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Full text of "Don Giovanni : attraverso le letterature spagnuola e italiana"

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UNIVERSITY 
1                            1 

1761    01 

co 

DON   GIOVANNI 

attraverso  le  letterature  spagnuola  e  italiana 


FRANCO    FUÀ 


Don  Giovanni 


attraverso  le  letterature  spagnuola  e  italiana 


Torino  -  S.   LATTES  &  C.  -  Genova 


EDITORI 


Librai  della  Real  Casa 


Firenze  :   R.    Bemporad  e  figli< 


Proprietà  Letteraria 


^1 


Stabilimento  Tipografico   Ajani   &  Canale  -  Torino. 


PROPONIMENTO. 


Il  mio  studio  di  Don  Giovanni  attraverso  alle  due 
letterature  che  l'una  prima  e  l'altra  poco  appresso  ne 
accolgono  il  tipo  e  lo  vagheggiano,  -  saggio  che 
potrà  occasionare  il  più  vasto  cimento  di  rincorrere 
il  corridor  di  femmine  traverso  le  altre  letterature,  - 
non  nasce  precisamente  da  un  motivo  letterario,  seb- 
bene, in  fondo,  sulla  via  della  letteratura  muti  i  suoi 
passi. 

Muovo  dalla  premessa  dedottami  da  osservazioni 
ed  esperimento,  che  esista  una  forma  fìsica  sessuale 
sentimentale,  che,  astratta,  trova  il  suo  contenuto 
pratico  nella  realtà,  e  le  manifestazioni  ne  sono  quelle 
che  circostanziano  Don  Giovanni.  Per  formare  il 
quale  non  però  bastano  le  operazioni,  ma  intima 
essenza  n  è  quella  che  mi  proverò  ad  investigare  poi. 

Perchè  a  questa  forma  si  sia  lasciato  il  nome  Don 
Giovanni,  quando  poi  la  commedia  da  cui  discende 
questo  nome  non  contiene  in  chi  ne  distinto   che 


—   VI 


pochi  tratti  rispondenti  alla  figura  da  individuare, 
non  farà  spalancar  gli  occhi  a  nessuno  che  pensi  un 
po'  come  voltabile  più  delle  sorti  umane . . .  non  sia 
che  la  sorte  dei  vocaboli.  Alle  altre  cause  sottili  e 
senza  piglio,  si  aggiunge  questa,  che  Tirso  che  pren- 
deva dalla  leggenda  ove  il  nome  poteva  anche  esser 
diverso,  tratteggiava  nella  sua  commedia  un  bel  tipo 
di  trappoliere  d'amore  col  mosaico  delle  sue  berte  ; 
e  pure,  intento  ad  altro  scopo,  per  quell'  inerzia  di 
moto,  onde  nei  momenti  creativi  sorgono  su  i  parti 
migliori,  gli  venne  fatto  che  una  vitalità  di  ben  altro 
suono,  che  non  nelle  analoghe  figure  della  scena  di 
allora,  riscampanellasse  nel  personaggio,  il  cui  nome 
è  anche  assai  frequente  nel  teatro  spagnuolo  del  tempo; 
onde  poi  quello  facesse  retate  delle  attenzioni  e  delle 
simpatie  universali,  saltati  i  valli  della  commedia 
prima.  Sempre  l'opera  collabora  col  suo  autore. 

L'idea  impersonale  e  nebulosa  che  fluttuava  nella 
vita,  che  è  la  subcoscienza  dell'arte,  della  possibilità 
di  Don  Giovanni,  ecco  è  riscattata  a  luce  d'inten- 
zione artistica  dopo  il  sorgere  dell'or  veduto  Don 
Giovanni  Tenorio. 

Prima,  i  presagi,  sempre  inintenzionali  e  occasio- 
nali :  non,  di  un  tale,  tanto  rappresentare  l'insensibi- 
lità proprio  dongiovannesca  ai  suoi  amori,  si  cerca, 
quanto  questi  amori,  e  di  questi  gli  obbietti  femminili; 
troviamo  qua  e  là  frammenti  a  caso,  sparti  frantumi 
predongiovanneschi,  chi  ama  scorrazzare  curioso  per 


VII 


le  letterature  ;  ovunque  però  non  si  prevede  che  quei 
lacerti  possano  unirsi,  congregarsi  e  ristampare  all'arte 
il  modello  dongiovannesco  che  nella  vita  potè  esistere 
assai  lontanamente. 

Nella  commedia  latina,  tutta  d'uno  stampo,  in 
sostanza,  ravvisiamo  al  più  un  profeta  di  Falstaff  nel 
Pirgopolmice  plautmo  ;  quanto  ai  giovani  amorosi  di 
Plauto  e  Terenzio,  tutti  sanno  che  cosa  sono  ;  fatti 
a  macchina  paiono,  a  mo'  di  tessere  ;  —  passate  ai 
servi  e  ai  parassiti  e  lì  comincia  la  vita  ;  talora  l'au- 
dacia faceta  dei  Cureulioni  e  Tranioni  plautini,  dei 
Davi  e  Parmenoni  terenziani  s'immilla  di  ironia  che 
ha  del  dongiovannesco  non  attuato  ;  e  a  Don  Gio- 
vanni è  veramente  riassunto  alcun  carattere  forse 
inintenzionale  dei  servi  girandolai  della  commedia 
romana,  ove  ai  fievoli  servi  di  Don  Giovanni  è  un 
ricordo  della  pacchiona  crapulosità  degli  Ergasili  e 
e  dei  Gnatom. 

Le  pastorelle  francesi  del  200  -  dialoghetti 
d'amore  fra  la  galanteria  maestra  di  un  cavaliere  a 
diporto  e  la  ritrosia  di  una  contadinella,  or  timida  or 
molto  simile  alla  Galatea  di  Vergilio,  -  hanno  qua  e 
là  delle  figure  maschili  ignare  di  se,  colte  sulla  via, 
cui  il  cantore  ispira  intuitivamente  una  vita  che  lui 
stesso  non  saprebbe  analizzare,  che  insertano  quei 
quadretti  nel  raggio  della  nostra  osservazione. 

Anche  nelle  nostre  poesie  d'argomento  amoroso 
del  periodo  dell'origini,  tratti  dongiovanneschi,   spe- 


vili 


cialmente  nel  meridionale,  tralucono.  Senza  tuttavia 
consentire  al  Prof.  Caix  (  1  )  che  il  noto  contrasto 
di  Cielo  dal  Camo  rifletta  in  sé  una  figura  di 
"  errante  Don  Giovanni  ",  ove  il  Bartoli  (2)  e  il 
D'Ovidio  (3)  intravedono  un  buon  popolanone  pieno 
di  fregole  e  giovedì  grassi  che  pare  a  me  combatta 
solo  a  parole,  e  per  mero  piacer  del  poeta,  con  una 
femminella  che  n'ha  più  voglia  di  lui  ("  a  lo  letto  ne 
gimo  a  la  bon  ora"). 

Ma  ad  esempio  quella  poesia  popolare  napolìtana, 
secondo  è  detta  nel  codice,  che  il  Carducci  riporta 
a  pag.  57  delle  sue  Cantilene  e  ballate  e  il  Bartoli 
ripete  nell'opera  citata  (tomo  2,  cap.  6,  pag.  1  24), 
è  da  riguardarsi,  e  perchè  ha  il  seme  di  un  motivo 
che  sarà  svolto  e  variato  poi  ripetutamente  dai  com- 
mediografi dei  Don  Giovanni,  e  per  la  forma  d'animo, 
che  rivela,  di  spiritosa  leggerezza. 

Gimene  a  letto  della  donna  mia, 
Stesi  la  mano  e  toccaile  lo  lato. 
Ella  si  risvegliò,  ch'ella  dormia  : 
Onde  ci  entrasti,  cane  rinnegato  ? 


(1)  Giulio  D'Alcamo  e  gli  imitatori  delle  Romanze  e  Pastorelle 
pTooenzali  e  francesi  nella  Nuova  Antologia,  voi.  XXX,  fase.  2^; 
Ancora  del  Contrasto  di  Giulio  D'Alcamo  nella  Ricista  Europea, 
anno  VII,  voi.  II,  fase.  3  "  ;  //  contrasto  di  Giulio  D'Alcamo  ne\\& Rivista 
di  filologia  romanza,  voi.  II,  fase.  3''  e  4". 

Estraggo  queste  eìtazioni  dal  Bartoli:  Storia  della  letteratura  Italiana, 
tomo  II,  pag.  129,  nota  2  (ediz.  Sansoni,  Firenze,  1879). 

(2)  Op.  cit.,  eap.  VI. 

(3)  Saggi  critici,  pagg.  466-538  (Napoli,  edizione  Domenieo  Mo- 
rano. 1879). 

Di  eguale  opinione  è  il  Gaspary  :  St.  d.  let.  It.  {\^'  voi.  trad.  Zin- 
garelli,  ed.  Loescher,   1914,  pagg.  70-73). 


IX 


Entraici  dalla  porta,  o  vita  mia, 
Priegoti  ch'io  ti  sia  raccomandato. 
Or  poi  che  ci  se'  entrato,  fatto  sia, 
Spogliati  ignudo  e  corquamiti  allato. 

Poi  ch'avem  fallo  lullo  noslro  gioco. 
Tolsi  gli  panni  e  voleami  vestire. 
Ed  ella  disse  :  Stacci  un  altro  poco 
Che  non  sai  i  giorni  che  ci  puoi  transire. 

Non  si  va  col  pensiero  alla  scena  notturna  tra  la 
contadina  Aminta  e  Don  Giovanni  del  Burlador  ? 

Originalmente,  della  storia  di  Don  Giovanni  è 
invero  prima  patria  la  leggenda  popolare,  e  precisa- 
mente dei  popoli  meridionah,  più  precisamente,  per 
vari  indizi,  dello  spagnuolo. 

Non  è  il  popolo  l'eterno  giovine  che  non  trova 
malìa  che  nei  racconti  d'amore  e  gode  gonfiare  gon- 
fiare dei  sospiri  i  più  abnormi  la  molto  elementare 
irriducibilità  dell'accoppiamento  ? 

Così,  è  gradito  al  popolo  il  particolare  del  reo 
pentito  e  converso,  o  comunque  dell'uomo  che  dopo 
procellosa  vita  entra  a  vele  calate  nel  porto. 

Quante  leggende  non  ripetono  l'esempio  dalla 
storia  di  Lancellotto  del  Lago,  amata  anche  da 
Dante  (  1  )  :  -  dopo  vagabondaggi  e  mondane  avven- 
ture, a  una  badia  si  rende  per  tutto  il  resto  della 
vita  -? 


(I)   Dante,  Concitìio,  Trattato  4,  cap.  XXVllI. 


Nei  primi  Don  Giovanni  la  parte  concessa  al  pen- 
timento vano  è  lieve  e  quasi  trascurabile,  per  quanto 
ampliata  e  fatta  onorevole  col  Romanticismo  ;  ma 
anche  in  quelli  l'ampia  visione  delle  pene  infernali 
significativamente  integra  il  tardivo  pentimento  e  mostra 
qui  essere  le  radici  che  abbarbicano  all'anima  elabo- 
ratrice  il  personaggio  che  non  gradirebbe  al  volgo 
come  un'assoluta  figurazione  di  male. 

Nasce  Don  Giovanni  per  le  platee  ;  perciò  il  mag- 
gior suo  svolgimento  l'ha  sulla  scena,  la  quale  che 
altro  se  non  l'interceditrice,  è,  tra  il  genio  e  la  mar- 
maglia ? 

Nella  stessa  trabeazione  della  leggenda  i  fregi 
principali  che  sono  gli  inviti  a  cena  dello  schernitore 
al  marmo  e  di  questo,  animatosi,  a  quello,  confessano 
l'origine  popolare  dall'antichissimo  annettere  al  mec- 
canismo quotidiano  del  pasto  lo  scoppio  di  qualche 
evento  e  l'attribuirvi  comunque  un  senso  di  quasi 
eufemistica  inviolabilità.  Onde,  per  un  esempio,  in  Eu- 
docia  Augusta  si  trova  che  in  Argo  era  divieto  ad  uc- 
cidere alcuno  col  quale  si  era  mangiato  (1  ).  E  occor- 
rerà rammentare  i  conviti  olocausti,  venerabili  e  tanto 
importanti  di  Omero?  (2).  E  quelli  spiranti  fato 
degli  antichi  Ebrei  ?  (3) 


(1)  'ICOVLtt,    XleQÌ    BeÀÀEQOCpÓVTOV. 

(2)  Es.  Iliade,  lib.  9°.  ver.  200-225,  e  anche  lib.  24°,  ver.  600-627. 

(3)  Es.  Vec.  Test.  Ester,  cap.  V  e  VII. 


XI 


L'animarsi  d'una  pietra  poi  è  vano  perdersi  ora  a 
dire  come  è  di  per  se  un'invenzione  tutta  primitivismo 
popolare  :  di  consimili  favole  nessun  popolo  ha  penuria. 

Ora  tutto  questo  popolarismo  della  leggenda,  che 
dovrò  megho  esplicare,  non  so  quanto  avrebbe  egli 
tirata  l'attenzione  di  chi  scrive,  se  non  forse  per  la 
stranezza  che  sotto  si  mgolfa  alla  prima  semplicità  a 
tutti  ostensa,  per  i  hquori  di  lirico  e  tragico  che,  entro 
labendovi  ai  vuoti  della  solida  lettera,  chiaman  a 
specchiarvisi  tristezze  errabonde... 

Che  le  ditate  degli  impuri  senza  numero,  che 
hanno  incestato  questa  fantasia,  non  ne  han  tocco  ne 
pur  indovinato  l'intimo  lago  di  sogno  del  cuore. 

Ma  comunque  secondare  anche  senza  intenzione 
i  vagheggiamenti  e  i  piaceri  dei  più  non  era  tale 
obbietto  da  invogliar  molto  chi  per  le  nostre  troppo 
umane  propensioni  ne  abbia  la  più  rosea  delle  indul- 
genze ne  personalmente  l'attitudine  pur  rispettabilis- 
sima a  scripitillarsi  addosso  i  tintinnaboli  della  pub- 
blicità, a  mo'  degli  AJcibiadi  di  tutti  i  tempi  ;  se 
qualcosa  di  più  fermo  e  più  serio  non  m'avesse  ade- 
scato a  intrattenermi  m  mezzo  all'argomento  don- 
giovannesco, rispiando  non  pure  le  manifestazioni 
d'arte  -  miniere  di  fantasia  -  ma  la  vita  che  mi  scor- 
reva davanti  tanta  materia  d'arte  inconsciamente 
traendo  seco. 

E  riuscii  a  convincermi  di  trovarmi  avanti  a  qual- 
cosa di  ben  altro  che  a  vii  materia  di  trastullo  a  proverbi 


XII 


e  antonomasie  popolaresche,  di  sollazzo  domenicale 
a  serve  e  frugoletti  accrocchiati  di  faccia  a  un  barac- 
cone di  teste  di  legno. 

Riconobbi  e  ricostruii  in  Don  Giovanni  un  tipo 
di  amatore,  chiamandolo  così  dalla  sua  qualità  inversa, 
che  è  quella  di  non  amare  riamatissimo,  ove  per 
amore  si  seguiti  a  intendere  l'attrazione  suprema  sen- 
timentale e  sensuale  verso  uno  e  non  altro  obbietto. 

Riconobbi  m  Don  Giovanni  un'essenza  ultima 
che  non  è  spirituale,  non  è  fisica,  ma  tutt'e  due,  ne 
meramente  magnetica,  che  la  sua  azione  non  è  solo 
attrattiva,  ma  propagatrice,  diffusiva;  (mi  accordai 
con  me  stesso  di  chiamarla  plessica). 

Forza  di  natura,  estranea  a  valutazione  morale, 
è,  come  peculiarmente  attiva,  ignara  a  se  stessa. 

Giudicai  la  dongiovannesca  un'energia  nova  non 
avanti  distinta  nella  dinamica  della  vita  e  vanamente 
diffusa  nei  vari  uomini, 

E  chiamo  situazioni  prette  dongiovannesche  quelle 
in  cui  il  personaggio  restando  del  tutto  consapevole 
di  se  e  calcolatore  e  talora  contemporaneamente 
attendendo  ad  altro,  trascina  a  suo  impero  la  perduta 
ammaliazione  del  tipo  femmina,  e,  lui  estraneo  o  irri- 
sore, ne  estrae  concenti  di  passione  e  poesia,  abban- 
doni di  sogni  intorno  a  se,  tutto  quel  paradiso  d'amore 
che  raramente  altri,  corrispondendovi,  riescirebbe  a 
creare  così  perfetto,  e,  appunto  perchè  corrispon- 
dendovi, mai  così  assoluto. 


—    XIII 


Dopo  ciò  perchè  la  mia  trattazione  nata  su  espe- 
rimento battuto  si  sia  venuta  intralciando  tra  l' impra- 
tiche coltivazioni  della  poesia  e  della  letteratura,  sarà 
ingenuo  domandare  e  rispondere. 

A  ciascuno  il  suo.  Che  il  modesto  me  uso  alle 
fantasmagoriche  evasioni  nei  letterari  oblii  della  ferrea 
vita  abbia  messo  per  un  momento  la  material  punta 
del  piede  suo  fuori  del  palagio  di  nuvole  sullo  sterrato 
nuovo,  niente  di  male  ;  ma  a  troppo  insistere  sul  dis- 
sueto suolo,  farei  il  paio  del  villan  che  s'inurba. 

Per  evitare  il  che,  scelgo,  estratto  e  ricomposto 
dal  vero  per  eliminazione  il  mio  tipo  dongiovannesco, 
di  seguirne  i  confronti  con  le  figure  letterarie,  a  riprova 
di  queste,  e  anche  a  maggior  colorito  di  quello  ;  non 
scartando  del  tutto  gli  aiuti  della  esperienza  e  della 
psicologia,  ma  servendomene  come  di  elementi  estrin- 
seci, ove  in  altro  trattato  e  di  altri  intenti,  che  si  farà, 
quello  letterario  il  più  lento,  dovrebbe  essere,  e  ap- 
pena marginale  elemento  ;  sostanziale,  l'esperimento 
positivo. 

Così  seguo  attraverso  la  Spagna  e  l'Italia  Don 
Giovanni,  travalicando  l'ordine  simultaneamente  cro- 
nologico osservato  finora  nei  tanti  studi  della  leggenda 
fatti  da  pregiati  critici,  che  ne  hanno  indagata  la  genesi 
storica  e  il  mutevole  differenziarsi  degli  elementi  tra- 
verso le  salde  date,  -  ad  altro  affaccendati  che  a  ri- 
sollevare in  luce  un  tipo,  umile  ufficio  che  forse  han 
serbato  a  me. 


—   XIV  — 


In  Italia  del  resto,  anche  in  questo  senso,  di  note- 
vole su  questo  argomento,  oltre  ad  articoli  di  giornali 
degni  d'ombra,  non  s'è  scritto  che  dal  Brouwer  e 
dal  Farinelli,  come  s'indicherà  più  specialmente  lungo 
il  cammino. 

Della  letteratura  spagnuola  dongiovannesca  più 
moderna  non  tutto  m'è  riuscito  procurarmi  quanto 
conosceva  e  avrei  voluto  :  d'altra  parte  valermi  di 
traduzioni  o  riduzioni  o  riassunti  d'altrove  e  comun- 
que prescindere  dall'opera  che  ho  sempre  preteso 
aver  sott'occhi,  non  volli. 

Delle  opere,  oggetto  e  vittima  della  mia  aspra 
analisi,  di  quelle,  come  non  poche,  mi  concedo  di 
parlare. 

E  intendo  di  far  chiare  anche  le  colorazioni  nazio- 
nali che  il  tipo  prende  traverso  le  fantasie  di  ciascun 
popolo. 


INDICE 


Parte  prima  =   Il  tipo  e  la  sua  fortuna       .      .      .  Pag.  I 

Parte  seconda  :   La  Leggenda  e   U   Burlador     .  »  29 

Parte  terza  :   Don  Giovanni   in  Ispagna  »  63 

Parte  QUARTA:   Don   Giovanni   in  Italia    ...  »  115 


ìM^f^]  [^^]  m^  Bso 


PARTE  PRIMA 
Il  tipo  e  la  sua  fortuna 


Don  Giovanni  appare  per  la, prima  volta  nel  1630 
nella  commedia  che  porta  il  nome  di  Tirso  De  Molina: 
El  Burlador  de  Sedila  y  convidado  de  piedra. 

Letteralmente  esso  non  pare  avere  gran  che  di  straor- 
dinario. 

Gran  seduttore,  il  suo  maggior  gusto  è  ingannare  le 
donne  :  scavezzacollo,  dopo  averne  burlate  quattro  du- 
rante la  commedia,  senza  contare  quelle  che  può  aver 
turlupinate  prima,  finisce  punito  dalla  statua  del  padre  di 
una  delle  sue  vittime,  ucciso  da  lui  in  duello. 

Fino  all'ultimo,  baldo  della  propria  vitalità,  quasi  illuso 
di  essere  invulnerabile,  ha  protratto  il  suo  ravvedimento, 
come  se  un  finale  troppo  finale  :  "  Dejame  que  llame  - 
Quien  me  confiese  y  absuelva  "  potesse  bastare  a  redi- 
mere una  esistenza  dissipata  in  vanità  ;  viene  trascinato 
all'  inferno. 

Il  personaggio  di  Tirso  non  è  sempre  coerente  con  se 
stesso  e  l'opera  non  è  certo  una  scultoria  rappresentazione 

1  —  F.  FuÀ,  Don  Giovanni- 


—  2  — 

di  tipo.  Non  pare  nemmeno  al  Farinelli  che  essa  appar- 
tenga al  monaco  della  Mercede. 

Pure  questa  figura  ha  vissuto  e  vive  intensamente  e 
nelle  elette  fantasie  degli  artisti  e  nei  gusti  grezzi  della 
folla:  arricchita  di  significazioni  diverse  passa  attra- 
verso le  più  profonde  crisi  dello  spirito  umano  senza  per- 
dere le  sue  sagome  prime.  Incorniciata  nell'apparecchiata 
favola  meravigliosa,  ha  fatto  oltre  e  prima  della  gioia  del 
pubblico,  quella  degli  autori,  che  in  tale  liberatrice  crea- 
zione hanno  infuso  più  della  loro  anima  e  del  loro  tor- 
mento, onde  è  pur  materiato  il  riso  di  Don  Giovanni. 

Man  mano  si  è  spogHato,  come  di  elemento  ascitizio, 
della  leggenda,  a  cominciar  dal  Goldoni  ;  è  passato  poi 
al  poema,  alla  lirica,  alla  novella,  con  Byron,  Espronceda, 
Gautier,  Baudelaire,  Mérimée,  Balzac.  Continua,  mal- 
trattato sulle  chitarre  dei  cantastorie  popolari  e  nei  ro- 
manzoni  alla  Zévaco.  Isolato  dal  romanticismo  in  un  suo 
significato  psicologico  riappare  mutato  nomine  o  con 
nuovi  intenti  sotto  lo  stesso  nome,  atteggiato  in  mille 
modi,  creando  capolavori  e  sempre  in  fondo,  vedremo, 
fedele  a  se  stesso,  sotto  i  travestimenti  di  Hassan(l), 
Rolla,  Fortunio,  Petshorin  (2). 

Conservando  il  suo  nome,  riappare  nel  teatro  di  Heyse, 
Lopez  d' Ayala,  Echegarray  ;  il  significato  interiore,  infu- 
sogli  dal  romanticismo,  evaporatosi,  i  tratti  esteriori  si 
sono  cristallizzati  in  maschera. 

Maschera  può  dirsi  Don  Giovanni  anche  in  Balzac, 
D'Aurevilly,  Janqueiro.  Tutte  le  vicende  della  sua  vita 
interiore  volatilizzate  sotto  il  fervido  potere  di  tante  ispi- 
razioni, a  Don  Giovanni  non  è  rimasto  che  il  tipo  e  il 
nome  proprio  ;  il  casato,  già  deposto,  si  è  avvicendato 
con  molti  altri,  e  così,  fatto  imperituro,  ritorna  nella  vita 


—  3  — 

moderna,  vi  si  mescola  senza  impaccio,  monarca  "qu'on 
ne  casserà  pas  malgré  toutes  les  démocraties  ",  dice 
D'Aurevilly,  che  gli  richiama  il  motto  dell'antica  mo- 
narchia francese  :  "  Le  roi  est  mort,  vive  le  roi  "  (3). 

Portato  nella  vita,  come  denominazione,  presa  in  pre^ 
stito  all'arte,  di  realtà  sperimentata  e  vivente,  formerà  og- 
getto di  analisi  psicologica  a  Stendhal,  Taine,  Gautier, 
Kierkegaard,  Barrière,  ecc. 

Non  è  ancora  entrato  nella  scienza  se  non  di  scancio,  ma 
pare  dagli  ultimi  tentativi,  ed  io  credo  non  infondatamente, 
che  esso  sarà  individuato  e  studiato  da  quella,  come  dalle 
scuole  di  Lombroso  e  Tarde  è  stato  il  tipo  delinquente  (4). 

A  fantasie  come  quella  di  De  Musset,  Don  Giovanni 
apparirà  come  un  incubo  ossessionante  ;  tutta  la  sua 
opera  è  una  planetaria  rotazione  intorno  all'asse  di  questa 
essenziale  ed  impressionante  immaginazione.  All'eroe  che 
egli  aveva  detto  degno  di  essere  cantato  da  un  nuovo  Sha- 
kespeare, Campoamor,  Janqueiro  tendono  l'ultimo  tra- 
nello dell'  ironia,  come  se  avendo  es60  salito  troppo  alti 
gradi  nella  scala  della  considerazione  umana,  volessero 
trarnelo  giù  per  un  gusto  simile  a  quello,  tutto  umano, 
onde  "cupide  conculcatur  nimis  ante  metutum". 

Che  cosa  è  dunque  che  fa  la  grande  vitalità  e  fortuna 
di  questo  personaggio,  e  quale  l'essenziale  significato? 

Don  Quijotte,  nel  1 605,  chiude  l'era  delle  fantasiose 
gesta  cavalleresche,  care  ai  fanatici  discendenti  del  Cid, 
corrodendole  col  riso  amaro. 

Don  Gerundio,  nel  1758,  frangerà  il  lungo  tedio  ec- 
clesiastico con  strie  di  lucida  ironia,  onde  al  clero  viene 
tagliato  di  dosso  l' inganno  gonfio  di  predica  dei  regali 
paludamenti. 


—  4  — 

Questi  due  personaggi  si  ricollegano  a  due  istituzioni, 
e  la  loro  sfera  d'azione  è  limitata  e  il  loro  significato  con- 
tingente. Quando  poi  Don  Quijotte  evada  nel  simbolo, 
sfuma  in  una  universalità  tanto  astratta  e  impersonale,  da 
non  parere  più  d'aver  contatto  con  nessuno  degli  elementi 
particolari  della  vita,  appunto  perchè  a  tutti  può  attagliarsi. 

Ma  Don  Giovanni  non  riguarda  a  istituzione  umana, 
e  d'altra  parte  pervade  la  tendenza  stessa  più  universale 
e  sovrana:  l'amore;  soggettivamente  impersonandone  la 
negazione,  oggettivamente  la  più  ampia  affermazione  ;  e 
integralmente  restituendone  il  simbolo  nella  essenziale 
verità. 

Una  tale  creazione  a  me  pare  essenzialmente  moderna. 
Ammesso  che  quella  di  Don  Giovanni  sia  elementar- 
mente una  tendenza  comune  senza  tempo  ne  patria  a 
tutta  l'umanità,  tendenza  che  può  ripetere  le  sue  origini 
dalla  volontà  di  sopraffazione,  non  mi  pare  meno  che  l'af- 
fiorare di  essa  a  coscienza  e  a  individuazione  artistica  sia 
condizione  di  tempi  moderni.  Anche  l'opinione  del  Bé- 
votte  (5)  che  il  dongiovannesimo  sia  uno  stato  primi- 
tivamente normale  dell'umanità,  diventato  anormale 
con  r  istituzione  del  matrimonio  e  la  decadenza  fìsica 
della  razza,  va  presa  con  discrezione,  inquantochè  viene 
a  confondere  la  primigenia  veemenza  di  sensi  di  quando 
"  Venus  jungebat  in  sii  vis  corpora  amantum  ",  con  la 
diaccia  insensibilità  che  brucia,  onde  Don  Giovanni,  più 
che  r  inesausto  eroe  della  camera,  è  il  creatore  di  stati 
d'amore,  ai  quali  è  straniero. 

Più  che  della  carne,  si  nutre  del  sangue  dei  cuori 
(D'Aurevilly).  I  gemiti  delle  anime,  i  fumi  dei  desideri 
attizzati  salgono  a  lui  come  incensi  a  un  idolo,  che  non 
se  ne  cura. 


—  5  — 

Disertore  del  sentimento,  è  veramente  la  satira  più 
eloquente  dell'amore,  e  non  solo  le  donne,  ma  ogni  duca 
Ottavio,  ogni  marchese  De  la  Mota  ne  saran  vittime.  Re- 
dime in  una  vampata  di  ilarità  balzana  un  cumulo  di 
idealità  platoniche,  di  spuituah  macerazioni.  Affluiscono 
alla  sua  superiorità  sessuale  i  gemiti  e  i  sogni  di  Maria 
di  Francia,  le  note  canore  dei  poeti  d'amore  del  due- 
cento, le  liriche  melanconie  del  Petrarca. 

Il  Cristianesimo  avendo  importato  l'avvaloramento 
dello  spirito  sulla  carne,  Don  Giovanni  all'inquietudine 
d'anima,  che  ne  forma  il  genio,  oppone  la  irragione- 
vole mobilità  parvente,  e  l' immutata  gelidità  dell'anima. 
Esso  è,  m  verità,  rispetto  al  Cristianesimo,  un*  incarna- 
zione di  Satana.  La  concezione  della  volontà  mala,  che 
il  Giudaismo  aveva  molto  formalisticamente  intuita  ed 
espressa  nei  più  recenti  libri  della  Bibbia  {Giobbe,  e.  1  °. 
Croniche,  lib.  1  ",  cap.  21),  il  Cristianesimo  rielabora  e 
approfondisce  di  contro  alla  luminosa  visione  della 
volontà  frutto  e  radice  d'ogni  bene  :  Dio.  Satana  è 
per  S.  Paolo  il  mondo,  la  materia,  la  negazione  spiri- 
tuale. —  Materia,  esso  ha  lo  spirito  in  suo  dominio  e 
se  ne  serve  per  perdere  lo  spirito.  —  Proteiforme,  sa 
tutte  le  maschere,  nega  l'essenziale  per  la  parvenza,  l'u- 
nico per  la  molteplicità. 

Satana  è  l'eternità  nel  contingente.  Figura  incarnata 
nell'arte,  ha  gran  parte  nella  letteratura  spagnola  del- 
l'epoca, specialmente  negli  autos  di  Calderon. 

Di  Satana,  Don  Giovanni,  oltre  l'attrattiva  del  corpo, 
la  valentia  del  braccio,  la  mellifluità  delle  parole  e  col 
trionfo  degli  istinti  più  materiali,  ha  l' irrisione  subdola  e 
intenzionale  del  sentimento;  ciò  che  appunto  lo  di- 
stingue dagli  altri  vari  mostri  e  belzebù,  pur  non  a  lui 


estranei,  del  teatro  aureo  spagnolo,  da  Cristobal  de  Lugo 
a  Ludovico  Eneo,  traverso  Leucino,  Leonido. 

A  Satana  lo  hanno  intenzionalmente  riavvicinato  quanti 
se  ne  sono  compiaciuti  nella  loro  arte,  e  per  una  reci- 
procità consueta  in  simili  casi,  da  esso  anche  molti  hanno 
appreso  elementi  psicologici  alla  figurazione  poetica  del 
tipo  Satana  e  spesso  ve  l'hanno  fuso. 

Così,  per  esempio,  il  Satana-Don  Giovanni  di  De 
Vigny(l823),  con  l'incanto  di  squisite  menzogne  perde 
la  "  Soeur  des  Anges  "  travestendo  la  premeditazione 
ghiaccia  di  tenera  dolcezza  (ricordare  i  lenti  versi  della 
SeJudìon,  canto  II  : 

Le  voilà  sous  tes  yeux  l'oeuvre  du   Malfaiteur  ! 
Ce  méchant  qu'ont  accuse  est  un  consolateur ); 


finche  calando  verso    l' abisso    abbracciati,    lo    Spirito 
Malo  denuda  la  rivelazione  ghignante  : 

—  Serais-lu  plus  heureux?  du  moins,  es-tu  content  ?  — 

—  Plus  triste  que  jamais.    -   Qui  dono  es-tu?   —  Satan   — 

Così  il  Demone  di  Lermontoff,  da  cui  la  vergine  Ta- 
mara beve  l'oblio  del  fidanzato  uccisole  e  la  perdizione. 
Lermontoff,  come  è  noto,  dalla  seconda  redazione  del 
suo  poema,  che  è  del  1 830,  attraverso  le  seguenti  del 
1 83 1,1 833,  1 838-40,  si  ispirava  al  Mistero  di  De  Vigny 
di  cui  prese  qua  e  là  qualcosa  di  più  che  motivi. 

Fra  le  leggende  rampollanti  dalla  concezione  madre 
di  Satana  le  due  più  universali  sono  quelle  di  Faust  e  di 
Don  Giovanni.  Se  può  apparire  rischioso  identificare  un 
influsso  letterario  della  prima  sulla  seconda,  dacché  il 
libro  di  Spies  del  1  587  (6)  non  potè  certo  eludere  le  vi- 
gili scolte  dell'  Inquisizione  spagnola,  non  mi  pare  per 


altro  improbabile  che  nel  vasto  impero  ispano-germanico 
di  Carlo  V  e  I,  in  mezzo  al  cosmopolitismo,  che  le  co- 
municazioni aperte,  l' invenzione  della  stampa,  la  grande 
estensione  dei  domini  spagnoli  avevano  apportato  nelle 
correnti  d'idee,  alcun  sentore  della  leggenda  alemanna, 
già  preesistente  al  libro  di  Spies  (le  prime  menzioni  di 
essa  risalgono  ai  primi  del  500),  pervenisse  m  Ispagna. 
Certo  che  entrambe  paiono  far  parte  di  uno  stesso  ciclo, 
anzi  si  direbbe  che  Faust  contenga  già  m  se  virtualmente 
Don  Giovanni,  non  tanto  perchè,  prima  di  Elena,  Faust 
pecca  ripetutamente  di  lussuria  con  femmine  infernali, 
quanto  veramente  perchè  l' introspettiva  profondità  di 
Faust  questo  chiede  all'occulto  potere  di  Mefìstofele  :  il 
capovolgimento  nella  liberante  esteriorità  di  Don  Gio- 
vanni. Don  Giovanni  è  nell'anima  di  Faust  una  possibi- 
lità cosciente,  quello  che  non  è  Faust  per  Don  Giovanni. 

Dev'essere  perciò  accettata  non  senza  cautela  la  frase 
di  Hebbel  che  "  ogni  Faust  termina  da  Don  Giovanni  e 
ogni  Don  Giovanni  da  Faust  "  (7). 

Entrambe  sono  eccezioni.  Ma  Faust  è  eccezione  con 
base  non  nella  vita  esteriore  e  parvente,  ma  in  quella  in- 
tima dello  spinto,  è  l'assunzione  a  simbolo  di  attitudini 
non  frequenti  nell'uomo.  Faust  cerca  la  felicità  nel  cono- 
scere, frugando  l'enigma  fatale  nei  misteri  dei  suoi  abra- 
cadabra e  nel  fondo  delle  sue  fiale  :  la  febbre  che  lo 
agita  non  a  tutti  è  palese. 

Don  Giovanni  è  l'esasperazione  di  tendenze  comuni  a 
tutti;  la  sua  fortuna  è  già  contenuta  virtualmente  nell'ar- 
gomento, che  per  il  schopenhaueriano  tranello  della  na- 
tura, s'imprigiona  le  simpatie  della  folla  e  degli  eletti. 

In  Faust  la  volontà  di  male  traversa  zone  di  pensiero 
per  attuarsi  e  il  simbolo  si  sdoppia  in  duplice  rappresen- 


-  8  — 

tazione  :  Satana  e  il  Dottore -Mago,  poiché  dinamica- 
mente ritratta  è  la  compenetrazione  di  questo  con  quello  : 
Mehstofele  essendo  per  Faust,  mutato  lo  scopo,  quello 
che  Virgilio  per  Dante  :  un  duce. 

In  Don  Giovanni  questo  processo  è  già  risolto  come 
antefatto,  Satana  già  si  trova  effettuato  in  Don  Giovanni 
e  Don  Giovanni  è  per  se  stesso  il  Satana  dell'amore. 
Onde  esso  non  solo  non  ha  bisogno,  come  uscito  di  tu- 
tela, di  un  superiore  elemento  simboUco  che  l'integri, 
ma  piuttosto  di  un  elemento  inferiore  su  cui  ^ossa  far  ri- 
saltare la  propria  eccezionalità  :  ed  ecco  il  buon  servo  e 
"  gracioso  ",  la  pecora  del  comun  gregge,  il  cui  buon 
senso jion  trascende  i  limiti  del  suo  vello;  il  necessaria- 
mente buono;  ecco  il  nuovo  Sancho  Pancia  dai  molti 
nomi:  Catilinon,  Passarino,  Sganarello,  Leporello  di  Tirso, 
Cicognini,  Molière,  Da  Ponte-Mozart.  Per  quanto  Faust 
è  tragico  e  doloroso  e  non  offre  anse  al  gusto  medio.  Don 
Giovanni  è  attivamente  umoristico  e  a  tutti  consente.  La 
sua  stessa  valutazione  dei  valori  è  borghese  e  trita,  per 
quanto  eroica  in  Faust.  Nonostante  la  forza  attuativa  di 
Faust  sia  maggiore,  in  Don  Giovanni  tutte  le  energie 
epidermiche  si  esteriorizzano  e  affermano  in  creazioni  di 
stati  d'animo  intorno  a  se,  che  Faust  interiorizza  in  se 
stesso. 

Nullo,  Don  Giovanni  crea  mondi  di  passione  a  torno  a 
se  ;  può  riportarglisi  la  proclamazione  che  sarà  del  Mefì- 
stofele  di  Goethe  :  "  Io  sono  parte  di  quella  foi-za  che  con- 
tinuamente vuole  il  male,  e  continuamente  opera  il  bene". 

Questa  dritta  fortuna  di  Don  Giovanni  dietro  cui  egli 
non  affanna  ne  merita,  questa  assenza  di  sforzo  con  tal 
ampio  prodotto  d'azione  irride  di  per  se  alle  sterili  ge- 
nuflessioni del  sentimento  e  agli  anehti  infruttiferi. 


In  Gautier  così  questa  irrisione  piange  (Comédie  de 
la  Mori)  : 

Conquérant   oublieux,   uns   seule  de  celles 

Que  tu   n'inscrivais  pas,   une  entre   les  moins  belles, 

Ta  plus  modeste   fleur, 

Oh  !   combien   et  longtemps  nous  l'eussions  adorée. 

Elle  aurait  embelii,   dans  une  urne  dorée, 

L'autel  de  notre   coeur  (8). 

E  recentemente,  così  essa  schianta  beffarda  dalle  pa- 
role di  Don  Giovanni  stesso  (Henri  de  Régnier:  Les 
Scrupules  de  Sganarelle,  atto  II,  scena  X)  : 

"  Taisez-vous,  faible  jouets  de  l'amour.  Chapeau  bas 
devant  Don  Juan.  Ne  suis-je  pas  le  vivant  reproche  de 
votre  làcheté,  le  cris  de  vos  sourdes  haines,  la  victoire 
de  vos  défaites  et  c'est  moi,  dont  vous  évoquez,  en  vos 
désespoirset  en  voslarmes,  l'image  armée  etvengeresse". 

Faust  inoltre  si  ribella  allo  stabilito  in  nome  di  una 
intima  verità  da  rintracciare.  Don  Giovanni  non  si  ribella 
se  non  in  quanto  alcunché  lo  urti  nella  sua  attività  avven- 
turiera, e  la  sua  ribellione  si  libera  subito  nell'atto.  Don 
Giovanni,  senza  amore,  attua  prammaticamente  quell'a- 
zione del  viaggiare,  in  cui  Weininger  identificherà  inte- 
rioristicamente  l'amore  :  esso  è  dell'amore  veramente 
l'Ulisse  o  il  Pizarro  :  "  caelum  non  animum  mutans  ", 
direbbe  Orazio. 

Per  Faust  la  vita  è  un  abisso  di  mistero,  per  Don  Gio- 
vanni un  fenomeno  panoramico.  Faust  è  profondo,  Don 
Giovanni  è  vasto.  L'uno  rispetto  all'arte  lo  direi  filosofico, 
l'altro  musicale.  Non  per  incidenza,  mi  pare,  il  primo 
trova  il  suo  capolavoro  in  un  poema  filosofico,  il  secondo 
in  un  opera  lirico-musicale. 


—  10  — 

La  fine  che  la  leggenda  attribuiva  loro  è  simile.  Faust 
in  un  banchetto  è  lasciato  morto  da  una  tempesta  (la 
tempesta  simbolica  che  si  scatenerà  anche  nella  com- 
media di  Zamora),  Don  Giovanni  in  un  banchetto  è 
trascmato  all'  inferno  talora  con  l'accompagnamento  del 
temporale.  Questi  rapporti  di  simiglianza  e  dissimiglianza 
fra  i  due  fantasmi  vengono  man  mano  intuiti  e  espressi 
nell'arte.  Grabbe,  dopo  Vogt,  li  riavvicina  in  un  unico 
piano  di  cizione  nella  sua  fantasmagorica  concezione 
piena  di  luci  e  ombre,  che  è  in  fondo  una  titanica  insur- 
rezione del  genio  contro  ogni  forma  di  pastura  e  misura 
intellettuale. 

Gautier  (Comédie  de  la  Morì)  li  raffronta  nel  doloroso 
grido  di  rinnegamento  che  si  rimandano  come  due  fu- 
nebri scolte  da  baluardi  di  dolore  (v'è  anche  un  Napo- 
leone, ma  il  suo  grido  è,  ahimè!  molto  più  fioco). 

Teofilo  Braga  li  riaccosta  pure  nella  sua  Ondina  do 
lago,  canto  di  una  vasta  epopea  :  Visào  dos  tempos,  uno 
di  quei  grandi  poemi  a  lunghe  falde  e  dalle  magne  pro- 
messe, che  non  godrebbero  le  simpatie  del  Poe. 

Nel  corso  del  tempo  gli  scambi  tra  Faust  e  Don  Gio- 
vanni si  fan  più  frequenti,  sino  a  parere  con  l'Almqui- 
vist  (9)  e  Alessio  Alexandrovich  Tolstoi  (10)  una  per- 
sona sola. 

La  fortuna  di  Don  Giovanni  presso  le  folle  è  stata  im- 
mensa. La  commedia  dell'arte  italiana  è  piena  di  sce- 
nari dongiovanneschi.  I  numerosi  convitati  di  pietra  fa- 
cevano la  cuccagna  del  pubbHco,  più  che  altro  con  la 
comicità  irrefrenabile  degli  pseudo  Catalinon  e  la  cu- 
bitale drammaticità  della  statua  semovente,  parlante  e 
omicida.  Ma  non  solo  negli  scenari  rivive  Don  Giovanni  : 


-li- 
gia abbiamo  notato  quante  menti  gli  diedero  forme  e 
vita,  ne  l'enumerazione  è  completa.  Faust  appare  immo- 
bile e  cristallizzato  nell'unico  capolavoro  di  Goethe. 
L'opera  di  Marlowe  ne  è  obliterata,  Lessing  non  può 
contarsi  per  le  poche  scene  che  ne  restano,  Lenau  non 
esce  molto  bene  dalla  gara  col  Zeus  di  Weimar.  Quanto 
ai  Klinger,  agli  Schink,  ai  Baggesen,  ai  Nodier  non  è 
da  soffermarcisi. 

Riempito  del  significato  interiore  da  Goethe,  non  vi  è 
più  ragione  di  vita  per  Faust.  I  suoi  tratti  esteriori  es- 
sendo inconsiderevoli,  bisognerebbe  risuscitarne  quelli 
interiori  per  una  nuova  significazione,  dissolvere  cioè  la 
impronta  goethiana.  Ma  Don  Giovanni,  che  ha  cuore  e 
forza  di  amare  tutto  un  mondo,  ha  anche  un  tal  vuoto  in- 
tenore da  essere  riempito  successivamente  di  un  mondo 
di  significati,  senza  che  ne  sia  intaccata  l' importanza  pe- 
culiare che  è  del  tipo  esteriore  ed  espresso.  Corridore 
d'amore  mai  preso  al  laccio  :  questa  la  sua  formula  let- 
terale, la  quale  in  fondo  alla  sua  ermetica  precisione 
offre  mille  f accie  prismatiche  alle  vedute  più  vane.  Dato 
di  fatto_a^ui  possono  affluire  tanti  presupposti  e  moti- 
vazioni. 

Semplice  avventuriere  d'amore  con  Tirso,  schietto  e 
di  getto  —  non  esenti  talune  felici  intuizioni  — ^  tagliato 
sul  dosso  dei  mille  hidalgos  e  caballeros  del  secolo,  di 
cui  narrano  i  viaggiatori  da  Camillo  Borghese,  il  futuro 
Papa  Paolo  V,  a  madame  Aulnoy  (11),  —  ^^_^^ 
vano  tanto  di  scapestrataggine  da  infischiarsene  dei  dieci 
comandamenti  e  tanto  di  superstizione  da  temere  di  an- 
darsene al  Creatore  senza  il  viatico,  —  eccolo  cambiato 
con  Molière  e  più  con  Rosimond  in  retore  dalle  proprie 
nequizie  e  in  negatore  loico  come  il  diavolo  dantesco. 


-   12  - 

Già  figlio  criminale  con  Dorimon  e  Villiers,  diverrà 
infelice  padre,  redento  dal  proprio  tormento,  con  Heyse, 
Echegarray. 

Mostro  pletorico  e  lestrigoneo  con  Zamora,  si  farà 
crudele  stilista  della  sensazione  con  Balzac,  Gautier,  fa- 
tale fantasma  di  male  con  Espronceda,  vittima  di  un 
sogno  d'amore  e  da  questo  redento  con  Zorilla,  così  con- 
cedendo ai  venti  delle  più  varie  fantasie. 

Fra  queste  dissimili  concezioni  è  facile  trovare  un  ele- 
mento che  consenta  la  stessa  ampia  distinzione  che  per 
Faust  :  in  preromantico  e  romantico.  Poiché,  per  giun- 
gere fino  a  noi,  entrambi  han  da  traversare  il  muro  di 
fiamme  del  romanticismo.  N'esce  Don  Giovanni  rinno- 
vellato attraverso  la  fantasmagoria  di  Hoffmann  come 
Faust  traverso  la  concezione  di  Lessing. 

Faust  per  Lessing  non  è  soltanto  lo  stregone  sapiente, 
che  dopo  avere  invano  cercato  la  pietra  filosofale  vende 
l'anima  al  diavolo  per  averne  i  servizi  ;  è  il  simbolo  della 
ribellione  inesauribile  dello  spirito  umano  insultante  a 
tutte  le  colonne  d'Ercole  della  conoscenza,  per  non  rag- 
giungere mai  la  divina  certezza.  Nello  stesso  tempo  tanto 
lui  quanto  Don  Giovanni  non  sono  ormai  peccatori, 
quanto  eroi  :  e  la  loro  stessa  colpa  —  quando  resta  tale 
fino  all'ultimo  —  assorge  all'accezione  più  vasta  di  su- 
blime coraggio  simbolico,  ove  la  riabilitazione  non  sia 
attuata  nei  personaggi  stessi,  cui  non  si  consente  più 
sempre  di  andare  all'  inferno,  ma  li  si  salva  più  comune- 
mente in  grazia  di  qualche  Margherita  o  Ines. 

Intanto  nel  lineare  schema  delle  avventure  del  Don 
Giovanni  mozartiano,  Hoffmann  nel  1814  inala  la  sua 
fascinosa  concezione  (  1 2).  Poiché  il  romanticismo  ha  so- 
stituito  al  regno  classico  della  pura   bellezza  il   regno 


—  13  — 

dello  spirito,  e  questo  non  trova  che  in  se  stesso  la  propria 
realtà,  lo  spirito  sopravveste  la  forma,  lo  scultorio  è 
sopraffatto  dal  profondo,  dal  vago,  dall'  intimo.  René, 
Werter,  Antony  sono  i  maometti  della  nuova  anima  e 
della  nuova  arte  :  il  mistero  si  fa  elemento  di  bellezza  : 
il  patetico  incanto  della  tenebra  impone  silenzio  alla 
maschia  energia  del  sole.  E  Hoffmann  estrae  dal  cuore  del 
vecchio  giocoliere  d'amore  il  nuovo  simbolo.  Don  Gio- 
vanni non  è  più  l' ilare  vagabondo  senza  ideale,  l' incu- 
rante picaro  del  sentimento.  Il  vincitore  diventa  un  vinto, 
il  carnefice  beffardo  una  inconsapevole  vittima  del  suo 
sogno.  Ora,  Asvero  del  sentimento.  Don  Giovanni  nelle 
innumeri  donne  ricerca  la  donna  sognata  e  impossibile, 
che  ha  intravista  avanti  il  ricordo,  che  non  godrà  mai, 
perchè  quando  l'avesse  tra  mano  essa  non  sarebbe  più 
quella  che  ha  sognato,  perchè  la  sua  felicità  è  fatta  di 
lontananza  come  l'azzurro  dell'aria.  Egli  si  fa  delle  vit- 
time strada  all'irraggiungibile  menzogna  "sacrificando  una 
bella  a  un'altra  bella  realizza  ciò  che  il  nostro  spirito  non 
immagina  che  come  una  promessa  della  vita  futura". 

Ha  amato  Donna  Anna,  ma  in  atto  di  supremo  di- 
sprezzo (nel  senso  che  Nietzche  combacerà  con  l'amore) 
l'ha  sacrificata  al  proprio  male,  e  Donna  Anna  ha  subito 
il  suo  contagio  ;  evasane  in  un  atto  di  rapina,  ella  non 
potrà  rientrare  nell'angustia  pacata  del  quotidiano  vivere, 
non  saprà  più  indulgere  alla  melensaggine  del  fidanzato 
Ottavio,  ma  sarà  l'amante,  nel  sogno,  dell'assassino  di 
suo  padre,  che  ella  dovrà  volere,  in  nome  della  sua  ven- 
detta, morto. 

Tale  la  stramba  fantasticheria,  onde  Hoffmann,  per- 
suaso e  ingannato  dalla  grande  musica  di  Mozart,  rimpolpa 
la  magra  trama  dei  due  atti  di  Da  Ponte, 


—  14  — 

Certo  Don  Giovanni  concepito  come  tale  smagato  so- 
gnatore di  una  forma  di  bellezza  divina,  meglio  appagherà 
le  vaste  seti  d'azzurro  dei  tempi  vicini  a  noi,  quando 
VElévation  baudelairiana  si  avvicenda  in  inquietudini 
creatrici  di  poesia  con  i  contorcimenti  infernali  dei  suoi 
cauchemars. 

Nato  è  il  secolo  di  De-Musset,  di  Gautier,  di  Gerard 
de  Nerval,  di  Verlaine  ;  anime  e  braccia  chiedono  la 
tregua  del  cielo  dai  flutti  delle  rauche  passioni  soverchia- 
trici.  SuU'orgie  notturne  impallida  stralunata  la  verginità 
del  cielo  inaccessibile,  nelle  albe  dell'anima.  Abbiamo 
voluto  conoscerci  e  abbiamo  paura  di  noi.  —  E  la  nuova 
malattia  —  diceva  la  diagnosi  classicista  di  Duvergier 
de  Hauranne. 

Don  Giovanni  si  ricompone  ai  nuovi  tempi,  e  rifa  alla 
Byron  ;  così  in  Don  Felix  Montemar  di  Espronceda  v'è 
molto  del  Corsaro  e  del  Manfredi,  per  quanto  nulla  di 
questi  è  nello  stesso  Don  Giovanni  byroniano,  che  è  tutta 
una  gamma  d' ironie  scottanti  e  multicolori,  una  collana 
sfilata  di  rinnovati  episodi  psicologici,  un  pretesto,  in  con- 
clusione, per  la  rivelazione  intima,  sotto  gli  inganni  del- 
l' ironia,  del  cantore  d'Aioldo. 

Ma  il  poeta  che  più  sentì  il  nuovo  Don  Giovanni  è 
indiscutibilmente  De-Musset.  Tutta  la  sua  opera  —  già 
l'abbiamo  osservato  —  gravita  intorno  a  questa  magnetica 
concezione. 

Gli  stessi  palpeggiamenti  quasi  lubrici,  onde  il  poeta 
rivolta  nella  fantasia  la  sua  idea,  nello  sforzo  di  posse- 
derla, mostrano  quanto  esso  gusti  il  supplizio  volontario 
e  voluttuoso  di  creare  a  se  la  suggestione  della  realtà  di 
Don  Giovanni,  come  il  debole  gode  nell'  immaginare  la 
sua  vendetta  compiuta  dal  forte.  Folgorato  nell'anima 


—  15  — 

adolescente  dairamore  —  realtà  maligna  —  il  doloroso 
figlio  del  secolo  si  rifugia,  piangendo  le  sue  lacrime  vere, 
nella  marmorea  sublimità  sessuale  del  suo  vagheggiato 
despota  d'anime,  come  chi  preme  la  fronte  febbricitante 
sul  ristoro  di  un  marmo.  "  Si  Fon  pouvait  changer  d'amour 
comme  d'habit!".  Dalla  più  dolorante  negazione  sogget- 
tiva di  Don  Giovanni,  ecco  espressa  la  più  viva  conce- 
zione artistica  di  esso. 

De-Musset  ama  Don  Giovanni,  che  è  indifferente  alla 
Sand,  lei  stessa  dongiovannesca  (13).  Tanto  è  vero  che 
l'arte  è  spesso  meno  rivelazione  che  tradimento,  —  come 
sotto  il  riso  di  rasoio  di  Lord  Enrico  (14)  è  già  virtual- 
mente il  pianto  religioso  del  De-Profundis. 

De-Musset  non  ha  una  fissa  idea  di  Don  Giovanni  ; 
ovvero  partendo  dalla  concezione  di  Hoffmann,  si  com- 
piace nella  sua  figurazione  di  peggiorarla;  così  in  Na- 
mouna,  dopo  le  lunghe  divagazioni  che  riempiono  il  se- 
condo canto,  e  dopo  aver  ricolorata  la  nota  concezione 
del  Don  Giovanni  "  candide  corrupteur,  fouillant  dans 
le  coeur  d'une  ecatombe  humaine,  pour  y  chercher  son 
Dieu  ",  conclude,  ritornato  al  suo  eroe  alquanto  dimen- 
ticato : 

Ce  que  Don  Juan  aimait,   Hcissan  l'aimait   peut-étre, 
Ce  que  Don  Juan  cherchait,  Hassan  n'y  croyait  pas. 

Tranne  che  nelle  Confessions,  in  cui  è  il  cifrario  del- 
l'anima sua,  il  poeta  non  ci  ha  altrove  rappresentato  che 
la  fase  fattiva,  già  prodotta  del  suo  personaggio:  "la  chute 
de  l'ange  "  che  è  in  Dumas,  in  Merimée  e  in  Echeverria, 
era  già  nell'anima  sua  :  nell'  arte  soltanto,  egli  poteva 
proiettare  il  proprio  inverso  ;  realizzarlo  nel  suo  intimo 


-  16  — 

sentimento,  no  ;  e  nel  divano  tra  il  naufrago  anelito  del 
sentimento  e  la  realtà  lì  viva  e  visibile  e  invitante  nella 
fantasia,  sta  appunto  la  vera  tragedia  di  De-Musset. 

Ma  anche  ove  la  creazione  del  poeta  vorrebbe  essere 
più  staccata  e  impersonale,  l'anima  lirica  di  lui  insorge, 
interviene.  Più  egli  si  forza  di  estrar  su  dal  suo  dolore  le 
concepite  figurazioni  di  fredda  crudeltà  ed  allegro  cinismo, 
più  queste  si  vedono  gocciolare  del  suo  sangue.  Si  po- 
trebbe dire  che  tutti  i  suoi  pseudo  Don  Giovanni  (che 
Don  Giovanni  in  persona  egli  non  fa  agire  se  non  nella 
scena  frammentaria  :  Une  matinée  de  Don  Juan)  :  Mar- 
doche,  Dalti,  Tiburcio,  Hassan,  sono  veduti  attraverso 
gli  occhi  di  lacrime  di  Rosine,  Portia,  Miss  Molen, 
Namouna. 

Come  si  potrebbe  anche  osservare,  che  i  Don  Gio- 
vanni di  De  Musset  aspirano  al  tipo  di  Lovelace,  nono- 
stante la  sottile  distinzione  del  secondo  canto  di  Namouna. 
Questo  rampollo  inglese  della  genealogia  dongiovannesca 
è  una  nuova  espressione  di  scienza  del  male  :  altrove  l'o- 
rigine satanica  di  Don  Giovanni  non  si  manifesta  con  più 
cruda  negazione  del  sentimento  quanto  in  Inghilterra,  a 
cominciare  dal  Lihertin  di  Shadwell.  La  patria  già  di  Ro- 
chester, di  Buckingham,  di  Killigrew,  di  Aubrey  de  Vere 
produce  nel  1  748  in  Lovelace  di  Richardson  il  raffinato 
adoratore  di  se,  dispregiatore  del  dolore  e  "  de  la  popu- 
lace  ",  aristocrate  della  perversione,  stratega  delle  anime  e 
chimista  dei  sentimenti,  che  ne  regola  le  mosse  e  ne  de- 
termina le  combinazioni  :  quella  scienza  d'amore,  istinto 
in  Don  Giovanni,  già  cosciente  con  Molière,  è  in  lui 
esperienza  acquisita  e  feroce  :  a  Don  Giovanni  il  rapido 
possesso  e  un'alzata  di  spalle,  a  Lovelace  il  ferino  pro- 
lungamento dell'agonia  della  vittima  :   a  Don  Giovanni 


—  17  — 

le  mille  e  tre,  a  Lovelace  anche  una  sola,  ma  goduta 
ferocemente. 

A  Don  Giovanni  il  prodigare  l'illusione  della  felicità 
sotto  la  premeditazione  dell'  inganno  ;  egli  è  "  l'épouseur 
de  tout  le  mond  ". 

A  Lovelace  il  negare  l'illusione  della  felicità  alla 
donna  amante,  il  rifuggire  dal  mezzo  più  spiccio  per  ot- 
tenerne i  favori. 

Ora  r  influsso  di  Lovelace  precedente  la  nuova  con- 
cezione romantica  fecondò  la  letteratura  francese  dei  più 
tortuosi  sadismi  dello  spirito,  dei  cerebralismi  più  delit- 
tuosi, talora  sotto  il  pretesto  trito  della  rappresentazione 
del  vero  a  scopo  di  bene  :  depravazione  mtellettuale  che 
culmmerà  nelle  Liaisons  dangereuses  di  Chaderclos  de 
Laclos  nel  1782,  e  nelle  raccapriccianti  Giustine  e  Giu- 
liette del  molto  bestiale  Marchese,  per  tornar  oggi  a  riec- 
citare la  candente  concezione  barrèsiana  macabro-gran- 
guignolesca  del  Don  Giovanni  assassino  di  uomini  — ■ 
oltre  che  seduttore  di  femmine  —  che  finisce  pentito  in 
un  ordine  religioso,  con  lo  scopo  di  assistere,  con  trans- 
versa pietà,  al  supplizio  i  condannati  a  morte  e  poi  darne 
i  cadaveri  in  pasto  alle  belve  {Du  sang,  de  la  Volupté  et 
de  la  mort.  —  Une  visite  à  D.  J,  — ). 

Lovelace  e  Don  Giovanni  pertanto,  arricchiti  l'uno 
dell'esperienza  dell'altro,  fusi  in  un  tipo,  più  eletto  e  fi- 
nito, ispirarono  altresì  gli  eroi  byroniani,  il  Don  Giovanni 
di  Balzac,  gli  esteti  dandy  di  Gautier,  il  Marquis  de 
Priola  di  Lavedan,  gli  Onieghin  (15),  i  Petschorin  russi  ; 
ne  saranno  elementi  estranei  —  tesi  a  parte  —  al  Robert 
Greslou  di  Bourget. 

Ma  fra  tanto  fluttuare  di  fantasie  dongiovannesche  può 
avvenire  ad  alcuni  di  sentirsi  un  po'  girar  la  testa,  e  di 

2  —  F.  FUÀ,  Don  Giovanni. 


—  18  — 

domandarsi  dove  sia  mai  andata  e  se  ci  sia  mai  stata  quella 
fedeltà  con  se  stesso,  che  pur  in  fondo,  già  abbiamo  os- 
servato in  esso;  dove  sia  la  faccia  vera  di  questo  Buddha 
dalle  cento  incarnazioni. 

Già  più  indietro  ci  si  è  presentata  l'occasione  di  sof- 
fermarci per  via  di  raffronto  a  lumeggiare  le  caratteri- 
stiche del  tipo.  Definizioni  e  identificazioni  se  ne  sono 
tentate  a  iosa.  Una  un  po'  ridicola  è  quella  di  Pi  y  Mar- 
gali,  che  prende  il  Burlador  come  letto  di  Procuste  di 
tutti  gli  altri  Don  Giovanni,  che  vi  misura  sopra  (16). 

