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Full text of "Giornale Arcadico di Scienze / Lettere ed Arti"

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GIORNALE 


DI  SCIEIVZE,  LETTERE  ED  ARTI 

Voi.  397  398  399 


ROMA 
Tipografia  delle  Belle  Arti 

1853 

Piazza  Poli  nunu  91. 


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:  no 


GIORNALE 


D    1 

VOLUME  CXXXIII 

OTTOBRE,  IVOVEIUBRE  E  DICEMBRE 

18.53 


'  ROMA 
TIPOGRAFIA  DELLE  BELLE  ARTI 
18S3 


Intorno  ad  alcune  opere  di  Leonardo  Pisano  mate- 
matico del  secolo  decimoterzo.  Notizie  raccolte  da 
Baldassare  Boncompo^gni,  socio  ordinario  dell" ac- 
cademia pontificia  de' Nuovi  Lincei. 

(Continuazione.   Vedi  Tomo  CXXXIF,  pag.  3  — 176.) 


G 


iovanni  Villani    morto  nel   1348   (1)   nella    sua 


(1)  Giovanni  Boccaccio  nato  nel  1313  (  MazzucheUi,  Gli  Scrit- 
tori d'Italia,  voi.  II,  parte  !II,  pag.  131  o.  —  Fila  di  Giovanni  Boc- 
cacci scritta  dal  Conte  Gio.  Batista  Baldelli,  Socio  delle  RR-  Ac- 
cademie  Fiorentina,  e  dei  Georgoflli  di  Firenze:  Membro  della  Società 
Colombaria  :  Accademico  delC  Etrusca  di  Cortona,  e  di  quella  di 
Padova  ■■  Associalo  estero  dell'  Accademia  di  Marsilia,  e  del  Liceo 
di  Falchiusa  -.  Promotore  soprannumerario  dell'Accademia  Intronata 
di  Siena.  Firenze  1806.  Appresso  Carli  Ciardetti  e  Comp.  con  ap- 
prot'KZiowe,  in  8°,  pag.  3,  libro  primo,  paragrafo  11  e  pag.  370)  , 
e  morto  ai  21  di    Dicembre  del    1373  {MazzucheUi  ,   Gli   scrittori 


y\ 


Cronica  scrive  {!):  «  Nell'anno  1345,  dì  28  di  Marzo, 
»  poco  dopo  l'ora  di  nona,  secondo  l'adequazione  di 
»  maestro  Pagolo  figliuolo  di  ser  Piero,  grande  mae- 
»  stro  in  questa  scienza  d'astrologia,  fu  la  congiun- 


d'Italia,  voi.  II,  parte  111,  pag.  1328  —  SaldelU,  Fifa  di  Giovanni 
Boccacci,  pag.  212,  libro  terzo,  paragrafo  XLIX,  e  pag.  387)  scrive 
{Opere  volgari  di  Giovanni  Boccaccio  corrette  su  i  testi  a  penna.  E- 
dizione  prima  Firenze,  1827 — 1834,  17  volumi,  in  8°,  voi.  ì,  pag.  8 
e  9)  :  «  Dico  adunque,  che  già  erano  gli  anni  della  fruttifera  In- 
»  carnazione  del  figliuolo  di  Dio  al  numero  pervenuti  di  milletre- 
»  centoquarantottOj  quando  nella  egregia  città  di  Fiorenza,  oltre  ad 
»  ogni  altra  italica  belli.ssima,  pervenne  la  mortifera  pestilenza,  la 
»  quale  per  le  nostre  inique  opere,  da  giusta  ira  di  Dio  a  no.slra 
»  correzione  mandata  sopra  ì  mortali,  alquanti  anni  davanti  nelle 
»  parti  orientali  incoinmciala,  quelle  d'innumerabile  quantità  di  vi- 
»  venti  avendo  privale,  senza  ristare,  d'un  luogo  in  un'altro  con- 
»  tinuandosi,  verso  l'Occidente  misernijìlmeiite  s'era  ampliata  ». 
Matteo  Villani  fratello  del  soprammentovalo  Giovanni  Villani,  nel- 
la sua  Cronica  parlando  di  questa  medesima  pestilenza  dice  {Cronica 
di  Matteo  Villani  (e  di  Filippo  Villani)  a  miglior  lezione  ridotta  col- 
l'aiuto  de' lesti  a  penna, Firenze,  per  il  Magheri,  !825 — 1826,  6  tomi, 
in  8°,  t.  I,  pag.  4,  Cronica  di  Matteo  Fillani,  libro  primo,  capo  I): 
a  Nella  quale  mortalità  avendo  renduta  1'  anima  a  Dio  l'autore  della 
v,  cronica  nominata  la  Cronica  di  Giovanni  Villani  cittadino  di  Firen- 
»  ze,  al  quale  per  sangue  e  per  dilezione  fui  strettamente  congiunto, 
>•  dopo  molle  gravi  fortune,  con  più  conoscimento  della  calamità  del 
»  mondo  che  la  prosperità  di  quello  non  m'avea  dimostrato,propuosi 
M  nell'animo  mio  fare  alla  nostra  varia  e  calamitosa  materia  comiucia- 
»  mento  a  questo  tempo,  come  a  uno  riniiovellamento  di  tempo  e 
»  secoli,  comprendendo  annualmente  le  novità  che  appariranno  di 
»  memoria  degne,  giusta  la  po.ssa  del  debole  ingegno,  come  più 
»  certa  fede  per  li  tempi  avvenire  ne  potremo  avere  »  Più  oltre 
il  medesimo  .Matteo  Villani  parlando  della  durata  di  questa  pe- 
stilenza dice  :  {Cronica  di  Matteo  Villani  a  miglior  lezione  ridotta 
coWaiuto  de'testi  a  penna,  1. 1,  pag.  8,  lib.  I,  eap.  II)  «  Nella  nostra 
»  città  cominciò  generale  all'entrare  del  mese  d'aprile  gli  anni  Do- 
li mira  1348,  e  durò  lino  al  cominciamento  del  mese  di  settembre 
»     del  detto  anno  ». 

(1)  Cronica  di  Giovanni   Villani  a  miglior  lezione  ridotta  colf 
aiuto  de'testi  a  penna,  t.  VII,  pag.  103,  libro  Xll,  cap.  XLI. 


o 


))  zione  (li  Saturno  e  di  Giovo  a  gradi  venti  del  segno 
»  dell'Aquario  coll'infrascritto  aspetto  degli  altri  pia- 
»  neti  )).  11  maestro  Pagolo  qui  menzionato  è  quel 
medesimo  Paolo  deW Abbaco  del  quale  si  è  detto  di 
sopra  (1)  trovarsi  nell'Archivio  decontratti  di  Firenze 
un  testamento  fatto  ai  19  di  Febbraio  del  1367,  giac- 
che in  questo  testamento  si  legge  (2):  Hinc  est  qiiod 
insignis  ac  clarissime  fame  vir  Maglster  jyaulus  olim 
ser  pieri  popidi  s.  frkl.  de  fior.,  qui  uulgari  nomine 
vocalur  Maestro  pagolo  delabacho,  Arismetricef  Geome- 
trie, ac  astrologie,  seti  astronomie,  magister  probatis- 
simus,per  gratiam  yhesu  Xpi  sanus  et  conpos  mente 
et  intellectu,  licei  corpore  languens,  suarum  rernm,  et 
honorum  omnium  dispositionem  per  presens  nuncupati- 
uum  testamentum  quod  dicitiir  sine  scriptis  in  hunc 
modum  facere  procuranit.  etfecit.  Videlicet  ».  Seguono 
nel  testamento  stesso  le  disposizioni  del  Maestro 
pagolo  qui  menzionato. 

Giovanni  Boccaccio  nato  nel  1313  (3),  e  morto 
ai  21  di  Dicembre  del  1375  (4-),  nel  secondo  capitolo 
del  settimo  libro  della  sua  opera  intitolata  De  genea- 
logia Deorum  libri  quindecim,  scrive  (5):  Magnus  au- 

(1)  Tomo  CXXXII,  pag.   16,  Un.  14—36. 

(2)  Archivio  tle'Contratli  di  Firenze.  Lettera  D.,  Fascio  1^,  Volu- 
me I,  carta   i,  recto.  —  Vedi  Tomo  CXXXII,  pag.   17,  lin.  5. 

(3)  Vedi  sopra,  pag.  3,  noia  (1),   lin.  7      15. 

(4)  Vedi  sopra,  pag.  3,  nota  (1),  lin.  IS  e  16,  e  pag.  4,  lin.  5. 

(3)  Ioannis  Bocatiì  ?rs;t  yg^s/.Xoyìag  deorum,  libri  quindecim,  cum 
annotntionibus  Jacobi  Mietili.  Eiusdem  de  montium,  sylvarum,  fon- 
tiumjacuum,  fluuiorum,  siagnorum,  &  marium  nominibus.  Liber  I. 
IIuc  accessit  rerum,  &  fjbularum  scitu  dignarum  copiosus  index.  Ba 
sileae  apud  Io.  Hervagium  mense  Settembri  anno  M.  D.  XXXII,  in 
fog.,  pag.  20!,  Joannis  Bocatii  De  genealogia  Deorum,  lib.  FU, 
cap.  II. 


6 
tem  annus  is  est  secundum  Anstoteìem,  quem  Sol  ^ 
Luna  cetenque  planetae  in  eiindem  pimctum  nude 
iuncti  omnes  discesserint  inuicem  redeuntes  conficiunty 
ut  si  omries  sint  in  principio  arielis,  et  inde  cursum 
coeperint  ,  quandocumque  contingat  eosdem  in  prin- 
cipio arieiis  inuicem  reperivi  ,  amms  tunc  magnus 
erit  perfecliis.  Hoc  fieri  diuersimode  putauerunt  an- 
tiqui ,  ut  idem  Censorinus  ostendit.  Dicit  enim 
Aristarchum  putasse  hunc  anmim  confici  ex  annis 
uertentibus  Ài.  Mcccc.  Ixxxiiii.  Arelhem  nero  Dyr- 
rhacinum  ex  .v.  M.  d.  Hi.  Heracìilum^  ^  Linum  ex 
.X.  M.  dece.  Clionem.  ex.  x.  M.dcccc.  Ixxxiiii.  Orpheum 
ex.  cxx.  M.  Cassandrum  ex  tricies  sexies  centum  mil- 
libus.  haec  ille.  Tidlius  quidem  arbitrari  uidetur  ex 
.3CV.  M.  annis  confici.  Sed  Sennus  ex  .xii.  M.  dcccc. 
ina.  Senex  antem  uenerahilis  Andato  ^  Paulus  geo- 
metra Florentinus  astrologi  ambo  insignes  ex  .xxxvi. 
M.  expleri  dicebant. 

Nel  capitolo  sesto  del  decimoquinto  libro  del 
suddetto  trattato  De  Genealogia  Deorum  di  Giovan- 
ni Boccaccio  si  legge  {\):Similiter  ^PauJuniGaeome^ 
tram  (sic),  conciuem  meum,  quem  libi  rcx  inclyte  fama 
nolissimum  scio,  ad  lutee  assumendum  aliquando  ratits 
sum,  eo  quod  nouerim  nulli  usquam  alteri  tempestate 
ìiac,  adeo  sinum  Arithmeticam,  Gaeometriam  (sic),  ^ 
Astrologiam  aperuisse  omnem,  uti  huic  aperuere,  in  tan- 
tum, ut  nil  arbilrer  apiid  illas  illi  fuisse  incognitum,  ^ 
quod  mirabile  dictu,  etiam  ^  uisu  longe  magis  quic- 
quid  de  syderibus  aut  coelo  loquitur.  Confestim  prò- 

(1)  Ioannis  Bocatii  nm  yiVfaXoyi'a?  Deorum,  libri  quindecim,  cum 
annotationibus  lacobi  Micyllf.  pag.  390. 


7 
priis  manibns  instriimentis  in  hoc  confectis  oculata  fi- 
de  demonstrat  spedare  uolentibus,  nec  est  hic  tantum 
palriae  aut  Italia  notiis,  longe  quidem  studiorum  suò- 
rum  Parisius  fama  clarior  est,  qiiam  apud  suos  sit, 
sic  ^  apud  Britannos,  Hispanosque,  ^  Aphros,  quos 
penes  haec  in  predo  studia  sunl.  Siquidem  felix  ho- 
mo erat  iste^  si  animo  erat  ardentior,  aut  liberaliori 
sectdo  natiis. 

Nel  capitolo  decìmoterzo  del  libro  decimoquin- 
to del  suddetto  trattato  De  Genealogia  Deorum  di 
Giovanni  Boccaccio  si  legge  (1):  Tu  nosti  rex  opli- 
me  ,  quoniam  me  renitente  atque  tergiuersante  ,  Do- 
nini  militis  tui  suasionibus  precibusque  in  uotuni 
tuum  deductus  sum,  ut  scilicet  hunc  laborem  subiremo 
nec  non  labentibus  annis  factum  est,  ut  Bechinus  Bel- 
linlionus  familiaris  tuus  ^  conciuis  meus  è  Cypro 
ueniens  apud  Rauennam  urbem  me  conueniret,  etpo- 
stquam  placidis  uerbis  clementiam  atque  gratiam  celsi- 
tudinis  tuae  erga  me  immeritum  monstravit  ,  miris 
exhortationibus,  ut  aiebat,  te  sic  imperante  semisopi- 
tum  circa  hoc  opus  ingenium  meum  irritala t.  Aequo 
modo  dilectissimus  tibi  Paidus  Gaeomelra  (sic)  nonnun- 
quam  ostensis  literis  sigillo  maiestatis  tue  signatis,  in 
quibus  ad  me  iiissa  inserebantur  tua,  sollicitum  red- 
didit.  Nouit  deus  ^  tu  scis,  quia  nec  unquam  pre- 
minenliam  tuam  uidi,  nec  tu  me  uidisse  potuisti,  his 
mandatis  credidi,^  onus  humeris  meis  praegrande  su- 
biui.  Si  te  ignaro  haec  acta  sunt,per  iam  dictos  de- 
ceptos [sic]  sum,  et  sic  hos  fateor  esse  ueridieos,  qui  as- 


(1)  loannis  Bocatìi  ns^t  ysvsaXoyi'aj  deorum,  libri  quindecim,  cum 
annotati onibus  lacobi  MicyUi,  pag.  399. 


serunt  non  Ino  itissii  composilum.  Verum  non  crimine 
meo,  nisi  me  in  hoc  peccasse  quis  dicerct,  quia  non 
dixerim  me  facturnmy  si  tuis  lileris  ad  me  direclis  sii- 
sciperem.  Sed  hoc  mihi  superbum  iiisum  est,  quod  Do- 
ninum  insignem  mililcm  non  miuus  ueridicum  arbitra- 
rer.  Doninus  aulem  ut  audiui,  co  (ere  anno,  in  quo 
me  primo  conneneral  dicm  clausil,  ^  oh  id  non  eius  fi- 
dem  imiocarc  possnm,  uinil  Bcchinus,^  Paulus  Gaeo- 
inelra  (sic)  niuit,hos  ego  ^  regiani  (idem  tuam  uerilalis 
huius  tesles  in  terris  habeo.  le  igilur  cnm  iUis  innoco, 
tiium  hunc  si  necessitas  exigat ,  lahorem.  esse  oppor- 
tunum  est,  oppugnalioni  sciljcet  hnic  obsistere,  et  no- 
men  meum  à  tam  illecehri  nota  iieritatis  affirmatione 
purgare.  Il  principe  al  quale  Giovanni  Boccaccio  qui 
parla  è  Ugo  IV.  re  di  Cipro  e  di  Gerusalemme  (1  ). 
Certamente  il  Paolo  Geometra  menzionato  in 
questi  passi  del  Boccaccio,  è  quel  medesimo  Paolo 
Dagomari  detto  c/c/Z'A^/rtco,  di  cui  si  è  parlato  di  so- 
pra (2);  giacche  Domenico  Maria  Manni  parlando  del 
trattato  De  getiealogia  Deoriim  di  Giovanni  Boccaccio; 
dice  (3):  ((  E  nel  fine  del  Libro  decimoquinto  nomi- 
))  nato  viene  un  tal  Becchino  Bellincioni  Cittadina 
))  Fiorentino  familiare  del  medesimo  Be  di  Cipro  y. 
))  ed  ancora  vi  si  parla  di  Paolo  dell'Abbaco,  uomo 
»  famoso,  i  quali  tutti,  siccome  viventi,  chiama  ivi 
»  per  testimonj  di  non  so  qual  verità  dicendo  :  Do- 
«  ninus  autem,   ut  audivi,  co  fere  anno,  in  quo   me 

(1)  BaldeUi,  Fitadi  Giovanni  Boccaccio,  pag.  173—179,  libro 
terzo,  paragrafo  XXI — XXllI. 

(2)  Tomo  CXXXIl,  dalla  linea  l  della  pag.7  alla  linea  16  della  pag. 
18,  e  dalla  linea  1  della  pagina  149,  alla  linea  18  della  pag.  S  di 
questo  Tomo  CXXXIIT. 

(3)  Istoria  del  Dccamcrone  di  Giovanni  Boccac&io,  scritta  da  Do. 
menico  Maria  Manni  accademico  Fiorentino  In  Firenze.  M.  DCC 
XXXXII,  con  licenza  dc'Superiori,  in  4°,  pag.  C8,  parici,  cap.XXIF. 


9 

ì)  primo  convenerat,  diem  clausit,  ^  uh  id  non  eius 
))  [idem  invocare  possiim,  vivit  Bcchinus,  ^  Pauliis 
»  Geometra  vivil,  ìios  ego  ^  recjiani  fidem  tuam  ve- 
»  ritalis  ìinius  iestes  in  terris  habeo  )). 

Il  Conte  Giammaria  Mazzuchcllì,  parlando  di  Pao- 
lo Dagomari  dico  (1):  «  Anche  il  Boccaccio  ,  che 
»  fu  suo  contemporaneo  ed  amico,  ebbe  molta  sti- 
»  ma  di  lui,  e  sovente  ne  fece  menzione  onorevole 
»  nella  Genealogia  degli  Dei  ». 

Il  Sig.  Conte  Giovanni  Battista  Baldelli  nel  suo 
Sommario  cronologico  della  vita  del  Boccaccio  seri- 
ve  (2): 
»  Si  divulga  la  Genealogia  degli  Dei.  1373 

"•  E  da  notare  che  probabilmenle  dal  suo  rilorno  in  Fi- 
>'  renze  nel  1363  sino  a  quest'anno  compilò  le  quattro 
a  (;ran(li  opere  latine  delia  Genealofjia  degli  Dei;  de'Fiu- 
>/  rai,  de'Monli  ec,  il  libro  delle  Donne  Illustri, e  qnello 
»  degl'llluslri  Inl'elici.  Non  si  divulgò  per  altro  1'  opera 
»  della  Genealogia  degli  Dei,  elie  in  quesl'  anno,  nien- 
»  tre  era  in  Napoli,  come  ei  lo  racconta  a  Pietro  di  Mon- 
»  teforle  [Cod.  San.  ep.  11.)  » 

Quindi  è  chiaro  che  l'opera  di  Giovanni  Boccac- 
cio intitolata  De  Genealogia  Deorum  libri  qiiindecim, 
e  più  volte  citata  di  sopra  (3),  fu  da  lui  composta 
fra  il  1363  ed  il  1373,  ma  non  fu  divulgata  che  nel 
1373. 

Zenone  Zenone  da  Pistoia  in  un  suo  poe- 
ma intitolato  Pietosa  Fonte  ,  e  da  lui  composto 
in  occasione  della  morte  di  Messer  Francesco 
Petrarca  avvenuta  ai    18    di  luglio  del  1374  (4)  , 

(1)  Gli  Scrittori  d'Italia,  voi.  I,  parte   1,  pag.  17,  artìcolo   AB- 
D.\CO  (Paolo  dell'). 

(2)  baldelli.  Fila  di  Giovanni  Boccacci,  pag.  3S5. 

(3)  Vedi  sopra,  pag.   5,  lin.  19 — 21,  pag.  6,    lin.    19—21,  e   pag. 
7,lin.  9—11. 

(4)  Galeazzo  Cataro  Padovano  nella    sua    opera  intitolala  :  Cro- 


10 

scrive  (I)   : 

.  »  Ma  quella  fu  al  cor  pungente  spina, 
»  0  figliuol  di  Saturno,  della  morte 
»  Di  quel  che  sempre  mi  fia  disciplina; 

ntca  della  Nobile  Città  di  Padova  ,  scrive  :  «  Nelli  anni  del  No- 
«  Siro  Signor  Riesser  Gesù  Cristo  MCCCLXXIV.  ali!  XVIII.  di  Lu- 
»  glio  piacque  all'Altissimo  Dio  di  richiamare  a  se  1'  anima  bene- 
»  detta  dell'Eccellente  corpo  di  Messer  Francesco  Petrarca  laurea- 
;»  te  Poeta  ».  {Muratori,  Herum  Italicarum  scriptores  ab  anno  Je- 
rae  Christianae  quingentesimo  ad  millesimum  quingentesimum  ,  t. 
XVII,  col.  213.,  B).  Il  suddetto  Galeazzo  Galaro  morì  ai  9  di  Agosto 
del  1405,  come  attesta  Andrea  Galaro  suo  figliuolo  nella  sua  Cro- 
nica di  Padova  sotto  l'anno  1403,  scrivendo  :  «  AUi  9.  del  mese 
»  d'Agosto  del  dello  Millesimo  morì  dello  slesso  male  con  un  segno 
»  alla  coscia  la  buona  memoria  di  mio  Padre  Messer  Galeazzo  de' 
»  Galari  Seritlore  sino  a  questo  tempo  della  presente  Istoria  »  [Mu- 
ratori, Rerum  Italicarum  Scriptores,  t.  XVII,  col.  922,  C  e  DJ. 

(1)  Deliciae  eruditorum  seu  veterum  a>jsx?oTo»j  opusculorum  col- 
lectanea  Io.  Lamius  CoUegil,  illustravit  ,  edidit.  Florentiae-  1736 
—  1769,  18  tomi,  in  8°,  t.  XIV,  pag.  XLll,  e  XLIII,  della  quarta  nu- 
merazione. 

In  un  Codice  dell'I,  e  R.  Biblioteca  Mediceo— Laurenziana  di  Fi- 
renze contrassegnato  Pluteus  LXXXX.  Sup.  Codex  139,  carlaceo, 
in  foglio,  e  del  secolo  decimoquarto,  trovasi  dalla  carta  18  ,  recto  , 
alla  carta  29,  recto,  il  poema  di  Zenone  Zenoni  di  Pistoia  intito'alo 
Pietosa  Fonte.  In  questo  Codice  a  carte  28,  verso,  e  29.  redo,  si 
legge  : 

»  Ma  quella  fu  al  cor  pungente  spina 

»  o  iìgliuol  di  saturno  della  morte 

»  di  quel  che  sempre  mi  fu  disciplina 
»  Lo  quale  aperse  le  celesti  porte 

»  choglocchi  della  mente  tanto  adentro 

»  chelle  cose  superne  vide  scorte 
»  0  qual  più  tholomeo  sexlò  del  centro 

»  geomelricho  dicho  che  fé  larte 

»  di  questo  che  cerchò  di  fuori  e  dentro 
»  Eudoxo  e  Posidonio  che  gran   parte 

»  del  sol  conobon  per  astrologare 

»  el  sommo  Aracho  che  le  stelle  parie 


11 

»  Lo  quale  aperse  le  celeste  porte 

»  <^on  gli  occhi  della  mente  tanto  addentro, 
»  Che  le  cose  superne  vide  scorte. 

))  Più  non  cognolton  de  corpo   solare 

»  ocleglaltri  pianeti  o  di  quel  molo 

»  cliel  suo  intellectiuo  speculare 
»  Lullimo  di  a  questo  si  fu  noto 

»  pronosticando   lora  cliel  manlacho 

r  della  suo  nita  fu  dfl   fiato  voto 
»   Maestro  pagol  decto  fu  del  abacho 

11  ispeccliio  vuiuersale  aglaltrj   uirj 

»  channo  adoctrina  lontellecto  exantacho 
))   Morte  non  lasso  mai  senza  martirj 

»  la  iiita  mia  ma  di  miglor  sempre 

»  uuol  che  per  lor  uerlu  mecho  sospiri  ». 

In  un  Codice  delPI.  e  R.  Biblioteca  Riccardiana  di  Firenze,  con- 
trassegnato n.o  2373,  cartaceo,  in  foglio,  e  del  secolo  decimoquinto, 
trovasi  dalla  carta  1.39,  verso,  alla  carta  133,  verso,  il  poema  di  Ze- 
none Zenoni,  intitolato  Pietosa  Fonte.  Nella  prima  colonoa  del  ro- 
vescio della  carta  145  di  questo  Codice  si  legge: 

»  Ma  quella  fu  al  cor  pungiente  spina 

»  0  tìgliuol  di  saturno  della  morte 

»  di  quel  che  senpre  m\  fìa  disciplina 
«  Lo  quale  aperse   le  cielesle  porle 

»  chogliocchi  della  mente  tanto  adentro 

»  delle  Chose  superne  vide  scorte 
))  E  qual  più  tolomeo  sesto  delcientro 

»  gieoraetricho  dicho  chelFe  larte 

»  di  questo  checierchò    di  fuorj  e  dentro 
»   Evdosyo  e  posidouio  che  gran  parte 

»  del  sol  conobon  per  astrologare 

»  El  sommo  cierco  chelle  stelle  parte 
»  Più  non  Conober  dei  corpo  solare 

»  Odegli  altri  pianeti.  0  di  quel  moto 

M  che  il  suo  intellettiuo  e  spechuiare 
w  Lvltimo  di  a  questo  si  fu  noto 

»  pronosticando  lora  che  11  maptacho 

M  della  suo  vita  fu  del  (iato  voto 


12 

»  0  qual  più  Tolomeo  sesto  del  centro 
))  Geometrico  dico,  che  fé  l'arte 
»  Di  questo,  che  cercò  di  fuori  e  dentro. 

)>  Eudosso  e  Posidonio,  che  gran  parte 
»  Del  sol  conobbon  per  astrologare, 
»  E'I  sommo  cerchio  che  le  stelle  parte, 

»  Maestro  paolo  dello  fu  tieilabacho 
»  Specchio  vniversale  a  tanti  virj 
»  channo  adottriiia  linlellello  elsastacho 

»  Morte  non  lasciò  maj   senza  marlirj 
»  La  vita  mia.  Ma  demijjlior  senpre 
»  vuol  che  per  lor  virtù  mecho  sospirj  ». 

ISel  catalogo  de'Codici  manoscritti  dell'  I.  e  1\.  Biblioteca  Medr- 
ceoLaurenziana  di  Firenze,  pubblicato  da  Monsignor  Angelo  Maria 
Bandini  ,  il  Codice  dì  questa  Biblioteca,  contrassegnato  Pluteus 
LXXXX.  Sup.  Codex  CXXXIX.  è  descritto  cosi  {Bandini, Catalogus 
Codicum  Italicorum  Bibliothecae  Mediceae  Laurentianac,  Gaddia- 
nae,  et  Sonctae  Crucis,  col.  A09, Plut.  LXXXX.  Sup.  Cod.  CXXXIX). 
Codex  chartac.  Ms.  in  fot.  min.  Saec.  XIV.  cum  titulis  &  initia- 
libus  rubricatis,  antiquilus  num.  436.  designatus.  Constai  foliis 
scriptis  46. 

Nel  Catalogo  dei  manoscritti  dell'I,  e  R.  Biblioteca  Riccardiana 
di  Firenze,  pubblicato  dal  Dottore  Giovanni  Lami  ,  il  Codice  di 
questa  Biblioteca,  ora  contrassegnato  n.°  2375,  è  indicato  cosi  [La- 
mi, Catalogus  codicum  manuscriptorum  qui  in  Bibliothcca  Riccar- 
diana Florentiae  adservantur,  pag.  380): 

«  Zenone.  La  pietosa  fonte,  Poemetto  in  terza  rima  in  lode  del  Pe- 

))  Irarca  suo  Maestro  (t)  0.  HI.  Codex  charlac.  in  fot.  n.  XXI. 

„  (i]  Tilulus  habel  :  Capiloli  sopra  la  pietosa  fonie  per  la  morte  del 
„  nostro  illustrissimo  e  famosissimo  Poeta  Messer  Francesco  Petrarca 
„  fatti  dopo  la  sua  morte  in  sua  laude  per  un  suo  valentissimo  discepolo 
„  detto   Zenone  ec.  „ 

'SaW Inventario  e  stima  della  Libreria  Riccardi  (pag.  b-i,  col.  2) 
il  sopraccitato  Codice  n.°  2735  della  suddetta  1.  e  R.  Biblioteca  Ric- 
cardiana è  indicato  cosi: 

»  2735.  Zenone,  la  pietosa  fonte,  canzoni  diverse 
»  di  Dante,  Fazio  liberti,  Luigi  Pulci  ec.  Cod. 
»  cart.  in  l'ol.  Soc.  XV.  « 


13 


»  Più  non  conobbci'  del  corpo  solare 
))   0  degli  altri  pianeti,  o  di  quel  moto 
))  Che'l  suo  intellettivo  è  speculare 

»  L'ultimo  dì  a  questo  si  fu  noto 
»  Pronosticando  l'ora  che  il  mantaco 
))  Della  sua  vita  fu  del  fiato  voto; 

«  Maestro  Paolo  detto  fu  del  l'abaco 
»  E  perch'io  universale  a  tanti  viri, 
»  Ch'anno  adottrina  l'intelletto  esastaco, 

»  Morte  non  lasciò  mai  senza  martiri 
»  La  vita  mia,  ma  di  migliori  sempre 
»  Vuol  che  per  lor  virtù  meco  sospiri.  » 

11  Paolo  dell'Abbaco  qui  menzionato  è  quel  mede- 
simo Paolo  Dagomari  del  quale  Filippo  Villani  scrisse 
la  vita  (I).  11  Dottore  Giovanni  Lami  ciò  avverte 
scrivendo  (2):  «  Paolo  Geometra,  e  Paolo  delV Abbaco 
»  essere  il  medesimo  s'indica  pure  dallo  stesso  Vil- 
))  lani,  quando  Io  chiama  Geometra  fjrandissimo^  e 
»  peritissimo  Aritmetico;  e  apertamente  si  dichiara  da 
»  Zenone  lenoni  nella  Pietosa  Fonie  al  Gap.  VI.  se- 
»  condo  l'edizione  fattane  dal  Sig.  Lami  nelle  De- 
»  liciae  Eruditorum.  Imperciocché  Zenone,  che  a  que' 
))  tempi  vivea,  afferma,  che  Maestro  Paolo,  detto 
»  dell'Abbaco,  fu  quell'insigne  Geometra  ed  Astrolo- 
»  go,  che   secondo  lui  uguagliò  Eiidosso,  Posidonio, 


(1)  Vedi   Tomo  CXXXII,   png.   7,  noia   (1),  liii.  13— 35,  pag.  130, 
li...  27-29,   pag.  13l.e  pag.    1S2,  ini.  1—7,  lin.   15—34. 

(2)  Novelle  Lellcrarie  ptihblicate  in  Firenze  l'anno  MDCCXLFIH, 
tomo   Villi,  col.   340,  e  347,  num.  22. 


li 

))  e  Tolomeo,  attribuendo  ad  esso  la  scienza,  che  il 
»  nostro  Villani  gli  attribuisce.  Di  più  Zenone^  che 
»  scriveva  nel  1374.  non  parla  se  non  degli  illustri 
»  Fiorentini  morti  XX.  anni  innanzi;  nel  qual  tempo 
»  non  morì  degl'insigni  Geometri  e  Astronomi  a  Fi- 
»  renze,  se  non  Paolo  dell'Abbaco  )>  (1). 

Franco  Sacchetti  del  quale  si  è  parlato  di  so- 
pra (2),  compose  una  Canzone  in  versi  italiani,  in  oc- 
casione della  morte  di  Messer  Giovanni  Boccaccio  (3) 


(1)  Dal  1740  al  1769  fu  pubblicala  in  Firenze  sotto  la  direzio- 
ne del  Dottore  Giovanni  Lami  una  raccolta  intitolata  Novelle  lette- 
rarie, e  composta  dì  trenta  tomi,  in  quarto  (Vedi  T.  CXXXII,  la  no- 
ta (3)  della  p.  62).  De'soprarrecati  versi  di  Zenone  Zenoni,  i  primi 
diciannove  si  trovano  riportati  nella  colonna  347  del  toaio  nono  di 
questa  raccolta,  intitolato:  Novelle  letterarie  pubblicate  in  Firenze 
f  anno  MDCCXLFIII.  Tomo  Filli.  In  Firenze.  MDCCXLFIII. 
Nella  Stamperia  della  SS.  annunziata.  Con  Licenza  de' Superiori. — 
Il  Cavaliere  Abate  Girolamo  Tiraboschi  parlando  di  Paolo  dell'Abba- 
co, dice  {Storia  della  letteratura  italiana,  seconda  edizione  Modenese, 
tomo  y.  Parte  Prima,  pag.  222,  libro  11,  cap.  Il,  paragrafo  XXIV.fdj- 
zione  di  Milano  de'Classici  Italiani,  t.V,pag.327,e  328;libro  li,  cap. 
II,paragr.XXIV):  «  Finalmente  un  solo  Paolo  Geometra  e  Astronomo 
»  hanno  riconosciuto  e  Giovanni  Villani  (Lib.  XII.  e.  XL)  e  Giovan- 
»  ni  Boccaccio  (Loc.  cit.) ,  e  Zenone  Zenoni  Scrittore  esso  ancora 
1  contemporanf  0,  di  cui  il  Ch.  Dottor  Lami  ha  pubblicato  un  Sonet- 
»  to  in  lode  di  Paolo  (Novell.  Letter.  1748,  p.  347)  ,  nel  quale  lo 
»  uguaglia  a  Eudosso,  a  Fossidonio,  e  a  Tolommeo  «.  Ciò  che  si  è 
dello  di  sopra  dalla  linea  27  della  pag.  308  alla  sesta  linea  di  questa 
pagina  313,ed  in  questa  medesima  pagina  313  dalla  linea  10  alla  linea 

17  dimostra  che  il  Tiraboschi  erroneamente  qui  c\uaina  Sonetto  i  sud- 
detti diciannove  versi  di  Zenone  Zenoni,  ne' quali  questi  uguaglia 
Paolo  dell'Abbaco  a  Eudosso,  a  Possidonio,  ed  a  Tolomeo. 

(2)  Vedi  Tomo  CXXXII,  dalla  linea  19  delia  pag.  26  ,    alla  linea 

18  della  pagina  29. 

(3)  Manni,  Istoria  iel  Decameronc  di  Giovanni  Boccaccio,  pag. 
131,  parte  I,  cap.  XXXV. 


15 

avvenuta  ai  21  di  Dicembre  del  1375  (1).   In  questa 
Canzone  si  legge  (2): 

»  Paolo  Ai'ismetra  ed  Astrologo  solo, 
»  Che  di  veder  giammai  non  fu  satollo 
»  Come  le  stelle,  e  li  pianeti  vanno, 
»  Ci  venne  men,  per  gire  al  sommo  polo. 

Domenico  Maria  Manni  avverte  che  il  Paolo  Ari- 
smetra  qui  menzionato  è  Paolo  dell'Abbaco  (3). 

Nella  Cronica  di  Piero  di  Giovanni  Minerbetli,  sotto 
r  anno  1387  si  legge  (4)  :  «  Era  questo  Turco 
»  (il  Moratto  Bai)  molto  savio,  e  aveva  seco  molta 
»  gente  d'arme,  tantoché  aveva  seco  allora  più  che 
))  sessanta  migliaia  d'uomini,  e  tra  loro  assai  Cri- 
»  stiani,  ma  suoi  soldati.  Costui  perchè  non  cre- 
)).  deva  in  Cristo,  però  crudelmente  facea  contro  a' 
»  Cristiani.  Molti  Astrologi  aveano  detto,  e  massi- 
»  mamente  il  Maestro  Paolo,  che  li  Cristiani  in  que- 
»  sti  tempi  doveano  essere  oppressati  in  molte  parti 
»  dagl'Infedeli,e  nimici  di  Cristo  ».  Sembra  potersi 
con  sicurezza  affermare  che  il  Maestro  Paolo  menzio- 
nato  in   questo  passo  della  Cronica  di  Piero  di  Gio- 


ii) Vedi  sopra,  pag.  3,  lin.  16  (ukima),  e  pag.  4,  lin.  5—6, 

(2)  Manni,  Istoria  del  Dccamerone  di  Giovanni  Boccaccio,  parte 
I,  cap.  XXXV,  in  4°,  pag.  132,  parte  I,  cap.  XXXV. 

(3J  Manni,  Istoria  del  Decamerone,  nota  2  della  pag.  132. 

(4)  Berum  Italicarum  Scriptores  ab  anno  aerae  Christianae  mil- 
iesimo  ad  millesimum  sexcentesimum  quorum  potissima  pars  nunc 
primum  in  lucem  prodit  ex  Floreniinarum  bibliothecarum  codici- 
bus.  Florentiae  1748— 1770i2  tomi,in  fog.,  l.  Il,col.  154  D,  E,  e  col. 
ìoo A.Cronica  di  Piero  di  Giovanni  Minerbetti.Aaao  MCCCLXXXVII, 
Cap    L. 


16 

vanni  MlnerbeUi  sia  Paolo  Dagomari;  giacché  questi 
fu  chiamato  grande  maestro  in  questa  scienza  cVastro- 
logia  da  Giovanni  Villani  (1),  Astrologo  solo  da  Franco 
Sacchetti  (2),  e  paulo  slrolago  da  Giorgio  Vasari  (3). 

È  da  credere  che  il  suddetto  Piero  di  Giovanni 
Minerbetti  vivesse  nella  seconda  metà  del  secolo  de- 
cimoquinto, e  forse  anche  prima  (4). 

Matteo  Palmieri  morto  in  Firenze  in  età  di  set- 
tanta anni  nel  1475  (5),  in  una  sua  Cronica  inti- 

(1)  Vedi  sopra,  pag.  4,  lin.  3 — 4. 

(2)  Vedi  sopra,  pa{{.    IS,  lin.  3. 

(3)  Vedi  Tomo  CXXXII,   pag.   160,  lin.   23. 

(4)  Domenico  Maria  Manni  nella  sua  Prefazione  alla  soprammen- 
tovala  Cronica  di  Piero  di  Giovanni  Minerbetti ,  scrive  (  Rerum 
Italicarum  Scriptores  ab  anno  Aerae  Christianae  millesimo  ad  mil- 
lesimum  sexcentesimum,  t.  Il,  pag.  76):  «  Al  che  fattasi  da  alcuni  in- 
»  tendenti  riflessione,  è  stata  giudicata  la  nostra  Opera  componi- 
»  mento  di  quel  Piero  creato  Cavaliere  a  Spron  d'oro  da  Sisto  IV. 
u  l'anno  1471.  come  appare  dalle  Riformagioni;  essendo  slato  Amba- 
II  sciadore  altresì  a  Sua  Santità,  ed  anco  a  Pisa  al  Conte  d'Urbino; 
r  ed  era  figliuolo  di  Giovanni  d'Andrea  di  Niccolò  di  un  altro  An- 
»  drea  Minerbetti.  Egli  sedè  de'  Signori  nel  1432.  nel  1461.  enei 
»  1474.  giungendo  col  suo  ultimo  godimento  del  Gonfalonieralo  di 
»  Giustizia  al  1479.  ed  il  primo  fu  nel  1469  ».  Il  Canonico  Moreni 
scrive  [Bibliografia  storico — ragionata  della  Toscana,  t.  II,  pag.  82, 
arlicolo  Minerbetti  Piero  di  Gio.  Fiorentino):  «  Questo  MS.  era 
»  già  del  Can.  Salvini,  e  meritava  la  pubblica  luce  per  racchiudere 
»  non  ispregievoli  notizie  di  cose,  le  quali  accaddero  anche  fuori 
»  di  Firenze  ai  tempi  dell'Autore,  che  è  verisimile  esser  quel  Pie- 
»  tro  Minerbetti,  che  fu  Gonfalloniere  di  Giustizia  nel  1469.  e  1479., 
»  quantunque  io  pensi  diversamente,  sembrandomi,  che  il  princi- 
»  pio  della  Storia  dichiari  esser  di  uno,  che  vivesse  assai  prima  ,  e 
»  che  nel  1385.  non  potesse  esser  nella  fanciullezza  ». 

(3)  Bartolommeo  Fonzio  nella  sua  opera  intitolata  Annales  suo- 
rum  temporuìn,  schive  (  Lami,  Catalogus  codicum  manuscriptorum 
qui  in  Bibliotlieca  Riccardiana  Florcntiae  adscrvantur,  pag.  196, 
col.  I.  —  Philippi  Villani,  Liber  de  Civitatis  Florcntiae  famosis  Ci- 
ribus   c.r  codice    Mediceo  J.aitrentiano   nunc  primum  edilus    et  de 


17 

telata  Liher  de  Temporibus,  sotto  l'anno  1372,  scri- 
ve (1)  :  Paulus  Geometra  Florcntiae  habetur  insignis. 
II  Paolo  Geometra  qui  menzionato  è  quel  medesimo 
Paolo  Dagomari  detto  deW  Abbaco  ,  del  quale  si  è 
parlato  di  sopra  (2).  Domenico  Maria  Manni  ciò  av- 
verte scrivendo  (3):«  Verum  enim  vero  cavendum,  ne 
»  quis,  quum  Geometram   Florentinum  nominarim 
»  Vivianium,  eundem  hunc  existimet  esse,  qui  Geo- 
»  metra  itidem  Florentinus  appellatus  nomine  Pau- 
»  lus,  Matthaeo  Palmerio  teste  in  Chronico  ad  an- 
»  num  1372.  Florentiae  habetur  insignis.  Is  enim 
»   (  ne  occasionem    nactus    opportunam   declarandi 
»  quanti  is  faciendus  sit  elabi  sinam)  a  Petro  natus 
»  Ser  Pieri  dell'Abbaco,  tantam  sibi  famam    conci- 
»  liavit,  nedum  apud  coaevos  (enituit  autem  circa 
»  annum  1360.)  verum  etiam  ^  apud  posteros,  ut  in 
»  Geometria,  Arithmeticà,  Astrologia  universo  occi- 
»  denti  notissimus,  a  Michaele  Pocciantio  celebretur, 
))  atque  a  Verinio 

»  ■ Paidus  geomeler,  i^  idem 

))  Philosophiis;  noiiitque  omnes  doctissimus  arteS. 
»   Vincit  Arithmeticis  Nilum  Florentia  chartis; 
»  Assyriaeque  caput  Babijlon  iam  cessit  Hetruscis. 

florentinorum  litleratura  principes  fere  synchroni  scriptores  demo 
m  lucem  prodeunt  cura  et  studio  Gustavi  Camilli  Galletti,  pag.  137 
della  seconda  numerazione):  «  1473.  Matthaeus  PafmcnMS  LXX.  ae- 
»  tatis  anno  Florenliae  obiit:  fiunis  honorilìce  elatum  est.  Laudavit 
»  e  siiggestii  insigni  eura  oratione  funebri  Alamanniis  lìinuccinus  in 
»  Sancii  Pelri  Maioris  Aede«. 

(1)  nerum  Italicarum  Scriptores  ab  anno  aerae  Chri^tianae  mil- 
lesimo ad  millesimum  sexcenlcsimum,  t.  I,  col.  224    C. 

(2)  Vedi  sopra,  pag    8,   lin.   18—19,  e  nota   (1)  l'in.  28,  e  29 

(3)  Dominici  Mariae  Mannii,  De  Florentinis  inventis,   Commenta- 
rium,  pag.  G2,  cap.  XWlll. 

G.A.T.CXXXIII.  2 


18 

Filippo  Villani  (1),  il  Sig.  Guglielmo  Libri  (2)  , 
ed  il  Sig.  Cesare  Guasti  (3)  affermano,  che  Paolo 
Dagomari  morì  nel  1365. 

Domenico  Maria  Manni  sci-ive  (4)  :  «  Questo  pe- 
»  rò  è  certissimo  che  circa  T  linno  della  morte  di 
))  Maestro  Paolo  non  si  può  credere  al  Villani  es- 
fm'jfitti, 

fi)'  Nel  testo  latino  Jella  vita  di  Paolo  Dagomari  scritta  da  Filip- 
po Villani,  che  trovasi  manoscritto  nel  Codice  dell'I,  e  R.  Bibliote- 
ca Mediceo — Laurenziana  Pluleus  LXXXIX-  Infer.  Cud.  \X1H,  si 
legge:  Decessit  {panlus  de  dagomaribus)  anno  etalis  sue  gratiac  ve- 
ro MCCCLXF  (Codice  dell'I,  e  R.  Biblioteca  Mediceo — Laurenziana 
di  Firenze  contrassegnato  Pluteus  LXXXIX.  Infer.  Cod.  XXIII, 
carta  67,  verso).  —  Nel  testo  latino  della  vita  di  Paolo  Dagomari, 
scritta  da  Filippo  Villani,  che  trovasi  manoscritto  nel  Codice  n  ° 
898  della  Biblioteca  Barberina,  si  legge:  Decessit  {  Paulus)  anno 
aetalis  suae  gratie  vero  Millesimo  trecentesimo  sexage- 

simo  quinto  (Codice  n."  898  della  Biblioteca  Barberina  di  Roma  , 
carta  70,  recto  e  verso). —  Nella  traduzione  italiana  delle ^j7e  di  uo- 
mini illustri  Fiorentini  scritte  da  Filippo  Villani,  pubblicata  dal 
Conte  Giammaria  Mazznchelli  si  legge  {Le  tiile  d'uomini  illustri  Fio- 
rentini, scritte  da  Filippo  Villani,  Ora  per  la  prima  volta  date  alla 
luce  colle  annotazioni  del  Conte  Giammaria  Mazzuchelli  Accademico 
della  Crusca,  p^g.  LXXVII.  —  Le  vite  d'uomini  illustri  Fiorentini 
scritte  da  Filippo  Villani  colle  annotazioni  del  conte  Giammaria 
Mazzuchelli,  Edizione  seconda,  pag.  45  non  numerata.  —  Levile 
di  uomini  illustri  Fiorentini,  scritte  da  Filippo  Villani  colle  an- 
notazioni del  conte  Giammaria  Mazzuchelli-,  ed  una  cronica  inedi- 
ta, eoU'  illustrazioni  del  Cavaliere  Frane.  Gherardi  Dragomanni  , 
pag. 45):  «Morì  (Paolo  Dagomari)  nelPanno  della  Grazia  MCCCLXV  „. 

(2)  Il  Sig.  Guglielmo  Libri  scrive  (Histoire  des  Sciences  mathéma- 
tiques  en  Italie,  t.  H,  pag.  207)  :  "  Dagomari  monrut    en  1365  ». 

(3)  Il  Sig.  Cesare  Guasti  scrive  {Bibliografia  Pratese  compilata  per 
un  da  Prato,  pag.  1,  non  numerata): 

»  3.  ABBACO  (dell)  Paolo. 

»  Nato  verso  il  1281  di  ser  Piero  Dagomari,  morto  in  Firenze 
»  nel  1363,  fu  seppellito  nella  Chiesa  di  s.  Trinità  con  epigrafe  che 
»  or   non  v'è  più    r. 

(4)  Osservazioni  istoriche  di  Domenico  Maria  Manni,  sopra  i  Si- 
gilli antichi  de'Secoli  Bassi,  t.  XX,  pag   57  e  S8. 


19 
»  sere  stato  il  1365.  se  nel  1366.  di  F'ebbiaio,  che 
»  alla  maniera  antica  Fiorentina  tornava  il  1367. 
))  dello  stil  d'oggi,  egli  fece  il  suo  Testamento  da 
))  me  ora  avuto  sotto  l'occhio  per  togliere  i  dubbj  ». 
Il  testamento  qui  menzionato  dal  Manni,  incomin- 
cia così  (1); 

In  Nomine  domini  Amen.  Anno  sue  Incarnationis 
Millesimo  trecentesimo  sexagesimosextojndictionequin- 
tiiy  die  decimo  nono,  mensis  febvuarii.  Actum  florenlie 
in  populo  Sancii  frid.  in  domo  habilationis  infrasoipli 
teslatoris  presentibus  leslibus  ad  hec  vocatis,  et  ab  in- 
frascriplo  testatore  l'ogalis  domino  luysio  nerij  de  lanfi- 
(jlazzis,  Giraldo  paidi,  et  bene  Spinelli, omnibus  popidi  S. 
Trinitatis,  Gherardo  foreris  pop.  S. frid,  tomasio  lohan- 
nis  coreggiario  popidi  s.  felicis  in  piazza  Bartolo  Si^ 
monis  pop.  S.  patdi  de  fior.  Mickele  Stefani  de- 
lavia  del  fiore  populi  S.  marie  de  verzaria,  giiillel- 
mino  lippi  linaiuolo  populi  S.  minatis  inter  turres, 
Guillelmo  fratris  Guidonis  dicti  populi  S.  trinitaiis. 
francischo  michelis  vocato  tassello  pop.  S.  frid.,  et 
maffeo  s.francisci  pop.  S.  appollin.  de  flor....suppìiema 
hominum  iudicia  quibus  et  anime  suffragiis  et  tpral. 
cure  patrim  (sic)  post  uite  presentis  exitum  provide- 
tur  languente  corpore  dum  tamen  in  mente  possi- 
deat  ratio  legiptime  disponuntur,  hinc  est  quod  insi^ 
gnis  ac  clarissime  fame  vir  Magister  paidus  olim  ser 
pieri  populi  S.  frid.  de  florentia,  qui  uulgari  nomine 
uocatur  Maestro  pagolo  delabacho,arismetrice,geometrie, 
ac  astrologie, seu  astronomie  magister  probatissimus  per 
gratiam  yhu  xpi  sanus,  et  conpos  mente,  et  iniellectu, 

(1)  Archivio  de'ContraUi  di  Firenze.  LeUera  D,  Fascio  75  ,  vo- 
lume I,  carta  1,  recto. 


20 

licet  corpore  languens,  siiarum  rerum  et  honorum  om- 
nium dispositionem  per  presens  nuncupadvum  lesta- 
mentum  quod  dicilur  sine  scriptis  in  lume  modum  fa- 
cere  procuravit,  et  fecit.   Videlicet. 

Quindi  è  chiaro  che  questo  testamento  fu  fatto 
ai  19  di  Febbraio  del  1366,  secondo  lo  stile  Fio- 
rentino di  quel  tempo,  cioè  ai  19  di  Febbraio  del 
1367,  secondo  Io  stile  comune  (1).  Per  ciò  Paolo  Da- 
gomari  non  può  essere  morto  nel  1365. 

Nell'articolo  intorno  a  Paolo  dell'Abbaco  che  tro- 
vasi nell'opera  del  Conte  Giammaria  Mazzuchelli,  in- 
titolata Gli  Scrittori  d'  Italia  si  legge  (2)  :  u  In 
»  qual  anno  morisse  (Paolo  dell'Abbaco)  non  è  ben 
))  noto-  11  Villani  pone  la  sua  morte  nel  1365.  ma 
»  s'egli  è  vero  che  facesse  testamento  nel  1366  . 
»  come  riferisce  il  Sig.  Domenico  Maria  Manni  [Si- 
»  gilli  Antichij  voi.  XXIV  pag.  22)  ,  conviene  al- 
»  quanto  posporre  la  sua  morte.  Egli  è  certo  tut- 
))  tavia  che  questa  seguì  prima  di  quella  del  Boc- 
»  caccio,  che  morì  a'20.  di  Dicembre  del  1375  ». 
In  una  nota  a  questo  passo  del  suo  articolo  sud- 
detto il  Conte  Mazzuchelli  avverte  che  l'essere  morto 
Paolo  dell'Abbaco  prima  di  Giovanni  Boccaccio  chia- 
ramente apparisce  da  una  Canzone  di  Franco  Sac- 
chetti composta  in  morte  del  medesimo  Giovanni 
Boccaccio  (3).  In  prova  di  ciò  il  medesimo  Conte 
Mazzuchelli  cita  i  quattro  versi  di  questa  Canzone 
riportati  di  sopra  (4). 

(1)  Vedi  Tomo  CXXXII,  pag.  16,  lin.  23-36,  nota  (2). 

(2)  Gli  Scrittori  d'Italia,  voi.  I,  parie  I,  pag.  17. 

(3)  Mazzuchelli,  Gli  Scrittori  dllalia,  voi.  1,  parte    I,  pag.   17, 
nota  12. 

[i)  Mazzuchelli,  I.  e.  Vedi  sopra,  pag.   15,  lin.   3 — 6. 


21 

L  da  credere  che  Paolo  Dagomàri  detto  dcW Ab- 
baco morisse  nel  1374,  o  prima  ;  giacché  dai  so- 
prarrecati versi  del  poema  di  Zenone  Zenoni  intitolato 
Pietosa  Fonte,  e  da  lui  composto  nel  1374  (1)  appa- 
risce che  Paolo  dell'Abbaco  era  già  morto  quando 
questi  versi  furono  composti. 

Il  Conte  Giammaria  Mazzuchelli  scrive  (2)  :  «  Chi 
))  sa  ch'egli  (  Paolo  dell'  Abbaco  )  non  morisse  nel 
»  1372.  sotto  il  qual  anno  ne  fa  menzione  nella  sua 
»  Cronica  Matteo  Palmieri?». 

Sembra  per  altro  inverisimile  che  Paolo  dell'Abba- 
co morisse  nel  1372,  giacché  nel  1373  fu  divulgata 
Topera  di  Giovanni  Boccaccio  intitolata  De  Genealogia 
Deorum  (3),  nella  quale  si  legge  (4)  :  Paulus  Geo- 
metra uiuit.  Quindi  é  da  credere  che  Paolo  Dago- 
mari  detto  dell'Abbaco,  morisse  nel  1373,  o  nel  1374. 

Un  indice  pubblicato  dal  Dottore  Giovanni  La- 
mi (5)  dei  capitoh  della  Pietosa  Fonte  di  Zenone 
Zenoni  da  Pistoia  è  intitolato   (6)  : 

(1)  Si  è  già  detto  di  sopra  (Vedi  sopra,  pag.  9,  lin.  27  —  30),  che 
il  poema  di  Zenone  Zenoni,  intitolato  Pietosa  Fonte,(a  composto  in 
occasione  della  morte  di  Messer  Francesco  Petrarca, avvenuta  ai  18  di 
luglio  del  1374  (Vedi  sopra,  pag.  9,  lin.  29,  30,  36,  e  pag.  10,  lin. 
5—16,  nota  (4)  della  pag.  9.)  —  Nel  frontespizio  dell'edizione  fatta 
di  questo  poema  per  cura  del  Dottore  Giovanni  Lami  nel  to 
mo  decimoquinto  della  sua  raccolta  intitolata  Deliciae  erudito- 
rum  si  legge  :  «  Pietosa  Fonte,  poema  dì  Zenone  Zenoni  da  Pistoia 
u  ili  morte  di  messer  Francesco  Petrarca  Composto  nel  MCCCLXXIV 
{Lami,  Deliciae  eruditorum,  l.  XIV,  pag.  !,  della  terza  numerazione). 

(2)  Mazzuchelli,  I.  e. 

(3)  Vedi  sopra,  pag.  9,  lin.  10—26. 

(4)  Vedi  sopra,  pag.  8,  lin.  8,  e  9. 

(5)  Deliciae  eruditorum,  t.  XIV,   pag.   XXX     XXXll    della  terza 
numerazione. 

(6)  Lami,  Deliciae  eruditorum,  t.  XIV,  pag.  XXX,  della  terza  nu- 
nierazione. 


22 

)>  INDICE 

»   de'capitoli 

»    co'    LORO    ARGOMENTI 

))  Siccome  si  trovano  ne'  Codici  MSS. 
))  Riccardiano,  e  dì  Monsignore 
))  Esperti.  » 
In  quest'Indice  si  legge  (1)  : 

»  Cap.  vi. 
))  Dove  tratta  come  Firenze  si  lamenta  a  Gio- 
))  ve  di  cinque  uomini  morti  da  XX.  anni 
))  in  qu3   ». 
In  un  Codice  della  I.  e  R.  Riblioteca  Mediceo- 
Laurenziana  di  Firenze,  cartaceo,  in  foglio, del  secolo 
decimoquarto,  e  contrassegnato  PliUeus  LXXXX.  Sup. 
Codex  139  (2),  trovasi  manoscritto  senza  nome  di 
autore  il  poema  di  Zenone  Zenoni,  intitolato  Pietosa 
Fonte.  Nel  recto  della  carta  18  di  questo  Codice  il 
capitolo  sesto  del  suddetto  poema  di  Zenone  Zeno- 
ni è  intitolato  : 

»  Capitolo  VI."  doue  tracta  chome  Firenze  si 
«  lamenta  a  gioue  di  Cinque  huomìni  morti  da  venti 
))   anni  in  qua.   >> 

Il  poema  di  Zenone  Zenoni  intitolato  Pietosa 
Fonte  trovasi  manoscritto  in  un  Codice  della  Riblio- 
teca Riccardiana  di  Firenze,  cartaceo,  in  foglio,  del 
secolo  decimoquinto,  e  contrassegnato  n."  2735  (3). 
Il  recto  della  carta  139  di  questo  Codice  contiene  un 
indice  de'capitoli  di  questo  poema.  In  quest'indice 
si  legge  : 

(1)  Lami,  Deliciae  erudilomm,  t.  XIV,  pag.  XXXI,  della  terza  nu- 
merazione. 

(2)  Vedi   sopra,  pag.   10,  l  in.  22—26. 
(3).  Vedi  sopra,  fag.  11,  lin.   16 — 20. 


23 

»  Primo  Capitolo  della  pietosa  fonte  doue  tratta. 
Come  Laulore  fu  menato  In  Vn  giardino. -f- 

»  Secondo  capitolo  doue  tratta  Come  nel  pre- 
»  detto  giardino  vide  gioue.  chessi  Lamenta  aglidii 
»  de  mortali,  -f- 

))  Terzo  Capitolo  doue  tratta  Come  il  mondo 
»  sappresenta  agioue.  Con  gran  compagnia.  -^ 

«  Quarto  doue  tratta.  Come  II  mondo  si  lamenta 
»  agioue  della  morte  di  messer  Frane."  petrarca. 

))  Quinto  Doue  tratta  Comel  mondo  si  parte. 
»  Echome  fìrenze.  rimane  allamentarsi  della  mor- 
»  talità.  ~ 

ì)  Sèsto,  doue  tratta.  Come  fìrenze  si  lamenta 
))  A  gioue  di  Cinque  huominj  morti  da  venti  anni 
»  in  qua.  -i-  » 

I  venti  anni  menzionati  in  questo  titolo  del  ca- 
pitolo sesto  suddetto,  sono  quei  che  corsero  dal  1354 
al  1374;  giacche  nel  1374  Zenone  Zenoni  com- 
pose il  suo  poema  sopraccitato  (1).  Nel  medesimo 
capitolo  sesto  trovansi  i  soprarrecati  versi  dì  que- 
sto poema  (2).  Quindi  è  certo  che  Paolo  dell'Abbaco 
morì  fra  il  1354  ed  il  1374. 

Paolo  Dagomari  detto  deW Abbaco  fu  uno  de'Prio- 
ri  di  Firenze  ne  mesi  di  Maggio  e  Giugno  del  1363 
pel  quartiere  di  Santo  Spirito.  Ora  si  mostrerà  es- 
ser ciò  chiaramente  provato  da  vari  Prioristi. 

II  Padre  Leonardo  Ximenes  scrive  (3):  «  Non  è 

(1)  Vedi    sopra,  pag.  31,  lin,  3—4,  e  la  nota  (1)  della  medesima 
pagina  21,  lin.  20 — 29. 

(2)  Vedi  sopra,  pag.  10,  lin.    2—4,  28— 39, pag.  11,    lin.  1  —  15, 
21—38,  pag.  12,  lin.    1—12,  pag.  13,  lin.  1—12. 

(3)  Del  vecchio  e  nuovo  gnomone  fiorentino,  fag.  LXVI,  e  LXVII. 
Introduzione  istoriea.  Parte  il,  §.  C. 


24 

))  fuor  di  proposito  riKjijiucpiere  su  questo  Paolo  unal- 
»  tra  notizia.  In  un  raro  Priorista,  che  conserviamo 
»  nella  nostra  Libreria  di  Collegio,  il  quale  incomincia 
»  dalVanno  \2H2y  e  finisce  nel  \62ìy  alVanno  1363. 
»  al  titolo,  Priori  dell'Arte  entrati  a  dì  1  di  Marzo, 
»  e  finiti  al  dì  ultimo  d'Aprile  1363,  io  vi  trovo  il 
))  primo  Maestro  Pagliolo  di  Ser  Piero  dell'Abbaco. 
»  Dal  nome,  e  dalla  congruenza  del  tempo  non  si  può 
»  dubitare,  che  questi  non  sia  lo  stesso  Paolo  Geome- 
»  tra,  di  cui  si  è  fìnor  ragionato,  e  che  morì  due^  a  tre 
»  aìini  dopo  il  siio  Priorato   ». 

Nel  libro  nono  delV Istoria  Fiorentina  di  Marchion-^ 
ne  di  Coppo  Stefani,  scrittore  Fiorentino  del  secolo 
decimoquarto,trovasi  un  Catalogo  di  Priori  di  Firen- 
ze del  1363  (1).  In  questo  catalogo  i  Priori  de'niesl 
di  Maggio  e  Giugno  sono  indicali  così  (2)  : 

»  Maestro  Pagolo  di  Ser  Piero  dell'Abbaco. 

»  Bartolommeo  di  Niccolò  di  Cione  Ridolfì. 

»  Spinello  di  Donato,  Pianellaio. 

»  Ridolfo  di  Lorenzo,  Calzolaio. 

»  Simone  di  Ser  Gianni  Siminetti. 

»  Francesco  di  Ser  Benincasa. 

))  Cecco  di  Cione,  Ritagliatorev 

»  Migliore  de'Guadagni. 

(1)  P .  Ildefonso  (li  San  Luigi,  Delizie  degli  eruditi  Toscani,  t. 
XIV  {Istoria  Fiorentina  di  Marchioune  di  Coppo  Stefani  pubblicala 
e  di  annolaziopi  e  di  anliclii  monumenti  accresciuta  ed  iltmtrata  da 
Fr.  Ildefonso  di  San  Luigi  Carmelitano  Scalzo  della  Provincia  di  To- 
scana AccidemicQ  della  Crusca.  In  Firenze,  1776  -17S3.  Per  Gaet. 
Cambiagi  Stampator  Granducale.  11  volumi,  in  S°,  voi..  Vili.),  pag. 
43—48. 

(2)  P.  Ildefonso  di  San  Luigi,  Delizie  degli  eruditi  Toscani,  t. 
XIV,  pag.  46. 


25 

))  Niccolaio  di  Iacopo  degli  Alberti  Confai,  di 

))  Giust.  quart.  S.  Croce. 
»  Ser  Francesco  dì  Ser  Piero  Nucci  lor  Not. 

»  quart.  S.  M.  Novella. 
Nel  Priorisla  Fiorentino  istorico  pubblicato  e  illu- 
strato da  Modesto  Rastrelli  si  legge  (1): 

))  PRIORI.  Primo  Maggio  1363. 
»  Maestro  Paolo  di  Maestro  Piero  dell'Abbaco. 
»  Bartolommeo  di  Niccolò  di  Cione  Ridolfì. 
»  Spinello  di  Donato  Pianellajo. 
»  Ridolfo  di  Lorenzo  Calzolajo. 
))  Simone  di  Ser  Giovanni  Siminetti. 
)>  Francesco  di  Ser  Benincasa  detto  Scarfa. 
»  Cecco  di  Cione  Ritagliatore. 
))  Migliore  di  Vieri  Guadagni. 
»  ccccxxvi.  Niccolò  d'Iacopo  degli  x\lberti  Gonf. 
))  Ser  Francesco  di  Maestro  Piero  Nucci  Not. 
A  pagine  CIX  del  sopraccitato  Priorista  Fioren- 
tino di  Giovanni  Buondelmonti  (2)  si  legge  : 
1363 
Haggio      M.°  Pagolo  di  m.*  Piero  dell'Abbaco 

e         Bartolomeo  di  Niccolò  di  Cione  Ridolfl  Q.""  S.  Spirito 

jiugno      Spinello  di  Donato  Pianellaio 

»  Ridolfo  di  Lorenzo  Calzolaio  Q-'""  Santa  Croce 

))  Simone  di  ser  Giovanni  Siminetti 

))  Francesco  di  ser  Benincasa  da  Altomena  Q.'^''  Santa  M.Novella 

»  Cecco  Cione  Ritagliatore 

»  Migliore  di  (3)  Guadagni  Q.""  S.  Giovanni 

ronf.'"'      Niccolaio  di  Iacopo  delli  Alberti  Q.  Santa  Croce 

))  Ser  Fi-ancesco  di  tu.'  Piero  N.° 

(1)  Priorista  Fiorentino  istorico  pubblicato  e  illustrato  da  Mode- 
sto Rastrelli  Fiorentino,  voi-  11,  pag.  90. 

(2)  Vedi  Tomo  CXXXII,  pag.    107,  lin.   20—25,    pag.  108  ,    lin. 
1—19,    e  le  note  (1)  (2)  della  pag.  199. 

(3)  Questa  lacuna  trovasi  nel  sopraccitato  Priorista  Fiorentino  di 
Giovanni  Buondelmonti. 


26 

Il  Dottore  Giovanni  Lami  pubblicò  nel  1 739  un 
Prioi'ista  Fiorentino,  ovvero  elenco  di  tutte  quelle 
famiglie  ch'ebbero  l'onore  del  Gonfalonierato  o  del 
Priorato  nella  repubblica  Fiorentina  (1).  In  quest' 
elenco  si  legge  (2)  : 

»  Maestro  Paolo  di  Ser  Piero  delV Abbaco 
))  1363  ». 

L'Abate  Giuseppe  Maria  Mecatti  diede  nuovamente 
in  luce  quest'elenco  medesimo  nel  1754,  nella  terza 
parte  della  sua  Storia  genealogica  della  nobiltà  e  cit- 
tadinanza diFirenze.ln  questa  terza  parte  si  legge  (3): 
»  Maestro  Paolo  di  Ser  Piero  deW Abbaco. 
))  Fu  Priore  nel  1363  ». 

Tutto  ciò  che  si  è  detto  nel  T.  CXXXII  dalla  li- 
nea 27  della  pag.  150  alla  linea  13  di  questa  pag26 
dimostra  che  il  maestro  pagliolo,  di  cui  l'autore  del 
suddetto  trattato  di  praticità  darismetricha  dice  tro- 
varsi le  ossa  in  santa  trinità  (4)  è  Paolo  Dagomari 
soprammentovato  delV Abbaco,  matematico  ed  astro- 
nomo illustre,  che  visse  nella  prima  e  nella  secon- 
da metà  del  secolo  decimoquarto.  Per  ciò  dal  passo 

(1)  Lami,  Delictae  erudilorum,  t.  VII,  pag.  24—291. 

(2)  Lami,  Deliciae  erudilorum,  t.  VII,  pag.  238. 

(3)  Storia  genealogica  della  nobiltà,  e  cittadinanza  di  Firenze  , 
Divisa  in  quattro  Parti.  Tomo  primo  Contiene  le  Famiglie  Nobili 
Fiorentine,  tanto  oggidì  esistenti  in  Firenze,  che  altrove,  il  Sena- 
torista,  e  il  Priorista  Fiorentino.  Opera  raccolta,  e  ordinata  dall' 
Abate  Giuseppe  Maria  Mecatti  Protonotario  Apostolico,  Cappella- 
no d'Onore  degli  Eserciti  di  S.  M.  Cattolica  ,  Accademico  Fioren- 
tino,  Apatista,  e  Paslor  Arcade,  e  da  esso  dedicata  aW  Illustrissi- 
mo Signore  il  Signor  D.  Giovanni  Colombo.  In  Napoli.  Presso  Gio- 
vanni di  Simone.  MDCCLIF.  Con  licenza  de' Superiori,  in  4°,  pag. 
373    (Parie  terza). 

(4J  Vedi  Tomo  CXX.XII,  pag    149,  iin.  19—20. 


27 
dell'opera  medesima  riportato  nel  T.  CXXXII  nelle 
prime  ventuno  linee  della  pag.  150  si  deduce  1.°  Che 
Paolo  Dagomari  detto  delV Abbaco  compose  un'opera 
intitolata  trattato  delle  quantità  chonlinue  (1).  2."  Che 
nella  seconda  parte  di  questo  trattato  Paolo  Dagomari 
scrisse  mdla  potersi  fare  senza  la  prima  parte  del  15° 
capitolo  di  lionardo  (2),  cioè  senza  la  prima  parte  del 
decimoquinto  ed  ultimo  capitolo  del  Liber  Abbaci  di 
Leonardo  Pisano. 

In  fatti  il  decimoquinto  ed  ultimo  capitolo  del 
medesimo  Liber  Abbaci  incomincia  così  (3)  ; 

Incipit  capitiihim  quintumdecimum  de  solutione 
questionum  geometrie  perlinenlium  (4). 

Partes  huius  idlimi  capituli  snnt  tres  quorum  pri- 
ma erit  de  proportionibus  trium^  et  qualuor  quantità- 
tum  (5)  ad  quas  multarum  questionum  solutiones  redi- 

(1)  Vedi  Tomo  CXXXII,  pag.   130,  lin.  11—13. 

(2)  Vedi  Tomo  CXXXII,  pag.  150,  lin.  11—15. 

(3)  Codice  L.  IV.  20  della  Biblioteca  Pubblica  Comunale  di  Sie- 
na, carta  195,  redo.  —  Codice  Palatino  n.°  1343  della  Biblioteca 
Vaticana,  carta  143,  verso,  col.  2,  e  carta  144,  recto.,  col.  1.  — 
Codice  Magliabechiano  contrassegnato  Conventi  Soppressi ,  Scaffale 
C.  Palchetto  I,n  "2(016,  Badia  Fiorentina,  n."  Hi,  carisi  177,  verso- 
—  Codice  Magliabechiano,  Classe  XI,  n."  21,  carta  239,  recto.  — 
Libri,  Histoire  des  sciences  tnathématiques  en  Italie,  t.  II,  pag.  307. 

(4)  Nel  Codice  Palatino  n.°  1343  della  Biblioteca  Vaticana  (1.  e.) 
si  legge:  Incipit  capitiilum  quintum  decimum  de  regulis  geumetrie 
pertinentibus  et  de  questionibus  algebre  mucalbare.  Il  Codice  Maglia- 
bechiano contrassegnato  Conventi  Soppressi,  Scaffale  C,  Palchetto  I, 
n.°  2616,  Badia  Fiorentina,  n.°  73,  ha  in  vece  (1.  e):  Incipit  capitu- 
ìum  quintum  decimum  de  regulis  geometrie  pertinentibus,  et  de  que- 
stionibus aliebre  et  almuchabile. 

(5)  Nel  Codice  Magliabechiano  Classe  XI,  n.°  21  leggesi  qui  qua- 
dnnc«<arMm  in  vece  di  quantitatum  (Codice  Magliabechiano  Classe 
XI.  n.  21,  1.  e.  —  Libri,  Histoire  des  sciences  mathématiques  en 
Italie,  I.  e.)  li  Codice  Palatino  n.°  1343  della  Biblioteca  Vaticana 
ha  in  vece  (1.  e.)  quadraturarum. 


28 
quntur.  Secwida  ent  de  sohuione  quarundam  qucslio- 
num  geometrichalium.  Tenia  erit  super  modum  alge- 
bre et  almuchabale  (1). 

Incipit  pars  prima. 
Questa  pars  prima  è  certamente  quella  medesi- 
ma pj^rna  parte  del  15."  capitolo  di  Leonardo  Pisano 
citata  da  Paolo  Dagomari  nel  soprammentovato  passo 
del  suo  trattato  delle  quantità  chontinue  (2),  e  dall' 
autore  del  suddetto  trattato  dipraticha  darismetricha 
nel  passo  di  quest'opera  riportato  nel  Tomo  CXXXII 
a  pagine  150  (3). 

Paolo  Dagomari  oltre  il  suddetto  trattato  delle 
quantità  chontinue  compose  varie  altre  opere,  delle 
quali  si  parlerà  in  un  Appendice  a  questo  scritto. 
Nel  trattato  di  praticha  darismetricha,  che  tro- 
vasi manoscritto  nel  Codice  E.  5.  5.  14  dell'  I.  e 
R.  Biblioteca  Palatina  di  Firenze,  si  legge  (4)  : 

))  Capitolo  4."  della  quarta  parte  de  detto  trat- 
»  tato  che  chontiene  il  modo  di  chonsolare. 

»  Acciò  che  di  questa  parte  o  vogliamo  dire 
»  questo  Chapitolo  sabbia  lontendimento  saldo  et 
»  intero  .è.  ame  necessario  a  quello  che  scriue  nella 
))  pratica  di  L.  p.  nel  chonsolare,  et  benché  il  no- 
»  stro  Maestro  antonio  nel  suo  trattato  del  chonso- 
»  lare  dicha  anpiamente.  Niente  di  meno  clnostro  L. 
»  disse  chon  larghezza.  E  Maestro  Antonio  disse 
»  chon  quasi  aguntione.  Adunque  pigliando  el  detto 
»  dire,  et  al  modo  di  firenzc  diremo  in  questo  modo. 

(1)  Il  Codice  Palalino  n."  1343  della  Biblioteca  Vaticana  (i.  e.)   ha 
f|ui  algebre  mucalbale  in  vece  di  algebre  et  almuchabale. 

(2)  Vedi  Tomo  CXXXII,  pag.  150.  lin.    H— 15. 

(3)  Vedi  Tomo  CXXXII,  pag.  130,  lin.  9  —  11. 

(4)  Codice  E.  5  5.  14  dell'I,  e  I\.  Biblioteca  Palatina  di  Firenze, 
caria  70,  verso. 


29 

L'undecimo  capitolo  del  Liher  Ahhaci  dì  Leo- 
nardo Pisano  è  intitolato:  Incipit  capituhm  unde- 
cimurri  de  consolamine  monetarum  (1).È  da  credere 
che  l'autore  del  suddetto  trattato  di  praticità  darisme- 
tricha  intendesse  dì  parlare  di  questo  capitolo  di- 
cendo (2)  :  «  quello  che  scriue  nella  pratica  di  L. 
»  p.  nel  chonsolare  ». 

Nella  quarta  parte  del  suddetto  trattato  di  pra- 
ticha  darismetricha  sì  legge  (3)  : 

»  Capitolo  ottano  della  4."  parte  di  questo  trat- 
))  tato,  che  chasi  (sic)  sopra  chompagnie. 

»  Avengha  che  leonardo  pisano  nel  .10.  chapìtolo 
»  dimostri  molte  quìstioni  date  e  apartenenti  a  que- 
»  sto  Capìtolo.  Niente  di  meno  molti  più  chasi  sono 
»  scritti  e  mostri  per  maestro  gratia  frate  dellor- 
»  dine  di  Santo  Aghostino.  E  però  in  questa  parte 
»  quello  seguiremo.  E  però  inanzi  sì  uengha  a  chasi 
»  .è.  da  chonsiderare  latto  della  proportione,  inpero 
»  che  sanza  nulla  farei  .e.  ponendo  e  chasi  daremo 
»  el  modo  a  soluergli  ». 

11  decimo  capitolo  del  Libcr  Abbaci  di  Leonardo 
Pisano  è  intitolato  (4)  : 

Incipit  capitidnm  decimum 
De  societatibus  factis  inter  consocios. 

(1  )  Codice  L.  IV.  20  della  Biblioteca  Pubblica  Comunale  di  Siena 
carta  64,  verso.  —  Codice  Magliabechiano  contrassegnalo  Conventi 
Soppressi,  Sca/fale  C,  Palchetto  1,  n."  2616,  Badia  Fiorentina,  n." 
73,   carta  39,  verso. 

(2)  Vedi  sopra,  pag.   28,  lin.  22      23. 

(3)  Codice  £.  5.5.  14  deiri.  e  R.  Biblioteca  Palatina  di  Firenze, 
carta  118,  recto. 

(4)  Codice  L.  IF.  20  della  Biblioteca  Pubblica  Comunale  di  Sie- 
na, carta  60,  verso,  ~  Codice  Magliabechiano,  contrassegnato  Con- 
venti Soppressi,  Scaffale  C,  Palchetto  I,  n."  2616,  Badia  Fiorentina, 
n*  73,  carta  36,  recto. 


30 

Questo  capitolo,  nel  quale  Leonardo  Pisano  tratta  di 
molti  problemi  relativi  alle  chompagnie,è  il  10.°  cha- 
pilolo  citato  nell'ultimo  de'soprarrecati  passi  del  sud- 
detto trattato  dipratidia  darismetricha  (1).  Nel  mede- 
simo trattato  di  praticha  darismetricha  si  legge  (2)  : 

«  El  primo  chapitolo  della  quinta  parte  di  que- 
»  sto  trattato  di  diasi  di  chauagli  mangianti  orzo. 

»  E  chasi  che  sanno  a  scriuere  in  questo  cha- 
»  pitolo  sono  chasi  che  facilmente  per  lo  dire  pas- 
))  saio  si  potrebbono  a  soluere.  Ma  perchè  Leonardo 
»  pisano  nel  9°.  chapitolo  solamente  gli  scriue  mi 
»  pare  necessario  in  questo  chapitolo  scriuergli.  E 
»  però  starai  atento. 

Nel  nono  capitolo  del  Liber  Ahhaci  di  Leonardo 
Pisano,  si  legge  (3)  : 
'    Explicit  pars  secimda  noni  Capitidi. 

Incipit  tertia  de  equis  qui  comedunt  ordeum  in 
propositis  dicbiis. 

OHI  ;A  questa  terza  parte,  nella  quale  Leonardo  Pisano 
tratta  vari  problemi  relativi  a  cavalli  che  mangiano 
orzo,  allude  certamente  Tautoi'e  del  suddetto  trattato 
dì  praticha  darismetricha  dicendo  [i)  :  a  Ma  perchè 
))  Leonardo  pisano  nel  9."  chapitolo  solamente  gli 
»  scriue  ». 
,_„    Nel  medesimo  trattato  di  praticha  darismetricha 

(1)  Vedi  sopra,  pag.  29,  Un.  12—14. 

(2)  Codice  £-.5.  5. 14  dell'I,  e  R.  Biblioteca  Palatina  di  Firenze, 
caria  132,  recto. 

(3)  Codice  L.  IV.  20.  della  Biblioteca  Pubblica  Comunale  di  Sie- 
na, carta  59,  verso.  —  Codice  Magliabechiano  contrassegnato  Con- 
venti Soppressi,  Scaffale  C,  Palchetto  1,  n.°  2616,  Badia  Fiorenlina, 
n."  73,  carta  54,  verso. 

(4)  Vedi  le  linee  10  e  11  di  questa  pagina  30. 


31 

che  trovasi  manoscritto  nel  sopi'accitato  Codice  Pa- 
latino £.  5.  5.  14  si  legge  (1)  :    ' 

))  El  quarto  chapitolo  della  quinta  parte  di  que- 
))  sto  trattato  il  quale  chontiene  diasi  duohuoniini 
»  (sic)  che  anno  danari.       ;  .. 

»  Chasi  assai  piaceuoli  e  chonteneuti  (sic)  questo 
»  chapitolo  et  ragioni  di  atti  gentili  et  di  grandi 
»  intendimenti.  E  perchè  Leonardo  pisano  molto  al- 
))  tamente  ne  dicie  quello  quasi  in  tutti  i  chasi 
»>  imiterò.  E  però  chol  nome  di  Dio  in  questo  modo 
»  diremo. 

Leonardo  Pisano  nella  terza  parte  del  duodecimo 
capitolo  del  Liber  Abbaca  tratta  di  alcuni  problemi 
relativi  a  due  ,  ovvero  a  tre  ,  o  quattro  uomini , 
che  hanno  danari  (2).  A  questi  passi  adunque  del 
medesimo  Liber  Abbaci  è  probabile  che  alluda  l'au- 
tore del  suddetto  trattato  di  praticha  darismelricha, 
scrivendo  (3)  :  «  E  perchè  Leonardo  pisano  molto 
»  altamente  ne  dicie  ». 

Nel  trattato  di  praticha  darismetricha  sopraccitato 
si  legge  (i)  : 

»  El  sexto  Capitolo  della  quinta  parte  di  que- 

(1)  Codice  E.  5.  5.  14  dell'I,  e  R.  Biblioteca  Palatina  di  Firenze  , 
carta  160,  recto. 

(2)  Codice  L.  IF-  20  delia  Biblioteca  Pubblica  Comunale  di  Sie- 
na dalla  carta  81,  t)crso, alla  carta  90,  verso.  — Codice  Palatino  n.' 
1343  della  Biblioteca  Vaticana,  dalla  prima  colonna  della  carta  72, 
recto,  alla  prima  colonna  della  carta  78,  redo.  -  Codice  Magliabe- 
chiano  contrassegnato  Convenli  Soppressi,  Scaffale  C,  Palchetto  I, 
11,"  261G,  Padia  Fiorentina,  n,°  73,  dalla  carta  79,  verso,  alla  carta 
83,  recto.  —  .Vedi  i;omo  CXXXII    la  nota    (I)    della  pag.  i43. 

(3)  Vedi   le  linee  8  e  9  di  questa  pagina  31. 

(4)  Codice  £".  5.  3.  14.  dell'I,  e  R.  Biblioteca  Palatina  di  Firen/.o, 
carta  204,  recto. 


32 

w  sto  trattato    doue  si  mostra  la   solutione    achasi 
))  duuominj  (sic)  trouanti  borse. 

))  Di  Tutti  quelli  che  anno  detto  sopra  questa 
»  parte  leonardo  pisano  ampiamente  gliauanza.  E  però 
»  in  questo  chapitolo  intendo  quello  seguire  in  que- 
»  sto  modo.  E  però  starai  atento. 

La  parte  quarta  del  Capitolo  duodecimo  del  Li- 
ber  Abbaci  di  Leonardo  Pisano  è  intitolata  :  Incipit 
pars  Quarta  duodecimi  Capitali  de  Inuentione  bursa- 
rum  [i],  e  tratta  di  molti  problemi  relativi  alla  me- 
desima inventio  bursariim.  A  questa  quarta  parte  al- 
lude adunque  probabilmente  1'  autore  del  suddetto 
trattalo  di  praticha  darismetricha  dicendo  (2)  :  a  Di 
))  Tutti  quelli  che  anno  detto  sopra  questa  parte  leo- 
1)  nardo  pisano  ampiamente  gli  auanza  ». 

Nel  medesimo  trattato  di  praticità  darismetricha 
si  legge  (3): 

))  EI  settimo  capitollo  della  quinta  parte  di  questo 
))  trattato  proposto  sopra  huominj  che  conprano 
•))  chauagli. 

»  Debbasi  in  questo  chapitolo  volendo  sequire 
»  lordine  dato  dimostrare  alchunj  chasi  proposti  so- 
))  pra  huomini  udenti  chonperare  alchuna  chosa  e 
^ì  per  che  per  uso  di  uulghare  diciamo  sopra  huo- 
»  mini  uolenti  chonperare  chauagli.  Pigliando  lor- 
»  dine    di  Leonardo    pisano    preso,  e    posto    nella 

(1)  Codice  L.  ly.  20  della  Biblioteca  Pubblica  Comunale  di  Siena, 
carta  94,  recto.  —  Codice  Palatino  n.°  1343  delia  Biblioteca  Vati- 
cana, carta  81,  verso,  col.  1.  —  Codice  Magliabechiano  contrasse- 
gnato Conventi  Soppressi,  Scaffale  C,  Palchetto  I,  n.°  2616,  Badia 
Fiorentina^  n."  73,   carta  88,  verso. 

(2)  Vedi  le  linee  3  e  4  di  questa  pagina  32. 

(3)  Codice  E.  S.  5.  14  delll.  e  R.  Biblioteca  Palatina  di  Firenze  , 
carta  219,  recto. 


33 

r>  quinta  parte  del  12.  chapitolo  del  suo  grande 
))  uìlume,  e  però  adunque  aprire  lontelletto  .è.  di 
»  bisogno.  Inperò  che  quelli  mostra  per  forza  di  pro- 
))  portione. 

La  quinta  parte  del  duodecimo  capitolo  del  Li- 
ber  Abbaci  di  Leonardo  Pisano  nel  Codice  L.  IV.  20 
della  Biblioteca  Comunale  di  Siena  è  intitolata:  In- 
cipit par  (sic)  quinta  de  emptione  equi  inter  duos 
homines  (1), 

Nel  Codice  Palatino  n."  1343  della  Biblioteca 
Vaticana  (2)  questa  quinta  parte  è  intitolata:  Inci- 
pit pars  quinta  de  emptione  equorum  inter  consocios. 

Nel  Codice  Magliabechiano  contrassegnato  Con- 
venti Soppressi,  Scaffale  C.  Palchetto  I.  n."  2616,  Ba- 
dia Fiorentina  n."  73  (3)  si  legge:  Incipit  pars  quinta 
de  emptione  eqiiorum  inter  consocios  secundum  dalam 
proportionem. 

È  da  credere  che  questa  pars  quinta  nella  quale 
Leonardo  Pisano  parla  di  molti  problemi  relativi  alla 
compera  di  cavalli  fatta  da  più  soci,  sia  quella  stessa 
quinta  parte  menzionata  dall'autore  del  suddetto  trat- 
tato di  praticha  darismetricha  nell'ultimo  de'soprari-e- 
cati  passi  di  questo  trattato  (4). 

In  questo  trattato  si  legge  anche  (5)  : 

(1)  Codice  L.  IV.  20  della  Biblioteca  Pubblica  Comunale  di  Siena 
carta   102,  recto. 

(2)  Codice  Palatino,  n.*  i343  delia  Biblioteca  Vaticana  ,  carta  86, 
verso,  col.  2. 

(3)  Codice  Magliabechiano  contrassegnato  Conventi  Soppressi,  Scaf- 
fale C-,  Palchetto  1,  n°  2616,  Badia  Fiorentina  n°  73,  carta  96,  recto. 

(4)  Vedi    sopra  ,  pag.  32,  lin.   23 — 26,  e  le  prime  tre  linee  di 
questa  pagina   33. 

(5)  Codice  E.  6.  3.  14  dell'I,  e  R   Biblioteca  Palatina  di  Firenze  , 
carta  310,  verso. 

G.A.T.CXXXIll  3 


34 

«  La  settima  parte  di  questo  irallalo  la  quale 
))  chontiene  lopcratione  della  reghola  de  .2.  false 
»  positioni  e  prima  la  diffinitione,  e  la  diuisione  di 
))  detta  parte. 

))  Lo  chatain  Sechondo  Leonardo  pisano  .è.  nome 
»  arabicho  cioè  parlare  darabia  .e.  in  nostra  lingua 
»  .0.  a  dire  2.  positioni  bugiarde.  E  però  reghola  del 
»  chatain  si  dicio  reghola  di  2.  false  positioni  )>. 

Il  decimoterzo  capitolo  del  Liber  Abbaci  di  Leo- 
nardo Pisano  incomincia  così  (1)  :  El  Chataijm  qui- 
dem  Aì-abice;  latine  diiarum  falsarum  posilionum  re- 
gida  interpretatur.  A  questo  passo  del  Liber  Abbaci 
di  Leonardo  Pisano  ,  allude  certamente  l'autore  del 
suddetto  trattato  dipraticha  darismetricìui,dicendo  [2): 
«  Lo  chatain  Sechondo  Leonardo  pisano  è  nome  ara- 
»  bico,  cioè  parlare  darabia,  e  in  nostra  lingua  è  a 
»  dire  2.  positioni  bugiarde  ». 

Nella  parte  decima  del  medesimo  trattato  si  leg- 
ge (3);  «  Molti  si  sforzano  di  diffinire  questi  nomi  cioè 
))  algebra  almulchabala  ma  il  mio  leonardo  ne  da 
»  questa  che  tanto  .è.  a  dire  reghola  dalgebra  almu- 
))  chabala  quanto  reghola  di  ristoramento  .e.  dop- 
»  ponimento  imperochè  le  parti  sopponghono  cho- 
»  me  negli  essenplj  vedrai  ».  L'autore  dell'  anzi- 
detto trattalo  di  praticha  darismetricha  allude  qui 
certamente  al  titolo  della  terza  parte  del  decimo- 
quinto ed  ultimo  capitolo  del  Liber  Abbaci  di 
Leonardo   Pisano  ;  giacché    questa   terza  parte  nel 

(1)  Vedi  Tomo  CXXXII,  pag.  140,  lin.13— 16,  e  le  note  (1),  (2), 
e  (3)  (Iella  medesima  pagina  140. 

(2)  Vedi  sopra,  le  linee  5,  6,  e  7  di  questa  pagina  34. 

(3)  Codice  E.  li.  3.  14  dell'I,  e  R.  Bibliotec:)  Palatina   di  Firenze, 
caria  391,  recto. 


35 

Codice  Palatino  n."  13i3  della  Biblioteca  Vatica- 
na è  intitolata  così  {!):  Incipil  pars  tertia  de  so 
solutione  quanmdam  quesUonum  secundum  modum  al- 
gebre mucalhale,  scilicet  apposilionis,  et  restanrationis. 
Nella  decima  parte  del  suddetto  trattalo  di  pra^ 
ticha  darismetricha  si  legge  (2)  : 

«  El  quinto  e  Utimo  chapitolo  della  la  (sic)  diecima 
))  parte  di  questo  trattato.  El  quale  cliontiene  chasi 
»  absoluti  per  regliola  dalgebra  chome  ordinatamente 
»  per  gli  auctori  si  manifesta.  E  prima  la  diuisione 
»  di  detto  cbapitolo. 

))  Acciò  che  questo  chapitolo  sia  bene  ordinato 
»  E  perfectamente  inteso  mi  pare  necessario  dire 
))  alchuna  chosa  di  ciò  che  .è.  stato  per  gli  presi  au- 
))  ctori  detto.  E  benché  ciascuno  per  se  solo  fosse 
»  atto  a  maggiore  opra,  niente  di  meno  piglierò  al- 
»  chuni  chasi  di  ciaschuno  .  Choneiosia  chosa  che 
))  quasi  uno  medesimo  dire  sia  di  ciascheduno.  Ma  io 
»  porrò  e  chasi  e  quali  necessario  uedrò  alla  pre- 
))  sente  opera  essere.  Vero  è  che  l'opera  Del  Leonardo 
))  pisano  posta  nellutima  parte  dellutimo  chapitolo 
»  sia  tutta  scritta. E  i  chasi  se  non  sia  forza  non  sieno 
»  uno  medesimo  overo  simili,  inperò  che  indarno 
»  mi  parrebbe  scriuere.  E  anchora  de  chasi  di  Mae- 
»  stro  gratia  perfécto  Arismetrico  non  scrinerò  ri- 
))  serbando  quelli  allopera  geometricale.  Adunque 
))  diremo  chasi  Lionardo  Pisano  ,  Maestro  Anto- 
»  nio,  Maestro  giovanj,  Domenico  uajajo,  maestro 
»  lucha.  E  ^jerchè  domenicho  vajaio  scriue  in   uno 

(1)  Codice  Palatino  n.o  1343  della  Biblioteca  Vaticana,  carta  151  , 
verso,  col.  2. 

(2)  Codice  E.  5.  5.  14  dell'I,  e  R.  Biblioteca   Palatina  di  Firenze, 
carta  410,  redo. 


36 

»  suo  trattato  chasi  quasi  sopra  la  reghola  passate 
))  proposte,  uoglio  in  nella  prima  parte  .50.  de  suoi 
))  chasi  mostrare.  E  nella  seconda  parte  scriuere 
))  quello  che  L.  p.  nel  suo  gran  uilurae  mostra.  E 
»  nella  terza  parte  scriuerremo.  50.  ragioni  di  Mae- 
))  stro  lucila. 

Ciò  che  qui  è  chiamato  «  gran  uilume  di  L.  p.  » 
è  certamente  l'opera  di  Lionardo  Pisano  intitolata 
Liber  Abbaci,  e  divisa  in  quindici  capitoli,  l'ultimo 
de'quali  nella  sua  parte  terza  contiene  un  trattato 
d'algebra.  La  terza  ed  ultima  parte  di  questo  capitolo 
è  quella  che  l'autore  del  trattato  di  praticha  darisme- 
tricha  cita  dicendo  (1)  «  nell'utima  parte  dellutimo 
»  capitolo  )) . 

Il  Codice  manoscritto  dell'I,  e  R.  Biblioteca  Pa- 
latina di  Firenze  contrassegnato  E.  5.  5.  14.  è  car- 
taceo, in  foglio,  di  491  carie,  numerate  tutte  nel  re- 
cfo,  salvo  le  due  prime,  coi  numeri  1 — 489.  Nel  re- 
cto della  prima  carta  non  numerata  di  questo  Co- 
dice si  legge  : 

»  Adsit  principio  virgho  maria  meo.  » 
Più  sotto  nel  medesimo  recto  si  legge  : 

«  Q.°  libro  è  di  Dom.^"  di  marcho  bollaci.  » 
Nel  rovescio  della  carta  491  ultima  numerata  di 
questo  Codice  si  legge  : 

«  M.  ecce  LX. 
))  a  di  XXVII  daprile 
))  Questo  libro  è  di  Girolamo  di  piero 
»  di  Chardinale  rucellaj  cittadino  fioren- 
))  tino  e  de  suo  proprio. 

»Questo  libro  è  di  domenicho  di  marcho  bellacci  citt.'"'fìor."'S> 

(I)  Vedi  sopra,  parj.  35,  lin.  21—22. 


37 

Il   Sig.   Avvocato  Luigi  Passerini  si   è  compia-^^ 
ciuto  di  rilasciarmi  il  seguente  attestato: 

»  I.  e  R.  Deputazione 
»  Della  nobiltà  e  cittadinanza 
»  di  Toscana 
«  A  dì  27  Settembre  1853. 
))  Attestasi  da  me  sottoscritto,  nella   mia  qua- 
5)  lità  di  Segretario  della  I.  e  R.  Deputazione  sulla 
«  Nobiltà  e  Cittadinanza,  che  da  diversi  Alberi  i?e- 
))  nealogici,  dai  Libri  delle  Approvazioni  di  età,  da- 
»  gli  spogli  genealogici  di  Pierantonio  Dall'Ancisa, 
)>  dai  Libri  delle  consorterìe  dei  Cittadini  Fiorentini 
))  e  dai  Ruoli  dei  Gonfalonieri  di  Compagnia  e  dei 
))  Buonomini  raccolte  da  Michelangelo  Biscioni,  Co^ 
»  dici  tutti  esistenti  nell'Archivio  di  questa  Depu- 
»  tazione,  apparisce  come 

»  Girolamo  di  Piero  di  Cardinale  Rucellai  na- 
»  eque  da  Lisa  di  Bernardo  Manetti  nel  dì  26  Mag- 
))  gio  1436:  che  fu  de'Dodici  Buonomini  nel  1478; 
»  de'Sedici  Gonfalonieri  di  Compagnie  nel  1479,  e' 
»  del  Consiglio  dei  Settanta  nel  1480:  che  morì 
))  senza  prole,  abbenchè  due  volte  congiunto  in  ma- 
»  trimonio,  la  prima  con  Elisabetta  di  Piero  Ba- 
»  roncelli,  e  la  seconda  con  Manetta  di  Francesco 
»  de'Pazzi. 

»  Risulta  ancora  che 

>)  Marco  di  Tinoro  Bellacci,  nato  nel  16  Dicem- 
»  bre  1468,  fu  de'Sedici  Gonfalonieri  nel  1499,  nel 
)'  1503  e  nel  1507,  e  che  sedè  tra  i  Priori  nel 
»  1506,  e  nel  1522: 

»  Risulta  infine  che 


38 

»  Domenico  di  Marco  di  Tinoro  Bellucci  nacque 
))  nei  3  Agosto  1515. 

))  In  fede  di  che  appongo  alla  presente  attesta- 
»  zione  la  mia  firma  ,  ed  il  sigillo  di  questo  I.  e 
))  R.  Dipai'timento. 

))  L.  Passerini  Segretario  ». 

11  Girolamo  Rucellai  menzionato  in  questa  attesta- 
zione (1),  ed  il  Matteo  Bellacci  rammentato  piìi  oltre 
nell'attestazione  medesima  (2), sono  certamente  i  pos- 
sessori del  Codice  JE.5.5.14  dell'I,  e  R. Biblioteca  Pa- 
latina di  Firenze  menzionati  ne'due  passi  di  questo 
Codice  riportati  di  sopra  a  pagine  36   (3).    In  un 
cartellino  in  carta  di  colore  arancione  incollato  sul 
dorso  dello  stesso  Codice  E.  5.  5.  14.  dell'I,  e  R.  Bi- 
blioteca Palatina  di  Firenze  si  legge  : 
))  Trattato  di  Arimmetica 
»  Cod.  Cart.  con  Miniature 
r,  del  400  N."  183. 

11  numero  183  che  qui  trovasi  è  quello  col  quale 
il  suddetto  Codice  Palatino  E.  5.  5.  14  era  contrasse- 
gnato nella  Biblioteca  Guadagni  di  Firenze,  che  fu 
riunita  all'I,  e  R.  Biblioteca  Palatina  della  medesima 
città.  Di  questa  riunione  parla  il  Sig.  Dottore  Federico 
Blume  nel  suo  Iter  Italicum  dicendo  (4)  :  «  Molto 
»  importante  è  una  nuova  Biblioteca Palatina,formata 

(1)  Vedi  sopra,  pag.  37,  Un.  17 — 23. 

(2)  Vedi  sopra,  pag.  37,  liti.  27—30. 

(3)  Vedi  sopra,  pag.  36,  lin.  18—31: 

(4)  "•Sehr  beJeiUeud  ist  cine  neuere,  von  dem  lezt  verstorbenen 
il  Grosherzog  gegriindete  Schlossbibliothek  im  Palasi  Pitti,  mit 
»  etwa  1400  Hdss.,  meist  aiis  dem  Nachlas  des  Pier  del  Nero, 
u  uiid  der  Bibl.  des  Hauses  G  u  a  da  g  n  i  ??  (  Blutnc,  iter  Itali- 
cum, l.  IV,  pag.  213.) 


39 

))  nel  Palazzo  Pitti,  dal  Granduca  morto  ultimamente» 
»  di  circa  1400  Manoscritti,  la  maggior  parte  dell' 
»  eredità  di  Pier  del  Nero,  e  della  Biblioteca  della 
»  famiglia  Guadagni.  » 

In  un  Codice  dell'I,  e  R.  Biblioteca  Palatina  di 
Firenze  contrassegnato  E.  5.  5.  18  trovasi  mano- 
scritta dalla  carta  1  recto  alla  carta  241  recto  un' 
opera  in  lingua  italiana  intitolata  tractato  di  prati- 
cha  di  geometria  sechondo  L.  pisano  e  molti  altri. 

Nel  recto  della  prima  carta  del  suddetto  Codice 
E.  5.  5.  18.  dell'I,  e  R.  Biblioteca  Palatina  di  Fi- 
renze si  legge  : 

»  Inchomincia  el  tractato  di  praticha  di  geome- 
))  tria  sechondo  L.  pisano  e  molti  altri  chome  per 
»  esso  chiaro  appare.  E  prima  la  diuisione.  Mostran- 
»  do  la  chagione  di  detto  vilume. 

»  Ogni  Auctore  del  quale  si  truoua  alchuno  tra- 
))  ctato  darismetricha,  si  truova  anchora  di  quello 
»  trattato  di  geometria,  e  questo  chiaro  apare  per 
»  euclide  che  fecie  de  15.  libri  5  di  numeri.  E  lio- 
»  nardo  pisano  fatta  l'opera  darismetricha  fecie  la 
»  praticha  di  geometria  in  sulla  quale  opera  questa 
»  è  fondata.   » 

Delle  due  opere  di  Leonardo  pisano  qui  menzionate, 
una,  cioè  Vopera  darismetricha^  è  il  Liher  Abbaci  com- 
posto da  Leonardo  Pisano  nel  1202  (1),  e  l'altra,  cioè 
la  praticha  di  geometria,  è  ÌSiPractica  geometriae  com- 
posta dal  medesimo  Leonardo  nel  1220,o  nel  1221  (2). 

Piiì  oltre  nel  recto  della  carta  prima  del  suddetto 

(1)  Vedi  Tomo  CXXXI,  pag.  3,  lin.  17—22,  pag.  4—5,  pag.6,  lin. 
i—S,  Tomo  GXXXII,  pag.  102,  nota  (2),  pag.  115,  Un.  8—9,  e  pag. 
116,  lin.  1—4. 

(2)  Vedi  Tomo  CXXXI,  pag.  9S,  lin.  4—23,  pag.  96,  lin.  1—6, 
p  Tomo  CXXXII  la  nota(3)  della  pag.  4,  e  pag.    115,  Un.  7—8. 


40 

Codice  E.  5.  5.  18.  si  leggo:  «  E  chome  dicre  L, 
))  pisano  nel  principio  del  suo  trattato  darismetri- 
»  cha  mostrando  che  damenduni  e  non  duna  sta  bene 
))  a  dire  chosì  diciente:  Et  quia  artimetrica  et  geo- 
))  melria  fiunt  connexe  et  sufragatorie  sibi  ad  inuicem^ 
»  non  potest  de  numero  piena  tradidi  (sic)  doclrina  nisi 
»  interserantur  geometricha  quedam  vel  ad  geometriam 
))  spectantia  età.  »  Il  passo  latino  qui  riportato  leg- 
gesi  nella  lettera  dedicatoria  sopraccitata  di  Leonardo 
Pisano  a  Michele  Scoto  (1).  Fu  mostrato  di  sopra  (2) 
che  questo  passo  è  anche  riportato  nel  trattato  di 
praticha  darismetrica  che  ho  detto  (3)  trovaisi  ma- 
noscritto nel  Codice  L.  IV.  21  della  Biblioteca  Pub- 
blica Comunale  di  Siena. 

Il  suddetto  trattato  di  praticha  di  geometria  è  di- 
viso in  otto  distinzioni,  l'ottava  ed  ultima  delle  quali 
finisce  a  carte  241,  recto ^  del  sopraccitato  Codice 
E.  5.  5.  18.  dein.  e  R.  Biblioteca  Palatina  di  Fi- 
renze colle  parole  seguenti:  «  Potrej  altrj  molti  chasi 
»  porre.  Ma  questi  sono  abastanza.  Adunque  laudare 
»  sia  di  bisognio  idio  ohe  a  choceduto  sia  finito  e 
y>  però  diremo  senpre  deo  gratias.   » 

Il  rimanente  della  medesima  carta  241  è  bianco-. 
Le  carte  seguenti  242 — 251  del  suddetto  Codice  Pa^ 
latino  E.  5.  5.  18.  sono  anche  interamente  bianche. 
Nel  recto  della  carta  252  di  questo  Codice  si  legge: 

»  Debile  e  inperfetta  sarebbe  lopera  passata , 
»  se  sanza  questa  fusse  (4).  In  però  che  al  presente 

(1)  Vedi  Tomo  CXXXII,  pag.  3,  liti.  6—17,  18—21,  (note  (2), 
(3)  ),  pag-  4,  lin.  1—16,   pag.   123,  lii>.  4—16. 

(2)  Vedi  Tomo  CXXXll,  pag.   122,  lin.  23  -25,  e  pag   123,  lin. 
1—16. 

(3)  Vedi  Tomo  CXXXll,  pag.   13,  lin.   1—9. 

(4)  Colle  prime  parole  {Debile  e  inperfetta)    di  queslo  passo  del 


41 

))  io  intendo  dire  alchuna  cosa  della  natui-a  de'numei'i 
))  quadrati.  In  però  che  a  questi  dì  mi  fu  proposta 
))  vna  certa  quistione  apartenente  a  numeri  quadrati. 
))  La  quale  dicieua  truoua  vno  numero  quadrato  che 
»  postoui  su  6  sia  quadrato,  e  trattone  6  sia  qua- 

1 
»  drato,  e  non  voglio  che  quel  numero  sia  6  -y-(l). 

1 

))   In  però  che  6  -j-  è  quadrato,  chella  sua  radicié  è 

1  1  1 

»    2  ^:r-,  al  quale  6  -r-  auunto  6  ftmno  12  -7-,Ia  cui 

2  ^  4     "  4 

.  .  1  11 

»  radicie  è  3  -^  .  E  tratto  6  dì   6   -7-  rimane  -r-, 
z  4  4 

1 

»  che  è  quadrato,  e  la  sua  radicie  è    — j  (2).  Doue 


suddetto  Codice  E.  5.  5.   18.  incomincia  il  rtclo  della  caria  2o2  di 
questo  Codice. 

(1)  Il  problema  che  l'autore  del  suddetto  trattato  di  praficha  di 
geometria    qui  dice  essergli  stato  proposto  può    esprimersi  così  : 

trovare    un  numero  x  diverso  da    2  -H  —   ,  e  tale    che    i  numeri 

a-2  -I-  6  ,     a?2  —  6 
siano  quadrati. 

(2)  Siano  x^,  y^,  z^  tre  numeri  quadrali   tali  che  abbiasi: 

a;2  -f-  6  —  y2     ,  .^2  —  6  =  s2  . 

Ponendo 


^-i. 

-  -  ,7 

+  (1  )"  = 

r  6 

1 

SI   avrà: 

X^  =(2  4-1)'=.  22 

Sostituendo  6  H in  vece  di  x^  nell'equazione 

4  ' 

iC2  -f-  6  ^  y2  , 
qupsla  equazione  diviene 


?o 


»  per  asolutmne  della  «letta  quistione  è  di  biso™i<, 
»  scrmere  el  trattato  di  lionardo  pisano  fatto  sopra  de 
»  numen  quadrati.  E  perchè  questo  trattato  è  apar- 
»  tenente  ehos.  a  geometria  chome  al  numero.mi 
»  parue  chosa  assai  ehondecente  a  scriuere  quello 
»  m  questa  parte  E  ehol  „o„,e  di  dio  inehom  „! 
»  cando  d,remo,  lasciando  la  eorretione  degli  er- 
»  rori  alla  tua  clementia. 

»  li  detto  trattato  voglio  dividere  in  5.  ehapi- 
toh.benehe  ms.eme  sieno  leghati,  de  quali  quello 

l°r'  "  "'"f""'  '■•'™W-''»Io™ì1  dive- 
nto;    I  f  k"'"  "^^  '"  '''"  "f"-'  "''  "'«h"»"  «ha- 
»  puolo    debbi  sapere  secondo  che  per  euclide  si 


6  +  l+6_j=i 


e  quindi 


1 


ilonde: 


=  12^--    =Q_Lo     ,    1 
4 

2/    ' 


=  .-^3H-_. 3.  -,.,.,(.)> 


1 

2/  =  3  H , 

2 


Sostituendo  6  +  1    in  vece  di  a.^  nell' 
si  ha 


equazione 
a^2  —  6  =  z2 


cioè 


quindi 


6  4-  --    ~  6  =  z2 


1 

r   =  ir» 


43 

)ì  manifesta.  Che  quando  vno  numero  quadrato  si 
»  multiplicha  per  vno  numero  quadrato,  quello  che 
))  fanno  sie  numero  quadrato,  chome  diciendo  4  vie 
))  9  fanno  36,  che  è  quadrato,  chonciosia  chosa  che 
))  4  et  9    sieno  ciaschuno  quadrato  ». 

Dopo  avere  indicato  alcune  proprietà  de'numeri 
quadrati  1'  autore  del  suddetto  tractalo  di  pralicha 
di  geometria  soggiunge  (1)  : 

«  Perchè  Massolo  da  pervgia  huomo  assai  exper- 
»  to  in  dette  scienzie  si  sforzi  di  dimostrare  chelle 
))  quistioni  date  sopra  de  numeri  quadrati  sieno  ca- 
»  nate  lasolutioni  dallo  intelletto,  cioè  per  via  da 
))  porre  ,  e  questo  mostra  in  vno  trattato  doue  e 
»  manda  10  ragioni  a  giovanni  de  bicci  de  medici, 
)ì  le  quali  il  detto  giovanni  per  lo  tenpo  passato  gli 
»  aueua  chieste,  per  darle  ad  alchuni  valenti  che 
))  erano  a  quel  tenpo  dimostratori  ,  cioè  teneuano 
»  in  questa  città  schuola,  e  in  quelle  10  ragioni  ve 
»  vna  risposta  a  vna  chessi  propone  di  truouare  vno 
))  numero  quadrato,  che  agunto,  overo  trattone  vno 
»)  numero  rimangha  quadrato.  Niente  dimeno  lio- 
»  nardo  pisano  chiaro  dimostra  e'  numeri  quadrati 
»  auere  certe  nature  per  le  quali  lasolutioni  delle 
))  quistioni  sopra  quelle  trouate  prestamente  sanno, 
»  e  in  questo  modo  dicie. 

))  lo  0  chonsiderato  sopra  lorrigine  di  tutti  e  nu- 
»  meri  quadrati,  e  o  trouato  quella  uenire  dalla  or- 
»  dinata  asciensione  de  numeri  inpari.  In  però  che 
))  unità  è  quadrata,  e  di  quella  è  fatto  el  primo  qua- 
))  drato,  cioè  vno,  al  quale  agunto  3  fanno  el  seclion- 

(1)  Codice  E.  o  5.  18  dell'I,  e  R.  Biblioteca  Palatina  di  Firenze, 
earte  252,  verso,  e  253  recto. 


»  do  quadrato,  cioè  4,  la  cui  radicie  è  2.,  al  quale 
»  quadrato  se  sagugne  el  terzo  numero  inpari,  cioè 
•»  5,  si  auerà  el  terzo  numero  quadrato,  cioè  9,  del 
1)  quale  la  radicie  è  3.  E  chosi  senpre  per  la  or- 
))  dinata  chonguntione  de  numeri  inpari  ne  proviene 
)>  lordinatione  de  numeri  quadrati.  Onde  quando  vor- 
))  remo  trouare  due  numeri  quadrati  de  quali  lo  agu- 
»  gnimento  faccia  numero  quadrato,  torrò  qual  vorrò 
))  numero  inpari  quadrato,  e  quello  arò  per  vno  de 
■»  2  detti  quadrati.  Laltro  trouerrò  per  lo  agugni- 
«  mento  di  tutti  e  numeri  inpari  che  sono  da  vno 
))  infìno  a  quello  numero  quadrato  inpari.  Exenpli 
»  gratia  piglierò  9  per  vno  de  detti  due  quadrati, 
»  laltro  arò  per  lo  agugnimento  di  tutti  e  numeri 
»  inpari  che  sono  di  sotto  a  9,  cioè  de  1.°  3.  5.  7., 
»  de  quali  la  somma  è  16,  che  è  quadrato,  el  quale 
»  agunto  chon  9  fanno  25,  che  è  quadrato. 

»  E  se  vogliamo  geometrichalmente  dimostrare. 
))  Toglinsi  alquanti  numeri  inpari  inchominciando 
»  da  vnità  per  ordine,  e  sieno  ab.  ed.  de.  ef.  ,  e 
»  sia  ef.  quadrato,  e  perchè  ef.  e  ae.  sono  quadrati, 
»  perchè  e  sono  fatti  dalla  aguntione  de  numeri  in- 
»  pari  inchominciando  da  vno  per  ordine  ascienden- 
»  do,  cioè  ab.  bc.  ed.  de.,  e  tutto  af.  è  simigliante- 
»  mente  quadrato.  E  chosi  de  due  quadrati  ae.  et 
»  ef  è  fatto  el  quadrato  af. 

»  Anchora  altrimenti  torrò  alchuno  quadrato  pari 
»  lo  cui  mezo  sia  pari,  chome  è  36,  del  quale  la  metà 
»  è  18.  E  di  quello  leuerò  1.%  e  arò  17,  e  quello 
))  1.°  agugnerò  al  18,  e  aremo  19.  E  chosi  aremo 
»  17  e  19,  che  sono  inpari  e  chontinui,  choncio  sia 
»  chosa  che  ninno  inpari  sia  in  quel  mezo,  e  della 


45 

»  loro  aguntione  si  cria  36,  che  è  quadrato,  e  della 
»  aguntione  di  tutti  glinpari  che  sono  di  sotto  a 
1)  17,  si  cria  64,  che  è  quadrato,  de  quali  2  quadrati, 
»  cioè  36  e  64  si  fanno  100,  che  è  quadrato,  et  è 
»  fatto  dello  agugnimento  de  numeri  inpari  da  vno 
»  infìno  a  19.   » 

Nel  testo  latino  del  liber  quadratorum  di  Leonardo 
Pisano  subito  dopo  la  soprarrecata  (1)  lettera  del 
medesimo  Leonardo  all'Imperatore  Federico  II  d'Ho- 
henstaufen  si  legge  (2): 

Consideravi  super  originem  omnium  quadratorum 
numerorum,  et  inverti  ipsam  egredi  ex  ordinata  inpa- 
rium  ascensione.  Nam  unitas  quadrata  est,  et  ex  ipsa 
efficitur  primus  quadratus,  scilicet  unum,  cui  imitati 
addito  ternario  facit  secundum  quadratiim,  scilicet  4, 
cuius  radix  est  %  cui  etiam  additioni  si  addatur  tertius 
inpar  numerus,  scilicet  5,  tertius  quadratus  procreabi- 
tur,  scilicet  9,  cuius  radix  est  3,  et  sic  semper  per  or- 
diìiatam  inparium  collectionem  ordinata  consurgit  et  se- 
ries  quadratorum  (3).  linde  cum  volumus  11.°^  quadra- 

(1)  Vedi  Tomo  CXXXI,  pag.  26,  lìn.  11     31,'e  pag.2-,lin.  1—6. 

(2)  Codice  Ambrosiano  E  15,  Parte  Superiore  ,  carta  19  recto 
e  verso 

(3)  Sia  a  il  primo  termine  ed  r  la  ragione  di  una  progressione 
aritmetica.  Se  si  chiami  S  la  somma  de'  primi  n  termini  di  questa 
progressione,  si  avrà  : 

S=o  -f-  (o  -f- r)  +  (a  H-2r)  -f-  (a-f-  3r)  -4- .  - .  .  +  (a  +  (n— l)r) 

[2a  -h  (n  —  ì)r  ]r» 
_ 

Questa  equazione,  ponendo 

a  =  1  ,         r  =3  2, 
darà: 

S::::^l-l-3-f-54-'7-l-.     .     .     ■+-(2n— 1) 

L2.1  4-  (n— l)2jn 


46 

tos  niimeros  invenire  quorum  addillo  faciat  quadra- 
ium  numerum,  accipiam  qualem  voluero  quadralum  in- 
parem,  et  ìiabebo  ipsum  prò  uno  ex  duobus  dictis  qua- 
dratisi reliquum  inveniam  ex  collectione  omnium  in- 
parium  qui  sunl  ab  imitate  usque  ad  ipsum  quadra- 
tum  inparcm.  Verbi  gralia  accipiam  9  prò  uno  ex 
dictis  duobus  quadratis;  reliquus  habebilur  ex  collectio- 
ne omnium  inparium  qui  sunt  sub  9,  scilicet  dei,  et  3, 
et  5,  et  '7 ^quorum  stimma  est  Ì6,qui  est  qiiadratus,quo 
addito  cum  9,  egredientur  25,  qui  numerus  est  quadra- 
tus  [ì).  Et  si  geometrica  idi  volumus  demonstratione. 

Ponendo  successivam^itc  : 

«  =  i, 
n  ^  2, 
w  =  3, 
n  =  4  ec., 
nell'equazione 

ì  +3  4-  5  4-  7  -f-  .  .  .  +  (2n  —  1)  =  n», 
questa  equazione  dà 

na  =   12  =  1, 

«2    =    23  —  1  -+-  3, 

n2  =  32  =  l-f-  3  4-5, 
«2  z=  42  =  1  -I-  3  -+-  5  -t-7, 
ec. 
Quindi  è  chiaro  che  molto    giustamente    Leonardo    Pisano   dice 
(Vedi  sopra,  pajj.  45,    lin.  18 — 20):  et  sic  semper  per  ordìnatam  in- 
parium collectionem  ordinata  consurgit  et  series  quadratorutn. 

(1)  Ciò  che  Leonardo  Pisano  dice  in  questo  passo  del  Liber  qua- 
dratorum  dalle  parole  unde  cum  volumus  (  Vedi  sopra  ,  pag.  45  , 
lin.  20)  fino  alle  parole  qui  numerus  est  quadralus  (Vedi  sopra  , 
le  lin.  10 — 11  di  questa  pagina  46  )  può  essere  tradotto  in  lin- 
guaggio algebrico  nel  modo  seguente  :  Se  si  vogliono  trovare  tre 
numeri  quadrati  x^,  y^,  z^  tali  che  si  abbia 

X3  -\-  y2  =  z^  , 
pongasi 

.r2—  n_3+54-7..  •+  (2»  —  3), 
1/2  =:  2n  —  1. 
Da  queste  tre  equazioni  si  ha: 
a;3  4-  3/2=  52=  1  4,3  +S4,  7  4,  .  ..  +  (2n—  3)+  (2n  —  1). 


47 
Adiaceant  quotmmque  numeri  inpares  ab  unitale  per 
ordinem  ascendendo,  donec  extremus  eorum  quadratus 
fiat,  et  sint  a^b.,b^c.,c^d.,d'^e.,e^f,  et  sii  e^f  quadratus, et 
quoniam  ef.  est  quadratus,  et  a^^e.  est  quadratus  ,  cum 
procreelur  ex  ordinata  collectione  inparium  ab.  et  bc. 
et  ed.  et  de.,  et  totus  a'^^f.  (1)  numerus  est  similiier 
quadratus,  et  sic  ex  duobus  quadratis  ae.  et  ef-  fìt  qua- 
dratus af. 

Item  aliler  accipiam  aliquem  qiiudratum  parem  cu- 
ilis  medielas  sii  par,  ut  'òQ,cuius  medielas  est  18,  et  au- 

Essendo  n  il  numero  determini  della  progressione 

i,  3,  9,  7  .     .     .     2»  —1, 
si  avrà  : 

1  -h  3-f-5-f-7-|-  ••  .  +  (2n— 3)  =  (»i— 1)2 

14- 3 -t- S -f- 7 -H  .  .  .  •+- (  2n-3)  -f- (2r8— 1)  =»  «2; 
cioè 

a;'  =  (n—  1)2, 
/B2  +  y2  =  z2  =^2  ; 
Per  ciò  si  ha  : 

X2=  [n—  1)2  =  i-i-3-4-g-f-7_t_ .  .  .  _|_  (2m— 3), 
y2  =  2n  —  1  , 

2^=71^  =  1-4-3-4-3-1-74-...  4-(2w-3)4-(2n— 1); 
e  quindi 

ir  =  n  —  ì, 

y  =  \/  2n  -i, 
z  :=  n. 
Queste   equazioni  ponendo  n~  S  danno: 
a;  =  S  —  1  r^  4, 

y  =  l/"lO—  1  =  \/'d~=-  V^^=  3, 
JS  =5   : 
quindi 

a;2=^)5--l)2  =1  +  3  -j-S-f-  7  =  16  =  4% 

y2  =  2.  8  —  1  -=  10  —  1  :=  9  =  3% 
«2  =52  =25=^   14-34-S4-7-+-9. 
(1)  E  da  credere  che    in  questo  passo  del  suddetto  tractato  di 
praticka  di  geometria  ì  numeri  1,  3,  5,  7,  9,  16,  23,  siano    siati 
posti  sulle  linee  a.b.  ,  b.c  ,  ed  ,  d.e  ,  e.f.  ,  a.c.  ,  a.f  per    indicare 
il  valor  numerico  di  ciascuna  di  tali  linee. 


4-8 
feram  ab  eo,  et  addam  eidem  .1.,  egredientur  il. et  19.» 
qui  simt  inpares  numeri  et  continui^  cium  nullus  par  nu- 
meriis  cadal  inter  eos,  ex  horum  quoque  addictione 
procrealur  36,  qui  est  quadratus,  et  ex  addictione  reli- 
quorum  inparium  qui  sunt  ab  uno  usque  in  15  pro- 
creatur  64,  ex  quibus  duobus  quadratis  procrealur  100, 
qui  est  quadratus,  et  procreatur  ex  collectione  inparium 
numerum  (sic)  qui  sunt  ab  uno  usque  in  19  (1). 

(1)  Ciò  che  Leonardo  Pisano  dice  nel  soprarrecato  passo  del  suo 
Ltler  quadratorum  dalle  parole  Item  aliter  accipiam  aliquem  qua- 
dratum  parem  (Vedi  sopra,  pag.  47,  lin.  9  )  fino  al  fine  di  que- 
sto passo  (Vedi  la  linea  8  di  questa  pag.  48  )  può  essere  tradotto 
in  linguaggio  algebrico  nel  modo  seguente  :  Se  si  vogliono  tro- 
vare tre  numeri  quadrati  x^  ,   y^  ,  z2   tali  che  si  abbia 

x2  -\-  y2  —  z^, 
pongasi 

x2=.  i  -\-S  +  5  -f-  7-1-  .  .  .  -4-(2m— 3), 
y2  =r=  An. 
Essendo  (Vedi  sopra,  pag.  346,  lin.  11  —  14) 
H-3-4-5-+-7-f- ...  H-  (2w  —  3)  -=    (w  —  1)% 

l_l_3_l-54_7_l_  ...  -f-(2n— 3)-h(2n— l)-|-(2n-t-l)=(n— l)'-4-4n  =  (n-f-l)^ 
si    avrà: 

z2  —  a;2  _)_  y2  =  (n  —  1)2  -f-  4n  =  (w  -J-  1)2 

=  l-i-3-+-o-t-7-+-....-h  (2n— 3)  -j-  (2/«— 1)  -|-  (2w  -|-1). 

Per  ciò  si  ha 

.T2  =  (ri  —  1)2  =  1  -h  3  -f-  5  -4-  7  -4-  ...  -4-  (2n— 3), 

y2   ,^  (2n  —   l)  -+-  (2n  -|-  l)  =  4n , 

z-i  =(ri+l)2=  1-1-3+3-1-7-1-  -  -f-(2w  -  3)4-(2n— 1)  -J-  {2n+ì), 

quindi  : 

X  =  n  —    ì  , 

y  =  2j/n  , 

z  =  n  -f-  i. 

Queste  equazioni  ponendo  n  =  9  danno  : 

a;  =  9  •—  1  =^  8  , 

y  =  2i/^9  -=  2|/  3^=  2.    3  =  6, 

z  =  9   -f-    1  =r   10. 


49 

Questo  passo  del  testo  latino  del  liber  quadrato- 
rum  di  Leonardo  Pisano  trovasi  tradotto  in  lingua 
italiana  nell'ultimo  de'soprarrecati  passi  del  suddetto 
trattalo  di  prati  eh  a  di  geometria  (1). 

Più  oltre  nel  medesimo  traclato  di  praticha  di 
geometria  si  legge  (2)  : 

«  Acciò  che  abbia  lopera  perfetta  voglio  mo- 
»  strare  la  solutione  dun  chaso  posto  per  L.  p.  dato- 
»  gli  da  Maestro  teodoro  sommo  philosopho  dello 
»  inperadore  Federigho  in  questo  modo  proposto. 

))  Io  uoglio  trouare  3  numeri  che  insieme  agunti 
»  chol  quadrato  del  primo  numero  faccino  numero 
«  quadrato. Sopra  il  quale  quadrato  agugnendo  el  qua- 
))  drato  del  secondo  numero  faccia  numero  quadra- 
»  to,  chol  quale  quadrato  agunto  el  quadrato  del 
»   terzo  faccia  anchora  numero  quadrato  ». 

Nel  liber  qitadratoriim  di  Leonardo  Pisano  si  leg- 
§e(3): 

Qiiestio  milii  proposila  a  Maghlro  Theodoro 
domini  imperatoris  phylosopho. 

Volo  invenire  tres  niimeros  qui  insimul  aggregali 
cum  quadrato  primi  numeri  faciant  quadratum  nume- 
rum.  Super  quem  quadratum  si  addatur  quadralus  se- 
cundi  egrediatur   inde   quadralus    numcrus,  cum  quo 

quindi 

a;^=  8^  =  14-3+5-1-7.  ..-4-i5, 

ij'  =  (2.  9—1)  +  (2.9  4-   1)   ==  17  -t-  19  =  36   =  6'  , 

z''-  =  1Ó^=  100  =   1  -f-  3  -f-  5  -t-7  -h  .  ■  .  .  H-  lT-f-19. 

(1)  Vedi  sopra,  pag.  43,  lin.26 — 30,pag.44,   e  par;. 45,   lin.  1—6. 

(2)  CoJice  £•.  5.  5.  18  dell'I,  e  R.  Biblioteca  Palatina  di  Firenze  , 
carte  287,  verso,  e  288,  recto. 

(3)  Codice  Ambrosiano  E-  73.   Parie  Supirtore,  carta   :56,  verso. 
Vedi  sopra,  pag.  44,  lin.  9 — 16 

G.A.T.CXXXIIL  i 


50 

quadrato  addilo  quadrato  tertii,  similiter  qiiadratus  nu- 
merus  inde  proveniat  (1). 

Questo  problema  è  quello  che  nell'ultimo  de'so- 
prarrecati  passi  del  suddetto  trattato  dipraficha  di  geo- 
metria è  chiamato  (2)  «  chaso  posto  per  L.  P.  dato- 
»  gli  da  Maestio  teodoro  sommo  pbilosopho  dello 
»  inperadore  Federigho  ». 

