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1761 01
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DON GIOVANNI
attraverso le letterature spagnuola e italiana
FRANCO FUÀ
Don Giovanni
attraverso le letterature spagnuola e italiana
Torino - S. LATTES & C. - Genova
EDITORI
Librai della Real Casa
Firenze : R. Bemporad e figli<
Proprietà Letteraria
^1
Stabilimento Tipografico Ajani & Canale - Torino.
PROPONIMENTO.
Il mio studio di Don Giovanni attraverso alle due
letterature che l'una prima e l'altra poco appresso ne
accolgono il tipo e lo vagheggiano, - saggio che
potrà occasionare il più vasto cimento di rincorrere
il corridor di femmine traverso le altre letterature, -
non nasce precisamente da un motivo letterario, seb-
bene, in fondo, sulla via della letteratura muti i suoi
passi.
Muovo dalla premessa dedottami da osservazioni
ed esperimento, che esista una forma fìsica sessuale
sentimentale, che, astratta, trova il suo contenuto
pratico nella realtà, e le manifestazioni ne sono quelle
che circostanziano Don Giovanni. Per formare il
quale non però bastano le operazioni, ma intima
essenza n è quella che mi proverò ad investigare poi.
Perchè a questa forma si sia lasciato il nome Don
Giovanni, quando poi la commedia da cui discende
questo nome non contiene in chi ne distinto che
— VI
pochi tratti rispondenti alla figura da individuare,
non farà spalancar gli occhi a nessuno che pensi un
po' come voltabile più delle sorti umane . . . non sia
che la sorte dei vocaboli. Alle altre cause sottili e
senza piglio, si aggiunge questa, che Tirso che pren-
deva dalla leggenda ove il nome poteva anche esser
diverso, tratteggiava nella sua commedia un bel tipo
di trappoliere d'amore col mosaico delle sue berte ;
e pure, intento ad altro scopo, per quell' inerzia di
moto, onde nei momenti creativi sorgono su i parti
migliori, gli venne fatto che una vitalità di ben altro
suono, che non nelle analoghe figure della scena di
allora, riscampanellasse nel personaggio, il cui nome
è anche assai frequente nel teatro spagnuolo del tempo;
onde poi quello facesse retate delle attenzioni e delle
simpatie universali, saltati i valli della commedia
prima. Sempre l'opera collabora col suo autore.
L'idea impersonale e nebulosa che fluttuava nella
vita, che è la subcoscienza dell'arte, della possibilità
di Don Giovanni, ecco è riscattata a luce d'inten-
zione artistica dopo il sorgere dell'or veduto Don
Giovanni Tenorio.
Prima, i presagi, sempre inintenzionali e occasio-
nali : non, di un tale, tanto rappresentare l'insensibi-
lità proprio dongiovannesca ai suoi amori, si cerca,
quanto questi amori, e di questi gli obbietti femminili;
troviamo qua e là frammenti a caso, sparti frantumi
predongiovanneschi, chi ama scorrazzare curioso per
VII
le letterature ; ovunque però non si prevede che quei
lacerti possano unirsi, congregarsi e ristampare all'arte
il modello dongiovannesco che nella vita potè esistere
assai lontanamente.
Nella commedia latina, tutta d'uno stampo, in
sostanza, ravvisiamo al più un profeta di Falstaff nel
Pirgopolmice plautmo ; quanto ai giovani amorosi di
Plauto e Terenzio, tutti sanno che cosa sono ; fatti
a macchina paiono, a mo' di tessere ; — passate ai
servi e ai parassiti e lì comincia la vita ; talora l'au-
dacia faceta dei Cureulioni e Tranioni plautini, dei
Davi e Parmenoni terenziani s'immilla di ironia che
ha del dongiovannesco non attuato ; e a Don Gio-
vanni è veramente riassunto alcun carattere forse
inintenzionale dei servi girandolai della commedia
romana, ove ai fievoli servi di Don Giovanni è un
ricordo della pacchiona crapulosità degli Ergasili e
e dei Gnatom.
Le pastorelle francesi del 200 - dialoghetti
d'amore fra la galanteria maestra di un cavaliere a
diporto e la ritrosia di una contadinella, or timida or
molto simile alla Galatea di Vergilio, - hanno qua e
là delle figure maschili ignare di se, colte sulla via,
cui il cantore ispira intuitivamente una vita che lui
stesso non saprebbe analizzare, che insertano quei
quadretti nel raggio della nostra osservazione.
Anche nelle nostre poesie d'argomento amoroso
del periodo dell'origini, tratti dongiovanneschi, spe-
vili
cialmente nel meridionale, tralucono. Senza tuttavia
consentire al Prof. Caix ( 1 ) che il noto contrasto
di Cielo dal Camo rifletta in sé una figura di
" errante Don Giovanni ", ove il Bartoli (2) e il
D'Ovidio (3) intravedono un buon popolanone pieno
di fregole e giovedì grassi che pare a me combatta
solo a parole, e per mero piacer del poeta, con una
femminella che n'ha più voglia di lui (" a lo letto ne
gimo a la bon ora").
Ma ad esempio quella poesia popolare napolìtana,
secondo è detta nel codice, che il Carducci riporta
a pag. 57 delle sue Cantilene e ballate e il Bartoli
ripete nell'opera citata (tomo 2, cap. 6, pag. 1 24),
è da riguardarsi, e perchè ha il seme di un motivo
che sarà svolto e variato poi ripetutamente dai com-
mediografi dei Don Giovanni, e per la forma d'animo,
che rivela, di spiritosa leggerezza.
Gimene a letto della donna mia,
Stesi la mano e toccaile lo lato.
Ella si risvegliò, ch'ella dormia :
Onde ci entrasti, cane rinnegato ?
(1) Giulio D'Alcamo e gli imitatori delle Romanze e Pastorelle
pTooenzali e francesi nella Nuova Antologia, voi. XXX, fase. 2^;
Ancora del Contrasto di Giulio D'Alcamo nella Ricista Europea,
anno VII, voi. II, fase. 3 " ; // contrasto di Giulio D'Alcamo ne\\& Rivista
di filologia romanza, voi. II, fase. 3'' e 4".
Estraggo queste eìtazioni dal Bartoli: Storia della letteratura Italiana,
tomo II, pag. 129, nota 2 (ediz. Sansoni, Firenze, 1879).
(2) Op. cit., eap. VI.
(3) Saggi critici, pagg. 466-538 (Napoli, edizione Domenieo Mo-
rano. 1879).
Di eguale opinione è il Gaspary : St. d. let. It. {\^' voi. trad. Zin-
garelli, ed. Loescher, 1914, pagg. 70-73).
IX
Entraici dalla porta, o vita mia,
Priegoti ch'io ti sia raccomandato.
Or poi che ci se' entrato, fatto sia,
Spogliati ignudo e corquamiti allato.
Poi ch'avem fallo lullo noslro gioco.
Tolsi gli panni e voleami vestire.
Ed ella disse : Stacci un altro poco
Che non sai i giorni che ci puoi transire.
Non si va col pensiero alla scena notturna tra la
contadina Aminta e Don Giovanni del Burlador ?
Originalmente, della storia di Don Giovanni è
invero prima patria la leggenda popolare, e precisa-
mente dei popoli meridionah, più precisamente, per
vari indizi, dello spagnuolo.
Non è il popolo l'eterno giovine che non trova
malìa che nei racconti d'amore e gode gonfiare gon-
fiare dei sospiri i più abnormi la molto elementare
irriducibilità dell'accoppiamento ?
Così, è gradito al popolo il particolare del reo
pentito e converso, o comunque dell'uomo che dopo
procellosa vita entra a vele calate nel porto.
Quante leggende non ripetono l'esempio dalla
storia di Lancellotto del Lago, amata anche da
Dante ( 1 ) : - dopo vagabondaggi e mondane avven-
ture, a una badia si rende per tutto il resto della
vita -?
(I) Dante, Concitìio, Trattato 4, cap. XXVllI.
Nei primi Don Giovanni la parte concessa al pen-
timento vano è lieve e quasi trascurabile, per quanto
ampliata e fatta onorevole col Romanticismo ; ma
anche in quelli l'ampia visione delle pene infernali
significativamente integra il tardivo pentimento e mostra
qui essere le radici che abbarbicano all'anima elabo-
ratrice il personaggio che non gradirebbe al volgo
come un'assoluta figurazione di male.
Nasce Don Giovanni per le platee ; perciò il mag-
gior suo svolgimento l'ha sulla scena, la quale che
altro se non l'interceditrice, è, tra il genio e la mar-
maglia ?
Nella stessa trabeazione della leggenda i fregi
principali che sono gli inviti a cena dello schernitore
al marmo e di questo, animatosi, a quello, confessano
l'origine popolare dall'antichissimo annettere al mec-
canismo quotidiano del pasto lo scoppio di qualche
evento e l'attribuirvi comunque un senso di quasi
eufemistica inviolabilità. Onde, per un esempio, in Eu-
docia Augusta si trova che in Argo era divieto ad uc-
cidere alcuno col quale si era mangiato (1 ). E occor-
rerà rammentare i conviti olocausti, venerabili e tanto
importanti di Omero? (2). E quelli spiranti fato
degli antichi Ebrei ? (3)
(1) 'ICOVLtt, XleQÌ BeÀÀEQOCpÓVTOV.
(2) Es. Iliade, lib. 9°. ver. 200-225, e anche lib. 24°, ver. 600-627.
(3) Es. Vec. Test. Ester, cap. V e VII.
XI
L'animarsi d'una pietra poi è vano perdersi ora a
dire come è di per se un'invenzione tutta primitivismo
popolare : di consimili favole nessun popolo ha penuria.
Ora tutto questo popolarismo della leggenda, che
dovrò megho esplicare, non so quanto avrebbe egli
tirata l'attenzione di chi scrive, se non forse per la
stranezza che sotto si mgolfa alla prima semplicità a
tutti ostensa, per i hquori di lirico e tragico che, entro
labendovi ai vuoti della solida lettera, chiaman a
specchiarvisi tristezze errabonde...
Che le ditate degli impuri senza numero, che
hanno incestato questa fantasia, non ne han tocco ne
pur indovinato l'intimo lago di sogno del cuore.
Ma comunque secondare anche senza intenzione
i vagheggiamenti e i piaceri dei più non era tale
obbietto da invogliar molto chi per le nostre troppo
umane propensioni ne abbia la più rosea delle indul-
genze ne personalmente l'attitudine pur rispettabilis-
sima a scripitillarsi addosso i tintinnaboli della pub-
blicità, a mo' degli AJcibiadi di tutti i tempi ; se
qualcosa di più fermo e più serio non m'avesse ade-
scato a intrattenermi m mezzo all'argomento don-
giovannesco, rispiando non pure le manifestazioni
d'arte - miniere di fantasia - ma la vita che mi scor-
reva davanti tanta materia d'arte inconsciamente
traendo seco.
E riuscii a convincermi di trovarmi avanti a qual-
cosa di ben altro che a vii materia di trastullo a proverbi
XII
e antonomasie popolaresche, di sollazzo domenicale
a serve e frugoletti accrocchiati di faccia a un barac-
cone di teste di legno.
Riconobbi e ricostruii in Don Giovanni un tipo
di amatore, chiamandolo così dalla sua qualità inversa,
che è quella di non amare riamatissimo, ove per
amore si seguiti a intendere l'attrazione suprema sen-
timentale e sensuale verso uno e non altro obbietto.
Riconobbi m Don Giovanni un'essenza ultima
che non è spirituale, non è fisica, ma tutt'e due, ne
meramente magnetica, che la sua azione non è solo
attrattiva, ma propagatrice, diffusiva; (mi accordai
con me stesso di chiamarla plessica).
Forza di natura, estranea a valutazione morale,
è, come peculiarmente attiva, ignara a se stessa.
Giudicai la dongiovannesca un'energia nova non
avanti distinta nella dinamica della vita e vanamente
diffusa nei vari uomini,
E chiamo situazioni prette dongiovannesche quelle
in cui il personaggio restando del tutto consapevole
di se e calcolatore e talora contemporaneamente
attendendo ad altro, trascina a suo impero la perduta
ammaliazione del tipo femmina, e, lui estraneo o irri-
sore, ne estrae concenti di passione e poesia, abban-
doni di sogni intorno a se, tutto quel paradiso d'amore
che raramente altri, corrispondendovi, riescirebbe a
creare così perfetto, e, appunto perchè corrispon-
dendovi, mai così assoluto.
— XIII
Dopo ciò perchè la mia trattazione nata su espe-
rimento battuto si sia venuta intralciando tra l' impra-
tiche coltivazioni della poesia e della letteratura, sarà
ingenuo domandare e rispondere.
A ciascuno il suo. Che il modesto me uso alle
fantasmagoriche evasioni nei letterari oblii della ferrea
vita abbia messo per un momento la material punta
del piede suo fuori del palagio di nuvole sullo sterrato
nuovo, niente di male ; ma a troppo insistere sul dis-
sueto suolo, farei il paio del villan che s'inurba.
Per evitare il che, scelgo, estratto e ricomposto
dal vero per eliminazione il mio tipo dongiovannesco,
di seguirne i confronti con le figure letterarie, a riprova
di queste, e anche a maggior colorito di quello ; non
scartando del tutto gli aiuti della esperienza e della
psicologia, ma servendomene come di elementi estrin-
seci, ove in altro trattato e di altri intenti, che si farà,
quello letterario il più lento, dovrebbe essere, e ap-
pena marginale elemento ; sostanziale, l'esperimento
positivo.
Così seguo attraverso la Spagna e l'Italia Don
Giovanni, travalicando l'ordine simultaneamente cro-
nologico osservato finora nei tanti studi della leggenda
fatti da pregiati critici, che ne hanno indagata la genesi
storica e il mutevole differenziarsi degli elementi tra-
verso le salde date, - ad altro affaccendati che a ri-
sollevare in luce un tipo, umile ufficio che forse han
serbato a me.
— XIV —
In Italia del resto, anche in questo senso, di note-
vole su questo argomento, oltre ad articoli di giornali
degni d'ombra, non s'è scritto che dal Brouwer e
dal Farinelli, come s'indicherà più specialmente lungo
il cammino.
Della letteratura spagnuola dongiovannesca più
moderna non tutto m'è riuscito procurarmi quanto
conosceva e avrei voluto : d'altra parte valermi di
traduzioni o riduzioni o riassunti d'altrove e comun-
que prescindere dall'opera che ho sempre preteso
aver sott'occhi, non volli.
Delle opere, oggetto e vittima della mia aspra
analisi, di quelle, come non poche, mi concedo di
parlare.
E intendo di far chiare anche le colorazioni nazio-
nali che il tipo prende traverso le fantasie di ciascun
popolo.
INDICE
Parte prima = Il tipo e la sua fortuna . . . Pag. I
Parte seconda : La Leggenda e U Burlador . » 29
Parte terza : Don Giovanni in Ispagna » 63
Parte QUARTA: Don Giovanni in Italia ... » 115
ìM^f^] [^^] m^ Bso
PARTE PRIMA
Il tipo e la sua fortuna
Don Giovanni appare per la, prima volta nel 1630
nella commedia che porta il nome di Tirso De Molina:
El Burlador de Sedila y convidado de piedra.
Letteralmente esso non pare avere gran che di straor-
dinario.
Gran seduttore, il suo maggior gusto è ingannare le
donne : scavezzacollo, dopo averne burlate quattro du-
rante la commedia, senza contare quelle che può aver
turlupinate prima, finisce punito dalla statua del padre di
una delle sue vittime, ucciso da lui in duello.
Fino all'ultimo, baldo della propria vitalità, quasi illuso
di essere invulnerabile, ha protratto il suo ravvedimento,
come se un finale troppo finale : " Dejame que llame -
Quien me confiese y absuelva " potesse bastare a redi-
mere una esistenza dissipata in vanità ; viene trascinato
all' inferno.
Il personaggio di Tirso non è sempre coerente con se
stesso e l'opera non è certo una scultoria rappresentazione
1 — F. FuÀ, Don Giovanni-
— 2 —
di tipo. Non pare nemmeno al Farinelli che essa appar-
tenga al monaco della Mercede.
Pure questa figura ha vissuto e vive intensamente e
nelle elette fantasie degli artisti e nei gusti grezzi della
folla: arricchita di significazioni diverse passa attra-
verso le più profonde crisi dello spirito umano senza per-
dere le sue sagome prime. Incorniciata nell'apparecchiata
favola meravigliosa, ha fatto oltre e prima della gioia del
pubblico, quella degli autori, che in tale liberatrice crea-
zione hanno infuso più della loro anima e del loro tor-
mento, onde è pur materiato il riso di Don Giovanni.
Man mano si è spogHato, come di elemento ascitizio,
della leggenda, a cominciar dal Goldoni ; è passato poi
al poema, alla lirica, alla novella, con Byron, Espronceda,
Gautier, Baudelaire, Mérimée, Balzac. Continua, mal-
trattato sulle chitarre dei cantastorie popolari e nei ro-
manzoni alla Zévaco. Isolato dal romanticismo in un suo
significato psicologico riappare mutato nomine o con
nuovi intenti sotto lo stesso nome, atteggiato in mille
modi, creando capolavori e sempre in fondo, vedremo,
fedele a se stesso, sotto i travestimenti di Hassan(l),
Rolla, Fortunio, Petshorin (2).
Conservando il suo nome, riappare nel teatro di Heyse,
Lopez d' Ayala, Echegarray ; il significato interiore, infu-
sogli dal romanticismo, evaporatosi, i tratti esteriori si
sono cristallizzati in maschera.
Maschera può dirsi Don Giovanni anche in Balzac,
D'Aurevilly, Janqueiro. Tutte le vicende della sua vita
interiore volatilizzate sotto il fervido potere di tante ispi-
razioni, a Don Giovanni non è rimasto che il tipo e il
nome proprio ; il casato, già deposto, si è avvicendato
con molti altri, e così, fatto imperituro, ritorna nella vita
— 3 —
moderna, vi si mescola senza impaccio, monarca "qu'on
ne casserà pas malgré toutes les démocraties ", dice
D'Aurevilly, che gli richiama il motto dell'antica mo-
narchia francese : " Le roi est mort, vive le roi " (3).
Portato nella vita, come denominazione, presa in pre^
stito all'arte, di realtà sperimentata e vivente, formerà og-
getto di analisi psicologica a Stendhal, Taine, Gautier,
Kierkegaard, Barrière, ecc.
Non è ancora entrato nella scienza se non di scancio, ma
pare dagli ultimi tentativi, ed io credo non infondatamente,
che esso sarà individuato e studiato da quella, come dalle
scuole di Lombroso e Tarde è stato il tipo delinquente (4).
A fantasie come quella di De Musset, Don Giovanni
apparirà come un incubo ossessionante ; tutta la sua
opera è una planetaria rotazione intorno all'asse di questa
essenziale ed impressionante immaginazione. All'eroe che
egli aveva detto degno di essere cantato da un nuovo Sha-
kespeare, Campoamor, Janqueiro tendono l'ultimo tra-
nello dell' ironia, come se avendo es60 salito troppo alti
gradi nella scala della considerazione umana, volessero
trarnelo giù per un gusto simile a quello, tutto umano,
onde "cupide conculcatur nimis ante metutum".
Che cosa è dunque che fa la grande vitalità e fortuna
di questo personaggio, e quale l'essenziale significato?
Don Quijotte, nel 1 605, chiude l'era delle fantasiose
gesta cavalleresche, care ai fanatici discendenti del Cid,
corrodendole col riso amaro.
Don Gerundio, nel 1758, frangerà il lungo tedio ec-
clesiastico con strie di lucida ironia, onde al clero viene
tagliato di dosso l' inganno gonfio di predica dei regali
paludamenti.
— 4 —
Questi due personaggi si ricollegano a due istituzioni,
e la loro sfera d'azione è limitata e il loro significato con-
tingente. Quando poi Don Quijotte evada nel simbolo,
sfuma in una universalità tanto astratta e impersonale, da
non parere più d'aver contatto con nessuno degli elementi
particolari della vita, appunto perchè a tutti può attagliarsi.
Ma Don Giovanni non riguarda a istituzione umana,
e d'altra parte pervade la tendenza stessa più universale
e sovrana: l'amore; soggettivamente impersonandone la
negazione, oggettivamente la più ampia affermazione ; e
integralmente restituendone il simbolo nella essenziale
verità.
Una tale creazione a me pare essenzialmente moderna.
Ammesso che quella di Don Giovanni sia elementar-
mente una tendenza comune senza tempo ne patria a
tutta l'umanità, tendenza che può ripetere le sue origini
dalla volontà di sopraffazione, non mi pare meno che l'af-
fiorare di essa a coscienza e a individuazione artistica sia
condizione di tempi moderni. Anche l'opinione del Bé-
votte (5) che il dongiovannesimo sia uno stato primi-
tivamente normale dell'umanità, diventato anormale
con r istituzione del matrimonio e la decadenza fìsica
della razza, va presa con discrezione, inquantochè viene
a confondere la primigenia veemenza di sensi di quando
" Venus jungebat in sii vis corpora amantum ", con la
diaccia insensibilità che brucia, onde Don Giovanni, più
che r inesausto eroe della camera, è il creatore di stati
d'amore, ai quali è straniero.
Più che della carne, si nutre del sangue dei cuori
(D'Aurevilly). I gemiti delle anime, i fumi dei desideri
attizzati salgono a lui come incensi a un idolo, che non
se ne cura.
— 5 —
Disertore del sentimento, è veramente la satira più
eloquente dell'amore, e non solo le donne, ma ogni duca
Ottavio, ogni marchese De la Mota ne saran vittime. Re-
dime in una vampata di ilarità balzana un cumulo di
idealità platoniche, di spuituah macerazioni. Affluiscono
alla sua superiorità sessuale i gemiti e i sogni di Maria
di Francia, le note canore dei poeti d'amore del due-
cento, le liriche melanconie del Petrarca.
Il Cristianesimo avendo importato l'avvaloramento
dello spirito sulla carne, Don Giovanni all'inquietudine
d'anima, che ne forma il genio, oppone la irragione-
vole mobilità parvente, e l' immutata gelidità dell'anima.
Esso è, m verità, rispetto al Cristianesimo, un* incarna-
zione di Satana. La concezione della volontà mala, che
il Giudaismo aveva molto formalisticamente intuita ed
espressa nei più recenti libri della Bibbia {Giobbe, e. 1 °.
Croniche, lib. 1 ", cap. 21), il Cristianesimo rielabora e
approfondisce di contro alla luminosa visione della
volontà frutto e radice d'ogni bene : Dio. Satana è
per S. Paolo il mondo, la materia, la negazione spiri-
tuale. — Materia, esso ha lo spirito in suo dominio e
se ne serve per perdere lo spirito. — Proteiforme, sa
tutte le maschere, nega l'essenziale per la parvenza, l'u-
nico per la molteplicità.
Satana è l'eternità nel contingente. Figura incarnata
nell'arte, ha gran parte nella letteratura spagnola del-
l'epoca, specialmente negli autos di Calderon.
Di Satana, Don Giovanni, oltre l'attrattiva del corpo,
la valentia del braccio, la mellifluità delle parole e col
trionfo degli istinti più materiali, ha l' irrisione subdola e
intenzionale del sentimento; ciò che appunto lo di-
stingue dagli altri vari mostri e belzebù, pur non a lui
estranei, del teatro aureo spagnolo, da Cristobal de Lugo
a Ludovico Eneo, traverso Leucino, Leonido.
A Satana lo hanno intenzionalmente riavvicinato quanti
se ne sono compiaciuti nella loro arte, e per una reci-
procità consueta in simili casi, da esso anche molti hanno
appreso elementi psicologici alla figurazione poetica del
tipo Satana e spesso ve l'hanno fuso.
Così, per esempio, il Satana-Don Giovanni di De
Vigny(l823), con l'incanto di squisite menzogne perde
la " Soeur des Anges " travestendo la premeditazione
ghiaccia di tenera dolcezza (ricordare i lenti versi della
SeJudìon, canto II :
Le voilà sous tes yeux l'oeuvre du Malfaiteur !
Ce méchant qu'ont accuse est un consolateur );
finche calando verso l' abisso abbracciati, lo Spirito
Malo denuda la rivelazione ghignante :
— Serais-lu plus heureux? du moins, es-tu content ? —
— Plus triste que jamais. - Qui dono es-tu? — Satan —
Così il Demone di Lermontoff, da cui la vergine Ta-
mara beve l'oblio del fidanzato uccisole e la perdizione.
Lermontoff, come è noto, dalla seconda redazione del
suo poema, che è del 1 830, attraverso le seguenti del
1 83 1,1 833, 1 838-40, si ispirava al Mistero di De Vigny
di cui prese qua e là qualcosa di più che motivi.
Fra le leggende rampollanti dalla concezione madre
di Satana le due più universali sono quelle di Faust e di
Don Giovanni. Se può apparire rischioso identificare un
influsso letterario della prima sulla seconda, dacché il
libro di Spies del 1 587 (6) non potè certo eludere le vi-
gili scolte dell' Inquisizione spagnola, non mi pare per
altro improbabile che nel vasto impero ispano-germanico
di Carlo V e I, in mezzo al cosmopolitismo, che le co-
municazioni aperte, l' invenzione della stampa, la grande
estensione dei domini spagnoli avevano apportato nelle
correnti d'idee, alcun sentore della leggenda alemanna,
già preesistente al libro di Spies (le prime menzioni di
essa risalgono ai primi del 500), pervenisse m Ispagna.
Certo che entrambe paiono far parte di uno stesso ciclo,
anzi si direbbe che Faust contenga già m se virtualmente
Don Giovanni, non tanto perchè, prima di Elena, Faust
pecca ripetutamente di lussuria con femmine infernali,
quanto veramente perchè l' introspettiva profondità di
Faust questo chiede all'occulto potere di Mefìstofele : il
capovolgimento nella liberante esteriorità di Don Gio-
vanni. Don Giovanni è nell'anima di Faust una possibi-
lità cosciente, quello che non è Faust per Don Giovanni.
Dev'essere perciò accettata non senza cautela la frase
di Hebbel che " ogni Faust termina da Don Giovanni e
ogni Don Giovanni da Faust " (7).
Entrambe sono eccezioni. Ma Faust è eccezione con
base non nella vita esteriore e parvente, ma in quella in-
tima dello spinto, è l'assunzione a simbolo di attitudini
non frequenti nell'uomo. Faust cerca la felicità nel cono-
scere, frugando l'enigma fatale nei misteri dei suoi abra-
cadabra e nel fondo delle sue fiale : la febbre che lo
agita non a tutti è palese.
Don Giovanni è l'esasperazione di tendenze comuni a
tutti; la sua fortuna è già contenuta virtualmente nell'ar-
gomento, che per il schopenhaueriano tranello della na-
tura, s'imprigiona le simpatie della folla e degli eletti.
In Faust la volontà di male traversa zone di pensiero
per attuarsi e il simbolo si sdoppia in duplice rappresen-
- 8 —
tazione : Satana e il Dottore -Mago, poiché dinamica-
mente ritratta è la compenetrazione di questo con quello :
Mehstofele essendo per Faust, mutato lo scopo, quello
che Virgilio per Dante : un duce.
In Don Giovanni questo processo è già risolto come
antefatto, Satana già si trova effettuato in Don Giovanni
e Don Giovanni è per se stesso il Satana dell'amore.
Onde esso non solo non ha bisogno, come uscito di tu-
tela, di un superiore elemento simboUco che l'integri,
ma piuttosto di un elemento inferiore su cui ^ossa far ri-
saltare la propria eccezionalità : ed ecco il buon servo e
" gracioso ", la pecora del comun gregge, il cui buon
senso jion trascende i limiti del suo vello; il necessaria-
mente buono; ecco il nuovo Sancho Pancia dai molti
nomi: Catilinon, Passarino, Sganarello, Leporello di Tirso,
Cicognini, Molière, Da Ponte-Mozart. Per quanto Faust
è tragico e doloroso e non offre anse al gusto medio. Don
Giovanni è attivamente umoristico e a tutti consente. La
sua stessa valutazione dei valori è borghese e trita, per
quanto eroica in Faust. Nonostante la forza attuativa di
Faust sia maggiore, in Don Giovanni tutte le energie
epidermiche si esteriorizzano e affermano in creazioni di
stati d'animo intorno a se, che Faust interiorizza in se
stesso.
Nullo, Don Giovanni crea mondi di passione a torno a
se ; può riportarglisi la proclamazione che sarà del Mefì-
stofele di Goethe : " Io sono parte di quella foi-za che con-
tinuamente vuole il male, e continuamente opera il bene".
Questa dritta fortuna di Don Giovanni dietro cui egli
non affanna ne merita, questa assenza di sforzo con tal
ampio prodotto d'azione irride di per se alle sterili ge-
nuflessioni del sentimento e agli anehti infruttiferi.
In Gautier così questa irrisione piange (Comédie de
la Mori) :
Conquérant oublieux, uns seule de celles
Que tu n'inscrivais pas, une entre les moins belles,
Ta plus modeste fleur,
Oh ! combien et longtemps nous l'eussions adorée.
Elle aurait embelii, dans une urne dorée,
L'autel de notre coeur (8).
E recentemente, così essa schianta beffarda dalle pa-
role di Don Giovanni stesso (Henri de Régnier: Les
Scrupules de Sganarelle, atto II, scena X) :
" Taisez-vous, faible jouets de l'amour. Chapeau bas
devant Don Juan. Ne suis-je pas le vivant reproche de
votre làcheté, le cris de vos sourdes haines, la victoire
de vos défaites et c'est moi, dont vous évoquez, en vos
désespoirset en voslarmes, l'image armée etvengeresse".
Faust inoltre si ribella allo stabilito in nome di una
intima verità da rintracciare. Don Giovanni non si ribella
se non in quanto alcunché lo urti nella sua attività avven-
turiera, e la sua ribellione si libera subito nell'atto. Don
Giovanni, senza amore, attua prammaticamente quell'a-
zione del viaggiare, in cui Weininger identificherà inte-
rioristicamente l'amore : esso è dell'amore veramente
l'Ulisse o il Pizarro : " caelum non animum mutans ",
direbbe Orazio.
Per Faust la vita è un abisso di mistero, per Don Gio-
vanni un fenomeno panoramico. Faust è profondo, Don
Giovanni è vasto. L'uno rispetto all'arte lo direi filosofico,
l'altro musicale. Non per incidenza, mi pare, il primo
trova il suo capolavoro in un poema filosofico, il secondo
in un opera lirico-musicale.
— 10 —
La fine che la leggenda attribuiva loro è simile. Faust
in un banchetto è lasciato morto da una tempesta (la
tempesta simbolica che si scatenerà anche nella com-
media di Zamora), Don Giovanni in un banchetto è
trascmato all' inferno talora con l'accompagnamento del
temporale. Questi rapporti di simiglianza e dissimiglianza
fra i due fantasmi vengono man mano intuiti e espressi
nell'arte. Grabbe, dopo Vogt, li riavvicina in un unico
piano di cizione nella sua fantasmagorica concezione
piena di luci e ombre, che è in fondo una titanica insur-
rezione del genio contro ogni forma di pastura e misura
intellettuale.
Gautier (Comédie de la Morì) li raffronta nel doloroso
grido di rinnegamento che si rimandano come due fu-
nebri scolte da baluardi di dolore (v'è anche un Napo-
leone, ma il suo grido è, ahimè! molto più fioco).
Teofilo Braga li riaccosta pure nella sua Ondina do
lago, canto di una vasta epopea : Visào dos tempos, uno
di quei grandi poemi a lunghe falde e dalle magne pro-
messe, che non godrebbero le simpatie del Poe.
Nel corso del tempo gli scambi tra Faust e Don Gio-
vanni si fan più frequenti, sino a parere con l'Almqui-
vist (9) e Alessio Alexandrovich Tolstoi (10) una per-
sona sola.
La fortuna di Don Giovanni presso le folle è stata im-
mensa. La commedia dell'arte italiana è piena di sce-
nari dongiovanneschi. I numerosi convitati di pietra fa-
cevano la cuccagna del pubbHco, più che altro con la
comicità irrefrenabile degli pseudo Catalinon e la cu-
bitale drammaticità della statua semovente, parlante e
omicida. Ma non solo negli scenari rivive Don Giovanni :
-li-
gia abbiamo notato quante menti gli diedero forme e
vita, ne l'enumerazione è completa. Faust appare immo-
bile e cristallizzato nell'unico capolavoro di Goethe.
L'opera di Marlowe ne è obliterata, Lessing non può
contarsi per le poche scene che ne restano, Lenau non
esce molto bene dalla gara col Zeus di Weimar. Quanto
ai Klinger, agli Schink, ai Baggesen, ai Nodier non è
da soffermarcisi.
Riempito del significato interiore da Goethe, non vi è
più ragione di vita per Faust. I suoi tratti esteriori es-
sendo inconsiderevoli, bisognerebbe risuscitarne quelli
interiori per una nuova significazione, dissolvere cioè la
impronta goethiana. Ma Don Giovanni, che ha cuore e
forza di amare tutto un mondo, ha anche un tal vuoto in-
tenore da essere riempito successivamente di un mondo
di significati, senza che ne sia intaccata l' importanza pe-
culiare che è del tipo esteriore ed espresso. Corridore
d'amore mai preso al laccio : questa la sua formula let-
terale, la quale in fondo alla sua ermetica precisione
offre mille f accie prismatiche alle vedute più vane. Dato
di fatto_a^ui possono affluire tanti presupposti e moti-
vazioni.
Semplice avventuriere d'amore con Tirso, schietto e
di getto — non esenti talune felici intuizioni — ^ tagliato
sul dosso dei mille hidalgos e caballeros del secolo, di
cui narrano i viaggiatori da Camillo Borghese, il futuro
Papa Paolo V, a madame Aulnoy (11), — ^^_^^
vano tanto di scapestrataggine da infischiarsene dei dieci
comandamenti e tanto di superstizione da temere di an-
darsene al Creatore senza il viatico, — eccolo cambiato
con Molière e più con Rosimond in retore dalle proprie
nequizie e in negatore loico come il diavolo dantesco.
- 12 -
Già figlio criminale con Dorimon e Villiers, diverrà
infelice padre, redento dal proprio tormento, con Heyse,
Echegarray.
Mostro pletorico e lestrigoneo con Zamora, si farà
crudele stilista della sensazione con Balzac, Gautier, fa-
tale fantasma di male con Espronceda, vittima di un
sogno d'amore e da questo redento con Zorilla, così con-
cedendo ai venti delle più varie fantasie.
Fra queste dissimili concezioni è facile trovare un ele-
mento che consenta la stessa ampia distinzione che per
Faust : in preromantico e romantico. Poiché, per giun-
gere fino a noi, entrambi han da traversare il muro di
fiamme del romanticismo. N'esce Don Giovanni rinno-
vellato attraverso la fantasmagoria di Hoffmann come
Faust traverso la concezione di Lessing.
Faust per Lessing non è soltanto lo stregone sapiente,
che dopo avere invano cercato la pietra filosofale vende
l'anima al diavolo per averne i servizi ; è il simbolo della
ribellione inesauribile dello spirito umano insultante a
tutte le colonne d'Ercole della conoscenza, per non rag-
giungere mai la divina certezza. Nello stesso tempo tanto
lui quanto Don Giovanni non sono ormai peccatori,
quanto eroi : e la loro stessa colpa — quando resta tale
fino all'ultimo — assorge all'accezione più vasta di su-
blime coraggio simbolico, ove la riabilitazione non sia
attuata nei personaggi stessi, cui non si consente più
sempre di andare all' inferno, ma li si salva più comune-
mente in grazia di qualche Margherita o Ines.
Intanto nel lineare schema delle avventure del Don
Giovanni mozartiano, Hoffmann nel 1814 inala la sua
fascinosa concezione ( 1 2). Poiché il romanticismo ha so-
stituito al regno classico della pura bellezza il regno
— 13 —
dello spirito, e questo non trova che in se stesso la propria
realtà, lo spirito sopravveste la forma, lo scultorio è
sopraffatto dal profondo, dal vago, dall' intimo. René,
Werter, Antony sono i maometti della nuova anima e
della nuova arte : il mistero si fa elemento di bellezza :
il patetico incanto della tenebra impone silenzio alla
maschia energia del sole. E Hoffmann estrae dal cuore del
vecchio giocoliere d'amore il nuovo simbolo. Don Gio-
vanni non è più l' ilare vagabondo senza ideale, l' incu-
rante picaro del sentimento. Il vincitore diventa un vinto,
il carnefice beffardo una inconsapevole vittima del suo
sogno. Ora, Asvero del sentimento. Don Giovanni nelle
innumeri donne ricerca la donna sognata e impossibile,
che ha intravista avanti il ricordo, che non godrà mai,
perchè quando l'avesse tra mano essa non sarebbe più
quella che ha sognato, perchè la sua felicità è fatta di
lontananza come l'azzurro dell'aria. Egli si fa delle vit-
time strada all'irraggiungibile menzogna "sacrificando una
bella a un'altra bella realizza ciò che il nostro spirito non
immagina che come una promessa della vita futura".
Ha amato Donna Anna, ma in atto di supremo di-
sprezzo (nel senso che Nietzche combacerà con l'amore)
l'ha sacrificata al proprio male, e Donna Anna ha subito
il suo contagio ; evasane in un atto di rapina, ella non
potrà rientrare nell'angustia pacata del quotidiano vivere,
non saprà più indulgere alla melensaggine del fidanzato
Ottavio, ma sarà l'amante, nel sogno, dell'assassino di
suo padre, che ella dovrà volere, in nome della sua ven-
detta, morto.
Tale la stramba fantasticheria, onde Hoffmann, per-
suaso e ingannato dalla grande musica di Mozart, rimpolpa
la magra trama dei due atti di Da Ponte,
— 14 —
Certo Don Giovanni concepito come tale smagato so-
gnatore di una forma di bellezza divina, meglio appagherà
le vaste seti d'azzurro dei tempi vicini a noi, quando
VElévation baudelairiana si avvicenda in inquietudini
creatrici di poesia con i contorcimenti infernali dei suoi
cauchemars.
Nato è il secolo di De-Musset, di Gautier, di Gerard
de Nerval, di Verlaine ; anime e braccia chiedono la
tregua del cielo dai flutti delle rauche passioni soverchia-
trici. SuU'orgie notturne impallida stralunata la verginità
del cielo inaccessibile, nelle albe dell'anima. Abbiamo
voluto conoscerci e abbiamo paura di noi. — E la nuova
malattia — diceva la diagnosi classicista di Duvergier
de Hauranne.
Don Giovanni si ricompone ai nuovi tempi, e rifa alla
Byron ; così in Don Felix Montemar di Espronceda v'è
molto del Corsaro e del Manfredi, per quanto nulla di
questi è nello stesso Don Giovanni byroniano, che è tutta
una gamma d' ironie scottanti e multicolori, una collana
sfilata di rinnovati episodi psicologici, un pretesto, in con-
clusione, per la rivelazione intima, sotto gli inganni del-
l' ironia, del cantore d'Aioldo.
Ma il poeta che più sentì il nuovo Don Giovanni è
indiscutibilmente De-Musset. Tutta la sua opera — già
l'abbiamo osservato — gravita intorno a questa magnetica
concezione.
Gli stessi palpeggiamenti quasi lubrici, onde il poeta
rivolta nella fantasia la sua idea, nello sforzo di posse-
derla, mostrano quanto esso gusti il supplizio volontario
e voluttuoso di creare a se la suggestione della realtà di
Don Giovanni, come il debole gode nell' immaginare la
sua vendetta compiuta dal forte. Folgorato nell'anima
— 15 —
adolescente dairamore — realtà maligna — il doloroso
figlio del secolo si rifugia, piangendo le sue lacrime vere,
nella marmorea sublimità sessuale del suo vagheggiato
despota d'anime, come chi preme la fronte febbricitante
sul ristoro di un marmo. " Si Fon pouvait changer d'amour
comme d'habit!". Dalla più dolorante negazione sogget-
tiva di Don Giovanni, ecco espressa la più viva conce-
zione artistica di esso.
De-Musset ama Don Giovanni, che è indifferente alla
Sand, lei stessa dongiovannesca (13). Tanto è vero che
l'arte è spesso meno rivelazione che tradimento, — come
sotto il riso di rasoio di Lord Enrico (14) è già virtual-
mente il pianto religioso del De-Profundis.
De-Musset non ha una fissa idea di Don Giovanni ;
ovvero partendo dalla concezione di Hoffmann, si com-
piace nella sua figurazione di peggiorarla; così in Na-
mouna, dopo le lunghe divagazioni che riempiono il se-
condo canto, e dopo aver ricolorata la nota concezione
del Don Giovanni " candide corrupteur, fouillant dans
le coeur d'une ecatombe humaine, pour y chercher son
Dieu ", conclude, ritornato al suo eroe alquanto dimen-
ticato :
Ce que Don Juan aimait, Hcissan l'aimait peut-étre,
Ce que Don Juan cherchait, Hassan n'y croyait pas.
Tranne che nelle Confessions, in cui è il cifrario del-
l'anima sua, il poeta non ci ha altrove rappresentato che
la fase fattiva, già prodotta del suo personaggio: "la chute
de l'ange " che è in Dumas, in Merimée e in Echeverria,
era già nell'anima sua : nell' arte soltanto, egli poteva
proiettare il proprio inverso ; realizzarlo nel suo intimo
- 16 —
sentimento, no ; e nel divano tra il naufrago anelito del
sentimento e la realtà lì viva e visibile e invitante nella
fantasia, sta appunto la vera tragedia di De-Musset.
Ma anche ove la creazione del poeta vorrebbe essere
più staccata e impersonale, l'anima lirica di lui insorge,
interviene. Più egli si forza di estrar su dal suo dolore le
concepite figurazioni di fredda crudeltà ed allegro cinismo,
più queste si vedono gocciolare del suo sangue. Si po-
trebbe dire che tutti i suoi pseudo Don Giovanni (che
Don Giovanni in persona egli non fa agire se non nella
scena frammentaria : Une matinée de Don Juan) : Mar-
doche, Dalti, Tiburcio, Hassan, sono veduti attraverso
gli occhi di lacrime di Rosine, Portia, Miss Molen,
Namouna.
Come si potrebbe anche osservare, che i Don Gio-
vanni di De Musset aspirano al tipo di Lovelace, nono-
stante la sottile distinzione del secondo canto di Namouna.
Questo rampollo inglese della genealogia dongiovannesca
è una nuova espressione di scienza del male : altrove l'o-
rigine satanica di Don Giovanni non si manifesta con più
cruda negazione del sentimento quanto in Inghilterra, a
cominciare dal Lihertin di Shadwell. La patria già di Ro-
chester, di Buckingham, di Killigrew, di Aubrey de Vere
produce nel 1 748 in Lovelace di Richardson il raffinato
adoratore di se, dispregiatore del dolore e " de la popu-
lace ", aristocrate della perversione, stratega delle anime e
chimista dei sentimenti, che ne regola le mosse e ne de-
termina le combinazioni : quella scienza d'amore, istinto
in Don Giovanni, già cosciente con Molière, è in lui
esperienza acquisita e feroce : a Don Giovanni il rapido
possesso e un'alzata di spalle, a Lovelace il ferino pro-
lungamento dell'agonia della vittima : a Don Giovanni
— 17 —
le mille e tre, a Lovelace anche una sola, ma goduta
ferocemente.
A Don Giovanni il prodigare l'illusione della felicità
sotto la premeditazione dell' inganno ; egli è " l'épouseur
de tout le mond ".
A Lovelace il negare l'illusione della felicità alla
donna amante, il rifuggire dal mezzo più spiccio per ot-
tenerne i favori.
Ora r influsso di Lovelace precedente la nuova con-
cezione romantica fecondò la letteratura francese dei più
tortuosi sadismi dello spirito, dei cerebralismi più delit-
tuosi, talora sotto il pretesto trito della rappresentazione
del vero a scopo di bene : depravazione mtellettuale che
culmmerà nelle Liaisons dangereuses di Chaderclos de
Laclos nel 1782, e nelle raccapriccianti Giustine e Giu-
liette del molto bestiale Marchese, per tornar oggi a riec-
citare la candente concezione barrèsiana macabro-gran-
guignolesca del Don Giovanni assassino di uomini — ■
oltre che seduttore di femmine — che finisce pentito in
un ordine religioso, con lo scopo di assistere, con trans-
versa pietà, al supplizio i condannati a morte e poi darne
i cadaveri in pasto alle belve {Du sang, de la Volupté et
de la mort. — Une visite à D. J, — ).
Lovelace e Don Giovanni pertanto, arricchiti l'uno
dell'esperienza dell'altro, fusi in un tipo, più eletto e fi-
nito, ispirarono altresì gli eroi byroniani, il Don Giovanni
di Balzac, gli esteti dandy di Gautier, il Marquis de
Priola di Lavedan, gli Onieghin (15), i Petschorin russi ;
ne saranno elementi estranei — tesi a parte — al Robert
Greslou di Bourget.
Ma fra tanto fluttuare di fantasie dongiovannesche può
avvenire ad alcuni di sentirsi un po' girar la testa, e di
2 — F. FUÀ, Don Giovanni.
— 18 —
domandarsi dove sia mai andata e se ci sia mai stata quella
fedeltà con se stesso, che pur in fondo, già abbiamo os-
servato in esso; dove sia la faccia vera di questo Buddha
dalle cento incarnazioni.
Già più indietro ci si è presentata l'occasione di sof-
fermarci per via di raffronto a lumeggiare le caratteri-
stiche del tipo. Definizioni e identificazioni se ne sono
tentate a iosa. Una un po' ridicola è quella di Pi y Mar-
gali, che prende il Burlador come letto di Procuste di
tutti gli altri Don Giovanni, che vi misura sopra (16).