Per  prenderne  altre  per  saggio,  Aicard  vi  vede,  nota 
fondamentale,  l'egoismo  {Don  Juan,  1 889,  Prefazione)  ; 
Larrumet,  l'orgoglio  (nel  Temps,  17  febbraio  1912); 
Prevost.la  celebraHtài[(7n  Voluptueux,  novella);  Stendhal, 
una  specie  di  turismo  del  sentimento  (De  F amour)  ; 
Gautier,  (in  molte  novelle,  es..  La  toison  d'or,  e  in  un 
articolo  del  27  Gennaio  1843  deW Histoire  de  l'art  dram- 
matique  en  France)  e  Kierkegaard  {Diario  di  un  seduttore) 
l'estetismo  :  e  si  potrebbe  contmuare  col  pericolo  di  fare 
una  lista...  molto  dongiovannesca.  Tra  le  parabole  delle 
tante  fantasie,  trovar  l'acme  della  nota  unica  non  è  vera- 
mente così  facile,  per  chi  resti  nell'arte  ;  che  ove  creda 
di  averla  ghermita,  ecco  un  particolare  avverso  che  ci 
mette  la  coda  e  gli  scompiglia  ogni  cosa. 

La  psicologia  pertanto  non  riconosce  in  Don  Giovanni 
il  sensuale  com'è  opinione  comune.  11  possesso  non  è  per 
lui  line  di  piacere,  quanto  piacevole  liquidazione  di  conti 
d'amore,  ne  egli  desidera  mai  tanto  una  donna  da  averne 
il  bisogno  fisico,  che  risulterebbe  in  legame. 

Due  minuti  prima  di  possedere  qualsiasi  Tisbea  può 
sempre  ordinare  i  cavalli  che  debbono  portarlo  via.  Si 
comporta  con  le  donne,  come  confessa  nel  dramma  di 


—  19  — 

Zorrilla,   col   minimo   spreco   di  forze  e   di  giorni.   Di 
questi  : 

Uno   para  enamorarlas, 
Otro  para  conseguirlas, 
Otro  para  abandonarlas, 
Dos  para  sustituirlas 
Y  una  hora  para   olvidarlas. 

La  sua  impervia  e  gaia  inaccessibilità  non  offre  anse 
alle  prese  del  senso,  sebbene  le  testimonianze  delle  sue 
gesta  lo  facciano  coincidere  col  libertino.  Altro  tipo,  fre- 
quentemente confuso  con  Don  Giovanni,  è  quello  del  se- 
duttore sentimentale,  che  nella  commedia  di  Tirso  è  ri- 
specchiato in  Ottavio.  E  l'uomo  che  si  oblia  in  ogni  suo 
amore...  per  riprendersi  il  giorno  dopo;  innamorato  oggi 
fino  alla  pazzia  di  Donna  Isabella,  domani  lo  sarà  altret- 
tanto di  Donna  Anna  :  anch'egli  riempie  le  sue  liste  degli 
oblii  del  suo  cuore,  ma  dopo  averle  segnate  del  sangue 
della  sua  anima  :  vive  potentemente  tutti  i  suoi  momenti 
d'amore:  quando  capita  diviene  necessariamente  Io 
zimbello  di  Don  Giovanni,  che  è  padrone  di  se. 

Questi  pertanto,  concepito  l'amore  come  la  tendenza 
di  due  imperfezioni  a  ricomporsi  in  unità  —  concezione 
di  Aristofane  del  convito  platonico,  ripresa  e  arricchita 
da  Weininger  —  e  considerato  il  sentimento  come  la 
decezione  della  sessualità,  psicologicamente  potrà  dirsi 
l'unità  sessuale  perfetta  attuantesi  attraverso  le  frazionali 
^lécezioni  femminili.  « 

Ecco  in  Gautier  si  determina  : 

Je  restais   toujours,   comme  'a  salamandre, 
Froid  au   milieu   du   feu. 

Lovelace  non  è  che  una  nuova  forma  di  Don  Giovanni, 
che  non  ne  muta  l'essenza. 


—  20  — 

Come  tale,  esso  nella  vita  e  nell'arte,  è  un'ampia  inti- 
tolazione comprensiva  di  un  gran  numero  di  figure  che  vi 
si  rapportano  con  più  o  meno  variazioni  e  oscillazioni  ; 
così  non  deve  far  meraviglia,  se  tra  le  molteplici  conce- 
zioni artistiche  che  fanno  capo  a  questa  formula,  ve  n'ab- 
biano che  paiono  evadere  da  essa  :  Don  Giovanni  può 
finire  innamorato,  converso  al  bene  o  ribelle,  caparbio 
fino  all'ultimo;  ciò  modificherà  momentaneamente  gli  attri- 
buti del  personaggio,  senza  intaccarne  il  senso  individuato, 
come  una  licenza  poetica  non  lede  le  regole  grammaticali. 

Trovata  che  si  sia  questa  chiave  misteriosa  della  defi- 
nizione dongiovannesca  fuori  dei  marosi  delle  fantasie, 
si  possono  aprire  i  forzieri  delle  molteplici  creazioni  e 
riconoscervi  il  tipo  sotto  spoglie  e  nomi  diversi.  In  questo 
modo  esso  può,  ad  esempio,  ritrovarsi  oltre  che  nelle  fi- 
gure femminili  della  contessa  Hahn-Hahn,  anche  in  quelle 
del  grande  sinfonista  norvegese  dell'amore  Hamsun 
(Dagni,  Edvarda,  Victoria)  (17). 

Non  occorre  dire  che  nell'accezione  comune  Don 
Giovanni  sarà  sempre  nient'  altro  che  il  corridore  d' av- 
venture e  il  gaudente  sfrenato  :  non  v'è  bisogno  ai  comuni 
usi  di  preoccuparsi  delle  distinzioni,  che  possono  giovare 
allo  psicologo. 

In  conclusione,  esteriormente  la  nota  caratteristica  di 
Don  Giovanni  sarà  la  fortuna  in  amore,  interiormente  e 
psicologicamente  l'insensibilità  creatrice  di  opposti. 

Weininger,  nei  suoi  speciosi  abbozzi  di  metafisica  (  1 8) 
dopo  aver  affermato  essere  1'  atto  d'  amore  una  specie  di 
assassinio,  ne  deduce  un'identificazione  tra  Don  Giovanni 
e  il  tipo  assassino. 

Come  r  assassino  —  egli  sogna  —  dopo  l'omicidio 
torna  ad  aggirarsi  nel  luogo  del  delitto,  per  richiamare  la 


-  21  — 

memoria  di  se  stesso,  così  Don  Giovanni  ha  bisogno  di 
donne  per  accorgersi  di  se  medesimo,  ed  entrambi  fanno 
della  negazione  una  posizione. 

Ma  tutto  si  riduce  a  una  immagine  fascinosa  che  può 
gradire,  non  persuadere,  come  tante  illuse  verità  di  quel 
tragico  intelletto. 

Anche  chi  gli  conceda  la  premessa,  egli  non  ha 
visto  nel  tipo  Don  Giovanni  che  la  già  nota  significazione 
più  esoterica  di  lussurioso:  come  d'altra  parte  si  è  foggiata 
del  tipo  assassino  una  impossibile  astrazione  prescissa  da 
ciò,  che  l'operazioni,  che  mentiscono  Don  Giovanni,  ne- 
cessariamente e  veracemente  asseverano  l'assassino;  e  a 
queste  concorrono,  secondo  pare  allo  stesso  Weininger, 
impulsi  passionali  e  sensuali  —  a  Don  Giovanni  estranei  o 
secondari.  Da  contrapporre  a  questa  veduta  superficiale 
che  scambia  Don  Giovanni  per  il  lussurioso-tipo,  tocche- 
remo r  enimma  fisiologico  di  Gionata  Swift,  in  cui  pure 
si  è  d'accordo  nel  riconoscere  un  tipo  vissuto  di  don- 
giovannista?  (19). 

Ma  fermata  per  ora  la  nostra  definizione,  la  dongio- 
vannistica  —  se  mi  si  consente  questo  vocabolo  —  ce 
n'offre  le  maggiori  ripiove  ;  e  dagli  elementi  contribuitici 
dalle  varie  imposizioni  alle  miriadi  di  figure  vissute  o  im- 
maginarie, il  tipo,  che  la  definizione  presuppone,  si  può 
ricostruire. 

Già  di  per  se  il  fatto  stesso  del  passaggio  insensibile 
di  amore  in  amore  mostra  la  sfericità  senza  presa  del 
T^rganismo  sentimentale  dongiovannesco.  Egli  ha  un 
repertorio  di  "segni  e  di  parole  ornate"  senza  indirizzo, 
che  sparge  capricciosamente  qua  e  là.  In  De-Musset 
{IJne  matinée  de  Don  Juan)  ha  preparato  una  lettera  di 
amore  che  pensa  di  far  cadere  dalla  finestra  sul  più  pie- 


—  22  — 

colo  piede  femminile,  che  Leporello  gli  indicherà.  In 
Campoamor  scrive  cinque  lettere  uguali  a  cinque  donne 
di  diverse  nazioni.  Nella  vita,  Mirabeau  dal  carcere  di 
Vincennes  scrive  lettere  appassionate,  nei  suoi  momenti 
dongiovanneschi,  oltreché  a  Sofia  Le  Monnier,  anche  a 
Giulia  Danvers,  e  in  nome  della  triade,  aspira  anche  alla 
principessa  di  Lamballe  (20). 

Argutamente  si  osservò  che  solo  si  può  dire  di  saper 
parlare  bene  una  lingua,  quando  si  può  fare  dello  spirito 
in  quella  lingua.  In  tal  caso  Don  Giovanni  sa  diabolica- 
mente la  lingua  del  sentimento. 

Saint-Preux  di  Rousseau  non  ha  più  occhi  ne  cuore 
che  per  la  sua  Giulia,  l'amore  essendo  la  più  esclusiva 
delle  passioni.  Don  Giovanni  non  sa  risolversi  a  chiudere 
il  suo  cuore  "  fra  quattro  mura";  "non  vuol  defraudare 
nessuna  delle  belle,  delle  giuste  pretese  eh'  esse  hanno 
sul  suo  cuore  ";  anzi  "  se  avesse  diecimila  cuori,  die- 
cimila ne  darebbe  via  "  (Molière). 

Nel  fatto  e  fuor  di  metafora  egli  dà  poco  o  niente. 

Dirà  sempre  :  - —  Io  —  quando  la  sua  innamorata  dirà 
perdutamente:  Noi  (Balzac). 

Nessuno  dei  deliri  sensuali,  che  sono  colpa  e  pena  agli 
erotici,  nessuna  di  quelle  adorazioni  ingenue  della  voluttà 
che  sono  dell'anima  primitiva  :  vuol  posseder  Donna  Anna 
e  se  la  spassa  con  Pispireta  (Zamora),  lascia  Donna  Ines 
che  ha  tra  le  braccia,  per  correre  da  Donna  Anna  e  poi 
tornare  da  quella  (Zorrilla),  brucia  gli  stessi  incensi  alla  pa- 
drona Donna  Elvira  e  alla  cameriera  (Da  Ponte -Mozart). 

Il  suo  amore  è  cosi  pandemio,  che  può  anche  bendare 
la  sceltaT 

Pensa  di  possedere  Donna  Anna  senza  conoscerla 
(Tirso). 


-  23  - 

Arriva  a  non  far  differenza  tra  belle  e  brutte  (Bértati), 
ne  tra  giovani  e  vecchie  (Da  Ponte). 
~     Di  tutto  sa  servirsi  mirabilmente  ai  suoi  fini.  A  Donna 
Anna  (Goldoni)  dice  che  è  venuto  in  Castigha,  soltanto 
perchè  attratto  dalla  bellezza  famosa  di  lei. 

11  Marquis  de  Priola,  sapendo  che  Madame  Savières 
si  reca  a  fare  il  bene  nelle  case  dei  poveri,  le  dichiara 
che  l'ha  seguita  cento  volte,  preso  di  lei. 

La  sua  passione  sono  i  tiri  doppi.  Già  in  Molière  tiene 
a  bada  due  donne  lusingandole  tutte  e  due  contempora- 
neamente. Ai  giorni  nostri  il  Marquis  de  Priola  si  ripro- 
mette, se  Madame  Savières  vorrà  sbarrargli  la  strada  a 
riconquistare  Madame  Le  Chesne,  di  prendersi  anche  lei 
"  en  passant,  voilà  tout  ". 

Neanche  la  carità  di  madre  gli  è  traguardo.  Bei-Ami 
finisce  per  buon  calcolo  con  lo  sposare  la  figlia  di  colei 
che  ha  cominciato  col  possedere  (Maupassant).  Dissolve 
le  affezioni  già  stabilite  con  l'acido  della  sua  tormentatrice_ 
insensibilità.  Ove  passi,  nugoli  di  dissidi  e  polveri  di  ran- 
cori si  sollevano  sotto  i  suoi  piedi.  Aminta  e  Patricio  stan 
per  sposarsi,  ma  egli  sopravviene,  la  sposa  si  riempie  di 
turbamenti  e  il  matrimonio  va  a  monte  almeno  fin  quando 
torna  utile  a  lui  (Tirso). 

Mathurine  e  Pierrot  hanno  un  bel  tortoreggiare  ;  ecco 
Don  Giovanni  e  il  povero  Pierrot  passa  in  ultima  riga 
(Molière). 

E  del  Uitto^estraneo^lle  jue  conquiste  per  quanto  in- 
differente nella  scelta. 

Affida  Donna  Elvira  al  suo  servo  che  è  scambiato 
per  lui,  senza  preoccuparsi  del  pericolo  (Da  Ponte). 
Scambia  con  l'amico  Don  Garcia  le  sue  amanti  (Mé- 
rimée). 


—  24  — 

Desgenais  di  De  Musset  manda  la  sua  amante  dall'a- 
mico, per  sollazzarlo  {Confessions  d'un  enfant  du  siede). 

Il  Morn  in  quel  suo  americanissimo  libro  //  Mondo  è 
tuo  tradotto  in  italiano  dalla  casa  Lattea  (1907),  in  un 
capitolo  alquanto  alla  carlona,  ma  con  sprazzi  di  intuizioni, 
sul  Don  Giovanni  considerato  in  rapporto  alla  vita,  nota 
che  l'abilità  sua^èdi^s^per  cogliere  il  momento  opportuno. 
Giustissimo.  Per  altro  nell'  idea  astratta  e  comprensiva 
che  ce  ne  siamo  formata,  la  forza  intaccatrice  di  Don 
Giovanni  è  per  principio  più  forte  di  ogni  più  profonda 
combinazione  di  sentimenti  :  e  in  ciò  è  il  gran  tragico, 
che  può  vestirsi  di  comico,  dell'essenza  dongiovannesca, 
identificata  già  con  l'irrisione  del  sentimento.  Si  può 
partire  dalla  teoria  delle  affinità  elettive  di  Goethe.  L'af- 
finità di  Don  Giovanni  è,  per  principio,  trascendente  i 
particolari  addentellati  :  estrema,  solare,  senza  deboli 
per  alcuna  cosa,  coincide  con  la  disaffinità;  suo  polo 
opposto. 

La  lussuria  implica  rattenimento,  pigrizia  (Dante,  per 
contrappasso,  fa  correre  i  seduttori  di  femmine,  sferzati 
dai  diavoli  dell'Inferno  ;  e  i  lussuriosi  rapinati  dalla  bufera 
infernale  o  eternalmente  andando  tra  le  fiam-me  del  Pur- 
gatorio) ;  Don  Giovanni,  per  contrasto,  è  Hbero  sempre 
come  vero  acrobata. 

Tanta  immensa  produttività  esteriore  non  può  conte- 
nere che  un  altrettanto  immenso  vuoto  interiore. 

Faust,  ce  lo  figuriamo  vecchio  adunco,  curvo  sui  suoi 
alambicchi,  a  spiare  il  verbo  occulto,  mentre  un  teschio 
di  morto  gli  irride  dai  gran  denti  serrati  come  una  tenaglia. 

Don  Giovanni  contrappone  l'eterna  giovinezza,  la  can- 
tante giocondità  scorrazzante  d'aiuola  in  aiuola  d'amore. 


-  25  — 

Che  fa  se  Faust  sia  ringiovanito  da  Mefistofele  ;  e 
Don  Giovanni  finisca  da  frate  in  Dumas?  Un  tipo  non 
è  una  biografìa;  coglie  il  tratto  essenziale,  che  non  varia 
per  variar  d'elementi. 

Non  sebbene,  ma  appunto  perchè  vuoto  interiormente, 
la  trasmutabilità  di  Don  Giovanni  è  massima.  Nell'indi- 
viduo di  un'esatta  personalità  psichica,  ogni  atto  è  con- 
tTassegnato  della  sua  origme,  e  le  manifestazioni  sono 
inarginate  in  ben  definiti  limiti  di  carattere,  onde  pro- 
porzionalmente difficile  gli  è  mutar  di  aspetto.  Don 
Giovanni  si  maschera  continuamente.  La  qualità  infatti 
quasi  universalmente  aggiuntagli  è  l'abilità  prodigiosa  di 
proteista.  Si  camuffa  da  duca  Ottavio  e  da  Della  Mota 
in  Tirso;  muta  d'abiti  col  suo  servo  in  Cicognini;  in 
Molière,  dopo  di  ciò  si  traveste  da  contadino  ;  si  fa  scam- 
biare pel  suo  servo  davanti  a  una  schiera  di  contadini 
armati  contro  di  lui,  in  Da  Ponte. 

Se  Lovelace  non  cambia  d'abiti  come  Don  Giovanni, 
la  dissomiglianza  non  è  grande  :  egli  attua  interiormente 
quelle  trasmutazioni  che  Don  Giovanni  pratica  mani- 
festamente. 


26  - 


NOTE  ALLA   PRIMA   PARTE. 

(1)  Namouna  di  De  Musset,  compreso,  nel  1832,  nel  suo  secondo 
libro  Un  speclacle  dans  un  fauteuil  in  cui  dopo  i  Contes  d'Espagne 
et  d'Italie  del  1 830,  De  Musset  definisce  il  suo  posto  nell'arte  ;  - 
Rolla,   del    1833;   -  Fortunio,    romanzo  di   Gautier  del    1838. 

(2)  Nel  romanzo  russo  di  Lermontofi  —  uno  dei  più  irrequieti  seziona- 
tori dell'anima  moderna,  morto  in  duello,  com'è  noto,  il  15  Luglio  1841 , 
a  Piatigorsk  — :  L'eroe  dei  nostri  giorni.  La  migliore  edizione  russa  delle 
sue  opere  è  quella  di  Alex.  Viskovator  (Mosca,  1891,  6"  voi.).  Il 
romanzo  citato,  che  è  veramente  più  che  altro  una  raccolta  annodata 
di  novelle,  fu  già  tradotto  in  francese  dal  De  Villamarie.  Ed.  Stock,  1904. 
Testé  del  Lermontoff,  la  Renaissance  du  livre  nella  collezione  Les 
cent  chefs-d'oeuvres  étrangers  ha  pubblicata  tradotta  una  scelta  delle 
opere,  fra  cui  brani  dell'f^roe  dei  nostri  giorni  e  il  Demone.  Nella  Bi- 
blioteca Univ.  SonzogQO  v'ha  anche   tradotta   una  parte  dell'eroe. 

(3)  In  Les  Diaboliques:   "  Le  plus  bel  amour  de  Don  Juan  ", 

(4)  11  tipo  di  Don  Giovanni  non  mi  consta  assolutamente  sia  stato  ten- 
tato dalle  morse  della  scienza  sperimentale,  nonostante  alcune  precur- 
sioni  di   ultimi  scienzati. 

Non  sarebbe  il  primo  caso  in  cui  l'arte  presta  il  nome  e  l'intui- 
zione a  fenomeni  e  a  ricostruzioni  della  scienza.  Anzi  si  può  dire  che 
sia  un  caso  normale  (si  ripensi  alle  figure  vissute  o  fantcìstiche  Saffo, 
Amleto,  Masoch,  Sade,  Bovary,  e  ai  profitti  che  ne  ritrasse  la  scienza 
e   la  psicologia  per  i  suoi  scandagli  e  le  sue  denominazioni). 

(5)  Georges  Gendarme  de  Bévotte  :  La  legende  de  Don  Juan  et 
son  évolution  dans  la  littérature  des  origines  au  romanticisme.  Paris, 
Librairie   Hachelte,    1906. 

Compiuto  studio  della  leggenda  fino  al  romanticismo.  A  quanto  mi 
consta,  la  seconda  parte  —  dal  romanticismo  ai  giorni  nostri  —  non 
è  uscita.    E   a  questo  volume  che  mi  riferisco  ogni  qualvolta  cito  l'autore. 

(6)  Il  libro  dell'editore  Giovanni  Spies  di  Francoforte  sul  Meno 
Hisloria  von  D.  Johannes  Fausten  dem  weitbeschre\)ten  Zauberer  und 
Schwarlzkiinstler ,  ecc.,    che  dà    la  prima  forma  delia  leggenda  di  Faust. 


—  27  — 

Non  sono  riuscito  a  trovarne  notizia  di  traduzione  spagnola  né  del 
tempo,  né  posteriore  ;  e  neppure  del  rimaneggiamento  di  Widman 
del  1796.  L'Inghilterra  e  la  Francia  invece  ne  contano  presto  edi- 
zioni  tradotte   e    imitazioni. 

(7)  Tagebiicher,  Berlin,  1887,  11°,  pagina  512.  Cito  dal  Farinelli 
—  Don  Giovanni  —  Giornale  storico,  ecc.,  1896,  voi.  1.,  pag.  300. 
Mi  riferirò  a  questo  studio  quando  mi  avverrà  di  citare  il  Farinelli. 
(8)  Comédie  de  la  mori,  nella  raccolta  delle  sue  poesie,  1845. 
Ponte  di  transizione  fra  il  macabro  rudimentale  di  Albertus  ou  l'àme 
et  le  peché  (1833)  e   il   gelo  squisito  di  Emaux   et    Camées   (1852). 

(9)  Di  Carlo  G.  Almquivist,  svedese,  è  noto  il  libro  di  gran 
mole  e  molti  volumi:  Libro  di  rose  canine.  11  I"  volume  é  del  1834. 
Il  5°  volume  (1854)  contiene  la  stona  intimamente  esodica  di  Don 
Giovanni,  padre,  intitolata  Ramido.  Don  Giovanni  spende  nel  culto 
del  pensiero  e  dello  spirito  quel  tempo  che  già  gettava  nel  correre 
dietro  al   piacere. 

(10)  Alexis  Costantinovic  Tolstoi  :  Don  Giovanni.  Del  1896,  é  uno 
studio  del   Barone  di   Berwlck  su   questo  poema  drammatico. 

(11)  Camillo  Borghese,  auditeur  de  la  Chambre  Apostolique  en  1594: 
Relation  du   Vo})age  en  Espagne,  nel  libro  di  Alfred   Motel  ;   -  Fatio  : 

L'Espagne    au  XVI  et    au    XVII  siede.    Bonn,    1878.    -    Contessa 
D'Aulnoy,  Relation  du  Voyage  d'Espagne.  A  la  Haye,    1692. 

(  1 2)  Hoffmann  nella  prima  parte  delle  Fantasiesstiick,&  in  Callot's 
manier,   pubblicate  a  Bamberga   nel    1814. 

11  titolo  del  racconto  è  :  Don  Juan,  eine  fabelhafte  Begebenheit, 
die  sich  mit  einem  reisenden  Enlhusiasten  zugetragen. 

(13)  Sulle  relazioni  fra  la  Sand  e  De  Musset  possono  giovare  le 
ultime  interessanti  notizie  della  nipote  del  loro  editore  Francois  Buloz, 
Madame    de    Pailleron.    Kevue    des    deux    Mondes,    15    aprile    1918. 

(  1 4)  E  forse  superfluo  avvertire  che  si  allude  a  uno  dei  personaggi 
principali  del  noto  Ritratto  di  Dorian  Qra^  di  Oscar  Wilde. 

(15)  Eugenio  Onieghin,  poema  di   Puskin. 

(16)  Prefazione  alle  "  Comedias  de  Tirso  de  Molina  y  Guillem  de 
Castro  "  in  Colección  de  Libros  espanoles  raros  ó  curiosos,  non  priva 
di  errori  madornali,  dice  il  Farinelli  giustamente. 

(17)  Di  Knut  Pedersen,  detto  Hamsun,  poco  è  tradotto  in  italiano. 
E  nota  un'infe'ice  traduzione  del  romanzo  Misteri  àe\    1892,  ten- 
tata dalla  casa  Sandron,   col   titolo  più  commerciale  :   Era  pazzo  ?  La 


—  28  — 

Nuova  Antologia  ne  ha  fatto  conoscere  nel  1916,  16  luglio,  il 
dramma:  Alle  porte  della  gloria,  e  nel  1916,  marzo  e  aprile,  il  ro- 
manzo :   Pari. 

Senza  i  feticismi  dei  russi  che  adorano  questo  autore,  esso  è  degno 
veramente  di  essere  conosciuto  per  un'originalità  sorprendente  di  spi- 
riti e  di  forme,   oltreché  per  l'esasperante  concezione  dell'amore. 

Dagni  è  l'eroina  dei  Misteri  ;  Edvarda,  di  Pan  ;  Victoria  del  ro- 
manzo omonimo. 

(18)  Otto  Weininger,  Metafisica,  frammenti,  nel  volume  tradotto 
dalla  casa  Bocca  :   Intorno  alle  cose  supreme. 

(  1 9)  Possono  vedersi  schiarimenti  in  Forel  :  Questioni  sessuali.  E, 
noto  r  interessante  capitolo  che  il  Taine  dedica  a  questo  autore  nella 
sua  Littérature   Anglaise. 

(20)  li  De  Roberto  ha  su  questo  proposito  un  felice  studio  nel  vo- 
lume :  Le  donne,  i  cavalier...  (Treves).  E  il  terzo  studio  della  raccolta. 


PARTE  SECONDA 
La  Leggenda  e  il  Burlador 


Da  quanto  ho  esposto  e  in  alcun  modo  anticipato  nella 
prima  parte  consegue  che,  a  mio  credere,  Don  Giovanni 
appare,  sì,  per  la  prima  volta  nella  commedia  El  Bur- 
lador (1),  ma  non  è  qui  la  sua  prima  patria.  Ovvero  la 
leggenda  dovette  preesistere  all'opera  drammatica  ;  e  per 
quanto  non  è  verosimile  quel  che  crede  Gendarme  de 
Bévotte,  che  Tirso  o  chi  per  lui  primitivamente  fondesse 
nel  Burlador  gli  elementi  di  varie  leggende,  altrettanto 
credibile  mi  pare,  non  essendo  la  commedia  tal 
cosa  da  spiegare  la  fortuna  del  suo  eroe,  che  questa  piut- 
tosto si  riconnetta  alla  leggenda  anteriore,  alla  quale  in- 
consapevolmente bruciano  gli  incensi  dei  plausi  della  folla 
e  simpatie  degli  autori. 

Certo  l'autore  del  Burlador  cambiò,  arricchì,  o  impo- 
verì, ma  la  leggenda  non  pare  l'inventasse  lui  :  guardando 
bene,  il  meccanismo  stesso  della  commedia  —  e  lo  ve- 
dremo —  mostra  uno  sforzo  della  fantasia  dell'autore 
neir  inserire  per  entro  la  prestabilita  tela  della  leggenda 


—  30  — 

l'opera  sua  viva:  lungi  dal  creare  si  direbbe  che  ormeggi. 
Quell'episodio  della  statua  (atto  3°,  scene  X,  Xlll,  XIV, 
XXl)  è  così  appena  e  primitivamente  presagito  da  quelle 
parole  di  Don  Giovanni  a  Aminta  :  "...Me  de  muerte  un 
hombre...  (Muerto  —  Que  vivo,  Dios  no  permita)  (atto  3", 
scena  Vii)". 

L*  irragionevolezza  di  quella  visita  tanto  necessaria  alla 
chiesa  dove  è  la  statua,  ha  fatto  nascere  il  bisogno  in  tutti 
i  rinnovatori  della  leggenda  di  spiegarla  in  qualche  modo  : 
o  con  lo  scampo  cercatovi  dall'aggressione  dei  due  sicari 
Fabio  e  Don  Luis  (Zamora),  o  col  ripararvisi  dall'inse- 
guimento delle  guardie  (Goldoni)  o  col  fortuito  imbattersi 
in  essa,  nell'evasione  dalla  casa  di  una  vittima  recente 
(Da  Ponte)  o  con  lo  schernevole  desiderio  di  vedere  il 
bel  monumento  della  vittima  (Zorrilla)  :  nel  Burlador  è 
appiccicata  lì,  come  seguendo  uno  schema  estraneo. 

Le  ultime  scene  poi  mostrano  nell'autore,  oltre  il  mancar 
della  possa  della  fantasia,  lo  scrupolo  anche  di  essere 
andato  troppo  oltre  ;  scrupolo  che  par  fornirgli  talune  for- 
bici a  ritagliare  in  cauda  e  con  più  armonia  con  le  neces- 
sità del  tempo  e  anche  le  proprie  convinzioni,  la  rappre- 
sentazione del  suo  scellerato  che  la  leggenda  meno 
scrupolosa  e  più  sincera  doveva  forse  meglio  conservare 
coerente  con  se  stessa. 

Il  colorito  religioso  è  certo  in  Don  Giovanni  più  evi- 
dente che  in  Faust  :  evidentissima  la  morale  che  a  guisa 
di  cabaletta  qua  e  là  fa  capolino,  anche  prima  della  fine 
del  tutto  ortodossa,  dalle  recriminazioni  sempliciotte  del 
buon  Catalinon.  Anche  la  leggenda  di  Faust  terminava 

con  un  banchetto veramente  indigesto  pel  commensale 

incriminato  :  banchetti  e  conviti  sogliono  essere,  in  grande 
quantità  di  tradizioni,  leggende  e  opere  d'arte  del  Cri- 


—  31   — 

stianesimo,  occasione  per  l'esplodere  inter  dapes  di 
qualche  gran  crisi  morale  :  relazione  che  può  offrire  il 
destro,  a  chi  voglia  coglierlo,  di  discutere  dei  rapporti 
molto  umani  ha  lo  stomaco  e  lo  spirito... 

In  Don  Giovanni,  a  differenza  che  in  Faust,  i  banchetti 
sono  due:  uno  in  casa  sua,  l'altro  di  restituzione  alla 
cappella  della  statua  invitata.  L'invito  a  cena  a  un  morto 
quasi  invariabilmente  si  ripete  per  molte  leggende  europee, 
che  formano  pressoché  un  ciclo,  dove  accade  di  solito 
che  alcuno  per  ischei"zo  o  per  ischerno  s'mviti  a  cena  un 
morto;  questi  puntuale  contro  ogni  aspettativa  si  presenti 
e  ricambi  l'invito  ;  e  al  secondo  pasto  il  povero  diavolo  o 
viene  spedito  all'inferno  o  passa  qualche  brutto  quarto 
d'ora  :  esempio  e  monito  a  non  turbare  l'ultimo  riposo  ne 
deridere  i  sacri  ignoti. 

Tale  la  (2)  leggenda  Alsaziana  dell'individuo,  che 
dopo  i  reciproci  due  inviti,  nella  mensa  funebre,  assiste 
ai  castighi  eterni  e  ne  resta  esterrefatto. 

Tale  il  racconto  piccardo  Le  souper  du  fantòme  del 
Sebillot,  in  cui  un  tale  dopo  essersi  divertito  con  una 
testa  di  morto  invita  ed  è  invitato  al  solito,  e  assiste  a  tali 
brutte  cose,  che  per  l' impressione  si  fa  prete. 

Analoga  la  leggenda  irlandese  (raccolta  dall' Arnason), 
e  quella  prussiana  intitolata  :  "  Die  erhàngten  Gàsten  "  e 
ancora  quella  portoghese  "Mirra",  raccolta  dal  Braga. 
Altrove  eccezionalmente,  nella  leggenda  brettone  ripor- 
tata dal  Rodrigues-Solis,  i  due  pasti  si  fondono  nell'unico 
primo,  dove  scoppia  la  punizione  fatale. 

Notevole  fra  l'altro  la  romanza  raccolta  da  Juan  Me- 
néndez  Fidai  nelle  montagne  di  Leon  —  e  ricordata  dal 
Cotarelo  (3)  nella  sua  biografìa  di  Tirso  —  in  cui  un 
libertino  (notevole  la  determinazione)  trova  una  testa  di 


—  32  — 

morto,  le  dà  un  calcio  ;  poi  segue  la  stessa  storia  delle 
altre  leggende,  con  la  morte  finale  del  sacrilego  al  secondo 
convito.  A  questo  ciclo  di  leggende  si  riconnette  il  fa- 
moso dramma  tedesco  (4)  "  Storia  di  Leonzio  conte  che 
corrotto  da  Machiavelli  ebbe  fine  spaventosa  ",  che  nel 
1615  a  Ingolstadt  veniva  rappresentato  dai  gesuiti,  e 
ripetuto  nel  1635  a  Iglau  in  Moravia,  nel  1658  a  Rot- 
tvv^eil,  nel  1677  a  Neubourg  e  via  proseguendo  per  il 
600  e  700.  Per  l'innanzi  era  stato  rappresentato  in  Italia, 
ove  par  certo  sia  nata  la  leggenda  (5). 

Leonzio,  in  cui  è  rappresentato  il  simbolo  di  un  ateismo 
o  paganesimo  intellettuale,  che  l'umanesimo  aveva  potuto 
introdurre  in  Italia,  e  di  cui  i  gesuiti  vedevano  il  diabolico 
vessillifero  in  Machiavelli,  è  un  eretico,  che  nella  prima 
parte  dell'opera  dei  gesuiti  compie  alcune  gesta  crimi- 
nose estranee  alla  comparazione  con  Don  Giovanni.  Una 
sera,  nella  seconda  parte,  incontra  in  un  cimitero  un 
teschio  —  che  è  proprio  quello  del  suo  avo  Geronzio  — 
e  lo  invita  a  cena.  Il  morto  si  presenta  e,  issofatto,  dopo 
avergli  detto  che  è  venuto  a  ricordargli  che  c'è  una  vita 
eterna,  glielo  prova  sfracellandogli  la  testa  contro  la  parete. 

L' individualismo  e  il  culto  fisico  fanno  di  Leonzio  un 
tipo  tutto  italiano  del  rinascimento,  come  la  spavalderia 
e  pur  la  superstite  religiosità  fanno  di  Don  Giovanni  un 
tipo  spagnolo  ;  sebbene  anche  su  questa  religiosità  di  Don 
Giovanni  mi  pare  che  si  esageri  ;  egli  non  è  ateo,  non 
bestemmia,  non  fa  della  filosofia  empia  ;  ma  dalle  sue  ri- 
serve e  dai  suoi  "  tan  largo  me  lo  fiais  "  a  una  recisa  ne- 
gazione il  passo  è  breve.  Solo,  per  la  negazione,  che  è  in 
Leonzio,  occorre  una  supposizione  di  ragionamento  a  Don 
Giovanni  estraneo  :  egli  è  già  in  Tirso  un  po'  del  "  due  e 
due  fanno  quattro  "  come  sarà  decisamente  in  Molière. 


—  33  — 

Pertanto  nella  leggenda  di  Leonzio,  tipo  di  reo  inten- 
zionale e  più  complesso,  la  parte  immaginosa  è  poca,  il 
convito  è  unico  e  frettoloso  ;  in  Don  Giovanni,  tipo  di  reo 
per  istinto  e  senza  complicazioni  intellettuali,  le  cose  vanno 
molto  più  per  le  lunghe  ;  l'immaginazione  si  compiace  di 
arricchirne  l'avventura  finale.  Inoltre  il  duplice  convito  of- 
frirà all'autore  del  Burlador  il  modo  di  dare  un'altra  pen- 
nellata al  carattere  di  "  espanolesca  arogancia  "  del  suo 
personaggio,  mettendone  in  mostra  il  punto  de  honor  ; 
poiché  egli  si  arrenderà  all'  invito  della  statua  di  Don 
Gonzalo  "porque  se  admiie  y  espante-Sevilla  de  su  valor". 

Questo  primo  componente  della  leggenda  è  il  super- 
stite prodotto  del  sacro  errore  dell'anima  popolare  da- 
vanti alla  cristiana  religiosità  della  morte. 

Altro  elemento  caratteristico  della  leggenda  dongio- 
vannesca è  quello  della  statua  vivente.  Anch'  esso  non 
è  nuovo,  anzi  risale  più  in  là  che  non  quello  dell'  invito 
a  cena.  Attribuire  al  marmo  una  vita  fittizia  e  vederlo 
vivere  per  qualche  impulso  emotivo,  era  già  un  trapasso 
facile  a  fantasie  primitive.  Vi  è  già  un  legame  significativo 
fra  il  mito  di  Niobe,  in  cui  lo  spasimo  del  dolore  si  ag- 
ghiaccia in  marmo,  e  quello  di  Galatea,  che  da  marmo 
balza  a  vita  davanti  all'artefice  stupefatto. 

Il  Farinelli  ricorda  le  "  statuae  incessurae  "  di  Apuleio, 
la  statua  detta  "  Salvatio  Romae  "  che  avvertiva  i  Romani 
dei  tumulti  che  scoppiavano  nell'impero,  secondo  l'Ano- 
nimo di  Salerno  del  secolo  X,  la  statua  di  San  Nicola  della 
leggenda  omonima,  che  punisce  il  ladro  delle  candele,  ecc. 

Più  sintomatico  il  riferimento  fatto  da  Gendarme  de 
Bévotte  della  narrazione  di  Dione  Crisostomo  {Di- 
scorsi, 3 1  )  e  Pausania  (  Viaggio  in  Elide  I.  VI,  cap.  Xl) 

3  —  F.  FUÀ,  Don  Giovanni, 


—  34  — 

della  statua  dell'  atleta  Theogene  di  Thasos,  innalzata 
dagli  Eleati,  che,  insultata  da  un  invidioso,  una  notte, 
balza  dal  piedestallo  e  lo  schiaccia. 

Anche  Virgilio  fa  che  s'animi  il  simulacro  di  Pallade 
nel  racconto  del  falso  Sinone  (Ene/Je,  II,  v.  172-175). 

Vix  positum  caslris  simulacrum  arsere  coruscae 
Luminibus  flammae  arrectis,  salsusque  per  artus 
Sudor  ivit;   terque  ipsa  solo  (mirabile  dictu) 
Emicuit,  parmamque  ferens  hastamque  trementem. 

Una  leggenda  siciliana,  riadorna  di  colori  immaginifici 
dal  Cesareo  nelle  sue  Leggende  e  fantasie,  presenta 
pure  lo  stesso  motivo  che  in  Don  Giovanni.  Il  barone  di 
San  Rizzo  beffa  la  statua  di  Don  Giovanni,  Cavaliere  di 
Terrasanta,  gettandogli  del  vino  in  faccia  e  parlando  sboc- 
catamente della  moglie  di  lui,  lì  presso  scolpita  anche  lei: 
la  statua  si  anima  repente  e  lo  stramazza  a  terra  cadavere 
con  un  colpo  della  manopola  ferrata.  E  moltissime  altre 
fantasie  antiche  e  moderne  ripetono  lo  stesso  motivo. 

L'opera  più  vicina  al  Burlador,  in  cui  appare  l'esempio 
di  una  statua  animata,  è  la  commedia  di  Lope  che  tutti 
gli  studiosi  di  Don  Giovanni  dal  Tiknor  in  poi  citano 
in  proposito  :  Dineros  son  calidad,  la  cui  composizione 
non  risale  oltre  il  1  590. 

Ottavio,  figlio  del  conte  Federico  che  si  è  rovinato 
finanziariamente  per  il  Re  Enrico,  errando  povero,  s'im- 
batte nella  statua  del  Re  Enrico  e  preso  da  un  impeto 
d' ira  molto  umano,  si  sfoga  in  insulti  contro  il  marmo 
odiato.  Segue  una  singolare  tenzone  fra  lui  e  la  statua, 
nella  quale  il  coraggio  di  Ottavio  trionfa  e  quella  gli  dice 
di  averlo  voluto  mettere  alla  prova,  e  di  restituirgli  il 
denaro  paterno. 

La  coincidenza  è  poco  più  che  casuale  ;  la  leggenda 


—  35  — 

dongiovannesca  certo  non  può  dover  niente  a  questo 
episodio,  a  cui  del  resto  non  1*  avvicina  che  una  molto 
esteriore  somiglianza,  essa,  che  nella  sua  prima  forma- 
zione, era  evidentemente  anteriore  al  Dineros. 

Nella  leggenda  la  statua  esprime  molto  più  :  non  è  in 
essa  un  impulso  di  vendetta  impronta  ed  escandescente 
come  nella  favola  di  Dione  e  Pausania  ;  tanto  meno  v'è 
la  semplice,  quasi  ariostesca  meravigliosità  episodica  della 
scena  IV  dell'atto  3"  del  Dineros.  Qui,  la  statua  è  fatta 
ministra  dell'  ira  celeste  ;  e  nel  Burlador  non  risponde 
all'ingiuria  che  è  nello  scherno  di  Don  Giovanni,  con  una 
violenza  troppo  umana  ;  mostra  invece,  sempre,  con  una 
coiTettezza  superiore  a  cui  non  estraneo  il  discernimento 
dell'artista,  di  non  vendicare  tanto  se,  quanto  Taluno,  cui 
offendere  è  assai  maggior  colpa. 

Altrove  alle  statue,  animandole,  si  attribuiscono  sensi 
umani  ;  qui  essa  è  interprete  divina. 

E  veramente  un  senso  d'arte  tutto  intuitivo  e  popolare 
in  questa  materializzazione  del  fato  in  un  marmo  animato, 
che  arriva  inatteso  alla  casa  dell'offensore,  non  si  perde 
in  chiacchiere,  ma  irrimediabilmente  terribile,  senza  fretta, 
al  momento  scoccato,  colpisce.  Chi  meglio  indovinò  e 
fermò  questo  senso  d'arte  —  mi  si  conceda  la  parentesi 

—  è  forse  il  pittore  Moreau  le  Jeune  nel  quadro  :  "  Le 
Festin  de  Pierre"  :  tra  mezzo  al  gaudio  del  festino,  come 
evocato  da  un  richiamo  inaudito,  e  nell'  istesso  tempo 
quasi  atteso,  e  preparatogli  il  posto,  e  rimasto  lì  inavver- 
tito, e  si  spalanchi  ad  un  tratto  alle  viste  folgorate  —  il 
marmoreo  simulacro  è  impassibile  tra  l'agonia  dei  volti  (6). 

—  Così,  nella  cena  del  Sepolcro,  Don  Giovanni  è  bru- 
ciato per  mano  del  marmo,  come  egli  stesso  nella  sua 
vita  ha  bruciato  restando  marmo. 


—  36  — 

La  rappresentazione  di  libertini  è  ben  antica  nelle  let- 
terature e  nelle  leggende.  La  Grecia  ha  i  Paridi,  gli 
Egisti,  quelli  omericanente  da  chiamarsi  Achee,  non 
Achivi,  esempi  di  destituzione  degli  ideali  del  sesso  vi- 
rile. Di  contro  ha  rappresentazioni  di  energie  soverchianti 
per  cui  i  diletti  del  senso  sono  inconsiderevoli  pedaggi 
pagati  alla  natura  :  Zeus,  Eracle,  Giasone.  A  questi  si 
riallaccia  Don  Giovanni  ;  anzi  io  arrischierei  dire  che 
la  creazione  del  tipo  rampolli  dall'  aspirazione  inattuata 
dell'  irrequietudine  moderna  alle  quiete  energie  quadrate 
delle  fantasie  classiciste.  Roma,  infeconda  di  leggende 
e  miti,  non  crea  tipi  ;  ma  evidentemente  la  sua  letteratura 
meglio  ricorda  la  stirpe  dei  Paridi  ;  l'amore  pieno,  so- 
lare si  macchia  dei  tormenti  sensuali  di  Catullo,  Pro- 
perzio, Ovidio  ;  decadendo  si  voltola  negli  sterquilini  di 
Petronio. 

Tipi  di  dissoluti  e  ammaliatori  di  donne  non  mancano 
certo  alla  vita  e  all'arte  di  tutti  i  tempi  :  la  Spagna  conta 
nella  storia  le  imprese  famigerate  di  Pietro  il  crudele, 
( I  350-1  369 j,  specie  di  Roberto  il  Diavolo  spagnolo 
senza  fine  pia  :  nell'arte,  anticipatori  più  prossimi  per  so- 
miglianza a  Don  Giovanni  Tenorio,  ha  Leucino  neWInfa- 
mador  diCueva,  Leonido  nella  Fianza  Satisfecha  di  Lope. 
Leucino  e  Don  Giovanni  sono  gli  unici  personaggi  del 
teatro  spagnolo  aureo,  che  dopo  aver  fatto  strage  dei  dieci 
comandamenti  nonché  di  femmine,  muoiono  pentiti  e 
puniti.  Gli  altri,  come  Leonido,  dopo  fior  di  delitti,  son 
perdonati  in  grazia  di  un  tempestivo  ravvedimento  ;  così 
Cristobal  de  Lugo  (7),  Trebacio  (8),  Don  Juan  del  No 
ha})  corno  callar  di  Calderon,  e  dello  stesso  Tirso,  pare, 
anche  il  Caballero  de  Grada  che  dopo  abbominande  colpe 
e  dongiovannesche  perdizioni  riesce  al  quieto  convinci- 


-  37  - 

mento  di  Dio  e  della  vera  Fede  nella  quale  perseverando 
acquista  mercedi  che  lo  nobilitano  santo. 

Leucino  dell*  Infamador  rappresentato  a  Siviglia  nel 
1  581 ,  è  un  mostro  che  tenta  violentare  la  sorella,  percuote 
il  padre,  aggredisce  il  suocero  ;  dopo  aver  fatto  man  bassa 
dell'onore  di  tante  malcapitate  (antefatto),  non  la  spunta 
con  l'ultima,  Eliodora,  la  quale  si  difende  così  bene  che 
la  dea  Diana  le  dà  il  premio  della  verginità,  e  fa  mghiot- 
tire  dalla  terra  lo  scellerato. 

Leonido  è  peggiore  di  Leucino;  incestuoso,  feroce, 
energumeno,  toglie  la  vita  al  padre,  è  il  terrore  di  tutti, 
finche  Cristo  in  persona,  sotto  spoglie  di  pastore,  non 
viene  a  versare  sulle  turbolenze  taurine  del  pazzoide  le 
persuasioni  liquide  delle  sue  parole  d'azzurro,  onde  è  re- 
dento (fine  del  2°  atto)  (9). 

In  questi  pre-Don  Giovanni,  il  tipo  che  ci  interessa  è 
—  occorre  insistere  —  preannunziato,  veduto  di  scorcio  ; 
è  nel  Burlador  isolato  e  veduto  di  fronte.  In  quelli,  il  per- 
sonaggio è  anche  corruttor  di  donne,  per  sfogare  in  questo 
altro  modo  il  proprio  mal  volere  ;  ove  quelli  seducon 
donne  per  fare  del  male  di  più.  Don  Giovanni  opera  il 
male  per  soddisfare  i  suoi  capricci  di  donnaiolo.  Cosa 
notevole,  in  Don  Giovanni  la  figurazione  del  male  si  ra- 
refa in  atmosfera  di  riso  che  talora  pare  ironia. 

Ecco  dunque  gli  elementi  artistici  che  ritrovo  nella 
leggenda  di  Don  Giovanni,  quale  si  può  ricostruire  per 
induzione  dal  Burlador  :  due  elementi  simbolici  :  la  rap- 
presentazione di  un  edonismo  sensuale  e  quella  di  una 
atrofìa  sentimentale,  con  prepotenza  di  seduzione  (da  ciò 
scaturisce  una  specie  di  ironia  in  azione  dell'amore)  ;  due 
elementi  espressivi  e  locali  :  un  libertinaggio  all'impazzata, 
e  una  puntigliosità  irriflessiva  che  trascende  nell'  insulto 


-  38  - 

a  un  morto,  che  ancor  dopo  morto  par  l'offenda  ;  tre  ele- 
menti che  dirò  scenici  su  cui,  come  essenziali  alla  leg- 
genda, mi  sono  maggiormente  soffermato  :  le  scorribande 
amorose,  la  statua  vivente,  gli  inviti  a  cena.  Vedremo  fra 
poco  questi  elementi  applicati  nel  Burlador. 

Alla  fine  di  quella  posteriore  redazione  del  Burlador 
che  è  il  Tan  largo  me  lo  fiais,  vien  data  la  storia  di  Don 
Giovanni  come  verdadera,  con  quanta  convinzione  di 
chi  ascoltasse  non  occorre  dire. 

Nonostante  l' iperbolica  meraviglia  degli  accessori,  la 
figura  rappresentata  colpiva  una  manifestazione  così  es- 
senziale della  vita,  che  non  sorprende,  se  per  una  specie 
di  rifrazione  mentale  cara  a  tutti,  sia  tornato  gradito  di 
pensarla  veramente  viva. 

Fin  dal  600  r  autore  anonimo  della  "  Lettre  sur  les 
observations  d' une  comédie  du  Sieur  Molière  intitulée 
Le  Festin  de  Pierre^\  affermava  veridica  la  storia.  Nel 
1835  poi  il  Viardot  racconta  la  storia  del  suo  viaggio  in 
Spagna  (10)  assicurando  di  aver  trovato  il  bandolo  don- 
giovannesco in  una  narrazione  diffusavi  e  a  suo  dire  ri- 
portata nelle  Cronicas  de  Sevilla;  secondo  la  quale  nar- 
razione Don  Giovanni  Tenorio  appartenente  ad  una  delle 
24  famiglie  nobili  di  Spagna,  famoso  scellerato,  ucciso 
il  commendatore  de  Ulloa,  e  rapitane  la  figlia,  era  stato 
attirato  dai  frati  di  S.  Francesco  in  un  agguato  e  assas- 
sinato ;  poi  da  essi  divulgata  la  comoda  leggenda  del  ca- 
stigo divino,  per  nascondere  la  verità. 

Questa  conciliazione  della  fiaba  con  la  verità  storica 
parve  a  taluni  l'alto  là  delle  fantasticherie  ;  e  ad  essa 
giurarono  in  verha  Castil  Blaze,  Latour,  Koch,  Zeidler, 
Brouwer  (11). 


—  39  — 

Eugenie  Baret  nella  sua  Histoire  de  la  litiérature  Espa- 
gnolle  riporta  senz'  altro  tradotto  il  brano  delle  Cronicas 
de  Sevdla  (12).  Ma  lo  strano  è  che  questo  brano  non 
esiste,  ne  le  indagini  più  accurate  di  Farinelli,  Schack  (  1  3), 
Bévotte  sono  riuscite  a  pescarlo  ;  ne  alcunché  di  simile 
trovasi  nel  Romancero. 

Anche  Maurice  Barrès  nell'opera  già  citata  Du  song, 
de  la  Volupté  et  de  la  mori  (cap.  cit.)  di  mezzo  all'erotiche 
fantasticaggini,  trova  un  testimonio  alle  stramberie  necro- 
file del  suo  Don  Giovanni  nell'identificazione  storica  di 
esso  con  Don  Miguel  Manara  Vicentello  de  Leca  nato 
a  Siviglia  nel  1626;  e  gli  dedica  una  nota  critico-estetica, 
riassumendone  in  succo  la  vita,  quale  risulta  dalle  inda- 
gini di  Raul  Colonna  di  Cesari.  Ma  a  nessuno  verrebbe 
voglia  di  dar  molto  retta  a  un  Barrès  in  veste  di  critico  e 
tanto  meno  a  una  nota  critica  in  fondo  a  pagine  così  fre- 
quenti di  respirazione  lirica  come  quelle  dell'opera  citata. 

Sembra  invece  a  me  questa  caccia  al  Don  Giovanni 
vero,  oltreché  infruttuosa,  fuor  di  luogo.  Come  per  Faust, 
che  sia  esistito  alcuno,  su  cui  si  sia  puntata  la  fantasia 
popolare  per  tessere  le  sue  fila,  mi  pare  senz'altro  verosi- 
mile; poiché  nel  creare  le  sue  leggende  essa  sempre  ha 
bisogno  di  un  granello  di  verità,  da  incartocciare  tra  gli 
involucri  della  favola;  ma  come  per  Faust,  voler  sapere 
chi  fosse  proprio  l'originario  della  leggenda,  è  chiedere 
troppo;  tanto  ormai  la  leggenda  l'ha  metamorfosato  ;  dopo 
molti  errori  quello  che  si  potrà  ottenere  è  di  ritrovarsi 
tra  mano,  come  nel  caso  di  Faust,  un  ipotetico  Fust 
di  Magonza. 

Il  non  essere  compresa  la  commedia  El  Burlador  nelle 
cinque  parti  delle  sue  opere,  nelle  edizioni  di   Madrid, 


—  40  — 

Siviglia,  Valenza,  Tolosa,  curate  da  Tirso  stesso  o  dal 
nipote  di  lui  Francisco  Lucas  de  Alvila  dal  1627  al  1636, 
fa  credere  al  Farinelli  che  essa  non  gli  appartenga.  Essa 
appare  per  la  prima  volta  nell'edizione  di  Barcellona,  a 
cura  di  Jeronimo  Margarit,  del  1 630,  nel  volume  intito- 
lato Doce  comedias  nuevas  de  Lope  de  Vega  Carpio  ^ 
otros  autores.  A  questa  "  fermissima  convinzione  "  il  Fa- 
rinelli è  anche  persuaso  dalla  innegabile  povertà  artistica 
della  commedia,  scucitura  delle  scene,  raspollature  nei 
domini  di  Lope,  pallidezza  di  colore  delle  figure  femmi- 
nili, insolita  in  Tirso;  inoltre  dalla  consuetudine  degli 
editori,  di  false  attribuzioni  a  scopo  di  lucro. 

Per  altro,  sottrarre  all'autenticità  di  Tirso  la  commedia 
per  questi  o  altri  motivi,  non  so  se  sia  opportuno.  Nella 
gran  mole  delle  quattrocento  commedie  uscite  dal  cervello 
di  lui  (una  bazzecola  di  fronte  al  doppio  migliaio  di  Lope) 
non  pare  sorprendente  che  taluna  di  quelle  pervenuteci 
manchi  di  essere  rifinita. 

A  riprova  dell'autenticità  può  valere  l' ingegnosa  illa- 
zione di  Gendarme  de  Bévotte.  Egli  oppone  al  Burlador 
r  altra  commedia  di  Tirso  (che  pure  alcuni  gli  conten- 
dono) :  El  Condenado  por  descorxfiado,  e  in  genere  tutto 
il  teatro  spagnolo  precedente,  e  anche  quello  seguente  di 
Calderon;  la  tesi  morale  quasi  costantemente  svoltavi  si 
aggira  sulla  efficacia  del  pentimento  finale  a  redimere  una 
esistenza  di  colpa.  Nel  Corìdenado,  particolarmente,  il 
furfante  Enrico  in  mezzo  ai  suoi  misfatti  ha  conservato 
un  fìl  di  fede  in  Dio,  e  venerazione  per  suo  padre  ;  e  se 
Dio,  a  detta  del  Manzoni,  perdona  tante  cose  per  un'o- 
pera di  misericordia,  quegli  per  men  d'un'opera  è  salvato; 
mentre  l'eremita  Paolo,  che  si  è  battuto  il  petto  tutta  la 
vita,  vien  dannato  solo  per  aver  dubitato  un  istante.  Giù- 


—  41    — 

stamente  Gendarme  de  Bévotte  ne  inferisce  che  di  fronte 
a  Paolo  condannato  per  la  sua  dubitanza,  a  Enrico  sal- 
vato per  la  sua  fede,  Don  Giovanni  è  punito  per  non 
essersi  pentito  che  davanti  ali  'imminenza  del  castigo  : 
troppo  tardi. 

Infine,  poiché  una  prova  schiacciante  della  illegittimità 
del  Burlador  manca,  e  d'altra  parte  il  nome  di  Tirso  ap- 
plicatovi su  vuol  pur  dire  qualcosa,  pur  non  giurando 
sulla  autenticità,  bisognerà  rassegnarsi  a  unire  al  titolo 
dell'  opera  lo  pseudonimo  dell'  arguto  frate,  sull'  esempio 
dell'editore  di  Barcellona  che  può  anche  essere  stato  un 
truffatore;  questa  unione  del  resto  è  ormai  così  tenace 
nel  concetto  comune,  che  la  maggior  ragione  della  fama 
di  Tirso  è  dovuta  all'  opera,  che  si  dubita  sia  sua  ;  ciò 
che  farebbe  filosofare  il  Leopardi  sui  capricci  della 
gloria  mortale. 

La  commedia  che  segna  l'esordio  della  carriera  di  Don 
Giovanni  (14)  —  m  tre  atti,  come  tutte  le  commedie  de 
capa  y  espada  —  ha  un  incrocio  di  scene  dei  più  cervello- 
tici; da  Napoli  si  passa  alla  spiaggia  di  Tarragona,di  qua  a 
Siviglia,  da  Siviglia  si  ritorna  a  Tairagona,  nel  solo  primo 
atto.  Nel  quale.  Don  Giovanni  riesce  a  combinarne  coram 
nobis  due  delle  sue  ;  si  introduce,  travestitosi  dal  fidan- 
zato, nella  camera  della  duchessa  Isabella,  dama  di  corte 
del  Re  di  Napoli;  e  burla,  fuggiasco,  la  pescatrice  Tisbea, 
che  trova  sulla  spiaggia  di  Tarragona,  scampato  appena 
dal  naufragio.  Questa  seconda  avventura  viene  spezzata 
in  due  dalla  noiosa  scena  XIV  nell*  alcazar  di  Sevilla,  in 
cui  si  fa  la  conoscenza  del  commendatore  de  Ulloa  e  si 
assiste  allo  sciorinamento  sbadigliante  delle  bellezze  in 
rima  di  Lisbona,  dove  il  commendatore  è  stato  amba- 


—  42  — 

sciatore,  e  d'onde  ora,  per  sfortuna  del  lettore,  ritorna. 
Don  Giovanni  confessa  in  questo  atto  chiaramente  che 
in  amore  non  è  di  alcun  partito  ;  la  duchessa  e  la  pesca- 
trice  si  equivalgono  : 

Amor  es  rey 

Que  iguala,   con  justa  ley, 

La  seda  con  el  sayal 

(Scena  XVI). 

Già,  quando  alle  grida  di  Isabella,  è  accorso  con  tanto 
di  candeliere  in  mano,  il  Re  di  Napoli,  che  domanda 
all'  intruso  chi  è.  Don  Giovanni  risponde  con  un'espres- 
sione che  vale  una  rivelazione  : 

e  Quien  ha  de  ser  ? 

Un  hombre  y  una  muyer 

(Scena  II,  Atto    I"). 

Nella  scena  precedente,  dinanzi  alla  tempestosa  an- 
goscia della  duchessa,  che  ha  riconosciuta  nello  scono- 
sciuto la  sua  rovina  — "  i  Oh!  cielo,  e  quien  eres,  hombre?" 
—  egli  sogghigna  : 

t  Quien  soy  ?  Un  hombre  sin  nombre. 

11  nocciolo  del  personaggio  è  già  qui.  La  demolizione 
dell'amore  —  esclusione  —  è  nell*  espressione  di  questa 
indifferenza  anonima.  La  brutalità  definitiva  del  contatto, 
sovrapposta  allo  strazio  d'anima  della  vittima.  La  duchessa 
Isabella  non  è  certo  un  fiore  di  sensitività  :  una  tal  comi- 
cità profana  è  nella  preoccupazione  di  rimediare  al  male 
alla  bell'e  meglio,  con  una  falsificazione  :  venga  il  gerente 
responsabile,  legittimato  dal  sacro  rito,  e  la  macchia  è 
lavata. 

Mas   no  sera  el  yerro   tanto 

Si    el  duque   Octavio  lo   enmienda. 


-  45  - 

Sarà  meglio  convenire  fin  da  principio,  che  tutte  le 
quattro  donne  del  Burlador,  come  già  si  è  accennato, 
sono  pallide  forme  mancanti  di  vita  :  l'unica,  Tisbea,  che 
paurebbe  aspirare  a  un  carattere  più  personale,  è  sciupata 
da  quella  copia  di  stucchi  gongoristici  che  sacrificano  il 
sentimento.  Questo,  che  è  pur  un  difetto,  stona  meno  in 
una  commedia,  ove  l' elemento  femminile  è  inorganica 
materia,  dalla  quale  sbalzi  la  forma  particolare  di  Don 
Giovanni:  l'incorporeità  stessa  delle  figure  femminili 
inconsciamente  aiuta  il  contiasto  della  più  viva  rappre- 
sentazione maschile. 

Viva  specialmente  in  alcune  scene  dei  due  primi  atti. 
Come  sappia  destieggiarsi  con  le  emozioni.  Don  Gio- 
vanni lo  mostra  subito,  quando,  dopo  aver  stupito  le 
guardie  con  le  sue  iattanze  —  egli  che  aveva  riconosciuto 
lo  zio  in  Don  Fedro,  senza  esserglisi  ancora  svelato  — 
chiede  di  restar  solo  con  lui,  e,  appena  vedutolo  tenten- 
nare alla  rivelazione  ("  Tu  sobrino  !  "),  non  risparmia 
l'aiuto  decisivo  delle  sue  plorazioni  e  intenerimenti. 

...Mozo  soy,   y  mozo  fuiste... 

...Tenga  disculpa  mi  amor 

(Scena  V). 

Si  serve  per  il  suo  vantaggio  di  due  reagenti  sentimen- 
tali di  buon  effetto  :  il  peccato  d'  amore  e  l' indulgenza 
invocata  dal  parente.  Dopo  Don  Giovanni,  Catalinon  è 
il  personaggio  con  più  efficacia  tratteggiato,  anzi  sen- 
z'  altro  direi  che  è  il  più  coerente  con  se  stesso,  poiché 
Don  Giovanni  che  in  talune  scene  è  rivelatore,  altrove 
presenta  delle  brave  screpolature. 

Catalinon  è  la  rappresentazione  tipica  inesauribile  del 
virtuoso  medio,  della  normalità  rotonda  ;  l' impossibile 
punto  di  conciliazione  di  tutte  le  eccezioni  della  terra  (  1  5). 


