore » ? 

A.  Si,  son  fatto  di  questa  pasta.  Ma  dove  trovate  voi  in  Vir- 
gilio,  che  tristo  il  faccia  Dio,  si  vezzosi  pensieri  e  tanta  unzione  di 
sentimento  ?  in  due  versi  ei  pretende  colorire  una  figura,  consu- 
mare  un  affetto:  eh  si,  ci  vuol  altro,  Attento  bene  alia  chiusa: 
«Fini  Bertoldo,  e  cantarono  in  coro  gli  amabili  araldi  di  maggio:4 
cantarono,  e  nella  lor  cara  melodia  gli  ricordaron  le  gaie  ariettc 
della  sua  gioventu»  .  .  . 

i.  non  avea  .  .  .  caviglia:  non  era  cosi  libero  da  preoccupaxioni :  altro  idio- 
tismo  toscano.  2.  mestola;  cucchiaio;  forcina:  forchetta.  3.  careggiano: 
carezzano.  4.  gli  amabili  araldi  di  maggio:  gli  asini. 


DALLE  « LETTERE» 
I 

A   MELCHIORRE   CESAROTTI1 

[Sul  Thomas  e  sui  poeti  tedeschi.] 

Roveredo,  17  giugno  1780. 

Confessole  ingenuamente  che  il  principle  della  sua  lettera  m'a- 
vea  fatto  entrare  in  qualche  diffidenza  della  sua  sincerita,  pre- 
sentandomi  delle  lodi  cui  mi  parea  un  delitto  accettare  sen- 
za  riserva;  ma  il  progressed  m'ha  poi  consolato,  togliendomi  un 
dubbio  che  mi  rendeva  men  grate  le  lodi  stesse,  e  poteva  in 
qualche  modo  disonorare  la  nascente  nostra  amicizia.  Ella  dopo 
avermi  fatto  coraggio  colFampie  sue  appro  vazioni,  che  sono  la 
piu  grande  mercede  che  io  ricever  potessi  di  mie  fatiche,  mi 
somministra  eziandio  nuovi  argomenti  onde  esercitare  lo  stile, 
e  con  una  gentilezza  tutta  sua  propria  mi  ritrae  dallo  spregiare 
soverchiamente  Thomas  e  i  poeti  tedeschi.3  In  questa  guisa  la 
sua  lettera,  dandomi  dej  lumi  e  degli  awertimenti,  mi  riesce 
divero  profitto.  E  quanto  alia  nuova  censura  poetica  ch'ella  degna 
propormi,4  altro  non  le  dir6  se  non  che  ho  tosto  notata  qualche 
fantasia  venutami  in  mente  nel  legger  le  sue  parole,  riserbandomi 
a  por  mano  alPopera  nelPozio  autunnale,  quando  Apollo  non  sia 
meco  avaro  de'  suoi  favori.  Bramerei  per6  ch'ella  mi  mandasse 
con  tutto  Tagio  1'uno  o  1'altro  di  questi  poemetti  infetti  di  que' 
vizi  che  accenna,  ma  in  grado  eminente,  onde  far  si  potessero  de' 
ritratti  pieni  di  carattere  e  di  varieta:  altrimenti  langue  ogni  cosa, 
n6  molto  s'intende  in  che  consista  il  difetto.  Quanto  poi  a  Tho 
mas  e  a'  tedeschi  certamente  ch'io  sono  irritato  (com'ella  dice) 
dal  fanatismo  per  essi  de'  nostri  italiani;  n6,  come  sogliono  i  me- 

i  Dalle  Opere  del  Cesarotti,  Firenze,  presso  Molini,  Landi  e  C.,  xxxvi, 
1811,  pp.  55-8.  II  Vannetti  risponde  alia  lettera  del  Cesarotti  nprodotta 
in  questo  volume  alle  pp.  505-6.  2.  progresso:  seguito.  3-  ™  nt*ae  -  •  : 
tedeschi:  nella  sua  lettera  il  Cesarotti  aveva  difeso  il  Thomas  e  i  poeti 
tedeschi  dai  severi  giudizi  pronunciati  dal  Vannetti  nella  seconda  epistola 
diretta  al  Monti  (cfr.  la  lettera  del  Cesarotti  e  le  note  relative).  4.  quan 
to  ...  propormi:  il  Cesarotti  lo  aveva  invitato  a  diventare  il  «Boileau 
italiano  ». 


768  CLEMENTINO   VANNETTI 

dici  ne'  mail  estremi  usar  gli  estremi  rimedi,  ho  dubitato  di  enun- 
ziare  la  mia  opinione  con  qualche  risentimento.  Ella  sa  che  que- 
sta  &  un'arte  per  richiamare  i  traviati,  di  trarli  aU'estremita  op- 
posta  a  quella  cui  seguono,  onde  in  mezzo  a  due  forze  contrane 
piglino  una  terza  direzione  che  li  conduca  alia  verita.  Non  sono 
per  altro  io  solo  che  tenga  Thomas  in  concetto  di  un  oratore  troppo 
amante  di  circoscrizioni1  e  di  strane  fantasie  e  di  periodi  gonfi  e  alti- 
sonanti.  Sono  poi  bensl  pronto  a  dargli  tutta  la  lode  di  buon  filo- 
sofo,  di  intimo  conoscitore  de'  suoi  eroi  e  de'  secoli  loro,  e  di  sicuro 
maestro  nell'arte  di  imprimere  ne'  lettori  qualunque  affetto  egli 
voglia.  Ma  ella  non  inorridisce  in  udire  che  un  nostro  letterato  per 
far  buoni  versi  italiani  legge  uno  squarcio  di  questo  prosatore 
francese?  Vengo  a'  tedeschi;  e  s'io  fossi  uomo  da  far  grazie,  e  non 
da  chiederne,  nulla  negherei  per  Gesnero  ad  un  tanto  interccs- 
sore.  Si,  pregiatissimo  sig.  abate,  io  lodo  quel  poeta,  io  anzi  lo 
amo,  e  lo  amo  al  pari  della  nostra  signora  Bettina,2  salvo  se  il 
sesso  diversificasse  in  qualche  maniera  le  nostre  dilezioni.  Egli 
&  buono,  6  amabile,  &  soave;  e  nell'epistola  e  nelle  note  io  Tesalto, 
n6  altro  n'eccettuo  che  un'ombra  di  mestizia  e  un  poco  di  mono- 
tonia.3  Sebbene,  a  dir  vero,  non  parlo  io  generalmente  de'  vati 
alemanni  con  dovuto  rispetto  e  non  concedo  loro  1'onore  di  molti 
pregi  ?  ne  censuro  solamente  Tuniformita,  la  tetrezza  e  certa  stra- 
vaganza  di  cupi  pensieri  e  di  metafisiche  astrazioni;  le  quali  cose 
negli  stessi  originali  (dicon  taluni)  sono  per  avventura  bellezze 
(il  che  io  non  posso  sapere  come  ignaro  di  quelFidioma),  ma  nel- 
la  versione  mostrano  abbastanza  di  non  volere  far  lega  col  ge~ 
nio  della  nostra  poesia;  e  quindi  conviene  avvertir  la  nazione 
sempre  vaga  di  novita,  perch6  non  tenti  uno  sforzo  ed  inutile 
e  pernicioso.  Ho  creduto  bene  di  esporle  con  maggior  diffusione 
il  mio  pensiero,  non  g&  per  iscusarmi,  se  ho  errato,  ma  per  sa- 

i.  circoscrizioni:  perifrasi.  2.  Bettina:  Elisabetta  Mosconi,  dama  Vero 
nese  dilettante  di  letteratura  e  arnica  anche  del  Bertola,  del  Bettinclli  c 
del  Pindemonte.  3.  nelVepistola  . .  .  monotonia:  nella  seconda  epistola  in 
versi  sciolti  diretta  al  Monti  il  Gessner  e  cosi  giudicato :  «...  Dolce  e 
Gesnero  /  e  un  secondo  Maron,  com'altri  dice,  /  La  rosea  aurora  in  cento 
carte  ei  pinge,  /  e  la  stagion,  che  frondc  e  fior  disserra,  /  gli  antri  muscosi, 
i  vivi  fonti  al  rezzo,  /  fra  Taleggiar  di  Zeffiro  soave,  /  le  ninfe  assise,  e  per 
gli  aperti  campi  /  d'acque  fugaci  i  tortuosi  errori.  /  Ma  a  pena  &  mai  che 
pennel  cangi  e  tinta ;  /  o  levi  il  dito  da  la  corda  istessa ;  /  c  non  so  quai 
perpetue  ombre  lugubri  /  spandon  suoi  boschi,  a  le  fifimminghe  tele  /  assai 
simili»  (cfr.  Opere,  vi,  p.  216). 


LETTERE  769 

pere  appunto  se  abbia  errato;  o  se  anzi  la  mia  credenza  non  sia 
in  fine  che  la  sua  medesima.  Ella  certo  mi  fa  sperare  quest 'unita  dl 
dogma  poetico,  e  molto  mi  dorrebbe  di  trovarmi  fuori  della  sua 
comunione,  ch'esser  debbe  ortodossa  quant* altra  mai.  Permet- 
tami  intanto  d'inchiudere  qui  un  altro  mio  librettino,1  e  di  pregar- 
la  a  giudicare  colla  stessa  sincerita,  ma,  se  pu6  essere,  anche  piu 
rigorosa.  Uno,  che  ha  chiamato  «idropico»  M.r  Thomas,2  merita 
egli  giammai  compassione  ?  Quando  per6  scende  dal  tribunale,  do 
ve  non  voglio  che  il  giudice,  ella  torni  ad  esser  mio  amico,  almen 
di  nascosto,  e  mi  creda  senza  cirimonie  ma  di  cuore. 


II 

A  MELCHIORRE  CESAROTTI3 

[/  poeti  tedeschi  e  il  ((genio »  della  lingua  italiana.] 

Rover  edo,  30  agosto  1780. 

O  ella  ha  di  gia  autorizzata  la  mia  tardanza  in  rispondere,  o 
io  al  presente  autorizzo  la  sua.  E  bene,  «veniam  petimusque  da- 
musque  vicissim  ».4  L'ultima  sua  lettera  e  una  vera  dissertazione, 
piena  di  lumi,  di  dottrine  e  di  bellissime  cose  enunziate  collo 
stile  il  piti.  vivace  e  succoso.  Io  me  Tho  sempre  tenuta  sul  ta- 
volino,  e  la  debbo  ringraziare  del  sommo  vantaggio  e  piacer 
che  ne  ho  tratto  colla  frequente  lettura.  Le  lodi  date  al  mio  li 
bretto  sopra  il  Corsetti5  mi  paion  veramente  maggiori  del  me- 
rito,  ma  pure  le  soffro  in  grazia  delle  tante  e  si  preziose  rifles- 
sioni  che  mi  somministra  sul  proposito  de*  pregiudizi  che  in- 
festano  una  parte  de'  nostri  italiani,  e  sopra  Taltre  controversie 
poetiche.  A  dir  vero,  per  isciogliere  il  nodo  circa  Thomas,  ci 
vorrebbe  un'analisi  a  parte,  la  quale  togliesse  Pincertezza  di  due 
asserzioni  contrarie.  Io  ne  ho  parlato  secondo  il  sentimento  di 

i .  librettino :  la  Lettera  a  Giovanni  Fabroni  sopra  le  Odi  di  Orazio  tradotte 
dal  dottor  Corsetti,  Vicenza,  Vendramin,  1778  (ristampata  in  Opere,  in, 
pp.  11-45).  2-  Un°  •  •  •  Thomas:  si  rifensce  al  proprio  giudizio  sul  Tho 
mas  in  una  nota  dell'epistola  al  Monti,  e  su  cui  si  veda  la  nota  sap.  505. 
3.  Dalle  Opere  del  Cesarotti,  ed.  cit.,  xxxvi,  pp.  66-71.  Risponde  alia  lettera 
del  Cesarotti  riportata  in  questo  volume  alle  pp.  506-10.  4.  Orazio, 
Ars  poet.,  ii  («chiediamo  e  ci  concediamo  perdono  a  vicenda»).  5.  li 
bretto  sopra  il  Corsetti:  cfr.  sopra  la  nota  i. 

40 


77°  CLEMENTINO   VANNETTI 

molti  dotti  e  il  mio  proprio,  senza  pens  are  a  provar  attualmente 
quanto  diceva,  per  esser  quella  una  menzione  soltanto  accidentale. 
Forse  un'altra  volta  si  offrirk  il  luogo  per  un  esame  piu  solido  ed 
aggiustato.  Cosl  parimente  s'io  avessi  inteso  di  dare  un  compiuto 
giudizio  sui  poeti  tedeschi,  avrei  certo  appiccati  alia  stadera  tanto 
i  lor  vizi  quanto  i  lor  pregi,  e  ne  avrei  poscia  considerate  il  rispet- 
tivo  sbilancio.  Ma  io  parlava  agl'Italiani  gi&  informati  dclla  storia 
loro,  delle  lor  opere  e  persuasissimi  del  loro  valore;  ed  altro  non 
voleva  accennare  se  non  che  essi  non  sono  poi  esenti  da  ogni 
difetto;  e  ci6  ad  intendimento  di  far  argine  al  dominante  fanati- 
smo.  Io  ho  detto,  per6,  che  son  poeti  venerabili,  che  Gesnero 
e  dolce,  che  Klopstock  6  grande  e  magnifico;  ma  sonmi  poscia 
fermato  sui  loro  creduti  eccessi  o  mancamenti,  come  fa  per 
esempio  Orazio  nella  satira  sopra  Lucilio,1  di  cui  dimostra  piti 
accuratamente  i  vizi  che  le  virtu,  perche",  essendo  queste  gi&  co- 
gnite,  suo  scopo  era  appunto  di  disingannarne  gli  accecati  fautori. 
Quindi  io  non  credo  in  veruna  maniera  che  i  greci  e  i  latini  autori 
non  «patiscano»  essi  pure  i  lor  «marsi»,2  o  che  un  autore  qualun- 
que  non  si  debba  pesare  da  ci6  che  forma  il  principal  suo  carattere ; 
ma  io  penso  che  anche  i  tedeschi  abbiano  dej  difetti  non  piccoli 
di  minutezza,  di  melanconia,  di  prolissitk,  di  stravaganza,  di  ro- 
manzesco,  di  uniformitk;  e  penso  che  il  lor  carattere  principale, 
benche"  in  quella  lingua,  in  que'  costumi,  in  quel  clima  forse  assai 
bello,  non  sia  molto  accomodabile  alia  nostra  poesia.  Ma  io  le 
sembro  troppo  geloso  contro  ogni  peregrinitk,  e  m'avverte  di  non 
confondere  il  genio  grammatical  d'una  lingua  col  genio  rettorico.3 
Ottimamente,  quando  pure  il  primo  non  influisca  talvolta  sui  se- 
condo*  Ella  pertanto  dice  che  non  sarebbe  un  delitto  il  tentare 
d'appropriarsi  le  altrui  bellezze  « quando  ci6  possa  eseguirsi  feli- 
cemente».  Oh  qui  sta  il  punto,  e  questa  e  la  somma,  Se  ci6  possa 
eseguirsi  « felicemente »,  cosl,  cioe,  che  la  nostra  poesia  s'adorni 
e  non  s'infraschi,  si  perfezioni  e  non  si  corrompa,  noi  siamo  d'ac- 
cordo.  Ma  finora  si  vede  e  si  tocca  con  mano  che  Io  studio  de* 
colori  oltramontani  non  ha  prodotto  che  mali  esempi  di  deprava- 

i.  come  .  . .  Lucilio:  cfr.  Sat.,  I,  iv,  5-13.  2.  patiscano  , .  .  mam:  la  frase 
non  &  chiara,  a  meno  che  non  si  debba  intendere  marsi  come  plurale  di 
Marsia  (il  satire  vinto  da  Apollo)  e  intendere:  abbiano  poeti  di  scarso 
valore.  3.  m'avverte . .  .  rettorico:  cfr.  per  questa  distinzione  la  nota  2 
a  p.  759- 


LETTERE  77*v 

zione.  Ella  mi  nomina  il  Chiabrera  imitatore  di  Pindaro  e  il  Da- 
vanzati  traduttore  di  Tacito,  aj  quali  molto  debbe  il  nostro  idio- 
ma.  Ma  troppo  e  gia  chiaro  che  le  lingue  greca  e  latina  furon 
sempre  le  buone  avole  e  madri  e  nodrici  delPitaliana.  Ora  v'ha 
egli  la  stessa  relazione  e  parentela  colla  lingua  tedesca,  ingle- 
se,  ec.  ?  «atqui  hie  est,  aut  nusquam,  quod  quaerimus)).1  I  tenta- 
tivi  fin  qui  non  sono  molto  felici  ne"  favorevoli,  com'ella  stessa 
confessa,  e  la  ragione  pu6  ripetersi  appunto  dalla  diversita  de* 
geni  e  delle  lingue  medesime.  Ella  oppone  piu  volentieri  la  man- 
canza  d'ingegni  capaci  d'effettuare  un  simile  accordo.  Ma  qui 
pure  la  cosa  riducesi  a  mera  specolazione,  ed  e  tutta  ipotetica  la 
possibilita  di  tali  ingegni  e  di  tale  accordo,  sicche  non  puossi 
decidere  nulla.  Non  so  s'ella  abbia  in  mano  YEntusiasmo  di  Betti- 
nelli  riprodotto  or  ora  colle  stampe  del  Zatta ;  se  Tha,  vegga,  di  gra- 
zia,  quanto  vi  si  dice  sul  gusto  tedesco  alia  pag.  32  e  alia  pag.  346 
e  seguente;  dove  sta  pure  una  mia  brevissima  letterina,  che  Tautore 
ci  voile  gentilmente  inserire.2  Del  rimanente  perche,  dico  io  ghi- 
ribizzando,  non  si  potrebbe  pescare  piu  al  fondo  di  questa  mate- 
ria,  e  sedar  le  sette  sorgenti3  con  un  libretto  di  Transazioni  poe- 
tichel  In  esse  converria  esaminare  profondamente  le  bellezze 
e  i  difetti  de'  poeti  alemanni,  inglesi,  ec.,  e  trarne  un  quadro  del 
vero  lor  merito  e  del  genio  del  lor  Parnaso.  Indi  confrontare  in- 
sieme  le  poesie  greca,  latina  e  italiana,  e  rilevar  P  influenza  e 
Paffinita  delle  medesime  colla  nostra.  Poi  fissar  la  distanza  di 
questa  dall'inglese  e  tedesca  gia  ben  conosciute,  e  concludere  con 
dimostrare  quale  e  quanta  esser  possa  la  congruenza  e  P accordo 
delle  predette  colla  nostra.  Finalmente  esibir  de'  modelli  per- 
fetti  di  simile  mescolanza  ed  unione.  Intendo  bene  che  il  pre- 
sente  piano  non  e  digerito  abbastanza,  il  qual  forse  potrebbe 
essere  anche  piu  semplice.  Ad  ogni  modo  P opera  non  sarebbe  che 
per  chi  avesse  piena  cognizione  di  tutte  queste  lingue,  e  fosse 

i . « Eppure  &  proprio  qui,  o  in  nessun  altro  punto,  il  nucleo  della  questio-r 
ne. »  2.  Non  so  ...  inserire:  a  p.  328  (non  32,  come  &  erroneamente 
stampato  nel  testo)  &  solo  un  breve  cenno  suirargomento;  mentre  nelle 
pp.  346-57  (nota  xxvn)  il  Bettinelli  osserva  nei  contemporanei  poeti  tedeschi 
minuzia,  monotonia,  languore,  in  una  parola  mancanza  di  « entusiasmo  » ; 
e  riporta  una  lettera  del  Vannetti  non  brevissima  ma  anzi  piuttosto 
ampia,  in  cui  questi  conferma  il  giudizio  del  Bettinelli  mediante  Tanalisi 
di  alcune  liriche  (nella  traduzione  del  Bertola)  del  Gleim  e  del  Richey. 
3.  sedar  le  sette  sorgenti:  esaurire  la  questione* 


772  CLEMENTINO   VANNETTI 

nell'italiana  grande  poeta  o  almeno  avesse  a  suoi  cenni  de'  gran 
poeti.  Vada  intanto  questo  progetto  a  perdersi  tra  gli  altri  so- 
gni  e  deliri  del  nostro  secolo.  A  me  per  ora  non  preme  se  non 
di  sapere  dal  mio  dottissimo  e  perspicacissimo  abate  Cesarotti 
quanti  e  quanto  grandi  difetti  abbia  egli  notati  nel  mio  breve 
Commentario  zorziano  e  nelle  Letter  e  annesse,1  e  a  qual  partito 
s'attenga  in  proposito  della  quistione  alembertiana  compresa  nelle 
lettere  in  e  iv.  Mi  ammaestri  ella,  mi  corregga,  non  mi  risparmi 
censura  alcuna,  ma  continui  sempre  ad  amarmi  e  a  credermi. 


in 

A  MELCHIORRE  CESAROTTI2 

[Come  arricchire  la  lingua  letteraria  italiana.} 

Roveredoy  23  settembre  ijSo. 

S'io  mi  volessi  lasciar  trasportare  dalla  vanitk,  la  sua  genti- 
lissima  lettera  me  ne  darebbe  certo  il  piu  giusto  motivo.  Bi- 
sogna  assolutamente  ch'io  mi  scordi  quanto  ella  vi  dice  sopra 
il  mio  Commentario,3  o  che  lo  interpetri  come  un  amichevole  ar- 
tifizio  per  farmi  coraggio  a  meritare  un  giorno  davvero  cosi  gran 
lodi.  Per  ci6  che  riguarda  alia  quistione  latina,  ho  somma  cu- 
riositk  di  vedere  le  osservazioni  al  suo  Demostene*  ch'ella  mi  cita, 
ed  ho  in  conseguenza  sommo  dolore  di  non  aver  tra'  miei  libri 
codest'opera  si  celebrata,  cui  spesso  indarno  cercai.  S'clla  con 

i.  mio  breve  . . .  annesse:  allude  al  proprio  Commentarius  de  vita  Atexandri 
Georgii,  accedunt  nonnullae  utriusque  epistulae,  Siena,  Pazzini,  1779  (ristam- 
pato,  senza  le  epistole,  nelle  Opere,  VII,  pp.  91-124),  La  lettera  III  e  la  IV, 
a  cui  il  Vannetti  allude  piu  avanti,  trattano  la  questione  dell'uso  del  latino 
come  moderna  lingua  letteraria,  uso  che  lo  Zorzi,  accogliendo  la  tesi  so- 
stenuta  dal  d'Alembert,  riprovava,  e  che  invece  il  Vannetti,  rifacendosi  a 
sua  volta  a  Girolamo  Ferri,  difendeva,  Alessandro  Zom  (*747-*779)> 
gesuita  veneziano,  e  noto  soprattutto  per  il  progetto  di  una  enciclopedia 
italiana  di  ispirazione  cattolica,  che  avrebbe  dovuto  opporsi  a  quella  fran- 
cese,  progetto  esposto  in  un  Prospetto  (Ferrara,  Rinaldi,  1776),  ma  non 
realizzato  per  la  morte  dello  Zorzi  stesso.  2.  Dalle  Opere  del  Cesarotti, 
ed.  cit.,  xxxvi,  pp.  76-86.  Risponde  alia  lettera  del  Cesarotti  riportata  in 
questo  volume  alle  pp.  510-3.  3.  Commentario:  il  Commentanus  de  vita 
Alexandri  Georgii,  su  cui  cfr.  sopra  la  nota  i.  4.  le  osservazioni  al  suo 
Demostene:  le  riflessioni  sull'uso  moderno  delle  lingue  antiche,  contenute 
nella  osservazione  i  alia  Filippica  U  tradotta  dal  Cesarotti  stesso,  e  che 
questi  aveva  ricordato  al  Vannetti  nella  sua  lettera. 


LETTERS  773 

suo  comodo  me  ne  potesse  mandare  una  copia,  indicandomene 
la  spesa,  mi  farebbe  una  grazia  particolare.  Dopo  d'aver  gia  com- 
posta  quella  piccola  lettera  a  Zorzi,1  vidi  soltanto  il  Saggio  d'Al- 
garotti  sulla  necessita  di  scriver  nella  propria  lingua,2  e  vi  trovai 
delle  obiezioni  contro  la  lingua  latina  coincident!  con  quelle  cui 
avea  riposto.  Per  altro,  Dio  mi  guardi  dall'eresie  di  Lagomarsini,3 
che  volea  tutto  in  latino  ed  aboliva  1'uso  della  nostra  si  dolce  fa- 
vella.  Altro  e  che  si  debba  scriver  sempre  in  latino,  altro  6  che 
volendo,  o  dovendo,  non  si  possa.  Due  punti,  che  furono  sovente 
confusi. 

A  proposito  di  latino  e  di  traduzioni,  io  ho  bisogno  non  delle 
sue  lodi,  sig.  abate  pregiatissimo,  ma  della  sua  piu  imparzia- 
le  e  piu  rigorosa  censura.  Sto  lavorando  una  lettera  non  dissi- 
mile  a  quella  diretta  al  Fabbroni,4  che  le  mandai,  sopra  una  nuo- 
va  versione  d' Orazio  e  su  quella  troppo  dimenticata  che  gia  ne 
fece  il  Pallavicini.5  In  fine  alia  lettera  vorrei  porre,  per  saggio  del 
mio  gusto  in  tradurre,  uno  o  due  pezzi  dello  stesso  Orazio,  qua- 
lora  mi  venisse  fatto  di  voltarli  con  quella  fedelta  e  con  quel  nerbo 
insieme  che  negli  altri  io  ricerco.  Ho  perci6  tentata  1'impresa  ne' 
giorni  scorsi,  recando  in  versi  sciolti  la  settima  epistola  a  Mece- 
nate,  dopo  d'averla  recata  in  prosa  e  commentata  con  Dacier  e 
Bentleio6  alia  mano  fino  dal  1778.  Inerendo  ai  concetti  e  alle  im- 
magini  con  ogni  studio,  ho  procurato  di  trasportare  nel  nostro 
verso  la  vibratezza  e  il  genio  satirico  del  latino,  non  facendomi 
scrupolo  d'usar  certi  modi  un  po'  piii  bassi  e  certi  suoni  un  po'  rotti, 
sull'esempio  del  gran  Chiabrera,  che  ne'  suoi  sermoni  ha  conse- 


i,  quella  .  .  .  Zorzi'.  1'epistola  De  usu  linguae  latinae  (1776),  pubblicata  in 
sieme  al  citato  Commentarius.  2.  II  Saggio  sopra  la  necessita  di  scnvere  la 
propria  lingua,  pubblicato  dall'Algarotti  nel  1750,  e  in  cui  questi,  svolgendo 
idee  lockiane  e  voltairiane,  sostiene  che  ogni  lingua  ha  un  suo  proprio 
« genio »,  diverse  da  quello  delle  altre  e  riflettente  il  carattere  del  popolo 
che  la  parla,  e  in  particolare  afferma  1'impossibilita  di  scrivere  una  lingua 
morta  come  il  latino  (cfr.  M.  PUPPO,  Discussioni  linguistiche  del  Settecento, 
cit,  Introduzione,  pp.  35-6).  3.  Girolamo  Lagomarsini  (1698-1773),  ce- 
lebre  latinista,  e  autore,  fra  Taltro,  di  un  poema  De  origine  fontium. 
4.  quella  .  ,  .  Fabbroni:  la  lettera  gia  ricordata  sulla  traduzione  delle  Odi 
di  Orazio,  fatta  dal  Corsetti.  5.  sopra  .  . .  Pallavicini:  la  lettera  al  Betti- 
nelli  Sopra  il  canzoniere  di  Orazio  volgarizzato  dal  signor  Giuseppe  Necchi 
d'Aquila  (cfr.  Opere,  in,  pp.  47-93).  6.  Cioe  con  la  traduzione  di  Ora 
zio  di  Andre  Dacier  (cfr.  la  nota  a  p.  71);  e  con  Tedizione  critica  di  Orazio 
pubblicata  nel  1711  dal  grande  filologo  inglese  Richard  Bentley  (1662- 
1742). 


774  CLEMENTINO    VANNETTI 

guita  forse  meglio  d'ogn' altro  la  forza  oraziana,  ed  ha  fondato, 
per  cosi  dire,  tra  noi  il  vero  stil  della  satira  negli  scioltL  Ci6 
premesso,  io  le  trasrnetto  appunto  il  mio  tentative,  con  questo 
patto  precise,  che  se  non  giunga  a  quel  tanto  che  richiedesi  in  una 
composizione  destinata  a  servire  di  saggio,  ella  lo  rigetti  senza 
pietk;  e  se  ha  dei  difetti,  ma  dei  difetti  per6  rimediabili,  non 
isdegni  di  additarmene  gli  opportuni  rimedi.  Tanto  peso  io  pongo 
nel  suo  giudizio  quanto  se  venisse  dal  beato  Eliso  Orazio  stesso 
g&  istrutto  del  nostro  idioma,  e  ne  desse  sentenza.  Ma  si  sovven- 
ga  del  ccvir  bonus »  con  ci6  che  segue  nell'Arte.1 

Circa  la  quistion  tedesca,  noi  ci  awiciniam  molto  bene.  Quanto 
per6  il  genio  grammatical  d'una  lingua  influisca  talor  nel  ret- 
torico,  potrebbe  vedersi  da  una  qualche  version  letterale,  qual 
e,  per  esempio,  quella  de*  Salmi  che,  tradotti  in  latino  secon- 
do  la  frase  ebraica,  non  ci  lasciano  scorger  gran  fatto  quel  me- 
rito  e  quella  bellezza  che  nelPoriginale  tanto  ammirano  gl'in- 
tendenti.  Voltinsi  al  modo  medesimo  degli  squarci  tedeschi  od 
inglesi,  e  la  stravaganza  della  frase  oscurerk  non  una  volta  tutto 

10  splendore  del  testo,  n6  si  capirk  come  quello  sia  eloquente  o 
poetico.  Ma  il  greco  tradotto  anche  letteralmente  nella  nostra 
lingua  non  produce  egli  minori  e  men  frequent!  sconcerti?  Ella 

11  sa  meglio  d'ogni  altro.2  Voltando  poi  alia  lettera  anche  una  delle 
piu  entusiastiche  ode  d' Orazio,3  io  penso  che  il  nostro  idioma 
esprimer  possa  la  massima  parte  di  quelle  frasi  e  maniere,  come 
se  nate  fosser  nel  proprio  suo  senso,  senza  punto  guastarsi,  anzi 
con  acquisto  di  convenienti  bellezze.  «0r  si  dee  bere,  or  con  pie 
libero  si  dee  batter  il  suolo:  ora  e  tempo,  o  compagni,  di  ornare  i 
letti  de'  numi  con  saliari  vivande.  Non  era  lecito  prima  d'ora  di 

1.  si  sowenga  .  .  .  Arte:  cfr.   Orazio,  Ars  poet.,  445-51:  «Vir  bonus  et 
prudens  versus  reprehendet  inertis,  /  culpabit  duros,  incomptis  allinet 
atrum  /  traverso  calamo  signum,  ambitiosa  recidet  /  ornamenta,  parum 
claris  lucem  dare  coget,  /  arguet  ambigue  dictum,  mutanda  notabit,  / 
fiet  Aristarchus:  nee  dicet:   "Cur  ego  amicum  /  ofTendam  in  nugis?"" 
(«L'uomo  buono  e  aweduto  censurera  i  versi  insulsi,  biasimera  i  duri, 
quelli  rozzi  cancellera  con  un  tratto  di  penna,  togliera  gli  ornament!  pieni 
di  pretese  e  fara  dar  luce  ai  poco  chiari,  denunzier&  ci6  che  e  detto  con 
ambiguita,  indichera  quel  che  &  da  mutare,  diventera  un  Aristarco  e  non 
dira:  <cPerch6  io  dovr6  ofTendere  un  amico,  in  cose  di  poco  conto?"»). 

2.  Ella  .  . .  altro :  in  quanto  traduttore  delle  orazioni  di  Demostene,  unico 
scrittore  classico  tradotto  dal  Cesarotti  prima  della  data  di  questa  lettera. 

3.  una  .  ..  Orazio:  1'ode  xxxvn  del  I  libro,  di  cui  poco  pito  avanti  il 
Vannetti  trascrive  la  propria  traduzione  letterale. 


LETTERE  775 

trarre  il  Cecubo  dalle  avite  dispense,  mentre  la  reina  preparava 
al  Campidoglio  furiose  rovine  e  la  tomba  all'Impero,  in  mezzo  a 
genti  ammorbate,  audace  a  sperare  ogni  cosa  ed  ebbra  di  sua  dolce 
fortuna:  ma  compresse  le  furie  appena  salva  dalle  fiamme  una 
nave,  e  la  mente  dalPegizio  vino  travolta  ridusse  Cesare  a  paven- 
tar  seriamente,  incalzando  co*  remi  lei,  che  dalPItalia  volava  (co 
me  incalza  lo  sparviere  le  timide  colombe  o  nej  campi  della  ne- 
vosa  Emonia  il  pronto  cacciatore  la  lepre)  per  dare  a'  ceppi  quel 
mostro  fatale.  La  qual  cercando  di  morire  da  forte,  ne  pavent6 
femminilmente  la  spada,  n6  ritirossi  su  pronti  legni  in  piagge 
remote.  Essa  pot6  rivedere  intrepida  la  desolata  reggia  con  faccia 
serena  e  Taspre  serpi  trattare,  onde  trar  nelle  membra  Patro  ve- 
leno,  resa  piu  feroce  della  morte  omai  stabilita;  sdegnando  appunto 
non  ignobile  donna  d'esser  condotta  dai  fieri  liburni  qual  privata  sul 
superbo  trionfo.»  Questa  6  una  mia  improwisata,  ma  che  non 
dee  n£  pu6  far  pruova  alcuna.  Ora  non  nego  io  gia  che  in  una 
version  letterale  del  latino  qualche  modo  di  dire  non  debba  riu- 
scir  violento;  dico  solo  che  un  testo  latino  fara  colFitaliano  assai 
maggior  lega  che  un  tedesco  o  un  inglese;  cosl  che  non  sara  d'uo- 
po  mutar  molte  cose  perch.6  tutto  s'accordi  col  nostro  genio,  e 
ritenga  insieme  le  bellezze  poetiche  o  in  una  parola  rettoriche  del 
suo  originale.  Se  dunque  io  m'unisco  a  lei  nel  dar  molto  alia  de- 
strezza  degrimitatori  in  conciliar  grazia  e  naturalizzare  le  frasi  stra- 
niere,  io  do  anche  molto  alia  maggiore  o  minor  simpatia  dej  linguag- 
gi  tra  loro,  e  penso  che  in  ci6  pure  vaglia  il  detto  di  Orazio: 
«alterius  sic/altera  poscit  opem  res  et  coniurat  amice)).1  Ma  quanto 
ella  soggiunge  sopra  il  dover  di  cercar  i  colori  della  natura  e 
Tespressione  del  proprio  sentimento  e  non  altro,  e  sopra  la  simpatia 
delPeloquenza  d' Italia  con  quella  di  tutte  le  nazioni,  attesa  la  va- 
rieta  analoga  degl'ingegni  italiani;  e  cosi  giusto  e  forte  che  nulla 
piu.  Siccome  ogni  nazione  e  composta  d'uomini,  ch'hanno  gli 
stessi  gradi  di  talento,  le  stesse  passioni,  gli  stessi  vizi,  le  stesse 
virtu;  cosl  v'ha  un'eloquenza  generate  ch'e  il  linguaggio  di  questi 
abiti  ed  affetti,  che  variano  rispettivamente  in  ciascuna  nazione 
secondo  il  vario  clima  e  costume,  di  modo  che  il  brio  dell'italiano 
non  e  precisamente  quel  del  francese;  n6  noi  siam  cupi  e  melan- 
conici  alia  maniera  che  lo  sono  gl'Inglesi;  anzi  le  nostre  ire  me- 

i.  Cfr.  Ars  poet.,  410-1    («cosi  Tuna   cosa  richiede  1'aiuto  dell'altra  e 
amichevolmente  collabora  [con  questa] »). 


776  CLEMENTINO   VANNETTI 

desime  e  le  nostre  allegrezze  sono  di  diversa  tempra  da  quelle 
delFaltre  nazioni,  ed  hanno  anche  spesso  diversa  origine;  onde 
esistono  nello  stesso  genere  different!  caratteri  e  modificazioni ; 
cosl  pur  varia  in  ciascuna  nazione  il  linguaggio  rclativo  agli  stessi 
ingegni  ed  affetti,  e  perci6  Peloquenza.  Altrimenti  parlerebbe  Enea, 
se  Virgilio  fosse  stato  spagnuolo;  altrimenti  Achille  in  Sciro1  se 
Metastasio  fosse  nato  sulla  Senna.  E  per  qual  altra  ragione  gl'In- 
glesi  ne'  loro  drammi  fanno  parlare  gli  eroi  romani  da  veri  ro~ 
mani,  se  non  perch6  s'accostano  essi  medesimi  naturalmente  al 
pensare  di  quella  libera  e  bellicosa  nazione?  Tengasi  dunque 
la  natura,  e  1'italiano  segua  appunto  nello  scrivere  il  suo  spirito 
ed  il  suo  cuore.  S'egli  &  ingegnoso,  lo  sia  alia  propria  maniera; 
e  non  faccia  forza  a  se  stesso  volendo  imitare  Tingegnoso  tede- 
sco.  In  fine  o  siam  cupi  o  profondi  o  energici  o  teneri  o  immagi- 
nosi,  siamolo  all'italiana,  non  gia  per  istudio  alia  tedesca,  all'inglese, 
alia  moscovita. « Intererit  multum  Davus  ne  loquatur  an  heros  .  ,  ., 
Thebis  nutritus,  an  Argis.  »2  Tutte  le  nazioni  hanno  un  medesimo 
volto;  ma  pure  ciascuna  ha  la  sua  speciale  fisonomia.  Ci6  che  ac- 
cade  nel  corpo,  molto  piu  accade  neiranimo,  di  cui  6  interprets 
Feloquenza.  E  questo  io  dico  rispetto  al  massiccio  e  alia  sostanxa  do* 
componimenti  oratorii  e  poetici,  in  somma  al  genio  rettorico.  Quan- 
to  poi  al  genio  grammatical,  se  gli  oltramontani  ci  offrono  qual- 
che  bella  espressione  e  qualche  modo  acconcio  a  render  piu  sncllo 
e  piti  vibrato  il  discorso,  profittiamone  pure  con  quella  sobria  e  fe- 
lice  arditezza  ch'ella  stessa  commenda,  escludendo  ogni  affetta- 
zione.  Anche  nello  stesso  genio  rettorico  avverr&  che  noi  c'in- 
contriamo  non  di  rado  in  qualche  pensiero  ed  immagine  d'auto- 
re  inglese  o  tedesco,  o  che  la  imitiamo;  e  sara  questa  ottima 
cosa,  tosto  che  si  avra  ad  essa  guidati  1'infallibil  natura,  la  quale, 
com'ella  dice  ed  io  confermo  di  sopra,  &  poi  in  grande  per  tutto 
il  mondo  la  stessa.  Veggo  che  la  nostra  quistione  va  ognor  piu  sce- 
mando,  e  riducesi  a  questo  solo  se  molto  o  non  molto  possano 
a  noi  somministrare  gli  oltramontani  poeti.  Trattandosi  del  piti  o 
del  meno  non  han  piti  luogo  le  speculazioni ;  ci  vogliono  esempi. 
Io  bramerei  ch'ella  mi  palesasse  codesti  felici  imitatori,  se  mai  cono- 

1 .  Allude  al  melodramma  metastasiano  intitolato  appunto  Achilla  in  Sciro. 

2.  Orazio,  Ars  poet.,  114-8   («C'&  molta  differenza  se  parli  Davo  o  un 
eroe, .  .  .  un  tebano  o  un  argivo »).   Gli  editori  moderni  leggono  per6 
«divusne». 


LETTERE  777 

scendoli  potessi  ricredermi.  Intanto  le  voglio  comunicare  quan- 
to  in  proposito  de'  Tedeschi  mi  scrive  di  Roma  il  sig.  abate  Ta- 
ruffi1  bolognese,  uomo  dottissimo,  perito  di  queiridioma,  e  die  fu 
in  Germania  ed  ivi  lesse  gli  autori  piu  famosi,  pe'  quali  conserva 
una  grande  venerazione.  II  padre  don  Gregorio  Fontana2  mi  scri 
ve  egli  pure  come  intendente  della  stessa  lingua  che  i  Tedeschi  in 
originale  sono  poeti  eccellenti,  ma  che  il  p.  Bertola  gli  ha  sfi- 
gurati  barbaramente,3  tanto  che  nella  sua  versione  non  si  rico- 
noscono  piu ;  che  tuttavia  crede  meco  non  potersi  per  noi  prender 
con  onore  assai  cose  in  prestanza  da  quelli.  Ma  ella  ascolti  Taruffi. 
lo  le  dimando  scusa  della  mia  importunita,  e  insieme  la  prego  a 
ricrearmi  e  istruirmi  con  lunghissime  lettere.  Sono  tutto  il  suo 
vero  servo  ed  amico. 


EX  EPISTOLA  10.   ANTONII   TARUFFI 
III.   CAL.   SEPT. 

Quaeris  nunc  pro  re  nata,  neque  sine  ingenti  sollicitudine  per- 
contari  videris,  Vannetti,  quo  loco  habendos  putem  audaces  quos- 
dam  frigidarum  regionum  cantores,  quos  Italia  nostra,  tuo  qui- 
dem  iudicio,  vel  insulse  celebrat  vel  nimis  patienter  miratur. 
Cave  tamen  credas  velle  me  tibi  ea  de  caussa  bellum  indicere. 
Sed  neque  tibi  palpum  obtrudam;  ergo  habeto  me,  praesertim 
in  Germania  quum  essem,  Halleros,  Hagedornios,  Ramleros,  Klei- 
stios,  Klopstochios  aliosque  praestantes  illius  gentis  poetas  cu- 
pide  legisse,  quorum  nomina  mitiores  Musae  expavescunt.  Neque 
vero  non  habent  septentrionales  illi  modulatores  quos  et  ingenue 
commendare  et  parce  quidem  in  usum  nostrum  excerpere  possi- 
mus.  Vim  mehercle  exserunt,  ut  est  illius  linguae  indoles,  prope  in- 
credibilem,  fuscis  coloribus  affabre  utuntur;  vocem  vel  ad  side- 
ra  vehementissime  attollunt;  animi  affectus  per  philosophicos 
quosdam  tramites  consectantur;  amoeniora  quoque,  si  diis  placet, 
sibi  subdere  et  vindicare  student.  Ut  tamen  nonnulla  nos  docere 

i.  Giuseppe  Antonio  Taruffi:  amico  anche  del  Cesarotti.  Su  di  lui  cfr.  la 
nota  2  a  p.  489.  2.  Gregorio  Fontana,  roveretano  (1735-1803),  filosofo  e 
matematico.  3.  il  p.  Bertola  .  .  .  barbaramente:  allude  alle  traduzioni  di 
poeti  tedeschi  pubblicate  da  Aurelio  Bertola  nella  Idea  della  poesia  ale- 
manna,  Napoli  1779  (poi  ripubblicata  col  titolo  Idea  della  bella  letter atur a 
alemanna,  Lucca,  Bonsignori,  1784). 


CLEMENTINO   VANNETTI 

fortasse  queant,1  stili  temperiem,  imaginum  castitatem,  ordinis 
nitorem,  charitum  lepores  docebunt  profecto  nunquam.  Nativam 
illam  caliginem  atque  asperitatem  exuent  profecto  numquam.  Tere- 
tes  religiosasque  aures  mulcebunt  profecto  nunquam.1 

AD  ANTONIO   CESARI2 

[La  zprofessiom  di  fede?>  linguistica  del  Vannetti.] 

Roveredo,  2  giugno  17^7. 

A  questa  volta  ella  m'ha  proprio  mandate  un  tesoro  di  belle 
cose:  io  per  abbracciarle  tutte  dir6  di  ciascuna  il  piu  brevemen- 
te  che  potr6.  E  prima,  della  sua  lettera  per  ci6  che  riguarda  la 
nostra  quistione.  Eccole  senza  piu  la  mia  quasi  professione  di 
fede. 

Io  credo  che  i  trecentisti  sieno  in  lingua  la  nostra  Bibbia, 
ed  i  cinquecentisti  i  nostri  Santi  Padri.  Credo  che  la  dipenden- 
za  da  quelli  sia  di  necessity  a  salute,  ed  i  lumi  di  questi  sien 

i. « Dall'epistola  di  Giuseppe  Antonio  Taruffi,  del  30  agosto.  -  Tu  mi 
chiedi  secondo  la  natura  delle  circostanze,  o  Vannetti,  e  mi  sembra  che  tu 
me  Io  chieda  non  senza  grande  premura,  in  quale  modo  io  pensi  che 
si  debbano  giudicare  certi  cantori  nordici,  che  la  nostra  Italia,  almeno 
a  tuo  parere,  o  celebra  scioccamente  o  ammira  troppo  pazientemente.  Non 
credere,  tuttavia,  che  io  voglia  dichiarare  una  guerra  per  tale  questione. 
Ma  neppure  intendo  adularti  [per  la  frase  «palpum  obtrudam»  cfr.  Plauto, 
Pseud.,  945];  sappi  dunque  che  io,  specialmente  quando  ero  in  Germania, 
lessi  avidamente  gli  Haller  [cfr.  la  nota  6  a  p.  437],  gli  Hagedorn  [Fried- 
rich  von  Hagedorn,  vissuto  tra  il  1708  e  il  1754,  autore  di  liriche,  poesie 
morali  ed  epigrammi  di  gusto  classicistico],  i  Ramler  [Karl  Wilhelm 
Ramler,  vissuto  fra  il  1725  e  il  1798,  scrisse  anch'egli  poesie  di  gusto  clas 
sicistico],  i  Kleist  [Ewald  Christian  von  Kleist,  vissuto  tra  il  1715  e  il 
1759,  autore  di  idilli  e  di  un  poemetto  sulla  primavera],  i  Klopstock 
e  altri  eccellenti  poeti  di  quel  popolo,  ai  cui  nomi  le  Muse  piu  dolci  si 
spaventano.  Non  mancano  invero  a  quei  popoli  nordici  scrittori  che  noi 
possiamo  e  sinceramente  lodare  e,  sia  pure  con  cautela,  scegliere  per  il 
nostro  uso.  Mostrano,  per  Ercole,  una  forza  d'espressione,  secondo  i'in- 
dole  di  quella  lingua,  quasi  incredibile ;  usano  abilmente  di  colori  foschi ; 
alzano  la  voce  con  grandissima  violenza  fino  alle  stelle ;  cercano  di  raggiun- 
gere  il  sentimento  attraverso  sentieri  filosofici,  tentano,  se  piace  agli  dei,  di 
assoggettarsi  e  rivendicare  anche  generi  letterari  piu  ameni.  Ma  anche  se 
ci  possono  fornire  qualche  insegnamento,  la  temperanza  dello  stile,  la 
castita  delle  immagini,  il  nitore  dell'ordine,  le  leggiadrie  delle  grazie  non 
ce  le  insegneranno  certo  mai.  Certo  mai  potranno  spogliarsi  della  loro 
innata  caligine  e  asprezza.  Certo  mai  accarezzeranno  piacevolmente  le 
orecchie  finemente  educate  e  scrupolose. »  2.  Dall'Epistolario  scelto,  a  cu- 
ra  di  B.  Gamba,  cit.,  pp.  68-73. 


LETTERS  •  779 

guida  alia  perfezione.  E  data  la  verissima  distinzione  fra  lin 
gua  e  stile,  e  di  nuovo  fra  stile  grammatico  e  stile  rettorico,1 
quello  consistente  nel  giro  della  sintassi,  questo  ne'  colori  e 
nelle  figure  si  della  prosa  che  del  verso,  credo  che  ogni  grazia 
di  lingua  imparisi  dal  Trecento,  e  che  il  Trecento  ed  il  Cinque- 
cento  insieme,  quasi  contemperati,  possano  dare  il  migliore  giro 
della  sintassi,  cio&  lo  stil  grammatico  piu  limpido  e  sciolto ;  credo 
poi  che  lo  stile  rettorico  ci  presenti  nel  Trecento  le  piu  preziose 
ricchezze,  cosi  per6  che  quelle  aggiuntevi  ne*  secoli  posteriori  pel 
Casa,  per  1'Ariosto,  pel  Tasso,  pel  Chiabrera,  pel  Guidi,  pel  Me- 
tastasio,  pel  Frugoni  e  per  i  piu  celebri  prosatori  sien  degne  nel 
genere  loro  di  molto  studio  e  di  assai  vantaggi  feconde.  E  tornan- 
do  un  momento  allo  stile  grammatico,  o  vero  alia  sintassi,  credo 
che  qui  pure  debba  farsi  una  distinzione  fra  la  sintassi  prosaica 
e  la  poetica  del  Trecento,  notando  che  il  vizioso  lentore  ed  awilup- 
pamento  de'  trecentisti  ristrignesi  solo  a  quella,  e  questa  general- 
mente  lascia  intatta;  come  certo  veggiam  nel  Petrarca,  della  cui 
sintassi,  toltone  qualche  raro  luogo,  non  pu6  esser  piu  chiara  la 
chiarezza  medesima;  Ik  dove  quella  del  maggior  prosatore2  &  spesso 
oltra  il  dovere  allungata,  spesso  contorta,  qualche  volta  irregolare 
e  somigliante  a  viuzza  senza  riuscita.  Nel  Cinquecento  pure  il 
Bembo  ed  altri,  appunto  perch6  ligi  degli  autor  del  Trecento, 
caddero  in  simil  difetto;  e  per6  quand'io  propongo  i  cinquecen- 
tisti  a  migliore  e  piu  morbido  impasto  del  grammatico  stile,  in- 
tendo  sempre  parlare  de'  Davanzati,  de'  Castiglioni,  de*  Cari  e 
de'  piti  vicini  alia  precisione  e  sveltezza  di  questi  tre.  Nel  qual 
mio  sistema  1'opera  sta  n£  piu  n6  meno  «ut  si  quis  Falerno  vino 
delectetur))  (mi  servir6  delle  parole  di  Cicerone  nel  Bruto);  «sed 
eo  nee  ita  novo,  ut  proximis  consulibus  natum  velit,  nee  rursus 
ita  vetere,  ut  Opimium  aut  Anicium  consulem  quaerat.  "Atqui 
hae  notae  sunt  optimae."  Credo :  sed  nimia  vetustas  nee  habet  earn, 
quam  quaerimus,  suavitatem,  nee  est  iam  sane  tolerabilis,  etc. 
Sic  ego  istis  censuerim  et  novam  istam  quasi  de  musto  ac  lacu 
fervidam  orationem  fugiendam,  nee  illam  praeclaram  Thucydide 
nimis  veterem,  tanquam  anicianam  notam,  persequendam.  Ipse 
enim  Thucydides,  si  posterius  fuisset,  multo  maturior  fuisset  et 

i.  fra  .  .  .  rettorico:  il  Vannetti  accoglie  qui  la  distinzione  proposta  dal 
Cesarotti  per  la  prima  volta  proprio  allo  stesso  Vannetti  (cfr.  pp.  506-13 
e  la  nota  2  a  p.  759).  2,  maggior  prosatore:  il  Boccaccio. 


780  CLEMENTINO    VANNETTI 

mitior)).1  Cicerone  le  ha  parlato  per  me,  ne*  io  saprei  certo  in  tal 
lite  qual  altro  scegliere  od  awocato  o  giudice  piu  reverendo,  sup- 
posta  la  incontrastabile  proporzione  tra  lingua  e  lingua,  autori  ed 
autori.  Quanto  al  Muratori,  n£  questi  fu  il  solo  da  me  citatole, 
ch6  il  Caro  pure  ed  il  Pallavicini  allegai,  n<§  non  le  tacqui  esser 
mio  avviso  ch'ella  dovesse  intender  per  discrezionc  le  costoro  sen- 
tenze.  Ella  mi  cita  il  Salvini,  e  taccia  il  Muratori  di  liccimosita 
(mi  condoni  il  vocabolo);  io  taccio  di  superstizione  il  Salvini,  e 
soggiungo  che  quel  mezzo  onde  la  licenziositk  del  primo  dalla 
superstizione  dividesi  del  secondo,  quel  mezzo  appunto  fra  quella 
e  questa  &  cic-  in  che  si  ferma  la  mia  opinione.  Ragiona  ella  poi 
sottilmente  intorno  airanalogica  unita  della  natura  del  pcnsare  e 
del  parlare  in  tutti  gli  uomini  di  buon  senso ;  donde  inferisce  pur 
la  unita  del  gusto  nelle  arti  imitatrici  del  Bello.  E  di  vcro  cotal 
natura,  in  quanto  nasce  dalla  ragione  e  della  ragione  &  ministra, 
forza  &  che  in  tutti  sia  simile  ed  una.  In  quanto  poi  si  applica,  spc- 
zialmente  col  mezzo  della  poesia,  alia  imitazione  della  natura  fisi- 
ca,  de'  costumi  ed  affetti,  simile  ed  una  rimane  bensl  nel  prin- 
cipio  con  cui  opera  in  tutti,  ma  dissimile  e  varia  divien  nelle 
forme  a  cui  guida  ciascuno  e  cui  per  ciascuno  produce.  Percioc- 
ch6  all'universal  natura  razionale  di  tutti  s'aggiugne  e  concor- 
re  la  natura  particolare  d'ognuno,  intellettuale  e  sensibile,  in- 
trinseca  ed  estrinseca,  fattizia  od  abituale:  voglio  dir,  vi  concor- 
rono  Tingegno,  la  fantasia  ed  il  cuore,  che  non  sono  in  tutti  gli 
stessi;  il  clima,  la  educazione  e  piti  altre  cose  che  in  molti  son 
diversissime,  e  le  quali  piegan  la  comune  natura  e  la  modificano 
in  mille  guise.2  Quindi  altri  s'appigliano  ad  un  genere  di  poesia, 
altri  ad  altro;  e  di  nuovo  d'un  genere  stesso  altri  questa  spezie 
coltivano  ed  altri  quella.  Ed  ecco  gia  le  maniere  di  pensare  e  di  scri- 
vere,  benche"  procedenti  da  una  stessa  razional  natura,  tanto  per6 

i.  Brut, y  LXXXIII,  287-8  («come  se  a  uno  pxaccia  bore  del  vino  Falerno; 
ma  non  cosl  nuovo  da  volerlo  nato  1'anno  scorso,  ne*  d'altra  parte  cosl 
vecchio  da  cercarlo  del  tempo  dei  consoli  Opimio  o  Anicio.  "Ma  quelle 
etichette  sono  ottime."  Lo  credo:  ma  Teccessiva  antichita  non  ha  ne" 
quella  soavita  che  cerchiamo,  n6  e  ormai  piix  tollerabile,  ecc.  Cosl,  io  con- 
siglierei  a  costoro  che  bisogna  evitar  cotesto  nuovo  stile  che  quasi  ribolle 
come  il  mosto,  e  che  non  si  debba  andare  in  cerca  di  quello  stile  ottimo 
per  Tucidide  ma  troppo  antico,  come  un'etichetta  di  Anicio.  Lo  stesso 
Tucidide,  se  fosse  vissuto  piu  tardi,  sarebbe  stato  molto  piu  maturo  e 
piu  dolce»).  2.  Perciocchd .  . .  guise:  anche  queste  idee  sono  di  chiara 
derivazione  cesarottiana  (cfr.  la  Nota  introduttiva). 


LETTERE  781 

fra  loro  dissimili  e  opposte,  quanto  sono  gli  oggetti  della  na- 
tura  fisica  innumerabili.  Ecco  in  poesia,  come  nelle  cose  visibi- 
li,  1'ameno,  il  lugubre,  il  tenue,  il  grande,  il  magnifico,  il  sem- 
plice:  ecco  in  poesia,  come  in  pittura,  i  Rubens  e  i  Correggi, 
i  Vandick  e  i  Michelagnoli,  i  Tintoretti  e  gli  Albani,  i  Raffaelli  ed 
i  Paoli.1  N6  gia  condannar  puossi  alcuna  forma  o  spezie  di  stile 
in  se  stessa,  qualora  dal  modello  non  si  dilunghi  della  natura  fi- 
sica  o  razionale  poeticamente  perfezionata,  e  de'  propri  confini 
non  esca;  cosl  che  quella  cotal  virtu,  o  di  copia  o  di  sobrieta  o  di 
splendidezza,  non  passi  nel  vizio  che  Yb  vicino,  o  di  ridondanza 
o  di  seccore  o  di  gonfiezza.  II  che  se  non  fosse,  io  non  so  come 
nello  stesso  Trecento  potrebbe  un  medesimo  critico  ammirar  Dan 
te  e  non  rigettare  il  Petrarca,  o  vero  ammirar  il  Petrarca  e  a  Dante 
non  dar  commiato.  Conciossiach6  in  quello  tutto  sia  candore,  le- 
nita,  dolcezza,  affetto:  in  questo,  eziandio  quand'&  lirico,  tutto 
sia  nerbo,  asprezza,  evidenza,  ardire  e  talora  sforzo. 

Quale  poi  di  tante  spezie  e  quasi  forme  di  rettorico  o  imi- 
tativo  stile  sia  Tottima,  parmi  assai  difficile  a  giudicare;  vie  piu, 
ch'altri  vorr£  far  quistione  se  quest* ottimo  diasi  assoluto  o  sol  ri- 
trovisi  relativo.  Certo  &  che  ad  ogni  classe  di  poesia,  come  di 
eloquenza,  si  conviene  diverso  stile;  ma  piu  spezie  hawi  appunto 
di  stili  che  ad  una  stessa  classe  o  materia  possono  convenire. 
Or  egli  6  di  queste  che  si  domanda  qual  sia  1'ottima  in  s6.  Cicerone 
teneva  che  nell'eloquenza  forense  lo  stil  magnifico  fosse  il  miglio- 
re;  pur  soggiugne  che  tutte  le  spezie  di  buono  stile,  ove  sieno  per- 
fette  in  se  stesse,  voglion  lodarsi:  «Etsi  id  melius  est,  quod  splen- 
didius  et  magnificentius,  tamen  in  bonis  omnia,  quae  summa  sunt, 
iure  laudantur.  »a  Non  &  il  Casa  soave  come  il  Petrarca;  non  6 
TAriosto  vibrato  come  Dante;  non  e,  come  1'Ariosto,  evidente  il 
Tasso;  n£  come  il  Boccaccio  6  fiorito  il  Castiglione;  il  pindarico 
Chiabrera,  il  profetico  Guidi  nulla  non  hanno  a  costoro  di  somi- 
gliante:  « tamen  in  bonis  omnia,  quae  summa  sunt,  iure  laudan 
tur  ».  Perciocch6  tutti  questi  sono  di  fatto  eccellenti,  ciascuno  nella 
sua  maniera.  E  bench6  della  maniera  miglior  di  tutte  non  sia  per 
anche  deciso,  assolutamente  parlando,  deciso  6  perd,  relativamen- 

i.  Paoli:  allude  al  Veronese  (Paolo  Caliari).  2.  Brut.,  LV,  201  (« Anche 
se  e  migliore  lo  stile  piti.  splendido  e  piti  magnifico,  tuttavia  nei  buoni 
scrittori  tutte  le  qualit&  che  raggiungono  1'eccellenza,  vengono  a  ragione  lo- 
date »). 


782  CLEMENTINO   VANNETTI 

te,  quella  esser  di  tutte  la  miglior  maniera,  la  quale  in  un  medesi- 
mo  genere  alPindole  o  natura  particolar  di  chi  scrive  piu  si  con- 
faccia.  «  Atque  . .  .  illud  animadvertendum  est»  io  conchiuderft  con 
lo  stesso  Tullio,  infallibil  maestro  di  queste  arti, « posse  esse  sum- 
mos,  qui  inter  se  sint  dissimiles .  . .  Quare  hoc  doctoris  intelli- 
gentis  est,  videre  quo  ferat  natura  sua  quemque:  et  ea  duce  uten- 
tem  sic  instituere,  ut  Isocratem  »,*  con  quel  che  segue  nel  Bruto, 
S'io  dunque  vegga  un  giovine  taciturno,  pensoso,  severo  darsi  tutto 
alia  imitazione  di  Dante,  io  nol  consiglierb  mai  di  rivolgersi  alPA- 
riosto  con  dirgli  che  questi  &  piu  scorrevole,  piu  vago,  piu  deli- 
zioso.  N6  per  Popposito  se  un  giovine  io  vegga  tutto  foco  e  vi- 
vacitk  Forme  premere  delPAriosto,  io  mai  non  dirogli:  —  Imitate 
Dante,  perciocch6  questi  e  piu  robusto  e  massiccio.  —  « Doctoris 
intelligentis  est  videre  quo  ferat  natura  sua  quemque.))  Ben  dir6 
al  dantista:—  Guardatevi  dalla  oscurita  e  dalla  ruggine;  sfuggi- 
te  —  dir6  alPariostista  —  il  lusso,  la  bassezza,  la  sfacciataggine :  — 
<c  et  ea  duce  utentem  sic  instituere,  ut  Isocratem . . .  traditum  est ». 
Ma  sempre  alPuno  ed  alPaltro  ripeter6 :  —  Studiate  la  lingua  ne' 
trecentisti,  poich6  di  tutt'i  buoni  italiani  la  lingua  esser  non 
dee  che  una  sola:  lo  stile  poi,  purch6  non  corrotto,  debb'esser 
quello  delPanima  e  del  cuor  di  ciascuno.  —  La  mia  profession  di 
fede  e  finita;  e  mi  giova  sperare  che  sia  cattolica. 

Sono  obbligatissimo  al  sig.  ab.  Trevisani,  la  cui  lettera  pur  riten- 
go  per  mia  vanita.  Volea  piu  scrivere,  ma  sono  interrotto.  Dunque 
de'  suoi  versi  elegantissimi  alias.  Mille  cose  al  padre  Ippolito,*  e 
sono  tutto  suo. 


i.  Cfr.  Brut.,  LVI,  204  («E. . .  bisogna  comprendere  questa  veriti,  che  pos- 
sono  esservi  sommi  scrittori  fra  loro  dissimili .  .  .  E  compito  quindi  del 
maestro  intelligente  vedere  dove  ogni  allievo  sia  indirizzato  dalla  sua 
propria  natura:  e  prendendo  questa  come  guida,  in  tal  guisa  educarlo, 
come  Isocrate»).  2.  padre  Ippolito:  allude  probabilmente  al  Pindemonte, 
comune  amico  e  abitante  a  Verona  come  il  Cesari. 


AURELIO  DEJ  GIORGI  BERTOLA 


NOTA  INTRODUTTIVA 

Se  tutta,  si  pu6  dire,  la  critica  della  seconda  meta  del  Sette- 
cento  sta  in  vivo  rapporto  con  la  letteratura  contemporanea  e 
anzi  spesso  con  1'attivita  propriamente  letteraria  dei  singoli  cri- 
tici,  non  c*&  dubbio  che  questo  rapporto  appare  particolarmente 
esplicito  nel  caso  del  Bertola.   Come  illustrazioni  e  difese  delle 
proprie  traduzioni  dai  poeti  tedeschi  nascono  sia  i  saggi  contenuti 
nei  due  volumi  della  Idea  della  bella  letteratura  alemanna,  dal  Sag- 
gio  storico-critico  sulla  poesia  alemanna  al  Ragionamento  sulla  poesia 
pastorale  alle  Letter  e  sopra  varie  parti  della  (.(Bella  letteratura  ale- 
manna-b  (ed  &  significative  anche  come  parecchie  idee  di  quest! 
saggi  vengano  anticipate  o  riprese  in  non  poche  note  a  pie  di  pa- 
gina  che  corredano  le  traduzioni),  sia  YElogio  di  Gessner.  II  Saggio 
sopra  lafavola,  a  sua  volta,  secondo  quanto  dichiara  Tautore  stesso, 
venne  « insensibilmente »  a  costituirsi  da  una  serie  di  « annotazio- 
ni»  che  egli  aveva  steso  per  chiarire  a  lettori  e  critici  gli  intend 
che  lo  avevano  guidato  nella  composizione  delle  sue  Favole :  genesi 
confermata  anche  dalla  ultima  sezione  del  Saggio,  in  cui  il  Bertola 
rafTronta  i  principii  esposti  nelle  sezioni  precedenti  con  i  risul- 
tati  concreti  a  cui  ritiene  di  essere  pervenuto  come  favolista.  Anche 
le  Osservazioni  sopra  Metastasio  traggono  la  loro  origine  da  un 
atteggiamento  non  diverso,  dalla  persuasione  cioe  che  far  Pana- 
lisi  dello  stile  del  poeta  e  «indagarne  le  sorgentb  sia  il  miglior 
sistema  per  imitarne  «rammirabil  privilegio   di  facilita,  di  soa- 
vita,  di  armonia  nel  verseggiare  »  e  « la  maniera  con  cui  aveva  egli 
colto  da*  nostri  quel  fior  si  vago  e  gentile  di  poetica  locuzione». 
Quanto  poi  quella  «  grazia »,  che  costituisce  Pargomento  del  saggio 
omonimo,  coincida  con  Tideale  artistico  del  Bertola,  direi  che  si 
awerta  in  ogni  pagina  dell'operetta,  la  quale  essa  stessa,  nelle  sue 
immagini  e  nei  suoi  ritmi,  &  una  esemplificazione  concreta  di 
poesia  della  «  grazia »,  non  inferiore,  forse,  da  questo  punto  di  vi 
sta,  alle  Lettere  campestri  e  al  Viaggio  sul  Reno. 

Appunto  per  tale  genesi  tutte  queste  opere  vanno  valutate  anzi- 
tutto,  come  quelle  di  un  Cesarotti,  di  un  Baretti,  di  un  Bettinelli, 
e  forse  piu  ancora,  quali  documenti  del  gusto  personale  dello 
scrittore;  e  se  si  pu6  e  si  deve,  come  qui  e  nostro  compito,  esa- 
minarle  sotto  Taspetto  critico-estetico  e  proprio  a  tale  gusto  per- 


786  AURELIO   DE'    GIORGI   BERTOLA 

sonale  che  prima  di  tutto  occorre  richiamarsi.  Quale  sia  il  nucleo 
caratteristico  di  questo  gusto  &  stato  esaurientemente  indicate  da- 
gli  studiosi  del  Bertola,  e  con  particolare  acutezza,  mi  sembra, 
dal  Binni  e  dal  Fubini,  quando,  approfondendo  e  storicizzando 
una  vecchia  ma  sostanzialmente  giusta  definizione  (d'abatc  epi- 
cureo  sentimentale))),  parlano  di  « insoddisfatto  edonismo»,  di 
«estenuazione  di  un  sensismo  complesso»,  di  una  tensione  che 
«  dall'edonismo  porta  al  sentimentalismo » (Binni),  ovvero  di  «sen- 
sualitk  . . .  irrequieta  e  trascolorante  in  sentimentalismo »,  di  «  preoc- 
cupazione  del  pittorico,  ma  non  senza  un  accenno  ad  alcunch6  di 
piu  intimo»  (Fubini).  A  precisare,  tuttavia,  come  questa  par 
ticolare  «sensibilita»,  di  origine  edonistica  ma  tendente,  pur  senza 
superare  mai  del  tutto  i  limiti  delPedonismo,  verso  il  sentimenta 
lismo,  si  trasferisca  dal  piano  letterario  a  quello  estetico-critico, 
mi  sembra  utile  tener  conto  (come  non  credo  sia  stato  fatto)  dei 
congeniali  suggerimenti  in  tal  senso  che  possono  esser  venuti  al 
Bertola  dal  Sulzer.  II  cui  nome  &  citato  con  onore  anche  nei 
saggi  sulla  favola  e  sulla  grazia,  ma  particolarmente  significativa 
&  la  traduzione  di  alcuni  squarci  della  sulzeriana  Allgemdne  Theorie 
der  schonen  Kiinste  che  il  Bertola  fece  fin  dal  1775  e  poi  pubblic6 
in  appendice  all'Idea  della  bella  letteratura  alemanna.  Questa  tra 
duzione,  infatti,  non  solo  testimonia  Tinteresse  del  letterato  rimi- 
nese  per  Testetica,  e  in  particolare  per  Testetica  tedesca,  ma  con- 
sente  di  vedere  come  e  in  che  senso  il  pensiero  del  Sulzer  gli  fosse 
d'aiuto  per  acquistare  consapevolezza  estetica  e  critica  del  proprio 
gusto.  Specialmente  indicativo  il  primo  passo  tradotto,  che  6  tratto 
dall'articolo  sulle  « Belle  Arti»  in  generale,  nel  quale  lo  scrittore 
tedesco,  contaminando  echi  empiristici  e  sensistici  con  motivi  del 
Baumgarten,  del  Mendelssohn  e  del  Winckelmann,  viene  ad  ela- 
borare  una  specie  di  estetica  (cito  naturalmente  dalla  traduzione 
bertoliana)  della  «preziosa  e  delicata  sensibility »,  fondata  cioi  su 
un  concetto  dell'arte  quale  attivitk  capace  di  suscitare,  imitando 
«il  procedere  della  natura»,  sensazioni  piacevoli  ma  cosl  «pure»  e 
cosi  « delicate»  da  svegliare  e  potenziare  «un  sentimento  pito  te- 
nero  che  ne  sollecita  e  i  nostri  gusti  fortifica»,  in  modo  che  do 
spirito  e  il  cuore  diventan  piu  attivi :  e  noi  allora  piu  limitati  non 
siamo  a  sensazioni  grossolane,  comuni  a  tutti  gli  animali;  ma  im- 
pressioni  piu  dolci  vi  si  aggiungono,  s'impadroniscono  della  no- 
str'anima;  diventiamo  uomini)>:  una  attivitk  insomma  che  rag- 


NOTA   INTRODUTTIVA  787 

giunge  il  suo  scopo  quando  Topera  d'arte,  «per  mezzo  del  trava- 
glio,  acquista  una  grazia  particolare,  la  quale  colPaiuto  de'  sensi 
richiama  la  riflessione»  (Idea  delta  bella  letter atur a  alemanna,  n, 
pp.  247-52).  £  appunto  tramite  queste  riflessioni  del  Sulzer  (an- 
che  se  non  senza  qualche  suggestione  dellj«  entusiasmo  »  del  Betti- 
nelli  e  del « Bello  morale  »  cesarottiano)  che  la  personale  esperienza 
letteraria  del  Bertola  si  traduce  nel  concetto  che,  in  modo  dissi 
mulate  ma  piu  solidamente  forse  di  quanto  non  sembri  a  prima 
vista,  regge  il  pensiero  estetico  e  critico  del  Bertola:  il  concetto, 
cio&,  di  un'arte  eccitatrice  di  « sensazioni »  piacevoli,  ma  cosi  inti- 
mamente  godute  nella  loro  «naturale»  e  insieme  squisita  «sempli- 
cita»,  nella  loro  «  grazia »  fragrante  e  sottilmente  «furtiva»  da  com- 
porre  un  nuovo  mondo  di  tenere  emozioni  deliziosamente  conso- 
lanti:  «un  mondo  incantato»,  come  &  detto  nella  chiusa  (giustamen- 
te  posta  in  rilievo  dal  Fubini)  del  Saggio  sopra  la  grazia,  «  ove  en- 
triamo  a  ricrearci  allorch6  quello  in  cui  viviamo  c'infastidisca  e 
ci  turbi:  un  mondo  nel  quale  sopra  tutti  gli  oggetti  cosi  brillano 
la  calma,  1'ilarita,  la  vaghezza,  che  ne  sentiamo  amabilmente  il  ri- 
verbero  fino  al  fondo  delPanima». 

Non  c'&  bisogno  d'insistere  sui  limiti  di  questo  concetto,  che 
sono  poi  pressappoco  quelli  della  poesia  realizzata  dal  Bertola:  mal- 
grado  i  presentimenti  foscoliani  e  leopardiani  che  si  possono  awer- 
tire  nel  passo  citato  e  altrove,  il  Bertola  critico  rimane  ben  lontano 
dal  senso  romantico  dell'arte  come  integrate  espressione  della  vita 
del  sentimento,  e  quindi  incapace  di  intendere  la  grande  poesia 
antica  e  contemporanea.  Entro  questi  limiti,  per6,  non  c'&  dubbio 
che  egli  riesca  a  penetrare,  con  una  adesione  e  una  finezza  critica 
ignota  non  solo  agli  altri  critici  italiani  del  Settecento,  ma  agli 
stessi  romantici,  certi  poeti  e  certe  forme  d'arte  pui  congeniali  al 
suo  edonismo  sentimentale. 

£  sotto  questo  punto  di  vista  che  debbono  essere  valutati  -  a 
parte  il  loro  valore,  esaurientemente  illustrate  dal  Binni,  nella 
storia  della  poetica  o  del  gusto  -  i  saggi  compresi  ndl'Idea  della 
bella  letteratura  alemanna  (1779-1784)  e  VElogio  di  Gessner  (1789): 
ai  quali,  dal  punto  di  vista  critico,  va  riconosciuto  non  solo  il  me- 
rito  generico  di  aver  promosso  1'interesse  per  una  letteratura  ancora 
poco  nota  in  Italia,  ma  anche  quello  piu  specifico  di  averne  illu- 
strato  con  positiva  simpatia  alcuni  aspetti  nuovi,  piu  di  quan 
to  oggi  possa  a  noi  sembrare,  a  zone  assai  ampie  della  cultura  lette- 


788  AURELIO   DE1    GIORGI   BERTOLA 

raria  italiana  contemporanea,  come  quelle  rappresentate  da  un  Bet- 
tinelli  e  da  un  Vannetti.  Tra  questi  aspetti,  quello  su  cui  il  Bertola 
insiste  piu  frequentemente,  e  direi  (se  Pespressione  £  consentita 
per  un  critico  cosl  garbato)  piu  polemicamente,  &,  in  coerenza  col 
proprio  gusto  personale  (nella  formazione  del  quale,  d'altra  parte, 
questa  esperienza  ha  un  posto  importante),  quel  «certo  bisogno 
di  risentire  Tinfluenza  della  natura  nella  sua  primitiva  purezza», 
il  quale  desta  « negli  Alemanni  qucl  trasporto  per  gli  oggetti  cam- 
pestri,  che  poi  &  trasfuso  in  tante  lor  poesie,  e  che  non  6  g&  capric- 
ciosamente  effimero,  ma  filosoficamente  costante,  e  per  modo  che 
s'immerge  in  un  dolce  pelago  di  gioiose  considerazioni  e  se  le  va 
prolungando  secondato  dalla  lingua  oltremodo  arnica  del  det- 
taglio  e  delle  immagini  villerecce»  (Idea  della  bella  letter  atur  a  ale- 
manna,  i,  pp.  no-i).  Quanto  del  gusto  arcadico  rimanga  in  que 
sta  preferenza,  &  stato  giustamente  sottolineato  dal  Maier  e  clal 
Fubini:  ma  che  il  Bertola  stesso  avvertisse  e  cercasse  di  fare  av- 
vertire  la  differenza  tra  la  poesia  «  pastorale »,  ispirata  dalla  « natu 
ra  »,  dei  Tedeschi  e  quella  classicistica,  si  scorge  chiaramente  al- 
rinizio  del  Ragionamento  sulla  poesia  pastorale,  dove  egli  cerca  di 
caratterizzare  Tispirazione  del  suo  poeta  preferito :  « Cercasi  forse 
invano  per  le  anime  gentili  una  situazione  piu  grata  di  quella  in  cui 
sono  elleno  allora  che,  per  mezzo  di  un  vivo  immaginare  uscendo 
dalla  sfera  de'  modern!  costumi,  vanno  a  trattenersi  soavemente 
in  seno  al  dolce  riposo  e  al  candor  di  sentiment!  della  felice  eti  del- 
Toro.  In  questa  I'immortale  Gessner  ha  Pazion  trasportata  de*  suoi 
idilli:  la  quale  ne  acquista  una  verisimiglianza  siffatta  che  ci 
muove  piti  intimamente,  presentandoci  non  gik  ie  puerili  chimcre 
de'  fiumi  che  scorron  latte,  e  delle  piante  che  stillan  m&le;  ma  una 
immagine  incantatrice  della  innocenza  e  della  felicitk  che  gli  anti- 
chi  patriarchi  godevano»  (Idea  della  bella  letter  atur  a  alemanna, 
II,  p.  3).  Certo  questa  distinzione  &  ancora  ben  lontana  da  quella 
romantica  fra  poesia  letteraria  e  poesia  veramente  naturale  e  primi 
tiva,  come  basta  a  dimostrare  la  lode,  tributata  allo  stesso  Gessner 
ntlYIdea  e  poi  nelVElogio,  di  essere  « il  poeta  che  dopo  Vautor  del- 
VAminta  si  &  piti  awicinato  alia  divina  semplicit&  degli  antichi». 
Ma,  a  parte  il  fatto  che  non  sark  un  caso  se  il  Leopardi  proprio 
dal  passo  citato  prenderk  lo  spunto  per  una  strofa  della  canzone 
Ai  Patriarchi,  il  concetto  bertoliano  di «  naturalezza » e  di « semplici- 
tk»  con  quanto  di  raffinatamente  letterario  serba  in  s6,  e  direi  pro- 


NOTA   INTRODUTTIVA  789 

prio  in  virtu  di  questo  suo  carattere,  consente  al  critico  se  non  di 
arrivare  a  comprendere  temperamenti  poetici  troppo  diversi  come 
quelli  del  Goethe  o  del  Lessing,  o  magari  di  Martin  Opitz  e  di 
Klopstock,  almeno  di  apprezzare  e  fare  apprezzare,  e  sia  pure  con 
esagerata  valutazione,  il  particolare  sapore  tra  candido  e  maniera- 
to,  tra  familiare  e  letterario,  tra  semplice  e  squisito,  del  Gessner 
e  di  certa  lirica  minore  del  Settecento  tedesco:  la  «facilitik  dilicata» 
dello  Hagedorn ;  la  «  spontaneita »,  la  « tenerezza »,  la  <c  insinuazione  », 
il  «  divino  linguaggio  del  cuore »  dei  lamenti  dello  Haller,  « la  vaga 
modulazion  delle  tinte»,  «il  pastoso  dello  stile »,  il  ccdolce  calore» 
del  Kleist;  il  «patetico  insinuantissimo »  dello  Zaccaria;  la  «dol- 
ce  semplicita »,  « indifinibile  come  la  grazia»,  del  Gleim;  la  «bellez- 
za  tutta  modesta))  come  «il  calore  di  un  bel  mattino  di  primavera» 
del  Gellert;  e  gli  consente  altresi,  per  quanto  riguarda  lo  stile, 
di  difendere  quelle  espressioni  «  naturali »,  proprie  della  lingua  te- 
desca,  che  egli  in  parte  tentava  di  trasportare  nelle  sue  tradu- 
zioni,  e  soprattutto  quell'aria  di  «  uniformita »  e  di  monotonia  un 
po'  languida,  quel  gusto  del  «dettaglio»,  che  sembravano  difetti 
ai  suoi  amici  classicist!,  dal  Bettinelli  al  Vannetti,  e  che  egli  inve- 
ce  cerca  di  giustificare  dalPinterno  richiamandosi  alPattento  e  in- 
genuo  amore  dei  poeti  alemanni  per  la  natura. 

Attraverso  questi  poeti,  e  specialmente  il  Gessner,  il  Bertola 
ritorna  come  scrittore,  non  diversamente  da  quanto  per  altra  via 
faceva  il  Meli  (secondo  Fosservazione  del  Fubini),  a  Teocrito: 
ma  tale  ritorno  avviene  anche  sul  piano  critico  e  qui  si  risolve  in  una 
ragionata  rivalutazione  delPantico  poeta  greco,  preferito,  contro 
Fawiso  del  Fontenelle  e  del  Pope  e  degli  altri  critici  illuministi, 
non  solo  ai  moderni  ma  ai  latini  stessi : « un  ingenuo  e  fedel  pittore 
della  natura  £  stato  Teocrito :  la  semplicit^  e  Famor  per  Pagricol- 
tura  dominanti  nella  eta  in  cui  egli  vivea,  gli  agevolarono  di  mol- 
to  Fimpresa;  e  il  dialetto  dorico  pieno  di  una  soavissima  na- 
turalezza  gli  fu  d'un  soccorso  che  cercarono  invano  i  Latini  e 
invano  sperano  i  moderni » (Idea  della  bella  letteratura  alemanna,  n, 
p.  6).  Piu  generalmente  anzi,  difendendo  il  «dettaglio»  dei  poeti 
tedeschi,  egli  giunge  addirittura  a  distinguere  quasi  due  classi  di 
poeti,  la  prima  (per  cui  egli  non  cela  la  sua  predilezione)  di  coloro 
che,  come  Omero  e  i  Greci  in  genere  e  FAriosto,  d'Omero  fer- 
rarese  »,  «  sono  stati  piii  inclinati  a  fedelmente  ricopiare  »  la  natura, 
provvisti  com'erano  di  « quelle  miti  disposizioni  che  richieggonsi 


79°  AURELIO  DE»    GIORGI  BERTOLA 

affinch6  gli  spirit!  amino  di  restate  placidamente  immersi  nel  seno 
di  lunghe  e  dilicate  impressioni »,  e  una  seconda,  in  cui  pone  gli 
artisti  intenti  piuttosto  ad  « abbellirla »,  a  descriverla  cio&  in  modo 
piu  rapido  e  artificioso,  come  i  poeti  latini  del  secoio  di  Augusto 
e  il  Tasso,  vissuti  in  epoche  piu  « cortigiane »  e  raffinate  (Idea  delta 
bella  letter atur a  alemanna,  n,  pp.  19-20). 

Ma  per  quanto  possano  riuscire  interessanti  i  giudizi  che  sia- 
mo  venuti  citando,  piu  impegnative  e  mature  sono  le  opere  criti- 
che  composte  dal  Bertola  dopo  Yldea,  a  cominciare  dalle  Osserva* 
zioni  sopra  Metastasio  (pubblicate  nel  1784),  forse  il  pifi  aderente 
ritratto  settecentesco  delFautore  dQlYOlimpiade.  Anche  in  queste 
pagine  risuonano  i  soliti  elogi  alia  « chiarezza »  e  alia  « moralitci »  dei 
melodrammi  e  delle  canzonette  metastasiane.  Ma  in  realtJt  Fatten- 
zione  del  Bertola  si  volge  soprattutto  (e  qui  &  da  indicate  il  suo 
maggior  merito)  a  sottolineare  e  a  caratterizzare,  ricordando  ma 
anche  sottilmente  precisando  e  direi  limitando  alcuni  famosi  sug~ 
gerimenti  del  Rousseau  («M6tastase  est  le  seul  po£te  du  cocur»), 
la  capacitk  metastasiana  di  spandere  sull'anima  del  lettore  -  come 
aveva  cantato  in  un'ode  del  1774  -  di  «delizie  un  ncttare»,  ii 
dono  incantevole  di  suscitare  sensazioni  e  quindi  emozioni  pure  e 
delicate.  Cosl  impostato,  il  saggio  viene  naturalmente  a  configurarsi 
soprattutto  come  una  ricerca  e  individuazione  degli  aspetti  dello 
stile  metastasiano  che  valgono  ad  eccitare  queste  sensazioni  ed 
emozioni.  E  pita  particolarmente,  se  il  critico  aveva  indicate  nei 
poeti  tedeschi  e  nel  loro  linguaggio  una  suggestione  sensibile  so 
prattutto  di  carattere  pittorico,  qui  invece,  con  acuta  percezione 
deiroriginaliti  del  Metastasio,  &  sull'incanto  « musicale »  dello  stile 
di  questo  poeta  che  egli  soprattutto  insiste,  su  «quel  suo  ammi- 
rabil  privilegio  di  facilitk,  di  soavitk,  di  armonia  nel  verseggiare », 
su  « quel  supremo  artificio  di  una  precisa,  simmetrica,  melodiosa 
collocazione  di  voci,  e  di  una  spontanea  distribuzione  de'  piti 
morbidi  accentu.  E  di  questa  «musica»  metastasiana  non  solo 
indica  la  formazione,  in  pagine  tuttora  indiscutibili,  attraverso  lo 
studio  soprattutto  di  tre  poeti  quali  il  Tasso,  il  Guarini  e  il  Ma 
rino;  ma  cerca  anche  di  seguire  lo  sviluppo  nel  tempo  e  i  diversi 
caratteri  che  assume  nei  recitativi,  nelle  arie  (« conoscitor  profondo 
della  teoria  musicale  di& , . .  a'  suoi  versetti  una  tornitura  cosl 
linda,  svelta  e  gentile,  e  un  tuono  in  essi  impresse  cosl  facile, 
scorrevole  e  melodioso  che  entrar  parevano  come  spontaneamente 


NOTA   INTRODUTTIVA  791 

ne'  numeri  della  musica»)  e  nei  duetti,  die  gli  sembrano  prefe- 
ribili  anche  ai  terzetti,  quartetti  e  finali  per  «  pieghevolezza  ne* 
versi»  e  ccmorbidezza  nella  frase».  Come  un  elemento  dello  squi- 
sito  e  spontaneo  incanto  dello  stile  metastasiano  viene  in  definitiva 
presentata  dal  Bertola  anche  la  qualita  della  «  chiarezza »,  che  egli, 
polemizzando  col  Bettinelli  (il  quale  Faveva  attribuita  al  servilismo 
del  poeta  verso  i  musicisti),  riporta  airinterno  del  gusto  dell'autore, 
ad  «una  inclinazione  invincibile  che  alia  limpidezza  lo  trasportava», 
facendogli  rifmtare  le  trasposizioni  bembesche  e  i  acontorni  di 
frase»  del  Casa,  e  tutti  gli  altri  dirici  infioramenti »  impiegati  dai 
« nostri  vecchi  tragici  eccitatori  eccellenti  della  noia  e  del  sonno  ». 
E  quando  viene  a  parlare  della  moralita  metastasiana,  non  6  sul 
contenuto  di  essa  che  egli  insiste,  quanto  sulla  «  graziosa  insinuazio- 
ne »,  sulle  « immagini  sensibili  e  ridenti »  con  cui  il  poeta  sa  presen- 
tarla  al  lettore  e  allo  spettatore. 

Allo  stesso  modo  nel  Saggio  sopra  lafavola  (1789)  ci6  che  inte- 
ressa  il  critico  non  e  tanto  Paspetto  educativo  di  quel  genere  let- 
terario,  quanto  la  «maniera»  con  cui  la  moralita  vi  viene  «insi- 
nuata»,  e  in  particolare  la  possibilita,  che  gli  sembra  ofFerta  da 
quel  genere,  di  impiegare  tutta  una  serie  di  artifici  atti  a  scuotere 
ed  eccitare  deliziosamente  la  «sensibilita»  del  lettore.  Questi  arti 
fici  consistono  per  il  Bertola  anche  nel  rispetto  delle  regole  tra- 
dizionali  delPunita,  della  convenienza  e  della  verosimiglianza,  ma 
soprattutto  nel  seguire  la  «  gradazione  insensibile  dal  principio  verso 
il  nodo  e  dal  nodo  verso  lo  sviluppo  della  favola»  e  piu  ancora 
nel  serbare  «ingenuita»  e  « lepidezza »  nei  pensieri  e  nello  stile: 
due  qualitk  che  il  Bertola  viene  analizzando  con  una  sottilissima 
finezza  di  cui  pu6  valere  come  esempio  questa  definizione  della 
«ingenuita»,  che  e  poi  soltanto  un  punto  di  partenza  per  altre  e  piu 
sottili  distinzioni:  «Non  si  pu6  forse  caratterizzar  meglio  Pinge- 
nuita,  che  dicendo  dover  essa  comparire  da  s<§  venuta  e  non  ri- 
cercata,  fe  nel  genere  semplice,  ma  e  qualche  cosa  di  piu  che 
la  semplicita;  n6  i  vocaboli  "natio",  "candido",  dicono  abbastan- 
za;  bisogna  aggiugnervi  alquanto  di  quel  vivo  e  animate  che  tro- 
vasi  in  quell'amabile  libertk  e  franchezza  da  cui  Fingenuita  non 
va  mai  disgiunta»;  owero  le  considerazioni  sulla  scelta  e  sulP«im- 
pasto»  delle  forme  proverbiali,  degli  idiotismi  e  in  genere  delle 
voci  e  dei  costrutti  piu  adatti  per  creare  uno  stile  italiano  vera- 
mente  «lepido».  Queste  analisi  non  rimangono  astratte,  ma  sono 


792  AURELIO   DE»    GIORGI   BERTOLA 

corredate  e  rawivate  da  continui  esempi:  e  1'originalita  del  Saggw 
sopra  la  favola  sul  piano  critico  consiste  appunto  nella  revisione 
che  pur  in  forma  conversevole  e  garbata  il  Bertola,  alia  luce  dei 
suoi  criteri,  viene  facendo  delle  valutazioni  tradizionali  dei  princi 
pal!  favolisti  antichi  e  moderni.  Fra  i  piu  notevoli  risultati  di 
questa  revisione  porrei  anzitutto  i  giudizi  su  Esopo,  ammirato  ma 
anche  acutamente  caratterizzato  per  la  sua  eccellenza  nella  «gra- 
dazione  insensibile »,  nelPingenuita,  nella  lepidezza,  per  il  suo  mi- 
rabile  equilibrio  insomma  tra  naturalezza  e  raffinatezza;  su  Fedro, 
il  quale  talora  «volea  conversare  un  poco  piii  alia  scoperta  coy 
Romani  della  sua  eta»;  sul  La  Fontaine,  di  cui  sa  cogliere  con 
precise  analisi  la  squisita  malizia  psicologica  e  artistica  che  si  cela 
sotto  Tapparente  ingenuita,  e  in  cui  non  esita  a  indicare  come  H- 
mite  proprio  questa  consapevole  malizia  (<calcuni  tacciano  questo 
gran  favolista  di  essere  talvolta  un  poco  troppo  ciarliero  nella  sua 
ingenuita;  ma  io  direi  piuttosto  che  talvolta  non  e  ingenuo  .  . .»); 
e  ancora,  quando  viene  a  parlare  dei  tre  maggiori  favolisti  italiani 
contemporanei,  le  garbate  ma  decise  riserve  sul  Roberti,  ora  « lec- 
cato  e  pomposo  »  ora  sciattamente  familiare,  Telogio  della  « spedi- 
tezza  vivace  e  gentilmente  capricciosa»  del  Pignotti,  Pindulgente 
simpatia  per  il  «  candido  e  cordiale »  Passeroni.  N6  vanno  dimenti- 
cati  alcuni  accenni  rapidi  ma  suggestivi:  per  esempio,  ai  «passaggi 
dilicatissimi »  del  Petrarca,  giik  <cripresi  da*  commentatori  come 
un  vizioso  deviamento»;  alP«  energica  evidenza»,  «con  cui  espone 
TAriosto  la  moralit&  nelle  sue  favole»;  alia  «ingenuit&  lepida»  del 
Sacchetti,  del  Firenzuola,  delle  commedie  veneziane  del  Goldoni ; 
a  certi  «tratti»  del  Boccaccio,  del  Passavanti  e  di  altri  scrittori  di 
quella  eta, « i  quali  tratti  erano  sentiti  come  ingenui  da'  contempo 
ranei  di  quegli  scrittori ;  e  come  tali  non  sono  oggi  sentiti  che  da  po- 
chissimi ». 

Ma  Fedonismo  sentimentale  del  Bertola  critico  appare  in  forma 
piii  pura,  piti  libera  cioe  da  addentellati  col  razionalismo  e  con  il 
moralismo  illuministico,  e  anche  fecondo  di  piti  suggestivi  risul 
tati,  nel  Saggio  sopra  la  grazia,  letto  nel  1786,  ma  in  seguito  rie« 
laborato,  e  pubblicato  postumo  solo  nel  1822.  II  procedimento  e 
il  fine  delPopera  sono  gik  abbozzati  in  una  nota  apposta,  nel  se- 
condo  tomo  dell'Idea  della  bella  letteratura  alemanna,  alia  tradu- 
zione  delFarticolo  del  Sulzer  sulla  (cgrazia».  «Non  sarebbe  utile» 
egli  si  chiede  in  questa  nota  «di  ricercare  una  via,  onde  far  di- 


NOTA   INTRODUTTIVA  793 

stinguere  in  qualche  maniera  il  grazioso  a  coloro  eziandio  che  di 
quel  fino  sentimento  son  privi?  Non  sarebbe  questo  un  servigio 
grandissimo  che  al  cuore  umano  si  presterebbe,  dilatando  cosi  la 
sfera  de'  suoi  piaceri?  Uomo  non  v'ha,  per  quanto  aspro  sia 
d'indole  e  duro,  il  qual  non  sia  suscettibile  di  una  qualche  dolce 
impressione,  e  che  alcune  delle  dolci  impressioni  non  abbia  ricevuto 
in  sua  vita.  Or  non  si  potrebbe  da  un  giudizioso  esame  dell'ef- 
fetto  di  queste  impressioni  che  a  lui  son  note,  condurlo  appoco 
appoco  ad  avere  un'idea  di  quelle  che  non  ha  ricevuto,  ma  che  pur 
sono  della  medesima  classe?  e  fortificar  poi  questa  idea  cogli 
esemplari  della  natura  e  dell'arte,  e  fare  osservar  fmalmente  quali 
siano  gli  oggetti  suscettibili  o  no  della  grazia,  in  virtu  del  loro 
carattere  originate  ?»  (p.  263). 

Seguendo  appunto  questa  traccia,  il  Bertola,  nel  Saggio  sopra  la 
grazia,  dopo  aver  brevemente  accennato  alle  definizioni  della  «  gra 
zia))  proposte  da  antichi  e  moderni  scrittori,  preferisce,  piuttosto 
che  entrare  in  una  vera  e  propria  discussione  teorica,  costruire  il  suo 
trattato  come  una  analisi  di  ((impressioni))  e  di  esempi  tratti  dalla 
natura  e  dairarte,  che  valgano  a  suscitare  quasi  insensibilmente 
ma  concretamente  Tidea  di  quella  forma  di  bellezza,  o,  come  egli 
dice,  di  quella  «  sorta  di  fragranza».  E  il  primo  aspetto  notevole  del- 
T opera  andrk  indicato  proprio  in  questa  cosl  consapevole  im- 
postazione  impressionistica,  anche  se  essa  si  riallaccia  a  tutto  un 
filone  del  pensiero  estetico  illuministico  dal  Dubos  allo  Hume. 
Ma  non  meno  interessante  &  quella  caratterizzazione  della  « gra 
zia »,  che  in  definitiva  risulta  chiara  dalle  analisi  del  Bertola,  e  che 
egli  compendia,  con  mille  garbate  proteste,  nella  definizione 
«una  furtivita  di  eleganza  e  di  affetto»:  dove  la  novita  consiste  (co 
me  ha  notato  il  Binni)  in  questa  « furtivita »,  nella  quale  entrano 
echi  deiredonismo  classico,  cinquecentesco  ed  arcadico,  del  sen- 
sismo  raffinato  del  Sulzer  e  dello  Hogarth,  del  neoclassicismo  del 
Mengs  e  del  Webb  (per  citare  autori  ricordati  dal  Bertola  stesso) 
e  anche  della  «naturalezza»  rousseauiana,  rna  che  pure  se  ne  di 
stingue  per  una  accentuazione  tutta  bertoliana  delle  qualitk  di 
«vaghezza»,  di  «deliziosa  dubbiezza»,  di  «pudore»,  di  «timidita», 
di  «mistero)>. 

Sul  piano  critico  &  naturale  che  questo  criterio  non  possa  essere 
applicato  (n6  il  Bertola,  ben  consapevole  dei  suoi  limiti,  ci  si  prova) 
ad  artisti  che  non  siano  (come  diceva  la  Teotochi)  amorbidi  e  di- 


794  AURELIO   DE'    GIORGI  BERTOLA 

licatb.  Ma  non  c'e  dubbio  che  esso  permette  al  critico  di  inten- 
dere  e  caratterizzare,  col  massimo  di  abbandono  all'incanto  della 
«sensibilita»  che  possa  esser  consentito  ad  un  uomo  del  Settecento, 
e  con  un  finissimo  linguaggio  critico,  ricco  di  metafore  tratte  non 
solo  dal  linguaggio  della  pittura  ma  anche  della  musica  e  dei  profu- 
mi,  alcuni  artisti  di  questa  seconda  categoria.  Tra  i  quali,  accan- 
to  ad  Anacreonte  («sotto  de'  sottili  velami  sta  il  fiore  della  tua 
eleganza,  e  in  che  sprezzatura  fanciullesca  e  involata  la  soavitk 
del  tuo  affetto»),  al  Correggio  («se  da  ad  imprestanza  la  piii  inge- 
nua  eloquenza  del  cuore  a  una  ciocca  di  capelli,  a  una  piega, 
chi  dira  dell'affetto  che  furtivamente  volteggia  sul  collo,  sugli  oc- 
chi,  sulle  labbra  che  uscirono  dalla  mano  .  . .  ? »),  al  Pergolesi 
(«  quale  immenso  ma  placidissimo  giro  non  fa  egli  fare  alia  nostra 
anima  per  varie  strade  di  affetti,  pur  non  mostrando  di  voler  pi- 
gliarla  di  mira,  non  che  signoreggiarla»),  a  Virgilio  (di  cui  ad- 
dita  le  <c transizioni .  .  .  tanto  innocentemente  velate»),  alFAriosto, 
a  Raffaello,  al  Petrarca,  al  Parmigianino,  al  Paisiello,  accanto  cioe 
ad  autori  noti  ed  amati  nel  secolo  XVIII,  troviamo  con  gradita 
sorpresa  non  solo  il  Goldoni,  e  proprio  il  Goldoni  delle  commedie 
in  dialetto  («nelle  commedie  veneziane,  dove  &  il  fior  piti  soave 
di  quel  giocondo  dialetto,  massimamente  incontriamo  scene  in 
cui  si  direbbe  che  parlino  tra  loro  sotto  finti  nomi  Teocrito  e 
Plauto,  ma  Plauto  fatto  verecondo  e  soave »),  ma  anche  il  Sacchetti 
(«se  mi  si  chiede  perch6  io  apra  un  luogo  fra  questa  schiera  a 
Franco  Sacchetti,  io  chieder6  che  mi  si  nomini  un  prosatore 
nostro  il  quale  grazieggi  come  fa  costui  nelle  sue  novelle»). 

Quanto  mi  sembra  giusto  sottolineare  gli  aspetti  positivi  del 
critico,  altrettanto  mi  pare  dover  andar  cauti  nel  valutare  il  Ber- 
tola  filosofo  della  storia.  Che  Pautore  stesso  sentisse  il  suo  trat- 
tato  sulla  Filosofia  della  storia  come  estraneo  ai  suoi  interessi  piii 
genuini,  e  confermato  sia  dalle  frequenti  espressioni  di  fastidio 
e  di  fatica  con  cui  parla  agli  amici  del  suo  lavoro,  sia  dallo  stile  in 
cui  P  opera,  almeno  nella  redazione  pubblicata,  e  stesa,  uno  stile 
classicheggiante  e  contorto  che  ricorda  le  pagine  peggiori  di  un 
Galeani  Napione  e  di  un  Borsa.  In  realt&  se  il  titolo,  almeno 
in  Italia,  e  nuovo,  tutt'altro  che  nuove  si  rivelano  le  idee  conte- 
nute  nel  libro.  L'impostazione  illuministica,  che  vi  6  stata  posta 
in  rilievo  dal  Catalano,  e  in  particolare  Papplicazione  del  concetto 
di  « progresso »,  appaiono  invero  pregi  molto  relativi,  se  si  consi- 


NOTA   INTRODUTTIVA  795 

dera  che  il  lavoro  fu  pubblicato  nel  1787,  quando  cio&  non  solo 
le  opere  del  Voltaire,  del  Montesquieu,  del  Robertson,  dello  Hu 
me,  ma  anche  quelle  del  Bettinelli  e  del  Denina,  per  tacer  d'altri, 
erano  entrate  da  tempo  in  circolazione.  Anche  Pintonazione  clas- 
sicistico-nazionalistica,  che  il  Catalano  ha  pure  sottolineato,  &  mo- 
tivo  assai  diffuso  della  storiografia  illuministica  italiana,  e,  prima 
che  nel  Bertola,  si  ritrova  chiaramente  nel  Bettinelli,  nel  Galeani 
Napione,  nel  Napoli  Signorelli  e  persino  nel  Tiraboschi;  senza 
dire  poi  che,  se  Tautore  concentra  Tattenzione  sulla  storia  anti- 
ca,  la  sua  scelta  dipende  non  tanto  da  una  preferenza  per  quel 
periodo,  quanto  dal  proposito  dichiarato  di  limitare  la  materia  di 
studio.  Indicherei  se  mai  quale  carattere  positivo  del  trattato  il 
concetto,  su  cui  spesso  Tautore  insiste,  della  impossibility  di  ri- 
durre  in  leggi  semplici  e  uniformi  la  complessita  delle  vicende  stori- 
che  dei  vari  popoli;  ma  in  verita  tale  concetto  non  trova  poi 
effettiva  appiicazione  nelle  considerazioni  per  lo  piii  astratte  e  ge- 
neriche  che  costituiscono  Topera. 

Sintomo  della  relativa  apertura  mentale  del  Bertola  possono  es- 
sere  invece  le  Idee  di  un  repubblicano  sopra  un  piano  di  pubblica 
istruzione,  stcse  nel  1797  per  incarico  del  Comitato  d'Istruzione 
pubblica  di  Bologna,  e  in  particolare  la  constatazione,  giustamen- 
te  posta  in  rilievo  ancora  dal  Catalano,  della  ignoranza  delle  mas 
se  popolari  italiane  e  dei  pericoli  che  questa  ignoranza,  se  non 
efficacemente  combattuta,  poteva  produrre  per  Tesistenza  dei  nuo- 
vi  stati:  anche  se  non  si  rimane  del  tutto  liberi  dal  sospetto  che  i 
timori  del  Bertola  si  riferiscano,  piuttosto  che  a  possibili  involuzio- 
ni  in  senso  reazionario,  alFeventualita  (che  impauriva  anche  uno 
scrittore  a  lui  per  molti  aspetti  vicino,  come  il  Cesarotti)  di  radicali 
rivolgimenti  della  struttura  sociale. 


Per  la  biografia  del  Bertola  e  per  la  bibliografia  generale  rimandiamo 
alia  Nota  bio-bibliografica  di  B.  MAIER  nel  volume  Lirici  del  Settecento, 
Milano«Napoli,  Ricciardi,  1959,  pp.  742-4;  volume  in  cui,  oltre  ad  una 
scelta  di  versi  e  di  prose  d'arte  del  Bertola,  sono  riprodotte  anche  alcu- 
ne  pagine  dell'Elogio  di  Gessner.  Notizie  particolari  sulle  edizioni  delle 
Osservastioni  sopra  Metastasio,  del  Saggio  sopra  la  favola  e  del  Saggio 
sopra  la  grazia  si  troveranno  nei  cappelli  alle  pagine  di  queste  opere 
qui  riprodotte.  Le  altre  opere  culturali  del  Bertola  sono:  Idea  della 
poesia  alemanna,  Napoli,  Raimondi,  1779;  ripubblicata  con  aggiunte  e 


796  AURELIO   DE»    GIORGI    BERTOLA 

correzioni  e  col  titolo  Idea  delta  bella  letteratura  atemanna,  in  due  tomi, 
Lucca,  Bonsignori,  1784;  Lesdoni  di  storia  scritte  ad  uso  della  R.  Acca- 
demia  di  Marina,  Napoli,  Stamp eria  Reale,  1782;  Della  filosofia  della  storia, 
Pavia,  Bolzani,  1787;  Idee  di  un  repubblicano  sopra  un  piano  di  pubblica 
istruzione,  a  cura  di  A.  Tambellini,  per  nozze  Zavagli-Gruan,  Rimini, 
Malvolti,  1893. 

Tra  gli  studi  critici  ci  limitiamo  a  citare  solo  quelli  che  riguardano  piu 
direttamente  Taspetto  culturale  del  Bertola.  Tra  le  opere  complessive: 
I.  TEOTOCHI  ALBRIZZI,  Ritratti,  a  cura  di  T.  Bozza,  Roma  1946,  pp.  46-8; 
G.  Scorn,  La  vita  e  le  opere  di  A.  Bertola,  Milano,  Aliprandi,  1896 
(estratto  dal  «Pensiero  italiano»,  voll.  LXX,  LXXI  e  LXXII);  O.  SACCQZZI, 
Ilmigliore  Bertola,  in  «Rivista  di  sintesi  letteraria»,  III  (*937)>  PP*  433-77 > 
F.  FLORA,  A.  De  Giorgi  Bertola,  nel  volume  miscellaneo  Studi  su  A. 
Bertola  nel  11°  centenario  della  nascita,  Bologna,  S.T.E.B.,  1953,  PP-  *-a6*> 
A.  PIROMALLI,  A.  Bertola  nella  letteratura  del  Settecento,  Firenze,  OLschki, 
1959;  e  soprattutto  W.  BINNI,  Preromanticismo  italiano,  Napoli,  E.  S.  L, 
1948,  pp,  255-70  (e  si  cfr.  anche,  dello  stesso,  la  recensione  al  citato 
volume  miscellaneo  Studi  ecc.,  in  «La  rass.  d.  lett.  it. »,  LVin,  1954,  pp. 
489-92) ;  e  M.  FUBINI,  Introduzione  al  volume  citato  Lirici  del  Settecento, 
pp.  LXXVII-LXXX  e  xc-c. 

L'unico  studio  specifico  e  complessivo  sul  Bertola  critico  &  qucllo, 
per  molti  aspetti  pregevole,  di  B.  MAIER,  La  critica  di  A,  Bertola,  nel 
citato  volume  miscellaneo  Studi  ecc.,  pp.  141-94.  In  particolare  sul  Ber 
tola  critico  della  letteratura  tedesca  si  vedano:  F.  FLAMINI,  A.  Bertola 
e  i  suoi  studi  intorno  alia  letteratura  tedesca^  Torino,  Loescher,  1895  (su 
cui  cfr.  A,  FARINELU,  Poesia  germanica,  Milano,  Corbaccio,  1927,  pp. 
501-19);  B.  CROCK,  £.  Gessner  e  un  suo  ammiratore  italiano,  in  «Quaderni 
della  Critica »,  nn.  17-8  (1950),  pp.  118-25;  A.  NOYER  WEIDNER,  Die 
Aufkltirung  in  Oberitatien,  Miinchen,  Hueber,  1957,  pp.  269-82.  Sul 
pensiero  storico:  G.  GASPERONI,  A.  De  Giorgi  Bertola  e  la  sua  filosofia  della 
storia,  in  Studi  e  ricerche,  Roma-Milano,  Albrighi  e  Segati,  1910,  pp. 
169-88;  e  F.  CATALANO,  Note  sul  pensiero  storico  di  A.  Bertola,  nel  citato 
volume  miscellaneo  Studi  ecc.,  pp.  65-74. 


DALLE  «OSSERVAZIONI  SOPRA  METASTASIO» 


de  nessuna  cosa  b  piu  acconcia  a  risvegliar  Tamore  per  le  belle 
fatiche  e  per  la  gloria,  che  il  tener  dietro  alia  maniera  con  cui  i 
grancTingegni  han  fatto  lor  cammino;  se  in  seguir  collo  spirito 
siffatte  tracce,  anche  i  piu  svogliati  uomini  ritrovan  pascolo,  io 
prender6  di  mira  le  particolarita  piu  importanti  degli  studi  e  lavori 
drammatici  di  Metastasio  non  inutilmente :  quelle  della  sua  vita 
civile  note  g&  sono  abbastanza.  Pochi  scrittori  meritan  piu  di 
questo  riflessioni  ed  esame:  al  teatro  antico  e  al  moderno  manca 
Pesempio  di  una  brillante  originalita  rimasta  unica  per  lo  spazio  di 
sessant'anni.1  Aggiungasi,  che  a  tentar  di  emularla  veduto  ha  T  Ita 
lia  sorger  di  tratto  in  tratto  i  piu  felici  de?  suoi  poeti,  senza  ec- 
cettuarne  Frugoni.  In  minore  spazio  di  tempo  divise  i  suoi  voti  la 
Grecia  fra  Sofocle  ed  Euripide;  in  minore  possedemmo  noi  la 
Sofonisba2  e  il  Torrismondo]  e  in  minore  ancora  i  Francesi  fecer 
plauso  al  Cid  e  zlYAtalia.  Possano  queste  ricerche  concorrere  in 
qualche  modo  alia  letteraria  educazione  di  un  successore  di  Me 
tastasio! 

Gi£  &  notissimo  che  Gravina  s'invaghi  delPingegno  del  gio- 
vanetto  Trapassi,  udendolo  improwisare;3  che  a  quel  tempo 


Come  si  trae  da  una  lettera  del  Bertola  all'Amaduzzi  in  data  28  agosto  1783, 
queste  Osservazioni  furono  stese  a  Vienna  in  quell' anno,  per  invito  di 
monsignor  Giuseppe  Garampi,  nunzio  apostolico  in  quella  citta  e  amico  e 
protettore  del  Bertola,  che  a  lui  appunto  dedic6  il  suo  scritto,  ricordando 
fra  1'altro  come  proprio  per  mezzo  di  lui  il  Metastasio  lo  avesse  tante  volte 
«avvertito,  consigliato,  incoraggito  nella  camera  de'  poetici  studi ».  Dal 
Garampi  stesso  e  in  particolare  dai  coniugi  de  Martines  (espressamente 
ricordati  in  nota  piu  volte)  il  Bertola  ebbe  anche  non  poche  notizie  su  par- 
ticolari  biografici  del  poeta  studiato.  Le  Osservazioni,  precedute  dalla  ri- 
cordata  lettera  di  dedica  al  Garampi  e  seguite  da  trentotto  ottave  intitolate 
Al  sepolcro  di  Metastasio,  furono  stampate  la  prima  volta  col  titolo  Osserva 
zioni  sopr  a  Metastasio,  con  alcuniversi,  Bassano,  Remondini,  1784;  e  quindi 
ripubblicate  nel  tomo  II  delle  Operette  in  verso  e  in  prosa,  Bassano,  [Remon 
dini],  1785,  alle  pp.  181-229.  II  passo  qui  riprodotto  segue  il  testo  di  questa 
seconda  e  definitiva  edizione,  pp.  181-9.  Le  note  del  Bertola  sono  seguite 
dalla  sigla  B. 

i.  Dicesi  di  sessant'anni,  facendosi  partir  quest* epoca  dai  primi  lavori 
drammatici  di  Metastasio  (B.).  2.  Sofonisba:  la  tragedia  del  Trissi.no. 
3.  Metastasio  si  espose  a  parlare  in  versi  su  qualunque  soggetto  dall'eta  di 
dieci  in  undici  anni  fino  ai  sedici  (B.). 


79§  AURELIO   DE»    GIORGI   BERTOLA 

risorto  era  di  fresco  in  Italia  il  buongusto  poetico;  che  a  sif- 
fatto  risorgimento  avea  il  Gravina  contribuito  soprammodo ;  c  che 
in  cosi  schietta  scuola  e  sicura  rammirabile  alunno  studi6  pro- 
fondamente  gli  antichi,  le  scienze  e  la  legge  in  ispecie,  da  lui  pro- 
fessata  in  Roma,  indi  in  Napoli;  e  che  in  essa  scuola  s'imbeve" 
delle  idee  piu  giuste  del  bello  e  del  vero  in  materia  d'arti  e  di 
lettere. 

II  GiustinOj  tragedia  ch'egli  compose  intorno  ai  quattordici  anai, 
ben  ci  scopre  il  religioso  attaccamento  ch'eragli  stato  inspirato 
pe'  Greci.  Di  una  produzione  cosi  grave  e  misurata  in  siffatta  etk 
non  e  forse  esempio:  tutti  i  primi  parti  de'  sommi  poeti  peccano 
singolarmente  per  qualche  ambizione  di  ornamenti.  Ma  poich6 
Fautoritk  del  severo  maestro  and6  permettendo  alcun  volo  alPin- 
gegno,  questo  si  slanci6  ardentemente  a  coglier  fiori  d'ogni  ma- 
niera:  indi  verso  i  vent'anni,  gi&  morto  il  Gravina,  god6  Metasta- 
sio  di  abbigliare  di  piu  moderne  vesti  i  suoi  ridenti  prodotti, 
e  li  consecr6  all'armonia  teatrale,  a  seconda  di  quelPinclinazione 
irresistibile  che  vince  tutte  le  circostanze  che  la  combattono,  e  che 
sola  produce  i  grandjuomini  in  ogni  classe  di  professione,  Nella 
Galatea,  nzlYEndimione,  negli  Orti  Esperidi1  chiaro  apparisce  che 
Ovidio  eragli  divenuto  assai  famigliare.  Ne  ricopiava  la  facilitk, 
Tamenita,  Pevidenza ;  ma  era  gik  in  lui  sicurezza  di  gusto  si  forte 
da  saperne  troncar  le  ridondanze  e  temperar  le  acutezze  colla 
semplicit£  di  Teocrito  e  colPeconomia  di  Virgilio.2 

Mentre  per6  andavasi  egli  nudrendo  della  miglior  sostanza  de' 
classici  antichi,  si  prese  in  assidua  compagnia  parzialissima  un 

i.  La  Galatea,  VEndimione  e  gli  Orti  Esperidi  furono  scritti  e  rappresentati 
a  Napoli  tra  il  1721  e  il  1722.  2.  II  sig.  caval.  Varmetti  ha  con  singolar  di- 
scernimento  osservata  e  messa  a  confronto  la  maniera  con  cui  Teocrito, 
Ovidio  e  Metastasio  han  rappresentato  Polifemo ;  ed  ha  acconciamente  ri- 
sposto  a  una  delle  censure  che  il  sig.  ab.  Arteaga  fa  al  nostro  poeta  (B.)« 
Allude  ad  una  lunga  nota  apposta  dal  Vannetti  alia  sua  Liber  a  versions  del- 
Vidillio  XI  di  Teocrito  (cfr.  Opere  italiane  e  latine,  vi,  Venezia,  Alvisopoli, 
1831,  pp.  302-7),  in  cui  loda  il  Metastasio  per  aver  fatto  nella  Galatea  « co 
me  un  impasto  della  poesia  di  Teocrito  con  quella  del  diletto  Ovidio,  ri- 
manendo  per6  originale »,  e  in  particolare  lo  difende  da  alcune  critiche  del- 
TArteaga,  che  nelle  sue  Rivoluzioni  del  teatro  musicale  italiano  aveva  notato 
in  quell'opera  alcune  inverosimiglianze ;  e  conclude  poi  che  « la  candidezza 
di  Teocrito  piu  che  negli  altri  si  sente  in  Virgilio,  bensi  di  molto  addolcita, 
indi  nel  Metastasio,  pochissimo  in  Ovidio,  eccessivo  amatore  del  proprio 
ingegno;  ma  che  Teocrito  non  pertanto  resta  solo  ed  inimitabile  in  quella 
sua  rustica  eppur  amabilissima  gracilita ». 


OSSERVAZIONI   SOPRA  METASTASIO  799 

altro  studio ;  quello  che  gia  da  alcun  tempo  pochi  poeti  e  pochissi- 
mi  prosatori  fanno  in  Italia;  quello  che  fatto  daj  Francesi  diligen- 
tissimamente,  ha  procacciato  alia  lor  lingua  la  gloria  di  essere  og- 
gimai  universale;  quello  che  rimmortale  Zanotti1  faceva  ancora 
nella  etk  d'ottant'anni:  lo  studio  della  propria  lingua.z 

A  nessuno  per  awentura  de'  tanti  imitatori  di  Metastasio  6  pia- 
ciuto  di  por  mente  che  questo  studio  giudizioso,  ordinato,  inde- 
fesso  &  la  certissima  origine  della  parte  piu  bella  e  piii  malagevole 
de'  suoi  lavori :  e  che  quel  suo  ammirabil  privilegio  di  facilitk,  di 
soavita,  di  armonia  nel  verseggiare  non  era  da  conseguirsi  mai 
col  rivolgere  tutta  la  cura  a  ricopiare  il  tuono  de*  suoi  periodi, 
a  rimpastare  le  piu  eleganti  delle  sue  scene,  ad  accozzare  i  fregi 
delle  dilicate  sue  frasi;  ma  col  far  Panalisi  del  suo  stile,  colPin- 
dagarne  le  sorgenti,  col  cercare  d'imitar  la  maniera  con  cui  ave- 
va  egli  colto  da*  nostri  quel  fior  si  vago  e  gentile  di  poetica  lo- 
cuzione. 

Avea  gia  esaminato  profondamente  i  diversi  gradi  di  eleganza 
e  di  leggiadria  in  coloro  che  anelarono  di  segnalarsi  nella  scuola  del 
Petrarca;3  con  diletto  e  con  meraviglia  avea  numerato  le  originali 
bellezze  dell' Orlando  \  e  con  quella  saporita  e  tenera  compiacenza 
che  nasce  dalla  simpatia  deiringegno,  avea  sentito  e  venerato  nel 
Tasso  il  piu  gran  poeta  della  nazione.  Gia  della  lirica,  dell'epica 
e  della  didascalica  poesia  fissato  vide  lo  stile  nelle  primarie  norme : 
ma  alia  drammatica  piegando,  fu  spaventato  dalla  discrepanza  de' 
pareri  de?  nostri  critici  e  dalla  varieta  dej  metri,  non  che  da  quella 
degli  stili  infinita  da  Trissino  fino  a  Martelli.4  Qui  la  scolastica 
verbositk;  Ik  le  ricchezze  e  la  pompa  delPepica  e  della  lirica; 
quella  che  awilisce  il  decoro  tragico;  questa  che  sul  piu  bello 
tronca  il  corso  della  passione. 

i.  Francesco  Maria  Zanotti:  cfr.  la  nota  i  a  p.  764.  2.  Pur  negli  ultimi 
suoi  giorni  era  Metastasio  studiosissimo  della  propria  lingua ;  e  i  suoi  scru- 
poli  si  estendevano  talvolta  fino  alia  piu  minuta  e  materiale  ricerca  delle 
voci  (B.)-  Per  il  concetto  generale  espresso  in  queste  righe  cfr.  il  Saggio 
sopra  la  necessita  di  scrwere  nella  propria  lingua  (1750)  delPAlgarotti,  che 
forse  il  Bertola  ha  presente.  3.  Aveasi  formata  Metastasio  una  scelta  de' 
migliori  componimenti  Hrici  che  abbia  1' Italia.  Qual  prezioso  libro  poetico 
sarebbe  mai  una  raccolta  messa  insieme  da  cosl  gran  maestro!  (B.) 
4.  Pier  lacopo  Martello  (1665-1714),  una  delle  menti  piu  vivaci  della  prima 
cultura  arcadica,  scrisse  parecchie  tragedie  in  stile  piano  e  naturale  e  per  lo 
piu  impiegando  il  verso  che  da  lui  appunto  prese  il  nome  di « martelliano  » 
e  che  egli  difese  nel  trattato  Del  verso  tragico. 


800  AURELIO  DE»    GIORGI  BERTOLA 

Nelle  tragedie  del  Cebk  per  altro,  del  Bonarelli,  del  Delfino,1 
e  in  quelle  finalmente  del  ContP  e  nella  Merope3  scoprl  utili  lampi 
della  schietta  e  grave  dicitura  tragica.  Ma  seguire  unicamente  le 
tracce  piu  plausibili  de'  nominati  esemplari,  e  soddisfare  al  secolo, 
al  teatro  musicale,  e  piu  alia  finezza  del  suo  proprio  gusto,  gi&  non 
si  poteva.  Quanto  al  Zeno,  egli  trovava  nello  stile  de'  suoi  drammi 
il  poeta,  ma  non  il  poeta  di  teatro.  Si  determin6  di  crcar  egli  uno 
stile,  formando,  per  dir  cosl,  di  moltc  e  differenti  corde  un  nuovo 
istrumento. 

Tre  furono  le  miniere  da  cui  trasse  piu  studiosamente  e  co- 
piosamente  che  altronde  i  materiali  per  la  sua  fabbrica:  la  Ge~ 
rusalemme  liberata,  il  Pastorfido  e  le  migliori  opere  del  Marino. 
La  predilezione  che  ha  egli  sempre  ostentata  per  questc  opere, 
la  lettura  che  ha  continuato  a  fame  fino  agli  ultimi  anni  suoi, 
1'averne  avuto  a  mente  square!  grandissimi,  della  Gerusalemme  sin- 
golarmente,4  sarebbono  gi&  chiare  pruove  di  ci6  che  ho  avanzato : 
ma  io  ne  produrr6  altre  ancora,  che  andr6  da*  suoi  drammi 
traendo. 

Sembrar  pu6  strano  un  cosl  passionate  studio  sopra  il  Marino : 
la  costante  locuzion  poetica,  Povidiana  felicit&  di  dir  tutto  ele- 
gantemente  innamorarono  Metastasio.5  Basta  aver  letto  con  qualche 
posatezza  i  piu  felici  prodotti  di  quel  poeta,  per  ritrovarc  una 
evidente  correlazione  di  frasi,  di  forme  e  di  scorrevolezza  di  nu- 
mero  fra  essi  e  la  Didone  abbandonata.  Qui  talvolta,  siccome  an 
cora  in  alcune  feste  teatrali  a  un  di  presso  contemporanee,  quel- 
1'ardir  di  metafore,  che,  se  in  qualche  luogo  incontrasi  degli  altri 
drammi,  &  incomparabilmente  piu  temperato.  L'essersi  egli  si  lun- 
go  tempo  arrestato  in  si  pericolosa  scuola,  ed  esserne  uscito  colle 
dovizie  di  mille  brillanti  colori,  in  mezzo  a*  quali  si  perde  la  leg- 

i,  Ansaldo  Cebti  (1565-16x3)  scrisse  tre  tragedie  del  tipo  cosiddetto  «ap- 
passionato»,  ciofc  con  intreccio  semplice  e  senza  colpi  di  scena;  Prospero 
Bonarelli  (1588-1659),  fratello  di  Guidubaldo,  e  autore  del  Solimano,  una 
delle  piu  famose  tragedie  «implesse»  o  « awiluppate » ;  tale  e  anchc  il 
Creso  di  Giovanni  Delfino  (morto  nel  1699),  che  compose  perd  anche  quat- 
tro  tragedie  « appassionate ».  2.  Sulle  tragedie  di  Antonio  Conti  cfr.  la 
nota  4  a  p.  80.  3.  la  Merope:  di  Scipione  Maffei.  4,  Recitando  egli  a 
mente,  o  udendo  leggere  dalla  signora  de  Martines  scelti  squarci  della 
Gerusalemme,  si  abbandonava  a*  piti  vivi  trasporti,  cambiava  di  colore, 
piangeva,  interrompeva  sclamando,  non  si  saziava  di  ripetere  i  versi  che 
Tavean  pto  colpito  (B.).  5-  Chi  crederebbe  che  allor  che  Metastasio  do- 
vea  comporre,  vi  si  preparasse  con  una  lettura  de'  piii  bei  pesszi  dvirAdone  ? 
Cosl  fece  costantemente  (B.). 


OSSERVAZIONI    SOPRA   METASTASIO  8oi 

ger'ombra  di  alcune  poche  licenze,  ben  &  da  segnarsi  qual  prodigio 
negli  annali  poetici.  Prendansi  ad  esaminar  diligentemente  il  Siroe* 
il  Catone*  VEzio?  e  vi  si  scoprira  quasi  dappertutto  un  nobile 
impasto  delle  tinte  del  Marini  e  del  Tasso.  Balzano  poi  anche 
piu  agli  occhi  cento  bei  lumi  della  Gerusalemme  sparsi  nella  Se- 
miramide*  nell'Alessandro,5  nell'Artaserse,6  nell'Issipile.7  Le  rispo- 
ste  piu  brillanti  di  Semiramide  e  di  Scitalce  sono  uscite  da  quelle 
di  Tancredi  e  di  Armida;  il  feroce  linguaggio  di  Porro  da  quel  di 
Argante,  e  il  toccantissimo  di  Arbace  e  d'Issipile8  da  quello  di 
Erminia,  da  quel  di  Olindo  e  Sofronia.  E  chi  versato  alcun  poco 
nella  lettura  del  Pastorfido  non  ne  rawisa  il  piu  dilicato  estratto 
inserito  eccellentemente  nel  Demetrio  e  nella  Olimpiadel9  Siffatte 
imitazioni  cosi  maestrevoli,  cosi  fine,  cosi  libere  non  fan  certamen- 
te  torto  alia  fama  altissima  del  poeta.  Chi  mai  rimproverato  ha 
il  Tasso  d'essersi  proposto  nelVAminta  lo  stile  della  Canace  dello 
Sperone  ?  Chi  ha  mai  condannato  il  Guarini,  perche  si  gloriava  di 
aver  profittato  cotanto  e  dell'una  e  delFaltra  in  favore  della  sua 
f avola  ? 

Data  cosi  un'occhiata  alle  sorgenti  donde  Metastasio  trasse 
principalmente  le  bellezze  del  suo  stile,  ricerchiamo  se  in  questo 
abbia  egli  fatto  mai  alcun  cambiamento.  Si,  lo  ha  fatto,  e  assai 
notabile  a  parer  mio;  e  il  chiamerei  volentieri  la  sua  seconda 
maniera,  la  qual  consiste  singolarmente  in  una  maggior  consistenza, 
varieta  e  melodia  ne*  periodi  e  nelle  cadenze;  e  in  una  piii  natu- 
rale  maesta,  energia  e  nitidezza  di  linguaggio  tragico.10 


i.  Scritto  nel  1726  (B.).  2.  Scritto  nel  1727  (B).  3-  Scritto  nel  1728  (B.). 
4.  Scritto  nel  1729  (B.).  5.  Scritto  nel  1729  (B.).  6.  Scritto  nel  1730  (B.). 
7.  Scritto  nel  1732  (B.)«  8.  Semiramide  e  Scitalce  sono  personaggi  della 
Semiramide;  Porro  dell'Alessandro;  Arbace  deWArtaserse  e  Issipile  del- 
Vlssipile.  9.  II  Demetrio  fu  rappresentato  nel  1731,  VOlimpiade  nel  1733- 
10.  la  sua  .  .  .  tragico:  segue  una  analisi  piu  particolareggiata  di  questa  se 
conda  maniera,  che  il  Bertola  fa  iniziare  con  VAdriano  in  Stria. 


DAL  «SAGGIO  SOPRA  LA  FAVOLA » 

Ingenuita  delta  favola. 

Io  stimo  che  non  occorra  dire  di  alcune  doti  con  cui  la  favola 
pu6  esser  bella,  e  senza  cui  pu6  esserlo  ancora.  Tale  &  la  brevit&, 
fra  le  altre;  e  abbiamo  in  molti  maestri  favole  ben  lunghe  e  allo 
stesso  tempo  perfette.  Cos!  di  alcuni  parziali  ornamenti,  di  cui 
disputano  i  retori  piti  per  vaghezza  di  farlo  che  per  bisogno; 
la  favola  riceve  il  lor  soccorso  o  ne  fa  senza;  e  nulla  essenzialmente 
perde  o  guadagna. 

Non  &  lo  stesso  di  due  qualitk  le  quali  sono  della  sua  natura ;  n£ 
pu6  essere  bella  senza  di  esse,  e  appena  direi  che  possa  esser  fa 
vola.  Queste  qualit&  sono  la  ingenuitk  e  la  lepidezza  ne'  pensieri 
egualmente  che  nello  stile :  ed  io  ne  parler6  non  gi£  per  ambizione 
di  dettar  regole;  che  io  so  che  non  debbo  averla,  n6  Tho;  ma  per 
dimostrare  con  qualche  ordine  quali  idee  io  ne  abbia,  e  quindi 
come  io  mi  sia  studiato  di  conseguirle  in  qualche  maniera;  e 
forse  ancora  come  altri  possa  o  conseguirle  o  distinguerle  negli 
autori  che  le  posseggono.  Io  ne  parler6  tanto  piu  volentieri,  quanto 
piu  parmi  che  si  scarseggi  di  chi  abbia  diligentemente  considerate 
tali  qualiti  riguardo  alFapologo:  e  duolmi  assai  che  il  Roberti,1 

Alia  composizione  di  favole  il  Bertola  aveva  cominciato  a  dedicarsi  fino  dal 
1779,  quando  ne  inviava  alcune  manoscritte  airamico  Amaduzzi,  ma  una 
prima  raccoltina  di  otto  comparve  solo  nel  1782,  alia  quale  ne  seguirono 
una  di  trentotto  nel  1783  e  una  di  cento  nel  1785.  Queste  raccolte  susci- 
tarono  notevole  interesse  e  anche  discussioni  critiche,  che  mossero  Tautore 
-  come  egli  stesso  dichiara  all'inizio  di  questo  Saggio  -  a  scrivere  « tratto 
tratto  .  . .  alquante  annotazioni »,  le  quali  «poi  avvicinate  una  airaltra»  gli 
sembrarono  degarsi  scambievolmente  tra  di  loro,  trarsi  dietro  con  molta 
naturalezza  piu  sottili  riflessi,  e  prendere  quasi  da  se  medesime  un  certo 
oirdine :  ed  ecco  insensibilmente  un  Saggio  sopra  la  favola ».  Con  questo 
titolo  appunto  1'operetta  venne  pubblicata  nel  volume  Saggio  sopra  la  fa- 
volat  aggiunta  una  raccolta  di  favole  e  di  epigrammi,  Pavia,  Bolzani,  1788, 
e  poi  ristampata  nel  tomo  m  delle  Operette  in  verso  e  in  prosa,  Bassano, 
[Remondini],  1789,  pp.  1-92.  Da  questa  seconda  e  dcfinitiva  ediaiione, 
pp.  23-41,  togliamo  il  passo  qui  riprodotto.  Le  note  del  Bertola  sono  seguite 
dalla  sigla  B. 

i.  Giambattista  Roberti  (1719-1796),  gesuita  e  letterato  classicista,  scrisse 
fra  Taltro  Cento  favole  esopiane  (Como,  Scotti,  1781),  a  cui  &  premesso  un 
Discorso  delVautore,  dove  sono  elencate  tra  le  qualit&  della  favola  la  sem- 
plicita,  la  grazia,  la  naturalezza,  la  facezia,  ma  senza  entrare  in  particolari 
(pp.  11-4). 


SAGGIO    SOPRA   LA   FAVOLA  803 

dotto,  nitido  e  sottile  espositore  di  canoni  poetici,  vi  passi  .sopra 
cosi  leggermente  fino  a  non  donare  pur  una  pagina  intera  all'una 
e  all'altra,  dove  die  non  e  si  stretto  e  si  sobrio  donatore  di  parole 
e  di  riflessioni  a  materie  ancora  che  ne  dimandano  meno. 

Sulzer1  e  Mendelsohn2  han  trattato  della  ingenuita  piu  da 
filosofi  che  non  da  uomini  di  gusto;  n6  pu6  forse  trarsi  da  es- 
si  un  appoggio,  il  quale  sia,  per  dir  cosi,  maneggevole.  Si  so- 
no  ambedue  serviti  in  tedesco  della  voce  naivete  de'  Francesi, 
i  quali  hanno  qui  dissertato  prolissamente;  ma  cercando  la  no- 
vitk  un  dopo  1'altro,  non  han  posto  mente  all'aggiustatezza. 
II  Marmontel  la  divide  in  tanti  rami,  che  ne  forma  quasi  un  al- 
bero  immenso  ;3  e  tiene  un  metodo  diametralmente  opposto  a  quel- 

10  del  Batteux,  il  quale,  seguendo  1'opinione  del  La  Motte,  non 
distingue  abbastanza  1'ingenuo  dal  sublime.4  N6  il  Ramler5  vede 
piu  avanti  ne'  suoi  commenti  al  Batteux.  Ricorriamo  a'  Greci 
e  a'  Latini;  speriamo  piu  in  que'  vecchi  incomparabili,  i  quali 
in  due  o  tre  parole  aprono  talvolta  un  largo  fonte  di  limpide 
teorie. 

Primieramente  parmi  che  sulle  lor  tracce  convenga  distin- 
guere  due  maniere  d1  ingenuita,  una  che  trae  al  grave,  Taltra 
che  trae  al  lepido.  Nella  prima  son  maestri  Omero,  Euripide, 
Teocrito,  Virgilio,  Dante,  Petrarca;  e  il  Maffei  nella  Merope, 

11  Voltaire  nella  Zaira  e  Gessner  calcano  felicemente  Forme  di 
quei  maestri.  Nella  seconda  occupano  i  primi  posti  Esopo,  Teren- 
zio,  Franco  Sacchetti,  il  Firenzuola,  il  Berni  nel  suo  Orlando, 
gli  autori  delle  commedie  La  Tanda,  II  granchio,  L'errore,  La 


i.  V.  Allgemeine  Theorie  ecc.  (B.)-  II  notissimo  dizionario  del  Sulzer,  il 
cui  titolo  esatto  e  Allgemeine  Theorie  der  schonen  Kunste,  era  stato  pub- 
bhcato  fra  il  1771  e  il  1774.  II  Bertola  stesso  era  stato  il  primo,  fin  dal 
I775>  a  tradurne  in  italiano  alcuni  passi  (cfr.  Idea  della  bella  letter atura 
alemanna,  ed.  cit.,  II,  p.  220).  2.  V.  Ueber  das  Erhabene  und  Naive  ecc.  [in 
den  scho'nen  Wissenschaften,  1758],  B.  -  Moses  Mendelssohn  (1729-1786) 
in  questo  e  in  altri  scritti  di  estetica  combina,  con  risultati  spesso  notevoli, 
motivi  neoplatonici  e  leibniziani  con  idee  empiristiche  e  sensistiche. 

3.  Marmontel .  .  .  immenso:  nella  voce  Fable,  pubblicata  nell'Encyclope'die. 

4.  V[edi]  Batteux],  Cours  de  belles  lettres,  [1765],  p.  3,  sez.  i,  art.  3  (B.).  Lo 
scritto  del  La  Motte  a  cui  allude  il  Bertola  e  il  Discours  premesso  alia  rac- 
colta  delle  sue  Fables  (1719).  Sul  Batteux  e  sul  La  Motte  cfr.  la  nota  3  a 
p.  83  e  la  nota  2  a  p.  81.     5.  Karl  Wilhelm  Ramler  (cfr.  la  nota  i  a  p.  778), 
uno  dei  Hrici  tedeschi  tradotti  dal  Bertola  nelVIdea  della  bella  letteratura 
alemanna  (ed.  cit.,  i,  p.  82),  scrisse  anche  una  Introduzione  alle  belle  let- 
terey  ispirata  al  Cours  de  belles  lettres  del  Batteux. 


804  AURELIO   DE'    GIORGI   BERTOLA 

spina*  che  molti  si  meraviglieranno  ch'io  citi,  perch6  non  gli  han 
letti;  in,  oltre  Moliere,  La  Fontaine,  e  Goldoni  nelle  sue  commcdie 
veneziane,  che  alcuni  non  vogliono  assaporare,  e  ben  puniscono 
se  stessi  della  loro  ingiustizia.  Sarebbe  vano  il  nominar  qui  altri 
che  potrebbero  ancor  nominarsi:  ho  voluto  ricordare  1'idca  di 
quelle  due  maniere,  e  non  g&  svolgere  una  biblioteca. 

Non  si  pu6  forse  caratterizzar  meglio  ringenuiti,  che  dicendo 
dover  essa  comparire  da  s6  venuta  e  non  ricercata.  £  nel  genere 
semplice,  ma  e  qualche  cosa  di  piu  che  la  semplicitk;  n6  i  voca- 
boli  «natio»,  <(candido»  dicono  abbastanza;  bisogna  aggiugnervi  al- 
quanto  di  quel  vivo  e  animato  che  trovasi  in  quelPamabile  liberti 
e  franchezza,  da  cui  Tingenuitk  non  va  mai  disgiunta. 

Certo  quel  vivo  e  animato,  quel  libero  e  franco  debbono  aver 
confini:  chi  giugnesse  a  segnarli  con  esattezza,  diffinirebbe  facil- 
mente  la  ingenuita.  Si  osservi  che  la  base,  per  dir  cosJ,  di  questa 
qualitk  e  una  certa  bellezza  d'indole.  A  ci6  che  si  &  detto,  e  a  ci6  che 
ancora  vuol  dirsi,  recherk  maggior  chiarezza  un  esempio. 

Chiamiamo  e  stimiamo  concordemente  ingenui  alcuni  villa- 
nelli,  i  quali  uscendo  fuori  con  quelle  loro  domande  e  rispo- 
ste  tutte  natura,  ci  mostrano  per6  un'indole  pronta  e  vivace:  e  le 
stesse  domande  e  risposte  a  un  dipresso  in  bocca  a  persone  che 
non  abbiano  quella  indole,  vengono  riguardate  altrimenti ;  ora  co 
me  effetto  d'imbecillitci  e  stupidezza,  ora  come  effetto  di  tcmeriti 
o  d'imprudenza.  Dicasi  lo  stesso  degli  scrittori. 

Quella  scelta  di  espressioni  che  sembri  sprezzatura,  quelFa- 
gevolezza  di  espressioni,  in  cui  sentasi  per6  e  dolcezza  e  alquanto 
ancora  di  vivacita;  una  certa  collocazione  di  parole  che  sembri 
come  fatta  a  caso,  costituiranno  lo  stile  ingenuo:  e  avranno  ingc- 
nuitk  que*  pensieri  che  sembrino  quasi  prontamente  fuggire  dal- 
Tanima,  e  che  palesino  una  natura  gentile;  che  anmmzino  una 
certa  libertk,  come  se  non  si  ponesse  mente  al  piacere  altrui  e  al 
decoro  altrui  e  proprio ;  intanto  e  cercasi  quel  piacere  e  si  provvede 
a  quel  decoro. 

Quindi  sark  chiaro  che  ringenuiti  non  esclude  affatto  gli  or- 
namenti,  come  alcuni  prctesero:  ha  per6  i  suoi  propri  che  non 
stanno  bene  che  ad  essa  sola,  e  rib  gelosissima;  non  si  piega  mai 

i.  Delia  Tancia  k  autore  Michelangelo  Buonarroti  il  Giovane  (1568-1642); 
del  Granchio  e  deWErrore  Giambattista  Gelli  (1498-1563);  della  Spinet 
Leonardo  Salviati  (su  cui  cfr.  la  nota  2  a  p.  358). 


SAGGIO  SOPRA  LA  FAVOLA 

a  darli  ad  imprestito,  e  li  darebbe  inutilmente.  La  favola  dunque 
pu6  essere  ingenua,  e  al  tempo  medesimo  ornata:  e  tale  e  pure  in 
Esopo,  ma  quasi  fanciulla;  e  in  Fedro,  divenuta  ambiziosa  al- 
quanto,  e  nel  La  Fontaine  poi,  fatta  quasi  sposa,  e  quindi  un  poco 
piu  vistosetta. 

Spira  Esopo  una  mirabile  ingenuita  principalmente  nelle  fa- 
vole  La  talpa,  II  cerbiatto,  II  serpents  e  il  granchio,  L'avaro,  La 
cerva,  I  pescatori,  I  gatti  e  i  topi.  La  formica  e  la  colomba :  parlo 
di  una  ingenuita  distesa  e  continuata,  dove  piu  il  soggetto  la  per- 
metteva.  Bisognerebbe  riportar  qui  la  meta  di  quell'aureo  libret 
to,  a  voler  indicare  le  proposte,  le  risposte  e  gli  altri  tratti  che  hanno 
ingenuita;  i  quali  in  oltre  trasportati  in  altra  lingua  perderebbero 
non  poco  di  quella  loro  candidissima  leggerezza. 

Ma  La  talpa  sembrami  il  modello  piu  nitido;  e  non  vi  vuol 
meno  che  tutto  il  ben  fondato  timore  di  alterarla,  perch'io  non 
la  dia  qui  tradotta.  L'abbiamo  gia  in  varie  lingue;  la  bellezza 
per6  originale  vi  svanisce  come  un  vapore.  Chi  potrebbe  rico- 
piare  le  mezzetinte  di  quella  gradazione  con  cui  la  talpa  figlia  vie- 
ne  involontariamente  accusando  i  suoi  difetti  alia  madre ;  e  il  lampo 
vivo  ma  sfuggevolissimo  che  fa  risaltare  la  risposta  materna? 

In  questa  parte  Fedro  ha  studiato  profondamente  il  suo  mo 
dello,  e  ne  ha  tratto  alcune  forme  di  una  vezzosa  schiettezza  per 
certe  risposte  soprattutto  cosi  bene  adattate  a*  caratteri:  il  solo 
((Equidem  natus  non  eram»x  vaglia  per  molti  altri  esempi.  So- 
pra  altre  forme  ha  steso  colori  un  poco  piu  vivi,  senza  per6  troppo 
mortificarle.  Finalmente  se  le  perde  affatto  di  mira  in  qualche  pro- 
logo  e  in  alcune  riflessioni,  si  scorge  manifestamente  ch'egli  ebbe 
allora  altro  disegno:  volea  conversare  un  poco  piu  alia  scoperta 
co1  Romani  della  sua  eta. 

II  La  Fontaine  sa  insinuare  ingenuita  ne'  discorsi  degli  uomi- 
ni  del  pari  che  in  quelli  degli  animali;  e  allorch6  entra  a  parlare 
il  poeta,  n'ha  d'ordinario  Taria  piu  cara.  I  prologhetti,  le  chaise, 
le  picciole  riflessioni  con  cui  balza  fuori  d'improwiso,  sembrano 
poter  esser  fatte  ed  espresse  da  un  fanciullo ;  e  non  v'e  che  un  filo- 
sofo  e  un  sommo  poeta  che  possa  farle  ed  esprimerle  a  quel 
modo. 

Alcuni  tacciano  questo  gran  favolista  di  essere  talvolta  un  poco 

i.  Fab.,  i,  i,  10  (« Veramente  non  ero  nato»).  6  la  risposta  dell'agnello  al 
lupo. 


806  ATJRELIO  DE»    GIORGI   BERTOLA 

troppo  ciarliero  nella  sua  ingenuita;  ma  io  direi  piuttosto  che  tal- 
volta  non  e  ingenuo,  come  sul  finire  della  favola  Lasdmmia  e  ildel- 
fino,  e  nel  proemietto  di  quella  diretta  alia  Sevign<§  //  Hone  innamo- 
-  rato9  nel  Fascio  di  frecce,  nel  Mugnaio,  il  suo  figlio  e  Vasino,  nel 
Taglialegna  e  Mercuric,  nel  Depositario  infedde,  e  in  qualche  altra, 
dove  ha  voluto  ciarlare  piti  da  bello  spirito  che  da  favolista.  N6 

10  so  formarmi  idea  di  una  ingenuitk  la  quale  debba  essere  ripresa 
perche"  sia  piuttosto  spartana  che  asiatica,  o  il  contrario. 

Ma  che  asiatica  e  pure  gratissima  ingenuiti  non  e  nella  Lot- 
tivendola,  nel  Giardiniere  e  il  padrone,  ne'  Due  picdoni,  e  in  quelle 

11  lupo  e  il  cane,  II  pazzo  che  vende  la  saviezxa,  e  in  tante  altrel 
Quanto  a'  tratti  piti  brevi  e  concisi,  potrei  astenermi  dal  recarne 
esempi;  giacch<§  ne  ridondano  tanti  libri  francesi  che  sono  nelle 
mani  di  tutti.  Ricorder6  tuttavia  alcuni  pochi,  i  qtiali  per6  mal 
soffrono  di  stare  cosi  smembrati  dal  rispettivo  lor  corpo. 

La  raison  du  plus  fort  est  toujours  la  meitleure: 
nous  Gallons  montrer  toute  a  Vheure,1 

Ognun  vede  con  che  natural  precisione  si  annunzi  la  morale  nel 
primo  verso;  e  come  il  secondo  cada  giu  ingenuissimamente;  si 
troverk  Io  stesso  carattere  nel  suono  e  nel  senso  de'  seguenti 
versi : 

Une  fable  avoit  cours  parmi  Vantiquitt; 
et  la  raison  ne  m'en  est  pas  connue,  etc.  .  .  . 
Je  bldme  id  plus  de  gens  qu'on  ne  pense  .  .  . 
Et  que  faire  en  un  gite  &  mains  que  Von  ne  songe?  ,  .  . 
Un  « tien »  vaut,  ce  dit-on,  mieux  que  deux  « tu  V auras » .  *  . 
La  dispute  est  d'un  grand  secours: 
sans  elle  on  dormiroit  toujours* 

E  che  mai  di  piu  ingenuo  che  quel  principio? 

Deux  pigeons  s'aimoient  d* amour  tendre: 
l*un  d'eux  s'ennuyant  au  logis 
fut  assez  fou  pour  entreprendre 
un  voyage  en  lointain  pays. 
L? outre  lui  dit:—  Qu* attest  vous  faire? 

i.  Fables,  I,  x  (Le  loup  et  Vagneau),  1-2.  2,  Fables,  iv,  xn  (Tribut  envoyd 
par  les  animaux  &  Alexandre\  1-2;  i,  xix  (V enfant  et  le  maitre  d'6coh\  19; 
II,  xiv  (Le  lievre  et  les  grenouilles),  2;  v,  in  (Le  petit  poisson  et  lep&cheur),  24; 
IX,  xiv  (Le  chat  et  le  renard),  9-10. 


SAGGIO  SOPRA  LA  FAVOLA  807 

Voulez-vous  quitter  votre  frere? 

V absence  est  le  plus  grand  des  maux,  etc.1  .  .  . 

E  il  lamento  del  ragno  a  Pallade  contro  la  rondine: 

Prognt  me  vient  enlever  les  morceaux: 
caracolant,  frisant  Vair  et  les  eaux, 
elle  me  prend  mes  mouches  a  ma  porte: 
miennes  je  puis  les  dire;  et  mon  re'seau 
en  seroit  plein  sans  ce  maudit  oiseau: 
je  Vai  tissu  de  matiere  assess  forte.21 

E  quella  risposta  della  canna  alia  rovere: 

Votre  compassion  .  .  . 
part  d'un  bon  naturel.3 

Cosi  quel  dirsi  al  lupo : 

Montrez-moi  patte  blanche,  ou  je  n'ouvrirai  point: 

.  .  .  (patte  blanche  est  un  point 

chez  les  loups,  comme  on  sait,  rarement  en  usage)* .  .  . 

E  quelPaltro  principle: 

On  cherche  les  rieurs;  et  moi  je  les  evite,  etc.  .  .  . 
J*en  vais  peut-£tre  en  une  fable 
introduire  un:  peut-etre  aussi 
que  quelqu'un  trouvera  que  faurai  reussi.5 

Di  questi  e  simili  tratti  sono  ricche  oltremodo  le  favole  La 
ghianda  e  la  zucca^  Simonide  preservato  dagli  dei,  I  conigli,  la  lepre 
e  le  rane,  II  topo  e  Vostrica  verso  il  fine;  ed  anche  i  meno  accorti 
potranno  riscontrarveli;  tanto  evidente  e  la  loro  bellezza.  I  piu 
accorti  poi  analizzeranno  con  gran  diletto  quel  vezzo,  quel  tuono, 
quel  colorito  che  regnano  laddove  si  fan  parlare  gli  animaletti  piu 
mansueti  e  gentili,  e  dove  si  esprimono  i  loro  appassionamenti 
piu  dilicati;  e  vedranno  per  quanti  gradi  e  per  quali  artifizi  si 
devii  felicemente  da  Esopo  e  si  cresca  sopra  Fedro. 

Fra  gli  Alemanni  non  &  da  tacersi  il  sig.  Pfeffel,6  il  quale  ha 

i.  Fables,  IX,  II  (Les  deux  pigeons),  1-7.  2.  Fables,  X,  VI  (Laraignte  et  Vhi- 
rondelle),  5-10.  3.  Fables,  i,  xxn  (Le  chfae  et  le  roseau),  18-9.  4.  Fables, 
IV,  xv  (Le  hup,  la  chevre  et  le  chevreau),  20-2.  5.  Fables,  viu,  vin  (Le  rieur 
et  les  poissons),  i  e  5-7.  6.  Gottlieb  Konrad  Pfeffel  (1736-1809)  scrisse 
Favole  (1783)  sul  modello  del  Gellert. 


808  AURELIO  DE>    GIORGI   BERTOLA 

forse  voluto  comporsi  una  ingenuita,  mescendo  insieme  e  tem- 
prando  Tuna  colFaltra  le  tinte  del  favolista  frigio  c  del  franccse. 
Ne  vaglia  di  saggio  il  prologhetto  ch'egli  fa  precedere  alle  sue 
favole:  io  lo  ridurr6  alia  nostra  prosa,  diffidando  per6  di  fame 
sentire  tutto  il  garbo  originate: 

Una  fanciulla  venditrice  di  fiori  in  Atene,  e  io  credo  che  si  chiamasse 
Taide,  portava  attorno  narcisi,  garofani,  gelsomini  e  millc  belle  cose. 
S'imbatte"  in  una  dama  che  le  par!6  bruscamente:  —  Io  non  saprei  che 
fare  de'  tuoi  mazzetti;  sara  appena  sera,  e  queste  tue  belle  cose  langui- 
ranno  tutte.  —  E  la  povera  fanciulla:  —  Signora,  io  non  inganno  il  com- 
pratore;  io  non  dico  che  i  fiori  sieno  immortali. 

Lettore,  io  penso  lo  stesso  di  questi  apologhi. 

Fra  i  nostri  il  Firenzuola  aggiugne  mirabilmente  un  non  so 
che  di  proprio  al  gusto  esopiano;  e  se  avesse  scritto  in  versi, 
non  temerebbe  forse  il  paragone  del  La  Fontaine;  ne*  forse  lo  te- 
merebbe  il  Pulci,  se  i  suoi  pensieri  fossero  un  poco  piu  in  armonia 
col  suo  stile.  L'Ariosto  crede"  di  dover  principalmente  abbracciare 
la  lepidezza  in  grazia  della  nicchia,  dir6  cosl,  entro  cui  adatt6 
le  sue  favole:1  e  come  non  avrebbe  egli,  volendo,  conseguito  que- 
st'altro  pregio,z  egli  che  ne  condi  in  si  dolce  guisa  tante  parti  del 
suo  gran  poema? 

Io  non  so  se  il  Roberti  si  proponesse  questa  qualita:  certo  e 
che  anche  coloro  che  piu  amano  i  suoi  apologhi,  non  dicono  di 
trovarlavi.  II  sig.  Pignotti3  poi  non  la  si  prefisse  in  alcun  modo, 
piacendogli  di  battere  un  sentiero  ora  apertamente  fiorito,  ora 
brillante  di  galanteria  tutto  quanto.  II  sig.  Passeroni4  la  prese  di 
mira  e  la  colpl  in  molte  favole,  e  piu  ancora  ne'  prologhi,  malgrado 
la  non  sempre  felice  negligenza  della  espressione:  la  colpl  soprat- 
tutto  nel  giro  e  nella  natural  caduta  de*  versi,  nella  spontaneity 
delle  rime,  nella  Candida  e  inaspettata  prontezza  di  certi  riflessl. 
Ne  addurr6  alquanti  esempi. 


1.  in  grasia  . .  ,  favole:  in  quanto  le  sue  favole  sono  inserite  nelle  Satire. 

2.  quest* altro  pregio:  1'ingenuit^.     3.  Lorenzo  Pignotti  aveva  stampato  le 
sue  favole  nel  volume  Favole  e  novelle,  Pisa,  Pieraccini,  1782;  ripubblicato 
con  aggiunte  e  correzioni  a  Bassano,  1785  (e  poi  con  nuove  aggiunte  e  cor- 
rezioni  a  Milano,  Pirotta  e  Maspero,  1807).    4.  Le  Favole  esopiane  di  Gian 
Carlo  Passeroni  erano  state  pubblicate  in  sette  volumi  a  Milano,  presso 
Bianchi,  Galeazzi  e  Bertarelli,  tra  il  1779  e  il  1788.  A  questa  edizione  il 
Bertola  si  riferisce  nelle  citazioni  che  seguono. 


SAGGIO   SOPRA   LA   FAVOLA  809 

Nella  favola  9  del  libro  4,  tomo  2,  s'introduce  a  parlare  la 
colomba  con  grande  ingenuita;  e  sul  finire  entra  in  scena  il  poeta  a 
questo  modo: 

Ingannato  si  sovente 

10  mi  trovo,  che  a  ragione 
posso  appresso  le  persone 
darmi  il  titol  d'innocente. 

La  favola  i  del  libro  3,  tomo  5,  ha  molti  tratti  di  questo  genere; 
quello  fra  gli  altri  ove  Pautore  ricorda  certe  accoglienze  fatte 
alle  sue  poesie: 

Da  uno  ch'e  di  gusto  fine 
le  mie  favole  ho  trovato, 
di  cui  vedesi  tagliato 
solo  Vindice  ch'e  in  fine. 

Narra  ingenuissimamente  nzlYAvaro  deluso,  tomo  3,  libro  4: 

Presso  ogni  ordin  di  persone 
era  celebre  in  Atene 

11  giardino  di  Cimone, 
uomo  illustre,  uom  dabbene: 
quel  giardino  era  ripieno 

di  gran  piante  che  feconde 
tutti  gli  anni  eran  non  meno 
di  beifrutti  che  difronde: 
senza  siepe  era  il  pomiere; 
e  mangiava  di  que'  frutti 
Vabitante  e  il  forestiere,  etc. . . . 

E  sferza  il  vizio  con  ingenuitk  nella  favola  La  scimmia  e  la  volpe 
nello  stesso  libro  4.  Ecco  poi  il  sentimento  nella  Formica  salvata 
dalla  colomba:1 

Nel  salvarsifu  felice, 
ma  fu  ancor  piu  fortunatat 
che  poti  mostrarsi  grata 
alia  sua  benefattrice : 
quanto  invidio  ad  una  bruna 
formichetta  tal  fortuna! 

Dipinge  perfine  con  colori  della  stessa  natura,  ma  piu  vezzosa- 
mente,  nella  favola  Venere  e  la  gotta,  ch'e  Tottava  del  libro  4, 

i.  Favole  esopiane,  ed.  cit.,  I,  lib.  i,  favola  15. 


8lO  AURELIO  DE»    GIORGI   BERTOLA 

tomo  3.  Dopo  avere  esposto  lo  strano  invaghimento  del  giovane 
e  la  sua  preghiera  a  Venere,  vien  fuori  a  questo  modo: 

Lo  esaudl  la  dea  pietosa, 
e  converse  quella  micia, 
pronta  avendo  una  camicia 
per  coprirla,  in  una  tosa, 
vaga  si  che  non  la  cede 
in  bellexza  a  Ganimede. 

Vorrei  che  tutti  vedessero  Parte  finissima,  e  tuttavia  coperta 
di  popolarita,  onde  &  tessuta  questa  strofetta:  non  v'&  una  pa~ 
rola  che  non  spiri  ingenuita;  e  il  contrapposto  poi  dell'idea  di 
Ganimede  con  quella  della  gatta  &  un  naturalissimo  finimento  al 
quadretto. 

fe  chiaro  che  la  ingenuit&  del  sig.  Passeroni  non  tiene  punto 
di  quella  del  La  Fontaine:  &  un  impasto  di  quella  di  Esopo  con 
un  non  so  che  di  proprio  delPautore  del  Cicerone.* 

L'osservazione  di  questi  vari  impasti,  gusti  e  maniere  in  uno 
stesso  genere  varr&  soprammodo  a  fame  distinguere  le  diverse  vie, 
onde  giugnere  all'ingenuo;  e  quali  di  queste  vie  sieno  le  piu 
sicure;  e  quali  i  principali  artifizi  di  cui  si  servissero  i  piii  grandi 
maestri. 

Uno  de'  primi  e  piti  importanti  artifizi  &  riposto  nella  persuasio- 
ne  in  cui  mostra  essere  il  poeta  della  veritk  di  ci6  che  vien  narran- 
do :  il  quale  artifizio  &  sempre  messo  in  opera  da  Esopo  e  mirabil- 
mente.  Si  direbbe  che  Fedro  si  vergogni  qualche  volta  di  far  vedere 
quella  persuasione ;  e  ricorre  quasi  scherzando  airoracolo  frigio  ;* 
lo  che  distrugge  quella  illusione  che  dobbiamo  accogliere,  per 
accogliere  Pingenuita.  II  La  Fontaine  ci  adesca  con  quella  sua 
buona  fede;  ma  pure  non  ci  adesca  ai  pari  di  Esopo;  dietro  al 
quale  ha  camminato  in  questa  parte  piti  fedelmente  degli  altri  il 
sig.  Passeroni.  Gli  Alemanni,  tranne  Pfeffel,  ora  han  seguito  Fedro, 
ora  han  fatto  Topposto  di  Esopo. 

Talvolta  pu6  nascere  Fingenuit^i  dal  far  sospettare  ignoranza 
di  ci6  ch'^  noto  anche  a'  piii;  dal  timore  e  dalllncertezza  nel 
pronunziare  le  sentenze,  le  opinioni  e  finanche  i  nomi  meno  co- 
muni:  ma  nulla  di  piu  nauseante  se  Tignoranza,  il  timore,  Tin- 

i.  //  Cicerone,  1'opera  piti  nota  del  Passeroni,  k  un  lunghissimo  poema 
giocoso  m  ottave,  pubblicato  in  sei  tomi  fra  il  1755  e  il  1774.  2.  aWoracolo 
frigio :  all'autorita  di  Esopo. 


SAGGIO  SOPRA  LA  FAVOLA  8ll 

certezza  sentano  alcun  poco  di  affettazione ;  e  di  questa  e  ripreso  da 
alcuni  il  Gellert.1 

Giova  altresl  il  mettere  insieme  certe  picciole  circostanze,  le 
quali  per  se  stesse  non  sono  di  rilievo,  ma  vagliono  a  destar  nel 
lettore  Pidea  della  sincerita  del  poeta.  Esopo  ne  fa  uso  piu  par- 
camente  del  La  Fontaine :  ma  questi  prende  sempre  a  svolgere  una 
tela  piii  lunga,  e  non  gli  si  disdice  un  qualche  arbitrio.  E  al  Passero- 
ni  vuolsi  perdonarne  piu  d'uno,  laddove  quella  sua  facilita  lo  stra- 
scina  di  circostanza  in  circostanza  a  segno  die  la  sincerita  stessa 
incomincerebbe  a  diventarne  un  peso,  s'egli  ne  facesse  sentir  me- 
no  quella  sua  cosl  costante  e  cosl  viva  filantropia. 

Hawi  una  forma  di  gradazione  nelle  asserzioni  e  nelle  interro- 
gazioni,  che  si  awicina  quasi  a  una  insistenza  infantile,  la  quale 
adoperata  a  tempo  e  proporzionata  a'  caratteri  e  di  un  effetto 
maraviglioso.  Tale  &  nella  Talpa  di  Esopo,  gia  citata  un'altra  volta. 
I  dialoghetti  la  ricevono  anche  piu  acconciamente.  Domanda  un'a- 
ria  di  risolutezza  nelle  parole  e  un'aria  di  dubbiezza  nel  sentimen- 
to:  e  questa  specie  di  contraddizione  ne  forma  la  piu  gran  bel- 
lezza. 

V'ha  una  ingenuita  riposta  ne'  passaggi  da  una  idea  aU'altra, 

0  per  la  inaspettata  affinita  delle  idee  tra  di  loro,  o  per  la  leggerez- 
za  con  cui  sono,  per  dir  cosl,  sfumati  i  loro  limiti;  o  finalmente 
per  una  certa  apparenza  di  liberta  onde  si  fa  vista  di  uscir  di  cam- 
mino  senza  per6  uscirne.  Di  questo  artifizio  non  sono  cosl  amici 

1  favolisti,  ne"  senza  ragione;  poich6  lo  trovano  frequentemente 
nelle  mani  de*  lirici  piu  forbiti;  e  temono  che  quell' amicizia  non  li 
tenti  ad  uscir  fuori  dell' ingenuita  nell'atto  che  piu  la  cercano. 
Tuttavia  ne  abbiamo  esempi  in  Esopo  e  singolarmente  nelle  fa- 
vole  Uaquila  e  lo  scarafaggio,  Uuomo  e  il  cane,  dove  i  passaggi  son 
maneggiati  con  una  inimitabile  agevolezza. 

Se  io  volessi  qui  parlar  d'altro  che  di  favole,  con  qual  com- 
piacenza  citerei  parecchi  lirici  italiani,  i  quali  coir  artifizio  de' 
passaggi  hanno  sparso  le  lor  poesie  di  quella  ingenuita  che  trae 
al  grave!  Pur  da  essi  potrebbero  i  favolisti  prender  soccorso; 
con  grandi  cautele  per6,  come  se  dovessero  cercar  qualche  cosa 

i.  Chris cian  Gellert  (1715-1769),  uno  dei  poeti  tedeschi  tradotti  dal  Ber- 
tola  ndVIdea  della  bella  letter atur a  alemanna,  compose  anche  favole,  riunite 
nella  raccolta  Fabeln  und  Erzahlungen  (1746),  assai  note  e  tradotte  nel- 
FEuropa  settecentesca. 


AURELIO  DE'    GIORGI   BERTOLA 

in  mezzo  alle  fiamme.  Certo  i  Greci  recarono  questo  artifizio 
alia  squisitezza;  la  quale  fra  tutti  i  moderni  non  fu  ben  ricopiata 
che  dagli  Italian!,  e  dal  Petrarca  principalmente  in  quelle  due 
celesti  canzoni: 

Chiare  fresche  e  dolci  acque  .  .  . 
Quando  il  soave  mio  fido  conforto1  .  .  . 

i  cui  passaggi  dilicatissimi  furono  ripresi  da'  commentatori  sicco- 
me  un  vizioso  deviamento:  e  i  commentatori  fanno  il  rovescio 
pita  volte. 

Un  certo  andamento  nella  dizione  produsse  una  specie  d'inge- 
nuit&  che  si  potrebbe  dire  relativa:  n6  gi&  intendo  le  frapposmoni  e 
le  sospensioni,  che  non  possono  addomesticarsi  colla  qualit&  di 
cui  si  parla:  intendo  un  armonioso  accorciamento  di  voci;  una 
discreta  ommissione  di  articoli  e  talvolta  di  verbi,  una  certa  tron- 
catura,  inflessione,  caduta  di  periodo,  che  non  mostrino  aver  co- 
stato  fatica  a  chi  ha  scritto,  n6  mostrino  volerla  dare  a  chi  legge. 
II  Boccaccio  ha  de'  tratti  di  questa  natura;  e  ne  hanno  gli  altri 
che  scrissero  a  quella  et&,  e  moltissimi  il  Passavanti  alia  foggia 
della  celebre  risposta  deiralbergatore  di  Malmantile:*  i  quali  trat 
ti  erano  sentiti  come  ingenui  da7  contemporanei  di  quegli  scrit- 
tori;  e  come  tali  non  sono  oggi  sentiti  che  da  pochissimi.  Tanto 
siamo  lontani  dalPaver  pifi  negli  orecchi  quell'andamento,  che 
venendovi  esso  alcuna  volta,  ne  abbiamo  ribrezzo  e  lo  chiamiamo 
crudezza. 

Ora  io  credo  che  non  solo  i  moderni  prosatori,  ma  i  poeti 
didascalici  ancora  e  i  favolisti  principalmente  non  gitterebbero  il 
lor  tempo  neUJesaminare  i  fonti  di  quella  tale  ingenuity  ondc  voder 
pure  se  vi  fosse  modo  di  fame  declinare  una  parte  verso  di  noi; 
mescendola  intanto  con  altre  di  quelle  acque,  per  dir  cosl,  che 
giornalmente  beviamo.  Intrapresa  per6  si  scabrosa  che  non  so  se 
dimandi  piti  la  sofferenza  o  il  criterio:  certamente  moltissimo  di 

i.  Rime,  cxxvi  e  CCCLIX.  2.  risposta  . .  .  Malmantile:  neircscmpio  xiv 
dello  Specchio  di  vera  penitenssa,  1'albergatore  di  Malmantile,  interrogate) 
da  sant'Ambrogio  «di  suo  essere  e  di  sua  condizione »,  cosl  risponde:  « Jo 
ricco,  io  sano,  io  bella  donna>  io  assai  e  begli  figliuoli,  assai  famiglia,  n6 
ingiuria,  nd  danno  mai  non  ricevetti  da  persona.  Io  non  senti'  mai  n6  male 
ni  tristizia,  n6  che  maninconia  si  fosse  o  si  sia;  ma  sempre  lieto  e  contcnto 
sono  vivuto  e  vivo»  (cfr.  Prosatori  minori  del  Trecento,  i,  a  cura  di  G,  De 
Luca,  Milano-Napoli,  Ricciardi,  1954,  p.  90). 


SAGGIO   SOPRA   LA   FAVOLA  813 

tutti  e  due;  e  il  Zanotti,1  che  la  tent6  non  di  rado  e  felicemente, 
era  pieno  delPuna  e  dell'altro;  n6  e  facile  asserire  quale  de'  due 
requisiti  mancasse  all'Algarotti,  che  la  tent6  ancora  in  alquante 
prose  non  felicemente.  II  Gozzi  e  forse  il  solo  fra  i  piu  recenti, 
che  dimostri  esservisi  qualche  volta  accinto  in  versi. 

Alcuni  scambiarono  1'ingenuo  col  grazioso ;  e  sono  due  qualita 
molto  diverse  Tuna  dall'altra,  cosi  che  per6  chi  e  grazioso  e  an- 
che  ingenuo;  ma  chi  e  ingenuo  non  e  sempre  grazioso.  Le  quali 
piu  sottili  teorie  io  ho  cercato  di  svolgere  in  un  trattato  Sopra  la 
grazia  nelle  letter  e  e  arti:  e  questo  trattato  sara  il  piu  fortunato 
fra  tutti  gli  scritti  miei,  se  il  pubblico  vorra  riguardarlo  a  quel  mo- 
do  che  Than  riguardato  finora  parecchi  eccellenti  giudici  a'  quali 
io  Tho  letto;  e  da'  quali  ho  preso  animo  di  darlo  in  luce. 


I.  Francesco  Maria  Zanotti  (cfr.  la  nota  i  a  p.  764)  e  qui  citato  per  le  sue 
prose  scientifiche  e  filosofiche,  assai  ammirate  nel  Settecento  per  la  loro 
eleganza. 


SAGGIO   SOPRA  LA  GRAZIA 
NELLE  LETTERS  ED  ARTI 


Gli  scrittori  e  gli  artefici  che  hanno  posseduto  la  graxia,  paghi 
di  si  caro  tesoro,  sembrano  non  aver  punto  curato  di  ragionarne. 
Ci6  che  possiamo  attingerne  ai  libri  degli  antichi  filosofi  e  critici* 
ben  fu  segno  della  mirabile  purezza  di  que*  fonti;  ma  non  &  forse 
abbastanza.  Chi  di  loro  mir6  a  diffinirla  ricorrendo  aH'mdole  della 
soavita,  chi  cerc6  di  descriverla  analizzando  la  convencvoleim,2 


Come  si  fe  detto  nella  Nota  introduttiva,  Fidea  di  scrivere  un  saggio  sopra 
la  grazia  compare  gia  in  una  nota  apposta  alia  traduzione  della  voce  omo- 
nima  dell'Allgemeine  Theorie  der  schd'nen  Kiinste  del  Sulzer  (cfr.  Idea  della 
bella  letteratura  alemanna,  ed.  cit.,  n,  pp.  262-3),  dove  &  anche  abbosszato 
il  procedimento  e  indicate  il  fine  che  il  Bertola  riteneva  opportune  seguire 
e  raggiungere  in  un  lavoro  su  tale  argomento.  Nella  nota  citata  il  Bertola 
affermava  anche  che  « a  fare  un  libro  o  un  articolo  che  questi  erTetti  produca, 
si  richiederebbe  un  Mengs,  un  Gluck  o  un  Gessner ».  Ma  il  tema,  eviden- 
temente,  troppo  lo  allettava  perch£  non  vi  si  provasse  egli  stesso ;  e  due  anni 
dopo,  il  15  febbraio  1786,  egli  lesse  all'Accadernia  degli  AfHdati  di  Pavia 
(di  cui  era  «principe»)  il  suo  Saggio  sopra  la  grazia  (cfr.  A.  CoRBElxwi, 
Ninfe  e  pastori  sotto  Vinsegna  dello  « Stellino »,  in  « Bullettino  della  8ociet& 
pavese  di  storia  patria»,  x,  1910,  pp.  475-83),  II  breve  trattato  dovette  avere 
accoglienze  assai  favorevoli  da  parte  sia  degli  ascoltatori  sia  dei  letterati  a  cui 
1'autore  lo  fece  leggere  manoscritto,  se  egli  poteva  scrivere  tre  anni  dopo, 
nel  Saggio  sopra  lafavola: « questo  trattato  sara  il  pito  fortunato  fra  tutti  gli 
scritti  miei,  sc  il  pubblico  vorra  riguardarlo  a  quel  modo  che  Than  riguar- 
dato  finora  parecchi  eccellenti  giudici  a'  quali  io  1'ho  letto;  e  da'  quali  ho 
preso  animo  di  darlo  in  luce»  (cfr.  in  questo  volume,  p.  813).  Che  il  Ber 
tola  personalmente  tenesse  molto  alia  sua  operetta,  e  provato  anche  dal 
fatto  (finora  non  osservato)  che  egli  continu6  a  lavorarvi  anche  negli  anni 
seguenti,  come  dimostrano  il  paragrafo  sul  Pa&r,  certamente  aggiunto 
dopo  il  1791,  anno  in  cui  il  musicista  parmense  comincio  ad  essere  noto, 
e  la  nota  sulla  Griselda,  rappresentata  nel  1793.  fe  probabile  che,  proprio 
per  il  desiderio  di  perfezionare  ulteriormente  il  suo  scritto,  il  Bertola  fi- 
nisse  per  lasciarlo  inedito.  Esso  fu  stampato  postumo  nel  1822  ad  Ancona 
da  Alessandro  Sartori,  col  titolo  Saggio  sopra  la  graxia  nelle  fatter*  ed  arti, 
edizione  riprodotta  (come  fa  fede  qualche  errore  di  stampa  ripetuto)  in 
Alcune  operette  in  prosa,  a  cura  di  B.  Gamba,  Venezia,  Alvisopoli,  1829. 
Qui  riproduciamo  il  testo  dell'edizione  1822.  Le  note  del  Bertola  sono  se- 
guite  dalla  sigla  B. 

1.  Platone,   Tullio,   Plinio,   Quintiliano,   Pausania,   Luciano,   ec,   (B.)« 

2.  V.  singolarmente  Tullio,  lib.  i  e  3  De  oratore  e  in  Bruto>  e  Quintiliano, 
[Inst.  or.],  al  lib.  6  e  10  (B.),  Per  le  citazioni  particolareggiate  si  vcdano 
le  note  seguenti. 


SAGGIO   SOPRA   LA   GRAZIA  815 

e  chi  si  ristrinse  alia  voce  «venere»,  agguagliata  non  so  quanto 
dalla  nostra  « awenenza »,  si  valsero  di  questa  massimamente  par- 
lando  di  Apelle;1  e  sotto  la  medesima  intesero  e  soavita  e  conve- 
ncvolezza  e  luce  ad  un  tempo. 

Fra  i  moderni  e  filosofi  e  critici  e  artefici  ancora  rinnovarono  a 
gara  interrogazioni  alia  grazia:  e  molti  Thanno  sperimentata  ri- 
trosa  e  difficile,  quanto  con  Polifemo  una  Galatea.  lo  vorrei  venir 
mentovando  i  pensamenti  di  que'  pochi,  i  quali  mostraronsi  de- 
gni  di  penetrare  interamente  questo  secreto;  e  non  vorrei  diffor- 
marli. 

Fu  tra  noi  dichiarato,  e  gia  gran  tempo,  un  certo  splendore  che 
nasce  da  occulte  proporzioni  e  misure;*  idea,  in  cui  nulla  man- 
chcrebbe,  dove  non  mancasse  la  consolazione  di  un  «come».  Al- 
tri3  dimostr6  esscre  la  sprezzatura  uno  de'  primi  elementi  di 
quest'arcana  composizione ;  ma  non  precede"  piu  oltre.  V'ebbe  chi 
la  diffini  una  giusta  relazione  fra  la  maniera  di  pensare  e  di  espri- 
mersi  e  il  fine  che  uno  si  proponga;4  e  chi  la  ripose  in  un  certo 
grado  di  piacevolezza,  amenita  e  leggiadria  che  a  s6  tragga  i  cuo- 


i.  «Unam  illam  Venerem»,  ec.  (B.).  Cfr.  Plinio,  Nat,  hist.,  xxxv,  x, 
36:  « Quorum  [pictorum]  opera  quum  admiraretur,  collaudatis  omnibus, 
deesse  iis  unam  Venerem  dicebat,  quam  Graeci  Charita  vocant»  («Am- 
mirando  1'opera  di  questi  pittori,  dopo  averli  lodati  tutti,  diceva  che 
ad  cssi  rnancava  quella  sola  Venere  che  i  Greci  chiamano  Grazia »). 
2<  II  Firenzuola  nel  discorso  Sopra  le  bellezze  ec.  Questa  idea  nesce  a 
quella  del  Casa,  nel  Trattato  dey  costumi\  e  tutte  e  due  alle  idee  degli  antichi 
piu  ch'ogni  altra  de'  moderni  (B.).  II  Firenzuola,  nel  discorso  I  del  Dialogo 
delk  bellexxe  delle  donne,  definisce  esattamente  la  grazia  uno  « splendor » 
che  nasce  «da  una  occulta  proporzione,  e  da  una  misura  che  non  e  ne' 
nostri  Hbri»  (cfr.  Opere,  a  cura  di  A.  Seroni,  Firenze,  Sansoni,  1958,  p. 
563);  la  definizione  del  Casa,  che  veramente  si  riferisce  alia  bellezza,  ^  nel 
Galateo,  xxvi :  « dove  ha  convenevole  misura  fra  le  parti  verso  di  s6  e  fra 
le  parti  e  '1  tutto,  quivi  &  la  bellezza » (cfr.  Opere  di  Baldassare  Castiglione, 
Giovanni  Delta  Casat  Benuenuto  Cellini,  a  cura  di  C.  Cordie,  Milano-Na- 
poli,  Ricciardi,  1960,  pp.  428-9).  3.  L'autore  del  Cortigiano  (B.).  Cfr.  Ca 
stiglione,  //  CortegianO)  I,  xxvi,  in  Opere,  ed.  cit.,  p.  47:  «avendo  io  gia  piu 
volte  pensato  meco  onde  nasca  questa  grazia  . .  .,  trovo  una  regula  univer- 
salissima  .  .  .:  e  ciofe  fuggir  quanto  piii  si  po,  e  come  un  asperissimo  e  pe- 
ricoloso  scoglio,  la  affettazione ;  e,  per  dir  forse  una  nova  parola,  usar  in 
ogni  cosa  una  certa  sprezzatura,  che  nasconda  Tarte  e  dimostri  ci6,  che  si 
fa  e  dice,  venir  fatto  senza  fatica  e  quasi  senza  pensarvi ».  4.  Reflexions] 
sur  Us  sentiments  agrfables  (B.).  Allude  al  trattato  di  L.  J.  L6vesque  de 
Pouilly,  Theorie  des  sentiments  agredbhs  (Paris  1747),  di  orientamento  em- 
piristico,  gi^i  citato  anche  dal  Cesarotti  nel  Ragionamento  sopra  Vorigine  e 
i  progressi  delVarte  poetica  (cfr.  in  questo  volume  p.  83  e  la  nota  4). 


8l6  AURELIO  DE>    GIORGI   BERTOLA 

ri:1  ma  quella  relazione  e  quel  grado  non  dimandano  pur  eglino 
una  deffinizione?  Altri  s'argoment6  di  non  poterla  chiamare  piu 
acconciamente  che  un  non  so  che ;  e  di  non  poter  meglio  assegnar 
ragioni,  che  col  ricorrere  alia  sorpresa:*  con  che  vennc  ibrse  a 
confonderne  le  ragioni  e  gli  effetti  con  quelli  del  sublime.  Altri  ci 
lascia  alquanto  indeterminati  in  questa  per  altro  assai  ingegnosa 
diffinizione:  (d'azione  piu  gradevole  espressa  colla  maggiore  sem- 
plicita».3  Altri  con  linee  ideali4  disse  molto  per  Timmaginazione, 
poco  per  Fintendimento  e  per  1'uso.  Un  illustre  artefice  concepen- 
dola  come  la  perfezione  stessa5  esclude  o  dissimula  quelle  qualitsk 
che  sono  inerenti  al  grazioso,  e  che  ad  altri  generi  non  si  confanno. 
V'ebbe  finalmente  chi  dopo  un  vario  e  brillante  girar  di  parole 
conchiuse  che  la  grazia  esiste;  pigliando  la  sua  esistenza  c  la  sua 
natura  per  lo  medesimo. 

Nessuna  adunque  di  queste  deffinizioni  o  dichiarazioni,  per 
molto  che  vogliasi  aver  rispetto  all'autorita,  &  bastevole  a  dissipare 
le  tenebre  che  velano  tuttora  la  prima  e  piu  eccellente  cosa  che 
sia  tra  le  amabili.  Or  non  potrebb'egli  sperare  di  diradarle  alcun 
poco  chi,  senza  aspirare  a  lode  di  novita,  imparzialmente  si  provasse 
di  riunire  in  un  punto  e  il  miglior  lume  che  spunta  fuori  dalle 


i.  Sulzer,  Allgemeine  Theorie,  [voce]  Reiz  (B.).  fe  la  voce  tradotta  dal  Ber- 
tola  stesso  n&ll*Idea  delta  delta  letter atura  alemanna,  ed.  cit,  n>  pp.  257-63, 
Oltre  la  defmizione  citata  nel  testo,  se  ne  trova,  nella  voce  del  Sulzer,  qual- 
che  altra  piu  vicina  al  gusto  del  Bertola,  per  esempio  dove  si  definisce  la 
grazia  « un  non  so  che  squisitamente  tenero  e  dilicato,  che  desta  nel  fondo 
del  cuore  il  desiderio  e  rinclinazione  piu  viva » (p.  260).  2.  Montesquieu, 
Essai  sur  le  gout  (B.)-  II  saggio  fu  scritto  per  \Ency  clopldie>  dove  apparve 
nel  1757.  3.  Webb  (B.).  Allude  all'opera  di  Daniel  Webb,  An  Inquiry  into 
the  Beauties  of  Painting  (London  1760;  traduzione  francese,  Paris  1765), 
dove  sono  ripetute  idee  del  Mengs.  La  definizione  citata  &  nel  dialogo  IV, 
Del  disegno  (cfr.  traduzione  italiana  di  F.  Pizzetti,  Parma,  Stamperia  Im- 
periale,  1804,  p.  51).  4.  Hoguart  (B.)«  William  Hogarth  nel  trattato  The 
Analysis  of  Beauty  >  written  with  a  View  of  fixing  the  fluctuating  Idea  of  Taste 
(London  1753 ;  traduzione  italiana,  Livorno  1761),  dopo  aver  definite  quale 
linea  «della  bellezza »  quella  ondeggiante  (« waving  line»)>  specifica  che  la 
linea  « della  grazia »  &  quella  serpentina  (« serpentine  line »)»  sviluppo  della 
precedente.  5.  Mengs  (B.).  La  definizione  citata  dal  Bertola  £  in  realta 
data  dal  Mengs  non  alia  grazia  ma  alia  bellezza: « La  Bellezza  consiste  nella 
perfezione  della  materia  secondo  le  nostre  idee »  (cfr.  A.  R.  Mengs,  Ri- 
flessioni  su  la  bellezza  e  sul  gusto  della  pittura,  cap.  in,  in  Operet  a  cura  di 
G.  N.  D'Azara,  Parma,  Stamperia  Reale,  1780,  r,  p.  13);  mentre  altrove 
la  grazia  e  da  lui  esplicitamente  distinta  dalla  bellezza,  e  stabilita  nella 
« elegante  varieta»  (nelle  Lezioni  pratiche  di  pittura,  in  Qp&re>  ed.  cit., 
n,  p.  287). 