Per prenderne altre per saggio, Aicard vi vede, nota
fondamentale, l'egoismo {Don Juan, 1 889, Prefazione) ;
Larrumet, l'orgoglio (nel Temps, 17 febbraio 1912);
Prevost.la celebraHtài[(7n Voluptueux, novella); Stendhal,
una specie di turismo del sentimento (De F amour) ;
Gautier, (in molte novelle, es.. La toison d'or, e in un
articolo del 27 Gennaio 1843 deW Histoire de l'art dram-
matique en France) e Kierkegaard {Diario di un seduttore)
l'estetismo : e si potrebbe contmuare col pericolo di fare
una lista... molto dongiovannesca. Tra le parabole delle
tante fantasie, trovar l'acme della nota unica non è vera-
mente così facile, per chi resti nell'arte ; che ove creda
di averla ghermita, ecco un particolare avverso che ci
mette la coda e gli scompiglia ogni cosa.
La psicologia pertanto non riconosce in Don Giovanni
il sensuale com'è opinione comune. 11 possesso non è per
lui line di piacere, quanto piacevole liquidazione di conti
d'amore, ne egli desidera mai tanto una donna da averne
il bisogno fisico, che risulterebbe in legame.
Due minuti prima di possedere qualsiasi Tisbea può
sempre ordinare i cavalli che debbono portarlo via. Si
comporta con le donne, come confessa nel dramma di
— 19 —
Zorrilla, col minimo spreco di forze e di giorni. Di
questi :
Uno para enamorarlas,
Otro para conseguirlas,
Otro para abandonarlas,
Dos para sustituirlas
Y una hora para olvidarlas.
La sua impervia e gaia inaccessibilità non offre anse
alle prese del senso, sebbene le testimonianze delle sue
gesta lo facciano coincidere col libertino. Altro tipo, fre-
quentemente confuso con Don Giovanni, è quello del se-
duttore sentimentale, che nella commedia di Tirso è ri-
specchiato in Ottavio. E l'uomo che si oblia in ogni suo
amore... per riprendersi il giorno dopo; innamorato oggi
fino alla pazzia di Donna Isabella, domani lo sarà altret-
tanto di Donna Anna : anch'egli riempie le sue liste degli
oblii del suo cuore, ma dopo averle segnate del sangue
della sua anima : vive potentemente tutti i suoi momenti
d'amore: quando capita diviene necessariamente Io
zimbello di Don Giovanni, che è padrone di se.
Questi pertanto, concepito l'amore come la tendenza
di due imperfezioni a ricomporsi in unità — concezione
di Aristofane del convito platonico, ripresa e arricchita
da Weininger — e considerato il sentimento come la
decezione della sessualità, psicologicamente potrà dirsi
l'unità sessuale perfetta attuantesi attraverso le frazionali
^lécezioni femminili. «
Ecco in Gautier si determina :
Je restais toujours, comme 'a salamandre,
Froid au milieu du feu.
Lovelace non è che una nuova forma di Don Giovanni,
che non ne muta l'essenza.
— 20 —
Come tale, esso nella vita e nell'arte, è un'ampia inti-
tolazione comprensiva di un gran numero di figure che vi
si rapportano con più o meno variazioni e oscillazioni ;
così non deve far meraviglia, se tra le molteplici conce-
zioni artistiche che fanno capo a questa formula, ve n'ab-
biano che paiono evadere da essa : Don Giovanni può
finire innamorato, converso al bene o ribelle, caparbio
fino all'ultimo; ciò modificherà momentaneamente gli attri-
buti del personaggio, senza intaccarne il senso individuato,
come una licenza poetica non lede le regole grammaticali.
Trovata che si sia questa chiave misteriosa della defi-
nizione dongiovannesca fuori dei marosi delle fantasie,
si possono aprire i forzieri delle molteplici creazioni e
riconoscervi il tipo sotto spoglie e nomi diversi. In questo
modo esso può, ad esempio, ritrovarsi oltre che nelle fi-
gure femminili della contessa Hahn-Hahn, anche in quelle
del grande sinfonista norvegese dell'amore Hamsun
(Dagni, Edvarda, Victoria) (17).
Non occorre dire che nell'accezione comune Don
Giovanni sarà sempre nient' altro che il corridore d' av-
venture e il gaudente sfrenato : non v'è bisogno ai comuni
usi di preoccuparsi delle distinzioni, che possono giovare
allo psicologo.
In conclusione, esteriormente la nota caratteristica di
Don Giovanni sarà la fortuna in amore, interiormente e
psicologicamente l'insensibilità creatrice di opposti.
Weininger, nei suoi speciosi abbozzi di metafisica ( 1 8)
dopo aver affermato essere 1' atto d' amore una specie di
assassinio, ne deduce un'identificazione tra Don Giovanni
e il tipo assassino.
Come r assassino — egli sogna — dopo l'omicidio
torna ad aggirarsi nel luogo del delitto, per richiamare la
- 21 —
memoria di se stesso, così Don Giovanni ha bisogno di
donne per accorgersi di se medesimo, ed entrambi fanno
della negazione una posizione.
Ma tutto si riduce a una immagine fascinosa che può
gradire, non persuadere, come tante illuse verità di quel
tragico intelletto.
Anche chi gli conceda la premessa, egli non ha
visto nel tipo Don Giovanni che la già nota significazione
più esoterica di lussurioso: come d'altra parte si è foggiata
del tipo assassino una impossibile astrazione prescissa da
ciò, che l'operazioni, che mentiscono Don Giovanni, ne-
cessariamente e veracemente asseverano l'assassino; e a
queste concorrono, secondo pare allo stesso Weininger,
impulsi passionali e sensuali — a Don Giovanni estranei o
secondari. Da contrapporre a questa veduta superficiale
che scambia Don Giovanni per il lussurioso-tipo, tocche-
remo r enimma fisiologico di Gionata Swift, in cui pure
si è d'accordo nel riconoscere un tipo vissuto di don-
giovannista? (19).
Ma fermata per ora la nostra definizione, la dongio-
vannistica — se mi si consente questo vocabolo — ce
n'offre le maggiori ripiove ; e dagli elementi contribuitici
dalle varie imposizioni alle miriadi di figure vissute o im-
maginarie, il tipo, che la definizione presuppone, si può
ricostruire.
Già di per se il fatto stesso del passaggio insensibile
di amore in amore mostra la sfericità senza presa del
T^rganismo sentimentale dongiovannesco. Egli ha un
repertorio di "segni e di parole ornate" senza indirizzo,
che sparge capricciosamente qua e là. In De-Musset
{IJne matinée de Don Juan) ha preparato una lettera di
amore che pensa di far cadere dalla finestra sul più pie-
— 22 —
colo piede femminile, che Leporello gli indicherà. In
Campoamor scrive cinque lettere uguali a cinque donne
di diverse nazioni. Nella vita, Mirabeau dal carcere di
Vincennes scrive lettere appassionate, nei suoi momenti
dongiovanneschi, oltreché a Sofia Le Monnier, anche a
Giulia Danvers, e in nome della triade, aspira anche alla
principessa di Lamballe (20).
Argutamente si osservò che solo si può dire di saper
parlare bene una lingua, quando si può fare dello spirito
in quella lingua. In tal caso Don Giovanni sa diabolica-
mente la lingua del sentimento.
Saint-Preux di Rousseau non ha più occhi ne cuore
che per la sua Giulia, l'amore essendo la più esclusiva
delle passioni. Don Giovanni non sa risolversi a chiudere
il suo cuore " fra quattro mura"; "non vuol defraudare
nessuna delle belle, delle giuste pretese eh' esse hanno
sul suo cuore "; anzi " se avesse diecimila cuori, die-
cimila ne darebbe via " (Molière).
Nel fatto e fuor di metafora egli dà poco o niente.
Dirà sempre : - — Io — quando la sua innamorata dirà
perdutamente: Noi (Balzac).
Nessuno dei deliri sensuali, che sono colpa e pena agli
erotici, nessuna di quelle adorazioni ingenue della voluttà
che sono dell'anima primitiva : vuol posseder Donna Anna
e se la spassa con Pispireta (Zamora), lascia Donna Ines
che ha tra le braccia, per correre da Donna Anna e poi
tornare da quella (Zorrilla), brucia gli stessi incensi alla pa-
drona Donna Elvira e alla cameriera (Da Ponte -Mozart).
Il suo amore è cosi pandemio, che può anche bendare
la sceltaT
Pensa di possedere Donna Anna senza conoscerla
(Tirso).
- 23 -
Arriva a non far differenza tra belle e brutte (Bértati),
ne tra giovani e vecchie (Da Ponte).
~ Di tutto sa servirsi mirabilmente ai suoi fini. A Donna
Anna (Goldoni) dice che è venuto in Castigha, soltanto
perchè attratto dalla bellezza famosa di lei.
11 Marquis de Priola, sapendo che Madame Savières
si reca a fare il bene nelle case dei poveri, le dichiara
che l'ha seguita cento volte, preso di lei.
La sua passione sono i tiri doppi. Già in Molière tiene
a bada due donne lusingandole tutte e due contempora-
neamente. Ai giorni nostri il Marquis de Priola si ripro-
mette, se Madame Savières vorrà sbarrargli la strada a
riconquistare Madame Le Chesne, di prendersi anche lei
" en passant, voilà tout ".
Neanche la carità di madre gli è traguardo. Bei-Ami
finisce per buon calcolo con lo sposare la figlia di colei
che ha cominciato col possedere (Maupassant). Dissolve
le affezioni già stabilite con l'acido della sua tormentatrice_
insensibilità. Ove passi, nugoli di dissidi e polveri di ran-
cori si sollevano sotto i suoi piedi. Aminta e Patricio stan
per sposarsi, ma egli sopravviene, la sposa si riempie di
turbamenti e il matrimonio va a monte almeno fin quando
torna utile a lui (Tirso).
Mathurine e Pierrot hanno un bel tortoreggiare ; ecco
Don Giovanni e il povero Pierrot passa in ultima riga
(Molière).
E del Uitto^estraneo^lle jue conquiste per quanto in-
differente nella scelta.
Affida Donna Elvira al suo servo che è scambiato
per lui, senza preoccuparsi del pericolo (Da Ponte).
Scambia con l'amico Don Garcia le sue amanti (Mé-
rimée).
— 24 —
Desgenais di De Musset manda la sua amante dall'a-
mico, per sollazzarlo {Confessions d'un enfant du siede).
Il Morn in quel suo americanissimo libro // Mondo è
tuo tradotto in italiano dalla casa Lattea (1907), in un
capitolo alquanto alla carlona, ma con sprazzi di intuizioni,
sul Don Giovanni considerato in rapporto alla vita, nota
che l'abilità sua^èdi^s^per cogliere il momento opportuno.
Giustissimo. Per altro nell' idea astratta e comprensiva
che ce ne siamo formata, la forza intaccatrice di Don
Giovanni è per principio più forte di ogni più profonda
combinazione di sentimenti : e in ciò è il gran tragico,
che può vestirsi di comico, dell'essenza dongiovannesca,
identificata già con l'irrisione del sentimento. Si può
partire dalla teoria delle affinità elettive di Goethe. L'af-
finità di Don Giovanni è, per principio, trascendente i
particolari addentellati : estrema, solare, senza deboli
per alcuna cosa, coincide con la disaffinità; suo polo
opposto.
La lussuria implica rattenimento, pigrizia (Dante, per
contrappasso, fa correre i seduttori di femmine, sferzati
dai diavoli dell'Inferno ; e i lussuriosi rapinati dalla bufera
infernale o eternalmente andando tra le fiam-me del Pur-
gatorio) ; Don Giovanni, per contrasto, è Hbero sempre
come vero acrobata.
Tanta immensa produttività esteriore non può conte-
nere che un altrettanto immenso vuoto interiore.
Faust, ce lo figuriamo vecchio adunco, curvo sui suoi
alambicchi, a spiare il verbo occulto, mentre un teschio
di morto gli irride dai gran denti serrati come una tenaglia.
Don Giovanni contrappone l'eterna giovinezza, la can-
tante giocondità scorrazzante d'aiuola in aiuola d'amore.
- 25 —
Che fa se Faust sia ringiovanito da Mefistofele ; e
Don Giovanni finisca da frate in Dumas? Un tipo non
è una biografìa; coglie il tratto essenziale, che non varia
per variar d'elementi.
Non sebbene, ma appunto perchè vuoto interiormente,
la trasmutabilità di Don Giovanni è massima. Nell'indi-
viduo di un'esatta personalità psichica, ogni atto è con-
tTassegnato della sua origme, e le manifestazioni sono
inarginate in ben definiti limiti di carattere, onde pro-
porzionalmente difficile gli è mutar di aspetto. Don
Giovanni si maschera continuamente. La qualità infatti
quasi universalmente aggiuntagli è l'abilità prodigiosa di
proteista. Si camuffa da duca Ottavio e da Della Mota
in Tirso; muta d'abiti col suo servo in Cicognini; in
Molière, dopo di ciò si traveste da contadino ; si fa scam-
biare pel suo servo davanti a una schiera di contadini
armati contro di lui, in Da Ponte.
Se Lovelace non cambia d'abiti come Don Giovanni,
la dissomiglianza non è grande : egli attua interiormente
quelle trasmutazioni che Don Giovanni pratica mani-
festamente.
26 -
NOTE ALLA PRIMA PARTE.
(1) Namouna di De Musset, compreso, nel 1832, nel suo secondo
libro Un speclacle dans un fauteuil in cui dopo i Contes d'Espagne
et d'Italie del 1 830, De Musset definisce il suo posto nell'arte ; -
Rolla, del 1833; - Fortunio, romanzo di Gautier del 1838.
(2) Nel romanzo russo di Lermontofi — uno dei più irrequieti seziona-
tori dell'anima moderna, morto in duello, com'è noto, il 15 Luglio 1841 ,
a Piatigorsk — : L'eroe dei nostri giorni. La migliore edizione russa delle
sue opere è quella di Alex. Viskovator (Mosca, 1891, 6" voi.). Il
romanzo citato, che è veramente più che altro una raccolta annodata
di novelle, fu già tradotto in francese dal De Villamarie. Ed. Stock, 1904.
Testé del Lermontoff, la Renaissance du livre nella collezione Les
cent chefs-d'oeuvres étrangers ha pubblicata tradotta una scelta delle
opere, fra cui brani dell'f^roe dei nostri giorni e il Demone. Nella Bi-
blioteca Univ. SonzogQO v'ha anche tradotta una parte dell'eroe.
(3) In Les Diaboliques: " Le plus bel amour de Don Juan ",
(4) 11 tipo di Don Giovanni non mi consta assolutamente sia stato ten-
tato dalle morse della scienza sperimentale, nonostante alcune precur-
sioni di ultimi scienzati.
Non sarebbe il primo caso in cui l'arte presta il nome e l'intui-
zione a fenomeni e a ricostruzioni della scienza. Anzi si può dire che
sia un caso normale (si ripensi alle figure vissute o fantcìstiche Saffo,
Amleto, Masoch, Sade, Bovary, e ai profitti che ne ritrasse la scienza
e la psicologia per i suoi scandagli e le sue denominazioni).
(5) Georges Gendarme de Bévotte : La legende de Don Juan et
son évolution dans la littérature des origines au romanticisme. Paris,
Librairie Hachelte, 1906.
Compiuto studio della leggenda fino al romanticismo. A quanto mi
consta, la seconda parte — dal romanticismo ai giorni nostri — non
è uscita. E a questo volume che mi riferisco ogni qualvolta cito l'autore.
(6) Il libro dell'editore Giovanni Spies di Francoforte sul Meno
Hisloria von D. Johannes Fausten dem weitbeschre\)ten Zauberer und
Schwarlzkiinstler , ecc., che dà la prima forma delia leggenda di Faust.
— 27 —
Non sono riuscito a trovarne notizia di traduzione spagnola né del
tempo, né posteriore ; e neppure del rimaneggiamento di Widman
del 1796. L'Inghilterra e la Francia invece ne contano presto edi-
zioni tradotte e imitazioni.
(7) Tagebiicher, Berlin, 1887, 11°, pagina 512. Cito dal Farinelli
— Don Giovanni — Giornale storico, ecc., 1896, voi. 1., pag. 300.
Mi riferirò a questo studio quando mi avverrà di citare il Farinelli.
(8) Comédie de la mori, nella raccolta delle sue poesie, 1845.
Ponte di transizione fra il macabro rudimentale di Albertus ou l'àme
et le peché (1833) e il gelo squisito di Emaux et Camées (1852).
(9) Di Carlo G. Almquivist, svedese, è noto il libro di gran
mole e molti volumi: Libro di rose canine. 11 I" volume é del 1834.
Il 5° volume (1854) contiene la stona intimamente esodica di Don
Giovanni, padre, intitolata Ramido. Don Giovanni spende nel culto
del pensiero e dello spirito quel tempo che già gettava nel correre
dietro al piacere.
(10) Alexis Costantinovic Tolstoi : Don Giovanni. Del 1896, é uno
studio del Barone di Berwlck su questo poema drammatico.
(11) Camillo Borghese, auditeur de la Chambre Apostolique en 1594:
Relation du Vo})age en Espagne, nel libro di Alfred Motel ; - Fatio :
L'Espagne au XVI et au XVII siede. Bonn, 1878. - Contessa
D'Aulnoy, Relation du Voyage d'Espagne. A la Haye, 1692.
( 1 2) Hoffmann nella prima parte delle Fantasiesstiick,& in Callot's
manier, pubblicate a Bamberga nel 1814.
11 titolo del racconto è : Don Juan, eine fabelhafte Begebenheit,
die sich mit einem reisenden Enlhusiasten zugetragen.
(13) Sulle relazioni fra la Sand e De Musset possono giovare le
ultime interessanti notizie della nipote del loro editore Francois Buloz,
Madame de Pailleron. Kevue des deux Mondes, 15 aprile 1918.
( 1 4) E forse superfluo avvertire che si allude a uno dei personaggi
principali del noto Ritratto di Dorian Qra^ di Oscar Wilde.
(15) Eugenio Onieghin, poema di Puskin.
(16) Prefazione alle " Comedias de Tirso de Molina y Guillem de
Castro " in Colección de Libros espanoles raros ó curiosos, non priva
di errori madornali, dice il Farinelli giustamente.
(17) Di Knut Pedersen, detto Hamsun, poco è tradotto in italiano.
E nota un'infe'ice traduzione del romanzo Misteri àe\ 1892, ten-
tata dalla casa Sandron, col titolo più commerciale : Era pazzo ? La
— 28 —
Nuova Antologia ne ha fatto conoscere nel 1916, 16 luglio, il
dramma: Alle porte della gloria, e nel 1916, marzo e aprile, il ro-
manzo : Pari.
Senza i feticismi dei russi che adorano questo autore, esso è degno
veramente di essere conosciuto per un'originalità sorprendente di spi-
riti e di forme, oltreché per l'esasperante concezione dell'amore.
Dagni è l'eroina dei Misteri ; Edvarda, di Pan ; Victoria del ro-
manzo omonimo.
(18) Otto Weininger, Metafisica, frammenti, nel volume tradotto
dalla casa Bocca : Intorno alle cose supreme.
( 1 9) Possono vedersi schiarimenti in Forel : Questioni sessuali. E,
noto r interessante capitolo che il Taine dedica a questo autore nella
sua Littérature Anglaise.
(20) li De Roberto ha su questo proposito un felice studio nel vo-
lume : Le donne, i cavalier... (Treves). E il terzo studio della raccolta.
PARTE SECONDA
La Leggenda e il Burlador
Da quanto ho esposto e in alcun modo anticipato nella
prima parte consegue che, a mio credere, Don Giovanni
appare, sì, per la prima volta nella commedia El Bur-
lador (1), ma non è qui la sua prima patria. Ovvero la
leggenda dovette preesistere all'opera drammatica ; e per
quanto non è verosimile quel che crede Gendarme de
Bévotte, che Tirso o chi per lui primitivamente fondesse
nel Burlador gli elementi di varie leggende, altrettanto
credibile mi pare, non essendo la commedia tal
cosa da spiegare la fortuna del suo eroe, che questa piut-
tosto si riconnetta alla leggenda anteriore, alla quale in-
consapevolmente bruciano gli incensi dei plausi della folla
e simpatie degli autori.
Certo l'autore del Burlador cambiò, arricchì, o impo-
verì, ma la leggenda non pare l'inventasse lui : guardando
bene, il meccanismo stesso della commedia — e lo ve-
dremo — mostra uno sforzo della fantasia dell'autore
neir inserire per entro la prestabilita tela della leggenda
— 30 —
l'opera sua viva: lungi dal creare si direbbe che ormeggi.
Quell'episodio della statua (atto 3°, scene X, Xlll, XIV,
XXl) è così appena e primitivamente presagito da quelle
parole di Don Giovanni a Aminta : "...Me de muerte un
hombre... (Muerto — Que vivo, Dios no permita) (atto 3",
scena Vii)".
L* irragionevolezza di quella visita tanto necessaria alla
chiesa dove è la statua, ha fatto nascere il bisogno in tutti
i rinnovatori della leggenda di spiegarla in qualche modo :
o con lo scampo cercatovi dall'aggressione dei due sicari
Fabio e Don Luis (Zamora), o col ripararvisi dall'inse-
guimento delle guardie (Goldoni) o col fortuito imbattersi
in essa, nell'evasione dalla casa di una vittima recente
(Da Ponte) o con lo schernevole desiderio di vedere il
bel monumento della vittima (Zorrilla) : nel Burlador è
appiccicata lì, come seguendo uno schema estraneo.
Le ultime scene poi mostrano nell'autore, oltre il mancar
della possa della fantasia, lo scrupolo anche di essere
andato troppo oltre ; scrupolo che par fornirgli talune for-
bici a ritagliare in cauda e con più armonia con le neces-
sità del tempo e anche le proprie convinzioni, la rappre-
sentazione del suo scellerato che la leggenda meno
scrupolosa e più sincera doveva forse meglio conservare
coerente con se stessa.
Il colorito religioso è certo in Don Giovanni più evi-
dente che in Faust : evidentissima la morale che a guisa
di cabaletta qua e là fa capolino, anche prima della fine
del tutto ortodossa, dalle recriminazioni sempliciotte del
buon Catalinon. Anche la leggenda di Faust terminava
con un banchetto veramente indigesto pel commensale
incriminato : banchetti e conviti sogliono essere, in grande
quantità di tradizioni, leggende e opere d'arte del Cri-
— 31 —
stianesimo, occasione per l'esplodere inter dapes di
qualche gran crisi morale : relazione che può offrire il
destro, a chi voglia coglierlo, di discutere dei rapporti
molto umani ha lo stomaco e lo spirito...
In Don Giovanni, a differenza che in Faust, i banchetti
sono due: uno in casa sua, l'altro di restituzione alla
cappella della statua invitata. L'invito a cena a un morto
quasi invariabilmente si ripete per molte leggende europee,
che formano pressoché un ciclo, dove accade di solito
che alcuno per ischei"zo o per ischerno s'mviti a cena un
morto; questi puntuale contro ogni aspettativa si presenti
e ricambi l'invito ; e al secondo pasto il povero diavolo o
viene spedito all'inferno o passa qualche brutto quarto
d'ora : esempio e monito a non turbare l'ultimo riposo ne
deridere i sacri ignoti.
Tale la (2) leggenda Alsaziana dell'individuo, che
dopo i reciproci due inviti, nella mensa funebre, assiste
ai castighi eterni e ne resta esterrefatto.
Tale il racconto piccardo Le souper du fantòme del
Sebillot, in cui un tale dopo essersi divertito con una
testa di morto invita ed è invitato al solito, e assiste a tali
brutte cose, che per l' impressione si fa prete.
Analoga la leggenda irlandese (raccolta dall' Arnason),
e quella prussiana intitolata : " Die erhàngten Gàsten " e
ancora quella portoghese "Mirra", raccolta dal Braga.
Altrove eccezionalmente, nella leggenda brettone ripor-
tata dal Rodrigues-Solis, i due pasti si fondono nell'unico
primo, dove scoppia la punizione fatale.
Notevole fra l'altro la romanza raccolta da Juan Me-
néndez Fidai nelle montagne di Leon — e ricordata dal
Cotarelo (3) nella sua biografìa di Tirso — in cui un
libertino (notevole la determinazione) trova una testa di
— 32 —
morto, le dà un calcio ; poi segue la stessa storia delle
altre leggende, con la morte finale del sacrilego al secondo
convito. A questo ciclo di leggende si riconnette il fa-
moso dramma tedesco (4) " Storia di Leonzio conte che
corrotto da Machiavelli ebbe fine spaventosa ", che nel
1615 a Ingolstadt veniva rappresentato dai gesuiti, e
ripetuto nel 1635 a Iglau in Moravia, nel 1658 a Rot-
tvv^eil, nel 1677 a Neubourg e via proseguendo per il
600 e 700. Per l'innanzi era stato rappresentato in Italia,
ove par certo sia nata la leggenda (5).
Leonzio, in cui è rappresentato il simbolo di un ateismo
o paganesimo intellettuale, che l'umanesimo aveva potuto
introdurre in Italia, e di cui i gesuiti vedevano il diabolico
vessillifero in Machiavelli, è un eretico, che nella prima
parte dell'opera dei gesuiti compie alcune gesta crimi-
nose estranee alla comparazione con Don Giovanni. Una
sera, nella seconda parte, incontra in un cimitero un
teschio — che è proprio quello del suo avo Geronzio —
e lo invita a cena. Il morto si presenta e, issofatto, dopo
avergli detto che è venuto a ricordargli che c'è una vita
eterna, glielo prova sfracellandogli la testa contro la parete.
L' individualismo e il culto fisico fanno di Leonzio un
tipo tutto italiano del rinascimento, come la spavalderia
e pur la superstite religiosità fanno di Don Giovanni un
tipo spagnolo ; sebbene anche su questa religiosità di Don
Giovanni mi pare che si esageri ; egli non è ateo, non
bestemmia, non fa della filosofia empia ; ma dalle sue ri-
serve e dai suoi " tan largo me lo fiais " a una recisa ne-
gazione il passo è breve. Solo, per la negazione, che è in
Leonzio, occorre una supposizione di ragionamento a Don
Giovanni estraneo : egli è già in Tirso un po' del " due e
due fanno quattro " come sarà decisamente in Molière.
— 33 —
Pertanto nella leggenda di Leonzio, tipo di reo inten-
zionale e più complesso, la parte immaginosa è poca, il
convito è unico e frettoloso ; in Don Giovanni, tipo di reo
per istinto e senza complicazioni intellettuali, le cose vanno
molto più per le lunghe ; l'immaginazione si compiace di
arricchirne l'avventura finale. Inoltre il duplice convito of-
frirà all'autore del Burlador il modo di dare un'altra pen-
nellata al carattere di " espanolesca arogancia " del suo
personaggio, mettendone in mostra il punto de honor ;
poiché egli si arrenderà all' invito della statua di Don
Gonzalo "porque se admiie y espante-Sevilla de su valor".
Questo primo componente della leggenda è il super-
stite prodotto del sacro errore dell'anima popolare da-
vanti alla cristiana religiosità della morte.
Altro elemento caratteristico della leggenda dongio-
vannesca è quello della statua vivente. Anch' esso non
è nuovo, anzi risale più in là che non quello dell' invito
a cena. Attribuire al marmo una vita fittizia e vederlo
vivere per qualche impulso emotivo, era già un trapasso
facile a fantasie primitive. Vi è già un legame significativo
fra il mito di Niobe, in cui lo spasimo del dolore si ag-
ghiaccia in marmo, e quello di Galatea, che da marmo
balza a vita davanti all'artefice stupefatto.
Il Farinelli ricorda le " statuae incessurae " di Apuleio,
la statua detta " Salvatio Romae " che avvertiva i Romani
dei tumulti che scoppiavano nell'impero, secondo l'Ano-
nimo di Salerno del secolo X, la statua di San Nicola della
leggenda omonima, che punisce il ladro delle candele, ecc.
Più sintomatico il riferimento fatto da Gendarme de
Bévotte della narrazione di Dione Crisostomo {Di-
scorsi, 3 1 ) e Pausania ( Viaggio in Elide I. VI, cap. Xl)
3 — F. FUÀ, Don Giovanni,
— 34 —
della statua dell' atleta Theogene di Thasos, innalzata
dagli Eleati, che, insultata da un invidioso, una notte,
balza dal piedestallo e lo schiaccia.
Anche Virgilio fa che s'animi il simulacro di Pallade
nel racconto del falso Sinone (Ene/Je, II, v. 172-175).
Vix positum caslris simulacrum arsere coruscae
Luminibus flammae arrectis, salsusque per artus
Sudor ivit; terque ipsa solo (mirabile dictu)
Emicuit, parmamque ferens hastamque trementem.
Una leggenda siciliana, riadorna di colori immaginifici
dal Cesareo nelle sue Leggende e fantasie, presenta
pure lo stesso motivo che in Don Giovanni. Il barone di
San Rizzo beffa la statua di Don Giovanni, Cavaliere di
Terrasanta, gettandogli del vino in faccia e parlando sboc-
catamente della moglie di lui, lì presso scolpita anche lei:
la statua si anima repente e lo stramazza a terra cadavere
con un colpo della manopola ferrata. E moltissime altre
fantasie antiche e moderne ripetono lo stesso motivo.
L'opera più vicina al Burlador, in cui appare l'esempio
di una statua animata, è la commedia di Lope che tutti
gli studiosi di Don Giovanni dal Tiknor in poi citano
in proposito : Dineros son calidad, la cui composizione
non risale oltre il 1 590.
Ottavio, figlio del conte Federico che si è rovinato
finanziariamente per il Re Enrico, errando povero, s'im-
batte nella statua del Re Enrico e preso da un impeto
d' ira molto umano, si sfoga in insulti contro il marmo
odiato. Segue una singolare tenzone fra lui e la statua,
nella quale il coraggio di Ottavio trionfa e quella gli dice
di averlo voluto mettere alla prova, e di restituirgli il
denaro paterno.
La coincidenza è poco più che casuale ; la leggenda
— 35 —
dongiovannesca certo non può dover niente a questo
episodio, a cui del resto non 1* avvicina che una molto
esteriore somiglianza, essa, che nella sua prima forma-
zione, era evidentemente anteriore al Dineros.
Nella leggenda la statua esprime molto più : non è in
essa un impulso di vendetta impronta ed escandescente
come nella favola di Dione e Pausania ; tanto meno v'è
la semplice, quasi ariostesca meravigliosità episodica della
scena IV dell'atto 3" del Dineros. Qui, la statua è fatta
ministra dell' ira celeste ; e nel Burlador non risponde
all'ingiuria che è nello scherno di Don Giovanni, con una
violenza troppo umana ; mostra invece, sempre, con una
coiTettezza superiore a cui non estraneo il discernimento
dell'artista, di non vendicare tanto se, quanto Taluno, cui
offendere è assai maggior colpa.
Altrove alle statue, animandole, si attribuiscono sensi
umani ; qui essa è interprete divina.
E veramente un senso d'arte tutto intuitivo e popolare
in questa materializzazione del fato in un marmo animato,
che arriva inatteso alla casa dell'offensore, non si perde
in chiacchiere, ma irrimediabilmente terribile, senza fretta,
al momento scoccato, colpisce. Chi meglio indovinò e
fermò questo senso d'arte — mi si conceda la parentesi
— è forse il pittore Moreau le Jeune nel quadro : " Le
Festin de Pierre" : tra mezzo al gaudio del festino, come
evocato da un richiamo inaudito, e nell' istesso tempo
quasi atteso, e preparatogli il posto, e rimasto lì inavver-
tito, e si spalanchi ad un tratto alle viste folgorate — il
marmoreo simulacro è impassibile tra l'agonia dei volti (6).
— Così, nella cena del Sepolcro, Don Giovanni è bru-
ciato per mano del marmo, come egli stesso nella sua
vita ha bruciato restando marmo.
— 36 —
La rappresentazione di libertini è ben antica nelle let-
terature e nelle leggende. La Grecia ha i Paridi, gli
Egisti, quelli omericanente da chiamarsi Achee, non
Achivi, esempi di destituzione degli ideali del sesso vi-
rile. Di contro ha rappresentazioni di energie soverchianti
per cui i diletti del senso sono inconsiderevoli pedaggi
pagati alla natura : Zeus, Eracle, Giasone. A questi si
riallaccia Don Giovanni ; anzi io arrischierei dire che
la creazione del tipo rampolli dall' aspirazione inattuata
dell' irrequietudine moderna alle quiete energie quadrate
delle fantasie classiciste. Roma, infeconda di leggende
e miti, non crea tipi ; ma evidentemente la sua letteratura
meglio ricorda la stirpe dei Paridi ; l'amore pieno, so-
lare si macchia dei tormenti sensuali di Catullo, Pro-
perzio, Ovidio ; decadendo si voltola negli sterquilini di
Petronio.
Tipi di dissoluti e ammaliatori di donne non mancano
certo alla vita e all'arte di tutti i tempi : la Spagna conta
nella storia le imprese famigerate di Pietro il crudele,
( I 350-1 369 j, specie di Roberto il Diavolo spagnolo
senza fine pia : nell'arte, anticipatori più prossimi per so-
miglianza a Don Giovanni Tenorio, ha Leucino neWInfa-
mador diCueva, Leonido nella Fianza Satisfecha di Lope.
Leucino e Don Giovanni sono gli unici personaggi del
teatro spagnolo aureo, che dopo aver fatto strage dei dieci
comandamenti nonché di femmine, muoiono pentiti e
puniti. Gli altri, come Leonido, dopo fior di delitti, son
perdonati in grazia di un tempestivo ravvedimento ; così
Cristobal de Lugo (7), Trebacio (8), Don Juan del No
ha}) corno callar di Calderon, e dello stesso Tirso, pare,
anche il Caballero de Grada che dopo abbominande colpe
e dongiovannesche perdizioni riesce al quieto convinci-
- 37 -
mento di Dio e della vera Fede nella quale perseverando
acquista mercedi che lo nobilitano santo.
Leucino dell* Infamador rappresentato a Siviglia nel
1 581 , è un mostro che tenta violentare la sorella, percuote
il padre, aggredisce il suocero ; dopo aver fatto man bassa
dell'onore di tante malcapitate (antefatto), non la spunta
con l'ultima, Eliodora, la quale si difende così bene che
la dea Diana le dà il premio della verginità, e fa mghiot-
tire dalla terra lo scellerato.
Leonido è peggiore di Leucino; incestuoso, feroce,
energumeno, toglie la vita al padre, è il terrore di tutti,
finche Cristo in persona, sotto spoglie di pastore, non
viene a versare sulle turbolenze taurine del pazzoide le
persuasioni liquide delle sue parole d'azzurro, onde è re-
dento (fine del 2° atto) (9).
In questi pre-Don Giovanni, il tipo che ci interessa è
— occorre insistere — preannunziato, veduto di scorcio ;
è nel Burlador isolato e veduto di fronte. In quelli, il per-
sonaggio è anche corruttor di donne, per sfogare in questo
altro modo il proprio mal volere ; ove quelli seducon
donne per fare del male di più. Don Giovanni opera il
male per soddisfare i suoi capricci di donnaiolo. Cosa
notevole, in Don Giovanni la figurazione del male si ra-
refa in atmosfera di riso che talora pare ironia.
Ecco dunque gli elementi artistici che ritrovo nella
leggenda di Don Giovanni, quale si può ricostruire per
induzione dal Burlador : due elementi simbolici : la rap-
presentazione di un edonismo sensuale e quella di una
atrofìa sentimentale, con prepotenza di seduzione (da ciò
scaturisce una specie di ironia in azione dell'amore) ; due
elementi espressivi e locali : un libertinaggio all'impazzata,
e una puntigliosità irriflessiva che trascende nell' insulto
- 38 -
a un morto, che ancor dopo morto par l'offenda ; tre ele-
menti che dirò scenici su cui, come essenziali alla leg-
genda, mi sono maggiormente soffermato : le scorribande
amorose, la statua vivente, gli inviti a cena. Vedremo fra
poco questi elementi applicati nel Burlador.
Alla fine di quella posteriore redazione del Burlador
che è il Tan largo me lo fiais, vien data la storia di Don
Giovanni come verdadera, con quanta convinzione di
chi ascoltasse non occorre dire.
Nonostante l' iperbolica meraviglia degli accessori, la
figura rappresentata colpiva una manifestazione così es-
senziale della vita, che non sorprende, se per una specie
di rifrazione mentale cara a tutti, sia tornato gradito di
pensarla veramente viva.
Fin dal 600 r autore anonimo della " Lettre sur les
observations d' une comédie du Sieur Molière intitulée
Le Festin de Pierre^\ affermava veridica la storia. Nel
1835 poi il Viardot racconta la storia del suo viaggio in
Spagna (10) assicurando di aver trovato il bandolo don-
giovannesco in una narrazione diffusavi e a suo dire ri-
portata nelle Cronicas de Sevilla; secondo la quale nar-
razione Don Giovanni Tenorio appartenente ad una delle
24 famiglie nobili di Spagna, famoso scellerato, ucciso
il commendatore de Ulloa, e rapitane la figlia, era stato
attirato dai frati di S. Francesco in un agguato e assas-
sinato ; poi da essi divulgata la comoda leggenda del ca-
stigo divino, per nascondere la verità.
Questa conciliazione della fiaba con la verità storica
parve a taluni l'alto là delle fantasticherie ; e ad essa
giurarono in verha Castil Blaze, Latour, Koch, Zeidler,
Brouwer (11).
— 39 —
Eugenie Baret nella sua Histoire de la litiérature Espa-
gnolle riporta senz' altro tradotto il brano delle Cronicas
de Sevdla (12). Ma lo strano è che questo brano non
esiste, ne le indagini più accurate di Farinelli, Schack ( 1 3),
Bévotte sono riuscite a pescarlo ; ne alcunché di simile
trovasi nel Romancero.
Anche Maurice Barrès nell'opera già citata Du song,
de la Volupté et de la mori (cap. cit.) di mezzo all'erotiche
fantasticaggini, trova un testimonio alle stramberie necro-
file del suo Don Giovanni nell'identificazione storica di
esso con Don Miguel Manara Vicentello de Leca nato
a Siviglia nel 1626; e gli dedica una nota critico-estetica,
riassumendone in succo la vita, quale risulta dalle inda-
gini di Raul Colonna di Cesari. Ma a nessuno verrebbe
voglia di dar molto retta a un Barrès in veste di critico e
tanto meno a una nota critica in fondo a pagine così fre-
quenti di respirazione lirica come quelle dell'opera citata.
Sembra invece a me questa caccia al Don Giovanni
vero, oltreché infruttuosa, fuor di luogo. Come per Faust,
che sia esistito alcuno, su cui si sia puntata la fantasia
popolare per tessere le sue fila, mi pare senz'altro verosi-
mile; poiché nel creare le sue leggende essa sempre ha
bisogno di un granello di verità, da incartocciare tra gli
involucri della favola; ma come per Faust, voler sapere
chi fosse proprio l'originario della leggenda, è chiedere
troppo; tanto ormai la leggenda l'ha metamorfosato ; dopo
molti errori quello che si potrà ottenere è di ritrovarsi
tra mano, come nel caso di Faust, un ipotetico Fust
di Magonza.
Il non essere compresa la commedia El Burlador nelle
cinque parti delle sue opere, nelle edizioni di Madrid,
— 40 —
Siviglia, Valenza, Tolosa, curate da Tirso stesso o dal
nipote di lui Francisco Lucas de Alvila dal 1627 al 1636,
fa credere al Farinelli che essa non gli appartenga. Essa
appare per la prima volta nell'edizione di Barcellona, a
cura di Jeronimo Margarit, del 1 630, nel volume intito-
lato Doce comedias nuevas de Lope de Vega Carpio ^
otros autores. A questa " fermissima convinzione " il Fa-
rinelli è anche persuaso dalla innegabile povertà artistica
della commedia, scucitura delle scene, raspollature nei
domini di Lope, pallidezza di colore delle figure femmi-
nili, insolita in Tirso; inoltre dalla consuetudine degli
editori, di false attribuzioni a scopo di lucro.
Per altro, sottrarre all'autenticità di Tirso la commedia
per questi o altri motivi, non so se sia opportuno. Nella
gran mole delle quattrocento commedie uscite dal cervello
di lui (una bazzecola di fronte al doppio migliaio di Lope)
non pare sorprendente che taluna di quelle pervenuteci
manchi di essere rifinita.
A riprova dell'autenticità può valere l' ingegnosa illa-
zione di Gendarme de Bévotte. Egli oppone al Burlador
r altra commedia di Tirso (che pure alcuni gli conten-
dono) : El Condenado por descorxfiado, e in genere tutto
il teatro spagnolo precedente, e anche quello seguente di
Calderon; la tesi morale quasi costantemente svoltavi si
aggira sulla efficacia del pentimento finale a redimere una
esistenza di colpa. Nel Corìdenado, particolarmente, il
furfante Enrico in mezzo ai suoi misfatti ha conservato
un fìl di fede in Dio, e venerazione per suo padre ; e se
Dio, a detta del Manzoni, perdona tante cose per un'o-
pera di misericordia, quegli per men d'un'opera è salvato;
mentre l'eremita Paolo, che si è battuto il petto tutta la
vita, vien dannato solo per aver dubitato un istante. Giù-
— 41 —
stamente Gendarme de Bévotte ne inferisce che di fronte
a Paolo condannato per la sua dubitanza, a Enrico sal-
vato per la sua fede, Don Giovanni è punito per non
essersi pentito che davanti ali 'imminenza del castigo :
troppo tardi.
Infine, poiché una prova schiacciante della illegittimità
del Burlador manca, e d'altra parte il nome di Tirso ap-
plicatovi su vuol pur dire qualcosa, pur non giurando
sulla autenticità, bisognerà rassegnarsi a unire al titolo
dell' opera lo pseudonimo dell' arguto frate, sull' esempio
dell'editore di Barcellona che può anche essere stato un
truffatore; questa unione del resto è ormai così tenace
nel concetto comune, che la maggior ragione della fama
di Tirso è dovuta all' opera, che si dubita sia sua ; ciò
che farebbe filosofare il Leopardi sui capricci della
gloria mortale.
La commedia che segna l'esordio della carriera di Don
Giovanni (14) — m tre atti, come tutte le commedie de
capa y espada — ha un incrocio di scene dei più cervello-
tici; da Napoli si passa alla spiaggia di Tarragona,di qua a
Siviglia, da Siviglia si ritorna a Tairagona, nel solo primo
atto. Nel quale. Don Giovanni riesce a combinarne coram
nobis due delle sue ; si introduce, travestitosi dal fidan-
zato, nella camera della duchessa Isabella, dama di corte
del Re di Napoli; e burla, fuggiasco, la pescatrice Tisbea,
che trova sulla spiaggia di Tarragona, scampato appena
dal naufragio. Questa seconda avventura viene spezzata
in due dalla noiosa scena XIV nell* alcazar di Sevilla, in
cui si fa la conoscenza del commendatore de Ulloa e si
assiste allo sciorinamento sbadigliante delle bellezze in
rima di Lisbona, dove il commendatore è stato amba-
— 42 —
sciatore, e d'onde ora, per sfortuna del lettore, ritorna.
Don Giovanni confessa in questo atto chiaramente che
in amore non è di alcun partito ; la duchessa e la pesca-
trice si equivalgono :
Amor es rey
Que iguala, con justa ley,
La seda con el sayal
(Scena XVI).
Già, quando alle grida di Isabella, è accorso con tanto
di candeliere in mano, il Re di Napoli, che domanda
all' intruso chi è. Don Giovanni risponde con un'espres-
sione che vale una rivelazione :
e Quien ha de ser ?
Un hombre y una muyer
(Scena II, Atto I").
Nella scena precedente, dinanzi alla tempestosa an-
goscia della duchessa, che ha riconosciuta nello scono-
sciuto la sua rovina — " i Oh! cielo, e quien eres, hombre?"
— egli sogghigna :
t Quien soy ? Un hombre sin nombre.
11 nocciolo del personaggio è già qui. La demolizione
dell'amore — esclusione — è nell* espressione di questa
indifferenza anonima. La brutalità definitiva del contatto,
sovrapposta allo strazio d'anima della vittima. La duchessa
Isabella non è certo un fiore di sensitività : una tal comi-
cità profana è nella preoccupazione di rimediare al male
alla bell'e meglio, con una falsificazione : venga il gerente
responsabile, legittimato dal sacro rito, e la macchia è
lavata.
Mas no sera el yerro tanto
Si el duque Octavio lo enmienda.
- 45 -
Sarà meglio convenire fin da principio, che tutte le
quattro donne del Burlador, come già si è accennato,
sono pallide forme mancanti di vita : l'unica, Tisbea, che
paurebbe aspirare a un carattere più personale, è sciupata
da quella copia di stucchi gongoristici che sacrificano il
sentimento. Questo, che è pur un difetto, stona meno in
una commedia, ove l' elemento femminile è inorganica
materia, dalla quale sbalzi la forma particolare di Don
Giovanni: l'incorporeità stessa delle figure femminili
inconsciamente aiuta il contiasto della più viva rappre-
sentazione maschile.
Viva specialmente in alcune scene dei due primi atti.
Come sappia destieggiarsi con le emozioni. Don Gio-
vanni lo mostra subito, quando, dopo aver stupito le
guardie con le sue iattanze — egli che aveva riconosciuto
lo zio in Don Fedro, senza esserglisi ancora svelato —
chiede di restar solo con lui, e, appena vedutolo tenten-
nare alla rivelazione (" Tu sobrino ! "), non risparmia
l'aiuto decisivo delle sue plorazioni e intenerimenti.
...Mozo soy, y mozo fuiste...
...Tenga disculpa mi amor
(Scena V).
Si serve per il suo vantaggio di due reagenti sentimen-
tali di buon effetto : il peccato d' amore e l' indulgenza
invocata dal parente. Dopo Don Giovanni, Catalinon è
il personaggio con più efficacia tratteggiato, anzi sen-
z' altro direi che è il più coerente con se stesso, poiché
Don Giovanni che in talune scene è rivelatore, altrove
presenta delle brave screpolature.