Una  gran  parte  del  sopi-ammentovato  liber  qua- 
dratorum  di  Leonardo  Pisano  si  trova  tradotto  in  lin- 
gua italiana  nel  suddetto  tractato  di  praticha  di  yeo- 
melria  fra  i  due  ultimi  de'soprarrecati  passi  di  que- 
sto tractaio  (3). 

Il  Codice  E.  5.  5.  18.  dell'I,  tì  R.  Biblioteca 
Palatina  è  cartaceo,  in  quarto,  del  secolo  decimo- 
quinto, e  di  299  carte,  compi-este  due  di  guardia  ag- 
giunte in  principio,  ed  una  carta  di  guardia  aggiun- 
ta in  fine  d'esso  Codice.  Questo  Codice  finisce  nel 
rovescio  della  carta  291  colle  parole  seguenti  :  «  E 
))  chosì  di  molti  chasi  araj  notitia  se  bene  alla  me- 
»  morria  arai  gli  scritti.  Adunque  non  volendo  altro 
»  scrinerò  diremo  deo  gratias  ». 

In  un  cartellino  di  colore    arancione  incollato 
sul  dorso  del  medesimo  Codice  E.  5.  5.  18.  si  legge: 

»  Libro  di  Geometria 

))  di  L. Pisano,  e  d'Altri 

)>  Cod.   Cart.  del    400 
))  N.»  184  ». 

(1)  Questo    problema  può  esprimersi  così  :  Trovare  tre  numeri 
X,  y,  z,  tali  che  i  tre  numeri 

■X  +  !/  -f-  i  4-  a-2, 

X  -II-  y  -Ir  z  -\-  X2  -^y-ì, 

X-hy  -h  Z  -h  X2-{-  y2  _f_  iJ  ^ 

siano  numeri  quadrati. 

(2)  Vedi  sopra,  pag.  49,  liti.  8  —  10. 

(3)  Vedi  sopra  dalia  linea  9  della  pag.  43  alla    linea  6  della  pag. 
45,  e  pag.   49,  lin.  7—16. 


51 

Il  numero  I8i,  che  qui  trovasi,  è  quello  col  quale 
questo  Codice,  ora  Palatino  E.  5.  5.  18.,  era  con- 
tiassegnato  nella  soprammentovata  Biblioteca  della 
Famiglia  Guadagni  di  Firenze  (1). 

I  suddetti  Godici  Palatini  E.  5.  5.  14  ed  E. 
5.  5.  18  ,  e  tutti  gli  altri  Godici  dell'  I.  e  R. 
Biblioteca  Palatina  di  Firenze  provenienti  dall'anzi- 
detta Biblioteca  Guadagni  (2)  sono  legati  in  tela  di 
color  verde,  ora  sbiadito  dal  tempo.  Nella  parte  in- 
terna della  legatura  dell'anzidetto  Godice  E.  5.  5.  18. 
sul  rovescio  del  cartone  a  sinistra  di  chi  legge  in 
questo  Godice,  trovansi  scritte  da  mano  moderna  que- 
ste parole:  «  Leonardo  di  Bonaccio,  detto  però  Fi- 
»  bonaccio,  scrittore  assai  celebre  in  ([uesta  materia 
»  peressere  stato  inventoi-e  di  alcune  cose  ». 

Nel  rovescio  di  una  carta  bianca  aggiunta  in 
principio  di  questo  Godice  si  legge  : 

»  A  laide  e  onore  senpre  del  Signore 

»  Questo  libro  e  di  maicho  di  tinoro  bellaci 

»  chonporollo  negli  anni  della  n."  Salute  1502. 

»  E  femelo  chonperare. 

»  <'.hilla  chatta  he  preghato  chonumillità   renderlo 

»  e  dichosì  lo  priegho  e  anchora  se  persona  lo  trouassi 

»  per  amor  didio  lo  renda.   « 

Quindi  è  chiaro  che  nel  1502  Marca  di  Tinoro 

Bellacci  comperò  il  sopraccitato  Codice  £'.5.5.  18- 

dell'I,  e  R.  Biblioteca  Palatina  di  Firenze. 

(1)  Vedi  sopra,   pag.    38,  liti.   19—25  ,  29—33     (aota  (4))     e 
Jpag.  39,  lìii.  1—4. 

(S)   Vedi  la  noia  (1)  di  questa  pagina  3*0. 


52 
APPENDICE 


^el  sopraccilato  scritlo  inlitolalo  Della  vita  e  delle  opere  di  Leo- 
nardo Pisano  ec  [i)  si  riporterà  liiUo  ciò  che  si  legge  nel  Codice 
della  Biblioleoa  Ambrosiana  di  Milano  contrassegnalo  E-  75  Parte 
Superiore.  Ho  per  altro  stimato  utile  di  pubblicare  (in  da  ora  intie- 
ramente la  soprammentovata  lettera  dedicatoria  di  F>eonardo  Pisano 
al  Cardinale  Raniero  Capocci,  che  trovasi  nel  recto  della  prima  carta 
di  questo  Codice  (2).  Questa  lettera  si  troverà  riportata  nel  Numero 
I  della  presente  Appendice. 

Il  Numero  11  dell'Appendice  medesima  contiene  il  testo  latino 
della  vita  di  Paolo  Dagomari  scritta  da  Filippo  Villani,  che  trovasi 
manoscrillo  nel  Codice  n."  8P8  delia  Biblioteca  Barberina  di  Roma. 
Si  vedrà  che  questo  lesto  differisce  notabilmente  dall'altro  testo  la- 
lino  della  medesima  vita,  che  di  sopra  ho  detto  (3)  trovarsi  mano- 
scritto nel  Codice  dell"!,  e  R.  Biblioteca  Mediceo — Laurenziana  di 
Firenze  contrassegnato  Pluteus  LXXXIX.  Infer.  Codex  XXIII. 

Nel  Numero  III  di  quest'  Appendice  si  danno  le  notizie  pro- 
messe di  sopra  (4),  intorno  ad  alcuni  scritti  di  Paolo  Dagomari  , 
quattro  de'qiiali  non  erano  stati  finora  indicali  in  alcuna  opera 
stampata.  Questi  quattro  scritti  sono  1.°  Un'opera  astrologica  compo- 
sta nel  1339.  2."  Uno  scritto  intitolato  operalio  cilindri  de  nono  com- 
posita a  magistro  paolo  Anno  xpi  1363.  3."  Un  sonetto  intitolato  : 
«  Maistro  Paolo  delabacho'  mandò  a  Ser  durante  gioani  ».  4°  Un  so- 
netto intitolato:  «  Risposta  di  mastro  paulo  a  ser  durante  giouani  ». 

Nel  sopraccitato  Numero  III  si  troveranno  pubblicati  interamente 
i  tre  ultimi  di  questi  quattro  scritti.  Del  primo  si  riporteranno  in 
questo  Numero  le  prime  ed   ultime  parole. 

Bai.dassabre  Boncompagni. 


(i)   Vedi  Tomo  CXXXI,  pag.  3,   li.i.    7—8,  pag.   86,   lin.    2—4. 

(2)  Due  passi  iklla  suJdetta  lettera  di  Leonardo  Pisano  al  Cardinale 
Raniero  Capocci  sono  siali  riportali  di  sopra  (  Tomo  CXXXI,  pag.  16, 
lin.     10 — 15  ,  pag.   94,  lin.   3 — li). 

(3)  Vedi  Tomo  CXXXII,  pag.    i5l,   lin.    i — 4- 

(4)  Vedi  sopra,  pag.  28,   lin.  12 — 14. 


53 

N."  I. 

Testo  Ialino  di  una  lettera  dedicatoria  di  Leo- 
nardo Pisano  al  Cardinale  Raniero  Capocci  citata  di 
sopra  (Tomo  CXXXI,  pag.  16,  lin.  4 — 19,  pag.  17, 
lin.  1—11,  pag.  19,  lin.14— 17,  pag.  94,  lin.  1—11). 

Nel  recto  della  prima  caria  del  Codice  ambrosiano  E.  73  Parte 
Superiore  si  legge  : 

Incipit  (los  Leonardi  bigolli  pisani  super  solutionibus  quarumdam 
H'iestionum  ad,  numerwn,  el  ad  geometriam  uel  ad  ulrumque  perti- 
ìientium. 

Intellecto  beate  pater  et  domine  venerande  R.  dei  gratta  sce.  Mar. 
Incosmidin.  diac-  Card,  dignissime  quod  meorum  operum  copiam 
non  preccptive  saltim,  quod  vos  magis  decebat,  sed  simpliciter  pe- 
tere  fuistis  per  litteras  vestre  sanctitatis  dignati,  nihilominus  tamen 
petitionem  ipsam  reverenter  suscipiens  in  mandatis,  non  solum  pa- 
rere voto  veslro  salegi  devotius  in  hac  parte,  verum  etiam  de  qua- 
rumdam solutionibus  questionum  a  quibusdam  phìlosophis  serenis- 
simi domini  mei  Caesaris,  et  aliis  per  tempora  mihi  oppositarum,  et 
plurium  que  subtilius  quam  in  libro  maiori  de  numero  quem  con- 
posui  sunt  solute,  ac  de  mullis  quas  ipse  met  adinveni  ex  diffusa 
quidcm  multitudine  conpilans  hunc  libellum  ad  laudem  et  glO' 
riam  nominis  vestri  conposilum  florem  ideo  volui  titulari  quia  illa 
vobis  florida  clricorum  elegantia  radìantibus  dictavi,  atque  etiam 
quia  ibi  nonnulle  sunt  floride  quamquam  nodose  apposite  questio- 
nes  tanquam  gcomclrice  quam  arismelrice  indagalione  vigili  sic 
prnbabilifer  enodate.  ut  nedum  non  solum  floreanl  in  se  ipsis,  immo 
et  quod  per  eas,  velul  ex  radicibus  plantule,  emergunt  innumere  que- 
stiones,  quibus  interdum  vacare,  si  dignabimini,  poteritis,si  placebit, 
inter  curas  et  occupationes  vcslras  ab  otiositate  illa  que  virtulum 
est  noverca  vacando,  sub  exercitalione  ingenii,  solatia  etiam,  nec 
sterilia,  sed  officiosa  captare.  Si  autem  hoc  novero  a  vestre  clemen- 
tie  benignitate  acceplari,  quidquid  aìuene  subtilitatis  velutilius  ulte- 
rius  adinvenero,  eidem  operi  ut  vestram  merear  gratiam  adipisci  ob- 
nuxius  cumulabo,  eadem,,  el  me  ipsum  correctioni  dojninatioìns  ve- 
stre effeciuosivs  supponenUi. 

Explicit  prologus,   incipit   traclatus  eiusdem. 


54 

N.*  II. 

Testo  latino  della  vita  di  Paolo  Dagomari  scritta 
da  Filippo  Villani  che  trovasi  manoscritto  nel  Codice 
n^  898  della  Biblioteca  Barberina  di  Romay  a  carte 
70,  recto  e  verso. 

De  Paulo  da  Gomero  geometra  et  astrologo. 
Post  Guidonem  Bonacti  ex  nostris  eandem  professus  est  artem  , 
faulus  de  terra  prati  stirpe  nobili,  de  dagomaribus  oriundus,  tan- 
tumque  in  ea  scienlia  studiose  profeeit,  ut  in  ipsa  a  jamdiu  nemo 
doctior  haberetur.  Hic  geometra  maximus,  atque  peritissimus  ari- 
thmetice  fuit,  et  ea  propter  in  adequationibus  astronomicis  anli- 
quos  et  modernos  ceteros  antecessit.  Quj  si  in  iudicijs  eque  valuisset 
discrepante  nemine  antiquorum  omniutn  famosa  studia  superasset  . 
Per  instrumenta  si  quidem  ad  rem  apta  que  certis  in  locis  defixa 
locanerat,  ut  inde  prospiciens  syderum  moius,  et  staliones,et  octaue 
spere  molum  certius  et  rectius  metiretur.  Syderum  praesertim  que  i- 
gnorantes  fixe  el  immobiles  nisi  cum  motu  signiferi  arbitrantur, 
prò  eo  quod  eorum  latcns  tarditas  inperpendibilis  sine  tempo- 
ris  diuturnitate  est,  ctim  annis  centum  gradum  vnum  sub  primo  w>o- 
bili  conficere  videantur,  que  a  doctrinis  antiquorum  plurimum  di- 
screpabant,  et  proinde  pleraque  in  arte  que  magnos  gignerent  erro- 
res  correxit.  Is  enim  motus  quj  propter  commensurationem  tardis- 
simam  apud  antiquos  insentibilis  videbalur,  eo  praesertim  docente 
sensibilis  factus  est,  eo  ferme  contuitu  quo  in  longissimo  temporis 
interuallo  cadentem  ex  alto  gultulam  perpendimus  durissimum  la- 
pidem  perforare,  uel  per  alluvionem  incremento  latenti  incremento 
(sic)  agrum  crescere.  Hinc  obseruator  diligentissimus  syderum  et  mo- 
tus celi  tollectarias  tabulas  ostendit,  modernis  temporibus  parui  aut 
ferme  nullius  esse  momenti,  ipsas  etiam  regis  alphonsi  moslrauit  (sic) 
varietale  sensibili  in  aliquo  variare.  Ex  quo  obstensum  est  inslru 
mentum  astrolabi)  secundum  tollectarias  tabulas  mensuralum,  quo 
freiiuenter  ufimur  ab  astrologie  regulis  declinare,  alque  astronomos 
decipi  qui  exinde  artis  sumpserint  argumenta.  Hic  nostrorum  tem- 
porum  primus  tacuinum  composuit.  Atque  de  euentibus  futuris  an- 
nales  composuit,  quos  testamenti  sui  executores,  qua  causa  ignora- 
tvm  est,  occultauerunt.  Decessit  anno  etatis  sue  gralie 

uero.  Millesimo  trecentesimo  sexagesimo  quinto  ,  et  in  monumento 
ex  operoso  marmore  fabricato,  in  ecclesia  sancte  trinitatis,  et  in 
capella  qua  morìens  fieri  mandauerat,  honorifice  requiescit.  Multi  , 


55 

et  ante,  et  post  eum  fiorentini  insignes  in  ipsa  arte  fuere,  «ed  quia 
preter  solum  nomen  nil  scriptis  dignum  memoria  reliquerunt,  au- 
sus  non  sum  ex  meo  quanti  fuerint  ingenti  indicare. 

N."  111. 

Intorno  ad  alcune  opere  di  Paolo  Dagomari  detto 

dell'Abbaco.  Notizie  raccolte  da  Baldassarre  Boncom- 

pagni. 

§.1. 

OPERE  STAMPATE. 


SONETTO  DIRETTO   A  JACOPO    AUGHIEBI. 

Un  sonettp  <li  Paiolo  deirAbbaco  che  incomincia  (1): 
»  Le  clojei  rime,  che  'lenirò  sustegno  » 
fu  dato  in  luce  per  la  prima  volta  nel  1711  dal  Canonico  Giovan- 
ni Mario  Crescimbeni  in  Roma  nel  volume  terzo  delle  prima  edi- 
zione de'  suoi  Comentari  intorno  alla  sua  istoria  della  volgar  poe- 
sia (2).  Nel  1730  questo  sonetto  fu  ristampato  in  Venezia  nella  se- 
conda edizione  de'suddelli  Comentarj  del  Canonico  Giovanni  Ma- 
rio Crescimbeni  (3). 

(i)  TI  Cavaliere  Aliale  Girolamo  Tiralioschi  parlando  del  sopraramento- 
valo  Sonetto  di  Paolo  dell'  Abbaco  dice  [Storia  della  letteratura  italiana, 
seconda  edizione  Modenese,  t.  V,  parte  prina,  pag.  221,  libro  li  ,  capo 
II,  paragrafo  XXIV,  edizione  di  Milano  de'  Classici  Italiani,  t.  V,  parte 
prima,  pag.  326,  libro  II,  capo  II,  paragr.  XXIV)  :  „ Questo  Sonetto  non 
„  ci  dà  una  grande  idea  del  poetico  valor  di  Paolo,  di  cui  pure  trovansi  al- 
„  cune  altre  Rime  „, 

(2)  Comentarj  di  Gio.  Mario  de^  Crescimbeni  Collega  delP Imperiale 
Accademia  Leopoldina,  e  Custode  d'  arcadia,  intorno  alia  sua  Istoria 
della  volgar  poesia.  In  Roma,  Per  Antonio  de'  Rossi  alla  piazza  de' Ceri, 
1702 — 1711,  5  volumi,  in  4°,  voi.  III,  pag.  80 — 81,  libro  secondo,  num. 
XV.  In  questa  prima  edizione  il  sopraccitato  sonetto  di  Paolo  dell'Abba- 
co è  intitolalo  Paolo  dall'abbaco  [Cresdmbeni,  Contentar}  intor- 
no alla  sua  Istoria  della  volgar  poesia,  yoì.  III,  pag,  80). 

(3)  Istoria  della  volgar  poesia  scritta  da  Giovan  Mario  Crescimbeni, 
Canonico  di  Santa  Maria  in  Cosmedin,  e  Custode  d'Arcadia.  In.  Vene- 
zia 1730^1731,  presso  Ijorenzo  BofegÌQ,  cqn  licenza  de' Superiori  e  pri- 
vilegio,  sei  volumi,  in  4°,  voi.  \\\  [Comentarj  del  Canonico  Già.  Mario 
Crescimbeni  alla  sua  istoria  del  volgar  poesia,  volume  secondo,  parte  se- 
conda)^  pae.   129. 


5() 

Questo  sonetto  lii  composto  da  Paolo  delPAbbaco  in  risposta  a<l 
un  sonetto  di  Iacopo  Alighieri  (1)  che  incomincia 

»  Vdendo   il   ragionar  del'alto  ingegno  « 
Ambedue  questi  sonetti  trovansi  manoscritti  in  ciascuno  de'  Codici 
seguenti. 

Biblioteca  Chigiana  di  Roma. 

M.  VII.  142, 

(n."  1124  dell'antica  numerazione.) 

Codice  cartaceo,  in    foglio,  del  secolo  decimosesto,  e  di  433  car- 
te. Nel  rovescio  della  carta  42  di  questo  Codice  si  legge  : 
w  M.  lA.  di  Dante  a  M.'"   Paulo 
))  Del  abacho   ». 

Segue  nel  medesimo  rovescio  il  sonetto  testé  citalo  di  Iacopo  Ali- 
ghieri. Dopo  ((uesto  sonetto  nella  pagina  stessa  si  legg.'ì  afìi.iposta». 
Trovansi  poscia  in  questa  medesima  pagina  i  primi  undici  versi 
del  soprammentovato  sonetto  di  Paolo  delT  Abbaco.  Gli  ultimi  tre 
versi  di  questo  sonetto  trovansi  nel  recto  della  carta  43  di  que- 
sto Codice. 

Il  Canonico  Giovanni  Mario  Cresrimbeni  cita  (pieslo  Codice  scri- 
vendo (2)  : 

n   Viveva  egli    (Paolo   dell'  Abbaco)  nel  1328.  e  il   saggio,  che  di 

(i)  11  sopraccitato  sonetto  di  Iacopo  AHghipii  puWilicato  ila!  Canonico 
Giovanni  Mario  Crescimbeni  nel  1711,  nella  prima  edizione  de'suoi  Co- 
mentnrj  suddetti  (Cresrimbeni,  Comenlarj  intorno  alla  sua  Istoria  delln 
volgar  poesia,  edizione  di  Roma,  1702 — 1711,  voi.  II,  parte  seconda,  pag. 
76)  fu  ristampato  nel  1700  nella  seconda  edizione  di  tali  Comenlarj  (Cre- 
scimbeni, Istoria  della  volgar  poesia,  edizione  di  Venezia,  voi.  [II  (  Co- 
mentarj,  voi.  II,  parie  seconda  ),  pag  .  129.  Questo  sonetto  trovasi  anche 
inserito  in  una  raccolta  data  in  luce  nel  1S17  da  Don  Pietro  di  Norlar- 
bartolo  Duca  di  Villarosa,  ed  intitolala  Raccolta  di  Rime  antiche  Toscane 
(Raccolta  di  Rime  antiche  Toscane.  Palermo  dalla  Tipografia  di  Giu- 
seppe Assenzio,  1817,  quattro  volumi,  in  4i° '"ol.  Ili,  pag.  129  —  l5o)  nella 
quale  questo  sonetto  è  intitolato  (Raccolta  di  Rime  antiche  Toscane,  voi. 
Ili,  pag.   129)  : 

,,    SONETTO 
„   A   MAESTRO    PAOLO    DELL'    ABBACO    „ 
(i)   Crescimbeni,  Comenlarj  alla  sua  Istoria  della  volgar  poesia,  edi- 
zione di  Roma,  voi.  Il,  parte  seconda,  pag.   74,  libro  II,  paragrafo  XV. — 
Crescimbeni,  Istoria  della  volgar  poesia  ,  edizione  di    Venezia  ,  voi.   Ili 
(Comenlarj,  voi.  Il,  parte  seconda]  pag.   128. 


57 

»   lui  diamOj  è  un  Sonefto  rìsponsivo    a  quello,  tlie  portiamo  del 
»  mentovalo  Iacopo,  e  l'abbianj»' preso  dalla  Chisiana  [a]  ». 
„  [a]    Cod.    1124-  „ 

I.  e  R.  Biblioteca  Mediceo-Laurenziana  di  Firenze 
Pluteo  XLI  n."  34. 

Codice  cartaceo,  in  ottavo  piccolo,  del  secolo  deciinoquiuto,  e  di 
125  carte,  ^'el  rovescio  della  carta  76  di  questo  Codice  si  legge:  «  Di 
»  M:  Iacopo  Allinghieri  a  m."  Paolo  dellabaco  > .  Subito  dopo  queste 
parole  nella  medesima  caria  76,  verso,  trovasi  il  sonetto  sopram- 
mentovato  di  Iacopo  Alighieri.  Popò  questo  .sonetto  leggesi  nel 
medesimo  rovescio:  «  t^  per  le  rime  di  m."  Paolo  al  gelo  M.  lac-°  » 
Sefjuono  nella  pagina  stessa  i  primi  cinque  versi  di  questa  Rispo- 
sta. Gli  altri  versi  della  Risposta  medesima  trovansi  nel  redo  <lella 
caria  77  di  questo  Codice  (1). 

I.  e  R.  Biblioteca  Ma2;liabechiana  di  Firenze 
Gasse  VU.  n."  1010 
[Codici  Strozziani  n.°  640.) 

Codice  cartaceo,  in  foglio^  del  secolo  decimoquinto  ^  e  di  228 
carte.  In  fine  della  prima  colonna  del  rovescio  della  carta  114  di 
questo  Codice  si  legge  :  «  Sonetto  di  mess.  iachopo  di  dante  arin- 
ghieri  mandò  al  maestro  pagholo  dellabbaclio  di  sopra  ».  Nel- 
la seconda  colonna  della    medesima    carta    114,  verso,    subito  do- 

(i)  Nel  Calalogo  pubblicalo  da  Monsignor  Angelo  Maria  Banilini  de' 
Codici  Italiani  dell'I,  e  R.  Biblioteca  Mediceo-Laurenziana  di  Firenze  si 
legge  { Bandirti  ,  Catalogus  codicum  Italicorum  Bibliotlie.cae  Mediceae- 
La  urenti  una  e,  Gaddianae,  et  Stinclae  Crucis,  col,  loo,  Pluteus  Xi.I.  Co- 
dex  XXXI F): 

„  XVI.  pag.  ead.   h.  Di  Me-ii.    Iacopo  Aìigliie- 
„  ri  a  Maestro  Paolo  delVjébaco,  Sonello. 
„  Vdendo  il  ragionar  delValto  regno. 
„  XVII.  pag.  ead.  Risposta  per  le  rime  di 
„  Maeilro  Paolo  ni  decto  Mess.  Iacopo. 
„  Le  dolci  rime,  che  dentro  sostegno. 
Nel  medesimo  Calalogo  del  Bandini  si  legge  che  il  Codice  Mediceo — Lau- 
renziano  contrassegnalo  Pluteo  XLI.  n.°  34  è  Codex  chartac.  Ms.  in  8 
min.   Suec.   XV.  [Bandini,  Catalogus   Codicum    Italicorum  Bihliothccac 
Medicene — Lanrentianne,  Gaddianae,  et  Sanctnc  Crucis,  col. i55,  Phileus 

XLI.,  Codex  xxxiry 


58 

pò  questo  sonetto,  si  l<'gge  «  Uisposla  del  maestro  pagholo  al  dello  « 
Subito  dopo  tali  parole  trovasi  nella  medesima  seconda  colonna  il 
sonetto  di   Paolo  dell'Abbaco  del  quale  si  è  parlato  di  sopra. 

Il  Codice  dell'I,  e  R.  Biblioteca  Magliabechiana  di  Firenze  con- 
trassegnato Classe  FU,  n°  1010  fa  ora  parte  di  un  Codice  della  Bi- 
blioteca medesima  contrassegnato  Palchetto  li,  n."  40,  e  descrìtto 
di   sopra  (1). 

1.  e  R.  Biblioteca  Magliabechiana  di  Firenze. 
Classe  VII.  w.»  1168 

[Codici  Strozziani  n.°  672). 

Codice  cartaceo,  in  quarto,  del  secolo  decimosesto,  e  di  161  carte. 
Nel  rovescio  della  carta  119  di  questo  Codice  si  legge  «  Sto  di 
n  messer  Iacopo  di  Dante  al  M.»  paolo  dellabacho  ».  Nel  recto  della 
carta  120  del  Codice  medesimo  dopo  gli  ultimi  tre  versi  di  questo 
sonetto  si  legge  :  «  Sto  del  maestro  paolo  a  messer  Iacopo  di  Dante 
»  per  R."  ».  Dopo  queste  parole  trovansi  nel  medesimo  recto  lutti 
i  versi  di  questo  sonetto  del  maestro  paolo  salvo  l'ultimo  che  man- 
ca in  questo  Codice. 

I.  e  R.  Biblioteca  Magliabechiana  di  Firenze 
Classe  IX.  n."  10. 

Codice  cartaceo,  in  foglio,  del  secolo  decimosettimo,  e  di  45  carte. 
Nella  prima  colonna  doUa  carta  20  ,  redo  ,  di  questo  Codice  si 
legge  :  «  Di  M.  Iacopo  Alighieri  a  M.  Paolo  dell'Abbaco  ».  Subito 
dopo  queste  parole  nella  medesima  prima  colonna  trovasi  il  sopram- 
mentovato  sonetto  di  Iacopo  AUighieri.  Nella  seconda  colonna  della 
medesima  carta  2ù,  recto,  si  legge:  «  Risposta  per  le  rime  di  Mae 
»  stro  Paolo  al  Sonetto  di  M.  Iacopo  Alighieri  «.  Subito  dopo 
queste  parole  trovasi  nella  colonna  stessa  il  sonetto  di  Paolo  deli' 
Abbaco  del  quaU  si  6  parlato  di   sopra. 

Il  Codice  dell'I,  e  R.  Biblioteca  Magiiab<^chiana  contrassegnato 
Classe  IX,  n."  10  fa  ora  parte  di  un  Codice  della  Biblioteca  mede- 
sima contrassegnato  Palchetto  II.  M."  109,  e  composto  di  388  nu- 
merate progressivamente  nel  redo  1 — 388.  In  questa  numerazione 
progressiva  la  sopraccitata  carta  20  del  Codice  Magliabechiano  Clas- 
se IX,  n.°  10  è  numerata  nel  recto  col  numero  266. 

I.  e  R.  Biblioteca  Riccardiana  di  Firenze 
n."  1114. 

Codice  cartaceo,  in  quarto,  del  secolo  decimoquinto,  e  di  273 
carte  Nel  rovescio  della  carta  174  di  questo  Codice  numerata  164 

(ij  Vedi  Tomo  CXXXII,  pag.  iSy,  lin.  ai— 3i. 


59 

si  legge:  «  Sonetto  Cacto  da  ines.  piero  tìgltido  di  dante  alleghieri 
»  mandato  a  M.  panlo  dallabacho  grande  strologo  ...  Subito  dopo 
queste  parole  trovasi  nel  medesimo  rovescio  il  sonetto  sopraccitato 
di  Jacopo  Alighieri.  Dopo  questo  sonetto  nella  pagina  stessa  si  legge: 
"  Maestro  paulo  risponde  al  sopradetto  sonetto   »   (1). 

11  rimanente  della  suddetta  carta  164,  verso,  è  occupato  dalla  pri- 
ma quartina  del  soprammentovato  sonetto  di  Paolo  dell'Abbaco  (2). 
La  seconda  quartina  e  le  due  terzine  di  questo    sonetto    trovansi 
nel  recto  della  carta  165  del  Codice  stesso. 

I.  e  R.  Biblioteca  Riccardiana  di  Firenze 
n."  Ì118. 

Codice  cartaceo,  in  quarto,  del  secolo  decimosesto,  e  di  167  car- 
te. Nel  recto  della  carta  68  di  questo  Codice  si  legge:  «  M.  la.  di 
Dante  a  m.  Paulo  del  Abaccho  „.  Queste  parole  sono  seguite  nel 
medesimo  recto  dal  precitato  sonetto  di  Iacopo  Alighieri.  Dopo  que- 
sto sonetto,  nel  medesimo  redo  si  legge:  «  Risposta  ».  Seguono  nella 
pagina  slessa  i  primi  due  versi  del  sonetto  soprammentovato  di  Paolo 
dell'Abbaco  (3).  1  rimanenti  dodici  versi  del  Sonetto  medesimo  tro- 
ì-ansi   nel  rovescio  della  carta  68  di  questo  Codice. 

(i)  Il  sopraccitato  Codice  Riccardiano  n."  1114  nel  catalogo  de'Codici 
manoscriltl  dell'I,  e  R.  Biblioteca  Riccardiana  pubblicato  dal  Dottore  Gio- 
yanm  Lami  è  indicalo  cosi  [Lami.Calalogus  codicum  manuscriptomm  qui 
in  Bibliolheca  Riccardiana  Florentiae  adseivantur,  pag.  3ll):  „  O.  II. 
„  Codex  chartac.  in  4,  n.  XXIV.  „  Qui  la  lettera  0  indica  la  scanzia,  il 
numero  II.  il  palchetto,  ed  il  numero  XXIV.  l'antico  numero  del  Codice 
Riccardiano,  ora  contrassegnato  u.°  ,,14,  giacché  oel  sopraccitato  Catalogo 
del  Dottor  Lami  si  legge  (Xa/nz,  Calalogus  codicum  manuscriptomm  qui 
in  bibliotheca  Riccardiana  Florentiae  adservanlur,  pag.  i)„  CATALO- 
„  GVS  AVCTORf^M,  \\  Qui  in  Codicibus  Manuscriplis  Bibliothecae 
„  Riccard.anae  |1  continenlur.  ||  Nolae  ita  explicantur,  ut  littera  Plateum, 
«  &  prior  numerus,  ipsius  plutei  ordinem  significent:  \\  posterior  numerus  , 
„  ipsum  Codicem  denotel  \\  „.  Nella  seconda  colonna  della  pagina  26  dell' 
Inventario  e  stima  della  Libreria  Riccardi,  il  sopraccitato  Codice  n.°  1114 
dell'I,  e  R.  Biblioteca  Riccardiana  di  Firenze  è  indicato  così  : 
„   1114.  Petrarca  Sonetti  e  Trionfi.  Rime  di  diversi, 

„  come  Ant.  di  Guido,  Mariotlo  Davanzali  ec. 

„  Cod.  cartac.  In  quarto  See.  XV. 
^  J2)  Vedi    sopra,    pag.  55,     lin.;  ia-40,    pag.    56-57,   e  pag.  58,  lin. 

(3)  Nella  seconda  colonna  della  pagina  iQ MV Inventario  e  Stima  del- 
hi  Libreria  Riccardi  il  suddetto  Codice  n.°   1 1 18  dell'I,  e  R.    Biblioteca 


60 


CANZONE. 
In  alcuni  esemplari  deH'  edizione  fatta  in  Parigi  per  cura  di 
Iacopo  Corbinelli,  appresso  Mamurto  Patisson  del  poema  di  Giusto 
de'Conti,  intitolato  La  bella  mano,  e  di  una  raccolta  intitolata  Rac- 
colto di  antiche  Rime  diuersi  Toscani  oltre  a  quelle  de  i  x.  libri, 
trovansi  stampati  sotto  il  titolo  di 

MAESTRO  PAGOLO 
DA  FIRENZE 
i  primi  quindici  versi  di   una  canzone  italiana  che  incomincia  : 
11   Voce  dolente  più  nel   cor  che  plafone   »  (1). 
Questi  esemplari  hanno  nel  frontespizio  la  data  dell'anno  1389(2). 

Rlccauliaaa  di  Firenze    è  indicalo  così  : 

„   iii8.  Dante,   Vita  nuova,  con  Poesie  di  diversi 
„  Rimatori  antlcJii.  Cod.  carlac.  in  quarto  Sec. 
„  XVI.  „ 

(  1  )  Ln  bella  mano  libro  di  Messere  Giusto  de''  Conti,  Romano  Senatore, 
Per  M.  Iacopo  de  Corbinelli  restaurato  ^l  Christianiss"  Heni  ito  I J I. 
He  di  l'arancia  hi  di  Pollonia.  In  Parigi,  per  Mamerlo  Patissonio  Typo~ 
grafo  Regio,  iSSg,  Con  priuilegio,  in    120,  calla  79,  jecio. 

(2)  Il  Sig,  Bartolorameo  Gamba  parlando  degli  esemplari  con  data  del 
1689  della  suddetta  edizione  della  Bella  Mano  di  Giusto  de'  Couti  dice 
{  Serie  dei  testi  di  lingua  e  di  altre  opere  importanti  nella  Italiana  let- 
teratura scritte  dal  secolo  XIV  al  XIX,  pag.  116,  col,  2,  nuni.  SGg)  : 
„  Due  esemplari  con  questa  data  furono  da  me  veduti:  uno  nella  Mar- 
„  ciana  di  Venezia,  altro  nella  Biblioteca  dei  DJonari  di  S.  Giustina  di 
„  Padova,  il  quale  era  in   Carta  grande  „. 

Nella  Reale  Biblioteca  di  Parma  trovasi  un  esemplare  manoscrilto  auto- 
grafo di  un'opera  dell'Abate  Michele  Colombo   intitolato     JSotizie    intorno 
alVedizione  della  Bella  Mano  J atta  in  Parigi  da  Mamerto  Patisson    con 
altre  cose  alla  medesima  spettanti,  e   contrassegnato   Colombiano  n."  igS. 
■  INelle  pagine  terza,  quarta,  e  quinta  di   questo  manoscritto  si  legge  : 

,,  L'edizione  della  Bella  Mano  del  iSgS  fu  cominciata  dal  Patisson  pri- 
,  raa  del  iSSg,  giacché  appunto  in  quest'anno  il  libro  era  già  terminato 
„  di  sla.Tiparsi.  Non  ne  \iscirono  tuttavia  allora  gli  esemplari  :  di  che  una 
„  prova  si  è  che  non  se  ne  rinvengono  né  pure  alle  Librerie  le  più  cele- 
„  bri,  e  che  non  ne  fanno  i  Bibliografi  rerun  cenno.  Uno  tuttavia  n'esi- 
„  sle  in  Santa  Giustina  di  Padova  :  raa  siccome  mancavi  il  frontespizio,  e 
„  tutto  il  primo  foglio,  così  non  potevasi  rilevare  da  esso  l'anno  in  cui  fu 
„  stampalo,  fu  creduto  sempre  del  iSgS  e  dal  dotto  Bibliotecario  di  quel - 
„  la  Libreria  ,  e  da  quanti  altii  lo  videro  ,  perchè  non  si  diedero  mai  la 
„  pena  di  confrontarlo  con  qualche  esemplare  del  iSgS  ,  benché  uno  di 
„  questi  altresì  trovasi  nella  medesima.  Quantunque  così  mancaile,  è   non 


61 

In  altri  esemplari  della  suddetta  edizione  della  Bella  Mano  di  Giusto 
«leT.onli  clic  nel  Cronlespi/io  lianno  la  data  del  1590, o  del  1591  (1), 

„  pcrlanlo  queiresernplare  affatto  prezioso  per  le  annotazioni  e  per  le  po- 
„  stille,  che  vi  fece  per  entro  ili  proprio  pugno  il  celehre  CorLiuelli,  a  cui 
„  <lol)bìamo  (piell'edizione.  Legato  bensi  in  pergamena,  ma  senza  essere  ri- 
„  filalo,  indica  esso  di  essere  stato  tolto  dal  torchi  cosi  per  uso  di  Lui ,  e 
„  per  farne  que'camhlaraenli  si  nell'ortografia  che  nella  Lezione,  ch'egli  ne 
,,  meditava.  Un  altro  esemplare  fortunatamente  ne  possedo  io,  uscito  Dio 
„  sa  come  di  quella  stamperia.  Trovasi  in  questo  anche  il  primo  foglio,  ed 
„  indi  rilevasi  l'anno  in  cui  fu   stampato  ,,. 

L'esemplare  che  l'Abate  Michele  Colombo  qui  dice  di  possedere  con  da- 
ta del  iSSg  della  sopraccitata  edizione  della  Bella  Mano  è  ora  nella  Bi- 
blioteca  Reale  di  Parma  contrassegnato  :   Colombiano  n.o   194. 

Un  esemplare  con  data  del  iSSg  della  suddetta  edizione  della  Bella 
Mano  di  Giusto  de'Conti  è  ora  posseduto  dal  Sig.  Conte  Alessandro  Mor- 
tala. 

11  Sig.  Giacomo  Carlo  Brunet  parlando  degli  esemplari  della  soprammen- 
lovata  edizione  della  Bella.  Mano  di  Giusto  de'Conti  dice  (Manuel  da  Li- 
bruire  et  de  Vamateur  des  livres,  far  larques  Charles  Brunet.  Quutrième 
édition  originale,  eniicrement  re^fue  par  Vauteur,  qui  y  a  refondu  les  nou- 
velles  recherches  déjh  publiées  par  lui  en  i834,  e/  un  grand  nombre  d'au- 
ires  rechercìies,  c/u'  il  a  fcnles  depuis.  A  Paris,  cìiez  Silvestre,  Libraire  , 
Bue  des  Bone — Enjants,  N."  3o,  1842 — 1844,  5  tomi,  in  8°,  t.  I,  pag.  764, 
col.  1  }  „  J'ai  vu  aulrefois  chez    M.  Renouard  un  bel    exemplaire    de  l'édit. 

„  de    iSSg  en  pap.  fort,  relié   aux    armes   de    Jac Aug.     De  Thou  ;    cel 

„  exemplaire  avait  cela  de  particulier  que  les  ff.  yS  à  82  y  étaient  de  la 
„  réim[)ression,  avec  la  Canzone  di  Pagolo,  comme  dans  les  esempi,  d'une 
„  date    postérieure  ,,. 

L'esemplare  che  il  Sig.  Brunet  qui  dice  d'aver  veduto  presso  il  Sig.  Re- 
nouard trovasi  descritto  .in  un  catalogo  de'lihri  del  medesimo  sig.  Renouard 
pubblicato  nel  iS53  [Catalogue  d'une  précieuse  colleclion  de  livres,  ma- 
nuscrits,  autographes,  dcssins  et  gravares  coinposant  actuellement  la  Bi- 
bliolliè(/ue  De  M.A-A.  R.  Paris.  Jules  Renouard  et  C'",  rue  de  Tournon, 
n.  6.  i853,  in  8°,   pag.  162,  num.»  1624). 

(i)  f.a  Bella  Mano,  Libro  di  Messere  Giusto  de'Conti,  Romano  Se- 
natore. Per  M.  Jacopo  de'  Corhinelli  ,  gentilhuomo  Fiorentino  ristorato. 
In    Parigi,  Appresso  Mamerto   Patisson    Regio    Stampatore    iSgo.     Con 

privilegio,  carta  ']b  reno —  òl.,  verso -11  Sig.  Bartolommeo  Gamba  dopo 

aver  parlato  degli  esemplari  della  sopraccitata  edizione  della  Bella  Mano,  che 
hanno  la  data  del  iSSg  soggiunge  [Serie  dei  testi  di  lingua  e  di  altre  opere 
importanti  nella  Italiana  letteratura  pag.  116,  col.  2,  e  pag.  117,  col.  1, 
num.  36g)  „  Gli  esemplari  coli'  anno  iSgo  ,  e  quelli  coli' anno  l5gi 
„  hanno  pure  6  carte  innanzi  al  comincianiento  delle  Rime  ,  come  in 
„  quelli  dell'anno  l5Sg;  ma    V   Avvertimento,   o    vogliaui  dire    Discorso 


62 

o  del  1593  (1)  questa  Canzone  trovasi  stampala  interamente.  I  primi 

„  preliminare,  n'  è  alquanto  diverso  nella  lezione,  ed  in  tatto  simile  a 
„  quello  degli  esemplari  aventi  la  data  del  i5g5.  La  canzone  di  maestro 
„Pagolo  vi  è  tutta,  e  n'e  tolto  via  il  Capitolo  di  Naslagio  da  Monte  Aitino  ,,. 
— Tre  esemplari  sono  a  me  noti  della  soprani  mentovata  edizione  della  Bella 
JWano  di  Giusto  de'Conti  colla  data  del  1690.  Uno  di  questi  esemplari  è 
nella  Biblioteca  Gorsiniana  di  Roma  (Col.  58.=A.  =^24),  un  altro  nella  Bi- 
blioteca dell'Arsenale  di  Parigi,  ed  il  terzo  esisteva  nel  i83q  nella  Biblioteca 
Melzi  di  Milano.  Il  secondo  di  questi  esemplari  in  un  i;atalogo  manoscritto 
della  Biblioteca  medesima,  che  ivi  si  conserva  é  indicato  nella  Sezione  Bel- 
les  Lettres  sotto  il  numero  4'*68.  Il  Sig.  Barlolommeo  Gamba  parlando 
degli  esemplari  della  suddetta  edizione  della  Bella  Mano  di  Giusto  de'Con- 
ti  dice  [Serie  dei  testi  di  lingua  e  di  altre  opere  importanti  nella  Italia- 
na letteratura,  pag.  117,  col.  1.,  n."  369)  ,,  Un  esemplare  colV  anno 
„  i5go,già  descritto  nel  Cai.  des  Livres  de  M.  d'Anse  de  Vìlloison,  Paris, 
„  Debure,  1806,  in  8",  sta  oggidì  nella  libreria  M ehi  di  Milano;  ed 
„  altro  esemplare  colf  anno  iSgi  si  conserva  nella  celebre  Biblioteca  delV 
„  Arsenale  di  Parigi,  e  Ju  esaminato  dalVab.  Michele  Colombo  „. 
Non  mi  è  riuscito  di  vedere  questo  secondo  esemplare,  né  di  poterne  avere 
una  descrizione. 

(i)  La  bella  mano. Libro  di  Messere  Giusto  De  Conti,Romano  Senatore. 
Per  M.Iacopo  de'' Corbiiielli,  gentilhuomo  fiorentino  ristorato.  In  Parigi, 
Appresso  Mamerto  Patisson Regio  Stampatore  iSQ5.Conpriuilegio,in  12", 
carte  78,  verso  —  82,  verso.  1  seguenti  sette  esemplari  della  sopraccitata 
edizione  della  Bella  Mano  di  Giusto  de'Conti  hanno  tutti  la  data  del 
iSgS. 

t.  Biblioteca  Barberina  di  Roma  SS.  I.  4'-  Quest'esemplare  nel  ca- 
talogo de'libri  stampati  di  questa  Biblioteca  dato  in  luce  nel  1681  é  indi- 
cato così  (/nrfex  Bibliothecae  qua  Franciseus  Barberinus  S.  R.  E.  Car- 
dinalis  Vicecancellarius  Magnificentissimas  suae  Faniiliae  ad  Quirina- 
lem  Aedes  magnificentiores  reddidil.  Tomi  tres  libros  typis  editos  com- 
pleclentes.  Romae,  Typis  Barherìnis,  Excudebat  Michael  Hercules. 
MUCLXXXI.  Suptriorum  permissu,  2  tomi  ,  in  fog„  t.  I,  pag.  3oi, 
col.  2): 

,,  Giusto   de'  Conti. 
;,    La  bella  mano  Rime  ristorate  dal  Corbinel- 
„  li.  Parigi  i5()iy.  12.  LX.  A.  16.  „ 

2.    Biblioteca  Corsiniana    di  Roma    58:=A=26. 

5.°  Biblioteca  Reale  di  Parma  Colombiano   n.°  196. 

4-°  Biblioteca  del  Sig.  Cavalier  Domenico  Olivieri  Tesoriere  Generale 
degli  Stati  Parmensi,  Scaffale   D,  Fila  FU. 

5.°  Biblioteca  Imperlale  di  Parigi   Y.  3952. 

6."  Biblioteca  dell'  Arsenale  di  Parigi  Belles  Lettres  n."  4067.  Questa 
indicazione  è  quella  che    questo  esemplare  ha  nel  sopraccitato  catalogo  ma- 


63 

quindici  versi  della  Canzone  medesima  Irovansi  anche  stampati  nella 

noscritto  della     Biblioteca    metlesima   (Vedi  sopra  ,  pag.   62,    lin.   9—11. 

n.°  E'  ora  posseduto  dal  Sig.  Abate  D.  Tommaso  Celli  Bibliotecario 
dell'I,  e  R.  Biblioteca  Magliabechiana  di    Firenze. 

A-veaiio  anche  la  data  del  iSgS  i  seguenti  esemplari  della  sopraccitata 
edizioue  della  Bella  Mano  di  Giusto  de'Conti  de'quali  ignoro  chi  sia  pre- 
sentemente il  possessore. 

1.°  Esemplare  ch'esisteva  nella  Biblioteca  di  Maffeo  Pinelli  Veneziano. 
Nel  Catalogo  di  questa  Biblioteca  pubblicalo  da  Don  Iacopo  Morelli  si 
legge  (Bibliotheca  Maphaei  Pinella  Veneti  magno  jain  studio  collecta,  a 
Jacoho  Morellio  Bibliolhecae  Vene  tue  D.  Marci  Custode  des  cripta  et  an- 
notationibas  illustrala.  Venetiis  Typis  Caroli  Palesii  :  MDCCLXXXVII. 
Vencunt  Exemplaria  apud  Laurentiuiit  Basiliuin  ,  6  tomi,  in  8°  grande, 
t.  IV,  pag.  326)  : 

„  2229  de'Conti  Giusto.  La   Bella  Mano. 
„  Nel  fine:  Per    me  Scipionem    Malpiglium 
„  Bononiensem;  M.  CCCC  LXXIl.  in  8", 

„  Esemplare  ottimamente  conservato  (T 

„  un  edizione  di  somma  rarità. 

„  223o.  La  slessa,  con    Rime    antiche 

„  di     diversi  ,     con     annotazioni     di    Jacopo 
„  Corbinelli.     Parigi,     Patisson  ,    iSgS,  in 

„  13.° Rarissimo  libro,  citato  dagli  Ac- 

„  cademici  della   Crusca ,   come    pure  il  se- 
„  gucnte. 

Nel  1790  la  suddetta  Biblioteca  di  Maffeo  Pinelli  fu  acquistata  dai 
Signori  Edwards  e  Robson  celebri  librari,  e  venduta  in  Londra  per  pubbli- 
ca auzione  (The  general  Biographical  Dictionary  :  containing  an  hislori- 
cal  and  criticai  account  of  the  liifes  and  writings  of  the  most  eminent 
persons  in  every  nation,  particularly  the  British  and  Irish  from  the  ear- 
liest  accounts  to  the  present  time.  A  new  edition  revised  and  enlarged  by 
Alexander  Chalmers  F.  S.  A.  1812 — 1817,  32  volumi,  in  8°,  voi.  XXIV, 
pag.  5io,  articolo  PINELLI  (John  Vincent)). 

3.°  Esemplare  eh'  esisteva  in  Padova  nella  Biblioteca  del  Monastero 
di  Santa  Giustina.  L'Abate  Michele  Colomlio  fa  menzione  di  questo  esem- 
plare nel  soprarrecato  passo  delle  sue  Notizie  intorno  alla  edizione  della 
Bella  Mano  fatta  in  Parigi  eie.  dicendo  (  Vedi  sopra  ,  pag.  60,  lin. 
38 — 39)  „  benché  uno  di  questi  altresì  trovasi  nella  medesima  „.  Il  me- 
desimo Aliate  Colombo  in  una  noia  alla  sopraccitata  opera  del  Gamba  inti- 
tolata Serie  dei  testi  di  lingua  ec.  cita  questo  medesimo  esemplare  di. 
cendo  [Gamba,  Serie  dei  testi  di  lingua  e  di  altre  opere  importanti  nella 
Italiana   telleralara,  pag.   116,  cui.  2,   num    669,  nota  (*)  ):  „ Due  escio- 


6i 

SHoomla  eili/ione  Veront-se  falla  nel  17Ò3  della  Bella  Mano  dì  Giù- 
slotie'Conli  (li. 

La  snddelta  Caiizone  è  siala  interamente  ristampala  nello  scorso 
anno  1833  dal  Sig.  l'rancesco  Corazzinl  in  una  raccolta  intitolata 
AJiscellanea  di  cose  medile  o  rare  (2). 

„  piali   se  ne  conservavano  nel  dello  Monastero;  l'uno  a|)j)arteneva  all'ainio 
„    1695  „. 

0. 'Esemplare  già  posseduto  dal  Sig.  GaelanoPoggiali  che  lo  descrive  nel- 
la sua  opera  intitolala  Serie  rle'lesti  di  lingua  ec.  (  Serie  de'tesli  di  lingua 
stampati,  che  si  filano  nel  Vocabolario  degli  accademici  della  Crusca, pos- 
seduta da  Gaetano  Poggiali.  Con  una  copiosa  Giunta  di  Opere  di  Scrittori 
di  purgala  favella,  le  quali  si  propongono  per  essere  spogliate  ad  accresci- 
mento dello  slesso  Vocabolario.  Livorno  Presso  Tommaso  Masi  e  Comp." 
181 5,  2  tomi,  in  8°,  t.  I,  pag.    laS,  n.»  244)- 

4.°  Esemplare  che  il  Sig. Bartolomraeo  Gamba  cita  dicendo  (iSer/e  dei  lesti 
di  lingua,  e  di  altre  opere  importanti  nella  Italiana  letteratura,  pag.  116, 
col.  2,  num.  369)  ,,  Presso  il  Sig.  Oliva  di  Aviano  uno  con  postille  au- 
„   tografe   di  Giuseppe   Bartoli ,,. 

5-°  Esemplare  posseduto  dalla  famiglia  Avogadro  di  Brescia.  Il  Sig. 
Barlolommco  Gamba  parlando  degli  esemplari  della  Bella  Manosi  Giusto 
de'Conti  con  data  del  iSgS  dice  [Serie  dei  testi  di  lingua,  e  di  altre  opere 
importanti  nella  Italiana  letteratura,  pag.ii7,col,  1):  „  ma  t/aelli  posseduti 
„  dalV  alale  Michele  Colombo,  dalla  Biblioteca  Reale  di  Parigi,  e  da 
„  unafamiglia  Avogadro  in  Brescia,  hanno  esso  foglio  K  col  solo  mollo 
„  greco  „. 

6.°  Esemplare  già  posseduto  dal  Sig.  Professore  Guglielmo  Libri.  Que- 
sto esemplare  fece  parte  della  raccolta  di  libri  di  Belle  Lettere  appartenenti  al 
medesimo  Sig.  Libri ,  e  venduti  in  Parigi  nel  1847  '^'''  28  di  Giugno  ai  24di 
Luglio.  Nel  catalogo  di  questa  raccolta  pubblicato  nel  1847  questo  esera- 
])kre  trovasi  indicato  sotto  il  numero  8i  4  {Catalopue  de  la  Bihliotheque 
de  M.  L,*'*'  Doni  la  venie  se  fera  le  lundi  28  juin  1S47,  ^'  '''*  vingt- 
neuf  Jours  suivants  à  six  heures  de  relevée  ,  rue  des  Bons-Enfants,  n. 
3o,  maison  Silvestre,  sulle  du  premier.  Se  distribue  a  Paris  cìiez  L.  C. 
Silvestre  et  P.  Jannel,libraires,  rue  des  Bons-Enfanls,  3o.  l847)  '"  ^°i 
pag.  126,  n.°  814). 

(i)  La  bella  mano  di  Giusto  de^ Conti  Romano  Con  una  Raccolta  di 
Rime  antiche  Toscane.  Edizione  seconda  Veronese.  Piìt  ricca  della  pri- 
ma, e  corretta.  AlV Illustrissimo  Signore  Don  Giulio  Viva  Presidente  del 
Regio — Ducal  Magistrato  di  Mantova.  In  Verona  MDCCLIII.  Presso 
Giannalberlo  Tumermani  nella  Via  delle  Foggie.Con  licenza  de' Superiori, 
ili  4  1  pag'  267,  erroneamente  numerata    367. 

(2)  Miscellanea  di  cose  inedite  o  rare,  raccolta  e  pubblicata  per  cu- 
ra di  Francesco  Corazzini.  Firenze  tip.  di  Tommaso  Baracela  Succf  • 
sore  di  G.  Pialli,  i853,  in  8°,  pag.  257-265. 


65 

Questa  canzone  trovasi    manoscritta  in  ciascuno  de'  Codici     se- 
guenti. 

Biblioteca  Barberina  di   Boma 
N.»  1564.. 

Codice  in  quarto  piccolo,  del  secolo  decimoquinto,  e  di  99  carte, 
tutte  cartacee,  salvo  l'ultima,  che  è  membranacea.  Nel  rovescio  delk 
carta  IS  di  questo  Codice  si  legge:  «  chanzona  deim."  pagolo  dellaba- 
«  co  da  firenze  strolago  e  filosafo  ».  Dopo  queste  parole  nel  medesi- 
mo rovescio  incomincia  questa  Canzone  ,  e  finisce  nel  rovescio 
della  carta  18  di  questo  Codice. 

I-  e  B.  Biblioteca  Mediceo-Laurenziana  di   Firenze 
Pluteo  XL.  71."  46. 

Codice  cartaceo,  in  quarto,  del  principio  del  secolo  decimoquar^ 
lo,  e  di   74    carte. 

Nel  recto  della  carta  34  di  questo  Codice  si  legge  :  u  Chanzone 
»  d.maestro  pagholo  da  firenze  >,.  Subito  dopo  queste  parole  nel 
medesimo  redo,  incomincia  la  suddetta  canzone  di  Paolo  dell'Ab- 
baco, e  finisce  nel  redo  della  carta  33  di  questo  Codice 

Nel  catalogo  pubblicalo  da  Monsignor  Angelo  Maria  Bandini  de' 
Cod.c,  manoscritti  Italiani  dellM.  e  R.  Biblioteca  Mediceo  Lauren- 
ziana  questo  esemplare  della  suddetta  Canzone  th  Paolo  dell' .  Ab- 
baco è  indicato  così  (1): 

«  Xlr.  pag.  34.  Canzone  di  Maestro  Pagolo  di 
«  Firenze  (i)  quae  est  ad  Summum  Pontificem  , 
»  hortatoria  ut  ad  Romanam  Sedem  reverta'- 
»  tur.  Inc. 

»  Foce  dolente  più  nel  cor  che  piagne. 
»  Des. 

»  Che  verità  ti  veste  di  un  diaspro. 
„(i)  Huius  Carmina     Italice    exstant   in  Bibliolli.  Vaticana, 
„  &  Barberina  ,  ut  eruitur  ex    Leone  Allaccio  Poeti  ami. 
„  chi  &c.  Napoli  per  Sebasiian  d'Alecci  MDCXLI.  8.,, 
Nel  Catalogo  testé  citalo  dal  Bandini  dice  che  il  sopraccitato  Co- 

(i)  Bandini,    Catalogus    codicum    Ilcdicorum    Bibliothecae   Medie eae 
Laureniianae,  Gaddianae,  et  Sanclae   Crucis,  col.   Sg,    Plut.  XL.   Cod. 

G.A.T.CXXXIII.  5^  ^^^ 


66 

dice   Mediceo — Laurenzìano  Pluteus  XL-  «'  46.  è   Codex   eharlac. 
Ms.,    in  4°,  Saec.  XIV-  in    quo  varii  occurrunl  defectus  (I). 

I,  e  R.  Biblioteca  Magliabechiana  di  Firenze 
Classe   VII,  n."  99J. 

[Codici  Strozziani  n.°  617). 

Codice  cartaceo,  in  loglio,  del  secolo  decimoquarlo,e  di  sessanta- 
(re  carie.  Nel  recto  della  caria  41  di  questo  Codice  si  legge  : 
<<  Maestro  paolo  dellabacho  ».  Subito  dopo  queste  parole  nel  me- 
desimo recfo  incomincia  la  suddetta  canzone  di  Paolo  dell'AbbacO;, 
e  finisce  nel    recto   della  caria   45    di  questo  Codice. 

I.  e  R.  Biblioteca  Magliabechiana  di  Firenze 
Classe  VII.  n.°  1010. 

Codice  già  descritto  di  sopra   (2). 

Isella  seconda  colonna  delia  carta  158,  verso,  di  questo  Codice 
si  legge:  «  Chanzone  del  maestro  pagbolo  di  tìrenze  n.  Subito  dopo 
queòte  parole  nella  colonna  medesima  incomincia  questa  canzone, 
e  finisce  nella  seconda  colonna  della  carta  159,  verso,  di  questo 
Codice. 

1.  e  R.  Biblioteca  Magliabechiana  di  Firenze 

Classe    VII,  n."   1192. 

[Codici  Strozziani  n."  777). 

Codice  cartaceo,  in  quarto  piccolo,  del  secolo  decimoseslo,  e  di 
133  carte.  Nel  rovescio  della  carta  78  di  questo  Codice  si  legge  : 
«  Canzona  del  maestro  Pagolo  di  Firenze  ».  Subito  dopo  queste 
parole  nel  medesimo  rovescio  incomincia  la  soprammentovata  Can- 
zone di  Paolo  dell'Abbaco.  Essa  finisce  nel  rovescio  della  carta  83 
del  Codice  slesso. 

A  pagine  237  della  sopraccitata  Miscellanea  di  cose  inedite  o  rare 
raccolta  e  pubblicata  per  cura  di  Francesco  si  legge: 
„   »  MAESTRO    PAOLO  DELI'  ABBACO 


,    ,,    GAMZOKE   (') 

«  E  stratta  dal  Cod.  Magliab.   1192.  CI.  1-  » 
w    (')   Fu  pul)I)licala  da  Jacopo  CorLinelli,  Parigi,  iSgS  „. 

(ij  Bcmdiiii,  Calalogus  Codicum  Italicorum  Bibliolhecae  Mediceae 
Laurentianae,  Gaddianae,  et  Sanclae  Crucis,  co\.  6i.  Pluteus  \L.Codc3t 
XLFI. 

[i)  Vedi  sopra,  pag.   67,  lin.  i5— 22,  e  pag,  58,  lin.   1 — 6- 


67 

T.  e  R.  Biblioteca  Riccardiana  di  Firenze 
n."  1050. 

Codice  cartaceo,  in  foglio >  della  fine  del  secolo  decimoquarl'O,  e 
di  128  carie.  Nel  rovescio  della  carta  61  di  questo  Codice  si  legge  : 
»  Maestro  pagliolo  «lellabbaco.  Subito  dopo  nel  medesimo  rovescio 
Irovausi  i  primi  sessaiitatre  versi  della  sopraccitata  Canzone  di  Pao- 
lo dell'  Abbaco.  Subilo  dopo  l'ultimo  di  questi  sessantalre  versi  nel 
medesimo  rovescio  si  legge  : 

«  Sennuccio  del  bene 
«  Vuoisi  buon  elmo  di  uerace  lede   »  ec.  (1) 

III. 

SONETTO  D'AIiGOniENTO    ASTROLOGICO. 

ìNel  1748  il  Dottore  Giovanni  Lami  pubblicò  nel  tomo  nono  della 
raccolta  intitolata  Novelle  letterarie,  un  sonetto  di  Paolo  dell'Abba- 
co d'argomento  astrologico  (2).  Questo  sonetto,  ristampato  nel  1751 
dal  medesimo  Dottore  Giovanni  Lami  nel  suo  Catalogus  codicum 
manuscriptorum  qui  in  Bibliotlieca  Riccardiana  Florentiae  adser- 
vantur  (o),  trovasi  manoscritto  in  ciascuno  dei  Codici   seguenti. 

i.  e  R.  Biblioteca  Magliabechiana  di  Firenze 

Classe  Vii.  n."  1010.  ^r, 

Codice  gi;i  descritto  di  sopra    (4).    Nella    seconda  colonna    della 


(i)  Nel  Catalogo  db' manoscritti  tlell'I.  e  R.  Biblioteca  Riccarilinna  sud- 
detta puWilicalo  dal  Dottore  Giovanni  Lami'  il  Codice  di  questa  Biblio- 
teca ora  contrassegnalo  n.o  io5o' è  indicalo  sotto  „  PaolO  dell'Abbaco  „ 
così  [Laini,Catalogus  codicum  manuscriptorum  qui  in  Bibliòtheca  Riccar- 
diaua  Fiorentine  adservanlur,  pag.  3ii);  „  0.  IV.  Codex  chartac.  infoi. 
„  n."  XL.  „  Qmì  la  lettera  O  indica  la  Scanzla,  il  numero  IV  il  Palchetto, 
ed  il  nmnero  XL  il  numero  antico  del  Codice  Riccardiano,  ora  coijtrasse- 
gnato   n."  io5o  (Vedi  sopra,  la  nota   (2)    della  pagina  Sg)..  , 

Nella  prima  colonna  della  pagina  26  ieìV Inventario  e  stima  della  Li- 
breria Riccardi  si  legge  ;     , 

„  io5o  Boccaccio  Vita  di  Dante.  Vita  nuova  di 
„  Dante.  Rime  di  diversi  &.C.  Cod.  miscellaneo. 
„  in  fol.  Sec.  XIV.  sul  fine,  e  p^rte  XV.  „      ] 

(2)  Novelle  letterarie  pubblicate  in  Firenze  Vanna  MDCCXLf^IlI. 
Tomo  Filli,  coi.  348  e  349,  Num.  22. 

(3)  Pag.  3ii,  articolo  „  Paolo  tlfll'Abbaco  „  noU  (1). 

(4)  Vedi  sopra,  pag.  5"],   lin.  3 — 15. 


68 

carta  i62,  verso  A\  questo  Codice  si  legge:  ''  Solo  di  maestro  pa- 
„  gholo  dellabacho".  Subito  dopo  queste  parole  nella  medesima  se- 
conda colonna  trovasi  il  soprammentovato  Sonetto  d'  argomento 
astrologico. 

1.  e  R.  Biblioteca  Riccardiana  di  Firenze 
n."  1088. 

Codice  cartaceo,  in  foglio,  del  principio  del  secolo  decimoquin- 
to, e  di  68  carie.  INel  recto  della  carta  38  di  questo  Codice  si 
legge  :  «  Mastro  pagholo  dalabbacho  ».  Subito  dopo  queste  pa- 
role nel  medesimo  recto  si  trova  il  soprammenlovalo  Sonetto  d' 
argomento  astrologico  (1). 


RECOLUZE- 

l\  Sig.  Libri  nella  sua  Hisloire  des  scicnces  mathématiqucs  en  Ila 
He,  parlando  di  Paolo  Dagomari  dice  (2);  «  Il  est  reste  de  lui  des 
«  livres  sur  V  Jbbaco  ,  où  1'  on  Irouve  pour  la  première  fois 
j>  l'emploi  de  la  virgule  destinée  à  partager  les  grands  nombres 
«  en  groupes  de  trois  chiffres  afin  d'  en  faciliter  la  lecture  ». 
In  una  nota  del  Sig.  Libri  a  questo  passo  della  sua  opera  so- 
praccitata si  legge  (3)  :  «  Le  manuscrit  88  de  la  classe  XI  de  la 
»    bibliothèque  Magliabechiana  de    Florence    (  manuscrit  qui  vieni 

II)  Nel  catalogo  pubblicalo  tlal  Dottore  Giovanni  Lami  de'CoJici  mano- 
scrilti  dell'LeR.  Biblioteca  Riccardiana  di  Firenze  il  Codice  di  questa  Bi- 
blioteca ora  contrassegnato  n.°  loSS  è  indicato  sotto  Aesopus  cosi  {Lami, 
Ctitalogus  Codicam  rnaiiascriptorum  qui  in  Bibliotheca  Riccardiana  Fio- 
rentiae  ndseryantur,  pag.g)  : 

„  Eaedem  Italice.  O.  Iin.  Codex  chartaceus  in  folio  num.  XXXXII.„ 

Qui  la  lettera  0  indica  la  Scanzia,  il  numero  IIII  il  PaZc/ie//o,  ed  il,  numero 

XXXXn.   il  numero  del  Codice  Riccardiano  ora  contrassegnato  n.     io88: 

Nella  prima  colonna  della  pagina    26  àeW Inventario  e  stima  della  Li- 

breria  Riccardi  si  legge  : 

„  1088  Esopo  volgarizzato.  Canzone  di  Franco  Sac- 
„  chetti.  Sonetti  di  Messer  Giov.  Boccacci  e  di 
„  altri  Autori  del  buon  Secolo.  Cod.  cart.  in 
„  fol.  Sec.  XV.    sul  princ.  „ 

(2)  Libri  ,  Hisloire  de»  sciences  malhématiqaes  en  Italie,  t.  II  , 
pag.  206. 

(3)  Libri,  Hisloire  des  sciences  mathéniatiques  en  ìlalie  ,  t.  II , 
206—207,  nota   (5)   della   pag.  206. 


m 

»  (le  la  bibliothèqiie  Caddi,  et  qui  portali  antrefois  le  n.»  149) 
»  contieni  Ics  «  Recholuzze  del  maestro  Pogliolo  astrolacho  .. 
»  qui  commencent  par  celle  règie:  «  Se  vuoi  rilevare  molte  fighu- 
»  re,  a  ogni  tre  farai  uno  punto  dalla  parte  ritta  inverso  la  man- 
»  ca,  eie.  »   (1). 

iNelIe  Addilions  au   second  volume  dell'opera  del  Sig.  Libri  inti- 
tolata Histoire   des  sciences  mathématiques  cn  Italie  depuis  la  re 
naissance  des  letlres  jusqu'à  la  fin  du  dix—septième  mède,  si  le?- 
ge  (2)  : 

a  Page  206,  note  (3).  -  Je  me  suis  laissé  entrainer  Irop  loin  par 
»  la  ressembiance  du  nom,  en  attribuant  à  Paul  Dagomari  les  rè- 
»  gles  del  maestro  Pagholo  :  car  j'ai  Irouvé  depuis  dans  Ghaligai 
,,  (Pratica  d'arithmetica,  t.  3)  (2),  que  la  règie  pour  rilevare  più 
»  figure  est  due  à  un  maestro  Paolo  da  Pisa,  que  je  ne  connais  que 
.    »  d'après  celle  cilalion  »  (3). 

Il)  Giovanni  Ja  Sacrobosco,  matematico  ed  astronomo  inglese,  raorlo  nel 
1244,0  nel  1256  (Histoire  Utléraire  de  la  France,  t.  XIX,  pag.  2)  in  un 
suo  Irallalo  d'aritmelica  dà  <juesta  medesima  regola  scrivendo:  Ilem  scien- 
dum  est  qaod  supra  quamlibel  fi§aram  loco  millenani  positam  campo- 
nenter  possunl  poni  quidam  punclu,  ad  denotandum  qaod  tot  miUenarios 
dehel  ultima  figura  representare,  ,/uot /uerunt  puncta  pertransila.  Sini- 
strorsum  auteni  scribimus  in  Ime  arte  more  Arahum  hujas  scienliae  in- 
veniorum  ,  vel  hac  ratione  ut  in  legenda,  consaetum  ordinem  observantes 
numerum  majorem  proponamus  (  Rara  mathematica  ;  or  a  collectioa  oj 
treatises  on  the  mathemalics  and  mbjects  conn^cted  with  ihem  ,  From 
ancient  inedited  Manuscripts.  Edited  by  James  Orchard  BaUiwell.  Eu,., 
F.  R.  S.,  F.  S.  A.,  &c.  h.c.  h.c.oJ  Jesus  College,  Cambridge.  The.  Se- 
cond Ediiiou.  London  Pablished  by  Samuel  Maynard,  8,  Earl's  Court 
Leicester  Square,  1S41,  in  8°,  pag.  5.  Joannis  de  Sacro  -  Busco  tracia', 
tus  de  arte  numerandi,  I). 

(2)  Libri,    Histoire  des  sciences  mathématiques   en    Halle,   t.   I[     n»K 
526.  '   '    °' 

(3)  Francesco  Ghalighai  maleraalico  Floientino  del  secolo  decimosesl» 
scrive  :  „  Domando  el  modo  di  rileuare  (juesle  12  figure,  o  quelle  ti  pare- 
„  Maestro  Paulo  da  Pisa  nel  rileuare  le  figure  da  questa  Regola  ,  in- 
„  comincia  a  mano  diritta  uerso  la  manca,  la  prima  dice  numero  ,  la  se- 
„  conda  decina  la  terza  centinaio,  e  fa  un  punto  a  ogni  3  figure,  la  quar- 
„  ta  dice  numero  di  migliaio,  la  quinta  decina  di  migliaio,  la  sesta  ceu- 
„  linaio  di  migliaio,  &  troua  el  punto,  la  settima  dice  numero  di  mi- 
„  bone,  l'ottava  decina  di  milione,  la  nona  centinaio  di  milione  ,  &  ri- 
„  iruoua  el  punto,  la  decima  dice  numero  di.  migliaio  di  milione,  l'unde- 
„  cima  decina  di  migliaio  di  milione,  la  duodecima  centinaio  di  migliaio 
„  di  mibone,  uedi  le  dette  figure  secondo  detto    ordine  dicono    785    mi- 


70 

>ìe.ll  I  Nola  XXX  del  Sig.  Libri  al  ter/o  (omo  d»^lla  sua  opera  so- 
praccitata si  legge  (1):        ''•'"-"I    ' 

(1  J'ai  cité  dans  le  secónd  vófiime  (p.  206  et  326)  les  Regotuze 
«  del  maestro  Paolo,  dont  parie  Ghaligai.  Dcpuis^  j'ai  fait  1' acqui- 
»  sition  d'un  manuscrit  d'jlbbaco,  compose  à  Florence  vers  le  mi- 
)>  lieu  du  quatorzième  siede,  et  j'y  ai  trouv<5  à  la  fin  ces  Règles 
I)  qiie  je  tn'empresse  de  publier  corame  Tun  des  plus  anciens  monu- 
»  mens  algébriques  de  la  langue  italienne.  Resterait  ensuile  à  di- 
))  scuter  la  question  de  savoir  si  c'est  un  Paul  de  Pise  (qu'  on  ne 
»  trouve  meritionné  que  dans  Ghaligai),  ou  Paul  Dagomari,  qui  est 
»  l'auteur  de  ces  Regoluze.  11  règne  beaucoup  d'incertitude  sur  les 
«  auleurs  appelés  Paolo  astrologo  ou  Paolo  delVabbaco,  et  il  est 
»  possible  qu'ìl  y  ea  ait  eu  plusieurs  qui  ont  porte  ce  nom.  Il  faut 
»  cependant  remarquer  que  ,  dans  un  manuscrit  du  quatorzième 
»  siècle  que  je  poss^dei  et  qui  commence  ainsi  :  o  In  questo  libro 
»  tratteremo  dì  più  maniere  di  Ragioni  adatte  a  trafficho  di  mer- 
»  chatantia  tratte  de  libri  d'  arismetricha  et  ridotte  in  volgare 
»  per  lo  excellenlè  huomo  maestro  Pagalo  de  Dagumari  da  Prato  », 
»  il  n'est  nullemenl  question  de  ces  Regoluze,  ce  qui  semble  confir 
))  mer  fassertion  de  Ghaligai.  Au  reste,  voici    cts  règles  ». 

Dopo  avere  riportato  queste  Begoluze,  il  Sig.  Libri  nella  sua  Nota 
XXX  sopraccitata  soggiunge  (2)  ; 

»  Le  manuscrit  d'oli  j'ai  tire  ces    Regoli^ze    est    anonyme;    mais. 

„  gliaia  di  milioni  864  milioni,  e  857  tnigliaia»  e  638.  Nola  (jueslo  or- 
„  Jine,  rileua  quante  figure  rhuomo  uuole.  ^SS.  864-  857-  658.  „. {Pra- 
tica (Taiilhmelica,  di  Francesco  Ghaligai  I  iorentino.  Rivinta  et  rislitm- 
pata  con  diligentia.  In  Firenze  M  D  XLp^III,  in  4)  caria  3,  recto, — 
Pratica  d'' arithmetica.Di  Francesco  Ghaligai  Fiorentino.  Nuouamente  Ri- 
uisla,  &  con  somma  Diligenza  Ristampala.  In  Firenze  appresso  i  Giunti 
M.D-  LiII.  in  4,  carta  3,  recto).  La  regola  di  maestro  Paulo  da  Pisa 
citata  dal  Ghaligai  in  questo  passo  della  sua  Pratica  d'aritmetica  èia  prima 
delle  Regoluze  di  maestro  Pagholo  astrolagho  ,  giacché  queste  Regoluze 
incominciano  cos'i  {Librij  Histoire  ttes  sciences  mathémaliques  en  Italie, 
l.  Ili,  pag.  396}: 

„  1.  Se  vuoigli  rileTare  molte  figure  e  cagni  tre  farsi  uno  punto  cbo- 
,,  minciando  dalla  parte  ritta  nverso  la  mancha  eppoi  dirai  tante  volte 
„  milgliaìa  quanti  sono  li  punii  dinanzi   „. 

(1)  Libri,  Histoire  des  sciences  mathématiques  en  Italie,  t.  Ili,  pag. 
295. 

{1)  Libri,  Histoire  des  sciences  mathémali(/ues  en  Italie,  t.  HI,  pag. 
3oi  ,  -    i-.n:-.'   I>  ..11. 


71 

»    (l'après  pliisieurà  iiulicalions   qu'il  l'ournit,    il    senible    avoir   èie 
»)  compose  vers  1340  ". 

Il  Sig.  Cesare  Guasti  nella   sua   Bibliografia  Pratese  scriy e  [i]  ■ 

»  b  Regoluze  del  maeslro  Pagholo  astrolagho.   » 

<<  Inserite  nella  nota  XXX,  tomo  terzo,  dell'  Histoire  des  sciencei 
>)  mathématiques  en  Italie  etc-  par  G.  Libri.  A  Paris  ,  Renouard , 
.)  1838,  in  8°.  Il  oh.  Libri  le  tolse  da  nn  manuscritto  di  Abbaco  compo- 
«1  sto  a  Firenze  verso  la  metà  del  sec.  XIV,  e  da  lui  posseduto.  Nella 
»  Magliahechiana  sono  queste  Recholuze  nel  Codice  SS  della  clas.  HI, 
»  che  fu  della  libreria  Caddi  col  n.  149  ;  e  nella  Riccardiana,  cod. 
»  2311  cartaceo  in  fogl.,  scritto  nel  sec.  XV;  non  conosciuto  dal  eh. 
»  Libri.  Il  Ghaligai  (Pratica  d'aritmetica)  le  vuoi  fattura  di  un  mae- 
■)•,  Siro  Paolo  da  Pisa:  e  l'opinione  di  esso  tiene  sospeso  il  Libri  ,  al 
»  quale  fece  senso  il  non  esser  parola  di  queste  Regole  nel  seguente 
))  manuscritto  (2).  Ma  il  testimone  di  tre  codici  mi  pare  sufficiente  a  far 
>)  credere  del  nostro  Paolo  quelle  poche  pagine,  che  sono  uno  dei  piiì 
»  antichi  monumenti  algebrici  della  lingua  italiana.  Le  lìcgoluzc  sono 
<>  cìnquantadue  in  tutti  i  codici   ». 

Le  Regoluze,  delle  quali  parla  qui   il  Sig.  Cesare  Guasti,  trovansj 

attribuite  a  maestro  Pagholo  astrolagho  in  ciascuno  de'  Codici  se 

gnonli. 

1.  e  R.  Biblioteca  Magliahechiana  di  Firenze   . 
Classe  XI.  n   85. 

Codice  cartaceo,  in  foglio,  della  fine  del  secolo  decimoquintp,  e 
di  168  carte.  Nel  redo  della  carta  oliava  numerata  1  di  questo  Co- 
dice si  legge  : 

(i)  Bibliografia  Pratese  compilala  per  un  da  Prato,  pag.  2,  articolo 
ABBACO  (dell')  Paolo. 

(2)  Qui  il  Sig.  Guasti  dicendo  „  seguente  manuscritto  „  intende  il  li- 
bro dipiìi  maniere  di  Ragioni  adatte  a  traffico  di  incrcataHlia  citato  dal 
Sig.  Lil)ri  (Vedi  sopra,  pag.  70,  lin.  i5 — 18),  e  dal  medesimo  Sig.  Guasti 
indicato  cosi  [Bibliografia  Pratese  compilata  per  un  da  Prato,  ).  e.) 

)i  c  Ragioni  adalte  a   traffico  di  inercatanzia  ec. 

„  Cod.  del  sec.  XIIl,  posseduto  dal  eh.  Libri  (V.  Histoire  des  scien- 
„  ces  etc.  tom.  troisieme,  note  %XX).  „  Incomincia:  „  In  questo  libro 
„  tratteremo  di  più  maniere  di  Ragioni  adatte  a  trafficbo  di  merchatantia 
,,  traile  de  libri  d  arisraetricha  et  ridotte  in  volgare  per  lo  exceliente  buomo 
,,  maestro  Pagolo  de  Dagumari  da  Prato,,  ,,.  Qui  per  errore  forse  di  stampa 
trovasi  Xin.  in  vece  di  XIV.  (Vedi  sopra  pag  .  SSg,  lin.   i3 — 18.) 


72 

»  Recholuzze  del  maestro  pagliolo  astrolacho 
»  l.Se   vuoli  rilevare  molte  fichnre  a  ogni  tre  eoe    a  ogni  3.   farai 
»  uno  punto  della  parte  ritta  inverso    la  mancha  e    poi  dirai 
»  tante  volte    migliaia  quanti    sono  li  punti  dinanzi  ». 

Nel  rovescio  della  carta  7   di   questo  Codice  si  legge  : 
»  37  Se  vuoli  multiprichare  uno  numero  sano  e  rotto  per  uno  altro 
»  sano  e  rotto  multipricha  ciaschnn  numero  sano  per  lo  deno- 
»   minante  del    suo     rotto     e    gugni   il  dinominato. 

»  38.  S 

Il  rimanente  delle  medesime  fìegoluze  manca    in    questo    Codice. 

1.  0  R.  Biblioteca  Riccaidiana  di   Firenze 
n.°  1169. 

Codice  cartaceo,  in  foglio,  del  secolo  decimoquinto,  e  di  97  carte 
numerate  (1).  Nel  recto  della  carta  71    dì  questo  Codice  si  legge  : 
»  REGVLAE  .  MAGISTRI .  PAVLI. 

»  j7    regoluze  di  m.^p."  ì> 

(i)  Nella  seconda  colonna  Jella  pagina  27  ileW Jrn>entrino  e  stima  del- 
ta libreria  Riccardi-  il  Codice  n°  1169  della  suddetta  Bihlioleca  Riccar- 
(tiana   è  indicalo  così  : 

„    1169  Leonardi  Pistoriensis   Maihenuitica.  Cod- 
„  cìiarlac.  in  fot.   Saec.  Xf^. 
Nel  recto  della  prima   carta  del  Codice   Riccardiano   n.°    1169  si    legge; 
Incipit  Matematica   Fratris  Leonardi  Pistor.   Ord.   Fra.    Predicatore 
Mathematica    acientia    (juatluor  partes     habet    videlicet    jiritmetricam 
geometriam  musicam  et  astrologiam  et  ideo  quadruvialis  scientia  nomina- 
tur  ijuia  istas  IIII.'"   scientias  sub  se   continet.   Aritmetrica  considerat  de 
numeris,  geometria  de    mensuris,  musica  de  sonorum  et  vocun  consonanti- 
is,  astrologia  de  caelestium  corporum    molibus  et   dispositionibas    de   qua- 
rum  unaquaque  aliorum  philosopliorum  praecedenlium   vestigia    subseculus 
hrevem  libellum  edidi  ad  utililatem  et  eruderationem  novorum  seu  rudiiim 
auditorum  sub  certis   et  determinalis    regulis    ut  leda    vel    audita   Jacilius 
capiantur.   Ut  (lutem  orda   procedendi  servetur  primo   de  arilhmelrica,  se  - 
eundo  de  geometria,  tertio  de  musica,,  quarto   de  astrologia  sub  compendio 
est  agendum. 

De  Arithmetrica 
In  Arithmetrica  igitur  ut  dictum  est  conipendiosum  et  utile  tractatum 
composui  continentem  tres  particulas  principales.  In  cuius  prima  parte 
agitur  de  arte  namerandi  quae  vulgato  nomine  dicitur  algorismus  a  quo- 
dam  philosapho  qui  hanc  seienliam  edidit  sic  vacato  quantum  ad  nume- 
ras  integros,  in  secando  parte  agitur  de  ipsa  arte  numerandi  quantum  ad 
numerosjractos,  in  tertia  aero  parte  agilur  de  conditionibus  tt  proprieta- 
iibus  et  proporlionibus  numerorum  secundum  tradilionem  Boelii  in  arith- 
metrica sua. 


Y3 

»  Se  uuopjli  rileiiare  molte  figure  a  ogni  tre  farai  vno  puncto  iii- 

QuinJi  è  chiaro    che  l'opera    di  Fra  Leonardo  da  Pistoia  intitolala  Ma- 
thematica fu  o  dovea  essere  composta  di  quattro  parti,  la  prima  delle   quali 
incomincia  nel  recto  dalla  prima  carta  nel  suddetto  Codice  Riccardiano  n. 
1169  (Vedi  sopra,  pag.   72,  liu.   35 — 4-^    )  ^  finisce  nel  rovescio  della  car- 
ta 20  di  questo  medesimo  codice,  giacché  in  questo  rovescio  si  legge  : 
Et  haec  ad  presens  de  numeris  arilhmetrice  dieta  sufficiant. 
Explicit  prima  pars  principalis. 
Incipit  secuTida  pars  principalis  Julius  operis  quae    appellatur  prati- 
ca geometriae. 

Geometrie  praticam  postulantihus  et  inexpertis  tradere  volens  non  quasi 
novum  opus  edidi,  sed  velerà  et  predecessorum  meorum  dieta  collegi. 
Il  rovescio  della  carta  3o  del  Codice  Riccardiano  n.     1169  fluisce  così: 
Licei  aatem  plura  depratica  geometriae  dici  potuissent   haec  tamen  ad 
presens  dieta  sufficiant. 

Explicit  secunda  pars  principalis   huius  operis  quae  est  de  pratica  geo- 
metriae, 

Sequitur  de  Musica. 
Il  recto  della  carta  3i   del  medesimo    codice  Riccardiano  n.°   1169  inco- 
mincia colle  parole  seguenii  : 
Incipit  tractatus  de  disposilione  sperae  et  orbis  compositas  ut  saprà. 
Le  prime  due  parti  dell'opera  di   Fra   Leonardo  da  Pistoia  intitolata  Ma- 
thematica trovansi    anche  manoscritte  in  un  Codice  dell'  I.  e  R.  Biblioteca 
Magliahechiana   di  Firenze   contrassegnato   Conventi  Soppressi  [S.   Marco 
N."  36o)    Scaffale  I.  Palchetto   V-  N.°  7. 

Nella  ptima  colonna  del  rovesciodella  carta   numerata  118    di  questo  Co- 
dice si  legge: 

Incipit  malliematica  fratris  leonardi  de  pistorio  ordinis  fratrum  pre- 
dicatorum. 

Prolo^us. 

Mathematica  scienlia  l^.  ''  partes  hnhet  videlicet  arismetricam  geome- 
triam  musicam  et  astrologìam  et  ideo  quadravialis  scientia  nominatur  quia 
IIIJ.°'  scientias  sub  se  continet.  Arismetriea  considerat  de  numeris,  geo- 
metria de  mensuris,  musica  de  sonorum  et  vocum  consonantiis.  Astrolo- 
gia de  celeslium  corporum  motibus  et  dispositionibus  de  quariim  una- 
queque  aliorum  phylophorum  (sic)  vestigia  subsecutus  brevem  libelliini  e- 
didi  ad  uiilitalem  et  eruditionem  novorum  seu  rudium  auditorum  sub  cer- 
tis  et  delerminatis  regulis  ut  leda  vel  audita  facilius  capiantur.  Ut  autem 
ardo  procedendi  serveiur  primo  de  arismetriea  ,  secando  de  geometria  , 
3.°  de  musica,  4-  de  astrologia  sub  conpendio  est  agendum. 
De  arismetriea. 
In  arismetriea  igitar  ut  dictum  est  conpendiosum  et  utilein  tractatum 
conposui  continentem  tres  particulas  principales  in  cuius  prima  parte  a- 
gitur  de  arte  numerandi  qui  vulgato  nomine  dicitur  algorismus  a  quodam 


74 

»  coiiiiDciaiulo  tlalla  mano  ilextra,  el  andando  vt'rso  la  sinistra,  et 
»    poi  dirai  tante   uolte  migliaia  ;    quanti   sono  gii  pnncti  dinanzi  ìi. 

pìàlosopho  qui  itane  scienliiim  edidil  aie  vacalo  quantain  ad  numeros  iii- 
tegros,in  secunda  parte  agitar  de  ipsa  arte  numerandi  (juantiun  ad  numeros 
fraclos.  In  lerlia  vero  parte  agitar  de  conditionihus  et  proprielalibus  et  pro- 
porlionibus  namerorum  secundam  Iraditionem  boelii  in  arismetrica  sua. 

Nella  prima  colonna  della  carta  numerala  129,  recto,  del  suddetto  Co- 
dice Magliabechiano  contrassegnalo  Conventi  Soppressi  {S.  Marco  N." 
36o)  ScaJ'fàte  I.  Palchetto  F.  N."  7.  si  legge.  ,j,  ll^^■)!^\ 

JUt  lice  ad  presens  de  numeris  arismetrice  dieta  su/ficiant,-  '  .. 
Explicil  prima  pars  scilicet  huius  operis  scilicet  de  arismetrica. 
Incipit  secunda  pars  huius  operis   c/ue  est  de  praclica  geometrie. 
Geometrie  praticam  postulantibus  et  inexperlis  tradere  volens  non  </Uasi 
novum  opus  edidi  sed  veterum  predecessorum  meorum  dieta    collegi. 

Questa  seconda  parte  finisce  nella  prima  colonna  della  carta    numerata 
i34i  recto,  del  medesimo  Codice, giacché  in  questa  prima  colonna  si  legge: 
Licei  aulem  plura  de  pratica  geometrie  dici  potuissent    hec  tamén    ad 
presens  dieta  su/ficiant. 

Explicit  secunda  pars  principalis  huius  operis  que  est  de   pratica   geo- 
metrie. Incipit  quedam  epistola  super  quemdam  modum  faciendi  sermones. 
Reverendo  patri  in  xpo    fratri    N.  fr.  T.  se  ipsum    ad  omnia  piacila 
preparatum. 

IIP.  Jacopo  Ecbard  in  un  articolo  intitolato  F.  LEONARDUS  DE 
PISTORIO  dell'  opera  intitolata  Scriplores  ordinis  Praedicatorum  re- 
censitile.. {  vedi  Tomo  CXXXI,  pag.  .\8,Y\n.^ — g),  scnye  {P P.  Quetif  et 
Bchard,  Scriplores  Ordinis  Praedicatorum  recensiti,  nolisque  historicis  et 
criticis  illustrati,  1. 1,  pag.  473,  col.  2): 

„  F.  Leonardus  de  Pistorio  Etruscus  a 
„  patria  sic  nuncupatus  a  Lusitano  ,  Pio ,  Fernan- 
„  dez,  Fontana,  denique  Allaniura  ad  1280  floruisse 
,,  dicitur  &  scripsisse 

„  Summam  theologiae  tomis  duobus  dislinclam.Seà 
„  uhi  servetur    non  ìndicant. 

„  In  indice  Bibl.  Florenl.  ad  S.  Marc,  inter  codd. 
„  MS  memi).  Arra.   III.  n.    107  sic   legeham  : 

„  Mathematica  F.  Leonardi  de  Pistorio  ord.  FF. 
„  Praed.  videlicet  tractatus  de  Arithmetica,  C^  de 
„  praclica  Geomelriae . 

„  Itemde  computo  Lunae  secundùm  doclores  Eccle- 
„  siae  liber  editus  a  F.  Leonardo  ord.  FF.  Praedic. 
„  An  hic  Leonardus  idem  sit  cum  eo  quem  lau- 
.,  dat  Lusilanus,  discutianl  genliles  curiosi,  &.  qua' 
,,  aetate  floruerit, quod  fatile  ex  ipsis  Iraclatibus  agnos- 
„  ctìnl,  &  Iiìc  addant.  „ 


In  questo  CoJicc  ti-ovaasi  le  cinquantadue  Regoluze  sopraimiien- 
lovate.  Esse  finiscono  nel  recto  Jella  caria  73  del  codice  medesimo 
così  : 

■,-,  Se  uuogli  sapere  qnali  sono  i  regolari  de  mesi  echogli  qni  . 
w  eL  uoglionsi   inparare  a  mente 

»  Marzo  .S.  Luglio  .1.  ^ouembre  .5. 

)'  Aprile  .1.  Agosto  .4.  Dicembre  .7. 

))  Maggio  .3.  Septebre  .7.  Giennaio  .3. 

»  Giugno   .fi  Oclobre  .2.  Feltraio    (i. 

ì.  c  K.  Biblioteca  Riccardiana  di  Firenze 

Codice  cartaceo,  in  foglio  del  secolo  decimoquinto  ,  e  di  99 
carte,  numerate  a  pagine  1  —  i98  (1)  A  pagine  143  di  questo  Co- 
dice si  legge  •• 

»  Regholuzze  di   maestro   pagholo  astrolagho 
»  Se  vuoli  rilevare  molte  fighure  a  ongni  tre  farai  un  punto  cho- 
»   minciando  dalla   parte  ritta  inverso  la   mancha,  e  poi  dirai  tante 
»    volte  migliaia  quanti  sono  li   punti   dinanzi  ». 

In  questo  Codice  trovansi  tutte  le  cinquantadue  Eegoluze  suddelle. 
Esse  finiscono  a  pagine  146   di  questo  Codice  così  : 

Il  Codice  qui  menzionalo  dal  P.  Iacopo  Echaiil  della  Bi])lioteca  del  Con- 
vento de'Domenicanl  di  S.  Marco  di  Firenze  è  quello  slesso  Codice  Ma- 
gliahechiano  clie  di  sopra  si  è  dello  (Pag.  75,  lin.  23 — 25)  essere  con- 
trassegnato Conventi  Soppressi  (S.  Marco  N°  36o)  ScaJ/cile  I.  Palchetto 
V.N."  7,  e  che  nel  1809  pel  sopraccitato  decreto  di  Eduardo  Dauchy  (Vedi 
Tomo  CXXXII,  pag.  68,  lin.  21 — aS,  5i — 34,  nota  (4)  ,  e  pag.  69,  lin. 
1  — 19,  28— 3i,  note  (1),  (2)  )  passò  dal  Concento  di  S.  Marco  alla  Ma- 
glialiecKiana. 

Il  sopraccitato  Codice  Magliabechiano  contrassegnato  Conventi  Soppres- 
si [S.  Marco  N.°  36o)  Scajf'ale  I.  Palchetto  V-  iV.°  7.  è  membranaceo, 
in  quarto,  e  del  secolo  decimoquarlo.  Questo  codice  ha  ora  244  carie  delle 
quali  le  prime  otto  e  le  ultime  due  non  sono  numerate  ,  e  le  altre  sono 
tulle  numerate  nel  recto  coi  numeri  1 — 166,  177 — 244-Semhra  per  tanto 
che  in  questo  Codice  manchino  dieci  carte,  le  quali  è  da  credere  che  fos- 
sero numerale  nel  redo  coi  numeri   167—176. 

(1)  Nella  prima  colonna  della  pagina  5i  dell'  Inventario  e  stima  della 
libreria  Riccardi  il  Codice  n.°  2611  dell'I,  e  R.  Biblioteca  Riccardiana  è 
indicalo   cosi  : 

„  25n.  Paolo  dell'Abbaco,  Ttallalo  di  Arimrae- 
„     lica.  Cod.  carlac.  fol.  Scc.  XV  „. 


76 

»  Se  viioli  sapere  ijiiasono  (sic)  iregliolari  tie  mesi  pcchogli  qui 
w  di  sotto  e  voglionsi  inparare  a  mente 

»  Marso  .o.  Luglio  .1.  Novenbre  .3. 

5?  Aprile  .1.  Aghosto  .4.  Dicienbre  .7. 

»  Maggio  .3.  Settenbre    .7.  Giennaio  .3 

»  Giiingnio  .i.         Ottobre  .2.  Febbraio  .6. 
\. 

EVIZIONE    DELLE    OPERE    DI  PAOLO    DELL' ABBACO 
FATTA    SECONDO    ALCUNI    AUTORI  IN    BASILEA    NEL    1332. 

Secondo  alcuni  scrittori  una  edizione  delle  opere  di  Paolo  dell' 
Abbaco  sarebbe  stata  fatta  ifi  Basilea  per  Giovanni  Hervagio  nel 
1332  con  alcune  annotazioni  di  Iacopo  Micillo. 

Domenico  Maria  Manni  nella  sua  Istoriadel  Decamerone scrive  (1)  : 
.<  Fece  sopra  essi  Libri  poscia  alcune  sue  Annotazioni  Iacopo 
»  Micillo,  e  si  veggiono  nell'impressione  di  Basilea  in  foglio  del 
»  1532.  fatta  per  Giovanni  Hervagio  :  lo  che  sia  detto  di  passag- 
»  gio,  e  in  grazia  della  opportunità,  che  ci  si  è  qui  presentata  ». 

Il  medesimo  Domenico  Maria  Manni  nelle  sue  Osservazioni  isto- 
riche  sopra  i  sigilli  antichi  de'  secoli  bassi  scrive  (2)  :  «  Lasciò 
))  che  tutti  i  suoi  Libri  di  Astrologia  si  mettessero  in  S.  Tri- 
>.  nita  in  una  cassa  serrata  a  due  serrami  ,  e  che  una  chiave  ne 
»  tenessero  i  Frati,  e  l'altra  i  suoi  eredi,  e  quivi  stessero  fin  tanto 
«  che  non  fosse  in  Firenze  qualche  Astrologo  bravo  Fiorentino 
<■<■  approvato  per  tale  almeno  per  quattro  Maestri,  e  quando  venisse 
»  il  caso,  che  ve  ne  fosse  uno  tale,  a  lui  lasciò,  che  fossero  dati,  e 
»  che  divenissero  suoi.  Bisogna  che  questo  grande  Astrologo  na- 
»  scesse,  perchè  al  dire  del  Negri  i  Libri  in  S.  Trinità  più  non  si 
»  trovano,  e  si  sa  altronde,  che  nel  1332.  se  ne  fece  una  impres- 
»  sione  per  Giovanni  Hervagio  di  Basilea  colle  Note  di  Iacopo  Mi- 
»  ci  Ilo  ». 

11  Conte  Giammaria  Mazzuchelli  parlando  di  alcune  disposizioni 
testamentarie  di  Paolo  dell'Abbaco  dice  (3):  "  Ordinò  pure  che  si 
»  facesse  un  Ospitale  fra  Monlebuoni  e  Firenze,  e  lasciò  che  tulli 
»  i  suoi  libri  d'Astrologia  si  mettessero  in  Santa  Trinità  in  una 
)>  cassa  ferrala  a  due  serrami,   e  che   una  chiave  ne   tenessero  qiie' 

(i)  Istoria  del  Decamerone  di  Giovanni  Boccaccio  scritta  da  Dome- 
nico Maria  Manni  Accademico  Fiorentino,  ^a^.  69.  Parie  I,  cap.  XXIL 

(2)  Osservazioni  istoriche  di  Domenico  Maria  Manni  Accademico 
Fiorentino  sopra  i  sigilli  antichi  de'secoli  bassi,   l.   XIV,  pag.  22   e   20. 

(5)  Gli  Scrittori  d' Italia,  voi.  1,  parte  I,  pag.  18,  articolo  ABBA.CQ 
(Paolo  (leirj. 


77 

»  Monaci,  e  l'altra  i  «uoi  eredi  ,  e  quivi  stessero  sin  tanto  che 
«  fosse  in  Firenze  qualche  bravo  Astrologo  Fiorentino  approvato 
»  per  tale  almeno  per  quattro  Maestri,  e  quando  questi  si  ritro' 
»  vasse,  lasciò  che  a  lui  fossero  dati,  e  che  divenissero  suoi.  Ora 
»  convien  credere  ohe  questo  grande  Astrologo  ,  come  osserva  il 
»  Sig.  Manni  {Sigilli,  loc.  cit.),  si  sia  ritrovato,  e  quindi  sia  stato 
»  eseguito  il  legato,  poiché  que'libri  in  Santa  Trinità  più  non  si 
»  trovano  (Negri,  Istor.  degli  Scrittori  Fiorentini,  pag.  444);  e  si 
»  sa  altronde  che  nel  1K32.  se  ne  fece  una  impressione  por  Gio- 
»  vanni  Hervagio  di  Basilea  colle  note  di  Jacopo  Micillo  in  fogl.  « 
Il  Sig.  Cesare  Guasti  nella  sua  Bibliografia  Pratese  cita  questa 
medesima  impressione  dicendo  (i)  : 

((  a  Opere.  Basilea,  Hervagio,  1532. 

»  Con  i  comenti  d'Iacopo  Micillo. —  Le  cito  sulla  fede  del  Manni 
»   (Stor.  del  Dee.)  e  del  Mazzuccheili   ». 

11  Cavaliere  Abate  Girolamo  Tiraboschi  parlando  di  Paolo  Dagomari 
dice  (2):  «  Il  Manni  e  il  C  Mazzuchelli  aggiungono,  che  alcune  opere 
»  di  Paolo  sono  state  stampate  in  Basilea  Tanno  1332.  Ma  a  me  non 
»  è  riusciuto  di  trovare  alcun  altro  Scrittore,  che  di  tale  stampa 
«  faccia  menzione   ». 

Né  anche  a  me  è   riuscito  di  veder  mai  questa  edizione. 

§.  II. 

OPERE  INEDITE. 

Nel  recto  della  carta  159  di  un  Codice  dell'I,  e  R.  Biblioteca  Ma- 
gliabechiana  di  Firenze,  contrassegnato  Classe  XI,  n.°  121,  si  legge: 

»  Questa  è  una  opera  ordinata  e  conposta  per  lo  maestro  paolo 
»  dellabacOj  il  quale  fu  uno  grandissimo  maestro  di  giometria,  le- 
»  vato  e  copiato  da  uno  suo  libro  fatto  nel  1339.  e  parla  del  corso 
»  de  pianeti  e  delle  loro  case,  e  prima  comincia  coft'amenle  la  regola 
»  della  luna  secondo  e  marinai,  eppoi  entra  sottilmente  con  le  sue 
»   ragioni  per  forma  che  egli  dimostra  sua  virtù,  e  comincia  così. 

»  Qui  adpresso  mostrerremo  siccome  si  rinuova  la  luna  secondo 
»  lo  verace  movimento  che  fu  latto  in  gierusalem,  ma    primamente 

(i)  Bibligrafia  Pratese  compilala  per  un  da  Prato,  1.   e. 

(2)  Storia  della  letteratura  Italiana,  seconda  edizione  Modenese  t.V, 
parie  prima,  pag.  222,  libro  II  ,  cap.  II  ,  paragrafo  XXIV  ,  edizione  di 
Milano  de'Classici  Italiani,  t.  V,  parie  prima,  pag.  SaS,  libro  li,  capo  li, 
paragrafo  XXIV. 


78 

»  moslrerrerao  siccom'  ella  si  trnova  secondo  lo  corso  de  marinai 
r>  la  quale  è  grossa  materia  che  non  dicono  se  non  solamente  lo 
»  di  ch'ell'è  nuova  cominciando  così  nel  J339.  correva  lo  nasci- 
»  mento  20.  alcuno  dice  patta,  non  é  vero^  ma  chiamasi  nascimen- 
»  to  della  luna.  Se  noi  non  sapessimo  perchè  nel  1339.  corre  20. 
»  dirai:  parti  gli  anni  domini  per  10.  vienne  70.  e  riman  9.  sopra 
»  al  qual  9.  agiugni  l.fa  10.  mulliplicha  per  11.  fa  HO.  partilo  per 
»  30.  resta  20.  come  dicemo  ». 

Quest'opera  di  Paolo  dell'Abbaco  finisce  nel  recto  della  carta  164 
del  suddetto  Codice  Magliabechiano  Classe  XI,  n."  121  così  : 

«  Se  volemo  sapere  ogni  ora  del  giorno  quale  segnale  è  nel 
»  mezzo  del  cielo  fa  cosi,  dovemo  sapere  che  lutto  tempo  6.  se- 
»  gnali  sono  sopra  la  terra  e  6.  sotto  la  terra.  Verbi  gratia  po- 
))  gniamo  che  Aries  sia  tutto  montato  sopr'alla  terra,  cioè  sopra 
»  l'orizonte  d'  oriente,  dunque  due  segnali,  cioè  dinanzi  ad  se  , 
»  cioè  pescie  e  aquario.  Sicché  aquario  all'  ora  eh'  ariete  è  tutto 
»  montato,  e  aquario  comincia  a  montare  in  mezzo  del  cielo^  e  di- 
»  mora  2.  ore  intere  ,  ma  la  sua  fortezza  è  solamente  una  ora  , 
»  mezza  ora  della  parte  di  capricornio,  e  mezza  d'aquario,  che  in 
»  quella  ora  non  discende  da  nulla  parte  ,  siccome  reggiamo  per 
»  questa  ruota  figurata  per  ordine  dimostrativo  a  più  intelligenlia 
«  d'ogni  persona  ». 

Segue  nel  medesimo  redo  la  figura  di  questa  ruota. 

Il  Codice  Magliabechiano  contrassegnato  Classe  XI.  n.°  121  (già 
Slrozziano  n."  M27)  è  in  parte  cartaceo,  in  parte  membranaceo, 
di  330.  carte,  e  formato  di  varie  miscellanee,  in  foglio  in  quarto, 
ed  anche  in  sesto  bislungo,  legate  a  vacchetta  del  secolo  decimo- 
quarto, decimoquinto  e  decimosesto.  Le  ventisette  carte  di  questo 
codice  numerate  133 — 182  sono  cartacee,  in  foglio,  e  del  secolo  de- 
cimoquarto o  decimoquinto. 

A  carte  98  recto  e  verso,  99  recto  e  verso  ,  e  100  recto  di  un 
Codice  della  1.  e  R.  Biblioteca  Palatina  di  Firenze  contrassegnato 
B.  8.  5.  22.  {f".  n  °  620)  si  legge  : 

:j.i«  m>)  Incipit  operano  cilindri  denouo  composita  a magistro  paolo. 
»  Jnno  xpi  1363. 

»  Nel  celindro  sono  discripte  •4  linee  rette  continentj  14  spazj 
»  li  due  dellj  quali  spazj  luno  lascala  et  laltro  linbo  chiamiano  , 
V  cholaquale  scala  laltezza  di  ciatichuna  cosa  misuriamo,  et  colin- 
»  bo  lallitudine  del  sole  coglieremo.  Maglialtri  12.  spazj  chon- 
»  tenghono  6  mesi,  siche  ogni  spazio  mezzo  mese  contiene^  et  cho- 
»  minciasi  li  mesi  a  mezo  dicienbre,  et  finiscliono  a  mèzo  giugno 
»  verso  laparte  destra  ,  et  di  quindi    per   conuersioae  ritornano 


79 

u  glialtrj  6  mesi  verso  sinistra  al  raezo:  ai  tnezo  dicienbre,  edail- 
»  mezo  dicienbre  nelJa  linea  destra  della  ischala,  et  il  mezo  giugno 
»  ene  la  linea  sinistra  delinbo  anche  ui  sono  6  linee  tortuose  pe- 
«  lo  trauerso  le  qvali  inchiudono  le  .6.  ore  artifìcialj  del  di  chesono 
»  della  matina  a  nona  conuersione  da  nona  a  sera,  elljdetti  6  spa- 
»  zi  uanno  ristignendo  e  scianpiando  sechondo  il  crescimento  ello- 
»  sciemamento  del  di,  ella  terza  linea  di  quelle,  lora  diterza  eddi- 
)>  uespro  dimostra,  ella  sesta  di  quelle  lora  dimezzo  di,  overo  di- 
»  nona  ane  adimostrare.  Anche  vi  sono  cinque  circhiili  della  par- 
»  te  di  sotto,  li  qualj  inchiudono  4.  spazj  nelii  quali  sono  chonpar- 
»  titi  et  schrittì  li  nomi  delli  dodici  mesi  dellanno,  et  dodici  sengni 
»  del  cielo  ;  è  ivi  il  foro  del  ohoperchio  chessi  adatta  alli  mesi, 
»  euui  il  beccho  chessitua  chol  foro  adatta  chol  quale  lonbra  sicho- 
»  glie.  E  euui  vno  nodello  nella  chordella  tanto  di  lungi  dal  foro 
»  quanto  ene  di  lungi  la  somila  del  beccho  al  cientro  del  cilindro. 

»  Quando  voraj  chonoscere  lora  artificiale  del  dì  ,  adatta  il  foro 
»  al  mese,  et  alla  parte  del  mese  compartendo  lo  spazio  per  15  dì  il 
»  meglio  che  poi,  come  detto  ene,  e  poj  accocha  il  beccho  al  foro, 
1)  e  sarà  situato  il  cilindro ,  il  quale  al  sole  luciente  teraj  sospeso 
»  volgiendo  il  beccho  uerso  il  sole.  Sicché  lonbra  che  farà  il  detto 
»  beccho  chaggia  perpendichulara  per  qvella  linea  alla  quale  ad- 
»  datasti  il  foro,  o  per  la  circhonferenza,  et  la  detta  ombra  ti  mo- 
»  strerà  lora  artificiali  passate  del  di  se  sarà  inanzi  Nona.  Ma  se  sarà 
»  dopo  Nona  ti  mostrerà  qvante  ore  Rimaghono  (sic)  insino  al  tra- 
»  montare  del  sole. 

»  Qvando  uoraj  sapere  quante  bore  Naliirali  e  ciaschuno  di 
»  qualunqve  mese  ghuala  in  su  la  la  linea  del  prencipio  di  qvello 
»  mese,  e  del  mazzo,  e  de  la  fine,  eiui  prencipiamente  vedraj  no- 
»  tato  lora  e  liminuti  del  detto  principio  a  mezzo  del  mese,  le 
«  quali  bore,  e  minuti  auraj  poi  a  compartire  alli  dì  del  mese,  ol- 
»  tre  al  prencipio,  o  a  mezo  il  mese. 

»  Quando  uorraj  ridusciere  lora  artificiali  nelore  naturali  , 
»  multipricha  lore  artificiali  che  uuoli  riduscere  nelore  naturali 
»  di  qvello  di,  diuidi  per  12.  Ma  il  contrario  faresti  quando  uoraj 
))  ridusciere   le  naturali  nelle  artificiali. 

)i  Quando  uoraj  conosciere  laltezza  del  sole  ìu  qualunque  bora  di 
M  qualunque  dì,  adatteraj  il  foro  col  beccho  alimbo,  e  poi  tenendo 
»  il  cilindro  al  sole,  come  nel  sechondo  capittolo  ti  dissi,  nonte- 
»  raj  lonbra  quanti  spazj  delinbo  piglia,  econpitando  ongni  spa- 
li zio  per  .5.  gradi  araj   qvello  che  adomandj.  Et  sappi  chella  mag- 


80 

3 
»  giore  aUitudine  del  sole,  el  (sic)  in  firenze  .69.  gradi,  et.  ~  ,  e  la 

3 
»  minore    22  —   ,  e  cosi  troiieraj  Notallo  Nel  cilindro. 

»  Quando  li  piaciera  misurare  la  torre,  ouero  albero  col  cilin- 
»  dro  achoncio,  ouero  adatato  il  foro  albeccho  alla  Scala,  conside- 
»  ra  in  qualunque  ora  del  di  luciente  il  sole,  quanti  punti  piglia 
«  lonbra  nella  ischala  et  similmente  in  qvella  medesima  bora  chon- 
»  sidera  e  segna  doue  viene  interra  lastremita  dellonbra  della 
11  torre,  Siche  possi  misurare  la  sua  lungheza,  o  a  braccia,  o  a 
»  passi,  oappiedi,  et  colonbra  nel  cilindro  piglia  a  punto  12.  punti, 
»  ouero  ispazj.  Sappi  che  tante  braccia  quanto  sarà  lonbra  della 
»  torre,  tanto  sarà  alta  la  torre.  Ma  colli  detti  punti  e  partiraj  12, 
))  e  avraj  laltezza  della  torre,  maselli  puntj  aonbrati  nel  cilindro  .sa- 
li rano  più  di.  12.  ,  e  parti  intanto  quanti  sono  li  punti  aonbrati 
»  meno  di  24.  e  araj  lalteza  della  torre,  odaltra   chosa. 

»  Qvaudo  uoraj  sapere  quanto  chorre  lapatta  o  in  qualun- 
»  que  anno  parti  gli  anni  di  Xpo  conuno  agiunto  in  19.  elio  r  i- 
»  manente  per  2.  multipricha,  el  prodotto  partito  per  30.  lo  rima- 
»  nente  sarà  qvello  che    adomandi. 

»  Qvando  letade  della  luna  uoraj  sapere  quanti  di  ella  ae,  agiu- 
«  gni  il  numero  delli  mesi  che  sono  da  marzo  insino  al  mese  che 
»  adomandj  chol  di  delmese,  e  cholla  patta  et  sotrane  30.se  puoi,  sic- 
»  che  meno  che  30.  no  rimangha,   euerraj  letade  della  luna. 

»  Quando  voraj  sapere  in  qualsegnale  del  cielo  sia  il  sole,  Ri- 
»  chordati  che  a  mezo  marzo  entra  il  sole  innariete,  e  cholordine  di 
»  12.  segni  alli  loro  nomi  stanno,  e  sono  questi  aris.  taur.  giemini. 
»  Ciancier.  leo.  virglio.  libra,  scarpio.  Sagictarium.  Caprichornius. 
»  aquarivm,  e  piscies,  e  poi  di  mezo  in  mezo  mese  entra  il  sole  ne 
»  seguenti  segni.  ^  nomati  et  sesarj  infral  me  alquanti  di  chom- 
»  partirai  li  di   al  segno  faciendo  il  segno  30.  gradi. 

«   Qvando  voraj   sapere  in  qual  segno  del  cielo  sia  la  luna,  mul- 

l 
»  tipricha  i  dì  della  sua  etade  in  13  — '    et   agiugneli  alli  gradi  del 

6 

»  segno  in  che  era  il  sole  il  dì   chella  luna  nuoua   e  della   multitu- 

»   dine  di   questi   gradi  i'araj  segni  per  30.  gradi  il  segno,  e  questi 

))  segni   stenderai     sopra  al   segno   inchetra  il  sole    nella    rinoua- 

»  zione  della  luna,  et  oltre   a    qvello   gli  gradi  auanzali. 

i>  Quando  uoraj  conosciere  lora  notte  pella  luciente  luna,  ritruo- 

»  uà  prima  in  quale  segno  ene  laluna    per   lo   capìtolo ,  e  quante 

»  bore  naturali  sono  bore  di  quello  segno  polo  .30.  capitolo,  et  pj 

»  (sic)  considera  allo  lume  della  luna  quante  bore  piglia  ioubra  nei 


81 

■»  ciliri<lro   ponendo',    onero   adtlattanilo   il    loro    alme   (sic)   in    che 

»  ene  il  sole  quando  ene  nel  segno   in  che  trouasli  la   luna  sichome 

»  nel  sechondo  capilol     dotrina    auesti.  E  quelle    hore   arlilìciali 

«  che  piglia    lonbra  disila  luna  nel  cilindro   riducierai  in    hore    na- 

«  turali  pello  quarlro  (sic)   chapilolo,  e  serba,  poi  righuarda  quanti 

>  segni,  e   gradi  sono  intrai  sole  e  la  luna,  e   da  ogni  segno  2  hore, 

11  .  1 

»  e  a  ogni  grado  — ^   dora  ,   e  di   queste    hore    Iraj  loro    che   ser- 

'"'  ^^  '^^  . 

»  basti   se  la    luna   fue    in     plagha    orientallj    (sic)  ,  ma    se  fue   in 

»    palga  (sic)  occidentali  agugni  queste  a  quelle  che    serbasti,  e  ara] 

»  quanto    quella    hora    che    adomandi,   e  nel    dopo'l  mezo  di  quel- 

»  io    di    solraj  adunque   di  queste  hore  della    meta    di  quelli  pro- 

»  pio  di,  e  ara]  quanto  ladomandata   ora   sarà  dopo    il    traraotare 

»  del   soie  suiicienle    a   ogni  materiale  persona. 

»  Quando  laltezza  della  torre  oddaltra  cViosa  per  lo  cilindro  san- 
»  za  sole  uorraj  sapere,  tieni  il  beccho  del  cilindro  verso  te,  e  farai 
"  tanto  distante  alla  .torre  chello  isghuardo  tuo  pella  somita  della 
»  torre,  e  di  quindi  misura  la  distanza  delli  tuoj  piedi  della  lor- 
"  re,  e  a  quella  agiugni  la  distanziatilo  atterra,  e  tanto  sarà  alta  la 
w   torre. 

»  esplicit  opératio  cilindri  per  magislri  (sic)  pauli  composita  die 
»   ^^  iuiium.  1365.  deo  gratias.  amen  seri  lo  per  me  giouanni  bar  Ioli. 

11  giovanili  bartoli  qui  menzionato  è  certamente  il  maestro  Gio- 
vanni deW Abbaco  del  quale  si  è  parlato  di  sopra  (1)  giacché  questo 
maestro  Giovanni  delV Abbaco  fu  figliuolo  di  un  muratore  che' ave- 
va nome  Bartolo  (2). 

Il  Codice  dell'  I.  e  R.  Biblioteca  Palali lia  di  Firenze  ora  con- 
trassegnalo E.  8.  5.  22  (Y.  n.°  620)  è  cartaceo  in  quafitOj  d^l  !»e- 
oolo  decimoquiuto,  e  di    100  carte..  ;  ,l      ,. 

!n  un  Codice  della  Biblioteca  .fli.S.. Pantaleo  di  Boma  contrasse- 
gnalo n.o  301,  cartaceo.,  nel  ree <o  .deJla  gprjla- 18^5  niin^erata  184, 
^'■''^gge  :  .  ,  ^f,    ,,,.„,,,    ,,    ,lj.,„.„.,v,:,i    )-,< 

«  Questi  sono  gli  sc.iemi  del  60  fatti  per  maestro  pag}}plo  da  firenze 
14  Volsi  prima  uedere  quanti  ponti  sia  lo 
37  isciemo  ponianu  adunque  cheldiamit,ro 
8  di  tutta  Labotte  sia  89  punti.  eilasat;(.ta 
43  delloisciemo  sìa  8  punti  vuoisene  trar- 
24     re      Laqiiarla     parte     cheresta    6    ,     e,que- 

(i)  VciliTorao  CXXXII,  pag.  i8,  liii.   17 — 28,  pag.  i^-r-aji,  pag.  25,^lin. 

I 18.  :       M         ,,.        ,        r     ,|     ,( 

{•2.)  Vedi  Tomo  CXXXII,   png.  19,  liii.  7   -29,  pag    20 — 24,  pag.  25,  liii. 
i — -8. 

(..A.T.CXXXIII.  6 


\ 

0 

2 

0 

3 

1 

4 

l 

3 

2 

82 

„     6         3  7     sto  6  nioltipricha  per  6v.    che    fa  360,    que- 

„     7  3  53     sto  360  siuole   dinidere  f  or  la  alteza  deponti 

„     g         4         46     di  tutta  Labotte,  cioè  per  89  che   iltliaiuitro 

9         5         38     cheneuiene  4    —  ,      equesto     4  ->      guarda 

„  ^0         6         35     inquesla  tauola  fj ,    cioè    a  4  ,  inpero     che 

„  Il  7  33     rolli  nonsiqurono    mollo    etrouarrai  incon- 

»   12  8  33  43  .        .  , 

Irò    a    .4  .1.  —         settiuenisse       solamente 
«   13         »         35  60 

»   l'i       ^0         38  4.3  .  .     ^3      •  r      .  2 

4.  1.  —  per  che  qgesto  —  pui.dire  1—    Mol- 
»  15       11         44  60^  '  60^  3 

»   16       12         31     tipricha  per  leistaia  cheliene  Labotte   eque- 

»   17       13         59     Ilo  che  fa  parli  per  60,  eUnllo  è  lo  isoiemo 

»  18       15  8     chetucierchi    disapere  ,     maperche     tiuiene 

»   19       16  19  2  ,       ,     ,f  •     •     i      , 

4  —  ,      cuacda     Ladilerenzia  incuonlro     a 
»  20       17         31  17'      ^ 

»  21       18         43     numeri     cherispondono    intral.     4.    el.     3. 

«  22       19         57       ,  '»!   .,        ,       o    ,.   .  ,. 

chesooo    —    Il  quale  n.    diuidi  per  2  settani, 
«  23       21  IO  60      ^  ' 

»  24       22  23     che    viene  quasi    12.    ma  perche    4  Rispon- 

43  ^^ 

»  26       24         56     deua       —      rasiuffni    12,   chesaranno     1  — 

60         '^  ^  ^         '  60 

«  27  26  ni  quagli  siuogliono  molt'prichare  perle  islaia 

»  2S  27  28     che  tieue  Labolle,  e    poi  quello    che  fanno 

»  29  28  44     siuole      partire    per    60,     chearai  Losciemo 

»  30  30  0     che  domandj.  » 

Il  suddetto  codice  n."  501.  della  Biblioteca  di  S.  Pantaleo  è  cartaceo, 
in  quarto,  dei  secolo  decimoquinto,  e  di  193  carte,  delle  quali  le 
prime  cinque  non  sono  numerate,  e  le  altre  sono  numerate  nel  recto 
così:   10—139,    163—166  ,   169—203. 

Nel  rovescio  delia  carta  277  di  un  Codice  della  Biblioteca  Pub- 
blica Comunale  di  Siena  contrassegnalo  C-  III-  23  ,  cioè  Scaffale 
C,  Gradino  HI .,  n."  23,  si  legge: 

«  Qui  a  presso  sarà  scrilta  la  tavola  e  la  regola  da  cogliere  li  sce- 
*  mi  per  la  Regola  del  60  fatta  per  Maestro  Pavolo  da  Firenze. 

»  Lo  scemo  si  piglia  per  questa  tavola  scritta  qui  dietro  con  que- 
»  sta  Regola.  Poniamo  che  la  botte  sia  alta  per  lo  suo  diametro  72. 
»  ponti,  e  lo  scemo  sia  24.  ponti  trattone  la  diferentia.  Per  tanto 
»  pigliaremo  e  d.»  ponti  de  lo  scemo  netti  de  la  diferentia,  e  di- 
»  remo  24,  via  60  fa  1440  ,  e  questo  parte  per  lo  diametro  de  la 
»  botte,  cioè  per  72.  che  ne  viene  20.,  mira  la  tavola  chelli  da  20., 


83 

31 
»   ohe  vedi  li  ila   17  —   .  Ora  questo  monliplica  co  la  (eniila    de  la 

31  18 

»  botte  che  poniamo  Icnffa  staia     18,  e  di   18  via    17  —^    fa  31 5  ~ 
•^  60  60' 

»  e  questo  parte  per  60  che  ne  viene,  puoi  dire:  slaja  3.  qiiartucci 

1 

»   16.  e  tanto  è  scemo  la  botte;  cioè  staja  S—    ,e  de  fatta;  e  questa 

»   è  la  Regola  del  60.    » 

Il  suddetto  Codice  C  ///•  23.  della  Biblioteca  Pubblica  Comu- 
nale di  Siena  è  cartaceo  in  foglio  ,  di  286  carte  ,  e  della  (ine  del 
secolo  decimosetlimo,  o  del  principio  del  secolo  decimottavo  (1). 

Nel  numero  107  (Novembre  1829)  della  raccolta  intitolata  T  anto- 
logia, trovasi  UD  articolo  intitolato  Adunanza  Solenne  dell'Acca- 
demia DELLA  Crusca  (2).  In  questo  Articolo  si  le{][ge  (3)  :  <■'■  Di  un 
»  trattato  aritmetico  del  secolo  XIV  opera  di  Paolo  Dragomari  (sic) 
»  soprannominato  Paolo  geometra  ,  o  dell'  abbaco  prese  a  par- 
»  lare  T  accademico  Gelli.  Die  in  prima  notizie  pertinenti  alla 
M  vita,  e  sulle  traccio  del  P.  Ximenes  mostrò  che  il  geometra  ,  e 
»  il  (lell'al>baco  non  sono  due  diversi  personaggi,  come  per  alcuno 
"  fu  creduto,  ma  un  solo,  e  medesimo  autore.  Hiportando  poi  il 
»  sommario  posto  a  capo  del   trattato  in   un  Codice  riccardiano  (è 

(1)  Nel  catalogo  ilella  Biblioteca  Pubblica  Comunale  di  Siena  pubbli- 
cato dal  Sig.  Lorenzo  Ilari  si  legge  {La  Biblioteca  Pubblica  di  Siena  di- 
sposta secondo  le   materie   da  Lorenzo  Ilari,    t.  Ili,  pag.   6,   col.    l  ) 

„   *  AGAZZARI,  alias  Misser  TOMMASO   de  la  Gazzaja,   Tral- 
„   lato  di  aritmetica,  algebra   e  geometria  ,   ove  si    trova- 
„  no  notati  i  pesi  e  misure,  come    pure     le   monete     di 
„   varie    piazze    del    mondo  ,  ed    i  loro   ragguagli  ,    opera 
„  del    iSoo.MS.  Copia  del  prlnc.del  XVIII. o  delfine  del 
„  XVII.  Sec.  V.  a  fog.  i56  il  Cod..—  CHI.  23.  —  „ 
Il  Sig.  Dottore  Gaetano  Milaoesi  Vice  Bibliotecario  della    Biblioteca  Pub- 
blica   Comunale  di  Siena  si   è  compiaciuto  di  scrivermi   che  la  sopraccitata 
carta  277  del  Codice  C-  III.  23   della   Biblioteca  medesima  è    della  stessa 
scrittura    di   tutto    il  rimanente  di  questo  Codice.    Quindi    è  da  credere  che 
tutto  il  suddetto  Codice  C-  III-  23  sia  della  line  del  secolo  decimosellirao, 
o  del  principio  del  secolo  decimottavo. 

(2)  Antologia.  Firenze  al  Gubinello  scientifico  e  letterario  di  G.P.f^i- 
eusseux  Direttore  e  Editore.  Tipografia  di  Luigi  Pezzati  1821  — 1 833, 
46  tomi,  in  8,"  <o/«o    XXXf^I.  .'■'oveinbre   1829,  N."    107,   pag.    176-189. 

(3)  Antologia,  tomo  trigesiinoseilo.  Novembre  1829,  pag.  178.  Il  Sig. 
Cesare  Guasti  nell'Autunno  del  i853  si  compiacque  di  mostrarmi  alcune 
giunte  inedite  da  lui  fatte  alla  sua  Bibliografia  Pratese  nelle  quali  è  ri- 
portalo questo  passo  &M Antologia. 


84. 

»  conoscere  tulio  il  procecliiiieiito  dellopera,  e  i  progressi  che  fin 
))  da  quel  tempo  si  eran  fatti  nell'aritmetica,  e  chiuse  con  ragionare 
ì>  della  pura  lingua,  in  che  è  scritta,  e  de'vantaggi,  che  da  essa  può 
«  trarne  il  dizionario.  »  L'  accademico  Gelli  qui  menzionato  è  il 
Sig.  Abate  Don  Tommaso  Gelli,  Bibliotecario  della  I.  e  R.  Biblioteca 
Magliabechiana  di  Firenze,  ed  Accademico  Residente  della  1.  e  R. 
Accademia  della  Crusca. 

L'Articolo  che  di  sopra  ho  detto  (1)  trovarsi  nell'  Antologia  è 
un  ragguaglio  di  una  Adunanza  solenne  dell'  I.  e  R.  Accademia 
della  Crusca.  Quest'Adunanza  nella  quale  il  Sig.  Abate  Don  Tom- 
maso Gelli  lesse  il  ragionamento  menzionato  nel  soprarrecato  pas- 
so di  quest'articolo  fu  tenuta  ai  9  di  Settembre  del  1829,  come 
apparisce  da  una  nota  all'Articolo  medesimo,  nella  quale  si  legge  (2). 
»  Essa  ebbe  luogo  il  dì  9  settembre  ». 

Nell'opera  del  celebre  Egidio  Menagio  intitolata  Le  origini  della 
lingua  italiana  si  legge  (3): 

(.  BIGLIOINE.  Osservazione  del  Sr.  Redi  :  Io  ò  sempre  creduto  , 
«  che  questa  voce  sia  nuovamente  venuta  di  Spagna  in  Toscana,  e 
»  che  sia  veramente  Spagnaola.  Vedi'l  Covarruvia  alle  voci  villon, 
»  velloeino.  E  pure  ell'i^  nostra  antichissima.  Paolo  Geometra,  libro 
»  d'Abbaco,  MS.  appresso  di  me  (del  quale  Scrittore  Fiorentino  , 
»  fa  menzione  il  Boccaccio:)  Noi  avemo  di  4.  maniere  d'  argento  , 
»  e  biglione  basso.  E  appresso;  in  più  luoghi.  Ed  avemo  .48.  mar- 
■,-,  chi  di  biglione  basso,  loquale  à  194.  di  lega.  Tanto  il  Sr.  Redi  ». 