SAGGIO   SOPRA   LA   GRAZIA  8iy 

idee  degli  antichi,  e  quello  che  pu6  trarsi  dalle  ricerche  de'  mo- 
derni  ?  lo  m'appresto  di  farlo.  Possa  io,  parlando  della  grazia,  non 
profanarla! 


n 


Nulla  di  piu  caro  che  quell'aria  di  sprezzatura,  la  quale  ci  fa 
vedere  che  le  cose  furono  pensate,  dette,  fatte  senza  fatica,  e 
quasi  senza  porvi  mente.  Ma  questa  sprezzatura,  perch6  tragga 
a  s6  i  cuori  non  solo  non  dee  punto  sentire  di  ruvidita  e  di  bas- 
sezza;  ma  vuol  vestirsi  d'eleganza,  da  quelli  che  sceglie  e  abbel- 
lisce  rispetto  alle  arti  e  lettere:  quanto  alle  persone  intendesi  per 
eleganza  quel  fior  di  decenza  che  essenzialmente  si  richiede  a 
piacere  altrui.  V'ha  una  sprezzatura  che  apparisce  elegante  e  non 
appartiene  alia  grazia:  tale  e  quella  che  talvolta  incontriamo  nel 
Tasso,  in  Michelangiolo,  nel  Galuppi.1  II  Petrarca,  1'Ariosto,  il 
Coreggio  han  quella  in  cui  1'eleganza  s'insinua  come  di  furto. 
Due  valenti  suonatori  di  violino  sieno  per  poco  d'ora  sotto  a* 
nostri  occhi:  voi  vedete  un  d'essi  che  vuole  che  brillino  le  sue 
dita  e  che  Tarco  voli:  voi  vedete  brillar  le  dita  e  volar  Farco 
dell'altro,  e  gik  non  vedete  ch'egli  lo  voglia.  Hannovi  per6  nella 
sprezzatura  gradi  diversi  o  colori  che  sono  da  riferirsi  ora  alia 
particolar  indole  di  ciascuno,  ora  alia  materia  che  uno  ha  per  le 
mani,  ora  ai  modelli  a  cui  piu  siasi  applicato.  E  siccome  non  vanno 
per  le  vie  del  fiero  a  un  modo  stesso  Pordenone  e  Caravaggio, 
Michelangiolo  e  Giulio  Romano ;  cosl  non  e  la  sprezzatura  mede- 
sima  in  Anacreonte  e  in  Virgilio,  nel  Petrarca  e  neirAriosto,  in 
Raffaele  e  nel  Coreggio. 

Io  non  vedo  che  abbia  a  negarsi  alFessenza  della  grazia  questa 
sprezzatura  furtivamente  elegante  o,  a  dir  meglio,  questa  furtivitd 
di  eleganxa:  n6  parmi  per6  di  poter  riconoscere  in  essa  sola  tutte 
le  principali  proprieta  della  grazia:  dunque  cerchiamo  ancora. 

Mi  far6  a  dimandare  se  alcuno  abbia  mai  ricevuto  le  impression! 
del  grazioso,  senza  che  gli  andasse  pel  cuore  un  qualche  senso  di 
tenerezza.  E  vorrei  che  mi  si  additasse  un  solo  di  quegli  oggetti  a* 
quali  ben  si  appropria  il  nome  di  grazioso,  donde  non  spunti  un 
qualche  germe  di  affetto.  Chi  h  che  non  dica  e  non  senta  somma- 

i.  Baldassare  Galuppi  (1706-1785),  fecondo  compositore  di  opere  comiche 
e  serie,  di  oratorii  e  di  senate  per  clavicembalo. 


8l8  AURELIO   DE»    GIORGI   BERTOLA 

mente  graziosi  i  fanciulli,  i  quali  a  quella  loro  ingenuitk  naturale 
accoppiano  la  cordialitk  cosi  bene? 

Affinch6  per6  non  sia  alcimo  che,  pigliando  in  senso  rigoroso 
Taffetto  che  sta  nella  grazia,  trapassi  dalle  cagioni  agli  effetti,  di- 
chiariamo  che  vuolsi  qui  concepirlo  principalmente  come  un  co- 
tal  modo,  il  quale  faccia  intendere  che  la  cosa,  dove,  a  cagion 
d'esempio,  appartenga  alle  arti,  fu  anzi  fatta  colFanima  che  colle 
mani:  un  modo  che  faccia  intendere  certa  naturale  amorevolezza 
d'indole,  certa  disposizione,  facilita,  prontezza  a  piacere  altrui; 
certa  blandezza  di  passione,  la  quale  abbia  preseduto  alle  opere  co 
me  ai  pensieri;  quello  finalmente  che  nelle  persone  s'appella  cor- 
dialita,  e  che  con  diletto  incredibile  leggiamo  in  volto  a  certuni, 
da*  quali  n6  riceviamo  n6  aspettiamo  beneficenza  o  favore. 

£  qui  inoltre  da  tener  conto  delle  idee  accessorie  ancora,  e  di 
ci6  che  i  metafisici  dicono  concomitanza  e  associazione  d'idee; 
per  cui  la  ragion  dell'affetto  si  distende  ottimamente  su  quegli 
oggetti  che  a  bella  prima  crederemmo  mal  comportarla.  Sara 
quindi  grazioso  un  cestino  di  fiori  non  tanto  per  certo  venusto 
disordine  nella  piegatura  delle  foglie,  nella  giacitura  de'  gambi, 
nel  fortuito  intrecciarsi  de'  fiori;  quanto  per  alcun  che,  onde  di  la 
s'adombri  1'affetto.  Potranno  i  fiori  essere  di  quelli  il  cui  colore 
riduca  nella  immaginazione  dolci  ed  attraenti  cose:  in  una  ra- 
metta  di  rose  una  sia  ancor  bottoncino,  e  un'altra  cadevole  e  gia 
spogliata  di  qualche  foglia:  un  fioretto  de'  piu  gracili  rimanga 
anche  piu  oppresso  che  occultato  da  un  fior  grande  e  cupo  di 
tinte:  nella  qual  foggia  di  artifizi  graziosi  in  poesia  Teocrito  & 
maraviglioso.  In  pittura  alcuni  grazieggiarono  per  eccellcnza  ne* 
capelli,  toccandoli  con  certo  leggiadro  disprezzo:  trovarono  il 
modo,  per  dir  cosi,  di  farli  parlare;  e  col  loro  mezzo  espressero 
soprattutto  il  patetico. 

Siccome  rawisammo  la  furtivit&  della  eleganza  nella  conve- 
nevolezza  e  luce  degli  antichi,  cosi  ravvisaremo  1'affetto  nella  loro 
soavita.  Ma  questa  per  essere  veramente  tale,  dee  pur  aver  il 
suo  furtivo  ancor  essa;  senza  il  quale  non  diremo  una  persona 
o  un'opera  delParte  soave,  ma  smorfiosa.  E  per  allargar  un  poco 
Tesempio  appunto  delle  persone,  pongasi  mente  quanto  mal  di- 
spongano  1'animo  le  cordialit£  caricate  e  quasi  invereconde;  e 
quanto  alPincontro  ci  compiacciamo  di  quelle  che  dicono  al  no- 
stro  cuore  piu  che  non  mostrano ;  che  offrono  anche  alia  immagina- 


SAGGIO    SOPRA   LA   GRAZIA 

zione  di  che  pascersi  giocondamente,  che  ci  toccano  e  poi  sem- 
brano  fuggire,  e  tornano,  e  lascian  dubbio  se  mai  si  partissero: 
ben  si  vedra  chiaro  che  Paffetto  non  pub  non  furtivamente  insi-* 
nuarsi  nella  grazia.  A  chi  poi  cerchi  questa  fra  le  persone,  si 
affaccera  singolarmente  nelle  donne  men  belle,  come  quelle  che 
piu  provando  il  bisogno  di  rendersi  amabili  ricorrono  alParte; 
il  pudore  per6  vien  quasi  mortificando  quesfarte,  ed  ecco  cert' aria 
furtiva,  da  cui  &  naturalmente  alimentato  il  grazioso.  Quindi  inter- 
viene  si  spesso  che  le  men  belle  eccitano  le  forti  passioni  pill  che 
non  fan  le  bellissime. 

I  finti  sdegni  tanto  dilettano  nella  poesia  e  nella  musica  per 
quel  vero  appunto  che  spiccandosi  dal  cuore  celatamente  vi  tra- 
luce:  e  assaissimo  piacciono  ne*  fanciulli:  e  mi  ricorda  di  essermi 
avvenuto  in  uno  fra  gli  altri,  al  quale  essendo  stato  vietato  di 
accarezzare  persona  che  gli  era  cara  oltremodo,  come  questa  gli 
si  appressava,  egli  levavale  incontro  la  sua  picciola  mano  quasi 
a  maniera  di  minaccia;  e  intanto  i  suoi  occhi  tenerissimi  dicevanle 
soavemente  di  farsi  presso :  mossa  che  dava  nel  grazioso  fuor  di 
misura.  ' 

Grazioso  6  il  canto  che  gli  augelletti  mandano  per  Tana,  o 
tutti  appiattati  entro  una  siepe,  o  mezzo  ascosi  fra  le  tremole  foglie 
degli  alberi;  e  non  &  pur  tale  per  certo  quello  de'  medesimi  au 
gelletti  chiusi  e  ammaestrati  nelle  domestiche  gabbie.  6  grazioso 
un  ruscello  che,  rompendo  tortuosamente  la  svariata  eguaglianza 
di  una  pianura,  vedasi  qua  e  la  archeggiar  ne'  cespugli:  n6  gia  & 
tale  una  fonte  che  alto  zampilli  in  mezzo  a  un  giardino.  E  per 
dire  dell'odorato  ancora,  non  denominiamo  altrimenti  fragranza 
che  leggermente  trasvoli,  e  che  ci  lasci  incerti  donde  ella  spiru 

Ovidio  ed  il  Marino  sono  pur  facili  tutti  e  due  ed  eleganti; 
Taffetto  che  tanto  Iargheggi6  nel  lor  animo,  lo  trasfusero  ne'  loro 
versi.  N6  per6  son  graziosi;  perciocch6  manca  all'uno  e  all'altro 
quella  furtivita;  siccome  ne  son  senza  piu  altri  poeti  e  prosatori 
e  pittori  e  maestri  di  musica,  i  quali  aspirarono  visibilmente  al 
grazioso;  come  il  Cotta  cinquecentista,1  il  Zappi,  il  Roberti,*  il 

i.  Giovanni  Cotta  (1480-1510),  umanista  e  autore  di  liriche  latine,  per  cui 
fu  lodato  dal  Sannazzaro  e  dal  Flaminio  come  un  « nuovo  e  pid  dolce  Ca- 
tullo ».  2.  Giambattista  Roberti,  gia  ricordato  e  giudicato  piuttosto  seve- 
ramente  dal  Bertola  nel  Saggio  sopra  lafavola  (cfr.  in  questo  volume,  p.  802 
e  la  nota). 


820  AURELIO   DE>    GIORGI   BERTOLA 

Mignard,1  il  Bach,  ec.  Non  manca  a  Virgilio  e  airAriosto;  e 
poich6  nel  secondo  non  &  chi  non  la  vegga,  i  meno  intelligent!  po- 
trebbero  non  vederla  in  Virgilio,  il  quale  ne  cosparse  pcrfin  le  mi- 
nime  parti  delle  sue  opere ;  le  transizioni,3  a  cagion  d'esempio, 
tanto  innocentemente  velate,  e  tanto  leggiere  quanto  ne'  dipintori 
le  tinte  che  separano  i  diversi  colori,  onde  mal  si  discerne  quella 
entro  da  quella  che  esce. 

A  Venere  furon  date  per  ancelle  le  Grazie;  lo  che  dimostra 
che  la  bellezza  non  riceve  le  chiavi  del  cuore  umano  che  da  certa 
innocente  ma  vezzosa  negligenza  e  da  cert'aria  modestamente 
affettuosa  che  a  lei  si  accompagnino.  Cosl  in  Psiche,  la  piti  inge- 
gnosa  favola  delFantichit^,  in  Psiche,  che  di&  tanta  molestia  a  Ve 
nere  e  tanta  ne  ebbe,  si  cerc6  di  significare  il  grazioso,  soprat- 
tutto  in  quel  pudore,  in  quella  timidit&,  in  quel  mistero. 

La  sola  indicazione  delle  parti  principali  che  costituiscono  un 
cosi  prezioso  carattere  viene  a  dar  rilievo  alle  grandi  difficolt&  che 
si  frappongono  al  conseguimento  del  medesimo:  ora  qual  ma- 
raviglia  se  questo  carattere  Fincontriamo  tanto  di  rado  nelle  pcrso- 
ne,  come  nelle  opere  di  lettere  e  d'arti  ?  Dalla  stessa  indicazione 
spuntano  fuori  nuove  conferme  della  forza  e  deirincantesimo  del- 
la  grazia:  perciocch<§  v'ha  egli  alcuna  cosa,  la  quale  piu  adcschi 
gli  animi  e  gli  leghi  e  gli  arresti,  che  il  buon  garbo  e  Tingcnua 
cordialit^  congiunti  insieme?  Che  amabili  idee  non  risvegliano, 
che  giocondi  desiderii  non  mettono  in  moto  ?  Come  poi  c'innamo- 
rano  quelle  persone  in  cui  li  troviamo,  tanto  piu  dove  non  solo 
non  sospettiamo  alcuna  mira,  ne*  dubitiamo  di  alcun  artifizio,  dove 
non  solo  non  fe  ombra  di  ricercatczza  o  di  affettazione,  ma  tutto 
&  semplicitk  di  natura. 

Messe  pertanto  insieme  le  fin  qui  esposte  e  dichiarate  propriety 
della  grazia,  si  potrebbe  estrarne  una  diffinizione:  e  forse  andreb- 
be  ad  awicinarsele  molto,  se  non  a  raggiungerla,  chi  la  dicesse 
una  furtivite  di  eleganza  e  di  affetto.  Ma  io  non  oser6  gi£  diffinire. 
Nella  sprezzatura  per6  elegante,  ossia  nclla  furtivitk  dell'eleganssa 
rinverremo  a  mio  credere  la  convenevolezza  degli  antichi,  e  la 

i.Pierre  Mignard  (1612-1695),  pittore  franccse,  allievo  dei  Carracci,  e 
celebre  soprattutto  per  i  suoi  raffinati  ritratti.  a.  le  transisioni:  tipico  ar- 
tificio  della  poetica  classicistica,  raccomandato  in  patticolare  da  Orazio,  e 
su  cui  cfr.  anche  la  nota  4  a  p.  763.  II  Bertola  insiste  su  questo  artificio  anche 
in  altri  luoghi  delle  sue  opere  critiche. 


SAGGIO   SOPRA   LA   GRAZIA  82! 

lor  soavita  e  la  lor  luce  nella  furtivita  dell'affetto,  attribuita  altresi 
piu  espressamente  alPavvenenza  da  alcun  di  loro;1  per  nulla  dire 
del  raccogliere  che  si  fa  in  questa  espressione  il  meglio  che  fu 
ritrovato  dai  moderni ,  le  idee  soprattutto  de*  due  italiani3  e  del 
Webb. 


ill 

La  grazia  fu  molte  volte  scambiata  colla  finezza,  gentilezza, 
delicatezza,  volutta,  lepidezza,  e  importa  assai  il  distinguerla  dalle 
medesime.  Ora  a  farlo  con  piu  accuratezza,  noi  prenderemo  a 
considerare  le  mentovate  qualitk  una  ad  una;  ne"  sara  poi  vano 
venir  esaminando  le  diverse  relazioni  e  tendenze  che  possono  avere 
verso  la  grazia. 

Diciamo  fino  e  gentile  ci6  che  riguarda  la  mente;  delicato  e 
voluttuoso  ci6  che  va  al  cuore.  Ha  la  finezza  un  occhio  acutissimo, 
per  dir  cosi,  onde  tutte  scoprendo  le  mezzetinte  degli  oggetti, 
ne  scompone  quasi  le  idee  elementari,  e  le  riordina  poi  e  le  rim- 
pasta  temprandole  al  sentenzioso. 

II  gentile  ha  seco  una  gracilita,  una  lindura,  onde  tutti  gli  oggetti 
ch'esso  tratta,  acquistano  un  lusinghevole  che  tosto  si  addomesti- 
ca  col  nostro  spirito,  o  che  lo  direste  trasparenza  e  tuttavia  non 
gli  manca  il  suo  occulto. 

La  delicatezza,  la  cui  base  e  la  sensibilitk  piu  squisita,  adom- 
bra  ciascuna  idea  e  ciascun  sentimento  d'idee  e  di  sentimenti 
accessori,  ed  e  talvolta  cosi  leggiera  che  poco  manca  che  non  isva- 
nisca:  e  talvolta  fa  mestieri  che,  ricopiata  bene,  in  noi  passi  onde 
raccoglierla :  quindi  e  che  le  opere  delParti,  insigni  per  delicatezza, 
perdono  nelle  copie  fuor  di  misura. 

II  voluttuoso  s'appoggia  in  qualche  maniera  al  delicato:  non 
pare  che  sia  stato  mai  analizzato  abbastanza  come  un  carattere  a 
parte:  e  pure  lo  &,  ed  ha  egregia  forza  sopra  Tanimo  umano. 


i,  wlllam,  quidquid  agit,  quoquo  vestigia  vertit  /  componit  furtirn  subse- 
quiturque  Decor »  [«Lei,  qualunque  cosa  faccia,  dovunque  volga  i  passi, 
furtivamente  compone  e  segue  la  Grazia »;  gli  editori  moderni  leggono 
«movit»  in  luogo  di  vertit],  Tibullo,  lib,  4,  carmen  2,  [7-8],  B.  Da  questi 
versi  tibulliani  deriva  evidentemente  1'immagine  del « furtivo »  cosi  spesso 
impiegata  dal  Bertola.  2,  dey  due  italiani:  del  Firenzuola  e  del  Castiglione, 
ricordati  pnma. 


SZ2  AURELIO  DE>    GIORGI    BERTOLA 

Son  propri  del  medesimo  un  certo  abbandono,  una  certa  ncgligen- 
za  morbidamente  leggiadra,  non  per6  furtiva:  quindi  non  mai  si 
dirk  voluttuoso  un  fanciullo :  quindi  il  Tiziano  nelle  freschissime 
sue  Veneri  non  6  che  voluttuoso. 

II  lepido  che  nasce  da  un  ingegnoso  e  improvviso  accoppia- 
mento  di  due  cose  disparate  tra  loro  e  disconvenienti,  dove  ritenga 
delta  finezza,  6  arguto;  dove  della  delicatezza,  6  soavc,  c  move 
allora  piu  il  riso  deiranima  che  quel  della  bocca. 

Nelle  lettere:  Isocrate  e  fino  e  delicato,  Longo*  &  fino,  Seno- 
fonte  gentile,  lepido  Aristofane  e  Plauto,  siccome  Tullio  ne*  dia- 
loghi;  Ovidio  &  fino,  Tibullo  dilicato,  Orazio  fino,  dilicato  vo 
luttuoso  gentile  e  lepido  il  Boccaccio;  fini  e  gentili  il  Tasso  e  il 
Guarini  nelle  loro  pastorali,  fino  il  Marini,  fino  e  gentile  il  Chia- 
brera,  quando  si  mette  sulle  tracce  d' Anacreonte :  il  Zappi  gentile 
e  dilicato,  il  Rolli  dilicato  e  voluttuoso,  fino  e  gentile  PAlgarotti, 
fino  gentile  e  dilicato  il  Metastasio:  lepido  il  Berni:  lepido  e  fino  il 
Tassoni:  fino  il  Fontenelle,  lepido  il  Molier,  dilicato  e  gentile  il 
de  La  Motte,2  dilicato  il  Racine,  Chaulieu  e  il  Bernard3  voluttuosi: 
Gregeo4  fino  e  gentile,  il  Prior5  dilicato,  il  Gray6  gentile,  il  Waller7 
fino,  lo  Swift  lepido :  Starte8  lepido  e  fino,  fino  il  Gleim,  il  Kleist 
dilicato,  fino  e  gentile  Wieland,  Hagedorn  gentile,  dilicato  e 
gentile  il  Gaspar.9 

Nelle  arti;  dilicato  il  Barocci,  fino  e  dilicato  il  Penmino,10 
voluttuosi  Guido"  e  PAlbani,  gentile  Andrea  del  Sarto.  Fino  il  Ber- 


x .  Longo  Sofista,  autore  degli  Amori  pastorali  di  Dafni  e  Che,  tradotti  da 
Annibal  Caro.  2 .  Antoine  Houdar  de  La  Motte  (su  cui  cfr.  la  nota  2  a  p .  8 1 ) 
&  qui  ricordato  per  le  sue  Odes  (1709)  e  Fables  (1719).  3,  Guillaume  Amfrye, 
abbe"  de  Chaulieu  (1636-1720),  scrisse  rime  (pubblicate  postume)  soprattutto 
di  argomento  amoroso,  assai  apprenzate  dai  contemporanei  per  la  loro  ele- 
ganza  n&glig6e\  Pierre-Joseph  Bernard  (1708-1775)  cant6  1'amore  volut 
tuoso  in  parecchie  liriche  e  soprattutto  nella  Art  d* aimer.  4,  Gregeo:  non 
so  a  chi  alluda  il  Bertola.  5.  Matthew  Prior  (1664-1721),  poeta  inglese, 
autore  di  satire  e  di  epigrammi.  6.  Thomas  Gray  (1716-1771),  1'autore 
della  Elegy  written  in  a  Country  Churchyard,  di  cui  e  riprodotta  in  questo 
volume,  a  pp.  270-5,  la  traduzione  cesarottiana.  7.  Edmund  Waller  (1606- 
1687),  uno  degli  iniziatori  del  classicismo  inglese.  8.  Starte:  allude  pro- 
babilmente  a  Gotthelf  W.  Chr.  Starke  (1762-1830),  autore  di  Gemdlde  aus 
dem  hftuslichen  Leben  in  Erztthlungen  (1793-1798).  9.  II  Gleim,  il  Kleist, 
il  Wieland  e  V Hagedorn  sono  tra  i  poeti  tedeschi  tradotti  dal  Bertola  nel- 
Vldea  della  bella  letteratura  alemanna.  Sul  Gleim  e  sul  Wieland  cfr.  le  note 
2  e  8  a  p.  437;  sul  Kleist  e  PHagedorn  la  nota  i  a  p,  778.  Non  so  chi  possa 
essere  il  Gaspar,  10.  Perusxino:  Perugino.  u.  Guido:  Reni. 


SAGGIO   SOPRA  LA   GRAZIA  823 

aim,  il  Cellini  gentile,  dilicato  e  gentile  il  Gonelli1  ogni  qual  volta 
ha  voluto  esser  tale,  dilicato  il  Gujom,2  fino  dilicato  e  gentile 
Traietta,3  fino  e  dilicato  il  Gluk,  il  Sacchini4  fino  e  gentile,  vo- 
luttuoso  il  Paesiello,  lepido  il  Sarti.5 

Alcuni  mostrarono  di  pigliare  Tuna  per  1'altra  la  delicatezza  e  la 
finezza;  perch6  Tuna  e  Faltra  trascurano  e  dissimulano  le  idee 
intermedie,  e  coprono  i  pensieri  e  le  immagini  di  un  qualche  ve- 
lo :  cosi  gli  odorati  volgari  non  discernono  talvolta  una  fragranza 
dall'altra;  ma  il  profumiere  non  ci  s'inganna. 

Viene  ad  alterarsi  1'ingegno  per  Fabuso  della  finezza  e  della 
gentilezza,  come  il  palato  per  1'abuso  delle  sake.  Prende  uno  1'a- 
bito  di  mascherar  ogni  idea  piu  comune  di  acutezze  pellegrine  e 
rimote  e  si  distempra  troppo  nel  carezzevole  o  da  nello  stenta- 
to,  di  stropicciare,  per  dir  cosl,  un  metallo  gik  netto  senza  mai 
rifinire.  II  Tasso  abus6  della  finezza  ntlVAminta,  e  della  genti 
lezza  il  Guarini  nel  Pastor  fido\  e  la  prima  fu  condotta  dal  Ma 
rino  e  da'  suoi  seguaci  a  quello  strano  corrompimento  che  tutti 
sanno.  Chi  dicesse  che  dell'una  e  dell'altra  si  abusi  alcun  poco 
nel  Tempio  di  Gnidof  dispiacerebbe  a  molti,  ma  piacerebbe  alia 
veritk. 

La  delicatezza  degenera  di  leggeri  in  una  leziosa  galanteria,  in 
una  misteriosa  insipidezza;  anzi  che  verso  il  diletto,  conduce  il 
nostro  pensiero  verso  una  rincrescevole  dubbiezza.  Si  vuole  che 
molti  recenti  lirici  e  tragici  d'oltremonti,  gli  alemanni  singolar- 
mente,  sieno  caduti  in  questo  vizio. 

II  voluttuoso  corrompesi  anche  piu  facilmente,  e  piu  sconcia- 
mente  piega  al  licenzioso  e  all'osceno,  siccome  veggiamo  in  al- 


i.  Giovanni  Francesco  Gonnelli  o  Gonelli  (1603-1664),  scultore  toscano, 
che  Iasci6  opere  a  Firenze,  a  Genova  e  nel  Senese.  2.  Gujom:  allude  allo 
scultore  e  architetto  francese  Jean  Goujon  (1510  circa-  1568),  uno  degli 
iniziatori  della  tradizione  rinascimentale  francese  nelle  arti  figurative. 
3.  Traietta:  Tommaso  Traetta  (1727-1779),  musicista,  noto  soprattutto 
come  compositore  di  opere  serie  e  buffe,  nelle  quali  arricchl  di  cori  e  balli, 
sull'esempio  francese,  il  melodramma  italiano.  4.  Anton  Maria  Gaspare 
Sacchini  (1730-1786),  anch'egli  autore  di  opere  serie  e  buffe,  antagonista 
del  Gluck  negli  ultimi  anni  della  sua  vita.  5.  Intorno  a*  compositori  di 
musica  specialmente  non  si  pretende,  rawisando  in  essi  una  qualita,  esclu- 
dere  le  altre  di  cui  furono  forniti :  si  vuole  qui  unicamente  accennare  quella, 
dir6  cosl,  a  che  ciascuno  parve  nato  (B.);  Giuseppe  Sarti  (1729-1802), 
autore  di  opere  serie  e  bufTe  e  di  musica  religiosa.  6.  Le  Temple  de  Cnide> 
del  Montesquieu,  pubblicato  nel  1725  sotto  altro  nome. 


824  AURELIO   DE>    GIORGI   BERTOLA 

cune  odi  di  Orazio,  e  molto  piu  nel  Bernard;  dove  non  disdica 
far  si  gran  salto. 

II  lepido  finalmente  si  trasforma  agevolmente  in  abbietta  buf- 
foneria  o  in  motteggi  frivoli  o  indecent ;  c  non  &  privo  il  Bcrni 
di  siffatte  macchie,  per  nulla  dire  degrimitatori  di  lui,  de*  piu 
moderni  massimamente. 

A  tutte  le  arti  si  conferiscono  la  finezza,  la  delicatezza,  la  vo- 
lutta,  la  gentilezza,  la  lepidezza:  ma  non  a  tutte  ugualmente.  La 
poesia  e  Toratoria  offrono  liberi  e  distinti  spazi  a  tutte  del  pari. 
Nella  pittura,  nella  scultura,  nella  musica,  e  piu  nella  danza  il 
fino  e  il  gentile  possono  qualche  volta  esser  presi  un  per  Taltro. 
II  dilicato  nelle  due  prime  arti  pu6  scambiarsi  facilmente  col  vo- 
luttuoso.  La  musica  apre  un  cosi  largo  ed  acconcio  campo  alia 
lepidezza,  che  piu  nol  possono  aprire  la  poesia  e  Toratoria. 

Le  idee,  le  immagini,  i  sentimenti  saranno  fini,  dilicati,  volut- 
tuosi,  gentili,  lepidi,  senza  che  lo  stile  sia  tale,  e  viceversa  non 
saranno  graziosi  i  sentimenti,  le  immagini,  le  idee,  senza  che  lo 
stile  lo  sia;  e  viceversa  altresi.  Questo  e  quelli  formano  nella  grazia 
un  tutto  inseparable.  Non  6  gik  che  una  idea  fina  espressa  senza 
finezza  non  sia  un  difetto :  vogliamo  dire  che,  malgrado  il  difetto 
della  espressione,  ci  accorgiamo  della  finezza  della  idea,  e  la  pre- 
giamo;  siccome  facciam  lo  stesso  di  una  espression  fina  di  non 
fino  concetto:  la  qual  cosa  non  &  mai  della  grazia;  non  poter  av~ 
venir  della  grazia  torna  manifesto  da  ci6  che  si  &  detto  della  essen- 
za  della  medesima. 

Pare  che  la  finezza  e  la  gentilezza  possano  assai  bene  e  penetrare 
e  spargersi  nel  corpo  di  un'opera  e  infiorarlo  tutto;  dicasi  lo 
stesso  della  lepidezza,  con  che  si  espongono  largamente  le  cose/e 
con  che  si  pu6  rallegrare  un  intiero  trattato.  Non  cosl  la  delicatez 
za  ne"  la  volutta:  perciocche*  se  &  dato  allo  spirito  insinuarsi  dapper- 
tutto  e  dappertutto  rimaner  sempre;  al  sentimento  g&  non  e  dato. 
Pur  la  grazia  cosl  acconciata  si  distende  nel  tutto  come  annic- 
chiasi  nelle  parti,  n6  stanca  ne"  sazia  mai, 

Siccome  hawi  una  finezza  e  una  gentilezza  che  piacciono  in 
ogni  et£  e  ad  ogni  nazione,  quali  si  riscontrano  nel  Metastasio ; 
cosl  ve  n'ha  che  si  confanno  solamente  a  certe  et&  e  a  certe  nazioni: 
e  ci6  non  ha  d'uopo  di  esempi  o  di  prove.  Ancor  piu  soggetta  ad 
eccezioni  6  la  lepidezza:  ne"  solamente  ci6  che  parve  lepido  in 
certi  anni  e  in  certi  paesi  piu  nol  parve  in  altri  ed  altrove:  ma 


SAGGIO    SOPRA   LA   GRAZIA  825 

nelle  provincie  di  una  nazione  medesima  ebbe  ed  ha  pur  oggi  varia 
fortuna.  Quante  facezie  di  Plauto  e  Terenzio:  quante  delle  com- 
medie  de'  nostri  cinquecentisti  non  piaccion  piu  oggi!  Quale  delle 
citt£  d'ltalia  trova  un  grato  sapore  nel  Gigli  e  nel  Fagiuoli,1  e 
quale  mal  li  comporta. 

Per  la  dilicatezza,  per  la  volutta  non  ci  &  un  secolo  ne  una  na 
zione:  in  ogni  tempo  tutti  i  colti  uomini  hanno  gustato  e  guste- 
ranno  Orazio,  Tibullo,  il  Racine. 

Ma  la  grazia  non  pur  non  soggiace  al  variar  de'  tempi  e  al 
genio  particolare  delle  nazioni  come  la  finezza,  la  gentilezza,  la 
lepidezza,  non  pur  in  tutte  le  eta  e  gustata  da  tutti  i  colti  uomini 
come  la  dilicatezza  e  la  volutta;  ma  &  riconosciuta,  &  sentita,  6 
avuta  cara  sempre  e  da  per  tutto  ancor  da'  non  colti. 

Ove  tengasi  alquanto  dietro  ai  remoti  periodi  della  storia  delle 
arti,  si  riscontreranno  argomenti  della  maniera  onde  gli  Egizi  si 
addomesticarono  colle  arti  grate.  Invano  si  trasportavano  a  Neu- 
crati2  e  busti  e  pitture  di  mano  maestra:  il  genio  nazionale  rima- 
nevasi  tutto  freddo  ed  immoto.  Comparve  finalmente  una  tavola 
d'Apelle,  un  marmo  uscito  dalle  mani  di  Prassitele,  e  FEgiziano 
allora  sentl  per  la  prima  volta,  e  quasi  suo  malgrado  senti,  averci 
fra  gli  stranieri  alcun  oggetto  verso  cui  i  suoi  desiderii  inchinavano 
irresistibilmente. 

A  chi  abbia  esaminato  i  principii  e  i  progressi  della  comunica- 
zione  degli  Europei  colla  Cina,  balza  certo  agli  occhi  come  il 
primo  voto  che  sorgesse  in  cuore  ai  Cinesi  per  le  arti  europee, 
si  diresse  a  que'  disegni  che  traevano  al  grazioso.  E  chi  siasi  av- 
venuto  in  alcuno  di  quella  gente  a  Roma,  dee  aver  osservato  come 
passi  correndo  dinanzi  alle  opere  di  artefici  di  sublime  carattere, 
e  si  arresti  e  vagheggi  e  girisi  avidamente  attorno  ai  piccioli 
quadri  dove  parla  la  grazia.  Cosl  parecchi  son  testimoni  dell'ap- 
passionarsi  che  fanno  quegli  stessi  uomini  nella  galleria  napole- 
tana  di  Capo  di  Monte  per  la  S.  Catterina  del  Coreggio.3  Si 
osserverk  proporzionatamente  la  stessa  cosa  fra  i  selvaggi,  come 


i.  Girolamo  Gigli  (1660-1722),  autore  fra  Taltro  della  Sorellina  di  don  Pi- 
lone,  e  Giambattista  Fagiuoli  (1660-1742)  sono  fra  i  piti  notevoli  rappre- 
sentanti  del  teatro  comico  settecentesco  pregoldoniano.  2.  Neucrati:  Nau- 
crati,  porto  sul  Nilo  e  centre  degli  scambi  con  la  Grecia.  3.  la  S.  Cat 
terina  del  Coreggio:  lo  Sposalizio  di  S.  Caterina  (1518),  oggi  al  Museo 
Nazionale  di  Napoli. 


826  AURELIO   DE»    GIORGI   BERTOLA 

pu6  ognuno  rilevare  dalle  storie  delle  due  Indie,  e  come  lo  ha  a 
me  confermato  a  voce  un  ingenuo  e  sagace  viaggiatore  cd  arte- 
fice,  il  sig.  Zimmerman  che  accompagn6  il  Cook  nelFultimo  de' 
suoi  viaggi. 

A  tutto  ci6  torna  d'aggiungere  1'esempio  si  giornalicro  de'  no- 
stri  idioti,  i  quali  non  san  mai  levarsi  d'attorno  a  un  dipinto 
in  cui  sia  impresso  il  grazioso;  mentre  n6  bella  n6  brutta  lor  sem- 
bra  una  tela  di  robusta  e  grandiosa  maniera.  Lo  stesso  4  ancor 
piti  comunemente  nella  danza;  lo  spettatore  piti  volgare  per  cui 
la  finezza  e  la  gentilezza  de*  moti  e  rivolgimenti  sfumano  inos- 
servate,  ove  gli  si  presenti  la  grazia,  divora  per  dir  cosl  collo  sguar- 
do,  non  move  palpebra,  e  sente  il  soave  bisogno  di  dare  in  un 
sospiro. 

Finalmente  per  dir  d'un'altr'arte  ancora,  se  cerchiamo  fra  Ic 
poesie,  quali  sono  le  predilette  dal  popolo  e  quelle  che  gli  s'in- 
cidono  quasi  a  mezzo  il  cuore,  verremo  ad  accertarci  che  il  ca- 
rattere  poetico  il  quale  s'apre  tosto  la  via  airanimo  idiota,  &  il 
grazioso.  Questa  vernice,  dir6  cosl,  &  che  diffonde  una  magica 
amenita  sopra  qualsivoglia  oggetto;  &  questa  superficie  morbidis- 
sima  che  adesca  tutte  le  menti;  &  tale  nel  Petrarca  la  privileggiata 
natura  di  questo  sapor  prezioso,  che  lusinga  i  palati  anche  stupidi 
o  guasti. 


IV 

Pu6  uno  essere  fino  o  delicato  o  voluttuoso  o  gentile  o  lepido, 
od  anche  tutte  queste  cose  insieme,  e  non  esser  grazioso;  giac- 
ch6  in  nessuna  di  queste  qualita  risiede  tutto  quello  che  forma 
Tessenza  della  grazia:  non  pu6  uno  esser  grazioso  senza  essere 
fornito  della  maggior  parte  delle  anzidette  qualita;  giaccW  6  pur 
chiusa  nelle  medesime  una  parte  delFessenza  della  grazia.  Lo  che 
verra  a  farsi  piti  chiaro,  ove  ricorriamo  a  una  distinzione  limpida 
e  naturalissima. 

La  grazia  pertanto  or  trae  al  grave,1  ora  allo  scherzevole,  ora 


i.  Grazia  grave,  grazia  sublime,  o  seria  per  sublime •;  «Quid  Herodoto 
dulcius,  aut  Thucydide  gravius  ? »  [« Che  cosa  e  piti  dolce  di  Erodoto,  piti 
grave  di  Tucidide? »],  Cic.,  in  Hon.,  B.  (citazione  da  Nonio,  De  comp.  doct.r 
s.  v.  grave). 


SAGGIO    SOPRA   LA   GRAZIA  827 

al  vago.  La  prima  ritiene  alcun  che  dalla  gentilezza  e  dalla  deli- 
catezza:  la  seconda  dalla  finezza  e  dalla  lepidezza:  la  terza  dalla 
delicatezza,  dalla  volutta  e  dalla  gentilezza.1 

Per  la  grazia  che  trae  al  grave  noi  non  intendiarrio  gia  quella 
che  da  alcuni  fu  attribuita  ad  Omero,  e  della  quale  vien  egli  pro- 
clamato  inventore  da  Falereo,2  grazia  terribile,  risentita,  che  altri 
rinvenne  in  Michelangelo,  in  Dante,  nel  Milton.  Deh  chi  vorra 
avere  si  poca  pieta  della  grazia  da  stringerla  in  compagnia  della 
sublimitk  della  maesta  della  grandezza?  Queste  ben  furono  corn- 
partite  a  Giunone  e  a  Minerva,  e  movono  ad  ammirazione  e  a  ri- 
spetto:  troppo  alti  sentimenti,  perch6  il  cuore  ardisca  concepire 
alcun  voto,  e  perch6  spunti  quella  soave  e  tenera  inclinazione 
che  dalla  grazia  6  ispirata.  Se  que'  forti  atteggiamenti,  se  quelle 

I .  Questa  distinzione  ci  viene  abbastanza  adombrata  dagli  antichi  maestri, 
singolarmente  da  Tullio  e  da  Quintiliano ;  ed  e  maraviglia  che  non  ci  sia 
stato  finora  chi  abbia  voluto  vederla  ne'  medesimi,  e  chiamarla  a  portar 
luce  ne'  secreti  penetrali  delle  lettere  e  delle  arti.  « [Omni]  lepore  ac  ve- 
nustate  affluens»  [«Riboccante  di  lepidezza  e  di  venusta»],  Cic.,  7  Verr.y 
[LIV,  142],  «Amemtates  omnium  venerum  et  venustatum»  [«Le  amenita 
di  tutte  le  veneri  e  venusta»],  Plauto,  Sticho,  2,  I,  [5].  «[Venustum  .  .  .] 
quod  cum  gratia  quadam  (nel  quadam  e  espresso  il  non  so  che)  et  venere  di- 
catur»  [«Venusto  .  .  .  ci6  che  si  esprime  con  un  non  so  che  di  grazia  e  di 
leggiadria»],  Quintil.,  [Inst.  or.],  lib.  6,  c.  4,  [18].  «Dicendi  vis  summa 
festivitate  et  venustate  coniuncta»  [«Energia  d'espressione  congiunta 
con  una  somma  festivita  e  venusta»],  Cicer.,  De  orat.,  [i],  cap.  57,  [243]. 
«Cum  pulchntudinis  duo  genera  suit,  quorum  m  altero  venustas  sit, 
in  altero  dignitas,  venustatem  muliebrem  dicere  debemus,  dignitatem 
virilem»  [«Essendo  due  i  generi  di  bellezza,  uno  dei  quah  consiste  nella 
venusta,  Taltro  nella  dignita,  dobbiamo  ritenere  la  venustd.  qualita  muliebre, 
la  dignita  qualita  virile »],  Cic.,  [De]  offic.,  [i],  cap.  36,  [130].  Con  che  si 
viene  in  chiaro  che  colla  voce  venustas  e  indicata  la  grazia  grave,  colla  voce 
lepos  la  scherzevole,  colla  voce  venus  la  vaga.  La  voce  venustas  e  quasi  ge- 
nerica,  come  in  Tullio;  e  per  dir  cosl  la  radice  delle  altre  due;  e  Quintiliano 
la  dice  « grazia  »,  bench£  non  sempre  cosl  la  chiami.  II  venusto  distingue  egli 
dal  ridicolo  ossia  dal  salso  assai  acconciamente  (vedi  [Inst.  or.],  libro  6,  ca- 
pitolo  4,  [20]),  e  il  lepos  divisa  col  faceto  (vedi  loco  citato),  non  volendo  egli 
che  significhi  non  solamente  il  ridicolo,  ma  ancora  certa  appellazione  di  de- 
coro,  e  certa  gentile  e  disinvolta  eleganza.  Quindi  riporta  le  parole  di  Bruto 
conservateci  da  Tullio  nelle  sue  lettere:  «non  ci  son  piedi  piu  faceti,  n6 
che  piti  mollemente  facciano  1'entrare  delizioso»;  indi  quelle  di  Orazio, 
con  che  loda  il  suo  amico  Virgilio,  cioe  il  «molle  atque  facetum»  (B.)- 
Nell'edizione  del  1822  le  parole  da  II  venusto  alia  fine  sono  poste,  per  errore, 
come  un'altra  nota  alia  fine  del  capoverso  seguente;  mentre  neiredizione 
del  1829  il  Gamba  le  sopprime  addirittura.  La  citazione  oraziana  fe  tratta 
dai  Serm.,  I,  x,  44.  2.  «  Homerus  .  .  .  primus  dicitur  horrentes  Veneres  re- 
perisse »  [« Si  dice  che  Omero  per  primo  abbia  ritrovato  la  bellezza  tcr- 
],  B. 


828  AURELIO   DE»    GIORGI   BERTOLA 

gagliarde  espressioni  n'ebbero  il  nome,  vi  rawiseremo  Pardir  d'un 
traslato  giustificato  dalla  grande  malagevolezza  di  bene  caratteriz- 
zar  gli  uni  e  le  altre. 

Trae  al  grave  quella  grazia  che  si  fa  interprete  di  nobilc  pas- 
sione,  che  si  raggira  per  intorno  alia  eccellenza  e  non  interne 
alia  singolaritk  degli  oggetti,  quella  per  cui  il  pianto  divien  tal- 
volta  uno  de'  piu  cari  piaceri.  Tale  per  1'ordinario  &  quella  di 
Virgilio,  del  Petrarca,  di  Raffaele,  del  Pergolesi. 

Trae  allo  scherzevole  quella  grazia,  la  quale  spruzzi  Tingenua 
facezia  e  giocondit£  d'alcun  affetto  soave.  Tale  per  Tordinario  & 
quella  di  Catullo  e  del  La  Fontaine.  N<§  si  pu6  rawisarla  in  Cicero 
ne,  nato  veramente  per  la  facezia,  o  in  questa  cosi  studioso,  che 
sappiamo  da  Plutarco1  averlo  gli  amici  di  lui  ricercato  che  si  mo- 
derasse  nella  copia  dello  scherzo  e  nel  motteggiare:  pcrciocch6 
non  altro  e  in  lui  che  il  ridicolo  e  il  salso  senza  ombra  alcuna  mai 
di  quelPaffettuoso  e  di  quello  sprezzato  senza  che  non  pub  stare 
il  grazioso.  Molto  meno  vorremo  compatire  questa  allo  Swift,  il 
quale  deridendo  la  debolezza  degli  uomini  prende  a  compor  libri 
colFaiuto  di  una  macchina  e  a  fabbricar  case  incominciando  clal 
tetto:2  concetti  dicevoli  interamente  al  lepido,  Diciamo  graziosi  i 
piccioli  cagnoletti  che  imitano  con  gioconda  tenerezza  le  carezze 
che  lor  si  fanno:  la  quale  appellazione  non  si  conf&  per  certo  n<5 
a  un  grosso  cane  ne*  a  uno  scimiotto,  che  vengono  imitando  le 
sagacitk  e  le  azioni  degli  uomini. 

Come  circoscrivere  quella  grazia  che  trae  al  vagol  Leggiera, 
fresca,  innocente  ritiene  quasi  il  fior  piu  squisito  delle  altre  due; 
e  forse  alcuno  vorrebbe  dirla  la  grazia  vera.  Chi  non  sa  che  ci6 
che  e  in  moto  e  va  vagando  eccita  maggior  desiderio  che  ci6  che 
possiamo  vedere  a  nostr'agio?  Quindi  per  certo  vaghezza  viene 
a  significare  cosa  che  non  si  pu6  mirare  senza  divenirne  desideroso ; 
senza  cercarla  tosto  e  avidamente,  senza  vagar  colla  mente  e  col 
cuore.  Leggiadramente  diffinl  un  nostro  vecchio  scrittore  vaga 
donna  quella  che  ha  «un  certo  ghiotto  colla  onestk  mescolato  ».3 


i.  da  Plutarco:  nella  Vita  di  Cicerone^  xxvi.  2. prende  ,  .  .  tetto:  sono  due 
dclle  invenzioni  escogitate  dagli  scienziati  deH'accademia  di  Laputa,  uno 
dei  paesi  immaginari  descritti  nei  Viaggi  di  Gulliver ,  3.  un  nostro  . . , 
mescolato:  il  Firenzuola  nel  Dialogo  delle  bellezste  delle  donne,  discorso  I 
(cfr.  Opere,  ed.  cit,  p.  564). 


SAGGIO   SOPRA  LA   GRAZIA  829 

Or  della  grazia  che  trae  a  questo  vago  pu6  ancor  dirsi  che  quel 
suo  andarsi  movendo,  quel  cangiar  che  fa  di  luogo  e  talor  di 
colore  mette  altrui  in  una  deliziosa  dubbiezza;  perciocch6  inna- 
morato  or  di  questa  or  di  quella  attrattiva,  che  gli  si  vengono 
successivamente  svelando,  corre  lor  dietro  col  pensiero,  e  poi 
vorrebbe  raccoglierle  tutte,  e  gli  par  che  si  fuggano;  ma  gli  la- 
scian  fuggendo  tanto  di  che  soddisfarsi.  Anacreonte,  tale  e  la 
tua  grazia.  Ogni  nazione  t'ha  rivestito  alia  sua  foggia,  e  tralu- 
cono  le  tue  bellezze,  qualunque  sia  Pabito  che  tu  prenda.  In 
ogni  nazione  avesti  imitatori:  quella  tua  naturalezza  per  cui  sen- 
za  mai  mostrar  di  cercar  nulla  trovi  tutto,  quella  ispir6  fiducia 
di  facilita;  simile  a  certi  punti  di  vista  a'  quali  crediamo  di 
giugnere  bentosto,  e  che  poi  sembrano  pixi  fuggire  da  noi 
quanto  piii  crediamo  di  awicinarci.  Sotto  de'  sottili  velami  sta 
il  fiore  della  tua  eleganza,  e  in  che  sprezzatura  fanciullesca  e 
involata  la  soavita  del  tuo  affetto!  Tale  e  la  grazia  del  Coreggio, 
allievo  fortunato  della  natura,  in  cui  colori  e  attrattive  irresi- 
stibili  sono  sinonimi!  Se  da  ad  imprestanza  la  piu  ingenua  elo- 
quenza  del  cuore  a  una  ciocca  di  capelli,  a  una  piega,  chi  dira 
delPaffetto  che  furtivamente  volteggia  sul  collo,  sugli  occhi,  sulle 
labbra  che  uscirono  dalla  mano,  se  non  le  Grazie  stesse  che  glie 
Than  retta? 


Al  fin  qui  detto  si  procaccera  miglior  lume  col  chiamare  in 
mezzo  alquanti  esempi  di  autori  e  di  artefici  e  delle  opere  loro. 
Non  ne  allegheremo  gia  quanti  sarebbero  opportuni  a  un  trattato ; 
ma  quanti  bastino  a  fiancheggiare  le  nostre  asserzioni;  ed  anche 
a  far  in  mo  do  che  chi  non  abbia  piu  di  domestichezza  con  questa 
sorta  di  fragranza,  si  metta  in  mente  i  differenti  fiori  che  la  tra- 
mandano. 

E  per  tornar  subito  ad  Anacreonte,  quella  colomba  che  aleg- 
giando  piove  odori,  quella  che  venduta  al  poeta  al  prezzo  di 
una  sola  delle  sue  canzonette  gli  ruba  1'esca  di  mano,  e  va  a  dor- 
mire  sulla  sua  cetra;  quel  nido  che  gli  Amori  han  fatto  in  petto 
al  poeta;  quelle  saette  uscite  dalla  fucina  di  Lenno,  le  cui  punte 
Venere  tingea  di  mele,  e  Amore  vi  andava  mescendo  il  fiele;  la 
descrizione  delFintaglio  rappresentante  Venere;  e  le  lodi  della 


830  AURELIO   DEJ    GIORGI   BERTOLA 

rosa,  e  i  ritratti  della  primavera . .  .*  quale  furtiva  profusione  di 
eleganza  e  di  affetti! 

Bench<§  di  questo  nettare  dell'arte,  dir6  cosi,  sieno  sparsi  pa- 
recchi  idilli  di  Teocrito,  in  nessun  altro  luogo  per6  si  fa  sentire 
piu  puramente  che  nelPidilio  delle  Siracusane,  dove  e  la  grazia  che 
trae  allo  scherzevole  e  quella  che  trae  al  vago  quasi  consumano 
Testremo  delle  loro  forze. 

Pare  che  i  Latini,  senza  soverchiamante  abbagliarsi  di  se  me- 
desimi,  non  abbiano  avuto  a  vile  di  riconoscersi  in  questa  parte  in- 
feriori  di  molto  ai  Greci,  a'  quali  alcun  di  loro  non  sollevb  qui 
le  speranze,  siccome  pur  fecero  in  altri  generi  ad  Esiodo  e  a 
Callimaco.  Anzi  Quintiliano  appena  mostra  di  voler  credere  che 
le  Veneri  potessero  sorrider  mai  di  si  buono  garbo  al  Lazio  sic- 
come  avean  fatto  alia  Grecia.*  Checch6  ne  sia,  assaissimo  si  ad- 
domestic6  con  quelle  Catullo,  spirante  ogni  qualvolta  gli  piaccia  o 
lepidezza  o  grazia:  e  nel  Passer  e3  e  in  altri  endecasillabi  innamora 
e  colla  scherzevole  e  colla  vaga. 

Della  vaga  e  della  grave  I  come  il  trionfo  il  quarto  libro  del- 
VEneide\  e  in  que'  libri  finanche,  Targomento  de'  quali  &  si  alieno 
da  siffatto  carattere,  s'incontrano  passi  tratto  tratto  che  se  ne 
rivestono  a  maraviglia:  tale  &  quello  del  lib.  2,  dove  Cassandra 
vien  tratta  fuori  del  tempio  di  Minerva. 

Avea  sparse  le  chiome,  e  gli  occhi  al  cielo 
rivolti  indarno;  gli  occhi,  poicht,  avvinte 
le  sue  tenere  mani  eran  da  lacci* 

Pochi  saranno  che  non  distinguano  qui  entro  e  la  gentilezza 
e  la  delicatezza  e  quel  soprappiu  che  le  lega  e  le  impreziosi- 
sce  nella  immagine  delle  mani,  che  sembra  gettata  la  a  caso,  e  ch'& 
un  secreto  alimento  di  tenerissimo  affetto.  Se  non  sentiamo  nel- 
le  Buccoliche  la  grazia  originale  del  siracusano,  pur  ve  n'ha  di 


1 .  quella  .  . .  primavera :  gli  esempi  citati  in  questo  capoverso  non  apparten- 
gono  ad  Anacreonte  (come  ancora  nel  Settecento  si  credeva),  ma  ad  epi- 
grammi  a  lui  attribuiti  e  raccolti  in  appendice  alia  Antologia  palatina. 

2.  Quintiliano  ...  Grecia:  cfr.   per  esempio   Inst.  or.,  xil,   X,    35:    «qui 
exiget  illam  gratiam  sermonis  attici,  det  mihi  in  eloquendo  eandem  iucun- 
ditatem  et  parem  copiam».     3.  nel  Passer  e:  ciofe  nei  faleci « Passer,  deliciae 
meae  puellae»  ecc.  (Carm.,  n).    4.  «Ecce  trahebatur  .  .  .  /  ad  coelum  ten- 
dens  ardentia  lumina  frustra,  /  lumina,  nam  teneras  arcebant  vincula  pal- 
mas  »,  B.  (^4^72.,  ir,  403-6;  la  traduzione  fe  del  Bertola  stesso). 


SAGGIO   SOPRA  LA   GRAZIA  83! 

siffatta  che  quegli  compiacerebbesi  della  copia.  Mai  s'intende  per6 
come  meno  apparisca  dove  il  poeta  fa  parlare  i  pastori,  che  dove 
park  egli  stesso :  ed  e  molte  volte  il  contrario  in  Teocrito.  Tanto 
forse  teme  Virgilio  la  concorrenza,  che  fuggl  a  bella  posta  di 
toccar  quelle  corde  nel  punto  in  cui  Taltro  le  avea  g&  tocchel  Nelle 
Buccoliche  e  insimiata  vieppiu  la  scherzevole :  e  Orazio  voile  diffi- 
nirla  con  quel  «  molle  faceto  »  che  attribuisce  alle  boscherecce  muse 
del  suo  amico.1 

Non  so  se  i  comentatori  del  Petrarca,  fra  le  tante  cose  che 
hanno  scritto  di  lui,  abbiano  pure  awertita  questa  ch'e  la  prima 
e  piii  vera,  cio&  che  in  lui  e  questo  caro  senso  per  eccellenza. 
E  ne  diede  egli  stesso  la  migliore  testimonianza  non  accorgendosi 
di  possederlo,  e  scrisse  assai  tardi: 

Se  io  avessi  pensato  che  si  care 
fosser  le  voci  de'  sospir  miei  in  rima.* 

E  alFandamento  di  certi  versi,  come  di  quello 
dalle  tenere  piante  sue  par  ch'escaJ 

E  in  quelle  certe  frasi  e  in  quelle  certe  rime  che  alcuni  vorreb- 
bero  bandir  dal  poeta  come  quasi  decrepite  o  di  mal  suono,  pure 
si  sente  a  maraviglia  una  elegantissima  sprezzatura.  Egli  si  com- 
piace  soprattutto  della  grazia  grave  e  per  dir  cosl  virgiliana; 
cosl  tutto  virgiliano  e  il  velo  delle  sue  transizioni.  Nel  sonetto 

Mai  non  fu  in  parte  ove  si  chiar  vedessi* 

nel  quale  sembra  Pautore  andar  fuggendo  via  dalPanimo  del 
lettore  nelPatto  che  vi  si  attacca  con  una  tenacitk  soavissima;  nel- 
le  canzoni 

Se  il  pensier  che  mi  strugge  .  .  . 
Chiare,  fresche,  dolci  acque  ,  .  , 
Di  pensier  e  in  pensier,  di  monte  in  monte*  . . . 

il  carattere  di  cui  parliamo,  e  piegato  verso  il  prii  amabil  lume. 
V'hanno  parecchi  i  quali  non  trovano  nel  Petrarca  alcun  pascolo : 


v  nanno  pareccm  i  quan  non  trovano  nei  r eirarca  aicun  ] 

i.  Cfr.    la   nota    i    a  p.  827.     2.  Rime,   ccxcni,  1-2.     3.  Rime, 
4.  Rime,  CCLXXX.     5.  Rime,  cxxv,  cxxvi,  cxxix. 


CLXV,  4. 


832  AURELIO   DE>    GIORGI   BERTOLA 

potrebbe  uno  dire  dunque :  il  Petrarca  non  &  grazioso.  E  un  altro 
potrebbe  rispondere  che  que'  parecchi  non  guardarono  poi  mai  quel 
poeta  o  rattenuti  dalla  paura  d'imbrattarsi  della  ruggine  di  certe 
frasi,  di  certe  rime  (di  che  si  &  dianzi  fatto  cenno),  o  di  rabbrivi- 
dire  fra  il  platonismo  poich<§  lor  fu  detto  che  il  libro  &  vecchio  assai, 
e  che  e  tutto  d'idee  ancor  prii  vecchie :  ma  lo  guardino  ima  volta, 
e  la  paura  si  cangerk  nel  piti  vivo  e  piu  dolce  de*  desiderii. 

Se  mi  si  chiede  perch£  io  apra  un  luogo  fra  questa  schiera  a 
Franco  Sacchetti,  io  chiederb  che  mi  si  nomini  un  prosatore  no- 
stro  il  quale  grazieggi  come  fa  costui  nelle  sue  novelle.  Gli  sta  a 
fianco  1'Ariosto  nella  poesia,  piu  degno  ancora  di  essere  comparato 
co'  Greci  che  non  co'  Latini;  avendo  originalmente  maneggiato 
qua  e  Ik  tutti  e  tre  i  colori  del  grazioso,  oserei  dire,  con  unico 
esempio;  perciocch6  il  La  Fontaine  non  voile  o  non  seppe  abba- 
stanza  comporsi  al  grave,  emulo  per6  del  ferrarese  nel  far  sempre 
con  somma  awenentezza,  e  non  parer  mai  di  fare.  Dove  non 
avesse  egli  scritto  che  la  sola  favola  delle  Canne,1  da  lui  stcsso 
preferita  a  tutte  le  altre  sue,  gik  sarebb'egli,  com'e,  il  poeta  della 
natura  e  delle  grazie.  A  queste  e  a  quella  carissimo  <b  stato  ancora 
in  questi  di  un  italiano,  il  quale  se  avesse  potuto  liberarsi  piu 
spesso  da'  ceppi  in  che  lo  strinse  il  cattivo  altrui  gusto,  non  so 
chi  non  godrebbe  di  accordargli  le  prime  palme :  dico  il  Goldoni. 
E  sventuratamente  pochi  mi  avranno  indovinato :  ma  se  alcuno  vor- 
ra  pigliar  meraviglia  di  tanta  opinione  che  io  ho  di  lui,  io  la  pren- 
der6  che  tale  opinione  non  sia  quella  di  tutta  Italia.  Nelle  com- 
medie  veneziane,  dove  &  il  fior  piti  soave  di  quel  giocondo  dialetto, 
massimamente  incontriamo  scene  in  cui  si  direbbe  che  parlino  tra 
loro  sotto  finti  nomi  Teocrito  e  Plauto,  ma  Plauto  fatto  e  verecondo 
e  soave. 

Rispetto  alle  arti,  n'6  appena  conceduto  vaggheggiar  qualche 
ombra  delle  attrattive  de'  pennelli  greci,  esaminando  i  pochissimi 
avanzi  a  noi  pervenuti  delle  antiche  pitture.  Una  di  quelle  che 
fatte  sul  muro  furono  trovate  in  Pompei,  e  che  ora  custodisconsi 
nel  R.  Museo  di  Portici,  rappresenta  alcune  ballerine:*  la  grazia 
le  caratterizza;  le  due  massimamente  che  tengonsi  per  mano;  qucl- 
le  poi  che  appariscono  coverte  di  un  velo  trasparente,  offrono  all'oc- 

i.  favola  delle  Canne:  credo  che  alluda  alia  favola,  gia  citata  con  lode  nel 
Saggio  sopra  la  favola  (qui  a  p.  807),  Le  cMne  et  le  roseau.  2.  alcune  bal~ 
lerine:  oggi  nel  Museo  Nazionale  di  Napoli. 


SAGGIO    SOPRA   LA    GRAZIA  833 

chio  un  miracolo  di  awenentezza  nelle  pieghe  del  velo  stesso. 
Quale  idea  dovremo  comporci  di  quel  quadro  d'Apelle  fra  gli  altri 
rappresentante  Venere  nell'atto  di  sorgere  dalla  spuma  del  mare, 
e  che  con  una  mano  sostenta  le  trecce  bagnate  dalPonde?1 

Malgrado  il  concetto  del  Lomazzo,  il  quale  volendo  un  Ada- 
mo  disegnato  da  Michelangiolo  e  colorito  dal  Tiziano,  avrebbe 
pur  voluto  un'  Eva  disegnata  da  Raifaele  e  colorita  dal  Coreggio,* 
riconosceremo  Fingegno  di  quell'uomo  divino3  come  specialmente 
conformato  a  questo  carattere.  Quindi  ne  fregi6  qua  e  Ik  que*  la- 
vori  stessi,  dove  sollevavasi  alia  grandezza  e  alia  maesta,  le  quali 
due  e  noto  che  non  consegui  veramente  prima  che  il  Bramante 
non  gli  avesse  svelate  le  idee  magnifiche  di  Michelangelo :  ne  gia 
pot6  mai,  per  molto  che  tentasse,  superare  Lionardo  da  Vinci 
in  un  certo  fondamento  terribile  di  concetti,  benche"  lo  si  lasciasse 
tanto  addietro  nell'aria  delle  teste  e  nel  dar  grazia  alia  figura;  a 
quel  modo  appunto  che  Virgilio  a  somigliante  riguardo  e  per 
somigliante  cagione  si  rimase  al  di  sotto  di  Omero.  Ben  mostra 
egli  quel  che  possa  la  grazia  nelle  sue  mani  sia  negli  andari  de' 
panni,  sia  nella  sfilatura  dej  capelli,  sia  nel  dare  qualsivoglia  af- 
fetto  all'aria  delle  sue  teste :  lo  mostra  allorche"  mette  celatamente 
ranima  sul  volto  alle  diverse  sante  vergini  che  dipinse,  a  S.  Ce 
cilia4  singolarmente,  dove  in  oltre  quelle  canne  d'organo  rovesciate 
sono  e  pittura  e  poesia  squisitamente  anacreontica  e  virgiliana. 
Nelle  Sibille5  la  Tiburtina  quanto  non  da  nel  grazioso!  e  tutti  due 
i  caratteri  di  questo  brillano  quivi  negli  angeli  in  alto  diversamente 
atteggiati ;  i  quali  caratteri  o  gradi  sono  anche  piu  manifestamente 
impressi  ne'  tre  personaggi  della  Madonna  della  Seggiola\  e  nel 
S.  Giovannino  lo  scherzevole  e  si  incantatore  che  nulla  piu.  Nella 
Madonna  incisa  dal  Du  Flos  sulForiginale  ch'&  in  Francia,6  che 

i.  I  Greci  dissero  questa  Venere  « Anadyomene » :  V.  Plin.,  [Nat.  hist.], 
lib.  35,  [x,  36];  Cic.,  \De\  offic.,  lib.  3,  [n,  10]  e  Epist.  fam.,  Ad  Lent., 
lib.  I,  [ix,  15];  Ovidio,  Amorumy  lib.  i  e  14,  [33],  B.  2.  Cfr.  Giovan 
Paolo  Lomazzo,  Idea  del  tempio  della  pittura,  Milano,  Ponzio,  1590,  p.  60: 
« bisognerebbe  che  TAdamo  si  dasse  a  Michel  Angelo  da  disegnare,  a 
Tiziano  da  colorare,  togliendo  la  proporzione  e  convenienza  da  Rafaello, 
e  TEva  si  disegnasse  da  Rafaello  e  si  colorasse  da  Antonio  da  Coreggio». 
3.  quell'uomo  divino \  Raffaello.  4,  a  S.  Cecilia:  nel  quadro  Santa  Ce 
cilia  (1515)  della  pinacoteca  di  Bologna.  5.  Nelle  Sibille:  nell'affresco  del 
Collegio  del  Cambio  di  Perugia,  la  cui  attribuzione  a  Raffaello  e  perd  con- 
trastata;  o,  piu  probabilmente,  in  quello  della  chiesa  di  Santa  Maria  della 
Pace  in  Roma.  6.  Madonna  .  .  .  Francia:  ritengo  che  alluda  alia  Ma- 

S3 


834  AURELIO    DE»    GIORGI   BERTOLA 

non  dicono  al  cuore  le  mani  e  un  pi&  del  Bambino!  6  in  quante 
altre  Madonne  lo  scherzevole  e  il  vago,  come  in  quella  che  descri- 
ve  il  Vasari  tenersi  fra  le  gambe  un  putto,  a  cui  S.  Giovannino 
tutto  gioioso  porge  un  uccello  con  leggiadrissima  attitudine  di 
amorevole  semplicitk  puerile.1  £  il  grave  e  il  vago  nei  volti  tutti 
della  Vergine,  ne'  quali  espresse  con  si  naturale  facilitk  e  la  di- 
vinita  e  la  modestia  ad  un  tempo!  Nel  Cristo  morto2  &  senza  esem- 
pio  il  grave  nelle  teste  di  tutte  le  figure  piangenti :  n6  fu  mai  pianto 
cosi  grazioso. 

De'  personaggi  sopra  i  quali  il  Coreggio3  nel  S.  Girolamo4  dif 
fuse  quella  sua  soavissima  luce,  chi  parlera  abbastanza?  La  sola 
testa  della  Maddalena  &  la  piu  graziosa  cosa  che  sia  al  mondo. 
Degli  angioli  dipinti  da  costui  ben  fu  detto  che  par  che  sieno 
piuttosto  piovuti  dal  Cielo,  che  fatti  dalla  mano  di  un  pittore.  Come 
possiamo  vedere  in  un'oda  di  Anacreonte  un  quadro  di  Coreggio, 
cosl  un'oda  di  quello  in  un  quadro  di  questo:  «Era  in  una  sua  Ve- 
nere  un  paese  mirabile;  ed  oltre  di  ci6  capelli  si  leggiadri  di  colore 
e  con  finita  pulitezza  sfilati  e  condotti,  che  meglio  di  quelli  non 
si  pu6  vedere.  Eranvi  alcuni  Amori  che  delle  saette  facevano  pro- 
va  su  una  pietra;  quelle  d'oro  e  di  piombo  lavorate  con  bello 
artificio;  e  quel  che  piu  grazia  donava  alia  Venere,  era  un'acqua 
chiarissima  e  limpida  che  correva  fra  alcuni  sassi  e  bagnava  i  piedi 
di  quella  e  quasi  nessuno  ne  occupava».5  lo  cercher6  di  entrare  piti 


donna  degli  OrUans,  ora  nel  Museo  Conde*  a  Chantilly;  Claude-Augustin 
Duflos  (1700-1784),  incisore  francese.  i.  quella  . .  .puerile:  la  Madonna 
del  Cardellino  (1506),  che  si  trova  agli  Uffizi.  2.  Nel  Cristo  morto:  nella 
Deposizione  (1503-150?)  della  Galleria  Borghese.  3.  Come  pu6  mettersi 
insieme  la  grazia  di  Raffaele  con  quella  del  Coreggio  ?  L'uno  e  di  una 
perfezione  che  non  esclude  1'idea  dello  studio,  Taltro  tutto  il  contrario. 
Potrebbe  forse  dirsi  che  neli'uno  regn6  nel  carattere  delle  « teste »,  ciofe  in 
Coreggio;  nell'altro  nelle  parti  de'  «nudi»,  e  che  Coreggio  fu  principe  nella 
grazia  vaga:  difatti  le  articolazioni  delle  mani  del  Coreggio  sono  di  una 
eloquenza  aggraziatissima.  N6  RafTaele  adunque,  n6  Virgilio,  ne  Petrarca 
ebbero  questo  genere  di  grazia,  che  fu  di  pochissimi.  Voltaire  dette  perci6 
ad  ogni  arte  la  sua  grazia  (B.).  Allude  alia  voce  grdce  scritta  dal  Voltaire 
per  r Encyclopedic,  in  cui  si  distingue  la  grazia  della  pittura  e  della  scultura 
da  quella  della  eloquenza  e  della  poesia.  4.  nel  S.  Girolamo :  nella  Madon 
na  di  san  Girolamo  (1527-1528)  alia  Pinacoteca  di  Parma.  5.  Vasari,  Vita 
di  Antonio  da  Coreggio  (B.)-  Cfr.  Vite  ecc.,  a  cura  di  C.  L.  Ragghianti,  n> 
Milano,  Rizzoli,  1942,  pp.  45-6.  II  Bertola  riproduce  il  passo  vasariano 
con  qualche  Heve  variazione.  II  quadro  a  cui  si  allude  e  la  Danae  (non 
Venere),  che  si  trova  alia  Galleria  Borghese  di  Roma. 


SAGGIO    SOPRA   LA   GRAZIA  835 

addentro  ad  un'altra  inarrivabile  fattura  di  questo  pennello,  con 
gran  rischio  per6  di  smarrirmi.  Nella  Madonna  della  scudella1  il 
Bambino  movesi  in  due  sensi:  la  meta  inferiore  del  corpo  gira 
alPopposto  del  volto  della  Vergine  Madre,  e-1'altra  superiore  lo  va 
anzi  cercando,  donde  nasce  un  effetto  meraviglioso :  perciocch6 
si  viene  a  mostrare  nel  divin  figlio  amorosissimo  una  certa  brama 
di  rinvenir  gli  occhi  e  il  volto  materno  col  superare  ch'egli  fa 
in  una  maniera  insolita  e  risoluta  la  precedente  natural  tendenza 
di  sua  persona  piantata  tutf  all'opposto  di  quel  che  si  vorrebbe 
in  tal  atto.  Cresce  Y effetto  tuttavia  pel  ricevere  che  fa  il  Bambino 
colla  destra  alcune  frutta  che  S.  Giuseppe  distacca  da  un  albero 
con  una  mano  e  che  coiraltra  vien  inoltrando  verso  la  Sposa. 
Questa  &  a  sedere,  e  piu  che  la  guardi,  piu  ci  vedi  tutto  il  paradiso 
nel  volto:  non  &  possibile  mostrare  maggiore  abilitk  in  una  fa- 
cetezza  che  sembra  escluderla.  Travedi  in  Lei  una  dolce  compia- 
cenza  nata  gia  da  alcun  tempo:  non  dimostra  punto  quella  scossa 
che  reca  un  piacere  improwiso,  ma  di  corta  durata:  eccesso  in 
cui  avrebbe  dato  ogni  altro  pittore  al  quale  non  fosse  stata  dome- 
stica  la  grazia. 

Quante  cose  non  fa  egli  intendere  questo  quadro,  le  quali 
non  promette?  Qual  eleganza,  quale  affetto  sta  sotto  una  specie 
di  velo,  come  se  il  pittore  non  avesse  pensato  a  mettervi  dentro 
n6  Tuna  n6  Taltro?  E  ben  &  qui  dispiegata  la  grazia,  se  non  & 
difinita. 

II  Parmigianino  1&  dove  non  pens6  di  voler  essere  grazioso, 
&  tale  a  meraviglia;  soprattutto  nel  quadro  della  Madonna  della  ro- 
sa?  La  S.  Agnese  del  Domenichino,  quadro  ch'&  in  Inghilterra,3 
e  di  cui  abbiamo  una  bella  stampa  dello  Strange,4  non  pu6  non 
ricordarsi:  le  mani  giunte  della  santa,  gli  occhi  rivolti  al  Cielo, 
Tangioletto  a*  suoi  pi&  che  accarezzando  un  agnellino  appoggia 
il  mento  al  collo  del  medesimo,  e  un  pi&  deirangioletto,  e  lo  stesso 
abito  della  santa  ripiegato  alia  cintura  sono  un  felice  composto  dello 
scherzevole  e  del  vago,  tutto  vaghezza  e  innocenza.  Nella  scuola 
che  Lionardo  da  Vinci  stabili  in  Milano  si  distinse  poi  per  questo 
attraentissimo  carattere  Bernardino  Luvini  ben  degno  di  essere 

i.  Madonna  della  scudella:  compiuta  nel  1529-1530,  ora  nella  Pinacoteca 
di  Parma.  2.  Madonna  della  rosa:  dipinta  nel  1527,  ora  nella  Galleria  di 
Dresda.  3.  in  Inghilterra:  precisamente  nel  castello  di  Windsor.  4.  Ro 
bert  Strange  (1721-1792),  incisore  inglese. 


836  AURELIO   DE>    GIORGI   BERTOLA 

piii  noto  che  generalmente  non  &,  e  il  cui  solo  S.  Giovannino, 
che  vedesi  nell'Ambrogiana  di  Milano,  ha  una  movenza  ingenua, 
cara  oltre  ogni  dire,  e  furtivamente  affettuosa. 

Rispetto  alia  scultura,  agevole  a  chichessia  &  il  distinguerc  co 
me  e  nella  Venere  de*  Medici  e  nel  Morfeo  della  villa  Pinciana1 
e  ntir Apollo  di  Belvedere  e  nelle  figlie  di  Niobe  si  annidi  la 
grazia,  ivi  la  vaga,  qui  la  grave.  Cosl  ancora  nel  Pane  Farnesiano2 
che  insegna  a  suonar  la  siringa,  dove  &  un  avvenentissimo  atteg- 
giamento  del  discepolo,  di  desiderio  e  di  timore  nel  volto  non 
meno  che  nelle  mani, 

A  questo  amabil  carattere  non  pare  che  i  moderni  scultori  ab- 
biano  posto  tanto  amore  come  i  pittori,  vaghi  piti  assai  del  grande 
e  del  maestoso,  piii  ancor  disperando  per  avventura  di  raggiun- 
gere  in  quello  gli  antichi.  Tuttavia  veggiamo  marmi  parecchi  ram- 
morbiditi  dall'arte  moderna  fmo  a  grazieggiare  con  somma  soa- 
vita.  In  Roma  tale  &  la  statua  di  S.  Teresa;3  tali  le  due  donne  a 
un  sepolcro  del  Vaticano  di  Gugiielmo  della  Porta:4  tali  la  S. 
Susanna  nella  chiesa  di  Loreto,5  e  nella  chiesa  dell'Anima  i  put- 
tini  piangenti  intorno  a  un  monumento  sepolcrale,6  opere  dello 
scalpello  di  Francesco  Quesnoy7  detto  il  Fiammingo,  Questo  stes- 
so  scalpello,  che  parve  esser  posto  in  fra  le  dita  dalle  Grazie, 
empi£  del  caro  lume  di  queste  la  cappella  Filomarino  nella  chiesa 
de'  SS.  Apostoli  in  Napoli:8  sono  alquanti  angioletti  che  fan  mu- 
sica:  i  lor  volti  e  le  lor  mani  pigliano  atteggiamento  dalla  piii 
pura  avvenentezza:  ma  quello  fra  gli  angioletti  che  posa  la  destra 
sul  ginocchio  del  vicino  e  la  mossa  della  testa  di  questo  danno 
supremamente  nel  coreggesco. 

Tra  i  compositori  di  musica  ci  si  affaccia  il  primo  quegli  che 

i .  Morfeo  della  villa  Pinciana :  allude  probabilmente  a  //  sonno  o  Cupido 
dormente  dello  scultore  Alessandro  Algardi  (1602-1654),  nella  Galleria 
Borghese  di  Roma.  2.  Panefarnesiano:  il  gruppo  di  Pan  e  Olympos,  ora 
nel  Museo  Nazionale  di  Napoli.  3.  la  statua  di  S.  Teresa:  I'Estasi  di 
santa  Teresa  del  Bernini  (1616),  che  si  trova  a  Roma  in  Santa  Maria  della 
Vittoria.  4.  le  due  donne  .  .  .  della  Porta :  la  Giustizia  e  la  Prudenza,  ef- 
figiate  ai  piedi  della  tomba  di  Paolo  III,  in  San  Pietro,  da  Gugiielmo  della 
Porta  (morto  nel  1577).  5.  nella  chiesa  di  Loreto:  cioe  di  Santa  Maria 
di  Loreto,  m  Roma.  6.  nella  chiesa  . .  .  sepolcrale:  nella  chiesa  di  Santa 
Maria  deirAnima  in  Roma,  intorno  alia  tomba  di  Adriano  Vryburch. 
7.  Fran9ois  du  Quesnoy  o  Duquesnoy  (1594-1642),  scultore  fiammingo,  la- 
vor6  molto  in  Italia,  subendo  1'inrluenza  del  Timno,  deH'Albani  e  del 
Bernini.  8.  la  cappella  .  .  .  in  Napoli:  precisamente  nel  bassorilievo  del- 
1'altare. 


SAGGIO   SOPRA   LA   GRAZIA  837 

in  quest'arte  pu6  dirsi  Anacreonte  e  Coreggio:  come  in  que*  due 
piu  chiaramente  riluce  quanto  dicemmo  delle  possenti  attrattive 
del  grazioso:  perciocch6,  malgrado  le  rivoluzioni  del  gusto  mu- 
sicale,  le  composizioni  del  Pergolesi  sono  tuttavia  la  delizia  di 
tutti  gli  orecchi.  II  p.  Martini,1  ricopiato  poi  in  questo  luogo  dal 
Saverien,  qualifica  di  viziosa  medesimezza  i  motivi  dello  Stdbat 
e  quelli  della  Serva  padrona:  confondendo  quel  grand'uomo,  non 
si  sa  come,  i  motivi  collo  stile,  il  quale  senza  dubbio  pergoleseggia 
da  per  tutto.  Nello  Stdbat  h  un  celeste  misto  del  grave  e  del  vago. 
Deh  come  mai  certa  sprezzatura,  cert' aria  furtiva  si  nelPeleganza 
che  nell'affetto  modificano,  per  cosl  dire,  ogni  nota!  Quale  im- 
menso  ma  placidissimo  giro  non  fa  egli  fare  alia  nostra  anima 
per  varie  strade  di  affetti,  pur  non  mostrando  di  voler  pigliarla 
di  mira,  non  che  signoreggiarla!  anzi  par  che  vi  trascorra  non 
sol  con  modestia,  ma  ancora  con  negligenza.  E  VOlimpiadet  La 
sparse  parzialmentc  d'ogni  soavita  di  tacita  persuasione;  e  nel  Se 
cerca>  se  dice2  occultamente  trasparisce  1'amico  in  mezzo  ai  sospiri 
e  alle  smanie  deiramante,  con  un  artifizio  sommamente  furtivo 
di  eleganza  e  di  affetto.  Le  sue  cantate  ancora  grazieggiano  qua 
e  la :  se  non  che  &  chiaro  aver  egli  voluto  sbizzarrire  nelle  medesime 
con  vari  caratteri,  or  fino,  or  dilicato,  or  gentile,  or  voluttuoso: 
modello  finalmente  della  grazia  scherzevole  nella  Serva  padrona. 

Emulava  i  talcnti  del  Pergolesi  Domenico  Taradella,3  morto 
alia  eta  di  22  anni  per  rammarico  preso  allorch£  comparve  lo 
Stdbat.  £  autore  della  eccellente  musica  della  Merope*  alcu- 
ne  scene  della  quale  sono  state  messe  a  sacco  da  molti  ma  oscuri 
maestri  posteriori:  ma  con  poco  frutto;  perciocch£  mal  si  copia 
la  grazia.  Ne  avvertono  quelle  scene  che  il  Taradella,  ben  cono- 
scendo  il  valore  del  Pergolesi,  poco  o  nulla  conobbe  il  suo  proprio, 

Fra  i  compositor!  de'  nostri  dl  Paesiello  £  quegli  che  ha  mo- 
strato  di  voler  andare  piu  da  presso  al  Pergolesi :  infiniti  suoi  motivi 
hanno  un'aria  di  grazia  che  innamora.  La  fuga  che,  ancorch£  bella, 
£,  dice  Rousseau,  r«ingrato  capo  d'opera  d'un  buon  armonista»,5 

i.  Giambattista Martini  (1706-1784),  autore  di  una  erudita  Storia  della  mu~ 
sica  e  di  numerose  altre  opere  di  teoria  e  critica  musicale.  2.  Se  cerca,  se 
dice:  la  famosa  arietta  delVOlimpiade  del  Metastasio,  che  servi  da  libretto 
air  opera  del  Pergolesi.  3,  Domenico  Taradella:  Domingo  Terradellas 
(1713-1751),  morto  suicida  (ma  a  trentotto  anni,  non  a  ventidue),  musi- 
cista  spagnolo,  educato  e  vissuto  in  Italia.  4.  Merope:  rappresentata  a 
Roma  nel  1743.  5.  Cfr.  la  voce  Fugue  del  Dictionnaire  de  musique: 


838  AURELIO   DE>    GIORGI   BERTOLA 

diviene  nelle  mani  di  Paesiello  il  capo  d' opera  del  scntimento; 
e  si  direbbe  che  le  Grazie  gli  sono  allato  ogni  volta  che  incomin- 
cia  a  scrivere,  e  che  poi  lo  abbandonano  in  seguito  e  lo  lasciano 
solo:  ond'e  che  di  mezzo  a  un  fonte  d'acqua  pur  dolcissima  sorge 
non  so  che  d'amaro  che  t'ange  fin  tra'  fiori.1  Egli  e  il  Parmigiani- 
no,  come  1'altro  il  Coreggio  di  quest'arte:  passiamo  a  dire  del 
Raffaele,2  nel  quale  giunse  al  piu  alto  grado  la  perfezione  che  sari, 
largamente  vendicata  dalla  posterity  d'ogni  oltraggio  che  possano 
averle  fatto  grimperiti  e  i  parziali.  La  buona  figliuola  e  nello  scher- 
zevole  a  proporzione  ci6  ch'e  lo  Stabat  nel  grave  e  nel  vago. 
E  in  quante  opere  serie  il  grave!  che  delizioso  oscillar  non  fa  IV 
nima  accarezzata  dal  secreto  affetto  e  dalla  semplicitk  di  quell'aria3 

Alia  selva,  al  prato,  al  fonte! 

Quel  suo  canto,  privo  quasi  di  ogni  armonia  istromentale  e  che 
erra  solo  da  lui,  ben  manda  agli  occhi  anche  de'  meno  veggenti  la 
semplicitk  e  la  natura. 

Peccato  che  il  sentimento  di  una  straordinaria  disposizione  a 
tutti  i  generi  del  comporre  abbia  piu  d'una  volta  indotto  questo 
grand'uomo  a  scrivere  unicamente  per  1'intelletto!  Ci  &  stato  cosl 
sottratto  non  poco  di  ci6:4  mentre  egli  pifr  che  alcun  altro  de* 
suoi  contemporanei  era  stato  dalla  natura  destinato  a  scrivere  per 
Timmaginazione  e  pel  cuore.  Ma  che?  ancora  diresti  che  men- 
tr'egli  fugge  studiatamente  le  Grazie,  queste  corron  dietro  al  Paer 
lor  favorito,  ed  osano  quasi  rimescolarsi  per  amore  di  lui  fra  le 
spine  del  piu  aspro  e  ruvido  contrappunto.5  Con  non  maggior 

«on  peut  dire  qu'une  belle  fugue  est  Tingrat  chef  d'oeuvre  d'un  bon 
harmoniste»  (in  Oeuvres,  VH,  Paris,  Hachette,  1906,  p.  122).  i»  «.  .  .  me- 
dio  de  fonte  leporum  /  surgit  amari  aliquid,  quod  in  ipsis  floribus  angat », 
Luc[rezio,  De  rer.  nat.],  lib.  4,  v.  1126  (B.)-  2.  del  Raffaele:  cio&  del 
Paer  (nominate  pitt  avanti),  la  cui  grazia,  nella  musica,  corrisponde  a 
quella  di  RafFaello  nella  pittura.  Ferdinando  PaSr  (1771-1839),  che  diven- 
tera  poi  successore  dello  Spontini  a  Parigi,  compose  soprattutto  opere  li- 
riche,  tra  cui  La  buona  figliuola  e  la  Griselda,  ricordate  piu  avanti  dal  Ber- 
tola.  3.  I  Francesi  traducono  il  nostro  andante  per  grazioso  [gracieux];  & 
meraviglia  che  il  Rousseau,  che  ci6  ancora  ripete,  non  se  ne  maravigli :  giac- 
ch£  come  pu6  profanarsi  cosl  questa  voce  ?  E  come  pu6  dirsi  poi  che  un  tal 
movimento  ^  un  di  quelli  che  posson  essere  «saisis  et  rendus  par  tous  les 
musicians »?  (B.)«  Cfr.  Rousseau,  nelle  voci  Andante  e  Mouvement  del 
Dictionnaire  de  musique  (in  Qeuvres,  ed.  cit,  vi,  1909,  p.  348;  VII,  1906, 
p.  177).  4.  di  cid:  cioe,  della  sua  grazia.  II  Gamba  corregge  in  «da  ci6». 
5.  Segnatamente  nella  Griselday  messa  in  iscena  a  Venezia  nel  teatro  di 
San  Samuele  nel  1793  (B.)- 


SAGGIO  SOPRA  LA  GRAZIA  839 

fedelt&,  io  credo,  avrebbero  corteggiato  Anacreonte,  dove  a  questo 
fosse  dato  a  distendere  un  trattato  di  fisica  o  di  morale. 


VI 

Tali  sono  i  classic!  esempi  che  io  ho  stimato  doversi  principal- 
mente  allegare  della  grazia.  Intorno  a'  quali  inculcher6  ancora 
quell'avvertenza,  cio&  che  si  &  mirato  a  far  soltanto  menzione  di 
quegli  scrittori  ed  artefici  i  quali  ebbero  1'animo  privilegiatamente 
conformato  alia  medesima;  e  si  coltivarono  e  si  mantennero  par- 
zialmente  un  cosl  prezioso  dono.  N£  i  giudizi  per6  son  miei; 
siccome  non  direi  mia,  qualunque  ella  si  fosse,  la  diffinizione, 
perciocch6  se  in  questa  si  epiloga  la  sostanza  delle  migliori  altrui 
idee,  in  quelle  si  raccoglie  il  sentimento  di  quanti  hanno  occhi  ed 
orecchi  non  impcditi  da  prevenzione.  Meriter6  unicamente  ripren- 
sione  per  non  aver  esposto  e  distinto  con  lucidezza  ed  allaccia- 
to  con  armonia  ci6  che  ho  pigliato  ad  imprestanza :  se  non  che 
intendendosi  da  ognuno  la  difficoltk  di  vincere  colla  perspicacitk 
delle  parole  e  coll'accuratezza  delPordine  il  restio  di  certe  intime, 
sfuggevoli  e  troppo  svariate  cose,  io  potrei  essere  anche  piu  com- 
patito  che  ripreso. 

Che  se  avessi  pur  lasciato  da  banda  alcuno  cui  la  grazia  si 
tenga  da  vero  per  un  de*  suoi,  non  6  qui  nessun  fallo  a  danno 
degl'intendenti,  e  a  quello  degl'idioti  &  leggero. 

Mi  stimerei  bensl  lodatissimo,  dove  queste  poche  osservazioni 
eccitassero  acuti  e  leggiadri  ingegni  a  piu  felici  ricerche  sopra 
materia  tanto  rilevante  per  le  lettere  e  per  le  arti.  Ma  dove  ancora 
questo  picciolo  scritto  non  fosse  atto  a  trar  da  altrui  alcuna  scin 
tilla,  poich6  ad  altro  g&  non  aspiro,  io  non  mi  pentirei  del  mede- 
simo.  SI,  gli  studi  di  questa  cosl  amena  e  venusta  indole  vagliono 
a  crear  per  noi  quasi  un  mondo  incantato,  ove  entriamo  a  ri- 
crearci,  allorch6  quello  in  cui  viviamo  c'infastidisca  o  ci  turbi; 
un  mondo  nel  quale  sopra  tutti  gli  oggetti  cosl  brillano  la  calma, 
l'ilarit&,  la  vaghezza,  che  ne  scntiamo  amabilmente  il  riverbero 
fino  al  fondo  dell'anima:  e  questo  piacere  direi  quasi  si  filosofico, 
e  tuttavia  si  facile  a  conseguirsi  da*  mediocri  uomini,  appena  vuol 
cedere  a  quello  di  che  la  gloria  inebria  i  piu  grandi. 


FRANCESCO  TORTI 


NOTA  INTRODUTTIVA 


«Noi  ci  siamo  conosciuti,  signer  cavaliere,  da  lungo  tempo  .  .  . 

Noi  abbiamo  amato  insieme  le  lettere,  la  poesia,  i  poeti,  e  soprat- 

tutto  i  grandi  poeti:  noi  abbiamo  meditato  insieme  sopra  le  bel- 

lezze  di  quest'arte  divina:  1'abbiamo  considerata  nella  sua  ori- 

gine  e  ne'  diversi  cangiamenti  del  gusto  italiano  nel  corso  pro- 

gressivo  di  cinque  secoli :  e  queste  interessanti  ricerche  hanno  for- 

mato  per  qualche  tempo  fra  noi  il  letterario  argomento  d'una  ani- 

mata  corrispondenza. »  Con  queste  parole,  nel  Dante  rivendicato, 

il  Torti  ricordava  al  Monti,  che  sembrava  essersene  completamente 

dimenticato,  la  fervida  amicizia  che  li  aveva  legati  tanto  tempo 

prima,  ma  che  per  lui,  ancora  dopo  quarant'anni,  rimaneva  sem- 

prc  Pesperienza  decisiva  della  sua  camera  di  letterato  e  di  critico. 

A  questa  esperienza  il  Torti,  bench6  giovanissimo  ed  oscuro,  non 

era  giunto  del  tutto  sprovveduto.  Nato  il  30  settembre  del  1763 

a  Bevagna,  neirUmbria,  da  una  famiglia  di  agiati  possidenti,  era 

stato  inviato  ancora  giovinetto  dalla  madre,  originaria  di  Cameri- 

no,  a  studiar  legge  nell'universita  di  questa  cittadina,  dove  aveva 

potuto  seguire  le  lezioni  dell'ex-gesuita  spagnolo  Ludenna,  il  qua- 

le  gli  aveva  ispirato  -  come  egli  stesso  ricorda  in  un  breve  profilo 

autobiografico  -  «un  ardore  vivissimo  per  la  metafisica,  che  non 

Tha  mai  abbandonato  ».  E  ancora  aveva  pubblicato,  a  vent'anni,  un 

poemetto  di  argomento  biblico,  VErodiade,  piu  tardi  rifiutato.  Ma 

certo  e  solo  a  Roma,  dove  egli  era  passato  nel  1783  per  far  pratica 

d'avvocato,  e  in  particolare  attraverso  Pamicizia  col  Monti,  che 

il  Torti  scopre  veramente  e  la  grande  poesia  e  la  sua  vocazione  di 

critico,  e  si  orienta  verso  quel  gusto  al  quale  si  manterra  poi 

sostanzialmente  fedele  per  tutta  la  vita.  Quali  siano  i  testi  poe- 

tici  e  critici  su  cui  si  forma  questo "  gusto,  si  pu6  trarre  alme- 

no  in  parte  dalle  testimonianze  fornite  dal  Torti  medesimo:  le 

opere  del  Monti,  anzitutto,  allora  nel  momento  piu  fresco  e  fe- 

condo  del  suo  eclettismo,  attento  a  blandire  i  gusti  del  neoclassi- 

cismo  romano  ma  aperto  alle  aure  del  preromanticismo  europeo, 

e  in  particolare  la  Bassvilliana,  che  Tautore  inviava  canto  per 

canto  alFamico,  tornato  nel  1786  a  Bevagna,  ricevendone  entu- 

siastiche  annotazioni  critiche;  e  poi  la  Bibbia,  Ossian,  Gessner 

e  gli  altri  lirici  tedeschi  appena  tradotti  dal  Bertola,  ma  soprat- 


844  FRANCESCO   TORTI 

tutto  Dante,  al  quale  il  giovane  letterato  umbro  rivolgc  la  sua 
attenzione,  come  egli  stesso  piu  tardi  dichiarera,  sotto  la  sug- 
gestione  della  Bassvilliana,  e  su  cui  egli  scrive  il  suo  primo  vero 
lavoro  critico,  un  saggio  rimasto  inedito,  ma  che  costituiri  il  nucleo 
del  capitolo  dantesco  del  Prospetto  del  Parnaso  italiano.  Dal  Monti 
gli  viene  altresl  qualche  suggerimento  nel  campo  delFestetica  e 
della  critica:  il  consiglio,  per  esempio  (in  una  lettera  dell'agosto 
1792),  di  leggere  il  Gravina  e  TAddison;  ma  fin  da  allora  il 
Torti  dovette  studiare  senza  dubbio  per  suo  conto  altre  opere 
del  genere,  fra  cui  certamente  qualcosa  del  Cesarotti,  se  egli,  nel 
gi&  ricordato  profilo  autobiografico,  rammenta  come  nelle  ami- 
chevoli  discussioni  col  Monti  opponesse  all'esclusivo  entusiasmo 
di  questo  per  Dante  il  concetto  (tipicamente  cesarottiano)  della 
((universality  del  bello  della  natura,  sempre  prodigiosa  nella  sua 
immensa  varieta». 

Questa  formazione  abbastanza  ben  definita  in  senso  preroman- 
tico  deve  essere  tenuta  presente  per  poter  valutare,  nei  suoi  caratte- 
ri  e  nei  suoi  limiti,  la  prima  e  fondamentale  opera  critica  del  Tor 
ti,  il  Prospetto  del  Parnaso  italiano^  composto  durante  gli  anni 
successivi  al  ritorno  a  Bevagna,  quando  erano  ancora  vivi  e  ope- 
ranti  i  ricordi  dell'amicizia  e  della  corrispondenza  col  Monti,  e 
pubblicato  fra  il  1806  e  il  1812.  Concetti  preromantici,  e  piti  esat- 
tamente  illuministici  ma  accolti  e  accentuati  dal  Preromanticismo 
sono  i  punti  programrnatici  che  Pautore  espone  nella  prefazione 
e  neirintroduzione  dell'opera.  Tale  &  il  proposito,  espresso  fin 
nella  citazione  del  frontespizio  («Pauci  quos  aequus  amavit  Ju 
piter))),  di  distinguere  i  veri  poeti,  i  «geni  original!)),  dalla  molti- 
tudine  dei  loro  servili  imitatori  e  in  genere  dei  «mediocri))  che 
usurpano  il  nome  di  poeti:  un  proposito  che,  mentre  si  riallaccia 
al  giovanile  interesse  per  i  «grandi  poeti »,  ha  dietro  di  s<£  tutta 
una  tradizione  nella  critica  settecentesca,  a  cominciare  da  quella 
arcadica:  come  il  Torti  del  resto  non  ha  scrupolo  di  riconoscere, 
richiamandosi  -  piuttosto  che  ai  Verri,  al  Baretti,  al  Cesarotti  - 
alia  condanna  pronunciata  dal  Muratori,  nella  Perfetta  poesia,  con- 
tro  «Pimmensa  schiera»  di  coloro  che  si  erano  limitati  a  «copiare» 
e  a  «travestire))  i  concetti  e  i  sentimenti  del  Petrarca;  alle  deplo- 
razioni  delPAlgarotti,  sdegnato  della  «superstiziosa  mania  che  te- 
neva  servilmente  attaccati  gFingcgni  nazionali  alPimitazione  di  un 
sol  genere»;  e  alia  «pretesa»  bettinelliana  di  « disingannare  ar- 


NOTA   INTRODUTTIVA  845 

ditamente  gli  italiani  troppo  prevenuti  della  loro  gloria  poeti- 
ca».  Ma  tutto  settecentesco  e  altresl  (come  ha  osservato  il  Fu- 
bini)  il  criterio  a  cui  egli  dichiara  di  attenersi  allo  scopo  di  ef- 
fettuare  tale  distinzione,   e  che  consiste  nel   respingere   sia   il 
pedantismo  e  Perudizione,  sia  le  valutazioni  distorte  da  pregiu- 
dizi  retorici  o  regionalistici,  o  comunque  influenzate  da  prefe- 
renze  parziali,  e  nel  fare  appello,  invece,  al  giudizio  del  «pub- 
blico)),  ccgiudice  naturale  dell'opere  di  gusto »,  ad  un  pubblico 
il  piu  vasto  possibile,  non  solo  italiano,  ma  europeo,  a  quel  «sen- 
so  comune»,  insomma,  di  cui  il  critico  non  vuol  essere  che  Fin- 
terprete  accorto  e  sensibile,  secondo  il  principio  fatto  valere,  fin 
dai  primi  del  Settecento,  dal  Dubos,  e  accolto  poi  dai  migliori 
rappresentanti  della  nostra  critica  illuministica.  E  ancora  al  Du 
bos,  e  alia  tradizione  estetica  che  da  lui  muove,  risale  quel  concetto 
di  «interesse»  in  cui  viene  concretamente  a  precisarsi  il  giudizio 
del  pubblico  e  del  critico,  e  a  cui  il  Torti  si  richiama,  si  pu6  dire, 
in  ogni  pagina  della  sua  opera.  Di  questo  concetto  egli  da  a  volte 
definizioni  tutte  sensistiche,  intendendolo,  proprio  come  il  Dubos, 
quale  capacita  di  suscitare  nell'animo  del  lettore  una  piacevole 
agitazione  che  lo  liberi  dalla  noia;  ma  non  escono  fuori  dai  confini 
del  pensiero  e  del  gusto  settecentesco  neppure  altre  pagine  teori- 
che  piu  avanzate,  come  quella  contenuta  nel  capitolo  (riportato 
anche  in  questo  volume)  suirAriosto,  e  in  cui  si  distingue  dall'cun- 
teresse»  proprio  della  poesia  classica  e  fondato  sulla  rappresen- 
tazione  dei  «tratti  piu  decisi  e  piu  marcati»  delle  passioni,  un  al- 
tro  e  piu  complesso  tipo  di  «interesse»,  caratteristico  dei  moderni, 
un  ccgenere  di  patetico  piu  toccante,  piu  universale,  piu  energico 
e  piu  sublime»,  come  quello  che  nasce  dal  vedere  «la  virtu  sensi 
bile  in  preda  alia  passione  e  in  contrasto  con  essa)),  ccun'anima  tor- 
mentata  da  cento  passioni  different!,  la  quale  riaggndo  sopra  se 
medesima  comprime  tutte  le  molle  della  sensibilita,  e  fa  risultarne 
quel  torbido  cupo  e  lacerante  da  cui  ci  sentiamo  si  vivamente 
penetratiw,  lo  «sforzo  grandioso  di  un  cuore  . . .  che  sacrifica 
le  sue  piu  dolci  inclinazioni  al  dovere  e  la  passione  alia  virtu », 
il  « combattimento  sublime  ed  animato  dei  grandi  interessi  e  del 
le  grandi  passioni,  che  urtandosi  e  rispingendosi  a  vicenda  agi- 
scono  nelPanima  dello  spettatore  con  pari  energia,  e  formano  di 
diverse  opposte  e  profonde  sensazioni  un  luminoso  teatro  di  virtu, 
d'umanita,  di  grandezza».  In  realta,  leggendo  una  pagina  come 


846  FRANCESCO   TORTI 

questa  e  altre  simili,  malgrado  vi  si  parli  tanto  di  passione  e  di 
contrast!,  viene  spontaneo  di  pensare  non  tanto  al  Vico  o  ai  ro- 
mantici,  quanto  al  Cesarotti  e  al  Monti;  a  quell'ideale  di  un 
«patetico»  interessante,  vario,  moderno  ed  educativo  a  cui  si  ri- 
chiamano  gli  scritti  teorici  e  critici  del  primo,  e  insieme  a  quel 
gusto  un  po'  facile  ed  esteriore  del  grandioso,  dell'energico,  del 
drammatico,  che  caratterizza  Topera  poetica  del  secondo,  e  in 
particolare  quella  Bassvilliana  che  aveva  ispirato  al  Torti  le  sue 
prime  osservazioni  critiche.  Ma  il  merito  deirautore  del  Prospetto 
del  Parnaso  italiano  non  consiste  nell'aver  superato  sul  piano  della 
teoria  e  neppure  su  quello  del  gusto  i  confini  del  Preromanticismo, 
quanto  piuttosto  nell'aver  impresso  al  criterio  preromantico  di 
«interesse»,  nella  particolare  accezione  tra  sensistica,  cesarottiana 
e  montiana  che  assume  in  lui  questo  termine,  un  rilievo  unico, 
nell'averne  fatto,  cioe,  il  principio  fondamentale  in  base  al  quale 
procedere  alia  sua  revisione  dei  valori  della  nostra  letteratura. 
Questa  revisione  e  condotta  con  un  atteggiamento  di  vivace  e  fervi- 
da  baldanza,  di  istintivo  «abbandono»  alie  fresche  impressioni  del- 
la  lettura,  piii  che  con  meditata  e  metodica  cautela,  atteggiamento 
certo  accentuate  dalla  atmosfera  tutta  provinciale  in  cui  il  Torti 
scrive  la  sua  opera,  fra  i  ricordi  dei  giovanili  entusiasrni  e  senza  il 
controllo  esercitato  da  scambi  di  idee  e  di  giudizi  con  altri  lettori 
e  studiosi:  cosi  che  non  di  rado  gli  capita  di  incorrere  in  vere 
e  proprie  dimenticanze,  per  esempio  del  Poliziano  e  delle  Odi 
pariniane,  ovvero  di  indulgere  ad  apprezzamenti  affrettati  e  in- 
genui,  quali  la  sbrigativa  stroncatura  del  Pulci  e  del  Boiardo,  e 
per  contro  la  sopravvalutazione  di  un  Minzoni,  di  fronte  al  quale 
confessa  di  sentire  ccuna  specie  di  costernazione  e  di  sbalordimen- 
to»,  o  Fammirazione  incondizionata  per  il  Metastasio,  per  «l'im- 
mortale»  versione  cesarottiana,  per  il  Monti  della  Bassvilliana, 
senz'altro  paragonato  a  Dante.  Ma  bisogna  poi  riconoscere  che 
proprio  questo  spirito  di  baldanzosa  e  fresca  sicurezza  gli  con- 
sente  di  estendere  spregiudicatamente  Fapplicazione  del  suo  cri 
terio  anche  a  quegli  scrittori  e  a  quei  fenomeni  letterari,  nella 
cui  interpretazione  e  valutazione  i  precedent!  critici  settecenteschi 
erano  piti  o  meno  consapevolmente  frenati  da  pregiudizi  classici- 
stici  o  razionalistici,  e  di  giungere  quindi,  per  tale  via,  a  giudizi 
che,  mentre  costituiscono  Pultimo  e  piti  radicale  punto  d'arrivo 
della  critica  preromantica,  anticipano  spesso  nei  risultati,  se  non 


NOTA   INTRODUTTIVA  847 

nello  spirito,  quelli  della  vera  e  propria  critica  romantica  dal  Fo- 
scolo  al  De  Sanctis. 

Un  primo  e  assai  notevole  esempio  del  metodo  e  dei  risultati 
della  revisione  critica  del  Torti  si  incontra  subito  nel  capitolo 
dedicate  a  Dante,  con  cui  il  Prospetto  del  Parnaso  italiano  si  apre. 
Scorrendo  questo  capitolo  e  osservando  con  quanta  positiva  sim- 
patia  si  insista  sulla  « originalita »  e  sul  contenuto  appassionato 
della  poesia  dantesca,  si  potrebbe  pensare  che  abbiano  agito  nel 
Torti  dirette  suggestioni  vichiane.  In  realta,  guardando  piu  atten- 
tamente,  ci  si  persuade  che  di  veramente  vichiano  c'e  poco  o  nulla. 
Dante  non  vi  e  affatto  rappresentato  come  il  poeta  della  «  barbaric  » 
medioevale,  anzi  come  colui  che  per  primo  reagisce  al « gusto  arido 
e  bizzarro  del  genio  gotico »,  non  senza  tuttavia  risentirne,  almeno 
in  parte,  «la  trista  e  inevitabile  influenza)),  apparendo  anche  egli, 
sia  pure  a  tratti,  «in  preda  al  grottesco  ed  al  bizzarro »  e  spesso 
«cupo,  ineguale,  slegato».  Quanto,  piu  generalmente,  il  Torti  sia 
lontano  dal  mito  del  poeta  « primitivo »,  e  poi  chiaramente  dimo- 
strato  dalla  sua  preoccupazione  di  mettere  in  evidenza,  accanto 
a  « quel  terribile  »  e  a  «  quel  fiero  »  che  pur  riconosce  come  « tuono 
naturale?)  della  musa  dantesca,  anche  quei  luoghi  in  cui  si  scorge 
ccriunita  la  grazia  e  la  delicatezza  di  Gesner  alia  sublimita  di 
Milton»,  o  addirittura  «una  facilita  e  morbidezza  di  coloritow  su- 
periore  a  quella  stessa  del  Petrarca,  «tanto  celebrato  per  il  poeta 
della  dolcezza». 

L'effettiva  novita  del  Torti  consiste  invece  nelPaver  esteso  e  ap- 
profondito,  attraverso  una  piu  abbandonata  e  spregiudicata  ap- 
plicazione  del  criterio  di  « interesse »,  il  riconoscimento,  gia  pre- 
sente  in  forma  limitata  nella  critica  illuministica  e  preromantica 
(per  esempio  nel  Bettinelli),  del  ccpatetico»,  del  « drammatico », 
del  « grandiose »  dantesco,  e  piu  particolarmente  nell'aver  indicate 
(svolgendo  forse  suggestioni  graviniane)  come  motivo  centrale  di 
questa  patetica  e  drammatica  grandiositk  d'ardita  e  felice  idea 
di  tutto  riferire  alia  storia  del  suo  secolo,  e  di  far  servire  la  pittura 
dell'altro  mondo  a  rilevare  gli  eccessi  e  la  malvagita  di  questo », 
1'idea  insomma  di  avere  scelto  un  argomento  capace  di  eccitare 
al  piu  alto  grado,  per  la  sua  bruciante  attualitk,  «l'interesse  e  1'at- 
tenzione  de'  suoi  contemporanei ».  Ed  e  proprio  per  questa  via 
che  egli  riesce  a  giungere  alia  geniale  affermazione  che  la  <.(Divina 
Commedia  non  e,  per  cosl  dire,  che  lo  sviluppo  ed  il  comento  del- 


848  FRANCESCO   TORTI 

le , . .  awenture  pubbliche  e  private »  di  Dante,  e  che  <c  invano 
vorremmo  noi  riempirci  delle  qualitk  del  poeta,  se  prima  non  ab~ 
biamo  analizzato  Puomo  politico  ed  il  cittadino » :  ad  un  riconosci- 
mento,  insomma,  ben  piu  netto  che  nei  suoi  predecessor!  sette- 
centeschi  e  nel  Vico  stesso,  dell'ispirazione  autobiografica,  e  piii 
precisamente  politico-morale,  del  poema  dantesco. 

Da  un  impiego  ardito  ma  conseguente  del  criterio  d'intcresse 
nasce  anche  la  spregiudicata  stroncatura  della  lirica  amorosa  pe- 
trarchesca,  stroncatura  certo  criticamente  assai  discutibile,  ma  sto- 
ricamente  notevolissima  poiche"  rompe  decisamente  con  1'ossequio 
tributato  al  poeta  anche  dai  pru  avanzati  critic!  illuministici  e  pre- 
romantici,  anticipando  invece  in  forma  clamorosa  le  riserve  dei 
romantici  dal  Sismondi  al  De  Sanctis.  II  difetto  veramente  grave 
del  Petrarca,  afferma  infatti  il  Torti,  &  proprio  nell'aver  «mancato 
nel  punto  piti  essenziale,  qual  e  quello  di  interessare »,  nell'aver  cioe 
non  soltanto  trascurato  di  rispettare  la  legge  della « variet&»,  ma  an 
che  e  soprattutto  nell'aver  espresso  il  suo  amore  per  Laura  in 
forma  astratta,  metafisica,  sofistica,  sforzata,  seguendo  i  dettami 
del  «  platonicismo  »  e  della  «cavalleria»  in  luogo  di  offrire,  aderen- 
do  alia  « natura »,  quei  « dettagli »,  quegli « aneddoti »,  quei « piccoli 
fatti»,  quelle  « descrizioni  minute »,  quegli  «urti  di  affetti,  di  sen- 
timenti,  di  trasporti,  quelle  scene  d'anima  e  di  movimento»,  che 
soli  possono  veramente  alimentare  d'interesse  del  cuore».  N6  con- 
trasta,  a  ben  guardare,  con  il  gusto  che  ispira  questi  giudizi,  la 
ammirazione  che  il  critico  manifesta  per  le  poesie  politiche,  in 
quanto  in  esse  e  solo  in  esse  -  egli  afferma  -  «lo  spirito  del  Pe 
trarca  naturalmente  elevato  e  patetico  si  spande  sopra  questi  gran- 
diosi  oggetti  ["i  grandi  affari  del  suo  secolo",  "gli  errori  e  le  sven- 
ture"]  con  una  nobile  e  incantatrice  facility :  niente  vi  si  scorge  che 
annunzi  lo  sforzo  e  il  raffinamento », 

Dopo  una  cosl  ardita  revisione  della  fama  poetica  del  Petrarca, 
meno  sorprenderk  la  rude  Hquidazione  dei  petrarchisti  quattro- 
centeschi  e  cinquecenteschi,  nei  quali  tutti  il  Torti  trova  «l*istesso 
vuoto  nelPidee,  Tistesso  languore  del  colorito,  la  stessa  nuliitk  di 
genio  e  d'immaginazione»;  e  neppurc  la  netta  eccettuazione,  fra 
essi,  del  Casa  per  la  sua  « immaginazione  forte  ed  energica,  nemi- 
ca  della  mollezza  e  deirartificio »,  e  per  il  suo  stile  «cupo  e  se- 
vero»,  che  ne  fanno  dl  Petrarca  selvaggio  del  nostro  Parnasow: 
un  giudizio  e  una  defmizione  che  parrebbero  gik  di  sapore  ro- 


NOTA   INTRODUTTIVA  849 

mantico,  se  non  venissero  poi  ricondotti  nei  loro  limiti  preroman- 
tici  dalla  preferenza  accordata  ad  un  sonetto  come  quello  sopra 
la  gelosia,  la  cui  asprezza  tende  verso  effetti  di  gustosa  e  un  po' 
facile  drammaticita. 

Solo  ad  una  troppo  frettolosa  considerazione  va  invece  attri- 
buita,  come  si  &  detto,  la  condanna  del  Pulci  e  del  Boiardo,  ai 
quali  il  Torti  rimprovera  non  solo  « le  figure  e  i  caratteri  »  che  «  non 
hanno  n£  verita  di  costume,  n6  imitazione  della  natura,  n6  forza 
e  grazia  di  sentimento  »,  ma  anche,  senza  farsi  scrupolo  di  ripetere 
ed  esagerare  accuse  di  tipo  razionalistico  e  classicistico,  «mancanza 
di  piano,  sconnessione  di  fatto,  anacronismi  d'awenture »,  e  «ne- 
gligenza  insopportabile »  di  stile. 

Residui  di  valutazioni  razionalistiche  e  classicistiche  restano  an 
che  nel  capitolo  dedicate  all'Ariosto:  per  esempio  quando  il  cri- 
tico  si  rammarica  che  il  poeta  si  sia  lasciato  «sedurre  dal  gusto  e 
dai  pregiudizi  del  suo  tempo  che  riguardavano  Pantica  cavalleria 
come  Pistituzione  piu  sublime  delPonore  e  dell'eroismo»,  e  abbia 
cosi  scelto  un  genere  letterario  «che  manca  della  base  essenziale 
del  verosimile » ;  che  abbia  fatto  «pompa  inutile  di  un  troppo 
gran  numero  di  personaggi»  e  « moltiplicato  indoverosamente  una 
troppa  quantita  di  azioni  isolate)),  cadendo  cosl  in  «un  abuso  di 
fantasia,  in  una  intemperanza  d'immaginazione,  che  sofFoca  il  gu 
sto  e  insulta  il  buon  senso»;  e  infine  che  abbia  «mancato  di  ri- 
spetto,  in  piu  luoghi  delP opera,  al  pudore  e  alia  decenza».  Nel 
complesso,  tuttavia,  questo  capitolo  costituisce  una  delle  migliori 
testimonianze  dei  risultati  a  cui  pu6  giungere  il  Torti  attraverso  la 
fresca  e  spregiudicata  lettura  che  gli  e  consentita  dal  suo  gusto  e 
da  quel  criterio  di  «interesse»  in  cui  esso  si  risolve  sul  piano  cri- 
tico.  Partendo,  infatti,  da  questo  punto  di  vista,  egli  si  rende  conto, 
anzitutto,  del  valore  poetico  che  assume  la  «  varieta»  ariostesca,  fino 
a  giustificare  per  tale  via  la  stessa  scelta,  poco  prima  deplorata, 
del  genere  cavalleresco  e  la  violazione  delle  regole  epiche,  come 
mezzi  prowidenziali  a  moltiplicare  «mirabilmente  le  situazioni  e  gli 
awenimentiw  e  a  risvegliare  «ad  ogni  istante  Pinteresse»;  e  a 
giungere,  di  qui,  ad  una  definizione  singolarmente  acuta  e  anti- 
cipatrice  (si  ricordi  che  il  Torti  scrive  nel  1806)  della  ccpositiva 
liberta  fantastica»  del  poeta  cccome  un  autentico  valore  creative* 
(Binni):  «I1  talento  delPintreccio  e  della  combinazione  e  per  ve 
rita  portentoso  neirAriosto.  II  suo  genio  fecondo  e  creatore,  quasi 

54 


850  FRANCESCO   TORTI 

librato  al  di  sopra  delFuniverso,  sembra  presiedere  a  tutti  i  moti 
come  a  tutte  le  passioni  degli  uomini,  e  nella  sua  vasta  immagi- 
nazione  animando  ed  abbracciando  un  immenso  circolo  di  cose, 
egli  guida,  per  cosl  dire,  la  natura  per  mano». 

Ma  forse  ancor  piu  importante  e  il  forte  rilievo  che  il  Torti, 
nel  suo  tentative  di  approfondire  ulteriormente  i  motivi  dell'dn- 
teresse  »  del  Furioso  e  appoggiandosi  alia  digressione  teorica  a  suo 
luogo  citata,  da  alia  «profonda  cognizione  del  cuore  umano»,  al 
«nuovo  patetico  interessante))  delPAriosto :  un  rilievo  che,  pur 
sempre  entro  i  confini  di  una  sensibilitk  e  di  un  moralismo  tutti 
settecenteschi  e  si  direbbe  metastasiani  (accanto  agli  episodi  di 
Olimpia  e  di  Ginevra,  e  ricordato  con  particolare  ammirasdone  il 
«grande  e  sublime  contrasto»  fra  Leone  e  Ruggiero),  e  nuovo  - 
anche  se  ha  qualche  precedente  nel  Baretti  -  proprio  rispetto  alia 
critica  del  Settecento,  volta  piuttosto  ad  insistere  sull'agevole  gra- 
zia  e  ricchezza  della  fantasia  ariostesca. 

Parimente  Paspetto  notevole  del  capitolo  dedicate  al  Tasso  non 
e  tanto  la  difesa  del  poeta  contro  le  censure  dei  pedanti,  motivo 
costante  della  critica  illuministica,  della  quale  il  Torti  ripete  an 
che  Pelogio  alia  unit&  e  regolaritk  strutturale  non  che  alia  esattezza 
e  precisione  stilistica  della  Gerusalemme,  quanto  Paver  concentrate 
Pattenzione  sul  « patetico  interessante »  del  poema,  su  «quel  tor- 
rente  di  poesia  animata  e  sentimentale »  in  cui  «s'appassionano, 
s'infiammano,  s'inebriano  tutti  i  cuori  gentilb,  e  che  il  critico 
documenta  attraverso  vivaci  e  aderenti  analisi  degli  episodi  di 
Erminia  fra  i  pastori,  della  morte  di  Clorinda,  del  colloquio  fra 
Rinaldo  e  Armida:  « patetico  interessante)),  che  invece  il  cri 
tico  non  riesce  a  trovare  ntlYAminta,  alia  quale  rimprovera  so- 
stanzialmente  gli  stessi  difetti  notati  nella  lirica  petrarchesca,  «il 
vuoto  delPazipne  e  il  languore  dell'interesse  »„ 

Ma  il  campo  dove  la  revisione  del  Torti  fa  le  sue  prove  pifc 
felici,  6  la  letteratura  del  Seicento.  Qui,  infatti,  dove  egli  non  si 
trova  ad  affrontare  i  complessi  mondi  poetici  di  un  Dante,  di  un 
Petrarca,  di  un  Ariosto  o  di  un  Tasso,  ma  solo  una  serie  di  scrit- 
tori  sostanzialmente  mediocri,  il  suo  gusto,  pur  nei  limiti  che  co- 
nosciamo,  gli  consente  agevolmente  di  precisare,  in  termini  che  si 
possono  definire  senz'altro  romantici,  la  condanna  arcadica  ed  il 
luministica  della  letteratura  di  quel  secolo,  di  sostituire  cio&  ad 
una  svalutazione  in  nome  del  buon  gusto  e  del  buon  senso  o 


NOTA   INTRODUTTIVA  851 

della  morale,  qual  &  quella  anche  di  un  Baretti  o  di  un  Cesarotti, 
un  giudizio  negative  fondato  sulla  constatazione  della  mancanza 
di  un  genuine  e  schietto  contenuto  sentimentale.  Che  alia  radice 
anche  di  questo  giudizio  ci  sia  un'esperienza  non  vichiano-roman- 
tica,  come  &  sembrato  al  Croce,  ma  tutta  preromantica,  e  pre- 
cisamente  di  carattere,  come  sempre  nel  Torti,  tra  cesarottiano 
e  montiano,  &  assai  chiaramente  comprovato  dalle  pagine,  giusta- 
mente  note,  in  cui  il  critico,  prendendo  evidentemente  lo  spunto 
dalla  condanna  in  cui  il  Bettinelli  e  i  classicist!  in  genere  coin- 
volgevano  senza  distinzione  i  preromantici  stranieri  e  italiani  e 
i  seicentisti,  distingue  con  molta  nettezza  le  metafore  dello  sti 
le  barocco  da  quelle  non  meno  « iperboliche »  di  due  testi  esem- 
plari  del  gusto  preromantico,  la  Bibbia  e  Ossian:  le  prime  im- 
poetiche  perch6  «non  cercano  che  di  brillare  all'ingegno  o  di 
sorprendere  lo  spirito»,  le  seconde  invece  poeticissime  in  quan- 
to  (cprovengono  quasi  sempre  da  un  cuore  bollente  e  da  una  fan 
tasia  esaltata  dalla  forza  della  passione  e  dell'entusiasmo». 

Partendo  appunto  da  questa  notevolissima  distinzione,  il  Torti 
giunge  ad  intendere  come  il  vero  difetto  dolVAdone  consista  non 
tanto  nei  suoi  « tratti  lubrici »  o  nella  « viziosita  dello  stile »,  quanto 
invece,  come  egli  dice,  nella  mancanza  «di  quell'ardore  vasto  e 
profondo  che  sviluppa  le  passioni,  crea  i  caratteri,  anima  i  senti- 
menti;  di  quell* arte  possente  che  si  rende  fin  dal  principio  padro- 
na  del  cuore,  e  lo  trasporta  e  lo  spinge  fino  alPultime  strette  del- 
Femozione  e  della  sorpresa»,  nella  mancanza  cio&  (per  tradurre, 
con  una  forzatura  in  realta  non  grave,  questa  osservazione  in 
termini  piu  moderni)  di  una  genuina  e  organica  ispirazione  sen 
timentale. 

Per  una  via  non  diversa  il  Torti  perviene  a  giudizi  non  meno 
notevoli,  nella  loro  decisa  limitazione,  sulla  lirica  antimarinistica 
del  Seicento,  alia  quale  gli  illuministi  e  persino  un  Salfi  guardavano 
ancora  con  occhio  benevolo,  come  quella  che  si  era  mantenuta 
libera  dal  «cattivo  gusto »  del  secolo,  preparando  il  rinnovamento 
arcadico.  Anche  in  questo  caso,  infatti,  il  confronto  con  la  lirica 
eroica  e  religiosa,  per  lui  veramente  genuina,  di  Ossian  e  dei 
Salmi,  &  sufficiente  al  critico  per  far  giustizia  di  quella  seicentesca, 
per  ridurre  entro  piti  modesti  confini  il  valore  di  poeti  come  il 
Testi,  il  Filicaia,  il  Guidi  e  per  indicare  la  vena  piu  sincera  del 
pindarico  Chiabrera  nelle  sue  odicine  amorose  di  imitazione 


852  FRANCESCO    TORTI 

anacreontica.  Applicando  poi  alia  poesia  comica  il  suo  criterio 
dell'interesse,  valutandola  cioe  in  base  alia  presenza  o  meno 
di « quel  grazioso  piccante,  quel  sale  attico,  che  e  il  risultato  tutto 
insieme  della  facilita,  dell'arguzia,  della  delicatezza  e  del  buon 
senso »,  egli  non  esita  a  condannare  in  blocco  tutta  la  letteratura 
burlesca  ed  eroicomica  dal  Quattrocento  al  Seicento:  e  se  tale 
condanna,  che  coinvolge  anche  il  Magnifico,  il  Berni,  il  Tassoni 
e  il  Redi,  e  senza  dubbio  affrettata  e  sbrigativa,  essa  resta  pure 
criticamente  assai  notevole,  come  stimolo  a  rivedere,  da  un  punto 
di  vista  meno  letterario,  piu  vivacemente  umano,  le  troppo  posi 
tive  valutazioni  della  critica  settecentesca. 

Naturalmente,  insistendo  sulla  genesi  tutta  preromantica  di  que- 
sti  giudizi  sul  Seicento,  cosi  come  di  quelli  sui  secoli  precedenti, 
non  si  vuole  diminuirne  Timportanza,  quanto  piuttosto  precisarla 
con  maggiore  esattezza  storica.  Parimenti,  solo  tenendo  presente 
Peffettivo  nucleo  di  gusto  da  cui  il  Torti  prende  le  mosse,  sembra 
possibile  intendere  nei  loro  limiti  ma  anche  nella  loro  concreta 
originalita  le  sue  valutazioni  degli  scrittori  del  Settecento,  Cosi, 
ad  esempio,  se  il  suo  ideale  di  una  poesia  « interessante »,  ma  in 
realta  aderente  agli  interessi  di  un  «pubblico»  dai  gusti  ancora 
tutti  settecenteschi,  patetica  quindi  ma  non  barbaricamente  ap- 
passionata,  educativa  ma  entro  i  confini  di  una  moralitJt  non  rivo- 
luzionaria,  espressa  in  un  linguaggio  sensibile  e  facile,  ma  non  in- 
tegralmente  individual  e  popolare;  se  questo  ideale  non  gli  basta 
per  giungere  ad  una  valutazione  della  letteratura  arcadica  che 
possa  dirsi  romantica,  esso  perc-  gli  consente  da  un  lato  di  isolare 
il  nucleo  sentimentale  di  quella  letteratura  con  una  sensibilita  piu 
acuta  degli  illuministi,  volti  piuttosto  a  sottolinearne  la  ehiarezza 
e  la  precisione,  e  dall'altro  di  intenderne  la  poesia  con  una  con- 
genialita  maggiore  di  quella  dei  romantici.  Esagerato  e  senza  dub- 
bio  il  rilievo  accordato  ad  alcuni  poeti  arcadici,  allo  Zappi,  al  Fru- 
goni,  al  Savioli  e  soprattutto  al  Metastasio.  La  sua  ammirazione 
pcr6  si  risolve  non  in  elogi  accademici,  ma  in  circostanziati  ritratti 
critici.  « lo  non  dir6 »  afferma  per  esempio  a  proposito  del  primo 
«che  Zappi  e  poeta  di  sentimento  nel  senso  che  lo  sono  Qssian, 
Young,  Gessner,  ec.;  ma  egli  ispira  una  si  gaia  sensibilita,  una 
si  galante  tenerezza,  che  i  suoi  versi  quasi  esprimono  delle  lacri- 
me  nel  tempo  stesso  che  si  ha  il  sorriso  sulla  bocca».  Questa 
esigenza  del  «  sentimento  »  lo  avverte  anche  dei  limiti  del  Frugoni ; 


NOTA   INTRQDUTTIVA  §53 

«L'immaginazione  era  la  caratteristica  piu  forte  del  genio  di  Fru- 
goni.  In  tanti  versi  da  lui  prodotti  egli  non  dava  niente  al  cuore 
e  al  sentimento  ».  Ne  gli  sfugge  la  faciloneria  con  cui  questo  «abusa» 
della  sua  immaginazione,  e  la  documenta  anzi  attraverso  gustose 
analisi  stilistiche;  n6  si  fa  scrupolo  di  ridurre  la  sua  poesia  ge- 
nuina  ai  pezzi  «ispirati  dall'estro  momentaneo  dell' allege ria,  del- 
1'amore,  dell'amicizia  e  dei  legami  di  societa».  E  se  mancano 
riserve  suU'arte  del  Savioli,  il  critico  sa  per6  caratterizzarne  con 
precisione  1'ispirazione  amorosa,  «associata  ne'  suoi  intimi  rap- 
porti  col  lusso  e  colla  morbidezza  delle  nostre  citta  italiane»,  e^lo 
stile,  in  cui  vede  mescolarsi  «al  tenero  e  dolce  linguaggio  dell'a- 
more . . .  tutte  le  grazie  dell'eleganza,  e  al  suono  facile  degli  an- 
tichi  elegiaci ...  la  vibratezza  e  la  castigatezza  di  Orazio». 

Nel  lungo  capitolo  sul  Metastasio,  poi,  egli  ripete  le^lodi  tri- 
butate  gia  dagli  illuministi  (compreso  il  Baretti)  alia  chiarezza  e 
precisione  della  struttura  e  dello  stile  e  alia  moralita  dei  suoi  melo- 
drammi,  ma,  come  gia  nel  caso  del  Tasso,  egli  ne  sottolinea  parti- 
colarmente  (forse  sviluppando  giudizi  del  Rousseau  e  del  Bertola, 
ma  soprattutto  obbedendo  al  proprio  gusto  personale)  il  « senti 
mento  »,  quella  capacita  cioe  di  interessare  commovendo,  che  si 
riflette  anche  nel  « linguaggio,  che  esprime  tutta  la  verita  della 
passione))  e  nell'armonia  del  verso,  «che  dipinge  col  suono  della 
parola  le  affezioni  dell'anima».  E,  sia  pure  con  1'intento  non  di 
caratterizzare  il  poeta  ma  di  mostrarne  la  maggiore  <cperfezione» 
rispetto  ai  suoi  predecessor!,  il  critico  tenta  anche  una^  pnma 
storicizzazione  del  Metastasio,  osservando  come  egli  si  sia  pro- 
dotto  «in  un'epoca  della  civilizzazione  la  piu  favorevole  o  a  dir  me- 
glio  la  piu  analoga  al  carattere  della  sua  anima»,  in  una  ((felice 
epoca  del  gusto  e  della  prosperita  generale,  mentre  il  genio  euro- 
peo,  ammorbidito  dall'arti  della  pace,  ne  propagava  i  piaceri  e 
ne  raffinava  i  godimentb. 

Anche  del  Goldoni  il  Torti  pone  in  forte  rilievo  1'aderenza  al 
proprio  secolo,  e  piu  particolarmente  alia  vita  di  «una  citta  cosl 
gaia,  cosl  voluttuosa  e  di  una  societa  cosi  facile  e  cosl  amena,  come 
Venezia  alia  meta  del  secolo  passato».  E  se  anche  in  questo  caso 
il  Torti  e  mosso  non  da  una  vera  esigenza  storicistica,  ma  dalla 
persuasione  che  in  quella  aderenza  consista  la  superiorita  della 
commedia  goldoniana  rispetto  al  Moliere  e  al  teatro  comico  pre- 
cedente,  e  di  qui  che  egli  prende  le  mosse  per  caratterizzare  in 


854  FRANCESCO   TORTI 

modo  penetrante,  appunto  attraverso  un  confronto  con  «il  ridi- 
colo  vivo  e  caricato » dell'autore  del  Misantropo,  vissuto  in  un'cpoca 
vigorosa  e  risentita,  la  comicitk  piii  varia  e  piu  borghesementc  rea- 
listica  del  Goldoni,  il  tono  « graziosamente  famigliare»  della  sua 
moralit^,  ed  anche  per  apprezzarnc  positivamente,  in  quanto  « na- 
turali»,  lo  stile  e  la  lingua. 

Questa  esigenza  di  uno  stile  « naturale »,  cio&  sensibile  e  facile, 
cosl  intimamente  connaturata  al  suo  gusto  della  poesia  dnteres- 
sante»  e  che  era  perfettamente  soddisfatta  da  poeti  quali  il  Meta- 
stasio  e  il  Goldoni,  non  poteva  non  rimanere  spiacevolmente  urtata 
dal  difficile  classicismo  dello  stile  pariniano.  Tale  dissenso,  tut- 
tavia,  non  rimane  criticamente  sterile;  anzi  stimola  il  Torti  a  vol- 
gere  dichiaratamente  la  sua  attenzione,  piu  che  al  contenuto  morale 
(che  naturalmente  elogia)  del  Giorno,  alP«  esecuzione »,  all'aspetto 
formale,  il  quale,  a  suo  giudizio,  costituisce  «il  prezzo  principale 
dell'opera»;  e  a  precisare  le  ragioni  del  suo  giudizio  attraverso  una 
analisi  che,  pur  nella  sua  intonazione  negativa,  coglie  acutamente, 
e  per  la  prima  volta,  alcuni  di  quelli  che  anche  per  noi  restano 
caratteri  essenziali  e  insieme  sono  in  un  certo  senso  effettivamente 
I  limiti  deli'arte  del  poemetto.  «Un'arte  infinita  suppliva  in  Pa- 
rini  alia  natura»:  cosl  e  dejSnito,  epigraficamente,  con  una  frase 
•che  anticipa  in  modo  singolare  le  valutazioni  del  Foscolo  e  del 
Leopardi  e  in  parte  dello  stesso  De  Sanctis,  il  carattere  centrale  del- 
la  poesia  pariniana.  Ma  non  meno  notevoli  sono  le  osservazioni 
in  cui  questo  giudizio  si  particolareggia:  sulla  necessitk  di  inquadra- 
re  il  gusto  del  Parini  entro  il  classicismo  oraziano  di  fine  Settecen- 
to ;  sulla  discordanza  fra  Tintento  satirico  e  le  « escursioni  liriche » 
o  le  frequenti  comparazioni  («tanti  quadri  ritoccati  e  finiti,  che 
ci  sorprendono  considerati  isolatamente,  e  fanno  che  si  perda  di 
vista  il  primo  oggetto  delPautorew);  sulle  «prosaiche  transazionu; 
sul  colorito  latineggiante  del  linguaggio;  sulPuso  <c  soverchiamente 
prolungato »  dell'ironia. 

E  TAlfieri?  Come  mai  il  Prospetto  del  Parnaso  italiano  non  si 
chiude  col  suo  nome  invece  che  con  quello  del  mediocrissimo 
Minzoni?  DelPAlfieri  il  Torti  tratt6  successivamente  nel  Purismo 
nemico  del  gusto  o  consider azioni  sulla  prosa  italiana  (1818),  e  piu 
ampiamente  in  un  capitolo  della  Filosofia  delle  medaglie  dti  grandi 
uomini  d'ogni  secolo  (1838),  dove  Tastigiano,  mentre  k,  lodato  co 
me  «il  piu  perfetto  dei  tragiciw  e  per  aver  fatto  sentire  all'uo- 


NOTA   INTRODUTTIVA  855 

mo  che  da  sua  dignita  e  una  emanazione  di  una  legge  anteriore 
ad  ogni  legge  d'ingiustizia  e  di  violenza»,  viene  biasimato  per  il 
suo  stile,  e  in  particolare  per  aver  incoraggiato  con  il  suo  esempio 
i  puristi  e  i  cruscanti.  Vero  &  che  non  una  questione  di  stile,  ma, 
come  si  vede  nelle  stesse  lodi  di  colore  tutto  settecentesco,  una 
profonda  diversita  di  sentimento  e  di  gusto  impediva  al  Torti  di 
aderire  integralmente  alia  rivoluzionaria  poesia  alfieriana  e,  piu 
generalmente,  alia  nuova  letteratura  che  fioriva  e  prendeva  vi- 
gore  mentre  egli  viveva  e  scriveva  ritirato  nella  solitudine  della 
sua  cittadina  umbra.  Ben  si  accorgeva  dei  limiti  del  Torti  un 
giudice  qualificato  come  il  Leopardi,  quando,  in  una  lettera  allo 
Stella  del  21  ottobre  1825,  1°  defmiva  «uomo  di  ingegno  suf- 
ficiente,  ma  di  nessun  gusto,  e  che,  per  essere  sempre  vissuto  in 
citt&  piccole,  non  conosce  punto  il  genio  di  questo  secolo,  n6  lo 
stato  attuale  della  letteratura  italiana».  Questa  incapacita  di  in- 
tender  il  genio  del  nuovo  secolo  &  documentata  altresi  dal  fatto 
che  nelle  opere  scritte  dopo  il  Prospetto  del  Parnaso  italiano  il 
Torti  sembra  ignorare  le  polemiche  romantiche;  che  vi  ricorda 
il  Foscolo  solo  una  volta  (nell5  Antipurismo)  e  come  « servile »  imi- 
tatore  del  Werther-,  che,  in  una  pagina  inedita,  trova  nei  Promessi 
sposi  «goffe  figure,  e  soprattutto  due  rozzi  sposi,  che  stentano 
a  sposarsi  e  che  nessuno  ha  interesse  di  vedere  sposati,  quadri  e 
figure  tutti  dipinti  graficamente  sul  gusto  tavernale  della  scuola 
di  Vandich»;  che  non  nomina  mai  il  Leopardi.  In  realta  le  ul- 
time  opere  del  Torti  rimangono  tutte  nel  cerchio  degli  interessi 
e  dei  gusti  del  Prospetto  del  Parnaso  italiano ,  e  nascono  anzi  espli- 
citamente  dalFintento  di  difendere  alcuni  dei  criteri  e  dei  giudizi 
fondamentali  di  quelFopera.  In  tal  senso  va  interpretata  la  po- 
lemica  contro  i  puristi  che  costituisce  Pargomento  del  Purismo  ne- 
mico  del  gusto,  della  Risposta  ai  puristi  (1819)  e  in  parte  del  Dante 
rivendicato  (1825):  una  polemica  non  priva  di  sensate  e  talora 
acute  osservazioni,  ma  di  sapore  ancora  tutto  settecentesco,  con- 
dotta  com'&  sulla  falsariga  delle  battaglie  illuministiche  e  so 
prattutto  cesarottiane  per  una  prosa  agile  e  moderna,  libera  dal- 
1'imitazione  boccaccesca,  e  senza  distinguere  fra  le  ragioni  del 
purismo  di  un  Alfieri,  e  anche  di  un  Giordani  e  di  un  Monti, 
e  quelle  del  purismo  accademico  romano,  contro  il  quale  sol- 
tanto  1'attacco  del  Torti  poteva  essere  ancora  attuale.  Anche  le 
polemiche  con  il  Monti,  contenute  nelFopuscolo  Le  affinitd  poeti- 


856  FRANCESCO   TORTI 

che  fra  il  genio  di  Ossian  e  il  genio  di  Monti  (1824)  e  nel  Dante 
rivendicatO)  vogliono  essere  non  tanto  una  vendetta  contro  il  vec- 
chio  amico  dimentico,  quanto  una  appassionata  difesa  di  quel- 
Tideale  di  poesia  che  entrambi  avevano  sentito  un  tempo,  e  che 
per  il  Torti  rimaneva  sempre  vivo  e  vero.  6  appunto  con  que- 
sto  spirito  che  egli,  nel  primo  opuscolo,  si  volge  a  cercare  nelle 
opere  del  Monti  reminiscence  ossianiche  quali  prove  di  fatto  «  che 
la  lettura  del  bardo  settentrionale  &  una  sorgente  inesausta  di 
sublimita  e  di  patetico  ».  A  sua  volta  il  Dante  rivendicato  vuol  essere 
una  conferma  e  una  illustrazione  di  quella  interpretazione  di  Dan 
te  che  il  Torti,  sotto  la  suggestione  del  Monti  e  in  particolare 
della  Bassvilliana,  aveva  esposto,  come  si  &  visto,  nel  Prospetto 
del  Parnaso  italiano,  e  che  ora  gli  sembrava  di  vedere  tacitamente 
combattuta  proprio  dal  Monli,  il  quale  nella  Proposta  di  atcune 
correzioni  e  aggiunte  al  Vocabolario  della  Crusca  aveva  definito 
« didascalico »  il  contenuto  e  lo  stile  del  poema  dantesco:  n6  ol- 
trepassano  veramente  i  limiti  del  Prospetto  alcune  pur  notevoli 
pagine  critiche  contenute  in  questo  scritto,  e  nelle  quali  vie- 
ne  piu  energicamente,  e  attraverso  analisi  piu  particolareggiate, 
sottolineata  Tispirazione  tutta  passionale  e  «  nazionale »  della  DzW- 
na  Commedia. 

Non  escono  infine  dai  confini  della  mentalitk  settecentesca  nep- 
pure  altre  opere  di  carattere  politico-morale  pubblicate  dal  Torti 
negli  ultimi  anni  della  sua  vita,  come  la  g&  ricordata  Filosofia 
delle  medaglie  del  grandi  uomini  d'ogni  secolo>  che  6  una  raccolta 
di  ritratti  di  alcuni  grandi  uomini  da  Alessandro  a  Voltaire,  da 
Seneca  airAlfieri,  analizzati  e  giudicati  nei  loro  aspetti  positivi 
e  negativi,  e  La  corrispondenza  di  Monteverde  (1832),  romanzo 
epistolare  che  si  svolge  in  una  immaginaria  cittadina  delPItalia 
centrale.  Questa  ultima  opera  procur6  al  suo  autore  non  poche 
amarezze.  Accusato  ferocemente  da  Monaldo  Leopardi  di  «li- 
beralismo»,  <csansimonianismo»  e  irreligiosit&,  egli  non  solo  vide 
il  suo  romanzo,  malgrado  la  difesa  tentata  in  una  lunga  Apologia^ 
messo  airindice,  ma  dovette  esplicitamente  sconfessarlo  pochi 
giorni  prima  della  morte,  awenuta  a  Bevagna  il  2  febbraio  1842. 
Eppure,  leggendo  la  Corrispondenza  di  Monteverde^  ci  si  persua 
de  presto  che  essa  non  contiene  nulla  di  veramente  sovversi- 
vo.  Vi  si  esalta  1'amor  di  patria  e  se  ne  deplora  la  attenuazione 
nei  tempi  moderni ;  vi  si  lamenta  spesso  la  miseria  e  1'oppressione 


NOTA   INTRODUTTIVA  857 

in  cui  vive  la  povera  gente;  vi  si  criticano,  infine,  alcuni  abusi  delle 
autorita  civili  ed  ecclesiastiche.  Ma  non  e  meno  vero  che  il  centre 
intorno  a*cui  si  raccolgono  questi  motivi  non  e  un  ideale  politica- 
mente  o  socialmente  o  religiosamente  rivoluzionario,  quanto  piut- 
tosto  il  sogno  generoso  e  candidamente  utopistico  di  una  specie 
di  ritorno,  fra  rousseauiano  ed  arcadico,  allo  stato  di  natura,  ad 
un  «nuovo  Eden  sulla  terra »,  ove  sia  possibile  esplicare,  protetti 
e  difesi  da  «  buone  leggi »,  « le  preziose  ed  inesauribili  affezioni  che 
la  natura  ispira  a  tutti  gli  uomini»,  e  godere  cosi  «una  felicita  che 
occupi  dolcemente  il  cuore  senza  degradarlo  e  ammollirlo,  che 
associ  Tinnocenza  alia  volutta,  che  riunisca  insieme  il  sentimento 
morale  e  il  godimento  fisico»:  «una  felicitk  pura  e  perenne,  non 
soggetta  alle  leggi  dell'opinione  ed  ai  capricci  della  moda,  ma  che 
sia  veramente  neiranima,  che  Tinvesta,  la  penetri  e  vi  risieda  con 
tutte  le  dolcezze  della  pace,  dell'onesta,  della  innocenza». 


Un  elenco  degli  scritti  cditi  e  inediti  di  Francesco  Torti  si  trova  nel 
volume  piu  avanti  citato  del  Trabalza,  Delia  vita  e  delle  opere  di  F.  Torti. 
Qui  bastera  ricordare,  nmandando  per  quanto  riguarda  il  Prospetto  del 
Parnaso  italiano  al  cappello  alle  pagme  qui  nprodotte,  che  gli  opuscoli 
polemici  contro  il  purismo  e  il  Monti  furono  pubblicati  in  quest' ordine: 
//  purismo  nemico  del  gusto  o  consider  axiom  sulla  prosa  itahana,  Perugia, 
Baducl,  1818;  Risposta  ai  puristi,  Firenze,  Piatti,  1819;  Le  bellezze  poe- 
tiche  di  Ossian  imitate  dal  cav.  Monti,  Fuhgno,  Tomassini,  1824;  Dante 
rivendicato,  letter  a  al  cav.  Monti,  Fuhgno,  Tomassini,  1825 ;  e  poi  nstampati 
con  qualche  aggiunta  e  mutamcnto  (in  particolare  al  terzo  fu  apposto  il 
nuovo  titolo  Le  affinita  poetiche  fra  il  genio  di  Ossian  e  il  genio  di  Monti) 
e  con  venti  letterc  scntte  dal  Monti  all'autore  fra  il  1786  e  il  1797,  in 
un  volume  unico  intitolato  Antipurismo,  Fuligno,  Tomassini,  1829.  II 
Dante  rivendicato,  insieme  con  il  capitolo  dantesco  del  Prospetto  del  Parnaso 
italiano,  fu  poi  ristampato  a  cura  di  C.  Trabalza,  Citt£  di  Castello,  Lapi, 
1901,  La  corrispondenza  di  Monteverde  o  Letter  e  morah  sulla  felicita  dell'uo~ 
mo  e  sugli  ostacoli  che  essa  incontra  nelle  contradiswni  tra  la  politico,  e  la 
morale  uscl  alia  macchia  ncl  1832,  e  pure  alia  macchia  furono  pubblicati 
VAneddoto  letter ario  di  un  epigramma  per  la  morte  di  Giulio  Perticari,  1834 
(e  cosi  una  seconda  edizione,  con  note  aggiunte,  del  1835),  e  V Apologia 
della  «Corrispondenza  di  Monteverde^,  1835.  La  filosofia  delle  medaglie  dei 
grandi  uomini  d'ogni  secolo  fu  stampata  a  Parma,  Rossetti,  1838.  Non  va 
infine  dimenticato  il  breve  profilo  autobiografico  che  il  Torti  stesso  scris- 
se  per  il  volume  Biografie  autografe  ed  inedite  di  questo  secolo,  pubblicate 
da  D.  Diamillo  Mtiller,  Torino,  Pomba,  1853,  pp.  343-5- 

II  merito  di  aver  richiamato  Tattenzione  degli  studiosi  sul  Torti  spetta 
a  GIRO  TRABALZA,  che  al  suo  conterraneo  dedic6  il  volume  Della  vita  e 


858  FRANCESCO    TORTI 

delle  opere  di  F.  Torti,  Bevagna,  Tipografia  Properziana,  1897:  il  quale, 
per  quanto  criticamente  poco  approfondito,  rimane  tuttora  una  fonte  in- 
dispensabile  di  notizie;  e  quindi  la  prefazione  all'edizione  citata  del  Dante 
rivendicato,  ripubblicata  col  titolo  La  polemica  del  Torti  col  Monti  nel 
volume  Studi  e  profili,  Torino,  Paravia,  1903,  pp.  93-105;  e  scrnpre  in 
questo  volume,  pp.  106-30,  lo  studio  Due  letterati  reatini  e  il  Torti,  nel 
quale  e  illustrate  il  carteggio  del  Torti  con  Scipione  Colelli  e  Angelo 
Maria  Ricci.  Ma  i  primi  ad  accorgersi  veramente  delPimportanza  del- 
Fopera  critica  del  Torti  furono  G.  A.  BORGESE,  nella  Storia  ddla  critica 
romantica  in  Italia,  Milano  I949a  (i  edizione  1905),  pp.  182-90;  e  B.  CROCE, 
in  alcuni  brevi  ma  assai  notevoli  cenni  contenuti  nei  Problemi  di  estetica, 
Bari,  Laterza,  1949*,  pp.  421-2  e  436-7.  Nelle  pagine  del  Borgese,  tutta- 
via,  1'opera  del  Torti,  per  mancanza  di  un'adeguata  storicizzazione, 
viene  considerata  come  una  eterogenea  mescolanza  di  vieti  rcsidui  classi- 
cistici  e  di  intuizioni  gia  del  tutto  romantiche,  mentre  a  sua  volta  il  Croce 
vi  ritrova  echi  vichiani  in  realta  molto  discutibili.  I  legami  del  critico  um- 
bro  con  la  cultura  settecentesca  sono  stati  invece  per  la  prima  volta  chia- 
ramente  awertiti  da  M.  FUBINI  nella  presentazione  di  un  florilegio  di 
pagine  del  Prospetto  del  Parnaso  italiano,  in  «I1  Baretti»,  gennaio  1927, 
pp.  4-5,  e  ribaditi  nel  saggio  Arcadia  e  Illuminismo,  ora  nel  volume  Dal 
Muratori  al  Baretti,  Bari,  Laterza,  1954,  p.  371.  Per  una  piti  particola- 
reggiata  e  documentata  esposizionc  delle  idee  svolte  in  questa  Nota  in- 
troduttiva  rimando  al  mio  studio  Francesco  Torti  critico  preromantico,  in 
«La  rass.  d.  lett.  it. »,  LXIII  (1959),  pp.  177-93. 


DAL 
« PROSPETTO  DEL  PARNASO  ITALIANO» 

TOMO  I 

AL   LETTORE1 

Se  voi  volete  acquistarvi  delle  idee  false,  frivole,  meschine  e  pedan- 
tesche  del  Parnaso  italiano,  non  avete  che  ad  aprire  i  pesanti  tomi 
di  Landino,  Vellutello,  Gesualdo,  Mazzoni,  Fornari,  Pellegrini, 
Salviati,  Quadrio,  Crescimbeni,  Tiraboschi,  ec.2  In  questo  irn- 
menso  pelago  di  commenti,  di  storie,  di  erudizioni  ammassate  e  di 

Come  dichiara  il  Torti  stesso  nel  breve  profile  autobiografico  ricordato 
nella  Nota  introduttiva,  il  «germe  del  Prospetto  del  Parnaso  italiano »  fu- 
rono  le  osservazioni  sulla  Bassvilhana  e  lo  studio  su  Dante,  che  egli  aveva 
stese  quando  ancora  durava  la  sua  corrispondenza  col  Monti,  all'mcirca 
mtorno  al  1793.  Ma  la  prima  parte  dell' opera  uscl  a  Milano,  presso  De 
Stefanis,  solo  nel  1806,  col  titolo  Prospetto  del  Parnaso  italiano  da  Dante 
fino  al  Tasso.  Verso  la  fine  della  Introduzione  di  questo  volume  il  Torti 
dichiarava  di  ignorare  se  dovesse  permettersi  di  condurre  il  suo  lavoro 
« piti  oltre  e  di  afTrontare  i  moderni ».  In  realta  1'opera  fu  continuata,  e  un 
secondo  e  terzo  tomo,  comprendenti  rispettivamente  il  Seicento  e  il  Set- 
tecento,  vennero  pubblicati  sei  anni  dopo  a  Perugia,  presso  Costantini  e 
Santucci  e  C.i,  nel  1812.  II  Prospetto  ebbe  una  certa  risonanza,  anche  se 
non  sempre  favorevole,  come  nei  circoli  classicistici  e  puristici  di  Roma, 
ai  quali  appunto  il  Torti  rispose  polemicamente  con  il  Purismo  nemico  del 
gusto  o  consider  azioni  sulla  prosa  italiana  e  con  la  Risposta  ai  puristi ;  giudizi 
positivi  furono  invece  pronunciati  dal  Niccolini  e  dal  Biagioli,  nel  suo 
commento  alia  Divina  Commedia.  Una  seconda  edizione  del  Prospettot 
pure  in  tre  tomi,  fu  poi  pubblicata  a  Firenze,  presso  Pagni,  nel  1828; 
essa  riproduce  sostanzialmente  il  testo  della  prima,  salvo  qualche  ritocco 
stilistico  e  Taggiunta  di  sette  note  a  pie  di  pagina,  intese  ad  attenuare  qual 
che  affermazione  di  carattere  politico  e  religiose  che  avrebbe  potuto  in- 
correre  nella  censura.  A  questa  seconda  e  definitiva  edizione  ci  siamo  at- 
tenuti  per  le  pagine  qui  riprodotte,  tenendo  presente  anche  la  prima  per 
correggere  qualche  errore  di  stampa.  Le  note  del  Torti  sono  seguite 
dalla  sigla  T. 

i,  Dal  Prospetto  del  Parnaso  italiano,  ed.  cit.,  I,  pp.  5-10.  2.  Cristoforo 
Landino  e  qui  ricordato  per  la  sua  Esposizione  allegorizzante  della  Divina 
Commedia  (1481);  Alessandro  Vellutello  per  le  sue  Esposizioni  del  Canzo- 
niere  e  della  Commedia,  pubblicate  rispettivamente  nel  1538  e  nel  1544 
e  piu  volte  ristampate ;  Giovanni  Andrea  Gesualdo,  per  la  sua  Esposizione 
del  Canzoniere  (1541);  Simone  Fornari  per  una  Sposizione  dell' Orlando 
furioso  (1549),  intesa  a  dimostrare  la  «regolarita»  del  poema;  Camillo 
Pellegrino  per  il  Carrafa  o  vero  dialogo  delVepica  poesia  (1584),  in  difesa 
della  Gerusalemme  liberata;  Leonardo  Salviati  per  i  suoi  scritti  in  di- 


86o  FRANCESCO   TORTI 

contese  grammaticali  voi  vi  troverete  perduto,  smarrito,  spaventato 
dall'enormita  del  viaggio;  voi  vedrete  da  ogni  parte  gli  scogli  e  le 
sirti  che  minacciano  d'inghiottirvi ;  e  se  talvolta  voi  credercte  di 
avere  infine  afferrato  una  spiaggia  fortunata,  la  vostra  immagina- 
zione  illusa,  simile  ai  primi  navigatori  del  nuovo  mondo  guidati 
dal  pregiudizio  e  dall'ignoranza,  si  persuader^  facilmente  di  aver 
veduto  de'  giganti  e  delle  miniere,  laddove  non  esistevano  in 
realtk  che  rupi  inaccessibili  e  terre  colorate. 

Se  alPincontro,  rigettando  tutti  i  libri,  voi  crederete  di  poter 
giudicare  de'  nostri  poeti  sulle  decisioni  degli  altri,  sulla  parola 
de'  maestri,  o  anche  sulle  vostre  proprie  letture,  voi  non  sarete 
esposto  niente  meno  al  pericolo  d'ingannarvi.  Una  parola,  un  giu- 
dizio,  una  censura,  un  elogio  pronunciati  a  caso  e  senza  cogni- 
zione  basteranno  ad  imprimere  nel  vostro  spirito  delle  prevention! 
indelebili,  che  vi  seguiranno  infallibilmente  anche  nel  silenzio  del 
gabinetto.  Noi  succhiamo,  per  cosi  dire,  nascendo  gli  errori  ed  i 
pregiudizi  di  coloro  in  mezzo  ai  quali  viviamo ;  e  impossibile  che  ta- 
luno  di  essi  non  penetri  fino  al  fondo  dell'anima,  e  non  sc  ne 
impadronisca  per  sempre.  II  grecista  Gravina  avea  inspirato  al  gio- 
vane  Metastasio  un  orrore  cosl  profondo  per  la  poesia  del  Tasso, 
che  egli  senza  averlo  mai  letto  non  poteva  ascoltarne  il  nome 
senza  abborrimento  e  disprezzo.  Non  vi  voleva  meno  che  Pingegno 
delicato  e  sublime  delPautore  del  Tito1  e  del  Temistock  per  ri- 
credersi  a  tempo  d'un  errore  cosl  fatale,  e  che  formava  non- 
dimeno  un  articolo  essenziale  del  gusto  letterario  del  suo  dotto 
maestro. 

Ma  senza  ricorrere  ai  nostri  vecchi  compilatori,  che  hanno  trat- 
tata  la  letteratura  piti  colPerudizione  che  col  buon  senso,  e  senza 
troppo  abbandonarci  alle  decisioni  isolate  del  nostro  spirito,  v'& 
una  strada,  io  penso,  piii  sicura  e  piti  ragionevole,  onde  formarsi 
una  giusta  idea  delle  nostre  ricchezze  poetiche.  Allontaniamo,  io 
ne  convengo,  il  pedantismo  e  Perudizione  dal  santuario  delle  Muse; 
che  io  non  sia  piii  obbligato  a  dimandare  a  Mazzoni  e  a  Salviati 
ci6  che  debbo  pensare  di  Dante  e  deirAriosto;  ma  in  luogo  di 
essi  consultiamo  il  sentimento  e  il  gusto  nazionale.  Non  siamo 
piti  ai  tempi  di  Castelvetro,  in  cui  la  traduzione  di  un  libro  greco 

fesa  delPAriosto  e  contro  il  Tasso  (cfr.  p.  358  e  la  nota  2);  il  Quadrio, 
il  Crescimbeni  e  il  Tiraboschi  per  le  loro  storie  letterarie.  i .  Tito :  il  melo- 
dramma  La  clemenza  di  Tito. 


PROSPETTO   DEL    PARNASO    ITALIANO  86l 

sembrava  un  prodigio  dello  spirito  umano.1  I  lumi  d'ogni  specie 
si  sono  propagati  e  diffusi;  il  tesoro  delle  lettere  non  &  piii  racchiuso 
in  una  sola  citta,  in  una  sola  accademia.  Non  &  dunque  solamente 
a  Firenze,  ma  a  Napoli,  a  Roma,  a  Milano,  a  Venezia  dove  noi 
impareremo  ad  apprezzare  il  merito  del  Petrarca  e  del  Boccaccio ; 
e  tutto  al  piu,  quando  fia  d'uopo  ascoltare  le  voci  delFArno, 
ci  sia  permesso  di  riportarci  alia  generalita  de'  buoni  ingegni  to- 
scani,  piuttosto  che  al  dispotismo  ristretto  e  grammaticale  della 
Crusca.  Le  opinioni  quanto  piu  si  concentrano,  tanto  piu  vanno 
soggette  alPillusione  e  alFinganno:  non  v'&  che  la  loro  universalita 
che  possa  renderle  sicure  e  rispettabili. 

Tali  sono  le  vedute  che  mi  hanno  guidato  nella  formazione  di 
questo  libro.  Ma  io  ho  fatto  anche  di  piu:  ho  osato  interrogate 
il  giudizio  dell'Europa  sul  grado  di  merito  del  Parnaso  italiano; 
ho  consultato  la  maniera  di  pensare  delle  nazioni  estere;  ho  spiato 
i  loro  giornali,  le  loro  accademie,  le  loro  teorie.  Io  rispetto  infini- 
tarnente  la  mia  nazione;  ma  non  sarebbe  forse  un  awenturarsi 
troppo  alle  seduzioni  delPamor  proprio  il  confidare  alle  sue  pro- 
prie  decisioni  una  causa  che  tocca  si  da  vicino  la  gloria  e  1'onore 
di  se  medesima? 

La  vanita  nazionale  &  una  malattia  di  tutti  i  popoli.  Orazio  me- 
desimo  non  ha  potuto  dispensarsi  dal  rimproverarla  ai  Greci  suoi 
maestri,  « praeter  laudem  nullius  avaris  ».2  Quindi  se  la  letteratura 
moderna  giudica  oggi  piu  sensatamente  d'Omero  e  d'Euripide, 
di  quello  si  giudicasse  di  loro  due  mila  anni  addietro,  qual  n'& 
mai  la  ragione  se  non  perch6  i  popoli  della  moderna  Europa 
non  hanno  nulla  di  comune  con  una  nazione  estinta  e  con  una 
lingua  morta?  Ora  la  distanza  de*  luoghi  e  de'  climi,  la  diversita 
della  lingua,  degli  usi,  delle  leggi  e  della  patria  producono  il 
medesimo  effetto  che  la  distanza  de'  tempi;  e  da  ci6  avviene  che 
le  produzioni  d'una  nazione  sono  sempre  meglio  apprezzate  dal 
criterio  dell'altre,  e  che  per  esempio  il  fenomeno  dell'Inghilterra, 
Tidolatrato  Shakespear,  &  piu  esattamente  giudicato  a  Parigi  e  a 
Berlino,  che  a  Londra  medesima. 


i .  Non  .  .  .  umano :  allude  alia  traduzione  ed  esposizione  della  Poetica  di 
Aristotele,  che  il  Castelvetro  pubblic6  nel  1570.  2.  Ars  poet.,  324  («di 
nulla  avari  fuorch6  di  lodi»). 


862  FRANCESCO   TORTI 

CAPITOLO   PRIMO 

Introduxione.1 

Non  potria  mai  di  tutti  il  nome  dirti; 
ch&  non  uomini  pur,  ma  del  gran  parte 
empion  del  bosco  degli  ombrosi  mirti.2 

Questa  epigrafe  fastosa,  posta  in  fronte  alia  collezione  del  Parnaso 
italiano  stampata  in  Venezia  nel  I782,3  contiene  im  sense  assolu- 
tamente  contrario  alFapplicazione  che  si  ebbe  in  vista  di  fame. 
Si  &  preteso  onorare  con  esso  la  nostra  poesia,  e  le  si  &  fatta  senza 
avvedersene  la  censura  e  la  satira.  Infatti  quella  moltitudine  di 
uomini  mescolati  insieme  cogli  dei,  vale  a  dire  quella  moltitudine 
di  cattivi  verseggiatori  confusi  con  i  buoni  poeti,  che  sono  i  veri 
dei  della  poesia,  non  forma  essa  un  pregiudizio  assai  svantaggioso 
per  Tonore  del  nostro  Parnaso?  Non  prova  essa  anche  troppo  la 
poca  delicatezza  del  gusto  nazionale  e  Pindiscreta  facilitk  colla  qua- 
le  i  nostri  antichi  accordavano  alia  mcdiocritfc.  gli  stessi  omaggi  e 
le  stesse  corone  riserbate  al  merito  ed  al  genio  superiore  ? 

I  Greci  ed  i  Romani  avevano  ben  altre  idee  in  fatto  di  poesia. 
Orazio  pretendeva  che  un'anima  veramente  poetica  e  degna  di 
questo  nome  dovesse  partecipare  in  certo  modo  della  natura  di~ 
vina,  «ingenium  cui  sit,  ac  mens  divinioo;4  che  tutti  gli  sforzi 
dello  spirito  rimangono  inutili  quando  esso  non  vada  accoppiato 
ad  un  fondo  ricco  e  naturalmente  fecondo,  «nec  studium  sine 
divite  vena » ;5  che  finalmente  la  natura  stessa  delle  cose  ha  decre- 
tato  esser  fra  loro  opposte  e  incompatibili  poesia  e  mediocrit&, 
«mediocribus  esse  poetis  /  non  homines,  non  dii,  non  concessere 
columnae».6  Questo  codice  del  criterio  poetico  &  stato  dimenticato 


i.  Dal  Prospetto  del  Parnaso  italiano ,  ed.  cit,  I,  pp,  11-39.  3.  Cfr.  Pe- 
trarca,  Trionfo  d'Amore,  I,  148-50.  II  Torti  dimentica  «c»  dope  bosco. 
3.  collexione .  ,  .  xj82\  i  cinquantasei  volumi  del  Parnaso  italiano '»  con- 
tenenti  una  scelta  di  pocti  italiani  fatta  dal  veneziano  Andrea  Rubbi  (1738- 
1817),  critico  di  gusto  puristico  e  classicistico,  e  stampati  a  Veneasia  dallo 
Zatta  tra  il  1784  e  il  1791.  4.  Serm.,  i,  iv,  43  («che  abbia  ingegno  e 
mente  piii  divinaw).  5.  An  poet,,  409  («non  [vedo  a  che  giovi]  lo  studio 
senza  una  abbondante  vena  poetica »).  6.  Ars  poet.,  372-3  («non  gli  uo 
mini,  non  gli  dei,  non  ie  edicole  dei  librai  concessero  ai  poeti  di  essere 
mediocri »). 


PROSPETTO    DEL   PARNASO   ITALIANO  863 

da  tre  quart!  almeno  de'  coltivatori  del  nostro  Parnaso,  e  quindi 
esso  si  e  riempito  piu  di  uomini  che  di  dei. 

I  Greci,  quella  nazione  primogenita  delle  Muse,  rimarrebbero 
ben  sorpresi  osservando  che  il  solo  secolo  del  Cinquecento  ha 
prodotto  air  Italia  piu  di  sessanta  poeti  lirici,  quando  essi  in 
tanti  secoli  di  splendore  e  di  pulitezza  non  hanno  potuto  contare 
che  Pindaro,  Alceo,  Callimaco,  Anacreonte,  Corinna  e  Saffo.  La 
loro  maraviglia  diverrebbe  anche  maggiore  se  vedessero  che  in 
luogo  di  un  solo  Omero  ch'essi  ebbero,  noi  osiamo  vantarne  una 
dozzina,  e  ristampiamo  ogni  giorno  con  una  cieca  compiacenza  i 
poemi  de'  Pulci,  de'  Boiardi,  de'  Berni,  de'  Lippi,1  de'  Fortiguerra,2 
i  quali  anzi  con  una  critica  sublime  non  manchiamo  di  mettere 
quasi  al  paro  degli  Ariosti  e  de'  Tassi.  Questa  opprimente  esube- 
ranza  poetica,  questa  sterile  fecondita  di  verseggiatori  e  di  versi 
e  un  fenomeno  singolare  e  stravagante,  indigeno  alia  sola  Italia, 
e  di  cui  1'altre  nazioni  non  ebbero  giammai  1'idea. 

Un  inglese,  il  celebre  Sherlock,3  ha  creduto  di  trovare  la  spie- 
gazione  del  fenomeno  nella  pieghevolezza,  fluidita  ed  armonia  della 
nostra  lingua,  che  la  caratterizzavano  sopra  1'altre  lingue  viventi. 
Infatti  come  potrebbe  1* Italia  esser  cosi  feconda  di  poeti  improv- 
visatori,  se  la  sua  lingua  non  si  piegasse  con  estrema  facilita  al- 
1'accento  della  poesia  e  airinflessioni  del  verso  ?  La  facilita  dun- 
que  di  verseggiare  e  quella  che  produce  1'eccessivo  numero  de' 
verseggiatori.  Ci  applichiamo  volontieri  ad  un  genere  di  talento, 
che  non  esige  fatica,  ed  ha  la  ricompensa  di  piacere  e  divertire. 
Gli  amici,  le  donne,  le  piccole  societa  fanno  plauso  al  poeta  che  si 
produce  e  si  crede  pagato  dal  diletto  medesimo  che  procura  agli 
altri;  un  mecenate,  un  grande  lo  prende  sotto  la  sua  protezione; 


i.  Lorenzo  Lippi:  cfr.  la  nota  zap.  347.  2.  Fortiguerra:  Niccol6  Forte- 
guerri  (1674-1735),  autore  del  Ricciardetto,  poema  eroicomico.  3.  Martin 
Sherlock  (circa  1750-1797),  letterato  inglese,  pubblic6  a  Napoli,  nel  1778, 
un  volumetto  intitolato  Consiglio  ad  un  giovane  poeta>  nel  quale  criticava 
aspramente  e  disordinatamente  i  pih  grandi  poeti  italiani  (tranne  il  Meta- 
stasio),  ai  quali  opponeva  i  poeti  greci,  francesi  e  inglesi,  levando  al  cielo 
soprattutto  Shakespeare.  II  volumetto  suscit6  una  serie  di  risposte  pole- 
miche  da  parte  di  alcuni  letterati  italiani,  fra  cui  Alessandro  Zorzi  (in 
Letter  e  tre  a  Marco  Lastri,  Ferrara,  Rinaldi,  1779)  e  il  Napoli  Signorelli 
(nella  Storia  critica  de'  teatri  antichi  e  moderni,  vi).  Sullo  Sherlock  cfr. 
B.  CROCK,  Un  viaggiatore  in  Italia  nel  Settecento,  apostolo  dello  Shake 
speare,  in  «La  Critica »,  xxvi  (1928),  pp.  461-7. 


864  FRANCESCO   TORTI 

egli  £  ricercato  e  festeggiato  da  ogni  parte.  Questo  incontro  abba- 
gliante  seduce  il  giovane  alunno  delle  Muse;  il  suo  cuore  si 
gonfia;  egli  gik  si  riguarda  come  il  Pindaro  o  1'Anacreonte  del  suo 
secolo ;  egli  g&  vede  aprirsi  avanti  di  s6  il  tempio  dell'immortalitsk, 
e  vi  si  colloca  modestamente.  Si  stampano  intanto  le  sue  rime: 
un  erudito  di  qualitk  ne  fa  Pelogio ;  i  suoi  compagni  di  mestiere 
lo  ripetono  o  per  imbecillit&  o  per  etichetta;  la  moltitudine  lo 
crede  sulla  parola,  ed  eccovi  un  poeta  italiano  nelle  forme.  Frat- 
tanto  che  sono  in  sostanza  i  suoi  versi  ?  Nient'altro  che  ripetizioni 
di  parole  e  di  frasi  de'  capiscuola  d'  Italia.  Saranno  versi  petrar- 
cheschi,  marineschi,  chiabrereschi,  frugoniani,  quello  che  voi  vo~ 
lete ;  ma  saranno  tutt'altro  che  poesia  e  poesia  originale. 

Finch6  la  riputazione  dej  poeti  sark  in  Italia  il  risultato  de* 
gusti  parziali  e  de'  giudizi  isolati,  essa  poggeri  sempre  sopra  delle 
basi  assai  frivole  ed  illusorie.  II  giudice  naturale  dell'opere  di  gu 
sto  &  il  pubblico.1  Quando  esso  ha  assaporato  una  volta  il  buono 
e  il  bello,  egli  &  il  meno  soggetto  ad  ingannarsi.  Osservate  la  Grecia 
ne'  suoi  bei  giorni.  Qual  era  il  tribunale  inappellabile,  innanzi  al 
quale  il  poeta,  Poratore,  il  pittore,  il  musico  recavano  palpitando 
i  capi  d'opera  del  loro  talento  ?  Questo  tribunale  era  il  popolo,  era 
Tintera  nazione  adunata  maestosamente  ai  giuochi  olimpici.  L& 
Pindaro  e  Corinna  si  disputarono  tante  volte  il  premio  della 
pubblica  ammirazione ;  Ik  Dionigi,  tiranno  di  Siracusa,  mandava  a 
declamare  i  suoi  versi  per  riunire,  s'era  possibile,  la  corona  della 
gloria  a  quella  delPambizione ;  1£  Erodoto  si  portava  a  leggervi  le 
sue  storie,  Isocrate  i  suoi  discorsi,  Platone  i  suoi  sistemi  di  filoso- 
fia.  Se  in  quella  circostanza  un  inno,  un  poema,  un  quadro,  un 
canto  non  giungeva  a  sostenere  il  formidabile  giudizio  di  quella 
grande  assemblea,  Topera  cadeva  per  sempre  e  s'annientava  da  se 
medesima.  Tutta  la  falange  de*  nostri  eruditi  glossatori  avrebbe  ten- 
tato  invano  di  risuscitare  neppure  un  verso  di  un'opera  qualunque 
fulminata  dalla  disapprovazione  della  Grecia  riunita. 

Noi  popoli  moderni  non  abbiarno  niente  di  somigliante  alia  pom- 
pa,  airimportanza  ed  alia  utiliti  di  questi  grandiosi  spettacoli;  noi 
manchiamo  soprattutto  del  prezioso  vantaggio  di  riunire  in  una 


i,  II giudice  .  ,  .pubblico:  &  uno  dei  concetti  fondamentali  dell'estetica  del 
Dubos,  e  poi  di  quella  illuministica  in  genere  (cfr.  M.  FUBINI,  Dal  Mura~ 
tori  al  Baretti)  cit.,  pp.  369-72). 


PROSPETTO    DEL    PARNASO    ITALIANO  865 

sola  capitale  i  voti  e  i  giudizi  di  tutta  una  nazione.1  Questo  incon- 
veniente  si  rendeva  piu  sensibile  prima  della  propagazione  del- 
Tarte  della  stampa,  e  ne'  tempi  piu  prossimi  a  Dante  e  Petrarca. 
La  folle  lusinga  d'uguagliare  il  merito  di  questi  primi  idoli  del 
nostro  Parnaso  ricopiando  senza  esame  le  loro  virtu  come  i  loro 
difetti,  fece  sortire  uno  sciame  innumerabile  di  servili  imitatori, 
i  quali  a  guisa  di  una  nuvola  di  locuste  portarono  Paridita  e  lo 
squallore  nelle  piu  belle  campagne  di  Pindo.2  Per  lo  spazio  di  due 
secoli  dopo  il  Petrarca  non  si  videro  che  bronchi  e  spine  innestati 
sopra  i  fiori  appassiti  della  sua  lirica;  e  gl'indiscreti  ed  imbecilli 
coltivatori  si  occuparono  ostinatamente  a  sfrondare  il  suo  alloro,  a 
schiantarne  i  rami  e  dividerseli  a  vicenda.  Cosi  si  procedette  senza 
interruzione  in  tutto  il  secolo  del  Quattrocento,  secolo  per  verita 
assai  celebre  negli  annali  della  nostra  antichita  letteraria,3  ma  oscu- 
ro  e  nullo  nella  storia  del  buon  gusto  e  della  poesia.  Questo  si- 
stema  di  cieca  e  servile  imitazione,  portato  all'eccesso  fino  ai  giorni 
felici  deirAriosto,  facilitb  oltremodo  1'arte  gia  troppo  facile  di 
verseggiare,  moltiplic6  i  cattivi  poeti  e  popo!6  il  sacro  soggiorno 
delle  Muse  di  quella  moltitudine  d'uomini,  di  cui  pur  troppo  6 
forza  ripetere 

non  potria  mai  di  tutti  il  nome  dirti. 

Questa  ricchezza  piu  apparente  che  solida  e  lungo  tempo  ch'e 
stata  traveduta  da'  letterati  di  buon  senso  e  meno  preoccupati  dal 
pregiudizio.  II  buon  Ludovico  Antonio  Muratori  nel  suo  trattato 
Delia  perfetta  poesia  fa  assai  chiaramente  sentire  ci6  ch'egli  pensa 
di  queirimmensa  schiera  di  petrarchisti,  intorno  ai  quali  egli  si 
esprime  cosi:  «Ma  contuttoci6  se  si  considera  la  gran  massa  delle 
poesie  liriche  stampate  in  argomento  amoroso,  si  trovera  per  espe- 
rienza  che  in  un  campo  non  molto  vasto  si  vanno  aggirando 
grinnamorati  poeti.  Questo  quasi  tutto  s'era  prima  occupato  dal 

i.  manchiamo  .  .  .  nazione:  1'idea  risale  all'Algarotti,  ma  il  Torti  probabil- 
mente  riecheggia  il  Bettinelli,  che  deplora  la  mancanza  di  una  capitale 
italiana  nella  nota  xxix  dell* Entusiasmo  delle  belle  lettere  e  altrove  (cfr.  M. 
FUBINI,  Dal  Muratori  al  Baretti,  cit.,  p.  215).  2.  Pindo:  monte  della 
Tessaglia,  sacro  ad  Apollo  e  alle  Muse.  3.  secolo  .  .  .  letteraria:  allude 
probabilmente  all'elogio  del  Quattrocento  che  si  legge  nella  Storia  della 
letteratura  italiana  del  Tiraboschi,  il  quale,  coerente  con  il  suo  punto 
di  vista,  definisce  quel  secolo  « il  piu  celebre  e  il  pid  glorioso  nella  storia 
dell' italiana  letteratura »  (cfr.  II  edizione  di  Modena,  v,  1789,  p.  m). 

55 


866  FRANCESCO   TORTI 

grancTingegno  del  Petrarca;  ed  &  pur  convenuto  infino  ai  migliori 
che  dopo  lui  hanno  scritto  versi  amorosi,  o  copiare  o  travestire  in 
qualche  altra  maniera  i  medesimi  concetti  e  sentimcnti  di  quel 
maestro;  il  che  appunto  &  un  camminare  senza  far  viaggiow  (lib.  3, 
cap.  7). 

II  celebre  Algarotti  in  una  delle  sue  epistole  in  versi  indirizzata 
a  Metastasio  geme  anch'esso  sullo  stato  infelice  della  poesia  ita- 
liana,  deplorando  la  superstiziosa  mania  che  teneva  servilmente 
attaccati  gPingegni  nazionali  all'imitazione  di  un  sol  genere,  e  li 
rendeva  tanto  vili  e  disprezzabili  poeti,  quanto  nemici  funesti 
deiravanzamento  e  perfezione  dell'arte: 

Nuovo  non  &  che  la  volgare  schiera 

solo  dagli  anni  la  virtude  stimif 

e  piu  la  rugia  che  il  metallo  apprezxi, 

Forse  la  vena  del  castalio  fonte 

secca  £  a*  di  nostri,  e  di  Parnaso  in  cima 

forse  soli  poggiar  Dante  e  Petrarca? 

O  di  servile  eta  povere  menti? 
Nulla  dunque  lasciar  Dante  e  Petrarca 
airindustria  de'  posteri  e  alPingegno? 
Dunque  fra  not  la  lunga  arte  d*  Apollo 
perfetta  surse  in  rozste  etadi,  in  cut 
Varti  che  pur  di  lei  sono  sorelle 
giacean  ancor  nelVunnica  ruina?1 

Coloro  pero  che  hanno  innalzato  in  Parnaso  lo  stendardo  rivo- 
luzionario,  ed  hanno  preteso  disingannare  arditamente  gli  Italiani 
troppo  prevenuti  della  loro  gloria  poetica,  sono  stati  Tex-gcsuita 
Bettinelli  e  Tingiese  Sherlock.  II  primo  diede  alia  luce  nel  1757 
un  piccol  libro  col  titolo :  Died  letter  e  di  P.  Virgilio  Marone,  scritte 
dagli  Elisi  all' Arcadia  di  Roma,  sopragli  abusi  introdotti  nella  poesia 
italiana:  il  secondo  pubblicb  il  suo  circa  vent'anni  dopo,  col  titolo: 
Consiglio  ad  un  giovane  poeta.  Questi  due  autori  cosl  diversi  fra 
loro  di  patria  e  di  professione,  lo  sono  altrettanto  nolle  loro  idee, 
nel  loro  gusto  e  ne'  loro  principii.  Ma,  posta  ogni  altra  osservazione 
a  parte,  hanno  essi  adempito  alPoggetto  che  si  sono  proposti  ?  Per 
verit^i,  s'io  avessi  potuto  persuadermene,  mi  sarei  dispensato  dal 
pubblicar  questo  libro. 

i.  Cfr.  epistola  Al  signor  abate  Pietro  Metastasio,  38-44  e  65-71  (Qpere,  I, 
Venezia,  Palese,  1791,  pp.  15-6), 


PROSPETTO   DEL   PARNASO    ITALIANO  867 

Per  rilevare  giustamente,  come  hapreteso  Bettinelli,  «gli  abusi 
introdotti  nella  poesia  italiana»,x  sarebbe  stato  prima  necessario  di 
rimontare  alia  sua  origine,  seguirla  nelle  sue  diramazioni,  fissare 
il  carattere  de'  nostri  poeti  classici,  penetrarne  lo  spirito,  formarne 
il  ritratto  e  presentarlo  in  quel  lume  di  verit&  che  ne  facesse  subito 
riconoscere  Pingenua  e  naturale  fisonomia,  non  adulata  dal  pre- 
giudizio,  n£  sfigurata  dalPignoranza.  In  questa  specie  di  quadro 
storico-morale  del  nostro  Parnaso  ciascuno  de'  suoi  primi  geni  vi 
troverebbe  naturalmente  il  posto  che  gli  conviene;  vi  si  vedrebbe 
Penorme  distanza  a  cui  restano  i  nomi  di  coloro  che  si  erano  fatta 
scrupolosamente  la  legge  di  non  camminare  se  non  dietro  i  loro 
vestigi;  si  sarebbero  infine  messe  in  disparte  tutte  le  scorie,  le 
superfluity  e  le  false  ricchezze  ammassate  senza  esame  e  per  tanti 
secoli  nel  nostro  erario  poetico:  giacch6  Terrore  degli  Italiani  non 
consiste  gik  nelPaver  troppo  apprezzati  i  loro  tesori,  ma  nell'averne 
esagerato  il  numero  e  la  quantity.  Essi  immaginavano  falsamente 
di  possedere  una  gran  massa  d'oro  e  d'argento ;  ebbene,  aprite  loro 
gli  occhi  sulle  tre  o  quattro  gemme  inestimabili  che  realmente 
possiedono,  e  li  vedrete  rinunciare  volontieri  a  tutto  il  resto  d'una 
ricchezza  inutile  e  imbarazzante. 

L/ex-gesuita  Bettinelli  all'incontro  ha  trattato  questo  soggetto 
in  una  maniera  pedantesca,  incompleta  e  disonorante  per  la  na- 
zione;  egli  ha  battuto  una  strada  che  non  &  punto  quella  della 
veritk  e  della  buona  fede.  Un  terzo  almeno  del  suo  opuscolo  & 
interamente  impiegato  a  lacerare  in  dettaglio  il  merito  e  la  riputa- 
zione  di  Dante.  Senza  considerare  la  profondhi  e  la  grandezza 
di  questo  genio,  senza  apprezzare  Tarditezza  del  suo  disegno,  la 
fierezza  del  suo  colorito,  senza  abbracciare  Pestensione  e  i  rapporti 
del  suo  piano,  tutte  le  ricerche  di  Bettinelli  non  vertono  che  sulle 
qualitk  dello  stile.  Lo  stile  sembra  richiamare  tutto  il  suo  esame; 
lo  stile  &  il  grande  oggetto  delle  sue  discussioni.  Quindi  egli  si 
dclizia  a  rilevare  minutamente  agli  occhi  del  lettore  la  rozzezza 
della  sua  elocuzione,  la  ruggine  delle  parole,  il  grottesco  d'alcune 
immagini:  quindi  i  versi  piii  grossolani,  i  terzetti  piu  urtanti  vi 
sono  additati  con  una  minutezza  ributtante.  Egli  suppone  chime- 


I.  Cita  dalla  decima  delle  Letter  e  virgiliane:  «gli  abusi  introdotti  in  ogni 
parte  <T Italia »  (cfr.  Tedizione  a  cura  di  V,  E.  Alfieri,  Bari,  Laterza,  1930, 
P-  58). 