Catalinon è la rappresentazione tipica inesauribile del
virtuoso medio, della normalità rotonda ; l' impossibile
punto di conciliazione di tutte le eccezioni della terra ( 1 5).
~ 44 -
Ci sì presenta per la prima volta in un momento diffi-
cile — lui e Don Giovanni approdati naufraghi a Tar-
ragona; — pure non dimentica i suoi buffoneschi commenti:
almeno invece di tanta acqua ci fosse stato tanto vino, in
mare ! Peccato che non dimentichi nemmeno di apparte-
nere artisticamente ai tempi di Ledesma e Gongora;
una prova ne sono le imprecazioni inopportune a Giasone,
a Tifi (scena Xl).
Tisbea è una ribelle a Cupido, che prima avea tutti
gli altri ingannati : se non ama, come la futura Erodiade
di Mallarmé, l'orrore di essere vergine, per lo meno teme
prudentemente il pericolo di non esserlo più :
Mi honor conservo en pajas
Como fruta sabrosa,
Vidrio guardado en ellas
Para que no se rompa.
Significa la sua insensibilità con un certo sentimento.
Sentenzia anche :
De amor condición propria
Querer donde aborrecen
Despreciar donde adoran
(Scena X).
Ma ecco, viene Don Giovanni che manda a gambe
all'aria tutto questo cinismo femminesco : davanti a Don
Giovanni la dongiovannesca Tisbea impallidisce come
un cero al meriggio (il trapasso è un po' troppo repente
e convenzionale) : ha trovato il suo domatore, come la
polledra di Anacreonte.
La scena della seduzione (scena XVl) segue a una
delle fiequenti conversazioni fra il padrone e il servo,
che nel corso dell'opera formeranno la parte più gaia.
— 45 —
È la schermaglia tra la riluttanza del povero buonuomo
alla complicità con il padrone, e la paura che ha di
lui, non tardo di mano, come sperimenterà al 3" atto,
scena X, in cui il cahallero gli allungherà un hofdón da
rompergli un molare in bocca. La prepotenza del padrone
par che si diverta talora a lasciargli un po' le briglie sul
collo, salvo poi con uno strattone a rimetterlo sulla via di
buon somaro muto.
Don Giovanni ha poco da fare per vincere le barriere
della resistenza di Tisbea : "Tua estoy". L'assicurazione
con giuramento che la sposerà pare superflua, tanto quella
ha voglia di credergli. Il seduttore trova qualche accento
vero per dipingere l'infinta passione: " Hoy prendes por
tus cabellos — Mi alma".
Ella aveva pur dianzi constatato che vi era chi l'amava
sul serio e invano : il pescatore Coridon ; ed è proprio
quando ella si avvicina all'amore, che questa rivelazione
le ha balenato :
i Oh que mal me parecian
Estas lisonjas ayer!
Y hoy echo en ellas de ver
Que sus labios no mentian
(Scena XIII).
La lotta, nella pescatrice, tra la consapevolezza della
propria povertà e la palese prestanza dell' amato, si esprime
intanto in note di umile dolore, che il presagio funesto
adombra :
Reparo en que fué castigo
De amor el que he hallado en ti
Soy desigual
A tu ser
(Scena XVI).
— 46 —
Piange male dopo la fuga del Burlador, con pianti
ricchi di orpelli e poveri di sentimento, tirando in ballo
Troje in fiamme e Amori incendiari (scena XVIU).
La figura di Don Giovanni non fa dimenticare quella
del duca Ottavio ; è il tipo di amatore pronto alle subite
accensioni e agli spegnimenti.
" Desdichado es el duque con mujeres " — noterà il
Re Alfonso XI (scena XVI, atto 3").
Come a Don Giovanni Catalinon appioppa il nomi-
gnolo di Burlador de Sevilla, così al duca Ottavio quello
di Inocente sagitario che può restare anche senza la speci-
ficazione: "de Isabella".
11 duca Ottavio crederà di vedere in ogni donna la
sua dea ; alieno dalle volgarità, navigherà nei più lirici
mari a tutte vele; nessuna meraviglia che dia di petto in una
notizia imprevista come quella che la duchessa Isabella
è stata violata, e... da lui (scena Vili, atto l*^). E lui che
s'era levato all'alba, insonne per l'amore insano, e decla-
mava poeticamente alla sua dea ! (Scena IX).
Ora faccia i bagagli, se vuol scampare da morte. Un
epigramma di buon gusto l' autore ha messo in bocca
(scena Vili) al servo del duca, Ripio, a proposito delle
querimonie del padrone : saggio graziosissimo di popola-
resco buon senso.
Il duca ama la duchessa Isabella e la duchessa Isabella
ama il duca. Ora, filosofeggia Ripio :
^no sere majadero
Y de solar conocido
Si pierdo yo mi sentido
Por quien me quiere y yo quiero ?
* Pues si los dos os quereis
Con una misma igualdad
Dime ( hay mas dificultad
De que luego os desposeis ?
— 47 —
Ma dalla mano dell' autore le situazioni escono con
una così fiabesca meccanicità, cadendo verso il centro di
gravità dell'argomento principale, che ogni situazione più
strana par stemperata lì in una atmosfera di consuetudine
pigra.
Così al Duca Ottavio che ora è arrivato a Siviglia
(atto 2", scena II), pieno di disperato dolore e amore, ba-
stano due parolette del Re, che subito si sprofonda in in-
chini, buttati alle ortiche i ricordi molesti ; sente ora parlare
di Donna Anna — pare per la prima volta — (figlia del
commendatore di Calatrava, quello dell'elogio di Lisbona);
il Re gliela vuol dare in moglie ; ciò basta a spegnere il
primo incendio e suscitare il secondo. Evidentemente
l'autore preoccupato del suo soggetto principale, si con-
tenta di cavarsela alla più svelta con le seconde parti :
Shakespeare poteva sì creare accanto al tormento not-
turno di Amleto, l'alba di Ofelia, la bonarietà di Polonio,
la compostezza rettilinea di Orazio : tutte plaghe di sogno
egualmente battute dal sole di tanto genio; quanto a
Tirso, ha troppo da fare a tener dietro a Don Giovanni
e Catalinon, per perder tempo coi personaggi secondari.
Don Giovanni, mentre il duca Ottavio, riempito di brio
il vuoto del suo dolore, se la sta ridendo gaglioffamente
con Ripio, e parlando delle gollardas mujeres di Siviglia,
arriva in tempo per fare due chiacchiere con lui, e sfog-
giare un po' di quella ipocrisia, che è una delle sue
migliori doti (scena IV).
Pare però che Don Giovanni non si diverta troppo
con l'entusiasta amatore; dacché con un subdolo : " Des-
corte's es fuerza ser", scorto il marchese Della Mota, suo
compagno di bricconate e uomo meglio tagliato al suo
dosso, se ne allontana per salutare il niioyo venuto. E il
— 48 —
buon duca, che lo accompagna con le sue magniloque
esibizioni :
Si de mi
Algo hubiereis menester
Aqui espada y brazo està.
Chi redasse il" Tan largo" sgraziò questo effetto co-
mico, trasponendo queste parole in bocca a Don Giovanni.
Il marchese Della Mota è l'anello di congiunzione
tra la sensibilità recettiva dell' " Inocente sagitario" e
r insensibilità attiva del Burlador. Scorciato da Tirso
(bisognerà per brevità senz'altro adottare la paternità di
Tirso, a proposito del Burlador), si evolve più netto e di-
stinto, per quanto artisticamente falso, nel Don Carlos de
Sandoval di Dumas, nel Don Luis Meguia di Zorrilla.
La rivista delle bellezze muliebri di SivigHa, che si passa
da entrambi nella chiacchierata della scena V, ha forse
suggerito a Cicognini e da lui, parrebbe, alla commedia
dell' arte itahana, il particolare buffone della lista lan-
ciata dal servo a una delle vittime.
Il marchese Della Mota, sebbene birba della più bel-
r acqua, è pertanto innamorato sul serio ; e propriamente di
colei che deve ora andar sposa dell'/nocen/e sagitario, che
minaccia così di diventare due volte Capricornio. Seb-
bene ami veramente, e conisposto, non per questo ac-
cenna a divenire stinco di santo; mentre è in procinto
di godere del flutto del suo amore, grazie a una lettera
che Don Giovanni gli ha recapitato non senza trarne
suo prò' per la burla, non gli passa di mente una tal calle
de la Sierpe e un bravo perro, che gli resta da giocare
presso una Beatrice " rosada y fria "; ma forse fatto generoso
dalla felicità, rinuncia a quest'ultimo boccone a favore di
Dpn Giovanni, cui presta anche il mantello richiestogli.
— 49 —
Don Giovanni si è già servito ai suoi buoni fini del-
l'affetto di suo zio; sa convergere a suo prò' anche la
generosità dell'amicizia. Il prossimo ormai non gli serve
che per crune, traverso cui infili le sue burle.
Anche del dolore paterno si fa beffe (scena X).
I francesi Dorimond (1658) e Villiers (1659) hanno
esagerato nei loro Festins de Pierre questa scena X in cui
Don Diego rimprovera vanamente il figlio, che se ne ride.
L'uno l'ha alterata trascinando Don Giovanni ad escan-
descenze, minacce, oltraggi ; l'altro portandolo fino a per-
cuotere il vecchio, che ne muore di dolore. Cicognini la
toglie. Molière la diluisce in un salmo, gonfio di vele re-
toriche, diviso in due dal beffardo invito a sedersi di Don
Giovanni, che del resto non aggiunge altro.
Ma, così com'è nel Burlador, questa scena che ha lo
scopo di far noto a Don Giovanni per bocca del padre
che in sua grazia il Re lo ha soltanto esiliato a Lebija, per
averlo riconosciuto colpevole del tradimento contro l'onore
di Isabella, questa scena, con tanta povertà di mezzi, in-
negabilmente ha dell'efficacia.
L'autore sfiora quasi senza accorgersene quel grande
elemento di dramma e poesia, che è nella statica espe-
rienza amorosa del vecchio e del padre, e la crudele,
ignara avventurosità del giovane e del figlio ; quel gran
dissidio, donde sanguina l'immenso dolore ignorato dei
padri , che a Lucrezio lampeggiò forse nell' imma-
gine della corsa delle fiaccole, e che nella poesia si è
sempre più elevato a simbolo lirico e a luce di bel-
lezza (16).
Quanto a lui, Don Giovanni non se ne piglia pena
" Fuése el viejo internecido ". Ebbene : si sa che i vecchi
hanno le lagrime in tasca. E si prepara al nuovo tiro.
4 — F. FuÀ, Don Giovanni.
— SC-
Si replica il caso di Isabella ; ma le cose van peggio,
che il commendatore de UUoa, accorso alle grida della
figlia che ha scoperto l' inganno, vien trafitto nel duello
che impegna col briccone.
Intanto il marchese Della Mota aspetta la mezzanotte
che deve coronare i suoi desideri d'amore ; ma gli capita
addosso il Re in persona, che lo condanna a morte, re-
putandolo reo dell'omicidio (scena XVl).
L'ultima avventura di Don Giovanni non manca di un
certo sapor locale; ma spettava a Molière ricavarne il
mirabile quadretto di genere di Mathurine e Pierrot. Si
inizia nello stesso secondo atto, quando Don Giovanni
fuggitivo da Siviglia capita a Dos Hermanas, dove si stem
celebrando le nozze fra Aminta e Patricio due contadini.
Capita lì in mezzo, come un calabrone in un alveare ;
sorpresa generale, poi gioia, ammirazione: solo Patricio
si morde le mani. 11 poveretto è un tipo di badalone : e
Don Giovanni nell'atto 3° (scena II), lo tocca nel suo
calcagno quando per togliergli Aminta, gli sussurra,
che è già stata sua. — " Con el honor le venci, Porque
siempre los villanos Tienen su honor en las manos "
(scena III) — dice il Burlador, e soggiunge con mirabile
candore :
Que por tantas variedades
Es bien que se entienda y crea,
Que al honor se fué al aidea,
Huyendo de las ciudades.
Considerazione, in cui consente anche Aminta, che
non dovrebbe aver la palma d'imparaalità :
La divergiienza en Espana
Se he hecho caballeria
— 51 —
La scena notturna della conquista di Aminta non ha
niente di nuovo : la splita promessa magica apre facilmente
al conquistatore, amante delle cose spicce, anche le
braccia della contadina. Qualche tratto umoristico ci può
far sostare: "A està hora?" dice Aminta. — E l'altro :
— " Estas son las horas mias ". — E poi, francamente :
" Aminta, escucha y sabràs... La verdad, que las mujeres
Sois de verdades amigas ".
Il dialogo è tutto uno scoppiettio di briose risposte tra
pause di domande affannose ; il " Tua soy " non si fa
aspettare. Don Giovanni ha scelto l'incanto dell'oro e
delle gemme: fiere armi per la già scossa onestà della
campagnola: le parole traditrici sanno captare, ormai
conscie di vincere :
j Ah ! Aminta de mis ojos !
Manana sobre virillas
De tersa piata, eslrellada
Con clavos de oro de Tibar
Pondras los hermojos piés
Y en prisión de gargantillas
La alabastrina garganta
Y los dedos en sortijas
En cuyo engaste parezcan
Transparentes perlas fines.
Versi che non mancano di gusto.
Ma il senso estetico, che ha fatto sinora atto di presenza,
comincia a lasciarne scemi di se. Pare ad alcuno che
questo terzo atto sia di gran lunga il migliore. V'è, sì,
tutto il movimento della statua animata e dei banchetti,
che dà illusione di vita ; ma anche questo episodio deci-
sivo è così staccato dal resto della commedia, e quei due
conviti così addosso l'uno all'altro i
— 52 —
Innanzi tutto Don Giovanni sembra cominci a smairire
la sua padronanza di spirito. Gli salta di tornare a Siviglia
per picca, e tornatovi, va proprio a capitare nella chiesa,
in cui è la cappella e il sepolcro del commendatore. Il
Burlador comincia a soffrir di nervi, e se ride, ride ora
male. Appioppa un ceffone a Catalinon che gli sta rife-
rendo delle voci contro di lui ; legge l'epitaffio del com-
mendatore e vedendosi chiamato traditore, tira la barba
alla statua, e l' invita beffardo :
Aquesta noche a cenar
Os aguardo en mi posada
...Aunque mal renir podremos.
Si es de piedra vuestra espada. ,_ .^.
(bcena A).
Lo stato di agitazione, in cui si trova Don Giovanni,
inconsciamente prossimo al castigo, è troppo impreparato.
Trepida, a cena, fa sedersi il servo vicino: presago è,
pare, di qualche grave sventura. Ma quando la statua
(scena XIll) s'avanza, gli risale un'ondata di forzata al-
legria, cui il marmo non degna di considerazione, come
neppure la scempiaggine dell'interrogazione di Catalinon,
che sa a mala pena pel terrore articolare le prime do-
mande che gH ministra alla bocca non la volontà, ma gli
trascina l'istinto; e si spiega che gli venga fatto di chie-
dere nientemeno come si mangia, come si beve, e se ci
sono osterie all'altro mondo ! Ciò che farebbe per un mo-
mento rifìltrare alle analoghe interpellazioni del nostro
vecchio Ritmo Cassinese.
Don Giovanni, si tradisce nella stessa scena quando
al servo che ha sbrigliata la parlantina, mozza in bocca
l'allusione a Donna Anna :
Calla
Que hay parte aqui, qua lastó
Por ella ;
— 53 —
e nella scena seguente, quando chiede alla statua del
commendatore se l'abbia ucciso en pecado, se goda de
Dio: — a Don Giovanni, con la trepidazione, vengono
anche degli scrupoli religiosi : anche la religione gli può
tornar comoda. 11 mutamento è sensibile là dove egli
afferma sul suo onore (" honor tengo y las palabras
cumplo") di fare quanto il commendatore gli dirà: dopo
tutte le trappole propinate a uomini e donne, l'asserzione
e la fede riscossane lasciano un po' sospesi.
E sorpresi siamo restati a sentire da Catalinon, nella
scena precedente, che Don Giovanni si accaserà " comò
es razón" con Isabella; è vero che (scena I, atto 2") il Re
ha disposto che egli sposi la donna che ha contaminata ;
e alla scena Vili del 3 " atto, Fabio lo ricorda per con-
solazione a Isabella raminga sulla spiaggia di Tarragona ;
ma poiché non è solo Isabella la sua vittima, pare strano
che da quel tipo che è Don Giovanni, si arrenda agli
ordini reali, e anzi faccia mostra poi, nella scena XIX,
della massima soddisfazione al prospetto poco dongio-
vannesco del matrimonio. Credo che non sia piaciuto
a Tirso conservar troppo diavolo il suo rompicollo ; il
Don Giovanni del 3" atto è perciò alquanto in ribasso.
Altre cantonate prende l' autore nel suo torneo di
imenei.
Il Re ha assegnata Donna Anna al marchese Della
Mota, sebbene lo ritenga ancora colpevole dell'omicidio,
e al duca Ottavio ha ritirata la parola :
No es bien que el duque Octavio
Sea el restaurador de ese agravio
(Scena XV).
Ma ecco, una scena dopo, tornano in ballo le nozze
del duca Ottavio : " Manana vuestras bodas se han de
— 54 -
hacer". Con chi vuol farlo sposare? O vuol dare due
mariti a Donna Anna per compensarla della perdita
del padre ? !
V'è una lacuna del testo, o è la conseguenza di fretta
e distrazione dell'autore?
Ma ecco la scena della mensa funebre (XXl), condita dai
lazzi di Catalinon, che rappresentano lo stridulo accom-
pagnamento del riso, che è sotto ogni umana tragedia.
L'incapamento di Don Giovanni rasenta quel limite, oltre
il quale il riso muore per asfissia, come polmone umano
per troppo rarefatta atmosfera. " Mangerò, se mi darai
aspidi, aspidi quanti ne ha l' inferno ! ".
Altrettanto, le buffonate di Catalinon che sberteggiano
la sua stessa paura ; l'arguzia vi è un pò troppo ripicchiata:
Mesa de Guinea es està
t Pues no hay por alla quien lave?
.... Tambien aca se usan lutos
Y bayeticas de Flandes ?
Stilla dalla penna dell'autore un tale negligente sentor
di epigramma laddove Don Gonzalo : " Tambien quiero
que te canten " e Catalinon di contraccolpo : " e Que vino
se bebé aca?". Umorismo forse inconsapevole.
S'appressa la tragica fine. L'invito è subdolo : " Dame
esa mano — No temas la mano darme". Cui Don Gio-
vanni tocco nel vivo: " Yo timor? "; ma poi : " iQue me
abraso! No me abrases — Con tu fuego".
Il punitore e il colpevole si sono smascherati, sono ve-
nuti ai ferri corti. Ora Don Gonzalo incalza feroce :
" Este es poco — Para el fuego que buscaste " ecc.
Don Giovanni lascia andare alla fine una rivelazione im-
- 55 -
portante : non è riuscito a possedere Donna Anna ; essa
ha sventato il suo tranello. Ciò che non impedisce che
sia subissato nel fuoco.
E ciò calzava per la scena ultima arrancante alla
peggio, la scena degli sposalizi. Il marchese Della Mota che
sa salvo l'onore di Donna Anna, promette cento premi a
Catalinon che glie ne ha dato notizia, e a se l'unico e
più grande di sposarla. Il duca si rassegna a prender di
seconda mano Isabella: è suo destino. Patricio non in-
dugia a seguire tanto esempio.
Nel 1 878 il marchese De Fuensanta del Valle rin-
venne un opuscolo in 4" a due colonne, contenente il
"Tan largo me lo fiais", col nome di Calderon. Ma non
è che un'altra redazione del Burlador con inconsiderevoli
varianti ; appartiene alla prima metà del 600. Manuel
de Revilla ne deduce anche l'attribuzione del Burlador
a Calderon.
Taluni, con il Colarelo, I' attribuiscono ad Andrea
de Claramonte noto plagiario di Siviglia. Secondo le
giuste osservazioni dello scopritore, è un' altra copia
dello stesso Tirso precedente o seguente al Burlador, o
un rimaneggiamento di attore (17). La sostituzione del-
l'elogio di Siviglia a quello di Lisbona farebbe credere
più probabile questa seconda ipotesi : questi elogi varia-
vano di dedica secondo i luoghi : m uno scenario italiano
è sostituito dall'elogio di Firenze.
Nel " Tan largo me lo fìais " è Don Giovanni stesso che
sciorina al duca Ottavio l'elogio, come per dargli notizie
della nuova città, dove questi è giunto ; ma la scena del-
l'incontro ne soffre assai. In compenso il "Tan largo" è
più compiuto; molte scene allungate; ha l'aria di essersi
- 56 —
fatto più adatto alla rappresentazione. Nella 3"" giornata
è più in isteso il soliloquio di Patricio, con più dovizia
di spunti comici : indovinata quell'allusione alle risate
degli invitati all'indirizzo di lui, povero diavolo, sostituito
nei suoi diritti di fresco sposo.
lodo el lugar
Con risa me respondia :
Eso non es cosa que importe.
No teneis de qué temer.
Callad, que debe de ser
Uno de alla de la corte.
Vi è anche qualche motto fatto più ridanciano. Nel
colloquio con Aminta, Don Giovanni: "Te adoro"; —
Aminta: "Como?"; — Don Giovanni: "Con mis dos
brazos" — (nel Burlador "con mi corazón ").
Più esteso è, tra l'altro, anche il rapporto finale di Ca-
talinon, sull'avventura della tomba. Tolto quel pasticcio
di disposizioni matrimoniali riguardo al duca Ottavio,
che aveva imbrogliato l'Alfonso XI del Burlador e che
notammo.
La stessa osservazione per le prime due giornate.
Noto, procedendo a ritroso, nella seconda, la scena delle
nozze di Dos Hermanas molto più ricca di particolari,
come pure la scena della serenata del marchese ; nella
prima giornata, la scena del duca Ottavio e Don Pedro,
quella di Isabella e il Re di Napoli, quella di Don Pedro,
le guardie e Don Giovanni, tutte più riempite, più sce-
niche; concludendo, il "Tan largo" è meglio esplanato :
anche il verso è molto più scorrevole.
Il Don Giovanni nella commedia di Tirso è, ricapi-
tolando, limitato ai due primi atti e parte del terzo ; è là
- 57 -
che l'ingegno dell'autore batte sul personaggio e lo mette
in luce, pur fra le macule della sceneggiatura scorretta,
di alcune sventataggmi.
Il vertice del carattere è un' intraprendenza gaia e for-
tunata; con minima spesa coglie i frutti più belli della
vita. Coridon dichiara a Tisbea che non v'è cosa che
uomo non farebbe per lei (scena XIII, atto I''): parli, ed
egli correrà monte, piano, terra, mare, sfiderà fuoco, aria,
vento, per contentarla. E l'amore perduto, e infinito nel
finito della persona amata : il più vero mistero e il para-
dosso più indiscutibile dell'amore vero. Ma che ? Don
Giovanni non farà niente per Tisbea, se non rubarle i
favori e, qualcosa di meno, le cavalle per fuggire verso
nuove burle. E Tisbea si è negata alle suppliche e alle
adorazioni altrui, per farsi predare dal mentitore così di
volata, come un frutto a tratta di mano che si rapisca
nella corsa.
Il marchese Della Mota sospira, in attesa della mez-
zanotte, alle gioie dell'amore prossimo a cogliere il sogno
e pregusta le bellezze dell'amata mentre i suoi musicanti
cantano la serenata.
Il gemito del Petrarca doloroso di desiderio ritorna
nelle parole impazienti di realtà del farnetico :
Como yo a mi bien goce,
Nunca llegue a amanecer.
Don Giovanni, passando, domanda: "Que es esto?"
Catalinon risponde: "Musica". Catalinon per inferiorità
di bonaccione. Don Giovanni per superiorità di asenti-
mentale disdegnano le perdite di tempo, le musiche, i
loti dei sogni.
— 58 —
Don Giovanni ha già assalito Donna Anna, ha am-
mazzato il commendatore, che il marchese Della Mota è
ancora ad attendere al chiaro di luna, sospirando.
Il marchese Della Mota è dentro in gattabuia, senza
colpa veruna, che non sia quella di aver perduto il suo
tempo; e Don Giovanni, che è il vero colpevole, è
dietro a insidiare sbrigativamente una nuova colombella :
Aminta.
Quella che già chiamammo sfericità sentimentale di
Don Giovanni è attestata dal non essere mai, il Burlador,
scalfltto da burla altrui (nella parte che abbiamo ricono-
sciuta dongiovannesca) ; deride, mai deriso ; ciò che
presuppone una strapossente copia di energie native;
quanto gli abbiamo riconosciuto. A questa inintaccabilità
di nervi si aggiunge naturalmente la ipercoscienza delle
proprie forze, che degenera in puntigHosità. Nella scena IV,
del l*' atto, davanti alle guardie che voghono catturarlo,
rotea minacce furiose, che non paiono soltanto agevolate
dall'aver riconosciuto in Don Fedro lo zio. Nel " Tan
largo " esse sono ancora più fiere, e rintronano di bom-
banza esilarante:
Por la ponta de està espada
Llegad a comprar mi vida
Que ha de sier tambien vendida
Como de todos comprada, ( 1 8)
A mano a mano egli mostra in fine alla scena VII del-
l'atto 3", di rovesciare con i soffi della sua celia, come
trastulli di carta, a uno a uno i sentimenti più comune-
mente sacri : dalla parola d'onore alla pietà filiale : ciò
che si è visto. Cambiando con la massima faciHtà un
paese con un altro, mostra ancora di non conoscere che
- 59 -
cosa sia il mal di patria. Se loda Siviglia, la loda per le
belle donne.
Dalla scena ora citata in poi, si sente che sono suben-
trate diverse preoccupazioni a quella della definizione
del personaggio : ovvero è subentrata soltanto l' impa-
zienza di finire e in modo da contentare un po' tutti.
Il carattere è rappezzato e portato a spintoni alla fine,
attraverso i due conviti, che artisticamente lo ristoran poco.
Il vero Don Giovanni, quello fermato dallo spillo di
un'acuta intuizione, era finito con la scena notata.
60 —
NOTE ALLA SECONDA PARTE.
(1) Secondo Emilio Cotarelo: {Tirso de Molina, Madrid, 1893),
il Burlador è stato composto da Tirso non prima del 1625, data
del suo probabile soggiorno in Siviglia. 11 Bévotte, op. cit., pag. 66,
mette la data tra il 1627-1630. L'edizione del 1630 però non do-
veva essere la prima.
(2) Cito dal Farinelli e dal Bévotte, pag. rispettivamente 19 e
segg., e pag. 46 e segg , i raffronti con questo elemento della leggenda di
D. G. — Sebillot in Contes des provinces de France, 1884, pag. 227
e segg., riferisce la leggenda alsciziana che ha per titolo La téle du
mori qui parie. Ivi stesso la leggenda piccarda, pag. 247 e segg.
(3) Cotarelo y Mori, op. cit., pag. 117 e segg.
(4) Il titolo tedesco del dramma è : Votì Leontio, einem Crafen
Vuelcher durch Machiaoellum verfiihrt ein erschreckliches Ende ge-
nommen. 11 Bévotte ne propone probabile autore il gesuita Jacob
Gretser. La leggenda di Leonzio è creduta vera dal gesuita Zeheutner ;
Promonlorium malae spei, ecc. (1643). Dal padre Cristoforo Selhamer
in Tuba tragica (1696) è affermata tale. Sull'esistenza di una prima
redazione italiana concordano lo stesso Zeheutner e il Poirters, gesuita
fiammingo (1646). E notissimo lo studio del D'Ancona (1903), in
cui è sostenuta la tesi della germanità della leggenda.
(5) Nel 1658, nella rappresentazione di Rottweil, Leonzio è fatto
italiano.
(6) Ve n'ha una riproduzione nel libro di Guillaume Apollinaire :
Les troia Don luan, nella collezione dal titolo : Histoire romanesque.
Il volume non vale che per le sue illustrazioni. Sono tre raccontini
slavati, rifritture dei Don Giovanni di Molière, Mérimée, Byron.
(7) Cervantes: El rufian dichoso.
(8) Lope : EI triunfo de la humildad y soberhia ahalida.
— 61 —
(9) Lo Schack raffronta col " Tan largo me lo fiais " ritornello del
Burlador, il motto di Leonido :
Que lo pague Dios por mi
Y pidamelo después
Historia de la Literalura en Espana, voi. 3°, pag. 444. (Mi valgo
della traduzione spagnuola del De-Mier nella Coli. EU. Cast.).
(10) Louis Viardot : Eludes sur l'hisloire des instilutions de la
littérature, du théàtre et des beaux arts en Espagne.
(11) Castil Blaze : Molière musicien, 1 852 ; Latour : Eludes sur l'E-
spagne;K.oc\ì: Zéilschrift fiir vergleichende Lilteraturgeschichte,\ 667;
Zeidler : ivi ; Simone Brouwer : Don Qiovanni nella letteratura e nel-
l'arte musicale, 1894.
(12) Eugenie Baret : Histoire de la littérature Espagnolle, 1873,
pag. 317.
(13) Lo Schack ammette che veramente la verità della leggenda
riposi sulla tradizione orale, invece che sulla scritta. Volume citato,
pag. 444, nota.
(14) Esamino il Burlador nella Bibl. de Aut. Es. voi. V, a cura
dell'Harlzenbusch. L'edizione, è noto, non è delle migliori : migliori
quelle del 1654 di Madrid e Saragozza, impossibili a trovarsi da noi.
(15) La creazione di tipi mediani suole, pare, confortare l'intelletto
artistico quanto più superiore a quelli.
I geni di Cervantes, Goethe, Manzoni non si compensano e libe-
rano nelle ricreatrici oggettivazioni di Sancho, Hermann, Don Abbondio ?
(16) Ricorderò di sfuggita Hervieux: La course de flambeaux ;
Barrès: Le jardin de Berenice (prefcizione) ; Shaw: La professione
della Signora Waren ; Bourget : Les tapes ; Turghenieff : Padri e
figli; ecc., dove è contemplata questa tragedia, qui appena adoc-
chiata. L'argomento aspetta una seria trattazione psicologico-letteraria.
Anche nella Commedia latina e sue propaggini nostrane, il problema
dell'interiore inconciliabilità paterno-filiale è non avvisato come tale, ma
come tale rimbalza ai nostri occhi d'oggi d'onde è rappresentato pittori-
camente come sereno aspetto di vita. Vedi specialmente Adelphi di Te-
renzio, e, presso di noi, l'Aridosia di Lorenzino, che vi attinge. Si può
quindi giungere alle disperate congelazioni dei pensieri II e CIV dello
Zibaldone leopardiano.
— 62 —
(1 7) Ho esaminato il " Tan largo " nel già citato volume della "Co-
leción de Libros espanoles raros ó curiosos". Imprenta Fortanet,
Madrid. Vi è premessa un'avvertenza dello scopritore e la prefazione
di Pi y Margall. E diviso in giornate senza ripartizione di scene.
(18) 11 Burlador aveva soltanto :
tQuien ha de osar?
Bien puedo perder la vida
Mas ha de ir tan bien vendida
Que a alguno le ha de pesar
(Atto ]", Scena IV).
PARTE TERZA
Don Giovanni in Ispagna
Giustamente fu osservato dal Baret (I) che la Spagna
par destinata a fornire i materiali alle altre letterature, e
queste ad innalzare i monumenti. Il Cid di De-Castro, il
Guzman di Mateo Aleman, il Marcos de Obregon di
Espinel e anche il Diahlo Cojuelo di Guevara chi li
ricorda quasi più dopo Corneille e dopo Lesage?
Così la Spagna dà per la prima il tipo di Don Gio-
vanni ed è quella forse che se ne cura meno. Se il ro-
manticismo non si fosse incaricato di riportcu-glielo arric-
chito di nuovi significati, sarebbe morto con Zamora.
Pi y Margall si affanna ad assicurare, come Spagna e
Don Giovanni siano una sola idea, tale Maometto e
il suo profeta ; se gli si vuol credere e se si limita questa
affermazione al campo della vita, si può anzi vedervi una
ragione della poca fertilità artistica dei Don Giovanni
spagnuoli; datochè negli individui e nelle nazioni la
vita e l'arte sono spesso tra loro come il rapporto diretto
— 64 —
per l'inverso e insieme restituendo l'intero perfetto a cui
l'una si avvicina a scapito dell'altra : ecco individual-
mente Casanova che non scrive le sue memorie se non
quando non ha più altro da fare
Certo davanti al fatto non si discute: e questo è che
mentre in Italia, pur così povera di Don Giovanni arti-
sticamente sentiti, gli scenari dongiovanneschi furoreg-
giano per il 600, 700 fino ai primi dell'800, e le opere
musicali dalla prima metà del 700 ai primi dell' 800,
tanto che un'idea sola par diventata ormai Convitato di
Pietra e lauto convito di impresari, la Spagna quasi tace.
Vero è che essa aveva altro da fare e pensare; già
malata sotto l'ultimo degli Asburgo ; perduta col trattato
di Utrecht buona parte dei suoi possedimenti; poi fiaccata
nella guerra di successione; risorta brevemente sotto
Carlo III, per precipitare nel tranello napoleonico sotto
Carlo IV.
La letteratura drammatica che segue Calderon e pre-
cede Fernandez Moratin, che pur vince la tirannia dei
tempi, è tutta intrico di situazioni, trabocchetto a na-
scondere il vuoto di pensiero ; cominciando con Solis y
Rivadeneira e rovinando giù con Cafiizares, Scoti y
Agoiz, Guedeia, Urrutia, Torres y Villaroel. Trionfa la
commedia de figuron ; il carattere si fa strampalatura e
caricatura; come la rana di Esopo, le figure si gonfiano
fino a schiattare in madornali esagerazioni !
Tirso aveva tentato di abbozzare un tipo e, con tutte
le sue mende, non se l'era cavata proprio male.
Alfonso Cordoba e Zamora, deposta questa preoc-
cupazione del tipo, già formato, si scervellano a farlo
caprioleggiare nelle più iperboliche matterie: nell'uno
ricordate come antefatto, nell'altro svolgentisi in azione
— 65 -
agli occhi spiritati di chi ora legge. Il Burlador aveva in se
due elementi caratteristici: l'avventurosità e la comicità;
la serenata patetica e l'accompagnamento ridanciano,
il macchinale telaio delle gesta e la trama delle burle
facete. La letteratura spagnuola seguente preferisce il
primo elemento, lo tira all'ultime conseguenze. Prende
assai sul serio il suo tipo che Tirso aveva saputo staccare
da se in alcun modo, con quel po' di risolino scettico
che ali ' artista, massimamente drammatico, occorre a
scollare da se le proprie figure. Fino a D'Ayala e Cam-
poamor, Don Giovanni in Ispagna vuole un po' calzare il
coturno.
Questa serietà che poteva essere elemento d'arte, spe-
cialmente lirica, non lo fu se non con Espronceda ; prima
del romanticismo, essa si limitò alla superficiale parvenza
inventiva, ne vide altro che il buon partito che si poteva
trarre, per la scena, dalle fortune del corridore d'amore;
non ne tentò l'anima.
La letteratura francese aveva già prima del romanti-
cismo e anche del preromanticismo sovreccitato dei tempi
di RicheHeu, Saint-Simon, Mirabeau, sentito che alcuna
vena di pensiero e di interiorità poteva scoprirsi sotto il
barocco dell'intelaiatura dongiovannesca : aveva presup-
posti alcuni nodi di poesia, di dolore, di emozione sotto
la scapestrataggine inconsultata e stereografica dell'av-
venturiero (Molière, Rosimont).
Nulla di tutto ciò nelle rodomontate teatrali del 700
spagnolo : la materia trascina spumosamente personaggio
e autore che ne sono absorti.
La venganza en el sepulcro di Alonzo Cordoba y
Maldonado, in tre giornate non divise in scene, è senza
5 — F. FUÀ, Don Giovanni.
- 66 —
data, manoscritta nella Biblioteca Reale di Madrid; ne
altrimenti che per questa povera commedia è noto il
nome dell' autore. — Presumibilmente appartiene alla
fine del 600 (2).
L'azione è condensata nell'unica avventura con Donna
Anna, la quale si risolve nella peggio per Don Giovanni;
che la preda gli sfugge e lui precipita nelle fiamme del
sepolcro vendicatore.
Nessuna delle greizie ed elasticità di sentimento del
Burlador ; questo Don Giovanni è un mammone, e
ringhia più che non gli riesca di mordere.
Come il futuro Lovelace (ma un Lovelace bruto !), si
impone di conquistare una donna, e non ha pace se
questo non gli avviene; la vuole subito, quella stessa
notte, ma non riesce che ad ammeizzare il commendatore;
la morte lo coglie prima di raggiungere lo scopo, col-
pendolo nella rea intenzione e nei precedenti peccati,
che egli stesso già si è fatto un onore di esporre a mo' di
dichiarcizione all'atteiTita fanciulla compiacendosi della
impressione che le producono.
La fanciullaggine dell'autore porta così agli estremi
una di quelle verità che non son tali, se non serbate alle
loro proporzioni ; qui è farsa, caricatura smaccata quanto
è acuta verità nell'aforisma comune che " la donna vuol
avere molto da perdonare all'uomo", che sarà anche
parere di Chamfort, buon intenditore.
Questa passione del truculento, che è nel teatro spa-
gnuolo dell'epoca, è una delle cose in fondo più bambi-
nesche che si possano immaginare ; tolti tutti gli involucri
di panni insanguinati, non si trova che un cuoricino che
è poi ben lungi dall'esser di zecca; anzi è qui proprio la
spiegazione di quel carattere strombazzone : che il teatro
— 67 —
si è airestato sui suoi modelli — cava inesauribile — e
ne rumina gli elementi ; rimosso lo sforzo della creazione
subentra quello, per così dire, della dilateizione. È nella
parabola della vita e dell'arte, il periodo naturale del-
l'alessandnnismo; la domenica del riposo di ogni setti-
mana di fervida creazione letteraria.
Il cinismo ipertrofico e quasi isterico di Don Giovanni
arriverà fino a confermare a Donna Anna, che ne è già
convinta, di averle ucciso il padre ; e ciò dopo che le si
è offerto per vendicatore (3' giornata) ; — e a vantarsi
che nessuno fuori di lui può vendicarla di se stesso.
Mentre la caratteristica ben indovinata del Burlador era
il colpo d' occhio sicuro, questo tralignato eroe sbaglia
continuamente il bersaglio, come un Amleto da strapazzo.
Egli aveva tentato di assalire Donna Anna nei suoi
appartamenti travestito, ma, come sappiamo, il commen-
datore che gli sbarra il passo cade ucciso ; e l'assalitore
fugge deluso (I'* giornata). Nella 2" giornata pertanto
quando nel carcere del marchese Della Mota, che è stato
arrestato per reo dell'omicidio, incontra Donna Anna e
la dueha travestite, si fa pigliar pel naso dal marchese
che le fa passare per la sposa e \k serva dell'Alcade.
Capita poco dopo nella chiesa che gli sarà funesta, per
raggiungervi Donna Anna che vi si è rifugiata con la
duena ; non pertanto si divaga a bisticciarsi con la statua
del commendatore, nella cappella funebre (3).
Nella prima cena, fa lo spavaldo : non teme mille ne-
mici vivi, figuriamoci uno morto ; ma alla seconda nel
sepolcro (3' giornata), alla quale indarno ha fatto prece-
dere delle quasi presaghe sollecitazioni per il suo matri-
monio con Donna Anna (che poi si risolvono nello
smascheramento di lui omicida), tutta la sua baldanza è
— 68 —
svaporata, chiede di battersi, ma in fondo è ghiaccio di
terrore, condizione da cui le fiamme infernali lo liberano
ben presto.
Questo Don Giovanni è in continua contraddizione
con se stesso ; a sentirlo, tutti i diavoli d'Averno non si
arrischierebbero a dirgli: Fatti in là; " è più prode del
Cid " (2^ giornata) ; nel fatto, lo vediamo agire in una
avventura sola nella quale per l' appunto sbaglia tutti i
colpi.
Il tipo dongiovannesco ha fatto cilecca al poco abile
strale di Cordoba. La scena della 2^ giornata — che
segue a quella, con cui la giornata si inizia, fra Donna
Anna e Don Giovanni — mostra un Don Giovanni inet-
tamente innamorato, nelle confidenze a Colchon, il criado.
Egli dice che finora si è poco curato di amore, dato
a vita di rapina e di guerra, che il suo furore è "otro
azote de la tierra" e simili cannonate, ma che ora è un
agnello, un " rendido despojo " a quell'angelo di Donna
Anna; e non vuol più sentire parlar di altra donna, e
guai se non l'avrà domani stesso.
Ogni parola è un frego al tipo che dovrebbe pennellare.
Questa commedia si può paragonarla a quella, su cui tor-
nerò di proposito, di Lopez d' Ayala ; in entrambe. Don
Giovanni è il rovescio di se stesso ; ma la differenza è
grande e tutta a scapito di Cordoba : che in Ayala v'è
r intenzione di mettere in ridicolo il suo tipo; qui l'autore
vuol presentarci un'Achille e non gli esce fuori che un
Tersile.
Pertanto questa commedia mostra una tal compattezza
di azione, che in Don Antonio de Zamora cadrà in
frantumi.
— 69 —
Trovare il bandolo della matassa di stramberie che si
aggrovigliano nel suo No hay plazo que no se cumpla,
ni deuda que no se pague, ^ Convidado de piedra (4),
stampata a Madrid nel 1 744, già rappresentata qualche
anno avanti, non è facile a tutta prima. Inseguimenti,
duelli, pistolettate, lumi spenti, studenti, guardie; tutta
una mania di rosso gonfia la tela del dramma.
Il personaggio principale, pure, trascende con massima
facilità nel ridicolo, quando alle prime battute ruzzola
per terra, mentre rissa con gli estudiantes. Il poeta scrive
senza pensare, a capo all' ingiù, come per foia intel-
lettuale. Scartando le sovrabbondanti e quasi essenziali
superfluità, ecco a nudo la favola semplice.
Don Giovanni uccide il commendatore, padre di
Donna Anna, e questa che pur l'ama a dispetto dei suoi
peccati, delibera di vendicarsi e dargli la morte ; inca-
ricati di ciò : il servo Fabio e Don Luigi, fratello di
Donna Beatrice, la quale, ingannata pure da Don Gio-
vanni, l'ama perdutamente. Un altro che aspira a togliere
dal mondo il seduttore, -suo fortunato rivale di Napoli
(la avventura di Napoli è antefatto), è Don Filiberto, al
quale questa gloria ambita e supplicata con l'autorizza-
zione reale a sfidarlo, è tirata in lungo per poi essergli
— alla terza giornata — - irrevocabilmente negata. Fra i
candidati alla testa di Don Giovanni, chi vince è la
statua solita, nel modo solito ; tranneché il furfante è
salvato dalla morte eterna in grazia di alcune parolette pie
estirpategli dal tormento del fuoco. Questo il recipe del
polpettone zamoriano.
Don Giovanni, venendo all'anaHsi, è reduce da Napoli,
dove ha burlata la fidanzata di Don Filiberto, Giulia
Ottavia, una nobildonna.
— 70 —
Lo que yo no pude amando
Supo él conseguir mentiendo
Così geme il povero deluso, il quale ha raggiunto il
colpevole in Siviglia, e non vive più che del desiderio di
ucciderlo. Intanto il seduttore che confessa il suo genio
non essere fatto per andare legato con una donna a tutte le
ore, se la sta spassando, nel principio della prima gior-
nata, con Beatrice de Fresneda, sorella di un manigoldo :
Don Luis. Ma quando sa dal padre che il commendatore
gh rifiuta la mano della figlia Donna Anna, lui, che pen-
sava a questa mano tanto poco da stropicciarsene le sue,
con le consolanti considerazioni :
Si es boda y me favorece,
En lista de despreciadas
Pondré una dona Ana mas,
Y si acaso se me escapa
Conociendome, me quedo
Tan libre come me estaba ;
ora s'indraca preso dalla brama del possesso: — "Ciego
de colera voy " ; — non ha più che il pensiero di predare
il suo intento : più energumeno vittima delle proprie epi-
lessie di desideri che giocatore abile, come il Burlador.
Il rifiuto essendo stato determinato dai ricorsi di Don
Filiberto al Re, la furia di Don Giovanni si volta contro
costui, appena gli capita fra mano in casa di Donna Anna,
dove ha già trovato Beatrice e si affanna a farla passar
per matta; ma poiché bisognava menar le cose un pò
alla larga per giungere a una terza giornata, nel mentre
che latra minaccie contro Filiberto, chi uccide è proprio
l'innocente commendatore, padre di Donna Anna, che,
poveretto, si intrometteva perchè non fosse violata l'ospi-
talità della sua casa (l" giornata).
— 71 —
Fabio, il servo del commendatore, e Don Luis si uni-
scono per uccidere Don Giovanni, 1' uno per vendicare
il padrone, l'altro non tanto per l'onore della sorella, quanto
per l'ingordigia del denaro fattogli promettere da Donna
Anna. La quale è di quei caratteri che fan rimpiangere
siano balenati a una fantasia così scapigliata, troppo in-
feriore al suo personaggio ; i tratti di genio che vi traspa-
iono son come brevi note di vita, da far più sentire le
false risonanze. Paragonarla all'eroina del Ciddì Corneille,
con cui ha pur somiglianza, non si può, che molto amplia-
mente approfittando del sì parva licei virgiliano. Ella ama
Don Giovanni, ma lo vuol morto, affinchè sia vendicato
il suo sangue che ella ha visto versato : la nobiltà del ca-
sato e il suo risentimento di figlia le impongono la vendetta.
Quasi a dispetto dell'autore, traspaiono queste fibre di
vero e d'arte nel traliccio rozzo della sua costruzione.