Lo  scrittore  qui  chiamato  il  Sr.  Bedi  è  il  celebre  Francesco  Redi, 
nato  in  Arezzo  ai  18  di  Febbraio  del  1626  (4),  e  morto  in  Pisa  il 
dì  primo  di  Marzo  del   1698  (5). 

(i)  Vedi  sopra,  pag.   83,  Un.  9 — 12. 

(2)  Antologia,  t.  XXXVI,  Novembre   1829,  pag.   176,  noia  (i). 

(3)  Le  orìgini  della  lingua  Italiana  compilate  dal  S.'"  Egidio  Mena- 
gio,  Gentiluomo  Francese.  Colla  Giunta  de'' Modi  di  dire  Italiani,  raccol- 
ti, e  dichiarati  dal  medesimo.  In  Geneva,  Appresso  Giovani  (sic)  An- 
tonio ChouEl  M.  DC.    LXXXF.  in   fogl.,  pag.  110,  col.  1. 

(4)  Monsignor  Angelo  Fahroni  nella  vita  di  Francesco  Redi  che  fa  parte 
della  sua  opera  intitolata  Vitae  ilalorum  doctrina  excellentiam  qui  sae- 
culis  XVII.  el  XVIII.  Jloraerunt  scrive  [Vitae  Italorum  doctrina  e- 
xcellentìam  qui  saeculis  XVII. et  XVIIIJloruerunt.  duclore  Angelo  Fa- 
bronio  Academiae  Pisanae  curatore.  Pisis  1778 — 1799  (volumi  I — XVIII), 
Xucne  1804 — i8o5,Typis  Dominici Marescandoli,  Praeaidìbus  adnuenlibus 
(volumi  XIX — XX),  20  volumi,  in  8  ,  voi.  Ili,  pag.  2j8)  ■  Nalus  ille 
(Franciscus  Redius)  Arelii  anno  il/DCX.Y^/.  XII. Kal.  Martii  nobi- 
lissima    Etrarìae    urbe. 

(5)  Monsignor  Angelo  Fabroni  nella   sopraccitata  vita  di  Francesco  Redi 


8r, 

Il  Sig.  Libri  nelle  Addizioni  al  secondo  lomo  della  sua  opera 
ìnlitolatai  Histoire  des  scienccs  malhématiques  en  Italie  ec.  scrive  (1): 

»  Après  avoir  écrit  cette  note,  j'ai  pu  me  procurer  un  ouvrage 
»  manuscrit  de  Paul  Dagomari  (*)  qui  est  un  traile  d'  arithméli- 
«  que  et  d'algebre,  avec  un  peu  de  geometrie,  il  m'esl  impossible 
»  d'en  donner  ici  une  analyse  détaillée:  je  me  bornerai  à  dire  qu'il 
»  est  aussi  écrit  pour  les  négocians,  et  qu'il  renferme  la  résohi- 
»  tion  des  équalions  des  deux  premiers  degrés,  celle  des  «.'quations 
«  cubiques  à  deux  lermes,  et  la  solution  de  plusieurs  proMèniPs 
»  asse/,  difficiles  d'analyse  indéterminée,  partni  lesqucls  se  trouve 
»   léquation  xi  —    oQx^  =  z-  ,  h  résoudre  en  nombros  entiers. 

„  (*)  Ce  manusciit,  du  qualorzième  siècle,  porle  à  la  fin  une  noie  qui 
„  prouve  qu'il  a  apparlenu  à  Ugolino  de'  Martelli  en  i456.  C  est  un 
,,  in — folio  de   168  feuillels  ,,. 

Ciò  che  il  Sig.  r.,ibri  qui  dice  intorno  alle  dottrine  esposte  da 
Paolo  Dagomari  in  questo  suo  trattato  ci  mostra  essf:re  stato  il  me- 
desimo Paolo  uno  de'più  valenti  analisti  del  suo  tempo. 

Il  medesimo  Sig.  Libri  nella  nota  XXX  de|  torap  terzo  della 
sua  Histoire  des  Sciences  mathématiques  en  Italie,  scrìve  {2):  «  Il 
■))' faut  cppendaut  remarqner  que,  dans  un  manuscrit  du  qualor- 
»  ziÈmo  siede  que  je  possedè,  et  qui  commence  ainsi:  «In  questo  tì- 
w  bro  tratteremo  di  più  maniere  di  Ragioni  adatte  a  traffìclio  di 
11  merchatantia  tratte  de  libri  d'  arismetricìia  et  ridotte  in  volga- 
n  re  per  lo  excellcnte  huomo  maestro  Pagalo  de  Dagumari  da  Pra- 
»  to,  »  il  n'est  nullemcnt  question  de  ces  Begoluze,  ce  qui  semble 
»  confìrmer  l'asserì ion  de  Ghaligai  ».  E  da  credere  che  il  libro  di 
più  maniere  di  ragioni,  del  quale  parla  qui  il  Sig.  Libri,  sia  quella 
stessa  opera  di  Paolo  Dagomari  scritta  pei  negozianti,  della  quale 
lo  stesso  Sig.  Libri  fa  menzione  nel  soprarrecato  passo  delle  Addi- 
zioni al  secondo  tomo  della  sua  Histoire  des  sciences  mathématiques 
en  Italie  (3). 

Un  trattato  d'aritmetica  di  Paolo  dell'Abbaco  in  lingua  italiana 
trovasi  manoscritto  nel  Codice  Classe   XI,  n."  86  della    Bibli'ot'eca 

I   llix).  i        I,     '     (    M.  <  I,  /      Il 

scrive  {Fahroni,  Vitae  Ilalorum  doctrina  excellerttiufrt  'qui  icièot/li^  XP^If. 
et  Xf^III-  florueranl.  voi.  Ili,  pag.  Sai);  Pisis  cilin  moruretur  Redius  in 
comitalu  Magni  Dìicis,  in  cubili  morlaus  ìnvénlas  est  mane  Kal.'Dfurt. 
art.  MDCXCVIII.  !  cjoJoild 

(1)  Libri,  Histoire  des  sciences  mcUhémnligues^en  Italie,  t.  II  ,  ,pag. 
527,  Additions   au  second  volume.  .     . 

(2)  Libri,  Histoire  des  seiences  maihémaliques  en  Italie,  l.  Ili,  pag. 
•295.  Vedi   sopra  pag.  70,  Un.    i3 — 20. 

(5)  Vedi  le  prime    i|uallro  linee  di   questa   pagina   85. 


8(ì 

MafjJiabechiana  di    Firenze.   Nel  recto  delia  prima    carta  di    qiieslo 

Codice  si  legge  :  ,^, 

^., ,.;;  »  In  Xpi  TVom.  amen 

-  >'■  'A' Istratto  di  ragioni  saranno  in  questo  libro,  sèhritte  di 
r>  più  maniere  inposte  per  lo  venerabile  slrolagbo 
»  Maestro  Pagholo  sichome  apresso  si  vedranno  e 
»  ehome  si  deoiio  pratichare  cioè  in  questo  modo. 
»   i.  Inalzare  de  rotti 


«   2. 

Parti 

12.  per  3.  - 

V  3. 

Parti 

1 
12.  per  -    . 

»  4. 

Parti 

3-.  per  8. 

»  S.  Parti  5.  —  .  per  ^6.  «  ec. 
4 

Nel  rovescio  della  carta  55  di  questo  Codice  si  Iigge  : 

»  Questo  libro  è  dagniolo  di  dom.^°  pandollini  el  quale  chonperaj 
»  da  orlando  ghuicciardini  oggi  questo  di  xviiij."  di  luglio  1473  , 
»  ed  ebbe  II.  iiij.»  per  me  dallioitello  bonj  al  presente  ch,^  di  lodo- 
^»  vico  bonj  e  chonp.'  setajuoli  in  porzanta.  M."  « 
.  Questo  Codice  cartaceo,  in  foglio,  e  composto  di  35  carte  non 
numerate  era  il   n,°  386  dell'antica  Biblioteca  Gaddiana  di  Firenze. 

Nel  Codice  Olloboniano  n.°  3193  della  Biblioteca  Vaticana  tro- 
vasi un  Catalogo  intitolato  Catalogo  de  Codici  MS.  della  Libreria 
Gaddiana.  A  pagine  83  di  questo    Codice  si  legge  ; 

VI  386.  Aritmetica  di  Paolo  dell'Abbaco;  cioè  ragioni  di  più  ma- 
»  niere  imposte  per  lo  Ven.'«  Slrolago  Mro  PagoloCod.  Chart.  fol. 
»  Script.  Saec.  XV.  Fu  D'Agnolo  di  Dom.*^"  Pandolfìni,  comperalo  da 
11  Orlando  Guicciardini  q."  di  19  Luglio  1474  ». 

Domenico  Maria  Manni  scrive  (1):  «  E  ben  le  Regole  d'Abbaco,  e 
»  lArimmetica  del  Maestro  Paolo  Astrolago,  o  dell'Abbaco,  si  tro- 
»  vavano  tra'  Codici  .MSS.  della  Libreria  Gaddiana  ».  Ciò  dicendo 
il  Manni  allude  certamente  al  Codice  ora  Magliabechiano  Classe  XI, 
n."  86,  del  quale  si  è  parlato  di  sopra  (2). 

A  carte  74  recto  del  sopraccitato  Codice  n.°  1169  dell'I,  e  R.  Bi- 
blioteca Riccardiana  di  Firenze   si    legge  : 

(i)  Ossehvàziòniislonèhe  di  Domenico  ^Marla  Manni  p'aitore  Accade 
sopra  i  sigilli  antichi  de^secoli  bassi,   l.  Xa,  pag.  5^. 

(2)  Vedi  sopra,  pag.  '85,  Un.  3a — 33,  e  le  lìnee  1 — 36  «fi    qtfMta  p«- 

giaa  86. 


87 

»  Quintale  C.  LibraVtim 
»   Apprt*sso  traclerò   dalcliiine  rogoletlc   chanate  dt;llìbro  di  mae- 
»  stro  pagolo  et  di  uarie    misure  et  pesi    antichi. 

>    El  quintale  costa  79  g.  di  un  quanto  uiene  la  libra  douemo  dire 

i    R 
»  per  75  g.  ne  viene  15  5.  resta  4  g.  ebenne  uienè  9  d     -r   et  tanto 

»    la    libra  ».  '■     '     ■ 

È  da  credere  che  il  maestro  pagholo  qui  menzionato  sia  Paolo 
Dagomari  di-tto  delC^bbaco. 

Il  P.  Ximenes  nella  !>ua  Introduzione  Isterica  già  citala  di  so- 
pra (ì)  scrive  (2):  «  Sono  da  rammentarsi  in  questo  iproposito,  e 
»  di  questi  tempi  più  pezzi  di  autore  Anonimo  esistenti  nella  Ma- 
»  gliabechiana.  E  sono.  Tabulae  Planelarum  ad  annum  J366.  Ta- 
»  bulae  continenles  in  quo  signo,  &.  in  quo  gradu  ipsius  sit  sol 
»  omni  die.  Io  cospetto,  che  questa  Efemeride  sia  di  Paolo  de'Dago- 
.  »  mari.  Vi  lui  abbiama,  che  e  fusse  il  primo  a  comporre  Taccuino, 
j)  cioè  Efemeride,  o  Lunario.  Dall'altra  parie  questa  Efemeride  del 
»  Codice  finisce  l'anno  1366,  in  cui  Paolo  de'  Dagomari  mori  ».  Le 
»  tavole  astronomiche  attribuite  a  Paolo  DagOmari  dal  P.  Ximenes  in 
questo  passo  della  .sua  Introduzione  Istorica  suddetta  si  trovano 
manoscritte  in  un  Codice  «Iella  I.  e  R.  Biblioteca  Magliabechiana  di 
Firenze  contrassegnalo  Palchetto  II,n.°  67  dal  recto  della  carta  U2, 
al  recio  della  caria  1 18.  L'Abate  Vincenzio  Pollini  ciò  avverte  in  una 
sua  Illustrazione  di  questo  Codice  intilolata  OPERUM  6ERIES  che 
trovasi  manoscrilla  in  sedici  carte  aggiunte  in  principio  ^el  Codice- 
stesso,  giacché  in  questa  Illustrazione  si   legge  : 

■n  20.  Digom.iri  [Pauli]  vulgo  dell'Abbaco:  Tabulae  Planetaritm 
»  ad  annum  1366.  J  fot.  U2  recto  ad  118  rectum.  His  insertae 
»  sunt  duae  Io.  Campani  Novariensis.  Char.  Saec.  XIV.  fortasse 
»  auiogr.  Ximenins  in  opere  et  locò  cil.  s«b  ■««>».  Ì2.  '•{S)has  tabulas 

(i)  Velli  Tomo  CXXXII, 'pi  bt^ilin.  •i^-^^aaj  8:im.j(ii^^  pag.  171,  lin. 

5—7  ,    e    n.  (1).  •■■'■'["  ■■■■■   '   ''•'•'::   fin'w,,:   (.v  j 

(2)  Del  vecchio  e  nuovo  ghbttlì/A'e  l^idryn'tiA\i',i\^>^:  ÌJX.'MLIntrodaiio- 

ne   {slorica, Vaile  II,  '§.   li.  .        ''^    '  - 

(5)  Sotto  il  numero   12  della  suJiletla  tll'usliaziohe '^el  Codice  Maglia- 

bechiauo  Palchetto   II.  n.°  67  si  legge  (Codice  MagliaÌ)ecJiiano   Palchel' 

to  II.n.°  67,  carta  6-*  aggiunta  in   principio,   verso): 

,,  Ì2 Tahtilae  seu  Ephemèrides  jlslr'ànOmicae  ortas 

„vt   phàsesplanetarum  demonatranfes  ad  annum   iSSa.  Afol.  90.  àd'^'ì 

„  versum.  Leonardus  Ximenes  del  vecchio  e    nuovo  Gnomóne  Fiòrentitio 

,,  Introduz'       Islorica  pag.  LXXII.  has  memorat.  Char.  Xlf^.vergentis 

„  ad  exitum,   „ 

Quindi  è  chiaro    che  rAl)ate  Vincenzio   Pollini  dicendo  Ximenius  in 

opere  el  loco  cit.sub  nunt.   12  (  Vedi  sopra  la  lin.  29  di  questa  pagina  87) 


88 

»  tribuendas  esse  Paullo  Dagomario,  qui  anno    iuCC  ohiit,  primus 
»  suspicatur  cuius  opinionem  libentissime  sequor.  » 

In  principio  del  Codice  Palchetto  II,  n."  07  Irovaiisi  ventiquatr 
tre  carte  aggiunte,  che  contengono  I'  illustrazione  sopraccitata  di 
questo  Codice.  Nel  recto  dell'ottava  di  queste  carte  si  legge  il  so- 
prarrecato passo  di  questa  illustrazione  relativo  alle  Tabulile  Pla- 
netarum  di  Paolo  Dagomari.  '  '     ' 

Dal  recto  della  decimasettima  di  tali  carte  aggiunte  al  rovescio  del- 
l'ultima trovasi  un  Catalogo  alfabetico  degli  autori  delle  opere  cori* 
tenute  in  questo  Codice.  In  questo  Catalogo  intitolalo  OPERUM 
SER1E5   ALPHABETICA  si  legge  (1)  :  "i 

„  DAGOMARIl  (Pauli)  vulgo  deli' Jbbaco,  Tahulae  Planetarutìi  ad 
»  annum  1366.  N.»  20.,,  '  '  ■  '  ■.J...S,-  ,..i,....  V.  'v  \^.y^i':'^  .. 
"  11  codice  Magliabechiano'  cantrà'sisegriat'©  Palehl'dtO"I}r'n.^'^'7[  è 
formato  di  due  codici  riuniti  ,  il  primo  de' i|iiali  coi>lrassk?gnato 
Classe  ATi.  n.°  32  è  cartaceo,  in  loglio,  del  secolo  decimtìquinlo,  e 
di  187  carte  numerate  tutte  nel  recto  Coi  numeri  I — 187.  Sette  di 
queste  carte  numerate  H2 — 118  Sono  quelle  nelle  quali  sijè  det- 
to (2)  trovarsi  le  Tavole  astronomiche  suddette.  L'  altro  codice 
contenuto  nel  manoscritto  Magliabechiano  Palchetto  II.  n.°  67  it 
contrassegnato  Classe  XXV.  n.°  549,  e  composto  di  82  .carte  iiufl 
merate  tutte  nel  fecto.  ,  /ni 

In  un  Codice  della  Biblioteca  della  Eccellentissima  Famiglia. ^Tri- 
Vulzio  di  Milano  contrassegnato  B.  N.°  36  a  carte  31,  versole  52 
recto  e  verso  si  legge  : 

»  Maistro  Paolo  delabscho  mando  a  ser  durante  gioani 
"'     i^5'^'>n^'^    '„  Sedeci  di  del  nostro   sesto  mese 
ao'is?.iu    )>'"Òue  si  prese  noua  indicione  ^'    ' 

l'/.'.i  ^•to■\    «('.Dimostrerà  nocturna  eclipsone  ■   ■■    ■■ 

„  Che  di  ragione  a  ogni  hom  sia  palese  .niuiuu  « 

»  E  sieno  ancora  le  sue  corna  acese 
»  Quand  altr  imprese  aUra  tato  leone  ') 

»  El  caro  apena  gionto  alaquilone  -_,. 

-    -.ìA'  vi",  P*^^,  il  Jragon  farà  le  ultime  offese 

„  Questo  si  dicie  azo  che  in  si  mifi 
.,    ,,    «..Nt^gliali  giri  lordine  perfetto  ,        '  ,,-.,-, 

,%  „   »  Cornell  e  reto  ben  dalalto  siri,  ..  ,  ,  «        -1    , 

alluJe  alla  pagina  liXXXIl-    deW,  Iffiroduzìane;'  litoriea    del  P.  Leiopardo 
J^imenes  ai  si^oi'-qualtrD  libri  del  vecchio  e  nuovo   Gnomone  FiorejilinQ. 
,,,(l)  Codice  IVl^gliaberhiano.  Palchetto  Il.n.",  67.,carla  i8.»  aggiunta    iu  prin- 
<i fio,  recto, ^v.ersfi..,.^  .,,    „,   ,,,       ,;    VVL^vXlJl  .y,>; 
(2)  Vedi  sopra,  pag.  87,  Un.    l8 — 23, 

•  ii'i  iiiiivMixii/.   oliuMÌl)  inillo'l   ( 
(78  «aigitq   tiìotiy  ib  (JE  ,nii  ti  ..    , 


89 

»   Et  a  bon  uici  intendo  dir  lellello 
»  Che  subdolo  giti  più  sospiri 
«   Si  che  se  tiri  fora  tal  difeto 
»  Poy  che  dadio  arbitrio  ce  conceto. 

»  Risposta  di  ser  durante  gioiiani  a  maistro   paolo  delabacho 

Il  Nobile  ingniegno  per  cui  sono  intese 

11  E  recte  le  question  chel  cel  dispone 

V   ^on  parte  delusata  amiracione 
'ii"i,n'.  »  Che  pone  il  uostro  scriuer  che  mincese 
,t\o->t>  olo      11   i^el  qnal  mi   par  se  ben  la  mente  atesc  , 

11  Che  del  mese  febraio  aura  cagione 

lì  Proserpina  dauer  gran   passione 

»   Ne  la  slagtone  chel  dir  di  uoy  comprese 
'     B'-"   '''     »  Il  che  par  donche  che  per  segni  miri  tn? 

■■'■Y\  \5\(^)VGhel  siri  eterno  uol  chel  intelieto 

))   Nostro  non  rolo  ver  lassi  desiri 

»  Et  miri  olimpho  il  suo  dolce  cospeto 

n  Sugeto  a  ritener  ciaschun  che  spiri 

»   Se  duri  vicij  non  fan   inperfeto 

M   l'ugendo  le  virlu  qualandispetto. 

.('f    ili     >-MHl\.  \\\.  ■..'.■, 

>    Ser  durante  gioani  ma,ndo  a  maistro  paolo  delabacho 

-    ■    ■'•    ■'■>     :■   ■■  n  y...     ■  ,.-.■■  ,^,_,    , 

»   Vostro  intelieto  dpgni  cosa  bella  ,  ■ 

»  Chel  ciel  rapido  volge  eternalmenle 
»  Convien  che  mi  rimoua  de  la  mente 
>'   Vn  diibio  che  aslrológià'fauella 

))   Chi  vezo  olimpho  e  poy  guardo  vna  stella 
»   La  qual  mi  pare  dclaltre  pin  lucente 
-   Seguir  titan   nel  calor  doccidente 
))  Chesperus  da  gramatici  sapella 

»  D  nanci  al  giorno  poy  vider  si  suolo 
»   Fuluido   lucifer   pien  di  chiarezza 
»  Che  segnio  di!  matin  inostrar  ci   noie 

»  Vo  saper  donque  qual  cagion  lauez/a 
»  Di   uariarsi  per  el  camin  del  sole 
»   Questa  che  luce  nella  terza  alteza 
»  Faccia  nel  uostro  ingegnio  a  mi  chiareza. 

»  Risposta  di  mastro  paulo  a  ser  durante  giouani 

1»  Nella  mente  «)ia  conuien  cor  risuella,,!  ,^\i.     ,^ 
»  Quel  che  chiede  el  dir  uostro  sufiiciente,  ,-,,„„ ,     ,    . 
-,■■,   i' ; ."  ,lf',(j'0''sie  nen  vostre  volie  contente.        .  t\   i  \ 

■y\  i')'r'mI?'  la)  question  cha  uoy  per  voy  sapella    ''*""'      ^^' 

»I1  uariar  che  fa  (1).     V    questa  fÀcéttà'"''^  (^) 

n^Mostran  due  cierchi  el  primo  e  digerente  •*  •'"' 

(i)  Questa  lacuna  trovasi  nel  sopracèitato  còdice' À''i\'*.'-^56''tle'fta'''BÌJ 
MTofeca'  delfà'  E'cctìfenliSsims  Famiglia  Trivuliiol    "■•''-■-'^'  Va.au  u-.r.U    ii'  ; 


»  Chessi  mone  col  sol  primo  ignalmenle 
»  Ma  nel  mirare  e  colocata  quella 

»  Questo  secondo  cierchio  lìen  dne  pole 
«   Dentro  «lai  primo  fissi   per  la  terza 
»   Sopra  aqiia   fan   continue  carole 
/  »  Perche  coiiuien  cor  clanfjne  ordamezo 

).  Paya  coley  per  cui  souente  dole 
«   Coluy  che  giù  contempla  sua  belezza 
»   Come  qui  geometria  a  fatezza.» 
11  sopraccitato  codice  B.    N."  3'6  della  Biblioteca  della   Eccellen- 
tissima Famiglia  Trivulzio  è  carlaceo,  in  foglio,  del  secolo  decimo- 
quinto, e  di  cenlocinque  carte. 

Nell'edizione  fatta  in  Roma  nel  1640  dell'  opera  di  M.  France- 
sco da  Barberino  intitolata  Documenti  d'  amore,  trovasi  una  Ta- 
vola compilata  da  Federico  Ubaldini  (l),ed  intitolata  AVTORl  VOL- 
GARI (2).  In  questa  Tavola  si  legge   ('i]  : 

'i  Pago/o  dell'Abaco  da  Firenze. 

»  Canzoni,  ms.  del  Signor  Ma- 
li rio  Milesio  ». 
Pili  oltre  nella  medesima  edizione  Ae'Documenti  d'Amore  di  Fran- 
cesco da  Barberino  trovasi   una  tavola  compilala  dal  medesimo  Fe- 
derico  Ubaldini    (4)  intitolata  (5): 

,,  TAVOLA 
„  Delle  voci,  e  maniere  di  parlare  più 
»  considerabili   vsate  nell'opera 
„    DI  M.  FRANCESCO  BARBERllNO.   » 
In  questa  Tavola  si  legge  (6): 
„   REDDIRE  tornare,  Latino;  F.  Ouittone. 
p  Se  non  redite  dolce  spene  mia. 
»  Reddirsi  al  fruito  dell'IlaUea  erba. 
y,  disse  Dante  e  redito  ;  Maestro  Pagolo  da  Fiorenza 
»  dello  dall'abbaco. 
»  Come  vceelletio  per  temènza  reddo. 

»  270,  21.  ».  ,  , 

icr.wiv   itl\thiit\>   Ti!   i;  •Hill. 

(t)  Mazzu<?Hém,-^W'Scr<ltlòi'lt1'Il»ttA  ,  Voi.  I.  parte  I,  pag.  17,  ar- 
ticolo ABBACO  (Paolo  dell')  nota  (1)  . 

(2)  Documenti  di' Amore  di  M.  Ffancesco  Barberino,  cztla  214,  recto. 

(5)  Documenti  cT  Amore  di  M.  Francesco  Barberino,  carta  ni6,recto. 
col.  2. 

(4)  Mazzuchelli,  Gli  Scrittori  d'Italia,  voi.  II,  parte  I,  pag.  297,  ar- 
litìòlo  BARBERINO  (Francesco  Ja). 

(5)  Documenti  d'Amore  di  M-  Francesco  Barberino,  carta  3 1 8,reWo. 

(6)  Documenti  d'Amore  di  M.Francesco  Barberino,  carta  265,cer*<». 


91 

Il  verso  qui  citalo  di  maestro  Paolo  da  Fiorenza  dello  dall'  Ab- 
baco trovasi  nella  Canzone  di  Paolo  dell'  Abbaco  della  quale  si  è 
parlato  di  sopra  (1). 

Neil'  opera  di  Monsignor  Leone  Allacci  intitolata  Poeti  antichi 
raccolti  da  Codici  MSS  della  Biblioteca  Vaticana  e  Barberina  si 
trova  un  ìndice  intitolato  (2): 

«   IISDICE 
»  Di  tutti  li  Poeti,  che  hoggidì  si  cóseruano  nelli 
»  Codici  Vaticani,  Gbisiani,  e  Bar- 
»   berinì  osseruali  dall' 
»  ALLACCI. 
»  D'alcuni  de^quali  $i  leggono  poesie  in  questo  Fo- 
li lume,  e  d'altri^  à  Dio  piacendo,  se  ne 
Il  leggeranno  ne'seguenli. 
In  quest'Indice  si  legge  (3): 

»  Pagolo  da  Firenze  >• . 
Nell'opera  suddetta  di  Monsignore  Leone  Allacci  non  trovasi  al- 
cun componimento  poetico  di  questo  Pagolo  da  Firenze. 

{i)  La  bella  mano.  Libro  di  Messere  Giusto  de' Conti,  Romano  Senatore. 
Per  M- Iacopo  de' Corbiaelli,  genlilhuomo  Fiorentino  ristoralo.  In  Parigi, 
Appresso  Mnmerto  Patisson  Regio  Stampatore  i5Q'y.Conprivilegio,'ìn  12", 
carta  80,  recto. — La  bella  mano.  Libro  di  Messere  Giusto  de'  Conti,  Ro- 
mano Senatore.  Per  M.  Jacopo  de' Corhinelli  ,  gentilhuomo  Fiorentino 
ristorato.  In  Parigi,  Appresso  Mnmerto  Patisson  Regio  Stampatore 
1595.  Con  priailegìo,  in  12, ''  calla  80,  redo.  —  Coraizini,  Miscellanea 
di  cose  inedite  o  rare,  pag.  iSg.  —  Vedi  sopra,  pag.  60 — 66,  e  pag. 
57,  iin.   1^10. 

(2)  Poeti  antichi  raccolti  da  Codici  M.  SS.  della  Biblioteca  Vatica- 
na, e  Barberina.  Da  Monsignor  Leone  Allacci,  e  da  lui  dedicati  alla  Ac- 
cademia della  Fucina  della  Nobile,  &  Esemplare  Città  di  Messina.  In 
Napoli,  per  Sebastiano  d'Alecci,  1661.  Con  licema  de' Superiori,  in  8," 
pag.  43  (Iella  prima   numerazione. 

(3)  Poeti  antichi  raccolti  da  Codici  M.  SS-  della  Biblioteca  Vatica- 
na, e  Barherina.Da  Monsignor  Leone  Allacci,  pag.  55  della  prima  nume- 
razione. 


92 

Fasti  di   Venosa  resliiuili 
alla  sincera  lezione. 


B 


enchè  per  indole  e  per  proposito  io  mi  sia  co- 
stantemente fino  ad  oggi  mantenuto  alienissimo 
dall'  entrare  comunque  o  mescolarmi  in  letterarie 
contese,  pure  mi  sembra  non  dovere  rifiutarmi  al- 
l'invito di  dottissimi  amici,  i  quali  vorrcblìono  ch'io 
adoperassi  i  documenti  epigrafici,  che  mi  sono  studiato 
d'investigare  e  togliere  ad  esame,  nello  sciogliere  e 
definire  le  non  leggere  quistioni,  che  intorno  ai  così 
detti  fasti  campani  hanno  testò  levato  qualche  romore 
nel  campo  della  latina  epigrafia.  Imperocché  la  somma 
importanza  di  que'fosti,  de'quali  parmi  potere  vera- 
mente non  solo  raffermare  la  patrid  in  Venosa,  ma 
perfino  stabiliie  pur  una  volta  la  fino  ad  ora  confusa 
ed  incerta  lezione,  mi  consiglia  a  trattare  il  proposto 
argomento:  ed  il  modo  onde  io  Io  verrò  svolgendo 
sgombrerà,  spero,  dall'animo  di  chicchesia  pure  il 
sospetto,  che  la  mia  trattazione  non  sia  unicamente 
ispirata  e  condotta  da  quell'amore  del  vero  profitto 
della  scienza,  che  debbo  essere  l'unica  legge  e  norma 
a  seguire  in  siffatte  controversie.  Laonde  senza  spen- 
dere il  tempo  in  vani  proloquii,  mi  faccio  tosto  all'ar- 
gomento; al  quale  mi  spianerò  la  via  sponendo  bre- 
vemente, per  chi  noi  conoscesse,  lo  stato  della  qui- 
stione. 

■'■''^  De*  fasti,  di  elle  ì'^agiotìp  ;''ciiimfi^ò  .cH  fino  a 
questi  ultimi  anni,  1  divulfifali  esemplari;  quelli  cioè 
dell'Apiano  (p.  315),  del  PÌghio  (Ann.  Ili,  494),  del 
Gori  (Doni  Inscr.  p.  158),  che  lo  trasse  da  un  codice 
di  fra  Giocondo,  e  del  Muratori  (p.  294),  derivato  dalle 
schede  farnesiane;  tutti  discordanti  l'uno  dall'altro  ed 
apertamente  corrotti,  eccetto  quello  del  Pighio,  che 
non  aveva  le  grosse  macchie  ed  i  manifesti  errori  degli 


93 

altri;  ed  era  perciò  stimato  quasi  ottimo,  o  certamente 
assai  migliore  do'rimanenti  (1). Della  patria, od  almeno 
della  sede  del  monumento,  l'Apiano  ed  il  Gori  non 
fanno  motto,  il  Pighio  l'addita  in  Capua  (Capuae  in 
castro  vel  jìalatio  Dncis  Calahriae)  ,  ed  il  Muratori 
semplicemente  aimd  Diicem  Calahriae  in  castro  Ca- 
puano. Di  che  avvenne  che  la  patria  di  que'fasti  fu 
da  ognuno  creduta  la  stessa  Capua;  e  volgarmente 
ebbero  nome  di  fasti  campani.  Ma  riscontrata  l'edi- 
zione del  Pighio  colla  copia  originale  ne'manoscritti 
di  lui ,  serbati  tuttora  nella  pubblica  biblioteca  di 
Berlino,  apparve  una  immensa  varietà  tra  quella  e 
questa;  e  l'esemplare  stampato  fu  di  leggieri  rico- 
nosciuto per  opera  di  congetturale  ed  arbitraria  emen- 
dazione. Né  il  Pighio  dal  marmo  istesso,  che  giammai 
non  vide,  ma  da  un  codice  membranaceo  del  Cardinale 
di  S.  Croce,  cioè  di  Marcello  Cervini  divenuto  poi 
Papa  Marcello  II,  ne  avea  avuta  la  trascrizione.  Ri- 
chiamato per  questa  scoperta  l'esame  e  lo  studio  dei 
dotti  sopra  cotesto  insigne  monumento,  due  furono 
le  sentenze  che  vennero  a  cozzo.  Il  eh.  sig.  dott. 
Zumpt,  divulgato  (2)  il  vero  apografo  Pighiano,  so- 
stenne, che  questo  ed  i  rimanenti  da  diverse  fonti 
erano  derivati  ;  laonde  delle  loro  varietà  conveniva 
tener  conto  affine  di  costituire  sopra  solida  base  la 
lezione,  che  sarebbe  da  adottare:  la  patria  de'  fasti 
conservò  qual'era  volgarmente  creduta.  Surse  d'altra 
parte  il  eh.  Mommsen  (3),  e  s'accinse  a  dimostrare 
cotesti  essere  fasti  non  campani,  ma  venosini;  e  le 
tante  copie  diverse  dovere  tutte  ridursi  ad  una  sola, 
quella  cioè  di  fra  Giocondo;  il  quale  ebbe  a  vedere 
il  marmo  nel  castello  Capuano  del  Duca  di  Calabria, 


(1)  V.  Avellino  Opusc.  II,  p.  257: 

(2)  Comment.   Epigr.   Berolini   1850,  p.  6. 

(3)  Berichtc  dcr  Kiinigl.  Sachs.  Gescllschafl  der   fFissemchaflen^ 
an.   1850  p.  224  33.  e  nelle  I.  N.  n.  697. 


94 

cioè  a  dire  presso  Napoli,  scambiato  dal  Pighio,  per 
mero  errore,  con  la  città  di  Capua.  E  della  nuova 
patria  ch'egli  assegnava  al  monumento  ,  la  quale  è 
quistione  di  vitale  importanza  ove  trattisi  come  qui 
avviene  di  fasti  municipali,  dava  in  prova  e  testimo- 
nianza alcuni  passi  di  lettere  vicendevoli  di  Pomponio 
Leto  e  del  Poliziano.  Ma  non  perciò  mutar  volle  la 
sua  sentenza  il  eh.  Zumpt;  il  quale  testé  tolse  a  di- 
fenderla in  una  elegante  e  focosa  orazione  latina  (l); 
negando  che  ne'ragionamenti  del  Mommsen  v'abbia 
pur  una  sillaba  di  vero  o  di  verisimile;  e  sostenendo, 
che  Pomponio  Leto  ed  il  Poliziano  a  tutt'altro  nelle 
lor  lettere  possono  aver  voluto  alludere  che  al  nostro 
marmo;  ed  infine  confermando,  con  que'migliori  ar- 
gomenti che  la  materia  gli  potè  fornire,  le  altre  parti 
della  opinion  sua.  Né  trascurò  di  ricorrere  a  nuovi 
esemplari  manoscritti ,  ma  avuta  l' opportunità  di 
togliere  ad  esame  due  codici  veneti,  che  sono  sti- 
mati, dic'egli,  riprodurre  la  silloge  di  fra  Giocondo, 
vi  rinvenne  i  controversi  fasti  trascrittivi  senza  veruna 
indicazione  del  luogo  ove  esistevano;  donde  inferì  che 
il  famoso  raccoglitore  né  gli  aveva  visti,  né  era  giunto 
a  sapere  dove  esistessero.  La  vera  cagione  di  tante 
controversie  e  dubbiezze  è  il  difetto,  cui  tuttora  pa- 
tisce la  scienza  epigrafica  ,  d'  una  notizia  chiara  e 
distinta  delle  fonti  onde  derivano  le  copie  de'monu- 
menti  non  più  superstiti,  che  vanno  attorno  sia  nelle 
stampe ,  sia  in  mille  anonimi  manoscritti  delle  bi- 
blioteche. Laonde  se  la  speciale  cura  e  lo  studio,  che 
io  ho  posto  nell'esame  di  questa  parte  fondamentale 
della  scienza  nostra,  mi  apriranno  la  via  allo  sciogliere 
e  definire  le  proposte  quistioni,  io  non  farò  certamente 
onta  veruna  a  chi,  brancolando  nelle  communi  tene- 
bre, fu  da  queste  impedito  a  scernere  il  vero.  E  se 

^i)  De  rasloriim  Miinicipalium  Campanorum  fragmento  defensio 
Berlin.  1853. 


95 

sarò  lieto  d'aggiungere  una  novella  lode  al  mio  amico 
il  eh.  Mommsen  per  l'acutissima  sagacità,  onde  senza 
gli  aiuti  degli  studi  e  de'documenti  ch'io  ho  in  mia 
mano  ,  ha  quasi  divinato  in  ogni  sua  parte  il  vero 
nelle  quistioni  fondamentali  della  patria  del  monu- 
mento e  della  origine  e  valore  critico  delle  copie, 
che  ce  ne  sono  state  trasmesse;  non  tacerò  il  merito 
del  eh.  Zumpt ,  che  nel  ricomporre  e  ristabilire  la 
sincera  lezione  di  cotesti  fasti,  solo  ha  toccato  assai 
dappresso  alla  verità. 

E  per  entrare  tosto  nell'argomento,  iJ  capo  della 
quistione  consiste  tutto  nell'ottenere  un'esatta  noti- 
zia dell'esemplare  di  fra  Giocondo,  e  del  luogo  nel 
quale  egli  vide  il  monumento;  poiché  se  saremo  fatti 
certi  essere  quella  l'unica  fonte  di  quante  copie  fino 
ad  oggi  noi  conosciamo,  in  quella  sola  ristringeremo 
il  campo  de'  nostri  studi  e  ricerche.  Della  silloge  di 
fra  Giocondo  notissimi  sono  per  fama  i  due  codici, 
serbati  l'uno  nella  Capitolale  di  Verona,  l'altro,  già 
del  cav.  Marmi ,  oggi  nella  Magliabecchiana  di  Fi- 
renze (1).  Ma  il  primo  è  dedicato  a  Lorenzo  de'Me- 
dici,  l'altro  a  Ludovico  de  Agnellis  Vescovo  di  Co- 
senza; e  non  pertanto,  tranne  cotesta  diversità  nella 
persona  cui  l'opera  è  dedicata,  ambedue  hanno  voce 
d*essere  altutto  simili  e  contenere  una  sola  e  me- 
desima silloge.  Pur  nondimeno  questa  è  falsissima 
persuasione.  Un  attento  esame  del  codice  fiorentino 
m' ha  appreso  a  distinguere  la  recensione  dedicata  al 
Vescovo  di  Cosenza,  da  quella  che  porta  in  fronte 
il  nome  di  Lorenzo  de'  Medici  ;  poiché  la  prima  è 
alquanto  meno  ricca  di  monumenti  che  non  la  seconda, 
ma  più  ordinata,  e  sempre  costante  nel  metodo  di 
amioverare  tutte  in  una  serie  le  iscrizioni  d'un  luogo 

{i)  Maffei  Verona  illustrala,  P.  Il,  lib.  Ili;  Cori,  I.  E.  Ili,  p.  39,- 
Miir.  praef.  ad  Thes.  Inscr;  Novelle  LeU.  di  Firenze  aiiuo  1771  p.  723 

e  segg. 


96 

medesimo.  E  poiché  di  cotesta  recensione,  fuori  del 
codice  di  che  ragiono,  non  m'è  venuto  fatto  scoprire 
verun  altro  esemplare,  esaminiamo  tosto  dove  e  co- 
me ivi  sieno  trascritti  i  nostri  fasti.  La  silloge  è  nel 
codice  fiorentino  divisa  in  due  parti,  delle  quali  l'ui- 
l'ultima  è  riserbata  alle  iscrizioni  che  1'  autore  non 
aveva  vedute  ,  ma  trascritte  da  copie  fornitegli  sia 
dagli  amici,  sia  dalle  anteriori  raccolte  (1).  I  nostri 
fasti  sono  collocati  nella  prima  parte  del  volume  a 
carte  143:  tantoché  ecco  troncata  di  netto  la  prima 
quistione ,  se  cioè  fra  Giocondo  abbia  o  no  veduto 
il  marmo  controverso.  Né  meno  spedita  è  la  rispo- 
sta al  dubbio,  del  dove  gli  abbia  egli  veduti:  se  in 
Capua  cioè,  o  nel  castello  Capuano  di  Napoli.  Im- 
perocché le  iscrizioni  di  Capua  sono  tutte  riunite  da 

(1)  Nella  dedica  di  questa  seconda  ed  ultima  parte  così  ne  de- 
scrive l'autore  il  contenuto:  Cum  ergo  in  superiori  volumine  anno- 
taverim  quae  propriis  laboribus  atque  sudoribus  congessi  ,  opcrae 
pretium  duxi,  etiam  ea  quae  ab  amicis,  et  dignissimis  diligentìssi- 
misque  viris  accepi ,  in  sequens  opus  describere  ;  et  tibi  quoque  ex 
alienis  laboribus  aliquam  afferre  voluptatem.  Id  tamen  te  nosse  certo 
scio,  hominibus  raram  omni  ex  pirte  vim  esse  atque  virtutcm;  quod 
et  in  me,  et  in  aliis,  duce  experimento,  saepissime  deprehendi,  com- 
munemque  liane  mortalium  conditionem  e^se  cugnovi  ,  qui  cum  hac 
vel  Illa  virtutc  abundent,  reliquis  careni.  Quamobrem,  etsi  nefas  est 
mihi  his,  a  quibus  epigrammata  ipsa  suscepi,  non  credere,  ccrtitudini 
meae  tamen  non  placet  acquare,  ne  quis  errores,  si  quos  exemplo  col- 
lato exemplaribus  inveneril,  mihi  adscribat.  Ed.  ap.  Gori,  I.  E.  HI. 
p.  45).  Pur  nondimeno  non  debbo  tacere  l'essermi  io  avveduto  che 
fra  Giocondo  nelle  iscrizioni  romane  non  sempre  mantenne  la  sua 
parola  ;  ma  poiché  veniva  confrontando  le  anteriori  raccolte  coi 
marmi  originali,  benché  le  copie  di  quelli  che  più  non  esistevano 
rilegasse  alla  seconda  parte  ,  pure  V  una  o  V  altra  di  queste  tal- 
volta sbadatamente  inserì  nella  prima.  Ma  queste  sono  rarissi- 
me eccezzioni  e  ristrette  (juasi  unicamente  alla  classe  delle  epi- 
grafi di  Roma;  e,  ciò  che  più  monta,  giammai  non  accadde  a  fra 
Giocondo  d'  inserire  in  questa  prima  parte  un  monumento  ,  die 
comunque  anco  da  lui  non  visto,  non  avesse  però  certa  ed  indubi- 
tala la  patria. 


97 

carte  131  recto,  infino  a  carte  133  verso;  seguono 
quelle  d'altre  molte  città  del  Regno,  finché  a  carte 
136  recto  comincia  la  serie  delle  napoletane,  e  giun- 
ge fino  a  carte  144.  I  fasti,  così  detti  campani,  non 
solo  sono  trascritti  fra  le  iscrizioni  di  Napoli ,  ma 
precisamente  tra  quelle  ,  che  ne  adornavano  il  ca- 
stello Capuano.  Ed  in  fatti  per  discendere  ai  più  mi- 
nuti particolari,  come  richiede  l'essere  questo  il  capo 
principale  della  quistione  ;  dopo  il  titoletto  votivo  , 
che  nella  raccolta  del  Mommsen  (1)  tiene  il  n.  2585, 
posto  NcapoU  aptid  Marcliionem  Betonti,  segue  l'iscri- 
zione p.  2481  situata  apiid  illustrissimum  Ducem  Cala- 
briae  advectum  ex  Pausilipo.  Dove  egli  è  certo  do- 
versi sottintendere  la  parola  Neapoli,  non  solo  per- 
chè sono  questa  e  le  seguenti  iscrizioni  inserite  fra 
le  napoletane  ;  ma  anco  perchè  da  altri  testimoni , 
anteriori  e  posteriori  al  nostro  autore,  sappiamo  che 
veramente  quel  marmo  fu  sempre  mai  visto  in 
quella  città  (I.  N.  1.  e.)  Segue  immediatamente:  Apiid 
eiimdem  m  castro  Capuano,  n.  3145  (2)  -  Ibidem  :  D. 
M.  M.  Aur.  Pesto  hornini  incomparabili  qui  vixit  annis 
XXVIIII  D.  XV  Julia  Trofmie  conjwji  B.  M.  F.  (3)  - 
Apud  eumdem  est  haec  pars  Kalendarii,  quae  reperta 
fuit  in  agro  Vemisiuo  ,   sotto  le  quali  parole  è  tra- 

(1)  Inscriptiones  Regni  Neapolitani  latinae.  Lipsiae  1852. 

(2)  Non  ommetterò  di  notare  che  ne'  codici  di  fra  Giocondo 
dell'altra  recensione,  della  quale  ragionerò  in  seguito,  è  anco  un'al- 
tra volta  nominato  il  castro  Capuano^  espressamente  come  esistente 
in  Napoli,  cioè  nelle  seguenti  parole  :  Neapoli  in  domibus  d.  Fer- 
nandi  Januariì  juxta  castrum  Capuanum  reperti  sunt  aquaeductus 
plumbei  in  ruinis  aedificiorum  quorumdam  in  quibus  scriptum  est: 
iHP.  CAES.  XBAiAN.  HADK.  AVG.  (  Cod.  Borg.  ('.  113).  Manca  questa 
iscrizione  nella  raccolta  del  Mommsen. 

(3)  Manca  nella  raccolta  suddetta. 

G.A.T.CXXXIII.  7 


98 
scritto  il  noto  frammento  di  Calendario  (n.  698);  e 
è  dopo  un  intervallo  di  sole  tre  righe  vuote  di  scrit- 
tura ,  senz'  altra  indicazione  ,  i  nostri  fasti.  Dopo  i 
quali  tornano  le  parole  :  Neapoli  apud  eumdem  II- 
lustrissimum  Ducem  Calabriae,  n.  3387;  e  qui  hanno 
fine  le  iscrizioni  di  Napoli,  e  seguono  quelle  d'altre 
città  del  Regno.  Posti  i  quali  fatti,  qualunque  sia  la 
cagione,  che  tosto  cercheremo,  dell'essere  stato  la- 
sciato vuoto  lo  spazio  del  titoletto  a  premettere  ai 
nostri  fòsti ,  non  può  cadere  dubbio  sul  luogo  nel 
quale  li  vide  frate  Giocondo,  che  fu,  senza  fallo,  il 
castello  Capuano  di  Napoli.  Imperocché  quanti  mo- 
numenti distribuì  egli  nelle  molte  serie  geografiche 
di  questa  prima  parte  della  sua  silloge ,  altrettanti 
sono  esattamente  forniti  della  indicazione  del  luogo; 
ed  è  soltanto  nell'  altra  parte  ,  chQ  concordemente 
all'avviso  datoci  dall'autore  medesimo,  e'  imbattiamo 
in  iscrizioni  di  luogo  incerto,  od  ignoto.  Se  adunque 
non  avesse  egli  né  visto,  né  saputo  dove  esistevano 
cotesti  fasti ,  come  avrebbe  potuto  mai  inserirli  fra 
le  iscrizioni  napoletane  ,  e  propriamente  fra  quelle 
che  possedeva  il  Duca  di  Calabria  nel  così  detto  ca- 
stello Capuano  ?  Egli  é  chiarissimo  che  la  mancanza 
di  qualsivoglia  indicazione  premessa  al  nostro  mo- 
numento, dee,  senza  fallo,  procedere  da  tutt'  altra 
cagione,  che  dalla  ignoranza  in  che  fosse  il  racco- 
glitore del  luogo  ove  quello  esisteva.  Cotesta  ca- 
gione può  essere  soltanto  l'una  delle  due  seguenti , 
o  eh'  egli  si  riserbasse  di  scrivere  una  annotazione 
in  altro  tempo  ,  quando  avesse  potuto  ottenere  più 
accufate  notizie  sia  intorno  al  luogo  ove  il  marmò 
era  stato  trovato,  sia  intorno  alla  natura  del  monu- 


99 

mento:  o  che  l' indicazione  premessa  al  frammento 
di  Calendario  risguardi  anche  i  fasti;  i  quali,  scritti 
forse  dalla  mano  medesima  ,  abbia  il  raccoglitore  , 
che  certamente  poco  o  nulla  gli  intendeva  ,  consi- 
derati come  una  seconda  tavola  tanto  a  quel  Calen- 
dario strettamente  congiunta,  che  potesse  anco  es- 
sere compresa  sotto  l'appellazione  di  pars  Kalendarii. 
Nel  qual  caso  il  breve  spazio  frapposto  di  sole  tre 
righe  indicherebbe  soltanto  l'incominciamento  d'una 
seconda  tavola  marmorea  dell'  istesso  monumento.  E 
questa  infatti,  a  mio  avviso,  è  sossopra  la  vera  sen- 
tenza ,  che  parmi  poter  stabilire  con  chiari  argo- 
menti. E  dapprima  accennerò  soltanto,  che  stranis- 
simo sarebbe  il  difetto  d' indicazion  topografica  in 
un  monumento  di  tanto  valore,  quando  tutti  anche  i 
menomi  epitaffi  collocati  nella  prima  parte  di  quella 
silloge  ne  sono  forniti  ;  e  che  qualunque  annotazione 
si  riserbasse  l'autore  di  farvi  sopra,  non  avea  ragione 
di  ommett^e  il  semplice  ìbidem,  eh'  egli  scrive  do- 
¥un<jue  vuoi  separare  ,  l'una  dall'altra,  due  epigrafi 
nel  medesimo  luogo  esistenti.  Ma  ponendo  da  lato 
queste  osservazioni  fermiamoci  sulle  parole  premesse 
al  Calendario;  le  quali,  se  anche  de'  fasti  dovessero 
secondo  l'opinion  mia  essere  intese,  indicherebbero 
che  furono  l'uno  e  gli  alfcri  insieme  discavati  in  Ve- 
nosa. Ora  appunto  nell'accennata  lettera  di  Pompo- 
nio Leto  al  Poliziano  è  fatta  menzione  di  cotesto 
frammento  di  Calendario,  come  rinvenuto  in  Venosa 
insieme  ad  alcun'  altra  isterica  epigrafe  [monumenta 
rerum)  ;  ed  il  Poliziano  ringraziandolo  delle  notizie 
e  copie  trasmessegli,  propone  dubbi  e  questioni  in- 
torno alla  tavola  bellico  ^arsico  faclamy  e  segnata- 


100 
mente  airortografìa  del  nome  Aemilius,  eh'  egli  crede 
dovere  piutosto  essere  Aimilius.  Riferirò  a  suo  luogo 
gli  interi  passi  di  queste  lettere,  quando  mi  farò  a 
discutere  l' interpretazione,  che  vorrebbe  darne  il  eh. 
Zumpt.  Ma  intanto,  se  i  cenni  di  Pomponio  intorno  a 
certe  istoriche  memorie  discavate  in  Venosa  insieme 
al  frammento  di  Calendario,  e  le  allusioni  nella  ri- 
sposta del  Poliziano  ad  una  tabulam  bello  marsico  fa- 
ctanij  che  avea  il  nome  Aemilius  col  dittongo  ae , 
noi  porremo  a  confronto  col  modo  onde  fra  Gio- 
condo nella  sua  silloge  congiunse  quel  Calendario 
medesimo  con  i  nostri  fasti,  che  cominciano  appunto 
dalle  parole  tabella  facta  a  bello  marsico,  e  che  fin 
dalle  prime  linee  ci  presentano  il  nome  aemilius,  scritto 
con  quell'ortografìa  istessa  che  ci  addita  il  Poliziano; 
come  potremo  non  avvederci,  che  questi  sono  il  mo- 
numento ,  del  quale  Pomponio  trasmise  copia  al- 
l'amico; e  che  fra  Giocondo  non  a  caso  ambedue  i 
marmi  sotto  una  sola  indicazione  congiunse ,  ma 
perchè  ambedue  veramente  insieme  rinvenuti  in  agro 
Venusino ,  e  sembratigli  spettare  ad  un  medesimo 
e  solo  monumento  ? 

Ma  che  questa  sia  stata  1'  opinione  di  fra  Gio- 
condo ,  e  la  cagione  che  lo  indusse  a  soggiungere 
l'uno  immediatamente  all'altro  que'  due  marmi,  anco 
più  chiaro  apparisce  da  quella  recensione  del  suo  li- 
bro, che  dedicò  a  Lorenzo  de'  Medici.  Della  quale 
poiché  non  uno  solo ,  ma  parecchi  sono  gli  esem- 
plari, e  ninno  giammai  ne  ha  dato  notizia  ,  questa 
è  necessario  premettere  al  seguito  del  mio  ragiona- 
mento. La  copia  istessa  che  fra  Giocondo  depose 
nelle  mani  di  Lorenzo  de' Medici,  giusta  il  narrato 


101 

nelle  novelle  letterarie  di  Firenze  (ann.  1771  p.  725), 
fu  porta  in  dono  al  Pontefice  Clemente  XIV  ;  ma 
dove  oggi  sia  l' ignorano  forse  tutti  al  pari  di  me; 
certo  è  che  giammai  non  è  stata  vista  nò  nella  bi- 
blioteca, né  negli  archivi  del  Vaticano.  Smarrito  così 
l'esemplare  autentico,  dobbiamo  di  necessità  volgerci 
alle  copie  che  ce  ne  rimangono;  e  queste  sono,  per 
quanto  fino  ad  oggi  m'  è  riuscito  scoprire,  soltanto 
le  seguenti.  Prima  ,  pel  merito  di  elegantissima  ed 
assai  accurata  scrittura,  è  quella  del  codice  di  Ve- 
rona (1),  assai  commendato  dal  Maffei  (1.  e).  Dopo 
questa  debbono  prendere  luogo  due  esemplari  car- 
tacei ,  poco  più  recenti  del  Veronese  ,  ma  ambidue 
assai  scorretti  ed  imperfetti;  l'uno  della  Marciana  in 
Venezia  (2),  l'altro  della  Borgiana,  oggi  del  collegio 
di  Propaganda  in  Roma  (3).  Del  codice  di  che  fa 
menzione  il  Paciaudi  (4-),  che  lo  vide  nell'archivio  di 
S.  Paolo  de'  Teatini  di  Napoli ,  non  m'  è  giammai 
riuscito  di  rinvenire  traccia  veruna.  Altri  esemplari  che 
direttamente  riproducano  1'  opera  di  frate  Giocondo 
non  mi  sono  noti  :  di  quelli ,  che  in  molta  o  poca 
parte  da  essa  dipendono  e  son  derivati,  ragionerò  in 
seguito.  Ora  ne'  tre  codici,  che  ci  hanno  trasmessa 
la  recensione  dedicata  a  Lorenzo  de'  Medici,  la  di- 
stribuzione geografica  delle  iscrizioni  è  non  legger- 


(1)  L'ho  veduto  nella  biblioteca  Capitolare;  è  segnato  CCLXX, 
245,  membranaceo  in  12,  scritto  nel  secolo  XV  eadente,  o  XVI  in 
principio. 

(2)  God.  Lat.  ci.  XIV  n.  171. 

(3)  Ne  ho  già  dato  un  cenno  nel  Bulleltino  dell'  Ist.  di  Corrisp. 
Arch.  anno  1852  p.   i32. 

(4)  V.  Calcgerà;,  Opuscoli,  tomo  XIII  p.  349. 


102 

mente  scomposta  e  turbata  ;  e  frammezzo  a  quelle 
della  città  di  Napoli  è  venuta  a  frapporsi  una  lunga 
serie  di  epigrafi  di  Capua  e  di  Pozzuoli,  quelle  pri- 
me e  queste  seconde.  Alle  quali  ultime  immediata- 
mente tengono  dietro  quelle  che  possedeva  il  Duca 
di  Calabria  in  fino  ai  nostri  fasti  ,  al  tutto  come 
nell'opera  dedicata  al  Vescovo  di  Cosenza  ;  eccetto 
che  fra  le  esistenti  nel  castello  Capuano  è  posta  una 
di  più  non  riferita  nell'altra  silloge  (1),  e  che  v'ha 
alquante  ommissioni  ed  evidenti  errori,  non  di  tutti 
insieme  ,  ma  quando  dell'uno  quando  dell'altro  co- 
dice, nelle  parole  de'  titoletti  premessi  a  queste  iscri- 
zioni. Delle  quali  varietà  non  tengo  conto,  si  perchè 
non  sono  di  tale  natura  che  possano  punto  alterare 
lo  stato  de'  miei  ragionamenti,  e  soprattutto,  perchè 
egli  è  chiarissimo  essere  solitarii  errori  dell'uno  o 
dell'altro  degli  amanuensi;  i  tre  esemplari  raffrontati 
a  vicenda  e  con  quello  infine  della  recensione  ma- 
gliabecchiana  ,  nella  somma  con  quest'  ultimo  per- 
fettamente concordano.  Qui  adunque,  tuttoché  l'or- 
dine geografico  sia  manomesso  e  scomposto,  non  v'è 
però  appiglio  veruno  per  assegnare  le  iscrizioni  del 
castello  Capuano  alla  città  di  Capua  ;  ma  tutto  al 
più,  se  ci  mancasse  l'ordinatissima  raccolta  del  co- 
dice magliabecchiano,  e  se  d'altra  parte  non  ci  fosse 
assai  noto  il  castello  Capuano  di  Napoli,  potremmo 
dubitare  non  fosse  per  avventura  additato  sotto  quel 
nome  un  edificio  di  Pozzuoli.  Esclusa  così,  anco  per 

(1  )  É  la  segnenle  fthe  non  trovo  nella  raocoUa  del  Mommsen: 

D.    M. 
IVLIVS    ANTISPHQRVS 
MAXIMIANO 


103 

questi  eodici  la  città  di  Capua  da  qualsivoglia  di- 
ritto sui  nostri  fasti ,  vediamo  per  qual  modo  essi 
e'  insegnano  a  restituirli  a  Venosa.  Io  affermai  da 
questa  nuova  recensione  dell'  opera  di  che  ragiono 
essere  evidente,  che  l'autore  soggiunse  i  fasti  al  ca- 
lendario senz'  altra  indicazione  ,  perchè  gli  ebbe  in 
conto  di  parte  integrante  di  quello  e  ad  ambedue 
volle  communi  le  parole  premesse  al  primo  additanti 
il  luogo  del  trovamento.  L'argomento  di  siffatta  evi- 
denza mi  viene  da  ciò,  che  l'autore  stimò  qui  op- 
pertuno  riunire  al  frammento  del  Calendario  veno- 
sino  anche  altri  frammenti  di  calendarii  da  lui  tra- 
scritti in  Roma  ,  e  sono  l'Esquilino  ed  il  Caprani- 
cense;  ma  questi  soggiunse  non  immediatamente  al 
solo  calendario,  ma  al  calendario  seguito  dai  fasti;  di 
guisa  che  ne  da  manifestamente  ad  intendere,  eh'  egli 
giudicava  inseparabili  quelle  due  tavole,  e  formanti 
tutto  insieme  un  solo  monumento.  Imperocché  se  i 
nostri  fasti  non  fossero  stati  tali  nella  opinione  del 
raccoglitore,  e  veramente  gemelli  al  calendario  veno- 
sino,per  quale  stranezza  mai  potevano  essere  intercalati 
fra  quello  ed  i  calendarii  romani  ?  Tutto  adunque 
nella  silloge  di  fra  Giocondo  cospira  colle  lettere  di 
Pomponio  e  del  Poliziano  a  persuaderci,  che  vera- 
mente que'fasti  dagli  scavi  di  Venosa  tornarono  in  luce. 
Ommetto  gli  argomenti  interni  svolti  dal  eh.  Mom- 
msen  per  dimostrare  che  non  solo  non  potevano  quelli 
essere  campani,  ma  appena  ad  altra  città  potrebbero  me- 
glio convenire  che  a  Venosa; poiché  non  ho  io  tolto  già 
a  trattare  da  capo  e  da  tutti  i  lati  il  controverso  argo- 
mento, ma  a  porre  in  chiaro  le  parti  dubbie  ed  oscure, 
interrogando  gli  idonei  testimo  ni,  che  sono  i  codici 


104 

epigrafici.  Laonde  potrei  lasciar  da  banda  tutte  le 
numerose  difficoltà  messe  in  campo  dal  eh.  Zumpt  in- 
torno al  valore  delle  parole  allegate  dalle  lettere  di 
Pomponio  e  del  Poliziano  ;  tanto  più  che  poste  a 
confronto  con  gì'  indizii  raccolti  dalla  silloge  di  fra 
Giocondo,  appena  è  più  possibile  di  frantenderne  il 
senso.  Ciò  nondimeno  parmi  assai  utile  dare  anco 
alcun  cenno,  che  valga  a  rischiararne  qualche  punto 
più  oscuro;  tuttoché  mi  spiaccia  l'avere  ad  allungare 
il  discorso  intorno  ad  un  così  fastidioso  argomento. 
I  passi  controversi  delle  due  epistole  sono  i  seguenti. 
Scrive  Pomponio  al  Poliziano  nel  1488,  cioè  circa 
quel  tempo  istesso,  in  che  ft'à  Giocondo  compilava 
la  sua  raccolta:  Seriiis  quam  opinabaris  ab  amicissimo 
fieri,  distilli  ad  te  millere,  quod  summopere  lerjcre  opta- 
bas.  Causa  fidi  nescio  quis,  qui  se  iìitra  paucos  dies 
daturum  Quintilem  et  Sextilem  milii  pollicitus  est.  Rem- 
que  is  longius  opinione  mea  traxit.  Ipse  tandem  ut 
creditori,  qui  vel praecipuus  es,  satisfacerem,  quae  apud 
me  eranty  diligentissime  exscripsi.  A  Vemisia  Apulorum 
aliata  sunt  marmorea  in  tabula:  obscuro  loco  ibi  latebant 
fragmenta  aliarum  tabularum,  ubi  annus  integer  erat; 
coniungi  nequivenmt,  quod  multa  deerant  illinc  translata 
Arianum'f  summa  vero  quae  superest  tabula  servatiir. 
Mitto  et  quaedam  monimenta  rerum,  eodem  in  loco  re- 
perta  et  placitura  tibi  [ut  existimo)  amatori  vetustatis. 
Romae  fere  idem,  sed  multo  ante,  verum  fine  caret:  si 
habere  cupis,  rescribe:  quamquam  qidd  hoc  dixerim? 
cum  facile  intelligam  te  plurimum  id  quaerere;  sed  vi- 
debatur  optabilius,  si  poposceris:  scias  omnia  quae  apud 
me  sunt,  tua  esse.  Poliziano  risponde:  Quas  a  te  nuper 
accepi  litteras,  ita  gratas  liabui,    ut  me  ab  iis  putem 


105 

ìmmortalitate  donalum.  Sed  et  semestre  calendarium 
mire  fuit  gratum  et  quafn  ais  tabulam  bello  Mar- 
sico  factam  ;  quae  si  eadem  est,  quam  Romae  obiter 
legerim,  ver  cor  ut  satis  ex  fide  sit  exscripta.  Si  qui- 
dem  Aimiliiis,  non  Aemilins  erat  in  saxo.  Quam  ean- 
dem  diphtongum  etiam  super  ipsa  Panthei  testudine 
adnotaveram.  (1).  Il  monumento  che  Pomponio  ed 
il  Poliziano  richiamano  a  memoria,  come  simile  al- 
l' iscrizione  venosina,  è  giusta  l'opinione  del  Mom- 
msen  quel  grande  frammento  di  fasti  romani  degli 
anni  382-395  e  433-446,  che  fu  stampato  anco  nel 
libro  del  Mazocchi  (p.  121,  122),  e  sul  quale  in- 
fatti tre  volte  era  inciso  il  nome  aimilius.  Ma  op- 
pone il  Zinnpt  le  molte  incoerenze,  i  grossi  errori 
di  storia  e  qualche  falso  anzi  barbaro  modo  di  dire 
latino  ,  che  acutamente  egli  rileva  in  queste  poche 
linee  di  que'  due  sommi  letterati,  quando  si  voglia 
che  alludano  agli  allegati  frammenti  di  fasti  romani 
e  venosini.  Dove  è  in  prima  a  notare,  che  se  le  no- 
tizie positive  di  fatti  e'  inducono  a  riconoscere  che 
veramente  di  que'  frammenti  essi  ragionano  ,  con- 
verrà pure  togliersi  in  pace,  che  abbiano  e  grossa- 
mente errato,  e  scritto  talvolta  men  latinamente  od 
anche  con  barbara  negligenza.  Ora  a  negare  che  la 
data  interpretazione  sia  vera,  sarebbe  duopo  stabi- 
lire, che  Pomponio  ed  il  Poliziano  ragionino  di  mo- 
numenti, sia  sinceri,  sia  fìnti,  a  noi  al  tutto  ignoti 
ne'  quali  per  mero  caso  si  avverino  quelle  non  po- 
che e  rarissime  circostanze  ed  indizi,  che  ce  li  fanno 
parere  que'  medesimi  che  accennammo  di  sopra.  Ma 

(1)  Politiani  Epist.  I,  IS,  16  ed.  Basii.   1522  p.  25. 


106 

oltreché  ai  savi  non  sembrerà  forse  buono  espe- 
diente il  ricorrere  alla  possibilità  di  improbabilissimi 
casi  e  combinazioni  fortuite,  io  credo  potere  fran- 
camente negare,  che  monumenti  epigrafici  di  qual- 
che rilievo,  divulgati  nell'età  di  Pomponio  e  noti  a 
lui  ed  a' suoi  amici,  possano  essere  altutto  ignoti, 
almeno  a  chi  ne  faccia  ricerca  ne'  manoscritti  dei 
secoli  decimoquinto  e  decimosesto.  Ella  è  questa  una 
affermazione  della  quale  potranno  conoscere  la  verità 
coloro  soltanto ,  che  alcuno  studio  abbiano  posto 
nelle  raccolte  e  manoscritti  epigrafici  compilati  cii-ca 
quegli  anni.  Ma  per  accennare  pur  una  qualche  prova 
avvertirò  ,  che  fra  Giocondo  ebbe  alcuna  relazione 
con  Pomponio,  in  casa  del  quale  trascrisse  molte 
iscrizioni;  ed  egli  conobbe  sì  ed  inserì  nella  sua  rac- 
colta come  il  frammento  de'  fasti  venosini  così  an- 
che quello  de'  romani ,  ma  non  già  un'  altra  iscri- 
zione qualunque,  alla  quale  possano  alludere  le  pa- 
role di  Pomponio  e  del  Poliziano.  Inoltre  l'opera 
di  Giocondo  fu,  come  vedremo,  interpolata  tosto  da 
aggiunte  ed  inserzioni,  che  ciascun  letterato  per  pri- 
vato studio  vi  veniva  facendo;  ma  né  il  Poliziano  , 
che  ne  fece  uso  (1),  né  Pomponio,  né  altri  sembra- 
no avervi  aggiunto  cotesta  a  noi  ignota  iscrizione 
fatta  all'  età  della  guerra  sociale,  perchè  almeno  in 
qualche  posteriore  esemplare  la  troveremmo  pur  ri- 
petuta. Infine  più  stringente  argomento  trarrò  dalla 
raccolta  di  Pietro  Sabino,  che  ho  ritrovato  interis- 
sima  in  un  codice  della  Marciana  in  Venezia;  impe- 
rocché  quell'amico  di  Pomponio,  che  si  propose  di 

(1)  Misceli,  e  77  ed  Aid.   1498. 


107 

di  non  ommettere  veruna  iscrizione,  che  fosse  di 
qualche  momento,  nota  ai  suoi  dì  (1),  non  solo  nean- 
che egli  conosce  coleste  immaginarie  epigrafi  di  che 
andiamo  in  traccia,  ma  ciò  che  più  monta,  appunto 
come  da  noi  si  pretende  che  Pomponio  abbia  chia- 
mato a  confronto  il  frammento  romano  di  fasti  col 
venosino  ,  così  quelli  e  questi  insieme  congiunse  ; 
senza  però  indicare  dove  quest'  ultimo  esisteva,  per- 
chè ne  trasse  la  copia  da  fra  Giocondo,  come  dirò 
a  suo  luogo.  Ed  in  fatti,  se  da  un  lato  niuna  trac- 
cia apparisce  d'iscrizioni  neanco  fìnte  (e  di  queste 
furono  ripetute  e  propagate  le  copie  anche  più  che 
delle  sincere),  alle  quali  possa  Pomponio  aver  voluto 
alludere  nella  sua  lettera,  tranne  i  mille  volte  nomi- 
nati fasti,  dall'altra  è  certo  eh'  egli  questi  conobbe; 
e  de'  romani  quel  frammento  appunto  che  dissi  avere 
tre  volte  il  nome  aimiliijs  egli  trascrisse,  ed  in  que- 
sto tempo  medesimo  communicò  ad  Ermolao  Bar- 
baro, come  rilevasi  dalle  emendazioni  di  Plinio  da 
costui  divulgate  nel  1493  (2).  Così  che  a  questo 
medesimo  frammento  romano  appelli  il  Poliziano  lo 
intese,  e  quasi  cosa  non  dubbia,  quale  è  veramente, 
Io  affermò  anche  il  Sassio  nella  prefazione  all'opera 
del  Van  Vaassen  (3).  Da  ultimo  a  dimostrare  quanto 
piena  contezza  de'  monumenti  epigrafici  noti  a  quei 
letterati  ci  forniscano  le  vecchie  sillogi  manoscritte, 
io  additerò  perfino  quale  sia  precisamente  la  pietra, 

(1)  V.  M.  Ant.  Coccii  Sahellici  epist.  IX,  I. 

(2)  CaStig.  in  Plinium  et  Pomponiuin  Melam  (Romae  1493);  ad 
Plin.   Vn,  9;  XIII,   13. 

(3)  Van  Vaassen  ,    Animadv.  hist.  crii.  aJ  fastos  rom.  sacros  ; 
Praef.  p.  XXVIII. 


108 
nella  quale  il  Poliziano  ricordava  aver  notato  il  dit- 
tongo AI ,  e  eh'  era  posta  super  ipsa  Panthei  lestu- 
dine.  Invano  la  si  cercherebbe  in  tutti  i  maggiori  e 
minori  tesori;  ma  non  perciò  è  ignota  ai  manoscritti; 
ed  è  propriamente  il  seguente  brevissimo  frammento 
d'elogio,  conservato  oggi  nel  museo  Vaticano,  che  le 
vecchie  carte  m'  hanno  insegnato  essere  stato  ap- 
punto nella  cupola  del  Pantheon,  e  vi  si  legge  l'ac- 
cennato dittongo  nella  parola  cvrai  (1). 


IDERENT    .    CAPITOLIVM 

STALES    .    CAERE    .    DEDVXIT 

QVE    .    rItvS   .    SOLLEMNES   .   NE 

REiNTVR    .    CVRAI    .    SIbI     .    HABVIT 

, ERATA    .    SACRA    .    ET     .    VIRGINES 

EXIT 

Queste  osservazioni  se  di  per  se  sole  non  giunge- 
rebbero ad  una  compiuta  dimostrazione  della  sentenza 
del  Moinmsen  intorno  alla  intelligenza  de'  combat- 
tuti passi  di  quelle  lettere,  congiunte  però  agli  in- 
dizi chiarissimi  fornitici  dall'  opera  di  fra  Giocondo 
acquistano  tanta  forza,  che  non  sembra  doversi  esig- 
gere  maggiore  a  defluire  la  controversia.  E  qui  a 
a  sminuire  le  difficoltà,  che  creano  le  incoerenze  e 
gli  errori  notati  in  quelle  lettere  ,  osserverò ,  che  i 

(1)  Era  rimasto  sempre  inedito  finché  il  sig.  Conte  Borghesi 
trascrittolo  dal  Vaticano  non  lo  divulgò  nel  Giornale  Arcadico  (I. 
p.  38);  e  con  l'usata  dottrina  dimostrò  essere  parfe  dell'elogio  di 
quel  flamine  Quirinale  (ne  ignoriamo  il  nome)  ,  che  fu  guida  alle 
vergini   vestali  fuggitive,  quando   Roma  fu   presa  dai   Galli. 


109 
più  gravi  difetti  di  errori  storici  e  modi  di  dire  non 
latini  possono  con  leggerissimi  cangiamenti  scompa- 
rire; e  poiché,  non  gli  autografi  di  que'  letterati,  ma 
una  vecchia  stampa,  e  questa  fatta  certamente  non 
sugli  originali,  ma  sopra  copie,  abbiamo  sott'occhio, 
chi  potrà  affermare  che  quegli  errori  furono  pro- 
prio di  Pomponio  e  del  Poliziano?  Così  dove  Pom- 
ponio scrive:  Romae  fere  idem  sed  multo  ante^  se  si 
emendasse  sed  midto  anterius  ,  il  senso  correrebbe 
senza  intoppo  ;  se  nelle  parole  del  Poliziano  quam 
ais  labidam  bello  Marsico  faclcim  si  inserisse  la  sola 
-lettera  a  innanzi  a  bello  ,  la  quale  facilmente  potè 
essere  ommessa  dall'editore  ,  perchè  a  chi  non  co- 
nosce il  monumento,  del  quale  ivi  si  parla,  dee  sem- 
brare una  proposizione  fuori  di  luogo  ,  non  vi  sa- 
rebbono  più  errori  di  storia  a  rimproverargli.  Né 
dee  ragionevolmente  muovere  a  maraviglia  che  il 
Poliziano  abbia  creduto  dettato  di  Pomponio  le  pa- 
role tabella  facta  a  bello  Marsico,  quando  vedremo 
in  simile  errore  caduti  il  Cori  ed  il  Muratori.  Ed  il 
semenstre  kalendarium,  se  non  è,  come  io  sospetto, 
errore  (cioè  in  luogo  di  bimestre)  di  chi  fece  le  co- 
pie che  andarono  alle  stampe,  può  benissimo  allu- 
dere, come  vuole  il  eh.  Zumpt,  al  noto  calendario 
del  Tamira  (1),  che  potè  senza  fallo  Pomponio  man- 
dare al  Poliziano  insieme  al  frammento  venosino. 
Infine  que'  passi  che  abbiam  tolto  ad  esame  non  fu- 
rono dagli  autori  dettati  pel  pubblico,  ma  sono  fa- 
migliare scrittura;  nella  quale  tanto  più  facilmente 
potè  il  Poliziano    cadere  in  alcuna    distrazione   od 

(1)  Foggini,  Fast  pag.  104,  Ordii  (Inscr.  I.  p.  64.) 


Ilo 

inesattezza,  che  trattava  di  materia  epigrafica,  allora 
pochissimo  intesa,  e  da  lui  anco  meno  che  da  Pom- 
ponio. Ed  in  fatti,  checché  pensi  in  contrario  il  eh. 
Zumpt,  egli  è  certo  che  que'  letterati  ricordavano  più 
facilmente  l'ortografia  ed  i  dittonghi  che  non  le  date 
0  l'argomento  delle  iscrizioni  che  aveano  letto  e  tra- 
scritto; e  la  prova  s' incontra  ad  ogni  passo  in  molti 
codici  epigrafici,  ne'  quali  le  prime  annotazioni  ed  i 
primi  studi  sono  costantemente  rivolti  alle  singola- 
rità ortografiche.  Ma  egli  è  pure  tempo  di  scendere 
all'  altra  quistione  ,  per  la  quale  si  cerchi  se  dalla 
copia  istessa  di  fra  Giocondo  furono  derivate  quella 
del  Piglio,  e  quante  altre  o  stampate  o  manoscritte 
saprò  indicare.  Poiché  non  solo  questa  ricerca  ci 
spianerà  la  via  all'  ultimo  scopo  del  nostro  studio  , 
che  é  il  ricomporre  il  disordinato  testo  del  monu- 
meato;  ma  finirà  anco  di  metterne  in  sicuro  la  pa- 
ti'ia,  quando  avremo  toccato  con  mano  tutti  gli  esem- 
plari essere  figliati  da  quella  silloge ,  che  esclude 
senz'  appello  l' intruso  municipio  campano,  e  porge 
mille  argomenti  in  favore  del  venosino. 

Ed  in  prima  egli  è  a  notare  che  di  cotesti  fasti 
oltre  alle  copie  stampate,  che  accennai  da  principio 
e  quelle  de' quattro  codici  manoscritti  di  fra  Giocon- 
do, esistono  anco,  per  quanto  fino  ad  oggi  m'è  noto, 
tre  altri  esemjJlari  in  im  codice  cioè  del  eh.  signor 
cav.  Cicogna  in  Venezia,  in  altro  posseduto  già  dal 
cardinal  Canali,  ed  infine  in  quello  che  testé  ho  no- 
minato di  Pietro  Sabino.  Che  le  copie  de'  codici  Ci- 
cogna e  Canali  sieno  quella  stessa  di  fra  Giocondo» 
è  cosa  facilissima  a  dimostrare.  Imperocché  l'opera 
di  cotesto  veronese    appena    divulgata  fu  da  molti, 


Ili 

che  se  la  trascrissero  senza  apporvi  il  nome  di  lui, 
scomposta,  interpolata  e  parte  abbreviata,  parte  ac- 
cresciuta; ma  questi  non  furono  cangiamenti  e  tras- 
formazioni di  tale  natura,  che  un  leggero  esame  e 
e  confronto  co'  genuini  esemplari  non  basti  a  farne 
riconoscere  l'autore.  E  questo  appunto  è  il  caso  dei 
codici  Cicogna  e  Canali.  Del  primo  non  accade  far 
parola,  poiché  lo  stesso  chiarissimo  possessore  ne  ha 
scoperta  ed  indicata  la  fonte  (1);  ed  io  che  per  somma 
cortesia  di  lui  ho  potuto  scorrerlo  tutto  a  mio  bel- 
r  agio  e  leggere  anco  le  dotte  osservazioni  eh'  egli 
-v'  ha  fatto  sopra ,  sono  in  grado  di  affermare  ,  che 
tranne  poche  giunte  ftitte  all'opera  primitiva  del  ve- 
ronese tra  il  14-97  ed  il  1502,  pressoché  tutta  la 
riproduce;  benché  turbate  e  congiunte  in  uno  le  due 
parti  e  trasposte  in  altro  ordine  e  serie  le  iscrizioni. 
Appiè  del  volume  dalla  mano  stessa  che  l'avea  scritto 
fu  posto  un  indice  geografico  delle  città  ,  secondo 
l'ordine  che  è  seguito  nel  codice  nel  registrarne  le 
iscrizioni;  e  la  parte  che  risguarda  il  nostro  argomento 
v'è  segnata  così:  Puteolis-Neapolls-Tmni-In  agro  Ve- 
nusino-Capuae-Nolae  etc.  Il  calendario  ed  i  fasti,  dei 
quali  disputiamo  ,  sono  appunto  i  soli  monumenti 
che  rispondono  all'indicazione  in  agro  veimsino;  ed  il 
ti  tolette  che  al  calendario  è  premesso  é  concepito 
con  le  parole  istesse  già  da  me  allegate  di  fra  Gio- 
condo; seguono  ambedue  le  iscrizioni,  frapposto  tra 
l'una  e  l'altra  lo  spazio  di  tre  linee,  come  ne'  codici 
del  Veronese.  Non  dissimile  è  il  caso  del  manoscritto 


(1)  V.  Ziimpt.   Defensio  etc.  p.  23. 


112 

del  card.  Canali:  che  la  notizia  di  quel  codice  dettata 
da  Gaetano  Marini  e  serbata  tra  le  carte  di  lui  nella 
Vaticana  m'insegna,  ch'era  tanto  simile  ad  un  mano- 
scritto della  Barberina,  già  da  me  altra  volta  accen- 
nato (1),  fino  a  sembrare  che  questo  fosse  in  gran 
parte  copia  del  volume  canaliano  (2).  Ma  il  codice 
Barberino,  dopo  che  l'ho  confrontato  coll'opera  del 
Veronese,  mi  si  è  manifestato,  per  quello  eh' è  ve- 
ramente, un  esemplare  cioè  mutilo  assai  ed  imper- 
fetto di  quella  silloge.  Inoltre  parecchi  estratti  che 
dal  manoscritto  Canali  fece  il  sommo  Marini  m'hanno 
fornito  sufficenti  indizi  per  riconoscerlo  affine,  se 
non  fu  forse  anco  gemello  ,  al  codice  del  Cicogna. 
Resta  adunque  il  solo  esemplare  di  Pietro  Sabino  ; 
del  quale  cercheremo  la  fonte,  insieme  a  quella  degli 
altri  che  son  divulgati  per  le  stampe,  tostochè  avrò 
mostrato  quale  sia  la  vera  copia  di  fra  Giocondo. 
Questa  io  trascriverò  dai  codici  migliori ,  che  sono 
senza  follo  il  Magliabecchiano,  il  Veronese  ed  il  Mar- 
ciano esattamente  concordi,  tranne  una  o  due  tanto 
minute  varietà  che  non  è  da  farne  caso  veruno  (3); 

(1)  Vedi  Bullettino  dell'lstit.  1.  e. 

(2)  Scrive  il  Marini  a  pag.  255  d'un  volume  manoscritto  con- 
tenente copie  d' iscrizioni  tratte  dalle  schede  barberine:  apud  card'. 
Xaverium  Canalium  esse  codicem  membranaceum  conscriptum  summa 
elegantia  circa  finem  saeculi  XV  vel  initium  saecul.  Xf  I,  pag. 
260  ,  in  4°  ,  in  quo  eodem  ordine  recensentur  lapides,  quo  dispo- 
siti sunt  in  cod.  barb.  (cioè  nel  codice  da  me  accennato);  imo  iisdem 
verbis,  erroribus,  ac  notationibus,  ut  nullum  dubium  esse  possit,  quin 
utraque  coUectio  eumdem  habeat  auctorem,  ac  ferme  est  ut  credam 
cod.  barb.  descriptum  fuisse  ab  canaliano.  Ut  ut  sit  codex  ille  praete. 
inscriptiones,  quae  reliquae  sunt  in  cod.  barb.  plurimas  alias  complc- 
ctitur  non  semel  aureis  characteribus,  miniove  illitis  descriptas. 

(3)  Sono  appena  un  Kl  in  luogo  di  K  nella  linea  41  del  codice 


113 

e  segnerò  a  pie  di  pagina  tutte  le  varianti ,  ossia 
errori,  degli  altri  meno  accurati  esemplari,  del  Bor- 
giano  cioè  e  di  quelli  del  Cicogna  e  del  Canali  (1). 


15 


Tabella  facta 

(2) 

P.  Pecinius  (3) 
L.  Sempronius 
li.  lui. 

K.  Novem. 
Bellum 
Ex  K.  Ini.  ad 
Q.  Larcius 
M.  Metilius 
C.  Annms 
Ex  K.  Ini.  ad 
L.  Scutarius 
Imp.  Caesar  III. 
K.  Mai 


ci  bello  Mar  sic  0 

P.  Publilius  Aed. 
L.  Scribonius 
Paul.  Aemilius 
C.  Memmius 
M.  Herennius 
Illuricum 

K.  lui. 

C.  Rumeius  II  vir 
L.  Annaeus  Aed. 
Sex.  Veliius  Aed. 

K.  lui. 

M.  Calpurnius  Q. 
M.  Valerius 
T.  Tilius 


Marciano,  e  forse  (ma  non  ne  ho  sicurezza)  Niger  in  luogo  del  com- 
pendio Nig.  nella  62  del  Veronese. 

(1)  Le  varianti  di  quest'ultimo  codice  toglierò  dall'opera  del 
Mommsen  1.  e.  che  le  ebbe  dal  Borghesi  ;  perchè  non  ho  trovato 
l'autografo  del  Marini,  per  mezzo  del  quale  ci  sono  state  trasmesse. 

(2)  Queste  lineette  segnate  nel  codice  magliabecchiano,  e  forse 
anco  negli  altri,  sembrano  indicare  uno  spazio,  od  un  comincia- 
mento  quasi  di  paragrafo. 

(3)  Cosi,  almeno  secondo  le  copie  che  ho  sott' occhio,  in  tutti 
gli  esemplari  di  fra  Giocondo;  eccetto  forse  il  codice  Canali,  che 
sembra  avere  avuto  PETINIVS.  Ciò  nulla  ostante  il  codice  Maglia- 
becchiano  congiunge  per  modo  la  lettera  e  colla  e  precedente  che 
potrebbe   sembrare    piuttosto   una  t. 

G.A.T.CXXXIIl .  8 


20 


25 


30 


35 


40 


45 


114 

K.  Od.  Cn.  Pompeius 

Bellum  Adi. 

Ex  K.  Febr.  ad  K.  lui 

Sex.  Titiiis  L.  Geminius  II  Vir 

Hoc  anno  Quaestores  creati 

Ex  IL   hi.  ad  K.  lui. 


C.  Sìdpicius 
Imp.  Caesar  II. 
K.  lamiar. 
K.  Mai 

K.  lui. 

K.  Septembr. 

K.  Od. 

Ex  K. 
C.  Aemilius 
C.  Valerius 
L.  Livius  Ligm 
C.  Domitius 
K.  lui. 
K.  Nov. 


C.  Salvius  Buhidcus  Q. 
L.  Volcaciiis 
P.  Autronius 
L.  Flavius 
C.  Fonteius 
M.  Acilius 
L.  Vinucius 
L.  Laronius 
lui.  ad  K.  lui. 

Q.  Pontienm  II  vir 
C.  Turpilius  Aed. 
L.  Cornelius  Q. 
C.  Sosius 
L.  Cornelius 
M.  Valerius 


Ex  K.  lui.  ad  K.  Sept.  Praefedi 

T.  Licinius  L.  Cornelius 

Ex  K.  Sept.  ad  K.  Febr. 

C.  Plotim  C.  Aimaeus  II  vir 

Ex  K.  lui.  ad  K.  Febr. 

P.  Sextius  Q.  Luccius  Aed' 

Ex  K.  lui.  ad  K.  lan. 

L.  Scutarius  T.  Sepunius  Ilvir 

T.  Antonius  M.  Valerius  Mess.  Aed. 

L.  Anniu^  C.  Valerius  Q. 


115 

Jmp.  Caesar  1111  M.  Licinim 

K.  lai.  C.  Anlistius 
'—  Bellum  Alexandreae 

50               Eid.  Sept.  M.  Tullius 

K.  Nov.  L.  Saenius 

Ex  K.  lan.  ad  li.  lan. 

L.  Cornelius  Q.  Vettius  11  Vir 

C.  Casshis  C.  (ieminius  Niger  Q. 

55       Imp.  Caesar  V  Sex.  Appuleim 


L.  Oppim  L.  Livius  li  Vir  Q. 

M.  Narius  C.  Mestrjus  Aed. 

Q.  Plestinm  Sex.  Fadius  Q. 

Imp.  Caesar  VI.  M.  Agrippa  11 
60       Idem  censoria  poiesl.  liislnim  fecer. 
Ex  K.   lati,  ad  K.   lui. 

L.  Gavius  C.Geminius  Nig.  Il  vir 

Q.  Cenlronius  C.  Clodius  Aed.  (1). 

Una  dimostrazione  così  limpida  e  da  ogni  lato  per- 
fetta dell'essere  l'esemplare  di  fra  Giocondo  l'unica 
fonte  di  quanti  altri  mai  oggi  esistono,  e  della  spa- 
lla origine  e  niun  valore  delle  tanto  decantate  va- 
l'ianti  niuno  forse  l'avrebbe  stimata  possibile,  dopo 


(1)  Le  varianti,  ossia  corrutLeie  ed  emeiiilnzioni,  de' codici  Sof- 
fiano (B.),  Cicogna  (C.)  e  Canali  (Can.)  sono  sollanlo  le  seguenti  : 
V.  I.*B.  tabe  illa,  C.  ommetle  l'accento  sulfa  2.  B.  Pubiius-  4  B. 
Paulus  -  13.  C.  ommetle  Q  -  15  Can.  M.  TITIVS  -  22.  C.  del  nome 
Sulpicius  la  sola  prima  lettera  -  23  €au.  VOLCATJVS  -  26.  27.  Gap. 
K.IVL.M.ACILIVS.C.FONTEIVS  -  32.  C.  Tarpilius  -  34  Can.  forse  CS. 
(l'indicazione  non  è  esplicita  nel  libro  del  Mommsen);  C.  C-  Domicivs  • 
40  Can.  forse  ANNAEVS  (mancami  come  sopra  l'indicazione  esplici- 
ta) 41.  42  B  ommeae  -  42  C.  Luiius  44.  Can.  SEPTVJNIVS  -  47.  C. 
Licinm  -  53  C.  ConeliUi  - 


116 

che  il  Gorì  ci  aveva  dato  come  testo  del  Veronese, 
trascrivendolo  da  quel  medesimo  codice  magliabec- 
chiano  che  io  ho  trascritto,  un  testo  cotanto  diverso. 
E  veramente  bene  intendo  come  al  eh.  Zumpt  do- 
vette sembrare  argomento  invincibile  della  verità  di 
sua  opinione  l'edizione  del  Gori,  che  non  poteva  im- 
maginare a  tal  grado  falsata  ;  ed  ammiro  il  sagace 
ardire  del  Mommsen,  che  senza  aver  documenti,  e 
vorrei  quasi  dire  neanche  prova  veruna,  pur  non  du- 
bitò negar  fede  a  quella  edizione.  Ed  il  Gori  infatti 
avea  di  suo  capriccio  segnata  in  principio  una  frat- 
tura ed  ommessa  la  prima  linea,  stimandola  una  goffa 
annotazione  del  collettore,  saltò  di  netto  le  linee  39 
e  40,  e  parecchi  nomi  alterò  e  trasformò  a  suo  ta- 
lento: né  di  tanti  arbitrii  dette  un  menomo  cenno 
ai  lettori.  E  questo  valga  di  nuovo  esempio  della 
assoluta  necessità  in  che  siamo  di  risalire  alle  fonti 
con  la  critica  disamina  de'  manoscritti  ;  se  pur  vo- 
gliamo avere  testi  epigrafici  esplorati  e  sicuri;  pe- 
rocché se  tanta  è  la  confusione  e  l'errore,  che  regna 
tuttora  ne'  testi  de'  monumenti  capitali  e  principalis- 
simi,  quale  è  questo  de'  fasti  venosini,  quale  stima 
dovrà  farsi  dello  stato  in  che  giace  l'immenso  volgo 
delle  meno  rilevanti  iscrizioni?  Ma  tornando  al  no- 
stro argomento  la  derivazione  degli  esemplari  del- 
l'Apiano,  del  Pighio  e  del  Muratori  da  quello  che  io 
ora  ho  divulgato  è  tanto  certa,  che  non  si  richieg- 
gono molte  parole  al  dimostrarla.  E  in  quanto  all'A- 
piano,  la  copia  del  quale  più  d'ogni  altra  è  confusa 
e  lontana  dalle  rimanenti,  ch'egli  da  un  pessimo  ed 
incredibilmente  corrotto  esemplare  della  silloge  di 
fra  Giocondo  abbia  tratto  la  massima  parte  delle  sue 


117 

iscrizioni,  è  cosa  che  al  confronto  di  quel  libro  coi 
codici  appare  manifesta;  e  già  nelle  iscrizioni  napo- 
letane e  campane,  per  soli  argomenti  d' indizii,  il 
Mommsen  se  n'ò  chiaramente  avveduto  (I.  N.  p.  128). 
Adunque  non  mi  muove  punto  a  maravigha  quel  guaz- 
zabuglio ch'egli  ci  porge  in  luogo  de'  fasti  venosini; 
postochè  il  pessimo  manoscritto  di  che  egli  valevasi  e 
eh'  egli,  come  io  stimo,  sempre  più  corrompeva  nella 
sua  stampa,  l'ha  perfino  indotto  una  volta  nel  ridi- 
colo errore  di  scambiare  un  cammeo  per  un  camelo. 
E  dove  fra  Giocondo  scrisse:  in  quodam  lapillo  pre^ 
tioso  ejiisdem  Joannis  [Zampolini]  sunt  sculpta  haec 
verba:  SALVIS  AYGVSTIS  FELIX  LEONIDES  (cod. 
Magliab.  f.  7,  b),  egli,  sotto  la  medesima  indicazione 
di  luogo  (p.  210),  disegnò  la  figura  d'un  camelo  e  sul 
ventre  incise  le  lettere  SALIVS  AYGVSTVS  FOE- 
LIX  .  LEONIDES;  certo  perchè  alle  parole  in  lapillo 
pretioso  altri  avea  sostituita  per  brevità  la  voce  in 
carneo,  e  l'amanuense  dell'  Apiano  trasformatala  in 
camelo  die  luogo  allo  stranissimo  disegno,  da  ninno, 
forse,  fin  qui  inteso  nel  suo  vero  senso.  Ed  oltre  a 
questa  prova  generale,  potrei  addurne  parecchie  spe- 
ciali ,  esaminando  gli  errori  di  quella  stampa  ;  ma 
sembrami  che  sarebbe  fastidiosa  ed  inutile  impresa, 
postochè  il  testo  è  d'una  coiruttela  cotanto  evidente, 
che  non  potrà  giammai  essere  stimato  derivare  dal 
marmo  originale;  laonde  accennerò  soltanto  perchè 
manchino  le  parole  tabella  facta,  quando  sono  con- 
servate, benché  fuori  di  luogo,  le  seguenti  a  bello 
Marsico.  Già  vedemmo  quanto  presto  quelle  due  pri- 
me parole  furono  negli  esemplari  stessi  dell'  opera 
di  fra  Giocondo  corrotte,  avendo  io  letto  nel  codice 


I 


Borgiano  labe  Illa  facta  in  luogo  di  tabella^  che  è  fo 
lezióne  concorde  de' più  autorevoli  manoscritti.  Mag- 
giore è  la  corruttela  della  copia  inserita  nella  rac- 
colta di  Pietro  Sabino;  della  quale  non  ho  l'intero 
testo  sott'occhio,  perchè  quando  la  vidi  a  tutt'altro 
avevo  volta  la  mente  che  a  cotesto  quistioni  sui  fasti 
venosini;  ma  mi  bastano  le  prime  parole  Ila  facta 
a  bello  Marsico  per  insegnarmi  la  sempre  crescente 
corruzione,  e  farmi  intendere  che  Pietro  Sabino  da 
una  di  coleste  pessime  copie  se  1'  ebbe  trascritta. 
Infatti  egli  attesta  avere  adoperata  per  le  iscrizioni, 
che  non  vide  co'  proprii  occhi ,  l'opera  dì  fra  Gio- 
condo (1);  e  che  i  nostri  tasti  non  abbia  veduto  lo 
dimostra  col  tacere  il  luogo  dove  esistono;  il  qual 
silenzio  è  nuova  piH)va  della  origine  da  me  asserita 
di  queir  esemplare;  perchè  appunto  ne'  codici  della 
recensione  dedicata  a  Lorenzo  de'  Medici  vedemmo 
que'  fasti  inseriti  in  guisa  tra  i  Càlendarii  romani  e 
venosino ,  da  non  lasciar  scorgere  tosto  a  primo 
aspetto,  e  senza  l'aiuto  ed  il  confronto  dell'altra  re- 
censione ,  quale  ne  sia  la  patria  od  il  luogo  dove 
esistevano.  Laonde  non  mi  pare  strano,  che  avendo 
il  principio  della  nostra  iscrizione  perduto  sotto  la 
penna  degli  amanuensi  ogni  ombra  di  senso ,  sia 
stato  in  parte  ommesso  nella  stampa  dell'  Apiano, 
in  parte  altrove  trasferito.  Veggo  bene  però  ,  che 
altri  potrebbe,  con  qualche  apparenza  di  verità,  so- 

(1)  Nella  lettera  citata  al  Sabellico  scrive  di  aver  compiuto  il 
suo  corpo  d'iscrizioni  di  quasi  tutta  Europa ,  partem  ex  iis ,  quae 
ipse  hinc  inde  conquisivi,  partem  ex  Cyriaci  Anconitani,  et  cujusdam 
fratris  Jucundi  plusculis  qualernionihus ,  quos  Laurentio  Medici 
obtuHt. 


119 

spettare,  che  nel  marmo  originale  fossero  superstiti 
le  sole  lettere  ILi\,  e  che  fra  Giocondo  abbia  di  suo 
arbitrio  supplito  tabehhK.  Al  quale  sospetto,  entra- 
tomi più  volte  in  capo,  avrei  io  dato  peso,  se  non 
avessi  riconosciuto  la  lezione  tabe  illa  incontrarsi  ap- 
punto nel  manoscritto  più  negligente  e  scorretto  che 
sia  fra  quanti  ho  annoverati.  Ma  veniamo  agli  esem- 
plari del  Pighio  e  del  Muratori,  de'  quali  assai  mag- 
giore, che  non  di  quello  dell'Apiano,  era  fino  ad  ora 
stimata  l'autorità.  Quello  che  il  Pighio  trasse  dal 
codice  del  cardinal  Cervini  è  chiaramente  identico 
air  originale  di  fra  Giocondo.  Le  varietà  dell'avere 
scritto  troppo  alto  le  lettere  A'.  Novem.  ;  cioè  a  lato 
della  quinta  in  luogo  della  sesta  linea,  e  nella  15 
Titus  in  luogo  di  Titius,  40.  Annoeus  per  Aimaeus, 
60  fecit  per  fecer.  ,  62  Nigev  per  Nig.  ,  63  Cetronius 
per  Cenlronius  sono,  come  ognuno  vede,  non  essen- 
ziali differenze,  ma  parte  errori  consueti  degli  ama- 
nuensi, parte  emendazioni  arbitrarie;  e  tali  sono  so- 
pratutto le  tre  varianti  che  contradicono  alia  costante 
lezione  degli  altri  codici:  Annaeus;  fecit;  Cetronius. 
Inoltre  se  richiedonsi  estrinseche  testimonianze,  che 
dimostrino  il  codice  del  card.  Cervini  derivato  da 
quello  di  Giocondo,  queste  si  avranno  facilmente  in 
grande  abbondanza.  Perocché  io  ho  osservato,  che  le 
varianti  notate  nella  seconda  edizione  dei  Grutero  a 
quelle  iscrizioni,  che  furono  inserite  nella  silloge  del 
Veronese,  con  le  lezioni  di  questa  medesima  silloge 
costantemente  concordano,  e  sono  tratte  dai  mano- 
scritti del'  Pighio.  Dunque  costui  si  valse  d^un  co- 
dice derivato  da  fra  Giocondo,  ed  io  .sono  persua- 
sissimo,  che  questo  è  quello  del  cardinal  Cervini:  e 


120 
sarà  agevole  a  molti  il  verificale  se  la  mia  opinione 
m'inganna.  Il  quale  ragionamento  pone  fuori  di  dub- 
bio quello,  che  del  rimanente  è  già  per  le  cose  su- 
periormente disputate  irrepugnabile,  l'indicazione  Pi- 
ghiana  Capuae  in  castro  ecc.  essere  stata  per  errore 
corrotta  da  chi  credette  farla  più  elegante  e  latina 
in  cambio  di  quella  de'  codici  originali,  che  ci  danno 
in  castro  Capuano.  Rimane  ad  esaminare  l'esemplare 
del  Muratori.  Il  quale  lo  trasse  dalle  schede  farne- 
siane  di  Tommaso  Scandiano  scritte  l'anno  1505,  ed 
è  il  solo  che  presenti  disposte  in  retto  ordine  cro- 
nologico le  date  consolari;  Io  che  basta,  anche  a  giu- 
dizio del  eh.  Zumpt,  ad  indicarci  che  il  Muratori  lo 
ricompose  a  suo  modo  per  congettura.  Non  v'  ha 
adunque  ragione  veruna  per  k  quale  non  del)ba  an- 
che questo  esemplare  stimarsi  derivato  dalla  fonte 
agli  altri  comune;  alla  quale  lo  richiamano  le  parole 
premessegli  identiche  a  quelle  che  leggonsi  ne'  co- 
dici di  fra  Giocondo.  E  veramente  nelf  ommissione 
della  prima  linea  seguì  il  Muratori  il  giudizio  e 
l'esempio  del  Gori,  e  fi-a  le  altre  varianti  ve  ne  sono 
parecchie  ,  che  evidentemente  manifestano  un  tra- 
scrittore, che  ha  parte  errato,  parte  a  suo  talento 
emendato,  avendo  innanzi  agli  occhi  una  copia  ma- 
noscritta, non  il  marmo  originale.  Infatti  trascurando 
qualche  sigla  allungata  oltie  al  dovere  p.  e.  KAL. 
per  K.  le  vere  varianti  sono,  v.  I.  PETINIVS,  13 
CALVEiNTIVS,  15  L.  TITIVS,  28  M.  YINIGIVS,  31 
PONTIANVS,  32  oinmesso,  34  GN.,  40  LVGGEIVS, 
46  M.  VALERIVS,  60  FEGIT,  61  IVN.  Ora  prima- 
mente non  tutte  mi  sembrano  varietà  proprie  delle 
schede  ftirnesiane  ,    ma  alcune  piuttosto   negligenze 


121 

deiredizione  Muratoriana,  della  quale  l'espenenza  mi 
insegna  non  essere  mai  soverchio  il  diffidare:  ed  in- 
fatti del  verso  32  ommesso  il  Muratori  non  fa  men- 
zione veruna  nelle  sue  note,  benché  le  altre  varianti 
dalla  stampa  del  Gori  venga  additando;  segno,  se  non 
erro,  manifesto  che  gli  sfuggì  dagli  occhi  per  mero 
difetto  di  cura  e  diligenza.  Secondamente  il  PON- 
TIANVS  per  PONTIENVS ,  e  sopratutto  il  FECIT 
per  FECER  sono  evidenti  emendazioni  di  chi  igno- 
rantemente stimò  quelle  lezioni  essere  errori  de' co- 
pisti. Perocché  quando  tutti  i  codici  primitivi  hanno 
rettamente  FECER  ,  solo  quelli  di  seconda  o  terza 
mano  ,  cioè  il  Farnesiano  ed  il  Pighiano  intrudono 
il  falsissimo  FECIT;  né  questo  errore  può  venire  da 
nuova  ispezione  del  marmo,  ma  solo  dalla  inespe- 
rienza di  chi,  leggendo  ne'  manoscritti:  Idem  lustriim 
fecer.,  non  seppe  intendere  che  nel  marmo  originalo 
fu  scritto  Idem  (cioè  iidem),  e  credè  emendare  una 
grammaticale  discordanza  indotta  da  qualche  ama- 
nuense, quando  corrompeva  una  notizia  storica  e  cro- 
nologica. Infine  le  schede  fai'nesianc  leggono  nel  v.  40 
C.  AIMAEVS  concordemente  a  tutti  i  codici  della 
silloge  del  Veronese;  e  questo.,  come  ognun  vede,  è 
un  errore  che  non  potè  venire  dal  marmo,  ma  dalla 
scrittura  corsiva  di  quella  età,  nella  quale  veramente 
Annaeus  ed  Aimaeus  sono  lettere  e  sillabe  facilissi- 
me a  scambiarsi  l'una  per  l'altra.  Di  che  abbiamo 
anche  un  indizio  ninno  di  que'  codici  essere  l'auto- 
grafo od  almeno  copia  corretta  da  fra  Giocondo;  e 
l'errore  Aimaeus  essere  venuto  da  chi  pel  primo  tra- 
scrisse gli  originali  di  lui.  Se  avessi  avuta  la  ventura 
di  poter   esaminare  le  schedo    istesse    di  Tommaso 


122 

Scandiano,  che  sono  tuttora  nella  Borbonica  di  Na- 
poli, potrei  probabilmente  addurre  positivi  argomenti, 
che  le  dimostrerebbero  simili  ai  codici  de'  cardinali 
Cervini  e  Canali,  e  del  cav.  Cicogna  e  spettanti  alla 
medesima  stirpe.  Frattanto  l'unica  origine  di  quanti 
esemplari  possediamo  de'  controversi  fasti  mi  sem- 
bra chiarita  con  tale  un  cumulo  d'indizi  e  di  prove 
manifeste  ,  che  spero  non  avere  più  né  io  né  altri 
a  tornare  sopra  guest'  ispido  e  molestissimo  argo- 
mento. 

Spazzato  così  il  campo  dal  fastidioso  ingombro 
di  tante  varianti  ed  errori  ed  esemplari  diversi ,  e 
ristretta  l'attenzion  nostra  in  quell'unica  copia,  che 
col  consenso  di  tanti  manoscritti  ho  stabilito,  assai 
più  facile  che  non  si  stimerebbe  mi  riescirà  il  ri- 
comporre ad  una  non  arbitraria,  ma  certa  ed  ordi- 
nata serie  cronologica  que'  fasti  evidentemente  scon- 
volti. II  disordine  cronologico  degli  anni,  che  corrono 
ivi  in  questa  serie  720,  723,  721,  722,  724,  725, 
726,  debbe  di  necessità  essere  nato  da  una  delle  due 
cagioni  seguenti.  0  i  fasti  erano  incisi  in  due  colonne 
parallele,  in  guisa  che  a  cagion  d'esempio  i  magi- 
strati dell'anno  720  fossero  scritti  alla  sinistra  quelli 
del  seguente  721  alla  destra,  e  fra  Giocondo  trascrisse 
prima  tutta  una  colonna  ,  e  poscia  tutta  l'altra  ,  e 
così  scompose  l'ordine  cronologico;  o  le  diverse  ta- 
vole marmoree  in  che  necessariamente  era  divisa  una 
sì  lunga  iscrizione  furono  nel  castello  Capuano  male 
collocate,  e  scomposte;  quindi  l'errore  delle  copie, 
che  le  riproducono  quali  erano  affisse  alle  pareti.  La 
prima  ipotesi  fu  proposta  ed  adottata  dal  chiarissi- 
mo Zumpt;  ma  quando  volle  ricomporre  il  monu- 


123 

mento  trovossi  in  un  grave  impaccio.  Perocché  nella 
copia  di  fra  Giocondo  i  salti  non  sono,  come  in  tal 
caso  dovrebbono,  regolari  e  di  tutto  intero  un  anno, 
ma  i  fasti  procedono  turbati  e  confusi  non  solo  nelle 
date  cronologiche ,  ma  henanco  nella  serie  de'  ma- 
gistrati municipali;  e  se  in  quelle  la  storia  ci  porge 
un  filo  da  seguire  onde  ricomporle,  in  questi  ultimi 
non  abbiamo  esterni  aiuti  ed  argomenti,  che  valgano 
a  segnarci  una  norma.  Adunque  la  restituzione  pro- 
posta, formando  ordini  e  colonne  disugualissime,  e 
che  a  primo   aspetto  non  sembravano   assai  verisi- 
mili,  trasmutando  ad  arbitrio  d'  uno  in  altro  luogo 
intere  linee,  ed  aprendo  anche  ad  arbitrio  alcune  la- 
cune, non  era  certamente  tale  da  poter  appagare;  ben- 
ché in  quanto  alla  sostanza  vedremo  tra  breve  che 
tanto    erasi  al  vero  avvicinata  quanto    poteva    quel 
falso  metodo  consentire.   A  me  parve  adunque  che 
fosse  a  tentare  altra  via,  ed  immaginai  l'ipotesi  per 
se  ovvia  e  più  d'ogni  altra  credibile,  che  le  tavole 
stesse  marmoree  fossero  state  male  ordinate  nel  se- 
colo XV.  Nel  qual  caso  null'altro  restava  a  fare  se 
non  scoprire  i  limiti,  ossia  le  commessure  di  ciascuna 
tavola,  e  riconosciutele  disgiungerle  e  disgregarle,  e 
ricomporle  poi  nell'  ordine  che  esigge  il  corso  degli 
anni.    11  tentativo  m'  é  riuscito  oltre  ogni  espetta- 
zione  felicissimo;  poiché  fatto  appena  il  debito  esame 
e  scoperte  le  commessure  e  ricomposte  dietro  la  sola 
guida  degli  anni  le  tavole,  con  mia  grande  maravi- 
glia mi  sono  trovato  aver  fra  le  mani  i  fasti  veno- 
sini  chiarissimi  e  liberi  da  qualunque  intoppo  o  la- 
cuna; e  restituiti  a  tanta  integrità  e  chiarezza  senza 
violenza  né  arbitrio  veruno,  e  quasi  direi  per  incan- 


124 

to.  Nell'annessa  tavola  potrà  ciascuno  vedere  la  sem- 
plice facilità  e  la  certezza  della  operazione  da  me 
compiuta;  la  quale  del  rimanente  ha  già  ottenuto  i 
suffragi  di  coloro  che  possono  giudicare  in  questi 
studi.  Purnondimeno  ad  agevolarne  l'intelligenza  ai 
meno  versati  nell'epigrafìa  gioverà,  innanzi  di  scen- 
dere air  esame  di  qualche  passo  diffìcile  e  contro- 
verso, dichiarare  brevemente  il  modo  e  la  ragione 
di  cotesta  restituzione  d'un  isterico  monumento  di 
sì  alta  importanza. 

Il  limite  della  prima  sezione  è  facile  a  riconoscere; 
poiché  dal  principio  fino  alla  linea  decima  i  fasti  cor- 
rono senza  intoppo  ;  ivi  si  combaciano  due  coppie 
d'edili,  segno  certissimo  che  sono  avvicinate  due  ta- 
vole disparate,  e  che  doviebbono  essere  l'una  dall'altra 
disgiunte.  Segnata  così  la  prima  sezione  non  v'è  in- 
dizio della  seconda  nelle  linee  seguenti  fino  alla  de- 
cimanona, dove  ai  duumviri  tengono  dietro  i  questori, 
quando  dovrebbono  esservi  scritti  i  nomi  degli  edili. 
Afferrato  così  quest'altro  indizio  di  nuova  tavola,  ve- 
diamo svolgersi  regolarmente  i  fasti  lungo  gli  anni 
721 ,  722,  fino  alla  linea  42,  dove  agli  edili  seguono 
non  i  questori  ma  nuovi  duumviri,  e  questi  di  mesi 
che  non  convengono  colle  date  precedenti.  Qui  però 
apparirà  incerto  se  la  linea  42  contenente  una  coppia 
di  edili  debba  essere  inchiusa  od  esclusa  da  cotesta 
nuova  tavola:  ma  basterà  tornare  indietro  coll'occhio 
alle  sezioni  già  definite  per  avvedersi  che  a  cotesta 
tavola  degli  anni  721,  e  722  dovrà  essere  soggiunta 
quella  che  contiene  il  723,  la  quale  comincia  appunto 
con  un  paio  di  edili;  e  che  perciò  la  linea  42  è  di 
necessità  respinta  alla   tavola  seguente.  In  ({uesla  la 


125 

nuova  sezione  è  determinata  dopo  la  linea  53  dal 
difetto  de'nomi  degli  edili;  e  di  quivi  al  fine  non  v'ò 
più  ostacolo  o  salto  veruno;  e  così  la  tentata  ope- 
razione è  compiuta.  Ora  ad  avverare  se  questa  ci 
abbia  condotto  ad  un  termine  giusto  o  fallace,  non 
altro  si  richiede,  che  disporre  le  nuove  sezioni  nel- 
l'ordine voluto  dalla  cronologia,  ed  osservare  che  sia 
avvenuto  de'magistrati  municipali;  se  cioè  dopo  tanto 
trasmutamento  li  rinvenghiamo  restituiti  ciascuno  al 
suo  luogo,  0  come,  e  forse  peggio,  che  prima  vaganti 
fuori  della  lor  sede.  Leggansi  i  fasti  riordinati,  ed 
ogni  data,  ogni  nome,  ogni  persona  si  troverà  al  suo 
posto.  E  dapprima  sta  bene  che  i  questori  si  dicano 
istituiti  neir  anno  720;  poiché  appunto  quel!'  unica 
linea,  che  ci  rimane  del  precedente  719,  ci  mostra 
la  serie  de'  magistrati  chiusa  coi  soli  edili  senza  i 
questori;  i  quali  giammai  non  mancano  negli  anni 
seguenti.  E  che  quella  linea  veramente,  non  sia  già 
parte  della  intestazione  generale  di  cotesti  fasti,  ma 
semplice  continuazione  della  colonna  precedente  in- 
cisa in  altrettante  tavole  parallele  a  queste,  che  furono 
rinvenute  nel  secolo  XV,  non  solo  lo  dimostra  l'intero 
contesto  del  monumento,  ma  anco  lo  spazio  che  fra 
Giocondo  sembra  indicare  essere  frapposto  tra  la 
prima  e  la  seconda  linea;  segno  dell'essere  questa 
ultima  congiunta  non  con  la  prima  ma  con  le  se- 
guenti. La  quale  menzione  de'soli  edili  senza  i  que- 
stori innanzi  all'anno  720,  come  conferma  a  maravi- 
glia il  coincidere  in  questo  le  parole:  Hoc  anno  quae- 
stores  creati',  così  dà  causa  vinta  al  eh.  Zumpt,  che  ne 
ha  sostenuta  e  difesa  la  vera  interpretazione.  La  serie 
rimanente  de'  magistrati  municipali  è  così  esatta  e 


126 

completa,  che  sarebbe  uno  spendere  invano  il  tempo 
l'accingersi  a  dichiararla.  Solo  nell'anno  724  mancano 
i  nomi  degli  edili,  i  quali  possono  forse  essere  stati 
ommessi  per  negligenza  da  fra  Giocondo;  forse  anche 
è  più  probabile,  che  sieno  periti  perchè  slabrata  la 
tavola  nell'estremo  margine  della  quale  erano  scritte. 
Vero  è  che  negli  anni  725  e  726  sono  segnati  i  soli 
nomi  de'consoli  ordinarli,  quando  gli  storici  ci  ad- 
ditano che  nel  725  dovrebbono  anco  comparirvi  al- 
cuni suffetti  (1).  Ma  che  qui  non  possa  esservi  frattura, 
e  forse  neanco  lacuna  originata  da  poca  diligenza 
del  trascrittore,  sembra  accennarlo  il  corso  de'fasti 
municipali,  che  continua  regolarissimo,  senza  pur  un 
vestigio  di  salto  o  d'intoppo  veruno.  Adunque  sia  che 
col  sommo  Borghesi  abbiamo  a  stimare  fallace  la 
narrazione  di  quegli  storici  (2),  sia  che  s'abbia  a  con- 
cedere al  eh.  Zumpt  i  nostri  fasti  poter  aver  om- 
messo  i  suffetti  in  quell'anno,  tuttoché  gli  abbiano 
costantemente  annoverati  ne'  precedenti  (3);  questo 
mi  sembia  oggimai  assai  chiaro  la  tavola  venosina 
neir  estiema  sua  parte  essere  intera  e  perfetta  ,  e 
perciò  non  dovervisi  intromettere  quelle  incerte  e 
dubbiose  lacune,  che  altri  v'ha  aperte. 

E  qui  mi  stimerei  avere  pienamente  raggiunto  Io 
scoj>o  del  mio  scritto,  ch'era  soltanto  quello  di  ad- 
ditare il  vero  archetipo  esemplare  de'fasti  venosini, 
e  restituirne  la  scomposta  e  turbata  cronologia;  se 
le  parole  segnate  nella  prima  linea  non  richiedessero 
una  speciale  ed  accurata  disamina.  Queste  hanno  ve- 
li) Svelon.,  in  Aiig.  e.  26;  Dio,  U,  21. 

(2)  Giorn.  Arcati.   1822   XVf,  p.   247. 

(3)  Comment.  Epigr.  p.  26. 


127 
ramente  offeso,  pressoché  tutti  i  filologi  e  gli  epi- 
grafisti, che  ai  t'asti  di  Venosa  hanno  volta  la  mente, 
dal  Poliziano  infino  all'Avellino  ed  al  eh.  Zunipt,  che 
le  stimarono  in  tutto  od  in  parte  dettato  moderno, 
ed  annotazione  premessa  da  alcun  trascrittore.  Pur 
nondimeno  l'accento  segnato  sulla  lettera  A  rinvenuto 
nell'originale  del  Pighio,  ed  oggi  da  me  additato  anco 
in  quello  di  fra  Giocondo,  ha  posto  fuori  di  quistione 
le  parole  A  BELLO  MARSICO  essere  antiche.  Ma  le 
due  precedenti  Tabella  facla  non  sono  perciò  sembiate 
sicure  al  eh.  Zumpt,  che  le  giudicherebbe  più  volen- 
tieri una  giunta  fatta  dall'autore  dell'esemplare  Pi- 
ghiano.  E  pure  è  oggimai  chiaro,  che  costui  le  tolse 
da  fra  Giocondo;  e  fra  Giocondo  non  certamente  come 
sue,  ma  come  parole  del  marmo  ce  le  ha  trasmesse. 
Ciò  nulla  ostante  io  non  veggo  come  potrei  accettare 
per  vera  ed  antica  scrittura  del  marmo  cotesta  TA- 
BELLA FACTA,  che  non  solo  parmi,  come  al  eh. 
Zumpt,  una  probabile  interpolazione,  ossia  giunta  del 
secolo  XV,  ma  al  mio  senso  latino  ed  epigrafico  riesce 
al  tutto  intollerabile.  E  per  accennare  le  prove  di 
cotesta  mia  persuasione,  e  sciogliere  infine  anco  que- 
st'ultimo nodo,  avvertirò  che  tutti  consentono  le  paiole 
della  prima  hnea  essere  parte  del  titolo  generale  dei 
fasti  continuato  lungo  la  cima  delle  molte  tavole 
marmoree,  in  che  quelli  erano  incisi.  Adunque  il  senso 
non  può  né  dee  esserne  compiuto  ed  intero,  ma  di- 
pendente dalle  parole  incise  nelle  tavole  precedenti 
e  nelle  seguenti.  Non  così  avviene  del  titolo:  Tabella 
facla  a  bello  Marsico,  il  quale  non  solo  è  compiuto 
in  se  e  perfetto,  lo  che  potrebbe  essere  un  puro  caso, 
ma  comunque  si  voglia  collegare  con  quello  che  do- 


128 

vette  essere  seritto  ne'inanni  precedenti,  non  mai  si 
giungerà  ad  ottenere  un  dettato  ,  che  sia  latino  ed 
epigrafico.  Togliamo  ad  esempio  i  fasti  pontifìcii  di 
Sutri  (1),  de'quali  io  ho  riveduto  e  trascritto  il  marmo 
originale;  e  che  per  rara  fortuna  serbano  ancora  in- 
tera e  perfetta  l' intestazione  : 

POnTiFICES   .  A  COLONIA 
CONIVNC  .  IVLIA  .  SvTrIN  .  INORO  .  RELAT  . 

e  proviamoci  a  scrivere  sui  fasti  venosini  nviRi .  ae- 

DILES   .  QVAESTORES   .   COLONIAE  .  VENVSINAE,  giunti  al  paSSO 

della  nostra  tavola,  le  parole  tabella  facta  appariranno, 
quali  sono  veramente,  un  intollerabile  intoppo.  Poiché 
non  stimo  potere  altri  essere  così  privo  di  gusto  latino 
ed  epigrafico,  che  voglia  leggere:  iivlri  eie  coloniae 
Venusinae  in  tabella  facla  a  bello  Marsico  in  ordinem 
relati;  e  non  s'avvegga  che  qui  debbe  essere  stato 
scritto:  Tiviri,  Aediles,  Quaestores  coloniae  Venusinae 
a  bello  Marsico  in  ordinem  relati.  Al  quale  argomento 
tratto  dal  senso  istesso  e  dal  genio  della  lingua  latina 
posso  aggiungerne  uno  esterno,  che  unito  al  primo 
non  avrà  piccolo  peso.  Le  parole  del  titolo  furono 
certamente  incise  con  lettere  molto  maggiori  di  quelle 
de'fasti,  come  è  naturale  ad  immaginare,  e  come  ho 
notato  negli  allegati  fasti  di  Sutri.  Ciò  posto  le  lettere 

(1)  Grut.  302,1.  Un  altro  i'rammento  ili  simili  l'asti  ho  veduto  e 
trascritto  pure  in  Sutri  nella  .;asa  del  sig.  Conte  Fiacchi,  e  serba  in- 
tatta la  prima  parola  del  titolo: 

PONTIFICES.... 

M.  VALEBIVS  RE8IITVTVS 


129 
TABELLA  FACTA  A  BELLO  MARSICO  sembranmì 
troppe  verso  lo  spazio  che  dovette  avere  in  larghezza 
la  nostra  tavola.  Il  quale  mi  pare  all'incirca  deter- 
minato dalla  linea  61  {dell'esemplare  riordinato),  che 
è  tutta  occupata  da  continua  scrittura  ;  e  1'  ultima 
parola  presenta  scritta  in  compendio;  indizio  certa- 
mente assai  forte,  che  abbia  toccato  l'estremo  margine 
della  tavola  marmorea.  La  differenza  tra  questa  linea 
e  la  prima  sarebbe  di  sole  cinque  lettere,  differenza 
.poco  notabile,  e  non  proporzionata  alla  per  lo  meno 
doppia  grandezza,  che  dovettero  queste  ultime  avere 
verso  di  quelle.  Al  contrario  se  facendo  ragione,  che 
la  tavola  superstite  contiene  gli  anni  720-726  (ed  è 
manca  nel  fine)  e  che  le  precedenti  dal  719  rimon- 
tarono fino  agli  anni  della  guerra  sociale  è  facile  in- 
tendere ,  che  dobbiamo  suppone  per  lo  meno  tre 
colonne  a  questa  parellele,  nelle  quali  sieno  stali  di- 
sposti i  fasti  anteriori.  Così  avremo  la  seguente  esat- 
tissima distribuzione  di  lettere  in  capo  a  ciascuna 
tavola: 

UVIRI    .    AEDILES  .  JqVAESTORES  .  COLJoNIAE  .    VENVSINAE  .] 
a'  .  BELLO  .  MARSICO  .   [iN  .  ORDINE.M  .  RELATI  | 

Ma  come  adunque  fra  Giocondo  segnò  le  parole 
Tabella  facta,  quasi  scritte  sul  marmo  ?  Se  grande- 
mente non  erro  facile  è  l'indovinare  la  cagione  del- 
l'errore. La  tavola  fu  riconosciuta  come  preziosissima 
fin  dal  primo  suo  trovamento  e  trasferita  al  palazzo 
del  Duca  di  Calabria,  dove,  come  dice  Pomponio  , 
con  somma  cura  era  serbata.  Le  parole  A  BELLO 
MARSICO  suggerirono  facilmente  a  chi  ebbe  l'incarico 
G.  A.  T.  CXXXHI.  9 


130 

della  collocazione  del  monumento  l'idea  di  scrivervi 
sopra  Tabella  facta,  e  così  completarne  il  titolo.  Ed 
infatti  l'indole  di  quelle  parole  è  sempremai  sembrata 
ai  filologi  non  classica,  ma  cosa  del  secolo  XV  o  XVI; 
e  se  i  codici  del  Veronese  c'insegnano,  che  non  se 
ne  può  attribuire  il  dettato  ad  un  compilatore  od 
annotatore  di  raccolta  epigrafiche  ,  non  perciò  essi 
dimostrano,  che  non  furono  in  quel  secolo  medesimo 
incise  nello  stucco  o  sulla  pietra  istessa  a  capo  del 
monumento.  Né  dovremo  far  caso  dell'avere  fra  Gio- 
condo scritto  quel  titolo  tutto  in  una  sola  linea,  quando 
la  mia  ipotesi  lo  vorrebbe  diviso  in  due  ,  la  prima 
moderna  ,  antica  l'altra  ;  poiché  egli  stesso  ci  av- 
verte (1),  che  della  divisione  delle  righe  non  tenne 
esatto  conto,  ma  le  distribuì  secondo  che  alle  pagine 
del  codice  meglio  conveniva. 

Restituiti  così  i  fasti  venosini  al  sincero  loro 
aspetto,  ed  a  quella  migliore  lezione,  che  i  documenti 
superstiti  m'hanno  potuto  fornire,  sarà  officio  de'dotti, 
che  alla  cronologia  consolare  ed  alla  costituzione  delle 
romane  colonie  e  municipi  hanno  spezialmente  rivolti 
i  loro  studi,  trarre  profitto  dalla  nuova  luce  e  fer- 
mezza, che  ha  rischiarato  e  rassodato  cotesto  capitale 
monumento,  troppo  finquì  combattuto  ed  oscuro. 

(1)  Nella  seconda  epi«(ola  dedicatoria  I.  e. 


CAV.    G.     B.    UE-'RaSSI 


— ^'>^yi'?^^4'^<i-^^r-- 


^ 


Esemplare  dei  manoscriui,  diviso 

. 

in  sezioni. 

ti 

f 

Esemplare  emendalo  e  riordinalo. 

l. 

TabeUa  facta  a  hello  Marsico 

1 

P.  Pecinius                             p.  Publilius  Aed. 

A  BELLO  MARSICO 

«1 

an.  720 

L.  Sempronius                          L.  Scribonius 
^  '"'•                                Paul.  Aemilius 

P.   PETINIVS                                     V.  rvELILUS  AED. 

5 

C.  Menimius 
K.  Novem.                                M.  Herennius 

an.  720 

L.  SEMPRONIVS           L.  SCRIBONIVS 
K.  IVL.                        PAVL.  AEMILIVS 

-  Bellum                               llluricum 

5 

C.  MEMMIVS 

Ex  K.  lui.  ad                       K.  lui. 

K.  NOVEM.                    M.  HERENNIVS 

0 

Q.  Larcius                                C.  Rumeius  llvir 

' 

10 

M.  Metilius                               L.  Annacus  Aed. 

BELLV)!                       ILLVRICVM 

C-  Annius                                 Sex.  Vcttius  Aed. 

*^ 

Ex  K.  lui.  ad                     K.  lui. 

EX  K.  IVL.   AD.  K.  IVL. 