~  44  - 

Ci  sì  presenta  per  la  prima  volta  in  un  momento  diffi- 
cile —  lui  e  Don  Giovanni  approdati  naufraghi  a  Tar- 
ragona;  —  pure  non  dimentica  i  suoi  buffoneschi  commenti: 
almeno  invece  di  tanta  acqua  ci  fosse  stato  tanto  vino,  in 
mare  !  Peccato  che  non  dimentichi  nemmeno  di  apparte- 
nere artisticamente  ai  tempi  di  Ledesma  e  Gongora; 
una  prova  ne  sono  le  imprecazioni  inopportune  a  Giasone, 
a  Tifi  (scena  Xl). 

Tisbea  è  una  ribelle  a  Cupido,  che  prima  avea  tutti 
gli  altri  ingannati  :  se  non  ama,  come  la  futura  Erodiade 
di  Mallarmé,  l'orrore  di  essere  vergine,  per  lo  meno  teme 
prudentemente  il  pericolo  di  non  esserlo  più  : 

Mi   honor  conservo  en  pajas 
Como  fruta  sabrosa, 
Vidrio  guardado  en  ellas 
Para  que  no  se  rompa. 

Significa  la  sua  insensibilità  con  un  certo  sentimento. 
Sentenzia  anche  : 

De  amor  condición  propria 
Querer  donde  aborrecen 
Despreciar  donde   adoran 

(Scena  X). 

Ma  ecco,  viene  Don  Giovanni  che  manda  a  gambe 
all'aria  tutto  questo  cinismo  femminesco  :  davanti  a  Don 
Giovanni  la  dongiovannesca  Tisbea  impallidisce  come 
un  cero  al  meriggio  (il  trapasso  è  un  po'  troppo  repente 
e  convenzionale)  :  ha  trovato  il  suo  domatore,  come  la 
polledra  di  Anacreonte. 

La  scena  della  seduzione  (scena  XVl)  segue  a  una 
delle  fiequenti  conversazioni  fra  il  padrone  e  il  servo, 
che  nel  corso  dell'opera  formeranno  la  parte  più  gaia. 


—  45  — 

È  la  schermaglia  tra  la  riluttanza  del  povero  buonuomo 
alla  complicità  con  il  padrone,  e  la  paura  che  ha  di 
lui,  non  tardo  di  mano,  come  sperimenterà  al  3"  atto, 
scena  X,  in  cui  il  cahallero  gli  allungherà  un  hofdón  da 
rompergli  un  molare  in  bocca.  La  prepotenza  del  padrone 
par  che  si  diverta  talora  a  lasciargli  un  po'  le  briglie  sul 
collo,  salvo  poi  con  uno  strattone  a  rimetterlo  sulla  via  di 
buon  somaro  muto. 

Don  Giovanni  ha  poco  da  fare  per  vincere  le  barriere 
della  resistenza  di  Tisbea  :  "Tua  estoy".  L'assicurazione 
con  giuramento  che  la  sposerà  pare  superflua,  tanto  quella 
ha  voglia  di  credergli.  Il  seduttore  trova  qualche  accento 
vero  per  dipingere  l'infinta  passione:  "  Hoy  prendes  por 
tus  cabellos  —  Mi  alma". 

Ella  aveva  pur  dianzi  constatato  che  vi  era  chi  l'amava 
sul  serio  e  invano  :  il  pescatore  Coridon  ;  ed  è  proprio 
quando  ella  si  avvicina  all'amore,  che  questa  rivelazione 
le  ha  balenato  : 

i  Oh  que  mal   me  parecian 
Estas   lisonjas  ayer! 
Y  hoy  echo  en  ellas  de  ver 
Que  sus  labios  no  mentian 

(Scena  XIII). 

La  lotta,  nella  pescatrice,  tra  la  consapevolezza  della 
propria  povertà  e  la  palese  prestanza  dell'  amato,  si  esprime 
intanto  in  note  di  umile  dolore,  che  il  presagio  funesto 
adombra  : 

Reparo  en  que   fué  castigo 

De  amor  el  que  he  hallado   en   ti 

Soy  desigual 

A   tu  ser 

(Scena  XVI). 


—  46  — 

Piange  male  dopo  la  fuga  del  Burlador,  con  pianti 
ricchi  di  orpelli  e  poveri  di  sentimento,  tirando  in  ballo 
Troje  in  fiamme  e  Amori  incendiari  (scena  XVIU). 

La  figura  di  Don  Giovanni  non  fa  dimenticare  quella 
del  duca  Ottavio  ;  è  il  tipo  di  amatore  pronto  alle  subite 
accensioni  e  agli  spegnimenti. 

"  Desdichado  es  el  duque  con  mujeres  "  —  noterà  il 
Re  Alfonso  XI  (scena  XVI,  atto  3"). 

Come  a  Don  Giovanni  Catalinon  appioppa  il  nomi- 
gnolo di  Burlador  de  Sevilla,  così  al  duca  Ottavio  quello 
di  Inocente  sagitario  che  può  restare  anche  senza  la  speci- 
ficazione: "de  Isabella". 

11  duca  Ottavio  crederà  di  vedere  in  ogni  donna  la 
sua  dea  ;  alieno  dalle  volgarità,  navigherà  nei  più  lirici 
mari  a  tutte  vele;  nessuna  meraviglia  che  dia  di  petto  in  una 
notizia  imprevista  come  quella  che  la  duchessa  Isabella 
è  stata  violata,  e...  da  lui  (scena  Vili,  atto  l*^).  E  lui  che 
s'era  levato  all'alba,  insonne  per  l'amore  insano,  e  decla- 
mava poeticamente  alla  sua  dea  !  (Scena  IX). 

Ora  faccia  i  bagagli,  se  vuol  scampare  da  morte.  Un 
epigramma  di  buon  gusto  l' autore  ha  messo  in  bocca 
(scena  Vili)  al  servo  del  duca,  Ripio,  a  proposito  delle 
querimonie  del  padrone  :  saggio  graziosissimo  di  popola- 
resco buon  senso. 

Il  duca  ama  la  duchessa  Isabella  e  la  duchessa  Isabella 
ama  il  duca.  Ora,  filosofeggia  Ripio  : 

^no   sere   majadero 

Y  de  solar  conocido 
Si  pierdo  yo  mi  sentido 
Por  quien  me  quiere   y  yo   quiero  ? 
*  Pues  si  los  dos   os   quereis 

Con   una  misma  igualdad 
Dime  (  hay  mas  dificultad 
De  que   luego  os  desposeis  ? 


—  47  — 

Ma  dalla  mano  dell'  autore  le  situazioni  escono  con 
una  così  fiabesca  meccanicità,  cadendo  verso  il  centro  di 
gravità  dell'argomento  principale,  che  ogni  situazione  più 
strana  par  stemperata  lì  in  una  atmosfera  di  consuetudine 
pigra. 

Così  al  Duca  Ottavio  che  ora  è  arrivato  a  Siviglia 
(atto  2",  scena  II),  pieno  di  disperato  dolore  e  amore,  ba- 
stano due  parolette  del  Re,  che  subito  si  sprofonda  in  in- 
chini, buttati  alle  ortiche  i  ricordi  molesti  ;  sente  ora  parlare 
di  Donna  Anna  —  pare  per  la  prima  volta  —  (figlia  del 
commendatore  di  Calatrava,  quello  dell'elogio  di  Lisbona); 
il  Re  gliela  vuol  dare  in  moglie  ;  ciò  basta  a  spegnere  il 
primo  incendio  e  suscitare  il  secondo.  Evidentemente 
l'autore  preoccupato  del  suo  soggetto  principale,  si  con- 
tenta di  cavarsela  alla  più  svelta  con  le  seconde  parti  : 
Shakespeare  poteva  sì  creare  accanto  al  tormento  not- 
turno di  Amleto,  l'alba  di  Ofelia,  la  bonarietà  di  Polonio, 
la  compostezza  rettilinea  di  Orazio  :  tutte  plaghe  di  sogno 
egualmente  battute  dal  sole  di  tanto  genio;  quanto  a 
Tirso,  ha  troppo  da  fare  a  tener  dietro  a  Don  Giovanni 
e  Catalinon,  per  perder  tempo  coi  personaggi  secondari. 
Don  Giovanni,  mentre  il  duca  Ottavio,  riempito  di  brio 
il  vuoto  del  suo  dolore,  se  la  sta  ridendo  gaglioffamente 
con  Ripio,  e  parlando  delle  gollardas  mujeres  di  Siviglia, 
arriva  in  tempo  per  fare  due  chiacchiere  con  lui,  e  sfog- 
giare un  po'  di  quella  ipocrisia,  che  è  una  delle  sue 
migliori  doti  (scena  IV). 

Pare  però  che  Don  Giovanni  non  si  diverta  troppo 
con  l'entusiasta  amatore;  dacché  con  un  subdolo  :  "  Des- 
corte's  es  fuerza  ser",  scorto  il  marchese  Della  Mota,  suo 
compagno  di  bricconate  e  uomo  meglio  tagliato  al  suo 
dosso,  se  ne  allontana  per  salutare  il  niioyo  venuto.  E  il 


—  48  — 

buon  duca,  che  lo  accompagna  con  le  sue  magniloque 
esibizioni  : 

Si  de  mi 

Algo  hubiereis  menester 

Aqui  espada  y  brazo   està. 

Chi  redasse  il"  Tan  largo"  sgraziò  questo  effetto  co- 
mico, trasponendo  queste  parole  in  bocca  a  Don  Giovanni. 

Il  marchese  Della  Mota  è  l'anello  di  congiunzione 
tra  la  sensibilità  recettiva  dell' "  Inocente  sagitario"  e 
r  insensibilità  attiva  del  Burlador.  Scorciato  da  Tirso 
(bisognerà  per  brevità  senz'altro  adottare  la  paternità  di 
Tirso,  a  proposito  del  Burlador),  si  evolve  più  netto  e  di- 
stinto, per  quanto  artisticamente  falso,  nel  Don  Carlos  de 
Sandoval  di  Dumas,  nel  Don  Luis  Meguia  di  Zorrilla. 

La  rivista  delle  bellezze  muliebri  di  SivigHa,  che  si  passa 
da  entrambi  nella  chiacchierata  della  scena  V,  ha  forse 
suggerito  a  Cicognini  e  da  lui,  parrebbe,  alla  commedia 
dell'  arte  itahana,  il  particolare  buffone  della  lista  lan- 
ciata dal  servo  a  una  delle   vittime. 

Il  marchese  Della  Mota,  sebbene  birba  della  più  bel- 
r  acqua,  è  pertanto  innamorato  sul  serio  ;  e  propriamente  di 
colei  che  deve  ora  andar  sposa  dell'/nocen/e  sagitario,  che 
minaccia  così  di  diventare  due  volte  Capricornio.  Seb- 
bene ami  veramente,  e  conisposto,  non  per  questo  ac- 
cenna a  divenire  stinco  di  santo;  mentre  è  in  procinto 
di  godere  del  flutto  del  suo  amore,  grazie  a  una  lettera 
che  Don  Giovanni  gli  ha  recapitato  non  senza  trarne 
suo  prò'  per  la  burla,  non  gli  passa  di  mente  una  tal  calle 
de  la  Sierpe  e  un  bravo  perro,  che  gli  resta  da  giocare 
presso  una  Beatrice  "  rosada  y  fria  ";  ma  forse  fatto  generoso 
dalla  felicità,  rinuncia  a  quest'ultimo  boccone  a  favore  di 
Dpn  Giovanni,  cui  presta  anche  il  mantello  richiestogli. 


—  49  — 

Don  Giovanni  si  è  già  servito  ai  suoi  buoni  fini  del- 
l'affetto  di  suo  zio;  sa  convergere  a  suo  prò'  anche  la 
generosità  dell'amicizia.  Il  prossimo  ormai  non  gli  serve 
che  per  crune,  traverso  cui   infili    le   sue  burle. 

Anche  del  dolore  paterno  si  fa  beffe  (scena  X). 

I  francesi  Dorimond  (1658)  e  Villiers  (1659)  hanno 
esagerato  nei  loro  Festins  de  Pierre  questa  scena  X  in  cui 
Don  Diego  rimprovera  vanamente  il  figlio,  che  se  ne  ride. 
L'uno  l'ha  alterata  trascinando  Don  Giovanni  ad  escan- 
descenze, minacce,  oltraggi  ;  l'altro  portandolo  fino  a  per- 
cuotere il  vecchio,  che  ne  muore  di  dolore.  Cicognini  la 
toglie.  Molière  la  diluisce  in  un  salmo,  gonfio  di  vele  re- 
toriche, diviso  in  due  dal  beffardo  invito  a  sedersi  di  Don 
Giovanni,  che  del  resto  non  aggiunge  altro. 

Ma,  così  com'è  nel  Burlador,  questa  scena  che  ha  lo 
scopo  di  far  noto  a  Don  Giovanni  per  bocca  del  padre 
che  in  sua  grazia  il  Re  lo  ha  soltanto  esiliato  a  Lebija,  per 
averlo  riconosciuto  colpevole  del  tradimento  contro  l'onore 
di  Isabella,  questa  scena,  con  tanta  povertà  di  mezzi,  in- 
negabilmente ha  dell'efficacia. 

L'autore  sfiora  quasi  senza  accorgersene  quel  grande 
elemento  di  dramma  e  poesia,  che  è  nella  statica  espe- 
rienza amorosa  del  vecchio  e  del  padre,  e  la  crudele, 
ignara  avventurosità  del  giovane  e  del  figlio  ;  quel  gran 
dissidio,  donde  sanguina  l'immenso  dolore  ignorato  dei 
padri ,  che  a  Lucrezio  lampeggiò  forse  nell'  imma- 
gine della  corsa  delle  fiaccole,  e  che  nella  poesia  si  è 
sempre  più  elevato  a  simbolo  lirico  e  a  luce  di  bel- 
lezza (16). 

Quanto  a  lui,  Don  Giovanni  non  se  ne  piglia  pena 
"  Fuése  el  viejo  internecido  ".  Ebbene  :  si  sa  che  i  vecchi 
hanno  le  lagrime  in  tasca.  E  si  prepara  al  nuovo  tiro. 

4  —  F.  FuÀ,  Don  Giovanni. 


—  SC- 
Si replica  il  caso  di  Isabella  ;  ma  le  cose  van  peggio, 
che  il  commendatore  de  UUoa,  accorso  alle  grida  della 
figlia  che  ha  scoperto  l' inganno,  vien  trafitto  nel  duello 
che  impegna  col  briccone. 

Intanto  il  marchese  Della  Mota  aspetta  la  mezzanotte 
che  deve  coronare  i  suoi  desideri  d'amore  ;  ma  gli  capita 
addosso  il  Re  in  persona,  che  lo  condanna  a  morte,  re- 
putandolo reo  dell'omicidio  (scena  XVl). 

L'ultima  avventura  di  Don  Giovanni  non  manca  di  un 
certo  sapor  locale;  ma  spettava  a  Molière  ricavarne  il 
mirabile  quadretto  di  genere  di  Mathurine  e  Pierrot.  Si 
inizia  nello  stesso  secondo  atto,  quando  Don  Giovanni 
fuggitivo  da  Siviglia  capita  a  Dos  Hermanas,  dove  si  stem 
celebrando  le  nozze  fra  Aminta  e  Patricio  due  contadini. 
Capita  lì  in  mezzo,  come  un  calabrone  in  un  alveare  ; 
sorpresa  generale,  poi  gioia,  ammirazione:  solo  Patricio 
si  morde  le  mani.  11  poveretto  è  un  tipo  di  badalone  :  e 
Don  Giovanni  nell'atto  3°  (scena  II),  lo  tocca  nel  suo 
calcagno  quando  per  togliergli  Aminta,  gli  sussurra, 
che  è  già  stata  sua.  —  "  Con  el  honor  le  venci,  Porque 
siempre  los  villanos  Tienen  su  honor  en  las  manos  " 
(scena  III)  —  dice  il  Burlador,  e  soggiunge  con  mirabile 
candore  : 

Que  por  tantas   variedades 
Es  bien  que  se  entienda  y  crea, 
Que  al  honor  se  fué  al  aidea, 
Huyendo  de  las  ciudades. 

Considerazione,  in  cui  consente  anche  Aminta,  che 
non  dovrebbe  aver  la  palma  d'imparaalità  : 

La  divergiienza  en  Espana 
Se  he  hecho  caballeria 


—  51  — 

La  scena  notturna  della  conquista  di  Aminta  non  ha 
niente  di  nuovo  :  la  splita  promessa  magica  apre  facilmente 
al  conquistatore,  amante  delle  cose  spicce,  anche  le 
braccia  della  contadina.  Qualche  tratto  umoristico  ci  può 
far  sostare:  "A  està  hora?"  dice  Aminta.  —  E  l'altro  : 
—  "  Estas  son  las  horas  mias  ".  —  E  poi,  francamente  : 
" Aminta,  escucha  y  sabràs...  La  verdad,  que  las  mujeres 
Sois  de  verdades  amigas  ". 

Il  dialogo  è  tutto  uno  scoppiettio  di  briose  risposte  tra 
pause  di  domande  affannose  ;  il  "  Tua  soy  "  non  si  fa 
aspettare.  Don  Giovanni  ha  scelto  l'incanto  dell'oro  e 
delle  gemme:  fiere  armi  per  la  già  scossa  onestà  della 
campagnola:  le  parole  traditrici  sanno  captare,  ormai 
conscie  di  vincere  : 

j  Ah  !   Aminta  de  mis  ojos  ! 
Manana  sobre  virillas 
De  tersa  piata,   eslrellada 
Con  clavos  de  oro  de  Tibar 
Pondras  los   hermojos  piés 

Y  en  prisión  de  gargantillas 
La  alabastrina    garganta 

Y  los  dedos  en  sortijas 
En  cuyo  engaste  parezcan 
Transparentes  perlas  fines. 

Versi  che  non  mancano  di  gusto. 

Ma  il  senso  estetico,  che  ha  fatto  sinora  atto  di  presenza, 
comincia  a  lasciarne  scemi  di  se.  Pare  ad  alcuno  che 
questo  terzo  atto  sia  di  gran  lunga  il  migliore.  V'è,  sì, 
tutto  il  movimento  della  statua  animata  e  dei  banchetti, 
che  dà  illusione  di  vita  ;  ma  anche  questo  episodio  deci- 
sivo è  così  staccato  dal  resto  della  commedia,  e  quei  due 
conviti  così  addosso  l'uno  all'altro  i 


—  52  — 

Innanzi  tutto  Don  Giovanni  sembra  cominci  a  smairire 
la  sua  padronanza  di  spirito.  Gli  salta  di  tornare  a  Siviglia 
per  picca,  e  tornatovi,  va  proprio  a  capitare  nella  chiesa, 
in  cui  è  la  cappella  e  il  sepolcro  del  commendatore.  Il 
Burlador  comincia  a  soffrir  di  nervi,  e  se  ride,  ride  ora 
male.  Appioppa  un  ceffone  a  Catalinon  che  gli  sta  rife- 
rendo delle  voci  contro  di  lui  ;  legge  l'epitaffio  del  com- 
mendatore e  vedendosi  chiamato  traditore,  tira  la  barba 
alla  statua,  e  l' invita  beffardo  : 

Aquesta  noche   a  cenar 

Os  aguardo  en  mi  posada 

...Aunque  mal  renir  podremos. 

Si  es  de  piedra  vuestra  espada.        ,_         .^. 

(bcena  A). 

Lo  stato  di  agitazione,  in  cui  si  trova  Don  Giovanni, 
inconsciamente  prossimo  al  castigo,  è  troppo  impreparato. 
Trepida,  a  cena,  fa  sedersi  il  servo  vicino:  presago  è, 
pare,  di  qualche  grave  sventura.  Ma  quando  la  statua 
(scena  XIll)  s'avanza,  gli  risale  un'ondata  di  forzata  al- 
legria, cui  il  marmo  non  degna  di  considerazione,  come 
neppure  la  scempiaggine  dell'interrogazione  di  Catalinon, 
che  sa  a  mala  pena  pel  terrore  articolare  le  prime  do- 
mande che  gH  ministra  alla  bocca  non  la  volontà,  ma  gli 
trascina  l'istinto;  e  si  spiega  che  gli  venga  fatto  di  chie- 
dere nientemeno  come  si  mangia,  come  si  beve,  e  se  ci 
sono  osterie  all'altro  mondo  !  Ciò  che  farebbe  per  un  mo- 
mento rifìltrare  alle  analoghe  interpellazioni  del  nostro 
vecchio  Ritmo  Cassinese. 

Don  Giovanni,  si  tradisce  nella  stessa  scena  quando 
al  servo  che  ha  sbrigliata  la  parlantina,  mozza  in  bocca 
l'allusione  a  Donna  Anna  : 

Calla 

Que  hay  parte  aqui,  qua  lastó 
Por  ella  ;   


—  53  — 

e  nella  scena  seguente,  quando  chiede  alla  statua  del 
commendatore  se  l'abbia  ucciso  en  pecado,  se  goda  de 
Dio:  —  a  Don  Giovanni,  con  la  trepidazione,  vengono 
anche  degli  scrupoli  religiosi  :  anche  la  religione  gli  può 
tornar  comoda.  11  mutamento  è  sensibile  là  dove  egli 
afferma  sul  suo  onore  ("  honor  tengo  y  las  palabras 
cumplo")  di  fare  quanto  il  commendatore  gli  dirà:  dopo 
tutte  le  trappole  propinate  a  uomini  e  donne,  l'asserzione 
e  la  fede  riscossane  lasciano  un  po'  sospesi. 

E  sorpresi  siamo  restati  a  sentire  da  Catalinon,  nella 
scena  precedente,  che  Don  Giovanni  si  accaserà  "  comò 
es  razón"  con  Isabella;  è  vero  che  (scena  I,  atto  2")  il  Re 
ha  disposto  che  egli  sposi  la  donna  che  ha  contaminata  ; 
e  alla  scena  Vili  del  3  "  atto,  Fabio  lo  ricorda  per  con- 
solazione a  Isabella  raminga  sulla  spiaggia  di  Tarragona  ; 
ma  poiché  non  è  solo  Isabella  la  sua  vittima,  pare  strano 
che  da  quel  tipo  che  è  Don  Giovanni,  si  arrenda  agli 
ordini  reali,  e  anzi  faccia  mostra  poi,  nella  scena  XIX, 
della  massima  soddisfazione  al  prospetto  poco  dongio- 
vannesco del  matrimonio.  Credo  che  non  sia  piaciuto 
a  Tirso  conservar  troppo  diavolo  il  suo  rompicollo  ;  il 
Don  Giovanni  del  3"  atto  è  perciò  alquanto  in  ribasso. 

Altre  cantonate  prende  l' autore  nel  suo  torneo  di 
imenei. 

Il  Re  ha  assegnata  Donna  Anna  al  marchese  Della 
Mota,  sebbene  lo  ritenga  ancora  colpevole  dell'omicidio, 
e  al  duca  Ottavio  ha  ritirata  la  parola  : 

No  es  bien  que  el   duque  Octavio 

Sea  el    restaurador    de    ese    agravio 

(Scena  XV). 

Ma  ecco,  una  scena  dopo,  tornano  in  ballo  le  nozze 
del  duca  Ottavio  :  "  Manana  vuestras  bodas  se  han  de 


—  54  - 

hacer".  Con  chi  vuol  farlo  sposare?  O  vuol  dare  due 
mariti  a  Donna  Anna  per  compensarla  della  perdita 
del  padre  ?  ! 

V'è  una  lacuna  del  testo,  o  è  la  conseguenza  di  fretta 
e  distrazione  dell'autore? 

Ma  ecco  la  scena  della  mensa  funebre  (XXl),  condita  dai 
lazzi  di  Catalinon,  che  rappresentano  lo  stridulo  accom- 
pagnamento del  riso,  che  è  sotto  ogni  umana  tragedia. 
L'incapamento  di  Don  Giovanni  rasenta  quel  limite,  oltre 
il  quale  il  riso  muore  per  asfissia,  come  polmone  umano 
per  troppo  rarefatta  atmosfera.  "  Mangerò,  se  mi  darai 
aspidi,  aspidi  quanti  ne  ha  l' inferno  !  ". 

Altrettanto,  le  buffonate  di  Catalinon  che  sberteggiano 
la  sua  stessa  paura  ;  l'arguzia  vi  è  un  pò  troppo  ripicchiata: 

Mesa  de  Guinea  es  està 
t  Pues  no  hay  por  alla  quien  lave? 
....   Tambien  aca  se  usan  lutos 
Y  bayeticas  de  Flandes  ? 

Stilla  dalla  penna  dell'autore  un  tale  negligente  sentor 
di  epigramma  laddove  Don  Gonzalo  :  "  Tambien  quiero 
que  te  canten  "  e  Catalinon  di  contraccolpo  :  "  e  Que  vino 
se  bebé  aca?".  Umorismo  forse  inconsapevole. 

S'appressa  la  tragica  fine.  L'invito  è  subdolo  :  "  Dame 
esa  mano  —  No  temas  la  mano  darme".  Cui  Don  Gio- 
vanni tocco  nel  vivo:  "  Yo  timor?  ";  ma  poi  :  "  iQue  me 
abraso!  No  me  abrases  —  Con  tu  fuego". 

Il  punitore  e  il  colpevole  si  sono  smascherati,  sono  ve- 
nuti ai  ferri  corti.  Ora  Don  Gonzalo  incalza  feroce  : 
"  Este  es  poco  —  Para  el  fuego  que  buscaste  "  ecc. 
Don  Giovanni  lascia  andare  alla  fine  una  rivelazione  im- 


-  55  - 

portante  :  non  è  riuscito  a  possedere  Donna  Anna  ;  essa 
ha  sventato  il  suo  tranello.  Ciò  che  non  impedisce  che 
sia  subissato  nel  fuoco. 

E  ciò  calzava  per  la  scena  ultima  arrancante  alla 
peggio,  la  scena  degli  sposalizi.  Il  marchese  Della  Mota  che 
sa  salvo  l'onore  di  Donna  Anna,  promette  cento  premi  a 
Catalinon  che  glie  ne  ha  dato  notizia,  e  a  se  l'unico  e 
più  grande  di  sposarla.  Il  duca  si  rassegna  a  prender  di 
seconda  mano  Isabella:  è  suo  destino.  Patricio  non  in- 
dugia a  seguire  tanto  esempio. 

Nel  1 878  il  marchese  De  Fuensanta  del  Valle  rin- 
venne un  opuscolo  in  4"  a  due  colonne,  contenente  il 
"Tan  largo  me  lo  fiais",  col  nome  di  Calderon.  Ma  non 
è  che  un'altra  redazione  del  Burlador  con  inconsiderevoli 
varianti  ;  appartiene  alla  prima  metà  del  600.  Manuel 
de  Revilla  ne  deduce  anche  l'attribuzione  del  Burlador 
a  Calderon. 

Taluni,  con  il  Colarelo,  I'  attribuiscono  ad  Andrea 
de  Claramonte  noto  plagiario  di  Siviglia.  Secondo  le 
giuste  osservazioni  dello  scopritore,  è  un'  altra  copia 
dello  stesso  Tirso  precedente  o  seguente  al  Burlador,  o 
un  rimaneggiamento  di  attore  (17).  La  sostituzione  del- 
l'elogio di  Siviglia  a  quello  di  Lisbona  farebbe  credere 
più  probabile  questa  seconda  ipotesi  :  questi  elogi  varia- 
vano di  dedica  secondo  i  luoghi  :  m  uno  scenario  italiano 
è  sostituito  dall'elogio  di  Firenze. 

Nel  "  Tan  largo  me  lo  fìais  "  è  Don  Giovanni  stesso  che 
sciorina  al  duca  Ottavio  l'elogio,  come  per  dargli  notizie 
della  nuova  città,  dove  questi  è  giunto  ;  ma  la  scena  del- 
l'incontro  ne  soffre  assai.  In  compenso  il  "Tan  largo"  è 
più  compiuto;  molte  scene  allungate;  ha  l'aria  di  essersi 


-  56  — 

fatto  più  adatto  alla  rappresentazione.  Nella  3""  giornata 
è  più  in  isteso  il  soliloquio  di  Patricio,  con  più  dovizia 
di  spunti  comici  :  indovinata  quell'allusione  alle  risate 
degli  invitati  all'indirizzo  di  lui,  povero  diavolo,  sostituito 
nei  suoi  diritti  di  fresco  sposo. 

lodo  el  lugar 

Con  risa  me  respondia  : 
Eso  non  es  cosa   que   importe. 
No  teneis  de  qué  temer. 
Callad,  que  debe  de  ser 
Uno  de  alla  de  la  corte. 

Vi  è  anche  qualche  motto  fatto  più  ridanciano.  Nel 
colloquio  con  Aminta,  Don  Giovanni:  "Te  adoro";  — 
Aminta:  "Como?";  —  Don  Giovanni:  "Con  mis  dos 
brazos"  —  (nel  Burlador  "con  mi  corazón  "). 

Più  esteso  è,  tra  l'altro,  anche  il  rapporto  finale  di  Ca- 
talinon,  sull'avventura  della  tomba.  Tolto  quel  pasticcio 
di  disposizioni  matrimoniali  riguardo  al  duca  Ottavio, 
che  aveva  imbrogliato  l'Alfonso  XI  del  Burlador  e  che 
notammo. 

La  stessa  osservazione  per  le  prime  due  giornate. 
Noto,  procedendo  a  ritroso,  nella  seconda,  la  scena  delle 
nozze  di  Dos  Hermanas  molto  più  ricca  di  particolari, 
come  pure  la  scena  della  serenata  del  marchese  ;  nella 
prima  giornata,  la  scena  del  duca  Ottavio  e  Don  Pedro, 
quella  di  Isabella  e  il  Re  di  Napoli,  quella  di  Don  Pedro, 
le  guardie  e  Don  Giovanni,  tutte  più  riempite,  più  sce- 
niche; concludendo,  il  "Tan  largo"  è  meglio  esplanato  : 
anche  il  verso  è  molto  più  scorrevole. 

Il  Don  Giovanni  nella  commedia  di  Tirso  è,  ricapi- 
tolando, limitato  ai  due  primi  atti  e  parte  del  terzo  ;  è  là 


-  57  - 

che  l'ingegno  dell'autore  batte  sul  personaggio  e  lo  mette 
in  luce,  pur  fra  le  macule  della  sceneggiatura  scorretta, 
di  alcune  sventataggmi. 

Il  vertice  del  carattere  è  un'  intraprendenza  gaia  e  for- 
tunata; con  minima  spesa  coglie  i  frutti  più  belli  della 
vita.  Coridon  dichiara  a  Tisbea  che  non  v'è  cosa  che 
uomo  non  farebbe  per  lei  (scena  XIII,  atto  I''):  parli,  ed 
egli  correrà  monte,  piano,  terra,  mare,  sfiderà  fuoco,  aria, 
vento,  per  contentarla.  E  l'amore  perduto,  e  infinito  nel 
finito  della  persona  amata  :  il  più  vero  mistero  e  il  para- 
dosso più  indiscutibile  dell'amore  vero.  Ma  che  ?  Don 
Giovanni  non  farà  niente  per  Tisbea,  se  non  rubarle  i 
favori  e,  qualcosa  di  meno,  le  cavalle  per  fuggire  verso 
nuove  burle.  E  Tisbea  si  è  negata  alle  suppliche  e  alle 
adorazioni  altrui,  per  farsi  predare  dal  mentitore  così  di 
volata,  come  un  frutto  a  tratta  di  mano  che  si  rapisca 
nella  corsa. 

Il  marchese  Della  Mota  sospira,  in  attesa  della  mez- 
zanotte, alle  gioie  dell'amore  prossimo  a  cogliere  il  sogno 
e  pregusta  le  bellezze  dell'amata  mentre  i  suoi  musicanti 
cantano  la  serenata. 

Il  gemito  del  Petrarca  doloroso  di  desiderio  ritorna 
nelle  parole  impazienti  di  realtà  del  farnetico  : 

Como  yo  a  mi  bien  goce, 
Nunca  llegue   a  amanecer. 

Don  Giovanni,  passando,  domanda:  "Que  es  esto?" 
Catalinon  risponde:  "Musica".  Catalinon  per  inferiorità 
di  bonaccione.  Don  Giovanni  per  superiorità  di  asenti- 
mentale  disdegnano  le  perdite  di  tempo,  le  musiche,  i 
loti  dei  sogni. 


—  58  — 

Don  Giovanni  ha  già  assalito  Donna  Anna,  ha  am- 
mazzato il  commendatore,  che  il  marchese  Della  Mota  è 
ancora  ad  attendere  al  chiaro  di  luna,  sospirando. 

Il  marchese  Della  Mota  è  dentro  in  gattabuia,  senza 
colpa  veruna,  che  non  sia  quella  di  aver  perduto  il  suo 
tempo;  e  Don  Giovanni,  che  è  il  vero  colpevole,  è 
dietro  a  insidiare  sbrigativamente  una  nuova  colombella  : 
Aminta. 

Quella  che  già  chiamammo  sfericità  sentimentale  di 
Don  Giovanni  è  attestata  dal  non  essere  mai,  il  Burlador, 
scalfltto  da  burla  altrui  (nella  parte  che  abbiamo  ricono- 
sciuta dongiovannesca)  ;  deride,  mai  deriso  ;  ciò  che 
presuppone  una  strapossente  copia  di  energie  native; 
quanto  gli  abbiamo  riconosciuto.  A  questa  inintaccabilità 
di  nervi  si  aggiunge  naturalmente  la  ipercoscienza  delle 
proprie  forze,  che  degenera  in  puntigHosità.  Nella  scena  IV, 
del  l*'  atto,  davanti  alle  guardie  che  voghono  catturarlo, 
rotea  minacce  furiose,  che  non  paiono  soltanto  agevolate 
dall'aver  riconosciuto  in  Don  Fedro  lo  zio.  Nel  "  Tan 
largo  "  esse  sono  ancora  più  fiere,  e  rintronano  di  bom- 
banza  esilarante: 

Por  la  ponta  de  està  espada 
Llegad  a  comprar  mi  vida 
Que  ha  de  sier  tambien   vendida 
Como  de  todos  comprada,   (  1 8) 

A  mano  a  mano  egli  mostra  in  fine  alla  scena  VII  del- 
l'atto 3",  di  rovesciare  con  i  soffi  della  sua  celia,  come 
trastulli  di  carta,  a  uno  a  uno  i  sentimenti  più  comune- 
mente sacri  :  dalla  parola  d'onore  alla  pietà  filiale  :  ciò 
che  si  è  visto.  Cambiando  con  la  massima  faciHtà  un 
paese  con  un  altro,  mostra  ancora  di  non  conoscere  che 


-  59  - 

cosa  sia  il  mal  di  patria.  Se  loda  Siviglia,  la  loda  per  le 
belle  donne. 

Dalla  scena  ora  citata  in  poi,  si  sente  che  sono  suben- 
trate diverse  preoccupazioni  a  quella  della  definizione 
del  personaggio  :  ovvero  è  subentrata  soltanto  l' impa- 
zienza di  finire  e  in  modo  da  contentare  un  po'  tutti. 
Il  carattere  è  rappezzato  e  portato  a  spintoni  alla  fine, 
attraverso  i  due  conviti,  che  artisticamente  lo  ristoran  poco. 

Il  vero  Don  Giovanni,  quello  fermato  dallo  spillo  di 
un'acuta  intuizione,  era  finito  con  la  scena  notata. 


60  — 


NOTE  ALLA  SECONDA  PARTE. 


(1)  Secondo  Emilio  Cotarelo:  {Tirso  de  Molina,  Madrid,  1893), 
il  Burlador  è  stato  composto  da  Tirso  non  prima  del  1625,  data 
del  suo  probabile  soggiorno  in  Siviglia.  11  Bévotte,  op.  cit.,  pag.  66, 
mette  la  data  tra  il  1627-1630.  L'edizione  del  1630  però  non  do- 
veva essere  la  prima. 

(2)  Cito  dal  Farinelli  e  dal  Bévotte,  pag.  rispettivamente  19  e 
segg.,  e  pag.  46  e  segg  ,  i  raffronti  con  questo  elemento  della  leggenda  di 
D.  G.  —  Sebillot  in  Contes  des  provinces  de  France,  1884,  pag.  227 
e  segg.,  riferisce  la  leggenda  alsciziana  che  ha  per  titolo  La  téle  du 
mori  qui  parie.   Ivi  stesso  la  leggenda  piccarda,  pag.    247  e  segg. 

(3)  Cotarelo  y  Mori,   op.   cit.,  pag.    117  e  segg. 

(4)  Il  titolo  tedesco  del  dramma  è  :  Votì  Leontio,  einem  Crafen 
Vuelcher  durch  Machiaoellum  verfiihrt  ein  erschreckliches  Ende  ge- 
nommen.  11  Bévotte  ne  propone  probabile  autore  il  gesuita  Jacob 
Gretser.  La  leggenda  di  Leonzio  è  creduta  vera  dal  gesuita  Zeheutner  ; 
Promonlorium  malae  spei,  ecc.  (1643).  Dal  padre  Cristoforo  Selhamer 
in  Tuba  tragica  (1696)  è  affermata  tale.  Sull'esistenza  di  una  prima 
redazione  italiana  concordano  lo  stesso  Zeheutner  e  il  Poirters,  gesuita 
fiammingo  (1646).  E  notissimo  lo  studio  del  D'Ancona  (1903),  in 
cui  è  sostenuta  la  tesi  della  germanità  della   leggenda. 

(5)  Nel  1658,  nella  rappresentazione  di  Rottweil,  Leonzio  è  fatto 
italiano. 

(6)  Ve  n'ha  una  riproduzione  nel  libro  di  Guillaume  Apollinaire  : 
Les  troia  Don  luan,  nella  collezione  dal  titolo  :  Histoire  romanesque. 
Il  volume  non  vale  che  per  le  sue  illustrazioni.  Sono  tre  raccontini 
slavati,  rifritture  dei  Don  Giovanni  di   Molière,   Mérimée,   Byron. 

(7)  Cervantes:  El  rufian  dichoso. 

(8)  Lope  :   EI  triunfo   de   la   humildad  y  soberhia   ahalida. 


—  61  — 

(9)  Lo  Schack  raffronta  col  "  Tan  largo  me  lo  fiais  "  ritornello  del 
Burlador,   il   motto  di   Leonido  : 

Que   lo  pague   Dios  por  mi 
Y  pidamelo  después 

Historia  de  la  Literalura  en   Espana,   voi.   3°,   pag.    444.  (Mi    valgo 
della  traduzione  spagnuola  del  De-Mier   nella  Coli.    EU.  Cast.). 

(10)  Louis  Viardot  :  Eludes  sur  l'hisloire  des  instilutions  de  la 
littérature,  du  théàtre  et  des  beaux  arts  en   Espagne. 

(11)  Castil  Blaze  :  Molière  musicien,  1 852  ;  Latour  :  Eludes  sur  l'E- 
spagne;K.oc\ì:  Zéilschrift  fiir  vergleichende  Lilteraturgeschichte,\  667; 
Zeidler  :  ivi  ;  Simone  Brouwer  :  Don  Qiovanni  nella  letteratura  e  nel- 
l'arte musicale,    1894. 

(12)  Eugenie  Baret  :  Histoire  de  la  littérature  Espagnolle,  1873, 
pag.  317. 

(13)  Lo  Schack  ammette  che  veramente  la  verità  della  leggenda 
riposi  sulla  tradizione  orale,  invece  che  sulla  scritta.  Volume  citato, 
pag.    444,   nota. 

(14)  Esamino  il  Burlador  nella  Bibl.  de  Aut.  Es.  voi.  V,  a  cura 
dell'Harlzenbusch.  L'edizione,  è  noto,  non  è  delle  migliori  :  migliori 
quelle  del    1654  di  Madrid  e  Saragozza,  impossibili  a  trovarsi  da  noi. 

(15)  La  creazione  di  tipi  mediani  suole,  pare,  confortare  l'intelletto 
artistico  quanto  più   superiore  a  quelli. 

I  geni  di  Cervantes,  Goethe,  Manzoni  non  si  compensano  e  libe- 
rano nelle  ricreatrici  oggettivazioni  di  Sancho,  Hermann,  Don  Abbondio  ? 

(16)  Ricorderò  di  sfuggita  Hervieux:  La  course  de  flambeaux  ; 
Barrès:  Le  jardin  de  Berenice  (prefcizione)  ;  Shaw:  La  professione 
della  Signora  Waren  ;  Bourget  :  Les  tapes  ;  Turghenieff  :  Padri  e 
figli;  ecc.,  dove  è  contemplata  questa  tragedia,  qui  appena  adoc- 
chiata.  L'argomento  aspetta  una  seria   trattazione  psicologico-letteraria. 

Anche  nella  Commedia  latina  e  sue  propaggini  nostrane,  il  problema 
dell'interiore  inconciliabilità  paterno-filiale  è  non  avvisato  come  tale,  ma 
come  tale  rimbalza  ai  nostri  occhi  d'oggi  d'onde  è  rappresentato  pittori- 
camente come  sereno  aspetto  di  vita.  Vedi  specialmente  Adelphi  di  Te- 
renzio, e,  presso  di  noi,  l'Aridosia  di  Lorenzino,  che  vi  attinge.  Si  può 
quindi  giungere  alle  disperate  congelazioni  dei  pensieri  II  e  CIV  dello 
Zibaldone  leopardiano. 


—  62  — 

(1  7)  Ho  esaminato  il  "  Tan  largo  "  nel  già  citato  volume  della  "Co- 
leción  de  Libros  espanoles  raros  ó  curiosos".  Imprenta  Fortanet, 
Madrid.  Vi  è  premessa  un'avvertenza  dello  scopritore  e  la  prefazione 
di   Pi   y    Margall.    E   diviso   in    giornate   senza    ripartizione   di   scene. 

(18)  11  Burlador  aveva  soltanto  : 

tQuien  ha  de  osar? 

Bien  puedo  perder  la  vida 
Mas  ha  de  ir  tan  bien  vendida 
Que   a  alguno  le  ha  de   pesar 

(Atto   ]",  Scena  IV). 


PARTE  TERZA 
Don  Giovanni  in  Ispagna 


Giustamente  fu  osservato  dal  Baret  (I)  che  la  Spagna 
par  destinata  a  fornire  i  materiali  alle  altre  letterature,  e 
queste  ad  innalzare  i  monumenti.  Il  Cid  di  De-Castro,  il 
Guzman  di  Mateo  Aleman,  il  Marcos  de  Obregon  di 
Espinel  e  anche  il  Diahlo  Cojuelo  di  Guevara  chi  li 
ricorda  quasi  più  dopo  Corneille  e  dopo  Lesage? 

Così  la  Spagna  dà  per  la  prima  il  tipo  di  Don  Gio- 
vanni ed  è  quella  forse  che  se  ne  cura  meno.  Se  il  ro- 
manticismo non  si  fosse  incaricato  di  riportcu-glielo  arric- 
chito di  nuovi  significati,  sarebbe  morto  con  Zamora. 
Pi  y  Margall  si  affanna  ad  assicurare,  come  Spagna  e 
Don  Giovanni  siano  una  sola  idea,  tale  Maometto  e 
il  suo  profeta  ;  se  gli  si  vuol  credere  e  se  si  limita  questa 
affermazione  al  campo  della  vita,  si  può  anzi  vedervi  una 
ragione  della  poca  fertilità  artistica  dei  Don  Giovanni 
spagnuoli;  datochè  negli  individui  e  nelle  nazioni  la 
vita  e  l'arte  sono  spesso  tra  loro  come  il  rapporto  diretto 


—  64  — 

per  l'inverso  e  insieme  restituendo  l'intero  perfetto  a  cui 
l'una  si  avvicina  a  scapito  dell'altra  :  ecco  individual- 
mente Casanova  che  non  scrive  le  sue  memorie  se  non 
quando  non  ha  più  altro  da  fare 

Certo  davanti  al  fatto  non  si  discute:  e  questo  è  che 
mentre  in  Italia,  pur  così  povera  di  Don  Giovanni  arti- 
sticamente sentiti,  gli  scenari  dongiovanneschi  furoreg- 
giano per  il  600,  700  fino  ai  primi  dell'800,  e  le  opere 
musicali  dalla  prima  metà  del  700  ai  primi  dell'  800, 
tanto  che  un'idea  sola  par  diventata  ormai  Convitato  di 
Pietra  e  lauto  convito  di  impresari,  la  Spagna  quasi  tace. 
Vero  è  che  essa  aveva  altro  da  fare  e  pensare;  già 
malata  sotto  l'ultimo  degli  Asburgo  ;  perduta  col  trattato 
di  Utrecht  buona  parte  dei  suoi  possedimenti;  poi  fiaccata 
nella  guerra  di  successione;  risorta  brevemente  sotto 
Carlo  III,  per  precipitare  nel  tranello  napoleonico  sotto 
Carlo  IV. 

La  letteratura  drammatica  che  segue  Calderon  e  pre- 
cede Fernandez  Moratin,  che  pur  vince  la  tirannia  dei 
tempi,  è  tutta  intrico  di  situazioni,  trabocchetto  a  na- 
scondere il  vuoto  di  pensiero  ;  cominciando  con  Solis  y 
Rivadeneira  e  rovinando  giù  con  Cafiizares,  Scoti  y 
Agoiz,  Guedeia,  Urrutia,  Torres  y  Villaroel.  Trionfa  la 
commedia  de  figuron  ;  il  carattere  si  fa  strampalatura  e 
caricatura;  come  la  rana  di  Esopo,  le  figure  si  gonfiano 
fino  a  schiattare  in  madornali  esagerazioni  ! 

Tirso  aveva  tentato  di  abbozzare  un  tipo  e,  con  tutte 
le  sue  mende,  non  se  l'era  cavata  proprio  male. 

Alfonso  Cordoba  e  Zamora,  deposta  questa  preoc- 
cupazione del  tipo,  già  formato,  si  scervellano  a  farlo 
caprioleggiare  nelle  più  iperboliche  matterie:  nell'uno 
ricordate  come  antefatto,  nell'altro  svolgentisi  in  azione 


—  65  - 

agli  occhi  spiritati  di  chi  ora  legge.  Il  Burlador  aveva  in  se 
due  elementi  caratteristici:  l'avventurosità  e  la  comicità; 
la  serenata  patetica  e  l'accompagnamento  ridanciano, 
il  macchinale  telaio  delle  gesta  e  la  trama  delle  burle 
facete.  La  letteratura  spagnuola  seguente  preferisce  il 
primo  elemento,  lo  tira  all'ultime  conseguenze.  Prende 
assai  sul  serio  il  suo  tipo  che  Tirso  aveva  saputo  staccare 
da  se  in  alcun  modo,  con  quel  po'  di  risolino  scettico 
che  ali  '  artista,  massimamente  drammatico,  occorre  a 
scollare  da  se  le  proprie  figure.  Fino  a  D'Ayala  e  Cam- 
poamor,  Don  Giovanni  in  Ispagna  vuole  un  po'  calzare  il 
coturno. 

Questa  serietà  che  poteva  essere  elemento  d'arte,  spe- 
cialmente lirica,  non  lo  fu  se  non  con  Espronceda  ;  prima 
del  romanticismo,  essa  si  limitò  alla  superficiale  parvenza 
inventiva,  ne  vide  altro  che  il  buon  partito  che  si  poteva 
trarre,  per  la  scena,  dalle  fortune  del  corridore  d'amore; 
non  ne  tentò  l'anima. 

La  letteratura  francese  aveva  già  prima  del  romanti- 
cismo e  anche  del  preromanticismo  sovreccitato  dei  tempi 
di  RicheHeu,  Saint-Simon,  Mirabeau,  sentito  che  alcuna 
vena  di  pensiero  e  di  interiorità  poteva  scoprirsi  sotto  il 
barocco  dell'intelaiatura  dongiovannesca  :  aveva  presup- 
posti alcuni  nodi  di  poesia,  di  dolore,  di  emozione  sotto 
la  scapestrataggine  inconsultata  e  stereografica  dell'av- 
venturiero (Molière,  Rosimont). 

Nulla  di  tutto  ciò  nelle  rodomontate  teatrali  del  700 
spagnolo  :  la  materia  trascina  spumosamente  personaggio 
e  autore  che  ne  sono  absorti. 

La  venganza  en  el  sepulcro  di  Alonzo  Cordoba  y 
Maldonado,  in  tre  giornate  non  divise  in  scene,  è  senza 

5  —  F.  FUÀ,  Don  Giovanni. 


-  66  — 

data,  manoscritta  nella  Biblioteca  Reale  di  Madrid;  ne 
altrimenti  che  per  questa  povera  commedia  è  noto  il 
nome  dell'  autore.  —  Presumibilmente  appartiene  alla 
fine  del  600  (2). 

L'azione  è  condensata  nell'unica  avventura  con  Donna 
Anna,  la  quale  si  risolve  nella  peggio  per  Don  Giovanni; 
che  la  preda  gli  sfugge  e  lui  precipita  nelle  fiamme  del 
sepolcro  vendicatore. 

Nessuna  delle  greizie  ed  elasticità  di  sentimento  del 
Burlador  ;  questo  Don  Giovanni  è  un  mammone,  e 
ringhia  più  che  non  gli  riesca  di  mordere. 

Come  il  futuro  Lovelace  (ma  un  Lovelace  bruto  !),  si 
impone  di  conquistare  una  donna,  e  non  ha  pace  se 
questo  non  gli  avviene;  la  vuole  subito,  quella  stessa 
notte,  ma  non  riesce  che  ad  ammeizzare  il  commendatore; 
la  morte  lo  coglie  prima  di  raggiungere  lo  scopo,  col- 
pendolo nella  rea  intenzione  e  nei  precedenti  peccati, 
che  egli  stesso  già  si  è  fatto  un  onore  di  esporre  a  mo'  di 
dichiarcizione  all'atteiTita  fanciulla  compiacendosi  della 
impressione  che  le  producono. 

La  fanciullaggine  dell'autore  porta  così  agli  estremi 
una  di  quelle  verità  che  non  son  tali,  se  non  serbate  alle 
loro  proporzioni  ;  qui  è  farsa,  caricatura  smaccata  quanto 
è  acuta  verità  nell'aforisma  comune  che  "  la  donna  vuol 
avere  molto  da  perdonare  all'uomo",  che  sarà  anche 
parere  di  Chamfort,  buon  intenditore. 

Questa  passione  del  truculento,  che  è  nel  teatro  spa- 
gnuolo  dell'epoca,  è  una  delle  cose  in  fondo  più  bambi- 
nesche che  si  possano  immaginare  ;  tolti  tutti  gli  involucri 
di  panni  insanguinati,  non  si  trova  che  un  cuoricino  che 
è  poi  ben  lungi  dall'esser  di  zecca;  anzi  è  qui  proprio  la 
spiegazione  di  quel  carattere  strombazzone  :  che  il  teatro 


—  67  — 

si  è  airestato  sui  suoi  modelli  —  cava  inesauribile  —  e 
ne  rumina  gli  elementi  ;  rimosso  lo  sforzo  della  creazione 
subentra  quello,  per  così  dire,  della  dilateizione.  È  nella 
parabola  della  vita  e  dell'arte,  il  periodo  naturale  del- 
l'alessandnnismo;  la  domenica  del  riposo  di  ogni  setti- 
mana di  fervida  creazione  letteraria. 

Il  cinismo  ipertrofico  e  quasi  isterico  di  Don  Giovanni 
arriverà  fino  a  confermare  a  Donna  Anna,  che  ne  è  già 
convinta,  di  averle  ucciso  il  padre  ;  e  ciò  dopo  che  le  si 
è  offerto  per  vendicatore  (3'  giornata)  ;  —  e  a  vantarsi 
che  nessuno  fuori  di  lui  può  vendicarla  di  se  stesso. 
Mentre  la  caratteristica  ben  indovinata  del  Burlador  era 
il  colpo  d'  occhio  sicuro,  questo  tralignato  eroe  sbaglia 
continuamente  il  bersaglio,  come  un  Amleto  da  strapazzo. 

Egli  aveva  tentato  di  assalire  Donna  Anna  nei  suoi 
appartamenti  travestito,  ma,  come  sappiamo,  il  commen- 
datore che  gli  sbarra  il  passo  cade  ucciso  ;  e  l'assalitore 
fugge  deluso  (I'*  giornata).  Nella  2"  giornata  pertanto 
quando  nel  carcere  del  marchese  Della  Mota,  che  è  stato 
arrestato  per  reo  dell'omicidio,  incontra  Donna  Anna  e 
la  dueha  travestite,  si  fa  pigliar  pel  naso  dal  marchese 
che  le  fa  passare  per  la  sposa  e  \k  serva  dell'Alcade. 
Capita  poco  dopo  nella  chiesa  che  gli  sarà  funesta,  per 
raggiungervi  Donna  Anna  che  vi  si  è  rifugiata  con  la 
duena  ;  non  pertanto  si  divaga  a  bisticciarsi  con  la  statua 
del  commendatore,  nella  cappella  funebre  (3). 

Nella  prima  cena,  fa  lo  spavaldo  :  non  teme  mille  ne- 
mici vivi,  figuriamoci  uno  morto  ;  ma  alla  seconda  nel 
sepolcro  (3'  giornata),  alla  quale  indarno  ha  fatto  prece- 
dere delle  quasi  presaghe  sollecitazioni  per  il  suo  matri- 
monio con  Donna  Anna  (che  poi  si  risolvono  nello 
smascheramento  di  lui  omicida),  tutta  la  sua  baldanza  è 


—  68  — 

svaporata,  chiede  di  battersi,  ma  in  fondo  è  ghiaccio  di 
terrore,  condizione  da  cui  le  fiamme  infernali  lo  liberano 
ben  presto. 

Questo  Don  Giovanni  è  in  continua  contraddizione 
con  se  stesso  ;  a  sentirlo,  tutti  i  diavoli  d'Averno  non  si 
arrischierebbero  a  dirgli:  Fatti  in  là;  "  è  più  prode  del 
Cid  "  (2^  giornata)  ;  nel  fatto,  lo  vediamo  agire  in  una 
avventura  sola  nella  quale  per  l' appunto  sbaglia  tutti  i 
colpi. 

Il  tipo  dongiovannesco  ha  fatto  cilecca  al  poco  abile 
strale  di  Cordoba.  La  scena  della  2^  giornata  —  che 
segue  a  quella,  con  cui  la  giornata  si  inizia,  fra  Donna 
Anna  e  Don  Giovanni  —  mostra  un  Don  Giovanni  inet- 
tamente innamorato,  nelle  confidenze  a  Colchon,  il  criado. 
Egli  dice  che  finora  si  è  poco  curato  di  amore,  dato 
a  vita  di  rapina  e  di  guerra,  che  il  suo  furore  è  "otro 
azote  de  la  tierra"  e  simili  cannonate,  ma  che  ora  è  un 
agnello,  un  "  rendido  despojo  "  a  quell'angelo  di  Donna 
Anna;  e  non  vuol  più  sentire  parlar  di  altra  donna,  e 
guai  se  non  l'avrà  domani  stesso. 

Ogni  parola  è  un  frego  al  tipo  che  dovrebbe  pennellare. 
Questa  commedia  si  può  paragonarla  a  quella,  su  cui  tor- 
nerò di  proposito,  di  Lopez  d' Ayala  ;  in  entrambe.  Don 
Giovanni  è  il  rovescio  di  se  stesso  ;  ma  la  differenza  è 
grande  e  tutta  a  scapito  di  Cordoba  :  che  in  Ayala  v'è 
r  intenzione  di  mettere  in  ridicolo  il  suo  tipo;  qui  l'autore 
vuol  presentarci  un'Achille  e  non  gli  esce  fuori  che  un 
Tersile. 

Pertanto  questa  commedia  mostra  una  tal  compattezza 
di  azione,  che  in  Don  Antonio  de  Zamora  cadrà  in 
frantumi. 


—  69  — 

Trovare  il  bandolo  della  matassa  di  stramberie  che  si 
aggrovigliano  nel  suo  No  hay  plazo  que  no  se  cumpla, 
ni  deuda  que  no  se  pague,  ^  Convidado  de  piedra  (4), 
stampata  a  Madrid  nel  1  744,  già  rappresentata  qualche 
anno  avanti,  non  è  facile  a  tutta  prima.  Inseguimenti, 
duelli,  pistolettate,  lumi  spenti,  studenti,  guardie;  tutta 
una  mania  di  rosso  gonfia  la  tela  del  dramma. 

Il  personaggio  principale,  pure,  trascende  con  massima 
facilità  nel  ridicolo,  quando  alle  prime  battute  ruzzola 
per  terra,  mentre  rissa  con  gli  estudiantes.  Il  poeta  scrive 
senza  pensare,  a  capo  all'  ingiù,  come  per  foia  intel- 
lettuale. Scartando  le  sovrabbondanti  e  quasi  essenziali 
superfluità,  ecco  a  nudo  la  favola  semplice. 

Don  Giovanni  uccide  il  commendatore,  padre  di 
Donna  Anna,  e  questa  che  pur  l'ama  a  dispetto  dei  suoi 
peccati,  delibera  di  vendicarsi  e  dargli  la  morte  ;  inca- 
ricati di  ciò  :  il  servo  Fabio  e  Don  Luigi,  fratello  di 
Donna  Beatrice,  la  quale,  ingannata  pure  da  Don  Gio- 
vanni, l'ama  perdutamente.  Un  altro  che  aspira  a  togliere 
dal  mondo  il  seduttore, -suo  fortunato  rivale  di  Napoli 
(la  avventura  di  Napoli  è  antefatto),  è  Don  Filiberto,  al 
quale  questa  gloria  ambita  e  supplicata  con  l'autorizza- 
zione reale  a  sfidarlo,  è  tirata  in  lungo  per  poi  essergli 
—  alla  terza  giornata  — -  irrevocabilmente  negata.  Fra  i 
candidati  alla  testa  di  Don  Giovanni,  chi  vince  è  la 
statua  solita,  nel  modo  solito  ;  tranneché  il  furfante  è 
salvato  dalla  morte  eterna  in  grazia  di  alcune  parolette  pie 
estirpategli  dal  tormento  del  fuoco.  Questo  il  recipe  del 
polpettone  zamoriano. 

Don  Giovanni,  venendo  all'anaHsi,  è  reduce  da  Napoli, 
dove  ha  burlata  la  fidanzata  di  Don  Filiberto,  Giulia 
Ottavia,  una  nobildonna. 


—  70  — 

Lo  que  yo  no   pude  amando 
Supo  él   conseguir  mentiendo 

Così  geme  il  povero  deluso,  il  quale  ha  raggiunto  il 
colpevole  in  Siviglia,  e  non  vive  più  che  del  desiderio  di 
ucciderlo.  Intanto  il  seduttore  che  confessa  il  suo  genio 
non  essere  fatto  per  andare  legato  con  una  donna  a  tutte  le 
ore,  se  la  sta  spassando,  nel  principio  della  prima  gior- 
nata, con  Beatrice  de  Fresneda,  sorella  di  un  manigoldo  : 
Don  Luis.  Ma  quando  sa  dal  padre  che  il  commendatore 
gh  rifiuta  la  mano  della  figlia  Donna  Anna,  lui,  che  pen- 
sava a  questa  mano  tanto  poco  da  stropicciarsene  le  sue, 
con  le  consolanti  considerazioni  : 

Si  es  boda  y   me  favorece, 
En   lista  de   despreciadas 
Pondré   una  dona  Ana  mas, 
Y  si   acaso   se   me   escapa 
Conociendome,   me  quedo 
Tan  libre    come    me   estaba  ; 

ora  s'indraca  preso  dalla  brama  del  possesso:  —  "Ciego 
de  colera  voy  "  ;  —  non  ha  più  che  il  pensiero  di  predare 
il  suo  intento  :  più  energumeno  vittima  delle  proprie  epi- 
lessie di  desideri  che  giocatore  abile,  come  il  Burlador. 
Il  rifiuto  essendo  stato  determinato  dai  ricorsi  di  Don 
Filiberto  al  Re,  la  furia  di  Don  Giovanni  si  volta  contro 
costui,  appena  gli  capita  fra  mano  in  casa  di  Donna  Anna, 
dove  ha  già  trovato  Beatrice  e  si  affanna  a  farla  passar 
per  matta;  ma  poiché  bisognava  menar  le  cose  un  pò 
alla  larga  per  giungere  a  una  terza  giornata,  nel  mentre 
che  latra  minaccie  contro  Filiberto,  chi  uccide  è  proprio 
l'innocente  commendatore,  padre  di  Donna  Anna,  che, 
poveretto,  si  intrometteva  perchè  non  fosse  violata  l'ospi- 
talità della  sua  casa  (l"  giornata). 


—  71  — 

Fabio,  il  servo  del  commendatore,  e  Don  Luis  si  uni- 
scono per  uccidere  Don  Giovanni,  1'  uno  per  vendicare 
il  padrone,  l'altro  non  tanto  per  l'onore  della  sorella,  quanto 
per  l'ingordigia  del  denaro  fattogli  promettere  da  Donna 
Anna.  La  quale  è  di  quei  caratteri  che  fan  rimpiangere 
siano  balenati  a  una  fantasia  così  scapigliata,  troppo  in- 
feriore al  suo  personaggio  ;  i  tratti  di  genio  che  vi  traspa- 
iono son  come  brevi  note  di  vita,  da  far  più  sentire  le 
false  risonanze.  Paragonarla  all'eroina  del  Ciddì  Corneille, 
con  cui  ha  pur  somiglianza,  non  si  può,  che  molto  amplia- 
mente  approfittando  del  sì  parva  licei  virgiliano.  Ella  ama 
Don  Giovanni,  ma  lo  vuol  morto,  affinchè  sia  vendicato 
il  suo  sangue  che  ella  ha  visto  versato  :  la  nobiltà  del  ca- 
sato e  il  suo  risentimento  di  figlia  le  impongono  la  vendetta. 

Quasi  a  dispetto  dell'autore,  traspaiono  queste  fibre  di 
vero  e  d'arte  nel  traliccio  rozzo  della  sua  costruzione. 