Come pure è ben intuito l'istinto di repulsione che
allontana Donna Anna da Don Filiberto : Donna Anna
consacrata alla vendetta dolorosa non può specchiarsi in
Filiberto, dove ritrova la stessa volontà di vendetta fatta
ghiaccia dalla rivalità ingannata dell'uomo : ella vuole e
sa odiare l'uccisore di suo padre, ma non può agevolmente
sentirlo odiare da altrui : veramente la donna sa l'egoismo
esclusivo ed estremo dell' odio. Invece Don Filiberto
propende verso Donna Anna, perchè è più facile all'uomo
sofhire l'odio in compagnia ; una stessa volontà di ven-
detta può unire un uomo a una donna in un legame anche
d'amore; ma una donna che amasse il compagno d'odio
non odierebbe già più (5).
E Donna Anna non vorrebbe e pur deve — nella
terza giornata in cui finisce col ritirarsi in convento — ri-
nunciare alla sua vendetta affidata a mano più sicura.
— 72 —
Beatrice è una larva di Elvira di Molière, le imitazioni
del Festin de Pierre non essendo rare nel " No hay
deuda " ; già in Molière v'era quel tanto di sferraglia-
mento cavalleresco in uno sfondo di leziosaggine un po'
da codice di corte, che poteva piccare il gusto spagnuolo.
La commedia di Zamora è in fondo fatta degli avanzi
di Tirso e di Molière.
La passione disperatamente inestinguibile di Donna
Beatrice è anche uno di quei tentativi mezzo abortiti, cui
accennavo dianzi : vi si sente germinare una vita interiore
che aspettava un'altra più abile mano per esserne tratta
in luce. Mentre Don Giovanni e Don Luigi si battono
nella prima giornata, il suo amore non le impedisce di
darsela a gambe: "Mejor — Es huir ". Ciò nonostante
assurdamente resiste agli improperi e alle umiḷizioni in-
flittile davanti alla rivale Donna Anna e vie più persegue
del suo attaccamento Don Giovanni, senza posa, nono-
stante i pratici consigli di Camacho , che le addita il
meglio : ma " è molto facile ingannare amore ! " .
Talora il suo dolore si libererà in qualche accento vero :
Enlre mi hermano y mi amante
Y con iguale veivenes
Toda tragedia es mi vida.
Ciò dopo la scena del convito miracoloso e tempestoso
a cui ella assiste in casa di Don Giovanni, non invi-
tata. Anche il fratello che corre dietro il proprio gua-
dagno, è intervenuto, e con diversi intenti, di nascosto.
Pispireta, una cortigianella, è invece quella che Don Gio-
vanni ha prescelto per commensale.
Il " fantasmon " del commendatore già invitato poco
prima a cena, senza che alcun epitaffio giustificasse lo
— 73 —
scherno, anzi il furore di questo Don Giovanni, arriva
anche lui e si perde in prediche con molto minor dignità
del suo compagno di pietra in Tirso.
Pispireta, che è del partito di contentar tutti, dagli
studenti ai servi, ha accondisceso a tener bordone al si-
cario Don Luis, semplicemente pensando che " si le replica
he de haber — Solfeadura de mofletes " . Ora la situa-
zione par vibrare di attese tragiche. Don Luis è acquattato
pronto al delitto. La statua sopravvenuta, anche lei, poco
buone intenzioni. E l'amore passionato di Donna Bea-
trice travestita e nascosta è là come refrigerio di liquidi
da nube carica di nembo. Lei, la sorella del sicario, in-
consapevolmente vicina al fratello in agguato, pronta a
salvare chi questi vuole ucciso e il cui amore uccide lei.
E quando vede puntata la rivoltella del fratello contro
r amato, " Don Juan — i Que te matan! " scoppia il grido.
Ma che? Per ricompensa questi la chiamerà poco dopo
traditora davanti al padre Don Diego accorso.
Nella terza giornata, il basilisco aggiunge qualche
nuova bagattella al repertorio delle sue bricconate.
Spaccia Don Luigi quando, origliando, ha sentore del
complotto ordito contro di lui, e piomba poi addosso a
Donna Anna per violentarla ; ond'essa sviene e lui fugge
all'accorrer di gente. Il duello con Filiberto è interrotto
al comparir del Re che ordina di sospendere : dopo al-
quante rimostranze, cede poiché è atteso alla cappella
del commendatore il cui invito ha promesso di accettare.
Intanto lampi e tuoni a ciel sereno presagiscono il tra-
gico fine: la tempesta cui già alludemmo nel raffronto con
la leggenda di Faust.
Davanti alla certezza del castigo, sotto lo spasimo del
bruciare che gli fa invano urlare alla statua : " Lascia
— 74 —
che il tuo gelo calmi questo incendio che mi brucia!",
non è meraviglia ne merito che gli venga fatto di chieder
perdono: "Pietad, senor " ecc.
Meraviglia è che questa tardiva e troppo facile resi-
piscenza riesca a procurargli il perdono.
Il fine morale e il senso religioso che abbiamo visto
sotto la parvenza del Burlador spaiono del tutto ; lì la con-
danna finale aveva un necessario valore che a Zamora
sfuggì, e l'elemento morale traspirava anche dal corso
della commedia ; qui poco o nulla : le stesse recrimina-
zioni di Camacho non hanno un carattere definito ; quasi
paion messe lì per provocare le risposte e le millanterie
di Don Giovanni ; la parte del servo nella commedia di
Zamora è del resto trascurabile come era in Cordoba.
In Tirso, Don Giovanni era rappresentato quanto a
religione più conforme al suo tipo : incurante di ogni pen-
siero, restio a ogni remora, pure non riluttante ai mecca-
nismi più semplicisti della fede, nel momento pericoloso.
Ma qui la religione è un' incognita ; nelle chiese si
grida, ci si insulta, si danno appuntamenti, ci si sfida, per
poco non si continuano le zuffe cominciate fuori ; della
vita futura si parla dalla statua del commendatore, ma
in tono di predica che si addice poco al marmo che
parla e al peccatore che ascolta.
Il motto ritornello del Burlador " Tan largo me lo
fiais ", ben rispondeva allo svolgimento della commedia;
qui il titolo mal s'incappella sulla trattazione, in cui ve-
ramente i debiti morali sono molti da parte di Don Gio-
vanni e il pagamento è poco. La morale anzi è così poco in
risalto, che questo Don Giovanni che ha per se tutti i sette
peccati senza nessuna grazia di seduzione, pure tutti si in-
teressano per lui dalle donne alla statua del commendatore.
— 75 —
In pieno giorno trascende alle violenze pazze della
terza giornata contro Donna Anna : ciò oltre a far torto
alla sua correttezza rispettata nel Burlador, lo fa anche
alla sua astuzia : pare che dovrebbe apprendergli il Don
Giovanni di Tirso quah siano le ore sue !
Falso è anche il personaggio quando, nella zuffa con
Filiberto e Fabio della fine della prima giornata, dopo
essersi ribellato alla stessa giustizia che è venuta ad ar-
restarlo per l'uccisione del commendatore (" poco esto
nombre me importa ") e dopo che ha gridato :
No està mi espada hecha
A reducirse a la cinta
Sin sangre ;
bastano due parolette di Camacho per deciderlo ad an-
darsene, soltanto, a sentir lui, perchè ha il padre che lo
imbarazza e una donna che lo aspetta.
La medesima cosa alla terza giornata, quando il Re
viene ad interporsi a che il duello con Filiberto cessi, e
lui che non si cura del Re molto più che della giustizia,
ecco che reagisce e s'infuria, per poi placarsi a un breve
consiglio del conte di Urefìa, il quale quando consiglia,
sembra a Don Giovanni, non bisogna scompiacere.
La nota semplice e intonata del dolore paterno del
Burlador è qui traviata a incongruenze maggiori. Il
primo rimprovero del padre è accolto con beffa ancor più
irriverente :
l Sermonico ?
Qua sea breve, que me duermo.
Questo Don Giovanni non è uso a complimenti.
Altrove lo minaccia con la spada e con le grida; al
vecchio che si sbigottisce e invoca, impone di andarsene
— 76 -
pei suoi affari; nonpertanto questo padre troppo eroico,
vedendolo in pericolo e aggredito da Fabio e Filiberto, si
mette dalla parte del figlio, perchè ove siano in più ad assa-
lirlo egli non si muoverà dal suo fianco (2'^ giornata).
Nel Burlador l'affetto paterno si ribella in nome di un
più alto sentimento ai delitti filiali ; Don Diego alla fine
non più depreca, ma scongiura sul capo del figlio la
punizione del Re : qui Don Diego per voler essere troppo
padre, finisce col diventare un fantoccio, peggio, un mez-
zano del figlio.
Non stanco delle sue infamie, ne invoca dal Re con-
tinuamente il perdono ; gli promette di restituirgli Donna
Anna e lo fa riconciliare con lei, cui poi lui farà il bello
scherzo della terza giornata.
E molto si potrebbe ancora osservare a mostrare come
tra tanto uragano di situazioni, l'arte in troppa parte di
questa commedia resti morta gora.
Per altro, se nel Burlador i caratteri maschili quasi
unicamente avevano un tal rilievo, qui le men peggio
tratteggiate mdiscutibilmente sono le donne; si sente l'eco
di Molière. Gli uomini sono figure formate di cavalloni
di spume di idee; le donne tentano significare qualche
cosa ; talora quasi riescono. Anche Pispireta, è una gaia
figura boccaccesca che talora rientra in un raggio di vita
viva; l'autore si trova impacciato quando manovra grandi
passioni ; pur talvolta gli scappan fuori accenti aggrazia-
tamente comici con colori canterini, per simile figurina
senza pretese.
Il romanticismo spagnuolo, preluso da Cienfuegos, si
afferma con Herreros, col duca de Rivas, gli antesignani
della nuova voce.
— 77 —
La Spagna per altro ebbe un romanticismo riflesso
senza le peculiarità della Germania, dell'Inghilterra, della
Francia, dell'Italia. Elemento decorativo e coloristico nei
quadri delle altre letterature, simbolo d'arte e vita nel-
l'Hernani, cornice fantastica in Lara di Byron, nelle
Orientales dell'Hugo, la Spagna passava dalla vita attiva
e creativa a una passiva; sognata, non visse; beò
le fantasie traverso gli assorbirnenti di fantasie altrui;
terra promessa di ogni romantico anelito, le fu condanna
la sua fama di bellezza, la poesia dei suoi celebrati cieli:
poltrisce nel giaciglio di rose dei canti che si cantano
di lei.
Il romanticismo che riporta in auge il medio evo, trova
nella Spagna il nido già formato dei suoi canti; ma quel
contrasto elementare che è tra il classicismo e il roman-
ticismo nelle altre nazioni, l'uno adoratore della lettera-
tura e della vita pagana, l'altro riavvalorante le civiltà
romanze, meno è sentito in Spagna dove meno il sole
classico aveva rifulso e dove Lope già aveva portato sulla
scena Cristo e Calderon Satana. La Spagna non fu mai
staccata completamente dal suo medio evo : e dalla sog-
gezione moresca traeva quel tanto di torridamente fanta-
stico che le consigliava meglio l'amore del mistero che
quello della luce e della forma. Gli ingredienti di maniera
del romanticismo erano perciò già in lei ; questo bensì vi
importò un rinnovamento di interpretazione; ma non vi
si manifesta con impronta nazionale. Così mentre il ro-
manticismo tedesco potrebbe per via di distinzione chia-
marsi filosofico, il romanticismo inglese psicologico, il
francese sentimentale, l'italiano storico, il romanticismo
spagnuolo è comunemente trascurato nelle categorie let-
terarie, come avente un po' tutte queste caratteristiche, e
— 78 —
nessuna individuale; simile in ciò alla sua consorella di
estremi confini la Russia, nata letterariamente da quello
che è il romanticismo per le altre nazioni. Cosicché come
senza Byron non si concepirebbe Puskin, così senza
Byron non si concepirebbe Espronceda, ne con esso il
ringiovanimento della letteratura spagnuola più nuova,
guarita assai prima della russa dalla ubbriacatura byro-
niana, cui è antidoto la sentimentalità di Fedro Alarcon,
Narciso Serra, Ponce de Leon, Zorrilla, Campoamor,
Quintero.
La Russia neonata all'arte, prodigio di precocità quasi
mostruosa, dell'avvento byronistico sconvolge radical-
mente la sua coscienza traendone una originahtà quasi
completa; ma la Spagna dopo la prima vertigine si riat-
tacca presto alle necessità del suo temperamento d'arte.
Bacchetta magica, il byronismo fa spicciare da roccie di
sordità spirituale come la letteratura di Lomonossov,
come la poesia di Iriarte, Melendez, zampilli di canto e
di sensibilità. Stupisce le domestiche quieti letterarie di
Europa, ne arroventa i fanatismi esasperati con la esalta-
zione sistematica delle forze malvage, educa m Spagna
le smagate concezioni della generaizione di Espronceda.
La concezione di Don Giovanni ora, satura delle nuove
luci e tinte, più che mai si impronta a fuoco nelle fantasie
internazionali. Dianzi Don Giovanni, inquadrato nel suo
meraviglioso, era solo una leggenda da sbizzarrire fan-
tasie in vacanza ; nessun brivido di lirico dolore, nessuna
comunicazione di simpatia dell'artista col suo personaggio;
l'autore anzi era sempre tacitamente avverso al suo eroe
delinquente, con l'indice teso dietro di lui ad esporlo
al plauso del pubblico che si divertiva, ma principal-
mente alla gogna.
- 79 -
Ora la raffinata sensibilità delle anime fa trovare un
impersonatore di se nel tipo scelto; anche sotto il vitu-
perio traluce sempre un senso di invidia per la propria
creazione, come una volontà di sperdimento in essa. Gli
spiriti sono stanchi delle quadrate bontà, dei lineari af-
fetti, delle impersonalità stampate; l'Io grida, s'affanna, si
sbraccia, vuole che si badi a lui: l'autore ci tiene a mo-
strarsi alla ribalta, qual'è; in abito da passeggio, in veste
da camera, in maniche di camicia anche (ahimè!): nel-
l'arte tutto se stessi si rovescia, è la bancarotta delle
"arti poetiche".
Per quanto per l' innanzi l'artista passava per la trafila
dei proprii scrupoli morali e della cernita di convenzione
l'opera sua, ora per reazione dà la preferenza alla crusca,
moralmente parlando, sul fior di farina.
" Maledetto chi frena i battiti del proprio cuore " —
aveva gridato Lenz dello Sturm und Drang. Si preannun-
ziano all'orizzonte europeo i fiori del male del Baudelaire.
Così la nuova concezione dongiovannesca sullo sfondo
byroniano si affacciava in Spagna.
Del 1 840 è V Estudiante de Salamanca di Espronceda,
in cui è infranta la cornice della leggenda e il tipo rap-
presentato sotto il nuovo nome di Don Felix Montemar.
Già con Gautier, Don Giovanni era uscito dalla leg-
genda e dal teatro (1838): (Comédie de la Mori), ove
però è solo una nota di colore.
In Espronceda, il tipo assurge primieramente a simbolo
lirico, è preso di faccia, guardato negli occhi. (Il Don
Giovanni di Byron, giova ripeterlo, non può dirsi una
creazione di tipo, ma un impressionismo, quasi, lirico,
una biografìa spirituale non polarizzata).
Ma, invertendo l'ordine cronologico, credo opportuno
— 80 —
considerar prima il Don Giovanni di Zorrilla, che meglio
si riattacca alla tradizione del genere e dell'argomento.
E in due parti e sette atti : quattro la prima parte e tre
la seconda.
Otto anni avanti il Don Giovanni Tenorio di Zorrilla
che è del 1 844 (6), Dumas padre aveva composto dei
ritagli di molti Don Giovanni e non Don Giovanni il suo
Don Giovanni Marana, bislacca fantasia in un prologo
e cinque atti, in cui dalle abitazioni celesti si passa alle
terrestri, e da queste alle celesti con la maggiore di-
sinvoltura.
Gli spettri vi passeggiano come in loro appartamenti;
dopo molto sangue sparso, il famigerato satanasso si in-
cappuccia da santo, lascia i conviti per il convento e
l'orgia per la preghiera.
Il peccatore e la peccatrice pentiti sono fra gli argo-
menti più accetti al romanticismo che culmina in Hugo;
al Don Giovanni Marana di Dumas padre risponderà la
Margherita Gautier del figlio. Poiché, in fatto di delin-
quenza letteraria, il romanticismo si divide in due cate-
gorie: — quella della delinquenza angelica, se si lascia
passare l'ossimoro, e quello della delinquenza satanica;
questa che si incide nel bronzo di una ferocia sotto cui
rivolano i pianti lirici dei creatori frenetici ; quella che si
affonda tanto nel peccato, per quanto si libra nella re-
denzione : r una : — Byron, De Musset, Gautier, Mé-
rimée, Espronceda, Lermontoff ; — l'altra : — Dumas,
Lamartine, Coppée, Manzoni (Innominato), D'Azeglio
(Selvaggia, Troilo), Guerrazzi (Francesco Cenci), Tur-
ghenieff, Zorrilla ; 1' una, che 1' autore accompagna della
sua crudeltà malsana e vi consente ; 1' altra cui l'autore
repugna o concilia seco solo mediante la riabilitazione.
— 81 —
Zorrilla, anima essenzialmente lirica con chiazze by-
loniste tenta, è vero, il tragico della sua figura che vuol
fare redenta, non senza dimenticarsi del tutto di Dumas :
ma la figura di Don Giovanni irride un po' ai suoi ten-
tativi; il suo dramma non vive che per Donna Ines.
La tragicità di Don Giovanni attraverso la femminilità
spirituale dell'autore si poliedrizza in forme solide di un
simbolismo primitivo un po' grossolano; non assurge a
rarefazioni spirituali ; pascola in concrete anfrattuosita di
azioni e manifestazioni dense ed esteriori.
Sublime e alata invece la figura di Donna Ines, stelo
di luce ; Don Giovanni è un tozzo malandrino di strada
di fronte agh eroi della delinquenza byronistica, ma
Donna Ines non ha nulla da invidiare alle figure più dol-
cemente femminili, e non solo della letteratura spagnuola.
Come per Ofelia, il mondo con le sue passioni è troppo
grande pel suo piccolo corpo ; la sua innocenza è tutta
lei ; la sua innocenza le attrae il terribile amore di Don
Giovanni, come sempre aspira alle albe di Desdemona
l'inferno di Jago : il più bel dono del diavolo, secondo
l'epigrafe di D'Aurevilly alla novella altrove citata, è
un'innocenza...
Il concetto del dramma è l'apoteosi dell'amore : Don
Giovanni Tenorio, però, il più bel pezzo di canaglia che
si possa figurare; Don Luigi Meguia, il suo emulo di
mascalzonate. Il dramma comincia con una scena assurda :
le pennellate, buttatevi giù alla cieca, per simulare il tra-
gico: una scommessa, una specie di record di birbonate,
è vinta da Don Giovanni su Don Luis.
Don Giovanni di Zamora era un degenerato impulsivo
e d'occasione: questo di Zorrilla un delinquente d'istinto,
un galeotto senza sottintesi. Come il Don Giovanni di
6 — F. FUÀ, Don Giovanni.
— 82 —
Alonso Cordoba, squaderna la storia delle proprie fur-
fanterie, quasi titoli di merito, non davanti a una donna
da cui speri amore, ma davanti all'emulo che vuol vincere
d'infamia, e la situeizione è di un cinismo che non con-
vince. Subito però si mostra la tecnica che non si smen-
tirà dell'autore esperto: vive, le scene del padre Don
Diego e del commendatore Don Gonzalo; il dramma
viene presentito, come da un lontano brontolio di tuoni la
procella: quando poi i due bei tomi Don Giovanni e Don
Luigi vengono per loro stessa reciproca denunzia — ciò
che ha del piacevolmente comico, — arrestati dai so-
pravvenuti "alguaciles ", la curiosità degli spettatori si
apre stimolata, al chiudersi del primo atto.
Infatti Don Giovanni Tenorio ha promesso per com-
pletare la bella lista dei suoi peccati, di commetterne due,
che dovrebbero essere i peccati monstre: la seduzione
di una novizia, che stia per fare i voti, e della fidanzata di
un amico prossimo a sposarsi, che sarebbe appunto Don
Luigi. Il quale invano denunzia, impressionato, l'amico
pericoloso, che contemporaneamente questi ha denun-
ziato lui, ed entrambi eccoli ora trascinati, seduta stante,
in prigione. Ma, per vincere la duplice scommessa. Don
Giovanni non guarda pel sottile ; tattico sagace, le fila
delle due burle conduce al nodo, con intreccio contem-
poraneo d'azioni.
Evaso, fa aggredire Don Luigi, anche lui evaso, e
legarlo, mentre stanno battendosi; e mentre l'infelice
ringhia di rovello, lui si prepara a guadagnarsi la prima
scommessa ; ma non avanti di essersi assicurata la se-
conda, a ciò aiutato dalla vecchia megera Donna Brigida,
esperta tentatrice di coscienze verginelle ; alle 9 al con-
vento, alle 10 da Donna Anna: programma stabilito
— 83 —
(2" atto). Poiché, Don Gonzalo, ^ià dal primo atto, ha
promesso di far suora la figlia, per sottrarla alle spire del
serpente seduttore ; il quale da ciò trae, al solito, alimento
al desiderio, e stimolo a precisarne la mira ; giacche per
r innanzi non conosceva Donna Ines con la quale era
stato dal padre fidanzato ; ma ora la vuole a ogni costo.
La novizia è rapita da Don Giovanni e portata svenuta
in casa sua, ove Donna Brigida e Ciutti la sorvegliano,
intanto che egli è altrove a coglier l' alloro della sua
prima burla (3'^ atto).
Prima che però, già tornato, riesca a compiere la nuova
infamia con Donna Ines, — - Don Luigi e poi Don Gon-
zalo vengono a reclamare e disputarsi la vendetta ; en-
trambi sono uccisi. Don Giovanni se la batte, non pensoso
che della sua salvezza (4" atto).
Questi quattro atti della prima parte sono divisi dagli
altri tre della seconda da un intervallo immaginario di
5 anni ; in cui sotterranea, si suppone si svolga la tras-
mutazione morale del protagonista, che riappare, risorto
come da un sepolcro di tentate interiorità; sotto le lineari
parvenze si è aperta la voragine di un dolore senza fondo,
di un mistero d'amore senza consolazione.
Donna Ines non apparirà più che come ombra, ma
la sua azione sarà più che mai viva e costante.
Già nella prima parte si avverte come più presente
all'azione intima, sia la figura meno presente alla rappre-
sentazione. Donna Ines ci viene avanti per la prima volta
nel 3° atto, quando già le han preluso le sinfonie di colori
tutte zorrilliane, sì che quando ella ci è presente, par di
riconoscerla come da lungo nota. La innocenza impal-
pabile, come un odore, della fanciulla soffonde talune
scene della parte esaminata di una grazia infantilmente
— 84 —
deliziosa ; come nella scena 11 dell'atto 3°, in cui la let-
tera di Don Giovanni scotta quasi alla mano pura che
l'ha raccolta; e come quando, rapita nell'incanto imme-
more delle parole dell'uomo, in quella bellissima scena HI
dell'atto 4°, che è tutta un cielo di sogno e di suono, ago-
nizzante di amore sul naufragio della coscienza, mormora,
ella, stravolta, le parole:
Don Juan, Don Juan, yo te lo imploro
...De tu hidalga compassion
O arrancarne el corazón
O amarne por que te adoro (7).
Don Luigi è tipo tagliato al dosso del marchese
della Mota, ma più diavolo ; come lui, si innamora pro-
fondamente.
Di alcun effetto tragico (8) si fa, quando nell'atto 4"
della parte I, scena 111, viene per chiedere la vita di Don
Giovanni e in cambio dargli morte : un po' imitazione
della sfida di Don Giovanni Marafia e Don Sandoval
di Dumas. Peccato che sia così poco fortunato nella sua
carriera del male : la sua intenzione gli viene strappata
dal più forte avversario e contro lui stesso rivolta e at-
tuata : è trapassato dalla spada di lui.
Zorrilla, presentandolo intabarrato e gonfio di furore,
credo abbia avuto presente la stupenda raffigurazione del
Don Diego di Espronceda neW Estudiante. Ma, contra-
riamente aW Estudiante, Don Giovanni troppo ripetuta-
mente stride nella creazione zorrilliana. Che tipo è questo
furfante da crocicchio che senza uno scrupolo fa aggre-
dire alle spalle l'avversario da compagni nascosti (atto 2",
scena Vii), mentre sta battendosi con lui?
Questo Don Giovanni non ha nulla dell' eroismo, sia
pur pravo, che negli altri Don Giovanni dà ventate di
— 85 —
refrigerio anche ad assolate truculenze di episodi alla
Zamora. Questo Don Giovanni, che non si perita di
scaricare una pistola nel petto del vecchio Don Gonzalo
che lo richiede di un duello riparatore, come credere che
si rigeneri in un amore puro, quando, subito compiuto il
delitto, non pensa che alla fuga egoistica, abbandonata
la sua preda. Donna Ines, che pure nel tremendo colpo,
solo al pericolo dell'amato ha rivolto l'animo (atto 4",
scena ukima)?
E che cosa è questo passaggio che fa il seduttore dal
più romantico ardore di sentimento al cinismo più assi-
derato e viceversa? Tutto cuore nella citata scena d'amore
con Donna Ines, nella scena appresso, a Don Luigi parla
dell'amata, come di un oggetto inconsiderevole, quasi di
scherno {la del convento) ; si vanta della scommessa
vinta, che parevagh dimenticata ; per poi buttarsi in gi-
nòcchio davanti al commendatore che viene a cercare la
figlia, percuotersi il petto con giuramenti di sincerità, con
preghiera di perdono.
Che meraviglia che il commendatore gli neghi la mano
della figlia nonostante le lagrime e gli scongiuri ? Ciò in-
tanto serve ad affibbiare a questo Don Giovanni la ele-
gante ulcera ideale del rejetto e dell incompreso, quasi
che il mondo non avesse altro a pensare che a curare le
prungini sentimentali di questi bravi diavolacci, quando
salta loro il ticchio di posarla a santi !
Il primo atto della Seconda Parte col cimitero delle
vittime, ricorda la scena simile in Dumas, dell'apparizione
degli spettri ; però innegabilmente ha del nuovo e del
drammatico.
Il carnefice errante nella città morta delle sue vittime
è un'ideazione che, con tutto quello che ha qui di arti-
— 86 —
fizioso, risuona delle più forti vibrazioni emotive ; inaugura
quella sensazione di grave pressione densa di passato,
che predomina nelle scene di questa seconda parte ; al
rilievo montuoso di sorprese della prima, è seguito l'av-
vallamento profondo di rimpianto della seconda. Don
Giovanni era già avido di ricerche e conquiste : ora pieno
di esperienza e delusione ; correva già alla rincorsa del
tempo, dell'amore, della gioia, ora ritorna indietro disin-
gannato come uno dei cristiani inseguitori di Erminia ; si
sperde non più negli orti fruttuosi dei suoi desideri, ma
nel funebre recinto delle sue morti.
11 Pantheon funebre è stato eretto per volontà testa-
mentaria del padre di Don Giovanni. Ivi si trova il re-
jetto, ritornato in patria, irriconosciuto ; e l' ombra della
unica amata, morta dopo la sua fuga, gli torna evocata
dal dolore; è la donna non posseduta, l'unica non tocca
dalla mano predace, la senza macchia nell' anima uèa
alle contaminazioni.
Anche l'anima di Patroclo lascia le soglie dell'Ade
per risorgere dolorosamente al rimpianto di Achille dor-
mente {Iliade, libro 23% verso 101); anche Ecuba ap-
pariva, ombra, a Enea dolorante, (1. 2", Eneide, v. 776 e
segg.); anche Cinzia a Properzio (elegia VII, libro 4*^) ; la
postuma simpatia dei morti ai vivi, che hanno amato,
avendo anche, come è noto, alle fantasie degli antichi,
consigliate l' immaginazioni delle ombre reduci, care a
Shakspeare; il romanticismo ne popola le sue concezioni;
ma già frequenti erano prima ; ed è in ciò uno degli ele-
menti, per cui l'arte pagana s'oppone allamassiccia sculto-
reità senza incubo dell'arte ebraica (9). Innegabile però
che in pieno 800 queste ombre in un dramma teatrale,
non mancano di dare un po' d' ombra. Inoltre, seguendo
— 87 —
Dumas, che si era ispirato alla Lucrezia Borgia d'Hugo,
Zorrilla fa all'allucinato amatore apparire l' ombre anche
di tutte le sue vittime insonni.
L' invito beffardo non è qui determinato dall' epigrafe
insolente, ma da un puntiglio con la propria paura, —
ben rispondente al carattere dongiovannesco, — davanti
agh amici Avellaneda e Centellas.
Già fu notato che Don Giovanni è il tipo più esteriore
per definizione ; la sua potenza non riposa in se, ma ha
continuo bisogno d' elementi traverso cui estrinsecarsi ;
delle donne per crearne passioni, degli uomini per susci-
tarne timore e incutervi soggezione: Don Giovanni vive
in un mondo pieno di specchi, che gli rimandano se ;
senza quelli egli non sarebbe se stesso.
Davanti ai suoi amici Avellaneda e Centellas, gode
di violentare il suo sgomento con la sfacciata ostentazione
d'oltracotanza ; dalla sbigottita stupefazione per il suo ar-
dimento, che suscita in essi, egli trae esca a vero ardire,
si sente veramente forte contro il mistero ; tanto la vanità
neir uomo può veramente determinare la realtà di uno
stato di animo inesistente.
La cena del secondo atto, salvo quel sentore di dram-
maticità che del resto è in tutto il dramma come un ele-
mento respirabile, è piuttosto smorta ; di Ciutti non si è
saputo più nulla dal principio della seconda parte ; e il
buffone criado era pur necessario in queste scene per
rompere con luccichii di riso il drammatico già un po'
macchinale, solo quanto era d'uopo per sentirlo vieppiù
e meglio.
Gli amici cadono in letargo, per volere supremo, al
terribile ingresso della statua, la quale (nuovo elemento di
meraviglioso) non entra, come altrove, per la porta aperta
dagli atterriti Catalinon; ma filtra come una macchia tra-
verso la porta asserragliata dall'agonia di terrore cui è in
preda Don Giovanni. Il quale non conserva nulla della
spavalderia di altie commedie ; anche traverso l' escan-
descenze agitate, si sente che batte i denti.
Come ogni prepotente, che, ove resti vittima di alcuno
più forte, ha bisogno a sua volta di vittime innocenti al
suo dispetto, così Don Giovanni se la sfoga con i suoi
commensali Avellaneda e Centellas incolpandoli di
avergli preparata la burla ; ed escono per battersi. L'au-
tore nel terzo atto, ricordando l' immaginazione atroce
dell'ultima parte deW Estudiante, si compiace di alcun
sottinteso, lasciato a bella posta per uno di quegli espe-
dienti di indiscutibile efficacia, onde l'ascoltatore viene
indotto a pensare e a risolvere da se ciò che non gli è
offerto in tutta la sua spianata semplicità. Il pubblico è
in tal modo considerato come un vivo elettrode, traverso
cui si riallaccia il circuito della sensibilità creativa; col-
labora, non è più l'estemporale uditore.
Come Don Felix assiste, in Espronceda, ai funerali di
se stesso, così Zorrilla si compiace di inselvarsi nel de-
dalo mentale del suo Don Giovanni per proiettarne tra-
verso il 3' atto le allucinazioni.
Don Giovanni ha ucciso in duello gli amici, oppure
ne è stato ucciso? — e quest'ultime scene sono un'allu-
cinazione d'oltre tomba schiarata da ceri di fantasia se-
polcrale ? L'autore si compiace di affaticare gli animi con
questo dubbio, in cui la ragione vacilla (10).
Le ultime parole di Don Giovanni siamo preparati a
sentirle di perdono e pietà : ma gli apparati decorativi un
po' marionettistici (ceneri, ossa, orologio a polvere) che
sembrano voler destare l' illusione di una notte di Yung,
- 89 —
con r accompagnamento di tutti quegli spettri, tolgono
al nostro gusto di consentue all' emozione che vorrebbe
crearsi :
Si es verdad
Que un punto de contrición
Da a un'alma la salvación
De loda una eternidad
Yo, santo Dios, creo en ti.
Il perdono è concesso a Don Giovanni per virtù di
Donna Ines che ne coglie l' anima e 1' adduce al cielo,
contesala agli spiriti maligni che vi avrebbero maggiori
diritti veramente.
L'opera di Zorrilla è un tentativo certo considerevole
di riportare sulle scene dei tempi nostri Don Giovanni
con tutto il suo macchinario di leggenda. Non è difficile
prevedere che il tentativo felice pei gusti spagnuoli, che
sembra non si stanchino di plaudirne la rappresentazione,
non avrà seguaci. Don Giovanni è destinato ormai alla
lirica; se ritorna sulla ribalta, bisogna che rinunci alle
decorazioni della fiaba mirabolante. Del resto l'opera di
Zorrilla è e resterà avvivata dagli efflati lirici, che la
imbevono, non dalla vis tragica che manca.
Checche si dica e nonostante lo scherno del conte di
Tureno (11), non so persuadermi che il poemetto di
Espronceda non sia una delle più belle creazioni dongio-
vannesche. Le coreografìe Hriche tra goethiane e shel-
leyane del Diablo Mundo portarono già, è vero, il poeta
poco padrone della materia a delle stuccaggini di mal
gusto, da cui pare per altro che lo stesso suo spirito aneli
a Hberarsi in quel chiaro canto a Teresa, grido dell'anima
— 90 —
erotto dalle elaborazioni un po' faticose del poema, come
la lagrima dell' attore non frenata a tempo. E vi sono
anche neW Estudiante{]2) colori byronistici, ma l'affi-
nità qui è più necessaria e spirituale, che non voluta e
di mezzi.
Onde Byron rinfacciatogli qui è una stonatura, come
chi dicesse che Espronceda ami, pianga, o rida alla
Byron, come quelle donne romane che Giovenale di-
ceva (iV satira) dormire graece... Semai, viene alle labbra
il bel motto di Voltaire che se è vero che Omero ha
creato Virgilio, questa è la sua creazione più bella.
11 Don Felix di Espronceda, che è solo, dicemmo, un
mutamento di nome di Don Giovanni, pare veramente
sorto da uno di quei crepuscoh dell' anima artistica, in
cui la mente, peregrina più della carne e men dai pensier
presa, è quasi talora divina nelle sue creazioni.
Certo in questo Don Felix dalle parche parole, — le
quali hanno più valore pel silenzio in cui sono sommerse,
come direbbe Maeterlink — è compiuto d'un getto quel
senso tragico, cui De Musset si affanna di arrivare nei
numerosi suoi Don Giovanni - sosia.
Ben lungi dal credere l'opera perfetta, poiché le solite
artificiosità del gusto spagnuolo la maculano nell'ultima
parte, in cui si hanno aggeggi come il Cristo, la donna
che è poi la morte, il palazzo misterioso, gli occhi fissi,
la spirale discendente e le ridde degli spettri..... e poco
manca che non ci sia anche il diluvio universale, d'altra
parte bisogna convenire che non si può imprigionare la
sensibilità artistica nei limiti di una o due nazioni ; che,
se la morale, secondo Pascal, varia coi gradi di latitu-
dine, non vedo perchè non si debba permettere che vari
un po' anche il gusto artistico.
— 91 —
In ogni grado di latitudine certo la pazzia di Elvira
sarà una delle cose più soavi e belle ; da potersi confron-
tare con quella di Ofelia. Incanto del verso :
Y al margen va del argentado rio
Y alli las flores echa de una en una...
Y las sigue su vista en la corriente
Una Iras otras rapidas pasar...
E una delle maggiori pene dell' imparzialità dover
notar accanto a versi simili, immagine come quest'altra :
Tu eres, mujer, un fanal
Trasparente de hermosura
i Ay ! de ti si por tu mal
Rompe el hombre en su locura
Tu misterioso cristal
(Il Parte).
La fanciulla divina è paragonata ad un fanale !
Ritornano però le note di miele a cantare lo strazio
dell' infelice morente, nella lettera all' amato. Il suono
corre e rende la liberazione della fine:
i Ah ! para siempre adios. Por ti mi Vida
Dichosa un tiempo resbalar senti
Y la palabra de tu boca oida
Extasis celestial fué para mi
(Il Parte).
Don Felix è fortemente sentito come una nube che
graviti, prima di farsi conoscere nella terza delle quattro
parti. Uno dei pregi maggiori dell'opera è questa ripar-
tizione in quattro visioni, che esprimono più che non
dicono ; isole di canto in pelaghi di silenzi. Paiono quelle
— 92 —
moderne conquiste scultorie dell'impressionismo di Rodin
in cui le figure affiorano sul marmo, come l' immagine sul
travaglio del creatore. Il dialogo si intreccia alla narra-
zione, con quei rapidi passaggi agevoli al movimento del-
l' ispirazione accelerata — che tentarono anche il Leo-
pardi prosatore (Promessa di Prometeo) e, per esempio, il
Gautier romanziere scelse a forma d'arte nella sua Ma-
demoiselle de Maupin.
La breve creazione è tutta un grumo di concisione
viva, il quarto quadro si riunisce al primo come circolar-
mente : il primo : — una notte, tragicamente lacerata da
un grido d' agonia, e un colpo di corpo che stiamazza :
un ignoto fugge nel silenzio richiusosi. Il secondo : —
l'alba dell'apparizione d'Elvira, dolce flore " que agosto
el amor " : e muore tra le braccia della madre, esalando
con l'anima il nome amato. Il terzo, l'antefatto del primo,
è una pittura di costumi maestrevole ; giocatori adunati
chiacchierano nelle pause ansiose della sorte. La figura
di Don Felix, appena appare, risalta sopra le altie prese
di scorcio come su una medaglia l'esergo.
Galàn de talle gentil
La mano izquierda apoyada
En el pomo de la espada
Y el aspecto varonil ;
Alta el ala del sombrero
Porque descubra la frente
Con airoso continente
Entrò luego un cabaljero
Basta il terribile episodio fuggevole in cui Don Felix
vuole impegnare al giuoco con agghiadato cinismo il ri-
tratto dell'amante, perchè d'un colpo ci scaturisca davanti
la figura netta, ne chiediamo altro. L'arte di Espronceda
— 93 —
è qui in questa mirabile selettività. I suoi colpi di luce
sono fontane di vita.
Superba la scena con Don Diego, il fratello della vit-
tima, che viene a chiedere vendetta con un furore così
profondo da parere calma: l'immobilità della tigre che
medita il balzo. Metallicamente squillano i duri risi di
Don Felix.
Buen hombre, j de qué tapiz
Se ha escapado — el que se tapa —
Que entra el sombrero y la capa
Se OS ve apénas la nariz ?
Saputa la morte di Elvira non si smuove, scherza sulla
causa della morte: " Chi sa mai qualche febbre! ". " Pen-
sate che venite alla morte " raucamente l'ammonisce Don
Diego, ma quegli serenamente paga la sua partita e calmo
si prepara a uscire alla prova. Ma è l'altro che cade sotto
il ferro micidiale. Il quarto quadro raggiunge nei primi
versi il primo. Don Diego è morto.
E l'uccisore s'ingolfa nella notte. Quando gli appare
r immagine di Elvira ginocchioni, il poeta non regge alla
commozione che gli trabocca ; come già nel canto a Te-
resa del Diablo Mando, erompe il suo dolore.
Nessuno che non abbia sofferto — e il poeta enumera,
rattenendo il fiato per 52 versi che sono spasimi, le varie
torture spirituali — può comprendere il dolore che viveva
in Elvira ombra. Lampeggia il verso dinamicamente su-
blime nella parabola della emozione lirica :
Quien haya sentido
Al cuello cien nudos echarle el dolor....
— 94 —
Dopo le allucinazioni che sono un po' per noi il dor-
mitat del buon Espronceda e costituiscono la parte prin-
cipale della quarta parte e la più caduca del poema,
r autore sa redimere l' impressione un po' disagiata di
questo lugubre di maniera con un tocco esperto, ultimo
colpo di pollice. Dopo aver detto della pubblica voce
corsa che il diavolo era venuto a rapire Montemar, chiude
il volo del poema il pacato volutamente trito atterramento
che sa di fiabe di avi e sorrisi di ogni giorno, dopo
r affanno estremo della creazione.
Y si, ietor, dijerde ser comento,
Come me lo contaron, te lo cuento.
Chiusa che approssimativamente si ripete in molte
romanze e poemetti fiabeschi del romanticismo spagnuolo,
ed è quasi un vezzo ; ma qui ha tutt'altro sentore ; sembra
tagliare gli ultimi ligamenti dell'opera col cervello autore
e adombra il sorriso, un po' triste e un po' ironico, dello
spirito uscito incolume dal tormento — qui così lugubre !
— della crecizione d'arte.
Del 1 872 è il Don Juan di Campoamor (13) che con-
sidererò anacronisticamente prima del Nuevo Don Juan
di D'Ayala. Fa parte dei " Pequenos poemas ", e nella
evoluzione del concetto dongiovannistico precede la
commedia suddetta.
La capitolazione di Don Giovanni è cominciata. Rag-
giunto l'acme della potenzialità tragica comincia la pa-
rodia. Non c'è montagna senza valle.
La sua autorità tentenna; l'insofferenza degli spiriti
non lascia in pace nemmeno le proprie creazioni; ai tempi
— 95 —
del pellicano di De Musset, si sono alternati quelli del
cuculo che rompe le uova del proprio nido.
Don Giovanni è vecchio ; passa ormai il tempo miran-
dosi la lingua in uno specchio, prigioniero dei reumi in
Cartagena,
L'autore è già libero dall'ossessione tragica di Espron-
ceda e De Musset; sorride. Dalla delusione emotiva di
Gautier, in cui Don Giovanni riconosce di aver sbagliato
la sua vita e appare con la schiena arrotondata, gemendo
la vanità dei suoi errori, alla delusione comica di Cam-
poamor ; dal compartecipe decadimento che è in quello
all'estranea berHna di questo, il legame è vicmo. Gran
differenza e facilmente riconoscibile fra là satira byroniana
e l'umorismo di Campoamor. Nella prima, Don Giovanni
è r elemento suscitatore della satira, e come tale esso è
integro, inaccessibile ; nel secondo. Don Giovanni è con-
tagiato lui stesso dal malore del ridicolo , egli stesso è
schiacciato burlescamente sotto le rovine delle sue burle.
Don Giovanni di Campoamor è il Don Giovanni di
Byron, fatto vecchio : " Cuando el Don Juan de Byron
se hizo viejo ".
L'amoreggiatore nel primo dei due canti del poemetto
si congeda, vecchio ormai, dalle sue cinque ultime amanti,
di cui ricorda il nome : una per paese : Caterina Ariosto,
Fanny Moore, Giulia Calderon, Margherita Goethe, Luisa
Chenier ; a ognuna scrivendo la stessa lettera con la po-
ligrafica chiusa :
El sér que mas te ha amado y que mas te ama.
Ad ognuna delle internazionali amanti è dedicato un
allegro ritratto dell'autore. La prima, malata di emicrania
e amor cronico ; la seconda diffìcile all'amore ma in esso
— 96 —
tenace; la terza sentimentale e una specie di religiosa
dell'amore, che si fa perdonare l'insigne " buena fé de
BUS traiciones " ; la quarta piena di latino greco e illusioni
erotiche ; la quinta cingallegra civettuola, militarista ap-
passionata.
Tutte e cinque rispondono con un espressivo " Voy "
che imbarazza un po' l'esule d'amore, che fa valige per
far perdere le sue tracce non più sufficientemente ma-
scoline.
Ma i cinque " Voy " non erano tutti così rapidi all'atto
quanto all' espressione : quattro si risolvono in " Quedo " ;
tanto è vero che il fatto è la lingua più difficile da tradurre
il detto. Ma GiuHa fedele a se stessa ha seguito ; e qui
fuga e inseguimento hanno dell'esilarante e caricaturistico
irresistibile. Finalmente quando il troppo amato crede di
essere fuori di pericolo e nascostosi in una cava si rima-
stica la bella burla, ecco scoppiargli addosso la soprav-
venuta che lo abbraccia, e gli abbracci son così violenti
che il poveretto pur non dissueto ad essi, muore sof-
focato. Il gigante ucciso dal morso del granchiolino! Fin
qui il primo canto: "Las mujeres en la tierra". 11 se-
condo : " Las mujeres en el cielo ".
Qui il troppo insistere nello schei-zo che non è l'arma
più agevole al poeta, lo porta a qualche storditaggine; il
quadro di quest'altro mondo di cartapesta avrebbe do-
vuto, per reggere, essere mantenuto in un'atmosfera ne-
gativa di sorriso che non a tutti è dato creare; l'umorismo
essendo il più impalpabile di tutti i gas, che se è sano,
lo si respira senza avvertirne che il benessere; se lo si
sente troppo, vuol dire che sano non è. E qui lo si sente
un po' più del necessario in quel dissidio che è tra la
grande considerazione che il poeta ha — e tanta parte
— 97 —
delle sue "doloias " ne è ispirata — per la gentilezza del
sesso femminile, e l'abito che ora si è imposto di caustico
motteggiatore: scioglie un inno — e non per ridere — al
cuore femminile :
Veo en el hombre el corazón hutnano
Y en la mujer el corazón divino ;
e immagina inoltre che per rialzare nella bilancia della
giustizia divina il piattello troppo pesante del male di
Don Giovanni, le cinque amanti chiedano a Dio di ver-
sare i loro meriti sul piattello quasi vuoto del bene. Quattro
di queste sono state presentate già per molto inclini alla
Belcolore, e, nonostante l'offerta, non si smentiscono : nel
piattello del bene pongono dei menti... nientemeno come
quello di aver obbedito ai maggiori, in quanto vollero ciò
che esse vollero o di aver sacrificato il piacere alla pi-
grizia o di aver preferito il Dio Milione al Dio Apollo
o di non aver ascoltato un amante non amato, e simili.