868  FRANCESCO   TORTI 

ricamente  che  la  poesia  di  Dante  abbia  formata  una  scuola  parti- 
colare;  egli  declama  contro  i  dantisti  d'imitazione,  ed  egli  s'in- 
ganna.  Egli  dovrebbe  arrossire  d'ignorare  la  storia  letteraria  del 
proprio  paese.  Ognuno  sa  che  PItalia  ha  avuto  i  petrarchisti,  i 
marinisti,  i  seicentisti  ec.,  ma  i  dantisti  pratici  non  esistono  che 
nella  fantasia  del  critico.  Oso  dire  di  piu,  che  degli  imitatori  di 
Dante  non  possono  esservene  n£  formare  una  scuola;  quello  che 
v'&  di  cattivo  in  lui  non  &  capace  di  sedurre  alcuno;  all'incontro 
le  sue  originali  bellezze  non  sono  a  portata  di  un  volgare  imitatore ; 
conviene  aver  la  forza  di  Teseo  per  sostenere  la  clava  d'Alcide.1 
Dante  &  il  Michelangelo  della  nostra  poesia;  la  sua  lettura  &  una 
sorgente  inesausta  di  robuste  idee;  i  savi  zelatori  delle  lettere  non 
potrebbero  mai  abbastanza  raccomandarne  ai  giovani  la  medita- 
zione  e  lo  studio;  e  Bettinelli  ha  fatto  il  contrario. 

Nel  rimanente  delle  Died  lettere  di  Virgilio  Tex-gcsuita  Betti 
nelli  parla  del  Petrarca  e  della  sua  scuola.  Egli  &  ben  sorprendente 
che  dopo  aver  definito  questo  Hrico  italiano  «un  poeta  di  lingua 
vivente  che  canta  d'amore  e  d'una  semplice  donxcllctta »,  e  che 
«pur  trova  il  modo  di  farsi  oscuro,  enimmatico  ed  insoffribilc  per 
la  rima  e  per  la  durezza  nelle  tre  parti  delFopera  sua»,a  egli  £  ben 
•sorprendente,  dico,  come  questo  poeta  « oscuro,  enimmatico,  in- 
soffribile  e  duro»  sia  nel  tempo  stesso  Tautore  «de'  piu  nobili  e 
gentili  modi  di  dire,  delle  grazie,  delPelocuzione,  delle  frasi  e  delle 
•espressioni  poetiche».3  Dopo  aver  affermato  che  il  Petrarca  sem- 
bra  aver  fatto  di  tutto  per  ccrecar  piii  tedio  che  non  diletto,  e  per 
non  essere  inteso  dalle  tre  parti  della  sua  stessa  nazione»:4  egli  & 
ben  sorprendente  che  Tautore  di  questo  giudizio  osi  aggiungere, 
nella  lettera  quinta,  che  «lo  stesso  Amore  dett6  di  sua  bocca  al 


i.  lo  non  conosco  che  un  solo  imitatore  di  Dante,  e  tutta  T Italia  1©  conosce 
^gualmente:  ma  questi  non  &  piii  un  imitatore,  L'energica,  libera  c  franca 
maniera,  con  cui  egli  ha  afTerrato  le  bellezze  del  suo  modello,  mette  senza 
dubbio  1'imitatore  al  jfianco  dell'onginale  medesimo  (T.).  II  Torti  allude, 
come  <b  facile  capire,  al  Monti,  z.  Cita  dalla  quarta  delle  Lettere  virgi- 
liane  (ed.  cit,  p.  25;  ma  il  Torti  ha  presente  una  delle  prime  edbioni 
delle  Virgiliane,  nelle  quali  figura  « donzelletta »  in  luogo  di  donna,  che 
compare  invece  nell'edizione  Zatta).  3.  Cita  liberamente  dalla  quinta 
delle  Lettere  mrgilianet  dove  ^  detto  esattamente:  «I  pi{i  nobili,  i  piu 
gentili  modi  di  dire,  le  grazie  dell'elocuzione,  le  frasi  insomma  e  1'espres- 
sioni  poetiche,  e  proprie  di  lui  e  dcgV  Italian!,  tutte  o  poco  meno  a  lui 
son  dpvute»  (ed.  cit.,  p.  32).  4.  Cita  dalla  quarta  delle  Lettere  virgiliane 
(ed.  cit,  p.  25). 


PROSPETTO   DEL   PARNASO   ITALIANO  869 

poeta  le  formole  della  lingua)).1  E  questo  poeta  « insoffribile  nelle 
tre  parti  delFopera  sua»  come  ottiene  poi  dalFinesorabile  senato 
dell'ombre  de*  poeti  greci  e  latini,  che  «si  ripurghi  d'una  terza 
parte  delF opera  »2  sua  solamente?  E  perch£  all'incontro  la  severitk 
di  questo  tribunale  poetico  si  rovescia  tutta  sopra  il  povero  Dante, 
fino  quasi  ad  annientarlo,  riducendo  il  suo  poema  all'impercetti- 
bile  mole  di  trecento  versi,  mentre  l'«  insoffribile »  Petrarca  resta 
quasi  intcramente  al  Parnaso,  nonostante  i  due  buoni  terzi  d'«oscu- 
ritk»,  di  (ctediositk»  e  di  «durezze»?  Per  verita  e  ben  capriccioso 
il  criterio  de'  morti,  allorch£  s'impegnano  a  voler  giudicare  sul 
gusto  letterario  d'una  lingua  vivente. 

Che  se  alcuno  domanda  qual  luogo  ottengano  in  questo  esame 
critico  di  Bettinelli  1'Ariosto,  il  Tasso,  Guarini,  Chiabrera  (giac- 
ch6  sopra  i  piu  moderni  egli  osserva  un  politico  silenzio),  resterk 
ben  sorpreso  in  sapere  che  questi  grandi  uomini  non  vi  sono  no- 
minati  che  di  passaggio  e  per  esservi  oltraggiati  indecentemente. 
Come  ?  Bettinelli  impiega  un  terzo  del  suo  libro  a  discutere  seria- 
mente  se  Dante  debba  essere  preferito  ad  Ennio,  e  non  consacra 
due  sole  pagine  ai  nomi  immortali  delFAriosto  e  del  Tasso?  Si 
fa  egli  una  legge  di  glossare  minutamente  l'«  enimmatico  »  e  l'«  in 
soffribile  )>  Petrarca  e  non  dice  una  parola  de7  loro  poemi,  delizia 
della  nazione  e  del  loro  genio  originate  ed  ardito,  che  si  aprl  una 
nuova  strada  fin'allora  sconosciuta  in  Parnaso?  II  sonetto,  la  can 
zone  attireranno  tutta  Tattenzione  di  Bettinelli,  ed  egli  trascurera 
i  due  piu  grandi  monumenti  della  nostra  letteratura,  che  hanno 
fatto  conoscere  la  superiority  del  Parnaso  italiano  all'altre  nazioni 
europee!  Finalmcnte  & 1'ex-gesuita  Bettinelli  che  ha  avuto  la  sfron- 
tatezza  unica  di  stampare  in  Italia  le  seguenti  parole:  «non  si 
ristampi  il  Tasso  senza  prowedere  all'onor  suo  . . .  ».3 

Con  un  fondo  di  spirito  piu  luminoso,  piu  brillante,  piu  filo- 
sofico  il  signor  Sherlock  &  entrato  dopo  Bettinelli  nella  stessa 
camera;  ma  se  il  suo  libro,  Consiglio  ad  un giovane  poeta,  riunisce 
piti  grazie  e  piu  brio  di  stile,  esso  non  e  punto  inferiore  all'altro 


i.  II  Bettinelli  dice  esattamente:  «Ciascuna  [lingua]  ha  le  sue  formule  .  . . 
II  Petrarca  diede  all* Italia  le  sue ...  Egli  stesso  Amore  le  dett6  di  sua 
bocca  al  poeta » (ed.  cit,  p.  33).  a.  Cita  dalla  nona  delle  Letters  virgiliane 
(ed.  cit.,  p.  54).  3.  Cita  ancora  dalla  nona  delle  Letter  e  virgiliane,  dove 
e  detto  esattamente:  «I1  Tasso  piii  non  si  stampi  senza  prowedimento 
all'onor  suo»  (ed.  cit.,  p.  54). 


870  FRANCESCO   TORTI 

per  gli  error!  di  critica  e  la  nullit&  del  suo  oggetto.  Come  1'autore 
delle  Lettere  di  Virgilio  ha  preteso  impiccolirc  la  riputazione  di 
Dante,  cosl  Pautore  del  Consiglio  ha  cercato  di  mettere  in  pezzi 
il  merito  dell'Ariosto:  1'uno  e  Taltro  hanno  combattuto  una  chi 
mera  che  non  esisteva,  cio&  la  scuola  de'  dantisti  il  primo,  il  gusto 
ariostesco  predominate  ed  unico  in  Italia  il  secondo.  « U  Ariosto 
infatti»  dice  Sherlock  (pag.  9)  «<b  il  poeta  della  nazione,  e  qucsto 
&  il  corruttore  del  gusto ».  Egli  dice  altrove  (pag.  35  e  36):  «Ariosto 
non  pu6  far  dej  poeti;  Ariosto  non  &  gran  poeta ».  Se  «PAriosto 
&  gran  poeta,  Marini  lo  6;  e  se  Marini  6  gran  poeta,  Ovidio  lo  &; 
e  se  Ariosto,  Marini  ed  Ovidio  sono  grandi  poeti,  che  sono  Omero 
e  Virgilio  ? »  Altrove  egli  s'avanza  e  dice  (pag.  40) : « Un  solo  senti- 
mento  sublime,  che  eleva  e  trasporta  Tamma,  non  si  trova  in  tutto 
V  Orlando  furioso»,  E  sembrandogli  forse  aver  detto  poco,  egli 
continua  ancora:  «Ho  spesse  volte  pensato  che  I'uomo  che  aveva 
dato  il  titolo  d'  Omero  ferrarese  all' Ariosto  non  aveva  niente  letto 
d' Omero  se  non  la  Batracomiomachia*.  Noi  vedremo  al  capitolo 
delF Ariosto  di  quest'opera  ci6  che  dovremo  pensare  di  tutto  questo. 
Perdoniamo  pure  ad  uno  straniero,  ad  un  inglese,  di  non  cono- 
scere  Fimmensa  distanza  che  v'&  fra  Marini  e  T Ariosto;  perdonia- 
mogli  di  non  sapere  quanto  gli  Italian!  apprezzino  il  Tasso  e 
Metastasio;  quanto  la  lettura  di  questi  due  poeti  sia  deliziosa  per 
essi,  e  quanto  in  generale  sia  preferita  a  quella  dell'Ariosto  e  di 
Dante.  Ma  potremo  noi  perdonargli  lo  stravagante  disegno  di  voler 
abbassare  il  merito  di  tutti  i  poeti  d'ogni  secolo  e  d'ogni  lingua  per 
innalzare  sulle  loro  rovine  il  suo  adorato  Shakespear,  poeta  tragico 
della  sua  nazione  ?  II  piccoi  libro  del  sig.  Sherlock  non  contiene  che 
114  pag.:  giunto  alia  pagina  57  (che  appunto  i  la  met&  del  libro), 
egli  non  6  piu  capace  di  resistere  all'urto  del  suo  entusiasmo: 
divorato  dalla  smania  d'esaltare  il  suo  idolo,  &  forza  che  rompa 
ogni  argine  e  che  si  slanci  al  di  la  del  suo  soggetto*  Nello  scoppio 
della  sua  ebbrezza  egli  esclama  cosl:  «La  natura,  o  adorato  Sha 
kespear,  era  il  tuo  libro  . . ,  Tu  sei  stato  il  figlio  primogenito  e 
favorito  della  natura,  e  simile  alia  tua  madre  vago,  stupendo,  su 
blime,  grazioso,  la  tua  varied  k  inesauribile.  Sempre  nuovo,  sem- 
pre  vero  tu  sei  il  solo  prodigio  che  la  natura  abbia  prodotto,  Omero 
fu  il  primo  degli  uomini,  ma  tu  sei  piu  che  umano  ...  II  dire  che 
Shakespear  ebbe  Fimmaginazione  di  Dante  e  la  profonditk  di  Mac- 
chiavello  sarebbe  un  elogio  debole;  aveva  queste  ed  assai  piu:  il 


PROSPETTO   DEL   PARNASO    ITALIANO  871 

dire  che  possedeva  le  grazie  terribili  di  Michelangelo  e  le  grazie 
amabili  del  Correggio  sarebbe  un  elogio  debole ;  aveva  queste  ed 
assai  piu.  Col  brio  di  Voltaire  giungeva  i  nervi  di  Demostene,  e 
colla  semplicita  de  La  Fontaine  la  maesta  di  Virgilio  .  . .  Ogni  ec- 
cellenza  d'ogni  scrittore  Shakespear  possedeva  al  piu  alto  segno 
della  perfezionew. 

Con  questo  tuono  d'invasamento  il  sig.  Sherlock  continua  fino 
all'ultima  pagina  del  suo  libro.  Tutto  questo  per  verita  non  sembra 
aver  gran  relazione  colla  poesia  italiana;  ma  egli  ha  creduto  di  mo- 
strare  in  Shakespear  il  maestro  di  tutte  le  nazioni.  Nondimeno 
malgrado  i  suoi  sforzi  la  riputazione  di  questo  preteso  gigante  in 
poesia  rimane  ancora  un  problema  agli  occhi  dell'Europa. 

In  tal  guisa  questi  due  scrittori  che  hanno  creduto  portare  nel 
Parnaso  italiano  la  fiaccola  della  critica  e  del  gusto  illuminato; 
Puno  di  essi  (Bettinelli)  avendo  trattato  Pargomento  colle  ristrette 
vedute  di  un  retore,  1'altro  (Sherlock)  collo  spirito  esaltato  d'un 
entusiasta,  ambedue  hanno  traviato  dal  loro  oggetto  ed  hanno 
mancato  al  disegno  che  si  erano  formato.  Sembrava  necessario 
un  libro  che  mettesse  come  in  un  quadro  ordinato  la  varietk  e  la 
grandezza  de'  nostri  monumenti  poetici;  ed  io  ho  creduto  che, 
malgrado  ci6  ch'esiste  in  questo  genere,  potesse  ancora  aver  luogo 
un  Prospetto  del  Parnaso  italiano.  II  lettore  giudicherk  s'io  mi 
sono  ingannato.  II  mio  lavoro  non  s'inoltra  piu  avanti  de'  tempi 
di  Torquato  Tasso,  ma  il  periodo  ch'esso  racchiude  comprende 
forse  quanto  v'&  di  piu  interessante  nella  nostra  letteratura.  Io 
ignoro  se  debba  permettermi  un  giorno  di  condurlo  piu  oltre  e  di 
affrontare  i  moderni  in  mezzo  ai  raggi  della  loro  fama,  di  cui  go- 
dono  adesso  si  dolcemente  Io  strepito.  Aspettiamo  di  vedere  qual 
accoglienza  essi  preparino  ad  una  serie  di  giudizi  che  non  li  tocca, 
e  che  appartiene  unicamente  a  degli  uomini  che  piu  non  sono. 
In  questa  spinosa  carriera  ho  cercato  di  tener  lontana  egualmente 
Tadulazione  e  la  satira.  Ma  se  talvolta  alia  vista  de'  grandiosi  mo 
numenti  della  nostra  letteratura  un  senso  di  rispetto  e  d'ammira- 
zione  mi  ha  fatto  spargere  de'  fiori  sulla  tomba  de'  grandi  uomini 
che  1'hanno  onorata;  se  la  mia  penna  si  risente  talvolta  del  rapi- 
mento  piii  che  della  calma  dello  spirito,  io  ne  chiedo  perdono  al 
lettore;  ma  non  ho  potuto  resistere  al  sentimento  che  mi  traspor- 
tava.  Le  anime  sensibili  e  interessate  all'onor  nazionale,  i  cuori 
gentili  che  risponderanno  al  mio,  mi  saranno  grati,  io  spero,  di  que- 


07*  FRANCESCO   TORTI 

sto  dolce  abbandono,  e  mi  perdoneranno  facilmente  il  difetto  piut- 
tosto  che  Teccesso  del  rigore. 

CAPITOLO  II 

Di  Dante  Alighieri.  Disgraziate  vicende  della  sua  vita.  Suo  poema 
della  (( Divina  Commedia ».  Originalita  e  pregi  caratteristici  che 
lo  distinguono* 

La  dea  Maesta,  dicono  i  poeti,  fu  grande  nel  giorno  medesimo 
in  cui  ella  nacque.  Non  potrebbe  dirsi  altrettanto  della  poesia  ita- 
liana?  Dante  Alighieri,  nato  in  Firenze  Panno  1265,  fu  il  padre 
ed  il  creatore  di  questa  poesia.  Si  e  osservato  che  la  natura  pre- 
para  a  gradi  Tesplosione  de'  grandi  talenti.  Esiodo  ed  Ennio  annun- 
ciarono  da  lontano  Omero  e  Virgilio.  Nel  secolo  decimoterzo  la 
natura  prese  un  contegno  diverso,  e  il  genio  di  Dante  si  mostro 
tutto  intiero  senza  alcun  ingegno  intermedio  che  lo  precedcsse. 
La  lingua  italiana,  risultato  ammirabile  della  corruzione  e  della 
mescolanza  di  cento  dialetti  colla  lingua  del  Lazio,  trascinavasi 
ancora  nel  fango  gotico,  e  tutt'altro  prometteva  che  di  emulare 
un  giorno  le  bellezze  della  sua  augusta  madre.  I  saggi  poetici,  che 
esistevano  prima  di  lui,  potevano  appena  riguardarsi  come  i  primi 
passi  dello  spirito  verso  la  coltura,  o  piuttosto  essi  erano  abbastanza 
miserabili  per  ributtare  dalFimpresa  qualunque  altro  ingegno,  a  cui 
la  natura  avesse  donato  un  grado  meno  d'elevazione  e  d'entusiasmo. 

La  vita  di  Dante  non  e  che  una  serie  continuata  di  disgrazie  e  di 
cattivi  trattamenti  per  parte  degii  uomini  e  della  fortuna.  La  sua 
virtu  e  il  suo  coraggio  repubblicano  furono  le  funeste  qualit&  che  lo 
perdettero.  Firenze  era  allora  lacerata  dalle  discordie  civili,  come 
tutto  il  resto  dell' Italia,  ed  oltre  la  grande  scissione  dej  Guelfi 
e  Ghibellini,  che  animava  tutti  i  partiti,  mille  altre  picciole  fa- 
zioni  fermentavano  e  s'agitavano  in  seno  della  piu  grande.  Quella 
de1  Uanchi  e  de*  negri  era  diventata  la  piti  funesta  ai  tempi  del 
nostro  poeta.  Bonifacio  VIII,  guidato  da  una  politica  solamente 
propria  di  quei  tempi,  s'immaginb  d'abbassare  la  fierezza  de'  Fio- 
rentini  chiamando  in  Italia  un  dominatore  formidabile  e  pericolo- 
so,  quale  poteva  essere  Carlo  di  Valois  della  casa  reale  di  Francia. 
Dante,  che  in  quella  circostanza  occupava  un  posto  distinto  nella 

x.  Dal  Prospetto  del  Parnaso  italiano,  ed,  cit.,  i,  pp.  30-61- 


PROSPETTO   DEL   PARNASO   ITALIANO  873 

repubblica,  si  oppose  violentemente  ai  progetti  degli  stranieri. 
Egli  pensava1  che  la  patria  non  avrebbe  trovato  giammai  una 
stabile  felicita  che  sotto  1'impero  delle  leggi  e  nell'energica  fer- 
mezza  de7  suoi  cittadini. 

Frattanto  il  partito  di  Carlo  e  di  Bonifacio  prevaleva  ogni  gior- 
no.  Dante  era  corso  fino  a  Roma  ad  arringare  il  pontefice  colla  va- 
na  lusinga  di  sviarlo  dal  suo  progetto  e  d'ispirargli  sentimenti  piu 
moderati.  Nel  mentre  per6  che  egli  agitavasi  senza  profitto  ai  piedi 
di  Bonifacio,  la  fazione  dei  negri,  favorita  apertamente  da  Carlo 
di  Valois,  aveva  trionfato  del  partito  contrario,  ed  usava  della  vit- 
toria  con  tutta  la  ferocia  degli  odi  civili.  Si  bandirono  le  famiglie 
de*  bianchi,  si  compi!6  un  processo  contro  Dante  assente  e  im- 
possibilitato  a  difendersi,  e  si  ebbe  persino  la  barbara  demenza 
di  condannarlo  alia  pena  del  fuoco.  Cosi  alcuni  vili  e  perversi  con- 
cittadini  osarono  condannare  ad  esser  bruciato  vivo  un  uomo  che 
dovea  essere  il  primo  ornamento  del  suo  secolo,  come  la  gloria 
della  sua  nazione,  e  di  cui  dopo  la  morte  Pingrata  sua  patria  cerc6 
con  tanto  impegno  di  riavere  le  ceneri  per  onorarle,  facendogli 
innalzare  delle  statue  ed  imprimere  delle  medaglie. 

Dante  and6  errando  per  V Italia  e  per  la  Francia  cercando  un 
asilo  contro  la  rabbia  de'  suoi  persecute ri  ed  un  ricovero  contro 
le  ingiustizie  della  sorte.  II  suo  coraggio  lo  sosteneva,  ma  la  sua  bile 
s)infiamm6.  Fu  allora  ch'egli  scrisse  il  celebre  poema  della  Divina 
Commedia,  in  cui  egli  prende  occasione  d'esalare  tutta  Tamarezza 
di  un  cuore  esulcerato  da  tante  ferite.  II  suo  risentimento  vi  com- 
parisce  senza  alcun  velo,  i  suoi  nemici  non  vi  sono  in  alcun  modo 
risparmiati,  e  si  direbbe  ch'egli  ha  cercato  di  render  loro  in  in- 
famia  quanto  essi  gli  aveano  cagionato  di  male  coiringiustizia. 
Frattanto  non  si  &  mai  provato  che  la  passione  gli  abbia  fatto  sa- 
crificare  la  verit&  della  storia.  £  impossibile  di  gustare  completa- 
mente  il  poema  di  Dante,  se  prima  non  si  &  a  portata  di  conoscere 
le  notizie  istoriche  del  suo  tempo  e  la  serie  degli  awenimenti 
che  lo  determinarono  a  scrivere.  La  Divina  Commedta  non  4, 
per  cosi  dire,  che  lo  sviluppo  ed  il  comento  delle  sue  awenture 
pubbliche  e  private;  ed  invano  vorremmo  noi  riempirci  delle  qua- 
litk  del  poeta,  se  prima  non  abbiamo  analizzato  Tuomo  politico 
ed  il  cittadino. 

i.  pensava:  a  questo  punto,  nella  I  edizione,  era  inserito  Tinciso  «come 
tutti  i  veri  repubblicani »,  poi  eliminate)  nella  n. 


874  FRANCESCO   TORTI 

Ma  perch.6  mai  i  contcmporanei  di  Dante  non  ci  hanno  trasmesso 
le  memorie  che  lo  concernono  con  quella  accuratezza  che  desidc- 
riamo  vanamente,  e  senza  la  quale  riesce  quasi  impossible  d'ap- 
profondare  il  genio  di  quest'uomo  st raor dinar io  ?  II  suo  pocma 
consiste  meno  nella  visione  teologica  dei  tre  regni  delPaltra  vita, 
che  nel  quadro  morale  e  politico  del  suo  tempo.  Nell'agitazione 
e  nel  tumulto  della  sua  vita  come  ha  potuto  quest'uomo  renders! 
noti  e  palesi  i  maneggi  delle  corti,  gli  intrighi  dei  partiti,  i  colpi 
segreti  delPambizione  e  della  politica,  e  soprattutto  quella  molti- 
tudine  di  aneddoti  tutti  singolari  e  piccanti,  di  cui  ha  riempito  le 
sue  cantiche  ?  La  nostra  maraviglia  andrl  ancora  piti  innanzi  quan- 
do  si  riflette  alFestrema  difficoltk,  cui  andavasi  incontro  ai  tempi 
del  poeta  nel  procurarsi  le  notizie  di  si  vari,  reconditi  e  gelosi 
awenimenti.  Le  comunicazioni  ed  i  rapporti  sociali  erano  allora 
rari,  difficili  e  quali  potevano  aversi  in  un  secolo  di  barbaric.  La 
gelosia,  il  mistero,  il  punto  d'onore  presiedevano  al  secreto  delle 
famiglie,  e  il  timore  delPinfamia  serviva  di  velo  alPinfamia  me- 
desima.  Malgrado  tutto  ci6  si  direbbe  che  Dante  era  presente  in 
tutti  i  luoghi  e  in  tutte  le  circostanze;  ch'egli  era  Tanima  di  tutti 
i  partiti,  il  depositario  di  tutti  i  segreti  e  fino  della  coscienza  de' 
suoi  contemporanei,  e,  quello  che  &  pito  degno  di  sorprendere,  si  & 
che  svelando  egli  al  pubblico  le  turpitudini  di  tanta  gente  non  & 
stato  smentito  n.6  contraddetto  da  alcuno. 

La  Divina  Commedia,  quesfopera  cosl  famosa  da  cinque  secoli, 
ha  incontrata  la  sorte  di  tutte  le  straordinarie  produzioni  del  genio, 
vale  a  dire  ch'essa  6  stata  alternativamente  lodata  con  entusiasmo 
e  criticata  con  eccesso.  II  gesuita  Bettinelli  nelle  sue  Letter  e  di 
Virgilio  agli  Arcadi  ha  parlato  di  Dante  col  genio  di  Zoilo1  e  collo 
spirito  d'un  pedante.  Non  avendo  avuto  coraggio  di  descriverlo 
per  un  poeta  piccolo,  egli  si  sforza  dl  renderlo  odioso  coiraffettata 
esagerazione  del  cattivo  che  vi  si  trova.  Dopo  aver  detto  che  « de* 
buoni  ternari  ve  n'ha  sino  ad  un  centinaio,  se  ben  gli  ho  contati 
tra  cinque  mille,  che  formano  tutto  il  poema»,  egli  decide  aspra- 
mcnte  «che  se  pur  egli  &  vero,  come  verissimo  <b  pure,  non  con- 
sistere  il  pregio  d'un  libro  e  d'un  poema  in  alcuni  bei  tratti  qua 
e  Ik  scelti  e  cercati,  ma  si  nel  numero  delle  cose  belle  paragonate 
a  quello  delle  malvage,  e  nella  soprabbondanza  di  quelle  a  queste,  io 

i,  Zoilo:  critico  alessandrino,  famoso  per  il  suo  odio  contro  Qmero,  e  pas- 
sato  in  proverbio  a  indicare  il  tipo  del  critico  ingiusto  e  pedante. 


PROSPETTO   DEL   PARNASO   ITALIANO  875 

conclude  che  Dante  non  deve  esser  letto  piu  d'Ennio  e  di  Pa- 
cuvio)).1  Quindi  se  malgrado  i  calcoli  della  pedanteria  gli  Italian! 
leggono  e  leggeranno  sempre  i  versi  di  Dante  con  un  trasporto 
d'ammirazione,  che  non  otterranno  giammai  quelli  del  critico 
Bettinelli,  io  domando  quale  di  questi  due  autori  sara  FEnnio  o  il 
Pacuvio  dell*  Italia.  I  paragoni  sono  assurdi,  e  la  critica  diventa 
ridicola  allorche  mediante  alcune  piccole  e  triviali  osservazioni  si 
pretende  urtare  di  fronte  la  massa  del  gusto  nazionale.  Presso  i 
Latini  Orazio  e  Virgilio  fecero  obbliare  completamente  Ennio  e 
Pacuvio.  Presso  di  noi  Ariosto  e  Minzoni2  non  fanno  che  renderci 
sempre  piu  rispettabile  Pautore  della  Divina  Commedia. 

II  signor  Sherlock,  critico  inglese,  non  si  mostra  niente  piu 
riservato  nel  suo  giudizio  sopra  questo  poeta.  Egli  rassomiglia  la 
Divina  Commedia  alia  facciata  di  una  chiesa  gotica,  e  non  vi  rav- 
visa  di  pregevole  che  i  due  celebri  pezzi  deirUgolino  e  della 
Francesca  d'Arimino.  Dalla  maniera  per6  colla  quale  parla  di  tutto 
il  poema  si  vede  che  egli  Pha  osservato  colla  fretta  d'un  viaggiatore. 
Questi  due  critici  si  sono  messi  in  testa  la  falsa  idea  che  la  lettura 
di  Dante  potrebbe  esser  funesta  al  gusto  d'un  giovane  non  an- 
cora  formato.  Ma  questo  timore  e  veramente  di  buona  fede  ?  Pos- 
sono  essi  sinceramente  dubitare  che  i  grossolani  difetti  di  questo 
poeta  siano  capaci  d'abbagliare  e  di  sedurre?  Certi  versi  che  i  critici 
amano  di  citare  con  tanta  compiacenza,  come 

Pape  Satan,  pape  Satan,  aleppe? 
ovvero 


i.  Cita  dalla  terza  delle  Letters  virgiliane  (ed.  cit.,  pp.  17  e  20).  2.  II 
nome  di  Onofrio  Minzoni  (1734-1817),  mediocre  verseggiatore  soprat- 
tutto  di  liriche  sacre,  suona  per  noi  assai  strano  accanto  a  quelli  di  Dante 
e  dell' Ariosto,  cosl  come  strani  appaiono  gli  elogi  iperbolici  che  il  Torti 
gli  tributa  in  altre  pagine  del  Prospetto  del  Parnaso  italiano,  e  special- 
mente  nel  capitolo  a  lui  dedicate  e  col  quale  1'opera  si  conclude.  Questa 
esagerata  valutazione  si  pu6  tuttavia  in  parte  spiegare  (oltre  che,  natural- 
mente,  con  i  limiti  stessi  del  gusto  del  Torti)  ricordando  la  faraa  che  alia 
fine  del  Settecento  e  al  principio  dell'Ottocento  il  Minzoni  effettivamente 
godeva:  proprio  scrivendo  al  Torti,  il  Monti  gli  raccomandava  di  non  di- 
menticare  (accanto  a  se  stesso)  tre  altri  poeti  contemporanei  che  avevano 
reagito  alia  «corruttela  degli  stili»:  il  Parini,  TAlfieri  e  il  Minzoni  (cfr. 
Epistolario,  a  cura  di  A.  Bertoldi,  i,  Firenze,  Le  Monnier,  1928,  pp. 
393-4).  E  a  sua  volta  il  Tommaseo  univa  il  Minzoni  al  Varano  e  al  Parini 
(cfr.  G.  NATALI,  //  Settecento,  cit,  p.  716).  3.  Dante,  Inf.,  vii,  i. 


876  FRANCESCO   TORTI 

.  .  .  che  se  Tabernich 
m  fosse  su  caduto,  o  Pietrapana, 
non  avria  pur  dalVorlo  fatto  crick,1 

sarebbe  mai  possibile  che  questi  o  consimili  versi  facessero  nascere 
in  alcuno  la  tentazione  d'imitarli  ?  No,  non  &  dalla  scuola  di  Dante 
ch'&  derivato  il  cattivo  gusto  in  Italia.  I  Marini,  gli  Achillini,  il 
brillante  mostro  del  Seicento  s'impadronirono  del  nostro  Parnaso, 
quando  Dante  non  era  phi  letto,  ed  all'epoca  stessa  in  cui  questo 
padre  della  nostra  poesia  veniva  riguardato  come  il  poeta  della 
barbarie  e  del  goticismo. 

In  quanto  a  me,  dimenticando  i  censori  e  le  critiche,  e  spogliando 
questo  grand'uomo  delle  macchie  esteriori  che  lo  deturpano,  ma 
che  appartengono  meno  al  poeta  che  alia  rozzezza  del  secolo  in 
cui  scriveva,  mi  sia  permesso  per  un  momento  di  considcrarlo 
nella  sua  semplice  e  originale  sublimita.  lo  veggo  in  Dante  un 
genio  robusto,  profondo  e  creatore;  ma  d'una  specie  tutta  nuova 
e  propria  di  lui.  Quando  si  volesse  paragonarlo  agli  altri  poeti  che 
Thanno  preceduto  e  seguito,  io  non  saprei  rassomigliarlo  ad  al 
cuno.  Egli  &  originale  in  tutta  la  forza  e  Testensione  di  questa 
parola.  Le  immense  cognizioni  che  egli  aveva  acquistate  non  al- 
terarono  giammai  il  fondo  creatore  e  caratteristico  della  sua  anima, 
Dante  ha  inventata  una  nuova  specie  di  poema,  come  un  nuovo 
genere  di  poesia;  egli  6  originale  nella  macchina  come  ne'  detta- 
gli  delFesecuzione;  egli  &  il  creatore  delle  sue  idee  come  del  lin- 
guaggio  con  cui  l'esprime. 

La  prima  differenza,  che  separa  Dante  da  tutti  gli  epici  antichi 
e  moderni,  6  la  singolar  novit&  del  suo  soggetto.  Senza  andare  a 
cercare  nella  favola  o  nella  storia  degli  eroi  chimerici,  o  soltanto 
famosi  per  il  male  che  hanno  essi  operato,  senza  cantare  le  battaglie 
e  gli  assedi,  egli  si  propose  un  oggetto  assai  piu  utile,  e  dir6  ancora 
piu  grandioso;  egli  ha  voluto  dipingere  i  vizi  del  suo  secolo,  i 
falli  e  la  miseria  delle  nazioni  c  de'  loro  capi,  Non  &  gii  ch'io 
riguardi  come  una  sublimita  originale  la  descrizione  delFInferno, 
del  Purgatorio  e  del  Paradiso.  La  favola  di  Orfeo  e  la  discesa  di 
Ulisse  e  d'Enea  nell'Inferno,  descritta  dagli  antichi  mitologi,  po- 
tevano  avergli  somministrata  un'idea  somigliante.  Ma  la  profonda 
moralita  del  suo  poema,  la  pittura  del  costume,  la  censura  aspra 

i.  Inf.,  xxxn,  28-30. 


PROSPETTO    DEL   PARNASO    ITALIANO  877 

e  animata  della  depravazione  del  suo  tempo,  le  sortite  vive  e  piccanti 
contro  gli  abusi  d'ogni  specie  d'autorita,  1'invettive  patriottiche 
sulle  discordie  civili,  in  una  parola  Pardita  e  felice  idea  di  tutto 
riferire  alia  storia  del  suo  secolo,  e  di  far  servire  la  pittura  delFaltro 
mondo  a  rilevare  gli  eccessi  e  la  malvagita  di  questo,  tali  sono  i 
tratti  decisi  che  imprimono  alia  Divina  Commedia  una  fisonomia 
originale,  un  carattere  cosl  marcato  di  novita,  che  lo  distinguono 
senza  contrasto  fra  tutti  i  poeti  antichi  e  moderni. 

I  coltivatori  delPepopea  non  hanno  avuto  in  vista  che  di  sorpren- 
dere  col  mirabile  delle  azioni  e  col  prodigioso  degli  awenimenti. 
Che  la  serie  e  la  qualitk  di  queste  azioni  avessero  o  no  qualche 
rapporto  col  popolo  a  cui  le  presentavano ;  che  i  costumi  e  i  caratteri 
che  descrivevano  fossero  disparati  o  analoghi  con  quelli  del  loro 
tempo,  che  il  fondo  del  soggetto  fosse  piu  o  meno  capace  di  colpire 
il  genio  e  Tinteresse  nazionale ;  questo  e  ci6  che  i  poeti  epici  prima 
di  Dante  si  son  dati  pochissima  cura  d'osservare.  Purch6  il  loro 
epos,  ossia  narrazione,  fosse  pieno  d'awenture  e  di  fatti  maravi- 
gliosi,  tutto  il  resto  &  indifferente  per  essi.  Omero  tratt6  la  guerra 
di  Troia  trecento  e  piu  anni  dopo  1'esito,  ed  abbelli  il  valore  eroico 
de'  re  della  Grecia  in  un  tempo  in  cui  la  piu  parte  de'  suoi  popoli 
aveva  preso  una  forma  repubblicana.  Virgilio  cant6  gli  dei  d'Enea 
dieci  secoli  dopo  1'arrivo  di  quest' eroe  nel  Lazio,  e  rimise  sotto 
gli  occhi  de'  Romani  le  risse  e  le  gare  puerili  de'  numi  omerici 
in  un  secolo  in  cui  Lucrezio  e  Cicerone  avevano  bastantemente 
analizzate  e  definite  le  divinitk  del  loro  paese.  L'Ariosto  non  si 
propose  che  di  divertire  la  brigata,  e  mise  sulla  scena  i  paladini 
di  Carlomagno,  gl'incantesimi  e  le  fate.  II  Tasso  ha  cantata  Tinu- 
tile  e  funesta  spedizione  delle  Crociate,  e  1'inglese  Milton  ha 
cavato  un  poema  dai  tre  primi  capitoli  della  Genesi. 

Dante  senza  seguire  alcun  modello,  senza  consultare  le  regole 
ordinarie  dell'uso,  senza  il  soccorso  abbagliante  delle  macchine 
epiche,  si  aprl  arditamente  una  carriera  tutta  nuova,  eccitando 
al  piu  alto  grado  Tinteresse  e  Tattenzione  de'  suoi  contemporanei. 
Non  potendo  innalzare  al  tuono  dell'epopea  le  virtu  e  le  azioni  del 
suo  secolo,  egli  intraprese  di  fame  la  censura  e  di  ritrattarne  la 
deformitk.  E  per  veritk  gli  annali  del  mondo  non  avrebbero  potuto 
somministrare  al  di  lui  pennello  materiali  cosi  abbondanti  quanto 
egli  ne  trove-  nelle  triste  vicende  nazionali  e  straniere  alPepoca  in 
cui  viveva.  Tutto  ci6  che  Tignoranza  e  la  barbaric,  gli  odi  civili, 


878  FRANCESCO   TORTI 

Pambizione,  Postinata  rivalitk  del  trono  e  delPaltare,  una  politica 
falsa  e  sanguinaria  ebbero  mai  d'odioso  e  di  detestabile,  tutto  en- 
trava  naturalmente  nel  piano  che  il  poeta  si  era  proposto.  II  colorito 
e  la  tinta  di  questi  differenti  oggetti  &  sempre  proporzionato  alia 
loro  nerezza,  ed  il  suo  pennello  non  comparisce  mai  tanto  sublime 
quanto  allorch6  tratteggia  fieramente  gli  orrori  accumulati  in  quel 
funesto  periodo  sulla  met&  delPoccidente  cristiano. 

Uno  de*  principali  oggetti  di  Dante  era  di  umiliare  Firenze  e 
di  spargere  1'orrore  e  la  vergogna  degl'attentati  sanguinari  sopra 
tutte  quelle  citt&  italiane  che  si  erano  piu  fanaticamente  distinte 
nella  persecuzione  ghibellina.  Quindi  le  frequenti  apostrofi,  con 
cui  egli  inveiva  or  Tuna  or  Paltra  di  esse;  le  impetuose  sortite,  con 
cui  si  scaglia  contro  i  primi  personaggi  che  v'ebbero  parte,  e  quclla 
cupezza  di  colorito  con  cui  egli  annerisce  tutto  ci6  che  ha  relazione 
colla  sua  disgrazia. 

Godi,  Fir ens e,  poicht  se1  si  grande, 
che  per  mare  e  per  terra  batti  l*ali> 
e  per  lo  'nferno  il  tuo  nome  si  spande. 


Ma  quelVingrato  popoto  maligno, 
che  discese  di  Fiesole  ab  antico, 
e  tien  ancor  del  monte  e  del  macigno  , .  , 


AMI  Pisa,  vituperio  delle  genti 
del  bel  paese  la  dove  il  si  suona  : 
poicM  i  vicini  a  te  punir  son  lenti, 
muovasi  la  Capraia  e  la  Gorgona  ,  ,  . 


Ahi!  Pistoia,  Pistoia,  che  non  stanzi 
d'incenerarti  si  che  piii  non  durit 
poichl  in  mai  far  lo  senie  tuo  avansti,  ec.1 

Ma  uno  de'  principali  meriti  che  rende  Dante  superiore  a  se 
stesso  fe  la  nobile  arditezza,  colla  quale  egli  sviluppa  agli  occhi  del 
suo  secolo  i  vizi  della  politica  e  i  falli  di  quegli  uomini  rivestiti 
del  supremo  potere,  che  influirono  si  potentemente  sul  gcnerale 

i.  Le  citazioni  sono  trattc  dall'Jw/.,  xxvi,  1-3;  xv,  61-3;  xxxin,  79-82; 
xxv,  10-2. 


PROSPETTO    DEL    PARNASO    ITALIANO  879 

sconvolgimento  in  cui  trovavasi  allora  una  gran  parte  del  mondo 
cristiano.  II  celebre  personaggio,  die  rinunci6  al  primo  seggio  del 
mondo  per  1'umile  oscurit^  del  ritiro,  viene  tratteggiato  dal  poeta 
con  una  di  quelle  pennellate  del  genio,  che  colpiscono  tanto  piu 
vivamente  quanto  il  tratto  e  piu  rapido: 

guardai  e  vidi  I'ombra  di  colui, 

che  fece  per  viltade  il  gran  rifiuto.1 

Bonifacio  VIII,  uno  de'  primari  agenti  della  rovina  del  partito  di 
Dante,  occupa  anch'esso  un  luogo  ben  distinto  in  questo  quadro 
degli  orrori  morali  e  politici  del  suo  tempo.  Allorche"  il  poeta  scri- 
veva,  allorch6  la  sua  penna  si  compiaceva  di  gettare  il  fiele  del 
risentimento  sulla  tomba  di  Bonifacio,  le  ceneri  di  questo  ponte- 
fice  non  avevano  ancora  avuto  il  tempo  di  raffreddarsi,  e  la  Corte 
romana  era  piena  di  un  gran  numero  di  sue  creature  capaci  di 
vendicarne  la  memoria.  Ma  tutto  questo  non  lo  trattenne,  e  ci6 
ch'4  piu  singolare  si  k  che  il  suo  pennello  volendo  colorire  il  ritratto 
di  Bonifacio  scorre  di  passaggio  ad  adombrare  il  profilo  di  altri  due 
papi,  uno  de'  quali  lo  precedette  e  1'altro  lo  segui  immediatamente; 
il  che  termina  di  rendere  il  gruppo  piu  piccante  quanto  meno 
aspettato.2  L'ombra  di  Nicola  III  capovolta  nel  foro  simoniaco  6 
quella  che  dialogizzando  con  il  poeta  d&  introduzione  alia  scena; 

-  O  qual  che  se*  che  il  di  su  tien  di  sotto, 
anima  trista  come  pal  commessa  - 
comincia*  10  a  dir  -  se  puoi,  fa  motto. 

Ed  ei  gridd :  -  Se'  tu  gid  costi  rittot 
se'  tu  gia  costi  rittof  Bonifazio? 
Di  parecchi  anni  mi  mentl  lo  scritto. 

Se'  tu  si  tosto  di  quelVaver  sazio, 
per  lo  qual  non  temesti  torre  a  inganno 
la  bella  donnat  e  di  poi  fame  strazio? 

Se  di  saper  ch'io  sia,  ti  cal  cotanto, 
che  tu  abbi  perd  la  ripa  scorsay 
sappi  ch'io  fui  vestito  del  gran  manto  : 

e  veramente  fui  figliuol  dell'orsa, 
cupido  si  per  avanzar  gli  orsatti, 

i.  Inf.,  in,  59-60.  II  v.  59  fe  propriamente  «vidi  e  conobbi  Tornbra  di 
colui».  2.  II  lettore  sensato  non  ha  bisogno  di  essere  prevenutp  che  i 
vizi  e  1'umane  debolezze  di  alcuni  papi,  quali  ha  conservato  la  storia,  nulla 
tolgono  alia  santit^i  del  loro  carattere,  T.  (Nota  aggiunta  nella  II  edizione.) 


88o  FRANCESCO   TORTI 

che  su  I'avere,  e  gui  me  misi  in  borsa. 

Di  sotto  al  capo  mio  son  gli  altri  tratti 
che  precedetter  me  simoneggiando, 
per  la  fessura  della  pietra  piatti. 

E  dopo  lui  verra  di  piu  laid'opra 
di  ver  ponente  un  pastor  sanza  legge, 
tal  che  convien  che  lui  e  me  ricuopra. 

Nuovo  lason  saraf  ec.1 

Nel  canto  xxvn  il  carattere  di  Bonifacio  viene  ancora  meglio 
dettagliato  nell'esposizione  del  piccantissimo  aneddoto  della  presa 
di  Palestrina,  a  cui  il  poeta  di  principio  con  questi  versi: 

Lo  principe  de*  nuovi  Farisei 
avendo  guerra  presso  Laterano, 
e  non  coy  Saracin,  ne  con  Giudei,  ec.2 

La  casa  reale  di  Francia,  ch'ebbe  tanta  parte  nellc  rivoluzioni 
di  quel  tempo,  somministrava  de'  tratti  singolari  di  storia,  che  il 
poeta  non  ha  mancato  di  fare  entrare  nel  suo  nuovo  piano  d'epopea. 
Bisogna  ricordarsi  della  lega  che  form6  Carlo  di  Valois,  fratello  di 
Filippo  il  Bello,  col  pontefice  Bonifacio  ad  oggetto  di  opprimere 
i  partiti  e  la  liberte  della  Toscana:  bisogna  ricordarsi  che  prima  di 
questo  tempo  un  altro  Carlo  di  Valois3  avea  portato  in  Italia  la 
desolazione  e  la  guerra,  occupando  Napoli  e  la  Sicilia;  poi  Tinfe- 
lice  esito  di  qucsta  occupazione;  poi  le  accanite  dissensioni  del  re 
Filippo  con  il  papa,  Toltraggio  sanguinoso  fatto  al  pontefice  in 
Anagni,  I'estinzione  delFordine  de'  Templari,  ec,,  tutti  oggetti 
vivamente  interessanti,  sopra  i  quali  il  rapido  pennello  di  Dante 
si  compiace  di  spaziare  colla  sua  ordinaria  energia.  II  poeta  di- 
pinge  i  tristi  luoghi  del  Purgatorio,  ove  sono  racchiusi  ad  espiare 
le  loro  colpe  gli  ambiziosi  ed  i  conquistatori.  Egli  vi  ravvisa  Ugo 
Capeto  primo  stipite  della  casa  di  Francia,  e  quest'ombra  penante 
del  padre  di  tanti  re  vi  esala  il  suo  dolore  in  tal  modo  che  sembra 
piti  vivamente  lacerata  dalle  ree  prevaricazioni  della  sua  discenden- 
za,  che  dai  tormenti  di  un  fuoco  divoratore: 

Jo  fui  radice  della  mala  pianta 
che  la  terra  cristiana  tutta  aduggia, 
si  che  buon  frutto  rado  se  ne  schianta. 

i.  Inf.,  xix,  46-8,  52-7,  67-75,  82-5.     2.  Inf.,  xxvn,  85-7,     3.^71  altro 
Carlo  di  Valois :  il  Torti  confonde  con  Carlo  I  d'Angi6. 


PROSPETTO   DEL    PARNASO    ITALIANO  88l 

Chiamato  fui  di  la  Ugo  Ciappetta: 
di  me  son  nati  i  Filippi  e  i  Luigi> 
per  cui  novellamente  &  Francia  retta. 

Figliuolfui  d'un  beccaio  di  Parigi: 
quando  li  regi  antichi  venner  meno 
tutti,  fuor  ch'un  renduto  in  panni  bigi  .  .  , 

Li  comindo  con  forza  e  con  menzogna 
la  sua  rapina;  e  poscia  per  ammenda 
Ponti  e  Normandi  prese  e  la  Guascogna. 

Carlo  venne  in  Italia,  e  per  ammenda 
vittima  fe*  di  Curradino>  e  poi 
respinse  al  del  Tommaso  per  ammenda. 

Tempo  vegg'iOj  non  molto  dopo  ancoi, 
che  tragge  un  altro  Carlo  fuor  di  Francia, 
per  far  conoscer  meglio  e  se  e  i  suoi. 

Sensfarme  rtesce  e  solo  con  la  lancia 
con  la  qual  giostrd  Giuday  e  quella  ponta 
si  che  a  Fiorenza  fa  scoppiar  la  panda,1 

Niente  sfugge  al  pennello  di  Dante.  Voi  vedrete  nella  macchina 
del  suo  poema  tutti  i  personaggi  celebri  del  suo  tempo  delineati 
e  descritti  secondo  le  loro  qualit&  rispettive.  Rodolfo  imperatore, 
Ottachcro  re  di  Boemia,  Filippo  TArdito,  Federico  di  Sicilia, 
Giacomo  d'Aragona  ec.,  tutti  questi  principi  hanno  un  luogo 
distinto  neila  prospettiva  ch'egli  fa  dello  spirito  del  suo  secolo. 
Alcuni  di  essi  vengono  delineati  in  maniera  che  sono  riconoscibili 
ai  semplici  tratti  della  loro  fisonomia.  Tale  e  per  esempio  il  colpo 
di  pennello,  con  cui  il  poeta  tratteggia  Filippo  FArdito  senza 
nominarlo, 

E  quel  nasetto  che  stretto  a  consiglio 
par  con  colui  ch'ha  si  benigno  aspetto, 
mori  fuggendo  e  disfiorando  il  giglio.2 

Ma  che  dir6  della  prodigiosa  quantitk  d'aneddoti  e  di  partico- 
larit^i  istoriche  riguardanti  tante  persone  meno  illustri,  e  ch'egli 
ha  inserito  nella  tela  del  suo  poema  senza  alterarne  la  macchina 
e  la  gravit^  ?  II  lettore  potr&  giudicarne  da  se  medesimo  senza  che 
io  m'impegni  ad  entrare  in  un  dettaglio  quanto  lungo,  altrettanto 
superfluo.  Egli  ve  n'ha  profusi  d'ogni  qualita,  d'ogni  genere,  d'ogni 
maniera:  alcuni  teneri  e  passionati,  come  Tawentura  di  Francesca 


I.  Purg,,  XX,  43-5,  49-54,  64-75.     2.  Pwg-*  vn,  103-5. 
56 


882  FRANCESCO   TORTI 

d'Arimino;  altri  cupamente  tragic!  e  terribili,  come  il  conte  Ugo- 
Hno  e  Pietro  delle  Vigne;  altri  d'una  fierezza  grandiosa,  come  la 
storia  di  Farinata  e  del  partito  de'  bianchi\  altri  d'un  patetico  dolce 
e  tranquillo,  come  la  morte  di  Manfredi  e  di  Buoncuore;1  altri 
curiosi  e  piccanti,  come  i  dialoghi  e  le  confessioni  di  lacopo  Ru- 
sticucci,  di  Vanni  Fucci,  del  Mosca,  di  Guido  di  Montefeltro,  di 
Pietro  da  Medicina,  di  frate  Alberigo,  ec.  Si  direbbe  che  il  poema 
di  Dante  non  e  che  la  storia  domestica  de'  suoi  cittadini  e  de' 
suoi  nazionali,  e  come  ciascun  popolo  avrebbe  potato  riconoscervi 
il  suo  carattere  e  le  sue  vicende,  cosi  ciascuna  famiglia  avrebbe 
potuto  leggervi  le  disgrazie  e  gli  errori  o  delFavo  o  del  padre  o  di 
se  medesima;  ci6  che,  unito  felicemente  alia  energica  e  grandiosa 
tela  di  quanto  offriva  di  piu  importante  la  politica  e  la  storia,  viene 
a  formare  della  Divina  Commedia  un  monumento  il  piti  interes- 
sante  ed  originale  fra  quanti  ne  ha  prodotti  in  poesia  lo  spirito 
umano. 

Tale  e  il  punto  di  vista,  sotto  cui  bisogna  osservare  Finsieme 
dell'opera  di  Dante.  Quando  egli  venga  giudicato  con  questa  re- 
gola  di  giudizio,  spariranno  le  piccole  censure  che  si  sono  scagliate 
contro  di  lui  da  alcuni  spiriti  superficial!,  i  quali,  disgustati  dalla 
rugginosita  che  ricopre  il  poema,  non  si  sono  curati  di  penetrare 
nel  fondo  delle  grandi  bellezze  che  vi  sono  racchiuse.  Essi,  per 
esempio,  non  sanno  perdonare  a  Dante  di  aver  preso  Virgilio  per 
compagno  e  per  guida  nel  suo  fantastico  viaggio  delPaltro  mondo; 
di  aver  trasformato  Fautore  A&lVEneide  in  un  teologo  barbaro  e 
pedante;  di  aver  posto  Catone  in  Purgatorio,  Rifeo  e  Traiano  in 
Paradiso;  di  aver  associate  assurdamente  Enea  con  S,  Paolo;  i 
misteri  della  fede  colle  favole  del  paganesimo;  i  sistemi  della  filo- 
sofia  greca  colle  arabe  sottigliezze  della  scolastica.* 

Come  rispondere  a  tutte  queste  formidabili  accuse?  Con  due 
sole  parole.  I  critici  hanno  ragione,  ma  la  loro  critica  non  6  di  alcu- 
na  conseguenza.  Guai  a  noi,  dice  Virgilio  scrivendo  agli  Arcadi,3 
guai  a  me,  guai  ad  Omcro  e  a  tutti  i  poeti  del  mondo,  se  Dante  non 

i,  Buoncuore:  il  Torti  intende  Buonconte  da  Montefeltro,  2.  Essi... 
scolastica :  per  la  maggior  parte  queste  censure  corrispondono  a  quelle  del 
Bettinelli  nella  seconda  delle  Letter  e  virgiliane.  3.  «Amico  mio,»  diss'io 
rivolgendomi  verso  Omero  (fguai  a  noi  se  questo  poema  fosse  pifo  re- 
golare  e  scrittp  tutto  di  questo  stile »,  Bettinelli,  Lett[ere\  di  Virgilio  agli 
Arcadi,  [ed.  cit.,  p.  ir,  dove  per6  si  legge  «caro»,  invece  che  mto],  T. 


PROSPETTO   DEL   PARNASO    ITALIANO  883 

avesse  i  difetti  che  gli  vengono  rimproverati!  Ma  questi  difetti, 
ripetiamolo,  siccome  appartengono  meno  al  poeta  che  al  tempo  in 
cui  egli  scrisse,  cosi  non  distruggono  in  nessuna  maniera  la  supe- 
riorita  del  suo  merito  reale.  La  lingua  ed  il  secolo  di  Dante  erano 
barbari.  II  gusto  arido  e  bizzarro  del  genio  gotico  avea  infettato 
i  principii  di  tutte  le  arti,  e  deformava  tutti  i  prodotti  delPingegno 
e  della  mano  delPuomo.  La  scoltura,  la  pittura,  Parchitettura  di 
quel  tempo  non  presentavano  che  un'aria  grottesca  e  manierata. 
Dante  cresciuto  in  mezzo  a  questi  monumenti  di  stravaganza  co 
me  poteva  non  risentirne  anch'esso  la  trista  ed  inevitabile  influen 
za?  Ecco  perci6  il  suo  genio  in  preda  al  grottesco  ed  al  bizzarro; 
eccolo  cupo,  ineguale,  slegato;  ma  in  mezzo  a  queste  irregolarita 
egli  e  sempre  il  genio  di  Dante,  vale  a  dire  il  genio  d'un'anima 
ardita,  sublime,  robusta  e  pensatrice. 

Questo  carattere  d'originalita,  che  spicca  in  ogni  parte  della 
macchina  epica  dantesca,  diviene  anche  piu  luminoso  osservandolo 
dalla  parte  dello  stile  e  delPelocuzione.  Gli  stessi  suoi  piu  accaniti 
detrattori  non  sanno  negargli  questa  marca  di  superiorita,  e  per 
consenso  di  tutti  Dante  e  il  poeta  delPenergia  e  delPevidenza. 
Gettiamo  un'occhiata  anche  su  questa  parte  della  sua  preminenza 
poetica,  che  lo  contraddistingue  in  paragone  di  tutti  gli  altri. 

£  ben  difficile  che  nella  storia  letteraria  di  tutte  le  nazioni  si  trovi 
Pesempio  d'un  uomo  solo  che  sia  stato  il  creatore  ed  il  perfeziona- 
tore  insieme  della  sua  lingua.  Prima  di  Omero  Pidioma  greco  era 
elegante  e  poetico;  la  Tebaide  e  il  Velio  d'oro1  erano  due  poemi 
che  avevano  preceduto  la  comparsa  dell'IZzVwfe,  ed  avevano  riscossi 
gli  applausi  della  nazione.  Pacuvio  ed  Ennio  avevano  perfettamente 
sbozzato  Pidioma  latino,  che  Virgilio  ed  Orazio  resero  si  ele 
gante  un  secolo  dopo.  II  sublime  Corneille  in  Francia  era  stato 
preceduto  da  venti  poeti,  ed  il  genio  di  Shakespear  trov6  tutto 
preparato  in  Inghilterra  per  far  brillare  con  tanta  energia  i  pu- 
gnali  della  tragedia  inglese.  AlPincontro  in  quale  stato  di  barbaric 
non  era  la  lingua  italiana  allorch.6  Dante  prese  la  penna?  Un 
linguaggio,  o  piuttosto  un  suono  aspro,  snervato,  disarmonico,  che 
nella  bocca  dei  Guittoni  e  dei  Bonagiunta  giungeva  appena  ad 
ottenere  una  forma  di  metro  ed  una  languida  impressione  dei  mo- 

i  La  Tebaide  k  uno  dei  «  poemi  ciclici » ;  non  si  hanno  invece  notizie  pre 
cise  di  poemi  sul  Velio  d'oro,  e  in  genere  sull'impresa  degli  Argonauti, 
anteriori  ad  Omero. 


FRANCESCO   TORTI 

vimenti  delFanima.  Conveniva  sollevarsi  al  di  sopra  di  questo 
caos  di  rozzezza  e  di  torpore;  conveniva  svolgcrne  i  gcrmi  dell'ele- 
ganza  e  del  gusto,  ricondurvi  Tordine  e  Tarmonia,  fissarne  il  mo- 
vimento  e  Fespressione,  e  per  un  tratto  del  solo  genio  awivare 
questa  massa  disanimata  di  parole  col  sacro  fuoco  dell'eloquenza  e 
deirentusiasmo  poetico.  Tali  erano  i  prodigi  riservati  a  Dante. 
Invano  si  vorrk  crudamente  opporgli  ch'egli  stesso  e  pieno  tal- 
volta  de'  difetti  che  avrebbe  dovuto  evitare.  Ah!  quest'abuso  della 
critica  e  atroce!  Dante  e  il  padre  della  nostra  lingua  e  della  nostra 
poesia;  ecco  una  veritk  incontrastabile.  I  suoi  pezzi  migliori  non 
sono  mai  stati  superati  da  alcuno.  Se  la  lingua  italiana  ha  uno  stato 
di  fissazione  e  di  carattere,  essa  Pha  ricevuto  da  lui.  L/idioma  ita- 
liano,  grazie  alia  sua  meravigliosa  pieghevolezza,  ha  saputo  prendere 
nelle  mani  d'abili  artisti  tutte  le  forme  chc  si  e  voluto  aclattargli ; 
esso  ha  Taria  greca  in  Guidi  e  Chiabrera;  e  abbigliato  alia  latina 
in  Savioli  e  Parini;  e  divenuto  celtico  e  settentrionale  nelPimmorta- 
le  versione  d'Ossian;  ma  quando  vorremo  spogliarlo  cli  questi  co- 
lori  stranieri,  quando  noi  vorremo  osservarlo  nclla  sua  venustsk 
originale,  esso  ci  comparir&  sempre  sotto  le  forme  elegant!  e  pre 
cise  che  gli  ha  impresso  da  principio  il  fondatore  del  nostro  Par- 
naso.  Chi  &  oggi  nel  secolo  decimonono  chc  osi  vantarsi  di  supe- 
rare,  non  dir6  Fenergia  e  Fevidenza  (pregi  decisamente  suoi  propri, 
che  lo  costituiscono  senza  imitatori,  come  senza  modello),  ma 
la  grazia,  il  morbido  e  la  freschezza  di  alcuni  tratti  di  Dante? 
Chi  rested  insensibile  alia  bellezza  di  questi  versi  ? 

Dolce  color  d? oriental  zaffiro, 
che  s'accoglieva  nel  sereno  aspetto 
deWaer  puro,  infino  al  prime  giro, 

agli  occhi  miei  ricomincid  diletto, 
tosto  ch'io  usd  fuor  dell* aura  mortat 
che  m'avea  contristati  gli  occhi  e  '/  petto. 

Lo  bel  pianeta,  ctiad  amar  conforta, 
faceva  tutto  rider  Voriente, 
velando  i  Pesci,  chy  erano  in  sua  scoria. 

lo  mi  volsi  a  man  destrat  e  posi  mente 
aWaltro  polo,  e  mdi  quattro  stelle 
non  viste  mait  fuor  ch*alla  prima  gente. 

Goder  pareva  il  del  di  lor  fiammelle. 
0  settentrional  vedovo  sito, 
poi  che  private  $e*  di  mirar  quelle!  ec. 


PROSPETTO    DEL   PARNASO    ITALIANO  885 

Io  vidi  gia  net  cominciar  del  giorno 
la  parte  oriental  tutta  rosata, 
e  Valtro  del  di  bel  sereno  adorno: 

e  la  faccia  del  sol  nascere  ombratay 
si  che,  per  temperanza  di  vapori, 
Vocchio  lo  sostenea  lungafiata: 

cost  dentro  una  nuvola  di  fieri 
che  dalle  mani  angeliche  saliva, 
e  ricadea  in  giii,  dentro  e  di  fuori, 

sovra  candido  vel,  cinta  d'oliva, 
donna  m'apparve  sotto  verde  manto, 
vestita  di  color  di  fiamma  viva,  ec. 


A  noi  venia  la  creatura  bella, 
bianco  vestita  e  nella  faccia  quale 
par  tremolando  mattutina  Stella. 

Le  braccia  aperse,  ed  indi  aperse  Pale: 
disse:  -  Venite;  son  qui  presso  i  gradi, 
ed  agevolemente  omai  si  sale,  ec.1 

II  Petrarca,  tanto  celebrate  per  il  poeta  della  dolcezza,  put* 
egli  vantare  una  facilita  e  morbidezza  di  colorito  superiore  a  que- 
sta?  Ed  osservate  che  il  Petrarca  scriveva  un  mezzo  secolo  dopo. 

Coloro  che  insultano  con  tanta  facilita  alia  riputazione  di  Dante, 
vorrei  che  mi  additassero  le  sorgenti  da  cui  egli  ha  ricavato  quel 
terribile  e  quel  fiero  che  &  per  cosi  dire  il  tuono  naturale  della  sua 
musa.  Vorrei  che  mi  citassero  il  poeta  greco  e  latino  che  abbia 
potuto  somministrargli  Pidea  di  quella  profondita  e  di  quella  for- 
za  di  stile  che  si  ammira  da  un  capo  alPaltro  del  suo  poema. 

Per  me  si  va  nella  citta  dolente: 
per  me  si  va  nelVeterno  dolor  e: 
per  me  si  va  tra  la  perduta  gente, 

Giustizia  mosse  'I  mio  alto  fattore: 
fecemt  la  divina  potestatet 
la  somma  sapienza  e  '/  primo  amore. 

Dinanzi  a  me  non  fur  cose  create 
se  non  eterne,  ed  io  eterna  duro: 
lasciate  ogni  speranza  voi  che  'ntrate,  ec. 


i.Purg.,  I,  13-27;  XXX,  22-33;  xn,  88-93. 


886  FRANCESCO   TORTI 

E  gia  venla  su  per  le  torbid*  onde 
un  fracasso  d'un  suon  pien  di  spavento, 
per  cui  tremavan  ambedue  le  sponde; 

non  altrimenti  fatto  che  d'un  vento 
impetuoso  per  gli  avversi  ardori, 
che  fier  la  selva,  e  senza  alcun  rattento 

li  rami  schianta,  abbatte  e  porta  fuori: 
dmanzi  polveroso  va  superbo, 
e  fa  fuggir  le  fiere  e  gli  pastori. 


Ora  incomincian  le  dolenti  note 
a  farmisi  sentire:  or  son  venuto 
la  dove  molto  pianto  mi  percuote, 

lo  venni  in  luogo  d'ogni  luce  muto, 
che  mugghia  come  fa  mar  per  tempesta, 
se  da  contrari  venti  e  combattuto,  ec.1 

Se  i  talenti  superiori,  i  quali  si  aprono  una  nuova  strada  nella 
camera  delle  belle  arti,  meritano  giustamente  gli  omaggi  degli  uo- 
mini,  Omero  e  Dante  hanno  un  diritto  speciale  alia  nostra  amrni- 
razione  e  al  nostro  rispetto.  lo  non  pretendo  di  mettere  nella  stessa 
linea  il  merito  dell'uno  e  dell'altro;  dico  soltanto  che,  se  Omero 
e  il  padre  di  tutti  i  poeti,  bisogna  eccettuare  da  questa  lista  Dante 
Alighieri.  DalPepoca  del  primo  fino  al  secondo  vi  e  corso  un 
intervallo  di  circa  ventidue  secoli.  Questo  lunghissimo  tratto  di 
tempo  e  stato  riempito  da  un  piccol  numero  di  poeti  greci  e  latini, 
ognuno  de'  quali  si  e  fatta  una  legge  d'imitazione,  studiando  tutti 
al  medesimo  fonte,  e  avendo  sempre  innanzi  agli  occhi  lo  scrittore 
dell'Iliade  e  dell'Odissea.  Questa  si  lunga  e  costante  abitudine  in 
riconoscere  una  sola  regola  di  gusto  ha  prodotto  un  certo  numero 
di  belle  copie  e  nessun  quadro  originale.  II  colorito  d' Omero  e 
scorso  a  piccoli  ruscelli  sulla  tela  de?  suoi  scrupolosi  imitatori. 
Essi  non  veggono  gli  oggetti  che  sotto  il  medesimo  profilo.  Tutti 
i  fenomeni  della  natura  sono  dipinti  airomerica.  II  mattino  per 
essi  e  costantemente  r Aurora,  che  lascia  il  letto  di  Titone  ed  apre 
al  sole  le  porte  del  giorno;  la  sera  &  Febo,  che  si  attuffa  nelFoceano 
col  suo  carro  di  luce;  i  venti  sono  esscri  personificati,  di  cui  cia- 
scuno  ha  il  suo  carattere  ed  il  suo  nome;  le  tempcste  e  la  calma 
sono  sempre  all'ordine  del  tridente  di  Ncttuno;  le  fonti,  i  fiumi, 
le  stagioni,  la  pioggia,  Tarco  baleno  sono  altrettante  minori  deita, 

i.  Inf.,  tn,  1-9;  ix,  64-72;  v,  25-30. 


PROSPETTO   DEL   PARNASO   ITALIANO  887 

di  cui  si  conoscono  anticipatamente  le  forme,  gli  offici,  il  ca- 
rattere  e  fino  le  diverse  parti  del  loro  abbigliamento.  In  tal  guisa 
Tidee  mitologiche  d'Omero  inceppavano  ad  ogni  passo  i  fenomeni 
della  natura  e  ristringevano  rimmaginazione  de'  poeti  imitatori. 
E  inutile  aspettar  da  essi  un'idea  nuova  e  originate,  un'immagine 
ardita,  che  colpisca  per  la  sua  novit&  e  grandezza:  molto  meno  voi 
incontrerete  nel  gusto  greco  quelle  mezze  tinte,  quei  dolci  colori 
del  sentimento,  quei  tocchi  fievoli  e  mancanti,  che  sono  Pespressio- 
ne  delPanimaj  e  dipingono  cosi  bene  il  quadro  delle  malinconiche 
passioni. 

Dopo  la  rivoluzione  di  tanti  secoli,  dopo  il  cangiamento  essen- 
ziale  in  ogni  genere  di  sistema  politico,  morale,  religioso  e  lettera- 
rio,  il  nostro  Dante  prese  a  considerare  la  natura  in  un  aspetto 
tutto  nuovo,  e  vi  scopri  delle  bellezze  sconosciute  o  sfuggite  alia 
scuola  omerica.  I  fenomeni  delPuniverso  lo  colpivano  con  forza; 
il  morale  agiva  sopra  il  suo  spirito  con  un'influenza  profonda.  Egli 
ha  espresso  le  immagini  della  sua  fantasia,  come  i  sentimenti  del 
suo  cuore,  con  un'energia  di  colorito,  di  cui  prima  non  si  aveva 
Pidea.  Dolce  e  terribile  a  vicenda  egli  ha  secondato  fedelmente 
gli  impulsi  della  natura,  la  quale  non  &  sublime  che  per  la  sua 
indefinibile  fecondita.  Vuol  egli  dipingere  la  sera?  Addio  Febo, 
addio  cavalli,  addio  carro  del  sole;  addio  tutte  Pidee  trivial!  e  ripe- 
tute  dalPantico  Parnaso.  La  sera  non  &  agli  occhi  di  Dante  che  il 
momento  delle  triste  e  tenere  rimembranze;  Pora  in  cui  il  senti 
mento  del  cuore  umano,  distratto  dai  romori  del  giorno,  ripiglia 
i  suoi  diritti  e  si  abbandona  alle  patetiche  impressioni  della 
tristezza, 

Era  gib  Vora  che  volge  il  disio 
d  naviganti,  e  intenerisce  il  cuore 
lo  dl  ch'han  detto  ai  dolci  amid  addio, 

e  che  lo  nuovo  peregrin  d'amore 
punge,  se  ode  squilla  di  lontanof 
che  paia  '/  giorno  pianger  che  si  muore.1 

II  fiume  Po  non  &  piii  quei  mostro  virgiliano, 

.  .  .  gemina  auratus  taurino  cornua  vultu 
Eridanus.2 


x.  Purg.,  vin,  1-6.     2.  Georg.,  iv,  371-2  («Eridano  dalle  coma  derate  sul 
volto  taurino »). 


000  FRANCESCO   TORTI 

Ma  Francesca  da  Rimini  ve  n'offre  un'idea  piu  toccante  e 
piti  vera: 

Siede  la  terra,  dove  natafui, 
sulla  marina  dove  il  Po  discende 
per  aver  pace  cd*  seguaci  sui.1 

Vuol  egli  dipingere  in  un  altro  luogo  la  serenitk  d'un  bcl  mattino 
di  primavera;  d'un  mattino  limpido,  puro  e  degno,  per  cosl  dire, 
della  prima  innocenza  del  mondo  ?  Ascoltiamolo : 

Temp' era  del  principle  del  mattino; 
e  il  sol  montava  in  su  con  quelle  stelle 
ch'eran  con  lui  quando  Vamor  divino 

mosse  da  prima  quelle  cose  belle? 

Che  immagine  piena  di  semplicitik  insieme  e  di  grandezza! 
<cll  sole))  dice  il  poeta  « montava  accompagnato »  non  gik  dalle 
stelle  piii  grandi  o  dalle  piti  belle  del  cielo,  ma  «da  quelle  stelle 
ch'eran  con  lui »  ne'  primi  momenti  della  creazionc.  Non  si  scorge 
qui  riunita  la  grazia  e  la  delicatezza  di  Gesner3  alia  sublimity  di 
Milton? 

Scorrete  la  Divina  Commedia\  voi  incontrerete  ad  ogni  pagina 
de'  passi  somiglianti  supcrbamente  scritti,  che  vi  contrassegnano 
un'anima  viva,  energica,  profonda,  originale  e  creatrice.  Dante 
non  deve  ad  alcuno  ne*  le  sue  bellezze,  n6  i  suoi  difetti,  e  questo 
&  ci6  che  gli  assegna  un  posto  speciale  non  solo  nel  nostro  Par- 
naso,  ma  fra  tutti  i  poeti  dopo  Omero.  Le  sue  immortali  bellezze 
non  periranno  giammai;  esse  brillano  tutfora  d'una  luce  divina, 
malgrado  la  ruggine  gotica  da  cui  sono  coperte.  Invano  una  falsa 
delicatezza  di  gusto  calcola  freddamente  il  maggior  numero  de' 
versi  cattivi  sopra  i  buoni.  Dante  e  grande  malgrado  i  suoi  cattivi 
versi  e  le  sue  negligenze;  s'egli  non  ne  avesse  in  gran  numero, 
bisognerebbe  preferirlo  a  tutti  i  poeti.  Nessuno  ha  preteso  incen- 
sare  i  difetti  e  le  macchie  di  questo  scrittore;  ma  cosl  ruvido  e 
irregolare  com'&,  egli  &  il  creatore  della  poesia  italiana;  egli  &  il 
padre  de'  poeti;  egli  &  il  poeta  de'  grand'uomini;  egli  ha  formato 
1'Ariosto,  Minzoni,  Monti  e  in  gran  parte  il  sublime  AlfierL  Ma 
che  dico  il  « padre  de'  poeti »?  Michelangelo,  il  gran  Michelangelo, 

x.  Inf.,  v,  97-9.     2.  Inf.,  i,  37-40.     3.  la  grazia  .  .  .  Gesner:  in  questo  giu- 
dizio  sul  Gessner  si  avvcrtc  Toco  della  valutaasionc  del  Bertola. 


PROSPETTO   DEL   PARNASO    ITALIANO 

il  genio  piu  originale  che  abbia  illustrate  le  belle  arti  del  disegno, 
egli  stesso  e  un  allievo  della  sua  scuola.  La  lettura  di  Dante  era 
per  esso  ci6  che  era  per  Apelle  e  Fidia  la  lettura  di  Omero. 


CAPITOLO  VII 

DeirAriosto.  Feconditd  originale  del  suo  genio  paragondbile 

ad  Omero.  Sua  gran  cognizione  del  cuore  umano.  Difetti 

dell\( Orlando »  facilmente  riparabili* 

Quando  ho  detto  che  Fepica  romanzesca  e  un  nuovo  genere 
create  da'  moderni,  capace  d'interessare  il  cuore  e  sublimare  lo 
spirito,  io  aveva  in  vista  principalmente  il  celebre  Furioso  di  Ludo- 
vico  Ariosto.  Questo  genio  fervido,  immaginoso,  sublime  ha  ve- 
duto  in  tutta  1'estensione  la  brillante  fecondita  del  genere  ch'egli 
trattava;  egli  ne  ha  rilevato  le  bellezze,  ne  ha  create  delle  nuove, 
ne  ha  mascherati  e  ne  ha  resi  amabili  anche  i  difetti.  Non  vi  voleva 
meno  che  Tinesausto  ed  animato  pennello  di  Ludovico  per  presen- 
tare  al  lettore  de*  quadri  chimerici  e  nondimeno  interessanti;  del- 
Favventure  inverosimili  e  che  tuttavia  impegnano ;  un  mondo  tutto 
nuovo  e  fantastico,  per  cui  nondimeno  noi  ci  scordiamo  dolcemen- 
te  di  quello  che  abbiamo  sotto  gli  occhi.  II  Furioso  ha  portato 
1'epica  romanzesca  al  piu  alto  grado  di  perfezione  di  cui  poteva 
esser  capace.  Se  questo  poema  non  e  il  piu  grande,  il  piu  sublime 
di  tutti,  la  colpa  non  &  delPautore,  ma  del  genere  medesimo  e  della 
natura,  se  oso  dirlo,  la  quale  non  soffre  la  perfezione  in  un  ordine 
di  cose  che  manca  della  base  essenziale  del  verosimile.  Frattanto 
questa  inimitabile  e  magnifica  produzione  ha  dilatato  press o  gli 
esteri  la  gloria  del  Parnaso  italiano;  e  mentre  gli  oscuri  versi  di 
Dante  e  Petrarca  stancavano  ancora  le  superstiziose  penne  de' 
comentatori  nazionali,  il  poema  dell'Ariosto  passava  rapidamente 
di  clima  in  clima,  e  ricevea,  per  cosl  dire,  una  nuova  vita  dalle 
diverse  traduzioni  che  ne  hanno  fatto  le  piu  colte  lingue  d'Europa. 

Nessun  poeta  ha  avuto  il  talento  di  descrivere  piu  vivamente  le 
cose  e  gli  awenimenti;  nessuno  ha  meglio  veduto  la  natura  ne* 
suoi  piu  variati  e  moltiplici  aspetti.  Questa  benefica  madre  lo 
avea  arricchito  d'una  fantasia  vasta,  feconda  e  capace  di  abbrac- 
ciarla  nella  sua  immensitk.  Egli  ha  tutto  veduto  coll'occhio  del 

I.  Dal  Prospetto  del  Parnaso  italiano,  ed.  cit,  I,  pp.  144-79- 


890  FRANCESCO   TORTI 

genio;  egli  ha  descritto  una  prodigiosa  quantiti  di  fenomeni  fisici 
e  morali,  i  di  cui  original!  non  si  sono  giammai  presentati  alia 
sua  vista.  Si  e  detto  che  Omero  non  sarebbe  stato  il  pittore  della 
natura,  se  non  avesse  viaggiato  la  metk  della  sua  vita.  Ci6  potdi 
esser  vero;  ma  Fautore  del  Furioso,  che  in  linea  di  colorito  merita 
almeno  di  esser  paragonato  ad  Omero,  non  e  stato  viaggiatore 
e  ci  somministra  un  grand'esempio  di  quanto  e  capace  1'immagi- 
nazione  concentrata  in  se  stessa. 

L'Ariosto  nacque  in  Reggio  d'una  famiglia  strettamente  attinente 
ai  sovrani  di  Ferrara.  II  duca  Alfonso  d'Este  che  aveva  degli  inte- 
ressi  da  discutere  con  il  papa  Giulio  II  voile  inviarlo  in  Roma, 
in  qualitk  d'ambasciatore  per  trattarvi  un  accomodamento,  e  que- 
sto  fu  il  prii  lungo  viaggio  di  Ludovico.  I  preliminari  di  questa 
negoziazione  furono  per  riuscirgli  fatali;  egli  non  sapeva  quanto 
bisognava  guardarsi  dalla  diplomatica  di  Giulio  II.  Questo  papa, 
che  faceva  allora  la  guerra  al  concilio  di  Pisa,  alia  Toscana  e  alia 
Francia,  credette  di  poterla  fare  piu  facilmente  ad  un  ambasciatore 
poeta;  in  conseguenza  furono  dati  degli  ordini  segreti  perche"  Lu 
dovico  fosse  gettato  nel  Tevere.  L'aneddoto  e  incontrastabile,  e 
Pex-gesuita  Tiraboschi  lo  riporta  fedelmente  nella  sua  storia  della 
letteratura  italiana.1  Fuggito  da  Roma  egli  si  ricondusse  a  Ferrara 
nella  corte  de'  suol  mecenati,  ma  ci6  non  fu  che  per  incontrarvi 
nuove  umiliazioni  e  nuovi  disgusti. 

Egli  si  occupava  da  lungo  tempo  nella  formazione  del  suo  Or* 
lando  furioso.  Dopo  dieci  anni  di  travaglio  ne  diede  ai  pubblico 
la  prima  parte,  e  dedic6  1'opera  al  cardinale  Ippolito  d'Este,  che 
veniva  lodato  prodigiosamente  in  molti  luoghi  del  libro.  Questo 
e  il  primo  poema,  io  credo,  ricevuto  con  disprezzo  dallo  stcsso  me- 
cenate  cui  venne  offerto,  e  che  nondimeno  gli  e  debitore  deirim- 
mortalita.  II  cardinale  dopo  averne  ascoltato  sorridendo  alcuni  can- 
ti,  si  rivolse  al  poeta,  e  gli  disse  con  quell'aria  di  superiore  intelli- 
genza  cosl  familiare  ai  grandi:  —  Come  mai  siete  riuscito  a  metter 
insieme  tante  buffonerie?  —  La  posterity  Tha  ben  vendicato  da 
questo  motto  oltraggioso. 


i.  Bisogna  distinguere,  ed  io  lo  protesto,  in  Giulio  II  il  capo  visibile  della 
Chiesa  dal  principc  temporal^ ;  ed  in  questo  solo  ultimo  ruppotto  io  mi  so 
no  permcssso  di  rilevare  un  tratto  violento  del  suo  carattere,  che  volea  levar 
la  vita  ad  uno  de'  pih  grandi  pocti  della  terra,  ed  all' Italia  uno  de'  primi 
monument!  della  sua  letteratura,  T,  (Nota  aggiunta  nella  n  edizione.) 


PROSPETTO   DEL   PARNASO    ITALIANO  89! 

L*  Ariosto  si  Iasci6  sedurre  dal  gusto  e  dai  pregiudizi  del  suo 
tempo,  che  riguardavano  Tantica  cavalleria  come  Pistituzione  piu 
sublime  dell'onore  e  dell'eroismo.  Egli  forse  si  persuase  che  i  suoi 
contemporanei  non  avrebbero  saputo  gustare  un'altra  specie  di 
sublime,  e  quindi  non  si  dette  la  pena  di  ricercarla.  Con  queste  idee 
nello  spirito  egli  precipit6  la  scelta  del  soggetto  e  svilupp6  quel 
vasto  piano  di  poema  che  noi  leggiamo  in  quarantasei  canti.  Gli 
Italiani  per  una  specie  di  voto  unanime  gli  hanno  consacrato  il 
titolo  d' Omero  ferrarese;  e  sebbene  Vlliade  e  V  Orlando  non  abbia- 
no  niente  di  comune  fra  loro,  nondimeno  questa  espressione  del 
giudizio  nazionale  racchiude  a  mio  parere  un  gran  senso.  Si  & 
voluto  forse  dire  con  ci6  che  Tanime  di  questi  due  poeti  hanno, 
se  i  lecito  dirlo,  un  contorno  medesimo,  una  stessa  fisonomia;  si  e 
voluto  forse  dire  che  F  Ariosto  nelle  circostanze  e  nel  secolo  d'O- 
mero  avrebbe  prodotto  YIliadet  come  Omero  avrebbe  scritto  Or 
lando,  se  fosse  vissuto  ne'  tempi  e  nelle  circostanze  deU'Ariosto. 
Ma  in  tutto  il  resto  questi  due  figli  gemelli  delle  Muse  non  hanno 
piu  fra  loro  alcuna  rassomiglianza ;  ed  i  loro  poemi  differiscono  tanto 
Puno  dall'altro  quanto  era  diverso  il  secolo  delP Omero  greco  da 
quello  del  ferrarese. 

Omero  ha  dipinto  gli  uomini  e  gli  dei  delle  prime  eta;  Ariosto 
ha  dipinto  gli  eroi  dell'onore  e  delPamore.  Omero  aveva  per  guida 
la  semplicit&  originate  delle  antiche  tradizioni;  P  Ariosto  ha  do- 
vuto  servire  alPidee,  alPopinioni,  al  costume  del  suo  tempo.  Omero 
ha  descritto  le  guerre  e  gli  interessi  delle  popolazioni  nascenti; 
P  Ariosto  ha  dipinto  Pawenture  del  secolo  di  Carlo  Magno  ed  il 
costume  del  sistema  feudale.  Le  passioni  dey  personaggi  d'  Omero 
erano  semplici,  unisone  e  vigorosamente  sentite;  le  passioni  ed  i 
caratteri  espressi  dalP Ariosto  erano  il  risultato  di  mille  combina- 
zioni  politiche  e  morali,  di  sentimenti  fattizi  e  di  costumi  bizzarri. 
Nell'J/zVftfe  la  gloria  della  nazione  anima  i  Greci;  nel  Furioso  il 
punto  d'onore  £  Pelemento  de7  cavalieri.  Le  divinita  e  le  macchine 
religiose  occupano  una  gran  parte  del  poema  greco :  Minerva  e  Giu- 
none,  Venere  e  Apollo  precipitano  o  sospendono  i  combattimenti, 
affrettano  o  ritardano  i  decreti  del  fato.  L'onore  e  Pamore  sono  i 
veri  numi  che  danno  il  movimento  alia  gran  mole  deU'Ariosto,  ed 
un'occhiata,  una  parola  d' Angelica,  di  Bradamante  e  di  Doralice 
armano  i  regni  contro  i  regni  e  mettono  in  sconvolgimento  la 
meta  della  terra. 


892  FRANCESCO   TORTI 

Piii  si  rawicinano  insieme  i  vari  tratti  caratteristici  dc'  due  poe- 
mi,  piu  si  resta  convinti  che  i  loro  autori  dovevano  per  necessita 
allontanarsi  fra  loro  nella  esecuzione  e  nel  disegno.  Infatti  quale 
enorme  distanza  non  dovra  separate  due  epiche  azioni,  in  una 
delle  quali  le  donne  non  agiscono  punto,  mentre  nell'altra  esse  ban- 
no  la  piu  attiva  ed  essenziale  influenza?  Nel  poema  greco  Elena 
ed  Andromaca,  uniche  donne  che  vi  compariscono,  non  si  mo- 
strano  che  due  o  tre  volte,  e  non  interessano  giammai;  laddove  nel 
poema  italiano  Angelica,  Olimpia,  Doralice,  Bradamante,  Fior- 
diligi,  Isabella,  Marfisa,  ec.  empiono  tre  quarti  del  poema,  sono 
intimamente  legate  coll'mteresse  generale,  e  contribuiscono  al- 
rinviluppo  come  allo  scioglimento  delFazione.  L'Omero  ferrarese 
vide  assai  bene  il  nuovo  e  vasto  campo  che  gli  apriva  davanti  il  suo 
soggetto  indipendentemente  da  qualunque  imitazione  degli  anti- 
chi;  e  mentre  egli  travagliava  ad  eseguirlo,  si  proponeva  tanto 
poco  di  somigliare  ad  Omero,  quanto  un  secolo  dopo  il  gran  Cor- 
neille  scrivendo  il  Cid  pensava  di  essere  I'imitatore  di  Sofocle  e 
di  Euripide. 

Lo  stesso  colpo  d'occhio  del  genio  gli  fece  vedere  che  il  nuovo 
genere  da  lui  maneggiato  non  gli  permetteva  di  assoggettarsi  alle 
regole  ordinarie  delParte,  e  specialmente  alle  tre  unita  di  tempo, 
di  luogo  e  di  azione.  Lo  spirito  di  cavalleria  non  mai  disgiunto 
da  quello  dell'indipendenza  trascinava  i  cavalieri  da  un'impresa 
alPaltra  e  li  rendeva  incapaci  di  restare  lungamente  sotto  gli  stessi 
ordini  e  gli  stessi  stendardi.  Inoltre  il  cavaliere  e  Teroe  erano  ri- 
putati  tanto  piu  grandi  e  magnanimi,  quanto  piu  agivano  soli  ed 
isolati  nell'intraprendere  e  terminare  le  strepitose  avventure.  La 
subordinazione  era  una  virtu  sconosciuta,  e  il  punto  d'onore  dava 
spesso  al  cavaliere  il  funesto  diritto  di  sfidare  alParme  lo  stesso 
sovrano.  Un  poema  dunque  che  doveva  presentare  il  quadro  del- 
Pentusiasmo,  dell'impetuosita,  della  follia  cavalleresca,  come  avreb- 
be  potuto  conservare  quella  scrupolosa  unita  d'azione  e  quella  rc- 
golarita  d'andamento,  ch'e  il  pregio  ordinario  degli  altri  poemi? 
L'epopea  dell'Ariosto  doveva  essere  in  conseguenza  viva,  disordi- 
nata  e  bizzarra,  come  il  caratterc  degli  eroi  di  cui  ha  celebrate 
le  imprese. 

Ma  all'incontro  quali  e  quanta  bellezze  nuove,  grandi  e  luminose 
non  risultavano  da  questa  pretesa  violazione  di  regole?  Come  il 
poeta  seguendo  il  corso  impetuoso  di  tante  passioru  diverse  mol- 


PROSPETTO   DEL   PARNASO    ITALIANO  893 

tiplica  mirabilmente  le  situazioni  e  gli  awenimenti,  e  risveglia  ad 
ogni  istante  Finteresse!  Come  non  sembra  ch'egli  passeggi,  per 
cosi  dire,  sopra  tutti  i  climi  della  terra,  e  il  mondo  ch'egli  abbraccia 
nella  sua  idea  non  s'ingrandisca  e  si  estenda  sotto  la  sua  penna? 
La  grande  scena  dell'azione  del  poema  si  agita  intorno  alle  mura 
di  Parigi.  Un  re  africano  del  nono  secolo,  guidato  da  un  senti- 
mento  brutale  di  vendetta,  aduna  un  immenso  esercito  d'Arabi 
e  di  Mori,  e  si  rovescia  colFimpeto  della  rabbia  suirimpero  occi- 
dentale  di  Carlo  Magno,  ch'egli  pensa  distruggere.  L'imperatore 
cristiano  oppone  a  questo  diluvio  di  barbari  tutto  ci6  che  il  valore, 
la  costanza  ed  il  coraggio  hanno  di  piu  grande  e  di  piu  eroico.  I 
cavalieri  delle  due  nazioni,  divisi  di  religione  e  d'interesse,  ven- 
gono  a  cercare  in  questa  celebre  contesa  le  piu  estreme  occasion! 
da  segnalare  la  loro  gloria  e  la  loro  bravura.  Ma  Famore,  Famici- 
zia,  la  gelosia,  il  punto  d'onore,  il  partito,  mille  passioni  different! 
attraversano  ad  ogni  passo  Foggetto  primario  di  questi  movimenti, 
e  snervano  e  dividono  Funanimita  di  tanti  sforzi  riuniti.  Orlando, 
Rinaldo,  Bradamante,  Astolfo  da  una  parte,  Ruggiero,  Rodomonte, 
Mandricardo,  Marfisa,  Gradasso  dalFaltra,  hanno  ciascuno  de- 
gPimpegni  personal!  che  li  dividono,  e  degl'interessi  troppo  cari 
al  loro  cuore.  Quindi  il  pericolo  d'un'amante,  la  perdita  d'un  amico, 
la  riparazione  d'un  torto,  il  riacquisto  d'un  cavallo,  d'un  elmo, 
d'una  spada,  e  talvolta  anche  meno  di  questo,  6  bastante  a  de- 
viare  i  cavalieri  dall'oggetto  primario  e  a  trasportarli  in  dieci  di 
verse  parti  del  mondo.  Noi  siamo  obbligati  a  seguirli  in  Francia,  in 
Italia,  in  Alemagna,  in  Inghilterra,  in  Spagna,  nella  Siria,  in  Egitto, 
nella  Nubia,  nelF  Indie,  e  perfino  al  mondo  della  Luna.  La  novita 
e  la  varieta  de'  quadri  e  delle  situazioni  si  succedono  senza  inter- 
ruzione  ed  impegnano  ad  ogni  momento  Fattenzione  e  la  curiosita 
del  lettore.  Ma  in  mezzo  a  questo  tumulto,  a  questo  fracasso,  a 
questo  disordine  apparente  d'intrighi  e  di  movimenti,  un  filo  na- 
scosto  e  impercettibile  lega  insieme  ed  unisce  le  diverse  parti 
della  gran  macchina,  e  le  rapporta  ad  un  centro  comune.  Talvolta 
voi  crederete  di  perder  di  vista  un  personaggio,  che,  trascinato  da 
un  oggetto  straniero,  sembra  esser  fuori  della  sfera  del  movimento 
generale.  AlFimprowiso  la  scena  &  cangiata:  un  incidente,  un 
colpo  inaspettato  lo  rimbalza  nel  vortice  piu  vivo  delFazione,  e 
si  riconosce  ch'egli  non  apparteneva  tanto  da  vicino  all'interesse 
primario,  quanto  allorch.6  sembrava  esserne  piucch6  mai  allonta- 


§94  FRANCESCO   TORTI 

nato.  II  talento  delPintreccio  e  della  combinazione  &  per  veritk 
portentoso  neirAriosto.  II  suo  genio  fecondo  e  creatore,  quasi 
Hbrato  al  di  sopra  dell'universo,  sembra  presiederc  a  tutti  i  moti 
come  a  tutte  Ic  passion!  degli  uomini,  e  nella  sua  vasta  immagina- 
zione  animando  ed  abbracciando  un  immenso  circolo  di  cose,  egli 
guida,  per  cosl  dire,  la  natura  per  mano,  e  potrcbbe  dirsi  di  lui  ci6 
che  un  antico  scrisse  in  altro  proposito : 

Mundum  mente  gerens,  similique  imagine  for  mans.1 

Tale  &  il  genio  creatore  e  macchinoso  deU'Ariosto.  Ma  se  egli 
4  gran  poeta  inventore,  egli  non  6  meno  gran  poeta  pittore.  L'ir- 
landese  sig.  Sherlock,  che  si  sforza  d'abbassarne  quanto  piti  pu6 
la  riputazione,  paragona  lo  stile  deirAriosto  al  colorito  dell'Al- 
bano;a  ma  egli  s'inganna.  II  suo  pennello  ha  spesse  volte,  6  vero,  la 
freschezza,  il  ridente,  il  morbido  di  questo  pittore;  ma  esso  ha 
anche  spesso  la  forza  e  1'energia  di  Michelangelo,  il  chiaro-scuro 
e  1'evidenza  del  Correggio.  Tutta  1'Europa  ha  reso  giustizia  alia 
mirabil  feconditk  e  varied  del  suo  stile  poetico,3 

Tremd  Parigi  e  torbidossi  Senna 
a  Valta  voce,  a  quelV  orribil  grido; 
rimbombd  il  suon  fin  a  la  selva  Ardenna 
si,  che  lasciar  tutte  k  fiere  il  nido; 
udiron  VAlpi  e  il  monte  di  Gebenna, 
di  Blaia  e  d'Arli  e  di  Roano  il  lido, 
Rodano  e  Senna;  udi  Garonna  e  il  Reno; 
si  strmsero  le  madri  i  figli  al  seno* 

* 

Gia  potreste  sentir  come  nmbombe 
Valto  rumor  nelle  propinque  ville 
d'urli  e  di  corni  e  rusticane  trombe, 
e  piu  spesso  che  d* altro  il  suon  di  squille; 
e  con  spuntoni  e  archi  e  spiedi  e  frombe 
veder  dai  monti  sdrucciolarne  milte> 
e  altrettanti  andar  da  basso  ad  alto, 
per  fare  al  pazxo  un  villanesco  assalto. 

i.  Cfr.  Boeasio,  De  cons,  Phil.,  m,  metr.  ix,  v.  8,  e  Dante,  Com,,  m,  n,  17 
(«Portando  il  mondo  nelia  sua  mente,  e  formandolo  a  aomiglianza  di 
qucsta  imrnagme))).  z.Albano:  il  pittore  Francesco  Albani  (1578-1660), 
celebratissimo  nel  Scttecento.  3.  A  questo  punto,  nella  i  edizione,  era  in- 
senta  una  nota  (poi  soppressa  nella  n)  in  cui  veniva  citato  un  giudizio 
elogiativo  sull'Ariosto,  in  verita  piuttosto  generico,  del  Linguet  4  Orl 
fur.,  xxvn,  loi,  ^ 


PROSPETTO   DEL   PARNASO    ITALIANO  895 

Qual  venir  suol  nel  salsa  lito  Vonda 
mossa  da  I'Austro,  ch'a  principle  scherza, 
che  maggior  de  la  prima  e  la  seconda, 
e  con  piii  forza  poi  segue  la  terza; 
e  ogni  volta  piu  Vumore  abbonda, 
e  ne  V arena  piu  stende  la  sferza: 
tal  contra  Orlando  Vempia  turba  cresce, 
che  giu  da  baize  scende  e  di  valli  esce.1 


Ecco  sono  agli  oltraggi,  al  grido,  alVire, 
al  trar  de'  brandi,  al  crudel  suon  dey  ferri. 
Come  vento  che  prima  appena  spire, 
poi  comincia  a  crollar  frassini  e  cerri, 
et  indi  oscura  polve  in  cielo  aggiret 
indi  gli  alberi  svelga  e  case  atterri, 
sommerga  in  mare,  e  porti  ria  tempesta, 
che  il  gregge  sparse  uccida  alia  foresta. 

De'  due  pagani  senza  part  in  terra 
gli  audacissimi  cor,  le  forze  estreme 
partonscono  colpi  ed  una  guerra 
conveniente  a  si  feroce  seme. 
Del  grande  e  orribil  suon  trema  la  terra 
quando  le  spade  son  percosse  insieme; 
gittano  Varme  insin  al  del  scintille, 
ansi  lampade  accese  a  mille  a  mille.2 


Rimase  a  dietro  il  lido  e  la  meschina 
Olimpia,  che  dormi  senza  destarse 
finche  Vaurora  la  gelata  brina 
dalle  dorate  rote  in  terra  sparse, 
e  s'udir  le  alcioni  alia  marina 
delVantico  infortunio  lamentarse. 
N6  desta  ni  dormendo,  ella  la  mano 
per  Bireno  abbracciar  stese,  ma  invano  .  .  , 

E  corre  al  mar,  graffiandosi  le  gote, 
presaga  e  certa  omai  di  suafortuna: 
si  straccia  i  crini,  e  il  petto  si  percote, 
e  va  guardando  (che  splendea  la  luna) 
se  veder  cosa  fuor  che  il  lido  puote, 
n6,  fuor  che  il  lido,  vede  cosa  alcuna; 
Bireno  chiama,  e  al  nome  di  Bireno 
rispondean  gli  antri  che  pietd  n'avieno. 


i.  Orl.  fur.,  xxiv,  8-9.     2.  Or/,  fur.,  xxiv,  99-100. 


FRANCESCO   TORTI 

Quivi  surgea  ml  lido  estremo  un  sasso, 
ch'aveano  Vonde  col  picchiar  frequents 
cavo  e  ridutto  a  guisa  d'arco  al  basso; 
e  stava  sopra  il  mar  curvo  e  pendents, 
Olimpia  in  cima  vi  sail  a  gran  passo 
(cost  lafacea  Vanimo  possente), 
e  di  lontano  le  gonfiate  vele 
vide  fuggir  del  suo  signer  crudele: 

vide  lontano,  o  le  parve  vedere, 
che  Varia  chiara  ancor  non  era  molto; 
tutta  tremante  si  lascid  cadere 
piii  bianca  e  piu  che  neve  fredda  in  volto. 
Ma  poichd  di  levarsi  ebbe  poteret 
al  camin  delle  navi  il  grido  volto, 
chiamd,  quanto  potea  chiamar  piu  forte, 
piu  volte  il  nome  del  crudel  consorte.1 

Ma  affrettiamoci  a  rilevare  in  Ludovico  un  altro  pregio  non 
meno  prezioso  e  stimabile,  c  forse  piii  essenziale  di  quelli  che 
abbiamo  finora  osscrvato;  pregio,  che  lo  rendc  in  questa  parte 
superiore  agli  epici  antichi,  e  gli  assegna  un  luogo  ben  distinto 
fra  tutti  i  poeti  moderni,  lo  parlo  deirinteresse  ch'cgli  ha  saputo 
spargere  nelle  diverse  parti  del  suo  poema;  interesse  vivo,  ani- 
mato,  figlio  del  genio  e  non  delParte,  risultato  felice  di  una  pro- 
fonda  cognizione  del  cuore  umano,  e  tanto  piu  mirabile  in  esso, 
quanto  che  egli  &  stato  il  primo  fra  i  moderni  che  n'abbia  scoperto 
ed  attivato  le  potenti  risorse. 

L/Ariosto  interessa  e  per  Tarte  che  possiede  nel  preparare  e 
sviluppare  un  intreccio,  e  molto  piii  per  la  scelta  delle  passioni  che 
muovono  il  cuore  e  prestano  i  materiali  alPintreccio  medesimo. 
I  Greci  ed  i  Romani  hanno  conosciuto  le  passioni  e  ne  hanno  af- 
ferrati  i  tratti  piii  decisi  e  piti  marcati;  ma  essi  si  sono  troppo 
arrestati  ai  primi  movimenti  delPanima  ed  alle  prime  impressioni 
del  sentimento  senza  curarsi  di  penetrare  nella  vasta  e  indefinita 
complicazione  degli  affetti;  in  tal  guisa  hanno  essi  piuttosto  di- 
pinto  ed  espresso  1'uomo  della  natura,  che  Tuomo  inoltrato  nelle 
diverse  posizioni  della  societa.  Achille  ^  collcrico  e  vendicativo; 
egli  si  abbandona  alFimpeto  di  queste  passioni  con  una  specie  di 
sensualit^  barbara;  lo  slancio  della  sua  anima  non  i  bilanciato  da 
alcun  ostacolo,  n6  dalla  parte  delle  cose  n<§  da  quella  del  proprio 

i /Or/,  fur.,  x,  20,  22-4, 


PROSPETTO    DEL   PARNASO    ITALIANO  897 

cuore.  Questo  carattere  &  senza  dubbio  fiero  e  terribile;  ma  e  egli 
ugualmente  interessante  ?  Fedra,  Medea,  Elena,  Didone  sono  i 
caratteri  piii  appassionati  che  ci  restano  deirantico  Parnaso :  Di 
done  specialmente,  il  capo  d'opera  del  genere  sentimentale  fra 
tutte  le  produzioni  della  Grecia  e  di  Roma.  Ma  la  sorte  di  questa 
disgraziata  regina  non  ci  tocca  in  Virgilio  se  non  in  quanto  e 
atroce  la  catastrofe  che  la  termina.  Togliete  a  Didone  la  disperata 
maniera  con  la  quale  essa  da  fine  a'  suoi  dolori,  e  tutto  il  resto 
diviene  pressoche"  indifferente.  La  sua  passione  per  Enea  non  6 
che  un  capriccio  artificioso  di  Venere;  essa  ama  per  decreto  degli 
dei  e  del  destino;  il  furore  e  Pindecenza  accompagnano  ogni  suo 
movimento.  Sembra  che  il  poeta  latino  si  compiaccia  di  degradare 
il  cuore  di  questa  eroina  per  fare  la  corte  ai  Romani,  disonorando 
in  essa  la  culla  delFimpero  cartaginese;  ma  qualunque  sia  stato 
il  suo  disegno,  e  certo  che  Tinteresse  ne  sofTre  considerabilmente. 
Nessuno  potrk  sinceramente  attaccarsi  alia  sorte  di  una  donna  che 
ha  perdute  le  virtu  del  suo  sesso;  che  dopo  la  sua  prima  segreta 
unione  con  Enea, 

.  .  .fama 
e  rispetto  d'onor  piu  non  Vaffrena  .  .  . 

.  .  .  a  cui  poscia  non  calse 
n£  della  dignita,  n6  dell'onore, 
n6  della  segretezza;1 

di  una  donna  per  rilevare  gli  eccessi  della  quale  si  adoprano  i 
colori  del  piu  cupo  e  disordinato  furore: 

.  .  .  quale  ai  notturni 
gridi  di  Citeron  tiade,  allora 
che  il  triennal  di  Bacco  si  rinnova, 
net  suo  moto  maggior  si  scaglia  e  freme, 
e  scapigliata  e  fiera  attraversando 
e  mugolando  al  monte  si  conduce: 
tale  era  Didoz  .  .  .; 

di  una  donna  finalmente,  di  cui  gli  ultimi  respiri  non  sono  che 
orribili  e  furiose  imprecazioni  contro  lo  scusabile  oggetto  della 
sua  rabbia  e  del  suo  fatale  attaccamento : 


i.  [Eneide\t  Traduzione  del  Caro,  [iv,  129-30,  259-61],  T.     z.  Traduzione 
di  A.  Caro,  iv,  449-55. 


898  FRANCESCO   TORTI 

ma  caggia  anzi  il  suo  giorno,  e  nelV  arena 
giaccia  insepolto  .  .  . 

. .  .  Anzi  alcun  sorga 
dalVosse  mie,  che  di  mia  morte  prenda 
alta  vendetta,  e  la  dardania  gente 
colle  fiamme  e  col  ferro  assalga  e  spegna 
ora,  in  future  e  sempre1  .  .  * 

I  moderni  hanno  conosciuta  una  strada  piii  sicura  e  piii  delicata 
per  giungere  al  cuore  e  consegnarlo  alle  vive  emozioni  del  senti- 
mento.  Lo  spettacolo  degli  esseri  penanti  perseguitati  dai  rigori 
del  destino  o  della  vendetta  degli  dei  e  senza  dubbio  commovente; 
e  tale  era  infatti  il  genere  sentimentale  conosciuto  dagli  antichi. 
Ma  esiste  un  altro  genere  di  patetico  piu  toccante,  pHi  universale, 
piti  energico  e  piu  sublime.  Questo  non  consiste  n<£  nei  colpi 
torbidi  e  personali  delle  celesti  vendette,  n<§  nei  furori  scandalosi 
d'un  cuore  awilito.  La  virtiti  sensibile  in  preda  alia  passione  o  in 
contrasto  con  essa,  ecco  lo  spettacolo  interessante  che  agisce  so- 
pra  tutti  i  cuori,  perch6  tutti  portiamo  dentro  di  noi  il  germe  di 
quel  sentimento  d'elevazione  che  ci  attacca  vivamente  a  tutto  ci6 
che  trasporta  e  mette  Tuomo  alle  prese  con  se  medesimo.  II  quadro 
di  questa  lotta  toccante,  che  richiama  tutto  il  nostro  interesse  e 
lo  ritiene  in  un'ansiosa  sospensione,  e  suscettibile  di  mille  nuovi 
e  variati  aspetti.  Talvolta  esso  consiste  nei  contrasto  violento  e 
nelle  opposte  sensazioni  di  un'anima  tormentata  da  cento  passio- 
ni  different*,  la  quale  riagendo  sopra  se  medesima  comprime  tutte 
le  molle  della  sensibilita,  e  fa  risultarne  quel  torbido  cupo  e  lace- 
rante  da  cui  ci  sentiamo  si  vivamente  penetrati.  Talvolta  voi  lo 
vedrete  nello  sforzo  grandioso  di  un  cuore  fortemente  colpito  dai 
sentimenti  della  gloria  e  dell'onore,  che  sacrifica  le  sue  pito  dolci 
inclinazioni  al  dovere  e  la  passione  alia  virtti.  Talvolta  esso2  si 
sviluppa  nei  combattimento  sublime  ed  animato  de*  grandi  inte- 
ressi  e  delle  grandi  passioni,  che  urtandosi  e  rispingendosi  a  vi- 
cenda  agiscono  neiranima  dello  spettatore  con  pari  energia,  e 
formano  di  diverse,  opposte  e  profonde  sensazioni  un  luminoso 
tcatro  di  virtti,  d'umanita,  di  grandezza.  Tale  ^  il  fonte  del  nobile  e 
vivo  patetico  dove  hanno  attinto  i  moderni,  e  di  cui  e  pieno  il 
teatro,  Tepopea,  il  romanzo:  fonte  inesausto,  perch£  innumerabili, 

i.  Traduzione  di  A.  Caro,  iv,  951-2,  958-62.     2.  esso:  tanto  la  I  edkione 
che  la  u  hanno  « cssa » ;  ma  il  contesto  richicdc  la  lezionc  da  noi  adottata. 


PROSPETTO   DEL   PARNASO   ITALIANO  899 

immense,  indefinite  sono  le  forme  e  gli  aspetti  sotto  i  quali  si 
combinano  e  si  sviluppano  le  affezioni  del  cuore  umano;  fonte 
vasto  e  profondo,  perch6  niente  piu  arriva  a  scuoterci  e  ad  in- 
fiammarci  quanto  il  forte  e  vivo  movimento  delle  opposte  passioni, 
quanto  il  grido  acuto  del  sentimento  in  preda  alPurto  di  se  mede- 
simo,  e  quanto  Televata  grandezza  de'  caratteri  sublimi,  che  im- 
molando  se  stessi  alFordine  e  alia  virtu  formano  la  felicita  de' 
nostri  simili  e  divengono  la  scuola  del  genere  umano. 

L'Ariosto  ha  conosciuto  il  primo  la  natura  e  le  varie  gradazioni 
di  questo  nuovo  patetico  interessante,  e  ne  ha  sparso  in  tutto  il 
poema  i  piu  felici  e  commoventi  risultati.  Voi  vedete  la  dolce  e  sen- 
sibile  Olimpia  gia  pronta  a  dare  la  liberta,  il  regno  e  la  vita  per  sal- 
vare  dalle  mani  del  tiranno  il  suo  diletto  Bireno;  ma  se  essa  e 
in  preda  alle  lagrime,  se  essa  e  lacerata  dal  piu  fiero  dolore,  ci6 
non  e  gi&  in  vista  delPorribile  sacrificio  di  se  medesima:  essa  si 
affanna  unicamente  perche"  teme  che  la  sua  morte  non  basti  ad 
assicurare  la  salvezza  del  caro  amante.  Olimpia  non  solo  ama  Bi 
reno  piu  di  se  stessa,  ma  vede  nel  sacrificio  della  sua  vita  qualche 
cosa  di  piu  insopportabile  della  morte  medesima.  Noi  non  pos- 
siamo  ascoltarne  i  gemiti  e  le  querele  senza  sentirci  straziare  dal 
suo  stesso  dolore. 

Se  dunque  da  far  altro  non  mi  resta 
n&  si  trova  al  suo  scampo  altro  riparo 
che  per  lui  por  questa  mia  vita,  questa 
mia  vita  per  lui  por  mi  sard  caro. 
Ma  sola  una  paura  mi  molest  a, 
che  non  saprd  far  patto  cosi  chiaro, 
che  m'assicuri  che  non  sia  il  tiranno> 
poich'avuta  m'avra,  per  fare  inganno. 

lo  dubito  che  poi  che  m*avra  in  gdbbia 
e  fatto  avra  di  me  tutti  gli  strasii; 
ni  Bireno  per  questo  a  lasciar  abbiat 
si  ch'esser  per  me  sciolto  mi  ringrazi: 
come  spergiuro,  e  pien  di  tanta  rabbia, 
che  di  me  sola  uccider  non  si  sasti; 
e  quel  che  avra  di  me,  ni  piu  n6  meno 
faccia  di  poi  del  misero  Bireno. 


Pregato  ho  alcun  guerrier,  che  meco  sia 
quando  io  mi  daro  in  mano  al  re  di  Frisa; 
ma  mi  prometta,  e  la  sua  fi  mi  dia 


9°0  FRANCESCO   TORTI 

che  questo  cambio  sard,  fatto  in  guisa 
ck'a  un  tempo  io  data,  e  liber ato  sia 
Bireno;  si  che  quando  io  sard  uccisa, 
morrd  contenta,  poi  che  la  mia  morte 
avra  data  la  vita  al  mio  consorte,  ec.1 

II  fedele  e  troppo  sensibile  Ariodante  vuol  darsi  una  morte  cli- 
sperata  piuttosto  che  soprawivere  alia  creduta  infedelti  della  aua 
donna.  Ma  quando  egli  sa  che  il  fallo  di  Ginevra  e  sul  punto  di 
esser  severamente  punito,  quando  e  certo  che  1'infamia  e  la  morte 
pcndono  sopra  il  capo  della  sua  bella,  quando  egli  vedc  che  nes- 
sun  cavaliere  si  presenta  per  farsi  campione  del  suo  onore  c  della 
sua  vita,  allora  Feccesso  dciramore  si  converte  nel  pi&  generoso 
eroismo.  Egli  si  lancia  sconosciuto  nel  campo  di  battaglia,  e  vuol 
sostenere  in  faccia  al  mondo  e  contro  il  di  lui  proprio  fratello  che 
Ginevra  &  la  piu  onesta  come  &  la  piu  bella  di  tuttc  le  donne.  0 
vinto  o  vincitore  ch'egli  sia,  la  sua  eroica  passione  gli  fa  vedere 
in  tutti  i  casi  un  compenso  sicuro  nella  dolce  soddisfaxionc  di 
salvar  Tonorc  di  Ginevra  o  di  morire  sotto  i  suoi  occhi, 

Ahi  lasso,  io  non  potrei  (seco  dicea) 
sentir  per  mia  cagion  perir  costei. 
Troppo  mia  morte  f dm  acerba  e  na 
se  innanzi  a  me  morir  vedessi  lei. 
Ella  &  pur  la  mia  donna  e  la  mia  dea, 
questa  e  la  luce  pur  degli  occhi  miei: 
convien  che  a  dritto  e  a  torto  per  suo  scampo 
pigli  rimpresa,  e  resti  morto  in  campo. 

So  ch'io  m'appiglio  al  torto;  e  al  torto  sia; 
e  ne  morrd,  ne  questo  mi  sconforta; 
se  non  cttio  so  che  per  la  morte  mia 
si  bella  donna  ha  da  restar  poi  morta. 
Un  sol  con/orto  nel  morir  mi  fia> 
che,  se  il  suo  Polinesso  amor  le  portat 
chiaramente  veder  avra  potuto 
ch$  non  s'e  mosso  ancor  per  darle  aiuto, 

E  me,  che  tanto  espressamente  ha  offeso 
vedra  per  lei  salvare  a  morir  giunto. 
Di  mio  fratello  insmne,  il  quale  acceso 
tanto  foco  ha,  vendicherommi  a  un  punto: 
ch'io  Io  faro  doler,  poichd  compreso 

i,  Ort.  fur,>  ixf  51-2  c  54. 


PROSPETTO  DEL  PARNASO  ITALIANO 

il  fine  avra  del  suo  crudele  assunto. 
Creduto  vendicar  avra  il  germane, 
e  gli  avra  dato  morte  di  sua  mano.1 

Bradamante,  Isabella,  Fiordaligi,  Ruggiero,  Orlando,  Zerbino 
e  cento  altri  personaggi,  tutti  sono  posti  dal  poeta  ne'  piu  delicati 
e  penosi  cimenti  in  cui  possa  trovarsi  la  sensibilita  di  un  carattere 
virtuoso  e  penetrato  dal  dovere,  dall'amore,  dairamicizia,  dalla 
riconoscenza  e  da  tante  affezioni  diverse.  Ma  e  ben  difficile,  io 
credo,  il  ritrovare  in  tutti  i  poeti  antichi  e  moderni  un  tratto 
piu  sublime,  piu  commovente,  piu  originale,  piu  pieno  di  forza, 
d'interesse  e  di  grandezza  quanto  la  gara  generosa  di  Leone  e 
Ruggiero,  che  occupa  i  tre  ultimi  canti  del  poema.  Quale  idea 
grandiosa  insieme  e  toccante!  Ruggiero  deve  tutto  alia  magnani- 
mitk  di  Leone,  da  cui  ha  ricevuto  la  liberta  e  la  vita.  Leone  do- 
manda  a  Ruggiero,  senza  saperlo,  piu  ancora  di  quanto  esso  gli 
ha  dato,  giacch6  non  si  tratta  niente  meno  che  di  cedergli  la  sua 
Bradamante,  e  di  piu  deve  conquistarla  egli  stesso  per  fame  un 
dono  al  rivale.  La  grandezza  d'animo  di  Ruggiero  soffre  questa 
volta  uno  di  quegli  urti  orribili,  a  cui  resiste  appena  la  piu  robu- 
sta  ed  agguerrita  virtu:  ma  Leone  e  il  suo  benefattore,  il  suo 
amico ;  egli  non  sa  quanto  ci6  che  domanda  possa  costare  a  Rug 
giero  :  questa  stessa  considerazione  rende  piu  forte  Tobbligo  della 
riconoscenza,  e  Ruggiero  promette.  Che  s'immagini  adesso  1'an- 
goscia,  Taffanno  di  questo  eroe,  il  suo  concentrate  dolore,  la  sua 
cupa  disperazione,  le  smanie  di  Bradamante,  la  rabbia  degli  amici 
di  Ruggiero,  Fimpazienza  di  Leone,  Tagitazione,  il  tumulto,  il 
fermento,  in  cui  tanti  opposti  interessi  devono  gettare  la  popolosa 
corte  di  Carlo  Magno,  e  pressoch6  i  due  imperi  d'Oriente  e  d'Oc- 
cidentc.  Ma  che  dico  immaginare!  Bisogna  leggere,  bisogna  ve- 
dere  nelPoriginale  medesimo  Farte,  il  fuoco,  Tinteresse,  la  no- 
bilt&  con  cui  il  poeta  presenta,  accalora  e  sviluppa  questo  grande 
e  sublime  contrasto.  L&  voi  vedrete  TAriosto.  II  riportarne  alcuni 
tratti  tolti  qua  e  Ik  dall'originale  sarebbe  lo  stesso  che  sottrarre 
una  piccola  scintilla  dal  fuoco  ardente  d'una  fornace. 

Abbiamo  osservato  fin  qui  1' Orlando  furioso  dalla  parte  del  bello 
e  del  mirabile,  conviene  adesso  osservarlo  da  quella  delle  sue  mac- 
chic  e  delle  sue  imperfezioni.  Io  non  ho  parlato  de'  difetti  di  Dante, 

i.  Orl  fur.,  vi,  10-2. 


902  FRANCESCO   TORTI 

perche*  la  loro  stessa  bizzarria  e  grossolanitk  sono  un  avvertimento 
abbastanza  forte  per  togliere  a  chiunque  la  tentazione  di  cadervi 
e  di  riprodurli.  Ma  i  difetti  deirAriosto  sono  seducenti  c  pericolosi; 
il  genio  e  il  fuoco  dell'autore  ha  saputo  coprirli  d'una  luce  abba- 
gliante  che  pu6  fare  illusione.  lo  non  rispondcrd  direttamente  alle 
critiche  del  sig.  Sherlock,  che  riduce  tutto  il  merito  dell'Ariosto  al 
brio  d'uno  stile  ameno  e  descrittivo.1  Questo  signore  ha  la  bontk 
di  negar  tutto  al  nostro  poeta,  la  feconditk  dell'invenzione,  la  va- 
rieti-i  de'  caratteri,  la  pittura  del  costume  e  delle  passioni,  la  cogni- 
zione  del  cuore  umano,  il  calore  delPinteresse,  tutte  in  somma 
quelle  meravigliose  ed  eminenti  virtti,  poetiche  che  abbiamo  ana- 
lizzate  finora,  e  di  cui  abbiamo  riportato  le  prove  e  gli  esempi. 
Ma  che  si  dovrebbe  rispondere  ad  un  cieco  il  quale  volesse  impu- 
gnare  Fesistenza  de*  colori,  o  ad  un  sordo  che  negasse  quella  de* 
suoni  e  della  musical 

Tratteniamoci  piuttosto  sopra  i  veri  e  reali  difetti  dell'Omero  fer- 
rarese.  II  primo  di  tutti,  a  mio  credere,  e  quello  che  il  suo  genere 
di  poema  non  e  suscettibile  d'imitazione.  Le  leggi,  gli  usi  e  le 
massime  dell'antica  cavallcria  non  potevano  brillare  in  un  poema 
che  per  una  sola  volta  e  ne'  tempi  piii  prossimi  alia  di  lei  origins; 
esse  non  offrono  alcun  soggetto  d'istruzione  e  di  moraliti  per  de* 
secoli  posteriori,  le  cui  leggi  e  costumi  non  hanno  niente  di  comu- 
ne  con  quelle,  I  cavalieri  erranti  che  scorrono  tutta  la  terra  senza 
beni  e  senza  danaro,  le  piii  amabili  donzelle  armate  in  sella  e 
nientemeno  brave  de'  cavalieri,  le  magie,  le  fate,  i  giardini  e  i 
palazzi  incantati  formano  un  mondo  certamente  vago  e  mirabile 
quando  si  giunga  a  crederne  la  possibility  e  1'esistenza;  ma  che 
mai  divengono  queste  pompose  e  frivole  chimere  agli  occhi  della 
ragione  dopo  tante  rivoluzioni  nella  maniera  di  pensare,  nella  col- 
tura,  nella  filosofia,  nel  sistema  d'Europa?  LIKade  e  1' Orlando 
sono  due  poemi  senza  dubbio  meravigliosi;  ma  la  loro  bellezza  e 
di  un  bello  ipotetico,  vale  a  dire  che  poste  per  vere  o  verosimili 
le  opinioni  morali  e  teurgiche3  del  loro  tempo  niente  i  piii  degno 
di  sorpresa  e  d'ammirazione  quanto  i  loro  poemi.  La  supposi- 
zione  non  e  difficile  allorch<5  per  un  trasporto  di  fantasia  c'immede-* 
simiamo  collo  spirito  dej  loro  autori,  e  ci  collochiamo  in  quel  pe- 
riodo  di  tempo  in  cui  essi  vissero,  pensarono  e  scrissero.  Ma 

i,  Consiglio  ad  un  giovane  poeta,  del  signer  Sherlock,  [ed.  cit.],  pag,  8,  36  e 
43  (T.).  2.  t&urgiche:  qui  vale  « teologiche »,  religiose. 


PROSPETTO   DEL   PARNASO    ITALIANO  903 

quale  accoglienza  meriterebbe  oggi  un  poeta  epico,  il  quale  ve- 
nisse  a  presentarci  un  altro  figlio  di  Teti  tutto  fatato  nella  pelle  e 
vestito  di  un'armatura  fabbricata  da  Vulcano,  che  mettesse  in 
scerxa  una  folia  d'eroi  cucinieri  e  cocchieri,  tutti  apparentati  stret- 
tamentc  cogli  dei,  e  questi  dei  medesimi  battersi  e  azzuffarsi  non 
meno  fra  essi  che  cogli  uomini  per  i  piu  frivoli  oggetti,  prender 
partito  per  una  cattiva  causa  e  chiamare  in  aiuto  delle  loro  pas- 
sioni  le  meteore,  i  sogni,  i  prodigi  e  persino  la  frode,  la  perfidia 
e  la  menzogna?  Tutte  queste  stravaganze  del  senso  comune  figu- 
rerebbero  assai  male  in  un  poema  epico  moderno.  Ma  che  dico 
in  un  poema  epico  moderno  ?  L'immortale  Cesarotti,  quel  filosofo 
della  letteratura,  quel  legislatore  del  gusto,  non  ha  creduto  neppur 
di  poter  presentar  con  successo  all7 Italia  una  traduzione  dell'Iliade 
greca  che  risponda  esattamente  alPoriginale;  egli  ha  dovuto  prima 
rifonderla  e  ritoccarla :  non  &  piu  Vira  d'Achille,  ma  la  morte  di  Ettore 
che  canta  Omero  per  la  sua  bocca.  «Che  i  pedanti,  i  fanatici»  egli 
dice  (cchiamino  pure  questo  mio  lavoro  un  innesto  temerario,  un 
accozzamento  bizzarro  di  vecchio  e  di  nuovo,  un  componimento 
eteroclito,  una  produzione  doppiamente  bastarda,  un'opera  inde- 
finibile;  io  sar6  pago  se  il  pubblico  non  prevenuto  leggera  con  di- 
letto  la  Morte  d' Ettore,  e  credera  che  non  faccia  torto  alPonore 
della  poesia  italiana.  »* 

Questa  prima  imperfezione  dell*  Orlando  grande  per  se  stessa, 
sebbene  piu  relativa  che  assoluta,  piu  imputabile  ai  tempi  del 
poeta  che  al  poeta  medesimo,  viene  accompagnata  da  tre  altri  di- 
fetti,  a  mio  credere,  importantissimi,  tutti  propri  delPautore,  e 
che  egli  poteva  facilmente  evitare.  II  primo  di  essi  &  la  soverchia 
moltitudine  dej  personaggi  che  si  mostrano  nel  poema  e  divi- 
dono  Pattenzione  del  lettore  senza  accrescerne  Pinteresse.  Dopo 
che  Pautore  aveva  disegnati  e  vigorosamente  coloriti  i  caratteri 
di  Rodomonte,  Mandricardo,  Ruggiero,  Orlando,  Rinaldo,  Mar- 
fisa,  Bradamante,  Zerbino,  Gradasso,  perch6  sopraccaricare  questa 
superba  tela  colle  inutili  e  languide  figure  di  Sacripante,  Sanso- 
netto,  Guidone,  Grifone,  Aquilante,  Ferrau,  ec.,  che  non  hanno 
alcuna  relazione  n6  fra  loro  n6  colla  massa  delPazione  principale? 
La  liberazione  della  Francia  dalParmi  dej  Mori  poteva  facil 
mente  eseguirsi  dopo  tante  prodigiose  battaglie  date  dagli  eroi  fran- 

i .  Vlliade  o  la  Morte  di  Ettore,  poema  omerico  ridotto  in  verso  italiano  dal- 
I' abate  Mekhior  Cesarotti, « Awertimento  preliminare »,  torn.  I,  pag.  40  (T.). 


904  FRANCESCO   TORTI 

cesi  senza  Tinutile  e  tarda  presenza  di  tre  o  quattro  cavalicri  che 
il  poeta  fa  venire  espressamente  a  Parigi  dal  piu  lontano  Oriente. 
La  profusione  e  la  varietk  de'  caratteri  e  de'  personaggi  e  senza 
dubbio  una  delle  maggiori  prove  del  talento  epico;  TAriosto  la 
vince  in  questa  parte  sopra  Omero  medesimo;  ma  questo  stesso 
pregio  diviene  un  difetto,  allorch6  il  gusto  e  la  riflessione  non 
giunge  a  temperarne  Feccesso. 

Come  PAriosto  ha  fatta  una  pompa  inutile  di  un  troppo  gran 
numero  di  personaggi,  cosl  ha  moltiplicato  indoverosamente  una 
troppa  quantit^  di  piccole  azioni  isolate,  che  turbano  ed  imbaraz- 
zano  il  corso  della  piu  grande.  Per  verit&  questo  gran  genio  dovea 
sentirsi  piu  che  oppresso  dalPimmensa  ed  intricata  carricra  che 
si  era  aperta  d'innanzi,  accumulando  1'una  sopra  Faltra  le  avven- 
ture  di  tanti  eroi  ed  eroine  che  formano  il  nodo  e  Pinteresse  pri- 
mario  del  poema  senza  aver  bisogno  d'aggiungervi  quella  folia 
di  novelle  e  di  piccoli  episodi  affatto  stranieri  al  tempo  e  al  luogo 
delFazione.  II  lettore  dovr&  dunque  interessarsi  con  tanto  calore 
dietro  Forme  e  gli  avvenimenti  della  bella  Angelica,  delFamabile 
Bradamante,  della  tenera  Isabella,  del  gencroso  Ruggiero,  del 
grande  Orlando,  del  terribile  Rodomonte  per  vedersi  poi  tutto  in  un 
tratto  arrestato  dalle  oscure  ed  esotiche  avventure  d'un  Gioconclo, 
d'un  Adonio,  d'una  Fiordispina,  d'una  Lucina,  d'una  Lidia,  ec, 
i  quali  si  mostrano  una  volta  nel  poema  e  spariscono  quindi  per 
sempre  ?  Ci6  non  e  piu  rendersi  superiore  ai  ceppi  ed  alle  regole 
per  colpire  il  vero  genio  delFepica  romanzesca,  ma  e  piuttosto  un 
abuso  di  fantasia,  una  intemperanza  d'immaginazione,  che  soffoca 
il  gusto  ed  insulta  il  buon  senso. 

II  terzo  difetto,  imputabile  anch'esso  al  solo  autore,  e  Fardita 
violazione  della  morale,  e  Paver  mancato  di  rispetto,  in  pifx  luoghi 
delFopera,  al  pudore  ed  alia  decenza,  I  costumi  d'Europa  non 
permettono  che  un  libro  di  questa  specie  sia  messo  fra  le  mani 
della  gioventu  che  si  vuolc  educare.  Che  apprenderanno  le  fan- 
ciulle  nella  lettura  di  un  poema  che  degrada  e  awilisce  le  donne 
agli  occhi  di  loro  stesse,  che  si  burla  della  loro  principale  virtu, 
e  le  rende  lo  scherno  del  piu  vile  e  ributtante  libertinaggio  ?  II 
poeta  non  solo  seduce,  inebbria  il  cuore  colla  voluttuosa  pittura  del 
piacere  e  della  mollezza,  ma  esso  giunge  talvolta  a  corromperlo 
colla  massima  del  mal  costume  e  con  lo  scherzo  delPimpudenza. 
Cosl  un  gran  poema  in  luogo  di  essere  la  scuola  della  morale  e 


PROSPETTO   DEL   PARNASO    ITALIANO  905 

Tistituzione  piu  sublime  delle  virtu  civili  e  sociali,  diviene  infe- 
licemente  un  libro  pericoloso  e  sospetto ;  un'opera  riguardata  giu- 
stamente  dagli  istitutori  con  diffidenza  e  da  lontano,  ed  esclusa 
con  gelosia  dalle  biblioteche  destinate  a  formare  il  cuore  e  lo  spi- 
rito  de'  giovani  allievi. 

II  poema  deirAriosto  e  un  prodotto  sublime  dell'arte,  ma  simile 
alia  Venere  de'  Medici  ha  bisogno  di  qualche  velo  per  essere 
esposto  con  sicurezza  agli  occhi  del  pubblico.  Ma  quale  sara  mai 
questo  velo?  Quali  saranno  le  parti  ch'esso  dovra  far  travedere 
o  nascondere? 

Lo  stile  non  ha  bisogno  d'esser  toccato.  Vago,  semplice,  pit- 
toresco,  energico,  grazioso,  esso  prende  tutte  le  forme  e  tutti  gli 
aspetti  della  natura  che  dipinge :  la  sua  stessa  apparente  negligenza 
&  un  tratto  di  piu  che  lo  rawicina  al  suo  grande  originale.  Ma  la 
natura  che  ha  dipinto  Ludovico  non  &  la  natura  d'Omero  e  molto 
meno  quella  d'Ossian.1  Essa  non  e  neppure  la  natura  raffinata, 
reprcssa  e  mascherata  de'  nostri  costumi  e  delle  nostre  maniere; 
essa  6  unicamentc  la  natura  del  secolo  dej  paladini  e  delle  awen- 
ture  cavalleresche,  e  questa  natura  e  appunto  quella  che  brilla  in 
tutto  il  suo  lume  ne'  versi  e  nello  stile  deirAriosto.  Come  il  sog- 
getto  ch'egli  canta  &  di  una  specie  unica  e  singolare,  cosl  la  poesia 
deirAriosto  £  tutta  propria  del  suo  soggetto.  Quell'amabile  fran- 
chezza,  quel  tuono  di  famigliarita,  quella  dolce  ineguaglianza  di 


i.  lo  non  intendo  con  ci6  di  dividere  in  generi  e  specie  la  natura,  che  e 
una  sola  ed  individual.  La  natura  nel  suo  fondo  e  sempre  la  stessa  ed  inva- 
riabile,  ma  le  sue  modification!  sono  soggette  ad  un  flusso  perpetuo  di 
cangiamenti,  L'uomo  morale  e  il  risultato  di  mille  combinazioni,  che  nella 
variazione  delle  circostanze,  del  clima,  dell'educazione,  del  governo,  delle 
opinioni  morali  e  religiose  gli  fanno  prendere  un  aspetto  non  solo  diffe- 
rente,  ma  talvolta  contradditorio.  II  prolungare  ai  genitori  la  vita  fino 
al  piii  lungo  termine  e  un  atto  di  virtti  per  un  europeo;  gli  Irocchesi 
stimano  un  atto  di  dovere  e  di  umanita  lo  strangolare  i  loro  padri  quando 
sono  arrivati  alia  decrepitezza.  Tutti  i  popoli  dell'antichita  hanno  creduto 
conforme  alia  natura  il  ridurre  in  ischiavitu  i  prigionieri  fatti  in  guerra: 
rnoltissime  popolazioni  d' Africa  e  d}  America  trovano  naturalissimo  d^ar- 
rostire  i  loro  prigionieri  e  mangiarli:  i  moderni  Europei  pensano  esser  piu 
conveniente  alia  ragione  e  alia  natura  il  cambiarli  o  rilasciarli  sulla  parola. 
Qual  enorme  difTerenza  in  un  solo  articolo  di  morale  political  Non  era 
forse  la  natura,  che  parlava  egualmente  al  Greco,  all* Americano  ed  allo 
Spagnuolo?  Ora  tali  sono  le  differenze  che  rendono  si  diversi  un  popolo 
dall'altro  popolo,  un  secolo  dall'altro  secolo;  e  dairinsieme  di  tali  dif 
ferenze  risultano  que'  quadn  energici  e  variati  che  ci  presentano  i  poeti, 
e  che  formano,  per  cosi  dire,  una  natura  poetica  a  parte  (T.). 


906  FRANCESCO   TORTI 

stile  che  regna  si  spesso  nel  poema,  e  che  sarebbe  un  difetto  per 
ogni  altro,  &  un  pregio  caratteristico  ed  una  vera  bellezza  per  lui. 
Qual  &  quel  poeta  che  osasse  imitare  le  grazie  sempre  facili  e  na- 
turali,  e  nondimeno  eleganti  ed  animate,  di  questa  maniera  di 
scrivere  ? 

Orlando^  che  gran  tempo  innamorato 
fu  della  bella  Angelica,  e  per  lei 
in  India,  in  Media,  in  Tartaria  lasciato 
avea  infiniti  ed  immortal  trofei, 
in  Ponente  con  essa  era  tomato 
dove  sotto  i  gran  monti  Pirenei 
con  la  gente  di  Francia  e  di  Lamagna 
re  Carlo  era  attendato  alia  campagna; 

per  fare  al  re  Marsilio  e  al  re  Agramante 
battersi  ancor  del  folle  ardir  la  guancia 
d*aver  condotto  Vun  d*  Africa  quante 
genti  eran  atte  a  portar  spada  e  lancia; 
V altro  d'aver  spinta  la  Spagna  innante 
a  destruction  del  bel  regno  di  Francia; 
e  cost  Orlando  arrivd  quivi  appunto, 
ma  tosto  si  penti  d'esservi  giunto; 

che  gli  fu  tolta  la  sua  donna  pot; 
ecco  il  giudizio  uman  come  spesso  erra! 
Quella,  che  dagli  esperi  ai  lidi  eoi 
avea  difesa  con  si  lunga  guerra, 
or  tolta  gli  e  fra  tanti  amid  suoi, 
senza  spada  adoprar,  nella  sua  terra. 
11  savio  imperator  ch'estinguer  vuolse 
un  grave  incendio,  fu  che  glie  la  tolse,  ec. x 

Ma  quello,  che  non  ha  luogo  riguardo  allo  stile,  pu6  facilmente 
praticarsi  sopra  alcune  parti  del  poema.  lo  non  pretendo  che  si 
tolgano  tutte  le  novelle  inserite  senza  bisogno,  tutti  i  racconti 
slegati  e  indipendenti  dal  resto  dell'opera;  ma  che  si  sopprimano 
senza  riguardo  quelli  squarci  di  libertinaggio  e  di  dissolutezza,  che 
insultano  il  pudore  e  compromettono  i  costumi.  Un  senato  lettera- 
rio  si  occupi  di  questa  salutare  riforma,  fissi  i  Hmiti  delPoperazione 
e  proweda  che  il  poema  non  ne  risenta  alcuna  perdita  e  non  ne 
risulti  alcun  vuoto  che  guasti  la  tessitura  e  Punione  del  resto. 
L'intrapresa  non  &  difficile,  e  di  tutti  i  poemi  del  mondo  V  Orlando 
&  precisamente  quello  che  si  presterebbe  meglio  di  ogni  altro 

i.  Orl  fur.,  i,  5-7. 


PROSPETTO    DEL    PARNASO    ITALIANO  907 

a  questa  felice  rigenerazione.  Nella  riforma  di  cui  si  tratta  il  poema 
conserverebbe  tutte  le  sue  bellezze;  la  mole  delPopra  rimarrebbe 
quasi  la  stessa,  ma  esso  acquisterebbe  di  piii  il  pregio  essenziale  di 
diventare  un  libro  classico,  utile,  diffuse  e  letto  nella  societa  piu 
di  quello  che  in  oggi  non  k  evitato  o  nascosto;  una  sorgente  in- 
somma  di  gusto,  d'istruzione  e  di  piacere  per  ogni  classe,  per 
ogni  et&  ed  ogni  sesso. 


TOMO  II 

CAPITOLO  II 

[Lo  stile  del  Seicento.]1 

...  II  vizio  piu  marcato  e  piu  insopportabile  che  disonora 
lo  stile  del  Seicento  e  senza  dubbio  Fabuso  delle  metafore  e 
la  loro  iperbolica  deduzione  dagli  oggetti  i  piu  disparati  e  piu 
lontani.  La  frequenza  di  queste  figure  ardite,  invece  di  rendere  i 
loro  versi  piu  animati  e  pieni  di  quella  energia  che  tanto  ci  tra- 
sporta  nelle  poesie  orientali,  essa  non  fa  all'opposto  che  indebo- 
lirne  Tespressione  e  raffreddarne  il  sentimento.  Qual  &  mai  la  ra- 
gione  d'un  effetto  si  contradittorio,  che  sembra  pure  riconoscere 
la  medesima  origine  ?  Se  noi  esaminiamo  distaccatamente  e  a  san- 
gue  freddo  le  metafore  e  le  figure  delle  poesie  nordiche  e  orientali, 
esse  non  ci  compariranno  meno  urtanti  e  meno  iperboliche  di 
quelle  del  piti  risentito  seicentista.  « lo  sono  il  fiore  del  campo  e  il 
giglio  delle  valli,»  si  legge  nel  Cantico  dey  cantici  «il  tuo  nome  & 
un  olio  dolcissimo  ...»;« il  mio  diletto  &  un  fascetto  di  mirra .  . . » ; 
«  egli  &  un  grappolo  delle  viti  di  Cipro  . . . »;  da  mia  sposa  e  un  orto 
rinchiuso  ed  impenetrabile  . . .»,  «il  di  lui  capo  &  un  oro  purissi- 
mo  .  . . »;  «il  tuo  ombellico  k  una  tazza  tornita  . . . »;  «il  tuo  ventre 
e  un  mucchio  di  frumento . . . »,  ec.2  I  salmi  e  le  profezie  sono 
pieni  di  somiglianti  metafore  egualmente  forti,  egualmente  biz 
zarre,  e  la  loro  intrattabile  arditezza  forma  bene  spesso  il  piu 

1.  Dal  Prospetto  del  Parnaso  italiano,  ed.  cit,  n,  pp.  69-74.     2.  Cfr.  Cant., 

2,  x:  «Ego  flos  campi  et  lilium  convallium»;  i,  2:  « Oleum  effusum  nomen 
tuum»;  i,  12:  ((Fasciculus  myrrhae  dilectus  meus  mihi»;  i,  13:  «Botrus 
Cypri  dilectus  meus»;  4,  12:  «Hortus  conclusus,  soror  mea,  sponsa,  /  hor- 
tus  conclusus,  fons  signatus»;  5,  n:  «Caput  eius  aurum  optimum »;  7,  2: 
«  Umbilicus  tuus  crater  tornatilis  .  .  .  /  venter  tuus  sicut  acervus  tritici ». 


9°  FRANCESCO   TORTI 

grande  imbarazzo  degli  espositori  della  Scrittura.  Ma  che  diremo 
de*  poemi  di  Ossian,  di  quel  poeta  che  riunisce  1'ultimo  grado 
delPenergia  al  piu  dolce  patetico  deiranima,  e  le  cui  espressioni 
non  sono  pertanto  che  un  tessuto  continuo  d'iperboli  c  di  traslati, 
i  quali  presi  isolatamente  e  distaccati  da  tutto  il  resto  moverebbcro 
lo  sdegno  nel  piu  freddo  e  tranquillo  lettore?  Voi  leggcrete  nei 
suoi  versi  «la  schiatta  dell'acciaro »  per  significare  una  nazione 
armigera;  «le  tempeste  deHJacciaro»  per  dire  le  battaglie;  «il  cam- 
po  del  sole»  per  un  terreno  illuminate  dal  sole;  «le  case  frondeg- 
giantiw  per  gli  alberi  del  bosco;  wciglio  di  notte»  per  ciglio  torbido; 
«solingo  raggio  della  notte»  per  denotare  una  bella  che  ama  la 
solitudine  della  notte;  finalmente  «la  figlia  della  neve  intese,  e 
Iasci6  la  sala  del  suo  segreto  sospiro  . . . ;  amabilita  la  cingeva  come 
luce,  i  suoi  passi  erano  simili  alia  musica  de'  canti»/  Ognuno 
vede  che  tali  espressioni  metaforiche,  oltre  la  loro  urtantc  eccessi- 
vitk,  non  hanno  neppure  il  pregio  della  chiarezza,  e  per  ci6  solo 
le  metafore  di  Marini  e  Achillini  meriterebbero  forse  la  preferenza. 
Ma  qual  &  la  ragione,  io  lo  ripcto,  per  cui  noi  sperimentiamo  alia 
lettura  un  effetto  del  tutto  contrario?  Perch6  le  poesie  dci  seicen- 
tisti  ributtano  il  gusto  e  il  buon  senso,  mentre  quelle  de'  poeti 
orientali2  ci  seducono  con  tanta  forza  e  vengono  riguardate  nel 
loro  genere  come  capi  delPopera  di  stile  ? 

La  ragione  di  questa  differenza  e  semplice,  e  derivata  senza  sfor- 
20  dalla  natura  e  dal  carattere  delle  due  specie  di  poesie.  Le  me 
tafore  de'  seicentisti  non  hanno  mai  per  oggetto  Pespressione  del 
sentimento  o  Penergia  delPimmaginazione :  esse  non  cercano  che 
di  brillare  alPingcgno  e  di  sorprenderc  lo  spirito.  Se  Ciro  di  Pers 
dice  nel  principio  d'un  sonetto,  che  gli  occhi  della  sua  donna  sono 
«due  stelle  luminosc  e  ardentb,  non  i  gi£  questa  un'espressione 
che  gli  venga  strappata  dalPimpeto  della  passione,  ma  e  la  base  di 
una  fredda  allegoria  che  il  poeta  vi  fabbrica  sopra  con  aggiungere 
che  quelle  due  stelle 

gli  empir  gli  occhi  di  lumc,  e  il  sen  d'ardorc,3 

i.  Voi,  ..canti:  le  immagini  che  il  Torti  cita  ricorrono  pih  volte  nei 
poemi  di  Ossian.  2.  orientals :  e  anche,  s'intende,  nordici.  3.  Analizza 
i  primi  due  versi  del  primo  dei  sonetti  amorosi  di  Ciro  di  Pera,  clfie  suo- 
nano  esattamente:  « Mentre  due  stelle  luminose  ardenti  /  m'empier  gli 
occhi  di  lume,  il  sen  d'ardore»  (cfr.  Poesie,  Venezia,  Poletti,  1689,  par- 
te  i,  p.  3), 


PROSPETTO    DEL   PARNASO    ITALIANO  909 

Se  lo  stesso  poeta  dice  della  sua  donna  vestita  a  bruno,  che 
tra  nubi  oscure  il  mio  bel  sole  &  awolto, 

egli  non  crederk  di  avere  detto  abbastanza,  se  non  raffina  an- 
cora  il  concetto,  e  non  aggiunge,  sottilizzando,  che  il  suo  bel  sole, 
awolto  tra  le  nubi  oscure, 

minaccia  agli  occhi  altrui  pioggia  di  pianti.1 

Ora  volendo  qui  il  poeta  far  pompa  unicamente  d'ingegno  e  d'a- 
cutezza  di  spirito,  egli  c'invita  a  combatterlo  colle  sue  stesse  ar- 
mi,  ed  una  logica  migliore  ci  porrk  in  grado  di  vedere  che  il  suo 
concetto  &  falso,  ed  i  suoi  colori  male  assortiti. 

Ma  non  &  gik  cosi  delle  metafore  e  de'  colori  della  poesia  orien- 
tale.  Esse  hanno  un  altro  carattere  e  riconoscono  un'origine  ben 
diversa.  Esse  provengono  quasi  sempre  da  un  cuore  bollente  e  da 
una  fantasia  esaltata  dalla  forza  della  passione  e  daU'entusiasmo. 
Se  nelFimpeto,  nel  calore  e  nella  rapiditk  di  uno  stile  energico 
ed  animato  noi  incontriamo  talvolta  delle  figure  gigantesche  e  de' 
colori  smodati,  non  perci6  noi  risentiamo  n6  sorpresa  n<§  raffred- 
damcnto;  seguendo  il  trasporto  che  ci  trascina,  noi  pensiamo, 
noi  sentiamo  col  poeta,  che  ci  ha  penetrati  del  suo  fuoco  e  del  suo 
rapimento;  tutto  allora  ci  sembra  verisimile,  e  per  dir  meglio  na- 
turale;  e  trattandosi  di  sentirrxento  e  di  energia  d'anima,  chi  oserk 
fissarne  i  limiti  e  misurarne  Festensione?  Tutto  al  piu  noi  potrenv 
mo  esitare  per  qualche  momento  sulla  scelta  piu  o  meno  felice 
dell'esprcssione,  ma  nonpotrernmo  giammai  dimostrarne  a  noi  stes- 
si  Tesagerazionc  o  la  falsitk.  Quindi  malgrado  ci6  che  pu6  esservi 
di  smodato,  di  bizzarro  e  di  oscuro  nello  stile  orientale,  noi  conti- 
nueremo  sempre  a  commoverci,  a  sublimarci  con  Ossian,  con 
Giob,  con  Isaia,  come  all'incontro,  malgrado  il  lustro,  il  belletto 
e  la  pretensione  de'  seicentisti,  la  loro  lettura  non  potrk  neces- 
sariamente  che  inaridire  il  cuore  ed  impiccolire  lo  spirito  . . . 


i,  I  due  versi  citati  sono  i  primi  del  sonetto  intitolato  Veste  negra  (cfr. 
Poesie,  ed.  cit.,  parte  n,  p.  4). 


910  FRANCESCO   TORTI 

TOMO   III 
CAPITOLO  II 

[Moltire  e  Goldoni.]1 

.  . .  lo  so  che  i  partigiani  di  Moli&re  soffrono  mal  volentie- 
ri  in  Goldoni  un  compagno  o  un  rivale  alia  sua  gloria.  Essi  ri- 
guardano  il  comico  francese  come  il  padre  della  commedia  mo- 
derna,  e  Goldoni,  essi  dicono,  non  esisterebbe,  se  Moli&re  non 
Pavesse  preceduto.  Coloro  che  pensano  in  tal  guisa  (ed  &  la  mag- 
gior  parte  degli  oltramontani)  non  conoscono  sicuramente  abba- 
stanza  Tautore  italiano.  Noi  ci  proponiamo  in  questo  capitolo 
di  far  vedere  che  Goldoni  e  Moli&re  non  hanno  nulla  di  comune 
fra  essi;  che  i  loro  piani,  i  loro  caratteri,  il  loro  ridicolo  dif- 
feriscono  essenzialmente ;  e  che  in  conseguenza  le  loro  bellezze 
ed  i  loro  difetti  non  possono  essere  i  mcdesimi.  Da  tali  osserva- 
zioni  che  io  svolger6  rapidamente,  non  sara  mia  la  colpa  se  ne 
risultera  questa  conseguenza  importante,  cio&  che  la  commedia 
di  Goldoni,  considerata  ne'  suoi  rapporti  essenziali,  &  la  comme 
dia  la  piii  universale  e  la  piti  appropriata  d'ogni  altra  ai  costumi 
ed  al  genio  delle  nazioni  moderne  nell'epoca  del  secolo  deci- 
mottavo. 

Moli&re  trov6  la  commedia  francese  in  preda  al  falso  gu 
sto  spagnuolo,  che  si  compiaceva  con  preferenza  dell'avventure 
romanzesche  e  degli  intrecci  estremamente  complicate  Prima  di 
lui  v'erano  stati  degli  autori  in  Francia,  che  avevano  dati  de 
gli  esempi  di  qualche  buona  commedia  di  carattere,  ed  era  cele- 
bre  al  suo  tempo  in  questo  genere  il  Mentitore  del  gran  Cor- 
neille.  Moliire  ridusse  in  principio  di  gusto  ci6  che  gli  altri 
non  avevano  fatto  che  presentire  confusarnente,  e  si  ebbe  allo- 
ra  in  Francia  la  vera  commedia  di  carattere.  Ma  MoK&re  non 
trov6  ne'  costumi  del  suo  tempo  quella  finezza  di  caratteri,  quel- 

i,  Dal  Prospetto  del  Parnaso  italiano,  ed.  cit.,  n,  pp.  105-13.  II  confronto 
fra  il  Molifere  e  il  Goldoni  fe  tema  assai  comune  nella  critica  goldoniana 
setteccntesca.  Ma  non  ^  improbabile  che  il  Torti  prenda  in  particolare  lo 
spunto  da  alcune  osservazioni  contenute  nella  lettera  del  Cesarotti  al  van 
Goens,  scritta  probabilmente  ncl  mar20  1768,  e  riportata  in  questo  vo 
lume  a  p.  492. 


PROSPETTO   DEL   PARNASO   ITALIANO  9!! 

la  facilit^  di  maniere,  quella  mescolanza  di  ridicolo  e  di  de- 
cenza,  quel  contrasto  della  vanitk  e  della  politezza,  quell'ur- 
to  del  pregiudizio  colla  ragione,  che  e  il  risultato  del  raffinamento 
della  societk,  dei  progress!  della  coltura,  i  quali  vanno  del  pari 
colla  decadenza  de'  costumi.  I  Francesi  allora  sortivano  dal  tu- 
multo  delle  fazioni  e  dalla  guerra  della  Fronda:  in  conseguenza 
gli  uomini  conservavano  ancora  nel  loro  carattere  piu  di  forza  che 
di  mollezza,  piu  di  vigore  che  di  facilitk.  Da  ci6  noi  vediamo  che 
Moliere  per  rallegrare  i  suoi  uditori  e  obbligato  di  presentar  loro 
de'  tratti  di  un  ridicolo  vivo  e  caricato  che  confina  coll'eccesso ; 
i  suoi  caratteri  in  generale  hanno  piu  singolarit&  che  naturalezza; 
il  suo  avaro  e  un  avaro  d'un'avarizia  folle  e  fuori  del  verisimile;1 
il  suo  ippocrita  e  ippocrita  fino  all'affettazione  e  alia  nausea;2 
il  suo  misantropo  e  un  composto  ideale  di  stravaganza  e  di  ru- 
videzza,  un  ente  di  ragione,  un  originale  unico  e  senza  modello 
nella  societk  e  nella  natura.  Collo  stesso  pennello  sempre  calcato 
egli  ha  dipinto  i  suoi  medici,  le  sue  letterate,  i  suoi  gelosi,  ec. 

Questi  quadri  esagerati  potevano  colpire  la  immaginazione  viva 
e  impetuosa  d'un  popolo  non  ancora  ammorbidito  dal  rafEnamento 
dei  costumi;  ma  a  proporzione  che  la  societa  ha  fatto  nuovi  pro- 
gressi,  le  generazioni  seguenti  cominciarono  a  gustarli  di  meno, 
ed  infine  i  Francesi  hanno  dovuto  confessare  piu  tardi  che  il  loro 
Moliere  non  conosceva  abbastanza  il  tono  della  buona  compagnia.3 

Goldoni  alFincontro  venne  in  un  secolo  che  non  gli  permet- 
teva  di  caricare  i  suoi  quadri,  esagerando  i  vizi  e  i  difetti.  II  Mi- 
santropOj  I5 Avaro  e  la  Scuola  delle  donne,  come  li  ha  tratteggiati 
il  comico  francese,  sarebbero  stati  mal  ricevuti  dal  pubblico  di 
una  citt&  cosl  gaia,  cosl  voluttuosa,  e  di  una  societk  cosi  facile  e 


i.  L'avaro  di  Moliere,  accorgendosi  che  gli  e  stato  rubato  il  tesoro  che 
avcva  nascosto,  nella  smania  della  disperazione  afferra  se  stesso  per  un 
braccio,  e  grida:  « Rends  moi  mon  argent,  coquin  .  .  .  ah,  c'est  moi» 
[Vavare}  atto  IV,  scena  vn],  T.  2.  TartufTo  al  primo  comparire  sulla 
scena  dice  ai  suo  servitore :  « Laurent,  serrez  ma  haire  avec  ma  discipline » 
[Tartuffe,  atto  m,  scena  n],  T.  3.  Linguet,  Annales,  t,  n.  II  filosofo  ge- 
nevrino  nella  sua  celebre  lettera  sopra  i  teatri  si  esprime  cosi  in  proposito 
di  Moliere  e  di  Corneille:  «.  .  .  Le  gout  g6n6ral  ayant  change"  depuis  ces 
deux  auteurs,  si  leurs  chefs  d'oeuvres  6toient  encore  k  paroitre,  tom- 
beroient-ils  infailliblement  aujourd'hui.  Les  connoisseurs  ont  beau  les 
admirer  toujours;  si  le  public  les  admire  encore,  c'est  plus  par  honte  de 
s'en  dedire,  que  par  un  vrai  sentiment  de  leurs  beaut£s » (T.)-  Cfr.  Rousseau, 
Lettre  a  d'Alembert  (1758),  in  Oeuvres,  i,  Paris,  Hachette,  1905,  p.  189. 


912  FRANCESCO   TORTI 

cosl  amena,  come  Venezia  alia  meta  del  secolo  passato.  Gli  uo- 
mini  non  potevano  piti  dipingersi  con  tratti  troppo  forti;  con- 
veniva  impiegare  un  pennello  piu  fino  e  piili  delicato.  I  caratteri 
del  comico  nobile  si  erano  moltiplicati  in  ragione  do'  progress! 
della  politezza  e  della  coltura,  giacch6  £  un  errore  il  credere  che  il 
raffinamento  de'  costumi  impoverisca  il  mondo  d'originali  e  re- 
stringa  il  numero  e  la  varietk  delle  copie.  II  perfezionamento  della 
societa  tende  necessariamente  alFeguaglianza  de'  diritti,  o  almeno 
a  far  prevalere  Topinione  che  la  protegge :  ma  appunto  questo  ri- 
spetto  simulato  o  sentito  pel  dritti  di  tutti  pone  Tamor  proprio  di 
ciascuno  nel  piti  forte  imbarazzo,  che  lo  agita,  lo  punge,  lo  tor- 
menta,  e  fa  che  si  manifest!  in  tutte  quelle  piccole  ed  inquiete 
affezioni  dell'anima,  che  noi  chiamiamo  vanita,  presunzione,  al~ 
terigia,  egoismo,  invidia,  maldicenza,  avidita,  leggerezza,  falsa  ami- 
cizia,  falso  onore,  ec.  In  questo  caos  indefinibile  di  contradizioni  e 
di  debolezze  del  cuore  umano  &  appunto  dove  Goldoni  ha  attinto 
quelFinesausta  e  variata  moltiplicitik  di  caratteri,  di  cui  egli  ha 
arricchito  il  suo  teatro,  e  che  ha  felicemente  esposto  in  centocin- 
quanta  commedie.  Le  sue  idee  si  fecondavano  e  si  estendevano  in 
ragione  degPimmensi  materiali  che  Pocchio  solo  del  genio  gli 
faceva  osservare  sulla  scena  del  mondo.1  Egli  non  ha  cercato  come 
Moli&re  di  concentrare  il  ridicolo  in  un  solo  personaggio;  ma 
riunendo  in  una  sola  commedia  piti  original  e  piii  figure,  ch'egli 
mette  in  opposizione,  ne  ha  fatto  sortire  un  comico  pito  completo, 
pifi  vario,  piu  interessante,  piu  utile.  Voi  vedrete  per  csempio, 
nella  sua  Locandiera,  il  cavalier  di  Ripafratta,  che  si  burla  impru- 
dentemente  la  mattina  delPascendente  delle  donne  sopra  gli  uo- 
mini,  protestando  di  disprezzarle  tutte;  ebbene,  eccolo  la  sera 
divenuto  la  vittima  del  capriccio  della  locandiera  e  lo  scherno  di 
tutta  la  compagnia.  l/albagia  ridicola  del  marchese  di  Forlirn- 
popoli  6  ridotta  a  dover  confessare  di  aver  rubata  una  boccetta 
d'oro  a  questa  stessa  locandiera,  ch'egli  dice  d'amare,  per  compa- 

i, « I  due  libri  sulli  quali  ho  qui  meditato  e  di  cui  non  mi  pcntird  mai  d'cs- 
sermi  scrvito,  furono  il  mondo  cd  il  teatro.  II  primo  mi  mostra  tanti  e 
poi  tanti  caratteri  di  persone  ...  II  secondo  poi,  mentrc  io  lo  vo  maneg- 
giando,  mi  fa  conoscere  con  quali  colori  si  debban  mppresentare  sulle 
scene  i  caratteri,  le  passioni,  gli  avvenimenti,  che  ncl  libro  del  mondo  si 
leggono,  come  si  debbano  ombreggiarli »,  ec.  Prefassionc  dcll'autore  al- 
1'edizione  delle  sue  commedie  fatta  in  Bologna  nel  1753  (T.)«  2.  origina- 
li:  caratteri. 


PROSPETTO    DEL    PARNASO    ITALIANO  913 

rire  generoso  con  un'avventuriera  che  egli  non  conosce.  La  lo- 
candiera  medesima  e  vicina  a  soccombere  sotto  la  macchina  dei 
suoi  propri  artifici  per  aver  troppo  abusato  dei  doni  del  suo  sesso. 
E  tutti  questi  tratti  maestri  in  una  sola  commedia!  Ma  qual  sem- 
plicita  di  mezzi,  qual  unita  di  piano,  qual  verita  di  caratteri!  Nulla 
di  caricato  negli  originali  di  Goldoni,  nulla  di  forzato  nelle  sue 
figure  e  ne*  suoi  ritratti:  ma  nulla  ancora  di  piu  comico  e  di  piu 
grazioso  quanto  1'interesse  delle  sue  scene,  la  situazione  dei  suoi 
personaggi  e  il  risultato  delle  sue  composizioni. 

Questo  stesso  genio  d'osservazione  universale  ha  fatto  si  che 
il  di  lui  teatro  resti  popolato,  per  cosi  dire,  di  una  prodigiosa 
quantita  di  soggetti  nuovi  e  tutti  originali,  di  cui  nessun  altro 
aveva  calcolato  prima  di  lui  la  fecondita  e  1'effetto.  Mentre  il  pen- 
nello  di  Moliere  ritornava  cosi  spesso  sopra  i  medici,  i  gelosi  e 
gli  ipocondriaci,  Goldoni  ha  trasportato  sulla  scena  comica  tutte 
le  condizioni  del  genere  umano,  egli  ha  dipinto  la  natura  e  il  mon- 
do  morale  sotto  tutti  gli  aspetti  in  cui  essi  si  mostrano  nella  vita 
sociale.  Chi  ha  rivelato  piu  di  lui  e  meglio  di  lui  I'infedelta,  gPin- 
trighi,  1'avarizia  dei  servitori,  dei  fattori,  dei  subalterni?  Chi  ha 
dipinto  piu  di  lui  e  meglio  di  lui  la  vanita,  i  pregiudizi,  la  dissipa- 
zione  dej  nobili,  dei  ricchi  e  delle  persone  di  rango?  Chi  ha  pe- 
netrato  piu  a  dentro  ne'  secreti  delle  famiglie,  nei  disordini  del 
lusso,  nelle  cabale  degli  uomini  di  mondo,  nello  spirito  e  nelle 
massime  della  mercatura?  Chi  ha  sviluppato  con  piu  di  verita  e 
di  finezza  tutti  gli  umori,  le  contradizioni  e  le  debolezze  delle 
passioni  e  dei  capricci  del  cuore  umano? 

Egli  ha  portato  1'abbondanza  e  la  varieta  dei  caratteri  fino  al 
lusso  ed  alia  profusione.  Quali  tinte  e  quali  gradazioni  diver 
se  non  ha  egli  dato  talvolta  ad  un  carattere  stesso  che  sembra- 
va  non  ammettere  che  una  sola  forma  ?  Egli  ha  dipinto,  per  esem- 
pio,  Fuomo  prodigo  e  dissipatore;  ma  egli  lo  ha  rappresenta- 
to  sotto  una  moltitudine  di  tratti  che  differiscono  caratteristica- 
mente  gli  uni  dagli  altri.  Voi  distinguerete  nelle  sue  commedie  il 
prodigo  per  vanita  dal  prodigo  per  inclinazione ;  il  prodigo  per 
dissolutezza  dal  prodigo  per  liberalita;  il  prodigo  per  emulazione 
dal  prodigo  per  balordaggine,  ec.  Qual  differenza  fra  la  ccbuona 
moglie  »,  e  la  «  moglie  saggia  »,  fra  il  «  padre  di  famiglia  »  e  il  «  padre 
prudente»,  fra  il  «  cavalier  di  spirito  »  e  il  «  cavalier  di  buon  gusto », 
fra  r«apatista»  e  l'«egoista»,  ec.! 

58 


9*4  FRANCESCO   TORTI 

CAPITOLO  IV 
[Uarte  del  Parini.]1 

.  . .  Un'arte  infinita  suppliva  in  Parini  alia  natura;  c  disce- 
polo  attaccatissimo  d'Orazio  egli  riuniva  alia  profonda  medita- 
zione  de'  classici  antichi  la  piu  severa  ed  ostinata  correzione  del 
suo  stile  e  della  sua  dizione. 

Lo  spirito  di  Parini  in  questo  poema  era  almeno  animato 
da  un  sentimento  utilc,  morale  e  tendente  al  bene  della  patria 
e  dell'umanitk.  Lo  spettacolo  di  questi  esseri  inutili,  vani,  ozio- 
si  ed  effemminati,  di  quelle  vittime  illustri  della  noia  e  della  mol- 
lezza,  tanto  moltiplicati  nel  secolo  passato  e  conosciuti  in  Italia 
sotto  il  nome  di  «cavalieri  serventi)),  lo  spettacolo,  io  dico,  di 
questi  esseri  perniciosi  e  antisociali,  risultato  infelice  della  debolez- 
za  e  delle  cattive  leggi  djun  governo,  irrit6  giustamcntc  la  nobile 
indegnazione  ed  il  retto  buon  senso  del  poeta  insubre.  Egli  voile 
rendersi  interessante  al  pubblico,  e  forse  ad  essi  medesimi,  colla 
pittura  de*  loro  vizi,  o  piuttosto  della  loro  vera  miseria.  Parini 
prende  allora  in  mano  la  pcnna,  e  ponendosi  al  fianco  di  uno  di 
questi  giovani  eroi  lo  persiegue  passo  passo  in  tutto  il  corso 
della  sua  giornata,  e  va  dettagliando  a  lui  stesso  le  frivole  e  mi- 
serabili  occupazioni  che  formano  il  circolo  penoso  della  sua  esi- 
stenza  giornaliera. 

Tale  6  il  soggetto  intorno  al  quale  si  &  occupato  Pautore  deile 
quattro  parti  del  Giorno^  divisc  in  quattro  diverse  dimension!, 
che  compongono  un  poema  di  circa  quattro  mila  versi.  In  quanto 
all'esecuzione  del  soggetto  medesimo,  esecuzione  che  forma  il  prez- 
zo  principale  delFopera,  ci6  merita  un  esamc  particolare,  che  sar& 
Poggetto  di  questo  capitolo. 

L'autore  del  Mattino  credette  che  i  raffinamenti  del  lusso,  1'im- 
pero  della  moda  e  il  trionfo  delia  mollezza,  presentati  in  un  punto 
di  vista  che  ricevessero  il  suo  lume  dal  colorito  degli  oggetti  me 
desimi  i  quali  ne  formano  1'immcnso  materiale,  potcssero  for- 
nire  un  tema  fecondo  e  un  campo  spazioso  ai  tratti  vivaci  di  un 
pennello  ammaestrato  nella  scuola  di  quella  specie  di  gusto,  ch'era 
giJi  in  possesso  di  prevalere  in  Italia  all'epoca  in  cui  egli  si  prepari 

i,  Dal  Prospetto  del  Parnaso  italiano,  ed.  cit.,  in,  pp.  182-^01. 


PROSPETTO   DEL   PARNASO   ITALIANO  915 

a  scrivere.  Frugoni  aveva  cantato  sulla  lira  d'Orazio  gli  ortaggi, 
la  cioccolata,  i  piccoli  cani,  le  nozze,  le  convalescenze,  le  febbri, 
le  lauree  dottorali,  ec.;  perche,  avra  detto  Parini,  non  sarebbero 
suscettibili  dello  stesso  elegante  contorno  le  follie  della  moda, 
gli  studi  della  toletta,  le  bizzarie  del  lusso,  i  cocchi,  i  cibi,  le 
mense,  i  giuochi,  le  occupazioni  insomma  del  mondo  galante? 

Tutta  volta  non  sarebbe  possibile  die  Parini  si  fosse  ingan- 
nato  in  questa  parte  della  teoria  del  gusto  e  nelle  sue  pratiche 
conseguenze?  Senza  dubbio  i  generi  del  bello  nelle  arti  possono 
esser  nuovi  e  variabili  airinfinito;  io  ne  convengo:  ma  ciascuno 
di  questi  generi  ha  il  suo  carattere  particolare  che  lo  distingue 
da  tutti  gli  altri,  e  non  permette  che  si  confondano  insieme.  I  piu 
fmitimi  non  sono  per6  meno  distinti  e  separabili  fra  loro,  ed  occu- 
pando  ciascuno  una  linea  speciale  contrassegnata  dalla  natura  e 
dalla  ragione,  niuno  potrebbe  sforzare  questi  limiti  senza  cadere 
nella  confusione  e  nel  disordine.  Frugoni  ed  Orazio  hanno  trat- 
tato  nelle  loro  odi  i  piu  piccoli,  i  piu  frivoli  oggetti  mediante  il 
delirio1  del  momento  e  la  liberta  della  lirica:  ma  queste  odi  cosl 
varie  nel  loro  argomento  e  nel  loro  metro  erano  contenute  entro 
i  confini  di  una  certa  brevitk  prescritta  dal  genere  stesso,  senza  la 
quale  avrebbe  generato  in  chi  legge  la  sazieta  e  la  stanchezza.  Ora 
il  trasportare  nel  genere  narrative  e  didascalico  la  sublimita,  il 
brillante,  il  giro  licenzioso  dell'ode  lirica,  ci6  non  e  piu  creare  un 
nuovo  genere  di  poesia,  ma  confondere  e  imbastardire  quelli  che 
g&  si  conoscono ;  ci6  sarebbe  un  violentare  il  genio  caratteristico  e 
quasi  opposto  di  due  componimenti  di  specie  diversa;  ci6  sarebbe 
in  somma  ridurre  il  poema  ad  una  filza  d'odi  liriche  cucite  insie 
me,  ovvero  dare  alFode  lirica  Pordine,  la  prolissit&  e  la  mole  del 
poema. 

II  Mattino,  colle  tre  parti  che  lo  sieguono,  6  un  poema  del 
genere  narrativo  e  didascalico.  II  soggetto  del  poema  &  la  vita 
orgogliosamente  molle  degli  eroi  della  moda.  L'ironia  che  vi  re- 
gna  ed  i  pretesi  precetti  del  costume  galante,  che  vi  sono  detta- 
gliati,  ne  formano  Tinteresse.  Gli  apologhi  e  le  favolette,  che 
ha  saputo  introdurvi  il  poeta,  ne  somministrano  gli  episodi  ed  il 
maraviglioso.  Finalmente  il  contrasto  che  risulta  fra  i  doveri  so- 
ciali  deiruomo  e  Tozio  fastoso  di  una  classe  di  persone  che  si 
fanno  un  gioco  di  sovvertirne  le  leggi,  il  colpo  d'occhio  di  questo 
i.  delirio:  entusiasmo. 


9*6  FRANCESCO   TORTI 

strano  contraposto  delFordine  civile  tiene  luogo  nel  poema  dclla 
parte  della  morale  e  del  costume.  II  Mattino  non  6  puramente 
una  satira,  come  taluni  pretendono.  Bisogna  distinguere  Foggetto 
d'una  produzione  dal  genere  ch'essa  occupa  nella  classe  dell'opere 
di  letteratura.  II  Don  Chisdotte  di  Cervantes  &  una  satira  grazio- 
sissima  delFantica  cavalleria;  ma  questo  libro  non  cessa  di  appar- 
tenere  alia  classe  dei  romanzi,  ed  ogni  uomo  di  buon  senso  lo 
riguarda  come  tale.  II  Telemaco  di  F£n£lon  &  una  eccellente  istru- 
sdone  di  morale  e  di  politica;  ma  questo  libro  &  un  vero  poema, 
ed  ha  tutte  le  qualitk  essenziali  per  questo  genere  di  compo- 
nimenti. 

Sarebbe  dunque  ben  difficile  Paccordare  insieme  il  tuono  gra- 
duato  e  narrative  di  un  poema  qualunque  colle  frequent!  escur- 
sioni1  liriche  chc  si  permette  Tautore  del  Mattino.  Dopo  la  ra~ 
gionevole  esposizione,  ch'egli  fa  del  suo  soggetto  in  questi  versi: 

Giovin  signore,  o  a  te  scenda  per  lung® 
di  magnanimi  lombi  ordine  il  sangue 
purissimo,  celeste;  o  in  te  del  sangue 
emendino  il  dffetto  i  compri  onori 
e  le  adunate  in  terra  o  in  mar  ricchesze 
dal  genitor  frugale  in  pochi  lustri, 
me  precettor  d'amabil  rito  ascolta. 
Come  ingannar  questi  noiosi  e  lend 
giorni  di  vita,  cut  si  lungo  tedio 
e  fastidio  insqffribile  accompagna> 
or  io  t'insegner6.  Quali  al  mattinot 
quai  dopo  il  messto  dlt  quali  la  sera 
esser  debban  tue  cure  apprenderai, 
se  in  mezzo  agli  o%i  tuoi  osio  ti  resta 
pur  df  tender  gli  orecchi  c£  versi  mieiz .  .  . 

dopo  un  principio  cosl  modesto  e  tranquillo,  come  potranno 
sembrarci  natural!  ed  analoghe  le  miniature  brillanti,  Timmagi- 
ni  liriche,  le  perifrasi  studiate,  chc  si  succedono  ncl  corso  del 
poema  senza  interruzione  ?  Come  non  riconosceremo,  per  esempio, 
un  lusso  troppo  raffinato  di  colori  nella  descrizione  del  mattino  ? 

Sorge  il  mattino  in  compagnia  deWalba 
innanzi  al  sol,  che  di  poi  grande  appare 
sulVestremo  oriszonte  a  render  lieti 

i.  escunioni:  digression!.    2.  II  mattino,  1-15, 


PROSPETTO    DEL    PARNASO    ITALIANO  917 

gli  animali,  le  piante,  i  campi  e  Vonde. 

Allora  it  buon  villan  sorge  dal  caro 

lettOj  cui  la  fedel  sposa  e  i  minor  i 

suoi  figlioletti  intiepidir  la  notte; 

poi,  sul  capo  recando  i  sacri  arnesi, 

che  prima  ritrovar  Cerere  e  Pale, 

va  col  bue  lento  innanzi,  al  campo,  e  scuote 

lungo  il  picciol  sentier  dai  curvi  rami 

il  rugiadoso  umor  che,  quasi  gemma, 

i  nascenti  del  sol  raggi  rifrange. 

Allora  sorge  il  fabro,  e  la  sonante 

officina  riapre,  ec.1 

Tante  minute  particolarizzazioni,  tante  lucide  pennellate,  ch'e- 
gli  da  ad  un  solo  e  medesimo  oggetto,  «il  letto  intiepidito  dalla 
fedele  sposa »,  «i  sacri  arnesi  ritrovati  da  Cerere  e  Pale»,  «il  bue 
lento,  che  va  innanzi)),  «le  gemme  rugiadose  che  rifrangono  i 
raggi  nascenti  del  sole»,  tutto  questo  non  &  piu  uno  squarcio  di 
poemetto,  ma  un'ambiziosa  strofa  lirica  inserita  nel  componi- 
mento  per  solo  desiderio  d'abbellire  e  sorprendere.  Orazio  me 
desimo,  malgrado  i  suoi  dritti  di  poeta  lirico,  ,&  piu  riservato 
nella  pittura  inversa,  sebbene  analoga,  ch'egli  fa  della  sera  rusti- 
cale  nelPode  6,  lib.  3 : 

proles,  sabellis  docta  ligonibus 
versare  glebas,  et  severae 

matris  ad  arbitrium  recisos 
portare  fustes,  sol  ubi  montium 
mutaret  umbras  et  iuga  demeret 
bobus  fatigatis,  amicum 

tempus  agens  abeunte  curru,2 

E  le  similitudini  di  Parini  non  sono  esse  altrettanti  slanci  di 
fantasia  ditirambica,  che  scorre  sopra  gli  oggetti  piu  lontani  ed 
i  piu  disparati  dalPidea  principale?  Se  il  giovane  eroe  viene  rap- 
presentato  che  scorre  in  carrozza  le  strade  della  citta  in  tempo 
di  notte  col  lume  delle  fiaccole,  ecco  che  il  poeta  fa  venire  in 
campo  Plutone,  il  suo  carro  e  le  Furie : 

i.  II  mattino,  33-47.  2.  Carm.,  in,  vi,  38-44  (« prole  esperta  nel  rivolta- 
re  le  zolle  con  le  zappe  sabine,  e  nel  trasportare  i  tronchi  recisi  sotto 
la  direzione  della  severa  madre,  ogni  volta  che  il  sole  allungava  le  ombre 
dei  monti  e  toglieva  i  gioghi  ai  buoi  affaticati,  portando  con  Pallontanarsi 
del  suo  carro  il  tempo  gradito  della  notte »). 


918  FRANCESCO   TORTI 

.  .  .  e>  stance  al  fine, 
in  aureo  cocchio,  col  fragor  di  calde 
precipitose  rote  e  il  calpestio 
de*  volanti  corsier,  lunge  agitasti 
il  queto  aere  notturno,  e  le  tenebre 
con  fiaccole  superbe  intorno  apristi; 
siccome  allor  che  il  siculo  terreno 
dalVuno  alValtro  mar  nmbombar  feo 
Pluto  col  carro,  a  cui  splendeano  innanxi 
le  tede  delle  Furie  anguicrinitc.1 

Se  il  cuoco  francese  prepara  il  pranzo  dei  suoi  padroni  ben 
tosto  Acbille,  Patroclo  e  Automedonte  vengono  ad  illustrare  la 
cucina  del  cuoco  francese: 

Forse  con  tanta  maestade  in  fronte, 
presso  a  le  navi,  ond'Ilio  arse  e  cadeo, 
per  gli  ospiti  famosi  il  grande  Achille 
disegnava  la  cena;  e  seco  intanto 
le  vivande  cocean  su  lentifochi 
Patroclo  fido  e  il  guidator  di  carri 
Automedonte2' .  .  . 

Se  il  marito  della  dama  rende  conto  agli  amici  della  disgustosa 
rottura  sopravvenuta  fra  essa  ed  il  suo  cavaliere,  il  paragone  e 
preso  fra  i  piu  reconditi  aneddoti  della  favola  e  della  mitologia: 

Tal  sulle  scene,  ove  agitar  solea 

Vombre  tinte  di  sangue  Argo  piangente, 

squalhdo  messo  al  palpitante  coro 

narrava  come  furiando  Edipo 

al  talamo  corresse  incestuoso; 

come  le  porte  rovescionne,  e  come 

al  subito  spettacoto  ristette, 

quando  vicina  del  nefando  letto 

vide  in  un  corpo  solo  e  sposa  e  madre 

pender  strosxata;  e  del  fatal  uncino 

le  mani  armossi;  e  colle  proprie  mani 

a  $4  le  care  luci  della  testa 

colle  man  proprie,  misero!  strappossi,^ 

N6  si  dica  che  Tampolloso  di  queste  comparazioni  vi  e  posto 
unicamente  per  rilevare  il  ridicolo  de'  frivoli  oggetti  cui  esse  si 
rapportano.  II  ridicolo  ha  sempre  bisogno  di  una  ccrta  artificiosa 

i.  Ilmattino,  67-76.     2.  Ilmezzogiorno,  214-20.     3,  Ilmezxogiorno,  808-20, 


PROSPETTO   DEL   PARNASO   ITALIANO  919 

insinuazione  che  ne  prepari  1'effetto;  e  Pimmagine  accessoria  che 
lo  risveglia  non  dee  mai  primeggiare  sulPidea  dominante,  e  can- 
cellarne  I'impressione.  AlFopposto  le  comparazioni  di  Parini  sono 
tanti  quadri  ritoccati  e  fi.ni.ti,  che  ci  sorprendono  considerate  iso- 
latamente,  e  fanno  che  si  perda  di  vista  il  primo  oggetto  delPautore. 
Questo  poema  e  seminato  di  una  quantita  di  similitudini  etero- 
genee,  che  nulPaltro  annunciano  fuorch.6  la  smania  di  esser  pro- 
digo  in  ornamenti.  Qual  rapporto,  per  esempio,  fra  la  dama  ob- 
bligata  a  rendere  i  suoi  doveri  coniugali  al  marito,  ed  una  sem- 
plice  villanella,  che  si  spaventa  alia  vista  d'un  serpe  ?  lo  ne  lascio 
giudici  i  mariti  medesimi 

.  .  .  Oh  come  spesso 
la  dama  delicata  invoca  il  Sonno 
che  al  talamo  presieda,  e  seco  invece 
trova  Imeneo!  E  stupida  rimane 
quasi  al  meriggio  stanca  villanella 
che  tra  Verbe  innocenti  adagia  il  fianco 
queta  e  sicura;  e  d'improvviso  vede 
un  serpe;  e  balza  in  piedi  inorridita; 
e  le  rigide  man  stende>  e  ritragge 
il  gomito,  e  Vanelito  sospende; 
e  immota  e  muta  e  colle  labbra  aperte 
obliquamente  il  guarda!1  .  .  . 

Nulla  per6  prova  meglio  Pincompetenza  delPescursioni  liri- 
che  cui  si  abbandona  Tauter  del  Mattinoy  quanto  i  frequenti  ri- 
torni  ch'egli  e  costretto  a  fare  d'onde  e  partito  per  riprender 
Pordine  della  sua  narrativa.  Dopo  le  piu  elaborate  descrizioni, 
dopo  i  piu  sontuosi  tratti  di  stile  noi  siamo  obbligati  a  sopportare 
troppo  spesso  la  ripetizione  di  quelle  fredde  riprese,  di  quelle 
prosaiche  transazioni,  che  smentiscono  in  un  tratto  il  tuono  for- 
zato  di  tutto  il  resto.  Quindi  noi  incontriamo  passo  passo : 

Cosl  tornasti  alia  magion;  ma  quivi ,  .  . 
Gi&  i  valletti  gentili  udir  lo  sqmllo  .  .  . 
Ma  gi&  il  ben  pettinato  entrar  di  nuovo  .  .  . 
Ma  non  attenda  gi£  ctialtri  Vannunci  .  .  , 
Ma  gi&  vegg'io  che  Voziose  lane .  . , 
Gia  la  dama  gentil,  de'  cui  bei  lacci .  .  . 
Assai  pensasti  a  te  medesmo.  Or  volgi .  ,  , 
Cosi  giova  sperar.  Tu  volgi  intanto  .  , . 

i.  II  mezxogiorno,  416-27. 


920  FRANCESCO   TORT! 

Or  dunque  £  tempo  che  il  piu  fido  servo  .  . . 
Or  dunque  ammaestrato  a  quali  e  quanti ,  .  . 
Ma  gili  tre  volte  &  quattro  il  mio  signore  .  . . 
Ma  sc  la  sposa  altrui  cam  al  signore  .  .  , 
Jo  breve  a  te  parlai:  ma  non  pertanto  .  .  , 
Or,  signor,  a  te  riedo :  ah  non  fia  colpa  .  .  . 
Or  tu  adunque,  o  signer y  tu  che  sei  il  primo  ,  .  . 
Ci6  ti  basti  per  or,  ma  Voriolo  .  . . 
Or  vanne,  o  mio  signor,  e  il  pranzo  allegro1  ,  ,  . 