Come  pure  è  ben  intuito  l'istinto  di  repulsione  che 
allontana  Donna  Anna  da  Don  Filiberto  :  Donna  Anna 
consacrata  alla  vendetta  dolorosa  non  può  specchiarsi  in 
Filiberto,  dove  ritrova  la  stessa  volontà  di  vendetta  fatta 
ghiaccia  dalla  rivalità  ingannata  dell'uomo  :  ella  vuole  e 
sa  odiare  l'uccisore  di  suo  padre,  ma  non  può  agevolmente 
sentirlo  odiare  da  altrui  :  veramente  la  donna  sa  l'egoismo 
esclusivo  ed  estremo  dell'  odio.  Invece  Don  Filiberto 
propende  verso  Donna  Anna,  perchè  è  più  facile  all'uomo 
sofhire  l'odio  in  compagnia  ;  una  stessa  volontà  di  ven- 
detta può  unire  un  uomo  a  una  donna  in  un  legame  anche 
d'amore;  ma  una  donna  che  amasse  il  compagno  d'odio 
non  odierebbe  già  più  (5). 

E  Donna  Anna  non  vorrebbe  e  pur  deve  —  nella 
terza  giornata  in  cui  finisce  col  ritirarsi  in  convento  —  ri- 
nunciare alla  sua  vendetta  affidata  a  mano  più  sicura. 


—  72  — 

Beatrice  è  una  larva  di  Elvira  di  Molière,  le  imitazioni 
del  Festin  de  Pierre  non  essendo  rare  nel  "  No  hay 
deuda  "  ;  già  in  Molière  v'era  quel  tanto  di  sferraglia- 
mento  cavalleresco  in  uno  sfondo  di  leziosaggine  un  po' 
da  codice  di  corte,  che  poteva  piccare  il  gusto  spagnuolo. 
La  commedia  di  Zamora  è  in  fondo  fatta  degli  avanzi 
di  Tirso  e  di  Molière. 

La  passione  disperatamente  inestinguibile  di  Donna 
Beatrice  è  anche  uno  di  quei  tentativi  mezzo  abortiti,  cui 
accennavo  dianzi  :  vi  si  sente  germinare  una  vita  interiore 
che  aspettava  un'altra  più  abile  mano  per  esserne  tratta 
in  luce.  Mentre  Don  Giovanni  e  Don  Luigi  si  battono 
nella  prima  giornata,  il  suo  amore  non  le  impedisce  di 
darsela  a  gambe:  "Mejor  —  Es  huir  ".  Ciò  nonostante 
assurdamente  resiste  agli  improperi  e  alle  umiḷizioni  in- 
flittile davanti  alla  rivale  Donna  Anna  e  vie  più  persegue 
del  suo  attaccamento  Don  Giovanni,  senza  posa,  nono- 
stante i  pratici  consigli  di  Camacho ,  che  le  addita  il 
meglio  :  ma  "  è  molto  facile  ingannare  amore  !  " . 

Talora  il  suo  dolore  si  libererà  in  qualche  accento  vero  : 

Enlre  mi  hermano  y  mi  amante 
Y  con  iguale  veivenes 
Toda  tragedia  es  mi  vida. 

Ciò  dopo  la  scena  del  convito  miracoloso  e  tempestoso 
a  cui  ella  assiste  in  casa  di  Don  Giovanni,  non  invi- 
tata. Anche  il  fratello  che  corre  dietro  il  proprio  gua- 
dagno, è  intervenuto,  e  con  diversi  intenti,  di  nascosto. 
Pispireta,  una  cortigianella,  è  invece  quella  che  Don  Gio- 
vanni ha  prescelto  per  commensale. 

Il  "  fantasmon  "  del  commendatore  già  invitato  poco 
prima  a  cena,  senza  che  alcun  epitaffio  giustificasse  lo 


—  73  — 

scherno,  anzi  il  furore  di  questo  Don  Giovanni,  arriva 
anche  lui  e  si  perde  in  prediche  con  molto  minor  dignità 
del  suo  compagno  di  pietra  in  Tirso. 

Pispireta,  che  è  del  partito  di  contentar  tutti,  dagli 
studenti  ai  servi,  ha  accondisceso  a  tener  bordone  al  si- 
cario Don  Luis,  semplicemente  pensando  che  "  si  le  replica 
he  de  haber  —  Solfeadura  de  mofletes  " .  Ora  la  situa- 
zione par  vibrare  di  attese  tragiche.  Don  Luis  è  acquattato 
pronto  al  delitto.  La  statua  sopravvenuta,  anche  lei,  poco 
buone  intenzioni.  E  l'amore  passionato  di  Donna  Bea- 
trice travestita  e  nascosta  è  là  come  refrigerio  di  liquidi 
da  nube  carica  di  nembo.  Lei,  la  sorella  del  sicario,  in- 
consapevolmente vicina  al  fratello  in  agguato,  pronta  a 
salvare  chi  questi  vuole  ucciso  e  il  cui  amore  uccide  lei. 
E  quando  vede  puntata  la  rivoltella  del  fratello  contro 
r  amato,  "  Don  Juan  —  i  Que  te  matan!  "  scoppia  il  grido. 

Ma  che?  Per  ricompensa  questi  la  chiamerà  poco  dopo 
traditora  davanti  al  padre  Don  Diego  accorso. 

Nella  terza  giornata,  il  basilisco  aggiunge  qualche 
nuova  bagattella  al  repertorio  delle  sue  bricconate. 

Spaccia  Don  Luigi  quando,  origliando,  ha  sentore  del 
complotto  ordito  contro  di  lui,  e  piomba  poi  addosso  a 
Donna  Anna  per  violentarla  ;  ond'essa  sviene  e  lui  fugge 
all'accorrer  di  gente.  Il  duello  con  Filiberto  è  interrotto 
al  comparir  del  Re  che  ordina  di  sospendere  :  dopo  al- 
quante rimostranze,  cede  poiché  è  atteso  alla  cappella 
del  commendatore  il  cui  invito  ha  promesso  di  accettare. 
Intanto  lampi  e  tuoni  a  ciel  sereno  presagiscono  il  tra- 
gico fine:  la  tempesta  cui  già  alludemmo  nel  raffronto  con 
la  leggenda  di  Faust. 

Davanti  alla  certezza  del  castigo,  sotto  lo  spasimo  del 
bruciare  che  gli  fa  invano  urlare  alla  statua  :    "  Lascia 


—  74  — 

che  il  tuo  gelo  calmi  questo  incendio  che  mi  brucia!", 
non  è  meraviglia  ne  merito  che  gli  venga  fatto  di  chieder 
perdono:  "Pietad,  senor "  ecc. 

Meraviglia  è  che  questa  tardiva  e  troppo  facile  resi- 
piscenza riesca  a  procurargli  il  perdono. 

Il  fine  morale  e  il  senso  religioso  che  abbiamo  visto 
sotto  la  parvenza  del  Burlador  spaiono  del  tutto  ;  lì  la  con- 
danna finale  aveva  un  necessario  valore  che  a  Zamora 
sfuggì,  e  l'elemento  morale  traspirava  anche  dal  corso 
della  commedia  ;  qui  poco  o  nulla  :  le  stesse  recrimina- 
zioni di  Camacho  non  hanno  un  carattere  definito  ;  quasi 
paion  messe  lì  per  provocare  le  risposte  e  le  millanterie 
di  Don  Giovanni  ;  la  parte  del  servo  nella  commedia  di 
Zamora  è  del  resto  trascurabile  come  era  in  Cordoba. 

In  Tirso,  Don  Giovanni  era  rappresentato  quanto  a 
religione  più  conforme  al  suo  tipo  :  incurante  di  ogni  pen- 
siero, restio  a  ogni  remora,  pure  non  riluttante  ai  mecca- 
nismi più  semplicisti  della  fede,  nel  momento  pericoloso. 

Ma  qui  la  religione  è  un'  incognita  ;  nelle  chiese  si 
grida,  ci  si  insulta,  si  danno  appuntamenti,  ci  si  sfida,  per 
poco  non  si  continuano  le  zuffe  cominciate  fuori  ;  della 
vita  futura  si  parla  dalla  statua  del  commendatore,  ma 
in  tono  di  predica  che  si  addice  poco  al  marmo  che 
parla  e  al  peccatore  che  ascolta. 

Il  motto  ritornello  del  Burlador  "  Tan  largo  me  lo 
fiais  ",  ben  rispondeva  allo  svolgimento  della  commedia; 
qui  il  titolo  mal  s'incappella  sulla  trattazione,  in  cui  ve- 
ramente i  debiti  morali  sono  molti  da  parte  di  Don  Gio- 
vanni e  il  pagamento  è  poco.  La  morale  anzi  è  così  poco  in 
risalto,  che  questo  Don  Giovanni  che  ha  per  se  tutti  i  sette 
peccati  senza  nessuna  grazia  di  seduzione,  pure  tutti  si  in- 
teressano per  lui  dalle  donne  alla  statua  del  commendatore. 


—  75  — 

In  pieno  giorno  trascende  alle  violenze  pazze  della 
terza  giornata  contro  Donna  Anna  :  ciò  oltre  a  far  torto 
alla  sua  correttezza  rispettata  nel  Burlador,  lo  fa  anche 
alla  sua  astuzia  :  pare  che  dovrebbe  apprendergli  il  Don 
Giovanni  di  Tirso  quah  siano  le  ore  sue  ! 

Falso  è  anche  il  personaggio  quando,  nella  zuffa  con 
Filiberto  e  Fabio  della  fine  della  prima  giornata,  dopo 
essersi  ribellato  alla  stessa  giustizia  che  è  venuta  ad  ar- 
restarlo per  l'uccisione  del  commendatore  ("  poco  esto 
nombre  me  importa  ")  e  dopo  che  ha  gridato  : 

No  està   mi  espada  hecha 
A  reducirse  a  la  cinta 
Sin  sangre  ; 

bastano  due  parolette  di  Camacho  per  deciderlo  ad  an- 
darsene, soltanto,  a  sentir  lui,  perchè  ha  il  padre  che  lo 
imbarazza  e  una  donna  che  lo  aspetta. 

La  medesima  cosa  alla  terza  giornata,  quando  il  Re 
viene  ad  interporsi  a  che  il  duello  con  Filiberto  cessi,  e 
lui  che  non  si  cura  del  Re  molto  più  che  della  giustizia, 
ecco  che  reagisce  e  s'infuria,  per  poi  placarsi  a  un  breve 
consiglio  del  conte  di  Urefìa,  il  quale  quando  consiglia, 
sembra  a  Don  Giovanni,  non  bisogna  scompiacere. 

La  nota  semplice  e  intonata  del  dolore  paterno  del 
Burlador  è  qui  traviata  a  incongruenze  maggiori.  Il 
primo  rimprovero  del  padre  è  accolto  con  beffa  ancor  più 
irriverente  : 

l  Sermonico  ? 

Qua  sea  breve,   que  me  duermo. 

Questo  Don  Giovanni  non  è  uso  a  complimenti. 
Altrove  lo  minaccia  con  la  spada  e  con  le  grida;  al 
vecchio  che  si  sbigottisce  e  invoca,  impone  di  andarsene 


—  76  - 

pei  suoi  affari;  nonpertanto  questo  padre  troppo  eroico, 
vedendolo  in  pericolo  e  aggredito  da  Fabio  e  Filiberto,  si 
mette  dalla  parte  del  figlio,  perchè  ove  siano  in  più  ad  assa- 
lirlo egli  non  si  muoverà  dal  suo  fianco  (2'^  giornata). 

Nel  Burlador  l'affetto  paterno  si  ribella  in  nome  di  un 
più  alto  sentimento  ai  delitti  filiali  ;  Don  Diego  alla  fine 
non  più  depreca,  ma  scongiura  sul  capo  del  figlio  la 
punizione  del  Re  :  qui  Don  Diego  per  voler  essere  troppo 
padre,  finisce  col  diventare  un  fantoccio,  peggio,  un  mez- 
zano del  figlio. 

Non  stanco  delle  sue  infamie,  ne  invoca  dal  Re  con- 
tinuamente il  perdono  ;  gli  promette  di  restituirgli  Donna 
Anna  e  lo  fa  riconciliare  con  lei,  cui  poi  lui  farà  il  bello 
scherzo  della  terza  giornata. 

E  molto  si  potrebbe  ancora  osservare  a  mostrare  come 
tra  tanto  uragano  di  situazioni,  l'arte  in  troppa  parte  di 
questa  commedia  resti  morta  gora. 

Per  altro,  se  nel  Burlador  i  caratteri  maschili  quasi 
unicamente  avevano  un  tal  rilievo,  qui  le  men  peggio 
tratteggiate  mdiscutibilmente  sono  le  donne;  si  sente  l'eco 
di  Molière.  Gli  uomini  sono  figure  formate  di  cavalloni 
di  spume  di  idee;  le  donne  tentano  significare  qualche 
cosa  ;  talora  quasi  riescono.  Anche  Pispireta,  è  una  gaia 
figura  boccaccesca  che  talora  rientra  in  un  raggio  di  vita 
viva;  l'autore  si  trova  impacciato  quando  manovra  grandi 
passioni  ;  pur  talvolta  gli  scappan  fuori  accenti  aggrazia- 
tamente comici  con  colori  canterini,  per  simile  figurina 
senza  pretese. 

Il  romanticismo  spagnuolo,  preluso  da  Cienfuegos,  si 
afferma  con  Herreros,  col  duca  de  Rivas,  gli  antesignani 
della  nuova  voce. 


—  77  — 

La  Spagna  per  altro  ebbe  un  romanticismo  riflesso 
senza  le  peculiarità  della  Germania,  dell'Inghilterra,  della 
Francia,  dell'Italia.  Elemento  decorativo  e  coloristico  nei 
quadri  delle  altre  letterature,  simbolo  d'arte  e  vita  nel- 
l'Hernani,  cornice  fantastica  in  Lara  di  Byron,  nelle 
Orientales  dell'Hugo,  la  Spagna  passava  dalla  vita  attiva 
e  creativa  a  una  passiva;  sognata,  non  visse;  beò 
le  fantasie  traverso  gli  assorbirnenti  di  fantasie  altrui; 
terra  promessa  di  ogni  romantico  anelito,  le  fu  condanna 
la  sua  fama  di  bellezza,  la  poesia  dei  suoi  celebrati  cieli: 
poltrisce  nel  giaciglio  di  rose  dei  canti  che  si  cantano 
di  lei. 

Il  romanticismo  che  riporta  in  auge  il  medio  evo,  trova 
nella  Spagna  il  nido  già  formato  dei  suoi  canti;  ma  quel 
contrasto  elementare  che  è  tra  il  classicismo  e  il  roman- 
ticismo nelle  altre  nazioni,  l'uno  adoratore  della  lettera- 
tura e  della  vita  pagana,  l'altro  riavvalorante  le  civiltà 
romanze,  meno  è  sentito  in  Spagna  dove  meno  il  sole 
classico  aveva  rifulso  e  dove  Lope  già  aveva  portato  sulla 
scena  Cristo  e  Calderon  Satana.  La  Spagna  non  fu  mai 
staccata  completamente  dal  suo  medio  evo  :  e  dalla  sog- 
gezione moresca  traeva  quel  tanto  di  torridamente  fanta- 
stico che  le  consigliava  meglio  l'amore  del  mistero  che 
quello  della  luce  e  della  forma.  Gli  ingredienti  di  maniera 
del  romanticismo  erano  perciò  già  in  lei  ;  questo  bensì  vi 
importò  un  rinnovamento  di  interpretazione;  ma  non  vi 
si  manifesta  con  impronta  nazionale.  Così  mentre  il  ro- 
manticismo tedesco  potrebbe  per  via  di  distinzione  chia- 
marsi filosofico,  il  romanticismo  inglese  psicologico,  il 
francese  sentimentale,  l'italiano  storico,  il  romanticismo 
spagnuolo  è  comunemente  trascurato  nelle  categorie  let- 
terarie, come  avente  un  po'  tutte  queste  caratteristiche,  e 


—  78  — 

nessuna  individuale;  simile  in  ciò  alla  sua  consorella  di 
estremi  confini  la  Russia,  nata  letterariamente  da  quello 
che  è  il  romanticismo  per  le  altre  nazioni.  Cosicché  come 
senza  Byron  non  si  concepirebbe  Puskin,  così  senza 
Byron  non  si  concepirebbe  Espronceda,  ne  con  esso  il 
ringiovanimento  della  letteratura  spagnuola  più  nuova, 
guarita  assai  prima  della  russa  dalla  ubbriacatura  byro- 
niana, cui  è  antidoto  la  sentimentalità  di  Fedro  Alarcon, 
Narciso  Serra,  Ponce  de  Leon,  Zorrilla,  Campoamor, 
Quintero. 

La  Russia  neonata  all'arte,  prodigio  di  precocità  quasi 
mostruosa,  dell'avvento  byronistico  sconvolge  radical- 
mente la  sua  coscienza  traendone  una  originahtà  quasi 
completa;  ma  la  Spagna  dopo  la  prima  vertigine  si  riat- 
tacca presto  alle  necessità  del  suo  temperamento  d'arte. 
Bacchetta  magica,  il  byronismo  fa  spicciare  da  roccie  di 
sordità  spirituale  come  la  letteratura  di  Lomonossov, 
come  la  poesia  di  Iriarte,  Melendez,  zampilli  di  canto  e 
di  sensibilità.  Stupisce  le  domestiche  quieti  letterarie  di 
Europa,  ne  arroventa  i  fanatismi  esasperati  con  la  esalta- 
zione sistematica  delle  forze  malvage,  educa  m  Spagna 
le  smagate  concezioni  della  generaizione  di  Espronceda. 

La  concezione  di  Don  Giovanni  ora,  satura  delle  nuove 
luci  e  tinte,  più  che  mai  si  impronta  a  fuoco  nelle  fantasie 
internazionali.  Dianzi  Don  Giovanni,  inquadrato  nel  suo 
meraviglioso,  era  solo  una  leggenda  da  sbizzarrire  fan- 
tasie in  vacanza  ;  nessun  brivido  di  lirico  dolore,  nessuna 
comunicazione  di  simpatia  dell'artista  col  suo  personaggio; 
l'autore  anzi  era  sempre  tacitamente  avverso  al  suo  eroe 
delinquente,  con  l'indice  teso  dietro  di  lui  ad  esporlo 
al  plauso  del  pubblico  che  si  divertiva,  ma  principal- 
mente alla  gogna. 


-  79  - 

Ora  la  raffinata  sensibilità  delle  anime  fa  trovare  un 
impersonatore  di  se  nel  tipo  scelto;  anche  sotto  il  vitu- 
perio traluce  sempre  un  senso  di  invidia  per  la  propria 
creazione,  come  una  volontà  di  sperdimento  in  essa.  Gli 
spiriti  sono  stanchi  delle  quadrate  bontà,  dei  lineari  af- 
fetti, delle  impersonalità  stampate;  l'Io  grida,  s'affanna,  si 
sbraccia,  vuole  che  si  badi  a  lui:  l'autore  ci  tiene  a  mo- 
strarsi alla  ribalta,  qual'è;  in  abito  da  passeggio,  in  veste 
da  camera,  in  maniche  di  camicia  anche  (ahimè!):  nel- 
l'arte tutto  se  stessi  si  rovescia,  è  la  bancarotta  delle 
"arti  poetiche". 

Per  quanto  per  l' innanzi  l'artista  passava  per  la  trafila 
dei  proprii  scrupoli  morali  e  della  cernita  di  convenzione 
l'opera  sua,  ora  per  reazione  dà  la  preferenza  alla  crusca, 
moralmente  parlando,  sul  fior  di  farina. 

"  Maledetto  chi  frena  i  battiti  del  proprio  cuore  "  — 
aveva  gridato  Lenz  dello  Sturm  und  Drang.  Si  preannun- 
ziano all'orizzonte  europeo  i  fiori  del  male  del  Baudelaire. 

Così  la  nuova  concezione  dongiovannesca  sullo  sfondo 
byroniano  si  affacciava  in  Spagna. 

Del  1 840  è  V Estudiante  de  Salamanca  di  Espronceda, 
in  cui  è  infranta  la  cornice  della  leggenda  e  il  tipo  rap- 
presentato sotto  il  nuovo  nome  di  Don  Felix  Montemar. 
Già  con  Gautier,  Don  Giovanni  era  uscito  dalla  leg- 
genda e  dal  teatro  (1838):  (Comédie  de  la  Mori),  ove 
però  è  solo  una  nota  di  colore. 

In  Espronceda,  il  tipo  assurge  primieramente  a  simbolo 
lirico,  è  preso  di  faccia,  guardato  negli  occhi.  (Il  Don 
Giovanni  di  Byron,  giova  ripeterlo,  non  può  dirsi  una 
creazione  di  tipo,  ma  un  impressionismo,  quasi,  lirico, 
una  biografìa  spirituale  non  polarizzata). 

Ma,  invertendo  l'ordine  cronologico,  credo  opportuno 


—  80  — 

considerar  prima  il  Don  Giovanni  di  Zorrilla,  che  meglio 
si  riattacca  alla  tradizione  del  genere  e  dell'argomento. 
E  in  due  parti  e  sette  atti  :  quattro  la  prima  parte  e  tre 
la  seconda. 

Otto  anni  avanti  il  Don  Giovanni  Tenorio  di  Zorrilla 
che  è  del  1 844  (6),  Dumas  padre  aveva  composto  dei 
ritagli  di  molti  Don  Giovanni  e  non  Don  Giovanni  il  suo 
Don  Giovanni  Marana,  bislacca  fantasia  in  un  prologo 
e  cinque  atti,  in  cui  dalle  abitazioni  celesti  si  passa  alle 
terrestri,  e  da  queste  alle  celesti  con  la  maggiore  di- 
sinvoltura. 

Gli  spettri  vi  passeggiano  come  in  loro  appartamenti; 
dopo  molto  sangue  sparso,  il  famigerato  satanasso  si  in- 
cappuccia da  santo,  lascia  i  conviti  per  il  convento  e 
l'orgia  per  la  preghiera. 

Il  peccatore  e  la  peccatrice  pentiti  sono  fra  gli  argo- 
menti più  accetti  al  romanticismo  che  culmina  in  Hugo; 
al  Don  Giovanni  Marana  di  Dumas  padre  risponderà  la 
Margherita  Gautier  del  figlio.  Poiché,  in  fatto  di  delin- 
quenza letteraria,  il  romanticismo  si  divide  in  due  cate- 
gorie: —  quella  della  delinquenza  angelica,  se  si  lascia 
passare  l'ossimoro,  e  quello  della  delinquenza  satanica; 
questa  che  si  incide  nel  bronzo  di  una  ferocia  sotto  cui 
rivolano  i  pianti  lirici  dei  creatori  frenetici  ;  quella  che  si 
affonda  tanto  nel  peccato,  per  quanto  si  libra  nella  re- 
denzione :  r  una  :  —  Byron,  De  Musset,  Gautier,  Mé- 
rimée,  Espronceda,  Lermontoff  ;  —  l'altra  :  —  Dumas, 
Lamartine,  Coppée,  Manzoni  (Innominato),  D'Azeglio 
(Selvaggia,  Troilo),  Guerrazzi  (Francesco  Cenci),  Tur- 
ghenieff,  Zorrilla  ;  1'  una,  che  1'  autore  accompagna  della 
sua  crudeltà  malsana  e  vi  consente  ;  1'  altra  cui  l'autore 
repugna  o  concilia  seco  solo  mediante  la  riabilitazione. 


—  81  — 

Zorrilla,  anima  essenzialmente  lirica  con  chiazze  by- 
loniste  tenta,  è  vero,  il  tragico  della  sua  figura  che  vuol 
fare  redenta,  non  senza  dimenticarsi  del  tutto  di  Dumas  : 
ma  la  figura  di  Don  Giovanni  irride  un  po'  ai  suoi  ten- 
tativi; il  suo  dramma  non  vive  che  per  Donna  Ines. 

La  tragicità  di  Don  Giovanni  attraverso  la  femminilità 
spirituale  dell'autore  si  poliedrizza  in  forme  solide  di  un 
simbolismo  primitivo  un  po'  grossolano;  non  assurge  a 
rarefazioni  spirituali  ;  pascola  in  concrete  anfrattuosita  di 
azioni  e  manifestazioni  dense  ed  esteriori. 

Sublime  e  alata  invece  la  figura  di  Donna  Ines,  stelo 
di  luce  ;  Don  Giovanni  è  un  tozzo  malandrino  di  strada 
di  fronte  agh  eroi  della  delinquenza  byronistica,  ma 
Donna  Ines  non  ha  nulla  da  invidiare  alle  figure  più  dol- 
cemente femminili,  e  non  solo  della  letteratura  spagnuola. 
Come  per  Ofelia,  il  mondo  con  le  sue  passioni  è  troppo 
grande  pel  suo  piccolo  corpo  ;  la  sua  innocenza  è  tutta 
lei  ;  la  sua  innocenza  le  attrae  il  terribile  amore  di  Don 
Giovanni,  come  sempre  aspira  alle  albe  di  Desdemona 
l'inferno  di  Jago  :  il  più  bel  dono  del  diavolo,  secondo 
l'epigrafe  di  D'Aurevilly  alla  novella  altrove  citata,  è 
un'innocenza... 

Il  concetto  del  dramma  è  l'apoteosi  dell'amore  :  Don 
Giovanni  Tenorio,  però,  il  più  bel  pezzo  di  canaglia  che 
si  possa  figurare;  Don  Luigi  Meguia,  il  suo  emulo  di 
mascalzonate.  Il  dramma  comincia  con  una  scena  assurda  : 
le  pennellate,  buttatevi  giù  alla  cieca,  per  simulare  il  tra- 
gico: una  scommessa,  una  specie  di  record  di  birbonate, 
è  vinta  da  Don  Giovanni  su  Don  Luis. 

Don  Giovanni  di  Zamora  era  un  degenerato  impulsivo 
e  d'occasione:  questo  di  Zorrilla  un  delinquente  d'istinto, 
un  galeotto  senza  sottintesi.  Come  il  Don  Giovanni  di 

6  —  F.  FUÀ,  Don  Giovanni. 


—  82  — 

Alonso  Cordoba,  squaderna  la  storia  delle  proprie  fur- 
fanterie, quasi  titoli  di  merito,  non  davanti  a  una  donna 
da  cui  speri  amore,  ma  davanti  all'emulo  che  vuol  vincere 
d'infamia,  e  la  situeizione  è  di  un  cinismo  che  non  con- 
vince. Subito  però  si  mostra  la  tecnica  che  non  si  smen- 
tirà dell'autore  esperto:  vive,  le  scene  del  padre  Don 
Diego  e  del  commendatore  Don  Gonzalo;  il  dramma 
viene  presentito,  come  da  un  lontano  brontolio  di  tuoni  la 
procella:  quando  poi  i  due  bei  tomi  Don  Giovanni  e  Don 
Luigi  vengono  per  loro  stessa  reciproca  denunzia  —  ciò 
che  ha  del  piacevolmente  comico,  —  arrestati  dai  so- 
pravvenuti "alguaciles  ",  la  curiosità  degli  spettatori  si 
apre  stimolata,  al  chiudersi  del  primo  atto. 

Infatti  Don  Giovanni  Tenorio  ha  promesso  per  com- 
pletare la  bella  lista  dei  suoi  peccati,  di  commetterne  due, 
che  dovrebbero  essere  i  peccati  monstre:  la  seduzione 
di  una  novizia,  che  stia  per  fare  i  voti,  e  della  fidanzata  di 
un  amico  prossimo  a  sposarsi,  che  sarebbe  appunto  Don 
Luigi.  Il  quale  invano  denunzia,  impressionato,  l'amico 
pericoloso,  che  contemporaneamente  questi  ha  denun- 
ziato lui,  ed  entrambi  eccoli  ora  trascinati,  seduta  stante, 
in  prigione.  Ma,  per  vincere  la  duplice  scommessa.  Don 
Giovanni  non  guarda  pel  sottile  ;  tattico  sagace,  le  fila 
delle  due  burle  conduce  al  nodo,  con  intreccio  contem- 
poraneo d'azioni. 

Evaso,  fa  aggredire  Don  Luigi,  anche  lui  evaso,  e 
legarlo,  mentre  stanno  battendosi;  e  mentre  l'infelice 
ringhia  di  rovello,  lui  si  prepara  a  guadagnarsi  la  prima 
scommessa  ;  ma  non  avanti  di  essersi  assicurata  la  se- 
conda, a  ciò  aiutato  dalla  vecchia  megera  Donna  Brigida, 
esperta  tentatrice  di  coscienze  verginelle  ;  alle  9  al  con- 
vento, alle    10   da  Donna  Anna:  programma  stabilito 


—  83  — 

(2"  atto).  Poiché,  Don  Gonzalo,  ^ià  dal  primo  atto,  ha 
promesso  di  far  suora  la  figlia,  per  sottrarla  alle  spire  del 
serpente  seduttore  ;  il  quale  da  ciò  trae,  al  solito,  alimento 
al  desiderio,  e  stimolo  a  precisarne  la  mira  ;  giacche  per 
r  innanzi  non  conosceva  Donna  Ines  con  la  quale  era 
stato  dal  padre  fidanzato  ;  ma  ora  la  vuole  a  ogni  costo. 
La  novizia  è  rapita  da  Don  Giovanni  e  portata  svenuta 
in  casa  sua,  ove  Donna  Brigida  e  Ciutti  la  sorvegliano, 
intanto  che  egli  è  altrove  a  coglier  l' alloro  della  sua 
prima  burla  (3'^  atto). 

Prima  che  però,  già  tornato,  riesca  a  compiere  la  nuova 
infamia  con  Donna  Ines,  — -  Don  Luigi  e  poi  Don  Gon- 
zalo vengono  a  reclamare  e  disputarsi  la  vendetta  ;  en- 
trambi sono  uccisi.  Don  Giovanni  se  la  batte,  non  pensoso 
che  della  sua  salvezza  (4"  atto). 

Questi  quattro  atti  della  prima  parte  sono  divisi  dagli 
altri  tre  della  seconda  da  un  intervallo  immaginario  di 
5  anni  ;  in  cui  sotterranea,  si  suppone  si  svolga  la  tras- 
mutazione morale  del  protagonista,  che  riappare,  risorto 
come  da  un  sepolcro  di  tentate  interiorità;  sotto  le  lineari 
parvenze  si  è  aperta  la  voragine  di  un  dolore  senza  fondo, 
di  un  mistero  d'amore  senza  consolazione. 

Donna  Ines  non  apparirà  più  che  come  ombra,  ma 
la  sua  azione  sarà  più  che  mai  viva  e  costante. 

Già  nella  prima  parte  si  avverte  come  più  presente 
all'azione  intima,  sia  la  figura  meno  presente  alla  rappre- 
sentazione. Donna  Ines  ci  viene  avanti  per  la  prima  volta 
nel  3°  atto,  quando  già  le  han  preluso  le  sinfonie  di  colori 
tutte  zorrilliane,  sì  che  quando  ella  ci  è  presente,  par  di 
riconoscerla  come  da  lungo  nota.  La  innocenza  impal- 
pabile, come  un  odore,  della  fanciulla  soffonde  talune 
scene  della  parte  esaminata  di  una  grazia  infantilmente 


—  84  — 

deliziosa  ;  come  nella  scena  11  dell'atto  3°,  in  cui  la  let- 
tera di  Don  Giovanni  scotta  quasi  alla  mano  pura  che 
l'ha  raccolta;  e  come  quando,  rapita  nell'incanto  imme- 
more delle  parole  dell'uomo,  in  quella  bellissima  scena  HI 
dell'atto  4°,  che  è  tutta  un  cielo  di  sogno  e  di  suono,  ago- 
nizzante di  amore  sul  naufragio  della  coscienza,  mormora, 
ella,  stravolta,  le  parole: 

Don  Juan,   Don  Juan,  yo  te  lo  imploro 

...De  tu  hidalga    compassion 

O  arrancarne  el  corazón 

O  amarne  por  que   te  adoro  (7). 

Don  Luigi  è  tipo  tagliato  al  dosso  del  marchese 
della  Mota,  ma  più  diavolo  ;  come  lui,  si  innamora  pro- 
fondamente. 

Di  alcun  effetto  tragico  (8)  si  fa,  quando  nell'atto  4" 
della  parte  I,  scena  111,  viene  per  chiedere  la  vita  di  Don 
Giovanni  e  in  cambio  dargli  morte  :  un  po'  imitazione 
della  sfida  di  Don  Giovanni  Marafia  e  Don  Sandoval 
di  Dumas.  Peccato  che  sia  così  poco  fortunato  nella  sua 
carriera  del  male  :  la  sua  intenzione  gli  viene  strappata 
dal  più  forte  avversario  e  contro  lui  stesso  rivolta  e  at- 
tuata :  è  trapassato  dalla  spada  di  lui. 

Zorrilla,  presentandolo  intabarrato  e  gonfio  di  furore, 
credo  abbia  avuto  presente  la  stupenda  raffigurazione  del 
Don  Diego  di  Espronceda  neW Estudiante.  Ma,  contra- 
riamente aW  Estudiante,  Don  Giovanni  troppo  ripetuta- 
mente stride  nella  creazione  zorrilliana.  Che  tipo  è  questo 
furfante  da  crocicchio  che  senza  uno  scrupolo  fa  aggre- 
dire alle  spalle  l'avversario  da  compagni  nascosti  (atto  2", 
scena  Vii),  mentre  sta  battendosi  con  lui? 

Questo  Don  Giovanni  non  ha  nulla  dell'  eroismo,  sia 
pur  pravo,  che  negli  altri  Don  Giovanni  dà  ventate  di 


—  85  — 

refrigerio  anche  ad  assolate  truculenze  di  episodi  alla 
Zamora.  Questo  Don  Giovanni,  che  non  si  perita  di 
scaricare  una  pistola  nel  petto  del  vecchio  Don  Gonzalo 
che  lo  richiede  di  un  duello  riparatore,  come  credere  che 
si  rigeneri  in  un  amore  puro,  quando,  subito  compiuto  il 
delitto,  non  pensa  che  alla  fuga  egoistica,  abbandonata 
la  sua  preda.  Donna  Ines,  che  pure  nel  tremendo  colpo, 
solo  al  pericolo  dell'amato  ha  rivolto  l'animo  (atto  4", 
scena  ukima)? 

E  che  cosa  è  questo  passaggio  che  fa  il  seduttore  dal 
più  romantico  ardore  di  sentimento  al  cinismo  più  assi- 
derato e  viceversa?  Tutto  cuore  nella  citata  scena  d'amore 
con  Donna  Ines,  nella  scena  appresso,  a  Don  Luigi  parla 
dell'amata,  come  di  un  oggetto  inconsiderevole,  quasi  di 
scherno  {la  del  convento)  ;  si  vanta  della  scommessa 
vinta,  che  parevagh  dimenticata  ;  per  poi  buttarsi  in  gi- 
nòcchio davanti  al  commendatore  che  viene  a  cercare  la 
figlia,  percuotersi  il  petto  con  giuramenti  di  sincerità,  con 
preghiera  di  perdono. 

Che  meraviglia  che  il  commendatore  gli  neghi  la  mano 
della  figlia  nonostante  le  lagrime  e  gli  scongiuri  ?  Ciò  in- 
tanto serve  ad  affibbiare  a  questo  Don  Giovanni  la  ele- 
gante ulcera  ideale  del  rejetto  e  dell  incompreso,  quasi 
che  il  mondo  non  avesse  altro  a  pensare  che  a  curare  le 
prungini  sentimentali  di  questi  bravi  diavolacci,  quando 
salta  loro  il  ticchio  di  posarla  a  santi  ! 

Il  primo  atto  della  Seconda  Parte  col  cimitero  delle 
vittime,  ricorda  la  scena  simile  in  Dumas,  dell'apparizione 
degli  spettri  ;  però  innegabilmente  ha  del  nuovo  e  del 
drammatico. 

Il  carnefice  errante  nella  città  morta  delle  sue  vittime 
è  un'ideazione  che,  con  tutto  quello  che  ha  qui  di  arti- 


—  86  — 

fizioso,  risuona  delle  più  forti  vibrazioni  emotive  ;  inaugura 
quella  sensazione  di  grave  pressione  densa  di  passato, 
che  predomina  nelle  scene  di  questa  seconda  parte  ;  al 
rilievo  montuoso  di  sorprese  della  prima,  è  seguito  l'av- 
vallamento profondo  di  rimpianto  della  seconda.  Don 
Giovanni  era  già  avido  di  ricerche  e  conquiste  :  ora  pieno 
di  esperienza  e  delusione  ;  correva  già  alla  rincorsa  del 
tempo,  dell'amore,  della  gioia,  ora  ritorna  indietro  disin- 
gannato come  uno  dei  cristiani  inseguitori  di  Erminia  ;  si 
sperde  non  più  negli  orti  fruttuosi  dei  suoi  desideri,  ma 
nel  funebre  recinto  delle  sue  morti. 

11  Pantheon  funebre  è  stato  eretto  per  volontà  testa- 
mentaria del  padre  di  Don  Giovanni.  Ivi  si  trova  il  re- 
jetto,  ritornato  in  patria,  irriconosciuto  ;  e  l' ombra  della 
unica  amata,  morta  dopo  la  sua  fuga,  gli  torna  evocata 
dal  dolore;  è  la  donna  non  posseduta,  l'unica  non  tocca 
dalla  mano  predace,  la  senza  macchia  nell'  anima  uèa 
alle  contaminazioni. 

Anche  l'anima  di  Patroclo  lascia  le  soglie  dell'Ade 
per  risorgere  dolorosamente  al  rimpianto  di  Achille  dor- 
mente {Iliade,  libro  23%  verso  101);  anche  Ecuba  ap- 
pariva, ombra,  a  Enea  dolorante,  (1.  2",  Eneide,  v.  776  e 
segg.);  anche  Cinzia  a  Properzio  (elegia  VII,  libro  4*^)  ;  la 
postuma  simpatia  dei  morti  ai  vivi,  che  hanno  amato, 
avendo  anche,  come  è  noto,  alle  fantasie  degli  antichi, 
consigliate  l' immaginazioni  delle  ombre  reduci,  care  a 
Shakspeare;  il  romanticismo  ne  popola  le  sue  concezioni; 
ma  già  frequenti  erano  prima  ;  ed  è  in  ciò  uno  degli  ele- 
menti, per  cui  l'arte  pagana  s'oppone  allamassiccia  sculto- 
reità  senza  incubo  dell'arte  ebraica  (9).  Innegabile  però 
che  in  pieno  800  queste  ombre  in  un  dramma  teatrale, 
non  mancano  di  dare  un  po'  d' ombra.  Inoltre,  seguendo 


—  87  — 

Dumas,  che  si  era  ispirato  alla  Lucrezia  Borgia  d'Hugo, 
Zorrilla  fa  all'allucinato  amatore  apparire  l' ombre  anche 
di  tutte  le  sue  vittime  insonni. 

L' invito  beffardo  non  è  qui  determinato  dall'  epigrafe 
insolente,  ma  da  un  puntiglio  con  la  propria  paura,  — 
ben  rispondente  al  carattere  dongiovannesco,  —  davanti 
agh  amici  Avellaneda  e  Centellas. 

Già  fu  notato  che  Don  Giovanni  è  il  tipo  più  esteriore 
per  definizione  ;  la  sua  potenza  non  riposa  in  se,  ma  ha 
continuo  bisogno  d' elementi  traverso  cui  estrinsecarsi  ; 
delle  donne  per  crearne  passioni,  degli  uomini  per  susci- 
tarne timore  e  incutervi  soggezione:  Don  Giovanni  vive 
in  un  mondo  pieno  di  specchi,  che  gli  rimandano  se  ; 
senza  quelli  egli  non  sarebbe  se  stesso. 

Davanti  ai  suoi  amici  Avellaneda  e  Centellas,  gode 
di  violentare  il  suo  sgomento  con  la  sfacciata  ostentazione 
d'oltracotanza  ;  dalla  sbigottita  stupefazione  per  il  suo  ar- 
dimento, che  suscita  in  essi,  egli  trae  esca  a  vero  ardire, 
si  sente  veramente  forte  contro  il  mistero  ;  tanto  la  vanità 
neir  uomo  può  veramente  determinare  la  realtà  di  uno 
stato  di  animo  inesistente. 

La  cena  del  secondo  atto,  salvo  quel  sentore  di  dram- 
maticità che  del  resto  è  in  tutto  il  dramma  come  un  ele- 
mento respirabile,  è  piuttosto  smorta  ;  di  Ciutti  non  si  è 
saputo  più  nulla  dal  principio  della  seconda  parte  ;  e  il 
buffone  criado  era  pur  necessario  in  queste  scene  per 
rompere  con  luccichii  di  riso  il  drammatico  già  un  po' 
macchinale,  solo  quanto  era  d'uopo  per  sentirlo  vieppiù 
e  meglio. 

Gli  amici  cadono  in  letargo,  per  volere  supremo,  al 
terribile  ingresso  della  statua,  la  quale  (nuovo  elemento  di 
meraviglioso)  non  entra,  come  altrove,  per  la  porta  aperta 


dagli  atterriti  Catalinon;  ma  filtra  come  una  macchia  tra- 
verso la  porta  asserragliata  dall'agonia  di  terrore  cui  è  in 
preda  Don  Giovanni.  Il  quale  non  conserva  nulla  della 
spavalderia  di  altie  commedie  ;  anche  traverso  l' escan- 
descenze agitate,  si  sente  che  batte  i  denti. 

Come  ogni  prepotente,  che,  ove  resti  vittima  di  alcuno 
più  forte,  ha  bisogno  a  sua  volta  di  vittime  innocenti  al 
suo  dispetto,  così  Don  Giovanni  se  la  sfoga  con  i  suoi 
commensali  Avellaneda  e  Centellas  incolpandoli  di 
avergli  preparata  la  burla  ;  ed  escono  per  battersi.  L'au- 
tore nel  terzo  atto,  ricordando  l' immaginazione  atroce 
dell'ultima  parte  deW Estudiante,  si  compiace  di  alcun 
sottinteso,  lasciato  a  bella  posta  per  uno  di  quegli  espe- 
dienti di  indiscutibile  efficacia,  onde  l'ascoltatore  viene 
indotto  a  pensare  e  a  risolvere  da  se  ciò  che  non  gli  è 
offerto  in  tutta  la  sua  spianata  semplicità.  Il  pubblico  è 
in  tal  modo  considerato  come  un  vivo  elettrode,  traverso 
cui  si  riallaccia  il  circuito  della  sensibilità  creativa;  col- 
labora, non  è  più  l'estemporale  uditore. 

Come  Don  Felix  assiste,  in  Espronceda,  ai  funerali  di 
se  stesso,  così  Zorrilla  si  compiace  di  inselvarsi  nel  de- 
dalo mentale  del  suo  Don  Giovanni  per  proiettarne  tra- 
verso il  3'  atto  le  allucinazioni. 

Don  Giovanni  ha  ucciso  in  duello  gli  amici,  oppure 
ne  è  stato  ucciso?  —  e  quest'ultime  scene  sono  un'allu- 
cinazione d'oltre  tomba  schiarata  da  ceri  di  fantasia  se- 
polcrale ?  L'autore  si  compiace  di  affaticare  gli  animi  con 
questo  dubbio,  in  cui  la  ragione  vacilla  (10). 

Le  ultime  parole  di  Don  Giovanni  siamo  preparati  a 
sentirle  di  perdono  e  pietà  :  ma  gli  apparati  decorativi  un 
po'  marionettistici  (ceneri,  ossa,  orologio  a  polvere)  che 
sembrano  voler  destare  l' illusione  di  una  notte  di  Yung, 


-  89  — 

con  r  accompagnamento  di  tutti  quegli  spettri,  tolgono 
al  nostro  gusto  di  consentue  all'  emozione  che  vorrebbe 
crearsi  : 

Si   es  verdad 

Que   un  punto  de   contrición 
Da   a   un'alma  la  salvación 
De   loda  una  eternidad 
Yo,   santo  Dios,   creo   en   ti. 

Il  perdono  è  concesso  a  Don  Giovanni  per  virtù  di 
Donna  Ines  che  ne  coglie  l' anima  e  1'  adduce  al  cielo, 
contesala  agli  spiriti  maligni  che  vi  avrebbero  maggiori 
diritti  veramente. 

L'opera  di  Zorrilla  è  un  tentativo  certo  considerevole 
di  riportare  sulle  scene  dei  tempi  nostri  Don  Giovanni 
con  tutto  il  suo  macchinario  di  leggenda.  Non  è  difficile 
prevedere  che  il  tentativo  felice  pei  gusti  spagnuoli,  che 
sembra  non  si  stanchino  di  plaudirne  la  rappresentazione, 
non  avrà  seguaci.  Don  Giovanni  è  destinato  ormai  alla 
lirica;  se  ritorna  sulla  ribalta,  bisogna  che  rinunci  alle 
decorazioni  della  fiaba  mirabolante.  Del  resto  l'opera  di 
Zorrilla  è  e  resterà  avvivata  dagli  efflati  lirici,  che  la 
imbevono,  non  dalla  vis  tragica  che  manca. 

Checche  si  dica  e  nonostante  lo  scherno  del  conte  di 
Tureno  (11),  non  so  persuadermi  che  il  poemetto  di 
Espronceda  non  sia  una  delle  più  belle  creazioni  dongio- 
vannesche. Le  coreografìe  Hriche  tra  goethiane  e  shel- 
leyane  del  Diablo  Mundo  portarono  già,  è  vero,  il  poeta 
poco  padrone  della  materia  a  delle  stuccaggini  di  mal 
gusto,  da  cui  pare  per  altro  che  lo  stesso  suo  spirito  aneli 
a  Hberarsi  in  quel  chiaro  canto  a  Teresa,  grido  dell'anima 


—  90  — 

erotto  dalle  elaborazioni  un  po'  faticose  del  poema,  come 
la  lagrima  dell'  attore  non  frenata  a  tempo.  E  vi  sono 
anche  neW Estudiante{]2)  colori  byronistici,  ma  l'affi- 
nità qui  è  più  necessaria  e  spirituale,  che  non  voluta  e 
di  mezzi. 

Onde  Byron  rinfacciatogli  qui  è  una  stonatura,  come 
chi  dicesse  che  Espronceda  ami,  pianga,  o  rida  alla 
Byron,  come  quelle  donne  romane  che  Giovenale  di- 
ceva (iV  satira)  dormire graece...  Semai,  viene  alle  labbra 
il  bel  motto  di  Voltaire  che  se  è  vero  che  Omero  ha 
creato  Virgilio,  questa  è  la  sua  creazione  più  bella. 

11  Don  Felix  di  Espronceda,  che  è  solo,  dicemmo,  un 
mutamento  di  nome  di  Don  Giovanni,  pare  veramente 
sorto  da  uno  di  quei  crepuscoh  dell'  anima  artistica,  in 
cui  la  mente,  peregrina  più  della  carne  e  men  dai  pensier 
presa,  è  quasi  talora  divina  nelle  sue  creazioni. 

Certo  in  questo  Don  Felix  dalle  parche  parole,  —  le 
quali  hanno  più  valore  pel  silenzio  in  cui  sono  sommerse, 
come  direbbe  Maeterlink  —  è  compiuto  d'un  getto  quel 
senso  tragico,  cui  De  Musset  si  affanna  di  arrivare  nei 
numerosi  suoi  Don  Giovanni  -  sosia. 

Ben  lungi  dal  credere  l'opera  perfetta,  poiché  le  solite 
artificiosità  del  gusto  spagnuolo  la  maculano  nell'ultima 
parte,  in  cui  si  hanno  aggeggi  come  il  Cristo,  la  donna 
che  è  poi  la  morte,  il  palazzo  misterioso,  gli  occhi  fissi, 
la  spirale  discendente  e  le  ridde  degli  spettri.....  e  poco 
manca  che  non  ci  sia  anche  il  diluvio  universale,  d'altra 
parte  bisogna  convenire  che  non  si  può  imprigionare  la 
sensibilità  artistica  nei  limiti  di  una  o  due  nazioni  ;  che, 
se  la  morale,  secondo  Pascal,  varia  coi  gradi  di  latitu- 
dine, non  vedo  perchè  non  si  debba  permettere  che  vari 
un  po'  anche  il  gusto  artistico. 


—  91  — 

In  ogni  grado  di  latitudine  certo  la  pazzia  di  Elvira 
sarà  una  delle  cose  più  soavi  e  belle  ;  da  potersi  confron- 
tare con  quella  di  Ofelia.  Incanto  del  verso  : 

Y  al   margen   va   del   argentado  rio 

Y  alli   las   flores  echa  de  una  en  una... 

Y  las  sigue  su   vista  en  la    corriente 
Una   Iras  otras  rapidas  pasar... 

E  una  delle  maggiori  pene  dell'  imparzialità  dover 
notar  accanto  a  versi  simili,  immagine  come  quest'altra  : 

Tu   eres,    mujer,   un  fanal 
Trasparente   de   hermosura 
i  Ay  !   de   ti   si   por  tu   mal 
Rompe  el   hombre  en  su  locura 
Tu   misterioso  cristal 

(Il  Parte). 

La  fanciulla  divina  è  paragonata  ad  un  fanale  ! 

Ritornano  però  le  note  di  miele  a  cantare  lo  strazio 
dell'  infelice  morente,  nella  lettera  all'  amato.  Il  suono 
corre  e  rende  la  liberazione  della  fine: 

i  Ah  !   para  siempre  adios.   Por  ti   mi   Vida 
Dichosa  un   tiempo   resbalar  senti 
Y   la  palabra   de   tu  boca   oida 
Extasis  celestial   fué  para   mi 

(Il  Parte). 

Don  Felix  è  fortemente  sentito  come  una  nube  che 
graviti,  prima  di  farsi  conoscere  nella  terza  delle  quattro 
parti.  Uno  dei  pregi  maggiori  dell'opera  è  questa  ripar- 
tizione in  quattro  visioni,  che  esprimono  più  che  non 
dicono  ;  isole  di  canto  in  pelaghi  di  silenzi.  Paiono  quelle 


—  92  — 

moderne  conquiste  scultorie  dell'impressionismo  di  Rodin 
in  cui  le  figure  affiorano  sul  marmo,  come  l' immagine  sul 
travaglio  del  creatore.  Il  dialogo  si  intreccia  alla  narra- 
zione, con  quei  rapidi  passaggi  agevoli  al  movimento  del- 
l' ispirazione  accelerata  —  che  tentarono  anche  il  Leo- 
pardi prosatore  (Promessa  di  Prometeo)  e,  per  esempio,  il 
Gautier  romanziere  scelse  a  forma  d'arte  nella  sua  Ma- 
demoiselle de  Maupin. 

La  breve  creazione  è  tutta  un  grumo  di  concisione 
viva,  il  quarto  quadro  si  riunisce  al  primo  come  circolar- 
mente :  il  primo  :  —  una  notte,  tragicamente  lacerata  da 
un  grido  d'  agonia,  e  un  colpo  di  corpo  che  stiamazza  : 
un  ignoto  fugge  nel  silenzio  richiusosi.  Il  secondo  :  — 
l'alba  dell'apparizione  d'Elvira,  dolce  flore  "  que  agosto 
el  amor  "  :  e  muore  tra  le  braccia  della  madre,  esalando 
con  l'anima  il  nome  amato.  Il  terzo,  l'antefatto  del  primo, 
è  una  pittura  di  costumi  maestrevole  ;  giocatori  adunati 
chiacchierano  nelle  pause  ansiose  della  sorte.  La  figura 
di  Don  Felix,  appena  appare,  risalta  sopra  le  altie  prese 
di  scorcio  come  su  una  medaglia  l'esergo. 

Galàn   de   talle   gentil 
La  mano  izquierda    apoyada 
En  el  pomo   de  la   espada 
Y  el    aspecto  varonil  ; 
Alta  el  ala  del  sombrero 
Porque   descubra   la   frente 
Con  airoso  continente 
Entrò  luego  un   cabaljero 

Basta  il  terribile  episodio  fuggevole  in  cui  Don  Felix 
vuole  impegnare  al  giuoco  con  agghiadato  cinismo  il  ri- 
tratto dell'amante,  perchè  d'un  colpo  ci  scaturisca  davanti 
la  figura  netta,  ne  chiediamo  altro.  L'arte  di  Espronceda 


—  93  — 

è  qui  in  questa  mirabile  selettività.  I  suoi  colpi  di  luce 
sono  fontane  di  vita. 

Superba  la  scena  con  Don  Diego,  il  fratello  della  vit- 
tima, che  viene  a  chiedere  vendetta  con  un  furore  così 
profondo  da  parere  calma:  l'immobilità  della  tigre  che 
medita  il  balzo.  Metallicamente  squillano  i  duri  risi  di 
Don  Felix. 

Buen  hombre,   j  de   qué  tapiz 
Se  ha  escapado  —  el   que  se   tapa  — 
Que  entra  el  sombrero  y  la  capa 
Se  OS  ve  apénas  la  nariz  ? 

Saputa  la  morte  di  Elvira  non  si  smuove,  scherza  sulla 
causa  della  morte:  "  Chi  sa  mai  qualche  febbre!  ".  "  Pen- 
sate che  venite  alla  morte  "  raucamente  l'ammonisce  Don 
Diego,  ma  quegli  serenamente  paga  la  sua  partita  e  calmo 
si  prepara  a  uscire  alla  prova.  Ma  è  l'altro  che  cade  sotto 
il  ferro  micidiale.  Il  quarto  quadro  raggiunge  nei  primi 
versi  il  primo.  Don  Diego  è  morto. 

E  l'uccisore  s'ingolfa  nella  notte.  Quando  gli  appare 
r  immagine  di  Elvira  ginocchioni,  il  poeta  non  regge  alla 
commozione  che  gli  trabocca  ;  come  già  nel  canto  a  Te- 
resa del  Diablo  Mando,  erompe  il  suo  dolore. 

Nessuno  che  non  abbia  sofferto  —  e  il  poeta  enumera, 
rattenendo  il  fiato  per  52  versi  che  sono  spasimi,  le  varie 
torture  spirituali  —  può  comprendere  il  dolore  che  viveva 
in  Elvira  ombra.  Lampeggia  il  verso  dinamicamente  su- 
blime nella  parabola  della  emozione  lirica  : 

Quien  haya  sentido   

Al   cuello  cien   nudos  echarle  el   dolor.... 


—  94  — 

Dopo  le  allucinazioni  che  sono  un  po'  per  noi  il  dor- 
mitat  del  buon  Espronceda  e  costituiscono  la  parte  prin- 
cipale della  quarta  parte  e  la  più  caduca  del  poema, 
r  autore  sa  redimere  l' impressione  un  po'  disagiata  di 
questo  lugubre  di  maniera  con  un  tocco  esperto,  ultimo 
colpo  di  pollice.  Dopo  aver  detto  della  pubblica  voce 
corsa  che  il  diavolo  era  venuto  a  rapire  Montemar,  chiude 
il  volo  del  poema  il  pacato  volutamente  trito  atterramento 
che  sa  di  fiabe  di  avi  e  sorrisi  di  ogni  giorno,  dopo 
r  affanno  estremo  della  creazione. 

Y  si,  ietor,  dijerde  ser  comento, 
Come  me  lo  contaron,  te  lo  cuento. 

Chiusa  che  approssimativamente  si  ripete  in  molte 
romanze  e  poemetti  fiabeschi  del  romanticismo  spagnuolo, 
ed  è  quasi  un  vezzo  ;  ma  qui  ha  tutt'altro  sentore  ;  sembra 
tagliare  gli  ultimi  ligamenti  dell'opera  col  cervello  autore 
e  adombra  il  sorriso,  un  po'  triste  e  un  po'  ironico,  dello 
spirito  uscito  incolume  dal  tormento  —  qui  così  lugubre  ! 
—  della  crecizione  d'arte. 

Del  1 872  è  il  Don  Juan  di  Campoamor  (13)  che  con- 
sidererò anacronisticamente  prima  del  Nuevo  Don  Juan 
di  D'Ayala.  Fa  parte  dei  "  Pequenos  poemas  ",  e  nella 
evoluzione  del  concetto  dongiovannistico  precede  la 
commedia  suddetta. 

La  capitolazione  di  Don  Giovanni  è  cominciata.  Rag- 
giunto l'acme  della  potenzialità  tragica  comincia  la  pa- 
rodia. Non  c'è  montagna  senza  valle. 

La  sua  autorità  tentenna;  l'insofferenza  degli  spiriti 
non  lascia  in  pace  nemmeno  le  proprie  creazioni;  ai  tempi 


—  95  — 

del  pellicano  di  De  Musset,  si  sono  alternati  quelli  del 
cuculo  che  rompe  le  uova  del  proprio  nido. 

Don  Giovanni  è  vecchio  ;  passa  ormai  il  tempo  miran- 
dosi la  lingua  in  uno  specchio,  prigioniero  dei  reumi  in 
Cartagena, 

L'autore  è  già  libero  dall'ossessione  tragica  di  Espron- 
ceda  e  De  Musset;  sorride.  Dalla  delusione  emotiva  di 
Gautier,  in  cui  Don  Giovanni  riconosce  di  aver  sbagliato 
la  sua  vita  e  appare  con  la  schiena  arrotondata,  gemendo 
la  vanità  dei  suoi  errori,  alla  delusione  comica  di  Cam- 
poamor  ;  dal  compartecipe  decadimento  che  è  in  quello 
all'estranea  berHna  di  questo,  il  legame  è  vicmo.  Gran 
differenza  e  facilmente  riconoscibile  fra  là  satira  byroniana 
e  l'umorismo  di  Campoamor.  Nella  prima,  Don  Giovanni 
è  r  elemento  suscitatore  della  satira,  e  come  tale  esso  è 
integro,  inaccessibile  ;  nel  secondo.  Don  Giovanni  è  con- 
tagiato lui  stesso  dal  malore  del  ridicolo ,  egli  stesso  è 
schiacciato  burlescamente  sotto  le  rovine  delle  sue  burle. 
Don  Giovanni  di  Campoamor  è  il  Don  Giovanni  di 
Byron,  fatto  vecchio  :  "  Cuando  el  Don  Juan  de  Byron 
se  hizo  viejo ". 

L'amoreggiatore  nel  primo  dei  due  canti  del  poemetto 
si  congeda,  vecchio  ormai,  dalle  sue  cinque  ultime  amanti, 
di  cui  ricorda  il  nome  :  una  per  paese  :  Caterina  Ariosto, 
Fanny  Moore,  Giulia  Calderon,  Margherita  Goethe,  Luisa 
Chenier  ;  a  ognuna  scrivendo  la  stessa  lettera  con  la  po- 
ligrafica chiusa  : 

El  sér  que  mas  te  ha  amado  y  que  mas   te   ama. 

Ad  ognuna  delle  internazionali  amanti  è  dedicato  un 
allegro  ritratto  dell'autore.  La  prima,  malata  di  emicrania 
e  amor  cronico  ;  la  seconda  diffìcile  all'amore  ma  in  esso 


—  96  — 

tenace;  la  terza  sentimentale  e  una  specie  di  religiosa 
dell'amore,  che  si  fa  perdonare  l'insigne  "  buena  fé  de 
BUS  traiciones  "  ;  la  quarta  piena  di  latino  greco  e  illusioni 
erotiche  ;  la  quinta  cingallegra  civettuola,  militarista  ap- 
passionata. 

Tutte  e  cinque  rispondono  con  un  espressivo  "  Voy  " 
che  imbarazza  un  po'  l'esule  d'amore,  che  fa  valige  per 
far  perdere  le  sue  tracce  non  più  sufficientemente  ma- 
scoline. 

Ma  i  cinque  "  Voy  "  non  erano  tutti  così  rapidi  all'atto 
quanto  all'  espressione  :  quattro  si  risolvono  in  "  Quedo  "  ; 
tanto  è  vero  che  il  fatto  è  la  lingua  più  difficile  da  tradurre 
il  detto.  Ma  GiuHa  fedele  a  se  stessa  ha  seguito  ;  e  qui 
fuga  e  inseguimento  hanno  dell'esilarante  e  caricaturistico 
irresistibile.  Finalmente  quando  il  troppo  amato  crede  di 
essere  fuori  di  pericolo  e  nascostosi  in  una  cava  si  rima- 
stica la  bella  burla,  ecco  scoppiargli  addosso  la  soprav- 
venuta che  lo  abbraccia,  e  gli  abbracci  son  così  violenti 
che  il  poveretto pur  non  dissueto  ad  essi,  muore  sof- 
focato. Il  gigante  ucciso  dal  morso  del  granchiolino!  Fin 
qui  il  primo  canto:  "Las  mujeres  en  la  tierra".  11  se- 
condo :  "  Las  mujeres  en  el  cielo  ". 

Qui  il  troppo  insistere  nello  schei-zo  che  non  è  l'arma 
più  agevole  al  poeta,  lo  porta  a  qualche  storditaggine;  il 
quadro  di  quest'altro  mondo  di  cartapesta  avrebbe  do- 
vuto, per  reggere,  essere  mantenuto  in  un'atmosfera  ne- 
gativa di  sorriso  che  non  a  tutti  è  dato  creare;  l'umorismo 
essendo  il  più  impalpabile  di  tutti  i  gas,  che  se  è  sano, 
lo  si  respira  senza  avvertirne  che  il  benessere;  se  lo  si 
sente  troppo,  vuol  dire  che  sano  non  è.  E  qui  lo  si  sente 
un  po'  più  del  necessario  in  quel  dissidio  che  è  tra  la 
grande  considerazione  che  il  poeta  ha  —  e  tanta  parte 


—  97  — 

delle  sue  "doloias  "  ne  è  ispirata  —  per  la  gentilezza  del 
sesso  femminile,  e  l'abito  che  ora  si  è  imposto  di  caustico 
motteggiatore:  scioglie  un  inno  —  e  non  per  ridere  —  al 
cuore  femminile  : 

Veo  en  el  hombre  el  corazón   hutnano 
Y   en   la   mujer  el   corazón   divino  ; 

e  immagina  inoltre  che  per  rialzare  nella  bilancia  della 
giustizia  divina  il  piattello  troppo  pesante  del  male  di 
Don  Giovanni,  le  cinque  amanti  chiedano  a  Dio  di  ver- 
sare i  loro  meriti  sul  piattello  quasi  vuoto  del  bene.  Quattro 
di  queste  sono  state  presentate  già  per  molto  inclini  alla 
Belcolore,  e,  nonostante  l'offerta,  non  si  smentiscono  :  nel 
piattello  del  bene  pongono  dei  menti...  nientemeno  come 
quello  di  aver  obbedito  ai  maggiori,  in  quanto  vollero  ciò 
che  esse  vollero  o  di  aver  sacrificato  il  piacere  alla  pi- 
grizia o  di  aver  preferito  il  Dio  Milione  al  Dio  Apollo 
o  di  non  aver  ascoltato  un  amante  non  amato,  e  simili. 
Ma  Giulia  dà  tutta  se  stessa,  paga  dell'inferno,  per  la  gioia 
di  aver  procurato  il  paradiso  all'amato.  L'umorismo  con- 
tenuto m  questa  ridicola  oblazione  di  meriti  delle  quattro 
donne  mal  caletta  con  quell'apologia  sincera  delle  doti 
muliebri,  come  due  voci  che  cantino  insieme  per  conto 
proprio;  anche  poi  in  se  stesso,  questo  episodio  non  crea 
riso,  per  voler  dir  troppo.  Facendo  deporre  sulla  bilancia 
un  merito  che  non  è  un  merito,  l'azione  nega  l'intenzione; 
la  scintilla  del  riso  non  prende.  L'azione  non  deve  mai 
distruggere  l'intenzione,  altrimenti  il  riso  donde  spilla? 
Non  parrà  solìstica  questa  distinzione;  per  esemplificare, 
se  IO  dico  che  un  tale  credendo  di  compiere  un'azione 
magnanima,  fugge,  il  riso  dov'è?  Ben  lo  si  sente,  ove  io 

7  —  F.  FuÀ,  Don  Giovanni. 