Ma Giulia dà tutta se stessa, paga dell'inferno, per la gioia
di aver procurato il paradiso all'amato. L'umorismo con-
tenuto m questa ridicola oblazione di meriti delle quattro
donne mal caletta con quell'apologia sincera delle doti
muliebri, come due voci che cantino insieme per conto
proprio; anche poi in se stesso, questo episodio non crea
riso, per voler dir troppo. Facendo deporre sulla bilancia
un merito che non è un merito, l'azione nega l'intenzione;
la scintilla del riso non prende. L'azione non deve mai
distruggere l'intenzione, altrimenti il riso donde spilla?
Non parrà solìstica questa distinzione; per esemplificare,
se IO dico che un tale credendo di compiere un'azione
magnanima, fugge, il riso dov'è? Ben lo si sente, ove io
7 — F. FuÀ, Don Giovanni.
— 98 —
dica che Don Quijote, per compiere impresa degna
di cavaliere, combatte coi mulini .a vento, e si batte col
suo barbiere.
Giulia pertanto è dannata per Don Giovanni, il quale
modestamente pensa che, se fosse stato donna, avrebbe
fatto lo stesso, ed entra nel cielo come in un salotto, a
testa alta, quasi regalasse la veduta di se ai Serafini in-
cantati. Coreografìa troppo quadrata per essere umoristica:
— così la passeggiata di Giulia con Eva (mirabile dictu!)
alle porte del cielo ; sebbene, l' incontro di Giulia con la
madre del genere umano nell'inferno non era di mal gusto.
Ma non sarà bene estenderci più oltre nella conside-
razione di questo " pequeno " poema d' importanza non
molto maggiore delle sue pretese.
Anteriore nel tempo, la commediola di Lopez de
Ayala (14): El nuevo Don Juan del 1863, compie del
personaggio una degradazione, da cui Campoamor si sa-
rebbe tenuto lontano.
Ideologicamente, il Nuevo Don Juan è l'ultima fase
spagnuola della concezione dongiovannesca : l'imparenta-
mento del Burlador con Falstaff.
Dopo di essa, non mancava che il naufragio assoluto
di Janqueiro (15).
11 processo dello svaloramento è facilmente seguibile :
in Campoamor, che ragionatamente abbiamo considerato
prima di Lopez, l'umorismo investiva tutta la tenue con-
cezione, brinandola di brio, senza intenzionale negazione,
ma quasi per un esercizio di umorismo ; da Ayala, Don
Giovanni è senz'altro preso di mira, smascherato come
un Tartufo, messo in contrapposto alla vittoriosa e seria
rettitudine di quelli, che avrebbero dovuto essere le sue
— 99 —
vittime. Lopez de Ayala che può dirsi alla Spagna,
quel che Ferrari, Rovetta, Giacosa, all' Italia, si fa
sgabello di Don Giovanni per arringare le folle perdute
dietro meteore di stravaganze e riportarle al lare della
moralità. 11 teatro moralista non poteva che vedere in
Don Giovanni 1' avvelenatore delle tepide mense casa-
linghe, il cultore dei " vicios poeticos", e l'autore non
risparmia la sua pietra contro il despota fatto vittima.
Ma il pregiudizio morale è un terribile pencolo per
l'arte : perchè vi sono purtroppo anche i miasmi della
virtù ; e l'arte educativa corre spesso il repentaglio di
" se casser le nez ", come il ragionamento di Sganarello.
Certo, mani di vetro deve avere l'autore che si arrischia
a tesi morali e protettrici del buon costume ; giacche
purtroppo l'uomo è fatto così, che Satana comunque gli
appaia, l' interessa abbastanza ; ma Dio, lo vuole vestito
in un dato modo, se no, nessuna religione gli impedisce
di sbadigliare piamente.
Mi pare che sia grave errore in tali casi esaurire tutta
la sostanza dell' argomento nell' espressione ; dire tutto,
smantellare le proprie batterie : il lettore o lo spettatore
certi ragionamenti vuole ricavarli lui, sentiti lo annoiano :
tant'è, la bontà tra le doti umane non è forse l'unica che
all'uomo dispiaccia di sentirsi lodare da altri?
Così, più morale forse, effettivamente, del Nuevo Don
Juan, che senza essere proprio, mi pare, una poverissima
cosa, pur non ha nulla di straordinario e talora la
punta del cappuccio di quella benedetta tesi morale am-
micca alquanto (es., nel sermoncino di Elena, verso la
fine della scena IX, atto 1°), — è il dramma francese
del 1 902 : Le Marquis de Priola di Lavedan ; che pure
ha un alto e umano significato morale, ma come è più
— 100 —
rispondente al tempo e alla nazione, conserva una perfetta
correttezza di azione che non si sfibra in conrimenti, ma
compatta e lucida procede m tesi tendini di energia, ne
r intenzione vi si sbottona con quella provinciale compia-
cenza, come in Ayala. Sarebbe stiracchiatura un parallelo
fra due autori che han così poco a vedere l'un l'altro,
se le due differéntissime opere non raffrontasse una
certa affinità, inconsapevole, nell'intenzione e in alcuni
particolari.
L'opera di Lavedan non per nulla è francese e molto
moderna ; il suo Marquis de Priola ricorda che dietro di
lui c'è un passato di Gautier, di Balzac, di Zola, anche :
stratificazioni sentimentali che non si sgretolano. Tra Don
Juan de Alvarado e il Marquis de Priola, tipi di Don
Giovanni vinti, vi è perciò, verbigrazia, la distanza che
tra la lampada ad olio e la luce elettrica 11 nuevo
Don Juan inoltre è il capitombolo pagliaccesco di Don
Giovanni, il Marquis de Priola ne è il detronizzamento
solenne e drammatico. Ma in fondo è pur curioso notare
come l'uno e l'altro faccian cadere i loro eroi troppo bal-
danzosi in un tranello donnesco : entrambi, nell' inten-
zione, celebrano la incolume virtù di Elena l'uno, di
Madame Savières l'altro, entrambi vogliono significare la
superiorità delle virtù dell'amore puro (Madame Le
Chesne — PaoHna) sulle violenze rapaci dell'ambizione
inanime. Salvo che il buon tecnico Lavedan non si li-
mita all' elogio più o meno sottinteso della virtù o della
famiglia : nessun sapore di catechismo o di lesso... : ma
d'un magnifico colpo di luce scopre la visione della ne-
mesi per così dire fisica; non la morte liberatrice, ne
più la punizione mistica d'oltre tomba; ma l'atroce per-
cossa mutilatrice sulle membra che seppero i baci, rat-
— 101 —
trappite ora dallo scherno della paralisi. Traverso il bollo
a fuoco di questa chiusa che ne marchia 1' anima di do-
loroso stupore, il significato morale si fa strada insensi-
bilmente, come il ferro nella piaga cauterizzata.
Psicologicamente acuta m Lopez la scena XII, atto I",
in cui Don Giovanni subodora il tranello che gli è teso
e fa appello a quella risorsa già elementarmente in Moreto
("Desden por desden " scena IV, giorn. 2"); — fingendo
di rifiutare l'infinta offerta di Elena, le confessa il suo
amore per un'altra.
Perfetta in Lavedan la scena III, atto 2'\ fra il Marquis
e Madame de Villeroy, in cui quegli che l'ha indotta a
offrirsi, la mortifica con perversa malignità, rifiutandola
in bel modo (16).
L'amore muore senza più speranza in Madame Le
Chesne, allo smascheramento del Marquis ; muore allo
stesso modo l'amore di Paolina, in Ayala. Nell'uno e
nell'altro compatibilmente col temperamento e il tempo,
le scene amatorie sono le migliori; poiché lo stesso Lopez
non gli spiace, quando la sua tesi non lo guarda, di spriz-
zare un'occhiatina dolce al suo Don Giovanni, che da-
vanti a tutti non si ritiene dallo svergognare.
Notammo altrove come il tipo vitale di Don Giovanni
sia cristallizzato in maschera in Lopez de Ayala.
Distrutta la leggenda, scrollati gli anni, col suo nome
e la sua fama, eccolo, come nulla fosse, in mezzo alla vita
moderna, tormento delle giovani e leggiadre, sgomento
delle madri e dei manti, armato del sottile scherno e
profumato della più fine essenza d'amore.
Ma nel fatto, 1' eccezionalità stessa di Don Giovanni
e la sua vitalità artistica ne impediscono il disseccarsi
definitivamente in maschera. In maschera si congela ogni
— 102 —
tipo da psicologico passando, per così dire, a fisionomico,
quando il significato interiore risale alla superficie e si
rarefa in un tratto mimico e caratteristico ; dalle sorgenti
vive dell'anima della folla ecco, nel nostro 600, rampol-
lare le incoscienti riproduzioni del " miles gloriosus " plau-
tmo attraverso i Capitani Spaventa, Coccodrillo, Spez-
zaferro. Rinoceronte, ecc., ecc.
Ma Don Giovanni, se lo si vuol considerare come
maschera, bisogna porlo in una gerarchia superiore, più
vicino alla rappresentazione simbolica, come quella di
Satana che pur talora si può umiliare a maschera nel senso
convenuto, che non ai tipi suddetti e multipli che rap-
presentano un carattere estemporaneo, e non disturbati da
nessuna scossa di artistica creazione, si sono potuti a loro
bell'agio cristallizzare definitivamente in maschera.
Pertanto in questa commedia, poiché la buffoneria del
criado è sostituita da quella del padrone e il distacco
dai suoi elementi originali di vita è completo. Don Gio-
vanni appare senz' altro una maschera, specie per la
semplicità di taluni suoi atti veramente ridicoli ; — fi-
gura viva appena in qualche momento, nel buon tratto
della passione suscitata in Paolina.
Venendo al nodo. Don Giovanni De Alvarado sostiene
la parte del diavolo (ma un povero diavolo !) contro l'an-
gelico sinodo familiare : levata di scudi in nome della
tranquillità contro ogni forma di intemperanza più o meno
elegante.
L'autore non consentirebbe agevolmente ai corrosivi
decreti della satira di Grabbe. Al Don Giovanni di Grabbe
che dal culmine della sua autonomia di maschio insultava
ai presepi della nostra mediocrità: " quanto tempo ancora
prima che il signor Ottavio parli del mantello e del ber-
— 103 —
retto, della procreazione e educazione della prole? Che
gente miserabile!" (atto 2", scena 111), Ayala oppone le
sue savie parole per bocca di Diego : " Don Giovanni,
non sa lei che il bene e la pace di una famiglia son cose
che tutto il mondo rispetta"? (atto 2", scena V).
Si consola altrove lo stesso interpellante con le parole
non troppo convincenti in bocca sua:
Tan bien los maridos
Solemos tener ingenio
(Atto I", Scena VII),
oppure :
No siempre ha de estar
En ridiculo e! marido
(Atto 2". Scena XXVI).
Don Giovanni finora, ardito, bello, prode : il suo pen-
nacchio e la sua spada, emblemi del suo potere ; ora soffre
di tremarelle che danno occasione ad alcuni brillii di
spirito; come al principio della scena XI, atto 1", tra lui
e Gii il servo di Diego :
— Como ? està en casa
E! marido ? (alarmado J; en Voz haja)
— No, senor.
— Entonces por que me hablas
Tan quedo ? (alzando la voz).
Ma sarà bene riassumere la commedia. — Diego e
Elena sono due buoni coniugi che si bisticciano talora,
ma non per questo si amano meno : se Diego è un po'
geloso, Elena non se l'ha a male, che :
En la mesa de Amor
Los celos son el salerò
(Atto 1", Scena II).
— 104 —
Ma il giorno del terzo anniversario delle nozze, a Don
Giovanni salta in testa di turbare il blando tubamento
coniugale. Col pretesto di una lettera della mamma di
Elena da consegnare a questa, mentre invece è una di-
chiarazione d'amore, entra nella casa e riesce con arte a
portar dell'inquietudine nell'animo della signora, cui
si ripromette far seguire l' amore. Il marito accortosi,
pensa, dopo aver dato in smanie, di prendere le cose pel
lato del ridicolo, come le allegre donne di Windsor ; lo
invita a casa per giuocargli un tiro, che Don Giovanni
evita con destrezza portando il colpo sopra Elena stessa,
a cui dichiara, come si accennò, che non è lei che egli
ama : cosa che esaspera di vergogna la donna ; e le ag-
giunge la mortificante notizia, con la prova di una lettera
a una Paz, che il marito la tradisce.
Don Giovanni ha detto che ama Paolina, giovinetta
amica di Elena, che è veramente innamorata di lui. Egli
si destreggia fra le due, mirando alla signora che vuol sua,
e, approfittando della partenza del marito, si introduce di
sera nelle stanze di lei ; ma il marito torna indietro e il
conquistatore finisce in un armadio. Donde la bontà di
Paolina, cieca d'amore, lo trae, per offrirgli il suo perdono
e confermargli il suo amore che la disonesta condotta di
lui non ha diminuito, lei che spera sempre nel suo rav-
vedimento.
Le cose paiono rimesse, con un fidanzamento, in ordine:
ma Don Giovanni scompiglia tutto con un nuovo attacco
all'onestà di Elena, cui di nascosto dà una lettera molto
sfacciata, che ella mostra al marito per rompere l' incan-
tesimo che il seduttore ha tessuto intorno a se a masche-
rare le sue intenzioni. Il malcapitato è messo alla porta,
con gran soddisfazione di tutti e liberazione di Diego.
— 105 —
È inserito il particolare di un altro attentato da parte di
Don Segundo, amico di casa, all'onore di Diego : anche
questo sventato a tempo.
La commedia termina con la vittoriosa esclamazione
di Elena a Paolina e a Diego :
Nada esperes de un Don Juan,
Nada temas de tu E.lena
(Atto 3", Scena ultimaV
Diego è il solito marito dabbene sulla cui fronte hanno
giuocato da tempo le spiritosaggini da operetta della
commedia più giornaliera. La sua gaglioffaggine ha
modo di indiscutibilmente palesarsi in più punti ; massime
là dove abbocca all'amo di Don Giovanni (atto 2",
scena V), e si sprofonda in protestazioni di stima, e si
rimorde dei sospetti precedenti, il buon uomo ! Se il ci-
mier di Cornovaglia gli è risparmiato questa volta, non
è merito suo...
Del resto è gustosamente verosimile. A Don Giovanni,
che gli dice di adorar Paolina, lui che credeva... molto
peggio :
'Amela usted,
'Amela usted. No se encuentra
Mas digna. Si es un pedazo
De cielo
(Alto 2", Scena V).
La sua storditaggine è tale, che nemmeno si avvede
degli approcci, che — sott'acqua - attenta Don Segundo
alla sua Elena. E il servo Gill che li subodora.
Està
Don Segundo me revienta
(Atto 2", Scena 1).
— 106 —
Ma questa perla di dabbenuomo coniugato che poi
alla fine riesce vincitore, non menta che ci si dilunghi
oltre ; ce l'hanno affatturati in tutte le salse e sommini-
strati a tutti 1 pasti ormai, questi mariti di palcoscenico,
che non hanno nemmeno la fortuna di essere le pernici
di Enrico IV !
Anche Elena che vorrebbe essere una Penelope non
è che una mezza tinta : significa poco. Paolina ha dei
buoni tratti, quando nella scena ,VI1I, atto 1 ", svela la
sua passione all'amica, esponendolene delicatamente i
sintomi :
Siento en el alma
Un piacer que causa pena
Una pena que me halaga
Y una inquietud tan sabrosa
Que vale mas que la calma.
Don Giovanni nella scena IV dell'atto 1 ' riesce talora
eloquente, quando determina la confusione in Elena con
gli abbarbaglii delle lodi : non si prevedrebbe il capi-
tombolo che lo aspetta. Egli insinua i suoi complimenti
sotto il mentito riferimento delle parole materne :
\
Si viera usted lo que vale
Mi Elena
La luz en sus ojos arde
Con que el alba resplcndece ;
Cuando los baja, parece
Que va cayendo la tarde
Cui la donna con sovrassalto ben reso
i Ah, madre ! no lo dirà
De ese modo.
— 107 —
In questa e nella scena notata XI, atto I" (il tranello
sventato) si possono riconoscere i soli momenti dongio-
giovanneschi di questo eroicomico personaggio, cui al-
trove e nel complesso l'autore si è compiaciuto di dare
sgambetti, lui che decisamente parteggia per Diego !
Oramai non restava che un ultimo elemento a dare il
tracollo alla supremazia di Don Giovanni : da dissolutore
di felicità di focolare, farlo vittima di bufera famigliare ;
da lìgliuol prodigo, padre, e padre infelice.
Padre ci era apparso già nella novella: L'elixir de
longue vìe di Balzac ( 1 830) ; ma padre solo esterior-
mente : nessuna scissione della compattezza atomica del
suo egoismo essenziale : nessun intenerimento della cor-
teccia coriacea dei suoi nervi sereni.
Ma r ispirazione della commedia di Heyse (1 833) già
aveva iniziato il capovolgimento : Don Giovanni e padre
essendo due concetti antitetici, che non possono sussistere
se non l'uno o l'altro. Don Giovanni, nella " Don Juans
Ende ", esercita la lima della sua insidia contro suo figlio
stesso, per odio al puro e reciproco amore di questo per
Ghita già presa di mira dalla sua cupidigia ; divide con
arte i due cuori seminandovi il sospetto ; poi il padre ri-
prende il sopravvento, ma quando il danno è già com-
piuto e i due non hanno voluto sopravvivere al loro a-
more. Allora, stroncato dal colpo da lui stesso portato,
il vecchio Don Giovanni si precipita giù dal Vesuvio,
per trovar pace tra le fiamme.
Padre si rivelerà lui stesso, il Marquis De Priola, — e
nella paternità è la sua pena, — mentre la paralisi inci-
piente gli contorce le parole disperate nella gola, — sulla
fine del dramma , al giovane Morain.
— 108 —
In Spagna, nel 1892, nel dramma di quel poliedrico
ingegno : Echegaray y Eizaguirre : El hijo de Don Juan
rappresentato senza grande fortuna, questo argomento
della paternità redentrice di Don Giovanni viene defini-
tivamente trattato : Don Giovanni, logoro dal vizio, ha
messo al mondo un figlio malato e idiota, e la sua pena
è nel grido di dolore che questa vittima lancia contro il
passato di lui (1 7).
Don Giovanni è completamente sostituito dal tipo
padre in questo dramma cui non indarno han fatto ap-
parizione gli Spettri ibseniani. Da forza disgregatrice si
è elevato a umanità dolorosa, sotto il labaro di una tesi
scientifica cara a teatri recenti ( 1 8).
Dalla liscia superficiaHtà di avventuriero, dalla con-
chiusa unicità sentimentale senza falle, rotante intorno al
proprio io, si è man mano approfondito in pensosità di
dolore, sdoppiato in commentatore, in rinnegatore di se
stesso, fino a capovolgere il suo sacrilego riso in sacra
disperazione, il suo egoismo-tipo di maschio in altruismo-
tipo di padre.
Ma rifrattosi attraverso le fantasie drammatiche di
autori contemporanei, il tipo dongiovannesco di cui ab-
biamo distinta e seguita nei tratti essenziali e più irridu-
cibili la carriera spirituale, si immilla in una genealogia
di rappresentazioni affini più o meno colorite di tipi, fra
i quali trasceglieremo per la nostra osservazione due del
teatro di Benavente, uno dei più fortunati, se non dei
più originali, drammaturghi viventi di Spagna, che da
poco è stato fatto conoscere anche sulle nostre ribalte.
La fantasia di Benavente non è lirica ne tragica come
quella del grandissimo Villaespesa, che noi dovremmo.
— lOQ —
mi sembra, imparare a gustare, noi italiani che ci siamo
un po' troppo obliati nei giardini di Armida della ultima
poesia francese. La fantasia di Benavente è più vicina al
pubblico, talora più casalinga. Pure il suo capolavoro:
Los intereses creados, rappresentato al teatro Lara di
di Madrid per la prima volta il 9 dicembre 1907, e teste
esperimentato anche sulle nostre scene, è assai ardita
violentazione delle abitudini tonico-digestive di tutte le
platee mortali ; nella sua stilizzazione di tipi risponde
al Théàlre aux Chandelles di Henri De Régner; pre-
lude a talune scarnifìcazioni teatrali, gabellate per ce-
rebralismi (ahimè), del teatro nostro dell'ora, quello che
non durerà di più
Stanchi di trattar anime, si maneggiano pupi!... Lo
stesso?
In questa commedia di maschere, Crispino, servo
del sentimentale Leandro, con psicologica abilità di
stratega creando dal nulla laute finanze e fortune a se e al
padrone e servendosi a ciò sopratutto della gran copia
di fervidi entusiasmi e di passionalità vera, che gonfia
l'altro ed è invece in lui congelata in riso di corno,
— è lui il fine dongiovannesco tipo di asentimentale.
Rivelatrice la scena ultima dell'atto primo, ampia' di
simbolo sotto il risultato delle parole, in cui Leandro e
Silvia che evadono in estasi d'amore e di canto come
prigionieri di un sortilegio...; ma ecco li veglia dall'ombra
la tinnente risata del Mefìstofeletto :
] Noche, poesia, locuras de amante !
j Todo ha de servirnos, en esla occasion !
i El triunfo es seguro ! Valor y adelante !
t Quién podra vencernos si es nuestro el amor ?
— no —
Già in Rosas de otono, cimentatasi il 1 3 aprile 1 905
al teatro Espafiol, Benavente si provava ad un tipo di
Don Giovanni (Gonzalo), il quale però mi dà l'impres-
sione di una coppia di addendi senza somma, che sono :
un dabbenuomo che viene accompagnato dall'autore
poco accorto fin nelle sue retrostanze, giovialone non
scevro di risentimenti giovanili davanti all'elemento non-
lui, ed una larva di uomo fatale che non si riesce, per
guardar che si faccia, a ravvicinar tanto all'altro da ve-
derne uscire un unico sembiante d'arte. Gonzalo è un capo
ameno che l'ha fatta anche all'amico fido e consocio Ramon,
mandandolo ad accrescere la compagnia all' immortale
Menelao. Abusa della bontà della seconda moglie Isa-
bella, finche, avendolo questa spontaneamente salvato
presso l'amico dal sospetto sortogli per insinuazione di
un vile, e fattolo apparire del tutto incolpevole, si pente e
a lei si riaccosta in una tenerezza di primavera tardiva.
Nel corso della commedia l'antagonista di Gonzalo,
Manuel, che ne ha amata religiosamente e in silenzio la
prima moglie, sfoga nella conversazione, alludendo al
Don Giovanni di Zorrilla, talune osservazioni sulla na-
tura dongiovannesca, non indegne a lor volta di osser-
vazione : — " Questo di innamorare è un dono in verità
geniale.. .. l maggiori conquistatori son quelli che meno
cercano di esserlo. Ricordano il motto di Don Gio-
vanni? "Un giorno per innamorarle, ecc."... Ciò non
è naturale. Per questo bisogna chiamarsi Tenorio ; già a
Don Luis debbono costare il doppio le conquiste. Quanto
al capitan Centellas e Avellaneda non ne parliamo. Han
l'aria di non averne innamorata nemmeno una nella lor
vita. Per questo passano il tempo a scommettere per gli
amici " (atto 2°, scena 111).
— Ili —
Abbiamo dunque fatto oggetto di frugata analisi quelle,
della non copiosa letteratura dongiovannesca spagnuola,
fra le opere, che assommino caratteri, chiudano ragioni di
esistenza distinte, non per loro intimi pregi, talora, quanto
perchè rappresentano una singolare mutazione o sposta-
mento delle linee del tipo.
Avvicinandoci ai tempi d'oggi, la scelta si è dovuta
fare più laboriosa, ove al principio non ce ne fu bisogno
di alcuna : si sa, le opere moltiplicano, brulicano, con
l'universal fregola della stampa, — quando non siano
meno che ozii
Ecco, del 1874, Los rosales de Manara zarzuele di
Cano y Cueto, l' illustre cantore sivigliano delle leggende
di sua città, autore altresì sempre di argomento dongiovan-
nesco, della Ultima aventura di Don Miguel de Manara
compresa nella sua raccolta delle Leggende e tradizioni
sivigliane del 1875. Del 1889 e dello stesso autore,
El homhre de piedra, con la ripetizione tradizionale dei
motivi anche esterni della leggenda.
Nell'anno 1874 M. Fernandez y Gonzalez, anche
autore di un Don Luis Osorio di argomento assai pros-
simo al dongiovannesco, pubblica a Madrid Los Te-
norios de ho]), cuadros al naturai, e nel 1877 il Don
Miguel de Manara, di carattere anche dongiovannesco.
Sua è anche la novella romantica Don Juan Tenorio.
Trascurando meritamente El libro de Don Juan sol-
dado di Enriques Ceballos Quintana, l'autore popolare
dei Tiempos de capa y espada e del Quijote de los siglos,
— è del 1 896 (Barcellona) il Don Juan Tenorio di Jose
Franquesa y Gomis, nella Renaixensa, diari de Cata-
lunya — e del 1897, la leggenda drammatica in 7 atti
— 112 —
e in prosa e versi di Bartrina e Arus : El nuevo
Tenorio.
Tutta questa popolazione di Don Giovanni d' in-
chiostro, di cui son ben lungi dall'aver fatto il censo, è
in sostanza agli ordini di quelli su noti, cui mi son diver-
tito a infliggere la mia perquisizione estetica e psico-
logica, quale ch'ella sia stata.
Poiché le opere di una letteratura non si contano sulla
tavola pitagorica, non sembrerà che io mi contraddica
con quel che già ho detto e ripeto : che la letteratura spa-
gnuola dongiovannesca è delle men ricche.
Quei quattro o cinque motivi essenziali che scoprimmo
nel corso della nostra disamina, si varieranno, infronzo-
leranno, infioretteranno, spezzettineranno come si voglia,
noi non possiamo tenervi dietro ; sino a quando a quelli
non si sia aggiunto alcun altroché di sostanziale ; ci basti per
ora aver distinti i vertici e talora i semplici cucuzzoli ! :
non sarà riuscito a far la carta topografica di una con-
trada, chi si sia perduto a contare i mattoni...
— 113
NOTE ALLA TERZA PARTE.
(1) Baret, op cit., pag. 334.
(2) Mi spno prevalso per la conoscenza di questa commedia del
compiuto riferimento che ne fa José Franquesa y Gomis in Homenaje
a Menéndez y 'Pelayo, 1893, voi. I", pag. 283.
(3) II Gomis, a proposito di una didascalia, che a questo punto
trovasi nel manoscritto, riguardo all' inscenamento del sepolcro " Como
se vió el Convidado de piedra antiguamsnte " , arguisce che il Burlador
(osse noto volgarmente col nome che passò poi alle commedie derivatene.
(4) Esamino la commedia di Zamora nella "Bibl. de aut. Esp.",
voi. 49, a cura del Romanos. Non è divisa in scene.
(5) Nella 2'' giornata, all' offrirlesi, per servitore, di Filiberto,
Anna risponde asciuttamente : — "il vostro cortese ardire apprezzo, ma
credo che con l'ammetterlo, lo compensi ". Ancora, dopo lo svenimento
di lei nella 3^ giornata, il povero Filiberto, geme che mentre egli
umile e timido adora Donna Anna, il destino gli faccia ancora tanta
guerra. Infine Donna Anna si è già ritirata nel chiostro, sepolcro di sua
vita, che ancora il poveraccio, che lo ignora, la persegue col pensiero e
chiede al Re di concedergli di divenirne lo schiavo, ovverosia Io sposo...
(6) Esamino il Z)on yuan Tenario di Zorrilla nella Galeria dram-
matica del Delgado, Madrid, Sucesores de Rivadeneyra. I sette atti sono:
r^ Libertinaggio e scanda'o ; 2" Destrezza; 3" Profanazione;
4" 11 diavolo alle porte del cielo; 5° L'ombra di Donna Ines ; 6*^ La
statua di Don Gonzalo; 7" Misericordia di Dio e apoteosi dell'amore.
Ve n'è una buona traduzione italiana di Fausto Maria Martini e
di Giulio De Frenzi. Quella dell'edizione Sonzogno, non priva di gros-
solani errori.
(7) Non so tenermi dal riportare — originali — alcuni dei versi
che precedono, soavissimi :
Tal vez poséeis, Don Juan,
Un misterioso amuleto
Que à vos me atrae en secreto
Como irresistibile man.
Tal vez Satan puso en vos
Su vista fascinadora.
Su palabra seductora,
Y el amor que negò a Dios.
8 — F. FuÀ, Don Giovanni.
— 114 —
(8) Noto il bellissimo effetto fonico di quell'ottonario pieno di
asme dopo gli ultimi salterellanti di Don Juan :
— mirad si haliais conocido
remedio, y le aplicaré.
— No hay mas que el que os he propuesto
(9) Fuggevolmente ricordo non esservi neW Antico Testamento altra
apparizione di ombre reduci, oltre quella del libro di Samuel,
cap. 38, in cui dalla pitonessa è rievocato a vita Samuel per volere
di Saul.
(IO) Atto 3°, scena 1. Don Giovanni dice che ha ucciso gli amici :
era forsennato : la sua mano li fece preda della sua pazzia.
Poi, scena XI, la statua gli dice: "11 Capitano ti ammazzò alla
porta della tua casa".
( I I ) E noto che il conte di Tureno diceva di preferire di leggere
Byron nell'originale.
(12) Esamino V^studianle de Salamanca, nell'edizione delie
Obras : Libreria de Garnier Hermanos, Paris. 1885.
(13) Esamino il ^Don Juan di Campoamor nell'edizione delle opere
complete: Felipe Gonzales Rojas. Madrid 1903, Tomo 8° (Los
pequenos poemas).
(14) Esamino la commedia di Lopez de Ayala nella Col. de Es.
Castel, (drammaticos) : voi. 4'' del suo teatro.
(15) Guerra Janqueiro : A morte de Dom Joao, 1876.
(16) Casualmenle riecheggiano dell'espressioni, in entrcunbe le scene,
simili per la simiglianza della situazione. In Lopez De Ayala, Don Gio-
vanni a Elena che gli ha domandalo : Dunque mi ama ? — Signora,
chi lo pensa mai ? Io rispetto il suo decoro. — In Lavedan : — Io
ho dimenticato un momento chi voi eravate...
(17) Non sono riuscito a procurarmi ancora un'edizione del dramma
di Echegaray. Dato che esula completamente dalla concezione dongio-
vannesca, r insufficienza con cui posso parlarne sarà meno avvertita.
(18) Esamino questa e la commedia appresso notata di Benavente
nell'edizione del Teatro completo fattane uscire dai Successori di
Hernado. Madrid 1913.
ISHE^'S^
PARTE QUARTA.
Don Giovanni in Italia
Come nel 500 i modelli della commedia italiana ave-
vano fecondata la drammatica spagnuola delle imitazioni
fortunate di Torres Naharro, Lope de Rueda, Juan de
Timoneda, ecc., e le nostre compagnie, fin sulla fine del
secolo, vagavano per la Spagna festosamente accolte ;
così all'opposto, nel 600, è il gusto della commedia spa-
gnuola che da Napoli, ove Don Fedro Fernando De Ca-
stro, viceré dal 1610 al 1616, aveva condotti i comici
di sua terra, e dal ducato di Milano, si diffonde per tutta
Italia, originando la progenie teatrale dei .Celano, Pasca,
Tauro, Capece, Cicognini.
Lope de Vega e Calderon imperano sulle fantasie,
ispirano e talora dettano.
La commedia dell'arte, nata dalla seconda metà del
500 con il Ruzzante e il Calmo, riempie a sua volta i
nomadi palcoscenici di clamorose fortune; tra essa e la
commedia sostenuta, frequenti gli scambi ; questa trasmet-
— 116 —
tendo a quella i soggetti tratti dalle riserve spagnuole,
quella a questa le maschere, sue beniamine, e moltre ta-
luni andamenti della scena buffoneschi e il troppo della
didascalia sostituente talora il dialogo con arida scena
muta, e fors' anche la consuetudine della prosa prevalsa
definitivamente sulla forma poetica.
Non fa meraviglia che la fiaba dongiovannesca presto
ricompaia sulla scena italiana portatavi dalla corrente
spagnuola ; per quanto diffìcile sia identificare il momento
in cui vi sia penetiata.
Intanto la trasformazione del tipo, per la mutazione di
clima intellettuale, subito si fa manifesta. La commedia
nostra secentesca non era certo adatta a cogliere la figu-
razione del tipo, e sperimentarne una dipintura psicolo-
gica. Lo straripamento della farsa mesceva le tinte in una
unica vaghezza di comico volgare, in cui ogni definizione
tipica crollava. Da questo dilagare del farsaiolo scia-
lacquato, la fantasia cerca scampo nella provvisoria fabbri-
cazione delle maschere, le quali possono pur definirsi come
fantasmi d'arte mancati, ovvero i fantasmi lirici della folla.
Del duplice titolo di Tirso non resta — fatto sintoma-
tico — che la seconda parte : // Convitato di pietra ; ed i
convitati convitano la folla ghiotta del meraviglioso agli
inesauribili spettacoli per il 600 e 700 fino ai primi del-
rSOO. Sul personaggio di Don Giovanni prevale quello
del servo buffone; anzi quello diviene quasi un pretesto
per questo : i Trivellini, gli Arlecchini e i Covielli, tutta
la multiforme generazione degli Stasimi plautini e dei
Davi terenziani, sfoggiano qui il forte del loro spirito.
All'Italia non parve gran che degna di considerazione la
figura di quel contrabbandiere sfaccendato dell'amore :
usa da un lato ai paludamenti dignitari della letteratura
— 117 —
classica, dall'altro male avvezza ormai alle mascherate
della commedia improvvisa, non poteva vedervi che tutto
al più un buon soggetto fantastico che un secolo prima
sarebbe stato forse da novella, e ora sembra più da
teatro.
Shadwel, nel suo The Libertin (1676) riferiva che dai
primi del 600 un Ateista fulminato, sacra rappresenta-
tazione, veniva dato nelle chiese di Roma, la domenica ;
in esso con molte variazioni erano mostrate alla folla le
colpe e le pene infernali di un ateo.
Il Brouvv^er (1901) ha trovato in un fascio di scenari
secenteschi un Ateista che dà un'idea di tali rappresen-
tazioni. Benché senza data, appartiene quasi indubbia-
mente alla fine del 600 ; appare una redazione posteriore
dell'Ateista più antico, con nuovi elementi e varia-
zioni (1). Il conte Aurelio — tale la trama sommaria ~
è un bandito lussurioso e sanguinano della Sardegna,
che ha sedotta la duchessa Leonora, con cui vive allo
sbaraglio pei dintorni di Cagliari ; la tradisce con Angela
sua prigioniera, la percuote d'un calcio e la lascia sve-
nuta (atto 1 "). Il duca Mario, fratello di Leonora, lo
persegue con soldati, ma è tratto in inganno da Aurelio,
che lo separa da quelli, travestitosi degli abiti di un ro-
mito, e lo aggredisce poi. Prima di ciò v'ha l'episodio
(atto 1 "), che fa pensare al Burlador, delle statue dei
genitori di Leonora e Mario che in un tempio, ad un
tratto, SI animano davanti al bandito; e insultate, lo mi-
nacciano misteriosamente. Di nuovo riappaiono inginoc-
chiate, mentre il loro figlio, il duca Mario, sta per essere
fucilato dai banditi, e con lo scompiglio prodotto lo sal-
vano. Ancora intervengono con le spade in pugno alla
cena dei banditi (atto 3"), quando Leonora apparsa in
— 118 —
abito da penitente e beffata da Aurelio, che se la spassa
con Angela, è caduta morta. Fissano al bandito, termine
misterioso, il calar del sole. E al calar del sole, il conte
si presenta al tempio pieno di sfida ; le statue, afferratolo
stretto, invocano su di lui il fulmine del cielo, che non
si fa aspettare. Segue la visione della beatitudine celeste
di Leonora e dei tormenti infernali del dannato. Inter-
calato è nell'atto terzo l'episodio di OHvetta, qualche
cosa come la Pispireta zamoriana, che fa una semplice
apparizione, — è stata fatta prigioniera dai banditi — ;
tanto per dar l'occasione al conte di mostrar a lei la sua
galanteria, lasciandola libera non senza averle prima fatto
godere il bello spettacolo dell'impalamento di Buffetto,
il servo del duca Mano già riuscito a scappare all'ap-
parir delle statue dei suoi genitori.
In questa rappresentazione parve di vedere un'origine
al Burlador, già affermata, prima di conoscere un Ateista
scenario, dal Coleridge, che nelle sue note al Don Gio-
vanni byroniano dice che la più antica forma dramma-
tica della leggenda dongiovannesca è in questo dramma
religioso, che era rappresentato in Ispagna. Ora noi non
sappiamo veramente quale e come fosse la prima reda-
zione del nostro Ateista, ne che esso fosse noto in
Ispagna.
Certo alcuni scambi tra l'Ateista e il Convitato, nel-
l'evoluzione posteriore della leggenda, vi furono. La scena
finale dei tormenti d'inferno, che doveva essere l'essen-
ziale, torna nel Cicognini e negli scenari e in alcune delle
opere comiche. Il titolo stesso torna in Dorimond (fine
del 1658), poi cambiato nell'altro Le fils criminel, e in
Rosimond (1669), ove ritorna anche il nome della prin-
cipale vittima femminile. Così anche il fulmine che
— 119 —
liquida i conti di Aurelio con Dio, torna in Dorimond,
in Villiers, in Molière, in Rosimond, in Goldoni. L'epi-
sodio del romito torna anche in Dorimond e Villiers.
Forse nella parte importante attribuita alle statue animate
e in alcuni particolari, come quello del travestimento, è
da vedersi invece un influsso del Convitato sull'Ateista.
Il travestimento è in Cicognini, nello scenario, in Mo-
lière : salvo che Aurelio cambia i suoi abiti con quelli
del romito ; Don Giovanni invece li tramuta con quelli
del servo.
Così gli scherni all'eremita mendico, che sono nel-
l'atto 3" dell'Ateista, riportano a Molière (atto 3", se. 11).
L'astuzia di Aurelio (atto 2") nel dividere Mario dai
suoi soldatijipn so se ritorni soltanto casualmente nel si-
mile episodio comico del Da Ponte.
Chi s'illudesse pertanto che la fase italiana di Don Gio-
vanni contenga elemento religioso per questo imparenta-
mento con un dramma religioso, sbaglierebbe di grosso.
Anzi, il sentimento religioso dalle arlecchinate del nostro
teatro prevalentemente estemporaneo del 600 evase del
tutto: e nonostante la fumante visione d'abisso della scena
finale, l'ammaestramento morale, già vivo nella commedia
di Tirso, SI perse tra gli artifizi dei frizzi e dei lazzi.
Come accade sempre al " servus grex " parente alle
pecorelle dantesche, il fuoco della concezione prima e
originale è perso di vista dai primi imitatori, e quel lavoro
che non si richiede più per l' immaginazione inventiva, si
rivolge dai consecutivi riimitatori ai ritagli e ai fregi mar-
ginali, che talora invadono il disegno originale, e lo ridu-
cono da non riconoscersi più.
Nel Burlador, il sentimento religioso avvolgeva l'opera,
più che non si circoscrivesse al personaggio principale.
— 120 —
cui il pensiero di Dio interessa poco ; nel Convitato del
Cicognini, esso si ricantuccia nella scena infernale, e non
è più sentimento ma convenzione.
La commedia del Cicognini (2), che è meno che una
traduzione, non ha data, ma pare anteriore al 1 650. La
tuttora mcogmta di Onofrio Giliberto da Solofra è del
1652, stampata a Napoli da Francesco Savio col titolo
solito : // Convitato di Pietra ; e sembra che questa sia
stata debitrice a quella, piuttosto che il contrario.
Si dubita se veramente la commedia del Cicognini
appartenga al Cicognini, nonostante il nome appostovi; di
contraffazioni delle cose sue lo stesso autore si lamenta
nella prefazione al David dolente (ove essa anche sia sua);
come del resto molte opere segnate col suo nome pare
non gli appartengano, a sentire il Bartolomei (prefazione
alla commedia Amore opera a caso). Ma sinché non si
trovi una ragione solida, discutere se sia sua o no, mi pare
approdi a poco : d'altra parte la commedia ha così poco
valore che il nome del Cicognini che vi appare su, può
restarvi senza infamia e senza lodo, come una mera con-
venzione. In prosa e tre atti, essa è frammista di dialetto
veneziano (Fighetto e Pantalon), bolognese (Dottore),
napoletano (Passarino), secondo l'esempio prevalso del
Ruzzante, che Vergilio Verucci portava all'esagerazione
della nota commedia in 1 0 idiomi {Diversi linguaggi).
Il dialogo risente delle affettazioni che formano il mal
gusto del tempo ; l'autore inoltre non sa spiastricciarsi
dalle panie del discorso poetico, e pur scrivendo in prosa,
gli escon cadenze ritmiche e anche quando non vorrebbe,
brutti versi : scena 111, atto 1 ': — Amato zio, mi parto. —
Nipote caro, addio. — - Il vederti partir, nipote
amato. — Atto 2", scena XI: — ...a guisa di vii fiore
— 121 —
appena nasce, e illanguida more — ; e simili da cogliersi
a iosa.
Una leziosaggine poi al nostro orecchio, quelle cava-
tine rimate, che par stiano a segnare di riso i poveri mo-
menti drammatici : atto 1", scena XllI: Pianto di Rosalba :
Ferma aspetta ove vai, o mio consorte !
Se tu fuggi da me, io corro a morte ;
atto 2^ scena \'l, (pianto di Donna Anna sul padre
morto) :
Ch'anco io men vado intanto
A celebrar l'esequie sue col pianto
La commedia di Tirso è dal Cicognini scheletrita, e
invilita. Magro compenso, è qualche rattoppo di scenetta
comica da dare un po' di nuovo : nel 1 " atto : l' incontro
notturno e il duello con Passarino che si slonga per terra
e drla^'luTa spada contro cui vanno a finire le cortellate
di Don Giovanni (scena Vii), la scena degli indovinelli
(scena Xll), tra Brunetta, Pantalone, il Dottore ; nel 2" atto
la scena del bando in cui il Re fa promettere diecimila
scudi e quattro teste di banditi a chi trovi l'uccisore del
commendatore ; e le tergiversazioni di Passarino alla
prospettiva dell'oro (scena Xll) e (scena seguente) le
minacce del padrone e le istruzioni pratiche di lui sul
come quegli deve comportarsi davanti al notaio e lo scam-
bio d'abiti e (seguente) la burla caricata da Passarino agli
sbirri. Nel 1" atto l'episodio di Rosalba non è che un
moncherino di quello di Tisbea. Soltanto, pur nel suo
semplicissimo, il lamento di Rosalba è meno artefatto di
quello di Tisbea.
L'elogio semplificato di Lisbona è portato al 2" atto,
scena XI.
— 122 —
Tolte dall'atto 2" le scene I, II, III, V. VI, VII, IX, X,
la IV scena è riportata alla I, la III e IV sostituiscono la XII
di Tirso, la V è la minima riduzione della XIII, è aggiunta
la VI senza riscontro in Tirso : i pianti di donna Anna.
Le scene XV, XVI, XVII di Tirso, mutate nelle IX, X, XI.
Aggiunte le scene (bando, istruzioni, travestimenti,
burla), XII, Xlli, XIV; le XV e XVI vorrebbero riprendere
le XVIII, XIX, XX (episodio di Aminta).
Tolte dal 3" atto le scene I, II, III, IV, V, VI, VII, Vili, IX.
Dopo una prima scena che in Tuso era incorporata
nella stessa X, riattacca a questa la scena II; intramezzata
una III e una IV (sospetti del duca Ottavio), la V fonde
in se l'Xl, XII, XIII, XIV, XV; le VI e VII sostituiscono
la XVIII; r VIII e IX rifondono le XIX, XX, XXI ; tolte le
XXII, XXIII, XXIV, XXV, XXVI, la X ricopre la XXVII.
L'ultima scena è la già mentovata: l'inferno.
La figura, già principale, ha perdute le sue modana-
ture ; i discorsi d'amore avevano del seducente in Tirso,
ora si fanno sguaiataggini buttate là.
Per mostrare come sia tempo perso cercare barlume
d'arte in questa commedia che non lo pretende, non c'è
che da scegliere prove. Da Rosalba, Don Giovanni non
fugge a tradimento, ma si congeda con due magre parole:
"Orsù, Rosalba, non mancherà tempo di vederci e
goderci un'altra volta " !
Tutta l'atmosfera è satura di questa barbogeria burat-
tinesca. Già in Tirso nella li scena, 1" atto, il Re si pre-
sentava poco regalmente con un candeliere in mano.
Ora Cicognini dilata questo punto troppo e poco comico
in una macchia di sguaiateria. 11 suo Don Giovanni fa
saltare di mano con un colpo di spada il lume al Re, e
questi che geme : " Oh, Dio e non anche fu sazio il tradi-
— 123 —
lore di macchiar la riputazione di una dama nelle mie
stanze che anco di mano mi getta il lume ? — o là ! "
Il personaggio tipico è Passerino, che è un'espressione
di buonumore plateale, da cui l'autore trae il migliore
alimento alle sue risate.
I desideri pantagruelici e i bacchici amori lo fanno
un discendente diretto dei Maccus latini senza intenzione
di coerenza, specie di rifornimenti di allegria. Il comico
di Catalinon era più vero e sano. Passerino non presenta
nulla se non frasi salaci. Nessuno degli ammonimenti
brontoloni e pieni di buon senso e senza pretesa, che la
tozza buaggine di Catalinon arrischiava al suo padrone ;
qui è diventato un mariuolo anche lui, che per denaro
non si farebbe scrupolo di tradire il padrone.
Anche il duca Ottavio è fatto qui più grottescamente
sciocco che in Tirso ; le fantocciate poi di Fighetto son
tutte limitate alla fame che i pasti del padrone non rie-
scono a placargli.