Questi  versi  ed  altri  molti  per  necessity  triviali,  e  che  servono 
come  di  cemento  e  di  attacco  ai  lavori  isolati  di  un  pennello  troppo 
invaghito  di  se  medesimo  e  de'  fiori  che  sparge  nel  suo  cammino, 
questi  versi,  io  dico,  formano  essi  soli  la  condanna  del  nuovo 
genere,  e  ci  convincono  sempre  piti  che  un  soggetto  di  qualche 
estensione,  il  quale  somministra  materia  a  quattro  mila  versi,  non 
pu6  essere  trattato  senza  inconveniente  come  una  lirica  canzone. 
L/arte  della  poesia,  io  lo  ripeto,  ha  i  suoi  principii  posati  dalla 
natura  medesima;  e  questi  principii  non  possono  esser  tiranneg- 
giati,  senza  che  i  prodotti  dell'arte  non  risentano  i  tristi  effetti 
della  loro  contravenzione.2 

La  smania  di  atteggiar  sempre  le  cose  con  vivaciti,  e  di  dare 
a  tutti  gli  oggetti  una  vernice  elegante,  ha  obbligato  Parini  a 
rivestire  i  suoi  versi  delle  immagini  dell'antica  mitologia,  e  ad  im- 
prontare  da  essa  Pidee,  le  forme,  il  linguaggio,  il  costume,  Inebria- 
to  del  gusto  d'Orazio  e  dej  classici  latini,  egli  ha  voluto  traspor- 
tare  nei  suoi  versi  i  loro  dei,  le  loro  favole,  la  loro  teologia,  le 
loro  opinioni,  le  loro  frasi,  il  loro  colorito,  Leggendo  il  suo  pocma 
bisogna  dubitare  con  ragione  che  egli  ha  voluto  veramente  par- 
lare  ai  figli  della  moderna  Italia  ovvero  ai  cittadini  delPantica  Roma. 
Questo  strano  anacronismo  d'idee  e  di  costumi  viene  portato  dal- 
Pautore  ad  un  eccesso  troppo  inoltrato  perch6  esso  non  sappia 
soverchiamente  di  scuola  c  di  pedanteria.  Scrivendo  in  tal  guisa, 
come  poteva  egli  lusingarsi  d' essere  inteso  e  gustato  da  coloro 
medcsimi  ch'erano  il  primo  oggetto  della  sua  satira?  Non  i  essa 
una  affettazione  troppo  ridicola  quella  di  non  potere  scrivere  un 
verso  che  non  sia  spruzzato  d'erudizione  greca  o  latina  ?  Chi  inten- 

i.ll  mattino,  77,  101,  125,  169,  244,  404,  ^75,  395,  410,  455,  475,  499, 
512,  566,  772,  1026,  1054.  Nel  penultimo  esernpio  il  Parini  dice  «gia» 
invece  di  ma,  2*  contraventions:  trasgrcssione. 


PROSPETTO   DEL   PARNASO    ITALIANO  921 

dera  qualche  volta  ci6  che  il  poeta  vuol  dire  ?  Per  esprimere  che  il 
giovane  eroe  non  deve  essere  sveglio  se  non  a  giorno  inoltrato, 
Parini  dice: 

Dritto  &  percto  che  a  te  gli  stanchi  sensi 
non  sciolga  da*  papaveri  tenaci 
Morfeo  prima  che  gia  grande  il  giorno 
tenti  di  penetrar  fra  gli  spiragli 
delle  dorate  imposte1  .  .  . 

In  altro  luogo  uno  de'  servi  del  giovane  cavaliere  &  mandate  al 
palazzo  della  dama  per  sapere 

.  .  .  se  d'immagin  liete 
le  fu  Morfeo  cortese.2 

Altrove,  parlando  del  ritorno  dell'eroe  dai  viaggi  di  Francia  e 
d'Inghilterra,  il  poeta  dice  a  lui  medesimo: 

Gia  /'are  a  Vener  sacre  e  al  giocatore 
Mercurio  nelle  Gallie  e  in  Albione 
devotamente  hai  visitate^  .  .  . 

Altrove  egli  dirk: 

O  beati  tra  gli  altri,  o  cari  al  cielo 
viventi,  a  cui  con  miglior  man  Titano 
formd  gli  organi  illustri!* .  .  . 


In  altro  luogo: 


.  .  .  ma  alle  grand* aline, 
di  troppo  agevol  ben  schife,  Cillenio 
il  comodo  presenti,  a  cui  le  ndglia 
pregio  acquistano  e  I'oro5  .  .  . 


In  altro  luogo  ancora: 


Male  a  Giuno  ed  a  Pallade-Minerva 
e  a  Cinzia  e  a  Citerea  mischiarvi  osate 
voi  pettorute  Naiadi  e  Napee, 


I.  II  mattino,  90-4.     2.  //  mattino,  413-4.     3.  //  mattino,  16-8.     4.  //  mez- 
zogiorno>  298-300.     5.  //  mezzogiorno,  686-9. 


922  FRANCESCO   TORTI 

vane  di  picciol  fonte  e  d' umil  selva; 
che  agli  Egipani  vostri  in  guardia  diede 
Giove  dall'alto1  .  .  . 

Ma  ci6  non  &  tutto.  Per  rendere  piu  complctamente  miste- 
rioso  questo  linguaggio,  o  piuttosto  questo  gergo  scolastico,  I'au- 
tore  del  Mattino  ha  tentato  di  snaturare  il  nostro  idioma  c  d'im- 
prontarlo  delle  forme  e  delle  maniere  della  lingua  latina,  traspor- 
tandone  i  vocaboli  o  imitandoli  forzatamente  dall'idioma  dcirantico 
Lazio.  Quindi  egli  si  far&  scrupolosamentc  una  legge  di  scrivcre 
ogni  volta  antiquo  per  antico,  vulgo  per  volgo>  leve  per  lieve,  bona 
per  buona,  obietto  per  oggetto,  subbietto  per  soggetto,  ec.  Egli  diri 
piu  che  gli  sark  possibile  Enotria,  Esperia,  Ausonia  invece  $ltdia\ 
egli  incastrerk  nei  suoi  versi,  come  altrettante  gemme  preziose,  i 
latinismi  adipe,  testudo,  ignavo,  fedo,  immane>  lene,  ebete,  formosot 
innocno,  labendo,  late,  dapiy  truculento,  inane,  ec.  Qual  mania  pue 
rile  di  avere  I'aria  latina  anche  rxel  suono  materialc  delle  parole! 
Non  &  questo  un  raddoppiare  la  pena  del  lettore  per  non  essere 
inteso  in  uno  stile  abbastanza  rigido,  intralciato  e  tormentato  ogni 
momento  dalla  severitk  di  una  lima  implacabile?  Non  &  questo 
un  soffocare  piu  che  mai  la  facilita,  la  dolcezza,  rinsinuarfone 
dello  stile  e  la  vera  ispirazione  della  natura,  che  sole  possono  ren 
dere  raccomandabili  le  produzioni  poetiche  e  collocarle  al  di  sopra 
delle  rivoluzioni  del  tempo  e  del  gusto? 

Le  belle  descrizioni  sono  di  qualche  merito  in  poesia;  ma 
quando  esse  si  allontanano  dal  fondo  principale,  quando  esse 
fanno  perder  di  vista  quello  scarso  interessc  che  pu6  dare  il  sog- 
getto  o  il  sentimento  che  vi  domina,  queste  descrizioni  dovreb- 
bero  allora  esser  soppresse,  e  la  loro  stessa  bellezza  diverrebbe  un 
difetto  di  piu.  £  d'uopo  ch*io  citi  spesso  degli  esempi  per  giusti- 
ficare  al  lettore  le  mie  opinioni,  ed  io  non  ho  trascurato  di  farlo  in 
tutto  questo  capitolo.  Osservate  dunque  il  poema  in  questione, 
e  vedretc  Teroe  della  moda,  che  siede  gravemente  alia  toletta; 

.  .  .  Or  egli,  avvolto  in  lino 
candido,  siede.  Avanti  a  lui  lo  specchio 
altero  sembra  di  raccdr  net  seno 
Vimmagin  diva,  e  stassi  agli  occhi  suoi 

i.  //  vespro,  4.21-6. 


PROSPETTO   DEL   PARNASO   ITALIANO  923 

sever o  esplorator  delta  tua  mano, 
o  di  bel  crin  volubile  architetto.1 

Tutto  questo  e  bello  e  giudizioso.  Ma  perch6  indebolire  Tirritante 
impressione  di  questo  quadro  ironico  con  delle  immaginette  de 
licate,  con  delle  pitturine  accessorie  che  amenizzano  il  quadro  e 
rapiscono  per  preferenza  tutta  Pattenzione  del  lettore  ?  Perch6  ag- 
giungere  al  tratto  superiore  i  seguenti  versi? 

Mille  d'intorno  a  lui  volano  odori, 
che  alle  varie  manteche  ama  rapire 
I'auretta  dolce,  intorno  ai  vasi  ungendo 
le  leggerissime  all  di  far j alia. 
Tu  chiedi  in  prima  a  lui  qual  piu  gli  aggrada 
sparger  sul  crin,  se  il  gelsomino,  o  il  biondo 
fior  d'arancio  piuttosto,  o  la  giunchiglia, 
o  Vambra  preziosa  agli  am  nostri.2 

Se  qualche  intimo  conoscitore  del  vero  bello  poetico  volesse 
applicare  a  questa  e  ad  altre  simili  vaghezze  di  pennello  la  impor- 
tantissima  osservazione  d'Orazio,  avrebbe  egli  torto? 

.  .  .  ungues 

exprimet,  et  molles  imitabitur  aere  capillos> 
infelix  operis  summa,  quia  ponere  totum 
nesciefi  ,  .  . 

L'ironia  satirica,  che  forma  il  piccante  del  componimento,  e  so- 
vente  troppo  debole  e  troppo  nascosta  per  esser  sentita,  o  si  per- 
de  e  svanisce  fra  il  vortice  delle  frasi  e  delle  immagini  accessorie, 
chiamatevi  unicamente  dal  poeta  per  abbellire  e  sedurre.  Inoltre 
Tironia,  che  consiste  in  un  senso  mordace  tutto  contrario  alle 
parole  che  lo  fanno  sentire,  ristucca  e  confonde  il  lettore,  quando 
il  suo  uso  e  soverchiamente  prolungato ;  e  ciascuno  sente  nel  caso 
nostro  che  dopo  la  metk  del  poema  le  sue  punture  perdono  sempre 
piii  della  loro  grazia  e  della  loro  vivezza;  cosicch6,  quando  sia- 
mo  pervenuti  alia  Notte,  il  poema  riesce  d'una  freddezza  quasi 
insoffribile.  Da  ci6  accade  che  talvolta  non  comprendiamo  se 

i.//  mattino,  485-90.  z.Ilmattino,  491-8.  ^.Ars  poet.,  32-5  (« render^ 
bene  nel  bronzo  i  particolari  delle  ungbie  e  del  morbidi  capelli,  ma  sara 
poi  sempre  un  disgrazxato  neirinsieme  dell'opera,  poich6  non  sapra  pla- 
smare  il  tutto »). 


9H  FRANCESCO   TORTI 

Tautore  parli  col  sentimento  di  questa  figura  o  con  quello  ciclla 
verita.  Si  ha  un  bel  dire  che  Pintenzione  secreta  delFautore  6  di 
burlarsi  del  suo  eroe.  I  luminosi  vantaggi  della  nascita  e  della 
ricchezza  vi  sono  espressi  talvolta  con  un  linguaggio  cos!  magni- 
fico  che  ognuno  sarebbe  tentato  di  cambiare  la  propria  sorte  con 
quella  del  personaggio  deriso.  Tale  6  forse  il  sentimento  che  si 
risveglia  nel  nostro  spirito  alia  lettura  del  tratto  segucnte: 

Ma  degli  augelli  e  delle  fere  il  giorno 
e  de*  pesci  sguammosi  e  delle  piante 
e  delVumana  plebe  al  suo  fin  corre. 

Gia  da*  maggiori  colli  e  dalVeccelse 
rocche  il  sol  manda  gli  ultimi  saluti 
all1  Italia  fuggente;  e  par  che  brami 
rivederti,  o  signor,  prima  che  VAlpe 
o  VAppennino  o  il  mar  curvo  ti  celi 
agli  occhi  moi.  Altro  finor  -non  vide 
che  di  falcate  mietitore  i  fianchi 
sulle  campagne  tue  piegati  e  lassi, 
e  sulle  armate  mura  or  braccia,  or  spalh 
car  che  diferro,  e  su  l*aeree  capre 
degli  edifisti  tuoi  man  scabre  e  arsicce, 
e  villan  poluerosi  innanzi  ai  carri 
gravi  del  tuo  ricolto,  e  su  i  canali 
e  su  i  fertili  laghi  irsuti  petti 
di  remigante  che  le  alterne  merci 
a*  tuoi  comodi  guida  ed  al  tuo  lusso; 
tutti  ignobili  aspettL  Or  colui  vegga 
che  da  tutti  servito  a  nullo  serve,1 

Quest'ultimo  verso  semplicemente  sarebbe  stato  forse  proprio 
ad  eccitare  Tinvidia  nel  petto  di  Cesare  e  d'Alessandro;  non  sara 
dunque  scusabile  un  semplice  particolarea  che  legge,  se  ne  riscnte 
la  stessa  impressione  ? . .  . 


1. 11  ve$pro>  1-3  e  8-25.     2,  particolare:  uomo  private. 


FRANCESCO  SAVERIO  SALFI 


NOTA  INTRODUTTIVA 


Nella  formazione  politica  e  culturale  del  Salfi  non  &  senza  im- 
portanza  il  fatto  che  egli  sia  nato  (il  i°  gennaio  1759)  e  abbia 
ricevuto  la  sua  prima  educazione,  a  Cosenza,  in  una  citta,  cio6, 
dove  le  idee  illuministiche  avevano  trovato  un  terreno  partico- 
larmente  favorevole  nella  locale,  e  piu  generalmente  calabrese, 
tradizione  di  pensiero,  costituitasi  col  Telesio,  col  Campanella, 
con  Antonio  Serra,  col  Gravina,  e  mantenuta  viva  da  un  piccolo  ma 
attivo  gruppo  comprendente  Pietro  Clausi,  filosofo  e  matematico 
formatosi  alia  scuola  del  Genovesi,  Giuseppe  Spiriti,  nipote  di 
Salvatore,  autore  di  opuscoli  antipapali,  Domenico  Bisceglia,  che 
verrii  giustiziato  a  Napoli  nel  1799,  Nicola  Zupo  e  altri « libertini ». 
Per  quanto  awiato  fin  dall'infanzia  alia  carriera  ecclesiastica,  il 
giovane  Salfi  entra  ben  presto  in  relazione  con  questo  gruppo: 
discepolo  del  Clausi  e  amico  dello  Spiriti,  del  Bisceglia,  dello 
Zupo,  egli  ne  condivide  apertamente  le  idee,  suscitandosi  cosl 
rostilitk  degli  ambienti  conservatori  di  Cosenza.  Questa  ostilitk 
non  impedisce  la  sua  consacrazione  a  sacerdote  (awenuta,  a  quan 
to  pare,  verso  il  1782),  ma  certo  contribuisce,  insieme  al  naturale 
desiderio  di  uscire  dalla  provincia,  alia  sua  decisione  di  recarsi  a 
Napoli,  dove  si  stabilised  nel  1785. 

Nei  fecondi  contatti  con  la  piu  vivace  e  avanzata  cultura  con- 
temporanea  napoletana  -  sappiamo  che  egli  conobbe  personal- 
mente  il  Filangieri,  il  Pagano,  la  Pimentel,  il  Serio,  il  Palmieri  - 
Tiniziale  orientamento  illuministico  del  Salfi  si  consolida  e  si  ma- 
tura.  La  sua  partecipazione  ai  temi  piu  dibattuti  negli  ambienti 
illuministici  napoletani  &  documentata  anzitutto  da  un  gruppo  di 
opere  che  si  riferiscono  alia  polemica  contro  le  pretese  del  papato 
sul  regno  di  Napoli  e  in  genere  contro  il  temporalismo  ecclesia- 
stico :  tali  sono  non  soltanto  VAllocuzione  del  cardinale  N.  N.  al 
papa,  e  le  Riflessioni  sulla  corte  romana,  pubblicate  intorno  al  1788 
e  che  ebbero  risonanza  anche  fuori  d' Italia,  ma  pure  alcune  trage- 
die  come  il  Corradino  (1790)  e  le  inedite  Giovanna  I,  Lo  spettro  di 
Tecmessa  e  Rnzia,  nonch£  i  melodrammi  Idomeneo  (i792)  e  Saul 
(1794).  Piu  interessanti  tuttavia  appaiono  altri  scritti,  in  cui  il 
Salfi  affronta,  sempre  con  mentalita  illuministica  ma  anche  con 
una  sensibilitk  realistica  che  nelTambiente  napoletano  trova  ri- 


FRANCESCO   SAVERIO   SALFI 

scontro  forse  solo  in  un  Palmieri  o  in  un  Galanti,  alcuni  concrcti 
problem!  sociali  e  amministrativi  tipicamente  meridionali,  II  piu 
noto  di  tali  scritti  6  il  Saggio  di  fenomeni  antropologid  relativi  al 
trgmuotOy  gi&  elaborate  a  Cosenza  subito  dopo  il  famoso  tcrremoto 
del  1783,  ma  pubblicato  a  Napoli  solo  nel  1787.  Dell'argomento 
si  erano  occupati,  fra  gli  altri,  il  gi&  ricordato  Nicola  Zupo  e  Ma 
rio  Pagano,  ma  mentre  il  primo  si  era  fermato  ad  analizzare  le 
cause  fisiche  del  fenomeno  naturale,  e  il  secondo,  pur  volgendo 
Tattenzione  agli  effetti  psicologici  del  terremoto,  aveva  veduto  in 
essi  soprattutto  la  conferma  del  principio  vichiano  che  le  reli 
gion!  nascono  dal  timore,  la  conferma  cioe  di  una  generate  te- 
si  filosofica;  il  Salfi  invece  si  propone  esplicitamente  un  fine  so- 
ciale:  la  lotta  contro  Tignoranaa  e  la  superstizione  delle  plebi 
meridionali,  terrorizxate  dalle  interpretation!,  interessatamcnte  for- 
nite  dal  clero,  di  un  tipico  flagello  locale.  Al  medesimo  scopo  di 
studiare  e  risolvere  problemi  specifici  della  vita  sociale  del  Mexzo- 
giorno  rispondono  altresl  la  Memoria  su  lo  spedak  di  Cosenza 
(1788),  fondata  su  dati  statistic!  e  contenente  propoatc  di  precise 
riforme;  e  il  Brieve  saggio  sul  metodo  normal?  (1789),  che  k  un 
piano  di  riorganizzazione,  basata  su  principii  sensistici,  del  metodi 
delPinsegnamento  medio  nel  regno  di  Napoli, 

Tutti  quest!  scritti  testimoniano  ancora  la  fiducia  dell'autore 
nel  riformismo  illuminato  dei  principi,  e,  nel  caso  particolare,  di 
Ferdinando  e  Carolina.  Ma  anche  il  Salfi,  come  la  maggior  parte 
degli  intellettuali  illuministici  napoletani,  si  orienta  clecisamente, 
dopo  la  Rivoluxione  francese  e  la  conseguente  involu^ione  rea- 
zionaria  dei  sovrani,  verso  il  giacobinismo ;  passa  a  far  parte  della 
Societ^  Patriottica;  e  fra  i  ricercati  dalla  polizia;  e  infine  b  costret- 
to  a  salvarsi  con  la  fuga  e  a  riparare  prima  a  Genova  e  poi  nella 
Lombardia  occupata  dai  Frances!.  Quest!  anni  lornbardi  costitui- 
scono  per  il  Salfi  una  esperienza  fonclamentale,  attraverso  la  quale  le 
sue  idee  politiche  si  chiariscono  definitivamente  secondo  un  in- 
dirizzo  al  quale  si  manterranno  in  seguito  sostanzialmente  fcdeli. 
Come  il  Croce  ha  veduto  per  primo  e  come  piu  recent!  ricerche 
hanno  confermato  e  precisato,  e  proprio  nel  gruppo  dei  giacobini 
di  formaxione  illuministica  e  massonica  raccoltisi  nella  Cisalpina 
da  ogni  parte  d* Italia,  e  in  particolare  per  merito  degli  esuli  napo- 
letani,  che  Tidea  deirunit^i  italiana  comincia  a  perdere  la  sua  fisio- 
nomia  di  sogno  letterario  per  diventarc  un  concrete  programma 


NOTA   INTRODUTTIVA  929 

politico  in  senso  risorgimentale,  per  essere  inteso  cioe,  se  non 
proprio  in  consapevole  rapporto  con  Pidea  romantica  di  «na- 
zione»,  come  il  mezzo  piu  opportuno  per  garantire  e  sviluppare 
la  liberta  costituzionale  e  Pindipendenza  degli  Italiani.  Anche  se 
il  Croce  e  la  successiva  storiografia  politica  non  hanno  partico- 
larmente  fermato  Tattenzione  su  di  lui,  non  sembra  dubbio  che  il 
Salfi  sia  stato  fin  dall'inizio  uno  dei  piu  fervidi  e  convinti  pa- 
triotti  unitari.  ccPopoli  d'ltalia, »  egli  scrive  per  esempio  nel  1796 
sul  « Termometro  politico »,  il  giornale  da  lui  fondato  insieme  col 
Salvador,  col  Porro,  col  Custodi,  con  PAbbamonti,  «non  limitate 
i  vostri  voti  ai  miserabili  confini  fra  i  quali  vi  ha  rinchiuso  il 
partaggio  di  pochi  tiranni.  I  confini  degli  stati  non  ponno  e  non 
debbono  essere  prescritti  dal  capriccio  degli  uomini  ma  dalle  leggi 
imprescrittibili  della  natura,  che  ha  circondati  i  corpi  politici  come 
i  confini  del  mare  ...  La  Francia  vuole  e  dee  volere  una  repubblica 
itala  capace  di  sostenere  i  propri  che  i  comuni  interessi.  Oseranno  i 
Lombardi,  i  Bolognesi,  gli  Italiani  medesimi  opporsi  allo  stabili- 
mento  di  essa  ?  E  perch6  trascureranno  ancora  di  prestarvisi  e  di  af- 
frettare  Pepoca  desiderata?))  A  queste  idee  appunto  si  ispirano  an- 
che  gli  altri  articoli  da  lui  pubblicati  nel  triennio  cisalpino  sia  sul 
ricordato  « Termometro  politico)),  sia  sul  « Giornale  dei  patrioti 
italiani»,  a  cui  pure  collabor6  insieme  col  Galdi,  col  Pistoia,  col 
Lauberg,  col  Vitaliani ;  ma  egli  dovette  svolgere  anche  una  notevole 
attivita  clandestina,  se  il  suo  nome  figura  assai  spesso,  nei  rapporti 
della  polizia  milanese,  tra  quelli  dei  piu  accesi  oppositori  giaco- 
bini  alia  politica  del  Direttorio  (« temp6rament  tres  ardent »  e  de- 
finito  in  uno  di  questi  rapporti).  Non  diversamente  a  Napo- 
li,  dove  egli  si  affretta  ad  accorrere  nel  1799  e  dove  e  nominate 
segretario  del  governo  provvisorio  e  poi  presidente  della  Sala  Pa- 
triottica,  6  fra  color o  che  cercano  di  tutelare  Pautonomia  della 
nuova  repubblica  dalPinvadenza  dei  Francesi,  come  dimostrano 
ad  esempio  e  la  sua  proposta  che  non  vi  fossero  « altri  guerrieri 
che  i  nazionali,  n6  altri  difensori  del  popolo  che  il  popolo  stesso»,  e 
i  suoi  sforzi  per  organizzare  una  efficiente  coscrizione  militare  dei 
patriotti.  Ne  il  suo  atteggiamento  muta  quando,  costretto  a  fug- 
gire  di  nuovo  da  Napoli,  ritorna  a  Milano  e  si  trova  di  fronte  alia 
nuova  situazione  creata  dallo  stabilimento  della  repubblica  e  poi 
del  regno  d' Italia. 

Non  e  privo  di  significato  che  egli  non  ricopra  nei  nuovi  go- 


59 


930  FRANCESCO    SAVERIO    SALFI 

verni  cariche  pubbliche,  ma  che  invece  preferisca  dedicarsi  al- 
rinsegnamento,  prima  nel  Liceo  di  Brera,  come  profcssore  di  lo- 
gica  e  metafisica  (1800),  di  storia  (1807)  c  di  storia  e  diplomasda 
(1809),  e  poi,  dopo  il  1809,  di  «diritto  pubblico  e  commercialc  nei 
rapporti  dello  stato  con  gli  stati  esteri»  in  una  specie  di  scuola  di 
perfezionamento,  dove  ebbe  allievi,  fra  gli  altri,  Tommaso  Grossi  e 
Federico  Confalonieri,  che  ancora  nello  Spielberg,  a  detta  del  Ma- 
roncelli,  ricordava  con  venerazione  il  suo  antico  maestro.  Non  per 
questo  egli  rinuncia  all'attivitk  politica,  ma  essa  si  svolge,  come 
e  pita  di  prima,  in  forma  clandestina,  in  seno  ciofe  alia  Masso- 
neria,  a  cui  era  iscritto  fin  dagli  anni  cosentini  e  dove  era  giunto 
al  grado  di  membro  del  Grande  Oriente  Italiano.  Sul  carattere 
di  questa  attivitk  non  possono  naturalmente  fornire  molta  luce 
le  sue  pubblicazioni  massoniche  «  ufficiali »,  come  il  poemetto  Iramo 
(1810)  e  Topuscolo  DelVutilitti  delta  F.\  Massoneria  (i8n),  che 
insiste  genericamente  sui  compiti  e  sugli  scopi  dell'associazione, 
limitandosi  a  ricordare  l'ostilit&  del  massoni  per  un  governo  « che 
si  proponesse  Fignoranza,  la  miseria  e  la  nullitk  dei  popoli».  Ma 
che  il  Salfi  anche  in  questo  campo  tenesse  fede  alle  proprie  idee, 
sembra  chiaramente  documentato  da  quanto  egli  stesso  affermeri 
piu  tardi  (nelPopuscolo  Ultalie  au  dix-neuvi&me  stick)  a  proposito 
delle  logge  massoniche  italiane,  nelle  quali  -  egli  ricorder&  -  «les 
partisans  du  despotisme  ne  purent  jamais  d^naturer  celui  d'in- 
d£pendance,  que  les  bons  citoyens  s'6tudiaient  &  rdpandre  partout 
oil  s^tendait  leur  influence)),  e  «se  nourrissaient  chaque  jour  le 
d6sir  et  Tespoir  de  la  reunion  des  6tats  d' Italic  et  d*une  constitution 
approprtee  k  ses  besoins  et  &  ses  Iumi6res ».  Apertamente  animata 
da  quest!  spiriti  antitirannici  e  indipendentistici  &  del  resto  la  sua 
fervida  azione  in  quel  campo  del  teatro  che  egli  gi&  nel  periodo 
napoletano  prerivolurionario  aveva  coltivato  con  passione,  quale 
mezzo  per  combattere  la  superstizione  e  i  pregiudizi,  ma  che  ora  gli 
appare  alfierianamente  lo  strumento  piti  adatto  per  risvegliare  la 
coscienza  unitaria  e  repubblicana  degli  Italiani.  «I1  teatro »  egH 
scrive  nel  «Termometro  politico))  fin  dal  1796  «non  era  stato 
finora  adoperato  per  un  oggetto  cosl  grande  qual  &  la  libertk 
di  una  nazione.  Esso  era  degenerate  dalla  sua  origine.  La  ti- 
rannia  e  la  superstizione  lo  avevano  ancora  imprigionato  e  av- 
vilito.  Egli  &  tempo  che  ripigli  i  suoi  diritti,  che  si  vendichi  de' 
suoi  torti,  che  concorra  alia  tranquilla  rivoluzione  della  Lorn- 


NOTA   INTRODUTTIVA  931 

bardia.  lo  non  conosco  un  mezzo  piii  adatto  per  svilupparla,  per 
eseguirla,  per  confermarla».  Con  questo  spirito  non  soltanto  si 
occupa  -  a  Brescia  prima  del  1799  e  poi  a  Milano  nel  1800  - 
della  organizzazione  di  un  ccteatro  patriottico »,  ma  compone  egli 
stesso  alcune  tragedie  (La  congiura  pisoniana,  1797;  la  Virginia  bre- 
sciana  e  /  trenta  tiranni  d'Atene,  1798;  il  Pausania,  1800)  e  melo- 
drammi  (la  Clitennestra  e  /  Plateesi,  1801),  dove,  in  forme  alfie- 
riane,  appaiono  infiammati  accenni  alia  secolare  servitu  italiana 
e  ai  pericoli  del  presente  dispotismo  francese:  come,  per  fare  un 
solo  esempio,  in  questi  versi  della  Virginia  bresciana:  ccFu  gia  Flta- 
lia  donna  /  di  sue  provincie:  ormai  del  Greco  preda  /  o  deirUnno 
o  del  Goto,  imbelle  e  stanca  /  di  piu  regnar,  di  servir  gode,  e  al 
primo  /  stranier  che  il  voglia  s'abbandona». 

Un  innato  equilibrio  (e  non  come  in  altri  patriotti  un  latente 
conservatorismo  o  il  pensiero  del  tornaconto  personale)  lo  porta 
tuttavia  a  riconoscere  che,  malgrado  tutto,  i  Frances!  assicuravano 
all' Italia,  come  piu  tardi  scriverk,  una  «espece  d'inde*pendance », 
che  la  nazione  non  aveva  prima  d'allora  conosciuta.  E  quando  nel 
1814  il  Murat,  da  lui  conosciuto  fin  dal  tempo  della  Cisalpina,  gli 
propone  di  tornare  a  Napoli  per  assumere  la  cattedra  di  storia 
e  di  cronologia  alPUniversitk,  ma  soprattutto  per  stabilire  col  suo 
aiuto  un  collegamento  con  i  patrioti  lombardi,  il  Salfi  accoglie 
Tinvito  a  rimanere  accanto  al  re  (per  quanto,  come  sembra,  poco 
fiducioso  neU'esito  deirimpresa)  durante  lo  sfortunato  tentativo 
conclusosi  con  la  sconfitta  di  Tolentino.  Dopo  la  quale,  per  la 
terza  ed  ultima  volta,  abbandona  Napoli,  e,  scelta  la  via  deU'esilio, 
si  reca  a  Parigi,  dove  rimane  fino  alia  morte,  awenuta  il  2  settem- 
bre  del  1832. 

Anche  in  questi  sedici  anni  di  esilio  parigino  il  Salfi,  malgrado 
Tet&  ormai  avanzata,  continua  ad  interessarsi  di  politica,  sempre 
ispirandosi,  con  una  coerenza  e  una  dirittura  che  gli  erano  rico- 
nosciute  dai  fuorusciti  di  ogni  tendenza,  ai  suoi  ideali;  sia  quando 
fonda  col  Mirri,  col  Linati,  col  Porro  Lambertenghi  la  cosiddetta 
«  Societk  delPemancipazione  nazionale»;  sia  quando  propone  nell'o- 
puscolo  Vltalie  au  dix-neuvikme  si&cle  (1821)  il  progetto  di  una 
confederazione  degli  stati  italiani,  intesa  come  un  mezzo  per  as- 
sicurare  all'  Italia  una  forma  concreta  di  libertk;  sia  infine  quando 
nel  1831  prende  parte  attiva  alle  trattative  tra  i  fuorusciti  italiani 
e  il  La  Fayette,  e  redige  col  Buonarroti  il  proclama  che  termina  con 


93^  FRANCESCO   SAVERIO   SALFI 

il  famoso  augurio : « cadano  i  tiranni,  s'infrangano  le  corone  e  sulle 
mine  loro  sorga  la  Repubblica  italiana  una  e  indivisible  dalle  Alpi 
al  mare». 

La  conoscenza  dell'attivitk  politica  del  Salfi  dopo  il  1796,  illu- 
ministica  ancora  nei  suoi  principii  ma  gik  risorgimentale  nei  suoi  fi- 
ni  concreti,  se  interessa  direttamente  la  storiografia  politica  di 
questo  memento  cosl  delicato  e  complesso,  costituisce  altresi  la  pre- 
messa  indispensabile  per  intendere  e  valutare  la  contemporanea 
attivitk  dello  scrittore  nei  campo  culturale,  e  in  particolare  in 
quello  della  critica  letteraria,  dove  egli  ha  lasciato  le  sue  opere  piii 
notevoli.  Ancora  nei  1827,  cinque  anni  prima  della  morte,  scriven- 
do  da  Parigi  al  nipote  Ferdinando  ScagHone,  mentre  dichiara 
apertamente  la  sua  diffidenza  per  il  pensiero  e  il  gusto  romantico 
« che  tenta  sconvolgere  le  pratiche  e  le  teoriche  tutte  de'  classic! », 
protesta  la  fedeltk  sua  e  dei  «migliori»  e  «pi{i  savi»  alia  «dottrina 
di  Condillac  e  di  Cabams»,  al  classicismo,  al  sistema  baconiano, 
insomma  alia  «antica  scuola  di  Locke  e  di  Despr6aux».  K  invero 
questa  fedeltk  6  chiaramente  confermata  dalle  pagine  rimasteci  di 
lui  su  questioni  teoriche  di  storiografia,  di  giurisprudenza  e  di 
•estetica.  Tali  sono  le  due  prolusioni  Dett'uso  delVistoria  massime 
nelle  cose  pubbliche  (1803)  e  Delfinfluenxa  della  storia  (1815),  ncllc 
quali  si  cerca  di  difendere  Fattiviti  storiografica  dalle  accuse  di 
Melchiorre  Delfico  e  di  altri,  ma  fondandosi  pifc  sul  concetto  sen- 
sistico  di  esperienza  che  sui  concetti  vichiani  che  pure  vi  sono  ri- 
chiamati,  e  non  senza  cedere,  specie  nell'ultima  prolusione,  alia 
vecchia  sfiducia  razionalistica  verso  una  scienza  capace  d'offrire 
solo  uno  (cspettacolo  funesto»  di  vizi,  di  errori,  di  pregiudizi. 
N6  mancano  forti  residui  razionalistici  nei  Corso  di  diritto  pubblico 
(1809-1813),  dove  i  adottata  la  distinzione  vichiana  in  diritti  di 
propriety  libertk  e  sicurtk,  ma  il  concetto  basilare  i  ancora  quello 
del  diritto  di  natura.  Infine  nei  saggio  Delia  declamations  (co* 
minciato  a  Brescia,  ma  rielaborato  forse  a  Parigi),  che  contiene 
le  sue  piu  impegnative  considerazioni  di  teoria  estetica,  Tautore,  pur 
tra  reminiscenze  sensistiche  e  lessinghiane,  rimane  sostanzialmen- 
te  ancorato  al  concetto  intellettualistico  dell'artc  come  «perfe- 
2ionamento»  della  natura  attraverso  un  proccsso  di  imitazione  e 
di  selezione. 

Questo  concetto  si  ritrova  anche  nelle  opere  critiche  e  storio- 
grafiche,  ivi  comprese  quelle  composte  a  Parigi,  insieme  ad  altri 


NOTA   INTRODUTTIVA  933 

canoni  pure  tipicamente  settecenteschi,  quali  il  principio  della  fun- 
zione  razionalmente  educativa  della  letteratura  e  la  conseguente 
estensione  della  nozione  stessa  di  letteratura  alle  piu  varie  attivit£ 
cultural! ;  il  concetto  della  storia  letteraria  e  culturale  come  in- 
dagine  del  progress!,  o  dei  regressi,  della  «ragione»  e  del  «buon 
gusto »;  1'applicazione,  spinta  fino  ad  uno  scrupolo  (per  dirla  col 
Croce)  (cburocratico)),  delle  classificazioni  dei  generi  letterari;  il 
gusto  sostanzialmente  classicistico  e  comunque  poco  sensibile  a 
forme  d'arte  primitive  o  popolari  o  realisticamente  « nazionali » 
come  quelle  prodotte  o  rivalutate  da  preromantici  e  romantici. 
Vero  e  anche,  per6,  che  nell'opera  storiografica  e  critica  del  Salfi, 
rispetto  a  quelle  dei  precedenti  scrittori  del  Settecento,  si  sente  cir- 
colare  uno  spirito  nuovo,  quello  stesso  nazionalismo  «giacobino» 
che  distingue  la  sua  azione  politica,  e  che  qui,  trasformandosi  in 
canone  critico  e  storiografico,  penetra  nei  vecchi  schemi  e  almeno  in 
parte  11  scuote  e  li  rawiva:  uno  spirito  nuovo  che  riempie  di 
una  fervida  ansia  di  rinnovamento  patriottico  sia  il  principio  del- 
Farte  come  perfezionamento  della  natura  sia  quello  della  funzione 
educativa  di  essa;  che  impiega  il  concetto  di  progresso  come  un 
mezzo  per  seguire  lo  sviluppo  delFidea  di  indipendenza  e  unitk 
e  in  genere  della  serieta  morale  e  del  libero  vigore  inventivo  nella 
storia  letteraria  italiana;  che  accetta  i  generi  letterari  anche  per 
ch^  essi  consentono  di  seguire  e  documentare  ordinatamente  que- 
sto  sviluppo,  il  quale  interessa  il  critico,  in  definitiva,  piu  che  le 
singole  personality  poetiche;  che  infine  vede  nella  fedeltk  al  clas- 
sicismo  non  tanto  la  difesa  di  un  primato  accademico  italiano 
(come  e  per  i  classicisti  conservator!  dal  Tiraboschi  al  Vannetti  al 
Napoli  Signorelli,  dal  Napione  al  Borsa),  quanto  Poperante  richia- 
mo  ad  una  tradizione  gloriosa  che  ha  unito  nel  passato  ed  e  ancora 
capace  di  unire  nel  presente  tutti  gli  Italian!. 

Questo  orientamento  comincia  a  manifestarsi  gia  negli  articoli 
che  fin  dal  tempo  della  Cisalpina  il  Salfi  scriveva  come  critico 
teatrale  nel  «Termometro  politico)),  e  nei  quali,  come  si  e  vi- 
sto,  il  concetto  illuministico  di  un  teatro  inteso  quale  strumento 
di  educazione  popolare  si  anima  di  un  contenuto  schiettamente 
unitario  e  indipendentistico.  Ma  esso  appare  in  forma  consape- 
vole  e  sistematica  solo  negli  scritti  critic!  e  storiografici  compost! 
a  Parigi  dopo  il  1816.  A  questa  maturazione  contribuisce  senza 
dubbio,  e  va  anzi  posto  in  forte  rilievo,  il  fecondo  contatto  con  gli 


934  FRANCESCO   SAVERIO   SALFI 

ideologi  parigini,  che  col  Salfi  collaboravano  alia  Biographie  univer- 
selle  t  alia  « Revue  encyclop6dique  »,  come  il  Guizot,  il  Fauriel 
e  soprattutto  il  Sismondi,  il  quale  proprio  in  quegli  anni  veniva 
pubblicando  o  rielaborando  le  sue  opere  maggiori,  fondate  sul 
concetto  della  storiografia  come  indagine  dello  sviluppo  dello  spi- 
rito  di  liberty  e  su  quello  della  letteratura  come  « espressione  della 
societik »,  e  dedicate  proprio  alia  storia  politica  e  letteraria  d' Italia. 
Ma  per  quanto  Pinfluenza  del  Sismondi  vada  calcolata  nel  valu- 
tare  Foriginalrti  del  Salfi,  rimane  merito  (e  naturalmente  anche 
Hmite)  di  questo  1'avere,  in  virtu  della  sua  particolare  esperienza 
politica,  spostato  sistematicamente,  e  comunque  piti.  nettamente, 
I'attenzione  sulFautonomo  vigore  « patriottico »  delle  epoche  e  delle 
opere  letterarie  italiane,  offrendo  cosl  ai  futuri  critici  e  storiografi 
romantici  una  base  di  cui  non  &  forse  stata  ancora  adeguatamente 
riconosciuta  Timportanza. 

II  primo  scritto  dove  appare  esplicitamente  questo  punto  di 
vista  &  il  lungo  articolo,  pubblicato  in  quattro  puntate  nella « Revue 
encyclop6dique »  e  intitolato  Du  g&nie  des  Italians  et  de  Vital  actual 
da  leur  literature  (1819).  L/autore  vi  afferma,  ad  un  certo  punto, 
che  egli  spera  di  poter  dimostrare  un  giorno  che  la  «  revolution  des 
esprits,  qui  fit  tant  de  progr&s  dans  une  grande  partie  de  1'Europe, 
avait  commenc^  depuis  long-temps  en  Italie,  oti  elle  aurait  eu  le 
m£me  succes,  peut  etre  un  plus  grand  encore,  si  les  Italians  eus- 
sent  eu  moins  d'obstacles  £  vaincre,  ou  s'ils  se  fussent  trouv6s 
dans  des  circonstances  plus  favorables ».  Ma  proprio  a  questo 
intento  risponde  g&  il  sommario  schizzo  che  egli  qui  traccia  della 
nostra  letteratura,  tenendo  presente  la  linea  disegnata  dal  Si 
smondi  nella  Literature  du  midi  de  V  Europe^  ma  apportandovl  al- 
cune  significative  correzioni,  intese  appunto  a  mostrare  la  presen- 
za  dello  spirito  di  libertk  politica  e  comunque  intellettuale  anchc 
nei  secoli  piti  oscuri  della  storia  letteraria  italiana,  sia  che  egli  sot- 
tolinei  nel  Cinquecento  i  meriti  dei  filosofi  e  degli  scienziati  «qui 
avaient  entrepris  les  premiers  de  tracer  1'histoire  de  la  nature, 
ccux  qui  cr6&rent  la  physique  exp6rimentale  et  la  v6ritable  m^thode 
de  raisonnen>;  sia  che  osservi  che  la  stessa  corruzione  del  gusto 
nel  Seicento,  attribuita  dal  Sismondi  alia  decadenza  morale  e  po 
litica,  « ne  fut  pas  sans  de  grands  efforts  de  I'esprit,  dont  une  na 
tion  tr&s  civilis^e  6tait  seule  capable))  e  fu  comunque  bilanciata 
dal  pensiero  di  un  Galileo,  di  un  Campanella,  di  un  Cardano,  di 


NOTA   INTRODUTTIVA  935 

un  Bruno,  di  un  Gravina,  per  merito  dei  quali  pu6  ben  dirsi  che 
«ce  furent  les  Italiens,  qui  aussitot  qu'ils  perdirent  Find6pendance 
politique,  donnerent  les  premiers  a  FEurope  Texemple  de  Finde*- 
pendance  philosophique»;  sia  che  infine,  confutando  implicita- 
mente  ancora  il  Sismondi  che  aveva  definite  il  risveglio  spirituale 
italiano  nel  Settecento  «inatteso»  e  dovuto  alPesempio  straniero, 
descriva  tale  risveglio  proprio  quale  sviluppo  dei  germi  autonomi 
posti  dal  Cinquecento  e  dal  Seicento. 

Piu  esplicitamente  suirautonomia  e  la  progressiva  maturazione 
del  risveglio  culturale  italiano  dalla  fine  del  Cinquecento  agli  inizi 
delPOttocento  il  Salfi  insiste  in  alcune  pagine  del  gia  citato  opuscolo 
V Italic  au  dix-neuvieme  siecle,  sottolineando  particolarmente  il  rin- 
novamento  operato  nel  campo  giuridico  ed  economico  dal  Gra 
vina,  dal  Genovesi,  dal  Filangieri,  dal  Beccaria,  dal  Verri,  in  quel- 
lo  religioso  dai  giansenisti  italiani,  nelle  discussioni  linguistiche 
dal  Cesarotti  e  dai  puristi,  nella  poesia  dalPAlfieri,  dal  Casti, 
dal  Pindemonte,  dal  Foscolo,  grazie  ai  quali  ales  Muses  italiennes 
ont  appris  de  nouveau  &  parler  le  langage  de  la  liberte*  et  de  la 
morales.  Ma  le  idee  affacciate  in  questi  due  lavori  preliminari 
hanno  uno  sviluppo  assai  piu  sistematico  e  impegnativo  nella 
continuazione  dt\V  Histoire  litter  air  e  d'ltalie  del  Ginguen6  e  nel 
Re'sumt  de  Vhistoire  de  la  littlrature  italienne.  Nella  prefazione  al  x 
volume  delYHistoire,  che  e  il  primo  redatto  interamente  dal  Salfi, 
Fautore  dichiara  di  essersi  voluto  conformare  «a  la  methode  etk 
Pesprit  de  son  pr£d6cesseur ».  Ma  se  per  molti  aspetti  -  quali  Fin- 
tellettualismo  estetico,  la  fedeltk  ai  generi  letterari  e  gli  altri  criteri 
che  abbiamo  sopra  elencati  -  il  Salfi  si  richiama  in  effetto  e  al 
Ginguen6  e  ai  precedenti  storiografi  settecenteschi ;  lo  spirito  nuovo 
del  continuatore  si  awerte  subito  fin  dalle  aggiunte  da  lui  appor- 
tate  ai  volumi  VII,  vni  e  IX  delPopera  del  critico  francese  (pubbli- 
cati  nel  1819,  a  cura  appunto  del  Salfi),  come  il  paragrafo  dedicato 
a  Telesio,  la  cui  «scoperta»  in  verita  risale  a  Bacone  ma  che  il 
critico  cosentino  pone  alPinizio  della  tradizione  italiana  di  libero 
pensiero,  e  quelli  sugli  scrittori  politici  del  tardo  Cinquecento  e 
del  primo  Seicento,  dei  quali  viene  sottolineata  la  serieta  morale 
e  Pimportanza  nella  storia  del  pensiero  politico  europeo.  Piu  si 
gnificative  ancora  6  lo  sguardo  retrospettivo  che  alia  fine  del  vo 
lume  x  (pubblicato  nel  1823)  il  Salfi  rivolge  a  tutta  la  letteratura  del 
Cinquecento.  In  accordo  col  Sismondi  e  in  polemica  col  Ti- 


936  FRANCESCO   SAVERIO   SALFI 

raboschi  e  gli  altri  storiografi  classicisti  egli  riconosce  la  futility 
di  tanta  parte  della  letteratura  cinquecentesca,  e  ne  attribuisce  la 
colpa  alia  situazione  politica  e  in  particolare  alFInquisizione,  ma 
al  tempo  stesso,  riprendendo  e  precisando  le  idee  accennate  nel- 
Farticolo  Du  gdnie  des  Italiens  et  de  Vdtat  actuel  de  Uur  literature, 
si  volge  a  cogliere  con  una  simpatia  piu  fervida  del  Sismondi  tutti 
quegli  aspetti  chc  possono  documentare  in  qualche  modo  la  pre- 
senza  di  un  libero,  e  non  accadcmico,  vigore  morale  e  intellet- 
tuale:  la  diffusione  capillare  della  cultura,  favorita  proprio  dalla 
mancanza  di  una  capitale;  i « progress! »  effettuati  in  tutti  i  generi 
letterari;  il  sentimento  nazionale  che  almeno  in  parte  giustifica 
Fimitazione  dei  classici ;  e  soprattutto  il  coraggio  di  alcuni  storici, 
nei  quali  « Frequence  parle  quelquefois  son  ancien  langage»;  e 
la  «saine  philosophies,  la  spregiudicata  ribellione  alFautoritk  co- 
stituita  e  al  conformismo,  che  egli  ritrova  non  solo  nei  filosofi  e 
negli  scienziati,  ma  persino,  con  patriottica  esagerazione,  negli 
scrittori  burleschi  e  satirici. 

I  quattro  volumi  che  seguono  (xi-xiv,  pubblicati  postumi  nei 
1834-1835)  si  sogliono  lodare,  dal  Croce  in  poi,  soprattutto  per 
Fampiezza  delle  letture  dirette  e  Faccuratezza  della  informazione. 
Ma  bisogna  anche  dire  che  qucste  stesse  qualitk  non  nascono, 
come  invece  per  esempio  in  un  Tiraboschi,  da  un  puro  scrupolo 
di  erudita  esattezza  e  completezza,  bensl  dalla  precisa  e  consape- 
vole  volontk  di  procedere  con  impegno  sistematico  a  quella  re- 
visione  dei  giudizi  vecchi  e  nuovi  sul  piti  famigerato  secolo  della 
nostra  letteratura,  della  quale  aveva  awertito  la  necessitk  fin  dal- 
Farticolo  Dugdnie  des  Italiens.  «Nous  montrerons»  egli  dice  pro 
prio  alFinizio  della  sua  trattazionc,  dopo  aver  accennato  al  Tira 
boschi,  che  si  era  meravigliato  della  decadenza  culturale  e  let- 
teraria  in  un  secolo  cosi  pacifico,  e  al  Sismondi,  che  tale  deca- 
denza  aveva  ricondotto  alFoppressione  politica  e  religiosa, « le  g6nie 
des  Italiens  luttant  encore  contre  le  dcspotisme  de  leurs  oppres- 
seurs,  et  s'acqu<§rant,  par  cettc  lutte  m6me,  de  nouveaux  titres  de 
gloire,  s'il  est  vrai  que  dans  les  circonstances  les  plus  diplorables, 
Fltalie  ne  cessa  jamais  de  faire  preuve  de  vigueur  et  d'originalit^, 
malgr6  la  corruption  qui  mcna$ait  de  toute  part  et  le  goftt  et  la 
morale  publique».  Questo  vigore  c  questa  originaliti  sono  testi- 
moniate,  a  giudizio  del  Salfi,  soprattutto  dai  filosofi  e  dagli  scien 
ziati  :  e  se  questo  aspetto  del  Seicento  era  stato  g&  sottolineato  dalla 


NOTA   INTRODUTTIVA  937 

storiografia  settecentesca  e  dallo  stesso  Tiraboschi,  &  tuttavia  me- 
rito  del  critico  cosentino  non  soltanto  Pessersi  ampiamente  sof- 
fermato  su  di  esso  (anche  se  poi  nella  stampa  gli  editori  soppres- 
sero,  forse  per  timore  della  censura,  parecchie  pagine  dei  capitoli 
sull'argomento),  ma  anche  e  soprattutto  Paver  insistito,  sia  pure 
con  qualche  polemica  esagerazione,  sullo  spirito  di  spregiudicata 
indipendenza  critica  di  quei  filosofi  e  di  quegli  scienziati,  e  Paver 
in  tal  modo  aperto  la  strada  alia  posteriore  storiografia  romantica 
e,  almeno  indirettamente,  allo  stesso  capitolo  desanctisiano  su 
La  nuova  scienza.  Al  centro  del  movimento  filosofico  e  scienti- 
fico  del  Seicento  il  Salfi  pone  naturalmente  Galileo,  esplicita- 
mente  presentato  -  forse  per  la  prima  volta  con  tanta  evidenza  — 
come  Feroe  massimo  della  tensione  secentesca  verso  la  liberta  di 
pensiero;  e  insieme  con  Galileo  gli  scienziati  della  sua  scuola. 
Ma  con  paziente  fervore  va  in  cerca  di  ogni  minima  traccia  di 
questa  tensione  anche  negli  altri  campi  della  cultura,  nelFarcheo- 
logia,  nella  geografia,  nella  filologia  e  soprattutto  negli  studi  di 
retorica  e  di  poetica,  ai  quali  dedica  un  lungo  capitolo  ispirato  dalla 
precisa  intenzione  di  «relever,  plus  qu'on  ne  Fa  fait  jusqu'ici, 
cette  partie  de  Fhistoire  d' Italic,  parce  que  la  plupart,  pr6occu- 
pe"s  de  la  corruption  qui  dominait  Fltalie  a  cette  6poque,  n'ont 
pas  rendu  assez  de  justice  a  ceux  qui  avaient  eu  le  m6rite  et  le 
courage  d'opposer  au  torrent  leurs  pr6ceptes  et  leur  exemple». 
In  altri  campi,  per  esempio  in  quello  degli  studi  storici,  Fautore 
non  pu6  non  riconoscere  e  deplorare  che  nel  complesso  gli  scrit- 
tori  sembrano  aver  «oubli6  tout  sentiment  de  gloire  nationale»: 
ma  non  rinuncia  per  questo  a  porre  in  rilievo  qualche  tempera- 
mento  piti  risentito,  come,  appunto  tra  gli  storiografi,  il  Leti,  il 
Davila,  il  Bentivoglio,  attribuendo  loro,  per  giustificare  la  loro 
scelta  di  argomenti  stranieri,  la  volonta  di  evitare  « Paffligeante 
n£cessit6  de  peindre  1'humiliation  de  leur  pays». 

In  coerenza  con  lo  spirito  animatore  delF  opera,  anche  se  discu- 
tibile  in  se  stessa  (e  in  effetto  discussa  dal  Croce),  &  anche  la  spie- 
gazione  che  il  Salfi  propone  della  «  corruzione »  letteraria  del  ma- 
rinismo :  che  a  suo  giudizio  ha  origine  non  tanto  nelFambizione  di 
superare  in  qualche  modo  la  « perfezione »  cinquecentesca  e  nel- 
Tinflusso  del  cattivo  gusto  spagnolo  (come  aveva  pensato  il  Ti 
raboschi)  e  neppure  nella  decadenza  morale  prodotta  dall'op- 
pressione  politica  e  religiosa  (secondo  la  teoria  del  Sismondi),  bensl 


FRANCESCO   SAVERIO   SALFI 

in  una  specie  di  distorsione  di  quello  stesso  spirito  di  «liberta» 
che  si  era  manifestato  positivamente  nei  filosofi  e  negli  scienziati, 
e  che  nel  campo  letterario,  pur  partendo  dal  lodevole  proposito 
di  rcagire  alia  ((imitation  servile »  dei  classici,  aveva  finlto  per 
precipitare  nella  ((licence  la  plus  insens6e».  In  concrete)  il  Salfi, 
quando  si  fa  ad  esaminare  le  opere  letterarie  sia  dei  marinisti  che 
degli  antimarinisti,  si  lascia  trascinare  dal  suo  generoso  proposito 
di  rivalutare  anche  questo  aspetto  del  Seicento  a  giudm  eccessi- 
vamente  e  spesso  ingenuamente  positivi  sulla  seriet&  morale  e  pa- 
triottica  e  sul  valore  artistico  di  quegli  scrittori,  che  gi&  vent'anni 
prima  il  Torti,  pur  valendosi  di  criteri  ancora  settecenteschi,  aveva 
saputo  ridurre  alia  loro  vera  statura.  Accade  cosl,  per  esem- 
pio,  che  egli  affermi  che,  ad  eccezione  delPAriosto,  nessuno  fu 
piti  « naturellement  po£te»  del  Marino;  che  prenda  sul  serio  la 
gravity  di  tono  e  i  rari  accenni  patriottici  del  Filicaia,  del  Guidi, 
del  Testi,  del  Chiabrera;  che  attribuisca  al  Tassoni  il  merito  di 
aver  fatto  assumere  alia  poesia  eroicomica  «  sa  forme  veritable  »,  di 
averla  cio&  trasformata  in  «un  genre  de  satire  noble  et  instructive, 
qui  k  1'aide  de  la  plaisanterie  poursuit  les  vices  et  les  pr£jug6s»; 
e  che  lo  stesso  merito  riconosca  anche  ai  satiric!  dal  Rosa  al  Villani, 
dal  Nomi  al  Soldani  al  Sergardi.  Anche  se  poi  &  proprio  a  questa 
fervida  caritk  patria  che  si  deve  lo  scrupolo  con  cut  il  Salfi  si 
impegna  in  letture  dirette  e  in  particolareggiate  analisi  di  tutta 
una  serie  di  opere,  specialmente  di  scrittori  meridionali,  in  gran 
parte  dimenticate  e  poco  note,  apprestando  cosi,  se  non  altro, 
un  complesso  di  materiali  utili  agli  storici  futuri, 

Lo  spirito  e  il  metodo  che  guidano  la  continuation  del  Gin- 
guen£  rimangono  sostanzialmente  immutati  nel  R6swn4  de  Vhistoire 
de  la  literature  italienne.  Non  costituisce  infatti  una  vera  differenza 
il  fatto  che  qui  Tautore  si  limiti  «aux  objets  qui  appartiennent  i 
la  literature  proprement  dite »,  poich6  questa  limitazione  non  na- 
sce  da  una  nuova  consapevolexza  deirautonomia  della  lettcratura, 
ma  da  una  necessitk  editoriale,  dall'esigenza,  come  1'autore  stesso 
dichiara,  di  ((combiner  la  bri£vet6  avec  Putilit6».  E  neppure  si  pud 
considerare  una  novit^  Tespedientc  di  far  cominciare  le  varie  epo- 
che  dal  settantacinquesimo  anno  di  ogni  secolo:  periodkmione 
forse  piti  aderente  alia  realti  di  quella  tradizionale,  ma  in  fondo 
(come  ha  osservato  il  Getto)  non  meno  meccanica.  Ci6  che  distin 
gue  il  Rdsumd  dalla  continuazione  del  Ginguen6  6  piuttosto  il  fatto 


NOTA   INTRODUTTIVA  939 

che  in  esso,  anche  per  la  natura  stessa  del  lavoro,  piu  rapido  e 
sintetico,  si  rivela  piu  vivo  e  piu  accentuate*  il  proposito  di  ritro- 
vare  e  seguire  la  presenza  e  i  progressi  dello  spirito  di  liberta 
nelle  varie  epoche  della  letteratura  italiana.  A  questo  fatto  si  deve 
se,  piii  ancora  che  nella  continuazione  del  Ginguen6,  compaiono 
nel  Rdsumd  interpretazioni  e  valutazioni  tendenziose,  come  quando 
Tautore  dichiara  che  una  delle  cause  principali  della  formazione  di 
Una  comune  lingua  italiana  fu  il  bisogno  che  gli  Italiani  sen- 
tirono  «de  se  communiquer  leurs  moyens,  pour  la  defense  com 
mune  de  leur  ind6pendance  et  de  leur  liberte" »;  o  loda  il  Trissi- 
no  per  aver  scelto  nel  suo  poema  epico  un  soggetto  nazionale 
con  Tintenzione  di  risvegliare  nei  suoi  conterranei  il  sentimento 
patriottico  di  cui  era  animato;  o  attribuisce  al  Berni  il  proposito 
di  satireggiare  i  vizi  e  i  pregiudizi  del  suo  tempo;  o  presenta 
Gasparo  Gozzi  come  un  awersario  delFInquisizione  veneta;  o 
per  contro  biasima  TAriosto  per  non  aver  fatto  «aucune  mention 
des  calamit6s  nationales  dont  il  fut  t6moin». 

D'altra  parte  e  proprio  questa  piu  accentuata  ispirazione  pa- 
triottica  che  conferisce  al  Rdsumd,  anche  quando  vi  sono  ripresi 
giudizi  della  critica  precedente,  freschezza  e  organicita.  Ad  idee 
gia  esposte  dal  Torti  nel  suo  Prospetto  del  Parnaso  italiano  si  richia- 
mano,  se  non  m'inganno,  le  pagine  su  Dante;  ma  bisogna  poi 
riconoscere  che  in  esse  il  concetto  dell'ispirazione  « civile »  della 
Commedia  si  riempie  di  una  piu  fervida  persuasione,  e  trova 
altresl  conferma  nell'analisi  delle  opere  minori  dantesche,  che  il 
Torti  aveva  del  tutto  trascurato.  Cosl  pure,  se  nel  capitolo  dedi- 
cato  al  Petrarca  sono  messi  a  profitto  quasi  certamente,  questa 
volta,  spunti  foscoliani,  rimane  comunque  assai  notevole  la  di- 
fesa  che  il  Salfi  fa  -  in  polemica  con  il  Sismondi  e  forse  con  il 
Torti  -  della  profonda  serieta  sentimentale  del  poeta,  non  solo 
nelle  poesie  politiche  ma  anche  in  quelle  amorose,  nelle  quali, 
egli  afferma,  il  Petrarca « parle  au  coeur,  lors  mSme  qu'il  ne  semble 
s'adresser  qu'a  F  esprit ».  Meno  impegnativi  i  giudizi  sul  Boccaccio 
e  sugli  scrittori  del  Quattrocento,  in  cui  il  Salfi  si  limita  a  ripetere, 
anche  se  con  piti  accentuate  compiacimento  nazionalistico,  e  po- 
nendo  in  rilievo  personalita  come  Vittorino  da  Feltre  e  il  Savona 
rola,  gli  elogi  illuministici  ai  meriti  delPUmanesimo  italiano  nella 
lotta  contro  la  barbarie  e  la  superstizione  medioevale;  mentre  nei 
capitoli  dedicati  al  Cinquecento  e  al  Seicento  Pautore  riprende  o 


94°  FRANCESCO  SAVERIO   SALFI 

anticipa  con  plti  sintetica  evidenza  e  con  qualche  notevole  ag- 
giunta  (per  esempio  sul  Machiavelli,  foscolianamente  intcrpretato) 
le  idee  piu  diffusamente  esposte  nei  volumi  della  continuazione 
del  Ginguen6.  Ma  le  pagine  piu  interessanti  del  R&umtf  sono  senza 
dubbio  quelle  intorno  alia  letteratura  settecentesca,  della  quale  il 
Salfi,  grazie  alia  sua  particolare  mentalita  insieme  di  illuminista 
e  di  patriotta,  sa  intendere  con  simpatia  e  dimostrare  1'importanza 
nella  formaziohe  di  una  moderna  coscienza  nazionale  italiana. 
Guidato  appunto  da  tale  simpatia  egli  &  forse  il  primo  a  compren- 
dere  nel  loro  pieno  valore  i  meriti  dei  critici  arcadici,  i  quali 
«au  lieu  d'exposer  et  de  commenter  les  regies  des  anciens,  comme 
Favaient  fait  leurs  devanciers,  . . .  se  sont  occup6s  d'en  chercher 
la  raison  et  d'en  relever  les  principes » ;  il  significato  della  « crise 
Htt6raire»,  cio&  delle  discussioni  estetiche  e  HnguisStiche  della  se- 
conda  met&  del  Settecento,  attraverso  le  quali  «on  a  chereh<£  dc 
mieux  determiner  les  droits  de  la  langue  et  de  la  pens6e»;  la  fun- 
zione  delle  riviste  che  tutte  «servirent  non  seulement  &  r6pandre 
les  principes  d'une  critique  plus  libre  et  plus  raisonn6e,  mais 
aussi  a  donner  a  la  langue  une  force  plus  exp^ditive  et  plus  propre 
a  la  communication  des  id6es».  Tra  i  grandi  scrittori  del  Set 
tecento  alquanto  sacrificato  rimane  il  Parini,  ridotto  a  rappresen- 
tante,  sia  pure  degnissimo,  del  genere  didascalico ;  e  neppure  han- 
no  particolare  rilievo  i  giudizi  sul  Metastasio  e  sul  Goldoni,  che 
il  Salfi  si  preoccupa  soprattutto  di  difendere,  riprendendo  argo- 
menti  non  nuovi  nella  critica  settecentesca,  dalle  accuse  di  scarsa 
sensibility  morale  e  simili.  Stimolato  dalle  importanti  pagine  della 
sismondiana  Literature  du  midi  de  VEurope,  ma  ricco  di  personal! 
ed  acute  osservazioni  i  invece  il  capitolo  sulFAlfieri,  per  la  cui 
comprensione  il  Salfi  poteva  giovarsi  pifr  direttamente  della  propria 
esperienza  umana  e  artistica.  In  questo  caso  infatti  i  proprio 
tale  esperienza,  con  la  sua  caratteristica  mescolanza  di  intel- 
lettualismo  illuministico  e  di  religioso  fervore  patriottico,  che  gli 
permette  di  intendere  e  valutare  positivamente,  riportandole  ad 
una  profonda  esigenza  di  superumana  idealizzazionc,  quelli  che  al 
Sismondi,  allo  Schlegel  e  ai  romantici  sembravano  difetti,  la  man- 
canza  di  riferimenti  ai  costumi  e  ai  tempi,  la  monotonia  dei  carat- 
teri,  la  linearit^  della  trama,  la  rigidezza  dello  stile : « aussitdt  qu*il 
les  avait  rencontr6s  tels  qu'il  les  d<§sirait, »  egli  osserva  a  proposito 
dei  personaggi  alfieriani  «il  les  transportait  dans  un  monde  id6al 


NOTA   INTRODUTTIVA  94! 

ou  ils  prenaient  une  forme  plus  imposante  et  parfaite . . .  Son 
objet  principal  est  d'elever  le  caractere  et  les  passions  des  person- 
nages  qu'il  met  en  oeuvre,  et,  pour  ainsi  dire,  de  les  placer  au 
dessus  du  niveau  de  1'espece  humaine,  ou  plutot  de  la  g6neration 
actuelle  ».  N£  d'altra  parte  questa  difesa  della  idealizzazione  poetica 
alfieriana  gli  impedisce  di  riconoscere,  estendendo  sia  pure  un  po' 
indiscriminatamente  il  giudizio  sismondiano  su  Saul,  la  complessita 
psicologica  di  questi  personaggi,  da  Filippo  (caussi  inquiet  que 
cruel»  ad  Egisto  «toujours  meditant  sa  vengeance  et  que  les 
dangers  et  les  obstacles  rendent  encore  plus  perseverant  dans  son 
projet»,  a  Clitennestra  duttant  contre  les  int£rets  de  son  fils  et 
ceux  de  son  adultere  complice  »,  agli  stessi  caratteri  eroici  e  virtuosi, 
i  quali  «quelles  que  soient  leur  condition  ou  leur  vertu  .  .  .,  ne 
cessent  jamais  de  souffrir».  Analogamente,  mentre  giustifica,  ri- 
chiamandosi  alia  ispirazione  particolare  deirAlfieri,  la  scarsa  me- 
lodicita  del  suo  verso,  non  manca  di  osservare  come  il  poeta,  to- 
gliendo  al  ritmo  «  cette  melodic  en  apparence  si  6clatante  et  deve- 
nue  trop  commune, .  . .  lui  donna  une  variet6  inepuisable  de  sons, 
d'h6mistiches,  de  cadences  et  d'enjambements,  qu'on  n'avait 
employes,  depuis  Dante  jusqu'a  lui,  que  quelquefois  et  par  hasard». 
Ma  se  il  Salfi  in  uno  sforzo  di  congeniale  simpatia  riesce  ad  apprez- 
zare  neirAlfieri  anche  questi  aspetti,  i  limiti  della  sua  mentalita 
e  del  suo  gusto  si  fanno  di  nuovo  sentire  nei  giudizi  sui  ro- 
mantici,  dei  quali,  malgrado  tutta  la  buona  volonta,  non  gli  e 
possibile  comprendere  e  giustificare  n6  la  lotta  indiscriminata  con- 
tro  le  « regole »,  anche  quelle  collaudate  dalla  ragione  e  deirespe- 
rienza,  n£  Tostinata  aderenza  alia  «realta»  e  alia  «storia»,  che  gli 
sembra  tradire  lo  scopo,  a  suo  giudizio  fondamentale  per  ogni 
artista,  di  offrire  modelli  ideali  a  edificazione  dei  lettori  e  degli 
spettatori,  n6  in  particolare  la  preferenza  per  argomenti  tratti  da 
quel  Medioevo  che  certo,  egU  ammetteva,  ha  piu  rapporto  con  i 
nostri  costumi,  le  nostre  opinioni,  i  nostri  bisogni,  ma  che  non 
pu6  offrire,  quanto  Tepoca  classica,  «des  6v6nements  et  des  ca- 
ract&res  propres  a  relever  une  race  d6g6ner6e».  E  se,  nella  sua 
onesta,  non  pu6  non  riconoscere  che  i  veri  patriotti  sono  proprio 
i  romantici,  tuttavia  il  suo  cuore  di  unitario  rimane  turbato  di 
fronte  alle  polemiche  da  essi  sollevate,  nel  timore  che  esse  fmiscano 
per  «nuire  aux  progres  de  la  Iitt6rature  italienne,  et,  ce  qui  est 
pis  enfore,  confirmer  cet  esprit  de  division  municipale  qui  peut 


942  FRANCESCO   SAVERIO   SALFI 


utile  k  tout  autres  qu'aux  Italiens  »,  e  lo  porta  a  concludere  il 
con  Pesortazione  «&  sacrifier  ces  contradictions  dcs  clas- 
siques  et  des  romantiques  aux  int£r£ts  d'une  6colc  plus  utile  ct 
vraiment  nationalc  ». 

Questi  giudizi  sulla  contemporanea  Ictteratura  italiana,  espo- 
sti  nel  R£$um£  in  forma  generica,  senza  alludere  a  singoli  scrittori, 
trovano  una  particolareggiata  esemplificazione,  oltre  chc  in  alcuni 
studi  minori  -  come  il  Saggio  storico  critico  della  commedia  italiana 
(1829),  prcrnesso  ad  una  edizione  delle  commedie  del  Nota,  e  la 
Introduzione  ad  una  scelta  delle  commedie  del  Giraud  -,  negli  arti- 
coli  e  nelle  recensioni  che  il  Salfi  veniva  regolarmente  pubblicando 
nella  «  Revue  encyclop6dique  ».  Tra  questi  articoli  e  recensioni, 
che  erano  attesi  e  letti  con  interesse  anche  in  Italia,  dove  la  «  Re 
vue))  era  molto  diffusa,  i  piu  notevoli,  sia  perch6  meglio  servono 
a  documentare  le  idee  del  Salfi  sia  per  impcgno  critico,  sono  forse 
la  Notice  sur  Ugo  Foscolo  (1827)  e  le  lunghe  recensioni  del  Car- 
magnola  (1820)  e  dei  Promesn  sposi  (1828).  Nel  necrologio  fosco- 
liano  6  riconosciuta  la  grandezza  del  poeta  e  del  critico,  ma  mentre 
le  lodi  insistono  soprattutto  sui  suoi  meriti  patriottici  e  sul  suo 
gusto  sanamente  classico,  si  avverte  chiara  in  queste  pagine  la 
diffidenza  delPonesto  giacobino  verso  ((Textrime  mobilit6»  della 
personality  foscoliana  e  in  particolare  verso  la  scarsa  coerenza 
fra  i  principi  «stoici»  professati  e  i  disordini  della  vita  privata. 
Nella  recensione  al  Carmagnola  1'entusiasmo  per  Tispirasdone  «  na- 
zionale  »  della  tragedia  trattiene  il  critico  dalPinsistere  troppo  sul- 
Fallontanamento  del  Manzoni  dai  sani  principii  del  teatro  classico. 
Ma  dei  Promessi  sposi  il  Salfi  fa,  sia  pure  in  termini  moderati, 
una  vera  stroncatura,  nella  quale  il  giacobino  nazionalista,  che 
deplora  la  scelta  di  uno  sfondo  storico  cosl  avvilente  e  pi&  ancora 
Tidealizzazione  dei  «bons  capucins»  del  Seicento,  si  allea  con  il 
classicista  che  biasima  Peccessiva  aderenza  alia  storia,  la  mancanza 
di  unitk  d'azione  e  Paccoglimento  di  protagonisti  «si  vulgaires». 
Stroncatura  senza  dubbio  ingiusta,  ma  che,  oltre  a  provare  an 
cora  una  volta  la  coerenza  del  Salfi  con  i  suoi  principii,  ha  non 
trascurabile  importanza  nella  storia  della  critica  manzoniana,  in 
quanto  &  forse  il  primo  documento  autorevole,  come  ha  ricono- 
sciuto  il  Croce,  di  «  quelPantimanzonismo  fra  classicistico  e  liber- 
tario  »,  che  si  prolungherl  per  tutto  POttocento  fino  al  Settembrini 
e  al  Carducci. 


NOTA   INTRODUTTIVA  943 


Un  elenco  complete  delle  opere  edite  e  inedite  del  Salfi,  nonch6  degli 
articoli  e  delle  recension!  pubblicate  nella  « Revue  Encyclop£dique »  dal 
1819  al  1832,  si  trova  nella  monografia,  citata  piu  avanti,  di  C.  NARDI, 
pp.  xn-xx.  Qui  ci  limitiamo  a  ricordare le  piu  important!:  Saggio  difenomeni 
antropologici  relativi  al  tremuoto,  ovvero  riflessioni  sopra  alcune  oppinioni 
pregiudizievoh  alia  pubblica  e  privata  felicita,  fatte  per  occasione  dei  tremuoti 
avvenuti  nella  Calabria  Vanno  1783  e  seguenti,  Napoli,  per  Vincenzo  Flauto 
a  spese  di  Michele  Stasi,  1787;  DelVuso  delVistoria  massime  nelle  cose 
pubbliche,  Milano,  Nobile,  1803;  Dell'utilita  delta  F.'.  Massoneria,  dai  tipi 
del  G/.  O.'.  d' Italia,  5811  (1811);  Dell 'influenza  della  storia,  discorso  re- 
citato  ilxsfebbraio  1815,  Napoli,  Nobile,  1815 ;  La  storia  dei  Greci,  discorso, 
Paris,  Chauson,  1817;  Ultalie  au  dix-neuvieme  siecle  ou  de  la  n&cessite' 
d'accorder  le  pouvoir  avec  la  liberty  Paris,  Dufart,  1821 ;  Saggio  storico  cri- 
tico  sulla  commedia  italiana,  Milano  1829;  Della  declamazione,  preceduta 
da  un  cenno  biografico  su  Tautore  e  pubblicata  per  cura  di  A.  Salfi, 
Napoli,  D' Alfonso,  1878.  SulYHtstoire  e  sul  Resume  si  vedano  i  cappelli 
alle  pagine  qui  riprodotte. 

Fra  gli  studi  sulla  personalita  politica  e  letteraria  del  Salfi  hanno  valore 
quasi  esclusivamente  documentario :  A.  M.  RENZI,  Viepolitique  et  litter  air  e 
de  F.  Salfi,  Paris,  Fayolle,  1834;  L.  M.  GRECO,  Vita  letteraria  ossia  analisi 
delle  opere  di  F.  S.  Salfi,  Cosenza,  Migliaccio,  1839;  e  il  cenno  biografico 
premesso  da  A.  Salfi  all'edizione  postuma  citata  del  trattato  Delia  de- 
clamazione,  II  primo  lavoro  critico  e  quello  di  B.  ZUMBINI,  Breve  cenno 
sulla  vita  e  sidle  opere  di  F.  S.  Salfi,  in  «  Atti  della  R.  Accademia  di  Archeo- 
logia,  Lettere  e  Belle  Arti»  di  Napoli,  xvm  (1896).  Per  esortazione  dello 
Zumbini  fu  composta  la  monografia  di  C.  NARDI,  La  vita  e  le  opere  di 
F.  S.  Salfi,  Genova,  Libreria  Editrice  Moderna,  1925,  assai  pregevole  per 
ricchezza  di  notizie  sulla  biografia  e  sugli  scritti  del  Salfi,  e  tuttora  punto 
di  partenza  obbligato  per  ogni  studio  suHJuomo  e  sullo  scrittore.  Fra  le 
recensioni  del  volume  del  Nardi  hanno  importanza  quelle  di  G.  NATALI, 
nel « Giorn.  stor.  d.  lett.  it. »,  LXXXVIII  (1926),  pp.  146-50  (poi  in  Cultura  e 
poesia  nelVeta  napoleonica,  Torino,  S.T.E.N.,  1930);  e  di  B.  CROCE,  in 
«La  Critica»,  xxin  (1925),  pp.  308-9  (poi  in  Conversazioni  critiche,  ill, 
Bari,  Laterza,  1928,  pp.  328-30).  Tra  gli  studi  complessivi  piu  recenti 
merita  particolare  attenzione  la  voce  di  M.  FUBINI  nella  Enciclopedia  ita- 
liana  (1936).  Piii  specialmente  sul  Salfi  storico  della  letteratura  si  vedano 
(oltre  1'affrettato  giudizio  di  G.  A.  BORGESE  nella  Storia  della  critica  ro- 
mantica  in  Italia,  Milano,  Mondadori,  I9492,  pp.  306-7)  B.  CROCE,  La 
storia  della  letteratura  italiana  nel  secolo  XVII  di  F.  S.  Salfi,  in  Nuovi 
saggi  sulla  letteratura  del  Seicento,  Bari,  Laterza,  1931,  pp.  i-io;  e  G. 
GETTO,  Storia  delle  storie  letterarie,  Milano,  Bompiani,  1942,  pp.  211-6. 
Sul  suo  pensiero  filosofico  e  giuridico  e  politico :  G.  GENTILE,  Dal  Genove- 
si  al  Galluppi,  Milano  1930,  pp.  89-90,  e  F.  BATTAGLIA,  V opera  filosofico- 
giuridica  di  F.  S.  Salfi,  in  « Rivista  internazionale  di  filosofia  del  diritto »,  VII 
(1927),  pp.  194-9 ;  B.  BARILLARI,  //  pensiero  politico  di  F.  S.  Salfi,  Torre  del 


944  FRANCESCO   SAVERIO   SALFI 

Greco,  Palomba,  1959.  Per  comprendere  esattamente  la  posissione  politica 
del  Salfi,  la  conoscenza  della  quale  &  essenziale  per  la  valutasdone  della 
sua  opera  di  scrittore,  vanno  tenuti  presenti,  sebbene  non  si  occupino  in 
particolare  di  lui,  B.  CROCE,  La  rivoluzione  napoletana  del  1799,  Ban,  La- 
terza,  1926;  e,  tra  i  recenti  studi  sui  «giacobini»  italiani,  almeno  il  volume 
di  G.  VACCARINO,  /  patriot  i « anarchistes »  el"  idea  ddVunitd  italiana  (1796- 
J799),  Torino,  Einaudi,  1955 ;  e  di  D.  CANTIMQHI  la  Nota  finale  alPedizione 
da  lui  curata  dei  Giacobini  italiani,  Bari,  Laterza,  1956;  e  il  sagjjfio  Illumi- 
nisti  e  giacobini  nel  volume  La  cultura  illwninistica  in  Itdiat  a  cura  di 
M.  Fubini,  Torino,  Edizioni  Radio  Italiana,  1957,  pp.  266-77. 


DALLA  CONTINUAZIONE 

DELL' « HISTOIRE  LITTERAIRE  D'ITALIE» 

DEL  GINGUENE 

TOME  X 

CHAPITRE  XLIII 

Resume'  de  I' histoire  littdraire  du  seizieme  siede.  Instruction  uni- 
versellement  re'pandue  chez  les  Italiens.  Son  peu  de  soliditd. 
Esprit  limitation  dam  presque  tons  les  genres.  Traits  d'origina- 
lite'  dans  quelques-uns.  Les  Italiens  plus  habiles  dans  les  vers  que 
dans  la  prose.  Caractere  de  Ugeretd  et  de  servilitd  dans  la  plupart 
de  leurs  ouvrages;  et  ses  causes  politiques  et  religieuses.  Dtfaut 
d'e'loquence  et  de  philosophie.  Quelques  ouvrages  dans  lesquels 
elles  se  rdfugient.  fitendue  non  ordinaire  d*  esprit  des  Italiens. 
Leur  influence  litUraire  sur  toute  VEurope? 

Nous  voici  parvenus  &  la  fin  de  1'histoire  Iitt6raire  de  ce  grand 
si&cle;  histoire  dont  les  bornes  semblaient  reculer  a  mesure  que 
nous  avancions.  En  parcourant  un  espace  si  riche  en  productions 
de  tout  genre,  nous  n'avons  pu  que  les  consid6rer  isol£ment  et 
les  analyser  en  detail.  Maintenant  qu'il  nous  soit  permis  de  nous 
arrSter  quelques  instans  pour  jeter  un  dernier  regard  sur  cet 

Uno  dei  letterati  francesi  die  contribuirono  a  rendere  meno  difficili  al 
Salfi  i  primi  anni  del  suo  soggiorno  parigino  fu  Pierre-Louis  Ginguene, 
da  lui  probabilmente  gia  conosciuto  in  Italia.  Al  Ginguene  il  Salfi  dovette 
in  particolare  Tinvito  a  collaborare  alia  Biographie  universelle,  pubblicata 
dall'editore  Michaud;  e  proprio  questi,  dopo  la  morte  del  Ginguen6  (awe- 
nuta  nel  1817),  pens6  di  affidare  all'esule  italiano  anche  il  pid  impegnativo 
incarico  di  continuare  I*  Histoire  litter  air  e  d*  Italic  >  lasciata  in  tronco  dopo 
il  vi  volume  dal  critico  francese.  Compito  del  Salfi  fu  anzitutto  quello  di 
rivedere  e  riordinare  il  materiale  che  il  Ginguen6  aveva  preparato  per  altri 
tre  volumi.  Ma  in  realt^i  il  Salfi  non  si  Iimit6  ad  una  revisione  e  ad  un 
riordinamento  puri  e  semplici,  bensl,  come  sappiamo  dal  Fauriel  (cfr. 
« Revue  encyclop6dique  »,  n,  1819,  pp.  311-^6),  vi  inserl  parecchie  aggiunte 
proprie,  la  cui  riunione  avrebbe  formato  un  grosso  volume:  nel  tomo  vii 
i  profili  dei  petrarchisti  e  il  lungo  paragrafo  sul  Telesio;  e  nel  tomo  vm 
la  terza  sezione  del  capitolo  sugh  scrittori  politici  (Giannotti,  Paruta  e 
Botero),  la  parte  relativa  alia  storia  letteraria,  e  infine  1'intero  capitolo  sui 

i.  Dall' Histoire  litUraire  d'ltalie,  ed.  cit.,  x,  pp.  439-66. 

60 


94-6  FRANCESCO   SAVERIO   SALFI 

imposant  tableau,  dont  Pensemble  m£rite  dc  fixer  encore  notre 
attention,  et  qui  ne  peut  manquer  de  nous  offrir  quelques  points 
plus  dominans  ou  quelques  circonstances  plus  remarquables,  qui 
nous  mettront  k  m£me  de  recueillir  des  r6sultats  g<§n£raux  qu'une 
analyse  particuli&re  nc  nous  permettait  pas  de  saisir.  Peut-etre 
m£me  arrivera-t-il  que  des  objets  qui,  vus  en  detail  et  de  prte, 
nous  ont  frapp6s  de  quelque  6tonnement,  consid£r6s  en  perspec 
tive  et  en  masse,  produiront  sur  nous  une  tout  autre  impression. 
Cest  done  sous  ce  rapport  que  nous  allons  envisager  ce  si&cle, 
et  en  determiner  le  caract&re  et  Timportance. 

Le  premier  objet  qui  fixe  notre  attention  est,  sans  contredit, 
le  nombre  prodigieux  des  savans  qui  ont  illustr6  ce  sitele,  et  la 
vari6t6  surprenante  des  ouvrages  qu'ils  ont  produits,  L'instruction 
6tait  si  g6n6ralement  r^pandue  dans  r Italic,  qu'elle  pourrait,  sous 
ce  rapport,  rivaliser  de  gloire  avec  toutes  les  nations  les  plus 
£clair£es  qui  Font  pr6c£d£e  ou  suivie  dans  la  m£me  carri£re.  Rome 
antique,  la  Gr&ce  elle-m€me,  ne  paraissent  pas  nous  offrir  le 
m£me  spectacle.  Rome,  malgr6  T6tendue  et  Finfluence  de  son 
empire,  lorsque  les  lettres  parvinrent  au  plus  haut  point  de  d6ve- 

novellisti.  Dope  la  pubblicazione  di  questi  due  tomi  e  del  IX  (Paris, 
Michaud,  1819),  il  Salfi  stese  interamente  un  altro  tomo,  il  x  (Paris,  Dufart, 
1823),  nel  quale  complet6  la  trattazione  del  secolo  XVI,  aggiungendo  in 
appendice  un  lungo  elogio  del  Ginguene".  Quindi  si  accinse  alacremente 
a  compiere  i  tomi  relativi  al  Seicento,  tanto  che  nel  1826,  in  una  nota 
apposta  alia  prefazione  del  Re'sume'  de  Vhistoire  de  la  literature  italimne, 
afFermava  di  attendere  gia  alia  stesura  del  quarto  ed  ultimo  tomo.  Non 
sappiamo  quando  poi  il  lavoro  sia  stato  effettivamente  terminato.  Certo 
e  che  il  Salfi,  o  per  ragioni  di  salute  o  per  altre  cause,  non  and6  oltre  il 
Seicento;  anzi  quest'ultima  parte,  comprendente  quattro  tomi,  dall'xi  al 
xiv,  fu  pubblicata  soltanto  dopo  la  sua  morte,  dal  Michaud,  fra  il  1834  e  il 
1835.  Purtroppo  Teditore,  mosso  probabilmente  da  preoccupazioni  di 
carattere  politico,  apport6  all'opera  alcuni  gravi  tagli,  sopprimcndo  due 
capitoli  fra  i  piu  importanti,  il  vi  (Mttaphysigue,  morale,  jurisprudence, 
politique,  dconomie  politique)  e  il  x  (Histoire  eccUsiastique  et  litt&aire),  e 
accorciandone  notevolmente  altri  due,  il  iv  (MaMmatiques  pures  et  mixtes) 
e  il  v  (Physique,  histoire  naturelte,  botanique,  chimie,  %oonomiet  anatomic, 
chirurgie,  nusdecine).  Ma  questa  edizione  doveva  subire  una  nuova  disav- 
vcntura,  quando  nel  1835,  a  causa  di  un  incendio,  la  maggior  parte  delle 
copie  and6  distrutta.  La  rarit^i  dei  pochi  esemplari  salvatisi  contribul 
certo  in  gran  parte  alia  scarsa  influenza  delPopera  del  Salfi  nella  critica 
successiva,  fino  a  che  il  Croce  non  ebbe  occasione  di  valersene  e  di  richia- 
mare  su  di  essa  1'attenzione  degli  studiosi,  soprattutto  con  1'articolo  La 
storia  della  letteratura  nel  secolo  XVH  di  P.  S.  Salfi,  citato  nella  bibliogra- 
fia.  II  testo  dei  passi  qui  riprodotti  si  attiene  a  quello  delle  edmoni  Dufart 
e  Michaud  sopra  ricordate,  Le  note  del  Salfi  sono  seguite  dalla  sigla  S. 


HISTOIRE   LITT^RAIRE   D'lTALIE  947 

loppement,  concentrait  dans  ses  murs  presque  toute  sa  lumi&re; 
a  peine  quelque  faible  reflet  en  jaillissait  dans  un  petit  nombre  de 
ses  provinces.  Elle  attirait  meme  chez  elle,  des  autres  villes,  tous 
les  talens,  jaloux  de  b tiller  sur  un  plus  grand  theatre.  Les  Pline, 
les  Lucain,  les  S6neque,  les  Cic6ron  meme,  les  Virgile,  les  Horace, 
les  Salluste,  les  Tite-Live  ne  laissaient  a  leur  pays  que  la  gloire 
sterile  de  les  avoir  vus  naitre;  et  Tinfluence  imm6diate  de  leur 
esprit  allait  se  confondre  a  Rome  avec  celle  de  tous  les  autres. 
Pareil  ph6nomene  s'6tait  fait  a  peu  pres  remarquer  dans  la  Grece 
lorsqu'Athenes,  apres  avoir  attir6  des  environs  et  surtout  de 
PAsie-Mineure,  de  la  Grande-Grece  et  de  la  Sicile  ce  qu'elles 
poss6daient  de  plus  distingu6,  prit  son  essor  et  s'61eva  au-dessus 
des  autres  r£publiques,  devenues  ou  ses  sujettes  ou  ses  alliees. 
Tout  l'e"clat  des  lettres  et  des  arts  de  la  Grece  se  trouva  presque 
concentr6  dans  PAttique.  Lors  meme  qu'on  chercha  a  les  cultiver 
ailleurs,  ils  ne  brillerent  que  d'une  lumiere  plus  ou  moins  faible 
et  de  peu  de  dur£e.  On  peut  faire  la  meme  observation  sur  le 
siecle  de  Louis  XIV,  et  sur  tous  ceux  dont  les  nations  les  plus 
6clairees  ont  £  se  glorifier.  Cest  la  capitale  qui  a  toujours  absorb^ 
les  tr£sors  de  T esprit  comme  ceux  de  Pindustrie  de  la  nation 
entiere. 

Dans  Tltalie  du  seizieme  siecle,  ce  n'est  plus  Rome  seule  qui 
brille  et  profite  de  toute  sa  lumiere.  Non  seulement  les  villes 
principals ,  mais  aussi  les  moins  remarquables  semblent  lui  dis- 
puter  son  6clat;  elles  sont  comme  autant  de  foyers  d'oii  partent 
et  se  r6pandent  les  sciences  et  les  arts.  Florence,  Ferrare,  Urbin, 
Bologne,  Naples,  Salerne,  Venise,  Padoue,  Milan,  Turin,  Pavie, 
G£nes,  Mantoue,  Sabionette,1  toutes  avaient  re9u  la  m£me  im 
pulsion,  et  suivaient  leur  tendance  commune.  De  la  ce  nombre 
prodigieux  d'6coles,  d'universites,  d'imprimeries,  de  biblioth^ques 
et  surtout  d'acad6mies,  qui,  lors  m^me  qu'  elles  nous  ont  paru 
de  peu  d'importance,  et  quelquefois  ridicules,  tant  par  leur 
denomination  que  par  leur  objet,  prouvent  du  moins  ce  penchant, 
ce  besoin  g£ne~ral  qu'avaient  les  Italiens  de  s'instruire  et  de  s^- 
clairer.2 

i.  Sabionette:  Sabbioneta,  cittadina  della  pianura  mantovana,  fu  residen- 
za  di  un  ramo  dei  Gonzaga,  e  conobbe  un  periodo  di  splendore  artistico 
specialmente  sotto  il  principe  Vespasiano  (i53i-i59*)-  2.  Dans  Vltalie . . . 
fedairer :  &  probabile  che  con  queste  considerazioni  il  Salfi  voglia  rispon- 


94$  FRANCESCO   SAVERIO   SALFI 

Cette  ardeur  pour  Tinstruction  qui,  partout  ailleurs,  s*cst  vue 
restreinte  dans  une  classe  pour  ainsi  dire  privilege  et  s6par6e  de 
toutes  les  autres,  n'e"tait  6trangere  ii  aucune  chez  les  Italiens  de 
ce  siecle.  La  littdrature  semblait  se  confondre  avcc  la  civilisation 
nationale.  Des  cours  elle  se  r6pandait  dans  les  rangs  inftrieurs  des 
citoyens,  et  jusque  dans  la  dcrniere  classe  du  peuple.  Nous  avons 
vu  presque  tous  les  princes  et  les  gouverncmens  d*  Italic  la  regarder 
comme  un  attribut  ou  une  marque  distinctive  de  leur  grandeur. 
Us  y  cherchaient  meme  un  moyen  de  couvrir  aux  yeux  de  leurs 
sujets  et  des  etrangers  leurs  chagrins  ou  leur  faiblesse.  Ih  croyaient 
se  d6dornmager  de  leurs  pertes  ou  de  leur  de*pendance  par  Piclat 
des  beaux-arts  et  des  lettres,  et  en  imposcr  par  le  savoir  de  leurs 
favoris.  Ainsi  leurs  cours  ne  paraissaient  £tre  que  des  acad6mies, 
et  leurs  courtisans  que  des  hommes  de  lettres  ou  des  savans 
distingue"s.  Les  Dialogues1  du  comte  Castiglionc  sont  la  peinture 
la  plus  fidele  des  cours  de  ce  siecle  en  Italic,  Le  caractere  et  la 
publicity  des  f£tes,  des  spectacles,  des  monumens  et  de  la  plupart 
des  ouvrages  alimentaient  le  besoin  de  ^instruction,  et  bientdt 
elle  devint  Inoccupation  g6ne"rale.  La  quantit6  extraordinaire  de 
certains  livres,  de  poemes  romanesques,  d'histoires,  de  contes,  et 
surtout  de  ces  podsics  lyriques  que  nous  avons  souvent  d6pr6ci6ea, 
et  les  nombreuses  Editions  que  Ton  en  r6p6tait  tous  les  jours,  nous 
sont  une  preuvc  que  la  lecture  6tait  un  besoin  du  plus  grand 
nombre.  Le  Roland  de  1'Ariosto,  la  Jirusalm  du  Tasso,  VArcadie 
de  Sannazaro,  VAminta  ct  le  Pastor  fido  6taient  le  dilasscmcnt 
ordinaire  de  tous  les  artisans,  Cest  aussi  depuis  cette  6poque 
que  les  lazzaronis  de  Naples  ont  toujours  pris  un  si  grand  plaisir 
k  entendre  la  lecture  du  Tasso  et  de  TAriosto,  et  que  les  bateliers  de 
Venise  en  r6citent  les  stances  les  plus  belles  en  se  promenant  le 
soir  sur  la  mer.  Bandello  nous  assure  quelquc  part  qu'il  trouvait  ses 
Contes  mtoe  entre  les  mains  des  filles  de  chambre*  NOUB  avons 
souvent,  dans  le  cours  de  cette  histoire,  signal^  des  artistes  et  des 

derc  polcmicamentc  a  coloro  cht%  come  TAlgurotti  e  il  Bettinclli,  avevano 
indicate  una  dcllcs  cause  principali  della  dccadcnza  culturale  italiana  nclla 
mancanxu  di  una  capitale  chc  costituisse  un  fecondo  centro  animatore 
dclla  nassione.  Si  noti  comunque  che  per  il  Salfi  il  fraxionamcnto  culturale 
in  Italia  £  positive  in  quanto  prova  della  diflfusione  capillare  dclla  cultura 
stessa,  c  non  -  come  solo  pid  tardi,  in  piu  maturo  clixna  »toricistico,  si 
riconosccra  -  quale  teatimonianza  di  una  ricca  varicta  di  tradmoni.  x ,  // 
cortegiano  (S.). 


HISTOIRE   LITT^RAIRE   D'lTALIE  949 

artisans  parmi  les  savans  et  les  litterateurs.  Rappelons-nous  les 
Labacco,  les  Sangallo,  les  Caracci1  et  surtout  le  Cellini  qui 
n'etait  qu'un  orfevre,  et  Giambattista  Gelli  qui,  devenu  Tun  des 
plus  grands  litterateurs  de  son  temps,  n'avait  6t6  qu'un  bonnetier. 
Pierio  Valeriano2  lui-m£me  fit  ses  premieres  6tudes  etant  aux  gages 
d'un  maitre  en  qualit6  de  valet  de  chambre.  Mais  ce  qui  prouve 
encore  plus  ce  que  nous  venons  d'avancer,  est  le  recueil  de  vers 
publi6  a  Mantoue,  et  dont  les  auteurs  ne  furent  que  des  tailleurs, 
des  cordonniers  et  des  forgerons.3 

Qu'on  ne  s'attende  pas  n£anmoins  a  trouver  toujours,  parmi 
ce  grand  nombre  d* auteurs  et  de  livres,  cette  profondeur  et  cette 
solidit6  qu'on  chercherait  en  vain  dans  leurs  ouvrages,  et  qui 
seules  devraient  constituer  leur  m6rite.  On  risque  meme  de  revenir 
de  sa  premiere  surprise  a  mesure  qu'on  veut  les  approfondir  et 
les  juger  s6par6ment.  On  apercoit  bientot  les  traces  de  cet  esprit 
d'imitation  qui  semble  ne  produire  rien  de  nouveau,  et  qui  nous 
fait  regarder  comme  vide  et  st£rile  ce  meme  si&cle  dont  Pabondance 
nous  avait  d'abord  etonnes.  Sous  ce  rapport,  le  si&cle  de  L6on  X 
ne  parait  qu'un  renouvellement,  une  continuation  du  si&cle 
d'Auguste,  comme  ce  dernier  1'avait  6t6  de  ceux  d'Alexandre  ou 
de  Pericles.  Mais,  si  les  anciens  Romains  ne  purent  se  dispenser 
d'imiter  les  Grecs  et  d'introduire,  pour  ainsi  dire,  chez  eux  ces 
Strangers,  comment  les  Italiens  auraient-ils  pu  se  soustraire  a 
Timitation  des  Romains,  quand  ils  avaient  sous  leurs  yeux  les 
tr6sors  qu'ils  en  avaient  h£rit6s?  Comment  pouvaient-ils  ne  pas 
apercevoir  et  appr£cier  ce  spectacle  6clatant  que  leurs  ancetres  leur 
avaient  pr6par6  ?  Ils  ne  durent  pas  admirer  long-temps  ces  modeles 


i.  Antonio  dall'Abacco,  o  da  Labacco,  architetto  (nato  nel  1495),  scrisse  un 
Libro  appartenente  all* architettura\  dei  Carracci  Agostino,  a  detta  del  Tira- 
boschi  (che  e  certo  la  fonte  del  Salfi),  si  distinse  ugualmente  nella  poesia 
(la  tradizione  gli  attribuisce  il  sonetto  a  Nicol6  dell' Abate,  riportato  an- 
qhe  dal  Lanzi,  in  questo  volume),  nella  filosofia  e  nella  matematica;  di 
Antonio  e  Giuliano  da  Sangallo  non  si  conoscono  (a  parte  Tabbozzo  ine- 
dito  di  un  commento  a  Vitruvio)  opere  culturali,  ma  «  codici »  di  disegni, 
pure  ricordati  dal  Tiraboschi,  e  che  probabilmente  trassero  in  inganno 
il  Saljfi.  2.  Pierio  Valeriano  (1477-1558),  umanista  e  autore,  fraTaltro,  di 
un  trattato  sulla  lingua  italiana  di  orientamento  trissiniano,  fu  in  gio- 
ventu  costretto  dalla  poverta  a  servire  presso  alcuni  patrizi  veneziani, 
come  egli  stesso  narra  in  una  sua  elegia.  3.  Voyez  ci-dessus,  t.  ix,  p.  248 
(S.)«  La  raccolta  a  cui  allude  il  Salfi  fu  pubblicata  a  Mantova  nel  1612  da 
Eugenio  Cagnani. 


95°  FRANCESCO   SAVERIO   SALFI 

classiques  du  beau  sans  les  ch6rir  et  les  regarder  comme  unc 
proprie"te"  nationale.  Bientdt  il  devint  d'un  intc"ret  ginfiral  de  les 
6tudier,  de  les  traduire  et  de  les  imiter. 

C'est  pour  cela  qu'&  la  renaissance  des  lettres,  et  encore  long- 
temps  apres,  la  plupart  des  savans  italic ns  ne  furent  que  des 
latinistes.  Nous  avons  d6jk  vu  que,  meme  au  seixieme  siecle, 
nombre  de  litterateurs  trouvaient  une  sorte  de  scandale  &  6crire 
des  ouvrages  s<§rieux  dans  Fidiome  italien.  L'Amaseo  se  flatta 
d'exciter  le  zele  d'un  pape  et  d'un  empereur,  pour  proscrire  et 
poursuivre  comme  des  he'te'rodoxes  ceux  qui  6crivaient  dans  la 
langue  vulgaire.1  Mais  ce  qui  e*  tonne  encore  plus  c'est  cette  foule 
de  poetes  latins  que  nous  avons  rencontre's  au  milieu  de  tant  de 
poetes  italiens.  Us  semblaient  disputer  aux  autres  leur  gloire.  On 
ne  peut  se  figurer  tant  d'efforts  et  tant  de  peine,  pour  e*crire  et 
penser  dans  une  langue  morte,  sans  leur  supposer  une  espece 
d'attachement  religieux  pour  elle.  Ceux  m£mes  qui  oserent  for 
mer  ou  restaurer  leur  nouvel  idiome,  ne  le  regardant  que  comme 
une  production  immediate  ou  plutdt  comme  une  metamorphose 
de  la  langue  latine,  s'efforcerent  toujours  de  r£gler  sa  marche  sur 
celle  de  sa  mere.  Ce  ne  fut  pas  seuiement  le  Boccace  qui  Tobligea 
de  prendre  les  formes  cice*roniennes,  mais  le  Bembo,  le  Sannazaro 
lui-me'me  et  tous  leurs  partisans  n'oserent  jamais  s'6carter  beaucoup 
de  leur  premier  modele.  Us  croyaient  £tre  d'autant  plus  italiens, 
qu'ils  s'efForgaient  davantage  de  paraitre  latins  en  toivant  leur 
propre  langue. 

Ce  premier  genre  d'imitation  s'6tendit  bient6t  i  toutes  les  for 
mes  anciennes  et  classiques  que  les  Grecs  et  les  Latins  avaient 
consacr^es  au  moyen  de  leurs  chefs-d'oeuvre.  Ceux  m&mes  qui 
avaient  re9U  de  la  nature  assez  de  talent  et  de  g6nie  pour  se  frayer 
de  nouvelles  routes  et  cr&r  &  leur  tour  des  modeles  de  perfection, 
n'eurent  point  assez  de  courage  pour  abandonner  entiirement  les 
anciens.  Le  Dante  qui,  le  premier,  avait  6t6  anim6  par  un  intdr£t 
tout  nouveau  et  tout  national,4  le  Dante  Iui-m6me,  dans  son  long 

x.  UAmaseo  . . .  vulgaire:  Romolo  Amasco  (1489-1552),  umanista  »udine8ef 
nel  1529  tenne  in  San  Petronio  a  Bologna,  dinanzi  a  Carlo  V  e  a  Clcmente 
VII,  due  solcnni  orassioni  contro  la  lingua  volgarc  e  gli  scrittori  che  la  im- 
piegavano  in  luogo  della  latina.  2.  qui .  . .  national:  qucsto  concetto,  che 
risale,  come  si  ^  visto,  al  Torti  (cfr.  in  qucsto  volume,  pp.  872  sgg.),  sarli 
ripreso  e  piti  ampiamente  svolto  dal  Salfi  nei  capitoli  dedicati  a  Dante  del 
de  Vhistoire  de  la  literature  italicnne. 


HISTOIRE   LITT&RAIRE  D'lTALIE  951 

voyage,  prit  Virgile  pour  guide,  et  le  sixi^me  livre  de  Mfintide 
pour  module  de  son  vaste  plan.  Petrarca  qui,  a  Texemple  des 
Proven9aux,  ne  voulait  qu'amuser  Laure  et  des  lecteurs  galans 
comme  lui,  se  regardait  comme  d'autant  moins  digne  de  Tap- 
probation  des  savans  qu'il  s'etait  plus  eloign6  des  Latins.  Je  ne 
parle  point  de  Boccaccio  qui,  du  moins,  sous  le  rapport  de  l'61o- 
cution,  du  nombre  et  de  Pharmonie,  ne  fut  qu'un  imitateur  trop 
recherch6  de  Cic6ron.  On  voit,  d'apr&s  cela,  qu'en  g£n6ral  les 
Italiens  du  seizi&me  si^cle  ne  firent  qu'imiter  les  anciens,  ou  meme 
les  modernes  qui  avaient  6t<§  plus  heureux  dans  leur  imitation. 
Nous  ne  formons  pas  de  conjectures  sur  ce  qui  serait  proba- 
blement  arriv6,  si  cet  esprit  d'imitation  n'avait  pas  pr£occup6  les 
Italiens,  si  des  circonstances  diff6rentes  les  avaient  enti&rement 
s<§par£s  des  anciens,  enfin  s'ils  avaient  6t<§  contraints  de  se  frayer 
de  nouvelles  routes,  ou  m6me  de  suivre  les  anciennes  sans  y 
trouver  les  traces  de  ceux  qui  les  avaient  devanc£s.  Nous  n'exa- 
minons  pas  non  plus  si  les  r6sultats  de  cette  esp&ce  d'ind6pendance 
sauvage  qui  ne  tire  aucun  parti  de  P  experience  du  passe,  nous 
auraient  d£dommag6s  du  long  tatonnement  et  des  fre"quens 
6garemens  auxquels  cet  6tat  djinexp6rience  nous  aurait  pendant 
long-temps  exposes.  II  nous  suffit  de  rappeler  les  faits  tels  qu'ils 
sont,  pour  qu'il  demeure  incontestable  que  T esprit  d'imitation, 
au  seizi&me  si^cle,  s'6tait  tellement  empar6  de  la  plupart  des 
Italiens  que  souvent  leurs  ouvrages  n*6taient  qu'une  r6p6tition, 
un  pillage  de  ce  qui  appartenait  a  d'autres  qui  avaient  de  meme 
pil!6  leurs  devanciers.  Francesco  Doni,  dans  sa  Biblioth&que*  ac- 
cusait  tous  ses  contemporains  de  cette  tache  commune,  dont  il 
n'£tait  pas  lui-meme  exempt.  En  effet,  souvent  ils  paraissent 
d6guis6s  en  Grecs  ou  en  Latins,  dont  le  masque  plus  ou  moins 
transparent  les  fait  sans  peine  reconnaitre.  Ils  n'6taient  pas  assez 
bien  instruits  de  la  legislation  et  des  institutions  des  anciens. 
Presque  toutes  les  tragedies  de  ce  si&cle,  qui  certes  n'£taient  qu'une 
imitation  des  trag6dies  grecques,  prouvent  que  leurs  auteurs  n'a- 
vaient  point  saisi  le  veritable  esprit  de  leurs  modules.  Ne  pourrait- 
on  pas  soup9onner  la  meme  chose  du  Dante  Iui-m6me,  lorsqu'il 
semble  imiter  ce  que  Virgile  avait  indiqu6  de  certaines  pratiques 
des  anciens  myst^res  ?  En  g6n6ral,  on  n'imita  les  anciens  que  dans 

I.  dans  sa  Biblioth&que:  ciofc  nella  Libraria  (1558). 


952  FRANCESCO   SAVERIO   SALFI 

les  objets  les  plus  lagers  ou  les  formes  les  plus  superficiclles;  et 
lors  m£me  qu'on  croyait  s'occuper  des  mati&res  les  plus  importan- 
tes,  telles  que  la  morale  et  la  politique,  il  s'en  fallait  dc  beaucoup 
que  ces  imitateurs  eussent  saisi  Tesprit  de  leurs  modules.  Us  em- 
pruntaient  les  phrases  de  Platon  ou  d'Aristote,  mais  non  pas  leur 
force  de  raisonnement  ou  leurs  m6thodes. 

Gardons-nous  cependant  de  confondrc  dans  cette  foule  d'6cri- 
vains  ceux  qui,  m£me  en  imitant  les  anciens  sous  quelqucs  rap 
ports,  les  ont  surpasses  sous  beaucoup  d'autres,  Combien  de  genres 
classiques  n'ont-ils  pas  6t<§  d6velopp6s  ou  am<§lior6$  dans  ce  $i&cle  ? 
Combien  d'autres  ne  pourrait-on  pas  regarder  comme  line  nou- 
velle  creation?  La  langue  vulgaire  elle-m£me,  d'apr&s  rexcmple  de 
Dante,  ne  devint  que  1'organe  de  la  pens<§e  sous  la  plume  de 
Machiavelli.  Castiglione,  le  Segni,  Paruta,  TAmmirato,  le  Tasso 
et  tant  d'autres  ont  rendu  £  leur  langue  sa  v6ritable  destination. 
Dans  la  longue  revue  que  nous  avons  pass^e  de  tous  les  genres 
Htt6raires  qui  brill^rent  au  seizi&me  si^cle,  nous  n'avons  jamais 
cess6  de  remarquer  le  point  oti  les  anciens  les  avaient  Iaiss6s,  ct 
celui  ou  les  modernes  les  ont  fait  arriver*  Rappelons  maintenant 
ceux  oti  les  Italiens  ont  montr6  le  plus  d'originalit6. 

Le  genre  lyrique  auquel  la  foule  dcs  imitateurs  s'attacha  le  plus, 
apr&s  s'£tre  enrichi  des  formes  latines  et  grecques,  peut  se  glorifier 
de  plusieurs  pofetes  qui  chant^rent  de  nouveaux  sujets,ou  essay^rent 
des  tours  et  des  plans  tout  difKrens  de  ceux  de  Petrarca,  tels  que 
le  Tarsia,  le  Casa,  Guidiccioni,  Tansillo,  Costanzo,  etc. 

Si  le  Sannazaro,  en  renouvelant  le  genre  bucolique,  ne  fit  de 
Thtecrite  et  de  Virgile  que  ce  que  tant  d'autres  ont  fait  de  lui- 
m£me,  dans  tous  on  trouve  plus  de  naturel  que  dans  pas  un  des 
Strangers  qui  ont  suivi  la  m£me  carri&re.  Souvent  m6me  ils  ont 
trouv6  des  formes  et  des  sujets  que  les  anciens  n'avaient  pas 
imagin6s,  comme  en  ont  fait  preuve  le  Rota,  le  Baldi*  et  les  in- 
venteurs  de  la  po^sie  appel^e  par  les  Florentins  «  rusticate  ».a 

L'Ariosto  imita  Horace  dans  ses  satires,  mais  il  ne  le  surpassa 

i.  Bernardino  Rota  (1508-1575)  &  assai  lodato  dal  Salfi  (cfr.  Histoire 
littdraire  drltaliet  cd.  cit.,  x,  pp.  138-42)  per  le  sue  Edoghe  « pcacatorie », 
nelle  quali  «aucun  po^ttk  n'a  mieux  retract  les  occupations  ct  les  moeurs 
dcs  pficheurs  ct  des  marinicrs »;  ancora  piii  grandi  elogi  cgli  fa  di  Bernardi 
no  Baldi  (1553-1617),  per  averc  egli  osato,  nelle  sue  Bcfaghe  miste,  « crier 
des  sujets,  dcs  tableaux,  dea  caract^res  que  les  autrea  n'avaient  point 
essaye"s,  ou  qu'ils  avaient  ^  peine  essayed  (cfr,  op,  cit,  x,  pp.  145*58). 


HISTOIRE  LITT^RAIRE  D'lTALIE  953 

pas,  comme  dans  ce  genre  le  poete  latin  avail  fait  des  Grecs;  toute- 
fois  la  satire  burlesque  du  Berni  et  de  tant  d'autres  qui  en  sui- 
virent  Fexemple,  n'a  point  de  modele  chez  les  anciens.  Elle  peut 
£tre  regarded  comme  appartenant  en  propre  aux  Italiens;  et,  parmi 
ceux  qui  s'y  sont  exerc6s,  on  compte  les  e"crivains  les  plus  s6rieux, 
tels  que  Machiavelli,  le  Casa,  le  Varchi,  et  Galilei  lui-meme.1 

Qui  aurait  os6  se  promettre  de  donner  a  la  po6sie  didactique  le 
degre"  de  perfection  que  Virgile  avait  atteint  dans  ses  GJorgiques? 
Ce  serait  pourtant  ne  pas  connaitre  la  nature  de  ce  genre  et  Tint6- 
r£t  qui  en  fait  le  charme,  que  de  ne  pas  appr6cier  les  Abeilles  de 
Rucellai,  et  V Agriculture  de  TAlamanni.  Remarquons  bien  que, 
dans  cette  sorte  de  poemes,  lorsque  le  style  est  vraiment  poe"tique 
ou  pittoresque,  qualit6  la  plus  importante  et  la  plus  difficile  a 
atteindre,  leur  originalite*  r6sulte  principalement  de  la  nouveaute* 
du  sujet.  Or,  la  Pottique  du  Muzio,2  la  Nourrice3  de  Tansillo,  la 
Chasse  de  Valvasone,  la  Nautique  du  Baldi,  etc.,  6taient  sans  con- 
tredit  des  sujets  nouveaux  pour  les  Italiens. 

Leur  originality  se  manifeste  encore  mieux  dans  T6pope*e.  Les 
poemes  romanesques  semblent  avoir  6t6  entierement  inconnus  aux 
anciens.  D'apres  le  Roland  furieux  de  1'Ariosto,  qui  suivit  et 
surpassa  le  Roland  amoureux  de  Boiardo,  on  ne  doute  plus  de 
rint6r£t  et  de  la  nouveaute"  de  ce  genre.  On  lui  reconnait  meme 
un  plan,  non  moins  difficile  a  imaginer  qu'a  saisir,  au  milieu  de 
cette  apparente  irrdgularite"  qui  ajoute  a  Tint6ret  du  poeme.  Ce 
qui  le  rend  encore  plus  original,  c'est  le  monde  nouveau  que  le 
poete  nous  pr6sente,  monde  bien  plus  6tendu  et  bien  plus  vari6 
que  celui  qu'Homere  et  Virgile  avaient  jadis  parcouru.  Sous  ce 
rapport,  on  regarde  TAriosto  comme  le  poete  par  excellence. 
On  crut  meme  qu'il  ne  restait  rien  de  mieux  a  faire  que  de  Timiter. 
C'est  pour  cela  que  le  seizieme  siecle  compte  presque  soixante 
poemes  romanesques. 

On  ne  cessa  pas  non  plus  d'imiter  les  formes  6piques  de  Virgile 

i.  on  compte .  .  .  lui-mSme:  del  Machiavelli  restano  in  effetto  alcuni  canti 
carnascialeschi,  del  Casa  cinque  capitoli  burleschi,  del  Varchi  pure  capitoli 
e  canti  carnascialeschi,  mentre  Galileo  scrisse  solo  un  capitolo  Contro  il 
portar  la  toga.  2.  la  Po&ique  du  Muzio:  i  tre  libri  DeWarte  poetica  di 
Girolamo  Muzio,  pubblicati  nel  1551  e  ispirati  alia  poetica  oraziana;  il 
Salfi  li  ricorda  anche  per  suggestione,  probabilmente,  delle  lodi  ad  essi 
tributate  da  Apostolo  Zeno,  in  una  nota  alia  Biblioteca  delV eloquenza  ita- 
liana  del  Fontanini,  Venezia,  Pasquali,  I,  i753>  P-  ^29.  3-  to  Nourrice: 
la  Balia, 


954  FRANCESCO   SAVERIO   SALFI 

et  d'Hom&re.  Le  Trissino  cut  le  talent  de  choisir  un  sujet  national  ;x 
mais  si  son  Italie  d$liw£e  des  Goths,  et  memo  V  Avar  chide  de 
TAlamanni,  ne  furent  qu'une  servile  imitation  cle  VHiade,  elles 
pr<§par£rent  le  g£nie  du  Tasso,  qui  bientot  6clipsa  tous  ses  eon- 
temporains.  II  d6buta  par  son  Renaud  et  finit  par  nous  donncr 
sa  Jerusalem  d4livr£e>  qui,  malgr6  ses  imperfections  souvcnt  cxag6- 
r6es  et  plus  souvent  consacr6es,  a  m6rit6  d'etre  plac6e  apr&s  VIHade 
et  l'$n&de.  II  est  incontestable  que,  si  elle  leur  cicle  &  quclques 
6gards,  elle  les  6gale  et  les  surpasse  meme  k  son  tour,  sous  plusieurs 
rapports. 

Le  po&rne  h6roi-comique  n'est  en  quelque  sorte  qu'une  exa- 
gyration  du  po&me  romanesque.  Nous  n'avons  des  Grecs  que  la 
Batrachomyomachie,  attribute  &  Homfere,  et  quelques  titres  qui, 
peut-£tre,  appartenaient  &  des  po^mes  de  ee  genre ;  mais  tout  cela 
ne  peut  6ter  Phonneur  de  Poriginalit6  au  Morgante  dc  Luigi  Pulci 
et  &  VOrlandino  de  Merlin  Coccaio.*  Si  cependant  la  Gtgtmtea  et 
la  Nanea3  ont  fait  regarder  ce  genre  comme  essentiellement 
mauvais,  les  pofetes  qui  en  ont  su  tirer  meilleur  parti  dans  les 
si&cles  suivans,  le  feront  mieux  appr6cier, 

Malheureusement  la  po£sie  dramatique  n*eut  pas  le  succ&s 
qu*obtinrent  les  genres  dont  nous  venons  de  parler.  Les  po&tes 
qui  entreprirent  cette  carriire,  ct  sans  doute  ils  furent  en  grand 
nombre,  6chou^rent  presque  tous.  Ceux  m£mes  qui  ont  tant 
bril!6  dans  d'autres  genres,  paraissent  autant  de  novices  dans 
celui-ci,  malgr6  sa  grande  affinit^  avec  ceux  qu'ils  ont  si  heureu- 
sement  trails.  C'est  Ik  qu'ils  ne  sont,  pour  la  plupart,  que  des 
imitateurs  ennuyeux  des  Grecs  et  des  Latins,  Quoique  la  So~ 
phonisbe  du  Trissino  ait  eu  plus  de  SUCG&S  que  son  Italie  d4liwfe\ 
quoique  Ton  distingue,  dans  la  foule,  quelque  piice  de  Giraldi 
Cintio,  le  Torrismond  du  Tasso,  et  surtout  YOrazia  de  1'Aretino, 
il  s'en  faut  bien  que  Ton  puisse  accorder  aux  Italians  du  sem&me 
si^cle  quelque  originalit6  dans  le  genre  tragique, 

i.  Le  Trissino  . ,  .  national:  un  elogio  piti  ampio  del  Trissino  come  poeta 
epicp^wnassionale »  si  legge  ncl  Rlsumt,  d&  Vhistoin  d$  la  literature  itdimne*t 
merit!  in,  tal  senso  aveva  riconosciuto  al  Trissino  anche  il  Sismondi  nella 
Literature  du  midi  de  I'JKurope,  n,  Paris  1813,  p.  96.  2,  11  pregiudido 
classicistico  impcdisce  al  Salfi  di  citaro  del  Folcngo  il  Baldus  invece  che 
I'insignificante  Orlandino.  3.  La  Gigantea  e  la  Nanea  sono  due  poemetti 
composti  verso  la  met&  del  sccolo  XVI  da  Girolamo  Amclonghi,  detto 
il  Gobbo  da  Pisa,  e  che  narrano  burlescamente  la  gucrra  tra  i  Giganti  da 
un  lato  e  gli  Dei  e  Nani  dall'altro. 


HISTOIRE   LITliRAIRE   D'lTALIE  955 

Ils  r6ussirent  mieux  dans  le  genre  comique.  Bien  qu'ils  eussent 
pris  pour  modules  les  com6dies  des  Latins,  qui  eux-memes  n'a- 
vaient  fait  qu'imiter  les  Grecs,  ils  parvinrent  quelquefois  &  les 
6galer.  La  Calandria  de  Bibbiena,  la  Mandragora  de  Machiavelli, 
quelques  pieces  de  1'Ariosto,  de  I'Aretino,  du  Cecchi,  prouvent 
assez  que  si  les  Italiens  ne  connaissaient  pas  encore  tout  Tart 
du  theatre,  ils  ne  manquaient  pas  non  plus  de  P  esprit  d'Aristo- 
phane  et  de  Plaute.  Lors  m£me  qu'ils  imitent  ces  deux  modules, 
ils  savent  donner  a  leurs  pieces  les  couleurs  de  leur  si&cle  et  de 
leur  pays;  et  sans  citer  plusieurs  de  leurs  caract&res  nationaux 
qu'ils  mirent  sur  la  sc&ne,  nous  nous  bornons  a  rappeler  le  role 
du  p.  Timoteo,1  qui  d&s  lors  pr61uda,  en  quelque  sorte,  a  celui  de 
Tartufe. 

Malgr6  les  imperfections  de  leurs  trag6dies  et  de  leurs  com6- 
dies,  les  Italiens  laisserent  quelques  traces  d'originalit6  dans  la 
carri&re  dramatique  par  leurs  pastorales,  et  surtout  par  leurs 
m61odrames.  Quoique  les  premieres  ne  soient  qu'un  developpe- 
ment  de  l'6glogue,  qui,  depuis  I'Orphfa  de  Poliziano,  et  surtout  la 
Cecaricf  d'Epicuro  et  Les  deux  pelerins3  de  Tansillo,  prit  de  plus 
en  plus  une  forme  nouvelle  et  caract6ristique,  YAminta  du  Tasso 
donna  a  ce  nouveaux  genre  un  plus  grand  int£ret,  que  le  Pastor 
fido  de  Guarini  accrut  encore,  malgr6  ses  d6fauts.  La  critique 
s6v&re  de  Gravina  a  fait  regarder  ce  dernier  drame  comme  un 
genre  monstrueux,  mais  s6duisant.4  Toutefois  on  ne  peut  se  dis 
penser  de  consid6rer  ces  deux  pastorales  comme  des  chefs-d'oeu 
vre  d'invention. 

La  repr6sentation  de  ces  deux  pieces  et  d'autres  semblables, 
la  musique  madrigalesque  qui  souvent  en  accompagnait  les  choeurs 
et  m£me  quelques  scenes,  concoururent  a  cette  r6volution  qui 
changea  ou  plut6t  crea  la  musique  et  un  nouveau  monde  th6atral 

i.p,  Timoteo:  il  frate  della  Mandragola.  Un  confronto  fra  il  personaggio 
machiavelliano  e  Tartufo,  a  vantaggio  del  prime,  &  nel  Saggio  storico  critico 
della  commedia  italiana  del  Salfi.  2.  Cecaria:  favola  pastorale-allegorica 
dell'umanista  abruzzese  Antonio  Epicuro  (1475-1555),  che  il  Salfi  stesso 
definisce  altrove  «une  espece  de  pastorale,  et  m£me  comme  le  premier 
essai  de  ce  genre  qui  ait  paru  au  commencement  du  seizieme  siecle  »  (cfr. 
Histoire  litter  air  e  d'ltalie,  ed.  cit,,  x,  p.  160).  3.  /  due  pellegrini,  composti 
dal  Tansillo  intorno  al  1528,  sono  anch'essi  una  favola  pastorale-allegorica, 
condotta  sul  modello  della  Cecaria  di  Epicuro.  4.  La  critique  .  . .  sldui- 
sant:  il  giudizio  sostanzialmente  negative  del  Gravina  sul  Pastor  fido  si 
legge  nel  trattato  Delia  ragion  poetica,  lib.  n,  cap.  xxm  (cfr.  Opere  scelte, 
Milano  1819,  pp.  226-7). 


956  FRANCESCO   SAVERIO   SALFI 

dans  Tltalie  et  dans  toute  PEurope.  Le  type  du  m&o-drame  fut 
d'abord  con$u  par  le  comte  Bardi  et  par  lacopo  Corsi/  et  bientot 
r6alis6  par  le  po£te  Rinuccini  et  par  les  compositeurs  Peri  et 
Caccini.  La  Daphnd,  VEuridice  et  YAriane*  ouvrirent  une  nouvelle 
source  de  plaisirs  aux  amateurs  de  la  po&sie  et  de  la  m61odic 
dramatiques. 

Nous  avons  consid6r£  comme  un  genre  de  po£sie  en  prose 
ces  contes  ou  nouvelles,  qui  chez  les  Italiens  ticnnent  lieu  de 
petits  romans.  Quel  que  soit  le  m6rite  des  fabliaux  Grangers  avant 
ce  si&cle,  les  Italiens  ont  tellement  rnani6  et  perfection^  ce  genre, 
qu'on  peut  bien  leur  d^ccrner  Thonneur  de  1'invention.  II  est 
vrai  cependant  que  cette  sorte  de  composition  semble  d'abord  de 
peu  d'importance ;  mais  si  Ton  remarque  1'usage  qu'en  ont  fait 
souvent  les  conteurs,  et  surtout  le  p.  Bandello,  on  sentira  que,  si 
on  1'avait  destinde  plut6t  &  corriger  les  moeurs  et  lea  pr6jug£s 
qu'i  former  le  style  et  £  s'exercer  dans  un  certain  genre  d'61ocu- 
tion,  on  en  aurait  tir6  et  plus  de  gloire  et  plus  de  profit. 

Nous  ne  parlons  pas  de  ces  autres  genres  ingfinieux  ou  btearres, 
pr6sent<§s  sous  la  forme  tant6t  de  lettres,  tantdt  de  dialogues  ou 
de  discours,  dont  tout  le  m6rite  ne  consiste  le  plus  souvent  qu'en 
Un  exercice  de  rh6torique.  La  prose  italienne  semble  Stre  rcst6e  fort 
au-dessous  de  la  po6sie.  Soit  influence  du  climat  ou  concours  de 
quelques  circonstances  accidentelles,  les  Italiens  donnirent  plus 
d'importance  et  d^clat  aux  genres  po6tiques  qu'St  ceux  de  la  prose; 
dans  la  po^sie  m^me  ils  sacrifi&rent  ordinairement  la  raison  & 
Pimagination,  Tutilit^  ^  1'agrtment.  LJ<§l^gance  de  la  diction  et  les 
charmes  du  style  semblent  souvent  avoir  6t6  pr6f6r6s  Ji  Tint6r6t 
de  la  pens^e  et  £  la  v6rit6  du  sentiment,  Les  sujets  mfimes  les  plus 
importans,  les  doctrines  les  plus  s6v&res  ne  se  montrent  parfois 
que  fard£s  de  couleurs  6trangires.  Ce  luxe  de  style  et  de  coloris, 
cet  excfes  d'imagination  qui  domine  dans  la  plupart  des  productions 
litt^raires  du  seiziime  si<kle,  mtoe  les  plus  graves  par  leur  sujet,  a 
fait  accuser  les  auteurs  italiens  d^un  certain  esprit  de  I£g&ret6, 
que  souvent  on  ne  peut  pas  contester,  mais  dont  nous  croyons 
devoir  rendre  raison,  afin  de  les  justifier  en  quelque  sorte, 

i.  lacopo  Com,  studioso  e  dilettante  di  musica,  fu  uno  del  component! 
della  Camerata  de'  Bardi.  2.  La  Dafne,  che  fu  rappresentata  nel  1595 
con  le  musichc  del  Peri,  del  Caccini  e  del  Corsi,  fe  ancora  una  vera  e 
propria  favola  pastorale;  mentre  VEuridice  (1600),  musicata  dal  Peri,  e 
VArianna  (1608),  musicata  dal  Monteverdi,  sono  gi&  regolari  libretti  d'opera. 


HISTOIRE   LITT&RAIRE   D'lTALIE  957 

On  ne  peut  se  dispenser  d'attribuer  une  partie  de  la  gloire 
littdraire  de  ce  siecle  a  la  protection  des  princes  qui  gouvernaient 
1'Italie.  C'est  aussi  a  leur  influence  que  sont  dus  la  plupart  des 
ses  d6fauts,  et  surtout  celui  que  nous  venons  d'indiquer.  Ces 
M^cenes,  en  prot6geant  les  lettres  et  les  arts  et  ceux  qui  les  cul- 
tivaient,  ne  pouvaient  les  faire  servir  a  leur  v6ritable  int6ret.  Les 
M£dicis  leur  donnerent  une  tout  autre  direction  que  celle  qu'ils 
avaient  re$ue  sous  les  auspices  de  la  liberte;  il  fallut  que  tout  se 
pliat  insensiblement  aux  desseins  des  petits  dues  de  Florence  et 
de  L6on  X.  Les  Sforce  firent  de  meme  a  Milan;  et  tous  les  autres 
princes  de  Tltalie  suivirent  k  peu  pres  le  meme  exemple.  Ainsi 
les  lettres,  les  arts,  les  6coles,  les  academies,  les  savans  se  trou- 
vferent  tous  anime"s  et  dirig6s  par  T  esprit  de  ces  princes  et  de 
leurs  courtisans.  L'influence  de  Pericles,  celle  meme  d'Auguste, 
d'Alexandre  ne  purent  pas  enti&rement  comprimer  cette  force  de 
pens6e  que  T6tat  pr6c6dent  des  choses  avait  communiquee  aux 
Grecs  et  aux  Remains.  Les  circonstances  memes  avaient  encore 
de  quoi  m6nager  en  eux  quelque  sentiment  de  leur  dignite  ou 
de  leur  pouvoir.  La  magnificence  apparente  de  la  cour  de  Louis 
XIV  cachait  en  quelque  sorte  la  faiblesse  r6elle  de  la  nation;  et 
Corneille  se  flattait  de  retracer  les  h6ros  de  Pancienne  Rome,  en 
leur  donnant  souvent  le  ton  des  courtisans  de  son  temps.  Les 
Anglais  ont  eu  le  meme  avantage,  aux  6poques  les  plus  florissantes 
de  leur  Iitt6rature.  Mais  quelle  influence  pouvait  exercer  l'6tat 
des  princes  de  T  Italic  et  de  ses  provinces  sur  Pesprit  des  peuples 
et  des  savans  de  leur  temps  ?  Us  s'effor9aient  en  vain  de  couvrir 
leur  faiblesse  par  T6clat  des  lettres  et  des  beaux-arts.  Exposes  aux 
menaces  et  aux  pr6tentions  de  voisins  plus  puissans,  et  toujours 
incertains  sur  leur  sort,  ils  sentaient  le  besoin  des  petites  intrigues, 
de  Thypocrisie,  de  la  m6fiance,  et  par  cons6quent  de  tous  les 
plaisirs  qui  assoupissent  T^me  et  Tengourdissent  au  lieu  de  la 
d61asser. 

C'est  la,  je  pense,  sinon  1'unique,  du  moins  la  principale  cause 
de  cette  po<§sie  16gere,  de  cette  foule  de  sonnets  et  de  madrigaux  qui 
nous  retracent  le  langage  galant  et  futile  des  courtisans,  et  dont 
1'esprit  s'introduisit  dans  les  genres  de  Iitt6rature,  meme  les  plus 
s6rieux.  Chaque  production  semblait  dict£e  par  une  espece  de 
convenance  qui  excluait  tout  sentiment;  Famour  meme  n'etait 
qu'un  objet  d'amusement  et  d'imagination;  la  dame  qu'aimait  le 


9$8  FRANCESCO    SAVERIO   SALFI 

poite,  n*£tait  souvent  qu'imaginaire.  Voil&  pourquoi  la  foulc  des 
ferivalns  prfiKra  dans  ce  si&cle  plut6t  la  mani&re  dc  Boccaccio  et  de 
Petrarca  que  cclle  du  Dante.  L'une  £tait  plus  proprc  que  Tautrc 
aux  moeurs  et  au  caract&re  du  temps.  Quand  m£me  on  voudrait 
attribuer  cette  direction  au  Bembo,  il  n'cn  serait  pas  moins  vrai 
qu'il  suivait  lui~m£me  celle  de  son  si^cle.  filev6  dans  unc  famille 
patricienne  de  Venise,  devenu  un  des  plus  z616s  suppdts  de  la  cour 
d'Urbin,  secretaire  de  L6on  X,  nomm£  cardinal  par  Paul  III, 
ses  Merits  ne  pouvaient  qu'Stre  empreints  de  sa  maniire  de  penser; 
et  le  m£me  esprit  devait  se  communiquer  i  ceux  qui  les  prenaient 
pour  module, 

XJne  nouvelle  combinaison  de  circonstances  politiques  et  reli- 
gieuses,  encore  plus  d6favorables,  joignit  &  cet  esprit  de  I6g&ret£ 
une  esp&ce  de  servilit£  encore  plus  contraire  aux  int&r£ts  de  toute 
Iitt6rature.  L'inquisition  eccl^siastique,  surtout  vers  la  seconde 
moiti6  de  ce  si£cle,  se  r^unit  i  Tinquisition  politique.  Sous  la 
triste  influence  de  ces  deux  ressorts  du  despotisme,  la  philosophic 
dut  se  taire  ou  se  cacher.  Les  tMologiens  remains,  s'apercevant 
de  plus  en  plus  de  leurs  pertes  et  voulant  les  r6parer  ou  se  venger, 
devenaient  d'autant  plus  intol<§rans  qu'ils  avaient  ^t6»  sous  le 
gouvernement  de  L6on  X,  indulgens  ou  plut6t  indolens,  Les 
Merits  de  Machiavelli,  accueillis  par  Clement  VII,  ^  qui  Tauteur 
les  avait  d<§di6s,  furent  solennellement  proscrits  et  d6fendus  vers 
1560,  On  avait  d£j&  ferm6  les  jardins  acad&miques  des  Rucellai,  ou 
Machiavelli  avait  con9u  et  dict6  ses  Discours  sur  Tite-Lwe.1 
L'acad^mie  platonicienne  de  Marsilio  Ficino  fut  proscrite  par  les 
mtoes  M^dicis  qui  1'avaient  prot6g6e,a  et  qui  lui  substitu&rent 
dans  la  suite  des  acad6mies  insignifiantes  et  p<§dantesques.  Nous 
avons  souvent  d<§plor6  le  sort  des  victimes  sacrifi6es  par  le  Saint- 
Office.  La  persecution  et  la  mort  de  tant  de  savans  devaient 
restreindre  de  plus  en  plus  la  pens6e>  et  faire  craindre  aux  terivains 
de  s'exposer  au  m6me  danger. 

i.  Les  jardins  .  .  ,  Tite~Live:  i  cosiddetti  Ortl  Oricdlari,  dove  si  riunivaun 
circolp  repubblicancggiante  formate  da  Cosimino  Rucellai,  Luigi  Amman- 
nati,  i  Diacceto,  i  Buondclmonti,  c  dove  il  Machiavelli  soleva  leggere  le 
paginc  dei  suoi  DiscorsL  Tali  riunioni  ceasarono  nel  1522,  dope  la  rcpressio- 
ne  della  congiura  contro  il  cardinalc  C^iulio  de'  Medici,  nella  quale  furono 
implicati  alcuni  dei  suddctti.  a,  L* academic . .  .protifgjt;  il  Halfi,  aulla 
scorta  del  Tiraboschi,  vede  il  circolo  dei  Rucellai  come  una  continuassione 
deil'Accademia  ficiniana. 


HISTOIRE   LITTERAIRE  D'lTALIE  959 

On  ne  pent  douter  que  ce  ne  soit  principalement  &  cette  cause 
qu'il  faut  attribuer  tant  d'6tudes  et  d'ecrits  de  peu  d'importance, 
ou  meme  contraires  aux  v6rite"s  les  plus  utiles.  Les  productions 
litte"raires,  remarquables  par  la  nouveaute*  ou  la  hardiesse  des 
id6es,  devaient  etre  les  plus  dangereuses  pour  leurs  auteurs,  et  par 
consequent  les  plus  rares.  Dans  la  plupart  des  ouvrages  dont  ce 
siecle  abonde,  on  cherche  en  vain  la  veritable  eloquence,  a  la- 
quelle  souvent  on  trouve  substitute  une  rh6torique  oiseuse  et 
pu6rile.  Parmi  la  foule  de  tant  de  grammairiens,  de  philologues, 
d'erudits,  d'antiquaires  on  ne  rencontre  pas  un  orateur  digne  de 
fixer  Pattention.  La  religion  seule  aurait  pu  en  former,  et  donner 
&  T Italic  son  Bossuet  et  son  Massillon;  mais,  au  commencement 
du  siecle,  la  corruption  du  clerg6  ne  s'accordait  pas  trop  avec  les 
maximes  de  la  morale  6vangelique,  et,  vers  la  seconde  moiti6  du 
m£me  siecle,  la  cour  de  Rome  craignait  tout  esprit  de  r6forme.  La 
seule  persecution  du  p.  Occhino,1  dont  Tonction  avait  touch6 
le  coeur  du  Bembo  lui-m£me,  aurait  suffi  pour  d6tourner  d'une 
carriere  si  dangereuse  tous  ceux  qui  auraient  6t6  tenths  de  s'y 
hasarder. 

Nous  venons  de  signaler  les  obstacles  qui  s'opposaient  au 
progr&s  d'un  certain  genre  d'6crits  et  a  la  v6ritable  Eloquence; 
mais  ils  ne  purent  pas  toujours  arreter  les  elans  du  g6nie,  qui 
souvent  osait  braver  les  dangers  dont  il  6tait  menac6.  L'61oquence 
mSme,  qui  craignait  de  se  montrer  ouvertement  dans  la  chaire 
et  en  public,  cherchait,  pour  ainsi  dire,  un  refuge  parmi  les  his- 
toriens,  et  meme  parmi  quelques  6crivains  qui  ne  s'occupaient 
pas  sp6cialement  de  ce  talent.  Cest  surtout  dans  les  ouvrages 
historiques  que  Feloquence  parle  quelquefois  son  ancien  langage. 
Les  Latins  avaient,  dans  ce  genre,  surpass6  les  Grecs,  leurs  mode- 
les.  Si  les  Italiens,  en  imitant  les  uns  et  les  autres,  n'ont  pas  obtenu 
le  m£me  succes,  du  moins  ils  n'ont  point  encore  6t6  eclipses  par 
les  Strangers.  Depuis  Machiavelli  et  Guicciardini  jusqu'a  Paruta 
et  a  1'Ammirato,  on  est  surpris  de  trouver  dans  les  historiens  tant 
d'int<§ret  et  d'61ocution,  soit  qu'ils  discutent  la  v6rit6  des  faits, 
soit  qu'ils  les  exposent  avec  assez  de  franchise  et  d'impartialit6. 
En  les  lisant,  on  a  peine  k  croire  que  la  plupart  d'entre  eux  6cri- 

i.  persecution.  .  .  Occhino:  Bernardino  Ochino  (1487-1564),  predicatore 
e  riformatore  senese,  fu  costretto  a  fuggire  dall' Italia  nel  1542,  e  a  pere- 
grinare  per  vari  paesi  d'Europa. 


90  FRANCESCO   SAVERIO   SALFI 

vaient  sous  la  surveillance  de  gouvernemens  ombrageux.  Dans  le 
Tasso  et  dans  PAriosto  on  trouve  6galement  des  traits  dont  P6- 
nergie  prouve,  du  moins,  ce  dont  les  Italiens  auraient  6te*  ca- 
pables  dans  des  eirconstances  moins  d6favorables. 

Tout  ce  qui  s'opposait  k  Pexercice  de  la  vfiritablc  eloquence 
devait  presenter  encore  plus  (T obstacles  aux  progres  de  la  saine 
philosophic,  Devait-on  la  chercher  parrni  ces  scolastiques  qui 
paraient  de  son  nom  un  jargon  emphatique  et  inintelligible  qui  ne 
prouvait  autre  chose  que  leur  verbosit6  et  leur  ignorance  ?  Quel- 
quefois  cependant  elle  osa  se  montrer  sous  le  masque  de  la  licence 
et  du  badinage.  On  peut  reconnaitre  plusieurs  de  ses  traits  dans 
la  plupart  des  contes  et  des  satires,  et  surtout  dans  un  genre 
particulier  d*6crits  qui  ne  semblent  dict£s  que  par  un  esprit  de 
bizarrerie.  Des  maximes  les  plus  s6veres,  des  opinions  les  plus 
hardies,  passaient  ainsi  impundment  sous  la  sauvegarde  de  la 
plaisanterie.  C'est  sous  ce  point  de  vue  qu'il  faut  considc'rer  plu 
sieurs  ouvrages,  aujourd'hui  de  peu  d'int6r6t,  tels  que  la  plupart 
de  ceux  du  Doni,  du  Landi,1  du  Gelli,  de  Firenxuola,  de  PAretino, 
etc.  Souvent  ces  auteurs  ont  6t6  plus  loin  qu'on  ne  le  pense; 
et,  tout  en  convenant  qu'ils  ne  sont  pas  dignes  d'etre  compar6s 
&  Lucien  ou  &  Voltaire,  on  doit  reconnaitre  du  moins  qu'ils  ont 
prouv6  qu'un  certain  genre  d'id£es  n'6tait  pas  6tranger  aux  Italiens 
du  seizieme  siecle. 

II  y  cut  aussi  une  classe  d^crivains  qui  ne  craignirent  pas  de 
dire  ouvertement,  et  dans  un  langage  seVieux,  ce  que  d'autres 
avaient  couvert  du  voile  de  la  plaisanterie.  Malgr6  les  dangers 
qui  les  environnaient,  ils  attaquerent  les  erreurs  et  les  pr£jug6s, 
ouvrirent  de  nouvelles  routes  au  milieu  des  te"n&bres  dc  la  acolasti- 
que,  et  os^rent  pressentir  et  annoncer  plusieures  v6rit6s.  Souvent 
on  perd  de  vue  ces  philosophes  dans  la  foule  de  tant  de  poetes, 
de  Htt6rateurs,  de  savans;  mais  ils  m^ritent  d^autant  plus  de 
fixer  notre  attention  qu'ils  ont  suivi  Fimpulsion,  non  des  circon- 
stances,  mais  celle  de  leur  propre  g6nie.  Les  efforts  et  les  aper9us 
de  Patrm,  de  Telesio,  de  Cardano,  les  m&hodea  de  Bruno  et 
d'Aeonzio,a  et  plus  encore  les  6crits  et  les  d6couvertes  de  tant  de 

i,  Landi:  allude  certamentc  ad  Orttmsio  Lando  (1512-1553),  autore  di 
una  Sferza  di  scrittori  antichi  K  moderni  e  di  altre  opere  di  "gusto  satirico  e 
bizsenrro,  z.  Giacomo  Aconstio  o  Aconcio  (vissuto  nclla  prima  meta  del 
secolo  XVI),  uno  dei  fuoru«citi  italiani  adcrcnti  alia  Riforma,  compose 


HISTOIRE   LITTERAIRE   D'lTALIE  961 

physicians ,  font  preuve  de  tout  ce  que  la  philosophic  doit  aux 
essais  de  ce  siecle.  Les  noms  et  les  ouvrages  de  G.  B.  Porta, 
d'Aldrovandi,  de  Falloppio,  de  Gaurico,  de  Maurolico,  de  Fra- 
castoro,  de  Sarpi  et  surtout  de  Vinci,  de  Lilio  et  de  Marchi1 
nous  donnent  le  droit  de  conclure  que  le  seizieme  siecle  etait 
bien  digne  de  pr£ceder  celui  du  grand  Galilei. 

On  peut  remarquer  une  autre  qualit6  qui  semble  toute  propre 
aux  Italiens,  c'est  F  extension  de  leur  esprit,  capable  d'embrasser, 
chez  le  meme  individu,  plusieurs  genres  d'6tudes  les  plus  difKrens. 
Les  anciens,  tant  que  la  sphere  des  connaissances  humaines  ne 
fut  pas  assez  6tendue,  ni  ses  parties  assez  multipliers  et  assez  de- 
tail!6es,  pouvaient  et  devaient  meme  la  parcourir  tout  entiere.  Us 
Staient  tous  en  quelque  sorte  encyclop6distes.  Socrate,  Platon, 
X6nophon  appartenaient  a  cette  6poque.  Ce  furent  Aristote  et 
The"ophraste  qui  augmenterent  le  nombre  des  connaissances  replies, 
et  firent  sentir  la  n£cessit6  de  les  diviser  et  de  se  borner  a  l'6tude 
de  quelqu'une  de  ces  divisions.  Depuis  ce  temps  on  a  signale" 
parmi  les  anciens  un  Varron,  un  Plutarque,  un  Cic6ron,  un  Pline; 
et  de  nos  jours  .on  ne  compte  qu'un  Bacon  et  un  Leibnitz  qui 
puissent  rivaliser,  sous  ce  rapport,  avec  Aristote. 

Je  ne  dis  pas  qu'on  trouve,  au  seizieme  siecle,  des  esprits  tels  que 
Leibnitz  et  Bacon;  mais  il  semble  incontestable  que  plusieurs 
italiens  jouissaient  d'une  semblable  disposition,  a  une  6poque  oil 
le  nombre  et  l^tendue  des  connaissances  n'6taient  pas  aussi 
restreints  qu'on  le  pense.  Souvent  on  rencontre  des  auteurs  qui 
excellaient  dans  plusieurs  genres  de  litt£rature  tout  difTe"rens.  Nous 
avons  vu  TAriosto  traiter  avec  le  meme  succes  T6pop6e,  le  genre 
lyrique,  la  com6die  et  la  satire,  et  le  Tasso,  apres  nous  avoir 
6tonne~s  dans  presque  tous  les  genres  de  po6sie,  nous  instruire  par 
ses  ouvrages  en  prose  sur  les  matieres  les  plus  difficiles  de  critique 

anche  il  trattato,  importante  nella  storia  della  filosofia,  De  methodo,  hoc 
est  de  recta  investigandarum  artium  ac  scientiarum  ratione  (1558),  che  anti- 
cipa  per  qualche  aspetto  Cartesio.  i.  Giambattista  della  Porta  (1535- 
1615),  ingegno  vivace  ed  enciclopedico,  autore  di  trattati  di  magia,  di 
astrologia,  di  ottica,  e  anche  di  commedie;  Ulisse  Aldrovandi  (i522-i6o5)> 
zoologo,  botanico  e  archeologo;  Gabriele  Falloppio  (1523-1562),  natura- 
lista  e  anatomico;  Luca  Gaurico  (1476-1558),  matematico  e  astronomo; 
Francesco  Maurolico  (1494-1575),  anch'egh  noto  soprattutto  come  mate 
matico  e  astronomo;  Luigi  Lilio  (1510-1576),  ispiratore  della  correzione 
gregoriana  del  calendario;  Francesco  de  Marchi  ( 1504-1 5  77),  ingegnere 
militare  e  teorico  di  arte  fortificatoria. 

61 


962  FRANCESCO    SAVERIO    SALFI 

litteraire  et  de  philosophic.  Quel  est  le  genre,  soit  en  vers  soit  en 
prose,  que  n'aient  pas  aborde  le  Muzio  et  le  Baldi?  Je  ne  parle 
pas  du  Sigonio,  du  Baronio1  et  de  tant  d'autres  qui  se  font  re- 
mar  quer  ou  par  le  nombre  et  la  variete  de  leurs  connaissances, 
ou  par  le  vaste  plan  de  leurs  ouvrages;  ils  n'ont  jamais  depasse 
le  cercle  d'un  certain  genre  d'idees  qu'ils  avaient  embrasse.  Mais 
combien  d'autres  ne  pourrais-je  pas  citer  qui  ont  professe  des 
sciences  et  des  arts,  dont  le  sujet  et  la  nature  sont  si  differens  qu'ils 
supposent  autant  de  facultes  intellectuelles  et  une  etendue  dj  esprit 
proportionnee  dans  celui  qui  les  a  cultives!  Patrizi  porte  ses 
recherches  dans  la  philosophic  de  Platon,  dans  F  eloquence,  dans 
la  poesie,  dans  la  musique,  dans  Phistoire;  il  compose  meme  des 
vers,  et  invente  des  metres;2  et  partout  il  montre  quelque  origina- 
lite.  Si  Fracastoro  n'etait  pas  celebre  par  sa  Syphilis,  il  le  serait  sans 
doute  par  ses  connaissances  en  medecine,  en  astronomic,  en 
geographic,  en  litterature.  Nous  avons  reconnu  une  fecondite  pa- 
reille  dans  Bernardino  Baldi,  considere  tantot  comme  prosateur, 
tantot  comme  poete.  II  passe  avec  la  meme  facilite  des  mathemati- 
ques  au  gerre  historique,  de  celui-ci  a  la  poesie;  et  il  brille  plus 
ou  moins  dans  la  plupart  de  ces  genres.  On  remarque  la  meme 
disposition  dans  la  plupart  des  artistes.  Nous  avons  admire  a  cet 
6gard  Michelangelo  et  le  Cellini.  Mais  tous,  malgre  leur  superio- 
rite,  sont  restes  au-dessous  du  Vinci,  dont  le  genie,  sous  ce  rapport, 
n'a  point  eu  d'egal. 

II  me  reste  encore  a  parler  d'une  circonstance  particuliere  qui 
caracterise  le  siecle  que  nous  venons  d'apprecier,  c'est  Tinfluence 
immediate  et  tres  active  qu'il  a  exercee  sur  toute  TEurope  civilisee. 
La  lumiere  qui  etait  generalement  repandue  dans  T Italic,  en  fran- 
chit  bientot  les  limites.  Si  les  sciences,  les  lettres  et  les  arts  pas- 
serent  d*Athenes  a  Alexandrie  et  a  Rome,  et  de  la  jusqu'a  nous,  ce 
ne  fut  point  par  1'empire  que  le  siecle  de  Pericles  et  celui  d'Augus- 
te  exercerent  sur  leurs  contemporains,  ce  fut  plutot  par  1'emploi 
que  la  posterite  sut  faire  de  leurs  monumens,  de  leurs  manuscrits, 
de  leur  histoire.  Nous  avons  aussi  remarque  que  tout  Teclat 


i.  Carlo  Sigonio  (1520-1584)  e  Cesare  Baronio  (1538-1607)  sono  i  due 
maggiori  rappresentanti  della  stonografia  erudita  cinquecentesca.  2.  in- 
vente  des  metres:  allude  al  verso  di  tredici  sillabe,  costituito  da  un  sette- 
nario  tronco  e  da  uno  piano,  con  cui  Francesco  Patrizi  tento,  nel  poemetto 
giovanile  Eridano  (1558),  di  rendere  il  ritmo  dell'esametro  latino. 


HISTOIRE   LITTERAIRE   D'lTALIE  963 

litteraire  des  temps  d' Auguste  et  de  Pericles  etait  concentre  presque 
dans  les  seules  villes  de  Rome  et  d'Athenes.  Mais  1'Italie,  des 
qu'elle  se  vit  assez  eclairee,  repandit  ses  lumieres  dans  tout  le 
reste  de  PEurope,  et  obligea  en  quelque  sorte  les  autres  nations  a 
1'imiter  et  a  lui  disputer  sa  gloire.  Quoique  plusieures  circonstances 
politiques  et  religieuses  aient  eu  part  a  cette  revolution  extraordi 
naire  et  presque  generate,  il  n'est  pas  moins  vrai  que  c'est  a  1'Italie 
qu'appartient  le  merite  d'avoir  donne  ce  premier  mouvement; 
car  soit  qu'elle  fut  envahie  et  partagee  par  des  etrangers,  ou  qu'au 
sein  meme  de  sa  dependance  politique  elle  dominat  encore  par 
1'influence  religieuse  qu'elle  a  toujours  conservee,  elle  a  prodigue 
ses  connaissances  et  ses  arts  a  ses  conquerans,  en  echange  des 
torts  qu'elle  en  avait  re$us.  La  France,  1'Espagne,  1'Allemagne, 
la  Pologne,  1'Angleterre  profiterent  souvent  des  litterateurs,  des 
historiens,  des  artistes  que  leur  envoya  FItalie.  Si  Montaigne, 
Erasme  et  de  Thou1  lui  reprochent  quelquefois  des  pratiques  et 
des  opinions  particulieres  qu'ils  desapprouvent,  ils  ne  manquent 
pas  de  lui  temoigner  leur  admiration  et  leur  reconnaissance  pour 
tout  ce  qui  concerne  la  litterature  et  les  arts.  Copernic  lui-meme 
nja  jamais  oublie  qu'il  avait  etudie  dans  cette  peninsule,  ou  il 
avait  probablement  puise  les  elements  de  ce  systeme  pythagoricien, 
qu'on  pourrait  mieux  appeler  italique  et  par  son  origine  et  par 
son  developpement. 

Nous  verrons  dans  1'histoire  des  siecles  suivans  comment  les 
autres  nations  ont  acquitte  les  dettes  de  la  reconnaissance  envers 
Tltalie,  qui,  a  son  tour,  n'a  pas  cesse  de  profiter  de  leurs  progres 
ulterieurs.  On  doit  meme  esperer  que,  grace  au  commerce  des 
lumieres  entre  les  nations  les  plus  eclairees,  cette  patrie  des  arts, 
connaissant  de  plus  en  plus  les  richesses  et  les  defauts  du  si^cle 
de  Leon  X,  et  sentant  ce  qu'elle  peut  et  doit  faire  encore  par  ce 
qu'elle  a  deja  produit,  preparera  un  autre  siecle  encore  plus  ecla- 
tant  et  plus  utile  et  par  ses  lumieres  et  par  ses  vertus. 


i.  Jacques  Auguste  de  Thou  (1553-1581),  autore  di  Historiae  sui  temporis, 
pensate  come  prosecuzione  di  quelle  del  Giovio,  ma  impostate  sul  modello 
giiicciardiiiiano. 


FRANCESCO   SAVERIO  SALFI 


TOME  XI 

CHAPITRE  I 
\Situassione  politico,  deWItalia  ncl  Set  cento.]1 

L'ltalie,  au  commencement  du  XVIIe  slide,  se  trouvait  dans 
la  m£me  situation  politique  ou  1'avait  laiss£e  le  siicle  pr£e£- 
dent.  Elle  n'6tait  plus  le  theatre  de  ces  guerres  g6n6rales  qui, 
apr6s  1'avoir  long-temps  d6so!6e,  avaient  fini  par  soumettre  une 
partie  de  ses  provinces  au  joug  de  T^tranger,  en  faisant  craindrc 
aux  autres  le  meme  sort.  Si  quelques  guerres  6clat&rent  encore, 
elles  s^tendirent  peu  au-dela  des  limites  d'une  province,  furent 
de  courte  dur6e,  et  il  n'en  r£sulta  aucun  changement  remarquable 
dans  les  6tats  de  la  p6ninstilc.  Quelles  qu'en  fussent  les  causes  et 
les  suites,  leur  caract&re  n'6tait  plus  national:  ce  n'dtaient  que 
des  Strangers  qui  se  disputaient  le  terrain,  et  qui  obligeaient  les 
Italiens  eux-memes  k  servir  la  cause  de  lours  ennemis.  On  vit  ce- 
pendant  quelques  uns  cles  petits  princes  d'  Italic  prenclre  les  armes 
pour  leurs  propres  int£r£ts.  Les  Barberins  de  Rome  firent  la 
guerre  aux  Farn^ses  de  Parme;  la  nSpublique  de  C56nes  mena^a 
d'attaquer  le  due  dc  Savoie  et  celle  de  Lucques  le  due  de  Mod&nc  ;a 
mais  ces  menaces  et  ces  guerres  ne  servirent  qu'a  mettre  en  6vi- 
dence  la  faiblcsse  de  ces  puissances  bMigdrantes  et  k  fairc  rire  k 
leurs  dipens.  La  cour  de  Savoie  et  la  r6publique  de  Venise  aurcnt, 
seules,  conserver  quelques  restes  de  leur  dignitd;  tous  les  autres 
6tats  d'ltalie,  en  se  bornant  a  une  existence  pr6caire,  soit  qu*ils 
restassent  neutres,  soit  qu'ils  se  couvrissent  dc  la  protection  de 
l'£tranger,  ne  faisaient  qu'assurer,  de  plus  en  plus,  leur  d&pcndancc. 

Cette  espice  de  contagion  ultramontaine,  agissant  plus  ou  moins 
directement  sur  les  diverses  provinces  et  principaut^s  d*  Italic,  fit 
succ6der  aux  calamit^s  d'une  guerre  active  les  maux  plus  graves 
encore  d'une  oppression  toujours  croissante,  Et  comme  cette  op- 


i.  DiilVHistoire  littgraire  d] 'Itatte,  ed.  cit,,  xi,  pp.  1-4,  a,  Les  Barberins .  , . 
Modhie:  allude  alia  cosiddctta  gucrra  di  Castro  fra  i  Fnrnese  e  Urbano 
VIII  (1641-1642);  ai  contrast!  fra  Geneva  c  il  Piemontc  per  il  posseaso 
prima  cli  Monaco  c  del  fcudo  di  Zuccarello  (1604- 1622),  poi  di  Oneglia 
<i672-i673);  e  a  quelli  tra  Modcna  c  Lucca,  soprattutto  verso  il  principio 
•del  sccolo,  per  il  dominio  della  Gurfagnana. 


HISTOIRE  LITT£RAIRE  D'ITALIE  965 

pression  se  fortifiait  a  la  faveur  (Tune  paix  utile  aux  oppresseurs, 
on  Ta  regarded  comme  favorable  aux  peuples  memes  qu'elle 
accablait;  et  Tiraboschi  semble  s'£tonner  que  les  lettres  et  les  arts 
n'aient  pas  profit^  de  cette  6trange  sorte  de  tranquillite*.1  D'autres, 
avec  des  intentions  plus  nobles  et  un  esprit  plus  philosophique, 
ont  pens6  que  cet  £tat  de  servitude  et  de  lethargic  avait  du  6touffer 
entierement  le  g6nie  intellectuel  et  moral,  que  la  liberte"  seule  peut 
nourrir  et  d6velopper.  Si  Ton  en  croit  M.  Sismondi,  (d'ltalie 
6puis6e  ne  produisit  plus,  pendant  cent  cinquante  ans,  que  de 
froids  et  mise* rabies  copistes,  ou  des  esprits  faux  et  pr6tentieux».a 
Mais  si,  d'un  cote*,  Tiraboschi  semble  n' avoir  pas  assez  reconnu 
V  influence  funeste  que  le  despotisme  int6rieur  et  ext6rieur  exer9a 
sur  P  Italic  pendant  le  XVII6  si&cle,  nous  craignons  de  Tautre  que 
M.  Sismondi  n'en  ait  exage're'  les  effets.  Nous  suivrons  done  les 
faits  historiques  plutot  que  les  systemes  de  ces  deux  ecrivains, 
si  recommandables  a  tant  d'autres  6gards :  nous  6tablirons  d'abord 
quelle  a  dti  etre  la  veritable  influence  des  gouvernemens  sur  les 
sciences,  les  lettres  et  les  beaux-arts  en  Italic,  pendant  ce  si&cle; 
et  nous  verrons  ensuite  jusqu'a  quel  point  ils  en  ont  retard6  ou 
arrete*  les  progres.  Nous  montrerons  le  g6nie  des  Italiens  luttant 
contre  le  despotisme  de  leurs  oppresseurs,  et  s'acqu6rant,  par  cette 
lutte  m£me,  de  nouveaux  titres  de  gloire,  s'il  est  vrai  que,  dans  les 
cir Constances  les  plus  d6plorables,  P  Italic  ne  cessa  de  faire  preuve 
de  vigueur  et  d>originalit6,  malgr6  la  corruption  qui  menagait  de 
toute  part  et  le  gout  et  la  morale  publique  .  .  . 

CHAPITRE  III 

[Stato  degli  studi  filosofid  alia  nascita  di  Galileo.}2 

.  . .  Avant  d'entrer  dans  Texamen  des  diverses  branches  des 
connaissances  humaines  qui  ont  £t6  cultiv6es  et  ont  fleuri  pen 
dant  le  XVI  Ie  stecle,  et  de  signaler  les  savans  qui  ont  le  plus 
contribue"  a  les  propager  en  Italic,  nous  croyons  convenable  de 
commencer  par  la  philosophic  experimental,  comme  determinant 
en  quelque  sorte  le  caractere  dominant  de  ce  si&cle,  et  particuli&re- 
ment  de  Tltalie.  Ceux  a  qui,  depuis  la  renaissance  des  lettres,  on 

i .  Storia  della  letteratura  italiana,  t.  vm,  [Modena  1793], au  commencement 
et  dans  la  suite  (S.)-  2.  Literature  du  midi  de  V Europe,  [ed.  cit.],  t.  n, 
p.  243  (S.)-  3-  Dzll'Histoire  litUraire  d'ltalie,  ed.  cit.,  xi,  pp.  157-60. 


FRANCESCO   SAVERIO   SALFI 

avait  accord^  le  titre  de  philosophes  jusqu'k  cette  6poque,  ne 
s'6taient  ordinaircment  occup^s  que  de  renvcrscr  unc  idolc  pour 
lui  en  substituer  une  autre.  On  combattait  tantot  pour  Aristote, 
tant6t  pour  Platon,  et  Ton  <§voquait  mcme  les  ombres  de  Z6non, 
de  D&mocrite.  II  semblait  que  la  philosophic  ne  pouvait  plus  faire 
un  pas  sans  suivrc  les  traces  des  maitres  de  1'antiquitci,  qui  en 
6taient  toujours  regard<Ss  comme  les  chefs.  Ceux  mcmes  qui  osaient 
s'en  ^carter  s*6garaient  tout  k  coup.  Bernardin  Tclesio  tut  sans 
doute  un  des  philosophes  les  plus  hardis  et  les  plus  entreprenans 
du  XVIe  si&cle;  mais,  tout  en  secouant  le  joug  des  anciens,  et 
surtout  celui  d'Aristote,  il  ne  put  b&tir  son  nouveau  syst&mc  sans 
s'appuyer  sur  les  principes  de  Parm^nicle.1 

Telesio  laissa  au  XVIP  si£cle  deux  grands  partisans  de  son 
6cole,  Alexandre  Tassoni,  de  Mocl&ne,  et  le  p.  Thomas  Campa- 
nella,2  de  Calabre.  Auteurs  Tun  et  1'autre  de  divers  ouvrages,  ils 
ne  cherchferent  qu'ik  discr^diter  Pautorit6  des  anciens,  et  principale- 
ment  cclle  d' Aristote;  mais  ils  ne  substitutrent  &  la  doctrine  du 
philosophe  grec  que  celle  de  Telesio,  qui  n'avait  fait  que  r<$tablir, 
avec  quelques  modifications,  le  syst&me  de  Parm6nide,  et  mfime 
confarmer,  sur  plus  d'un  point,  les  d^fauts  dea  aristotilicicns.  Ils 
avaient  beau  proclamer  qu'il  ne  fallait  consulter  que  la  nature  et 
ne  suivre  que  ses  lois:  ils  ne  savaient  ni  entendre  ni  interpreter 
ses  oracles,  et  ils  ne  lui  faisaient  que  r6p6ter  les  r£ve$  de  leur 
imagination.  On  ne  peut  cependant  leur  refuser  le  mdritc  de  nous 
avoir  accoutum6s  ^  m^priser  rautorit6  des  tyrans  de  la  raison, 
et  &  sentir  de  plus  en  plus  le  besoin  de  penser  librement  ou,  pour 
mieux  dire,  de  raisonner.  Mais  il  s'en  fallut  de  beaucoup  que  Ton 
profitftt  avec  succis  dc  cette  Ubcrt6  de  penser:  c'6tait  chose  plus 
difficile  alors  qu'on  ne  Fimaginait  Ce  premier  essai  d'ind^pendance 
ne  servit  qu'^  multiplier  les  systimcs  et  les  opinions,  et  ce  ne  fut 
que  vers  la  fin  du  XVIe  siiclc  et  au  commencement  du  XVHe, 
que  Ton  vit  naitre  cette  philosophic  nouvelle  ou  plutot  v6ritable 

i,  Bernardin  Telesio  .  .  ,  Parmfaide:  riassumc  i  concetti  principal!  del  pa- 
raKrafo  sul  Tclcaio  redatto  dal  Stilfi  stesso  e  da  lui  inserito  ncl  tomo  vn 
dclla  Uistoire  littfraire  d'ltalie  del  Gingucn6.  2.  Telesio  ,  ,  .  Cwnpanella: 
Tclcsio  6  citato  nei  Pensieri  diversi  del  Tassoni  con  lodt*  piti  volte,  ma 
piuttosto  gcncricamcnte,  per  il  suo  antiaristotelismo ;  piii  precise  invece  le 
derivation  i  dal  Telesio  del  Campanclia,  la  cui  filosofia  muove  dal  naturali- 
smo  cosmolotfico  del  coscntino,  e  che  del  Telesio  fccc  un'apologia  nella 
giovanilc  Philosophia  sensibus  demonstrata. 


HISTOIRE  LITT£RAIRE  D'ITALIE  967 

qui  nous  apprit  a  connaitre  la  nature  et  a  interpreter  ses  lois.  Nous 
la  verrons  s'avancer  a  travers  les  obstacles  qu'on  lui  opposait  de 
tous  cote's;  s'emparer  successivement  de  toutes  les  ecoles  et  pre*pa- 
rer  la  gloire  et  les  destin6es  des  siecles  a  venir. 

Cette  grande  revolution  fut  Pouvrage  d'un  seul  homme,  et 
cet  homme  fut  Galilee.  II  tra9a  le  premier  a  Tltalie,  a  son  siecle, 
a  1' esprit  humain  cette  nouvelle  direction  qui  nous  a  rendus  si 
sup6rieurs  aux  anciens,  et  qui  joignit  a  Pel6gance  dont  la  litte'rature 
italienne  brillait  dans  le  XVIe  siecle  cette  r6alit6  et  cette  importance 
qu'elle  a  de  plus  en  plus  acquises  dans  la  suite.  Depuis  la  restaura- 
tion  des  lettres,  on  ne  s'6tait  g6n6ralement  occup6  qu'a  peindre 
les  beaut6s  superficielles  de  la  nature,  et  Ton  se  bornait  a  deviner 
tout  le  reste.  Galilee,  par  ses  pr6ceptes  et  ses  experiences,  nous 
apprit  a  d6couvrir  les  ressorts  les  plus  secrets  de  la  nature,  et 
nous  expliqua  les  lois  6ternelles  qu'elle  suit  constamment  dans  sa 
marche.  Ainsi,  remplasant  les  chimeres  par  ce  qui  est  r6el  et  v6ri- 
table,  il  releva  les  sciences  et  forma  des  eleves  capables  de  les  per- 
fectionner  encore.  Cette  perfection  devait  en  meme  temps  exercer 
sa  puissante  influence  sur  la  litte'rature  elle-meme;  car  le  beau 
et  le  vrai  ne  peuvent  r^sulter,  dans  les  arts  d'imitation,  que  de  la 
connaissance  de  la  nature  et  de  F  observation  de  ses  lois.  Galil6e 
lui-mSme  en  fournit  la  preuve;  il  appliqua  a  la  critique  Iitt6raire 
le  m&ne  esprit  qui  avait  r6g6n6r6  la  philosophic,  et  r6ussit  ainsi 
a  donner  aux  lettres  et  aux  arts  la  meme  direction  qu'aux  Etudes 
philosophiques.  Sous  ces  deux  points  de  vue,  on  peut  regarder 
la  vie  de  Galilee  comme  Thistoire  abr6gee  des  lettres  de  son  siecle;  et 
tout  ce  que  nous  dirons  de  la  plupart  des  savans  qui,  de  son  temps 
ou  apres  lui,  ont  suivi  ses  doctrines,  ne  sera  en  quelque  sorte 
qu'un  ddveloppement  des  m6thodes  et  des  principes  de  ce  c61ebre 
philosophe  . . . 

CHAPITRE  IV 

[Galileo  e  Bacone.]1 

.  .  .  Nous  avons  indiqu6  bien  sommairement  tout  ce  qu'en- 
treprit  ce  grand  homme2  pour  la  restauration,  ou  plutot  pour  la 
creation  des  sciences  exactes  et  de  la  vraie  philosophic.  II  s'eleva 

i.  DalPHtrtoir*  littiraire  d'ltalie,  ed.  cit.,  XI,  pp.  252-4.  2.  ce  grand  homme; 
Galileo. 


FRANCESCO   SAVERIO   SALFI 

bien  plus  haut  que  ne  le  fit  Bacon  &  la  mcme  6poque.  Celui-ci 
ne  faisait  qu'indiqucr  de  loin  la  route  qu'il  fallait  suivre,  tandis 
quo  Galilee  avan^a  d'un  pas  ferme  ct  rapide  dans  la  voic  de  la 
r£g<$n6ration.  L/un  ne  porta  pas  ses  regards  plus  loin  que  la  sphere 
de  ses  sens,  et  ne  fit  que  des  conjectures,  quelquefois  erron6es, 
sur  tout  le  reste;  tandis  que  Fautre,  arm6  de  ses  propres  moyens, 
franchit  Pespace,  et  p<5n6tra  oil  personne  n'avait  encore  os6  s'61ever ; 
aussi  n'avan9a-t-il  rien  qui  ne  f&t  le  rdsultat  evident  de  ses  obser 
vations  et  de  ses  calculs.  Si  Bacon  legate  en  genie,  Galilee  eut 
sur  lui  Tavantage  de  la  geometric,  taut-k-fait  etrangfere  au  philoso- 
phe  anglais;  et,  port6  sur  les  ailes  de  cette  science  sublime,  son 
vol  le  laissa  bien  loin  derri&re  lui.  II  eut  encore  sur  son  6mule  un 
autre  avantage  qui  contribua  plus  efficacement  encore  aux  progrfes 
de  la  philosophic.  Bacon,  quelle  que  soit  1'importance  de  ses  obser 
vations,  de  ses  apenpus  et  de  ses  maximes,  ne  sut  pas  les  ciebarrasser 
de  ces  formuies  metaphysiques,  de  ce  langage  mystique  en  usage 
de  son  temps,  et  qui  le  rendit  inintelligible  &  ses  contemporains 
auxquels  il  etait  d6j&  si  sup6rieur.  II  demeura  ik  peu  pr&s  inconnu  & 
ses  compatriotes  et  aux  Strangers,  m£4me  jusques  vers  la  moi- 
ti6  du  dernier  siicle,  c'est-k-dire  lorsque  la  philosophic  avait  d<Sj& 
fait  de  grands  progr6s>  sans  avoir  eu  besoin  de  son  influence* 
Galilee,  au  contraire,  sc  fit  bientot  connaitre  et  g<§n6ralement 
admirer,  soit  par  la  singularity  dc  ses  d6couvertes  et  l^vidence  de 
ses  demonstrations,  soit  par  r616gance  et  la  simplicity  de  son  style, 
II  communiquait  et  r^pandait  ses  doctrines  aussi  heureusement 
qu*il  les  avait  cogues.  II  pr6f6ra  le  premier  le  langage  national; 
et  s'il  fit  traduire  quelques-uns  de  ses  6crits  en  latin,  ce  fut  pour 
les  rendre  aussi  utiles  aux  Grangers  qu'aux  Italiens. 

On  a  dit  cependant  que  Galil6e,  n'ayant  jamais  fond6  aucun 
systfeme,  ne  fut  pas  assez  appr6ci6  par  ses  contemporains,  ni 
m6me  long-temps  apr^s  par  ses  successeurs.x  Ainsi,  ce  qui  consti- 
tuait  son  plus  grand  m6rite,  aurait  le  plus  nui  &  sa  reputation.  II 
ne  fut  pas  chef  d'Scole,  comme  Descartes,  dit  Tiraboachi,*  mais 
il  fut  le  fondateur  de  la  philosophic  moderne.  II  faudrait  plutfit  dire 
qu'il  ne  laissa  point  de  secte  parce  qu'une  secte  est  Toeuvre  d'une 
opinion  et  non  de  la  v6rit6,  qui  fut  Tunique  objet  de  ses  vues  et 
de  ses  recherches.  D'ailleurs,  il  n'est  pas  vrai  qu'il  n'ait  fond6 

1.  Andres,  Saggio  della  filosofia  dd  Galileo,  [Mantova  1775],  page  12  (S,). 

2,  [Storia  della  tetteratura  italiana,  vm»  Modena  1793!,  page  189  (S.). 


HISTOIRE  LITT£RAIRE  D'ITALIE  969 

aucune  £cole,  comme  plusieurs  6crivains  Font  avanc6;  celle  qu'll 
fonda  fut  meme  tr&s-puissante  et  dura  fort  long- temps.  On  peut 
meme  dire  qu'elle  fut  universelle,  puisque  ses  dogmes  reposaient 
sur  la  nature  meme  dont  ils  r6velaient  les  lois  .  . . 


TOME  XIV 

CHAPITRE  XVII 

[Cause  presumibili  della  corruziom  del  gusto 
in  Italia  nel  XVII  secolo.]1 

La  partie  de  Thistoire  que  nous  venons  de  parcourir  nous  a 
montr6  1'etat  et  les  progres  des  difKrens  genres  de  connaissances 
cultiv6s,  avec  plus  ou  moins  de  succes,  en  Italie  pendant  le  XVII6 
si&cle.  II  nous  reste  a  examiner  maintenant  les  progr^s  ou  la 
decadence  de  la  po6sie  et  de  T61oquence  a  cette  meme  6poque. 
Prises  dans  le  sens  le  plus  gen6ral,  c'est-a-dire  pour  la  mani&re 
d'envisager  et  de  pr6senter  nos  ide"es  sous  Taspect  le  plus  conve- 
nable  a  leur  nature  et  a  leur  destination,  P61oquence  et  la  po6sie 
ne  sont  que  le  r6sultat  de  Fimagination  qui  invente  ou  cohort,  et 
du  gout  qui  execute  et  corrige.  Supposant  leur  veritable  genie  dans 
la  reunion  si  rare  de  ces  deux  qualit£s,  c'est  ce  genie  que  nous 
chercherons  dans  toutes  les  productions  Ktt6raires  qui  sont  de 
leur  ressort.  Ainsi  nous  les  appr6cierons  sp6cialement  en  ce  qui 
concerne  I'int6ret  de  la  pens6e,  la  beaut6  des  images,  la  noblesse 
et  le  coloris  du  style. 

Mais  avant  d'aller  plus  loin,  il  est  indispensable  de  jeter  un 
coup  d'oeii  sur  cette  masse  6norme  d'ouvrages  qui  sont  la  honte 
de  T&oquence  et  de  la  po<§sie  dans  ce  si&cle,  non  pour  les  tirer  de 
Toubli  dans  lequel  ils  doivent  rester  plong6s,  mais  pour  mieux 
determiner  le  caract^re  et  les  causes  de  leur  corruption;  et  pour 
profiter  de  la  triste  experience  de  ceux  qui  nous  ont  pr6c6d6s. 
Nous  avons  observ<§  ailleurs,  en  parlant  de  la  critique  litt&raire, 
que  reioquence  et  la  po6sie  prirent  dans  ce  siecle  une  marche  toute 
contraire  a  celle  qu'elles  avaient  suivie  dans  le  siecle  pr6c6dent,2 

i.  Dall'ffirtoiVfi  UtUraire  d* Italic,  ed.  cit.,  xiv,  pp.  2-12.  2.  Nous  avons  .  .  . 
prudent:  cfr.  Histoire  litUraire  d'ltahe,  xm,  p.  421 :  «La  throne  fut  done 
aussi  corrompue  que  la  pratique;  et  aux  regies  sures  ou  moins  hazardeuses 
qu'avait  £tabli  I'exp6rience  des  sifecles,  on  substitua  des  regies  arbitraires 


FRANCESCO   SAVERIO    SALFI 

Autant  on  avalt  pr£f6r6  dans  celui-ci  le  simple,  le  naturel,  Pel£gant, 
autant  on  affectionna  dans  celui-li  cc  qui  <§tait  le  plus  artificicl, 
le  plus  bizarre  et  le  moins  correct.  Cette  d6pravation  de  Pesprit  6tant 
devenue  en  pen  de  temps  presque  g£n6rale,  PItalie  se  vit  inond6e 
de  subtilit6s  capricieuses,  de  penstes  sophistiques,  de  figures  ct 
de  m6taphores  outr6es  et  grotesques,  qui  rendirent  le  style  enti&re- 
ment  faux,  boursouffl6,  ridicule.  S'il  est  6tonnant  que  des  hommes 
si  long-temps  accoutum6s  au  goftt  le  plus  s6v£re  aient  pu  tlescendre 
i  ce  degr6  de  corruption;  il  Test  encore  plus  que  cette  revolution 
se  soit  faite  avec  la  plus  grande  rapidit6;  mais  eet  6tonnement 
cessera  lorsqu'on  aura  connu  les  causes  qui  Font  produite* 

Tiraboschi  a  savamment  et  longuement  traiti*  ce  sujet,  en  s'at- 
tachant  principalement  a  r6futer  les  id6es  de  Pabb6  Dubos,1  et  la 
plupart  des  Italiens  ont  adopt6  son  opinion.  Nous  ne  suivrons  pas 
son  syst^me:  nous  indiquerons  rapidement  les  causes  principalcs 
qu'on  a  d£sign6es  jusqu'ici,  et  nous  tUcherons  de  signaler  celle 
qui  semble  avoir  <§t6  la  plus  dominante. 

Les  causes  physiques  et  purement  locales  ont  dft  sans  doute 
disposer  les  Italiens,  surtout  ceux  du  Midi,  a  cet  exe£s  de  viva- 
cit6,  de  finesse  et  d'emphase,  regard6  comme  Teffet  d'une  ima 
gination  facile  &  s'exalter.*  Cette  opinion  parait  encore  plus  fond6e, 
si  Ton  observe  que  cette  maladic  dc  Fesprit  a  doming  constamment 
les  Africains  et  les  Espagnols,  et  plus  souvent  les  Napolitains  que 
les  habitans  de  PItalie  septentrionale.  On  a  m6me  remarqud  que 
ces  d6fauts,  port6s  dans  le  XVII6  si&cle  jusqu'k  Pexecs,  n*avaient 

et  bizarres.  Alors  Tart  ne  so  contcnta  plus  d'imitor  la  nature;  il  voulut  lui 
donner  une  forme  nouvclle,  ct  &  force  de  la  farder  et  de  la  cMguitser  on 
finit  par  la  rendre  m£connaissublc.  Aussi  la  rh^torique  et  la  poitique 
devinrent-elles,  pour  les  ouvrages  dc  gout,  ce  que  ia  schol&stique  avait 
&tt  pour  1'exercice  de  la  raison»,  Tuttavia  nel  seguito  di  queato  capitolo 
(xvi)  il  Salfi  riconosce  nei  critici  del  Scicento,  e  in  particoUrc  ncl  Pioretti, 
nelFAverani,  nel  Pellegrini,  nel  Pollavicmo  e  nel  Gravina  k  progrcssiva 
presenza  di  un  notevoie  spirito  di  indipendcnssa  critica.  i.  SJtoria  delta 
letter atur a  italiana,  t*  li,  [Modena  I787]>  Dissertassione  preliminary  (H.),  In 
qucsta  dissertazione,  intitolata  SuWorigine  dd  dec&dimenta  ddh  scienze^  il 
Tiraboschi  apicga  la  corruxionc  del  gusto  nel  Seicento  richiamandosi  alia 
Icggc  gencrale  che  « quando  uno  sia  giunto  a  qucl  segno  in  cui  propria- 
mentc  connisto  il  bcllo,  chi  voglia  ancora  avanzarsi  piii  oltrc,  verra  a  n« 
cadcr  ne'  difctti  i  quali  cran  comuni  a  coloro  che  non  vi  erano  ancora  giun- 
ti»,  e  in  particolarc  adducendo  lu  dannosa  influenza  del  cattivo  guato 
spagnolo.  2.  Les  causes . .  ,tl  $*ex&lter\  allude  ulPopinionc  del  Duhos,  espo- 
sta  nelle  Rfjlexiom  critiques  sur  la  podsie  et  la  peinture  (1719),  parte  n,  s<5- 
zionc  xn  e  seguenti. 


HISTOIRE   LITTERAIRE   D'lTALIE  971 

pas  meme  6pargn6  les  6crivains  que  Tltalie  regarde  comme  classi- 
ques,  tels  que  Petrarca  et  tous  les  auteurs  qu'on  appelle  trecentistes. 
Mais  tout  en  reconnaissant  jusqu'a  un  certain  point  cette  in 
fluence  physique,  nous  demanderons:  pourquoi  elle  n'a  pas  agi 
de  m£me  et  sur  tous  les  ecrivains  de  la  peninsule?  Du  temps 
d'Auguste,  de  Dante  et  de  L6on  X,  n'6tait-ce  pas  le  meme  cli- 
mat,  le  meme  sol  et  le  meme  air  que  du  temps  de  Marini,  d'A- 
chillini  et  autres?  Comment  cette  maladie  end6mique  a-t-elle 
6pargn6  Horace  et  Virgile,  Dante  et  Petrarca,  TAriosto  et  tant 
de  p&rarquistes  qui,  tout  st6riles  qu'ils  sont,  ne  manquent  jamais 
ni  d'616gance  ni  de  naturel?  D'ailleurs  la  meme  corruption  qui 
attaqua  les  Italiens  nj a-t-elle  pas  aussi  envahi  T6tranger?  La 
France  et  les  nations  du  Nord,  dont  le  climat  est  si  different  de 
celui  de  1'Italie,  n'ont-elles  pas  subi  ces  memes  revers?  Nous 
pensons  que  ces  observations  nous  obligent  a  chercher  d'autres 
causes  des  Evolutions  du  gout  dans  la  meme  contr6e  et  a  des 
6poques  si  diflterentes. 