' 

L.  Scutarius                            M.  Calpumius  Q. 

10 

Q.  LABCIVS                                       C.   RVMEIVS  IIVIB 

,              an.  723 

Imp.  Caesar  111                       M.  Valerius 
K-  Mai.                                   T.  Titius 

„ 

15 

HOC  .  AISNO  .  QVAESTORES  .  CREATI 

li 

e 

K.  Oct.                                   Cn.  Pompeius 

—  Bellum  Acti 

Ex  K.  Febr.  ad                       K.  lui. 

an.  721 
15 

EX  K.  IVL.  AD  K.  IVL. 
C.  SVLPICIVS                                 C.  SALVIVS.  BVBVLCVS.  Q. 

IMP.  C.\ESAR.  II.           L.  VOLC.^TIVS 
K.  I\NVAR.                    P.  AVTRONIVS 

i 

20 

Sex.  Titius                               L.  Geminius  llvir 

K.  MAI                            1,.  FLAVIVS 
C.  FONTEIVS 

Hoc  anno  Quaeslores  creati 

Ex  K.  lui.  ad  K.  lui. 

K.  IVL.                            M.  ACILIVS 

' 

C.  Sulpicius                            C.  SalviusBubulcusQ. 

K.  SEPTEMBR.              L.  VINVCIVS 

an.  721 

Imp.  Caesar  li                         L.  Voleacius 
K.  lanuar.                                P.  Autronius 

20 

K.  OCT.                         L.  LARONIVS 

25 

K.  Mai.                                      L.  Flavius 

C.  Fonteius 
K.  lui.                                       M.  Acilius 

e.  AEMILIVS                                   y.  PONTIENVS  IIVIB 
C.  VALERIVS                                  C.  TVBPILIVS.  AED. 

K.  Septembr.                            L.  Vinucius 

an.  722.25 

C.  DOiMITIVS                 C.  SOSIVS 

K.  Oct.                                      L.  Laionius 

K.  IVL.                            L.  CORNELIVS 

30 

Ex  K.  lui.  ad  K.  lui. 
C.  Aemilius                              Q.  Pontienus  llvir 
C.  Valerius                               C.  Turpilius  Aed. 

K.  NOV.                          M.  VALERIVS 

EX  K.  IVL.  AD  K.  SEPT.  PllAEFECTI 
T.  LICINIVS                                   L.  COBBELIVS 

L.  Livius  Ligus                        L.  Cornelius  Q. 

30 

E.\  K.   SEPT.   AD  K.  FEBB. 

an.  722 

1     C.  Domitius                             C.  Sosius 

C.  PLOTIVS                                        C.  AMMAEVS  IIVIB 

35 

K.  lui.                                         L.  Coi-nelius 
K.  Nov.                                    M.  Valerius 

EI    K.  IVL.   AD  K.   IT.nB. 

C     ANSIVS                                          SEX.  VETTIVS.  AED. 

J 

J 

Ex  K.  lui.  ad  K.  Sept.  Praefecti 

l\  K.  IVL.  AD.  K.  IVL. 

1 

1 

T.  Licinius                               L.  Cornelius 

35 

L.    SCVTARIVS                                   ìli.  CALPVBNIVS.  Q. 

1 

f 

Ex  K.  Sept.  ad  K.  Febr. 

an.  723 

IMP.  CAESAR.  Ili           M.  VALERIVS 

^r              40 

C.  Plotius                                 C.  .\imaeus  llvir 

K.  MAI.                           T.  TITIVS 

Ex  K.  lui.  ad  K.  Fehr. 

K.  OCT.                         CN.  POMPEIVS 

P.  Sextius                               0-  Luccius  Aed. 

Ex  K.  lui.  ad  K.  lan. 

BELLVM                        ACTI 

L.  Scutarius                             T.  Sepunius  llvir 

40 

LI    K.    FEBIl.    AD    K.    IVI. 

45 

T.  Antonius                           M.  Valerius  Mess.  Aed. 
L.  Annius                                 C.  Valerius  Q. 

SEX.  TlTlVS                                       L.   (.EIIIMVS  IIVIB 

P.  SEXTIVS                                         P.   LVCCIVS   AED. 

an.  Hi 

Imp.  Caesar  UH.                     M.  Licinius 

a  K.  IVL.  AD  K.  lA». 

K.  lui.                                       C.  Antistius 

L.  SCVTARIVS                                T.  SEPVNIVS  IIVIB 

—  Bellum  Alexandreae 

45 

T.  A!^TOMVS                                     M.   VALERIVS   .MESS.   AED. 

5(1 

Eid.  Sept.                           M.  Tullius 

L     AIMVS                                          C.  VALERIVS   g. 

li   Nov.                                     L.  Sacnius 

an.  724 

IMP.  CAESAR.  llll         M.  LICINIVS 

Ex  K.  lan.  ad  K.  lan. 

K.  IVL.                           C.  ANTISTIVS 

L.  Cornelius                             0-  Vcttius  Uva- 

50 

BELLVM                       ALEXANDRE.\E 
EID.  SEPT.                    M.  TVLLIVS 
K.  NOV.                         L-  SAENIVS 

an.  725.55 

C.  Cassius                                C.  Geminius  INigcr  Q. 
Imp.  Caesar  V.                         Sex  Appuleius 
L.  Oppius                                 L-  Livius  llvir  «. 
jl.  Narius                                 C.  Mestrius  Aed. 

EI  K.  lAN.  AD  K.  lAN. 

Q.  Plestinus                             Sex.  Fadius  0- 

L.  CORNELIVS                                    Q.   VETTIVS  IIVIB 

an.  726 
60 

Imp.  Caesar  VI                        M.  Agrippa  U 
Idem  censoria  potest.  lustrum  fecer. 
Ex  K.  lan.  ad  K.  lui. 

55 
an.  725 

C   CjSSIVS                                 e-  CEUmiVS  nioeb  q. 

lilP.  CAESAR.  V.           SEX.  APPVLEIVS 

L.  Gavius                                 C.  Geminius  Nig.  Uvi. 

L.  OPPIVS                                      l"  l-'VIVS  IIVIR  Q. 

Il     Q.  Centronius                           C.  Clodius  Aed. 

an.  726.60 

L.'  PLESTIMVS                                  SEX.   FADIVS.   Q. 

IMP.  CABSAR.  VI          M.AGRIPPA1I 

Idem  .  censoria  . potest  .  lvstrvm  . fecer . 

ESK.  lAN.  AD  K.  IVL. 
^    „,„,.5                                      C.  CEMWIVS  NIC.  IIVIB 

g.  CETB0MV5                                   C.  CL0DIV5  AED. 

131 

AVVERTENZA 

Il  frammento  d'elogio  d'un  flamine  Quirinale,  che  il  Borghesi 
per  inavvertenza ,  in  che  talvolta  cadono  anche  i  più  grandi 
maestri,  affermò  inedito,  ed  io  stimai  perciò  da  lui  solo  divul- 
gato, era  già,  benché  non  esatamente,  consegnato  alle  stampe; 
anzi,  contro  quello  che  io  dissi,  si  legge  negli  istessi  tesori  epi- 
grafici infin  dal  Grutero.  Di  che  ha  voluto  cortesemente  avver- 
tirmi il  eh.  mio  collega  ed  amico  Sig.  D.  Pietro  Matrahga. 
Vedi  Grut.  492,  7;  Fabretti,  De  aquis  etaquaed.  p.  34  (che  indi- 
ca il  luogo  preciso  nel  quale  era  collocalo  sul  Panteon);  luscr. 
Dom.  p.  731  n.  384  ;  e  Mur.  172,  4. 


132 


Raccolta  degli  scritti  editi  e  inediti  del 
cav.  Domenico  Monchini. 


[Continuazione) 


I 


1  dott.  Giovannelli  rende  ragione  della  differenza 
dell'aria  marina  da  quella  delle  saline ,  e  si  sta- 
bilisce la  salubrità  dell'  aria  marina  pel  gas  acido 
muriatico  che  vi  si  svapora  dalla  maggior  copia  che 
vi  esiste  di  sai  marino  ,  e  dal  gas  ossigeno  respira- 
bile, salubre  e  vitale.  Il  Monchini  risponde,  che  è  un 
sogno  la  maggior  copia  di  sai  marino  nelle  acque 
del  mare,  perchè  le  acque  del  mare  sono  quelle  stesse 
che  s'introducono  nelle  sahne:  anzi  la  concentrazione 
di  queste  acque  nelle  saline  aumenta  la  proporzione 
del  sai  marino  in  esse  contenuto,  e  gli  epiteti  dati 
al  gas  ossigeno  sono  inutili  e  falsi.  Falso  è  1'  epi- 
teto salubre,  perchè  è  stato  provato  colle  sperienze 
endiometriche  che  la  bontà  e  salubrità  dell'aria  non 
è  in  rapporto  colla  quantità  di  gas  ossigeno.  Sono 
inutili  gli  epiteti  respirabile  e  vitale  ,  perchè  il  gas 
ossigeno  solo  possiede  questa  proprietà,  quando  si 
parh  di  gas  puri  ed  isolati. 

Continuando  a  sciorinare  inesattezze  e  paralo- 
gismi, vuol  dimostrare  il  contraddittore  che  la  prova 
della  putrefazione  dell'acqua  marina^ nelle  saline  è 
quando  è  diluita  dalVacqua  dolce:  e  l'altro  argomento 
che  adduce  è  il  puzzo,  che  tramanda  il  lavoratore 
delle  saline.  Cita  male  a  proposito  un  passo  di  Ka- 


133 

mazzini,  poi  un  altro  di  Lancisi,  il  qnale  consiste  (se^ 
condo  la  sua  fantasia)  in  una  spiegazione  di  voca- 
boli grammaticali,  ed  avverte  (come  per  ispirazione) 
che  Lancisi  parlò  di  un'  acqua  marina  stagnante  in 
poca  quantità  spinta  dalla  furia  dei  venti ,  o  (quel 
che  è  peggio  )  di  quella  che  comunica  con  tutta 
l'acqua  del  mare.  E  qui  gli  si  può  applicare  il  testo 
di  Cicerone  «  Eriictat  stomacho  iste  sermo  )>.  Né 
contento  dei  passi  di  due  insigni  scrittori,  presenta 
Wanswieten.  Eppure  questo  passo  riguarda  l'impos- 
sibilità di  ottenere  l'acqua  marina  potabile  per  mez- 
zo della  distillazione  a  motivo  della  sostanza  ani- 
male, che  unita  all'acqua  si  solleva  in  questa  ope- 
razione. 

Un  errore  classico  salta  a  colpo  d'occhio:  vo- 
lendo provare  che  le  piogge  e  1'  umidità  dei  venti 
esalterano  la  malignità  delle  depravate  esalazioni 
provenienti  dalle  acque  marine  stagnanti ,  decom-;. 
poste  e  putrescenti,  poi  dice  che  il  gas  muriatico 
(si  aggiunga  acido)  non  potrà  impedire  una  nociva 
produzione  di  gas  dannosi,  anzi  concorrerà  a  for- 
mare una  settica  qualità.  Ma  la  prova  quale  n'  è  ? 
Poi,  confondere  un  acido  con  un  sale,  e  citare  la 
esperienza  di  Pringle,  che  atterra  tutti  i  suoi  goffi  ra- 
ziocini. Ciò  è  veramente  tacciare  da  stupido  il  let- 
tore del  suo  voto.  Il  eh.  Monchini  scrive  che  dagli 
esperimenti  di  Swedembourg  risulta, che  l'acqua  ma- 
rina delle  nostre  coste  tiene  in  soluzione  ^/g  di  sale: 
e  si  faccia  l'ipotesi  che  in  quest'ottavo  di  sale  siano 
compresi  i  muriati  di  magnesia  e  di  calce,  che  se- 
condo l'analisi  di  Bergman  ne  formino  ^jy  Dunque 
la  proporzione  di  questi  sali  deliquescenti  nell'acqua 


134 

marina  sarà  di  7io  •  ^^essata  la  cristallizzazione  del 
sai  marino  ,  suppongasi  che  l'acqua  madre  non  sia 
saturata  di  sai  marino,  ma  ne  contenga  soltanto  la 
metà  di  quella  dose,  che  potrebbe  essere  sciolta  in 
una  pari  quantità  d'  acqua  pura  ;  questa  quantità 
sarebbe  uguale  ad  ^/g  dell'acqua  madre;  ma  il  pro- 
fessore vuol  supporla  anche  minore  ,  ed  eguale  ad 
*/jQ  solamente.  Continua  l'autore  a  render  ragione 
degli  sperimenti  di  Pringle,  Thouvenel  e  de'  suoi,  con- 
chiudendo che  il  medico  Giovannelli  non  conosce 
affatto  la  natura  dell'  acqua  madre  del  sai  marino. 
I  risultati  di  questo  calcolo  sono  stati  d'accordo  con 
quelle  sperienze  fatte  dall'autore  sopra  l'acqua  ma- 
dre residua  da  una  libbra  di  acqua  marina  super- 
ficiale, che  avea  cessato  di  dar  cristalli  con  l'eva- 
porazione spontanea,  e  che  si  trovò  incorrotta  dal 
7  luglio  fino  ai  28  dello  stesso  mese.  Il  peso  di  que- 
st'acqua madre  fu  di  dr.  7.  I  muriati  di  magnesia 
e  di  ealce  erano  in  dose  di  dr.  2;  ed  il  muriato  di 
soda  nella  quantità  di  50  grani. 

Il  dott.  Giovannelli  senza  penetrare  il  contrario 
raziocinio,  dimostrando  che  nei  piccoli  baccini,  dove 
Vacqua  già  semicorrolta  nel  gran  baccino  vien  inlrodottn 
perchè  ivi  esali  il  cattivo,  cioè  quello  che  non  è  sale, 
afferra  queste  inintelligibili  parole,  le  quali  non  sono 
né  della  scienza,  nò  del  volgo,  inviluppa  sé  stesso, 
e  rendesi  insoffribile  tanto  ai  dotti,  che  agl'idioti, 
non  sapendosi  in  fine  come  confutare  il  suo  discorso. 

Il  Monchini  vede  chiaramente  che  il  voto  del 
dott.  Giovannelli  è  nato  e  nutrito  come  una  pianta 
parasitica  sopra  gli  scritti  del  dottor  Camerari  sot- 
tratti dal  Lupacchioli,  gelosi  agh  occhi  del  pubblico, 
ma  concessi  all'espilazione  del  dott.  Giovannelli. 


135 

L'autore  rispose  a  questa  parte  degli  scritti  del 
Camerari  neiresame  del  voto  dei  professori  toscani. 
Che  se  il  dott.  Giovannelli  sé  ne  impadronì,  senza 
neppure  citarlo,  ciò  non  dà  all'autore  il  diritto  di 
rilevare  il  suo  plagiato.  È  finalmente  provato  che  il 
dott.  Giovannelli  ha  emesso  un  voto  ricolmo  di  passi 
di  Lancisi,  di  riflessioni  inutili  e  false,  non  confa- 
centi alla  questione,  di  errori  di  chimica  e  di  false 
applicazioni  ai  principii  della  scienza. 

Riflessioni  sopra  gli  scritti  del  medicò 
di  Corncto,  Camerari. 

Il  prof.  Morichini  crede  superfluo  Toccuparsi  in 
una  confutazione  degli  scritti  del  dott.  Camerari  y 
dopoché  l'avv.  Lupacchioli  ed  il  dott.  Giovannellir 
avendogli  espilati  da  capo  a  fondo,  son  divenuti  con 
questo  mezzo  autori,  il  primo  di  uno  scritto  ano- 
nimo da  lui  soppresso,  e  di  un  altro  che  ha  pub- 
blicato alla  testa  dei  voti  medici  a  lui  favorevoli  ; 
il  secondo  poi  del  voto  che  ha  emesso  sopra  la  stes- 
sa  ([uestione. 

È  giusto  ancora  il  dire  che  il  dott.  Camerari  fu 
trascinato  nella  contraria  opinione,  più  dalla  forza 
delle  circostanze,  che  dall'intima  persuasione.  L'au- 
tore conosce  la  deferenza  ch'egli  ha  dovuto  avere 
verso  gli  autori  dell'  opposizione  insorta  contro  la 
formazione  delle  saline  di  Corneto  ;  sa  ancora  che 
gli  uomini  di  talento  sono  soggetti  alla  maligna  in- 
fluenza dei  pregiudizi,  quando  notì  è  in  toro  pot«i'« 
di  elevarsi  al  di  sopra  dei  medesimi  per  mezzo  di 
una  riflessione,  potendo  il  Camerari  consultare  libri. 


136 

e  persone  di  lettere,  che  potessero  illuminarlo,  e  ri- 
conoscere quale  delle  due  opinioni  fosse  fondata  so- 
pra la  sperienza  costante,  ed  i  veri  principii  della 
chimica  de'nostri  giorni:  quindi  il  nostro  professore 
scusa  tutti  gli  errori  o  di  fatto,  o  di  scienza,  e  tutte 
le  inesattezze  nelle  citazioni  degli  autori.  Non  può 
condonare  però  né  al  dott.  Giovannelli,  né  all'avv. 
Lupacchioli  gli  errori  di  chimica,  avendo  scandaliz- 
zato gli  stessi  principianti,  e  dato  a  credere  agli  stra- 
nieri che  le  scienze  naturali  fra  noi  siano  come  presso 
gli  ottentoti. 

Il  prof,  romano  termina  di  dire  che  il  dott.  Ca- 
merari non  avendo  risposto  al  suo  secondo  scritto, 
neppure  a  quello  dei  tre  professori  toscani,  si  é  in 
diritto  di  supporre  ch'egli  cambiò  di  sentimento,  e 
che  il  suo  silenzio  è  da  uomo  onesto  e  ragionevole. 


*o' 


Riflessioni  sopra  la  memoria  delVavv.  Lupacchioli 

Poche  osservazioni  fa  l'autore  sopra  questa  me- 
la moria,  quale  non  è  altro  che  lo  scritto  anonimo 
spogliato  daeli  errori  i  piii  grossolani  che  mossero 
le  risa  dello  stesso  autore,  e  lo  costrinsero  a  raf- 
fazzonarlo alla  meglio  e  pubblicarlo.  Si  leggeva  un 
viaggiatore  trasformato  in  un  commentatore,  un  papa 
in  medico,  ed  altri  strafalcioni  che  farebbero  arros- 
sire chiunque  ha  senno  ed  onore.  Peraltro  la  parte 
scientifica  ,  quella  cioè  che  riguarda  i  cangiamenti 
dell'acqua  marina,  durante  la  salinazione,  vi  si  trova 
quasi  corredata  delle  stesse  prove,  convalidata  dal- 
l'autorità dei  medici,  che  opinarono  in  suo  favore. 


137 

Lagnasi  acerbamenle  il  Dr.  Morichini  del  Lu- 
pacchioli  per  indegna  calunnia,  ove  scrive  «  di  esser 
cioè  io  anlicipalamente  in  qualche  modo  addello  al 
suo  avversario  )>.  Il  Lupacchioli  sparge  dei  dubbi 
sopra  l'onore  del  professore  Morichini  con  un  lin- 
guaggio oscuro  e  privo  di  prove.  Tutti  sanno  che 
monsignor  tesoriere  non  impose  al  prof.  Morichini 
di  difendere  le  Saline,  ma  di  dare  il  suo  parere  so- 
pra gli  effetti  delle  medesime  sull'aria,  ne  il  magi- 
strato supremo  pretese  di  sostenere  gì'  intrapren- 
denti delle  saline  contro  gli  abitanti  cornetani,  ma 
unicamente  di  disingannare  quel  popolo  da  un  pre- 
giudizio funesto  alla  città  ed  allo  stato:  fu  l'intima 
persuasione  quella  che  fece  opinare  favorevolmente 
all'A.,  sostenne  la  verità,  e  per  conseguenza  la  di- 
fese. Convinto  dalla  ragione  e  dall'  esperienza  che 
l'indole  delle  saline  era  innocua,  era  dovere  suo  di 
tranquillizzare  Corneto  da  questo  pregiudizio,  espo- 
nendo al  pubblico  le  sue  ragioni ,  consultando  in 
tutti  i  modi  r  esperienza.  Rimprovera  il  nostro  A. 
all'avvocato  Lupacchioli  le  sue  sconcezze  di  scrivere, 
e  le  stravaganti  frasi  che  adopera,  dando  in  com- 
pendio l'idea  dell'oratoria  sua  eleganza,  de'  suoi  cal- 
coli economici ,  e  del  rigore  della  sua  logica.  Se- 
guita il  dottor  Morichini  a  tacciarlo  di  plebeo,  com- 
piacendosi il  Lupacchioli  di  ripetere  due  volte  la 
plateale  espressione  di  cocci,  dimenticando  l'avvocato 
di  rispettare  la  maestà  del  tribunale.  L'A.  si  lagna  del- 
l'incompetenza di  chi  scrive  sul  calcolo  del  danaro 
per  la  compera  del  sale,  lo  consigha  a  leggere  le 
opere  di  Mascagni,  Chiarugi,  e  Giorgi,  poi  quelle  di 
Fabroni,.  non  che  di  monsignor  Giovene  ,  e  questi 
sono  tutti  celebri  in  chimica,  fisica,  ed  agronomia. 


138 

Consta  dunque  all'evidenza  che  vorrebbe  l'avvo- 
cato Lupacchioli  infìggere  nell'animo  dei  giudici  un 
dubbio  che  egli  riguarda  il  sicuro  della  vittoria,  dopo 
aver  riconosciuto  che  quel  Lambertini,  che  adduce, 
non  è  un  medico,  come  aveva  creduto,  ma  un  papa, 
di  cui  si  ammireranno  sempre  i  talenti  e  la  dot- 
trine. Dopo  questo  ,  se  anche  la  moderna  chimica 
dimostrasse  che  la  putrefazione  dell'  acqua  marina 
nelle  saline  fosse  innocua  alla  salute  degli  uomini, 
anche  in  questo  caso  nessun  dubbio  di  fatto  auto- 
rizzerebbe la  proscrizione  delle  saline  marittime. 
L'avvocato  difensore  avrà  diritto  di  sostener  in  con- 
trario, quando  addurrà  un  esempio  di  qualche  luogo 
che,  ecsendo  prima  di  aria  salubre,  divenne  poi  di 
aria  infetta  per  le  vicinanze  delle  saline;  sicuramente 
non  troverà  simili  esempi  ,  che  ripugnano  a  tutti 
quelli  che  sono  già  noti,  alle  leggi  della  natura,  né 
vacilleranno  ai  latrati  dell'  avvocato  Lupacchioli. 

1  brevi  rilievi  sopra  l'ultima  memoria  del  signor 
avvocato  Lupacchioli  formano  l'XI  dissertazione. 

L' illustre  Fabroni  parlando  dell'  ignoranti  osti- 
nati si  esprime  così  «  che  è  difficile  di  persuadere 
il  vero  ad  una  cieca  ed  ostinata  ignoranza,  o  alla 
vana  speranza  «  così  accade  all'  avvocato  Lupac- 
chioli il  quale  persiste  a  difendere  un  assunto  estraneo 
affatto  al  genere  delle  sue  occupazioni,  si  è  reso  fa- 
moso per  li  grandi  errori  della  sua  imperizia,  della 
materia  che  tratta,  non  pensa  al  giudizio  severo  di 
un  tribunale,  al  silenzio  di  tutti  i  primi  suoi  difen- 
sori, e  finalmente  all'esperienza  di  tutt'i  luoghi,  tem- 
pi, e  nazioni  a  lui  tutti  sfavorevoh.  L'A.  attribuisce 
a  tutto  questo  la  sua  arrogante  condotta  la  quale  cer- 


139 

ca  (li  illudere  il  buon  senso  dei  giudici  ed  il  pubblico 
con  sofismi  e  cavilli.  Riflettete  ancora  il  nostro 
professore  che  il  sig.  avvocato  deve  andar  incontro 
a  qualche  affezione  ipocondriaca  ,  piuttostochè  ad 
errore  d'intelletto,  conoscendoci  che  ha  un'  idea  nna- 
lignante  delle  saline  ,  capace  di  averlo  portato  ad 
una  vera  malinconia.  Ciò  può  anche  nascere  da  un  pe- 
ricoloso male  che  gli  sovrasta  ,  qual  è  V  alofobia  , 
ossia  l'orror  del  sale,  come  è  nell'  idrofobia  l'orror 
dell'  acqua.  L'  A.  consiglia  1'  avvocato  contrario  a 
porsi  in  guardia  se  potessero  nascere  sopra  il  suo 
fisico  questi  due  morbi.  Il  primo  (se  già  n'è  inva- 
sato) di  leggere  con  attenzione  1'  opera  classica  di 
Chiarugi,  il  secondo  d'  invocare  il  braccio  sanitario 
della  sacra  consulta.  Il  sig.  Lupacchioli  adoperando 
sempre  uno  stile  incolto  e  plateale  ,  eruttando  a 
tutti  i  professori  del  voto  per  il  S.  tribunale  ingiu- 
rie, ricorrendo  perpetuamente  a  cavilli,  a  mutilare, 
a  stravolgere  il  senso  degli  scritti  altrui  ,  invilup- 
pandosi in  ammasso  di  parole  e  strambe  proposizioni  , 
ha  creduto  di  aver  adempiuto  all'oggetto  della  que- 
stione degli  impugnatori  delle  saline. 

Come  si  può  tollerare  che  quest'uomo,  antifisico 
per  natura  e  per  necessità,  possa  contendere  colle 
dottrine  di  un  Mascagni  onore  di  Italia  ,  in  cui  è 
celeberrimo  per  le  scoperte  anatomiche  ,  e  sopra 
tutt'  ì  rami  della  chimica,  e  della  storia  naturale  ? 
Tacesi  di  altre  grossolane  scipitezze  che  scaglia  alla 
scienza  chimica ,  essendo  effetto  di  un  delirio  alo- 
foboico  ,  0  il  latrato  del  cane  al  chiaror  di  luna. 
Fra  le  più  ridicole  idee  che  pone  in  vista  sono  la 
presenza  dell'alga,  o.  qualche  rara    pianlicina  ,    che 


140 

nell'inverno  periscono  dopoché  vi  sarà  rinchiusa  h 
salamoia.  Fra  le  goffaggini  scritte  a  ribocco,  dà  l'e- 
piteto di  ridicoli  agli  esperimenti  del  Monchini,  per- 
chè fatti  con  una  libbra  d'  acqua  ,    e  due  once  di 
carne.  Ma  non  sa  l'avvocato  che  pochi  grani  d'una 
roccia,  0  di  una  miniera,  e  poche  libbre  d;  un  ac- 
qua minerale  bastano  al  chimico   per  conoscere  la 
natura  di  una  catena  di  monti ,    di  una  vasta  mi- 
niera ,    o  di  una  gran  sorgente  di  acqua  minerale. 
E    se  Vauquelin    e  Klaproth    con  altri  insigni  chi- 
mici ci  han  dato  le  più   sicure    analisi    dei    monti 
della  Germania  e  della  Francia,  e  d'immense  miniere 
metalliche  di  tutta  l'Europa,  senza  rinchiuderle  tutte 
nei  loro  crogiuoli,  non  si  conosce  perchè  non  deb- 
bano valutarsi  le  esperienze  del  Monchini  a  senti- 
mento del  sig.  Lupacchioli,  perchè  non  pose  all'e- 
sperimento un  cavallo,  un  bue,  o  qualche  altro  gros- 
so animale,    come  esige  il  nostro  dotto   avversario. 
Si  è  provato  dunque  che  la  putrefazione  dell'acqua 
marina  nelle  saline  è  impossibile  ,    e  per  la  natura 
stessa  della  sostanza  animale  che  vi  è  contenuta,  e 
per  l'influenza  di  tutte  le  circostanze  che  accompa- 
gnano la  permanenza  di  quest'acqua  nei  ricettacoli 
delle  medesime,  e  per  la  facoltà  antisettica  del  sai 
marino  che  vi  si  trova  in  una  dose  che  rende  im- 
possibile ogni  putrefazione.  Il  prof.  Morichini  ha  ad- 
dotto gli  esempi  di  dodici    delle  più  celebri  saline 
marittime  d'Europa,  che  poste  in  vicinanza  di  città 
popolose  non  recarono  ad  esse    la   minima  insalu- 
brità, ed  ha  provato  che  esse  possono  esser  situate 
senza  alcun  pericolo  sotto  i  venti  più  salubri.  Che 
due  celebri    facoltà  scientifiche  e  mediche  ,    quella 


141 

di  Torino  1775,  e  quella  di  Genova  1801  ,  hanno 
sanzionato  per  la  salubrità  delle  saline.  Che  in  molti 
luoghi,  in  specie  in  Trapani  e  Certagona,  sono  te- 
nute in  credito  di  tale  salubrità  da  servir  di  diporto 
ai  malati  di  languore.  L'A.  espone  che  i  più  grandi 
fisici,  e  giudici  in  queste  materie  ,  tanto  romani , 
che  esteri,  hanno  provato  con  dotti  scritti,  »ià  nelle 
mani  dei  giudici  e  del  pubblico,  che  gli  ha  applau- 
diti. Ad  un  corredo  di  osservazioni,  fatti,  ed  auto- 
rità, che  contrappose  il  sig.  Lupacchioli?  Niente  af- 
fatto: ed  a  niente  si  riducono  i  suoi  imbecilli  ca- 
villi, e  sono  questi:  che  il  lido  sia  sottile  ed  algoso. 
Che  sieno  poste  sotto  venti  meridionali.  Che  non  siavi 
frapposto  alcun  obice.  Cagliari,  Trapani,  ed  Ivica  non 
danno  gli  esempi  i  più  luminosi  delle  saline  sotto 
i  venti  meridionali ,  senzachè  alcun  obice  si  frap- 
ponga al  loro  libero  corso  verso  gli  abitati  ? 

Ne  basta  sentire  tanti  paradossi.  Il  sig.  Lupac- 
chioli nega  contro  l'evidenza  di  una  autentica  pian- 
ta topografica,  che  il  luogo  ora  occupato  dalle  sa- 
line fosse  prima  un  marazzo,  o  palude,  asciugabile 
in  estate.  Il  nostro  professore  pone  termine  a  que- 
sti rilievi  sul  nuovo  scritto  del  Lupacchioli.  Tutto 
il  resto  si  è,  o  ingiuria  villana  ,  quando  viene  da 
questo  legale ,  o  cavillo  aperto:  concludendo,  che 
omnium  irrisione  ludatur. 

Si  ohielta  V  apologia  delle  saline    di  Corneto  contro 
il  voto  del  chimico  toscano  sig.  Gazzeri. 

Il  signor  Morichini  viene  a  confutare  lo  scritto 
chimico  del  sig.  dottor  Gazzeri:  ma  dichiara  il  no-^ 


142 

stro  prof,  che  non  è  già  la  provocazione  del  ìne- 
desimo  o  l' importanza  degli  argomenti  da  lui  ad- 
dotti, che  lo  abbiano  determinato.  Per  queste  due 
ragioni,  anziché  rispondere,  poteva  tacere;  e  perdere 
il  tempo  nel  ribattere  delle  obbiezioni  già  confu- 
tate, Dell'esaminare  dei  fatti  falsi  ed  impossibili , 
nel  fer  rilevare  le  inesattezze  dell'avversario,  nel  so- 
stenere la  noia  e  la  continua  pedanteria,  è  questo 
un  peso  intollerante  per  il  dottor  Monchini.  Ma  ri- 
flettendo che  interessa  una  causa  tutta  per  la  sua 
patria,  non  si  vuol  far  sopraffare  dalla  larva  dì  ve- 
rità, colla  quale  si  ricuopre,  ed  ha  creduto  di  accet- 
tare il  guanto  della  disfida  gettatogli  dal  chimico 
toscano.  11  prof.  Morichini  si  appoggia  alle  dottrine 
di^Mascagni,  di  Fabroni,  di  Chiarugi,  di  Thouvenel  dei 
Lancisi,  dei  Puiati,  ed  infine  di  tutti  i  più  celebri 
dotti  di  Roma. 

L'A.  assume  l'ingrata  fatica  di  esaminare  da  ca- 
po a  fondo  uno  scritto  voluminoso,  nel  quale  ebbe 
r  infelice  consolazione  di  correggere  degli  errori,  e 
di  rintuzzare  l'orgoglio  di  una  persona  male  istruita, 
spacciando  paradossi,  rifiutando  le  autorità  di  cele- 
bri sperimentatori,  portando  un  giudizio  con  un  im- 
pudenza decisa.  Qui  1'  A.  passa  in  rivista  tutti  gli 
articoli  del  chimico  avversario.  Tralasciandosi  par- 
lare dei  primi  1 0  articoli,  i  quali  fanno  un  quadro 
poco  favorevole  al  sig.  Gazzeri,  od  in  cui  indebi- 
tamente si  rinvengono  sarcasmi,  motti  pungenti,  non 
soliti  usarsi  dai  veri  dotti  nelle  discussioni  scien- 
tifiche. 

Il  dottor  Morichini  con  un  epilogo  di  argomenti, 
magistralmente  scritti,  conclude,  che  le  acque  ma- 


143 

l'ine  non  contengono  in  soluzione  che  una  sostanza 
animale  in  istato  saponaceo,  bituminoso,  ovvero  e- 
strattivo:  che  esse  si  conservano  lungamente  senza 
putrefarsi,  che  la  sostanza  animale  vi  è  in  quantità 
inasprezzabile:  che  essa  non  somministra  durante 
l'alterazione,  che  soffre  in  tempo  della  salina/ione, 
altri  prodotti  che  quello  di  una  tenue  quantità  di 
acido  carbonico,  e  niente  di  ammoniaca  ,  o  di  gas 
idrogeni  composti,  prodotti  dalla  putrefazione;  e  11- 
nalmento  anche  volesse  supporsi  che  una  putrefa- 
zione potesse  aver  luogo  nella  salina zione,  essa  sa- 
rebbe arrestata  dalla  successiva  e  rapida  concen- 
trazione delle  acque  marine.  Niun  dubbio  dunque 
limane  sopra  l'innocuità  delle  saline  marittime  ar- 
tificiali. La  storia  delle  stranezze  dello  spirito  umano 
non  può  essere  ignorata  dal  consesso  di  uomini  il- 
luminati ,  concludendo  con  il  dottissimo  Fabroni: 
Non  vi  è,  egli  dice,  maggior  ragione  per  porsi  alla 
costruzione  di  una  salina,  di  quella  che  avrebbe  chi 
si  opponesse  alla  formazione  di  una  bella  peschiera, 
di  una  utile  darsena,  o  del  bacino  di  un  porto.  Ma 
è  forse  più  difficile  ancora  immaginare  un  sofisma 
capace  di  far  vedere  qualcosa  di  micidiale,  di  per- 
suadere il  vero  ad  ima  cieca  ed  ostinata  ignoranza. 

Il  saggio  medico-chimico  sopra  V acqua  di  Nocera  colle 
sue  notizie  storiche  forma  la  XIII  memoria. 

Il  cardinal  Girolamo  della  Porta  prefetto  dèi 
buon  governo  invitò  il  professore  Monchini  a  far 
}■  analisi  chimica  dell'acqua  di  Nocera,  dopo  gli  or- 
dini dati    che  i  bagni  di  Nocera    fossero   provvisti 


144 

di  tutto  ciò  ch'è  necessario  al  pieno  contentamento 
di  coloro  che  li  frequentano,  all'ingrandimento  de- 
gli alloggi,  alla  costruzione  di  nuovi  portici,  ma  in 
specie  a  ciò  che  interessa  a  quelli  che  vi  accor- 
rono per  motivi  di  salute,  e  che  potesse  guidare 
i  medici  e  gli  stessi  infermi  a  distinguere  le  ma- 
lattie, e  le  circostanze,  nelle  quali  il  loro  uso  fosse 
vantaggioso. 

Da  molti  scrittori  si  è  dubitato,  se  le  virtù  che 
venivano  attribuite  alle  acque  di  Nocera  fossero  do- 
vute a  qualche  sostanza  in  esse  dìsciolta,  ovvero  alla 
loro  leggerezza  unita  a  quelle  circostanze,  che  ren- 
dono salubre  il  soggiorno  dei  fonti  medicinali.  Tal 
dubbiezza  rimaneva  ancora  dopo  le  ultime  analisi  di 
queste  acque:  perchè  all'epoca  in  cui  furono  esegui- 
te, non  erano  comuni  gli  apparati  destinati  a  rac- 
cogliere i  fluidi  elastici ,  nella  quantità  e  natura 
de'quali  è  riposta  l'energia  dell'acqua  di  Nocera.  Non 
v'era  che  un'  analisi  fatta  con  i  mezzi  esatti,  che 
potesse  sciogliere  la  questione  in  un  modo  soddi- 
sfacente: e  ciò  tentò  di  fare  l'illustre  chimico  Mo- 
nchini con  r  esperienze  che  formano  il  principal 
soggetto  di  questa  memoria. 

Pertanto  nel  valutare  i  volumi  dei  fluidi  elasti- 
ci, ed  i  pesi  dei  principii  fissi  contenuti  in  un'  ac- 
qua determinata  di  acqua  di  Nocera ,  adoperò  la 
libbra  romana,  come  modulo,  fatta  la  riduzione,  co- 
me quella  di  Parigi,  la  quale  è  composta  di  6912. 
Poteva  fare  l'A.  un  altra  riduzione,  quella  del  grano 
romano,  al  grano  di  Parigi,  il  quale  è  composta  di 
9216  grani,  mentre  la  libbra  romana  ne  contiene 
6912.  Poteva  fare  l'A.  un'altra  risoluzione  ,   quella 


U5 

del  grano  romano  al  grano  di  Parigi ,  il  quale  sta 
al  primo  9990:  9216,  ovvero  25:  23;  ma  siccome 
questa  riduzione  non  affettava  i  risultati  di  una  quah- 
tità  molto  sensibile,  la  trascurò,  e  preferì  d'indica- 
re per  comodo  di  quelli  che  volessero  ripetere  le 
esperienze  fondamentali  del  calcolo  dei  volumi  dei 
fluidi  elastici. 

Le  esperienze  furono  eseguite  con  diligenza  ,  e 
due  volte  ripetute  allo  stesso  fonte  ,  ed  in  Roma , 
ove  fece  trasportar  1'  acqua  in  vasi  ermeticamente 
chiusi. 

Scrive  l'A.  che  il  primo  scrittore  che  siasi  oc- 
cupato dell'acqua  di  Nocera  è  stato  Bernardino  da 
Spoleto,  ed  il  secondo  Bernardo  Venanzio  da  Cori- 
naldo.  Il  primo  nel  1510,  e  l'altro  nel  1591  eser- 
citarono la  medicina  in  Nocera,  e  verso  la  metà  del 
secolo  scorso  il  professor  Piombi  autore  di  un  buono 
scritto  sopra  1'  acqua  di  Nocera.  Il  primo  poi  che 
stampò  su  quest'acqua  fu  Ottaviano  Mariano  d'As- 
sisi nel  1599,  resosi  impossibile  e  raro  di  posseder- 
si. Questo  trattato  fu  ristampato  in  Perugia  nel  1627, 
e  da  queir  epoca  non  si  ha  notizia  di  alcuno  scrit- 
tore che  siasi  occupato  di  questo  argomento  fino 
al  1720,  nel  quale  anno  Florido  Piombi  medico  di 
Nocera  dette  alla  luce  delle  osservazioni  sopra  l'uso 
delle  acque  già  celebri  del  fonte  di  Nocera.  Questo 
stesso  medico  nel  1745  pubblicò  un'  opera  più  este- 
sa ,  la  quale  rapporto  alla  parte  storica  e  medica 
nulla  lascia  a  desiderare-  Nel  1700  Luigi  della  Fa- 
bra  professore  nel  liceo  ferrarese  pubblicò  un'ope- 
retta sulla  terra  di  Nocera  ,  nella  quale  parla  del- 
l'acqua che  la  tiene  in  soluzione. 
G.  A.  T.  CXXXIII.  10 


U6 

Nel  1774  il  dottor  Lorenzo  Massimi  medico  ro- 
mano di  alta  fama,  pubblicò  un  opuscolo  SuWacqiia 
salubre  e  bagni  di  Nocera.  Casagrande  sciisse  qual- 
che cenno  nel  1793,  e  pochi  rilievi  dissero  il  dot- 
tor Moieschini  medico  di  Macerata,  ed  il  P.  Colizi 
Barnabita. 

Da  molti  autori  si  tiene  menzione  dell'acqua  di 
Nocera,  e  della  loro  efficacia.  Alessio  d'  Augusta , 
Amato  Lusitano,  Andrea  Baccio,  Andreoli,  Falloppió, 
Lancisi,  Baglivi,  e  moltissimi  altri  hanno  parlato  di 
quest'acqua,  e  delle  sue  virtù  medicinali. 

Il  fonte  di  Nocera  versa  in  vari  luoghi  dell'  a- 
rea  occupata  dalle  fabbriche  dei  bagni  circa  cento 
once  (misura  romana).  Scaturisce  dal  fianco  di  un 
monte  di  mediocre  altezza  posto  al  sud-ovest  di 
Nocera  in  distanza  di  due  miglia  dalla  città,  ch'è  si- 
tuata a  30,  18,  32  di  logitudine ,  ed  a  43,  6,  40 
di  latitudine. 

La  situazione  dei  bagni  di  Nocera  sul  dorso  di 
un  piccolo  monte  che  fiancheggia  una  deliziosa  valle 
irrigata  dal  fiume  Topino,  la  vicina  città  di  Fuligno, 
l'abbondanza  di  ogni  genere  di  sussistenza,  la  son- 
tuosità degli  edifi/.i,  la  salubrità  dell'aria,  con  tutti 
i  comodi  di  bagneruole  ed  islromenti  da  doccia,  ren- 
dono piacevole  la  stagione  di  quel  bagno. 

Qui  descrive  il  prof,  la  struttura  del  monte,  la 
pietra  calcarea,  ed  i  principi!  di  questa  pietra,  poi 
viene  alle  proprietà  fìsiche  dell'acqua,  e  sono  la  chia- 
rezza, la  distinzione  delle  parti,  e  l'esatta  termina- 
zione dell'oggetto  guardato  attraverso  l'acqua  di  No- 
c(8l*a»  è  maggiore  che  quando  si  riguarda  per  mezzo 
di  altre  acque  chiare  e  salubri.  Alle  proprietà  fìisi- 


U7 

che  dell'acqua  vi  è  la  sua  gi-avità  specifica,  che  si  è 
trovata  minore  di  quella  dell'  acqua  distillata  nella 
ragione  di  0,  9996:  1,0000.  Con  l'aeiometro  di  Ni- 
cholson  fu  fatta  la  determinzione,  e  siccome  la  tem- 
peratura dei  luogo,  in  cui  si  faceva  l'esperienza,  era 
di  12  del  termometro  di  Reaumur  ,  si  aspettò  per 
eseguirla,  che  la  temperatura  dell'  acqua  di  Nocera 
si  elevasse  al  grado  indicato.  L'A.  poi'ta  anche  l'at- 
tenzione alle  proprietà  fisiologiche  sopra  i  vari  or-^ 
gani  e  funzioni  della  machina  umana,  giovando  con 
efficacia  alle  ostruzioni  addominali,  blenorree,  flussi 
epatici,  ed  altri  incomodi  nervosi  ,  colle  cachessie , 
dispepsie,  vomiti  abituali,  clorosi,  coliche  ec. 

Gli  effetti  dei  reagenti  furono:  -  La  tintura  di  lac- 
camuffa non  viene  alterata,  così  quella  di  crucuma. 

Quella  di  alua  purpurea  è  cangiata  sensibilmente 
in  verde  -.  Il  solfato  verde  di  ferro  nel  disciogliersi 
si  decompone.  -  I  prussiati  di  calce  e  di  potassa 
non  comunicano  Colore  alcuno  alla  medesima.  -  I 
sali  baritici  non  vi  producono  intorbidamento.-  Lo 
produce  sensibilissimo,  e  con  precipitazione  l'acqua 
di  calce.  -  Con  l'òssalato  di  àmmoniaéa  si  ottiene  lo 
stesso  effetto.  ~  L'ammonica  caustica  v'incìucé  un  tur- 
bamento sensibile.  -  I  nitrati  di  mercurio  e  d'  ar- 
gento vi  pi'oducono  una  leggera  opalescenza  -  Facen- 
do bollire  1'  acqua  di  Nocera  se  ne  sepera  un  sedi- 
mento biancastro,  e  tutti  i  reagenti  indicati  sono  al- 
lora senza  effetto  sopra  la  medesima,  eccettuatine  I 
nitrati  di  argento  e  di  mercurio,  i  quali  continuano 
a  produrre  una  debole  opalescenza. 

Da  queste  sperienze  si  deduce  che  non  v'è  acido 
a  nudo  fuor  di   combinazione  ,    ma  una  debole  so- 


148 
stanza  alcalina;  che  non  vi  è  notabile  quantità  d'a- 
ria vitale;  che  non  v'esistono  né  ferro,  né  sali  sol- 
forici; che  vi  si  trova  la  calce  combinata  coll'acido 
carbonico  ,  e  che  esistono  nell'  acqua  di  Nocera  o 
l'allumina,  o  la  magnesia,  o  ambedue  assieme;  che 
v'è  qualche  traccia  di  sali  muriatici. 

Per  mezzo  di  un  vaso  di  vetro  tubulato  annesso 
ad  un  apparato  di  mercurio,  il  professore  esaminò 
i  fluidi  elastici  della  nostr'acqua.  L'esperienza  fu  ese- 
guita ad  una  temperatura  di  11'  del  termometro 
di  Reaumur.  Con  queste  cautele  furono  fatte  tre  espe- 
rienze, nella  prima  delle  quali  da  once  42  di  acqua 
di  Nocera  si  ottennero  sei  pollici  cubici  di  aria:  nella 
seconda  da  37  once  d'acqua  se  ne  ottennero  cinque 
pollici  cubici,  ed  un  quarto,  e  nella  terza  dalla  stessa 
quantità  d'  acqua  cinque  pollici  cubici  ed  un  terzo. 
Passò  quindi  ad  esaminare  l'aria  sviluppata  dall'acqua 
di  Nocera  insieme  con  quella  che  proveniva  dall'in- 
terno dei  vasi.  L'esame  dei  principii  fissi  fa  che  da 
duecentomila  grani,  cioè  da  28  libbre,  11  once,  e 
56  grani  d'acqua  di  Nocera  si  ottennero  per  mezzo 
della  svaporazione  50  grani  di  residuo  di  color  gri- 
gio, morbido  al  tatto,  di  niun  sapore,  e  che  s'inu- 
midiva all'aria. 

I  50  grani  di  sedimento  ottenuti  da  duecentomila 
grani  di  acqua  di  Nocera  sono  composti  come  segue: 

Carbonato  di  calce       ....  33  |  grani 

Muriati  di  calce  ,  e  magnesia     .  2 

Allumina 8 

Magnesia 4 


U9 

Silice 2 

Ferro 0  | 

Totale  50 

€ontinua  ad  esaminare  l'A.  i  due  sedimenti,  quello 
delle  caldaie,  e  quello  dei  tubi. 

In  quello    delle    caldaie    furono    ritrovati  questi 
principii: 
Carbonato  di  calce      ....     93 

Magnesia        03 

Allumina 2 

Silice 1 

Ferro ^ 


Totale  99  è 
Perdita  | 

Nel  sedimento  dei  tnbi: 

Carbonato  di  calce      ....  87 

Magnesia 8 

Allumina 4- 

Silice,  e  ferro 1 


Totale     100 

Si  potrebbe  credere  che  la  terra  di  Nocera  si  ri- 
cavasse per  evaporazione,  o  per  deposito  spontaneo 
dalle  acque  di  tal  nome:  ma,  oltre  che  ciò  non  è  di 
fatto,  la  chimica  dimostra  una  differenza  nelle  pro- 
porzioni dei  principii  della   stessa  terra. 


150 

In  cento  grani  di  terra  di  Nocero  si  sono  trovati: 

Carbonato  di  calce  .     .     .     gr.  71 

Magnesia        8 

Allumina  . 6 

Silice ...  2 

Ossido  di  ferro        1 

Acqua 11 


Totale  gr.     100 

Non  è  stato  l'ultimo  fra  i  vantaggi  dell'analisi  chi- 
mica quello  di  potersi  render  ragione  de'suoi  effetti 
in  tutte  le  malattie  ,  nelle  quali  è  stato  tentato  il 
suo  uso.  Nell'enumerare  le  malattie  ,  nelle  quali  si 
è  trovata  utile  l'azione  deli-acqua  di  Nocera,  presa 
internamente,  ed  applicata  esternamente,  si  è  giovato 
l'A.  dei  risultati  della  sua  analisi  chimica  ,  e  delle 
sue  proprietà  tìsiche. 

Le  febbri  sono  le  più  comuni,  le  più  univer- 
sali, e  le  più  pericolose  per  il  corpo  umano.  In  tutte 
le  classi  delle  malattie  l'ordine  delle  febbri  infiam- 
matorie è  il  solo  ch'escluda  l'uso  dell'acqua  di  No- 
cera ,  perchè  la  sua  facoltà  eccitante  non  può  che 
accrescere  la  diatesi  dominante.  Per  lo  contrario 
l'ordine  delle  febbri  continue,  che  comprende  i  si- 
nochi,  nervose,  tifi,  causoni  ec,  trova  un  eccellente 
rimedio  nell'acqua  di  Nocera,  e  l'azione  salutare  di 
quest'acqua  in  queste  febbri  si  ottiene  piacevolmente, 
soddisfacendo  alla  sete  che  suole  accompagnarle. 

Bernardino  da  Spoleti  riferisce  che  V  utilità  di 
quest'  acqua  nelle  febbri  di  questa  fatta  fu  in  una 
epidemia  di  febbri  maligne,  da  lui  stimate,   peslilen- 


151 

ziali  che  afflissero  il  Piceno  e  1'  L'mbria  nel  1591  , 
la  città  di  Nocera,  di  piiì  di  tremila  infermi  di  que- 
sto male,  appena  contò  cinquanta  morti.  L'uso  ab- 
bondante di  quest'acqua  fu  il  primo  agente  di  que- 
ste guarigioni.  Può  giovare  ancora  la  detta  acqua 
nelle  intermittenti  risultanti  sempre  da  atonia  del 
sistema  nervoso.  Alle  intermittenti  poi  se  siano  com- 
plicate con  qualche  affezione  reumatica  ,  o  ad  una 
reazione  vascolare  ,  allora  è  molto  ragionevole  che 
l'uso  dell'acqua  di  Nocera  sia  opportuno. 

Quanto  alle  malattie  febbrili,  eruttive  ,  esante- 
matiche e  contagiose,  quando  esse  si  combineranno 
colla  diatesi  astenica,  allora  sarà  conveniente  il  ri- 
medio dell'acqua  di  Nocera. 

Le  emorragie  sono  malattie  di  difficile  guari- 
gione, e  si  è  cercato  sempre  un  rimedio  nell'  uso 
delle  acque  minerali:  parlando  sempre  il  nostro  pro- 
fessore non  delle  emorragie  attive,  o  steniche  di  Cul- 
len,  ma  solo  delle  abituali,  o  asteniche,  le  quali  richie- 
dono una  cura  tonica.  Giova  ancora  l'acqua  nei  pro- 
fluvi, nelle  dissenterie  croniche,  nei  flussi  bianchi,  go- 
norree, polluzioni  involontarie  la  |quale  ''somministrata 
in  pozione,  in  bagno,  o  doccia,  sono  felicemente  curati 
l'infermi  attaccati  di  questi  mali. 

L' isterismo  e  /'  ajfezione  ipocondriaca  sono  in 
credito  di  cedere  a  molte  acque  medicinali,  ma  l'u- 
tilità e  r  esperienza  ha  dimostrato  quanto  giova  I9 
cura  sia  in  bagno,  sia  in  bevanda,  della  nostra  pre- 
ziosa acqua.  L'atrofia,  le  vertigini,  V epilessia,  la  n$' 
fralgia  colla  numerosa  classe  di  malattie  delle  ca- 
chessie, come  diceva  Ippocrate,  oportet  renovare  Iq- 
tiim  hominem,  sono  state  debellate  coU'uso  dell'acqua 


152 

di  Nocera.  Ne  taceremo  della  sifilide,  la  quale  a  sen- 
tenza universale ,  è  un  terribile  morbo  affidato  al 
solo  mercurio  per  debellarlo.  Piombi  osservò  gli  ef- 
fetti dell'acqua  di  Nocera  sopra  i  venerei,  e  rilevò 
all'  evidenza  il  massimo  giovamento  alla  cura  della 
sifilide,  raccomandando,  che  il  trattamento  mercu- 
riale precedesse  l'uso  dell'acqua  di  Nocera.  Il  veleno 
sifilitico  entra  nel  corpo  per  la  via  del  sistema  as- 
sorbente, o  linfatico,  e  da  questo  si  depone  o  nel 
tessuto  delle  ossa,  o  della  cute,  o  nelle  membrane 
mucose  che  forma  col  suo  muco  puriforme  la  go- 
norrea e  blenorrea,  e  produce  ancora  le  ulceri,  u  can- 
cri venerei.  Nel  suo  tragitto  per  il  sistema  linfatico 
produce  i  huhoni,  di  poi  passato  nel  sangue  va  a 
deporsi  nella  mucosa  delle  fauci  ,  nel  tessuto  delle 
ossa,  della  cute,  e  produce  ulceri,  dolori  osteocopi^ 
carie,  verruche,  scabie,  o  erpete  venerea. 

La  forza  tonica  di  queste  acque  dipende  dal- 
l'ossigeno che  tiene  in  dissoluzione,  e  questa  è  per 
se  sola  sufficiente  a  produrre  degli  effetti  salutari 
nelle  malattie  sifilitiche.  In  somma  in  tutte  le  cir- 
costanze di  morbo  venereo  guarito  colle  nostre  ac- 
que ,  non  vi  è  di  comune  fra  esse ,  ed  i  rimedi 
mercuriali,  che  soli  meritano  il  nome  di  antisifilitici. 
Le  malattie  locali,  tanto  esterne,  che  interne, 
presentano  delle  felici  applicazioni  dell'acqua  di  No- 
cera. Le  amaurosi,  le  presbiopie,  V afonia,  la  mutila j 
la  disuria,  la  stranguria,  e  la  perfetta  iscuria  formano 
il  soggetto  di  molte  osservazioni  pratiche  dell'illu- 
stre nostro  professore.  E  ben  verisimile  che  le  no- 
stre acque  guariscano  felicemente  oltre  le  iscurie 
vessicali    ed    uretrali   anche    le    renali,    come    sono 


153 

le  suppurazioni  renali  ed  ingorghi  pituitosi.  Quanto 
alle  malattie  locali,  le  acque  di  Nocera  hanno  una 
celebrità  negli  sconcerti  dell'  utero  ,  in  specie  nella 
menorrea,  leucorrea,  disposizione  agli  aborti,  ai  polipi, 
alle  mòle,  e  slerilità. 

Una  esperienza  di  tre  secoli  autorizza  a  sperare 
degli  effetti  salutari  sopra  l'uso  di  queste  acque,  ma 
è  necessario  di  adempire  a  quelle  cautele  dietetiche 
e  profilattiche  che  una  sana  critica  richiede  per  di- 
rigere il  loro  uso  interno  ed  esterno. 

Il  tempo  più  opportuno  è  quello  estivo;  presso 
di  noi  nei  mesi  di  giugno,  luglio,  agosto,  ed  an- 
che in  settembre.  Le  altre  stagioni  piovose,  vento- 
se, e  fredde  non  si  accordano  con  i  dovuti  riguardi 
a  persone  deboli  ed  infermicce.  Per  1'  uso  esterno 
di  quest'  acqua,  si  ricorre  o  al  trasporto  delle  me- 
desime dalla  sorgente,  e  alhi  loro  preparazionee  ar- 
tificiale. 

Le  ore  più  favorevoli  all'uso  dei  bagni  sono  quelle 
della  mattina  ,  quando  la  digestione  è  compiuta,  le 
macchina  ristorala  dal  sonno,  e  la  traspirazione  non 
accompagnata  da  sudore.  Si  prenderà  la  mattina  una 
discreta  refezione,  o  di  brodo,  o  di  cioccolata,  indi 
si  può  ungere  l'epigastrio  con  olio  essenziale  di  noce 
moscata,  di  garofani,  assenzio;  si  .può  anche  entrare 
nel  bagno  la  sera,  scorse  po'ò  sei  ore  dal  pranzo  , 
sempre  però  frugale,  e  lontano  da  gozzoviglia.  Una 
cautela  da  osservarsi  è  la  temperatura  del  bagno  , 
la  quale  deve  essere  tepida,  precisamente  fra  i  24  e 
i  28  gradi  del  termometro  di  Reaumur.  Fra  gli  ef- 
fetti del  bagno  tepido  si  annovera  la  minor  disper- 
sione del  calore  animale,  e  la  )noderazione  della  sete. 


151 

Il  bagno  tresco  e  freddo  è  in  uso  ancora;  ma 
se  il  soggetto  e  l'immensione  dura  lungo  tempo,  in 
vece  del  riscaldamento,  si  forma  un  raffreddamento 
progressivo,  che  porta  sovente  un'  assiderazione  to- 
tale, ed  anche  la  morte:  oltre  la  sensazione  di  fred- 
do, accade  ancora  un  oppressione  al  petto,  palpito 
al  cuore,  e  frequenza  di  polso.  1  vasi  della  cute,  e 
r  istessa  cute  si  contraggono  con  violenza  e  con- 
vulsivamente sospinti,  ed  un  riflusso  di  sangue  nelle 
grandi  anterie  al  cuore. 

Quando  dopo  breve  intervallo  di  tempo  svani- 
scono gli  enunciati  sintomi,  e  la  cute  ritorna  al  suo 
stato  naturale,  e  che  si  spande  per  le  membra  un 
aura  calorifica,  allora  si  ha  la  sicurezza  che  il  bagno 
freddo  non  è  nocivo:  che  se  i  sintomi  descritti  non 
cessano,  conviene  togliersi  nel  momento  dal  bagno. 

La  doccia  fatta  con  la  nostr'acqua,  specialmente 
nelle  intestina,  e  nella  vagina  muliebre,  è  considerato 
come  un  rimedio  discuziente,  astersivo,  e  tonico. 

L'uso  delle  bevande  sì  deve  far  nel  mattino,  pas- 
seggiando all'  aria  libera  senza  però  sudare.  In  una 
o  due  ore  si  prende  a  riprese  una  dose  d'  acqua, 
che  non  dev'  essere  minore  di  quattro  o  cinque  lib- 
bre, né  maggiore  di  otto  o  dieci.  È  costume  di  pre- 
mettere air  uso  di  questa  bevanda  la  polpa  di  ca- 
scia, manna,  o  altro  simile  lassativo.  Sia  raccoman- 
dato il  detto  d'Ippocrate,  che  per  curare  i  mali  della 
pelle  dev'essere  vigilante  non  solo  il  medico ,  ma 
ancora  l'infermo,  e  gli  astanti,  in  guisa  che  si  possa 
dominare  l' influenza  del  clima,  dei  venti,  dell'aria, 
di  tutt'  i  corpi  esterni  che  hanno  rapporto  con  la 
nostra  macchina,  e  che  agiscono  simultaneamente 
sopra  la  medesima. 


155 

La  XIV  memoria  è  la  Notizia  sopra  le  due  aci- 
dule adoperate  in  Roma. 

Roma,  piucchè  ogni  altra  città  d'Italia,  avea  per- 
duto nella  rovina  delle  sue  terme,  e  nella  mancanza 
dei  mezzi  per  tenerle  a  pubblico  comodo:  ond'  è 
che  si  rivolse  l'attenzione  degl'infermi,  poi  dei  me- 
dici, a  ricercare  nelle  sue  vicinanze  le  acque,  che  al- 
lontanandosi dalla  natura  delle  potabili,  davano  prova 
di  contenere  altri  principii,  capaci  di  guarire  le  in- 
fermità umane. 

A  questa  circostanza  devesi  la  scoperta  delle 
acidule.  L'  epoca  precisa  di  detta  scoperta  e  del 
suo  uso  medicinale,  è  incerta.  L'  acqua  santa  fu  il 
primo  a  mentovarla  Petronio  archiatro  di  Sisto  V 
nel  1573,  poi  ne  parlarono  Andrea  Baccio,  Tommaso 
della  Valle  non  medico,  ma  infermo  guarito  dall'uso 
di  quest'acqua,  quindi  gli  archeologi  Nardini,  Mar- 
tinelli e  Lapi,  l'idrologo  Alberto  Cassio,  ed  in  ulti- 
mo il  medico  e  religioso  P.  Moretti. 

La  celebrità  dell'acqua  acetosa  succedette  a  quella 
dell'acqua  santa.  Il  citato  Baccio  fu  il  primo  a  par- 
larne, quindi  ne  fecero  menzione  Alsario,  Coluzzi, 
Pietro  Castelli,  e  Panarolo.  11  primo  a  pubblicarne 
una  dotta  dissertazione  fu  Gian  Girolamo  Lapi  nel 
1754,  e  più  diffusamente  il  dottor  Lorenzo  Massimi 
nel  1771,  il  quale  vi  scoprì  il  mie  di  Glaubero,  ed 
in  fine  Giovanni  Tipaldo  nel  1782. 

L'acqua  santa,  che  sorge  al  lembo  di  una  collina 
a  due  miglia  e  mezzo  distante  dalla  città  ,  ha  esi- 
bito alF  esame  ì  risultati  riuniti  in  una  tavola  si- 
nottica del  dottor  Monchini. 

Le  esperienze  al  fonte  si  eseguirono  il  dì  12  lu- 
glio 1817  alle  ore  6  della  mattina,  essendo  la  tem- 


J56 
peratura  all'  ombra  17  ^/^.  L'analisi    tanto  di   que- 
sta, che  dell'acqua  acetosa,  furono  sopra   cinquanta 
libbre  di  ciascuna. 

L'acqua  acetosa,  posta  alle  sponde  del  Tevere  a 
due  miglia  fuori  la  porta  del  Popolo,  ha  esibito  al- 
l'analisi i  risultati  esposti  in  una  seconda  tavola.  Le 
esperienze  alla  sorgente  si  fecero  il  dì  18  luglio 
1817,  il  termometro  all'ombra  essendo  ai  15  R. 
alle  ore  6  del  mattino. 

11  professore  ottenne  i  principii  costitutivi  con  i 
metodi  inventati  da  Bergman.  Si  rileva  dunque  che 
ambedue  le  acque  minerali  sono  acidule  saline.  Il  vo- 
lume del  gas  acido  carbonico  sciolto  nell'acqua  ace- 
tosa è  dodpio  di  quello  che  si  contiene  nell'  acqua 
santa:  d'  onde  nasce  che  questa  si  ritrova  al  gusto 
meno  acida  di  quella.  I  muriati,  ed  il  carbonato  di 
calce  sono  comuni  ad  ambedue,  ma  assai  più  con- 
siderabili nell'acqua  acetosa,  che  nella  santa.  I  sot- 
to-carbonati di  soda  e  di  magnesia  sono  piìi  ab- 
bondanti in  quella  che  in  questa.  In  fine  1'  acetosa 
contiene,  sopra  ogni  libbra,  due  grani  e  mezzo  di 
solfati,  che  mancano  all'acqua  santa. 

Ciascun  vede  che  la  volatilità  del  gas  acido  car- 
bonico neir  uso  dei  bagni  è  spogliata  in  tutto  o  in 
parte  quando  si  riscalda  alla  temperatura  fra  i  24 
e  28  gr.  di  Reaumur,  temperatura  che  è  per  i  bagni 
tiepidi,  comuni  in  uso  delle  malattie  ,  per  le  quali 
convengono  i  bagni  di  acque  acidulo-saline. 

Pili  energica  è  l'azione  che  le  acque  esercitano 
in  forza  dei  principii  salini ,  come  il  carbonato  di 
calce  vadano  precipitandosi,  mrntre  per  il  calore  del 
bagno  si  svolge  il  gas-acido  carbonico,  ed  i  sali  che 


157 

restano  in  soluzione,  più  abbondanti  nell'  acqua  ace- 
tosa, che  nella  santa,  comunicano  alla  prima  quelle 
virtù  medicinali,  che  l'esperienza  fece  scoprire. 

L'acqua  santa  ha  sempre  goduto,  a  preferenza 
dell'acetosa,  la  riputazione  di  esser  atta  a  guarire 
le  malattie  sordide  della  pelle  ,  e  quelle  delle  vie 
urinarie ,  provenienti  da  calcoli,  arene ,  e  vecchie 
blenorree.  Andrea  Baccio  la  decanta  per  prodigiosa 
nella  cura  delle  affezioni  arenulari ,  e  divenne  più 
nota  dopoché  il  papa  Alessandro  VII ,  dopo  l'ope- 
razione che  subì  della  litotomia,  fu  liberato  dal  re- 
'  sto  dei  suoi  calcoli  per  l' uso  continuo  dell'  acqua 
Santa. 

Oltre  alle  indicate  malattie,  anche  le  ostruzioni 
dei  visceri  addominali,  in  specie  della  milza,  e  dei 
fegato,  gl'ingorgamenti  dell'emorroidi,  una  pituta, 
Io  scorbuto:  ed  il  P.  Moretti  riporta  nella  sua  opera 
delle  guarigioni  avute  con  quest'  acqua  di  infermi 
^  '  che  pativano  di  tabe,  emottisi,  asme,  idropisia,  e 
paralisi. 

L'  acqua  acetosa  poi  e  per  la  maggior  propor- 
zione del  gas  acido  carbonico  ,  che  vi  si  trova  ,  e 
per  la  copia  e  varietà  dei  sali  che  vi  sono  disciolti, 
fa  sì  che  le  inappetenze  e  le  penose  digestioni,  che 
nascono  dalle  pituite,  o  inerzie  dei  sughi  gastrici,  ce- 
dono coll'uso  della  nostr'  acqua.  E  se  si  unisce  la 
cachessia,  e  lenco  flegmasia,  l'acqua  acetosa  ha  por- 
tata una  guarigione  completa  agli  infermi.  Si  è  an- 
cora osservato  accadere  nella  clorosi,  nelle  ostruzioni 
di  milza,  e  di  fegato.  Le  scrofole  e  le  tabi  mesen- 
teriche, curate  allo  stesso  modo,  hanno  un  esito  fe- 
licissimo. 


158 

Superfluo  è  far  parola  delle  cautele  da  usarsi 
nell'uso  di  queste  due  acque,  giacché  varie  devono 
essere  secondo  la  varietà  delle  malattie,  e  dipendo- 
no interamente  dalle  particolari  circostanze  a  cia- 
scuna malattia. 

È  infine  da  avvertirsi  per  Tuso  delle  due  aci- 
dule romane,  che  se  si  vogliano  le  medesime  cari- 
che di  gas-acido  carbonico  ,  è  necessario  di  averle 
in  bottiglie  ermeticamente  chiuse. 

La  XV.  memoria  è  sopra  le  acque  termali 
di  Civitavecchia. 

Qui  il  prof,  con  erudizioni  storiche  descrive  l'an- 
tica Tuscia  riportando  l'autorità  di  Strabone  e  di 
Scribonio  Largo  che  viveva  sotto  Tiberio.  Rhodio  e 
Girolamo  Mercuriale  credono  che  le  vescicarie  degli 
antichi  potessero  essere  le  acque  termali  di  Viterbo, 
ovvero  quelle  di  Civitavecchia.  Le  grandi  rovine,  che 
rimangono  di  queste  terme,  attestano  la  loro  anti- 
chità e  magnificenza.  CoH'appoggio  del  Manzi,  non 
che  di  Fea,  si  legge  che  1'  epoca  della  loro  rovina 
fu  dair8'28  air833  della  nostra  era  per  opera  dei  sa- 
raceni. 

Rare  sono  le  notizie  sopra  la  natura  di  quest'ac- 
qua ed  i  loro  usi  medicinali,  se  si  eccettui  l'opera 
del  dottor  Tonaca  pubblicata  in  Roma  l'anno  1761. 

Giovanni  Rhodio  e  Girolamo  Mercuriale  parla- 
rono di  queste  acque.  L'uno  le  riguarda  come  fer- 
ruginose, ed  utili  per  i  mali  della  vescica  :  I'  altro 
dice,  non  esser  utili  in  bevanda,  ma  solo  per  uso 
esterno.  Nei  vizi  dei  nervi,    ulceri,    mali  di  fegato, 


159 

escludendo  i  mali  della  vessica.  Torraca  poi  spiega 
la  contraddizione  come  Natilio  abbia  escluso  1'  odor 
sulfureo  delle  acque  delle  terme  Taurine:  racconta 
che  eravi  prima  altra  sorgente  di  acque  acidule  nel 
recinto  delle  terme  ,  e  che  di  quella  se  ne  faceva 
uso  per  i  mali  di  vessica;  ma  col  tempo  fu  disper- 
sa questa  sorgente. 

Le  acque  termali  di  Civitavecchia  hanno  tre  sor- 
genti. La  prima  e  la  più  lontana  dalla  città  si  rin- 
viene in  un  colle,  e  chiamasi  la  sorgente  di  Sfer- 
ra-Cavalli ;  la  seconda  è  quella  che  trovasi  dentro 
le  rovine  delle  terme  stesse;  e  la  terza  all'occidente 
di  questa,  che  si  chiama  racqua  della  ficoncella.  Le 
due  ultime  non  sono  lontane  dalla  città  più  di  tre 
miglia,  e  tutte  sono  poste  al  nord-est  della  medesima. 

Le  proprietà  fìsiche  e  chimiche  vengono  esposte 
dal  prof.  Morichini.  La  sorgente  di  Sferra-Cavalli  è 
la  più  elevata  fra  le  tre,  che  essendo  la  più  lonta- 
na, non  se  ne  fa  alcun  uso,  e  perciò  V  A.  non  ne 
fa  menzione.  Le  altre  due  termali  sottoposte  all'a- 
nalisi, sono  per  brevità  rinchiuse  in  un  quadro  si- 
nottico non  esigendo  alcuna  dichiarazione.  Le  pro- 
prietà fisiche  non  sono  che  risultati  di  sperienze  di- 
rette ,  e  le  proprietà  chimiche  sono  prove  indicanti 
il  numero  e  la  natura  dei  principii  mineralizzatori 
che  si  determinano  coi  processi  analitici,  in  cui  si 
trovano  disciolti  nelle  acque. 

Dall'acqua  delle  terme  Taurine  si  raccolsero  poli, 
cub.  11  ^/^  di  gas,  e  da  quella  della  Ficoncella  poli, 
cub.  12.  L'aria  dei  vasi  essendo  eguale  a  tre  pol- 
lici cubici  ncir  una  e  l'altra  sperienza,  i  fluidi  ela- 
stici sviluppati  dall'acqua  delle  Terme  uguagliavano 


160 
poli:  cub:  8  ^1^,  eg.  quelli  dell'  acqua  della  Ficon- 
cella.  L'analisi  di  questi  gas  si  eseguì  in  tal  ma- 
niera. Si  fecero  prima  attraversare  la  soluzione  di 
nitrato  di  piombo  e  quindi  l'acqua  di  calce,  sino  a 
che  nell'una  e  nell'altra  sperienza  fosse  cessato  l'in- 
torbidamento. Si  notò  dopo  ciascuna  operazione  l'as- 
sorbimento del  gas,  riportato  alla  pressione  e  tem- 
peratura del  principio  della  sperienza.  Nel  gas  del- 
l' acqua  gli  assorbimenti  furono:  la  soluzione  di  piombo 
assorbì  un  poco  più  di  ^/^  di  poli:  cub:  di  gas  idro- 
geno solforato,  l'acqua  di  calce  un  poco  meno  di 
sette  poli:  cub:  di  gas  acido  carbonico.  Il  fosforo 
assorbì  da  uno  dei  quattro  poli:  cub:  residui  ^*/ioo 
di  gas  ossigeno  ,  e  siccome  i  tre  pollici  cubici  di 
atmosfera  non  ne  contenevano  che  ^7ioo  '  f^unque 
l'aria  atmosferica  equivalente  dell'  acqua  conteneva 
^^/jQQ  di  gas  ossigeno,  e  '7ioo  ^^  §^^  azoto  in  volume. 

L'aria  dell'  acqua  della  Ficoncella  conteneva  in 
numeri  rotondi  un  poli:  cub:  di  gas  idrogeno  sol- 
forato ,  uno  di  aria  atmosferica  colle  indicate  pro- 
porzioni di  gas  ossigeno  ed  azoto  ,  e  sette  di  gas 
acido  carbonico. 

L'A.  volendo  ridurre  la  misura  di  questi  gas  a 
quella  corrispondenti  ad  una  libbra  medicinale  d'ac- 
qua ,  sperimentò  ,  che  un  poli:  cub:  di  acqua  alla 
temperatura  di  20  R.,  ed  alla  pressione  ordinaria, 
pesa  400  grani,  e  che  perciò  i  24  pollici  cubici  di 
acqua  pesavano  9600   grani. 

QMiindi  si  procedette  ad  ottenere  i  prodotti  fissi, 
e  si  ebbe  dall'acqua  un  residuo  salino-terroso  pe- 
sante 899  grani,  e  901  dall'acqua  della  Ficoncella. 
Passò  quindi  il  prof,  all'esame  del  sedimento  disec- 


161 

calo,  ed  alla  stufa,  incominciando  dalla  Ficoncella. 
Dopo  queste  sperienze  si  passò  all'  esame  delle  so- 
luzioni divise  in  tre  vasi;  la  prima  trattata  con  l'os- 
salato  d'ammoniaca,  la  seconda  col  nitrato  d'ar- 
gento ,  e  la  terza  con  l'ammoniaca  liquida  causti- 
ca. Parimenti  furono  divise,  e  trattate  con  i  reat- 
tivi, e  furono:  Coll'acido  muriatico  -  Coll'acido  sol- 
fòrico -  Col  muriato  di  barite  -  Col  nitrato  d'argen- 
to -  Col  carbonato  neutro  di  potassa  -  Col  nitro  mu- 
riato d'oro,  che  indicò  la  soda  colla  formazione  del 
muriato  triplo. 

Dalle  quali  esperienze  risultò  che  le  soluzioni 
acquose  contenevano  due  soli  acidi  solforico  e  mu- 
riatico, la  soda  e  la  magnesia. 

Il  problema  che  fu  proposto  al  prof,  fu  di  esa- 
minare se  una  di  esse,  o  ambedue  si  fossero  potute 
condurre  a  canale  aperto  o  chiuso  entro  città.  Non 
fu  fatto  dubbio  alcuno  sopra  l'impossibilità  di  con- 
durre l'acqua  in  canale  aperto  senza  che  venga  sna- 
turata nei  suoi  prìncipii. 

L'A.  propone  due  partiti,  e  sono  di  trasportare 
in  barili,  o  in  botti  1'  acqua,  che  attinta  alla  sor- 
gente della  Ficoncella,  giunge  così  chiusa  in  città 
ancor  calda  di  35  R.,  e  l'altro  di  formare  uno  sta- 
bilimento alla  Ficoncella  stessa,  o  alle  terme  Tau- 
rine. Ma  i  poveri,  che  non  hanno  da  pagare  il  tra- 
sporto, meriterebbero  che  si  disponessero  nelle  terme 
Taurine  tre  o  quattro  piccole  camere  colle  vasche 
è  comodo  per  bagnarsi ,  fiancheggiare  le  adiacenze 
delle  strade  di  alberi,  costruendosi  un  adattato  lo- 
cale al  luogo  della  sorgente  per  poter  attinger  l'a- 
èuqa  comodamente. 
G.  A.  T.  CXXXIII.  11 


162 

Le  acque  di  Civitavecchia  dunque  sono  termali 
e  salino-solfonose,  simili  a  quelle  d'Ischia  in  Napoli, 
le  Caie  di  Viterbo,  quelle  di  Abano  a  Padova,  Vel- 
tri nel  Genovesato. 

La  città  per  la  sua  posizione  marittima  ofifre,  a 
quelli  che  vi  accorrono  per  profittare  delle  sue  acque 
termali,  anche  il  comodo  di  usare  dei  bagni  di  ma- 
re, utilissimi  per  completare  le  cure  eseguite  colle 
ftQque  minerali. 

La  deccimu  sesta  memoria  parla  sopra  la 
gomma  cT  olivo. 

Il  Monchini  enumera  i  vantaggi  che  V  olivo  ar- 
reca agli  abitanti  dei  climi  caldi,  de'quali  è  come  la 
vite,  esclusivamente  proprio:  lo  distingue  per  un  dono 
prezioso  di  Minerva.  L'A.  applaude  allo  zelo  di  quei 
dotti,  che  sonosi  occupati  a  tesserne  la  storia ,  ed 
insegnare  il  modo  di  renderlo  più  fruttifero,  traendo 
dal  suo  frutto  una  sostanza  che  come  alimento,  me- 
dicamento ,  e  combustibile  è  uno  dei  piiì  preziosi 
prodotti  dei  climi  meridionali. 

Questa  memoria  raccoglie  tutto  ciò,  che  gli  an- 
tichi ed  i  moderni  ci  hanno  insegnato  sopra  la  na- 
tura e  gli  usi  di  questa  sostanza,  quindi  i  risultati 
della  sua  analisi  chimica,  e  gli  usi,  ai  quali  è  con- 
sagrata. 

Dioscoride  e  Teofrasto ,  fra  i  greci,  sono  i  pri- 
B[ii  autori  che  parlano  della  gomma  d'oUvoy  a  cui  il 
prof,  ha  dato  il  nome  di  resina:  egli  cita  dei  passi 
di  Dioscoride,  di  Teofrasto,  di  Mattioli,  concluden- 
do con  Plinio  nel  lib.  12  cap.  17:  In  Arabia^  etolea, 


163 

dotatur  hcryma,  qua  medicamenhtm  confici  tur  grae- 
cis  enhoema  dictum,  singulari  effeciu  contrakendis  vul- 
nerum  cicatricibus.  Seguono  le  autorità  di  Strabene 
nella  sua  geografia  dell'Arabia,  di  Serapione  medico 
arabo ,  ed  in  fine  di  Paolo  Egineta ,  rilevando  da 
questi  che  la  resina  d'  olivo  eia  da  essi  adoperato 
come  medicamento  nei  mali  esterni  della  cute,  dei 
denti,  degli  occhi,  e  nelle  emorragie,  e  che  si  ammi- 
nistrava internamente  come  emenugosa  e  diuretica, 
applicata  ancora  esternamente  sotto  forma  d'empia- 
Mfo  o  linimento. 

Galeno  ne  parla  nel  libro  <i  De  camposit.  medi- 
cam.  »  e  tutt'  i  composti  medicinali  di  questo  me- 
dico, nei  quali  v'entra  la  resina  d'olivo  sono  di  uso 
esterno.  Si  può  conchiudere  dunque  che  gli  antichi 
hanno  ben  conosciuto  la  sesina  prodotta  dagli  olivi 
di  Etiopia,  di  Arabia,  e  della  Grecia;  ma  ninno  ha 
fatto  menzione  di  quella  degli  ulivi  dell'Europa  me- 
ridionale ,  non  esclusi  gli  autori  patrii  almeno  da 
Plinio  al  Mattioli. 

La  provincia  di  Lecce  la  più  calda  e  più  me- 
ridionale della  Puglia ,  è  la  più  feraoe  della  resina 
d'olivo,  e  trovasi  ancora  nelle  dÌTÌsioni  superiori  della 
stessa  contrada,  cioè  la  Puglia  e  la  Basilicata. 

Lecce  e  Taranto  danno  la  vegetazione  copiosa  a 
quest'albero,  che  cresce  ad  una  smisurata  grandezza, 
e  v'invecchia  prosperamente.  Essa  cola  spontanea- 
mente e  senza  incisione  dal  tronco  e  dai  rami  ,  e 
k»  scolo  dura  dal  mese  di  maggio  a  tutto  luglio. 
1  ^  raccoglie,  o  sulF  albero  slesso  per  mezzo  di  un 
louraolo,  che  la  riceve  nel  tempo,  che  la  rade  dalla 
i  corteccia,  ovvero  si  attende  che  la  lacrima  cada  sul 


164 

terreno.  Per  depurarla  da  sostanze  terrose  costumano 
quelli  abitanti  di  ammollirla  coll'acqua  bollente,  dan- 
dole la  forma  cilindrica,  od  altra  a  lor  piacere.  Né 
è  da  tacersi  che  sono  più  fertili  quegli  olivi  di  re- 
sina, che  sono  posti  nella  pianura,  e  vicino  al  mare 
ed  anche  quelli  che  sono  esposti  al  mezzogiorno.  L'A. 
passa  alle  proprietà  chimiche  dalla  resina  d'olivo. 

Il  peso  specifico  della  resina  d'olivo  varia.  E  di 
un  quinto  circa  maggiore  di  quello  dell'acqua:  essa 
è  dura,  e  con  piccola  percussione  si  frange  in  pezzi 
amorfi:  si  polverizza  nel  mortaio,  e  la  sua  polvere 
ha  un  color  grigio-gialletto  ;  stropicciata  o  riscal- 
data si  carica  dell'elettricità  vescicosa.  Essa  non  ha 
odore  quando  è  fredda  ,  ne  ha  però  uno  marcatis- 
simo  di  vainiglia  quando  si  riscalda:  avvicinata  alla 
fiamma  di  una  candela,  brucia  spandendo  un  denso 
fumo,  come  le  resine:  esposta  in  un  vaso  al  fuoco, 
si  fonde  senza  aggiunta  di  alcun  liquido:  l'alcool  la 
scioglie  a  tutte  le  temperature,  ma  prima  sia  stata 
polverizzata. 

L'  acqua  non  scioglie  questa  resina  a  freddo,  o 
in  pezzi ,  0  in  polvere.  Gli  acidi  in  generale  sciol- 
gono una  piccola  porzione  della  resina,  e  si  colo- 
rano. Gli  acidi  nitrico,  solforico,  muriatico,  ed  ace- 
tico danno  tutti  il  loro  particolare  sviluppo.  Volle  fi- 
nalmente l'A.  fare  le  esperienze  alla  maniera  di  Sche- 
de completando  l'analisi.  I  prodotti  furono.  Un'  ac- 
qua acida  sul  peso  di  mezz'oncia.  Un  olio  empireu- 
matico  più  pesante  dell'  acqua  in  quantità  di  due 
dramme,  e  mezza.  Gran  copia  di  fluidi  elastici  del 
peso  di  una  dramma  e  mezza.  Finalmente  nella 
storta  un  carbone  voluminoso  della  resina  in  distil- 


165 

lazionc  che  pesava  un'  oncia:  risultando  che  la  re- 
sina d'ulivo  è  un  composto  ternario  di  carbonio,  os- 
sigeno, idrogeno. 

Dimostrata  la  natura  della  lacrima  d'olivo  è  fa- 
cile dedurne  le  applicazioni  per  le  arti. 

In  farmacia  per  esempio  la  resina  elemi  entra 
nel  balsamo  d'Arcio,  negli  unguenti  di  Stirace,  ne- 
gli empiastri  di  Oppoteldok  ,  e  di  altri.  Potrebbesi 
sostituire  la  resina  d'olivo  all'elemi,  che  costa  assai 
di  più  ,  che  non  ha  così  grato  odore  come  quella 
d'olivo,  e  che  ha  molte  proprietà  resinose  piiì  deboli 
di  questa.  Alessandro  Conti,  già  professore  di  farma- 
cia, e  collaboratore  del  prof.  Morichini,  eseguì  tutte 
le  esperienze  esposte.  Oltre  gli  usi  medici,  potrebbe 
consagrarsi  anche  ad  alcune  preparazioni  di  arti. 

Nella  preparazione  delle  vernici  se  si  eccettua  la 
sandraca  e  la  resina  del  ginepro,  la  resina  copale, 
l'elemi,  l'anime,  ed  il  mastine  sono  costose.  La  re- 
sina d'olivo  somministra  una  vernice  fina,  e  perfet- 
ta, che  non  la  cede  alla  copale.  A  questi  vantaggi  si 
aggiungono  quelli  che  possono  impiegarsi  alla  fab- 
bricazione del  negro-fumo,  alle  imbalsamazioni,  ed 
alla  pittura  che  ha  bisogno  di  resine: 

Ognuno  conoscerà  qual  vantaggio  può  offrire  que- 
sta resina  se  si  potrà  introdurre  nelle  officine  di  far- 
macia, e  dare  un  prodotto  alle  arti ,  essendo  stata 
impunemente  impiegata  a  profumare  le  sale  dei 
grandi. 


IfiG 


La  XVII  memoria  è  una  lettera  diretta  ai  Lincei 

che  parla  sull'estrazione  delViodoy  e  sopra 

alcune  sue  combinazioni. 

Incomincia  il  dottor  Morichioi  a  descrivere  i  la- 
vori di  Gay-Lussac,  di  Davy,  e  di  Vauquelin  sul  lo- 
do, i  quali  hanno  contribuito  a  moderare  le  deduzio- 
ni che  Lavoisier  avea  fatto  d  iscendere  dall'ossigeno, 
con  i  corpi  combustibili  e  di  metalli. 

La  scoperta  del  cloro  e  di  alcune  proprietà  dello 
zolfo,  e  la  combinazione  degli  acidi  con  l'idrogeno, 
col  cloro,  e  collo  zolfo  stesso  aveano  condotto  Davy 
in  Inghilterra,  Gay-Lussac  in  Francia  a  dubitare  delle 
verità  delle  teorie  esposte  di  Lavoisier  e  Berthollet. 

Dice  l'A.  che  i  fatti  osservati  da  Lavoisier  sono 
inconcussi,'  benché  le  conseguenze,  che  questo  cele- 
bre uomo  avea  dedotte,  sieno  un  poco  difettose.  Le 
teorie  delle  scienze  fisico-chimiche  servono  a  colle- 
gare  i  fatti  conosciuti  fino  all'epoca  della  loro  crea- 
zione. Niente  di  più  vero  della  teoria  di  Sthal,  cioè 
la  mutazione  dello  zolfo  in  im  acido  per  mezzo  della 
combustione.  Sotto  questa  falsa  teoria  ,  la  chimica 
ha  fatto  grandi  progressi. 

Il  iodo  fu  scoperto  l'anno  1 81 1  da  Courtois  chi- 
mico di  fama,  e  fabbricante  di  Soda  tratta  dalle  ce- 
neri delle  piante  marine  rigettate  dall'  oceano  sulle 
coste  della  Normandia.  Clement  dette  contezza  di 
alcune  sue  proprietà  all'istituto  di  Francia. 

L'anno  1819  Gay-Lussac  l'anno  pubblicò  un 
lavoro  sopra  questa  sostanza  ,  mentre  il  cele- 
bre Davy  che  era  in  Parigi  nel  1813  ne  fece    co- 


iioscere  alla  società  reale  di  Londra  le  pvincipali 
combinazioni,  anche  prima  che  fosse  pubblicalo  il 
lavoro  di  Gay-Lussac. 

L'indecomponibilità  del  iodo  òon  i  mezzi  della 
chimica  ,  non  escluso  quello  potentissimo  degli  ap- 
parati elettro-motori,  le  sue  affinità  col  cloro,  col- 
l'idrogeno,  coU'ossigeno,  e  gli  acidi  cloriiodicò,  idW^ 
Iodico ,  e  formati  con  queste  tre  sostanze;  là  àua 
azione  sopra  ì  metalli,  con  ì  quali  forma  gli  ioduri; 
il  potere  di  cacciare  l'ossigeno  da  molti  ossidi  tne- 
tallici,  di  togliere  l'idrogeno  allo  zolfo,  e  di  cederlo 
al  cloro;  la  sua  facoltà  elettro-negativa,  nella  quale 
vince  l'ossigeno,  e  non  cede  che  al  cloro;  il  potere 
di  colorare  in  superbo  colol;'  turchino  le  sostanze 
amilacee  vegetabili ,  e  di  tingere  in  giallo  fosco  le 
sostanze  animali:  tutte  queste  proprietà  chimiche, 
osservate  dai  primi  chimici  d'Europa,  lasciano  poco 
a  desiderare  nella  storia  del  iodo. 

L'A.  indaga  di  sapere  in  qual  proporzione  si  trova 
questa  sostanza  nelle  ceneri  delle  piante  marine. 
Consultando  esso  le  memorie  di  quegli  che  hanno 
scritto  sopra  questo  argomento,  non  vi  trovò  noti- 
zia alcuna,  se  non  che  le  piante  marine  delle  coste 
di  Francia  sull'Oceano  sono  più  ricche  in  iodo,  che 
quelle  d'ogni  altra  costa  d'Europa. 

11  secondo  dubbio  è  se  le  piante  che  si  raccol- 
gono 0  si  bruciano  sulle  coste  di  Normandia  siano 
le  stesse  che  quelle  che  vengono  gettate  dal  mare 
sopra  le  coste  degli  altri  paesi. 

Gaultier  de  Claubry  chimico  faance^e,  che  pub- 
blicò due  memorie  sul  iodo ,  dette  l' analisi  delle 
piante  marine,  sulle  quali  si  estrae  la  sòda  della  Ya- 


168 
rech,  che  fornisce  il  iodo  sulle  coste  dell'Oceano  in 
Francia  quando  si  tratta  a  caldo  coll'acido  fosforico 
la  sua  liscia.  Questo  chimico  rinvenne  che  le  piante 
marine  piiì  comuni  sopra  quelle  coste  sono  il  fuens 
saecarituis ,  il  digitatusy  il  vesiculosiis,  il  serratus,  il 
siliqiiosus,  ed  il  fiicm  fHum.  Fra  questi  fuchi  il  sac- 
carimis,  ed  il  vesictdosus  somministrano  molto  iodo 
ma  l'autore  non  dice  quale  quantità  di  iodo  si  trae 
da  un  peso  determinato  delle  ceneri  di  tutte,  né  di 
ciascuna  di  queste  piante.  11  professore  Fyfe  ottenne 
il  iodo  dai  fuciis  nodosus,  serratus,  palmatus ,  digi- 
t-atfjiSy  confervoides  umbilicabilis  e  dall'  ulva  sulle  co- 
ste della  Scozia.  Sementini  in  Napoli  annunziò  nella 
Biblioteca  Brit.  per  l'anno  1815,  di  aver  trovato 
alcune  tracce  di  iodo  nelle  ceneri  del  fuciis  acina- 
rius  sulle  coste  di  Napoli. 

Davy  nel  1814  esaminò  le  ceneri  delle  piante 
marine  della  costa  della  Liguria,  in  specie  dei  fii- 
cuscarlilagineus,membranaceus,  e  fUum^  e  delle  ulve 
pavonia    e  linzay  e  ritrovò  qualche   traccia  di  iodo. 

La  soda,  detta  Ae/^,  nelle  isole  britaniche,  ed  in 
Norvegia  si  estrae  pure  nell'Incenerazione  delle  piante 
marine  che  circondano  quei  paesi. 

Finalmente  il  dotto  chimico  di  Napoli  Cassola 
pubblicò  nel  1821  all'incoraggiamento  di  Napoli  la 
memoria  sull'estrazione  del  iodo  dalla  zostèra  ocea- 
nica delle  coste  di  Palermo,  ed  assicura  di  aver  ri- 
cavato nove  grani  di  iodo  da  una  libbra  di  liscia 
dalle  ceneri  di  questa  pianta. 

Il  eh.  A.  si  procurò  in  Civitavecchia  i  più  fre- 
schi ed  interi  esemplari  delle  piante  marine  get- 
tato sopra  quella  costa.  Unitamente  dal  distinto  bo- 
tanico Mauri  potè  riconoscere  le  seguenti. 


169 

Fra  le  zostère  la  marina,  fra  i  fuchi  il  conca- 
tenatus,  il  conferroides,  il  coronopi foliiis,  il  mnlcifor- 
mis,  il  boiryoides,  ed  il  nervosus:  fra  i  cerami  lo  sco- 
parium,  e  fra  le  ulve  Vumhilicarisy  la  lactuca,  e  la 
lima.  Incominciò  1'  A.  il  saggio  primo  dalla  zostèra 
marina.  Le  esperienze  furono  istituite  nel  laborato- 
rio del  chimico  collaboratore  Peretti,  assistendo  il 
dotto  professore  di  mineralogia  in  sapienza  dottor 
Cav.  Carpi.  Il  professore  Monchini  fece  bruciare 
ducente  dieci  libbre  di  questa  pianta  disseccata  in 
due  porzioni  eguali  di  cento  libre  l'una. 

Dalla  combustione  della  prima  porzione  si  ot- 
tennero ventisette  libbre  di  ceneri,  e  trenta  della  se- 
conda. Dopo  aver  lissi viale  le  27  libbre  provenienti 
dalle  ceneri  di  cento  libre  di  zostèra  disseccata,  ne 
furon  con  successive  ebullizioni  separate  dieci  lib- 
bre di  sali  composti  per  la  più  gran  parte  di  mu- 
riati  di  soda  e  di  potassa,  di  solfati  delle  stesse  ba- 
si, e  di  sotto  carbonato  di  soda.  La  liscia  fu  divisa 
in  4  porzioni  uguali ,  una  delle  quali  fu  impiegata 
al  saggio  coll'acido  solforico  concentrato.  La  seconda 
porzione  fu  trattata,  prima  coli'  acido  solforico  di- 
luito per  cacciarne  tutto  l'acido  idroclorico  (secondo 
Wollaston),  e  quindi  vi  fu  aggiunto  l'ossido  nero  di 
manganese,  e  si  accrebbe  il  fuoco  per  trarne  il  iodo. 
La  terza  porzione  fu  impiegata  alla  ripetizione  della 
stessa  esperienza  con  l' acido  solforico  più  diluta , 
ma  se  ne  ottenne  un  risultato  eguale. 

Il  eh.  A.  espone  il  quarto  esperimento,  cioè  di 
precipitare  l'acido  idro-cloroiodico  con  il  sotto  ace- 
tato di  piombo.  Ne  risultò  che  il  precipitato  giallo 
arancio  disseccato  pesava  quattro   grani.  Il  precipi- 


170 

tato  nella  storta  a  fuoco  violento  lasciò  una  subli- 
mazione di  iodo.  La  porzione  separabile  pesava  due 
grani,  ma  colorava  l'alcool ,  e  conteneva  del  iodo. 
Questo  metodo  fu  abbandonato  per  Tincapacità  della 
storta  a  sopportare  un  vivo  fuoco  senza  fondersi,  e 
ritenere  una  porzione  di  piombo  vetrificala. 

Altri  esperimenti  furono  eseguiti,  ma  inutili  ri- 
masero: e  da  ciò  si  deve  argomentare  del  silenzio 
di  tanti  illustri  chimici  sulle  proporzioni  del  iodo 
nelle  ceneri  delle  piante  marine.  Il  professore  con- 
clude che  la  determinazione  della  quantità  precisa 
di  iodo  contenuta  nelle  liscie  delle  ceneri  delle  sode 
dette  Varech,  e  Kelp,  è  un  problema  difficile  per  le 
circostanze  della  impossibilità  di  provare  i  ioduri 
metanici  di  tutto  il  iodo  che  ritengeno. 

Che  oltre  il  composto  triplo  di  iodo ,  solfo,  ed 
idrogeno  ,  scoperto  da  Davy ,  oltre  quelli  di  iodo  , 
carbonio,  ed  idrogeno,  scoperti  da  Serullas,  si  può 
ottenere  un  composto  di  fluoro,  silice ,  e  iodo,  ed 
un  altro  di  boro,  iodo,  ed  ossigeno.  E  certo  che  i 
sali  contenuti  in  queste  ceneri  sono  muriati,  e  sol- 
fati a  base  di  soda  e  di  potassa ,  è  certo  ancora 
che  vi  si  trova  il  sotto  carbonato  di  soda  a  nudo, 
che  si  può  introdurre  nella  fabbrica  de'saponi.  Così 
la  combustione  delle  alghe  sulle  nostre  coste  servi- 
rebbe a  render  l'aria  salubre,  ed  a  somministrare  il 
iodo  e  la  soda,  due  utili  prodotti  alla  medicina  ed 
alle  arti. 


171 

La  decimotlava  memoria  è  sulle  sperienze 
della  bile. 

Il  eh.  prof,  espone  che  1'  esame  delle  sostanze 
animali,  come  di  tutti  gli  altri  corpi  terrestri ,  fu 
con  molto  zelo  intrapreso  dai  chimici  della  seconda 
metà  del  secolo  passato  ,  secondati  dal  perfeziona- 
mento degli  stromenti,  e  dei  mezzi  di  analisi,  dalla 
quale  sonosi  già  ottenuti  risultamenti  utili  alla  fi- 
siologia e  patologia. 

L'A.  dà  principio  all'esame  di  uno  degli  umori 
animali  com'  è  la  bile ,  dichiarando  che  nonostante 
le  due  pregevoli  analisi  istituite  da  Thenard  e  da 
Berzelius,  con  quelle  ancora  importanti  di  Chevreul, 
Lassaigne,  Chevalier  ed  Orfìla,  pure  il  soggetto  non 
è  rimasto  chiaro,  e  molti  dubbi  ne  rimangono  so- 
pra vari  punti  di  questa  analisi.  Si  leggono  nella 
memoria  i  diligenti  esperimenti  dei  celebri  chimici 
Thenard  e  Berzelius. 

Il  dottor  Monchini  incominciò  l'esperienza  prima 
sulla  bile  di  porco  riguardata  da  Thenard ,  meno 
Borselius,  come  diversa  da  tutte  le  altre  ,  e  preci- 
samente come  un  sapone  resinoso  a  base  di  soda 
(bile  di  porco).  Questa  bile  fu  raccolta  da  30  ves- 
sichette  di  fiele  ,  fra  le  quali  alcune  esano  ripiene 
di  una  bile  viscida,  altre  della  consistenza  del  sevo, 
ed  altre  di  una  bile  assai  liquida.  Il  colore  della 
medesima  variava  dal  giallo  fosco  al  giallo  verdo- 
gnolo. La  bile  delle  vessichette  fu  versata ,  e  me- 
vScolata  in  un  vaso  comune:  e  così  avea  un  colore 
giallo  cupo,  tingendo  in  giallo  vivo  lo  smalto  bianco 


172 

della  porcellana,  o  la  cartabianca.  Furono  eseguite 
le  esperienze  chimiche  con  scrupulosa  diligenza  so- 
pra questa  bile,  vennero  analizzate  le  altre  vesciche 
di  bile  di  bore  -  di  bufalo,  -  di  bile  umana  -  di  bile 
di  storione,  e  si  conchiuse  dall'  A: 

Che  la  identità  del  principio  proprio  della  bile, 
nelle  varie  classi  degli  animali  proclamata  da  Ber- 
zelius,  è  un  fatto  verificato  dalla  sperienza. 

Che  questo  principio,  chiamato  picromele  da  The- 
nard,  esiste  nella  bile  di  bufalo  e  di  storione  ,  che 
non  erano  state  finora  esaminate  da  alcuno:  che  la 
bile  di  porco  è  simile  a  tutte  le  altre.  Che  il  pi- 
croiTtiele  preparato  col  metodo  di  Berzelius  è  com- 
posto di  una  sostanza  colorante ,  e  del  picromele 
senza  colore  di  Thenard. 

Che  la  sostanza  colorante  contiene  dell'albume , 
£,  del  muco. 

;•!!  Che  il  picromele  puro  di  Thenard  è  composto 
di    acidi  margarìco  ed  oleico,  e  di  un  olio   dolce. 

Che  le  due  sostanze  oleose  del  picromele,  essen- 
do anch'esse  colorate  1'  una  (l'acido  oleico)  in  giallo 
cupo,  e  l'altra  (l'olio  dolce)  in  giallo  chiaro  ,  con- 
corrono anch'esse  alla  colorazione  della  bile. 

L'A.  tentò  nella  disamina  dei  picromeli  di  de- 
terminare le  proporzioni  degl'indicati  materiali;  ma 
l  risultati  furono  sempre  variabili  per  la  forza  ,  e 
quantità  dei  reagenti  nei  processi  analitici,  né  potè 
giammai  isolare  alcuno  dei  suddetti  materiali ,  co- 
stretto a  rinunziarvi,  aspettando  che  la  scienza  ve- 
nisse a  sciogliere  queste  difficoltà.  Riflette  ancora 
che  l'esistenza  degli  acidi  margarico  ed  oleico  nella 
bile,  unita  a  quella  di  una  porzione  di  soda,  ravvi- 


173 

Cina  questo  liquido  alla  classe  dei  saponi,  alla  quale 
per  la  sua  proprietà  detersiva  lo  aveano  ascritto  i 
chimici  ed  i  medici  dell'età  precedente. 

La  XIX.  memoria  parla  sopra  la  forza  magnelizzanle 
del  lembo  estremo  del  raggio  violetto. 

II  eh.  A.  ci  presenta  l' esempio  del  prisma  di 
Newton,  il  quale  ha  avuto  la  proprietà  di  presentare 
nuovi  fatti'  ed  interessanti  a  chiunque  abbia  impreso 
a  trattarlo  per  istudiare  le  proprietà  ammirabili  dei 
raggi  solari.  Herschel  per  mezzo  di  esso  ha  sepa- 
rati i  raggi  colorifici  dai  luminosi.  Wollaston,  Ritter, 
e  Bochman  per  lo  stesso  mezzo  scoprirono  altri 
raggi,  che  senza  essere  né  calorifici ,  ne  luminosi , 
avevano  il  potere  di  affettare  le  combinazioni  chi- 
miche dell'ossigeno,  che  chiamarono  disossigenanti. 

I  primi  tentativi  diretti  dal  prof,  furono  di  sco- 
prire se  i  raggi  chimici  fossero  di  lor  natura  ma- 
gnetici. A  tal  effetto  fece  costruire  dall'abile  mac- 
chinista Lusvcrgh  molti  aghi  della  forma  ordinaria 
degli  aghi  magnetici,  e  di  diverse  grandezze  in  molla 
d'acciaio.  Questi  aghi  poggiano  per  mezzo  di  cap- 
pelletto di  vetro  sopra  un  perno,  e  sono  mobilissimi. 

II  dì  3  giugno  1812  1' A.  col  prof.  Barlocci  in- 
cominciò le  sperienze  nella  seguente  maniera. 

Progettato  lo  spettro  colorato  sopra  un  quadro 
di  carta  fcianca  ,  e  disposto  un  ago  col  suo  perno 
sul  braccio  mobile  di  un  regoletto  di  legno  fissato 
sopra  una  base  parimenti  di  legno,  s' immerse  1'  ago 
nel  raggio  violetto  verso  1'  estremità  dello  spettro  , 
dove  appunto  i  raggi  chimici  sono  poco  lontani  dal' 
loro  fuoco,  ch'è  fuori  del  raggio  violetto. 


174 

L'  ago  che  sul  principio  si  manteneva  in  ogni 
direzione,  ed  oscillava  in  tutti  i  sensi ,  incominciò 
a  tendere  verso  il  meridiano  vero  ,  e  finalmente  vi 
si  stabilì.  La  sua  punta  guardava  il  nord,  e  la  sua 
coda  il  sud  senza  alcuna  declinazione.  Quando  l'ago 
fermatosi  in  questa  direzione  pareva  immobile  ,  ne 
fu  distolto  col  dito  e  dopo  nuove  oscillazioni  vi  ri- 
tornò, come  se  una  impulsione  esterna  ve  lo  avesse 
detei'minato.  Continuando  l'esperienza,  a  poco  a  poco 
l'ago  cominciò  a  decb'nare  dal  meridiano  verso  il  me- 
ridiano magnetico,  senza  però  giungervi  in  quel  giorno 
e  l'esperienza  prolungò  ad'  un  ora  circa.  Nel  partire 
l'ago  fu  rimosso  dall'apparato,  e  perdette  subito  la 
direzione,  che  aveva  mantenuta  nel  tempo  della  spe- 
rienza,  divenendo  indifferente  qualsivoglia  altra  di- 
rezione, nella  quale  fosse  stato  spinto  dai  movimenti 
esterni  dell'aria,  del  pavimento,  o  della  mano. 

Questo  primo  risultato,  sebbene  non  soddisfacen- 
te, pure  lasciò  travedere  la  natura  magnetica  dei 
raggi  chimici ,  e  sostenne  colla  speranza  di  un  più 
compiuto  successo  la  perseveranza  della  ricerca  del 
professore.  È  da  riflettere  che  quando  l'A.  metteva 
in  esperienza  l'ago,  un  altro  a  distanza  dal  primo, 
e  fuori  dello  spettro,  si  teneva  sul  medesimo  tavolino 
per  essere  avvertiti  dell'oscillazioni,  ed  i  movimenti 
che  potessero  dipendere  dalle  cause  esterne.  Inoltre 
un  ago  calamitato  era  situato  ad  una  distanza  piiì 
considerabile  ,  e  sopra  un  altro  tavolino,  per  notare 
la  direzione  del  meridiano  magnetico,  e  paragonarla 
coB  quella  dell'  ago  immerso  nel  raggio  violetto. 
L'  A.  si  guardava  bene  di  non  accostar  mai  1'  ago 
calamitato  a  quelli  che  si    trovavano  in  esperienza, 


175 

per  evitare  qualunque  sospetto  d'influenza  magnetica 
diversa  da  quella  che  avessero  potuta  esercitare  i 
raggi  chimici. 

Nel  dì  5  fu  di  nuovo  messo  in  esperienza  l'ago 
del  giorno  3  ,  ed  il  risultato  fu  lo  stesso  per  rap- 
porto alla  direzione  verso  il  meridiano  magnetico, 
ma  colla  differenza  che  la  polarità  fu  rovesciata,  e 
i  due  estremi  dell'  ago  si  diressero  ai  poli  opposti 
a  quelli  che  aveano  riguardato  nella  prima  espe- 
rienza. La  declinazione  dal  meridiano  vero  verso  il 
magnetico  cresceva  sempre  più  durante  la  sperienza, 
ma  fuori  del  raggio  violetto  V  ago  non  manteneva 
ancora  questa  direzione. 

Nello  stesso  giorno  fu  messo  in  esperienza  un 
altro  ago,  che  presentò  i  fenomeni  del  primo,  ma 
che  non  rovesciò  la  sua  polarità  nei  giorni  seguenti. 
Dopo  la  quinta  immersione  di  questi  aghi  nel  lembo 
del  raggio  violetto  per  lo  spazio  di  mezz'  ora  circa 
al  giorno,  cioè  dalle  nove  alle  undici  della  mattina, 
essi  guadagnarono  la  direzione  del  meridiano  magne- 
tico, e  la  mantennero  anche  dopo  l' esperienza  con 
qualche  anomalia,  sempre  però  in  meno. 

Quando  l'A.  giunse  a  questo  risultato,  cominciò 
a  mettere  in  azione  questi  aghi  fra  loro,  ed  osser- 
vò che  essi  si  attraevano  vivacemente  con  i  poli 
opposti ,  e  che  fia  i  poli  omologhi  non  v'  era  ri- 
pulsione, ma  un'attrazione  benché  debole,  e  non  co- 
stante. Inoltre  niuno  di  questi  aghi  attirava  la  li- 
matura di  ferro,  uè  dava  il  fiocco  magnetico. 

Vedendo  V  A.  che  queste  esperienze  non  erano 
decisive,  immaginò  di  far  uso  di  lenti  convesso-con- 
vesse,  e  di  specchi  concavi,  che  concentrando  i  raggi 


176 

violetti  ed  i  continui  raggi  chimici  in  un  fuoco,  ne 
accrescessero  l'azione ,  e  somministrassero  risultati 
più  pronti.  Con  questo  mezzo,  due  altri  aghi  giun- 
sero al  grado  di  magnetizzazione  de'due  primi.  Al- 
lora pensò  di  sottoporre  anche  questi  al  fuoco  dei 
raggi  violetti  per  aumentare  e  completare  le  loro 
forze  magnetiche ,  e  si  ottenne  di  comunicare  ad 
uno  di  essi  la  facoltà  dì  attrarre  la  limatura  di  ferro 
al  polo  nord.  Durante  queste  esperienze  si  presentò 
un'  anomalia.  Un  giorno  che  alle  5  pom.  il  profes- 
sor Barlocci  era  occupato  a  progettare  con  uno  spec- 
chio concavo  il  fuoco  del  raggio  violetto  sopra  l'uno 
di  questi  aghi  segnato  col  numero  8,  si  rovesciò  la 
sua  polarità  ,  conservandosi  fin  ad  oggi,  cioè  colla 
coda  al  nord,  mentre  la  facoltà  di  attirare  la  lima- 
tura di  ferro  è  rimasta  costante  nell'  estremità  che 
termina  in  punta,  e  che  ora  è  rivolta  al  sud. 

Il  prof.  Barlocci  volle  dirigere  il  fuoco  dei  raggi 
violetti  sopra  gli  aghi  con  un  movimento  simile  a 
quello  che  si  adopera  nel  metodo  conosciuto  di  ca-^ 
lamitare  gli  aghi  con  una  magnete,  cioè  portando  la 
lente  in  guisa  che  il  fuoco  dei  raggi  violetti  per-^ 
corra  l'ago  dal  punto  di  sospensione  all'  estremità 
nord  in  prima  ,  e  quindi  dal  punto  di  sospensione 
all'estremità  sud.  Questo  tentativo  ebbe  un  felice 
esito.  Con  questo  processo  sono  stati  magnetizzati 
quattro  aghi:  giacché  oltre  all'avere  acquistata  la  di- 
rezione al  meridiano  magnetico,  acquistarono  altresì 
la  ripulsione  ai  poli  omologhi.  Il  tempo  più  lungo 
impiegato  fu  in  varie  volte  di  circa  due  ore,  il  più 
breve  di  mezz'ora  il  che  dipendeva  dallo  stato  del- 
l'atmosfera, giacché  l'aria  caliginosa,  o  ricoperta  di 


177 

nuvole  a  ciiri  diminuiva  o  annullaaa  gli  effetti  ma- 
gnetici dei  raggi  solari,  così  l'umidità,  e  i  venti  del 
sud  non  sono  favorevoli  a  queste  esperienze.  Il  ter- 
mometro del  gabinetto  di  fìsica  era  sempre  fra  18 
a  22  gradi  di  Reaumur. 

11  prof.  Morìehini  profittò  del  mezzo  immaginato 
dal  Barlocci ,  per  magnetizzare  completamente  an- 
che gli  aghi  che  furono  il  soggetto  delle  prime  espe- 
rienze ,  ai  quali  mancava  ancora  la  ripulsione  dei 
poli  omologhi ,  o  almeno  essa  era  dubbia  ,  e  non 
costante. 

Tutti  questi  aghi  acquistarono  ancora  l'inclina- 
zione magnetica,  come  se  ne  assicurarono  col  pro- 
fessore Metaxà  che  si  propose  di  applicarla  agli 
animali. 

Ora  riflettendo  sopra  i  risultati  di  queste  espe- 
rienze, si  può  conchiudere,  che  non  lo  stesso  raggio 
violetto,  ma  i  raggi  chimici  che  hanno  il  lo  fuoco 
primario  al  disopra  del  suo  lembo,  il  quale  però  si 
estende  e  si  allunga  nello  stesso  raggio  violetto , 
come  il  fuoco  dei  raggi  calorifici  si  sparpaglia  tino 
al  raggio  verde,  i  raggi  chimici  contengono,  o  sono 
essi  stessi  il  fluido  magnetico.  Due  ragioni  prese 
dall'esperienza  obbligano  ad  abbracciare  questa  opi- 
nione. La  prima  è  che  nessuno  degli  altri  raggi  pri- 
mitivi dello  spettro  solare  possiede  in  grado  sensi- 
bile la  proprietà  di  magnetizzare  l'acciaio;  e  la  se- 
conda, che  lo  stesso  raggio  violetto  gode  di  questa 
proprietà  eminentemente  verso  il  suo  lembo.  Il  prof. 
Monchini  è  persuaso  che  se  non  fosse  necessario  di 
raccogliere  colla  lente  il  raggio  violetto  per  guida- 
re cosi  lo  sperimentatore  nella  ptoiezione  dei  raggi 
G.  A.  T.  CXXXIII.  1?- 


178 

chimici  sugli  aghi,  ma  in  vece  si  progettasse  il  fuoco 
(li  questi  soli  raggi,  l'esito  delle  esperienze  sarebbe 

10  slesso,  e  forse  piiì  completo. 

Quando  il  dotto  chimico  si  occupava  della  ri- 
cerca della  facoltà ,  o  natura  magnetica  dei  raggi 
chimici,  ossia  del  raggio  violetto,  non  trascurò  d'in- 
cominciare una  serie  di  esperienze  per  determinare 
se  nei  raggi  solari  esistono  raggi  elettrici.  Sebbene 
pochi  sieno  i  fatti  che  si  ebbero,  sembra  che  gli  stessi 
raggi,  i  quali  producono  i  fenomeni  magnetici,  pro- 
ducono altresì  gli  elettrici.  I  fatti  si  riducono  ai  tre 
seguenti.  I  raggi  solari  non  rifratti  dal  prisma  con- 
centrati con  una  lente  ustoria  ,  e  progettati  sopra 
il  piattello  di  un  condensatore  di  Volta  fino  ad  un 
forte  riscaldamento,  non  dettero  segno  di  elettricità. 

11  fuoco  dei  raggi  violetti  fece  due  volte  divaricare 
le  pagliette  di  questo  elettrometro  ,  che  ha  allora 
indicato  Teleitricità  vitrea  ,  o  positiva.  Per  ultimo, 
allontanate  queste  pagliette  con  l'elettricità  resinosa, 
o  negativa,  si  sono  riaccostate  progettando  sul  con- 
densatore il  fuoco  dei  raggi  violetti.  Questa  ricerca 
la  sostenne  assiduamente  il  prof.,  giacché  l'interesse, 
ch'essa  ispira,  non  può  esser  minore  di  quello  ch'ec- 
citava la  prima. 

Dopo  le  esperienze  sulle  intensità  e  proprietà 
magnetiche  degli  aghi  trattati  col  raggio  violetto 
negli  anni  1812  e  1813,  passa  l'illustre  A.  a  parlare 
sulla  forza  magnetizzante  del  lembo  esterno  del  rag- 
gio violetto,  che  è  la  seconda  memoria  Ietta  nell'ac- 
cademia dei  lincei  li  22  aprile  1813. 

[Continua), 

B,     CIUMENS 


179 


Alba,  il  Seltimonzio,  e  Roma  primitiva:  Nuove  consi- 
derazioni di  Francesco  Orioli  professore  di  storia 
antica  ed  archeologia. 

Viercar  oggi  di  confutare  la  vieta  opinione  intorno 
alla  città  d'Alba  Longa,  ed  alla  supposta  fondazione 
di  essa  dovuta  ad  Ascanio  figliuolo  d'Enea  troiano, 
è  prender  a  combattere  un  errore  già  morto  presso 
tutti  che  applicarono  in  questo  proposito  agli  studi 
storici  le  regole  d'una  saggia  e  ben  ponderata  cri- 
tica. La  riduzione  al  suo  giusto  valore  di  questo 
vecchio  mito  è  uno  de'frutti  della  scienza  moderna, 
intorno  a  che  meno  è  luogo  a  controversia.  Può  ba- 
stare a  persuaderlo  la  lettura  pur  solo  della  Istoria 
preliminare  di  Roma  nel  1  volume  del  Niebuhr,  qua- 
lunque sia  nel  resto  la  opinione  che  altri  voglia  for- 
marsi di  molte  delle  nuove  sentenze  che  l'ipercritico 
autore  introdusse  nella  celebre  sua  ricostruzione  della 
storia  romana. 

Colpa  evidente  di  questa  falsificazione  delle  ori- 
gini della  città  eterna  ,  è  de'greci  italioti.  Popolare 
tra  essi  era  divenuto  il  nome  de'più  o  meno  favo- 
losi eroi,  cantati  da' primi  poeti  ellenici,  ed  in  ispe- 
cie  da  Omero;  come  in  un  tempo  grandemente  po- 
steriore ,  ciò  fu  in  pari  guisa  degli  altri  eroi  cele- 
brati ne'  romanzi  di  cavalleria ,  subbietto  poscia  a' 
poemi  del  Pulci,  del  Boiardo,  del  Berni,  del  Dolce  ... 
e  di  colui  che  vale  per  tutti  gli  altri,  voglio  dir  Lo- 
dovico Ariosto.  I  personaggi  eran  finti,  o  era  finto  il 


180 

più  delle  cose  che  se  ne  narravano  come  vere;  ma 
non  così  giudicavane  l'universale,  ch'era  uso  a  con- 
siderarlo come  antica  e  principale  gloria  della  na- 
zione. Quindi  è  che  non  gli  bastava  il  ripetere  a 
memoria  i  versi  che  ne  favellavano  ,  e  spesso  rac- 
contare a  diletto  i  fatti  alla  tradizione  consegnati; 
ma,  ne'particolari  di  questo  o  di  quello,  spesso  face- 
vansi  giunte  d'ogni  arditezza  e  temerità,  secondochè 
tale  0  tal  altro  eroe  prediletto,  o  prescelto  a  qua- 
lunque ragione,  diveniva  argomento  a  speciali  can- 
zoni, o  a  locali  racconti:  e  l'amore  del  maraviglio- 
so,  0  la  vanità,  o  l'adulazione,  o  la  millanteria  ,  o 
cent'altre  cagioni,  siccome  suole,  invitavano  a  variare 
il  tema  con  non  minore  abbondanza  di  quella  che 
usa  il  maestro  di  musica  nell'  assumere  una  cono- 
sciuta frase  musicale  ,  o,  come  dicesi ,  un  motivo 
caro  all'orecchio,  trasformandolo  in  mille  guise,  con- 
servate poscia  le  variazioni  che  ottennero  favore. 

Questo  è  sempre  stato,  e  sarà  sempre.  Un  esem- 
pio, tra  mille,  in  non  so  qual  mio  precedente,lavoro 
ho  citato,  che  m'è  opportuno  qui  ricordare.  I  nostri 
padri,  di  sopra  a  300  anni  fa  ,  sostituito  avevano 
alle  favole  greco-romane,  quelle  de'  popoli  invasori 
venuti  di  là  dall'alpe,  o  de' popoli  dominatori  di  là 
dal  mare;  e  furono  allora  in  onore  (libri  oggi  di- 
menticati) i  romanzi  della  tavola  rotonda,  o  del  ci- 
clo cui  chiamano  celto-brettone  ,  e  vie  piìi  ancora 
quelli  del  ciclo  di  Carlo  Magno,  e  del  bizantino-ro- 
mano,  a'quali  noi  volemmo  intromettere  nostrali  cose; 
e  lo  facemmo  in  ispezie  nel  Guerrin  Meschino  e  ne' 
Reali  di  Francia,  dove  gl'imbarbariti  nostri  avi  me- 
scolarono rimembranze  de'  luoghi  nostri.  Ond'r;,  che 


181 

(per  parlare  d'un  solo  e  il  più  celebre  tra  gli  eroi 
di  quelle  stirpi),  troviamo,  anche  oggidì,  in  Sutri  la 
grotta  ove  Berta  dal  gran  piò  partoriva  Orlando  a 
Milon  d'  Anglante,  e  le  rovine  del  palagio  di  Carlo 
Magno,  dove  il  grande  imperadore  accoglieva  il  ri- 
conosciuto nipote.  Procedendo  oltre  ,  a  mezza  via 
tra  Capranica  e  Vetralla,  incontriamo  le  quercie  de- 
nominate da  questo  Orlar^do,  su  cui  senza  dubbio  fa- 
ceva un  primo  sperimento  di  sua  gagliardia.  In  quel 
di  Viterbo,  abbiamo,  a  un  lato  della  via  Cassia,  la 
ruzzola  di  lui,  cioè  la  memoria  d'un  rocchio  di  ro- 
tondo edificio,  cui  la  mano  robusta  dell'eroe  paladino 
facea  ruzzolar  sul  suolo  per  poi  posare  in  luogo  donde 
nessun  piti  avrebbe  avuto  la  possanza  di  rimoverlo. 
In  Narni  un  antico  monumento  sull'Emilia  (  e  non 
importa  se  qui  l'itinerario  sbalza  ad  altra  direzione) 
lungo  i  dirupi  che  fan  riva  alla  Nera,  è  detto  sedia 
dove  stanco  del  cammin  lungo  s'assise,  allettato  dal 
grato  orrore  della  soggetta  valle,  e  del  fiume  che  vi 
corre  nel  mezzo.  Giunti  presso  a  Spello  {Hispellum), 
sopra  una  porta  antica,  e  sotto  alla  grossa  imma- 
gine in  rilievo  d'  un  gentilesco  fallo  die  a  leggere 
alla  posterità  l'età  barbara  questo  singoiar   distico: 

Orlandi  hic  Caroli  Magni  metire  nepotis 
Incjentes  arctiis,  celerà  facta  docent  ! 

Né  sarebbe  difficile  seguitare  collo  stesso  tenore  tutto 
il  viaggio  verso  Francia  di  cotesto  Ercole  del  me- 
dio evo.  Or  chi  oggi  direbbe  tutto  ciò  essere  storia  ? 
E  nondimeno  fu  tradizione  ricevuta  un  tempo  come 
storia,  e  per  gli  uomini  di  contado  è  ancor  tale. 


182 

Così  V  ebber  secoli  in  cui  credevano  i  fiorentini 
aver  Firenze  tratto  il  nome  da  un  re  Florio,  o  Fio- 
rino; e  narrano  i  primi  cronisti  di  Viterbo  mia  pa- 
tria, ch'essa  a  un  Corinto  o  Corito,  e  ad  Elettra  sua 
moglie,  e  poscia  ad  Ercole,  deve  il  nascimento  ,  e 
a  un  Sutro  Sutri  ...  e  al  cane  d' Ascanio  Tosca- 
nella,  come  appunto  ad  Ascanio  stesso  (e  collo  stesso 
grado  di  verità  )  Alba. 

I  greci ,  siccome  io  diceva ,  stabiliti  in  Italia  , 
dopo  aver  succeduto  a'  pelasgi  loro  padri ,  ed  es- 
sersi primi  dati  carico  di  scrivere  storie  italiane,  o 
le  storie  almeno  ohe  fecer  dimenticare  le  altre  più 
vetuste  se  pur  furono,  non  applicarono  a  questo 
lavoro  altre  regole,  clie  quelle  usate  da  essi  in  ogni 
paese  ove  posero  stanza,  o  di  cui  scrissero.  Per  una 
superbia  che  troppi  esempi  ci  attestano,  antiche  co- 
lonie de' loro  padri  dicevano  aver  popolato  il  mon- 
do ,  e  gli  avi  loro  in  ogni  parte  aver  lasciato  ve- 
stigi della  lor  possanza.  Non  importa  se  i  più  di 
questi  eroi  non  ebbero  vita  altrove  che  nella  immagi- 
nazione de'poeti  loro:  le  inverisimiglianze,  le  impos- 
sibilità, le  assurdità,  le  contraddizioni  non  impedi- 
vano la  pienezza  della  fede.  A  dar  qualche  fonda- 
mento alle  opinioni  le  più  strane,  bastava  una  lon- 
tana affinità  di  denominazioni.  Era  chiaro  più  della 
luce  del  giorno  che  Crustumerio  p.  e.  aveva  preso  il 
nome  da  Clilennestra,  Politoìio  da  Polite,  Alsio  da 
Aleso  figliuolo  di  Nettuno.  La  licenza  andava  an- 
cor più  in  là.  Si  creava  a  posteriori  il  nome  d'al- 
t\in  greco  personaggio,  e  col  nome  un  mito  acconcio 
all'  uopo;  e  per  questa  via  Preneste  dicevasi  aver 
tratto  il  cominciamento  da  un  Prenesto  nipote  d'U- 


183 

lisse,  la  lapiyia  da  una  ìapige  figliuol  di  Dedalo,  il 
paese  de  pelasgi  da  un  Pelasgo;  e  presso  a  poco  a 
questo  modo  pei  più  degli  altri. 

Nel  nostro  caso,  o  io  fortemente  m' illudo,  o  la 
greco-italica  leggenda  d'  Enea  trovò  il  suo  fonda- 
mento nella  favola  relativa  al  primitivo  Giano.  Per- 
chè se  questo  nome  ebbe  in  Roma  stessa,  oltre  alla 
forma  volgare  lanns,  le  varianti  lanes  ed  Eanus  (1); 
certo  d'altre  maggiori,  anche  più  vicine  ad  Aeneas, 
non  dovè  mancare  nel  Lazio,  stando  a  quello  che 
Paolo  abbreviatore  di  Festo  scrive  (2):  Latine  loqiii 
a  Latio  dictum  est,  quae  locutio  adeo  est  versa,  ut 
vix  ulta  eius  pars  maneat  in  notitia;  e  a  quello  che 
Isidoro  nelle  Origini  (3):  Prisca  (  latina  lingua  )  est 
qua  vetustissimi  Italiae  popidi  sub  lano  et  Saturno 
sunt  usi,  incondita  ut  sunt  carmina  saliaria;  e  a  quello 
finalmente  che  Servio  ne'comenti  all'  egloghe  virgi- 
liane (4),  parlando  del  poeta:  Gesta  regum  romano- 
rum  ....  coepta  (cani)  omisit  nominum  asperi  tate  de- 
territus:  perchè  se  tanto  que'  nomi  eran  aspri,  eran 
dunque  diversi  da  que'  che  conosciamo. 

Né  questa  è  mia  conghiettura  (dico  lo  scambio 
di  lanus,  o  d'una  qualche  altra  sformatura  di  questo 
vocabolo,  con  Aeneas).  Dionigi  d' Alicarnasso  (5),  il 
Sincello  (6),    Eusebio  Cesariense    (7)    insegnano    in 


(1)  Serv.  in  Aen.  VII.  610  -  TertulUan.  Apolog.   10. 

(2)  Ed.  Linddmann  p.   SS. 

(3)  IX.  1.  6. 

(4)  In  Eccl.  VI.  3. 

(5)  I.  73. 

(6)  Edit.  Bonnae  1829   Voi.   1.  p.  364. 