—  98  — 

dica  che  Don  Quijote,  per  compiere  impresa  degna 
di  cavaliere,  combatte  coi  mulini  .a  vento,  e  si  batte  col 
suo  barbiere. 

Giulia  pertanto  è  dannata  per  Don  Giovanni,  il  quale 
modestamente  pensa  che,  se  fosse  stato  donna,  avrebbe 
fatto  lo  stesso,  ed  entra  nel  cielo  come  in  un  salotto,  a 
testa  alta,  quasi  regalasse  la  veduta  di  se  ai  Serafini  in- 
cantati. Coreografìa  troppo  quadrata  per  essere  umoristica: 
—  così  la  passeggiata  di  Giulia  con  Eva  (mirabile  dictu!) 
alle  porte  del  cielo  ;  sebbene,  l' incontro  di  Giulia  con  la 
madre  del  genere  umano  nell'inferno  non  era  di  mal  gusto. 

Ma  non  sarà  bene  estenderci  più  oltre  nella  conside- 
razione di  questo  "  pequeno  "  poema  d' importanza  non 
molto  maggiore  delle  sue  pretese. 

Anteriore  nel  tempo,  la  commediola  di  Lopez  de 
Ayala  (14):  El  nuevo  Don  Juan  del  1863,  compie  del 
personaggio  una  degradazione,  da  cui  Campoamor  si  sa- 
rebbe tenuto  lontano. 

Ideologicamente,  il  Nuevo  Don  Juan  è  l'ultima  fase 
spagnuola  della  concezione  dongiovannesca  :  l'imparenta- 
mento  del  Burlador  con  Falstaff. 

Dopo  di  essa,  non  mancava  che  il  naufragio  assoluto 
di  Janqueiro  (15). 

11  processo  dello  svaloramento  è  facilmente  seguibile  : 
in  Campoamor,  che  ragionatamente  abbiamo  considerato 
prima  di  Lopez,  l'umorismo  investiva  tutta  la  tenue  con- 
cezione, brinandola  di  brio,  senza  intenzionale  negazione, 
ma  quasi  per  un  esercizio  di  umorismo  ;  da  Ayala,  Don 
Giovanni  è  senz'altro  preso  di  mira,  smascherato  come 
un  Tartufo,  messo  in  contrapposto  alla  vittoriosa  e  seria 
rettitudine  di  quelli,  che  avrebbero  dovuto  essere  le  sue 


—  99  — 

vittime.  Lopez  de  Ayala  che  può  dirsi  alla  Spagna, 
quel  che  Ferrari,  Rovetta,  Giacosa,  all'  Italia,  si  fa 
sgabello  di  Don  Giovanni  per  arringare  le  folle  perdute 
dietro  meteore  di  stravaganze  e  riportarle  al  lare  della 
moralità.  11  teatro  moralista  non  poteva  che  vedere  in 
Don  Giovanni  1'  avvelenatore  delle  tepide  mense  casa- 
linghe, il  cultore  dei  "  vicios  poeticos",  e  l'autore  non 
risparmia  la  sua  pietra  contro  il  despota  fatto  vittima. 

Ma  il  pregiudizio  morale  è  un  terribile  pencolo  per 
l'arte  :  perchè  vi  sono  purtroppo  anche  i  miasmi  della 
virtù  ;  e  l'arte  educativa  corre  spesso  il  repentaglio  di 
"  se  casser  le  nez  ",  come  il  ragionamento  di  Sganarello. 
Certo,  mani  di  vetro  deve  avere  l'autore  che  si  arrischia 
a  tesi  morali  e  protettrici  del  buon  costume  ;  giacche 
purtroppo  l'uomo  è  fatto  così,  che  Satana  comunque  gli 
appaia,  l' interessa  abbastanza  ;  ma  Dio,  lo  vuole  vestito 
in  un  dato  modo,  se  no,  nessuna  religione  gli  impedisce 
di  sbadigliare  piamente. 

Mi  pare  che  sia  grave  errore  in  tali  casi  esaurire  tutta 
la  sostanza  dell'  argomento  nell'  espressione  ;  dire  tutto, 
smantellare  le  proprie  batterie  :  il  lettore  o  lo  spettatore 
certi  ragionamenti  vuole  ricavarli  lui,  sentiti  lo  annoiano  : 
tant'è,  la  bontà  tra  le  doti  umane  non  è  forse  l'unica  che 
all'uomo  dispiaccia  di  sentirsi  lodare  da  altri? 

Così,  più  morale  forse,  effettivamente,  del  Nuevo  Don 
Juan,  che  senza  essere  proprio,  mi  pare,  una  poverissima 
cosa,  pur  non  ha  nulla  di  straordinario  e  talora  la 

punta  del  cappuccio  di  quella  benedetta  tesi  morale  am- 
micca alquanto  (es.,  nel  sermoncino  di  Elena,  verso  la 
fine  della  scena  IX,  atto  1°),  —  è  il  dramma  francese 
del  1 902  :  Le  Marquis  de  Priola  di  Lavedan  ;  che  pure 
ha  un  alto  e  umano  significato  morale,  ma  come  è  più 


—  100  — 

rispondente  al  tempo  e  alla  nazione,  conserva  una  perfetta 
correttezza  di  azione  che  non  si  sfibra  in  conrimenti,  ma 
compatta  e  lucida  procede  m  tesi  tendini  di  energia,  ne 
r  intenzione  vi  si  sbottona  con  quella  provinciale  compia- 
cenza, come  in  Ayala.  Sarebbe  stiracchiatura  un  parallelo 
fra  due  autori  che  han  così  poco  a  vedere  l'un  l'altro, 
se  le  due  differéntissime  opere  non  raffrontasse  una 
certa  affinità,  inconsapevole,  nell'intenzione  e  in  alcuni 
particolari. 

L'opera  di  Lavedan  non  per  nulla  è  francese  e  molto 
moderna  ;  il  suo  Marquis  de  Priola  ricorda  che  dietro  di 
lui  c'è  un  passato  di  Gautier,  di  Balzac,  di  Zola,  anche  : 
stratificazioni  sentimentali  che  non  si  sgretolano.  Tra  Don 
Juan  de  Alvarado  e  il  Marquis  de  Priola,  tipi  di  Don 
Giovanni  vinti,  vi  è  perciò,  verbigrazia,  la  distanza  che 

tra  la  lampada  ad  olio  e  la  luce  elettrica 11    nuevo 

Don  Juan  inoltre  è  il  capitombolo  pagliaccesco  di  Don 
Giovanni,  il  Marquis  de  Priola  ne  è  il  detronizzamento 
solenne  e  drammatico.  Ma  in  fondo  è  pur  curioso  notare 
come  l'uno  e  l'altro  faccian  cadere  i  loro  eroi  troppo  bal- 
danzosi in  un  tranello  donnesco  :  entrambi,  nell'  inten- 
zione, celebrano  la  incolume  virtù  di  Elena  l'uno,  di 
Madame Savières l'altro,  entrambi  vogliono  significare  la 
superiorità  delle  virtù  dell'amore  puro  (Madame  Le 
Chesne  —  PaoHna)  sulle  violenze  rapaci  dell'ambizione 
inanime.  Salvo  che  il  buon  tecnico  Lavedan  non  si  li- 
mita all'  elogio  più  o  meno  sottinteso  della  virtù  o  della 
famiglia  :  nessun  sapore  di  catechismo  o  di  lesso...  :  ma 
d'un  magnifico  colpo  di  luce  scopre  la  visione  della  ne- 
mesi per  così  dire  fisica;  non  la  morte  liberatrice,  ne 
più  la  punizione  mistica  d'oltre  tomba;  ma  l'atroce  per- 
cossa mutilatrice  sulle  membra  che  seppero  i  baci,  rat- 


—  101  — 

trappite  ora  dallo  scherno  della  paralisi.  Traverso  il  bollo 
a  fuoco  di  questa  chiusa  che  ne  marchia  1'  anima  di  do- 
loroso stupore,  il  significato  morale  si  fa  strada  insensi- 
bilmente, come  il  ferro  nella  piaga  cauterizzata. 

Psicologicamente  acuta  m  Lopez  la  scena  XII,  atto  I", 
in  cui  Don  Giovanni  subodora  il  tranello  che  gli  è  teso 
e  fa  appello  a  quella  risorsa  già  elementarmente  in  Moreto 
("Desden  por  desden  "  scena  IV,  giorn.  2");  —  fingendo 
di  rifiutare  l'infinta  offerta  di  Elena,  le  confessa  il  suo 
amore  per  un'altra. 

Perfetta  in  Lavedan  la  scena  III,  atto  2'\  fra  il  Marquis 
e  Madame  de  Villeroy,  in  cui  quegli  che  l'ha  indotta  a 
offrirsi,  la  mortifica  con  perversa  malignità,  rifiutandola 
in  bel  modo  (16). 

L'amore  muore  senza  più  speranza  in  Madame  Le 
Chesne,  allo  smascheramento  del  Marquis  ;  muore  allo 
stesso  modo  l'amore  di  Paolina,  in  Ayala.  Nell'uno  e 
nell'altro  compatibilmente  col  temperamento  e  il  tempo, 
le  scene  amatorie  sono  le  migliori;  poiché  lo  stesso  Lopez 
non  gli  spiace,  quando  la  sua  tesi  non  lo  guarda,  di  spriz- 
zare un'occhiatina  dolce  al  suo  Don  Giovanni,  che  da- 
vanti a  tutti  non  si  ritiene  dallo  svergognare. 

Notammo  altrove  come  il  tipo  vitale  di  Don  Giovanni 
sia  cristallizzato  in  maschera  in  Lopez  de  Ayala. 

Distrutta  la  leggenda,  scrollati  gli  anni,  col  suo  nome 
e  la  sua  fama,  eccolo,  come  nulla  fosse,  in  mezzo  alla  vita 
moderna,  tormento  delle  giovani  e  leggiadre,  sgomento 
delle  madri  e  dei  manti,  armato  del  sottile  scherno  e 
profumato  della  più  fine  essenza  d'amore. 

Ma  nel  fatto,  1'  eccezionalità  stessa  di  Don  Giovanni 
e  la  sua  vitalità  artistica  ne  impediscono  il  disseccarsi 
definitivamente  in  maschera.  In  maschera  si  congela  ogni 


—  102  — 

tipo  da  psicologico  passando,  per  così  dire,  a  fisionomico, 
quando  il  significato  interiore  risale  alla  superficie  e  si 
rarefa  in  un  tratto  mimico  e  caratteristico  ;  dalle  sorgenti 
vive  dell'anima  della  folla  ecco,  nel  nostro  600,  rampol- 
lare le  incoscienti  riproduzioni  del  "  miles  gloriosus  "  plau- 
tmo  attraverso  i  Capitani  Spaventa,  Coccodrillo,  Spez- 
zaferro.  Rinoceronte,  ecc.,  ecc. 

Ma  Don  Giovanni,  se  lo  si  vuol  considerare  come 
maschera,  bisogna  porlo  in  una  gerarchia  superiore,  più 
vicino  alla  rappresentazione  simbolica,  come  quella  di 
Satana  che  pur  talora  si  può  umiliare  a  maschera  nel  senso 
convenuto,  che  non  ai  tipi  suddetti  e  multipli  che  rap- 
presentano un  carattere  estemporaneo,  e  non  disturbati  da 
nessuna  scossa  di  artistica  creazione,  si  sono  potuti  a  loro 
bell'agio  cristallizzare  definitivamente  in  maschera. 

Pertanto  in  questa  commedia,  poiché  la  buffoneria  del 
criado  è  sostituita  da  quella  del  padrone  e  il  distacco 
dai  suoi  elementi  originali  di  vita  è  completo.  Don  Gio- 
vanni appare  senz'  altro  una  maschera,  specie  per  la 
semplicità  di  taluni  suoi  atti  veramente  ridicoli  ;  —  fi- 
gura viva  appena  in  qualche  momento,  nel  buon  tratto 
della  passione  suscitata  in  Paolina. 

Venendo  al  nodo.  Don  Giovanni  De  Alvarado  sostiene 
la  parte  del  diavolo  (ma  un  povero  diavolo  !)  contro  l'an- 
gelico sinodo  familiare  :  levata  di  scudi  in  nome  della 
tranquillità  contro  ogni  forma  di  intemperanza  più  o  meno 
elegante. 

L'autore  non  consentirebbe  agevolmente  ai  corrosivi 
decreti  della  satira  di  Grabbe.  Al  Don  Giovanni  di  Grabbe 
che  dal  culmine  della  sua  autonomia  di  maschio  insultava 
ai  presepi  della  nostra  mediocrità:  "  quanto  tempo  ancora 
prima  che  il  signor  Ottavio  parli  del  mantello  e  del  ber- 


—   103  — 

retto,  della  procreazione  e  educazione  della  prole?  Che 
gente  miserabile!"  (atto  2",  scena  111),  Ayala  oppone  le 
sue  savie  parole  per  bocca  di  Diego  :  "  Don  Giovanni, 
non  sa  lei  che  il  bene  e  la  pace  di  una  famiglia  son  cose 
che  tutto  il  mondo  rispetta"?  (atto  2",  scena  V). 

Si  consola  altrove  lo  stesso  interpellante  con  le  parole 
non  troppo  convincenti  in  bocca  sua: 

Tan  bien  los  maridos 
Solemos  tener  ingenio 

(Atto    I",  Scena  VII), 

oppure  : 

No  siempre   ha  de  estar 
En  ridiculo  e!   marido 

(Atto  2".  Scena  XXVI). 

Don  Giovanni  finora,  ardito,  bello,  prode  :  il  suo  pen- 
nacchio e  la  sua  spada,  emblemi  del  suo  potere  ;  ora  soffre 
di  tremarelle  che  danno  occasione  ad  alcuni  brillii  di 
spirito;  come  al  principio  della  scena  XI,  atto  1",  tra  lui 
e  Gii  il  servo  di  Diego  : 

—  Como  ?  està  en  casa 

E!  marido  ?   (alarmado  J;  en  Voz   haja) 
—   No,  senor. 

—  Entonces   por  que   me   hablas 
Tan   quedo  ?  (alzando   la   voz). 

Ma  sarà  bene  riassumere  la  commedia.  —  Diego  e 
Elena  sono  due  buoni  coniugi  che  si  bisticciano  talora, 
ma  non  per  questo  si  amano  meno  :  se  Diego  è  un  po' 
geloso,  Elena  non  se  l'ha  a  male,  che  : 

En  la   mesa   de  Amor 
Los  celos  son  el  salerò 

(Atto   1",  Scena  II). 


—   104  — 

Ma  il  giorno  del  terzo  anniversario  delle  nozze,  a  Don 
Giovanni  salta  in  testa  di  turbare  il  blando  tubamento 
coniugale.  Col  pretesto  di  una  lettera  della  mamma  di 
Elena  da  consegnare  a  questa,  mentre  invece  è  una  di- 
chiarazione d'amore,  entra  nella  casa  e  riesce  con  arte  a 
portar  dell'inquietudine  nell'animo  della  signora,  cui 
si  ripromette  far  seguire  l' amore.  Il  marito  accortosi, 
pensa,  dopo  aver  dato  in  smanie,  di  prendere  le  cose  pel 
lato  del  ridicolo,  come  le  allegre  donne  di  Windsor  ;  lo 
invita  a  casa  per  giuocargli  un  tiro,  che  Don  Giovanni 
evita  con  destrezza  portando  il  colpo  sopra  Elena  stessa, 
a  cui  dichiara,  come  si  accennò,  che  non  è  lei  che  egli 
ama  :  cosa  che  esaspera  di  vergogna  la  donna  ;  e  le  ag- 
giunge la  mortificante  notizia,  con  la  prova  di  una  lettera 
a  una  Paz,  che  il  marito  la  tradisce. 

Don  Giovanni  ha  detto  che  ama  Paolina,  giovinetta 
amica  di  Elena,  che  è  veramente  innamorata  di  lui.  Egli 
si  destreggia  fra  le  due,  mirando  alla  signora  che  vuol  sua, 
e,  approfittando  della  partenza  del  marito,  si  introduce  di 
sera  nelle  stanze  di  lei  ;  ma  il  marito  torna  indietro  e  il 
conquistatore  finisce  in  un  armadio.  Donde  la  bontà  di 
Paolina,  cieca  d'amore,  lo  trae,  per  offrirgli  il  suo  perdono 
e  confermargli  il  suo  amore  che  la  disonesta  condotta  di 
lui  non  ha  diminuito,  lei  che  spera  sempre  nel  suo  rav- 
vedimento. 

Le  cose  paiono  rimesse,  con  un  fidanzamento,  in  ordine: 
ma  Don  Giovanni  scompiglia  tutto  con  un  nuovo  attacco 
all'onestà  di  Elena,  cui  di  nascosto  dà  una  lettera  molto 
sfacciata,  che  ella  mostra  al  marito  per  rompere  l' incan- 
tesimo che  il  seduttore  ha  tessuto  intorno  a  se  a  masche- 
rare le  sue  intenzioni.  Il  malcapitato  è  messo  alla  porta, 
con  gran  soddisfazione  di  tutti  e  liberazione  di  Diego. 


—  105  — 

È  inserito  il  particolare  di  un  altro  attentato  da  parte  di 
Don  Segundo,  amico  di  casa,  all'onore  di  Diego  :  anche 
questo  sventato  a  tempo. 

La  commedia  termina  con  la  vittoriosa  esclamazione 
di  Elena  a  Paolina  e  a  Diego  : 

Nada  esperes  de   un   Don  Juan, 
Nada   temas   de   tu   E.lena 

(Atto  3",   Scena  ultimaV 

Diego  è  il  solito  marito  dabbene  sulla  cui  fronte  hanno 
giuocato  da  tempo  le  spiritosaggini  da  operetta  della 
commedia  più  giornaliera.  La  sua  gaglioffaggine  ha 
modo  di  indiscutibilmente  palesarsi  in  più  punti  ;  massime 
là  dove  abbocca  all'amo  di  Don  Giovanni  (atto  2", 
scena  V),  e  si  sprofonda  in  protestazioni  di  stima,  e  si 
rimorde  dei  sospetti  precedenti,  il  buon  uomo  !  Se  il  ci- 
mier  di  Cornovaglia  gli  è  risparmiato  questa  volta,  non 
è  merito  suo... 

Del  resto  è  gustosamente  verosimile.  A  Don  Giovanni, 
che  gli  dice  di  adorar  Paolina,  lui  che  credeva...  molto 
peggio  : 

'Amela  usted, 

'Amela  usted.   No  se  encuentra 

Mas  digna.   Si  es  un   pedazo 

De   cielo 

(Alto  2",  Scena  V). 

La  sua  storditaggine  è  tale,  che  nemmeno  si  avvede 
degli  approcci,  che  —  sott'acqua  -  attenta  Don  Segundo 
alla  sua  Elena.  E  il  servo  Gill  che  li  subodora. 

Està 
Don   Segundo   me   revienta 

(Atto  2",   Scena  1). 


—   106  — 

Ma  questa  perla  di  dabbenuomo  coniugato  che  poi 
alla  fine  riesce  vincitore,  non  menta  che  ci  si  dilunghi 
oltre  ;  ce  l'hanno  affatturati  in  tutte  le  salse  e  sommini- 
strati a  tutti  1  pasti  ormai,  questi  mariti  di  palcoscenico, 
che  non  hanno  nemmeno  la  fortuna  di  essere  le  pernici 
di  Enrico  IV  ! 

Anche  Elena  che  vorrebbe  essere  una  Penelope  non 
è  che  una  mezza  tinta  :  significa  poco.  Paolina  ha  dei 
buoni  tratti,  quando  nella  scena  ,VI1I,  atto  1  ",  svela  la 
sua  passione  all'amica,  esponendolene  delicatamente  i 
sintomi  : 

Siento    en  el  alma 
Un  piacer  que  causa  pena 
Una  pena  que   me   halaga 
Y     una  inquietud  tan    sabrosa 
Que  vale  mas   que  la   calma. 

Don  Giovanni  nella  scena  IV  dell'atto  1  '  riesce  talora 
eloquente,  quando  determina  la  confusione  in  Elena  con 
gli  abbarbaglii  delle  lodi  :  non  si  prevedrebbe  il  capi- 
tombolo che  lo  aspetta.   Egli  insinua  i  suoi  complimenti 

sotto  il  mentito  riferimento  delle  parole  materne  : 

\ 

Si   viera  usted   lo   que   vale 

Mi   Elena 

La  luz  en  sus   ojos  arde 
Con   que   el   alba  resplcndece  ; 
Cuando   los  baja,   parece 
Que  va  cayendo    la  tarde 


Cui  la  donna  con  sovrassalto  ben  reso 

i  Ah,    madre  !    no   lo   dirà 
De  ese   modo. 


—  107  — 

In  questa  e  nella  scena  notata  XI,  atto  I"  (il  tranello 
sventato)  si  possono  riconoscere  i  soli  momenti  dongio- 
giovanneschi  di  questo  eroicomico  personaggio,  cui  al- 
trove e  nel  complesso  l'autore  si  è  compiaciuto  di  dare 
sgambetti,  lui  che  decisamente  parteggia  per  Diego  ! 

Oramai  non  restava  che  un  ultimo  elemento  a  dare  il 
tracollo  alla  supremazia  di  Don  Giovanni  :  da  dissolutore 
di  felicità  di  focolare,  farlo  vittima  di  bufera  famigliare  ; 
da  lìgliuol  prodigo,  padre,  e  padre  infelice. 

Padre  ci  era  apparso  già  nella  novella:  L'elixir  de 
longue  vìe  di  Balzac  (  1 830)  ;  ma  padre  solo  esterior- 
mente :  nessuna  scissione  della  compattezza  atomica  del 
suo  egoismo  essenziale  :  nessun  intenerimento  della  cor- 
teccia coriacea  dei  suoi  nervi  sereni. 

Ma  r  ispirazione  della  commedia  di  Heyse  (1 833)  già 
aveva  iniziato  il  capovolgimento  :  Don  Giovanni  e  padre 
essendo  due  concetti  antitetici,  che  non  possono  sussistere 
se  non  l'uno  o  l'altro.  Don  Giovanni,  nella  "  Don  Juans 
Ende  ",  esercita  la  lima  della  sua  insidia  contro  suo  figlio 
stesso,  per  odio  al  puro  e  reciproco  amore  di  questo  per 
Ghita  già  presa  di  mira  dalla  sua  cupidigia  ;  divide  con 
arte  i  due  cuori  seminandovi  il  sospetto  ;  poi  il  padre  ri- 
prende il  sopravvento,  ma  quando  il  danno  è  già  com- 
piuto e  i  due  non  hanno  voluto  sopravvivere  al  loro  a- 
more.  Allora,  stroncato  dal  colpo  da  lui  stesso  portato, 
il  vecchio  Don  Giovanni  si  precipita  giù  dal  Vesuvio, 
per  trovar  pace  tra  le  fiamme. 

Padre  si  rivelerà  lui  stesso,  il  Marquis  De  Priola,  —  e 
nella  paternità  è  la  sua  pena,  —  mentre  la  paralisi  inci- 
piente gli  contorce  le  parole  disperate  nella  gola,  —  sulla 
fine  del  dramma       ,  al  giovane  Morain. 


—  108  — 

In  Spagna,  nel  1892,  nel  dramma  di  quel  poliedrico 
ingegno  :  Echegaray  y  Eizaguirre  :  El  hijo  de  Don  Juan 
rappresentato  senza  grande  fortuna,  questo  argomento 
della  paternità  redentrice  di  Don  Giovanni  viene  defini- 
tivamente trattato  :  Don  Giovanni,  logoro  dal  vizio,  ha 
messo  al  mondo  un  figlio  malato  e  idiota,  e  la  sua  pena 
è  nel  grido  di  dolore  che  questa  vittima  lancia  contro  il 
passato  di  lui  (1  7). 

Don  Giovanni  è  completamente  sostituito  dal  tipo 
padre  in  questo  dramma  cui  non  indarno  han  fatto  ap- 
parizione gli  Spettri  ibseniani.  Da  forza  disgregatrice  si 
è  elevato  a  umanità  dolorosa,  sotto  il  labaro  di  una  tesi 
scientifica  cara  a  teatri  recenti  (  1 8). 

Dalla  liscia  superficiaHtà  di  avventuriero,  dalla  con- 
chiusa unicità  sentimentale  senza  falle,  rotante  intorno  al 
proprio  io,  si  è  man  mano  approfondito  in  pensosità  di 
dolore,  sdoppiato  in  commentatore,  in  rinnegatore  di  se 
stesso,  fino  a  capovolgere  il  suo  sacrilego  riso  in  sacra 
disperazione,  il  suo  egoismo-tipo  di  maschio  in  altruismo- 
tipo  di  padre. 

Ma  rifrattosi  attraverso  le  fantasie  drammatiche  di 
autori  contemporanei,  il  tipo  dongiovannesco  di  cui  ab- 
biamo distinta  e  seguita  nei  tratti  essenziali  e  più  irridu- 
cibili la  carriera  spirituale,  si  immilla  in  una  genealogia 
di  rappresentazioni  affini  più  o  meno  colorite  di  tipi,  fra 
i  quali  trasceglieremo  per  la  nostra  osservazione  due  del 
teatro  di  Benavente,  uno  dei  più  fortunati,  se  non  dei 
più  originali,  drammaturghi  viventi  di  Spagna,  che  da 
poco  è  stato  fatto  conoscere  anche  sulle  nostre  ribalte. 

La  fantasia  di  Benavente  non  è  lirica  ne  tragica  come 
quella  del  grandissimo  Villaespesa,  che  noi  dovremmo. 


—  lOQ  — 

mi  sembra,  imparare  a  gustare,  noi  italiani  che  ci  siamo 
un  po' troppo  obliati  nei  giardini  di  Armida  della  ultima 
poesia  francese.  La  fantasia  di  Benavente  è  più  vicina  al 
pubblico,  talora  più  casalinga.  Pure  il  suo  capolavoro: 
Los  intereses  creados,  rappresentato  al  teatro  Lara  di 
di  Madrid  per  la  prima  volta  il  9  dicembre  1907,  e  teste 
esperimentato  anche  sulle  nostre  scene,  è  assai  ardita 
violentazione  delle  abitudini  tonico-digestive  di  tutte  le 
platee  mortali  ;  nella  sua  stilizzazione  di  tipi  risponde 
al  Théàlre  aux  Chandelles  di  Henri  De  Régner;  pre- 
lude a  talune  scarnifìcazioni  teatrali,  gabellate  per  ce- 
rebralismi (ahimè),  del  teatro  nostro  dell'ora,  quello  che 
non  durerà  di  più 

Stanchi  di  trattar  anime,  si  maneggiano  pupi!...  Lo 
stesso? 

In  questa  commedia  di  maschere,  Crispino,  servo 
del  sentimentale  Leandro,  con  psicologica  abilità  di 
stratega  creando  dal  nulla  laute  finanze  e  fortune  a  se  e  al 
padrone  e  servendosi  a  ciò  sopratutto  della  gran  copia 
di  fervidi  entusiasmi  e  di  passionalità  vera,  che  gonfia 
l'altro  ed  è  invece  in  lui  congelata  in  riso  di  corno, 
—  è  lui  il  fine  dongiovannesco   tipo  di  asentimentale. 

Rivelatrice  la  scena  ultima  dell'atto  primo,  ampia'  di 
simbolo  sotto  il  risultato  delle  parole,  in  cui  Leandro  e 
Silvia  che  evadono  in  estasi  d'amore  e  di  canto  come 
prigionieri  di  un  sortilegio...;  ma  ecco  li  veglia  dall'ombra 
la  tinnente  risata  del  Mefìstofeletto  : 


]  Noche,  poesia,   locuras  de  amante  ! 

j  Todo   ha  de  servirnos,   en  esla  occasion  ! 

i  El   triunfo  es  seguro  !   Valor  y  adelante  ! 

t  Quién  podra  vencernos  si  es   nuestro  el  amor  ? 


—  no  — 

Già  in  Rosas  de  otono,  cimentatasi  il  1 3  aprile  1 905 
al  teatro  Espafiol,  Benavente  si  provava  ad  un  tipo  di 
Don  Giovanni  (Gonzalo),  il  quale  però  mi  dà  l'impres- 
sione di  una  coppia  di  addendi  senza  somma,  che  sono  : 
un  dabbenuomo  che  viene  accompagnato  dall'autore 
poco  accorto  fin  nelle  sue  retrostanze,  giovialone  non 
scevro  di  risentimenti  giovanili  davanti  all'elemento  non- 
lui,  ed  una  larva  di  uomo  fatale  che  non  si  riesce,  per 
guardar  che  si  faccia,  a  ravvicinar  tanto  all'altro  da  ve- 
derne uscire  un  unico  sembiante  d'arte.  Gonzalo  è  un  capo 
ameno  che  l'ha  fatta  anche  all'amico  fido  e  consocio  Ramon, 
mandandolo  ad  accrescere  la  compagnia  all'  immortale 
Menelao.  Abusa  della  bontà  della  seconda  moglie  Isa- 
bella, finche,  avendolo  questa  spontaneamente  salvato 
presso  l'amico  dal  sospetto  sortogli  per  insinuazione  di 
un  vile,  e  fattolo  apparire  del  tutto  incolpevole,  si  pente  e 
a  lei  si  riaccosta  in  una  tenerezza  di  primavera  tardiva. 

Nel  corso  della  commedia  l'antagonista  di  Gonzalo, 
Manuel,  che  ne  ha  amata  religiosamente  e  in  silenzio  la 
prima  moglie,  sfoga  nella  conversazione,  alludendo  al 
Don  Giovanni  di  Zorrilla,  talune  osservazioni  sulla  na- 
tura dongiovannesca,  non  indegne  a  lor  volta  di  osser- 
vazione :  —  "  Questo  di  innamorare  è  un  dono  in  verità 
geniale..  ..  l  maggiori  conquistatori  son  quelli  che  meno 
cercano  di  esserlo.  Ricordano  il  motto  di  Don  Gio- 
vanni? "Un  giorno  per  innamorarle,  ecc."...  Ciò  non 
è  naturale.  Per  questo  bisogna  chiamarsi  Tenorio  ;  già  a 
Don  Luis  debbono  costare  il  doppio  le  conquiste.  Quanto 
al  capitan  Centellas  e  Avellaneda  non  ne  parliamo.  Han 
l'aria  di  non  averne  innamorata  nemmeno  una  nella  lor 
vita.  Per  questo  passano  il  tempo  a  scommettere  per  gli 
amici  "  (atto  2°,  scena  111). 


—  Ili  — 

Abbiamo  dunque  fatto  oggetto  di  frugata  analisi  quelle, 
della  non  copiosa  letteratura  dongiovannesca  spagnuola, 
fra  le  opere,  che  assommino  caratteri,  chiudano  ragioni  di 
esistenza  distinte,  non  per  loro  intimi  pregi,  talora,  quanto 
perchè  rappresentano  una  singolare  mutazione  o  sposta- 
mento delle  linee  del  tipo. 

Avvicinandoci  ai  tempi  d'oggi,  la  scelta  si  è  dovuta 
fare  più  laboriosa,  ove  al  principio  non  ce  ne  fu  bisogno 
di  alcuna  :  si  sa,  le  opere  moltiplicano,  brulicano,  con 
l'universal  fregola  della  stampa,  —  quando  non  siano 
meno  che  ozii 

Ecco,  del  1874,  Los  rosales  de  Manara  zarzuele  di 
Cano  y  Cueto,  l' illustre  cantore  sivigliano  delle  leggende 
di  sua  città,  autore  altresì  sempre  di  argomento  dongiovan- 
nesco, della  Ultima  aventura  di  Don  Miguel  de  Manara 
compresa  nella  sua  raccolta  delle  Leggende  e  tradizioni 
sivigliane  del  1875.  Del  1889  e  dello  stesso  autore, 
El  homhre  de  piedra,  con  la  ripetizione  tradizionale  dei 
motivi  anche  esterni  della  leggenda. 

Nell'anno  1874  M.  Fernandez  y  Gonzalez,  anche 
autore  di  un  Don  Luis  Osorio  di  argomento  assai  pros- 
simo al  dongiovannesco,  pubblica  a  Madrid  Los  Te- 
norios  de  ho]),  cuadros  al  naturai,  e  nel  1877  il  Don 
Miguel  de  Manara,  di  carattere  anche  dongiovannesco. 
Sua  è  anche  la  novella  romantica  Don  Juan  Tenorio. 

Trascurando  meritamente  El  libro  de  Don  Juan  sol- 
dado  di  Enriques  Ceballos  Quintana,  l'autore  popolare 
dei  Tiempos  de  capa  y  espada  e  del  Quijote  de  los  siglos, 
—  è  del  1 896  (Barcellona)  il  Don  Juan  Tenorio  di  Jose 
Franquesa  y  Gomis,  nella  Renaixensa,  diari  de  Cata- 
lunya  —  e  del  1897,  la  leggenda  drammatica  in   7  atti 


—  112  — 

e  in  prosa  e  versi  di  Bartrina  e  Arus  :  El  nuevo 
Tenorio. 

Tutta  questa  popolazione  di  Don  Giovanni  d' in- 
chiostro, di  cui  son  ben  lungi  dall'aver  fatto  il  censo,  è 
in  sostanza  agli  ordini  di  quelli  su  noti,  cui  mi  son  diver- 
tito a  infliggere  la  mia  perquisizione  estetica  e  psico- 
logica, quale  ch'ella  sia  stata. 

Poiché  le  opere  di  una  letteratura  non  si  contano  sulla 
tavola  pitagorica,  non  sembrerà  che  io  mi  contraddica 
con  quel  che  già  ho  detto  e  ripeto  :  che  la  letteratura  spa- 
gnuola  dongiovannesca  è  delle  men  ricche. 

Quei  quattro  o  cinque  motivi  essenziali  che  scoprimmo 
nel  corso  della  nostra  disamina,  si  varieranno,  infronzo- 
leranno, infioretteranno,  spezzettineranno  come  si  voglia, 
noi  non  possiamo  tenervi  dietro  ;  sino  a  quando  a  quelli 
non  si  sia  aggiunto  alcun  altroché  di  sostanziale  ;  ci  basti  per 
ora  aver  distinti  i  vertici  e  talora  i  semplici  cucuzzoli  !  : 
non  sarà  riuscito  a  far  la  carta  topografica  di  una  con- 
trada, chi  si  sia  perduto  a  contare  i  mattoni... 


—  113 


NOTE  ALLA  TERZA   PARTE. 

(1)  Baret,   op   cit.,   pag.    334. 

(2)  Mi  spno  prevalso  per  la  conoscenza  di  questa  commedia  del 
compiuto  riferimento  che  ne  fa  José  Franquesa  y  Gomis  in  Homenaje 
a   Menéndez  y    'Pelayo,    1893,   voi.    I",   pag.   283. 

(3)  II  Gomis,  a  proposito  di  una  didascalia,  che  a  questo  punto 
trovasi  nel  manoscritto,  riguardo  all'  inscenamento  del  sepolcro  "  Como 
se  vió  el  Convidado  de  piedra  antiguamsnte  " ,  arguisce  che  il  Burlador 
(osse  noto  volgarmente  col  nome  che  passò  poi  alle  commedie  derivatene. 

(4)  Esamino  la  commedia  di  Zamora  nella  "Bibl.  de  aut.  Esp.", 
voi.   49,   a  cura  del  Romanos.   Non   è  divisa   in  scene. 

(5)  Nella  2''  giornata,  all' offrirlesi,  per  servitore,  di  Filiberto, 
Anna  risponde  asciuttamente  :  —  "il  vostro  cortese  ardire  apprezzo,  ma 
credo  che  con  l'ammetterlo,  lo  compensi  ".  Ancora,  dopo  lo  svenimento 
di  lei  nella  3^  giornata,  il  povero  Filiberto,  geme  che  mentre  egli 
umile  e  timido  adora  Donna  Anna,  il  destino  gli  faccia  ancora  tanta 
guerra.  Infine  Donna  Anna  si  è  già  ritirata  nel  chiostro,  sepolcro  di  sua 
vita,  che  ancora  il  poveraccio,  che  lo  ignora,  la  persegue  col  pensiero  e 
chiede  al  Re  di  concedergli  di  divenirne  lo  schiavo,  ovverosia  Io  sposo... 

(6)  Esamino  il  Z)on  yuan  Tenario  di  Zorrilla  nella  Galeria  dram- 
matica del  Delgado,  Madrid,  Sucesores  de  Rivadeneyra.  I  sette  atti  sono: 

r^  Libertinaggio  e  scanda'o  ;  2"  Destrezza;  3"  Profanazione; 
4"  11  diavolo  alle  porte  del  cielo;  5°  L'ombra  di  Donna  Ines  ;  6*^  La 
statua  di  Don  Gonzalo;  7"  Misericordia  di  Dio  e  apoteosi  dell'amore. 
Ve  n'è  una  buona  traduzione  italiana  di  Fausto  Maria  Martini  e 
di  Giulio  De  Frenzi.  Quella  dell'edizione  Sonzogno,  non  priva  di  gros- 
solani errori. 

(7)  Non  so  tenermi  dal  riportare  —  originali  —  alcuni  dei  versi 
che  precedono,  soavissimi  : 

Tal  vez  poséeis,   Don  Juan, 

Un   misterioso   amuleto 

Que  à  vos   me  atrae  en  secreto 

Como  irresistibile  man. 

Tal  vez  Satan   puso  en   vos 

Su   vista   fascinadora. 

Su  palabra  seductora, 

Y  el  amor  que   negò   a   Dios. 

8  —  F.  FuÀ,  Don  Giovanni. 


—  114  — 

(8)  Noto  il  bellissimo  effetto  fonico  di  quell'ottonario  pieno  di 
asme   dopo  gli   ultimi  salterellanti   di   Don  Juan  : 

—  mirad   si   haliais  conocido 
remedio,    y  le   aplicaré. 

—  No   hay   mas  que  el  que  os   he  propuesto 

(9)  Fuggevolmente  ricordo  non  esservi  neW Antico  Testamento  altra 
apparizione  di  ombre  reduci,  oltre  quella  del  libro  di  Samuel, 
cap.  38,  in  cui  dalla  pitonessa  è  rievocato  a  vita  Samuel  per  volere 
di  Saul. 

(IO)  Atto  3°,  scena  1.  Don  Giovanni  dice  che  ha  ucciso  gli  amici  : 
era  forsennato  :    la  sua    mano   li  fece  preda    della  sua  pazzia. 

Poi,  scena  XI,  la  statua  gli  dice:  "11  Capitano  ti  ammazzò  alla 
porta   della   tua  casa". 

(  I  I  )  E  noto  che  il  conte  di  Tureno  diceva  di  preferire  di  leggere 
Byron   nell'originale. 

(12)  Esamino  V^studianle  de  Salamanca,  nell'edizione  delie 
Obras  :   Libreria  de  Garnier    Hermanos,   Paris.    1885. 

(13)  Esamino  il  ^Don  Juan  di  Campoamor  nell'edizione  delle  opere 
complete:  Felipe  Gonzales  Rojas.  Madrid  1903,  Tomo  8°  (Los 
pequenos  poemas). 

(14)  Esamino  la  commedia  di  Lopez  de  Ayala  nella  Col.  de  Es. 
Castel,    (drammaticos)  :   voi.    4''   del  suo   teatro. 

(15)  Guerra  Janqueiro  :   A   morte   de   Dom  Joao,    1876. 

(16)  Casualmenle  riecheggiano  dell'espressioni,  in  entrcunbe  le  scene, 
simili  per  la  simiglianza  della  situazione.  In  Lopez  De  Ayala,  Don  Gio- 
vanni a  Elena  che  gli  ha  domandalo  :  Dunque  mi  ama  ?  —  Signora, 
chi  lo  pensa  mai  ?  Io  rispetto  il  suo  decoro.  —  In  Lavedan  :  —  Io 
ho  dimenticato   un  momento   chi   voi  eravate... 

(17)  Non  sono  riuscito  a  procurarmi  ancora  un'edizione  del  dramma 
di  Echegaray.  Dato  che  esula  completamente  dalla  concezione  dongio- 
vannesca,  r  insufficienza  con    cui  posso    parlarne    sarà    meno    avvertita. 

(18)  Esamino  questa  e  la  commedia  appresso  notata  di  Benavente 
nell'edizione  del  Teatro  completo  fattane  uscire  dai  Successori  di 
Hernado.    Madrid    1913. 


ISHE^'S^ 


PARTE   QUARTA. 
Don  Giovanni  in  Italia 


Come  nel  500  i  modelli  della  commedia  italiana  ave- 
vano fecondata  la  drammatica  spagnuola  delle  imitazioni 
fortunate  di  Torres  Naharro,  Lope  de  Rueda,  Juan  de 
Timoneda,  ecc.,  e  le  nostre  compagnie,  fin  sulla  fine  del 
secolo,  vagavano  per  la  Spagna  festosamente  accolte  ; 
così  all'opposto,  nel  600,  è  il  gusto  della  commedia  spa- 
gnuola che  da  Napoli,  ove  Don  Fedro  Fernando  De  Ca- 
stro, viceré  dal  1610  al  1616,  aveva  condotti  i  comici 
di  sua  terra,  e  dal  ducato  di  Milano,  si  diffonde  per  tutta 
Italia,  originando  la  progenie  teatrale  dei  .Celano,  Pasca, 
Tauro,  Capece,  Cicognini. 

Lope  de  Vega  e  Calderon  imperano  sulle  fantasie, 
ispirano  e  talora  dettano. 

La  commedia  dell'arte,  nata  dalla  seconda  metà  del 
500  con  il  Ruzzante  e  il  Calmo,  riempie  a  sua  volta  i 
nomadi  palcoscenici  di  clamorose  fortune;  tra  essa  e  la 
commedia  sostenuta,  frequenti  gli  scambi  ;  questa  trasmet- 


—  116  — 

tendo  a  quella  i  soggetti  tratti  dalle  riserve  spagnuole, 
quella  a  questa  le  maschere,  sue  beniamine,  e  moltre  ta- 
luni andamenti  della  scena  buffoneschi  e  il  troppo  della 
didascalia  sostituente  talora  il  dialogo  con  arida  scena 
muta,  e  fors'  anche  la  consuetudine  della  prosa  prevalsa 
definitivamente  sulla  forma  poetica. 

Non  fa  meraviglia  che  la  fiaba  dongiovannesca  presto 
ricompaia  sulla  scena  italiana  portatavi  dalla  corrente 
spagnuola  ;  per  quanto  diffìcile  sia  identificare  il  momento 
in  cui  vi  sia  penetiata. 

Intanto  la  trasformazione  del  tipo,  per  la  mutazione  di 
clima  intellettuale,  subito  si  fa  manifesta.  La  commedia 
nostra  secentesca  non  era  certo  adatta  a  cogliere  la  figu- 
razione del  tipo,  e  sperimentarne  una  dipintura  psicolo- 
gica. Lo  straripamento  della  farsa  mesceva  le  tinte  in  una 
unica  vaghezza  di  comico  volgare,  in  cui  ogni  definizione 
tipica  crollava.  Da  questo  dilagare  del  farsaiolo  scia- 
lacquato, la  fantasia  cerca  scampo  nella  provvisoria  fabbri- 
cazione delle  maschere,  le  quali  possono  pur  definirsi  come 
fantasmi  d'arte  mancati,  ovvero  i  fantasmi  lirici  della  folla. 

Del  duplice  titolo  di  Tirso  non  resta  —  fatto  sintoma- 
tico —  che  la  seconda  parte  :  //  Convitato  di  pietra  ;  ed  i 
convitati  convitano  la  folla  ghiotta  del  meraviglioso  agli 
inesauribili  spettacoli  per  il  600  e  700  fino  ai  primi  del- 
rSOO.  Sul  personaggio  di  Don  Giovanni  prevale  quello 
del  servo  buffone;  anzi  quello  diviene  quasi  un  pretesto 
per  questo  :  i  Trivellini,  gli  Arlecchini  e  i  Covielli,  tutta 
la  multiforme  generazione  degli  Stasimi  plautini  e  dei 
Davi  terenziani,  sfoggiano  qui  il  forte  del  loro  spirito. 
All'Italia  non  parve  gran  che  degna  di  considerazione  la 
figura  di  quel  contrabbandiere  sfaccendato  dell'amore  : 
usa  da  un  lato  ai  paludamenti  dignitari  della  letteratura 


—   117  — 

classica,  dall'altro  male  avvezza  ormai  alle  mascherate 
della  commedia  improvvisa,  non  poteva  vedervi  che  tutto 
al  più  un  buon  soggetto  fantastico  che  un  secolo  prima 
sarebbe  stato  forse  da  novella,  e  ora  sembra  più  da 
teatro. 

Shadwel,  nel  suo  The  Libertin  (1676)  riferiva  che  dai 
primi  del  600  un  Ateista  fulminato,  sacra  rappresenta- 
tazione,  veniva  dato  nelle  chiese  di  Roma,  la  domenica  ; 
in  esso  con  molte  variazioni  erano  mostrate  alla  folla  le 
colpe  e  le  pene  infernali  di  un  ateo. 

Il  Brouvv^er  (1901)  ha  trovato  in  un  fascio  di  scenari 
secenteschi  un  Ateista  che  dà  un'idea  di  tali  rappresen- 
tazioni. Benché  senza  data,  appartiene  quasi  indubbia- 
mente alla  fine  del  600  ;  appare  una  redazione  posteriore 
dell'Ateista  più  antico,  con  nuovi  elementi  e  varia- 
zioni (1).  Il  conte  Aurelio  —  tale  la  trama  sommaria  ~ 
è  un  bandito  lussurioso  e  sanguinano  della  Sardegna, 
che  ha  sedotta  la  duchessa  Leonora,  con  cui  vive  allo 
sbaraglio  pei  dintorni  di  Cagliari  ;  la  tradisce  con  Angela 
sua  prigioniera,  la  percuote  d'un  calcio  e  la  lascia  sve- 
nuta (atto  1  ").  Il  duca  Mario,  fratello  di  Leonora,  lo 
persegue  con  soldati,  ma  è  tratto  in  inganno  da  Aurelio, 
che  lo  separa  da  quelli,  travestitosi  degli  abiti  di  un  ro- 
mito, e  lo  aggredisce  poi.  Prima  di  ciò  v'ha  l'episodio 
(atto  1  "),  che  fa  pensare  al  Burlador,  delle  statue  dei 
genitori  di  Leonora  e  Mario  che  in  un  tempio,  ad  un 
tratto,  SI  animano  davanti  al  bandito;  e  insultate,  lo  mi- 
nacciano misteriosamente.  Di  nuovo  riappaiono  inginoc- 
chiate, mentre  il  loro  figlio,  il  duca  Mario,  sta  per  essere 
fucilato  dai  banditi,  e  con  lo  scompiglio  prodotto  lo  sal- 
vano. Ancora  intervengono  con  le  spade  in  pugno  alla 
cena  dei  banditi  (atto  3"),   quando  Leonora  apparsa  in 


—  118  — 

abito  da  penitente  e  beffata  da  Aurelio,  che  se  la  spassa 
con  Angela,  è  caduta  morta.  Fissano  al  bandito,  termine 
misterioso,  il  calar  del  sole.  E  al  calar  del  sole,  il  conte 
si  presenta  al  tempio  pieno  di  sfida  ;  le  statue,  afferratolo 
stretto,  invocano  su  di  lui  il  fulmine  del  cielo,  che  non 
si  fa  aspettare.  Segue  la  visione  della  beatitudine  celeste 
di  Leonora  e  dei  tormenti  infernali  del  dannato.  Inter- 
calato è  nell'atto  terzo  l'episodio  di  OHvetta,  qualche 
cosa  come  la  Pispireta  zamoriana,  che  fa  una  semplice 
apparizione,  —  è  stata  fatta  prigioniera  dai  banditi  —  ; 
tanto  per  dar  l'occasione  al  conte  di  mostrar  a  lei  la  sua 
galanteria,  lasciandola  libera  non  senza  averle  prima  fatto 
godere  il  bello  spettacolo  dell'impalamento  di  Buffetto, 
il  servo  del  duca  Mano  già  riuscito  a  scappare  all'ap- 
parir delle  statue  dei  suoi  genitori. 

In  questa  rappresentazione  parve  di  vedere  un'origine 
al  Burlador,  già  affermata,  prima  di  conoscere  un  Ateista 
scenario,  dal  Coleridge,  che  nelle  sue  note  al  Don  Gio- 
vanni byroniano  dice  che  la  più  antica  forma  dramma- 
tica della  leggenda  dongiovannesca  è  in  questo  dramma 
religioso,  che  era  rappresentato  in  Ispagna.  Ora  noi  non 
sappiamo  veramente  quale  e  come  fosse  la  prima  reda- 
zione del  nostro  Ateista,  ne  che  esso  fosse  noto  in 
Ispagna. 

Certo  alcuni  scambi  tra  l'Ateista  e  il  Convitato,  nel- 
l'evoluzione posteriore  della  leggenda,  vi  furono.  La  scena 
finale  dei  tormenti  d'inferno,  che  doveva  essere  l'essen- 
ziale, torna  nel  Cicognini  e  negli  scenari  e  in  alcune  delle 
opere  comiche.  Il  titolo  stesso  torna  in  Dorimond  (fine 
del  1658),  poi  cambiato  nell'altro  Le  fils  criminel,  e  in 
Rosimond  (1669),  ove  ritorna  anche  il  nome  della  prin- 
cipale   vittima    femminile.   Così  anche  il    fulmine    che 


—  119  — 

liquida  i  conti  di  Aurelio  con  Dio,  torna  in  Dorimond, 
in  Villiers,  in  Molière,  in  Rosimond,  in  Goldoni.  L'epi- 
sodio del  romito  torna  anche  in  Dorimond  e  Villiers. 
Forse  nella  parte  importante  attribuita  alle  statue  animate 
e  in  alcuni  particolari,  come  quello  del  travestimento,  è 
da  vedersi  invece  un  influsso  del  Convitato  sull'Ateista. 

Il  travestimento  è  in  Cicognini,  nello  scenario,  in  Mo- 
lière :  salvo  che  Aurelio  cambia  i  suoi  abiti  con  quelli 
del  romito  ;  Don  Giovanni  invece  li  tramuta  con  quelli 
del  servo. 

Così  gli  scherni  all'eremita  mendico,  che  sono  nel- 
l'atto 3"  dell'Ateista,  riportano  a  Molière  (atto  3",  se.  11). 
L'astuzia  di  Aurelio  (atto  2")  nel  dividere  Mario  dai 
suoi  soldatijipn  so  se  ritorni  soltanto  casualmente  nel  si- 
mile episodio  comico  del  Da  Ponte. 

Chi  s'illudesse  pertanto  che  la  fase  italiana  di  Don  Gio- 
vanni contenga  elemento  religioso  per  questo  imparenta- 
mento  con  un  dramma  religioso,  sbaglierebbe  di  grosso. 
Anzi,  il  sentimento  religioso  dalle  arlecchinate  del  nostro 
teatro  prevalentemente  estemporaneo  del  600  evase  del 
tutto:  e  nonostante  la  fumante  visione  d'abisso  della  scena 
finale,  l'ammaestramento  morale,  già  vivo  nella  commedia 
di  Tirso,  SI  perse  tra  gli  artifizi  dei  frizzi  e  dei  lazzi. 

Come  accade  sempre  al  "  servus  grex  "  parente  alle 
pecorelle  dantesche,  il  fuoco  della  concezione  prima  e 
originale  è  perso  di  vista  dai  primi  imitatori,  e  quel  lavoro 
che  non  si  richiede  più  per  l' immaginazione  inventiva,  si 
rivolge  dai  consecutivi  riimitatori  ai  ritagli  e  ai  fregi  mar- 
ginali, che  talora  invadono  il  disegno  originale,  e  lo  ridu- 
cono da  non  riconoscersi  più. 

Nel  Burlador,  il  sentimento  religioso  avvolgeva  l'opera, 
più  che  non  si  circoscrivesse  al  personaggio  principale. 


—  120  — 

cui  il  pensiero  di  Dio  interessa  poco  ;  nel  Convitato  del 
Cicognini,  esso  si  ricantuccia  nella  scena  infernale,  e  non 
è  più  sentimento  ma  convenzione. 

La  commedia  del  Cicognini  (2),  che  è  meno  che  una 
traduzione,  non  ha  data,  ma  pare  anteriore  al  1 650.  La 
tuttora  mcogmta  di  Onofrio  Giliberto  da  Solofra  è  del 
1652,  stampata  a  Napoli  da  Francesco  Savio  col  titolo 
solito  :  //  Convitato  di  Pietra  ;  e  sembra  che  questa  sia 
stata  debitrice  a  quella,  piuttosto  che  il  contrario. 

Si  dubita  se  veramente  la  commedia  del  Cicognini 
appartenga  al  Cicognini,  nonostante  il  nome  appostovi;  di 
contraffazioni  delle  cose  sue  lo  stesso  autore  si  lamenta 
nella  prefazione  al  David  dolente  (ove  essa  anche  sia  sua); 
come  del  resto  molte  opere  segnate  col  suo  nome  pare 
non  gli  appartengano,  a  sentire  il  Bartolomei  (prefazione 
alla  commedia  Amore  opera  a  caso).  Ma  sinché  non  si 
trovi  una  ragione  solida,  discutere  se  sia  sua  o  no,  mi  pare 
approdi  a  poco  :  d'altra  parte  la  commedia  ha  così  poco 
valore  che  il  nome  del  Cicognini  che  vi  appare  su,  può 
restarvi  senza  infamia  e  senza  lodo,  come  una  mera  con- 
venzione. In  prosa  e  tre  atti,  essa  è  frammista  di  dialetto 
veneziano  (Fighetto  e  Pantalon),  bolognese  (Dottore), 
napoletano  (Passarino),  secondo  l'esempio  prevalso  del 
Ruzzante,  che  Vergilio  Verucci  portava  all'esagerazione 
della  nota  commedia  in  1 0  idiomi  {Diversi  linguaggi). 
Il  dialogo  risente  delle  affettazioni  che  formano  il  mal 
gusto  del  tempo  ;  l'autore  inoltre  non  sa  spiastricciarsi 
dalle  panie  del  discorso  poetico,  e  pur  scrivendo  in  prosa, 
gli  escon  cadenze  ritmiche  e  anche  quando  non  vorrebbe, 
brutti  versi  :  scena  111,  atto  1  ':  —  Amato  zio,  mi  parto.  — 

Nipote    caro,    addio.    — -    Il    vederti    partir,    nipote 

amato.   —  Atto  2",  scena  XI:  —  ...a  guisa  di  vii  fiore 


—  121  — 

appena  nasce,  e  illanguida  more  —  ;  e  simili  da  cogliersi 
a  iosa. 

Una  leziosaggine  poi  al  nostro  orecchio,  quelle  cava- 
tine rimate,  che  par  stiano  a  segnare  di  riso  i  poveri  mo- 
menti drammatici  :  atto  1",  scena  XllI:  Pianto  di  Rosalba  : 

Ferma  aspetta  ove   vai,   o  mio  consorte  ! 
Se   tu   fuggi    da   me,   io   corro   a  morte  ; 

atto    2^  scena  \'l,  (pianto  di   Donna  Anna  sul   padre 
morto)  : 

Ch'anco  io  men  vado  intanto 

A   celebrar  l'esequie   sue   col  pianto 

La  commedia  di  Tirso  è  dal  Cicognini  scheletrita,  e 
invilita.  Magro  compenso,  è  qualche  rattoppo  di  scenetta 
comica  da  dare  un  po'  di  nuovo  :  nel  1  "  atto  :  l' incontro 
notturno  e  il  duello  con  Passarino  che  si  slonga  per  terra 
e  drla^'luTa  spada  contro  cui  vanno  a  finire  le  cortellate 
di  Don  Giovanni  (scena  Vii),  la  scena  degli  indovinelli 
(scena  Xll),  tra  Brunetta,  Pantalone,  il  Dottore  ;  nel  2"  atto 
la  scena  del  bando  in  cui  il  Re  fa  promettere  diecimila 
scudi  e  quattro  teste  di  banditi  a  chi  trovi  l'uccisore  del 
commendatore  ;  e  le  tergiversazioni  di  Passarino  alla 
prospettiva  dell'oro  (scena  Xll)  e  (scena  seguente)  le 
minacce  del  padrone  e  le  istruzioni  pratiche  di  lui  sul 
come  quegli  deve  comportarsi  davanti  al  notaio  e  lo  scam- 
bio d'abiti  e  (seguente)  la  burla  caricata  da  Passarino  agli 
sbirri.  Nel  1"  atto  l'episodio  di  Rosalba  non  è  che  un 
moncherino  di  quello  di  Tisbea.  Soltanto,  pur  nel  suo 
semplicissimo,  il  lamento  di  Rosalba  è  meno  artefatto  di 
quello  di  Tisbea. 

L'elogio  semplificato  di  Lisbona  è  portato  al  2"  atto, 
scena  XI. 


—  122  — 

Tolte  dall'atto  2"  le  scene  I,  II,  III,  V.  VI,  VII,  IX,  X, 
la  IV  scena  è  riportata  alla  I,  la  III  e  IV  sostituiscono  la  XII 
di  Tirso,  la  V  è  la  minima  riduzione  della  XIII,  è  aggiunta 
la  VI  senza  riscontro  in  Tirso  :  i  pianti  di  donna  Anna. 
Le  scene  XV,  XVI,  XVII  di  Tirso,  mutate  nelle  IX,  X,  XI. 

Aggiunte  le  scene  (bando,  istruzioni,  travestimenti, 
burla),  XII,  Xlli,  XIV;  le  XV  e  XVI  vorrebbero  riprendere 
le  XVIII,  XIX,  XX  (episodio  di  Aminta). 

Tolte  dal  3"  atto  le  scene  I,  II,  III,  IV,  V,  VI,  VII,  Vili,  IX. 

Dopo  una  prima  scena  che  in  Tuso  era  incorporata 
nella  stessa  X,  riattacca  a  questa  la  scena  II;  intramezzata 
una  III  e  una  IV  (sospetti  del  duca  Ottavio),  la  V  fonde 
in  se  l'Xl,  XII,  XIII,  XIV,  XV;  le  VI  e  VII  sostituiscono 
la  XVIII;  r  VIII  e  IX  rifondono  le  XIX,  XX,  XXI  ;  tolte  le 
XXII,  XXIII,  XXIV,  XXV,  XXVI,  la  X  ricopre  la  XXVII. 
L'ultima  scena  è  la  già  mentovata:  l'inferno. 

La  figura,  già  principale,  ha  perdute  le  sue  modana- 
ture ;  i  discorsi  d'amore  avevano  del  seducente  in  Tirso, 
ora  si  fanno  sguaiataggini  buttate  là. 

Per  mostrare  come  sia  tempo  perso  cercare  barlume 
d'arte  in  questa  commedia  che  non  lo  pretende,  non  c'è 
che  da  scegliere  prove.  Da  Rosalba,  Don  Giovanni  non 
fugge  a  tradimento,  ma  si  congeda  con  due  magre  parole: 
"Orsù,  Rosalba,  non  mancherà  tempo  di  vederci  e 
goderci  un'altra  volta  "  ! 

Tutta  l'atmosfera  è  satura  di  questa  barbogeria  burat- 
tinesca. Già  in  Tirso  nella  li  scena,  1"  atto,  il  Re  si  pre- 
sentava poco  regalmente  con  un  candeliere  in  mano. 
Ora  Cicognini  dilata  questo  punto  troppo  e  poco  comico 
in  una  macchia  di  sguaiateria.  11  suo  Don  Giovanni  fa 
saltare  di  mano  con  un  colpo  di  spada  il  lume  al  Re,  e 
questi  che  geme  :  "  Oh,  Dio  e  non  anche  fu  sazio  il  tradi- 


—  123  — 

lore  di  macchiar  la  riputazione  di  una  dama  nelle  mie 
stanze  che  anco  di  mano  mi  getta  il  lume  ?  —  o  là  !  " 

Il  personaggio  tipico  è  Passerino,  che  è  un'espressione 
di  buonumore  plateale,  da  cui  l'autore  trae  il  migliore 
alimento  alle  sue  risate. 

I  desideri  pantagruelici  e  i  bacchici  amori  lo  fanno 
un  discendente  diretto  dei  Maccus  latini  senza  intenzione 
di  coerenza,  specie  di  rifornimenti  di  allegria.  Il  comico 
di  Catalinon  era  più  vero  e  sano.  Passerino  non  presenta 
nulla  se  non  frasi  salaci.  Nessuno  degli  ammonimenti 
brontoloni  e  pieni  di  buon  senso  e  senza  pretesa,  che  la 
tozza  buaggine  di  Catalinon  arrischiava  al  suo  padrone  ; 
qui  è  diventato  un  mariuolo  anche  lui,  che  per  denaro 
non  si  farebbe  scrupolo  di  tradire  il  padrone. 