Les  causes  morales  et  politiques  r6sident  dans  la  nature  du 
gouvernement,  de  la  religion  dominante,  et  dans  le  caractere  des 
peuples  ainsi  modifies.  Nous  avons  examine",  au  commencement 
de  la  troisi&me  partie,1  quelle  a  6t6  Tinfluence  que  les  gouverne- 
ments  de  V  Italic  ont  g6n6ralement  exerc6e  sur  leurs  sujets  pendant 
le  XVI Ie  si&cle.  Courbe's  sous  le  double  joug  du  despotisme  poli- 
tique  et  religieux,  et  ne  pouvant  de"ployer  toute  la  Iibert6  n6cessaire 
pour  donner  Tessor  a  leur  g6nie,  il  semble  que  les  Italiens,  surveil!6s 
et  menaces  de  tous  cot6s,  auraient  du  n6gliger  surtout  les  Etudes 
et  les  travaux  litt^raires  qui  les  eussent  expos6s  k  la  double  in 
quisition  du  gouvernement,  et  se  livrer  de  preference  a  un  etat 
d'inertie  et  de  stupidit6  qujon  n'a  pas  manqu6  de  leur  attribuer. 
Cependant,  malgr6  la  duret6  de  leur  oppression,  ils  n'ont  jamais 
cess6,  comme  nous  1' avons  souvent  remarqu6  dans  le  cours  de 
cette  histoire,  de  cultiver  les  sciences  et  les  lettres,  6pouvantail 
d'un  pareil  gouvernement,  et  de  produire  des  ouvrages  qui,  s'ils 
n^taient  pas  r6dig6s  d'apres  les  vrais  principes  du  gout,  ne  T6taient 
pas  non  plus  dans  Tint&ret  de  leurs  oppresseurs.  Mais  quelque 
efficace  qu'on  suppose  d'ailleurs  cette  r6action  des  Italiens, 
il  n'est  pas  moins  vrai  que  1'action  contraire  du  gouvernement 

i .  Nous  avons ,  .  .  partie :  nel  capitolo  I  del  tomo  xi,  del  quale  abbiamo 
riprodotto  Tinizio  alle  pp.  964-5  di  questo  volume. 


FRANCESCO   SAVERIO   SALFI 

devait  de  plus  en  plus  arr£ter  dans  leur  source  ces  sentiments 
nobles  et  g<§n6reux  dont  se  nourrit  la  v6ritable  Eloquence,  et 
habituer  les  esprits  &  un  genre  d'hypocrisie  qui  d6nature  ou  dciguise 
tout  ce  qui  est  vrai  et  beau,  et  lui  substitue  ce  qui  est  i'ouvrage 
de  la  recherche  et  de  Fart.  Voila  seulement  sous  quel  rapport  Pin- 
quisition  tyrannique  de  la  pens6e  a  du  plus  ou  moins  contribuer 
a  cette  corruption  du  gout  qui  atteignit  PItalie  au  XVIIe  siecle.  Mais 
en  lui  accordant  cette  influence,  nous  rencontrons  de  nouvelles 
difficulte*s,  puisque  Fltalie  sc  trouvait  presque  dans  les  m£mes 
circonstances  politiques  et  religieuses,  lorsqu'elle  entreprit  et 
poursuivit  la  r6forme  de  son  gout.  L'influence  eecl&uastique 
avait-elle  chang6  lorsque,  vers  la  fin  du  m£me  si&cle  et  au  com 
mencement  du  si&cle  suivant,  on  vit  s'op6rer  une  Evolution  si 
funeste  aux  marinistes?  M.  Sismondi  vient  d'avaneer  que  ce 
r&gne  du  mauvais  gout  a  dure*  jusqu'au  temps  ou  M6tastase  parvint 
a  la  maturit6  de  son  talent.1  Nous  ne  lui  contestons  pas  la  v6rit6 
du  fait;  nous  demanderons  seulement  si  la  situation  politique  de 
P Italic  avait  d&s  lors  6prouv6  un  changemcnt  capable  cPop^rer 
une  pareille  r6forme. 

En  consid6rant  de  plus  pr6s  les  faits  et  les  circonstances  qui  ont 
pr6c6d£  et  accompagn6  cette  6poque  de  la  literature  italienne, 
nous  croyons  en  d<§couvrir  sinon  la  cause  unique,  du  moins  le 
motif  principal.  Les  p6trarquistes,  qui  avaient  afflu6  au  XVP 
sitele,  firent  un  tel  abus  des  formules  de  leur  chef,  qu*ils  sem- 
blaient  plutot  le  contrefaire  que  Timiter.  On  n'abusa  pas  moins 
du  style  de  Boccaccio;  presque  tous  les  prosateurs  de  ce  temps  se 
bornaient  k  compiler  les  phrases  et  les  constructions  de  cet  6crivain, 
croyant  donner  autant  de  noblesse  et  d'importance  &  leurs  cliscours, 
qu'ils  donnaient  de  longueur  et  d'inversion  a  leurs  p6riodes,  Cette 
manie  de  beaucoup  parler  sans  rien  dire  fut  le  vice  dominant  de 
presque  tout  le  XVIe  siiclc.  Laurent  de  M6dicis,  Polimno  et 
Sannazaro  s'6taient  propos6  de  rdtablir  T616gancc  de  Petrarca  et  de 
Boccaccio,  que  leur  si&cle  avait  entitlement  ndgligte;  mais  bient6t 
Bcmbo  et  ses  partisans  poussirent  cette  sorte  (limitation  k  un  tel 
excte  que  Tabus  finit  par  rendre  ridicules  les  p6trarquistcs  et  les 
boccaccistes,  et  presque  Petrarca  et  Boccaccio  eux-m&nes. 

Nous  avons  d<§ja  signa!6  dans  la  foule  plusieurs  6crivains  qui, 
m6me  pendant  ce  XVIC  siecle,  se  moquaient  de  cette  imitation 
i.  Literature  du  midi  [de  I* Europe,  ed,  cit,],  t  n,  p,  244  (S.). 


HISTOIRE   LITTERAIRE   D'lTALIE  973 

p£dantesque  et  insignifiante,  et  eurent  le  courage  de  la  repro- 
cher  a  leurs  contemporains.  II  faut  maintenant  remarquer  que 
ce  fut  a  la  meme  epoque  que  se  developpa  cet  esprit  de  liberte" 
qui,  tendant  de  plus  en  plus  a  secouer  le  joug  des  aristoteli- 
ciens,  parvint,  dans  le  siecle  suivant,  a  s'emparer  de  presque 
toutes  les  6coles  et  les  acad6mies  d' Italic.  Nous  devons  en  quelque 
sorte  a  Bernardin  Telesio  cette  double  revolution,  philosophique 
et  Htt6raire ;  car  pendant  qu'il  empruntait  a  Parm6nide  quelques 
el^mens  pour  enseigner  un  nouveau  systeme  de  physique  a  ses 
compatriotes,  il  leur  proposait  Lucrece  comme  le  mo  dele  de  style 
le  plus  digne  d'etre  imit£  par  son  originalit6.  Lui-meme  en  donna 
Texemple;1  et  sans  doute  Lucrece  6tait  r6crivain  le  plus  ori 
ginal  de  tous  les  classiques  latins;  et,  sous  ce  rapport,  le  plus 
oppos6  a  la  maniere  des  p6trarquistes  du  XVIe  siecle.  L'Acad6- 
mie  Cosentine2  adopta  la  premiere  les  principes  et  la  methode 
de  Telesio,  son  concitoyen;  et  bientot  Alex.  Tassoni  s'effor- 
$a  d'accr6diter  la  doctrine  de  ce  litterateur  philosophe.3  Nous 
Favons  de"ja  vu  faire  &  la  fois  la  guerre  aux  aristoteliciens  et  aux 
pctrarquistes,  et  a  encourager  plusieurs  6crivains  a  suivre  sa  ban- 
niere.  Cependant  on  avait  commence",  dans  la  seconde  moiti6 
du  XVIe  siecle,  a  s'6carter  tant  soit  peu  de  la  route  des  petrar- 
quistes,  et  a  se  rapprocher  de  celle  des  Grecs  et  des  Latins, 
jusqu'alors  regard6e  comme  inaccessible.  Costanzo,  Tansillo,  Tas- 
so,  Guarini  avaient  ouvert  cette  nouvelle  carriere,  et  nous  la 
verrons  parcourue  avec  plus  de  hardiesse  par  Chiabrera,  Testi  et 
beaucoup  d'autres  qui  ont  le  plus  illustr6  le  XVIP  siecle. 

Mais  Ton  vit  bientot  succ6der  a  une  imitation  servile  la  licence 
la  plus  insens6e.  On  ne  cherchait  plus  que  le  nouveau:  pour  la 
plupart,  la  nouveauti  seule  tenait  lieu  du  beau,  du  vrai,  du  rai- 
sonnable.  A  force  de  tout  reformer,  il  semblait  qu'on  voulut 
changer  la  maniere  de  sentir  et  de  penser,  et  substituer  a  la  nature 
r6elle  une  nature  toute  difT6rente,  6close  des  r£ves  bizarres  de  ces 
nouveaux  visionnaires.  Une  circonstance  favorable,  comme  toutes 

i.  Voy[ez]  son  po&me  latin  dans  le  recueil  pour  le  Castriota,  rapport6  par 
Salvator  Spirit!  dans  les  Memorie  degli  scrittori  cosentini,  p.  92  (S.)-  Sul 
Telesio  cfr.  anche  il  giudizio  del  Salfi  a  p.  966  e  la  nota  2.  2.  L'Aca- 
ddmie  Cosentine:  TAccademia  Cosentina  o  dei  Costanti,  cominciata  da 
Giano  Parrasio,  e  stabilmente  fondata  da  Bernardino  Telesio  e  da  Sertorio 
Quattromani.  3.  bientdt .  .  .  philosophe:  cfr.  quanto  dice  il  Salfi  in  propo- 
sito  qui  a  p.  966  e  la  nota  2. 


974  FRANCESCO   SAVF.RIQ   SALFI 

cclles  qui  d'ordinaire  annonccnt  et  accompagnent  les  revolutions 
littiraircs,  la  superiority  dc  talent  de  J.  B,  Marini  donna  bientot 
plus  de  vogue  &  cottc  nouvelle  direction  de  I'esprit  des  Italicns, 
ainsi  que  Pavaient  fait  Gorgias  et  d'autres  sophistes  chess  les  Grecs, 
Lucain  et  S6neque  chess  les  Latins.  Cette  espece  cle  contagion 
atteignait  ceux  qui  possidaient  le  plus  d'esprit  et  de  connaissances. 
Plusieurs  mfime,  qui  avaient  appris  &  raisonncr  Hbrcmcnt  & 
P6cole  de  Telesio  et  de  Galileo,  sc  crurcnt  obliged  par  leur  syst^me 
k  suivre  la  nouvelle  route,  tels  que  Cesarini,  Ciampolit  et  tant 
d'autres,  moins  versus  dans  la  literature  que  dans  la  philosophic, 

Telles  sont,  &  ce  qu'il  nous  semble,  les  circonstances  Iitt6raires 
qui  amenerent  cette  funeste  revolution  vers  le  commencement 
du  XVIP  siecle.  II  n'est  pas  moins  vrai  qu'ellcs  acquirent  encore 
plus  de  force  par  le  concours  des  circonstances  politiques.  La 
nouvelle  maniere  que  Marini  avait  r6pandue  en  Italie,  et  que  du 
Bartas*  avait  introduce  en  France,  dominait  particulierement  en 
Espagne,  oil  de  grands  poetes,  tels  que  Gongora  et  Lope  de  Vega, 
1'avaient  rendue  nationale.  II  itait  done  nature!  que  les  Espagnols, 
maitres  d'une  grande  partie  de  Tltalie,  pr6f6rassent  et  missent  en 
credit  le  go(it  et  les  ouvrages  de  leur  nation;  et  que  d*un  autre 
c6t6  les  Italians,  qui  ambitionnaient  1'approbation  et  les  faveurs 
du  gouvernement,  s^empressassent  d'imiter  et  de  contrefaire  ce 
qui  flattait  le  plus  Torgueil  et  le  plaisir  de  leurs  protecteurs, 
Se  croyant  obliges  pour  r^ussir  de  se  montrer  gongoristes,  ils 
devinrent  encore  plus  outre*s  que  Marini  Iui-m6me;  et  se  regardant 
comme  libres  et  originaux,  ils  furent  imitateurs  plus  serviles  des 
espagnols,  que  les  p6trarquistes  du  XVP  sii:cle  ne  Tavaient  et6 
de  Petrarca;  car  ils  eurent  &  la  fois  les  vices  de  limitation,  comme 
les  p6trarquistes,  et  les  difauts  de  leur  propre  fcole, 

On  dirait  parfois  que,  fatigui  de  sa  longue  route,  le  laborieux 
Tiraboachi  d^daigne  d^observer  un  pays  contre  lequel  il  est  trop 
privenu.  Nous  ne  cesserons  de  condamner  comme  lui,  et  avec 
plus  de  rigueur  encore,  tout  ce  qui  tient  &  la  mani&re  des  mari- 
nistes;  mais  nous  n*en  mettrons  que  plus  de  soin  &  faire  appri- 

i,  Virginio  C&sarini  (1595-1624)  e  Giovanni  Ciampoli  (1590*1643),  amici 
di  Galileo  cd  accademici  dei  Lincei,  non  sono  da  tutti  annoverati  fra  i 
marinisti.  In  particolare  le  poesie  del  prime  sono  ispiratc  a  seven  intendi- 
menti  morali.  2,  Guillaume  du  Bartas  (1544-1590),  note  soprattutto  co 
me  autorc  del  poema  La  sepmatntt  ou  la  creation  du  mottde  (1578),  una  delle 
fonti  delle  Sette  giornats  del  mondo  cr$ato  del  Tasso. 


HISTOIRE  LITT^RAIRE  D'lTALIE  975 

cier  les  6crivains  que  Texemple  n'a  pas  entrants,  et  que  leur  ge*nie 
et  leur  gout  s6parent  de  la  foule  de  leurs  contemporains.  Peut-£tre 
meme  trouverons-nous  qu'ils  ne  sont  pas  en  aussi  petit  nombre 
qu'on  le  croit;  tel  qu'il  est,  il  suffit  pour  prouver  que  le  g6nie 
des  Italiens  n'£tait  pas  6teint,  et  que  la  Htt6rature  et  les  beaux-arts, 
de  meme  que  les  sciences  et  la  philosophic,  ne  cessaient  de  faire 
des  progres. 

C'est  sous  ce  point  de  vue  que  nous  tlcherons  de  presenter 
1'histoire  de  ce  qui  regarde  Feloquence  et  la  po6sie  de  ce  siecle. 
Ainsi,  signalant  les  productions  Iitt6raires  qui  prouvent  ce  que 
nous  venons  d'indiquer,  nous  ferons  ressortir  en  meme  temps 
cet  esprit  de  liberte"  et  d'innovation  qui  s'empare  de  T6poque,  et 
qui  fut  mieux  dirig6  dans  la  suivante . . . 


DAL  «Rfi8UMfi   DE  L'HISTOIRE  DE  LA 
LITTftRATURE   1TALIKNNE» 

SECONDK  PKRIODE  (OEPUIS  1275  JUriQU'KK   1375) 


Petrarca:  caracthe  de  son  amour  et  de  ses 
ses  canstoni;  son  patriotisms* 

Quoique  Petrarca  ait  imit6  quelques  uns  de  ses  devanciers,  c'est 
lui  qui  porta  le  genre  lyrique  &  une  hauteur  telle  qu'aucun  autrc 
ne  Pa  encore  d6pass6e.  La  literature  en  g6n<kal  lui  a  les  plus 

Come  il  Sain"  stesso  dichiara  nella  profazione  dell* opera,  egli  ai  era  pro- 
posto  di  comporre  un  riassunto  dclla  Histoire  littlraire  d*Itatit  del  Gingue- 
nd,  non  appena  avesse  terminate)  la  eontinuazione  di  talc  opera.  Tuttuvia 
per  alcune  « circonstanees  imprivues »,  probabilmente  per  ncccnsita  eco- 
nomichc,  egli  fu  costrotto  ad  anticipare  refTettuaxione  del  lavoro  con  i 
due  tometti  del  Rd$um£  de  t'histoire  de  la  literature  italitnnet  I^iris,  Jauet> 

1826.  Contrariamentc  alia  continua/Jone  falVHistoirt  littfaaire  <V Italic  del 
Gin#ucnc*,  quest'opera  pid  breve  ehbe  notevole  fortuna,  Kcconsito  piut- 
tosto  aeidamente  dall'Acerbi  nclla  « Biblioteca  italiana»  (XLV,  anno  xn, 

1827,  pp,  42-7),  fu  invece  nel  compleaso  benevolmente  giudieato  nella 
«Antologia»  (xi.in,  1831,  pp.  xx6«B)   dal  giovane  Tommaseo,  il  quak% 
pur  facendo  alcune  riserve  (per  csempio  sull'eccessivo  rilievo  dato  all* in 
fluenza  provcn7*ale;  sull'afTcnnassionc  «che  il  genio  di  Dante  sia  vcra- 
mente  urn  salto  nella  scala  graduata  dtiH'incivilimento  e  che  moltissimo 
non  debba  al  suo  secolo»;  che  la  lingua  del  suo  poema  «aia  nutrita  di 
tutti  i  dialetti  italiani  »)>  ne  veniva  pero  indicando  « parecchie  osservazioni 
e  verc  c  belle ».  Importante  e  significativa  anche  Pammiraxione  del  Ma^ini^ 
il  quale  daU'esilio,  nel  1834,  faceva  ricercare  il  R4$um$  tra  i  auoi  libri  a 
Geneva.  Una  prima  traduxione  italiana  dcU*opera  fu  compiuta  nel  1828 
dalPavvocato  Gioacchino  Benini  di  Prato,  e  pubblicata  (dopo  un  tentative) 
di  atamparla  presso  Pcditore  Giachetti  di  Firenxe,  fallito  per  Pintervento 
della  censura  toscana,  che  aveva  apportato  alPopera  tagli  c  sostitu^ioni 
tali  da  renderla  irriconoscibile)  a  Lugano,  presso  Ruggia,  nel  1831,  col 
titolo  Ristretto  della  storia  ddla  Utteratura  italiana^  traduxione  poi  ripro- 
dotta  senza  varianioni,  ma  col  titolo  Manuals  ecc.,  a  IVIilano,  Silvestri, 
1834,  Una  seconda  traduzione  ad  opera  del  Gouveau  fu  pubblicata  col 
titolo  di  Compendia  ecc.»  a  Torino,  Pomba,  1833.  Altre  edixioni  auccessive* 
che  per6  riproducono  sempre  queste  due  tradussioni,  sono  clencate  nel 
volume  citato  del  Nardi,  a  p.  xut.  II  Rfaum$  ebbc  in  tal  modo  notevole 
dilTusione  in  Italia,  e  il  Croce  ricorda  (cfr.  « La  Critica»,  xxin,  1925,  pp, 
308-9)  che  proprio  su  una  copia  del  Ristretto,  gu\  studiata  da  suo  padre, 
«appre&i  per  la  prima  volta  a  conoaccre  la  truma  della  storia  della  lette- 
ratura  italiana  e  i  nomi  dei  poeti  e  Ictterati  italiani,  maggiori  e  minori  e 
anche  minimi".  I  passi  qui  riprodotti  si  attengono  al  testo  francese  del 
RfoumS,  Punico  approvato  dal  Salfi.  Le  sue  note  sono  seguite  dalla  sigla  S. 

I.  Dal  Rhum4  de  Vhistoire  de  la  literature  italienne,  ed,  cit.,  i,  pp.  61-78. 


DE   LA   LITERATURE   ITALIENNE  977 

grandes  obligations,  mais  c'est  de  ses  vers  lyriques  qu'elle  s'honore 
le  plus.  II  avait  <§te  eleve"  dans  1'exil  par  les  memes  circonstances 
que  le  Dante;  mais  il  ne  fut  pas  aussi  malheureux  que  lui.  II 
6tudia  a  Montpellier  et  a  Bologne;  il  voyagea  dans  1'Italie,  dans 
la  France,  dans  les  Pays-Bas,  dans  1'Allemagne,  partout  accueil- 
li,  estime",  consulte".  II  con£ut  un  tel  amour  pour  les  lettres  et 
pour  les  anciens,  qu'il  d6pr£cia  toute  autre  occupation  et  ses 
contemporains.  De  la  cette  noble  ardeur  a  chercher  partout  d'an- 
ciens  manuscrits,  ces  monumens  precieux  qui  restaient  ensevelis 
dans  la  poussiere  des  biblioth&ques,  et  qu'on  regrettait  comme 
perdus;  et  si  ce  fut  un  avantage  pour  la  Iitt6rature  moderne, 
comme  nous  n'en  doutons  pas,  c'est  a  Petrarca  que  nous  le  devons 
principalement. 

Malgre"  la  s6v6rite"  de  ses  6tudes,  ce  fut  de  la  poesie  qu'il  s'oc- 
cupa  le  plus.  II  composa  d'abord  des  6glogues  et  des  epitres  en 
vers  latins.  Voulant  probablement  6clipser,  ou  du  moins  partager 
la  gloire  6pique  de  Dante,  il  entreprit  d'6crire  en  latin  son  po&ne 
intitu!6  UAfrique,  dont  le  h6ros  est  Scipion,  qu'il  regardait  comme 
le  plus  grand  homme  de  I'antiquit6.  Malheur  a  sa  renommee  et 
a  la  po6sie  italienne  s'il  se  fut  born6  a  ces  compositions  latines! 
Quoique  son  po&me  £pique  lui  eiit  valu  Thonneur  d'etre  couronne 
au  Capitole  &  Rome,  la  post6rite"  ne  lui  aurait  pas  decern£  la  palme 
sur  tous  les  po^tes  lyriques  qui  lui  ont  succed6,  s'il  n' avait  chante 
que  dans  la  langue  de  Virgile  et  d' Horace.  Heureusement  il  vit 
et  connut  k  Avignon  cette  Laure  qu'il  a  rendue  si  c616bre,  et 
qui  lui  fit  sentir  le  besoin  de  I'int6resser  par  ses  vers  italiens. 
Elle  n'avait  alors  que  vingt  ans ;  a  en  croire  son  amant,  ses  qualit6s 
6taient  angeliques.  Depuis  ce  temps  elle  devint  sa  dame,  ou  plutot 
sa  divinit6;  il  lui  consacra  tous  ses  vers,  ses  voeux,  et  vingt  annexes 
de  souffrance. 

Bien  que  Petrarca  fut  ecc!6siastique  et  tant  soit  peu  courtisan, 
il  ne  se  laissa  pas  d6moraliser  par  la  cour  d' Avignon;  peut-£tre 
aussi  sa  bien-aime*e  le  rendit-elle  plus  rigide  ou  plus  r£serv6. 
Quelle  que  flit  sa  veritable  maniere  de  sentir,  Laure  ne  repoussa 
jamais  son  amant,  et  sut  nourrir  et  diriger  en  meme  temps  sa 
passion,  en  l'e"purant  de  tout  ce  qu'elle  pouvait  avoir  de  profane 
ou  de  vulgaire.  Ainsi  1'amour  de  Petrarca  prit  un  caractere  si 
noble  et  si  61ev6,  qu'aucun  de  ses  devanciers  n'avait  encore  connu 
ni  imagin6  un  sentiment  semblable.  Les  Grecs  et  les  Latins 


FRANCESCO   SAVERIO   SALFI 

n'avaient  consider^  dans  leurs  amours  quc  le  plaisir  materiel  et 
la  beaute"  ext£rieure  qui  le  fait  naitre  et  le  satisfait;  lors  memo 
qu'ils  chantcnt  leurs  me"saventures  et  leurs  peines,  leurs  vers 
6rotiques  n'expriment  quc  Pahsence  ou  la  perte  d'un  bicn  mat6- 
rlel,  que  des  accidens  sinistrcs  ou  ties  amans  plus  fortunes  qu'eux 
leur  avaient  enleve\  Petrarca  aime  d'une  tout  autre  maniere;  il 
contemple,  il  adore  1'objct  de  son  amour.  On  dirait  que  ses  vers 
sont  des  hymncs  adress6s  &  un  £tre  $upe*rieur,  qu'ii  eraint  d'of- 
fenser  m£me  quand  il  le  celebre.* 

Au  milieu  de  tant  d'exaltation  et  de  tant  de  puret6,  il  reste  k 
son  amour  assez  d'espe"rance  et  de  crainte  pour  nous  inte>es$er 
&  ses  vicissitudes  et  £  ses  souffrances,  Bien  qu'elevie  dans  une 
sphere  sup6rieure,  sa  passion  violente  6prouve  toujours  cos  agita 
tions  p6nibles  qui  nous  font  partaker  ses  soupirs  et  ses  larmes. 
Soit  que  la  douleur  Taccable,  ou  qu'il  soit  frapp6  d'admiration  ou 
enivr6  de  plaisir,  il  parle  au  eoeur,  lors  n\6rne  qu'il  semble  ne 
s'adresser  qu^  Tesprit,  Malgr6  ce  caractere  dominant  qui  anime 
ses  vers,  des  critiques  assess  froids  pour  ne  pas  le  sentir,  se  plaisent 
parfois  &  remarquer  quelques  pens<§es  un  peu  alambiqu6es,  ou 
quelques  jeux  antitiMtiques  de  mots  que  les  Provcmc/aux  avaient 
d6jk  accr6dit6s,  plutdt  que  de  jouir  du  charme  de  sa  poisie  et  des 
quality's  de  son  §me.  Pour  nous,  nous  n'y  voyons,  axi  contraire, 
que  1'histoire  fiddle  des  affections  les  plus  pures  et  les  plus  tou- 
chantes. 

Sous  ce  rapport,  les  Rime  de  Petrarca  prisentent  une  sorte 
de  poeme  suivi,  dont  FAmour  est  le  he*ro8  principal,  qui  exerce 
sa  toute-puissance  sur  le  coeur  et  Timagination  du  po^te:  Laure 
elle-mfime  ne  fait  que  servir  aux  desseins  de  TAmour.  Cependant, 
malgr6  toutes  ses  souffrances,  Petrarca,  aussi  g6n6reux  qu*opprim<§, 
ne  cesse  d'exalter  non  seulement  ies  6clatantes  qualit&i  que  tout 
le  monde  reconnaissait  k  sa  bien-aim6e,  mais  aussi  cellea,  plus 
pr^cieuses  encore,  que  le  vulgaire  ignorait. « Dans  quelle  partie  du 
ciel,»*  se  demande-t-il  dans  un  de  ses  plus  beaux  sonnets  «dans 

i.  Les  Orecs .  .  .  le  c^bre:  questo  confronto  fra  1'amorc  tcrreno  dei  Grcci 
c  dci  Lutini  c  quello « celestes  del  Potrarca  risale  probabilmente  al  Foscolo, 
di  cui  il  Halfi  conosceva,  oltre  i  celebri  versi  dei  fiefiolcri  (« Amore  nude  in 
Grccia  c  nudo  in  Roma  /  rcnd6  nel  grembo  a  Venere  celeste »)»  anche  i 
*SV^/  $ul  Petrarca,  come  si  rilcva  dalla  Notice  sttr  Ugo  Foscolo>  riprodotta 
in  qucsto  volume  a  pp.  1009-1015,  2.«In  qual  partc  del  cicio,  in  quale 
idea",  etc,  (S.).  C'fr.  Rime>  cux,  di  cui  sono  tradotti  piti  avanti  i  vv.  x-4 
c  9-11, 


DE   LA   LITERATURE   ITALIENNE  979 

quelle  id6e  6tait  le  module  dont  la  nature  tira  ce  beau  visage,  ou 
elle  voulut  montrer  ici-bas  ce  qu'elle  peut  dans  les  regions  c£- 
lestes?  II  cherche  en  vain»  dit-il  «une  image  de  la  beaute*  divine, 
celui  qui  n'a  jamais  vu  ses  yeux  et  leurs  tendres  et  doux  mou- 
vements ». 

En  parcourant  tous  ces  vers  qu'il  lui  consacre,  on  croirait  que, 
non  content  de  Padorer  lui-meme,  il  s'empresse  de  la  faire  aimer 
et  respecter  par  les  autres  a  qui  il  reproche  souvent  leur  indifference 
ou  leur  injustice.  II  la  retrace  sous  tous  les  aspects  qui  puissent 
exciter  le  plus  leur  attention,  et  toujours  pleine  de  charmes  et  de 
graces.  On  la  voit  tant6t  humble  et  modeste,  ou  tout  6mue  de 
piti6;  tantot  orgueilleuse,  fiere,  et  presque  impitoyable  et  cruelle. 
«  C'est  ici  qu'elle  chanta  si  doucement,  la  qu'elle  s'assit,  ici  qu'elle 
retint  ses  pas .  .  .  »*  En  parcourant  ces  tableaux  si  charmans,  qui 
pourrait  ne  pas  d6sirer  d'aimer  un  etre  qui  ait  quelque  ressem- 
blance  avec  ce  modele  de  perfection?  C'est  ainsi  que  Petrarca 
justifie  et  sa  passion  et  les  hommages  qu'il  rend  a  1'objet  de  son 
culte;  c'est  1&  le  plus  grand  effet  qu'il  pouvait  produire  comme 
poete  lyrique. 

Tandis  que  Petrarca  nous  int6resse  a  sa  Laure,  il  ne  cesse 
jamais  de  nous  int6resser  a  la  fois  a  son  coeur,  a  lui-meme ;  autant 
Tune  est  aimable  et  parfaite,  autant  1'autre  est  attachant  et  sen 
sible.  II  re"pand  dans  ses  vers  la  tristesse  et  la  douceur  de  son 
ame.  II  soupire  toujours  pour  sa  bien-aim6e,  et  partout  il  r£ve  a 
elle;  qu'il  se  promene  solitaire  et  pensif  au  milieu  des  champs  les 
plus  ddserts2  pour  cacher  Fardeur  qui  le  consume,  il  ne  peut 
jamais  obtenir  que  1' Amour  s*61oigne  de  lui  et  ne  Toblige  pas  de 
s'en  plaindre.  II  cherche  a  le  fuir,  et  il  le  poursuit  jusqu'a  la  som 
bre  for£t  des  Ardennes.  Cest  la  qu'au  milieu  de  mille  dangers 
il  va  chantant  celle  que  le  ciel  meme  ne  pourrait  s6parer  de  lui; 
il  croit  P  entendre  en  entendant  les  rameaux  et  les  ze"phirs  et 
les  feuillages  et  les  oiseaux  se  plaindre,  et  les  eaux  fuir  en  mur- 
murant  sur  Fherbe  verdoyante.3  Et  pourquoi  regarder  comme 
Strange  qu'une  imagination  si  reveuse  et  si  passionn6e  trouve  dans 
le  nom  et  le  sort  du  laurier  quelques  rapports  entre  Laure  et 

i.  «Sennuccio,  io  vo'  che  sappi  in  qual  maniera»,  etc.  (S.)-  Cfr.  Rime, 
CXII,  di  cui  sono  tradotti  i  w.  9-10.  2.  «Solo  e  pensoso  i  piti  deserti 
campi»,  etc,  (S.)«  Cfr.  Rime,  xxxv.  3.  «Per  mezzo  i  boschi  inospiti  e 
selvaggi»,  etc.  (S.).  Cfr.  Rime,  CLXXVI. 


980  FRANCESCO   SAVERIO   SALFI 

Daphn6?  Pourquoi  ne  pas  s'int6resser  au  laurier  qu'il  plante  sur 
les  bords  d'un  ruisscau,  et  k  la  pri&rc  qu'il  adresse  k  Apollon  de 
d&fendre  cet  arbrisseau  qu'il  aime  autant  quo  lui-mcmc,  et  k  ce 
ruisscau  qu'il  visite  si  souvent  et  qui  lui  semble  pleurer  avec 
lui?  II  s'6crie  mernc,  en  revoyant  sa  plante  ch6rie:  «Puisse  ce 
beau  laurier  croitre  toujours  sur  ce  frais  rivage  et  putsse  celui  qui 
Fa  plant6  £crire  de  tendres  et  nobles  pens6es  sous  ce  doux  ombrage 
et  au  murmure  de  ces  eaux!))1  II  faudrait  n '  avoir  jamais  aim£  pour 
ne  pas  appr6cier  la  v£rit6  de  ces  images  et  dc  ces  sentimens. 

Dans  les  Rime  de  Petrarca  on  trouve  des  ballades,  des  sixtines, 
surtout  des  sonnets  et  des  can$oni\  mais  c'est  dans  les  derni&res 
qu'il  s'est  le  plus  signal6,  elles  pr6sentent  le  vrai  modMc  de  Pode 
italienne.  Le  po6te  s'61£ve  souvent  aussi  haut  qu'Horace  et  Pindare; 
mais  il  temp£re  toujours  ses  61ans  les  plus  sublimes  par  ce  ton 
£16giaque  de  douleur  et  de  m61ancolic  qui  Paccompagne  partout, 
II  entreprend  de  c61£brer  dans  une  des  ses  canzoni*  les  ondcs 
claires  et  fraiches  oil  Laure  avait  plong6  ses  mcmbres  cl£licats,  et 
il  desire  que,  si  P  Amour  doit  fermer  et  6teindre  ses  yeux  dans 
les  larmes,  son  corps  malheureux  soit  du  moins  enseveli  pr&s 
d'ellcs.  « II  esp^re  meme  que  cette  beaut6  douce  et  cruclle  revicn- 
dra  peut-6tre  visiter  ce  s6jour,  et  que  ne  voyant  plus  de  lui  qu'un 
peu  de  terre  jet£e  entre  les  rochers,  inspirfe  par  P Amour  elle 
soupirera  si  doucement  qu'elle  obtiendra  son  pardon.  »3  II  n'oublie 
cepcndant  pas  les  doux  souvenirs  de  ce  lieu  ou  il  avait  tant  de  fois 
contemp!6  sa  beaut6  celeste.  II  se  rappelle  ces  beaux  momcns, 
(dorsque  tombait  de  ces  rameaux,  ^  Pombre  desquels  elle  6tait 
assise,  unc  pluie  de  ficurs  qui  descendait  sur  son  sein.  Couvertc 
de  cet  amoureux  nuage,  elle  se  montrait  humble  au  milieu  de 
tant  de  gloire.  De  ces  fleurs  qui  volaicnt  de  tous  cot6s,  il  y  en 
avait  qui,  en  voltigeant  16girement  dans  les  airs,  semblaient  dire: 
"Ici  rigne  P  Amour*')).  Petrarca  s'est  surpass^  lui  m6me  dans 
les  trois  canzoni  qu*on  nomine  «les  trois  soeurs»,4  parce  qu'elles 

i,  «Non  Tesin,  Po,  Varo>  Arno,  Adige  c  Tebro»,  etc.  (8,).  Cfr,  Rime, 
CXLVIII,  di  cui  sono  tradotti  i  vv.  12-4.  a. « Chiare,  fresche  e  dolci  acque », 
etc.  (S.).  Cfr.  Rime>  cxxvi,  di  cui  sono  tradotti  piti  avanti,  alquanto  libera- 
mcnte,  i  vv.  27-37  e  40-52.  3.  son  pardon:  qui  il  Salfi  semhra  tradurre  in 
modo  errato.  II  Petrarca  immagina  chc  Laura  aospirando  ottenga  per  lui 
il  pcrdono  dal  Cielo :  « in  guiaa  che  sospiri  /  si  dolccmcnte  che  merc^ 
m'impetre,  c  faccia  forza  al  cielo»,  ecc.  4.  «Poich6  la  vita  &  breve »,  etc, 
(8,),  Cfr.  Rime,  LXXI,  che  c  la  prima  delle  tre  can^oni  sugli  occhi  di  Laura. 
II  testo  petrarchesco  ha  «Perch6»,  ecc. 


DE   LA   LITTERATURE   ITALIENNE  981 

se  suivent  en  traitant  du  m£me  sujet.  II  les  consacre  aux  yeux  de 
Laure,  et  c'est  la  que,  s'£levant  sur  les  ailes  de  FAmour  au-dessus 
de  toute  pens6e  vulgaire,  il  revele  des  mysteres  qu'il  avait  terms 
long-temps  caches  dans  son  coeur;  et  sans  doute  aucun  poete 
ne  les  avait  imagines  avant  lui.  Ses  pense"es,  ses  images,  ses  transi 
tions,  tout  est  neuf,  original,  impreVu. 

Petrarca  a  pleure  la  mort  de  Laure  aussi  long-temps  qu'il  F  avait 
c616br£e,  et  ses  vers  funebres  sont  plus  touchans  encore.  II  d6peint 
d'abord  Fagitation  de  son  coeur  et  F<§garement  de  son  esprit,  dans 
le  premier  sonnet1  qu'il  a  redig6  d'apres  une  canzone  de  Dante,* 
et  ou  il  rappelle  sans  aucun  ordre,  et  en  suivant  la  passion  qui 
Fentrame,  tout  ce  qu'il  vient  de  perdre.  II  de"peint  encore  mieux 
son  coeur  dans  cette  canzone3  ou  il  s'adresse  a  F  Amour,  et  lui  de- 
mande  s'il  doit  survivre  a  la  beaut6  qu'il  a  perdue.  C'est  la  qu'apres 
s'etre  <§cri6  que  cette  perte  est  <§galement  cruelle  pour  FAmour 
et  pour  lui,  «il  reproche  a  ce  monde  ingrat  qu'elle  a  laisse"  dans  le 
veuvage,  et  qui  devrait  se  plaindre  avec  lui,  son  indifference  exces 
sive  .  .  .  Ta  gloire  est  d6chue»  lui  dit-il  «et  tu  ne  le  vois  pas;  et 
moi,  qui  sans  elle  ne  puis  aimer  ni  la  vie  ni  moi-meme,  je  Fappelle 
en  pleurant:  c'est  tout  ce  qui  me  reste  de  tant  d'esperancesU 
Mais  FAmour,  devenu  plus  humain  qu'il  ne  F6tait,  lui  defend  de 
la  suivre,  et  lui  conseille  de  m&riter  de  la  rejoindre  la  ou  elle* 
est  vivante  &  jamais,  et  de  rendre  son  nom  encore  plus  c61£bre 
par  ses  chants.  Le  poete  suit  son  conseil  ou  plutot  ses  ordres, 
et  jamais  il  ne  d£ploya  un  plus  vif  6clat  que  lorsque,  sa  pens6e 
F61evant  jusqu'aux  spheres  celestes,  ou  est  parvenue  celle  qu'il 
cherche  et  qu'il  ne  trouve  plus  sur  la  terre,  il  lui  semble  qu'elle 
le  prend  par  la  main,  et  que  peu  s'en  faut  qu'au  son  de  ses  douces 
et  chastes  paroles  il  ne  reste  dans  les  cieux.4 

Ces  courtes  observations  sont  plus  que  suffisantes  pour  montrer 
Foriginalit6  de  Petrarca.  On  a  cru  cependant  la  rabaisser  en  exa- 
g£rant  le  peu  d'emprunts  qu'il  a  faits  &  ses  pr6d6cesseurs.  Nul 


1.  «0im£  il  bel  viso!  oim&  il  soave  sguardob  etc.  (S.).  Cfr.  Rime,  CCLXVII. 

2.  une  canzone  de  Dante:  penso  che  alluda  alia  canzone  Li  occhi  dolenti 
della  Vita  nuova,  xxxi,  ma  in  realta  tra  questa  (o  altra  canzone  dantesca) 
e  il  sonetto  petrarchesco  non  esistono  relazioni  precise.     3.  «Che  debb'io 
far?  che  mi  consigli,  Amore? »  etc.  (S.)-  Cfr.  Rime,  CCLXVIII,  di  cui  traduce 
piti  avanti,  in  parte  riassumendo,  i  w.  20-32.     4.  « Levommi  il  mio  pen- 
siero  in  parte,  ov'era)),  etc.  (S.).  Cfr.  Rime,  cccn. 


9o2  FRANCESCO   SAVERIO   SALFI 

doute  qu'ainsi  que  Dante,  Cino  de  Pistoia,.  ct  peut-etrc  aussi 
Buonaccorso  de  Montemagno,  il  a  quelquefois  imit6  les  Arabes 
et  les  troubadours.  Le  premier  sonnet  de  ce  dernier  a  beaucoup 
de  ressemblance  avec  celui  de  Petrarca,  ou  il  point  la  journ6e 
memorable  dans  laquelle  le  soleil  s'6clipsa  &  la  mort  du  Christ, 
et  ou  I' Amour  le  surprit  tout  occup6  de  ce  grand  souvenir.1  II 
emprunta  meme  Tid6e  d'un  sonnet  de  Cino,  et  en  fit  le  sujet 
d'une  canzone,  ou  il  cite  P  Amour  devant  le  tribunal  de  la  Raison, 
et  ou  tous  les  deux  plaident  leur  cause.3  Les  italiens  avaient 
fait  ces  observations  long-temps  avant  quelques  Strangers.3  Biles 
prouvent  seulement  que  Petrarca  a  imit<§  quelquefois,  comrne 
tous  les  grands  g6nies,  et  il  faut  en  accorder  d'autant  plus  d'at- 
tention  aux  ide"es  qu'il  n'a  puisnes  que  dans  son  Ime. 

On  lui  a  reproch6  avec  plus  de  raison  ce  earactere  de  douceur 
extreme  et  presque  de  mollesse  qu'il  a  communique*  &  sa  langue 
et  &  ses  vers,  et  qui  a,  pours  ainsi  dire,  d61ay6  ce  ton  de  vigueur 
•et  de  v6h6mence  que  Dante  lui  avait  donn6.  En  eifet,  la  langue 
italienne  qui,  dans  les  vers  de  ce  dernier  n'est  que  la  langue 
•de  la  vertu  et  de  la  raison,  ne  semble  dans  les  vers  de  Petrarca 
>que  cellc  de  Tamour.  Mais  cette  difference  n'est  que  Pcffet  du 
sujet  qu'a  trait6  ce  poete,  et  qui  lui  a  inspir6  cette  douceur  ct 
•cctte  616gance  que  la  po£sie  italienne  n'avait  pas  encore  avant 
lui,  et  dont  ses  successeurs  ont  quelquefois  abus6.  Disons  plutot 
que  Petrarca,  ayant  le  premier  ennobli  la  condition  de  1'amour, 
a  imprim6  le  m6me  earactere  a  son  style  et  &  ses  vers  6roti- 
ques. 

II  a  fait  preuve  d'un  style  plus  s6vere  et  plus  grave  dans  quel 
ques  unes  de  ses  compositions  ou  la  nature  du  sujet  lui  en  imposait 
le  devoir.  Quoiqu'il  aimat  passionn6ment  sa  Laure,  il  n'aimait 
pas  moins  Tltalie  et  son  ind6pendance ;  et  bien  que  moins  fier  et 
moins  acerbe  que  Dante,  il  n*6pargna  pas  les  tyrans  et  surtout 
les  papes  qui  causaient  les  malheurs  de  son  pays :  s'il  en  m6nagea 
parfois  quelques  uns,  il  le  fit  toujours  dans  Tintention  de  les  cor- 
riger  et  de  les  require  k  la  raison,  et  il  y  r6ussit  quelquefois,  Plu- 

i.Le  premier .  ,  .souvenir:  in  realtfc  h  il  sonctto  pctrarcheaco  (Rime,  in) 
cho  £  la  fontc  di  qucllo  di  Buonaccorso.  2. 11  emprunta  . ,  .  cause:  ai  tratta 
dclla  canxonc  « Quando  il  soave  mio  fido  conforto »  (Rimet  cccux),  il  cui 
dise#no,  secondo  gli  antichi  commentatori,  sarcbbc  state  suggerito  dal 
sonctto  Mills  dubbi  in  un  dlt  un  tempo  attribuito  a  Cino,  3,  Voyez 
Crcscimbcni,  Muratori,  etc.  (S.). 


DE   LA   LITERATURE   ITALIENNE  983 

sieurs  de  ses  trait6s  latins,  et  particulierement  ses  6glogues,  prouvent 
ce  que  nous  avan9ons.1  D'ailleurs  nous  poss6dons  aussi  des  vers 
italiens  qui  confirment  cette  assertion.  Entendons-le  dans  cette 
canzone2  qu'il  adressa  peut-etre  a  Etienne  Colonna3  qui  venait 
d'&re  nomm6  senateur  de  Rome.  Nouveau  Caton,  il  d6clame 
contre  les  moeurs  corrompues  des  Italiens;  il  leur  reproche  surtout 
leur  oisive  et  lache  indifference,  tandis  que  des  Strangers  sacca- 
geaient  leur  pays;  il  leur  rappelle  les  noms  des  Fabricius,  des 
Scipions,  des  Brutus;  il  espere  meme  que  son  jeune  he'ros  reveillera 
bientdt  ses  compatriotes  de  leur  honteuse  16thargie.  Dans  une 
*  autre  piece,4  il  s'adresse  a  1'Italie  elle-meme,  et  c'est  une  des  plus 
belles  production  de  la  lyre  italienne.  II  jette  un  regard  de  piti6 
sur  ces  petits  princes  qui,  apres  s'etre  partag6  ce  beau  pays,  se 
faisaient  en  furieux  la  guerre  Tun  a  1'autre.  Jamais  on  n'employa  de 
raisons  plus  fortes  pour  persuader  a  ses  concitoyens  d'aimer  leur 
patrie.  «Et  que  font  ici»  leur  dit-il  «toutes  ces  armes  Strange- 
res? ...  Malheureux!  vous  cherchez  dans  un  coeur  v6nal  r  amour 
et  la  fidelit6!  ...  Si  nous  n'arretons  pas  de  nos  propres  mains 
ce  torrent  de  barbares,  descendu  pour  d6vaster  nos  douces  cam- 
pagnes,  qui  pourra  nous  en  garantir?»s  II  espe"rait  surtout  que 
pour  peu  que  les  princes  se  montrassent  sensibles  aux  larmes 
d'un  peuple  opprim6,  il  se  releverait  et  triompherait  bientot  de 
ses  ennemis;  car  il  croyait  que  F  antique  valeur  n'6tait  pas  encore 
6teinte  dans  les  coeurs  italiens;  et  c'est  dans  ce  but  qu'il  encoura- 
geait  Cola  Rienzi,  tribun  du  peuple  romain,  qui  avait  entrepris  de 
r£tablir  a  Rome  la  liberte",  mais  qui  ne  sut  pas  la  soutenir. 

Petrarca  parait  avoir  imit6  la  maniere  de  Dante  dans  quelques 
uns  de  ses  sonnets  qu'il  a  lance's  contre  la  cour  de  Rome.  Dans 


i .  Plusieurs  .  .  .  avanfons :  poich6  il  Petrarca  non  scrisse  trattati  latini  espli- 
citamente  rivolti  a  criticare  i  papi  corrotti,  penso  che  il  Salfi  alluda  alle 
epistole  Sine  nomine ;  delle  ecloghe  comprese  nel  Bucolicum  carmen  solo  la 
VI  e  la  vn  trattano  della  corruzione  papale.  2. « Spirto  gentil,  che  quelle 
membra  reggi»,  etc.  (S.)-  Cfr.  Rime,  LIIL  3,  qu'il  adressa. .  .  Colonna: 
I'identificazione  del  destinatario  della  canzone  con  Stefano  Colonna,  no- 
minato  senatore  di  Roma  ncl  1335,  generalmente  accolta  nel  Settecento, 
era  stata  accettata  anche  dal  Ginguen6,  a  cui  il  Salfi  si  attiene.  4. « Italia 
mia,  bench6  '1  parlar  sia  indarno»,  etc.  (S.)«  Cfr.  Rime,  cxxvm,  di  cui  sono 
tradotti  piii  avanti  i  vv.  20,  25  e  28-32.  5.  Si  nous  ,  .  .  garantir?  il  Salfi 
traduce  in  modo  errato  il  testo  petrarchesco  che  suona  cosl:  «0  diluvio 
raccolto  /  di  che  deserti  strani  /  per  inondar  i  nostri  dolci  campi!  /  Se  da 
le  proprie  mani  /  questo  n'avene,  or  chi  fia  che  ne  scampi  ?» 


984  FRANCESCO   SAVERIO   SALFI 

Tun,1  il  dit:  «Que  la  flamme  du  ciel  tombe  sur  les  tresses  de  ta 
chevelure,  me'chante  qui  t'es  61cv6e,  aux  d6pens  d'autrui,  de  la  vie 
frugale  dcs  premiers  hommes  jusqu'^  la  richesse  et  &  la  grandeur!  » 
Dans  un  autre,2  il  predit  sa  chute  prochaine  et  le  retour  du  stecle 
d'or  et  des  moeurs  antiques.  II  delate  encore  avec  plus  cle  violence 
dans  le  troisieme,3  en  1'appelant  source  de  maux,  6cole  d'erreur 
et  temple  de  rher6sie.  «Courtisane  effrcmteV.))  lui  dit-il  «oii  as-tu 
place*  ton  esp6rancc?  dans  tes  adultcres  et  dans  tes  richesses 
immenses  et  mal  acquises.  »  II  faut  que  Petrarca  ait  6t6  fort  scan 
dalise*  pour  se  permettre  de  telles  apostrophes  qui  sont  si  pen 
conformes  &  son  caractere  doux  et  tolerant:  Dante  lui-m£me  n'a 
jamais  e*te*  si  loin.  Cependant,  quoi  qu'il  en  soit  de  ses  vers  satiriques 
et  de  ses  vers  amoureux,  les  traits  patriotiques  que  nous  venons 
de  remarquer  dans  les  poesies  de  Petrarca,  doivent  faire  regrctter 
que  sa  muse  ne  soit  pas  revenue  plus  souvent  sur  do  pareils 
sujets  d'un  int6ret  plus  grave  et  plus  gc'ne'ral 


P$RIOI)E  (DEPUIS  1675  JUSQU'KN  1775) 


Revolution  litter  air  e,  Arcadie  romaine;  objet  et  sort  de  cette 

acadtimie.  Gravina  et  Crescimbm.  Progrts  ultdrieurs  de  la  tangue 

vulgaire  et  de  la  critique.  Divers  trait  fa  dans 

ces  deux  genres* 

Cette  derniere  plriode  commence  par  une  revolution  qui  ren- 
verse  T6cole  marinesquc,  et  donne  ^  la  litterature  italienne  un 
caractere  tout  different  De  toutes  les  provinces  de  Pltalie  la 
Toscane  <5tait  cello  qui  s'6tait  le  moim  ressentie  de  la  corruption 
Iitt6raire  qui  les  avait  g6n6ralement  envahies.  Probablement  Tesprit 
de  la  bonne  philosophic,  qui  s'itait  propag6  parmi  les  Toscans 
par  Galileo  et  par  ses  616ves,  en  lour  d6voilant  les  lois  cle  la  nature 
physique  et  en  les  habituant  de  plus  en  plus  &  reconnaitre  les 

3t»  «Fiammu  da!  ciel  au  le  tue  trcccc  piova»,  etc.  (8,).  Cfr,  Rime,  cxxxvi, 
di  cui  sono  trudotti  i  vv,  1-3,  z,  « L'avara  Babilonia  ha  colmo  il  sacco», 
etc.  (S,).  Cfr.  Rime,  cxxxvn.  3.  «Fontana  di  dolore,  alberffo  d'ira»,  etc, 
(S.).  Cfr,  Rime,  cxxxvn  i,  di  cui  sono  tradotti  i  vv.  11-3.  4.  Dal  RfaurrU 
d#  Vhistoire  de  la  literature  italiennc,  ed.  cit,  n,  pp.  46-65. 


R£SUMJ§   DE   LA    LITERATURE   ITALIENNE  985 

caract&res  de  la  r6alit6,  ne  put  se  mettre  d'accord  avec  une  po6tique 
dont  les  principes  e~taient  errones,  et  qui  menait  a  Fabsurde.1 
Quelle  que  soit  enfin  la  cause  de  cet  avantage,  il  est  certain  que 
la  corruption  du  gout  qui  dominait  presque  toutes  les  academies 
d'ltalie,  ne  pen6tra  dans  aucune  de  celles  de  Florence.  La  plupart 
des  poetes  toscans,  s'ils  n'eurent  pas  assez  d'originalite,  furent 
du  moins  les  plus  corrects  et  les  plus  reguliers.  II  y  eut  m£me 
des  6crivains  qui  oserent  attaquer  ouvertement  les  extravagances 
des  marinistes.  Les  trois  academies  de  Florence,  surnomm6es 
Florentine,  de  la  Crusca  et  des  Apatistes,  se  tenant  religieusement 
attachees  a  Fautorite"  de  Dante  et  de  Petrarca,  rejeterent  les  inno 
vations  de  la  nouvelle  6cole. 

Rome  eut  cependant  m6rit£  de  faire  la  guerre  aux  marinistes, 
et  de  secouer  le  joug  sous  lequel  elle  g£missait,  ainsi  que  les  autres 
villes  de  FItalie.  Ses  academies,  et  principalement  celle  des  Hu- 
moristes,55  se  faisaient  gloire  d'obeir  aux  lois  de  Marini  et  de  ses 
partisans;  et  c'est  la  meme  que  s'ourdit  la  conspiration  la  plus 
puissante  contre  leur  domination.  Mais  Rome  ne  fut  que  le  foyer, 
que  le  champ  de  bataille  ou  <§clata  cette  Evolution;  car  ceux 
qui  y  eurent  le  plus  de  part  n'6taient  pas  remains ;  ils  apparte- 
naient,  au  contraire,  aux  diverses  provinces  de  FItalie.  Ce  furent 
done  les  Italiens,  et  non  les  Romains,  qui  la  con9urent  et  Fexe- 
cut&rent.  Rome  y  ajouta  Finfluence  que  Fautorit6  de  son  nom 
exer£ait  sur  tout  le  reste  de  la  p6ninsule. 

Un  grand  nombre  d'italiens  les  plus  distingues  dans  les  divers 
genres  de  la  literature  se  trouvaient  dans  cette  capitale.  Plusieurs 
d'entre  eux,  indign£s  contre  F6cole  dominante,  form^rent  le  des- 
sein  de  la  d6troner.  Ils  cherch&rent  a  tirer  parti  surtout  d'une 
circonstance  extraordinaire:  ils  s'appuyfarent  de  la  protection  de 
Christine,  reine  dc  Su&de,  qui  s'6tait  6tablie  a  Rome  k  cause  de  la 
pr6f6rence  qu^elle  venait  d'accorder  a  la  religion  catholique.  El 
le  seconda  la  nouvelle  rSforme  en  prot6geant  plusieurs  de  ceux 

I.  Probablement .  .  .  absurde:  cfr.  su  Galileo  e  sulk  sua  influenza  sulla 
cultura  anche  letteraria  il  passo  ddl'Histoire  litUraire  d'ltalie  riportato 
in  questo  volume  a  pp.  967  sgg.  2.  celle  des  Humoristes :  FAccademia  degli 
Umoristi,  fondata  verso  il  1600  dal  patrizio  romano  Paolo  Mancini,  alia 
quale  erano  ascritti  quasi  tutti  i  piu  illustri  letterati  contemporanei ; 
sulForientamento  marinistico  di  essa  non  esiste  che  una  generica  testimo- 
nianza  del  Redi,  riportata  dal  Tiraboschi  nella  Storia  della  letteratura 
italiana. 


9  FRANCESCO   SAVERIO   SALFI 

qui  Pavaient  entreprise,  tels  que  Guidi,  Menzini,  Filicaia,  dont 
nous  avons  d6ja  fait  mention,  et  d'autres  dont  nous  parlerons 
bientdt  Us  fond&rent  1'Arcadie  en  1690;  mais  ceux  qui  contri- 
bu&rent  le  plus  a  cot  6ve"nement,  qui  devint  en  quelque  sortc 
national,  furent  Jean- Vincent  Gravina,  de  Calabre,  et  Jean-Mantis 
Crescimbeni,  de  Macerate. 

Ce  fut  un  malheur  que  ces  deux  litterateurs,  qui  y  avaient  le 
plus  coop6r6,  se  brouillassent  ensemble ;  il  fut  encore  plus  malheu- 
reux  que  Crescimbeni  pr£valftt  sur  1'autre,  qui  certes  valait  plus  que 
lui  et  par  la  nature  de  ses  connaissances  et  par  la  s6v£rit6  de  son 
goftt.  Crescimbeni  resta  le  chef  des  Arcades,  et  par  consequent 
le  promoteur  principal  de  la  r6forme,  quoique  Gravina  et  ses  61eves 
n'eussent  pas  cess6  d'y  contribuer.  Bientot  1'Arcadie  s'empara  de 
toutes  les  provinces  de  Pltalie.  Partout  on  fonda  des  colonies 
organisers  d'apris  son  exemple,  et  qui  prechaient  son  culte 
et  ses  lois.  En  peu  de  temps  tous  les  litterateurs  italiens  ap- 
partinrent  a  Pacad6mie  des  Arcades  et  suivirent  la  meme  im 
pulsion. 

Ces  acad&miciens  non  seulement  ta"cherent  d'6purer  la  lit- 
teVature  italienne  de  la  corruption  marinesque,  mais  ils  os^rent  en 
m£me  temps  ne  pas  se  remettre  cntiirement  sur  la  route  des  p6- 
trarquistes,  bien  que  les  essais  malheureux  de  la  plupart  de  ceux 
qui  Tavaient  abandonn6e  dUs^sent  encore  plus  Taccr6diter.  S'^tant 
impost  Tobligation  d'imiter  les  moeurs,  les  coutumes  et  les  occu 
pations  des  anciens  Arcadiens,  ils  se  trouvtrent  engages  a  intro- 
duire  des  formes,  sinon  nouvelles,  du  moins  peu  communes.  On 
prit  pour  modeles  Thtocrite,  Virgilc  et  Sannazaro.  On  n'entendait 
plus  que  des  bergers  et  des  po&tes  bucoliques;  et  Tltalie  se  vit 
bientdt  inond6e  d'6glogues,  d'idylles,  d'anacrdontiqucs  et  de  son 
nets  pastoraux.  Crescimbeni  lui-mtaie,  voulant  peut-6tre  dimi- 
nuer  la  foule  monotone  et  ennuyeuse  des  sonn<§tistes,  proposa  les 
sonnets  de  Costanzo*  comme  les  plus  dignes  d^tre  imit^s.  11  ne 
cessa  jamais  d'encourager  les  Arcades  et  par  ses  prdceptes  et  par 
son  exemple ;  mais  il  n'avait  pas  asses;  de  talent  pour  donner  plus 
de  goftt  et  plus  d'originalit6  a  cette  r6forme  littfiraire,  ni  pour  en 
pr6vcnir  ou  en  empficher  les  abus.  On  pourrait  m&ne  lui  reprocher 

i.  I  sonetti  del  pctrarchista  cinquecentesco  Angelo  di  Costanxo  (xsoy-isoi) 
erano  convsidcrati  dal  Crescimbeni  e  dagli  Arcadi  romani  come  modelli 
nella  poesia  amorosa,  in  quanto  «uni»  di  concetto  e  «gravi»  di  forma. 


DE   LA   LITERATURE    ITALIENNE  987 

d'avoir  <§t6  dirige"  par  les  j<§suites,  qui  certainement  ne  laiss^rent  pas 
<§chapper  Foccasion  de  r6pandre,  par  son  organe,  leur  gout  et  leurs 
maximes;  ce  que  n'aurait  jamais  permis  Gravina,  qui  avait  de 
bonne  heure  essaye  de  d6masquer,  dans  son  Hydre  mystique*  ces 
corrupteurs  de  T616gance  et  de  la  morale. 

Ce  qu'il  faut  le  plus  deplorer,  c'est  que  cette  institution  d6- 
g6nera  en  cet  esprit  d'imitation  qui  Fa  rendue  aussi  insignifiante 
dans  la  suite,  qu'elle  avait  £t6  utile  dans  son  commencement. 
La  foule  des  talens  m6diocres,  voulant  et  ne  pouvant  briller  comme 
leurs  pr<§d6cesseurs,  ne  firent  que  r6p£ter  ou  exag£rer  ce  qu'ils 
avaient  admire"  le  plus.  II  leur  arriva  ce  qui  6tait  arriv6,  au  milieu 
du  XVIe  si&cle,  aux  bembistes;  car  Bembo  n'ayant  fait  que  ra- 
mener  ses  contemporains  a  I'el6gance  et  a  la  correction  de  Pe- 
trarca  et  de  Boccaccio,  il  serait  injuste  de  lui  imputer  la  nullit6 
dcs  p6trarquistes  dont  il  fut  suivi.  OA  doit  de  meme  savoir  gr6 
aux  premiers  Arcades  d'avoir  d6tourn6  leurs  contemporains  de 
l'6cole  marinesque,  soit  en  proposant  des  modeles  de  style  plus 
corrects,  soit  en  accr£ditant  des  formes  moins  usite"es.  II  ne  faut 
done  pas  confondre  ces  r6formateurs  bienfaisans,  qui  m6ritent 
notre  reconnaissance,  avec  la  multitude  de  ceux  qui,  tout  en 
suivant  leurs  traces,  n'ont  fait  que  se  rendre  de  plus  en  plus 
ridicules  par  la  servilit6  de  leur  imitation,  ou  plutot  par  la  m£dio- 
crit6  de  leur  esprit. 

Malgre"  les  abus  que  nous  avons  indiqu6s,  le  premier  mouve- 
ment  communique  ^  toutes  les  parties  de  la  Iitt6rature  ne  cessa 
pas  de  produire  les  plus  grands  resultats.  Tandis  que  les  uns 
s'exer9aient  dans  la  pratique  de  Tart,  les  autres  cherchaient  a 
mieux  determiner  les  principes  qui  devaient  la  diriger.  Ceux  meme 
qui  s'occupaient  de  cultiver  la  langue  italienne,  continu&rent  leurs 
travaux  avec  plus  d'activite".  Les  observations  qu'on  avait  faites 
sur  le  Vocdbulaire  de  la  Crusca  multipli&rent  les  efforts  et  les 
recherches  des  acad6miciens  de  Florence;  et  ce  grand  dictionnaire 
reparut  encore  plus  riche  et  moins  imparfait  qu'il  ne  Favait  6t6.2 
Malgr6  ses  ameliorations,  il  trouva  un  nouvel  adversaire  dans  J6ro- 

l.  Hydre  mystique-.  I' Hydra  mystica,  sive  de  corrupts,  morali  doctrina,  pub- 
blicata  nel  1691,  &  un  clialogo  satirico  fra  la  Casistica  e  1'Eresia,  alleate  per 
la  distruzione  della  fede  cristiana.  2.  ce  grand  .  .  .  ete:  fra  il  1729  e  il  1738 
fu  pubblicata  la  quarta  cdizione  del  Vocabolario  della  Crusca,  a  cui  colla- 
borarono  il  Salvini,  il  Bottari,  il  Biscioni  e  TAverani. 


FRANCESCO   SAVERIO   SALFI 

me  Gigli  de  Sienne,  qui,  appuy£  de  I'autoritS  des  6crits  cle  sainte 
Catherine,  entreprit  de  soutenir  la  preference  du  dialecte  siennois.1 
Quoiqu'il  portit  dans  ces  discussions  plus  d'aigrcur  quo  de 
critique,  il  ajouta  un  nouvcl  int6ret  &  ce  genre  tie  rechcrchcs 
philologiques.  II  publia  aussi  une  petite  Grammaire  pour  aecnkliter 
ses  innovations.2  Mais  les  j6suites,  scs  cnnemis,  a'opposirent  h 
ses  rfformes,  et  la  Grammaire  de  Saivator  Corticelli3  tint  la  pre- 
mtere  place  dans  ce  genre;  die  la  conserve  encore,  sinon  par  sa 
m£thode  et  par  sa  precision,  du  moins  par  I'exactitude  de  ses 
regies  et  par  la  correction  de  son  style.  Jerome  Rosasco  fit  jouer 
&  cet  ecrivain  un  role  principal  dans  ses  Dialogues  sur  la  langue 
toscane*  C'est  14  qu'on  examine  pourquoi  1'  Italic  n'a  pas  encore 
un  Cic6ron  parmi  ses  orateurs;  et  Pauteur  ose  attribuer  ce  d6faut 
£  cette  servitude  qu'il  appelle  juste  et  16gitirne.  Cet  ouvrage  serait 
encore  plus  utile  si  de  telles  recherches  etaient  plus  fr6quentes. 
Nous  pourrions  citer  plusieurs  autres  ficrivains  dans  ce  genre; 
Pun  d'cux,  qui  mirite  de  ne  pas  £tre  oublid,  est  Dominique-Marie 
Manni,  autcur  des  Lefons  de  langue  toscane* 

D'autres  se  rendirent  plus  utiles  en  appliquant  aux  matiirea  du 
goat  une  critique  plus  6clair6e;  Jean-  Vincent  Gravina,  tout  attach^ 
qu'iUtait  aux  Grecs,  fut  un  de  ceux  qui  portirent  la  lumi^re  de 
la  raison  dans  les  objets  les  plus  importans  de  la  poftique  et  de 
P61oquence.  Sa  Raison  podtique  et  son  Trait  f  de  la  tragidie*  peuvent 
atre  encore  lus  avec  beaucoup  de  profit.  Le  pirc  Thomas  Ccva, 
po&te  et  philosophe  4  la  fois,  voulant  apprdcier  les  cliverses  pro 
ductions  de  Lemene,  apprit  4  mieux  philosopher  sur  la  po6sie,7 
Crescimbeni  lui-m€me  publia,  pour  Pavantage  de  ses  Arcades,  un 


.  .  ,  siennois:  allude  al  Vocabolarw  catmniano  pubblicato  ncl 
171?  da  Girolamo  Gigli  (1660-1722),  note  anchc  per  lc  sue  commcdie. 
2.  tt  pubha  .  .  ,  innovations:  lc  ^o/«  per  la  toscana  favella,  pubblicate  a 
Koma  nel  i^r.  3.  Le  Regole  e  ossmastioni  ddla  lingua  toscana,  di  Sal- 
vatore  Corticelh  j  (1690-1758).  stainpate  ncl  1745.  4,  J  sctte  dialoghi  Delia 
hngua  toscana  di  Girolamo  Rosasco  (1722-1795),  pubblicati  a  Torino  nel 
J777«  ,5-  l-e  Leuiom  di  lingua  toscana,  stampate  a  Fircnsse  nel  17^7  da 
Domenico  Manni  (1690-1788),  noto  anche  come  studioso  c  imitatore  del 
Boccaccio.  6.  11  trattato  Delta  tragedia,  stampato  a  Napoli  nel  1715, 
7;  voulant  >.  .  potne:  allude  alle  Memorie  di  atcum  virth  del  siwor  ctmte 
^rancesco  <h  Lemene  con  alcune  rfflessloni  m  le  me  p<*»et  pubblicate  nei 
1700,  clove  d  fra  1  altro  la  famosa  affermazionc  («ii  attribuita  al  Bettinclli) 
che  «la  poesia  si  pu6  quasi  chiamare  un  sogno  chc  si  fa  in  present  della 


R&SUM&   DE   LA   LITTERATURE   ITALIENNE  989 

Trait^  sur  la  beaute*  de  la  poesie  italienne.1  Le  marquis  Orsi,2  en 
s'occupant  de  combattre  ce  que  venait  de  publier  le  pere  Bouhours 
centre  les  po&tes  italiens,  donna  a  ses  compatriotes  occasion  de 
mieux  se  connaitre  eux-memes  ainsi  que  les  etrangers.  La  biblio- 
theque  de  I Eloquence  italienne  et  VAmintas  defendu  de  monsignor 
Fontanini,3  les  divers  ecrits  d'Apostolo  Zeno  et  du  marquis  Maffei, 
la  Parfaite  poesie  de  Muratori  lui-meme,  sont  d'une  grande  utilite 
pour  ceux  qui  aiment  k  cultiver  la  literature  italienne.  II  serait 
superflu  de  citer  les  auteurs  les  plus  estim6s  qui  se  sont  appliques 
aux  divers  objets  de  la  critique  Iitt6raire;  disons  plutot  qu'au  lieu 
d'exposer  et  de  commenter  les  regies  des  anciens,  comme  Tavaient 
fait  leurs  devanciers,  ils  se  sont  plus  particuli&rement  occup6s  d'en 
chercher  la  raison  et  d'en  relever  les  principes. 


ii 

Influence  de  la  litter ature  franfaise.  Puristes  et  ndologues.  Esprit 

philosophique  dans  la  theorie  et  dans  Vusage  de  la  langue. 

Baretti,  Beccaria,  Bettinelli,  Cesarotti,  etc.4 

On  ne  peut  nier  Pinfluence  que  la  Iitt6rature  fran9aise,  apr&s 
les  progr^s  qu'elle  venait  de  faire,  exer^a  sur  1'Europe  civilisee 
et  principalement  sur  1' Italic.  C'est  en  g6n6ral  le  plus  grand  avan- 
tage  que  la  perfectibility  de  Tesp^ce  humaine  puisse  tirer  de  la 
communication  r£ciproque  des  nations,  que  cette  reciprocity  con- 
tinuelle  d'aides  et  de  lumiferes.  Aussi  ne  faut-il  pas  regarder  comme 
une  chose  extraordinaire,  ou  meme  honteuse,  que  les  Italiens, 
apr&s  avoir  servi  d'exemple  et  de  guides  aux  autres  nations,  aient 
&  leur  tour  profit6  de  1'exemple  des  Frangais  ainsi  que  de  celui 
des  autres  peuples.  Malgr6  les  disputes  qui  s'engag&rent,  au  com 
mencement  du  XVIII6  siicle,  entre  les  Fran^ais  et  les  Italiens 
pour  soutenir  leur  m6rite  comparatif,  malgr6  leurs  efforts  pour 

1.  I  dialoghi  Delle  bellezze  delta  volgar  poesia,  pubblicati  a  Roma  nel  1713. 

2.  II  marchese  Giuseppe  Orsi  (1652-1733),  iniziatore,  con  le  sue  Conside- 
razioni  sopra  « La  maniera  di  ben  pensare»  (i7°3)>  della  famosa  polemica 
che  prende  nome  appunto  da  lui  e  dal  Bouhours.     3.  La  Biblioteca  delVelo- 
quenxa  italiana  di  Giusto  Fontanini  (1666-1736),  pubblicata  a  Ronia  nel 
1726  come  terza  parte  di  un' opera  su  VEloquenza  italiana,  fu  poi  ristam- 
pata  nel  1753  dallo  Zeno  con  aggiunte  e  correzioni:  mentre  VAminta  di 
T.  Tasso  difeso  e  illustrato  fu  stampato  a  Roma  nel  1700.     4.  Dal  Resume 
de  Vhistoire  de  la  litUrature  italienne,  ed.  cit.,  II,  pp.  56-65. 


99°  FRANCESCO    SAVERIO    SALFI 

exag6rer  de  part  et  d'autre  leurs  qualites  et  leurs  imperfections, 
les  Italians,  tout  en  voulant  combattre  leurs  adversaires,  ne  purent 
en  meme  temps  se  dispenser  de  les  apprecier  et  de  les  imiter, 
surtout  dans  les  genres  ou  leur  pretendue  superiorite  paraissait 
plus  douteuse. 

Ce  qui  fixa  encore  davantage  F  attention  des  Italiens,  et  qui  les 
poussa  meme  a  une  imitation  vicieuse,  ce  furent  plutot  les  ouvra- 
ges  philosophiques  que  les  oeuvres  litteraires  qui  sortaient  de  la 
France.1  Surpris  avec  raison  de  la  simplicite  et  de  la  precision 
de  ce  style  didactique  qu'ils  trouvaient  si  rarement  dans  leurs 
ouvrages,  et  entraines  en  meme  temps  par  un  genre  d'idees  qui 
paraissaient  plus  utiles  ou  plus  piquantes,  ils  s'attacherent  spe- 
cialement  a  ce  nouveau  genre  de  livres.  Ils  se  familiariserent  telle- 
ment  avec  leur  lecture,  que  les  uns  contracterent  par  habitude,  et 
a  leur  insu,  la  maniere  fran9aise,  et  d'autres  chercherent  meme 
a  1' imiter,  croyant  donner  par  ce  moyen  un  plus  grand  inter  et  a 
leurs  ouvrages.  Ainsi  on  finit  par  alterer  et  denaturer  sa  propre 
langue,  et  par  introduire  un  style  neologique  et  plus  ou  moins 
barbare,  qui  caracterise  les  productions  litteraires  d'une  certaine 
epoque.  Les  mots,  les  phrases,  la  tournure,  tout  etait  francise. 

II  se  forma  de  la  deux  partis;  Pun  tenait  pour  la  purete  de 
Fancienne  langue  des  trecentistes,  ou  du  moins  de  celle  qu'on 
employa  au  XVIe  siecle;  Fautre  sentait  le  besoin  et  Favantage 
d'une  plus  grande  precision  et  d'une  elocution  plus  rapide  et  plus 
nerveuse,  qu'on  cherchait  en  vain  dans  la  plupart  des  ecrivains  du 
XIVe  siecle  et  surtout  du  XVIe.  Les  homines  de  ce  second  parti 
semblaient  pr6valoir  par  la  force  de  leurs  raisonnemens  et  la 
solidite  de  leurs  connaissances,  d'autant  que  ceux  de  Fautre,  a 
la  correction  pres,  n'offraient  aucune  de  ces  qualites.  Ils  se  donne- 
rent  par  derision  le  nom  de  puristes  et  de  neologues\  ils  se  repro- 
chaient  les  uns  1'ignorance  de  leur  propre  langue,  les  autres  le 
vide  d'idees;  ils  avaient  chacun  tort  et  raison.  Malheureusement 
ils  ne  purent  s'entendre  et  se  concilier,  en  combinant  la  rapidite 
et  le  naturel  des  uns  avec  la  correction  et  la  purete  des  autres; 
chacun,  par  une  sorte  de  vengeance,  se  jetait  dans  1'extreme. 
Enfin  cette  division  alia  si  loin  qu'on  vit  souvent  des  philosophies 

i.  Ce  qui  fixa  .  .  .  France:  la  polemica  contro  i  danni  del  « filosofismo  »  di 
imitazione  francese  nella  lingua  letteraria  italiana  risale,  come  si  e  detto  a 
proposito  del  Borsa  e  del  Galeani  Napione,  al  Bettinelli. 


RESUME   DE   LA   LITTERATURE   ITALIENNE  99! 

mepriser  la  litterature,  et  des  litterateurs  a  leur  tour  mepriser  la 
philosophic. 

Nous  avons  tache  de  caract6riser  cette  crise  litteraire  qui, 
pendant  une  partie  du  dernier  siecle,  a  exerce  une  grande  in 
fluence  sur  la  litterature  italienne.  Nous  devons  en  meme  temps 
remarquer  que  si  quelques  ecrivains  de  Tun  et  de  1'autre  parti 
pecherent  par  exces  et  dans  la  theorie,  et  plus  encore  dans  la 
pratique,  Ton  doit  a  ce  genre  de  discussion  une  sorte  d'ouvrages 
ou  Ton  a  cherche  a  mieux  determiner  les  droits  de  la  langue  et  de 
la  pensee.  Plusieurs  critiques  se  sont  du  moins  6tudi6s  a  les  rap- 
procher  de  plus  en  plus  1'une  et  1'autre,  et  si  Ton  n'a  pas  cesse 
de  reprocher  a  leurs  ouvrages  quelque  imperfection  dans  la  pra 
tique,  ils  nous  en  ont  bien  d6dommages  par  Pimportance  de 
leurs  principes  et  de  leurs  theories. 

Joseph  Baretti,  qui  avait  long-temps  voyage  et  connu  de  pres 
la  France  et  sp6cialement  1'Angleterre,  entreprit  de  combattre 
quelques  prejuges  de  sa  nation,  et  parfois  meme  quelques  doctrines 
qui  meritaient  plus  d'egards.  II  attaqua  ses  compatriotes  surtout 
pour  ne  pas  savoir  employer  un  style  didactique,  propre  a  exprimer 
les  idees  necessaires,  sans  les  etouifer  dans  un  amas  de  phrases 
insignifiantes  et  d'ornemens  superflus.  Ce  n'est  pas  ainsi,  s'ecriait-il 
souvent,  qu'ecrivent  les  nations  les  plus  eclairees;  les  ecrivains 
etrangers  ne  s'occupent  que  d'exprimer  le  plus  clairement  leur 
pens6e,  et  ne  perdent  pas  un  temps  precieux  pour  ne  rien  dire 
ou  pour  ennuyer  les  lecteurs.  Baretti  donnait  lui-meme  Texemple 
d'un  style  spirituel  et  concis;  mais  tout  en  fouettant  la  foule 
des  grammairiens  et  des  pedans,  il  y  confondit  quelquefois  des 
ecrivains  respectables.1 

Cesar  Beccaria,  qu'on  c61ebre  surtout  a  cause  des  grands  servi 
ces  qu'il  a  rendus  a  la  •  legislation  criminelle,  voulut  encore  etre 
utile  a  la  litterature,  et  entreprit  d'exposer  la  theorie  philosophique 
du  style.2  II  avait  bien  compris  que  la  perfection  du  style  doit 
consister  a  communiquer  le  plus  grand  nombre  d'idees  avec  le 
moins  de  moyens  possible.  II  ne  le  regardait  que  comme  un 
instrument  de  la  pensee:  tant  que  Tun  ne  sert  pas  fidelement  a 
Tautre  ou  qu'il  pretend  la  maitriser,  il  ne  remplit  pas  sa  destina 
tion.  Mais  pr£occupe  de  Timportance  de  ses  recherches,  il  ne 

i.  Voyez  son  journal  «Le  fouet  litteraire  »  (S.)-     2-  entreprit .  .  .  style:  nelle 
Ricerche  sulla  natura  dello  stile  (1770). 


992  FRANCESCO    SAVERIO    SALFI 

soigne  pas  beaucoup  sa  diction;  et  peu  d'elegance  d'une  part,  et 
trop  d'elevation  de  1'autre,  ont  empeche  d'apprecier  son  ouvrage. 

On  vit  dans  ce  temps  un  jesuite,  Xavier  Bettinelli,  se  jeter 
dans  la  meme  carriere.  II  etait  plus  lance  dans  la  litterature  ita- 
lienne  que  Beccaria;  il  maniait  la  langue  encore  mieux  que  lui; 
il  voulut  meme  se  montrer  philosophic  et  prit  Voltaire  pour  son 
modele,  ce  qui  n'etait  pas  sa  vocation.  II  traita  un  grand  nombre 
de  sujets;  il  est  souvent  superficiel,  comme  son  modele;  sans  avoir 
son  esprit,  il  y  apporte  neanmoins  cet  esprit  d'examen  et  de  liberte 
qui  devait  etre  d'autant  plus  utile  aux  Italiens  qu'il  etait  autorise 
par  un  jesuite.  D'apres  les  principes  de  Tassoni,  il  attaqua  ce 
nombre  d'imitateurs  qui,  exagerant  toujours  les  beautes  des  autres, 
ne  produisent  rien  par  eux-memes;  il  n'epargne  pas  meme  leurs 
modeles,  et  specialement  Dante.1  Convaincu  que  la  perfection  des 
beaux-arts  n'est  que  Pouvrage  de  I'enthousiasme,  il  rejetait  tout 
ce  qui  pouvait  le  gener  ou  le  refroidir.2  Gaspard  Gozzi,  un  des 
meilleurs  ecrivains  de  son  temps,  entreprit  Papologie  de  Dante;3 
il  organisa  meme  une  troupe  d'academiciens,  qu'il  nomma  les 
Granelleschi,  pour  la  defense  de  ce  poete.  D 'autres  attaquerent 
les  diverses  opinions  de  Bettinelli,  qui  n'etaient  pas  assez  con- 
formes  a  leurs  prejuges  ou  a  leurs  habitudes.  Ainsi,  ce  jesuite  se 
trouva  long-temps  expose  aux  coups  de  ses  adversaires;  mais 
1'exemple  de  sa  liberte  ne  cessa  pas  d'etre  utile  et  a  ses  adversaires 
et  a  ses  partisans. 

Celui  qui  plus  que  tout  autre  litterateur  italien  a  tache  de  relever 
la  philosophic  de  la  litterature,  est  sans  doute  Melchiorre  Cesa- 
rotti.  Connaissant  Tesprit  des  anciens  classiques,  et  surtout  des 
Grecs,  ainsi  que  les  besoins  de  ses  contemporains,  il  sacrifia  quel- 
quefois  Tun  aux  autres,  mais  on  ne  pourrait  lui  contester,  sans 
injustice  et  sans  ingratitude,  les  avantages  qu'il  a  faits  a  la  litterature 
italienne,  surtout  en  ce  qui  concerne  la  critique  litteraire,  la 
grammaire  et  la  langue.  Son  Essai  sur  la  philosophic  des  Ian- 
gues  honore  1'auteur  et  1'Italie  qui  Font  produit.  II  a  exc6de 
quelquefois  les  bornes  admises,  j'en  conviens;  mais  ses  defauts 
meme,  qu'on  a  souvent  exageres  et  qu'on  peut  facilement  eviter, 
ne  diminuent  pas  rimportance  de  la  plupart  de  ses  ouvrages  philo- 

i.  D'apres.  ..  Dante:  aUude  alle  Lettere  virgiliane  (1756).  2.  Convain 
cu...  refroidir:  nel  trattato  DelV entusiasmo  delle  belle  arti  (1769).  3.  entre 
prit  .  .  .  Dante:  nella  Difesa  di  Dante  (1758). 


RESUME    DE    LA   LITTERATURE    ITALIENNE  993 

logiques.  Le  style  meme,  malgre  quelques  neologismes,  brille  d'une 
telle  vivacite  et  de  tant  de  clarte,  qu'il  se  fait  lire  toujours  avec 
beaucoup  d'interet.  Et  qui  voudrait  relire,  apres  les  ecrits  de 
Cesarotti,  les  ouvrages  de  Patrizi,  de  Mazzoni,  de  Castelvetro, 
de  Tassoni  et  de  Salviati,1  quoique  plus  purs  et  plus  corrects 
que  lui? 

Les  critiques  et  les  philologues  italiens  les  plus  eclaires  ont  plus 
ou  moms  suivi  la  doctrine  de  Cesarotti,  sans  manquer  d'en  si 
gnaler  et  d'en  eviter  les  abus.  Joseph  Parini,  plus  severe  que 
lui  en  fait  de  style,  appliqua  la  meme  analyse  aux  principes  des 
belles-lettres  et  des  beaux-arts.2  Le  p.  Soave  donna  aussi  a  la  gram- 
maire  italienne  une  forme  plus  analogue  a  la  grammaire  generate 
des  langues  et  a  la  m6thode  de  Locke.3  En  passant  sous  si 
lence  plusieurs  autres  ecrivains  subalternes,  nous  ne  pouvons  pas 
oublier  Fra^ois  d'Alberti,  auteur  du  Dictionnaire  universel,  cri 
tique,  encyclopedique*  dont  le  titre  seul  annonce  la  hardiesse  de 
son  entreprise,  comme  P  execution  en  prouve  1'utilite.  II  y  rectifia 
et  determina  le  sens  de  beaucoup  d'anciens  mots  qu'on  n'avait  pas 
encore  assez  bien  expliques,  et  il  y  joignit  un  grand  nombre  de 
nouveaux  plus  ou  moins  utiles  ou  necessaires,  qui  manquaient  au 
vocabulaire  de  la  Crusca.  Nous  ne  nous  empressons  pas  d'aug- 
menter  la  liste  des  auteurs  qui  s'adonnerent  a  ce  genre  de  cri 
tique  litteraire  et  philosophique.  Comme  elle  s'empara  de  la 
plupart  des  productions  de  cette  periode,  nous  nous  reservons 
a  faire  encore  mention  de  quelques  uns  de  ceux  qui  ont  figure 
avec  avantage  sous  d'autres  rapports. 


i.  Patrizi .  .  .  Salviati:  tutti  autori  pid  volte  citati  e  discussi  dal  Cesarotti 
nelle  opere  riprodotte  in  questo  volume,  e  per  i  quali  si  rimanda  alle  note 
relative.  2.  Joseph  Parini  .  .  .  beaux-arts :  allude  al  trattato  postumo  De' 
principii  generali  delle  belle  letter  e  applicati  alle  belle  arti,  che  per6  si  ispira 
piuttosto  ad  un  classicismo  sensistico  che  ai  principii  del  Cesarotti. 
3.  Le  p.  Soave  .  .  .  Locke:  allude  alia  Grammatica  ragionata  della  lingua 
itahana  (1770).  4.  II  Dizionario  universale  critico-encidopedico  della  lingua 
itahana,  dell' abate  nizzardo  Francesco  Alberti  di  Villanova,  fu  stampato 
a  Lucca  tra  il  1797  e  il  1805,  e  si  distingue  soprattutto  per  le  larghe  regi- 
strazioni  della  nomenclatura  delle  arti  e  dei  mestieri. 

63 


994  FRANCESCO   SAVERIO   SALFI 


Alfieri.  Idee  qu'il  se  forma  du  thddtre.  Son  systeme  et  son  but. 

Un  m$me  principe  domine  son  plan,  ses  caracteres,  son  style  et 

sa  versification.  Influence  de  ses  tragedies.1 

Victor  Alfieri  paraissait  ne  pour  toute  autre  occupation  que 
pour  la  literature  et  la  poesie  dramatique.  Un  caprice  lui  fit 
esquisser  a  Tage  de  vingt-sept  ans,2  et  sans  aucune  prdparation, 
je  ne  sais  quel  drame  qu'il  nomma  la  Cleopdtre.  Ce  premier  essai, 
dont  bientot  il  rougit  lui-meme,  lui  fit  sentir  a  la  fois  le  plaisir 
de  la  gloire  litteraire,  sa  propre  nullite  et  le  besoin  d'acquerir  Pins- 
truction  qui  lui  manquait.  Quoiqu'il  se  fut  consacre  si  tard  a 
1'etude,  il  y  porta  tant  de  perseverance  et  destination,  que  ce 
qu'il  devint  dans  la  suite  parut  plutot  Fouvrage  de  1'etude  que  du 
genie.  Heureusement  il  avait  re$u  de  la  nature  un  instinct  de 
fierte  et  d'independance  qui  lui  faisait  hair  toute  espece  de  servi 
tude  et  de  despotisme ;  et  cet  instinct  se  developpant  en  lui  a  mesure 
qu'il  appreciait  1'etat  politique  et  litteraire  de  1'Italie,  eut  la  plus 
grande  influence  sur  le  genre  de  ses  etudes  et  de  ses  travaux. 

Nous  avons  de  loin  en  loin  indique  les  imperfections  de  la 
litterature  italienne.  Alfieri  ne  tarda  pas  a  les  connaitre  et  meme 
a  les  exagerer.  II  se  declara  principalement  centre  cet  exces  de 
mollesse  et  de  langueur  qui  s'etait  communique  a  toutes  les 
branches  de  cette  litterature,  et  specialement  a  la  poesie  dramati 
que.  Lors  meme  qu'il  reconnaissait  dans  quelques  pieces  les  traces 
de  Tart  ou  du  talent  de  1'auteur,  il  ne  s'indignait  que  davantage 
contre  Tabus  qu'il  en  faisait.  Celui  qui  a  cet  egard  merita  le  plus  sa 
colere,  fut  Metastase.  II  le  regardait  comme  Instrument  princi 
pal  de  la  corruption  du  theatre  et  de  Fltalie;  il  se  mit  en  opposition 
manifeste  avec  lui,  ou  plutot  avec  le  gout  de  son  siecle  et  de  sa 
nation;  et  il  con9ut  un  systeme  dramatique  tout-a-fait  contraire 
a  celui  de  Metastase  et  de  Topera. 

Le  systeme  du  theatre  grec  n'etait  plus  applicable  au  theatre 
moderne.  Le  theatre  fra^ais  s'etait  r6forme  d'apres  Tesprit  et  les 
manieres  de  la  cour  de  Louis  XIV.  Dans  le  theatre  anglais  et 

1.  Dal  Resume  de  Vhistoire  de  la  litterature  italienne,  ed.  cit.,  n,  pp.  141-59 

2.  a  Vdge  de  vingt-sept  ans:   la  Cleopatra  fu  rappresentata  il  16  gennaio 
1775,  quando  TAlfien  aveva  esattamente  ventisei  anni. 


RESUME  DE   LA   LITTERATURE   ITALIENNE  995 

dans  Pespagnol  on  n'apercevait  que  des  traits  de  genie  jetes  comme 
au  hasard,  sans  plan,  sans  accord  et  sans  but.  En  general,  on 
retra£ait  certains  caracteres,  on  remuait  certaines  passions,  mais 
plutot  pour  surprendre  et  amuser  le  public  au  moyen  du  spectacle, 
que  pour  Pameliorer  et  lui  faire  sentir  le  besoin  d'un  etat  plus 
parfait  et  plus  digne  de  Thomme.  Ne  se  laissant  pas  entrainer 
par  Fexemple  et  Pautorite  de  ses  contemporains,  Alfieri  aper9ut 
leurs  defauts  au  milieu  de  leurs  qualites,  et  il  se  proposa  de  rendre 
a  la  tragedie  cette  dignite  que  lui  avaient  donnee  les  Grecs,  et  de 
la  consacrer  aux  inter  ets  de  son  siecle  et  de  son  pays.  II  esperait, 
par  ce  moyen,  secouer  et  reveiller  un  peuple  assoupi  et  dege- 
n6re,  et  lui  redonner  en  quelque  sorte  le  caractere  qu'il  avait 
perdu.  C'est  dans  cet  esprit  qu'il  composa  principalement  la 
Virginie,  la  Conjuration  des  Pazxi,  le  Timoleon,  les  deux  Bru 
tus,  VAgis  et  meme  tous  ses  autres  ouvrages,  ou  il  vise  toujours, 
soit  directement  soit  indirectement,  au  grand  but  qu'il  s'etait 
propose. 

II  a  pris  ses  sujets  dans  1'histoire  ancienne  et  meme  dans  celle 
du  moyen  age,  non  pour  nous  faire  connaitre  ce  qu'y  cherchent 
1'antiquaire  et  le  savant,  mais  pour  y  trouver  des  personnages  et 
des  6venemens  qui  pussent  le  mieux  remplir  ses  intentions.  Aus- 
sitot  qu'il  les  avait  rencontres  tels  qu'il  les  desirait,  il  les  transportait 
dans  un  monde  ideal  ou  ils  prenaient  une  forme  plus  imposante  et 
plus  parfaite.  On  voit,  par  exemple,  cette  sorte  de  transformation 
ou  plutot  d'eleVation  dans  tous  les  personnages  de  la  Sophonisbe, 
quoique  Tauteur  n'ait  pas  neglige  de  respecter  leur  caractere  histo- 
rique  et  fondamental.  II  n'altere  point  les  circonstances  principales 
et  solennelles  que  Thistoire  a  consacrees,  et  qui  sont  generale- 
ment  connues;  mais  il  ecarte,  il  deprecie  meme  tous  les  autres 
accidens  historiques  et  minutieux  qui  n'auraient  pas  assez  con- 
tribu6  a  Feifet  qu'il  veut  produire,  ou  auraient  meme  detourn6 
Tattention  de  ce  dont  il  veut  uniquement  nous  occuper.  II  ne 
se  perd  jamais  dans  la  description  savante  et  pedantesque  de  ce 
qu'on  nomme  les  couleurs  locales  et  du  temps,  comme  cet  ar 
tiste  qui  s'occupait  plutot  des  cheveux  de  sa  statue  que  des 
traits  de  sa  physionomie  et  de  son  caractere.  II  indique  a  peine 
ce  genre  de  circonstances  qui  interessent  moins  le  poete  que 
Thistorien,  ou  a  peine  les  emploie-t-il  tant  qu'elles  sont  ne- 
cessaires  au  developpement  de  Faction,  comme  il  Ta  fait  sur- 


99^  FRANCESCO   SAVERIO    SALFI 

tout  dans  la  Virginia  et  dans  le  Saul.  Son  objet  principal  est 
d'elever  la  caractere  et  les  passions  des  personnages  qu'il  met 
en  oeuvre,  et  pour  ainsi  dire  de  les  placer  au-dessus  du  niveau 
de  1'espece  humaine,  ou  plutot  de  la  generation  actuelle.  Et  ou 
pourrait-on  trouver  le  modele  de  son  Antigone,  de  Raimond,1  de 
Timoleon,  des  Brutus?  L'auteur  enfin  s'etait  lui-meme  apercu 
qu'il  avait  ecrit  pour  un  peuple  a  venir  tout  autre  que  celui  au 
milieu  duquel  il  vivait. 

On  accuse  pourtant  Alfieri  d'avoir  presente  la  nature  non 
telle  qu'elle  est,  mais  telle  qu'il  la  desirait  ou  qu'il  1'imaginait.2 
Mais  si  Ton  fait  tant  d'efforts  pour  ameliorer  1'espece  humaine, 
pourquoi  ne  serait-il  pas  permis  au  poete  d'imaginer  cet  etat  de 
perfection  a  venir  ou  possible,  apres  lequel  tout  homme  devrait 
aspirer?  La  seule  chose  qu'on  peut  avec  raison  reprocher  a  Alfieri, 
c'est  d'avoir  mele  un  peu  trop  de  sa  trempe  dans  la  refonte  de 
ces  etres  qu'il  a  voulu  nous  represented  II  parait  quelquefois  leur 
inspirer  sa  propre  pensee  plutot  que  de  relever  la  leur,  ce  qui  sem- 
ble  jeter  une  teinte  un  peu  uniforme,  surtout  dans  certains  per 
sonnages.  Mais  comme  il  s'agit  d'un  sentiment  noble  et  genereux, 
tel  que  la  haine  la  plus  juste  de  la  tyrannic  et  le  mepris  le  plus 
profond  de  la  servitude,  on  peut  lui  pardonner  volontiers  cette 
sorte  d'imperfection. 

Ce  qui  est,  selon  nous,  moins  tolerable,  c'est  d'avoir  presente 
les  tyrans  et  tous  les  sc61erats  sous  une  forme  trop  hideuse  et 
trop  detestable.  II  ne  s'aper9ut  pas,  ou  que  tres  tard,  que  cette 
espece  d'exageration,  en  nous  frappant  d'indignation  et  d'horreur, 
nous  indispose  en  meme  temps  contre  le  reste  de  la  piece  qui  nous 
offre  un  objet  si  rebutant;  car  on  ne  peut  s'int6resser  long-temps 
a  la  vue  de  ces  etres  dont  Faspect  nous  repousse  et  nous  refroidit. 
Cependant  on  rencontre  aussi,  dans  les  tragedies  d' Alfieri,  des  ty 
rans  et  des  sc£lerats  dont  le  caractere  est  non  moins  original  que 
d'un  grand  effet.  Tels  sont,  sans  doute,  ce  Philippe  II,  aussi 
inquiet  que  cruel ;  figiste,3  toujours  meditant  sa  vengeance,  et  que 


i.  Raimond:  Raimondo,  il  personaggio  a  cui  e  affidato  il  ruolo  di  eroe 
della  liberta  nella  Congiura  dei  Pazzi.  2.  On  accuse  .  .  .  Vimaginait :  accuse 
di  questo  tipo  aveva  formulate,  fra  gli  altri,  Giovanni  Carmignani  nella 
sua  Dissertazione  accademica  sulle  tragedie  di  V.  Alfieri  (1806).  3.  Bgiste: 
Egisto,  personaggio  dell'Agamennone  e  deirOr^^,  cosi  come  Chtennestra, 
ricordata  subito  dopo. 


RESUME   DE   LA  LITTERATURE   ITALIENNE  997 

les  dangers  et  les  obstacles  rendent  encore  plus  perseverant  dans 
son  projet;  Clytemnestre,  luttant  entre  les  interets  de  son  fils  et 
ceux  de  son  adultere  complice ;  et  ce  Saul,  dont  il  a  fait  une  victime 
de  sa  propre  jalousie  et  de  ses  remords,  et  qui  dans  Pacces  de  sa 
fureur  ne  cesse  pas  de  meriter  notre  compassion. 

Ce  type  de  perfection  ideale  pourrait  aussi  nuire  aux  per- 
sonnages  dont  les  malheurs  et  les  vertus  sont  destines  a  nous 
interesser  a  leur  sort.  En  les  sublimant  trop,  on  risque  sans  doute 
d'affaiblir  tout  rapport  entre  eux  et  nous,  et  de  tarir  ainsi  Puni- 
que  source  de  la  terreur  et  de  la  compassion,  qui  doivent  etre  les 
ressorts  dominans  de  Peffet  tragique.1  II  est  vrai  qu'aucun  poete 
n'a  eleve  le  caractere  de  ses  personnages  autant  que  Pa  fait  Alfieri; 
mais,  quelque  e!6vation  qu'il  leur  ait  donnee,  il  n'a  jamais  d£truit 
le  fond  de  la  nature  humaine.  Quelles  que  soient  leur  condition  ou 
leur  vertu,  ils  ne  cessent  jamais  de  souffrir;  ils  souffrent  meme 
davantage  lorsqu'ils  sont  obliges  de  cacher  ou  de  reprimer  leurs 
souffrances.  Ces  souffrances  memes  sont  encore  plus  cuisantes 
lorsqu'elles  accablent  des  etres  entoures  de  P eclat  du  pouvoir  et  de 
la  fortune.  En  effet,  qui  pourrait  retenir  ses  larmes  a  la  vue  d'lsa- 
belle,2  dj Antigone,  d'Octavie  et  de  Sophonisbe?  En  ecoutant  P6- 
rez,  le  seul  ami  de  Carlos,  parmi  une  foule  de  courtisans,  ou 
Icilius,3  Timoleon,  Raimond,  Brutus,  qui  tous  sacrifient  aux  in 
terets  de  leur  patrie  leurs  aifections  privees  les  plus  tendres, 
qui  pourrait  rester  indifferent,  et  ne  pas  partager  leur  patrio- 
tisme  et  leurs  sentimens  ?  II  faut  etre  vraiment  preoccupe  de  Pes- 
prit  de  partialite  le  plus  ridicule  pour  ne  pas  admirer  et  aimer 
a  la  fois  les  personnages  vertueux  des  tragedies  d' Alfieri. 

Apres  avoir  determin6  Paction  et  les  caracteres  qui  doivent 
la  deVelopper,  le  poete,  visant  a  son  but,  la  depouille  de  tous  les 
ornemens  accessoires  et  6pisodiques  qu'il  regardait  comme  super- 
flus  et  defavorables  a  Pimpression  principale  qu'il  voulait  produire. 
Ainsi  la  construction  de  ses  trag6dies  est  la  plus  simple  et  la  plus 
suivie ;  c'est  Paction  meme  qui  se  presente  dans  ses  epoques  progres 
sives,  les  plus  eclatantes  et  absolument  necessaires  a  son  developpe- 


i.  la  terreur  .  .  .  tragique:  secondo  la  teoria  esposta  nella  Poetica  di  Ari- 
stotele,  e  accolta  ancora  da  quasi  tutta  la  speculazione  estetica  settecen- 
tesca.  2.  Isabelle:  Isabella,  personaggio  del  Filippo,  come  Perez  e  Carlo, 
nominati  nel  periodo  seguente.  3.  Icilius:  Icilio,  personaggio  della  Vir 
ginia. 


998  FRANCESCO    SAVERIO    SALFI 

ment.  II  trouve  tant  d'importance  dans  Tevenement  principal,  dans 
les  caracteres  et  plus  encore  dans  les  motifs  qui  le  preparent  et  le 
font  eclater,  qu'il  ne  cherche  pas  d'autres  ressorts  pour  exciter  et 
soutenir  ^attention  des  spectateurs.  Les  coups  de  sc&ne,  les  sur 
prises,  les  reconnaissances  et  d'autres  moyens  pareils,  dont  les 
autres  poetes  font  tant  d'etalage  dans  leurs  tragedies,  Alfieri  ne 
les  admet  point  dans  les  siennes,  s'ils  ne  sont  pas  commandes 
par  la  nature  meme  du  sujet,  ainsi  que  dans  YOreste  et  dans  la 
Merope.  II  proscrit  meme  toutes  personnes  subalternes  et  tout  con 
fident,  qui  ne  peuvent  ni  ne  doivent  prendre  aucune  part  aux 
interets  graves  ou  mysterieux  des  personnages  principaux. 

En  considerant  ce  systeme  dramatique  en  abstrait,  il  paraxt 
d'abord  trop  sec  et  trop  mesquin;  et  il  Test  en  effet  pour  ceux 
qui  ne  savent  pas  tirer  du  fond  meme  du  sujet  tout  ce  qu'il 
faut  pour  interesser  les  lecteurs.  Sophocle  n'eut  besoin,  dans 
son  Philoctete,  que  d'un  ecueil  et  de  trois  personnages,  savoir: 
Philoctete,  Neoptoleme  et  Ulysse,  pour  achever  une  de  ses  tra 
gedies  les  plus  remarquables.  Alfieri  trouvait  de  meme  dans  la 
simplicite  de  ses  sujets  une  telle  richesse  et  une  telle  variete 
d'elemens,  que  la  matiere  ne  lui  manqua  jamais.  Sous  ce  rap 
port,  son  TimoUan,  tragedie  qui  n'a  pas  plus  de  quatre  person 
nages,  peut  etre  regarde  comme  un  chef  d'oeuvre.  Ce  qui  prouve 
encore  plus  Feloquence  inepuisable  de  ce  po&te,  c'est  que  dans 
le  cours  de  chacune  de  ses  pieces  on  ne  rencontre  pas  la  plus 
16g6re  repetition;  et  cependant  elles  ont  beaucoup  plus  d'etendue 
que  les  tragedies  des  autres  tragiques,  si  Ton  compare  tout  ce 
qu'il  fait  dire  au  petit  nombre  de  ses  personnages  avec  ce  que 
les  autres  font  dire  aux  seuls  personnages  principaux  de  leurs 
tragedies.  II  puise  dans  le  fond  de  leur  caractere  tout  ce  qui 
lui  est  necessaire  pour  le  developpement  de  sa  piece.  A  Fexem- 
ple  de  Tacite  et  de  Machiavelli,  il  penetre  dans  les  detours  les 
plus  secrets  du  coeur  humain  avec  une  sagacite  qu'aucun  po&te 
tragique  n'avait  portee  si  loin.  On  peut  se  convaincre  ais&nent  de 
cette  verite,  en  comparant  le  Philippe,  Ffigiste  et  la  Clytemnestre 
d* Alfieri  avec  les  memes  personnages  que  les  autres  tragiques  ont 
mis  sur  la  sc£ne  en  traitant  les  memes  sujets. 

Malgre  la  richesse  de  pensees  et  de  sentimens  qu'on  admire 
dans  les  tragedies  d'Alfieri,  son  dialogue  est  des  plus  rapides  et  des 
plus  serres :  les  interlocuteurs  ne  disent  que  ce  qui  est  necessaire ; 


RESUME   DE   LA   LITTERATURE   ITALIENNE  999 

ils  font  meme  sentir  plus  qu'ils  ne  disent.  On  s'etudiait  auparavant 
a  contrefaire  ces  traits  vibres  qui  se  pressent  Tun  1'autre  dans 
quelques  scenes  des  tragedies  grecques,  et  dont  Seneque  a  si  sou- 
vent  abuse.  Alfieri  les  aper9ut  d'abord  dans  les  pieces  attribu6es  a 
ce  poete  latin,  et  sentit  aussitot  le  parti  qujil  en  pourrait  tirer:  il 
semble  les  employer  ordinairement  sans  effort.  Quoique  souvent 
profonds  et  inattendus,  il  les  fait  ressortir  avec  tant  d'a-propos 
qu'ils  semblent  dictes  par  la  nature  et  non  recherches  par  Tart. 
On  a  tant  loue  le  «C'est  mob1  de  Med6e,  et  le  «  Qu'il  mouriit»2 
du  vieil  Horace,  de  Corneille;  mais  combien  de  ces  traits,  aussi 
simples  qu'energiques,  ne  sont-ils  pas  prodigues  dans  les  tra 
gedies  d' Alfieri?  On  n'y  trouve  pas  de  ces  reparties  oiseuses 
et  de  ces  tirades  rh6toriques  qui  suppleent  ailleurs  a  la  sterilite 
de  la  pensee;  tout  est  si  lie,  si  pressant,  si  actif  qu'il  ne  laisse 
point  apercevoir  le  vide  d' action  qu'on  rencontre  quelquefois, 
comme  dans  la  Conjuration  des  Pazzi.  L/action  ne  commence 
dans  cette  piece  qu'au  troisieme  acte;  mais  qui  voudrait  se  passer 
des  deux  actes  precedens,  surtout  des  scenes  ou  Raimond  fait  eclater 
sa  haine  contre  la  tyrannic  des  Medicis,  tandis  que  son  vieux 
pere,  non  moins  ennemi  des  tyrans  que  lui,  conseille  la  prudence 
et  la  circonspection  ? 

Dirige  par  le  meme  esprit,  Alfieri  ne  put  tolerer  ce  style  et 
cette  versification  ou  trop  laches,  ou  trop  lyriques,  et  plus  ou 
moins  effemines,  qui  deparaient  les  tragedies  precedentes.  Tout 
admirateur  qu'il  6tait  de  Petrarca,  il  croyait  qu'il  avait  tant  soit 
peu  depouille  sa  propre  langue  de  la  force  que  Dante  lui  avait 
imprimee.  II  entreprit  de  former  son  style  sur  celui  de  ce  grand 
poete,  qui  lui  semblait  le  plus  dramatique  de  tous,  et  qui  nous 
fait  encore  verser  des  larmes  sur  les  malheurs  de  Francoise  de 
Rimini,  du  comte  Ugolin,  de  Mainfroi  et  de  tant  d'autres.  Au 
reste,  il  ne  faut  pas  croire  que  le  style  d' Alfieri  soit  entierement 
d6pouille  de  toutes  sortes  d'ornemens  poetiques ;  il  s'est  permis  ceux 
qu'il  jugeait  les  plus  propres  a  son  genre.  Que  Ton  compare  les 

i.  «C'est  moi»:  nella  scena  v  del  I  atto  della  Medee  la  protagonista,  alia 
domanda  di  N6rine:  «Dans  un  si  grand  revers  que  vous  reste-t-il  ? », 
risponde:  «Moi.  /  Moi,  dis-je,  et  c'est  assez».  2.  « Qu'il  mourut*:  cosi 
risponde  il  vecchio  Horace,  nella  scena  vi  dell* atto  in  delYHorace,  allu- 
dendo  al  figlio  che  egli  ritiene  vilmente  fuggito  di  fronte  ai  Curiazi.  Sia 
questa  frase  che  la  precedente  si  trovano  spesso  citate  nella  critica  sette- 
centesca  come  esernpi  di  « sublime ». 


1000  FRANCESCO    SAVERIO    SALFI 

trois  premiers  vers  qu'Isabelle  prononce  dans  la  premiere  scene 
de  Philippe,  avec  les  trois  ou  quatre  qui  les  suivent,  et,  si  Ton 
est  capable  de  saisir  les  nuances  du  style  poetique,  on  apprendra 
tout  d'abord  quel  est  Tart  et  le  talent  de  1'ecrivain  dans  cette 
partie  si  delicate  et  si  difficile.1  Quels  tableaux  pittoresques  ne 
nous  offrent  pas  la  plupart  de  ses  pieces  ?  Et  sans  parler  du  Saul, 
qui  est  si  riche  en  ce  genre  de  beautes,  nous  en  trouvons  souvent 
de  semblables  dans  ses  premieres  tragedies,  ou  le  systeme  de 
Pauteur  etait  encore  plus  austere:  tels  sont  le  recit  qu' Antigone 
fait  a  Argie  de  la  mort  de  Jocaste,  sa  mere,  et  de  1'etat  deplorable 
d'Oedipe,  son  pere;2  la  description  de  Tombre  d' Agamemnon  qui 
poursuit  Clytemnestre,  et  des  jeux  olympiques,  dans  Y  Oreste  >3  et 
les  fantomes  qui  agitent  Oreste,  dans  cette  m£me  tragedie,  a  la 
vue  du  tombeau  de  son  pere;4  etc. 

Ce  qu'Alfieri  travailla  et  soigna  le  plus,  fut  sa  versification. 
II  voulut  s'en  former  une  qui  fut  plus  propre  a  faire  d6clamer 
que  chanter.  II  parvint  a  creer  un  rhythme  grave  et  s6vere  et 
en  m£me  temps  imitatif  et  passionne,  capable  de  rendre  et  d'ex- 
primer  les  nuances  les  plus  delicates  de  la  passion  et  du  sen 
timent.  Ses  premiers  essais  furent  une  espece  de  scandale  pour 
ceux  dont  Poreille  etait  accoutumee  aux  vers  coulans  et  vo- 
luptueux  de  Metastase.  Alfieri,  qui  ne  se  laissa  jamais  detour- 
ner  de  son  entreprise  par  les  vains  cris  des  critiques,  ni  par  les 
difficult6s  qu'il  eprouvait  lui-meme,  persista  dans  son  projet,  rea- 


i.  «Desio,  timor,  dubbio  ed  iniqua  speme,  /  fuor  del  mio  petto  omai. 
Consorte  infida  /  io  di  Filippo,  di  Filippo  il  figlio  /  oso  amar,  io  ?  .  .  .  Ma 
chi  '1  vede,  e  non  1'ama?  /  Ardito  umano  cor,  nobil  fierezza,  /  sublime  inge- 
gno,  e  in  awenenti  spoglie  /  bellissim'alrna  . . .  Ah!  perch£  tal  ti  fero  /  natura 
e  '1  cielo?»,  etc.  (S.).  Cfr.  Filippo,  atto  I,  scena  I,  1-8.  2.  «Compier  1'or- 
rendo  fratricidio  appena  /  vede  Giocasta,  ahi  misera!,  non  piange,  /  ne* 
rimbombar  fa  di  lamenti  Paure:  /  dolore  immense  le  tronca  ogni  voce», 
etc.;  «...  Oh  se  tu  visto  /  Io  avessi!  Edippo  misero!»,  etc.  (S.).  Cfr. 
Antigone,  atto  I,  scena  in,  133-5  e  162-3.  3.  «Dal  punto  in  poi  quel  san- 
guinoso  spettro  /  e  giorno  e  notte  orribilmente  sempre  /  su  gli  occhi  stam- 
mi.  Ov'io  pur  mova,  il  veggo  /  di  sanguinosa  striscia  atro  sentiero  /  prece- 
dendo  segnarmi :  a  mensa,  in  trono  /  mi  siede  a  lato »,  etc. ;  «  Feroce  troppo, 
impaziente,  incauto,  /  or  della  voce  minacciosa  incalza,  /  or  del  flagel,  che 
sanguinoso  ruota,  /  si  forte  batte  i  destrier  suoi  mal  domi,  /  ch'oltre  la  rneta 
volano»,  etc.  (S.).  Cfr.  Oreste,  atto  I,  scena  n,  73-8;  e  atto  IV,  scena  n, 
59-63.  4.  « .  .  .  Io  '1  vidi,  /  si,  con  questi  occhi  io  '1  vidi.  Ergea  la  testa  / 
dal  negro  avello :  il  rabbuffato  crine  /  dal  viso  si  togliea  con  mani  scarne  », 
etc.  (S.).  Cfr.  Oreste,  atto  11,  scena  n,  244-7. 


RESUME  DE   LA   LITTERATURE   ITALIENNE  IOOI 

lisa  le  type  qu'il  avail  0011911  du  rhythme  tragique,  et  obligea  les 
Italians  a  le  reconnaitre  et  1'apprecier.  II  n'a  pas  cette  melodie  qui, 
par  Pexces  de  sa  facilite,  devient  souvent  monotone  et  finit  par 
nous  fatiguer;  mais  en  lui  otant  cette  melodie  en  apparence  si 
eclatante  et  devenue  trop  commune,  Alfieri  lui  donna  une  variete 
inepuisable  de  sons,  d' hemistiches,  de  cadences  et  d'enjambemens 
qu'on  n'avait  employes,  depuis  Dante  jusqu'a  lui,  que  quelque- 
fois  ou  par  hasard.  Malgre  la  richesse  de  ces  elemens  metriques  et 
tout  expressifs,  qu'il  a  mis  en  usage  avec  tant  d'art,  quelques  etran- 
gers  se  sont  plu  a  apprendre  aux  Italiens  que  cette  versification  est 
faite  pour  dechirer  les  oreilles.1  Tout  en  respectant  la  d61icatesse 
des  oreilles  de  ces  etrangers,  nous  aimons  mieux  encore  respecter 
le  gout  de  Parini,  de  Cesarotti,  de  Calsabigi2  et  de  tous  les  ita- 
liens  qui  ont  re$u  une  impression  toute  differente  des  vers  d* Al 
fieri. 

Nous  n'avons  fait  jusqu'ici  qu'indiquer  les  qualit6s  selon  nous 
les  plus  remarquables  des  tragedies  de  ce  poete;  nous  ne  pre- 
tendons  cependant  pas  soutenir  qu'il  n'ait  point  quelquefois  excede 
les  bornes  et  abuse  de  ses  principes  et  de  sa  methode.  II  eut  assez 
de  superiorite  et  de  franchise  pour  avouer  lui-meme  plusieurs 
de  ses  defauts  et  en  corriger  quelques  uns.  Nous  avouons  toutefois 
qu'il  lui  en  reste  encore,  et  qu'on  les  a  meme  outres;  car  il  est 
plus  facile  d'imiter  ses  defauts  que  ses  qualites. 

Les  tragedies  d' Alfieri  ont  exerce  plus  qu'on  ne  le  pense  une 
grande  influence  sur  Tesprit  des  Italiens  et  de  leur  litterature.  II 
a  contribue  plus  que  tout  autre  ecrivain  a  Feducation  de  cette 
generation  nouvelle  qui  6tait  Fobjet  de  ses  soins.  Elle  se  forme  et 
se  developpe  d'apres  ses  maximes.  Alfieri  lui-meme  a  eu  le  temps 
de  sjassurer,  avant  que  de  mourir,  de  1'impression  gen6rale  et 
toujours  croissante  qu'il  venait  de  faire  sur  ses  compatriotes.  Qa  a 
6te  sans  doute  la  recompense  la  plus  honorable  qu'il  ait  pu  esperer 
de  son  entreprise,  comme  c'est  pour  nous  la  preuve  la  plus  in 
contestable  de  1'interet  qu'offrent  ses  productions.  Ceux  memes 

i.  [A.  W.]  Schlegel,  Cours  de  litterature  dramatique,  Ie9on  rx  (S.)-  2.  In 
realta  i  giudizi  del  Parini  (nel  sonetto  Tanta  gia  di  coturni  e  nelFode  II  do- 
no\  del  Cesarotti  (nella  lettera  all' Alfieri  del  25  marzo  1785  intorno  all'Oi- 
tavia,  al  Timoleone  e  alia  Merope,  nelle  Opere,  xxxvi,  Firenze,  Molina,  Land! 
e  C.,  1811,  pp.  286-331;  e  in  quella  al  Carmignani,  riportata  in  questo 
volume  a  pp.  557-8),  e  del  Calzabigi  (nella  nota  lettera  all'autore)  sono  tut- 
t'altro  che  privi  di  riserve  sulla  durezza  della  versificazione  alfieriana. 


1002  FRANCESCO   SAVERIO   SALFI 

qui  s'etaient  d'abord  declares  centre  sa  methode,  ont  fini  par  s'en 
approcher  de  plus  en  plus.1 


SEPTlfeME  PERIODE  (EPOQUE  ACTUELLE) 


Epilogue  des  periodes  precedentes.  Esprit 
et  tendance  de  la  periode  actuelle.2 

Le  tableau  que  nous  venons  d'esquisser  de  la  litterature  ita- 
lienne,  depuis  son  origine  jusqu'a  nos  jours,  est  sans  doute  le 
plus  rapide  et  peut-etre  le  moins  inexact,  au  egard  aux  etroites 
limites  entre  lesquelles  il  a  fallu  le  renfermer.  Quel  qu'il  soit, 
nous  Tavons  vue  cette  litterature  si  riche,  et  qui  a  tant  brill<§ 
pendant  plusieurs  siecles,  incertaine  dans  son  obscure  et  longue 
enfance,  et  ne  deployant  dans  sa  premiere  periode  qu'a  peine 
quelques  germes  de  ce  qu'elle  devait  produire  dans  la  suite.  C'est 
Dante  qui,  dans  la  periode  suivante,  semble  la  creer  tout  a  coup, 
et  dormer  a  la  langue  et  a  la  poesie  un  caractere  de  force  et  de 
concision  que  Petrarca  et  surtout  Boccaccio  ont  plutot  attenue  que 
suivi.  Concue  d'abord  et  presque  elevee  au  sein  de  la  liberte,  on 
voit  la  litterature  italienne  se  diriger  de  plus  en  plus  vers  la  mol- 
lesse  et  la  complaisance,  et,  pendant  la  troisieme  periode,  me- 
nacee  d'envahissement  par  la  litterature  latine,  qui  semble  renaitre 
en  Italic  et  regagner  son  ancien  empire.  Ce  sont  surtout  les  Me- 
dicis  qui  donnent  a  la  quatrieme  periode  un  nouvel  essor;  culti- 
vant  les  lettres  et  favorisant  ceux  qui  les  cultivaient  avec  eux,  ils 
relevent  la  litterature  nationale,  qui,  tout  en  marchant  sur  les  tra 
ces  des  anciens,  se  prete  de  plus  en  plus  au  plaisir  et  au  pouvoir 
de  ses  protecteurs.  De  la  cette  mice  d^crivains  plutot  elegans 
que  solides,  et  qui,  au  lieu  d'elever  Tame,  ne  font  que  flatter 
Timagination.  Cette  sorte  d'elegance  et  de  correction  degenere  peu 
a  peu  en  un  luxe  d'esprit,  en  un  style  faux  et  ampoule  qui,  ac- 
credite  par  Marini,  domina  le  Parnasse  italien  pendant  la  cin- 
quieme  periode.  On  voulait  s'affranchir  du  joug  d'une  imitation 

i.  Ceux  m&nes .  .  .plus:  allude  ad  Alessandro  Pepoli  e  a  Giovanni  Pinde- 
monte,  di  cui  passa  a  parlare  subito  dopo.  2.  Dal  Resum6  de  Vhistoire  de  la 
litterature  tialienne,  ed.  cit.,  u,  pp.  185-97. 


RESUME   DE   LA   LITTERATURE   ITALIENNE  1003 

servile,  et  Ton  tomba  dans  une  espece  d'anarchie  litteraire.  Ce 
desordre  fait  enfin  sentir  la  necessite  de  concilier  le  mieux  possi 
ble  une  sage  liberte  avec  une  imitation  plus  ou  moins  libre.  La 
sixieme  periode  debute  en  renversant  Tecole  marinesque;  et  don- 
nant  lieu  a  plusieures  reformes  ou  tentatives  en  divers  genres  de 
litterature,  elle  se  fait  remarquer  principalement  dans  Tart  dra- 
matique,  grace  a  Metastase,  Goldoni  et  Victor  Alfieri. 

En  parcourant  cette  derniere  periode,  nous  n'avons  pas  si- 
gnale  quelques  uns  de  ses  ecrivains  qui,  ayant  contribue  a  sa 
gloire,  ne  cessent  pas  encore  d'illustrer  la  periode  actuelle.  Nous 
avons  juge  plus  convenable  de  ne  pas  faire  mention  des  auteurs 
vivans.  Comme  ils  n'ont  pas  acheve  leur  carriere  litteraire,  nous 
laissons  a  ceux  qui  s'occuperont  apres  nous  de  la  revue  de  cette 
periode,  la  tache  importante  de  leur  rendre  une  justice  plus  com 
plete  et  moins  suspecte  de  partialit6  qu'il  ne  nous  serait  permis 
de  Tesperer  de  nous-memes.  Nous  chercherons  neanmoins  a  don- 
ner  quelque  idee  de  Tetat  et  de  la  direction  de  la  litterature  italienne 
dans  cette  epoque  et  a  montrer  par  quelles  opinions  et  par  quels 
efforts  elle  manifeste  1'esprit  qui  Tanime  dans  ce  moment,  et 
par  quels  differens  moyens  on  vise  au  m£me  but. 

Sans  rappeler  les  causes  et  les  evenemens  qui  ont  pousse  Pes- 
prit  humain  vers  Fetat  ou  il  se  trouve  aujourd'hui,  il  est  incon 
testable  que  les  objets  et  les  idees  dont  il  est  occupe,  lui  font 
eprouver  des  besoins  et  des  sentimens  tout  nouveaux,  qui  Tobli- 
gent  a  chercher  de  nouveaux  moyens  pour  les  satisfaire.  De  la 
cette  espece  d'inquietude  qui  agite  et  tourmente  les  hommes  de 
nos  jours.  Ne  trouvant  au  milieu  d'eux  que  de  vieux  ressorts 
presque  uses  et  peu  propres  a  seconder  leurs  vues,  ils  se  montrent 
mecontens  de  tout  ce  qui  est  ancien,  et  ne  soupirent  quj apres  tout 
ce  qui  leur  parait  neuf.  Ce  mouvement  general  se  manifeste  sur- 
tout  dans  le  domaine  des  lettres  et  des  arts,  dans  lequel  il  ne 
rencontre  ou  ne  craint  pas  autant  de  perils  et  d'obstacles  que 
dans  celui  des  sciences  morales  et  politiques.  Par  la  meme  raison, 
il  se  fait  encore  plus  sentir  dans  1' Italic,  ou  la  defense  absolue  de 
traiter  aussi  completement  ces  dernieres  sciences  qu'on  le  fait 
chez  d'autres  nations,  oblige  les  Italiens  de  se  dedommager  en 
quelque  sorte  par  un  tout  autre  genre  de  discussions  et  de  travaux 
litteraires,  dans  lequel  ils  peuvent  au  moins  s'exercer  impune- 
ment.  C'est  pour  cela  que  1*  Italic  a  ete  toujours  inondee  de  cette 


1004  FRANCESCO    SAVERIO   SALFI 

foule  d'antiquaires,  de  rheteurs,  de  grammairiens  et  de  glossateurs 
qui,  toujours  prets  a  se  combattre,  se  montraient  d'autant  plus 
insolens  les  uns  envers  les  autres,  qu'ils  etaient  humbles  et  vils 
envers  leurs  protecteurs.  Les  disputes  scandaleuses  qui  parta- 
gerent  les  savans  du  XVe  siecle  et  les  litterateurs  du  XVIe,  prouvent 
assez  que  c'etait  un  moyen  de  distraction  ou  de  gloire  pour  des 
esprits  qui  n'en  avaient  point  d'autre  qui  put  les  occuper  utile- 
ment  et  leur  dormer  un  eclat  durable.  Us  servaient  en  meme 
temps,  comme  les  anciens  gladiateurs,  de  spectacle  a  leurs  despotes, 
tandis  qu'un  nombre  plus  grand  encore  de  versificateurs  et  de 
poetes  les  bergaient  de  leurs  flatteries.  Bien  que  les  Italiens  de  nos 
jours  eprouvent  a  cet  egard  le  meme  besoin  que  leurs  predecesseurs, 
ils  rougissent  de  ce  genre  d* adulations  et  de  debats  acrimonieux 
e~galement  fletrissans,  et  lors  meme  qu'ils  renouvellent  les  memes 
recherches  et  les  memes  discussions,  ils  ne  songent  plus  a  se  faire 
remarquer  que  par  la  maniere  de  les  envisager  et  par  la  nature  des 
principes  dont  ils  font  usage.  Leur  litterature  est  devenue  plus 
utile  et  plus  grave.  Ces  discussions  memes,  qui  paraissaient  jadis 
si  steriles,  ont  quelque  chose  de  plus  reel  et  de  plus  important; 
en  un  mot,  tout  annonce  le  besoin  qu'ils  eprouvent  d'une  amelio 
ration  generale,  et  les  efforts  qu'ils  font  pour  en  obtenir  au  moins 
quelque  partie. 

Nous  pourrions  confirmer  ce  que  nous  venons  d'avancer,  en 
citant  divers  ouvrages  qu'on  a  publics  depuis  quelques  annees 
en  Italie,  et  qui,  s'ils  n'ont  pas  egale  ceux  qui  les  ont  precedes 
dans  la  meme  carriere,  prouvent  des  intentions  plus  nobles  et  un 
interet  plus  general  et  plus  releve.  La  plupart  des  poetes  dedai- 
gnent  de  celebrer  des  sujets  et  des  personnages  qui  les  avaient 
pendant  si  long-temps  avilis ;  et  malheur  a  ces  rimeurs  miserables 
qui  ne  cessent  pas  de  faire  trafic  de  leurs  vers!  ils  sont  generale- 
ment  meprises.  Depuis  Alfieri,  aucun  poete  tragique  ne  s'est 
montre  au  theatre  que  pour  mettre  en  evidence  des  evenemens 
et  des  v6rites  qui  nous  font  mieux  connaitre  la  condition  de  Fhom- 
me,  des  peuples  et  de  leurs  gouvernans.  La  comedie,  d'apres 
Texemple  de  Goldoni,  nous  fait  aussi  apprecier  les  diverses  clas 
ses  de  la  societe;1  et  les  dernieres  productions  de  ce  genre,  soit 
graves  soit  plaisantes,  ne  font  plus  sentir  le  besoin  d'en  revenir 

i.  La  comedie  .  .  .  societe:  ritengo  che  alluda  in  particolare  alle  commedie 
del  Giraud  e  del  Nota,  da  lui  lodate  nel  Saggio  storico  critico  della  commedia 


RESUME  DE   LA   LITERATURE   ITALIENNE  1005 

a  citer  les  com6dies  ou  farces  de  Gozzi,  d'Avelloni,  de  Gualzetti 
ou  de  Federici.1  On  admire  de  nouveaux  cantiques  ou  le  coloris 
de  Dante  et  le  ton  des  prophetes  ont  donne  une  forme  antique  et 
surprenante  aux  evenemens  les  plus  recens  et  les  plus  connus.2 
Divers  poemes  epiques  ont  paru  en  meme  temps;  et  bien  qu'ils 
soient  loin  d'atteindre  la  majeste  du  style  de  Tasso  et  la  perfection 
de  son  plan,  leurs  auteurs  font  preuve  souvent  d'un  meilleur 
esprit. 

La  po6sie  lyrique,  ne  trouvant  pas  ici-bas  des  heros  dignes  de 
ses  chants,  les  a  cherches,  loin  de  nous,  dans  le  ciel,  et  a  ce!6bre 
les  vertus  qui  les  ont  produits;  elle  s'est  enrichie  de  quelques 
odes  et  de  quelques  hymnes  qui  honorent  la  patrie  et  la  religion 
qui  les  ont  inspires.3  Nous  pourrions  citer  aussi  des  epitres  et  des 
sermons  qui  renferment  la  morale  la  plus  pure  ou  la  satire  la 
plus  spirituelle.  On  ne  peut  plus  reprocher  aux  muses  italiennes 
leur  peu  de  sensibilite;  elles  se  plaisent  depuis  quelque  temps  a 
visiter  les  sepulcres  de  leurs  enfants,  et  nous  engagent  a  verser  des 
larmes  et  des  fleurs  sur  les  cendres  de  Pami  qui  n'est  plus,  ou  du 
citoyen  qu'on  a  injustement  oublie.  Un  esprit  encore  plus  philo- 
sophique  s'est  empare  de  ce  genre  de  poesie  proprement  instructive, 
ou  Ton  desirait  plus  d'exactitude  et  plus  d'importance.  Les  con- 


italiana  (1829),  nella  prefazione  (1829)  alle  commedie  scelte  del  Giraud, 
e  altrove.  i .  Delle  Fiabe  di  Carlo  Gozzi  il  Salfi  da  un  giudizio  assai  severo 
in  altre  pagine  del  Resume  (n,  pp.  126-9),  dove,  pur  riconoscendo  all'au- 
tore  « les  qualites  de  son  style  et  de  son  esprit »,  definisce  le  Fiabe  «  pieces 
les  plus  romanesques  et  les  plus  absurdes»;  e  « melange  de  scenes  tantot 
ecrites  et  tantot  improvisees,  le  genre  comique  et  le  tragique,  le  plus 
bouifon  et  le  plus  serieux,  les  metamorphoses  et  les  prodiges  de  toutes 
sortes».  Francesco  Antonio  Avelloni  (1756-1837)  e  Camillo  Federici  (1749- 
1802)  furono  i  piu  applauditi  autori  teatrali  degli  ultimi  decenni  del  Sette- 
cento ;  mentre  Giacomo  Antonio  Gualzetti  si  ricorda  per  una  trilogia  dram- 
matica  tratta  dal  Conte  di  Commingio  del  d'Arnaud.  2.  On  admire  . . .  con- 
nus:  allude  certamente  al  Monti,  per  il  quale  il  Salfi,  malgrado  ne  disap- 
provasse  alcuni  atteggiamenti  politici,  nutrl  sempre  ammirazione  e  rispet- 
to.  Gia  nell'articolo  citato  Du  genie  des  Italians  aveva  scritto,  per  esempio, 
a  proposito  della  Bassvilliana:  «  sans  adopter  certains  principes  que  1'auteur 
a  cm  devoir  professer  dans  son  poeme,  on  ne  saurait  s^mpecher  d'y  re- 
connaitre  beaucoup  d*6clat  dans  les  images,  de  noblesse  dans  les  pensees, 
d'inter£t  dans  les  recits,  d'harmonie  dans  les  vers,  de  precision  dans  le 
style :  qualites  suffisantes  a  dormer  a  cet  ouvrage  une  reputation  durable » 
(cfr.  «  Revue  encyclopedique »,  iv,  1819,  p.  159).  3.  La  poesie  .  .  .  inspi 
res  :  penso  che  alluda  alle  liriche  del  Monti  e  forse  anche  agli  Inni  sacri 
e  al  Cinque  maggio  del  Manzoni. 


IO06  FRANCESCO  SAVERIO  SALFI 

tes,  les  fables,  les  poesies  les  plus  legeres,  qui  ne  semblaient 
destinees  qu'a  un,  simple  amusement,  ou  m^me  a  la  licence,  cher- 
chent  maintenant  a  reveiller  et  a  nourrir  des  maximes  et  des 
sentimens  plus  utiles  ou  plus  convenables.  Dans  les  traductions 
meme  qu'on  vient  de  refaire  des  classiques  grecs  ou  latins,  on 
a  reussi  a  faire  sentir  encore  mieux  qu'on  ne  Tavait  fait  jusqu'ici 
Timportance  de  ces  traits  et  de  ces  souvenirs  pleins  de  sens  et 
de  vie;  et  en  nous  familiarisant  de  plus  en  plus  avec  Homere, 
Sophocle  et  Pindare,  on  apprend  davantage  qu'il  n'y  a  point  de  poe- 
sie  veritable,  si  elle  n'est  animee  d'aucun  int£ret  national.  On  n'a 
pas  manque"  en  meme  temps  de  profiter  des  nouvelles  richesses 
des  etrangers;  et  divers  chefs-d'oeuvre  des  litteratures  fran9aise, 
anglaise  et  allemande  ont  ete  successivement  traduits  et  natu- 
ralis6s. 

La  prose,  ainsi  que  les  divers  genres  poetiques,  s'est  fait  aussi 
distinguer  en  divers  genres.  L'histoire,  soit  civile  soit  litteraire, 
lors  meme  qu'elle  s'est  presentee  sous  une  forme  ou  trop  simple 
ou  trop  ornee,  n'a  point  hesite  a  nous  exposer  des  faits  et  des 
verites  qu'on  n'avait  pas  encore  si  franchement  deceits,  et  a  cher- 
cher  les  principes  et  les  causes  des  evenemens,  ainsi  que  leurs 
re"sultats  les  plus  importans.  Quelques  ouvrages  qui  se  font  remar- 
quer  dans  la  foule  des  ecrits  de  ce  genre,  suffisent  pour  prouver 
que  c'est  1'occasion  et  non  Peloquence  qui  manque  aux  Italiens. 
Comme  Tanalyse  a  rendu  la  synthese  encore  plus  precise  et  plus 
claire,  le  style  didactique  a  ajoute  aux  sciences  un  coloris  plus 
propre  et  plus  attrayant;  il  s'est  depouille  d'une  partie  de  ces  orne- 
mens  superflus  dont  il  se  montrait  auparavant  surcharge,  et  a 
pris  des  couleurs  plus  simples  et  en  meme  temps  plus  distinctes. 
De  meme  que  la  litterature  se  prete  aux  progres  de  la  philoso 
phic,  celle-ci  s'enrichit  a  son  tour  de  ses  lumieres  et  de  ses 
m6thodes. 

Ce  qui  prouve  encore  davantage  ce  que  nous  venons  d'enoncer, 
c'est  cette  guerre  obstin6e  qu'on  fait  depuis  quelques  annees 
aux  partisans  de  1'Academie  de  la  Crusca.  Bien  qu'ordinaire  dans 
1' Italic  des  la  naissance  de  cette  academic  jusqu'a  Cesarotti,  bi- 
en  qu'animee  de  cette  chaleur  qui  se  mele  toujours  a  ce  genre 
de  debats,  elle  se  distingue  aujourd'hui  par  1'esprit  de  moderation 
qui  dirige  la  plupart  des  combattans,  et  par  les  nouveaux  avan- 
tages  qu'en  tirent  la  langue  et  la  litterature  italienne.  Nous  pouvons 


RESUME    DE   LA   LITTERATURE   ITALIENNE 

ici  rendre  justice  a  Jules  Perticari,1  a  ce  litterateur  r6publicain, 
qui  aurait  sans  doute  ajoute  a  "la  culture  et  a  la  gloire  litteraire 
de  son  pays,  si  une  mort  precoce  ne  nous  Feut  enleve:  c'est 
lui  qui,  forme  d'apres  les  principes  de  Cesarotti,2  et  plus  reserve 
que  lui  en  fait  de  correction,  a  communique  une  direction  nou- 
velle  aux  recherches  sur  Forigines  et  la  propriete  de  la  langue  ita- 
lienne,  ainsi  que  sur  le  caract&re  et  le  merite  des  ecrivains  qui 
ont  le  plus  contribue  a  sa  perfection.  II  a  legue  son  esprit  a  ses 
nombreux  eleves,  qui,  conduits  par  un  chef  digne  d'eux,3  parais- 
sent  soutenir  plutot  les  droits  de  la  nation  que  ceux  du  langage. 
Us  semblent  combattre  contre  cet  esprit  de  municipalite  litteraire 
qui  a  tant  contribue  a  nourrir  en  meme  temps  ces  divisions  poli- 
tiques,  causes  6ternelles  de  la  faiblesse  et  de  la  honte  de  FItalie. 
Us  veulent  etre  au  moins  libres  et  independans  dans  Fexercice 
de  leurs  talens  et  de  leur  litterature:  ils  dedaignent  et  abhorrent 
tout  despotisme  litteraire;  en  un  mot,  ils  ne  veulent  reconnaitre 
d'autre  autorite  que  celle  de  la  raison. 

Qu'on  ne  prenne  pas  ces  leg&res  indications  pour  des  assertions 
vagues  et  exager6es ;  elles  sont  Fexpression  la  plus  fidele  de  plusieurs 
ouvrages  qui  ne  sont  point  inconnus  aux  etrangers  qui  cultivent 
la  litterature  des  Italiens.  Partout  on  y  aper^oit  les  traces  de  cet 
esprit  philosophique  et  de  cet  interet  national  qui  caracterisent  et 
distinguent  leur  Iitt6rature  actuelle  de  celle  de  leurs  devanciers. 
Mais  ce  qui  merite  particuli&rement  notre  attention,  c'est  cette 
6cole  nouvelle,4  originaire  de  FEspagne  et  de  TAngleterre,  qui, 
s'etant  sp6cialement  emparee  de  FAllemagne,  fait  tous  ses  efforts 
pour  envahir  tout  le  reste  de  1'Europe  civilisee.  Elle  semble  imposer 
d'autant  plus  qu'elle  affecte  les  vues  et  les  principes  les  plus  analo 
gues  aux  besoins  et  a  Fesprit  du  siecle.  On  avait  deja  bien  souvent 
declam6  contre  Fabus  ou  Fexces  de  limitation  des  anciens,  et 

i.  II  rilievo  in  cui  e  posto  il  Perticari  si  spiega,  oltre  che  per  coincidenze 
di  gusto  letterario,  anche  col  fatto  che  il  Salfi  lo  aveva  personalmente  co- 
nosciuto,  e  in  particolare  si  era  trovato  con  lui  e  con  Gugliehno  Pepe  a 
Senigallia,  in  una  sosta  del  suo  viaggio  verso  Napoli  nel  luglio  del  1814 
(cfr.  C.  NARDI,  La  vita  e  le  opere  di  F.  S.  Salfi,  cit.,  p.  71)-  Del  Pertican 
il  Salfi  scrisse  anche  il  necrologio  per  la  « Revue  encyclop&iique »,  xi 
(i8zi),  p.  409.  2,.form& .  .  .  Cesarotti'.  in  verita  non  si  pu6  affermare  che 
le  teorie  linguistiche  del  Perticari  siano  uno  sviluppo  diretto  di  quelle  del 
Cesarotti;  Funico  punto  di  contatto  e  la  comune  battaglia  contro  la  tiran- 
nia  della  Crusca.  3.  un  chef  digne  d'eux:  allude  forse  al  Monti  stesso, 
soprawissuto  al  genero.  4.  cette  ecole  nouvelle:  la  scuola  romantica. 


I008  FRANCESCO    SAVERIO    SALFI 

Ton  avait  commence  par  renverser  ces  idoles  de  la  republique 
des  lettres,  pour  delivrer  de  leur  joug  leurs  admirateurs  aveugles 
et  superstitieux.  On  a  vu,  a  Fepoque  ou  Telesio,  Campanella, 
Bruno,  Sarpi  et  Galileo  attaquaient  Pautorite  d'Aristote  en  phi- 
losophie,  Muzio,  Castelvetro,  Tassoni1  et  tant  d'autres  1'atta- 
quer  de  meme  en  litterature,  et  cela  bien  avant  Perrault  et  con 
sorts.2  Nous  avons  observe  ailleurs  que  Marini  et  ses  partisans  ne 
tenaient  qu'a  leurs  maximes.  II  faut  avouer  cependant  qu'aucun 
de  ces  critiques  n'a  renouvele  cette  sorte  de  guerre  ou  de  revolu 
tion  litteraire  avec  autant  de  hardiesse  et  de  suite  que  les  roman- 
tiques  de  nos  jours. 


i.  A  Girolamo  Muzio  critico  e  dedicate  nel  Resume*  uno  spazio  relativamente 
ampio  (i,  pp.  269-70);  mentre  le  opere  critiche  del  Castelvetro  e  del  Tassoni 
vi  sono  appena  ricordate  (i,  p.  346,  e  n,  p.  37).  Ma  per  quest'ultimo  il 
Salfi  pensava  forse  alia  piu  ampia  trattazione  fattane  nella  continuazione 
dell'Histoire  del  Ginguen£  (xm,  pp.  464-5;  e  xiv,  pp.  114-21).  2.  Perrault 
et  consorts:  allude  alia  aquerelle  des  anciens  et  des  modernes»,  provocata 
appunto  dal  Perrault  (cfr.  la  nota  i  a  p.  81). 


DALLA  « REVUE  ENCYCLOPEDIQUE» 

i 
Notice  sur  Ugo  Foscolo.1 

La  litterature  italienne  vient  de  perdre  un  de  ses  principaux 
ornemens.  M.  Ugo  Foscolo  est  mort  a  Londres,  le  n  septem- 
bre2  dernier,  d'une  hydropisie  qui  le  tourmentait  depuis  pres  de 
deux  ans,  et  que  paraissent  avoir  augmentee  sa  maniere  de  vivre 
et  ses  travaux  litteraires.  Foscolo  etait  ne  a  Zante,  vers  Fan- 
nee  I773.3  Dou6  d'une  imagination  ardente  et  d'un  esprit  inde- 
pendant,  il  ne  put  se  contenter  de  la  sphere  etroite  et  obscure 
de  sa  patrie  et  des  iles  loniennes  dont  elle  depend.  Impatient 
d'etendre  ses  connaissances,  il  se  rendit  a  Venise.  Apres  avoir 
quelque  terns  erre,  sans  dessein  et  sans  but,  sur  les  bords  de 
FAdriatique  et  dans  quelques  villes  d'ltalie,  il  s'arreta  a  Padoue  et 
suivit  un  cours  de  Cesarotti.  Ce  professeur  celebre  avait  le  talent 
de  communiquer  a  ses  eleves  une  v6ritable  passion  pour  une  lit 
terature  a  la  fois  fond6e  sur  le  gout  des  anciens,  affranchie  de 
prejugds  et  d'entraves,  et  propre  a  satisfaire  aux  besoins  des  mo- 
La  «  Revue  encyclop6dique  »  fu  fondata  nel  1819  da  Marc-Antoine  Jullien, 
vecchio  babuvista  venuto  in  Italia  nel  periodo  cisalpino  come  capitano  ag- 
giunto  del  generale  Lahoz,  e  autore,  fra  1'altro,  di  un  opuscolo  intitolato 
Quelques  conseils  aux  patriotes  cisalpins  e  contenente  la  proposta  di  costi- 
tuire  un  comitato  segreto  per  diffbndere  tra  gli  Italian!  «le  patriotisme  et 
les  lumieres »  (cfr.  J.  GODECHOT,  Les  franpais  et  I'unite  italienne  sous  le 
directoire,  in  «  Revue  Internationale  d'histoire  politique  et  constitutionnelle  », 
Paris  1952;  et  G.  VACCARINO,  Ipatrioti  « anarchist es  »  ecc.,  cit.,  pp.  58-61  e 
113-24).  A  far  parte  della  redazione  il  Jullien  chiam6  subito,  oltre  il 
Sismondi,  lo  Chasles  e  il  Boissonade,  anche  il  Salfi,  che  quasi  certamente 
conosceva  fin  dai  tempi  della  Cisalpina,  e  a  lui  affid6  in  particolare  il 
compito  di  occuparsi  degli  argomenti  che  riguardassero  V  Italia.  La  col- 
laborazione  del  Salfi  continud  assidua  fino,  si  pu6  dire,  alia  morte,  co 
me  fa  fede  Telenco  (pubblicato  da  C.  NARDI,  La  vita  e  le  opere  di  F.  S. 
Salfi,  cit.,  pp.  xiv-xx)  degli  articoli  e  delle  recensioni  recanti  la  sua  firma; 
anche  se  non  manc6  fra  lui  e  Jullien  qualche  screzio,  dovuto  a  question! 
di  compenso,  e  piti  ancora  all'irritazione  del  collaboratore  italiano  per  la 
revisione  linguistica  e  per  le  modifiche  a  cui  i  suoi  scritti  venivano  sotto- 
posti.  Per  gli  articoli  qui  riportati  riproduciamo  naturalmente  il  testo  della 
« Revue  encyclopedique ».  Le  note  del  Salfi  sono  seguite  dalla  sigla  S. 

i.  Dalla  « Revue  encyclop6dique »,  xxxvi  (1827),  pp.  3O-5-  2*  JJ  septem- 
bre:  piu  esattamente,  la  sera  del  10  settembre.  3. 1773 :  probabilmente  er- 
rore  di  stampa  per  1778. 

64 


1010  FRANCESCO   SAVERIO    SALFI 

dernes.1  Le  jeune  Foscolo  profita  de  ses  Ie9ons;  et,  devenu  admi- 
rateur  enthousiaste  des  6crivains  classiques,  grecs,  latins  et  italiens, 
il  se  Ian9a  dans  la  carriere. 

En  1795,  la  plupart  des  jeunes  italiens,  d'apres  les  conseils 
de  Genovesi,  de  Filangieri,  de  Parini,  de  Verri,  etc.,  affliges 
de  T6tat  d'avilissement  oil  Fltalie  etait  depuis  si  long-terns 
plongee,  concpurent,  sous  les  auspices  des  Fran£ais,  Pesperance  de 
s'elever  a  des  plus  nobles  destinees.  Ugo  Foscolo  fut  de  ce  nombre. 
II  se  fit  d'abord  remarquer  par  quelques  discours  improvises2 
que  les  circonstances  lui  inspirerent;  et  sa  muse,  qui  avait  com 
mence  a  chanter  1'amour,  consacra  ses  vers  a  la  liberte.3  Depuis 
cette  6poque,  ces  deux  passions  s'allierent  tellement  dans  son 
imagination,  qu'elles  formerent  le  trait  dominant  de  son  caractere 
jusqu'a  la  fin  de  ses  jours.  Une  troisieme  passion,  1'amour  de  la 
gloire,  fut  si  vive  en  lui  qu'il  chercha  et  saisit  avec  avidite  toutes 
les  occasions  de  briller;  ce  fut  pour  y  parvenir  qu'il  se  montra 
tour  a  tour  poete,  orateur,  professeur,  et  qu'il  afFecta  quelquefois  le 
ton  du  plus  severe  stoicisme,  apres  avoir  sacrifie  au  plaisir  et  a  la 
mode  et  avoir  vecu  en  veritable  e"picurien.  Mais,  dans  ces  situations 
diverses,  il  sut  toujours  se  faire  distinguer  par  son  esprit  et  par 
roriginalite  de  ses  idees.  Quelques  personnes,  peu  bienveillantes 
pour  lui,  ont  attribu6  a  cette  extreme  mobilite  F  absence  de  ca 
ractere  Iitt6raire  que  Ton  reproche  a  ses  diverses  productions: 
plus  justes  ou  plus  indulgens,  nous  preferons  Pattribuer  aux  elans 
d'une  brillante  imagination,  et  nous  nous  bornerons  a  faire  remar 
quer  cette  chaleur  de  sentiment  et  de  style  qui  anime  sa  prose  et 
ses  vers,  et  qui  lui  assigne  un  rang  distingue  parmi  les  litterateurs 
dont  s'honore  PItalie. 

Foscolo  avait  debut6  a  Venise,  comme  auteur  dramatique,  par 
sa  tragedie  de  Thyeste.  Elle  re9ut  de  grands  eloges  des  com^diens 
italiens  qui,  a  dire  vrai,  ne  sont  pas  des  juges  tres  comp6tens  en 
ce  genre.  Mais  il  eut  le  merite  de  se  declarer  admirateur  des  Grecs, 
et  d'imiter  Alfieri  dans  un  terns  ou  la  plupart  des  Iitt6rateurs 

i.  Ce  professeur  .  .  .  modernes:  questo  giudizio  e  piti  ampiamente  svolto 
nel  Resume  de  Vhistoire  de  la  litte'rature  italienne,  n,  pp.  63-4  (in  questo 
volume  a  pp.  992-3).  2.  quelques  discours  improvises:  allude  alle  appas- 
sionate  orazioni  pronunciate  dal  Foscolo  nel  1797  in  qualita  di  membro 
della  Societa  della  pubblica  istmzione  e  della  Municipalita  di  Venezia. 
3.  consacra .  .  .  liberte:  allude  al  sonetto  A  Venezia  (1706),  al  Tieste  e  alle 
odi  A  Napoleone  liber atore  e  Ai  novelli  repubblicani  (1797). 


REVUE   ENCYCLOPEDIQUE  IOII 

italiens  depreciaient  encore  la  maniere  et  le  style  de  ce  poete. 
Foscolo  montra  un  jugement  plus  sur  que  ses  panegyristes  enthou- 
siastes:  il  reconnut  lui-meme  les  imperfections  de  sa  tragedie;  et, 
sans  rejeter  le  systeme  qu'il  avait  adopte,  il  se  proposa  de  tirer 
un  parti  plus  convenable  de  ses  etudes  dans  ses  autres  ouvrages. 
L'impression  que  fit  sur  lui  la  lecture  de  Werther,  lui  inspira 
1'idee  d'ecrire  les  Lettres,  aujourd'hui  si  connues,  de  lacopo  Ortis. 
II  s'est  peint,  sous  ce  nom,  tel  qu'il  6tait,  ou  tel  qu'il  voulait 
s'offrir,  dans  la  position  d'un  amant  desespere.  Bien  qu'on  re- 
connaisse,  dans  le  fond  du  sujet,  une  imitation  peut-etre  servile 
de  Goethe,  les  traits  de  feu  par  lesquels  il  caracterise  son  heros, 
et  plus  encore  ses  allusions  aux  ev6nemens  dont  sa  patrie  etait 
le  theatre,  et  les  souvenirs  et  les  opinions  de  quelques-uns  de 
ses  contemporains,  dignes  de  vivre  dans  la  posterite,  font  lire 
son  roman  avec  un  vif  interet.  Ce  genre  de  litterature  etait  peu  goute 
chez  les  Italiens.  Ugo  Foscolo  a  ete  Fun  des  premiers  qui  aient 
songe  a  1'introduire.  Les  litterateurs  routiniers  voulurent  en  vain 
decrier  cet  ouvrage,  qui  fit  bientot  les  delices  de  toutes  les  classes 
de  la  societe,  et  particulierement  des  femmes.  Ainsi,  Foscolo  a 
contribue  a  r6pandre  les  sentimens  les  plus  patriotiques,  en  les  ac- 
compagnant  des  images  les  plus  attrayantes.   La  plus  remar- 
quee  de  ses  productions  fut  le  Discours  qu'il  pronon9a  au  congres 
de  Lyon,  en  iSoi.1  Soit  qu'il  fut  frappe  de  Timportance  de  Tev6- 
nement  qui  donnait  lieu  a  cette  solennite,  soit  qu'il  eprouvat  le 
besoin  de  satisfaire  sa  passion  dominante,2  le  jeune  orateur  deploya 
une  61oquence  dont  on  n' avait  pas  d'exemple  depuis  long-terns. 
Elle  parut  aux  Italiens  aussi  extraordinaire  que  l'6tait  chez  eux 
la  fondation  d'une  republique,  aux  louanges  de  laquelle  ce  discours 
etait  consacre.  Enflamm6  d'ardeur,  comme  tant  d'autres,  a  1'aspect 
de  cette  republique  naissante,  Foscolo  choisit  le  role  de  Phocion;3 
et  tra9ant  un  tableau  admirable  des  evenemens  qui  avaient  preced6, 
des  vues  qui  s'y  rattachaient  et  qui  en  avaient  change  la  direction, 
et  dont  1'influence  le  faisait  d6sesp6rer  du  salut  de  sa  patrie,  il  osa 
proposer  les  seuls  rem^des  qui,  suivant  lui,  pouvaient  assurer  sa 

i.  le  Discours  .  .  .  1801:  allude  zll'Orazione  a  Bonaparte  pel  Congresso  di 
Lione,  che  per6  non  fu  pronunciata  dal  Foscolo  ai  comizi  di  Lione,  tenuti 
nel  dicembre  1801  e  gennaio  1802,  ma  solo  pubblicata  nel  1802.  2.  sa 
passion  dominante:  1'amore  della  gloria.  3.  le  role  de  Phocion:  cioe  di  cri- 
tico  della  nuova  repubblica  democratica,  come  lo  era  stato  Focione  di 
quella  ateniese. 


1012  FRANCESCO   SAVERIO    SALFI 

prosperite.  II  n'epargna  pas  meme  Bonaparte,  qui  feignit,  ainsi  que 
ses  courtisans,  d'applaudir  a  la  hardiesse  de  cet  elan  patriotique. 

Deja  celebre  comme  poete,  comme  romancier  et  comme  ora- 
teur,  Foscolo  voulut  acquerir  encore  la  reputation  d'erudit.  II 
traduisit  en  italien  le  petit  poeme  de  Callimaque,  sur  La  che- 
velure  de  Berenice,  que  Catulle  avait  mis  en  latin.  II  y  ajouta 
un  long  commentaire;  et  il  plaisantait  avec  ses  amis  de  ses  ci 
tations  nombreuses  d'auteurs  anciens  et  modernes  qu'il  n* avait 
pas  eu  le  terns  de  lire  ni  de  consulter.  On  blama  cette  mystifi 
cation,  qui  ne  trompa  personne,  et  qui  n'eut  pas  ete  honorable 
pour  lui,  s'il  eut  pretendu  se  faire  un  titre  veritable  d'un  savoir 
qui  n'etait  pas  le  sien. 

Nomme  professeur  de  belles-lettres  a  PUniversite  de  Pa- 
vie,  il  succeda  au  celebre  Monti  dont  il  s'etait  declar6  Papo- 
logiste  et  Tami,  a  Tepoque  ou  Ton  poursuivait  Fauteur  de  Basville. 
II  d6buta  par  un  Discours  sur  Vorigme  et  les  regies  fondamentales  de 
la  litter ature.1  II  s'empara  des  theories  de  Locke  et  de  Condillac, 
et  traita  des  sciences  litteraires  en  philosophe.  Le  sujet  ne  com- 
portait  pas  le  genre  d'eloquence  dont  il  avait  donne  des  preuves 
aux  cornices  de  Lyon. 

Les  Muses  continuaient  a  Tinspirer;  et  dans  ses  loisirs  il  chan- 
tait  ses  amours  ou  les  malheurs  de  sa  patrie.  II  entreprit  alors 
un  ouvrage  plus  important,  une  traduction  de  Vlliade  en  vers 
sdoltL  M.  Monti  s'occupait  en  meme  terns  d'un  semblable  tra 
vail:  Foscolo,  qui  etait  Tami  de  ce  poete,  voulut  se  montrer  son 
emule.  Us  publi^rent  ensemble  leur  premier  chant,  comme  un 
essai  de  leurs  forces.  Le  public  applaudit  aux  deux  athletes;  on 
admira,  dans  Tun,  cette  noblesse  de  style  et  cette  harmonie  de 
rhythme  qui  sont  propres  a  lJ6popee;  on  distingua,  dans  1'autre, 
une  force  et  une  concision  qui  le  rapprochaient  peut-etre  plus  de 
son  modele. 

Au  milieu  de  sa  carriere  Iitt6raire,  Foscolo  nourrissait  la  pensee 
de  suivre  celle  des  armes.  II  s'attacha,  pendant  quelque  tems, 
au  general  Thuillier,2  dont  il  partageait  les  sentimens  patriotiques, 


i.  II  titolo  esatto  della  prolusione  pavese  e:  DelVorigine  e  delVufficio  della 
letteratura.  2.  g&niral  Thuillier:  il  generate  Pietro  Teulie  (1769-1807), 
alle  cui  dipendenze  fa  il  Foscolo  come  impiegato  dell'Ufficio  di  compila- 
zione  del  codice  militare  italiano,  e  poi  nel  corpo  di  spedizione  italiano 
in  Francia,  di  cui  il  Teulie"  fu  nominato  comandante  nel  1805. 


REVUE   ENCYCLOPEDIQUE  1013 

et  il  se  rendit  a  Calais,  en  i8o5,J  pour  prendre  part  a  I5  expedition 
que  Bonaparte  pre*parait  contre  TAngleterre.  La  tete  remplie  d'idees 
militaires,  il  revint  en  Italic,  et  publia  a  Milan,  en  1808,  la  belle 
6dition  des  ouvrages  classiques  du  prince  Raimond  Montecuccoli, 
remarquable  par  les  corrections  qu'il  y  fit,  et  par  les  considerations 
importantes  sur  Tadministration  militaire  dont  il  Penrichit.  On 
trouva  surprenant  que  Torateur  des  cornices  de  Lyon  eut  d£di6 
son  ouvrage  au  general  Caffarelli,2  alors  ministre  de  la  guerre  dans 
le  royaume  d'ltalie.  M.  Grassi3  a  donne,  depuis,  en  1821,  a  Turin, 
une  nouvelle  edition  plus  complete  et  plus  soign6e  des  oeuvres 
de  Montecuccoli. 

Foscolo  travailla  encore  pour  le  th6&tre,  et  fit  jouer  a  Milan  sa 
nouvelle  trag£die  d'Ajax.  II  s'etait  brouille  avec  Monti:  des  6cri- 
vains,  qu'il  n'avait  pas  menages,  saisirent  une  occasion  de  se  ven- 
ger.  Us  ne  se  contenterent  pas  de  dire  que  les  caract&res  de  cette 
tragedie,  Agamemnon,  Ajax,  Calchas,  etc.  etaient  tous  caiques  sur 
le  meme  modele,  et  que  ce  modele  6tait  Foscolo  lui-meme;  ils 
allerent  jusqu'a  denoncer  ses  opinions,  comme  directement  hostiles 
contre  le  gouvernement.  Ils  signalerent,  avec  une  servilit£  scan- 
daleuse,  quelques  traits  qui  faisaient  allusion  a  Bonaparte,  au  pape 
et  a  d'autres  personnages  eminens.  Ce  qui  faisait  le  merite  de  la  pie 
ce  causa  la  disgrace  de  Tauteur,  qui  chercha  un  refuge  dans  la 
patrie  du  Dante  et  de  Machiavel.  II  se  Ian9a,  une  troisi&me  fois, 
dans  la  carriere  tragique,  et  donna  sa  Ricciarda,  qu'on  representa 
sur  quelques  theatres  d'ltalie,  et  qu'on  a  imprimee  a  Londres. 
II  prit  ce  sujet  dans  Thistoire  des  Lombards,  et  resta  fidele  au  sys- 
teme  qu'il  avait  adopte*;  son  style  et  quelques  scenes  ne  man- 
quent  pas  de  chaleur;  mais  k  conduite  et  P ensemble  sont  6vi- 
demment  defectueux. 

Foscolo  redevint  militaire,  a  Tepoque  du  mouvement  ephe- 
mere  que  produisirent  a  Milan  la  chute  de  Napoleon  et  les  prin- 
cipes  proclam6s  par  la  Sainte- Alliance.  Le  royaume  d'ltalie  osa 
se  flatter,  un  moment,  de  Tespoir  que  son  independance  se- 

1.  en  1805:  veramente  il  Foscolo  si  rec6  in  Francia  nel  giugno  1804. 

2.  On  trouva  .  .  .  Caffarelli:  in  realta  il  Foscolo  dedic6  il  suo  lavoro  al 
Caffarelli  non  tanto  per  fare  omaggio  al  governo,  quanto  per  mostrare 
gratitudine  al  ministro  che,  pur  serbandogli  lo  stipendio,  lo  aveva  dispen- 
sato  da  incarichi  militari.     3.  Giuseppe  Grassi  (1779-1831),  letterato  to- 
rinese,  amico  del  Foscolo   e  del  Monti,  e  noto  soprattutto  per  lavori 
lessicali. 


1014  FRANCESCO    SAVERIO   SALFI 

rait  recomme  et  garantie.  Foscolo,  devenu  Tun  des  aides-de 
camp  du  general  Pino,1  harangua  la  garde  nationale  de  Milan; 
ses  opinions  et  ses  esperances,  hautement  manifestees,2  compro- 
mirent  sa  surete,  et  il  fut  oblige  de  quitter  sa  patrie  et  d'aller 
s'etablir  en  Angleterre;  c'est  a  Londres  qu'il  a  passe  les  dernieres 
annees  de  sa  vie. 

II  avait  deja  traduit  en  italien  le  Voyage  sentimental  de  Sterne, 
qu'il  publia  sous  le  nom  de  Didimo  Chierico.  Cette  belle  traduction 
fit  connaitre  plus  generalement  Pouvrage  de  Sterne  aux  Italiens, 
et  inspira  aux  litterateurs  anglais  des  sentimens  de  reconnaissance 
et  d'affection  pour  1'illustre  exile,  qui  fut  desormais  plus  honore 
sur  les  bords  de  la  Tamise,  qu'il  ne  1'avait  ete  dans  son  propre  pays. 
Son  talent  encourage  brilla  d'un  plus  vif  eclat.  II  mit  au  jour 
plusieures  productions  nouvelles,  et  donna  un  certain  nombre 
<T articles  remarquables  aux  journaux  d' Angleterre,  ou  il  s'eleva 
specialement  contre  cet  esprit  de  servilite  et  de  superstition  qui 
•domine  dans  les  feuilles  publiques  de  Tltalie;3  il  fit  aussi  quelques 
•cours  de  litterature  italienne,  que  la  purete  de  son  gout  et  les  theo 
ries  les  plus  saines  firent  suivre  par  beaucoup  d'hommes  distin- 
gues.  II  condamnait  egalement  la  sterile  impuissance  des  imitateurs 
serviles  et  la  licence  audacieuse  des  novateurs.4  Lui-meme,  en 
imitant  les  grands  modeles  classiques,  a  su  interesser  ses  contem- 
porains  par  la  profondeur  de  ses  pensees  et  par  la  v6rite  de  ses 
sentimens.  Parmi  les  Merits  qu'il  a  publics  a  Londres,  et  qui  sont 
dignes  d'etre  remarques,  on  compte  les  Essais  sur  Petrarque,  ou  il 
cherche  a  relever  cette  delicatesse  de  sentiment  et  de  style  que 
des  barbares  seuls  refusent  d'apprecier;  une  savante  Introduction 
aux  Nouvelles  de  Boccace,5  dont  il  montre  1'esprit  et  le  merite, 
et  un  travail  encore  plus  important  sur  la  Divine  Come'die  du 
Dante,6  dont  il  n'a  public  que  le  premier  volume.  C'est  dans  ce 

i.  II  generale  Domenico  Pino  (1767-1826)  teneva  allora  la  reggenza  muni- 
cipale  di  Milano.  II  Foscolo  era  gia  stato  suo  aiutante  durante  la  campagna 
di  Marengo.  2.  hautement  manifestees:  in  particolare  nell3 'Indirizzo  pre- 
sentato  il  30  apnle  1815  al  generale  Macfarlane  a  nome  della  guardia  civica 
di  Milano.  3.  il  s'eleva  .  .  .  de  Vltalie:  allude  all'articolo  sulla  « Letteratura 
italiana  periodica  ».  4. 77  condamnait . . .  novateurs :  allude  in  particolare  agli 
articoli  Della  nuova  scuola  drammatica  italiana  e  Sullo  stato  attuale  delta 
letteratura  italiana  (comparso  sotto  il  nome  di  John  Cam  Hobhouse,  ma 
redatto  su  appunti  foscoliani).  5.  une  savante  .  .  .  Boccace:  il  Discorso  sto- 
rico  sul  testo  del  «Decamerone».  6.  un  travail. . .  Dante:  il  Discorso  sul  te- 
sto  della  ^Divina  Commedia*. 


REVUE   ENCYCLOPEDIQUE  IOI5 

nouveau  commentaire  qu'il  a  entrepris  de  presenter  le  Dante 
plutot  comme  apotre  d'une  religion  nouvelle  ou  reformee,  que 
comme  poete.  Nous  n'osons  decider  si  Pintention  de  Pauteur 
etait  de  se  moquer  de  ses  lecteurs  ou  de  la  folie  des  commenta- 
teurs.  Quelle  qu'ait  ete  sa  veritable  opinion,  il  a  repandu  dans 
son  ouvrage  assez  de  lumieres  et  1'a  seme  de  traits  assez  piquans 
pour  le  rendre  agreable  et  interessant. 

On  possede  diverses  poesies  de  Foscolo,  telles  que  VAlcee* 
les  Graces,  quelques  odes  et  plusieurs  sonnets.  On  estime  sur- 
tout  sa  piece  intitulee  Sepolcri,  dans  laquelle  il  lutte  de  talent 
avec  Hippolyte  Pindemonte,  qui  a  traite  a  peu  pres  le  meme 
sujet.  On  trouve  dans  les  vers  de  Foscolo  du  pathetique  et  de 
Pelevation.  Get  homme  celebre  eut  a  se  reprocher  quelques  des- 
ordres  dans  sa  vie  privee;  mais  ses  talens  et  ses  malheurs  sont 
des  titres  suffisans  pour  qu'on  les  pardonne  a  sa  memoir e.  La 
post6rite  le  classera  parmi  les  hommes  les  plus  distingues  de 
Pltalie. 

II 
[Su  «/  promessi  sposi».]2 

Le  besoin  de  romans  etait  vivement  eprouve  depuis  quel- 
que  terns  dans  la  litterature  italienne;  mais  les  ecrivains  qui 
remarquaient  ce  vide  dans  une  litterature  d'ailleurs  si  riche  sous 
d'autres  rapports,  se  bornaienta  en  rechercher  les  causes,  sans  rem- 
plir  la  lacune  qu'ils  avaient  signalee.  On  a  dit  souvent:  la  nation 
italienne  manquerait-elle  de  ces  organes  privile*gies  qui  constituent 
le  talent  du  romancier?  ou  plutot,  a-t-elle  dedaigne  un  genre 
qu'elle  regardait  comme  tres-mediocre,  et  auquel  elle  en  a  sub- 
stitue  d'autres  bien  plus  nobles,  plus  ingenieux,  plus  agreables? 
Ce  serait  meconnaitre  le  genie  et  le  jugement  des  Italiens;  mais, 
sans  les  flatter,  nous  exposerons  franchement  notre  opinion. 

La  litterature,  chez  les  Italiens,  a  ete,  plus  que  chez  les  autres 
peuples,  la  profession  d'une  classe  particuliere  qui  ne  se  donnait 


i.  VAlcee:  VInno  alia  nave  delle  Muse,  frammento  di  un  poema  abbozzato 
su  «Alceo,  o  la  storia  della  letteratura  in  Italia  dalla  rovina  dell'impero 
d'Oriente  ai  di  nostri».  2.  Dalla  « Revue  encyclopedique  »,  xxxvm  (1828), 
pp.  376-89.  L'articolo  fii  pubblicato  in  occasione  della  prima  traduzione 
francese  del  romanzo  (Paris,  Baudry  et  Fayolle,  1827). 


I0l6  FRANCESCO    SAVERIO    SALFI 

aucune  peine  pour  la  faire  sortir  de  ses  limites.1  Les  hommes  de 
lettres  regardaient  les  autres  hommes  comme  des  profanes,  et 
avec  une  sorte  d'indifference.  L'histoire,  la  com6die,  les  contes, 
tout  ce  qui  etait  plus  specialement  destine  a  Pamusement,  prenait 
ordinairement  un  langage  et  des  formes  qui  annonsaient  que  tout 
etait  fait  par  des  savans  et  pour  des  savans.  Le  peuple  leur  demeu- 
rait  etranger;  il  n'existait  pas  pour  les  ecrivains,  comme  ceux-ci 
n'existaient  pas  pour  lui.  On  s'est  enfin  affranchi  de  cet  ancien 
prejuge,  de  cette  coutume  barbare  qui  pendant  si  long-terns  a 
retarde  les  progres  de  rinstruction  et  de  la  civilisation.  Les  Iitt6- 
rateurs  italiens  sentent,  comme  les  litterateurs  etrangers  qui  les 
ont  devances,  le  devoir  qui  leur  est  impose  de  se  communiquer 
a  toutes  les  classes  de  la  societe;  ils  se  reprochent  d'avoir  neglige" 
la  partie  la  plus  importante  de  leur  ministere,  celle  d'eclairer  les 
peuples  et  de  les  rendre  meilleurs.  Malgre  les  obstacles  que  leur 
opposent  les  fauteurs  de  Pignorance  et  de  la  servitude,  ils  s'ef- 
forcent  de  reparer  cette  omission  par  tous  les  moyens  possibles; 
ils  veulent  done,  ils  demandent  des  romans. 

Ce  besoin  generalement  senti  a  contribue  au  succes  extraor 
dinaire  que  vient  d'obtenir  le  roman  de  M.  Manzoni.  Aux  trans 
ports  qu'ont  manifestos  les  Italiens  a  Papparition  de  cet  ouvrage, 
si  long-terns  attendu,  on  aurait  cru  voir  les  Juifs  se  pressant 
a  la  source  que  Moi'se  fit  jaillir  sous  sa  verge  miraculeuse.  Si  Ton 
ne  connaissait  pas  d'ailleurs  les  talens  et  les  qualit6s  de  M.  Man 
zoni,  on  pourrait  soupconner  que  tout  ce  qu'ont  pense  et  proclam6 
plusieurs  italiens  n'est  que  Feffet  de  Fenthousiasme  ou  du  fana- 
tisme.  Mais  Fenthousiasme  et  le  fanatisme  pourraient-ils  aller  si 
loin,  sans  Faction  d'un  merite  reel  qui  les  eut  excites  ?  D'un  autre 
cot6,  les  etrangers  ont  aussi  contribue,  quoiqu'avec  plus  de  me- 
sure,  a  la  celebrite  de  ce  roman;  et  cela  prouve  assez  qu'elle  njest 
pas  generalement  due,  comme  on  Ta  dit,  a  F  esprit  de  systeme 
ou  de  secte.  Nous  aimons  a  reconnaitre  le  m6rite  reel  de  cette 
nouvelle  production;  et  sans  en  faire  un  objet  d'idolatrie  litteraire, 
comme  Font  fait  quelques  admirateurs  passionnes,  nous  imiterons 
ceux  qui  ont  tache  d'apprecier  le  roman,  en  donnant  a  Tauteur 

i.  La  litter ature  .  .  .  limites:  la  deplorazione  del  distacco  esistente  in  Italia 
fra  i  letterati  e  il  popolo  e  motive  che  ricorre  altre  volte  nell'opera  critica 
del  Salfi,  per  esempio  neirarticolo  Du  genie  des  Italiens,  citato  nella  Nota 
introduttiva. 


REVUE  ENCYCLOPEDIQUE  I0iy 

de  justes  61oges,  qui  n'excluent  point  une  critique  impartiale  et 
meme  severe. 

Le  sujet  du  roman  est  tire  d'une  histoire,  pen  connue,  du  cha- 
noine  Joseph  Ripamonti,1  et  redig6e  dans  le  style  pretentieux  et 
ridicule  du  Secento  (XVIIe  siecle).  Mais  son  importance  a  paru  telle 
aux  yeux  de  M.  Manzoni,  qu'il  a  jug6  utile  de  la  refaire  et  de  la 
reproduire  apres  deux  siecles,  sous  une  forme  plus  ingenieuse  et 
plus  agr6able.  II  ne  parait  pas  n6cessaire  d'en  donner  ici  un  extrait 
trop  etendu;  mais  on  doit  indiquer  au  moins  les  parties  principales 
qui  constituent  le  fonds  de  cette  histoire,  et  qui  seront  Tobjet 
particulier  de  nos  observations. 

La  scene  de  Faction  est  a  Milan  et  dans  ses  environs,  vers 
le  commencement  du  XVIP  siecle.  Renzo  Tramaglino,  jeune 
ouvrier  en  soie,  et  Lucia  Mondella,  jeune  villageoise,  ont  tout 
dispose  pour  se  marier.  Un  de  ces  petits  seigneurs,  si  nombreux 
a  cette  epoque  en  Italie,  et  qui  regardaient  les  gens  du  peuple 
comme  des  etres  destines  a  leurs  plaisirs,  con9ut  le  projet  d'empe- 
cher  ce  mariage  et  de  ravir  Lucia  a  son  amant.  Deux  satellites  de  ce 
seigneur,  nomme  don  Rodrigo,  apres  avoir  menace  de  mort  le  cur6 
don  Abbondio,  s'il  ose  b6nir  1'union  des  deux  jeunes  amans, 
s'appretent,  d'apres  les  ordres  de  leur  maitre,  a  enlever  Lucia;3 
le  bon  cure,  qui  veut  conserver  sa  vie,  se  refuse  aux  desirs  de 
Renzo,  et  allegue  divers  pretextes  pour  differer  la  benediction 
nuptiale.  Cependant  un  saint  capucin,  le  pere  Cristoforo,  ayant  en 
vain  cherche  a  d6tourner  don  Rodrigo  de  son  odieux  projet, 
derobe  les  deux  fianc6s  a  sa  poursuite,  et  les  recommande,  Lucia 
aux  capucins  de  Monza,  et  Renzo  a  ceux  de  Milan. 

Renzo  arrive  dans  cette  ville  au  moment  d'une  6meute  po- 
pulaire,  occasionnee  par  la  famine;  il  s'associe  aux  passions  de 
la  multitude  soulevee;  il  est  surpris  par  les  sbires,  s'echappe  et 
va  se  r6fugier  dans  un  petit  village  du  Bergamasque.  Lucia  trouve 
un  asile  dans  un  couvent  de  Monza,  aupr&s  d'une  grande  dame, 
devenue  religieuse.  Malheureusement  cette  religieuse  etait  une 


i.  Le  sujet. .  .Ripamonti:  il  Salfi  prende  sul  serio  la  nota  finzioneidel 
Manzoni,  e  identifica  addirittura  ranonimo  secentista  con  Giuseppe  Ri 
pamonti,  cronista  milanese  del  Seicento,  che  il  Manzoni  cita  spesso  nelle 
sue  note.  2.  Deux  satellites  .  .  .  Lucia:  qui  il  Salfi  fa  confusione  fra  i  due 
bravi  inviati  a  spaventare  don  Abbondio  e  la  spedizione  comandata  dal 
Griso  in  casa  di  Lucia. 


I0l8  FRANCESCO    SAVERIO    SALFI 

de  ces  victimes  qu'une  situation  violente  et  forcee  irrite  et  deprave. 
Bientot  elle  s'entend  avec  un  seigneur  non  moins  sc616rat  que 
puissant  pour  la  livrer  entre  les  mains  de  don  Rodrigo.  L'histoire 
a  tu  le  nom  de  ce  grand  personnage ;  il  y  parait  sous  celui  de  P A- 
nonyme  (Innominate).  Des  que  cet  illustre  brigand  voit  la  mal- 
heureuse  Lucia,  trainee  dans  son  chateau,  son  attitude,  ses  prieres, 
ses  larmes  excitent  un  sentiment  inconnu  dans  son  coeur;  et  la 
grace  divine  fait  aussitot  de  ce  scelerat  un  penitent,  un  defenseur 
de  sa  victime.  II  court  se  jeter  entre  les  bras  de  1'archeveque 
Fre*d6ric  Borromee,  qui,  faisant  la  visite  de  son  diocese,  se  trou- 
vait  dans  les  environs.  Ce  saint  archeveque  vient  au  secours  de 
cette  ame  egar6e,  reproche  a  don  Abbondio  d'avoir  manque  a 
son  devoir,  et  s'occupe  en  meme  terns  du  sort  des  deux  fiances. 
Lucia  est  conduite  a  Milan  sous  la  protection  d'une  dame  bien- 
faisante,  et  Ton  cherche  Renzo  qui  se  tient  toujours  cache  pres  de 
Bergame. 

Cependant,  la  peste,  introduite  dans  la  Lombardie  par  quel- 
ques  bandes  allemandes,  eclate  a  Milan;  ce  qui  fournit  a  F  arche 
veque  Borromee  1'occasion  de  deployer  ses  vertus  evangeliques. 
Renzo  est  atteint  par  la  contagion,  et  guerit  bientot.  II  cherche  sa 
Lucia  et,  apres  divers  incidens,  il  la  trouve  en  proie  a  la  meme 
maladie  dans  ce  vaste  lazaret  de  Milan,  ou  la  mort  et  la  pitie 
se  disputaient  Is empire.  C'est  la  qu'il  voit  succomber  don  Rodrigo 
et  le  pere  Cristoforo,  le  premier  dans  les  angoisses  du  desespoir, 
et  Tautre  content  de  sacrifier  sa  vie  au  salut  de  ses  semblables. 
Celui-ci,  avant  de  mourir,  a  eu  le  terns  de  degager  Lucia  du  voeu 
imprudent  de  virginit6  que  lui  avait  arrache  Timminence  du  dan 
ger  auquel  elle  voulait  6chapper.  Les  fianc6s  se  presentent  enfin 
devant  leur  cure  qui,  ne  voyant  plus  d'obstacles,  berut  et  consacre 
leur  union. 

Voila  a  peu  pres  tout  le  plan  de  ce  roman;  il  est  si  simple  que 
Tart  semble  n'avoir  rien  ajoute  au  fonds  de  Fhistoire.  Mais  on 
lui  a  trouve  des  qualit6s  si  eminentes  qu'on  Ta  regarde  comme  un 
modele  de  perfection  en  ce  genre.1  Ne  pouvant  les  faire  apprecier 


i.  Mais  .  .  .genre:  allude  probabilmente  al  Giordani,  che  aveva  definite 
«stupendo,  divino»  il  romanzo  come  cclibro  del  popolo»  (cfr.  Opere,  Mi- 
lano  1854-1865,  vi,  p.  15):  giudizio  su  cui  il  Salfi  ironizzava  in  una  lettera 
a  Giuseppe  Poggi,  ritrovata  e  citata  dal  Nardi  (cfr.  La  vita  e  le  opere  di 
F.  S.  Salfi,  cit.,  pp.  243-4). 


REVUE  ENCYCLOPEDIQUE 

toutes,  nous  nous  bornerons  a  Fexamen  de  quelques-unes  qui  se 
rapportent  plus  specialement  a  Fimportance  generate  de  F  ouvrage 
et  au  merite  particulier  de  sa  construction. 

L'auteur,  en  nous  presentant  son  roman,  s'efforce  d'abord  de 
nous  persuader  qu'il  ne  presente  qu'une  histoire.  II  debute  par 
un  fragment  du  manuscrit  de  Ripamonti,  et  fait  ainsi  mieux 
sentir  la  necessite  d'en  reformer  le  style,  afm  d'en  rendre  la  lecture 
supportable  a  ses  contemporains.  II  n'hesite  pas  a  dire  que,  le 
style  excepte,  tout  le  reste  n'appartient  qu'a  son  historien;  et 
c'est  pour  cela  qu'il  a  donne  a  son  travail  le  titre  ft  Histoire  mila- 
naise  du  XVII6  siecle.  Nous  aurions  pardonne  a  tout  autre  qu'a 
M.  Manzoni  cette  denomination  qui  ne  peut  convenir  a  la  nature 
de  son  ouvrage.  Et  comment,  lui  qui  a  manifeste  tant  de  respect 
pour  Fhistoire,1  ne  s'est-il  pas  apercu  qu'il  la  profanait,  en  ap- 
pelant  ainsi  son  roman  ?  Mais  ne  disputons  pas  sur  les  mots :  est-ce 
un  roman  ou  une  histoire  qu'il  a  voulu  nous  donner?  ou  bien 
n'y  a-t-il  plus  de  difference  entre  ces  deux  genres,  qu'on  avait 
regardes  jusqu'ici,  a  la  forme  pres,  comme  £tant  d'une  nature 
tout-a-fait  opposee?  Lors  meme  que  la  partie  historique  domine 
sur  la  partie  romanesque,  comment  le  lecteur  pourrait-il  dis- 
cerner  Tune  de  Fautre,  et  s'assurer  ou  Tune  finit  et  ou  F  autre 
commence?  N'est-ce  pas  Fexposer  a  prendre  le  vrai  pour  le  faux, 
et  a  considerer  Fhistoire  comme  un  roman  ?  Bien  que  nous  soyons 
d'ailleurs  convaincus  que  Fhistoire,  en  general,  tient  du  roman 
plus  qu'on  ne  pense,  nous  n' aurions  jamais  imagine  que  M. 
Manzoni,  qui  Fa  signalee  cornme  la  source  des  verites  les  plus 
importantes,  ait  pu  regarder  comme  indifferent  de  donner  le  nom 
d'histoire  a  son  ouvrage. 