(7)  Ven.  1S18.  pari.  1.  p.  381- Cf.  Steph.  de  Urb.  p.  v.  Jenea. 


184 

modo  esplicito,  che  il  Gianicoìo  ,  il  quale  comune- 
mente è  detto  fondazione  appunto  di  Giano,  secon- 
do altri  da  uno  dei  tre  figliuoli  d'  Enea  ebbe  ori- 
gine, il  quale  non  Gianicoìo  chia mollo,  ma  in  tutte- 
lettere,  Aenea  (  Ajvs/av)  dal  nome  del  padre;  o  come 
Giorgio  Sincello  scrive,  "AvsjxXcv,  (dove  la  traduzione 
armena  di  Eusebio  per  cacografìa  pone  una  voce 
corrispondente  ad  Anicavum);  e  credo  che  questo 
"AvEtylov  accenni  alla  forma  etrusca  del  nome,  cioè  al 
nome  con  che  lo  chiamavano  gli  etruschi  finché  ne 
furono  padroni:  poiché  tra  essi  incontriamo,  nell'e- 
pigrafi sepolcrali ,  a  maniera  di  prenomi ,  di  gen- 
tilizi, e  de'loro  derivati,  Ane  (1),  Ana,  Asna,  Anai- 
ni  (2)  Anea  (3)  ,  Anei  (4)  ec.  E  quel  che  confer- 
ma tutto  questo  è  l' antichissima  favola  ,  onde  si 
trasse  la  denominazione  del  Teverone  od  Aniene 
da  un  Anio  re  degli  etruschi  (  e  probabilmente  del 
Gianicoìo  )  (5),  che  inseguendo  Tarchezio  (6)  o  Ca- 
teto (7) ,  il  quale  avevagli  rapito  la  figliuola  Salia 
(certo  corruzione  di  Silvia  o  Ilia),  e  non  potendolo 
raggiungere,  disperato  si  gittò  nel  fiume  che  da  indi 
in  là  fu  denominato  Anio  od  Anien;  mentre  dalla  fì- 


(1)  Lanzi,  Saggio  ec.  ed.  2.  p.  302  e  seg.  e  p.  221. 

(2)  Lanzi   p.  221   e  Indici  al  3.  voL 

(3)  V.  Indici  op.  cit. 

(4)  VermiglioU  Iscr.  Per.  l.  1.  p.  150  316  ec. 

(5)  Psendo-Plutarc.  Piccoli  Paralleli  n.  81.  Edit.  Reiske  voi.  7. 
p.  252. 

(6)  Psendo  Apuleius  de  orlhographia.  Ed.  Osann.  Darmstadii 
1826  p.  12.  n.  53;,(e  dev'essere  un'alterazione  di  Tarcho  o  Tar- 
chon,  etrusco  anch'esso,  com'è  notissimo;  che  ricomparisce  come  re 
di  Alba  in  altro  mito  presso  Plnlarc.  in  Romolo  2)- 

(7)  Pseudo-Plutarc  loco  cit. 


185 

gliuola  superstite  nacquer  Latino  e  Salio  ,  gemelli 
confusi  senza  dubbio,  dalla  incostanza  delle  tradi- 
zioni, con  Romolo  e  Remo. 

Né  ciò  basta  perchè  ,  a  confortar  d'  un  nuovo 
argomento  il  precedente  discorso,  lo  stesso  Anio  od 
Anien,  trovasi  da  altri  detto  lanus  (l);e  ad  aggiun- 
gere una  terza  prova,  giova  ricordare  che  la  dinastia 
albana  cognominata  de'  Silvii  da  sijlva^  e  per  conse- 
guenza da  v'ka.,  madre  dorica  di  sylva  (mostrante  la  sua 
grecità  da  niuno  negata,  perfino  nelPy  con  cui  suole 
scriversi)  erano  ancor  detti,  appunto  perciò,  Ilii,  donde 
i  due  nomi  della  supposta  madre  di  Romolo  e  Remo 
Silvia  od  Ilia.  Ora  que'  d'ellenica  razza,  che  immagi- 
narono la  favola  d'Enea,  men  meno  debbono  essere 
stati  tratti  in  inganno  da  sì  fatta  denominazione  de' 
Silvii  od  Ilii:  perchè  nel  vocabolo  UH  probabilmente 
dovetter  vedere  celati  i  venuti  d' Ilio,  cioè  i  troiani, 
e  perciò  il  condottiero  de'medesimi  già  famoso  ne' 
versi  omerici ,  vale  a  dire  il;  figliuol  di  Venere  e 
d'Anchise. 

Potrei  più  a  lungo  trattenermi  su  questo  discorso 
incidente,  dilatandolo  a  tutte  l'altre  analogie  che  il 
tema  suggerisce  e  rivela;  ma  già  è  troppo,  e  vengo 
omai  pili  direttamente  a  quel  che  importa  ;  e  il 
sunto  del  discorso  sarà,  che  in  1'.  luogo  V Alba  lon- 
ga,  donde  mosse  da  principio  il  mio  parlare,  non 
significò,  nel  così  cominciare  a  chiamarsi  ,  una 
sola  e  stessa  città,  ma  sì  bene  una  dipoli  ,  come 
altri  esempi  in  buon  dato  se  ne  hanno  ;  cioè  due 
città  al  tutto   prossime  ,    e  in  reciproca  dipendenza 

(1)  Athen.  Deipn.  Ub.  XV. 


186 
l'ima  dall'  altra  ,  in  modo  da  poter  esser  considerate 
come  una  sola.  In  2°.  luogo  che  le  due  città  non 
a  un  solo  e  medesimo  fondatore  denno  attribuirsi , 
ma  a  due  diversi  di  nazione,  e  d'epoca;  3".  finalmente 
che  gli  edificatori  della  prima  delle  due  furono,  se- 
condo tutte  le  apparenze,  i  siadi  o  sicaniy  che  vo- 
gliano chiamarsi,  e  quelli  della  seconda  i  pelasgi. 

Tutto  ciò  altre  volte  ho  io  toccato  di  volo,  ma 
è  necessario  esporlo  qui  più  a  disteso.  Alba  longa 
non  è  pertanto,  a  mio  avviso,  un  sostantivo  Alba , 
accompagnato  da  un  addiettivo,  o  piuttosto  un  primo 
addiettivo  tenente  luogo  di  sostantivo,  seguitato  da 
un  altro  addiettivo  conservante  la  sua  natura  gram- 
maticale, per  significare  la  Bianca-lunga  (  singolare 
espressione  ad  indicare  una  scrofa  di  quel  colore 
insigne  per  la  sua  lunghezza  ,  come  se  si  trattasse 
d'un  animale  di  questa  specie  della  razza  coccinci- 
nese);  storiella  invero  ridicola,  che  cade  tutta  intera 
col  mito  dell'  eroe  troiano,  e  che  noi  spiegheremo 
tra  poco:  ma  è  l'unione  di  due  sostantivi  ,  Alba  e 
Longa;  nome  quello  della  città  preesistente,  questo 
d'una  cittadella  aggiunta  piiì  tardi  ,  sebbene  stac- 
cata: r  uno  della  città  posta  lunghesso  la  riva  del 
lago  albano  tra  esso  lago  e  il  monte  Cavo  che  al  lago 
sovrasta;  l'altro  della  cittadella  sulla  cima  di  esso  mon- 
te, nel  luogo  dove  oggi  è  posta  Rocca  di  Papa  (1). 
Dove  tra  molti  argomenti  che  possono  addursi  a 
corroborare  questa  opinione,  non  è  l'ultimo  il  con- 
siderare che  la  voce  Alba  qui  non  è  la  prima  volta 
a  comparir  da  se  sola  qual  nome  geografico;  come 

(1)  V.  Niebulir.  Op.  cit.  Voi.  I,  cap.  intorno  ad  Alba. 


187 
la  voce  Loncja,   o  cosi ,  o  con  minima   mutazione  , 
pur  senz'altro  aggiunto,    tra   nomi  d'antichi  oppidi 
non  manca. 

L'una  evidentemente  è  voce  antichissima  ,  che 
pare  a  noi  venula  da  popoli  oltralpini,  poiché,  tra 
le  città,  troviamo,  presso  i  geografi,  un' A/Z>a  spa- 
gnuola  nella  Betica  (nome  anche  di  fiume);  un'altra 
Alba  gallica^  nel  Vivarese,  dei  così  detti  Helvii;  po- 
scia le  Alpes,  e,  nelle  regioni  subalpine,  Alba  Pom- 
peia,  e  Albium  Intemelium^  e  Albigaunum,  e  /'  Al- 
bione britannica,  e  VAlbis  corso  d'acqua  nella  Ger- 
mania, e  nell'Italia  inferiore  VAlba  Fucensis  ec.  L'al- 
tra, cioè  Longa,  la  incontriamo,  in  questa  stessa  parte 
centrale  della  italica  penisola,  ben  due  volte,  sotto 
la  forma  derivata  Longulaj  tra  i  latini  o  i  volsci,  e 
tra  i  toscani ,  per  non  andare  ad  altre  minuzie  di 
ricerche. 

Più  è  osservabile,  che  mentre  la  prima,  siccome 
leste  notammo,  par  voce  oltramontana,  quando  al- 
meno a  paesi  s'applica,  e  si  può  allora  suppor  ge- 
nerata da  alb  (  monte,  bianco,  splendente,  o  simile); 
la  seconda  è  chiaramente  grecanica,  perchè  io  credo 
potere  asserir  con  franchezza,  ch'essa  niente  altro  è 
se  non  la  forma  dorica  del  vocabolo  greco  lóv/r] 
(  hasta  ),  nome  imposto  alla  cittadella  albana  da  un 
popolo  parlante  un  dialetto  di  greca  stirpe;  e  nome 
scelto  sotto  l'influenza  delle  idee  stesse  che  a'sabini 
di  Tazio  nella  propria  lingua  fecer  chiamare  la  lor 
capitale  Curi ,  la  qual  parola  ugualmente  significò 
/lasto  (t),  perchè  ciò  allor  valeva  supremazia,  aulori- 

(1)  Serv.  in  Aen.  1.  292  -  Ovid.  Fast.  II.  177.  Paull.  ed.  cit.  p.  48. 


188 
taf  dominio.  E  per  vero  hasta  summa  armomm  ci 
imperii  est,  Paolo  dice  (1);  e  fu  essa  notissimo  sim- 
bolo di  Marte,  cioè  della  forza  imperante  (2):  laon- 
de così  aver  chiamato  l'arce,  rispetto  alla  gente  che 
al  monte  Cavo  la  impose,  era  come  aver  volato  an- 
nunziare che  quivi  era  il  comando,  quivi  la  potestà, 
quivi  la  protezione  del  dio  della  guerra. 

Or,  ciò  posto,  ecco  in  qual  guisa  io  riordino  la 
storia.  Fu  un  primo  tempo,  in  che  Longa  non  era 
ancora  imposta  alla  montagna  ,  e  non  aveva  rice- 
vuta questa  denominazione.  Allora  non  sorgeva  sulle 
sponde  del  lago,  che  un'antichissima  Alba,  fondata 
da  una  gente  affine  a  quella  che  un'altra  fondavane 
presso  il  Fucino  ne'  Marsi ,  ed  altre  qua  e  là  per 
Italia,  e  innanzi  tratto  per  Europa,  dalla  Spagna  fino 
a  noi;  e  tutto  persuade  che  fu  la  gente  chiamata  si- 
cana  o  sicula.  So  che,  riguardo  ad  essa,  nel  deci- 
dere quella  che  si  fosse,  è  gran  confusione  e  con- 
traddizione di  sentenze.  Nondimeno  a  chi  piiì  ben 
guarda  apparisce  essere  stata  un  popolo  ,  in  tempo 
antichissimo  stanziato  sulle  rive  della  Segre  nella 
Spagna  Tarragonese ,  che  scorre  dal  nord  al  sud 
della  Catalogna  e  si  confonde  coli'  Ebro  ,  cioè  del 
fiume  Sicoris,  come  ciò  è  a  noi  attestato  da  Eforo  (3), 
da  Filisto  di  Siracusa  (4),  da  Tucidide  (5),  da  Dio- 


fi)  Ivi- 

(2)  Arnob.  lib.   VI.  LugcI.   1651.  p.   196  -  Clem.  Alex,    in  Pro 
trept.  p.  3. 

(3)  Apud  Strab.  l.  Vl.j 

(4)  Apud  Diodor.  Sic.  lib.   V.  6. 

(5)  Lib.   VI.  e.  2. 


189 

doro  di  Sicilia  (1)  da    Scillace  (2),  da  Servio  (3).  II 
Thierry  n^l  voi.  1  della   sua  storia  de'galli  ha  ben 
messo  in  luce    quel  che    intorno  a  ciò  è  insegnato 
dalle  tradizioni  più  genuine.  Le  invasioni  in  Ispagna 
de'Celti  li  costrinsero,  in  un  età  assai  remota  ch'esso 
Thierry  si  sforza  di  determinare,  a  uscir  dalla  na- 
tale loro  terra  pel  passo  orientale  de'  Pirenei,  donde 
lido  lido,  e  d'emigrazione  in  emigrazione,  attraver- 
sando le  Gallie,  e  tutto  il  littorale  sul  Mediterraneo, 
s'allungarono  fino  alla  occidentale  Italia  ,  al  di  qua 
dell'  apennino,  e  tra  noi  posarono  alcun  tempo  pri- 
ma d'essere  sospinti  fino  alla  Trinacria,  alla  quale 
finirono  col  dare  il  nome  loro.    Que'  che  li  dicono 
«uT^;^Tcvs?,  o  indigeni ,    dicon  quello  che   suol   dirsi 
tutte  le  volte  che  si  tratta  d'un    popolo  antichissi- 
mo, di  cui  s'ignorano,  perchè  non  si  son  sapute  cer- 
care,   le  origini.   Que'  che  li  voglìon   greci,  come  fa 
il  Niebuhr,  li  consideran    quali  divennero    dopoché 
tutta  Italia  sofferse  le  tante  mescolanze  pelasgiche  , 
le  quali  tutte  le  antiche  stirpi  alterarono  più  o  meno 
mescolando  visi.  Chi  volesse  approfondir  più  la  qui- 
stione    innanzi  a  loro  porrebbe    gli    ausoni,    auru- 
ei,  opisci  od  opici,  poi  divenuti  osci  ,    vetustissimi 
spagnuoli  anch'  essi,   progenitori  de'  baschi  parlanti 
la    lingua    cuskara  ,    e    detti    con    nome   primitivo 
Eusk,    Ausck,  Ask    nel    paese    donde    mossero,    e 
dai  latini,    auselani  ed   oscenses  in  una  parte  della 
Catalogna  (4)  ausci  nell'Aquitania  (  poj)oli  d'Auch  d' 

(1)  Ivi. 

(2)  p.  2. 

(3)  In  Aen.   i.   557-VllI.   328. 

(4)  Caesar  de  bello  civili  I.  60. 


190 

Harmagnac  in  Guascogna)  (1);  e  appunto  ausonii 
con  tutti  i  sinonimi  detti  di  sopra,  in  Italia,  (2)  dove 
per  esempio  il  nome  osco  d'  Ascoli  che  li  ricorda 
era  Auskla  inflesso  in  Ausklin  Auscklinon  etc.  (3) 
Ma  porrebbe  ugualmente  i  volsci  o  volcae  abitanti 
anch'essi,  come  le  vicinanze  del  paese  degli  ausoni 
tra  noi,  così  nelle  Gallie  la  Linguadoca  e  il  Rossi- 
glione, ivi  divisi  nelle  tribù  degli  arecomici,  degli 
ataciniy  dei  sardones^  dei  tectosagesy  e  forse  di  tutti 
i  popoli  belgi  che  a  un  nome  simigliante  si  riducono. 
Una  cosa  s'avvera  intanto  su  ciò.  È  noto  che  per 
cagioni  analoghe  a  quelle  che  trassero  al  paese  no- 
stro i  sicani  0  siculi,  pur  dalla  Spagna  furono  di- 
scacciati la  loro  volta  ,  e  tennero  il  medesimo  iti- 
nerario, i  liguri  0  ligii,  stirpe  che  si  crede  origi- 
naria delle  montagne  a  pie  delle  quali  corre  la  Gua- 
diana  (4),  la  quale  stirpe  nell'Italia  superiore  restò 
divisa  dall'altre,  e  regnò  sola,  o  presso  a  poco  sola, 
ma  nella  parte  di  mezzo  della  nostra  penisola  pare 
che  si  mescolasse  appunto  colle  tribù  che  l'avevan 
preceduta  negli  stessi  luoghi.  Così  almeno  insegna 
Festo  (5) ,  e  Paolo  che  lo  copia.  Or  quando  i  li- 
guro-siculi  vi  erano  i  pacifici,  o  quasi  pacifici,  pos- 
sessori ,  i  sacrarli  sopravvennero  (6) ,  che  ne  li 
spossessarono,  e  si  sostituirono  nella   loro  vece. 


(1)  Id.  de  bello  gallico  IFI.  23. 

(2)  Aristot.  Polii.  VII.  10  Strab.  lìb.  V.  Serv.  in  Aen.  VII.  272 
e  XI.  253  -  Paul.  p.   113-  Festus  p.  191  -  V.  Niebiihr  T.  1. 

(3)  Friedlander  Leispig.  1850.  Die  Oskischen  Miinzen  p.  54. 

(4)  V.  Thyerry  op.  cit. 
({5)  S.  V.  Sacrarli. 

(6)  Serv.  in  Aen    XI.  317- Fcslo  e  Paolo  loc.  cit. 


191 

E  su  ciò  clic  fossero  questi  sacrani  ò  lunga  di- 
sputa. Alcuni  li  confondono,  altri  li  distinguono,  da- 
gli abongeni  (  sul  cui  nome  e  sulla  cui  provenien- 
za non  è  men  controversia  ).  Qualunque  però  sia 
la  sentenza,  la  quale  in  tal  proposito  voglia  abbrac- 
ciarsi, essi  certo  erano  pelasgica  gente,  o  mescolata 
con  altri  popoli  primitivi,  o  più  o  men  pura  da  mesco- 
lanze, ma  piuttosto  pura  che  mescolata,  per  la  ra- 
gione ch'io  veggo  a'  segni ,  alcuni  de'quali  tra  poco 
dirò,  ch'essa  parlava  un  idioma  più  grecanico,  dì 
quello  di  tutti  gli  altri  popoli  italici  informali  alla 
greca  civiltà  e  un  gran  numero  di  parole  greche 
già   usanti. 

Senza  dubbio,  nel  sostituirsi  a'  sicani,  od  a  si- 
cano-liguri  sulle  terre  cistiberine  ,  occuparon  tutta 
la  contrada;  e  son  essi,  che  ponendo  sede  princi- 
pale in  Alba,  cioè  fattane  la  lor  capitale  ,  han  da 
riputarsi  i  veri  fondatori  del  prisco  Lazio,  quale  Io 
conosciamo  nel  cominciare  della  storia  latina.  Dove 
per  più  afforzare  la  città  scelta  a  principal  seggio,  son 
essi  che  fabbricata  sulla  cima  del  monte  Cavo  quella 
che  chiamammo  cittadella,  le  imposero  un  nome  de- 
dotto del  loro  idioma  greco-dorico  ,  cioè  A  'yx^x  o 
Longo;  dopo  di  che  non  più  si  disse  Alba,  ma  Al- 
ha-longa,  cioè  appunto  la  dipoli  da  noi  ricordata  in 
principio  (  la  città  e  il  forte  staccato  come  Topiii- 
do  di  Romolo  sul  Palatino  ,  e  il  forte  sul  monte 
Tarpeio;  o  come,  dopo  la  conquista  di  Tazio,  la 
città  latina  e  la  sabina,  collegate  e  in  qualche  modo 
unificate,   ma   non   confuse  ). 

E  facile  indovinare,  che  il  Lazio,  così  divenuto 
regno,  non  più  siculo-ligure,  ma  sacrano,  cioè  gre- 


192 

co-pelasgico  ,  fu  dai  nuovi  possessori  trovato  già 
diviso  in  trenta  popoli  albesi ,  solili  a  ricever  la 
carne  della  sacra  vittima  sul  monte  Albano  (1);  e 
ciò  che  induce  a  pensarlo  è  la  favola  testé  men- 
tovata della  scrofa  e  de'  trenta  porcelli  interpretata 
alla  guisa  come  a  me  sembra  doversi  interpretar- 
la. Perchè,  intorno  a  questo,  ecco  la  opinione  la 
qual  mi  sembra  dover  abbracciarsi.  Fra  le  parole  la- 
tine significanti  si  fatti  animali  è  siiculi  e  sucu- 
lae  (2).  D'altra  parte  que'  che  prima  de'  sacrani  tene- 
vano il  paese  ,  e  dicemmo  aver  costituito  il  più 
antico  albano  regno ,  eran  siccome  riferimmo ,  i 
sicani  0  siculi.  Or  manifestamente  essendo  di  greca 
origine  sus  (  la  scrofa,  che  nel  greco  scrivesi,  co- 
me tutti  sanno,  aùs  od  y?  ),  e  per  conseguenza  ogni 
suo  derivato,  niente  è  sì  conforme  a  natura  quanto 
il  credere  ,  che  que'sacrani  di  pelasgica  stirpe,  forse 
maliziosamente  e  a  disegno,  per  una  specie  di  dileg- 
giamento dei  vinti,  commettessero  l'errore  medesi- 
mo rimproverato  a'romani  degli  autori  dinanzi  ci- 
tati in  nota  ,  rispetto  alla  traduzione  della  voce 
ya'^cj  ;  cioè  alterando  alquanto  il  vero  nome,  invece 
di  siculi,  li  chiamasser  suculi,  ed  amassero  figu- 
rarli coll'emblema  del  porco;  donde  poi  la  consue- 
tudine di  rappresentare  Alba  colla  scrofa,  e  le  trenta 
città  soggette  co'  porcelli:  consuetudine  ,  sott'  altro 
riguardo,  conveniente  alla  natura  di  que'tempi,  ne' 
quali,  per  allusione  analoga  a  nomi,  gì'  itali  {hxh'i) 


(1)  V.  Niebuhr  op.  cit.  Voi.    i.  cap.  Alba. 

(2)  V.  A.  Geli.  N.  A.  lib.  Xlll.  I.  q.  -  Fest.  p.  243  -  Cic.  de  Nat- 
Deor.  lib.   H.  e.  83  -  Plin.  H.  N.  XVIIl.  26. 


193 

avevano,  com'è  noto  il  simbolo  del  toro  (  hcikhg  )  (1); 
e  secondo  tutte  le  apparenze  ,  con  allusione  dello 
stesso  genere  ,  i  tirreni  xv^p-^voì,  rupavìvol  avevano  il 
tursio  o  tijrso  (2)  creduto  specie  di  delfino  (3),  ed  al- 
tri animali  di  che  sarebbe  troppo  lungo  e  fuor  di 
luogo  il  qui  investigare. 

Fermate  pertanto  le  qui  premesse  nozioni,  io  dico 
che  furono  sì  fatti  sacrani  que'che  nel  ricostituire 
il  prisco  Lazio  ,  fondarono  una  prima  Roma  ,  con 
questo  nome  medesimo;  e  su  due  principali  argo- 
menti appoggio  il  mio  dire:  e  uno  sarà  la  natura 
stessa  del  vocabolo  contenente  in  se  un  attestato 
autentico  dell'origine  della  città;  un'altro  sarà  la  tra- 
dizione. Perchè,  rispetto  al  vocabolo,  è  cosa  di  pal- 
pabile evidenza  ch'esso  è  prettamente  la  parola  gre- 
co-dorica po)lJ.(X  (  robur  ),  come  greco-dorica  parola 
vedemnmo  esser  Aòy;^^  Longa.  Infatti  chiaro  è  che 
queste  voci  non  sono  tratte  dal  latino,  cioè  dall'idioma 
che  più  lardi  nel  Lazio  parlossi,  ma  da  una  lingua 
ancor  più  partecipe  di  greco  che  non  il  latino;  avve- 
gnaché nel  senso  da  noi  spiegato  mai  non  entraro- 
no esstì  voci  nella  latinità.  E  ciò  che  lo  prova  ,  è 
che  se  vi  fossero  state  una  volta  accolte,  e  poi  fosser 
passate  d'  uso  ,  pur  sarebbe  avvenuto  di  loro  quel 
che  suole  avvenire  in  ogni  lingua  di  tutte  le  voci 
significative  d'  una  qualche  idea  speciale  (  comechè 
applicate  poscia  ,  secondo  che  si  costuma,  a  deno- 

(3J  A.  Geli.  lib.  XI.  e  10.  -  .\pollod.  Bibl.  II.  S.  10.  eie. 
(2)  Sam.  Bochart  Geograph.    Sacr.  1.   i.  e.    32.  'i  Bonarrotus  ad 
Dempster.  p.  80. 

(3)  Plin.  H.  N.  IX.  9. 

G.A.T.  CXXXlll.  13 


194 

minar  luoghi),  le  quali  voci  non  rcstan  mai  sole, 
ma  si  moltiplicano  a  formar  famiglie  intere  di  vo- 
caboli derivati ,  ciocché  delle  nostre  due  voci  non 
accadde.  Questo  dunque  è  segno  che  restarono  uni- 
camente come  denominazioni  geografiche  imposte 
da  un  popolo  il  quale  le  aveva  nel  tesoro  del  pro^ 
prio  linguaggio  per  proprie  ed  indigene:  ed  il  quale 
partito  0  scacciato  poscia,  e  sopravvenutone  un'altro 
o  più  altri,  presso  cui  siffatte  parole  non  eran  pro- 
prie, si  serbarono  elle,  solo  nella  condizione  di  no- 
mi locali,  cimservati  dall'abitudine.  E  per  fermo,  a 
(Corroborare  il  qui  detto,  giova  il  ridurre  alla  me- 
moria che,  oltre  alle  due  denominazioni  di  città,  Roma 
e  Longa,  molte  altre  in  questo  centro  d' Italia  ma- 
nifestamente appartengono  alla  stessa  categoria,  la- 
sciando pili  0  meno  riconoscere  il  loro  più  o  men  pret- 
to ellenismo  originario  niente  affatto  latino,  ciocche 
per  conseguente  ci  costringe  in  ugual  modo  ad  at- 
tribuirle a  un'antica  nazione,  la  quale  i  latini  pro- 
priamente detti  precedette  nel  possesso  della  terra, 
e  vi  si  dilatò,  e  vi  fiorì,  e  grecizzò  più  che  tutti  i 
popoli  posteriori;  e  ciocché  richiama  appunto  al  pen^. 
siero  l'avvenimento  delle  primitive  tribù  pelasgiche 
da  cui  sembra  avere  esordito  l'italico  jncivilimento. 
Perchè  a  greco  stipite  o  appartengono  a  dirittura,  o 
facilmente  si  riducono  (  come  altri  in  parte  notarono 
ed  io  dilatando  il  notato  da  altri  fo  qui  osservare) 
Cora  (  dor.  Kcpa.  ),  Boia  (  dor.  jSwXo:,  o  /SAcc  )  Pyirji 
i^niipyoi)  Cossa  (  x^TTa,  ko'§5«  )  Alsium  [ocnò  xoij  akóg  ) 
,  .  ,  e  simili.  Venendo  poscia  all'altra  pro- 
va che  le  tradizioni  somministrano,  non  é  chi  ignori 
piolli  avere  affermato  ,    la  Roma  di  Romolo   essere 


195 

stata,  anzi    una  rinnovazione  d'una  città  dello  stesso 
nome,  fondata  già  lungo  tempo  innanzi ,   e  poi  di- 
strutta, che  una  fondazione  tutta  nuova.  E  per  vero 
mettiam  da  parte  le  molte    autorità  di   coloro    che 
in   generale  la  fan  per  lo  meno  fabbricata  nel  tem- 
po della  distruzione  di  Troia:  ma  si  legge  in  Soli- 
no (1),  che  Evandro  arcade,  secondo  altri,  così  la  de- 
nominò fin  dall'età  in  che  venne  al  Settimonzio;   e 
s'impara  da  Solino  stesso  che  non  mancano  alcuni 
,  1  quali  scrissero,  prima  ancora  dell'occupazione  d'E- 
vandro aver  essa  avuto  esistenza  sotto  il  nome  (as- 
sai più  antico)  di   Valenzia  ,  che  poi  gli  arcadi  vol- 
tarono in  greco:  ciocché,  ove  si  conceda,  potrà  ben 
sospettarsi  che    1'  esordio  della    città  sia    dovuto  a' 
siculo-liguri    sin    dall'  età  nella  quale   ad  Alba  non 
s'era  aggiunta  Longa,  (2).  Lo  stesso  con  qualche  va- 
rietà dice    Festo  (3),  citando  lo  scrittore  della  storia 
eumana,    e   Servio  citando  un  Atteio,   ed  altri  (4). 
Alle    quali    testimonianze    sarà    da    far    succedere 
quella    d'  Antioco  Siracusano   presso  Dionigi  d'  Ali- 
carnasso,  (5)  che    un  Siculo  da    Roma   fuijgitivo  fa 
giungere   nell'  Italia  inferiore  a  Morgete   figliuol  d'I- 
talo; e  quella  d'anonimi  presso  lo  stesso  Alicarnas- 
seo  (6),  che  a  Roma  dan  per  autor  primo  un  Romo 
(Pw/xov)  figliuol  d'Italo,    nipote  d'Elettra  figliuola 

(1]  Gap.  ì. 

(2)  Valentia  Jnfatli  non  è  voce  greca;  e  alire  Faler^tie  si  tro- 
vano nelle  terre  già  da'  siculo-lionri  occupate  ,  intorno  «  che  si 
consultino  i  geografi. 

(3)  p.  224. 

(4)  in  Aen.  273. 
(«)   I.  73. 

(6)  loc.  cil. 


196 
ella  stessa  d'un  Latino;  o  l'altra  d'Antigono,  presso  il 
già  mentovato  Pesto  (I),  a  cui  sentenza  Romo  era 
figlio  di  Giove.  Donde  poi  lo  storico  d'  Alicarnasso 
fu  condotto  ad  afFermare  (2),  che  la  città  da  prin- 
cipio fondata  sid  Palatino  (  dove  il  Palatium  o  Pallan- 
teum  fu  di  leggieri  l'acropoli,  o  fu  una  delle  edi- 
ficazioni intermedie,  o  fu  nome  dato  al  monte  in  un 
tempo  diverso  )  rimase  per  qualche  tempo  deserta; 
ma  quando  più  tardi  la  colonia  albana  a  condotta 
di  Romolo  e  Remo  (  che  per  lui  sono  gli  storici 
personaggi  narrati  dalla  leggenda  )  sopravvenne^  ri- 
pigliò il  primo  suo  stato.  Laonde  due  volte  Roma 
fu  fatta:  una  prima  volta  poco  dopo  la  guerra  troiana 
(  secondo  le  cronologia  eh'  ci  preferisce  );  un  altra, 
XV  età  dopo  la  prima  fondazione.  Anzi  dove  a  più 
remoti  tempi  guardar  si  voglia,  ima  terza  Roma  di 
quelle  due  piìi  antica  si  troverà ,  la  quale  fu  edi- 
ficata prima  che  Enea  e  i  Troiani  in  Italia  venis- 
sero', e  di  questa  non  im  qualche  volgare,  o  recente 
scrittore  fa  memoria,  ma  Antioco  di  Siracusa,  il  quale 
riferisce  ...  (  ciocche  di  sopra  abbiamo  già  esposto  ). 
E  qui  veramente  non  io  tutta  la  serie  di  tali 
vicende  accetto  come  certa.  Solo  mi  basta  che  sia- 
mi concesso  quel  che  più  m'importa ,  ed  è  che  il 
popolo,  il  quale  fondò  Longa  ed  altre  città  di  greca 
denominazione,  popolo  solito  ad  esser  chiamato  sa- 
crano (  sebbene  sia  lite  impossibile  a  comporsi  quella 
che  riguarda  l'epoca  precisa,  in  che  invase  il  Lazio 
e  vi  dominò  ,  e  le  terre  da  cui  colà  giunse  ),    fu , 


(1)  p.  224. 

(2)  loc.  cit. 


197 

i>,iusla  tutte  le  pi'obabilità,  quegli  che  un  oppido  nel 
Settimonzio  edificò  per  primo,  chiamandolo  colla  de- 
nominazione che  poscia  doveva  divenire  sì  celebre; 
ma  che  questo  primo  oppido,  per  cagioni  a  noi  sco- 
nosciute, e  in  un'età  posteriore  benché  incerta  ,  fu 
abbandonato,  allorché  le  tribù  sacrane  cedettero  el- 
leno stesse  il  paese  ad  altri  occupanti,  o  siano  esse 
state  di  que'sacrani,  che  pulsi  siint  ab  aboriginibus , 
come  scrive  Servio  (1),  o  di  quegli  altri  che,  ve- 
nuti da  Rieti ,  vi  ritornarono  cacciati  dalla  insalu- 
brità, come  Solino  insegna  (2),  o  checché  altro  per 
ultimo  intorno  ad  essi  voglia  fantasticarsi.  Perchè, 
rispetto  a  ciò,  più  ancora  che  dalla  tradizione  ,  io 
son  tratto  a  così  opinare  dal  fatto  certo  della  mi- 
grazione e  dell'abbandono  intermedio,  e  il  fatto  non 
men  certo  del  sopravvenire  d'un  popolo  che  parlava 
un  altro  idioma.  E  me  lo  persuade  ,  ponendolo  al 
di  sopra  d'ogni  dubitazione,  1".  il  trovare  che,  sotto 
gli  ultimi  re  Silvii ,  per  fermo  nessuna  Roma  qui 
più  era;  donde  l'opportunità  di  restituirla  sulle  sue 
rovine;  2".  il  trovare  che  tra 'latini  allora  dominatori  di 
tutto  il  suolo  de'sacrani,  se  il  nome  di  Roma  risorse 
per  la  città  rifabbricata,  questa  parola  non  più  però 
appartenne  al  popolo  che  la  fondò  di  nuovo,  poiché 
nel  resto  della  lingua  non  fu  inclusa;  ciocché  valse 
egualmente  riguardo  agli  altri  nomi  d'  oppidi  o  ca- 
stella di  cui  dicemmo. 

Né  sulla  seconda  proposizione  mi  tratterrò,  es- 
sendo certa.  Quanto  alla  prima,  basterà  rammentare 


(1)  In  Aen.  XI.  317. 

(2)  C.  2. 


198 

che  neir  età  di  Nuinitore  e  d'Amulio  (  legittimi  o 
no  che  siano  que'  nomi ,  e  i  particolari  de'  fatti  i 
quali  se  ne  raccontano  ),  il  Palazio  e  tutte  le  terre 
settimonziali  già  non  eran  piìi  sui  iuris  né  territo- 
rio d'alcuna  special  città,  ma  invece  una  delle  parti 
del  tenimento  albano,  anzi  un  regio  allodio,  dove 
non  abitavano  che  pastori  e  non  vagavano  che  ar- 
menti. 11  perchè  bisognerà  ben  su  questo  periodo 
d'oscura  storia  seguitare  la  comune  sentenza,  e  con- 
fessare con  Plinio,  là  dove  parla  di  sì  fatte  contra- 
de (1):  Colonis  saepe  tmitatis  tenuere  ahi  aliis  tem- 
poribus (senza  però  amméttere  l'ordine  riciso  delle  co- 
lonie ch'egli  indica  ):  col  quale  consente,  o  il  quale 
piuttosto  copia.  Solino  (2),  dove  però  più  fede  me- 
rita lo  spesso  citato  Servio,  che  riferisce  in  un  passo 
poco  fa  addotto  (3):  Ea  loca  in  quibus  Roma  mine  est ... 
siculi  habitavcrunt  ...  UH  autem  a  liguribus  pulsi  sunt. 
Ligures  a  sacranis ,  sacrani  ab  aboriginibus  ;  e  al- 
trove più  compendiosamente  (4):  Sicani  ...  Ilaliam 
tenuernnt ,  exclusis  aboriginibus  ;  mox  ipsi  pulsi  ab 
illis   quos   anlea  pepulerant  ... 

Or  toccati,  a  modo  di  preliminare ,  questi  pri- 
mordi!, veniamo  a  quel  che  propi'iamente  è  il  mio 
principal  tema,  cioè  alle  considerazioni  specialmente 
relative  al  Settimonzio. 

Di  esso  più  volte  favellai,  e  per  istampa  ,  e  in 
accademiche  tornate;  non  sì  però  ,  che  molto  non 
mi  restasse  a  studiarvi,  ed  a  dirne. 

(1)  111.  5. 

(2)  C.  XIII, 

(3)  In  Aen.   XI.  313. 
(4]  Vili.   328. 


199 

Ho  già  fatto  notale  grandi  essere  Je  incertezze 
degli  antichi  intorno  al  tempo  in  che  questo  nome 
formossi  ,  e  intorno  a'  monti  che  del  nome  furono 
l'occasione  e  l'origine:  ciocché  viene  a  confermare 
vieppiù  quanto  poco  i  primi  compilatori  della  sto- 
ria romana  conoscessero  i  fatti  de'tempi  più  remoti, 
e  quante  favole  mescolassero  di  necessità  alle  loro 
narrazioni. 

E,  per  vero,  toccando  pur  solo  la  questione  pri- 
ma, qual  non  è  mai  la  varietà  delle  sentenze  circa 
i  colli  compresi  tra  i  sette  privilegiati,  secondo  pur 
unicamente  le  memorie  di  che  ci  resta  alcun  ve- 
stigio, altre  essendo  le  colline  indicate  dagli  istitu- 
tori dell'  antichissima  festa  Bettimonziale»  di  cui  tra 
poco  diremo,  altri  quelle  che  tale  o  tald  altro  sto- 
rico, nominato  od  innominato,  suppongono  ? 

Servio  p.  e.  esclude  dal  numero,  a  sentenza  di 
alcuni,  il  monte  capitolino,  include  il  gianicolare  (1). 
Dionigi  d'Alicarnasso,  Vibio  Sequestro,  il  comenta- 
tore  Gruquiano  ...  sostituiscono  a  questo  ultimo  monte 
quello  (2).  L'antico  scoliaste  di  Giovenale,  in  luogo 
del  quirinale  ama  porre  il  vaticano  (3).  Altri  in- 
dicati dal  testé  mentovato  Servio  dicono,  che  i  sette 
monti  furono  con  altro  nome  chiamati,  e  diversi  dai 
comunemente  ammessi  nel  computo:  tanto  egli  ha 
ragione,  1'  annotator  dell'Eneide,  quando  in  questo 
proposito  esdama:  Grandis  est  inde  dubitatio  ! 

(1)  In  Aen.  VI.  784. 

(2)  Dionys.  1.  50,  II.  62,  III.  1.  45,  IV.  13.  Urb.  Seq.  de  flumi- 
nib.  Argentorati  1778  pp.  27,  28,  29,  32,  33  -  Comm.  Ciuq.  in  Ho- 

rat.  Carni.  Sec.  v.  7.  Adde  Vars.  de  L.   1.  ed.  MiiHer.  V.  41.    seq. 
(3)  In  Sai.  IX.   131. 


200 

Ed  cran  poi  veramente  selle  mouli,  e  non  altra 
cosa,  circondati,  come  si  vuole,  d'  una  sola  cerchia 
di  muro,  e  fosse  ciò  da  re  Servio,  come  i  più  scri- 
vono, o  dal  re  conosciuto  sotto  il  nome  di  Romolo, 
0  finalmente  da  chicchessia  d'età  più  antica  ancora, 
di  che  qui  appresso  daremo  qualche  maggior  cenno? 
Veggiamolo. 

Quel  sottile  ingegno,  e  dottissimo  uomo,  che  fu 
il  gran  mantovano,  aller  Homerus  >  san  tutti  aver 
avuto  per  costume,  con  un'  accorta  elezion  di  pa- 
role, indicare  ad  un  tempo  ,  e  velare,  la  recondita 
erudizion  sua,  più  poi  la  scienza  profonda  delle  sto- 
rie italiche,  fin  dall'età  remotissime,  toccando  fatti 
le  più  volte  di  smarrita  ricordanza.  Ora  è  osserva- 
bile, ch'egli  il  quale,  a  nominar  le  cose,  quando  usar 
sembra  un  nome  men  proprio  ,  ha  sempre  le  sue 
ragioni  occulte  per  difendere  il  proprio  fatto,  ado- 
però ben  due  volte  con  minimo  mutamento  un  verso 
medesimo  ,  dove  mentovar  volendo  i  sette  romani 
monti,  in  un  de'luoghi,  fin  dall'esordio  della  città  , 
nell'altro  parlando  di  un  tempo  più  antico  ancora, 
scansò,  e  la  prima  volta  e  la  seconda  ,  la  parola 
montes  e  pose  una  specie  d'ostinazione  a  sostituirvi 
la  voce  arces  {]).  Niun  dirà  che  lo  fece  per  comodo 
del  verso  ,  cioè  per  bisogno  di  trovare  una  parola 
dissillaba  cominciante  per  vocale,  a  quel  modo  che 
un  sonettista  novizio  per  bisogno  della  rima  ,  usa 
talvolta  una  voce  poco  opportuna:  ciocché  è  scusa 
nemmen  buona  ad  un  magro  scolaro  d'  umane  let- 
tere. —  Né  vorrà  dire  che  lo  fece  con  intenzion  di 

i 

(i)  Georg.  11.   532.     Aen    VI.  782. 


201 

maggiore  eleganza  per  amore  di  tropo,  avvegnaché  ìt 
rocche  (ciò  valendo  il  vocabolo)  fabbricar  si  sogliono  su 
i  monti,  e,  senza  ciò,  essi  possono  per  la  forte  na- 
tura ben  tenerne  la  vece  :  ond'  è  che  lecitamente  , 
massime  in  poesia,  così  posson  chiamarsi.  Troppo 
è  noto,  che  non  è  di  Virgilio  adoperar  traslati  oziosi, 
e  tanto  lontani  dal  valore  della  parola  propria  ;  e, 
quel  che  è  più,  dopo  un  primo  verso,  ripeterli  una 
seconda  volta  quasi  a  indizio  d'  esausta  virtù  inven- 
tiva: e  abbia  egli  pur  detto  p.  e.,  aristas  per  estali 
ossia  per  anni  nello  stile  buccolico,  adattandosi  alle 
pittoresche  inesattezze,  e  licenze  del  parlar  di  villa 
«  di  pastori  (  Ed.  I.  ) 

Che  Silio  Italico  ,  perpetuo  e  servile  imitatore 
del  mantovano  ,  abbia  adoperato  la  voce  stessa,  e 
che  ciò  medesimo  abbiam  più  tardi  fatto  Claudiano, 
Prudenzio  e  non  so  chi  altro,  ciò  sarà  stato  senza 
dubbio  a  solo  studio  di  servirsi  d'  una  parola  che 
l'autorità  di  Virgilio  aveva  renduto  classica  in  que- 
sto speciale  significato;  ma  Virgilio,  il  quale  appar 
come  primo  ad  averla  posta  in  uso,  considerato  il 
sottile  artifizio  che  in  simiglianti  scelte  delle  parole 
eragli  familiare,  non  può  per  fermo  aver  detto  ar- 
ces,  per  altra  più  verisimile  ragione,  se  non  perchè 
i  septem  montes  eran  veramente  seplem  arces  a  ri- 
gore di  termine.  Di  qui  dunque  viene  a  raccorsi , 
con  un  primo  argomento,  che  or  or  vedremo  non 
essere  il  solo,  l'antichissimo  seltimonzio  essere  stato 
realmente  formato  da  sette  rocche  sulla  cima  dei  sette 
colli,  separate  l'una  dall'altra;  e  si  comprende  allor 
subito  (  tanto  essendo  difficile,  a  qualunque  periodo 
della  chiusura  della  città,  ridui-re  a  sette,    ne    più. 


202 

riè  meno,  le  sommità  de'  monti  racchiuse  )  ,  come 
questa  difficoltà  sia  subito  tolta  supponendo  che  non 
al  numero  reale  de'  colli  si  risguardasse  ,  nel  così 
contare,  ma  sì  a  que'soli,  i  quali  un  tempo  sorgevano 
a  ufficio  di  bastite  per  difesa. 

Non  quest'unico  argomento  però,  come  testé  io 
diceva,  ciò  prova.  Ricorderete,  signori  e  colleghi , 
un  punto  aver  io  già  ,  innanzi  a  voi,  cercato  altra 
volta  di  porre  fuor  d'ogni  ragionevole  disputazione 
(  difficoltà  almeno  non  mi  sono  state  ancor  mosse, 
quantunque  l'opinion  mia  già  in  più  d'uu  ragiona- 
mento corra  a  stampa  da  parecchi  anni  );  ed  è  il 
punto  che  il  così  detto  settimonzio,  nel  tempo  an- 
tichissimo, tra  diversi  altri  equivalenti,  uno  n'ebbe 
nella  forma  greca  hrà.  ndyoc,  un'altro  nella  voce  la- 
tina ,  dove  solo  è  greca  la  desinenza ,  lenrs^inxytov, 
da  sciogliere  nelle  sue  componenti  latine  septem  pagi: 
poiché  non  accade  qui  fermarsi  ne'sinonimi  pur  greci 
' EmxiJLÓptov  cioè  inrx  ixópoi,  septem  partesy  od  knza- 
;^(2fljcv,  cioè  inrx  ;^wp5(,  septem  sedes  che  niente  fanno 
al  presente  argomentar  nostro. 

Sono  Dionigi  d'Alicarnasso  (1)  e  Plutarco  (2)  che 
ce  li  han  tramandati  ne'greci  lor  libri  (applicandoli, 
egli  è  vero,  alle  terre  dapprima  veienti,  le  quali  non 
divennero  romane  ,  che  dopo  la  guerra  sabina  di 
Tazio,  e  rendute  per  breve  tempo  a  Veio  nella  pace 
fermata  con  Porsenna);  ma  io  mi  confido  aver  pro- 
vato che  i  due  greci  scrittori  non  s'  accorsero,  o 
non  vollero  accorgersi,  o  non  fecero  le  debite   inve- 


li) II.  ss,  V.  31  e  36. 
(2)  In  Rom.  2b,  ed.  Reiske  Voi.   1.  p.  133. 


203 

stìgazioni  per  iscorgere  (  copiando  questo  da  testi 
più  antichi),  che,  se  qui  realmente  si  trattava  d'un 
territorio  già  appartenuto  alla  città  toscana  ,  esso 
era  però  lo  stesso  agro  settimonziale,  emancipato  dalla 
dominazione  etrusca  ,  appunto  in  conseguenza  della 
sabina  invasione. (V.  le  Origini  di  Roma,  p.  26.  seq.) 

Or,  ciò  ammesso  ,  niun  creda  che  V  zmù  ntxyot 
0  il  linz^iindycov  grecamente  detto,  abbiano  a  con- 
siderarsi come  non  altro,  che  una  traduzione  ellenica 
e  letteralissima  di  septem  montes,  per  la  ragione  che 
in  greco  la  voce  nayog  ha  tra  i  suoi  significati  quello 
ancora  di  tumiiliis,  e  per  conseguente  di  Collis,  in- 
tumescenza di  terra,  (posto  che  può  anche  assegnar- 
glisi,  e  gli  si  assegna,  una  etimologia  comune  con 
7r>37Vfw,  compingo  ,  concrescere  facio,  o  simile  ).  San 
gli  ellenisti  che  nel  caso  nostro  i  montes  o  colles 
si  sarebber  detti  Xs^oì,  'òpsi,  o  con  altro  equivalente 
di  maggior  uso.  Nel  fatto  ,  se  i  due  greci  scrittori 
scelsero  in  subiecta  materia  la  voce  ndiyoi  è  perchè 
questa  era  voce  ancor  più  latina  che  greca,  e  pro- 
priamente a'  sette  nostri  monti  applicavasi  più  anti- 
camente ancora  che  la  voce  generica  montes. 

Né  ciò  è  a  semplice  conghiettura.  In  termini 
espliciti,  dice  in  due  luoghi  Dionisio,  toÙ;  xotloviisvovg 
ima  Ttayou;,  i  sette  paghi  così  chiamati  (1):  e  dall'al- 
tro lato  Plutarco,  x«P^^  0^  l^nxzijjzdqiov  x«Xov7«v,  la 
regione  che  denominano  Settepagio  (2).  Questo  era  dun- 
que, in  realtà,  il  nome  in  corso:  anzi  il  Iznxtixnu-^iov 
medesimo    (  secondo  che    oggi   i  più  leggono    nello 

(1)  II.  55.,  V.  31. 

(2)  In  Rom.  25. 


204 

scrittor  di  Gheronea  )  mostra  chiaro  che  il  vocabolo 
è  pur  tutto  latino  ,  eccetto  la  terminazione  accon- 
ciata al  parlar  greco  del  contesto  :  avvegnaché  dei 
due  vocaboli,  i  quali  lo  compongono,  il  primo  es- 
sendo incontrastabilmente  della  lingua  del  Lazio 
(  septem  ),  il  secondo  appartenente  del  pari  alle  due 
lingue,  non  può  non  credersi,  che  dalla  forma  latina  fu 
tratto,  e  non  dalla  greca,  per  non  dir  generato  senza 
necessità  un  vocabolo  ibrido  cui  niente  costringe  a 
supporre  creato  a  forza  per  un  errore  che  sarebbe 
ridicolo  il  voler  qui  intruso.  Ond'è  che,  se  piiì  tardi 
il  nome  fu  mutato,  e  prevalse  nell'uso,  il  più  ge- 
nerico Seplimonlium,  ciò  fu  perchè  nel  tempo  della 
loro  grandezza  i  romani  dell'altro  nome  si  vergo- 
gnarono, come  includente  una  manifesta  confessione 
di  primitiva  umiltà  e  bassezza,  la  cui  memoria  spia- 
ceva loro,  e  a  tutto  potere  amavano  dimenticata. 

Or,  ciò  fermato,  e  fatto  conoscere  che  non  solo 
arces  chiamò  Virgilio  le  sette  colline ,  ma  come 
arces  o  rocche  da  lui  poi  fui'on  dette  ,  così  in  età 
remotissima  si  denominarono  jìcighi ,  in  che  senti- 
mento vogliam  dire  che  a  quest'ultimo  modo  si  chia- 
massero? E  non  è  difficile  rispondere  a  una  tal  di- 
manda. —  Nella  latinità  provetta,  pagus  valse  sem- 
plicemente villa,  compiliim  ,  vicus,  o  altro  di  pari 
valore,  cioè  quello  che  noi  chiamiamo  più  spesso 
villa(j(jio  ad  abitazione  di  campagnuoli;  e  l'erudizione 
di  Servio  scoliaste  fa  derivata  la  voce  uno  twv  Trayoòv... 
idest  a  fonlibus,  circa  quos  villae  consìieverunt  condi{\): 
o  siccome  Paolo,  compendiando  Festo,  dice:  quod  ea- 

(1)   III  Gforg.  II.  3S2. 


205 

dem  aqiia  nterentuv.  Aquae  enim  (cor.  fonles)  limjiia 
dorica  nayat  appcUcntiir  (1).  Non  però  sempre  il  voca- 
bolo valse  trai  latini  un  borgo  di  case,  o  disgiunte^ 
0  tra  loro  congiunte  ,  e  destinale  a  slabile  dimora. 
Nella  più  antica  età  ,  che  è  quella  appunto  di  cui 
parliamo,  quel  che  veramente  il  pagas  tra  i  romani 
si  fosse,  almeno  più  frequentemente,  ce  lo  insegna 
altrove  l'AIicarnasseo,  in  un  passo  da  me  ricordato 
in  alcuna  delle  mie  precedenti  dissertazioni;  passo 
nel  quale  favella  appunto  (  si  consideri  ciò  )  d'  una 
nuova  divisione  dell'agro  romano  in  paghi,  cioè  d'un 
nuovo  organamento,  come  oggi  direbbcsi,  della  cam- 
pagna, ordinato  da  Servio  Tullio  (2). 

^JsAcòv  r  Alicarnassco  scrive  ..  òDusg  ..  ma  giova, 
a  cagion  della  prolissità  del  dettato  familiare  al- 
l'autore, por  qui  r  italiano  in  luogo  del  greco  ,  il 
quale  cosi  suona:  Dividendo  Ttdiio  ,  in  quante  pur 
si  furono  parti,  il  territorio,  preparò  ricovero  a'cam- 
pagnuoli  sti  monti  e  scoscese  balze,  forti  per  natura 
del  sito,  e  facili  a  difendere,  che  potessero  a  quelli 
dar  sicura  stanza ,  e  con  greca  appellazione  chia- 
molli  PAGHI,  ove  lutti  si  riparavano  dalle  campa- 
gne a  ogni  appressar  di  nemici,  e  qui  spesso  passavano 
le  notti  [xà  TioUà,  dice  il  testo,  non  hocnavro^  o  si- 
mile; cioè  saepe,  non    semper). 

Indi  seguita  lo  storico  a  riferire  le  politiche  nor- 
me cui  prescrisse,  una  parte  delle  quali  (  non  certo 
tutte  )  appartengono  senza  dubbio  a  un  tempo  di 
maggiore  avanzamento  nelle  pratiche  del  viver  civile; 


(1)  Ed.  Linci,  p.   120. 

(2)  IV.  13. 


206 

ma  che  qui  cade  in  acconcio  narrare,  perchè  si  com- 
prenda il  concetto  intero  di  questa  istituzione.  Ripiglio 
dunque  egualmente  in  italiano  il  favellar  di  Dionisio, 

Era  in  ognuno  di  sì  fatti  paghi  il  suo  magistrato 
(  intende  egli  il  magister  pagi  )  ,  al  quale  spettava 
sapere  i  nomi  de'coloni  che  in  quel  distretto  pagavan 
tributo;  conoscere  i  predii,  che  davan  loro  il  sosten- 
tamento; e  quante  volte  bisognasse  chiamar  gente  al- 
Varmi^  o  riscuotere  i  testatici^  convocavali  esso  ed  esi- 
geva il  balzello.  Ed  acciocché  piìi  agevolmente  risaper 
potesse  il  numera  delle  teslCy  e  tenerne  ruoli,  comandò 
Tullio  che  alle  divinità  protettrici  e  custodi  del  pago 
drizzassero  are  {^uu.ovg,  scrive  l'A.,  senza  dubbio  col 
suo  upòv  o  col  x^y,i-ùoq  e  simiglianti  altri  annessi  ). 
Le  quali  are  volle  che  con  annui  sacrifica  s'onoras- 
sero in  comune  ,  istituendo  le  feste  che  diconsi  dei 
Paganali,  con  leggi  che  ancor  oggi  s''osservano,  e  tutti 
obbligando  ad  intervenirvi,  recato  seco,  per  ogni  testa, 
la  moneta  del  tributo,  altra  gli  uomini,  altra  le  don- 
ne, ed  altra  i  fanciulli,  e  tenuto  così,  da'sacri  mi- 
nistri, il  conto  delle  anime,  distinte  per  età  e  per 
sesso.   Dionisio  fin  qui. 

Or  non  ho  bisogno  di  notare  circa  la  narrazion 
precedente,  che  l'introduzione  di  pagus  divenuto  la- 
tino, nel  linguaggio  de'  romani,  dallo  storico  in  que- 
sto luogo  attribuita  a  re  Servio,  è  contraddetta  dal 
fatto  del  trovar  noi  stabilito  il  nome  di  septem  pagi 
dal  cominciamento  di  Roma  nelle  guerre  che  dalle 
leggende  furon  dette  Romulee,  come  dianzi  ricor- 
dammo. Lo  storico  mostra  dunque  poca  memoria  ; 
ed  egli  ha  in  ciò  per  contraddittore  se  stesso,  che 
l'una  e  l'altra  cosa  ugualmente  scrisse.  È  pur  ma- 


207 

nifesto  (  e  già  di  passaggio  ne  diedi  cenno  )  che 
non  bisogna  nel  primitivo  settempagio  cercare  tutti 
que'  provvedimenti,  relativi  a  statistica,  a  tasse,  a' 
ruoli,  che  veramente  possono  essere  stati  cosa  di 
re  Sei'vio,  e  con  ogni  probabilità  introdotta  in  Ro- 
ma per  imitazione  delle  usanze  d'  Etruria,  donde 
Servio  era  originario.  Ma  intanto  quel  che  possiamo 
imparare  dall'addotto  passo  (niun  criterio  essendovi 
per  crederlo  non  vero)  è  che  ì  pagi  nel  tempo  re- 
gio non  eran  quello  che  poi  divennero  quando  già 
cessato  era  in  tutta  Italia  il  timore  di  subite  incur- 
sioni, 0  sorprese  di  nemici.  Perchè  come  prima  sì 
venne  a  questa  abituale  sicurezza,  e  dalla  condizione 
di  poco  meglio  che  pastori,  si  passò  a  quella  d'agricol- 
tori, da'  monti  si  cominciò  a  discendere  nelle  pianure, 
da'boschi  s'uscì  per  vivere  più  volentieri  in  pros- 
simità del  campo  che  si  coltivava;  e  il  pagtis  non 
fu  più  quel  ch'era  stato  in  antico  ,  ma  fu  niente 
altro  che  un  vicufi,  un  compitum,  una  villa  ano  tsov 
:r«7(uv,  cioè  dalle  fonti  intorno  alle  quali  sceglier  so- 
levasi  il  luogo  per  fabbricarvi  intorno,  insomma  un 
villaggio,  come  que'che  incontriamo  anche  a  dì  no- 
stri. In  un  età  però  antecedente  (questa  felicità  di 
condizioni  non  avendosi  ancora  )  esso  pagus  fu  real- 
mente un  tumuhis,  cioè,  secondo  che  l'Alicarnasseo 
ci  ha  spiegato,  un  ricovero  pe'campngmioli,  s«  monti 
e  scoscese  balze,  forte  per  natura  del  sito,  e  facile 
a  difendere,  che  potesse  a  quelli  dare  sicura  stanza  .. 
perchè  vi  si  riparassero  dalla  campagna  ad  ogni  ap^ 
pressar    de'nemici,  e  spesso  vi  passasser  la   notte. 

Nondimeno,  ognuno  ha  potuto  intendere  da  quan- 
to se  ne  disse,  che  pagus   non  aveva  diritto  a  es- 


^08 
ser  chiamato  ogni  colle  od  ogni  monte  un  pò  al- 
pestre ,  su  cui  costretti  tla  necessità  rifuggissero 
senza  alcuna  preparazion  precedente  i  contadini.  Per 
poter  così  esser  detto  aveva  a  esser  un  accampa- 
mento prestabilito  sempre  a  quest'  uopo.  Esso  era 
predisposto  a  sì  fatto  uso  per  modo  ,  che  diviso 
tutto  l'agro  in  non  troppo  estesi  distretti  avessero 
gli  abitanti  del  distretto,  viventi  alla  spicciolata,  una 
non  lontana  altura  ove  ripararsi  prontamente,  scelta 
in  guisa  che  acqua  non  vi  mancasse;  postovi  forse 
un  deposito  di  provvigioni  anticipatamente  recate, 
e  custodite  in  certe  che  si  saran  chiamate  favisse; 
e  più  che  altro  rafforzata  la  naturale  asprezza  del 
luogo  con  opere  di  mano  acconce  a  valida  tutela: 
del  quale  ultimo  avvedimento  mi  basterà  due  soli 
esempi  trarre  dal  tante  volte  citato  Alicarnasseo.  — 
Ed  uno  è  del  tempo  in  che  il  popolo  romano  pre- 
paravasi  alla  prima  guerra  sabina,  la  quale  dalle 
tradizioni  è  detta  conseguenza  del  ratto  delle  donne 
(  ve  se  l'epoca  è  bene  antica  !  )  Imperocché,  scrive 
il  mentovato  autore  (1).  //  re  allora  non  solo  il 
muro  di  cerchia  dal  palatino,  "per  meglio  provvede- 
re alla  sicurezza  di  que'  ch'eran  deniro,  vieppiìi  operò 
a  render  saldo;  ma  di  trincee  piìi  elevate,  e  di  fossa, 
e  di  vallo,  circondò  i  colli,  che  più  tardi,  nomali 
furono  Aventino  e  Capitolino,  acciocché  le  greggie, 
e  le  genti  di  contado,  v'  avesser  di  notte  ben  difeso 
alloggiamento;  e  lo  stesso  fece  in  tulli  gli  altri  luoghi 
che  polevan  servire  a  pari  uso.  E  il  secondo  esem- 
pio  sarà   relativo  alla    più    tarda   età,    in    che,    all' 

(1)  II  37. 


209 
annunzio  della  guerra  sopravvegnente  da  Porsenna, 
poco  dopo  la  cacciata  dei  re ,  Valerio  Poplicola 
e  Orazio  Pulvillo  comandarono  (1)  (  così  suonano  le 
parole  ),  che  danaro,  armenti^  e  schiavi  si  riduces- 
sero in  su  i  monti ,  costrutti  a  questo  effetto  ca- 
stelli (  fpovpiu,  dice  il  testo  greco  )  che  fosser  atti 
a  resistere  alV  inimico.  Dai  quali  passi  ,  per  tacer 
d'altri,  due  cose  particolarmente  deduco:  1.  princi- 
pale obbietto  essere  stato  racchiudere  i  luoghi  scelti 
entro  una  cinta  (naturale  dov'altro  non  bisognava, 
o  con  una  ciclopea  materia,  o  con  qualunque  trin- 
ceramento, più  gagliardo  però  che  far  non  si  soleva 
nelle  castrametazioni  delle  età  posteriori,  quando  gli 
eserciti  erano  in  marcia):  2.  lasciar  dunque  entro 
la  cerchia  esteriore  una  gran  parte  dello  spazio  nuda 
e  vuota,  per  comodo  appunto  degli  armenti  ivi  ri- 
coverati, perchè  alcun  pascolo  vi  trovassero,  almen 
per  qualche  dì;  e  solo  formar  qua  e  là  capanne 
e  casolari,  o  di  stipa  e  frasca,  o  di  tavole,  o  di  ter- 
ra, 0  di  pelli  cucite  insieme  (2),  con  quel  genere  di 
costruzione  che  gli  antichi  chiamaron  casae,  tabernae^ 
mapalia,  magaria  (3),  o  ad  altra  guisa;  ciocché  ho  io 
megho  inteso,  dopoché  nelle  campagne  succiminie  , 
tanto  abbondanti  d'  antichi  avanzi ,  ne  ho  scoperto 
chiare  vestigia,  segnatamente  in  due  luoghi,  da  me 
nel  Bullettino  di  corrispondenza  archeologica,  quando 
gl'indicai,  non  ben  riconosciuti  per  quel  che  veramente 
sono,  e  poscia  meglio  studiati;  e  si  chiaman  oggi  il 
Pian  Cicciano  Tuno,  Corviqliano  l'altro. 

(1)  V.  22. 

(2)  Liv.  V.  2. 

(3)  Serv.   in  Aen.   I.    368.    Ì2I,  IV.  2o9. 

(;.  A.  T.  CXXXIIl.  U 


210 

E  pei'  vero,  il  1.  alla  destra  del  torrente  Calda- 
no, non  guari  lungi  da'singolari  mausolei,  che  pur 
désòt-isfei  co'  presenti  lof  nomi  di  Rota  del  Cicilianoy 
e  di  Montarone  (  il  qual  ultimo  die  motivo  ad  Annio 
di  foggiare  il  suo  Monte  Arunte,  e  non  so  quali  Armiti 
Cafhillarìi ,  di  cui  s^jesso  ribadisce  la  favola  )  ...  il 
1 .,  torno  a  dire  ,  offre  alla  vista  un  alto  piano  da 
tre  parti  scoscendentesi  verso  valli  sottoposte,  che, 
nel  ciglio  di  due  delle  parti,  è  circonvallato  da  un 
giro  appunto  di  que'mut'i  cui  chiamano  a  secco,  for- 
mato di  rettangolari  parallelepipedi,  mediocri  nella 
mole  ma  sovrapposti  gli  uni  agli  altri  in  due  o  piiì 
file  pel'  lungo  tratto,  dentro  il  quale  gii*o  non  seppi 
trovar  traccia  d'antiche  edificazioni  ivi  state,  né  fram- 
mento pur  uno  0  di  fondamenta,  o  di  mattoni  spaia- 
si ,  0  d'  alcun  lavorato  sasso,  che  ad  occhio  perito 
mai  non  isfuggono  là  donde  scomparvero  fabbriche 
quanto  si  voglia  distrutte,  e  dileguatesi,  massime 
tutto  essendo  tufo  e  sodo.  Il  perchè  fui  condotto  a 
pensare  quivi  appurito  essere  stato  uno  de'paghi  dello 
storico  d'AIicarnàsso.  II  2.  piii  ristretto,  ma  di  più 
gi^andiosa  e  più  antica  e  meglio  conservata  cinta  , 
cottìfechè  adoperato  riel  medio  evo  (  per  jirofittare 
della  fortezza  del  sito  )  a  costruirvi  un  castello  di 
quella  età,  pur  off're  nell'interno  or  devastato,  le 
stèssie  palticoliarità,  oltre  a  che  troppo  è  vicino  al- 
l'altro antico  paese  Musarna,  ch'io  egualmente  feci 
noto,  e  che  parecchie  orme  d'interiori  edifizi  chia- 
ramente conserva.  Or,  da  poi  che  ciò  vidi,  più  ho 
ammirato  la  sottile  sapienza  di  Virgilio ,  allorché , 
in  pari  caso,  i  pagi  chiamò  arces,  e  meglio  ho  in- 
teso la  somma  proprietà  di  quest'  ultimo  vocabolo. 


211 

Imperocché  non  può  dubitarsi  che  arx  ,  in  Ialino , 
ha  manifesta  parentela  col  greco  epxs?  od  ioxecv  che 
vai  septum;  con  ^ìpycù  in  sentimento  d' includo,  pro- 
hibeo,  veto,  e  con  ap/s«,  rispondente  al  latino  arceo, 
cui  spiegano  (  dico  il  greco  àp>te'<w  )  propulso,  repello, 
opitulor;  di  guisa  che  le  arces  non  sono  veramente 
che  gli  antichissimi  pagi,  cioè  sepia,  refugia,  spxzoc, 
ossia,  né  più,  né  meno,  i  luoghi  dall'Alicarnasseo  de- 
scritti, dove  della  parola  pagus  ei  ci  dà  il  significato: 
cosa  dal  Mantovano  non  sol  conosciuta  ,  ma  voluta 
esprimere  a  suo  costume,  cioè  con  una  parola  messa 
lì  per  incidenza. 

Pertanto,  concludiamo  questa  parte  del  discorso 
nostro:  dunque  il  Seitimonzio,  non  sette  qualunque 
delle  colline  romane,  che  son  pur  tante  tra  loro  vi- 
cinissime, ma  furon  sette  tra  l'altre,  su  cui  sorgevan 
paghi  del  genere  bastantemente  da  noi  descritto  , 
cioè  rocche  ,  o  bastie;  le  quali  è  vana  speranza  il 
cercar  di  determinare  per  minuto- 
fi  così  sta  bene,  perchè  esso  non  era,  siccome 
ricordavamo  altrove,  che  un  separato  e  non  grande 
allodio  de're  Silvii:  ossia,  secondo  che  oggi  si  di- 
rebbe, un  regale  demanio,  dove,  come  Dionisio  ri- 
ferisce, vita  pastorale  menavano  que'  che  vi  avevano 
dimora,  e  il  vitto  si  procuravano  colla  fatica  formando 
le  pili  volle  in  su  i  monti  casipole  di  legno  e  canne  (1). 
Infatti  le  sue  condizioni  fìsiche  e  politiche,  oltre  al 
dir  della  tradizione,  tale  portano  a  crederlo.  Formava 
l'agro  settimonziale  di  que'  dì  una  non  estesa  regio- 
ne ,    più  ancor  piccola  che  parecchie  di  quelle  che 

(1)  1.  79- 


212 

noi  chiamiamo  temile,  ì  napolitani  masserie,  gli  uo- 
mini del  medio  evo  masse,  fattorie  i  toscani,  posta 
all'estremo  dell'intero  territorio,  a  contatto  del  Te- 
vere, in  prossimità,  su  tutta  la  fronte,  de'nemici  to- 
scani, ed  esposta  perciò  alle  incursioni  de' loro  cor- 
sali per  acqua  su  barche  ,  di  che  fa  espressa  men- 
zione l'Alicarnasseo  (1);  e  su  tutto  un  altro  lato  mi- 
nacciata ogni  giorno  d'invasione  dalle  orde  sabine 
lunghesso  l'Aniene  e  le  vicine  montagne,  a  perpetuo 
alterno  ricatto  di  torti  reciproci.  Nell'interno  basse 
vallette  non  ancora  colmate ,  e  bassissimi  fondi  pe- 
riodicamente allagati  dalle  inondazioni  dell'  alveo  ti- 
berino, il  quale  s'insinuava  tra'  colli  più  elevati  che 
oggi  non  sono,  con  risvolte  più  grandi  di  quelle  che 
oggi  sono.  Alcuni  degli  impaludamenti  mai  non  si 
diseccavano.  Sulle  pendici,  tutto  boschi,  lecci  o  tife, 
querele,  faggi,  vimini.  Terre  propriamente  messe  a 
coltura,  0  poche,  o  nessuna.  Non  quindi  guari  se- 
minagioni, ne  agricoltura;  ma  greggie  o  armenti  di 
que'  che  in  tal  suolo  stanziar  potevano,  e  boattieri, 
e  porcaiuoli,  e  caprai,  e  boscaiuoli,  e  capanne  qua 
e  colà  disseminate,  e  viver  per  lo  più  di  caccia,  e 
non  radamente  di  ladroneccio. 

Or,  ciò  essendo,  si  comprende  di  leggieri ,  che 
un  tal  distretto  tentar  non  doveva  gran  fatto  per- 
sone private  a  possederlo,  tanto  più  impotenti  a  di- 
fenderlo ,  quanto  più  suddiviso  ei  fosse  stato  tra 
molti.  Né  il  suddividerlo,  per  la  natura  stessa  della 
pastorizia,  era  conveniente  ,  considerato  che  questa 
ha  bisogno  di  larghi  pascoli  su  vasto  spazio,  il  quale 

(1)  111.  43. 


213 

qui  mancava.  Né  tenendolo  intero  ed  unito,  ad  al- 
tri meglio  dar  non  si  potea,  che  a  tale  a  cui  stato  sì 
fosse  agevole  il  guardarlo,  quanto  al  re  stesso  della 
contrada,  o  agli  altri  della  regal  casa  ,  massime  in 
paese  dove  i    re  non  erano    elettivi ,  ma    ereditari. 
Perchè  fermarsi  qui  a  provare  1'  esiguità  dello  spa- 
zio non  è  bisogno.  Ciascun  dee  rammentare,    quel 
che,  tra  molti  altri,  scrive  in  questo  proposito  Flo- 
ro, di  Roma  già  cresciuta    in   forza,  e  lottante  con 
Tazio.  Populus  romanus,  mi  putrii  soli   gleba  nulla 
(  e  vuol  dire  di  territorio  coltivabile  ,   comechè  per 
vero  n'esageri  la  piccolezza  ),  sed  statim  hoslile  no- 
moeriiim  (I.  9). 

Pertanto,  se  adesso  si  chiede  qual  esser  dovesse 
il  costume  di  coloro  che  quivi  abitavano,  ecco  cioc- 
ché dalle  cose  esposte,  senza  ancora  quel  che  se  ne 
racconta  presso  gli  storici,    manifestamente  si  trae. 
Unte  senza  dubbio  fiera.  Gente  agguerrita.  Fuggitivi, 
facinorosi  mandati  quivi  a  gastigo  ,    o   ricoveratisi 
dalle  vicine  regioni  per  trovare   impunità  :  procac- 
ciata, per  la  difficoltà  degli  approcci,  la  densità  dei 
boschi,  la  facilità  de'nascondigli,  le  insidie  del  suolo 
paludoso,  la  insalubrità  dell'aria;  e  se  vuoisene  avere 
una  immagine  in  moderni  esempi  di  luoghi  non  guari 
lontani,  ciò  era  com'oggi  in  alcune  nostre  marem- 
me ,    nido  antico  di  fuorusciti ,   e  di  scappati  dalle 
prigioni  o  degni  d'entrarvi ,    ugualmente  invisi  agli 
esteri  e  a'  nostrali,    tali  però,  nel  caso  di  che  par- 
liamo, che  audacia  cresceva  a'  colà  dimoranti  il  vi- 
vere all'ombra  e  sotto  la  protezione    del  re  stesso. 
Quindi  la  fama  a  noi  propagata,  che  avevano  ivi  tana 
e  pratica  ladroni  siccome  Caco  ,  donne  di  mal  af- 


2!i 
fare  siccome  Acca  Larenzia,  figliuoli  adulterini  od 
esposti,  siccome  il  Romolo  e  il  Remo  della  leggen- 
da, de'quali  non  dubita  dire  Eutropio  (1),  che  inler 
pastores  latrocinabantur;  e  tra'  quali,  secondo  che  Dio- 
nisio narra,  frequenti  querele  sorgevano  per  usurpa- 
zione reciproca  di  pascolari;  il  perchè  spesso  alle  mani 
venivano,  e  alVanni  o  al  pugnar  co'' sassi,  e  allo  in- 
sidiarsi vicendevolmente  (2). 

Or  questi,  che  lo  stesso  Dionigi  chiama  gente 
ragunaticcia  di  servi  ed  esuli ,  non  è  credibile  che 
dalla  sola  naturale  fortezza  de'  luoghi  si  tenessero 
assicurati  quanto  loro  bastasse,  e  non  pensassero  in 
tal  sito,  e  con  tali  condizioni  di  terre  a  formare  a  se 
ricoveri  dell'antichissimo  genere  àe  paghi  nell'arduità 
dei  monti,  ed  a  fortificarvisi  al  modo  delle  Virgiliane 
rocche.  Le  difficoltà  son  nel  trovare  se  i  paghi  o  le 
rocche  furon  sette,  né  piìi,  nò  meno,  tanto  da  dai* 
origine  fin  dal  tempo  della  soggezione  ad  Alba  al 
nome  Sepiimontium  o  Septempagium,  ch'eia  la  nostra 
principal  questione. 

Per  mettere  un  barlume  di  luce  in  tanta  oscu- 
rità, cominciamo  dal  cercare  quel  che  ne  pensarono 
gli  antichi.  Varrone  se  ne  spaccia  con  una  parola. 
Sepiimontium,  egli  dice,  nominatum  ab  tot  montibus, 
quospostea  urhs  muris  comprhendit  (3).  Postea:  dunque 
fa  egli  questo  nome  posteriore  non  solo  al  tempo 
della  soggezione  ad  Alba  ,  non  solo  a  quello  della 
soggezione  a  Veio  eh'  egli  ignoia,  e  poscia  a'sabini 


(Ij   Breviar.   1. 

(2)  Loc.  cit. 

(3)  De  L.  L.  V.  7. 


215 

(soggezioni,  che  credo  avere  in  altro  tempo  provate), 
ma  posteriore  in  generale  alla  fondazione  di  Roma 
secondo  il  suo  sistema,  senza  dirci  di  quanto.  S'in- 
dovina perciò  di  qui  che  con  quel  postea  fa  egli  chiara 
allusione  a  una  delle  più  comuni  sentenze,  secondo 
la  quale  i  selle  monti  cominciarono  a  esser  sette  , 
né  più,  nò  meno,  quando  il  re  Servio  Tijllio  ampliò 
la  città,  quelli  comprendendo  nella  nuova  sua  cer- 
chia. Ben  è  vero,  che,  quando  veniamo  a  contarli, 
allora  nascono  le  difficoltà  intorno  a'  mpnti  che  è 
forza  includere,  od  escludere,  come  dando  principio 
al  discorso  notai. 

Questa  però,  come  poco  fa  acpennava ,  non  fu 
l'opinione  di  tutti.  Quapdp  Vijgilio  dup  volte  con 
minimo  mutamento  ripeteva  )p  stes^so  verso;  Ja  1, 
volta  nelle  Georgiche  (1),  e  ^d  Io4are  i  priniitiv.i  ,co-? 
stumi  delle  contrade  mostre,  dicendo: 

Hanc  oUm   veteres  vitam  coluere  sabbùì 
Hanc  Remus  et  frater,    sic  forlis  Etrwia  crevil 
Scilicet  et  rerum  facta  est  pulchierìima   Roma , 
SEPTEMQUE  UNA  SIBI  MURO  CIRCUMDE- 
DIT  ARCES: 
la  seconda  volta  nell'Eneide  (2),  alloii'chè  fa  presagire 
dal  padre  Anchjse  ad  Enea,  di  Romolo  suq,  /discen- 
dente: 

En  huiuSf  nate,   auspiciis  illa  inclyta  Romq. 
Imperium  terris,   animos  aequabit   Qlympo  , 
SEPTEMQUE  UNA  SIRI  MURO  CIRCUMUA. 
BIT  ARCE?)  ... 


(1)  11.  352. 

(2)  VI.  782. 


216 
poteva  dubitarsi  ,  se  il  fatto  della  inclusione  in  un 
muro  comune  da  esso  indicata  appartenesse,  secon- 
do ch'ei  pensava,  a'  tempi  di  Romolo,  del  quale 
in  tutti  e  due  i  luoghi  fa  menzione,  o  ad  un  tempo 
indeterminato  e  posteriore.  Ma  Servio  1'  antico  Sco- 
liaste (1)  non  ha  dubbi  su  ciò:  e  per  autorità  di  pa- 
recchi i  quali  è  da  dolersi  ch'ei  lasci  anonimi,  fa 
Romolo  stesso  autore  delTinclusione  in  virtù  della 
quale  le  rocche  così  chiamate  dal  poeta  furon  del 
numero  più  volte  detto. 

Per  disgrazia  lo  scolio  dove  ciò  espone  (  come 
del  rimanente  un  gran  numero  degli  altri  suoi  scolii) 
è  corrotto,  e  s'io  non  m'inganno  lacunoso.  Esso 
così  giace  oggi  sotto  l'un  de'due  versi  citati,  cioè 
sotto  quello  dell'Eneide:  Bene  urbem  Romam  dicit 
[poeta)  septem  incliisisse  monles,  et  medium  tenuit.  Naìn 
grandis  est  inde  dubitatio.  Et  alii  dicunt  breves  septem 
colliculos  a  Romulo  inclusos,  qui  tamen  aliis  nomi- 
nibiis  appellantur.  Alii  vohint  hos  ipsos,  qui  nunc  sunt 
a  Romulo  inclusos,  i.  e.  Palatium,  Quirinalem^  Aven- 
tinum,  Caeliumy  Viminalem,  Aesquilium  (et)  Janicu- 
arem.  Alii  vero  volunt  hos  quidem  fuisse,  aliis  tamen 
nominibus  appellatos,  quae  mutata  sunt  postea.  Or,  nella 
forma  citata,  qual  buona  connessione  ha  col  resto 
quello  et  medium  tenuit  ?  Chi  medium  tenuit  ?  Ro- 
ma, o  Virgilio  ?  E  se  Virgilio,  con  qual  senso  ciò 
è  detto  ?  Virgilio,  per  fermo  no.  Infatti  intorno  a 
che  medium  tenuit  ?  Tenuit  un'opinione  di  mezzo  fra 
le  tre,  noverate  poi,  rispetto  alla  quistione  delle  colli- 
ne comprese  e  indi  noverate?  Di  ciò  il  poeta  ne  verbum 

(1)   In  Aen.   VI.  784. 


217 

fiuidem.  0  se  è  Roma  che  lenuit  medium,  con  qual 
sintassi  ciò  si  dice  ?  —  E  come  s'attacca  col  par- 
lar precedente  il  nam  cjrandis  est  inde  dubilatio?E  come 
è  scansato  il  non  confondere  la  1 .  opinione  colla  3  , 
e  il  non  esser  tratti  a  dire  che  ambedue  valgon  lo 
stesso?  Certo  debbono  esservi  due  lacune:  una  mag- 
giore dopo  monles;  un'altra  minore  dopo  qui  lamen; 
e  il  contesto  costringe  a  riempirle  presso  a  poco 
nel  seguente  modo:  dove,  checché  sia  delle  parole, 
-il  sentimento  è  per  fermo  qual  io  lo  esprimo:  Bene 
urbem  Romani  dicii  scpfem  inclusisse  monles.  Incertum 
tamen  est  qui  [uerint ,  et  qnihiis  nomini  bus;  super 
mio  quorum  Roma  est  condita,  et  medium,  tenuit. 
Nam  grandis  est  inde  dubitatio.  Et  alii  dicunt  bre- 
ves  sepiem  coUiculos  a  Romulo  inclusos,  qui  tamen 
aia  erant  et  aliis  nominibus  appellabantur.  Alii  volimi 
hos  ipsos,  qui  nunc  suul  ...  con  ciò  che  poi  seguita 
sino  alla  fine.  —  Dunque  o  Virgilio  egli  stesso  ,  o 
almeno  buon  numero  d'altri,  opinavano  già  il  Setti- 
inon/.io  incluso  in  una  sola  cerchia  sin  da  Romolo, 
eccetto  i  dispareri  su  i  particolari  de'colli  compresi, 
0  da  escludere  ,  e  su'nomi  loro:  tra  quali  dispareri 
è  singolare  ([uello  che  tutti  i  colli,  da  Virgilio  chia- 
mati rocche  (  ed  è  la  1  opinione  addotta  )  fa  al  tutto 
diversi  e  di  nome  o  di  luogo  dai  comunemente  am- 
messi. Ad  ogni  modo  un  punto  è  qui  introdotto  nella 
questione:  il  punto  che  i  monti,  i  quali  già  ponemmo 
in  chiaro  essere  stati  tante  bastìe,  non  formarono 
veramente  il  Settempagio  o  Settimonzio  prima  che  un 
muro  di  cerchia  non  tutti  li  avesse  rinserrati. 

Al  parere  che  de'sette  monti  cominciasse  a  par- 
la isi  solo  dopo  Servio  Tullio  non  men   contraddice 


218 
la  più  antica  di  tutto  le  memorie  che  se  ne  trova, 
cioè  la  memoria  della  festa  settimonziale,  di  cui  Varr^ 
rone  in  un'altro  luogo  (1)  scrive  —  Dies  seplimontiuvf^ 
nominalus  ab  his  seplem  montibus,  in  qiiis  silq,  urb^ 
est:  e  che  Paolo  abbieviatore  di  Festo  (2)  dice  essere 
stata  festa  celebrata  sul  Palatino  nella  Velia,  nel 
Fagntale,  nella  Subuìra,  nel  Cermalo,  nelV  Oppio,  e 
nel  Cispio  (  secondo  almeno  che  legge  Mùller  con 
Bunzen  );  rispetto  alla  qual  festa  giustamente  osserva 
il  Niebuhr  ch'essa  era  commemorativa  d'un  tempo, 
in  cui  Roma  non  aveva  ancora  intorno  a  se,  e  den- 
tro uno  stesso  cerchio  di  mura,  il  Capitolino,  il  Qui- 
rinale, il  Viminale;  e  per  conseguenza  la  città  era 
ancor  lontana  dall'essere  ciò  che  Servio  la  fé  di- 
venire. 

E  tutto  questo  lo  ricordo  a  dar  prova,  che  se 
si  chiede  la  verità  alle  sole  testimonianze  classiche, 
rispetto  alla  determinazione  de'  monti,  ed  al  tempo, 
è  vano  aspettarla  ;  e  nondimeno  è  consentimento 
in  alcuni  particolari  che  non  saranno  inutili  per  la 
nostra  ricerca;  e  sono  1.  nell'affermazione  o  tacita  o 
espressa  che  i  sette  o  colli,  o  paghi ,  o  trinciera- 
menti  riferisconsi  alla  condizione  dell'  essere  stati 
tutti  racchiusi  in  un  giro  comune  di  muri;  ciocche 
non  esclude  la  esistenza  d'  altri  non  inclusi  2.  nell'a- 
ver  connesso  quest'ordine  di  cose  colla  esistenza  di 
Roma  già  sorta  in  piede. 

Or  accettando  dalla  tradizione  queste  due  noti- 
zie, ed  accompagnandole  a  quell'  altre  che  laborio- 


(1)  De  L.  L.  VI.  24. 

(2)  P.   150.  -  Fest.   260. 


219 

saiiierite  accozzavaiììo  in  tutte  le  piecedenli  pagine,  a 
che  in  fine  si  è  condotti  ?  Si  è  condotti  a  inferire 
che  il  giro  comune  di  muro  fu  ,  secondo  tutte  le 
probabilità,  contemporaneo,  e  certo  non  anteriore,  a 
quella  fondazion  nuova  ed  ultima  di  Roma  coH'an- 
tico  suo  nome  ,  della  quale  ci  die  cenno  esplicito 
Dionigi  (1)  citato  a  suo  luogo.  Rispetto  alla  quale 
rinnovazione  della  città,  niente  di  più  speciale  debbo 
aggiungere  a  quello  che  ne  scrissi  nell'opuscolo  mio 
sulle  Origini  di  essa  (2)  stampato  nell'anno  1852. 
Sotto  i  re  Silvii  ...  (  così  forse  soprannominati 
perchè  scesi  da  selvaggi  luoghi,  donde  sbucò  la  gente 
che,  scacciati  i  sacrani,  subentrò  ne'lor  diritti  sulla 
regione  latina;  o  verso  almeno  il  tempo  in  che  la 
fortuna  loro  dichinò  e  s'estinse  ,  già  quella  prima 
Roma  vedemmo  che,  se  un  fil  d'esistenza  serbava 
ancora,  ove  rinegar  in  tutto  non  si  vogliano  le  tra- 
dizioni più  ferme,  non  poteva  esser  ad  altro  ridotta 
che  a  una  rovina;  o  a  meglio  dire  a  uno  de'  paghi 
descritti  dall'Alicarnasseo,  colle  parole  che  riferimmo. 
Un  altro  doveva  essere  la  Rema^  Remona,  o  Remuria 
àelVAventino.  Un  terzo  la  Saturnia  del  Tarpeio  (3). 
Nò  so  bene  quelli  più  che  posson  contarsene.  Ma  una 
cerchia  speciale  che  tutti  questi  paghi  circondasse  , 
Virgilio  e  gli  altri  la  contraddicono.  Intanto  avven- 
ne ciocché  io  succintamente  indicai  nel  paragr.  9 
p.  15  del  mio  opuscolo  sulle  Origini.  Le  contese 
de'due  Silvii  che  noi  conosciamo  sotto  il  nome  di 
Numitore  e  d'  Amulio,  le  quali  si    trasser  dietro  la 

(1)  I.  73. 

(2)  P.   13.  e  seg. 

(3)  V.  le  Origini  ecc.  loc  cit. 


220 

distruzione  inteia  della  (famiglia,  avendo  avuto  per 
effetto,  rispetto  alle  terre  settiinonziali,  il  loro  stac- 
carsi non  solo  dal  regno  albano,  ma  perfino  dal  ter- 
ritorio della  città  al  quale  appartenevano),  e  il  se- 
pararsene in  una  indipendenza  che  però  fu  di  breve 
durata  )  ,  e  le  rivalità  indi  tra  i  due  paghi  princi- 
pali ,  Roma  e  Remuna  sino  alla  riduzione  di  tutti 
sotto  la  supremazia  del  pago  del  Palazio,  segnano  a 
mio  avviso  il  periodo  di  tempo,  come  della  fonda- 
zione nuova  (  fatto  che  gli  storici  principali  volen- 
tieri assegnano  a  questa  epoca  ),  così  del  muro  di 
cerchia  ricordato  dal  cantor  delle  Georgiche  e  del- 
l' Eneide,  da  Servio  e  da  Varrone. 

Perchè,  messo  anche  da  parte  il  cantar  del  poe- 
ta, chiaro  è  che  allora  esso  muro  cominciar  dovè  pel 
Settimonzio,  a  meglio  assicurare,  nella  sua  piccolez- 
za, la  comunque  guadagnata  autonomia;  ridotti  giac- 
ché come  dopo  ciò  erano  alle  sole  lor  forze,  contro 
a  vicini  omai  da  ogni  parte  troppo  più  potenti  , 
nessun  presidio ,  gli  abitatori  del  luogo  potevan 
con  pili  opportunità  scegliere  ,  che  nell'  accennato 
modo  circonvallando  tutti  i  paghi  formanti  il  nuo- 
vo stato,  la  cui  circoscrizione  debbo  in  quel  tempo 
avere  stabilito  i  suoi  contini.  E  per  vero,  nel- 
r  antica  strategica  spesso  questo  solevasi  tanto 
per  offesa  come  per  difesa;  ma  per  difesa  pii^i  an- 
cora che  per  offesa.  Così  la  gran  muraglia  della  Cina 
fu  già  eretta  contro  alle  incursioni  de'  tartari.  Così 
oggi  si  parla  del  Vallo  di  Traiano  a  pari  fine  nelle 
foci  del  Danubbio.  Così  operarono  i  romani  nelle 
Britannie  contro  agli  scozzesi.  Così  il  Simelli  e  il 
Petit  Radei  trovarono  muri  di  separazione  fra  tribù 


221 

e  tribù  ne'nostri  appennini  abitati  un  tempo  da  sa- 
bini e  dagli  equicoli,  e  simili.  E  così  è  giustificato 
lo  scrivere  di  Servio  nel  citato  scolio  (1):  Bene  ur- 
bem  Romam  dicit  septem  inclusi sse  montesy  et  me- 
dium tenuit.  Medium  tra  le  septem  arces,  che  il  Ro- 
molo della  leggenda  uno  muro  circumdedil. 

Se  non  che  questo  non  potè  durar  molto,  come 
avvertimmo  (2).  Non  ostante  la  consacrazione  no- 
tissima dell'asilo,  e  l'accrescimento  della  popolazio- 
ne ...  non  ostante  la  difesa  del  vallo  entro  il  quale 
eran  chiusi,  gli  etruschi  ,  e  tra  essi  i  veienti,  sot- 
toposero gli  abitanti  della  Roma  novella,  e  il  loro 
regolo,  con  qualunque  più  vero  nome  si  chiamasse; 
e  sì  fatta  loro  conquista,  rispetto  ad  essi  trastibe- 
rina, denominarono  i  sette  pagi  o  il  settempagio,  per 
cagione  degli  antichi  sette  paghi  che  la  cerchia  aveva 
circonvallato. 

Tanto  almeno  è  ciò  che  par  più  probabile.  Poi- 
ché troppo  è  contrario  al  corpo  delle  altre  tradi- 
zioni quel  che  si  legge  nel  singolare  cronografo  della 
biblioteca  Barberiniana.  dissotterrato  ,  e  pubblicato 
da  quell'onore  della  romana  porpora  l'eminentissimo 
Mai:  cioè,  non  solo  che  la  città  eterna  cominciò  ben 
325  anni  innanzi  alla  distruzione  di  Troia,  ma  inol- 
tre che  trenta  suoi  re  contato  aveva,  per  circa  1000 
anni ,  senza  interrompimento  fino  all'  avvenimento 
della  repubblica  ;  ciocché  verrebbe  a  negare  le  in- 
terruzioni d'esistenza,  delle  quali  facevamo  ricordo, 
seguitando  autori  greci. 

(1)  In  Aen.  VI.  784. 

(2)  Origini  p.  22.  e  seg. 


22-2 

E  tutte  queste  cose  io  dico  con  una  certa  asse- 
veranza, non  che  non  sia  disposto  a  confessare  molto 
ancora  rimanere  d'oscuro  e  d'incerto. 

Est  aliquid  prodire  tentis,  si   non    datur   ultra. 


Odi  settanlasetle  di  Q.  Orazio  Fiacco  voltate  in  versi 
italiani  col  testo  a  fronte,  ad  uso  della  studiosa 
gioventù,  dal  prof.  Luigi  Maria  Rezzi,  biblioteca- 
rio còrsiniano ,  accademico  corrispondente  della 
Crusca.  Roma ,  tipografia  delle  belle  arti  nel  pa- 
lazzo Poli  num.  91,  1854.  {Voi.  in  16"  di  f.  XVI 
di  proemio,  e  di  f.  238.) 


T. 


ogliendo  a  ragionare  d'una  traduzione,  dovrei  forse 
innanzi  tratto  mostrare  quali,  delle  tante  qualità  che 
si  vorrebbe  fossero  in  un  buon  traduttore,  sieno  le 
Vére  e  necessarie,  e  quali  no;  aociocchè  ove  di  con- 
cordia vostra,  o  lettori ,  mi  succedesse  scegliere  e 
póW-è  il  paragone,  potessi  ricisamente  venire  e  ci- 
tììentarvi  su  l'oro,  se  per  avventura  fosse  di  quello 
fine,  o  se  di  mondiglia.  Ma  me  ne  passo,  tra  per- 
chè non  amo  aggregarmi  agli  accigliati  sentenzia- 
tòri  d'oggidì,  e  assidermi  a  banco  pur  io,  e  perchè 
non  vorrei  che ,  contro  alla  mia  intenzione,  la  re- 
pubblica letteraria  tumultuasse,  e  sì  combattesse  una 
di  quelle  battaglie  ,  che  se  meno  sanguinose  delle 
guerre  degh  altri  stati  ed  imperi  ,  non  sono  però 
rrianco  fiere,  misere,  maledette.  Pertanto  lasciando, 
ognuno  tenga  per  le  leggi  e  regole  che  più  vuole, 


223 

0  che  egli  a  licenza  si  stimi  assolto  da  tutte,  o  che 
a  servitù  da  tutte  legato  (vedete  sin  dove  hanno  a 
sfogare  gli  umori  che  gonfiano  questo  secolo!)  non 
mi  sarà  disdetto,  senza  trarle  in  campo,  mettere  in 
uso  quelle  da  me  seguite.  Appresso  tale  avvertenza 
potrei  senz'  altro  porvi  innanzi  il  lavoro,  di  cui  mi 
fo  a  parlai  vi,  e  venirvene  sponendo  i  pregi  o  i  di- 
fetti a  mio  modo  ;  tuttavolta  desiderando  io  che  i 
giudizi  nostri  abbiano  pur  un  filo,  il  quale  li  guidi, 
non  trasanderò  cosa  che  da  molti  forse  notata,  da 
niuno  ,  eh'  io  mi  sappia ,  fu  scritta  ,  intorno  la  cui 
vei'ità  gioverebbe  assai  che  voi  ed  io  ce  l'intendes- 
simo insieme. 

Quale  fate  voi  che  sia  la  gente,  per  cui  princi- 
palmente si  voltano  oggimai  nel  nostro  italiano  le 
opere  latine  e  le  greche  ?  Mentre  che  voi  badate  , 
e  stupefatti  alla  nuova  dimanda,  soprastate  a  rispon- 
dere, abbiate  in  grado  ch'io  vengavi  liducendo  al- 
l'animo alcuni  fatti  ,  i  quali  potrebbero  mettere  a 
voi  in  bocca  la  risposta  che  a  me  già  da  un  pezzo, 
per  averli  ripensati  prima. 

Ridestato  in  Italia  l'ardore  del  sapere,  massime 
per  opera  dell'Alighieri,  il  cui  intelletto,  né  ci  vo- 
leva meno,  bastò  a  rendere  accorti  i  suoi  concitta- 
dini della  propria  natura  sostanzialmente  non  mu- 
tata né  imbestiata  dalla  sofferta  ferità  settentrionale, 
in  breve  tempo  corse  e  allargossi  in  incendio  che 
mal  potremmo  noi  imiTiaginare,  ove  non  ce  ne  fos- 
sero pervenute  prove  d'avanzo.  In  quel  mentre  stes- 
so, e  pel'  la  stessa  mano,  cadeva  il  gefgo  scolastico 
latinante:  oltreché  la  scienza,  volendosi  intender  dai 
molti,  più  non  poteva  parlare  la   Hngua  dei  pochi. 


224 

Grande  adunque  il  numero  de'discepoli,  de'  maestri 
piccolo  e  alle  piiì  cose  imperitissimo:  fu  risuscitata 
la  sapienza  de' morti  e  datole  idioma  volgare,  che 
per  industria  degli  scrittori  doveva  diventare  e  di- 
ventava de'  più  nobili  linguaggi  e'  abbiano  mai  di- 
scorso quaggiù.  Ricomparivano  degli  antichi  nostri 
i  più  desiderati  (1),  e  perduta  la  nativa  maestà  tolta 
loro  col  foro  e  con  la  signoria  del  mondo  ,  disin- 
volti e  rigogliosi  di  vita  cittadinesca,  volgari  ma  a 
gran  pezza  non  plebei,  s'impancavano  a  conversare 
pe' fondachi  co'  nepoti  contenti ,  né  loro  incontrava 
sempre,  a  pur  capirne  gli  ampi  pensieri;  che  delle 
forme  di  questi  avrebbero  avuta  briga  troppa  più 
che  per  allora  non  occorreva.  Le  versioni  pertanto, 
onde  ammaestrandosi  giovossi  il  trecento  ,  siccome 
quelle  che  non  dovevano  o  non  sapevano  ritrarre 
delle  idee  gli  atti,  i  sembianti,  e  il  sensibile  abito 
dato  ad  esse  dal  principio  spirituale,  non  furono  tra- 
duzioni: il  volgo  cercava  la  scienza,  il  volgo  forniva 
le  parole  e  i  modi  co' quali  a  lui  porgerla,  si  dis- 
sero e  furono  volgarizzamenti.  Nel  secolo  susseguente 
la  brama  dell'imparare  non  che  fosse  sminuita,  anzi, 
com'egli  avviene  che  per  saziarla  s'affama,  era  cre- 
sciuta. 0  fosse  però  che  più  non  rimanevano  latini 
di  vaglia  da  divolgarsi,  o  che  i  dotti,  razza  ritrosa. 


(i)  Souo  noli,  perciocché  chi  sa  quanll  giacciono  ancora  per  le  librerie 
sotto  la  mora  mortale  de'zibaldoni,  i  volgarizzamenti  Ji  alcune  opere  ài  Ci- 
cerone e  di  Livio,  di  G.  Cesare,  di  Sallustio,  di  Virgilio,  d'Ovidio,  di  Lu- 
cano, di  Seneca,  di  Vegezio,  e  di  fioezio,  ollr'a  quelli  di  parecchi  padri  della 
chiesa  e  di  altri  spirituali,  e  ad  alcune  operette,  come  verhigiazia  gli  uimmae- 
stramenti  degli  antichi,  e  il  Fiore  di  virtù,  le  quali  altro  non  sono  che  cen- 
toni di  molti  volgarizzamenti. 


225 

sdegnassero  di  più  andare  di  conserva  co'popoli  per 
poi  essere  sopravvento,  fosse  in  fine  Terrore  prevalso 
a  que'  giorni  intorno  l'incapacità  e  impotenza  della 
nuova  lingua,  o  tutte  insieme  queste  cose  ,  si  pre- 
sero a  recare  in  latino  gli  autori  greci.  Cosimo  de' 
Medici  in  Toscana  ,  Nicolò  V  in  Roma  ebbero  rive- 
riti ,  e  donarono  splendidamente  quanti  s'  adopera- 
vano in  tali  lavori ,  che  tornarono  vantaggiosi  alla 
nostra  nazione,  quando  poco  dopo  le  fu  dal  magni- 
fico Lorenzo  salvata  la  più  bella  forse  delle  sue  glo- 
rie moderne,  la  lingua.  Ma  poi  che  l'Italia  ritrovò 
nella  sua  memoria  le  conoscenze  del  vero  e  del  bello 
avute  nella  prima  vita,  e  poi  ch'a  maraviglia  le  ac- 
crebbe delle  recenti  speculazioni  del  Machiavelli  e 
del  Galilei,  fu  creduto  che  con  lo  scopo  fosse  ezian- 
dio venuto  meno  il  pregio  al  tradurre,  tanto  che  il 
Caro,  ed  era  uomo  da  avvedersi  per  certo  se  faceva 
o  no  cosa  preziosissima,  se  ne  prometteva  poca  lo- 
de (1).  La  falsa  opinione  resse  sin  quasi  al  princi- 
piare del  presente  secolo,  nel  quale  essendosi  cono- 
sciuto, che  traslatare  d'una  lingua  in  un'  altra  non 
importa  solo  accomunare  un  libro  in  servigio  di  chi 
sappia  anzi  di  questa  che  di  quella,  si  pose  mente 
alla  differenza  che  è  grandissima  dal  volgarizzare  al 
tradurre  (2).  Ora  veniamo  ad  altro.  In  che  lingua 
appo  noi  il  volgo  ,  cioè  l'infinita  plebe  di  tutti  gli 
ordini,  ingarbuglia  e  distriga  al  dì  d'oggi  i  pensieri 
suoi  ?  Parvi  ella  tale  ch'uno  scrittore  corretto,  non 
dirò  elegante,  possa  valersene,  e  specialmente  facen- 
do a  baratto  coll'oro  greco  e  latino  ?  E  se,  impresa 

(i)  Caro,  Lellere.  Eiliz.  venez.    J765,  -voi.  2,  leti.  247- 

(2)  Paolo  Emiliani  Giudici,  Storia  delle  lielle  lettere  in   ftalia,  f.  ^^"J- 

G.A.T.CXXXllI.  15 


226 

non  pure  miracolosa,  ma  quasi  impossibile,  ad  alcu- 
no desse  il  cuore  di  rinettarla  e  produrne  un  pro- 
prio volgarizzamento,  metterebbe  egli  bene  travisare 
un  prosatore  o  un  poeta  latino  0  greco,  falsificarne 
le  qualità  principali  e  costanti  (intervenne  ciò  a  tem- 
pi migliori  cheinoni  nostni),  sconciarne  la  grazia  e 
dignità  del  dettato,  perchè  poi  non  corresse  per  le 
mani  dell'universale?  Oh!  quanti  leggono  al  presente 
l'Eneide  del  Caro,  o  gli  Annali  del  Davanzati  ?  E 
sì  del  leggere  e  scartabellare  v'è  desiderio,  anzi  ge- 
nerale cupidigj'a  e  libidine.  Ma  se  il  sapere  ricupe- 
ratoli éfiaggrandito,  un  volgare  guasto  insanabile,  la 
ignominiosa  noncuranza  degli  autori  greci  e  latini 
impedisce  oggi  e  toglie  sien  essi  fatti  italiani  per  tutti 
o  peri  più,  rimane,  e  v'accosterete  spero  alla  mia 
conchiusione,  che  tali  addivengano  pe'pochi;  per  co- 
loro cioè  cui  assai  delle  volte  è  ben  nota  la  lingua 
de'testi,  né  la  materia  per  se  sola  è  tutt'  intero  un 
libro. 

Nel  divisato  intendimento  ,  che  salta  agli  occhi 
alla  prima,  è  condotta  la  traduzione  di  queste  set- 
tantasette odi  di  Orazio,  le  quali  ad  uso  della  stu- 
diosa gioventù  (e  questa  è  la  cagione  onde  non  son 
tutte)  mette  fuori  oggi  il  eh.  prof.  Rezzi,  delle  arti 
e  delle  lettere  italiane  già  benemerito  assai,  massime 
per  la  procurata  magnifica  ampliaziorie  e  pel  novello 
ordinamento,  delhi  insigne  libreria  cui  presiede,  e  per 
più  classiche  antiche  scritture  da  lui  tolte  ad  ingra- 
ta dimenticanza,  e  arricchite  di  preziose  annotazioni. 
E  quindi  è  che  la  detta  traduzione  avanzi ,  a  mio 
credere,  di  valore  quante  sin  qui  la  precedettero  di 
tempo.  Chi  lenta  gratificare  a  tutti,  tutti  spesso  scon- 


227 

tenta;  e  dirsela  con  diversi  se  rr.do  in  altri  casi  rie- 
sce, in  simili  non  mai.  Il  Rezzi,  viste  le  condizioni 
mutate,  stette  suU'  avviso,  né  fece  passo  che  l'ap- 
pressasse alla  folla  male  parlante,  e  peggio  scrivente. 
Sembrami  aver  provato  abbastanza  come  ciò  sia  ra- 
gionevole in  genere,  e  favellando  in  ispecie  di  Orazio, 
ch'odia  il  volgo  e  se  n'apparta,  nò  tiene  la  via  battu- 
ta, è  affatto  necessario,  a  non  rischiare  di  slonta- 
narsi da  lui,  e  perderne  fino  alla  traccia.  E  potreb- 
b' essere  che  andandosi  così  stretto  stretto  dietro  al 
medesimo,  s'incorresse  nella  sorte  in  che  egli  a'suoi 
giorni,  e  si  levasse  scarso  romore  fra'  contempora- 
nei (1);  ma  in  compagnia  così  egregia  ben  potreb- 
be portarsi  in  pace  l'avventura  da  chi,  anzi  che  alle 
mani  plaudenti,  guarda  più  su  un  palmo  al  capo  che 
lor  sovrasta,  e  da  chi  sa  vagheggiare  presente  quella 
gloria  ferma  ed  universale  che,  siccome  ad  Orazio, 
recano  seco  gli  anni  avvenire. 

Avendo  detto  della  gente  cui  studiossi  piacere  il 
Rezzi,  non  accadrebbe  far  motto  della  lingua  e  dello 
stile  da  lui  adoperato,  se  per  rispetto  di  quest'  ulti- 
mo, sempre  possente  e  brevissimo,  l'esemplare  non 
fosse  stupendo,  e  più  presto  unico  che  raro.  Io  non 
ardirò  ad  aff'ermare  che  quanto  ad  esso  la  tradu- 
zione aggiunga  il  testo;  perciocché,  mozzata  ogni  gara 
di  brevità  fra  le  due  lingue,  ciò  non  sarà  perfetta- 
mente fattibile  a  niuno,  che  metta  per  rima  affetti 
e  pensieri  altrui  col  proposito  di  non  mutar  loro  le 
sembianze,  e  che  non  potendo  a  suo  talento  compri- 
mere e  aggroppare  le  idee  quando  appunto  l'indole 

(i)  Leopardi,   Della  fama  avuta  da  Orazio    presso  gli  anticlii.    Firenze, 
1645,  voi.  5,  1.    104. 


228 

del  linguaggio  usatovi  glie  lo  comporta,  si  sta  a  po- 
sta d'altri ,  il  quale  potè  a  grado  suo  tenere  altro 
modo,  cogliere  del  dire  i  costrutti  e  le  maniere  più 
serrate,  non  sempre  né  della  medesima  impronta  belle 
e  preste  in  un'altra  lingua  ancorché  brevissima  ,  e 
compiacere  in  una  al  suo  animo,  e  al  vezzo  del  ser- 
mone nativo  parlato  pur  allora  che  si  compie  l'atto 
semplicissimo  del  pensare.  Credo  però  che,  fatta  ra- 
gione d'ogni  cosa,  qualora  lo  stile  non  ne  vada  tan- 
to alla  canna,  che  in  tal  maniera  sarebbe  altresì  bre- 
ve chi  scrivesse  in  lettera  abbreviata,  e  il  più  tristo 
ritaglio  di  monosillabo  valerebbe  più  assai  d'  ogni 
giusta  parola,  credo,  dissi,  che  questo  del  Rezzi  sia 
efficace  e  conciso  senza  essere  strozzato,  se  non  se, 
anche  a  detta  di  lui  nel  proemio,  qualche  rara  volta 
un  po'  larghetto  per  fuggire  lo  stento,  o  per  rischia- 
rare l'originale.  Non  istarò  a  recarne  esempi;  avve- 
gnaché assunti  cosiffatti  non  si  provano  né  per  due 
né  per  tre  di  essi.  Me  ne  rimetto  al  retto  giudizio 
di  quanti  leggeranno  tutte  e  settantasette  le  odi,  pre- 
gandoli a  considerare  attentamente  com'esse  niente^ 
appongano,  e  niente  tolgano  alle  latine,  e  come  ne 
riflettano  sincere  sino  le  minuzie,  e  certi  segni  lie- 
vissimi, i  quali  appunto  danno  le  fattezze  e  il  pro- 
prio atto  alle  cose. 

Ed  in  questo  il  Rezzi  non  pure  non  deve  temere 
di  emuli,  ma  non  ne  ha  affatto  ;  giacché  prima  di 
lui  alcune  immagini  oraziane  parve  repugnassero 
alla  forma  italiana  per  modo,  che  a  ricercare  ezian- 
dio per  entro  le  traduzioni  migliori,  esse  o  non  vi 
si  rinvengono,  o  soltanto  mozze  e  svisate.  Apro  a 
caso  il  libro,  e  le  spesse    lineette    scure  fattevi   in 


229 

leggendolo  mi  pongono  in  cura  non  del  cominciare 
a  portarne  le  prove,  sì  del  finire.  Ne  assortirò  po- 
che qua  e  là.  Nella  prima  ode  del  secondo  libro 
(  f .  56.  )  il  Periciilosae  plenum  opus  aleae  e  tradotto: 

.     di  perigli 
Opera  ahi  !  piena,  e  d' incerta  ventura. 

Or  come  lo  resero  gli  altri  traduttori  ?  Giordano 
de'Bianchi  marchese  di  Montrone  lo  salta  a  pie  pari: 
il  Gargallo  fa  il  simigliante  ,  e  scappa  a  dire  non 
so  che  di  rischio  nel  verso  seguente:  ed  il  Cesari  ? 

ah  in  quanti 

Rischi  t'avvolge  il  dubbio  tema! 

II  confronto  è  chiaro  da  se  ;  e  non  aggiungo  co- 
menti  filologici,  perchè  a  chi  tanto  o  quanto  si  co- 
nosce del  vero  senso  delle  parole  potrebber  essi 
sembrare  indizi  di  risibile  presunzione,  dove  sareb- 
bero stati  cagione  di  noia  e  sfinimento,  e  a  chi  no 
comparirebbero  inopportune  ridondanze.  Vo  oltre  nel 
medesimo  libro.  Orazio  declamava  contro  il  lusso 
de'tempi  suoi  (  e  sol  ch'avesse  sospettata  la  ruina  a 
cui  menava ,  in  quali  tremende  rampogne  non  sa- 
rebbe egli  uscito  ?  )  né  sapevagli  buono  che  le  fer- 
tili terre  messe  testé  a  vigne  e  oliveti  si  riducessero 
a  giardini.  La  sua  potente  immaginativa  lo  trasporta 
sul  luogo;  già  gli  viene  per  l'aria  un  indistinto  di 
odori;  vede  le  viole,  le  mortelle,  i  lauri;  di  tratto  lo 
riassale  il  pensiero  che  quelle  gentili  vanità  usurpa- 
rono il  posto    air  utile  ;  non  vuole   più  degnarle  di 


230 

singolare  menzione;  fanne  di  tutte  un  mazzo,  e  con 
una  ritortola  eh'  aiuti  dare  l'ultima  stretta. 

omnis  copia  tiarium. 

E  trovata  che  non  mai  Tweglio  ?  E  ben  sapete  non 
è  l'unica  gemma  dell'ode  quindicesima  (f.  78.);  anzi 
ell'è  incastonata  vicino  l'altra  vaghissima 

Tum  spissa  ramis  laurea  fervidos 
Euccludet  ictus. 

Ma  a  legarle  all'italiana  è  il  forte.  La  nostra  tra- 
duzione ha: 

E  quanto  delle  nari 
Esser  dovizia  suol  ... 

e  la  strofa  si  termina  con: 

.     .     ,     .     l'allor  co'spessi  rami  via 
Del  Sol  ai  caldi  colpi  più  non  dia. 

Si  pongano  a  riscontro  questi  modi  con  quelH  de- 
gli altri  traduttori ,  e  si  parrà  manifestamente  di 
quanto  selne  vantaggino.  Attendete.  Eccovi  il  Cesari: 

.     .     .  e  quanto  aprii  manda  d'odore 
Olir  nel  pingue  clivo. 


231 

E  il  De'  Bianchi: 

.  Grezza  ...  d'  ogni  odore 
Spanderassi. 

Udite  il  Gargallo: 

.     .     .     .  ogni  fior  giocondo 
Profumerà  d'  odore 
Il  suol. 

E  tutti ,  qual  più ,  qual  meno,  sono  in  lisciare  il 
concetto  oraziano,  senza  badare  che  quanto  acqui- 
etava d'ornamenti ,  altrettanto  perdeva  di  forza:  e 
la  forza  stava  giusto  in  dire  che  quelle  /  soavità  di 
fiori  e  arboscelli ,  le  quali  avevano  cacciata  via  la 
fruttevole  abbondanza,  niente  facevano  a  ricchezza, 
anzi  erano  lautezza  e  dovizia  di  sole  narici.  L'altro, 
cui,  siccome  al  Rezzi,  non  fuggì  d'occhio  l'occulto 
contrapposto  di  Orazio,  si  è  il  Marchetti,  il  quale  , 
tuttoché  diligentissijno  poeta, e  svisilo,  lo  soprac- 
carica ed  infiacchisce: 

.     .     .  e  tutto 
Delle  nari  il  lascivo 
Olezzerà  tesoro.. 

Non  pare  altresì  a  voi  quel  che  a  me  ?  Per  non  ti- 
rar troppo  in  lungo,  io  non  vi  reciterò  alla  distesa 
le  traduzioni  respettive  all'altro  latino  qui  sopra: 
bastivi  che  alcuna  di  esse  parla  di  vai  cocentii  al- 
cuna di  rai  saettali,  e  di  arsi  (voleva  dire  ardenti), 


232 

quale  accenna  a  riparo  e  a  schermo,  quale  per  sino 
ad  argine.  Ma  perchè  io  non  vi  mesca  sempre  di 
quel  medesimo ,  mano  ad  altro.  Ora  la  difficoltà  è 
neirintendere  a  discrezione  ,  e  in  modo  degno  di 
Orazio: 

.  ingentem  cecidit 
Antiochum. 

(f.  122.)  Oh  !  è  egli  Tizio  costui ,  ovvero  il  Carlo 
de'paladini  ?  E  l'uno  e  1'  altro  ,  chi  presti  fede  ai 
traduttori.  Tutti  o  lo  dicono  grande ,  o  gli  danno 
del  magno;  e  chi  lo  fa  percosso,  siccome  il  Cesari; 
chi  giacente  e  soggiacente,  come  il  De'  Bianchi ,  il 
Gargallo,  il  Marchetti  ;  tal  vuole,  il  Vincenzi  e  il 
Santucci,  ch'ei  voltasse  le  spalle  ai  romani;  tale,  il 
Venini,  che  fosse  vinto  da  essi;  Giuseppe  Solari  af- 
ferma per  contrario,  che  solo  lo  infievolirono;  Mauro 
Colonnetti,  che  a  lui  increbbero  e  più  nulla.  Eh  via, 
udite  come  all'  oraziana  si  possa  rammemorare  in 
nostra  lingua  la  bravura  di  strenua  gioventù  ! 

E  '1  gran  poter  d'Antioco  recise. 

Ditemi ,  non  se  ne  terrebbe  esso  Orazio  ?  E  non 
escono  altresì  della  stampa  di  lui  que'  versi  (f.  121) 
pur  in  quest'ode  quarantesima  sesta,  ch'è  delle  più 
belle  per  certo  ? 

Or  vaga  è  nubil  vergin  di  sapere 
Come  si  mova  la  persona  destra 
In  danza  ionia,  e  all'arti  di  piacere 


233 

S'informa  ed  ammaestra; 

E  insin  da  or,  che  d'ugne  è  tenerella, 

A  'neesti  amor  uccella. 

Leggete  ora  di  grazia  la  strofa  originale,  e  fate  par- 
ticolar  attenzione  al 


fingitur  artibns 


e  al 


lam  ìiunc  et  incestos  amores 
De  tenero  meditatur  ungili: 

e  sappiatemi  dire  se  questo  sia  o  no  intendere  e 
sentire  il  poeta  venosino,  e  secondo  le  proprie  ma- 
niere di  lui.  State.  Dello  tante  riferirò  due  sole  ver- 
sioni: l'una  del  Marchetti  che  per  se  medesimo  si 
scevera  dalla  folla  ,  1'  altra  si  è  del  Gargallo,  alla 
quale,  giusta  le  formali  parole  del  Puoti  (1),  furon 
date,  e  seppe  egli  stesso  procacciar  molte  lodi.  La 
prima  ha  così: 

Gode  addestrarsi  anzi  stagion  la  vergine 
Alle  ioniche  danze:  in  lascivetti 
Modi  le  membra  atteggia 
Con  lungo  studio,  e  incestuosi  affetti 
Nelle  sue  prime  fantasie  vagheggia. 

e  la  seconda: 

Gode  atteggiar  le  membra  a  le  carole 
De  le  ioniche  scuole 

(ij  Prefai^ione  ad  alcune     odi  dì  Orazio  Fiacco    volle  in    rima    da  Gior- 
dano Dc'Bianctii    marchese   di    Montrone.   Napoli    i847- 


234 

Anzi  stagion  la  vergin,  che  si  pasce 
Nel  farsi  in  arti  dotta,  ond'ella  impari 
Incestuosi  amor  sin  da  le  fasce. 

t 

Si  paragonino  queste  due  strofe  con  quella,  e  tutte 
e  tre  con  la  latina  ,  e  se  il  vero  non  deve  valere, 
sì  non  valga.  Ma  io  non  so  tenermi  eh'  io  non  vi 
dia  solo  un  altro  saggio  di  questa  singoiar  maniera 
di  tradurre,  tratto  dall'ode  quinta  dello  stesso  libro, 
poetichissima,  e,  per  l'incrollabile  fermezza  di  Regolo, 
ad  ogni  cuore  sicuro  maravigliosa.  Non  levò  palpe- 
bra il  romano,  non  baciò  la  moglie,  non  i  figlio- 
letti; stette  ...  ut  capitis  minor,  dice  Orazio  (f.  116). 
Chi  oserà  misurarsi  con  questa  terribile  frase  ?  Cui 
basterà  l'animo  di  tirarla  pur  un  poco  in  una  ver- 
sione, di  opporle  forza  per  forza,  di  farci  rivedere 
in  barlume  l'immagine  spaventosa  che  rendeva  ai  no- 
stri padri  uno  schiavo,  un  prigione  ,  e  simili  ?  11 
Cesari,  uomo  di  chiesa,  la  trapassa  che  non  si  at- 
tenta guardarla  in  faccia  ;  il  Gargallo  le  mette  a 
rincontro 

qual  uom  del  servo  stuolo: 

e  il  De'  Bianchi 

d'un  servo  al  pari. 

Gli  altri  traduttori  (eccetto  il  Marchetti,  il  quale  non 
volgarizzò  che  quindici  odi  e  non  questa)  tutti  s'ar- 
gomentano provarsi  con  essa,  ma  con  qual  sorte  Dio 
ve  lo  dica  !  E  il  Rezzi  non  la  schivò,  le  stette  an- 
zi a  dirimpetto,  e  se  col  suo  verso  nobilissimo 

Qual  cui  fu  mozzo  ogni  essere  romano 


235 

non  gli  venne  fatto  altro  ,   si    chiarì  degno   ad  af- 
frontarla. ini-'O^r 

Un  cotal  modo  di  traslatare,  ponianno  pure  ch'e' 
non  sia  l'unico  eccellente,  avvegnaché  l'eccellenza, 
più  che  ne'generi  delle  cose,  può  sembrar  consistere 
nelle  specialità  di  attuarle,  è,  se  non  erro,  quello  che, 
nelle  presenti  condizioni,  alla  qualità  de'leggitori  me* 
glio  di  tutti  risponde,  ed  è  il  solo  veramente  a  noi 
profittevole,  provvedendoci  d'immagini  e  fantasie  de- 
dotte da  popoli,  con  cui  abbiamo  similitudine  e  me- 
desimezza di  comprensione  e  inventiva.  Non  è  però 
da  dire  com'egli  sia  faticoso  e  difficile,  ne  dì  quanti 
pericoli  seminato:  non  ultimo  de'  quali  si  è ,  che 
neWafferrare  e  stringere  e  rimirare  uno  ad  uno  spic- 
cati i  concetti  del  suo  autore,  si  freddino  e  inaridi- 
scano tra  mano.  Né  vorrete  credere  che  ciò  accada 
a  scrittorelli  di  poco  o  niun  conto;  poiché,  per  giu- 
dizio di  Pietro  Pellegrini,  da  cui  tolsi  a  presto  l'e- 
leganti parole  pur  mo  arrecate  (1),  potè  avvenire 
talvolta  a  Giacomo  Leopardi,  all'ardentissimo  scon- 
solato cantore  della  Ginestra,  il  quale  troppo  ben  sa- 
peva, che  non  sempre  un  valentissimo  autore  può  uscir 
buon  traduttore  (2).. Ma  il  Rezzi,  quando  più  e  quan- 
do meno,  tragitta  quasi  del  continuo  ne' suoi  versi 
le  vampe  d'Orazio,  senza  che  mai  se  gli  spengano 
del  tutto  tra  via':' e  in  parecchie  odi  intere,  come  a 
cagion  d'esempio  nella  tredecima  e  decimasesta  del 
secondo  -libro,  nella  sesta  del  terzo ,    nella  quinta, 

(i)  XXXIII  InJice  delle  scritture  iì  Giacomo  Leopardi  eJite  ed  inedite 
disposto  per  ordine  di  tempi  da  P.  Pellegrini. 

(2)  Titanomachia  di  Esiodo,  nel  voi.  3.  delle  opere  di  G.  Leopardi.  Fir. 
1845. 


236 

nona,  e  quattordicesima  del  quarto  ,  e  nel  carme 
secondo  e  sestodecimo  dell'  epodon,  vi  riesce  tanto 
caldo,  e  più  la  seconda  volta  che  la  prima,  all'  u- 
sanza  de'classici,  i  quali  del  fuoco  non  fanno  sbra- 
ciate ,  bensì  mucchi  a  tenerlo  vivo  lungo  tempo , 
quanto  per  avventura  ad  originale  poeta  lirico  si 
conviene.  Ed  egli  potrebbe  assomigliarsi  a  que'de- 
stri  disegnatori,  che  con  bella  proporzione  e  natu- 
ralezza sanno  acconciare  una  figura  umana  entro 
cinque  punti  comunque  disparati,  conducendola  sif- 
fattamente ch'ella,  senza  stiracchiamenti ,  e  senza 
smuoverli  di  tantino,  li  vada  a  ritrovare  con  le  estre- 
mità delle  mani,  del  capo,  e  de'piedi.  Sperando  non 
isgradire,  recherò  qui  una  delle  predette  odi  (f.81 .), 
quella  cioè 

A    GROSFO 

Ozio  beato  implora  dagli  dei 
Chi  vien  da  ria  fortuna 
Colto  in  aperto  mar  tra'flutti  egei, 
Tosto  che  sia  la  Luna 
Chiusa  da  nugol  scuro. 
Né  più  splenda  ai  nocchier  astro  sicuro:  (1) 

(  '''(l)  Deus  nobis  haec  olia  fecit,  disse  pure  Virgilio.  11  nostro  ozio  è  di 
scempia  significazione,  né  da  solo  sveglia  le  due  idee  che  oliuin  qui  e  al- 
trove.  Il  Cesari  badò    a   questo,   e   disse: 

Prega   per  pace   e   per    tranquilla   vita. 
Gli   altri  bevver  grosso.  Il   Montrone   volle  vincere   di  brevità  il  testo,  e  ri- 
mosso ogni  passeggiero    e  navigante,   s'affisse  al  nocchiero  e   tradusse: 
Ozio  a  gli  idii   prega   il  nocchier  sorpreso 
Per  l'ampio  Egeo  sì  come  atra  procella 
Covri  la  luna,  né  par  segno  acceso 
D'amica  stella. 
Noti  chi   sa. 


237 

Ozio  beato  implora  Tracia,  ognora 
Furiosa  dì  pugnare: 
Ozio  beato  il  medo,  che  s'onora 
Di  faretrato  andare: 
Ma,  Grosfo,  un  ozio  tale 
Ostro  a  comprarlo  e  gemma  ed  òr  non  vale  (1). 

Che  le  ricchezze,  o  consolar  littore 
Retropigner  non  sanno 
I  miseri  desir,  ch'entro  dal  core 
Tumultuando  vanno, 
Né  le  cure,  che  'ntorno 
Volan  a  albergo  d'aurei  palchi  adorno  (2). 

Quegli  con  pochi  aver  vita  conduce 
Avventurosa  assai. 
Cui  la  saliera  de'  suoi  padri  luce 


(i)   Il    Gargailo  Iraslala: 

Ozio  il  trace  fra  bellici  furori 

Ozio  l'ircan  da  la  saetta  ultrice, 

O   Grosfo,  cui  con  gemme,  ostro  o  tesori 
Comprar  non  lice. 
Lasciamo    andare     il   resto;   ma  se    Grosfo   tornasse    fra'  vivi,  per    amore  dr! 
nuovo  encomio,  si  avrebbe  a  mandarlo  con  tutta  sicurezza  per  proconsolo  nella 
California. 

(a)  Nel  latino  le  parole  tengono  un  po'meno  spazio  che  non  nell'  italiano; 
nell'uno  e  nell'altro  però  i  pensieri,  e  qui  parrai  stare  a  casa  la  brevità,  batto- 
no a  capello,  con  più  questo  che  dal  secondo  forse  alla  mia  mala  vista  vengono 
meglio  distinti  e  scolpiti.  Non  so  poi  che  i  romani  antichi,  per  magnifici  che 
furono,  usassero  mai  ne'loro  palagi  tetti  aurei,  secondo  vorrebbe  il  Gargailo,  il 
Montrone,  il  Santucci,  e  gli  altri.  Ben  so  che  avevano  teda  laqueata  e  la- 
cunata  con  palchi  e  volle  di  bellissimi  compassi,  i  quali  pe'loro  aggetti  e  ri- 
salti potevano  facilmente  risembrare  lacci  e  sponde  che  formavano  rete  e  la- 
cune  di  conci  e  stucchi  talvolta  messi  ad  oro. 


238 

Su  tenue  mensa,  e  mai 
Tema,  o  sordida  voglia 
Mai  non  avvien  che  i  lievi  sonni   toglia  (1). 