Anche  il  duca  Ottavio  è  fatto  qui  più  grottescamente 
sciocco  che  in  Tirso  ;  le  fantocciate  poi  di  Fighetto  son 
tutte  limitate  alla  fame  che  i  pasti  del  padrone  non  rie- 
scono a  placargli. 

II  marchese  De  la  Mota  abolito,  il  duca  Ottavio  resta 
il  capro  espiatorio  di  entrambe  la  prima  e  terza  burla  di 
Don  Giovanni  ;  è  lui  che  nel  2"  atto  presta  senza  alcuna 
scusa  il  mantello  all'amico  :  non  pertanto  l'inavvedutezza 
di  Cicognini  ha  fatto  strappo  alla  logica,  dimenticando 
l'equivoco,  che  doveva  conseguirne  secondo  il  Burlador; 
nonostante  il  travestimento  di  Don  Giovanni  in  Ottavio, 
questi  non  è  sospettato,  anzi  lo  stesso  Re  nella  scena  XI, 
atto  2'\  indovina  senz'altro  indizio  che  Don  Giovanni  è 
il  reo.  Ciò  fa  capire-che  la  scena  del  bando  è  messa  lì 
per  provocare  l' imbeccatura  buffa  di  Don  Giovanni  a 
Passanno  su  quel  che  deve  rispondere  al  notaio,  imbec- 
catura che  pare  solleticasse  il  facile  buonumore  secen- 
tesco. L'illogicità  è  senz'altro  la  più  vera  rivelatrice  del 


—  124  — 

troppo  fedele  imitatore,  appena  che  sia  tanto  coscienzioso 
da  non  essere  plagiario. 

Ovvero,  meglio,  era;  che  oggi  noi  con  tutti  questi  grot- 
teschi non  ce  la  stiamo  innalzando  a  legge,  sopra  le  allegre 
rovine  di  quelle  aristoteliche?...  Passiamo  oltre... 

La  scena  ultima  del  2°  atto  è  una  pantomima  che 
mostra  il  contagio  della  commedia  dell'arte  :  l'episodio 
sufficentemente  svolto  della  burla  di  Don  Giovanni  ad 
Aminta  è  qui  ridotto  a  una  scena  muta  che  lascia  vuoto 
all'  improvvisazione  : 

"  Passarino  gli  vede  —  [Dottore,  Brunetta,  Pantalone] 
—  chiama  Don  Giovanni  qual  si  mette  con  Passarino  an- 
cora lui  a  ballare,  infine  Don  Giovanni  rubba  Brunetta,  e 
via.  Dottore  e  Pantalone  gridano  e  fanno  finir  l'atto  2"  ". 

Altra  considerazione  offre  la  scena  del  tempio  aperto 
con  r  invito  che  Don  Giovanni  non  fa  direttamente,  ma 
per  mezzo  di  Passarino  ;  variazione  di  cui  la  scena  italiana 
si  compiacque,  come  più  rispondente  alla  comicità  che 
le  fu  cara  e  alla  maggior  parte  che  tributò  al  servo.  Il 
Burlador  prendeva  per  la  barba  la  statua  odiosa;  questo 
Don  Giovanni  le  lancia  un  guanto. 

Il  Cicognini  ha  intuito  nel  3'^  atto  del  Burlador  quel- 
r  impressione  di  retrocessione  spirituale  che  faceva  di 
Don  Giovanni  (scena  XIIl)  un  po'  il  revisore  di  se,  quasi 
l'autobiografo  delle  sue  conquiste.  Il  tipo  individuale  di 
Don  Giovanni,  che  è  quello  dell'eterno  giovane,  a  cui, 
come  tale,  lunga  la  speme  e  breve  ha  la  memoria  il  corso, 
veniva  già  così  trasceso.  Quando,  da  quella  scena  che 
descrivemmo  come  limite  ideologico  della  II  parte  del- 
l'atto 3"  del  Burlador,  Don  Giovanni  si  ripiega  su  di  se, 
egli  ha  già  delle  crepe  e  la  sua  supremazia  scric- 
chiola. Al  Cicognini  è  venuto  di  ridurre  sopra  la  falsariga 


—  125  — 

di  Tirso  quest'  impressione  nelle  parole  dell'  indispensa- 
bile Passanno  : 

—  Se  record  ella  quand  erim  a  Napoli  quella  bella 
zovenetta,  ch'andassiv  a  dormir  con  lei...  e  a  quella 
pescatrice  che  ce  de  quell'  habit  quand'a  cascasim  in  tal 
mar,  ve  piaseula  mo?  —  D.  G.:  —  Vedesti  corno  pian- 
geva quando  mi  parti]?... 

La  paura  di  Passarino  al  giungere  del  "  barbon  "  si 
manifesta  in  modo  simile  a  Catalinon.  Il  povero  diavolo 
si  butta  sotto  la  tavola  e  non  ha  più  appetito.  Ma  i  canti 
che  per  ordine  di  Don  Giovanni  qui  accompagnano,  can- 
tati dallo  Zanni,  la  cena  miracolosa,  ben  differiscono 
da  quelli  che  nel  Burlador,  cantati  dai  musicanti,  espri- 
mevano bene  il  pensiero  di  Don  Giovanni: 

Si   de   mi  amor  aguardais 
Senora,   de  aqussta  suerte 
EA  galardón  en   la   muerte, 
Que  largo  me  lo  fiais  !   ecc. 

(Scena  XIII,  Alto  3"), 

ove  qui  non  sono  che  una  paonazza  effervescenza  di  buf- 
foneria : 

Za  che  voli  che  canta, 
Don  Zovanni,  ve  digo 
Che  sto'   bambozzo  el   me   par   un   intrigo,   ecc. 

Nella  li  scena,  quando  Don  Giovanni  dà  la  mano  alla 
statua,  il  grido  del  Burlador  era  men  logico,  ma  più  im- 
pressionante :  "  i  Que  me  abraso  !".  Il  pratico  Cicognini  non 
può  immaginare  che  un  marmo  bruci:  Stringo  un  ghiac- 
cio, un  freddo  marmo  !  L'epilogo  è  forse,  relativamente. 


—  126  — 

il  migliore  :  il  tormento  del  fuoco  dà  al  torturato  alcuni 
accenti  che  l'anima  secentesca  di  Cicognini  sa  rendere 
non  male.  V  è  l'eco,  che  nella  commedia  spagnuola  è 
talora  un  mezzo  artistico  efficace,  e  nei  drammi  pastorali 
del  nostro  50Q(..e  600  ha  preso  voga: 

Quando  termineran  questi  miei  guai? 
Mai! 

La  figura  di  Don  Giovanni  è  del  tutto,  nell'epilogo, 
rovesciata:  affermatore  della  vita  gaudiosa,  maledice  qui 
la  sua  nascita  '■ 

Maledetto  sia  il   latte 
Ch'io  succhiai  assetato  ; 
Latte   fu   di   pestifero  peccato. 

Rinnegamento  ascetizzante  che  è  particolare  a  tutte  le 
prestigiose  scene  finali  delle  nostre  sacre  rappresentazioni. 

Persuasi  a  non  cercar  nel  Convitato  cicogniniano  alcun 
elemento  di  studio  psicologico,  ne  per  le  figure  femminili, 
ne  per  quelle  maschili,  tutte  rappresentazioni  pupazzet- 
tesche  d'un  umorismo  talora  buono,  più  spesso  discutibile? 
e  viventi  solo  nella  stereotipia  delle  loro  parole,  bisogna, 
oltie  a  questo,  convenire  che  anche  nelle  situazioni  e  nel 
gioco  scenico,  la  nuova  mano  ha  sciupato,  mutilato.  Tolta 
la  figura  del  padre,  di  cui  Cicognini  non  ha  saputo  che 
farsi  ;  nella  scena  fra  lo  zio  e  Don  Giovanni,  quegli 
non  gli  muove  alcun  rimprovero,  subito  propone  di 
mandarlo  libero. 

Altre  scene  scialacquano  in  scurrilità  o  alloccaggini 
un  po'  pietose  (come  quella  fra  Ottavio  e  Fighetto,  quella 
di  Rosalba  pescatrice,  che  canta,  e  al  giungere  di  Don 


—  127  — 

Giovanni  :  —  Oh,  come  è  bello  !).  Vi  è  la  facilità  passiva  e 
frascona  di  chi  cede  a  ispirazione  non  sua.  V  hanno, 
come  a  dire,  degh  sfoghi  di  originaHtà  in  trovate  di  minor 
considerazione,  due  delle  quali  per  altro  han  l'onore  di 
tornare  in  Molière.  L'una,  la  scena  dello  scambio  di  abiti 
tra  Don  Giovanni  e  Passarino,  da  cui  trae  il  motivo  la 
scena  V  dell'atto  2"  di  Molière.  L'altro,  il  particolare 
dei  salari  non  pagati  (scena  V,  atto  3")  che  ritorna  nel 
gustoso  grido  finale  dello  Sganarello  molieriano:  "  Mes 
gages,  mes  gages,  mes  gages!  ".  Le  parole  con  cui  Don 
Giovanni  accoolie  (scena  V,  atto  3  )  la  statua  intervenente 
al  festino,  (altro  motivo  originale),  hanno  dell'allegra  mil- 
lanteria, in  quello  sfoggio  generoso  e  ironico  di  compli- 
menti, e  in  quelle  scuse  pel  convito  troppo  disdicevole; 
e  quello  svolazzo  finale  saturo  di  comicità...  "  Se  io  ha- 
vessi  creduto,  o  Convitato,  che  tu  fosti  venuto,  haverei 
spogliato  di  pane  Sivilla,  di  carne  Arcadia,  di  pesci 
Sicilia,  ecc.,  ma  accetta  quello  che  di  cuore  ti  vien  pre- 
sentato da  una  mano  liberale:  magna,  convitalo^\ 

L'autore,  senza  coerenza,  picchietta  di  colore  ora  questo 
ora  quell'aspetto  di  tipo,  secondo  che  gli  viene  a  tiro  di 
penna:  radunare  le  sparte  membra  in  organismo  di  vita, 
gli  importa  poco. 

Un  altro  particolare  di  gran  fortuna  nel  teatro  dongio- 
vannesco italiano,  e  omesso  da  Molière,  è  quello  della 
lista  che,  nella  scena  Xlll  del  1"  atto,  Passarino  lancia 
laconicamente  alla  desolata  Rosalba.  La  commedia  del- 
l'arte trova  in  esso  uno  dei  più  vivi  cespiti  di  riso,  e  lo 
scenario,  conservatoci  dal  Gueulette,  del  1 662  stabilisce 
che  questa  lista  sia  un  "long  rouleau  de  parchemin"  che  lo 
Zanni  getta  "au  milieu  du  parterre  et  il  en  retien  le  bout". 

Dall'accenno  fugacissimo  a  questo  tratto  scenico,  che 


—  128  — 

è  nel  Cicognini  come  di  cosa  già  nota  ("  Lo  Zanni  getta 
la  lista"  e  nient'altro),  io  m'induco  a  credere  che  la  tro- 
vata non  ne  sia  dell'autore  di  questo  Convitato,  come 
cronologicamente  si  verrebbe  a  supporre. 

Questo  simbolo  è  di  una  mgenuità  così  espressiva  e 
mimica  che  mi  pare  certo  nato  dall'anima  popolare;  credo 
debba  trovare  origine  in  qualche  scenano  che  primiera- 
mente deve  aver  introdotto  m  Italia  la  commedia  di  Tirso. 
Ma  qui  è  il  ginepraio  delle  controversie  sulla  trasmigra- 
zione prima  del  Convitato  in  Italia,  questione  su  cui  tor- 
neremo. 

Per  ora  consentiremo  che  il  tratto  della  lista  è  l'ag- 
giunta più  personale  e  graziosa  che  abbia  fatto  l' Italia 
alla  leggenda  ;  tanto  che  in  essa  è  rimasta  innestata.  E 
uno  dei  pochi  lazzi  della  commedia  dell'arte,  che  chiu- 
dano involontariamente  un  nodo  di  pensiero  e  un  certo 
spéizio  di  emozione  sotto  il  fiocco  facile  dello  scherzo. 

Lo  scenario  del  1 662  è  il  primo  Convitato  della  com- 
media dell'arte,  conservatoci  nella  traduzione  francese  di 
Tommaso  Simone  Gueulette,  che  lo  riporta  in  Recueil 
de  sujets  des  pièces  tirées  de  V  Ilalien,  seguendo  le  note 
fornitegli  da  Domenico  Biancolelli  che  vi  rappresentava 
la  maschera  di  Arlecchino. 

Nel  gennaio  e  febbraio  del  1658,  al  Petit  Bourbon 
di  Parigi,  sappiamo  dal  Gueulette  che  un  Convitato  era 
recitato  dalla  compagnia  di  Giuseppe  Bianchi,  con  la 
maschera  di  Trivellino,  attore  Domenico  Locatelli;  e 
suscitava  un  immenso  successo. 

Si  può  credere  col  Moland  che  lo  scenario  che  ab- 
biamo sia  molto  simile  a  quello  precedente,  ma  in  verità 
nulla  è  preciso. 


—  129  — 

Ne  pare  che  lo  scenario  stesso  del  1658  sia  il  primo 
italiano  ;  che  le  compagnie  spagnuole  che  ai  primi  del  600 
passeggiavano  l' Italia,  avrebbero  dovuto  portare  nel  loro 
repertorio  la  commedia  di  Tirso,  seguendo  le  supposi- 
zioni più  spontanee.  Il  Bévotte  (3)  per  mettere  un  pò*  a 
posto  le  cose,  tenta  una  ricostruzione  ingegnosa.  Angelo 
Costantini  detto  Mezzetin,  nel  1695,  nella  Vie  de  Sca- 
ramuche,  dice  che  questi  esordì  a  Fano  in  Romagna, 
col  Convitato,  preferendolo  "  per  il  pasto  che  vi  si  fa  ". 
Ora,  pel  suddetto  critico,  —  poiché  il  Gueulette  dice 
che  Tiberio  Fiorelli  esordì  a  20  anni,  ed  essendo  esso  nato 
nel  1608,  —  ne  verrebbe  che  un  Convitato  scenario 
dovette  essere  recitato  in  Italia  approssimativamente 
nel   1633. 

Che  si  tratti  di  uno  scenario  il  Bévotte  lo  deduce  da  quel 
pasto,  che  non  avendo  importanza  in  Cicognini,  è  invece 
replicata  occasione  a  facezie  negli  scenari,  a  giudicare  da 
quello  citato  del  1662.  La  conclusione  è  verosimile  e 
comoda,  sebbene  la  notizia  del  Mezzetin  non  sia  di  quelle 
che  recidano  il  nodo,  ne  la  sua  biografia  un  modello  di 
verità  storica.  L' emigrazione  dongiovannesca  sarebbe 
dunque  avvenuta  così  :  la  commedia  di  Tirso,  prima  di 
essere  importata  sulle  scene  italiane,  e  probabilmente 
alla  corte  del  Reame  di  Napoli  (a  Napoli  esce  la  com- 
media di  Giliberto),  era  già  nota  in  Spagna  col  nome 
abbreviato  di  Convitato,  —  ciò  che  sappiamo  (v.  nota  3 
alla  terza  parte  di  questo  lavoro).  Venuta  poi  l' imitazione 
del  Cicognini,  questa  incorpora  in  se  il  primo  scenario  ita- 
liano forse  derivatone,  e  se  ne  perde  traccia;  riappare  tra- 
verso al  Cicognini,  nel  nuovo  scenario  del  1662,  che  da 
lui  e  non  da  Tirso  ripete  quegli  echi  che  sembrerebbero 
riallacciarlo  al  Burlador.  Nessun  scenario  anteriore  al  Ci- 

9  —  F.  FuÀ,  Don  Giovanni. 


—  130  — 

cognini  è  stato  trovato  però,  che  possa  dare  l'indiscutibilità 
a  questa  opinione  (4). 

Ammettendo  l'esistenza  di  uno  scenario  anteriore,  la 
scena  del  duello  buffo  tra  il  padrone  e  il  servo,  quella 
degli  indovinelli,  il  particolare  della  lista,  la  scena  del 
bando  e  le  seguenti  che  dal  Cicognini  si  ripetono  negli 
scenari  successivi,  avrebbero  in  quello  verisimilmente  la 
paternità. 

Un'altra  supposizione,  che  riporteremo  prima  di  pas- 
sare allo  scenario  conservatoci,  fa  il  Bévotte,  preceduto 
dal  Werner  e  dall'  Engel,  per  il  Convitato  di  Onofrio 
Giliberto.  Questa  commedia  andata  perduta,  egli  la  rico- 
struisce dalle  commedie  gemelle  di  Dorimond  e  di  Vil- 
liers  (5),  per  dichiarazione  di  quest'ultimo,  tratte  —  (egli 
dice  della  sua,  tradotta)  —  da  un  originale  italiano.  Poiché 
esse  non  possono  essere  traduzioni  dal  Cicognini  ne  dallo 
scenario,  non  resta  che  risalire,  quando'non  si  vogha  non 
prendere  sul  serio  il  termine  "  traduit  de  l' italien  "  del 
Villiers,  al  Giliberto.  Pertanto  è  vero  che  il  tipo  don- 
giovannesco che  sarebbe  del  Giliberto,  si  differenzia  da 
quello  che  ci  appare,  prima  dell'  influsso  di  Molière, 
per  caratteristiche  italiano  :  nei  due  francesi,  nel  secondo 
più  precisamente,  si  fa  il  ribelle  per  volontà,  l'indivi- 
dualista contro  ogni  legge  : 

le  feu  de  mes  jeunes  années 

Ne  peut  souffrir  ancore   mes  passiona  bornées 

(E  al  padre): 

Je  ne   vous  connais  plus,   ny  ne   vous   veux  connaistre, 
Je  ne  veux  plus  souffrir  de  pére   ni  de  maistre; 
Et  si  les  dieux  voulaient  m'imposer  une  loy, 
Je  ne  voudrais  ny  Dieu,   pére,   maistre,   ny  Roy. 

(Atto    1°,   Scena  V). 


—  131  — 

Caratteri  questi,  che  anche  dopo  il  Molière,  l' Italia  non 
pensò  di  regalare  tanto  presto,  mi  pare,  al  cavaliere  d'amore. 

L' Italia  aveva  alcuni  tipi  di  rivoltosi,  di  refrattari  (Leon- 
zio, Aureho),  sfruttati  dalla  chiesa  per  metterli  alle  gemonie 
pubbliche  in  qualità  di  salutari  ammonitori:  ma  aggiun- 
gere questo  carattere  a  Don  Giovanni,  non  le  venne  m 
mente,  accettato  avendolo  più  che  altro  in  grazia  del 
comico  che  vi  trovava,  e  di  questo  quasi  esclusivamente 
compiacendosi.  Anche  nel  Ferrucci,  il  cui  Don  Giovanni 
si  attenta  a  delle  comiche  e  comode  professioni  d'incre- 
dulità, queste  sono  più  che  altro  espressioni  umoristiche  ; 
nulla  del  passionato  e  vulcanico  che  sarebbe  irr  Giliberto, 
il  quale,  ammessa  per  sua  tale  concezione  originale,  non 
parrebbe  strano  che  passasse  senza  fama  ne  orma  in  Italia, 
e  che  ove  il  Cicognini  e  il  Ferrucci  dettero  origine  a  scenari, 
da  lui  non  fossero  derivate  che  quelle  due  scioccheriole 
di  particolari  nello  scenario  del  1662,  secondo  immagina 
il  Bévotte  (op.  cit.,  pag.  133)? 

Tant'è,  ripicchiando:  l'Italia,  non  amante  delle  tinte 
rosse,  non  le  venne  fatto  di  prendere  sul  serio  il  tipo  di 
Don  Giovanni  ;  accoltolo  per  caso  durante  l'allagamento 
di  soggetti  spagnuoli  che  invase  il  teatro,  ci  si  divertì  per 
le  arguzie  e  il  meraviglioso.  Niente  altro.  Anche  dopo 
Molière  e  Rosimond,  il  Goldoni  non  vede  nel  suo  Don 
Giovanni  che  un  dissoluto  di  dubbio  genere,  e  tentando 
il  tragico,  inciampa  in  un  brutto  comico. 

Fertanto  questi  i  tratti  propri  al  Convitato  del  Giliberto, 
che  il  Bévotte  estrarrebbe  dal  confronto  delle  due  com- 
medie francesi  premolieriane  : 

Abolizione  o  quasi  della  parte  comica;  tentativo  di 
rappresentazione  di  un  carattere  ;  espressione  di  un  liber- 
tinaggio teorico,  oltreché  di  costumi;  una  tal  raffinatezza 


—  132  - 

perversa,  ai  personaggi  italiani  non  comune  (atto  1°, 
scena  III,  del  Villiers).  Quanto  ai  personaggi,  sarebbero 
esclusi  1  due  Re,  la  duchessa  Isabella,  il  marchese  Della 
Mota,  lo  zio  di  Don  Giovanni,  il  Ripio  di  Tirso;  gli 
altri  nomi,  mutati  :  Don  Gonzalo  in  Don  Fedro,  Ottavio 
in  Don  Filippo,  Catalinon  in  Filippino,  probabilmente 
come  in  Villiers  :  stando  con  Dorimond,  in  Brighella. 

Lo  scenario  del  1662  riportatoci,  oltre  che  dal  Gueu- 
lette,  dal  Boulmiers,  dal  Cailhava,  dal  Castil-Blaze  (6), 
varia,  ma  non  essenzialmente,  traverso  le  varie  redazioni. 
E  in  cinque  atti.  S'inizia  il  \°  atto  con  una  scena  in  cui 
Arlecchino  e  il  Re  s' intrattengono  sulle  sregolatezze  di 
Don  Giovanni  ;  Arlecchino  spera  che  con  l' andar  del 
tempo  egU  metta  giudizio  e,  richiesto  dal  Re,  gli  racconta 
la  storia  della  regina  Giovanna,  una  delle  tante  del  suo 
repertorio.  La  scena  cambia:  in  una  strada  di  nottetempo 
con  la  lanterna  in  cima  alla  spada,  Arlecchino  va  in  cerca 
del  padrone,  con  cui  ha  il  duello  buffo  che  già  vedemmo 
nel  Cicognini.  Viene  poi  il  duca  Ottavio  con  Pantalone 
il  quale,  mentre  i  due  padroni  conversano  ha  loro,  è  fatto 
bersaglio  alle  facezie  di  Arlecchino:  riverenze,  sberleffi, 
pacche  sullo  stomaco,  soffiar  di  naso  nel  fazzoletto  di 
Pantalone,  pugni.  Don  Giovanni  intanto  ha  tramato  il 
suo  inganno  contro  la  fidanzata  dell'amico,  e  partitosi  il 
duca,  lo  confida  al  servo  che  avendo  fatto  le  sue  rimo- 
stranze discrete  ne  ricava  un  ceffone,  poi  viene  posto  di 
sentinella  alla  casa  della  vittima  ed  è  lì  che  lo  ripighano 
gli  autori  Bertati  e  Da  Ponte.  Dopo  l'uccisione  del  com- 
mendatore e  il  bando  del  Re,  ecco  la  scena  buffa  già 
veduta  nel  Cicognini  fra  Don  Giovanni  e  il  servo  ;  poi 
travestimento  reciproco.  Gli  sbirri  sopraggiungono  mentre 


—  133  — 

Arlecchino  è  solo,  tentano  corromperlo  con  l'oro  che  lui 
non  rifiuta,  mettendoli  però  su  una  falsa  strada. 

Il  2  atto  inscena  l'avventura  con  Rosalba,  con  tutti  i 
condimenti  delle  buffonate  di  Arlecchino  che  finisce  col 
cadere  sul  suo  di  dietro  facendo  crepare  una  delle  ve- 
sciche che,  uscendo  dal  pelago,  aveva  intorno  alla  vita: 
"Bene,  ecco  il  cannone  che  spara  in  segno  di  festa!". 

Don  Giovanni  mentre  giura  a  Rosalba  la  purità  delle 
sue  intenzioni  ha  un  accenno  che  richiama  al  Burlador  : 

—  Se  io  mento  m'uccida  un  uomo  di  petra  — . 
Compiuto  r  inganno,  è  la  volta  del  rouleau  de  parchemin 

che  Arlecchino  lancia  alla  pescatrice,  la  quale,  poiché 
questi  si  accinge  a  iscrivervi  il  suo  nome,  disperata  si 
getta  in  mare. 

Avviene  nel  3"  atto  il  rapimento  di  una  villigiana  mo- 
strataci prima  in  atto  di  bezzicare  amorosamente  col  suo 
damo  cui  Don  Giovanni  regala  del  nome  di  Cornelio. 

—  Ma  non  è  il  mio  nome!  —  Lo  sarà  ben  tosto!  —  Ha 
poi  luogo  la  scena  della  statua  del  mausoleo  ;  l' invito 
fatto  dal  servo  per  comando  del  padrone  è  ripetuto  da 
questo;  inserita  è  una  finzione  di  pentimento  giocata  da 
Don  Giovanni  e  che  si  risolve  in  un  calcio  ad  Arlecchino 
che  l'ha  presa  sul  serio.  (Converrà ripensare  alla  scena  li 
dell'atto  5*^  di  MoHère:  Don  Giovanni  che  tenta  con 
buon  esito  l'ipocrisia?). 

Al  4"  atto  nuove  rimostranze  di  Arlecchino  al  padrone, 
cui  racconta  la  favola  dell'asino  carico  di  sale  e  dell'asino 
carico  di  spugne  e  quella  del  Cochon  de  lait,  che  fanno 
tanto  effetto  sul  padrone,  da  farlo  di  nuovo  dichiarare 
pentito.  Arlecchino  si  butta  in  ginocchio  a  ringraziare 
Giove,  ma  il  brusco  risveglio  di  una  pedata  a  posteriori 
lo  convince  che  si  tratta  di  una  replica  dello  scherzo  del 


—  134  — 

3°  atto.  E  una  ridda  di  razzi  umoristici  scoppiettano  nel 
corso  della  scena,  in  cui  tra  un  boccone  e  l'altro  Arlec- 
chino solletica  il  debole  del  padrone  con  allusioni  a  un 
suo  amorazzo  con  una  vedova  ;  versa  la  saliera,  l'oliera, 
mette  il  suo  cappello  sulla  testa  di  Don  Giovanni.  Lo 
Zanni  di  tutti  questi  lazzi  sceglieva  tanti  per  ogni  rap- 
presentazione, prolungando  questa  a  piacere  suo  e  del 
pubblico.  La  seconda  cena  che  occupa  il  5  "  atto  è  meno 
diffusa  della  prima  :  Arlecchino  riprende  le  barzellette  di 
Catalinon  a  proposito  della  tovaglia,  sulla  mensa  funebre, 
testimoniante  l'assenza  del  lavandaio...,  dei  cibi  poco  com- 
mestibili; e  lo  scenario  termma  senza  la  scena  dei  demoni. 
L' importanza  di  questo  scenario  sta  nell'esser  il  primo 
in  ordine  di  tempo  che  conosciamo  per  la  traduzione 
francese.  La  derivazione  dal  Cicognini  è  palese  ;  ma 
anche  le  magre  linee  del  rifacimento  cicogniano  sono 
dirotte  dal  ridicolo  che  imperversa  e  spadroneggia. 

Del  Burlador  direttamente  e'  è  poco  in  apparenza, 
nulla  in  sostanza  :  le  facezie  del  mare  che  avrebbe  almeno 
potuto  contenere  tanto  vino  per  quanta  acqua  (JBur.,  atto  I  ", 
scena  Xl),  dei  piatti  che  Patrizio  lamenta  che  Don  Gio- 
vanni non  gli  abbia  permesso  di  toccare  (atto2",  scenai), 
—  particolare  che  nello  scenario  è  trasposto  all'atto  4  e 
messo  in  azione  da  Arlecchino  — ,  della  tovagHa  non  di 
bucato  (atto  3'\  scena  Xlll),  e  gli  ammonimenti  tentati 
dal  servo,  sono  affinità  di  troppo  poco  momento  per  con- 
cluderne un  qualsiasi  influsso  diretto,  seppure  non  con- 
vinca meglio  risalire  allo  scenario  ricavato  dallo  spagnolo, 
che  si  è  presupposto,  o  caricare  addosso  allo  Zanni 
stesso  che  faceva  raccolta  di  lepidezze,  la  colpa  di  inven- 
tore di  queste  non  proprio  gemme  di  arguzia,  fors'anche 
pervenutegli  di  seconda  mano. 


—  135  — 

Col  Giliberto  specificamente  il  Bévotte  che  ormai  sen- 
z'altro ne  estrae  il  Convitato  irreperibile,  come  una  radice 
quadrata,  dalle  due  commedie  francesi  che  ne  derive- 
rebbero riscontrerebbe  nello  scenario  queste  attinenze  : 
la  soppressione  dell'episodio  di  Isabella;  l'idea  di  un 
moto  di  pentimento  sincero  in  quelle,  finto  nello  scenario  ; 
il  racconto  intorno  alla  vedova.  Ma  chi  dice  che  questi 
elementi  non  discendessero  piuttosto  dai  due  francesi 
semplicemente?  E  chi  dice  che  essi  per  trovarsi  nello 
scenario  del  1662,  fossero  anche  in  quello  del  58? 

Dal  Cicognini  deriva  l'opera  tragica  in  prosa  di  Andrea 
Ferrucci,  dello  stesso  titolo,  che  rappresentata  nel  1 678 
e  ripresa  nel  1684,  riapparve  rifusa  nel  1690,  —  il  nome 
dell'autore  anagrammato  in  Enrico  Prendarca(7j. 

Il  drammatico  vi  s'avvantaggia  sul  comico,  che  pure 
non  n'è  escluso,  e  a  Don  Giovanni  è  aggiunto  il  tratto 
di  un  epicureismo  spicciolo  e  arguto  che  avviva  alquanto 
la  scialba  figura  sgorbiata  dal  Cicognini.  Del  resto,  rara 
com'  è,  questa  commedia  è  stata  poco  curata,  perchè  mal 
nota  a  chi  non  possa  disporre  dell'edizione  del  1 706 
che  si  trova  nella  Biblioteca  Universitaria  di  Bologna  ; 
e  i  due  nostri  che  si  occuparono  di  ricerche  dongiovan- 
nesche (Brouwer  e  Farinelli)  non  ce  ne  dicono  che  l'uno 
niente,  l'altro  poco. 

Resterebbe  anche  in  questo  di  attaccarsi  al  volgare 
espediente  del  questuar  da  estranei  notizie  di  casa  pro- 
pria, di  chieder  lume  al  Bévotte  che  diffusamente  ne 
parla,  intorno  a  una  commedia  che  non  sarebbe  mestieri 
uscir  di  patria  per  ritrovare. 

Chi  scrive  in  ogni  modo  non  ha  avuto  bisogno  di  ri- 
correre all'edizione  del    1 706,   poiché  nella  Biblioteca 


—  136  - 

Vittorio  Emanuele  di  Roma  ha  trovato  una  redazione 
anonima  molto  posteriore,  ma  poco  variante,  e  di  cui  non 
gli  consta  che  altri  si  sia  valso. 

E  del  1848,  stampata  presso  Giuseppe  D'Ambra  a 
Napoli,  e  porta  sul  frontespizio  :  "  Nuovo  Convitato  di 
Pietra  ovvero  Don  Giovanni  Tenorio  "  e  sotto  :  "  con  Pul- 
cinella servo  di  un  padrone  impertinente  e  spaventato  da 
una  statua  che  parla  e  cammina.  Opera  tragica  " .  Data 
la  difficoltà  di  studio  che  presenta  la  commedia  perruc- 
ciana,  poterla  conoscere  attraverso  una  redazione  tanto 
simile  all'originale,  non  è  vantaggio  disprezzabile.  E  la 
unica  differenza  di  qualche  rilievo  con  l'edizione  che  è  in 
Bologna,  è  che  il  servo  Co  viello  che  in  questa  è  al  seguito  di 
Don  Giovanni,  nella  nostra  redazione  passa  agli  ordini  del 
duca  Ottavio  che  aveva  nell'altra  per  valletto  PolHcinella, 
che  ora  diventato  Pulcinella,  migra  sotto  il  regime  di  Don 
Giovanni.  Alla  pescatrice  misantropa  torna  il  nome  origi- 
nale di  Tisbea,  ciò  che  mostra  aver  il  Perrucci  attinto 
anche  a  fonte  spagnuola.  E,  vista  di  presso,  la  commedia 
perrucciana  non  è  quel  mero  ricalco  cicogniniano  che  pur 
sembrerebbe  al  Bévotte,  la  miserella  trama  del  poeta  di 
Prato  essendosi  per  lo  meno  rimpolpata  di  sceneggiatura 
doviziosa,  fatta  in  taluni  punti  viva  di  drammatico  pretto  ; 
allo  sgranellamento  di  rosario  delle  scene  minute  sosti- 
tuendosi talvolta  un  andar  sostenuto  di  teatralità  esperta: 
gioco  di  luci  non  sempre  falso  ;  nobiltà  di  dicitura  non 
sempre  del  peggior  seicento. 

Tra  le  immagini  ve  n'hanno  troppe,  sì,  di  ridicole  e 
di  un  ridicolo  da  Achillini  e  Preti.  Es.:  atto  I  ",  scena  II. 
Parla  il  Re  a  Don  Giovanni  dopo  il  soHto  spegnimento 
del  lume  :  "  Se  mi  smoi-zasti  il  lume,  maggiormente  ac- 
cendesti nel  mio  cuore  lo  sdegno,  mentre  maggiormente 


—  137  — 

l'ombra  dei  tuoi  tradimenti  dissolverà  in  pioggia  collo 
spargimento  del  tuo  sangue,  il  sole  della  mia  maestà  of- 
fesa". In  compenso, qualche  immagine  gustosa,  taluna  bella: 
atto  2'',  scena  IV,  di  donna  Anna  è  detto:  "  Mostra  dei 
labbri  le  rose  ed  ecco  una  primavera  la  riconosci  " .  Fa 
ripensare  all'altra  immagme  simile  che  sa  di  cieli  napo- 
letani corsi  di  canzoni,  del  Della  Porta,  in  uno  dei  passi 
in  cui  è  quasi  grande:  "Tu  non  sei  il  fiore  che  nasci  a 
tempo  di  primavera,  ma  a  suo  dispetto  la  primavera  nasce 
dove  tu  sei  "  {La  Fantesca,  atto  1  ",  scena  III).  Piacevol- 
mente ridicola  sì  da  far  quasi  opportuno  il  secentismo 
accoltovi,  tal  altra:  atto  3  ,  scena  V  (il  duca  Ottavio  dà 
uno  schiaffo  a  Pulcinella  che  gli  ha  denunciato  il  pa- 
drone): "  E  perchè  dubito  che  non  ti  dimentichi  l'amba- 
sciata, resti  registrata  sulla  carta  del  tuo  volto  colla  penna 
di  questa  mano". 

Le  più  salienti  varianti  alla  commedia  cicogniniana 
sono  :  1  °  atto  —  Don  Giovanni  si  getta  dal  balcone  della 
reggia  e  va  a  cadere  quasi  addosso  al  povero  Pulcinella 
che  andava  in  traccia  di  lui  (scena  V)  —  Pulcinella 
giuoca  la  parte  dello  sbiiTO,  approfittando  del  buio,  e 
sperando  spillare  un  po' d'oro  al  padrone  (stessa  scena) 
—  Tisbea  ha  una  serva  Rosetta  cui  fa  gli  approcci  Pul- 
cinella ma  senza  riuscita  (scena  Xlll)  —  Tisbea  si  getta 
in  mare,  mentre  Don  Giovanni  fugge  (scena  XV). 

Di  queste  quattro  diversioni,  la  prima  e  quarta  mi 
consta  sieno  esclusive  a  questa  redazione. 

2"  atto  —  Lettera  di  Donna  Anna,  non  più  come  in 
Tirso,  consegnata  a  Don  Giovanni  perchè  la  trasmetta 
altrui,  ma  datagli  perchè  fattosi  passare  per  duca  Ottavio 
(scena  V)  —  Imprecaizioni  dolorose  del  commendatore 
morente  (scena  Xl). 


—  138  — 

3°  atto.  —  Delazione  di  Pulcinella  e  ceffata  del  duca 
Ottavio  (scena  V).  Scena  del  tempio  inviolabile,  ripresa 
dal  Goldoni  nel  suo  5"  atto. 

11  carattere  dongiovannesco  è  toccato  e  suscitato  da 
più  punti.  Allo  zio  (atto  1  ",  scena  111)  che  lo  rimprovera  del- 
l'offesa alla  Duchessa  :  —  "Fu  reciproco  il  diletto  ".  Alla 
duchessa  Isabella,  che  l'incalza,  avvedutasi,  con  la  do- 
manda: "  Chi  sei?  ",  —  racconta  la  vittima  (scena  IV) 
egli  ha  detto  chiamarsi  il  diavolo.  Pulcinella  altrove  con- 
templa dal  suo  angolo  visuale  la  stranezza  del  padrone 
(scena  V):  "  ma  pò  quando  se  vedo  nnante  lo  mmagnare 
se  scorde  de  essere  nnamorato  e  l'afferra  la  lopa  ". 

Si  ritrova  l'ombra  molieriana  sulle  parole  di  Don  Gio- 
vanni, esprimenti  il  rancore  procuratogli  dalla  corrispon- 
denza di  amorosi  sensi  tra  il  duca  Ottavio  e  la  duchessa 
Isabella  :  "  Quanto  più  li  scorgo  accesi,  tanto  più  predo- 
mina in  me  il  desiderio  amoroso  ".  (Scena  Vi). 

È  diventato  il  capriccioso  rompicollo,  che  già  ha  di- 
chiarato un  po'  prima  :  "  Per  soddisfare  i  capricci  miei  - 
Al  centro  ancor  precipitar  saprei  "  (scena  II  stesso  atto). 
"  Corre  sul  destriero  del  suo  capriccio  a  briglia  sciolta  ". 
Quanto  a  Dio,  ha  ben  altro  a  pensare,  Lui,  che  all'ine- 
zie mortali.  "  Il  cielo?  che  altro,  se  non  un  composto  di 
materia,  come  noi,  e  con  le  sue  imperfezioni  e  tacche- 
ielle,  come  noi?  ".  (Atto  2",  scena  Hi). 

Nella  scena  XV  del  1"  atto,  si  mostra  ingenuamente 
feroce.  ATisbea,  che  gli  ha  ricordato  la  promessa  di  pren- 
derla per  sua  moglie  :  "Aspetta  che  mi  ammogli  e  ti  pren- 
derò per  mia  moglie,  ossia  per  serva  di  mia  mogHe  ".  Il  duca 
Ottavio  non  riesce  a  comprendere  che  razza  di  uomo  sia  il 
suo  antagonista  (atto  2\  scena  XVI):  "  Cupido,  che  per 
l'oggetto   amato  lega  dell'amante  i  cuori  e  i  sensi,  come 


—  139  — 

è  possibile  che  in  un  medesimo  tempo  dia  volontà  ad  un 
volere  per  diversi  oggetti?".  Domanda  a  cui  durerebbe 
un  pezzo  a  trovare  risposta. 

Il  resto  aggiunge  poco  al  carattere,  e  alla  trama. 

Ma  i  gemiti  del  commendatore  (atto  2',  scena  XI)  me- 
ritano di  essere  ricordati  per  la  vivacità  sofferente  dell'e- 
pressione  : 

Ferma,    barbaro,   ferma 

Torna,   torna  a   ferirmi 

Che,   benché  semivivo. 

Avrò  forze  bastanti 

Di  accompagnare  al   fine 

Con  la   tua  morte  ancor  le  mie  rovine. 

Già   l'anima  s'affretta 

All'uscir  dal  mio  sen,   né  fo  vendetta. 

Versi,  l'ultimo  specialmente,  efficacemente  singhioz- 
zati. Questi  starnazzamenti  di  poesia,  che  stan  per  essere 
il  levar  di  bollore  della  prosa  mossa,  già  in  Cicognini  più 
parcamente  in  uso  (ma  tanto  da  infastidire),  son  divenuti 
qui  frequentissimi,  ma  assai  più  tempestivi  e  soddisfa- 
centi. Talora  paiono  il  necessario  canto  dell'emozione 
esasperata. 

L'ultima  scena  d'Inferno  è  piena  di  significato.  11  pec- 
catore geme  le  sue  torture.  Comincia  con  lo  stupore  della 
caduta  nel  baratro:  "Ove  sono?  ove  caddi?".  Poi  la 
percezione  del  tristo  lezzo,  dell'atroce  tormento  :  "  Che 
puzzo,  ohimè  che  fuoco  ",  che  si  fa  disperazione  irre- 
frenata  moltiplicante  gli  oggetti  del  suo  martirio  :  "  Che 
basilischi,  che  sibili,  che  rasoi,  ecc.  ".  Poi  chiede  paz- 
zamente il  tormento  :  il  dolore  che  non  trova  più  requie 
che  in  se  stesso  :    "  Moltiplicate  ognor  flagelli  e  scempi  ". 


—  140  — 

Dalla  commedia  di  Tirso,  in  conclusione,  a  questa,  si 
può  ricostruire  un  processo  di  semplificazione  degli  ele- 
menti di  intreccio,  oltre  a  quello  ideologico,  che  fu  osser- 
vato. In  Tirso,  i  quattro  episodi  delle  burle  sono  senza 
legame  tra  loro,  ne  coi  personaggi,  oltre  quello  della  ne- 
cessità scenica:  arte  più  primigenia.  Nel  Cicognini  vi  è 
già  l'identità  del  personaggio  -  vittima  nella  prima  e  terza 
burla  ;  l'azione  tende  a  ridursi,  com'è  proprio  del  rima- 
neggiamento, che  in  compenso  dilata  i  particolari  super- 
flui ;  nel  Ferrucci,  un  unico  filo  scenico  unisce  prima, 
terza  e  quarta  burla,  poiché  l'indemoniato  beffatore  co- 
mincia col  padrone  e  finisce  col  servo  ;  all'uno  gioca  la 
prima  e  terza,  all'altro  la  quarta  burla  col  rapimento  della 
sposa  Pimpinella. 

La  commedia  del  Ferrucci  non  fu  inavvalorata  nel 
successivo  svolgersi  dejla  leggenda.  Nel  1897  fu  sco- 
perta dal  Croce  e  depositata  alla  Nazionale  di  Napoli 
una  raccolta  di  scenari  in  due  volumi  della  fine  del  600, 
contenente  nel  secondo  volume,  14°  nella  numerazione, 
un  Convitato,  che  il  Brouwer  studiò  nella  Rassegna  cri- 
tica della  letteratura  italiana  (giugno  dello  stesso  anno). 

E  palese  derivazione  del  Ferrucci  con  molta  dovizia 
di  particolari  e  personaggi.  Tra  le  scene  aggiunte,  una 
fia  Tartaglia  e  il  Dottore,  dopo  la  visita  di  Don  Fietro 
mandato  dal  Re  al  duca  Ottavio  ingiustamente  incolpato 
della  violenza  alla  duchessa  Isabella  ;  un'altra  fra  Foz- 
zolano  e  Follicinella  dopo  che  Don  Giovanni  si  è  riti- 
rato con  la  pescatrice  ;  gran  copia  di  lazzi  e  comicità 
profusa. 

Altro  scenario  dongiovannesco  posteriore  in  tempo  al 
precedente,   benché   senza  data,   rinvenne    il  Brouwer 


—  141  — 

nella  raccolta  in  cui  è  compreso  l'Ateista.  Molto  ridotto, 
somiglia  al  precedente  (8),  e  il  Bévotte  lo  fa  derivare 
pure  dal  Penucci  ;  mi  pare  veramente  si  riconnetta  al 
Cicognini.  Lo  zanni  è  qui  Zaccagnino  ;  i  due  contadini, 
che  nel  precedente  scenario  eran  senza  nome,  vengon 
battezzati  Capellino  e  Spinetta.  Il  commendatore  è  Don 
Gonzal  d'Uglion.  La  denuncia  del  servo  contro  il  pa- 
drone (terzo  atto)  volontaria  nel  Ferrucci,  inavveduta  nello 
scenario  precedente,  manca.  Così  pure  manca  il  suicidio 
della  pescatrice.  La  smorta  figura  di  Don  Giovanni  è 
fuggevolmente  punta  di  vivo,  quando  il  Re  pone  la  taglia 
a  trovare  il  reo  dell'uccisione  di  Don  Gonzal,  e  "  Don 
Giovanni  intende  e  se  ne  ride  ".  Al  3"  atto  Zaccagnino 
gli  riferisce  che  il  duca  Ottavio  ha  dichiarato  di  voler 
uccidere  il  reo,  e  Don  Giovanni  gli  dà  uno  schiaffo. 

Nella  scena  finale,  a  differenza  che  altrove,  sono  i  dia- 
voh  che  in  coro  cantano  al  dannato  abbrustolendolo  : 
delle  due  quartine  finali,  la  prima  è  estranea  alla  canzone 
dei  diavoli  e  allegorica  dell'epicureismo  che  ha  fatta  la 
colpa  del  dannato  : 

lo  godo  il   mondo  con  gioia   e  diletto 
Prendendomi  ad  ognor  spasso  e  piacere, 
E  pure  che  adempisca  il   mio   volere, 
D'altro  poco   mi  curo   il   mal   effetto. 

Del  1 870  è  ancora  una  redazione  anonima,  "  a  norma 
dell'originale",  della  poco...  esemplare  opera  esemplare 
del  Cicognini,  stampata  in  opuscoletto,  a  San  Fermo,  in 
Fadova:  unica  differenza  notevole,  la  sostituzione  di  Truf- 
faldino a  Fassarino. 

Così  come  dalla  distesa  trattazione  fattane  appare, 
nella  commedia  italiana,  il  tipo  dongiovannesco  si  era 


—  142  — 

venuto  acclimando  e  modificando.  La  concezione  spa- 
gnuola  vedeva  nella  leggenda  ed  esprimeva  nel  dramma 
il  pio  miracolo  della  giustizia  divina  pronta,  ove  l'umana 
è  tarda,  a  romper  le  leggi  terrene  per  manifestarsi  incon- 
futabilmente. Per  reo  sceglieva  non  un  sanguinario  in  se 
chiuso,  da  cui  poco  allettamento  sarebbe  derivato  alla 
bellua  multorum  capitum  di  Orazio  (mallevadore  lui  !), 
per  la  quale  ove  manchi  l'elemento  amoroso  poca  attrat- 
tiva ha  la  scena,  vi  siano  tutte  le  Zaire  di  questo  mondo  ! 
Scelse  anzi  l'amoroso-tipo,  colorando  e  definendo  il 
dramma  ciò  che  la  leggenda  portava  m  se  come  possibi- 
lità d'arte  ;  scelse  il  molto  amato,  facendo  rotare  intorno 
al  pianeta  Don  Giovanni  tutti  i  satelliti  delle  donne  e 
degli  uomini  ingannati. 

La  concezione  italiana  è  invece  subito  presa  di  un'altra 
veduta  più  consona  alla  sua  curiosità. 

Libertini,  amorosi  non  mancavano  oltre  che  alle  nostre 
leggende  popolari,  neanche  alla  nostra  galleria  letteraria, 
dal  Decamerone  ai  personaggi  aretineschi;  quale  interesse 
in  un  cavaliere  Sivigliano  che  ha  del  tempo  e  delle  donne 
da  perdere  e  dei  rivali  da  cuculiare  allegramente  ? 

Perciò  Don  Giovanni,  nella  nostra  commedia  del 
tempo,  poco  gli  si  bada.  Gli  è  rimasto  il  nome,  lontano 
ricordo  della  figura  di  Tirso,  ma  perì  di  lui  gran  parte. 
Perciò  alla  statua-portento  si  rivolgono  e  incatenano  le 
attenzioni.  El  hurlador  de  Sevdla  y  concidado  de  piedra 
si  è  fatto  semplicemente  Convitato  di  Pietra.  E  poiché 
il  miracoloso  e  il  comico,  come  il  sublime  e  il  ridicolo, 
sono  divisi  da  una  sola  linea,  ecco  alla  strabiliante  statua 
importantissima  si  accompagnano  i  non  meno  importanti 
sgangasciamenti  degli  zanni.  Ecco  che  Arlecchino  passa 
avanti  a  Don  Giovanni. 


—  143  — 

E.  qui,  mi  pare,  la  genesi  trasformativa  di  Don  Gio- 
vanni m  Italia. 

Quanto  più  il  soggetto  dongiovannesco  furoreggiando 
impaludava  nella  commedia  dell'arte,  tanto  più  il  Gol- 
doni, riserbato  a  sconfìggere  tale  genere  comico,  doveva 
essere  piccato  di  tanta  popolarità.  Nel  dicembre  1735, 
racconta  nelle  sue  Memorie  (voi.  2,  cap.  39,  38),  era 
stato  preso  in  trappola  dalla  civetteria  dell'attrice  Eli- 
sabetta Passalacqua,  sua  amante,  che  gli  preferiva  di  na- 
scosto il  primo  attore  Vitalba  ;  oltraggiata  da  lui  pel  tra- 
dimento, memore  della  ribalta,  gli  giocò  la  parte  della 
disperata  e,  fìngendo  di  volersi  uccidere,  lo  commosse 
tanto  da  indurlo  non  che  a  perdonarla,  a  chiederle  per- 
dono. Del  che  quella  poi  se  la  rideva  con  l'altro  amante. 
Qui  il  motivo  di  una  commedia  che  il  Goldoni  non 
avrebbe  nulla  perduto  a  non  scrivere.  Il  carnevale  del- 
l'anno appresso  andava  in  scena  a  Venezia  il  Don  Gio- 
vanni Tenario  ossia  il  Dissoluto  (9). 

Il  Goldoni  si  vanterà  poi  (Memorie,  voi.  2,  cap.  39) 
di  aver  fatto  regalo  alla  patria  di  questo  soggetto  che 
pure,  non  lo  nasconde,  non  gli  è  mai  stato  simpatico  ; 
confessione  in  cui  può  anche  vedersi  una  scusa.  Già  la 
commedia  ha  un  vizio  organico,  volendo  essere  una  ven- 
detta personale  in  azione:  cosa  pericolosa. 

Le  grandi  vendette  dei  grandi  intelletti  sulla  lor  sorte  o 
sugli  uomini  sconfinano  sempre  dalle  quattro  mura  del  fat- 
terello personale  che  può  averle  originate  ;  il  risentimento 
specialmente  del  vinto  deve  esser  passato  per  molte  tra- 
file, prima  di  purificarsi  in  arte;  si  pensi  a\Y Aspasia,  o  se 
si  vuole,  al  Corbaccio.  Ora,  il  dispetto  del  Goldoni  che 
gemica  fuori  da  tutti  gli  interstizi  della  fragile  tela,  è  vera- 


—  144  — 

mente  greggio  e  di  qualità  inferiore  :  e  le  proporzioni  tra 
l'episodio  essenziale  alla  sua  intenzione  e  il  soggetto  es- 
senziale alla  sua  opera  sono  così  mal  tenute,  che  quello 
prende  talora  il  posto  di  questo:  donde  esce  un  tale  stra- 
bismo logico  di  sgradevolissimo  effetto.  Ma  prescindendo 
da  ciò,  il  Goldoni  non  avrebbe  saputo  darci  un  Don  Gio- 
vanni vivo  e  vero.  Grande  nel  cogliere  la  vita  multipla  e 
varia,  nel  suo  brulicare  (Le  baruffe  chiozzote,  Il  Ven- 
taglio), ma  più  fotografo  quasi  che  pittore,  raramente  con- 
ficca il  suo  bulino  oltre  la  superfìcie  delle  sue  figure,  pur 
illudendo  talora,  per  gioco  di  prospettiva,  a  un  qualche  bar- 
lume di  psicologia,  (come  nella  Locandiera,  in  cui  Miran- 
dolina potrebbe  anche  passare,  con  molta  condiscendenza, 
per  una  specie  di  Don  Giovanni  femmina)  ;  e  questo  è  che 
più  lo  differenzia  dal  suo  maggiore  in  tempo  e  arte  Poquelin. 
Squallida  la  concezione  dell'amore,  in  tutta  l'opera  del  Gol- 
doni, a  confronto  delle  figure  molieriane  soffuse  di  femmi- 
nilità: Elise,  Marianne,  Henriette,  Angélique,  MéHcerte. 
Il  Cicognini  senza  nessuna  pretesa  psicologica  (ohibò!) 
aveva  aromatizzato  di  comicità  la  sua  scarna  operucola. 
Goldoni  toghe,  come  disdicevole,  anche  l'elemento  co- 
mico, sacrifica  lo  zanni.  La  commedia  avrebbe  potuto 
reggersi  per  un  tal  efflato  di  fiabesco  cui  giustamente  sa- 
rebbe parso  al  Farinelli  più  atto  Carlo  Gozzi.  Il  Goldoni 
non  se  la  fa  col  meravigHoso,  taglia  la  parte  leggendaria, 
lascia  le  statue  sul  loro  piedestallo.  Ove  poteva  rifugiarsi 
un  valore  qualsiasi  della  commedia?  Illudendosi  di  am- 
morbidire la  rappresentazione  del  vizio,  la  condisce  di 
versi  ah  !  quanto  poco  molli.  La  chitarronata  si  riduce 
ad  una  peu^odia  involontaria,  la  peggiore  delle  parodie. 
Uno  schematico  riassunto  per  fermare  questa  diserzione 
di  Don  Giovanni  dalla  leggenda  : 


—  145   - 

Don  Alfonso,  ministro  del  Re  di  Castiglia,  annuncia 
a  Donna  Anna  davanti  al  padre  di  lei,  che  il  Re  le  ha 
destinato,  sposo,  il  duca  Ottavio  ;  —  malcontento  della 
fanciulla.  (Atto  1"). 

Don  Giovanni  (fuor  di  metafora,  il  Vitalba)  sfuggendo 
ai  banditi,  s'imbatte  nella  campagnuola  Elisa  (la  Passa- 
lacqua)  amorosa  di  Carino  (il  Goldoni),  e  non  stenta  ad 
appiccarle  amore.  La  duchessa  Isabella,  tradita  da  Don 
Giovanni  a  Napoli,  è  intanto  arrivata  in  Castiglia,  sotto 
maschili  spoglie,  dietro  le  orme  del  traditore  :  il  duca 
Ottavio  le  offre  protezione.  Qui  è  la  scena  che  stava  a 
cuore  all'autore,  fra  Carino  che  ha  visto,  e  Elisa  che  non 
può  negare  (scena  VII)  :  questa  simula  il  suicidio  e  quegli 
si  intenerisce.  (Atto  2"). 

Isabella  s'incontra  con  Don  Giovanni  e  vuol  a  forza 
battersi  con  lui  ;  entra  il  commendatore,  e  Don  Giovanni 
riesce  a  farla  passare  per  pazza  davanti  al  commenda- 
tore e  poi  a  Don  Alfonso.  Elisa  intanto  raggiunge  Don 
Giovanni  (è  il  seguito  dell'avventura  del  Goldoni).  Ca- 
rino interviene;  e  quegli,  che  non  gli  parvero,  gliela 
rende  ;  l'ingannato  prende  la  rivincita  lasciandola  in  asso 
anche  lui.  (Atto  3"). 

Don  Giovanni,  invitato  a  cena  dal  commendatore,  in 
una  sua  momentanea  assenza,  attenta  alla  figlia  e  uccide 
in  duello  il  commendatore  sopraggiunto  (atto  4"). 

Don  Giovanni  si  è  rifugiato  nell'atrio  immune,  inse- 
guito dalle  guardie.  Elisa  viene  a  porgergli  il  mezzo  di 
scampare,  ma  sopraggiunge  Isabella  reclamante  vendetta 
ancora.  Per  salvarsi.  Don  Giovanni  chiede  di  sposare 
Donna  Anna,  che  non  rifiuta,  —  quando  ecco,  svelatosi 
l'inganno  di  Napoli  per  l'arrivo  di  un  mandato  di  cattura 
da  parte   del  Re  di  Napoli,  il  colpevole  viene   abban- 

10  —  F.  FUÀ,  Don  Giovanni. 


—  146  — 

donato  ai  suoi  furori  che  gli  attirano  il  fulmine  definitivo 
(Atto  5"). 

Goldoni  ha  ricordato  Molière,  ma  credo  estempora- 
neamente, in  un'opera,  come  la  sua,  di  primo  getto.  L'epi- 
sodio campagnuolo  di  Mathurine  e  Pierrot  gli  ha  forse 
avvivata  l'intenzione  di  portare  sulla  scena  i  casi  suoi, 
apprendendogli  il  modo  di  trasvestirli;  l'inseguimento  mo- 
lieriano  di  Elvira  e  dei  fratelli  Don  Carlos  e  Don  Alonso 
(lo  stesso  particolare  dei  briganti!)  si  è  ridotto  all'altro 
alquanto  volgare  di  Isabella  vestita  da  uomo,  con  tutti  i 
suoi  duelli  da  Clorinda  a  spasso  :  una  specie  di  sovrap- 
posizione confusionaria  forse  per  la  fretta  e  la  poca  cono- 
scenza che  allora  il  Goldoni  aveva  del  francese. 

Dei  due  argomenti  mal  amalgamati  (il  libertinaggio  di 
Don  Giovanni,  e  la  leggerezza  di  Elisa),  questo  come 
più  sentito,  è  di  gran  lunga  meglio  espresso.  La  furberia 
della  campagnuola  piglia  talora  degli  aspetti  di  verità 
che  aggraziano  anche  il  verso  quasi  sempre  interito: 
confrontare,  nella  scena  VII  dell'atto  2",  di  rimando  alla 
domanda  di  Carino  che  cosa  facesse,  la  grazia  mimetica 
della  menzogna  di  Elisa,  in  versi  nei  quali  il  Goldoni  par 
contraffare  quella  voce  blanda,  che  doveva  essergli  ri- 
masta dall'ira  calcata  nel  cuore. 

La  candida  cervella  a  me  sì   cara 
Belar  intesi,   a  lei  corsi  Iremanle, 
Qualche  mal   dubitai  non  le  avvenisse... 

Manifesto,  il  gusto  dell'assaporare  la  illusoria  nemesi, 
quando  sulla  fine  del  3  '  atto  la  ingannatrice  resta  priva 
di  entrambi  gli  amanti  (scena  XIV). 

Nella  n  scena  dell'atto  5"  il  Goldoni  pensò,  credo, 
alla  situazione  simile  dell'atto  2",  scena  IV  di  Molière 


—  147  — 

(le  due  donne  contendentisi  l'amato)  ;  ma  o  la  volontaria 
astinenza  dal  comico  o  V  insufficienza  dei  mezzi  scenici, 
che  il  verso  gli  impaccia,  non  ve  lo  fece  intrattenere. 

Elisa  è  certo  il  personaggio  migliore  :  tipo  di  calcola- 
trice sulle  passioni  altrui  e  ingenuamente  crudele,  sebbene 
alla  fine  cada  nella  sua  tagliola,  —  ciò  che  l'autore  non 
avrebbe  desiderato  di  evitare  almeno  sulla  scena,  —  si 
può  dire  che  nelle  poche  scene,  si  manifesti  più  dongio- 
vannesca di  Don  Giovanni. 

Il  quale  è  del  tutto  sbagliato  :  il  Goldoni  è  rimasto  a 
galla  :  il  sotto-titolo,  il  ^Dissoluto,  già  lo  diceva.  Le  rei- 
terate assillanti  parentesi,  quelle  riflessioni  in  disparte, 
sono  —  all'autore  non  passa  pel  capo!  —  una  gravissima 
mancanza  psicologica,  anche  chi  sia  preparato  a  molto 
indulgere  ai  difetti  della  scena  d'allora  in  generale,  e  del 
Goldoni  in  particolare  ;  in  quanto  che  questo  sublineare 
commento,  questo  onghamento  interiore  in  mezzo  al  di- 
scorso, che  è  purtroppo  frequente  nelle  commedie  del  Gol- 
doni, se  è  fastidioso  e  irreale  altrove  (nei  grandi  autori  appar 
sempre  meno),  è  assurdo  qui  nel  carattere  di  Don  Giovanni, 
in  cui  l'azione  deve  essere  a  detrimento  della  riflessione 
massimamente  parlata,  come  consumatrice  dell'  impresa  ; 
ne  c'era  bisogno  di  studiare  troppo  la  psicologia  del  tipo, 
per  questo.  Don  Giovanni  che  annota  in  calce  i  suoi  pensieri 
è  come  il  poeta  che  faccia  il  commento  estetico  alla  poesia 
che  viene  creando  :  entrambi  non  si  reggono  ;  ma  entrambi 
in  verità  mettono  avanti  e  lasciano  che  altri  per  se  si  cibi  ; 
e  se  potranno  nature  complesse  (non  certamente  il  Don 
Giovanni  italiano  del  700,  così  unicellulare)  commentare 
parallelamente  la  propria  azione  (Lovelace),  come  il  poeta 
può,  sì,  guardare  oggettivamente  la  sua  opera  dopo  l'attimo 
creativo,  potranno  mai  esse  far  ciò  contemporaneamente? 