L' observation  que  nous  venons  de  faire  suppose  que  Fou- 
vrage  dont  nous  parlons,  malgre  son  titre,  n'est  reellement  qu'un 
roman.  Mais,  comme  ce  genre  avait  send  pendant  si  long-terns  a 
corrompre  le  coeur  et  Fesprit  des  lecteurs,  M.  Manzoni,  voulant 
lui  donner  une  toute  autre  destination,  y  a  cherche  un  moyen 
de  rendre  Fhistoire  plus  utile  et  plus  agreable.  Le  roman,  dans 
son  systeme,  lui  est  tout-a-fait  subordonn6;  c'est  elle  qui  domine 
partout;  le  peu  meme  que  Fauteur  a  imagine  tient  tellement  du 

i .  lui  .  .  .  histoire :  allude,  qui  e  piu  avanti,  alle  idee  esposte  dal  Manzoni 
nelle  lettere  A  M.  Chauvet  e  Sul  romanticismo,  e  in  genere  allo  scrupolo 
di  documentazione  storica  mostrato  nel  Carmagnola  e 


1020  FRANCESCO    SAVERIO    SALFI 

caractere  des  lieux  et  des  terns  aux  quels  il  se  rapporte,  qu'on 
pourrait  le  regarder  comme  plus  ou  moins  historique.  Jusqu'ici, 
ce  ne  serait  que  la  theorie  de  sir  Walter  Scott;  mais  le  romancier 
italien,  plus  severe  encore  que  le  romancier  ecossais,  au  lieu  de 
faire  servir  Phistoire  au  roman  a  consacre  et  meme  sacrifie  le  roman 
a  Thistoire.  Selon  sa  methode,  M.  Manzoni  a  retrace  un  tableau 
historique  de  la  Lombardie,  vers  Pepoque  de  1630.  C'est  de  la 
qu'il  croit  tirer  des  Ie9ons  tres  utiles  pour  ses  compatriotes  et  ses 
contemporains;  c'est  done  de  ce  genre  de  faits  et  d'idees  que  doit 
resulter  Pinteret  le  plus  general  de  son  roman. 

II  nous  pr6sente  la  conduite  de  ces  petits  seigneurs  qui,  mai- 
tris6s  et  avilis  par  des  seigneurs  plus  puissans,  cherchaient  a  s'en 
dedommager  sur  le  peuple  qu'ils  opprimaient  a  leur  tour.  Ren- 
fermes  dans  leurs  vieux  chateaux,  et  ne  reconnaissant  d'autre  loi 
que  la  force  ou  le  privilege,  ils  cornmandaient  a  une  foule  d'as- 
sassins,  leurs  satellites  favoris,  qui  se  tenaient  toujours  prets  a 
satisfaire  leurs  plaisirs  ou  leurs  vengeances.  Nous  ne  considerons 
pas  ici  les  avantages  que  les  beaux-arts  peuvent  tirer  de  ces 
afHigeans  souvenirs.  Mais,  comme  les  progres  de  la  philosophic 
et  de  la  civilisation  ont  fait  entierement  disparaitre,  dans  PItalie, 
cette  race  d'etres  malfaisans,  nous  pensons  que  de  tels  souvenirs 
seront  plutot  curieux  et,  si  Ton  veut,  agreables  qu'utiles  a  la 
g£neration  actuelle;  car  les  lecteurs  n'ayant  plus  a  corriger  de 
tels  vices  ni  a  craindre  de  tels  dangers,  Teffet  de  ces  tableaux  ne 
peut  etre,  a  cet  egard,  que  tres  mediocre  et  presque  nul.  Mais 
Tauteur  fait,  avec  plus  de  succes,  ressortir  de  cette  sorte  d'oppres- 
sion  qui  n'existe  plus,  un  genre  de  vertus  chr6tiennes  qui  se  font 
toujours  respecter,  telles  que  la  charite,  la  bienfaisance,  le  pardon 
des  injures,  le  repentir  des  fautes,  et  principalement  la  resignation, 
etc.  II  cherche  les  exemples  les  plus  edifians,  surtout  parmi  les 
ecclesiastiques  et  les  religieux;  c'est  dans  cette  classe  qu'il  nous 
fait  admirer  1'archeveque  Borromee,  le  pere  Cristoforo  et  les 
capucins,  qui  paraissent  les  heros  du  roman;  partout  ailleurs  on 
ne  voit  que  des  bassesses,  des  vices,  des  crimes,  ou  tout  au  plus 
quelques  traits  d'innocence  villageoise  et  grossiere.  Lors  meme 
que  la  grace  prepare  et  acheve  la  conversion  de  quelque  p6cheur, 
le  principal  merite  en  est  du  aux  hommes  d'eglise. 

Nous  respectons  la  purete  des  sentimens  de  M.  Manzoni; 
mais  nous  remarquons  qu'en  nous  donnant,  d'un  cot6,  1'idee  la 


REVUE   ENCYCLOPEDIQUE  IO2I 

plus  rebutante  et  malheureusement  la  plus  vraie  de  cette  epo- 
que,  il  semble,  de  Fautre,  vouloir  nous  insinuer  pour  ces  saints 
personnages  1' opinion  la  plus  favorable.  Cette  intention  pieuse 
devient  d'autant  plus  frappante  que  PItalie,  depuis  quelque  terns, 
sulvant  la  tendance  du  siecle,  se  montrait  degoutee  de  ces  insti 
tutions  monastiques  dont  les  pratiques  aussi  austeres  que  steriles 
et  plus  encore  les  imperfections,  devenues  presque  generates, 
avaient  fait  oublier  leur  merite.  II  a  done  cherche  a  reparer  le 
tort  qu'on  leur  faisait;  et  certes,  sous  ce  rapport,  on  ne  saurait  si 
gnaler,  depuis  bien  des  annees,  un  apologiste  plus  zele  et  plus 
61oquent  des  institutions  monacales  que  M.  Manzoni. 

Mais  parlons  franchement.  Est-ce  de  moines  que  PItalie  a  le 
plus  besoin  pour  prosperer  de  nos  jours  ?  Faut-il  la  faire  soupirer 
apres  ces  bons  capucins  du  XVIIe  siecle  pour  satisfaire  aux  be 
soms  du  XIXe  ?  Voulant  nous  donner  une  idee  de  cette  malheureuse 
epoque  de  PItalie,  n'aurait-il  pas  du  plutot  y  chercher  des  cir- 
constances  historiques,  non  moins  dignes  d'attention  et  bien  plus 
appropriees  a  P£tat  actuel  de  ses  habitans?  Nous  pensons,  au 
contraire,  que  Phistoire  de  ce  terns  aurait  pu  lui  fournir  des  evene- 
mens,  des  personnages,  des  caract&res  d'un  plus  grand  int£ret, 
et  dont  on  aurait  tire  des  Ie9ons  encore  plus  instructives.  Quand, 
dans  son  roman,  ces  brigands  hideux  viennent  si  souvent  me 
fatiguer,  et  qu'il  ne  m'offre  d'autre  antidote  pour  en  temperer 
Timpression  fslcheuse  que  ces  capucins  qui  en  sont  le  contraste, 
je  ne  puis  m'emp§cher  de  me  dire:  pourquoi  un  ecrivain  si  ha 
bile  qui  a  su  tant  profiter  d'un  sujet,  sous  quelques  rapports,  si 
peu  favorable  et  si  mesquin,  n'a-t-il  pas  porte  son  attention  sur 
Tinterdit  de  Venise?1  N'y  aurait-il  point  trouv6  des  brigands,  des 
moines,  des  personnages  de  tout  rang,  et  tous  d'une  plus  haute 
importance,  tels  que  fra  Paolo  et  fra  Fulgenzio,  le  senateur  Mo- 
lino  et  le  patricien  Sagredo,2  meme  les  j^suites  et  les  capucins? 
II  y  aurait  aussi  rencontre  ce  respectable  Galilee  que  la  plupart 

i.  V inter dit  de  Venise:  1' inter detto  scagliato  da  Paolo  V  nel  1606  contro 
Venezia,  che  si  era  rifiutata  di  consegnare  al  tribunale  ecclesiastico  due 
preti  colpevoli  di  delitti  comuni.  A  questa  lotta  fra  Venezia  e  il  papa  il 
Salfi  da  particolare  rilievo  neWHistoire  litter  air  e  d' Italic  (cfr.  xi,  pp.  28-31). 
'Z.Paolo  Sarpi;  Fulgenzio  Micanzio  (1570-1664),  scolaro  e  collaboratore 
del  Sarpi;  Domenico  Molino  (1573-1635),  che  avrebbe  aiutato  il  Sarpi 
in  alcuni  suoi  studi;  Gianfrancesco  Sagredo  (1571-1620),  scolaro  ed  amico 
di  Galileo. 


1022  FRANCESCO   SAVERIO   SALFI 

des  moines  de  ce  terns,  particulierement  les  j6suites,  persecutaient 
et  proscrivaient,  parce  qu'il  leur  avait  demontre  les  plus  grands 
phenomenes  de  Funivers.  La  peste  avait  encore  envahi  la  Toscane; 
et  le  grand-due  Ferdinand  II,  sans  etre  eveque,  faisait  a  Florence 
ce  que  Farcheveque  Borromee  faisait  a  Milan.  On  aurait  meme 
trouve,  dans  le  royaume  de  Naples,  ce  pere  dominicain,  Thomas 
Campanella,  qui  avait  ose  etablir  une  r6publique  au  milieu  des 
montagnes  de  la  Calabre.1  II  etait  aussi  entoure  et  suivi  de  barons, 
d'eveques,  de  moines  et  de  bandits.  Quel  parti  le  genie  de  M. 
Manzoni  n'aurait-il  point  tire  de  F  aspect  romantique  de  cette 
partie  de  la  peninsule,  ainsi  que  des  caracteres,  des  opinions  et 
des  moeurs  de  ses  habitans  ?  II  me  semble,  ou  je  me  trompe  fort, 
que  de  tels  ev6nemens  auraient  presente  plus  de  singularity  et 
plus  d'importance. 

Mais  puisqu'on  aime  a  retracer  les  circonstances  historiques  de 
certains  siecles,  que  chaque  romancier  emprunte  de  Fhistoire  le 
sujet  qui  lui  plait  le  mieux,  nous  respectons  sa  liberte.  Nous 
pretendons  seulement  que,  des  qu'il  a  choisi  un  sujet  et  le  genre 
sous  les  formes  duquel  il  veut  le  pr6senter,  il  ne  peut  plus  se 
dispenser  de  suivre  les  lois  que  lui  impose  la  nature  du  sujet  et 
du  genre  qu'il  a  choisis. 

Nous  avons  deja  remarque  que  Fhistoire  est  la  base  du  roman 
de  M.  Manzoni.  C'est  la,  dit-il,  qu'il  a  emprunt6  les  caracteres 
du  pere  Cristoforo,  de  la  dame  religieuse,2  du  grand  seigneur 
Anonyme  et  de  Farcheveque  Borromee,  ainsi  que  la  descente  des 
troupes  allemandes,  la  disette  et  Femeute  populaire  de  Milan, 
et  specialement  la  peste  qui  ravagea  la  Lombardie  pendant  cette 
funeste  epoque.  II  a  ensuite  combine  ensemble  tous  ces  evenemens 
sans  les  alterer  et  sans  en  changer  Fordre.  La  fable  qu'il  a  imaginee 
ne  lui  sert  qu'a  faire  paraitre  ces  personnages  Fun  apres  Fautre, 
et  a  decrire  ces  evenemens  tels  que  Fhistoire  nous  les  avait  transmis. 
C'est  en  cela  precisement  que  M.  Manzoni  differe  de  Walter  Scott. 
Celui-ci  emprunte  a  Fhistoire  ses  materiaux  pour  composer  sa 
fable;  le  romancier  italien  invente  la  fable  pour  la  faire  servir 
uniquement  a  Fhistoire.  On  trouve  sans  doute  dans  la  methode 
de  ce  dernier  une  nouvelle  preuve  de  son  originalit6;  nous  crai- 

i.  qui  avait  ose  .  .  .  Calabre:  allude  alia  congiura  religiosa  e  politica  contro 
il  governo  spagnolo,  che  il  Campanella  capeggi6  in  Calabria,  e  che  fu 
scoperta  nel  1599.  2.  la  dame  religieuse:  la  monaca  di  Monza. 


REVUE   ENCYCLOPEDIQUE 

gnons  n£anmoins  que,  tout  occupe  de  1'interet  de  1'histoire,  il 
n'ait  trop  neglige  celui  du  roman;  car  quelque  forme  que  Ton 
veuille  lui  donner,  quelque  but  qu'on  se  propose  d'atteindre,  il 
ne  cessera  pas  d'etre  un  ouvrage  de  Tart,  et  comme  tel  il  sera 
toujours  subordonne  a  des  lois  qui  emanent  de  sa  nature,  et  qu'on 
ne  peut  negliger  impunement. 

Ces  lois  imposent  1'obligation  d'employer  les  moyens  les  mieux 
appropries  a  1'objet  qu'on  a  en  vue,  et  les  plus  efficaces  pour 
exciter  et  soutenir  1'interet  des  lecteurs.  De  la  resulte  la  necessite 
de  donner  a  1' attention  un  point  central  de  tendance  sur  lequel  elle 
puisse  se  porter,  et  un  espace,  un  nombre  d'objets  a  parcourir, 
qu'elle  puisse  embrasser  sans  effort.  Qu'on  nous  permette  de 
rappeler  ici  un  principe  si  necessaire,  d'ou  dependent  presque  tous 
les  elemens  des  beaux-arts,  et  que  des  novateurs  inconsideres  af- 
fectent  de  meconnaitre.  C'est  d'apres  ce  principe  qu'on  est  oblige 
d'observer  dans  toute   composition   1'accord,  la  proportion,  la 
dependance  des  parties,  1'ensemble  du  tout,  enfin  ce  qui  con- 
stitue  son  essence;  car,  en  s'ecartant  de  ces  lois,  au  lieu  de  com 
poser  on  ne  ferait  que  decomposer.  On  a  beau  alleguer  les  raisons 
les  plus  specieuses,  la  variete  in6puisable  de  la  nature,  le  con- 
traste  saillant  de  ses  phenomenes,  1'importance  de  tout  ce  qui 
est  vrai  et  reel,  ces  raisonnemens  pourront  seduire  quelques  esprits 
superficiels  et  faire  quelques  adeptes;  mais,  dans  la  pratique,  le 
lecteur  s'ennuiera  toujours  de  cette  multitude  d'objets  heterogenes 
qui,  au  lieu  de  concentrer  1'attention,  la  dispersent  et  la  fatiguent. 
Tel  est,  selon  nous,  le  vice  dominant  de  la  plupart  des  productions 
romantiques  de  nos  jours.  Nous  1'avions  deja  aper$u  dans  les 
deux  tragedies  de  M.  Manzoni,  Carmagnole  et  Adelguis,  malgr6 
les  beautes  qu'on  y  trouve;1  mais  il  nous  blesse  plus  encore 
dans  son  roman.  Nous  indiquerons  quelques-unes  des  incohe 
rences  qui  nous  paraissent  les  plus  frappantes. 

Des  que  Renzo  et  Lucia  ont  echapp6  aux  poursuites  de  don  Ro- 
drigo,  ils  se  separent.  Le  premier  arrive  a  Milan,  et,  comme  s'il  n'y 
etait  venu  que  pour  figurer  parmi  les  revokes,  il  s'associe  a  leurs 

i  Nous  Vavions  .  .  .  trouve:  nella  sua  recensione  al  Carmagnola  (pubblicata 
nella  « Revue  encyclop^dique »,  vi,  1820,  pp.  344-So)  il  Salfi,  pur  lodando 
il  Manzoni  per  la  sua  « morale  patriotique  et  pure»  e  per  aver  trasportato 
«sur  la  scene  les  fastes  de  1* Italic)),  lo  aveva  cortesemente  nchiamato  ad 
una  piu  stretta  osservanza  deUe  regole  tradizionali  del  teatro  classico. 


1024  FRANCESCO    SAVERIO   SALFI 

actes.  Fatigue,  il  entre  dans  une  auberge ;  la  il  s'enivre,  et  ses  propos 
imprudens  le  signalent  aux  agens  de  la  police.  Saisi  par  des  sbires, 
il  reussit  a  s'echapper  de  leurs  mains,  et  a  trouver  un  asyle  dans  la 
province  de  Bergame.  L'auteur  emploie  une  grande  partie  d'un 
volume  pour  retracer  les  menaces,  les  precedes  et  les  discours 
d'une  populace  effrenee.  II  nous  occupe  de  personnages  si  vul- 
gaires  qu'il  n'est  pas  possible  de  les  tolerer  long-terns.  Lors  meme 
ques  ses  longues  digressions  pourraient  nous  attacher  par  un  me-- 
rite  d'un  autre  genre  dont  elles  ne  sont  point  depourvues,  elles 
auraient  toujours  Finconvenient  de  nous  ecarter  de  Fobjet  prin 
cipal,  et  de  lasser  la  patience  du  lecteur. 

On  peut  f aire  la  meme  remarque  sur  ce  qui  concerne  la  dame  reli- 
gieuse  que  Lucia  rencontre,  pour  son  malheur,  dans  la  ville  de  Mon- 
za.  L'histoire  de  ce  nouveau  personnage  est  si  etendue,  si  complete, 
si  interessante,  qu'elle  se  trouve  comme  isolee  et  ne  peut  appartenir 
a  T ensemble  de  Fouvrage.  Lors  meme  que  Fauteur  aurait  reussi 
a  rendre  ce  personnage  plus  utile  au  developpement  de  Faction 
generale,  Fimportance  du  recit  episodique  qu'il  introduit  dans  le 
roman  aurait  toujours  pour  effet  d'eclipser  les  autres  incidens. 
Nous  laissons  au  gout  des  lecteurs  a  decider  si  F  episode  du  sei 
gneur  Anonyme,  plus  frappant  encore  par  sa  singularit6,  ne  merite 
pas  la  meme  critique.  Mais  comment  excuser  le  passage  des  troupes 
allemandes,  aussi  inutiles  au  roman  qu' elles  etaient  necessaires 
pour  la  prise  de  Mantoue?  Nous  sentons  que  cet  6pisode  amene 
un  tableau  tres  remarquable  des  ravages  causes  par  les  troupes 
etrangeres  qui  traversent  la  malheureuse  Italic;  et  pour  Faction 
du  roman  il  contribue  a  motiver  Fintroduction  de  la  peste  dans 
la  Lombardie:  ce  qui  ne  nous  parait  pas  le  justifier  suffisamment. 

Que  dirons-nous  maintenant  de  la  description  de  la  peste 
qui  forme  la  partie  principale  et  la  plus  detaillee  du  roman? 
C'est  au  milieu  de  cet  affreux  spectacle  que  reparaissent  enfin 
Farcheveque  Borromee,  le  pere  Cristoforo,  Renzo,  Lucia,  don  Ro- 
drigo.  Quelque  parti  que  Fauteur  ait  su  tirer  de  cet  evenement 
historique,  la  description  en  est  trop  minutieuse  et  trop  monotone. 
Qu'on  dise  tant  qu'on  voudra  que  ce  recit  est  historique,  qu'il 
est  vrai,  naturel . . .  En  le  considerant  sous  le  rapport  de  Fart, 
nous  soutiendrons  qu'on  ne  pourra  se  plaire  a  la  longue  a  ce 
genre  de  spectacle.  II  peut  bien  etre  le  sujet  d'une  meditation, 
mais  non  celui  d'un  roman. 


REVUE   ENCYCLOPEDIQUE  1025 

Ce  qui  rend  cette  histoire  plus  repoussante  encore,  c'est  Pin- 
tervention  des  fossoyeurs  que  Fauteur  fait  agir  et  parler  trop 
longuement.  Shakespeare  s'etait  permis  de  nous  presenter  pour 
quelques  instants  ces  dignes  personnages  s'entretenant  entre  eux. 
D'apres  son  exemple,  M.  Manzoni  est  alle  bien  avant:  il  nous 
apprend  leurs  occupations,  leurs  friponneries,  leurs  bassesses.  Ces 
details,  quelles  que  soient  les  beautes  qui  s'y  melent,  sont  trop 
hideux.  Sans  doute  une  de  ces  beautes  est  la  scene  ou  Ton  voit 
une  mere  deso!6e,  qui,  apres  avoir  livre  le  corps  d'une  de  ses 
filles  aux  fossoyeurs,  va  soigner  Pautre  et  mourir  avec  elle  pour 
etre  ensevelies  ensemble.1  Cette  scene,  vraiment  touchante,  et  qui 
prouve  ce  que  peut  Fauteur,  lorsque  Tart  avoue  ses  inspirations, 
nous  fait  eprouver  davantage  Phorreur  de  ce  qui  la  precede  et  de 
ce  qui  la  suit. 

On  pourrait  regarder  les  digressions,  les  hors  d'oeuvre  nom- 
breux  qui  deparent  F  ensemble  de  Fouvrage,  comme  autant  d'e- 
preuves  qu'il  faut  subir  pour  rejoindre  Fobjet  principal.  Enfin, 
on  arrive  tout  fatigue  a  la  reunion  tant  d6siree  de  Renzo  et  de 
Lucia;  on  assiste  a  la  benediction  de  leur  mariage  pour  lequel 
la  Providence  a  deroule  de  si  grands  evenemens.  Mais  on  est  desa- 
greablement  surpris,  lorsqu'il  faut  suivre  encore  les  deux  jeunes 
maries,  qui,  mecontens  de  F  aspect  terrible  et  des  tristes  souvenirs 
de  leurs  pays  natal,  cherchent  tantot  dans  un  village,  tantot  dans 
Fautre,  un  sejour  plus  convenable  pour  jouir  de  leur  amour  et  de 
leur  union.  N'est-ce  pas  une  nouvelle  digression  d' autant  plus 
choquante  que  tout  Finteret  du  roman  n'existe  plus,  et  qu'elle 
n'en  a  guere  par  elle-meme  ? 

Qu'il  nous  soit  encore  permis  d'observer  que  cette  sorte  d'in- 
coherence  qu'on  aper9oit  dans  les  parties  principales  de  ce  roman, 
devient  plus  sensible  par  le  peu  de  proportion  qu'ont  entre  eux 
la  plupart  des  personnages  et  des  6venemens.  Nous  ne  voulons 
pas  neanmoins  nous  en  laisser  imposer  par  ces  regies  pedantesques 
de  proportion  et  de  symetrie  qui  ont  domine  si  long- terns,  et 
dont  le  resultat  etait  souvent  une  monotonie  fatigante;  mais  un 
tableau  qui  nous  repr6sente  si  pres  les  uns  des  autres  des  objets, 
des  personnages,  des  caracteres  si  differens  par  leur  rang,  leur 
importance  et  leur  conduite,  ne  saurait  nous  plaire,  surtout  lorsque 

i.  la  scene .  .  .  ensemble:  1' episodic  della  madre  di  Cecilia,  nel  cap.  xxxrv 
del  romanzo. 

6s 


1026  FRANCESCO    SAVERIO   SALFI 

Tart  n'a  rien  6pargn6  pour  que  chacun  d'eux  nous  interesse  £gale- 
ment.  II  faut  leur  donner  cette  espece  d'harmonie  qu'on  cherche 
dans  1' assortment  des  couleurs  et  des  sons.  Rapprochez  1'archeve- 
que  Borrom.ee,  le  seigneur  Anonyrne,  la  dame  religieuse,  le  pere  Cri- 
stoforo  de  Renzo,  de  don  Abbondio,  de  Lucia,  de  Perpetua,  sa 
servante,  des  fossoyeurs,  des  assassins,  leur  ensemble  presente 
je  ne  sais  quoi  de  choquant.  En  voyant  ces  grands  personnages 
au  milieu  de  ces  etres  si  vulgaires  et  si  bas,  et  qui  aspirent  a 
jouer  un  role  aussi  important,  ne  semblerait-il  pas  voir  autant 
de  geans  au  milieu  de  nains  ?  Les  dissonances  dont  on  a  quelque- 
fois  profite  pour  faire  mieux  sentir  les  charmes  de  1'harmonie  ne 
sont  que  des  traits  passagers  qui  disparaissent  aussitot  qu'ils  ont 
servi  a  relever  P impression  dominante  qu'on  voulait  produire. 
Mais,  qu'arriverait-il  si  une  piece  de  symphonic  n'etait  composee 
que  de  dissonances? 

D'apres  ces  observations,  il  nous  semble  qu'il  faut  regarder  le 
roman  de  M.  Manzoni  comme  une  suite  de  petits  romans,  dont 
chacun  est  d'autant  plus  detache  de  1'autre  qu'il  est  parfait  dans 
son  genre.  On  dira  que  c'etait  1'intention  de  Tauteur,  et  nous  dirons 
aussi  qu'il  aurait  eu  un  plus  grand  succes  s'il  avait  suivi  une 
methode  plus  reguliere.  Ne  lit- on  pas  avec  plaisir  les  contes  de 
Boccace  et  de  La  Fontaine,  ceux  meme  du  pere  Bandello,  quoique 
Tun  de  leurs  contes  ne  depende  jamais  de  Tautre,  et  qu'ils  soient 
d'un  genre  different?  On  parcourt  de  meme  une  simple  chronique 
ou  les  evenemens  se  trouvent  ordinairement  lies  par  des  noeuds 
peu  apparens.  Enfln,  toute  sorte  de  recueils  peut  nous  interesser; 
mais  dans  un  long  roman,  dans  une  composition  ing6nieuse, 
dans  un  ouvrage  quelconque  de  1'art,  nous  cherchons  un  autre 
interet  que  celui  du  melange  des  contes  et  de  Thistoire:  c'est  ce 
que  nous  attendions  et  attendrons  toujours  du  talent  de  M. 
Manzoni;  car,  tant  qu'on  ne  changera  pas  la  nature  des  hommes 
et  des  choses  qui  a  attache  le  plaisir  plutot  a  certains  objets  et  a 
certaines  combinaisons  qu'a  d'autres,  nous  nous  attacherons  tou 
jours  de  preference  a  ces  objets  et  a  ces  combinaisons. 

Mais  M.  Manzoni  parait  si  preoccupe  des  avantages  de  sa 
theorie,  qu'il  semble  avoir  pris  a  tache  de  se  livrer  a  des  digressions 
encore  plus  etranges,  que  Ton  pourrait  appeler  didactiques  et 
savantes.  Tel  personnage  parait  a  peine,  que  Tauteur  ne  perd  pas 
F occasion  d'en  inserer  la  biographie  dans  son  roman.  II  entre 


REVUE   ENCYCLOPEIDIQUE  I02J 

souvent  dans  des  discussions  critiques  qui  ne  sont  nl  n6cessaires 
ni  utiles.  A  peine  le  roman  est-il  commence,  qu'il  s'arrete  pour 
prouver,  par  de  longs  documens  historiques,  P  existence  de  ces 
braves  qui,  sous  divers  noms,  comme  de  bulli  dans  Brescia,  de 
bandits  dans  les  etats  de  1'figlise  et  de  Naples,  etc.,  etaient  aussi 
generalement  cormus  dans  PItalie  que  les  moines.  Meme  di 
gression  sur  les  mesures  employ6es  pour  arreter  la  disette,  sur 
les  recherches  des  causes  de  Pinvasion  de  la  peste,  etc.  Si  Ton 
ne  savait  d'ailleurs  que  le  livre  a  6t6  imprime  sous  les  yeux  de 
Fauteur,  ne  soup£onnerait-on  pas  que  ces  commentaires,  bien 
qu'instructifs,  ont  ete  glisses  dans  le  texte  par  Fimperitie  et  la 
negligence  de  Fediteur? 

On  pourrait  trouver  aussi  ce  caractere  d'incoh.6rence  dans  plu- 
sieurs  details,  dans  quelques  dialogues,  dans  quelques  descriptions 
et  dans  le  style  lui-meme.  L'auteur,  en  general,  peche  par  re- 
dondance,  ce  qui  P expose  a  une  sorte  de  superflu  qui  est  aussi 
une  digression  a  nos  yeux.  Lors  meme  qu'on  souffre  ce  long 
interrogatoire  ou  Farcheveque  Borrom6e  demande  compte  au  cure 
don  Abbondio  de  Fexercice  de  son  ministere,  qui  pourrait  enten 
dre  sans  etre  fatigue  ces  longs  et  frequens  entretiens  de  gens 
incultes  et  grossiers?  Ce  n'est  pas  la  le  verbiage  qu'on  reproche 
a  la  plupart  des  auteurs  italiens;  le  style  de  M.  Manzoni  n'est 
jamais  vide:  il  est  approprie  aux  personnes  et  aux  circonstances ; 
il  dit  toujours  quelque  chose;  mais  son  esprit  est  si  fecond  qu'il 
se  laisse  aller  sans  effort,  et  donne  d'autant  plus  dans  ce  genre 
d'abondance  qu'il  a  adopte  le  style  descriptif,  ce  style  meme  qui 
exposa  a  un  pareil  danger  Ovide  parmi  les  anciens,  Marini,  le 
pere  Ceva1  et  d'autres  italiens  parmi  les  modernes. 

Nous  avons  franchement  expos6  notre  maniere  de  penser  sur 
le  roman  de  M.  Manzoni.  Les  qualites  de  cet  estimable  ecrivain 
n'ont  pas  besoin  de  ce  genre  de  menagemens  qui  ne  conviennent 
qu'a  des  auteurs  mediocres.  Nous  avons  signale  surtout  une  espece 
d'imperfections  qui  semblent  appartenir  moins  a  lui  qu'au  systeme 

i.  le  pere  Ceva:  al  Puer  Jesus,  alia  Philosophia  novo-antigua  e  alle  altre 
opere  latine  del  padre  Tommaso  Ceva  (1648-1737)  il  Salfi  dedica  parec- 
chie  pagine  della  sua  continuazione  dell'Histoire  litteraire  d'ltatie  del 
Ginguene  (xiv,  pp.  206-7  e  257-73),  polemizzando  a  volte  con  le  sue  idee, 
ma  dando  nel  complesso  giudizio  positive  sulle  sue  capacita  di  scrittore. 
Piu  ancora  egli  lo  rispetta  quale  critico,  come  dimostra  il  giudizio  del 
Re'sume,  riportato  anche  in  questo  volume  a  p.  988. 


1028  FRANCESCO    SAVERIO   SALFI 

bizarre  qu'il  a  suivi.  Nous  rendrons  en  meme  terns  homrnage 
a  ses  connaissances  et  a  ses  talens.  Nous  avons  apprecie  la  con 
ception  de  ces  beaux  caracteres,  ces  situations  pathetiques,  spe- 
cialement  lorsque  Tauteur  ne  se  fait  point  de  scrupule  de  s'aban- 
donner  a  toute  1'energie  de  la  passion,  ces  traits  saillans,  ces 
comparaisons  neuves,  surtout  lorsqu'elles  ne  sont  pas  trop  inge- 
nieuses  ni  trop  recherchees,  ces  monologues  sombres  et  pro- 
fonds,  ces  tableaux  si  pleins  de  mouvement  et  de  vie.  Aucune 
de  ces  beautes  ne  nous  est  echappee;  mais  ces  beautes  memes 
nous  font  regretter  que  M.  Manzoni  n'ait  pas  suivi  un  systeme 
plus  severe  et  plus  regulier  que  Pexperience  et  la  raison  ont  con- 
sacre,  malgre  les  efforts  qu'on  fait  pour  le  rejeter.  Qu'il  meprise 
quelques  pretentions  de  rhetoriciens  routiniers,  nous  serons  d'accord 
avec  lui ;  mais  qu'il  ne  se  laisse  pas  aller  non  plus  jusqu'a  Texces 
contraire,  malgre  les  eloges  de  ceux  qui  celebrent  plutot  leur  secte 
que  ses  talens.  Voila  du  moins  notre  opinion;  telle  qu'elle  est, 
elle  ne  diminuera  jamais  Testime  que  ses  qualites  intellectuelles 
et  morales  nous  ont  depuis  long- terns  inspiree. 


FRANCESCO  MILIZIA 


NOTA  INTRODUTTIVA 

Nato  nel  1725  ad  Oria,  «piccola  citta  di  terra  d'0tranto»  -  come 
egli  stesso  racconta  in  alcune  Notizie  sulla  propria  vita,  pubblicate 
postume  -,  discendente  «unico  della  piu  nobile  e  ricca  famiglia 
di  quella  bicocca»,  Francesco  Milizia  manifesto  fin  dalla  prima  gio- 
vinezza  una  indole  risentita  e  indipendente.  Inviato  a  nove  anni 
presso  uno  zio  medico  stabilito  a  Padova,  dopo  aver  studiato  qui 
«assai  male  le  belle  lettere»,  a  sedici  anni,  irritato  dai  rimproveri 
dello  zio  e  spinto  dal  suo  temperamento  awenturoso,  fuggi  di  casa 
e  prese  a  girovagare  per  T Italia  settentrionale,  sostando  per  qual- 
che  tempo  a  Bobbio,  a  Pavia  e  a  Milano.  Dal  padre,  venuto  a  ri- 
prenderlo,  ottenne  di  fermarsi  a  Napoli,  dove  pote  studiare  «un 
poco  di  logica  e  metafisica  sotto  il  celebre  abate  Genovesi  e  la 
fisica  e  la  geometria  sotto  il  p.  Orlandi»,  e  dove  ebbe  a  condi- 
scepolo,  fra  gli  altri,  Ferdinando  Galiani  e  strinse  amicizia  col 
fratello  di  lui,  Bernardo.  Ma  anche  da  Napoli  voile  andarsene  «per 
voglia  di  vedere  il  mondo  e  in  particolare  la  Francia»;  non  giunse 
per6  che  a  Livorno,  dove  fu  costretto  ad  arrestarsi  per  mancaixza  di 
danaro.  Ripatriato  ad  Oria,  si  ritiro  dapprima  in  una  casa  di  cam- 
pagna  «per  studiare  le  scienze»;  poi,  sposatosi,  si  trasferi  a  Galli- 
poli  «con  qualche  applicazione  ai  libri,  ma  piu  all'allegria»;  finche, 
strappato  al  padre  « un  piu  comodo  assegnamento »,  pass6  a  Roma, 
e  qui  si  stabili  definitivamente  nel  1761  per  rimanervi,  salvo  qual 
che  gita  a  Napoli  per  affari  o  per  diporto,  fino  alia  morte,  awe- 
nuta  nel  marzo  del  1798.  La  sua  posizione  nelPambiente  poli 
tico  e  religioso  di  Roma  e  documentata  abbastanza  chiaramente 
dalle  sue  lettere  airarchitetto  Tommaso  Temanza  e  soprattut- 
to  al  conte  Francesco  di  Sangiovanni,  al  quale  egli  apriva  piu  vo- 
lentieri  il  suo  intimo  pensiero.  Colpiscono  in  queste  lettere  Pa- 
sprezza  e  la  ferocia  addirittura  dei  suoi  giudizi  non  solo  sui  gesuiti, 
dei  quali  egli  si  augura  e  poi  saluta  con  gioia  la  soppressione,  ma 
anche  su  papi  e  cardinal!  e  in  genere  su  quasi  tutti  i  principal! 
personaggi  della  vita  romana  contemporanea;  nella  quale  -  egli 
scriveva  per  esempio  al  di  Sangiovanni  -  «regna  universalmente 
il  nulla :  nulla  per6  gravido  di  gran  conseguenze,  le  quali  se  non  sa- 
ranno  strepitose,  saranno  infallibilmente  fatali  a  questo  paese  che 
se  ne  va  precipitosamente  alPingiu».  Ma  per  quanto  sprezzanti  e 


1032  FRANCESCO   MILIZIA 

pessimistic!  possano  apparire  tali  giudizi,  non  direi  che  essi  ri- 
flettano  veramente,  come  qualche  studioso  ha  pensato,  «una  an- 
siosa  aspettazione  giacobina»,  una  « inquietudine  non  preroman- 
tica,  ma  rivoluzionaria»,  quanto  piuttosto  da  un  lato  lo  sdegno  di 
un  ((franco  divolgatore  della  filosofia  del  secolo  XVIII »  (Ugoni), 
esasperato  dallo  spettacolo  di  corruzione  e  di  oscurantismo  offerto 
dalla  Roma  contemporanea,  e  dalPaltro  Festro  di  un  polemista  di 
razza,  in  fondo  non  dispiaciuto  di  tante  occasioni  offerte  alia  sua 
caustica  ferocia.  « Desidererei ...»  egli  scrive  per  esempio  al  di 
Sangiovanni  «che  Roma  fosse  fertile  di  awenimenti  strepitosi, 
come  lo  e  di  coroncine  e  di  medaglie,  per  cosi  avere  il  piacere 
di  trattenermi  secolei  con  la  immaginativa  qualche  ora  d'ogni  set- 
timana».  Non  risulta  in  ogni  modo  che,  per  quanto  non  nasconda 
le  sue  simpatie  verso  Fantica  liberta  repubblicana,  egli  sia  stato 
dawero  in  relazione  con  i  futuri  giacobini  romani:  tali  non  erano 
certamente  ne  monsignor  Bottari,  malgrado  le  sue  tenderize  gian- 
senistiche,  ne  il  d'Azara,  ministro  del  re  di  Spagna  a  Roma,  ne 
il  Mengs,  ne  il  Bianconi,  le  persone  cioe  che,  attraverso  le  lettere, 
vediamo  a  lui  legate  da  piu  cordiali  rapporti  di  amicizia.  Anche 
alia  presenza  del  suo  nome  in  una  lista  -  compilata  probabilmente 
da  Ennio  Quirino  Visconti  e  consegnata  a  Giuseppe  Bonaparte  - 
di  « patriotti »  romani  favorevoli  ai  Francesi,  non  e  forse  il  caso  di 
attribuire  eccessiva  importanza.  Quale  che  fosse  il  suo  atteggia- 
mento  prima  della  venuta  dei  Francesi,  e  certo  che  il  Milizia  non 
appro v6  i  successivi  awenimenti  e  non  prese  parte  attiva  al 
ia  instaurazione  della  Repubblica  Romana;  lo  testimonia  una  let- 
tera,  citata  dalla  Fontanesi,  a  Lorenzo  Lami  Adami  in  data  2 
marzo  1798,  in  cui,  mescolando  sarcasmo  e  aperta  deplorazione, 
scrive:  «La  metamorfosi  di  Roma  e  seguita  con  tutta  tranquil- 
lita  .  . .;  qualche  centinaio  di  morti  e  feriti:  un  altro  centinaio  ar- 
restato  dal  popolo  barbaro,  e  fucilati  alia  piazza  del  Popolo  ven- 
tidue .  .  .  Roma  e  tranquilla,  e  la  Repubblica  Romana  fra  i  suoi 
municipalisti  conta  ora  F  ex-abate  Casaro  e  Fesemplare  Solari.  Non 
gia  Milizia.  Egli  si  gode  beato  del  suo  niente,  e  vive  col  divino 
Platone,  perche  si  piange  di  qua  e  si  ride  di  la». 

La  natura  ancora  essenzialmente  illuministica  della  mentalita  del 
Milizia  si  manifesta  comunque  in  modo  diretto  ed  esplicito  nelle 
sue  opere.  Pu6  essere  indicativa  in  tal  senso  anche  la  sua  passione 
per  le  scienze  naturali  ed  esatte,  documentata  dagli  studi  giovanili 


JM01A    IJNTRODIU  1JLVA  JLUJ^ 

di  cui  si  e  fatto  cenno,  ma  anche  e  soprattutto  da  un  gnippo  di 
lavori  compiuti  in  eta  matura:  lavori  di  medicina  (il  trattatello,  in 
parte  tradotto  dalla  « Encyclopedic »,  Del  salasso,  Roma,  Casaletti, 
1770 ;  e  un  ampio  Dizionario  di  medicina  domestica,  rimasto  inedito) ; 
di  matematica  (Elementi  di  matematiche  pure,  Roma,  Casaletti, 
1771);  di  astronomia  (La  storia  deW  astronomia  di  M.  Bailly,  ridotta 
in  compendia,  Bassano,  Remondini,  1791);  una  traduzione  della 
Introduzione  alia  storia  e  alia  geografia  fisica  di  Spagna  di  Gu- 
glielmo  Bowles  (Parma,  Stamperia  Reale,  1783);  e  infine  un  opu- 
scolo  sulla  Economia  pubUica  (Roma,  Petitti,  anno  vi  della  Liberta, 
I  della  Romana  [1798]),  condotto  secondo  i  principii  della  scuola 
fisiocratica.  Ma,  quel  die  piu  importa,  al  pensiero  e  al  gusto  del- 
1'Illuminismo  si  ispira,  almeno  nei  suoi  aspetti  centrali,  quelTat- 
tivita  di  teorico,  di  critico  e  di  storiografo  delle  arti  figurative, 
alia  quale  si  dedico  con  maggiore  impegno,  e  che  qui  soprattutto 
ci  interessa. 

Gli  stretti  rapporti  del  Milizia  con  1'estetica  e  con  la  critica 
illuministica  sono  stati  gia  accennati  dal  Ragghianti  e  dalla  Ga- 
brielli,  ma  non  sara  inutile  soffermarsi  a  dimostrarli  in  modo  piu 
puntuale.  Punto  di  partenza  per  il  Milizia,  come  per  la  maggior 
parte  dei  critici  illuministi,  e  il  concetto  che  le  arti,  e  in  particolare 
le  arti  figurative,  debbano  essere  guidate  dai  principii  e  dalle  regole 
di  una  «sana  filosofia»:  «£  il  filosofo  (nome  sempre  odioso)  che 
porta  la  face  della  ragione  nell'oscurita  de'  principii  e  delle  re 
gole;  a  lui  appartiene  la  legislazione ;  Tesecuzione  e  dell'artista. 
Meschino  artista,  se  non  e  filosofo:  e  piu  meschino  se,  non  essen- 
dolo,  non  vuole  dal  filosofo  lasciarsi  ne  pur  guidare»  (Principii  di 
architettura  civile,  I,  pp.  377-8).  Questa  impostazione  preliminare, 
tipicamente  razionalistica,  si  colora  spesso  di  forti  tinte  empiristi- 
che,  sia  nelle  pagine  teoriche  dei  Principii)  in  cui  ad  esempio  si  af- 
ferma,  riecheggiando  una  famosa  massima  dello  Hume,  che  «il 
Bello  non  e  una  qualita  delle  cose»,  ma  «esiste  meramente  nel- 
rintelletto  di  chi  le  contempla»  (i,  p.  354);  sia  soprattutto  nel- 
Foperetta  DelVarte  di  vedere  nelle  belle  arti  del  disegno  secondo  iprinci- 
pii  di  Suher  e  di  Mengs,  dove,  a  parte  il  titolo  stesso  (probabilmente 
esemplato  su  una  frase  del  Reynolds),  sono  frequenti  dichiarazioni 
che  insistono  sulHdea  che  «bisogna .  . .  per  acquistar  gusto  aver 
veduto  iriolto  e  comparato  molto»  (p.  53).  In  ogni  caso,  dedotti  che 
siano  dalla  ragione  o  dall'esperienza,  esistono,  secondo  il  Milizia, 


1034  FRANCESCO    MILIZIA 

alcuni  principii  validi  per  Farte  di  ogni  tempo  e  luogo:  e  questi 
principii  sono,  come  egli  ripete  spessissimo,  la  simmetria,  che  e  «un 
piacevole  rapporto  fra  le  parti  e  il  tutto»,  Yeuritmia,  che  nasce 
dalla  combinazione  della  varieta  con  Funita,  e  infine  la  convenienza 
o  decoro,  che  risulta  da  «  un  giusto  uso  della  simmetria  e  della  eurit- 
mia»  in  relazione  con  il  contenuto  e  il  fine  dell' opera.  Compito 
delFartista  sara  quindi  applicare  questi  canoni  quando  «imita)>  la 
natura,  trascegliendone  e  combinandone  insieme  le  parti  piu  belle 
fino  ad  ottenere  quel  (ctutto  perfetto»  che  e  il  «Bello  ideale».  La 
presenza  in  se  stessa  di  queste  formule  non  basta  tuttavia  a  ca- 
ratterizzare  la  posizione  del  Milizia:  esse  infatti  assumono  (come 
non  sempre  e  stato  awertito)  diverso  contenuto  nei  diversi  critici 
ed  estetici  del  Seicento  e  del  Settecento ;  e  se  in  alcuni  di  essi,  dal 
Bellori  al  Crousaz  all' Andre  al  Batteux,  si  riferiscono  alFideale 
di  un  classicismo  ragionevole  e  decoroso,  in  altri,  a  cominciare 
dal  Winckelmann,  si  vengono  riempiendo  di  un  nuovo  spirito, 
tra  misticamente  platonizzante  e  sottilmente  sensuale,  del  va- 
gheggiamento  irrazionale  di  un  mondo  remoto  e  incomparabil- 
mente  sereno,  che  si  identifica  poi  con  Farte  greca.  Orbene  nel- 
le  opere  del  Milizia,  che  fra  Faltro  ebbe  familiarita  col  Mengs 
e  aiuto  il  d'Azara  a  curarne  Fedizione  postuma  delle  opere,  ap- 
paiono  in  efFetto,  ed  e  giusto  metterli  in  evidenza,  non  pochi  at- 
teggiamenti  e  giudizi  particolari  caratteristici  del  neoclassicismo 
winckelmanniano :  Finsistenza  frequente  sui  temi  della  «sempli- 
cita»  e  della  «calma  grandezza»,  sul  rapporto  fra  arte  e  liberta 
politica ;  la  dichiarata  preferenza  per  Farte  greca ;  1'antipatia,  oltre  che 
per  i  barocchi,  anche  per  Michelangelo ;  non  poche  interpretazioni  e 
valutazioni  di  monumenti  antichi.  Rimane  tuttavia  in  complesso 
nel  lettore  la  netta  impressione  che  a  comprendere  e  ad  assimilare 
profondamente,  nella  sua  eifettiva  originalita,  il  nuovo  classicismo 
il  Milizia  non  arrivi  veramente  mai,  e  che  comunque  per  questa 
parte  resti  piu  lontano  dal  Winckelmann  di  altri  critici  figurativi 
italiani  come  FAlgarotti  e  il  Rezzonico.  Leggendo  i  saggi  sulla  pit- 
tura  e  sulParchitettura  del  primo  ci  si  pu6  imbattere,  per  esempio, 
in  una  pagina  dove  viene  nettamente  distinto  Fufficio  del  natura- 
lista  e  dello  storico,  che  ritraggono  gli  oggetti  <ccon  quei  difetti  e 
con  quelle  imperfezioni,  a  cui  vanno  soggetti  i  particolari  e  gFin- 
dividui»,  da  quello  del  «pittore  idealista,  che  e  il  vero  pittore»,  e 
che  «imita  non  ritrae,  vale  a  dire  finge  con  la  fantasia  e  rappre- 


NOTA   INTRODUTTIVA  1035 

senta  gli  obbietti  quali  esser  dovrebbono  con  quella  perfezione 
che  conviene  all'universale  e  alParchetipo»;  procedimento  tanto 
piu  necessario  airarchitettura,  la  quale  «dee  levarsi  in  alto  col- 
rintelletto  e  derivare  un  sistema  d'imitazione  dalle  idee  delle  cose 
piu  universal!  e  piu  lontane  dalla  vista  delPuomo));  o  in  un'altra 
pagina,  ancora  piu  notevole,  nella  quale  e  espresso  il  rimpianto 
per  i  vantaggi «  che  aveano  gli  antichi  pittori  sopra  quelli  del  tempo 
presente»,  in  quanto  avevano  a  disposizione  una  storia  «feconda 
de*  piu  gloriosi  e  belli  awenimenti))  e  una  mitologia  che  aaccre- 
sceva  il  piu  delle  volte  il  sublime  e  il  patetico  di  quelli »,  e  rendeva 
ccsensibili  e  quasi  visibili ...  da  per  tutto  le  loro  deita»  (Opere, 
m,  Venezia,  Palese,  1791,  pp.  143,  25  e  144-5).  II  Milizia  invece, 
quando  accenna  a  temi  analoghi,  sembra  inclinare  esplicitamente 
e  quasi  polemicamente  verso  posizioni  ora  piu  realistiche  ora  piu 
razionalistiche.  A  proposito  del  «Bello  ideale»  egli  non  soltanto 
cita  piu  volte  il  verso  del  Pope  «  Tis  Nature  all,  but  Nature  metho 
dised  » (che  anche  T  Algarotti  ricorda),  ma  per  esempio  sente  il  biso- 
gno  di  precisare:  «[il  "Bello  ideale"]  si  suol  chiamare  anche  "imi- 
tare  la  bella  natura" ;  e  questa  frase  e  piu  chiara,  perche  in  questa 
scelta  niente  e  d'ideale,  ma  tutto  e  preso  dalla  natura,  a  un  di 
presso  come  il  fromento  e  come  tanti  grani  e  frutti  e  fiori  ed 
erbe,  che  non  si  veggono  piu  naturalmente  come  ci  sono  presentati 
dalla  industria,  la  quale  pero  dalla  natura  li  ha  ricavati  tutti» 
(DelVarte  di  vedere,  p.  22);  e  per  quanto  riguarda  Tarchitettura, 
mentre  riconosce  che  ad  essa,  diversamente  dalle  altre  arti,  «man- 
ca  in  verita  il  modello  formato  dalla  Natura  »,  aggiunge  per6,  rifa- 
cendosi  a  Vitruvio,  che  essa  «ne  ha  un  altro  formato  dagli  uomini», 
la  «rozza  capanna»  preistorica  (Principii  di  architettura  civile,  I, 
p.  26).  E  se  egli  identifica  con  il  Winckelmann,  il  Mengs  e  1'Alga- 
rotti  la  bellezza  con  1'arte  greca,  non  perde  occasione  di  polemizzare 
contro  i  pericoli  della  troppo  entusiastica  adorazione  non  solo  de- 
gli  antichi  in  genere,  ma  dei  Greci  stessi:  «La  grata  riverenza, 
che  si  deve  alia  memoria  ed  alle  cose  de'  nostri  antenati,  non  deve 
trasportarci,  e  ci  trasporta  sovente,  in  un  eccesso  d'ammirazione 
per  tuttocio  che  e  antico.  Prima  di  ammirarlo,  si  esamini,  ed  esa- 
minato  bene  che  sia,  si  cessera  forse  di  ammirarlo.  Se  ne  dubiti 
per  tanto,  se  ne  sospetti  senza  un  cieco  irragionevole  rispetto  per 
Tantichita,  e  poi  se  si  ha  coraggio,  si  vada  ad  incensare  Omero, 
Platone,  Aristofane,  Fidia,  Virgilio,  Vitruvio,  Petrarca,  Dante,  Boc- 


1036  FRANCESCO    MILIZIA 

caccio,  Leon  Battista  Alberti,  e  tanti  altri  cadaver! »  (Principii  di 
architettura  civile,  I,  pp.  35-6;  e  si  veda  anche  DelVarte  di  vedere, 
p.  102).  Del  resto  nei  suoi  giudizi  sui  monumenti  antichi,  piut- 
tosto  che  per  la  grazia  serenamente  divina  idoleggiata  dal  Winckel- 
mann  nelle  opere  greche,  11  Milizia  si  mostra  veramente  commosso 
di  fronte  alia  quadrata,  robusta  ed  espressiva  maesta  delle  statue 
e  degli  edifici  romani,  di  fronte  alia  « testa  veramente  di  carattere » 
di  Marco  Aurelio,  e  alia  «vivezza  delljespressione))  del  suo  cavallo; 
alia  «forza,  ricchezza,  intelligenza,  grandiosita»  del  Pantheon;  alia 
«gran  massa  imponente»  del  Colosseo;  alia  «ruinagrandiosa»  delle 
Terme  di  Caracalla;  ai  «pochi  ma  enormi  massi»  che  formavano 
la  struttura  degli  scomparsi  ponti  della  via  Appia.  Negli  stessi 
giudizi  sulle  statue  greche,  in  cui  pure  si  awertono  precisi  echi 
winckelmanniani,  si  nota  pero  non  raramente  la  tendenza  ad  ac- 
centuarne  la  componente  drammatica,  il  movimento,  1'azione,  e 
a  trascurarne  e  ad  attenuarne  invece  le  possibilita  di  suggestione 
ideale,  sovrumana,  come  si  pu6  vedere  confrontando,  ad  esempio> 
le  pagine  del  critico  tedesco  sulYErcole  Farnese,  snlY  Apollo  e  sul- 
YAntinoo  di  Belvedere,  sulla  Venere  Capitolina  con  quelle  corrispon- 
denti  del  Milizia  nelYArte  di  vedere.  E  non  e  forse  solo  un  caso 
se  proprio  egli,  che  tanto  spesso  si  richiama  al  Mengs,  e  magari  al 
Sulzer,  non  cita  mai,  se  ho  ben  visto,  il  nome  del  Winckelmann. 

In  questa  sua  tendenza  verso  Tarte  « espressiva »  e  (ccaratteri- 
stica»  (anche  teoricamente  affermata,  come  nelYArte  di  vedere  alia 
p.  38,  dove  si  dichiara  che  «Pespressione  e  Tarticolo  piu  importante 
delle  belle  arti»)  il  Milizia  giunge  talora  addirittura  ad  atteggia- 
menti  che  si  potrebbero  definire  preromantici.  Non  si  dovra  forse 
attribuire  troppa  importanza  a  certe  concession!  all'irregolarita, 
come  quando  egli  raccomanda:  «Si  abbandoni  di  quando  in  quan- 
do  Peuritmia,  e  si  dia  anche  nel  bizzarro  e  nel  singolare.  Si  mischi 
graziosamente  il  morbido  col  duro,  il  delicato  col  forte,  il  nobile 
col  rustico»,  aggiungendo  per6  subito  dopo:  «ma  non  [ci]  si  al- 
lontani  mai  dal  vero  e  dal  naturale » ;  o  quando  si  sofferma  a  descri- 
vere  la  naturalezza,  la  mescolanza  di  grazia  e  di  (corrore»,  di 
ameno  e  di  lugubre,  dei  giardini  cinesi  e  inglesi,  precisando  per6 
che  «il  disordine  che  vi  regna  e  1'efFetto  dell'arte  la  meglio  or- 
dinata»  (Principii  di  architettura  civile,  n,  pp.  57  e  195);  e  in  so- 
stanza  non  oltrepassando  i  limiti  del  concetto  algarottiano  che 
«il  maggior  pregio  della  disposizione  sta  in  quel  disordine  che 


NOTA   INTRODUTTIVA  1037 

mostri  essere  nato  dal  caso,  ma  e  in  sostanza  il  phi  studiato  effetto 
deirarte»  (Opere,  ed.  cit.,  in,  p.  166).  Piu  notevole,  invece,  relati- 
vamente  al  tempo,  1'ammirazione  che  egli  manifesta,  fin  dalla  prima 
edizione  delle  Vite  d£  piii  celebri  architetti  d'ogni  nazione  e  di  ogni 
tempo  (1768),  per  Tarchitettura  gotica:  una  ammirazione  certo  non 
priva  di  riserve,  e  in  parte  razionalisticamente  rivolta  alia  sempli- 
cita  e  solidita  delle  strutture,  ma  in  parte  dovuta  ad  una  effettiva 
sensibilita  per  il  fascino  particolare  di  quelParte :  «  Si  entri  in  una 
chiesa  gotica,  rimmaginativa  rimane  subito  colpita  dalla  estensio- 
ne,  dall'altezza,  dall'arditezza  della  gran  navata,  libera,  senza  im- 
pacci.  Si  e  forzato  a  restare  per  alcuni  momenti  sorpreso  dal  tutto 
insieme  maestoso.  Si  esamini  in  dettaglio,  e  gli  assurdi  scappano 
senza  numero.  Si  rientri  nel  mezzo  della  navata,  e  si  rimane  di 
nuovo  incantato  per  tanta  grandiosita »  (Prindpii  di  architettura 
civile,  n,  p.  427). 

Dal  neoclassicismo  winckelmanniano  il  Milizia  rimane  tuttavia 
distinto,  ancor  piu  che  per  questi  spunti  preromantici,  per  la  sua 
convinzione,  infinite  volte  replicata,  che  Parte  debba  avere  un  fine 
«utile»;  debba  cioe  contribuire  al  miglioramento  morale  e  civile  e  al 
benessere  delPumanita,  a  quella  «pubblica  felicita»  che  a  lui,  come 
alPAlgarotti  e  a  tutti  gli  altri  illuministi,  stava  soprattutto  a  cuore. 
Questo  contribute  egli  sembra  talora,  nelYArte  di  vedere,  in- 
tendere,  alia  maniera  del  Sulzer  (e  del  Bertola),  come  una  con- 
seguenza  interna  del  «diletto»  artistico  che  depura  e  nobilita 
la  cc  sensibilita »  («Puomo  formato  dalle  belle  arti  e  d'una  sen 
sibilita  depurata,  per  cui  diviene  d'una  probita  attiva,  cioe  un 
benefattore  illuminato  »,  p.  44) ;  ma  in  realta  in  lui,  come  general- 
mente  in  tutta  Pestetica  e  la  critica  illuministica  e  in  particolare 
nei  saggi  citati  delFAlgarotti,  prevale  il  concetto  che  la  moralita 
delParte  consista  proprio  nella  presenza  di  un  vero  e  proprio  «  con- 
tenuto»  morale;  e  senza  cercare  altrove,  nella  stessa  opera,  qualche 
pagina  piu  avanti,  si  legge  per  esempio  che  i  (ccaratteri  piu  inte- 
ressanti  sono  quelli  degli  uomini  nelle  loro  azioni  morali»,  e  che 
la  ccscultura,  dopo  la  storia,  e  il  deposito  delle  virtu  e  dej  vizi»,  e 
quindi  (csceglie  o  deve  scegliere  soggetti  interessanti,  e  li  esprime 
bene  per  riempier  un  cuor  sensibile  d'ammirazione  per  la  vera 
grandezza,  d'amore  pel  bene,  d'abborrimento  pel  male»  (pp.  46-7). 
Cosi  gli  sembra  specialmente  ammirevole  la  statua  di  Marco 
Aurelio,  in  quanto  rappresenta  «un  uomo  tutto  ardore  per  Ta- 


1038  FRANCESCO   MILIZIA 

dempimento  dej  suoi  doveri,  dei  doveri  d'un  sovrano  che  ha  il 
peso  gravissimo,  il  peso  immenso  di  fare  la  felicita  del  suo  popolo  », 
e  conclude  esclamando :  «Ah  perche  le  belle  arti  non  s'impiegano 
sempre  per  soggetti  si  consolantib;  mentre  per  contro  non  puo 
tenersi  dal  rimproverare  al  pur  lodatissimo  Raffaello  la  mancanza 
di  precisi  intenti  educativi :  «  Sieno  pure  bellissime  tutte  le  opere 
di  Raffaello :  che  cosa  ci  dicono  di  buono  ?  Niente.  Dunque  vadano 
in  uno  zibaldone  di  varie  bellezze  da  poter  servire  per  qualche 
buon  argomento»  (DelVarte  di  vedere,  pp.  16-7  e  85).  Ma  e  so- 
prattutto  nel  campo  delFarchitettura,  non  a  caso  1'arte  preferita 
dal  Milizia,  che  si  accentua  il  suo  utilitarismo.  L'architettura  e 
infatti  per  lui  (come  per  il  Blondel  e  anche  per  il  Sulzer,  i  cui 
scritti,  per  questa  parte  rigorosamente  illuministici,  egli  poteva 
leggere  tradotti  nell' Encyclopedia),  tra  tutte  le  arti,  (da  piu  interes- 
sante  per  la  conservazione,  per  la  comodita  e  per  le  delizie  e  per 
la  grandezza  del  genere  umano»,  poiche,  egli  specifica,  essa  e 
« i.  Come  la  base  e  la  regolatrice  di  tutte  le  altre  arti.  2.  Ella  for 
ma  il  legame  della  societa  civile.  3.  Produce  ed  aumenta  il  com- 
mercio.  4.  Impiega  le  pubbliche  e  le  private  ricchezze  in  bene- 
ficio  e  in  decoro  dello  stato,  de'  proprietari  e  de'  posteri.  5.  Di- 
fende  la  vita,  i  beni,  la  liberta  de'  cittadini»  (Principii  di  architet- 
tura  civile,  i,  p.  vn).  E  se  egli  si  distingue  dai  piu  radicali  funzio- 
nalisti,  come  il  Lodoli,  in  quanto,  seguendo  TAlgarotti  e  attraverso 
quella  che  il  Ragghianti  ha  chiamato  la  «metafisica  del  legno», 
reintroduce  Fesigenza  di  <c  abbellire » ;  tende  pero  a  subordinare, 
anche  piu  nettamente  delF  Algarotti,  il  criterio  della  bellezza  a  quel- 
lo  delFutilita  o  comodita:  « Questa  seconda  parte  dell'architettura 
civile»  precisa  all'inizio  del  secondo  volume  dei  Principii  di  archi- 
tettura  civile,  dedicate  appunto  alia  comodita,  «  e  della  piu  grande 
estensione,  poiche  abbraccia  ogni  sorte  di  edificio;  e  di  tanta  im- 
portanza,  quanto  e  la  comodita  del  genere  umano,  per  cui  si  co- 
struiscono  le  fabbriche;  e  ben  lungi  di  opporsi  alia  loro  bellezza, 
la  fa  maggiormente  spiccare;  anzi  ne  costituisce  la  base.  L-  co 
modita  di  un  edificio  e  come  la  bonta  morale  di  un  uomo,  la  quale 
forma  il  massiccio,  e  da  risalto  alia  sua  bellezza  e  ad  ogni  suo 
ornamento  esteriore.  La  comodita  e  la  regolatrice  della  simme- 
tria,  o  sia  delle  proporzioni,  che  danno  tanto  diletto  allo  sguardo. 
Qui  e  dove  Tarchitetto  pu6  manifestare  un  ingegno  creatore  con 
combinazioni  sempre  nuove  e  sempre  ugualmente  giuste,  e  pu6 


NOTA  INTRODUTTIVA  1039 

renders!  benemerito  della  umanita»  (pp.  9-10).  E  in  coerenza  con 
queste  convinzioni,  dedica,  nel  terzo  volume  dei  Principii>  un  in- 
tero  capitolo  a  tracciare  «un  sensato  sistema  di  educazione  pub- 
blica»  per  gli  architetti,  sottolineando  come  tale  educazione  possa 
realizzarsi  solo  nel  quadro  di  una  buona  « legislazione »  generate, 
a  sua  volta  fondata  sulla  «sana  filosofia)). 

Come  e  caratteristico  della  mentalita  illuministica  questo  uti- 
litarismo  civile,  cosi  rientrano  pienamente  in  quella  mentalita, 
senza  diventare  sintomi  di  una  inquietudine  rivoluzionaria,  sia  il 
tono  polemico,  sia  lo  stile  brusco,  realistico  e  bizzarro  con  cui  il 
Milizia  sostiene  le  sue  idee  estetiche  ed  espone  i  suoi  giudizi.  Tutti 
sanno  ormai  che  proprio  Fintonazione  polemica  e  uno  degli  aspetti 
fondamentali  che  distinguono  la  critica  illuministica  da  quella  ar- 
cadica,  e  che  tale  intonazione  si  ritrova,  naturalmente  con  accenti 
e  forme  diverse,  tanto  nelle  pagine  di  un  Bettinelli  come  di  un 
Baretti,  di  un  Cesarotti  come  di  un  Napoli  Signorelli;  e  se  in 
alcuni  giudizi  del  Milizia  si  pu6  notare  una  piu  esasperata  asprez- 
za  e  una  ferocia  piu  duramente  sarcastica,  questi  atteggiamenti 
saranno  da  attribuire,  come  nei  giudizi  di  carattere  politico,  e  alia 
piu  viva  reazione  che  poteva  suscitare  un  ambiente  particolar- 
mente  refrattario  come  quello  romano  alle  ragioni  del  «buon 
senso  »  e  del  «  buon  gusto  »,  e  al  temperamento  diciamo  pure  «  don- 
chisciottesco »  dell'uomo,  al  piacere  di  pronunciare  delle  boutades 
destinate  a  sbalordire  il  lettore:  come,  per  citare  qualcuna  delle 
piu  famose,  quelle  sul  Mose  («se  ne  sta  a  sedere  senza  mostrar 
voglia  di  niente.  La  testa,  recisole  quel  barbone  ch'e  piu  barbone 
di  quello  di  Rauber,  e  una  testa  di  satiro  con  capelli  di  porco,  e 
piccola  riguardo  al  tutto.  Tutto  com'e,  e  un  mastino  orribile,  vesti- 
to  come  un  fornaro,  mal  situato,  ozioso»  (DelVarte  di  vedere,  p.  3), 
e  sulla  tribuna  del  Bernini  (a  quel  delirio  di  que'  quattro  mostri 
di  colonne  torse  spirali,  infrascate  di  bisbeticherie,  che  sostengono 
un  baldacchino  per  imbarazzare  la  grandiosa  crociera  della  chie- 
sa»,  Roma,  delle  belle  arti  del  disegno,  edizione  1823,  p.  177).  Dove 
si  vede  anche  come  i  neologismi  e  le  originalita  dello  stile  del  Mili 
zia,  se  appaiono  meno  letterari'di  quelli  per  esempio  del  Baretti, 
non  siano  certo  meno  consapevoli  e  compiaciuti  nella  loro  spesso 
gratuita,  per  usare  una  parola  cara  allo  scrittore,  «strambalatezza». 

In  conclusione,  pur  mettendo  nel  dovuto  rilievo  gli  aspetti  sia 
neoclassici  che  preromantici,  direi  che  il  carattere  e  il  merito 


1040  FRANCESCO   MILIZIA 

fondamentale  del  Milizia  vada  indicate  nell'avere,  piu  sistematica- 
mente  e  con  piu  efficace  vigore  polemico  di  ogni  altro,  almeno  in 
Italia,  applicato  i  principii  deirilluminismo  nel  campo  delle  arti 
figurative.  In  particolare,  dal  punto  di  vista  teorico  e  critico,  le 
opere  in  tal  senso  piu  notevoli  vanno  considerate  le  Vite  de9  piii 
celebri  architetti  d*  ogni  nazione  e  d'ogni  tempo  (pubblicate  nel  1768, 
e  ristampate  nel  1781  con  molte  modifiche  e  aggiunte  e  col  titolo 
Memorie  degli  architetti  antichi  e  moderni),  che  sono  una  serie  di 
biografie  inquadrate  in  una  linea  storiografica,  ispirata  al  proposito, 
tipicamente  illuministico,  di  «far  conoscere  Porigine,  i  progressi  e 
le  vicende»  deirarchitettura;  e  i  Principii  di  architettura  civile 
(1781),  ampio  trattato  generale  di  carattere  teorico-tecnico,  che 
costitui  per  molto  tempo  un  diffuso  manuale  scolastico.  In  queste 
due  opere,  e  particolarmente  nella  prima,  si  possono  cogliere  anche 
le  pagine  critiche  piu  acute  ed  equilibrate  del  Milizia:  un  acume 
e  un  equilibrio  che  si  riflettono  anche  nei  giudizi  sugli  artisti  piu 
lontani  dal  gusto  dell'autore,  come  Michelangelo,  il  Bernini  e  il 
Borromini,  caratterizzati,  malgrado  la  valutazione  negativa,  con 
notazioni  tuttora  valide  e  stimolanti. 

L'opuscolo  Dell'arte  di  vedere  nelle  belle  arti  del  disegno  secondo 
i  principii  di  Sulzer  e  di  Mengs  (1781)  e  invece  senza  dubbio  lo 
scritto  migliore  per  1'efficacia  polemica  (anche  se  oggi  appare  esa- 
gerata  la  definizione  del  Cicognara:  ccterribile  opuscolo  che  rove- 
scio  il  sistema  di  scrivere  e  di  pensare  in  materie  d'arti»)  e  per  vi- 
vacita  letteraria,  specie  nelle  analisi  critiche,  spesso  sbalestrate  e  in- 
giuste,  ma  sempre  gustose  o  almeno  divertenti.  E  un  giudizio  non 
dissimile  si  pu6  dare  deH'altra  operetta  Roma,  delle  belle  arti  del 
disegno  (1787),  in  cui  vengono  passate  in  rassegna  per  ordine  cro- 
nologico,  dalla  Cloaca  massima  alia  Sagristia  vattcana,  cioe  «dal- 
Tottimo  al  pessimo »,  le  principali  opere  architettoniche  esistenti 
in  Roma. 

Meno  interessanti  e  originali,  anche  se  utili  a  confermare  I'o- 
rientamento  illuministico  del  Milizia,  sono  infine  il  trattatello  Del 
teatro  (1771),  che  almeno  per  la  parte  letteraria  e  musicale  e  una 
dichiarata  contaminazione  di  idee  del  Muratori,  delFAlgarotti,  del 
Batteux  e  del  d'Alembert;  e  il  Dizionario  delle  belle  arti  del  disegno 
(1797)  «estratto  in  gran  parte »,  come  e  detto  nel  sottotitolo,  «  dalla 
Enciclopedia  metodicav  del  Panckouke,  anche  se  spesso  rawivato 
dai  commenti  estrosamente  polemici  dell'autore. 


FRANCESCO   MILIZIA  1041 


Le  principal!  op  ere  del  Milizia  sono  state  ri cordate  nel  corso  della  Nota 
introduttiva  che  precede.  Precisiamo  qui  che  la  prima  edizione  del  trattato 
Del  teatro  (Roma,  Casaletti,  1771)  fu  imrnediatamente  fatta  ritirare  dalla 
censura;  1'autore  ripubblico  1'opera,  dopo  aver  mutato  o  soppresso  i 
luoghi  incriminati,  a  Venezia,  Pasquali,  1773 :  edizione  riprodotta  integral- 
mente,  col  solo  rnutamento  del  titolo  in  Trattato  completo,  formale  e  mate- 
riale  del  teatro,  pure  a  Venezia,  Pasquali,  1794.  Dell'opera  Roma,  delle 
belle  arti  del  disegno  fu  pubblicata  (a  Bassano,  Remondini,  1787 ;  e  ivi  ristam- 
pata  nel  1823)  solo  la  prima  parte,  relativa  all'architettura  civile:  altre 
tre  parti  riguardanti  la  scultura  e  la  pittura  furono  solo  progettate  ma  non 
composte  dal  Milizia,  sdegnato  che  la  censura  romana  avesse  proscritto 
la  prima  parte.  Notizie  bibliografiche  sulle  Memorie  degli  architetti  an- 
tichi  e  moderni,  sui  Principii  di  architettura  civile  e  sull'Arte  di  vedere  nelle 
belle  arti  del  disegno  si  troveranno  nei  cappelli  alle  pagine  di  queste 
opere  riportate  nel  presente  volume.  Dopo  la  morte  dell'autore  furono 
pubblicate  le  Notizie  di  F.  Milizia  scritte  da  lui  medesimo,  Bassano,  Re 
mondini,  1804,  a  cura  di  B.  Gamba,  che  vi  aggiunse  un  utile  Catalogo 
delle  opere  dello  scrittore;  e  due  raccolte  di  lettere:  Lettere  di  F.  Milizia 
a  T.  Temanza,  pubblicate  per  la  prima  volta  nelle  nozze  Muzani-Di  Caldo- 
gno,  Venezia,  Alvisopoli,  1823;  Lettere  di  F.  Milizia  al  conte  F.  di  San- 
giovanni,  stampate  contemporaneamente  a  Bruxelles,  Tarlier,  1827,  e  a 
Parigi,  Renouard,  1827.  Sempre  dopo  la  morte  dell'autore  uscirono  una 
Scelta  di  operetta,  a  cura  di  B.  Gamba,  Venezia,  Alvisopoli,  1826  (che  ri- 
produce,  oltre  le  Notizie  e  il  Catalogo  delle  opere  a  cura  del  Gamba, 
le  vite  del  Brunelleschi,  del  Fontana  e  del  Bernini,  VArte  di  vedere  senza 
le  Rifiessioni,  i  capitoh  Del  Bello  e  Del  gusto  dei  Principii,  e  diciannove 
lettere,  fra  cui  una  inedita  allo  Zulian  sul  monumento  di  papa  Ganganelli 
eretto  dal  Canova);  e  le  Opere  complete  di  F.  Milizia  risguardanti  le  belle 
arti,  Bologna,  Stamperia  Cardinal!  e  Frulli,  1826-1828,  in  nove  tomi  (il  I 
contenente  VArte  di  vedere,  il  Trattato  completo,  formale  e  materiale  del 
teatro  e  Roma',  il  n  e  il  in,  il  Dizionario  delle  belle  arti  del  disegno',  il  iv 
e  il  v,  le  Memorie  degli  architetti',  il  vi,  vii  e  vm,  i  Principii  di  architettura 
civile ;  il  IX,  il  Saggio  di  architettura  civile  e  le  lettere) :  edizione  da  adoperare 
con  cautela  poiche  di  alcune  opere  sono  riprodotte  edizioni  non  definitive 
o  corrette  da  altri  dopo  la  morte  del  Milizia. 

Tra  gli  studi  complessivi  sul  Milizia  vanno  ricordati  L.  CICOGNARA, 
Memoria  intorno  alVindole  e  agli  scritti  di  F.  Milizia  e  progetto  di  pubblicare 
alcune  sue  prezwse  lettere  inedite,  in  «  Atti  della  Societa  italiana»,  il  (1808), 
pp.  440  sgg.  (interpretazione  del  Milizia  in  senso  neoclassico) ;  C.  UGONI, 
Della  letteratura  italiana  della  seconda  meta  del  secolo  XVIII,  in,  Milano, 
Bettoni,  1822,  pp.  153-74  (saggio  assai  informato  ed  equilibrate) ;  G.  NATALI, 
Un  enciclopedista  classicista,  in « Rivista  dj Italia »,  ottobre  1915,  poi  ristampa- 
to  col  titolo  // « Don  Chisciotte  del  Bello  ideale  »,  in  Idee,  costumi,  uommi  del 
Settecento,  Torino,  S.T.E.N.,  ig262;  e  dello  stesso  II  Settecento,  cit.,  I, 
pp.  436-8,  481-2,  500-3;  G.  FONTANESI,  F.  Milizia  scrittore  e  studioso 

66 


1042  '  NOTA    INTRODUTTIVA 

d'arte,  Bologna,  Stabilimenti  poligrafici  riuniti,  1932  (monografia  di  scarso 
valore,  ma  non  priva  di  notizie  utili). 

In  particolare,  sulla  vita:  L.  HUETTER,  La  soppressione  della  compagnia 
del  gesuiti  nelle  letter e  romane  del  Milizia,  in  «Roma»,  vi  (1928),  fasc.  n. 
Sul  Milizia  critico  d'arte:  L.  VENTURI,  II  gusto  dei  primitivi,  Bologna,  Za- 
nichelli,  1926,  pp.  122-4;  C.  CALCATERRA,  //  Parnaso  in  rivolta,  Milano, 
Mondadori,  1940,  pp.  283-96  e  passim  (sul  Milizia  teorico  del  «Bello  idea- 
lew)  ;M.  L.  GENGARO,  Critica  d'arte,  Brescia,  Morcelliana,  1948,  pp.  185-7 
(sulla  modernita  del  concetto  miliziano  del  «saper  vedere»);  F.  ULIVI, 
F.  Milizia  scrittore,  in  Galleria  di  scrittori  d'arte,  Firenze,  Sansoni,  1953, 
pp.  207-44  (sottolinea  1'aspetto  rivoluzionario,  «giacobino»,  del  Milizia); 
L.  HUETTER,  F,  Milizia  tra  puntigli  e  pettegolezzi,  in  « Capitoliura »,  xxi 
(1946),  pp.  37-41 ;  G.  L.  LUZZATTO,  Attualita  ed  expressions  onginale  del 
Milizia,  in  «  Commentari »,  luglio-settembre  1956,  pp.  169-79.  Importanti 
per  i  rapporti  con  1'Algarotti  e  la  critica  illuministica  gli  accenni  di  C.  L. 
RAGGHIANTI,  V '  architettura  « in  funzione »  e  F.  Algarotti,  in  Commenti  di 
critica  d'arte,  Bari,  Laterza,  1946,  pp.  284-93;  e  di  A.  M.  GABRIELLI, 
UAlgarotti  e  la  critica  d'arte  in  Italia  nel  Settecento,  in  «  Critica  d'arte», 
III  (1938),  pp.  155-69,  e  iv  (1939),  pp.  24-31.  SuileMemorie  degli  architetti 
si  veda :  L.  HUETTER,  F.  Milizia  e  le  « Vit e  degli  architetti »  (contribute  alia 
storia  della  censura  pontificia),  in  «L'Urbe»,  IV  (marzo  1939),  pp.  19-32. 
Sul  Milizia  economista:  G.  CARANO-DONVITO,  F.  Milizia  quale  econo- 
mista,  in  Economisti  di  Puglia,  Firenze,  La  Nuova  Italia,  1956,  pp.  257-65. 


DALLE  «MEMORIE  DEGLI  ARCHITETTI 
ANTICHI  E  MODERNI» 

\Giudizio  su  Michelangelo.]* 

!Si  e  veduto  nel  Bonarroti  un  fenomeno  singolare;  unuomo  triple. 
La  favolosa  antichita  ha  riunito  diversi  Ercoll  per  formate  un  gran- 
d'Ercole.  Del  solo  Michelangelo  si  posson  fare  tre  grandi  artisti; 
uno  scultore,  un  pittore,  un  architetto,  e  ciascun  eccellente.  Que- 
sta  triplice  eccellenza  finora  e  unica.  Lungi  pero  di  profonder  a 
Michelangelo  gli  attributi  d'impareggiabile,  di  perfetto,  di  divino, 
come  tanti  han  fatto,  si  deve  riguardare  come  uomo,  cioe  soggetto  ad 
errori.  Riguardo  alia  statuaria  ed  alia  pittura  esaminera  i  suoi  pregi 

La  prima  edizione  di  questa  opera  fu  pubblicata  col  titolo  Vite  de'  piu  ce- 
lebri  architetti  d'ogm  nazione  e  d'ogni  tempo,  precedute  da  un  Saggio  sopra 
V  architettura,  a  Roma,  nella  stamperia  di  Paolo  Giunchi  Komarek,  1768, 
in  volume  unico,  nel  quale,  oltre  il  Saggio  sopra  V architettura  che  serve  da 
introduzione,  e  aggiunta  in  fine  una  Appendice  sopra  il  meccanismo  delle  volte. 
Una  traduzione  dell' opera  usci  poco  dopo  a  Parjgi,  nel  1771,  a  cura  di 
Jean-Claude  Pingeron,  che  vi  apport6  anche  alcune  correzioni  e  aggiunte. 
Di  tali  correzioni  e  aggiunte  tenne  conto  il  Milizia  quando  si  accinse  ad 
una  nuova  edizione  della  sua  opera,  che  egli  chiam6  «terza»  (considerando 
come  una  seconda  edizione  la  traduzione  francese)  e  che  fu  stampata  a 
Parma,  presso  la  Stamperia  Reale,  nel  1781,  in  due  volumi,  col  titolo  Me- 
morie  degli  architetti  antichi  e  moderni,  titolo  consigliato  (come  1' autore 
stesso  afferma  nella  Prefazione)  da  un  «  soggetto  ragguardevole  in  ogni  sorta 
di  letteratura,  e  particolarmente  nelle  amenita  delle  belle  arti  [probabil- 
mente  il  d'Azara,  a  cui  questa  terza  edizione  e  dedicata]  il  quale  ha  cre- 
duto  che  quelle  Vite  non  sieno  vite,  ma  piuttosto  notizie  o  memorie».  A 
parte  il  cambiamento  del  titolo,  leMemorie  rispetto  alle  Vite  presentano  altri 
mutamenti:  il  Saggio  sopra  V architettura  e  sostituito  da  una  piii  sintetica 
Prefazione,  che  e  poi  un  « abbozzo  »,  secondo  quanto  dice  il  Milizia  stesso, 
dei  Principii  di  architettura  civile,  non  ancora  pubblicati  ma  gia  compiuti; 
V Appendice  sopra  il  meccanismo  delle  volte  e  eliminata ;  e  le  vite  dei  vari  ar 
chitetti  sono  aumentate  di  numero  e  spesso  ampliate  e  rielaborate.  Una 
«  quarta  edizione,  accresciuta  e  corretta  dallo  stesso  autore »,  apparve  infine 
a  Bassano,  presso  Remondini,  nel  1785,  nella  quale,  rispetto  alia  terza, 
compaiono  due  nuove  vite,  di  Francesco  Maria  Preti  e  di  Giovanni  Miazzi, 
che  il  Gamba  nella  sua  notizia  bibliografica  citata  afferma  composte  da  altro 
autore.  Questa  quarta  edizione  fu  poi  riprodotta,  con  Taggiunta  di  nuove 
vite,  dovute  a  diversi  autori,  nei  tomi  iv  e  v  delle  Opere  complete.  Fuori  d'l- 
talia  Top  era  fu  tradotta,  oltre  che  in  francese  dal  Pingeron,  anche  in  in- 
glese  dal  Cresy  (London  1826).  I  passi  qui  riportati  sono  tratti  dalla  quarta 
edizione  bassanese,  che  e  1'ultima  approvata  dalT  autore;  ma  abbiamo  tenute 
presenti  anche  la  prima  e  la  terza. 

i.  Dalle  Memorie  degli  architetti  antichi  e  moderni,  ed.  cit.,  I,  pp.  220-2. 


1044  FRANCESCO    MILIZIA 

ed  i  suoi  difetti  chi  trattera  di  quelle  arti.  Qui  si  giudichera  soltanto 
della  sua  intelligenza  nelTarchitettura. 

Nella  chiesa  di  San  Pietro  si  conosce  la  grandezza  architettonica 
di  Michelangelo.  Rigettato  con  ragione  il  disegno  del  Sangallo,  egli 
ne  form6  la  pianta  in  una  proporzionatissima  e  vaga  croce  greca,  ter- 
minata  circolarmente  alle  tre  estremita,  e  dalla  parte  davanti  in  linea 
retta,  con  ampie  ale  a  fianco  alia  gran  nave.  Un  solo  grandiosissimo 
ordine  corintio  di  pilastri  per  tutto  Tinterno  e  per  tutto  Pesteriore 
decora  si  gran  tempio.  L'ordine  della  facciata  doveva  essere  lo  stes- 
so,  e  della  medesima  altezza  che  quello  di  dentro.  Questa  facciata 
veniva  ornata  di  otto  pilastroni  con  tre  porte  tramezzo,  e  quattro 
gran  nicchie.  GPinterpilastri  delle  porte  eran  piu  larghi  che  quelli 
delle  nicchie.  A  ciascun  pilastro  rispondeva  verso  la  piazza  una 
colonna;  cosicche  si  veniva  a  formar  un  portico  con  sette  interco- 
lonni  di  fronte.  Chi  sa  se  quegrintercolonni  di  varia  larghezza 
avrebbero  prodotto  buon  effetto?  I  tre  intercolonni  di  mezzo  ve- 
nivan  ad  esser  raddoppiati;  onde  il  portico  riusciva  doppio  nel 
mezzo,  e  questo  avanti-portico  aveva  in  cima  un  frontespizio.  £ 
da  dubitarsi  anche  del  felice  successo  di  questo  avanti-portichetto 
sporgente  in  fuori.  La  gran  cupola  veniva  ad  aver  come  per  basa- 
mento  tutta  la  chiesa,  su  cui  essa  spiccava  tutta  mirabilmente,  cor- 
teggiata  dalle  altre  quattro  minori.  Tutto  questo  pensiero  e  grande, 
nobile,  maestoso,  bello,  e  fa  conoscere  il  talento  sublime  del  Bo- 
narroti;  siccome  eccita  indegnazione  in  vederlo  da  altri  cosi  di- 
sgraziatamente  deformato. 

Veniamo  al  dettaglio  di  quel  che  ha  fatto  Michelangelo  in  San 
Pietro.  Gia  si  e  toccato  il  difetto  delle  imposte  degli  archi  eccedenti 
in  proiezione  i  pilastri.  I  risalti  nel  cornicione,  gli  ornamenti  delle 
finestre  e  delle  nicchie  e  le  volte  delle  nicchie  superiori,  che  son 
sopra  al  collarino  de'  pilastri,  non  sono  certamente  lodevoli.  E  come 
posson  soffrirsi  que*  terribili  frontespizi  spezzati  a  que'  finestroni 
della  crociera,  mentre  ogni  frontespizio  cola  entro  e  inutile  ?  L'at- 
tico,  che  circonda  esteriormente  il  tempio,  e  troppo  alto,  di  cattiva 
forma  le  finestre,  e  pessimi  i  loro  ornati.  fe  questo  attico  un  pezzo  si 
evidentemente  sregolato,  che  gli  awocati  di  Michelangelo  negano 
esser  suo.  Nol  sia.  fi  superbo  il  tamburo  della  cupola,  e  buona  la 
figura  di  essa  cupola,  mirabile  n'e  il  meccanismo;  ma  la  lanterna 
con  quej  candelieri  non  e  cosa  molto  piacevole;  e  perci6  gli  awo 
cati,  come  se  fossero  attualmente  salariati  da  Michelangelo  per 


MEMORIE   DEGLI   ARCHITETTI   ANTICHI   E   MODERNI      1045 

difenderlo  a  dritto  ed  a  rovescio,  sostengono  die  nemmen  questo 
pezzo  sia  di  suo  disegno.  II  basamento  esteriore  a  questo  grand'e- 
difizio1  e  d'una  meravigliosa  bellezza;  ma  que'  tanti  angoli  con 
que'  pilastri,  che  scappan  fuori  Fun  sotto  Faltro,  non  sono  certa- 
mente  soffribili. 

La  chiesa  di  San  Pietro  e  la  sagrestia  di  San  Lorenzo  di  Firenze 
sono  state  le  piu  belle  opere  del  Bonarroti;  e  queste  e  tutte  Faltre  di- 
mostran  in  lui  un  gran  genio  d'invenzione,  gran  sagacita  nella  dispo- 
sizione  e  sommo  awedimento  nel  meccanismo.  Ma  negli  ornati  ei 
si  prese  delle  gran  licenze;  usci  spesso  di  sotto  alle  buone  regole, 
e  mostro  un  certo  che  di  bizzarro  e  fiero,  ch'e  stato  il  suo  predo- 
minante  carattere  nella  pittura.  Egli  diceva  che  poco  o  niente  s'in- 
tendeva  d'architettura:  poteva  esser  questa  una  di  quelle  solite 
espressioni  che  detta  la  modestia.  £  certo  per6  che  non  fu  Farchi- 
tettura  la  sua  principal  professione :  egli  merita  nondimeno  tra  gli 
architetti  un  rango  distinto;  e  s'egli  avesse  penetrato  a  scoprir 
Forigine  e  Fessenza  della  architettura,  non  avrebbe  inciampato  in 
tanti  capricci  ed  errori.  Le  sue  licenze  hanno  fatto  scala  al  liber- 
tinaggio  del  Borromini  e  alle  scuole  moderne.  Quel  suo  famoso 
detto,  che  abisogna  aver  le  seste  negli  occhi»,  e  stato  preso  alia 
rovescia,  e  ha  fatto  molti  architetti  nemici  capitali  della  fatica. 
Non  pu6  aver  «le  seste  negli  occhi»  chi  non  le  ha  avute  lungo 
tempo  in  mano  misurando,  confrontando  le  opere  migliori,  per 
formarsi  buon  gusto  e  per  produrre  cose  pregevoli. 

[Giudizio  sul  Palladia, .]* 

L'inclinazione  del  Palladio  e  stata  tutta  per  le  cose  antiche.  Egli 
apprese  fin  la  tattica  antica,  e  Fapprese  cosi  bene  che,  trovandosi  un 
giorno  alia  presenza  d'alcuni  gentiluomini  pratici  delle  cose  di  guer- 
ra,  fece  fare  a  certi  galeotti3  e  guastatori  tutti  que'  movimenti  ed 
esercizi  militari  che  solevan  fare  gli  antichi  Romani,  senza  com- 
metter  disordine  o  confusione.  Su  Fesempio  degli  antichi  edinzi  il 
Palladio  am6  molto  di  far  le  sue  fabbriche  di  mattoni,  dicendo  che 
le  fabbriche  antiche  di  pietra  cotta  si  veggono  piu  intiere  che  quelle 
di  pietra  viva.  6  infatti  fuor  di  dubbio  che  gli  edifizi  di  mattoni 

i.  edifizio:  la  cupola.  2.  Dalle  Memorie  degli  architetti  antichi  e  moderni, 
ed.  cit.,  n,  pp.  45-8.  3.  galeotti'.  marinai. 


1046  FRANCESCO   MILIZIA 

cotti  sono  di  maggior  durata,  perche  essendo  i  mattoni  molto  porosi 
si  attraggon  la  calce,  si  collegan  perfettamente  fra  loro,  e  forman  un 
sol  masso;  laddove  gli  angusti  pori  delle  pietre  vive  impediscono 
questa  unione.  Sono  in.  oltre  i  mattoni  piu  leggieri,  ne  soggetti  ad 
esser  calcinati  negli  incendi. 

Per  quel  che  riguarda  la  comodita  delle  fabbriche  palladiane  un 
bello  spirito  ha  detto  che  il  piu  bello  abitare  e  in  una  casa  francese 
situata  incontro  ad  una  del  Palladio.  Con  ragione:  non  gia  che  il 
Palladio  avesse  disposti  i  comodi  interiori  senza  discernimento ; 
egli  anzi  vi  us6  molta  awedutezza,  ma  dovette,  come  tutti  i  piu 
celebri  architetti,  disporre  le  cose  secondo  i  costumi  e  le  maniere 
del  suo  tempo.  L'architettura  in  quel  che  riguarda  la  comodita 
varia  secondo  la  varia  maniera  di  vivere.  Egli  distribui  i  comodi 
secondo  il  gusto  del  suo  tempo :  non  poteva  certamente  indovinare 
il  gusto  de'  suoi  poster!;  e  se  ne  fosse  stato  indovino,  avrebbe 
disgustato  i  suoi  contemporanei. 

£  rispetto  la  bellezza  delFarchitettura  che  il  Palladio  merita  d'es- 
ser  attentamente  riguardato.  Avendo  egli  sempre  avanti  gli  occhi  la 
nobile  maniera  degli  antichi,  si  form6  un  carattere  semplice  e  mae 
stoso.  Egli  non  affett6  mai  ne1  piedistalli  gli  sfondati1  o  rilievi:  di 
rado  tagli6  gli  architravi,  e  fece  ricorrere  i  sopraornati2  dritti  e  senza 
risalti :  le  porte,  le  finestre,  le  nicchie  semplici,  ed  i  frontespizi  giam- 
mai  rotti.  Conserve  agli  ordini  i  loro  precisi  caratteri:  non  caric6 
soverchiamente  di  membra  le  cornici,  ne  sbiec6  senza  ragione  di 
meccanismo  le  cantonate.3  Grand' accuratezza  nelle  sagome  de' 
corniciami.4  Vari6  le  modulazioni5  degli  ordini  conforme  i  vari 
generi  degli  edifizi  e  vari6  anche  le  interne  proporzioni  delle  stanze, 
delle  sale,  de'  tempii,  facendo  uso  delle  medie  proporzionali  aritme- 
tica,  geometrica  ed  armonica.  Nella  tanta  varieta  delle  proporzioni 
che  si  trovan  nelle  reliquie  degli  antichi  edifizi,  egli  seppe  trasce- 
glier  Tottime.  I  suoi  profili  sono  contraposti  e  facili:  ogni  cosa 
nelle  sue  fabbriche  e  legata,  e  vi  si  trova  il  grandioso,  F  elegante,  il 
serio.  Fece  uso  di  tutti  cinque  gli  ordini6  secondo  le  occorrenze; 


i.  sfondati:  vani,  incavi.  2.  sopraornati'.  le  parti  superior!  degli  ordini 
architettonici,  composte  dall' architrave,  dal  fregio  e  dalla  cornice.  3.  can 
tonate :  gli  angoli  esterni  degli  edifici.  4.  corniciami'.  cornici  di  ogni  ge- 
nere.  5.  modulazioni:  i  moduli,  che  servono  di  base  per  la  struttura  dei  vari 
ordini  architettonici.  6.  tutti  cinque  gli  ordini:  cioe  il  dorico,  lo  ionico,  il 
corinzio,  il  composito  e  il  toscano. 


MEMORIE   DEGLI   ARCHITETTI   ANTICHI   E   MODERNI       1047 

ma  del  ionico  pare  che  fosse  piu  vago,  e  fedele  seguace  di  Vitruvio1 
vi  uso  sempre  il  capitello  a  due  facce.  Al  capitello  corintio  egli 
ristrinse  le  foglie  verso  il  tamburo ;  il  che  fa  comparir  questo  suo 
capitello  un  po'  pesante.  Alle  finestre  del  primo  piano  in  luogo  di 
frontespizi  pose  talvolta  tre  mani  di  pietre  quadrilunghe,3  che  van- 
no  via  via  diminuendo  verso  la  cima;  il  che  fa  un  beireffetto. 
Tutte  le  cupole  ch'ei  fece,  sono  emisferiche. 

Nelle  sue  fabbriche  si  veggono  molte  scorrezioni.  Tutte  quelle 
che  son  contrarie  ai  principii  di  Palladio  stesso,  e  manifesto  che 
sono  nate  dall'esecuzione;  poichd  ad  alcune  egli  non  pote  assistere, 
ed  altre  furon  compite  dopo  la  sua  morte.  Vi  sono  altri  piccoli  errori, 
de'  quali  non  si  deve  tener  conto. 

Non  ego  paucis 

offendar  maculis  quas  out  incuria  fudit 
aut  humana  parum  cavit  natural 

Ma  vi  son  de'  difetti  d'un  altro  genere.  Non  si  dipingono  gli  uo- 
mini  quando  si  dipingono  senza  difetti:  togliere  al  vero  merito 
alcune  macchie  leggiere  e  un  fargli  torto.  In  Palladio  si  e  ammirato 
quasi  sempre  Puomo  illustre;  ma  qualche  volta  anche  Tuomo.4 

Egli  non  giunse  a  veder  chiara  Forigine  della  sua  professione: 
ebbe  qualche  barlume  della  essenza  del  bello  architettonico,  co- 
nobbe  alcuni  abusi,  ma  non  pervenne  a  trarne  tutte  le  giuste  con- 
seguenze  da  profugare  ogni  abuso.  Egli  studi6  piu  ad  imitar  1'an- 
tico  che  ad  esaminare  se  Tantico  era  esente  da'  vizi.  Se  egli  avesse 
ben  filosofato,  non  avrebbe  fatto  uso  (almen  si  frequente)  di  pie- 
destalli  sotto  le  colonne;  non  avrebbe  posto  colonne  di  diversa  al- 
tezza  sopra  uno  stesso  piano ;  avrebbe  risparmiato  tanti  frontespizi 
alle  finestre  ed  alle  porte,  ne  sul  pendio  di  quelli  avrebbe  sdraiate 
le  statue.  In  alcuni  edifizi  le  cornici  di  mezzo  son  soppresse,  in 
altri  son  lasciati  i  cornicioni  intieri,  e  talvolta  rotti  da  pilastri  o  da 
colonne;  alcune  camere  senza  cornici,  ed  altre  con  cornici.  Tutto 
cio  dimostra  I'architetto  che  va  a  tastone.  Nulladimeno  e  Palladio 


i.  Vitruvio:  dopo  questa  parola  sia  1'edizione  1781  che  quella  1785  hanno  i 
due  punti;  li  elimino  seguendo  Tedizione  1768.  2.  quadrilunghe:  quadran- 
golari  e  di  forma  piu  lunga  che  larga.  3.  Orazio,  Ars  poet.,  351-3  («non 
star6  a  criticare  poche  macchie  o  prodotte  dall' incuria  o  da  cui  poco  riusci 
a  guardarsi  1'umana  natura»).  4.  ma  .  .  .  I'uomoi  cioe  senza  tener  conto  dei 
suoi  inevitabili  difetti  o  addirittura  scambiandoli  per  virtu. 


1048  FRANCESCO    MILIZIA 

il  Raffaello  dell'architettura;  e  con  ragione  merita  sopra  ogni  altro 
d'essere  studiato.  Egli  fece  molti  e  molti  edifizi;  ma  non  ebbe  mai  la 
sorte  di  fame  alcuno  di  quelli  magnificamente  grandiosi;  sorte  rara 
ch'ebbero  i  Michelangeli  ed  i  Bernini.  La  sua  maestosa  e  corretta 
semplicita  avrebbe  trionfato.  Di  Palladio  si  pu6  dire  con  Plinio : 
«Beatos  puto,  quibus  datum  est  aut  facere  scribenda,  aut  scribere 
legenda:  beatissimos  vero  quibus  utrumque)).1  Dunque  tre  e  quat- 
tro  volte  beatissimo  il  nostro  Palladio,  il  quale  disse  e  fece  cose 
da  essere  non  solo  scritte  e  dette,  ma  degne  ancora  da  essere  vedute 
con  diletto  da  chiunque  ha  occhi;  e  non  solo  vedute,  ma  studiate 
e  imitate  in  perpetuo.  Vicenza  e  grata  al  suo  benefattore,  e  forse  e 
Tunica  citta  che  abbia  cura  del  suo  Palladio.  Ella  e  attualmente  in- 
tenta  alia  sontuosa  opera  di  quattro  volumi  in  foglio,  in  cui  Otta- 
vio  Bertotti  Scamozzi  raccoglie  tutti  i  disegni  delle  fabbriche  di 
Palladio;3  opera  che  fa  onore  a  Palladio,  a  Vicenza,  alPItalia. 

[Giudizio  sul  Borromini.]3 

Era  egli  di  temperamento  sano  e  robusto,  d'aspetto  non  brutto, 
benche  un  poj  torbido  e  bronzino,  di  capello  nero,  alto,  pieno  e 
nerboruto.  Fu  d'illibati  costumi,  pieno  di  gratitudine  e  disinteres- 
sato,  come  deve  essere  un  professore  delle  arti  liberali,  non  do- 
mandando  mai  prezzo  delle  sue  fatiche,  ed  abborrendo  d'unirsi  co' 
capomastri.  Egli  ebbe  si  gran  gelosia  dej  suoi  disegni,  che  per  ti- 
more  che  altri  non  se  ne  spacciassero  per  inventori,  li  fece  prima 
di  morire  bruciar  tutti.  Fece  bene.  Non  voile  mai  far  disegni  in 
concorrenza  d'altri,  dicendo  che  i  suoi  da  per  loro  stessi  si  avevan 
da  meritar  1'applauso;  ne  voile  altri  allievi  che  suo  nipote,  il  quale 
dopo  avuta  la  pingue  eredita  del  zio  diede  un  calcio  aU'architettura. 

II  Borromini  e  stato  uno  de'  primi  uomini  del  suo  secolo  per  1'ele- 
vatezza  del  suo  ingegno,  ed  uno  degli  ultimi  per  1'uso  ridicolo  che  ne 
ha  fatto.  In  architettura  egli  e  stato  come  un  Seneca  nello  stile  let- 

i.  Epist.,  vi,  xvi,  3  («  Stimo  felici  quegli  uomini  a  cui  fu  concesso  o  di  com- 
piere  azioni  degne  di  essere  ricordate  per  iscntto,  o  di  scrivere  cose  degne 
di  essere  lette ;  ma  felicissimi  quelli  a  cui  fu  concesso  1'uno  e  1'altro  privi- 
legio  »).  Dopo  quibus  il  Milizia  salta  le  parole  «  deorum  munere »).  2.  opera... 
Palladio:  cioe  Le  fabbriche  e  i  disegni  raccolti  ed  illustrati  da  O.  Bertotti 
Scamozzi,  di  cui  i  primi  tre  tomi  furono  stampati  a  Vicenza  nel  1776- 
1778,  il  quarto  nel  1786.  3.  Dalle  Memorie  degli  architetti  antichi  e  moderni, 
ed.  cit.,  n,  pp.  1 6 1-2. 


MEMORIE   DEGLI   ARCHITETTI   ANTICHI   E  MODERNI       1049 

terario  ed  un  Marini  in  poesia.  Da  principio,  quando  copiava,  fa- 
ceva  bene:  allorche  poi  si  pose  a  far  da  se,  spinto  da  uno  sfrenato 
amor  di  gloria  in  sorpassar  il  Bernini,  diede,  per  cosi  dire,  in  eresie. 
Ei  si  prefisse  di  rendersi  eccellente  colla  no  vita.  Non  cap!  Fessenza 
delFarcbitettura.  Quindi  scappo  fuori  quel  suo  modo  ondulato  ed 
a  zig  zag;  quella  sua  gran  voglia  d'ornare  tanto  lontana  dalla  sem- 
plicita,  ch'e  la  base  della  bellezza;  e  diede  libero  campo  alia  sua 
fantasia  d'usare  cartocci,1  colonne  annicchiate,  frontoni  rotti,  e 
qualunque  altra  stravaganza.  Si  scuopre  pero  anche  nelle  sue  mag- 
giori  strambalatezze  un  certo  non  so  che  di  grande,  di  armonioso, 
di  scelto,  che  fa  conoscere  il  suo  sublime  talento.  Or  se  quel  ge- 
nio  avesse  penetrato  nel  midollo  deH'architettura;  se  si  avesse  dato 
ad  emendarne  gli  abusi  non  veduti  da  tanti  perspicaci  valentuomini 
accecati  dalFabitudine ;  se  fosse  andato  in  cerca  delle  vere  propor- 
zioni  ancora  ignote  secondo  i  diversi  caratteri  degli  edifizi,  ed  a 
migliorare  i  membri  degli  ordini,  che  sono  migliorabili,  allora 
avrebbe  scoperte  novita  profittevoli  ai  posteri,  ed  avrebbe  sorpassa- 
to  tutti  i  piu  cospicui  suoi  antecessori,  non  che  il  Bernini.  Egli 
sbaglio  strada,  e  fu  causa  che  il  volgo  degli  architetti,  sorpresi  dal 
falso  brillante,  ha  seguita  la  sua  maniera,  tanto  piu  goffamente 
quanto  sono  stati  a  lui  inferiori  di  genio.  Ed  ecco  nata  la  delirante 
setta  borrominesca.  E  come  mai  attaccarsi  al  peggio  ?  II  Borromini 
osservo  tutte  esattamente  le  regole  di  disgustar  gli  occhi:  fu  un 
matto  compito  in  quella  parte  deirarchitettura  che  riguarda  la  bel 
lezza:  e  siccome  questa  e  piu  sensibile  delFaltre  due  parti,  chi 
lo  condanna  in  questa  lo  condanna  anco  in  quelle,  cioe  nella  como- 
dita  e  nella  solidita  delle  sue  fabbriche,  dove  egli  e  stato  savio  e 
mgegnosissimo.  Quando  un  err  ore  e  a  canto  ad  una  verita,  o  si  di- 
scredita  questa,  o  si  accredita  quello  al  favore  di  questa  vicinanza. 
£  una  specie  di  contagio.  Tanto  e  difHcile  il  discernere  il  bene  e  il 
male  in  uno  stesso  soggetto.  Ma  per  disgrazia  si  siegue  il  male  e 
si  fugge  il  bene. 


i.  cartocci',  motivi  ornamentali  rigonfi  propri  dello  stile  barocco. 


DAI  ccPRINCIPII  DI  ARCHITETTURA  CIVILE): 


Storia  dell' architettura  civile. 

JTinche  gli  uomini  si  contentarono  di  ricovrarsi  entro  le  grot- 
te  o  sotto  gli  alberi,  non  ebbero  bisogno  d'architettura,  come 
niun  bisogno  ebbero  d'agricoltura,  finche  le  ghiande,  i  frutti  sel- 
vatici  ed  altri  prodotti  spontanei,  che  si  paravano  loro  davanti, 
serviron  loro  di  cibo.  Ma  crescendo  il  numero  degli  uomini,  e 
formate  le  piccole  societa,  ecco  in  campo  Tarchitettura.  Ma  che 
architettura  ?  Tuguri  e  capanne  composte  di  tronchi  e  di  rami  d3 al 
beri  furon  le  prime  produzioni  delParte.  Fino  al  principio  dell'era 
volgare  si  conserv6  in  Atene,  madre  delle  scienze  e  delle  belle  arti, 

Alia  composizione  di  questo  trattato  il  Milizia  si  accinse  probabilmente 
subito  dopo  la  pubblicazione  delle  Vite  dey  piu  celebri  architetti  d'ogni  na- 
zione  e  d'ogni  tempo  (1768);  e  in  ogni  caso  prima  del  24  giugno  1769,  data 
di  una  lettera  a  Tommaso  Temanza,  nella  quale  Tautore  comunicava  al- 
ramico  di  averne  iniziata  la  stesura.  II  lavoro  dovette  procedere  spedita- 
mente,  se  inun'altra  lettera,  pure  al  Temanza,  del  30  marzo  1771,  il  Milizia 
dichiarava  che  il  trattato  era  gia  pronto  per  la  stamp  a.  Ancora  dopo  dieci 
anni,  tuttavia,  nella  Prefazione  alle  Memorie  degli  architetti  antichi  e  moderni 
(1781),  Tautore  accennava  al  suo  trattato  come  ad  opera  ancora  inedita: 
« lo  ho  cercato  di  fidarmi  de'  lumi  sparsi  ne*  piti  meritevoli  autori  di  archi 
tettura,  e,  confrontandoli  cogli  edifizi  antichi  e  moderni,  ho  raccolto  tutto 
in  un  trattato  sotto  il  titolo  Principii  di  architettura  civile  .  .  .  Quest' op  era  si 
stampa  o  si  stampera  a  Geneva ».  Di  questa  stampa  genovese  come  gia  ef- 
fettuata  si  parla  nell'awiso  editoriale  A  chi  legge,  che  precede  la  seconda 
edizione  dell'Arte  di  vedere  nelle  belle  arti  del  disegno,  pubblicata  appunto  a 
Genova,  presso  la  stamperia  CafTarelli,  nel  1786.  Ma  gia  il  Gamba  nella 
sua  notizia  sugli  scritti  del  Milizia  dichiarava  di  non  aver  mai  visto  alcun 
esemplare  di  questa  stampa,  ed  anzi  mostrava  di  dubitare  della  sua  effettiva 
esistenza.  Anche  le  ricerche  da  me  fatte  sono  rimaste  senza  risultato.  S em- 
bra  perci6  di  dover  ritenere  che  la  prima  edizione  dei  Principii  di  architettura 
civile  sia  quella  pubblicata  a  Finale,  nella  stamperia  di  lacopo  de'  Rossi, 
con  la  data  1781,  in  tre  tomi,  contenenti  rispettivamente  le  tre  parti  in  cui 
Top  era  e  divisa,  e  che  sono  intitolate:  Della  bellezza,  Delia  comoditd,  Della 
solidita.  Una  seconda  edizione,  con  qualche  modifica  ed  aggmnta,  fu  poi 
pubblicata  a  Bassano,  presso  Remondini,  nel  1785,  essa  pure  in  tre  tomi. 
Dopo  la  morte  del  Milizia  1'opera  fu  ristampata  a  Bassano,  Remondini, 
1804,  «  edizione  riveduta,  emendata  ed  accresciuta  di  figure  disegnate  ed 
incise  in  Roma  da  Gio.  Battista  Cipriani  sanese ».  Questa  edizione  fu  ancora 
riprodotta  a  Bassano,  Remondini,  1813  e  1823;  poi  a  Milano,  Ferrario, 
1832;  e  di  nuovo  a  Milano,  Maiocchi,  1847  e  1853.  Inoltre  una  traduzione 
tedesca  delP opera  fu  pubblicata  a  Lipsia,  1784-1786.  Per  le  pagine  qui  ri- 
prodotte  abbiamo  seguito  la  seconda  edizione  bassanese  del  1785  (tomo  I, 
pp.  3-19)  che  e  Pultima  approvata  dall'autore;  ma  abbiamo  tenuto  presente 
anche  la  prima  del  1781. 


PRINCIPII   DI   ARCHITETTURA    CIVILE  1051 

PAreopago  colPantico  tetto  di  stoppie.  E  nel  tempo  stesso  nella 
superba  Roma  si  mirava  ancora  sulla  sacra  rocca  del  Campidoglio 
il  real  palagio  di  Romolo  consistente  in  una  capannuccia  coperta  di 
vile  strame.  Di  questo  gusto  sono  per  sopra  due  terzi  della  nostra 
Terra  le  abitazioni  di  coloro  che  noi  con  tanto  ingiusto  disprezzo 
denominiamo  selvaggi.  E  nelle  piu  colte  contrade  europee,  qual  e 
Farchitettura  degli  abituri  de'  nostri  villani,  tanto  benemeriti,  e 
tanto  da  noi  vilipesi  e  strapazzati  ?  Dagli  antri  dunque  e  dalle  spe- 
lonche  e  uscita  Farchitettura  civile,  e  dalle  capanne  pian  pia 
no  si  e  elevata,  ed  e  giunta  al  tempio  di  Diana  in  Efeso,  al  Va- 
ticano.  Vile  origine!  E  quale  origine  e  nobile? 

DalFEgitto,  come  dal  cavallo  di  Troia,  si  fanno  uscire  tut- 
te  le  scienze  e  le  arti;  come  se  i  popoli  dell' Asia,  i  Caldei,  gPIn- 
diani,  i  Cinesi  non  abbiano  vantata  un'antichita,  a  petto  di  cui 
quella  degli  Egizi,  per  quanto  stupenda,  non  era  che  fanciullesca. 
Se  FEgitto  ha  avuto  Tebe,  Menfi,  Piramidi  e  Laberinti;  FAsia 
avea  gia  prima  Ninive  e  Babilonia  con  tanti  strepitosi  monumenti. 
Se  i  Greci  andavano  in  Egitto  per  istruirsi,  viaggiavano  ancora 
colla  stessa  mira  per  PAsia,  e  giungevano  fino  alFIndia.  Ma  co- 
munque  si  fosse,  e  certo  che  vi  e  voluto  gran  tempo,  affinche  lo 
spirito  inventore,  combinando  il  diletto  col  bisogno,  percorresse 

10  spazio  che  dalla  capanna  si  frappone  sterminato  ad  un  palazzo 
d'ordine  corintio.  E  piu  tempo  ancora  vi  e  voluto,  acciocche  un 
ragionamento  giusto  depurasse  si  bella  invenzione  da*  disordini 
e  dalle  irregolarita  d'una  immaginativa  licenziosa. 

Gli  Egiziani  abbozzaron  Farchitettura  pesantemente,  e  sorpre- 
sero  per  la  grandezza  delle  masse:  ma  le  loro  forme  furono  sen- 
za  grazia.  I  Greci  alPincontro  disegnarono  con  eleganza,  brilla- 
rono  per  la  purita  de*  contorni,  ed  inventaron  le  piu  belle  forme. 

11  gusto  era  giunto  ben  vicino  alia  perfezione  in  tempo  di  Pe- 
ricle,  cio&  quattro  secoli  e  mezzo  prima  dell'era  volgare:  si  man- 
tenne  vegeto  sotto  Alessandro  Macedone,  e  si  estese  in  alcune 
contrade  delFAsia,  e  fino  anche  in  Egitto.  I  Romani  verso  gli 
ultimi  tempi  della  Repubblica  adottarono  Parchitettura  greca,  Fe- 
seguirono  con  forza  e  con  maesta,  e  sotto  Augusto  Pimitazione 
giunse  quasi  a  pareggiar  Poriginale. 

Si  trovano  pertanto  nei  piu  bei  monumenti  di  quel  tempo  fa- 
moso  molte  prove  che  Parte  non  era  ancora  stata  sufficientemente 
sottomessa  alPimpero  della  ragione  e  del  gusto. 


1052  FRANCESCO   MILIZIA 

GFinventori  hanno  troppe  difficolta  da  sormontare  per  non  incor- 
rere  in  errori  e  in  difetti.  Le  Industrie  e  le  scoperte  si  arrestano  spes- 
so,  quando  il  progresso  dovrebbe  essere  piu  facile.  Che  cosa  piu  fa 
cile  della  stampa  dopo  le  monete  P1  E  gPinventori  prendono  il  buono 
ed  il  cattivo  del  modello,  senza  dubitare  che  abbia  bisogno  di  ret- 
tificazione,  credono  anzi  che  tutto  sia  giustificato  dall'autorita  e 
dalPesempio,  Ecco  perche  i  Greci,  ed  i  Romani  non  ci  hanno  tra- 
smessa  un'architettura  senza  macchie.  Dopo  di  loro  sarebbe  bi- 
sognato  che  nuovi  progressi  producenti  un  ragionamento  pm  giu- 
sto  avessero  rischiarati  i  lor  difetti,  introdotta  la  critica  nelPosser- 
vazione  delle  loro  opere,  ed  impedito  che  la  loro  celebrita  non  desse 
luogo  all'errore  di  usurpar  il  credito  delle  regole. 

Awenne  tutto  il  contrario.  I  successori  di  Vitruvio  ebbero 
la  sorte  di  tutti  grimitatori,  i  quali  restano  per  lo  piu  al  di  sotto 
del  loro  modello.  Ben  lungi  di  marciare  avanti  alia  perfezione, 
fecero  gran  cammino  indietro;  e  siccome  la  decadenza  e  sem- 
pre  piu  rapida  del  progresso,  1'architettura  si  vede  degenerata 
molto  sotto  Costantino,  fondatore  in  Roma  delle  basiliche  del  Sal- 
vatore2  e  di  San  Pietro,  non  si  riconobbe  quasi  piu  sotto  Giusti- 
niano,  che  nella  sua  S.  Sofia  in  Costantinopoli  pretese  di  far  mi- 
rabilia,  divenne  interamente  barbara  ne'  secoli  susseguenti,  allor- 
che  Timpero  romano  fu  rovesciato  da?  barbari. 

Ecco  aHJarchitettura  greco-romana  succedere  un'altra  pesante, 
sproporzionata,  oscura,  chiamata  comunemente  gotica,3  come  se 
i  Goti  ne  fossero  stati  gl'introduttori.  Niente  di  piu  falso.  I  Goti, 
i  Vandali  ed  altre  nazioni,  che  invasero  T  Italia,  non  fecero  cam- 
biar  faccia  alle  cose  nostre  piu  di  quello  che  abbian  fatto  alia  Cina 
i  Tartari,  che  piu  volte  Phanno  conquistata.  Uno  sciame  di  bar 
bari,  che  soggioghi  una  nazione  colta,  si  sottomette  ordinaria- 
mente  ai  costumi  di  quella:  perche,  deposte  le  armi,  vengono  in 
campo  le  arti  della  pace,  e  dalla  lor  dolcezza  e  preso  il  vincitore, 
che  vuole  pur  godere  della  vittoria.  In  fatti  Teodorico  re  de'  Goti 
e  degPItaliani,  lasciata  ogni  selvatichezza  nella  sua  patria,  supero 
molti  dej  migliori  imperadori  romani  nella  gloria,  nella  fortezza, 

i.  dopo  le  monete'.  dopo  I'invenzione  delle  monete.  2.  del  Salvatore: 
cosi  era  anticamente  chiamata  la  basilica  di  San  Giovanni  in  Laterano. 
3.  chiamata  comunemente  gotica:  il  Milizia,  con  questo  nome,  allude  qui 
all'architettura  dell'alto  Medioevo  in  genere,  e  m  particolare  alia  romanica. 
AH'architettura  che  noi  chiamiamo  « gotica »  dara  piii  avanti  il  nome  di 
gotica  moderna. 


PRINCIPII   DI   ARCHITETTURA    CIVILE  1053 

nel  buon  governo  e  nella  civilta  de*  costumi;  ed  in  Ravenna,  in 
Pavia,  in  Verona  fece  edificar  palazzi,  terme,  acquedotti,  anfitea- 
tri  su  quel  gusto  che  allor  correva  in  Italia.  Pure  e  prevalsa  1'opi- 
nione,  che  ogni  cosa  brutta  e  deforme  sia  derivata  da5  Goti,  e  gotica 
ancora  vien  chiamata.  I  barbari  non  avevano  architettura  ne  buona 
ne  cattiva.  Si  rovescia  sopra  i  barbari  il  corrompimento  del  gusto 
di  tutte  le  belle  arti  in  Italia,  come  se  gPItaliani  non  avessero 
da  per  loro  stessi  tanto  ingegno  da  corromperle.  La  nostra  su- 
perbia  attribuisce  a  coloro  quella  mostruosa  architettura,  la  quale 
e  nata  da  noi  altri  stessi  amanti  della  varieta  per  capriccio.  Ve- 
nuti  i  barbari,  si  conserv6  in  Italia  Puso  romano,  per  quello  che 
spetta  alia  solidita  ed  alia  costruzione  dej  muri,  come  anche  alle 
proporzioni  totali :  ma  rispetto  alia  bellezza  architettonica,  il  buon 
gusto  si  era  gia  perduto  prima  delPinvasione,  e  gli  architetti  ita- 
liani,  dipartitisi  gia  dalle  belle  forme  dej  Greci,  si  eran  dati  ad 
imitar  le  fantasie  di  quelle  pitture  grottesche,1  tanto  da  Vitruvio 
riprovate,2  e  tanto  da  noi  riverite  perche  antiche.  Sotto  i  Longo- 
bardi  si  ando  di  male  in  peggio,  e  sotto  i  Franchi  e  gli  Alemanni 
s'imbarberi  ogni  cosa,  a  segno  che  sotto  Carlo  Magno  non  si  faceva 
piu  scelta  di  forme,  non  esattezza  di  proporzioni,  ne  purita  d'orna- 
menti.  Tutto  era  imbastardito  e  corrotto. 

Tre  secoli  dopo,  cioe  tra  il  X  e  XI  secolo,  si  fece  uno  sfor- 
zo  generale  per  uscir  da  quello  stato  d'ignoranza  e  di  goffezza, 
ma  con  cattivo  successo.  Fino  allora  s'era  praticata  un'architettura 
mastina3  e  greve:  si  balz6  tutto  in  un  tratto  all'altra  estremita 
opposta.  Apparvero  fabbriche  leggierissime  della  piu  sorprendente 
sveltezza  e  d'un  ardire  straordinario.  Tutto  era  artistamente  tra- 
sforato  a  giorno,  e  le  mura  a  merletti  ed  a  filograna:  tutto  sembrava 
eccessivamente  debole,  e  tutto  era  d'una  solidita  incomprensibile,4 
come  si  vede  nelle  cattedrali  di  Parigi,  di  Reims,  di  Chartres,  ed  in 


i.  grottesche:  con  questo  termine  si  indicavano  le  bizzarre  decorazioni  pa- 
rietali  scoperte  in  Roma  nelle  rovine  della  Domus  aurea  neroniana  (chia- 
mate  popolarmente  «grotte»).  2.  da  Vitruvio  riprovate:  cfr.  De  arch.,  vii, 
v,3 :  « pinguntur  tectoriis  monstra  potius  quam  ex  rebus  finitis  imagines 
certaew  («si  affigurano  sulle  pareti  di  preferenza  immagini  mostruose  an- 
zi che  immagini  reali  desunte  dalle  cose  concretamente  esistenti »).  ^masti 
na:  pesante  e  grossolana.  4.  Apparvero  . . .  incomprensibile:  questo  notevo 
le  giudizio  sull' architettura  gotica  sara  piu  ampiamente  svolto,  in  questa 
stessa  opera,  nella  parte  n,  cap.  xvn,  §  v  e  vi  (ed.  cit.,  n,  pp.  424-32).  Esi 
veda  anche  la  Conclusione  delle  Memorie  degli  architetti  antichi  e  moderni. 


1054  FRANCESCO   MILIZIA 

altri  edifici,  specialmente  oltramontani.  Questa  specie  d'architet- 
tura  vien  detta  gotica  moderna,  e  ordinariamente  s'intende  di  que 
sta,  quando  si  nomina  architettura  gotica. 

Sopraggiunti  nello  stesso  tempo  gli  Arabi,  o  sieno  Saraceni, 
ed  i  Mori,  a  maltrattar  PItalia,  la  Francia  e  soprattutto  la  Spa- 
gna,  quella  nuova  gotica  architettura  fu  infrascata  di  tanta  pro- 
fusione  d'ornati  rabeschi1  e  moreschi,  che,  se  fanno  Pammira- 
zione  degl'ignoranti,  disgustano  altrettanto  gPintendenti.  I  pa- 
lazzi  degli  sceriffi  di  Marocco,  e  quelli  di  Granata,  di  Siviglia, 
di  Toledo  sono  di  questa  tempra.  Questa  fantastica  architettura 
supponeva  un  totale  obblio  degli  ordini  grechi:  era  un  sistema  tutto 
diverse,  un  carattere  tutto  all'opposto:  la  sola  fantasia  dell'archi- 
tetto  determinava  le  forme,  le  proporzioni  e  gli  ornamenti.  Per 
far  meglio  degli  altri,  bastava  superarli  in  arditezza,  e  scapricciare 
di  piu. 

Oltre  questi  mostri  d'architettura,  ve  ne  fu  un'altra  chiamata 
greca  moderna,  introdotta  dagli  ultimi  Greci  nej  secoli  XIII  e  XIV, 
i  quali  fecero  un  misto  del  buon  uso  antico  e  delParabesco,  come 
si  pu6  vedere  nella  chiesa  di  S.  Marco  in  Venezia,  ed  in  altri  edi 
fici  d}  Italia,  nej  quali  le  colonne  ed  i  membri  si  accostano  al- 
quanto  alle  buone  proporzioni  antiche. 

Fino  al  secolo  XV  la  ragione  umana  resto  immersa  in  un  pro- 
fondo  letargo.  Era  gia  tempo  che,  dopo  una  buona  dozzina  di  se 
coli  di  si  umiliante  sonnolenza,  le  menti  umane  finalmente  si 
destassero.  Un  intreccio  di  varie  circostanze,  la  decadenza  del 
barbaro  sistema  feudale,  il  progresso  del  commercio,  Pinvenzio- 
ne  della  carta  da  scrivere  e  finalmente  della  stampa,  fecero  ri- 
sorgere  in  Italia  insieme  colle  scienze  e  colle  belle  arti  la  buona 
architettura  antica.  Le  ruine,  specialmente  di  Roma,  ne  avevano 
felicemente  conservate  le  tracce.  Si  esaminarono,  se  ne  penetrarono 
i  rapporti,  si  trovo  quel  sistema  preferibile  ad  ogni  altro. 

Questa  scoperta  coincise  col  progetto  di  rifabbricar  la  ba 
silica  di  S.  Pietro  in  Vaticano,  onde  i  Bramanti,  i  Peruzzi,  i  San- 
galli,  i  Michelangeli,  i  Vignola  impiegaron  tutta  la  forza  del  loro 
ingegno  per  uguagliar  nella  costruzione  di  questo  edificio  le  me- 
raviglie  delPantichita.  II  loro  esempio  eccito  Pemulazione,  ed  il  lo 
ro  successo  fece  legge.  II  secolo  di  Cosmo  de'  Medici,3  di  Leon  X 

i.  rabeschi:  arabeschi;  qui  la  parola  e  usata  nel  suo  valore  originario  di  ag- 
gettivo.     2.  Cosmo  de'  Medici ;  Cosimo  I,  granduca  di  Toscana  ( 1 5 1 9- 1 5 74) . 


PRINCIPII   DI   ARCHITETTURA    CIVILE  1055 

fu  brillante  al  pan  di  quello  di  Alessandro  e  di  Augusto.  Roma 
da  sotto  le  sue  mine  rialzo  il  suo  antico  genio,  e  scuotendo  la  polvere 
mostro  di  nuovo  la  sua  testa  rispettabile,  e  Tltalia  diede  un  codice 
d'architettura  all'altre  nazioni  d'Europa,  come  lo  diede  in  tutte  le 
belle  arti.  Questa  regione  si  vide  feconda  di  artisti,  come  una  volta 
di  eroi,  senza  aver  ne  Messico  ne  Indie. 

La  rivoluzione  fu  ben  pronta,  malgrado  i  pregiudizi  e  gli  osta- 
coli  da  sormontarsi.  Tanto  la  vera  bellezza  ha  d'impero  sopra 
i  nostri  sensi.  La  buona  architettura  si  stabili  poi  in  Francia, 
per  farvi  brillare  il  secolo  di  Luigi  XIV.  Eresse  alcune  mo- 
li  nella  Spagna:  si  e  vendicata  nella  Germania  de'  suoi  pretesi 
torti:  e  scorsa  fino  a  Pietroburg,  convertendo  i  marassi1  e  le  bo- 
scaglie  in  sontuosi  edifizi  e  in  delizie:  ha  adornata  la  Svezia,  la 
Danimarca,  le  Fiandre,  ed  ha  fissato  il  piede  nelTInghilterra  in 
compagnia  della  ragione,  dell'opulenza,  della  gloria:  ed  a  guisa  del 
mare  che,  se  perde  da  una  parte,  acquista  altrove,  ella  ha  acquistato 
al  Nort  piu  che  non  ha  perduto  nelTAsia,  nell'Egitto,  nella  Gre- 
cia,  ove  da  tanti  secoli  le  scienze  e  le  arti  sono  perite  senza  appa- 
renza,  nemmen  remota,  di  risorsa.2  Le  arti  e  le  scienze  fanno  il  giro 
del  mondo.  Allignano  da  per  tutto,  anche  nel  dispotismo,  come  si 
e  veduto  nel  dispotismo  romano,  e  come  si  vede  ancora  in  piu  con- 
trade. 

Ma  ristaurandosi  cosi  la  bella  architettura,  ci  han  voluto  due 
secoli  di  tentativi  e  di  sforzi  prima  di  giungere  a  rimettersi  in  quel 
punto  in  cui  ella  fioriva  nel  tempo  di  Augusto.  Rimane  adesso  di 
far  quello  che  doveva  farsi  allora  dopo  Vitruvio,  cioe  depurarla  de' 
suoi  difetti,  e  portarla  s'e  possibile  alia  perfezione.  Ma  siamo  noi 
in  questo  felice  caso  ?  Sembra  di  si,  non  ostante  il  grido  universale 
contro  la  pratica  dell'arte  attualmente  in  decadenza.  Si  potrebbe 
pero  proporre  se  sia  maggior  la  distanza  dalla  ignoranza  intera  di 
un'arte  alia  sua  scoperta,  o  dalla  sua  scoperta  alia  sua  ultima 
perfezione.  Problema  difficile  da  risolversi  con  esattezza.  La  sco 
perta  e  quasi  sempre  Feffetto  d*un  azzardo  felice  combinato  co' 
talenti  piu  perspicaci.  L'ultimo  punto  di  perfezione,  cui  una  sco 
perta  possa  giungere,  ci  e  quasi  sempre  ignoto.  II  progresso  e  il 
miglioramento  dipendono  anche  dalF azzardo,  e  da  una  serie  di 
teste  sublimi,  che  succedano  agrinventori,  che  valutino  le  inven- 

i.  marassi:  paludi  (dal  francese  marais).     2.  risorsa:  risorgimento. 


1056  FRANCESCO    MILIZIA 

zioni  per  quello  che  realmente  sono,  e  che  senza  stupefarsi  aH'am- 
mirazione  ed  all'imitazione,  sappiano  veder  sempre  piii  lungi,  ma 
sempre  giusto,  e  meglio.  Cosa  ben  difficile.  L'Egitto,  la  Cina  fan- 
no  vedere  che  il  miglioramento  e  piu  distante  dall'invenzione, 
che  questa  dalla  ignoranza.  Si  dia  un'occhiata  a  tutte  le  scienze 
ed  a  tutte  le  arti  incominciando  dalPagricoltura,  e  si  vedra  pal- 
pabile  questa  verita.  L5  architettura  sembra  nella  stessa  condizione. 
«  Facile  est  inventis  addere.  v1 

Nella  meta  di  questo  nostro  secolo  si  e  fatto  un  cangiamen- 
to  ben  rimarchevole  nelle  nostre  idee,  ed  e  incontrastabil  tra  noi 
il  progresso  di  quella  sana  filosofia,  la  quale  non  consiste  che  nel- 
Papplicazione  della  ragione  ai  differenti  oggetti,  su'  quali  ella  pu6 
esercitarsi.  Ond'e  che  questo  secolo  vien  per  eccellenza  chia- 
mato  il  « secolo  della  filosofia ».  Lo  spirito  filosofico,  contro  cui 
taluni  si  sono  scagliati,  come  distruttore  del  buon  gusto,  si  estende 
a  tutto.  Una  filosofia  mezzana  allontana  dal  vero,  ma  una  filosofia 
ben  intesa  vi  conduce.  Tuttocio  che  appartiene  non  solo  alia  no- 
stra  maniera  di  concepire,  ma  anche  alia  nostra  maniera  di  sentire, 
e  il  vero  dominio  della  filosofia.  Come  mai  dunque  il  vero  spirito 
filosofico  pu6  opporsi  al  buon  gusto  ?  Egli  ne  &  anzi  il  piu  fermo 
appoggio,  perche  egli  consiste  a  rimontare  ai  veri  principii,  a  rico- 
noscere  che  ogni  arte  ha  la  sua  natura  propria,  ogni  cosa  il  suo 
parti colar  colorito  ed  il  suo  carattere ;  in  una  parola  a  non  confon- 
dere  i  limiti  di  ciascun  genere.  Questo  spirito  filosofico,  nelPab- 
bracciar  le  belle  arti,  ha  abbracciata  con  ispecialita  I5  architettura, 
la  quale  ne  ha  ritratto  notabil  vantaggio,  almeno  in  teorica,  per  la 
filosofica  maniera  come  ella  e  stata  trattata  da  Fr6zier  in  quella 
sua  bella  dissertazione,2  dalPAlgarotti  nel  suo  sensato  Saggio  sopra 
T architettura3  da  Logier4  in  quelle  sue  sagaci  osservazioni,  da 

i.  «E  facile  perfezionare  le  invenzioni. »  2.  Allude  alia  Dissertation  sur  les 
ordres  de  V architecture,  pubblicata  in  appendice  al  trattato  La  theone  el  la 
pratique  de  la  coupe  des  pier  res  et  des  bois  pour  la  construction  des  voutes  etc., 
Strasbourg  1737-1739  (poi  ristampata  con  aggiunte,  Paris  1754-1769)  di 
Ame"dee- Fra^ois  Frezier  (1682-1775).  3.  USaggio  sopra  V architettura  del- 
PAlgarotti,  pubblicato  per  la  prima  volta  a  Pisa  nel  1753,  e  successivamente 
ristampato  nelle  varie  edizioni  complessive  delle  Opere.  Intorno  alPin- 
fluenza  esercitata  dal  saggio  algarottiano  sul  pensiero  e  sul  gusto  del  Mili- 
ziacfr.  A.  M.  GABRIELLI, UAlgarotti  e  la  critica  d'arte  inltaha  nelSettecento, 
citato  nella  bibhografia,  e  la  nostra  Nota  introduttiva.  4.  Logier :  Marc- 
Antoine  Laugier  (1713-1769),  autore  di  un  Essai  sur  I 'architecture ,  Paris 
I753-I755j  tradotto  in  varie  lingue  e  assai  conosciuto  nell'Europa  sette- 


PRINCIPII    DI   ARCHITETTURA    CIVILE  1057 

Cordomoy,1  e  da  parecchi  altri.  E  maggiore  pu6  sperarsi  il  suo 
progresso,  se  si  continuera  a  sottoporre  le  opere  anche  migliori 
de1  nostri  artisti  ad  un  giudizio  severe,  a  riprender  ogni  difet- 
to,  a  rilevarne  i  pregi,  ad  esiger  ch'eglino  rendano  ragione  del- 
le  forme,  delle  proporzioni,  degli  ornamenti,  a  spianar  le  diffi- 
colta  della  teorica,  e  ad  unire  le  riflessioni  airesperienza. 

Svaniranno  cosi  i  duri  lament!  sopra  la  decadenza  deHJarchi- 
tettura.  Ne,  se  ora  v'e  qualche  abbondanza  di  cattivi  architetti, 
e  questo  un  indizio  che  Parte  tenda  alia  sua  ruina.  Qual  secolo 
piu  florido  di  quello  di  Augusto  ?  E  pure  Vitruvio  si  scatena  fu- 
riosamente  contro  quei  suoi  contemporanei.  Gli  stessi  lamenti  fe- 
cero  i  Greci  nei  loro  piu  bei  tempi,  e  Platone  ha  lasciato  scritto 
che  un  buon  architetto  era  una  rarita  in  Grecia.  Questi  sono  la 
menti  d'ogni  tempo,  d'ogni  luogo,  e  sopra  qualunque  soggetto: 
Fuomo  e  querulo.  E  quando  mai  e  dove  i  profess  ori  di  qualun 
que  genere  sono  stati  tutti  eccellenti  nelle  loro  rispettive  profes- 
sioni?  II  numero  de'  buoni  per  lo  piu  non  e  mai  il  maggiore. 
E  se  P Italia  ora  non  sa  vantare  dej  Vignola,  de'  Palladi,  de'  Bernini, 
Tillazione  che  sia  senza  valenti  architetti,  non  e  giusta.  Ne  men 
Flnghilterra  ha  ora  un  Newton,  un  Locke,  un  Pope,  un  Jones,2 
e  pure  ella  e  adesso  florida  piu  che  mai  in  ogni  genere  scientifico 
e  di  arti.  Non  v'e  bisogno  che  ogni  eta  spicchi  ugualmente  feconda 
d'alcuni  ingegni  straordinariamente  sublimi  e  risplendenti.  Anzi 
il  non  comparire  in  una  nazione  alcun  valent'uomo  sopra  gli  altri 
di  gran  lunga  eminente,  puo  esser  talvolta  effetto  di  una  coltura 
universalmente  estesa;  come  in  un  bosco  ben  formato  non  si  vede 
alcun  albero  sorpassar  troppo  gli  altri,  perche  quasi  tutti  sono  ben 
cresciuti,  e  presso  a  poco  di  egual  grandezza.  Chi  sa  che  questo  non 
sia  Tattuale  stato  degli  architetti  italiani  ? 

II  male  e  che  un  secolo  di  luce  suole  esser  seguito  da  un  altro 
di  tenebre,  come  il  giorno  dalla  notte.  Ma  non  siamo  ancora,  per 

centesca,  e  che  e  una  esposizione  divulgativa  dei  concetti  esposti  nel  Nou- 
veau  traite  del  Cordemoy  (citato  nella  nota  seguente),  non  senza  echi  delle 
idee  dell' abate  Lodoli,  conoscmto  dal  Laugier  durante  un  soggiorno  a 
Venezia.  i.  Cordomoy:  Louis-Girard  de  Cordemoy  (1651-1722)  pubblic6 
un  Nouveau  traite  de  toute  V architecture,  ou  Vart  de  bastir  etc.,  Paris  1706 
e  1714,  la  prima  opera  di  teoria  architettonica  sistematicamente  ispirata 
ai  principii  del  classicismo  razionalistico.  2.  Inigo  Jones  (1573-1652),  ini- 
ziatore  in  Inghilterra  di  un'architettura  ispirata  al  classicismo  italiano,  e 
specialmente  al  Palladio. 

67 


1058'  FRANCESCO   MILIZIA 

cosi  dire,  die  air  alba  di  questo  secolo  di  filosofia,  ne  il  periodo 
di  questa  specie  di  secoli  e  di  una  durata  calcolabile.  II  secolo  aureo 
dell'architettura,  delle  belle  arti  e  delle  scienze  dur6  in  Grecia  per 
una  buona  dozzina  di  secoli.  A  quello  e  succeduto  cola  il  f  erreo  oscuro 
secolo  della  durata  finora  di  1300  anni,  e  chi  sa  fin  a  quanto  vorra 
durare?  In  molte  regioni  dell' Asia,  dell' Africa,  dell* America  ed  in 
alcuni  contorni  anche  dell'Europa  non  ha  fatto  mai  giorno.  La 
barbarie  dura  secoli,  e  sembra  il  nostro  elemento.  In  Europa  sono 
ormai  trecento  anni  che  si  sono  ristabilite  le  belle  arti  e  le  scienze. 
Sembra  che  le  cose  morali,  come  le  fisiche,  sieno  soggette  a  ma- 
lattie,  a  sonni,  a  interruzioni ;  mali  tutti  che  producono  sovente 
del  bene,  depurano,  rettificano  il  cattivo  umore  che  si  era  for- 
mato.  Fu  un  gran  male  certamente  la  barbarie  che  soffri  TEuropa 
nella  feccia  di  tanti  secoli,  ma  senza  quella  malattia  non  sarebbero 
le  arti  e  le  scienze  risorte  si  vigorose,  ne  sarebbe  questo  secolo, 
che  abbiam  la  sorte  di  godere,  si  illuminato,  se  fossero  stati  gli 
altri  piu  risplendenti.  Dopo  quella  barbarie  il  progresso  v'&  stato 
continuamente  maggiore:  seguita  tuttavia  ad  esser  sempre  piu 
grande;  e  merce  la  stampa,  le  accademie  e  lo  spirito  filosofico 
sembra  che  la  continuazione  voglia  esser  sempre  piu-prospera  e 
per  venire  alia  perfezione:  almeno  non  v'e  apparenza  da  temerne 
un  rovescio.  Rimane  solo  che  1' Italia  deponga  quel  resto  d'alba- 
gia  proveniente  dalla  rimembranza  di  essere  stata  un  tempo  la 
legislatrice  degli  altri  popoli  in  ogni  cosa.  Ma  si  ricordi  ch'el- 
la  e  stata  anche  barbara,  e  che  dalla  Grecia  ha  ricevuti  i  primi 
rudimenti.  Impari  ora,  n6  le  importi  donde.  Le  nazioni  sono  a  vi- 
cenda  maestre  e  discepole.  Per  chi  pensa  non  v'e  ne  francese  ne 
inglese:  chi  c'istruisce,  &  nostro  compatriotta:  e  tutti  gli  artisti 
debbono  trattarsi  da  fratelli.  Questo  abbozzo  di  storia  si  vedra  svi- 
luppato  gradatamente  nelle  Vite  degli  architetti*  le  opere  dej  quali 
sono  espressamente  descritte  per  far  conoscere  rorigine,  i  pro- 
gressi,  le  vicende  delFarte. 

Si  e  lodata  Tarchitettura  greco-romana,  e  si  e  lodata  come 
la  sola  fregiata  di  bellezza:  ma  in  che  consiste  il  bello  di  questa 
architettura  ?  quali  son  le  regole  ed  i  principii  che  si  hanno  da 
osservare,  affinche  un  edifizio  piaccia,  sia  aggradevole  alia  vista, 
in  una  parola  sia  bello  ? 

i.  nelle  Vite  degli  architetti:  il  Milizia  cita  la  sua  opera  con  il  titolo  della 
prima  edizione. 


PRINCIPII   DI   ARCHITETTURA   CIVILE  1059 

Gia  si  e  veduto  che  Parchitettura  greco-romana  dopo  essere 
stata  tenuta  per  bella  per  alquanti  secoli,  perdette  la  riputa- 
zione  della  sua  bellezza,  allorche  fu  sgambettata  dalla  gotica.  La 
bella  fu  indi  la  gotica,  lo  fu  universalmente,  lo  fu  per  quasi  died 
secoli,  e  lo  fu  in  Grecia,  in  Italia,  in  Roma,  a  dispetto  di  tanti 
antichi  monumenti  stimati  prima  bellissimi.  Or  se  la  bella  vecchia 
e  risorta  con  abbatter  la  sua  rivale,  sembra  questo  un  giuoco  del- 
Faltalena,  o  un  giro  di  mode,  delle  quali  si  puo  bensi  dire  quale 
sia  la  meno  incomoda,  ma  non  quale  la  piu  bella.  Qual  differenza 
di  architettura  tra  gli  antichi  Greci  e  quej  Maomettani  che  lor  son 
succeduti  nello  stesso  paese?  Chi  ha  il  buon  gusto,  i  Cinesi,  i 
settentrionali,  grindiani,  noi,  o  i  nostri  antecessori?  Una  tal  que- 
stione  sara  forse  della  stessa  natura  che  quella  della  differente 
foggia  dei  nostri  abiti  ?  Ognun  conviene  della  necessita  di  coprirsi 
e  di  difendersi  dalle  ingiurie  dell' aria,  ma  non  gia  della  grazia 
deirabbigliamento,  la  quale  dipende  dall'assuefazione  di  veder  gli 
oggetti  inviluppati  in  una  certa  maniera,  e  cio  che  non  e  conforme 
alia  moda  e  insopportabilmente  ridicolo.  Guai  se  Parchitettura  di- 
pendesse  dalla  moda:  sarebbe  soggetta  a  continue  vicende,  e  la 
bella  sarebbe  sol  la  corrente. 

Guai  ancora  se  ella  dipendesse  dalla  convenzione  degli  archi- 
tetti.  Costoro  han  succhiati  dalPinfanzia  i  principii  dei  loro  mae 
stri,  gli  hanno  adottati  su  la  loro  riputazione,  e  gli  han  venerati 
come  precetti  infallibili,  giusti  o  falsi  che  si  fossero.  Eglino  sono  in 
oltre  soggetti,  o  per  necessita  o  per  debolezza,  a  deferire1  ai  capricci 
di  chi  fa  fabbricare.  Addio  percio  alia  ragione,  e  pecorescamente 
si  avrebbe  da  stimare  su  la  lor  parola. 

Di  piu,  quale  architetto  avremmo  noi  da  seguire?  Vitruvio, 
il  venerando  legislatore  Vitruvio,  il  quale  si  deve  riguardare  co 
me  PAtlante  di  tutta  Pantichita,2  perche  e  Punico  scrittore  d'ar- 
chitettura  rimastoci  di  tutti  gli  antichi,  benche  a  suo  tempo  in 
Roma  solo  fossero  piu  di  700  architetti,  e  tra'  Latini  fossero  fioriti 
Fufizio,  Terenzio  Varrone,  Rufo,  Epafrodio,3  e  tra'  Greci  Aga- 


i.  deferire:  essere  deferent!.  2.  VAtlante  di  tutta  V antickitai  in  quanto  so- 
stiene  da  solo  il  peso  e  la  responsabilita  della  teoria  architettordca  degli  an 
tichi.  3.  Fuficio  e  Terenzio  Varrone  (il  testo  ha  « Terenzio,  Vartone») 
sono  ricordati  da  Vitruvio  (De  arch.,  vn,  14)  come  autori  di  trattati  di  ar 
chitettura.  Rufo  ed  Epafrodito  sono  citati  nel  codice  Arceriano  fra  i « gro- 
matici ». 


io6o 


FRANCESCO   MILIZIA 


tario,  Democrito,  Teofraste,1  tutti  spariti.  Vitruvio  non  da  un'idea 
distinta  della  differenza  degli  ordini:  sembra  che  ei  li  voglia  sta- 
bilire  nella  proporzione  delle  colonne,  e  frattanto  egli  li  vuol  di- 
stinguere  senza  cambiar  le  misure;  contraddizione  manifesta.  II 
suo  gusto  non  era  il  phi  squisito,  poiche  le  sue  misure  son  diverse  da 
quelle  che  si  osservano  nei  piii  seri  monumenti  delFantichita  da  tutti 
tenuti  per  eccellenti.  Quindi  lo  Scamozzi2  scrisse:  «Non  doversi 
a  Vitruvio  una  cieca  deferenza,  come  si  puo  comprender  dagli 
ordini  e  dalle  altre  parti,  ch'egli  descrisse  nelle  sue  opere,  le  quali 
mancano  di  proporzione  e  di  bellezza,  se  colle  antiche  saranno  pa- 
ragonate;  e  perci6  la  maggior  parte  di  esse  non  sono  state  ne 
lodate  ne  poste  in  uso  dagli  architetti  intendenti ».  Pare  certo  che 
Vitruvio  non  abbia  riguardate  le  proporzioni  degli  ordini  come 
una  regola  costante,  poiche  egli  cambia  per  i  teatri  quelle  propor 
zioni  da  lui  prescritte  per  li  tempii.  Egli  permette  che  si  metta  or- 
dine  sopra  ordine  senza  sopprimer  la  cornice  del  primo,  benche 
egli  stesso  ne  conoscesse  Tassurdo.  La  sua  base  ionica  fa  pieta, 
come  quel  suo  plinto  rotondo  nella  base  toscana,  e  come  quella 
falsa  regola  di  ottica,  che  in  un  portico  le  colonne  agli  angoli,  e 
tutte  quelle  che  sono  dalPuna  alFaltra  parte  a  filo  delle  medesime, 
•debbansi  fare  a  piombo  dalla  parte  di  dentro,  e  restremate  dalla 
parte  di  fuori. 

Se  a  Vitruvio  dunque  non  si  deve  prestar  tutta  la  fede,  chi  sceglie- 
remo  nella  folia  di  tanti  architetti  dottori  che  sono  venuti  dopo  di  lui  ? 
Alberti,  Serlio,  Palladio,  Scamozzi,  Vignola,  Bullan,  de  TOrme3 
e  tanti  altri  son  tutti  rispettabili,  ma  tutti  fra  loro  molto  discrepanti, 

1.  Agatarco  e  Democrito  sono  nominati  da  Vitruvio  (De  Arch.,  vn,  1 1)  come 
teorici  di  scenografia;  Teofrasto  invece  come  idrologo  (De  arch.>  vm,  27). 

2.  L'architetto  vicentino  Vincenzo  Scamozzi  (1552-1616)  scrisse  un  ampio 
trattato  in  due  tomi  dal  titolo  DelVidea  delV  architettura  universale,  Venezia 
1615,  che  rappresenta  Tultima  espressione  della  teoria  architettonica  del 
Rinascimento,  e  che  ebbe  grandissima  difTusione  e  influenza  in  Italia  e  in 
Europa.  Non  vi  ho  ritrovato  il  passo  citato  dal  Milizia;  probabilmente  que- 
sto  riassume  con  parole  sue  un  giudizio  su  Vitruvio  che  si  legge  nel  tomo  I, 
p.  27,  dell'edizione  citata.     3.  Leon  Battista  Alberti  e  ricordato  per  il  trat 
tato  De  re  aedificatoria  (1485);  Sebastiano  Serlio  (nato  nel  1475)  per  le 
Regole  generali  di  architettura,  in  sette  libri,  pubblicati  fra  il  1537  e  il 
*575   (di  un  ottavo  libro  and6  perduto  il  manoscritto) ;    il  Palladio  per  I 
quattro  libri  delV architettura  (1570);  lo  Scamozzi  per  1'opera  citata  nella 
nota  precedente;  il  Vignola  per  le  Regole  delh  cinque  ordini  deW architettura 
(1562);  Jean  Bullant  per  la  Regie  generale  d* architecture  de  cinq  manieres  de 
colonnes,  Paris  1664  e  1668;  Philibert  de  L'Orme  (1510  circa  -  1570)  per  Le 


PRINCIPII   DI   ARCHITETTURA   CIVILE  Io6l 

non  solo  nella  varieta  del  profili,  ma  anche  nel  rapporto  de'  dia- 
metri  delle  colonne  alia  loro  altezza  ed  a  quella  de'  lor  cornicioni. 
Ciascuno  di  questi  valent'uomini  ha  i  suoi  partigiani,  niuno  e  ge- 
neralmente  seguito,  tutti  hanno  i  loro  particolari  difetti.  Quale 
dunque  dovra  seguitarsi? 

Se  1'autorita  degli  architetti  e  di  un  polso  leggiero,  di  piu  debol 
forza  vorranno  riuscire  gli  esempi  de'  monument!  piu  celebri,  i 
quali  non  possono  valere  piu  che  i  professori  die  li  hanno  fatti, 
con  quel  di  meno,  che  si  perde  sempre  dalla  teorica  alia  pratica. 
In  fatti  i  monumenti  piu  rinomati  dell'antichita  son  pieni  di  difetti, 
e  di  difetti  talvolta  maiuscoli  contro  il  buon  senso :  oltreche  la  dif- 
ferenza  de'  lor  profili  e  delle  proporzioni,  e  considerable  in  tutti. 
II  mausoleo  presso  S.  Remis1  in  Provenza,  opera  del  bel  secolo  di 
Augusto,  ha  colonne  ridicolamente  corte.  L'arco  di  Costantino 
ha  piedestalli  d'un' altezza  smisurata,  ed  il  tempio  di  Scisi,2  rife- 
rito  e  disegnato  dal  Palladio,  ne  ha  degl'isolati  contro  ogni  buon 
gusto.  I  modiglioni3  non  sono  a  piombo  sul  mezzo  delle  colonne 
nell'arco  di  Traiano,  nel  Panteon  ed  in  tanti  altri  stimatissimi  edi- 
fizi,  come  nol  sono  ne  meno  i  triglifi  nel  tempio  della  Pieta,4  ed 
altrove.  II  teatro  di  Marcello  e  le  Terme  Diocleziane  hanno  la  cor 
nice  dorica,  ornata  di  dentelli,  contro  il  divieto  formale  di  Vitruvio. 
Nell'arco  di  Tito  sono  dentelli  e  modiglioni  a  dispetto  di  Vitruvio. 
Ed  il  Panteon  non  ha  al  di  dentro  inutili  frontespizi  ed  archi  supini 
taglianti  que'  pilastri  dell'attico,  i  quali  posano  in  falso?  Se  gli 
esempi  dei  monumenti  antichi  autorizzassero,  ogni  difetto  reste- 
rebbe  autorizzato. 

II  celebre  M.  Roland  Freart  de  Chambray, s  nel  suo  ytil  trattato 
Parallele  de  I* architecture  antique  avec  la  moderne,  non  ha  altra 
regola  di  giudicare  sopra  la  bellezza  dell'architettura,  che  i  monu- 

premier  tome  de  I' architecture,  Paris  1567,  e  le  Nouvelles  inventions  pour  bien 
bastir,  Paris  1561.  i.Il  mausoleo  presso  S.  Remis:  allude  alia  tomba  dei 
Giulii  a  Saint-Remy,  oggi  artribuita  a  data  di  poco  anteriore  all' era  volgare. 
2.  U  tempio  di  Scisi:  cioe  il  tempio  di  Minerva  (ora  Santa  Maria  della  Mi 
nerva)  di  Assisi,  illustrate  dal  Palladio  nei  Quattro  libri  dell'architettura  (cfr. 
Tedizione  di  Venezia,  Carampello,  1616,  pp.  103-5).  3.  modiglioni:  le  men- 
sole  sottoposte  ai  gocciolatoi.  4.  tempio  della  Pietd:  non  so  a  quale  tempio 
alluda  il  Milizia;  i  due  templi  di  questo  nome  di  cui  si  ha  notizia,  sono  di- 
strutti  da  molti  secoli.  5.  Roland  Freart  de  Chambray  (morto  nel  1676), 
noto  anche  come  traduttore  del  Trattato  della  pittura  di  Leonardo  e  dei 
Quattro  libri  delV architettura  del  Palladio.  II  Parallels  de  V architecture  antique 
avec  la  moderne,  che  e  ricordato  dal  Milizia,  fu  pubblicato  a  Parigi  nel  1650. 


Io6z  FRANCESCO   MILIZIA 

menti  antichi  e  Vitruvio.  Ma  se  gli  si  fosse  domandato  perche  si  ha 
da  stare  a  Vitruvio  ed  agli  antichi  edifizi,  chi  sa  che  cosa  egli 
avrebbe  risposto.  E  che  pu6  rispondere  di  ragionevole  chi  non  ad 
duce  che  autorita  ed  esempi  in  vece  di  ragioni? 

Si  domanda  perche  Tarchitettura  greco-romana  e  bella,  rela- 
tivamente  alle  altre,  in  che  consiste  questo  suo  bello,  e  quali  ne 
son  le  regole  per  conoscerlo  e  per  eseguirlo.  Rispondere  con  esem 
pi  e  con  autorita,  e  un  non  rispondere,  e  per  conseguenza  e  un 
lasciar  1'arte  in  una  mobilita  perpetua,  ed  esporla  a  continui  rove- 
sci:  e  nell'eseguirla  il  prendersi  per  guida  F  autorita  e  gli  esempi 
e  un  costituirsi  cieco,  per  farsi  condurre  da  guide  ugualmente  cie- 
che  e  fallaci,  che  non  ci  guidino,  ma  ci  disperdano  in  errori.  V'e 
bisogno  di  principii  certi  e  costanti,  dedotti  dalla  natura  stessa 
della  cosa,  da'  quali  principii  la  ragione  tragga  le  giuste  conseguenze 
per  tutto  quello  che  si  deve  o  non  fare  nell'architettura.  Allora 
si  avra  una  scorta  fida  e  sicura,  che  ci  conduce  francamente 
alia  desiderata  meta.  Per  ritrovarla  andiamola  a  cercare  nella  ori- 
gine  delFarchitettura,  e  particolarmente  de'  suoi  ordini. 


DA  «DELL'ARTE  DI  VEDERE  NELLE  BELLE 

ARTI  DEL  DISEGNO  SECONDO  I  PRINCIPII 

DI  SULZER  E  DI  MENGS» 

I 

SCULTURA* 

Ercole? 

ccPerche  un  Ercole  Farnese  e  non  due? 

Sono  pur  due,  e  simili  come  due  uova.  Anzi  quello  che  io  veggo 
alia  mia  destra,  e  piu  bello.  L'altro  che  riscuote  tutti  gli  encomi, 
e  cieco,  e  pieno  di  montagnole  per  tutta  la  vita.  »3  Sentenza  di 
chi  credeva  saper  vedere,  decideva  con  tuono,  ed  era  creduto. 

La  prima  edizione  di  questa  opera  fu  pubblicata  a  Venezia,  presso  Pasquali, 
nel  1781,  inun  volumetto  intitolato  DelVarte  di  vedere  nelle  belle  arti  del  dise- 
gno  secondo  iprincipii  diSulzer  e  diMengs,  e  distinto  in  quattro  parti,  intitolate 
rispettivamente  Scultura  (tRiflessioni  relative),  Pittura,  Architettura&Incisio- 
ne.  Una  seconda  edizione  apparve  a  Genova,  presso  la  stamp  eria  Caffarelli, 
nel  1786,  edizione  «da!Tautore  accresciuta  e  corretta»,  e  in  particolare  cor- 
redata  da  alcune  nuove  note,  fra  le  quali  una  alquanto  lunga  apposta^alla 
fine  della  seconda  parte  (Pittura)  e  contenente  una  serie  di  rapidi  giudizi  sui 

i .  Da  DelVarte  di  vedere  nelle  belle  arti  del  disegno  secondo  iprincipii  di  Sulzer  e 
di  Mengs,  ed.  cit.,  pp.  1-20.  2.  In  Roma.  In  Roma  sono  tutte  le  opere  qui 
mentovate  (M.).  Le  due  statue  rappresentanti  Ercole,  delle  quali  si  parla 
nel  passo  che  segue,  sono  rispettivamente  YErcole  Farnese  e  un  altro  Ercole 
assai  simile  a  questo  che  si  trovava  allora  accanto  al  primo  nel  cprtile  del 
palazzo  Farnese;  ora  ambedue  le  statue  sono  nel  Museo  Nazionale  di 
Napoli.  Nel  suo  giudizio  sull'Ercole  Farnese  il  Milizia  tiene  senza  dubbio 
presente  quello  del  Winckelmann  (nella  Stona  dell'arte  presso  gli  antichi, 
in  Opere,  in,  traduzione  italiana,  Prato,  Giachetti,  1832,  pp.  589-9°)*  clie 
riporto  affinch6  si  possano  fare  gli  opportuni  confronti:  « In  questa  statua 
egli  [Ercole]  e  rappresentato  quieto  e  fermo,  ma  nel  mezzo  delle  sue  fatiche, 
con  vene  gonfie  e  con  forti  muscoli,  che  mostrano  un'elasticita  non  ordi- 
naria;  onde  ci  pare  di  vederlo  riscaldato  ed  ansante  riposarsi  dopo  Pim- 
presa  delTorto  delle  Esperidi,  il  cui  porno  tiene  ancor  nella  mano.  Glicone 
in  quest'opera  non  fu  men  poeta  che  Apollonio,  e  sollevossi  sopra  le  forme 
delTumana  natura  ne'  muscoli  disposti  a  foggia  di  collinette  che  da  presso 
succedonsi:  ivi  si  propose  d'esprimere  Telaterio^  delle  fibre,  e  nstringen- 
dole  mostrarle  tese  a  guisa  d'un  arco.  Tali  riflessioni  devono  farsi  nelresa- 
minare  quest'Ercole,  ed  allora  non  si  prendera  per  un'ampoUosita  lo  spirito 
poetico  dello  scultore,  n6  la  forza  ideale  per  un'arditezza  eccessiva».  E  ctr; 
anche  il  breve  giudizio  del  Mengs  neUe  Riflessioni  sopra  i  tre  gran  pitton 
Raffaello,  il  Correggio  e  Tiziano  e  sopra  gli  antichi,  in  Opere,  I,  a  cura  di  C.  Fea, 
Milano,  Silvestri,  1836,  p.  326.  3-  Non  saprei  a  chi  si  possa  attnbuire 
tale  giudizio. 


1064  FRANCESCO   MILIZIA 

UErcole,  il  grznd'Ercole  Farnese,  esprime  la  maggior  robu- 
stezza  che  possa  acquistarsi  da  un  uomo  che  siasi  continuamente 
esercitato  nelle  piu  laboriose  imprese,  per  le  quali  sia  divenuto 
forte  e  agile.  Mirato  e  rimirato  d'ogni  banda  comparisce  sempre 
quell'Ercole  gagliardo  che  abbia  fatte  molte  delle  principali  sue 
imprese. 

I  muscoli  sono  di  forma  convessa  e  rotonda,  e  denotano  la 
vera  carne;  le  entrate1  sono  piane,  ed  esprimono  la  nervosita  e  la 
forza.  Le  vene  al  pari  de'  muscoli  sono  gonfie,  per  mostrare  la 
straordinaria  elasticita.  Nelle  gambe  per6  i  muscoli  sono  si  duri 
e  secchi  che  paiono  non  carne  ma  corde.  Ma  quelle  gambe  non 
sono  le  sue.  Le  sue  proporzioni,  meno  allungate  che  in  un  uomo 
svelto,  caratterizzano  la  sua  consistenza.  Quel  collo  gross o  e  corto, 
e  per  cosi  dire  taurino,  mostra  la  gagliardia;  e  la  testa,  che  sembra 
piuttosto  piccola,  palesa  la  sveltezza.  Tutto  il  resto  e  in  rapporti 
convenienti. 

Quell'altro  e  un  masso  informe  a  confronto  di  questo.  In  que- 
sto  celebrato  Ercole  e  inciso  «  Glicone  »,2  che  si  e  preso  pel  nome 
dello  scultore,  e  forse  non  sara  stato  famoso  altro  Glicone  che 
Fatleta  di  Orazio: 

.  .  .  invicti  membra  Glyconis.3 

E  forse  niuno  dei  nostri  facchini  o  granatieri  o  ladroni  (Ercole 
sara  stato  un  misto  di  tali  ingredienti)  avra  i  membri  si  viva- 

piu  illustri  pittori  italiani  e  stranieri  del  Cinquecento  e  del  Seicento.  Ripro- 
ducono  invece  la  prima  edizione  sia  le  ristampe  veneziane  (Pasquali,  1792 
e  1798;  Alvisopoli,  1823),  sia  quella  contenuta  nel  volume  i  delle  Opere 
complete.  L'operetta  e  stata  recentemente  ripubblicata  da  G.  Natali  (Pi- 
stoia-Roma,  TarifE,  1944,  con  una  introduzione,  che  riproduce  Particolo 
citato  Un  encidopedista  classicist^  e  una  nota  bibliografica,  ma  senza  com- 
mento).  Fuori  d' Italia  VArte  di  vedere  fu  tradotta  in  tedesco  da  Chr.  Fr. 
Prange  (Halle  1785);  in  francese  dal  generale  Pommereuil  (Paris,  Bernard, 
a.  VI  [1798],  rifusa  con  Paltra  operetta  Roma,  delle  belle  arti  del  disegno); 
in  spagnolo  da  Cean  Bermudez  (Madrid  1827)  e  dal  De  Marcho  (Barce 
lona  1830).  Per  le  pagine  qui  riprodotte  ci  siamo  attenuti  alP edizione  ge- 
novese  del  1786,  che  e  1'ultima  approvata  dall'autore,  tenendo  presente 
anche  la  prima  del  1781.  Le  note  del  Milizia  sono  seguite  dalla  sigla  M. 

i .  le  entrate :  gli  attacchi  dei  muscoli.  2.  Glicone,  secondo  gli  studiosi  moder- 
ni,  e  proprio  il  nome  deH'autore,  un  copista  atemese  che  Iavor6  a  Roma 
verso  la  fine  del  I  secolo  a.  C.,  e  che  in  questa  statua  avrebbe  riprodotto 
un  originale  in  bronzo  di  Lisippo.  3.  Epist.,  i,  i,  30  («le  membra  dell'in- 
vitto  Glicone»). 


DELL'ARTE   DI   VEDERE  NELLE   BELLS   ARTI  1065 

mente  risentiti  come  questo  marmo.  Ma  niuno  de'  nostri  nerboruti 
si  diverte  ad  accoppar  lioni,  a  distrugger  mostri,  ne  fa  le  forze 
d'Ercole.  Bisognerebbe  veder  de'  Patagoni,  qualora  esistessero  in 
gigantesco,  vederne  molti  e  de*  piu  belli,  per  vedere  qualche  cosa 
d'erculeo. 

Ma  che  cosa  fa  il  nostro  Ercole  ?  Pare  che  mediti  con  tre  pomi 
alia  destra  rivolta  al  tergo.  Forse  saranno  tre  pomi  delle  Esperidi, 
o  qualche  altro  suo  arnese  per  noi  ugualmente  insignificante.  Sa- 
rebbe  stato  veramente  piu  espressivo,  almeno  per  noi,  in  qualcuna 
delle  sue  piu  interessanti  azioni.  Ora  come  sta,  non  fa  niente: 
riposa. 

Per  riposare  riposa  con  maggior  comodo  e  piu  inettamente  il 


Mose.1 

Capo  d' opera  di  Michelangelo :  se  ne  sta  a  sedere  senza  mostrar 
vogHa  di  niente.  La  testa,  recisole  quel  barbone  ch'e  piu  barbone 
di  quello  di  Rauber,2  e  una  testa  di  satiro  con  capelli  di  porco  e 
piccola  riguardo  al  tutto.  Tutto  com'e,  e  un  mastino3  orribile, 
vestito  come  un  fornaro,  mal  situato,  ozioso. 

Si  caratterizza  cosi  un  legislatore  che  parla  da  tu  a  tu  con 
messer  Domeneddio  ?  Si  decanta  per  un  modello  ammirabile  del- 
Panatomia  esterna.  Me  ne  rallegro,  e  tanto  piu  che  si  vuole  ad 
imitazione  del 

Torso  di  Belvedere.4 

Scuola  degli  artisti  che  vogliano  imparare  a  vedere  il  vero  bello 
della  natura  umana.  Qui  riunisconsi  i  pregi  delle  piu  belle  scul- 

i.  In  S.  Pietro  in  Vincoli  (M.)-  2.  Rauber:  probabilmente  qualche  per- 
sonaggio  carattenstico  della  Roma  contemporanea.  3.  mastino:  individuo 
grossolano.  4.  Torso  di  Belvedere:  opera  firmata  da  Apollonio  di  Nestore 
ateniese,  che  Iavor6  a  Roma  verso  la  fine  della  Repubblica.  Questa  statua 
(che  si  trova  tuttora  nei  Musei  Vaticani)  fu  molto  ammirata  in  passato,  e 
anche  dal  Winckelmann,  di  cui  riporto  parzialmente  il  giudizio  nella  Storia 
delVarte  presso  gli  antichi:  « In  questa  si  mutilata  statua  .  .  .  coloro  che  pe- 
netrar  sanno  i  segreti  dell'arte,  scorgono  tuttora  un  chiaro  raggio  delTan- 
tica  bellezza.  L'artista  ha  effigiata  in  quest'Ercole  la  piu  sublime  idea  d'un 
corpo  sollevatosi  sovra  la  natura,  e  d'un  uomo  nell'eta  perfetta  inalzatosi 
al  grado  di  quella  privazion  de'  bisogni,  che  e  propria  degli  dei . .  .  Ivi 
ammirar  deve  Fartefice  nei  contorm  del  corpo  la  morbidezza  delle  forme, 


1066  '  FRANCESCO   MILIZIA 

ture  antiche.  La  varieta  dell'andamento  ondeggiato  d'ogni  mem- 
bro  e  si  perfetta  ch'e  quasi  impercettibile.  Che  morbidezza  di  for 
me!  Passano  dolcemente  da  una  all'altra,  si  sollevano,  s'incavano 
.  e  Tuna  nell'altra  insensibilmente  si  perdono.  Le  ossa  paiono  rico- 
perte  d'una  cute  sugosa,  i  muscoli  sono  carnosi,  ma  senza  grassez- 
za,  e  la  carne  e  la  piii  bella  carne.  Non  vi  appariscono  vene  grandi; 
e  perci6,  se  questo  e  un  detrimento  di  Ercole,  sara  non  d'un 
Ercole  ancora  uomo,  che  faccia  il  grazioso  con  lole,  ma  d'un  Ercole 
fatto  Dio,  in  cui  sieno  sparite  certe  grossolanita  umane.  E  Mi 
chelangelo  e  stato  a  questa  scuola?  Non  basta  andare  alle  mi- 
gliori  scuole.  Disgrazia  che  questo  torso  non  sia  che  un  torso. 
Sia  pur  mirabile  quanto  si  voglia  nella  combinazione  delle  parti 
piu  belle,  scelte  da'  corpi  piu  belli,  per  formare  un  tronco  espri- 
mente  la  piu  nobile  e  maestosa  virilita,  tutto  ci6  non  e  che  un 
mezzo  per  esprimer  1'azione:  1'azione  e  lo  scopo  dell'arte.  Chi 
vuol  vedere  un'azione  delle  piu  vive,  vegga  il 

Gladiator  e  Capitolino.1 

Mortalmente  ferito  sta  per  morirsene,  ma  da  suo  pari:  i  gla- 
diatori  aveano  da  saper  morire  con  grazia.  Colla  destra  si  sforza 
rialzarsi;  la  vendetta  gli  da  questa  forza;  e  la  vendetta,  1'angoscia, 
Tagonia  sono  insieme  espresse  nel  viso,  e  fin  ne*  capelli  rizzati,  ac- 
ciocche  tutti  i  membri  mostrino  la  fatica  de'  combattimenti  sof- 
ferti;  i  piedi  paiono  incalliti,  e  tutta  1'azion  e  1'istante  della  morte. 
La  corporatura  e  ben  intesa;  ma  nel  petto  lo  sterno  e  le  clavicole 
mostrano  non  so  che  d'innaturale.  Tutto  collima  all'espressione 
d'un  bel  giovane  che,  esercitato  nella  ginnastica,  ha  combattuto; 

il  dolce  loro  passaggio  da  una  alPaltra,  e  i  tratti  quasi  moventisi,  che  con  un 
molle  ondeggiamento  si  sollevano  e  si  abbassano,  e  1'un  nell'altro  insensi 
bilmente  si  perdono  .  .  .  Le  ossa  sembrano  d'una  pingue  cute  ricoperte, 
carnosi  sono  i  muscoli,  ma  senza  una  superflua  pinguedine;  e  la  carnosita 
e  si  bene  equilibrata  che  1'eguale  non  trovasi  in  nessun'altra  figura»  (cfr. 
Opere,  ed.  cit.,  in,  pp.  585-7;  e  cfr.  anche  la  piu  ampia  Descrizione  del  torso 
diBelvedere,mOperet  ed.  cit.,  vi,  1831,  pp.  519-25;  e  il  giudizio  del  Mengs 
nelle  Riflessiom  ecc.,  in  Opere,  ed.  cit.,  I,  pp.  327-8).  i.  II  Gladiator  e  Capi 
tolino  o,  come  oggi  si  suole  chiamare  secondo  una  piu  esatta  interpretazione 
(gia  intuita  dal  Winckelmann),  il  Galata  morente,  e  una  replica  romana  di 
un  originale  greco  della  prima  scuola  di  Pergamo ;  si  trova  tuttora  nel  Museo 
Capitolino  di  Roma. 


DELL'ARTE   DI   VEDERE    NELLE   BELLE  ARTI  1067 

e  ferito,  e  par  certamente  che  muora.  Ma  e  veramente  un  gladia- 
tore  ?  Quella  corda  al  collo  e  quel  corno  a  canto  ne  fanno  dubitare. 


Gladiator  e  Borghese* 

Ecco  una  figura  consimile,  ma  in  azione  opposta.  Qui  non  si 
ha  voglia  di  morire:  e  tutta  forza  viva  per  combattere.  Che  co- 
raggio  in  quel  sembiante!  Coraggio  vero,  senza  timore  e  senza 
temerita:  vuol  vincere,  e  si  para  i  colpi.  Quanto  robusto,  altret- 
tanto  snello.  Vi  si  vede  la  morbidezza  della  carne  e  la  fluidita 
del  sangue.  I  muscoli  in  azione  sono  alterati,  e  quelli  in  riposo 
corti  e  rotondi:  Tanatomia  v'e  tutta  al  naturale  e  senza  stento. 
Questo  importa,  e  non  che  Agasias  ne  sia  stato  1'autore.  I  Greci, 
che  non  aveano  gladiatori,  potevano  effigiare  gladiatori  ?  E  quando  ? 

Apollo  di  Belvedere? 

Un  idolo  egizio  starebbe  a  maraviglia  accanto  a  questa  sta- 
tua.  Ma  bisogna  vederla,  e  non  leggerla.  Chi  la  legge  TielVEncy- 
doped. ,  art.  Grecs,  impara  che  «questo  Apollo  scocca  una  freccia 

i .  II  Gladiator  e  Borghese,  oggi  al  Louvre,  e  ritenuto  una  copia  eseguita  da 
Agasia  Efesio,  figlio  di  Dositeo,  verso  la  fine  del  secolo  II.  2.  IS  Apollo 
di  Belvedere,  tuttora  nei  Musei  Vaticani,  e  replica  di  un  originale  greco  del 
IV  secolo  a.  C.,  probabilmente  di  Leocare.  II  Winckelmann  gli  dedico 
nella  Storia  delVarte  presso  gli  antichi  alcune  ispirate  pagine,  di  cui  ripor- 
tiamo  qualche  passo  piu  utile  per  un  confronto  col  giudizio  del  Milizia: 
«  La  statua  dell' Apollo  di  Belvedere  e  la  piu  sublime  fra  tutte  le  opere  an- 
tiche,  che  fino  a  noi  si  sono  conservate,  Direbbesi  che  Tartista  ha  qui  for- 
mata  una  statua  purarnente  ideale,  prendendo  dalla  materia  quel  solo  che 
era  necessario  per  esprimere  il  suo  intento  e  renderlo  visibile  ...  II  com- 
plesso  delle  sue  forme  sollevasi  sovra  1'umana  natura,  e  il  suo  atteggiamento 
mostra  la  grandezza  divina  che  lo  investe.  Una  primavera  eterna,  qua!  regna 
ne*  beati  Elisi,  spande  sulle  virili  forme  d'un'etd.  perfetta  i  tratti  della  piace- 
vole  gioventu,  e  sembra  che  una  tenera  morbidezza  scherzi  sull'altera  strut- 
tura  delle  sue  membra.  Vola,  o  tu  che  ami  i  monument!  deirarte,  vola  col 
tuo  spirito  fino  alia  regione  delle  bellezze  incorporee,  e  diventa  un  creatore 
d'una  natura  celeste  per  riempire  Talma  tua  colTidea  d'un  bello  sovrumano, 
poiche  in  quella  figura  nulla  v*e  di  mortale,  nessun  indizio  si  scorge  dei  bi- 
sogni  deH'umanita  .  .  .  Egli  ha  inseguito  il  serpente  Pitone,  contro  di  cui  ha 
per  la  prima  volta  piegato  Parco^e  col  possente  suo  passo  lo  ha  raggiunto  e 
trafitto.  Ben  consapevole  di  sua  possanza  porta  il  sublime  suo  sguardo  quasi 
airinfinito,  ben  al  di  la  della  sua  vittoria»  (cfr.  Opere,  ed.  cit.,  in,  pp.  757^9; 
e  si  veda  anche  il  giudizio  del  Mengs  nelle  Riflessioni  ecc.,  in  Operet  ed.  cit., 
I,  pp.  324-5)* 


1068  FRANCESCO   MILIZIA 

al  serpente  Pitone  con  tutta  la  tranquillita,  mostrando  solo  un  poco 
di  collera  nelle  narici  alquanto  sollevate,  e  sollevato  anche  un 
tantino  il  labro  inferiore  nel  mezzo  per  caratterizzare  lo  schifo 
d'Apollo  verso  il  serpente,  contro  di  cui  imbrandisce  il  dardo  sen- 
za  impiegare  la  meta  della  forza  per  maggior  disprezzo  verso  il 
rettile  nemico)).1  Cosi  leggendo  si  imparano  errori  fino  in  un  libro 
destinato  principalmente  per  le  verita.  L' Apollo  di  Belvedere,  ba- 
sta  vederlo,  ha  gia  scaricato  Parco,  ha  fatto  il  colpo,  ed  e  in  atto 
d'andarsene.  Se  poi  non  1'ha  avuta  contro  alcun  serpente,  che  im- 
porta?  L'attitudine  e  mirabile.  Che  sveltezza  di  mossa!  Che  leg- 
giadria!  Appena  tocca  terra.  Piu  mirabili  sono  le  forme  de'  suoi 
membri,  tutte  in  grande  dalla  testa  fino  alia  punta  de*  piedi;  le  for 
me  convesse  mostrano  la  forza,  le  uniformi  la  soave  nobilta,  e  il 
loro  serpeggiamento  la  delicatezza.  Non  vene,  non  tendini,  non 
musculature  forti  vi  appariscono,  come  negli  Ercoli  e  ne'  gladia- 
tori.  Questo  e  un  nume,  in  effigie  umana  bensi,  e  come  altrimenti  ? 
ma  in  una  effigie  la  piu  bella  e  piu  depurata  d'imperfezioni  umane. 
La  testa  e  d'una  grazia  che  rapisce,  le  gambe  lunghette  e  ben  pro- 
prie  d'una  deita.  «Ah  peccato,  che  io  non  sia  un  gentile  per  ado- 
rarlo  »  esclamo  in  mia  presenza  un  buon  cristiano  incantato  a  tanta 
bellezza. 

Pure  si  vuole  di  marmo  di  Carrara,  la  cui  cava  fu  scoperta  quasi 
al  tempo  di  Plinio,  e  la  statua  fu  trovata  un  paio  di  secoli  fa  a  Net- 
tuno,2  dove  probabilmente  non  saranno  state  le  sculture  piu  clas- 
siche  della  Grecia.  Un  ginocchio  e  alquanto  rivolto  in  dentro,  ma 
per  difetto  di  noi  altri  modern!  nel  riunire  i  pezzi. 

Grande  osservatore  fu  chi  osservo  che  il  collo  non  &  nel  mezzo 
del  busto.  Gli  amatori,  i  conoscitori,  e  forse  anche  qualche  artista, 
ne  sanno  il  perche,  noto  anche  al  custode  del  museo.  Eccolo.  II 
marmo  difettoso  scheggib  di  molto  nel  lavorarsi  a  destra;  ma  sic- 
come  la  statua  riusciva  bene,  lo  scultore  compens6  quel  difetto 
con  altrettanto  eccesso  a  sinistra.  E  viva.  Io  non  so  come  stia  la 
testa  di  tali  signori  che  sanno  cosi  ben  vedere.  So  che  ogni  testa 


i.  II  passo  tradotto  dal  Milizia  si  trova  precisamente  nel  paragrafo  His- 
toire  des  arts  chez  les  Grecs,  firmato  con  la  sigla  V.  A.  L. :  Fautore  at- 
tribuisce  Fosservazione  al  Winckelmann,  il  quale  invece  (come  si  e  visto 
nella  nota  precedente)  interpreta  Fatteggiamento  di  Apollo  allo  stesso 
modo  del  Milizia.  2.  a  Nettuno :  piti.  probabilmente,  in  una  villa  romana 
a  Grottaferrata. 


DELL'ARTE   DI   VEDERE   NELLE   BELLE   ARTI  1069 

prowista  di  senso  comune  porta  il  suo  collo  di  qua  e  di  la  come 
le  aggrada,  e  lo  situa  come  in  Apollo,  e  come  in  tante  altre  statue 
di  consimili  mosse. 

II  corpo  di  quest' Apollo  sembra  non  cosi  finite  come  la  testa, 
e  sembra  privo  di  quella  morbidezza  che  si  vede  con  tanto  piacere 
nel  cosi  detto 

Antinoo  di  Belvedere.1 

Mirabile  veramente  per  la  sua  pastosita,  ma  non  di  proporzioni 
si  eleganti,  ne  in  un'azione  si  viva.  La  testa  e  d'una  ridente  giovi- 
nezza;  sguardo  dolce,  occhio  innocente,  bocca  tranquilla,  gote 
pienotte,  mento  soavemente  rialzato  e  tondeggiato,  fronte  tendente 
alTapoteosi,  petto  elevato,  spalle,  fianchi,  cosce  a  maraviglia:  tutto 
in  quiete.  Le  gambe  per6  non  corrispondono  al  resto  del  corpo. 


Antinoo  di  Campidoglio? 

£  piu  espressivo,  in  ciascuna  sua  parte  e  in  tutti  i  suoi  contorni 
spiega  mollezza,  particolarmente  nella  testa  ricercata  d'un  gio- 
vane  destinato  al  piacere.  Anche  la  mossa  e  le  proporzioni  sono 


i.  L3 *  Antinoo,  o  secondo  Tinterpretazione  moderna  I3 Hermes  y  di  Belvedere 
e  replica  di  una  statua  di  Prassitele,  e  si  trova  tuttora  nei  Musei  Vaticani. 
Riferisco  il  giudizio  del  Winckelmann  nella  Storia  delVartepresso  gli  antichi: 
«  Regna  nel  volto  .  .  .  un'altera  maesta,  ma  qui  le  grazie  d'una  ridente  giovi- 
nezza  e  le  belta  degli  anni  floridi  accoppiate  stanno  ad  un'amabile  inno- 
cenza  e  ad  uno  sguardo  dolce,  senza  mostrare  alcuno  di  quegli  aifetti  che 
turbar  potrebbono  la  beH'armonia  delle  parti  e  la  pura  tranquillita  d'ammo, 
che  lo  scultore  ha  qui  voluto  esprimere.  Scorgesi  difatti  in  tutta  la  figura 
una  tal  quiete  e  quella  interna  compiacenza  di  se  stesso,  che  1'uomo  gode, 
quando  raccoglie  i  sensi  e  da  ogni  oggetto  esterno  li  richiama.  L' occhio  e 
dolcemente  arcuato,  come  nella  dea  d'amore,ma,  senza  mostrarne  i  desideri, 
non  esprime  che  innocenza.  La  bocca  nel  piccolo  giro  de'  suoi  contorni 
grandiosamente  disegnati  spira  emozioni,  ma  sembra  che  non  senta.  Danno 
un  nobile  compimento  al  volto  le  gote  nutrite  con  una  piacevole  pienezza,  e 
il  mento  che  dolcemente  si  rialza  e  si  ritonda.  La  fronte  per6  annunzia 
qualche  cosa  di  piu  che  un  giovanetto :  essa  sollevandosi  alquanto  come  la 
fronte  d'Ercole,  sembra  gia  preconizzare  1'eroe.  Fortemente  elevato  n'e  il 
petto,  e  d'una  maravigliosa  bellezza  ne  sono  le  spalle,  i  fianchi  e  le  cosce; 
ma  le  gambe  non  hanno  la  bella  forma  che  richiede  il  restante  del  corpo » 
(cfr.  Opere,  ed.  cit.,  in,  pp.  848-9).  2.  L' Antinoo  di  Campidoglio,  replica 
di  una  statua  bronzea  del  V  secolo  a.  C.,  si  trova  tuttora  nel  Museo  Capi- 
tolino. 


1070  FRANCESCO    MILIZIA 

d'un  effeminato.  Gambe,  braccia,  mani  sono  false,  cioe  ristauri 
moderni. 