A  che  'n  sì  breve  età  data  ai  mortali 
Di  forza  noi  scocchiamo 
A  corre  in  molti  segni  i  nostri  strali  ?  (2) 
A  che  region  cerchiamo. 
Cui  scaldi  un  sole  strano  ? 
Chi,  spatriando,  va  da  sé  lontano? 

Sulle  ferrate  navi  osa  salire 
La  cura  rea,  nò   resta 
De'  cavalli  le  torme  di  seguire, 
Vie  più  che  cerbio,  presta. 
Più  presta  di  Levante, 
Che  li  nembi  sospingasi  davante  (3). 


(i)  Pago  'ive  del  poco  a  chi  '1  paterno 

Vasel  del  sale  in  tenue  mensa  splenda, 

Né  i  quieti  sonni  sgombra  affetto  alterno 

Che  agghiacci   o  accenda. 
Di  questi  versi  la  lingua,  i  pensieri,  tutto  è  del   Gafgallo. 
(2)  Quid  brevi  forles  iacularnur  iievo 

Multa  ? 
Manco  male  ch'e'  s'è  trovato  il  verso  ch'un  qualouno  raccogliesse  qiiesta  mira- 
bile immagine,  sin  qui  non  vista,  o  non  (legnala  da  niuno  de'traduttori. 
(3)     Ahi!  l'odialo   affanno 

Monta  con    noi  su'  ben  chiavali  legni. 

Ed    i  crucciosi  sdegni 

Fra  l'arme  allato  al  cavalier  si.staono; 

Con  \qìo  i  cervi  in  corso,  ed  Euro  p€rde  .  ,,  .   ,  ; 

Che  i  nembi  parlo  ciel'caccia  e;  disperde.  .j«j  «     u 

Cdsì  Iradu.ce  il  Casari,  che  prometteva,  ai  discreti  lettori  di  rendere  il  véftso, 
non  le  parole^  sì  veramente,  die  al  possibile  fosse  senvato  il  colore,  le  fi- 
gure, e  l'andpifienlo  delV originale.  \jt  quali  cose  egli  stesso,  non  sapeva  trame 
sii  potessero  e  quanto  ben  J are,  voltando  un  ode  in  una  canzone,  e,  aggiua- 
gerò  a  chiarezza,  tiavesleiidó  delle  lunghe  robe  della  poesia  platonica  con  leni' 
piativa   una  poesia   nata  franca  e  operosa. 


239 

Alma  contenta  a  ciò  c'ha  di  presente 
Odii  cercar  pur  sempre 
Quel  ch'è  più  là;  e  se  l'ainaro  sente, 
D'agevol  riso  il  tempre:  (1) 
Non  è  quaggiuso  stato, 
Il  qua]  per  ogni  verso  sia  beato. 

Al  chiaro  Achille  già  morte  rapio 
La  vita  anzi  stagione: 
Vecchiezza  eterna  la  persona  gio 
Sol  scemando  a  Titone: 
Porgerà  forse  un'  ora 
A  me  quanto  a  te  fu  negato  ognora  (2). 

Metton  sicule  vacche  e  cento  armenti 
D'intorno  a  te    muggito: 
PuUedre  a  trar  quadriga  omai  possenti 

(1)  Nel  Monlrone  si  legge: 

.     .     ,     altenipri'l  lutto 

Con  lento  riso: 
nel  Gargallo: 

tempri  moJerato 

Riso  le  angosce: 
nel  Santucci: 

,     .      ,     anco   de' mali   in  fondo 

Sciogli  un  sorriso. 
lu  somma  a  chiederlo  a  tutti,    nessuno  vi  renderebbe  il   concetto    di  lenificare 
le  amarezze  col  riso. 

(2)  Et  mila  Jorsan,  libi  quod  negarti, 

Porriget  ìiora. 
Come  ben  toccati,  e  con  che  semplicità,  verità,  e  forza  i  terribili  giuochi    della 
fortuna!  E  i  traduttori  passati  non  se  ne  chiamarono  per  conlenti,    e  rifecero 
del  proprio,  salvo  qui  il  Montrone: 

E  forse  a  me  quel  che  ti  avrà  negato 
Porgerà  l'ora. 
Ove  gl'intelligenti   avrebbero  forse  che  apporre  al  li  posto  invece  di  a  te.  Ma  io 
sono  stracco   d'arrabattarmi  in   cosa,  che  come  per    la   capacità,    così    non  è  da 
rae  neper  l'inclinazione.   Inoltre  dal  pochissimo  che  trascorsivamente    osservai 
può  argomentarsi  da  chi  io  tenga  altresì  per  quel  che  resta. 


240 
Levan  per  te  nitrito: 
Te  veste  ricca  lana 
Tinta  due  volte  in  porpora  africana. 

A  me  la  Parca,  che  mentir  non  usa, 
Concesse  un  poderetto, 
E  l'aura  fine  della  greca  musa 
Spirommi  dentro  al  petto, 
E  diemmi  un'alma  tale, 
Che  del  volgo  maligno  non  le  cale. 

Passiamo  dal  midollo  alla  scorza.  Dei  sessanta 
e  più  traduttori  di  Orazio  non  v'ebbe  forse  tre,  che 
sola  una  volta  si  riscontrassero  nell'usare  affatto  un 
medesimo  metro:  pensate  adunque  per  voi  se  n'andò 
tutta  a  ruba  spietatamente  la  guardaroba  del  Bisso. 
Vennero  giudicati  buoni,  e  messi  in  opera  dai  piiì  corti 
ai  più  lunghi,  dai  più  ai  meno  sonanti,  tutti  i  versi,  e 
furono  intrecciati,  frastagliati,  intarsiati  in  tutte  le  gui- 
se. L'agile  e  prestissimo  Fiacco  fu  camuffato  alla  pe- 
trarchesca, furongli  affibbiate  alla  vita  terzine,  fu  infer- 
rucciato  e  armato  d'ottave  siccome  un  Orlando,  gli 
s'insegnò  recitare  ballate,  madrigali,  e  sonetti;  e  quan- 
do, che  il  cielo  ce  ne  meriti,  qui  non  si  faceva  che 
cantare  a  sollazzo  del  mondo,  dovè  pur  egli  assottiglia- 
re il  falsetto,  e  gorgheggiar  in  quilio  recitativi  ed 
ariette.  Di  colali  reità  commise  il  Solari,  il  quale,  sti- 
m.ando  forse  che  nella  poesia  i  metri  fossero  il  tutto 
o  poco  manco,  sfoggiò  in  essi  assaissimo,  e  fu  pur 
quegli,  che  col  fatto  s'addimostrò  sicuro  più  degli 
altri  (e  fra  essi  debbonsi  annoverare  taluni  de'  me- 
glio accreditati ,  siccome  il  De'  Bianchi  e  il  Gar- 
gallo)  di  poter  imitare  con  la  nostra  lingua  i   ritmi 


241 

(Iella  latina,  e  scrisse  o  disse  di  scrivere  strofe  al- 
caichc,  saffiche,  asclepiadee.  Ma  ognuno  che  per  poco 
consideri  quanto  la  misura  e  struttura  intima  dei 
versi  latini  si  diversi lìchi  da  quella  degl'italiani,  si 
persuaderà  di  leggieri  come  differenti  debbano  segui- 
tarne i  suoni;  ed  imprese  di  tal  sorte  abbandonerà 
a'  fanciulli,  o  a  chi,  per  nostra  umiliazione ,  tra- 
stullasi con  le  lettere,  e  li  simiglia.  Lasciati  adun- 
que cosi  miseri  tentativi  ,  vuoisi  prestare  orecchio 
alla  consonanza  de'pensieri,  e  quale  armonia  avreb- 
bero naturalmente  fatta  se  fossero  nativi  e  non  ospiti 
del  linguaggio,  in  cui  s'alluogano,  a  quella  temprarli. 
A  ciò  intese  il  novello  traduttore;  e  penso  gli  ve- 
nisse raggiunto  felicemente.  Nulla  mi  sarebbe  tanto 
facile,  quanto  spacciarmi  da  coloro,  che  non  mi  cre- 
dessero sopra  la  semplice  parola.  Ma  poiché  quando 
anche  in  prova  ricopiassi  qui  mezzo  il  libro  del  Rezzi, 
noi  forse  saremmo  alle  medesime,  e  quando  io  chie- 
dessi loro:  sentite  ?  ed  ei  mi  risponderebbero:  che? 
fo  ragione  d'aver  pagato  loro  tutto  il  dovere,  e  ca- 
pacitatili per  giunta  d'esser  io  negli  anni  della  di- 
screzione, rimandandoli  all'autorità  degli  esempi.  Sap- 
piano pertanto  che  alcuni  valenti  uomini,  com'a  dire 
il  Chiabrera  e  il  Parini,  allorché  vennero  a  verseg- 
giare quei  de'loro  poetici  componimenti  che  tene- 
vano dell'andamento  oraziano ,  li  adagiaiono  d'or- 
dinario in  sufficienti  stanze  di  cinque  o  sei  versi  tra 
cndecassillabi  e  settenari,  ora  largheggiando  di  que- 
sti, ora  di  quelli,  ed  ove  commettendoli  in  un  modo, 
ove  in  un  altro,  per  certissime  ragioni  che  a  discor- 
rerle sembrerebbero  sotistcrie  e  peggio.  /Vllrcttanto 
operò  il  Rezzi,  il  quale  in  cinque  o  sei,  parte  set- 
(1.  A.  T.  CXXXllI.  IG 


242 

tenari  e  parte  endecassillabi,  assettò  le  più  volte  i 
quattro  versi  saffici  o  alcaieì  latini.  Talora  affer- 
rando l'occasione  di  seguitare  più  dappresso  il  te- 
sto, si  tolse  davanti  gl'intoppi  delle  rime.  E  con  sa- 
vio discernimento  tradusse  in  versi  sciolti  quattro 
odi,  ciò  sono  quella  del  Nocchiero  e  dell'Ombra  di 
Archita  (f.  41)  ,  l'altra  a  Cesare  Augusto  la  quale 
non  contiene  che  una  parlata  di  Giunone  (f.  103) , 
il  monologo  dell'Usuriere  (f.  201) ,  e  il  sermone  di 
Orazio  al  Popolo  Romàno  {f.  219).  E  non  solo  egli 
trovò  assai  bene  il  ripartimento  ,  e  direi  quasi  lo 
sfogo  e  il  torno  delle  cadenze,  ma  altresì  l'armonia 
de'suoni  particolari.  Il  suo  verso  si  concorda  alla 
musica  di  que'poeti  italiani,  che  vissero  innanzi  l'in- 
venzion  del  cannone,  ed  è  anzi  grave  e  sostentato 
che  no.  Con  che  non  m'intesi  già  d'affermare  che 
a  luogo  e  tempo  non  sappia  essere  il  contrario.  Dei 
presti  e  spediti  ben  sono  quelli  della  sesta  strofa 
dell'ode  già  propostavi.  E  dei  molli  e  risonanti  ec- 
cone  in  questi  altri  della  sessantesima  terza  (f.  171): 

Qual,  s'oltre  a'piani  del  Carpazio  mare 
Cià  trapassato  più  e'  un  anno  intiero. 
Lungi  '1  ritien  dal  patrio  focolare 
Soffio  di  Noto  invidioso  e  fero 
Con  mille  augurii  e  pii 
Voti  e  preghiere  porte  a'sommi  iddii 

Dolce  madre  al  tornar  il  figlio  invita, 
Né  spicca  gli  occhi  mai   dal   curvo  lido: 
Tale  dentro  dal  cor  punta  e  ferita 
Da  desiderio  tuttodì  più  fido 
Questa  patria,  che  l'ama, 
Cesare,  Cesar  ridomanda  e  chiama. 


243 

Anzi,  ov'io  non  al)bia  ii.iitu/.zatii  e  guasta  affatto  l\\j^ 
dita,  tengo  per  ferino,  che  de'  pregi  di  questa  tri^rr^ 
duzione  non  ultimo  sia  quello  della  varietà  e  eort^ 
venienza  dell'armonia.  11  tono  generale  però  è  tem- 
perato e  rimesso,  quasi  tuie  insomma,  quale  si  coii- 
faceva  ad  appassionato  dettator  di  miarule,  ad  Orazio, 
che  non  una  volta  finisce  i  versi  con  voci  d'una  sil- 
laba, 0  col  capo  d'una  parola  che  con  tutto  il  corpo 
si  protenda  nel  verso  appresso,  ad  Orazio  non  sem-^ 
pre  sonoro  ,  e  non  mai  rimbombante.  A  molti  per 
avventura  non  garberà  guari  questo  mio  giudizio;  i 
quali  rafforzandosi  di  quel  d'Ovidio  : 

El  lenuit  nosiras  numerosus  Horaiius  aures, 

lo  sfateranno  come  strano  e  avventato,  o  cavalo  fuori 
comechessia  a  piaggiare,  e  diuìinuire  le  altrui  colpe.  Ed 
io  solamente  li  vo  avvertiti,  che  dal  rendere  omaggio 
alla  verità,  non  che  l'amore  e  la  reverenza  ad  uomo  che 
n'è  mentissimo,  non  mi  riterrebbero  le  catene: quanto 
la  rimanente  mi  colpino  in  quel  che  vogliono.  Intanto 
tornino  per  anche,  che  queste  ragioni  le  son  vuote 
e  di  pessima  lega,  e  m'han  viso  che  al  martello  non 
reggerebbero,  anzi  croccano  ai  primi  colpi  ch'egli  è 
pur  un  piacere.  Cerchino  nel  Foicellini  (1),  e  sap- 
piano come  voglia  essere  inteso  il  numerosus  ,  per 
onore  del  Sulmonese,  il  quale,  se  non  giudicò  i  suoi 
versi  con  l'uno  orecchio,  e  gli  altrui  coH'altro,  non 
dovè  in  Orazio  tanto  amar  1'  armonia  eh'  ei  la  sti- 

(i)  Numerosus;  f/ai  magno  constai  numero,  midliplex,  mnltiis,  varius. 
OtIiIÌus  4  Trist  X,  49-  Et  tcnail  noslras  numerosus  Horaiius  aure',  scili- 
ett  propter  tot  carminum  genera,  quibus  usas  est. 


2U 

masse  notevole  sopra  tutto,  e  da  vantaggio  negli  epi- 
teti siccome  in  parecchie  altre  cose  non  la  guardò 
pel  sottile. 

Alcun  critico  fisicoso,  avendo  già  rimuginato  e 
trovato  suo  cibo,  s'aspetterà  ch'io  scenda  pur  final- 
mente a  toccare  dei  difetti  di  questa  traduzione;  ma 
egli  ha  bell'aspettare.  E  per  non  tenerlo  a  disagio, 
r  intendo  licenziato  all'  istante  per  bocca  di  Orazio 
stesso  (1)  : 

ubi  plura  nitenl  in  Carmine  non  ego  paucis 

Offendar  maculis; 

che  ho  sempre  schifato  ogni  indizio  di  sudicio  da 
poi  che  il  cielo,  sua  cortesia,  non  mi  fece  uno  sca- 
rafaggio. 

Ettore  Novelli 


(i)  Art.  poet.  V.  55i. 


240 


Frammento  di  un  poema  di  Aurelio  Orsi  ,  cittadino 
romano  e  poeta  del  500,  intitolato  -  Perettina  - 
ossia  gli  orti  esquilini  di  Sisto  V,  volgarizzato  da 
Giuseppe  Bellucci  cervese. 


N, 


yinphae,  quae  Tyberim  propter  per  amena  vagantes 
Rura,  sub  egelidis  lentae  requìescitis  umbris, 
Et  placida  in  varios  traducitis  oeia  lusus; 
Dum  ver  purpureum,  diim  se  flore  induit  arbor, 
Laetaque  pacatis  ridel  concordia  terris; 
Meciim,  agite,  arguto  calamos   percurrite  labro 
Dulcia  silvestri  modulantes  carmina  sensu; 
Principis  et  nostri  laudes  referamus  et  hortos. 


Tuque  adeo  exquiliis  decus  addita  Perettina 
Collibus,  et  merito  reliquis  praelata  napaeis, 
Pande  tuos  vati  saltus,  tuaque  antra  reclude, 
Ut  mihi  secretos  fas  sit  lustrare  recessus; 
Aurea  ubi  in  parvis  latuit  Sapientia  tectis, 
Quam  tenui  excoluit  cultu,  quam  paupere  victu 
Ipsa  suis  contenta  bonis,  nihil  indiga  nostri, 
Palladias  in  ter  virtus  enutriit  artes; 
Et  benefacta  tui  percurrere  cannine  Syxti. 
Hic  vere,  hic  ille  est  nobis  pater:  huius  honores, 
Forsitan  aonios  si  quando  attingere  fontes 
Dent  mihi  pierides,  numerosque  effingere  cycni, 
Ordiar,  et  meritis  intexam  nomina  fastis. 


2ì: 


il infe,  0  voi  che  del  Tebro  appresso  l'onde, 
Abitatrici  di  campagne  amene, 
Fate  vostri  riposi  all'ombre  fresche 
E  godete  oziando  in  festa  e  in  gioco  ; 
Mentre  di  fior  si  vestono  le  piante 
Di  primavera  ne'candidi  giorni, 
E  la  concordia  per  ciascun  paese 
In  sicmlà  di  pace  allegra  ride; 
Voi  meco,  o  ninfe,  sulle  canne  argute 
Destate  il  suono;  e  in  dolci  umili  versi 
Del  mio  prence  cantiam  le  lodi  e  gli  orti. 

E  tu,   aggiunto  splendor  degli  esquilini 
Colli,  e  delle  napee  certo  la  prima. 
Aprimi,  0  Perettina,  i  boschi  tuoi, 
E  i  tuoi  antri  mi  schiudi,  onde  ai  recessi 
Mettermi  dentro  io  possa  i  più  secreti; 
U'  Sapienza  in  picciolo  abituro 
Si  stette  ascosa,  e  lì  fra  l'arti  industri 
In  seno  alla  virtù,  che  tutto  schiva, 
Vivea  contenta  della  propria  sorte 
Con  pover  vitto  e  costumanze  umili. 
Tu  di  Sisto  mi  canta  i  benefatti; 
Che  questi  a  me  veracemente  è  padre. 
Di  lui  gli  onori,  se  le  muse  amiche 


248 


Interea  quicumque  vago  viridaria  gressu 
Perlegis,  atque  avidos  volvis  per  singula  visus, 
Delicias  e  disce  Urbis,  mecumque  recense 
Ruiis  opes,  ac  vei-is  opus,  quod  dedala  fìngens 
Multiplicem  in  facem  solertìa  format,  et  apte, 
Artifìcis  moderante  manu,  mille  edocet  ora 
Sumere,  mille  vias,   totidem  retexere  flexus. 
Non  secus  ac  si  quis  tabulas  imitatus  Apellis 
Vivaci  ingenio,  liquidisque  coloribus  bortos 
Pingeret  Hesperidum,  floresque  animaret  et  heibas. 


Aspice  quam  vario  in  sese  reditura  recursu 
Complicai  et  triplici  clivum  via  tramite  molli t, 
Quam  cyparissus  obit  ramis  iuvenilibus,  et  quam 
Vitea  pampineis  velat  coma  nexa  corymbis. 
Hinc  virides  spectes  inter  colludere  frondes 
Palmitis,  aut  summis  volucres  considere  signis, 
Mulcentes  placidis  concentibus  bospitis  aures, 
Quas  circum  e  tremulis  adsibilat  orta  frutetis 
Fontanos  imitata  leves  levis  aura  susurros, 
Blandaque  sollicitis  aftert  oblivia  curia. 


Nec  minus  innato  capient  te  poma  rubore 
Punica,  virgineos  referenlia  corticc  vultus, 


249 

Concederai!  ch'io  beva   al  fonte  Ascireo, 
Ed  in  voce  di  cigno  innalzi  il  canto, 
Ordirò  forse  un  giorno,  e  de'suoi  fasti 
Meritamente  tesserò  poema. 

Tu  chiunque  frattanto  il  passo  aggiri 
Per  li  verzieri,  e  intorno  avido  guardi. 
Qui  ravvisa  di  Roma  le  delizie, 
E  le  ricchezze  meco  ad  una  ad  una 
Di  questa  villa  annoverar  ti  piaccia: 
Lavoro  che  formò  dedalea  mano 
Con  solerte  artificio  in  varie  guise, 
E  lui  die  mille  figurar  sembianti, 
E  tesser  mille  vie  o  andirivieni. 
Come  chi  scorto  da  felice  ingegno, 
D'Apelle  non  ignobile  seguace, 
Descrivesse  su  tele  in  bei  colori 
Dell'Esperidi  gli  orti,  e  desse  vita 
Ai  vaghi  fiori  ed  alla  verde  erbetta. 

Vedi  come  la  via  con  vario  giro 
Si  piega,  si  ravvolge,  e  in  se  ritorna, 
E  fa  più  dolce  del  salire  il  clivo 
Per  triplice  sentiero,  a  cui  d'intorno 
Vanno  molli  cipressi,  e  vi  sta  sopra 
La  vite  con  sue  chiome  e  con  corimbi, 
Quindi  scherzare  augelli  infra  le  fronde, 
Od  al  sommo  de'rami  gorgheggiando 
Molcer  l'orecchio  al  pellegrin,  che  al  sibilo 
D'auretta  lieve,  che  da  boschi  tremoli 
Move  ed  imita  il  sussurrar  di  un  fonte. 
Sente  sparger  d'oblio  l'egre  sue  cure. 

Né  meno  ti  saran  idrati  a  vedere 
l  rubicondi  melagrani,  quali 


250 

Qunequc  levi  fnigraut  eontecla  cyrlonia  lana, 

Et  librata  siiis  beneolentia  citria  ramis. 

Explicat  haec  paries  atque  ordine  digerit  aequo; 

Qualia  sidoniae  pretioso  in  tegmine  vestis, 

Cui  gracile  argentum,  cui  lentunì  immittitur  aurum, 

Serica  palladio  lucent  pomai-ia  textu. 


At  spatia  areolis  bievibus  conclusaque  septis 
Quani  varium  discrimen  agunt,  quam  lege,  quibusve 
Ordinibus  distincta  patent  !  concrescere  plantas 
Hic  tripliccm  in  montem  cernas,  ac  syderis  illic 
Efflgiem,  aut  vultus  videas  simulare  leonis: 
Tantum  arti  ingenioque  datum:  quin  cerne  Minervae 
Mirandas  cultricis  opes,  atque  herbida  texta. 
Daedalea  vel  digna  manu  fallacibus  errat 
Flexibus  indeprensa  et  inobservabilis  ulla 
Arte  via;  ambiguo  quam  calle,  adituque  retexit. 
Et  labyrinthaeis  ambagibus  implicai  error; 
Incertoque  oculos  prospectu  et  imagine  pascit. 


Quid  fruticum  genera  et  beneolentia  gramina  terrae, 
Hellespontiaci  non  vilia  dona  Priapi, 
Commemorem,  aut  olerà  agrestis  bona  fercula  mensae? 
Quaeque  suis  viget  apta  locis,  aperitque  decorem 
Nativum,  et  virides  miscet,  vai-iatque  smaragdos 


251 

Di  floiizelletta  le  vermiglie  gote, 
E  il  cotogno  in  lanugine  coverto , 
Tutto  fragranza  !  e  le  cedrine  poma 
Che  bene-olenti  dai  lor  rami  libransi. 
E  ciò  dimostra  la  parete,  e  in  giusto 
Oi*din  dispone.  Qual  sidonia  veste, 
Che  di  fila  d'argento  e  d'or  s'intesse, 
Risplende  preziosa  di  pometi, 
Che  serici  v'ordìo  palladia  mano. 

Ma  -qual  l'aiuole  in  piccioletto  campo 
E  con  siepi  all'intorno  apronsi  e  fanno 
Bel  contrasto  fra  lor,  come  le  parte 
Ordin  maestro,  che  per  tutto  regge! 
Qui  vedrai  piante  raggrupparsi  in  guisa 
Di  tre  piccoli  monti,  e  là  di  stella 
Render  sembiante,  o  figurar  leone: 
Tanto  puote  l'ingegno  e  l'arte  !  ch'anzi 
Mira  e  stupisci  le  ricchezze  tante 
Di  Minerva  cultrice,  e  l'opre  industri. 
Degna  di  man  di  Dedalo  una  via 
Erra,  e  si  perde  con  fallaci  giri, 
Sì  che  qualunque  attenzion  delude. 
La  qual  per  dubbio  calle,  ed  altrettanti 
Che  si  ripiglian  continuamente, 
Intrica  un  vorticoso  laberinto; 
E  l'occhio  a  quella  vista  incerto  pende, 
E  si  pasce  d'immagine  gioconda. 

A  che  vorrò  qui  dir  di  tutte  sorte 
Arbusti,  e  erbette  di  soave  olezzo, 
Del  dio  Priapo  non  umile  dono, 
E  ortaggi  buoni  a  villareccio  desco  ? 
Che  dell'erbe  dipinte  in  color  mille, 


252 

Discolor  omnigenis  depicta  coloiibus  lierba  ? 
Qualis  adhuc  pluviae  rorantibus  aethere  guttis    ' 
Solis  ad  opposi  ti  radios,  in  nubibus  aureis 
Orta  colorato  ridet  Thaumantias  arcu. 
Hic  mirtus  viret,  et  roris  non  parva  marini 
Copia,  visque  apibus  gratissima  pabula,  tymbrae, 
Hybleumque  thymum,  casiaeque,  et  olentia  late 
Serpilla,  et  gratis  nutritas  amaracus  auris.  = 

Nec  procul  bine  absunt  roseas  imitata  papillas') 
Fraga  puellares,  Venerique  accepta  moranti 
Eruca,  et  medicas  sortita  absynthia  vires, 
Faecundusque  rmnex,  et  odoriferae  panacaeae 
Gramen,  et  irriguis  quae  gaudent  intyba  rivis.-.f) 
Non  desunt  tristesque  inulae,  rutaeque  salubres, 
Et  mentba,  et  rhamni,  coriandraqiie  pendala  fdo, 
Marrubiumque  salax,  et  amica  papavera  somno. 
Quin  adsunt  betaeque  humiles,  tersuraque  dentes 
Salvia,  quaeque  acrem  late  iaculantur  odorem 
Invitoque  trabunt  lacrymas  iiastuitia  vultu. 


.ijhno'V'i;^  on 


253 

E  che  locale  per  diverso  seggio 

Godon  la  loro  aprir  natia  bellezza, 

E  di  smeraldi  variar  le  foglie  ? 

Così  quando  la  pioggia  dal  ciel  cade 

In  rugiadoso  nembo,  in  mezzo  l'auree 

Nubi  al  cospetto  del  solar  pianeta 

La  bellissima  figlia  di  Taumante 

Appar  nel  colorato  arco  ridente. 

Quivi  verdeggia  il  mirto,  e  il  ramerino, 

E  voi  sughi  gratissimi  alle  pecchie, 

0  timo  ibleo,  serpillo,  cassia  e  timbra, 

Tu,  amaraco,  nutrito  alle  fresch'aure. 

Ve'  non  lungi  la  fragola  odorosa. 

Di  verginetta  simile  alle  poma 

Nel  roseo  colore  !  e  grata  a  Venere 

La  rucula,  ed  il  rombice  fecondo, 

E  l'assenzio  di  medica  virtute. 

La  panacea  odorifera,  e  l'indivia 

Che  si  piace  di  star  fra  irrigui  fonti. 

Né  vi  manca  la  menta,  ed  il  salace 

Marrobbio,  il  curìandolo,  ed  il  ranno, 

L'enula  trista,  e  la  salubre  ruta, 

Ed  amici  i  paveri  del  sonno. 

Evvi  l'umile  bietola,  e  la  salvia 

Che  terge  i  denti,  e  quel  che  manda  un  acre 

Odore  il  cerconcello,  e  tuo  mal  grado 

Ti  sottraggo  le  lacrime  dagli  occhi. 


254 

Cenno  necrologico  del  prof.  Gioacchino  Barilli. 


D. 


'cloroso  all'animo  torna  sempre  ruttlcio  di  par- 
lare della  morte  degli  uomini  che  furono  all'umana 
famiglia  di  giovamento  e  decoro;  ma  più  doloroso 
riesce  ancora  siffatto  ufficio,  quando  chi  deve  com- 
pierlo era  legato  coi  soavi  vincoli  della  stima  ed 
amicizia  verso  il  chiaro  defunto.  Egli  è  perciò  che 
col  cuore  fortemente  conturbato  io  piglio  a  scrivere 
della  morte  testé  avvenuta  del  prof.  Gioacchino  Barilli, 
il  quale  mi  onorò  della  sua  benevolenza,  e  più  che 
medico  mi  fu  amico  dolcissimo.  Dirò  breve,  perchè 
mi  è  ciò  prescritto  dalla  listrettezza  del  tempo,  e 
dalla  condizione  del  giornale  ove  il  mio  scritto  deve 
uscire  alla  luce  ;  dirò  nuliameno  quanto  basti  non 
già  a  serbare  la  memoria  dell'uomo  ,  la  quale  non 
perirà  mercè  delle  sue  virtuose  opere,  ma  a  rime- 
morazione  d'  alcune  particolarità  della  sua  vita  ,  e 
degli  incarichi  che  sostenne  con  universale  lode  e 
soddisfacimento. 

Nacque  Gioacchino  Barilli  in  Bologna  il  13  gen- 
naio 1788  da  Bartolomeo  ed  Anna  Gherardi ,  i 
quali  come  ottimi  genitori  assai  per  tempo  a  buone 
discipline  grinformaron  o  l'animo,  ed  accortisi  dello 
svegliato  ingegno  del  loro  caro  giovinetto,  l'avvia- 
rono nel  cammino  degli  studi  :  sicché  ,  compiuti  i 
prepara torii,  datosi  alla  scienza  medica  e  chirurgica 
ottenne  nel  1810  la  laurea  in  chirurgia,  nel  1812 
quella  in  medicina.  Desideroso  com'era  d'unire  alla 
cognizione  della  teorica  quella  della  pratica,  procac- 


255 

ciò  d'entrare  quale  assistente  nello  spedale  maggiore, 
dove  per  le  sue  indefesse  sollecitudini  si  ebbe  le 
lodi  di  chi  a  quello  ospitale  presiedeva;  ed  il  buon 
nome  del  Barili i  andava  intanto  diffondendosi  per 
la  città,  onde  nel  1816  fu  nominato  ripetitore  della 
cattedra  di  fisiologia.  Nel  principiare  del  successivo 
anno  un  fiero  tifo  petecchiale  si  gittò  in  Ascoli,  dove 
molte  vite  mietendo  aveva  posta  in  grande  coster- 
nazione tutta  quanta  la  città;  ed  il  magistrato  mu- 
sicale, sollecito  di  cercare  riparo  a  tanta  disavven- 
tura ,  si  rivolse  al  senatore  di  Bologna  per  avere 
qualche  giovine  medico  bene  istrutto  e  fornito  di 
cuore  atto  a  comprendere  la  sublimità  di  suo  mi- 
nistero, che  non  paventando  né  fatiche,  né  pericoli 
si  fosse  unito  ai  medici  d'Ascoli  a  curare  di  pesti- 
fero e  terribile  morbo.  A  ciò  fu  scelto  il  Barilli,  il 
quale  con  animo  pronto  recossi  nell'aprile  ad  Ascoli 
e  tale  vi  fece  prova  di  suo  valore  e  carità  verace- 
mente fraterna,  che  nel  comune  acquistò  benevolenza, 
ed  entrò  nella  grazia  e  neHamore  degli  ascolani  per 
modo  che  quando  giunse  il  teiinine  assegnato  al  suo 
ulficio  il  magistrato  strettamente  pregoUo  a  rimanersi 
ancora  per  altri  tre  mesi  ,  ed  il  consiglio  comuni- 
tativo  ad  unanimità  di  suffragi  volle  di  ciò  pubbli- 
camente dargli  segno  con  non  dubbio  testimonio  di 
sua  altissima  stima  e  soddisfazione.  Attestati  am- 
plissimi egli  s'ebbe  di  poi  dal  vescovo  ,  dal  clero  , 
dal  municipio  e  dal  governo,  che  tutti  s'accordarono 
in  commendare  il  singolare  zelo  e  la  molta  scien- 
za, ond'egli  aveva  portato  i  soccorsi  dell'arte  sana- 
trice  a  tanti  miseramente  attaccati  dal  fiero  morbo. 
Questo  solo    basterebbe  a    rendere  onorata    la  vita 


256 
d'un  uomo;  ed  oh  perchè  non  ho  io  paiole  sufficienti 
a  celebramelo,  come  si  converrebbe  !  Ritornato  nel 
novembre  in  patria  ricolmo  di  onorificenze,  e  pre- 
ceduto da  fama  si  bella  ,  fu  eletto  a  medico  fisico 
sostituto  dello  spedale  maggiore;  nel  1824  nominato 
a  semplice  sostituto  per  la  facoltà  medico-chirurgica; 
fu  poi  nel  1826  prescelto  a  professore  sostituto  per 
le  cattedre  di  fisiologia,  patologia  generale  semiottica, 
medicina  teorico-pratica,  medicina  politico-legale,  e 
nello  stesso  anno  ebbe  l'incarico  di  dimostratore  dei 
pezzi  patologici,  e  di  coadiuvare  il  professore  di  pa- 
tologia ripetendone  eziandio  le  lezioni.  Non  istette 
chiuso  entro  alle  mura  della  città  il  grido  di  si  va- 
lente giovine,  il  quale,  già  ascritto  all'accademia  dei 
Georgofìli  di  Firenze,  veniva  nel  1827  dalla  medico 
chirurgica  ferrarese  annoverato  tra'suoi  soci  corri- 
spondenti. Allorquando  poi  nel  182911  celebre  Tom- 
masini  lasciò  Bologna  e  gli  studi  ebbero  a  piangere 
la  perdita  di  tanto  maestro  ,  fu  egli  chiamato  ad 
insegnare  la  medicina  teorico-pratica  ,  e  nominato 
socio  dell'accademia  benedettina,  la  quale  nel  1837 
l'ascrisse  al  novero  dei  membri  pensionati.  Appar- 
tenne fin  dal  1831  alla  commissione  provinciale  di 
sanità,  e  nel  detto  anno  passò  dalla  cattedra  di  me- 
dicina teorico-pratica  a  quella  di  patologia;  nel  suc- 
cessivo venne  annoverato  fra  i  dottori  del  collegio 
dei  medici  e  chirurghi.  La  manifestazione  del  morbo 
cholera  nel  1849  mise  la  nostra  provincia  e  città 
in  gravissimi  timori,  ed  essendosi  aperto  in  Bologna 
un  ospitale  a  raccogliervi  e  curarvi  gli  affetti  da 
questa  spaventosa  infermità  tosto  si  volse  lo  sguar- 
do al  Ballili,  che  in  unione  del  professore  cav.  Ventu- 


257 
roli  venne  (lep.itnto  a  direttore  fli  quell'ospitale  ;  e 
la  scelta  non  cadde  in  fallo.  Una  cosa  degna  d'e- 
terna ricordanza,  che  io  non  posso  passare  sotto  si- 
lenzio, si  è  che  quando  fu  portato  allo  spedale  un 
cotale  attaccato  dal  cholera  il  prof.  Barilli  pel  primo 
si  accostò  all'infermo,  e  coll'esempio  inanimando  gli 
altri,  ed  insegnando  come  si  avevano  a  fare  le  fre- 
gagioni, dileguò  quei  timori,  che  forse  per  condizione 
di  nostra  natura  erano  in  alcuni  insorti.  Egli  recossi 
a  Malalbergo,  dove  più  che  altrove  il  morbo  si  era 
diffuso  ed  ingagliardiva,  e  non  perdonò  a  disagi,  a 
cure  ed  a  pericoli  per  corrispondere  alla  fiducia  in 
lui  riposta,  ed  all'altezza  del  suo  ufficio:  ch'egli  non 
per  bramosìa  d'onori  e  di  guadagni,  ma  per  amore 
della  scienza  e  per  carità  dell'umana  famiglia  eser- 
citava sua  nobile  professione.  E  ben  ne  possono  far 
fede  coloro  tutti,  che  vennero  da  lui  curati,  e  più 
che  ogni  altro  il  possono  testificare  i  suoi  amici  e 
famigliari,  i  quali  sanno  com'egli  negasse  a  sé  quel 
sonno  e  riposo,  che  è  pur  necessario  a  ristorare  le 
forze  vitali  di  parte  almeno  di  quel  tanto  che  vassi 
di  giorno  in  giorno  stremando,  e  come  per  tempis- 
simo abbandonate  le  piume  applicasse  l'animo  a  stu- 
diare intorno  alle  malattie,  che  doveva  curare,  te- 
nendo nota  de'procedimenti  di  esse,  investigandone 
diligentemente  le  cagioni,  e  cercando  quali  più  ac- 
conci rimedi  potessero  apprestarsi  agli  infelici  am- 
malati. E  comechè  egli  fosse  d'indole  malinconica, 
nulladimeno  sapeva  di  sorte  temperarla  con  tale  pia- 
cevolezza di  parole  e  di  maniere,  che  la  sua  visita 
confortava  a  lietissime  speranze,  e  gli  animi  afflitti 
soavemente  alleviava.  Qual  buon  cittadino  fece  anco 
G.  A.  T.  CXXXIII.  17 


258 
parte  delle  rappresentanze  municipali  :  e  siccome 
grande  sollievo  a  spiriti  gentili  si  è  la  musica,  così 
in  essa  grandemente  dilettavasi,  per  forma  che  l'ac- 
cademia filarmonica  volle  fregiare  di  tale  nome  il 
suo  albo:  e  ben  egli  rispose  a  siffatto  onore  dispo- 
nendo nel  suo  testamento  a  favore  di  essa  della  bel- 
lissima sua  casa.  Di  che  grata  l'accademia  decretò 
d'onorarlo  di  esequie,. che  in  questo  giorno  con  splen- 
dido apparato  si  sono  fatte  nel  tempio  di  s.  Gio- 
vanni in  Monte.  A  me  non  è  concesso  di  parlare 
de'suoi  scritti  scientifici,  che  la  ragione  de'miei  studi 
noi  consente;  ma  dirò  delle  doti  dell'animo  del  prof. 
Barilli,  il  quale  fu  sempre  aperto  a  generosi  senti- 
menti, chiuso  all'invidia  e  superbia;  tenero  della  re- 
ligione, amorevole  e  liberale  si  porse  ai  poveri,  af- 
fettuoso, grazioso  ad  ognuno:  sicché  universalmente 
era  ricercato  de'suoi  consigli,  era  nell'ainore  e  nella 
stima  di  tutti.  Né  poteva  essere  altrimenti,  percioc- 
ché egli  seguiva  (Quella  massima,  che  più  volte  m'eb- 
be a  ripetere ,  cioè  essere  mestieri  al  medico  di 
mente  e  di  cuore:  di  mente,  per  investigare  le  re- 
condite cagioni  de'mali,  indagarne  la  natura,  e  cono- 
Scei*e  l'efRcacia  e  retta  applicazione  de'rimedi;  di  cuo- 
re, per  non  far  dell'arte  nobihssima  un  vile  merci- 
monio, per  compatire  alle  altrui  miserie  e  studiar 
niodò  di  alleviarle  per  quanto  é  dato  all'uomo.  On- 
d'égli,  inteso  sempre  a  conformarsi  alla  norma  che 
s'era  proposta  ,  meditando  ed  operando  senza  posa 
logorava  a  poco  a  poco  le  proprie  forze.  Nell'anno 
1 850,  dopo  un  gagliardissimo  dolore  di  capo:  gli  par- 
ve avere  quasi  del  tutto  perduta  la  vista,  di  che  forte 
si  rammaricava,  essendogli   tolto  di  più   adoperarsi 


259 

in  servigio  alti'ui:  indi  a  non  molto  altri  mali  soprag- 
giunsero  ,  che  per  lungo  tempo  il  travagliarono  ,  e 
nel  giorno  25  marzo  del  corr.  1853  il  ridussero 
all'estremo.  Rendeva  egli  l'anima  a  Dio,  cui  sempre 
venerò  con  cuore  sincero  e  fervente,  lasciando  vi- 
vissimo desiderio  di  sé  nell'ottima  moglie,  che  di  niu- 
na  cura  gli  venne  mai  meno,  ed  in  quelli  tutti  che 
il  conoscevano  e  pregiavano.  L'intera  città  si  com- 
mosse a  siffatta  perdita:  e  se  conforto  ricevè  al  suo 
dolore,  si  fu  la  speranza  che  altri  pure  si  foggias- 
sero all'esempio  dell'illustre  trapassato  a  restaurarla 
della  patita  iattura,  ed  a  sollevare  l'afflitta  patria  , 
che  ahi  troppo  spesso  è  costretta  a  lamentare  la 
morte  dei  suoi  più  cari  e  venerandi  figli  ! 
Il  22  aprile  1853. 

EiNRICO   SASSOLJ. 


260 


Storia  della  morie,  proposta  come  nuovo  organo  della 
scienza  clinica  da  Vincenzo  Catalani ,  dottore  in 
medicina  e  chirurgia.  [Continuazione  e  fine.) 

NUOVO  ORGANO     DELLA    SCIENZA    CLINICA 

LIBRO  QUARTO 

Espressioni,  potenze,  rapporti  e  induzione 
della  modalità  della  morte. 

CAPO  PRIMO 

Espressione  chimica 

161.  JCisauntasi  l'idea  della  vita,  la  modalità  indi- 
viduale prende  altra  direzione;  e  i  suoi  fenomeni  ven- 
gono surrogati  da  quelli  della  morte.  L'  espressione 
materiale  della  vita,  in  quanto  è  nel  corpo  dell'ani- 
male, consiste  nel  predominio  di  coesione  o  organi- 
ca concatenazione  degli  elementi  che  la  compongono; 
quella  del  periodo  di  retrogradazione,  foriere  di  ge- 
nerale disorganizzazione,  nella  maggiore  disassimi- 
lazione o  organica  decomposizione;  e  della  morte  nel 
predominio  assoluto  del  processo  analitico  ;  per  cui 
l'organica  composizione  è  signoreggiata  dal  processo 
di  chimica  putrefazione. 

162.  La  primordiale  genesi  della  vita  fìsica  o  pla- 
stica consiste  nella  chimica  combinazione,  1'  ultima 
nel  meccanico  ordinamento,  e  l'espressione  di  essa 
nel  compimento  dell'atto  chimico-organico.  E  la  nuo- 
va direzione,  che  prende  la  modalità  individuale,  esau- 


261 

l'ita  che  sia  l'idea  della  vita  ,  consiste  nello  sforzo 
che  fanno  gli  elementi  chimico  -  organici  ,  non  piiì 
dominati  dalla  sensibilità  centrale  ,  per  riacquistare 
l'individuale  indipendenza,  e  ritornare  a  formar  parte 
del  gran  tatto.  La  primordiale  generazione  della  chi- 
mico-organica composizione  della  vita  consiste  nell'or- 
dinamento elementare  determinato  dall'idea  archeti- 
pa della  specie;  e  la  manifestazione  dei  primi  mo- 
menti dei  poteri  disorganizzanti  nel  compimento  dei 
primi  fenomeni  cadaverici. 

163.  =  L'ultimo  atto  della  vita  è  l'espirazione, 
cioè  l'interruzione  del  processo  chimico-meccanico 
del  polmone.  E  sono  primi  fenomeni  cadaverici  l'im- 
mobilità, l'insensibilità,  il  raffreddamento,  il  ram- 
mollimento dei  solidi,  ed  i  permutamenti  che  com- 
portano i  fluidi.  In  seguito  il  cadavere  irrigidisce  e  da 
esso  svolgonsi  gas  putridi;  per  cui  l'odore  di  carne 
fresca  viene  surrogato  da  fetore  nauseante  ed  insof- 
fribile. La  pelle  generalmente  prende  un  colore  gial- 
lo-biancastro ,  e  si  copre  di  macchie  verdastre.  Il 
materiale  organico  a  poco  a  poco  si  fonde  ,  ed  il 
cadavere  diminuisce  gradatamente  di  massa;  i  suoi 
elementi  si  disciolgono  e  si  dileguano  evaporandosi; 
né  di  esso  rimane  che  una  specie  di  terra  grassa  , 
viscosa  e  fetida.  La  sostanza  animale  siccome  costa 
di  quaternarie  combinazioni,  nelle  quali  l'idrogeno  e 
r  azoto  superano  sempre  il  carbonio  e  1'  ossigeno, 
così  esso  comporta  la  fermentazione  compiuta,  piir- 
trefazione;  nel  mentre  che  i  tessuti  dei  vegetabili 
come  composti  ternari,  nei  quali  1'  idrogeno  ed 
il  carbonio  superano  l'ossigeno,  sono  solo  predispo- 
sti a  comportare  la  fermentazione  incompiuta. 


262 
164.  Le  combinazioni  quaternarie  nei  tessuti  ani- 
mali si  risolvono  in  combinazioni  binarie.  Una  parte 
dell'  ossigeno  assorbito  dall'aria  sembra  combinarsi 
all'  idrogeno  per  produr  acqua  ,  la  quale  si  svolge 
sotto  forma  di  vapore  strascinando  seco  putride  ma- 
terie animali.  Una  parte  del  carbonio  si  esala  sotto 
forma  di  gas-acido-carbonico,  che  può  essere  pro- 
dotto dall'ossigeno  assorbito  dall'aria.  Un'  altra  por- 
zione di  carbonio  sfugge  combinandosi  al  gas  idro- 
geno. L'idrogeno  si  svolge  allo  stato  di  gas  combi- 
nato o  al  carbonio,  o  al  zolfo,  o  al  fosforo.  L'azoto 
si  svolge  principalmente  allo  stato  di  gas  puro;  inol- 
tre esso  produce  1'  ammoniaca.  Il  fosforo  si  svolge 
talvolta  combinato  al  gas  idrogeno,  tal'altra  accendesi 
ed  arde  nel  corpo  stesso  che  si  putrefa.  Cosicché  la 
modalità  della  chimica  espressione  della  morte  è  la 
decomposizione  del  materiale  organico,  e  la  nuova 
combinazione  binaria  degli  elementi,  che  costituen- 
do i  materiali  immediati,  erano  durante  la  vita  allo 
stato  di  continua  tensione;  cioè  la  trasmutazione  o 
il  passaggio  delle  quaternarie  in  combinazioni  bina- 
rie. —  /  prodotti  aeriformi  della  decomposizione  pu- 
trida, che  svolgonsi,  trascinando  seco,  combinati  due  a 
due  i  materiali  della  sostanza  animale  ,  sono  il  gas 
idrogeno-carbonato,  solfato,  e  fosforato,  parecchi  va- 
pori acquei,  deW ammoniaca  e  dell'acido  carbonico.  Se 
ne  formano  quindi  molti  altri  ad  epoche  differenti , 
che  variano  riguardo  alla  propria  fissezza ,  e  che  sog- 
giornano piti  0  meno  alla  lunga  nella  materia  pu- 
trescente', consistono  questi  nel  grasso  di  cadavere,  o 
specie  di  sapone  ammoniacale,  nell'olio,  nell'acido  a- 
cetico,  talvolta  nell'acido  nitrico  fissato  mediante  una 


263 

base  satificabile  o  cerio  terriccio,  formante  appena  la 
centesima  parte  in  peso  ed  in  volume  della  massa 
primitiva,  che  contiene  esso  medesimo  diversi  acidi  , 
e  molti  sali  mescolati  ad  ima  sostanza  grassa  carbo- 
nosa.  Di  tutti  sì  fatti  prodotti,  il  piii  importante,  at- 
tesa la  sua  influenza  deleteria  sui  corpi  viventi,  -  per 
lo  meno  sopra  cerli  animali,  sebbene  non  si  conosca 
per  anco  la  siia  natura  -  è  certo  gas  animale  il  cui 
odore  particolare  lo  fa  agevolmente  discernere  ovun- 
que  esiste.  Si  presume  non  senza  ragione  che  sia  il 
resultato  della  soluzione  nelV  aria  della  materia  pu- 
trefatta. Checché  ne  sia  è  desso  solo  che  forma  il 
danno  procedente  dagli  effluvi  putridi,  e  che  giu- 
sta il  suo  grado  di  concentrazione  produce  neWuomo 
varii  effetti  piii  o  meno  fimesli,  determinando  parec- 
eJiie  irritazioni  gravi,  i  cui  insidiati  sono  ora  il  tifo 
con  tutte  le  sue  varietà,  ora  varie  flemmasie  esterne 
caratterizzate  specialmente  per  la  loro  tendenza  verso 
la  cangrena;  essendo  abbondantissimo  diventa  la  sor- 
gente di  terribili  epidemie  o  di  mali  contagiosi  (1). 

CAPO  II. 

Espressione  meccanica. 

165.  11  fenomeno  appariscente  e  ammirando  del- 
la nuova  direzione  della  meccanica  del  corpo  ani- 
male è  l'immobilità;  come  della  putrida  decompo- 
sizione delle  sue  parti  è  la  trasmutazione,  o  il  pas- 


(1)  Dizionario  compendiato  delle  scienze  mediche  tom.   14.  art. 
putrelazione  pag.   2S2. 


264 

saggio  delle  quaternarie  in  combinazioni  binarie.  Il 
rammollimento  ed  il  consecutivo  indurimento  dei 
solidi,  la  coagidazione  dei  liquidi ,  ed  il  permuta- 
mento delle  forme  esterne  del  cadavere  sono  altre 
espressioni  meccaniche  della  morte. 

166.  Nell'uomo  morto  la  subbiettività  sensoriale 
viene  surrogata  dalla  passività  meccanica;  ed  i  so- 
lidi, i  fluidi  ed  i  gas  si  collocano,  e  prendono  po- 
sto a  seconda  della  loro  specifica  gravità.  I  delinea- 
menti del  corpo,  e  principalmente  i  facciali,  cam- 
biansi  e  si  deformano;  e  la  rigidezza  cadaverica  im- 
possessandosi del  cadavere  non  più  comporta  T  e- 
stensione,  né  la  flessione  delle  parti  mobili.  La  ma- 
scella inferiore  si  abbassa,  i  muscoli  sfìnterici  si  ri- 
lassano; ed  i  visceri  ed  i  liquidi  cacciansi  nelle  parti 
declivi;  il  corpo  si  abbassa,  e  maggiormente  si  di- 
lata. I  solidi  ed  i  liquiti ,  sottrattesi  dal  dominio 
della  sensibilità  centrale,  si  dispongono  a  norma  del 
proprio  peso,  e  solo  obbediscono  alla  forza  di  gra- 
vitazione universale. 

167.  Il  cadavere  diminuisce  di  volume  e  di  mas- 
sa, e  si  riduce  insensibilmente  ad  una  materia  pul- 
tacea.  Cadono  le  unghie,  e  con  l'epidermide  i  peh; 
i  tendini  ed  i  muscoli  si  staccano  dalle  ossa,  i  lega- 
menti perdono  le  rispettive  insersioni;  e  si  separano 
le  articolazioni  delle  dita,  delle  mani,  dei  piedi  ec, 
e  con  la  medesima  proporzione  inversa  ,  che  pro- 
gredisce la  putrefazione,  diminuisce  la  coesione  dei 
solidi  e  si  sciolgono  le  altre  disposizioni  meccani- 
che, ed  il  cadavere  si  riduce  ad  una  specie  di  terra 
grassa,  viscosa,  e  tuttavia  fetida. 


265 

168.  I  solidi  ed  i  fluidi,  non  essendo  più  domi- 
nati dalla  sensibilità  centrale,  subiscono  peculiari  fi- 
sici permutamenti;  per  cui  nell'uomo  morto  è  sciolto 
il  legame  delle  meccaniche  combinazioni;  nel  quale 
discioglimento  consiste  la  meccanica  espressione  della 
modalità  della  morte. 

169.  Per  il  legame,  che  congiunge  il  chimismo 
alla  meccanica  del  corpo  animale  ,  per  cui  la  sua 
macchina  si  dice  chimico-organica  modalità  indivi- 
duale ,  la  combinazione  chimica  e  la  meccanica  si 
ingenerano  e  reciprocamente  si  sciolgono,  ed  il  ri- 
solversi dell'una  importa  di  necessità  lo  scioglimento 
dell'  altra.  Alcune  combinazioni  chimiche  possono 
sciogliersi  senza  che  l'intero  organismo  ne  soffra  , 
come  quando  un  membro  è  preso  da  cangrena,  e  si 
stacca  dal  corpo.  Come  ancora  una  o  piìi  combina- 
zioni meccaniche  perdono  talora  i  naturali  legami 
senza  che  soffra  o  perisca  l'individualità,  come  nel 
prolasso  e  nell'anchilosi. 

CAPO  III. 

Espressione  dinamica. 

170.  L'espressione  dinamica  della  morte  è  ne- 
gativa, ed  il  primo  fenomeno  che  l'annuncia  ò  l'in- 
sensibilità; come  della  meccanica  è  l'immobilità.  La 
manifestazione  0  la  sensibile  espressione  dell'estinzione 
graduata  dei  fenomeni  della  vita  suole  generalmente  in- 
cominciare nella  periferia,  e  la  sua  direzione  è  dall'e- 
sterno all'interno.  Nei  vari  generi  di  morte,  nei  quali 
variasi  il  punto  centrale  della  generazione  primordiale 


266 

della  morte,  cambiasi  del  pari  la  direzione  dell'  e- 
stinzione  successiva  degli  atti  organici;  generalmente 
essa  si  compie  estendendosi  coi  respettivi  fenomeni  ap- 
pariscenti ed  ammirandi  dall'  esterno  all'interno.  — 
La  morte  progredisce  dalVeslerno  alVinterno;  la  vita 
si  estingue  dapprima  alla  periferia,  poi  negli  organi 
centrali;  in  primo  luogo  nelle  membra,  iìidi  nel  tron- 
co; dapprima  negli  organi  locomotori,  poi  negli  organi 
sensoriali;  primieramente  nelV occhio,  indi  nelV  orec- 
chio. Siccome  nel  materiale  deW organismo,  la  forma- 
zione procede  dall'interno  alV  esterno,  e  che  le  parti 
periferiche  sono  quelle  che  si  sviluppano  per  ultimo  , 
così  gli  organi  che  produconsi  dopo  tutti  gli  altri,  in 
particolare  i  denti  e  le  parti  genitali,  sono  guelli  che 
avvizzisconsi  primi;  ma,  siccome  la  vita  morale  cam- 
mina daW esterno  aW interno  quando  si  sviluppa ,  così 
le  forze  che  vi  si  riferiscono  abhassansi  nello  stesso 
ordine  di  quello  della  loro  manifestazione,  e  le  supe- 
riori persistono  piìi  alla  lunga  di  quelle  collocate  sotto 
di  esse  (1  ). 

171.  Nella  vecchiaia  affievolisconsi  prima  i  sensi, 
poi  la  memoria,  indi  la  immaginativa,  ed  infine  lo 
intelletto.  La  debolezza  senile  pare  incominciare 
dalla  periferia  e  riconcentrarsi  nelle  parti  interne  ; 
così  si  appalesa  da  principio  nelle  membra  inferiori, 
negli  organi  genitali,  nelle  vie  urinarie,  nei  vasi  e- 
morroidali,  poi  nell'apparecchio  digerente;  infine  nei 
movimenti  del  cuore,  e  nella  respirazione.  La  vita 
nella  morte  naturale  si    estingue  da    principio    alla 


(1)  Burtlach.  Trallalo  di  fi&ìologia  voi.  o.  pari.  4.  cap.  4.  ari. 
2.  pag.   469. 


267 

periferia,  poi  negli  organi  eentrali  ;  e  la  morte  coi 
suoi  fenomeni  visibili  e  calcolabili  progredisce  dal- 
l' esterno  all'  interno.  Nel  mentre  che  nel  periodo  di 
propulsione  la  vita  dall'interno  viene  all'esterno  per 
svolgere  ed  ingrandire  la  propria  idea;  in  quello 
di  retrogradazione  ripiegandosi  in  se  stessa  ritorna 
alla  vita  latente  dell'  uovo  ed  a  formar  pai'te  del 
gran  tutto.  È  adunque  la  morte  di  sua  essenza  la 
ruina  del  corpo  animale  individuale  ,  che  realizzò 
compiutamente  la  sua  idea. 

172.  La  modalità  dinamica  della  morte  consi- 
stendo nella  interruzione  dei  fenomeni  vitali,  essa 
raggiunge  al  massimo  grado  di  sua  intensità  nell'atto 
del  discioglimento  dell'antagonismo  vitale;  per  cui 
le  parti  componenti  non  essendo  più  dominate  dalla 
sensibilità  centrale,  viene  meno  l'espressione  di  vita. 
Nell'esaurimento  graduato  e  spontaneo  della  vita  non 
sono  annichilite  le  proprietà  primitive  degli  elemen- 
ti ;  e  solo  vengono  meno  e  sono  interamente  di- 
strutti i  fenomeni  chimico-organici  e  dinamici  che 
essenzialmente  dipendono  dall'unità  organica,  mossa 
a  peculiari  mutamenti  dall'antagonismo  determinatosi 
tra  la  individuale  e  l'attività  universale. 

CAPO  IV. 

Potenze  chimiche 

173.  La  causa  materiale  e  prossima  della  vita 
plastica  ò  la  potenza  chilificabile,  assimilabile  ed  or- 
ganizzabile;  della  morte  il  tessuto  organico  atto  a 
subire  il  processo    completo  di  putrida  decomposi- 


268 
zione.  Le  remote  o  determinanti  dell'  mia  e  dell'altra 
sono  le  potenze  chimico-organiche  e  dinamiche  che 
nel  primo  caso  determinano  l'incorporazione  e  l'as- 
similazione di  sostanze  introdottesi  dall'  esterno;  e 
nell'altro  che  decompongono  la  sostanza  organica  , 
sottoponendola  al  processo  di  putrefazione.  Cosicché 
le  medesime  potenze,  che  agiscono  in  diverse  mo- 
dalità, determinano  nel  primo  caso  l'assimilazione  o 
l'incorporazione  di  nuove  sostanze  ;  e  nell'  altro  la 
generale  disorganizzazione  individuale.  Che  anzi  nella 
stessa  peculiare  modalità  si  compiono  perennemente 
i  fenomeni  parziali  di  vita  e  di  morte  ;  ed  il  mo- 
vimento periodico  della  vita  plastica  si  compone  di 
due  momenti  di  opposta  direzione  ;  e  nel  primo  si 
compone  ,  e  nell'altro  il  materiale  organico  si  de- 
compone. 

174.  Dall'antagonismo  determinatosi  tra  il  nuovo 
prodotto,  ingeneratosi  nell'  atto  dell'  accoppiamento 
fecondo,  e  l'organismo  femmineo  ,  emerge  la  vita 
embrionale,  intra-iUerina;  e  da  quello  che  si  com- 
pie nell'atto  della  nascita ,  in  cui  il  neonato  entra 
in  relazione  immediata  dell'attività  universale  degli 
elementi,  deriva  il  corso  della  vita  fìsica  individuale 
extra-uterina.  Esauritasi  l'idea  della  vita  fisica,  al- 
l' antagonismo  vitale  vien  surrogato  altro  antago- 
nismo, cioè  quello  che  si  compie  tra  il  cadavere 
e  gli  elementi  dell'universo  in  attività,  e  che  ricon- 
duce quelli  individuali  di  quel  corpo  negli  univer- 
sali della  natura.  La  morte  è  adunque  la  condizio- 
ne primordiale,  che  predispone  la  sostanza  animale 
a  comportare  il  processo  di  chimica  putrefazione  ; 
e  la  modalità  cadaverica  è  la   causa  prossima  della 


269 

generale  disorganizzazione.  Nelle  quaternarie  combi- 
nazioni, che  le  quantità  d' idrogeno  e  di  azoto  su- 
perano sempre  le  quantità  del  carbonio  e  dell'ossi- 
geno, e  che  neir  uomo  morto  si  disciolgono  e  gli 
elementi  componenti  si  collegano  due  a  due  e  for- 
mano combinazioni  binarie,  consiste  l'essenza  della 
causa  prossima  della  modalità  chimica  della  morte. 
Le  cause  determinanti  la  generale  disorganizzazione 
0  la  putrida  decomposizione  sono  le  attività  cosmi- 
che, tra  le  quali,  come  condizioni  indispensabili,  si 
annoverano  l'umidità,  il  contatto  dell'aria  ed  il  ca- 
lorico. 

175.  Nel  passaggio,  0  trasmutazione  delle  quater- 
narie in  combinazioni  binarie,  consiste  il  movimento 
della  chimica  modalità  della  morte;  e  nel  ritorno  delle 
combinazioni  binarie  in  quaternarie  l'atto  chimico- 
vitale  della  genoazione  della  sostanza  del  corpo  ani- 
male. Il  corso  della  vita  dell'uomo,  in  quanto  si  ri- 
ferisce alla  vita  plastica,  è  il  conflitto  o  l'alternati- 
va permutazione  delle  combinazioni  binarie  in  qua- 
ternarie, e  delle  quaternarie  in  binarie.  Nella  genesi 
primordiale  vi  è  solamente  la  formazione  di  com- 
binazioni quaternarie,  nel  periodo  di  propulsione  vi 
è  di  esse  esuberanza  ,  ed  in  quello  di  retrograda- 
zione soprabbonda  il  numero  delle  combinazioni  bi- 
narie, e  nella  putrida  decomposizione  animale  non 
si  compiono  altro  che  combinazioni  binarie.  Nel  pri- 
mo caso  gli  elementi  particolari  componenti  il  corpo 
individuale  escono  dai  generali  della  natura;  nel  se- 
condo è  maggiore  la  quantità,  che  entra  nei  parti- 
colari, avuto  riguardo  a  quella  che  ritorna  nei  ge- 
nerali; nel  terzo  minore  è  la  quantità  che  sorte  dai 


270 

generali,  avuta  proporzione  a  quella  che  vi  rientra; 
e  neir  ultimo  i  paFticolari  ritornano  a  formar  parte 
dei  generali. 

CAPO  V. 

Potenze   meccaniche 

176.  La  macchina  del  corpo  animale  si  com- 
pone di  elementi  chimici  e  meccanici;  l'universo 
somministra  gli  elementi  al  chimismo  ,  ed  il  chi- 
mismo alla  meccanica  animale.  La  modalità  indivi- 
duale del  corpo  è  un  composto  di  combinazioni  chi- 
miche, di  disposizioni  meccaniche,  e  di  espressioni 
dinamiche.  Le  potenze  determinanti  sono  chimiche, 
meccaniche  e  dinamiche:  ed  ecco  un  rapporto  tra 
la  natura  ed  il  modo  di  agire  delle  potenze  inter- 
ne ed  esterne  della  vita  fìsica. 

177.  Esauritasi  l'idea  della  vita,  si  compie  la  tra- 
sformazione delle  combinazioni  quaternarie  in  bina- 
rie; e  gli  elementi  meccanici  si  rilassano,  e  tendono 
anche  essi  a  disciogliersi.  Permutamenti  fisico-chi- 
mici che  sono  determinati  dalle  medesime  condi- 
zioni esterne  della  vita,  le  quali  esercitano  la  pro- 
pria forza  nell'uomo  morto;  e  come  l'attività  uni- 
versale determina  il  particolare ,  così  lo  riconduce 
al  generale.  Le  potenze  cosmiche  agiscono  talora 
chimicamente,  tal'altra  dinamicamente ,  ed  in  centi 
aitri  casi  meccanicamente;  così  agiscono  meccanica- 
mente l'aria  se  gravita  col  proprio  peso,  il  calorico 
se  dilata,  e  1'  acqua  se  rammollisce  i  tessuti  senza 
unirsi  ad  essi  in  chimica  combinazione. 


271 

178.  Alti'e  potenze  meccaniche  sono  le  stesse 
parti  del  cadavere  ,  che  gravitano  col  proprio  peso 
l'une  sull'altre;  ed  agiscono  meccanicamente  sul  corpo 
che  comporta  la  putrida  decomposizione.  Il  cada- 
vere è  disteso  sulla  superfice  più  larga  ;  i  visceri 
cacciansi  nelle  parti  maggiormente  declivi;  il  ventre 
si  abbassa,  ed  acquista  una  maggiore  estensione;  i 
muscoli  sfinterici  si  rilassano  ,  le  mammelle  nelle 
donne  ed  il  pene  nell'uomo  si  abbandonano  al  pro- 
prio peso.  I  liquidi  si  diffondono,  e  si  livellano  se- 
guendo la  legge  idraulica;  ed  i  gas  gonfiano  il  cor- 
po, e  spingono  in  varie  direzioni  i  tessuti  ed  i  li- 
quidi. Cosicché  le  potenze  meccaniche  della  morte 
consistono  nelle  condizioni  cosmiche  che  agiscono 
meccanicamente,  e  nelle  parti  componenti  lo  stesso 
corpo  che  comporta  il  processo  di  chimica  putrefa- 
zione, le  quali  gravitano  con  il  proprio  peso  le  une 
sulle  altre. 

CAPO  VI. 

Potenze  dinamiche. 

179.  Gli  elementi  considerati  separatamente  solo 
posseggono  le  proprietà  comuni,  verbigrazia  la  gra- 
vità, l'estensione,  la  divisibilità  ec;  che  se  poi  si 
riguardano  dal  lato  della  meccanica  disposizione,  o 
da  quello  della  chimica  combinazione  oltre  alle  pro- 
prietà primitive  essi  presentano  gli  attributi  acciden- 
tali, speciali  e  propri  di  ciascun  composto.  Negli 
aggregati,  e  nei  chimici  composti  esiste  naturalmente 
l'elemento  chimico,  il  meccanico  ed  il  dinamico;  e 


272 

solo  ritengono  i  nomi  di  potenze  meccaniche,  chi- 
miche e  dinamiche  per  l'azione  predominante  ,  che 
sogliono  determinare.  Con  1'  espressione  di  potenza 
chimica,  meccanica  e  dinamica  non  intendiamo  una 
diversità  essenziale  del  corpo  organico;  ma  solo  una 
peculiare  maniera  di  comportarsi  con  altri.  Le  po- 
tenze di  qualsiasi  natura  esse  siano  svolgono,  oltre 
all'azione  predominante,  anche  le  altre  che  posseg- 
gono ad  un  grado  minore;  e  si  conviene  meglio  ad 
esse  una  denominazione  composta  che  abbraccia  ed 
esprime  la  diversa  maniera  di  comportarsi  dei  corpi 
gli  uni  su  gli  altri.  L'azione  e  l'organica  reazione  , 
che  si  compiono  tra  il  particolare  ed  il  generale  , 
cioè  tra  le  potenze  interne  ed  esterne  della  vita,  è 
di  ragione  meccanica,  chimica  e  dinamica. 

180.  Esauritasi  l'idea  della  vita,  il  rapporto  an- 
tagonistico tra  r  attività  individuale  e  1'  universale 
viene  surrogato  dall'azione  e  dalla  reazione,  che  si 
compiono  naturalmente  tra  l'uomo  morto  e  l'attività 
universale.  Azione  e  chimico-organica  reazione  che 
si  manifestano  mediante  lo  scioglimento  delle  combi- 
nazioni quaternarie,  ed  il  ricomponimento  delle  com- 
binazioni binarie;  per  cui  il  particolare  rientra  nel 
generale,  per  riuscirne  in  seguito  sotto  la  forma  di 
altra  modalità  particolare. 

181.  Le  potenze,  che  senza  determinare  chimi- 
co-organica combinazione  comunicano  per  impres- 
siono la  loro  azione,  in  questa  particolare  maniera 
di  comportarsi  esse  agiscono  dinamicamente,  e  sono 
potenze  dinamiche.  In  tal  guisa  pare  che  agisca  l'at- 
tività sensoriale  negli  organi  sottoposti  alla  volontà; 
e  le  potenze  esterne  nel  sensorio  comune;  lo  stimolo 


273 

jche  intorpidisce  il  tessuto  cellulare,  e  che  determina 
la  contrazione   della  fibra  muscolare. 

182.  Un  tal  modo  di  agire  delle  potenze  ,  che 
favorisce  il  processo  chimico  di  putrida  decomposi- 
zione è  il  potere  dinamico  della  morte;  ch'è  quanto 
dire,  che  le  potenze  le  quali  favoriscono  la  decom- 
posizione con  la  semplice  impressione  agiscono  di- 
namicamente. Non  è  la  natura  del  corpo  la  quale 
determina  1'  azione  dinamica  :  mentre  essa  consiste 
in  una  maniera  speciale  di  communicare  la  propria 
azione  ;  e  non  esistono  potenze  chimico-organiche 
che  non  siano  capaci  di  comunicarla  e  di  compor- 
tarla. 

CAPO  VII. 

Bappoì'li  dei  poteri  della  modalità  della  morte. 

183.  La  vita  nasce  dal  concretarsi  del  corpo  in- 
dividuale, nella  combinazione  dei  principii  elementari 
proprii  della  specie,  ed  a  misura  che  essa  innal- 
zasi s' incorpora  di  nuovi  elementi,  e  in  quanto  ne 
avrebbe  un  maggior  numero,  diviene  sempre  piii  ge- 
nerale ;  in  questo  senso  il  particolare,  risultante  da 
un  minor  numero  dì  elementi,  dopo  essere  uscito  dal 
generale,  il  quale  risulta  da  più,  tende  ad  assumere 
viemmeglio  il  carattere  della  medesima  generalità. 
E  adunque  la  morte  di  sua  essenza  ,  la  ruina  della 
macchina  organica  individuale;  che  realizzò  compiu- 
tamente il  suo  concretamento,  e  il  suo  disfacimento. 
Nella  generazione  del  corpo  individuale,  e  nella  di- 
sorganizzazione generale    consistono  i  due   momenti 

G.A.T.  CXAXIII.  18 


274 

Nel  di  antagonistica  azione  del  movimento  universale, 
primo  il  particolare,  nel  senso  detto,  esce  dal  generale, 
nell'altro  il  particolare  rientra  nel  generale.  I  legami 
ed  i  rappoi'ti  che  esistono  tra  la  vita  e  la  morte 
sono  quelli  che  si  compiono  tra  il  principio  e  la 
fine;  e  dove  questa  apparisce  quella  finisce.  L'essen- 
za dell'una  consiste  nel  concretarsi  gli  elementi  nei 
limiti  del  corpo  individuo,  e  dell'altra  nella  tendenza 
che  hanno  di  espandersi  nel  gran  lutto  generale:  ecco 
come  i  fenomeni  di  vita  e  di  morte  formano  un  an- 
tagonismo di  reciproca  eccitazione;  e  dove  1'  uno 
incomincia  l'altro  finisce. 

184.  Le  potenze  della  vita  e  della  morte  orga- 
nica, e  materiale  hanno  la  stessa  natura,  e  sì  Tune 
e  si  l'altre  sono  di  ragione  chimica  ,  meccanica,  e 
dinamica.  I  poteri  della  vita  organica  non  differi- 
scono essenzialmente  da  quelli  della  morte;  organica 
ed  i  medesimi  agenti  compiono  tanto  l'una  quanto 
l'altra.  Le  potenze  chimiche,  meccaniche  e  dinami- 
che, che  agiscono  negli  esseri  procreatori  nell'  atto 
dell'accoppiamento  fecondo  ,  determinano  la  genesi 
4el  nuovo  organismo  ;  e  le  medesime  potenze  che 
agiscono  nell'uomo  morto  compiono  la  disorganizza- 
zipne  mediante  la  putrida  decomposizione. 
;,.fil:(^,  11  rapporto  tra  le  potenze  della  morte  ap- 
parisce chiaro  tra  l'interne  e  le  attività  esterne;  af- 
finchè abbia  a  compiersi  la  putrida  decomposizione 
importa  che  esista  un  rapporto  tra  1'  agente  ed  il 
reagente;  cioè  tra  il  composto  organico  e  la  potenza 
che  lo  decompone.  Il  cadavere  non  può  da  per  sé 
stesso  decomporsi  per  la  tendenza  o  forza  conser- 
vatrice, che  ciascun  corpo  possiede  per    conservare 


275 

e  inantenere  l'esistenza  individuale;  e  sottratto  che 
sia  dalle  condizioni  che  deteiminano  la  putrida  de- 
composizione) esso  non  si  decompone.  Fra  l' uo- 
mo morto  ed  il  mondo  esterno  si  forma  un  an- 
tagonismo di  azione  cioè,  e  di  reciproca  reazione;  dal 
quale  ne  emerge,  come  ultimo  resultato,  la  putrida 
decomposizione.  Le  potenze  della  morte  sono  della 
medesima  natura  che  quella  della  vita;  ed  i  rapporti 
che  esistono  tra  il  cadavere  ed  il  mondo  esterno 
sono  di  ragione  chimica,  meccanica  e  dimanica.  E  del- 
la diversità  che  emerge  dal  compimento  del  secondo 
rapporto  antagonistico,  determinatosi  tra  le  potenze 
chimiche,  meccaniche  e  dinamiche  interne  ed  esterne 
del  cadavere,  non  può  esserne  causa  immediata  e 
prossima  se  non  che  l'esaurimento  della  vita. 

CAPO  Vili. 

Induzione  della  madalilà  dellii  morte. 

186.  Non  havvi  fenomeno  né  più  appariscente  né 
pili  ammirando  di  quello  della  morte  o  apparente  o 
reale.  La  sua  immagine  e  talmente  in  noi  impressa, 
che  qualora  esistessero  idee  innate  essa  dovrebbe 
collocarsi  fra  queste.  Né  havvi  di  bisogno  di  buon 
lume  d'ingegno,  né  di  nozioni  scientifiche  per  di- 
stinguere l'uomo  vivo  dall'uomo  morto.  La  vita,  e 
la  morte  sìa  apparente  o  reale,  come  punti  estremi 
dell'antagonismo  universale ,  risulta  impossibile  di 
confondere  l'una  coll'altra.  Gli  elementi  concretati  nei 
limiti  del  corpo  individuale,  e  che  tendono  a  span- 
dersi nel  gran  tutto  cioè  il  movimento  il  quale  in- 


276 

grandisce  e  dilata  la  sfera  individuale,  si  riflette  e  ri- 
piega nel  punto  ove  il  medesimo  movimento  percor- 
rendo in  opposta  direzione  riconduce  i  particolari 
elementi  ai  generali.  L'agonia  è  il  periodo  che  con- 
giunge la  vita  alla  morte,  e  come  tale  è  V  antago- 
nismo della  convalescenza,  che  s'interpone  tra  la  ma- 
lattia e  la  salute.  In  questi  due  periodi  antagonistici, 
cioè  nella  convalescenza  e  nell'  agonia,  pare  che  il 
movimento,  che  tende  o  ad  arrestare  accidentalmente 
la  vita,  o  a  ricondurla  allo  stato  di  salute,  giunto  al 
massimo  di  sua  estenzione  si  arresti  ed  oscilli  in  pic- 
cole vibrazioni,  e  che  in  seguito  entri  nella  nuova 
direzione  e  percorra  liberamente. 

187.  La  linee,  che  stabilisce  i  confini  dell'  im- 
pero della  vita ,  e  che  determina  i  dominii  della 
morte  apparente  o  leale  risulta  marcata  e  profon- 
da; ed  i  punti  estremi  dell'antagonismo  del  movi- 
mento ritmico  universale  risultano  separati  e  di- 
stinti. Ma  i  segni  caratteristici  e  differenziali  ,  che 
distinguono  la  vita  latense  dalla  morte  reale  sono 
i  fili  intralciati  ed  inestricabili  del  nodo  gordiano  , 
che  non  poterono  sciogliere,  e  che  forse  non  scio- 
glieranno neppure  gli  osservatori,  che  i  nostri  tempi 
chiameranno  antichi.  Problema  egli  è  questo  ,  che 
per  quante  volte  sia  stato  proposto  a  discutersi  in 
celebri  accademie  ,  e  per  quanto  di  esso  siansene 
occupati  uomini  profondi  e  consumati  nella  scienza  si 
rimane  tuttora  insolubile.  La  sentenza  spesso  pro- 
nunciata dagli  antichi  cioè;  —  che  segno  veramente 
infallibile  di  morie  reale  è  la  sola  palrefazione  in^ 
cipienle  delle  parli  nobili  del  corpo  —  ;  di  mano  in 
mano  ,    che  ci  inoltriamo  nella    lettura  dei  classici 


277 
moderni  si  trova  successivamente  ripetuto ,  senza 
che  abbia  punto  sofferto.  Ma  il  fenomeno  dell'inci- 
piente putrefazione  è  un  carattere  differenziale,  che 
separatamente  considerato  non  vale  a  distinguere 
apparentemente  dall'uomo  realmente  morto.  Cosic- 
ché senza  tema  di  errare  possiamo  in  genere  sta- 
bilire, che  il  segno  caratteristico  che  distingue  la 
vita  occulta  dalla  morte  è  l'esistenza  visibile  di  con- 
dizioni accidentali,  le  quali  rendono  impossibile  la 
vita;  ossiano  i  permutamenti  determinati  dalla  pu- 
trida decomposizione,  o  le  distruzioni  dell'  integrità 
organica  necessaria  all'esercizio  delle  funzioni  vitali 
le  più  importanti;  e  che  gli  altri  caratteri  riportati 
dai  trattatisti  di  medicina  politico-legale  risultano 
tutti  equalmente  fallaci. 

188.  Né  distinguono  la  vita  latente  dalla  morte 
reale  l'interruzione  dei  movimenti  diastolici  e  sisto- 
lici del  cuore  e  delle  arterie,  e  la  sospensione  dei 
movimenti  meccanici  del  respiro;  né  l'insensibilità, 
r  immobilità  ,  il  freddo,  e  la  rigidezza  del  corpo  ; 
né  il  rilassamento  degli  sfinteri  ed  il  pallore  della 
cornea.  I  deliqui  isterici  sospendono  l'azione  del  cuore 
e  delle  arterie;  quantunque  l'individuo  non  sia  mor- 
to, e  risani  in  capo  a  poche  ore.  Negli  animali  le- 
targici, non  si  scorge  in  essi  alcun  sensibile  movi- 
mento degli  umori  se  non  quando  il  calore  move 
il  cuore  ad  una  contrazione  alquanto  più  gagliarda. 
Alcuni  hanno  così  piccole  le  arterie  esterne,  che  al 
più  lieve  indebolimento  cessa  in  essi  qualsiasi  ma- 
nifesta e  sensibile  pulsazione.  Berryat  (1)  riferisce  il 

ll)<i    Ilo 

(1)  Istoria  della  regia  Accademia  di  Parigi  anno   1748. 


278 
caso  singolare  di  una  donna,  in  cui  non  si  sentiva 
alcuna  esterna  pulsazione  arteriosa.  La  respirazione 
diviene  spesso  insensibile  o  interamente  si  sospende 
negli  svenimenti  isterici.  L'annei>ato  e  1'  impiccato, 
che  ritornano  in  vita  ci  mostrano  chiaramente,  che 
la  respirazione  può  sospendersi,  senza  che  l'indivi- 
duo sia  realmente  morto.  La  perdita  del  senso  e 
del  moto  sono  differenziali  caratteri  fallaci;  ed  Hal- 
ler  non  annovera  tra  i  segni  infallibili  di  morte  Tin- 
terruzione  degli  stessi  movimenti  del  cuore  (1).  Mar- 
quet  vide  tornare  in  vita  un  uomo,  che  fu  insensi- 
bile a  tutti  gli  stimoli  immaginabili  (2).  Bruhier  parla 
di  una  donna,  che  nel  terzo  giorno  essendo  stata 
insensibile  a  venticinque  tagli,  e  che  tìnalmeate  al 
ventesimo  sesto  dette  segno  di  vita.  Sauvages  fa 
mensione  di  altra  doima  presa  da  tetano  la  quale 
rimase  insensibile  a  tutti  gli  esperimenti  soliti  a  far- 
si; e  che  dopo  poco  tempo  rinvennesi  peifettamente, 
assicurando  di  non  avere  nulla  nò  inteso  ,  nò  sof- 
ferto (3).  Alcune  donne  isteriche  che  durante  il  pa- 
rossismo presentarono  un  freddo  veramente  marmo- 
reo, giunsero  a  ricuperarsi  perfettamente  ;  e  certe 
altre  conservarono  lungamente  il  calore,  quantunque 
erano  realmente  morte:  come  il  caso  singolare  del 
cappuccino  di  Montpellier,  riferito  da  Portai  (4);  e 
l'uomo  ucciso  dal  fulmine  ,   che  si  trova  registrato 


(1)  Istoria  dell'Accademia  delle  scienze  di  Parigi,  anno  1722. 

(2)  Du  pouls. 

(3)  Istoria  dellaccadeniia  delle  sciense   di  Parigi,  anno   1742. 

(4)  Rapport  sur    les    eflets  des    sapeurs  mèphitiques    dans    le 
corps  de  riiomme,  3.  èdit:  p.   11. 


279 
nelle  transiizionl  filosoilche  (J).  Alcuni  (.'he  annega- 
ronsì  durante  il  freddo  invernale  ,  ed  altri  che  si 
trovarono  assiderati  ritornarono  in  vita  quantunque 
fossero  rigidi  e  inflessibili.  Il  rilassamento  dei  mu- 
scoli sfintcrici  si  osserva  negli  individui  colti  da  de- 
liquio ;  negli  spasimi ,  e  nelle  convulsioni  interne 
spesso  avvengono  evacuazioni  di  sperma,  e  gli  sfin- 
teri deir  ano  e  della  vescica  perdono  ogni  attività 
contrattiva  e  si  rilassano.  La  fallacia  del  segno  ca- 
ratteristico e  differenziale  di  Eschenbach  (2)  viene 
comprovata  dalle  osservazioni  di  Haller  (3);  e  quello 
prediletto  dall'  illustre  De  Haen  (4)  e  da  Winslow 
da  quelle  di  Portai  (5).  Infine  la  putrefazione  può 
compiersi  durante  la  vita;  e  la  cangrena  ci  sommi- 
nistra un  esempio  di  parziale  putiefazione.  Io  non 
credo  che  la  putrefazione  incipiente  si  possa  in  modo 
alcuno  riguardare  siccome  segno  incontrastahile  di 
morte;  imperocché  noi  la  osserviamo  alcime  volte  in 
individui  ancora    vivi    che  sono  presso  agli  estremi , 


(1)  Voi.  63.  part.  1.  p.  177. 

(2)  Questo  JoUo  scrittore  dice.  Non  vi  ha  vita  senza  circo- 
lazione, e  perciò  finché  quella  continua,  gli  umori  devono  scorrere 
necessariamente  nelle  arterie  e  nelle  vene.  Olire  a  ciò,  le  sezioni  c'in- 
segnano che  le  arterie,  e  massimamente  quelle  di  maggior  volume  soglio- 
no essere  vote  nei  cadaveri,  raprimenio  di  una  arteria  alquanto  consi- 
derevole, qualora  si  faccia  avanti  rincominciainenlo  della  putrefa- 
zione, ci  apprenderebbe  che  l'uomo  é  morto  se  non  venisse  flusso 
di  sangue,  o  cb'egli  vive  se  quello  segue  ;  che  poco  importa  la 
minore  celerilà  di  quello  -  Observata  anatomica  chirurgica. 

(3)  Elem.  physiolog. 

(4)  De  Haen  e  Winslow  ritengono  l'opacamento  della  cornea 
essere  carattere  infallìbile  della  morte. 

(5)  Rapport  sur  les  effets  des  vapeurs  mèphiliques  p.  9. 


280 
siccliè  essi  medesimi  sentono  lalvoUa   Vodore  die  al- 
trimenti manderebbero  resi  cadaveii  (1) 

187.  Haller  stabilisce  qual  segno  di  morte  l'e- 
saurimento deirirritabilità  del  cuore;  senza  poterne 
però  assegnare  la  forma  esterna;  cosicché  la  stre- 
mata irritabilità  è  segno  insufficiente  per  indicare  il 
reale  esaurimento  della  vita.  Come  ancora  il  feno- 
meno dell'incipiente  putrefazione  tanto  vagheggiato 
dalla  prisca  scuola  risulta  insufficiente  e  manchevole. 
Il  gran  consigliere  G.  P.  Franck  ritiene  che  i  carat- 
teri assegnati  all'esaurimento  della  vita,  considerati 
separatamente,  risultano  tutti  egualmente  fallaci;  e 
che  dal  solo  complesso  di  essi  può  rilevarsi  essere 
l'uomo  effettivamente  morto.  Noi  coerenti  a  quanto 
abbiamo  di  sopra  esposto  riteniamo  che  le  alte- 
razioni instrumentali  incompatibili  al  mantenimento 
della  vita,  o  da  putrida  decomposizione  o  da  mec- 
canica potenza  determinate,  sono  segni  irrefragabili 
di  morte  reale.  H  numero  dei  supposti  cadaveri  ci 
conferma  l' insufficienza  e  la  fallacia  dei  segni  ca- 
ratteristici del  reale  esaurimento  della  vita.  Né  de- 
ve supporsi,  che  gli  osservatori  dei  supposti  cada- 
veri esaminassero  la  vita  latente  da  un  sol  lato  ; 
mentre  1'  osservazione  naturalmente  scorre  nei  di- 
versi lati  del  corpo.  L'errore  nacque  dalla  cieca  fi- 
ducia, che  essi  ebbero  a  segni  incerti  e  fallaci.  Mor- 
te non,  probata  probavi  non  potest  resurrectio  (2). 
E  non  si  fa  menzione  di   un  sol  feto  morto  e  non 


(1)  Haller,  Elem.  physiolog. 

(2)  Paolo  Zaccliia- 


281 

vitale,    né  di  uomo,   a  cui  siano  state  fatte  mortali 
ferite  che    abbino  recuperata  la  vita. 

190.  Il  sesso  femmineo  e  l'infanzia  vanno  prin- 
cipalmente soggetti  alla  morte  apparente;  e  le  ma- 
lattie che  giusta  le  osservazioni  di  G.  P.  Franck  (1), 
a  preferenza  delle  altre  riducono  1'  ammalato  a  tal 
segno  che  egli  sembra  morto,  sono  particolarmente 
i  mali  nervosi,  quelli  del  capo,  l'apoplessia  ,  il  te- 
tano, il  letargo;  ed  altri  che  sono  accompagnati  da 
soffocazione,  da  enioi'ragio,  da  spossamenti  ec.  ec. 

CVPO  IX. 

Tndiizione  differenziale  della  modalità  della  morte. 

191.  Il  nuovo  organismo  ingeneratosi  che  egli 
siasi ,  prima  percorre  la  vita  intra-uterina  ,  e  poi 
la  estra-uterina.  Durante  la  prima  l'antagonismo  si 
compie  tra  l'essere  procreato  e  l'organismo  femmi- 
neo; e  dura  fino  alla  nascita.  E  realizzandosi  l'altra, 
gli  elementi  dell'  azione  e  della  reazione  consistono 
nel  neonato  e  nell'attività  universale,  e  si  estende 
per  tutto  quel  tempo,  che  lo  comporta  il  carattere 
archetipo  della  specie.  La  prima  termina  natural- 
mente nel  parto  maturo;  e  straordinariamente  nel- 
l'aborto; in  cui  il  feto  non  vitale  viene  espulso  al- 
l'esterno da  condizioni  accidentali ,  che  perturbano 
le  potenze  che  naturalmente  compiono  il  parto.  La 
nascita  è  adunque  il  termine  della  vita  intra-uterina, 
che  relativamente  ad  essa  è  la  morte  naturale,    se 

{!)  Sistema  completo  di  polizia  medica,  tom:  0. 


282 
condizioni  individuali  non  la  determinano  prima  cht 
lo  comporti  il  carattere  archetipo   della    specie  che 
si  è  realizzato  nel  nuovo  prodotto,    nell'  atto    della 
primordiale  generazione. 

192.  La  morte  intra-uterina  risulta  naturale  se 
le  condizioni  primordiali  o  la  modalità  determinata 
dagli  esseri  procreatori,  nell'atto  deiraccoppiamento 
fecondo,  si  svolge  compiutamente  nella  vita  intra-ute- 
rina ,  e  giunge  in  essa  ad  esaurire  interamente  il 
proprio  corso.  Nò  la  morte  embrionale  è  determinata 
da  cause  accidentali,  e  consiste  nell'essenza  indivi- 
duale per  cui  essa  naturalmente  si  compie:  come 
gli  adulti,  che  hanno  naturalmente  una  diversa  esten- 
sione di  vita.  Il  carattere  essenziale  della  morte  na- 
turale dell'embrione  consiste  nel  compiersi  in  mezzo 
a  condizioni  maggiormente  favorevoli:  senza  che 
r  embrione  presenti  stato  morboso  o  materiale  le- 
sione. Quello  dell'accidentale  nell'evidente  perturba- 
mento delle  condizioni  che  lo  compiono  naturalmen- 
te, e  nella  presenza  di  sensibili  lesioni  organiche. 

193.  L'  asfissia  dei  neonati  o  stato  di  morte  ap- 
parente, che  si  compie  durante  il  travaglio  del  parto, 
è  sempre  accidentale.  11  carattere  di  essa  consiste 
nel  laborioso  travaglio,  e  nelle  manifeste  compres- 
sioni, che  ha  comportate  l'embrione.  La  vita  in- 
tra-uterina è  adunque  sottoposta  tanto  alla  morte 
naturale,  effetto  immediato  della  genesi  primordiale, 
quanto  all'accidentale,  che  viene  determinata  da  con- 
dizioni preternaturali  dell'organismo  femmineo,  che 
non  comportano  l'esaurimento  del  corso  della  vita 
embrionale. 


283 
194.  11  citralterc  archetipo  della  specie  deter- 
mina l'estensione  della  vita  ,  come  V  idea  generale, 
che  nel  mentre  che  abhraccia  tutti  i  singoli  indi- 
vidui che  le  appartengono,  non  ha  particolare  sog- 
getto che  le  corrisponde  ;  e  questo  è  il  precipuo 
carattere  dell'idea  universale.  Siccome  la  durata  della 
vita  è  determinata  dal  carattere  archetipo  della  spe- 
cie realizzatosi  nell'individualità;  così  la  morte  na- 
turale è  quella,  che  non  è  determinata  da  potenze 
chimico-organiche  e  dinamiche  in  modo  preterna- 
turale combinatesi,  che  fa  compiono  prima  che  lo 
comporti  l'essenza  ideale  realizzatasi  nell'esistenza 
individuale.  Le  condizioni  primordiali,  verbigrazia  le 
malattie  ereditarie,  ed  altre  predisposizioni  ingene- 
ratesi nell'atto  della  procreazione,  che  naturalmente 
si  svolgono  sotto  l'impeto  dell'attività  universale, 
determinano  la  morte  naturale.  Ne  importa  ad  essa 
che  l'organismo  sia  stato  organizzato  in  guisa,  che 
la  rispettiva  estinzione  sopravvenga  in  seguito  di  un 
consumo  uniforme  ed  eguabile.  Mentre  la  primor- 
diale predisposizione,  che  sotto  l'equabile  azione  del- 
l'attività universale  realizza  1'  idea  della  vita,  non 
può  dirsi  che  sia  morte  accidentale.  Là  condizione 
che  in  questo  caso  accorcia  la  durata  della  vita  è 
la  potenza  procreatrici:  ecco  come  la  divers  ita  della 
razza  influisce  sulla  maggiore  e  sulla  minore  esten- 
zione  della  medesima  Dunque  una  volta  che  Vindivi- 
duate  ha,  per  la  sua  individualità,  realizzato  compiu- 
tumente  e  da  tutti  i  lati  la  idea  modificala  della  pro- 
pria specie,  esso  raggiunse  il  suo  scopo  e  non  gli  ri- 
mane pili  nulla  da  fare,  la  sola  ed  unica  causa  di 
sua  vita.  Videa  manifestandosi  mediante  uno  sviluppo 


284 
continuo  ,  (jli  sfugge,  e  la  vita  individuale  deve  ri- 
cadere nella  vita  universale  (1).  11  carattere  della  morte 
naturale  consiste  nell'essere  determinata  dall'equa- 
bile azione  della  potenza  universale,  che  interamente 
svolge  la  primordiale  procreazione  individuale. 

195.  La  morte  accidentale  può  avere  la  sua  causa 
immediata  all'esterno,  e  dipendere  dalla  mancanza 
di  correlazione  tra  l' individuale  e  l'attività  univer- 
sale. Sia  che  alcune  influenze  positive  esercitano  in 
quella  un'  azione  meccanica  -  ferite,  chimica  -  ab- 
hrucialnre,  o  dinamica-elettricità  ec;  o  che  le  con- 
dizioni esterne  della  vita  individuale  vengono  a  man- 
care, come  nell'affogazione,  nella  congelazione,  nel- 
l'astinenza forzata  ee.  E  può  dipendere  ancora  da 
uno  stato  morboso  interno,  il  quale  sia  stato  pro- 
vocato 0  da  causa  esterna,  come  la  quantità,  o  re- 
lazione delle  condizioni  della  vita,  o  una  influenza 
positiva  qualunque;  ovvero  per  causa  interna,  come 
r  abuso  o  il  troppo  poco  uso  delle  forze.  Cosicché 
il  carattere  precipuo  consiste  nell'  essere  impe- 
dito da  condizioni  accidentali  all'  equabile  attività 
universale  di  svolgere  completamente  la  primordiale 
modalità  individuale,  per  cui  sono  sospesi  gli  atti 
vitali,  e  la  vita  è  troncata  prima  che  lo  comporti 
l'ideale  archetipa  della  specie,  che  si  è  concretata 
neir  individuo  nella  primordiale  formazione  indivi- 
duale. 


(1)  Burdach,  Trattalo  di  fisiologia  voi;  5.  part.  3.  cap.  1.  pag.279. 


285 


Usi  terapeutici  della  cocciniglia  Sunto  del 
dottor  Domenico  Mazzanli. 


iTLvendo  con  articoli  già  pubblicati  esposto  il  po- 
tere antifebbrile  della  salicina  (1) ,  del  valerianato 
di  chinina  (2),  l' azione  tenifuga  dei  fiori  di  housso 
(3),  la  virtiÀ  astringente  delle  foglie  del  malico  (4) 
-ec.  ec.  ',  mi  sembra  conveniente  fare  eziandio  cono- 
scere ai  cultori  della  medicina  e  delle  scienze  natu- 
rali le  proprietà  terapeutiche  dai  recenti  attribuite  alla 
cocciniglia  [coccus  cacti).  Noto  essendo  ad  ognuno 
tanto  il  regno  organico,  che  l'inorganico  sommini- 
strare alla  terapeutica  copiosi  prodotti  dotati  di  vir- 
tù positive  per  debellare  i  mali  che  attaccano  gli  es- 
seri tutti  animati.  Potrà  quindi  annoverarsi  la  coc- 
ciniglia tra  le  altve  mediche  sostanze  tratte  dal  regno 
animale  (benché  poche  di  numero),  rassicurando  così 
l'avanzamento  delle  scienze  farmacologiche.  Pria  però 
di  esporne  gli  usi  terapeutici,  e  riferirne  quanto  di 
sicuro  si  scorge,  stimo  opportuno  indicarne  i  suoi 
caratteri  zoologici. 

La  cocciniglia  è  un  insetto  del  genere  eoc- 
cus  (  dal  greco  voc.  xcxxoj,  grano  )  che  forma 
parte  degli  Emitteri  Hemiplera ,  Ulonata  ,  e  Byngo- 
ta  di  Fabricius.  Malacarne  Io  riunì  nella  categoria  2.  " 
degli  animali  invertebrati;  clas.  2."  degli  aìmidosi;sez.  I. 

(1)  noma   1844. 

(2)  Boma    1843. 

(3)  Firenze    18S2:   homa    1852. 

(4)  ilnma  ISo'ò. 


286 
insetti  ord.  4.°  I  moderni  naturalisti  Milne  Edwards, 
Omboni,  e  De-Filippi  lo  annoverano  nella  divisione 
2."  degli  anellati,  o  articolati  (orticulata),  avendo  po- 
sto in  obblio  r  antica  divisione  dal  regno  animale 
in  animali  vertebrati  e  invertebrati,  e  adottata  in- 
vece quella  del  baron  Cuvier,  nella  quale  tutti  gli 
animali  vengono  riuniti  e  divisi  in  quattro  grandi 
gruppi,  0  principali  tipi  di  organizzazione.  Non  è  qui 
a  tacersi,  il  eh.  prof.  De-Filippi  per  i  progressi  della 
scienza  zoologica  averne  aggiunto  a  cotesti  quattro 
gruppi  un  quinto  (a)  che  amò  nominare  protozoi  , 
animali  di  foì'me  semplicissime,  piccolissimi,  nello  stato 
di  vita  minutissimi,  perjino  microscopici. 

I  naturalisti  chiamano  cocciis  cocti  la  cocciniglia 
che  vive  a  danno  della  pianta,  che  vegeta  bene  nelle 
vicinanze  di  Orbetello  detta  coccus  opuntia  di  Linneo 
a  fiori  rossi;  coccus  vitis  quella  della  vite  vitis  vini- 
fera; coccus  polonicus,  la  cocciniglia,  che  vive  sulla 
radice  del  schlerantlms  perenins,  del  centonodi;  eoe- 
cus  hesperidum  la  cocciniglia,  che  rinviensi  nel  rove- 
scio delle  foglie  degli  agrumi  ;  coccus  adonidum  , 
coccus  de  serres,  quella  che  infesta  le  stufe,  ove  sono 
le  piante  ee.  ec.  come  bomhix  mori  Vinsetto,  che  si 
nutrisce  delle  foglie  del  '(jelso. 

Cotesti  piccoli  insetti  presentano  delle  rimar- 
chevoli differenze  nei  sessi;  i  maschi  p:  e.  sono  pic- 
coli, vispi,  privi  di  rostio:  hanno  due  ali  assai  grandi 


(a)  La  recente  distribuzione  degli  animali  fatta  dal  eh.  prof. 
De  Filippi  comprende  o.  grandi  divisioni-  nella  1.  tratta  degli  ani- 
mali vertel)rati:  nella  2.  degli  annulosi:  nella  3.  dei  molluschi,  nel- 
la 4.  dei  raggiati:   nella  6    dei  protozoc 


287 
e  trasparenti,  che  s'incrociano  suU'addome:  nella  par- 
te posteriore  di  questo  sono  muniti  di  due  setole  al- 
lungate; le  femmine,  più  grosse  il  doppio  de'maschi, 
presentano  quasi  per  massa  un  pisello  piccolino:  il 
loro  corpo  è  piatto  di  sotto,  convesso  di  sopra,  ove 
veggonsi  i  segmenti  anulari  (donde  l'etimologia  di 
animali  aniilosi ,  articolali  ec):  sono  aptere,  prive 
cioè  di  ali:  hanno  gli  occhi  piccoli  poco  distinti:  le 
antenne  di  9  articoli:  il  rostro  corto  di  tre  arti- 
coli che  nascono  dallo  sterno,  e  s'inseriscono  nelle 
.zampe  anteriori  e  intermediarie,  per  mezzo  del  quale 
penetrano  nel  parenchima  delle  piante,  ove  fissano 
il  loro  domicilio  e  si  nutriscono:  anzi  durante  il 
corso  della  gravidanza  restano  attaccate  sulle  diverse 
parti  del  vegetabile,  sulle  radici  ,  o  sulla  corteccia 
sotto  forma  di  galle,  di  escrescenze,  di  coccole,  di 
vegetabili  parassiti  ec.  ec.  Variano  quindi  nel  colore: 
il  maschio  presenta  un  colore  rosso-fosco;  la  fennni- 
na  è  atro-purpurea,  o  bruno-scura,  coperta  di  una 
polvere  bianca  e  grigiastra;  vario  infine  è  il  periodo 
di  loro  vita:  il  maschio  vive  un  mese,  la  femmina 
ne  vive  due,  e  muore  dopo  aver  partorito  la  prole 
viva,  0  le  uova,  che  sono  rosse,  e  al  numero  di  cir- 
ca 300,  ricoprendide  per  così  dire  della  sua  spoglia. 
La  sua  vita  ,  scrive  il  lodato  prof.  De-Filippi  nel 
suo  recente  trattato  sul  regno  animale  {Milano  1852), 
comprese  le  metamorfosi  dura  non  più  di  sei  set- 
timane: ciò  che  permette  varie  generazioni-  E'  in- 
fine quella  che  fornisce  la  materia  colorante.  Queste 
cocciniglie  poi  moltiplicate  sopra  gli  alberi  raccol- 
gonsi  in  grandi  lenzuoli  ,  e  quindi  si  fanno  morire 
immergendole  per  un   momento  nell'acqua   bollente 


288 
0  sopra  lamine  calde  di  ferro.  Di  queste  si  fanno 
in  ogni  anno  varie  raccolte,  benché  assicuri  Thierry 
de  Menoville,che  possano  effettuarsi  varie  generazioni. 
In  Toscana  si  potrebbero  avere  due  raccolte,  l'una 
nella  fine  di  giugno,  l'altra  in  settembre.  Nell'Ame- 
rica allevasi  con  la  medesima  cura,  che  noi  usiamo 
nell'allevare  i  bachi  da  seta  ,  o  filugelli  ,  e  se  ne 
fanno  annualmente  sino  a  tre  raccolte  diverse,  con- 
siderate come  materiale  di  tintura  apprezzatissimo  , 
e  sommamente  lucrativo.  Gl'indiani  prendono  questi 
insetti,  e  li  trasportano  sopra  una  specie  di  fico,  il 
cui  frutto  è  ripieno  di  un  sugo  rosso,  come  sangue. 
Tutti  questi  insetti,  utili  alla  industria  e  al  com- 
mercio, perchè  si  adoperano  per  preparare  dei  co- 
lori ad  uso  della  pittura  (1),  e  per  tingere  la  lana,  il 
cotone,  e  la  seta  (2),  nuocono  alle  piante,  su  cui  si 
attaccano,  e  si  propagano,  come  gli  afidi.  La  mag- 
gior parte  di  questi  insetti  si  attaccano  agli  alberi 
verdi,  come  i  lecci,  gli  olivi,  gli  aranci,  gli  olean- 
dri ec.  ec.  e  alle  altre  piante  che  non  perdono  le 
foglie  durante  l'inverno,  e  costituiscono  i  veri  fla- 
gelli dei  giardinieri. 

In  commercio  si  hanno  tre  varietà  di  coccini- 
glia,  la  grigia  cioè,  la    ncra^  e  la  silvestre. 

La  grigia,  che  è  la  piìi  stimata,  chiamasi  anco 
grana  fina,  diasprina,  cocciniglia  del  Messico,  mesteca 

(i)  Il  bel  colore  del  carminio  ,  che  si  eslrae  dalla  cocciniglia 
per  la  pittura,  é  un  miscuglio  di  carmina  con  una  materia  animale, 
e  con  un  acido. 

(2)  Jdoprasi  a  tale  uopo  la  sua  decozione  :  questa  contie- 
ne, oltre  la  materia  colorante,  una  sostanza  animale  che  per  Rag- 
giunta degli  acidi  si  precipita,  traendo  seco  la  materia  colorante,  la 
quale  così  combinata  acquista  delle  tinte  molto  più  belle,  che  non 
posiiede  quando  è  sola. 


289 
(proveniente  dalla  provincia  di  Honduras)  è  grossa, 
venata  di  porpora,  leggermente  farinosa,  coperta  dì 
un  intonaco,  o  polvere  biancastra,  che  il  dottissimo 
Orosi  amò  nominare  acido  margarico;  viene  in  com- 
mercio in  forma  di  piccoli  grani,  di  un  color  bruno 
carico,  rossastri.  Irregolari,  piani  da  un  Iato,  con- 
vessi dall'altro.  Secondo  Fèe  ne  occorrono  da  42  a 
45000  per  farne  una  libbra  (Reamur  diceva  occor- 
rerne 65000)  :  ciò  che  farebbe  credere ,  che  pre- 
sentemente la  cocciniglia  fosse  pili  bella  che  a  quei 
tempi.  L'  odore  è  un  poco  disgustoso  ,  il  sapore  è 
amaro,  leggermente  acido. 

La  nera  ,  detta  anco  grana  grigia,  è  la  più  pic- 
cola nella  selvaggia,  trovasi  coperta  di  una  pleura 
cotonosa,  che  ne  accresce  il  peso.  Nell'interno  delh 
sue  rughe  manifestasi  qualche  vestigio  di  color  bian- 
co: posta  nell'acqua  si  gonfia:  veggonsi  allora  assai 
bene  gli  undici  anelli  che  la  compongono.  Infusa 
nell'acqua  bollente  somministra  poca  materia  colo- 
rante, e  rimane  glutinosa. 

La  silvestre  o  selvaggia,  nominata  anco  morellona, 
e  la  meno  ricercata,  poiché  è  impura  ritenendo  avanzi 
dell'insetto:  ha  esternamente  un  color  violaceo  si-* 
miie  a  quello  del  lac-dyc,  con  spezzatura  pallida  ter- 
rosa, talvolta  biancastra,  e  somministra  pochissima 
materia  colorante.  Trovasi  nei  boschi  di  America  e 
nelle  Indie:  di  rado  viene  in  commercio.  Guibourt 
attribuisce  la  differente  riuscita  delle  cocciniglie  alla 
differente  coltivazione,  che  ebbero  le  piante  e  gl'insetti. 
1  La  cocciniglia  analizzata  piiì  volte  venne  mag^ 
giormente  studiata  da  Pelletier  e  Caventou  [Ann.  de 
chim.  et  phys.  Vili.  250,  e  Joiirn.  de  pharni.  IV4 
G.A.T.  CXXXIJL  19  'J'^ 


290 
194),  i  quali  vi  trovarono  una  materia  animale  par- 
ticolare sui  generis  [coccina):  un  principio  grasso 
composto  di  stearina  e  di  elaina  ,  un  acido  odoroso 
(butirico),  alcuni  sali  di  calce,  e  potassa:  un  princi- 
pio colorante  particolare, che  essi chianiaiono  carmina. 
Berzelius  opina, che  la  materia  animale  particolare  non 
sia  sola, ma  il  complesso  di  diverse  altre  simili  materie, 
e  fra  queste  l'estratto  di  carne,  e  di  due  altie  solubili 
nell'acqua  fredda,  delle  quali  una  precipitabile  dagli 
acidi  ha  una  grande  influenza  nella  preparazione  tecni- 
ca della  materia  colorante.  Oltre  le  sudette  ci  ammette 
Berzelius  una  materia  analoga  a  quella  che  costituisce 
le  ossa  dei  pesci  cartilaginosi  (Targioni-Tozzetti,  Far- 
macologia, Fiiienze  1 847). 

■  Secondo  John  cento  parti  di  cocciniglia  som- 
ministrano di  cocciniglina,    o  carmina.      .     50 

di  grasso  ceriforme 10  5 

di  muco  gelatinoso 10 

di  sostanza,  meiphranosa   .     .     .     .     14 

di  fosfati  e  muriati  alcalinii  terrosi.      14 
.    ;,"  di  perdita      .      .......     1      5 

,  Per  (jui,  secondo  gli  esperimenti  di  John,  risulta 
cento  parti  di.  cocciniglia  contenere  50  piarti  di  coc- 
ciniglina o  caijmina.  ,u\d.-oji\  k-b  oijdi 

La  carmina  poi  o  principio  colorante,  tanto  ado- 
perato nella  pintura  ,  è  una  materia  formante  una 
sorta  d'incrostazione  di  un  bel  rosso  di  porpora  vi- 
vacissimo, dotato  di,  un  aspetto  granuloso  ,  e  quasi 
cristallino.  Non  si  altera  all'aria^  il  calore  la  fonde 
a,,rrh-  50"  l'acqua,  e  l'alcoole  la  disciolgono  in  un  bel 
rosso,  che  tende  al  chermisino.  La  soluzione  acquosa 
prende  un  bel  rosso  vivo  in  contatto  di  piccola  quan- 
tità di  un  acido  debole  minerale,  ingiallisce  alquan- 


291 

lo  se  la  quantità  di  acido  è  maggiore  ,  e  gli  alcali 
convertono  la  tinta  in  violetto:  l'allumina  poi  vi  pre- 
cipita una  bella  lacca  rossa.  Il  cloro  ancora  s'altera 
})rofondamente  ,  e  la  ingiallisce.  Il  protocloruro  di 
stagno  forma  un  precipitato  violetto,  mentre  il  deuto- 
cloruro  non  fa  che  cangiare  il  colore  della  soluzione 
in  rosso-scarlatto.  La  carmina  si  ottiene  trattando 
parecchie  volte  la  cocciniglia  coll'etere  solforico,  il 
quale  ne  isola  una  materia  grassa  di  un  color  gial- 
lo-dorato. Dopo  si  fa  agire  sulla  coccuiiglia  l'alcool 
Ijollente  e  concentrato,  che  discioglie  il  principio  co- 
lorante. La  soluzione  alcoolica,  evaporata  a  dolce  ca- 
lore, lascia  un  estratto  rossastro  assai  carico,  che  si 
discioglie  a  freddo  in  una  piccola  quantità  di  al- 
coole,  onde  isolarne  la  materia  azotata,  che  in  esso 
si  trova.  Aggiungendo  alla  soluzione  alcoolica  il  suo 
volume  di  etere  solforico,  e  agitando  s'intorbida,  e 
lascia  depositare  in  pochi  dì  il  principio  colorante 
puro  sotto  forma  di  una  incrostazione  rosso-purpurea. 
Il  miglior  modo  di  amministrare  la  coccinifflia 
è  in  polvere,  unita  allo  zucchero,  alla  gomma  ara- 
bica, oppure  a  qualche  estratto.  La  dose  suole  es- 
sere per  gli  uomini  dai  grani  dodici  a  mezza  ottava 
Ideile  24  ore,  che  si  replica  ,  quando  il  bisogno  lo 
i\ichiegga.  Neil'  annuario  terapeutico  di  Bouchardat 
del  1851  leggesi  ,  che  il  dott.  Pavesi  la  sommini- 
stra alla  dose  di  nove  grani  unita  al  carbonato  di 
Pptassa,  allo  zucchero  e  all'acqua  (i).  Nel  Manuale 

Hi  P.  di  cocciniglia 50  centigr. 

carbonato  di  potassa  .     .     .     .     oO  centigr. 

zucchero  in  polvere     ....     30  grammi 

1  acqua 120  grammi 

\j>i  questa  mistura  ne  prescrive  un  cucchiaio  ogni  due  ore: 


292 

ecletico  dei  nuovi  l'imcdi  pubblicato  nel  1852  per 
cura  del  dottor  Ruspini  di  Bergamo  trovasi  la  for- 
niola  del  distinto  medico  tedesco  Wachtt,  che  è  di 
grani  18  di  cocciniglia  al  giorno  unita  al  bitartrato 
di  potassa,  allo  zucchero,  e  all'acqua  (1).  Si  unisce 
ancora  all'ammoniaca  liquida,  e  forma  V ammoniaca 
liquida  coccinigliala  di  Rupprecht,  la  quale  si  prepara 
prendendo  una  libbra  di  ammoniaca  liquida  delle 
officine,  che  si  fa  digerire  per  24  ore  in  una  bot- 
tiglia ben  chiusa  con  una  mezz'oncia  di  cocciniglia 
polverizzata,  quindi  si  fdtra  il  liquore  e  si  ammini- 
stra agli  animali  domestici^  variando  la  dose  secondo 
l'età  dalle  10  gocce  fino  alle  200  (2)  mescolate  in 
una  bottiglia  di  acqua  di  sorgente.  Se  poi  l'animale 
con  difficoltà  deglutisce  il  liquido,  allora  si  sommi- 
nistra in  forma  di  elettuario  con  farina  di  frumento 
e  acqua.  I  farmacisti  adoperano  la  cocciniglia  per 
colorire  i  diversi  liquori  alcoolici,  l'alchermes,  alcuni 
opiati,  le  polveri  dentifricie  ecc. 


(1)  P.  di  cocciniglia  polverizsata gir.  18 

Bitartrato  di  potassa gr.  18 

Zucchero once     1 

jàcqua  bollente once     6 

Sciolgasi  il  tutto  secondo  Carte.  Fa  prendere  il  lodato  fVacMl  al 
malato  un  cucchiaio  ia  caffè  pieno  di  questa  becanda  tre  volte  al 
giorno- 

(2)  Ji  vitelli  fino  ad  un  anno  dalle  3  e  10  gocce  fino  alle  20 
gocce. 

Alle  giovenche  da  un  anno  ai  tre  anni  dalle  20  e  30  gocce  fino 
alle  60  gocce. 

Alle  vacche,  e  buoi  da  ingrasso  e  tori  da  60  ,  e  80  gocce  fino 
alle  100  gocce. 

La  dose  ancora  dell'  acqua  di  sorgente  varia  secondo  la  dose 
delC ammoniaca  liquida  coccinigliata. 


293 

Esposti  i  caratteri  zoologici  della  cocciniglia,  l'a- 
nalisi di  Pelletier,  Caventou,  lohn,  il  modo  di  am- 
ministrazione, la  sua  preparazion  e  dose,  sarà  d'uopo 
osservare  gli  usi  terapeutici  sì  nella  medicina  uma- 
na, che  in  quella  dei  bruti. 

Intorno  le  proprietà  medicinali  della  cocciniglia 
molto  si  disputò,  stante  le  contraddittorie  asserzioni. 
Però  se  per  poco  si  prendano  ad  esame  le  opere 
di  tutti  i  medici  dei  tempi  passati,  si  troveranno  de- 
gli encomi  dati  alla  cocciniglia  sotto  vari  rapporti. 
'Vantossi  infatti  come  cordiale  da  Hernandez,  ales- 
sifarmaco  da  Dole.  Quale  preservativo  degli  aborti 
la  esibì  Lemery.  Utile  si  stimò  nelle  malattie  delle 
vie  urinarie  ,  e  specialmente  contro  i  calcoli  della 
vescica,  d'onde  l'infallibile  lilontritico.  Chaumenton 
ravvisò  nella  cocciniglia  la  virtù  diuretica  e  diafo- 
retica. E  stata  con  ispecialità  adoperata  per  fermare 
i  profluvi  di  basso  ventre.  La  farmacopea  di  Am- 
sterdam riporta  una  tintura  astringente  fatta  per  ma- 
cerazione con  una  parte  di  cocciniglia  ,  e  otto  di 
alcool  del  peso  0,90.  Amann,  lungi  dal  dubitare  della 
sua  attività,  giunse  per  fino  a  riguardarla  come  so- 
stanza sospetta,  e  dotata  di  venefiche  qualità. 

Abbenchè  il  suo  modo  di  operare  sui  tessuti  vi- 
venti sia  ignoto,  sembra  pur  probabile,  che  produca 
un  qualche  stimolo:  d'onde  la  virtù  stimolante.  Jour- 
dan  [Pharm.  I.  Ì28.)  e  altri  la  trovarono  capace 
di  calmare  la  tosse  ferina.  È  popolare  in  Inghilterra, 
scrisse  il  distinto  medico  lohson,  l'uso  della  cocci- 
niglia contro  la  tosse  convulsiva,  la  quale  virtù  venne 
recentemente  confermata  dal  dott.  Botto  di  Genova. 
Bouchardat  asserisce   averla    somministrata  con  fé- 


294 
lice  successo  a  quiiuliei  t'aneiulli  affetti  da  croup 
{sùffocaliu  stridulay  astìima  infantem  spasmodica),  e  di 
averla  preferita  agli  altri  decantati  specifici  contro 
tale  infermità.  Pavesi  infine  e  Wachtt  ottennero  fe- 
lici risultati  dalla  coccinìglia  contro  la  tosse  con- 
vulsiva. Questo  ultimo  osservò  analoghi  effetti  in 
due  epidemie  di  tosse  ferina,  e  in  vari  casi  di  tosse, 
che  accompagna  il  morbillo:  per  cui  non  dubitò  pro- 
clamarla di  virtiì  specifica  in  ambedue  queste  affe- 
zioni. Conobbe  gli  effetti  differire  secondo  l'età,  ad- 
dimostrandosi più  attiva  nei  fonciulli,  che  nei  vec- 
chi; la  malattia  arrestare  sempre  il  suo  corso  e  ab- 
breviarsi: gli  accessi  perdere  la  loro  intensità,  e  di- 
venire all'opposto  questi  più  frequenti  e  più  ango- 
sciosi tutte  le  volte,  che  i  malati  o  trascuravano  , 
o  non  facevano  uso  della  cocciniglia.  Consiglia  di 
non  preparare  per  volta,  che  la  dose,  la  quale  deve 
essere  presa  nello  spazio  delle  24,  o  48  ore  al  più. 
Operando  diversamente,  la  cocciniglia  si  altera  e  si 
decompone.  Alla  presenza  dello  zucchero  devesi  que- 
sta decomposizione.  Bastano  infatti  alcuni  giorni,  se 
si  apre  sovente  il  vaso,  che  contiene  la  soluzione, 
perchè  questa  ultima  acquisti  un  colore  bruno  e  un 
sapore  disaggradevole.  Dovrà  perciò  conservarsi  la 
cocciniglia  in  recipienti  ben  chiusi  :  altrimenti  le- 
vando spesso  il  turacciolo  si  avrà  sviluppo  di  gas, 
ed  esalazione  di  odore  disgustoso.  Servendosi  del- 
l'acqua fredda,  anziché  della  calda,  per  la  prepara- 
zione si  vedrà  una  divisione  meccanica,  non  già  una 
vera  soluzione  di  cocciniglia. 

Negli  animali  domestici  si  adopera  con  felice  suc- 
cesso contro  il  tifo    carbonchioso  ,    malattia    la  più 


295 

grave  o  più  micidiale  delle  aflezioni  caiboucbiose  , 
e  la  timpanite  ordinaria.  Infatti  prescrive  Rupprecht, 
distinto  medico  e  zooiatro  francese ,  1'  ammoniaca 
liquida  coccinigliata  contro  le  suddette  infermità,  e 
persiste  nell'uso  del  rimedio  fino  a  che  i  battiti  del 
cuore  siano  divenuti  impercettibili ,  che  un  calore 
moderato  si  riparte  sulla  superfìcie  del  corpo,  e  che 
ritorna  l'appetito.  Cessati  però  ancora  i  fenomeni 
morbosi,  consiglia  di  amministrare  tre  dosi  il  primo 
giorno:  due  il  secondo:  una  il  terzo,  per  conseguire 
r  intero  e  sicuro  ristabilimento.  I  sintomi  morbosi 
cedono  alla  5."  o  6."  amministrazione  del  rimedio,  e 
così  termina  completamente  la  malattia.  Nei  casi 
gravissimi,  specialmente  negli  animali  forti  e  pleto- 
rici, e  nelle  località  ove  la  malattia  diviene  enzoo- 
tica,  e  assume  la  forma  apopletica  con  deiezioni 
alvine  e  con  urine  sanguigno  :  somministra  una  o 
due  dosi  intere,  cioè  due  scrupoli  in  mezza  botti- 
glia di  acqua  fredda,  e  combatte  nello  stesso  tem- 
po la  diarrea  esistente  con  clisteri  di  acqua  fredda 
con  mezzo  scrupolo  fino  a  due  scrupoli  il  liquore 
ammoniacale  ogni  mezz'ora.  Sottopone  inoltre  gli 
animaU  gravemente  affetti  a  frizioni  di  ammoniaca 
pura  lungo  la  spina  e  i  fianchi ,  a  docciature  di 
acqua  fredda,  dopo  le  quali  fa  loro  praticare  delle 
frizioni  secche,  e  coprirli.  Prescrive  loro  un  nutri- 
mento di  pannelli  di  colza  sciolti  nelF  acqua  ,  di 
carote  tagliate,  e  di  buon  fieno  di  primo  taglio,  e 
di  acqua  piura  per  bevanda.  Non  prolungandosi  la 
malattia  al  di  là  del  quinto  giorno,  avvisa  essere 
inutile  di  assoggettara  il  bestiame  bovino  a  dieta 
assoluta.    Imperocché  durante  la  violenza  del  male, 


2% 

la  bestia  inferma  rifiuta  spontaneamente  gli  alimenti, 
che  vi  si  apprestino:  l'istinto  invece  lo  porta  a  ba- 
gnarsi la  bocca,  e  nello  stato  di  ansietà,  in  cui  si 
trova,  non  deve  negarsi  questa  soddisfazione.  Que- 
sto modo  di  alimentazione  cessar  deve  due  giorni 
dopo  la  guarigione ,  e  allora  si  torna  a  darle  la 
razione  normale. 

Serve  ancora  di  mezzo  preservativo  l'ammonia- 
ca liquida  coccinigliata  amministrata  secondo  le  nor- 
me sopra  descritte. 

Pria  di  dar  termine  al  presente  articolo  debbo 
far  conoscere,  che  l'apparenza  farinosa  nella  coc- 
ciniglia più  stimata  le  si  dà  per  frode  col  talco  di 
Venezia,  o  colla  cerussa, o  colla  saldatura  di  piombo: 
la  quale  adulterazione  si  ottiene  facendo  ammollire 
l'insetto,  ove  siavi  della  polvere  di  piombo,  la  quale 
vi  aderisce  per  la  matei-ia  viscosa,,  che  inviluppa  la 
cocciniglia.  Per  conoscere  questa  frode  suggerisce 
Magonity  di  Bordeaux  di  prendere  du)  volumi  di 
cocciniglia  pura,  e  due  di  quella  falsificata,  e  di 
farne  poscia  separatamente  il  peso:  a  volumi  eguali 
si  vedrà  la  cocciniglia  adulterata  avere  un  peso  mag- 
giore. Kobiquet  propone  di  servirsi  del  cloro  per  va- 
lutare la  quantità  della  carmina.  Authon  dell'idrato 
di  allumina,  che  produce  lo  stesso  effetto.  Latreiller 
suggerisce  l'allume,  servendosi  di  cilindri  graduati  per 
le  misurazioni ,  e  dei  pesi  eguali  per  i  confronti. 
Hartmann  infine  per  bene  imparare  a  sceglier- 
la propone  i  seguenti  avvertimenti:  deve  avere  la 
coccinigha  un  colore  bianco  grigio  quasi  argenteo: 
deve  essere  in  grossi  pezzi  di  uguale  volume,  secca 
senza  lasciare    polvere   maneggiandola:    ogni    pezzo 


297 
devo  avere  la  forma  doH'animale  secco,  e  V  appa- 
renza della  testa:  le  linee  prominenti  saranno  leg- 
germente argentee:  i  solchi  di  color  nero  ,  o  bru- 
no-rossiccio, i  quali  nelle  falsificate  contengono  le 
materie  straniere,  e  allora  non  iscorgesi  più  la  te- 
sta dell'insetto. 

Infine  è  da  notarsi,  che  Berthollet  nei  suoi  ele- 
menti dell'arte  tintoria  lasciò  scritti  gli  effetti  delle 
sue  esperienze  fatte  coi  diversi  reagenti  sulla  deco- 
zione della  cocciniglia  nell'acqua.  Il  colore  scarlatto, 
che  applicasi  sulla  lana,  formasi  colla  dissoluzione 
di  stagno,  col  cremor  di  tartaro,  e  colla  cocciniglia. 

Questo  è  in  genere  ciò  che  si  conosce  sugli  usi 
terapeutici  e  tecnici  della  cocciniglia.  E  chi  amasse 
maggiormente  erudirsi  su  questi  rami  di  scienze  po- 
trà volgere  l'attenzione  alle  opere  del  eh.  Dumas  , 
agli  Annali  d(dle  scienze  naturali,  ai  Dizionari  tecno- 
logici ec.  ec. 

Roma  28  febbraio  1853. 


298 


Elogio  di  monsignor  Ignazio  Danti,  vescovo  di  Alatri 
e  celebre  matematico,  recitato  all' accademia  ernica 
il  di  22  di  luglio  1 847  dal  canonico  Agostino  Ca- 
par il  li. 


F 


u  già  detto  altre  volte,  che  il  lodare  un  insigne 
geometra  non  appartiene  che  ad  un  geometi'a  di  egual 
grado,  e  solo  Newton  avrebhe  potuto  celebrar  de- 
gnamente l'illustre  Cartesio.  E  ciò  a  buon  diritto,  o 
signori:  che  il  lodatore  per  sostener  sì  grave  carico 
forza  è  che  tutt'abbracci  colla  sua  mente  la  vastità 
della  scienza,  in  cui  quegli  eminentemente  distinsesi, 
e  che  si  misuri  in  certo  modo  col  medesimo,  se  pur 
non  vuole  attenuargliene  i  pregi,  non  potendo  com- 
prenderne la  grandezza.  Bene  avventurati  però  fu- 
rono i  Galilei  e  i  Cassini,  matematici  ed  astronomi 
di  quel  valore  che  ognun  sa;  il  primo  de'quali  ebbe 
a  banditore  delle  sublimi  sue  laudi  quel  sommo  in- 
gegno di  Paolo  Frisi  ,  onore  della  chiarissima  con- 
gregazione barnabita  ,  e  1'  altro  Timmortal  Bernar- 
do di  Fontenelle.  Avventuratissimi  furono  pure  i  Noz- 
zolini  ,  che  meritarono  l'elogio  del  Canovai ,  gloria 
dell'inclito  ordine  delle  scuole  pie,  il  quale  per  ro- 
busta eloquenza  e  per  profondo  sapere  fu  Io  stupor 
dell'Italia.  Or  pensate  quale  io  mi  debba  sentire  nel 
presentarmi  a  voi  sprovvisto  d'ogni  scientifica  sup- 
pellettile ,  affine  di  tessere  l'elogio  d' Ignazio  Danti 
matematico  ,  cosmografo  ed  astronomo  insigne  del 
secolo  XVI:  di  quel  Danti,  io  diceva,  cui  piacque  al- 


299 
l'alta  provvidenza  doslinave  a  pastoro  e  guida  dei  no- 
sti'i  fortunati  maggiori.  Sono  slato  lunga  pezza  in 
forse  ,  vel  confesso  ingenuamente  ,  se  dovessi  o  no 
dar  di  piglio  alla  penna  per  soddisfare  alla  vostra 
espettazione.  La  parola  a  voi  data  mi  vi  spingeva, 
il  pensiero  di  essere  pressoché  straniero  ai  misteri 
di  Urania  me  ne  stornava,  e  piiì  scoravami  il  Veno- 
sino  ,  che  grida  : 

Egual  scegliete  a  vostre  forze  incarco 
Voi,  eh'  a  scriver  dat'opra,  e  in  lunga  prova 
Intendete  a  librar  qual  sia  soverchia, 
Quale  agli  omeri  sia  portabil  soma. 