II marchese De la Mota abolito, il duca Ottavio resta
il capro espiatorio di entrambe la prima e terza burla di
Don Giovanni ; è lui che nel 2" atto presta senza alcuna
scusa il mantello all'amico : non pertanto l'inavvedutezza
di Cicognini ha fatto strappo alla logica, dimenticando
l'equivoco, che doveva conseguirne secondo il Burlador;
nonostante il travestimento di Don Giovanni in Ottavio,
questi non è sospettato, anzi lo stesso Re nella scena XI,
atto 2'\ indovina senz'altro indizio che Don Giovanni è
il reo. Ciò fa capire-che la scena del bando è messa lì
per provocare l' imbeccatura buffa di Don Giovanni a
Passanno su quel che deve rispondere al notaio, imbec-
catura che pare solleticasse il facile buonumore secen-
tesco. L'illogicità è senz'altro la più vera rivelatrice del
— 124 —
troppo fedele imitatore, appena che sia tanto coscienzioso
da non essere plagiario.
Ovvero, meglio, era; che oggi noi con tutti questi grot-
teschi non ce la stiamo innalzando a legge, sopra le allegre
rovine di quelle aristoteliche?... Passiamo oltre...
La scena ultima del 2° atto è una pantomima che
mostra il contagio della commedia dell'arte : l'episodio
sufficentemente svolto della burla di Don Giovanni ad
Aminta è qui ridotto a una scena muta che lascia vuoto
all' improvvisazione :
" Passarino gli vede — [Dottore, Brunetta, Pantalone]
— chiama Don Giovanni qual si mette con Passarino an-
cora lui a ballare, infine Don Giovanni rubba Brunetta, e
via. Dottore e Pantalone gridano e fanno finir l'atto 2" ".
Altra considerazione offre la scena del tempio aperto
con r invito che Don Giovanni non fa direttamente, ma
per mezzo di Passarino ; variazione di cui la scena italiana
si compiacque, come più rispondente alla comicità che
le fu cara e alla maggior parte che tributò al servo. Il
Burlador prendeva per la barba la statua odiosa; questo
Don Giovanni le lancia un guanto.
Il Cicognini ha intuito nel 3'^ atto del Burlador quel-
r impressione di retrocessione spirituale che faceva di
Don Giovanni (scena XIIl) un po' il revisore di se, quasi
l'autobiografo delle sue conquiste. Il tipo individuale di
Don Giovanni, che è quello dell'eterno giovane, a cui,
come tale, lunga la speme e breve ha la memoria il corso,
veniva già così trasceso. Quando, da quella scena che
descrivemmo come limite ideologico della II parte del-
l'atto 3" del Burlador, Don Giovanni si ripiega su di se,
egli ha già delle crepe e la sua supremazia scric-
chiola. Al Cicognini è venuto di ridurre sopra la falsariga
— 125 —
di Tirso quest' impressione nelle parole dell' indispensa-
bile Passanno :
— Se record ella quand erim a Napoli quella bella
zovenetta, ch'andassiv a dormir con lei... e a quella
pescatrice che ce de quell' habit quand'a cascasim in tal
mar, ve piaseula mo? — D. G.: — Vedesti corno pian-
geva quando mi parti]?...
La paura di Passarino al giungere del " barbon " si
manifesta in modo simile a Catalinon. Il povero diavolo
si butta sotto la tavola e non ha più appetito. Ma i canti
che per ordine di Don Giovanni qui accompagnano, can-
tati dallo Zanni, la cena miracolosa, ben differiscono
da quelli che nel Burlador, cantati dai musicanti, espri-
mevano bene il pensiero di Don Giovanni:
Si de mi amor aguardais
Senora, de aqussta suerte
EA galardón en la muerte,
Que largo me lo fiais ! ecc.
(Scena XIII, Alto 3"),
ove qui non sono che una paonazza effervescenza di buf-
foneria :
Za che voli che canta,
Don Zovanni, ve digo
Che sto' bambozzo el me par un intrigo, ecc.
Nella li scena, quando Don Giovanni dà la mano alla
statua, il grido del Burlador era men logico, ma più im-
pressionante : " i Que me abraso !". Il pratico Cicognini non
può immaginare che un marmo bruci: Stringo un ghiac-
cio, un freddo marmo ! L'epilogo è forse, relativamente.
— 126 —
il migliore : il tormento del fuoco dà al torturato alcuni
accenti che l'anima secentesca di Cicognini sa rendere
non male. V è l'eco, che nella commedia spagnuola è
talora un mezzo artistico efficace, e nei drammi pastorali
del nostro 50Q(..e 600 ha preso voga:
Quando termineran questi miei guai?
Mai!
La figura di Don Giovanni è del tutto, nell'epilogo,
rovesciata: affermatore della vita gaudiosa, maledice qui
la sua nascita '■
Maledetto sia il latte
Ch'io succhiai assetato ;
Latte fu di pestifero peccato.
Rinnegamento ascetizzante che è particolare a tutte le
prestigiose scene finali delle nostre sacre rappresentazioni.
Persuasi a non cercar nel Convitato cicogniniano alcun
elemento di studio psicologico, ne per le figure femminili,
ne per quelle maschili, tutte rappresentazioni pupazzet-
tesche d'un umorismo talora buono, più spesso discutibile?
e viventi solo nella stereotipia delle loro parole, bisogna,
oltie a questo, convenire che anche nelle situazioni e nel
gioco scenico, la nuova mano ha sciupato, mutilato. Tolta
la figura del padre, di cui Cicognini non ha saputo che
farsi ; nella scena fra lo zio e Don Giovanni, quegli
non gli muove alcun rimprovero, subito propone di
mandarlo libero.
Altre scene scialacquano in scurrilità o alloccaggini
un po' pietose (come quella fra Ottavio e Fighetto, quella
di Rosalba pescatrice, che canta, e al giungere di Don
— 127 —
Giovanni : — Oh, come è bello !). Vi è la facilità passiva e
frascona di chi cede a ispirazione non sua. V hanno,
come a dire, degh sfoghi di originaHtà in trovate di minor
considerazione, due delle quali per altro han l'onore di
tornare in Molière. L'una, la scena dello scambio di abiti
tra Don Giovanni e Passarino, da cui trae il motivo la
scena V dell'atto 2" di Molière. L'altro, il particolare
dei salari non pagati (scena V, atto 3") che ritorna nel
gustoso grido finale dello Sganarello molieriano: " Mes
gages, mes gages, mes gages! ". Le parole con cui Don
Giovanni accoolie (scena V, atto 3 ) la statua intervenente
al festino, (altro motivo originale), hanno dell'allegra mil-
lanteria, in quello sfoggio generoso e ironico di compli-
menti, e in quelle scuse pel convito troppo disdicevole;
e quello svolazzo finale saturo di comicità... " Se io ha-
vessi creduto, o Convitato, che tu fosti venuto, haverei
spogliato di pane Sivilla, di carne Arcadia, di pesci
Sicilia, ecc., ma accetta quello che di cuore ti vien pre-
sentato da una mano liberale: magna, convitalo^\
L'autore, senza coerenza, picchietta di colore ora questo
ora quell'aspetto di tipo, secondo che gli viene a tiro di
penna: radunare le sparte membra in organismo di vita,
gli importa poco.
Un altro particolare di gran fortuna nel teatro dongio-
vannesco italiano, e omesso da Molière, è quello della
lista che, nella scena Xlll del 1" atto, Passarino lancia
laconicamente alla desolata Rosalba. La commedia del-
l'arte trova in esso uno dei più vivi cespiti di riso, e lo
scenario, conservatoci dal Gueulette, del 1 662 stabilisce
che questa lista sia un "long rouleau de parchemin" che lo
Zanni getta "au milieu du parterre et il en retien le bout".
Dall'accenno fugacissimo a questo tratto scenico, che
— 128 —
è nel Cicognini come di cosa già nota (" Lo Zanni getta
la lista" e nient'altro), io m'induco a credere che la tro-
vata non ne sia dell'autore di questo Convitato, come
cronologicamente si verrebbe a supporre.
Questo simbolo è di una mgenuità così espressiva e
mimica che mi pare certo nato dall'anima popolare; credo
debba trovare origine in qualche scenano che primiera-
mente deve aver introdotto m Italia la commedia di Tirso.
Ma qui è il ginepraio delle controversie sulla trasmigra-
zione prima del Convitato in Italia, questione su cui tor-
neremo.
Per ora consentiremo che il tratto della lista è l'ag-
giunta più personale e graziosa che abbia fatto l' Italia
alla leggenda ; tanto che in essa è rimasta innestata. E
uno dei pochi lazzi della commedia dell'arte, che chiu-
dano involontariamente un nodo di pensiero e un certo
spéizio di emozione sotto il fiocco facile dello scherzo.
Lo scenario del 1 662 è il primo Convitato della com-
media dell'arte, conservatoci nella traduzione francese di
Tommaso Simone Gueulette, che lo riporta in Recueil
de sujets des pièces tirées de V Ilalien, seguendo le note
fornitegli da Domenico Biancolelli che vi rappresentava
la maschera di Arlecchino.
Nel gennaio e febbraio del 1658, al Petit Bourbon
di Parigi, sappiamo dal Gueulette che un Convitato era
recitato dalla compagnia di Giuseppe Bianchi, con la
maschera di Trivellino, attore Domenico Locatelli; e
suscitava un immenso successo.
Si può credere col Moland che lo scenario che ab-
biamo sia molto simile a quello precedente, ma in verità
nulla è preciso.
— 129 —
Ne pare che lo scenario stesso del 1658 sia il primo
italiano ; che le compagnie spagnuole che ai primi del 600
passeggiavano l' Italia, avrebbero dovuto portare nel loro
repertorio la commedia di Tirso, seguendo le supposi-
zioni più spontanee. Il Bévotte (3) per mettere un pò* a
posto le cose, tenta una ricostruzione ingegnosa. Angelo
Costantini detto Mezzetin, nel 1695, nella Vie de Sca-
ramuche, dice che questi esordì a Fano in Romagna,
col Convitato, preferendolo " per il pasto che vi si fa ".
Ora, pel suddetto critico, — poiché il Gueulette dice
che Tiberio Fiorelli esordì a 20 anni, ed essendo esso nato
nel 1608, — ne verrebbe che un Convitato scenario
dovette essere recitato in Italia approssimativamente
nel 1633.
Che si tratti di uno scenario il Bévotte lo deduce da quel
pasto, che non avendo importanza in Cicognini, è invece
replicata occasione a facezie negli scenari, a giudicare da
quello citato del 1662. La conclusione è verosimile e
comoda, sebbene la notizia del Mezzetin non sia di quelle
che recidano il nodo, ne la sua biografia un modello di
verità storica. L' emigrazione dongiovannesca sarebbe
dunque avvenuta così : la commedia di Tirso, prima di
essere importata sulle scene italiane, e probabilmente
alla corte del Reame di Napoli (a Napoli esce la com-
media di Giliberto), era già nota in Spagna col nome
abbreviato di Convitato, — ciò che sappiamo (v. nota 3
alla terza parte di questo lavoro). Venuta poi l' imitazione
del Cicognini, questa incorpora in se il primo scenario ita-
liano forse derivatone, e se ne perde traccia; riappare tra-
verso al Cicognini, nel nuovo scenario del 1662, che da
lui e non da Tirso ripete quegli echi che sembrerebbero
riallacciarlo al Burlador. Nessun scenario anteriore al Ci-
9 — F. FuÀ, Don Giovanni.
— 130 —
cognini è stato trovato però, che possa dare l'indiscutibilità
a questa opinione (4).
Ammettendo l'esistenza di uno scenario anteriore, la
scena del duello buffo tra il padrone e il servo, quella
degli indovinelli, il particolare della lista, la scena del
bando e le seguenti che dal Cicognini si ripetono negli
scenari successivi, avrebbero in quello verisimilmente la
paternità.
Un'altra supposizione, che riporteremo prima di pas-
sare allo scenario conservatoci, fa il Bévotte, preceduto
dal Werner e dall' Engel, per il Convitato di Onofrio
Giliberto. Questa commedia andata perduta, egli la rico-
struisce dalle commedie gemelle di Dorimond e di Vil-
liers (5), per dichiarazione di quest'ultimo, tratte — (egli
dice della sua, tradotta) — da un originale italiano. Poiché
esse non possono essere traduzioni dal Cicognini ne dallo
scenario, non resta che risalire, quando'non si vogha non
prendere sul serio il termine " traduit de l' italien " del
Villiers, al Giliberto. Pertanto è vero che il tipo don-
giovannesco che sarebbe del Giliberto, si differenzia da
quello che ci appare, prima dell' influsso di Molière,
per caratteristiche italiano : nei due francesi, nel secondo
più precisamente, si fa il ribelle per volontà, l'indivi-
dualista contro ogni legge :
le feu de mes jeunes années
Ne peut souffrir ancore mes passiona bornées
(E al padre):
Je ne vous connais plus, ny ne vous veux connaistre,
Je ne veux plus souffrir de pére ni de maistre;
Et si les dieux voulaient m'imposer une loy,
Je ne voudrais ny Dieu, pére, maistre, ny Roy.
(Atto 1°, Scena V).
— 131 —
Caratteri questi, che anche dopo il Molière, l' Italia non
pensò di regalare tanto presto, mi pare, al cavaliere d'amore.
L' Italia aveva alcuni tipi di rivoltosi, di refrattari (Leon-
zio, Aureho), sfruttati dalla chiesa per metterli alle gemonie
pubbliche in qualità di salutari ammonitori: ma aggiun-
gere questo carattere a Don Giovanni, non le venne m
mente, accettato avendolo più che altro in grazia del
comico che vi trovava, e di questo quasi esclusivamente
compiacendosi. Anche nel Ferrucci, il cui Don Giovanni
si attenta a delle comiche e comode professioni d'incre-
dulità, queste sono più che altro espressioni umoristiche ;
nulla del passionato e vulcanico che sarebbe irr Giliberto,
il quale, ammessa per sua tale concezione originale, non
parrebbe strano che passasse senza fama ne orma in Italia,
e che ove il Cicognini e il Ferrucci dettero origine a scenari,
da lui non fossero derivate che quelle due scioccheriole
di particolari nello scenario del 1662, secondo immagina
il Bévotte (op. cit., pag. 133)?
Tant'è, ripicchiando: l'Italia, non amante delle tinte
rosse, non le venne fatto di prendere sul serio il tipo di
Don Giovanni ; accoltolo per caso durante l'allagamento
di soggetti spagnuoli che invase il teatro, ci si divertì per
le arguzie e il meraviglioso. Niente altro. Anche dopo
Molière e Rosimond, il Goldoni non vede nel suo Don
Giovanni che un dissoluto di dubbio genere, e tentando
il tragico, inciampa in un brutto comico.
Fertanto questi i tratti propri al Convitato del Giliberto,
che il Bévotte estrarrebbe dal confronto delle due com-
medie francesi premolieriane :
Abolizione o quasi della parte comica; tentativo di
rappresentazione di un carattere ; espressione di un liber-
tinaggio teorico, oltreché di costumi; una tal raffinatezza
— 132 -
perversa, ai personaggi italiani non comune (atto 1°,
scena III, del Villiers). Quanto ai personaggi, sarebbero
esclusi 1 due Re, la duchessa Isabella, il marchese Della
Mota, lo zio di Don Giovanni, il Ripio di Tirso; gli
altri nomi, mutati : Don Gonzalo in Don Fedro, Ottavio
in Don Filippo, Catalinon in Filippino, probabilmente
come in Villiers : stando con Dorimond, in Brighella.
Lo scenario del 1662 riportatoci, oltre che dal Gueu-
lette, dal Boulmiers, dal Cailhava, dal Castil-Blaze (6),
varia, ma non essenzialmente, traverso le varie redazioni.
E in cinque atti. S'inizia il \° atto con una scena in cui
Arlecchino e il Re s' intrattengono sulle sregolatezze di
Don Giovanni ; Arlecchino spera che con l' andar del
tempo egU metta giudizio e, richiesto dal Re, gli racconta
la storia della regina Giovanna, una delle tante del suo
repertorio. La scena cambia: in una strada di nottetempo
con la lanterna in cima alla spada, Arlecchino va in cerca
del padrone, con cui ha il duello buffo che già vedemmo
nel Cicognini. Viene poi il duca Ottavio con Pantalone
il quale, mentre i due padroni conversano ha loro, è fatto
bersaglio alle facezie di Arlecchino: riverenze, sberleffi,
pacche sullo stomaco, soffiar di naso nel fazzoletto di
Pantalone, pugni. Don Giovanni intanto ha tramato il
suo inganno contro la fidanzata dell'amico, e partitosi il
duca, lo confida al servo che avendo fatto le sue rimo-
stranze discrete ne ricava un ceffone, poi viene posto di
sentinella alla casa della vittima ed è lì che lo ripighano
gli autori Bertati e Da Ponte. Dopo l'uccisione del com-
mendatore e il bando del Re, ecco la scena buffa già
veduta nel Cicognini fra Don Giovanni e il servo ; poi
travestimento reciproco. Gli sbirri sopraggiungono mentre
— 133 —
Arlecchino è solo, tentano corromperlo con l'oro che lui
non rifiuta, mettendoli però su una falsa strada.
Il 2 atto inscena l'avventura con Rosalba, con tutti i
condimenti delle buffonate di Arlecchino che finisce col
cadere sul suo di dietro facendo crepare una delle ve-
sciche che, uscendo dal pelago, aveva intorno alla vita:
"Bene, ecco il cannone che spara in segno di festa!".
Don Giovanni mentre giura a Rosalba la purità delle
sue intenzioni ha un accenno che richiama al Burlador :
— Se io mento m'uccida un uomo di petra — .
Compiuto r inganno, è la volta del rouleau de parchemin
che Arlecchino lancia alla pescatrice, la quale, poiché
questi si accinge a iscrivervi il suo nome, disperata si
getta in mare.
Avviene nel 3" atto il rapimento di una villigiana mo-
strataci prima in atto di bezzicare amorosamente col suo
damo cui Don Giovanni regala del nome di Cornelio.
— Ma non è il mio nome! — Lo sarà ben tosto! — Ha
poi luogo la scena della statua del mausoleo ; l' invito
fatto dal servo per comando del padrone è ripetuto da
questo; inserita è una finzione di pentimento giocata da
Don Giovanni e che si risolve in un calcio ad Arlecchino
che l'ha presa sul serio. (Converrà ripensare alla scena li
dell'atto 5*^ di MoHère: Don Giovanni che tenta con
buon esito l'ipocrisia?).
Al 4" atto nuove rimostranze di Arlecchino al padrone,
cui racconta la favola dell'asino carico di sale e dell'asino
carico di spugne e quella del Cochon de lait, che fanno
tanto effetto sul padrone, da farlo di nuovo dichiarare
pentito. Arlecchino si butta in ginocchio a ringraziare
Giove, ma il brusco risveglio di una pedata a posteriori
lo convince che si tratta di una replica dello scherzo del
— 134 —
3° atto. E una ridda di razzi umoristici scoppiettano nel
corso della scena, in cui tra un boccone e l'altro Arlec-
chino solletica il debole del padrone con allusioni a un
suo amorazzo con una vedova ; versa la saliera, l'oliera,
mette il suo cappello sulla testa di Don Giovanni. Lo
Zanni di tutti questi lazzi sceglieva tanti per ogni rap-
presentazione, prolungando questa a piacere suo e del
pubblico. La seconda cena che occupa il 5 " atto è meno
diffusa della prima : Arlecchino riprende le barzellette di
Catalinon a proposito della tovaglia, sulla mensa funebre,
testimoniante l'assenza del lavandaio..., dei cibi poco com-
mestibili; e lo scenario termma senza la scena dei demoni.
L' importanza di questo scenario sta nell'esser il primo
in ordine di tempo che conosciamo per la traduzione
francese. La derivazione dal Cicognini è palese ; ma
anche le magre linee del rifacimento cicogniano sono
dirotte dal ridicolo che imperversa e spadroneggia.
Del Burlador direttamente e' è poco in apparenza,
nulla in sostanza : le facezie del mare che avrebbe almeno
potuto contenere tanto vino per quanta acqua (JBur., atto I ",
scena Xl), dei piatti che Patrizio lamenta che Don Gio-
vanni non gli abbia permesso di toccare (atto2", scenai),
— particolare che nello scenario è trasposto all'atto 4 e
messo in azione da Arlecchino — , della tovagHa non di
bucato (atto 3'\ scena Xlll), e gli ammonimenti tentati
dal servo, sono affinità di troppo poco momento per con-
cluderne un qualsiasi influsso diretto, seppure non con-
vinca meglio risalire allo scenario ricavato dallo spagnolo,
che si è presupposto, o caricare addosso allo Zanni
stesso che faceva raccolta di lepidezze, la colpa di inven-
tore di queste non proprio gemme di arguzia, fors'anche
pervenutegli di seconda mano.
— 135 —
Col Giliberto specificamente il Bévotte che ormai sen-
z'altro ne estrae il Convitato irreperibile, come una radice
quadrata, dalle due commedie francesi che ne derive-
rebbero riscontrerebbe nello scenario queste attinenze :
la soppressione dell'episodio di Isabella; l'idea di un
moto di pentimento sincero in quelle, finto nello scenario ;
il racconto intorno alla vedova. Ma chi dice che questi
elementi non discendessero piuttosto dai due francesi
semplicemente? E chi dice che essi per trovarsi nello
scenario del 1662, fossero anche in quello del 58?
Dal Cicognini deriva l'opera tragica in prosa di Andrea
Ferrucci, dello stesso titolo, che rappresentata nel 1 678
e ripresa nel 1684, riapparve rifusa nel 1690, — il nome
dell'autore anagrammato in Enrico Prendarca(7j.
Il drammatico vi s'avvantaggia sul comico, che pure
non n'è escluso, e a Don Giovanni è aggiunto il tratto
di un epicureismo spicciolo e arguto che avviva alquanto
la scialba figura sgorbiata dal Cicognini. Del resto, rara
com' è, questa commedia è stata poco curata, perchè mal
nota a chi non possa disporre dell'edizione del 1 706
che si trova nella Biblioteca Universitaria di Bologna ;
e i due nostri che si occuparono di ricerche dongiovan-
nesche (Brouwer e Farinelli) non ce ne dicono che l'uno
niente, l'altro poco.
Resterebbe anche in questo di attaccarsi al volgare
espediente del questuar da estranei notizie di casa pro-
pria, di chieder lume al Bévotte che diffusamente ne
parla, intorno a una commedia che non sarebbe mestieri
uscir di patria per ritrovare.
Chi scrive in ogni modo non ha avuto bisogno di ri-
correre all'edizione del 1 706, poiché nella Biblioteca
— 136 -
Vittorio Emanuele di Roma ha trovato una redazione
anonima molto posteriore, ma poco variante, e di cui non
gli consta che altri si sia valso.
E del 1848, stampata presso Giuseppe D'Ambra a
Napoli, e porta sul frontespizio : " Nuovo Convitato di
Pietra ovvero Don Giovanni Tenorio " e sotto : " con Pul-
cinella servo di un padrone impertinente e spaventato da
una statua che parla e cammina. Opera tragica " . Data
la difficoltà di studio che presenta la commedia perruc-
ciana, poterla conoscere attraverso una redazione tanto
simile all'originale, non è vantaggio disprezzabile. E la
unica differenza di qualche rilievo con l'edizione che è in
Bologna, è che il servo Co viello che in questa è al seguito di
Don Giovanni, nella nostra redazione passa agli ordini del
duca Ottavio che aveva nell'altra per valletto PolHcinella,
che ora diventato Pulcinella, migra sotto il regime di Don
Giovanni. Alla pescatrice misantropa torna il nome origi-
nale di Tisbea, ciò che mostra aver il Perrucci attinto
anche a fonte spagnuola. E, vista di presso, la commedia
perrucciana non è quel mero ricalco cicogniniano che pur
sembrerebbe al Bévotte, la miserella trama del poeta di
Prato essendosi per lo meno rimpolpata di sceneggiatura
doviziosa, fatta in taluni punti viva di drammatico pretto ;
allo sgranellamento di rosario delle scene minute sosti-
tuendosi talvolta un andar sostenuto di teatralità esperta:
gioco di luci non sempre falso ; nobiltà di dicitura non
sempre del peggior seicento.
Tra le immagini ve n'hanno troppe, sì, di ridicole e
di un ridicolo da Achillini e Preti. Es.: atto I ", scena II.
Parla il Re a Don Giovanni dopo il soHto spegnimento
del lume : " Se mi smoi-zasti il lume, maggiormente ac-
cendesti nel mio cuore lo sdegno, mentre maggiormente
— 137 —
l'ombra dei tuoi tradimenti dissolverà in pioggia collo
spargimento del tuo sangue, il sole della mia maestà of-
fesa". In compenso, qualche immagine gustosa, taluna bella:
atto 2'', scena IV, di donna Anna è detto: " Mostra dei
labbri le rose ed ecco una primavera la riconosci " . Fa
ripensare all'altra immagme simile che sa di cieli napo-
letani corsi di canzoni, del Della Porta, in uno dei passi
in cui è quasi grande: "Tu non sei il fiore che nasci a
tempo di primavera, ma a suo dispetto la primavera nasce
dove tu sei " {La Fantesca, atto 1 ", scena III). Piacevol-
mente ridicola sì da far quasi opportuno il secentismo
accoltovi, tal altra: atto 3 , scena V (il duca Ottavio dà
uno schiaffo a Pulcinella che gli ha denunciato il pa-
drone): " E perchè dubito che non ti dimentichi l'amba-
sciata, resti registrata sulla carta del tuo volto colla penna
di questa mano".
Le più salienti varianti alla commedia cicogniniana
sono : 1 ° atto — Don Giovanni si getta dal balcone della
reggia e va a cadere quasi addosso al povero Pulcinella
che andava in traccia di lui (scena V) — Pulcinella
giuoca la parte dello sbiiTO, approfittando del buio, e
sperando spillare un po' d'oro al padrone (stessa scena)
— Tisbea ha una serva Rosetta cui fa gli approcci Pul-
cinella ma senza riuscita (scena Xlll) — Tisbea si getta
in mare, mentre Don Giovanni fugge (scena XV).
Di queste quattro diversioni, la prima e quarta mi
consta sieno esclusive a questa redazione.
2" atto — Lettera di Donna Anna, non più come in
Tirso, consegnata a Don Giovanni perchè la trasmetta
altrui, ma datagli perchè fattosi passare per duca Ottavio
(scena V) — Imprecaizioni dolorose del commendatore
morente (scena Xl).
— 138 —
3° atto. — Delazione di Pulcinella e ceffata del duca
Ottavio (scena V). Scena del tempio inviolabile, ripresa
dal Goldoni nel suo 5" atto.
11 carattere dongiovannesco è toccato e suscitato da
più punti. Allo zio (atto 1 ", scena 111) che lo rimprovera del-
l'offesa alla Duchessa : — "Fu reciproco il diletto ". Alla
duchessa Isabella, che l'incalza, avvedutasi, con la do-
manda: " Chi sei? ", — racconta la vittima (scena IV)
egli ha detto chiamarsi il diavolo. Pulcinella altrove con-
templa dal suo angolo visuale la stranezza del padrone
(scena V): " ma pò quando se vedo nnante lo mmagnare
se scorde de essere nnamorato e l'afferra la lopa ".
Si ritrova l'ombra molieriana sulle parole di Don Gio-
vanni, esprimenti il rancore procuratogli dalla corrispon-
denza di amorosi sensi tra il duca Ottavio e la duchessa
Isabella : " Quanto più li scorgo accesi, tanto più predo-
mina in me il desiderio amoroso ". (Scena Vi).
È diventato il capriccioso rompicollo, che già ha di-
chiarato un po' prima : " Per soddisfare i capricci miei -
Al centro ancor precipitar saprei " (scena II stesso atto).
" Corre sul destriero del suo capriccio a briglia sciolta ".
Quanto a Dio, ha ben altro a pensare, Lui, che all'ine-
zie mortali. " Il cielo? che altro, se non un composto di
materia, come noi, e con le sue imperfezioni e tacche-
ielle, come noi? ". (Atto 2", scena Hi).
Nella scena XV del 1" atto, si mostra ingenuamente
feroce. ATisbea, che gli ha ricordato la promessa di pren-
derla per sua moglie : "Aspetta che mi ammogli e ti pren-
derò per mia moglie, ossia per serva di mia mogHe ". Il duca
Ottavio non riesce a comprendere che razza di uomo sia il
suo antagonista (atto 2\ scena XVI): " Cupido, che per
l'oggetto amato lega dell'amante i cuori e i sensi, come
— 139 —
è possibile che in un medesimo tempo dia volontà ad un
volere per diversi oggetti?". Domanda a cui durerebbe
un pezzo a trovare risposta.
Il resto aggiunge poco al carattere, e alla trama.
Ma i gemiti del commendatore (atto 2', scena XI) me-
ritano di essere ricordati per la vivacità sofferente dell'e-
pressione :
Ferma, barbaro, ferma
Torna, torna a ferirmi
Che, benché semivivo.
Avrò forze bastanti
Di accompagnare al fine
Con la tua morte ancor le mie rovine.
Già l'anima s'affretta
All'uscir dal mio sen, né fo vendetta.
Versi, l'ultimo specialmente, efficacemente singhioz-
zati. Questi starnazzamenti di poesia, che stan per essere
il levar di bollore della prosa mossa, già in Cicognini più
parcamente in uso (ma tanto da infastidire), son divenuti
qui frequentissimi, ma assai più tempestivi e soddisfa-
centi. Talora paiono il necessario canto dell'emozione
esasperata.
L'ultima scena d'Inferno è piena di significato. 11 pec-
catore geme le sue torture. Comincia con lo stupore della
caduta nel baratro: "Ove sono? ove caddi?". Poi la
percezione del tristo lezzo, dell'atroce tormento : " Che
puzzo, ohimè che fuoco ", che si fa disperazione irre-
frenata moltiplicante gli oggetti del suo martirio : " Che
basilischi, che sibili, che rasoi, ecc. ". Poi chiede paz-
zamente il tormento : il dolore che non trova più requie
che in se stesso : " Moltiplicate ognor flagelli e scempi ".
— 140 —
Dalla commedia di Tirso, in conclusione, a questa, si
può ricostruire un processo di semplificazione degli ele-
menti di intreccio, oltre a quello ideologico, che fu osser-
vato. In Tirso, i quattro episodi delle burle sono senza
legame tra loro, ne coi personaggi, oltre quello della ne-
cessità scenica: arte più primigenia. Nel Cicognini vi è
già l'identità del personaggio - vittima nella prima e terza
burla ; l'azione tende a ridursi, com'è proprio del rima-
neggiamento, che in compenso dilata i particolari super-
flui ; nel Ferrucci, un unico filo scenico unisce prima,
terza e quarta burla, poiché l'indemoniato beffatore co-
mincia col padrone e finisce col servo ; all'uno gioca la
prima e terza, all'altro la quarta burla col rapimento della
sposa Pimpinella.
La commedia del Ferrucci non fu inavvalorata nel
successivo svolgersi dejla leggenda. Nel 1897 fu sco-
perta dal Croce e depositata alla Nazionale di Napoli
una raccolta di scenari in due volumi della fine del 600,
contenente nel secondo volume, 14° nella numerazione,
un Convitato, che il Brouwer studiò nella Rassegna cri-
tica della letteratura italiana (giugno dello stesso anno).
E palese derivazione del Ferrucci con molta dovizia
di particolari e personaggi. Tra le scene aggiunte, una
fia Tartaglia e il Dottore, dopo la visita di Don Fietro
mandato dal Re al duca Ottavio ingiustamente incolpato
della violenza alla duchessa Isabella ; un'altra fra Foz-
zolano e Follicinella dopo che Don Giovanni si è riti-
rato con la pescatrice ; gran copia di lazzi e comicità
profusa.
Altro scenario dongiovannesco posteriore in tempo al
precedente, benché senza data, rinvenne il Brouwer
— 141 —
nella raccolta in cui è compreso l'Ateista. Molto ridotto,
somiglia al precedente (8), e il Bévotte lo fa derivare
pure dal Penucci ; mi pare veramente si riconnetta al
Cicognini. Lo zanni è qui Zaccagnino ; i due contadini,
che nel precedente scenario eran senza nome, vengon
battezzati Capellino e Spinetta. Il commendatore è Don
Gonzal d'Uglion. La denuncia del servo contro il pa-
drone (terzo atto) volontaria nel Ferrucci, inavveduta nello
scenario precedente, manca. Così pure manca il suicidio
della pescatrice. La smorta figura di Don Giovanni è
fuggevolmente punta di vivo, quando il Re pone la taglia
a trovare il reo dell'uccisione di Don Gonzal, e " Don
Giovanni intende e se ne ride ". Al 3" atto Zaccagnino
gli riferisce che il duca Ottavio ha dichiarato di voler
uccidere il reo, e Don Giovanni gli dà uno schiaffo.
Nella scena finale, a differenza che altrove, sono i dia-
voh che in coro cantano al dannato abbrustolendolo :
delle due quartine finali, la prima è estranea alla canzone
dei diavoli e allegorica dell'epicureismo che ha fatta la
colpa del dannato :
lo godo il mondo con gioia e diletto
Prendendomi ad ognor spasso e piacere,
E pure che adempisca il mio volere,
D'altro poco mi curo il mal effetto.
Del 1 870 è ancora una redazione anonima, " a norma
dell'originale", della poco... esemplare opera esemplare
del Cicognini, stampata in opuscoletto, a San Fermo, in
Fadova: unica differenza notevole, la sostituzione di Truf-
faldino a Fassarino.
Così come dalla distesa trattazione fattane appare,
nella commedia italiana, il tipo dongiovannesco si era
— 142 —
venuto acclimando e modificando. La concezione spa-
gnuola vedeva nella leggenda ed esprimeva nel dramma
il pio miracolo della giustizia divina pronta, ove l'umana
è tarda, a romper le leggi terrene per manifestarsi incon-
futabilmente. Per reo sceglieva non un sanguinario in se
chiuso, da cui poco allettamento sarebbe derivato alla
bellua multorum capitum di Orazio (mallevadore lui !),
per la quale ove manchi l'elemento amoroso poca attrat-
tiva ha la scena, vi siano tutte le Zaire di questo mondo !
Scelse anzi l'amoroso-tipo, colorando e definendo il
dramma ciò che la leggenda portava m se come possibi-
lità d'arte ; scelse il molto amato, facendo rotare intorno
al pianeta Don Giovanni tutti i satelliti delle donne e
degli uomini ingannati.
La concezione italiana è invece subito presa di un'altra
veduta più consona alla sua curiosità.
Libertini, amorosi non mancavano oltre che alle nostre
leggende popolari, neanche alla nostra galleria letteraria,
dal Decamerone ai personaggi aretineschi; quale interesse
in un cavaliere Sivigliano che ha del tempo e delle donne
da perdere e dei rivali da cuculiare allegramente ?
Perciò Don Giovanni, nella nostra commedia del
tempo, poco gli si bada. Gli è rimasto il nome, lontano
ricordo della figura di Tirso, ma perì di lui gran parte.
Perciò alla statua-portento si rivolgono e incatenano le
attenzioni. El hurlador de Sevdla y concidado de piedra
si è fatto semplicemente Convitato di Pietra. E poiché
il miracoloso e il comico, come il sublime e il ridicolo,
sono divisi da una sola linea, ecco alla strabiliante statua
importantissima si accompagnano i non meno importanti
sgangasciamenti degli zanni. Ecco che Arlecchino passa
avanti a Don Giovanni.
— 143 —
E. qui, mi pare, la genesi trasformativa di Don Gio-
vanni m Italia.
Quanto più il soggetto dongiovannesco furoreggiando
impaludava nella commedia dell'arte, tanto più il Gol-
doni, riserbato a sconfìggere tale genere comico, doveva
essere piccato di tanta popolarità. Nel dicembre 1735,
racconta nelle sue Memorie (voi. 2, cap. 39, 38), era
stato preso in trappola dalla civetteria dell'attrice Eli-
sabetta Passalacqua, sua amante, che gli preferiva di na-
scosto il primo attore Vitalba ; oltraggiata da lui pel tra-
dimento, memore della ribalta, gli giocò la parte della
disperata e, fìngendo di volersi uccidere, lo commosse
tanto da indurlo non che a perdonarla, a chiederle per-
dono. Del che quella poi se la rideva con l'altro amante.
Qui il motivo di una commedia che il Goldoni non
avrebbe nulla perduto a non scrivere. Il carnevale del-
l'anno appresso andava in scena a Venezia il Don Gio-
vanni Tenario ossia il Dissoluto (9).
Il Goldoni si vanterà poi (Memorie, voi. 2, cap. 39)
di aver fatto regalo alla patria di questo soggetto che
pure, non lo nasconde, non gli è mai stato simpatico ;
confessione in cui può anche vedersi una scusa. Già la
commedia ha un vizio organico, volendo essere una ven-
detta personale in azione: cosa pericolosa.
Le grandi vendette dei grandi intelletti sulla lor sorte o
sugli uomini sconfinano sempre dalle quattro mura del fat-
terello personale che può averle originate ; il risentimento
specialmente del vinto deve esser passato per molte tra-
file, prima di purificarsi in arte; si pensi a\Y Aspasia, o se
si vuole, al Corbaccio. Ora, il dispetto del Goldoni che
gemica fuori da tutti gli interstizi della fragile tela, è vera-
— 144 —
mente greggio e di qualità inferiore : e le proporzioni tra
l'episodio essenziale alla sua intenzione e il soggetto es-
senziale alla sua opera sono così mal tenute, che quello
prende talora il posto di questo: donde esce un tale stra-
bismo logico di sgradevolissimo effetto. Ma prescindendo
da ciò, il Goldoni non avrebbe saputo darci un Don Gio-
vanni vivo e vero. Grande nel cogliere la vita multipla e
varia, nel suo brulicare (Le baruffe chiozzote, Il Ven-
taglio), ma più fotografo quasi che pittore, raramente con-
ficca il suo bulino oltre la superfìcie delle sue figure, pur
illudendo talora, per gioco di prospettiva, a un qualche bar-
lume di psicologia, (come nella Locandiera, in cui Miran-
dolina potrebbe anche passare, con molta condiscendenza,
per una specie di Don Giovanni femmina) ; e questo è che
più lo differenzia dal suo maggiore in tempo e arte Poquelin.
Squallida la concezione dell'amore, in tutta l'opera del Gol-
doni, a confronto delle figure molieriane soffuse di femmi-
nilità: Elise, Marianne, Henriette, Angélique, MéHcerte.
Il Cicognini senza nessuna pretesa psicologica (ohibò!)
aveva aromatizzato di comicità la sua scarna operucola.
Goldoni toghe, come disdicevole, anche l'elemento co-
mico, sacrifica lo zanni. La commedia avrebbe potuto
reggersi per un tal efflato di fiabesco cui giustamente sa-
rebbe parso al Farinelli più atto Carlo Gozzi. Il Goldoni
non se la fa col meravigHoso, taglia la parte leggendaria,
lascia le statue sul loro piedestallo. Ove poteva rifugiarsi
un valore qualsiasi della commedia? Illudendosi di am-
morbidire la rappresentazione del vizio, la condisce di
versi ah ! quanto poco molli. La chitarronata si riduce
ad una peu^odia involontaria, la peggiore delle parodie.
Uno schematico riassunto per fermare questa diserzione
di Don Giovanni dalla leggenda :
— 145 -
Don Alfonso, ministro del Re di Castiglia, annuncia
a Donna Anna davanti al padre di lei, che il Re le ha
destinato, sposo, il duca Ottavio ; — malcontento della
fanciulla. (Atto 1").
Don Giovanni (fuor di metafora, il Vitalba) sfuggendo
ai banditi, s'imbatte nella campagnuola Elisa (la Passa-
lacqua) amorosa di Carino (il Goldoni), e non stenta ad
appiccarle amore. La duchessa Isabella, tradita da Don
Giovanni a Napoli, è intanto arrivata in Castiglia, sotto
maschili spoglie, dietro le orme del traditore : il duca
Ottavio le offre protezione. Qui è la scena che stava a
cuore all'autore, fra Carino che ha visto, e Elisa che non
può negare (scena VII) : questa simula il suicidio e quegli
si intenerisce. (Atto 2").
Isabella s'incontra con Don Giovanni e vuol a forza
battersi con lui ; entra il commendatore, e Don Giovanni
riesce a farla passare per pazza davanti al commenda-
tore e poi a Don Alfonso. Elisa intanto raggiunge Don
Giovanni (è il seguito dell'avventura del Goldoni). Ca-
rino interviene; e quegli, che non gli parvero, gliela
rende ; l'ingannato prende la rivincita lasciandola in asso
anche lui. (Atto 3").
Don Giovanni, invitato a cena dal commendatore, in
una sua momentanea assenza, attenta alla figlia e uccide
in duello il commendatore sopraggiunto (atto 4").
Don Giovanni si è rifugiato nell'atrio immune, inse-
guito dalle guardie. Elisa viene a porgergli il mezzo di
scampare, ma sopraggiunge Isabella reclamante vendetta
ancora. Per salvarsi. Don Giovanni chiede di sposare
Donna Anna, che non rifiuta, — quando ecco, svelatosi
l'inganno di Napoli per l'arrivo di un mandato di cattura
da parte del Re di Napoli, il colpevole viene abban-
10 — F. FUÀ, Don Giovanni.
— 146 —
donato ai suoi furori che gli attirano il fulmine definitivo
(Atto 5").
Goldoni ha ricordato Molière, ma credo estempora-
neamente, in un'opera, come la sua, di primo getto. L'epi-
sodio campagnuolo di Mathurine e Pierrot gli ha forse
avvivata l'intenzione di portare sulla scena i casi suoi,
apprendendogli il modo di trasvestirli; l'inseguimento mo-
lieriano di Elvira e dei fratelli Don Carlos e Don Alonso
(lo stesso particolare dei briganti!) si è ridotto all'altro
alquanto volgare di Isabella vestita da uomo, con tutti i
suoi duelli da Clorinda a spasso : una specie di sovrap-
posizione confusionaria forse per la fretta e la poca cono-
scenza che allora il Goldoni aveva del francese.
Dei due argomenti mal amalgamati (il libertinaggio di
Don Giovanni, e la leggerezza di Elisa), questo come
più sentito, è di gran lunga meglio espresso. La furberia
della campagnuola piglia talora degli aspetti di verità
che aggraziano anche il verso quasi sempre interito:
confrontare, nella scena VII dell'atto 2", di rimando alla
domanda di Carino che cosa facesse, la grazia mimetica
della menzogna di Elisa, in versi nei quali il Goldoni par
contraffare quella voce blanda, che doveva essergli ri-
masta dall'ira calcata nel cuore.
La candida cervella a me sì cara
Belar intesi, a lei corsi Iremanle,
Qualche mal dubitai non le avvenisse...
Manifesto, il gusto dell'assaporare la illusoria nemesi,
quando sulla fine del 3 ' atto la ingannatrice resta priva
di entrambi gli amanti (scena XIV).
Nella n scena dell'atto 5" il Goldoni pensò, credo,
alla situazione simile dell'atto 2", scena IV di Molière
— 147 —
(le due donne contendentisi l'amato) ; ma o la volontaria
astinenza dal comico o V insufficienza dei mezzi scenici,
che il verso gli impaccia, non ve lo fece intrattenere.
Elisa è certo il personaggio migliore : tipo di calcola-
trice sulle passioni altrui e ingenuamente crudele, sebbene
alla fine cada nella sua tagliola, — ciò che l'autore non
avrebbe desiderato di evitare almeno sulla scena, — si
può dire che nelle poche scene, si manifesti più dongio-
vannesca di Don Giovanni.
Il quale è del tutto sbagliato : il Goldoni è rimasto a
galla : il sotto-titolo, il ^Dissoluto, già lo diceva. Le rei-
terate assillanti parentesi, quelle riflessioni in disparte,
sono — all'autore non passa pel capo! — una gravissima
mancanza psicologica, anche chi sia preparato a molto
indulgere ai difetti della scena d'allora in generale, e del
Goldoni in particolare ; in quanto che questo sublineare
commento, questo onghamento interiore in mezzo al di-
scorso, che è purtroppo frequente nelle commedie del Gol-
doni, se è fastidioso e irreale altrove (nei grandi autori appar
sempre meno), è assurdo qui nel carattere di Don Giovanni,
in cui l'azione deve essere a detrimento della riflessione
massimamente parlata, come consumatrice dell' impresa ;
ne c'era bisogno di studiare troppo la psicologia del tipo,
per questo. Don Giovanni che annota in calce i suoi pensieri
è come il poeta che faccia il commento estetico alla poesia
che viene creando : entrambi non si reggono ; ma entrambi
in verità mettono avanti e lasciano che altri per se si cibi ;
e se potranno nature complesse (non certamente il Don
Giovanni italiano del 700, così unicellulare) commentare
parallelamente la propria azione (Lovelace), come il poeta
può, sì, guardare oggettivamente la sua opera dopo l'attimo
creativo, potranno mai esse far ciò contemporaneamente?
— 148 —
Così, ancora, il Burlador di Tirso nella scena VII,
atto 2 ', monologava fra se con molta verosimiglianza: —
" Il più gran gusto che io possa prendermi è d'ingannare
una femmina e lasciarla senza onore ". Enunciava un fatto,
semplicemente, quasi sorpreso egli stesso : il tipo colto
nel centro. In Molière, sebbene chiacchieri un po' troppo,
è conservato a Don Giovanni il carattere essenziale di
questa inconsiderazione piena di effetti, quasi semplice
complessità, che De Musset fermerà nell'appellativo di
candide corrupteur. Anche quando ad esempio (scena II,
atto 1 ") dice di essere stato frappé au coeur alla vista
del tenero amore di due fidanzati e di ripromettersi un
piacere estremo a turbarne la concordia, esso stabilisce
un fatto, da cui trarrà le sue mighori conseguenze pra-
tiche, non ne induce un'ostentazione di crudeltà, non si
tira i baffi lui stesso nella compiacenza di vedersi così
terribile. Anche poco prima, nella professione di fede
che fa a Sganarello, parla come semplificando se stesso,
piuttosto che gonfiarsi, e mostrando che quel che dice gli
sembra la cosa la più naturale. Ecco invece come questo
Don Giovanni ciurmadore (scena V, atto 3 ') calca con
le assi del palcoscenico, le roboanti parole, quasi minac-
ciose, del monologo :
Le catene d'amor io prendo a gioco
Poiché costanza nell'amor non serbo.