—  148  — 

Così,  ancora,  il  Burlador  di  Tirso  nella  scena  VII, 
atto  2 ',  monologava  fra  se  con  molta  verosimiglianza:  — 
"  Il  più  gran  gusto  che  io  possa  prendermi  è  d'ingannare 
una  femmina  e  lasciarla  senza  onore  ".  Enunciava  un  fatto, 
semplicemente,  quasi  sorpreso  egli  stesso  :  il  tipo  colto 
nel  centro.  In  Molière,  sebbene  chiacchieri  un  po'  troppo, 
è  conservato  a  Don  Giovanni  il  carattere  essenziale  di 
questa  inconsiderazione  piena  di  effetti,  quasi  semplice 
complessità,  che  De  Musset  fermerà  nell'appellativo  di 
candide  corrupteur.  Anche  quando  ad  esempio  (scena  II, 
atto  1  ")  dice  di  essere  stato  frappé  au  coeur  alla  vista 
del  tenero  amore  di  due  fidanzati  e  di  ripromettersi  un 
piacere  estremo  a  turbarne  la  concordia,  esso  stabilisce 
un  fatto,  da  cui  trarrà  le  sue  mighori  conseguenze  pra- 
tiche, non  ne  induce  un'ostentazione  di  crudeltà,  non  si 
tira  i  baffi  lui  stesso  nella  compiacenza  di  vedersi  così 
terribile.  Anche  poco  prima,  nella  professione  di  fede 
che  fa  a  Sganarello,  parla  come  semplificando  se  stesso, 
piuttosto  che  gonfiarsi,  e  mostrando  che  quel  che  dice  gli 
sembra  la  cosa  la  più  naturale.  Ecco  invece  come  questo 
Don  Giovanni  ciurmadore  (scena  V,  atto  3  ')  calca  con 
le  assi  del  palcoscenico,  le  roboanti  parole,  quasi  minac- 
ciose, del  monologo  : 

Le  catene  d'amor  io  prendo  a  gioco 
Poiché  costanza  nell'amor  non  serbo. 
Amo  sol  quando  il  giovanil  desio 
Secondar  mi  compiaccio,  e  solo  apprezzo 
Quella   beltà   che  possedere   io  speri. 

Il  verso  e  mezzo  contrassegnati,  nella  loro  severità 
disadorna,  ammetteremo  con  piacere  che  bene  stringano 
quel  pensiero  ormai  comune,  e  da  Molière  già  svolto  in 


—  149  — 

molte  parole,  che  si  ritrova  già  in  prima  forma  nel 
vecchio  epigramma  di  Marziale:  "Galla,  nega;  satiatur 
amor  "  :  l' insoddisfazione  del  desiderio  fatto  realtà  :  era 
più  bello  quel  che  si  era  sognato  !  Pensiero  che  la  poesia 
specialmente  moderna  ha  rosolato  ai  fuochi  di  tutti  i  do- 
lori e  di  tutte  le  immagini  !  (  1 0). 

Ma  segue  la  prova:  il  f avete  linguis  di  ogni  millan- 
tatore che  ha  ragione  di  temere  di  non  esser  preso  sul 
serio  : 

Piacquemi  un    di   Donna   Isabella,   e    quasi 
Mi  sedusse  ad  amarla  oltre  il  costume 
Ma  credendo  l'incauta  ai   miei  sospiri 
Sol  di   mia  libertà  mi  resi   amante. 

Poi  questo  Don  Giovanni  diventa  un  ribaldo  aggres- 
sore quando  incalza  in  casa  sua  donna  Anna,  che  pur 
propende  per  lui  ("...  ingrata  forse  io  non  sarò..."),  con  le 
sue  pretese,  e  ne  esige  senza  dilazione  eufemisticamente 
la  mano....  "o  questo  ferro  vi  darà  morte".  Espressioni 
da  macellaio  avvinazzato  dalle  quali  ogni  tratto  del  tipo 
è  sparito.  Meglio  avvisato  il  Goldoni,  quando  nella  di- 
chiarazione a  donna  Anna  sul  cominciar  di  questa  scena, 
dal  suo  Don  Giovanni  faceva,  al  dato  di  fatto  del  suo  tro- 
varsi in  Castiglia,  addurre  il  motivo  più  lusinghevole  per 
la  fanciulla,  cui  chiede  amore  :  è  venuto,  come  il  Man- 
dricardo  ariostesco,  solo  per  contemplar  la  bella  guancia  !: 
ciò  che  venne  altrove  riconosciuto,  come  genuinamente 
dongiovannesco. 

Tranne  questa  pausa  drammatica  di  assai  dubbio  gusto, 
Don  Giovanni,  in  Italia,  non  era  uscito  dalla  festa  piro- 
tecnica dei  lazzi, —  in  CUI  la  figura  perdevasi  di  vista,  — 
della  commedia  dell'arte.  La  quale  ormai  impossessata- 


—  150  — 

sene,  pareva  contendergli  per  sempre  l'Atlantide  dell'arte 
vera.  Le  folle  plaudivano  non  alla  figura  scorciata  e  spesso 
lasf:iata  nel  fondo,  ma  alle  capriole  improvvise  degli  zanni 
che  colorivano  di  giocondità  i  canovacci  che,  quali  noi 
serbiamo,  non  possono  parerci  molto  differenti  da  quello 
che,  verbigrazia ,  ai  critici  venturi  potranno  sembrare,  se 
vorranno  occuparsene,  gli  schemi  delle  nostre  attuali 
films. 

Nel  1673  era  aggiunto  un  supplemento  allo  scenario 
del  Convitato,  con  nuovi  personaggi.  Con  variazioni  su- 
perficiali furoreggiano  gli  scenari  di  teatro  in  teatro  :  nel 
1  709  alla  Sala  di  Bologna,  ivi  ancora  il  1 6  dicembre  1  739 
(Gran  Convitato  di  pietra);  il  17  settembre  1746  ai  For- 
magliari  di  Bologna  davanti  alle  principesse  di  Modena; 
a  Padova  il  6  maggio  1738  con  la  nota  compagnia  Pel- 
landi  ;  perfino  nel  1 820  il  giornale  dei  teatri  comici  re- 
gistra nove  rappresentazioni  (I  1-19  novembre)  del  Con- 
vitato, date  dalla  compagnia  Perotti  al  San  Luca  di 
Venezia. 

Mentre  "  l'ebra  vegliarda  "  sbracavasi  di  piene  risa, 
il  teatro  sostenuto  andava  per  la  sua  ;  contesogli  il 
territorio  di  Talia,  si  rifugia  in  quello  di  Calliope,  ove  il 
melodramma  dello  Zeno  e  del  Metastasio  nel  700  col- 
gono lauri.  Ma  quando,  —  declinato  nella  seconda  metà 
del  secolo  il  ciclo  eroico  del  melodramma  metastasiano,  — 
l'opera  giocosa,  che  Napoli  la  gioviale  aveva  tenuto  a 
battesimo  già  dal  1  709  o  1  7 1 0,  si  privilegiò  i  favori  mu- 
tati di  tutta  Italia,  e  i  carnevali  e  gli  autunni  di  Napoli, 
Venezia,  Parma,  Milano,  Torino  fiorivano  delle  melodie 
gioiose,  onde  le  ribalte  destituite  dei  nobiliari  ornamenti, 
forse  preludevano,  come  un  sintomo,  al  trionfo  del  terzo 
stato  francese  ;  —  ecco  che  Don  Giovanni,  persuaso  del 


-  151  — 

mutar  dei  tempi,  passa  a  miglior  clima  nella  musica  co- 
mica, ove  veramente  si  ritrova  il  Don  Giovanni  italiano. 

La  musica  ne  riportava  a  fiore  le  qualità  essenziali  ; 
senza  troppo  guardarlo  a  dentro,  la  musica  italiana  sana, 
cordiale  come  un  gaudio  di  fontana,  ne  specchiava  le  fan- 
tasmagoriche gesta,  ne  avvivava  l'esuberante  giocondità. 

Quel  tipo  già  diventato  zimbello  delle  sghignazzate 
plebee  della  commedia  dell'arte,  ora  l'opera  buffa,  che 
non  è  forse  la  fortunata  redenzione  dell'umorismo  popo- 
lare a  dignità  d'arte  ?,  restituiva  in  valore,  contrassegnando 
di  arte. la  stessa  leggerezza  della  concezione  dongiovan- 
nesca italiana. 

Il  primo  ingresso  di  Don  Giovanni  nell'opera  comica 
è  francese:  (Le  Tellier,  1713,  al  Théàtre  de  la  Foire 
Saint  Germam  di  Parigi).  La  prima  opera  italiana  è,  pare 
quella  del  1 734  rappresentata  a  Briinn  :  "  La  pravità 
castigata",  il  cui  libretto  e  musica  il  Farinelli  pensa  di 
attribuire  ad  Angelo  Mingotti.  Dopo  il  ballo  di  Glùch  rap- 
presentato, in  Italia,  per  la  prima  volta  a  Parma  nel  1765, 
ripetuto  a  Torino,  a  Napoli,  a  Milano,  —  è  del  carnevale 
1  777  una  seconda  opera  comica  del  maestro  Calegari  su 
anonimo  libretto,  data  al  teatro  San  Casciano  di  Venezia. 
A  Praga,  altra  opera  italiana  del  maestro  Righini  su  libretto 
del  Filistn,  nello  stesso  tempo.  Nel  1  783  al  teatro  dei 
Fiorentini  di  Napoli,  altro  Convitato  scritto  dall'abate 
Lorenzi  e  musicato  dal  maestro  Tritto.  Veniva  ripetuto 
a  Roma  al  teatro  della  Valle  nel  1787. 

Nel  1  784,  nuova  opera  a  Venezia  del  maestro  Gioac- 
chino Albertini.  Nel  1  787  —  l'anno  di  grazia  dei  Con- 
vitati, come  lo  chiama  il  FarinelH  —  un  Nuovo  Convitato 
di  Pietra  di  Francesco  Gardi  su  parole  del  Poppa  va  in 
scena  al  teatro  San  Samuele  di  Venezia,  e  a  Venezia 


—  152  — 

stessa,  contemporaneamente,  al  teatro  Giustiniani  di  San 
Moisè  un  Convitato  in  un  atto,  preceduto  da  un  capriccio 
drammatico  :  entrambi,  par  certo,  (il  Convitato,  diversa- 
mente dal  Capriccio,  non  ne  porta  il  nome)  di  Giovanni 
Bertati  ;  con  musica  di  Giovanni  Valentini  il  Capriccio, 
del  Gazzaniga  il  Convitato. 

Nell'autunno  dello  stesso  anno  a  Roma,  al  teatro  della 
Valle,  nuova  opera  del  maestro  Fabrizi  sul  libretto  ano- 
nimo, forse  di  Giuseppe  Maria  Diodati,  ripetuta  nel  1  788; 
ad  essa  allude  forse  il  Goethe  nella  sua  lettera  allo  Zelter 
del  17  aprile  1815. 

Giudicandoli  così  spogli  della  musica,  i  magri  libretti 
paiono  battere  i  denti  ;  ma  lo  stesso  comico  non  è  più 
scurrile,  l'umorismo  è  più  sano,  che  non  nell'altre  già  note 
sguaiataggini  da  atellane  !  La  parte  del  servo  è  limitata 
a  più  giuste  proporzioni:  Don  Giovanni, dalla  stessa  mu- 
sica che  è  virtualmente  nella  volubilità  del  verso,  come 
in  ali  il  volo,  par  trascinato  insensibilmente  di  amore  in 
amore  come  di  canto  in  canto. 

Il  libretto  del  Lorenzi  in  un  atto,  conservato  in  due  sole 
copie  nel  conservatorio  di  San  Pietro  a  Majella,  odora 
dei  ricordi  del  Ferrucci  ;  da  lui  e  non  dal  Burlador,  come 
pare  al  Brouw^er  che  lo  riassume  esaurientemente,  è  de- 
rivato il  nome  di  Tisbea  restituito  alla  pescatrice  ;  epi- 
sodio, con  quello  di  Isabella,  solo  ricordato  come  ante- 
fatto; da  lui  tratto  o  dal  Goldoni  il  finale  del  Tempio, 
ove  Don  Giovanni  cerca  rifugio.  La  tela  è  semplifìcatis- 
sima,  le  avventure  in  azione  due  :  quella  di  donna  Anna 
e  quella  di  Lesbina  ;  questa  viene  riallacciata  alla  trama 
dall'esser  Lesbina  sposa  di  Fulcinella,  che  è  il  nuovo 
valletto  di  Don  Giovanni.  Da  ciò  trarrà  Da  Fonte  un 
elemento  per  il  suo  libretto.  —  La  chiusa  infernale,  ormai 


—  153  — 

tradizionale  in  Italia,  manca.  Il  brio  tutto  partenopeo  di 
Pulcinella  porta  una  nota  garrula  di  più  con  l'aggiunta 
della  burla  toccata  proprio  a  lui. 

Ricercare  dell'arte  nei  libretti  d'opera  è  sempre  ri- 
schioso; pertanto  la  proverbiale  infamia  che  si  connette 
ad  essi  è  talvolta  calunnia.  Tuttora  il  Convitato  del  Ber- 
tati  (I  1  )  soppiantato  dal  Don  Giovanni  del  Da  Ponte  non 
certo  per  merito  di  quest'ultimo,  è,  mi  sembra,  la  più 
schietta  espressione  dongiovannesca  italiana.  La  comicità 
vi  è  essenziale  ;  e  se  evidentemente  realtà  di  caratteri  non 
ve  n'ha,  tanta  la  vena  di  buon  umore,  che  quelli  si 
fondono  in  un  tutto  incognito  indistinto  pieno  di  fre- 
schezza mattinale.  Conati  drammatici,  nulla,  a  differenza 
che  in  Da  Ponte,  in  cui  di  quasi  riuscito,  in  fondo,  non 
vi  è  che  la  figura  di  donna  Anna,  la  quale  poi  senza  la 
musica  di  Mozart  passerebbe  inosservata.  Il  libretto  de 
Bertati,  nel  suo  genere,  mi  sembra  leggiadrissimo.  E  un 
Don  Giovanni  inteso  da  un'anima  più  limpida  dell'acqua; 
quanto  vi  sia  di  veramente  dongiovannesco  non  vien  vo- 
glia di  riscontrare  ;  certo  il  Bertati  sa  rider  bene  e  intanto 
la  sua  caricatura  non  premeditata  è  più  felice  di  tutte  le 
volute  svalutazioni  dongiovannesche  che  si  siano  attentate 
fino  ai  nostri  giorni.  Imitazioni,  sì,  (dal  Lorenzi  e  in- 
direttamente dallo  scenario  del  1 662  la  scena  I,  dal 
Molière  le  scene  VII,  Xll,  XVI,  ecc.  e  parecchi  partico- 
lari) ;  ma  quasi  tutte  ravvivate.  Già  nel  Capriccio  dram- 
matico (12),  una  specie  di  prologo  estraneo  all'azione,  un 
retroscena  grazioso,  in  cui  sono  in  ballo  le  noie  del  capo- 
comico Policastro  nell'  inscenare  il  Convitato,  le  mac- 
chiette del  Capitan  Tempesta  e  del  suggeritore  brillavano 
di  vivo.  Il  Bertati  ha  parsimonia  di  mezzi,  ma  molto 
facile  arte   di  usarli.  Portato  dalla   sua   vena,  trascura 


—  154  — 

osservazioni  psicologiche.  In  bocca  a  donna  Anna,  subito 
dopo  l'uccisione  del  padre,  mette  un  lungo  resoconto 
al  duca  Ottavio,  dell'attentato  di  cui  è  stata  vittima  ;  il 
Da  Ponte,  che  ruminava  riposatamente  l'opera  altrui,  lo 
toglie  per  sostituirvi  accenti  singhiozzati  di  dolore  (13). 

Donna  Anna  che  si  ritira  in  convento  prima  di  aver 
saputo  chi  è  l'uccisore  del  padre  e  aggressore  dell'onor 
suo,  soddisfa  meno  che  in  Da  Ponte,  ove  quella  persegue 
il  traditore  pertinacemente  e  con  dolore  ;  ma  qui  verosomi- 
glianza  di  situazione,  insistiamo,  non  ha  luogo,  anzi  per  prin- 
cipio un*  inverosomiglianza  primaverile  scampanellante. 

Ecco  com'è  resa  la  perpetua  ironia  dongiovannesca  tra 
l'espressione  e  l'intenzione,  tra  la  canzone  e  l'accompa- 
gnamento, direbbe  De  Musset.  Scena  IX,  Don  Gio- 
vanni a  donna  Ximena  : 

Per  voi  mi  struggo  e  moro 
Più  pace  al  cor  non  ho 
(Pur  questa  nel   catalogo 
A  scrivere  men   vo). 

Il  Goldoni  avrebbe  infilato  una  buona  serie  di  paren- 
tesi rettoriche.  Il  Bertati  senza  pretese,  con  quello  svolazzo 
finale  ci  soffia  via  efficacemente  l' illusione  sentimentale 
che  le  prime  parole  di  quel  burlone  ci  avevano  creato. 
Scintillante  di  brio  la  scena  XI  in  cui  Don  Giovanni 
fa  la  parte  stessa  che  l'uomo  nella  favola  del  cavallo  e  del 
cinghiale  esopiana.  Mette  a  posto  Pasquariello,  il  suo  val- 
letto, che  trova  a  molestare  la  sposa  del  povero  Biagio  e 
si  è  fatto  passare,  nientemeno,  per  il  cavaliere  Don  Gio- 
vannino ;  (imitazione  del  Cicognini,  scena  XI,  atto  1°); 
dà  piena  ragione  alle  rimostranze  del  legittimo  sposo  ;  ma 
il  piacere  del  povero  Biagio  ringalluzzitosi  per  l' inspe- 
rato soccorsoj.non  ha  ragione  di  durar  molto  :  che  la  preda 


—  155  — 

che  ha  tolto  al  servo,  il   nuovo  cavaliere  se  la  sta  per 
arraffare  lui. 

—   Dico  corpo   di   Bacco 
Che  voi   fate   di   peggio! 

Ma  quella  man  forte  che  gli  era  venuta  in  soccorso,  il 
poveretto  se  la  sente  sopra  la  faccia. 


A   me  schiaffo 


sul   mio   VISO; 


Il  giochetto  casanoviano,  che  già  divertiva  il  Don  Gio- 
vanni di  Molière  (se.  IV,  atto  2°)  eccolo  in  movimento  nella 
scena  XVI  :  a  donna  Elvira  e  a  donna  Ximena  fa  credere 
contemporaneamente  di  amarle,  e  una  per  una  :  lo  stesso 
poi  a  donna  Elvira  e  a  Maturina,  nella  scena  appresso  ; 
queste  aizzate  dall'abile  pungolo  del  burlatore  —  nel  vero 
significato  italiano  —  restano  sole  a  bezzicarsi,  tutte  e  due 
esclusivamente  difendendo  la  propria  illusione  schernita, 
in  una  scena  che  mi  par  sincerissima  (non  possono  con- 
siderarsi imitate  le  due  parole  che  sono  in  Molière  a  cui 
intanto  resta  l' istinto),  e  tale  che  mentre  fa  ridere,  ha  in 
fondo  del  drammatico  :  arte  è  svegliar  il  drammatico  sotto 
il  riso,  come  inettezza  far  ridere  ove  si  vuol  drammatiz- 
zare. Ecco  le  due  femminelle,  sovra  lo  sfondo  del  burle- 
sco creato  da  Don  Giovanni,  burlescamente  compiangere 
la  reciproca  creduta  pazzia,  con  malignità  piena  di  egoi- 
stico sollievo  : 

—  Per  quanto   ben   ti   guardo 
Davver  pietà  mi   fai, 

Ma  forse  guarirai 
Col   farli  salassar. 

—  Proprio  così   va   detto 
Ma  c'è  una  differenza, 
Ch'è  pazza  sua   eccellenza 
E  stenterà  a  sanar. 


—  156  — 

E  le  due  donne,  quasi  respirando  l'una  della  pazzia 
dell'altra,  difendono  permalosamente  il  decoro  del  proprio 
corpo,  oltraggiando  quello  della  rivale: 

—  Vanne   via,   mia   pazzerella, 
Ch'ei   non  ama   una  sardella. 

—  Via  pur  voi   correte   in   fretta 
Ch'ai   non   ama  una  polpetta. 

Questa  scena  semplicissima,  sorgiva,  in  cui  Don  Gio- 
vanni nella  sua  assenza  è  più  che  altrove  presente,  var- 
rebbe a  ottener  grazia  per  l'atto  ;  e  potrebbe  esser  ripor- 
tata come  una  caratteristica  rappresentazione  sottintesa  e 
prospettiva  della  visione  dongiovannesca  italiana.  Ma  v'è 
ancora  qualche  altro  granellino  buono. 

Nella  scena  XX  del  Mausoleo  fattosi  apprestare  ancora 
vivente  dall'eroe  commendatore  (questo  eroe  è  un  ricordo 
del  Filistri  in  cui  già  per  le  sue  benemerenze  verso  la 
patria,  al  commendatore  vivente  era  innalzata  una  statua), 
l'invito  tradizionale  è  trattato  con  nuova  efficacia,  laddove 
impauritosi  Pasquariello  al  cenno  del  capo  del  marmo,  si 
fa  avanti  ridendo  Don  Giovanni  a  ripetere  l'invito,  troppo 
convinto  del  mutismo  logico  della  pietra;  e  scoppia  la 
voce  terribile  dopo  la  saltellante  ironia  dell'  invito  : 

Vi  invito   a  cena.   Commendatore, 
Se  ci  venite  mi  fate   onore. 
Ci   vanirete? 

Ci  Venirò  ! 

Ben  diversamente  che  in  Da  Ponte,  in  cui  la  statua  si 
anima  inopinatamente  senza  nessuna  provocazione  con  la 
perdita  di  tre  quarti  dell'effetto  ;  ne  tronca  e  lapidea  è  la 
parola  come  in  Bertati,  ma  un  intero  endecasillabo  : 

Di  rider  finerai  pria  dell'aurora, 


—  157  — 

quando  proprio  nessuno  pensava  alla  statua.  Pare  che  Don 
Giovanni  avrebbe  meglio  dovuto  credere  a  qualcuno  na- 
scosto per  mettergli  paura,  piuttosto  che  la  terribile  male- 
dizione gli  venga  pronunciata  dalla  statua  a  cui  voltava 
le  spalle  ed  il  pensiero. 

La  visita  di  donna  Elvira  che  precede  la  cena  ha  pur 
in  Bertati  del  drammatico  di  semplice  e  buona  tempera  ; 
ove  in  Da  Ponte  (giudicando  dal  lato  poetico,  e  pur  com- 
prendendo che  le  necessità  della  musica  metton  talora 
le  manette  alla  poesia)  quel  trillare  di  quinari  canterini 
fan  le  gricce,  a  chi  legge,  al  concetto.  Notevolissimo, 
a  mostrar  come  mani  di  esperto  sceneggiatore  possedesse 
in  fondo  e  quasi  senza  saperlo  il  Bertati,  sta  il  contrasto 
ironico  quasi  metallico  che  guizza  dal  sicuro  abbacino 
di  una  sola  parola,  tra  mezzo  al  pianto  della  donna 
gonfio  di  commozione  : 

Ma   un   estremo  dolore 

Nel  mio  ritiro  ancora   io  sentirei 

Se  voi,   che   tanto  amai, 

Diveniste  assai   presto, 

Un  esempio   funesto 

Di   quell'alta  giustizia  e  di   quell'ira 

Che  sovra  di  sé  ogni  empio  alfin  s'attira. 

Pasq.   (Povera  donna  !) 

D.   G.  Avanti!... 

La  comicità  festaiola  che  sovrabbonda  poi  fino  alla  fine 
potrà  parere  eccessiva,  ma  completa  convenientemente 
questa  che  in  sostanza  è  una  molto  ben  riuscita  diavo- 
leria, in  cui  l'estemporanea  garrulità  di  un'anima  di  fan- 
ciullo è  fermata  traverso  il  cervello  di  un  artista  oggetti- 
vissimo. 


—  158  — 

Ecco  come  Pasquariello  riesprime  a  Lanterna  il  di- 
spetto già  di  Sganarello,  per  i  piatti  toltigli  via  prima  di 
aver  mangiato  : 

Ma  potere  del  mondo  ! 
Sei  troppo  attento  per   cambiar  di  tondo. 
Guarda,   Lanterna  mio,   che  nel  mostaccio 
Questo  piatto  tal  quale  or  or  ti  caccio. 

Ed  infine  è  la  strimpellata  che  ha  dato  ai  nervi  al 
Da  Ponte  che  si  pizzica  di  sei  ietà,  la  strimpellata  dei  tutti 
contenti,  dopo  la  sparizione  dell'indiavolato  turbacuori. 
Eppure  vi  è  un  color  di  satira  bonaria  e  fiabesca  : 
questi  personaggi  già  disperati,  che  ora  dopo  il  capi- 
tombolo del  temuto  burlone  passano  a  ballare  e  suonare, 
non  sono,  se  considerati  nella  loro  atmosfera  di  irrealtà 
buffonesca,  una  stonatura:  quasi  direi  che  sono  necessari 
a  chiudere  concorde  con  se  stessa  la  commediola.  La 
quale  dopo  il  tren  tren  trinchete  tre  della  chitarra  di 
Ottavio,  flon  fllon  flon  flon  flon  flon  del  contrabbasso  di 
Lanterna,  pu  pu  pu  pu  pu  pu  del  fagotto  di  Pasquariello, 
va  a  risolversi  nel  verso  così  fantasticamente  igienico  da 
parerti  sputato  da  un  Bertoldo  in  sopravveste  di  Dulca- 
mara: "  Così  allegri  s'ha  da  star!  " 

Il  Don  Giovanni  del  Beitati  non  abbassa  i  suoi  gusti 
fino  ad  amar  le  vecchie: 

Delle  vecchie  solamente 

Non  si  sente  ad  infiammar  (Scena  VII). 

Quello  del  Da  Ponte  anche  delle  vecchie 

fa  conquista 
Pel  piacer  di  porle  in  lista        (Atto  1",  Scena  VI). 

La  mutazione  è  lasciata  cadere  noncurantemente;  del 
resto  il  libretto  del  Da  Ponte  (14)  non  è  che  un  rivesti- 


—  159  — 

mento  di  quello  del  Bertati,  poeta  per  cui  il  Da  Ponte 
non  ha  gran  simpatia  come  si  sa  dalle  sue  memorie,  ma  a 
cui  ben  volentieri  stende  la  mano  se  non  per  stringere  la 
sua,  almeno  per  rubargli  qualche  cosa.  Ma  chi  bada  alla  pic- 
cola poesia  del  Da  Ponte  innanzi  alla  grande  musica  del 
Mozart?  11  CUI  "  Don  Giovanni"  venne  dato  per  la  prima 
volta  a  Praga  il  29  ottobre  I  787  :  il  Da  Ponte  aveva 
scombiccherato  il  suo  libretto  in  pochi  giorni,  del  che  si 
vanta.  In  Italia  per  la  prima  volta  è  dato  al  teatro  della 
Pergola  di  Firenze  nel  1  792.  Ma  prima  della  metà  del- 
1*800  da  noi  già  accenna  a  passar  di  voga  ;  nel  carnevale 
e  quaresima  del  1 858  e  59  l'opera  vien  prodotta  a  To- 
rino nel  teatro  Regio  in  presenza  di  S.  S.  R.  M.  (per 
l'occasione,  una  nuova  edizione  del  libretto  è  fatta  dagli 
editori  Fodratti  di  Torino)  ;  nella  primavera  del  1 866  al 
Regio  Teatro  Pagliano  di  Firenze,  altra  stagione  mozar- 
tiana (l'edizione  del  libretto  è  della  tipografia  Fioretti)  ; 
ma  neir  anima  di  tutti  sopravvivono  le  melodie  limpi- 
dissime, e  specialmente  sulle  labbra  del  popolo  fiorisce 
la  serenata:  "Deh!  vieni  alla  finestra",  che  faceva  so- 
gnare De  Musset. 

Il  libretto  è  in  due  atti  :  le  precipue  originalità  :  artisti- 
camente il  carattere  di  donna  Anna,  scenicamente  l'epi- 
sodio delle  maschere  e  quello  della  serenata  alla  cameriera 
di  donna  Elvira. 

Donna  Anna,  in  cui  Hoffmann  vide  un  mistero  che  ne 
Da  Ponte  ne  Mozart  vollero  darle,  agisce  in  tutti  e  due 
gli  atti  alla  ricerca  dell'assassino  di  suo  padre. 

La  scena  delle  maschere  ha  un  certo  effetto  teatrale, 
cui  la  musica  di  Mozart  darà  risalto  e  vita  acceleran- 
done i  battiti.  E  del  resto  anche  spoglia  di  musica  non 
fa  la  più  brutta  figura.  Ma  la  concordia  discors,  che  deve 


—  160  — 

formare  il  nodo  musicale  in  Mozart,  di  passioni  contem- 
poraneamente accavallantisi  (l'ira  e  il  sospetto  di  Masetto, 
l'atterrimento  di  Zerlina,  l'ansia  dei  tre  mascherati,  la 
pronta  e  astuta  violenza  di  Don  Giovanni,  l'umoristico 
batticore  di  Leporello),  appar  prosciolta  nella  sciatta  ver- 
saioleria  del  cenedano. 

Donna  Anna  sospettante  già  in  Don  Giovanni  il  reo, 
accompagnandosi  col  fidanzato  duca  Ottavio  e  con  donna 
Elvira,  interviene  mascherata,  per  averne  la  certezza,  alla 
festa  in  casa  di  Don  Giovanni.  L'inganno  preparatovi 
da  questo  a  Zerlina  dà  ai  tre  di  rimbalzo  la  rivelazione  del 
colpevole.  Il  quale  non  si  perde  d'animo,  incolpa  il  povero 
Leporello  dell'oltraggio  a  Zerlina, 

Don  Giovanni  ha  certo  in  Da  Ponte  un  sangue  freddo 
invincibile,  molta  di  quella  facoltà  di  trucco  che  è  una 
delle  più  palesi  caratteristiche  satan-dongiovannesche  (si 
finge  senza  impaccio  duca  Ottavio  e  Leporello).  L'au- 
tore, mezzo  Don  Giovanni  anche  lui,  aveva  in  se  stesso 
un  po'  il  modello. 

Tolta  donna  Ximena,  sono  aggiunte  al  conquistatore 
due  conquiste  :  della  cameriera  di  donna  Anna  e  di  una 
ignota  che  teme  Leporello  sia  a  se  troppo  nota... 

La  sua  vacuità  sentimentale  non  lo  fa  rifuggire  dal  dare 
in  mano  al  servo  travestito  dei  suoi  panni  la  donna  già 
amata  (Donna  Elvira),  per  allontanarla  e  far  suo  gioco 
con  la  cameriera  di  lei.  A  questo  scopo,  non  meno  ipo- 
crita del  Don  Giovanni  di  Molière,  si  finge  pentito  per 
ottenere  il  perdono,  ma  in  realtà  per  togliersi  di  mezzo 
l'incomodo  della  troppo  amante  (scena  II,  atto  2"). 

Questa  intuizione  di  simbolo  riscatta  in  qualche  modo 
la  povertà  sbrindellata  dei  versi.  E  qui  il  momento  più 
felice  dell'opera. 


—  161  — 

L'astuzia  poi  con  cui,  travestito  da  Leporello,  attira 
in  fallo  Masetto,  lo  sposo  dell'  ingannata  Zerlina,  lo 
disarma  per  caricarlo  di  bastonate,  dopo  che  ha  avviati 
dietro  le  peste  del  vero  Leporello,  travestito  dei  suoi 
abiti  e  accompagnato  con  donna  Elvira,  i  contadmi  armati 
che  vogliono  la  sua  morte,  ne  rende  ancor  più  al  vivo 
la  burlesca  trasmutabilità.  Caricata  però  di  un  po'  troppo 
nero,  quell'  esortazione  ai  contadini  che  quando  vedano 
una  coppia  di  amorosi  (e  ricorda  la  propria  foggia  di 
vestimento)  sparino  pure.... 

Il  racconto  che  fa  a  Leporello  (atto  2°,  scena  IX)  dà 
una  nuova  pennellata  alla  figura  :  è  stato  preso  per  Lepo- 
rello e  ha  avuto  dei  favori  da  un'  ignota,  forse  la  moglie 
di  costui.  Leporello  ne  ha  il  dubbio,  cui  Don  Giovanni 
sottolinea  con  una  risata:  "Meglio  ancora".  Qui  suben- 
tra il  vaticinio  della  statua  che  sappiamo,  —  col  seguente 
invito,  e  poi  il  solito  inferno  che  era  anche  in  Bertati  prima 
della  ultima  scena  festaiuola. 

Confrontando  i  due  libretti,  quello  del  Bertati  è  una 
nebulosa  di  comico  senza  differenzazioni  lineari,  ma  effi- 
cace gaiezza  di  suoni  e  di  sensi  :  vita  assai  nel  verso  :  Don 
Giovanni,  niente  consistenza  di  realtà,  ma  simbolo  felice 
e  grottesco  di  umorismo.  Quello  del  Da  Ponte  ha  dei  prin- 
cipi di  delineazione  psicologica;  una  scena  di  drammatico 
un  pcTda  cartellone  (atto  I °,  scena  XVIII,  la  scena  delle 
maschere),  qualche  buona  intuizione  di  simbolo,  molta 
farina  non  sua,  e  un  infuriar  di  pessimi  versi  (15).  Basti 
un  saggio  :  il  peregrino  concetto  : 

Certo  moto  d'ignoto  tormento 
Dentro  l'alma  girare  mi  sento 
Che  mi  dice  per  quell'infelice 
Cento  cose  che  intender   non  so  ; 

11  —  F.  FUÀ,  Don  Giovanni. 


—  162  — 

quando  non  si  voglia  perder  tempo  dietro  i  :  "  Faccio  che 
bevano  e  gli  uomini  e  le  donne  ",  (atto  1  ",  se.  XIX),  e  simili 
affionti  a  ogni  ben  costrutto  orecchio  da  contare  a  staia. 
Felicissima  invece  la  trovata  dei  nomi  :  elemento  non 
trascurabile  per  chi  sappia  le  cure  e  i  pentimenti  del 
Manzoni  e  del  Flaubert:  Leporello,  Zerlina,  Masetto 
sono  nomi  perfettamente  rappresentativi.  Forse  non  fu 
estraneo  il  fine  criterio  del  Mozart. 

Il  capolavoro  del  quale,  cristallizza  quella  figura  di  Don 
Giovanni  che  l'anima  itaHana  aveva  intraveduta  :  espres- 
sione di  sincera  allegria.  Le  baggianate  mulse  della  com- 
media dell'arte,  riaccese  di  vita  in  verità  di  arte;  seguendo 
la  stessa  linea  trasformativa,  da  bruta  materia  di  farsa 
si  sale  a  differenziata  serenità  di  bellezza.  Ma  intanto  si 
avvicina  il  romanticismo  e  la  figura  di  Don  Giovanni  non 
può  restare  in  quel  piano  di  superficialità  cantata  su  cui 
Mozart  lo  ha  elevato  come  re  della  burla.  Ciò  forse  spiega 
il  perchè  la  grande  opera  non  ha  goduta  quella  popolarità 
e  longevità  di  rappresentazione  che  meritava.  Il  momento 
divenne  poco  atto  alla  melodia  volante,  le  anime  comin- 
ciando a  scavarsi  in  interiori  profondità.  L'ultima  Arcadia, 
a  chiunque  ben  guardi,  costituiva  già  un  prodromo  signifi- 
cantissimo del  Romanticismo  ;  aveva  tributato  valore  alla 
lirica  soggettiva  e  intima,  esperimentate  osservazioni  intro- 
spettive, che  comunque  superflciaHssime,  concihano  il 
clima  alla  poesia  viva,  che  griderà  il  Berchet. 

Per  lo  storico  della  letteratura  che  non  abbia  a  sdegno  la 
psicologia  dell'arte,  per  troppo  diliger  la  critica,  la  fortuna 
di  Don  Giovanni  in  Italia  e  la  colorazione  locale  che 
v'assunse,  potranno  formar  argomento  di  un  capitolo  a 
parte. 


—  163  — 

Fin  qui,  palleggiato  dall'  ilarità  della  folla  o  cantato 
dalla  gioia  della  musica  ;  ora  col  Romanticismo,  si  ec- 
clissa.  La  Francia  era  stata  l'unica  che,  come  la  più 
artisticamente  psicologica  (non  errava  già  l'espertissima 
sensibilità  del  Nietzsche  1),  prima  del  Romanticismo  avesse 
esperimentata  qualche  introspezione  di  Don  Giovanni, 
ella  che  con  Marivaux  dava  le  più  vive  e  belle  com- 
medie d'amore. 

Il  nostro  Romanticismo  riporta  i  valori  letterari  dalle 
austere  sette  classiciste  a  un'accezione  più  libera,  mo- 
derna, sia  pur  popolare;  quell'amor  del  mistero  che  è  nel 
medio  evo  dello  Scott,  trionfeggianteper  riflesso  anche  da 
noi  intorno  al  1820,  già  preannunziato  dall'Arcadia 
lugubre  delle  nostre  traduzioni  di  Yung,  di  Gray,  del  ro- 
manticismo elemento  è,  non  essenziale,  ma  accessorio 
e  casuale,  mi  sembra. 

Mezzo  di  espressione,  dunque,  il  culto  artistico  del  medio 
evo;  intento,  il  democraticarsi  dell'arte:  tali  i  suggelli 
più  frequentemente  apposti  al  nostro  romanticismo  prima 
di  incasellarlo  negli  archivi  spesso  molto  giudiziari  e  poco 
giudiziosi  delle  storie  letterarie.  Comincio  dall'  ultimo  : 
—  ma  è  proprio  in  realtà  l'arte  che  da  ieratica  discenda... 
a  demotica,  o  non  è  piuttosto  l'elemento  democratico, 
se  mai,  che  si  nobilita  ad  arte  ascendendo  alla  sfera 
superiore  di  questa?  E  forse  la  poesia  mencia  e  male- 
scia dei  molti  poetucoli  fungheggianti  intorno  al  ceppo 
romantico,  che  già  1'  oblio  ha  seppelliti  e  contro  cui 
anche  gli  strali  di  Giosuè  Carducci  forse  erano  inutili, 
quello  che  forma  il  carattere  del  romanticismo  ?  O  non  è 
piuttosto  l'accogliere  che  esso  fa  le  voci  di  un  mondo  in 
vita  alle  sue  plaghe  di  sogno,  il  ribellarsi  a  quel  postulato 
che  assai  prima  di  venir  formulato  nei  magri  paradossi  del 


—  164  — 

Nordau,  era  e  in  fondo  è  tuttora  subcosciente  nell'anima 
dei  popoli,  che  cioè  degno  solo  di  poesia  sia  il  più  lon- 
tano nel  tempo  e  fuoii  di  ogni  constatazione  obbiettiva, 
quello  che  più  mentisce  alla  ragione  e  a  cui  la  fantasia 
crede,  sì,  perchè  tanto  per  lei  è  tutt'uno:  e  che  le  giove- 
rebbe gualcire  con  le  mani  insoddisfatte  le  trame  dei 
sogni  in  cui  gode  di  irretirsi  ? 

Credendo  al  qual  concetto,  la  poesia  verrebbe  ad  essere 
come  scaltrito  Dio  Mercurio  addormentatore  di  Argo 
(la  fantasia)  per  sottrargli  la  giovenca  (la  turpe  realtà!...). 

Ora  avviene  invece,  per  continuar  l' allegoria,  che 
Mercurio  non  più  sottrae  la  giovenca  ad  Argo,  gliela 
lascia  e,  addormentatolo,  metamorfosa  davanti  agli  occhi 
disciolti,  in  generazioni  di  sogno.  Per  l' innanzi  la 
fantasia  per  eccitarsi  doveva  spannar  per  Grecia  o 
Roma  antica,  ora  può  restare  in  casa  sua;  non  che  le 
basti  proprio  la  realtà  che  le  è  intorno  —  che  per  questo 
bisognerà  venire  molto  più  avanti  nel  tempo  — ,  ma  ella 
spicca  le  ali  per  migrare  meno  lungi,  non  varca  la  civiltà 
dei  suoi  popoli  vivi  :  si  compiace  del  medio-evo.  La  pas- 
sione del  medio-evo,  che  è  del  romanticismo,  mi  pare  si 
debba  spiegare  ideologicamente  nel  modo  più  semplice  : 
come  la  poesia  che  per  tappe  si  riavvicina  a  casa  nostra. 
In  altre  parole,  ecco  il  primo  passo  verso  i  ruzzoloni  delle 
sette  moderneggianti  e  futureggianti,  verso  le  iconoclastie 
del  passato,  dalle  quali  pure,  pianatosi  il  bollore,  non  dico 
né  credo  potrà  uscire  la  nuova  poesia  bell'e  armata,  ma 
derivare  elemento  al  crearsi  di  essa  e  al  suo  regno  futuro. 

Non  avviene  dunque  che  la  poesia  —  insistiamo  — 
col  romanticismo  si  arrenda  e  capitoli  a  un  mondo  di  lei 
inferiore,  ma  questo  in  sé  ospita,  vivificandone  l'anima 
lirica  che  dovunque  è,  virtualmente.  Così  ^ome  non  il 


—  165  — 

mare  diventa  fiume,  ma  i  fiumi  mare.  Avanzamento,  es- 
senzialmente, non  regresso.  L'Arte  non  ha  colpa  del- 
l'imbecillità dei  troppi  pretendenti. 

E  questo  medesimo  processo  esaminato  per  l'elemento 
affatto  temporale  e  occasionale  del  medio-evo  si  può 
ripetere  per  quello  spirituale  di  maggiore  entità  ;  in- 
quantochè  la  poesia,  specialmente  lirica,  rimasta  finora 
fedele  a  dei  concetti  etici  primordiali  e  all'indiscussa 
valutazione  zarathustriana,  ora  fiuta  altre  possibilità  e 
se  ne  asseta  ;  Byron  ospita  ad  essa  il  maligno,  il  satanico, 
non  in  quanto  se  ne  faccia  apologeta  (qui  è  la  vera 
degenerazione  dei  pappagalli,  tergiduttori  lombrosiani!); 
ma  in  quanto  vi  trova  maggior  tesoro  per  la  sua  poesia  e 
ne  lo  sa  estrarre. 

E  quale  infesta  sanie  non  posson  fare  innocua  i  divini 
fagociti  dell'arte,  anzi  purificare  in  icore  di  bellezza?... 

Così  si  può  seguire  il  bandolo  dongiovannesco,  ora  che 
Don  Giovanni  esce  con  Byron  dalla  drammatica  (1818) 
ed  è  per  la  prima  volta  liricamente  sentito  ed  espresso. 

Don  Giovanni  è  una  forza  distruttiva  in  cui  si  esauri- 
sce naturaHsticamente  la  possa  di  più  generazioni  :  brucia 
i  germini  buoni  dell'amore  :  una  disarmonia  nel  concerto 
degli  accordi  terreni:  quel  che  il  genio  all'intelligenza, 
egli  all'amore:  e  inteUigenza  e  amore,  nei  loro  medi  signifi- 
cati, trovano  nel  genio  e  in  Don  Giovanni  i  loro  poli  ultimi, 
le  loro  rarefazioni  estreme;  il  gemo,  rispetto  a  quella, 
pazzia.  Don  Giovanni,  rispetto  a  questo,  distruzione. 

Ecco  come  Don  Giovanni  si  volge  col  romanticismo 
a  simbolo  lirico. 

Ma  ora  resta  una  spiegazione  da  tentare.  L' Italia  non 
ha  per  i  primi  tre  quarti  dell'SOO  alcun  Don  Giovanni 
piccolo    o   grande   da   noverare,   nonostante    gì'  influssi 


—  166  — 

stranieri,  e  pel  resto  dell'  800  una  piccolissima  fioritura. 
Questa  è  forse  un'anomalia,  che  sfugge  a  un  perchè.  Ma, 
per  non  contentarci  al  quia,  riconosceremo  intanto  come 
la  nostra  letteratura  conservasse  anche  per  il  romanti- 
cismo, verso  questo  tipo,  l'atteggiamento  in  fondo  un  po' 
ostile  del  padre  verso  il  figliuol  discolo.  Il  rinnovamento 
romantico  ebbe  da  noi  innanzi  tutto  un  valore  storicista, 
contro  il  dispotismo  della  mitologia  classica  opponendosi, 
e  di  fronte  all'  esclusivo  paradiso  eroico  dell'  ellenismo 
scoprendo  dei  suoi  fasci  luminosi,  anche  e  più,  la  visione 
artistica  del  medio-evo,  non  proprio  in  quanto  tale,  ma 
in  quanto  più  percettibile  all'anima  moderna,  più  viva 
delle  nostre  fedi  e  amica  ai  nostri  dolori.  Il  romanticismo 
è  un  po',  da  noi,  la  rivincita  sull'umanesimo.  Agl'/nni 
sacri,  alle  tragedie  manzoniane  darà  pur  sulla  voce  il  Ser- 
mone sulla  mitologia  montiano;  più  viva  la  reazione  bat- 
teva ove  più  particolarmente  l' azione  era  già  profonda  ;  da 
noi,  anzitutto,  la  concezione  mitica  e  formalistica  del  classi- 
cismo tentava  scardinarsi.  Byron,  antistorico,  ritorna  nel  ro- 
manzo storico  guerrazziano.  Così  del  carattere  di  Francesco 
Cenci,  Don  Giovanni  Tenorio  è  anche  un  frammento  {Bea- 
trice Cenci,  cap.  V).  (  Ma  il  Guerrazzi  ricordava  lo  Sthendal; 
che  quanto  a  lui  poco  ci  pensava  a  Don  Giovanni). 

Ma  la  lirica  romantica  restava  soggettiva,  quasi  mona- 
distica,  commento  confessionale  dell'anim?.,  —  ovvero 
rientrava  nel  circuito  storico-medioevale  delle  ballate  e 
le  romanze.  Per  la  concezione  di  Don  Giovanni  è  richiesta 
invece  una  superazione  di  stati  d'animo  passionali,  e  il 
soggettivismo  lirico  le  è  nefasto;  quanto  alla  leggenda, 
ormai  trita  sulle  scene,  avrebbe  potuto  anche  persuadere 
la  lira  feconda  di  un  Carrer,  di  un  Prati,  ma  il  tipo  sarebbe 
irrimediabilmente  sfuggito.  Da  una  parte  perciò  l'alterigia 


—  167  — 

non  concessiva  e  asentimentale  della  poesia  classicista, 
dall'altra  la  balbuzie  lacrimofila  della  poesia  romantica, 
con  la  svogliataggine  erratica  e  dubitante  degli  umoristi, 
onde  sempre  amiamo  il  Bini,  furono  impedimenti  alla 
rappresentazione  lirico-artistica  di  Don  Giovanni.  Quei 
turbamenti  alla  Raskolnikoff,  che  portò  l' incubo  byroniano 
alle  altre  letterature,  a  noi  decisamente  furono  ignoti.  (Non 
se  l'abbian  per  male  Clotaldi,  Rodolfi,  Arnalde,  e  altra 
buona  gente...).  Vi  faceva  urto  la  nostra  considerata  per- 
sonalità, la  nostra  maturità  cristallizzata  che  ci  preservò 
dal  suggestionarcene,  a  guisa  della  Spagna,  ove  del  resto 
dopo  Espronceda  sono  già  assimilati  e  digesti.  Altrove  il 
romanticismo  forzò  la  fede  religiosa,  da  noi  la  fede  nel 
romanticismo  si  accende,  ove  non  siano  soffi  di  esotico 
contagio. 

I  fantasmi  d'arte  pertanto,  cui  i  più  grandi  poeti  affi- 
darono la  loro  parola  d'amore,  furono,  da  noi,  soggetti- 
vissimi  ;  furono  talora  la  levata  di  cappello,  al  romantici- 
smo, dei  poeti  classici  :  —  Foscolo,  Leopaidi,  Carducci 
con  Iacopo  Ortis,  Consalvo,  Jauffrè  Rudel. 

La  sproporzione  dongiovannesca  dell'  amore  tutto  a 
spese  di  una  parte  vittima  a  vantaggio  dell'  altra  incubo, 
non  tentò  o  forse  spaventò  anche  quel  gruppo  turbolento 
di  ingegni  che  formò  la  scapigliatura  lombarda,  cui  gli  idoli 
De  Musset  e  Baudelaire  alimentarono  bei  sogni  d'  arte,  ma 
anche  brutte  consuetudini  di  vita,  e  la  cerea  nevrosi  impedì 
di  improntar  quelli  a  vita  di  pensiero  ;  i  canti  del  Praga  e 
dello  Zena  sono  ancora,  taluni,  deliziosi,  pur  così  fluidi  e 
glauchi,  che  paiono  attendere  il  torsello  che  li  marchi  di  vita! 

Nessuna  concezione  dongiovannesca  liberò  dunque  il 
tormento  gassoso  di  generazioni  a  quella  spiritualmente 
vicine,  ma  intimamente  soggette. 


—  168  — 

Non  varrebbe  la  pena  di  parlare  —  se  non  per  rispetto 
al  titolo  —  del  mezzo  aborto  del  Rovetta  in  4  atti:  La 
moglie  di  Don  Giovanni,  commedia  che  fu  rappresentata  a 
Ferrara  per  la  prima  volta  nell'agosto  del  1 876  al  teatro 
Tosi-Borghi  dalla  compagnia  del  cav.  Alamanno  Morelli, 
e  per  la  quale  mi  servo  dell'edizione  Miinster  e  Kaiser 
di  Verona,  uscitane  il  1877.  E  il  titolo  contiene  un  tra- 
nello, con  tutta  la  riverenza  pel  nome  del  romanziere  e 
drammaturgo  bresciano  più  d'una  volta  geniale;  la  com- 
media del  resto  è  giovanile,  piena  d'intenzioni  e  di  star- 
nazzii  vani  d'ali  inette  ancora.  Giacomo  Faleroni  amante 
di  Alessandra  di  Cerda,  sorpreso  dal  marito  di  lei,  men- 
tre ingannato  dalle  tenebre  in  notturno  appuntamento 
pindareggia  d'amore  con  la  nipotedilui,  Lorenza,  creden- 
dola Alessandra,  per  non  smascherarsi  accetta  di  sposare 
la  interlocutrice  notturna,  già  innamorata  di  lui,  riservandosi 
di  coprirsene  i  meglio  agiati  amori  adulterini.  Forseinquesta 
scena,  del  resto  non  più  che  mediocre,  (VIII  del  1  "  atto),  è 
l'unico  frammento  dongiovannesco  di  questo  figuro  dozzi- 
nale di  bertone  in  frac,  tipo  già  logorato,  fino  a  farne  fracidi, 
dalle  solite  ribalte,  e  che  in  ogni  modo  non  giustifica  il  titolo 
civettone,  che  starebbe  meglio,  se  mai,  ma  sempre  errata- 
mente, cambiato  così:  "  La  moglie  di  un  Don  Giovanni...". 

Vi  è  anche,  antagonista,  una  figura  ducaottaviesca  di 
buon  gocciolone:  Guido  De-Mari,  adoratore  di  Lorenza, 
uno  di  quei  clorotici  bevitori  di  lune  chiare,  che  sembra 
di  dover  vedere  a  passeggiare  eternamente  con  la  destra  sul 
cuore  e  le  labbra  a  pincio,  lungo  un  viale  di  tigli,  in  un 
romanzo  di  Anton  Giulio  Barrili! 

Nell'entrar  in  tema  di  più  recente  arte  su  cui  non  an- 
cora è  stato  formulato  un  giudizio,  per  essersene  troppi 


-  169  - 

enunciati,  il  pencolo  non  è  lieve,  poiché  purtroppo  vero 
è  che  fra  tutti  i  decreti  dell'umane  valutazioni,  il  più  rela- 
tivamente giusto  è  quello  del  tempo,  e  chi  sentenzia  con 
troppa  pretesa  d' inappellabilità  sull'arte  del  suo  tempo 
—  (è  una  verità  che  scotta  a  noi  che  abbiamo  un  po' 
tutti  il  male  dell'ipertrofia  dell'attimo!)  —  si  è  sempre 
visto  che  qualche  castroneria  ha  buttato  giti,  di  più  almeno 
chela  storia  letteraria  poi  non  abbia  registrate.  D'altro  canto 
l'ostracismo  che  alcuni  danno  con  questa  scusa  a  ogni 
considerazione  artistica  contemporanea,  quasi  che  l'essere 
presente  costituisca  per  l'opera  d' arte  un  difetto,  (oh  ! 
umano  inconfutabile  amore  di  ciò  che  non  è  più,  e  repul- 
sione più  o  meno  latente  a  ogni  cosa  che  è  a  portata  di 
mano:  —  tutte  le  predilezioni  umane  sono  fatte  di  par- 
tenze !),  mi  pare  un  senilismo  bell'e  buono,  un  chiuder 
gli  occhi  credendo  così  di  abolire  il  dintorno.  Disse  al- 
cunché di  giusto  chi  affermò  l'arte  presente  potersi  sen- 
tire più  che  giudicare,  ma  ciò  vale  assolutamente  ;  rela- 
tivamente, sentire  è  già  forma  preliminare  del  giudicare, 
e  consentimento  è  all'opera  —  non  si  può  negarlo  — 
quel  che  la  risonanza  alla  voce. 

Ma  prima  di  entrare  a  parlare  di  tempi  presenti,  una 
scorsa  in  terreno  finitimo  al  nostro,  per  meglio  averne 
distinti  i  termini.  Già  il  Fusinato  aveva  nel  1846 
cantato,  a  modo  suo,  della  Fisiologia  del  lion  quando  nel 
1877  la  Libreria  Editrice  di  Milano  pubblicava  il  Lion 
in  ritiro  di  Paolo  Ferrari,  commedia  in  5  atti  in  martel- 
liani  :  una  tortura  metrica,  da  cui  la  virtù  del  grande 
commediografo  non  esce  pur  così  malconcia,  come  ad 
altri  sarebbe  forse  capitato. 

Un  conte  quarantenne,  che  ha  passata  la  giovinezza  a 
mietere  idalii  mirti  nei  salotti,  nelle  cacce,  nel  gioco,  e  dopo 


—  170  — 

aver  rifulso  nel  bel  mondo  come  lo  specchio  dei  fashio- 
nahles,  in  seguito  a  una  casuale  ferita  avuta  in  duello,  si 
è  ritirato  con  un  nipote  in  una  volontaria  clausura,  donde 
lo  traggono  a  forza  andirivieni  di  circostanze,  che  ritrova 
la  donna  per  la  quale  si  era  battuto,  ora  moglie  del 
suo  miglior  amico  Raimondo,  zio  a  sua  volta  —  quando 
si  dice  il  caso  !  —  del  suo  rivale  e  avversario  in  duello 
sfortunato.  Costui  è  adesso  rivale,  parrebbe,  fortunato  — 
in  un  nuovo  amore,  —  del  timido  nipote  dell'  ex  lion  ; 
e  da  antico  avversario  e  fatuo  motteggiatore,  si  diverte 
a  scoccare  scherni  che  feriscono,  in  uno,  zio  e  nipote,  fin- 
che quello  lasciato  il  zimanone  da  eremita,  come  serpe 
mutato  di  scoglio,  esce  rifatto  di  tutto  punto  e  simile  a  un 
rosellin  sputato,  vince  pel  nipote  babbeo  la  dama  dei  so- 
spiri, trova  buona  pensione  alla  sua  carriera  d'amore  in 
una  moglie,  manda  a  viaggiare  mortificato  il  due  volte 
rivale. 

Sebbene  non  potrebbe  che  a  un  occhio  precipite  come 
quello  del  Brouw^er,  anche  guardando  all'  ingrosso,  ap- 
parir Don  Giovanni  sotto  il  tipo  Lion,  provvediamo  ad 
una  distinzione.  Preso  nel  girotondo  delle  citazioni  del 
suo  articolo  della  Rassegna  Critica  napoletana,  il  Brouw^er 
si  nota  facilmente  come  abbia  perduta  la  tramontana  ed 
ammazzoU  insieme  all'impazzata  quanti  colpevoli  e  in- 
nocenti si  chiamino  Don  Giovanni  o  con  Don  Giovanni 
abbiano  apparenza  di  affinità. 

Il  termine  Lion  che  risale  al  1 830,  in  Francia,  all'epoca 
del  secondo  impero,  è  uno  dei  tanti  appellativi  che  la 
moda  e  le  nazioni  mutabilmente  affibbiano  ai  sempre 
pressoché  eguali  Abitatori  dell'Orbe  leggiadro,  come  li 
scherniva  il  Parini,  ai  tempi  del  quale  si  chiamavano  Ci- 
cisbei senza  che  la  cosa  variasse.  Lion,  Muscardin,  Dandy, 


—  171  — 

Gommeux,  Lindos,  Narcisos,  dinotano  tutti  quella  stessa 
specie  di  individui  che  a  una  frivolezza  vacua  sovrap- 
pongono una  cangiante  superfice  di  versalità  anche  ge- 
niali. Don  Giovanni  il  suo  vuoto  interiore  maschera  del 
suo  proteismo  ;  il  Lion  non  saprebbe  mettersi  addosso 
abiti  non  di  moda  ne  parere  inelegante  ;  tutti  i  suoi  atti, 
gesti  e  vezzi  sono  governati  severamente  dalla  irragio- 
nevole forza  di  un  atavismo...  azzurro  più  o  meno.  Il  Lion, 
come  la  Lionne,  sa  un  micolin  di  tutto,  schermire,  pen- 
nelleggiare,  verseggiare,  cavalcare,  suonare,  ballare  ecc. 
(vedi  anche  in  proposito  scena  1  atto  1  °  della  commedia 
del  Ferrari)  ;  in  fondo  per  saper  di  tutto,  non  sa  nulla, 
sentenzia  non  con  la  mente  ma  con  la  lente  che  gli  siede 
sull'occhio,  prende  a  balzello  locuzioni  e  frasi  delle  più 
diverse  scienze  e  arti  dello  scibile,  le  sfoggia  a  proposito 
o  no  davanti  agli  ascoltatori  e  ne  li  abbarbaglia,  come  il 
Mago  Atlante  con  lo  scudo  !  Questi  ultimi  tratti  umoristici 
prendo,  come  è  chiaro,  dalla  satira  pariniana  del  cici- 
sbeismo che  è  il  codice  stupendo  e  più  vivo  dell'aristo- 
crazia perdigiorna  di  ogni  tempo. 

Il  tipo  Cicisbeo  e  Lion  si  offre  di  per  se,  anche  nella 
etimologia  dei  nomi,  all'ironia  (cicisbeo  dal  francese  chiche 
e  beau,  ovvero  pura  voce  onomatopeica;  lion  antifrasi 
del  Re  della  Foresta,  oppure  bestia  per  eccellenza,  se- 
condo il  Fusinato  !).  Il  Lion  è  un  tipo  tutto  figurativo  e 
pittorico,  il  Bellimbusto,  Micco,  Frustino  del  nostro  les- 
sico ;  Don  Giovanni  è  drammatico  ossia  dinamico.  L'uno, 
un  atteggiamento,  una  mera  foggia  ;  l'altro,  un  carattere 
di  ampissima  accezione,  m  cui  quello  rientra  come  pos- 
sibilità. Quanto  poi  alle  differenze  che  Madame  de  Gi- 
rardin  nelle  sue  Lèttres  T^arisiennes,  che  resero  celebre 
lo  pseudonimo  di  visconte  di  Launay,  vedeva  tra  Lion  e 


—  172  — 

Dandy  (l'uno  ricercato  e  ammirato,  l'altro  che  vuol  farsi 
ricercare  e  ammirare,  come  merveilleuse  che  cerca  tutti 
i  piaceri,  lionne  che  è  ricercata  per  tutti  i  piaceri),  non 
mi  pare  debba  tenersene  troppo  più  conto,  che  di  una 
frase,  o  una  suddivisione  tutta  personale. 

In  ogni  modo  nel  Lion  in  ritiro  del  Ferrari,  la  scena  II 
dell'atto  3'\  in  cui  il  conte,  rimesso  a  nuovo  e  in  pieno  bel 
mondo,  trattosi  in  disparte,  senza  parere,  a  uno  a  uno  a  se 
orienta  prima  gli  sguardi,  poi  i  passi,  poi  la  parola  e  poi 
l'attenzione  e  il  piacere  e  l'ammirazione  di  tutte  le  belle 
quagUe  e  l'astio  dei  giovani  paperottoli,  sinché  nessun 
altro  v'è  che  lui,  fra  mezzo  a  tanta  gente,  lui  re  del  con- 
vito e  della  conversazione,  —  è  di  un  dongiovannesco 
indovinato  ;  senonchè  il  Ferrari  non  resistendo  alla  rare- 
fazione del  clima  dongiovannesco  ridiscende  a  quel  ter- 
restre particolare,  così  comune  alle  scene  del  tempo,  troppo 
premurose  della  buona  digestione  del  pubblico,  delle 
aspirazioni  matrimoniali  del  Lion  verso  una  giovanetta, 
che  farà  sua  poi  alla  fine,  nella  scena  ultima  dei  soliti 
imeni. 

Ma  sarà  bene  riprendere  le  vere  rotaie  dongiovanne- 
sche e  per  esse  arrischiarsi  nella  Città,  non  so  quanto  del 
Sole,  della  letteratura  odierna. 

Nel  1 883  Giuseppe  Antonio  Cesareo  pubblicava  il 
suo  frammentario  poema  T)on  Juan,  di  cui  nel  1 893  era 
stampata  una  terza  edizione  (edit.  Nicola  Giannotta, 
Catania). 

E  la  prima  parte  di  una  trilogia  su  Don  Giovanni,  la 
quale  come  si  ricava  dalle  parole  premesse  alla  prima 
edizione,  doveva  comprendere  :  Gli  amori,  —  Re  Gu- 
stavo —  La  morte  di  Don  Giovanni. 


—  173  — 

Composta  sui  vent'anni,  V  autore  stesso  vi  riconosce 
difetti,  ma  non  rinnega  l'opera  (prefaz.  all'ed.  1893).  La 
quale  dopo  aver  levato  scalpore  (basta  leggere  i  numeri 
del  1 883  del  Pungolo,  della  T)omenica  Letteraria,  del 
Preludio,  del  FanfuIIa)  in  suU'  apparire,  è  ora  tra- 
scurata. 

Essa  —  me  ne  sia  lecito  un  giudizio  per  quanto  ri- 
guarda il  mio  soggetto  —  adombra  la  redenzione  super- 
morale  di  una  forza  da  inertemente  distruttiva  ad  alata 
azione  di  bene,  redenzione  operata  dalla  scienza.  Ma 
vi  sono  intime  significazioni  così  saldate  a  una  figura 
che  questa  vive  per  quelle  e  togliergliele  è  toglierle 
l'anima. 