Gargallo  -  Arte  poetica. 

Ma  il  dado  è  tratto,  altro  non  resta  che  osservar  la 
data  fede,  qualunque  sia  per  esserne  il  riuscimento. 
Se  non  mi  verrà  fatto  carpando  per  la  superba  co- 
sta di  toccare  il  sommo  di  quel  monte  altissimo,  che 
vince  la  vista:  sarò  almen  lieto  di  aver  guadagnate 
le  umili  pendici. 

So  bene  che  nella  laudazione  degli  esimi  perso- 
naggi sembra  oggimai  a  taluni  sazievole  cosa  e  im- 
portuna rimontare  alla  chiarezza  degli  avi  :  poiché 
fioca  é  quella  luce,  che  vien  dai  maggiori,  ove  per 
sé  stesso  l'uom  non  risplenda.  La  luna  che  rifulge 
di  lume  non  suo,  appena  vince  le  tenebre  della  notte. 
Sì  é  verissimo  quel  che  disse  un  antico  filosofo  : 
«  Nessuno  mai  visse  per  la  nostra  gloria,  né  può  dirsi 
nostro  ciò  che  fu  avanti  di  noi.  »  Qui  però,  o  egregi 
colleghi,  a  me  non  pur  sembra  opportuno,  ma  ne- 
cessario, accennar  l'origine  del  venerevole  prelato , 


300 

che  prendo  a  commendare  ,  per  meglio  conoscerne 
la  nobile  indole.  Se  imbelli  colombe  non  son  pro- 
dotte dall'aquile  generose,  che  dovrern  dire  di  lui 
che  discese  da  personaggi  conti  per  lettere  e  per 
sapienza  ?  Piero  Rainaldi,  o  Rinaldi,  come  vogliono 
alcuni,  matematico  illustre  fu  l'avo  d'Ignazio,  che  in 
retaggio  colle  sue  virtù  gli  trasmise  il  glorioso  co- 
gnome di  Dante  acquistatosi  per  essere  stato  imita- 
tor  felicissimo  ed  amator  passionato  del  divino  Ali- 
ghieri: se  non  che  piacque  al  nostro  vescovo  di  chia- 
marsi modestamente  Danti  piuttosto,  a  schivar  forse 
la  taccia  di  arrogante.  Prode  matematico  fu  ancora 
quel  Gio.  Battista  antenato  di  lui  ,  il  quale  ,  come 
ne  fa  fede  lo  storico  Pellini  ,  a  festeggiare  le  bene 
augurate  nozze  del  generale  Alviano  colla  nobilissima 
sgnora  Baglioni  accomandossi  ai  robusti  fianchi  le 
ale,  e  rinnovellò  i  prodigi  di  Dedalo  spiccando  il  volo 
ardimentoso  dal  comignolo  del  più  eccelso  palagio 
di  Perugia ,  e  traversando  1'  ampio  foro  gremito  di 
popolo  plaudente. 

Da  tale  famiglia,  per  ingegni  e  per  discipline  ce- 
lebratissima,  nacque  in  Perugia,  città  cospicua  per 
ogni  maniera  di  gentilezze,  di  scienze  e  di  arti,  il 
nostro  monsignore  l'anno  1537  di  Giulio  orafo,  ma- 
tematico, ed  architetto  prestante:  il  nome  imposto- 
gli ,  allorché  venne  col  salutare  lavacro  rigenerato 
alla  grazia  ,  fu  quello  di  Pellegrino  ;  e  bene  gli  si 
addiceva  tal  nome  ,  avendo  egli  sortito  un  ingegno 
veramente  peregrino  ,  di  cui  come  prima  snodò  la 
lingua  ei  die  segni  non  dubbi.  La  destrezza,  la  vi- 
vacità, la  straordinaria  vaghezza  di  apprendere,  il  fa- 
stidio de'puerili  trastulli,  che  pur  sogliono  tanto  in- 


301 

tertenere  quella  prima  età  ,  erano  il  presagio  della 
sua  futura  grandezza.  L'industre  Giulio  s'avvisò  di  non 
dover  ritardare  la  istruzione  del  ben  disposto  figliuo- 
lo ;  egli  stesso  vi  si  prestò  di  grado  colla  germana 
Teodora,  seguendo  l'esempio  di  Pier  Vincenzo  loro 
padre,  che  ritrattosi  in  certa  sua  villa  addisciplinò 
pazientemente  così  l'uno  come  l'altro  pargoletto  nel- 
l'astrolabio e  nell'almanacco,  e  nella  sfera  precipua- 
mente ,  traducendo  per  loro  quella  di  Sacrobosco. 
Era  questa  operetta  pregiata  a  que'tempi  per  forma, 
che  il  nipote  giunto  alla  maturità  degli  anni  diella 
a  luce,  corredata  di  sue  dotte  note,  e  impartì  gra- 
tissimo  le  meritate  laudi  a'suoi  primi  e  troppo  cari 
maestri;  il  quale  in  tal  guisa  si  esprime  nel  discorso 
preliminare  parlando  egli  di  Teodora  sua  zia:  «  Con 
progresso  di  tempo  fece  di  queste  scienze  tale  acqui- 
sto che  fu  celebre  sommamente  nella  patria  nostra. 
Né  saprei  tacere  come  io  di  piccola  età  imparassi 
da  essa  i  primi  principii  di  questa  scienza  ,  oltre  a 
quello  che  mi  fu  insegnato  da  Giulio  mio  padre  , 
veri  eredi  delle  virtù  di  Dante  loro  genitore.  «  Bello 
era  il  vedere  il  fanciullino  ora  levare  l'orecchio  do- 
cile agl'insegnamenti  di  Giulio,  ora  a  quelli  di  Teo- 
dora ,  e  quando  interrogare  l'uno  e  quando  l'altra 
intorno  alla  figura  della  terra,  o  al  moto  del  sole, 
0  all'elittica  che  percorre  od  alle  rivoluzioni  de'pia- 
neli,  che  roteando  in  cielo 

Guidi»  n  felice  e  dilettoso  ballo: 
Poliz.  Stati. 

e  quando   da  ultimo  proporre  difficoltà  ,  onde  sfol- 


302 
goravano  i  lampi  di  quel  vastissimo  ingegno,  di  cui 
natura  mirabilmente  il  fornì.  Quante  volte  la  dotta 
zia  lo  si  recava  con  trasporto  sulle  braccia,  e  tene- 
ramente stringendoselo  al  seno  copriva  quell'ange- 
lica fronte  di  soavissimi  baci  !  Quante  volte  pure  il 
genitore  versando  lagrime  di  dolcezza  sentiva  nascersi 
dentro  al  petto  un'aura  d'ineffiibile  consolazione  !  II 
picciol  Pellegrino  avea  sempre  levati  gli  occhi  al  cielo, 
nulla  curando  la  terra,  o  sia  che  dal  balzo  d'oriente 
sorgesse  il  sole  a  conoscerne  il  giornaliero  corso, 
0  sia  che  nel  sereno  della  notte  scintillassero  le  stelle 
a  spiarne  gli  svariatissimi  rivolgimenti.  Così  il  gen- 
tile elitropio  chiuso  in  custodito  giardino  sembra 
sdegnare  il  basso  suolo  sollevando  in  alto  la  fronte 
per  seguire  il  cammino  dell'astro  vivificante. 

Gittati  questi  fondamenti,  con  sua  gran  dispia- 
cenza Giulio  si  staccò  dal  fianco  il  carissimo  suo  fi- 
glio, perchè  non  restasse  ignudo  di  lettere  ,  la  cui 
leggiadria  ingentilisce  i  costumi,  e  raccomandollo  ai 
più  valenti  professori  della  patria  università.  È  facile 
immaginare  i  rapidi  progressi  del  garzoncello,  l'emu- 
lazione dei  condiscepoli,  e  la  meraviglia  degli  isti- 
tutori: che  Pellegrino  tutti  lasciavasi  indietro  qua! 
focoso  corsiero,  né  eravi  impedimento,  da  cui  egli' 
fosse  mai  ritardato. 

Non  era  però  il  secolo  il  luogo  di  sua  perma- 
nente stazione.  In  mezzo  a  tanti  pericoli,  che  d'or- 
dinario si  scontrano  nelle  università,  il  nostro  gio- 
vinetto si  conservò  illibato,  e  fatto  saggio  dall'altrui 
cadute  fermò  di  militare  sotto  il  glorioso  vessillo  di 
s.  Domenico.  Nella  stessa  patria,  e  non  in  Firenze, 
ei  vestì  l'abito  religioso,  checche  ne  dicano  in  con- 


i 


303 

trarlo  l'Ughelli  e  Gian  Michele  Pio.  11  Razzi  scrit- 
tor  contemporaneo  della  stessa  famiglia  Cusmana, 
ed  alunno  del  cenobio  di  s.  Marco  in  Firenze,  ciò 
afferma  con  molte  e  sode  ragioni  ,  che  a  noi  non 
monta  di  qui  addurre.  Postergato  il  mondo,  ed  as- 
sunto il  nome  d'Ignazio,  si  diede  a  correre  il  sen- 
tier  della  virtù  a  passi  di  gigante.  Primo  fra  tutti 
ad  osservar  la  santa  regola  iìno  allo  scrupolo,  si  te- 
nea  l'ultimo  de'  confratelli,  sentendo  bassamente  di 
se.  Tutte  le  ore  del  giorno  erano  partite  nella  ora- 
zione e  nello  studio.  Addottrinato  nell'arte  di  dispu- 
tare ,  e  rendutisi  familiari  gli  arcani  volumi  dello 
stagirita,  che  allora  regnava  nelle  scuole  come  mae- 
stro di  color  che  sanno,  passò  a  svolgere  le  profonde 
quistioni  dell'Angelico  dottore,  i  libri  santi,  la  sto- 
ria della  chiesa,  ed  in  breve  tempo  meritò  di  esseie 
conventato  in  divinità  nel  piià  bel  fiore  degli  anni. 
Si  applicò  quindi  alla  sacra  eloquenza  tutta  propria 
dell'istituto  abbracciato,  e  presto  conseguì  tanta  fe- 
licità e  tanta  grazia  nel  dire,  che  i  fedeli  correano 
in  folla  nella  chiesa  ad  ascoltarlo,  e  ne  uscivano  mi- 
gliori. 

Né  crediate  già,  che  fosse  in  lui  estinto  per  ciò 
l'amore  de'primi  studi:  che  ove  gliel  consentivano  le 
religiose  occupazioni  del  suo  stato,  là  correva,  dove 
la  inchnazione  e  la  natura  potentemente  il  rapivano. 
Vedeste  mai  il  monachino,  che  molto  apprezzasi  per 
la  melodia  del  canto,  quantunque  venga  addimesti- 
cato, 0  signori,  e  goda  starsene  presso  il  possessore 
cui  spesso  vezzeggia  ,  or  saltellandogli  sugli  omeri, 
ora  sulla  testa,  or  sulla  penna,  se  per  avventura  se- 
duto allo  scrittoio  verga  i  suoi  fogli;    pure  a  tanto 


304 

a  tanto,  vago  della  natia  libertà,  se  ne  dilunga,  e  pia- 
cesi  di  spaziare  per  l'alto  consolando  l'aure  de'suoi 
concenti.  Grande  è  la  forza  del  genio,  e  chi  noi  sa? 
Chiunque  mal  si  consiglia  col  genio,  invano  speri  di 
trarre  un  passo  nel  sentier  della  gloria.  Perchè  sa- 
pientissimo fu  l'avviso  di  Cebete,  il  quale  al  primo 
giro  della  simbolica  sua  tavola  pose  il  Genio  se- 
gnante diversamente  a  ciascun  de'mortali  quella  via 
da  tenersi  per  conseguir  la  sicurezza  della  vita  e  la 
celebrità  del  nome  tanto  dagli  uomini  vagheggiata. 
E  bene  il  nostro  Ignazio  calcò  quella  datagli  a  per- 
correre ,  studiando  con  ogni  diligenza  ed  industria 
nelle  matematiche,  nella  cosmografia  e  nell'astrono- 
mia, talché  ogni  dì  più  andava  per  la  maggiore.  Si 
meraviglierà  forse  qualcuno  tra  voi  che  un  claustrale 
abbia  tenuto  un  cammino  tutto  opposto  al  suo  isti- 
tuto ?  Egli  avrebbe  ben  donde,  se  gli  Agostini,  i  Gi- 
rolami ,  i  Nazianzeni ,  i  Basili  ed  altri  padri  della 
chiesa  non  avessero  raccomandati  siffatti  studi  alla 
gioventù,  che  si  consacra  ai  divini  ministeri,  e  se  eglino 
stessi  non  se  ne  fossero  giovati  segnatamente,  sic- 
come per  l'intelligenza  della  sacra  scrittura,  così  an- 
cora per  contrastare  agli  oppugnatori  della  réligion 
nostra  santissima,  e  per  confonderli.  E  qui  pregio  è 
dell'  opera  avvertire  che  fino  a'  tempi  del  Danti  le 
preftìte  scienze  avean  fatto  picciol  progredimento.  I 
geometri  non  si  erano  occupati  che  delle  figure  ret- 
tilinee, de'coni,  dei  cilindri,  del  circolo  e  della  sfera, 
e  di  altre  curve  che  nascono  secando  un  cono  con 
tre  piani  differentemente  inclinati,  e  che  si  distin- 
guono tra  loro  coi  nomi  di  elisse  ,  di  parabola  ,  e 
d'iperbola.  L'  apice  di  tutta  la  geometria  di  Archi- 


305 

incde  era  la  iiiisura  ed  il  rapporto  del  solidi  gene- 
rali, facendo  girare  quelle  tre  curve  intorno  ad  un 
asse  preso  esattamente  nel  mezzo. 

Quanto  all'astronomia  era  per  anche  vigente  nelle 
scuole  il  sistema  di  Tolomeo:  e  qual  siasi  questo 
coi  più  vivi  colori  cel  dipinge  il  dottissimo  cardinal 
di  Polignac  nel  libro  ottavo  del  suo  Antilucrezio,  ove 
parlando  dei  filosofici  sistemi,  così  si  esprime: 

Sunt  avia  de  loto  systemata  cognita  mundo. 
Primum  constituit  sphaeram  telluris  inertem 
In  medio;  circum  iubet  omnes  ire  planetas 
Inter  eos  Phaebum,  quo  caetera  corpora  fulgent. 
Abripit  astrorum,  Ptolomaeo  indice,  turbam, 
Perpetuaque  trahit  secum  vertìgine  ab  euris 
Ad  zephyros,  primum  dicit  quod  mobile  coelum: 

con  quel  che  segue.  Vero  è  che  sin  dal  1543  in 
Norimberga  il  Copernico  avea  pubblicato  il  suo  siste- 
ma al  tutto  contrario:  ma  pure  Tolomeo  era  in  voga 
tra  perchè  le  nuove  dottrine  per  ordinario  non  tro- 
vano sì  facile  accoglimento,  ove  tendano  alla  distru- 
zione di  quelle,  che  ebbero  impero  per  molti  secoli, 
e  i  vecchi  credono  un  obbrobrio,  al  dir  di  Fiacco, 
confessar  la  falsità  di  quanto  appresero  imberbi:  o 
perchè  non  ancora  le  copernicane  scoperte  erano  state 
avvalorate  dall'  autorità  del  Reinoldo,  dello  Stadio, 
del  Keplero,  e  spezialmente  del  Gassendo,  del  Newton, 
del  Ticone  e  del  gran  Galilei.  Non  sarà  a  voi  discaro 
che  a  questo  proposito  io  vi  annunzi  un'astronomica 
osservazione  pubblicata  nello  scorso  marzo  in  Parigi 
dal  chiarissimo  abate  Magneau  De  Beziers,  e  da  me 
G.A.T.CXXXIll.  20 


306 
estratta  pochi  giorni  fa  dal  suo  dotto  ragionamento 
accademico  sul  progresso  delle  arti  e  delle  scienze, 
di  cui  r  egregio  nostro  monsignore  volle  essermi 
cortese  ,  come  lo  è  stato  altre  volte,  per  un  tratto 
di  bontà  tutta  sua,  di  novelle  opere  fatte  di  pubblico 
diritto.  Chi  '1  crederebbe,  o  signori?  Come  gli  anti- 
chi andazzi,  così  sembrano  a  noi  tornare  gli  antichi 
sistemi.  E  sì  veramente  che  la  natura  è  un  mistero 
impenetrabile!  E  quanto  più  crediamo  di  esserci  ap- 
pressati ad  alzar  qualche  parte  della  densa  cortina 
che  la  ricuopi'e,  tanto  piii  ce  ne  troviamo  lontani. 
0  gran  Galilei ,  che  ti  giovarono  i  tanti  sforzi  per 
sostenere  la  dottrina  del  gran  matematico  ed  astro- 
nomo di  Yorn?  Che  il  tuo  dialogo  dei  due  massimi 
sistemi?  Che  l'apologia,  se  un  ecclesiastico  francese 
mostra  or  concludentemente  essere  erroneo  il  siste- 
ma copernicano?  Gira  il  sole  e  la  circonferenza  del 
cerchio  di  sua  rotazione  è  per  lo  meno  di  9  milioni 
di  leghe:  non  gira  la  terra  attorno  al  sole,  ma  in- 
toi'Bio  al  suo  asse  fa  il  suo  movimente  diurno  ed 
annuo,  ricevendo  costantemente  da  una  parte  la  luce 
del  grand'  astro  che  illumina  i  pianeti,  li  rianima,  li 
aostiene,  come  per  una  specie  di  volatile  magnete, 
CGill'iadefìciente  sua  luce  alimentata  dal  soffio  di  Dio, 
Ma  checché  sia  di  ciò,  sei  veggano  gli  astronomi,  e 
noi  torniamo  colà,  donde  ci  siam  dipartiti.  Essendo 
tale  lo  stato  delle  cose  nel  secolo  XVI ,  quale  ne 
l'ho  descritto,  il  nostro  valentuomo  fece  opera,  quan- 
to per  lui  si  potè,  di  portar  piìi  innanzi  i  filosofici 
disoopriraenti,  e  di  crescere  luce  alle  scienze.  Non 
è  quindi  a  meravigliare  ,  se  il  Buonafede  parlando 
della  restaurazione  d'  ogni  filosofia  nel  capo   19  del 


307 

secondo  volume  ponga  in  terzo  luogo  tra  i  rifor- 
matori il  nostro  Danti.  «  Cvome  poi  diseenderem,  egli 
dice,  alle  riforme  accadute  nei  distinti  rami  di  filo- 
sofia, vedremo  l'Aconzio,  il  Calcagnini,  Dante  di  Pe- 
rugia   e  più  altri  ingegni  italiani  estendersi 

a  vedute,  a  scoprimenti  magnanimi  dalla  logica  fino 
aHa  sublimità  delle  matematiche.» 

Impertanto  la  fama  di  sì  gran  filosofo  non  po- 
teva più  a  lungo  tenersi  ristretta  entro  gli  angusti 
confini  del  chiostro  e  della  patria  :  ella  ruppe  ogni 
importuno  ritegno,  e  sollevatasi  pel  ciel  d'Italia  al- 
tamente gridò  il  nome  di  lui,  e  tutti  i  principi  del 
bel  paese 

Che  Appennin  parte  e  il  mar  circonda  e  l'Alpe 

PETR. 

ebber  desio  di  appressare  cotanto  senno,  perchè  fe- 
licitasse quelle  terre  ,  che  da  lor  si  reggeano.  A 
Cosimo  I,  quel  letteratissimo  granduca  di  Toscana, 
e  mecenate  munificentissimo  delle  lettere,  toccò  la 
somma  ventui-a  a  preferenza  degli  altri  di  ritenerlo 
presso  di  sé  con  largo  onorario.  Fu  nella  città,  cui 
bagna  l'Arno  ,  dove  Ignazio  fé'  parere  la  sublimità 
del  suo  ingegno:  quivi  istruì  nelle  matematiche  e  nella 
sfera  la  nobile  gioventù  superba  d'un  tanto  istitutore; 
quivi  lo  stesso  granduca  si  gloriò  di  udirne  sovente 
proficue  lezioni;  quivi  tradusse  la  sfera  di  Proclo,  e 
l'arricchì  di  opportune  annotazioni,  e  pubblicandola 
la  intitolò  a  donna  Isabella  Medici  Orsina  duchessa 
di  Bracciano  e  sorella  del  granduca,  di  cui  era  egli 
allora  cosmografo;  quivi  scrisse  il  trattato  dell'  uso 


308 
della  sfera  ad  istanza  di  Cesare  della  Penna  ,  cui 
aveva  spiegato  i  quindici  libri  di  Euclide  ,  la  quale 
opera  dedicò  poi  a  Diomede  della  Cornia  marchese 
di  Castiglione  ,  e  fratello  di  Cesare  già  morto  in 
Dalmazia,  mentre  militava  per  la  repubblica  di  Ve- 
nezia. Quivi  compose  il  trattato  dell'  uso  e  della 
fabbrica  dell'  astrolabio  e  del  planisferi o  del  Roias 
colla  giunta  dell'  uso  e  della  fabbrica  di  nove  altri 
strumenti.  Il  dotto  Apostolo  Zeno,  nelle  annotazioni 
alla  biblioteca  dell'  eloquenza  italiana  di  monsignor 
Fontanini,  asserisce  che  l'ultimo  de'nove  istrumenti 
è  l'anemescopio  verticale,  ossia  dimostratore  de'venti 
ritrovato  dal  Danti,  e  pubblicamente  da  lui  fabbri- 
cato in  Firenze  e  poi  in  Bologna;  ed  aggiunge  che 
la  detta  opera  è  dal  nostro  autore  terminata  colla 
diottra  d'Ipparco,  per  misurare  la  grandezza  del  dia- 
metro dei  pianeti  e  delle  stelle  fìsse,  e  con  l'armilla 
equinoziale  di  Claudio  Tolomeo  ,  utile  a  fare  le 
osservazioni  sopra  la  grandezza  e  la  misura  del- 
l'anno. 

In  tanto  concetto  ed  amore  era  egli  tenuto  da 
Cosimo,  che  gli  fé'  intraprendere  e  condurre  a  fine 
un  lavoro  ,  di  cui  non  si  vide  mai,  per  avviso  del 
Vasari,  ne  il  maggiore,  né  il  più  perfetto.  Ad  orna- 
mento d'una  sala  assai  grande  volle  che  delineasse 
con  la  più  scrupolosa  esattezza,  e  miniasse  in  cin- 
quantasette quadri  di  legno  dell'  altezza  di  braccia 
due  incirca  e  larghe  a  proporzione ,  le  tavole  tole- 
maiche con  le  carte  delle  navigazioni,  e  colla  scala 
da  misurare  i  gradi.  Tutte  vdeansi  descritte  le  parti 
del  mondo  allor  conosciuto.  Oltre  ciò  disegnò  Igna- 
zio quarantotto  immagini  e  figure  celesti,  e  in  due 


309 

gran  globi  di  bronzo  ,  alto  ciascuno  braccia  tre  e 
mezzo,  descrisse  tutta  la  terra  distesamente  ,  e  le 
quarantotto  immagini  celesti  :  lavoro  stupendo  che 
conciliò  al  dottissimo  e  pazientissimo  cosmografo 
l'universale  estimazione.  Né  di  ciò  pago,  nella  chiesa 
di  santa  Maria  Novella  ,  presso  la  quale  egli  rise- 
deva ,  e  dove  spesso  si  recava  il  granduca  a  con- 
versar dottamente  e  famigliarmente  con  lui ,  mac- 
chinò ed  abbozzò  un  gnomone,  che  poi  non  gli  calse 
di  perfezionare  ,  susseguita  la  morte  di  Cosimo  :  e 
ciò  a  noi  lo  attesta  il  gran  matematico  ed  astro- 
nomo Leonardo  Ximenes,  il  quale  essendosi  molto 
giovato  dei  lumi  del  Danti,  come  appare  dalle  sue 
opere  ,  gli  tributò  riconoscente  le  pili  magnifiche 
lodi,  specialmente  nell'introduzione  al  Gnomone  fio- 
rentino. 

Bologna  città  delle  italiche  nobilissima  e  d'arti 
eultissima,  anzi  domicilio  di  tutte  le  belle  ed  utili 
discipline,  invidiò  a  Firenze  quel  peregrino  ingegno. 
Fu  nella  luce  della  felsinea  università,  dove  il  Danti 
fé'  viemeglio  spiccare  il  suo  straordinario  sapere. 
Dall'alto  della  cattedra  di  matematica  ebbe  la  gloria 
di  vedere  un  immenso  numero  di  discenti,  che  pen- 
devano dal  facondissimo  suo  labbro  pieni  di  mera- 
viglia non  senza  emulazione  de'  comprofessori.  Quale 
non  fu  in  appresso  lo  stupore  che  creò  negli  animi, 
non  dirò  già  per  la  perfettissima  costruzione  degli 
orinoli  scioterici  ed  anemografici  fatta  ad  ornamento 
del  duomo ,  del  senato  e  del  cenobio  di  s.  Dome- 
nico ,  che  certamente  fu  cosa  mirabile ,  ma  per  la 
meridiana,  che  tirò  nella  chiesa  di  s.  Petronio  l'an- 
no 1576,  che  secondo  il  Ximenes,  fu  la  terza  dopo 


310 

quelle  che  Wug  Beigli,  nipote  del  gran  Tameilano» 
costruì  in  Costantinopoli  l'anno  1437  nel  tempio  di 
Si  Sofia,  e  Paolo  Toscanelli  nella  chiesa  di  s.  Gio- 
vanni in  Firenze  ?  Meridiana  ,  che  circa  un  secolo 
appresso  fu  perfezionata  dall'  imrnortal  Cassini,  per 
essere  stato  a  pezza  ampliato  quel  magnifico  teni- 
pio.  Taccio  qui  il  suo  famoso  comento  sulle  due 
regole  della  prospettiva  pratica  di  Iacopo  Barocci 
da  Vignola,  e  la  vita  che  scrisse  di  questo  grande 
architetto  sommamente  pregiata  dai  dotti,  di  cui  fa 
spesso  menzione  il  senator  Buonarroti  nelle  sue  os- 
servazioni istoriche  ,  e  l'Algarotti  nelle  sue  lettere 
erudite  sopra  l'architettura.  Basti  solo  accennare , 
che  ne  sono  state  fatte  quattro  edizioni  in  foglio,  e 
quella  fatta  nello  scorso  secolo  in  Venezia  supera  le 
altre  in  accuratezza  ed  eleganza.  Ma  Bologna  non 
ebbe  la  sorte  di  ritenere  lungamente  presso  di  sé 
tal  prezioso  tesoro.  Che  Perugia,  vedendo  le  sì  gran 
cose  del  suo  figlio,  ne  divenne  come  gelosa,  né  in- 
dugiò a  richiamare  i  suoi  materni  diritti,  non  po- 
tendo più  sofferire,  ch'egli  stesse  lungi  da  sé.  Quello 
spirito  bennato  e  gentile  ascoltò  la  dolce  voce  della 
patria,  e  tornando  al  seno  di  lei  Tanno  1577  bagnò 
l'occhio  di  tenerezza  e  allargò  il  cuore  di  consola- 
zione ,  e  non  ignorando  ciò  che  Tullio  già  disse  , 
niun  disagio  dover  sembrar  grave  a  colui  in  riguardo 
alla  patria  ,  da  cui  si  son  ricevuti  tutti  i  vantaggi 
e  tutti  i  beni ,  si  applicò  con  ogni  zelo  a  renderle 
qualche  merito.  Quindi  maestrevolmente  disegnò  la 
carta  topografica  della  città  e  dei  dintorni,  la  quale, 
se  crediamo  a  Gio:  Michele  Pio  ,  fu  dipinta  nella 
parete  del   pubblico    palazzo  :  se  ai  biografi  Qaeti^ 


311 

ed  Echaid  fu  incisa  in  bronzo  e  sospesa  nella  pub- 
blica sala  ,  seppure  non  vogliamo  supporre  l'una  e 
l'altra  cosa  insienme. 

Mentre  egli  rendeva  servigi  alla  patria,  Hon  credè 
di  obbliare  i  suoi.  L'anno  tnndnai  ei?a  passato  a'  se- 
coli eterni  il  suo  dolcissimo  fratello  maggiore  Vin- 
cenzo pittore,  scultore  ed  architetto  insigne,  le  cui 
opere  in  tela,  in  marmo  ed  in  metallo  vivranno  im- 
mortali; e  chi  fosse  vago  conoscerle,  potrebbe  a  suo 
bell'agio  consultare  il  Vasari.  Ignazio  pose  ogni  stu- 
dio per  onorarne  le  ceneri,  e  nella  chiesa  di  s.  Do- 
menico gì' innalzò  un  marmoreo  monumento  degno 
di  lui  per  la  grazia  del  disegno  ,  e  vi  appose  una 
affettuosa  epigrafe  non  senza  soddisfacimento  de' suoi 
concittadini. 

Poco  potè  goder  la  patria  della  presenza  del  sua 
carissimo  figlio,  giacché  Gregorio  XIIJ,  pontefice  sa- 
pientissimo ed  estimatore  giustissimo  del  vero  me- 
rito, chiamollo  al  Vaticano.  E  qui  giova  sapere,  che 
da  molti  secoli  si  dolevano  i  più  valenti  astronomi, 
che  il  calendario  adottato  dal  primo  concilio  nice- 
no  non  fosse  esatto  ,  perciocché  supponendosi  in 
esso,  che  il  corso  del  sole  corrispondesse  precisa- 
mente a  giorni  365  e  6  ore;  e  che  1^  anni  solari 
equivalessero  a  235  lunazioni;  questi  due  errori  neJ 
lungo  volger  dei  secoli  avevano  fatto  che  Tequino- 
zio  di  marzo,  il  quale  a'  tempi  di  quel  concilio  &pst 
ai  21,  nel  secolo  XVI  era  già  retroceduto  agli  ti 
del  detto  mese  ,  e  le  nuove  lune  anticipavano  dì 
quattro  giorni.  Il  veti^rabile  Beda  sin  dai  terttpi  sutìi 
avea  rilevati  colali  en-ori,  e  a  quando  a  quando  Se 
ne-  era  da  ailitri  chiesta  la  riforma,  e  molto  si  scrisse 


312 

per  ciò.  Era  serbata  a  Gregorio  XIII  siffatta  gloria, 
il  quale  dal  dotto  Pier  Vettori  fu  messo  a  buona 
equità  a  paraggio  dì  Eudosso  gnidio  e  di  Giulio  Ce- 
sare, Il  valentissimo  calabrese  Luigi  Lilio  scrisse  da 
par  suo  il  progetto  della  detta  riforma,  ma  non  ebbe 
la  ventura  di  vederla  eseguita  prevenuto  dalla  mor- 
te; il  germano  di  lui  Antonio  presentoUo  al  ponte- 
fice ,  e  questi  compose  una  congregazione  dei  piìi 
abili  astronimi  di  que'  tempi  per  esaminarlo:  e  quan- 
to il  nostro  Danti  valesse  fra  questi,  si  può  da  ciò 
solo  inferire,  che  l'ab.  Andres  nella  sua  giand'opera 
dell'origine  e  dei  progressi  d'ogni  letteratura,  così 
scrive:  «  Volle  eseguire  questa  bramata  e  gjiusla  ri- 
forma Gregorio  XIII  coi  lumi  prima  del  Lilio,  poi 
di  Ignazio  Danti,  del  Ciaconio  e  del  Clavio.  »  Ed  ò 
un  gran  che,  o  accademici,  preporre  il  Danti  a  ([uei 
due  sommi  matematici,  di  cui  ognun  conosce  il  va- 
lore, ed  hanno  riempiuto  il  mondo  della  lor  fama. 
Che  diremo  del  chiarissimo  Tiraboschi  ,  che  dopo 
aver  nominato  il  Clavio  ,  il  Ciaconio  ,  il  Sirleto  ed 
il  Laureo,  cosi  si  esprime:  (i  Più  distinta  menzione 
ci  convien  fare  di  Ignazio  Danti  domenicano,  e  di 
patria  perugino,  che  vi  ebbe  parte  egli  pure,  e  che 
fu  uno  dei  più  celebri  matematici  che  avesse  l'Ita- 
lia?» 

.  Né  in  ciò  solo  il  volle  occupato  Gregorio  XIII. 
Inteso  questo  pontefice  ad  abbellire  il  Vaticano,  im- 
posegli  di  dipingere  nella  galleria  le  tavole  geogra- 
fiche del  mondo  intero.  Il  Danti  pose  mano  alla 
grand'  opera,  che  sola  basterebbe  ad  eternarne  il  no- 
me,, colla  usata  industria  e  diligenza,  e  s'affrettò  di 
compierla  in  modo,  che  nulla  avesse  in  quella  a  de- 


313 

sidcrarsi:  talché  i  curiosi  viaggiatori  figli  d'Albione 
ad  arcate  ciglia  osservano  tutti  gli  anni  una  così 
mirabile  corografia.  Oltre  ciò  ,  ornò  egli  la  loggia 
de' venti,  le  altre  vicine  stanze,  la  sala  degli  sviz- 
zeri e  quella  dei  palafrenieri  con  l'altra  gran  loggia 
sopra  l'uffizio  della  camera  avanti  la  Bologna. 

Or  piacciavi,  o  signori,  di  far  meco  trascorsiva- 
mente una  riflessione.  Un  simil  fraticello,  sequestrato 
dal  mondo  per  servir  solo  all'Eterno,  calca  fedel- 
mente le  sante  orme  impressegli  dal  suo  gran  pa- 
triarca; addivenuto  quindi  teologo,  oratore  e  maestro 
in  ispiritualità,  non  si  occupa  che  della  salute  dei 
prossimi,  correndo  infaticabile  l' apostolico  arringo. 
Quando  di  tratto  sente  ridestarsi  in  cuore  l'amor 
delle  matematiche,  sicché  tutto  in  queste  s'ingolftì, 
si  fa  operatore  non  di  meraviglie  solamente,  ma  di 
miracoli  d'arte,  e  vien  però  riputato  tra  i  primi  in 
sottigliezza  d'  ingegno  ,  quanto  qualunque  altro  sia 
che  ne  abbia  pregio  e  fama  quaggiiì  per  modo,  che 
i  nobili  lo  amano,  lo  desiderano  i  principi,  lo  ricer- 
cano i  monarchi.  Da  Perugia  passa  egli  a  Firenze, 
da  Firenze  a  Bologna,  di  là  torna  al  suolo  natio,  ed 
infine  l'eterna  città  si  gloria  di  possederlo.  Ditemi, 
per  vostra  fede,  saranno  tali  cose  intervenute  a  caso, 
o  piuttosto  non  ravviseremo  noi  un'altissima  prov- 
videnza, che  nelle  loro  cagioni  i  più  lontani  avve- 
nimenti prevede,  e  che  nella  sua  volontà  le  cagioni 
di  tutti  gli  avvenimenti  rinchiude? 

E  di  vero  mentre  il  pontefice  intende  a  decorare 
il  Vaticano  ,  ed  Ignazio  si  studia  di  compiacere  a 
lui  co'  suoi  faticosissimi  lavori ,  l'anno  1583  resta 
vedovata  di  pastore  la  chiesa  alatrina  ,  per    esserne 


314 

volato  al  cielo  il  piissimo  Pietro  Franchi.  Non  sì 
tosto  se  ne  recò  l'annunzio  a  Gregorio,  che  gli  godè 
l'animo  di  testimoniare  l'alta  sua  stima  ad  Ignazio 
nominandolo  vescovo.  Sebbene  non  godesse  l'animo 
ad  Ignazio,  il  quale  nel  principio  della  cronica  del 
monistero  benedettino  dettata  dal  Danti  esce  il  me- 
desimo in  tali  espressioni:  «  Il  buon  vecchio  pensando 
di  rimunerarmi  mi  diede  il  carico  di  questa  città  di 
Alatri ,  mandandomi  qua  a  purgare  i  miei  peccati 
contro  ogni  mio  volere.))  Così  dispose  l'arbitro  so- 
vrano delle  umane  sorti  e  dei  destini  delle  città,  se- 
condo i  disegni  di  sua  misericordia.  Ei  fé'  conseguir 
tanta  gloria  al  Danti,  e  di  tanta  autorità  lo  fé'  ric- 
co, affinchè  potesse  venir  accolto  con  venerazione  e 
rispetto  da  un  popolo  belligerante.  Ed  a  chiarirvi 
della  mia  affermazione,  pregovi  por  mente  alla  con- 
dizion  di  que'  tempi  veramente  non  felici.  Non  era 
per  anche  estinto  il  baronaggio,  eh'  è  quanto  dire, 
regnava  il  despotismo  e  la  barbarie  ;  eran  fieri  i 
costumi  non  che  rozzi  ed  incolti  ;  l' ignoranza  del 
popolo  era  palpabile,  e  in  proporzione  non  era  mi- 
nore quella  del  clero.  Sì  v'era  la  religione,  essendo 
la  città  e  le  campagne  sparse  di  chiese,  di  romitag- 
gi, di  cenobi,  di  cui  ancor  sussistono  i  ruderi  e  le 
denominazioni  ;  ma  come  si  professava  ella  ?  Come 
se  ne  praticavan  le  massime?  Ciascun  poneva  la  sua 
ragione  nelle  armi,  ed  ogni  gara  era  terminata  col 
sangue.  In  tempi  così  difficili  era  mestieri  d'un  ve- 
scovo di  sommo  credito  ,  di  somma  dottrina  e  di 
somma  fortezza  :  e  questo  dono  carissimo  piacque 
all'Eccelso  fare  ai  nostri  maggiori.  Parrà  a  taluno, 
che  un  uomo  tutto  dedicalo  alle  matematiche  ed  alla 


315 
aslronomia  ,  poca  o  niuna  attitudine  dovesse  avere 
al  reggimento  della  chiesa  affidatagli  ;  pareva  anzi 
natofatto  a  ciò.  Perchè  questi  studi  erano  in  lui  se- 
condari, e  subordinati  a  quello  della  umiltà  e  della 
religione:  ed  è  proprio  di  questi  grandi  ingegni  così 
da  Dio  dotati,  che  dove  si  applicano,  ivi  son  tutti, 
e  in  tutto  distinguonsi  mirabilmente.  Venne, ^irò  il 
guardo  e  sospirò;  non  ristette  egli  per  questo,  ma 
con  zelo  tutto  apostolico  si  volse  a  stenebrar  la 
città,  a  folgorare  i  vizi,  a  curare  le  pecorelle  infer- 
me, a  confortar  le  deboli,  a  cacciar  le  fameliche  ai 
pingui  paschi  e  alle  pure  fonti  di  salute.  Non  si  ri- 
man  di  gridare  dalla  veletta  di  Sion,  come  inculca 
il  profeta.  A  sterpare  il  loglio  soprasseminato  dal- 
l'avversario nel  campo  del  Signore  ,  visita  la  sua 
diocesi,  e  come  di  Agricola  scrisse  già  Tacito,  volle 
piuttosto  con  rarissima  moderazione  sembrar  d'aver 
trovati  buoni  i  suoi  figli,  che  di  averli  resi  tali.  Trova 
i  due  monisteri  di  Alatri  e  di  Guarcino  senza  ordi- 
ne ,  senza  legge  ,  senza  clausura  ,  e  tosto  pensa  di 
riunirli  in  questa  città;  né  fa  parola  al  pontefice,  e 
questi  lo  approva  ,  ma  grandi  impedimenti  ne  lo 
distornano.  A  sue  spese  prende  ad  ampliare  il 
monistero  dell'  Annunziata  presso  la  porta  mag- 
giore, dove  non  v'era  né  triclinio,  né  coro,  e  ogni 
sacra  vergine  vivea  a  sua  posta:  ma  non  vedendolo 
capevole,  concepisce  l'idea  di  fondarne  un  altro  più 
ampio  nella  chiesa  collegiata  di  santo  Stefano,  e  a 
tal  fine  trasferisce  alla  cattedrale  i  cherici  benefiziati, 
e  intraprendente  com'  era,  innalzò  un  magnifico  edi- 
fizio,  e  stabilì  savie  leggi  conducenti  alla  monastica 
disciplina  ed  alla  perfezione. 


316 

Congregò  ogni  anno  il  sacro  sinodo  giusta  il  pre- 
scritto del  recentissimo  concilio  di  Trento  :  e  noi 
abbiamo  ancora  qualche  esemplare  a  stampa  del  se- 
condo tradotto  in  lingua  volgare  ,  aifinchò  da  tutti 
s'intendesse,  di  cui  riferirò  le  ultime  linee  della  let- 
tera pastorale  premessavi,  affinchè  voi  meglio  ven- 
ghiatd  a  conoscere  e  persuadervi  dell'affettuoso  zelo 
di  sì  gi-ande  prelato.  «  In  esse  costituzioni  dunque  co- 
noscendo voi  non  solo  il  desiderio  pastorale,  e  la  vo- 
lontà paterna ,  ma  vedendo  anco  che  mai  cessiamo 
con  ogni  nostro  potere  di  affaticarci,  per  non  tenere 
ozioso  il  piccolo  talento,  eh'  alla  infinita  bontà  del 
signore  Tddio  ò  piaciuto  darci  a  negoziare  e  distri- 
buirvelo,  vogliate  con  obbedire  mettere  in  esecuzione 
con  r  opera  quanto  per  la  salute  vostra  in  queste 
sante  costituzioni  vi  ò  ordinato,  acciò  abbiate  a  ri- 
portarne abbondantissimo  frutto  nel  Signore  ,  dalla 
cui  benignità  e  misericordia  vi  preghiamo  il  colmo 
d'ogni  celeste  grazia.   »  Così  egli. 

Quanti  trasordini  e  quanti  abusi  tolse  Ignazio  con 
tali  smodali  costituzioni  !  Piacemi  riportarne  uno  solo, 
la  cui  notizia  non  vi  sarà,  lo  spero,  dispiacevole.  Il 
sacerdote  novello  nel  dover  celebrare  la  prima  messa 
indossava  in  casa  propria  i  sacri  arredi,  o  nel  con- 
vento, se  era  religioso,  e  quindi  con  solenne  pompa 
lentamente  traendo  sotto  baldacchino  intorniato  dai 
lietissimi  congiunti,  preceduto  da  altri  ecclesiastici, 
e  seguito  da  immenso  popolo  festeggiante,  recavasi 
alla  cattedrale,  dove  col  canto  dava  opera  al  sacri- 
fizio incruento.  Ad  abrogare  cosiffatta  inveterata  con- 
suetudine, che  certo  dovea  offerire  un  gradevole  spet- 
tacolo a'cittadini,  non  vi  volea  che  un  Danti,  la  cui 


317 

sola  volontà  era  legge,  pel  po[)olo,  e  pel  clero,  da  cui 
era  adorato.  Dopo  tutto  ciò  uno  de' maggiori  suoi 
vanti  fu  senza  fallo  Taver  fondato  il  monte  di  pietà 
a  sussidio  dei  poveri. 

Quello  per  altro  che  rese  piìi  glorioso  il  suo  pon- 
tificato fu  il  discoprimento  delle  auguste  spoglie  del 
santo  nostro  proteggitore  ,  impresa  tutta  divina.  11 
cardinal  Filippo  Buoncoinpagni,  nipote  dell'allora  re-, 
gnante  pontefice,  nel  ristorar  che  fece  la  sua  chiesa 
titolare  di  s.  Pietro,  trovò  una  lapide  indicante  l'i- 
posar  ivi  il  corpo  di  s.  Sisto  papa  e  martire.  Nel 
dubbio  se  fosse  questi  il  primo  di  tal  nome,  o  il  se- 
condo, fece  per  l'augusto  zio  chiamare  in  Roma  il 
vescovo  di  Alatri,  non  ignorando  che  in  questa  città 
si  venerava  il  corpo  di  s.  Sisto  pontefice  e  martire. 
Il  Danti  obbedì  prontamente  alla  chiamata  sovrana, 
e  con  sode  ragioni  dimostrò  a  Gregorio  l'esistenza 
del  corpo  di  s.  Sisto  I  in  Alatri:  ed  in  conferma  di 
ciò  ei  stesso  gli  presentò  la  storia  autentica  della 
traslazione  prodigiosissima,  non  occultandogli  le  gare 
e  le  pretese  di  Alife.  Il  padre  santo  fece  a  se  venire 
/ancora  la  storia  di  xVlife ,  e  letta  l'una  e  l'altra,  e 
sembrandogli  esservi  tutta  la  probabilità,  che  il  corpo 
di  s.  Sisto  I  fosse  in  Alatri  piuttosto  ,  ingiunse  al 
nostro  vescovo  di  far  le  più  diligenti  indagini  per 
rinvenirlo:  il  che  felicemente  avvenne  agli  11  di  mar- 
zo del  1584  :  sicché  il  cardinal  Buoncompagni  non 
dubitò  pili  di  possedere  il  corpo  di  s.  Sisto  II.  Quali 
rispettabili  prelati  venissero,  a  riconoscere  il  sacro 
deposito,  quali  feste  per  ciò  si  facessero,  voi  vel  sa- 
pete ,  e  non  accade  che  io  vi  spenda  parole  ;  dirò 
solo,  che  venticìnquemila  forestieri  accorsero  ai  so- 


318 
lenne  trasferimento  dei  rinvenuti  resti  del  nostro 
santo.  Lietissimo  il  Danti  di  tale  scoperta,  ottenne 
in  perpetuo  dal  pontefice  la  plenaria  remissione  dei 
peccati  a  chi  nelle  due  annue  feste  solenni  visitasse 
la  chiesa  cattedrale,  e  quindi  dettò  la  storia  della 
invenzione  anzidetta,  che  aggiunta  a  quella  della  tra- 
slazione si  fece  un  debito  di  umihare  a  Sisto  V,  eletto 
papa  nella  feria  quarta  di  pasqua  la  mattina  stessa, 
in  cui  si  solennizzava  la  festa  di  s.  Sisto  I,  per  mezzo 
di  una  sua  dotta  lettera  gratulatoriaa  riportata  dai 
PP.  Bollandisti.  Né  contento  a  ciò  applicossi  a  for- 
mare il  disegno  della  testa  del  protettore  ,  che  fu 
tosto  eseguito  egregiamente  in  argento,  che  mostra 
qual  fosse  la  sua  valentìa  in  quest'arte.  Infatti  quale 
armonia  in  tutte  le  parti,  quale  sublime  espressione 
di  potenza  ,  qual  maestà  vi  si  ammira  !  Ei  seppe 
aggiungere  un  nuovo  motivo  al  rispetto  del  popolo, 
rendendo  sensibile  quello  che  adorava.  E  perchè  il 
tempio  maggiore  corrispondesse  alla  dignità  del  no- 
vello simulacro,  non  perdonò  a  spesa ,  parte  risto- 
randolo, e  parte  imbellendolo.  Ma  ahimè  !  qual  tri- 
sta catastrofe  si  prepara  alla  città  di  Saturno?  Come 
presto  si  scoloiano  i  raggi  del  sole,  e  il  ciel  s'ab- 
buia !  11  pontefice  Sisto  V,  inteso  ad  ornare  Roma 
con  munificenza  veramente  sovrana,  avea  fatto  tra- 
sportare nella  piazza  del  vaticano,  ed  erigere  il  fa- 
moso obelisco  di  Augusto,  che  per  l'ingiuria  de'tem- 
pi  erasi  per  secoli  giaciuto  negletto.  Due  grandi  ar- 
chitetti aveano  precipuamente  avuto  parte  a  questa 
grand'opera,  Camillo  Agrippa  milanese,  e  il  cavalier 
Domenico  Fortuna  comasco,  onorati  dal  supremo  ge- 
rarca di  medaglie    di    bronzo  ad  eternare  il    nobile 


319 

loro  imprendimenlo.  Perchè  fosse  compiuto  il  bel 
lavoro,  vi  dovea  concorrere  il  nostro  Danti.  A  se  per- 
tanto lo  chiama  Sisto  affin  di  notare  colla  sua  sin- 
golare perizia  i  solstizi,  gli  equinozi  ed  i  venti.  Ob- 
bedisce il  vescovo,  e  soddisfa  pienamente  alle  brame 
del  sapiente  monarca:  e  lasciato  in  Roma  un  nuovo 
monumento  delia  sua  straordinaria  scienza,  sì  resti- 
tuisce alla  sua  sede,  dove  morte  l'attende.  Attaccato 
da  fiera  pleuritide,  dopo  il  quinto  o  il  sesto  giorno 
di  decubito,  l'anno  terzo  del  suo  pontificato  ,  il  dì 
19  d'ottobre  del  1586,  nell'età  di  anni  quaranta- 
nove,  consunto  dalle  fatiche,  onusto  di  meriti,  e  pieno 
di  gloria  volò  al  cielo  a  ricevere  la  corona  di  giu- 
stizia. Le  copiose  ed  inconsolabili  lagrime  di  tutte 
le  classi  cittadinesche  nell'accompagnare  l'ottimo  pa- 
dre alla  tomba  formarono  il  più  bell'elogio  di  lui. 
Nella  cappella  del  suffragio  furon  deposte  le  sue  spo- 
glie mortali,  ma  poi  se  ne  sperdercno  le  ceneri  pre- 
ziose. Eccomi,  0  egregi  colleghi,  al  termine  del  mio 
scabroso  cammino.  L'animo  mio  si  volse  indietro: 


'O^ 


Siccome  quei  che  con  lena  affannata. 

Uscito  fuor  del  pelago  alla  riva. 

Si  volge  airaccjua  periglioba  e  guata. 


320 


Ulteriori  osservazioni  sul  vero  antrace. 

ixir  articolo  Terapìa  del  vero  antrace,  inserito  nel 
tomo  CXXX,  pag.  289  del  giornale  arcadico,  nacque 
vaghezza  al  dott.  Luigi  Pagamici,  chirurgo  a  Feren- 
tino ,  opporsi  con  riflessioni  riportate  dal  Raccogli- 
tore medico  di  Fano  ,  ult.  num.  del  passato  anno: 
asserendo  della  superfluità  delle  incisioni  e  caute- 
rizzazioni nella  cura  del  vero  antrace,  e  del  danno 
che  sempre  producono:  doversi  in  tal  morbo  rivol- 
gere le  indicazioni  curative  a  benefizio  del  generale, 
aftzi  che  della  località,  e  qui  eccoprottici,  antelmin- 
tici, unzioni,  cristieri,  e  va  dicendo;  conclude  infine, 
dopo  l'asserzione  di  tre  moi'ti  in  trecento  curati,  non 
convenire  nel  metodo  curativo  da  me  proposto. 

Idee  peregrine  cotanto  l'onore  invero  non  me- 
ritano della  confutazione;  ma  nel  riflesso,  trattarsi  di 
malattia,  direi  quasi,  popolare,  che  con  maggior  fre- 
quenza attacca  in  ispecial  modo  la  classe  indigente, 
non  sempre  a  portata  di  ricevere  dai  professori  un 
pronto  soccorso,  e  che  potrebbe  per  avventura  ri- 
trarre da  false  massime  detrimento  gravissimo:  nel- 
l'intenzione di  viemmeglio  propalare  la  cura  che  gli 
conviene,  credomi  in  dovere  rispondere  una  coserella, 
proponendomi  non  ritornare  più  mai  su  tale  argo- 
mento. 

Col  redigere  adunque  l'articolo  suespresso,  ebbi 
in  mira  di  ridurre  alla  più  concreta  espressione  quel 
che  fin  qui  i  migliori  pratici  ne  insegnarono  ,  e  ri- 


321 

destare  l'attenzion  di  quelli,  che  o  troppo  pietosi,  o 
troppo  timidi,  rifuggivano  dalle  incisioni  e  dai  cau- 
stici, riferendo  la  mia  stessa  pratica  giornaliera,  in 
luogo  ove  cadevami  con  qualche  frequenza  vederne. 

Non  intesi  metter  fuori  nuovo  metodo  di  cura, 
ma  sibbene  riprodur  quello  che  vige  più  o  meno 
modificato  dai  tempi  di  Celso,  e  adoperato  dalla  gran 
parte,  se  non  da  tutti  i  chirurgi. 

Che  se  il  chirurgo  di  Ferentino  dato  si  fosse  il 
pensiero,  pria  di  quella  cicalata,  di  consultare  all'uopo 
qualche  autore,  sarebbesene,  io  penso,  con  sicurezza 
'  astenuto.  Difatti  Gelso,  De  re  medica.  Genevae  1625, 
lib.  6,  cap.  18  parla  dell'escissione  e  del  caustico. 
Gio.  Astruc,  Tract.  de  tumoribus  et  ulceribus,pag.42, 
dopo  aver  riferita  la  pratica  degli  antichi,  consisten- 
te nel  taglio  e  nel  fuoco,  si  esprime  : 

«  Hodie  tamen  statim  confugiunt  ad  escharotica 
tutiora  ,  qualia  sunt  lapis  causticus  ,  praecipitatum 
rubrum,  mercurii  solutio,  spiritus  nitri  etc,  quorum 
ope  partem  exurunt,  atque  profundius  ulcus  produ- 
cunt,  quam  in  carbunculo  appareret.w 

E  quand'anche  sdegnando  le  cose  antiquate,  svolto 
avesse  un  alcun  libro  più  a  noi  recente  ,  trovato 
avrebbe  in  Antelmo  Richerand,  Nosograf.  chirurgi- 
cai,  t.  1,  pag.  157  (Dello  stato  infiammatorio  e  suoi, 
diversi  modi)  in  ordine  all'antrace: 

«  Une  phiyctène  se  formoit  sur  le  sommet  de  la 
tumeur,  elle  passoit  à  l'état  gangréneux,  et  la  mor- 
tification  étendant  au  loin  ses  ravages,  détruisoit  une 
grande  partie  des  joues,  si  l'on  n'appliquoit  de  bonne 
heure  ,  sur  le  centro  de  charbon  ,  un  morceau  de 
pierre  à  cantóre,  ou  mieuxun  petit  plumaceau  chargé 
G.A.T.CXXXIII.  21 


322 

de  muriate  d'antìmoine  liquide. «  E  nel  manuale  di 
terapìa  chiiurgica  di  Tavernier  voi.  I,  pag.  221:  «  Che 
il  carbonchio  od  antrace  maligno  esige  ,  oltre  alla 
generale,  una  cura  locale  attivissima,  quale  è  somi- 
gliante a  quella  della  pustola  maligna  negli  ultimi 
suoi  stadi:  d  che  alti-o  non  è  che  incisione  e  caustico. 

Più  nelle  lezioni  verbali  di  clinica  chirurgica  del 
prof.  Dupuytren  pag.   l'r'G: 

«  L' incisione  costituisce  il  vero  mezzo  curativo 
deirantrace;  gli  altri  due  malori  (carbonchio  e  pu- 
stola maligna  )  richiedono  Tuso  del  fuoco  o  d' un 
caustico,  cui  frequentemente  s'uniscono  i  topici.» 

E  da  ciò  ben  comprendesi  qual'  esser  debba  la 
pratica  francese, quando  conosciamo  quella  de'maestri. 

Ma  il  dottor  Pagamici  non  farà  forse  buon  viso 
a  scuole  straniere:  quindi  non  si  compiacerà  adot-^ 
tarne  le  dottrine  ,  ed  avrà  come  non  detto  quanto 
Samuele  Cooper,  perchè  inglese,  nel  dizion.  chirurg. 
pag.  48  ha  registralo,  cioè:  ((  Ne' casi  d'antrace  il 
dovere  d'  un  chirurgo  può  esser  descritto  in  poche 
parole.  Per  quel  che  riguarda  il  trattamento  locale, 
il  meglio  che  far  si  possa  è  di  aprire  per  tempo  e 
liberamente  il  tumore  ,  onde  dar  presto  scolo  alla 
marcia;  si  farà  quindi  uscire  comprimendo  la  parte, 
il  più  che  si  possa  della  materia  contenuta  ,  e  si 
coprirà  con  un  cataplastna  emolliente.»  Poi  appresso: 
«  Tutti  i  chirurgi  debbono  aver  bene  in  mente  di 
quanto  si  prohmghi  il  corso  di  questa  malattia,  non 
aprendo  il  tumore  a  tempo  debito:  e  questa  circo- 
stanza debbe  riguardarsi  giustamente  come  la  causa 
più  frequente  dell'  esito  fatale  di  gran  numero  di 
casi,  )) 


323 

Ammesso  rindicatQ  supposto  che  non  vogliansi 
adottare  stranieri  insegnamenti  dal  Pagamici:  poteva 
almen  consultare  qualcheduno  de'  nostri  tanti  italiani 
moderni,  e  quelli  in  ispeeial  modo  che  tutto  giorno 
son  nelle  mani  degli  studenti,  e  per  mo'  d'esempio  al 
tomo  I,  pag.  100  delle  istituz.  chir.  del  prof.  Mon- 
teggia,  letto  avrehhe  nell'antrace  maligno,  corrispon- 
dente a  quello  che  io  chiamo  vero:  «  Quando  le  pri- 
me scarificazioni  non  fossero  state  sufficienti  ad  ar- 
restare i  progressi  della  cangrena,  si  rinnoveranno, 
crescendone  l'estensione  e  la  profondità:  «  è  d'  av- 
vertirsi non  escludere  il  cauterio  attuale  e  poten- 
ziale. 

Nella  chirurgia  elementare  pag.  236  del  cono- 
sciutissimo  dottor  Giovanni  Selli  chirurgo  a  Viterbo, 
mancato  da  pochi  anni  ai  viventi,  non  solo  indicate 
sono  nella  cura  dell'  antrace  le  subite  incisioni,  ma 
il  nitrato  d'argento  eziandio,  la  pietra  caustica,  ov- 
vero il  deuto-cloruro  di  mercurio. 

Il  celebre  teste  defunto  Santoro  ,  in  Boyer  tra- 
dotto e  stampato  in  Napoli  con  le  di  lui  note,  non 
professa  egli  i  medesimi  suespressi  princìpii,  e  non 
fa  consistere  la  terapia  dell'antrace  nel  ferro  e  nel 
fuoco? 

L'illustre  dottor  Ingrao,  chirurgo  in  Sicilia,  tut- 
todì non  ottiene  risultamenti  felici  coU'identico  me- 
todo, per  tacere  di  tanti  e  tanti  altri  che  non  v'ha 
bisogno  riandare? 

Invece  dello  inutile  sproloquio  sulla  convenienza 
della  cura  interna  ,  quanto  più  utile  stato  gli  saria 
leggere,  ed  attentamente  l'intero  mio  articolo  esa- 
minare, e  non  fermarsi  alle   ultime  linee;  poiché  di- 


324 

cendo  che  Tanti-ace  voio  ebbi  sempre  ad  osservarlo 
in  due  diversi  aspetti:  o  con  estremo  abbattimento 
deir  individuo  ,  o  con  esaltamento  organico-vitale  , 
cosi  in  questo  aver  maisempre  aggiunto  proporzio- 
nati deprimenti  ;  come  antisettici  e  tonificanti  nel- 
l'altro: in  pochi  termini  esprimer  volli  il  concetto, 
e  pensando  parlare  ad  intelligenti  colleghi,  designar 
non  curavami  la  filastrocca  degli  eccoprotici ,  an-  > 
telmintici,  drastici,  pediluvi  e  clistieri  del  Pagamici. 
M'accontentai  dunque  d'accennare,  che  mentre  pren- 
deva energicamente  di  mira  il  morbo  locale  ,  non 
trascurava  con  tutti  i  buoni  pratici  il  generale,  cui 
riconoscevalo  quasi  sempre  connesso. 

Sappia  il  eh.  dottor  di  Ferentino,  che  la  genesi  del- 
l'antrace fu  per  me  ognora  di  gravissimo  dubbio  , 
sebbene  inclini  a  riguardar  quel  malore  espressione 
e  nulla  più  di  universale  affezione,  almeno  ne'  casi 
maggiori.  Ne  riscontri  una  prova  nel  Race,  medico 
di  Fano  num.  10,  31  maggio  1853,  pag.  411,  quando 
nel  riferire  aver  osservati  pochi  carbonchi  relativa- 
mente, in  un'influenza  d'afte,  mi  esprimeva:  «  Forse 
in  alcuni  individui,  che  stati  sarebbero  colti  da  car- 
bonchio, questo  si  distrusse,  ed  ebbe  sua  evasione 
sopravvenendo  le  afte?» 

Comunque  però  riguardar  lo  si  voglia  manifesta- 
zione d'interno  malore,  ignorar  non  si  dee  dal  Pa- 
gamici ,  quanto  sia  la  natura  benefica  neh'  elimi- 
nare dal  nostro  organismo  alcuni  morbi ,  la  mercè 
di  esterne  esplosioni,  non  escluso  il  vero  antrace;  e 
che  siccome  questo  rapidamente  procede,  ed  è  capace 
di  tornare  ad  infettare  in  modo  irreparabile  quell'indi- 
viduo, da  cui  per  uno  sforzo  salutare  crasi  d'appri- 


325 

ma  quasi  separata  o  concentiala  in  un  sol  punto 
esterno  la  materia  morbosa  ;  così  a  ragione  presso 
che  tutti  i  chirurgi  unanimi  li  osservo  nella  solle- 
citudine ed  energia  per  l'esterna  curagione,  mentre 
non  trascuran  l'interna. 

L'opinione  volgare,  l'idea  più  comune,  mi  sostie- 
ne altresì  nell'assunto.  Nella  romana  campagna,  nei 
luoghi  circonvicini,  si  ricorre  tantosto  a  disorganiz- 
zare l'antrace  col  ferro  rovente.  I  pastori  medesimi, 
senza  il  consiglio  medico,  non  cauterizzano  essi  l'an- 
trace appena  si  mostra, con  qualunque  ferro  lor  venga 
alle  mani?  E  chi  non  sa,  che  senza  altra  precauzione 
di  sorta,  sempre  quasi  ne  guariscono? 

L'incisione  ed  il  caustico  son  mezzi  troppo  co- 
muni, troppo  noti  per  l'efficacia  loro  nella  cura  del 
vero  antrace,  perchè  un  gratuito  asserto  del  chirur- 
go di  Ferentino,  restringano  l'uso  e  l'applicazione. 

E  non  vi  par  egli  cosa  mirabile  e  singolare  il 
veder  tutti  i  pratici  premurosi  ed  intenti  nell'  uso 
de'  mezzi  più  pronti  nell'azione  e  spediti,  in  morbo 
sì  pericoloso  e  letale  ;  aver  ognuno  in  onta  a  ciò 
perduti  alcuni  malati,  o  perchè  le  incisioni  non  fu- 
ron  profonde  abbastanza ,  o  perchè  ne'  debiti  modi 
non  usavasi  l'ustione  ,  o  perchè  infine  resisteva  ad 
ogni  mezzo  il  malore?  Quando  il  Pagamici  con  tutta 
indifferenza  vi  ricanta  purganti,  unzioni,  clistieri  e 
perdere  l'un  per  cento  degl'infermi  curati?  e  dovrò 
ingollarmi,  che  abbia  egli  curato  veri  antraci,  o  non 
piuttosto  feruncoli  di  varia  intensità? 

In  ordine  poi  al  partorire  la  cauterizzazione  no- 
civo effetto  ,  0  per  l'infiammazione  che  accresce  o 
per  la  viva  impressione  che  produce,  o  per  la  de- 


326 

forme  cicatiice  che  ne  deriva:  riscontrisi  il  mio  arti- 
colo, ove  in  brevi  teimini  esprimesi  l'opportuna  ri- 
sposta. Ma  aggiungerò  solamente,  che  lo  stato  in- 
fiammatorio prodotto  od  aumentato  dal  fuoco  dopo 
aver  neutralizzato  il  principio  deleterio,  che  nuova- 
mente tendeva,  dissi,  a  generalizzarsi ,  è  necessario 
e  profìcuo:  sia  perchè  il  morbo  viemeglio  concentra, 
sia  perchè  assumendo  il  carattere  d'  infiammazione 
all'  intutto  idiopatica-iocale ,  terrà  il  regolarissimo 
procedimento  d'una  ristretta, benché  profonda  ustione. 

Che  se  il  più  volte  nominato  chirurgo  non  con- 
viene nella  medela  da  me  proposta  ,  che  è  quella 
de'  migliori,  non  rimarrà  meno  vera  ed  inconcussa, 
fondata  com'  è  su  di  principi  verissimi. 

Senza  dunque  proseguire  ancor  oltre  ,  torno  di 
nuovo  a  concludere,  che  l'incisione  e  cauterizzazione 
giammai  sostituite  saranno  da  altre  topiche  applica- 
zioni nella  cura  del  vero  antrace,  per  quanto  riguar- 
dinsi  mezzi  dolorosi  e  violenti. 

Lorenzo  Bartoh 


;i27 


Cenno  stilla  vita  e  le  opere  di  Anton  Mario  Nigrisoli 
illustre  Ietterai 0  ferrarese  del  secolo  XVI. 


I 


fiori  i)iù  leggiiidi'i  ,  di  elio  si  adornano  le  grazie 
del  dire ,  oggi  vorrei  profondere  sulle  dimenticate 
ceneri  d'un  insigne  mio  concittadino:  vorrei,  se  pos- 
sibile fosse,  fra  gli  avelli  del  magnifico  tempio  di 
s.  Francesco  sciegliere  l'onorata  spoglia  di  Anton-Ma- 
rio Nigrisoli:  e  poiché  dal  silenzio  del  sepolcro  non 
mi  sarebbe  dato  donarla  prodigiosamente  a  novella 
vita  ,  almeno  in  adatta  ed  orrevole  tomba  riporla. 
Ma  adoro  i  disegni  della  provvidenza,  che  a  confon- 
dere l'alterigia  e  l'avarizia  de'protervi,  che  fra  loro 
s'  azzuffano  e  s'accapigliano  per  contendersi  in  vita 
un  palmo  di  terra,  sa  opporre  agli  occhi  dei  medesimi 
esempì  di  futuro:  inevitabile  destino  insegna  loro  , 
come  verrà  tempo,  che  sino  il  sepolcro  non  potrà  non 
essere  spezzato,  rovesciato,  negato,  e  conteso.  Tale  è 
il  vario  avvicendarsi  della  sorte  di  tutti  gli  uomini, 
di  tutte  le  età;  che  principi,  che  eroi,  che  donne,  per 
beltà,  per  virtudi  o  per  vizi  famose  od  infami,  eguale 
fortuna  subirono;  e  tale  fu  il  destino  di  Parisina  e 
d'Ugo  sventurati  amanti ,  le  cui  spoglie  sanguinose 
sepolte  presso  l'antica  terra  di  questo  stesso  tempio, 
né  mai  per  ricerche  da  posteri  rinvenute,  oggi  con- 
sunte dalle  piogge  e  dal  soffio  de'  secoli  dissipate, 
s'  aggireranno  fra  le  polveri ,  che  il  turbine  in  alto 
solleva,  aggira,  e  confonde. 

Ma  dato  è  agli  estinti  un  nome,  che  malgrado  delle 


328 
traversie  cle'tein[)j,  e  del  perenne  rovinio  d'ogni  cosa 
mortale,  perdura,  e  scuote  soavemente  l'immagina- 
zione, e  l'affetto  sì  degli  uomini  che  sono,  e  si  di 
quelli  che  verranno.  Questo  nome  resta  saldo  ed  in- 
concusso fra  i  marosi  della  vita,  come  alto  e  dirupato 
scoglio  su  i  flutti  di  mar  tempestoso.  Rapito  allo 
splendore  che  presenta  questo  nome  onorato,  verrò 
dicendo  parole  di  cotesto  nostro  insigne,  che  se  non 
potranno  riacquistargli  (  ciò  che  nulla  monta  agli 
estinti)  un  sasso  e  un  flore;  lo  ravvivino  almeno  alla 
memoria  de'proprì  concittadini  :  che  in  questa  sola 
comunanza  d'  afletti,  in  questa  fiatellcvole  e  santa 
ricordanza  di  nomi,  sta  la  vita  di  quelli,  che  ci  hanno 
preceduti  trasmigrando  al  regno  di  gloria  immor- 
tale. 

Quando  la  ferrarese  storia  segnò  ne'proprì  annali 
i  nomi  de'più  illustri  suoi  figli,  che  primeggiavano 
in  ogni  peregrino  ramo  di  scienze  ,  omise  talvolta 
di  volgere  materno  lo  sguardo  a  que'niolti,che  sebbene 
secondi,  sfavillavano  però  di  tanta  luce  da  non  la- 
sciarli sepolti  in  vituperevole  ohblio.  Ferrara  a'tem[>i 
di  Leone  X,  pontefice  che  fu  meritamente  reputato 
de'più  insigni,  perchè  segnalò  l'epoca  del  suo  regno 
con  ben  meritare  delle  scienze  e  delle  arti  belle  : 
Ferrara  in  que'tempi  avventurosi  potea  dirsi  l'Atene 
d'Italia:  vedea  quindi  a  gara  sorgere  animosi  (fuor 
del  suo  seno,  come  da  ubertoso  giardino)  celebrità 
d'ogni  sorte.  Ma  essa  ,  come  semplice  fanciulletta  , 
trovandosi  nella  tenera  età  in  somma  ricchezza,  non 
colse  che  i  più  bei  fiori,  onde  fregiare  e  coronare  i 
forbiti  capelli  di  (juclln  aureola  immortale  ,  che  la 
fé  poi  riguardare  con  occhio  d'invidia  dalle  più  colte 


329 

città  sorelle.  Il  giusto  cstiniator  delle  cose  vede  molti 
nomi  d'illustri  ferraresi  o  taciuti,  o  negletti,  o  almeno 
non  ricordati  colla  debita  considerazione:  né  accusa 
d'incuranza  gli  storici,  sendo  inevitabile  cadere  in  tale 
colpa  a  qualunque  s'accinge  a  scrivere  adeguatamente 
de'nostri  maggiori,  per  quel  troppo  alTollarsi  di  cose, 
che  ci  fa  nell'abbondanza  equivocare  sulla  scelta. 

A  togliere  una  di  queste  ingiuste  preterizioni,  a 
porre  in  pili  bella  luce,  se  pure  è  concesso  all'umile 
nostra  dicitura,  un  uomo  insigne,  veniamo  a  tessere 
il  presente  cenno  sulla  vita  e  le  opere  d'Anton-Mario 
-  Nigiisoli,  sperando  che  il  nostro  lavoro,  se  pur  ri- 
uscisse un  debole  tentativo  ,  abbia  ad  aggradire  ai 
cultori  delle  amene  lettere,  a  quelli  che  nutrono  sensi 
di  benemerenza  alle  ceneri  de'trapassati,  e  affezione 
alla  città  natia. 

L'antica  famiglia  Nigrisoli  può  a  dritto  vantarsi 
d'avere  procreati  alla  patria,  come  tante  altre  illustri 
famiglie,  un  gran  numero  di  begli  ingegni  e  d'insigni 
personaggi.  Nel  secolo  XVII  uscivano  dal  suo  ceppo 
un  Sigismondo  e  un  Girolamo  :  nel  secolo  XVIIl  dal 
medesimo  suo  stipite  nasceva  un  Francesco  Maria, 
ed  erano  dessi  tutti  professori  insigni  di  medicina 
nella  nostra  celebre  università;  fra  questi  rifulge  Fran- 
cesco Maria,  autore  di  opere  mediche  reputatissime, 
che  furono  meritamente  lodate  dall'  erudito  storico 
Girolamo  Baruffaldi  nelle  sue  storiche  memorie  di 
Ferrara,  e  commendate  altresì  dai  pii'i  grandi  scrit- 
tori di  medicina,  tra'  quali  mi  limito  ad  accennare 
il  Men gotti  ed  il  De-Henzi.  Nel  1835  sotto  gli  au- 
spici del  conte  Rinaldo  Cicognara  dal  eh.  prof,  di 
chimica  Gaetano  Nigrisoli    pubblicavasi    la    vita    di 


330 

Frnncesco  Maria.  Oia  questa  famiglia,  che  può  van- 
tarsi altresì  di  aver  dati  i  natali  ad  un  Alfonso  Ni^ 
grisoli,  che  al  dire  di  Ferrante  Borsetti  «  fuit  iure- 
consultus  ferrariensis,  italicusque  poeta,  qui  rhitmos 
nec  quidem  paucos  script  t  ;  «  e  fiorì  alla  metà  del 
secolo  XVI:  che  diede  vita  ad  un  Ippolito  nel  seco- 
lo XVII,  che  fu  matematico  esperto,  e  idraulico  per- 
spicace, commendato  dall'insigne  Leopoldo  Cicognara 
nel  suo  discorso  contro  il  Deuina  ;  sul  finire  del 
secolo  XV  sortiva  la  fortuna  di  dare  i  natali  al  celebre 
poeta  Anton  Mario  Nigrisoli,  di  cui  verremo  a  tessere 
brevemente  la  vita. 

Se  le  ceneri  di  questo  benemerito  autore  subirono 
l'infausta  sorte  d'essere  diramate  e  confuse  ,  tal  fu 
dei  nomi  de'suoi  genitori,  di  che  la  storia  non  ci  ha 
lasciato  vestigio.  Il  Barotti,  il  Baruffaldi,  il  Borsetti, 
e  gli  altri  ferraresi  tutti  che  parlarono  dei  Nigrisoli, 
e  raccolsero  compendiosamente  i  fatti  d'Anton  Mario, 
non  ci  sanno  indicare  l'epoca  precisa  del  suo  nasci- 
mento, né  tampoco  i  nomi  de'suoi  genitori  ;  ma  si 
limitano  tutti  a  dire  come  ei  nacque  sul  finire  del 
secolo  XV,  epoca  gloriosa  per  le  belle  ed  amene  let- 
tere, e  per  l'arti  che  ebbero  in  que'tempi  sì  luminosi 
successi  in  Italia.  Egli  è  ben  verisimile,  che  il  nostro 
Anton  Mario  attendesse  a'suoi  studi  in  Ferrara,  allor 
celeberrima  per  la  sua  università:  che  pei  privilegi 
ond'era  stata  inseguita  da'sommi  pontefici,  e  pei  dot- 
tissimi personaggi  ch'ivi  sedevano  a  precettori,  trattivi 
da  larghi  stipendi  de 'generosi  principi  Estensi  da  tutte 
parti,  gareggiava  coi  più  cospicui  atenei  di  que'tempi. 
Il  Baruffaldi  ci  assicura,  come  il  nostro  Nigrisoli  com- 
pisse giovanetto  il  suo  corpo  di  studi  in  Ferrara,  e 


331 

come  ivi  fosse  in  ogni  peregrina  dol trina  e  cavalie- 
resca arte  istruito,  onde  meritò  di  essere  chiamato 
nel  bel  fiore  dell'  età  alla  splendidissima  corte  del 
duca  Alfonso  I  d'Este,  ed  ivi  in  qualità  di  gentil  uomo 
si  trattenne  dall'anno  1523  sino  alla  morte  del  duca, 
che  ebbe  luogo  nel  1834,  e  fu  compianto  dal  nostro 
scrittore  con  un  capitolo  in  terza  rima  inserito  nella 
raccolta  ristampata  in  Venezia  l'anno  1552.  Ma  le 
tendenze  del  giovine  autore  non  assimigliavano  punto 
a  quelle  di  njolti  insigni  e  più  gloriosi  poeti,  i  quali 
gli  furono  contemporanei,  e  seco  convennero  e  con- 
versarono in  quella  stessa  corte  che  era  in  que'tempi 
felici  il  palladio  dei  dotti.  I  suoi  scritti  non  s'invi- 
lirono ,  ed  andarono  scevri ,  da  quelle  iperboli- 
che adulazioni  alla  casa  d'  Este  sì  comuni  e  fre- 
quenti ai  poemi  d'Ariosto  e  di  Tasso  ,  ma  parvero 
anzi  respirare  d'una  dignitosa  ed  ingenua  libertà,  e 
direi  quasi  di  un  nobile  orgoglio:  per  cui  non  si  estende 
nei  suoi  poetici  lavori  a  Iodi  che  possono  parere  so- 
spette, ed  abbiano  quindi  ad  incolparlo  d'ecclissare 
la  propria  personale  dignità.  Se  noi  vogliamo  proferire 
un  giudizio  adeguato  sulle  inclinazioni ,  cui  diresse 
r  animo  poetico  il  nostro  autore  ,  saremo  convinti 
esser  egli  portato  piìi  alla  semplicità  delle  campagne, 
che  allo  sfarzo  pomposo  della  reggia.  Il  desiderio  di 
una  vita  ingenua  ed  innocente  s'  appalesa  ad  ogni 
squarcio  de'suoi  libri,  ed  ivi  traspare  la  bramosia  che 
lo  trasporta  alle  abitudini  pastorali  o  campestri.  Que- 
sto suo  modo  di  vedere  trasparisce  a  colpo  d'occhio 
a  qualunque  osservi  le  sue  letterarie  composizioni, 
ove  la  pace  delle  campagne,  la  soavità  dell'  ombria 
che  dalle  fronzute  piante  sui  fioriti  prati  si  stende, 


332 

l'alefffiiiare  de'fieschi  venticelli,  e  il  morniovio  delle 
fonti,  ed  ogni  altro  villereccio  incantesimo  sono  a 
meraviglia  tracciati.  Egli  ci  viene  delineando  come 
sgridili  di  Teocrito  e  le  egloghe  virgiliane  infiammas- 
sero sino  dall'adolescenza  l'ardente  sua  fontasia,  ne 
sapendo  egli  quali  pitture  piiì  perfette  ritrarre  di 
quelle  ,  che  gli  offrivano  le  georgiche  del  sommo 
autore  di  Mantova,  si  die  a  tradurle  nella  nostra  fa- 
vella in  versi  sciolti  ed  in  istile  purgato.  Fu  somma 
lode  per  lui,  essere  degl'italiani  il  primo  che  n'offrisse 
una  versione,  che  fu  sin  da  que'  tempi  avuta  dagli 
intelligenti  in  grande  estimazione  per  la  semplicità 
dello  stile,  per  la  bontà  delle  frasi,  per  l'energica  ed 
espressiva  forza,  ond'ei  seppe  animarla.  Sebbene  com- 
pisse il  Nigrisoli  questo  suo  lavoro  in  età  giovanile, 
onde  gli  fu  forza  cadere  in  quelle  mende  inevitabili 
all'età  immatura,  sebbene  dopo  di  lui  Bernardino  Da- 
niello, Filippo  Venuti,  e  i  classici  moderni  traduttori 
con  più  pura  favella  e  scorrevolezza  di  ritmo,  pub- 
blicassero le  scene  campestri  del  divino  cantor  del- 
l'Eneide:  nulladimeno  è  incontrovertibile,  che  sì  i 
primi  e  si  gli  ultimi  si  servirono  più  volte  della  tra- 
duzione del  Nigrisoli  per  consultarne  i  più  difficili 
passi,  che  furono  da  lui  facilmente  sviluppati:  ed  è 
incontrovertibile  altresì,  che  nessuno  gli  contese  l'o- 
nore d'essere  stato  il  primo  italiano,  che  si  accingesse 
a  così  ardua  intrapresa,  e  ne  ottenesse  degnamente 
lo  scopo.  Il  gran  dizionario  biografico  universale  delle 
opere  dei  jmù  illusili  scrill(U'i,  che  veniva  compilalo 
in  Francia,  e  liaducevasi  nella  nostra  favella  nel  1830, 
pone  il  nome  d'  Anton  Mario  antesignano  a  quanti 
s'accinsero  alla  versione  delle  georgiche  virgiliano,  e 


333 

ne  parla  con  onorificenza.  Filippo  Argelati  al  tomo 
quarto  della  sua  biblioteca  de'volgarizzatori  gli  tesse 
un  beli'  encomio:  Giovanni  Maria  Crescimbeni  nella 
sua  Volgaì^e  poesia  volume  IV  ne  parla  con  molta 
stima  :  e  il  P.  Paitoni  loda  il  lavoro  del  Nigrisoli , 
e  cita  una  lettera  del  27  maggio  1532  scritta  dal- 
l'autore al  conte  Giovanni  Romei,  in  cui  asserisce, 
che  il  Nigrisoli  per  la  lingua,  pel  metodo,  e  per  lo 
stile  puro,  sollevato  e  grave,  non  s'è  dilungato  punto 
dall'imitato  modello.  Queste  lodi  potrebbero  parere 
eccessive  a  chi  non  le  vedesse  riprovate  dall'auto- 
revolissimo Ferrante  Borsetti  nella  sua  classica  istoria 
De  almo  Ferrariae  gymnasio,  storia  che  per  l'universale 
erudizione,  e  per  le  peregrine  nozioni  che  vi  si  rac- 
chiudono,ha  somministrato  ancora  non  ha  guari,  se  non 
tutta,  ampia  messe  all'elocubratissima  orazione  d'un 
bell'ingegno  sul  patrio  liceo,  che  destò  meritamente 
la  pubblica  ammirazione.  Ora  il  Borsetti  dice  del  Ni- 
grisoli quanto  segue:  «xVntonius  Marius  Nigrisoli,  Blan- 
»  cae  Sforza  Poloniac  reginae  aulicus,  poeta  insignis^ 
))  Virgilii  Georgicam  a  latino  in  italicum  solutum 
)>  Carmen  nobilissime  transtulit ,  edididitqiie  ut  re- 
»  ginae  obsequeretur.  »  Questa  versione  Vide  la  luce 
per  la  prima  volta  in  Venezia  co'tipi  Scssa  1543,  in  8.'''' 
per  opera  di  Fulvio  Pellegrino  Morato  grande  amico 
dell'autore,  il  quale  siccome  la  pubblicava  ad  insaputa 
di  lui,  così  in  questa  edizione  si  riscontrano  di  molte 
inesattezze  e  scorrezioni.  Questo  lavoro  era  dedicato 
al  duca  Ercole  II  d'Este.  Non  pago  però  il  poeta  di 
questa  pubblicazione,  con  vari  mutamenti  ed  aggiunte 
la  riprodusse  assieme  alle  sue  rime  piacevoli  ristam- 
pandola in  Venezia  presso  il  suddetto  editore  Sessa 


334 
nell'anno  1552  parimenti  in  8.":  nella  qual'epoca  però 
r  autore  dedicava  la  sua  versione  alla  serenissima 
donna  Bona  Sforza  regina  di  Polonia.  Riportiamo  la 
lettera  di  questa  principessa  in  risposta  al  Nigrisoli, 
che  per  essere  autentica  ed  inserita  in  quel  libro,  oggi 
rarissimo  a  rinvenirsi,  può  solleticare  la  curiosità  dei 
nostri  lettori  «  Bona  dei  gratia  regina  Poloniae,  magna 
))  dux  Lituaniae,  Barique  princeps  Bosani,  Kussiae 
»  Prussiae  Moldaviaeque  etc.  domina  etc. 

»  Magnifici  sincere  nobis  dilectissimi.  Avendoci 
»  il  magnifico  Antonio  Mario  Rigrisoli  gentil  uomo 
»  nostro  carissimo  compiaciuto  della  Georgica  di 
»  Virgilio  già  molti  anni  fatta  et  corretta  da  lui  in 
»  lingua  toscana  et  con  altre  sue  compositioni  ac- 
»  compagnata;  le  quali  opere  perchè,  oltrachè  a  noi 
»  hanno  molto  soddisfatto,  ed  a  molti  nobili  intel- 
»  letti  le  avevamo  sentite  ancho  molto  lodare  ,  ed 
»  approvare  ,  desiderando  di  non  mancare  in  quel 
»  che  dovemmo  all'honore  di  lui;  et  averne  appres- 
))  so  di  noi  alcune  copie  in  bona  et  bella  lettera 
»  espressa,  con  questa  nostra  vi  la  mandiamo,  ac- 
»  ciocché  senza  fatto  la  facciata  stampare,  quanto 
»  più  presto  potete  con  Tintitulatione,  lettere  et  or- 
»  dine  che  vi  ne  sarà  mandato,  il  che  eseguito  poi 
»  ci  ne  manderete  in  tino  a  venticinque  copie  ac- 
))  ciccchè  noi  et  altri  possiamo  accomodarne. 

»  Di  Varsavia  il  dì  27  di  gennaio  1551 

»  Bona  regina.  » 

Magnificis  viris  Thomae  et  Ioanni  Mariae  Tunctis 
agentibus  noslris  Veneliis  sincere  nostris  dile- 
ciissimis.  Venetiis 


335 

Fu  il  Nign'soli  poeta  che  si  distinse  ancora  nel 
sermone  latino,  come  ce  ne  assicura  lo  slesso  Fer- 
rante Borsetti  nella  precitata  sua  storia:  «  Fuit  Ni- 
grisoli  non  solum  italicus  verum  etiam  latinus  poe- 
ta: »  e  ne  allega  a  prova  il  Crescimbeni  e  lo  stesso 
nostro  autore,  il  quale  il  3  gennaio  1534  in  un  suo 
capitolo  scherzevole  diretto  al  maichese  Ercole  Ben- 
tivoglio,  parlando  del  popone,  disse  : 

E  le  muse  latine,  a  cui  s'appoggia 
Vieppiù  l'intento  mio,  lasciando  un  poco, 
Yi  scrissi  del  popone  in  questa  foggia. 

Questo  capìtolo  trovasi  stampato  ancora  fi'a  le 
rime  piacevoli  di  diversi.  Yicen/a,  Grossi   IGIO. 

In  volgare  poi  scrisse  seriamente  e  burlescamen- 
te, come  ci  assicura  il  Crescimbeni  (Volgaie  poesia, 
voi.  HIT,  lib.  II,  pag.  79.  Venezia  1730.  Lorenzo 
Baseggio).  Della  prima  maniera  vi  è  un  volume  di 
sue  rime  assieme  alla  traduzione  della  Georgica  di 
Virgilio,  stampata  in  Venezia  1543-1552:  della  se- 
conda si  leggono  graziosissimi  capitoli  in  detto  vo- 
lume ed  anche  nelle  raccolte  generali  di  questo 
genere.  L'eruditissimo  Baruffaldi  scrive  possedere  le 
sue  opere  accresciute  e  corrette.  De  scrip.  Ferrar, 
pag.  12. 

Il  Nigrisdli  scrisse  rime  amorose,  e  si  mostrò 
imitatore  del  Petrarca  in  certi  suoi  sonetti  che  han- 
no l'impronta  di  uno  stile  elegante  e  perfetto.  La 
donna  sua,  che  ebbe  per  avventura  il  nome  di  Laura 
e  che  gli  fu  sposa  ed  amò  teneramente,  gli  suggerì 
forse  il  pensiero  d'emulare  quel  canto  appassionato 


336 

del  cuore,  che  fu  sempre  dagli  animi  benfatti  e  gen- 
tili sommamente  apprezzato.  Tal  è  il  sonetto  che 
comincia: 

L'alta  pietà  del  gran  monarca  eterno, 
Che  pel  proprio  saper  muove  e  misura 
Ogni  creata  cosa,  e  n'  ha  tal  cura 
Quant'  aver  deve  un  saggio  alto  governo. 

Bello  è  pure  il  sonetto  alla  sua  innamorata  che  erasi 
recata  a  villeggiare  in  riva  al  fiume  Po,  ed  incomin- 
cia con  tenere  querimonie  ad  Amore,  che  ti  paiono 
i  versi  del  cigno  di  Yalchiusa: 

Ov' è  l'arco  tuo,  amore?  u'  son  gli  strali? 
Ov'è  la  fama  tua,  la  virtù  antica, 
Onde  alla  gente  al  tuo  valor  nemica 
Spesso  hai  fatto  provar  come  tu  vali  ? 

E  dopo  questa  descrizione. 

Ove  Eridano  fende  or  le  ineguali 
Sue  nuove  sponde  ec. 

prosegue  dicendo: 

Stassi  colei  e' ha  di  beltà  l'impero, 

Di  leggiadria  spiegando  a  tutti  fore 

Ciò  che  di  bel  può  aver  nostro  cmispero , 

E  conchiude  dicendo: 


337 

Sprezza  il  tuo  nume,  e  tu  il  consenti,  Amore  ; 
Ma  s'ora  dormi  o  temi,  ah  sappi  il  vero, 
Tu  mi  vedrai  qui  estinto,  io  il  tuo  valore. 

Leggiadro  e  anche  il  sonetto  che  comincia  : 

Beato  giorno  e  più  bealo  loco, 
Che  di  nostro  piacer  vista  ritenne, 
E  dove  la  mia  donna  mi  mantenne 
Un  tempo  lieto  in  sì  soave  foco. 

Il  nostro  autore  da  questo  ben  sortito  maritaggio 
ebbe  figli,  come  ce  ne  assicura  il  suo  capitolo  in  lode 
del  ciliegio,  che  egli  dedicava  a  m  esser  abate  Ben- 
dedei.  Ivi  alla  terzina  51   si  legge  : 

Se  i  miei  fanciulli  alcuna  volta  chiamo, 
E  lor  ne  mostro  alcun  di  lor,  non  bada, 
Ma  corron  tratti  come  pesce  all'amo. 

Tanto  risulta  anche  dal  capitolo  eh'  egli  scrisse  al 
marchese  Ercole  Bentivoglio,  ove  introduce  i  propri 
amici,  i  quali 

Dicono,  hai  moglie,  hai  figli,  altro  sentiero.... 

I  servigi  che  il  poeta  prestò  alla  corte  di  Fer- 
rara furono  ingratamente  compensati  dal  duca:  quindi 
egli  si  lamenta  in  un  suo  terzetto  di  avere  gittati 
al  vento  undici  anni  senza  compenso.  La  sua  imma- 
zione  più  volte  è  perciò  rapita  all'idea  di  una  vita 
semplice  e  campereccia,  di  cui  si  trovano  varie  de- 
G.A.T.CXXXUI.  22 


338 

scrizioni  ne'siioi  versi  che  potrebbero  a  dritto  chia- 
marsi georgìci,  versando  sopra  la  parziale  coltura  di 
varie  piante  fruttifere  ed  arbusti. 

Il  nostro  autore  vivea  quando  mori  il  divino 
Ariosto  ,  e  abbiamo  una  sua  canzone  in  morte  del 
gran  Lodovico,  un  sonetto  al  re  di  Francia,  un  altro 
ad  Arrigo  II,  uno  a  Ferdinando  re  de'romani ,  uno 
al  pontefice  Leone  X,  ed  altri  a  cardinali  e  ad  in- 
signi personaggi  de'suoi  tempi.  Danno  prova  del  suo 
spirito  religioso  vari  componimenti,  che  portano  per 
titolo:  Dio,  la  Croce,  V Epifania,  il  Venerdì  santo,  la 
Risurrezione,  le  Pentecoste,  Tutti  i  beati,  V  Onnipotenza 
e  somma  bontà  divina;  e  nnerita  menzione  il  seguente 
sonetto  all'angelo  suo  tutelare,  che  io  credo  per  la 
pietà  e  leggiadria  degno  d'essere  sottoposto  agli  sguar- 
di de'miei  lettori 

Angelo,  a  cui  da  la  pietà  infinita 
Del  Supremo  motor  data  fu  cura 
Di  custodirmi  'n  questa  tomba  oscura. 
Di  sogni  albergo,  e  d'angosciosa  vita, 

Dal  suo  dritto  sentier  l'alma  già  uscita 
Scorger  tu  puoi,  non  molto  om  sicura 
Dall'offese  di  lui  ch'altro  non  cura 
Che  attenderla  in  eiror  stanca  e  smarrita; 

Però  tu  meco  la  bontà  divina. 

Pregoti,  prega,  sì  eh'  al   fin  sia  invano 
Ogni  arte  e  pvova  de'nemici  inganni: 

Et  sinch'ella  qua  giù  va  pellegrina 

Rendendo  gratie  al  suo  Fattor,  la  mano 
Poigile  amica,  e  al  ciel  le  drizza  i  vanni. 


339 

Moi'ta  la  sua  dilettissima  sposa  Laura,  il   Negri- 
soli  ad  imitazione  del  Petrarca  la  pianse  col  sonetto 

Alma,  che  d'onestà  qui  il  più  bel  seggio 
Tenesti  un  tempo,  e  a  guisa  di  colomba 
Salisti  al  ciel 

Pare  che  fosse  in  età  avanzata  quando  le  morì 
Laura,  dicendo  ivi  : 

Crespo  e  già  bianco  ho  il  ciglio,  arido  il  crine 

Avvi  pure  un  sonetto  alla  sepoltura  della  moglie,  un' 
anagramma 

Laura  deijna  d'onore  e  d'ogni  lode, 

e  sestine,  e  canzoni  a  pegno  del  suo  amore  verso  la 
tenera  sua  compagna. 

Ek)po  questa  sventura  si  trasferì  il  nostro  poeta 
a  Milano.  Colà  essendo  bene  conosciuto  il  suo  raro 
merito  e  la  sua  poetica  valentìa,  entrò  ai  servigi  di 
donna  Bona  Sforza,  regina  e  duchessa  di  Lituania; 
indi  al  dir  del  Baruffaldi  recossi  in  Polonia,  ove  non 
solamente  fu  ammesso  fra  i  più  gentili  cortigiani, 
ma  altresì  venne  ereato  intimo  consigliere,  e  per  le 
belle  qualità  del  suo  spirito  pertrattò  di  gelosi  e 
gravissimi  negoziati.  Ma  1'  insalubrità  di  quel  clima 
lo  costringeva  a  far  ritorno  alla  patria.  Ivi  essendosi 
già  ristabilito  in  perfetta  salute,  visse  alquanti  anni, 
come  ne  assicura  il  suddetto  storico,  sino  a  che  fra 


340 

i  propri  figli  nella  domestica  pace  in  prospera  vec- 
chiaia morì  l'anno  1553  ,  e  fu  sepolto  nella  chiesa 
di  s.  Francesco.  Marc' Antonio  Guarini  nella  sua  guida 
di  Ferrara  porta  che  le  sue  ceneri  furono  deposte 
presso  quelle  dell'amata  sua  sposa  nell'arca  gentilìzia 
della  famiglia  Nigrisoh,  che  era  unita  al  sepolcro  di 
Allesandro  Ariosti  conte  di  Mandria. 

Dalla  breve  e  succinta  sposizione  della  vita  e  delle 
opere  del  nostro  illustre  concittadino  abbiano  i  pro- 
vetti il  giusto  concetto  di  sì  distinto  personaggio,  ab- 
bia la  gioventù  eccitamento  d'emulazione,  e  stimolo 
a  gloria  per  quelle  lodevoli  intraprese  che  per  vol- 
gere d'età  non  lasciano  mai  deperire  la  memoria  dei 
grandi ,  mentre  fugge  la  ricchezza  ammassata  dagli 
avari,  ed  ogni  umana  grandezza  s'annichila  e  strug- 
ge colla  polvere  de'sepolti.  La  patria  finalmente  goda 
udendo  ricordarsi  il  nome  di  chi  tanto  benemerito 
della  pubblica  stima:  e  i  viventi  che  sogliono  invidi 
e  gelosi  attraversare  gli  altrui  passi,  appannar  l'al- 
trui nome,  rispettino  almeno  gli  ultimi  avanzi  de'glo- 
riosi  monumenti  degli  estinti,  di  cui  i  veri  amatori 
della  patria  saranno  mai  sempre  solleciti  e  premu- 
rosi, 

Ferrara  li  8  agosto  1853. 

DoTT.  Francesco  Barbi  Cinti. 


341 


La  Palentiana,  o  massa  Palentiana  di  Cassiodoro 
e  i  luoghi  annessi.  Ricerche  del  prof.  Francesco 
Orioli. 


^ul  cominciare  del  secolo  VI,  secondo  che  scrive 
Procopio  (De  bello  gothico  1.3)  —  Inter  gothos  (uso, 
a  un  mio  costume,  per  comodo  la  traduzione  latina 
in  luogo  del  testo  greco  ,  il  quale  alla  comune  dei 
lettori  non  fa  prò  )  quidam  erat  nomine  Theodatus  , 
filius  Amalafridae,  sororis  Theodorici  ,  provecta  iam 
aetate  homo,  ac  latinis  quidem  liUeris  et  philosophia 
Plalonis  imbutus,  sed  rei  bellicae  piane  rudis,  sum- 
me  ignavus,  et  avaritiae  deditus  extra  modum.  — 

Questi,  che  poi  doveva  a'goti,  omai  padroni  d'Ita- 
lia, in  mal  punto  comandare  come  re,  è  il  mede- 
simo che  da  Cassiodoro  e  Marcellino  conte  è  anche 
detto  Teobaldo:  e  forse  tal  fu  il  vero  gotico  suo  no- 
me, l'altro  non  essendone  che  una  delle  forme  la- 
tine, 0  latino-greche,  tuttoché  alterata  essa  stessa 
qualche  volta,  e  mutata  in  Theodahatus,  a  quella  guisa 
che  domande  si  trova  pur  chiamalo  Giordano  ,  e 
molti  barbarici  nomi  ,  più  maniere  d'  alterazioni  si 
trovano  presso  gli  antichi  latini  e  greci  aver  sof- 
ferto nel  passare  ad  altra  lingua. 

Checché  sia  di  ciò,  apprendiamo  (ivi)  da  Proco- 
pio ,  che  —  liic  agroriim  Tusciae  partem  maximam 
cum  possideret,  ex  reliqnis  exturbare  dominos  enite- 
batur,  genus  quoddam  infelicilatis  esse  ducens  habere 
vicinos:  avania  per  vero  assai  frequente  de'conquista- 


342 

tori  contro  a'  conquistati ,  colla  quale  Teodorico  re 
sempre  ebbe  a  lottare. 

Nel  caso  nostro,  in  prova  che  sì  fatta  accusa  non 
era  senza  fondamento,  abbiamo  appunto  in  Cassio- 
doro  (Variar.  IV,  39) ,  d'ordine  del  re,  scritta  a  que- 
sto Teodato  o  Teobaldo  (giacché  or  nell'una  or  nel- 
l'altra forma  danno  il  nome  i  codici)  una  lettera  ove 
si  legge  :  —  Domilius  (  alla  natura  del  nome  debbe 
essere  un  romano  ,  o  di  sangue  italico ,  e  apparte- 
nente perciò  alla  stirpe  deVinti)  vir  spectabilis  (ave- 
va dunque  però  l'onore  della  spettabililà),  data  nobis 
siippìicalwne  conquestns  est,  possessiones  iuris  sui,  idest 
illam  atque  illam  (così  nel  generale  le  indica  con  nota 
formola,  siccome  in  italiano  diremmo  la  Iole  e  la  tale 
altra  )  uh  hominibiis  vestris  ,  neglectis  legihus  fitisse 
pervasas,  dum  civililer  oportnerit  recipi  (colle  forme 
giudiziarie,  stabilite  pe'cittadini),  si  iure  videantur  ex- 
posci.  Scd  quia  de  vobis  non  patimur  obscura  iaclari 
qui  generis  clarilate  fulgetis  (gli  dà  del  voi,  come  già 
era  in  costumanza  tra'  grandi,  lasciato  il  tu  roma- 
no) ,  praesenti  aticlorilale  censemus,  ut,  imminente  Bu- 
da saione  (a  soprintendenza  di  Duda  nostro  saione: 
specie  di  magistrato,  del  quale  è  da  vedere  quel  che 
nella  nuova  edizione  del  Lessico  di  Ducange  se  ne 
scrive),  si  momenti  tempora  suffragantur ,  occupata 
nuper,  cum  omnibus  quae  direpta  suut,  supplicanti  fa- 
cialis  sine  aìiqua  dilatione  reslilui.  Et  si  quid  par- 
tibus  vestris  de  lefjibus  creditis  posse  competere ,  m- 
structam  personam  ad  nostrum  comilatum  (all'autorità 
de' con  ti  di  ciò  incaricati)  destinare  convenit,  ut  in~ 
tentionibus  (le  istanze)  partium  sub  aequitate  discussis, 
feratur  senlentia,  quam  iuris  dictat  auctoritas.  — 


343 

Ma  sì  fatta  troppo  dolce  riprensione  poco  valse 
contro  il  nipote,  avvegnaché  abbiamo  di  nuovo,  che 
Teodorico  un'altra  lettera  dovette  scrivere  allo  stesso 
indirizzo  (Variar.  V,  12),  la  quale  così  fkvellava:  — 
ArgoHci  viri  ilhistris,  et  Afnandiuni  viri  clarissimi  (al 
solito  due  della  stirpe  vinta,  come  da'nomi  si  rac- 
coglie ,  quantunque  collocati  in  alte  dignità)  liaere- 
des  supplici  nobis  adilione  conquesti  sunt  Palentianam 
massam,  quam  eis  prò  compensalione  largilas  nostra 
transfuderat  (apparteneva  evidentemente  prima  al  de- 
manio regio),  ut  casae  arbitanae  amissionem  Ime  com- 
moditate  solarentur  (erano  dunque  stati  privati,  forse 
per  pari  soperchieria,  della  lor  casa  arbitanay  poiché 
avevan  bisogno  di  consolazione)  ,  ab  hominibus  ve- 
stris,  nidlis  causis  extantihus,  indecenier  invasam:  et 
inde  crevisse  cidpandae  surreptionis  vitiiim,  unde  duri 
debuit  gloriosae  moderationis  exemplnm.  Quapropter^ 
si  nullo  mendacio  asserla  viliantur,  magnitudo  veslra 
(  qui  pure  il  titolarlo  dell'  età  nuova  vieppiù  entra 
nella  consuetudine  latina)  quae  sunt  ahlata  restituat; 
et  si  quid  vobis  credilis  posse  competere,  ad  comitn- 
tum  nostrum  instruclam  iure  personam  modis  omnibus 
destinate,  ut  civililer  piantata  causalio  (è  noto  che  in 
questa  latinità,  causae,  causare,  causalio,  riguardano 
atti  giudiziari)  (inem  de  legihus  sortiatur  etc. 

Né  tanto  pur  sembra  che  giovasse  ,  ancorché  , 
morto  Teodorico,  e  succedutogli  sul  trono  Atalarico 
figliuolo  di  sua  figlia,  a  veder  di  saziarne  l'ingorda 
avarizia,  ordinasse,  a  direzione  senza  dubbio  delFin- 
felice  Amalasunta  sua  madre,  a  Bei'gantino  uomo  il- 
lustre ,  e  conte  del  patrimonio  (Var.  Vili ,  23)  — 
praecelso  atque  amplissimo  viro    Theodahado    massas 


344 

suhlcr  annexas  (  e  ne  seguitava  di  certo  ,  a  pie  di 
pagina  ,  il  catalogo  ,  il  quale  fino  a  noi  non  è  ve- 
nuto) lol  solidos  pensitantes  (cioè  gravate,  io  credo, 
della  pensione  o  del  canone,  di  quanti  pur  siano  soldi 
d'oro  a  favore  del  regio  fisco:  intorno  a  che  si  con- 
sulti il  Glossario  del  Ducange  altrove  citato,  alla  voce 
Pensitatio),  ex  patrimonio  quondam  maanificae  femi- 
nae  matris  ipsius  (e  intendasi  d'Amalficda,  o  Ama- 
lafrida,  mentovata  di  sopra,  sorella,  come  si  disse, 
di  Teodorico  ,  madre  di  Tcodato  ,  e  moglie  in  se- 
conde nozze  di  Trasemondo  re  deVandali  d'Affrica) 
praecipimns  reformari  (assolvendole  da  ogni  presta- 
zione annua,  vale  a  dire,  come  immediatamente  do- 
po s'esprime)  ,  eius  feliciter  dominio  pienissime  ven- 
dicandas  (  al.  iudicandas  ,  ciocche  vale  lo  stesso  ) , 
cuiiis  successionis  integrum  itis  in  ca,  qua  praccipi- 
mus  ,  parte  ,  largimur.  De  cuins  fide  ac  sinceritate 
praesumimiis,  ni  sequenti  tempore  reliqua  supermemo- 
rati  patrimonii  (o  il  di  più,  oltre  alle  masse  soprad- 
dette, non  ereditato,  ma  incamerato,  o  gravato  an- 
cora di  pesi)  omni  adiecta  quantilate  mereatw\ 

Dico  che  non  sembra  ciò  aver  giovato ,  perchè 
leggiamo  di  nuovo  in  Procopio  (I.  4)  lui  tuttavia 
malcontento ,  non  ben  sappiamo  perchè  ,  e  di  che 
—  TusciAM  in  lustiniani  potestalem  (che  è  dire  del- 
Timperadore  costantinopolitano  )  tradere  cogitantem, 
ut  ab  eo  midta  accitus  pecunia,  et  in  senatum  alle- 
ctus,  deinde  Bizanti  vitam  ageret:  —  al  quale  effetto 
die  segrete  istruzioni  a'due  messi  Demetrio  ed  Ipa- 
zio  ,  i  quali  infatti  riferirono  —  mdlo  hunc  negotio 
perficere  permissa  posse,  quod  in  Tuscia  polleret  plu- 
rimum  ,  et  partem  magnam  eius  provinciae   posside- 


345 

rei.  —  Da  un'  altra  parte  —  Inlerea  tusci  complu- 
RES  de  vi  in  omnes  pvovhiciae  suae  incolas  apud  Ama- 
lasitentham  (  la  reggente  del  regno  gotico  )  accusant 
TheodcUum,  ex  mera  libidine  in  aìios  qiiosvis,  tum  in 
domus  regiae  fundos,  quos  Patrimonium  vocilanl,  in- 
volanlem.  Quamobrem  ilici  accitum  ad  ralionem  red- 
dendam  Theodatum,  et  ab  accusatoribus  manifeste  con- 
victum,  quaecumqtie  malis  artibus  eripuerat,  restitiiere 
coegil,  ac  tum  demiim  remisit    (Ivi). 

E  forse  fa  quest'  ultima  la  cagione  dell'  occulto 
divisamento  del  ritrarsi  in  Costantinopoli,  posto,  che 
al  dir  dello  storico  qui  citato  —  Inde,  cnm  in  siim- 
mam  offensionem  hominis  (Amalasuentha)  incurrissely 
deinceps  intercessit  inler  ambos  discordia,  illum  ava- 
rilia  confidente  ,  quod  nec  peccare  licentins  ,  nec  vi 
invadere  cupita  posset.  —  (Ivi). 

Se  non  che  —  Sub  idem  tempus ,  tabe  exesiis  , 
obiit  Atalariciis  ,  cnm  in  regno  annos  Vili  vixisset  ; 
e  —  lune  Amalasiienthay  haud  dubie  peritura,  nulla, 
nec  indolis  Tlieodati,  nec  suae  in  eum  recentis  seve- 
ritatis  ,  habila  ratione,  in  animum  induxit ,  se  illum 
piane  innoxium  experturam,  si  in  illum  magnum  ali- 
quod  beneficium  conferret,  (et)  eum  accersit  —  dove 
ognun  sa  quel  che  poscia  accadde.  Riconciliatasi  la 
mal  cauta  donna  con  lui,  lo  impalmò  sposo:  a  che 
tenne  dietro  l'insigne  ingratitudine  ,  di  che  parlano 
le  storie,  d'averla,  dopo  vistosi  re,  rilegata  neìVisola 
Martana  del  Ingo  volsiniense,  e  l'averla  quindi  o  fatta, 
0  lasciata,  strangolare  nel  hagno. 

Or  tutto  questo  brano  di  storia  del  terzo  re  goto 
ridussi  alla  memoria  di  chi  legge  per  illustrare  que- 
sta iiicocnita    massa    Palcnliana  ,    mentovata  tra  le 


3/i6 

usurpazioni  di  Teodato ,  a  relazione  ,  secondo  che 
trascrivemmo  ,  di  Cassiodoro.  Alla  quale  impresa 
procedendo,  dopo  il  cenno  che  ne  diedi  nell'operetta 
—  Viterbo  e  il  suo  territorio  —  Roma  184-9,  p.  153 
— 59,  così  ragiono:  —  Checché  sia  della  massa  Arbi- 
tana,  rispetto  alla  quale  non  ho  lume  che  m'  aiuti 
a  giudicare  ove  fosse,  di  quella  prima  non  mi  sem- 
bra poter  esitare  a  dire  eh'  ella  fu  il  luogo  del  ter- 
ritorio viterbese  oggi  conosciuto  sotto  il  nome  vol- 
gare di  Paranzantty  sotto  i  cappuccini  detti  del  Monte. 

Provarlo  non  è  difficile.  Si  raccoglie  da'citati  passi, 
che  questo  Teodato  avesse  nella  Tuscia  i  suoi  beni, 
nella  qual  pure,  innanzi  all'avvenimento  al  trono  go- 
tico ,  risiedeva  ;  e  della  qual  sola  si  parla,  anche 
quando  è  narrato  che  proponeva  di  cederla  all'im- 
peradore  costantinopolitano ,  allorché  meditava  di 
mettere  stanza  in  Bizanzio  :  cosicché  è  lecito  infe- 
rire che,  aver  voluto  ceder  quella,  equivaleva  all'a- 
ver detto  che  ivi  era,  e  non  altrove  ogni  suo  pos- 
sesso. Ma  se  ciò  non  si  giudicasse  bastevol  prova  , 
puossi  aggiungere  a  conferma  quel  che  Giornande 
scrive  al  capo  LIX  —  Amalasiientha  .  .  .  Theodaltim 
consobriniim  suum,  germanitatis  gratia  accersitum  a  tv- 
scia,  UBI  PRIVATAM  VITAM  DEGENS,  IN  LABORIBUS  (  al- 
tri leggono  IN  LARI  BUS  )  PROPRiis  E  RAT  ,  iti  reguum 
collocavil.  Dove  quale  specialmente  fosse  la  porzione 
di  Toscana  che  abitava,  non  è  detto,  ma  è  facile  in- 
dovinarlo. 

Racconta  Marcellino  conte ,  come  Vitige  ,  dopo 
avere  ucciso  esso  Teodato  in  Romagna  presso  il  fiu- 
me Santerno  ,  calò  in  quel  de'  tusci  —  omnes  opes 
Theodati  diripiens,  qiias  in  insula,   vel  in  Urbe  Vetus 


3^7 

congregaverat.  Or  gli  avari  non  si  tengono  mai  guari 
lontani  dai  lor  tesori.  Si  può  dunque  scommettere, 
che  l'abituale  residenza  del  re  messo  a  morte,  pri- 
ma almeno  d'  essere  innalzato  alla  regale  dignità  , 
esser  doveva  poco  lungi  dalle  terre  poste  tra  Orvieto 
e  il  lago  di  Bolsena,  e  probabilmente  in  Orvieto. 

Che  i  suoi  maggiori  possedimenti  avesse  in  quei 
dintorni,  lo  s'impara  non  manco  dalla  scelta  dell'isola 
Martana  per  compiere  1'  orribile  misfatto  della  pri- 
gionia e  dell'assassinio  della  misera  sua  moglie.  Se 
dunque  appresso  a  questi  luoghi  troviamo  ab  antico 
'  una  PaleiUiana,  non  è  dubbio  che  di  questa,  e  non 
di  un'altra  da  cercare  altrove,  favella  la  storia,  co- 
me d'una  massa  rapita  dal  nipote  di  Teodorico  agli 
eredi  d'Amandiano  e  d^Argolico.  Ma  così  è  appunto, 
secondo  che  risulta  da  una  serie  non  interrotta  di 
documenti,  che  a  questo  effetto,  e  per  altre  coro- 
grafiche notizie  ,  le  quali  posson  trarsene,  è  pregio 
dell'opera  toglier  qui  dalle  tenebre,  tra  le  quali  fin 
qui  giacquero  per  la  più  parte. 

E  prima  dal  Regestum  farfense  noterò  i  seguen- 
ti, riserbando  alla  fine  il  trar  conseguenze.  — 

1.  n."  74-,  a.  766.  «  In  Dei  nomine.  Regnanti- 
bus  dominis  nostris  viris  excellentissimis,  et  a  Deo 
conservatis.  Desiderio  et  Adelchi  filio  eius,  magnis 
regibus,  anno  regni  eorum  in  Dei  nomine  decimo  et 
septiino,  mense  aprili  indictione  quarta  feliciter. 

»  Manifesta  causa  est,  quoniam  ego  Miccinellus, 
filius  cuiusdam  Florentiani ,  qui  sum  habitator  Vici 
Palentianae  (  qui  Palentiana,  in  tutte  lettere,  è  un 
vico  )  datas  habui  bonae  memoriae  Anselmo  duas 
tabulas  terrulae    in  fundo  Casale  Fagiano  (  vedremo 


348 

che  questo  luogo  è  nel  sito  denominato  oggi  Casino 
del  vescovado  )  ad  pastinandum  ,  ut  ipsam  vineam 
plantaret,  et  usque  ad  annos  quinque  partiretur  in- 
ter  nos  per  medietatem,  et  contingit  mihi  de  ipsa 
vinea  in  portione  tabula  una.  Unde  ego  qui  supra 
Miecinellus,  bona  et  spontanea  voluntate  mea,  libera 
potestate,  vendidi  tibi,  Baiane  abbas  monasterii  san- 
ctae  Mariae  {il  monastero  di  Farfa),  unam  tabulam 
de  vinea  mea,  cum  pomiferis  arboribus,  et  repalibus 
suis  {ripariy  cioè  siepi,  ma  forse  è  sepalibus,  di  che 
\.  Glossar.  )  ,  vel  quantum  ad  ipsius  vineae  meae 
portionem  venit  infra  [tutti  sanno  che  in  sì  fatta  la- 
tinità vale  intra  ,  come  nelV  italiano  in  fra  )  ipsum 
casalem  fagianum  in  integrum  {le  vigne  vi  sono  an- 
cora). Unde  profìteor  me  qui  supra  venditorem  re- 
cepisse a  te.  Baiane,  prò  ipsa  una  tabula  vineae, 
auri  solidos  VBI,  finito  pretio,  sicut  inter  nos  bono 
animo  convenit  etc.  (interpunzione,  e  dittonghi  vi  son 
di  mio.) 

))  Actum  ad  oratorium  s.  Mariae  in  Fagiano  {Di 
questo  oratorio  sussislon  le  vestigie  nel  suddetto  Ca- 
sino del  Vescovo  come  poi  si  dirà).  Regno  et  indi- 
ctione  suprascripta. 

Signum  ^  manus  Miccinelli  venditoris,  qui  hanc 
cartam  venditionis  fieri  rogavit. 

Signum  )^'  manus  Ausoni  filli  cuiusdam  Marcel- 
lini  viri  devoti  [così  suole  spiegarsi  il  vd.)  testis. 

Signum  )^  manus  Petruli  filli  cuiusdam  Laurio- 
nis  viri  devoti  testis. 

Signum  >^  manus  Gualfredi  cuiusdam  Autareni 
viri  devoti  testis. 

Signum  "^  manus  Alano  [sic)  fìlli  cuiusdam  Ti- 
nonis  viri  devoli  testis. 


349 

Signiuii  )^  loi'danis  fìlli  cuiusdam  Pittali  viri 
devoti  testis. 

>J(  Ego  Ioannes  notarius  huius  (.sic)  cartam  post 
traditam  compievi  et  dadi.  » 

Nolinsi  fin  d'allora  i  nomi  traiti  dalla  lingua  vol- 
gare quale  ancor  oggi  si  conserva,  Miccinello,  dimi- 
nulivo  di  miccino  ,  cioè-,  presso  i  contadini,  piccolo; 
e  Pittulus  che  ugualmente  per  piccolo  ,  anche  ora , 
alcuni  pronunziano. 

2.  n.°  76,  a.  766.  «  In  Dei  nomine.  Regnanti- 
bus  dominis  nostris  ,  viris  etc.  [in  tutto  come  sopra) 
mense  iunio. 

»  Constat  me  Ferulum  ,  fìlium  cuiusdam  Deus 
dedit,  clerici  de  vico  Palentiana,  et  venditorem,  li- 
bera potestate  vendidisse  tibi,  Halane  abbas  de  mo- 
nasterio  s.  Mariae,  quod  situm  est  in  Acutiano,  ter- 
ritorio sabinensi  [il  monastero  detto  di  sopra)  ,  nul- 
lius  coactum  imperio,  sed  pura  et  spontanea  volun- 
tate  mea,  unam  tabulam  vineae  meae,  quae  posita 
est  in  casale  Fagiano  [detto  anch'' esso  di  sopra),  quae 
contingit  ad  pastinandum,  a  quodam  Pertone  de  Tu- 
scana  [di  Toscanella),  omnia  quantacumque  ipsi  vi- 
neae pertinent,  una  cum  arboribus  fructuosis  vel  in- 
fructuosis ,  sicut  mihi  pertinuit  totum  in  integrum, 
tibi ,  qui  supra  ,  emptori  meo  vendidi ,  et  in  ipsa 
clausura  mihi  nihil  reservavi,  linde  protìteor  ego  qui 
supra  venditor  ,  me  suscepisse  a  te  emptore  meo 
pretium  per  Teutpaldum  monachum  vestrum  ,  prò 
iam  dieta  vinca,  auri  solidorum  Vili,  finito  pretio, 
sicut  inter  nos  bona  voluntate  convenit  etc.  Actum 
in  VICO  Palentiana  ante  ecclesiam  sancii  Petri    [ve- 


350 

dremo  che   ìiemmm  di  questa    chiesa  di  s.  Pietro  è 
perduta  la  memoria). 

»  Sign.  )>^  man.  Feruli  viri  hooorandi,  qui  hanc 
cartam  venditionis  fieri  rogavit.  Sign.  )^  man.  An- 
sonis  de  Foffiano  [luogo  noto  ancor  esso ,  che  cer- 
cheremo in  seguito)  viri  devoti  testis.  Sign.  >J(  man. 
Radechis  centenarii  [nome  di  giudici  minori  né'pagi^ 
intorno  acquali  v.  il  Gloss.)  Sign.  j^  m.  Vualfredi  de 
Fagiano,  viri  devoti  testis.  )^  Ego  lordanus  notarius 
rogatus  a  suprascripto  venditore  hanc  cartam  scri- 
psi,  quem  post  traditam  compievi  et  dedi.   » 

3.  n.°  81,  a.  768.  «  Regnantibus  dominis  no- 
stris,  Desiderio  et  Adelchi  filio  eius,  viris  excellen- 
tissimis  regibus,  anno  piissimi  regni  eorum  in  Chri- 
sti  nomine  duodecimo,  et  octavo.  XVIII  die,  mensis 
aprilis,  indictione  VI.  Placuit  ,  atque  bona  volun- 
tale  convenit  Inter  venerabilem  virum  Halanum,  ab- 
batem  monasterii  s.  Dei  genitricis  M.,  siti  in  Sabi- 
nis,  nec  non  et  Ansilbergam  (  questa  è  la  figliuola 
di  re  Desiderio  e  d'Ansa)  sacratam  Dee  abbatissam 
monasterii  domini  Salvatoris  ,  fundati  infra  muros 
civitatis  Brexianae  [dentro  Brescitty  e  si  noti  che  già 
all'  i  era  sostituito  V  e  nel  nome  latino  ,  come  an- 
cor oggi)  ,  constitutam  a  suprascripto  principe ,  ut 
in  Dei  nomine  [il  ms.  ha  in  din  solita  abbreviazione) 
debeat  dare  ipse  Halanus  abbas  antedictus  eidem 
Anselpergae  abbatissae  in  causa  commutationis,  id- 
est  cellulam  unam  (è  noto  che  cellula  e  cella  signi- 
ficarono  ospizio  di  monaci  soggetto  ad  altro  mona- 
sterio)  cum  ecclesia  s.  Petri,  quae  est  posila  in  su- 
piascripto  fundo  sabino,  loco  qui  dicitur  Classicella, 
cum  omnibus  suis  pertinentiis,  qualiter  ab  Anspert 


351 

et  Guandilpert  proposi lorum  {sic)  ipsius  eellae  fuit 
directa  {spiego  amministrata) ,  vel  possessa,  tam  in 
ipso  loco  Classicellae,  vel  ubi  ipse  Anspert  casas  ha- 
buit,  levatas  et  terras  (levae  o  levatae  par  valessero 
diritti  d'esazioni),  seu  et  aliam  cellam  in  finibus  Ve- 
derbensium  (2.  manu  Vetterbensium  o  Yecterbensium 
ittc.) ,  in  loco  qui  dicitur  Fagiiiuus  ,  cum  omnibus 
suis  pertinentiis  in  integrum  ,  qualiter  ab  Anselmo 
de  Vederbo  (2.  man.  Vecterbo),  et  Aimone  genero  eius 
fuit  possessa,  has  suprascriptas  duas  cellas,  cum  omni- 
bus suis  pertinentiis  in  integrum  cum  terris,  vineis, 
silvis,  pratis,  pascuis,  montibus,  astalariis  (  il  Glos- 
sario spiega  male  questo  vocabolo.  Esso  vale  selva 
bassa  e  cedua  da  pali  o  pertickcy  cioè  da  astali  o  ba- 
stoni d'aste  )  rìpis,  supinis  (  Esso  Gloss.  corregge  in 
casi  simili  rupinis,  ma  è  qui  per  opposizione  a  ripis 
do  supra  per  esprimere  la  patte  superiore  e  meno 
acclive  delle  ripe)  ,  paludibus,  cultis  et  incultis,  di- 
visis  vel  indivisis,  cum  familiis,  et  mobilibus  vel  im- 
mobilibus  rebus  ,  omnia  in  integrum  ,  sicut  usque 
nunc  a  suprascriptis  Anspert,  Guandilpert,  Anselmo 
et  Aimone  fuerunt  possessa,  vel  directa,  quantum  in 
praesenti  die  ad  ipsas  duas  cellas  pertinet.  Et  ad 
vicem  recepii  ipse  Halanus  a  suprascripta  Ansilperga 
abbatissa ,  iterum  in  causa  commutationis  ,  cuitem 
unam ,  quae  est  posila  in  finibus  reatinis  ,  in  loco 
ubi  dicitur  Vallantis  ,  cum  casis  massariciis  et  al- 
diarieis  ,  cum  familiis  et  servis,  liberis  prò  liberis, 
aldionibus  prò  aldionibus,  {i  liberi  dati  per  liberi,  gli 
aldioni  per  aldioni  e  da  accettarsi  per  tali.  Veggasi 
però  il  Troyuy  voi.  IV,  part.  Ili,  pag.  129  e  340), 
cum  diversis  territoriis  ,  cum  terris  ,  vineis  ,  pratis, 


352 

silvìs,  pascuis,  astalariis,  ripis,  supinis,  montibus,  et 
paludibus,  et  cultis  vel  incultis,  divisis  vel  indivisis, 
mobilibus  vel  irnmobilibus  rebus,  seseque  moventi- 
bus,  omnia  in  integrum,  quantum  legìbus  ad  ipsam 
eui'tem  pervenire  videtur.   « 

E  qui  di  Palentiana  non  è  cenno,  ma  si  di  Fagiano 
e  della  cella  che  ivi  era,  presso  a  Palentiana,  come 
vedremo  a  suo  luogo:  ciocché  mi  mosse  a  non  omettere 
sì  fatto  documento  ,  indicato  già  dal  Troya ,  Storia 
J'  Italia  voi.  1,  p.  V,  ed  ultima  pag.  CCXLVH ,  e 
dalV  autore  eh''  ei  cita  in  nota  ,  e  ciocché  mi  muove 
ad  aggiungere  i  seguenti  ancora. 

4.  n.°  105,  a.  775,  [Trovasi  pur  nel  Galletti,  Lett.  su 
i  vescovi  di  Vit.  giorn.  di  leti,  di  Roma  a.  ì  75,  66,  e 
nel  T.  op.  e  voi.  cil.  p.  CCCCXXXIX  [e  seg.  ma  da 
me  qui  é  corretto  sul  Regestum  originale). 