Amo sol quando il giovanil desio
Secondar mi compiaccio, e solo apprezzo
Quella beltà che possedere io speri.
Il verso e mezzo contrassegnati, nella loro severità
disadorna, ammetteremo con piacere che bene stringano
quel pensiero ormai comune, e da Molière già svolto in
— 149 —
molte parole, che si ritrova già in prima forma nel
vecchio epigramma di Marziale: "Galla, nega; satiatur
amor " : l' insoddisfazione del desiderio fatto realtà : era
più bello quel che si era sognato ! Pensiero che la poesia
specialmente moderna ha rosolato ai fuochi di tutti i do-
lori e di tutte le immagini ! ( 1 0).
Ma segue la prova: il f avete linguis di ogni millan-
tatore che ha ragione di temere di non esser preso sul
serio :
Piacquemi un di Donna Isabella, e quasi
Mi sedusse ad amarla oltre il costume
Ma credendo l'incauta ai miei sospiri
Sol di mia libertà mi resi amante.
Poi questo Don Giovanni diventa un ribaldo aggres-
sore quando incalza in casa sua donna Anna, che pur
propende per lui ("... ingrata forse io non sarò..."), con le
sue pretese, e ne esige senza dilazione eufemisticamente
la mano.... "o questo ferro vi darà morte". Espressioni
da macellaio avvinazzato dalle quali ogni tratto del tipo
è sparito. Meglio avvisato il Goldoni, quando nella di-
chiarazione a donna Anna sul cominciar di questa scena,
dal suo Don Giovanni faceva, al dato di fatto del suo tro-
varsi in Castiglia, addurre il motivo più lusinghevole per
la fanciulla, cui chiede amore : è venuto, come il Man-
dricardo ariostesco, solo per contemplar la bella guancia !:
ciò che venne altrove riconosciuto, come genuinamente
dongiovannesco.
Tranne questa pausa drammatica di assai dubbio gusto,
Don Giovanni, in Italia, non era uscito dalla festa piro-
tecnica dei lazzi, — in CUI la figura perdevasi di vista, —
della commedia dell'arte. La quale ormai impossessata-
— 150 —
sene, pareva contendergli per sempre l'Atlantide dell'arte
vera. Le folle plaudivano non alla figura scorciata e spesso
lasf:iata nel fondo, ma alle capriole improvvise degli zanni
che colorivano di giocondità i canovacci che, quali noi
serbiamo, non possono parerci molto differenti da quello
che, verbigrazia , ai critici venturi potranno sembrare, se
vorranno occuparsene, gli schemi delle nostre attuali
films.
Nel 1673 era aggiunto un supplemento allo scenario
del Convitato, con nuovi personaggi. Con variazioni su-
perficiali furoreggiano gli scenari di teatro in teatro : nel
1 709 alla Sala di Bologna, ivi ancora il 1 6 dicembre 1 739
(Gran Convitato di pietra); il 17 settembre 1746 ai For-
magliari di Bologna davanti alle principesse di Modena;
a Padova il 6 maggio 1738 con la nota compagnia Pel-
landi ; perfino nel 1 820 il giornale dei teatri comici re-
gistra nove rappresentazioni (I 1-19 novembre) del Con-
vitato, date dalla compagnia Perotti al San Luca di
Venezia.
Mentre " l'ebra vegliarda " sbracavasi di piene risa,
il teatro sostenuto andava per la sua ; contesogli il
territorio di Talia, si rifugia in quello di Calliope, ove il
melodramma dello Zeno e del Metastasio nel 700 col-
gono lauri. Ma quando, — declinato nella seconda metà
del secolo il ciclo eroico del melodramma metastasiano, —
l'opera giocosa, che Napoli la gioviale aveva tenuto a
battesimo già dal 1 709 o 1 7 1 0, si privilegiò i favori mu-
tati di tutta Italia, e i carnevali e gli autunni di Napoli,
Venezia, Parma, Milano, Torino fiorivano delle melodie
gioiose, onde le ribalte destituite dei nobiliari ornamenti,
forse preludevano, come un sintomo, al trionfo del terzo
stato francese ; — ecco che Don Giovanni, persuaso del
- 151 —
mutar dei tempi, passa a miglior clima nella musica co-
mica, ove veramente si ritrova il Don Giovanni italiano.
La musica ne riportava a fiore le qualità essenziali ;
senza troppo guardarlo a dentro, la musica italiana sana,
cordiale come un gaudio di fontana, ne specchiava le fan-
tasmagoriche gesta, ne avvivava l'esuberante giocondità.
Quel tipo già diventato zimbello delle sghignazzate
plebee della commedia dell'arte, ora l'opera buffa, che
non è forse la fortunata redenzione dell'umorismo popo-
lare a dignità d'arte ?, restituiva in valore, contrassegnando
di arte. la stessa leggerezza della concezione dongiovan-
nesca italiana.
Il primo ingresso di Don Giovanni nell'opera comica
è francese: (Le Tellier, 1713, al Théàtre de la Foire
Saint Germam di Parigi). La prima opera italiana è, pare
quella del 1 734 rappresentata a Briinn : " La pravità
castigata", il cui libretto e musica il Farinelli pensa di
attribuire ad Angelo Mingotti. Dopo il ballo di Glùch rap-
presentato, in Italia, per la prima volta a Parma nel 1765,
ripetuto a Torino, a Napoli, a Milano, — è del carnevale
1 777 una seconda opera comica del maestro Calegari su
anonimo libretto, data al teatro San Casciano di Venezia.
A Praga, altra opera italiana del maestro Righini su libretto
del Filistn, nello stesso tempo. Nel 1 783 al teatro dei
Fiorentini di Napoli, altro Convitato scritto dall'abate
Lorenzi e musicato dal maestro Tritto. Veniva ripetuto
a Roma al teatro della Valle nel 1787.
Nel 1 784, nuova opera a Venezia del maestro Gioac-
chino Albertini. Nel 1 787 — l'anno di grazia dei Con-
vitati, come lo chiama il FarinelH — un Nuovo Convitato
di Pietra di Francesco Gardi su parole del Poppa va in
scena al teatro San Samuele di Venezia, e a Venezia
— 152 —
stessa, contemporaneamente, al teatro Giustiniani di San
Moisè un Convitato in un atto, preceduto da un capriccio
drammatico : entrambi, par certo, (il Convitato, diversa-
mente dal Capriccio, non ne porta il nome) di Giovanni
Bertati ; con musica di Giovanni Valentini il Capriccio,
del Gazzaniga il Convitato.
Nell'autunno dello stesso anno a Roma, al teatro della
Valle, nuova opera del maestro Fabrizi sul libretto ano-
nimo, forse di Giuseppe Maria Diodati, ripetuta nel 1 788;
ad essa allude forse il Goethe nella sua lettera allo Zelter
del 17 aprile 1815.
Giudicandoli così spogli della musica, i magri libretti
paiono battere i denti ; ma lo stesso comico non è più
scurrile, l'umorismo è più sano, che non nell'altre già note
sguaiataggini da atellane ! La parte del servo è limitata
a più giuste proporzioni: Don Giovanni, dalla stessa mu-
sica che è virtualmente nella volubilità del verso, come
in ali il volo, par trascinato insensibilmente di amore in
amore come di canto in canto.
Il libretto del Lorenzi in un atto, conservato in due sole
copie nel conservatorio di San Pietro a Majella, odora
dei ricordi del Ferrucci ; da lui e non dal Burlador, come
pare al Brouw^er che lo riassume esaurientemente, è de-
rivato il nome di Tisbea restituito alla pescatrice ; epi-
sodio, con quello di Isabella, solo ricordato come ante-
fatto; da lui tratto o dal Goldoni il finale del Tempio,
ove Don Giovanni cerca rifugio. La tela è semplifìcatis-
sima, le avventure in azione due : quella di donna Anna
e quella di Lesbina ; questa viene riallacciata alla trama
dall'esser Lesbina sposa di Fulcinella, che è il nuovo
valletto di Don Giovanni. Da ciò trarrà Da Fonte un
elemento per il suo libretto. — La chiusa infernale, ormai
— 153 —
tradizionale in Italia, manca. Il brio tutto partenopeo di
Pulcinella porta una nota garrula di più con l'aggiunta
della burla toccata proprio a lui.
Ricercare dell'arte nei libretti d'opera è sempre ri-
schioso; pertanto la proverbiale infamia che si connette
ad essi è talvolta calunnia. Tuttora il Convitato del Ber-
tati (I 1 ) soppiantato dal Don Giovanni del Da Ponte non
certo per merito di quest'ultimo, è, mi sembra, la più
schietta espressione dongiovannesca italiana. La comicità
vi è essenziale ; e se evidentemente realtà di caratteri non
ve n'ha, tanta la vena di buon umore, che quelli si
fondono in un tutto incognito indistinto pieno di fre-
schezza mattinale. Conati drammatici, nulla, a differenza
che in Da Ponte, in cui di quasi riuscito, in fondo, non
vi è che la figura di donna Anna, la quale poi senza la
musica di Mozart passerebbe inosservata. Il libretto de
Bertati, nel suo genere, mi sembra leggiadrissimo. E un
Don Giovanni inteso da un'anima più limpida dell'acqua;
quanto vi sia di veramente dongiovannesco non vien vo-
glia di riscontrare ; certo il Bertati sa rider bene e intanto
la sua caricatura non premeditata è più felice di tutte le
volute svalutazioni dongiovannesche che si siano attentate
fino ai nostri giorni. Imitazioni, sì, (dal Lorenzi e in-
direttamente dallo scenario del 1 662 la scena I, dal
Molière le scene VII, Xll, XVI, ecc. e parecchi partico-
lari) ; ma quasi tutte ravvivate. Già nel Capriccio dram-
matico (12), una specie di prologo estraneo all'azione, un
retroscena grazioso, in cui sono in ballo le noie del capo-
comico Policastro nell' inscenare il Convitato, le mac-
chiette del Capitan Tempesta e del suggeritore brillavano
di vivo. Il Bertati ha parsimonia di mezzi, ma molto
facile arte di usarli. Portato dalla sua vena, trascura
— 154 —
osservazioni psicologiche. In bocca a donna Anna, subito
dopo l'uccisione del padre, mette un lungo resoconto
al duca Ottavio, dell'attentato di cui è stata vittima ; il
Da Ponte, che ruminava riposatamente l'opera altrui, lo
toglie per sostituirvi accenti singhiozzati di dolore (13).
Donna Anna che si ritira in convento prima di aver
saputo chi è l'uccisore del padre e aggressore dell'onor
suo, soddisfa meno che in Da Ponte, ove quella persegue
il traditore pertinacemente e con dolore ; ma qui verosomi-
glianza di situazione, insistiamo, non ha luogo, anzi per prin-
cipio un* inverosomiglianza primaverile scampanellante.
Ecco com'è resa la perpetua ironia dongiovannesca tra
l'espressione e l'intenzione, tra la canzone e l'accompa-
gnamento, direbbe De Musset. Scena IX, Don Gio-
vanni a donna Ximena :
Per voi mi struggo e moro
Più pace al cor non ho
(Pur questa nel catalogo
A scrivere men vo).
Il Goldoni avrebbe infilato una buona serie di paren-
tesi rettoriche. Il Bertati senza pretese, con quello svolazzo
finale ci soffia via efficacemente l' illusione sentimentale
che le prime parole di quel burlone ci avevano creato.
Scintillante di brio la scena XI in cui Don Giovanni
fa la parte stessa che l'uomo nella favola del cavallo e del
cinghiale esopiana. Mette a posto Pasquariello, il suo val-
letto, che trova a molestare la sposa del povero Biagio e
si è fatto passare, nientemeno, per il cavaliere Don Gio-
vannino ; (imitazione del Cicognini, scena XI, atto 1°);
dà piena ragione alle rimostranze del legittimo sposo ; ma
il piacere del povero Biagio ringalluzzitosi per l' inspe-
rato soccorsoj.non ha ragione di durar molto : che la preda
— 155 —
che ha tolto al servo, il nuovo cavaliere se la sta per
arraffare lui.
— Dico corpo di Bacco
Che voi fate di peggio!
Ma quella man forte che gli era venuta in soccorso, il
poveretto se la sente sopra la faccia.
A me schiaffo
sul mio VISO;
Il giochetto casanoviano, che già divertiva il Don Gio-
vanni di Molière (se. IV, atto 2°) eccolo in movimento nella
scena XVI : a donna Elvira e a donna Ximena fa credere
contemporaneamente di amarle, e una per una : lo stesso
poi a donna Elvira e a Maturina, nella scena appresso ;
queste aizzate dall'abile pungolo del burlatore — nel vero
significato italiano — restano sole a bezzicarsi, tutte e due
esclusivamente difendendo la propria illusione schernita,
in una scena che mi par sincerissima (non possono con-
siderarsi imitate le due parole che sono in Molière a cui
intanto resta l' istinto), e tale che mentre fa ridere, ha in
fondo del drammatico : arte è svegliar il drammatico sotto
il riso, come inettezza far ridere ove si vuol drammatiz-
zare. Ecco le due femminelle, sovra lo sfondo del burle-
sco creato da Don Giovanni, burlescamente compiangere
la reciproca creduta pazzia, con malignità piena di egoi-
stico sollievo :
— Per quanto ben ti guardo
Davver pietà mi fai,
Ma forse guarirai
Col farli salassar.
— Proprio così va detto
Ma c'è una differenza,
Ch'è pazza sua eccellenza
E stenterà a sanar.
— 156 —
E le due donne, quasi respirando l'una della pazzia
dell'altra, difendono permalosamente il decoro del proprio
corpo, oltraggiando quello della rivale:
— Vanne via, mia pazzerella,
Ch'ei non ama una sardella.
— Via pur voi correte in fretta
Ch'ai non ama una polpetta.
Questa scena semplicissima, sorgiva, in cui Don Gio-
vanni nella sua assenza è più che altrove presente, var-
rebbe a ottener grazia per l'atto ; e potrebbe esser ripor-
tata come una caratteristica rappresentazione sottintesa e
prospettiva della visione dongiovannesca italiana. Ma v'è
ancora qualche altro granellino buono.
Nella scena XX del Mausoleo fattosi apprestare ancora
vivente dall'eroe commendatore (questo eroe è un ricordo
del Filistri in cui già per le sue benemerenze verso la
patria, al commendatore vivente era innalzata una statua),
l'invito tradizionale è trattato con nuova efficacia, laddove
impauritosi Pasquariello al cenno del capo del marmo, si
fa avanti ridendo Don Giovanni a ripetere l'invito, troppo
convinto del mutismo logico della pietra; e scoppia la
voce terribile dopo la saltellante ironia dell' invito :
Vi invito a cena. Commendatore,
Se ci venite mi fate onore.
Ci vanirete?
Ci Venirò !
Ben diversamente che in Da Ponte, in cui la statua si
anima inopinatamente senza nessuna provocazione con la
perdita di tre quarti dell'effetto ; ne tronca e lapidea è la
parola come in Bertati, ma un intero endecasillabo :
Di rider finerai pria dell'aurora,
— 157 —
quando proprio nessuno pensava alla statua. Pare che Don
Giovanni avrebbe meglio dovuto credere a qualcuno na-
scosto per mettergli paura, piuttosto che la terribile male-
dizione gli venga pronunciata dalla statua a cui voltava
le spalle ed il pensiero.
La visita di donna Elvira che precede la cena ha pur
in Bertati del drammatico di semplice e buona tempera ;
ove in Da Ponte (giudicando dal lato poetico, e pur com-
prendendo che le necessità della musica metton talora
le manette alla poesia) quel trillare di quinari canterini
fan le gricce, a chi legge, al concetto. Notevolissimo,
a mostrar come mani di esperto sceneggiatore possedesse
in fondo e quasi senza saperlo il Bertati, sta il contrasto
ironico quasi metallico che guizza dal sicuro abbacino
di una sola parola, tra mezzo al pianto della donna
gonfio di commozione :
Ma un estremo dolore
Nel mio ritiro ancora io sentirei
Se voi, che tanto amai,
Diveniste assai presto,
Un esempio funesto
Di quell'alta giustizia e di quell'ira
Che sovra di sé ogni empio alfin s'attira.
Pasq. (Povera donna !)
D. G. Avanti!...
La comicità festaiola che sovrabbonda poi fino alla fine
potrà parere eccessiva, ma completa convenientemente
questa che in sostanza è una molto ben riuscita diavo-
leria, in cui l'estemporanea garrulità di un'anima di fan-
ciullo è fermata traverso il cervello di un artista oggetti-
vissimo.
— 158 —
Ecco come Pasquariello riesprime a Lanterna il di-
spetto già di Sganarello, per i piatti toltigli via prima di
aver mangiato :
Ma potere del mondo !
Sei troppo attento per cambiar di tondo.
Guarda, Lanterna mio, che nel mostaccio
Questo piatto tal quale or or ti caccio.
Ed infine è la strimpellata che ha dato ai nervi al
Da Ponte che si pizzica di sei ietà, la strimpellata dei tutti
contenti, dopo la sparizione dell'indiavolato turbacuori.
Eppure vi è un color di satira bonaria e fiabesca :
questi personaggi già disperati, che ora dopo il capi-
tombolo del temuto burlone passano a ballare e suonare,
non sono, se considerati nella loro atmosfera di irrealtà
buffonesca, una stonatura: quasi direi che sono necessari
a chiudere concorde con se stessa la commediola. La
quale dopo il tren tren trinchete tre della chitarra di
Ottavio, flon fllon flon flon flon flon del contrabbasso di
Lanterna, pu pu pu pu pu pu del fagotto di Pasquariello,
va a risolversi nel verso così fantasticamente igienico da
parerti sputato da un Bertoldo in sopravveste di Dulca-
mara: " Così allegri s'ha da star! "
Il Don Giovanni del Beitati non abbassa i suoi gusti
fino ad amar le vecchie:
Delle vecchie solamente
Non si sente ad infiammar (Scena VII).
Quello del Da Ponte anche delle vecchie
fa conquista
Pel piacer di porle in lista (Atto 1", Scena VI).
La mutazione è lasciata cadere noncurantemente; del
resto il libretto del Da Ponte (14) non è che un rivesti-
— 159 —
mento di quello del Bertati, poeta per cui il Da Ponte
non ha gran simpatia come si sa dalle sue memorie, ma a
cui ben volentieri stende la mano se non per stringere la
sua, almeno per rubargli qualche cosa. Ma chi bada alla pic-
cola poesia del Da Ponte innanzi alla grande musica del
Mozart? 11 CUI " Don Giovanni" venne dato per la prima
volta a Praga il 29 ottobre I 787 : il Da Ponte aveva
scombiccherato il suo libretto in pochi giorni, del che si
vanta. In Italia per la prima volta è dato al teatro della
Pergola di Firenze nel 1 792. Ma prima della metà del-
1*800 da noi già accenna a passar di voga ; nel carnevale
e quaresima del 1 858 e 59 l'opera vien prodotta a To-
rino nel teatro Regio in presenza di S. S. R. M. (per
l'occasione, una nuova edizione del libretto è fatta dagli
editori Fodratti di Torino) ; nella primavera del 1 866 al
Regio Teatro Pagliano di Firenze, altra stagione mozar-
tiana (l'edizione del libretto è della tipografia Fioretti) ;
ma neir anima di tutti sopravvivono le melodie limpi-
dissime, e specialmente sulle labbra del popolo fiorisce
la serenata: "Deh! vieni alla finestra", che faceva so-
gnare De Musset.
Il libretto è in due atti : le precipue originalità : artisti-
camente il carattere di donna Anna, scenicamente l'epi-
sodio delle maschere e quello della serenata alla cameriera
di donna Elvira.
Donna Anna, in cui Hoffmann vide un mistero che ne
Da Ponte ne Mozart vollero darle, agisce in tutti e due
gli atti alla ricerca dell'assassino di suo padre.
La scena delle maschere ha un certo effetto teatrale,
cui la musica di Mozart darà risalto e vita acceleran-
done i battiti. E del resto anche spoglia di musica non
fa la più brutta figura. Ma la concordia discors, che deve
— 160 —
formare il nodo musicale in Mozart, di passioni contem-
poraneamente accavallantisi (l'ira e il sospetto di Masetto,
l'atterrimento di Zerlina, l'ansia dei tre mascherati, la
pronta e astuta violenza di Don Giovanni, l'umoristico
batticore di Leporello), appar prosciolta nella sciatta ver-
saioleria del cenedano.
Donna Anna sospettante già in Don Giovanni il reo,
accompagnandosi col fidanzato duca Ottavio e con donna
Elvira, interviene mascherata, per averne la certezza, alla
festa in casa di Don Giovanni. L'inganno preparatovi
da questo a Zerlina dà ai tre di rimbalzo la rivelazione del
colpevole. Il quale non si perde d'animo, incolpa il povero
Leporello dell'oltraggio a Zerlina,
Don Giovanni ha certo in Da Ponte un sangue freddo
invincibile, molta di quella facoltà di trucco che è una
delle più palesi caratteristiche satan-dongiovannesche (si
finge senza impaccio duca Ottavio e Leporello). L'au-
tore, mezzo Don Giovanni anche lui, aveva in se stesso
un po' il modello.
Tolta donna Ximena, sono aggiunte al conquistatore
due conquiste : della cameriera di donna Anna e di una
ignota che teme Leporello sia a se troppo nota...
La sua vacuità sentimentale non lo fa rifuggire dal dare
in mano al servo travestito dei suoi panni la donna già
amata (Donna Elvira), per allontanarla e far suo gioco
con la cameriera di lei. A questo scopo, non meno ipo-
crita del Don Giovanni di Molière, si finge pentito per
ottenere il perdono, ma in realtà per togliersi di mezzo
l'incomodo della troppo amante (scena II, atto 2").
Questa intuizione di simbolo riscatta in qualche modo
la povertà sbrindellata dei versi. E qui il momento più
felice dell'opera.
— 161 —
L'astuzia poi con cui, travestito da Leporello, attira
in fallo Masetto, lo sposo dell' ingannata Zerlina, lo
disarma per caricarlo di bastonate, dopo che ha avviati
dietro le peste del vero Leporello, travestito dei suoi
abiti e accompagnato con donna Elvira, i contadmi armati
che vogliono la sua morte, ne rende ancor più al vivo
la burlesca trasmutabilità. Caricata però di un po' troppo
nero, quell' esortazione ai contadini che quando vedano
una coppia di amorosi (e ricorda la propria foggia di
vestimento) sparino pure....
Il racconto che fa a Leporello (atto 2°, scena IX) dà
una nuova pennellata alla figura : è stato preso per Lepo-
rello e ha avuto dei favori da un' ignota, forse la moglie
di costui. Leporello ne ha il dubbio, cui Don Giovanni
sottolinea con una risata: "Meglio ancora". Qui suben-
tra il vaticinio della statua che sappiamo, — col seguente
invito, e poi il solito inferno che era anche in Bertati prima
della ultima scena festaiuola.
Confrontando i due libretti, quello del Bertati è una
nebulosa di comico senza differenzazioni lineari, ma effi-
cace gaiezza di suoni e di sensi : vita assai nel verso : Don
Giovanni, niente consistenza di realtà, ma simbolo felice
e grottesco di umorismo. Quello del Da Ponte ha dei prin-
cipi di delineazione psicologica; una scena di drammatico
un pcTda cartellone (atto I °, scena XVIII, la scena delle
maschere), qualche buona intuizione di simbolo, molta
farina non sua, e un infuriar di pessimi versi (15). Basti
un saggio : il peregrino concetto :
Certo moto d'ignoto tormento
Dentro l'alma girare mi sento
Che mi dice per quell'infelice
Cento cose che intender non so ;
11 — F. FUÀ, Don Giovanni.
— 162 —
quando non si voglia perder tempo dietro i : " Faccio che
bevano e gli uomini e le donne ", (atto 1 ", se. XIX), e simili
affionti a ogni ben costrutto orecchio da contare a staia.
Felicissima invece la trovata dei nomi : elemento non
trascurabile per chi sappia le cure e i pentimenti del
Manzoni e del Flaubert: Leporello, Zerlina, Masetto
sono nomi perfettamente rappresentativi. Forse non fu
estraneo il fine criterio del Mozart.
Il capolavoro del quale, cristallizza quella figura di Don
Giovanni che l'anima itaHana aveva intraveduta : espres-
sione di sincera allegria. Le baggianate mulse della com-
media dell'arte, riaccese di vita in verità di arte; seguendo
la stessa linea trasformativa, da bruta materia di farsa
si sale a differenziata serenità di bellezza. Ma intanto si
avvicina il romanticismo e la figura di Don Giovanni non
può restare in quel piano di superficialità cantata su cui
Mozart lo ha elevato come re della burla. Ciò forse spiega
il perchè la grande opera non ha goduta quella popolarità
e longevità di rappresentazione che meritava. Il momento
divenne poco atto alla melodia volante, le anime comin-
ciando a scavarsi in interiori profondità. L'ultima Arcadia,
a chiunque ben guardi, costituiva già un prodromo signifi-
cantissimo del Romanticismo ; aveva tributato valore alla
lirica soggettiva e intima, esperimentate osservazioni intro-
spettive, che comunque superflciaHssime, concihano il
clima alla poesia viva, che griderà il Berchet.
Per lo storico della letteratura che non abbia a sdegno la
psicologia dell'arte, per troppo diliger la critica, la fortuna
di Don Giovanni in Italia e la colorazione locale che
v'assunse, potranno formar argomento di un capitolo a
parte.
— 163 —
Fin qui, palleggiato dall' ilarità della folla o cantato
dalla gioia della musica ; ora col Romanticismo, si ec-
clissa. La Francia era stata l'unica che, come la più
artisticamente psicologica (non errava già l'espertissima
sensibilità del Nietzsche 1), prima del Romanticismo avesse
esperimentata qualche introspezione di Don Giovanni,
ella che con Marivaux dava le più vive e belle com-
medie d'amore.
Il nostro Romanticismo riporta i valori letterari dalle
austere sette classiciste a un'accezione più libera, mo-
derna, sia pur popolare; quell'amor del mistero che è nel
medio evo dello Scott, trionfeggianteper riflesso anche da
noi intorno al 1820, già preannunziato dall'Arcadia
lugubre delle nostre traduzioni di Yung, di Gray, del ro-
manticismo elemento è, non essenziale, ma accessorio
e casuale, mi sembra.
Mezzo di espressione, dunque, il culto artistico del medio
evo; intento, il democraticarsi dell'arte: tali i suggelli
più frequentemente apposti al nostro romanticismo prima
di incasellarlo negli archivi spesso molto giudiziari e poco
giudiziosi delle storie letterarie. Comincio dall' ultimo :
— ma è proprio in realtà l'arte che da ieratica discenda...
a demotica, o non è piuttosto l'elemento democratico,
se mai, che si nobilita ad arte ascendendo alla sfera
superiore di questa? E forse la poesia mencia e male-
scia dei molti poetucoli fungheggianti intorno al ceppo
romantico, che già 1' oblio ha seppelliti e contro cui
anche gli strali di Giosuè Carducci forse erano inutili,
quello che forma il carattere del romanticismo ? O non è
piuttosto l'accogliere che esso fa le voci di un mondo in
vita alle sue plaghe di sogno, il ribellarsi a quel postulato
che assai prima di venir formulato nei magri paradossi del
— 164 —
Nordau, era e in fondo è tuttora subcosciente nell'anima
dei popoli, che cioè degno solo di poesia sia il più lon-
tano nel tempo e fuoii di ogni constatazione obbiettiva,
quello che più mentisce alla ragione e a cui la fantasia
crede, sì, perchè tanto per lei è tutt'uno: e che le giove-
rebbe gualcire con le mani insoddisfatte le trame dei
sogni in cui gode di irretirsi ?
Credendo al qual concetto, la poesia verrebbe ad essere
come scaltrito Dio Mercurio addormentatore di Argo
(la fantasia) per sottrargli la giovenca (la turpe realtà!...).
Ora avviene invece, per continuar l' allegoria, che
Mercurio non più sottrae la giovenca ad Argo, gliela
lascia e, addormentatolo, metamorfosa davanti agli occhi
disciolti, in generazioni di sogno. Per l' innanzi la
fantasia per eccitarsi doveva spannar per Grecia o
Roma antica, ora può restare in casa sua; non che le
basti proprio la realtà che le è intorno — che per questo
bisognerà venire molto più avanti nel tempo — , ma ella
spicca le ali per migrare meno lungi, non varca la civiltà
dei suoi popoli vivi : si compiace del medio-evo. La pas-
sione del medio-evo, che è del romanticismo, mi pare si
debba spiegare ideologicamente nel modo più semplice :
come la poesia che per tappe si riavvicina a casa nostra.
In altre parole, ecco il primo passo verso i ruzzoloni delle
sette moderneggianti e futureggianti, verso le iconoclastie
del passato, dalle quali pure, pianatosi il bollore, non dico
né credo potrà uscire la nuova poesia bell'e armata, ma
derivare elemento al crearsi di essa e al suo regno futuro.
Non avviene dunque che la poesia — insistiamo —
col romanticismo si arrenda e capitoli a un mondo di lei
inferiore, ma questo in sé ospita, vivificandone l'anima
lirica che dovunque è, virtualmente. Così ^ome non il
— 165 —
mare diventa fiume, ma i fiumi mare. Avanzamento, es-
senzialmente, non regresso. L'Arte non ha colpa del-
l'imbecillità dei troppi pretendenti.
E questo medesimo processo esaminato per l'elemento
affatto temporale e occasionale del medio-evo si può
ripetere per quello spirituale di maggiore entità ; in-
quantochè la poesia, specialmente lirica, rimasta finora
fedele a dei concetti etici primordiali e all'indiscussa
valutazione zarathustriana, ora fiuta altre possibilità e
se ne asseta ; Byron ospita ad essa il maligno, il satanico,
non in quanto se ne faccia apologeta (qui è la vera
degenerazione dei pappagalli, tergiduttori lombrosiani!);
ma in quanto vi trova maggior tesoro per la sua poesia e
ne lo sa estrarre.
E quale infesta sanie non posson fare innocua i divini
fagociti dell'arte, anzi purificare in icore di bellezza?...
Così si può seguire il bandolo dongiovannesco, ora che
Don Giovanni esce con Byron dalla drammatica (1818)
ed è per la prima volta liricamente sentito ed espresso.
Don Giovanni è una forza distruttiva in cui si esauri-
sce naturaHsticamente la possa di più generazioni : brucia
i germini buoni dell'amore : una disarmonia nel concerto
degli accordi terreni: quel che il genio all'intelligenza,
egli all'amore: e inteUigenza e amore, nei loro medi signifi-
cati, trovano nel genio e in Don Giovanni i loro poli ultimi,
le loro rarefazioni estreme; il gemo, rispetto a quella,
pazzia. Don Giovanni, rispetto a questo, distruzione.
Ecco come Don Giovanni si volge col romanticismo
a simbolo lirico.
Ma ora resta una spiegazione da tentare. L' Italia non
ha per i primi tre quarti dell'SOO alcun Don Giovanni
piccolo o grande da noverare, nonostante gì' influssi
— 166 —
stranieri, e pel resto dell' 800 una piccolissima fioritura.
Questa è forse un'anomalia, che sfugge a un perchè. Ma,
per non contentarci al quia, riconosceremo intanto come
la nostra letteratura conservasse anche per il romanti-
cismo, verso questo tipo, l'atteggiamento in fondo un po'
ostile del padre verso il figliuol discolo. Il rinnovamento
romantico ebbe da noi innanzi tutto un valore storicista,
contro il dispotismo della mitologia classica opponendosi,
e di fronte all' esclusivo paradiso eroico dell' ellenismo
scoprendo dei suoi fasci luminosi, anche e più, la visione
artistica del medio-evo, non proprio in quanto tale, ma
in quanto più percettibile all'anima moderna, più viva
delle nostre fedi e amica ai nostri dolori. Il romanticismo
è un po', da noi, la rivincita sull'umanesimo. Agl'/nni
sacri, alle tragedie manzoniane darà pur sulla voce il Ser-
mone sulla mitologia montiano; più viva la reazione bat-
teva ove più particolarmente l' azione era già profonda ; da
noi, anzitutto, la concezione mitica e formalistica del classi-
cismo tentava scardinarsi. Byron, antistorico, ritorna nel ro-
manzo storico guerrazziano. Così del carattere di Francesco
Cenci, Don Giovanni Tenorio è anche un frammento {Bea-
trice Cenci, cap. V). ( Ma il Guerrazzi ricordava lo Sthendal;
che quanto a lui poco ci pensava a Don Giovanni).
Ma la lirica romantica restava soggettiva, quasi mona-
distica, commento confessionale dell'anim?., — ovvero
rientrava nel circuito storico-medioevale delle ballate e
le romanze. Per la concezione di Don Giovanni è richiesta
invece una superazione di stati d'animo passionali, e il
soggettivismo lirico le è nefasto; quanto alla leggenda,
ormai trita sulle scene, avrebbe potuto anche persuadere
la lira feconda di un Carrer, di un Prati, ma il tipo sarebbe
irrimediabilmente sfuggito. Da una parte perciò l'alterigia
— 167 —
non concessiva e asentimentale della poesia classicista,
dall'altra la balbuzie lacrimofila della poesia romantica,
con la svogliataggine erratica e dubitante degli umoristi,
onde sempre amiamo il Bini, furono impedimenti alla
rappresentazione lirico-artistica di Don Giovanni. Quei
turbamenti alla Raskolnikoff, che portò l' incubo byroniano
alle altre letterature, a noi decisamente furono ignoti. (Non
se l'abbian per male Clotaldi, Rodolfi, Arnalde, e altra
buona gente...). Vi faceva urto la nostra considerata per-
sonalità, la nostra maturità cristallizzata che ci preservò
dal suggestionarcene, a guisa della Spagna, ove del resto
dopo Espronceda sono già assimilati e digesti. Altrove il
romanticismo forzò la fede religiosa, da noi la fede nel
romanticismo si accende, ove non siano soffi di esotico
contagio.
I fantasmi d'arte pertanto, cui i più grandi poeti affi-
darono la loro parola d'amore, furono, da noi, soggetti-
vissimi ; furono talora la levata di cappello, al romantici-
smo, dei poeti classici : — Foscolo, Leopaidi, Carducci
con Iacopo Ortis, Consalvo, Jauffrè Rudel.
La sproporzione dongiovannesca dell' amore tutto a
spese di una parte vittima a vantaggio dell' altra incubo,
non tentò o forse spaventò anche quel gruppo turbolento
di ingegni che formò la scapigliatura lombarda, cui gli idoli
De Musset e Baudelaire alimentarono bei sogni d' arte, ma
anche brutte consuetudini di vita, e la cerea nevrosi impedì
di improntar quelli a vita di pensiero ; i canti del Praga e
dello Zena sono ancora, taluni, deliziosi, pur così fluidi e
glauchi, che paiono attendere il torsello che li marchi di vita!
Nessuna concezione dongiovannesca liberò dunque il
tormento gassoso di generazioni a quella spiritualmente
vicine, ma intimamente soggette.
— 168 —
Non varrebbe la pena di parlare — se non per rispetto
al titolo — del mezzo aborto del Rovetta in 4 atti: La
moglie di Don Giovanni, commedia che fu rappresentata a
Ferrara per la prima volta nell'agosto del 1 876 al teatro
Tosi-Borghi dalla compagnia del cav. Alamanno Morelli,
e per la quale mi servo dell'edizione Miinster e Kaiser
di Verona, uscitane il 1877. E il titolo contiene un tra-
nello, con tutta la riverenza pel nome del romanziere e
drammaturgo bresciano più d'una volta geniale; la com-
media del resto è giovanile, piena d'intenzioni e di star-
nazzii vani d'ali inette ancora. Giacomo Faleroni amante
di Alessandra di Cerda, sorpreso dal marito di lei, men-
tre ingannato dalle tenebre in notturno appuntamento
pindareggia d'amore con la nipotedilui, Lorenza, creden-
dola Alessandra, per non smascherarsi accetta di sposare
la interlocutrice notturna, già innamorata di lui, riservandosi
di coprirsene i meglio agiati amori adulterini. Forseinquesta
scena, del resto non più che mediocre, (VIII del 1 " atto), è
l'unico frammento dongiovannesco di questo figuro dozzi-
nale di bertone in frac, tipo già logorato, fino a farne fracidi,
dalle solite ribalte, e che in ogni modo non giustifica il titolo
civettone, che starebbe meglio, se mai, ma sempre errata-
mente, cambiato così: " La moglie di un Don Giovanni...".
Vi è anche, antagonista, una figura ducaottaviesca di
buon gocciolone: Guido De-Mari, adoratore di Lorenza,
uno di quei clorotici bevitori di lune chiare, che sembra
di dover vedere a passeggiare eternamente con la destra sul
cuore e le labbra a pincio, lungo un viale di tigli, in un
romanzo di Anton Giulio Barrili!
Nell'entrar in tema di più recente arte su cui non an-
cora è stato formulato un giudizio, per essersene troppi
- 169 -
enunciati, il pencolo non è lieve, poiché purtroppo vero
è che fra tutti i decreti dell'umane valutazioni, il più rela-
tivamente giusto è quello del tempo, e chi sentenzia con
troppa pretesa d' inappellabilità sull'arte del suo tempo
— (è una verità che scotta a noi che abbiamo un po'
tutti il male dell'ipertrofia dell'attimo!) — si è sempre
visto che qualche castroneria ha buttato giti, di più almeno
chela storia letteraria poi non abbia registrate. D'altro canto
l'ostracismo che alcuni danno con questa scusa a ogni
considerazione artistica contemporanea, quasi che l'essere
presente costituisca per l'opera d' arte un difetto, (oh !
umano inconfutabile amore di ciò che non è più, e repul-
sione più o meno latente a ogni cosa che è a portata di
mano: — tutte le predilezioni umane sono fatte di par-
tenze !), mi pare un senilismo bell'e buono, un chiuder
gli occhi credendo così di abolire il dintorno. Disse al-
cunché di giusto chi affermò l'arte presente potersi sen-
tire più che giudicare, ma ciò vale assolutamente ; rela-
tivamente, sentire è già forma preliminare del giudicare,
e consentimento è all'opera — non si può negarlo —
quel che la risonanza alla voce.
Ma prima di entrare a parlare di tempi presenti, una
scorsa in terreno finitimo al nostro, per meglio averne
distinti i termini. Già il Fusinato aveva nel 1846
cantato, a modo suo, della Fisiologia del lion quando nel
1877 la Libreria Editrice di Milano pubblicava il Lion
in ritiro di Paolo Ferrari, commedia in 5 atti in martel-
liani : una tortura metrica, da cui la virtù del grande
commediografo non esce pur così malconcia, come ad
altri sarebbe forse capitato.
Un conte quarantenne, che ha passata la giovinezza a
mietere idalii mirti nei salotti, nelle cacce, nel gioco, e dopo
— 170 —
aver rifulso nel bel mondo come lo specchio dei fashio-
nahles, in seguito a una casuale ferita avuta in duello, si
è ritirato con un nipote in una volontaria clausura, donde
lo traggono a forza andirivieni di circostanze, che ritrova
la donna per la quale si era battuto, ora moglie del
suo miglior amico Raimondo, zio a sua volta — quando
si dice il caso ! — del suo rivale e avversario in duello
sfortunato. Costui è adesso rivale, parrebbe, fortunato —
in un nuovo amore, — del timido nipote dell' ex lion ;
e da antico avversario e fatuo motteggiatore, si diverte
a scoccare scherni che feriscono, in uno, zio e nipote, fin-
che quello lasciato il zimanone da eremita, come serpe
mutato di scoglio, esce rifatto di tutto punto e simile a un
rosellin sputato, vince pel nipote babbeo la dama dei so-
spiri, trova buona pensione alla sua carriera d'amore in
una moglie, manda a viaggiare mortificato il due volte
rivale.
Sebbene non potrebbe che a un occhio precipite come
quello del Brouw^er, anche guardando all' ingrosso, ap-
parir Don Giovanni sotto il tipo Lion, provvediamo ad
una distinzione. Preso nel girotondo delle citazioni del
suo articolo della Rassegna Critica napoletana, il Brouw^er
si nota facilmente come abbia perduta la tramontana ed
ammazzoU insieme all'impazzata quanti colpevoli e in-
nocenti si chiamino Don Giovanni o con Don Giovanni
abbiano apparenza di affinità.
Il termine Lion che risale al 1 830, in Francia, all'epoca
del secondo impero, è uno dei tanti appellativi che la
moda e le nazioni mutabilmente affibbiano ai sempre
pressoché eguali Abitatori dell'Orbe leggiadro, come li
scherniva il Parini, ai tempi del quale si chiamavano Ci-
cisbei senza che la cosa variasse. Lion, Muscardin, Dandy,
— 171 —
Gommeux, Lindos, Narcisos, dinotano tutti quella stessa
specie di individui che a una frivolezza vacua sovrap-
pongono una cangiante superfice di versalità anche ge-
niali. Don Giovanni il suo vuoto interiore maschera del
suo proteismo ; il Lion non saprebbe mettersi addosso
abiti non di moda ne parere inelegante ; tutti i suoi atti,
gesti e vezzi sono governati severamente dalla irragio-
nevole forza di un atavismo... azzurro più o meno. Il Lion,
come la Lionne, sa un micolin di tutto, schermire, pen-
nelleggiare, verseggiare, cavalcare, suonare, ballare ecc.
(vedi anche in proposito scena 1 atto 1 ° della commedia
del Ferrari) ; in fondo per saper di tutto, non sa nulla,
sentenzia non con la mente ma con la lente che gli siede
sull'occhio, prende a balzello locuzioni e frasi delle più
diverse scienze e arti dello scibile, le sfoggia a proposito
o no davanti agli ascoltatori e ne li abbarbaglia, come il
Mago Atlante con lo scudo ! Questi ultimi tratti umoristici
prendo, come è chiaro, dalla satira pariniana del cici-
sbeismo che è il codice stupendo e più vivo dell'aristo-
crazia perdigiorna di ogni tempo.
Il tipo Cicisbeo e Lion si offre di per se, anche nella
etimologia dei nomi, all'ironia (cicisbeo dal francese chiche
e beau, ovvero pura voce onomatopeica; lion antifrasi
del Re della Foresta, oppure bestia per eccellenza, se-
condo il Fusinato !). Il Lion è un tipo tutto figurativo e
pittorico, il Bellimbusto, Micco, Frustino del nostro les-
sico ; Don Giovanni è drammatico ossia dinamico. L'uno,
un atteggiamento, una mera foggia ; l'altro, un carattere
di ampissima accezione, m cui quello rientra come pos-
sibilità. Quanto poi alle differenze che Madame de Gi-
rardin nelle sue Lèttres T^arisiennes, che resero celebre
lo pseudonimo di visconte di Launay, vedeva tra Lion e
— 172 —
Dandy (l'uno ricercato e ammirato, l'altro che vuol farsi
ricercare e ammirare, come merveilleuse che cerca tutti
i piaceri, lionne che è ricercata per tutti i piaceri), non
mi pare debba tenersene troppo più conto, che di una
frase, o una suddivisione tutta personale.
In ogni modo nel Lion in ritiro del Ferrari, la scena II
dell'atto 3'\ in cui il conte, rimesso a nuovo e in pieno bel
mondo, trattosi in disparte, senza parere, a uno a uno a se
orienta prima gli sguardi, poi i passi, poi la parola e poi
l'attenzione e il piacere e l'ammirazione di tutte le belle
quagUe e l'astio dei giovani paperottoli, sinché nessun
altro v'è che lui, fra mezzo a tanta gente, lui re del con-
vito e della conversazione, — è di un dongiovannesco
indovinato ; senonchè il Ferrari non resistendo alla rare-
fazione del clima dongiovannesco ridiscende a quel ter-
restre particolare, così comune alle scene del tempo, troppo
premurose della buona digestione del pubblico, delle
aspirazioni matrimoniali del Lion verso una giovanetta,
che farà sua poi alla fine, nella scena ultima dei soliti
imeni.
Ma sarà bene riprendere le vere rotaie dongiovanne-
sche e per esse arrischiarsi nella Città, non so quanto del
Sole, della letteratura odierna.
Nel 1 883 Giuseppe Antonio Cesareo pubblicava il
suo frammentario poema T)on Juan, di cui nel 1 893 era
stampata una terza edizione (edit. Nicola Giannotta,
Catania).
E la prima parte di una trilogia su Don Giovanni, la
quale come si ricava dalle parole premesse alla prima
edizione, doveva comprendere : Gli amori, — Re Gu-
stavo — La morte di Don Giovanni.
— 173 —
Composta sui vent'anni, V autore stesso vi riconosce
difetti, ma non rinnega l'opera (prefaz. all'ed. 1893). La
quale dopo aver levato scalpore (basta leggere i numeri
del 1 883 del Pungolo, della T)omenica Letteraria, del
Preludio, del FanfuIIa) in suU' apparire, è ora tra-
scurata.
Essa — me ne sia lecito un giudizio per quanto ri-
guarda il mio soggetto — adombra la redenzione super-
morale di una forza da inertemente distruttiva ad alata
azione di bene, redenzione operata dalla scienza. Ma
vi sono intime significazioni così saldate a una figura
che questa vive per quelle e togliergliele è toglierle
l'anima.