Cristo  di  Michelangelo.1 

fe  egli  un  Cristo,  o  un  manigoldo  che  impugna  fieramente  la 
croce  per  fame  chi  sa  che?  Piu  cruda  e  la  sua  notomia.  Pure  e 
lodato  da  tanti  e  tanti  che  credono  saper  vedere,  e  stimano  divino 
il  Buonarroti. 

In  questo  Cristo,  nel  Mose,  e  in  tutte  le  opere  scolpite  e  di- 
pinte,  Michelangelo  fa  pompa  si  grande  della  sua  scienza  anato- 
mica,  che  pare  aver  lavorato  unicamente  per  Tanatomia :  per  disgra- 
zia  egli  non  1'ha  ne  bene  intesa,  ne  bene  applicata.  Le  sue  giunture 
sono  poco  svelte,  le  carni  piene  e  di  forme  rotonde,  i  muscoli  tutti 
uguali  e  nella  figura  e  nella  mole,  onde  resta  occultato  il  movimento 
delle  immagini.  Niun  muscolo  in  riposo ;  difetto  enorme.  Tendini 
uguali,  contorni  aspramente  serpeggianti,  onde  escono  e  non  tro- 
vano  la  strada  per  rientrare.  Qual  disegno  dunque,  e  quali  grazie  ? 
Come  quelli  eruditi  che  ammucchiano  tutta  la  loro  erudizione  senza 
discernimento,  e  sanno  tutto  fuorche  eleganza  e  finezza. 

Michelangelo  prese  un  pezzo  pel  fine :  studio  molto  1'anatomia, 
e  fece  bene;  prese  Panatomia  per  1'ultimo  scopo  dell'arte,  e  fece 
male,  e  peggio  per  non  saperne  far  uso.  Riusci  (chieggo  umilmente 
perdono  a  tutti  i  suoi  idolatri),  riusci  aspro,  duro,  stravagante,  ca- 
ricato,  piccolo,  grossolano,  e  quello  che  e  piu  osservabile,  amma- 
nierato,  in  quanto  che  tutte  le  sue  figure  hanno  costantemente  una 
stessa  maniera  e  lo  stesso  carattere,  cosi  che  vedutane  una  si  sono 
viste  tutte. 

S.  Andrea  del  Fiammingo:2' 

Benche  troppo  colossale,  ha  proporzioni  convenienti  ad  un  rozzo 
pescatore.  Ma  la  gamba  sinistra  pare  che  non  leghi  bene  col  femure, 
ne  questo  colle  ossa  delle  isole.3  II  panneggiamento  e  facile  e  gran- 
dioso.  L'espressione  e  propria  d'un  rassegnato  a  soffrire,  ma  con 
qualche  affettatezza. 

i.  Entro  la  chiesa  della  Minerva  (M.).  L'opera  fu  compiuta  da  Michelangelo 
nel  1521.  2.  In  S.  Pietro  (M.).  II  Fiammingo  e  lo  scultore  Fran9ois  du 
Quesnoy,  su  cui  cfr.  la  nota  yap.  836.  3.  delle  isole:  penso  che  il  Milizia 
voglia  dire  «  dell'ischio ». 


DELL'ARTE   DI   VEDERE   NELLE   BELLE   ARTI 


Venere  di  Campidoglio.1 

£  men  celebrata,  e  lo  merita  forse  piu  della  Venere  de'  Me 
dici.  E  dove  si  vede  meglio  riunita  la  vera  bellezza  del  sesso 
bello  ?  Bellezza  viva  e  attraente  per  le  sue  grazie.  Viso  lascivetto  : 
le  belle  non  possono  avere  altro  viso.  Palpebra  inferiore  piu  ele- 
vata  per  maggior  vezzo;  occhi  poco  aperti  per  tenerezza  e  per 
languore;  proporzioni  delicate,  contorni  soavi,  carni  morbide,  ar- 
ticoli2  dolci:  armonia  in  tutte  le  parti,  nel  tutto  e  neH'azione: 
azione  di  sorpresa,  semplice,  e  naturale  a  tutte  le  donne  che  so- 
prafatte  nude  portan  subito  le  mani  dove  Tuomo  trova  le  sue  piu 
squisite  delizie. 

Vi  si  vede  il  bello  fino  ne'  piedi,  che  non  danno  segno  d'aver 
sofferto  alcuna  fatica  nemmen  peso;  ma  quel  naso  moderno  fa 
rabbia. 

S.  Bibiana? 

Senza  nobilta  e  senza  bellezza  di  forme,  e  mal  vestita.  Fin  il 
manto  e  cinto  di  una  larga  fascia:  e  qual  donna  si  cinge  il  manti- 
glione,  e  qual  uomo  il  tabarro  ?  Si  sforza  d'esprimere,  e  non  espri- 
me  niente.  Pure  si  ha  questa  per  una  delle  migliori  opere  ber- 
ninesche. 

Flora  Farnesiana.4 

Quel  grazioso  veleggiamento  lascia  trasparire  le  forme  e  i  de- 
lineamenti  della  figura  leggiadra  bench6  gigantesca.  Ma  questo 
bello  non  e  quasi  che  un  tronco  muliebre,  con  testa,  con  braccia 
e  con  gambe  non  sue;  e  perci6  si  e  trasmutata  in  Flora,  quando 
che  ha  potuto  essere  piuttosto  una  musa  del  ballo.5 

i.  La  Venere  di  Campidoglio,  tuttora  nel  Museo  Capitolino,  e  probabilmente 
unj  opera  alessandrina  derivata  dalla  Venere  di  Cnido  di  Prassitele.  2.  or- 
ticoli:  articolazioni.  3.  Nella  chiesa  dello  stesso  nome  (M,).  £  opera  della 
gioventu  del  Bernini  (1624-1626).  L*osservazione  sul  manto  risale  al 
Winckelmann  (cfr.  Storia  deWarte  presso  gli  antichit  in  Opere,  ed.  cit,  II, 
1  830,  p.  772).  4.  La  Flora  Farnesiana,  opera  romana  del  II-III  secolo  dopo 
Cristo,  si  trova  oggi  nel  Museo  Nazionale  di  Napoli.  5.  quando  .  .  .  ballo: 
questa  interpretazione  risale  al  Winckelmann  (cfr.  Storia  deW  arte  presso  gli 
antichi,  ed.  cit.,  II,  p.  408).  Piu  probabilmente  la  statua  era  in  origine  la 
replica  di  una  Afrodite  prassitelica  o  ellenistica. 


1072  FRANCESCO   MILIZIA 

Flora  Capitolina.1 

Questa  ha  veramente  una  testa  da  Flora,  cioe  da  primavera. 
£  in  una  bella  semplicita  d'azione.  II  suo  panneggiamento  non  e 
di  tela  fina,  ma  di  panno  che  fa  tuttavia  conoscere  Tandare  del- 
Pignudo,  coperto  si,  ma  non  occultato.  A  questo  panneggiamento 
ha  qualche  analogia  quello  di  Zenone  Capitolino* 

Santa  Susanna.3 

Ha  della  venusta  nel  tutto  insieme.  II  viso  e  di  bella  forma, 
ma  con  qualche  pienezza  nella  parte  superiore  delle  guance.  La 
situazione  della  gamba  sinistra  risente  qualche  stento.  La  drappe- 
ria  e  una  delle  meglio  intese  tra  le  opere  moderne,  ma  inferiore  di 
molto  alle  predette  antiche,  Questo  lavoro  e  piuttosto  un'apparen- 
za  che  una  sostanza  di  gusto  antico.  L'espressione  e  una  dolcezza 
di  santa  comprensibile  da'  santi. 

Ermafrodito* 

Quel  maraviglioso  che  si  e  creduto  tal  volta  vedere  nelPamabile 
natura  e  non  si  e  mai  visto,  la  riunione  del  sesso  forte  e  del  sesso 
bello  in  un  solo  individuo,  si  mira  in  questa  elegante  effigie,  ma 
non  vi  si  trova  perfettamente.  Sembra  che  sogni  diletto.  Ma  sem- 
bra  ancora  che  la  sua  morbidezza  venga  ofTesa  dalla  aggiunta  ber- 
ninesca5  di  quel  materazzo  trapunto  si  risentitamente,  che  non 
di  piume,  nemmen  di  lana,  ma  par  ripieno  di  sassi. 


i.  La  Flora  Capitolina^  tuttora  nel  Museo  Capitolmo,  e  replica  di  opera 
ellenistica.  2.  La  statua  di  Zenone  (o  di  altro  filosofo)  si  trova  tuttora 
nel  Museo  Capitolino,  ed  e  opera  ellenistica  del  III  secolo.  3.  Del  Fiam- 
mingo  nella  chiesa  della  Madonna  di  Loreto  (M.)«  Su  questa  statua  cfr. 
anche  il  gmdizio  del  Bertola,  qui  a  p.  836,  e  la  nota  relativa.  4.  In  villa 
Borghese  (M.)«  La  statua,  ora  al  Louvre,  e  forse  copia  di  un  originale  dello 
scultore  greco  Policle  (III-II  secolo  a.  C,).  5.  berninesca:  il  materasso  su 
cui  giace  V Ermafrodito  Borghese,  fu  effettivamente  aggiunto  dal  Bernini. 


DELL'ARTE   DI   VEDERE   NELLE   BELLE  ARTI  1073 


Santa  Cecilia.1 

Giace  meglio  dell' Ermafrodito  questa  gentile  scultura,  benche" 
insignificante. 

Laocoonte.2 

Un  vecchio  forte  convulse  dal  veleno  de'  serpi  che  lo  awi- 
ticchiano  e  lo  mordono.  Lo  spasimo  gli  scorre  da  per  tutto  fino 
ai  piedi.  Non  e  questo  ancor  tutto  il  suo  dolore.  Ei  risente  anche 
quello  de'  due  ragazzi,  che  gli  sono  chiaramente  figli,  i  quali  gli 
chieggono  aita:  ei  fa  grandi  e  inutili  sforzi  per  soccorrerli,  e  piu 
si  crucia.  Dominano  nella  sua  figura  le  linee  convesse  che  s'in- 
contrano  colle  rette  e  colle  concave  per  mostrare  Palterazione,  la 
quale  viene  maggiormente  espressa  dalle  forme  angolari,  si  nel- 
Pentrate  che  nelle  uscite,3  affine  di  rendere  piu  visibili  i  nervi  e  i 
tendini  fortemente  stirati.  Nella  sua  tragrande  angoscia  ei  conserva 
pero  tal  dignita  e  nel  viso  e  nel  corpo  e  nel  portamento,  che,  per 
quanto  sia  tormentato,  nulla  ha  di  deforme,  onde  sembra  un  uo- 
mo  d'alta  condizione  che  sappia  soffrire.  Pare  che  cerchi  di  con- 
centrare  intorno  al  suo  cuore  tutta  la  forza  della  mente  contro  i 
tormenti  che  gli  gonfiano  i  muscoli  e  gli  stirano  terribilmente  i 
nervi.  II  petto  appena  si  solleva,  il  ventre  e  compresso,  i  fianchi 
sono  incavati:  tutto  esprime  lo  stringimento,  la  soffocazione,  1'ec- 
cesso  del  dolore  e  della  magnanimita.  II  dolore  dej  figliuoli  e  anche 

i.  Di  Stefano  Maderno  in  S.  Cecilia  (M.).  Stefano  Maderno  (1576-1636), 
scultore  milanese,  esegul  1'opera  intorno  al  1600.  2.  II  gruppo  del  Lao 
coonte,  eseguito  verso  la  meta  del  I  secolo  a.  C.  dai  tre  artisti  rodii  Age- 
sandro,  Pohdoro  e  Atenodoro,  si  trova  tuttora  nei  Musei  Vaticani.  Rife- 
risco  parziaknente  il  giudizio  del  Winckelrnann  nella  Storia  delVarte  presso 
gliantichi:  «  Veggiamo  nel  Laocoonte  la  natura  nel  suo  maggior  patimento: 
vi  scorgiamo  Fimmagine  di  un  uomo  che  cerca  di  unire  tutta  la  forza 
dello  spirito  contro  i  tormenti  ...  II  petto  sollevasi  a  stento  e  per  Pimpe- 
dita  respirazione  e  per  lo  sforzo  che  egli  fa  di  trattenere  1'espressione  della 
sensazione  dolorosa,  e  di  tutti  concentrare  e  chiudere  in  se  stesso  i  suoi  tor 
menti  .  .  .  Sembra  egli  frattanto  sentir  meno  il  proprio  tormento  che  quello 
dei  figli  .  .  .  Un'aria  lamentevole  ha  il  suo  volto,  ma  non  gi£  d'uomo  che 
gridi  ed  esclami .  .  .  Poiche  1'artista  non  poteva  abbellir  la  natura,  s'£  stu- 
diato  di  maggiormente  sviluppame  gli  affetti,  e  tutte  mostrame  le  forze: 
in  quella  parte  eziandio,  in  cui  pose  la  sede  del  dolore,  la  piu  gran  bellezza 
vi  ha  fatto  risaltare»  (cfr.  Opere,  ed.  cit.,  in,  pp.  475-6;  e  si  veda  anche  il 
breve  giudizio  del  Mengs  nelle  Riflessioni  ecc.,  in  Opere,  ed.  cit.,  i,  pp.  325- 
6).  3.  si  nelle  entrate  che  nelle  uscite'.  nei  punti  in  cui  le  forme  entrano  o 
escono  dal  complesso  della  figura. 

68 


1074  FRANCESCO   MILIZIA 

vivamente  espresso,  ma  in  un  altro  genere :  e  un  dolore  meramente 
fisico,  e  proprio  della  loro  rispettiva  eta. 

L'idiota  il  piii  stupido  deve  sentire  Penergia  di  tanta  espressione. 
Ma  piu  la  sente  1'erudito,  che  vi  vede  il  Laocoonte  di  Virgilio,1 
il  real  fratello  d'Anchise,  il  sacerdote  d' Apollo  e  di  Nettuno.  Vir 
gilio  lo  fa  urlare,  anzi  muggire  come  un  toro  immolate  a  morte.2 
Ma  la  nostra  statua  non  ispalanca  la  bocca :  par  che  sospiri  profon- 
damente.  Dunque  lo  scultore  e  stato  piu  filosofo  del  poeta,  e  pare 
come  diretto  da  Socrate,  che  maneggi6  anche  lo  scalpello,  e  seppe 
si  ben  soffrire.  Gran  dose  di  filosofia  6  certamente  necessaria  per 
esprimere  con  tanta  dignita  un  si  orribil  tormento.  Qui  6  esterior- 
mente  grande;  ma  a  guisa  del  mare,  che  dagli  uragani  piu  vee- 
menti  non  e  agitato  che  nella  superficie,  e  internamente  &  in  calma.3 
Un  personaggio  reale  e  sacerdotale  ha  da  saper  sopportare  i  mag- 
giori  strazi.  Perci6  la  sua  azione  e  in  riposo,  ma  in  un  riposo  che 
non  degenera  ne  in  indifferenza,  ne  in  letargo.  Se  egli  si  contor- 
cesse  tutto,  s'imbrutisse,  smaniasse,  muggisse,  1'azione  sarebbe 
naturale  si,  ma  triviale,  e  non  nella  bella  natura.  Eccola  al  su 
blime.  E  chi  non  vorrebbe  saper  sopportare  come  questo  Laocoon 
te  ?  Sublime  &  tutto  quello  che  c'inalza  sopra  noi  stessi,  e  ci  da  un 
vigore  che  prima  non  ci  sentivamo. 

Ma  come  un  personaggio  di  si  eminente  qualita  tutto  ignudo? 
Peccatiglio  di  convenienza  largamente  compensato  dalPenergia 
deir espressione,  la  quale  non  poteva  verarnente  effettuarsi  vestito, 
quand*  anche  vestito  fosse  piu  sottilmente  della  Flora. 

I  putti  non  sono  i  piu  belli  ne  tra  gli  antichi  ne  tra  i  moderni, 
fra  quali  sono  leggiadri  quelli  del  Fiammingo  nelle  chiese  del- 
rAnima  e  di  Campo  Santo.4  Nel  nostro  gruppo  il  putto  maggiore 
ha  la  gamba  destra  visibilmente  piu  lunga  della  sinistra.  Pure  e 

i.  il  Laocoonte  di  Virgilio :  la  descrizione  del  supplizio  di  Laocoonte  occupa 
i  w.  199-233  del  II  libro  dell'Eneide.  2.  Virgilio  .  .  .  morte:  cfr.  Aen.,  n, 
222-4 :  a  clamores  sunul  horrendos  ad  sidera  tollit :  /  qualis  mugitus,  fugit 
cum  saucius  aram  /  taurus  et  incertam  excussit  cervice  securim  (« insieme 
alza  alle  stelle  orrende  grida:  simili  al  muggito  di  un  toro,  quando  gia  fe- 
rito  fuggi  dall'ara  e  scosse  dal  collo  la  scure  debolmente  vibrata»).  3.  a 
guisa  .  .  .  calma :  il  Milizia  si  ispira  evidentemente,  ma  rovesciandone  curio- 
samente  i  termini,  al  famoso  paragone  del  Winckelmann  fra  la  bellezza 
giovanile  e  la  «  superficie  del  mare,  che  veduto  in  qualche  distanza  tranquillo 
sembra  e  terso  come  uno  specchio,  sebbene  in  fatti  sia  sempre  in  moto,  e 
volga  incessantemente  le  sue  onde  »  (cfr.  Storia  delVarte  presso  gli  antichi,  in 
Opere,  ed.  cit.,  n,  p.  270).  4.  quelli  .  .  .  Campo  Santo:  sui  putti  della  chiesa 
dell'Anima  cfr.  anche  il  giudizio  del  Bertola,  qui  a  p.  836,  e  la  nota  relativa; 


DELL'ARTE  DI  VEDERE  NELLE  BELLE  ARTI     1075 

questo  un  capo  d'opera  della  scultura  antica.  Plinio  non  si  stanca 
di  lodarlo.1  Ma  Plinio  piu  d'ogni  altra  cosa  vi  loda  i  serpenti  da 
lui  chiamati  «dragoni».  Non  si  puo  prelodar  Taccessorio  senza  far 
torto  al  principale;  e  chi  loda  di  questo  tenore,  pare  che  non  sap- 
pia  vedere. 

Plinio  fa  questo  gruppo  d'un  sol  pezzo,  ed  e  di  cinque,  bensi 
di  marmo  pario.  Plinio  nomina  Agesandro  per  uno  degli  scultori  di 
questa  grand'opera,  e  niuno  sa  trovare  Agesandro  fra'  celebri  ar- 
tisti  antichi. 

Questo  egregio  lavoro  e  lasciato  di  scarpello,  senza  pulimento, 
come  la  Venere  Medicea.  Dunque  possono  essere  entrambi  o  copie, 
o  opere  de'  tempi  non  piu  belli  della  Grecia;  essendo  ben  verosi- 
mile  che  gli  eccellenti  greci  del  miglior  tempo  finissero  i  loro 
lavori. 

Pietd  di  Michelangelo.2 

E  il  piu  decantato  gruppo  fra  le  opere  moderne;  e  con  ragione; 
e  un  gruppo  di  prodigi  di  Michelangelo  divino.  Cristo  morto  di 
33  anni  disteso  lungo  su  le  ginocchia  della  sua  madre,  che  appena 
ne  mostra  18  al  di  lei  visino,  alle  manine,  ai  piedini:  le  di  lei  spalle 
pero  e  la  vita  sono  da  lavandaia.  Ella  sostiene  tutto  quel  corpo  con 
tale  disinvoltura,  che  non  si  sa  vedere  dove  sia  la  pietL  Grande 
imbroglio  di  panneggiamento  trattato  in  piccolo.  L'anatomia  e  al 
suo  solito  molta,  e  Tespressione  6  un  zero.  La  maggior  singolarita 
e  che  un  braccio  della  Madonna  e  disossato. 

Apollo  e  Dafne.3 

Non  e  questo  P  Apollo  di  Belvedere  che  ammazza  serpenti.  Do- 
vrebbe  percic-  essere  piu  bello  e  piu  grazioso,  per  Tazione  piu 
viva  e  piu  piccante  che  gli  manca:  e  gli  manca  ogni  bellezza  di 

gli  altri  sono  effigiati  nel  sepolcro  di  Johann  Hase,  scolpito  dal  du 
Quesnoy  (1634)  nella  chiesa  di  Santa  Maria  in  Campo  Santo  in  Roma, 
i. Plinio.. ,  lodarlo:  cfr. Nat.  hist., xxxvi,  v,  37:  « opus  omnibus  et  picturae 
et  statuariae  artis  praeferendum.  Ex  uno  lapide  emn  ac  liberos  draconum- 
que  mirabiles  nexus  de  consilii  sententia  fecere  summi  artifices  »  (« opera 
da  anteporsi  a  quale  altra  si  voglia  e  di  pittura  e  di  statuaria.  D'un  sol  bloc-; 
co  di  marmo  i  sommi  artisti  con  inspirazione  unitaria  e  comune  trassero  e 
Laocoonte  e  i  figli  e  il  viluppo  mirabile  dei  serpenti »).  2.  In  S.  Pietro 
(M.)-  L'opera  fu  eseguita  da  Michelangelo  nel  1498-1499.  3.  In  villa  Bor- 
ghese  (M.).  II  gruppo  fu  compiuto  dal  Bernini  intorno  al  1621-1622. 


1076  FRANCESCO   MILIZIA 

forme,  che  fu  interamente  ignota  al  Bernini.1  Ha  in  compenso  una 
finezza  d'esecuzione  nel  marmo. 


Toro  Farnese.2 

Anche  questo  marmo  e  ben  lavorato.  Ma  chi  non  si  lascia  se- 
durre  dalla  grandezza,  ne  dalla  moltiplicita  delle  figure,  ne  dal- 
Tartifizio  della  mano,  in  gran  parte  moderna,  stimera  poco  un'o- 
pera  di  un'espressione  confusa  ed  enigmatica,  almeno  per  noi  altri. 
Che  cosa  dunque  diverranno  tanti  gruppi  antichi,  e  tanti  mausolei 
moderni  ? 

Marco  Aurelio. 

Chi  e  quelFuomo  colassu  nel  Campidoglio,  che  sta  a  cavallo, 
non  da  cavallerizzo,  ma  con  maestosa  semplicita,  e  stende 
la  destra,  non  per  spaccare  benedizioni,  ma  per  annunciare  be- 
neficenze  insigni  ?  —  Egli  e  il  mio  Marco  Aurelio  che  da  la  pace 
al  popolo  romano  —  risponde  ilaremente  la  Filosofia.  —  Mira 
quella  testa  veramente  di  carattere:  ella  e  d'un  uomo  tutto  ardore 
per  Fadempimento  de*  suoi  doveri,  de'  doveri  d'un  sovrano  che 
ha  il  peso  gravissimo,  il  peso  immense  di  fare  la  felicita  del  suo 
popolo.  Fino  al  manto  facilmente  disposto  esprime  maesta.  Ah 
perche  le  belle  arti  non  s'impiegano  sempre  in  soggetti  si  con- 
solanti!  —  £  la  Filosofia  che  cosi  ragiona. 

Ma  il  popolo,  antifilosofico  per  institute,  non  guarda  Marco 
Aurelio,  s'incanta  al  cavallo,  encomia  il  cavallo,  ha  per  animato  il 
cavallo  (e  sa  benissimo  che  cosa  6  anima),  e  vuole  che  il  cavallo 
marci.  Chi  e  amico  di  bestie  trova  questa  bestia  in  una  mossa  con- 
traria  al  meccanismo,3  credendo  che  quel  movimento  non  possa 
durare  che  un  istante.  Appunto  quell'istante,  preteso  difetto,  fa 
tutta  la  vivezza  delPespressione.  Ma  la  testa  del  cavallo  invece 
d'esser  montonina  e  bovina.  E  tale  deve  essere,  e  tale  e  ne'  cavalli 


i.  ogni  bellezza  .  .  .  Bernini:  cfr.  il  giudizio  del  Winckelmann :  «uomo  di 
gran  talento  ed  ingegno,  ma  cui  la  grazia  mai  non  si  mostr6  neppure 
in  sogno  »  (nello  scritto  Della  grazia  nei  monumenti  dell'arte,  in  Opere,  ed. 
cit.,  vi,  p.  515).  2.  II  Toro  Farnese,  che  si  trova  ora  nel  Museo  Na- 
zionale  di  Napoli,  e  una  replica  ronaana  (II-III  secolo  d.  C.)  di  un'opera 
di  Apollomo  e  Taunsco  di  Tralles  che  rappresentava  il  supplizio  di  Dirce. 
3.  al  meccanismo:  al  movimento  naturale  del  cavallo. 


DELL'ARTE   DI   VEDERE  NELLE   BELLE  ARTI  1077 

arabi,  i  piu  nobili  cavalli  del  mondo.  Ma  quelle  crespe  al  collo 
e  alle  anche  sono  troppo  affettatamente  circolari:  la  bestia  e  troppo 
corta,  e  panciuta,  e  gropputa  . . .  Ma  per  dir  questo,  caro  M.  Fal 
conet,1  non  erano  necessari  due  volumi,  senza  de'  quali  ognun  sa 
ch'ella  e  un'opera  del  tempo  di  Marco  Aurelio,  e  non  di  Pericle> 
non  di  Alessandro.  Dunque  saranno  piu  ben  intesi  i  cavalli  di 
Monte  Cavallo,  opere  di  Fidia  e  di  Prassitele.2  Moltissimo  meno, 
benche  abbiano  delle  parti  non  dispregevoli :  i  celebri  nomi  appo- 
sti  non  impongono.  Sia  quel  che  si  voglia  del  cavallo  di  Marco 
Aurelio,  esso  e  il  piu  espressivo  di  quanti  finora  sieno  usciti  dalle 
scuderie  degli  scultori  antichi  e  moderni  a  noi  noti,  eccettuando 
pero  quello  di  M.  Falconet,3  che  ci  e  ignoto.  E  che  c'importa  de' 
cavalli  ? 

Endimione.4 

£  forse  il  miglior  bassorilievo  rimastoci  dell'antico,  per  la  gra- 
dazione  de'  piani  e  delle  lontananze.  L'uomo  sta  bene  sdraiato 
colla  sua  lancia  e  par  veramente  che  dorma:  il  cane  in  giusta  di- 
stanza  e  in  bello  scorcio  abbaia  alia  luna,  la  situazione  alpestre  e 
ben  ideata.  Al  confronto  di  questo  e  si  meschino  il  bassorilievo 
d'Andromeda  e  Perseo,  ch'e  nello  stesso  Campidoglio,  quanto  e 
egregio  quello  dipinto  da  Mengs.5 


i.  fitienne  Maurice  Falconet  (1716-1791),  scultore  e  critico  francese,  colla- 
boratore  della  Encyclopedic  per  le  arti  figurative.  II  Milizia  allude  alle  sue 
Observations  sur  la  statue  de  Marc-Aurele  et  sur  d'autres  objets  relatifs  aux 
beaux  arts,  Amsterdam  1771 :  osservazioni  gia  discusse  dal  Mengs  in  una 
lettera  al  Falconet  stesso  (cfr.  Opere,  ed,  cit.,  II,  pp.  228-41),  che  il  Milizia 
ha  certo  presente.  2.  i  cavalli  .  .  .  Prassitele:  allude  al  gruppo  cosiddetto 
dei  Dioscuri,  che  si  trova  in  piazza  del  Quirinale,  e  che  fu  a  lungo  attri- 
buito  a  Fidia  e  a  Prassitele,  i  cui  nomi  compaiono  incisi  sulle  basi:  in  realt& 
si  tratta  probabilmente  di  una  replica  romana  di  un  originale  greco  del 
VI-V  secolo  a.  C.  3.  quello  di  M.  Falconet:  allude  al  monumento  equestre 
di  Pietro  il  Grande,  eseguito  appunto  dal  Falconet  a  Pietroburgo.  4.  En- 
dimione:  il  bassorilievo  rappresentante  la  Luna  e  Endimione,  replica  romana 
di  un  originale  ellenistico,  cosi  come  quello  contemporaneo  di  Andromeda 
e  Perseo,  nominate  piu  sotto,  si  trovano  tuttora  nel  Museo  Capitolino. 
5.  quello  dipinto  da  Mengs:  1'opera  non  figura  tra  quelle  elencate  dal  d'Aza- 
ra  nel  catalogo  premesso  alle  Opere  (edizione  citata). 


1078  FRANCESCO   MILIZIA 


S.  Leone.1 

II  fiero  Attila  alia  testa  cTun  esercito  di  barbari  marcia  al  flagello 
di  Roma,  si  arresta,  si  sbigottisce  alia  presenza  del  santissimo  pa 
pa,  devoto,  placido,  inerme,  e  insieme  tutto  il  suo  seguito  eccle- 
siastico :  ma  gli  volano  per  Taria  i  due  apostoli  Pietro  e  Paolo  ben 
armati  e  piii  furibondi  di  Attila  stesso,  che  si  dava  a  credere  il 
dio  Marte:  e  questi  sono  quelli  che  fanno  il  colpo,  lo  confondono, 
lo  spaventano,  lo  fugano  (Roma  per6  gli  pag6  tribute) .  II  lavoro  e 
buono:  ha  unita,  distribuzione,  prospettiva,  e  ciascuna  immagine 
a  suo  luogo.  I  panneggiamenti  pero  sono  troppo  caricati,  le  forme 
non  bene  scelte,  e  a  quelli  apostoli  potrebbe  Attila  rinfacciare: 
«Tantaene  animis  caelestibus  irae!»2 

In  fatti  gli  stessi  apostoli  nello  stesso  soggetto  trattato  prima 
da  Raifaello,3  sono  alquanto  piii  savi  nelle  loro  minacce,  e  conser- 
vano  meglio  il  loro  contegno,  quantunque  spieghino  nell'aria  masse 
enormi  di  corporature.  II  papa,  che  qui  non  e  piu  S.  Leone,  ma 
Leon  X,  sfoggia  tutto  il  suo  fasto  montando  una  chinea  airultima 
moda  papale,  col  corteggio  di  porporati  eminentissimi,  di  monsi- 
gnori,  del  crocifero,  di  palafrenieri,  fra'  quali  e  anche  Pietro  Pe- 
rugino.  Qui  tutto  e  quiete.  DalPaltra  parte  e  Attila  tutto  agitato: 
tutto  agitato  e  il  suo  esercito,  e  piu  convulsi  i  tenenti  generali,  i 
marescialli,  gli  aiutanti,  scompigliati  tutti  fra  loro  e  co'  loro  de- 
strieri.  Anche  Paria  cospira  alia  loro  confusione,  non  per  pioggia, 
ne  per  grandine,  che  sarebbe  caduta  in  acconcio,  purche  avesse  ri- 
sparmiata  la  corte  pontificia,  ma  per  impeto  di  vento  che  manda 
a  sbaraglio  le  bandiere.  II  disegno  e  ben  inteso,  ma  non  nella 
scelta  delle  forme.  La  scena  e  in  campagna  aperta  tra  alberi,  colli- 
ne,  edifici,  fiumi  e  monti  in  confuso:  il  cielo  e  risplendente :  le 
masse  ben  contrastate  di  bianco,  di  rosso,  di  paonazzo,  di  mezze 
tinte .  .  . 

Ma  questo,  ognun  lo  sa,  e  lavoro  di  pennello ;  e  prima  di  veder 
quadri  giova  dalle  osservazioni  finora  fatte  dedurre  alquante  ri- 


i.  In  S.  Pietro  (M.).  Allude  alia  Cacdata  di  Attila,  bassorilievo  compiuto 
da  Alessandro  Algardi  (su  cui  cfr.  la  nota  i  a  p.  836)  nel  1650.  2.  Virgilio, 
Aen.,  I,  ii  («ire  cosi  violente  in  animi  celesti»).  3.  nello  stesso  .  .  .  Raf- 
faello:  allude  alPaffresco  dipinto  da  Raffaello  nella  stanza  di  Eliodoro  verso 
il  1512-1514. 


DELL'ARTE   DI   VEDERE  NELLE  BELLE  ARTI  1079 

Session!,  come  element!  dell'arte  di  vedere  le  produzioni  delle 
belle  arti. 

in 

ARCHITETTURA* 

Panteon. 

Quel  portico  tutto  che  affumicato  da'  secoli,  roso  negli  ornati  e 
spogliato  superiormente  d'ogni  sua  sontuosita,  slarga  il  cuore.  6  la 
semplicita  stessa:  alquante  colonne  e  un  frontispizio  formaao  la  gran 
mole.  La  vista  vi  si  spazia  con  diletto  nella  giustezza  dei  rapporti  e 
nelle  comodita  del  passeggio  cui  e  destinato.  Maestoso  portico!  e  piu 
maestoso,  se  le  colonne  fossero  senza  plinti  e  colle  basi  piu  sempli- 
ci.  Forza,  ricchezza,  intelligenza,  grandiosita,  tutto  il  bello  vi  e 
riunito.  Portici  Vatican!,  Laterani,  Liberiani,  Sestoriani*  e  quanti 
altri  siete  in  Roma  nelle  basiliche  e  nelle  non  basiliche,  perche"  non 
siete  si  grandiosi  e  si  belli,  malgrado  tanti  sforzi  di  ricchezza  e 
d'artifizio?  Lo  sforzo  non  e  forza,  la  profusione  non  e  ricchezza, 
quando  loro  non  presiede  Tintelligenza,  la  quale  ha  da  fare  spic- 
care  la  facilita;  e  in  architettura,  si  replichi  pure,3  tutto  ha  da  na- 
scere  dal  necessario,  e  sempre  con  naturalezza  e  senza  stento. 

Qui  le  colonne,  benche  realmente  delle  piu  gigantesche,  compa- 
riscono  d'una  giusta  grandezza.  Le  enormi  del  Vaticano  sono  sem 
pre  enormemente  colossal!.  Nel  Panteon  elle  sono  come  debbono 
essere  sempre  tutte  le  colonne,  in  vera  funzione :  prova  a  levarne 
una  sola,  subito  e  tutto  ruina.  Levale  tutte  da  quasi  tutti  gli  edifici 
modern!,  e  non  leverai  che  superfluita  e  imbarazzi,  senza  che  la 
fabbrica  soffra  altro  che  in  qualche  superfluita  stravagante.  Parlo 
delle  colonne  isolate.  Le  addossate,  le  annicchiate,  le  conficcate, 

i.  Da  DeWarte  di  vedere  nelle  belle  arti  del  disegno  secondo  i  principii  di  Sul- 
zer  e  di  Mengs,  ed.  cit.,  pp.  102-9.  Tralascio  alcune  riflessioni  general!  sul- 
T architettura,  che  precedono  le  analisi  qui  riprodotte.  2.  Portici  Vaticam 
sono  quelh  di  San  Pietro  in  Vaticano  e  della  sua  piazza,  opera  del  Maderno 
(1607-1614)  e  del  Bernini  (1656-1657);  Laterani,  di  San  Giovanni  in  Late- 
rano,  opera  di  Domenico  Fontana  (1586)  e  Alessandro  Galilei  (i736); 
Liberiani,  di  Santa  Maria  Maggiore  (fondata  secondo  la  tradizione  da  papa 
Liberio),  opera  del  Fuga  (1741-1743);  Sestoriani,  di  Santa  Croce  in  Geru- 
salemme  (detta  anche  « basilica  Sessoriana»  dal  vicino  palazzo  Sessoriano), 
opera  di  Domenico  Gregorini  e  Pietro  Passalacqua  (1743);  3-  f  replichi 
pure:  la  massima  infatti  e  una  di  quelle  su  cui  il  Milizia  insiste  piu  spesso, 
come  si  e  detto  nella  Nota  introduttiva. 


Io8o  FRANCESCO    MILIZIA 

le  sepolte  e  i  pilastri  sono  come  gli  del  d'Epicuro,1  L'architettura 
moderna  avra  in  Roma  quasi  died  mila  colonne  di  tale  fatta.  Che 
abuso  di  ricchezza! 

Se  ad  esso  portico  invece  di  discendere,  e  in  vece  d'essere  sepol- 
to  come  ora  e,  si  ascendesse  e  fosse  in  elevazione,  bello  e  isolato 
com' era  qual  altro  spicco  non  farebbe?  alia  maesta  unirebbe 
Teleganza. 

Ma  questo  portico  non  e  che  Taccessorio  di  un  tempio  rotondo. 
£  aggiunto,  e  Faggiunta  non  lega  bene  col  corpo  principale.  Ad 
un  corpo  rotondo  fa  bene  quelPaccessorio  quadrangolare  ?  Non  e 
qui  il  caso  della  varieta  piacevole.  Pare  che  interrompa,  o  tagli, 
o  che  faccia  desiderare  la  continuazione  intorno.  L'unita  richie- 
derebbe  che  anco  il  portico  andasse  circolarmente.  Ecco  la  il  tem- 
pietto  di  Bramante:2  ha  unita,  varieta,  simmetria,  euritmia,  ele- 
ganza;  avrebbe  anche  maesta,  se  fosse  il  Panteon\  ha  i  suoi  nei: 
sappili  vedere. 

Neirinterno  del  Panteon  ammira  la  grandiosita  del  tutto  e  di 
quelle  colonne  distribute  con  tanto  senno.  Ma  se  alzi  gli  occhi, 
vedrai  una  cuba3  si  magnifica,  che  t'impiccolisce  subito  quelle  co 
lonne  poco  fa  si  grandi.  Questa  sproporzione  nasce  probabilmente 
da  un  preteso  abbellimento  moderno,  per  cui  si  sono  cancellati 
nelPattico  que'  pilastri,  i  quali,  benche  posanti  in  falso,  doveano 
per6  togliere  questa  odiosita.  Odiosi  sono  anche  que'  due  arconi 
d'ingresso  e  di  faccia,  i  quali  oltre  al  comparire  bruttamente  supini, 
come  accade  a  tutti  gli  archi  nelle  forme  circolari,  qui  di  piii  ta- 
gliano  Pattico.  Senza  que'  tabernacoli  con  quelle  colonnette  so- 
stenenti  inutili  frontespizi,  pare  che  Paia4  starebbe  meglio.  Ma 
chi  ha  recato  piu  guasto  a  questo  edificio;  la  soldatesca  barbara 
e  il  tempo,  o  gli  architetti  romaneschi  ? 

Colosseo. 

Uniformita  in  ogni  piano,  e  varieta  nel  tutto:  semplicita,  buon 
legame,  buone  proporzioni.  Le  colonne  non  vi  fanno  tutto  lo  spicco, 
perche  vi  fanno  poca  funzione;  e  assai  meno  ve  ne  fanno  que7 
magri  pilastri  che  ripetono  la  stessa  decorazione  che  e  loro  imme- 

i.  sono  .  .  .  Epicuro:  in  quanto  non  servono  a  nulla.  2.  il  tempietto  di 
Bramante:  nella  chiesa  di  S.Pietro  in  Montorio  (1503).  3.  cuba:  cupola. 
4.  aia:  spazio  interne. 


DELL'ARTE   DI   VEDERE  NELLE  BELLE  ARTI  Io8l 

diatamente  di  sotto.  Gran  massa  imponente!  Piu  lo  sarebbe,  se 
non  fosse  che  a  tre  ordini ;  e  piii  ancora  se  a  due. 

S.  Paolo.1 

Ammiravi  Peffetto  veramente  ammirabile  de*  grandiosi  peri- 
stili,  e  passa  avanti. 

Cancelleria.2 

Mole  grande,  ben  ripartita,  e  mal  decorata  di  pilastri  secchi  e  inu- 
tili:  grandioso  e  anche  il  cortile  per  le  colonne  isolate,  e  barbara- 
mente  archeggiate. 

Farnese.3 

Massa  terribile  in  buoni  rapporti  e  senza  grazia.  Gli  ornamenti 
delle  finestre  non  sono  bene  scelti,  ne  ben  disposti,  e  troppo  orna- 
to  e  il  cornicione.  Bello  e  il  vestibolo  per  le  colonne  isolate:  troppo 
massicci  nel  cortile  e  troppo  soffocati  gli  ordini,  che  si  possono 
radere  impunemente.  Dunque  con  tutti  i  suoi  ornati  il  Farnese  e 
inferiore  alia  Cancelleria. 

Campidoglio.4 

Tutti  e  tre  insieme  questi  palazzini  colle  loro  pertinenze  di  piaz 
za,  di  sculture,  di  balaustri,  di  cordonate,  di  fontane  e  di  colle  Capi- 
tolino,  formano  non  so  che  di  gaio.  Ne'  laterali  manca  Punita:  co 
lonne  ioniche  e  pilastri  corintii  inutili  in  dissonanza;  finestre  mal 
decorate.  Dunque  peggio  del  Farnese. 


i.  S.  Paolo  fuori  le  mura:  il  Milizia  si  riferisce  all'antica  basilica,  eretta  nel 
IV  secolo,  e  che  fu  poi  distrutta  da  un  incendio  nel  1823.  2.  Cancelleria: 
attribuita  tradizionalmente  al  Bramante,  mentre  il  Vasari  ne  indica  come 
autore  Antonio  Montecavallo.  II  Milizia  nelle  sue  Memorie  degli  architetti 
antichi  e  moderni  accoglie  1'attribuzione  al  Bramante  (ed.  cit.,  I,  p.  140). 
3.  II  palazzo  Farnese^  la  cui  facciata  fino  al  cornicione  e  di  Antonio  da  San- 
gallo  il  Giovane,  mentre  il  cornicione,  la  finestra  sul  portone,  le  due  fac- 
ciate  laterali,  il  terzo  piano  del  primo  cortile  e  il  secondo  cortile  sono  di 
Michelangelo,  e  il  resto  di  Giacomo  della  Porta.  4.  La  piazza  del  Cam- 
pidoglio,  eseguita  su  progetto  di  Michelangelo. 


I082  FRANCESCO    MILIZIA 


S.  Pietro. 

Ecco  la  reverenda  fabbrica  la  piu  grande  e  la  piu  ricca  dell'uni- 
verso.  Che  ingegno  slanciar  nell'aria  il  Panteon,  e  fame  una  cupola 
con  cupolino,  con  cupolette  e  cupolucce!  Tutto  ci6  e  stupendo.  E 
stupendo  e  tutto  Testeriore  mastino1  e  tagliato  in  tante  parti;  e  piu 
stupenda  la  pianta  di  difficile  comprensione  con  navette*  che  hanno 
un  meschino  rapporto  colla  navata;  stupendi  gli  ordini  insignifi 
cant!  in  quelli  enormi  massicci,  e  stupendissimi  gli  altri  ornati  triti 
e  profusi  senza  discrezione.  Dunque  S.  Paolo  e  piu  architettonico 
di  S.  Pietro.  Dunque  a  tempo  di  Costantino,  allora  quando  Tar- 
chitettura  era  spenta,  se  ne  sapeva  di  piu  che  nel  secolo  della  tanto 
trombeggiata  risurrezione  di  tutto  il  bello  e  di  tutto  il  buono 
sotto  i  Giuli  e  i  Leoni  per  mezzo  di  quel  Michelagnolo  triplice- 
mente  divino. 

Immensa  e  la  piazza;  e  frattanto  dov'e  il  punto  di  vista  per  la 
facciata,  che  sia  in  armonia  con  tutta  la  cupola?  II  colonnato  di  essa 
piazza  e  forse  il  miglior  pezzo  delParchitettura  moderna,  in  grazia 
delle  colonne,  che  vi  fanno  da  colonne. 

S.  Andrea  della  Valle.3 

Facciata  grande  e  ricca.  Dunque  bella,  seguita  a  dire  Tintelligen- 
tissimo  volgo.  Dunque  una  ricca  mummia  sara  bella.  Pure  ognun 
vede  che  un  brutto  oggetto,  quanto  piu  s'ingrandisce  e  si  arric- 
chisce,  piu  s'imbrutta.  Qual  e  il  punto  di  veduta  per  godere  la  cu 
pola  campeggiare  su  la  facciata  ?  Perche  essa  facciata  e  a  due  piani, 
se  Tintemo  e  uno  ?  £  dunque  una  facciata  menzognera;  non  e  sola. 
Peggio  con  que'  tanti  imbrogli  di  pilastri,  di  piedestalli,  di  colonne, 
tutte  inconcludentemente.  II  peggio  strapazzo  e  di  frontispizi  e 
di  cornici  con  tanti  tagli,  frastagli,  angoli  e  risalti.  La  stessa  insi- 
gnificanza  e  controsignificanza  de'  pretesi  ornamenti  e  nell'interno, 
dove  in  fondo  e  quelPinutil  cupolone,  che  dovrebbe  essere  nel 
mezzo.  Dunque  di  mal  in  peggio. 


i.  mastino:  grossolano  e  pesante.  2.  navette:  navate  minori.  3.  S.  An 
drea  della  Valle:  iniziata  da  Paolo  Olivieri  nel  1591,  continuata  da  Gio 
vanni  Francesco  Grimaldi,  e  compiuta,  su  disegno  del  Maderno,  nel  1650. 


DELL'ARTE   DI  VEDERE  NELLE  BELLE  ARTI  1083 

Sagristia  Vaticana.1 

Sia  pure  questa  la  piu  sontuosa  sagristia  de'  preteriti,  de'  pre 
sent!  e  de'  tempi  futuri;  ma  ella  e  anche  la  fabbrica  la  piu  inarchi- 
tettonica.  Qui  non  si  richiede  arte  di  vedere;  chiunque  ha  occhi 
la  definisce  subito  per  un  capo  d'  opera  di  spropositi.  Dunque  peg- 

gio  che  mai. 

Dunque  di  peggio  in  peggio  anche  in  architettura,  in  cui  da  un 
secolo  e  mezzo  in  qua  si  veggono  da  per  tutto  messe  in  opera  le 
stesse  stravaganze  coll'aggiunta  di  ondolazioni,  d'incassature,  di 
proietti,2  d'aggetti  sopra  proietti,  entro  incavi  di  misti  Iinee3^e  di 
acutangoli.  Chiudi  gli  occhi  a  tanti  inarchitertonici  mostri,  niuno 
per  difetto,  ma  tutti  per  eccesso  e  per  disposizione  e  configurazioni 
di  parti.  Se  fossero  cose  meramente  insignificanti,  male,  valerebbero 
un  niente,  il  controsignificante  e  meno  del  niente,  cioe  un  male 
positive  in  ragione  della  sua  controsignificanza. 

Questa  rassegna  delle  cose  piu  rimarchevoli  di  Roma  fa^malin- 
conia.4  Eppure  Roma  si  decanta  la  reggia  delle  belle  arti.  Lo  e 
per  confronto,  o  per  pregiudizio? 

Se  gli  artisti  fossero  obbligati  a  fare  descrizioni  ragionate  delle 
loro  opere,  o  farebbero  opere  ragionevoli,  o  non  farebbero  ne  Tune 
ne  1'altre.  A  Tebe  chi  faceva  un  cattivo  quadro  era  punito:  bisogna 
che  quelli  stupidi  tebani  sapessero  vedere  assai  bene;  ne  avranno 
premiato  un  architetto  che  vi  avesse  fatta  una  fabbrica  insensata  da 
svergognare  in  perpetuo  una  nazione  intera.  Impareremo  a  vedere 
anche  noi,  e  godremo,  godremo  piu  di  quello  che  taluno  puo  im- 
maginarsi;  poiche  le  belle  arti  ben  intese,  ben  regolate  e  ben  di- 
rette  hanno  una  grande  influenza  al  bene  del  popolo,  dipendendo 
tutto  dallo  stesso  unico  principio,  dalla  ragione  ben  coltivata:  ella 
fa  il  buon  governo,  illumina  colle  buone  scienze,  istruisce  e  di- 
letta  colle  belle  arti,  fa  la  felicita  pubblica  e  privata. 
i.  Sagristia  Vaticana:  costruita  da  Carlo  Marchionni  (1776-1784).  a.  pro- 

* 


girare  del  tomio  es 


ha  veruno,  non  e  ne  gotica  ne  cinese,  e  molto  meno  greca;  e 
cui  gli  artisti  si  scapricciano  (M.)- 


GIUSEPPE  SPALLETTI 


NOTA  INTRODUTTIVA 

AlPincirca  nella  stessa  epoca  del  Milizia  e  in  un  ambiente  cul- 
turale  non  diverse  visse  a  Roma  Pautore  del  Saggio  sopra  la  bel- 
lezza,  Giuseppe  SpallettL  Non  si  conoscono  le  date  precise  della 
sua  nascita  e  della  sua  morte,  ma  certo  egli  doveva  aver  passato  la 
prima  giovinezza  nel  1758,  quando  mori  suo  zio  Andrea  Francesco 
Mariani  di  Viterbo,  die  lo  aveva  avuto  coadiutore  nel  suo  ufEcio  di 
scrittore  di  lingua  greca  alia  Biblioteca  Vaticana;  ed  era  ancora 
vivo  nel  1793,  quando  il  Monti,  in  una  nota  alia  Bassvilliana,  lo 
annoveravatraipiuaccaniti  detrattori  del  suo  poemetto  e  gli  affib- 
biava  Fappellativo  di  abrutto  autore  del  Bello».  La  sua  familiarita 
col  principe  Luigi  Gonzaga,  di  idee  democratiche  e  poi  massone, 
e  la  sua  presenza  fra  i  sostenitori  di  Gorilla  Olimpica,  insie- 
me  col  Pizzi,  con  PAmaduzzi  e  con  altri  awersari  dei  gesuiti, 
sembrerebbero  qualificarlo  come  uomo  di  idee  liberali,  almeno  re- 
lativamente  alPambiente  romano ;  anche  se  ci  rimane  di  lui  un'epi- 
stola  latina  in  versi  contro  la  Rivoluzione  francese.  Dei  suoi  in- 
teressi  nel  campo  filosofico  non  rimane  altro  documento  che  il 
Saggio  sopra  la  bellezza.  Dimostra  invece  la  sua  passione  ed  anche 
(nonostante  gli  aspri  giudizi  del  Monti  nella  nota  ricordata)  la  sua 
preparazione  scientifica  come  archeologo  e  filologo  Paltra  operetta 
che  di  lui  ci  e  pervenuta,  la  Dichiarazione  di  una  tavola  ospitale 
trovata  in  Roma  sopra  il  monte  Aventino  (Roma,  Stamperia  Salo- 
moniana,  1777);  e  un'ulteriore  conferma  in  questo  senso  puo  es- 
sere  offerta  dalle  notizie,  fornite  dal  Lucchesini,  intorno  ad  una 
sua  edizione  di  Anacreonte  condotta  su  un  codice  del  secolo  X, 
e  ad  una  altra  edizione,  almeno  da  lui  progettata,  dtll'Antologia 
palatina. 

Fu  probabilmente  proprio  questa  passione  per  Pantico,  e  in 
particolare  la  sua  competenza  di  grecista,  a  favorire  la  sua  amicizia 
col  Mengs,  a  richiesta  del  quale  egli  stese,  come  e  detto  esplicita- 
mente  alPinizio  delPoperetta,  il  Saggio  sopra  la  belhzza,  che, 
compiuto  nella  «solitudine  di  Grottaf errata »  prima  del  14  luglio 
1764,  fa  stampato  a  Roma  nel  1765.  L'opuscolo  suscit6  subito 
un  certo  interesse.  Lo  stesso  Mengs  appose  una  serie  di  postille 
(edite  dal  Fea  nel  1836)  ad  un  esemplare  del  Saggio.  Alcune  af- 
fermazioni  in  esso  contenute  furono  discusse  dal  d'Azara  nelle  sue 


1088  GIUSEPPE   SPALLETTI 

Osservazioni  intorno  alle  Riflessioni  sulla  bellezza  e  sul  gusto  delta 
pittura  del  Mengs;  da  Bernardo  Galiani,  Pamico  del  Milizia,  in 
una  inedita  dissertazione  Del  Bello ;  da  Andrea  Spagni  nel  tratta- 
to  De  bono,  malo  et  pulchro ;  e  infine  ne  fece  menzione,  citandone  la 
defmizione  con  cui  si  apre  il  paragrafo  n,  il  Sulzer,  nella  Allgemeine 
Theorie  der  schonen  Kiinste.  A  questa  menzione  del  Sulzer  si  de- 
ve  il  ricordo  dell' opera  dello  Spalletti  in  alcune  storie  e  trattati 
di  estetica  dell'Ottocento,  soprattutto  stranieri,  come  quelli  dello 
Zimmermann,  dello  Schasler,  del  Tolstoi.  Ma  un  efettivo  inte- 
resse  intorno  al  Saggio  sopra  la  bellezza  e  al  suo  autore  si  accese 
solo  verso  i  primi  anni  del  Novecento  per  merito  del  Croce:  il 
quale,  nel  ripercorrere  la  storia  della  filosofia  dell'arte  alia  luce 
della  sua  prima  estetica,  ritenne  di  poter  indicare  il  concetto  fon- 
damentale,  e  piu  nuovo,  dell'operetta  nella  identificazione  della 
bellezza  col  «  caratteristico  »,  una  identificazione  che  il  Croce  stesso 
giudicava  «alquanto  vaga  e  priva  di  vero  fondamento  filosofico», 
ma  che  in  ogni  caso  andava,  a  suo  giudizio,  posta  nel  dovuto  rilievo 
come  una  consapevole  reazione  alia  «idea  mistica  della  bellezza » 
del  Mengs  e  del  Winckelmann  e  come  primo  affiorare,  in  pieno 
Settecento,  di  una  idea  estetica  tipicamente  romantica.  A  questa 
interpretazione  non  mossero  obiezioni  sostanziali  i  due  studios! 
che  dopo  il  Croce  si  occuparono  espressamente  del  Saggio,  il  Na- 
tali  e  il  Preti.  Seri  dubbi  su  di  essa  sono  stati  invece  sollevati  re- 
centemente  dal  Caracciolo.  Egli  ritiene  anzitutto  che  il  «  caratteri 
stico))  di  cui  parla  lo  Spalletti  non  si  possa  riferire  alia  bellezza 
naturale,  bensi  soltanto  alia  bellezza  artificiale.  Ma  anche  entro 
questi  limiti  gli  sembra  difficile  sostenere  che  Fautore  intenda  vera- 
mente  il  Bello  (come  vuole  il  Croce)  quale  rappresentazione  del- 
rindividuale  concrete.  A  suo  giudizio,  il  pensiero  dello  Spalletti 
sulPargomento  sarebbe  ancora  aggrovigliato  e  confuso;  e  se  in 
qualche  punto  esso  pu6  sembrare  effettivamente  orientato  nel  sen- 
so  indicate  dal  Croce,  dalla  lettura  complessiva  del  Saggio  si  avreb- 
be  Timpressione  che  per  Pautore  Poggetto  della  rappresentazione 
artistica  oscilli  « dalPindividuale  concrete,  bello  o  brutto  che  sia, 
airindividuale  scelto  sulla  base  della  bellezza,  al  tipicamente  bello, 
formato  secondo  la  favola  di  Zeusi».  E  tale  interpretazione,  sempre 
a  giudizio  del  Caracciolo,  sarebbe  confermata  dalle  postille  del 
Mengs,  nelle  quali  si  sollevano  obiezioni  su  altre  affermazioni  del 
Saggio,  mentre  non  si  discute  quella  presunta  identificazione  del 


NOTA   INTRODUTTIVA  1089 

Bello  col  caratteristico,  die  avrebbe  dovuto  soprattutto  suscitare 
la  reazione  polemica  del  ccpittore  filosofo». 

In  effetto,  se  si  considera  Toperetta  dal  solo  punto  di  vista 
del  caratteristico,  mi  sembra  che  i  dubbi  del  Caracciolo  siano 
fondati.  Ma  direi  anche  che,  rileggendo  spregiudicatamente  il 
breve  trattato,  sorga  un  altro  e  piu  generale  dubbio:  quel  pro- 
blema  e  dawero  centrale  nelle  intenzioni  delPautore  e  nell'effet- 
tivo  svolgersi  del  ragionamento  ?  Quale  sia  Taspetto  del  Saggio  a 
cui  soprattutto  tiene,  lo  Spalletti  precisa  piu  volte  nel  corso  del 
lavoro,  ma  in  modo  particolarmente  esplicito  nel  paragrafo  conclu 
sive  (XLII)  :  «  Lusingomi  aver  io  per  il  primo  dall'amor  proprio  de- 
dotto  la  bellezza,  avendo  dimostrato  che  in  null' altro  consiste  se 
non  se  nell'associazione  di  piacevoli  idee».  Certo,  in  senso  gene- 
rale,  non  si  pu6  affermare  che  questa  deduzione  della  bellezza 
dairamor  proprio  sia  una  assoluta  no  vita,  poiche  essa  (come  gik 
notavano  lo  Schasler  e  il  Tolstoi)  compare  nell'estetica  empiristica 
inglese  e  in  particolare  nel  Burke.  Ma  se  e  possibile  e  probabile 
che  lo  Spalletti  abbia  preso  lo  spunto  direttamente  o  indiretta- 
mente  dal  pensiero  empiristico  inglese,  resta  comunque  originale 
Timpiego  che  egli  fa  del  concetto  deiramor  proprio.  E  anzitutto  da 
rilevare  (con  il  Croce)  che,  se  anche  per  lui  il  Bello  e  soddisfaci- 
mento  deiramor  proprio  e  quindi  piacere,  tale  piacere  non  ha  nulla 
di  egoistico  o  di  utilitaristico,  bensi  e,  come  e  precisato  esplicita- 
mente  (§  xix),  « piacere  intellettuale».  Ma  1'autore  non  si  ferma 
qui:  egli  sottopone  ad  ulteriore  analisi  questo  piacere  intellettuale, 
mostrando  come  esso  si  articoli  in  due  momenti  idealmente  di- 
stinti  ma  in  effetto  compresenti  nella  mente  di  chi  giudica  e  gusta 
1'opera  d'arte,  e  che  a  loro  volta  corrispondono  alle  due  fasi, 
pure  idealmente  distinte  e  compresenti,  della  creazione  artistica: 
a  I  grandi  autori,  stabilita  con  precisione  la  caratteristica  di  ci6  che 
rappresentare  vogliono,  si  studiano  che  questa  desti  immediata- 
mente  nella  fantasia  dej  riguardanti  1'idea  della  medesima  cosa: 
lo  che  eseguito,  sono  gia  sicuri  della  bellezza  della  propria  opera: 
la  quale  accio  vie  piu  d'impressione  piacevole  susciti,  la  coadiu- 
vano  con  la  varieta,  che  airunita  obbedisca,  con  Pordine,  colla 
simmetria,  etc.  Ed  in  questa  guisa  prende  la  tela  pitturata  un'aria 
singolare,  la  quale  senza  tradire  la  verita  spesse  volte  la  supera; 
e  questo  fare  caratterizza  la  sublimita  del  talento  delTautore,  e  noi 
rimanghiamo  soprafatti,  perche  in  que'  pochi  tratti  scorgiamo  la 

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realta  di  quella  cosa  che  rappresentar  si  e  voluta,  dotata  di  quelle 
modificazioni  di  cui  piacque  alFautore  dotarla  ...»(§  xxxiv).  Que- 
sto  passo  mi  sembra  fondamentale  per  comprendere  nel  giusto 
senso  la  natura  del  trattatello,  e  in  particolare  quella  che  al  Carac- 
ciolo  e  sembrata  una  «  oscillazione  »  fra  caratteristico  e  Bello  ideale. 
Alia  luce  di  esso,  infatti,  e  di  altri  passi  ancora  che,  sia  pure  in  mo- 
do  meno  chiaro,  ne  anticipano  o  ne  riprendono  i  concetti  (§  xn, 
xix,  xxxvui,  XL,  XLI),  viene  a  chiarirsi  come  lo  Spalletti  intenda 
la  rappresentazione  della  caratteristica  di  un  oggetto  e  la  sua  idealiz- 
zazione  appunto  come  due  momenti  di  un  unico  processo  artistico 
che,  dopo  essersi  svolto  nella  mente  delFartista,  si  ripete  in  quella 
del  lettore  o  spettatore  sollecitandone  piacevolmente  Famor  pro- 
prio:  il  momento  della  constatazione  delFaderenza  veritiera  del- 
Fopera  d'arte  al  «  prototipo »,  alFoggetto  da  rappresentare,  consta 
tazione  che  gia  di  per  se  stessa  produce  un  primo  piacere  estetico, 
appagando  immediatamente  e  facilmente  Fanima  nella  sua  esi- 
genza  di  «verita»  (§  in,  xn-xv);  e  il  momento  in  cui  lo  spettatore 
o  lettore,  sicuro  ormai  della  (cverita»  della  rappresentazione,  si 
compiace  di  osservare  come  Fartista  abbia  elaborate  tale  rappre 
sentazione  conformandola  a  quei  canoni  di  varieta  nelFunita,  di 
ordine,  di  simmetria,  ecc.,  che  costituiscono  la  «norma»  univer- 
sale  e  immutabile  della  bellezza  (§  v-xi):  osservazione  che  con- 
sente  alFanima  un  ulteriore  e  piu  raffinato  godimento,  conducen- 
dola,  attraverso  una  cccontinua  serie  di  taciti  sillogismi »,  ad  av- 
vertire  il  «sentimento  della  propria  perfezione»  (§  xvi-xix),  ma 
che,  e  bene  ripeterlo,  non  sarebbe  possibile  senza  la  preliminare 
sicurezza  della  specifica  verita  della  rappresentazione. 

II  Saggio  non  si  configura  dunque  come  una  difesa  del  carat 
teristico  in  polemica  con  Festetica  metafisica  o  mistica  del  Winck- 
elmann  o  del  Mengs  (secondo  Finterpretazione  crociana),  ma 
neppure,  malgrado  la  scarsa  chiarezza  delFesposizione,  si  riduce 
ad  una  aggrovigliata  e  confusa  oscillazione  fra  i  due  concetti. 
Esso  puo  essere  invece  ragionevolmente  interpretato  come  un  ten- 
tativo  di  dialettizzare  in  un  processo  unico,  partendo  dalF«amor 
proprio»,  Faspetto  « particolare »,  soggettivo  e  sensibile  della  crea- 
zione  artistica  e  del  piacere  da  essa  suscitato  con  il  loro  aspetto 
universale  e  ideale.  Che  proprio  questa  sia  la  preoccupazione  fon 
damentale  dell'autore  mi  sembra  confermato  anche  dalla  lunga 
discussione  intorno  al  problema  della  bellezza  assoluta  e  relativa 


NOTA  INTRODUTTIVA  I0gi 

( §  xx-xxxm),  una  discussione  infine  risolta  con  Passerire  per  via 
empiristica  1'assolutezza  del  Bello,  ma  in  cui  pure  (come  ha  no- 
tato  il  Preti)  s'intrawede  (specialmente  nel  §  xxiv)  la  possibilita 
di  una  piu  originale  e  profonda  soluzione,  che  intenda  il  Bello 
assoluto  come  « forma »  e  il  Bello  relative  come  variabile  «conte- 
nuto»  di  questa  forma. 

Cosi  interpretato  il  Saggio,  se  perde  il  suo  valore  di  sorprendente 
anticipazione  romantica,  acquista  per6  un  non  trascurabile  inte- 
resse  quale  risposta  non  priva  di  originalita  ad  una  delle  piu  dibat- 
tute  question!  della  estetica  del  tar  do  Illuminismo.  Piu  partico- 
larmente  direi  che  esso  valga  come  una  teorizzazione  di  quell5 o- 
rientarnento  di  gusto  che  si  nota  appunto  in  questa  epoca  nella 
critica  letteraria  e  artistica  italiana  -  ad  esempio,  per  limitarci  alia 
seconda,  nel  Milizia  e  anche  nel  Lanzi  -,  e  che,  pur  accogliendo  la 
suggestione  del  neoclassicismo  winckelmanniano  e  mengsiano  e 
specialmente  1'aspirazione  ad  una  arte  serenamente  impersonate, 
non  vuole  o  non  sa  pero  rinunciare  a  quei  caratteri  di  concreto 
interesse  umano,  di  sensibile  evidenza,  e  magari  di  equilibrata  ve- 
rosimiglianza,  che  erano  cari  al  classicismo  illuministico. 

Proprio  a  combattere  questo  compromesso,  a  riaffermare  la  na- 
tura  universale,  metafisica,  «insignificante»  del  Bello,  mi  sembra 
che  siano  rivolte  le  postille  del  Mengs :  il  quale,  se  e  vero  che  non 
polemizza  contro  il  «  caratteristico  »,  tende  tuttavia  a  ribattere  tutte 
le  proposizioni  dello  Spalletti  che  insistono  sugli  aspetti  «parti- 
colari »,  soggettivi  o  sensibili,  dell'atto  o  del  piacere  estetico,  come 
quando  afferma  che  aPamor  proprio  non  pu6  mai  essere  origine 
della  bellezza,  che  e  una  qualita  inerente  airoggetto  bello  e  non 
qualita  di  chi  Pammira»  (postille  3  e  n);  o  che  la  «varieta»  non  e 
un  elemento  essenziale  della  bellezza,  ma  piuttosto  «un  impedi- 
mento  »,  mentre  essenziali  sono  invece  la  semplicita  e  Punita  (po 
stille  6,  7,  8,  9);  che  il  « disaggradevole »  non  pu6  essere  degno 
del  nome  di  bello  (postilla  13);  e  che  infine  e  da  escludere  del  tutto 
la  possibilita  di  una  bellezza  relativa  (postille  14  e  15). 


II  Saggio  sopra  la  bellezza  fu  pubblicato  a  Roma,  dalla  tipografia  di 
Francesco  Bizzarrini  Komarek,  nel  1765,  senza  il  nome  delTautore,  che 
per6  figura  manoscritto  in  alcuni  esemplari  di  questa  edizione;  e  rattribu- 
zione  risulta  confermata  da  una  esplicita  dichiarazione  di  F.  M.  Renazzi 
(Storia  dell* Universitd  di  Roma,  Roma  1806,  iv,  p.  351).  Successivamente 


1092  GIUSEPPE   SPALLETTI 

il  Saggio  fu  ripubblicato  due  volte:  a  cura  di  G.  Natali,  Firenze,  Olschki, 
1933;  e  a  cura  di  G.  Preti,  Milano,  Minuziano,  1954.  In  questa  nostra 
ristampa  parziale  ci  siamo  attenuti,  naturalmente,  alia  edizione  romana 
del  1765. 

Le  postille  di  A.  R.  MENGS  al  Saggio  si  leggono  nelle  Opere  pubblicate  dal 
cavaliere  G.  N.  d'Azara,  corrette  ed  aumentate  dalV  avvocato  Carlo  Fea, 
Milano,  Silvestri,  1836,  I,  pp.  236-42.  I  cenni  di  A.  C.  SULZER  sono  nella 
Allgemeine  Theorie  der  schonen  Kiinste,  Leipzig,  Wiedmann,  1792-1794, 
IV>  PP*  312-3;  B.  CROCK  si  e  occupato  due  volte  del  Saggio:  nell' Estetica, 
Bari,  Laterza,  I9468,  pp.  299-300;  e  nei  Problemi  di  estetica,  Bari,  Laterza, 
I9494,  pp.  394-400;  G.  NATALI  nella  Nota  finale  alia  sua  edizione  citata, 
utile  soprattutto  per  le  notizie  biografiche  e  bibliografiche,  e  che  ripro- 
duce  sostanzialmente  il  saggio  gia  pubblicato  col  titolo  //  «  brutto  autore  del 
Bello^  in  «Giorn.  stor.  d.  lett.  it. »,  LXXXVI  (1925),  pp.  397-400,  e  poi  nel 
volume  Idee,  costumi,  uomini  del  Settecento,  Torino,  S.T.E.N.,  I9262; 
G.  PRETI  nella  Introduzione  alia  sua  edizione  pure  citata ;  A.  CARACCIOLO 
in  una  recensione  di  questa  edizione  pubblicata  in  «  Giornale  di  metafisi- 
ca»,  in  (1948),  pp.  264-8,  e  ristampata  nel  volume  Scritti  di  estetica,  Bre 
scia,  Vannini,  1949.  Si  vedano  inoltre  i  cenni  equilibrati  di  G.  DE  RUG- 
GIERO,  Storia  della  filosofia,  P.  iv;  La  filosofia  moderna,  ill,  Da  Vico  a 
Kant,  Bari,  Laterza,  1952*,  pp.  102-3;  e  di  R.  WELLEK,  Storia  della  critica 
moderna.  DalV  Illuminismo  al  Romanticismo  (traduzione  italiana  di  A.  Lorn- 
bardo),  Bologna,  Societa  editrice  «I1  Mulino»,  1958,  p.  149. 


DAL  «SAGGIO  SOPRA  LA  BELLEZZA» 

ii 
Idea  deU'opera.1 

Jrrima  pero  che  incominciate  a  ponderate  cio  che  la  buona  vo- 
lonta  di  servirvi  nella  solitudine  di  Grotta  Ferrata  mi  suggeri- 
sce,  vi  priego  vogliate  riflettere  non  avere  inteso  io  far  qui  un 
compito  trattato  intorno  la  bellezza,  non  solo  per  iscansare  la 
fatica,  la  quale  grave  anzi  che  no  riuscita  sarebbemi,  ma  per 
non  oltrepassare  i  limit!  della  vostra  domanda,  Dovrete  ancora 
prendere  in  buona  parte  la  negligenza  dello  stile  di  cui  espres- 
samente  usai  per  la  dolce  memoria,  che  viva  mi  rimane,  della  cor- 
tese  umanita  vostra.  Ne  sorpreso  rimarrete  se  non  osservate  un 
certo  studiato  metodo;  ma  un'analisi  semplicissima  di  quelle  no- 
zioni  che  condur  possono  a  sviluppare  la  complicatissima  idea 
della  bellezza  alia  vostra  ingenua2  arte  specialmente  spettante. 
Da  queste,  bene  intese  ch'elleno  sieno,  nascer  vedrete  la  defini- 
zione  di  quello3  mi  richiedeste.  Giovami  ultimamente  awertirvi, 
nominarsi  da  me  in  questo  scritto  spesse  volte  Pamor  proprio, 
per  il  quale  niente  altro  intender  voglio  se  non  se  quell' assor- 
timento  d'idee  piacevoli  o  utili,  che  il  proprio  interesse  a  ca- 
daun  uomo  ha  formato,  il  quale  poi  passato  in  abito  si  erige  giu- 
dice  di  tutto  ci6  che  airanima  si  presenta,  non  potendosi  a  que- 
sta  offerire  oggetto  veruno  il  quale  non  abbia  qualche  rapporto 
o  col  nostro  stato,  o  colle  nostre  passioni,  o  colle  nostre  opinioni. 
Esatto  giudice  poi  sara  Pamor  proprio  di  que'  spiriti  ben  nati,  i 
quali,  amici  del  vero,  animati  da  un  nobile  ardire,  seaza  esser 
punto  caparbi,  conservano  la  loro  anima  in  una  certa  sospensione, 
la  quale  dia  sempre  Tadito  alia  verita,  e  mai  cessi  di  depurare  le 
antiche  idee  da  ogni  qualunque  siasi  pregiudizio. 


i.  Nel  §  i  Tautore,  rivolgendosi  al  Mengs,  ricorda  come  da  lui  gli  sia  ve- 
nuta  Tesortazione  a  scrivere  il  presente  saggio.  2.  ingenua:  nobile.  Al 
lude  alia  pittura,  Tarte  esercitata  dal  Mengs.  3.  quello:  quello  che. 


1094  GIUSEPPE   SPALLETTI 

III 

Definizione  della  bellezza. 

Per  accommodarmi  alia  costumanza  che  praticasi,  incomincer6 
questo  mio  ragionamento  colla  definizione  della  bellezza;  la  qua 
le  a  mio  awiso  e  quella  modificazione  inerente  alPoggetto  os- 
servato,  che  con  infallibile  caratteristica,  quale  il  medesimo  ap- 
parir  deve  allo  intelletto  che  compiacesi  in  riguardarlo,  tale  glie- 
lo  presenta.1  Faro  costare,2che  il  diletto  della  bellezza  occasionato 
ha  la  sua  radice  nelPamor  proprio,3  il  quale  in  una  tal  qual  maniera 
padre  di  quella  proclivita,  che  per  la  bellezza  abbiamo,  possiamo 
chiamare;  essendo  che  Panima  sdegna  essere  prodiga  di  encomi 
verso  quegli  oggetti  che  il  menomo  incommode  recar  le  posso- 
no.  Tutto  ci6  ch'ella  a  primo  aspetto  non  percepisce  adequa- 
tamente,  anzi  che  encomiarlo,  lo  vitupera.  Perche  Pamor  proprio 
e  certo  di  andar  meno  al  di  sotto  pronunziandolo  brutto,  E  sicco- 
me  la  idea  di  Bello  e  presa  dalPassociazione  di  quelPidee  che 
favorevoli  e  parziali  alle  grate  sensazioni  nostre  giudichiamo,  per- 
ci6  non  sara  possibile  che  Panima  s'induca  a  dare  il  titolo  di 
bello  a  quella  cosa  che  per  difetto  di  propria  caratteristica  o  d'i- 
gnoranza4  pone  in  qualche  dubbio  il  di  lei  amor  proprio.  Que 
sto  egli  e  il  fonte  del  timore  che  abbiamo  di  non  ingannarci, 
e  cresce  in  proporzione  della  dubbiezza  in  cui  Panima  e  situata 
per  mancanza  della  caratteristica  sopraenunciata.  Ne  a  voi  stra- 
na  apparisca  la  novita  che  vi  reco  intorno  la  origine  della  bel 
lezza,  perche,  se  a  fondo  esaminerete  la  inesauribile  passione 

i.  la  quale.  .  .presenta:  e  la  definizione  che  verra  citata  dal  Sulzer  nel- 
VAllgemeine  Theorie  der  schonen  Kiinste  (vedi  la  bibliografia),  e  che  di  qui 
passera  nelle  varie  storie  dell'estetica.  II  Mengs  postillando  questa  defini 
zione  osserva:  «  e  troppo  ristretta,  riguardando  solamente  gli  oggetti  visibili. 
Dunque  tratta  al  piu  delle  cose  belle,  non  della  bellezza »  (cfr.  postilla  2, 
in  Opere,  ed.  cit.,  I,  p.  237).  2.  costare:  constare.  3.  il  diletto  .  .  .  proprio: 
a  questa  affermazione  si  nferisce  certamente  la  postilla  3  del  Mengs : « Sa- 
rebbe  necessario  distinguere  il  Bello  dal  piacevole,  mentre  ancor  questo 


_ quel  che  io  chiamo  giudii,AV  XV,MI»LVU  « 

noi  medesimi,  e  che  e  inseparable  in  noi»  (cfr.  Opere,  ed.  cit.,  I,  p.  237). 
4.  d'ignoranza:  cosl  ha  1'edizione  1765:  probabilmente  nella  stampa  e  sal- 
tata  qualche  parola.  In  ogni  caso  si  dovra  intendere:  per  1'ignoranza  in  cui 
Tanima  si  trova  rispetto  alia  cosa. 


SAGGIO  SOPRA  LA  BELLEZZA  1095 

dell'amor  proprio,  la  troverete  prima  motrice  di  tutte  le  azioni 
che  riguardano  non  solamente  la  macchina,  ma  ancora  lo  spirito. 
Dalle  quali  cose  chiaramente  addivenir  vedrete  che  quanto  piu 
Partefice  avra  abilita  d'interessare  questa  passione  con  sicurezza, 
in  modo  che  scorga  chiaramente  ci6  che  da  lui  si  e  voluto  esprimere, 
tanto  piu  pregevole  dovra  essere  stimato.1 


XI 

Gli  uomini  han  formato  una  norma  di  "bellezza. 

Senza  per  ora  molto  diffondermi  nelle  altre  cause  produttrici 
la  bellezza,  conviene  che  vi  awerta  della  non  mai  abbastanza 
conosciuta  forza  delPamor  proprio.3  Questo,  che  in  ogni  nostra 
azione  vuole  in  qualunque  siasi  modo  entrare,  si  e  tanto  con  noi 
addimesticato,  che  senza  stare  alFerta  non  ci  accorgiamo  esser 
egli  il  primo  agente  in  quasi  tutti  i  nostri  giudizi;  ma  facile  ol- 
tre  modo  si  rende,  a  chi  all'analisi  delle  operazioni  deli'anima  e 
mediocremente  accostumato,  il  veder  qual  posto  in  ogni  una  di 
esse  egli  occupi.  Voi,  che  colla  vostra  penetrativa  assottigliata  mai 
sempre  in  serie  meditazioni  siete  oltre  modo  pratico  delle  medesi- 
me,  non  arete  punto  difficolta  di  meco  convenire  in  questa  opi- 
nione,  e  con  agevolezza  il  comprenderete.  Ora  gli  uomini,  o  questi 
siano  dotti  o  idioti,  riflettendo  cadauno  a  suo  modo  sopra  la  varie- 
ta,  la  semplicita,  Pordine  e  sopra  i  van  rapporti  di  queste  qualita, 
per  proprio  comodo  cercano  ridurre  queste  medesime  idee  ad  una 
idea  comune,  la  quale  serva  loro  di  sesto  o  di  norma;  ed  addattando 
questa  agli  oggetti  individui,  ove  veggono  la  medesima  loro  con- 
venire,  da  questa  convenienza  n'esperimentano  piacere,  si  perche 

i.  Tralascio  i  §  iv-x,  nei  quali  lo  Spalletti,  dopo  aver  accennato  come  Tarte, 
sotto  la  spinta  delTamor  proprio,  sia  nata  e  si  sia  sviluppata  verso  forme 
sempre  piu  rafEnate  e  complesse,  chiarisce  che  il  corpo  umano  e  la  fonte 
di  tutte  le  norme  della  bellezza,  le  quali  consistono  nella  varieta,  nelTunita, 
nell'ordine  (simmetria  e  armonia)  e  nella  semplicita.  2.  conviene  .  .  .  pro 
prio  :  a  questa  affermazione,  e  al  ragionamento  che  segue,  deve  riferirsi  la 
postilla  ii  del  Mengs:  «l'amor  proprio  solamente  pu6  entrare  nelle  cose 
relative  ad  un  uomo  o  ad  un  altro  in  particolare;  ma  1'idea  della  bellezza 
nasce  in  noi  quando  crediamo  che  la  cosa  che  noi  ammiriamo  sia  tale  che 
tutti  gli  uomini  debbano  convenire  a  lodarla;  poiche  non  nasce  dal  sem- 
plice  piacere  che  ci  da,  ma  dalla  conoscenza  della  perfezione  dell*oggetto 
da  noi  creduto  mezzo  convincente  per  essere  da  tutti  lodato »  (cfr.  Opere, 
ed.  cit.,  I,  p.  239). 


1096  GIUSEPPE    SPALLETTI 

la  norma  che  a  quest!  si  accomoda,  e  oggetto  di  piacere,  si  perche 
per  mezzo  di  questa  accrescono  le  loro  cognizioni,  si  perche  sem- 
bra  loro  che  ci6  che  per  via  di  questa  bello  dicono,  sia  loro  merc6 
ammesso  nella  classe  del  Bello ;  e  questo  piacere  e  tanto,  che  tutti 
gli  altri  supera,  perche  loro  sembra  essere  tutto  lor  proprio,  sicco- 
me  quello  che  non  dipende  immediatamente  da'  sensi,  ma  e  parto 
della  lor  mente,  che,  per  1'associazione  di  quelle  idee  piacevoli 
di  sopra  riferite,  ha  formato  il  sesto  che  alia  cosa,  che  bella  di- 
chiara,  addatta. 

XII 

Questa  norma  in  sostanza  poco  variabile.1 

E  siccome  questa  norma  ha  per  base  la  varieta,  1'ordine,  la 
semplicita,  e  queste  la  macchina  del  nostro  corpo  ed  i  pretti 
prodotti  della  natura,  le  quali  cose  tutte  essendo  eternamente  co- 
stanti,  di  poche  sostanziali  differenze  sara  la  medesima  suscettibile, 
in  maniera  che,  allora  quando  un  artefice  forma  una  cosa,  la  quale 
abbia  seco  una  infallibile  caratteristica  come  nel  prototipo  si  os- 
serva,  bella  quella  data  cosa  senza  esitare  dichiariamo,  e  per  bella 
in  realta,  da  tutti  coloro  che  intendenti  in  questo  genere  si  repu- 
tano,  viene  apprezzata,  senza  molto  interessarci  se  ci6  che  si 
esprime  dalPartefice  sia  una  cosa  piacevole  o  disaggradevole,2  per 
che  Tanima  non  e  allora  occupata  se  non  se  alia  considerazione 
della  industria  dello  artefice,  il  quale  ha  saputo  cosi  profondamente 


i .  Questa  .  .  .  variabile :  a  questo  paragrafo  risponde  la  postilla  1 2  del  Mengs : 
«Non  e  altrimenti  vero  che  la  norma  della  bellezza  sia  poco  variabile; 
mentre  sono  infiniti  i  caratteri,  anche  limitandomi  alia  sola  figura  umana; 
e  piu  ancora  i  modi  con  cui  li  rappresentiamo  sotto  diversa  vista,  in  di 
verse  passioni  ed  accident!))  (cfr.  Opere,  ed.  cit.,  i,  p.  239).  Questa  postilla  e 
stata  ricordata  dal  Caracciolo  (neirarticolo  citato)  a  provare  come  il  Mengs 
stesso  nell'anunissione  del  caratteristico  vada  piu  oltre  dello  Spalletti.  A  me 
sembra  piuttosto  che  il « pittore  filosofo  »  intenda  soprattutto  mostrare  Tas- 
surdita  di  una  derivazione  della  norma  della  bellezza,  che  e  per  lui  «  asso- 
luta»  (cfr.  Opere,  ed.  cit.,  i,  p.  240),  daH'«amor  proprio »  che  e  di  neces- 
sita,  a  suo  giudizio,  individuale  e  particolare.  2.  senza  . .  .  disaggradevole : 
cfr.  la  postilla  13  del  Mengs:  «la  bellezza  disaggradevole  appartiene  al- 
1' opera,  e  non  al  soggetto :  ed  e  quasi  abuso  il  chiamare  bella  una  tal  opera, 
non  essendo,  a  parer  mio,  degno  del  nome  di  bello  se  non  che  il  nobile  e  il 
grato,  quando  ci  viene  presentato  ai  sensi  sotto  1'aspetto  piu  semplice,  e 
conseguentemente  piu  chiaro  al  nostro  intelletto»  (cfr.  Opere ,  ed.  cit., 
I,  P-  239). 


SAGGIO   SOPRA   LA   BELLEZZA  IOQ7 

studiar  la  natura,  che,  penetrate  ove  questa  ha  riposte  quelle  date 
qualita  esterne,  colle  quali  le  cose  si  distinguono  le  une  dalle  altre 
senza  confonderle  ne  pur  con  le  simili,  francamente  pote  esser 
sicuro  che  lo  spettatore  della  propria  opera  avrebbe  veramente  da 
se  medesimo  per  la  forza  della  caratteristica  espressavi  penetrato 
quello1  egli  aveva  in  animo  mentre  P  opera  formava;  la  quale  per 
scopo  aveva  un  oggetto  che  a  se  medesimo  piacevole  sembrava,  ed 
il  quale,  espresso  che  fosse  stato  colla  sua  infallibile  caratteristica, 
la  norma,  che  a  questo  gli  uornini  erano  usi  addattare,  tale  lo 
avrebbe  infallantemente  ritrovato. 


XIII 

Caratteristica,  e  suo  vantaggio. 

La  caratteristica,  per  la  quale  una  cosa  differisce  daU'altra  in 
maniera  che  non  possiamo  ne  pur  per  una  simile  ingannarci,  e 
quella  la  quale  ci  fa  formare  le  varie  idee  de*  varii  oggetti  che 
nella  natura  osserviamo,  dalle  quali  i  vari  nomi  furono  necessa- 
riamente  originati,  e  per  mezzo  di  questi  aumentate  le  lingue  e 
dilatati  i  confini  della  erudizione;  onde  e  che  colui  a  cui  piu  og 
getti  sono  noti,  piu  erudito  &  stimato,  e  colui  che  in  un  medesimo 
oggetto  piu  difference  e  piu  rapporti  con  un  terzo  conosce,  piu  ar- 
guto  e  perspicace  sara  con  lodi  dichiarato,  e  quello  che  la  vera  genui- 
na  caratteristica  di  una  data  cosa  sapra  rappresentare,  per  abi- 
lissimo  osservatore  della  natura  sara  senza  fallo  reputato  in  qualun- 
que  occasione  ci6  accada,  e  sara  in  facolta  del  medesimo  Peccitare 
negli  animi  di  chi  piu  lui  piace  que'  medesimi  affetti  che  la  na 
tura  produr  saprebbe,  perche  sono  al  medesimo,  per  modo  di 
esprimermi,  noti  que'  tasti  i  quali,  toccati  che  siano,  infallante 
mente  rendono  quel  dato  tono,  per  ottenere  il  quale  sa  che  la 
natura  abbisogna  del  mesto  e  dell' allegro,  ed  egli  caratterizza  in 
maniera  la  malinconia  e  Pallegrezza,  che  sicuro  e  del  successo. 


i.  quello:  quello  che. 


1098  GIUSEPPE   SPALLETTI 

XIV 

Di  questo  medesimo  si  sono  serviti  i  poeti  e  gli  oratori. 

E  questo  e  Punico  mezzo  per  cui1  i  diligent!  artefici  delle  pro 
se  e  delli  versi  allora  quando  han  voluto  eccitare  ne'  loro  uditori 
il  pianto  o  le  risa,  Tallegrezza  o  la  tristezza,  Pamore  o  Podio,  etc., 
essersi  serviti  si  fa  assai  manifesto  a  chi  airanalisi  delle  loro  com- 
posizioni  con  purgato  occhio  pu6  attendere.  Ne  difficil  troppo 
riescirebbe  il  recarne  esempi  nelle  tragedie  e  nelle  orazioni  di  ec- 
cellenti  autori,  se  la  materia  propostami  lo  richiedesse,  e  se  agli 
idioti  indrizzassi  io  il  mio  ragionamento.  Gli  epiloghi  delli  discorsi 
di  Cicerone  possono  in  questo  genere  servire  per  prova  esuberan- 
te  della  mia  asserzione.  Chiunque  alia  lettura  di  questi  attende, 
e  nella  mente  dell' orator  e  si  interna,  non  pu6  fare  a  meno  di  non 
sentire  in  se  medesimo  commozione,  e  confessar  conviene  aver 
Tullio  il  maggior  suo  merito  in  questa  parte  del  discorso. 

XV 
Perche  le  cose  tetre  e  melanconiche  d  piacciono. 

Se  si  vorra  poi  osservare  perche  noi  in  simili  casi  con  tanto 
piacere  assistiamo  a  chi  di  pianto  ci  e  cagione,  oltre  al  dire  che  la 
nostra  fantasia,  allorche  incomincia  alPessere  dalla  recita  agitata, 
si  dispone  facilmente  a  qualsivoglia  impressione;  oltre  il  considerare 
ch'ella  a  cagion  dell?amor  proprio  riflette  la  possibilita  di  que' 
medesimi  accidenti  in  se  stessa,  e  si  fa  per  questa  ragione  inchi- 
nevole  alia  compassione  verso  gli  afflitti,  alPira,  alPodio,  alia  ven 
detta  verso  PafHigente;2  oltre  le  varie  altre  ragioni  che  da  altri 
su  di  ci6  si  adducono,  si  ha  a  mio  awiso  per  potissima3  a  reputare 
la  caratteristica  infallibile  che  Foratore  ha  saputo  addurre  delFam- 
bizione,  delTavarizia,  della  crudelta,  etc.  di  colui  contra  il  quale 
studiasi  commovere  il  popolo,  e  Favere  saputo  animar  la  medesima 
con  de*  tratti  vivi,  collocando  ogni  qualunque  servibile  circostanza 
al  suo  lume,  ed  accompagnando  la  esposizione  di  si  fatte  cose 

i.  per  cui:  si  dovra  intendere  «di  cul»;  il  Natali  corregge  senz'altro  per  in 
«di».  2.  il  considerare.  ,  .  Vaffligente:  concetto  caratteristico  della  cosid- 
detta  «  estetica  della  simpatia »,  elaborata  dal  pensiero  empinstico  inglese, 
e  in  particolare  dal  Burke.  3.  potissima:  preferibile  fra  tutte. 


SAGGIO    SOPRA  LA   BELLEZZA  1099 

con  la  forza  della  espressione  e  rarmoniosa  cadenza  de'  numeri 
oratorii.  £  troppo  naturale  che  gli  uomini,  ogni  volta  che  si  av- 
vegghino  della  cmdelta  di  Licaone,1  Fodino,  della  cortese  umani- 
ta  di  Tito,  lo  amino;  consiste  dunque  Farte  del  dicitore  a  dare 
tale  caratteristica  alle  azioni  delFuno  e  delFaltro,  che  in  questo 
la  cortesia,  in  quello  la  inumanita  apparisca:  quando  a  ci6  e.giunto, 
e  sicuro  delFeffetto.  L'anima  di  chi  ascolta  agitata  dalle  idee  degli 
oggetti  che  il  dicitore  le  rappresenta,  e  le  passioni  che  gia  destate 
sono  tutte  in  attenzione  di  quello,2  Famor  proprio  determinera,3 
trovandosi  da  questo  la  verita  della  quale  unicamente  va  in  traccia, 
non  solamente  per  lo  interesse  che  puo  avere  per  lo  accusato,  ma 
per  la  tema  che  Farte  del  dicitore  non  inganni  se  medesimo  e  se 
ne  beffi,  accorgendosi  di  essere  al  sicuro  di  que'  mali  per  i  quali  la 
fantasia  palpitava,  gode4  di  avere  accresciuto  le  proprie  cognizioni, 
le  quali  in  simili  casi  potranno  a  lei  servire  di  scudo  per  guardarsi 
in  si  fatte  ricorrenze;  e  Fanima  si  lusinga  esser  forsi  ella  la  prima 
che  ha  saputo  internarsi  nella  mente  di  chi  diceva,  e  penetrare 
piu  addentro  quello5  ha  voluto  Foratore  esprimere:  onde,  bandito 
ogni  timore,  e  non  ricordandosi  troppo  della  tristezza  in  cui  per 
qualche  momento  si  trovo  situata,  sicura,  per  la  caratteristica 
che  ha  discoperta,  di  non  poter  essere  delusa,  discaccia  ogni  pen- 
siero  malinconico,  e  cosi  trionfa  il  piacere,  che,  come  dal  fin  qui 
detto  si  ricava,  ha  per  vera  sorgente  la  caratteristica  che  la  verita 
discopre.  Onde  e  che,  s'io  riguardo  una  tavola  ove  maravigliosa- 
mente  rappresentato  sia  Favoltoio  che  rode  le  viscere  a  Prometeo : 
questo  spettacolo  eccitera  in  me  primieramente  il  piacere  che  na- 
scer  deve  dalla  caratteristica  esprimente  Prometeo  e  Favoltoio,  il 
quale  tanto  piu  si  aumentera,  quanto  meglio  sara  espresso  sul  vol- 
to  del  paziente  il  dolore,  quanto  piu  acconcia  sara  la  di  lui  giacitura, 
quanto  piu  al  vivo  espresso  sara  il  di  lui  petto  dagli  artigli  e  dal 
rostro  della  bestia  squarciato,  quanto  piu  ingorda  apparira  Favidita 
della  medesima  di  satollarsi  delle  viscere  del  meschino;  ma  questi 
tali  oggetti  non  potendo  fare  di  manco  d'introdurre  dentro  di  me 
delle  idee  di  amarezza,  quanto  piu  queste  si  aumentano,  tanto  piu 

i.  Licaone:  mitico  re  dell' Arcadia,  che  mandava  a  morte  tutti  gli  stranieri 
che  passavano  nel  suo  regno:  per  punizione  fu  trasformato  da  Giove  in 
lupo.  2.  tutte  in  attenzione  di  quello:  essendo  tutte  attente  al  dicitore. 
3. 1J amor  proprio  determinera:  1'anima  suscitera,  porra  in  azione  1'amor  pro 
prio.  4.  gode:  il  soggetto  e  ancora  I'anima.  5.  quello:  quello  che. 


IIOO  GIUSEPPE   SPALLETTI 

la  tavola  mi  piace;  non  perche  diletto  riceva  Panima  dalla  tristezza, 
ma  perche  si  awede  che  senza  questo  lo  spettacolo  sarebbe  lontano 
dalla  verita,  e  si  compiace  che  somiglianti  effetti  in  se  si  produ- 
cano,  perche  per  parto  della  verita  li  riconosce :  ed  essendole  vietato 
di  trasportarsi  sul  Caucaso,  e  la  contemplare  il  figliuolo  di  Giapeto 
tra  gli  orrori  de'  scogli,  gode  che  se  le  presenti  una  occasione  la 
quale  le  dia  idea  di  una  cosa  cosi  lontana,  e  senza  il  menomo  suo 
incomodo  si  compiace  contemplare  qui  quello  che  in  si  lontani 
paesi  sensazione  a  questa  similissima  le  recherebbe.  Ed  ecco  per- 
ch6  noi  prendiamo  piacere  delle  cose  tetre  e  melanconiche,  ed 
ecco  che  piu  che  altrove  qui  Pamor  proprio  trionfa. 


XVI 

Una  serie  continua  di  taciti  sillogismi 
e  la  guida  delVanima. 

Piacquemi  sempre  mai  quella  frase  di  cui  usa  Wolfio1  per 
spiegare  i  diversi  stati  deiranima:  crede  egli  che  una  continua 
serie  di  taciti  sillogismi  sia  la  guida  della  medesima.  A  misura 
dunque  che  le  cognizioni  si  aumentano,  ed  a  proporzione  dello 
ingegno  che  serve  per  addattar  quelle  alia  combinazione,  alia  se- 
parazione,  alia  somiglianza,  etc.,  cresce  il  numero  de'  sillogi 
smi,  e  cresce  per  conseguenza  necessaria  la  cognizione  di  quel- 
Poggetto  su  cui  cadono  i  sillogismi.  E  se  e  vero  che,  piu  que 
sto  nurnero  cresce,  piu  Panima  ragiona,  e  piu  ch'ella  ragiona, 
piu  gode,  perche  piu  sente  la  propria  forza,  e  piu  vedesi  al  di 
sopra  degli  altri,  ne  verra  in  conseguenza  che  nella  proposta  tavola 
di  Prometeo  io,  che  sono  inteso  di  tutto  il  fatto  di  questo  misera- 
bile,  maggior  numero  di  sillogismi  tesser6  di  Tizio,  il  quale  non  sa 
altro  che  Pavoltoio  mangia  il  fegato  a  Prometeo  per  comando  di 
Giove.  Onde  e  che  Tizio  s'immaginera  forsi  che  Prometeo  sia  col- 
pevole,  e  che  meritamente  soffra,  che  sia  sul  punto  di  spirare,  e  di 
finire  cosi  il  tormento  in  cui  e  situato,  che  la  bestia  satolla  sen  voli 
altrove,  e  per  queste  cause  non  potra  egli  esperimentare  che  pochi 

i.  Wolfio:  la  frase,  se  ho  ben  visto,  non  si  trova  nelle  opere  del  Wolf; 
ma  per  il  concetto  cfr.  la  Psicologia  empirica,  §  465  e  482-3  (ed.  Veronae, 
Ramazzini,  1736,  pp.  220  e  227-8).  II  concetto  del  Wolf  richiama  a  sua 
volta,  come  ha  notato  il  Croce,  il  GTjXXoy^ea&ai  di  Aristotele,  Poet.,  IV, 
1448  b,  16. 


SAGGIO   SOPRA   LA   BELLEZZA  IIOI 

gradi  di  compassione,  non  avra  principio  di  gratitudine,  ignorando 
che  per  cagion  nostra  Prometeo  e  martorizzato ;  non  avra  odio 
contro  il  Fato,  che  gli  ha  fabbricati  i  ceppi  e  le  manette  adaman 
tine,  contra  Vulcano,  che  ha  avuto  la  crudelta  di  porlo  in  si  doloro- 
sa  situazione,  contra  Giove  medesimo,  che  lo  ha  condannato  per 
mera  gelosia.  Dal  che  s'induce  che  io,  facendo  a  questo  modo  un 
numero  maggiore  di  sillogismi,  verr6  a  ragionare  piu  di  Tizio,  il 
quale  per  difetto  d'idee  non  pu6  in  si  fatta  maniera  argomentare, 
e  piu  di  esso  mi  compiacer6  dell'abilita  dell'artefice,  che  nella  ta- 
vola  ha  leggiadramente  accennato  queste  circostanze  compas- 
sionevoli. 

XVII 

La  bellezza  somministra  aWanima  campo  di  ragionare^ 
e  per  conseguenza  di  sentir  piacere. 

Quando  poi  Fanima  e,  o  crede  essere  nella  situazione  che  le 
conviene  o  si  persuade  convenirle,  cioe  conosce  qualche  sua  per- 
fezione,  o  vera  o  apparente  ch'ella  sia,  la  quale  altro  non  e  che  il 
sentimento  alia  natura  nostra  piu  confacente,  il  ragionare  cioe, 
non  pu6  non  godere.  Ed  ecco  finalmente  scoperta  la  vera  origine 
del  piacere  che  in  noi  desta  la  bellezza:  soirirninistrando  questa 
all'anima  somiglianze,  ordine,  proporzioni,  armonie,  varieta,  som- 
ministrale  un  campo  spazioso  ove  fabbricar  possa  una  innume- 
rabile  serie  di  sillogismi,  e  a  questo  modo  ragionando  si  compia- 
cera  di  se  medesima,  e  di  quell' oggetto  che  le  da  motivo  di  com- 
piacenza,  e  del  sentimento  della  propria  perfezione. 

XVIII 

//  corpo  umano  I  la  piii  bella  delle  produzioni  a  noi  note. 

Da  questa  teoria  si  deduce  che  la  quotidiana  esperienza  e  le 
frequentissime  osservazioni  che  abbiamo  campo  di  fare  sopra  il 
corpo  umano,  raffinandone  le  idee  e  moltiplicandone  i  sillogismi, 
han  fatto  agevolmente  scorger  le  convenienze  di  tutte  le  parti  agli 
usi  a*  quali  sono  dirette,  1'ordine,  la  simmetria,  i  rapporti,  le  pro 
porzioni  che  queste  fra  di  loro  hanno;  e  da  cio  e  stato  originato 
il  considerare  il  corpo  umano  come  la  piu  bella  delle  produzioni 
a  noi  note,  perche  dalla  considerazione  di  questo  piu  che  di  qua- 


1102  GIUSEPPE   SPALLETTI 

lunque  altro  oggetto  Panima  maggior  piacere  esperimenta.  Im- 
perocche  appena  incominciano  a  sbocciare  nella  nostr'anima  le 
idee,  che1  noi  ancor  fanciulli  ci  prendiamo  grandissima  cura  di 
analizzarle,  di  rapportarle,  di  combinarle;  ed  appena  aHJanima  si 
rappresenta  un  oggetto,  che  questa  per  la  forza  dell'amor  proprio  si 
affatica  a  formarne  giudicio.  A  misura  poi  che  in  questa  le  idee 
si  aumentano,  si  aumenta  ancora  lo  stimolo  di  ordinare  le  mede 
sime,  di  separarle,  di  unirle,  di  distinguere  Tanalogia  che  han  le 
une  con  le  altre;  onde  e  che  minutamente  ne  osserviamo  le  con- 
venienze  per  poterne  pm  sicuramente  giudicare,  e  piu  pienamente 
esperimentare  diletto.  Trovandoci  poi  attorniati  per  ogni  dove  da 
oggetti  in  cui  le  idee  di  ordine,  di  simmetria,  di  proporzione  sono 
ripetute  per  cosi  dire  airinfinito,  e  non  potendo  fare  un  passo 
senza  incontrarci  in  qualche  produzione  la  quale,  considerata  che 
sia,  risveglia  immediatamente  in  noi  le  medesime,  e  sapendo  che 
queste  sono  state  tenute  in  alta  stima  da*  nostri  maggiori,  rimi- 
rando  che  le  opere  meravigliosamente  da  quelli  formate  con  le 
medesime  in  tutto2  concordano,  ed  i  marmi  e  le  carte  ed  i  muri  ci 
fan  sicura  testimonianza  che  il  pens  are  degli  antichi  artefici  e  di 
coloro  a'  quali  le  opere  de'  medesimi  avevano  a  piacere,  non  era 
punto  differente  dalle  nozioni  poco  sopra  accennate,  in  maniera 
che  in  ogni  instante,  da  tutte  le  parti,  tutto  ci6  che  accade  in  noi, 
tutto  cio  che  accade  fuori  di  noi,  tutto  cio  che  sappiamo  sossistere 
gia  sono  molti  secoli,  tutto  cio  che  la  industria,  la  riflessione,  le 
scoperte  de'  contemporanei  han  saputo  dalla  natura  ottenere,  in 
ruente  altro  consiste  che  nell'inculcarci  le  idee  delFordine,  della 
convenienza,  della  simmetria,  etc.,  abbiamo  con  sicurezza  con- 
chiuso :  dunque  Puomo  e  la  piu  bella  opera  che  nella  natura  appa- 
risca.  Perche  siccome  la  idea  di  bellezza  e  origine  di  piacere,  e 
quella  allora  piu  fa  di  se  stessa  luminosa  pompa  quando  piu  le 
sopraccennate  qualita  di  ordine,  etc.  si  manif estano ;  trovando  noi 
che  neHJuomo  piu  che  altrove  le  medesime  signoreggiono,  Puomo 
bellissimo  dichiariamo;  e  dalla  forma  della  di  lui  macchina  ordi- 
nata,  proporzionata,  etc.  come  la  scorgiamo,  prendiamo  motivo 
di  creare  colla  nostra  immaginativa  delle  opere  le  quali,  awegna- 
ch6  in  nulla  a  quelle  sembrino  somigliarsi,  conservando  per6  la 
medesima  simmetria  e  le  medesime  proporzioni,  belle  le  repu- 

i .  che :  ecco  che.  II  Natali  invece  sopprime  questa  parola.  2.  tutto :  cosi  cor- 
reggo,  seguendo  il  Natali,  « tutte »,  che  compare  nelTedizione  1765. 


SAGGIO   SOPRA  LA  BELLEZZA  1103 

tiamo;  e  per  belle  si  hanno  a  considerate,  perche  la  norma  che  alia 
umana  macchina  si  adatta,  convenir  de'1  anche  alle  produzioni 
dell'arte. 


XIX 


//  piacere  originate  dalla  bellezza  e  piacere  intellettuale. 

E  chi  a  dentro  piu  penetra,  dalle  cose  fin  qui  dette  deriva  che  il 
piacere  in  noi  cagionato  dal  Bello  e  piacere  intellettuale,  onde  la 
bellezza  conosciuta  e  propriamente  necessaria  cagione  di  piacere. 
In  modo  che  niente  mi  meraviglierb  io,  se  una  tavola  bellissima 
in  se"  per  le  proprieta  sopra  enunciate  non  eccitera  in  alcuni  pia 
cere,  perche  questi,  non  avendo  cognizione  veruna  del  prototipo 
in  quella  espresso,  o  non  avendo  un  adequate  assortimento  di 
quelle  idee  che  teste  dicemmo  essere  i  fonti  della  bellezza,  non 
possono  essere  guidati  a  gustarne  le  perfezioni;  che  se  a  questi 
sara  il  medesimo  additato,  o  quelle  sviluppate,  la  tavola  potra  loro 
servire  di  mezzo  a  formare  taciti  sillogismi,  a  ragionare,  a  godere, 
e,  rimossa  rammirazione  che  la  loro  anima  inefficacemente  occu- 
pava,  le  passioni  incominceranno  ad  agire,  e  seguiranno  quegli 
effetti  che  di  sopra  dichiarammo.2 


xxxiv 
La  verita  oggetto  della  bellezza. 

Le  cose  fin  qui  esposte  spero  atte  siano  a  persuadere  che  la 
verita  in  genere,  acconciatamente  resa  dalTartefice,  e  1'oggetto  del- 
la  bellezza  in  genere.  Quando  Tamma  trova  quelle  caratteristiche 


i .  de' :  deve.  2.  Tralascio  i  §  xx-xxxm,  nei  quali  Tautore  esamina  la  « tanto 
agitata  questione  della  bellezza  assoluta  e  relativa»,  questione  che  egli  cerca 
di  risolvere  dimostrando  (forse  sulla  scorta  dello  Hume)  come  la  maggior 
parte  degli  uomini  sia  in  realta  d'accordo  sui  canoni  essenziali  della  bellezza, 
in  quanto  fondati  sul  corpo  umano.  Si  pone  egli  stesso  1'obiezione  che  i 
Cinesi  o  degli  ipotetici  abitatori  di  Giove,  diversamente  conformatidanoi, 
possano  avere  un  diverse  Bello  assoluto,  ugualmente  legittimo,  e  sembra 
per  un  momento  incHnare  (come  ha  osservato  il  Preti)  ad  una  soluzione 
che  ammetta  1'unicita  « formale »  del  concetto  di  bellezza  nella  variabilita 
del  suo  « contenuto ».  Ma  poi  ritorna  a  fondare  la  norma  del  Bello  assoluto 
sulTautorita  del  maggior  numero ;  indicando  poi  e  analizzando  partitamente, 
come  sorgenti  dei  falsi  giudizi,  la  somiglianza,  la  prevenzione,  Peducazione, 
il  gusto  dominante,  1'amor  proprio,  il  capriccio. 


1104  GIUSEPPE   SPALLETTI 

le  quali  a  cio  che  rappresentar  si  pretende,  intieramente  conven- 
gono,  bella  quell'opera  reputa.  Anzi  nelle  medesime  opere  di  na- 
tura,  s'ella  riguarda  un  uomo  benissimo  proporzionato  con  un  bel- 
lissimo  volto  di  donna,  il  quale  dubbiosa  la  rende  se  uomo  o  don 
na  il  soggetto  in  cui  trovasi  deve  dichiarare,1  brutto  anzi  che  no 
quell'uomo  reputa,  per  deficienza  della  caratteristica  della  verita. 
E  quello2  si  dice  del  Bello  naturale,  molto  piu  ha  luogo  nel  Bello 
artificiale.  La  verita  poi  essendo  unica  ed  invariabile  per  tutti  quelli 
che  discoprire  la  possono,  si  modifica  diversamente  a  seconda  delle 
disposizioni  che  nello  spirito  di  chi  la  vuole  rappresentare  si 
scontrano,  in  quella  guisa  appunto  che  Pacqua  rende  que'  colori 
de'  corpi  che  sottoposti  le  vengono.  I  grandi  autori,  stabilita  con 
precisione  la  vera  caratteristica  di  cio  che  rappresentare  vogliono,  si 
studiano  che  questa  desti  immediatamente  nella  fantasia  de'  ri- 
guardanti  1'idea  della  medesima  cosa:  lo  che  eseguito,  sono  gia 
sicuri  della  bellezza  della  propria  opera;  la  quale  accio  vie  piu 
d'impressione  piacevole  susciti,  la  coadiuvano  con  la  varieta,  che 
all'unita  obbedisca,  con  1'ordine,  colla  simmetria,  etc.  Ed  in  questa 
guisa  prende  la  tela  pitturata  un'aria  singolare,  la  quale  senza  tra- 
dire  la  verita  spesse  volte  la  supera;  e  questo  fare  caratterizza  la 
sublimita  del  talento  dell'autore,  e  noi  rimanghiamo  soprafatti,  per- 
ch6  in  que'  pochi  tratti  scorgiamo  la  realta  di  quella  cosa  che  rap 
presentar  si  e  voluta,  dotata  di  quelle  modificazioni  di  cui  piacque 
all'autore  dotarla,  onde,  a  seconda  de'  soggetti,  ed  il  giusto  modo 
di  pensare  si  ammira,  e  la  proprieta  della  giacitura,  ed  il  giudicioso 
partimento  delle  figure,  e  la  naturalezza  de'  colori,  e  la  diversita 
delle  passioni  che  diversamente  affette  render  devono  le  figure 
componenti  quel  quadro,  talche  da  queste3  si  scorgono  nelPautore 
idee  luminose  di  uno  spirito  facile  e  profondo,  di  una  immagina- 
tiva  ridente,  di  un  ingegno  elevato  nel  rappresentare  le  cose  che 
niente  hanno  di  comune,  abbenche  tutte  siano  naturali. 


a  i.  un  uomo  .  .  .  dichiarare:  come  ha  notato  il  Caracciolo  (articolo  citato), 
questo  esempio  e  gia  nelle  Riflessioni  sulla  bellezza  e  sul  gusto  delta  pittura 
del  Mengs,  pubblicate  in  tedesco  nel  1765  (e  cfr.  Opere,  ed.  cit,  i,  p.  100). 
2.  quello:  quello  che.  3.  queste:  modificazioni. 


SAGGIO  SOPRA  LA  BELLEZZA  IIO5 


XXXV 

//  pittore  eccellente  deve  mostrare  di  quanta  perfezione 
e  suscettibile  la  natura. 

Deve  dunque  il  pittore  eccellente  procurare  non  solo  di  ren- 
dere  quella  verita  che  nella  natura  si  osserva,  ma  ancora  quella 
che  nella  natura  senza  lei  contradire  e  possibile,  superare,  cioe, 
quello  che  dalla  medesima  volgarmente  si  fa,  ed  adequar  quello 
che  miracolo  e  stupore  della  natura  si  appella.  Questo  e  quanto 
dimostrare  per  mezzo  dell'arte  tutta  quella  perfezione  di  bellezza 
che  la  natura  suol  dimostrare  appena  fra  mille.  Perche  difEcilissima 
cosa  in  pratica  si  e  conosciuta  il  trovare  un  corpo  talmente  bello, 
che  non  manchi  in  alcuna  delle  sue  parti :  onde  abbiamo  che  Zeusi, 
avendo  a  dipingere  Elena  nel  tempio  de*  Crotoniati,  voile  veder 
nude  cinque  fanciulle,  le  piu  belle  che  cola  fossero,  e  togliendo 
quella  parte  bella  da  una,  che  all'altra  mancava,  ridusse  la  sua 
Elena  a  tanta  perfezione,  che  ancor  ne  resta  viva  la  fama.1  E  quivi 
ha  molta  parte  il  gusto  naturale,  di  cui  qui  appresso  ragionaremo. 

xxxvi 
//  colorito. 

Avendo  considerato  fin  ad  ora  quello  che  propriamente  co- 
stituisce  la  bellezza,  ragion  vuole  che  si  osservino  ancora  gli  acci- 
denti  che  accrescono  o  diminuiscono  il  pregio  della  medesima. 
E  qui  prima  di  tutti  ci  si  fa  innanzi  il  colore,  da  cui  dipende 
moltissimo  il  risalto  di  un  corpo  bello ;  perche,  quantunque  la  ca- 
ratteristica  che  mi  rappresenta  una  verginella  che  va  a  marito, 
debba  in  se  medesima  contenere  la  verita  del  colorito  come  quella 
delle  forme,  pure,  siccome  si  pu6  sul  maggiore  o  minor  colorito 
impunemente  variare,  quando  tutti  i  casi  possibili  non  ecceda,  per 
questo  si  ha  ad  avere  moltissima  circospezione  intorno  la  proprieta 
del  medesimo,  Timpasto  del  quale  dipende  dal  gusto  naturale, 
non  potendosi  dare  certe  regole  su  quelle  cose  che  ancor  variate 

i .  Zeusi  .  .  .  fama :  questo  celebre  esempio,  infinite  volte  ripetuto  dagli 
estetici  intellettualistici  di  ogni  tempo,  e  anche  dal  Winckelmann  (cfr. 
Opere,  II,  traduzione  italiana,  Prato,  Giachetti,  1830,  p.  289),  risale  a  Ci 
cerone,  De  inv.t  n,  1-2. 

70 


GIUSEPPE   SPALLETTI 

belle  ci  compariscono ;  non  essendovi  ancor  stato  alcuno  die  ri- 
trovate  abbi  difettose  le  maniere  de'  coloriti  di  Raffaello,  di  Ti- 
ziano,  del  grazioso  Correggio,  abbenche  queste  differentissime  tra 
di  loro  apparischino. 

XXXVII 

La  grazia. 

Si  ha  con  somma  cautela  a  disporre  ciascheduna  figura  e  par- 
te  di  essa;  si  ha  a  procurare  di  rappresentare  giovani  svelti  e 
gagliardi,  perche  Tagilita  e  la  robustezza  indicano  il  corpo  lontano 
dagli  artigli  della  morte  e  presto  ad  eseguire  quello1  abbisognar 
puo;  qualita,  che  ci  conciliano  immediatamente  Famore,  e  le  con- 
trarie  a  queste  suscitano  immediatamente  Paversione,  potendo  di 
malavoglia  soffrire  in  nostra  compagnia  uno,  dal  quale  niun  bene- 
ficio  sperar  possiamo,  se  bisogno  si  presentasse.  E  consister  que 
ste  qualita  gia  grandi  autori  osservarono  nej  piegamenti  e  ne'  tor- 
cimenti  e  nella  mescolanza  di  questi ;  i  quali,  se  saranno  accompa- 
gnati  da  un  certo  trasparente,2  che  indica  la  conformita  a'  moti 
interiori  cagionati  dagli  affetti  dell'anima,  aggraziati  compariranno ; 
la  quale  prerogativa  di  quanta  importanza  sia,  chi  e  fortunato  pos- 
sessore  del  gusto  naturale,  tanto  facilmente  lo  intende,  quanto  dif- 
ficilmente  spiegar  si  potrebbe.  I  rozzi  ancora  esperimentano  gli 
effetti  della  grazia,  restando  spesso  incantati  dalla  forza  della  me- 
desima,  ancorche  questa  si  trovi  su  de'  volti  di  lineamenti  poco 
vantaggiosi,  lusingandosi  lo  spettatore  di  leggere  nella  persona  ag- 
graziata  con  maggior  facilita  i  nascosi  sensi  delFanimo :  onde  con 
ragion  invalse  il  proverbio:  aval  piu  la  grazia,  che  la  bellezza». 
Awertimento  grandissimo  per  i  maestri  della  pittura,  i  quali  non 
si  ponghino  in  capo  di  dover  troppe  lodi  riscuotere,  perche  rap- 
presentato  hanno  in  una  tela  una  bella  figura,  se  animata  non  Pa- 
vranno  con  la  grazia.  E  torto  alcuno  loro  non  farsi,  apparisce  dal 
la  quotidiana  esperienza  che  le  conversazioni  ci  somministrano ; 
se  in  queste  Calliroe  bellissima  ritroviamo,  ma  di  grazia  non  cu- 
rante,  e  Cleopatra3  di  mediocre  bellezza  ornata,  ma  ripiena  di 
veneri,  di  grazie  e  di  lepori,  Cleopatra  veggiamo  costantemente 
far  le  delizie  della  compagnia,  perche  sembraci  che  quello  splen- 

i.  quello:  quello  che.     z.  trasparente:  efficacia  allusiva.     3.  Calliroe  e  Cleo 
patra  :  sono  qui  nomi  fittizi  di  donne  qualunque. 


SAGGIO  SOPRA  LA  BELLEZZA 

dore  che  ci  lusinghiamo  vedere  dalPinterno  trasparire,  con  tanto 
sodisfacimento  del  nostro  cuore  ci  s'insinua  nelPanima,  che  forzati 
siamo  a  volger  la  il  nostro  desio. 

XXXVIII 

La  venusta. 

L'elegante  accompagnamento  di  un'aria  nobile  e  libera  in  tutte 
le  nostre  funzioni  venusta  e  chiamata,  e  questa  e  il  compimento 
della  bellezza.  Prerogativa,  cui  avaro  il  Ciel  raro  destina,1  esigendo 
questa  oltre  Pintero  magistero  delParte  il  conoscere  a  fondo  il  ca- 
rattere  di  ciaschedun  di  coloro  che  espressi  esser  devono,  i  pensa- 
menti,  il  coraggio,  il  timore,  le  passioni  tutte,  ed  in  quali  situa- 
zioni  ed  in  quali  gradi  queste  si  trovassero  nelle  circostanze  che  su 
la  tela  si  dipingono,  e  questa  cognizione  poi  deve  essere  regolata 
dal  buon  gusto  dell'artefice.  In  questo  luogo  dire  qualche  cosa 
potrebbesi  della  leggiadria,  la  quale  consiste  nelle  mosse  aggra- 
ziate  della  persona  e  delle  sue  parti :  della  dignita,  che  nelPaspetto 
pieno  di  vera  nobilta,  di  riverenza  ed  ammirazione2  si  ripone,  della 
vaghezza,  dell'aria  e  di  altre  qualita  si  fatte,  le  quali  poi  poco  o  nulla 
differiscono  dalle  di  sopra  indicate,  ed  alle  quali  da  alcuni  le  me- 
desime  denominazioni  si  danno.  Ma  perche  il  vostro  perspicace 
talento  sa  ben  da  se  medesimo  comprenderle,  io  mi  sparmier6  la 
fatica  di  piu  a  lungo  parlarne,  e  solamente  aggiunger6  ancor  due 
parole  intorno  il  Grande. 

xxxix 
J7  Grande. 

Per  non  lasciar  sotto  silenzio  un'antica  osservazione,  si  ha  a  sa- 
pere  che  la  grandezza  e  stata  dalla  maggior  parte  dej  Greci  consi- 
derata  come  uno  de'  caratteri  della  bellezza.  Imperocch6,  se  un 
corpo  fosse  stato  benissimo  formato,  e  non  fosse  stato  grande,  non 
lo  chiamava  «bello»  colui  che  con  proprieta  di  termini  parlava,  ma 
^ocpfev,  «elegante,  proporzionato,  grazioso». 


i.  cui  .  .  .  destina:  adattamento  del  verso  del  Petrarca,  Rime,  ccxm,  i : «  Gra- 
zie  ch'a  pochi  il  Ciel  largo  destina ».  2.  di  riverenza  ed  ammirazione:  di 
caratteri  che  suscitano  nverenza  e  ammirazione. 


II08  GIUSEPPE   SPALLETTI 

E  vediamo  presso  i  medesimi  che  la  grandezza  sempre  e  una  delle 
maggiori  prerogative  della  persona  di  cui  si  parla.  Xenofonte  nel 
3°  della  Ciropedia:  «Altri  inalzavano  con  lodi  la  di  lui  sapienza, 
altri  la  tolleranza,  altri  la  soavita  de'  costumi,  altri  in  fine  la  digni- 
ta  e  la  grandezza  w.1  E  Lucrezio,  de'  greci  studiosissimo  imitatore, 
nel  4°:  «Magna  atque  inmanis  xocTa7cAs£i<;  plenaque  honore».2  E 
Ovidio  medesimo  di  Romolo:  «Pulcher  et  humano  maior».3  Ed  e 
confacente  alia  materia  osservare  la  forza  della  parola  greca:  «  XOCT<X- 
TrXe^i^  ecm  <p6$o<;  ix  (JLsyaXv^  9avTa<7£a£  »,4  «timore  concepito  da 
un  certo  aspetto  venerabile,  che  si  e  presentato  alia  fantasia  ».  Fidia 
fece  la  statua  di  Giove  OHmpio  in  Pisa  tanto  grande,  che  il  tempio 
non  Pavrebbe  contenuta,  se  Tavesse  formata  in  piedi;  sapeva  egli 
quanta  maesta  e  autorita  a  se  concilia  la  grandezza,  onde  per  de- 
gnamente  esprimere  TO  orspacypioc5  di  un  tanto  iddio,  abborrendo 
le  comunali  forme,  uso  delle  grandi.  II  Grande  dunque  ha  diritto 
di  piacere  alia  nostra  immaginazione,  sia  che  il  desiderio  abituale 
e  impaziente  della  felicita,  che  ci  fa  desiderare  tutte  le  perfezioni, 
come  modi  per  accrescere  le  medesime  ci  rende  grati  tutti  gli 
oggetti  grandi,  la  contemplazione  de'  quali  sembra  attribuire  piii 
d'estensione  alia  forza  della  nostra  anima,  piu  di  elevazione  alle 
nostre  idee ;  o  sia  che  per  se  stessi  i  grandi  oggetti  facciano  sopra  i 
nostri  sensi  una  impressione  piu  forte,  piu  continua,  piu  grata; 
sia  in  fine  qualunque  altra  causa,  noi  proviamo  che  la  vista  soffre 
nelle  fauci  di  una  montagna,  nel  recinto  di  un  alto  muro,  e  gode  per 
il  contrario  scorrere  un  vasto  piano,  stendendosi  su  la  superficie 
de'  mari,  e  perdendosi  in  un  orizzonte  indeterminato.  Sembrami 
ormai  tempo  di  recare  in  mezzo  poche  cose  che  al  buon  gusto 
appartengono,  essendo  esso  a  mio  credere  Tanima  non  solamente 
della  pittura,  ma  di  tutte  le  arti  liberali,  niuna  affatto  eccettuandone. 


i.  Traduce  liberamente  il  passo  seguente  della  Ciropedia,  in,  i,  41 :  IXeyov 
TOU  K6pou  6  [JL£V  Tie  T?)v  aocpfacv,  6  §£  TTJV  xccpTSpiocv,  6  Sk.  TTJV  7upa6T7]Ta,  6 
Si  TI^  *cxi  T&  xcxXXoe  xal  T6  (jiye&oe.  2-  -D^  rerum  nat.,  iv,  1163  («una 
[donna]  grande  ed  enorme  [diventa  agli  occhi  delFinnamorato]  un  prodigio 
e  piena  di  maesta  »).  Ma  Tespressione  lucreziana  ha  valore  ironico.  3.  Fast., 
n»  5^3  («bello  e  piu  grande  di  un  uomo  normale»).  4.  La  definizione  e 
tratta  dalle  Expositiones  grammaticali  (cfr.  Thesaurus  linguae  graecae,  s. 
v.).  5.T&  alpaca:  r aspetto  venerando. 


SAGGIO  SOPRA  LA  BELLEZZA  1109 

XL 

II  buon  gusto  e  la  voce  delVamor  proprio, 
il  quale  e  il  giudice  della  bellezza. 

Se  la  natura  si  manifestasse  agli  uomini  nella  possibile  di  lei 
perfezione  in  cadauno  de'  subietti  che  nel  mondo  aspettabile1  si 
veggono,  la  semplice  caratteristica  di  quelli  farebbe  tutto  il  diffi 
cile  delFarte.  Ma  siccome  a  chi  diligentemente  la  osserva,  sem- 
bra  prendersi  piacere  di  far  trasparire  tra  mezzo  mille  mediocri 
tratti  delle  sue  appariscenze  uno  o  piu  che  infinitamente  mag- 
gior  piacere  ci  reca  degli  altri  tutti;  pare  che  a  questo  modo  abbia 
voluto  scuotere  la  nostra  pigrizia  sollecitandola  con  il  piacere  che 
nelle  di  lei  ricerche  I'anima  tutto  di  trova,  acci6  si  aifatichi  di 
scegliere  que'  tratti  che  ne'  di  lei  prodotti  piu  lummosi  appariscono. 
La  giudiziosa  scelta  di  questi  e  appunto  quella  in  cui  a  seconda  delle 
circostanze  consiste  il  gusto,  il  quale  allora  sara  perfetto,  quando 
distinguer  sapra  il  buono  ed  il  cattivo,  Teccellente  ed  il  mediocre, 
e  i  limiti  di  ciascheduna  di  queste  proprieta  saranno  talmente  a  lui 
noti,  che  non  vi  sara  pericolo  che  li  confonda.  Gli  uomini  avendo 
con  la  propria  industria  inventato  le  belle  arti  che  sodisfacessero 
ad  una  specie  di  bisogno  che  i  medesimi  si  accorgevano  avere  di 
piacere;  la  somiglianza  che  queste  colla  natura  aver  dovevano, 
esige  un  giudice,  il  quale  approvasse  le  loro  fatiche,  allora  quando 
queste  facessero  su  di  noi  la  medesima  impressione  che  fa  la  natura 
istessa,  e  questo  fu  chiamato  gusto.  E  siccome  la  fecondita  del- 
rimmaginazione  degli  uomini  per  mezzo  di  combinazioni,  di  rap- 
porti,  di  attrazioni,  pu6  creare  degli  enti  piu  perfetti,  almeno  in 
apparenza,  di  quelli2  veggiamo  comunemente  dalla  natura  pro 
dotti;  quindi  nacque  che  il  gusto  si  stabili  nelle  arti  per  inalzarle 
e  perfezionarle,  senza  toglierle  dalla  naturalezza,  ed  a  questo  modo 
e  awenuto  che  alcune  volte  si  trova  il  gusto  piu  fino,  piu  delicato 
e  piu  perfetto  nell'arte,  di  quello3  sia  nella  medesima  natura.  Chi 
si  sarebbe  mai  ideato  che  pochi  tratti,  i  quali  segnavano  in  una 
parete  il  contorno  delFombra  di  un  corpo  umano,  avessero  a  po- 
ter  essere  i  semi  donde  sbocciasse  un  quadro  di  Apelle?  E  pure 
cosi  e:  uomini  dotati  di  un  felice  talento  a  poco  a  poco  hanno 
coltivato  que'  tratti,  ne  han  scelto  i  principali,  e  con  questi  sonosi 

i.  aspettabile'.  visibile.     2.  quelli:  quelli  che.     3.  quello;  quello  che. 


IIIO  GIUSEPPE   SPALLETTI 

forzati  formare  la  caratteristica  di  ci6  che  volevano  esprimere.  Ta- 
lenti  poi  piu  penetranti  con  maggiori  fatiche  ban  corretto  le  al- 
trui  mancanze,  ed  han  cercato  approssimarsi  quanto  piu  loro  & 
stato  possibile  alia  naturalezza  degli  oggetti,  e  quando  a  que- 
sta  meta  son  giunti,  il  gusto,  che  e  la  voce  dell'amor  proprio, 
il  quale  procura  assiduamente  il  maggior  piacere  possibile,  vi 
si  e  costituito  giudice,  ed  ha  esatto  dagli  artefici  la  perfezione  nelle 
opere,  acciocche  il  nostro  cuore  sia  piu  soavemente  solleticato  dalle 
idee  di  oggetti  di  una  certa  perfezione,  che  da  quelli  i  quali  tutto 
di  e  costumato  vedere.  II  gusto  sembra  interessato  per  il  piacere 
del  cuore.  Le  sensibilita  di  cui  alcuno  sara  stato  dalla  natura  ar- 
ricchito,  potra  essere  la  misura  del  medesimo;  e  la  societa,  in  cui 
alcuno  vive,  sara  delPistesso  proporzionata  cultura. 

XLI 
Bellezza  che  muove. 

E  qui  giova  distinguere  la  bellezza  che  appaga  Tocchio  per  le 
proporzioni  convenienti,  per  la  naturalezza  de'  colori,  per  la  ca 
ratteristica  esprimente  Poggetto  che  Pautore  ha  inteso  rappresen- 
tare,  dalla  bellezza  che  muove  il  cuore;  questo  non  e  punto  tocco 
se  non  se  dalle  relazioni  che  gli  oggetti  espressi  possono  aver  seco 
lui.  Si  puo  concepire  la  natura  perfetta,  come  Platone  ha  concepita 
la  sua  repubblica,  Cicerone  il  suo  oratore,  il  Castiglioni  il  suo  cor- 
tigiano.  Or  se  un  pittore  rappresentasse  un  giovane  come  1'  Apollo 
di  Belvedere,  o  ancor  piu  bello  senza  difetto  veruno,  o  una  donzella 
come  la  sopra  lodata  Elena  di  Zeusi,  il  cuore  nostro  sarebbe  ne- 
cessariamente  interessato  per  le  peregrine  forme  di  bellezza  che 
sentirebbe  tutte  adunate  in  una  tela,  la  quale  tanto  piacere  reche- 
rebbegli,  quanto  tutte  queste  belle  qualita  ognuna  da  s6  sarebbero 
state  atte  recare.1  Imperocche  questa  Elena  al  primo  colpo  di  oc- 
chio  ci  mostra  certi  tratti  che  sono  naturalissimi  ed  insieme  capaci 
di  fare  impressione,  i  quali  abbiamo  piacere  vederli  messi  in  opera 
dalPautore;  ne  osserviamo  poi  degH  altri,  a*  quali  mai  fatto  ave- 
vamo  riflessione,  e  questi  ci  piacciono  ancora,  perche  naturali  li 
riconosciamo,  e  per  essere  a  questo  modo  egli  stato  piu  diligente 
indagatore  della  natura  di  quello2  siamo  stati  noi,  gli  concepiamo 

i.  recare:  a  recare.     2.  quello:  quello  che. 


SAGGIO    SOPRA   LA   BELLEZZA  IIII 

maggiore  stima.  Se  poi  con  maggiore  esattezza  consideriamo  que- 
sta  opera,  vi  scorgeremo  que'  tratti  i  quali  ne  pur  possibili  cre- 
devamo,  e  forzandoci  la  bellezza  delP  opera  a  confessarli  per  na- 
turali,  non  pu6  fare  a  meno  il  cuore  di  non  riempirsi  di  stima  per 
Zeusi,  il  quale  di  nuove  cognizioni  lo  ha  arricchito,  e  lo  ha  ren- 
duto  piu  cauto  nell'osservazione  degli  altri  oggetti,  i  quali  a  que- 
sto  modo  possono  aumentare  le  proprie  cognizioni;  e  non  sentirsi 
nel  medesimo  momento  trasportato  a  desiderare  una  cosa  tanto 
peregrina,  che  di  tanto  piacere  lo  colma,  e  di  cui  tanto  potrebbe 
insuperbire. 

XLII 

Conclusions  deW  opera. 

Chiunque  a'  principii  teste  dichiarati  avra  prestato  attenzione, 
con  agevolezza  dalH  medesimi  ritrarra  aver  io  proposto  per  fon- 
damento  della  bellezza  la  verita,  la  quale  deve  esser  renduta  dalla 
caratteristica,  che  ha  a  modificare  il  soggetto  ch'esprimer  si  vuole, 
nella  quale  Tamor  proprio  compiacesi,  perch6  e  sicuro  dell'ingan- 
no.1  Lusingomi  aver  io  per  il  primo  dalFamor  proprio  dedotto  la 
bellezza,  avendo  dimostrato  che  in  null'altro  consiste  se  non  se 
nelFassoclazione  di  piacevoli  idee.  Ho  fatto  vedere  che  noi  abbiamo 
avuto  sempre  mai  innanzi  gli  occhi  Pumana  macchina,  come  I'o- 
pera  piu  bella,  sopra  la  quale  formato  abbiamo  la  norma  della 
bellezza.  Ho  esaminato  la  questione  della  bellezza  assoluta  e  re- 
lativa,  e  mi  sono  dichiarato  piu  tosto  per  la  prima.  Ho  detto  alcune 
cose  intorno  le  idee  della  bellezza  de'  Cinesi,  le  quali  non  solo  non 
si  hanno  a  rimproverare,  ma  egualmente  che  noi  meritano  encomi 
nella  di  loro  arte  e  diligenza.  Dopo  poi  aver  fatto  vedere  in  che 
consiste  la  bellezza,  dond'ella  nasce,  perche  a  noi  piace,  discendo 
a  mostrare  le  ragioni  per  le  quali  il  volgo  reputa  belle  le  cose  che 
tali  non  sono ;  ed  indicandone  i  motivi  passo  al  magisterio  delFec- 
cellente  pittore,  al  quale  sopra  ogni  altra  cosa  raccomando  il  buon 
gusto,  come  quello  che  le  qualita  piu  alia  dipintura  opportune  in 
se  stesso  ordinariamente  contiene. 

Voi,  che  nella  vostra  ingenua  arte  eccellentissimo  siete  reputato, 
piu  di  ogni  altro  giudice  potete  vedere  quanto  io  con  questi  miei 

i .  delVinganno :  di  non  ingannarsi. 


III2  GIUSEPPE   SPALLETTI 

scritti  abbia  dato  nel  segno.  Spero  che  questa  mia  cieca  obbe- 
dienza  aj  vostri  venerati  comandamenti  prestata,  mi  rendera  degno 
della  vostra  grazia  pregiabilissima,  la  quale  desiderando,  prego 
dal  Cielo  ogni  prosperita  a'  vostri  bene  ordinati  desiderii. 

Di  Grotta  Ferrata,  li  14  luglio  1764. 


LUIGI  LANZI 


NOTA  INTRODUTTIVA 


11  paragone  tra  il  Lanzi  e  il  Tiraboschi,  sollecitato  dal  Lanzi  stesso 
nella  Prefazione  della  sua  opera  maggiore,  ripreso  damolti  studiosi 
e  finalmente  consacrato  dal  Croce,  pu6  ancora  servire  da  utile 
awio  per  la  valutazione  dell'autore  della  Storia  pittorica  della 
Italia.  Che  per  molti  aspetti  della  sua  personalita  e  della  sua  opera 
egli  debba  essere  accostato  aU'erudito  bergamasco,  non  mi  pare 
che  si  possa  mettere  in  dubbio.  Anzitutto  per  il  suo  temperamento 
di  uomo,  come  avrebbe  detto  il  Foscolo,  «tardo»  e  «freddo»,  quasi 
esclusivamente  dedito  agli  studi,  alieno  dalPimpegnarsi,  malgrado 
la  sua  appartenenza  alPordine  gesuitico,  in  attivita  politico-reli 
giose,  e  poco  amante  della  polemica  anche  nello  stesso  campo  scien- 
tifico.  Nato  a  Treia,  cittadina  in  provincia  di  Macerata,  il  24 
giugno  1732,  da  famiglia  benestante,  fu  mandato  ancora  fan- 
ciullo  nel  collegio  dei  gesuiti  di  Fermo,  dove  cominci6  a  studiare 
e  ad  amare  i  classici  greci  e  latini.  Vesti  Tabito  deirordine  nel 
1749,  a  Roma;  e  qui,  completata  la  sua  istruzione  sotto  la  guida 
del  padre  Raimondo  Cunich,  grecista  e  latinista  famoso,  e  del 
padre  Ruggero  Giuseppe  Boscovich,  matematico  e  filosofo  ma  do- 
tato  anche  di  interessi  letterari  ed  archeologici,  e  quindi  compiuti 
i  necessari  studi  di  teologia  e  professati  i  voti  solenni,  fu  scelto  a 
sostituire  il  Cunich  neirinsegnamento  delle  lettere  greche  e  latine. 
Durante  gli  anni  trascorsi  a  Roma  non  e  improbabile  che  abbia 
conosciuto  il  Winckelmann,  il  Mengs,  il  Milizia,  il  Bottari  e  altri 
studiosi  di  antiquaria  e  di  arti  figurative;  ma  Tunica  relazione  si- 
gnificativa  di  cui  parlino  i  biografi  6  la  sua  amicizia  con  Angelo 
Fabroni,  allora  canonico  di  Santa  Maria  in  Trastevere:  amicizia 
che,  data  Pawersione  del  prelato  toscano  per  i  gesuiti,  pu6  anche 
valere  come  documento  della  mancanza  di  faziosita  e  della  rela- 
tiva  apertura  mentale  del  Lanzi.  Al  Fabroni  appunto  egli  dovette 
nel  1775  la  chiamata  a  Firenze  da  parte  del  granduca  Pietro  Leo- 
poldo,  il  quale  lo  nomin6  aiutante  antiquario  della  Galleria  degli 
Uffizi.  Che  questo  incarico  apparisse  al  Lanzi  una  sistemazione 
ideale,  non  meno  di  quanto  lo  fosse  Pufficio  di  bibliotecario  del- 
PEstense  per  il  Tiraboschi,  e  provato  non  solo  dal  fatto  che  egli 
non  cerc6  mai  di  mutarlo  con  altro  piu  onorevole  o  economicamen- 
te  piu  vantaggioso,  ma  anche  e  piu  dalla  circostanza  che  le  sue 


ni6 


LUIGI   LANZI 


opere  maggiori,  dalla  guida  della  galleria  fiorentina  (1782)  al  Saggio 
di  lingua  etrusca  (1789),  alle  Notizie  preliminari  circa  la  scoltura 
degli  antichi  (1789),  alia  Storia  pittorica  della  Italia  (1795-1809), 
prendono  tutte,  si  pu6  dire,  1'awio  dalla  sua  attivita  di  conservatore 
e  ordinatore  delle  opere  d'arte  e  dei  monumenti  di  quella  galleria. 
Solo  la  necessita  di  raccogliere  materiale  di  prima  mano  per  le  tre 
ultime  opere  lo  indusse  a  compiere  alcuni  lunghi  viaggi  fuori  di 
Firenze:  nel  1777-1778  e  nel  1783-1784  in  Toscana  e  a  Roma  per 
esplorare  personalmente  i  monumenti  etruschi;  e  nel  1793-1794  at- 
traverso  la  Romagna,  1'Emilia,  il  Veneto,  il  Friuli,  il  Piemonte, 
la  Lombardia  e  la  Liguria  per  osservare  coi  propri  occhi  le  opere 
dei  pittori  di  cui  doveva  trattare  nella  Storia  pittorica.  A  Bassano, 
dove  si  era  recato  a  curare  la  stampa  della  prima  parte  di  questa 
opera,  lo  colse  nel  1795  1'invasione  francese.  Non  potendo  o  non 
volendo  tornare  in  Toscana  rimase  nel  Veneto,  ospite  di  conventi 
e  di  amici  e  comunque  disinteressandosi  completamente  di  poli- 
tica  e  invece  dedicandosi,  appena  gli  era  possibile,  ai  suoi  studi, 
fino  al  1 80 1,  quando,  essendosi  ormai  riassestata  la  situazione  in 
Italia,  si  port6  di  nuovo  a  Firenze.  Qui  riprese  con  lena,  malgrado 
le  non  buone  condizioni  di  salute,  il  lavoro  per  I'ultima  edizione 
della  Storia  pittorica,  che  ebbe  la  soddisfazione  di  vedere  stampata 
nel  1809  (con  un  Avvertimento  finale  che  inneggiava  al «  nuovo  Ales- 
sandro,  nel  cui  cospetto  ammutolisce  la  terra »),  pochi  mesi  prima 
della  morte,  awenuta  il  30  marzo  1810. 

Ma,  a  parte  le  analogic  biografiche,  sono  proprio  alcuni  carat- 
teri  dell'opera  del  Lanzi  che  inducono  a  pensare  al  Tiraboschi. 
Si  e  recentemente  insistito  su  certe  osservazioni  e  massime  che  si 
colgono  nelle  pagine  lanziane,  specie  nel  Saggio  di  lingua  etrusca  e 
nella  Storia  pittorica,  e  si  e  voluto  scorgervi  gli  indizi  di  un  inte- 
resse  morale  e  di  un  gusto  stilistico  « protoromantici »,  e  in  parti- 
colare  preludenti  a  quelli  della  prosa  manzoniana.  Ora,  che  nel 
valutare  questa  prosa  vada  calcolata  Teredita  morale  e  stilistica 
del  Settecento  in  genere,  e  ormai  un  concetto  pacifico;  ma  mi  sem- 
bra,  con  tutta  la  simpatia  per  il  buon  gesuita  marchigiano,  che  si 
farebbe  un  torto  troppo  grosso  al  Manzoni  coll'accostargli  proprio 
il  Lanzi;  le  cui  «moralita»  non  oltrepassano,  in  genere,  come  quel- 
le  di  un  Tiraboschi,  i  confini  di  un  onesto  e  conformistico  buon 
senso,  colorandosi  se  mai  di  qualche  tocco  di  ecclesiastica  malizia, 
ed  animandosi  solo  quando  insistono  sulla  cautela  e  sullo  scrupolo 


NOTA   INTRODUTTIVA 


indispensabili  alia  ricerca  scientifica;  cosi  come  il  suo  stile,  per 
quanto  piu  sapientemente  articolato  nella  sintassi  e  piu  vario  nel 
lessico,  si  propone  in  definitiva  lo  scopo,  che  e  anche  quello  del 
Tiraboschi,  di  una  funzionale  chiarezza  e  precisione:  «un  anda- 
mento  giusto  in  definire,  accorto  in  distinguere,  sagace  in  riferire 
gli  effetti  alle  vere  lor  cause,  adatto  al  fine  per  cui  si  scrive»  (Storia 
pittorica  della  Italia,  n,  p.  114).  Ne  mi  sembra  che  mutino  ma 
anzi  confermino  questo  giudizio  i  suoi  Opuscoli  spiritual!,  docu- 
menti  senza  dubbio  di  sincera  pieta  religiosa,  ma  insomma  nelle 
idee,  nella  struttura  e  anche  nello  stile,  semplice  e  decoroso  ma 
grigio  e  monotono,  difficilmente  distinguibili  dalla  corrente  lette- 
ratura  devota  del  Settecento. 

Ancora  al  Tiraboschi  si  pensa  di  fronte  a  certi  atteggiamenti 
del  Lanzi,  che  si  potrebbero  chiamare  «  nazionalistici  »,  e  su  cui  pure 
qualche  studioso  ha  creduto  di  insistere.  Si  tratta  infatti  di  un  na- 
zionalismo  tutto  accademico,  privo  di  concrete  contenuto  politico, 
e  che  si  risolve  nella  volonta  di  illustrare  e  difendere  il  primato 
culturale  e  artistico  italiano:  sia  che  egli  sostenga  nel  Saggio  di 
lingua  etrusca  la  parentela  di  questa  lingua  col  greco  e  soprattutto 
con  il  latino  e  gli  altri  antichi  dialetti  italici,  sia  che  nella  Storia 
pittorica  della  Italia  indichi  come  primo  oggetto  dell'opera  il  pro- 
posito  di  «fornire  una  storia  alia  Italia,  che  interessa  la  sua  gloria  », 
una  storia  cioe  di  «quel  ramo)>,  la  pittura,  «in  cui  ella  non  ha 

rivali». 

Senza  dubbio  piu  accentuati  che  nel  Tiraboschi  sono  in  lui  gli 
interessi  «filosofici»,  ma  non  tanto  che  per  questo  aspetto  egli  se 
ne  distingua  nettamente.  L'oscillazione  fra  razionalismo  ed  em- 
pirismo,  caratteristica  della  critica  illuministica  europea  e  special- 
mente  italiana,  non  ha  in  lui  nulla  di  problematic,  ma  si  risolve  in 
una  pacifica  e  si  direbbe  inconsapevole  alternanza  delle  due  posi- 
zioni:  come  accade,  ad  esempio,  nella  Prefazione  della  Storia  pitto 
rica,  dove  Tautore  dichiara  che  «il  progresso  delle  arti  dipende 
sempre  da  certe  massime  adottate  universalmente  dal  secolo;  se- 
condo  le  quali  opera  il  professore  e  giudica  il  pubblico)),  e  pone 
quale  secondo  scopo  della  sua  opera  1'intento  di  ccrender  comum  e 
accreditare  le  migliori  massime));  ma,  a  distanza  di  poche  pagme, 
afTerma  di  volersi  attenere  al  «  giudizio  del  pubblico,  ch'e  il  mae 
stro  piu  autorevole  che  abbia  chiunque  scrive)>  e  alle  valutaziom 
che  ((immediatamente  vengono  da'  professori  .  .  .,  poiche  d'ordma- 


IIl8  LUIGI   LANZI 

rio  chi  meglio  fa  meglio  giudica»  (Storia  pittorica  della  Italia,  I, 
pp.  xxi,  vii  e  xxxi).  I  principii  generali  della  dottrina  del  «Bello 
ideale»,  simmetria,  armonia,  semplicita  e  simili,  sono  piu  volte 
espressamente  richiamati  nelle  Notizie  sulla  scultura  antica  e  nella 
Storia  pittorica\  e  piu  particolarmente  al  Mengs  (come  e  detto 
nelle  Notizie,  p.  xxxvn)  egli  attinge  lo  schema  del  «corso»  delle 
belle  arti,  del  loro  svolgimento  cioe  dal  «rozzo»  al  «naturale  e 
minuto)),  al  ccBello  ideale»,  ottenuto  «con  fare  scelta  del  meglio, 
ritenendo  un  po'  di  secchezza»,  al  « perfetto »,  che  consiste  nel 
«figurare  ogni  parte  con  verita  e  con  ischiettezza,  con  carattere, 
con  armonia)),  quindi  al  « facile »,  contraddistinto  da  una  «disin- 
volta  negligenzaw,  e  infine,  per  reazione,  al  «diligente»  privo  di 
originalita.  Ma,  come  e  stato  del  resto  gia  osservato  (Finzi),  questi 
criteri  appaiono  piuttosto  passivamente  accettati  che  personal- 
mente  rimeditati.  E  quel  che  e  piu,  tale  passivita  teorica  si  riflette 
sul  piano  del  gusto:  dove  senza  dubbio  prevale  un  orientamento 
tra  classicistico  e  neoclassico,  documentato  sia  dalFimportanza  che 
egli  da  al  disegno,  alia  costruzione  equilibrata  del  quadro,  alia  sem 
plicita,  alia  convenienza,  e  via  dicendo,  sia  in  particolare  dalla  pre- 
ferenza  per  1'arte  greca  e  rinascimentale,  per  Raffaello,  per  il  Cor- 
reggio,  per  i  Carracci,  e  per  contro  dalle  riserve  sui  primitivi  e  i 
quattrocenteschi,  sui  manieristi  e  naturalisti;  ma  non  tanto  che 
quell' orientamento  e  in  genere  il  momento  valutativo  divengano 
(come  per  esempio  nel  Milizia)  il  centro  vivo  delPattenzione  del 
critico. 

In  realta  il  punto  su  cui  veramente  si  concentra  questa  atten- 
zione  e  un  altro:  e  quell'accertamento  e  ordinamento  delle  « ve 
rita  di  fatto»,  che  e  anche  lo  scopo  primo,  come  a  suo  luogo  si  e 
indicato,  del  Tiraboschi.  Ma  bisogna  chiarire  subito  che  proprio 
in  tale  aspetto,  nel  quale  sta  il  suo  legame  piu  evidente  con  lo 
studioso  bergamasco,  risiede  anche  la  piu  profonda  differenza  del 
Lanzi  rispetto  al  suo  amico  e  confratello :  poiche  quella  stessa  vo- 
lonta  di  precisazione  e  di  classificazione  delle  verita  positive,  che 
nel  primo  si  arresta  in  genere  nelFambito  dei  dati  filologici  e  anti- 
quari  esterni,  si  trasforma  nel  secondo  in  un  impegno  strenuo  di 
caratterizzazione  obiettiva  del  fatto  artistico,  alia  quale  la  ricerca 
filologica  ed  antiquaria  viene  in  defmitiva  funzionalmente  su- 
bordinata. 

Su  questa  esigenza  caratterizzante  del  Lanzi  ha  insistito  per  pri- 


NOTA  INTRODUTTIVA  IIIQ 

mo,  come  e  noto,  il  Kallab,  e  poi,  sulle  orme  di  lui,  lo  Schlosser 
ed  altri;  ma,  nelPentusiasmo  della  rivalutazione,  essi  sono  tra- 
scorsi  troppo  oltre,  fino  a  presentare  lo  studioso  marchigiano  co 
me  un  anticipatore,  in  opposizione  al  Winckelmann,  della  critica 
storicistica  e  individualizzante  del  Romanticismo.  Di  fronte  a  in- 
terpretazioni  di  questo  tipo,  rimane  validissimo  un  acuto  e  poco 
noto  giudizio  deirUgoni:  «Placido  per  indole  e  freddo  osservatore 
come  egli  era,  poteva  discernere  le  menome  gradazioni  nelle  ma- 
niere  de*  pittori,  le  quali  sfuggono  all'anima  che  esalta  nella  con- 
templazione  del  sublime;  e  per6  accuratamente  descrisse  i  diversi 
caratteri  degli  artisti :  ma  fu  anche  meno  atto  a  ricevere  e  a  trasfon- 
dere  quelle  forti  impressioni,  delle  quali  il  secolo  e  avidissimo ;  e  a 
mostrare  quella  correlazione  che  &  tra  il  bello  delle  arti  e  i  bisogni 
del  cuore.  La  storia  delle  arti  che  singolarmente  informansi  dalla 
natura  de'  tempi,  per  quanto  vi  si  usi  diligenza  neirinvestigarne 
le  origini  e  nel  seguirne  i  procedimenti  e  le  vicende,  ove  si  scriva 
senza  mai  risalire  alle  cagioni  morali  di  queste  mutazioni,  n6  si 
cerchi  qual  potere  vi  ebbero  il  carattere,  i  costumi,  la  religione  e  la 
politica,  non  potra  se  non  debolmente  giovare  airarte,  gradire  a* 
contemporanei,  e  mirare  al  massimo  scopo  a  cui  debb'esser  volta 
ogni  opera,  il  perfezionamento  della  civilta».  Manca  in  effetto  al 
Lanzi,  non  che  il  concetto  romantico  dell'arte  come  espressione 
integrate  di  una  potente  individuality  umana,  la  fervida  sensibilita 
(che  e  propria,  per  quanto  limitata  alia  Grecia,  di  un  Winckelmann) 
ai  rapporti  fra  T  espressione  artistica  di  un  popolo  e  i  suoi  inconfon- 
dibili  caratteri  spirituali,  e  persino  Pattenzione  illuministica  (cosi 
viva  ad  esempio  in  un  Milizia)  al  contenuto  civile  delle  opere 
figurative.  Egli  rimane  ancora  fermo  ad  una  considerazione  arca- 
dica  delFarte  come  attivita  squisitamente  tecnico-ornamentale,  de- 
stinata  a  fornire  un  nobile  e  placido  diletto,  e  su  cui  un  impegno 
umano  troppo  risentito  non  potrebbe  esercitare  che  un'innuenza 
disturbatrice :  «  Questa  belParte, »  egli  dice  a  proposito  della  man- 
canza  di  una  vera  e  propria  scuola  di  pittura  nel  guerriero  Piemonte 
(cfiglia  di  una  fantasia  quieta,  tranquilla,  contemplatrice  delle  im- 
magini  piu  gioconde,  teme  non  pur  lo  strepito,  ma  il  sospetto  del- 
Tarmi))  (Storia  pittorica  della  Italia,  v,  p.  357).  In  coerenza  con 
questo  punto  di  vista,  egli  non  sente  il  bisogno  di  mettere  in  re- 
lazione  i  caratteri  delle  varie  scuole  pittoriche  e  il  loro  svolgimento 
attraverso  i  secoli  con  la  storia  civile  e  culturale  dell' Italia  e  delle 


1120  LUIGI   LANZI 

sue  regioni,  o  lo  stile  dei  singoli  pittori  con  la  loro  personalita  mo 
rale.  Ne  costituiscono  vere  prove  in  contrario,  anche  se  e  giusto 
non  dimenticarle,  certe  notazioni  per  esempio  sul  rapporto  tra  il 
magistero  dei  fiorentini  nel  disegno  e  la  loro  « indole  nazionale  esatta 
e  minuta»;  tra  lo  ((Special  talento  per  rinvenzione»,  il  gusto  di 
animare  «con  vive  e  nuove  fantasie  le  istorie  .  . .,  riempiendole  di 
allegoric,  e  formandone  spiritosi  e  ben  intrecciati  poemi»  e  «Tin- 
gegno  . .  .  svegliato  e  fervido  »  del  popolo  senese ;  tra  Pinclinazione 
dei  napoletani  a  quegli  studi  che  « abbisognano  di  una  fervida 
immaginazione  e  di  un  certo  fuoco  animatore » e  «  1'estro,  la  fantasia, 
la  franchezza, ...  la  velocita»  che  distinguono  le  opere  dei  pittori 
di  quella  regione;  tra  il  « temperamento  tutto  placidezza»  di  Matteo 
Rosselli  e  la  «  correzione  »,  la  « imitazione  del  naturale  »,  un  «  certo 
accordo  e  quiete  nel  tutto »  che  si  ritrovano  nei  suoi  quadri;  tra  il 
«  naturale  torbido  e  tetro  »  del  Caravaggio  e  la  sua  tendenza  a  « rap- 
presentare  gli  oggetti  con  pochissima  luce,  caricando  fieramente 
gli  scuri»  (Storia  pittorica  della  Italia,  I,  pp.  118  e  301;  n,  p.  300; 
I,  p.  241 ;  n,  p.  161):  tutte  notazioni  che,  oltre  all'essere  nel  com- 
plesso  scarse,  si  limitano,  come  si  vede,  a  richiamare  soltanto  al- 
cuni  statici  dati  psicologici,  e  comunque  si  esauriscono  nella  pri- 
ma  e  generale  formulazione.  Non  si  pu6  d'altro  lato  considerare 
come  documento  di  una  particolare  sensibilita  per  Taspetto  indivi- 
duale,  nella  accezione  romantica,  della  creazione  artistica,  il  rilievo 
che  il  Lanzi  da  agli  artisti  capiscuola,  a  Leonardo,  a  Michelangelo, 
a  Raffaello,  al  Correggio,  al  Tiziano,  ai  Carracci  e  simili:  poich6 
costoro  sono  grandi  per  lui  appunto  e  solo  in  quanto  capiscuola, 
cioe  maestri  in  senso  tecnico,  i  quali  hanno  portato  alia  maggior 
perfezione  possibile  una  certa  «maniera».  Del  resto  non  bisogna 
dimenticare  che  se  gli  «attori  principali  delParte»  vengono  da  lui 
«collocati  nel  maggior  lume»,  non  per  questo  egli  ritiene  giusto 
trascurare  i  <(mediocri»;  anzi  dichiara  recisamente  di  non  amrnet- 
tere  « la  rigida  massima  del  Bellori  che  in  belle  arti,  come  in  poe- 
sia,  non  si  tollera  mediocrita»,  poiche  (e  la  giustificazione  si  accor- 
da  squisitamente  con  il  suo  concetto  arcadico  delParte)  «non  ognu- 
no  pu6  avere  o  nelle  case  o  nei  tempii  del  suo  paese  i  buoni  pittori; 
e  al  culto  e  alPornamento  soddisfan  pure  i  non  eccellenti»  (Storia 
pittorica  della  Italia,  I,  p.  xvi). 

Vero  e  che  Tesigenza  caratterizzante  del  Lanzi  nasce  non  da  una 
coscienza  romantica  o  preromantica,  ma  si  innesta  su  uno  dei  prin- 


NOTA   INTRODUTTIVA  H2I 


cipali  filoni  della  critica  figurativa  settecentesca :  su  quell' orienta- 
mento,  cioe,  che  e  merito  del  Ragghianti  aver  individuato  e  che, 
nato  nelFambiente  delPeclettismo  carraccesco,  o,  se  si  vuole,  in 
quello  dei  suoi  ammiratori  secenteschi  dal  Malvasia  al  Bellori,  si 
viene  maturando  sotto  1'impulso  delPempirismo  e  del  sensismo 
appunto  nel  Settecento,  col  Richardson,  il  d'Argenville,  TAlgarot- 
ti,  il  Mengs,  fino  ad  influenzare,  almeno  in  parte,  lo  stesso  Winck- 
elmann:  un  orientamento  in  cui  e  implicita  la  tendenza  a  stu- 
diare  e  ad  intendere  il  piu  fedelmente  possibile  nei  loro  aspetti 
caratteristici  non  le  personalita,  ma  gli  «  stili »,  le  «maniere»  dei 
grandi  maestri  del  Rinascimento.  E  il  merito  del  Lanzi  sta  nell'aver 
reso  esplicita  e  generalizzata,  proprio  in  virtu  del  suo  temperamento 
«  freddo »  e  della  sua  preparazione  filologico-antiquaria,  questa  ten 
denza,  tramutandola  in  un  precise  canone  critico  e  storiografico, 
applicato  con  puntuale  sistematicita. 

Tracce  di  questa  critica  «stilistica»  affiorano  gia  tra  le  indagini 
e  le  discussioni  filologico-antiquarie  della  guida  della  galleria  fio- 
rentina,  del  Saggio  di  lingua  etrusca  e  delle  prime  operette  archeo- 
logiche  del  Lanzi.  Ma  essa  diventa  metodo  consapevole  solo  nelle 
Notizie  preliminari  circa  la  scoltura  degli  antichi:  nelle  quali,  mentre 
1'autore  accoglie  dal  Winckelmann  e  dal  Mengs  sia  la  teoria  ge- 
nerale  (come  si  e  detto)  del  «corso»  delle  belle  arti  sia  la  distin- 
zione  degli  stili  egiziano,  etrusco,  greco  e  romano  e  in  linea  di 
massima  le  suddivisioni  dei  vari  stili  in  «epoche»,  manifesta  al 
tempo  stesso  quel  senso  del  concreto  e  del  caratteristico  che  gli  e 
proprio,  come  quando,  ad  esempio,  osserva  che  «una  cosa  e  stil 
etrusco,  e  una  diversa  cosa  sono  le  opere  degli  artefici  etruschi. 
Simile  distinzione  usiamo  nella  pittura  moderna.  Franco  e  veneto, 
ma  il  suo  disegno  e  fiorentino.  Feti  e  romano,  ma  il  suo  stile  e 
lombardo»  (p.  vi). 

II  metodo  del  Lanzi  si  manifesta  per6  in  modo  di  gran  lunga 
piu  originate  e  fecondo  di  risultati  nella  Storia  pittorica  della  Italia, 
in  perfetta  coerenza  col  proposito,  espresso  come  «terzo  oggetto» 
deir opera  nella  Prefazione  (p.  xxn),  di  «agevolare  la  cognizione 
delle  maniere  pittoriche».  All'eclettismo  secentesco  e  settecen- 
tesco  risale,  come  e  noto  e  come  il  Lanzi  stesso  e  il  primo  a  rico- 
noscere,  la  classificazione  della  pittura  italiana  in  «scuole».  Se  non 
si  vuole  considerare  autentico  il  famoso  sonetto  attribuito  un  tem 
po  (e  1'attribuzione  fu  non  a  caso  consacrata  proprio  dal  Lanzi) 


1122  LUIGI   LANZI 

ad  Agostino  Carracci,  si  sa,  per  testimonianza  del  Bellori,  che 
gia  intorno  al  1630  in  una  conversazione  fra  il  Domenichino  e 
monsignor  Agucchi  vengono  distinte  quattro  scuole,  la  romana  con 
a  capo  Raffaello  e  Michelangelo,  la  veneziana  culminata  nel  Ti- 
ziano,  la  lombarda  dominata  dal  Correggio,  e  la  toscana  raccolta 
intorno  a  Leonardo  e  ad  Andrea  del  Sarto ;  distinzione  sostanzial- 
mente  accolta  dal  Richardson  e  dal  d'Argenville  (che  aggiungono 
rispettivamente  la  scuola  bolognese  e  quelle  napoletana  e  geno- 
vese),  nonche  poi  dalFAlgarotti,  dal  Mengs  e  dagli  altri  critici 
figurativi  del  secolo.  Ma  quello  che  in  tutti  costoro  e  o  semplice  ac- 
cenno  schematico  o  un  interesse  sempre  piii  o  meno  fortemente 
subordinato  a  valutazioni  di  gusto,  diventa  nel  Lanzi  scopo  fon- 
damentale  e  sistematicamente  perseguito ;  piii  sistematicamente  di 
quanto  avesse  fatto  nel  campo  dell'arte  antica  il  Winckelmann,  do 
minate  com'era  dal  mito  della  bellezza  greca;  anche  se,  non  biso- 
gna  dimenticarlo,  e  proprio  il  Winckelmann  che  fornisce  al  Lanzi, 
per  esplicita  dichiarazione  di  questo,  il  piu  autorevole  modello 
metodico  di  una  storia  divisa  per  scuole  stilistiche.  Con  quanta 
(csagace  esattezza»  (per  riprendere  una  definizione  dello  Stendhal) 
il  Lanzi  rielabori  il  modulo  storiografico  offertogli  dai  suoi  prede- 
cessori,  e  documentato  non  tanto  dal  numero  (quattordici)  a  cui  sal- 
gono  le  scuole  distinte  ed  esaminate,  quanto  dal  modo  con  cui  la 
classification  e  giustificata  e  condotta.  Si  e  detto  (dal  Segre  e  da 
altri)  che  tale  classificazione  pecca  di  astrattezza,  in  quanto  forte 
mente  influenzata  da  criteri  geografico-politici.  La  verita  e  che 
tali  criteri,  o  piuttosto,  come  egli  dice,  la  considerazione  delle  «  citta 
capitali»,  se  hanno  il  loro  peso,  sono  poi  sempre  subordinati  a  ra- 
gioni  stilistiche,  secondo  la  sua  esplicita  dichiarazione  di  voler  trac- 
ciare  da  storia  delle  scuole  pittoriche,  non  degli  statb  (v,  p.  538). 
E  mentre  tratta  separatamente  della  scuola  modenese  e  di  quella 
parmigiana,  poiche  gli  sembra  che  alia  «  diversita  de'  dominii »  cor- 
risponda  una  «  diversita  di  gusto  »,  «  parendogli . .  .  che  nella  prima 
prevalesse  la  imitazione  di  Raffaello,  nella  seconda  quella  del  Co- 
reggio»  (iv,  p.  60);  e  piu  generalmente  preferisce  parlare  di  «  scuole 
lombarde)),  invece  che  di  «  scuola  lombarda »,  essendo  «troppo  .  . . 
diversi  per  ridurgli  ad  un  gusto  e  ad  un'epoca  istessa  que'  fondatori, 
Leonardo,  Giulio,  i  Campi,  il  Coreggio»  (iv,  p.  2);  non  ritiene  di 
poter  attribuire  al  Piemonte  una  vera  e  propria  scuola  pittorica 
unitaria,  e  in  particolare  considera  i  vercellesi  e  i  novaresi  nella 


NOTA   INTRODUTTIVA  1123 

scuola  milanese,  « a  cui,  quantunque  non  fossero  appartenuti  per 
dominio,  si  dovrebbon  ridurre  per  educazione,  o  per  domicilio, 
o  per  vicinanza»  (v,  p.  538);  e  se  nella  scuola  «romana»  pone  anche 
urnbri  e  marchigiani  (certo  questa  volta  in  omaggio  al  dominio 
pontificio,  ma  anche  per  la  ragione,  da  mi  ricordata  non  del  tutto 
a  torto,  che  costoro  «  furono  per  la  maggior  parte  educati  in  Roma 
o  da  maestri  almeno  di  la  venuti »),  ne  distacca  pero  i  bolognesi,  i  fer- 
raresi  e  i  romagnoli  (n,  p.  4),  e  ne  nota  infine  la  fusione,  sotto  Tin- 
fiuenza  di  Pietro  da  Cortona,  con  la  scuola  fiorentina.  Ancor  meglio 
il  suo  senso  del  particolare  concrete  si  rivela  nella  consapevole  cau- 
tela  con  cui  precede  nel  raggruppare  e  nell'analizzare  i  vari  pit- 
tori  airinterno  delle  singole  scuole.  « NelPascrivere  i  soggetti  a 
questa  o  a  quell'altra  scuola »  egli  afferma  nella  Prefazione  «ho 
avuto  riguardo,  piu  che  alia  lor  patria,  a  certe  altre  circostanze; 
quali  sono  la  educazione,  lo  stile  e  specialmente  il  domicilio  e 
Pistruzione  degli  allievi;  circostanze  peraltro,  che  talora  si  trovano 
cosi  temperate  e  miste,  che  piu  citta  possono  contendere  per  un 
pittore,  come  in  altri  tempi  si  facea  per  Omero»  (i,  pp.  xxxvm- 
xxxix ;  e  cfr.  anche  v,  p.  6).  Attentissimo  egli  e  in  particolare  al 
complesso  gioco  di  rapporti  e  filiazioni  stilistiche  non  solo  fra  il 
caposcuola  e  i  suoi  allievi  ma  anche  fra  artisti  di  scuole  diverse, 
e  quindi  alle  variazioni  di  «  maniera  »  che  derivano  da  questi  rap 
porti  e  filiazioni  o  dalla  evoluzione  interna  del  singolo  pittore. 
«Spesso  si  tituba»  egli  dice  nella  Prefazione  « paragonando  un 
autore  seco  medesimo :  quando  sembra  che  uno  stile  non  convenga 
o  alia  solita  maniera  o  al  gran  nome  del  professore.  Per  tali  dub- 
biezze  comunemente  io  noto  il  maestro  di  ciascheduno ;  giacch6  da 
principio  ognun  seguita  le  tracce  della  sua  scorta;  noto  inoltre  la 
maniera  che  si  formo,  e  che  mantenne  costantemente,  o  muto  in 
altra:  noto  talora  Peta  che  visse,  e  il  maggiore  o  minore  impegno 
con  cui  dipinse :  onde  non  corrasi  a  condannare  di  falsita  una  pit- 
tura  che  pot6  esser  fatta  in  eta  avanzata,  o  esser  condotta  con  negli- 
genza.  Chi  e,  per  atto  di  esempio,  che  possa  ricevere  per  legittime 
tutte  le  opere  di  Guido,  s'egli  non  sappia  che  Guido  or  segui  i 
Caracci,  ora  Calvart,  or  Caravaggio,  or  se  stesso,  ne  ugualmente 
somigli6  se  stesso,  quando  fino  a  tre  quadri  compie  in  un  giorno  ? 
Chi  pu6  sospettare  che  il  Giordano  sia  un  pittor  solo,  quando 
sappia  ch'egli  aspira  a  trasformarsi  ora  in  uno  degli  antichi,  ora 
in  altro?»  (i,  pp.  xxm-xxiv).  L'applicazione  integrale  di  questo 


1134  LUIGI   LANZI 

sistema  lo  conduce,  e  vero,  fino  a  trattare  di  uno  stesso  artista, 
per  esempio  di  Leonardo,  separatamente  e  successivamente  in 
scuole  diverse;  o  a  trascurare,  per  porre  in  evidenza  le  filiazioni 
stilistiche,  la  visione  sincronica  di  un'epoca;  ma  gli  consente  an- 
che  di  ricostruire  con  puntuale  aderenza,  e  in  modo  in  gran  parte 
tuttora  valido,  lo  svolgimento  delle  varie  scuole  e,  quando  gli  e 
possibile,  delle  «maniere»  dei  singoli  pittori,  ad  esempio,  per  ci- 
tare  i  due  casi  forse  piu  notevoli,  di  Raffaello  e  del  Correggio,  o 
di  Antonello,  del  quale  sottolinea  1'educazione  fiamminga,  o  del 
Caravaggio,  che  segue  dalla  sua  prima  educazione  giorgionesca 
alia  conquista  del  suo  stile  piu  personale. 

Quanto  al  « contenuto »  delle  sue  caratterizzazioni  di  scuole  e 
di  pittori,  il  Lanzi  si  vale,  come  egli  stesso  ammette  e  indica  quasi 
ogni  volta,  di  tutta  una  serie  di  fonti  che  vanno  dalle  Vite  del 
Vasari  alle  opere  generali  e  particolari  del  Lomazzo,  del  Bellori, 
del  Baldinucci,  del  Malvasia,  dell'Algarotti,  del  Mengs,  alle  sen- 
sibili  guide  venete  del  Boschini,  dello  Zanetti,  del  Verci,  ai  giudizi 
dei  grandi  maestri,  giuntigli  attraverso  la  tradizione  scritta  e  orale. 
Questo  aspetto  della  Storia  pittorica  va  certo  tenuto  presente,  per 
•evitare  (come  e  awenuto  specialmente  per  i  capitoli  relativi  alia 
scuola  veneta,  fondati  in  gran  parte  sullo  Zanetti  e  sul  Verci)  di 
attribuire  integralmente  al  Lanzi  giudizi  che  in  realta  egli  riprende 
<3a  altri.  Sarebbe  tuttavia  altrettanto  ingiusto  definirlo  un  passivo 
ripetitore.  Va  ricordato  anzitutto  che  ampie  sezioni  della  Storia 
pittorica^  come  quelle  intorno  alle  scuole  milanese  e  piemontese 
e  in  genere  i  capitoli  relativi  alle  vicende  delle  varie  scuole  nel  Set- 
tecento,  sono  lavoro  personale  del  critico.  Ma  un  suo  intervento 
originale  non  manca  neppure  la  dove  egli  si  richiama  ad  altri :  un  in 
tervento  che  consiste  non  tanto  nelPopporre  una  propria  posi- 
zione  di  gusto  a  quella  delle  sue  fonti,  quanto  invece  nella  stessa 
elastica  apertura  ad  ogni  suggerimento  utile  ad  una  obiettiva  ca- 
ratterizzazione  stilistica,  e  piu  ancora  nella  poco  appariscente  ma 
importante  opera,  per  cosi  dire,  di  scelta,  di  depurazione  e  combina- 
zione  a  cui  egli  sottopone  i  giudizi  altrui,  cavandone  e  impiegan- 
done  Telemento  caratterizzante  e  invece  trascurandone  e  attenuan- 
done  Pelemento  valutativo,  dipendente  dal  gusto  personale  dei 
singoli  critici.  Tale  e,  ad  esempio,  il  suo  atteggiamento  verso  il 
Baldinucci,  che  tiene  spesso  presente  nelle  pagine  dedicate  alia 
scuola  fiorentina,  ma  discutendone  apertamente,  e  valendosi  di 


NOTA   INTRODUTTIVA 

precisi  dati  di  fatto,  la  teoria  deH'origine  fiorentina  della  ccbella 
pittura));  verso  il  Malvasia,  da  cui  toglie  molte  analisi  relative 
alia  scuola  bolognese,  ma  del  quale  non  condivide,  in  molti  giu- 
dizi  particolari,  1'eccessivo  <czelo  patriottico  » ;  verso  il  Bellori,  che 
segue,  fra  1'altro,  nel  descrivere  lo  stile  del  Caravaggio,  ma  smor- 
zandone  certe  piu  aspre  riserve.  Del  Vasari  stesso,  che  pure  am- 
mira  e  difende  dalle  censure  del  Malvasia,  non  accetta  ne  1'idea 
che  il  numero  dei  pittori  fosse  del  tutto  spento  allorche  comparve 
Cimabue,  ne"  la  valutazione  a  suo  giudizio  eccessiva  di  Michelan 
gelo;  cosi  come  sa  mantenersi  indipendente  anche  dai  due  cri- 
tici  che  pure  venera  di  piu,  1'Algarotti  e  il  Mengs,  volgendosi  con 
attenzione  assai  piu  equanime  sia  verso  i  primitivi  sia  verso  i  ma- 
nieristi  e  i  barocchi,  dal  Rosso  fiorentino  a  Pietro  da  Cortona. 

Pretendere  poi  dal  Lanzi  sia  nei  confronti  di  costoro,  come  in 
genere  dei  pittori  di  cui  tratta,  una  piu  viva  e  profonda  simpatia 
umana  e  artistica,  significherebbe  non  rendersi  conto  che  appunto 
nella  «  freddezza »  del  suo  temperamento  e  del  suo  gusto,  nella  sua 
tranquilla,  obbiettiva  ed  esclusiva  attenzione  allo  « stile »,  e  il  suo 
limite  ma  anche  la  sua  virtu,  e,  direi,  I'origine  della  suggestione 
che  la  sua  opera  maggiore,  dopo  la  esperienza  romantica,  pu6  eser- 
citare  su  un  lettore  contemporaneo. 


Manca  un  esauriente  studio  bibliografico  sul  Lanzi,  anche  se  molte 
notizie  si  possono  trarre  dai  volumi  di  O.  Boni  e  di  U.  Segre  e  soprattutto 
dal  saggio  del  Natali,  citati  piu  avanti.  Rimandando  per  la  Storia  pittorica 
della  Italia  al  cappello  premesso  alle  pagine  qui  riprodotte,  ci  limite- 
remo  a  qualche  notizia  sulle  altre  opere  piu  importanti.  La  descnzione 
della  Galleria  di  Firenze  comparve  nel  1782,  contemporaneamente  nel 
((Giornale  dei  letteratis  di  Pisa,  tomo  XLVII,  e  in  volume  col  titolo  La 
R.  Galleria  di  Firenze  accresciuta  e  riordinata,  Firenze,  Moucke.  Le  No 
tizie  prehminari  circa  la  scoltura  degli  antichi  furono  per  la  prima  volta 
pubblicate  in  inglese  (A  preliminary  Account  on  the  Ancients  and  their 
various  Styles,  Rome,  Giunchi,  1785);  poi  ristampate  in  italiano,  in  appen- 
dice  al  terzo  tomo  del  Saggio  di  lingua  etrusca,  nel  1789;  e  infine  a  Fiesole, 
Poligrafia  Fiesolana,  1824  (questa  edizione  contiene  un  elenco,  a  cura  di 
F.  Inghirami,  degli  scritti  editi  del  Lanzi).  II  Saggio  di  lingua  etrusca  e  di 
altre  antiche  d*  Italia  per  servire  alia  storia  de'  popoli,  delle  lingue  e  delle 
bell'arti  fu  stampato  a  Roma,  presso  la  stamp eria  Pagliarini,  nel  1789, 
in  tre  tomi,  e  npubblicato  a  Firenze,  Tofani,  1824-1825  pure  in  tre  tomi. 
Gli  scritti  di  argomento  religioso  furono  raccolti  negli  Opuscoli  spiritually 
Roma,  Stamperia  delFAccademia  di  Religione  Cattolica  a  S.  Marcello  al 


1126  LUIGI    LANZI 

Corso,  1809  (ristampati  a  Napoli,  nel  1824);  le  iscrizioni  e  i  carmi  latini 
negli  Inscriptionum  et  carminum  libri  tres,  Florentiae,  Corti,  1817;  le  tra- 
duzioni  da  Teocrito  e  da  Catullo,  insieme  a  due  dissertazioni  antiquarie 
(Ragionamento  sulVara  di  Alcesti  e  Illustrazione  di  due  colonne  quadrilatere 
della  R.  Galleria  di  Firenze)  e  alle  iscrizioni,  nei  due  tomi  delle  Opere 
postume,  Firenze,  Carli,  1817.  Fra  le  altre  dissertazioni  di  argomento  an- 
tiquario  ricordiamo  quelle  Sopra  urfurnetta  toscanica  e  difesa  del  Saggio 
di  lingua  etrusca,  Venezia  1799  (in  risposta  agh  attacchi  mossi  al  Saggio 
dal  Coltellini);  e  De'  vast  antichi  dipinti  volgarmente  chiamati  etruschi, 
Firenze,  Fantosini,  1806.  Carteggi  inediti  del  Lanzi  si  conservano  nella 
Biblioteca  Comunale  di  Macerata  (cfr.  G.  NATALI,  Nel  primo  centenario 
della  morte  del  Lanzi,  in  «Atti  e  memorie  della  R.  Deputazione  di  storia 
patria  per  le  Marche»,  N.  S.,  VI,  1909). 

Relativamente  numerosi  sono  gli  studi  critici  intorno  al  Lanzi.  Tra 
essi  citiamo  solo  quelli  che  abbiano  efTettivamente  qualche  valore.  Opere 
complessive :  O.  BONI,  Elogio  dell' abate  L.  Lanzi,  Firenze,  Carli,  1814, 
ristampato  in  testa  alle  Opere  postume  citate  (elogio  accademico,  rna  ricco 
di  notizie);  C.  UGONI,  Della  letter atur a  italiana  della  seconda  meta  del  secolo 
XVIII,  m,  Brescia,  Bettoni,  1822,  pp.  378-425  (profilo,  per  molti  aspetti, 
tuttora  valido);  G.  M.  ZANNONI,  Elogio  di  L.  Lanzi,  premesso  all'edizione 
della  Storia  pittorica  della  Italia  nei  Classici  Italiani  (1824);  U.  SEGRE, 
L.  Lanzi  e  le  sue  opere,  Assisi,  Tipografia  Metastasio,  1904  (su  cui  cfr.  la 
recensione  di  B.  CROCE,  in « La  Critica »,  in,  1905,  pp.  155-7  J  e  quella,  molto 
importante,  di  W.  KALLAB,  in  « Kunstgeschichtliche  Anzeigen»,  n,  1905); 
G.  NATALI,  II  Varrone  del  secolo  XVIII,  in  Idee,  costumi,  uomini  del  Sette- 
centOj  Torino,  S.T.E.N.,  I9262,  pp.  362-86  (con  ricca  bibliografia,  che 
Integra  quella  del  Segre),  e  II  Settecento,  cit.,  I,  pp.  438-43  e  482;  B. 
CROCE,  Storia  della  storiografia  italiana  del  secolo  decimonono,  Bari,  Laterza, 
i93o2,  i,  pp.  279-81 ;  F.  ULIVT,  Laprosa  del  Lanzi,  nel  volume  Galleria  di 
scrittori  d'arte,  Firenze,  Sansoni,  1953,  pp.  245-73.  In  particolare,  sul 
Saggio  di  lingua  etrusca  si  veda  B.  NOGARA,  L.  Lanzi  e  Vopera  sua,  Roma 
1910.  Sulla  Storia  pittorica:  E.  FINZI,  La  « Storia  pittorica  d' Italia*  di  L. 
Lanzi,  in  «La  Nuova  Italia »,  in  (1932),  pp.  299-305,  348-54,  384-90 
(studio  attento  ed  equilibrato) ;  J.  ScHLOSSER-MAGNlNO,  La  letteratura 
artistica,  traduzione  italiana  di  F.  Rossi,  Firenze,  La  Nuova  Italia,  1935, 
pp.  423,  440-1  e  451;  S.  BOTTARI,  Studi  sulla  storiografia  artistica  del 
secolo  XIX,  in  «Civilta  moderna»,  x  (1938),  pp.  40-58  (il  «biografismo 
stilistico  »  del  Lanzi  rappresenterebbe  un  momento  intermedio  fra  il  bio- 
grafismo  prammatico  del  Rinascimento  e  la  critica  romantica  della  perso- 
nalita  creatrice);  L.  VENTURI,  Storia  della  critica  d'arte,  Roma-Firenze- 
Milano,  Edizioni  U,  1945,  pp.  228-9;  C.  CORDIE,  Tra  ifogli  di  un  vecchio 
Lanzi  (con  pagine  e  annotazioni  inedite  di  Stendhal),  in  «Acme»,  v  (1952), 
pp.  177-254  (sui  rapporti  Lanzi- Stendhal  si  veda  anche  P.  ARBELET, 
«  Lhistoire  de  la  peinture  en  Italie »  et  les  plagiats  de  Stendhal,  Paris,  Cham 
pion,  1919);  N.  IVANOFF,  I  paragoni  delV  abate  Lanzi,  in  « Atti  delPIstituto 
veneto  di  Scienze,  Lettere  e  Arti»,  cxn  (1954),  pp.  107-15;  G.  PACCHIONI, 
II  Lanzi  e  le  scuole  pittoriche,  nel  volume  miscellaneo  Scritti  di  storia  delVar- 
te  in  onore  di  L.  Venturi,  Roma,  De  Luca,  1956,  n,  pp.  267-72.  Non 


NOTA   INTRODUTTIVA 

tratta  particolarmente  del  Lanzi,  ma  deve  essere  tenuto  presente  per  com- 
prenderne  storicamente  la  posizione  cntica  1'articolo  di  C.  L.  RAGGHIANTI, 
/  Carracci  e  la  critica  d'arte  neTeta  barocca,  in  «La  Critica»,  xxxi  (1923)* 
pp.  65-74,  223-33,  382-94.  Sul  Lanzi  letterato:  G.  BIADEGO,  Alcune postille 
di  U.  Foscolo  alia  traduzione  di  Catullo  del  Lanzi,  in  «I1  Bibliofilo»,  IV 
(1886),  n.  6;  G.  NATALI,  //  Lanzi  dantista,  nel  volume  Idee,  costumi,  uo- 
mini  del  Settecento,  cit.,  pp.  387-90. 


DALLA 
«  STORIA  PITTORICA  BELLA  ITALIA » 

Pref axiom? 