Si  può  portare  Satana  fino  a  espressione  di  vittoria  e 
di  bene,  seguendo  un'interiore  perifrasi  logica  (Car- 
ducci) ;  non  lo  si  può  decisamente  capovolgere  nell'anta- 
gonismo assoluto  del  bene.  Si  era  potuto  portare  Don  Gio- 
vanni all'innamoramento  e  alla  devozione  ;  esso  restava 
nei  suoi  argini  fisionomici,  pur  perdendosi  in  una  foce 
permutatrice. 

Ma  Don  Giovanni  mutato  coscientemente  in  un  Bruto 
o  Kosciuscko  è  quanto  voler  fondere  due  liquidi  re- 
pulsivi. Don  Giovanni  messo  davanti  alla  salma  di 
Donna  Maria,  sulla  tavola  anatomica,  non  ha,  se  mai,  che 
un  moto,  ed  è  d'istintiva  repugnanza:  ha  bisogno  della 
vita  parvente  ;  nessun  dottor  Nero  può  farlo  meditare  sul 
dilemma  amletico,  egli  può  vedervi  tutt'al  più  un  rebus 
buono  per  un  quarto  d'ora  di  velleità  enimmofile. 

Per  il  concetto  del  poema,  la  scelta  del  tipo  di  Don 
Giovanni  —  ardimento  —  era  inopportuna.  Il  Trezza, 
nell'articolo  lusinghiero  sul  Preludio  di  Ancona,  31  no- 
vembre 1883,  richiama  il  lettore  con  un  "  Ti  par  poco?" 


—  174  — 

sull'importanza  del  trovar  le  virtù  redentrici  non  al  di  là 
della  natura,  in  un  mondo  impossibile,  ma  nella  natura  e 
nelle  sue  leggi. 

Ma  anche  questo  far  entrare  la  natura  e  la  scienza  le 
quali  in  verità  sono  troppo  capaci  per  passarvi  alla  liscia, 
per  le  falle  della  poesia,  e  dimergolarvele  dentro  per 
far  mostra  che  sono  là,  e  non  è  bugia  ;  come  quei  rim- 
pannucciamenti  lucreziani  degli  Empedocli  e  Luciferi 
rapisardiani,  e  quelle  tirate  chimico-poetiche  che  in  fondo 
non  son  mai  ne  una  cosa  ne  l'altra,  mi  permetterei  di  credere 
tutto  ciò  alquanto  più  ostentazione  che  poesia:  scienza  non 
digerita  e  poesia  abortita.  Il  Cesareo  —  sempre  secondo 
la  mia  riservatissima  opinione  —  sarebbe  rimasto  più 
convinto  con  se  stesso  facendo  convergere  direi  fourie- 
risticamente  la  qualità  del  suo  Don  Giovanni  a  quella 
idealità  ammirevolissima,  a  cui  lo  porta  con  un  rovescia- 
mento che  ha  dell'impronto  e  che  comunque  ne  lava  del 
tutto  i  connotati  per  sostituirgliene  altri  ;  tanto  che  nei  3 1 
quadri  che  ci  presenta,  il  suo  personaggio  passa  alterna- 
tivamente per  le  più  varie  e  diverse  fasi  d' espressione  : 
ora  Don  Giovanni,  ora  amoroso  sentimentale,  ora  un 
senza  volontà  facile  alle  suggestioni,  ora  un  uomo  di  pen- 
siero e  di  sconforto  che  par  gli  penzolino  dal  labbro  le 
gravi  parole  di  Mallarmé  :  la  chat  est  lasse,  hélas,  et  fai 
lu  tous  les  livres  !  Niente  di  meno  ! 

Certo  poi  il  secondo  Don  Giovanni  converso  è  unito 
al  primo,  peccatore,  in  modo  assai  posticcio. 

Senza  contare  che  far  entrare  questo  personaggio,  che 
vuol  essere  un  simbolo  lirico-filosofico,  nella  storia  o  finta 
storia  è  pur  uno  sbaglio  di  luce,  come  se  Goethe  avesse 
fatto  partecipare  il  suo  Faust,  per  modo  di  dire,  alla 
guerra  dei  trent'anni. 


—  175  — 

Anche  il  dottor  Nero,  figura  ben  lampeggiata,  non  è 
proprio  quella  meraviglia  che  parve  al  Trezza.  Questo 
ieratico  scienziato,  che  è  mostrato  alquanto  in  veste  da 
camera,  come  cioè  il  mantenitore  di  donna  Maria,  e  per 
giunta  non  fortunato,  non  ha  più  del  cherubo  in  grinta 
accipigliata  e  con  la  spada  di  fuoco,  che  non  del  vero 
uomo?  Severo  sacerdote  della  scienza,  ma  che  quando 
oli  capita,  non  gli  rincresce  di  fare  uno  scambietto  fuor 
del  laboratorio  per  correre  dalla  ganza  !  E  che  Don  Gio- 
vanni è  questo  che  si  lascia  prendere  per  l'orecchio  da 
questo  Fato  in  zimarra  di  farmacista  che  lo  porta  a  spasso 
per  il  mondo  e  finisce  col  rimorchiarselo  in  Ungheria  che 
sarà  qualcosa  di  parente  lontana  al  paradiso  terrestre 
dantesco,  in  quanto  che  vi  avverrà  l'uscita  di  tutela  del 
protagonista  coronato  e  mitriate  sopra  se  stesso,  per  an- 
dare, sembra,  ad  ammazzare  Re  Gustavo? 

E  certo  una  necessità  di  posizione  obbiettiva  rispetto 
all'opera,  che  induce  a  formulare  di  essa  un  giudizio  che 
indubbiamente  l'autore  ha  già  da  un  pezzo,  meglio  di 
noi,  stabilito. 

Accennerò  solo  ad  un  ultimo...  inconveniente,  perchè 
su  d'esso  insiste  l'autore  teoricamente  traendone  leggi  e 
presagi,  nell'edizione  3  '  del  93.  Il  linguaggio  democratico 
della  poesia  può  essere  una  bellissima  cosa,  ma  può  an- 
che essere  una  sciatteria  insopportabile.  Tra  i  metri  clas- 
sificheggianti  e  fiori  finti  del  linguaggio  apollineo,  e 
"  Tristaccio  di  un  cassiere  !  ",  gli  "  Addio!  gli  è  Nero  ", 
"Che  sfacciato!",  gli  "Insomma  —  La  smette  con  que 
baci?  Oh!  che  birbone",  gli  "Oh!  ma  spero",  mi  pare 
ci  sia  un  equatore  di  più  conveniente  verità.  Spagnuole, 
siciliane  le  donne  di  questo  Don  Juan  parlano  un  unico 
linguaggio  di  questo  stampo  non  so  quanto  naturale;   e 


—  176  — 

non  solo  le  donne.  Non  c'è  nessun  bisogno  di  scrivere  in 
mezzerighe,  tanto  più  che  le  stesse  necessità  del  verso, 
imponendo  troncature  e  sincopi,  fanno,  se  non  ben  do- 
mate —  e  qui  non  lo  sono  —  il  più  brutto  stridore  in 
mezzo  a  questo  parlare  naturale,  quasi  vocaboli  letterari 
in  mezzo  ad  una  chiaccherata  in  dialetto  :  nessuno  impone 
di  vestirsi  in  soprabito,  ma  andare  in  un  salotto  in  cami- 
cia e  in  ciabatte  non  credo  che  alcuno  farebbe  per  amor 
della  naturalezza.  Lo  strano  è  che  pure  in  tanta  parte 
della  sua  prosa  il  Cesareo  stesso  usa  uno  stile  di  raffina- 
tezza ad  unguem  spesso  con  effetti  squisiti  di  tinta  e 
suono.  La  naturalezza,  che  ha  cambiato  di  casa? 

Ciò  non  toglie  che  vi  siano  anche  nel  Don  Juan  dei 
versi  bellissimi  (esempio  nella  "  notte  di  Natale"  quando 
quegli  parla  a  Leporello  dei  suoi  gusti  molto  capaci,  e  il 
verso  batte  e  pinge).  Nel  canto  del  Marinaio  (scena  Xll) 
sono  pure  bei  miraggi  di  poesia.  La  serenata  a  donna 
Maria  (scena  Vi)  non  è  pure  ella  un  graziosissimo  triUi- 
rellare  di  vivi  suoni? 

Le  9  scene  dell'atto  unico  di  Achille  Torelli:  La 
Duchessa  T)on  Giovanni  (ed.  Barbini,  Milano  1 888j, 
sono  un  componimentino  scenico,  nulla  di  originale,  no- 
nostante il  titolo  illuminello;  e  non  si  direbbero  del  ge- 
niale autore  dei  (bariti,  intorno  a  cui  a  tutti  è  noto  e 
grato  il  magistrale  saggio  del  Croce  nella  Letteratura 
della  Nuova  Italia,  se  non  forse  per  alcuni  fasci  di  vita 
nei  caratteri,  come  del  duca  Livio,  una  figura  di  pio  e 
debole  che  infine  diventa  nobile  ed  eroico  agli  occhi 
della  esasperata  sessualità  della  orgiastica  moglie  e  pro- 
tagonista, e  del  dongiovannesco  conte  Mario,  figura 
che  per  essere  appena  abbozzata,  è  la  più  che  occupi  la 


—  177  — 

nostra  attenzione.  Essendoché  là  il  Torelli  meglio  segna 
i  suoi  personaggi  di  vita,  ove  meno  preme  il  pollice  ;  tem- 
pra non  sfuggevole  ne  di  sottintesi,  ma  più  agli  artifizi  dei 
colpi  di  scena,  atta,  e  schiamazzi  di  luce  di  antagonismi 
accortamente  avvicinati.  Così  la  duchessa  Don  Giovanni 
è  falsa,  è  un  miscuglio  e  un  intruglio,  non  coagulato  dal- 
l'arte, di  estranei  elementi.  Ebbra  di  piacere,  abbando- 
nata dal  conte  Mario,  avvilita  dal  marito  con  un  perdono 
troppo  transumano,  ricordiamo,  sì,  di  lei,  quella  tragica 
esclamazione  desolata  della  scena  Vili,  una  di  quelle  non 
rare  nel  Torelli  faville  di  sintesi  di  vaste  concentrazioni 
taciturne  :  "  Se  potessimo  contentarci  di  amare  un  fiore  !  " 
Da  artista. 

Nella  scena  IV  all'amante  che  non  l'ama  più,  davanti 
alla  madre  di  lui,  fa  l'amaro  augurio  ch'egli  sia  serbato 
all'età  in  cui  da  oggetto  d'amore  lo  sia  di  compianto  e 
scherno  a  quelle  da  cui  invano  mendicherà  quelF  amore 
di  cui  ebbe  dovizia.  Al  che  il  conte  Mario  risponde  con- 
trapponendole ironicamente  l'augurio  che  resti  bella  fino 
a  tale  età,  da  potere  come  Ninon,  innamorare  di  se  lo 
stesso  suo  figlio  ignaro  di  esser  tale! 

Conscio  dell'adulterio  non  unico,  e  vinto  dagli  affronti, 
l'infermo  duca  Livio  alla  fine  si  toglie  la  vita  pregando 
per  lettera  Mano  di  sposare  la  duchessa  che  è  per  dargli 
un  frutto  dell'illecito  amore  :  annunzio  ed  esortazione  che 
superano  invero  le  possibilità  più  senili  di  altruismo  e  di 
santocchieria  ! 

Intenzione  prima  dell'autore  era  di  far  contrire,  per 
spremerne  essenza  di  dramma,  due  tipi  dongiovanneschi 
quasi  equipollenti  ;  e  svolgere  il  pensiero  della  scena  IV: 
"a  Don  Giovanni,  Cleopatra";  e  l'idea  per  essere  ori- 
ginale e   di    buon   succo,    se  attuata,    sarebbe  stata  da 

12  —  F.  Fl'à,  Don  Giovanni. 


—  178  — 

maestro  di  scena  ;  e  originale  sarebbe  anche  oggi,  nes- 
suna spugna  essendosi  ancor  saziata  in  quest'  acqua  !  In- 
torno a  questa  rovente  coppia  di  protagonisti  avrebbero 
dovuto  equilibrarsi  i  meteorici  pallori  delle  vittime  van:  ; 
poi  dei  due  l'uno  finire  col  prevalere  sull'altro,  —  se,  come 
è  detto  nella  scena  I,  sempre  uno  dei  due  resta  nella 
tomba  dell'amore  e  l'altro  se  ne  va! 

Ma  come  in  altre  sue  commedie,  il  Torelli  ha  appena 
scalfitto  la  superfice  intera  dell'argomento,  che  lo  scal- 
pello gH  è  caduto  di  mano;  brutto  guaio  per  l'artista,  che 
se  ad  altri  venga  poi  in  mente  di  riprenderne  l'intenzione 
e  riesca  a  suscitarla  a  immagine  d'arte,  non  parrà  vero, 
buttatosi  dietro  le  spalle  il  ricordo  dell'iniziatore,  di  affib- 
biarsi lui  il  facile  vanto  dell'originalità  ! 

Enrico  Panzacchi  aveva  già  nel  1877,  nelle  sue  Ro- 
manze e  Canzoni  {ed.  Zanichelli),  dedicato  un  sonetto  a 
Don  Giovanni  : 

Giovane  sempre,  e  invan  gemer  ti  senti 

Le  nenie  intorno  di  femmineo  core, 

O  Leporello  col  suo  vii  tremore 

Vorria  por  modo  ai   tuoi   baldi  ardimenti. 

Per  te  mentre  t'abbellano  l'amore 
Vin,   parassiti  e  musici  concenti, 
Romban  invan  sul   pavimento   i   lenti 
Marmorei   passi  del   commendatore. 

Stan  di  tua  vita  al  libero  governo 
Forza  e  volere;  al  tuo  festoso  giorno 
L'ora  del  tedio  giammai   non  s'appressa. 

Tu  dal  candido  san  d'una  badessa 
Levi  la  fronte  e  gridi  al  Padre  Eterno: 
Compar,   scusate  se   vi  pianto   un  corno. 


—  179  - 

Tale  la  prima  lezione.  Nel  1894  l'autore,  ripubbli- 
candolo nell'edizione  definitiva  delle  sue  poesie,  lo  com- 
prendeva nella  prima  parte  di  esse  "  Visioni  "  e  lo  univa 
sotto  un  unico  titolo  :  Don  Giovanni  e  Faust,  —  con  l'altro 
a  Faust,  pure  nel  citato  volume.  Il  sonetto  dongiovannesco 
non  vi  ha  che  una  modificazione  che  è  anche  un  peggiora- 
mento :  al  Panzacchi  ripunse  quella  specie  di  compia- 
cente sorriso  che  i  suoi  versi  atteggiavano  verso  il  Liber- 
tino, e  parve  che  un  "  empio  !  "  scoccato  al  dodicesimo 
verso  rimettesse  le  cose  a  posto  ;  ma  la  racconciatura  è 
palese  e  nessun  mastice  di  arte  può  toglierla:  l'intona- 
zione era  quella  che  era,  e  precisamente  restava  quella 
del  77,  con  uno  sfregio  in  più  : 

Empio!   e   dal   bianco  sen  ...  ecc. 

La  rappresentazione  del  tipo  si  riattacca  alla  nostra 
concezione  comica,  aggiuntovi  quel  tanto  di  romagnole- 
scamente  bonario,  e  humour  un  po'  acidulo,  che  pare 
ormai  un  prodotto  artistico-regionale  comune  agli  scrittori 
e  novellieri  più  o  meno  fortunati,  del  solatio  paese. 

Ciò  che  il  poeta  ferma  e  subito  stringe  della  sua  ve- 
duta poetica,  è  l'eterna  giovinezza  di  Don  Giovanni:  ri- 
prende poi  e  spiega  nella  prima  terzina  :  che  mai  il  tedio 
coglie  questo  fortunato.  Continua  e  termina  un  po' 
ad  effetto  :  che  non  si  tiene  neanche  di  far  le  beffe 
a  Dio. 

Il  poeta,  individuato  il  tipo  che  la  nostra  tradizione  ci 
tramandava,  lo  accompagna  per  primo  del  suo  commento 
lirico  :  le  sagome  ne  sono  :  la  spensieratezza  ridanciana, 
la  pratica  del  carpe  diem,  l'attimo  goduto  senza  scrupoli  : 
visione  tutta  indigena.  L'  ora  del  tedio  giammai  non  s'ap- 
pressa pel  nostro  Don  Giovanni  ;   —  per  quello  di  De 


-  180  — 

Musset,  di  Puskin  ecc.  è  il  tedium,  l'essenza  di  blasé 
che  ne  forma  l'anima.  Ne  in  tale  considerazione  del  Don 
Giovanni  giovane  e  felice,  è  amarezza  o  vuoto  di  rim- 
pianto; il  poeta  aderisce  così  bene  alla  sua  figura  e  così 
compattamente,  che  sprazza  fuori  quella  sana  e  piena 
risata  dell'  ultimo  verso.  Era  indifferente  al  Panzacchi, 
poeta  solido,  considerar  Don  Giovanni  giovane,  o  vecchio 
acciaccato  :  a  entrambe  le  figurazioni  dava  un  unico  sa- 
pore la  droga  viva  del  suo  buon  umorismo. 

Così  doveva  simpatizzare  al  parco  ingegno  del  Pan- 
zacchi la  burlesca  fantasia  del  Don  Giovanni  di  Campo- 
amor,  già  altrove  veduto  :  e  questa  imitò  nella  sua  poesia, 
che  prese  posto  nelle  "  Visioni  e  immagini  "  citate  :  Don 
Giovanni.  —  Il  vecchio  Don  Giovanni  rovistando  tra  i 
suoi  ricordi  d'  amore,  trova  una  lettera  nemmeno  ancor 
dissuggellata  e  confusa  lì  ;  per  rispettare  il  mistero  della 
sconosciuta  e  pensando  che  forse  là  era  chiusa  la  sua 
salvazione  :  l'amore,  —  getta  intatto  il  plico  nel  fuoco.  La 
trama  di  Campoamor  è  mutata  :  solo  ove  era  ritratto 
(sul    principio)    Don    Giovanni  vecchio,    il  Panzacchi 

è    rimasto,    e  ha    aggiunto    particolari  ( —    Il  forte 

atleta  delle  dolci  lotte,  —  Sostentan  le  tisane  ed  il  bro- 
muro ecc.). 

E  colto  giustamente  il  senso  di  doloroso  ripiegamento 
del  vecchio,  che  è  sempre  il  chiosatore  della  poesia  di 
se  stesso  giovane.  Don  Giovanni  giovane  è  corso  all'av- 
ventura, e  si  è  riso  di  Dio,  e  dell'amore,  di  cui  non  sen- 
tiva il  vuoto,  (tale  nel  sonetto  già  visto)  ;  vecchio,  ha  salda 
la  fede  più  che  granito,  piange,   di  non   aver    trovato 

l'amore,    ( l'amore,    l'amor   che   invan  cercato   — 

Tra  l'orgia,  ecc ).   Del  resto,  il  poemetto  è  squallido, 

con  un  po'  quel  suo  sapor  grigio  di  romanticheria  e  di 


—  ISl   — 

umorismo  che  allappa  la  bocca,  come  in  alcune  poesie 
del  De  Amicis. 

La  ^Dannazione  di  Don  Giovanni  del  Graf  appare,  nel- 
l'anno 1905,  inserita  nei:  —  'Poemetti  drammatici,  (ed. 
Treves). 

11  Graf,  in  quattro  scene,  si  costruiva  un  Don  Giovanni 
non  proprio  di  grande  ongmahtà  ne  verità,  ma  rappresen- 
tativo dell'anima  sua  più  poeta  della  mano.  Il  cantore, che 
in  alcune  delle  migliori  sue  strofe  sanguina  veramente  di 
amore  e  dolore  (la  disperazione  di  Medusa  non  è  un 
giuoco  di  sillabe),  il  romanziere  del  Riscatto,  che  è  un 
indiamento  dell'amore,  doveva  rifuggire  per  palese  istinto 
dalla  concezione  feroce  del  Don  Giovanni  Creso  d'amor 
senza  amore.  Onde,  ripigliando  il  suo  Don  Giovanni  al 
punto  ove  l'avevano  lasciato  le  concezioni  già  prevalse 
di  burlatore  —  italianamente  — ,  egli  non  si  sente  di  farlo 
del  tutto  estraneo  alle  sue  burle  ;  la  sua  celia  non  deve 
essere  senza  caldo  di  cuore. 

E  del  resto  un  comune  tropo  di  idee,  questo,  per  cui 
Don  Giovanni  finisce  per  combaciare  col  duca  Ottavio, 
il  contagio  d'idee  finitime  essendo  più  forte  d'ogni  logica 
definizione,  cui  del  resto  la  poesia  non  saprebbe  adattarsi. 

Il  trapasso  mi  par  di  rinvenirlo  qui  :  Don  Giovanni  ama 
fugacemente  e  all'ingrosso,  non  può  quindi  amare  l'anima 
imperitura  ;  ciò  implicherebbe  esclusione  ;  ma  la  parte  ef- 
fìmera ;  e  in  questo  amore  e  in  questi  amori  deve  eserci- 
tare un  incontentabile  gusto  di  quel  bello  "  che  nella  carne 
si  rivela  e  splende",  secondo  l'espressione  del  Graf 
(scena  IV).  Anzi,  questo  gusto  estetico  si  cambierà  in  sete 
del  bello.  Diventa  l'idolatra  della  Forma. 


—  182  — 

Già  in  Cesareo  Don  Giovanni  enunciava  a  tratti  sen- 
tenze di  un  estetismo  esemplare  : 

Il  molle  incanto 
D'un'azzurra  pupilla  e  il  respir  caldo 
D'una  chioma  fragrante   o  la  divina 
Armonia  d'un  profilo  :   ecco    l'amore 

(Scena  VI). 

Veramente  Don  Giovanni  in  se,  non  ha  pel  corpo 
queir  adorazione  di  esteta  che  presuppone  sofferenza  e 
artistica  sensibilità.  Don  Giovanni -Andrea  Sperelli  è  una 
filiazione  del  tipo,  parente  a  DorianGray.  Il  nuovo  amatore 
è  ombrosissimo,  non  soffre  sfregio  al  suo  ideale  di  bel- 
lezza reale.  Così  Dorian  Gray  non  sente  più  amore  per 
la  sua  Sibilla  da  quando  ella  ha  fatto  brutta  figura  nell'in- 
terpretare  la  Giulietta  di  Shakespeare. 

Il  corpo  amato  spiritualmente,  —  segnacolo  del  nuovo 
dongiovannesimo.  Preso  come  elemento  sostanziale  ciò 
che  in  verità  è  elemento  contingentissimo  del  vero  Don 
Giovanni,  questi  finisce  coU'essere  raffigurato  impressio- 
nabilissimo a  ogni  obbietto  di  forma  femminea;  e  arre- 
sterà tutte  le  sue  corse  per  incantarsi  davanti  a  meteore 
di  bianchi  omeri.  Ma  in  realtà  Don  Giovanni  si  ritrova 
sempre  e  più  che  mai  nella  netta  figurazione  baudelairiana 
definitiva  come  una  medaglia  (16): 

Mais  le  calme  héros  courbé  sur  sa  rapière 
Regardait  le  sillage,  et  ne  daignait  rien  voir, 

("Don  Juan  aux  En/ers) 

che  ricorda  lo  stupendo  scorcio  dell'atteggiamento  della 
Didone  virgiliana  : 

Illa  solo  fixos  oculos  aversa  tenebat 

Nec   magis  incepto   vultum  sermone   movetur 

Quam  si  dura  silex  aut  stet  marpesia  cautes. 

{£neide.  1.  VI,  469-471). 


—  183  — 

Il  Graf  ben  lungi  dagli  eccessi  estetomani,  pertanto  gli 
è  sorrisa  l'idea  di  un  Don  Giovanni  che  alla  triplice  ac- 
cusa di  Minosse:  "altrui  —  Femmine  adulterasti",  — 
"  Fanciulle  contaminasti  "  —  "L'una  per  l'altra  —  Ab- 
bandonar fu  tuo  costume",  risponde  con  la  triplice  pro- 
clamazione :  Amai,  amai,  amai. 

Disceso  anima  e  corpo  nell'  inferno,  dal  giudizio  di 
Minosse,  è  condannato  a  essere  abbandonato  in  preda 
alle  femmine  da  lui  ingannate,  perchè  ne  facciano  eterno 
strazio  ".  Ma  lui  non  si  commuove,  anzi  per  tutta  contrizione 
chiede  che  siano  rese  loro  le  belle  membra  "  onde  fùr  liete 
in  terra  ".  Così  potranno  fargli  più  male.  Egli  sa  di  poter  col 
canto  della  sua  parola  domare  le  belle  fiere.  E  ciò  fa. 
Davanti  ai  demoni  stupefatti,  si  trascina  dietro  fuor  della 
lor  vista,  il  gregge  mormoreggiante  e  ammansito  delle 
ombre  femminee  rapite  dalla  malia  del  nuovo  Orfeo,  non 
senza  aver  educatamente  salutati  prima  i  suoi  giudici  : 
"Addio,  vezzosi  e  teneri  donzelli". 

Due  note  risaltano  in  questo  Don  Giovanni,  e  ben  colte  : 
la  iattanza  invulnerabile,  quella  che  già  Dante  vide  in 
Giasone  ("Quanto  aspetto  reale..."),  ma  più  facile  e  a  buon 
mercato,  che  Giasone  era  sferzato  dai  demoni,  e  serrava 
in  se  il  suo  tormento;  Don  Giovanni,  tutti  gli  fanno 
largo  e  fin  Cerbero  con  una  pedata  va  a  finire  in 
Acheronte. 

La  seconda  è  la  padronanza  di  se  perfetta  che 
questo  conserva,  e  il  giuoco  dei  sentimenti:  incanta, 
ma  è  un  esercizio  psicologico  di  bravura  davanti  al  cor- 
bellato tribunale  d'Averno,  un  trastullo  sentimentale  con 
le  ombre  femminee  irritate.  Comincia  coli' offrirsi  nelle 
loro  mani  :  mi  foste  godimento,  siatemi  ora  martirio  : 
"fate  di   me  quel  che  vi  aggrada".   Indotta    la   confu- 


—  184  — 

sione,  segue  il  colpo  vincitore.  Lusinga,  piega,  disarma, 
avvince  : 

Gioia  un   tempo   mi   deste,    ora  mi   date 
Qual  più  vi  piace  aspro  tormento.   Io  tutto 
Accetterò  dalle   man  vostre,   solo 
Che   mi  lasciate   coprirle  di   baci. 
Non   piangete  così,   che  mi  si  strugge 
Per  tenerezza  il   core.   O  non  saria 
Miglior  consiglio,   nella  vostra  gréizia 

Ricever  chi   v'adora? 

Tutte  m'amate  poiché   tutte  io  v'amo.... 

Quaggiù  fiori   non  sono  onde  alle  chiome 

Vostre  io  possa  intrecciar  vaghe  corone  ; 
Ma  in  ogni  loco,   in  ogni   tempo    posso 
Cantar,   far  versi   e  con  le  dolci  note 
Melodiose  e  con   le  accorte  rime 
Celebrar  le  bellezze  e  i  nomi   vostri. 
E  chi  sa...   vi  sovvien,   donne  mie  care, 

D'Euridice  e  d'Orfeo? 

E  del   trace   amatore  esser  potria 
Più  venturato  Don  Giovanni,  e  trarvi 
Fuor  di  quest'ombra  a  riveder  la  cara 
Luce  del  so!,   fratello  vostro.... 

Vo' giamo  i   passi 

Verso  qua!   parte  più   vi  piace,   in  quale 
Più   vi   piace  sostiam 


11  verso,  spesso  tardo,  con  alcuni  ceppi  di  dicitura  in- 
vecchiata, pure  in  questo  brano  meglio  concede  all'ispi- 
razione. Altrove  r  "ite  con  Dio",  gli  "ahi  lassa",  il  "e  te 
del  pari!",  il  "madie"  ecc.  ecc.  che  non  sono  messili 
volutamente,  per  dar  sapor  comico,  ma  sono  invece  un 
vizio  bello  e  buono,  piuttosto  che  vezzo,  —  tornano  sgra- 
diti. Ma  non  mi  passerò  di  notare  il  comicissimo  di  quei 


—  185  — 

versi  felici  (       Don  Giovanni  scacciante  le  ombre  che 
vorrebbero  salire  sulla  barca  di  Caronte): 

Indietro! 
Che   arroganza  è   la   vostra?   Indietro   o   ch'io 
Agitando   il    mantel   tutte   mi   sventolo 
Come   mosche   nell'aria  (Scena  II). 

Ad  Arturo  Graf  è  dedicata  la  poesia  dallo  stesso  titolo 
di  Ettore  Moschino  nel  volume  di  Iniche  /  Lauri  edito 
dal  Treves  nel  1908.  il  Moschino,  è  noto,  come  poeta 
lirico  non  ha  fatto  passi  avanti,  è  rimasto  in  una  posizione 
mal  conciliativa  tra  romanticismo  e  classicismo,  invece 
di  oltre  passare.  Accoglie  nella  sua  lirica  voci  di  civiltà 
ellenica,  medioevale,  moderna,  senza  rinnovare  man  mano 
la  sua  intonazione,  che  è  sempre  di  un  classicismo  più 
che  altro  lessicale  e  mitologico  -  il  peggiore  ,  e  anche 
nei  Canti  Moderni,  l'Olimpo  viene  tirato  in  ballo. 

In  questa  Dannazione  di  Don  Giovanni  compresa  in 
una  silloge  intitolata  :  Gli  Invincibili,  Don  Giovanni  è  ri- 
preso posteriore  a  se  stesso,  nell'atto  di  pregare  i  santi 
del  paradiso  di  perdonargli  i  peccati,  peccati  non  tanto 
intenzionali,  quanto  indotti  dal  troppo  vigoreggiante  corpo 
("Peccò  quella  mia  forza!")  e  riscattati  ota  dalla  peni- 
tenza e  dall'umiliazione.  Ciò  nella  prima  parte.  Nella 
seconda,  a  Don  Giovanni  si  presenta  l'immagine  sfolgo- 
rante della  divina  peccatrice  Maddalena,  e  l' invincibile 
amatore  da  vecchio  querulo  e  pentito,  rifatto,  per  incanto, 
bello,  pone  il  suo  labbro  sulla  rosea  bocca  e "fu  si- 
mile a  un  Nume  !  ".  Ciò  che  non  impedisce  che  sull'istante 
un  tuono  rintroni  e  la  chiesa,  ove  era,  sprofondi  fra  il 
riso  del  diavolo  e  la  sfida  dell'amatore  intrepido,  fiero  della 
sua  preda. 

12*  —  F.  FUÀ,  Don  Giovanni. 


—  186  — 

Una  colascionata  stravagante  che  in  fondo  non  dice 
niente  e  di  poco  gusto. 

Assai  maggior  pregio  il  libretto  dello  stesso  poeta, 
musicato  dal  maestro  Franco  Alfano:  L'ombra  di  T)on 
QioVanni,  in  tre  atti  e  quattro  quadri  (ed.  Ricordi  1914), 
in  cui  l'abilità  di  tecnico  della  scena,  del  Moschino,  ha 
miglior  luogo  e  certa  rigatteria  da  guardaroba  neoclassi- 
cista non  fa  quella  brutta  mostra  di  sé.  Due  appunti  sto- 
rico-leggendari precedono  il  dramma  lirico,  nei  quali  è 
detto,  rapidamente,  di  Don  Giovanni  Manara,  come  ve- 
nisse, per  la  somiglianza  con  le  gesta  dell'eroe  di  Tirso,  ap- 
pellato così  da  Miguel  Manara,  che  tale  ne  era  il  vero 
nome,  di  famigha  corsa,  ultimo  stipite  dei  conti  di  Cinarca, 
nato  a  Siviglia  il  1 626,  ivi  trasferitosi  il  padre  dalla  Corsica. 

L'ultimo  dei  Cmarca,  dopo  avere  empito  di  sue  gesta 
delittuose  la  Spagna,  è  tornato  in  Corsica,  ha  ucciso  Or- 
landuccio,  della  casa  d'Alando,  e  si  rifugia  nell'  avito 
castello,  ivi  non  chiedendo  che  riconciliarsi  con  Dio, 
mentre  la  furia  vendicatrice  dei  parenti  dell'ucciso  agogna 
e  urla  contro  di  lui  (atto  1  "). 

Ma  Orsetta  Colonna  parente  dell'ucciso,  ecco  è  presa 
del  conte.  Ed  ecco  Vannina,  sorella  dell'ucciso,  che  a 
forza  si  è  introdotta  nel  castello  a  compier  la  sua  vendetta 
contro  il  reo  immersosi  nello  studio  e  nella  preghiera, 
ecco  anche  lei,  davanti  all'immagine,  —  sortale  per  fa- 
scinazione agli  occhi  e  sostituitasi  all'odiata  figura,  —  del 
divino  seduttore,  perdutamente  sua,  cade  (atto  2°). 

Onde  all'ira  popolare  che  vuol  vendicato  Orlanduccio  e 
all'immane  odio  della  madre  orba,  indarno  avendo  tentato 
di  opporsi,  ella  già  fattasi  armata  messaggera  di  morte,  vien 
ora  legata,  per  colui  che  non  che  uccidere  altro  non  aveva 
potuto  che  amare,  a  una  croce  del  sentiero,  dalla  turba 


-  187- 

indignata,  come  una  strega;  scioltane  da  Orsetta,  vola 
a  dare  salvezza  all'amato.  E  nell'ultimo  quadro,  questi 
rifiuta  l'aiuto,  aspetta  la  morte  come  una  espiazione,  le 
dice,  per  staccarsela,  che  l'ha  schernita,  l'ha  mgannata. 
Non  ode  ella  :    -    "Tu  non  puoi  mentire" 

Le   tue  dolci   parole 

Son   faville  di  sole.... 

Cede  allora  Don  Giovanni  e  grida:  "amore..."  E  quando 
la  turba  ebbra  trabocca  rovesciandosi  tumida  e  violenta 
su  quel  puro  limbo  di  luce  e  d'amore,  i  due  corpi  avvinti 
beati  precipitano  insieme  sotto  i  gorghi  dell'  odio  e  del 
sangue  (atto  3°). 

Quest'ultimo  quadioda  cui  prende  il  titolo  tutto  l'atto  3" 
{La  fiaccola  d'oro)  è  di  drammaticità  che  non  aspetta  la 
musica  per  sentirsi  polseggiar  hequente  e  passionata;  l'au- 
tore del  Cesare  Borgia  si  riconosce  con  compiacenza.  E 
v'ha  un'altra  situazione  scenica  gargliarda  quando  nel 
1  °  atto  il  conte  rievoca  rapito  se  stesso  : 

Nel  suo   manto  di   porpora  ei  s'aggira 

Guarda  !   Guardalo  !   Ei    scivola 

Nelle  alcove  gelose 

Delle   giovani  spose.   Entra   nel   nido 

Delle  innocenze  ignare, 

Delle   vergini   in   fiore 

Bello,   ardente   è   l'amore. 

Ebbro  di  voluttà 

Avvampa   di   lussuria  ; 

E   turbine  che  infuria 

Sfiora  gli  occhi   la   bocca 

Colla   carezza    lenta  ; 

E  poi  s'avventa, 

Abbranca   la  sua  preda 

Bianca,   la   preme   al  suol. 

Un   grido,   un   urlo   orrendo  e  una  fanciulla 

Crocifissa  nel  duol. 


—   188  —, 

....E  gli   amici  traditi 

E  1  mariti  sgozzati 

E  i  perfidi  conviti, 

E  sai  tu   quale   sia 

Questo    mostro  dannato 

Che   ha  sfidato   la   terra,  il  mondo,  Dio? 

Son   io....   Saliano  i   pianti 

Delle   madri   imploranti 

Dalle   celle,   dagli  orti 

Pei  viventi   pei  morti  ; 

Ma  il  mio  cuore  d'acciaro 

Non  sapea  la  pietà. 

La  mia  voce  era  un  tuono 

La   mia  spada  era  un  raggio..... 


Versi  frequenti  di  musica  e  di  visione. 

Del  tipo  Don  Giovanni  è  lumeggiata  anche  qui  la  fase 
postuma  alla  dongiovannesca,  la  fase  del  rimembrare  pas- 
sivo e  della  resipiscenza. 

Il  Gozzano  nei  suoi  dolci  Colloqui  (Treves,  1911) 
aveva,  in  una  poesia:  L'onesto  rifiuto,  cantata  con  quella 
tremula  melanconia  che  par  come  nebbia  d'armonia  ap- 
pesa ai  mobili  accenti  dei  suoi  versi  sorrisi  e  pianti,  la 
sincerità  della  coscienza  che  sa  non  potere,  non  potere 
amare  e  congeda  l'illusa  che  amore  richiedeva.  Ma  una 
donna  lo  rimbecca,  il  mite  poeta,  senza  che  paia,  senza  che 
altri  si  accorga  subito  che  a  lui  va,  di  sguincio,  lo  strale. 
L'Insonne  di AmaHaGuglielminetti (ed. Treves,  1913)ha 
a  pag.  82  una  poesia  a  Don  Giovanni,  nella  quale  la 
donna,  più  donna  che  non  poetessa  qui,  lamenta  la  scarsa 
capacità  d'amore  degli  uomini  del  secolo  tralignati  dal- 
l'esempio del  signor  della  gaia  fortuna;  e  lo  fa  con  palese 
intento  di  caricatura  ripetendo  talune  parole  del  Gozzano 
e  contraffacendone  per  vezzo  alcuni  gin  di  frase. 


—  189  - 

L'  uomo  non  è  più  quel  desso:  al  desiderio  conquista- 
tore affianca  argini  di  consigli  (ciò  che  le  donne  in  genere 
non  amano,  specialmente  se  sono  state  a  scuola  dalla 
Contessa  Lara). 

E  dice,  l'uomo  traviato  e  rimbecillito  —  questo  è  il 
pensiero  se  non  la  parola  —  della  poetessa  Guglieìminetti  ; 

O  amica  io  sono  siccome   una   pianta  insecchita 

Non  voglio   la   tua   vita  per  l'inganno  e   per  l'abbandono. 


D'uopo   è   che   questo   ti  sveli  con   franca   parola  ; 
O  illusa   ti  consola:   rifiuto  non   fu   mai   più  onesto.... 

Ove  è  ripreso  e  rimpianto  per  antitesi  l'ameno  bizzarro 
tipo  del  Don  Giovanni  comico  e  preromantico. 

Nella  mia  copiosa  collezione  di  appunti  dongiovan- 
neschi, troverei  altro  a  spigolare,  ma  sarebbe  solo  un  far 
fascio.  Ho  lavori  trascurabili  di  autori  non  trascurati. 
(Ojetti,  Zuccoli,  Negri);  ma  sono  ameni  passatempi  o 
innocui  specchi  d'allodole  da  far  ballare  gli  occhi  col  titolo 
magico  e  che  poi  ti  lasciano  scorbacchiato.  Basti  citarli 
per  la  cronaca,  diremo  così. 

Ora  è  uscito  un  libro  di  Vincenzo  Cardarelli  :  Viaggi 
nel  tempo,  con  una  divagazione,  tra  l'altro,  su  Don  Gio- 
vanni, che  era  già  nota  ai  leggitori  delle  Riviste.  Don 
Giovanni  che  ama  non  le  donne,  distintamente,  ma  le 
occasioni,  e  che  sarebbe  audace  combattitore  e  eroe  se 
non  fosse...  Don  Giovanni,  non  ha  niente  di  nuovo;  una 
chiosa  si  riappicca  alla  prima  proposizione,  per  sottovoce 
liricamente  commentare  che  bisogna  amare  la  realtà  con 
distinzione  precisa.  Il  liricamente,  debbo  dirlo,  non  è  mio. 


—  IQO  — 

Penso  al  grande  Dossi  e  al  suo  feticismo  pel  povero 
Rovani!  E  come  non  scusare,  in  tempi  deserti  di  dei, 
anche  i  fanatismi  reciproci  che  mettono  un'ora  in  subbu- 
glio gli  abitanti  dello  stesso  none  letterario? 

Ho  nota  di  buone  ispirazioni  dongiovannesche;....  ma 
autori  Cameadi;  e  ne  potrebbero  questi  sperar  grido  dal- 
l'esser  citati  qui,  ne  io  mettermi  a  fare  il  rivelatore.  Taccio 
le  miserie  assortite  degli  illustri  e  degli  ignoti. 

Salverò  una  discreta  poesia  in  cui  è  ripreso  il  Don  Gio- 
vanni tragico;  e  l'accoderò  in  nota  (17). 


191 


NOTE  ALLA  QUARTA  PARTE. 


(I  )  Ho  esaminato  questo  scenario  nei  Rendiconti  della  R.  A.  dei 
Lincei   1901.  Voi.   10°,  Serie  V,  pagg.   400-407. 

(2)  Esamino  la  commedia  del  Cicognini  nell'  edizione  di  Ronci- 
glione  1671. 

(3)  Bévotte,   op.   cit.,  pag.   131. 

(4)  Lo  Schack,  op.  cit.,  voi.  cit.,  pag.  445,  dice,  contrariamente, 
che  un  Feslin  de  Pierre  era  rappresentato  in  Italia  nel  1620.  Cita  in 
nota  il  Riccoboni  Hist.  du  ih.  Hai.,  t.  1,  pag.  47.  Ma  il  Ricco- 
boni  non  dice  questo.  Dice  che  pel  600  eran  di  moda  —  senza 
1 620  !  -,  le  traduzioni  della  Vita  è  un  sogno,  del  Festino  di  Pietra,  ecc. 
Cosa  nota.  11  Brouwer  {Rass,  crii.,  voi.  Il,  anno  1897,  pagina  147: 
Ancora  Don  Giovanni)  ripete  la  stessa  inesattezza,  citando  forse  dallo 
Schack  stesso. 

(5)  A  proposito  del  Giliberto  e  dei  miei  dubbi  sulla  ben  costruita 
ipotesi  (pag.  112)  del  Bévotte,  può  notarsi  che  lo  stesso  Solofrano 
è  autore  di  un  Cavaliere  della  Rosa,  romanzo  d'argomento  spagnuolo 
che  il  Farinelli  dice,  per  notizia  del  Croce,  orribilmente  scritto  e  di 
scarso  valore.  (Gl'or.  5/or.  art.  cit.,  pag.  43).  E  possibile  che  sia  stato 
preso  per  modello  un  modello  così  poco  esemplare?  E,  così  mal  nolo 
da  noi,   lo   fosse   tanto  in   arancia?   Non  mi  par  verosimile  mollo. 

(6)  Non  avendo  avuto  a  mia  disposizione  il  Gueuletle,  deduco  lo 
scenario  da  lui  riportato,  dalla  lezione  del  Castil  Blaze  {Molière  Mu- 
sicien),  riprodotte  dal  Moland  {Molière  et  la  Comédie  Hai.,  cap.  1  l^J: 
tranneché  tolgo  l'ultima  scena  infernale  che  il  Castil  Blaze  vi  aggiunse 
erroneamente. 

(7)  Della  commedia  del  Ferrucci,  che  il  Brouwer  nel  1897  dava 
per  irreperibile,  è  una  edizione  alla  Bib.  Univ.  Bologna  del  1 706  ; 
di   cui  si  è  servito  il   Bévotte. 

(8)  Rendiconti  citati,   pagg.    430-35.    Ivi   ho   esaminato  lo  scenario. 


—  192  — 

(9)  Esamino  il  Don  Giovanni  Tenario  del  Goldoni,  che  non  è 
compreso  in  tutte  le  edizioni  delle  sue  commedie,  in  quella  del  1823 
—  'Prato  -   F.lli   Giachetti   —   La  seconda  del   tomo  primo. 

(10)  Era  anche  aridamente  in  Rosimond  —  Le  nouveau  Festin 
de  Pierre  ou  V Aihée  faudroyé  —  (già  citato):  "Le  bien  dont  on 
jouit  ne  cause  plus  d'ardeur  "  (atto  1",  scena  ili).  Quanto  ai  tempi 
moderni,  di  consimili  intuizioni  liriche  non  si  ha  che  a  scegliere,  dal 
"  parfum  de  tristesse  "    del   Mallarmé  (Apparilion)  al: 

Non  amo  che  le  rose 

Che  non  colsi  * 

di  Guido  Gozzano   (Cocoile);    —   per  citar  due   alla  prima  ;    —    pen- 
sieri che  si  ricongiungono  alla  pascoliana  definizione  del  dolore  : 

il   fior  che  solò  odora  quando  è  colto. 

[L'Eremita,   in   Nuovi    Poemetti). 

Si  può  dire  che  tutta  l' mtonazione  della  poesia  più  moderna  è  in 
questo  accoramento.  E  del  resto  essa  una  delle  note  più  universali, 
nonché  alle  letterature,  all'anime  umane.  E  nel  variar  dei  tempi,  dei 
gusti,  della  civiltà,   il  ritornello  eterno  del  destino  mortale. 

(11)  Ho  esaminato  l'atto  del  Bertati  nell'edizione  dell'epoca  - 
Venezia,   presso  Antonio  Casali. 

(12)  In  questo  Capriccio  vi  è  un  passo  che  ha  una  certa  impor- 
tanza sfuggita  al  Moland  e  al  Bévotte;  e  che  contribuisce  a  chiarire 
quel  piccolo  rebus  della  traduzione  francese  del  Convitato  di  Pietra 
in  Festin  invece  che  Concie  de  Pierre.  Sebbene  la  spiegazione  meglio 
si  riserberebbe  allo  studio  del  Don  Giovanni  in  Francia,  mi  sbrigherò 
di  notare  che  questo  scambio  deriva,  come  è  ormai  constatato,  dal- 
l'aver  attribuito  al  commendatore  il  nome  di  Pietro  ;  una  digradazione 
onomastica,  se  si  può  dir  così,  negli  scenari  italiani.  11  Cavalier  Tem- 
pesta del  Capriccio  ricorda  appunto  il  Convitato  di  Pietro  (scena  VI): 
un  chiasmo  d'idee  :  da  Convitalo  di  Pietra  e  Convito  di  Pietro  è  ve- 
nuto fuori  Convitato  di  Pietro  I 

(13)  Nel  Da  Ponte,  il  racconto  dell'attentato  passa  a  Don  Gio- 
vanni, —  con  più  naturalezza  — ,  che  lo  espone  tra  risa  e  brevissi- 
mamente a  Leporello,   atto  I  ",  scena   111. 

(  1 4)  Esamino  il  Dissoluto  punito  ossia  Don  Giovanni  del  Da 
Ponte   nell'edizione   del  1811   —   Puccinelli   —   Roma. 


—  193  — 

(15)  So   che  questa   mia   considerazione   stona  con  le  buone  parole, 
che  ha  per  questo    Don    Giovanni   il  Grillparzer  e  anche  il    Farinelli 

che  lo  seconda.    Ma 

*  (16)  11  Farinelli  (art.  cit.,  pag.  317,  nota  1)  in  una  noterella  sprez- 
zante evita  di  fermar  l'occhio  sulla  breve  lirica  baudelairiana,  —  una 
poesiuccia  insignificante  —  dice.  Mi  pare  quasi  un'insolenza.  Non  è 
una  poesiuccia  insignificante.  Niente  di  nuovo,  ma  non  è  mica  detto 
che  nella  lirica  si  debbano  scoprire  delle  Americhe  !  Anzi  di  nuovo, 
c'è  r  immagine  perfetta,  la  visione  baudelairianamente  metallica,  in  cui 
il  suono  scolpe.   Che  altro  ? 

(17) 

DON  GIOVANNI 


Nell'inerzia  diffusa   delie   pacate   tombe 
Don   Giovanni   avanzava  con  risata  d' inferno  ; 
E   traean   le   ceree  aurore  di   colombe 
Dopo  la  regia  tenebra  del  destinato  scherno. 

Erano   tutte  morte,   erano   tutte   belle 
Le  morte  per  l'amore  delle  pupille   ferree. 
Don  Giovanni   vagava  ravviluppato,   ed   elle 
Rifiorian   di   fuggevoli  risi   l'attese   terree. 

—  Don   Giovanni  —  cantava  la  duchessa  Isabella 
Senz'odio,  gli  occhi  immensi  come  due  lachi  neri  : 

—  Ricordi  le  smarrite  sere  sul  mare,  nella 
Lancia  lenta  d*  amore,   tacila   di   misteri  ?   — 

—  Don   Giovanni   — •    la   trista  donna  Elvira  nel    lutto 
Dell'inganno  costretta  a   lui   con   irto   pianto: 

—  lo   ero  bella   un  giorno   tra   le  belle,   e   tu   lutto 
Mi  prendesti   e  io  voleva   odiarti,   e   t'amo   tanto.    — 

—  Don   Giovanni   —   la  pia   nelle   bende  di  suora 
Ines  bianca  con   afona  tranquillità  gli   geme  : 

—  Ah  !    ti  perdoni   Iddio  il   tuo  delitto,   e  ancora 
A  me  l'insano  pianto  delle   mie  ore  estreme.   — 


—  194  — 

Muto  nel  manto  nero,  torvo  nella  sua  morte, 
Don  Giovanni  avanzava  con  terribile  ghigno. 
Rattrappito  nell'ombra  sua,  di  terror  contorte 
Leporello  le  labbra,  lo  seguia  con   un  frigno. 

E  cortigiane  torpide  e  verginelle   bionde 
E  pompose  matrone  e  garrule   villane 
Abolian  le  pàtule  tombe,  innumeri  a  onde 
Svoltolantisi  suoni  di   sepolte  campane. 

Estasi  suoni  bianchi  d'alianti  farfalle 
—   Pace  irradian  pace  a   torno  a   muto  orno 
Imperturbabil   tenebra   tu  spartivi  :   alle  spalle 
E  morian  i  richiami  e  sovra  i   muri  il  giorno. 


II. 


—   Ah  !  perchè  voi  m'avete  così    infinitamente 
Amato,  perchè  tutte  siete  nel  lampo  nero 
Degli  occhi  miei  cadute,   belle  e  perdutamente 
Abbandonate  al  mio  bacio,  senza  pensiero  ? 

Nessuna  al  balenare  dell'acciaiato  amore, 

Quanto  più  dentro  al  tremolo  petto,   io  stracciava  il  cuore 

Per  burla,   con  l'orgoglio  del  ribelle  valore. 

Sbarrò  l' intatta  sillaba  tentata  a  tutte  l'ore  ; 

Ma  come  all'acre  carpo  dell'atleta  acclamato 
Acciar  non  v'ha  che  flesso  non  ceda,  io  tutte   l'ebbi 
Al  primo  assalto,   io  tutti  i  cuori   all'  impagato 
Desiderio  impiccati,  come  di  forca  ai   rebbi. 

Solo  nel  vostro  vuoto,  maledico  la  molle 
Anima  e  il  dono  vano:  tutte  le  vostre  coppe 
Voi   m'offeriste  a  gara,   femmine,    come  a  folle 
D'arsura  ;   e  senza  gloria  bevvi  io,    ridendo,  a  troppe  ; 


—  195  — 

Ma   non  era   quell'una  alla   mia  sete,   degna 
Bevanda  ;   invan   frugtu   e   non   trovai,   per  quante 
Anime  féssi  e  ne  stirpai   la  vita  indegna. 
La  dura  al   mio  coltello  sillaba   d'adamante. 

E   vi   rinnego.   Solo   voleva   alla   mia  spada 
Eguale  spada,   e   tutte   voi  m'avete   mentito. 
L'ultima  asp>etto  Grande  Vincitrice.   M'invada 
Ella  e  non  ceda,   lo  medesimo  l'invito.    — 

Queste  sotto   il  torvo  arco  del   sopracciglio   ansava 
Don  Giovanni   tremende  cose,   mentre  con  secco 
Colpo  alla  porta   tre  volte  una   nocca  dava. 
E   Don  Giovanni  in  piedi  sorto,   rispose  :   Ecco.    - 


196  — 


POSTILLE   DONGIOVANNESCHE. 


Scelgo  e  stralcio  dai  miei  quaderni  dongiovanneschi 
alcune  osservazioni  che  possono  contribuire  al  ricono- 
scimento del  tipo  e  a  chiarirne  qualche  tratto. 

I. 

La  trasformabilità  fisionomica  e  psicologica  di  Don 
Giovanni  mi  pare  abbia  origine  nell'assenza  del  senti- 
mento di  identità:  ciò  che  spiegherebbe  anche  la  man- 
canza in  lui  di  memoria  (memoria  sensibile  opposta 
alla  meccanica). 

II. 

Sa  chi  scrive,  di  esseri  propinqui  a  Don  Giovanni, 
come  all'atto  d'amore  comunemente  diano  piccola 
quantità  di  liquido  seminale.  Ove  gli  erotici  e  sensuali 
massima.  Ciò  consente  ai  dongiovanni  la  ripetizione 
frequente  degli  atti  sessuali,  in  ciascuno  dei  quali  poca 
forza  consumano. 

Gli  erotici  nell'atto  d'amore  delirano  e  si  dibattono, 
i  Don  Giovanni  restano  rapidi  e  interi. 

L'osservazione  che  taluno  poco  avveduto  mosse,  che 
la  lussuria  sia  agitazione,  ansia  e  perciò  moto,  non 
impedimento,  può  trovare  anche  confutazione  nell'eti- 
mologia di  alcune  delle  parole  che  ne  definiscono 
l'idea;  confutazione  che  riportando  alle  origini  dei 
concetti,  per  eliderne  tutte  le  successive  superstizioni 
di  significato,   è  spesso   la   migliore.   (Vedi   i   termini 


—  197  — 

lussuria,  lubricità,  lascivia,  ecc.,  e  l'immagine  consocia 
del  fango;  tutto  ciò  indizia  impedimento  al  muoversi 
attivo,  e  risale  alla  rappresentazione  del  liquido  origi- 
nale, seguendo  il  processo  logico  che  lo  sciogliersi  in 
acqua  impedisce  il  moto). 

L'irrequietezza  locale  dei  lussuriosi  si  discentra  dal- 
l'immobilità, è  annaspamento  improduttivo;  la  mobilità 
di  Don  Giovanni  è  intera  e  produttrice,  è  veramente 
moto  ;  l'una  tormento  e  febbre,  l'altra  progresso  e 
prassi. 

III. 

Nello  stato  primitivo  dell'uomo  desiderio  e  potere 
si  controbilanciano,  la  felicità  relativa  è  un  fatto,  l'im- 
maginazione non  essendo  ancora  desta.  Nemmeno  in 
Don  Giovanni  l'immaginazione  è  adulta,  appena  anzi 
rudimentale,  inquantochè  non  lascia  vuoto  ad  essa  la 
simultaneità  e  aderenza  del  desiderio  e  del  potere.  Più 
l'immaginazione  prevale,  più  Don  Giovanni  si  accosta 
al  tipo  duca  Ottavio.  Per  contaminazione  di  idee,  par- 
tendo da  questa  affinità  tra  lo  stato  primitivo  dell'uomo 
e  la  condizione  psicologica  dongiovannesca,  si  è  cre- 
duto ritrovare  il  dongiovannesimo  già  prodotto  prima 
assai   che  salito  a   denominazione,  e  in  età  primitiva. 

Nel  primitivo,  quale  possiamo  per  eliminazione  rico- 
struirlo, è  se  mai  la  greggia  potenzialità  dongiovan- 
nesca unita  con  attualità  contrarissime  al  nostro  tipo: 
la  condizione  essenziale  al  suo  differenziarsi,  il  mefi- 
stofelismo,  è  moderna  (vedine  le  osservazioni  della 
prima  parte). 

E  poi  il  parlare  di  stati  psicologici  preesistenti  alla 
loro  definizione  onomastica  nasconde  spesso  un  tra- 
nello: dice  tutto  e  niente:  tutti  i  sentimenti  e  tutte  le 
facoltà  si  può   dire  in  certo  modo  che  preesistano  nel 


—  198  — 

mondo  interiore  alla  loro  conoscenza  e  alla  loro  forma, 
ma  in  verità  non  li  si  può  dire  percepiti  e  viventi,  se 
non  all'atto  che  li  vertebri  il  nome. 


IV. 


Don  Giovanni  ha  un  altro  carattere  del  primitivo  : 
l'innocenza  soggettiva,  comune  al  Bambino.  Come  il 
Bambino  non  sa  il  male  che  infligge  alle  bestioline 
che  tortura  per  gioco,  così  al  Don  Giovanni  pratico 
è  ignoto  il  dolore  delle  sue  vittime  e  per  lui  i  gridi 
e  i  pianti  destituiti  della  loro  ragione  sono  lezii  e  mere 
alterazioni  somatiche  che  egli  stesso  può  riprodurre, 
illudendo  abilmente  sulle  emozioni  interne  che  esse 
presuppongono. 

Vi  vede  frivole  ragioni  e  ne  ride,  non  per  malvagità, 
ma  perchè  egli  non  può  affondarsi  nel  loro  significato, 
egli  che  vive  per  principio  sulla  superficie  degli  abissi 
che  ha  scavato. 

Il  Don  Giovanni  teorico  è,  come  Satana,  il  superatore 
degli  stadi  sentimentali,  a  cui  è  fatto  estraneo,  inquan- 
tochè  non  li  ricorda  (vedi  osservazione  prima). 


V. 


Don  Giovanni  che  interroga  sé  stesso  intorno  al  suo 
potere,  è  già  capitolato. 


VI. 


Don  Giovanni  è  l'uomo  piìi  d'accordo  con  sé  stesso. 
Se  non  lo  fosse,  non  potrebbe  discordare  tanto  dalle 
donne  che  lo  amano. 


—  199  — 

VII. 

A  Don  Giovanni  la  fantasia  popolare,  intuitiva  come 
un  artista,  ha  messo  la  mandola  a  tracolla  e  una  can- 
zone sul  labbro.  Egli  è  per  antonomasia  il  Libero  di 
sé.  Chi  vuole  esperimentar  una  burla,  immagini  Faust 
con  la  mandola  e  la  canzone. 

Vili. 

L'Erotismo  ha  per  suo  simbolo  estremo  o  il  Barbe- 
bleu  (Gilles  de  Lavai)  della  leggenda  brettone  quattro- 
centesca, che  uccideva  donne  e  fanciulli  per  libidine 
e  stregoneccio  ;  o  il  Marchese  de  Sade  ;  o  potrebbesi 
apporgli  l'allegoria  della  vipera  che,  secondo  la  diceria 
antica,  anche  accolta  da  Brunetto  Latini,  si  caccia  in 
bocca  nel  concubito  la  testa  del  compagno  e  ne  la 
stacca  per  foia.  Tutte  antitesi  gridanti  al  tipo  don- 
giovannesco. 

IX. 

Da  questa  constatazione  della  libertà  di  Don  Gio- 
vanni rispetto  ai  vischi  erotici  si  gemina  l'idea  della 
sua  libertà  rispetto  a  norme  etiche  e  civili,  donde  il 
Don  Giovanni  da  Molière  in  poi  festeggiante  i  diritti 
della  natura  contro  le  convenzioni  e  gli  asservimenti 
del  viver  sociale. 

X. 

Una  definizione  dongiovannesca  che  la  scienza  spe- 
rimentale potrebbe  accogliere  senza  scrupoli  sarebbe 
questa:  Don  Giovanni  è  un  ipnotizzatore-nato  e  incon- 
sapevole. 

XI. 

Acutamente  si  dice  che  nella  donna  l'amore  comincia 
dal  cuore  e  va  al  senso,  nell'uomo  viceversa.  Ora  l'in- 
verso femminile  di  Don  Giovanni  è  la  Prostituta  ossia 


—  200  — 

la  Sessuale  Insensibile,  forma  assai  soggetta  a  quella 
dongiovannesca  e  in  essa  rientrante.  Nonostante  i  casi 
intermedi  ed  eccentrici,  la  femmina  non  può  prescin- 
dere, né  far  prescindere  dalla  sua  forma  sensibile,  e  il 
fascino  di  essa  primamente  spira  dalla  sua  pelle  ("  l'odore 
della  mia  pelle  può  dissolvere  in  te  un  mondo  "  parole 
di  Ippolita  a  Giorgio  Aurispa  —  Trionfo  della  Morte — ). 
Ne  segue  che  la  sua  azione  è  più  vasta,  più  semplice, 
incompleta.  Il  suo  dongiovannesimo  è  essenzialmente 
sessuale  ed  eccitatore,  quello  maschile  essenzialmente 
spirituale  e  creatore.  Il  tipo  Don  Giovanni  -  Femmina 
0  Prostituta  non  ha  avuto  bisogno  certo  di  un  Tirso 
né  del  600  per  venire  fuori,  in  arte!  Taide  e  Bacchide 
di  Terenzio  lo  fan  già  finito  e  parlante  avanti  a  noi.  Ma 
forse  non  è  chi  l'abbia  meglio  fermato,  del  nostro  Aretino 
(Omero  del  lupanare!),  sopra  assai  del  suo  tempo:  chi 
dimentica  la  sempre  vivente  Nanna?  E  la  Tullia  del 
Filosofo?  E  alcune  memorabili  scene  della  Cortigiana  e 
la  Talanta,  sebbene  la  più  brutta  delle  cinque  commedie? 

Penso,  di  quest'ultima,  a  quella  scena  xiv  dell'atto  2°, 
in  cui  all'allarme  del  Biffa,  che,  per  lei,  Orfinio  con 
Armileo  sta  facendo  alle  coltellate...  —  e  la  metallica 
Talanta:  «Starla  fresco  il  vino,  se  quegli  che  se  ne 
guastano  volessero  esser  rifatti  da  lui  »,  e  poi  di  scherno: 
"Non  gli  mando  delle  pezze  per  le  piaghe  perchè  le 
camiscie  delle  donne  le  marciscono!". 

Don  Giovanni  acceca  in  sé  perdutamente  le  sue  vit- 
time, che  si  spengono  in  lui. 

La  Prostituta  non  riesce  a  supplire  mai  altrui  ogni 
luce  di  coscienza,  questa  potendo  restar  vigile  anche 
sopra  e  in  mezzo  al  tumulto  dei  sensi. 


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