Si può portare Satana fino a espressione di vittoria e
di bene, seguendo un'interiore perifrasi logica (Car-
ducci) ; non lo si può decisamente capovolgere nell'anta-
gonismo assoluto del bene. Si era potuto portare Don Gio-
vanni all'innamoramento e alla devozione ; esso restava
nei suoi argini fisionomici, pur perdendosi in una foce
permutatrice.
Ma Don Giovanni mutato coscientemente in un Bruto
o Kosciuscko è quanto voler fondere due liquidi re-
pulsivi. Don Giovanni messo davanti alla salma di
Donna Maria, sulla tavola anatomica, non ha, se mai, che
un moto, ed è d'istintiva repugnanza: ha bisogno della
vita parvente ; nessun dottor Nero può farlo meditare sul
dilemma amletico, egli può vedervi tutt'al più un rebus
buono per un quarto d'ora di velleità enimmofile.
Per il concetto del poema, la scelta del tipo di Don
Giovanni — ardimento — era inopportuna. Il Trezza,
nell'articolo lusinghiero sul Preludio di Ancona, 31 no-
vembre 1883, richiama il lettore con un " Ti par poco?"
— 174 —
sull'importanza del trovar le virtù redentrici non al di là
della natura, in un mondo impossibile, ma nella natura e
nelle sue leggi.
Ma anche questo far entrare la natura e la scienza le
quali in verità sono troppo capaci per passarvi alla liscia,
per le falle della poesia, e dimergolarvele dentro per
far mostra che sono là, e non è bugia ; come quei rim-
pannucciamenti lucreziani degli Empedocli e Luciferi
rapisardiani, e quelle tirate chimico-poetiche che in fondo
non son mai ne una cosa ne l'altra, mi permetterei di credere
tutto ciò alquanto più ostentazione che poesia: scienza non
digerita e poesia abortita. Il Cesareo — sempre secondo
la mia riservatissima opinione — sarebbe rimasto più
convinto con se stesso facendo convergere direi fourie-
risticamente la qualità del suo Don Giovanni a quella
idealità ammirevolissima, a cui lo porta con un rovescia-
mento che ha dell'impronto e che comunque ne lava del
tutto i connotati per sostituirgliene altri ; tanto che nei 3 1
quadri che ci presenta, il suo personaggio passa alterna-
tivamente per le più varie e diverse fasi d' espressione :
ora Don Giovanni, ora amoroso sentimentale, ora un
senza volontà facile alle suggestioni, ora un uomo di pen-
siero e di sconforto che par gli penzolino dal labbro le
gravi parole di Mallarmé : la chat est lasse, hélas, et fai
lu tous les livres ! Niente di meno !
Certo poi il secondo Don Giovanni converso è unito
al primo, peccatore, in modo assai posticcio.
Senza contare che far entrare questo personaggio, che
vuol essere un simbolo lirico-filosofico, nella storia o finta
storia è pur uno sbaglio di luce, come se Goethe avesse
fatto partecipare il suo Faust, per modo di dire, alla
guerra dei trent'anni.
— 175 —
Anche il dottor Nero, figura ben lampeggiata, non è
proprio quella meraviglia che parve al Trezza. Questo
ieratico scienziato, che è mostrato alquanto in veste da
camera, come cioè il mantenitore di donna Maria, e per
giunta non fortunato, non ha più del cherubo in grinta
accipigliata e con la spada di fuoco, che non del vero
uomo? Severo sacerdote della scienza, ma che quando
oli capita, non gli rincresce di fare uno scambietto fuor
del laboratorio per correre dalla ganza ! E che Don Gio-
vanni è questo che si lascia prendere per l'orecchio da
questo Fato in zimarra di farmacista che lo porta a spasso
per il mondo e finisce col rimorchiarselo in Ungheria che
sarà qualcosa di parente lontana al paradiso terrestre
dantesco, in quanto che vi avverrà l'uscita di tutela del
protagonista coronato e mitriate sopra se stesso, per an-
dare, sembra, ad ammazzare Re Gustavo?
E certo una necessità di posizione obbiettiva rispetto
all'opera, che induce a formulare di essa un giudizio che
indubbiamente l'autore ha già da un pezzo, meglio di
noi, stabilito.
Accennerò solo ad un ultimo... inconveniente, perchè
su d'esso insiste l'autore teoricamente traendone leggi e
presagi, nell'edizione 3 ' del 93. Il linguaggio democratico
della poesia può essere una bellissima cosa, ma può an-
che essere una sciatteria insopportabile. Tra i metri clas-
sificheggianti e fiori finti del linguaggio apollineo, e
" Tristaccio di un cassiere ! ", gli " Addio! gli è Nero ",
"Che sfacciato!", gli "Insomma — La smette con que
baci? Oh! che birbone", gli "Oh! ma spero", mi pare
ci sia un equatore di più conveniente verità. Spagnuole,
siciliane le donne di questo Don Juan parlano un unico
linguaggio di questo stampo non so quanto naturale; e
— 176 —
non solo le donne. Non c'è nessun bisogno di scrivere in
mezzerighe, tanto più che le stesse necessità del verso,
imponendo troncature e sincopi, fanno, se non ben do-
mate — e qui non lo sono — il più brutto stridore in
mezzo a questo parlare naturale, quasi vocaboli letterari
in mezzo ad una chiaccherata in dialetto : nessuno impone
di vestirsi in soprabito, ma andare in un salotto in cami-
cia e in ciabatte non credo che alcuno farebbe per amor
della naturalezza. Lo strano è che pure in tanta parte
della sua prosa il Cesareo stesso usa uno stile di raffina-
tezza ad unguem spesso con effetti squisiti di tinta e
suono. La naturalezza, che ha cambiato di casa?
Ciò non toglie che vi siano anche nel Don Juan dei
versi bellissimi (esempio nella " notte di Natale" quando
quegli parla a Leporello dei suoi gusti molto capaci, e il
verso batte e pinge). Nel canto del Marinaio (scena Xll)
sono pure bei miraggi di poesia. La serenata a donna
Maria (scena Vi) non è pure ella un graziosissimo triUi-
rellare di vivi suoni?
Le 9 scene dell'atto unico di Achille Torelli: La
Duchessa T)on Giovanni (ed. Barbini, Milano 1 888j,
sono un componimentino scenico, nulla di originale, no-
nostante il titolo illuminello; e non si direbbero del ge-
niale autore dei (bariti, intorno a cui a tutti è noto e
grato il magistrale saggio del Croce nella Letteratura
della Nuova Italia, se non forse per alcuni fasci di vita
nei caratteri, come del duca Livio, una figura di pio e
debole che infine diventa nobile ed eroico agli occhi
della esasperata sessualità della orgiastica moglie e pro-
tagonista, e del dongiovannesco conte Mario, figura
che per essere appena abbozzata, è la più che occupi la
— 177 —
nostra attenzione. Essendoché là il Torelli meglio segna
i suoi personaggi di vita, ove meno preme il pollice ; tem-
pra non sfuggevole ne di sottintesi, ma più agli artifizi dei
colpi di scena, atta, e schiamazzi di luce di antagonismi
accortamente avvicinati. Così la duchessa Don Giovanni
è falsa, è un miscuglio e un intruglio, non coagulato dal-
l'arte, di estranei elementi. Ebbra di piacere, abbando-
nata dal conte Mario, avvilita dal marito con un perdono
troppo transumano, ricordiamo, sì, di lei, quella tragica
esclamazione desolata della scena Vili, una di quelle non
rare nel Torelli faville di sintesi di vaste concentrazioni
taciturne : " Se potessimo contentarci di amare un fiore ! "
Da artista.
Nella scena IV all'amante che non l'ama più, davanti
alla madre di lui, fa l'amaro augurio ch'egli sia serbato
all'età in cui da oggetto d'amore lo sia di compianto e
scherno a quelle da cui invano mendicherà quelF amore
di cui ebbe dovizia. Al che il conte Mario risponde con-
trapponendole ironicamente l'augurio che resti bella fino
a tale età, da potere come Ninon, innamorare di se lo
stesso suo figlio ignaro di esser tale!
Conscio dell'adulterio non unico, e vinto dagli affronti,
l'infermo duca Livio alla fine si toglie la vita pregando
per lettera Mano di sposare la duchessa che è per dargli
un frutto dell'illecito amore : annunzio ed esortazione che
superano invero le possibilità più senili di altruismo e di
santocchieria !
Intenzione prima dell'autore era di far contrire, per
spremerne essenza di dramma, due tipi dongiovanneschi
quasi equipollenti ; e svolgere il pensiero della scena IV:
"a Don Giovanni, Cleopatra"; e l'idea per essere ori-
ginale e di buon succo, se attuata, sarebbe stata da
12 — F. Fl'à, Don Giovanni.
— 178 —
maestro di scena ; e originale sarebbe anche oggi, nes-
suna spugna essendosi ancor saziata in quest' acqua ! In-
torno a questa rovente coppia di protagonisti avrebbero
dovuto equilibrarsi i meteorici pallori delle vittime van: ;
poi dei due l'uno finire col prevalere sull'altro, — se, come
è detto nella scena I, sempre uno dei due resta nella
tomba dell'amore e l'altro se ne va!
Ma come in altre sue commedie, il Torelli ha appena
scalfitto la superfice intera dell'argomento, che lo scal-
pello gH è caduto di mano; brutto guaio per l'artista, che
se ad altri venga poi in mente di riprenderne l'intenzione
e riesca a suscitarla a immagine d'arte, non parrà vero,
buttatosi dietro le spalle il ricordo dell'iniziatore, di affib-
biarsi lui il facile vanto dell'originalità !
Enrico Panzacchi aveva già nel 1877, nelle sue Ro-
manze e Canzoni {ed. Zanichelli), dedicato un sonetto a
Don Giovanni :
Giovane sempre, e invan gemer ti senti
Le nenie intorno di femmineo core,
O Leporello col suo vii tremore
Vorria por modo ai tuoi baldi ardimenti.
Per te mentre t'abbellano l'amore
Vin, parassiti e musici concenti,
Romban invan sul pavimento i lenti
Marmorei passi del commendatore.
Stan di tua vita al libero governo
Forza e volere; al tuo festoso giorno
L'ora del tedio giammai non s'appressa.
Tu dal candido san d'una badessa
Levi la fronte e gridi al Padre Eterno:
Compar, scusate se vi pianto un corno.
— 179 -
Tale la prima lezione. Nel 1894 l'autore, ripubbli-
candolo nell'edizione definitiva delle sue poesie, lo com-
prendeva nella prima parte di esse " Visioni " e lo univa
sotto un unico titolo : Don Giovanni e Faust, — con l'altro
a Faust, pure nel citato volume. Il sonetto dongiovannesco
non vi ha che una modificazione che è anche un peggiora-
mento : al Panzacchi ripunse quella specie di compia-
cente sorriso che i suoi versi atteggiavano verso il Liber-
tino, e parve che un " empio ! " scoccato al dodicesimo
verso rimettesse le cose a posto ; ma la racconciatura è
palese e nessun mastice di arte può toglierla: l'intona-
zione era quella che era, e precisamente restava quella
del 77, con uno sfregio in più :
Empio! e dal bianco sen ... ecc.
La rappresentazione del tipo si riattacca alla nostra
concezione comica, aggiuntovi quel tanto di romagnole-
scamente bonario, e humour un po' acidulo, che pare
ormai un prodotto artistico-regionale comune agli scrittori
e novellieri più o meno fortunati, del solatio paese.
Ciò che il poeta ferma e subito stringe della sua ve-
duta poetica, è l'eterna giovinezza di Don Giovanni: ri-
prende poi e spiega nella prima terzina : che mai il tedio
coglie questo fortunato. Continua e termina un po'
ad effetto : che non si tiene neanche di far le beffe
a Dio.
Il poeta, individuato il tipo che la nostra tradizione ci
tramandava, lo accompagna per primo del suo commento
lirico : le sagome ne sono : la spensieratezza ridanciana,
la pratica del carpe diem, l'attimo goduto senza scrupoli :
visione tutta indigena. L' ora del tedio giammai non s'ap-
pressa pel nostro Don Giovanni ; — per quello di De
- 180 —
Musset, di Puskin ecc. è il tedium, l'essenza di blasé
che ne forma l'anima. Ne in tale considerazione del Don
Giovanni giovane e felice, è amarezza o vuoto di rim-
pianto; il poeta aderisce così bene alla sua figura e così
compattamente, che sprazza fuori quella sana e piena
risata dell' ultimo verso. Era indifferente al Panzacchi,
poeta solido, considerar Don Giovanni giovane, o vecchio
acciaccato : a entrambe le figurazioni dava un unico sa-
pore la droga viva del suo buon umorismo.
Così doveva simpatizzare al parco ingegno del Pan-
zacchi la burlesca fantasia del Don Giovanni di Campo-
amor, già altrove veduto : e questa imitò nella sua poesia,
che prese posto nelle " Visioni e immagini " citate : Don
Giovanni. — Il vecchio Don Giovanni rovistando tra i
suoi ricordi d' amore, trova una lettera nemmeno ancor
dissuggellata e confusa lì ; per rispettare il mistero della
sconosciuta e pensando che forse là era chiusa la sua
salvazione : l'amore, — getta intatto il plico nel fuoco. La
trama di Campoamor è mutata : solo ove era ritratto
(sul principio) Don Giovanni vecchio, il Panzacchi
è rimasto, e ha aggiunto particolari ( — Il forte
atleta delle dolci lotte, — Sostentan le tisane ed il bro-
muro ecc.).
E colto giustamente il senso di doloroso ripiegamento
del vecchio, che è sempre il chiosatore della poesia di
se stesso giovane. Don Giovanni giovane è corso all'av-
ventura, e si è riso di Dio, e dell'amore, di cui non sen-
tiva il vuoto, (tale nel sonetto già visto) ; vecchio, ha salda
la fede più che granito, piange, di non aver trovato
l'amore, ( l'amore, l'amor che invan cercato —
Tra l'orgia, ecc ). Del resto, il poemetto è squallido,
con un po' quel suo sapor grigio di romanticheria e di
— ISl —
umorismo che allappa la bocca, come in alcune poesie
del De Amicis.
La ^Dannazione di Don Giovanni del Graf appare, nel-
l'anno 1905, inserita nei: — 'Poemetti drammatici, (ed.
Treves).
11 Graf, in quattro scene, si costruiva un Don Giovanni
non proprio di grande ongmahtà ne verità, ma rappresen-
tativo dell'anima sua più poeta della mano. Il cantore, che
in alcune delle migliori sue strofe sanguina veramente di
amore e dolore (la disperazione di Medusa non è un
giuoco di sillabe), il romanziere del Riscatto, che è un
indiamento dell'amore, doveva rifuggire per palese istinto
dalla concezione feroce del Don Giovanni Creso d'amor
senza amore. Onde, ripigliando il suo Don Giovanni al
punto ove l'avevano lasciato le concezioni già prevalse
di burlatore — italianamente — , egli non si sente di farlo
del tutto estraneo alle sue burle ; la sua celia non deve
essere senza caldo di cuore.
E del resto un comune tropo di idee, questo, per cui
Don Giovanni finisce per combaciare col duca Ottavio,
il contagio d'idee finitime essendo più forte d'ogni logica
definizione, cui del resto la poesia non saprebbe adattarsi.
Il trapasso mi par di rinvenirlo qui : Don Giovanni ama
fugacemente e all'ingrosso, non può quindi amare l'anima
imperitura ; ciò implicherebbe esclusione ; ma la parte ef-
fìmera ; e in questo amore e in questi amori deve eserci-
tare un incontentabile gusto di quel bello " che nella carne
si rivela e splende", secondo l'espressione del Graf
(scena IV). Anzi, questo gusto estetico si cambierà in sete
del bello. Diventa l'idolatra della Forma.
— 182 —
Già in Cesareo Don Giovanni enunciava a tratti sen-
tenze di un estetismo esemplare :
Il molle incanto
D'un'azzurra pupilla e il respir caldo
D'una chioma fragrante o la divina
Armonia d'un profilo : ecco l'amore
(Scena VI).
Veramente Don Giovanni in se, non ha pel corpo
queir adorazione di esteta che presuppone sofferenza e
artistica sensibilità. Don Giovanni -Andrea Sperelli è una
filiazione del tipo, parente a DorianGray. Il nuovo amatore
è ombrosissimo, non soffre sfregio al suo ideale di bel-
lezza reale. Così Dorian Gray non sente più amore per
la sua Sibilla da quando ella ha fatto brutta figura nell'in-
terpretare la Giulietta di Shakespeare.
Il corpo amato spiritualmente, — segnacolo del nuovo
dongiovannesimo. Preso come elemento sostanziale ciò
che in verità è elemento contingentissimo del vero Don
Giovanni, questi finisce coU'essere raffigurato impressio-
nabilissimo a ogni obbietto di forma femminea; e arre-
sterà tutte le sue corse per incantarsi davanti a meteore
di bianchi omeri. Ma in realtà Don Giovanni si ritrova
sempre e più che mai nella netta figurazione baudelairiana
definitiva come una medaglia (16):
Mais le calme héros courbé sur sa rapière
Regardait le sillage, et ne daignait rien voir,
("Don Juan aux En/ers)
che ricorda lo stupendo scorcio dell'atteggiamento della
Didone virgiliana :
Illa solo fixos oculos aversa tenebat
Nec magis incepto vultum sermone movetur
Quam si dura silex aut stet marpesia cautes.
{£neide. 1. VI, 469-471).
— 183 —
Il Graf ben lungi dagli eccessi estetomani, pertanto gli
è sorrisa l'idea di un Don Giovanni che alla triplice ac-
cusa di Minosse: "altrui — Femmine adulterasti", —
" Fanciulle contaminasti " — "L'una per l'altra — Ab-
bandonar fu tuo costume", risponde con la triplice pro-
clamazione : Amai, amai, amai.
Disceso anima e corpo nell' inferno, dal giudizio di
Minosse, è condannato a essere abbandonato in preda
alle femmine da lui ingannate, perchè ne facciano eterno
strazio ". Ma lui non si commuove, anzi per tutta contrizione
chiede che siano rese loro le belle membra " onde fùr liete
in terra ". Così potranno fargli più male. Egli sa di poter col
canto della sua parola domare le belle fiere. E ciò fa.
Davanti ai demoni stupefatti, si trascina dietro fuor della
lor vista, il gregge mormoreggiante e ammansito delle
ombre femminee rapite dalla malia del nuovo Orfeo, non
senza aver educatamente salutati prima i suoi giudici :
"Addio, vezzosi e teneri donzelli".
Due note risaltano in questo Don Giovanni, e ben colte :
la iattanza invulnerabile, quella che già Dante vide in
Giasone ("Quanto aspetto reale..."), ma più facile e a buon
mercato, che Giasone era sferzato dai demoni, e serrava
in se il suo tormento; Don Giovanni, tutti gli fanno
largo e fin Cerbero con una pedata va a finire in
Acheronte.
La seconda è la padronanza di se perfetta che
questo conserva, e il giuoco dei sentimenti: incanta,
ma è un esercizio psicologico di bravura davanti al cor-
bellato tribunale d'Averno, un trastullo sentimentale con
le ombre femminee irritate. Comincia coli' offrirsi nelle
loro mani : mi foste godimento, siatemi ora martirio :
"fate di me quel che vi aggrada". Indotta la confu-
— 184 —
sione, segue il colpo vincitore. Lusinga, piega, disarma,
avvince :
Gioia un tempo mi deste, ora mi date
Qual più vi piace aspro tormento. Io tutto
Accetterò dalle man vostre, solo
Che mi lasciate coprirle di baci.
Non piangete così, che mi si strugge
Per tenerezza il core. O non saria
Miglior consiglio, nella vostra gréizia
Ricever chi v'adora?
Tutte m'amate poiché tutte io v'amo....
Quaggiù fiori non sono onde alle chiome
Vostre io possa intrecciar vaghe corone ;
Ma in ogni loco, in ogni tempo posso
Cantar, far versi e con le dolci note
Melodiose e con le accorte rime
Celebrar le bellezze e i nomi vostri.
E chi sa... vi sovvien, donne mie care,
D'Euridice e d'Orfeo?
E del trace amatore esser potria
Più venturato Don Giovanni, e trarvi
Fuor di quest'ombra a riveder la cara
Luce del so!, fratello vostro....
Vo' giamo i passi
Verso qua! parte più vi piace, in quale
Più vi piace sostiam
11 verso, spesso tardo, con alcuni ceppi di dicitura in-
vecchiata, pure in questo brano meglio concede all'ispi-
razione. Altrove r "ite con Dio", gli "ahi lassa", il "e te
del pari!", il "madie" ecc. ecc. che non sono messili
volutamente, per dar sapor comico, ma sono invece un
vizio bello e buono, piuttosto che vezzo, — tornano sgra-
diti. Ma non mi passerò di notare il comicissimo di quei
— 185 —
versi felici ( Don Giovanni scacciante le ombre che
vorrebbero salire sulla barca di Caronte):
Indietro!
Che arroganza è la vostra? Indietro o ch'io
Agitando il mantel tutte mi sventolo
Come mosche nell'aria (Scena II).
Ad Arturo Graf è dedicata la poesia dallo stesso titolo
di Ettore Moschino nel volume di Iniche / Lauri edito
dal Treves nel 1908. il Moschino, è noto, come poeta
lirico non ha fatto passi avanti, è rimasto in una posizione
mal conciliativa tra romanticismo e classicismo, invece
di oltre passare. Accoglie nella sua lirica voci di civiltà
ellenica, medioevale, moderna, senza rinnovare man mano
la sua intonazione, che è sempre di un classicismo più
che altro lessicale e mitologico - il peggiore , e anche
nei Canti Moderni, l'Olimpo viene tirato in ballo.
In questa Dannazione di Don Giovanni compresa in
una silloge intitolata : Gli Invincibili, Don Giovanni è ri-
preso posteriore a se stesso, nell'atto di pregare i santi
del paradiso di perdonargli i peccati, peccati non tanto
intenzionali, quanto indotti dal troppo vigoreggiante corpo
("Peccò quella mia forza!") e riscattati ota dalla peni-
tenza e dall'umiliazione. Ciò nella prima parte. Nella
seconda, a Don Giovanni si presenta l'immagine sfolgo-
rante della divina peccatrice Maddalena, e l' invincibile
amatore da vecchio querulo e pentito, rifatto, per incanto,
bello, pone il suo labbro sulla rosea bocca e "fu si-
mile a un Nume ! ". Ciò che non impedisce che sull'istante
un tuono rintroni e la chiesa, ove era, sprofondi fra il
riso del diavolo e la sfida dell'amatore intrepido, fiero della
sua preda.
12* — F. FUÀ, Don Giovanni.
— 186 —
Una colascionata stravagante che in fondo non dice
niente e di poco gusto.
Assai maggior pregio il libretto dello stesso poeta,
musicato dal maestro Franco Alfano: L'ombra di T)on
QioVanni, in tre atti e quattro quadri (ed. Ricordi 1914),
in cui l'abilità di tecnico della scena, del Moschino, ha
miglior luogo e certa rigatteria da guardaroba neoclassi-
cista non fa quella brutta mostra di sé. Due appunti sto-
rico-leggendari precedono il dramma lirico, nei quali è
detto, rapidamente, di Don Giovanni Manara, come ve-
nisse, per la somiglianza con le gesta dell'eroe di Tirso, ap-
pellato così da Miguel Manara, che tale ne era il vero
nome, di famigha corsa, ultimo stipite dei conti di Cinarca,
nato a Siviglia il 1 626, ivi trasferitosi il padre dalla Corsica.
L'ultimo dei Cmarca, dopo avere empito di sue gesta
delittuose la Spagna, è tornato in Corsica, ha ucciso Or-
landuccio, della casa d'Alando, e si rifugia nell' avito
castello, ivi non chiedendo che riconciliarsi con Dio,
mentre la furia vendicatrice dei parenti dell'ucciso agogna
e urla contro di lui (atto 1 ").
Ma Orsetta Colonna parente dell'ucciso, ecco è presa
del conte. Ed ecco Vannina, sorella dell'ucciso, che a
forza si è introdotta nel castello a compier la sua vendetta
contro il reo immersosi nello studio e nella preghiera,
ecco anche lei, davanti all'immagine, — sortale per fa-
scinazione agli occhi e sostituitasi all'odiata figura, — del
divino seduttore, perdutamente sua, cade (atto 2°).
Onde all'ira popolare che vuol vendicato Orlanduccio e
all'immane odio della madre orba, indarno avendo tentato
di opporsi, ella già fattasi armata messaggera di morte, vien
ora legata, per colui che non che uccidere altro non aveva
potuto che amare, a una croce del sentiero, dalla turba
- 187-
indignata, come una strega; scioltane da Orsetta, vola
a dare salvezza all'amato. E nell'ultimo quadro, questi
rifiuta l'aiuto, aspetta la morte come una espiazione, le
dice, per staccarsela, che l'ha schernita, l'ha mgannata.
Non ode ella : - "Tu non puoi mentire"
Le tue dolci parole
Son faville di sole....
Cede allora Don Giovanni e grida: "amore..." E quando
la turba ebbra trabocca rovesciandosi tumida e violenta
su quel puro limbo di luce e d'amore, i due corpi avvinti
beati precipitano insieme sotto i gorghi dell' odio e del
sangue (atto 3°).
Quest'ultimo quadioda cui prende il titolo tutto l'atto 3"
{La fiaccola d'oro) è di drammaticità che non aspetta la
musica per sentirsi polseggiar hequente e passionata; l'au-
tore del Cesare Borgia si riconosce con compiacenza. E
v'ha un'altra situazione scenica gargliarda quando nel
1 ° atto il conte rievoca rapito se stesso :
Nel suo manto di porpora ei s'aggira
Guarda ! Guardalo ! Ei scivola
Nelle alcove gelose
Delle giovani spose. Entra nel nido
Delle innocenze ignare,
Delle vergini in fiore
Bello, ardente è l'amore.
Ebbro di voluttà
Avvampa di lussuria ;
E turbine che infuria
Sfiora gli occhi la bocca
Colla carezza lenta ;
E poi s'avventa,
Abbranca la sua preda
Bianca, la preme al suol.
Un grido, un urlo orrendo e una fanciulla
Crocifissa nel duol.
— 188 —,
....E gli amici traditi
E 1 mariti sgozzati
E i perfidi conviti,
E sai tu quale sia
Questo mostro dannato
Che ha sfidato la terra, il mondo, Dio?
Son io.... Saliano i pianti
Delle madri imploranti
Dalle celle, dagli orti
Pei viventi pei morti ;
Ma il mio cuore d'acciaro
Non sapea la pietà.
La mia voce era un tuono
La mia spada era un raggio.....
Versi frequenti di musica e di visione.
Del tipo Don Giovanni è lumeggiata anche qui la fase
postuma alla dongiovannesca, la fase del rimembrare pas-
sivo e della resipiscenza.
Il Gozzano nei suoi dolci Colloqui (Treves, 1911)
aveva, in una poesia: L'onesto rifiuto, cantata con quella
tremula melanconia che par come nebbia d'armonia ap-
pesa ai mobili accenti dei suoi versi sorrisi e pianti, la
sincerità della coscienza che sa non potere, non potere
amare e congeda l'illusa che amore richiedeva. Ma una
donna lo rimbecca, il mite poeta, senza che paia, senza che
altri si accorga subito che a lui va, di sguincio, lo strale.
L'Insonne di AmaHaGuglielminetti (ed. Treves, 1913)ha
a pag. 82 una poesia a Don Giovanni, nella quale la
donna, più donna che non poetessa qui, lamenta la scarsa
capacità d'amore degli uomini del secolo tralignati dal-
l'esempio del signor della gaia fortuna; e lo fa con palese
intento di caricatura ripetendo talune parole del Gozzano
e contraffacendone per vezzo alcuni gin di frase.
— 189 -
L' uomo non è più quel desso: al desiderio conquista-
tore affianca argini di consigli (ciò che le donne in genere
non amano, specialmente se sono state a scuola dalla
Contessa Lara).
E dice, l'uomo traviato e rimbecillito — questo è il
pensiero se non la parola — della poetessa Guglieìminetti ;
O amica io sono siccome una pianta insecchita
Non voglio la tua vita per l'inganno e per l'abbandono.
D'uopo è che questo ti sveli con franca parola ;
O illusa ti consola: rifiuto non fu mai più onesto....
Ove è ripreso e rimpianto per antitesi l'ameno bizzarro
tipo del Don Giovanni comico e preromantico.
Nella mia copiosa collezione di appunti dongiovan-
neschi, troverei altro a spigolare, ma sarebbe solo un far
fascio. Ho lavori trascurabili di autori non trascurati.
(Ojetti, Zuccoli, Negri); ma sono ameni passatempi o
innocui specchi d'allodole da far ballare gli occhi col titolo
magico e che poi ti lasciano scorbacchiato. Basti citarli
per la cronaca, diremo così.
Ora è uscito un libro di Vincenzo Cardarelli : Viaggi
nel tempo, con una divagazione, tra l'altro, su Don Gio-
vanni, che era già nota ai leggitori delle Riviste. Don
Giovanni che ama non le donne, distintamente, ma le
occasioni, e che sarebbe audace combattitore e eroe se
non fosse... Don Giovanni, non ha niente di nuovo; una
chiosa si riappicca alla prima proposizione, per sottovoce
liricamente commentare che bisogna amare la realtà con
distinzione precisa. Il liricamente, debbo dirlo, non è mio.
— IQO —
Penso al grande Dossi e al suo feticismo pel povero
Rovani! E come non scusare, in tempi deserti di dei,
anche i fanatismi reciproci che mettono un'ora in subbu-
glio gli abitanti dello stesso none letterario?
Ho nota di buone ispirazioni dongiovannesche;.... ma
autori Cameadi; e ne potrebbero questi sperar grido dal-
l'esser citati qui, ne io mettermi a fare il rivelatore. Taccio
le miserie assortite degli illustri e degli ignoti.
Salverò una discreta poesia in cui è ripreso il Don Gio-
vanni tragico; e l'accoderò in nota (17).
191
NOTE ALLA QUARTA PARTE.
(I ) Ho esaminato questo scenario nei Rendiconti della R. A. dei
Lincei 1901. Voi. 10°, Serie V, pagg. 400-407.
(2) Esamino la commedia del Cicognini nell' edizione di Ronci-
glione 1671.
(3) Bévotte, op. cit., pag. 131.
(4) Lo Schack, op. cit., voi. cit., pag. 445, dice, contrariamente,
che un Feslin de Pierre era rappresentato in Italia nel 1620. Cita in
nota il Riccoboni Hist. du ih. Hai., t. 1, pag. 47. Ma il Ricco-
boni non dice questo. Dice che pel 600 eran di moda — senza
1 620 ! -, le traduzioni della Vita è un sogno, del Festino di Pietra, ecc.
Cosa nota. 11 Brouwer {Rass, crii., voi. Il, anno 1897, pagina 147:
Ancora Don Giovanni) ripete la stessa inesattezza, citando forse dallo
Schack stesso.
(5) A proposito del Giliberto e dei miei dubbi sulla ben costruita
ipotesi (pag. 112) del Bévotte, può notarsi che lo stesso Solofrano
è autore di un Cavaliere della Rosa, romanzo d'argomento spagnuolo
che il Farinelli dice, per notizia del Croce, orribilmente scritto e di
scarso valore. (Gl'or. 5/or. art. cit., pag. 43). E possibile che sia stato
preso per modello un modello così poco esemplare? E, così mal nolo
da noi, lo fosse tanto in arancia? Non mi par verosimile mollo.
(6) Non avendo avuto a mia disposizione il Gueuletle, deduco lo
scenario da lui riportato, dalla lezione del Castil Blaze {Molière Mu-
sicien), riprodotte dal Moland {Molière et la Comédie Hai., cap. 1 l^J:
tranneché tolgo l'ultima scena infernale che il Castil Blaze vi aggiunse
erroneamente.
(7) Della commedia del Ferrucci, che il Brouwer nel 1897 dava
per irreperibile, è una edizione alla Bib. Univ. Bologna del 1 706 ;
di cui si è servito il Bévotte.
(8) Rendiconti citati, pagg. 430-35. Ivi ho esaminato lo scenario.
— 192 —
(9) Esamino il Don Giovanni Tenario del Goldoni, che non è
compreso in tutte le edizioni delle sue commedie, in quella del 1823
— 'Prato - F.lli Giachetti — La seconda del tomo primo.
(10) Era anche aridamente in Rosimond — Le nouveau Festin
de Pierre ou V Aihée faudroyé — (già citato): "Le bien dont on
jouit ne cause plus d'ardeur " (atto 1", scena ili). Quanto ai tempi
moderni, di consimili intuizioni liriche non si ha che a scegliere, dal
" parfum de tristesse " del Mallarmé (Apparilion) al:
Non amo che le rose
Che non colsi *
di Guido Gozzano (Cocoile); — per citar due alla prima ; — pen-
sieri che si ricongiungono alla pascoliana definizione del dolore :
il fior che solò odora quando è colto.
[L'Eremita, in Nuovi Poemetti).
Si può dire che tutta l' mtonazione della poesia più moderna è in
questo accoramento. E del resto essa una delle note più universali,
nonché alle letterature, all'anime umane. E nel variar dei tempi, dei
gusti, della civiltà, il ritornello eterno del destino mortale.
(11) Ho esaminato l'atto del Bertati nell'edizione dell'epoca -
Venezia, presso Antonio Casali.
(12) In questo Capriccio vi è un passo che ha una certa impor-
tanza sfuggita al Moland e al Bévotte; e che contribuisce a chiarire
quel piccolo rebus della traduzione francese del Convitato di Pietra
in Festin invece che Concie de Pierre. Sebbene la spiegazione meglio
si riserberebbe allo studio del Don Giovanni in Francia, mi sbrigherò
di notare che questo scambio deriva, come è ormai constatato, dal-
l'aver attribuito al commendatore il nome di Pietro ; una digradazione
onomastica, se si può dir così, negli scenari italiani. 11 Cavalier Tem-
pesta del Capriccio ricorda appunto il Convitato di Pietro (scena VI):
un chiasmo d'idee : da Convitalo di Pietra e Convito di Pietro è ve-
nuto fuori Convitato di Pietro I
(13) Nel Da Ponte, il racconto dell'attentato passa a Don Gio-
vanni, — con più naturalezza — , che lo espone tra risa e brevissi-
mamente a Leporello, atto I ", scena 111.
( 1 4) Esamino il Dissoluto punito ossia Don Giovanni del Da
Ponte nell'edizione del 1811 — Puccinelli — Roma.
— 193 —
(15) So che questa mia considerazione stona con le buone parole,
che ha per questo Don Giovanni il Grillparzer e anche il Farinelli
che lo seconda. Ma
* (16) 11 Farinelli (art. cit., pag. 317, nota 1) in una noterella sprez-
zante evita di fermar l'occhio sulla breve lirica baudelairiana, — una
poesiuccia insignificante — dice. Mi pare quasi un'insolenza. Non è
una poesiuccia insignificante. Niente di nuovo, ma non è mica detto
che nella lirica si debbano scoprire delle Americhe ! Anzi di nuovo,
c'è r immagine perfetta, la visione baudelairianamente metallica, in cui
il suono scolpe. Che altro ?
(17)
DON GIOVANNI
Nell'inerzia diffusa delie pacate tombe
Don Giovanni avanzava con risata d' inferno ;
E traean le ceree aurore di colombe
Dopo la regia tenebra del destinato scherno.
Erano tutte morte, erano tutte belle
Le morte per l'amore delle pupille ferree.
Don Giovanni vagava ravviluppato, ed elle
Rifiorian di fuggevoli risi l'attese terree.
— Don Giovanni — cantava la duchessa Isabella
Senz'odio, gli occhi immensi come due lachi neri :
— Ricordi le smarrite sere sul mare, nella
Lancia lenta d* amore, tacila di misteri ? —
— Don Giovanni — • la trista donna Elvira nel lutto
Dell'inganno costretta a lui con irto pianto:
— lo ero bella un giorno tra le belle, e tu lutto
Mi prendesti e io voleva odiarti, e t'amo tanto. —
— Don Giovanni — la pia nelle bende di suora
Ines bianca con afona tranquillità gli geme :
— Ah ! ti perdoni Iddio il tuo delitto, e ancora
A me l'insano pianto delle mie ore estreme. —
— 194 —
Muto nel manto nero, torvo nella sua morte,
Don Giovanni avanzava con terribile ghigno.
Rattrappito nell'ombra sua, di terror contorte
Leporello le labbra, lo seguia con un frigno.
E cortigiane torpide e verginelle bionde
E pompose matrone e garrule villane
Abolian le pàtule tombe, innumeri a onde
Svoltolantisi suoni di sepolte campane.
Estasi suoni bianchi d'alianti farfalle
— Pace irradian pace a torno a muto orno
Imperturbabil tenebra tu spartivi : alle spalle
E morian i richiami e sovra i muri il giorno.
II.
— Ah ! perchè voi m'avete così infinitamente
Amato, perchè tutte siete nel lampo nero
Degli occhi miei cadute, belle e perdutamente
Abbandonate al mio bacio, senza pensiero ?
Nessuna al balenare dell'acciaiato amore,
Quanto più dentro al tremolo petto, io stracciava il cuore
Per burla, con l'orgoglio del ribelle valore.
Sbarrò l' intatta sillaba tentata a tutte l'ore ;
Ma come all'acre carpo dell'atleta acclamato
Acciar non v'ha che flesso non ceda, io tutte l'ebbi
Al primo assalto, io tutti i cuori all' impagato
Desiderio impiccati, come di forca ai rebbi.
Solo nel vostro vuoto, maledico la molle
Anima e il dono vano: tutte le vostre coppe
Voi m'offeriste a gara, femmine, come a folle
D'arsura ; e senza gloria bevvi io, ridendo, a troppe ;
— 195 —
Ma non era quell'una alla mia sete, degna
Bevanda ; invan frugtu e non trovai, per quante
Anime féssi e ne stirpai la vita indegna.
La dura al mio coltello sillaba d'adamante.
E vi rinnego. Solo voleva alla mia spada
Eguale spada, e tutte voi m'avete mentito.
L'ultima asp>etto Grande Vincitrice. M'invada
Ella e non ceda, lo medesimo l'invito. —
Queste sotto il torvo arco del sopracciglio ansava
Don Giovanni tremende cose, mentre con secco
Colpo alla porta tre volte una nocca dava.
E Don Giovanni in piedi sorto, rispose : Ecco. -
196 —
POSTILLE DONGIOVANNESCHE.
Scelgo e stralcio dai miei quaderni dongiovanneschi
alcune osservazioni che possono contribuire al ricono-
scimento del tipo e a chiarirne qualche tratto.
I.
La trasformabilità fisionomica e psicologica di Don
Giovanni mi pare abbia origine nell'assenza del senti-
mento di identità: ciò che spiegherebbe anche la man-
canza in lui di memoria (memoria sensibile opposta
alla meccanica).
II.
Sa chi scrive, di esseri propinqui a Don Giovanni,
come all'atto d'amore comunemente diano piccola
quantità di liquido seminale. Ove gli erotici e sensuali
massima. Ciò consente ai dongiovanni la ripetizione
frequente degli atti sessuali, in ciascuno dei quali poca
forza consumano.
Gli erotici nell'atto d'amore delirano e si dibattono,
i Don Giovanni restano rapidi e interi.
L'osservazione che taluno poco avveduto mosse, che
la lussuria sia agitazione, ansia e perciò moto, non
impedimento, può trovare anche confutazione nell'eti-
mologia di alcune delle parole che ne definiscono
l'idea; confutazione che riportando alle origini dei
concetti, per eliderne tutte le successive superstizioni
di significato, è spesso la migliore. (Vedi i termini
— 197 —
lussuria, lubricità, lascivia, ecc., e l'immagine consocia
del fango; tutto ciò indizia impedimento al muoversi
attivo, e risale alla rappresentazione del liquido origi-
nale, seguendo il processo logico che lo sciogliersi in
acqua impedisce il moto).
L'irrequietezza locale dei lussuriosi si discentra dal-
l'immobilità, è annaspamento improduttivo; la mobilità
di Don Giovanni è intera e produttrice, è veramente
moto ; l'una tormento e febbre, l'altra progresso e
prassi.
III.
Nello stato primitivo dell'uomo desiderio e potere
si controbilanciano, la felicità relativa è un fatto, l'im-
maginazione non essendo ancora desta. Nemmeno in
Don Giovanni l'immaginazione è adulta, appena anzi
rudimentale, inquantochè non lascia vuoto ad essa la
simultaneità e aderenza del desiderio e del potere. Più
l'immaginazione prevale, più Don Giovanni si accosta
al tipo duca Ottavio. Per contaminazione di idee, par-
tendo da questa affinità tra lo stato primitivo dell'uomo
e la condizione psicologica dongiovannesca, si è cre-
duto ritrovare il dongiovannesimo già prodotto prima
assai che salito a denominazione, e in età primitiva.
Nel primitivo, quale possiamo per eliminazione rico-
struirlo, è se mai la greggia potenzialità dongiovan-
nesca unita con attualità contrarissime al nostro tipo:
la condizione essenziale al suo differenziarsi, il mefi-
stofelismo, è moderna (vedine le osservazioni della
prima parte).
E poi il parlare di stati psicologici preesistenti alla
loro definizione onomastica nasconde spesso un tra-
nello: dice tutto e niente: tutti i sentimenti e tutte le
facoltà si può dire in certo modo che preesistano nel
— 198 —
mondo interiore alla loro conoscenza e alla loro forma,
ma in verità non li si può dire percepiti e viventi, se
non all'atto che li vertebri il nome.
IV.
Don Giovanni ha un altro carattere del primitivo :
l'innocenza soggettiva, comune al Bambino. Come il
Bambino non sa il male che infligge alle bestioline
che tortura per gioco, così al Don Giovanni pratico
è ignoto il dolore delle sue vittime e per lui i gridi
e i pianti destituiti della loro ragione sono lezii e mere
alterazioni somatiche che egli stesso può riprodurre,
illudendo abilmente sulle emozioni interne che esse
presuppongono.
Vi vede frivole ragioni e ne ride, non per malvagità,
ma perchè egli non può affondarsi nel loro significato,
egli che vive per principio sulla superficie degli abissi
che ha scavato.
Il Don Giovanni teorico è, come Satana, il superatore
degli stadi sentimentali, a cui è fatto estraneo, inquan-
tochè non li ricorda (vedi osservazione prima).
V.
Don Giovanni che interroga sé stesso intorno al suo
potere, è già capitolato.
VI.
Don Giovanni è l'uomo piìi d'accordo con sé stesso.
Se non lo fosse, non potrebbe discordare tanto dalle
donne che lo amano.
— 199 —
VII.
A Don Giovanni la fantasia popolare, intuitiva come
un artista, ha messo la mandola a tracolla e una can-
zone sul labbro. Egli è per antonomasia il Libero di
sé. Chi vuole esperimentar una burla, immagini Faust
con la mandola e la canzone.
Vili.
L'Erotismo ha per suo simbolo estremo o il Barbe-
bleu (Gilles de Lavai) della leggenda brettone quattro-
centesca, che uccideva donne e fanciulli per libidine
e stregoneccio ; o il Marchese de Sade ; o potrebbesi
apporgli l'allegoria della vipera che, secondo la diceria
antica, anche accolta da Brunetto Latini, si caccia in
bocca nel concubito la testa del compagno e ne la
stacca per foia. Tutte antitesi gridanti al tipo don-
giovannesco.
IX.
Da questa constatazione della libertà di Don Gio-
vanni rispetto ai vischi erotici si gemina l'idea della
sua libertà rispetto a norme etiche e civili, donde il
Don Giovanni da Molière in poi festeggiante i diritti
della natura contro le convenzioni e gli asservimenti
del viver sociale.
X.
Una definizione dongiovannesca che la scienza spe-
rimentale potrebbe accogliere senza scrupoli sarebbe
questa: Don Giovanni è un ipnotizzatore-nato e incon-
sapevole.
XI.
Acutamente si dice che nella donna l'amore comincia
dal cuore e va al senso, nell'uomo viceversa. Ora l'in-
verso femminile di Don Giovanni è la Prostituta ossia
— 200 —
la Sessuale Insensibile, forma assai soggetta a quella
dongiovannesca e in essa rientrante. Nonostante i casi
intermedi ed eccentrici, la femmina non può prescin-
dere, né far prescindere dalla sua forma sensibile, e il
fascino di essa primamente spira dalla sua pelle (" l'odore
della mia pelle può dissolvere in te un mondo " parole
di Ippolita a Giorgio Aurispa — Trionfo della Morte — ).
Ne segue che la sua azione è più vasta, più semplice,
incompleta. Il suo dongiovannesimo è essenzialmente
sessuale ed eccitatore, quello maschile essenzialmente
spirituale e creatore. Il tipo Don Giovanni - Femmina
0 Prostituta non ha avuto bisogno certo di un Tirso
né del 600 per venire fuori, in arte! Taide e Bacchide
di Terenzio lo fan già finito e parlante avanti a noi. Ma
forse non è chi l'abbia meglio fermato, del nostro Aretino
(Omero del lupanare!), sopra assai del suo tempo: chi
dimentica la sempre vivente Nanna? E la Tullia del
Filosofo? E alcune memorabili scene della Cortigiana e
la Talanta, sebbene la più brutta delle cinque commedie?
Penso, di quest'ultima, a quella scena xiv dell'atto 2°,
in cui all'allarme del Biffa, che, per lei, Orfinio con
Armileo sta facendo alle coltellate... — e la metallica
Talanta: «Starla fresco il vino, se quegli che se ne
guastano volessero esser rifatti da lui », e poi di scherno:
"Non gli mando delle pezze per le piaghe perchè le
camiscie delle donne le marciscono!".
Don Giovanni acceca in sé perdutamente le sue vit-
time, che si spengono in lui.
La Prostituta non riesce a supplire mai altrui ogni
luce di coscienza, questa potendo restar vigile anche
sopra e in mezzo al tumulto dei sensi.
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