La  storia  generale  della  pittura  manca  air  Italia.  -  Quando  le  storie 
particolari  sono  giunte  a  un  numero  che  non  si  posson  tutte  rac- 
corre  ne  leggere  facilmente,  allora  e  che  si  desta  nel  pubblico  il 
desiderio  di  uno  scrittore  che  le  riunisca  e  le  ordini,  e  dia  loro 


Nella  Prefazione  alia  Storia  pittonca  della  Italia  1'autore  ricorda  come 
ad  essa  «  ben  piu  volte  a  voce  e  per  lettera  »  lo  avesse  animate  il  Tiraboschi, 
«  quasi  a  un  seguito  della  sua  opera  »  (qui  a  p.  1140).  E  forse  non  e  solo  una 
coincidenza  se  proprio  nel  1782,  nelPanno  cioe  in  cui  fu  stampato  Tultimo 
volume  della  Storia  della  letteratura  itahanay  il  Lanzi  si  pose  a  racco- 
gliere  il  materiale  per  la  sua  opera,  come  e  documentato  dai  suoi  Repertorii 
di  antichitd  e  di  pittura  (dieci  quadernetti  manoscritti,  tuttora  conservati 
nell'Archivio  della  Galleria  degli  Uffizi),  nei  quali  appunto  dopo  il  1782 
cominciano  a  comparire  le  annotazioni  sulla  pittura  itahana  che  il  Lanzi 
vemva  scrivendo  sia  durante  la  lettura  delle  opere  critiche  ed  erudite  sul- 
I'argomento,  sia  nei  suoi  viaggi  attraverso  T  Italia  centrale  e  settentrionale. 
Questo  accurato  lavoro  preparatorio  dur6  a  lungo.  Solo  dopo  dieci  anni 
pote  essere  pubblicata  una  prima  edizione  delP  opera,  col  titolo  Storia  pit 
tonca  della  Italia  tnferiore,  o  sia  delle  scuole  fiorentina,  senese,  romana,  napo- 
letana,  compendiata  e  ridotta  a  metodo  per  agevolare  d  dilettanti  la  cognizione 
de'  professon  e  de'  loro  stih,  Firenze  1792;  mentre  una  seconda  e  piu  com- 
pleta  edizione,  col  titolo  Storia  pittonca  della  Italia  dal  risorgimento  delle 
belle  arti  fin  presso  alia  fine  del  XVIII  secolo,  fu  stampata  a  Bassano,  Re- 
mondini,  1795-1796.  Queste  due  edizioni  furono  accolte  con  grande  favore 
(fra  gli  altri  anche  il  Bettinelh  scrisse  alPautore  una  lettera  di  entusiastica 
approvazione),  ma  anche,  specialmente  da  parte  degli  specialist!,  con  pro- 
poste  di  correziom  e  di  aggiunte.  Tale  favore  e  tali  proposte  spinsero  il 
Lanzi  a  preparare  una  terza  edizione,  la  cui  compilazione  occup6  gli  ultimi 
anni  della  sua  vita:  grazie  soprattutto  all'aiuto  di  Giovanni  de'  Lazara, 
padovano,  essa  pot6  essere  pubblicata  prima  della  morte  dell'autore,  con 
lo  stesso  titolo  della  seconda,  a  Bassano,  presso  Remondini,  nel  1809,  in 
sei  tomi:  il  I  contenente  la  scuola  fiorentma  e  la  senese,  il  H  la  romana  e 
la  napoletana,  il  in  la  veneziana,  il  iv  le  scuole  lombarde  (mantovana,  mo- 
denese,  parmigiana,  cremonese  e  milanese),  il  v  la  bolognese,  la  ferrarese 
e  quelle  di  Genova  e  del  Piemonte;  il  vi  esclusivamente  dedicate  agli  indici, 
che  sono  tre:  VIndice  de'professori  nominati  neW opera,  aggiunte  V epochs  della 
lor  vita  e  i  libri  onde  son  tratte\  VIndice  de'  libri  di  storia  e  di  critica  citati 
per  V opera;  e  VIndice  delle  cose  notabili.  Questa  edizione  definitiva  fu  poi 
riprodotta  da  numerose  ristampe,  che  attestano  la  fortuna  delP opera  du 
rante  tutta  la  prima  meta  dell' Ottocento :  a  Pisa,  Capurro,  1815-1817;  a 
Bassano,  Remondini,  1818;  a  Firenze,  Marchim,  1822,  con  note  del  padre 

i.  Dalla  Storia pittorica  della  Italia  ecc.,  I,  pp.  i-xxxix. 


1130  LUIGI    LANZI 

aspetto  e  forma  di  storia  generate;  non  gia  riferendo  minutamente 
quanto  in  esse  trova,  ma  scegliendo  da  ciascuna  ci6  che  possa  inte- 
ressare  maggiormente  e  istruire :  cosi  awiene  d'ordinario  che  a'  se- 
coli  delle  lunghe  istorie  succeda  poi  il  secolo  de'  compendi.  Se  que- 
sta  brama  ha  dominato  in  altra  eta,  e  stata  quasi  ed  e  il  carattere  del- 
la  nostra.  Noi  ci  troviamo  per  una  parte  in  tempi  favorevolissimi  alia 
coltura  dello  spirito:  dilatati  i  confini  delle  scienze  oltre  quanto 
poteano  sperare,  non  che  vedere,  i  nostri  antichi,  non  cerchiamo  se 
non  metodi  che  agevolino  la  via  a  possederle,  se  non  tutte  (ch'e  im- 
possibile),  molte  almeno  a  sufficienza.  Dall'altra  parte  i  secoli  che 
ci  precedono  dopo  risorte  le  lettere,  occupati  piu  nelle  parole  che 
nelle  cose,1  e  ammiratori  di  certi  oggetti  che  a  gran  parte  de'  leg- 
gitori  ora  sembran  piccioli,  han  prodotte  istorie,  delle  quali  non 
meno  si  desidera  la  unione  perche  separate,  che  1'accorciamento 
perche  prolisse. 

Notizie  gia  edite  per  comporla  e  prolissita  con  cui  son  distese.  - 
Che  se  ci6  e  vero  in  altri  rami  d'istoria,  in  quello  della  pittura 
e  verissimo.  La  storia  pittorica  ha  i  suoi  materiali  gia  pronti  nel 
le  tante  vite  che  de'  pittori  di  ogni  scuola  si  son  divolgate  di  tem 
po  in  tempo;  ed  oltre  a  ci6  ha  de'  supplementi  a  tali  vite  negli 
Abbecedari,  nelle  Lettere  pittoriche,  nelle  Guide  di  piu  citta,  nej 
Cataloghi  di  piu  quadrerie2  ed  in  altri  opuscoli  pubblicati  in  Italia 
or  su  di  un  artefice,  or  su  di  un  altro.  Ma  queste  notizie,  oltre  Pes- 
ser  divise,  non  son  tutte  utili  alia  maggior  parte  de'  leggitori.  Chi 
forma  idea  della  pittura  italiana  scorrendo  cert'istorici  de'  secoli 
gia  decorsi,  e  alcuni  anche  del  nostro,  pieni  d'invettive  e  di  apolo- 
gie  per  innalzare  i  lor  professori  sopra  ogni  scuola;  e  solid  a  col- 
mar  di  elogi  quasi  ugualmente  il  maestro  del  primo  seggio  e  quello 

P.  De  Angelis;  a  Milano,  Biblioteca  scelta  di  opere  moderne,  1823;  a  Mi- 
lano,  Tipografia  de'  Classici  Italian!,  1824-1825;  a  Milano,  Bettoni,  1831; 
a  Venezia,  Milesi,  1837-1839,  con  annotazioni  di  diversi  autori.  La  Storia 
pittorica  fu  inoltre  tradotta  in  francese  da  M.me  Diend6,  Paris  1824;  in 
inglese  dal  Roscoe,  London  1828  e  1847;  e  dall'Evans,  London  1845; 
in  tedesco  dal  Quandt,  Leipzig  1830-1833.  Per  le  pagine  qui  nprodotte  si 
e  seguito  il  testo  della  terza  e  definitiva  edizione  del  1809,  tenendo  present! 
anche  la  prima  e  la  seconda.  Le  note  del  Lanzi  sono  seguite  dalla  sigla  L. 

I.  occupati  .  .  .  cose:  cfr.  per  questo  giudizio  sulla  storiografia  presettecen- 
tesca  quello  del  Bettinelli  nel  Risorgimento  d'ltaha,  e  qui  riportato  a  p.  672, 
nota  2.  2.  quadrerie:  raccolte  di  quadri. 


STORIA   PITTORICA  BELLA   ITALIA  113! 

del  terzo  e  del  quarto  P1  Quanto  pochi  si  curano  di  sapere  cio  che 
de*  pittori  troviam  descritto  con  tante  parole  nel  Vasari,  nel  Pascoli, 
nel  Baldinucci;2  le  lor  bale,  i  loro  amori,  le  loro  stravaganze,  i  lor 
privati  interessi  ?  Chi  diviene  piu  dotto  leggendo  le  gelosie  degli  ar- 
tefici  di  Firenze,  le  risse  di  quei  di  Roma,  le  vociferazioni  di  quei 
di  Bologna  ?  Chi  pub  gradire  i  testamenti  riferiti  a  parola  fino  al  ro- 
gito  del  notaio,  come  farebbesi  in  una  scrittura  legale,  o  la  descri- 
zione  della  statura  e  dej  lineamenti  della  faccia,3  come  appena 
fecero  gli  antichi  in  Alessandro  o  in  Augusto  ?  Ne  io  invidio  certe  di 
queste  particolarita  a'  primi  lumi  delParte:  in  un  Raffaello,  in  un 
Caracci  par  che  anche  le  picciole  cose  prendan  grandezza  dal  sogget- 
to :  ma  in  tanti  altri,  qual  figura  fa  il  piccolo,  ove  anche  il  grande  par 
mediocre?  Svetonio  non  tratta  in  ugual  maniera  le  vite  de'  suoi 
Cesari  e  quelle  de'  suoi  gramatici;  i  primi  gli  fa  ben  conoscere  al 
leggitore;  i  secondi  gli  addita  e  tace. 

Ma  perche  i  geni  degli  uomini  son  diversi,  e  alcuni  pur  cercano 
curiosamente,  come  ne'  fatti  presenti,  cosi  ne'  passati  lamaggior  di- 
stinzione ;  e  perche  questo  pu6  esser  utile  talora  a  chi  volesse  disten- 
dere  una  storia  piena  veramente  e  perfetta  di  tutta  Titaliana  pittura; 
abbiasi  anzi  grazia  a  chi  scrisse  vite  si  copiose;  e  inganni  con  esse 
il  tempo  chi  ne  abbonda.  Si  abbia  per6  anche  riguardo  e  si  provegga 
a  quella  piu  degna  porzione  de'  leggitori,  che  nella  storia  pittorica 


i .  V.  1' Algarotti,  Saggio  sopra  la  pittura,  nel  capitolo  della  Critica  necessaria 
al  pittore  (L.)-  Cfr.  Algarotti,  Opere,  m,  Venezia,  Palese,  1791,  p.  215: 
« Non  per  affetto  verso  la  propria  scuola,  n6  per  amore  verso  la  patria  [il 
pittore]  si  venga  creando  idolo  niuno  nella  mente;  ma  addottrinato  dalla 
scienza,  secondo  la  norma  infallibile  del  vero,  ponga  ciascun  pittore  in  quei 
luogo  che  piu  se  gli  conviene,  faccia  ragione  del  suo  stile  e  della  sua  ma- 
mera».  2.  Lione  Pascoli  (1674-1744),  autore  delle  Vite  dey  pittori,  scultori 
e  architetti  moderni  (1730-1736)  e  delle  Vite  de'  pittori,  scultori  e  architetti 
perugini  (1732);  e  Filippo  Baldinucci  (1624-1696),  le  cui  Notizie  dei  pro- 
fessori  del  disegno  da  Cimabue  in  qua  (1681-1728),  condotte  con  metodo  va- 
sariano,  costituiscono  il  primo  tentative  di  una  storia  universale  dell'arte 
figurativa  in  Europa.  3.  Di  questo  vizio,  che  i  Greci  chiamano  acribia, 
e  ripreso  il  Pascoli;  presso  il  quale  si  trova  notato  qual  pittore  avesse  il 
naso  « proporzionato »,  e  quale  lo  avesse  «corto»  o  «lungo»;  che  il  tale 
1'ebbe  «aquilino»,  il  tale  «alquanto  schiacciato »,  il  tale  «affilato,  con  ba- 
sette».  Di  altri  scrive  m  generate  che  <cne  alto  ne  grosso  era  di  statura,  ne 
bello  ne  brutto  di  faccia »:  e  a  chi  saria  caduto  in  pensiero  di  domandar- 
gliene  ?  II  solo  utile  che  pu6  trarsene  e  smentir  I'impostura  di  qualche  fal- 
satore,  che  spacciasse  per  ritratto  di  un  pittore  una  immagine  di  altro 
individuo :  ma  a  tal  pencolo  meglio  si  prowede  co'  rami  (L.). 


1132  LUIGI   LANZI 

non  si  cura  di  studiar  Tuomo,  vuole  studiare  il  pittore;  anzi  non 
tanto  vi  cerca  il  pittore,  che  isolate  e  solitario  non  lo  istruisce; 
quanto  il  talento,  il  metodo,  le  invenzioni,  lo  stile,  la  varieta,  il 
merito,  il  grado  di  molti  pittori,  onde  risulti  la  storia  di  tutta 
1'arte. 

Eccitamenti  a  compilare  una  storia  pittorica,  e  come  render  la  utile.  - 
A  quest' oggetto,  veruno,  che  io  sappia,  non  ha  finora  volta  la  pen- 
na;  quantunque  ogni  cosa  par  che  il  consigli;  il  trasporto  de'  princi- 
pi  per  le  belle  arti ;  la  intelligenza  di  esse  distesa  a  ogni  genere  di 
persone;  il  costume  di  viaggiare  reso  su  Tesempio  de'  grandi  sovrani 
piu  comune  a*  privati;  il  trafEco  delle  pitture  divenuto  un  ramo  di 
commercio  importante  alia  Italia ;  il  genio  filosofico  della  eta  nostra, 
che  in  ogni  studio  abborrisce  superfluita,  e  richiede  sistema.  Usciro- 
no,  &  vero,  in  Francia  le  vite  de'  pittori  piu  celebri  delle  nostre  scuo- 
le  scritte  da  Mr.  d' Argenville1  d'una  maniera  molto  sugosa  e  istrut- 
tiva;  e  segui  appresso  qualche  altra  epitome,  ove  solamente  si  parla 
del  loro  stile.2  Ma  dissimulando  le  alterazioni  fatte  quivi  a5  nomi 
nostrali,  e  trapassando  sotto  silenzio  i  bravi  italiani  omessi  in  quelle 
opere,  che  pur  considerano  i  mediocri  d'altri  paesi;  niuno  di  tai  libri 
(e  molto  meno  i  tanti  altri  disposti  per  alfabeto)  da  il  sistema  della 
istoria  pittorica:  niuno  di  essi  espone  que'  quadri,  per  cosi  dire, 
ove  a  colpo  d'occhio  si  vede  tutto  il  seguito  delle  cose;  gli  attori 
principali  dell'arte  collocati  nel  maggior  lume;  gli  altri  secondo  il 
merito  degradati  piu  o  meno  e  adombrati  o  lasciati  nello  sbatti- 
mento.3  Molto  meno  vi  si  trovano  quell'epoche  e  que'  cangiamenti 
dell'arte,  che  sopra  ogni  cosa  cerca  un  lettor  pensatore:  perciocch6 
quindi  apprende  ci6  che  ha  contribuito  al  risorgimento  o  alia  de- 


i.  Uscirono  .  .  .  d' Argenville:  allude  all'Abrege  de  la  vie  des  plus  fameux 
pemtres  (Paris  1745-1752,  ripubblicato  con  aggiunte  nel  1762)  di  Antoine- 
Joseph  Dezallier  d' Argenville  (1680-1765).  2.  Nel  «Magazzino  Enciclo- 
pedico »  di  Parigi  (an.  vm,  torn,  iv,  pag.  63)  e  annunziata  e  commendata 
un' opera  in  due  tomi  edita  in  lingua  tedesca  in  Gottmga  (il  primo  tomo  nel 
1798,  il  secondo  nel  1801)  dal  ch.  sig.  Flonllo,  il  cui  titolo  inseriamo  nel 
secondo  indice.  £  anche  questa  una  storia  della  pittura  su  1'andare  della 
presente;  nell'ordine  delle  scuole  vi  e  qualche  vanazione  (L.).  Domenico 
Fiorillo  (1748-1821),  tedesco  oriundo  itahano  e  amico  di  A.  W.  Schlegel, 
autore  di  una  Geschichte  der  zeichnenden  Kunste  von  ihrer  Wiederauflebung 
bis  auf  die  neuesten  Zeiten,  in  cinque  tomi,  pubblicati  fra  il  1798  e  il  1808. 
3.  sbattvnento:  e  termine  tecnico  dei  pittori,  e  mdica  Fombra  proiettata  da 
un  oggetto  sul  piano  di  appoggio  o  sugli  oggetti  vicini. 


STORIA   PITTORICA   BELLA   ITALIA  1133 

cadenza;  ed  e  anco  aiutato  cosi  a  conservare  nella  memoria  la  serie 
e  Pordine  de'  racconti.  E  veramente  la  storia  pittorica  e  simile  alia 
letteraria,  alia  civile,  alia  sacra.  ElPancora  ha  bisogno  di  certe  faci 
di  volta  in  volta;  di  una  qualche  distinzione  di  luoghi,  di  tempi, 
di  awenimenti,  che  ne  divisi  Pepoche  e  ne  circoscriva  i  successi; 
tolto  via  quest'ordine,  ella  degenera,  come  le  altre,  in  una  con- 
fusione  di  nomi  piii  conducente  a  gravar  la  memoria,  che  ad  illu- 
strare  Pintendimento. 

Oggetti  di  quest*  opera,  e  suaprima  edizione  ampliata  or  a  e  compiu- 
ta.  -  Sowenire  a  questa  parte  finora  negletta  della  storia  d' Italia, 
contribuire  alPavanzamento  delParte,  agevolare  lo  studio  delle  ma- 
mere  pittoriche,  furono  i  tre  oggetti  che  io  mi  prefissi  quando  po- 
si  mano  a  distender  P  opera,  mio  benevolo  lettore,  che  vi  presento. 
E  la  mia  idea  fu  gia  di  unire  in  due  tomi  compendiata  la  storia  di 
tutte  le  nostre  scuole;  imitando  da  Plinio  la  divisione  della  Italia, 
il  quale  poco  variamente  distinse  i  paesi  nostri  superiori  dagli  infe- 
riori.1  Nel  primo  tomo  io  pensai  di  comprendere  le  scuole  della  Italia 
inferiore;  giacch6  in  essa  le  rinascenti  arti  ebbono  piu  presto  matu- 
rita;  e  nel  secondo  le  scuole  della  Italia  superiore,  la  cui  grandezza 
apparve  piu  tardi.  La  prima  parte  dell' opera  vide  luce  in  Firenze  nel 
1792.  Ma  il  lavoro  della  seconda  parte  si  dovette  allora  differire  ad 
altro  tempo ;  e  gli  anni  che  poi  ci  son  corsi  han  date  alia  mia  salute 
si  gravi  scosse,  che  a  fatica,  ne  senza  Paiuto  di  piu  copisti  e  cor- 
rettori  di  stampe,  ho  potuto  ultimarla.2  Da  questa  dilazione  per6  mi 
e  venuto  un  vantaggio ;  ed  e  stato  il  poter  conoscere  il  giudizio  del 
pubblico,  ch'e  il  maestro  piu  autorevole  che  abbia  chiunque  scrive;3 
e  a  norma  di  esso  preparar  la  nuova  edizione.4  Da  molte  bande  ho 


i.  da  Plinio  .  .  .  inferiori:  cfr.  Nat.  hist.,  in,  v,  38.  2.  Si  ultim6  nel  1796, 
ed  ora  si  riproduce  tutta  Topera  ritocca  e  accresciuta  in  piu  luoghi. 
Molte  chiese,  gallerie,  pitture  si  trovan  qui  nominate  che  oggidi  non  esi- 
stono;  ma  ci6  non  osta  alia  verita,  giacche  il  titolo  delPopera  si  limita  al 
predetto  anno.  A  crescere  questa  edizione  han  contribuito  vari  amici;  e 
specialmente  il  sig.  cav.  Giovanni  de'  Lazara  gentiluomo  padovano,  che  a 
gran  dovizia  di  libri  editi  e  di  mss.  congiugne  una  impareggiabile  genti- 
lezza  in  fame  copia  ad  altnii.  A'  meriti  antecedent!  verso  quest'opera  ha  in 
fine  aggiunto  anche  quello  di  rivederne  e  di  emendarne  la  ristampa ;  favore 
che  da  niun  altro  poteva  io  ricevere  piu  volentieri  che  da  lui  versatissimo 
nella  storia  delle  belle  arti  (L.)«  3-  H  giudizio  .  .  .  scrive:  questo  concetto 
risale  al  Dubos  (cfr.  la  nota  a  p.  864).  4. « Ut  enim  pictores,  et  qui  signa 
faciunt,  et  vero  etiam  poetae  suum  quisque  opus  a  vulgo  considerari  vult, 


1134  LUIGI   LANZI 

saputo  che  per  piu  appagarlo  conveniva  crescere  all'opera  e  nomi  e 
notizie;  siccome  ho  fatto  senza  uscir  dalla  idea  di  una  storia  com- 
pendiosa.  Ne  perci6  la  edizione  fiorentina  rimarra  inutile;  anzi 
sara  da  molti  preferita  alia  bassanese ;  cioe  da  quegli  che,  vivendo 
nella  Italia  inferiore,  gradiranno  di  veder  descritti  in  un  libro 
portatile  i  piu  degni  artefici  di  essa,  senza  curar  molto  cose  lon- 
tane. 

Piano  delly opera  come  ideato  da  altri.  -  A  nuova  opera  adunque,  e 
cosi  ampliata  dopo  la  prima,  io  premetto  prefazione  nuova  al- 
meno  in  gran  parte.  II  piano  di  essa  non  e  mio  del  tutto,  n6 
tutto  e  d'altri.  Fu  progetto  del  Richardson,1  che  qualche  istorico 
riunisse  le  notizie  sparse  qua  e  la  su  le  arti,  e  specialmente  su  la 
pittura;  notandone  gli  avanzamenti  e  le  decadenze  che  accaddero  in 
ogni  eta;  ne  Iasci6  di  fame  uno  schizzo,  che  arriva  fino  al  Giordano.3 
Lo  stesso  fece  piu  di  proposito  il  cav.  Mengs3  in  una  sua  lettera, 
ove  ha  giudiziosamente  segnati  tutti  i  periodi  dell'arte,  e  ha  messi 
quasi  i  fondamenti  di  una  storia  piu  vasta.  Attenendoci  a  questi 
esempi  si  dovean  insieme  considerare  tutti  i  primi  luminari  di  qual- 
sivoglia  scuola,  e  trascorrere  di  paese  in  paese  secondoch6  la  pittura 
acquist6  per  essi  qualche  nuova  perfezione,  o  per  Tabuso  de'  loro 
esempi  sofTri  qualche  scapito.  Questa  idea  facilmente  si  pu6  eseguire 
ove  le  cose  si  prendano  cosi  in  grande,  come  Plinio  le  vide  e  addi- 
tolle  aj  posteri:  ma  non  e  ugualmente  adatta  a  tessere  una  storia  pie- 


ut  si  quid  reprehensum  sit  a  pluribus  id  corrigatur  .  .  .,  sic  aliorum  iudicio 
permulta  nobis  et  facienda  et  non  facienda,  et  mutanda  et  corrigenda  sunt 
[« Come  infatti  i  pittori  e  gli  scultori  e  in  verita  anche  i  poeti  vogliono 
tutti  che  la  propria  opera  venga  gmdicata  dal  pubblico,  affinch£  ci6  che  da 
parecchi  e  stato  ripreso,  venga  corretto  .  .  .,  cosi  secondo  il  giudizio  degli 
altri  noi  dobbiamo  fare  e  non  fare,  mutare  e  correggere  moltissime  cose »], 
Cic.,  II  De  offic.,  num.  41  [esattamente,  De  off.,  I,  XL,  147],  L.  I,  Trait, 
della  pittura,  torn.  II,  p.  166  [esattamente,  163  sgg.],  L.  -  Jonathan  Richardson 
(1665-1745),  pittore  inglese,  scrisse  tre  op  ere  teonche  e  cntiche  intitolate 
Essay  on  the  Theory  of  Painting  (1715),  An  Essay  on  the  whole  Art  of  Criticism 
in  Relation  to  Painting  e  An  Account  of  the  Statues  and  Bas-reliefs,  Drawings 
and  Pictures  in  Italy,  France,  ecc.  (1722):  opere  assai  conosciute  in  Europa 
soprattutto  nella  traduzione  francese  intitolata  Traite  de  la  peinture  et  de  la 
sculpture,  divise  en  trois  tomes,  Amsterdam,  Uytwerf,  1728,  e  alia  quale 
il  Lanzi  stesso  si  rifensce.  2.  Luca  Giordano.  3.  Opere  [pubblicate  dal 
cav.  Giuseppe  Nicola  d'Azara,  Bassano,  Remondini,  1783],  torn,  n,  p.  108 
(L.).  La  lettera  a  cui  allude  il  Lanzi  e  quella  intitolata  Ad  un  amico,  sopra 
il  principio,  progresso  e  decadenza  delle  arti  del  disegno. 


STORIA   PITTORICA  DELLA   ITALIA  H35 

na  come  T  Italia  la  desidera.  Oltre  le  maniere  dej  capiscuola  ne  sorse- 
ro  in  lei  infinite  altre  temperate  di  questa  e  di  quella,  e  talvolta  mi- 
ste  a  tanto  di  originalita,  che  non  e  facile  ridurle  ad  una  o  ad  un'al- 
tra  schiera.  Oltreche  i  pittori  stessi  han  molte  volte  seguito  in  di- 
versi  tempi  o  in  diverse  opere  stile  si  vario,  che  se  ieri  apparten- 
nero  a'  seguaci  di  Tiziano,  oggi  meglio  stanno  fra  quegli  di  Raffaello 
o  del  Coreggio.  Non  si  puo  quindi  imitare  i  naturalisti,  che,  distinte 
per  atto  di  esempio  le  piante  in  piu  o  in  meno  classi,  secondo  i  va- 
ri  sistemi  di  Tournefort1  o  di  Linneo,  a  ciascuna  classe  facilmente 
riducono  qualsisia  pianta  che  vegeti  in  ogni  luogo,  aggiugnendo  a 
ciascun  nome  note  precise,  caratteristiche  e  permanenti.  Conviene, 
a  fare  una  piena  istoria  di  pittura,  trovar  modo  da  allogarvi  ogni 
stile  per  vario  che  sia  da  tutti  gli  altri;  ne  a  cio  ho  saputo  eleggere 
miglior  partito  che  tessere  separatamente  la  storia  di  ogni  scuola. 
Ne  ho  preso  esempio  da  Winckelmann,  ottimo  artefice  della  storia 
antica  del  disegno,2  che  tante  scuole  partitamente  descrive  quante 
furono  nazioni  che  le  produssero.  Ne  altramente  veggo  aver  fatto 
nella  sua  storia  de'  popoli  Mr.  Rollin;3  che  per  tal  via  in  non 
molti  volumi  ha  chiusi  con  lucido  ordine  tanti  e  si  vari  nomi  ed 
awenimenti. 

Piano  formato  per  ques?  opera  e  su  qual  esempio.  -  II  piano  che 
adotto  in  ogni  luogo,  e  simile  a  quel  che  si  formo  il  ch.  sig.  An 
tonio  Maria  Zanetti4  nella  Pittura  veneziana,  opera  sommamente 

i.  Joseph  Pitton  de  Tournefort  (1656-1703),  botanico  francese,  creatore  di 
una  classificazione  delle  piante  basata  sulla  forma  della  corolla.  2.  ottimo . . . 
disegno:  allude  alia  Geschichte  der  Kunst  des  Altertums  (1764)*  tradotta  in 
italiano  da  Carlo  Fea  col  titolo  Storia  delle  arti  del  disegno  presso  gli  antichi 
(Roma  1783-1784),  nella  quale  sono  distintamente  e  successivamente  esa- 
minate  le  varie  civilta  artistiche  dell'antichita.  3.  Charles  Rollin  (1661- 
1741),  letterato  francese  di  orientamento  giansenistico,  autore  di  una 
Histoire  ancienne  (1730-1732)  e  di  una  Histoire  romaine  (1738),  condotte  con 
cnteri  pedagogico-morali.  4-  Letterato  veneto,  esperto  anche  nella  pra- 
tica  del  disegno  e  della  pittura.  Non  dee  confondersi  con  Antonio  Maria 
Zanetti,  incisore  eccellente,  che  rinnov6  1'arte  d'intagliare  in  legno  a 
piu  colori  trovata  da  Ugo  da  Carpi,  e  di  poi  perduta.  Scrisse  ancor  questi 
utilmente  per  le  belle  arti;  e  se  ne  leggono  Varie  lettere  nel  tomo  II  delle 
Letter  e  pittoriche  [o  sia  raccolta  di  lettere  su  la  pittura,  scultura  edarchitettura, 
Roma  1754-1773,  in  sette  tomi,  a  cura  di  G.Bottan].  Si  soscrive  « Antonio 
Maria  Zanetti  q.  Erasmo  » ;  ma  questo  e  un  errore  dell'editore ;  e  dee  leggersi 
« q.  Girolamo » ;  a  differenza  del  primo,  che  nominavasi «  del  q.  Alessandro  ». 
L'equivoco  fu  notato  dall'esatto  sig.  Vianelli  nel  Diario  della  Camera, 


1136  LUIGI   LANZI 

istruttiva  in  suo  genere  ed  ordinata.  Ci6  ch'egli  fa  nella  sua  scuola, 
io  Timito  in  tutte  le  altre  d'ltalia:  ometto  per6  i  pittori  viventi, 
ne"  dej  passati  conto  ogni  quadro,  cosa  che  distrae  dal  seguito  della 
storia,  e  non  pu6  chiudersi  in  cosi  pochi  volumi:  mi  contento  di 
lodarne  alcuni  migliori.  Di  ogni  scuola  do  nel  principio  il  caratte- 
re  generale.  Distinguo  di  poi  in  ciascuna  tre  o  quattro  o  piii  epoche, 
quanti  sono  i  cangiamenti  del  gusto  ch'ella  and6  facendo ;  non  altra- 
mente  che  nella  storia  civile  da'  cangiamenti  del  governo  o  da  altri 
memorabili  eventi  si  traggon  Fepoche.  Certi  pittori  di  gran  nome, 
che  con  una  quasi  legislazione  nuova  diedero  alFarte  altro  tuono, 
stanno  a  capo  di  ogni  periodo;  e  il  loro  stile  si  descrive  distesamen- 
te;  giacche  dal  lor  esempio  dipende  il  gusto  dominante  e  caratte- 
ristico  di  quel  tempo.  A'  migliori  maestri  si  annettono  i  loro  allievi 
e  la  propagazione  di  quella  scuola:  e  senza  ripetere  il  carattere  ge 
nerale  di  ogni  professore1  si  riferisce  quel  piu  o  meno  che  ciascuno 
ha  preso  o  cangiato  o  aggiunto  alia  maniera  del  caposcuola;  o  se 
non  altro  di  passaggio  e  con  poche  parole  se  ne  fa  menzione.  Que- 
sto  metodo  benche  incapace  di  una  esatta  cronologia,  nondimeno 
per  la  concatenazione  delle  idee  6  assai  piu  comodo  a  una  storia  di 
arte,  che  quello  degli  abbecedari,  che  troppo  distraggono  le  noti- 
zie  de'  luoghi  e  de'  tempi;2 o  quello  degli  annali,  i  quali  costringono 
talora  a  far  menzione  di  uno  scolare  prima  del  maestro  perch6  gli 
e  premorto;  o  quello  delle  vite,  le  quali  necessitano  lo  scrittore  a 
ripetere  assai  volte  le  stesse  cose,  lodando  il  discepolo  per  quello 
stile  onde  si  loda  il  maestro;  e  osservando  in  ogni  particolare  ci6 
che  &  generale  carattere  della  sua  eta. 

Pittura  inferiors  e  artifizi  diversi  che  soggiacciono  alia  pittura.  - 
Per  maggiore  distinzione  ho  comunemente  separati  da'  compositori 
d'istorie  gli  artefici  della  inferiore  pittura,3  siccome  sono  i  ritrat- 
tisti,  i  paesanti,  i  pittori  degli  animali,  de'  fiori,  delle  frutta, 


a  pag.  49  (L.)-  L'opera  dello  Zanetti  (1706-1778),  critico  attento  e  sensibile, 
e  esattamente  intitolata  Della  pittura  e  delle  opere  pubbliche  de'  veneziani 
maestri,  Venezia  1771  (ripubbhcata  con  aggiunte  nel  1792).  i.  profes 
sore:  artista.  2.  distraggono  .  .  .  tempi:  in  quanto  dispongono  gli  artisti 
per  ordme  alfabetico.  3.  inferiore  pittura:  il  Lanzi  accoglie,  come  del  resto 
in  genere  gli  altri  critici  figurativi  del  Settecento,  la  vecchia  distinzione 
intellettuahstica  fra  arte  « superiore  »,  di  argomento  stonco  e  allegorico,  e 
arte  « inferiore »,  i  cui  argomenti  sono  specificati  subito  dopo. 


STORIA   PITTORICA   BELLA   ITALIA  1137 

delle  marine,  delle  prospettive,  delle  bambocciate,1  e  se  vi  e  altro 
che  meriti  luogo  in  questa  classe.  Ho  pur  considerati  certi  altri  arti- 
fizi  che,  quantunque  sian  diversi  dalla  pittura,  o  per  la  materia  in 
cui  si  eseguiscono,  o  per  la  maniera  con  cui  si  conducono ;  pure  in 
qualche  modo  si  possono  ad  essa  ridurre :  per  figura2  la  stampa,  la 
tarsia,  il  musaico,  il  ricamo;  delle  quali  cose  e  di  altre  simili  il  Va- 
sari,  il  Lomazzo3  e  gli  altri  che  hanno  scritto  di  belle  arti,  fecero 
pur  menzione.  E  menzione  ne  fo  io  similmente ;  contento  d'indicare 
in  ognuna  di  queste  arti  ci6  che  mi  e  paruto  piu  degno  da  risapersi. 
Nel  resto  elle  potrebbon  esser  soggetto  d'istorie  a  parte;  e  alcuna 
di  esse  ha  i  suoi  propri  storici  gia  da  vari  anni,  particolarmente 
la  stampa. 

Non  doversi  excluder  e  dalla  storia  i  mediocrL  -  Col  metodo  espres 
so  finora  io  non  dispero  di  dovere  appagare  i  miei  leggitori; 
avendone  si  chiari  esempi.  Piu  e  da  temere  che  io  non  dispiaccia 
nella  scelta  degli  artefici;  il  cui  numero,  qualunque  via  si  tenga, 
ad  altri  dee  parere  soverchiamente  ristretto,  ad  altri  soverchiamente 
ampliato.  La  critica  non  cadra  cosi  facilmente  ne  sopra  i  piu  ec- 
cellenti,  che  io  spero  di  avere  considerati ;  n£  sopra  i  piu  deboli,  che 
io  spero  di  avere  omessi;  toltine  alcuni,  i  quali  per  larelazione  che 
hanno  con  gli  eccellenti  mette  qualche  volta  bene  di  nominargli.4 
Adunque  la  querela  o  del  mio  dire  o  del  mio  tacere  cadra  sopra 
quel  ceto  di  mezzo,  che  non  compone,  dir6  cosi,  ne  il  senato,  ne 
Tordine  equestre,  ne  il  piu  basso  popolo  de'  pittori;  compone  il 
grado  de'  mediocri.  Una  gran  parte  delle  liti  aggirasi  intorno  a' 
confini ;  e  quasi  una  lite  di  confini  e  questa  di  cui  scriviamo.  Spesso 
di  un  pittore  si  pu6  controvertere  s'egli  piu  awicmisi  a'  buoni  o  a' 
cattivi;  e  per  conseguenza  se  deggia  in  una  storia  d'arte  o  non 
deggia  aver  luogo.  In  tali  dubbi,  che  scrivendo  mi  son  sorti  non 
poche  volte,  ho  maggiormente  inclinato  al  partito  piu  mite  che  al 


i.  bambocciate:  con  questo  termine  (derivato  da « Bamboccio »,  soprannome 
del  pittore  Pieter  van  Laer,  che  oper6  in  Roma  nella  prima  meta  del  Sei- 
cento)  si  designa  un  genere  di  pittura  volto  a  rappresentare  scene  di  strada, 
di  taverna,  di  mercato,  di  zingari  e  simili.  2.  per  figura:  per  esempio. 
3.  Sul  Lomazzo  cfr.  la  nota  2  a  p.  833.  4.  Un  dilettante  che  non  sappia 
esservi  stati  piu  Vecelli  e  Bassani  e  Caracci  che  dipinsero,  non  avra  mai 
piena  notizia  di  queste  famiglie  pittoriche ;  n6  sapra  ben  ragionare  su  certi 
quadri,  che  arrestano  il  volgo,  solamente  perchd  con  tutta  venta  vantano 
un  nome  grande  (L.)- 


1138  LUIGI    LANZI 

piu  severe,  specialmente  in  coloro  che  son  gia  in  possesso  della 
storia,  essendo  nominati  con  qualche  onore  dagli  scrittori.  Mi  e 
paruto  di  dover  seguire  il  genio  del  pubblico,  che  rare  volte  ci  ac- 
cusa  di  aver  fatta  menzione  de'  mediocri;  spesso  di  averne  tenuto 
silenzio.  I  libri  di  pittura  son  pieni  di  querele  verso  1'Orlandi  e  il 
Guarienti1  perche  abbian  taciuto  questo  o  quell'altro.  Spesso  anche 
contro  di  loro  si  garrisce  in  chiesa,  quando  la  Guida  di  una  citta  ad- 
dita  una  tavola  di  altare  di  un  cittadino  che  negli  abbecedari  sia  pre- 
termesso.  Ripetono  tali  questioni2  gl'illustratori  delle  gallerie  a  ogni 
quadro  soscritto'da  qualche  artefice  non  mentovato  in  verun  libro. 
Lo  stesso  fanno  i  dilettanti  delle  stampe,  quando  a  pie  di  esse  leggo- 
no  il  nome  di  un  inventore,  di  cui  tace  la  storia.  Cosi,  se  avessero  a 
raccorsi  i  voti  del  pubblico,  molti  piu  sarebbono  coloro  che  mi  con- 
siglierebbono  a  una  certa  pienezza,  che  gli  altri  a'  quali  piacesse 
molto  rigore  e  molta  scelta.  Quasi  poi  tutti  i  pittori  e  i  dilettanti  di 
ogni  citta  mi  animerebbono  a  nominare  quanti  piu  potessi  dej  me 
diocri  loro  municipal! :  perciocche  la  scelta  di  cui  parliamo  e  molto 
simile  alia  giustizia;  che  lodasi  finche  si  esercita  in  casa  d'altri,  ma 
ognuno  quando  picchia  al  suo  uscio  la  disgradisce.  Quindi  uno 
scrittore  che  de'  ugualmente  servire  ad  ogm  citta,  non  pu6  esser 
molto  severo  verso  i  mediocri  di  veruna.  Si  aggiunge  a  cio  la  ra- 
gione.  Perciocch6  tacere  il  mediocre  e  industria  di  buon  oratore, 
non  uffizio  di  buon  istorico.  Cicerone  istesso  nel  libro  De  claris 
oratoribus3  diede  luogo  a'  dicitori  di  men  talento ;  e  su  questo  esem- 
pio  osservo  che  la  storia  letteraria  di  ogni  nazione  non  considera 
solamente  i  suoi  classici  scrittori  e  quegli  che  loro  si  awicinarono ; 
a£giugne  anche  notizie,  almeno  brevi  e  concise,  degli  autori  di 
minor  fama.  Anche  nella  Iliade,  ch'e  una  storia  de'  tempi  eroici, 
pochi  sono  i  sommi  duci,  molti  i  buoni  soldati,  moltissimi  i  men 
valorosi,  che  il  poeta  non  nomina  se  non  di  fuga.  E  nel  caso  nostro 
e  anche  piu  necessario  inserire  a*  buoni  ed  agli  ottimi  i  mediocri. 
Questi  in  molti  libri  son  descritti  con  termini  cosi  vaghi,  e  talora 
cosi  alterati,  che  a  formar  giudizio  del  grado  loro  convien  introdur- 
gli  presso  i  miglior  pittori  quasi  come  attori  di  terze  parti.  N6  per- 
ci6  mi  son  messo  in  gran  pena  di  ricercargli  per  minuto;  special- 

i.  Antonio  Pellegrino  Orlandi,  autore  di  un  Abecedario  pittorico,  Bologna 
1702,  ristampato  con  correziom  e  nuove  notizie  da  Pietro  Guarienti,  a 
Venezia  nel  1753.  2.  questioni:  lamenti.  3.  De  claris  oratonbus:  il 
Brutus. 


STORIA   PITTORICA  DELLA   ITALIA  1139 

mente  ove  trattisi  di  frescanti,  e  generalmente  di  artefici  che  alle 
quadrerie  non  son  noti  oggimai  per  lavori  superstiti,  o  ad  esse  fan 
pieno  piu  che  decoro.  Cosi  anche  nel  numero  ho  mantenuto  alia 
mia  istoria  il  carattere  di  compendiosa.  Che  se  qualche  lettore, 
adottando  la  rigida  massima  del  Bellori,  che  in  belle  arti,  come  in 
poesia,  non  si  tollera  mediocrita;1  il  margine  fara  verso  lui  ci6  che 
in  una  piazza  folta  di  popolo  fanno  i  nomenclatori :  esso  gii  addi- 
tera  dove  stiano  i  capi  delle  scuole  e  i  pittori  piu  degni:  a  loro  si 
awicini,  con  loro  si  fermi,  e  dagli  altri  rivolga  il  guardo  come 
uomo, 

.  .  .  cut  altra  cura  stringa  e  morda, 
che  quella  di  colui  che  gli  e  davante. 

(Dante.)2 

Col  metodo  detto  si  soddisfd  ai  tre  oggetti  dell 'opera,  i.  Si  prov- 
vede  alia  storia  d*  Italia.  -  Descritto  il  metodo,  torno  ai  tre  oggetti 
che  mi  proposi  da  principio;  il  primo  dei  quali  era  fornire  una 
storia  alia  Italia,  che  interessa  la  sua  gloria.  Questo  bel  tratto  di 
paese  ha  gia,  merc6  del  cav.  Tiraboschi,  la  storia  delle  sue  lettere; 
ma  desidera  ancora  quella  delle  sue  arti.  lo  ne  tesso,  o  se  cib  par 
troppo,  ne  agevolo  quel  ramo  in  cui  ella  non  ha  rivali.  In  certi 
generi  e  di  letteratura  e  di  belle  arti  o  siamo  uguagliati  da  esteri, 
o  ne  siam  vinti,  o  ci  si  disputa  almeno  la  corona  e  la  palma.  In  pit- 
tura  pare  oggimai  per  consenso  di  tutte  le  genti  che  gFingegni  ita- 

i.  V.  la  prefazione  alle  Vite  [p.  5].  Non  ammetto  questo  principio.  Orazio 

10  com6  per  la  sola  poesia,  perche  e  una  facolta  che  perisce  se  non  diletta; 
per  contrario  1'architettura  anche  non  dilettando  ha  grande  utile,  prepa- 
randoci  ove  abitare;  la  pittura  e  la  scultura,  conservandoci  le  sembianze 
degli  uomini  e  de'  fatti  illustn.  £  anche  da  awertire  che  Orazio  sconsiglia 
dal  produrre  mediocri  poesie,  perche  non  hanno  spaccio  (« non  concessere 
columnae»  [«non  lo  concessero  le  edicole  dei  Hbrai»,  cfr.  Ars  poet.,  373]): 
non  e  cosi  delle  mediocri  pitture.  Ognuno  in  qualunque  paese  pu6  leggere 

11  Petrarca,  il  Tasso,  1'Ariosto;  e  se  mai  non  lesse  un  poeta  mediocre,, 
scrivera  meglio  di  chi  gli  abbia  letti  tutti:  ma  non  ognuno  puo  avere  o  nelle 
case  o  nej  tempii  del  suo  paese  i  buoni  pittori;  e  al  culto  e  airornamento 
soddisfan  pure  i  non  eccellenti :  cosi  anche  questi  ed  hanno  e  fanno  qualche 
utile  (L.).  Giovanni  Pietro  Bellori  (1615-1696),  autore  di  important!  opere 
teoriche  e  critiche,  ispirate  ad  un  classicismo  antibarocco  e  platonizzante 
che  prelude  al  neoclassicismo  winckelmanniano :  Vite  dey  pittori,  scultori  e 
architetti  moderni,  Roma  1672  (n  edizione,  Roma  1728,  da  cui  cita  il  Lanzi) ; 
Vita  del  cav.  Carlo  Maratta,  Roma  1732;  Descrizione  delle  immagini  dipinte 
da  Raffaello  d'UrUno  nel  Palazzo   Vaticano,  Roma   1695   (n  edizione, 
Roma  1751).     2.  Inf.,  ix,  102-3. 


1140  LUIGI   LANZI 

Hani  abbiano  preso  il  posto;  e  che  gli  estranei  tanto  sian  piu  in 
istima,  quanto  piu  si  awicinano  a'  nostri.  Era  dunque  decoroso 
alia  Italia  recare  in  un  sol  luogo  ci6  che  della  sua  pittura  era  sparse 
in  moltissimi  volumi,  e  dare  a  queste  cose  quella  che  da  Orazio  fu 
detta  «series  et  junctura»,  senza  la  quale  non  pu6  essere  n<§  dirsi 
storia.1  Al  che  fare  non  tacer6  che  ben  piu  volte  a  voce  e  per  lettere 
mi  anim6  il  predetto  autor  della  Storia  della  italiana  letteratura, 
quasi  a  un  seguito  della  sua  opera.  Desider6  in  oltre  che  si  aggiu- 
gnesser  notizie  aneddote  alle  gia  divolgate;  e  alle  scorrette,  che  ri- 
siedono  negli  abbecedari  massimamente,  si  sostituissero  altre  di 
miglior  nota. 

L'uno  e  Paltro  si  e  fatto.  II  lettore  trovera  qui  varie  scuole  da 
niun  altro  descritte;  ed  una  intera,  cioe  la  ferrarese,  tratta  da'  mss. 
del  Baruffaldi  e  del  Crespi  ;2  e  in  altre  non  di  rado  leggera  nomi  e  no 
tizie  di  artefici,  che  adunai  or  da  mss.  antichi,3  or  dalla  tradizione, 
or  dal  carteggio  de'  dotti  amici,  or  dalle  soscrizioni  delle  vecchie 
pitture :  se  queste  son  mobili  da  gabinetti,  non  e  inutile  ampliar  la 
cognizione  de'  loro  autori.  Vi  trovera  in  oltre  non  poche  nuove  os- 
servazioni  su  le  origini  della  pittura  e  su  la  propagazione  di  essa 
per  tutta  Italia,  soggetto  antico  di  dispute  e  di  litigi;  e  a  tratto  a 
tratto  nuove  riflessioni  sul  maestro  di  questo  o  di  quel  pittore; 
ch'e  la  parte  della  storia  la  piu  favolosa.  Spesso  i  nostri  buoni  an 
tichi  assegnarono  per  maestro  a  certuni  Raffaello  o  Coreggio  o 


i,  «Series  iuncturaque  pollet»  [«importa  1'ordinata  disposizione  e  la  con- 
giunzione»],  Herat.,  De  art.  poet.,  v.  242.  Abbiamo  preso  questo  emistichio 
per  motto  di  tutta  1' opera;  poich6  qualunque  ella  siasi  nel  rimanente,  qual- 
che  comrnendazione  riceve  dalTordine  e  dal  legamento  che  abbiam  dato 
a  tante  notizie  qua  e  la  sparse,  onde  tesserne  una  istoria  (L.)-  2.  Le  Vite 
de'  pittori  e  scultori  ferraresi,  composte  dall'erudito  ferrarese  Girolamo 
Baruffaldi  (1675-1755)  fra  il  1697  e  il  1722,  furono  in  seguito  pubblicate  a 
Ferrara  nel  1844;  il  pittore  Luigi  Crespi  (1709-1779)  e  noto  come  autore 
di  Vite  de'  pittori  bolognesi  non  descritte  nella  « Felsina  pittrice » (Roma  1769), 
continuazione  delF opera  del  Malvasia;  ma  Topera  manoscritta  a  cui  allude 
il  Lanzi  e  intitolata  (come  risulta  dal  terzo  indice)  Note  e  aggiunte  alle «  Vite  » 
del  Baruffaldi.  3.  In  quest'ultima  edizione  molto  ha  contribuito  al  miglio- 
ramento  dell3 opera  il  sig.  principe  Fihppo  Ercolani,  che  avendo  comprati 
dagli  eredi  del  sig.  Marcello  Oretti  52  tomi  di  mss.  che  quell' indefesso 
amatore  studiando,  viaggiando,  osservando  molto  avea  compilati  su  i  pro- 
fessori  delle  belle  arti  e  la  loro  eta  e  i  lor  lavori,  se  n'e  potuto  far  uso  in  al- 
cune  note  del  sig.  cav.  Lazara,  che  si  e  compiaciuto  prender  cura  di  questa 
edizione.  Alia  gentilezza  e  al  trasporto  che  questi  due  signori  hanno  per  la 
pittura  dovra  anche  il  pubblico  molte  notizie  inedite  finora  o  men  bene 
divolgate  (L.). 


STORIA   PITTORICA  DELLA   ITALIA  1141 

altro  grand'uomo,  senz'altro  fondamento  che  di  uno  stile  con- 
forme  ;  quasi  come  la  credula  gentilita  favoleggi6  che  un  eroe  fosse 
figliuolo  di  Ercole  perche  prode,  un  altro  di  Mercurio  perche  in- 
gegnoso,  un  altro  di  Nettuno  perche  venuto  a  capo  di  lunghe  navi- 
gazioni.  E  questi  scambi  facilmente  si  emendano  quando  van  con- 
giunti  con  qualche  inawertenza  degli  scrittori;  v.  gr.1  quando  non 
awertirono  che  la  eta  del  discepolo  non  si  affa  a  quella  del  preteso 
istruttore.  Talora  per6  non  son  facili  ad  emendarsi;  e  allora  massi- 
mamente  quando  il  pittore,  la  cui  nobilta  nelTarte  dipende  tutta 
dalla  nobilta  del  maestro,  si  spacci6  in  paesi  esteri  scolare  di  que- 
sto  o  di  quel  valentuomo  che  conobbe  appena  di  vista;  cosa  che 
leggiamo  di  Agostino  Tassi,2  e  che  udimmo  a*  di  nostri  di  certi 
«sedicenti  discepoli  di  Mengs»;  a*  quali  raccontasi  appena  ch'egli 
dicesse  una  volta:  «Sig.  N.  N.,  io  vi  saluto». 

Per  ultimo  trovera  qui  il  lettore  alcune  men  owie  notizie  su  la 
nomenclatura,  su  la  patria,  su  la  eta  degli  artefici.  £  querela  comune 
che  gli  abbecedari  finora  editi  manchino  di  nomi  che  interessano> 
e  di  esattezza.  Io  scuso  molto  i  compilatori  di  queste  opere;  avendo 
sperimentato  quanto  facilmente  si  erri  in  nomi  raccolti  spesso  dalla 
bocca  del  volgo,  o  anche  da  scrittori  che  gli  enunziarono  diversa- 
mente;  ma  e  giusto  che  a  si  fatte  sviste  si  rimedi  una  volta.  Or  Tin- 
dice  di  quest' opera  presentera  quasi  un  nuovo  abbecedario  pitto- 
rico  piu  copioso  certamente  e  forse  meno  scorretto  degli  altri;  quan- 
tunque  capace  di  essere  migliorato  molto,  specialmente  colFaiuto 
degli  archivi  e  de'  mss.3 

2.  Si  giova  alVarte.  -  II  second' oggetto  ch'ebbi  in  mira  fu  in 
quanto  potessi  giovare  all'arte.  6  antico  dettato  che  ad  ogni  arte 
gli  esempi  maggiormente  giovino  che  i  precetti;  ma  cio  della  pit- 
tura  si  verifica  piu  espressamente.  Chiunque  ne  scriva  istoria  su  la 
norma  de'  dotti  antichi  dee  non  sol  narrarne  i  successi,4  ma  de' 
successi  indagare  le  occulte  origini.  Or  le  cagioni  onde  la  pittura  si 
e  avanzata,  owero  e  tornata  indietro,  si  troveranno  qui  in  ogni 
scuola;  ed  essendo  sempre  le  stesse,  insegneranno  col  fatto  cio  che 
voglia  farsi  e  schivarsi  a  promoverne  1'avanzamento.  Tali  notizie 

i.v.gr.:  verbigrazia.     2.  Agostino   Tassi:  pittore  perugino   (1566-1642). 

3.  Tralascio  una  lunga  nota  del  Lanzi,  in  cui  egli  accenna  ad  errori  com- 
messi  dal  Vasari,  dall'Orlandi,  dal  Guarienti,  dal  Crespi  e  da  altri  studiosi. 

4.  successi:  awenimenti. 


1142  LUIGI   LANZI 

non  riguardano  i  soli  artefici,  ma  gli  altri  ancora.  Osservo  nella 
scuola  romana,  alia  seconda  epoca,  che  il  progresso  delle  arti  di- 
pende  sempre  da  certe  massime  adottate  universalmente  dal  seco- 
lo;1  secondo  le  quali  opera  il  professore*  e  giudica  il  pubblico.  A 
render  comuni  e  ad  accreditare  le  miglior  massime  assai  e  con- 
ducente  una  storia  generale  che  le  suggelli.  Cosi  e  gli  artefici  in 
operare,  e  gli  altri  in  approvare  o  in  dirigere  avranno  principii  non 
incerti,  non  controversi,  non  dedotti  dal  gusto  di  una  o  di  un'altra 
scuola;  ma  certi  e  sicuri  e  fondati  su  la  esperienza  costante  di  tanti 
luoghi  e  di  tanti  secoli.  Aggiungasi  che  in  si  varia  istoria  si  trove- 
ranno  esempi  moltiplici,  e  da  adattarsi  a'  diversi  ingegni  degli 
studenti,  che  talora  solo  per  questo  non  si  avanzano,  ch'essi  non 
premono  il  sentiero  per  cui  natura  gli  avea  fatti.  Fin  qui  degli 
esempi.  Che  se  altri  desidera  anche  precetti,  gli  avra  in  ogni  scuola, 
non  gia  da  me;  ma  si  da  coloro  che  meglio  scrissero  in  pittura, 
e  che  io  in  proposito  di  questo  e  di  quel  maestro  ho  raccolti; 
come  diro  in  altro  luogo.3 

3.  Si  agevola  la  cognizione  degli  stili  pittorici.  -  II  terz'oggetto 
che  mi  proposi,  fu  agevolare  la  cognizione  delle  maniere  pittoriche. 
E  veramente  Fartefice  o  il  dilettante,  che  ha  letto  in  poco  le  ma 
niere  di  ogni  eta  e  di  ogni  scuola,  abbattendosi  a  una  pittura,  piu 
agevolmente  la  ridurra  se  non  ad  un  certo  autore,  almeno  ad  un  cer- 
to  gusto ;  siccome  fan  gli  antiquari,  qualor  assegnano  una  scrittura 
ad  un  dato  secolo,  riguardatane  la  carta  e  il  carattere;  o  come  i  cri- 
tici,  qualora  considerato  il  fraseggiare  di  un  anonimo  congetturano 
del  tempo  e  del  luogo  in  cui  visse.  Con  tal  lume  si  precede  poi  alia 
ricerca  de*  pittori  che  in  quella  scuola  e  in  quell' epoca  son  vivuti;  e 
continuandosi  a  far  diligenze  su  le  stampe,  su  i  disegni,  su  di  altre 
reliquie  di  quella  eta,  si  vien  talora  in  cognizione  del  vero  autore. 
La  maggior  parte  de'  dubbi  su  le  pitture  non  si  raggira  se  non  cir- 


i.  osservo  .  .  .  secolo:  cfr.  Storia  pittorica  della  Italia  ecc.,  ed.  cit.,  II,  pp. 
41-2:  «  Quanto  a  me  io  son  cTawiso  che  i  secoli  sian  formati  sempre  da  certe 
massime  ricevute  universalmente  e  da'  professori  e  da'  dilettanti,  le  quali 
incontrandosi  in  qualche  tempo  ad  essere  le  piu  vere  e  le  piu  giuste,  for- 
mano  a  quella  eta  alquanti  straordinari  professori,  e  moltissimi  de'  buoni : 
varian  le  massime,  com'e  forza  per  la  umana  instabilita;  ed  ecco  variato  il 
secolo ».  2.  professore:  artista.  3.  in  altro  luogo:  nel  penultimo  paragrafo, 
intitolato  Giudizi  de*  pittori  onde  tratti  e  come  trascelti  (qui  a  p.  1146). 


STORIA   PITTORICA   DELLA   ITALIA  1143 

ca  agli  autori  fra  loro  simili:  questi  io  riunisco  in  un  luogo  solo,  no- 
tando  pure  in  die  Puno  differisca  dall'altro.  Spesso  si  tituba  pa- 
ragonando  un  autore  seco  medesimo ;  quando  sembra  che  uno  stile 
non  convenga  o  alia  solita  maniera  o  al  gran  nome  di  un  professore. 
Per  tali  dubbiezze  comunemente  io  noto  il  maestro  di  ciascheduno ; 
giacche  da  principio  ognun  seguita  le  tracce  della  sua  scorta:  noto 
inoltre  la  maniera  che  si  form6,  e  che  mantenne  costantemente,  o 
mut6  in  altra:  noto  talora  Peta  che  visse,  e  il  maggiore  o  minore  im~ 
pegno  con  cui  dipinse;  onde  non  corrasi  a  condannare  di  falsita  una 
pittura  che  pote  esser  fatta  in  eta  avanzata,  o  esser  condotta  con 
negligenza.  Chi  e  per  atto  di  esempio  che  possa  ricevere  per  legit- 
time  tutte  le  opere  di  Guido1  s'egli  non  sappia  che  Guido  or  segui 
i  Caracci,  ora  Calvart,2  or  Caravaggio,  or  se  stesso,  ne  ugualmente 
somiglio  se  stesso,  quando  fino  a  tre  quadri  compie  in  un  giorno  ? 
Chi  pu6  sospettare  che  Giordano  sia  un  pittor  solo,  quando  non 
sappia  ch'egli  aspira  a  trasformarsi  ora  in  uno  degli  antichi,  ora  in 
altro  ?  E  questi  son  troppo  noti :  ma  quanti  altri  sono  i  men  noti,  e 
tuttavia  non  indegni  che  si  additino  per  non  cadere  in  errore  ?  Or 
essi  qui  si  potran  conoscere,  ove  di  tanti  professor!  e  di  tanti  stili 
si  da  contezza. 

Regole  per  discerner  le  copie  dagli  originali.  -  Io  so  che  la  cogni- 
zion  erudita  di  vari  stili  non  e  Fultimo  termine  a  cui  mirano  i 
viaggi  e  le  premure  di  un  curioso;  e  di  conoscer  le  mani  d'ogni 
pittore  almeno  piu  celebre,  e  di  discernere  gli  originali  dalle  copie. 
Felice  me,  se  io  potessi  prometter  tanto!  Anzi  felici  que'  medesimi 
che  la  vita  consumano  in  tale  studio,  se  vi  fosser  regole  brevi,  uni- 
versali,  sicure,  per  decidere  sempre  con  verita!  Molto  deferiscono3 
alcuni  alia  storia.  Ma  quante  volte  interviene  che  si  citi  un  istorico 
a  favor  di  un  quadro  di  una  chiesa  o  di  una  famiglia,  che  venduto 
da1  maggiori  e  sostituita  in  sua  vece  una  buona  copia,  si  e  tor- 
nato  poi  a  credere  un  originale!  Alcuni  altri  molto  si  regolano 
con  la  dignita  de*  luoghi,  e  stentano  a  dubitare  che  quanto  ve- 
desi  in  gallerie  scelte  e  sovrane  non  sia  veramente  di  coloro  a* 
quali  gli  ascrivono  le  descrizioni  e  i  catalogi  delle  medesime.  Ma 

i.  Guido  Reni.  2.  Denijs  Calvaert  (1540-1619),  pittore  fiammingo,  che 
Iavor6  molto  in  Italia,  e  specialmente  a  Bologna,  dove  fond6  una  scuola  in 
cui  ebbe  allievi,  oltre  il  Reni,  anche  il  Domenichino  e  1'Albani.  3,  Molto 
deferiscono:  attribuiscono  molta  importanza. 


1144  LUIGI    LANZI 

qui  ancora  pub  errarsi:  poiche  alcuni  non  pur  privati  ma  principi, 
non  potendo  acquistare  coH'oro  certe  pitture  di  antichi,  si  conten- 
tarono  or  delle  repliche  degli  scolari  piu  conformi  a  que'  maestri ; 
or  anche  delle  copie  fatte  da*  professori  che  i  medesimi  principi 
spedivano  qua  e  la  a  quest '  oggetto ;  come  Ridolfo  II,  per  addurne 
un  esempio  solo,  oper6  con  Giuseppe  Enzo  copista  egregio  (Bo- 
schini,  pag.  62;  e  Orlandi,  §  Gioseffo  Ains  di  Berna).1  Non  bastan 
dunque  le  prove  estrmseche  senza  la  intelligenza  delle  maniere. 
Ma  Facquistar  tale  intelligenza  e  frutto  solo  di  lungo  uso  e  di 
meditazioni  profonde  su  lo  stile  d'ogni  maestro;  ed  ecco  in  qual 
maniera  passo  a  passo  vi  si  perviene.3 

Si  dee  per  conoscere  un  autore  aver  notizia  del  suo  disegno ;  al 
che  aiutano  i  suoi  schizzi,  le  sue  tavole,  o  le  incisioni  almeno  di  esse, 
purche  sian  esatte.  Un  gran  conoscitore  di  stampe  ha  fatto  piu  della 
meta  del  cammino  per  essere  conoscitor  di  pitture :  chi  mira  a  que- 
sto  scopo,  negli  studi  notturni  rivolga  stampe,  rivolgale  ne'  diurni.3 
Cosi  I'occhio  va  abituandosi  a  quel  modo  di  contornare  o  di  scortar 
le  figure,  di  arieggiar  le  teste,  di  gettare  e  piegar  le  vesti;  a  quelle 
mosse,  a  quella  maniera  di  pensare,  di  disporre,  di  contrapporre 
ch'e  familiare  all'autore:  cosi  arriva  a  conoscere  quella  quasi  fami- 
glia  di  giovani,  di  putti,  di  vecchi,  di  donne,  d'uomini,  che  ogni 
pittore  ha  adottata  per  sua,  e  Pha  prodotta  ordinariamente  in 
iscena  ne'  suoi  dipinti.  Ne  in  questo  genere  pu6  mai  vedersi  a  ba~ 
stanza :  cosi  minute  e  poco  men  che  insensibili  son  talora  le  diffe- 
renze  che  discernono  un  imitatore  v.  gr.  di  Michelangiolo  da  un 
altro  imitatore;  avendo  ammendue  studiato  su  lo  stesso  cartone  e 
su  le  medesime  statue;  e  per  cosi  dire  imparato  a  scrivere  su  lo 
stesso  esemplare. 

Piu  di  originalita  suoi  trovarsi  nel  colorito,  parte  della  pittura, 
che  ognun  si  forma  per  certo  proprio  sentimento  piuttosto  che  per 
magistero  altrui.  II  dilettante  non  giugne  mai  a  fame  pratica,  che 
non  abbia  vedute  molte  opere  di  uno  stesso,  e  notato  seco  qual  ge 
nere  di  colori  ami  egli  fra  tutti ;  come  gli  comparta,  come  gli  awi- 

i.  Joseph  Heinz  (1564-1609),  italianizzato  in  Ains  o  Enzo,  pittore  di  corte 
delPimperatore  Rodolfo  II.  2.  V.  Mr.  Richardson,  Traiti  de  la  peinture, 
[ed.  cit],  torn,  n,  p.  LViir.  Mr.  d'Argenville,  Abregede  la  vie  des plus  fameux 
peintres,  [ed.  cit],  torn,  i,  p.  LXV  (L.).  3.  negli  studi ...  diurni:  adatta 
Orazio,  Ars  poet.y  268-9: « Vos  exemplaria  graeca  /  nocturna  versate  manu, 
versate  diurna». 


STORIA   PITTORICA   DELLA   ITALIA  1145 

cini,  come  gli  ammorzi;  quali  sian  le  sue  tinte  locali;  quale  il  tuono 
generale  con  die  armonizza  i  colori.  Questo  quantunque  sia  chiaro 
e  come  d'argento  in  Guido  e  nej  suoi,  dorato  in  Tiziano  e  ne'  tizia- 
neschi,  e  cosi  degli  altri;  ha  nondimeno  tante  modificazioni  di 
verse,  quanti  sono  gli  artefici.  Lo  stesso  dite  delle  mezze  tinte  e 
de'  chiariscuri,  ove  ognuno  tiene  un  suo  metodo. 

Tali  cose,  per6,  die  si  awertono  ancora  in  distanza,  non  bastano 
sempre  per  pronunciar  francamente  che  tale  opera  sia  del  Vinci, 
per  figura,  non  del  Luini,  che  in  tutto  il  seguita;  o  che  quell'altra 
sia  original  del  Barocci,  non  copia  esatta  del  Vanni.1 1  periti  awici- 
nansi  allora  al  quadro,  per  farvi  sopra  quelle  diligenze  che  si  co- 
stumano  nelle  giudicature,  quando  trattasi  della  ricognizione  di  un 
carattere.  La  natura  per  sicurezza  della  societa  civile  da  a  ciascuno 
nello  scrivere  un  girar  di  penna,  che  difficilmente  pu6  contraffarsi 
o  confondersi  del  tutto  con  altro  scritto.  Una  mano  awezza  a 
moversi  in  una  data  maniera,  tien  sempre  quella:  scrivendo  in 
vecchiaia  divien  piu  lenta,  piu  trascurata,  piu  pesante;  ma  non  can- 
gia  affatto  carattere.  Cosi  e  in  dipingere.  Ogni  pittore  non  si  di- 
scerne  solo  da  questo,  che  in  uno  si  nota  un  pennello  pieno,  in  al 
tro  un  pennello  secco ;  il  far  di  questo  e  a  tinte  unite,  di  quello  e  a 
tocco;  e  chi  posa  il  colore  in  un  modo,  e  chi  in  altro  ;*  ma  in  ci6 
medesimo  che  a  tanti  e  comune,  ciascuno  ha  di  proprio  un  an- 
damento  di  mano,  un  giro  di  pennello,  un  segnar  di  linee  piu  o  men 
curve,  piu  o  meno  franche,  piu  o  meno  studiate,  ch'e  proprio  suo : 
onde  i  veramente  periti  dopo  assai  anni  di  esperienza,  considerata 
ogni  cosa,  conoscono  e  in  certo  modo  sentono  che  qui  scrisse  il  tale 
o  il  tal  altro.  N6  essi  temono  di  un  copista  benche  eccellente.  Egli 


i.  Francesco  Vanni  (1565-1609),  pittore  senese,  del  quale  il  Lanzi  stesso 
dice :  « si  ferm6  nel  gentile  e  florido  del  Barocci,  in  cui  riusci  egregiamente  » 
(cfr.  Stona  pittorica  della  Italia  ecc.,  ed.  cit.,  I,  p.  361).  2.  « Alcuni  po- 
sarono  il  color  vergine  senza  confonder  Puno  con  P  altro ;  cosa  che  ben  si  ri- 
conosce  nel  secolo  di  Tiziano:  altri  lo  han  maneggiato  tutto  al  contrario, 
come  il  Coreggio:  il  quale  pos6  le  sue  maravigliose  tinte  in  modo  che, 
senza  conoscervi  lo  stento,  le  fece  appanre  fatte  con  Palito,  morbide,  sfu- 
mate,  senza  crudezza  di  dintorni,  e  con  tale  rilievo,  che  per  cosi  dire  arriva 
al  naturale.  II  Palma  vecchio  e  Lorenzo  Lotto  hanno  posato  il  color  fresco 
e  finite  Topere  loro  quanto  Gio.  Bellini;  ma  1'hanno  accresciute  e  caricate  di 
dintorni  e  di  morbidezza  in  sul  gusto  di  Tiziano  e  di  Giorgione.  Altri,  come 
il  Tintoretto,  nel  posare  il  colore  cosi  vergine  come  gli  antidetti  han  pro- 
ceduto  con  un  ardire  tanto  grande  che  ha  del  prodigioso,  etc. »,  Baldinucci, 
Lettere  pittor.,  [ed.  cit],  t.  n,  lett.  126  (L.). 


1146  LUIGI   LANZI 

terra  dietro  Toriginale  per  qualche  tempo,  ma  non  sempre;  dara 
delle  pennellate  franche,  ma  comunemente  timide,  servili  e  sten- 
tate;  non  potra  nascondere  a  lungo  andare  la  sua  liberta  che  gli  fa 
mescolare  la  propria  maniera  coll'altrui  in  quelle  cose  specialmente 
che  men  si  curano;  com'e  lo  stil  de'  capelli,  il  campo  o  Pindietro.1 
Veggasi  una  lettera  del  Baldinucci,  ch'e  la  126  fra  le  Pittorichez 
del  tomo  n,  ed  un'altra  del  Crespi,  ch'e  la  162  del  tomo  IV.  Giovano 
talora  certe  awertenze  su  la  tela  e  su  le  terre:  onde  alcuni  usano 
ancora  di  far  Panalisi  chimica  de'  colori  per  saperne  il  vero.  Ogni 
diligenza  e  lodevole  quando  si  tratta  di  un  punto  cosi  geloso, 
com'e  accertare  le  mani  de'  grandi  autori.  Da  queste  diligenze  di- 
pende  il  non  pagar  dieci  quello  che  appena  merita  due ;  il  non  col- 
locare  nelle  raccolte  piu  scelte  ci6  che  ad  esse  non  e  di  onore;  il 
dare  a'  curiosi  notizie  che  fanno  scienza,  non  pregiudizi  che  fanno 
errore;  come  spesso  awiene.  N£  e  maraviglia.  £  piu  raro  trovare 
un  vero  conoscitore,  che  un  pittor  buono.  fi  questa  un'abilita  a 
parte ;  vi  si  arriva  con  altri  studi ;  vi  si  cammina  con  altre  osserva- 
zioni:  il  poter  farle  e  di  pochi;  di  pochissimi  il  farle  con  frutto: 
ne  io  son  fra  loro.  Non  pretendo  adunque,  torno  a  ripetere,  di  formar 
con  quest5 opera  un  conoscitor  di  pitture  in  ogni  sua  parte;  aiuto 
solamente  a  divenir  tale  con  piu  facilita  e  piu  prestezza.  La  storia 
pittorica  e  quella  che  fa  la  base  di  un  conoscitore;  io  procuro  di 
unirgliela  perche  abbisogni  di  meno  libri;  di  abbreviargliela  si  che 
vi  spenda  men  tempo ;  e  di  ordinargliela  in  guisa  che  in  ogni  occor- 
renza  Tabbia  piu  sviluppata  e  piu  pronta. 

Giudizi  dey  pittori  onde  tratti  e  come  trascelti.  -  Resta  per  ulti 
mo  che  io  dia  conto  in  certo  modo  di  me  medesimo,  e  dej  giudizi 
che  io  porto  d'ogni  pittore,  non  essendo  un  di  loro.  E  veramente  se  i 
professori  di  quest Jarte  avesser  tanto  o  di  esercizio  o  di  ozio  a 
scrivere,  quanto  hanno  d'intelligenza,  ogni  altro  scrittore  dovria 
loro  cedere  il  campo.  La  proprieta  dej  vocaboli,  Tabilita  degli  ar- 
tefici  locali,  la  scelta  degli  esempi  son  cose  ordinariamente  piu  co- 
gnite  ad  un  pittor  mediocre,  che  a  un  dilettante  versato.  Ma  poiche* 
occupati  i  dipintori  a  colorire  le  tele  non  hanno  o  sapere  o  agio 


i.  In  pittura  il  campo  e  lo  spazio  su  cui  sono  distribuite  e  spiccano  le  fi 
gure;  Vindietro,  la  zona  dove  sono  le  figure  di  secondo  piano.  2.  Le  pit- 
toriche:  cioe  le  Letters  pittoriche  ecc.,  citate  alia  nota  4  di  p.  1135. 


STORIA   PITTORICA  DELLA   ITALIA  1147 

bastevole  a  vergar  le  carte,  conviene  che  a  questo  uffrzio  sottentrino 
altri,  assistiti  pero  da  loro.1 

Per  questo  scambievole  soccorso  che  il  pittore  ha  dato  aHJuomo 
di  lettere,  e  Puomo  di  lettere  al  pittore,  la  storia  dell'arte  si  e  avan- 
zata  molto ;  e  del  merito  di  ogni  miglior  maestro  si  e  scritto  in  guisa 
che  un  istorico  pu6  trattarne  oggimai  convenevolmente.  I  giudizi 
che  io  piu  ne  rispetto  son  quegli  che  immediatamente  vengono  da' 
professori.  Pochi  ne  leggiamo  di  Raffaello,  di  Tiziano,  di  Poussin, 
di  altri  sommi  maestri :  questi  mi  paiono  preziosi  e  degnissimi  che  se 
ne  faccia  conserva;  perche  d'ordinario  chi  meglio  fa  meglio  giudica. 
II  Vasari,  il  Lomazzo,  il  Passeri,  il  Ridolfi,  il  Boschini,  lo  Zanotti, 
il  Crespi2  meritano  forse  esame  in  alcuni  luoghi,  ove  lo  spirito  del 
partito  pote  sorprendergli ;  ma  finalmente  essi  avean  un  diritto 
piu  speciale  d'insegnarci,  perche  erano  del  mestiere.  II  Bellori,  il 
Baldinucci,  il  conte  Malvasia,  il  conte  Tassi3  e  simili  tengono  in 
questa  classe  un  inferior  rango;  e  tuttavia  non  mancano  di  autorita, 
perche  quantunque  dilettanti  raccolsero  i  giudizi  dej  professori  e 
del  pubblico.  E  tanto  basti  per  ora  degl'istorici  in  generale:  di 


I.  Convien  ricordarsi  che  « de  pictore,  sculptore,  fusore  iudicare  nisi  artifex 
non  potest »  [«  del  pittore,  dello  scultore  in  marmo  e  in  bronzo  non  pu6  giu- 
dicare  se  non  un  artefice »],  Plin.  Junior,  I,  epist.  io,  [4],  ma  intender  ci6  sana- 
mente;  cioe  di  alcune  ultime  finezze  dell'arte,  a  cui  non  giugne  1'occhio  di 
un  dilettante  per  quanto  si  supponga  erudito.  Nel  resto  se  una  figura  abbia 
belle  o  cattive  fattezze,  colorito  naturale  o  falso,  armonia,  espressione,  se  il 
gusto  sia  veneto  o  romano  o  cose  simili,  abbiam  noi  bisogno  sempre  che  un 
pittore  ce  lo  susurri  all'orecchio  ?  E  dove  ci  e  veramente  bisogno  del  giudizio 
di  un  artefice,  e  noi  letto  o  udito  lo  riferiamo ;  avra  meno  autorita  nel  nostro 
scritto  che  nella  sua  bocca  ?  (L.).  2-  Sul  Lomazzo  e  sul  Crespi  cfr.  la  nota  2  a 
p.  833  e  la  nota  zap.  1140;  a  Giovan  Battista  Passeri  (1610-1679),  pittore, 
si  devono  le  Vite  de1  pittori,  scultori  e  architetti  che  hanno  lavorato  in  Roma, 
morti  dal  1641  al  1673  (pubblicate  postume  da  G.  L.  Bianconi,  con  note 
di  G.  Bottari,  a  Roma,  Zempel,  1772;  e  recentemente  edite  sull'autografo 
da  J.  Hess,  Wien  u.  Leipzig  1934);  a  Carlo  Ridolfi  (1594-1658),  pittore, 
Le  meraviglie  delVarte  o  vero  Le  vite  degli  illustn  pittori  veneti  e  dello  Stato 
(Venezia  1648);  a  Marco  Boschini  (1613-1678),  pittore  e  incisore,  la  sin- 
golare  e  vivace  Carta  del  navegar  pitoresco  (Venezia  1660)  e  le  Ricche  mi 
ner  e  delta  pittura  veneziana  (Venezia  1664  e  1674),  che  e  la  prima  vera 
guida  artistica  di  Venezia;  a  Giampietro  Zanotti  (1674-1755),  pittore  e  xilo- 
grafo,  la  Stona  delV  Accademia  Clementina  di  Bologna  (Bologna  1739)- 
3.  Sul  Bellori  e  sul  Baldmucci  cfr.  la  nota  i  a  p.  1139  e  la  nota  2  a  p.  1131 ; 
Carlo  Cesare  Malvasia  (1616-1693),  scrisse  la  Felsina pi ttrice,  vite  de'  pittori 
bolognesi  (Bologna  1678),  polemica  esaltazione  del  Carracci,  e  altre  opere 
sulFarte  bolognese;  Francesco  Maria  Tassi  (1716-1782)  le  Vite  de'  pittori, 
scultori  e  architetti  bergamaschi  (Bergamo  179?)- 


1148  LUIGI   LANZI 

ciascun  di  essi  in  particolare  tornera  il  discorso  nelle  scuole  che 
ci  ban  descritte. 

Nel  dar  giudizio  di  ciascheduno  ho  scelto  il  partito  che  tenne 
Baillet1  quando  in  molti  tomi  diede  la  storia  delle  opere  che  si  chia- 
man  di  spirito;  ove  non  tanto  propone  il  suo  sentimento  quanto 
Taltrui.  Ho  dunque  raccolti  i  pareri  degPintendenti  che  si  hanno 
presso  gli  storici,  i  quali  storici  non  ho  creduto  di  citare  ogni  volta 
per  non  crescere  mole  al  libro;2  ne  di  considerargli  quando  mi 
han  recato  sospetto  di  scrivere  passionatamente.  In  oltre  ho  fatto 
uso  di  alcuni  critici  applauditi;  siccome  sono  il  Borghini,  il  Fresnoy, 
il  Richardson,  il  Bottari,  PAlgarotti,  il  Lazzarini,  il  Mengs3  ed 
altri  che  scrissero  dei  nostri  dipintori  piuttosto  giudizi  che  vite. 
Ho  fatta  stima  ancor  de'  viventi;  e  a  tal  effetto  ho  consultati  vari 
professori  dj Italia;  ho  sottoposto  a'  lor  occhi  il  mio  scritto;  ho 
segulto  il  consiglio  loro;  specialmente  ove  trattasi  di  disegno  e  di 
altre  parti  della  pittura,  delle  quali  la  giudicatura  e  il  sindacato 
risiede  presso  i  soli  artefici.  Ho  udito  anche  moltissimi  dej  dilet 
tanti,  che  in  certi  punti  non  veggon  meno  de'  professori;  anzi  da' 
professori  medesimi  sono  consultati  utilmente;  v.  gr.  nel  decoro 
delle  storie,  nella  proprieta  delPinventare  e  deiresprimere,  nella 


i.  Adrien  Baillet  (1649-1705),  erudito  francese,  autore  dell'opera  Juge- 
ments  des  savants  sur  les  principaux  ouvrages  des  auteurs  (1685-1686),  a 
cui  allude  il  Lanzi.  2.  L/abbondare  in  citazioni,  e  il  riferir  de'  libri  men 
owi  ogni  minuta  particolarita,  e  usanza  di  questi  ultimi  tempi,  a  cui  mi  sono 
conformato,  pare  a  me,  quanto  basta  nel  secondo  indice.  Ma  in  una  storia 
fatta  specialmente  per  istruire  e  per  piacere  a  chi  si  diletta  di  belle  arti, 
mi  e  paruto  di  non  interrompere  spesso  il  filo  del  racconto  con  la  testi- 
monianza  di  questo  o  di  qucllo.  I  libri  onde  traggo  le  notizie  di  ogni  pittore 
sono  indicati  neir opera  e  nel  primo  indice:  inculcargh  continuamente  a' 
lettori  saria  cosa  che  piacerebbe  a  un  di  loro,  ma  dispiacerebbe  a  cento 
altri  (L.).  3.  Sul  Richardson  cfr.  la  nota  i  a  p.  1134;  RafTaele  Borghini 
(1541-1588)  e  qui  ricordato  per  //  riposo  (Firenze  1584),  dialogo  di  orien- 
tamento  vasariano  su  question!  di  teoria  e  cntica  figurativa;  Charles-Al- 
phonse  du  Fresnoy  per  il  trattato  De  artegraphica  (Paris  1667,  ripubblicato 
da  Roger  de  Piles  nel  1673);  Giovanni  Bottari  (1689-1775)  per  i  Dialoghi 
sopra  le  ire  arti  del  disegno  (Lucca  1754),  in  cui  sono  interlocutori  il  Bellori 
e  il  pittore  Maratta;  Francesco  Algarotti  per  il  Saggio  sopra  la  pittura 
(Bologna  1762)  e  alcune  Letter  e  pure  intorno  alia  pittura;  Giovanni  Andrea 
Lazzarini  (1710-1801)  per  la  Dissertazione  sopra  Varte  della  pittura  (Pesaro 
1753),  che  TAlgarotti  tenne  presente  nel  Saggio  citato;  il  Mengs,  oltre  che 
per  la  lettera  Ad  un  amico  gia  ricordata,  per  le  Riflessioni  sopra  i  tre  gran 
pittoriRaffaello,  il  Correggio  e  Tiziano  e  sopra  gli  antichi  (pubblicate  per  la 
prima  volta  dal  d'Azara  nelle  Opere ,  Parma  1780). 


STORIA  PITTORICA   DELLA   ITALIA  1149 

imitazione  dell'antico,  nella  verita  del  colore.  Ne  ho  lasciato  di 
considerare  io  medesimo  una  gran  parte  delle  produzioni  migliori 
delle  scuole  italiane,  e  d'informarmi  nelle  citta  del  rango  che  ivi 
tengono  presso  gl'intendenti  i  loro  pittori  non  tanto  noti;  persuaso 
che  ivi  di  ognuno  si  forma  miglior  giudizio,  ove  piu  opere  se  ne 
veggono  e  ove  piu  spesso  che  altrove  e  da'  cittadini  e  dagli  esteri 
se  ne  favella.  Cosi  anche  ho  potuto  prowedere  alia  fama  di  non 
pochi  artefici;  i  quali  giacevan  dimenticati,  perche  lo  scrittor  della 
loro  scuola  o  non  si  era  abbattuto  a  vedergli;  o  avendone  sol  veduto 
qualche  debole  produzione  o  giovanil  tentative  in  una  citta,  nulla 
seppe  delle  opere  altrove  fatte  con  piu  metodo  e  in  eta  compiuta. 
Malgrado  tali  diligenze,  io  non  ardisco,  o  lettore,  di  commendarvi 
quest* opera  come  cosa  a  cui  molto  non  possa  aggiugnersi.  Non  e 
mai  awenuto  alle  storie  che  han  tanti  oggetti  di  nascer  perfette: 
elle  si  perfezionano  a  poco  a  poco :  chi  e  primo  in  esse  di  tempo, 
resta  in  fine  ultimo  di  autorita;  e  il  suo  maggior  merito  e  aver  data 
occasione  col  suo  esempio  ad  opere  piu  compiute.  Or  quanto  meno 
pu6  sperarsi  perfezione  in  un  compendio  di  tutte  ?  Mold  nomi  di 
artefici  e  di  scrittori  buoni  vi  troverete ;  ma  pu6  ammetterne  degli 
altri  omessi  per  mancanza  non  mai  di  stima,  sempre  di  tempo  o  di 
modo  da  considerargli.  Vi  leggerete  molti  giudizi,  ma  possono  en- 
trarvene  degli  altri.  Non  vi  e  autore,  di  cui  tutti  pensino  a  un  modo. 
Baillet  nominate,  non  6  gran  tempo,  lo  fa  vedere  de'  letterati;  e  chi 
credesse  pregio  dell'  opera,  potria  molto  piu  farlo  conoscere  de' 
pittori.  Ognuno  ha  i  suoi  principii:  il  Bonarruoti  proverbio  come 
goffo  Pietro  Perugino  ed  il  Francia,  lumi  delParte :  Guido,  se  credia- 
mo  agl'istorici,  dispiaceva  al  Cortona,  il  Caravaggio  allo  Zucchero,1 
il  Guercino  a  Guido;  e  quello  che  piu  sorprende,  Domenichino  al 
maggior  numero  de'  pittori  che  vivevano  in  Roma  quando  egli  vi 
fece  i  miglior  lavori.2  Se  que'  professori  avessero  scritto  de'  loro 
emoli,  o  gli  avrian  vituperati,  o  ne  avrian  detto  men  bene  che  non 


i .  Zucchero :  il  pittore  Federigo  Zuccaro  (i 542-1 602).  2.  Pietro  da  Cortona 
raccont6  al  Falconieri  che,  quando  fu  esposto  il  celebre  quadro  di  S.  Gi- 
rolamo  della  Carita,  «  ne  fu  detto  tanto  male  da  tutti  i  pittori  (che  allora  ne 
vivevano  molti  de'  grandi),  ch'egli  per  accreditarsi,  essendo  venuto  di 
poco  a  Roma,  ne  diceva  male  anch'egli ».  Cosl  attesta  il  Falconieri  medesimo 
(Lett,  pittor.,  [ed.  cit.],  torn,  n,  lett.  17)  e  continua  dicendo:  «La  tribuna 
di  S.  Andrea  della  Valle  (di  Domenichino)  e  ella  delle  belle  cose  che  sian 
qua  a  fresco  ?  e  pure  si  tratt6  di  metterci  i  muratori  co'  martelli  e  buttarla 
giu,  quando  egli  la  scoperse.  E  quando  egli  passava  per  quella  chiesa  si 


1150  LUIGI   LANZI 

ne  dicono  i  neutrali;  ed  ecco  come  un  dilettante  spessissime  volte 
dara  nel  segno  meglio  che  un  artefice,  perch6  il  primo  siegue  il 
pubblico  disappassionato,  il  secondo  si  lascia  scorgere  dalla  invi- 
dia  o  dalla  prevenzione.  Si  fatti  dispareri  durano  tuttavia  sopra 
mold  artefici,  che  secondo  i  vari  gusti,  non  altramente  che  i  cibi, 
piacciono  ad  uno,  spiacciono  a  un  altro.  Trovare  un  mezzo  che  sia 
esente  del  tutto  dalla  riprensione  di  questo  o  di  quel  partito  e 
tanto  possibile  quanto  accordare  i  pareri  degli  uomini,  che  si  mol- 
tiplicano  a  proporzione  delle  teste.  In  questa  discordanza  ho  cre- 
duto  bene  lasciar  da  banda  le  cose  piu  controverse;  seguir  nelle 
altre  il  parer  dei  piu ;  permettere  a  ognuno  di  tenere  opinioni  anche 
singolari;1  ma  non  frodare  il  lettore,  per  quanto  ho  potuto,  del  suo 
desiderio ;  ch'e  sapere  le  piu  autorevoli  e  le  piu  comuni.  Cosi  credo 
io  che  abbian  fatto  sempre  gli  antichi  quando  scrissero  de'  professo- 
ri  di  quelle  arti  delle  quali  essi  non  erano  che  dilettanti:  n6  pu6 
nascere  altronde  che  Tullio,  PHnio,  Quintiliano  parlino  degli  arte 
fici  greci  comunemente  d'una  stessa  maniera:  la  lor  voce  era  una 
perche  una  era  quella  del  pubblico.  So  che  non  e  facile  accertarla 
sempre  ne'  piu  moderni;  ma  non  e  si  difficile  circa  gli  altri,  suj 
quali  si  e  scritto  tanto.  So  inoltre  che  tal  voce  sempre  non  e  la  piu 


fermava  co'  suoi  scolari  a  guardarla ;  e  stringendosi  nelle  spalle  diceva  loro : 
"Non  mi  par  poi  d'essermi  portato  si  male"»  (L.).  i.  Le  piii  singolari  e 
piu  nuove  circa  i  nostri  pittori  si  posson  vedere  ne'  tre  tomi  di  Mr.  Cochin, 
confutato  in  alcune  Guide  di  citta  (come  nella  padovana  e  nella  parmense) 
e  convinto  assai  spesse  volte  di  errori  di  fatto.  6  anche  npreso  circa  le  cose 
di  Bologna  dal  canon.  Crespi  (Lett,  pitt.,  [ed.  cit.],  torn,  vn)  e  su  quelle  di 
Genova  dal  cav.  Ratti  nelle  Vite  de*  professori  di  quella  citta;  ove  comin- 
ciando  dalla  prefazione  si  notano  in  Cochin  gravissime  inawertenze.  Si 
aggiugne  ivi  che  quell'opera  fu  disapprovata  da  Watellet,  e  in  oltre  da 
Clerisseau,  e  da  altri  virtuosi  franzesi  allora  viventi ;  n6  credo  saria  piaciuta 
al  Fihbien,  al  de  Piles,  e  a  simili  maestri  della  miglior  critica.  Anche  1' Italia 
in  questi  ultimi  tempi  ha  prodotto  un  libro  che  in  piu  cose  di  belle  arti  mira 
a  rovesciare  le  antiche  idee.  II  suo  titolo  e :  Arte  di  vedere  secondo  i  principii 
di  Sulzer  e  di  Mengs.  L/autore,  chiamato  in  certi  fogli  periodici  di  Roma 
il  «Diogene  de'  nostri  tempi)),  ha  avuto  Fonore  di  varie  confutazioni  (v. 
la  Letter  a  in  difesa  del  cav.  Ratti,  a  pag.  1 1).  Autori  di  opinioni  stravaganti 
par  che  ambiscano  tal  gloria,  affinche*  il  mondo  parh  di  loro;  ma  i  letterati, 
se  non  deono  tacere  afFatto,  non  deon  esser  troppo  solleciti  di  compartir- 
nela.  «  Opmionum  commenta  delet  dies »  [« il  tempo  distrugge  le  opinioni 
fittizie »,  Cicerone,  Denat.  deor.,  n,  n,  5],  L.  -  Charles-Nicolas  Cochin  (1715- 
1790),  celebre  acquafortista,  e  autore  di  un  Voyage  en  Italie,  ou  Recueil 
de  notes  sur  les  ouvrages  d 'architecture,  de  peinture  et  de  sculpture  que  Von 
voit  dans  les  principals  miles  d'ltalie  (Paris  1759).  L'autore  delVArte  di 
vedere  secondo  i  principii  di  Sulzer  e  di  Mengs  e  naturalmente  il  Milizia. 


STORIA   PITTORICA   DELLA   ITALIA 

vera:  giacche  «spesso  awien  che  pieghi  /  I'opinion  corrente  in  peg- 
gior  parte)).1  Ma  ci6  in.  fatto  di  belle  arti  rade  volte  accade;2  n6 
fa  forza  contro  un  istorico  che  protesta  di  riferire  le  opinion! 
piu  comuni  senza  entrare  odiosamente  a  discutere  se  sian  le  piu 
vere. 


Divisione  deW  opera.  -  Divido  1'opera  in  sei  tomi;  e  incomincio 
col  primo  e  secondo  da  quella  parte  d' Italia,  che,  merce  del  Vinci, 
di  Michelangiolo  e  di  Raffaello,  fu  la  prima  a  splendere  e  ad  aver 
carattere  deciso  in  pittura:  questi  sono  i  principi  delle  due  scuole, 
fiorentina  e  romana;  alle  quali  annetto  per  vicinanza  le  altre  due, 
di  Siena  e  di  Napoli.  Poco  appresso  cominciarono  a  celebrarsi  in 
Italia  Giorgione  e  Tiziano  e  il  Coreggio ;  i  quali  tanto  vantaggiarono 
il  colorito  quanto  i  primi  il  disegno :  e  di  questi  luminari  della  Italia 
superiore  tratto  nelli  tomi  terzo  e  quarto ;  giacche  la  quantita  degli 
artefici  e  le  tante  aggiunte  di  questa  nuova  edizione  mi  hanno  con- 
sigliato  a  formar  due  volumi.  Succede  la  scuola  bolognese,  che  voile 
in  se  riunire  il  meglio  delle  altre  tutte:  da  essa  comincia  il  quinto 
volume,  e  vi  e  aggiunta  per  la  vicinanza  Ferrara  e  Talta  e  la  bassa 
Romagna.  Siegue  la  scuola  genovese,  che  piu  tardi  acquisto  la  sua 
celebrita;  e  il  Piemonte,  che  senz'avere  successione  di  scuola  si 
antica  come  altri  stati,  ha  per6  altri  meriti  considerabili  per  esser 
compresa  nella  storia  della  pittura.  Cosi  le  cinque  scuole  piu  illustri 
si  succedono  secondo  i  loro  natali;  come  nelPantica  pittura  tro- 
viam  segnate  prima  Tasiatica  e  la  ellenica;  e  questa  divisa  dipoi  in 
attica  e  sicionia;  alle  quali  succede  in  fine  la  romana.3  II  tomo  sesto 
ed  ultimo  contiene  i  vari  indici  indispensabili  a  render  1' opera  di 
maggior  uso  e  di  migliore  profitto.  NelPascrivere  i  soggetti  a  que 
sta  o  a  quell'altra  scuola  ho  avuto  riguardo,  piu  che  alia  lor  patria, 
a  certe  altre  circostanze;  quali  sono  la  educazione,  lo  stile,  e  spe- 


i.  Non  saprei  dire  a  chi  appartengano  questi  due  versi.  2.  Dello  stesso 
Apelle  si  legge  in  Plinio:  «vulgum  diligentiorem  iudicem  quam  se  prae- 
f erens  »  [« tnostrando  di  ritenere  il  pubbhco  giudice  piu  attento  di  se  stesso  », 
Nat.  hist.,  xxxv,  x,  84].  Veggasi  Carlo  Dati  nelle  Vite  de'  pittori  antichi, 
[Firenze  1667],  a  pag.  99,  ove  prova  con  autorita  e  con  esempi  che  il  giu- 
dizio  delle  arti  che  imitano  la  natura,  non  e  ristretto  a*  soli  penti.  Veggasi 
anche  il  Giunio,  Depictura  veterum  [Amsterdam  1637],  lib.  I,  cap.  5  (L.). 
3.  V.  mons.  Agucchi  in  un  frammento  presso  il  Bellori  nelle  Vite  de'  pit- 
tori,  scultori  e  architetti  moderni,  [ed.  cit.],  a  pag.  190  (L.). 


1152  LUIGI    LANZI 

cialmente  il  domicilio  e  la  istruzione  degli  allievi;  circostanze  pe- 
raltro  che  talora  si  trovano  cosi  temperate  e  miste,  che  piu  citta 
possono  contendere  per  un  pittore,  come  in  altri  tempi  si  facea  per 
Omero.  N6  in  tali  questioni  io  pretendo  di  entrar  giudice;  essendo 
il  mio  lavoro  unicamente  diretto  a  conoscere  le  vicende  che  la  pit- 
tura  ebbe  in  questo  o  in  quel  luogo,  e  gli  artefici  che  v'influirono ; 
non  a  decider  liti  odiose  e  aliene  dal  mio  scopo. 


I 
Giovanni  Cimabue.1 

Gio.  Cimabue  nato  di  nobil  lignaggio2  fu  architetto  e  pittore. 
Che  fosse  scolar  di  Giunta3  si  e  congetturato  a*  di  nostri  per 
questa  sola  ragione,  che  i  greci  ne  sapean  meno  che  gl'italiani. 
Converrebbe  prima  provare  che  lo  scolare  e  il  maestro  convivessero 
in  un  luogo  istesso:  il  che  dopo  le  osservazioni  addotte  alia  pag.  io 
mal  pu6  supporsi.4  Seguendo  la  luce  della  storia,  egli  apprese  Parte 
da  que'  greci,  che  furono  chiamati  in  Firenze;  e  secondo  il  Vasari 
dipinsero  in  S.  Maria  Novella.  Erra  per6  facendogli  operare  nella 
cappella  de'  Gondi  fabbricata  insieme  con  la  chiesa  tutta  un  secolo 
appresso;  e  dovea  dire  in  altra  cappella  sotto  la  chiesa,  ove  a  quelle 
greche  pitture  fu  dato  di  bianco,  e  sostituitene  delle  altre  da  un 
pittor  trecentista.5  Non  son  molti  anni  che  caduta  una  parte  del 
nuovo  intonaco,  ricomparvero  alcune  figure  di  que'  greci,  cose 
rozzissime.  Cimabue  par  che  gli  seguisse  ne*  suoi  prim'anni;  e 

i .  Dalla  Storia  pittorica  della  Italia  ecc.,  ed.  cit. ,  r,  pp.  1 5-8.  2.  V.  il  Baldi- 
nucci,  [Notizie  ecc.,  cit.],  t.  I,  pag.  17  della  edizione  fiorent.  del  1767,  ove 
dicesi  che  i  Cimabuoi  eran  anche  detti  Gualtien  (L.).  3.  Giunta  Pisano. 
4.  V.  nondimeno  il  Baldinucci,  nella  Vegha,  [Firenze,  Matini,  1690],  pag. 
87  (L.).  A  p.  io  il  Lanzi  espone  le  ragiom  per  cui  ritiene  che  quando  Cimabue 
venne  a  Pisa,  Giunta  fosse  lontano  da  quella  citt£  o  gia  morto.  5.  Leggesi 
nella  Prefazione  [di  G.  della  Valle,  su  cui  cfr.  la  nota  3  a  p.  1154]  alia 
edizione  senese  [1791-1794]  delle  Vite  del  Vasari,  a  pag.  17:  «A  Giunta  e 
agli  altri  pisam,  siccome  capi  di  scuola,  fu  data  la  prima  e  principale  di- 
rezione  di  pingere  la  Basilica  francescana;  e  della  loro  scuola  erano  o 
allievi  o  dipendenti  Cimabue  e  Giotto,  che  vi  fecero  varie  opere  impor 
tant!  ».  Giunta  fu  direttore  de'  suoi  aiuti  finch6  vi  stette ;  e  vi  sia  stato  an 
che  dopo  il  1236:  ma  come  supporlo  in  Assisi  finche  Cimabue  (che  nacque 
nel  1240,  e  and6  in  Assisi  intorno  al  1265)  potesse  da  lui  essere  istruito, 
e  aiutarlo,  e  succedergli  ?  E  quanto  piu  ripugna  tal  supposizione  in  Giotto, 
che  fu  invitato  ad  Assisi  « molti  anni  dopo»?  (Vasari),  L. 


STORIA   PITTORICA   DELLA    ITALIA  1153 

forse  allora  dipinse  il  S.  Francesco  e  le  picciole  istorie  che  lo  cir- 
condano  alia  chiesa  di  S.  Croce.1  Ma  quella  tavola,  comunque 
ascrivasi  a  Cimabue,  e,  se  io  non  erro,  d'incerto  autore ;  o  almeno 
non  ha  la  maniera  ne  il  colore  delle  opere  di  Cimabue  anche  gio- 
vanili.  Tal  e  la  S.  Cecilia,  con  gli  atti  del  suo  martirio,  che  dalla 
chiesa  della  Santa  pass6  a  quella  di  S.  Stefano;3  pittura  molto 
migliore  del  S.  Francesco. 

Comunque  siasi,  Giovanni  su  Fesempio  di  altr'italiani  del  suo 
secolo  vinse  la  greca  educazione,  la  quale  pare  che  fosse  di  an- 
darsi  Tun  Faltro  imitando,  senz'aggiugner  mai  nulla  alia  pratica  dej 
maestri.  Consulto  la  natura;  corresse  in  parte  il  rettilineo  del  dise- 
gno;  anim6  le  teste,  piego  i  panni,  colloco  le  figure  molto  piu 
artificiosamente  de'  greci.  Non  era  il  suo  talento  per  cose  gentili: 
le  sue  Madonne  non  han  bellezza;  i  suoi  angeli  in  un  medesimo 
quadro  son  tutti  della  stessa  forma.  Fiero  come  il  secolo  in  cui  vi- 
veva,  riusci  egregiamente  nelle  teste  degli  uomini  di  carattere,  e 
specialmente  de'  vecchi;  imprimendo  loro  un  non  so  che  di  forte 
e  di  sublime,  che  i  moderni  han  potuto  portare  poco  piu  oltre. 
Vasto  e  macchinoso  nelle  idee  diede  esempi  di  grand' istorie,  e 
Fespresse  in  grandi  proporzioni.  Le  due  Madonne  in  grandi  tavole, 
che  ne  ha  Firenze,  Tuna  presso  i  domenicani,  con  alcuni  busti  di 
santi  nel  grado;  1'altra  in  S.  Trinita,  con  quej  sembianti  di  pro- 
feti  si  grandiosi,3  non  danno  idea  del  suo  stile  come  le  pitture 
a  fresco  nella  chiesa  superiore  di  Assisi,  ove  comparisce  ammire- 
vole  per  que'  tempi.  In  quelle  sue  istorie  del  Vecchio  e  Nuovo 
Testamento,  che  ci  rimangono  (perciocche  non  poche  ne  ha  scan- 
cellate  o  almen  guaste  il  tempo)  egli  apparisce  un  rozzo  Ennio, 
che  fin  dall'abbozzare  Fepica  in  Roma  da  lumi  d'ingegno  da  non 
dispiacere  a  un  Virgilio.  Piu  anche  e  dal  Vasari  ammirato,  e  me- 
ritamente,  nelle  pitture  della  volta.  Si  mantengono  tuttavia  in 
buon  grado;  e  quantunque  in  alcune  figure  di  G.  C.  e  di  N.  D.4 
specialmente  rimanga  assai  di  greca  maniera;  tuttavia  in  altre 

i.  II  S.  Francesco  .  .  .  S.  Croce:  1'opera  e  tuttora  in  S.  Croce  a  Firenze, 
ma  oggi  e  attribuita  ad  un  seguace  di  Bonaventura  Berlinghieri.  2.  S. 
Cecilia  .  .  .  S.  Stefano:  anche  quest'opera  non  e  piu  assegnata  a  Cimabue, 
ma  al  cosiddetto  Maestro  di  S.  Cecilia,  seguace  della  maniera  primitiva  di 
Giotto.  Si  trova  ora  agli  Uffizi.  3.  Le  due  Madonne  .  .  .  grandiosi:  la  pri- 
ma  di  queste  due  opere  e  tuttora  in  Santa  Maria  Novella,  ma  1'attribuzione 
a  Cimabue  e  oggi  discussa;  la  seconda  si  trova  nella  Galleria  degli  Uffizi. 
4.  di  G.  C.  e  di  N.  D. :  di  Gesu  Cristo  e  di  Nostra  Donna. 

73 


IIS4  LUIGI    LANZI 

di  evangelist!  e  di  dottori  die  assisi  in  cattedra  istruiscono  i  re- 
ligiosi  delPordine  francescano,  vi  £  non  so  qual  novita  d'imma- 
ginare  e  di  disporre,  che  da  altri  non  pare  attinta.  Vigoroso  &  il 
colorito;  colossali  per  la  gran  distanza  e  non1  mal  conservate  le 
proporzioni :  in  somma  par  che  ivi  la  pittura  cominci  a  osare  ci6 
che  prima  osava  appena  il  musaico.  Tutti  questi  son  pure  pro 
gress!  dello  spirito  umano  da  non  raccorsi2  in  una  storia;  e  son 
meriti  da  non  dissimularsi  nel  pittor  fiorentino,  quando  vuol  pa- 
ragonarsi  co'  pisani  e  co'  sanesi.  Ne  io  veggo  come,  dopo  Tautorita 
del  Vasari,  che  Topra  della  volta  assegn6  a  Cimabue,  e  dopo  la 
tradizione  di  cinque  secoli  che  glie  la  conferma,  il  p.  m.  della  Valle3 
abbia  potuto  ascriver  a  Giotto,  pittor  tanto  piu  gentile.  Ha  voluto 
pure  anteporre  a  Cimabue  questo  o  quelPaltro  pittore  della  stessa 
eta,  perch6  facesser  gli  occhi  men  torvi,  o  i  nasi  meglio  profilati; 
picciole  cose  a  parer  mio  per  degradar  Cimabue  dal  posto  che 
gode  nelle  storie  degl'imparziali.4  Ha  scritto  inoltre  ch'egli  alia 
scuola  fiorentina  co*  suoi  esempi  «non  fece  ne  ben  n6  male»  (Pref. 
al  Vasari),  cosa  dura  ad  udirsi  da  chi  ha  letti  tanti  scrittori  della  cit- 
ta  e  si  antichi  che  lo  celebrano ;  ed  ha  veduto  ci6  che  avean  fatto  i 
pittor  fiorentini  prima  di  lui,  e  di  quanto  esso  gli  superasse. 


i.  distanza  e  non:  queste  parole  figurano  in  corsivo  nell'edizione  1809  (le 
edizioni  precedenti  non  portano  questo  passo):  probabilmente  a  sotto- 
lineare  la  difesa  di  Cimabue  contro  i  denigratori,  come  il  della  Valle 
nominato  piu  avanti.  2.  non  raccorsi:  cosl  ha  il  testo  dell'edizione  1809 
(neppure  questo  passo  figura  nelle  edizioni  precedenti) ;  ma  il  senso  richie- 
de  che  si  elimini  il  non.  3.  Guglielmo  della  Valle,  autore  di  Letter  e  sanesi 
(1782-1786),  raccolta  di  notizie  erudite  sull'arte  senese,  pubblic6  con 
propne  annotazioni  1'edizione  senese  del  Vasari  (1791-1794).  II  giudizio 
ncordato  dal  Lanzi  e  in  una  nota  apposta  alia  Vita  di  Cimabue  di  questa 
edizione.  4.  Alle  testimomanze  che  v'erano  favorevoli  a  Cimabue  se  n'& 
aggiunta  una  di  non  poco  peso  dal  ms.  reso  pubblico,  son  pochi  anm, 
dal  sig.  ab.  Morelli  \Notizia  d'opere  di  disegno  nella  prima  meta  del  secolo 
XVI  esistenti  in  Padova,  ecc.  scritta  da  un  anonimo  di  quel  tempo,  Bassano 
1800;  T  anonimo  e  il  veneziano  Marcantonio  Michiel].  Leggesi  quivi  che 
Cimabue  dipinse  in  Padova  nella  chiesa  del  Carmine,  che  poi  bruci6 :  ma 
che  salvata  dall'incendio  una  sua  testa  di  S.  Giovanni,  e  posta  in  un 
quadro  di  legno,  in  casa  di  Alessandro  Capella  si  conservava.  Un  pittore 
che  non  avesse  « fatto  n6  ben  n£  male  alia  scuola  fiorentina  e  alia  pittura », 
saria  stato  chiamato  a  Padova?  Si  sarian  tenute  le  sue  reliquie  in  tanto 
pregio  ?  Potea  essere  si  stimato  in  una  eta  cosi  distante  dal  Vasari ;  alle  cui 
arti  vorrebbe  ascriversi  la  riputazione  di  Cimabue?  Veggansi  altre  prove 
di  questa  riputazione  nella  difesa  del  Vasari  in  questo  I  libro  all'epoca 
terza,  e  sempre  piu  si  disvogli  chi  scrive  istorie,  o  le  chiosa,  dallo  spirito 
di  sistema  e  di  partito  (L.). 


STORIA   PITTORICA  DELLA   ITALIA  1155 

II 

Michelangiolo  da  Caravaggio* 

Michelangiolo  Amerighi,  o  Morigi,  da  Caravaggio  e  memora- 
bile  in  quest' epoca,  in  quanto  richiamo  la  pittura  dalla  maniera 
alia  verita,  cosi  nelle  forme  che  ritraeva  sempre  dal  naturale,  co 
me  nel  colorito  che,  dato  quasi  bando  a*  cinabri  e  agli  azzurri,, 
compose  di  poche  ma  vere  tinte  alia  giorgionesca.  Quindi  Anni- 
bale2  diceva  in  sua  lode  che  costui  macinava  carne;  e  il  Guer- 
cino  e  Guido  assai  I'ammirarono  e  profittarono  de'  suoi  esempi. 
Incamminato  nell'arte  in  Milano,  e  di  la  ito  in  Venezia  per  istu- 
diare  in  Giorgione,  tenne  da  principio  quel  moderato  ombrare  che 
appreso  avea  da  quel  sommo  artefice;  del  quale  stile  restano  alcune 
opere  del  Caravaggio,  che  sono  le  sue  piii  pregiate.  Di  poi,  scorto 
dal  suo  naturale  torbido  e  tetro,  diedesi  a  rappresentare  gli  og- 
getti  con  pochissima  luce,  caricando  fieramente  gli  scuri.  Sembra 
che  le  figure  abitino  in  un  carcere  illuminato  da  scarso  lume  e 
preso  da  alto.  Cosi  i  fondi  son  sempre  tetri,  e  gli  attori  posano  in 
un  sol  piano,  ne  v'e  quasi  degradazione  ne'  suoi  dipinti:  e  nondi- 
meno  essi  incantano  pel  grand' effetto  che  risulta  da  quel  contrasto 
di  luce  e  d'ombra.  Non  e  da  cercare  in  lui  correzione  di  disegno, 
ne  elezione  di  bellezza.  Egli  ridevasi  delle  altrui  specolazioni  per 
nobilitare  un'aria  di  volto,  o  per  rintracciare  un  bel  panneggiato, 
o  per  imitare  una  statua  greca:  il  suo  bello  era  qualunque  vero. 
Esiste  in  palazzo  Spada  una  sua  S.  Anna3  intenta  a'  femminili  la- 
vori  con  Nostra  Signora  a  lato:  Tuna  e  Faltra  e  delle  fattezze  piu 
volgari,  e  vestono  alia  romanesca;  ritratti  sicuramente  di  una  don 
na  e  di  una  fanciulla,  le  prime  che  gli  si  offersero  agli  occhL  Cosi 
egli  usava  il  piu  delle  volte:  anzi  pareva  si  compiacesse  maggior- 
mente  ove  assai  trovava  di  caricato ;  armature  rugginose,  vasi  rotti, 
fogge  di  abiti  antiquate,  forme  di  corpi  alterate  e  guaste.  Quindi 
alcune  sue  tavole  furon  poi  tolte  da*  sacri  altari,  ed  una  in  parti- 
colare  alia  Scala  che  rappresentava  il  Transito  di  M.  V.,4  e  vi  era 
un  cadavero  stranamente  enfiato. 

i.  Dalla  Stona  pittorica  delta  Italia  ecc.,  ed.  cit.,  n,  pp.  161-3.  2.  An- 
nibale  Carracci.  3.  S.  Anna:  di  questo  quadro  non  si  ha  altra  notizia. 
4.  Transito  di  M.  V.\  la  Morte  della  Vergine  (1605-1606),  gia  in  Santa 
Maria  della  Scala  in  Roma,  ora  al  Louvre. 


1156  LUIGI   LANZI 

Poche  tavole  ne  ha  Roma,  e  fra  esse  la  S.  M.  di  Loreto  a  S. 
Agostino;1  ma  Tottima  &  il  Deposto  di  Croce2  alia  Vallicella,  che 
ivi  al  ridente  di  Barocci  e  al  soave  di  Guido,  che  sono  in  altri 
altari,  fa  un  contrapposto  maraviglioso.  Per  lo  piu  servi  alle  qua- 
drerie;  nel  suo  arrive  in  Roma  dipingendo  fiori  e  frutti;  poi  tele 
bislunghe  di  mezze  figure;  usanza  frequentata  dopo  i  suoi  tempi. 
Quivi  espresse  istorie  or  sacre  or  profane,  e  specialmente  i  costumi 
del  basso  volgo;  ubbriachezze,  astrologie,  compre  di  commesti- 
bili.  Si  ammira  in  casa  Borghese  la  Cena  di  Emmaus,2  il  S.  Ba- 
stiano*  in  Campidoglio,  nella  quadreria  Panfili  la  storia  di  Agar 
con  Ismaele  moribondo,5  e  il  quadro  della  Fruttaiuola6  naturalissi- 
mo  nella  figura  e  negli  accessori.  Piu  ancora  prevalse  in  rappresen- 
tare  risse,  omicidi,  tradimenti  notturni ;  per  le  quali  arti  egli  stesso, 
che  non  ne  fu  alieno,  ebbe  travagliosa  la  vita,  e  infame  la  storia. 
Parti  di  Roma  per  ormcidio,  e  stette  in  Napoli  qualche  tempo :  di 
la  passo  in  Malta,  ove,  dopo  avere  avuta  croce  dal  G.  Maestro  per 
la  eccellenza  nel  dipingere,  dimostrata  nel  bel  quadro  della  Decol- 
lazione  di  S.  Giovanni,7  che  vedesi  neHJoratorio  della  chiesa  con- 
ventuale,  prese  briga  con  un  cavaliere  e  fu  stretto  in  carcere.  Fug- 
gitone  con  pericolo  della  vita  e  stato  alquanto  in  Sicilia,  voile  tor- 
nare  a  Roma;  ma  non  oltrepass6  Porto  Ercole,  ove  di  febbre  ma- 
ligna  mori  nel  i6o9.8 

in 
Bernardin  Lovino? 

Rimane  a  scrivere  del  piu  celebre  imitatore  del  Vinci,  Ber 
nardin  Lovino,  com'egli  scrive,  o  Luini,  come  dicesi  comune- 

i.  a  S.  Agostino :  in  Roma;  1'opera,  del  1603  circa,  e  chiamata  anche  Ma 
donna  dei  pellegrini.  2.  Deposto  di  Croce:  la  Sepoltura  di  Cnsto  (1601- 
1604),  ora  nella  Galleria  Vaticana.  3.  Cena  di  Emmaus:  quadro  eseguito 
nel  1594,  ora  nella  National  Gallery  di  Londra.  4.  S.  Bastiano:  non  si 
ha  notizia  di  questo  quadro;  il  Bellori  ricorda  (cfr.  Le  vite  de'  pittori, 
scultori  e  architetti  moderniy  ed.  cit.,  p.  128)  un  S.  Sebastiano  «portato 
in  Parigi».  5,  la  storia  ,  ,  ,  moribondo:  neppure  di  questo  quadro  si  ha 
notizia,  a  meno  che  il  Lanzi  non  lo  scambi  con  //  riposo  in  Egitto,  che  si 
trova  tuttora  nella  Galleria  Doria  Pamphili.  6.  Fruttaiuola:  si  tratta  pro- 
babilmente  del  Ragazzo  con  canestra  di  frutta,  databile  intorno  al  1589, 
ed  ora  nella  Galleria  Borghese,  o  di  una  replica  perduta  di  questo  quadro. 
7.  Decollasiione  di  S.  Giovanni:  compiuta  nel  1608,  ed  ora  nella  cattedrale 
di  La  Valletta.  8.  nel  z6op:  esattamente  nel  1610.  9.  Dalla  Storia  pit- 
torica  della  Italia  ecc.,  ed.  cit.,  iv,  pp.  202-7. 


STORIA   PITTORICA   DELLA    ITALIA  1157 

mente,  native  di  Luino  nel  Lago  Maggiore.  II  Resta1  asserisce 
che  non  venne  in  Milano  se  non  dopo  la  partenza  del  Vinci,  e 
die  imparo  dallo  Scotto.2  L'autor  della  Guida,3  a  p.  120,  lo  an- 
novera  fra  gli  scolari  di  Lionardo;  e  per  la  eta,  se  io  non  erro, 
poteva  esserlo.  Perciocche,  se  Gaudenzio  nato  nel  1484  fu  «  discepo- 
lo  dello  Scotto  e  insieme  del  Lovino»,  come  si  ha  dal  Lomazzo  a 
pag.  421  del  suo  Trattato,4  ne  siegue  che  Bernardino  fosse  gia 
pittore  circa  al  1500  quando  il  Vinci  Iasci6  Milano.  Ed  e  intorno 
a  questo  tempo  che  il  Vasari  colloca  Bernardino  da  Lupino,5  che 
a  Sarono6  dipinse  tanto  delicatamente  lo  Sposalizio  e  altre  storie 
di  Maria  Vergine,  ove  dovea  dir  da  Luino:  e  mi  spiace  che  un 
annotator  del  Vasari  abbia  voluto  cangiare  Lupino  in  Lanino,7 
che  fu  scolare  di  Gaudenzio.  Conferma  le  mie  congetture  su  la 
eta  di  Bernardino  il  ritratto  ch'egli  a  se  fece  in  Sarono  nella  Disputa 
di  Gesu  fanciullo,  ove  si  rappresento  gia  vecchio:  e  correva  allora 
Tanno  di  N.  S.  1525,  come  ivi  leggesi. 

Pot6  dunque  il  Luini  aver  luogo  fra  gli  scolari  del  Vinci;  e 
1'ebbe  certamente  nella  sua  accademia.  Vi  sono  altri  di  quella  scuo- 
la,  che  gli  andarono  innanzi  nella  finezza  del  pennello,  o  nella 
grazia  del  chiaroscuro;  nel  qual  genere  il  Lomazzo  loda  Cesare 
da  Sesto,  e  dice  che  il  Luini  fece  le  ombre  piu  grossamente.8 
Contuttoci6  nel  totale  di  un  pittore  niuno  si  appressb  al  Vinci  piu 
che  Bernardino;  disegnando,  colorendo,  componendo  assaissime 
volte  tanto  conformemente  al  suo  caposcuola,  che  fuor  di  Milano 
molti  suoi  quadri  passan  per  Vinci.  Tal  e  il  sentimento  de'  veri 
intelligenti,  riferito  e  approvato  dall'autor  della  Nuova  Guida,  ch'e 
sicuramente  uno  del  loro  numero.  Nel  qual  proposito  addita  egli 
due  quadri  dell'Ambrosiana;  la  Maddalena  e  il  S.  Giovanni?  che 


I.  II  padre  Sebastiano  Resta,  autore  di  una  Galleriaportatile,  manoscritta, 
a  cui  il  Lanzi  si  riferisce.  2.  Stefano  Scotto:  pittore  milanese  vissuto  nella 
seconda  met£  del  secolo  XV;  il  Lanzi  poco  prima  (iv,  p.  184)  lo  definisce 
«maestro  di  Gaudenzio  Ferrari,  assai  celebrato  dal  Lomazzo  neirarte  di 
far  rabeschi».  3.  L'autor  della  Gutda:  Carlo  Bianconi  (1732-1802),  autore 
della  Nuova  guida  di  Milano  per  gli  amanti  delle  belle  arti  e  delle  sacre  e 
profane  antichitd  milanesi  (Milano  1787).  4.  II  Trattato  delVarte  della 
pittura  (Milano,  Ponzio,  1584).  Sul  Lomazzo  cfr.  la  nota  2  a  p.  833. 
5.  Cfr.  Vite  ecc.,  a  cura  di  C.  L.  Ragghianti,  n,  Milano,  Rizzoli,  1942, 
p.  252.  6.  a  Sarono:  a  Saronno,  nel  santuario  della  Madonna  dei  Mira- 
coli.  7.  Lanino:  il  pittore  Bernardino  Lanini  da  Vercelli  (i5i2-non  oltre 
il  1583).  8.  il  Lomazzo  .  .  .grossamente:  cfr.  Trattato  delVarte  della  pit 
tura,  ed.  cit.,  p.  237.  9.  la  Maddalena  e  il  S.  Giovanni:  airAmbrosiana 


1158  LUIGI   LANZI 

carezza  il  suo  pecorino ;  che  i  forestieri  appena  si  persuadono  poter 
essere  d'altrui  che  di  Lionardo.  Di  uguale  merito,  o  quasi,  ho  ve- 
dute  altre  sue  pitture  in  piii  quadrerie  di  Milano  nominate  da  me 
piu  volte. 

Convien  per6  aggiugnere  ci6  che  in  proposito  di  Cesar  da  Se- 
sto  notai  poc'anzi;1  ch'egli  ha  pure  in  certe  sue  opere  gran  somi- 
glianza  con  lo  stile  rafTaellesco ;  come  in  una  Madonna  presso  S. 
A.  il  Principe  di  Keweniller,2  e  in  qualche  altra,  che  so  essere 
stata  comprata  per  cosa  di  Raffaello.  Di  qui  6  nato,  cred'io,  il 
parere  di  alcuni,  ch'egli  fosse  in  Roma:  ci6  che  Tab.  Bianconi  me- 
ritamente  richiama  in  dubbio  alia  pag.  391,  e  pende  anzi  alia  parte 
del  no.  Ne  io  mi  terr6  al  si  senz'averne  prove  di  fatto ;  parendomi 
debole  Targomento  che  si  deduce  dalla  somiglianza  della  maniera. 
Trattai  di  proposito  questo  punto  nel  terzo  capitolo  scrivendo  del 
Coreggio;3  e  se  mi  parve  piu  verisimile  che  quella  divina  indole 
tanto  ampliasse  e  aggraziasse  il  suo  stile  senz'aver  veduto  in  Roma 
Michelangiolo  ne  Raffaello ;  non  discredo  ora  che  la  medesima  cosa 
intervenisse  al  Luini.  La  natura  e  il  libro  ugualmente  esposto  ad 
ogni  pittore;  il  gusto  e  quello  che  insegna  a  scegliere;  Tesercizio 
passo  passo  conduce  alia  esecuzione  della  scelta.  II  gusto  di  Lio 
nardo  era  tanto  conforme  a  quel  di  Raffaello  nel  delicato,  nel  gra- 
zioso,  nelTespressivo  degli  affetti,  che,  s'egli  non  si  fosse  distratto 
in  molti  altri  studi  ed  avesse  scemato  qualche  grado  alia  finitezza 
per  aggiungerne  qualche  altro  alia  facilita,  airamenita  e  alia  pie- 
nezza  dej  contorni ;  lo  stile  di  Lionardo  spontaneamente  si  sarebbe 
ito  ad  incontrare  con  quel  di  Raffaello,  con  cui  ha  in  alcune  teste 
specialmente  gran  vicinanza.  Cio  credo  accaduto  in  Bernardino,  il 
quale  avea  fatto  suo  il  gusto  del  Vinci,  e  viveva  in  un  secolo  che 
correa  gia  verso  una  maggiore  scioltezza  e  pastosita.  Cominci6 
anch'egli  da  uno  stile  men  pieno  e  pendente  al  secco ;  qual  vedesi 


si  conserva  tuttora  il  S.  Giovannino ;  il  primo  quadro  e  assai  probabilmente 
la  Santa  Maria  Maddalena,  gia  nella  chiesa  di  Santa  Marta,  e  ora  nella 
Pinacoteca  di  Brera.  i.  poc'anzi:  cfr.  iv,  p.  195.  2.  Madonna  .  .  . 
Keweniller:  sulla  base  di  questa  sola  notizia  e  difficile  identificare  tale 
Madonna  fra  le  moltissime  dipinte  dal  Luini.  3.  Trattai .  .  .  Coreggio: 
nel  tomo  iv,  p.  72,  dove,  dopo  aver  discusso  la  questione  delle  influenze 
romane  sul  Correggio,  conclude:  «Spesso  i  sommi  uomini,  senza  Funo 
saper  dell'altro,  han  calcate  le  stesse  orme,  "et  quadam  ingenii  divinitate", 
come  Tullio  si  esprime,  "in  eadem  vestigia  incurrerunt" ». 


STORIA  PITTORICA  DELLA   ITALIA  1159 

apertamente  nella  sua  Pietd1  alia  Passione;  poi  a  grado  a  grado 
venne  rimodernandolo.  Quel  quadretto  medesimo  della  Ubbria- 
chezza  di  Noe,  che  per  una  delle  sue  opere  piii  singolari  si  mostra 
a  S.  Barnaba,2  ha  una  precisione  di  disegno,  un  taglio  di  vesti, 
un  andamento  di  pieghe,  che  sente  residue  di  Quattrocento.  Phi 
se  ne  allontana  nelle  Istorie  di  S.  Croce3  fatte  circa  al  1520,  al- 
cuna  delle  quali  ripete  a  Sarono  cinque  anni  appresso  ove  par 
vincere  se  medesimo.  Queste  ultime  sono  le  opere  che  piii  somi- 
glino  il  fare  di  Raffaello:  ritengono  per6  la  minuzia  nelle  trine, 
la  doratura  nei  nimbi,  il  trito  negli  ornamenti  de'  tempii,  quasi 
come  nel  Mantegna  e  ne'  coetanei;  usanze  lasciate  da  Raffaello 
quando  giunse  al  migliore  stile. 

lo  credo  pertanto  che  quest'uomo  deggia  il  suo  stile  non  tanto 
a  Roma,  dalla  quale  pote  aver  qualche  stampa  e  copia  degli  arte- 
fici  che  vi  eran  fioriti;  quanto  alPaccademia  del  Vinci,  delle  cui 
massime  lo  veggo  imbevuto  singolarmente;  e  sopra  tutto  al  proprio 
genio  grande  nel  suo  genere,  e  da  paragonarsi  con  pochi.  Dico  nel 
suo  genere;  e  intendo  il  soave,  il  vago,  il  pietoso,  il  sensibile.  In 
quelle  storie  di  N.  Donna  a  Sarono  ella  e  rappresentata  in  sem- 
bianze  che  confinano  con  la  bellezza,  con  la  dignita,  con  la  mode- 
stia  che  le  da  Raffaello,  benche  non  sian  desse.  Paion  sempre  at- 
temperarsi  alia  storia  dipinta,  o  che  la  S.  Vergine  si  appresenti  allo 
sposalizio;  o  che  oda  con  maraviglia  le  profezie  di  Simeone;  o  che 
accolga  penetrata  dal  gran  mistero  i  Magi  deU'Oriente;  o  che  fra 
il  dolore  e  la  gioia  interroghi  il  divin  Figlio  nel  tempio  perch6  1'ab- 
bia  cosi  lasciata.  Le  altre  figure  ancora  han  bellezza  conveniente  al 
carattere,  teste  che  paion  vivere,  guardature  e  mosse  che  paion  chie- 
dervi  risposte,  varieta  d'idee,  di  panni,  di  affetti  tutti  presi  dal  vero ; 
uno  stile  in  cui  tutto  par  naturale,  nulla  studiato;  che  guadagna 
al  primo  vederlo,  che  impegna  a  osservarlo  parte  per  parte,  che  fa 
pena  a  distaccarsene,  questo  e  lo  stile  del  Luini  in  quel  tempio. 
Poco  diverso  e  nelle  altre  pitture,  che  condusse  con  piu  impegno 
e  in  eta  piu  matura  in  Milano;  ne  intendo  come  il  Vasari  possa 

i.  Pietd:  il  Compianto  di  Cristo,  nella  chiesa  di  Santa  Maria  della  Pas 
sione  a  Milano,  eseguito  non  oltre  il  1510.  2.  quadretto  .  .  .  S.  Barnaba: 
attualmente  si  trova  nella  Pinacoteca  di  Brera.  3.  Istorie  di  S.  Croce: 
nella  predella  del  gia  ricordato  Compianto  di  Cristo,  in  Santa  Maria  della 
Passione,  a  Milano.  La  datazione  di  quest  e  Storie  e  oggi  arretrata  a  non 
dopo  il  1510  (cfr.  A.  OTTINO  DELLA  CHIESA,  B.  Luini,  Novara,  De  Ago- 
stini,  1956,  p.  no). 


Il6o  LUIGI    LANZI 

scusarsi  ove  dice  che  tutte  le  sue  opere  son  ragionevoli]1  quando 
ve  ne  ha  tante  che  fanno  inarcar  le  ciglia.  Veggasi  il  suo  Gesii 
flagellato  a  S.  Giorgio,2  e  dicasi  da  qual  pennello  sia  stato  dipinto 
il  Redentore  con  volto  piu  amabile,  piu  umile,  piu  pietoso :  e  veg- 
gansi  presso  i  sigg.  Litta  e  in  altre  case  patrizie  i  suoi  quadri 
da  stanza  piu  studiati;  e  dicamisi  quanti  altri  allora  potessero  a 
par  di  lui.  Nel  resto  non  sembra  essere  stato  il  Luini  punto  lento, 
almeno  in  lavori  a  fresco.  La  Coronazione  di  spine  >  che  si  vede 
entro  il  Collegio  del  S.  Sepolcro,3  opera  di  molte  figure,  pagatagli 
115  lire,  gli  cost6  38  giornate  oltre  le  undici  che  vi  spese  un  suo 
giovane.  Di  tali  aiuti  si  valse  anche  nel  coro  di  Sarono,  nel  Moni- 
stero  Maggiore  a  Milano,  in  piu  chiese  del  Lago  Maggiore,  e  in 
altri  luoghi  dove  dipinse;  e  a  questi  par  da  ascrivere  ci6  che  vi  ha 
di  men  buono. 


IV 

[Origine  e  metodo  della  scuola  carraccesca.]4 

II  nuovo  stile  comincia  da  Lodovico.  -  Scriver  la  storia  de'  Caracci 
e  de'  lor  seguaci  e  quasi  scriver  la  storia  pittorica  di  tutta  Italia 
da  due  secoli  in  qua.  Noi  ne  abbiamo  scorsa  nej  precedent!  libri 
pressoche  ogni  scuola;  e  ove  prima  ove  poi  abbiam  trovati  o  i 
Caracci  stessi,  o  i  loro  allievi,  o  almeno  i  lor  posteri  in  atto  di 
rovesciare  le  antiche  massime,  e  d'introdurne  delle  nuove;  fino  a 
non  parer  dipintore  chi  o  per  una  o  per  altra  relazione  non  si  po- 
tesse  dir  caraccesco.  Or  come  e  grato  a*  viaggiatori,  dopo  aver 
hingamente  camminato  lungo  un  fiume  reale,  1'ascendere  in  piu 
alto  luogo,  e  vederne  le  scaturigini;  cosi,  spero,  sara  caro  a*  let- 
tori  di  conoscere  ora  i  principii  onde  questo  nuovo  stile  comparve 
al  mondo,  e  giunse  in  non  molto  tempo  a  riempiere  e  a  dominare 
ogni  scuola.  La  maggior  maraviglia  che  mi  paia  scoprirvi,  e  ch'es- 
so  ebbe  incominciamento  da  Lodovico  Caracci,  giovane  che  ne' 
primi  anni  parve  di  tardo  ingegno,  e  acconcio  a  macinare  colori 


i.  Cfr.  Vite  ecc.,  ed.  cit.,  in,  1943,  p.  200.  2.  a  S.  Giorgio:  il  quadro, 
eseguito  nel  1516,  si  trova  tuttora  nella  chiesa  di  San  Giorgio  al  Palazzo 
in  Milano.  3.  Collegio  del  S.  Sepolcro:  attualmente  incorporate  nell'Am- 
brosiana  di  Milano.  L'atTresco  fu  eseguito  nel  1521-1522.  4.  Dalla  Storia 
pittorica  della  Italia  ecc.,  ed.  cit.,  v,  pp.  72-80. 


STORIA   PITTORICA   DELLA    ITALIA  Il6l 

piuttosto  che  a  temperarli  e  a  trattarli.  II  Fontana,1  suo  maestro 
in  Bologna,  e  il  Tintoretto,  direttore  de'  suoi  studi  in  Venezia, 

10  consigliavano,  come  inetto  alia  pittura,  a  cangiar  mestiere:  i  con- 
discepoli  dileggiandolo  come  tardo  d'ingegno  non  con  altro  nome 
che  con  quello  di  hue  lo  additavan  fra  loro :  tutto  cospirava  a  disani- 
marlo ;  egli  solo  si  faceva  coraggio ;  e  dalle  opposizioni  prendea  mo- 
tivo  non  di  sgomentarsi,  ma  di  riscuotersi.  Era  quella  sua  tardanza 
non  effetto  di  corto  ingegno,  ma  di  penetrazione  profonda:  temea 
Tideale  come  uno  scoglio,  ove  tanti  de'  suoi  contemporanei  avean 
rotto;2  cercava  in  tutto  la  natura;  di  ogni  linea  chiedea  ragione  a 
se  stesso ;  credeva  essere  le  parti  di  un  giovane  non  voler  far  se  non 
bene,  finche  il  far  bene  passi  in  abito,  e  Pabito  aiuti  a  far  presto. 

Suoi  studi  e  viaggi.  -  Adunque  fermo  nel  suo  proposito,  come 
in  Bologna  avea  studiato  i  migliori  nazionali,3  cosi  in  Venezia  si 
affis6  in  Tiziano  e  nel  Tintoretto:  pass6  quindi  in  Firenze,  e  vi 
miglioro  il  gusto  su  le  pitture  di  Andrea4  e  su  gl'insegnamenti  del 
Passignano.5  Era  a  que'  giorni  la  scuola  de'  fiorentini  in  quella 
crisi  che  nella  sua  quarta  epoca  fu  descritta.  Nulla  potea  piu  gio- 
vare  al  giovine  Lodovico,  che  udir  quivi  tenzonare  i  partigiani 
del  vecchio  stile  co'  seguaci  del  nuovo;  ne  altrove  meglio  che 
in  quel  contrasto  potea  conoscere  le  vie  della  decadenza  della  pit 
tura,  e  del  suo  risorgimento.  Questi  sicuramente  furono  per  lui 
aiuti  grandissimi,  quantunque  non  osservati  finora,  a  tentare  la 
riforma  della  pittura  e  a  promoverla  felicemente.  I  fiorentini  mi 
gliori,  per  emendare  la  languidezza  de'  lor  maestri,  eransi  volti 
agli  esemplari  del  Coreggio  e  de'  suoi  seguaci;  e  la  loro  massima, 
credo  io,  guid6  Lodovico  da  Firenze  a  Parma,  ove  a  quel  capo- 
scuola  e  al  Parmigianino,  dice  il  suo  istorico,6  tutto  allora  si  de- 
dic6.  Tornato  in  Bologna,  ancorch6  vi  fosse  ben  accolto  e  tenuto 
in  grado  di  buon  pittore,  conobbe  nondimeno  che  un  uomo  solo, 
riservato  specialmente  e  cauto  com'egli  era,  mal  potea  combattere 

i.  II  pittore  Prospero  Fontana  (1512-1597),  che  il  Lanzi  definisce  (v, 
p.  48)  «  principal  cagione  della  .  .  .  decadenza »  della  pittura  bolognese  nel 
periodo  precarraccesco.  2.  rotto:  naufragato,  fallito.  3.  nazionali'.  qui 
vale  « corregionali ».  4.  Andrea  del  Sarto.  5.  II  pittore  Domenico  Cre- 
sti  da  Passignano  (1560-1638),  che  il  Lanzi  pone  insieme  col  Cigoli  fra  i 
restauratori  della  pittura  fiorentina  (cfr.  i,  pp.  234-5).  6.  il  suo  istorico'. 

11  Malvasia  (su  cui  cfr.  la  nota  3  a  p.  1147),  da  cui  il  Lanzi  attinge  la  mag- 
gior  parte  delle  notizie  sui  Carracci  e  la  loro  scuola. 


Il62  LUIGI   LANZI 

contro  un'intera  scuola;  se,  come  il  Cigoli1  avea  fatto  in  Firenze, 
cosi  egli  in  Bologna  non  si  formava  un  partito  fra  la  gioventu. 

Rivolge  alia  pittura  i  cugini.  -  Lo  cercd  prima  che  altrove  fra* 
suoi.  Paolo  suo  fratello  coltivava  la  pittura,  ma  era  assai  povero 
di  consiglio  e  (Tingegno,  ne  buono  ad  altro  che  ad  eseguir  ragione- 
volmente  le  invenzioni  altrui :  di  questo  non  fece  caso ;  ma  sibbene 
di  due  cugini.  Avea  uno  zio  paterno  per  nome  Antonio,  sarto  di 
professione,  che  due  figli  educava  in  casa,  Agostino  ed  Annibale; 
indoli  cosi  adatte  al  disegno,  che  Lodovico  gia  vecchio  solea  dire, 
non  avere  avuto  in  tanti  anni  di  magistero  pure  uno  scolare  che 
gli  uguagliasse.  Attendeva  il  primo  alia  orificeria,  che  sempre  fu 
il  seminario  degli  ottimi  incisori  in  rame ;  il  secondo  era  discepolo 
insieme  e  aiuto  del  padre  nella  sua  sartoria.  Bench£  fratelli  avean 
natura  e  costumi  cosi  diversi,  che  Tuno  era  insofferente  dell'altro, 
e  poco  meno  che  inimico.  Agostino  colto  in  letteratura  vedevasi 
del  continue  coi  dotti,  ne  vi  era  scienza  ove  non  mettesse  lingua; 
egli  filosofo,  egli  geometra,  egli  poeta;  manieroso  nel  tratto,  arguto 
ne'  motti,  alieno  da*  modi  del  basso  volgo.  Annibale  oltre  il  saper 
leggere  e  scrivere  non  affettava  altre  lettere;  una  certa  ingenita 
rozzezza  inclinavalo  alia  taciturnita;  e  awenendogli  di  dover  par- 
lare,  era  portato  al  disprezzo,  allo  scherno,  alia  rissa. 

Come  grindirizzasse  alVarte.  -  Incamminati,  per  consiglio  di  Lo 
dovico,  alParte  pittorica,  si  trovarono  anche  quivi  opposti  d'inge- 
gno.  II  primo  timido  e  ricercato,  lento  a  risolvere,  difficile  a  con- 
tentarsi,  non  vedeva  malagevolezza  che  non  1'affrontasse  e  non  si 
provasse  a  superarla:  1'altro,  all'uso  di  una  gran  parte  degli  arti- 
giani,  spedito  faticatore,  insofferente  d'indugi  e  specolazioni,  cer- 
cava  ogni  ripiego  onde  sfuggire  1'aspro  dell'arte,  batter  la  via  piu 
facile,  far  molto  in  poco  tempo.  S'eglino  fosser  capitati  in  altre 
mani,  Agostino  saria  divenuto  un  nuovo  Samacchini,  Annibale  un 
nuovo  Passerotti;2  n6  la  pittura  per  loro  avria  dato  un  passo.  Ma 


1.  Lodovico  Cardi  da  Cigoli  (1559-1613),  che,  secondo  il  Lanzi,  «fu  il 
primo  che  destasse  la  nazione  [fiorentina]  a  piu  nobile  stile »  (i,  p.  229). 

2.  I  pittori  bolognesi  Orazio  Samacchini  (1577-1622)  e  Bartolomeo  Pas 
serotti  (1530-1592),  che  il  Lanzi  pone  nel  periodo  della  decadenza  precar- 
raccesca,  notando  nel  primo  una  «  soverchia  diligenza »  e  nel  secondo  una 
tendenza  «al  facile  e  al  franco »  (v,  pp.  52  e  54). 


STORIA   PITTORICA   BELLA    ITALIA  1163 

Faccorto  cugino,  che  gli  reggeva,  vide  clovers'  imitar  Isocrate,  che, 
insegnando  ad  Eforo  e  a  Teopompo,  solea  dire  che  con  uno  di  essi 
adoperava  lo  sprone,  coll'altro  il  freno.1  Con  simil  veduta  conse- 
gn6  egli  Agostino  al  Fontana  veloce  e  facile  maestro;  e  ritenne 
Annibale  nel  suo  studio,  ove  le  opere  meglio  si  maturavano.  Cosi 
anche  ottenne  di  tenergli  divisi  finche  la  eta  emendasse  a  poco  a 
poco  quella  nimista  che  vedeva  in  loro ;  e  la  convertisse  in  concor- 
dia,  quando  dati  a  una  stessa  professione  mettessero  insieme  i 
lor  capitali;  e  1'uno  traesse  aiuto  dall'altro.  Corsi  pochi  anni  eb- 
begli  sufficientemente  concordi,  e  nel  1580  gli  tenne  a  Parma  e  in 
Venezia;  di  che  in  quelle  scuole  scrissi  cio  che  ora  non  dee  no- 
vamente  inculcarsi  al  lettore.  In  quelPassenza  Agostino  aduno  no- 
tizie  per  la  sua  varia  dottrina;  crebbe  nel  disegno;  e  come  prima  di 
partir  di  Bologna,  sotto  Domenico  Tibaldi2  si  era  avanzato  molto 
nella  incisione;  cosi  in  Venezia  col  Cort3  si  avanzo  tanto,  che 
questi  divenutone  geloso  il  cacci6  dallo  studio,  ma  invano.  Ago 
stino  era  gia  riputato  il  Marco  Antonio4  del  suo  tempo.  Annibale 
poi,  ch'era  Puomo  d'un  solo  affare,  non  ad  altro  attese  in  Parma 
e  poscia  in  Venezia  che  a  dipingere,  e  profittare  delle  opere  e 
della  conversazione  de'  grandi  uomini,  dej  quali  era  folta  a  que* 
dl  la  veneta  scuola.  Fu  allora  o  poco  appresso  che  fece  copie  bel- 
lissime  del  Coreggio,  di  Tiziano,  di  Paolo;5  e  sul  loro  gusto  la- 
vor6  quadretti.  Ne  vidi  alcuni  presso  il  sig.  march.  Girolamo  Du- 
razzo  in  Genova,  di  stili  diversi  e  graziosissimi. 

Contrasts  che  sostennero  e  superarono.  -  Tornati  in  patria  grandi 
artefici,  ebbono  lungamente  a  lottare  con  la  fortuna.  I  primi  loro 
lavori,  ch'erano  certe  favole  di  Giasone  in  un  fregio  di  casa  Favi,6 
comech6  fatti  con  1'assistenza  di  Lodovico,  furono  da'  vecchi  pit- 
tori  con  insopportabil  fasto  vituperati  come  mancanti  di  accura- 
tezza  e  di  eleganza.  Dava  peso  alia  censura  il  credito  di  que'  mae- 


i.  Isocrate.  .  .freno:  cfr.  Cicerone,  Brut.,  LVI,  204:  «Isocratem  in  acer- 
rimo  ingenio  Theopompi  et  lenissimo  Ephori  dixisse  traditum  est  alteri 
se  calcaria  adhibere,  alteri  frenos».  2.  Domenico  Tibaldi  (1541-1583),  ar- 
chitetto,  incisore  e  pittore  bolognese.  3.  Cornells  Cort  (1533-1578),  pit- 
tore  e  incisore  olandese,  dopo  essere  stato  a  Venezia,  si  stabili  a  Roma. 
4.  il  Marco  Antonio:  allude  a  Marco  Antonio  Raimondi  (1480-1530),  in 
cisore  bolognese,  specializzato  nel  riprodurre  i  quadn  di  RafTaello.  5.  Pao 
lo  Veronese.  6.  certe  .  .  .  casa  Favi:  gli  affreschi  nel  palazzo  Fava  in 
Bologna  (1583-1584)- 


1164  LUIGI   LANZI 

stri  vivuti  in  Roma,  ornati  di  poesie  e  di  diplomi,  riguardati  dal 
guasto  secolo  come  sostegni  dell'arte.  Ad  essi  facean  eco  i  disce- 
poli,  e  a  quest!  il  volgo ;  e  le  tante  mormorazioni  di  un  volgo,  che 
favella  con  quel  brio  con  cui  si  declama  altrove  o  si  disputa,  fe- 
rivan  le  orecchie  de'  Caracci,  gli  confondevano,  gli  awilivano. 
fe  fama  che  Lodovico  e  Agostino  fosser  nel  punto  di  cedere  al 
ia  corrente,  e  di  rivolgersi  al  vecchio  stile;  e  che  Annibale  gli 
sconsigliasse,  persuadendo  loro  di  opporre  alle  voci  le  opere;  anzi 
alle  opere  de'  vecchi,  snervate  e  lontane  dal  vero,  altre  opere  con- 
dotte  con  robustezza  e  con  verita.  II  consiglio  fu  eseguito,  e  valse 
finalmente  alia  rivoluzione  dello  stile  che  meditavasi:  ma  ad  age- 
volarla  e  ad  accelerarla  convenne  trarre  al  partito  loro  gli  studenti 
della  pittura,  ch'erano  le  speranze  di  un  nuovo  secolo  e  migliore. 

Aprono  urfAccademia.  -  Ci6  ottennero  i  Caracci  aprendo  nella  lor 
casa  un'accademia  di  pittura,  che  chiamarono  degrincamminati, 
fornendola  di  gessi  e  di  disegni  e  di  stampe  quanto  eran  quelle  de' 
loro  emoli ;  introducendovi  scuola  di  nudo,  di  prospettiva,  di  noto- 
mia  e  di  quanto  richiede  1'arte ;  e  guidandola  con  un  accorgimento  e 
con  un'amorevolezza  da  popolarla  in  poco  tempo.  Contribui  a  riem- 
pierla  Pindole  furiosa  di  Dionisio  Calvart,1  che  per  lievissime  man- 
canze  percoteva  e  feriva  i  discepoli;  cagione  per  cui  Guido,  TAlba- 
no,  Domenichino  si  trasferirono  allo  studio  de'  Caracci.  Vennevi 
anco  dalla  scuola  del  Fontana  il  Panico;2  e  d'ogni  banda  ci  concor- 
sero  altri  de'  miglior  giovani,  che  trassero  dietro  a  s6  la  turba  degli 
studiosi.  Si  chiusero  in  fine  le  altre  accademie;  ogni  scuola  si  mut6 
in  solitudine;  ogni  nome  die  luogo  al  nome  de'  Caracci;  ad  essi  le 
commission!  migliori,  ad  essi  il  maggior  grido.  Umiliati  i  loro  ri- 
vali  mutaron  linguaggio;  e  specialmente  quando  fu  aperta  la  gran 
sala  Magnani,  miracol  dell'arte  caraccesca.  Fu  allora  che  protest6 
il  Cesi3  ch'egli  diverrebbe  seguace  di  quella  nuova  maniera;  e  che 
il  Fontana  si  dolse  di  essere  troppo  incanutito  per  seguitarla:  il 
solo  Calvart  con  1'usata  burbanza  biasim6  il  lavoro,  e  fu  1'ultimo 
fra  tutti  a  ricredersi,  o  almeno  a  tacere. 


i.  Dionisio  Calvart:  cfr.  la  nota  2  a  p.  1143.  2.  Anton  Maria  Panico, 
pittore  bolognese,  vissuto  fra  la  fine  del  XVI  secolo  e  il  principle  del 
XVII.  3.  Bartolomeo  Cesi  (1556-1629),  che  il  Lanzi  defmisce  «uno  de' 
capiscuola  che  appianarono  a*  caracceschi  la  via  del  buon  metodo » (v,  p.  57). 


STORIA   PITTORICA   DELLA   ITALIA  1165 

Metodo  delV  accademia.  -  £  qui  luogo  da  riferire  gli  esercizi  e  le 
massime  di  un'accademia  che,  oltre  il  formare  si  grandi  allievi, 
perfezion6  i  lor  maestri;  essendo  verissimo  che  la  via  piii  compen- 
diosa  per  molto  apprendere  e  quella  dell'insegnare.  Erano  i  tre 
fratelli  congiuntissimi  in  ammaestrare  senza  venalita  e  senza  invi- 
dia;  ma  le  parti  piu  laboriose  del  magistero  sostenevale  Agostino. 
Avea  disteso  un  breve  trattato  di  prospettiva  e  di  architettura; 
e  questo  esponea  nella  scuola.  Spiegava  la  ragiorxe  degli  ossi  e  de' 
muscoli,  disegnandoli  coi  nomi  loro;  aiutato  in  ci6  dal  Lanzoni 
anatomico,  che  celatamente  dava  loro  anche  de'  cadaveri  per  le 
opportune  sezioni.  Poneva  in  campo  ragionamenti  or  d'istorie  or 
di  favole;  e  spiegavale,  e  ne  facea  far  disegni,  ch'esposti  in  certe 
giornate  si  sottomettevano  al  giudizio  de'  periti,  perche  decidesse- 
ro  del  maggior  loro  o  del  minor  merito;  siccome  appare  da  una 
polizza  scritta  al  Cesi  ch'era  un  de'  giudici.  A'  coronati  bastava  il 
premio  della  gloria:  i  poeti  si  raunavano  a  celebrarli;  e  misto  ad 
essi  Agostino  con  la  cetra  e  col  canto  applaudiva  ai  progress!  de' 
suoi  allievi.  Erano  anche  i  giovani  addestrati  alia  vera  critica:  si 
vedevan  le  opere  altrui,  e  notavasi  ci6  che  v'era  degno  di  lode  o  di 
riprensione :  si  esponevan  le  opere  proprie,  e  se  ne  censurava  que- 
sta  o  quella  parte;  e  chi  con  buone  ragioni  non  difendeva  il  suo 
operato,  di  presente  lo  scancellava.  Ciascuno  era  libero  a  tener  quel 
la  via  che  piu  gli  piaceva;  anzi  era  incamminato  ciascuno  per  quello 
stile  a  cui  la  natura  il  guidava;  ragione  per  cui  tante  maniere  origi- 
nali  pullularono  da  un  medesimo  studio:  ogni  stile  per6  dovea 
avere  per  base  la  ragione,  la  natura,  1'imitazione.  Ne'  piu  gravi 
dubbi  ricorrevasi  a  Lodovico;  agli  esercizi  giornalieri  del  disegno 
attendean  i  cugini,  giovani  assidui,  industriosi,  nimici  dell'ozio. 
Le  stesse  ricreazioni  degli  accademici  erano  aiuto  dell'arte:  di- 
segnar  paesini  dal  vero,  formare  qualche  caricatura  furono  le  usate 
industrie  di  Annibale  e  de'  suoi  accademici,  quando  attendevano 
a  sollevarsi.1 


i .  Awerto  che  trasferitisi  in  Roma  i  due  minon  Caracci,  quivi  pure  con- 
tinuarono  ad  esercitare  i  loro  sColari  con  lo  stesso  metodo.  II  Passeri 
nella  vita  di  Guido  dice  che  vi  concorrevano  letterati  e  proponevano 
qualche  istoria  da  disegnare,  non  senza  premi  a  quei  che  meglio  la  ese- 
guivano;  e  ch' essendo  stato  una  volta  preferito  a  tutti  Domenichino, 
ch'era  de'  piu  giovani,  Guido  ne  concepl  vivissima  emulazione.  Aggiugne 
ristorico  che  nelPAccademia  Romana  si  adott6  di  poi  lo  stesso  metodo, 
e  che  il  card.  Francesco  Barberini,  nipote  di  Urbano  VIII,  interveniva 


n66 


LUIGI    LANZI 


Come  e  con  quale  scelta  imitassero.  -  La  massima  di  unire  insieme 
la  osservazione  della  natura,  e  la  imitazione  di  tutti  i  miglior  mae 
stri,  riferita  gia  nel  primo  ingresso  di  questo  libro,1  era  il  fonda- 
mento  della  scuola  de5  Caracci;  ancorche  la  modificassero  secondo 
i  talenti,  come  abbiam  detto.  Avrian  voluto  recare  insieme  quanto 
nelle  altre  scuole  vedean  di  meglio ;  e  in  ci6  tennero  essi  due  vie. 
La  prima  e  simile  a  que'  poeti  che  in  separate  canzoni  si  propon- 
gono  diversi  esemplari;  e  in  una  per  figura  ritraggono  dal  Petrarca, 
in  altra  dal  Chiabrera,  in  altra  dal  Frugoni.  La  seconda  e  simile 
a  quegli  che,  padroneggiando  i  tre  stili,  gli  temperano  insieme  e 
ne  formano  quasi  un  metallo  corintio  composto  di  vari  altri.  Non 
altramente  i  Caracci  usarono  in  certe  lor  composizioni  di  pre- 
sentare  in  diverse  figure  diversi  stili.  Cosi  Lodovico  nella  Predica- 
zione  di  San  Gio.  Batista  a'  Certosini2  (ove  il  Crespi3  riscontra 
specialmente  Paol  Veronese)  ha  espressi  gli  uditori  del  santo  in 
guisa  che  un  perito  gli  distingueva  con  questi  nomi,  il  raffaellesco, 
il  tizianesco,  I'emolo  del  Tintoretto.  Cosi  Annibale,  che  per  qual- 
che  tempo  non  mirava  se  non  il  Coreggio,  adottata  in  fine  la  mas 
sima  di  Lodovico,  dipinse  la  tavola  celebre  per  S.  Giorgio;4  ove 
nella  gran  Vergine  imit6  Paolo,  nel  divino  Infante  e  nel  S.  Gio- 
vannino  si  propose  il  Coreggio,  in  S.  Gio.  Evangelista  fece  veder 
Tiziano,  nella  graziosissima  S.  Caterina  il  Parmigianino.  Ma  co- 
munemente  essi  tennero  la  seconda  via;  e  molti  phi  esempi  potrian 
addursi  d'imitazioni  meno  aperte,  piu  disinvolte,  piu  miste,  e  mo- 
dificate  in  maniera  che  ne  risultasse  un  tutto  originalissimo.  E  il 
bizzarro  Agostino,  emulando  gli  antichi  legislatori  che  il  corpo 
delle  lor  leggi  chiudevano  in  pochi  versi,  compose  quel  sonetto,5 

alia  elezione  del  primo,  e  di  sua  moneta  premiava  lui  e  gli  altri  che  gli 
si  erano  appressati  fino  al  quarto:  oltreche  al  primo  ordinava  un  quadro 
del  soggetto  stesso  di  cui  era  stato  il  disegno.  Qual  segreto  e  questo  per 
promovere  le  belle  arti!  (L.).  i.  riferita  .  \  .  hbro :  cfr.  v,  p.  3:  «La 
somma  della  loro  [dei  Carracci]  dottrina  fu  che  il  pittore  dividesse,  per 
cosi  dire,  i  suoi  sguardi  fra  la  natura  e  1'arte;  e  or  questa  or  quella  vi- 
cendevolmente  riguardasse;  e  secondo  il  natio  talento  e  la  propria  sua 
disposizione  da  questa  e  da  quella  scegliesse  il  meglio ».  2.  a3  Certosini' 
°fiera>  esegmta  nel  1592,  gia  a  San  Girolamo  della  Certosa,  si  trova  ora 
nella  Pinacoteca  di  Bologna.  3.  Crespi:  cfr.  la  nota  2  a  p.  1140.  4.  la  ta 
vola  .  .  S.  Giorgio:  il  quadro,  dipinto  nel  1593,  e  ora  nella  Pinacoteca 
di  Bologna.  5.  Questo  celebre  sonetto  fu  pubblicato  per  la  prima  volta 
dal  Malvasia,  come  opera  di  Agostino  Carracci.  Ma  tale  attribuzione 
accolta  anche  dal  Lanzi,  e  stata  recentemente  rnessa  in  dubbio  dallo 
bcnlosser,  dal  Longhi  e  da  altri  (cfr.  sulla  questione  D.  MAHON,  /  Carracci 


STORIA   PITTORICA   BELLA    ITALIA  Il6y 

pittoresco  veramente  piu  che  poetico;  die,  avendo  per  oggetto 
1'elogio  di  Niccolino  Abati,1  spiega  nonpertanto  la  massima  della 
sua  scuola  di  c6rre  il  piu  bel  fior  di  ogni  stile.  Eccolo  quale  il 
Malvasia  ce  lo  ha  tramandato  nella  vita  del  Primaticcio  :2 

Chi  farsi  un  buon  pittor  brama  e  desia 
il  disegno  di  Roma  dbbia  alia  mono, 
la  mossa  colVombrar  veneziano, 
e  il  degno  colorir  di  Lombardia; 

di  Michelangiol  la  terribil  via, 
il  vero  natural  di  Tiziano, 
di  Coreggio  lo  stil  puro  e  sovrano, 
e  di  un  Raffael  la  vera  simmetria; 

del  Tibaldi  il  decor o  e  il  fondamento, 
del  dotto  Primaticcio  Vinventare, 
e  un  po*  di  grazia  del  Parmigianino : 

ma  senza  tanti  studi  e  tanto  stento 
si  ponga  solo  Vopre  ad  imitare 
che  qui  lasciocci  il  nostro  Niccolino. 


e  la  teoria  artistica,  nel  volume  miscellaneo  La  mostra  dei  Carraccit  Bolo 
gna,  Edizioni  Alfa,  1956,  pp.  49-59).  i.  Niccolino  Abati  o  dell' Abate 
(1513-1571  circa),  pittore  manierista  assai  ammirato  anche  dalTAlgarotti, 
2.  Francesco  Primaticcio  (1505-1570),  raffinato  pittore  manierista,  Iavor6 
soprattutto  in  Francia. 


NOTA  AI  TESTI 

.Le  indicazioni  relative  alia  storia  e  alia  scelta  dei  testi  delle  opere 
comprese  in  questo  volume  si  trovano  nei  cappelli  introduttivi  alle 
singole  opere. 

Nella  riproduzione  dei  testi  mi  sono  attenuto  ai  principii  generali 
gia  in  uso  nella  collana,  ammodernando  cioe  la  punteggiatura  (ma  con 
molta  cautela  nelle  traduzioni  ossianiche  del  Cesarotti,  dove  1'inter- 
punzione  assume  una  maggiore  responsabilita  artistica)  e  la  grafia  (ri- 
duzione  delle  maiuscole  e  risoluzione  dello  j"  in  i  o  ii,  ecc.).  Nelle  cita- 
zioni  inserite  nei  testi  ho  naturalmente  mantenuto  la  lezione  seguita 
dagli  autori,  segnalando  in  nota  soltanto  le  variazioni  o  le  omissioni 
piu  notevoli.  Per  la  correzione  degli  errori  di  stampa  mi  sono  valso, 
quando  esistevano,  delle  edizioni  precedent!  a  quella  definitiva.  In 
ogni  caso  ho  sempre  indicate  nelle  note  a  pie  di  pagina  tutti  gli  inter- 
venti  sul  testo  che  non  fossero  gli  ammodernamenti  sopra  ricordati 
della  punteggiatura  e  della  grafia  o  eliminazioni  di  indiscutibili  refusi. 

Anche  per  quanto  riguarda  il  commento  mi  sono  attenuto  ai  cri- 
teri  generali  gia  in  uso  nella  collana.  In  particolare,  nei  cappello  di 
ogni  opera  riprodotta  ho  accennato  anche  alle  eventual!  traduzioni 
nelle  lingue  straniere,  e  fornito  qualche  notizia  sulle  circostanze  in 
cui  T opera  stessa  fu  composta  e  sulle  accoglienze  da  essa  ricevute 
presso  i  contemporanei.  Nelle  altre  note  a  pie  di  pagina  ho  poi  fra 
Taltro  sempre  cercato  di  indicare,  quando  mi  e  stato  possibile,  le 
fonti  italiane  e  straniere,  la  cui  conoscenza  sembra  particolarmente 
utile  per  Tinterpretazione  di  opere,  come  quelle  comprese  nei  pre- 
sente  volume,  nate  in  un  ambiente  caratterizzato  da  una  continua  e 
vivacissima  « circolazione  delle  idee  ». 


INDICE 


INTRODUZIONE  XI 

BIBLIOGRAFIA  XIX 

MELCHIORRE  CESAROTTI 

Nota  introduttiva  3 

RAGIONAMENTO    SOPRA   IL   DILETTO   BELLA   TRAGEDIA  2? 

RAGIONAMENTO    SOPRA    L'ORIGINE    E    I    PROGRESSI    DEL- 

L'ARTE  POETICA  54 

DALLE   ((POESIE    DI    OSSIAN  ANTICO    POETA    CELTICO » 

Discorso  premesso  alia  seconda  edizione  di  Padova  del  1772  87 

FINGAL   •   POEMA  EPICO 

Introduzione  99 

Canto  I  ioo 

Canto  ii  125 

Canto  in  142 

Canto  iv  1 60 

Canto  v  176 

Canto  vi  190 

Osservazioni 

Canto  I  203 

Canto  ii  210 

Canto  in  213 

Canto  iv  218 

Canto  v  221 

Canto  vi  223 

CARTONE  227 

I    CANTI   DI   SELMA  247 

LA  NOTTE  261 


1172  INDICE 

ELEGIA  DI  TOMMASO  GRAY  SOPRA  UN  CIMITERO  DI  CAM- 
PAGNA  270 

RIFLESSIONI  SOPRA  I  DOVERI  ACCADEMICI  276 

RAGIONAMENTO  PRELIMINARE  AL  CORSO  RAGIONATO  DI 
LETTERATURA  GRECA  287 

SAGGIO  SULLA  FILOSOFIA  DELLE  LINGUE  APPLICATO  AL- 
LA  LINGUA  ITALIANA.  CON  VARIE  NOTE,  DUE  RISCHIA- 
RAMENTI  E  UNA  LETTERA 

Awertimento  304 

PARTE  I.  Si  confutano  alcuni  pregiudizi  che  regnano  intorno  le 
lingue  306 

PARTE  ii.  Dei  principii  che  debbono  guidar  la  ragione  nel  giudicar 
della  lingua  scntta,  nel  perfezionarla  e  nel  fame  il  miglior  uso     318 
PARTE  in.  Delle  regole  che  possono  dirigere  uno  scrittor  giudizioso 
nel  far  uso  delle  varie  parti  della  lingua  356 

PARTE  iv.  Della  lingua  italiana  e  dei  modi  d'ampliarla  e  perfezio 
narla  399 

Awertimento  degli  editori  426 

Rischiaramenti  apologetici 

I.  Sopra  alcune  teorie  preliminari  434 

II.  Sul  francesismo  447 

Lettera  dell'Ab.  Cesarotti  al  Sig.  Conte  Gian-Francesco  Galeani 
Napione  457 

SAGGIO  SULLA  FILOSOFIA  DEL  GUSTO  ALL' ARCADIA  DI 
ROMA  469 


DALLE  LETTERE 

I.  A  Giuseppe  Toaldo  [Notizie  letterane  da  Venezia],  Venezia, 

15  dicembre  1760  483 

ii.  Al  Macpherson  [Ossian]  486 

in.  A  Giuseppe  Antonio  Taruffi  [Confidenze  sentimentali]  489 

iv.  A  Michele  van  Goens  [Giudizi  sul  Metastasio,  sul  Goldom  e 

su  Ossian]  492 


INDICE  1173 

v.  A  Michele  van  Goens  [Poeti  tedeschi  e  poeti  primitivi]  499 
vr.  A  Saverio  Mattel  [Traduzioni  della  Bibbia  e  di  scrittori  greci], 

Padova,  n  giugno  1778  502 

vii.  A  Clementine  Vannetti  [Sulle  epistole  del  Vannetti  al  Monti]  505 

VIII.  A  Clementine  Vannetti  [« Arricchire  1'erario  della  nostra  lin 
gua  »],  Padova  506 

IX.  A  Clementino  Vannetti  [« Appropriarsi  felicemente  le  bellezze 
straniere»],  Padova  510 
x.  A  Giambattista  Giovio  [Qualita  e  doveri  del  buon  critico],  Pa 
dova,  27  luglio  1782  513 

XI.  A  Giuseppe  Antonio  Taruffi  [Breve  giudizio  suirAlfieri]  514 

XII.  A  Ferdinando  Galiani  [Su  Omero  ed  Orazio],  20  agosto  515 

XIII.  A  Costantino  Zacco  [Prime  impression!  di  fronte  alia  Rivolu- 
zione  francese],  Noventa,  12  agosto  517 
xiv.  Alia  contessa  d' Albany  [Sul  «  Panegirico  »  dell'Alfieri]  518 
xv.  A  Giambattista  Corniani  [II  Bello  morale],  Padova,  n  dicem- 

bre  1790  519 
xvi.  A   Costantino   Zacco    [Altre   impressioni   sulla   Rivoluzione 
francese]  521 
xvn.  A  Giuseppe  Olivi  [Per  un  corso  di  buone  letture],  Padova, 
1792  523 
xvni.  A  Giuseppe  Walker  [Sull'autenticita  dei  poemi  ossianici]  524 
xix.  A  Enrichetta  Treves  [La  memoria  degli  amici  defunti]  526 
xx.  A  Vittorio  Alfieri  [Presentazione  di  Isabella  Teotochi]  527 
xxi.  A  Ugo  Foscolo  529 
xxii.  A  Tommaso  Olivi  [La  sistemazione  di  Selvaggiano],  23  no- 
vembre  1796  529 
xxiii.  A  Costantino  Zacco  [Inquietudine  perlasituazionepolitica], 
Padova,  1796  531 
xxiv.  A  Tommaso  Olivi  [La  nuova  democrazia],  Padova,  15  de- 
cembre  1797  532 
xxv.  A  Monsieur .  .  .  [Sulle  proprie  traduzioni  ossianiche  e  ome- 
riche]  533 
xxvi.  A  Francesca  Morelli  [Le  consolazioni  deiramicizia  e  della 
natura]  535 
XXVII.  A  Francesca  Morelli  [Autoritratto  morale]  537 
xxviii.  A  Francesca  Morelli  [Descrizione  di  Bassano],  Selvaggiano  539 
xxix.  A  Francesco  Rizzo  e  Giustina  Renier  [Elogio  del  Necker]  541 
xxx.  A  Giuseppe  Barbieri  [Giudizio  sullo  «Iacopo  Ortis»],  3  de- 
cembre  543 
xxxi.  A  Giustina  Renier  Michiel  [Giudizi  sul  Foscolo  e  suirAl 
fieri],  Padova,  20  dicembre  1803  545 
xxxii.  A  Vincenzo  Monti  [La  caricatura  del  ritratto  di  Omero], 
Padova,  16  marzo  1805  54$ 
xxxni.  A  Giustina  Renier  Michiel  [Elogio  della  Stael]  549 
xxxiv.  A  madama  de  Stael  [Elogio  del  Necker]  55  * 
XXXV.  A  Giovanni  Rosini  [La  traduzione  di  Giovenale]  553 


1174  INDICE 

xxxvi.  A  Francesco  Rizzo  [La  dolcezza  delle  lacrime]  554 

xxxvu.  A  Giustina  Renier  Michiel  [Giudizi  sulla  Stael  e  notizie 

del  Foscolo],  Selvaggiano,  20  giugno  1806  555 

xxxvin.  A  Giovanni  Carmignani  [Giudizio  suH'Alneri],  Padova, 

25  novembre  1806  557 


GIROLAMO  TIRABOSCHI 
Nota  introduttiva  561 

DALLA  (CSTORIA  DELLA   LETTERATURA   ITALIANA)) 
Prefazione  alia  prima  edizione  573 

PIETRO  NAPOLI  SIGNORELLI 

Nota  introduttiva  589 

DALLA    ((STORIA    CRITICA    DE>    TEATRI    ANTICHI    E    MO- 
DERNI » 

[L]  In  quali  cose  si  rassomigli  ogni  teatro  601 

[n.  L'«  Ippohto »  d'Euripide  e  la  «Fedra»  di  Racine]  606 

[in.  L'«Anfitrione»  di  Plauto  e  quello  di  Moliere]  608 

[iv.  Analisi  della  « Medea »  di  Seneca]  610 

[v.  Giudizi  sul  Racine]  617 

DALLE  (CVICENDE   DELLA   COLTURA  NELLE  DUE   SICILIE)) 

I.  Prime  memorie  delle  nostre  popolazioni  e  del  grado  di  coltura 

che  vi  pote"  regnare  622 

II.  [Discussioni  col  Bettinelh]  626 
in.  [Italianita  della  poesia  petrarchesca]  630 
iv.  [L'amore   della   liberta,    primario   movimento  della   natura 
umana]  637 

DA  ((DELLE  MIGLIORI  TRAGEDIE  GRECHE  E  FRANCES!)) 

[Classici  e  classicist!]  641 


INDICE  1175 

GIAN  FRANCESCO  GALEANI  NAPIONE 

Nota  introduttiva  647 

DA  ((DELL'USO   E   DEI   PREGI    DELLA   LINGUA   ITALIANA)) 

LIBRO  I  •  CAPO  I 

[Introduzione]  659 

§  i.  La  lingua  e  uno  dei  piu  forti  vincoli  che  stringa  alia  patria       66 1 

CAPO  II 

§  2.  [Scrittore  originale  e  solo  chi  scrive  la  propria  lingua]  664 

CAPO  III 

§  i .  Diverso  concetto,  in  cui  son  tenute  in  Piemonte  la  lingua  ita- 
liana  e  la  francese;  conseguenze  che  ne  derivano  666 

LIBRO  II  •  CAPO  II 

§  i.  Opinione  dell' abate  Cesarotti  into'rno  ai  diversi  pregi  delle 
lingue  668 

§  4.  Costruzione  della  lingua  italiana:  si  difende  da  una  taccia  da- 
tale  dalP abate  di  Condillac  671 

LIBRO  III  •  CAPO  II 

[Introduzione]  679 
§  i.  Coltura  ed  eleganza  necessaria  a  tutti;  necessita  di  arricchir 

la  lingua  di  op  ere  elementari  e  di  letteratura  galante  680 

§  2.  Dialetti  italiani  e  lingua  universale  tratta  da  essi  68 1 

DAL  ((DISCORSO   INTORNO   ALLA   STORIA   DEL  PIEMONTE)) 

§  ix.  Opposizioni  contro  al  disegno  di  una  storia  del  Piemonte         687 
§  x.  Riflessioni  intorno  alle  Opposizioni  sopraccennate  690 


MATTEO  BORSA 

Nota  introduttiva  695 

DA   (d    VIZI    Pit    COMUNI   E    OSSERVABILI   DEL    CORRENTE 
GUSTO   ITALIANO   IN  BELLE   LETTERE)) 

[Introduzione]  7°7 
Parte  prima 

PRIMO  vizio.  Neologismo  straniero  7I3 

SECONDO  vizio.  Filosofismo  enciclopedico  729 


1176  INDICE 

CLEMENTINO  VANNETTI 

Nota  introduttiva  747 

DAI  (CDIALOGHD) 

DIALOGO  v.  La  scuola  del  buon  gusto  nella  bottega  del  caffe  759 

DALLE  « LETTERE  » 

I.  A  Melchiorre  Cesarotti  [Sul  Thomas  e  sui  poeti  tedeschi],  Ro- 
veredo,  17  giugno  1780  767 

n.  A  Melchiorre  Cesarotti  [I  poeti  tedeschi  e  il  «genio»  della  lin 
gua  italiana],  Roveredo,  30  agosto  1780  769 
ill.  A  Melchiorre  Cesarotti  [Come  arricchire  la  lingua  letteraria 
italiana],  Roveredo,  23  settembre  1780  772 
iv.  Ad  Antonio  Cesari  [La  «professione  di  fede»  linguistica  del 
Vannetti],  Roveredo,  2  giugno  1787  778 


AURELIO  DE>  GIORGI  BERTOLA 

Nota  introduttiva  785 

DALLE  ((  OSSERVAZIONI   SOPRA  METASTASIO  »  797 

DAL  (CSAGGIO  SOPRA  LA  FAVOLA» 

Ingenuita  della  favola  802 

SAGGIO   SOPRA  LA  GRAZIA   NELLE  LETTERE  ED  ARTI  814 

FRANCESCO  TORTI 

Nota  introduttiva  843 

DAL  ((  PROSPETTO  DEL   PARNASO   ITALIANO  » 

TOMO  I 

Al  lettore  859 

CAPITOLO  PRIMO.  Introduzione  862 

CAPITOLO  ii.  Di  Dante  Alighieri.  Disgraziate  vicende  della  sua 


INDICE  1177 

vita.  Suo  poema  della  «Divina  Commedia».  Originalita  e  pregi 
caratteristici  che  lo  distinguono  &72 

CAPITOLO  vn.  DelPAriosto.  Fecondita  originate  del  suo  genlo  pa- 
ragonabile  ad  Omero.  Sua  gran  cognizione  del  cuore  umano.  Di- 
fetti  dell'«  Orlando  »  facilmente  riparabili  889 

TOMO  II 

CAPITOLO  ii.  [Lo  stile  del  Seicento]  9°7 

TOMO  III 

CAPITOLO  n.  [Moliere  e  Goldoni]  9IQ 

CAPITOLO  iv.  [L'arte  del  Parini]  9*4 


FRANCESCO  SAVERIO  SALFI 
Nota  introduttiva  9^7 

DALLA    CONTINUAZIONE    DELL'cc  HISTOIRE    LITTERAIRE 
D'ITALIE»  DEL   GINGUENE 
TOME  X 

CHAPITRE  XLIII.  Resum6  de  1'histoire  litteraire  du  seizieme  siecle. 
Instruction  universellement  repandue  chez  les  Italiens.  Son  peu 
de  solidite.  Esprit  d'imitation  dans  presque  tons  les  genres.  Traits 
d'onginalit6  dans  quelques-uns.  Les  Italiens  plus  habiles  dans  les 
vers  que  dans  la  prose.  Caractere  de  Iegeret6  et  de  servilite  dans  la 
plupart  de  leurs  ouvrages ;  et  ses  causes  politiques  et  religieuses. 
Deiaut  d'61oquence  et  de  philosophic.  Quelques  ouvrages  dans 
lesquels  elles  se  r6fugient.  fitendue  non  ordinaire  d' esprit  des 
Italiens.  Leur  influence  litteraire  sur  toute  1'Europe  945 

TOME  XI 

CHAPITRE  I.  [Situazione  politica  dell' Italia  nel  Seicento]  964 

CHAPITRE  in.  [Stato  degli  studi  nlosofici  alia  nascita  di  Galileo]     965 
CHAPITRE  iv.  [Galileo  e  Bacone]  9^7 

TOME  XIV 

CHAPITRE  xvii.  [Cause  presumibili  della  corruzione  del  gusto  in 
Italia  nel  XVII  secolo]  9°9 

DAL   «  RESUME  DE  L'HISTOIRE   DE    LA    LITTERATURE   ITA- 

LIENNE  » 

SECONDE  P£RIODE  (DEPUIS  1275  JUSQU'EN  1375) 

v.  Petrarca:  caractere  de  son  amour  et  de  ses  vers;  ses  canzoni; 

son  patriotisme  97° 

SIXIEME  PERIODE  (DEPUIS  1675  JUSQU'EN  1775) 

I.  Revolution  litteraire.  Arcadie  romaine;  objet  et  sort  de  cette 


1178  INDICE 

academic.  Gravina  et  Crescimbeni.  Progres  ult6rieurs  de  la  lan- 
gue  vulgaire  et  de  la  critique.  Divers  trait6s  dans  ces  deux  genres     984 
n.  Influence  de  la  literature  frangaise.   Puristes   et   ne"ologues. 
Esprit  philosophique  dans  la  the"orie  et  dans  T usage  de  la  langue. 
Baretti,  Beccaria,  Bettinelli,  Cesarotti,  etc.  9^9 

X.  Alfieri.  Id6e  qu'il  se  forma  du  theatre.  Son  systeme  et  son  but. 
Un  m£me  principe  domine  son  plan,  ses  caracteres,  son  style  et  sa 
versification.  Influence  de  ses  tragedies  994 

SEPTIEME  PERIODE  (EPOQUE  ACTUELLE) 

I.  Epilogue  des  p6riodes  pr6c6dentes.  Esprit  et  tendance  de  la 
p6riode  actuelle  1002 

DALLA  ((REVUE  ENCYCLOP&DIQUE  » 

I.  Notice  sur  Ugo  Foscolo  1009 

n.  [Su  «I  promessi  sposi»]  1015 


FRANCESCO  MILIZIA 

Nota  introduttiva  1031 

DALLE  «  MEMORIE   DEGLI   ARCHITETTI   ANTICHI   E   MODERNI » 

[Giudizio  su  Michelangelo]  1043 

[Giudizio  sul  Palladio]  1045 

[Giudizio  sul  Borromini]  1048 

DAI  ((PRINCIPII  DI  ARCHITETTURA  CIVILE)) 

Storia  dell'architettura  civile  1050 

DA  (CDELL'ARTE  DI  VEDERE  NELLE  BELLE   ARTI    DEL    DI- 

SEGNO    SECONDO    I    PRINCIPII    DI  SULZER    E    DI    MENGS 
I.  SCULTURA 

Ercole  1063 

Mose  1065 

Torso  di  Belvedere  1065 

Gladiatore  Capitolino  1066 

Gladiatore  Borghese  1067 

Apollo  di  Belvedere  1067 

Antinoo  di  Belvedere  1069 

Antinoo  di  Carnpidoglio  1069 

Cristo  di  Michelangelo  1070 

S.  Andrea  del  Fiammingo  1070 

Venere  di  Carnpidoglio  1071 


INDICE  1179 

S.  Bibiana  IQJI 

Flora  Farnesiana  1071 

Flora  Capitolina  1072 

Santa  Susanna  1072, 

Ermafrodito  1072, 

Santa  Cecilia  I0y3 

Laocoonte  1073 
Pieta  di  Michelangelo 
Apollo  e  Dafne 

Toro  Farnese  1076 

Marco  Aurelio  10*76 

Endimione  1077 

S.  Leone  lojS 

III.  ARCHITETTURA 

Panteon  1079 

Colosseo  1080 

S.  Paolo  I08i 

Cancelleria  1081 

Farnese  1081 

Campidoglio  1081 

S.  Pietro  1082 

S.  Andrea  della  Valle  1082 

Sagristia  Vaticana  1083 


GIUSEPPE  SPALLETTI 

Nota  introduttiva  1087 

DAL  KSAGGIO  SOPRA  LA  BELLEZZA» 

II.  Idea  dell7 opera  1093 

in.  Definizione  della  bellezza  1094 

xi.  Gli  uomini  han  formato  una  norma  di  bellezza  1095 

xn.  Questa  norma  in  sostanza  poco  variabile  1096 

xiil.  Caratteristica,  e  suo  vantaggio  1097 

xiv.  Di  questo  medesimo  si  sono  serviti  i  poeti  e  gli  oratori  1098 

xv.  Perch6  le  cose  tetre  e  melanconiche  ci  piacciono  1098 

XVI.  Una  serie  continua  di  taciti  sillogismi  e  la  guida  dell'anima  noo 
xvii.  La  bellezza  somministra  all'anima  campo  di  ragionare,  e  per 

conseguenza  di  sentir  piacere  nor 

xviii.  II  corpo  umano  e  la  pito,  bella  delle  produzioni  a  noi  note  nor 

xix.  II  piacere  originate  dalla  bellezza  e  piacere  intellettuale  1103 

xxxiv.  La  venta  oggetto  della  bellezza  1103 
xxxv.  II  pittore  eccellente  deve  mostrare  di  quanta  perfezione  e 

suscettibile  la  natura  1105 


Il8o  INDICE 

xxxvi.  II  colorito  IIOS 

xxxvii.  La  grazia  IIQ6 

xxxvni.  La  venust&  II07 

XXXIX.  II  Grande  *IO7 
XL.  II  buon  gusto  e  la  voce  deH'amor  proprio,  il  quale  e  il  giu- 

dice  della  bellezza  "09 

XLI.  Bellezza  che  muove  IIXO 

XLII.  Conclusione  dell'opera  III]C 


LUIGI  LANZI 

Nota  introduttiva  * 1 1 5 

DALLA  «  STORIA  PITTORICA  DELLA  ITALIA)) 

Prefazione  1129 

I.  Giovanni  Cimabue  i*52 

il.  Michelangiolo  da  Caravaggio  i*55 

in.  Bernardin  Lovmo  1156 

IV.  [Origine  e  metodo  della  scuola  carraccesca]  1 160 

NOTA  AI   TESTI  1169 


IMPRESSO  NEL  MESE  DI  SETTEMBRE  MCMLX 

DALLA  STAMPERIA  VALDONEGA 

DI  VERONA 


p 


1 04  288 


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