»  In  Dei  nomine.  Regnante  domino  nostro  Karolo 
viro  excellentissimo  rege.  Anno  regni  eius  in  dei  no- 
mine II,  in  Italia  mense  iulii  per  indictionem  XIII. 
Sapientium  est  prò  futuris  casibus  vigilare,  et  dum 
ad  terrena  tendimus  de  caelesti  gratia  nobis  oportet 
cogitare,  ut  graviora  pondera  peccati  abicere  possi- 
mus.  Ideoque  nos  Aimo  voltarius ,  habitator  castri 
Viterbii,  una  cum  Alio  meo  Petro  clerico,  offerimus 
nos  cum  omnibus  rebus  vel  substantiis  nostris  in 
monasterio  sanctae  dei  genitricis  Mariae  finibus  spo- 
letanis,  territorio  reatino,  loco  ubi  dicitur  Acutianus; 
et  ubi  Probatus  vir  venerabilis  esse  videtur  abbas , 
et  donamus  ,  cedimus  atque  tradidimus  a  praesenti 
die  omnes  pecunias  vel  substantias  et  pertinentias 
nostras  in  integrum,  tam  casas  utensilium,  quam  et 
familias,  et  peculia,  ferramenta,  vasa  lignaea  (sic)  et 


353 

lictilia,  campos,  prata,  vineas,  silvas,  pascua,  aquas 
aquarumque  decursus,  seseque  moventes  quibuscum- 
que  locis  vel  fìnibus,  aut  ubicumquehabere  et  possidere 
visi  sumus  tam  bic  in  Viteibìo,  quamque  in  Tuscana 
[Toscanella),  Orcla  [oggi  Orchia  o  Norchia  famosa  pe' 
suoi  sepolcri),  seu  Castro  [capilale  oggi  distrutta  dello 
slato  detto  di  Castro  nel  Patrimonio),  atque  super  alpes, 
et  in  aliis  quibusque  locis  vel  fiiiibus  longobarboruni 
[sic:  d'onde  si  raccoglie  ch^egli  forestiero,  come  poi  si 
vedrà,  veniva  dalle  regioni  alpine,  fuori  del  regno  lon- 
gobardico) nostra  pertinentia  esse  videtur,  tarn  ex  iure 
parentum,  quam  ex  comparatione  ;  ex  dono  regum 
[notisi  questo.  Era  dunque  ben  affetto  ai  re  longobardi, 
da' quali  aveva  ricevuti  doni.  Si  vegga  di  nuovo  il  Troya 
voi.  IV,  p.  3,  cit.  p.  167)  seu  quidquid  de  coniuge 
rnea  bonae  memoriae-Anstruda  milii  attingit.  Necnon 
quaecumque  nobis  singuli  homines  debitis  (sic)  dare, 
una  cum  oratoriis  ac  pertinentiis  eorum  in  integrum. 
Anteposita  portione  mea  qui  supra  Aimonis  de  ora- 
torio sancii  Salvatoris,  territorii  tuscanensis ,  quam 
parentes  suprascriptae  mulieris  meae  a  fundamento 
aedificaverunt;  seu  et  portione  mea  de  curte  intarnano 
(sic),  et  Calbitiano  cum  suis  pertinentiis,  unde  iam 
antea  iudicatum  emisi  monasterio  sancti  Salvatoris 
territorii  reatini,  ubi  Atroaldus  venerabilis  abbas  esse 
videtur  ,  quod  volo  ut  sic  permaneat  sicut  in  ipso 
iudicato  continetur  diebus  vitae  meae.  w 

»  Nani  quidquid  de  istis  suprascriptis  tribus  locis, 
idest  de  oratorio  sancti  Salvatoris,  Tornano  (sic)  et 
Calvitiano,  in  portionem  Petro  filio  meo  contingere 
videtur,  volumus,  ut  ambe  partes  a  praesenti  die  sint 
in  potestate  et  iure  suprascripti  monasterii  sanctae 
G.A.T.CXXXJII.  23 


354 

Mariae,  seu  et  Pròbarti  abbatis,  vel  cunctae  congre- 
gationis  eius.  Nam  ah"a  omnia  in  integrutn  sìnt  po- 
teètate  praedicti  monasterii  sanctae  Mahae,  sicut  su- 
pra  legitur  ,  vel  cunctae  congregationis  eius.  Quia 
[fiic  per  (piani)  vei'o  cartam  donationis  seu  dispositio- 
nis  et  offei'sionis  lohannes  notarius  8ciibens  dictavit 
et  supter  corann  testibus  propriis  manibus  confiimans 
l'oboràvit,  et  testibus  a  nobis  rogatis  stipulationem 
et  sponsioncm  solemniter  imposuit. 

)S  yVctum  in  Castro  Viterbii.  {Nel  castriim',  dun- 
que n§n  né^  borghi  o  vici  esteriori,  sì  bene  ifi  Viterbo^ 
COÌTI  era  prima,  ristretto  al  solo  colle  del  duomo).  Si- 
gnum  ^  inanus  Aimonis  qui  hanc  cartam  donatio- 
nis et  oblatioìiis  fieri  rogavit. 

)ij(  Ego  Petrus  vir  venerabilis  archipresbiter  [ar- 
ciprete senza  dubbio  (in  d'allora  di  s.  Lorenzo,  oggi 
cattedrale,  e  allora  nel  casirnm,  non  più  longobardico^ 
e  »er785  soggetto  a  Carlo  Magno;  prete  insignito  ivi 
rli  quella  specie  di  supremazia,  che  nelV  importante 
castello  di  frontiera,  il  gitale  separava  quivi  sulla  cassia 
il  fe^ò  longobardo  dal  ducato  romano,  facevalo  vica- 
rio e  rappresentante  del  vescovo  tuscaniense.  V.  Gloa- 
isar.)  Riogatus  ab  Aimone  et  Petrone  in  hac  carta 
dispòsitionis  et  donationis  manu  mea  subscripsi. 

H  Signum  ^  manus  Minconis  Biscarionis  curtis 
^è^iaè  viterbensis  viri  devoti  testis  [Vicescarione  del- 
la corte  regia,  o  vicecarrione^  cioè  vicecari'eggioitore, 
come  nota  il  Galletti.  0  piuttosto  specie  indeterminala 
di  dignità  allenente  alla  corte  di  Carlo  Magnai  come 
re  del  paese,  finché  non  ne  dispose  altrimenti.  V.  Trogà 
m^  óìt.  ptug.  175  486  ecc.). 


355 

»  Signuni  ^  maniis  Leoniperti  procumloris  testis 
(  procuratore,  qui  è  un'altra  dignità  di  valore  ugual- 
mente non  ben  determinato,  che  però  attesta  l'impor- 
tanza in  quel  tempo  del  Caslrum   Viterbi). 

)i^  Ego  Tinca  locipositus  Castri  Viterbii  rogatus 
ab  Aimone  et  Petrone  in  hac  carta  donatìonis  seu 
oblationis  me  testem  subscripsi.  (  E  qui  non  Tinea, 
come  scrive  il  Galletli,  uè  Tittca,  come  il  Troya,  ma 
veramente  Tinca,  soprannome  dal  paese  lenente  luogo 
di  nome  ;  e  il  locipositus  è  magistrato  ,  che  si  tro- 
va unito  ai  clusarii,  o  guardiani  delle  chiuse,  nella 
legge  di  Rachis,  data  dal  ms.  cavense.  Progresso  di 
Napoli  1832,  voi.  I,  pag.  110,  che  par  valesse  un 
officio  analogo  a  un  commissario  di  polizia,  o  soprin- 
tendente a'  passaporti,  carica  necessaria  in  fortezza 
di  confine,  posta  a  cavallo  della  strada  consolare). 

^  Ego  Ragipertus  rogatus  ab  Aimone  et  Petrone 
in  hoc  scripto  me  testem  subscripsi. 

)^  Ego  Hermepertus  rogatus  ab  Aimone  socero 
meo  in  hac  carta  consentiens  me  testem  subscripsi. 
[E  ne  impariamo  che  il  genero  d'Aimone  era  Erme- 
perto  e  non  Rangiperto  mentovalo  di  sopra,  come  dice 
il  Trotja,  per  avergli  qui  saltalo  il  copista  nel  manoscrit- 
to una  linea,  e  cosi  attaccato  per  isbaglio  le  parole  ai) 
Aimone  socero  meo  etc.  al  rogatus  di  Ragipertus  ). 

)^  Ego  Causio  rogatus  ab  Aimone  et  Petrone  in 
hac  carta  oblationis  et  donationis  me  testem  sub- 
scripsi. 

^'  Ego  lohannes  notarius  qui  hanc  dispositionem 
scripsi  compievi  et  dedi. 

Sottoscrizioni  queste,  tutte  notabili,  perchè  cinque 
di  essi  sanno   scrivere  a  testimonianza   che   siamo  a 


356 

tempo  di  maggior    collura  già    cominciata  in  Italia  , 
buon  tratto  prima  che  Carlo  Magno  fosse  imperatore. — 

5.  n.  216,  a.  1812  o  1813.  Dato  già  dal  Troya 
voi.  cit.p.  CCCCXVI  e  seg.  e  pima  dal  Gallelti  nel  Ve- 
starario,  e  al  solito  corretto  da  me  sid  Regeslum  origi- 
ginale.  «  In  nomine  Domini  nostri  Tesa  Christi.  Impe- 
rante domno  Karolo  piissimo  principe  augusto  a  Deo 
coronato  magno  imperatore,  anno  Deo  propitio  im- 
perii eius  Xin  ,  atque  domni  nostri  Leonis  summi 
pontifìcis  et  universalis  papae  in  sacratissima  sede 
beati  Petri  apostoli  anno  XVIII,  mense  maii,  indi- 
ctione  VI. 

»  Dum  in  Dei  nomine  resideret  domnus  nostcr 
[già  Viterbo  non  è  plii  di  Carlo  re,  come  nella  carta 
precedente)  Leo  summus  pontifex  et  universalis  papa 
in  sacro  palatio  lateranensi  (  Leone  HI  )  ,  et  ades- 
sent  ibidem  lohannes  et  Tastaldus  episcopi,  Theodorus 
nominculator,  Georgius  bibliothecarius,  Gemmosus 
vestararius,  Albininus  [sic,  non  Albinus,  come  in  T.) 
quondam  Lori,  [così  legge  il  T.  ,  ma  il  Begestiim  ha 
qsdlori  con  linea  sopra  di;  onde  preferisco  di  leggere  col 
Muratori  Antiq.  Italie.  Diss.  LXII.  Quisdelori),  et  Agi- 
prandus  cubiculari!,  Nordo,  Racuccio,  Naningus  de 
Biterbo.  Et  dicebat  Maurus  filius  bonae  memoriae 
Suabini  de  Castro,  contra  Benedictum  abbatem  mo- 
nasterii  sanctae  Mariae  ,  loci  ubi  dicitur  Acutianus 
territorii  sabinensis 

))  Malo  ordine  habetis  res  et  substantias,  in  ter- 
ritorio Biterbensi,  vel  in  Tuscana,  vcl  singulis  locis, 
quae  fuerunt  Aimonis  et  Ansetrudae  coniugis  eius, 
qui  fuerunt  genitores  Anastasiae  socrus  meae,  quae 
legibus  in  ipsis  rebus   haereditare   debuit,  et  modo 


357 

ìegibus  coniugi  meae,  filiae  eorum,  pertinere  debet, 
prò  eo  quod  ipsain  filiam  suprascripti  sibi  haeredera 
constituciunt.  Unde  ante  hos  dies  plurimo  tempore 
Yobiscum  in  iudicio  fuimus,  et  guadiam  mihi  dedistis, 
ut  munimina  adduceretis,  et  exinde  pignora  habui, 
sed  legem  meam  habere  non  potui. 

))  Ad  haec  respondebat  Benedictus  abbas  una  cum 
monachis  suis.  Verum  est  quia  cum  antecessore  meo 
multas  causationes  habustì.  Sed  de  ista  causa  non 
respondeo  antequam  inquiram  munimina,  et  homi- 
nes  per  quos  ipsa  res  Ìegibus  pars  monasteri!  habere 
possit.  Et  sic  inter  se  guadiam  dederunt ,  et  fìdei 
iussores  posuerunt,  ut  inquirerent,  et  in  die  consti- 
luto  venirent  ad  jiistiliam  facicnclam.  Et  ì^ecoìiiun- 
xcrunt  se  in  alio  die  constituLo  [il  pezzo  corsivo  manca 
nel  T.  )  intra  palatium,  et  aderat  suprascriptus  Ta- 
staldus  episcopus,  Raginaldus  de  Tuscana,  Principium 
de  Orbevetere  scabinus  ,  Mauringus  sculdascius  de 
Castro,  Hermetancus,  Modelpertus  clericus,  Petrus 
abbas,  Tachipertus  [bianco) ,  Iffo  et  Filiprandus  de 
Suana  ,  Tachipertus  et  Prando  germani  de  Silva  , 
Roprandus  et  Petrus  germani,  et  alii  plures.  Iterum 
dicebat  Maurus  contra  iamdictum  Benediqtum  abba- 
tem  vel  contra  monachos  suprascripti  monasterii. 
Sicut  iam  antea  dixi  vobis,  contra  legem  habetis  res 
vel  substantias  Aimonis  et  Ansetrudae. 

))  Respondebat  Benedictus  abbas  cum  monachis 
suprascripti  monasterii. 

))  Idest  Tentone  monacho,  Alifredo  presbitero  et 
monacho,  Donnulo  monacho  et  preposito  suprascri- 
ptae  substantiae  unde  agebatur,  Beitone  monacho, 
Ingone  monacho,  [il  corsivo  manca  in  T.,  ed  egli  seri- 


358 

ve  Anse  friso)  Ansefi'ido  longobardo  de  Reale,  qui  cum 
ipsis  eranl  (forse  crai),  et  aliis  plurimis.  Ipsas  res 
quas  nobis  requiris,  legibus  habemus,  prò  eo  quod 
Aimo  cum  fìlio  suo  Petro  intravit  in  monasterium 
sanctae  Mariae  ,  et  ipse  Petrus  in  ipso  monasterio 
mortuus  est,  et  posteci  Aimo  genitor  eius  in  supra- 
scriplo  monasterio  mortuus  est  [il  corsivo  manca  in  T.) 
per  cartulam  optulit  ipsas  res  suas ,  et  dedit  in 
monasterio  sanctae  Mariae. 

»  Ad  haec  respondebat  Maurus.  Verum  est  quod 
dicitis,  quia  Petrus  in  ipso  monasterio  ante  genito- 
rem  suum  mortuus  est.  Sed  infra  aetatem  erat  quan- 
do defunctus  est,  et  Aimo  qui  supervixit  guaregangus 
homo  fuit,  et  cum  filia  sua  Anastasia  remansit,  et 
secundum  aedicti  tenorem  filiam  suam  exhaereditare 
non  potuit.  Et  cum  sic  multas  altercationes  vel  cau- 
sationes  inter  se  habuissent,  fecerunt  inter  se  conve- 
nientiam  una  cum  consensu  et  voluntate  monacho- 
rum  suprascripti  monasterii ,  seu  per  absolutionem 
domni  Leonis  papae,  qui  ipsum  abbatem  et  mona- 
chos  suprascripti  monasterii  ore  suo  interrogavit,  si 
ipsam  convenientiam  sua  bona  voluntate  cum  supra- 
scripto  Mauro,  vel  cum  coniuge  eius  facere  voluisscnl. 

Et  ipse  ahbas  ,  et  monachi  eius  dixerimt.  Quia 
bona  voluntate  nostra  cum  suprascripto  Mauro  et  cum 
coniuge  eius  convenientiam  et  decisionem  facere  volu- 
mus.  Et  ita  in  praesenti  fecerunt.  Et  dedit  Benedi- 
ctus  ahbas  ima  cum  monochis  suis  praedicto  Mauro, 
[il  corsivo  manca  in  T.)  et  Hildepergae  coniugi  eius 
[la  figliuola  di  Anastasia  e  di  Ermeperto)  casalem  qui 
vocatur  Caesarianus  cum  casis,  curte,  hortis,  pratis, 
vineis,  cetinis  [il  T.  correggerebbe  volentieri  cesivis, 


ma  forse  è  cesinisy  perchè  le  cesine  ricorrono  spesso 
nelle  Farfensi  e  Amialìne  pergamene,  e  credo  che 
valgano  quelle  che  oggi  chianiansi  cese,  cioè  terre- 
ni lasciati  a  cespugli,  che  dopo  pochi  anni  si  ta- 
gliano e  abbruciano  per  seminare  sulle  ceneri),  silvis, 
aquis,  aquarum  [ue  ductibas,  et  cultunti  vel  incul- 
tum,  omnia  et  in  omnibus,  una  cmii  vocabulis  suis. 
Cui  ab  una  parte  est  casalis  Terentilianus,  ab  alia 
parte  casalis  Cazianus,et  a  tertia  parte  casalis  Agellula, 
a  quarta  vero  parte  casalis  Cornutianus.  Ista  omnia 
damus,  et  a  praesenti  [T.  aggiunge  die)  tradimus  infra 
ista  designata  loca  in  integruni  in  convenientia  vel  dif- 
finitione  tibi  Maure  ,  vel  suprascriptae  coniugi  tuae 
prò  rebus  Aimonis  et  Ansetrudae  quas  nos  babemus. 
Unde  promitto  ego  suprascriptus  Bened ictus  abbas, 
una  cum  congregatione  monachoruni  supra^crjpti 
monasterii,  si  aliquando  nos  vel  posteri  nostri  cen- 
tra te  Maure,  vel  contra  coniugem  tuani,  aut  con- 
tra  vestros  haeredes,  de  suprascripto  casale,  vel  re- 
bus quas  vobis  in  convenientia  dedimus,  agere  aut 
causare  voluerimus  ,  vel  tollera  ,  aut  per  quo4libe^ 
ingenium  contra  te  ire  per  nos,  aut  [il  corsivo  manca 
in  T.)  submissam  personam  quaesi^riraus ,  aut  (jle 
ipsa  convenientia  exire,  eamqj^ie  QQ^fump^rtì  volue- 
rimus, tunc  componamus  poenarrì  noininq  aijri  m.^nr 
di  affinati  libras  XXX.  Et  repromitto  ego  Mau^'US» 
wna  eum  coniuge  mea  Hildepergti,  quae  ifltei'i'ogata 
est  ab  Hermiteo  germano  suo,  seu  Raginaldo  et  Ai- 
mone consobrinis  eius,  dixit  quia  qullam  vwliìutiam 
patiop  a  iugali  meo,  nisj  pura  pt  spontanea  volun- 
tate  nostra  islam  convenientiam  fticimus  et  p^.p^'Q- 
mittimus  si  aliquando    de   rebus    Aimonis  et  Anse- 


360 

trudae  quas  ad  partem  monasteiii  sanctae  Maiiae 
niodo  ad  manus  vestras  detinetis,  agere  aut  causare 
contia  voluerimus,  per  nos  aut  per  submissam  perso- 
nam  per  quodiibet  ingenium,  vel  amplius  toUere  quae- 
sierimus  ,  nisi  quantum  nobis  in  convenientiam  de- 
distis  quod  superius  legitur,  tunc  componamus  nos 
vel  nostrae  (sic)  haeredes  tibi  Benedicte  abbas,  vel 
successoribus  tuis  in  suprascripto  monasterio  sanctae 
Mariae  poenam  nomine  suprascriptam  (sic) 

in  duplum  (  manca  in  T.  lo  spazio  bianco  )  omnia  , 
unde  agere  et  causare  voluerimus.  De  quibus  omnibus 
duae  cartulae  convenientiae  et  repromissionis  pari 
tenore  scriptae  sunt.  Aclum  intus  sacrum  palatium 
lateranense  mense  et  indictione  suprascripta  feliciter. 

i^  Ego  Maurus  in  hac  carta  convenientiae  et  le- 
promissionis  a  me  factae  manus  mea. 

Signum  ì^  manus  Hildepergae  feminae  quae  hanc 
cartam  convenientiae  et  repromissionis  fieri  rogavit. 

Signum  )ì^  manus  Hermilei  germani  suprascriptae 
feminae  qui  ipsam  interrogavit,  et  propter  infirmi- 
tatem  oculorum  minime  manu  sua  scribere    potuit. 

)^  Ego  Raginaldus  qui  ipsam  feminam  interroga- 
vi, manus  mea. 

)^  Ego  Immo  qui  ipsam  feminam  interrogavi, 
manus  mea  (  Si  noti  che  Immone  è  lo  stesso  che  Ai- 
mone detto  di  sopra). 

Signum  )^  manus  Ghisilprandi  fìlii  Hermitei  de 
Galiano  testis. 

Signum  )^  manus  Ariperti  de  Carfaniano  testis. 

Signum  )^  manus  Solomo  fìlii  Lamperti  de  Va- 
lentano  testis.   » 


361 

A  questi  atti  giudico  non  meno  opportuno  di  sog- 
giungere ,  benché  a  prima  fronte  sembri  estraneo  , 
quest'  altro 

6.  n.°  188  a.  797.  «  Uegnante  domino  Deo  et  Sal- 
vatore nostro  Ihesu  Christo  per  infinita  secula,  anno 
Deo  propitio  pontifìcatus  domni  nostri  Leonis  ter 
beatissimi  et  apostolici  papae  in  sacratissima  bea- 
li Petri  apostolorum  prìncipis  sede  anno  I  mense 
octobris,  indictione  V.  Sapientium  est  cogitare  prò 
futuris  causis,  et  vigilare ,  ut  dum  ad  terrena  ten- 
dimus  de  codesti  gratia  nos  oportet  tractare  ,  ut 
graviora  pondera  peccati  abicere  possimus.  Propte- 
rea  ego  Alticausus  fìlius  cuiusdam  Fridi  ,  habitator 
in  Foffiano,  considerans  humanae  fragilitatis  instan- 
tia mihi  comparuit  quia  primo  debet  homo  per  sa- 
cra et  vcnerabilia  loca  de  rebus  suis  offerre,  deinde 
in  haeredibus,  et  ideo  a  praesenti  die  ordino  atque 
dispone  prò  remedio  animae  meae  vel  parentum 
meorum  offero  in  monasterio  domini  nostri  Ihesu 
Christi  ,  et  eius  genitricis  semper  Virginis  Mariae , 
sito  in  sabinis,  loco  qui  dicitur  Acutianus.  Idest  in- 
tegram  rationem  meam  et  fìliorum  meorum  de  llll 
casalibus. 

»  Idest  casalem  Sunsam,  et  casalem  Surrinem, 
[Uìia  linea  sopra  Ve,  che  vale  m,  dev'essere  aggiunta 
per  errore,  ed  allora  sarà  piìi  regolarmente  casalem 
Surrinae),  et  casalem  Campum  aureum,  seu  et  de  ca- 
sale Salicis,  cum  omnibus  ad  se  pertinentibus  in  in- 
tegrum,  excepto  res  mobiles. 

»  Quae  omnia  recepi  prò  rationc  a  filiis  meis, 
et  ab  hac  die  suprascripti  IIII  casales  sint  in  po- 
t^state  venerabilis  monastcrii  voi  tua,  domno  Man- 


362 

roakle  abbas ,  vel  cunctae  congregationis  eiusdcm 
monasterii,  qui  ibidem  prò  tempore  fuerint,  faciant 
(sic)  exinde  quod  voluerinl.  Et  qui  hoc  iudicium  vel 
dispositionem  meam  corrumpere  voluerit,  incidat  in 
iram  Dei  omnipotentis,  et  omnium  angelorum  et  ar- 
changelorum  ,  et  prophetarum,  seu  confessorum  et 
martyrum,  et  cum  luda  traditore  habeat  damnatio- 
nem  in  die  tremendi  iudicii,  omnium  haeredum  et 
prohaeredum  meorum  In  posterum  repetitione  da- 
mnata.  Quam  vero  paginam  indicati  vel  dispositio- 
nis  meae  Grausonem  notarium  scribere  rogavi ,  et 
subtus  testes  a  me  rogatos  ut  corroborent  optuli. 
Actum  ad  fontem,  regno  et  indictione  suprascripta. 
)^  Ego  Alticauso  manu  mea.  )^  Ego  Magnus  pre- 
sbyter  manu  mea.  Signum  )^  manus  Mazonis  filii 
cuiusdam  Radicis  viri  devoti  testis. 

)^  Ego  Ursus  presbiter  manu  mea.  )^  Ego  Ra- 
gifridus  manu  mea.  Signum  )^  manus  Luponis  filii 
cuiusdam  Peredei  viri  devoti.  ^  Ego  Hermo  manu 
mea. 

)^  Ego  Grauso  notarius  hanc  paginam  indicati 
vel  dispositionis  post  testium  roborationem  compievi 
et  dedi.   « 

[È  stampato  già  dal  Galletti  [Gahio  ec.  pag.  157), 
e  indicato  presso  il  Muratori  negli  Script.  Rer.  Ital. 
t.  II,  part.  %  nel  Clironicoii  farfeuse  voi.  357  seq.,  e 
il  motivo  per  cui  qui  si  riferisce  sarà  svelato  a  tempo 
debito.  Ma  ripigliamo  la  serie). 

7.  n."  236  a.  816.  «  In  nomine  Domini  Dei  Sal- 
vatoris  nostri  lesu  Christi.  Imperante  domno  piis- 
simo principe  augusto  Ludovico  a  Deo  coronato  ma- 
gno et  pacifico  imperatore,  anno  imperii  eius  in  Dei 


3t)3 
nomine  III ,  seu  domno  Leone  summo  ponti  tire  et 
universali  papa  in  sacratissima  beati  Petri  pvinei|ìis 
apostolorum  sede  anno  XXI,  mense  niaitio,  indictio- 
ne  Villi.  Doniinae  sanetae  et  venerabili  Anii;eloruin 
mentihus  basilicae  Dei  Genitricis  Mariae,  quae  po- 
sita  est  in  Acutiano,  territorio  sabinensì,  ubi  domnus 
Ingoaldus  abbas  esse  videtar.  Donulus  transpadinus 
(su  i  traspadini  molte  volle  torna  il  T.  ,  che   avvisa 
significare  un  venuto  d'oltrepò,  uomo   libero,  e  veggasi 
voi.  1,  pag.   CCXWXI  ec),  habitator  vici  Palentia- 
na,  territoi'ii  veterbensis.  Quisjuis  homo  in  hoc  se- 
culo  positus  iuxta  tempus  facultatis,  vel  opes  ques 
habere  videtur,  non  ad  terrena  tendat,  quia  de  coe- 
lestibus  nos  oportet  cogitare,  quomodo  dicit  divina 
scriptura.   In  quacumque  bora  homo  peccator  con- 
versus fuerit,  statim  omnia  peccata  eius  remittuntur. 
Dono,  cedo,  atque  trado  in  suprascripto  monasterio 
prò  luminare  («7  Gloss.  spiega  questa  voce  —  Eccle- 
siae,  vel  piae  alicuius  societatis  fiscus,  et  pecunia  in 
fiscum  ecclesiae    eroganda),  et  mercede    mea,  atque 
parentum  meorum,  unde  in  hoc  et  in  futuro  seculo 
mihi  maneat  merces.  Hoc  est  totam  sortem  meam, 
quantum  mihi  ex  comparatione   evenit  a  Lamperto 
et  Ingiperga,  et  a  germana  sua  in  Campo  aureo,  in 
integrum,  cum  territoriis,  ligneis,  cum  aquis  aqua- 
rum({ue  decursibus,  omnia  in  integrum  dono  et  cedo 
atque  trado  in  monasterio  Dei  genitricis  Mariae,  et 
libi  domne  Ingoalde  abbas,  vel  posteris  et  successo- 
ribus  tuis  qui  in  supnscripto  monasterio  prò  tem- 
pore fuerint  ordinati.    Et  qui    hoc    iudicatum  ,  vel 
dispositionem  meam  aliquando  runqiere  presumpse- 
rit,  incidat  in  iran»  Dei  omnipotenlis  et  omnium  ange- 


364 

loi'um  atque  sanctorum  patriarcharum,  prophetaium, 
et  cum  luda  traditore  habeat  damnationem  in  die 
tremendi  iudicii.  Quod  vero  iudicatum  meum  bona 
et  spontanea  voluntate,  Allonem  presbiterum  et  no- 
tarium  scribere  rogavi.  Actum  vico  Fuliano. 

Signum  )^  manus  Donnonis  suprascripti  donato- 
ris  qui  hoc  iudicatum,  vel  dispositionem  fieri  rogavit. 
Signum  )^  manus  Datiperti  filìi  cuiusdam  Daviculi 
de  vico  Fuliano  testis  ^  Ego  Petrus  presbiter  mea 
manu.  Signum  )>^  manus  Per  toni  cuiusdam  Mascìni 
de  vico  materniano  [vel  matriniano)  testis.  ^  Ego 
Caifredus  presbiter  me  testem  subscripsi. 

Signum  >^  manus  Deodati  clerici  nescientis  lit- 
leras  testis  >J(  Ego  Allo  presbyter  et  notarius  hoc 
iudicatum,  vel  dispositionem  scripsi, compievi  et  dedi. 

8.  num.  239,  nell'anno  medesimo  del  IX  secolo. 
In  Dei  nomine.  Imperante  domno  piissimo  principe  et 
a  Deo  coronato  Ludovico  magno  imperatore,  anno 
eius  in  Dei  nomine  111.  Atque  domno  nostro  Stephano 
summo  pontifice  et  universali  papa  in  sacra tissima 
beati  Petri  apostolorum  principis  sede,  anno  1,  mense 
iunii,  indictione  Villi. 

»  Constat  me  Luponem  qui  et  Maurunta  vocor, 
homo  traspadinus,  et  modo  habitare  videor  in  vico 
Palentiana  territorii  veterbensis,  vir  honorandus,  ven- 
ditorem  libera  potestate  vendidisse  tibi  domne  In- 
goalde  abbas  cellae  monasterii  sanctae  Dei  genitricis 
Mariae  siti  in  Acutiano  territorii  sabinensis.  Idest 
omnes  res  vel  substantias  meas,  tam  ipsa  quae  mihi  a 
Siciperto  socero  meo  ex  comparatione  evenire  vide- 
tur,  casas,  curtes,  hortos,  vineas,  prata,  pascua,  silvas 
atque  territoria,  cultum  et  incultum,  tam  in  supra- 


365 
scripto  vico  Palentiana,  curri  vocabulis  suis,  vel  ubi- 
cumque  in  fìnibus  veterbensibus  de  rebus  meis  in- 
ventuin  fuerit  ,  quidquid  de  comparatione  ,  seu  de 
commutatione,  vel  de  quolibet  ingenio,  mihi  perti- 
nere  videtur,  tam  mobile,  quam  et  immobile.  To- 
tam  substantiam  meam,  ut  dixi,  una  cum  omnibus 
rebus  super  se  manentibus ,  et  accessionibus  suis , 
tibi,  domne  Ingoalde  abbas,  ad  partem  monasterii 
ex  integro  in  transactum  vendidi.  Unde  profìteor  me 
qui  supra  venditorem  recepisse  a  te  domne  Ingoalde 
abbas,  emptore  meo,  prò  suprascriptis  rebus,  idest 
pretium  argenti  solidos  quinquaginta  (  così  spiego 
'  sol  1"  )  fìnitum  pretium,  sicut  inter  nos  bono  animo 
convenit,  etc. 

»  Actum  Yeterbi  mense  et  indictione  suprascri- 
pta.  Signum  ^  manns  Luponis  qui  Maurunta  voca- 
tur  suprascripti  venditoris  ,  qui  hanc  cartam  seri- 
bere  rogavil.  Signum  s^  manus  Leonis  de  Veterbo 
iudicis  (  il  testo  ha  iud.  come  spesso  altrove  ).  Si- 
gnum ì^  manus  Teuperti  de  Sonsa  testis  (Sonsa  o 
Sunsa,  è  un  luogo  oggi  dentro  Viterbo,  al  così  detto 
san  Matteo  della  S'inolia  ;  allora  vico  slembano).  Si- 
gnnm  >J(  manus  Sintualdi  viri  devoti  testis.  Signum 
>J(  manus  Luponis  de  vico  Antoniano  testis  {vico 
Antoniano  era  probabilmente  un  altro  vico,  in  luogo 
oggi  dentro  la  città  a  Fontana  grande,  di  che  scrissi 
nell'opuscolo,  mio  su  Viterbo  e  il  suo  territorio  pag.  178 
e  seg.)  Signum  )^  manus  Teupaldi  testis.  S^  Ego 
lohannes  notarius  scripsi  compievi  et  dedi. 

9".  n.  240,  neir  anno  stesso.  —  In  Dei  nomi- 
ne. Imperante  domno  nostro  piissimo  principe  au- 
gusto Ludovico  a  Deo  coronato   magno  et  pacifico 


366 

iaipei'atore ,  et  post  consulatum  eius  ann(3  III,  seu 
domno  nostro  Stephano  summo  pontìflce  et  univer- 
sali papa  in  sacratissima  beati  Patii  apostolorum 
principis  sede  I,  mense  augusti,  indictione  Villi. 

.  '))  Nos  Lupo  et  Bencdictus  germani  fìlii  cuius- 
darti  Vitalis  de  Castro  Yiterbi,  donamus  atque  con- 
cedimus  in  monasterio  s.  Dei  genitricis  Mai-iae,  sito 
in  Acutiano  territorio  sabinensi,  ubi  vir  venerabilis 
abbas  Ingoaldus  esse  videtur,  omnes  res  illas,  quas 
habere  visi  sumus  in  casale  qui  nominetur  Segulia- 
nus,  cum  casa,  curte,  horto,  campis,  pratis,  vineis, 
silvis,  et  quidquid  nobis  de  ipsa  haereditate  ubicum 
que  pertinel  rationis  una  cum  successione  sua  in  in- 
tegrum.  Et  donamus  omnem  rationem  nostram  de 
casale  qui  nominatur  Campus  Aureus,  cum  silvis,  ter- 
ritoriis,  et  omnia  in  integrum. 

»  Simulque  et  rationem  nostram  de  casale  qui 
nuncupatur  Nobulae,  qui  nobis  ex  comparatione  eve- 
nit  a  quodam  Hildiperto,  una  cum  territorio,  silvis, 
vel  accessione  sua  in  inlegi'um.  Istas  suprascriptas 
res  onines  qualiter  superius  legitur  donamus  nos  qui 
supra  Lupo  et  Benedictus  germani  in  suprascripto 
monasterio  s.  Mariae,  prò  redemptione  parentum  no- 
strorum  vel  germanorum  nostrorum,  Lamperti  presbi- 
teri, qui  in  ipsum  monaslerium  introivit,  ut  ab  hac  die 
etc.  —  Actum  intra  monaslerium  s.  Dei  genitricis 
Mariae,  sito  in  Acut.  Signum  )J(  raanu  Lupon.  qui 
batìc  carta m  donationis  fieri  rogavit.  >J(  Ego  Bene- 
dictus notarius  et  donator  in  hac  carta  donationis  a 
me  factae  niea  manu.  ^  Ego  Gualipertus  mea  ma- 
nu.  >J(  Ego  Rdchimundus  presbiter  mea  manu.  Si- 
gnum  )^  manus  MartitDnis  habitator  Veterbi  tcstis. 


367 
Signurn  ^  marrns  Anselmi  fil.  culusdiim  Ausoni  ha- 
bitatoris  civitatis  Ferentis  lestis.  ^  Ego  Andreas 
me  testem  subscripsi.  )^  Ego  Donatus  notarius  scri- 
ptor  buius  cartae  post  lestium  roborationem  compievi 
et  dedi. 

10°.  nuin.  250,  an.  817.  In  nomine  Domini  Dei 
Salv.  nostri  lesu  Christi.  Imiìerante  domno  piissimo 
principe  augusto  Illudovico  a  Dee  coronato  magno 
pacifico  imperatore  anno  llil  ,  seu  domno  Paschali 
summo  pontitìce  et  universali  papa  in  sacratissima 
beati  Petri  principis  apostolorum  sede  anno  I,  mense 
martio  ,  indictione  X.  Domino  sancto  et  venerabili 
angelorum  meritis  monasterio  beatae  Dei  genitricis 
Mariae,  quod  positum  est  in  Acutiano  territorio  sa- 
binensi  ubi  domnus  bigoaldus  abbas  esse  videtur, 
Hildebrandus  filius  cuiusdam  Ildoni  notarius  habita- 
tor  Palentianae. 

»  Quisquis  homo  in  hoc  seculo  positus  iuxta  fa- 
cultates  vel  opes  quas  habere  videtur,  debet  eas  sa- 
lubriter  tractare  atque  prudenti  dispertire  Consilio, 
ut  ,  dum  eius  anima  de  corruptilibus  sublata,  non 
iudicetur  de  negligenlia  ,  qum  aeternae  vitae  re- 
medium cogitat ,  qui  in  locis  venerabilibus  de  suis 
rebus  tribuit  terrena,  ut  a  Christo  recipiat  aeterna 
atque  caelestia.Quomodo  dicit  divina  scriptura,  in  qua 
bora  homo  peccator  conversus  fuei'it,  statim  omnia 
peccata  eius  remittuntur.  Ideo  ego  suprascriptus  Hil- 
deprandus  a  praesenti  die  confero,  dono,  cedo,  trado, 
in  transactum  in  suprascripto  monasterio  prò  lumi- 
nare commìss.  meo,  vel  remedio  animae  meae,  vel 
parentum  meorum,  vel  tibi  domne  Ingoalde  abbas, 
ve!  posteris  successoribus  tuis  qui  ibidem  prò  tcm- 


368 
pore  fuei'int;  idest  totam  soitem  meam  quam  habeo 
IR  casale  qui  vocatur  Campum  Aureum,  quae  mihi 
a  consortibus  meis  legibus  pertinet,  una  cum  silvis 
super  se  habentibus,  pascuis,  iacentiis,  ligneis,  ficti- 
libus,  et  una  cum  omni  accessione  sua  in  integrum 
dono,  cedo,  et  trado  in  suprascripto  monasterio. 

))  Et  omnis  meae  [sic)  haeredes  ,  postbaeredes, 
prohaeredes,  qui  hanc  voluntatem  vel  dispositionem 
meam  rumpere  [dice  però  rape)  voluerit,  incidat  in 
iram  Dei  omnipotentis,  et  omnium  angelorum  atque 
sanctor.  prophetar.  martyr.  et  patriarcbar.  Et  cum 
luda  traditore  habeat  damnationem  in  die  tremendi 
iudicii.  Hanc  vero  cartam  iudicati  mei  Allonem  pres- 
biterum  et  notarium  scribere  rogavi,  et  optuli  coram 
testibus  a  me  rogatis. 

»  Actum  Veterbi.  Signum  )^  manus  Hildeprandi 
suprascripti  donatoris  qui  hoc  iudicatum  vel  dispo- 
sitionem fieri  rogavit.  Sig.  >^  man.  Nordonis  Scul- 
dasciì  de  Viterbio  testis.  )^  Signum  >^  manus  Ra- 
cucionis  fi),  bonae  memoriae  Pranduli  testis.  )^  Ego 
Rico  testis.  Signum  ^  manus  Luponis  Pil.  cuiusdam 
Vitalis  testis  )^  Ego  Hermo  testis  sum.  >^  Ego  Allò 
presbyter  et  notarius  hoc  iudicatum  scripsi  et  post 
traditum  compievi  et  dedi. 

ìì.  Num.  275,  ann.  827.  «  In  nomine  Domini. 
Imperante  domno  nostro  piissimo  principe  augusto 
Hludovico  a  Deo  coronato  imperatore,  anno  in  Dei 
nomine  XIII,  atque  domni  Hlotarii  eius  fllii  anno  X, 
seu  domni  Eugenii  summi  pontitìcis  et  universalis 
papae  in  sacrati^sima  beati  Petri  apostolorum  prin- 
cipis  sede  anno  II,  mense  marlio,  indictione  III  {sic) 
Placuit  igitur  atque  convenit  inter  Ingoaldum  virum 


369 
venerabilem  abbatem  s.  Mariae  sit.  in  Acutiano  ter- 
ritorio sabinensi,  necnon  et  Petrurn  fil.  b.  m.  Fri- 
donis  babitatorem  vici  fontis  prope  vicum  Palentia- 
nae,  ego  in  Dei  nomine  suprascriptus  Petrus  dedi 
ad  partein  monasteri!  sanctae  Mariae  in  commuta- 
tionis  nomine  duas  petias  vinearum  mearum  quae 
positae  sunt. 

»  Una  ex  ipsis  in  loco  qui  dicitur  vallis  prope 
vicum  Palentianae. 

»  Ab  una  parte  vinca  Leonis,  ab  alia  parte  vi- 
nca sancti  Heb'ae.  A  tertia  parte  est  ripa  quae  dicitur 
iugum.  A  quarta  vero  parte  est  vinca  Cauculi ,  et 
Agni  (  forse  Angeli  )  Cauruli  et  de  suis  consorti- 
bus. 

»  Et  alia  petia  est  posita  in  loco  qui  dicitur 
Maucupa  (  sic  ),  ubi  est  finis.  Ab  una  parte  terra 
domnae  reginae.  Ab  alia  parte  vinca  Atripertulae 
et  Maurontis,  et  de  suis  consortibus.  A  tertia  par- 
te est  semita  pedania.  Anteposi ta  in  suprascripta 
Mancupa  [sic)  una  petia  vineae  quam  Crispulus  li- 
bellarius  meo  ad  suam  tenet  manum,  et  quam  meae 
reservo  potestati.  Nam  iWas  duas  petias  superius  no- 
minatas  ad  partem  suprascripti  monasteri!  sanclae 
Mariae,  una  cum  terris  ubi  positae  sunt,  et  pomi- 
feris  vel  accessionibus  suis  [il  testo  ha  nsuis)  in  in- 
tegrum  tradid!  in  commutationis  nomine.  Et  ipse 
ambo  petiae  vinearum  sunt  mensuratae  totae  insinml 
perticarum  CXXXI  ad  perticam  legitimam  pedum  XII. 
Unde  in  vice  [sic]  recepi  ego  suprascriptus  Petrus  in 
commutationis  nomine  a  te  Ingoalde  vir  venerabilis 
abbas,  tres  petias  vinearum  monasteri!  sanctae  Ma- 
riae, quae  sunt  positae,  duae  in  casale  Foffiano,  loco 
G.A.T.  CXàXIII.  24 


370 

qui  dici  tur    fontis,    Tcrtia  vero  posila  est  in  casale 
Grazano. 

»  Et  sunt  mensuratae  totae  insimul  perticarum 
CXXX  ad  perticam  legitimam  pedum  XII  ubi  est  finis. 
A  duabus  partibus  vinca  mea  Petri.  A  tertia  parte  vi- 
nca Hildiprandi  et  de  suis  consortibus.  A  quarta  par- 
te est  via  publica.  Et  illa  tertia  pars  habct  fìnes. 
Ab  una  parte  vinca  mea  et  cuiusdam  Bencdicti.  Ab 
alia  parte  vinca  Madilcausi  et  Fridonis  germanorum. 
A  tertia  parte  vinca  Picconis  et  de  suis  consortibus. 
A  quarta  parte  est  via  publica.  Et  professus  suni  ego 
suprascriptus  Petrus  quia  ad  ambas  partes  condu- 
ximus  super  ipsas  commutationes  bonos  et  idoneos, 
quorum  fides  admittitur.  Idest  Leo  sculdascius  et 
Pulcher  germani,  Teupcrtus  et  Petrus,  et  eis  secun- 
dum  legem  apparuit  meliorata  ipsa  commutatio,  quam 
ego  Petrus  ad  partem  monasterii  dedi,  ab  illa  quam 
a  parte  monasterii  recepi. 

»  Simul  et  dedi  tibi  ,  Ingoalde  vir  vcnerabilis 
abbas,  prò  ipsa  mclioratione  solidos  XII  et  prò  fir- 
mitate  comtnutationis  secundum  quod  legis  aedictum 
contine t,  prò  co  quod  pars  locorum  vcncrabilium  me- 
lioratam  rem  suscipere  debet,  ut  ab  hac  die  ipsae 
suprascriptae  duo  petiae  vincarum  in  tua,  Ingoalde 
abbas  commutator,  sit  potestate,  una  cum  terris  ubi 
positae  sunt,  vel  omnibus  super  se  manentibus,  et 
accessione  sua  in  integrum  faciendi  et  iudicandi , 
qualiter  volueris,  libcram  habeatis  potestatem,  et  a 
me  plenissimam  largitatcm,  tam  tu  suprascripte  ab- 
bas ,  quam  et  posteri  tui ,  ad  partem  suprascrrpti 
monasterii.  Et  ipsam  suprascriptam  commutationem 
ego  qui  supra  Petrus  ,  vel  mei  haeredes  vobis  ve- 
strisque  postcris  defendere  promittimus.  Quod  si  mi- 


371 
nime  ab  omni  homine  delendere  nos  potuerimus,  lune 
componamus  vobis  ad  partenti  monastcrii  vestri,  poe- 
nae  nomine  ,  ipsam  suprascriptam  cominutationem 
duplo  vel  quantum  meliorata  fuerit  sub  iusta  aesti- 
matione. 

»  Actum  vico  fonti.  Signum  )^  manus  Patri  com- 
mutatoris  qui  hanc  cartam  commutationis  scribere 
rogavi.  Signa  )^  )^  )^  )^  manuum  Leonis  sculda- 
scii,  et  Pulchri  germanomm  ,  seu  Teuperti  et  Pe- 
tri  qui  super  ipsas  commutationes  ierunt,  et  quali- 
ter  superius  legitur  consideraverunt,  et  testes  sunt. 
Signum  ^  manus  Hildeprandi  filii  cuiusdam  Hildo- 
nis  testis.  Signum  )^  manus  Ardimanni  nepotis  eius 
testis.  Signum  ^  manus  Luponis  magistri  testis.  Si- 
gnum )^  Salemonis  (  sic  )  fd.  cuiusdam  Raginaldi 
transpadini  testis.  Signum  ^  manus  Venerii  fdii  cu- 
iusdam lobannis  testis.  ^  Ego  Donatus  notarius  hanc 
cartam  commutationis  scripsi.  « 

12.  n."  349,  a.  883.  «  In  nomine  Domini.  Impe- 
rant's  domni  nostri  piissimi  perpetui  (pp.  in  tal  po- 
slo  il  Troya  spiega  principis  o  principe;  ma  qui,  e 
altrove,  è  chiaramente  ppetui.  Lo  sbaglio  è  di  Gre- 
gorio Catinense  autore  del  Regestum  ?  )  augusti,  et 
a  Deo  coronati  Karoli,  magni  imperatoris  [Carlo  il 
grosso)  in  Dei  nomine  anno  III,  seu  et  domni  Ma- 
rini summi  pontificis  et  universalis  papae  sedis  an- 
no I,  mense  iulio,  indictione  I.  Constat  me  Raifre- 
dum  fìlium  b.  m.  Leonis  de  Vico  Foffiano  territorii 
yiterbìensis,  libera  potestate  vendidisse  tibi  Teutoni 
venerabili  viro  abbati,  et  monasterio  sanctae  Dei  ge- 
nitricis  semperque  Virginis  Mariae  quod  constructum 
est  in  territorio   sabinensi,  loco  ubi  dicitur  Acutia- 


372 

nus ,  idest  unum  prctium  de  vinea  curn  ipsa  terra 
super  qua  piantala  est,  et  omnibus  super  se  haben- 
tibus,  et  accessionibus  suis  quae  reiacere  videtur  in 
casale  rubgano,  ubi  dicitur  piscina  nigra,  et  est  men- 
surata  tota  in  circuito  perticis  (sic,  e 

qui  è  in  bianco  la  misura  )  ad  perticam  legitimam 
pedum  XII,  et  habet  fìnes.  De  una  parte  vineam  Her- 
minolfì.  De  alia  parte  fossatum.  De  tertia  parte  vi- 
neam Leonis.  De  IIII  vero  parte  vineam  Ursi  ma- 
gistri.  Simulque  ego  suprascriptus  Rafredus  [sic)  ven- 
do tibi  suprascripto  domno  Teutoni  abbati  ad  par- 
tem  iamdicti  monasterii  portionem  meam  de  iamdicto 
casale  rubgano. 

))  Seu  et  sortem  meam  de  casa  cum  curte,  et  bor- 
to,  et  vinea,  et  terra  in  vico  Foffiano,  quae  Leoni 
genitori  meo  per  cartam  comparationis  evenit  a  Leo- 
ne filio  b.  m.  Gisiperti.  Et  professus  sum  ego  qui 
supra  venditor  quia  de  ipsa  suprascripta  venditione 
qualiter  superius  legitur  nicbil  mihi  aliquando  reservavi 
in  potestate,  sed  tibi,  suprascripte  emptor,  ad  par- 
tem  iamdicti  monasterii ,  una  cum  aquis  aquarum- 
ve  decursibus,  et  omnia  super  se  habentibus,  et  ac- 
cessionibus suis  in  integrum  et  in  transactum  ven- 
didi.  linde  profiteor  ego  suprascriptus  venditor  su- 
scepisse  me  et  recepisse  a  te  suprascripto  emptore, 
et  a  parte  suprascripti  monasterii  prò  suprascripta 
venditione. 

»  Idest  pretium  argenti  solidos  XX  sicut  inter 
nos  bono  animo  convenit.  Quatinus  ab  hac  die  ipsa 
suprascripta  venditio  in  tua  qui  supra  emptor,  vel 
postèrorum  atque  successorum  tuorum ,  et   ad  par- 


373 

tern  iam  elicti  monasterii  sit  potestate  faciendi  et  iu- 
dicandi  qualiter  volueritis.  Et  si  ego  ipse  venditor  etc. 
))  Actum  in  vico  Foffiano  '^  Ego  Raifredus  in  hac 
carta  a  me  facta  mea  manu.  )^  Ego  Rodilandus  sca- 
binus  testis  subscripsi.  Signum  )^  manus  Luponis 
de  vico  Foffiano  testis.  Signunn  ^  manus  Leonis  de 
vico  Quintiano  testis.  Signum  )^  manus  Raifridi  Fer- 
rari testis.  )^  Ego  Leo  notarius  hanc  cartam  scri- 
psi,  et  post  traditam  compievi  et  dedi.  » 

[Continua) 


INDICE    DELLE    MATERIE 

CONTENUTE    NEL    TOMO    CXXXllI. 

VOL.  397,  398,  399. 


Boncompagni,  Intorno  ad  alcune  opere  di  Leonardo  Pi- 
sano (continuazione  e  fine) 

De  Rossi,  I  fasti  di  Venosa  restituiti  alla  sincera  lezione 

Monchini,  Scritti  editi  e  inediti  (continuazione)  .     . 

Orioli,  Alba,  il  Settiraonzio  e  Roma  primitiva    .     . 

Orazio,  Odi  settantasette  volgarizzate  dal  Rezzi.     . 

Orsi,  Frammento  del  suo  poema  Perettina  tradotto  dal 
Bellucci 

Sassoli,  Cenno  necrologico  del  prof.  Gioacchino  Barilli. 

Catalani,  Storia  della  morte  ,  lib.  IV.  (continuazione  e 
fine) 

Mazzanti,  Usi  terapeutici  della  cocciniglia 

Caporilli,  Elogio  d'Ignazio  Danti 

Bartoli,  Ulteriori  osservazioni  sul  vero  antrace   .     .     . 

Barbi  Cinti,  Cenno  sulla  vita  di  Anton  Mario  Nigrisoli. 

Orioli,  La  Palentiana,  o  massa  Palentiana  di  Cassiodoro, 
e  i  luoghi  annessi 


PAG. 

3 

92 
132 
179 
222 

246 
254 

260 
285 
298 
320 
327 

341 


I 

1 


Errata  dell'Orazione  del  prof.  Nigrisoli 

De  laudibus  prof.  Ant.   Campana  ferrar. 

V.  Tom.  CXXXII,  p.  251. 


Pag. 

lin. 

ERRORI 

CORREZIONI 

255 

10 

aggrcdiebetur  in  hoc 

aggrediebalur  in  hoc 

alhenaco 

athenaeo 

» 

15 

Zacchini 

Zecchini 

257 

8 

acedemiara 

academiam 

ìt 

9 

salulis 

sclectis 

» 

27 

Corti 

Corbi 

)) 

34 

Deliliries 

Deliries 

258 

14 

possit 

posset 

« 

18 

parando 

reraedio  parando 

259 

9 

omnis 

oinnes 

260 

20 

hoc 

haec 

)) 

31 

Ilalicae 

Italiae 

261 

4 

mitlebetur 

inittebalur 

» 

18 

splendidissima 

splendidissime 

262 

18 

pertingara 

attingara 

263 

2 

interficendos 

interliciendos   boves 

)) 

9 

noscomium 

nosocomi  um 

» 

23 

ferrarienses 

ferrarienses  febres 

264 

26 

amore 

amori 

)) 

28 

veniens 

venienti 

266 

11 

nostri 

nosler 

267 

22 

autecessor 

anteoessor 

)) 

31 

Maccenaies 

Mccacnates 

268 

10 

vestigis 

vestigiis 

IMPRIMATUR 
D.  Bultaoni  Old.  Piaed.  S.  P.  A.  M. 
IMPHIMATUR 

Fr.  A.  Ligi  Ardi.  Icun.  Vicegerens. 


\    iX^d'^^l     ì 


GIORNALE 


DI  SCIENZE,  LETTERE  ED  ARTI 

Voi.  400  401  402 


ROMA 
Tipografia  delle  Belle  Arti 

1854 


Piazza  Poli  num.  91. 


GIORNALE 

ARCADICO 


DI 


VOLUME  CXXXIV 

GLAIJKAIO,  FEBBRAIO  E  MARZO 

1854 


1 


H^^m&&>^)^ 


ROiMA 

Ti|iogi'aliii  dclk'  lìdio  \r\\ 
1834 


Ili 

DIRETTORE  DEL  GIORNALE 

S.  E.  IL  siG.  PRINCIPE  D.  PIETRO  ODESCALCllI,  consigliere 

DI   STATO,   PRESIDENTE   DELLE    PONTIFICIE   ACCADEMIE 

DI  ABCIIEOLOGIA   E    DE'  NUOVI   LINCEI, 

MEMBRO   DEL    COLLEGIO   FILOLOGICO   DELL' UNIVERSITÀ'    ROMANA 


COMPILATORI 

BETTI  cav.  SALVATORE,  professore  di  storia  e  mitologia  e 
segretario  perpetuo  dell'insigne  e  pontifìcia  accademia  di 
san  Luca,  membro  del  collegio  filologico  della  università 
romana,  socio  ordinario  e  censore  della  pontificia  acca- 
demia di  archeologia,  accademico  della  crusca. 

BORGHESI  cav.  BARTOLOMEO  ,  accademico  della  crusca  , 
corrispondente  della  pontificia  accademia  romana  di  ar- 
cheologia e  dell'  instituto  di  Francia,  membro  delle  RR. 
accademie  delle  scienze  di  Berlino,  Torino  ec. 

CAPPELLO  cav.  AGOSTINO,  consigliere  emerito  del  supremo 
magistrato  romano  di  sanità,  già  medico  consulente  della 
sa:  mera:  di  Leone  XII ,  socio  ordinario  delle  pontificie 
accademie  di  archeologia  e  de'  nuovi  lincei. 

MAGGIORANI  dott.  CARLO  ,  membro  del  collegio  medico- 
chirurgico e  professore  di  medicina  politico-legale  nel- 
l'università romana,  socio  ordinario  della  pontifìcia  acca- 
demia de'  nuovi  lincei. 

POLETTI  cav.  LUIGI,  ex-presidente  e  professore  di  architet- 
tura teorica  nell'insigne  e  pontificia  accademia  di  s.  Luca, 
professore  ordinario  di  architettura  nell'  ospizio  aposto- 
lico di  s.  Michele,  professore  onorario  della  R.  accade- 
mia delie  belle  arti  di  Modena,  architetto  direttore  della 
riedificazione  della  basilica  di  s.  Paolo,  consigliere  delia 
commissione  consultiva  di  antichità  e  belle  arti  presso 
il  ministero  dei  coiumercio  e  belle  arti  ,  addetto  al  col- 


IV 

legio  filosofico  dell'  università  romana  ,  socio  ordinario 
della  pontificia  accademia  di  archeologia. 
VISCONTI  commendalore  PIETRO  ERCOLE  ,  commissario 
delle  antichità  romane  ,  presidente  onorario  del  museo 
capitolino  ,  segretario  perpetuo  e  socio  ordinario  della 
pontificia  accademia  di  archeologia,  membro  del  collegio 
filologico  dell'  università  romana  e  della  commissione  di 
archeologia  sacra,  consigliere  della  commissione  consul- 
tiva di  antichità  e  belle  arti  presso  il  ministero  del  com- 
mercio e  belle  arti, 

ONORARI 

CARPI  eav.  PIETRO,  professore  di  mineralogia,  membro  del 
collegio  medico-chirurgico  e  direttore  del  gabinetto  mi- 
neralogico dell'  università  romana  ,  socio  ordinario  della 
pontificia  accademia  de'  nuovi  lincei. 

DE-CROLLIS  cav.  DOMENICO,  presidente  del  consiglio  sani- 
tario militare. 

GERARDI  doti.  FILIPPO. 

COLLABORATORI 

ASTOLFI  avv.  Angelo,  giureconsulto,  a  Hologna. 

RARTOLINI  monsignor  Domenico  ,  ponente  della  sacra  con- 
sulta ,  membro  della  commissione  di  archeologia  sacra  , 
socio  ordinario  e  censore  della  pontificia  accademia  di  ar- 
cheologia, in  Roma. 

BIANCHINI  Antonio,  in  Roma. 

BIOLCHINI  Pietro,  segretario  del  giornale,  in  Roma 

BONCOMPAGNI  S.  E.  don  Baldassare,  socio  ordinario  della 
pontificia  accademia  de'  nuovi  lincei ,  onorario  di  quella 
di  archeologia,  in  Roma. 

BRIGHENTI  cav.  Maurizio,  ingegnere  ispettore,  a  Bologna. 

RRIGNOLI  di  Brunoif  Giovanni,  professore,  a  Modena- 

CAMPANARI  avv.  Secondiano,  socio  corrispondente  della  pon- 
tificia accademia  romana  di  archeologia,  a  ToscancUa. 

CANTALAMESSA  CARBONI  Giacinto,  in  Ascoli. 

CAPOZZI  Francesco,  a  Lugo. 


Catalani  tlott.  Vincenzo,  medico,  in  Roma. 

CHELINI  padre  Domenico ,  delle  scuole  pie ,  professore  nel- 
l'università, a  Bologna.  i 

CHIMENZ  dott.  Baldassare,  chirurgo,  in  Roma. 

CICCONETTI  avv.  Felice,  giureconsulto,  in  Roma. 

COPPI  ab.  Antonio,  segretario  del  pontificio  istituto  agrario, 
socio  ordinario  delle  pontificie  accademie  di  archeologia 
e  de'  nuovi  lincei,  in  Roma. 

CORDERÒ  DI  S.  QUINTINO  cav.  Giulio,  membro  della  reale 
accademia,  a  Torino. 

DE-FERRARI  padre  maestro  Giacinto ,  dell'  ordine  de'  predi- 
catori, commissario  generale  del  sant'  uQizio,  consultore 
delle  sacre  congregazioni  dell'indice,  dei  vescovi  e  rego- 
lari, di  propaganda  e  del  concilio,  socio  ordinano  della 
pontificia  accademia  di  archeologia,  in  Roma. 

DE-LUCA  monsignor  Antonino,  arcivescovo  di  Tarso,  nunzio 
apostolico  in  Baviera. 

DE-MINICIS  avv.  Gaetano,  corrispondente  della  pontificia  ac- 
cademia di  archeologia,  a  Fermo. 

DE-ROSSI  cav.  Giambatista  ,  membro  del  collegio  filologico 
dell'università,  scrittore  di  lingua  latina  nella  biblioteca 
vaticana  ,  membro  della  commissione  di  archeologia  sa- 
cra, socio  ordinario  della  pontificia  accademia  di  archeo- 
logia, in  Roma. 

DIONIGI  ORFEI  contessa  Enrica,  in  Roma. 

FABI  de'  conti  MONTANI  monsignor  Francesco,  cameriere  se- 
greto di  Sua  Santità ,  canonico  della  patriarcale  basilica 
di  s.  Maria  maggiore  ,  consultore  delle  sacre  congrega- 
zioni dell'  indice  e  di  propaganda  fide,  in  Roma. 

FERRUCCI  cav.  Luigi  Grisostomo,  a  Firenze. 

FERRUCCI  Michele,  professore,  a  Pisa. 

FIORINI  MAZZANTI  Elisabetta,  in  Roma. 

FOLCIII  commendatore  Clemente,  architetto  di  Sua  Santità, 
consigliere  dell'insigne  e  pontificia  accademia  di  s.  Luca, 
ingegnere  ispettore  emerito  membro  del  consiglio  d'arte, 
addetto  al  collegio  filosofico  della  università  romana,  so- 
cio ordinario  della  pontificia  accademia  di  archeologia  , 
consigliere  della  commissione  consultiva  di  antichità  e 


VI 

belle  arti  presso  il  ministero  del  commercio  e  belle  arti, 
in  Roma. 

FRANCESCHI  FERRUCCI  Caterina,  a  Firenze. 

GIACOLETTI  padre  Giuseppe,  delle  scuole  pie,  in  Piemonte. 

GIULIANI  padre  don  Giambattista  ,  somasco ,  professore  di 
eloquenza  sacra  nell'università,  a  Genova. 

GRIFI  cav.  Luigi,  segretario  generale  del  ministero  del  com- 
mercio, belle  arti  ec,  socio  ordinario  e  conservatore  per- 
petuo dell'archivio  della  pontificia  accademia  di  archeo- 
logia, in  Roma. 

GUZZONI  DEGLI  ANCARANI  dott.  Carlo,  a  Spoleto. 

LEONARDI  dott.  Mauro,  medico  comprimario,  in  Pergola. 

LOPEZ  cav.  Michele ,  consigliere  di  stato  onorario ,  prefetto 
del  ducal  museo,  a  Parma. 

MARCHI  padre  Giuseppe,  della  compagnia  di  Gesù,  consul- 
tore della  sacra  congregazione  delle  indulgenze  e  sacre 
reliquie  ,  membro  del  collegio  filologico  dell'università  e 
della  commissione  di  archeologia  sacra  ,  socio  ordinario 
della  pontificia  accademia  di  archeologia,  in  Roma. 

MASETTl  monsignor  Celestino,  a  Fano. 

MERCURI  Filippo,  in  Roma. 

MONTANARI  Giuseppe  Ignazio,  professore,  a  Osimo. 

ORIOLI  Francesco,  consigliere  di  stato,  membro  del  collegio 
filosofico  e  professore  di  storia  antica  ed  archeologia  nel- 
l'università, socio  ordinario  e  censore  della  pontificia  ac- 
cademia di  archeologia,  socio  ordinario  dell'  altra  ponti- 
ficia de'  nuovi  lincei,  in  Roma. 

PAULUCCI  Domenico,  a  Rimini. 

PERETTI  Pietro,  professore  emerito  di  farmacia  dell'univer- 
sità, in  Roma. 

PIANCIANI  padre  Giambatista,  della  compagnia  di  Gesù,  mem- 
bro del  collegio  filosofico  dell'università,  socio  ordinario 
della  pontificia  accademia  de'  nuovi  lincei,  in  Roma. 

PLANA  barone  commendatore  Giovanni,  membro  della  reale 
accademia  delle  scienze  ,  professore  d'  analisi  nella  uni- 
versila,  regio  astronomo,  a  Torino. 

PUCCINOTTl  dott.  Francesco,  professore  nella  università,  a 
Pisa. 


TU 

RAMBELLI  Gio:  Francesco,  professore,  a  s.  Giovanni  in  Pcr- 
siceto. 

BAMELLI  Camillo,  professore,  a  Fabriano. 

RANGHIASCI-BRANCALEONI  marchese  Francesco,  a  Gubbio. 

RAVIOLI  cav.  Camillo,  in  Roma.  I 

RICCARDI  dott.  Gregorio,  medico,  in  Roma. 

RICCI  marchese  cav.  Amico,  a  Bologna. 

ROSSI  monsignore  Stefano,  prelato  domestico  di  Sua  Santità, 
in  Roma. 

SANTINI  dott.  Angelo,  medico  primario,  a  Montalboddo. 

SECCHI  padre  Gio:  Pietro  della  compagnia  di  Gesù  ,  socio 
ordinario  e  censore  della  pontificia  accademia  di  archeo- 
logia, in  Roma. 

SORGONI  dott.  Angelo,  primo  medico,  a  Montolmo. 

SPEZI  Giuseppe ,  professore  di  lingua  greca  nella  università 
romana,  socio  ordinario  soprannumero  della  pontificia  ac- 
cademia di  archeologia,  in  Roma. 

TORTOLINI  ab.  Barnaba  ,  membro  del  collegio  filosofico  e 
professore  di  calcolo  sublime  nella  università,  professore 
di  fisica  matematica  nel  collegio  urbano  di  propaganda  e 
nel  seminario  romano  ,  socio  ordinario  della  pontificia 
accademia  de'  nuovi  lincei,  in  Roma. 

TROMPEO  cav.  Benedetto,  a  Torino. 

VALDRIGHI  conte  Mario,  a  Modena. 

VALORI  cav.  Francesco,  membro  del  collegio  medico-chirur- 
gico, professore  di  sanità  nella  sacra  consulta,  in  Roma. 

VESCOVALI  Luigi,  socio  ordinario  della  pontificia  accademia 
di  archeologia,  in  Roma. 

VOLPICELLI  Paolo  ,  membro  del  collegio  filosofico  e  pro- 
fessore di  fisica  sperimentale  nella  università,  direttore 
del  gabinetto  fisico,  segretario  della  pontificia  accademia 
de'  nuovi  lincei,  iu  Roma. 

ZANELLI  ab.  Domenico,  in  Roma. 


ìvr 


SCIENZE,  LETTERE 
ED  ARTI 


Prolegomeni  allo  studio  della  medicina  politico-legale^ 
del  dottor  Carlo  Maggiorani.  Parte  prima.  Medi- 
cina forense. 


D. 


'uè  carichi  incombono  al  medico  nel  civile  con- 
sorzio ;  curare  cioè  0  alleggerire  i  mali  dell'individuo 
che  lo  richiede  della  sua  opera,  e  prestare  il  brac- 
cio all'autorità  ,  acciò  si  amministri  rettamente  la 
giustizia,  e  si  tuteli  la  salute  del  popolo.  Soddisfa- 
cendo a  questo  secondo  incarico  la  medicina  prende 
l'aggiunto  di  pubblica;  non  già  che  vacando  al  primo 
il  medico  non  rappresenti  pure  un  uom  pubblico  ; 
Medendi  enim  offìcium  in  se  iam  munus  publicum  si- 
stit.  Egli  è  un  uom  pubblico,  perchè  senza  gravi  mo- 
tivi non  potrebbe  esimersi  dal  curare  gl'infermi,  e 
perchè  nell' adempire  a  quest'officio  dee  seguir  certe 
regole  ,  e  obbedire  a  certe  leggi,  pronto  sempre  a 
dar  conto  alla  società  delle  mediche  sue  operazioni. 
Nondimeno  il  servizio  del  curare  ei  lo  rende  priva- 
tamente all'individuo,  e  quello  di  coadiuvare  i  ma- 
gistrati nell'esercizio  delle  funzioni  loro  tocca  l'in- 
tera comunità  ;  perciò  in  questo  impiego  la  medicina 
salutasi  propriamente  col  nome  di  pubblica,  ovvero, 
G.A.T.CXXXIV.  1 


come  ad  altri  piacque  chiamarla  ,  medicina  civile  o 
dello  stato. 

Questa  medicina  dello  stato  o  civile  o  pubblica 
che  voglia  dirsi  coiislia  essa  stefssa  di  due  parti  di- 
stinte, cioè  della  médidhia  legale  e  della  polizia  me- 
dica, che  nella  romana  università  vengono  consociate 
e  comprese  col  nome  di  medicina  polii ico-le(f ale.  Della 
quale  unione  potrebbe  alcuno  dolersi  considerando  la 
vastità  delle  due  discipline  ,  e  la  differenza  decloro 
fini;  l'uno  al  conseguimento  della  giustizia,  l'altro  alla 
conservazione  della  comun  sanità.  Peraltro  se  ben  vi 
attenda,  vedrassi  non  senza  fondati  motivi  gl'istitu- 
tori nostri  averle  raccolte  in  una  sola  cattedi-a:  cioè 
perchè  gli  studiosi  delle  leggi  vi  trovasser  congiunto 
quanto  da  essi  può  desiderarsi,  e  acquistarsi  di  no- 
tizie mediche  applicabili  ai  loro  bisogni,  e  perchè 
questi  due  rami  della  medicina  pubblica  cospirano 
ambedue  a  formare,  o  servire,  o  modificare  le  leggi, 
e  perchè  in  ultimo  le  dottrine  dell'  una  rischiarano 
spesso  o  arricchiscono  quella  dell'ialtra.  Così  avviene 
che  la  polizia  medica,  dando  opera  allo  studio  delle 
varie  sorgenti  di  avvelenamento  casuale,  aiuti  la  me- 
dicina legale  che  indaga  se  il  veneficio  sia  stato  ac- 
cidentale o  criminoso.  Il  taglio  cesareo  è  ordinato 
dalla  polizia  medica  per  conservare  il  feto,  ma  in- 
tanto la  medicina  legale  tratta  lo  stesso  punto  per 
alcune  questioni  di  successione.  Le  osservazioni  me- 
dico-legali sul  feticidio  e  sull'infanticidio  aprono  la 
via  al  medico  politico  per  investigare  i  mezzi  più 
acconci  a  prevenire  simiglianti  delitti.  Ed  è  tanta 
Taftinità  che  stringe  i  due  rami  della  medicina  pub- 
blica, che  gli  autori  discordan  talora  fra  loro  sul  ri- 


3 

ferire  qualche  argomento  all'uno  piuttosto  che  all'al- 
tro. Mahon  registra  fra  le  materie  di  polizia  medica 
i  motivi  che  valgono  a  sospendere  l'applicazione  delle 
pone  afflittive,  e  lo  stesso  titolo  è  riportato  dagli 
altri  alla  medicina  legale.  11  Martini  ne  dà  per  esem- 
pio di  tema  politico  la  soluzion  del  quesito  «  Qual 
genere  di  pena  capitale  sia  più  spedito  e  men  do- 
loroso: ))  e  vi  ha  chi  agita  tal  questione  nella  me- 
dicina forense.  L'unione  adunque  delle  due  discipline 
è  autorizzata  dalle  scanibievoli  loro  attenenze,  ed  ha 
inoltre  in  suo  favore  l'esempio  de'più  venerandi  scrit- 
tori. Le  opere  infatti  del  Fedeli  e  del  Zacchia  ,  le 
prime  in  ordine  di  tempo,  e  le  più  maravighose  ri- 
spetto al  secolo  in  cui  vider  la  luce,  comprendono 
tutto  lo  scibile  politico-legale  di  quell'epoca;  sicché 
possa  dirsi  che  le  dottrine  di  medicina  forense  ,  e 
quelle  della  pohzia  medica  uscissero  in  luce  al  me- 
desimo parto. 

La  denominazione  di  polizia  medica  equivale  per 
alcuni  autori  a  quella  d'igiene  pubblica;  altri  poi  re- 
stringono questa  in  una  sfera  più  angusta  di  attri- 
buzioni; quelle  cioè  che  più  da  vicino  riguardano  la 
conservazione  della  pubblica  salute,  e  fanno  spazia- 
re la  prima  in  tutto  il  campo  delle  questioni  poli- 
tico-mediche. Certo  quasi  tutti  gli  scrittori,  che  han- 
no messo  in  fronte  alle  loro  opere  il  titolo  di  po- 
lizia medica,  si  sono  allargati  in  discussioni  lasciate 
intatte  dagli  autori,  che  han  fatto  libri  d'igiene  pub- 
blica. Tuttavia  non  par  necessario  d'insistere  su  tal 
distinzione,  dacché  le  materie  hanno  tutte  alla  fine 
un  solo  e  medesimo  scopo,  che  è  la  salute  del  po- 
polo. Gli  articoli  infatti  sull'insegnamento  ed  eser- 


i 

cizio  dell'arte  salutare,  che  sogliono  escludersi  dalla 
trattazione  dell'  igiene  pubblica ,  e  che  fanno  parte 
della  polizia  medica,  tendono  anch'essi  colle  loro  dot- 
trine a  conseguire  la  comun  sanità.  A  questi  due  ra- 
mi della  medicina  pubblica  vi  ha  chi  ne  aggiunge  un 
terzo,  intitolandolo  Giurisprudenza  medica^  e  avente 
per  oggetto  la  cognizione  delle  leggi,  regolamenti, 
discipline,  diritti,  doveri,  funzioni,  onori,  privilegi, 
prerogative  spettanti  i  medici,  e  la  medicina  con  la 
respettiva  critica  dello  spirito  che  ne' diversi  tempi 
ne  ha  regolato  il  promovimento  e  V  instituzione. 
Fodere  comprende  questa  giurisprudenza  in  sei  ca- 
pitoli: cioè  1.  Degli  onori  e  privilegi  annessi  alla  me- 
dicina. 2.  Delle  funzioni  pubbliche  legate  all'eserci- 
zio della  medesima.  3.  Sui  modi  di  esaminare  ed 
ammettere  i  candidati.  4.  Sui  diritti  dei  medici  in- 
torno a  quel  che  possono  esigere  per  le  varie  loro 
fatiche.  5.  Sulle  disposizioni  penali  per  la  contravven- 
zione ai  propri  doveri.  6.  Della  unione  o  divisione 
dei  diversi  rami  della  medicina.  Ora  è  facile  l'avve- 
dersi che  di  questi  argomenti  i  due  primi  apparten- 
gono alla  erudizione,  e  trovano  perciò  il  loro  posto 
nella  storia  della  medicina;  il  terzo  ed  il  sesto  ri- 
guardano la  forma  dell'insegnamento,  e  dell'eserci- 
zio, e  quindi  sono  trattati  dalla  polizia  medica  ;  il 
quarto  ed  il  quinto  sono  di  pertinenza  giuridica. 
Volendo  adunque  rispettare  le  attribuzioni  del  foro, 
astenersi  da  inutili  ripetizioni,  e  dividere  la  erudizio- 
ne della  scienza,  non  ci  sembra  opportuno  che  nelle 
istituzioni  di  medicina  politico  -  legale  abbia  a  ri- 
ceversi questo  terzo  ramo  della  giurisprudenza  me- 
dica. 


5 

Pertanto  la  nostra  scuola,  messa  da  banda  ogni 
altra  parte  accessoria,  dirige  Io  studio  alla  medicina 
legale  e  alla  pubblica  igiene,  e  più  attesamente  alla 
prima  che  all'ultima,  come  quella  che  è  più  intricata, 
più  vasta,  più  dottrinale,  più  disputabile  ,  e  di  più 
frequente  uso  per  la  generalità  dei  medici.  Ogni  me- 
dico in  fatti  può  esser  richiesto  dal  l'oro  per  dubbi 
che  riguardano  la  giustizia;  pochi  sono  chiamati  dal- 
l'autorità a  dar  sentenza  in  fatto  di  salute  pubblica. 
I  buoni  libri  ammaestrano  sufficientemente  intorno 
alle  materie  di  polizia  medica;  il  criterio  medico-le- 
gale si  forma  assai  meglio  mercè  delle  dilucidazioni 
scolastiche,  e  in  mezzo  alle  accademiche  disputazioni. 
Gli  argomenti  igienici  nel  maggior  numero  de'  casi 
possono  essere  studiati  o  riveduti  all'opportunità;  le 
cognizioni  medico-legali  vogliono  esser  sempre  vive 
e  pronte  alla  mente  ;  improvvisa  e  fugace  essendo 
spesso  l'occasion  del  giovarsene,  e  non  essendovi  al- 
lora il  tempo  di  razzolarle  nei  trattati.  Ecco  altret- 
tanti motivi,  pei  quali  il  tempo  prefisso  allo  studio 
della  medicina  pubblica  debba  essere  speso  più  lar- 
gamente in  favore  della  medicina  legale ,  che  della 
polizia  medica.  E  siccome  non  è  impresa  che  possa 
condursi  a  buon  fine  se  innanzi  di  accingervisi  non 
se  ne  misuri  la  vastità,  se  ne  apprezzino  i  vantaggi, 
se  ne  conoscano  gli  impedimenti,  e  scelgasi  il  sen- 
tiero più  adatto  a  raggiunger  lo  scopo;  perciò  agli 
studiosi  della  medicina  politico-legale  offriamo  il 
seguente  proemio  destinato  appunto  a  spiegarne  l'am- 
piezza, le  difficoltà,  r  importanza  e  ad  insinuare  le 
regole  onde  si  può  schivare  l'errore,  e  si  vien  guidati 
a  sani  giudizi. 


B 

La  medicina  legale    o  forense    raccoglie  (la  ogni 
fonte'  della  gran  scienza  deiruomo  sano  e  inalato  no- 
tizie e  dottrine  acconce  a  risolvere  i  dubbi    che  si 
sollevano  nel  foro  :    essa  è  tutta    in   somministrare 
aiuti  alla  giustizia  nelle  sue  operazioni.  Le  quali  strin- 
gonsi  in  quel  solenne  dettato  del  ius    simm    cuiqne 
tribuere:  ma  questo  diritto  non  si    può  giustamente 
rendere  a  chi  spetta,  ove  non  si  parta  da  fatti  precisi, 
netti,  ben  avverati.  Ogni  volta  poi  che  questo  fatto, 
cui  dee  appoggiarsi  l'applicazion  del  diritto,  è  di  na- 
tura fìsica  ;  tale  cioè  ,  la  cui  piena  cognizione   non 
suole  appartenere  al  magistrato,  ma  bensì  al  medico; 
egli  è  allora  a  questo  che  il  foro   rivolgesi ,    acciò 
stabilisca  il  fatto  in  questione,  lo  analizzi,  lo  chiari- 
séa  per  ogni  mezzo  ,    e    ne  deduca  conseguenze  da 
servire  di  norma  al  giudice  nelle  sue  decisioni.  Or- 
dina p.  e.  la  legge  che  il  diritto  di  succedere  e  di 
trasméttere    la   successione    non    appartenga  che  ai 
bambini  nati  vivi  e  vitali:  ed  ecco  l'officio  al  medico 
di  stabilire  se  il  feto  in  questione  abbia  vissuto  ,  e 
se  fosse  vitale.  La  legge  Canonica  prescrive  che  «  nu- 
ptias  non  contraìmnt   impolente&  ad  concubitum,  sive 
per  teneram  aelatem  tales  sinU  sivc  alio  corporis  vi^ 
tio:  )>  l'età  è  già  fissata  dalla  legge:  resta  che  il  me- 
dico provi  il  fatto  dell'impotenza  assoluta,  derivante 
da  vizi  0  deformità  di  struttura  degli  organi  genitali. 
11  magistrato  poi  si  fonda  su  questo  fatto  per  sen- 
tenziare, secondo  le  leggi  vigenti,  se  tale  impotenza 
abbia  ad  aversi  come  causa  dirimente  il  matrimonio. 
Niasce  un  feto  170  giorni  dopo  le  nozze,  e  la  legge 
accorda  al  marito  il  diritto  di    impugnarne    la    le- 
gittimità, a  condizione  che  non  sia  immaturo.  Tocca 


7 
al  Jiiedioo  di  poiie  in  chiaro  il  l'alio  doliti  matuiilà 
o  iiiimatui'ilù  del  feto  in  questione,  e  da  questo  chia- 
rimento risulta  poi  l'applicazion  del  diritto. 

Il  bisogno  del  foro  non  consiste  poi  sempre  nella 
dichiarazione  di  un  fatto  concreto  :  talora  si  dirige 
al  medico  tal  quesito,  che  comprende  un  principio 
generale,  una  massima,  da  cui  poi  il  magistrato  de- 
duce i  suoi  corollari  pel  caso  pratico.  Così  nelle  que- 
stioni d'identità  sì  potrà  domandare:  se  una  cicatrice 
originata  da  division  della  pelle  con  perdita  di  so- 
stanza possa  mai  cancellarsi  per  decorrer  di  tempo: 
se  i  così  detti  nei  materni  siano  indelebili:  se  tanto 
le  cicatrici  come  i  nei  possano  cambiar  luogo  col- 
l'andare  degli  anni:  se  la  fisonomia  possa  col  temi)0 
alterarsi  in  guisa  da  non  esser  più  in  alcun  modo 
riconoscibile.  E  in  altre  questioni  si  ricerca:  se  una 
donna  possa  concepire  a  sua  insaputa,  se  possa  igno- 
rare di  esser  gravida,  se  possa  partorire  senza  av- 
vedersene, e  così  discorrendo. 

Innanzi  il  foro  criminale  la  verifica  del  fatto  fi- 
sico conduce  alla  dimostrazione  del  corpus  delieti , 
su  cui  si  aggira  tutta  la  meccanica  del  processo. 
Colla  quale  espressione  viene  significato  tutto  ciò  che 
occorre  ai  sensi,  e  per  cui  si  dichiara  la  ragione  del 
delitto:  Res  in  sensiis  ineurrens,  et  per  qiiam  criminis 
perpetrati  vera  ratio  declaratur:  Così  Ludwig  definiva 
il  corpo  del  delitto,  che  perciò  non  si  limita  al  ca- 
davere, e  alla  ferita  che  vi  si  rinviene,  ma  si  estende 
a  tutte  le  prove  fisiche,  che  dimostrano  e  illustranp 
il  fatto  criminoso.  11  corpus  delieti  di  uno  stupro 
violento  non  è  costituito  dai  soli  sconcerti  delle  parti 
pudende,  ma  ne  fanno  anche  parte  le  contusioni  nelle 


8 
varie  parti  del  corpo  ,  e  le  macchie  spermaticlie  e 
talora  una  malattia  sifilitica  in  rapporto  con  quella 
dello  stupratore.  Corpus  delieti  del  feticidio  non  è  il 
solo  feto  abortivo  coi  segni  dì  violenza  ,  che  vi  si 
possono  incontrare,  ma  concorrono  a  formarlo  anche 
quelli  che  possono  rinvenirsi  nella  donna,  e  le  prove 
del  puerperio,  o  gli  avanzi  della  droga  usata  al  fine 
di  abortire.  Corpus  delieti  del  veneficio  non  è  il  solo 
veleno  ritrovato  nello  stomaco,  negl'intestini ,  nella 
vagina,  nei  tessuti,  ma  lo  compiono  le  lesioni  che  si 
rinvengono  nel  cadavere. 

E  notisi  pure  che  il  corpo  del  delitto  può  dimo- 
strarsi in  alcuni  casi,  ancorché  manchino  gli  effetti 
immediati  dell'offesa.  Così  se  una  percossa  alla  testa 
o  al  ventre,  che  ha  prodotto  infiammazioni  o  rotture 
mortali  de'visceri  corrispondenti,  non  manifesti  sulla 
superficie  del  corpo  alcun  segno  di  contusione,  al- 
cuna traccia  dell'  azione  diretta  del  corpo  ledente  : 
diresti  allora  che  manca  l'anello  di  catenazione  fra 
la  causa  esterna  che  offese,  e  i  visceri  interni  che  ne 
provaron  gli  effetti:  e  tuttavia  il  corpo  del  delitto 
riman  dimostrabile  in  quella  condizion  patologica  , 
la  quale,  e  per  le  sue  modalità,  (come  se  per  il  cra- 
nio la  lesione  avesse  origine  dalla  lamina  interna 
dell'osso,  e  vi  fosse  aderenza  della  dura  madre) ,  e 
perchè  in  esatta  corrispondenza  di  effetto  a  causa 
colla  riportata  offesa,  metterà  in  chiaro  che  non  altra 
potenza  nociva,  ma  una  causa  traumatica,  produsse 
quelle  interne  condizioni  morbose. 

Ovvero  con  più  pietoso  officio  la  medicina  legale 
dimostra  che  non  vi  è  eorpiis  delicli,  e  col  cadavere 
alla  mano,  e  collo  studio  delle  circostanze   fisiche  , 


9 

che  precederono  e  accompagnarono  il  fatto,  vi  prova 
che  quella  morte  ebbe  origine  da  caduta  non  da  ri- 
cevuta percossa,  da  un'asfissia  casuale  e  non  procu- 
rata; che  quel  ferimento  fu  volontario,  quell'appicca- 
mento  spontaneo,  quel  veneficio  accidentale. 

l  vari  gradi  del  fatto  criminoso,  ossia  quelli  del 
danno  recato  all'offeso,  sono  anch'essi  misurati  con 
ogni  cura  dal  perito,  che  presta  così  un  valevolissimo 
aiuto  alla  giustizia  indennizzante  ,  e  alla  punitrice. 
Alla  indennizzante,  perchè  una  ferita  comunque  non 
grave  può  toglier  pure  la  capacità  all'esercizio  della 
propria  industria  per  un  tempo  più  o  meno  lungo, 
e  giustizia  vuole  che  questo  danno  sia  risarcito.  Spetta 
al  perito  il  misurarlo.  Alla  punitrice,  perchè  la  pena 
sia  decretata  in  proporzione  al  danno  risentito  dal 
paziente.  E  fu  savio  consiglio  de'legislatori,  che  la 
pena  non  si  stabilisse  sul  mero  calcolo  dell'affetto, 
ma  si  valutasse  anche  l'effetto,  acciò  essa  pena  non 
fosse  pili  rigida  di  quel  che  esige  il  bisogno  di  pre- 
venire i  delitti.  Dal  che  seguita  che  più  questo  effetto 
0  danno  sarà  pesato  con  esattezza,  più  giusti  e  pro- 
porzionati risulteranno  gli  atti  penali.  Ed  è  il  perito 
che  libra,  e  tutti  gli  studi  nostri  a  ben  classificare 
le  lesioni  muovono  dal  bisogno  del  foro,  che  ogni 
danno  sia  collocato  nella  debita  categoria,  indicante 
scrupolosamente  il  suo  grado. 

Ma  la  parte  materiale  del  delitto  non  è  il  solo 
punto  ,  cui  mirano  le  ricerche  del  medico  forense. 
Le  circostanze  fisiche  dell'avvenimento  raccolte  tutte 
e  confrontate  fra  loro  lo  pongono  spesso  in  istato 
di  sciogliere  le  questioni  della  colpa  e  del  dolo,  o 
almeno    di    cooperare    a  tal  soluzione.  È  noto  che 


IO 

ogni  delitto  risolvesi  in  due  elementi;  l'uno  morale, 
materiale  1'  altro;  l'uno  che  vuole,  l'altro  che  opera. 
Disgiungeteli,  facendo  agire  il  secondo  senza  la  con- 
correnza del  primo  ,  ed  avrete  un  atto  più  o  men 
dannoso  alla  società,  ma  non  un  delitto.  Innanzi  che 
il  fisco  invochi  la  pena  sul  capo  di  un  cittadino,  ei 
dee  chiarire  il  momento  criminoso,  cioè  il  concorso 
della  volontà.  La  quale  ove  sia  stata  trascinata  da 
mera  passione,  toccherà  al  giudice  di  apprezzare  la 
forza  che  questo  stato  transitorio  dell'animo  esercitò 
a  vincolarla  :  ma  se  il  poter  volitivo  era  offeso  da 
condizione  morbosa,  l'argomento  vuol  esser  trattato 
dal  medico.  E  non  è  solo  esaminando  lo  stato  del- 
l'intelletto durante  l'azione  che  si  suppon  criminosa, 
e  offrendo  perciò  la  ragione  fisica  dell'  aversi  a  di- 
chiarare dai  giudici  imputabile  o  non  imputabile  che 
il  medico  illustra  la  questione  del  dolo  :  parecchie 
altre  indagini  di  sua  pertinenza  contribuiscono  a  sta- 
bilire la  cooperazione  di  una  volontà  viziosa  e  sciente 
di  violare  la  legge  nel  commetter  l'azione,  della  cui 
natura  si  dubita.  Così  nei  ferimenti  la  qualità  del- 
l'istromento  vulnerante,  la  quantità  e  la  profondità 
delle  ferite  sono  elementi  che  investiga  il  perito,  e 
che  hanno  qualche  parte  nella  determinazione  del 
dolo.  L'esame  del  genere  di  morte  istituito  dal  me- 
dico conduce  talora  a  chiarire  la  questione  in  discor- 
so. Tizio  percuote  fortemente  Caio  nella  testa  e  tra- 
mortito il  trascina  nel  vicino  fiume;  quindi  ei  fa  pre- 
sumere al  fìsco  di  essere  stato  assalito  da  Caio  ,  e 
di  averlo  percosso  per  difender  la  propria  vita;  poi, 
vedutolo  morto,  averlo  gettato  nel  fiume  per  non  de- 
stare sospetti  e  aver  brighe  col  foro.  Intanto  le  me- 


11 

diche  investigazioni  dimostrano,  che  oltre  l'offesa  del 
capo,  il  cadavere  offre  i  segni  della  morte  per  asfissia, 
e  ne  conclude  che  Caio  fu  gettato  nell'acqua  vivente. 
La  ferma  intenzione  di  uccidere  è  messa  in  chiaro 
da  queste  indagini.  Ad  ogni  passo  s'incontrano  prove 
di  quel  che  valga  la  medicina  a  definire  la  questione 
del  dolo.  Così  è  noto  che  una  ceffata  ha  potuto  ca- 
gionare la  morte,  inducendo  commozione  o  stravaso. 
Or  se  in  un  caso  di  tal  fatta  sorga  il  dubbio,  se  Ya- 
nimus  iniuriandi  dirigesse  solo  1'  applicazione  del 
colpo,  ovvero  se  esso  fosse  vibrato  coU'intenzione  di 
danneggiare  gravemente  il  corpo,  le  ricerche  mediche 
potranno  agevolarne  la  soluzione.  Avvengachè  se  l'of- 
feso fosse  di  tempra  delicata,  tessitura  molle,  ossa 
sottili,  o  se  vi  preesistesse  una  morbosa  condizione 
del  cranio,  in  tal  caso  anche  uno  schiaffo  non  vibrato 
con  grandissima  forza  avrebbe  potuto  cagionare  sì 
gravi  effelti.  Al  contrario  se  manchi  ogni  elemento 
predisponente  nell'offeso,  e  vi  si  incontrino  i  segni 
di  profonda  contusione,  sarà  palese  che  la  percossa 
fu  enorme,  e  si  renderà  piìi  probabile  che  vi  fu  in- 
tenzione di  offendere  gravemente  il  corpo.  Alla  di- 
mostrazione del  dolo  appartiene  anche  la  scienza 
posseduta  dal  delinquente  e  chiarita  dal  medico  sulla 
special  qualità  dei  mezzi  impiegati  a  commettere  il 
delitto;  sicché  l'azione  non  possa  attribuirsi  a  sem- 
plice negligenza,  ma  apparisca  ben  l'animo  di  violare 
la  legge.  Così  se  un  servo  apprestò  al  suo  padrone 
il  prataiuolo  selvatico,  che  sì  facilmente  confondesi 
col  mangereccio,  potrà  tacciarsi  di  semplice  inavver- 
tenza; ma  se  gli  avesse  preparato  l'agarico  acre  o  il 
muscario,  si  avrebbe  grave  indizio  di  dolo.  Potrà  giù- 


12 

dicarsi  negligenza  del  farmacista  il  somministi'are  l'a- 
cido ossalico  in  vece  del  solfato  di  magnesia,  poiché 
vi  è  gran  somiglianza  fra  i  caratteri  fisici  delle  due 
sostanze  ;  ma  se  ad  una  ordinazione  di  opio  ei  ri- 
sponde coll'arsenico,  se  in  luogo  di  una  pozion  lau- 
danata  somministri  una  soluzione  di  sublimato,  chi 
escluso  il  caso  d'insensataggine,  lo  salverebbe  dalla 
imputazione  di  complicità?  E  se  il  delinquente,  pre- 
vedendo i  casi  in  che  l'isti'omento  criminoso  andasse 
frustrato  del  suo  effetto,  avesse  anticipatamente  pre- 
parato di  che  supplire  al  bisogno,  come  se  l'avvele- 
natore si  fosse  provvisto  di  mezzi  atti  a  sedare  il 
vomito  ,  che  avrebbe  potuto  sgombrare  lo  stomaco 
dal  veleno,  non  si  paleserebbe  il  suo  animo  ?  Ora 
queste  circostanze  non  possono  ben  valutarsi  senza 
il  concorso  del  medico.  Nelle  cause  d'infanticidio,  in 
cui  i  fatti  criminosi  confondonsi  sì  facilmente  cogli 
accidentali,  egli  è  raro  che  si  metta  in  palese  l'in- 
tenzione rea  della  donna,  se  il  medico  non  istituisca 
un'  analisi  accurata  di  tutte  le  fìsiche  circostanze  che 
accompagnarono  il  delitto.  Fermato  poi  che  manchi 
nell'azione  il  delinquendi  propositum  e  che  trattisi  di 
mera  colpa,  il  medico  prosegue  ad  esser  utile  al  foro 
misurandone  i  gradi.  Ei  p.  e.  che  conosce  quali  siano 
le  cognizioni  più  ovvie  sulla  cura  che  si  deve  ai 
bambini,  quali  le  pratiche  cui  giunge  la  più  grossa 
intelligenza,  egli  apprezzerà  giustamente  le  colpevoli 
omissioni,  e  i  fatti  colpevoli  delle  puerpere  che  la- 
sciano perire  il  neonato  per  non  coprirlo  subito  nella 
fredda  stagione,  o  per  legarne  troppo  lentamente  il 
funicolo,  0  per  non  soccorrerlo  in  un  soffocamento 
da  ostrutte  vie  del  respiro. 


J3 

1  casi  di  tentativo  doloso  e  di  colposa  consu- 
mazione di  un  delitto  possono  anch'  essi  ricevere 
schiarimento  dalla  medicina  forense.  Chi  sapendo  , 
a  cagion  d'esempio,  che  lo  stramonio  turba  le  facoltà 
intellettuali,  e  bramando  per  malvagi  suoi  fini  procu- 
rare simile  infortunio  ad  un  suo  parente,  gli  ammi- 
nistrasse tal  droga,  e  questa  in  vece  di  limitarsi  ad 
offenderne  l'intelletto  gli  togliesse  la  vita,  si  farebbe 
reo,  secondo  insegnano  i  criminalisti,  di  un  conato 
doloso  a  danneggiar  la  salute,  e  dì  omicidio  senza 
r  animus  occideiidi.  Il  medico  è  chiamato  a  calcolare 
l'intensità  del  conato  e  il  grado  della  colpa,  investi- 
gando la  dose  e  il  modo  in  cui  fu  amministrata  la 
sostanza  nociva,  e  giudicando  se  la  morte  fosse  il 
necessario  effetto  di  essa,  o  se  vi  avessero  contribuito 
altre  cause. 

A  fissare  i  limiti  tra  la  frode  civile  e  la  criminale 
vogliono  i  giuristi  che  molto  debba  fondarsi  su  ciò, 
che  il  frodato  non  potesse  secondo  le  regnanti  opi- 
nioni aspettarsi  un  inganno,  e  sul  maggiore  o  minor 
artifizio,  onde  questo  fu  apparecchiato,  sicché  la  co- 
mune prudenza  bastasse  o  no  a  penetrarlo.  Pertanto 
quando  1'  essenza  della  frode  riposa  sopra  un  fatto 
fisico  toccherà  appunto  al  medico  l'indagare  se  essa 
frode  sia  stata  ordita  con  piiì  o  men  di  finezza,  e 
se  perciò  fosse  agevole  o  difficile  impresa  il  premu- 
nirsene. Le  frodi  sui  commestibili  e  sulle  bevande,  le 
simulazioni  di  persone  e  di  malattie  appartengono 
a  questo  novero. 

La  medicina  legale  insinuandosi  nelle  forensi  di- 
squisizioni coopera  talvolta  a  stabilire  quel  che  i  mo- 
derni giuristi  appellano  essenza  di  fatto  del  delitto. 


u 

Così  l;i  essenza  di  fatto  del  conaUifi  delinqueudi  me- 
ritevole di  punizione  è  costituita  in  diritto  criminale 
da  tre  principali  condizioni:  cioè  1/  da  un'azione 
esterna  diretta  a  commettere  il  delitto;  2."  dalla 
desistenza  involontaria  dall'eseguirlo;  3."  dalla  ido- 
neità del  mezzo  impiegato  a  compierlo.  Ora  tutte  e 
tre  queste  condizioni  possono  cadere  sotto  il  domi- 
nio del  fisico.  Un  individuo  compra  il  veleno,  e  pre- 
tende aver  comprato  un  rimedio:  il  medico  dimo- 
stra che  quella  sostanza  non  poteva  nel  caso  in 
questione  accennare  ad  alcun  uso  medicinale.  Un  se- 
condo è  interrotto  nel  corso  de'suoi  preparativi  cri- 
minosi da  una  convulsione,  da  un  deliquio,  da  una 
paralisi,  in  fine  da  una  malattia:  il  delinquente  pre- 
tende che  egli  ha  desistito  volontariamente  dal  de- 
litto, e  il  medico  dimostra  il  contrario.  Una  gravida 
proemia  di  abortire  trangugiando  una  droga ,  che 
creda  atta  a  produrre  tale  effetto:  il  medico  intanto 
fa  vedere  che  quella  sostanza  è  affatto  incapace  di 
procurare  l'aborto. 

Ovvero  si  fa  inghiottire  ad  un  bambino  del  vetro 
sottilmente  polverizzato  coll'intenzione  di  avvelenarlo; 
il  bambino  rende  il  vetro  per  d'abbasso:  scuopresi 
l'autore  del  fatto  e  gli  s'intenta  un  processso  di  co- 
nato di  veneficio.  Allora  il  medico  fa  avvertire  che 
il  vetro  pesto  non  è  mezzo  idoneo  a  produrre  l'av- 
velenamento ,  e  il  foro  ne  ricava  la  mancanza  di 
una  delle  condizioni  richieste  a  stabilire  il  conato. 
Dall'altro  lato  la  medicina  proclama  che  ove  una  so- 
stanza realmente  venefica  sia  stata  introdotta  nel 
corpo,  e  ne  siano  segniti  gli  effetti  corrispondenti, 
o  che  ne  avvenga  la  morte  del  paziente,  o  che  que- 


15 

sto  si  riabbia  a  salute,  il  veneficio  ò  sempre  com- 
piuto: il  medico  cioè  ha  in  ambedue  i  casi  il  diritto 
di  dichiarare  che  V  individuo  fu  avvelenato.  Perciò 
non  s'intende  come  in  dlcuni  codici  e  presso  alcuni 
magistrati  il  venefìcio  sia  interpretato  diversamente: 
e  quando  la  morte  non  chiuda  la  scena  morbosa 
indotta  dal  veleno,  il  delitto  abbia  ad  intitolarsi  di 
semplice  conato,  e  non  piuttosto  di  veneficio  non 
consumato.  Pare  intanto  che  i  criminalisti  non  do- 
vrebbero dare  al  veneficio  acccttazione  diversa  da 
quella  attribuitagli  dai  medici;  poiché  se  insegnò  il 
Renazzi  che  il  veleno  polens  est  aut  morlem  inferre^ 
aut  sanilatem  laedcre,  gravissimosque  morl/os  adducerCy 
è  chiaro  che  questo  gravissimo  morbo,  quale  effetto 
strettamente  connesso  alla  sua  causa ,  non  potrà 
aversi  in  altro  conto  che  di  un  veneficio  accaduto. 
Che  se  in  linguaggio  del  foro  veneficio  suona  lo 
stesso  che  uccisione  per  veleno,  converrà  allora  in- 
dicare con  altro  vocabolo  l'avvelenamento  non  se- 
guito da  morte,  il  quale  costituendo  pur  sempre  un 
danno  recato,  e  un  pericolo  incorso,  rappresenta  un 
fatto  compiuto  non  un  semplice  tentativo  a  ese- 
guirlo. 

La  essenza  di  fatto  della  vera  partecipazione  al 
delitto  e  del  semplice  favoreggiamento  al  medesimo 
potrebbe  qualche  volta  aver  luce  dalle  mediche  os- 
servazioni. Stabiliscono  i  criminalisti  per  carattere 
principale  del  favoreggiamento,  che  l'assistenza  pre- 
stisi al  delinquente  dopo  la  consumazion  del  delitto 
senza  concerto  anteriore ,  mentre  poi  l' ausiliatore 
partecipa  all'eseguimento  stesso  del  delitto:  dopo  i 
quali  limiti  nettamente  segnali  fra  un  reato  e  l'altro 


16 

parrebbe  che  l'intervento  medico  fosse  estraneo  del 
tutto  all'argomento.  Tuttavia  incontra  che  il  fisico 
possa  rammentare  ai  giudici ,  che  in  alcuni  casi  il 
fatto  criminoso,  benché  solamente  compito,  equivale 
pure  al  consumato,  e  che  perciò  chi  vi  aderisce  non 
ispiega  una  vera  e  materiale  partecipazione  al  de- 
litto. Un  marito  porge  alla  sua  compagna  una  po- 
zione avvelenata  ,  indi  finge  invocare  aiuto  al  male 
che  tosto  ne  segue.  Chiama  i  servi  all'assistenza,  e 
ad  uno  di  essi  ingiunge  di  correre  per  il  medico  ; 
poi  raggiuntolo  lo  rende  consapevole  del  fatto,  e  lo 
esorta  a  chiudere  anzi  l'adito  a  chicchessia.  11  servo 
favorisce  il  padrone  ,  e  dopo  brevissimo  tempo  la 
donna  soccombe:  trattavasi  di  acido  idrocianico.  Or 
qui  è  ben  vero  che  il  servo  si  pone  d'accordo  col 
delinquente  prima  che  il  defitto  in  ragion  criminale 
fosse  pienamente  consumato:  ma  innanzi  la  ragion 
medica  questo  delitto  è  consumato  appena  compito, 
trattandosi  di  un  veleno  così  potente  ,  da  produrre 
rapidamente  la  morte.  Non  si  può  adunque  soste- 
nere che  il  servo  abbia  partecipato  materialmente 
al  delitto,  poiché  qualunque  soccorso  in  quell'estre- 
mo sarebbe  stato  frustraneo.  Non  così  nel  caso  di 
men  presentaneo  veleno,  e  in  cui  il  paziente,  arguito 
il  fatto  dai  mali  che  lo  assaliscono,  chieda  l'emeti- 
co, e  non  gli  sia  porto,  domandi  bevande  mucila- 
ginose,  e  se  ne  amministrini  delle  calde  o  spiritose, 
richiegga  i  soccorsi  dell'arte,  e  gli  vengano  negati. 
Il  servo  o  astante  partecipa  qui  all'eseguimento  del 
delitto,  essendo  possibile  che  opportuni  rimedi  aves- 
sero trionfato  del  male.  11  medico  adunque  in  tai 
casi,  senza  dichiarare  egH  stesso  la  così  detta  essenza 


n 

ili  fatto  del  delitto,  vicn  peiò  a  suggellila,  analiz- 
zando le  circostanze  fisiche  dell'azion  criminosa. 

La  medicina  segue  a  coadiuvare  il  foro  crimi- 
noso nelle  circostanze  attenuanti  il  delitto.  I  recenti 
scrittori  di  materie  penali  biasimano  giustamente  le 
soverchie  generalità  della  legislazione,  e  sostengono, 
doversi  lasciar  gran  campo  alla  coscienza  e  al  buon 
senso  dei  giudici,  ai  quali  incombe  la  cura  di  esa- 
minare minutamente  la  fattispecie ,  ed  esercitarvi 
sopra  quell'epicheia,  che  la  giustizia  altamente  re- 
clama. Pertanto  il  medico  perito  potrà  farsi  sovente 

-utilissimo  stromento  a  simili  investigazioni  del  foro. 
Gran  differenza  evvi  certo  fra  infanticida  e  infanti- 
cida ,  e  non  par  giusta  la  legge  ,  che  le  condanna 
tutte  alla  stessa  sorte.  Ora  questa  differenza  viene 
in  gran  parte  segnata  dalla  medicina  col  determi- 
nare nel  caso  pratico,  se  la  tempra  della  donna  ac- 
cenni a  queir  esaltamento  nervoso  provocabile  dal 
parto,  e  che  si  adduce  come  motivo  di  scusa;  se  la 
natura  e  le  circostanze  di  esso  parto  fosser  tali  da 
favorire  queiresaltamento;  se  il  genere  di  morte  del 
neonato  trovisi  in  corrispondenza  colla  presunta  al- 
terazione  della  donna.  'tìa  rM-, 

11  fatto  criminoso ,  i  gradi  del  danno  recato , 
l'imputabilità  dell'  azione,  la  essenza  del  delitto,  le 
circostanze  attenuanti  non  sono  i  soli  argomenti  che 
possa  mettere  in  chiaro  la  medicina  forense  :  essa 
coopera  inoltre  allo  scoprimento  deWageìite  fisico^  6 
talora  dilucida  la  stessa  questione  dell'aMtore   intel- 

\leUuale.  E  senza  qui  riferire  tutti  gli  amniinicoli> 
onde  la  nostra   scienza    può    raccogliere    gì'  indi'cia 

I  auctorisy   basterà  il  ricordare  che  i  segni  del  puer- 
G.A.T.CXXXIV.  2 


18 

perio  servono  a  indicare  l'autrice  dell'  infanticidio  ; 
che  le  macchie  di  sangue  e  le  qualità  dell'istroinento 
vulnerante  confrontate  con  quelle  della  lesione  ser- 
vono a  indicare  il  feritore;  che  le  macchie  di  sper- 
ma, e  le  malattie  sifilitiche  in  corrispondenza,  servono 
a  indicare  lo  stupratore;  che  le  tracce  degli  acidi 
minerali  sulle  vesti  Iranno  coavinto  chi  le  indossava 
avev  lui  propinato  il  velepo.  Alla  scoperta  poi  del- 
l'ay.YBl^natore  si  procede  anche  risalendo  all'origine 
de^  veleno  per  mezzo  di  indagini  chimiche.  Così 
l'arsenico  può  essere  stato  gettato  nella  pentola  in 
cui  holliva  la  carne,  ovvero  nell'altra  in  cui  fu  tra- 
vasato il  brodo  per  farne  minestra,  ovvero  in  que- 
sta già  preparata  e  pronta  ad  apprestarci,  o  in  fine 
poteva  essere  mescolato  al  sale  ond'essa  condivasi. 
Giungendo  nel  caso  pratico  a  segnalare  una  di  que- 
ste, origini  del'  veleno  ed  escluder  le  altre,  si  può  of- 
frire alla  giustizia  un  veemente  indizio  dell'autore. 
Al  qual  fine  serve  anche  lo  studio  dell'andamento 
dé'sìntomi:  mettendo  cioè  in  rapporto  la  prima  loro 
manifestazione  col  tempo  in  che;  la  materia  sospetta 
fu  amministrata  da  un  qualche  individuo- 
Quanto  poi  alla  causalità  intelleltualey  ella  è  dot- 
trina dei  criminalisti  che  fapendo  cadere  in  errore 
un  altro  per  produrre  un  delitto  ^e  ne  può  (^venire 
a,utoi!^,  ^.  questo  errore  può  eriger  talvolta  l'in ter- 
preta^iioue,  dei  mèdici.  Narr^  il  MiWermaiet;  di  una 
donna  che  viveva  in  disunione  col  marito  ,  e  che 
avendo  udito  potervi,  esser  dei  mezzi  atti  a  risve- 
gliisre  il  sopito  amoi;e,  ne  domandò  consiglio  ad  un 
suo,  vicino.  Il  quale  covando  odip  da  lungo  tempo 
CQOl^:p  iqye|]'._uo«no ,  le  die  a  credeAe„ ,  puier/y.  real- 


19 
mente  ottenere  il  bramato  effetto  |3ei' mezzo  di  certa 
polvere,  che  in  fatti  la  donna  furtivamente  ammi- 
nistrò al  marito,  e  che  fu  cagione  delia  sua  morte. 
È  chiaro  che  le  ricerche  mediche  sulla  polvere,  se 
causa  0  no  efficiente  di  morte,  e  l'esame  del  mo- 
do, onde  la  donna  l'aveva  procurata,  e  delle  qua- 
lità sensibili  di  essa  droga,  se  atte  o  no  a  destare 
gravi  sospetti,  potevan  solo  condurre  ad  un  franco 
giudizio  sull'autor  del  delitto.  Che  per  verità  se  si 
fosse  trattato  p.e.  di  polvere  di  cantaridi ,  la  più 
crassa  ignoranza  e  la  maggior  semplicità  di  cuore 
non  avrebbero  scusato  intieramente  la  donna  dal- 
l'avei'la  sì  francamente  sperimentata. 

Dai  quali  esempi  rilevasi  in  quante  vie  del  pror- 
cesso  criminale  s'interni  la  medicina,  e  come  la  giu- 
stizia debba  quasi  ad  ogni  passo  invocare  il  suo  aiuto. 
Se  non  che  la  nostra  scienza  si  solleva  anche  a 
maggioi'  dignità:  da  semplice  adiutriee  essa  talvolta 
divien  consigliera,  e  sedendo  allato  ai  magistrati  con- 
tribuisce alla  riforma  delle  leggi.  Così  gli  antichi 
giureconsulti,  fondati  sull'autorità  di  un  libro  che  va 
sotto  il  nome  d' Ippocrate  negarono  la  vitalità  al 
feto  o-ttimesti'e:  e  la  medicina  legale  mostrando  la 
falsità  di  tale  opinione,  ne  distrusse  anche  l'erronea 
applicazione  alle  questioni  civili.  Dall'altra  parte  poco 
0  niun  conto  facevasi  della  vitalità  nel  foro  crimi- 
nale come  requisito  della  essenza  di  fatto  dell'  in- 
fanticidio: ma  dopo  che  i  medici  ebbero  sottoposto 
a  più  diligente  esame  lo  svolgimento  successivo 
del  feto,  e  contrasegnati  con  più  distinti  caraf- 
teri  i  vari  periodi  di  vita;  sicché  potesse  dirsi  con 
certezza  quando    esso  fosse  capace  a  continuare  la 


20 
vita,  e  quando  noi  fosse:  e  parimente  dopo  che  sa- 
nosi  meglio  studiati  i  vizi  di  conformazione  ,  e  le 
malattie  che  disdicono  al  feto  l'abilità  vitale,  i  giu- 
reconsulti richiamarono  anch'essi  l'attenzione  su  que- 
sto argomento,  e  riconobbero  che  il  feto  mancante  dei 
necessari  attributi  per  continuare  una  vita  indipen- 
dente fuori  dell'utero  materno,  comecché  avesse  dato 
qualche  segno  dì  vita,  non  ha  veracemente  comin- 
ciato a  vivere,  e  non  può  considerarsi  come  desti- 
nato ad  occupare  un  posto  tra  i  viventi:  quindi  in 
quasi  tutte  le  legislazioni  è  stato  chiaramente  sta- 
bilito che  l'infanticidio  non  si  possa  commettere  che 
sopra  un  fanciullo  vitale.  Accurate  osservazioni  han- 
no autorizzato  la  medicina  ad  ammettere  i  parti  se- 
rotini entro  i  giusti  confini ,  e  la  legge  ha  dovuto 
riformarsi  su  questo  punto.  I  criteri  di  verità  furono 
specialmente  sottoposti  a  severa  critica,  e  ne  risultò 
maggior  circospezione  nell'  accogliere  e  valutare  le 
prove.  Proclamarono  i  medici  la  fisiologica  inoppor- 
tunità della  tortura  a  svelare  l'autor  del  delitto,  la 
totale  inettezza  del  congresso  venereo  a  scoprir  l'im- 
potenza, la  frequente  ambiguità  dei  segni  sintoma- 
tici e  patologici  a  dimostrare  pienamente  il  venefì- 
cio, la  possibil  fallacia  delle  esperienze  docimastiche 
per  istabilire  la  vita  del  bambino  dopo  il  parto,  se 
non  si  armi  il  perito  delle  opportune  cautele.  Ella 
è  pure  la  medicina  che  mostrando  da  quante  diffi- 
coltà si  prema  la  compiuta  dimostrazione  dell'  in- 
fanticidio, e  appoggiandosi  principalmente  sullo  stato 
morboso,  che  spesso  offende  il  sistema  de'nervi  nel 
parto,  attissimo  a  conturbare  l'animo  della  donna  , 
e  perciò  ad  alleggerirne  o  toglierne  l'imputazione, 


21 

invocò  ed  ottenne  su  questo    delitto  più  miti    sen- 
tenze; sicché  dal  palo  e  dalla  vivisepoltura,  vigenti 
innanzi  la  costituzione  di  Carlo  V,  si  limitino  oggi 
alcune    legislazioni  alla  semplice  casa  di  disciplina. 
Il  foro  canonico  non  vorrebbe  prendere  a  sdegno 
che  la  medicina  le    offerisse    qualche    suggerimento 
sulla  procedura  delle   cause  matrimoniali  ex   frìgidi- 
tate,  rammentandogli,  1 ."  che  inutili  e  fallaci  sono  i 
cimenti  sul  membro  virile,  potendo  questo  rimanere 
impassibile  ai  noti  tentamenti  ed  esser  potente,  o  fa- 
cendo sembiante  d'inturgidiisi  benché  inetto  alla  co- 
pula.  «  Neqiie    medicum  decet ,    aggiunge  Sprengel , 
praeler  inspeclionem  membri  virilis,  tilillatione  libidi- 
nem  suscitare.  2."  Che  vano  e  dannoso  può  riuscire 
il  bagno  preparatorio  della  donna:  ed  infatti  i  mezzi 
astringenti,  che  sospettansi  praticati,  non  potrebbero 
esser  distrutti  in  sì  breve  tempo  da  un  bagno  ',   né 
questi  mezzi  avrebbero  mai  potuto  riprodurre  o  imi- 
tare l'imene,  ove  tale  membrana  fosse    stata  dianzi 
lacerata.  D'altra  parte  un  bagno  protratto  a  tre  quarti 
di  ora,  come  ordina  la  procedura,  espone  la  paziente 
al  deliquio  e  la  mette  in  pericolo  di    una    malattia 
reumatica  nella  mostra  che  dee  subito  fare  delle  sue 
parti  pudende.  3.°  Che  la  testimonianza  delle  levatrici 
non  è  fatta  per  inspirare  una  piena  fiducia.  Dappoi 
che  vi  ha  una  medicina  legale,  sono   state    sempre 
udite  querele  sull'uso  delle  mammane  nei  bisogni  tò- 
i'ensi.  Quel  che  aveva  già  scritto    Fortunato  Fedeli, 
che  solent  incertae  fallacesqiie  esse  faeminarum  obser- 
valiones,  ut  graviore  opus  sii  arlifice,  è  stato  ripetuto 
da  tutti  gli  altri  trattatisti.  Ed  infatti    se  ve  ne  ha 
delle  accorte,  diligenti  e  istiuite,  il  maggior  numero 


22 

però  è  formato  da  femmine  inette.  E  tanto  piiì  è 
inopportuno  l'intervento  di  esse  nel  caso  nostro,  che 
mancano  loro  frequenti  occasioni  di  esercitarsi  in  tale 
ricerca.  Le  levatrici  sogliono  esplorare  ogni  giorno 
le  parti  muliebri  per  la  diagnosi  del  parto  imminente, 
e  per  la  presentazione  del  feto,  ma  le  questioni  di 
verginità  non  essendo  poi  quotidiane,  magra  suol  esser 
la  loro  pratica  su  tal  materia.  Inoltre  le  anomalie, 
cui  va  soggetto  l'imene,  domandano  talora  più  recon- 
dite cognizioni  che  esse  per  ordinario  non  abbiano. 
4."  Finalmente  che  la  coabitazione  triennale  prescritta 
ne'casi  dubbi,  veduta  nel  senso  medico,  è  troppo  lunga, 
e  che  può  esser  funesta  al  pudor  della  donna.  Ripe- 
tute osservazioni  hanno  omai  dimostrato,  che  quando 
mentis  otium,  corporis  quies,  diaeta  lauta,  moderatus 
vini  generosi  poius,  remediorum  rohoranlium  exlrinse- 
cus  alque  inlrinsecus  aliquamdiu  continuatiis  usus , 
coniugis  hilaritas,  blandiiies,  formositas,  veraqiie  amo- 
ris  testimonia,  che  secondo  il  Sikora  ad  frigidos  exci- 
tandos  calefaciendosqiie  praestantissima  sunt  remedia, 
applicati  tuttavia  per  più  mesi  non  bastarono  a  pro- 
durre il  bramato  effetto,  rendesi  vana  ogni  prova  ul- 
teriore :  e  tanto  più  vana  in  quantochè  istruita  la 
causa  succedono  alla  espansione  il  ritegno,  alla  fi- 
ducia il  sospetto,  all'amore  l'odio,  o  almeno  l'indif- 
ferenza, e  intanto  che  coniuges  vires  siias  experiri  pos- 
sint,  la  donna  corre  pericolo  di  perdere  illicitis  con- 
trectationihm  quelle  condizioni  verginali,  che  dovreb- 
bero conservarsi  illese  a  documento  della  impotenza 
dell'uomo. 

Senza  usurpare  i  diritti  del  foro  il  medico  può 
anche  interloquire  sulla  entità  criminosa  delle  azioni. 


I 


23 

ogni  volta  che  allegando  la  sua  esperienza,  e  facendo 
uso  delle  fìsiche  sue  cognizioni,  ei  si  affidi  di  aggiun- 
gere qualche  elemento  alla  più  giusta  soluzione  di 
un  quesito.  Così  illustri  scrittori  di  materie  penali 
mantengono,  che  gli  atti  preparatorii  ai  delitti  non 
debbano  esser  puniti ,  e  che  il  conato  incominci  a 
meritale  una  pena  con  quella  azione,  che  contenga 
un  vero  principio  dell'efFettiva  esecuzion  del  delitto. 
11  medico  entrerebbe  in  campo  non  suo  prendendo 
a  ventilare  genericamente  il  subbietto;  gli  sarà  bensì 
lecito  di  avvertire  che  fra  cotesti  atti  preparatorii  ai 
delitti  havvene  alcuni,  che  alla  ragion  fisica  compa.^ 
riscono  troppo  piiì  vicini  degli  altri  alla  piena  e  si- 
cura consumazione  dell'  atto  criminoso,  per  essere 
posti  insieme  e  parificati.  Il  medico  colla  sua  espe- 
rienza per  guida  dubiterà  se  ben  si  affasci  racc[uisto 
del  pugnale  colla  compera  del  veleno  ,  e  se  questi 
debbano  esser  considerati  come  tentativi  del  mede- 
simo grado  e  del  peso  medesimo.  Riflettasi  in  fatti 
quanti  colpi  di  pugnale  vadano  a  vuoto,  e  quanti  siano 
suscettivi  di  guarigione,  e  come  le  offese  che  esso 
produce  siano  patenti,  e  quindi  ovvio,  e  bene  spesso 
pronto  il  soccorso:  si  consideri  al  contrario  la  facilità 
di  apprestare  un  veléno,  specialmente  per  certe  vie, 
e  la  certezza  del  suo  effetto  mortifero,  ove  esso  venga 
propinato  in  debita  dose,  e  l'oscurità  di  origine  nei 
suoi  fenomeni  morbosi,  e  la  fallacia,  la  tardità,  e  quasi 
sempre  l'insufficienza  del  soccoi-iso.  Ed  ecco  coiVie, 
dato  un  eguale  intendimento  criminoso,  dall'atto  del 
procurarsi  un'arma,  o  comprare  un  veleno  al  totale 
conseguimento  del  fine,  la  strada  sia  fisicamente  più 
sicura  nel  secondo  caso,  di  quel  che  nel  primo  ,  e 


2i 

pei;ciò  nella  compeia  del  veleno  abbia  a  vedersi  un 
eonaio  più  prossimo  al  delitto  che  neiracquisto  della 
pistola  o  del  ferro.  Vedete  qui  p.  e.  un  infermo  cui 
fia  gli  altri  rimedi  si  amministra  ogni  sera  un  cli- 
stere emolliente:  il  servo  incaricato  dell'operazione 
giunge  a  procurarsi  una  forte  dose  di  acetato  di  mor- 
fine coirintenzione  di  introdurla  nel  serviziale  della 
prossima  sera;  ma  in  quella  appunto  si  sospende  un 
tal  rimedio,  e  la  mattina  ritrovasi  per  avventura  la 
polvere  in  dosso  al  servo,  che  non  sa  renderne  conto. 
L'infermo  era  già  offeso  nella  testa,  e  l'amministra- 
zione del  clistere  narcotico  avrebbe  cagionato  inevi- 
tabilmente la  morte.  Or  si  confronti  questo  esempio 
eoll'altro  di  i»ersona  che  si  procura  un'arma  per  as- 
salire il  suo  nemico  ,  e  ne  viene  impedito  pel  suo 
allontanamento  ,  e  vedrassi  quanto  distino  fra  loro 
rispetto  ai  gradi  di  probabilità  di  raggiungere  il  fine. 
Non  travalica  il  medico  l'officio  suo  se  rammemora 
al  foro,  come  nella  causa  di  venefìcio  doloso  riesca 
importuno  il  cercare:  che  quantità  di  veleno  sia  stata 
apprestata,  e  se  tale  quantità  fosse  capace  a  cagio- 
nare la  morte.  Scabrosa  indagine  in  prima  pei  molti 
ostacoli  che  si  frappongono  all'analisi  quantitativa  di 
sostanze  mescolate  agli  umori  animali,  o  intrinsecate 
nei  tessuti:  fallace,  perchè  il  veleno  raccolto  non  può 
mai  equivalere  al  propinato,  parte  smarrendosene  col 
vomito  e  colle  scariche  alvine,  parte  venendone  as- 
sorbita; e  questa  distribuita  inegualmente  ai  diversi 
tessuti  e  visceri  diversi.  E  posto  poi  che  si  venga 
in  chiaro  della  vera  quantità  propinata,  e  che  questa 
sia  minima,  si  è  perciò  autorizzati  ad  escluderne  la 
mortifera  azione  ?  Chi  non  sa  quanto  di  relativo  si 


25 

asconda  nell'azion  dei  veleni,  e  come  la  potenza  dei 
loro  effetti  diminuisca  od  accrescasi  per  le  intrinseche 
condizioni  del  paziente  ?  Alcune  delle  quali  ascon- 
dendosi nella  forza  di  reazione,  negl'impeti  diffusivi, 
negli  organici  risentimenti,  rendonsi  impenetrabili  alle 
più  diligenti  investigazioni.  Gl'istromenti  vulneranti 
squarciano,  incidono,  contundono  egualmente  i  tessuti, 
qualunque  sia  il  temperamento  ,  la  costituzione  ,  la 
diatesi  dell'individuo:  quindi  il  grado  del  danno  cor- 
risponde bene  alla  quantità  della  potenza  nociva;  ma 
dei  veleni,  se  ne  eccettui  gli  strettamente  corrosivi, 
non  può  dirsi  lo  stesso.  Da  tenuissime  quantità  pos- 
sono insorgerne  formidabili  effetti,  ove  la  macchina 
sia  più  accline  a  favorirne  l'assorbimento,  a  promuo- 
verne la  diffusione,  a  risentirne  il  contatto.  Or  se  la 
gravezza  deireffetto  non  è  pienamente  corrispondente 
alla  quantità  della  causa,  a  che  giova  ricercare  la  dose? 
E  stata  propinata  una  sostanza  riconosciuta  univer- 
salmente capace  di  toglier  la  vita;  sonosi  manifestati 
nel  paziente  gli  effetti  soliti  a  prodursi  da  essa;  la 
malattia  è  terminata  colla  morte:  e  che  altro  vuoisi 
per  enunciare  il  giudizio  ? 

Alla  influenza  che  la  medicina  esercita  sulla  pra- 
tica forense  appartiene  il  disporre  in  certi  casi  gl'in- 
terrogatori dei  giudici,  o  almeno  di  rammentar  loro 
l'importanza  dell'essere  instituiti  essi  medesimi  nella 
medicina  legale,  e  del  seguirne  i  progressi.  Ove  il 
giudice  inquirente  non  venga  diretto  dal  medico,  o 
non  sia  ben  addentro  nelle  dottrine  medico-forensi, 
come  potrà  condurre  un  interrogatorio  alla  inquisita 
d'infanticidio  sì  che  la  incalzi  e  costringa  ?  Se  non 
gli  sono  ben  noli  tutti  i  rifugi  del  delitto,  tutte  le 


26 

scuse  della  colpa,  tutti  gli  argomenti  onde  dipende 
il  giudizio,  come  ei  potrà  rediger  gli  atti  in  modo 
che  0  non  s'abbiano  a  rinnovare  le  indagini,  o  sia 
forza  rimanersi  nel  dubbio.  Ma  le  prime  investiga- 
zioni sono  le  più  fruttuose  ,  e  perciò  si  dia  opera 
che  esse  procedano  con  la  più  rigorosa  diligenza  ri- 
cercando la  donna  sopra  ogni  punto.  Previde  il  parto 
imminente  ?  Qual  fu  la  natura,  la  durata,  il  modo, 
il  luogo  del  parto  ?  come  era  allora  vestita,  e  come 
situata?  che  udì,  che  vide,  che  operò  in  quell'istante, 
e  poco  stante  ?  cadde  il  neonato,  e  come,  e  perchè  ? 
ruppesi  il  tralcio  ?  ec.  Rammenta  la  medicina  ai  giu- 
dici che  r  inspezione  del  luogo  in  che  avvenne  il 
parto  dee  farsi  al  più  presto,  acciò  non  se  ne  alterino 
le  condizioni,  e  dee  farsi  coll'intervento  del  medico, 
il  quale  saprà  meglio  raccogliere  le  più  minute  cir- 
costanze, e  attribuir  loro  il  giusto  valore.  Egli  veri- 
ficherà le  macchie  di  sangue  notandone  la  direzione, 
r  estensione  ,  le  vicendevoli  distanze;  ei  metterà  in 
corrispondenza  la  qualità  del  piancito,  o  delle  scale, 
con  quelle  della  lesione  offerta  dal  neonato:  Ovvero 
se  il  parto  e  accaduto  in  latrina,  ne  esaminerà  l'o- 
rifizio, i  margini,  il  diametro,  la  lunghezza,  ponendo 
il  tutto  in  rapporto  colla  natura  della  offesa  in  que- 
stione. '^'ìTi''{ 

Ma  il  più  efficace  esempio  che  possa  allegarsi 
della  giusta  parte  che  la  medicina  si  vendica  nel  di- 
rigere e  riformare  le  pratiche  del  foro  criminale  si 
ricava  dall'argomento  delle  ferite.  Richiegga  pur  la 
natura  del  processo  inquisitorio  che  il  chirurgo  de- 
nunzi la  lesione  alla  prima  sua  visita  :  non  però  è 
necessario  a  conseguirne  il  fine  eh'  ei   pronunzi  fin 


27 

d'allora  un  giudizio  sulla  entità  della  offesa.  È  stato 
già  osservato  da  savi  scrittori  che  tale  pratica  è  fe- 
race di  inconvenienti ,  ed  ovvie  ne  son  le  cagioni 
nella  somma  difficoltà  che  spesso  incontrasi  di  ben 
apprezzare  in  principio  gli  elementi  tutti,  che  con- 
corrono a  stabilire  il  grado  di  pericolo  di  una  ferita. 
Ordina  la  legge  che  si  pesi  il  danno  recato  all'offeso 
per  fondarvi  sopra  un'  indicazion  della  pena ,  ed  è 
chiaro  che  a  questa  legge  allorché  ponsi  in  uso,  voi 
dovrete  presentare  un  fatto  dimostrato,  non  una  ipo- 
tesi, non  una  conseguenza  dedotta  da  argomenti  di 
analogia.  Ora  ella  è  spesso  una  mera  ipotesi,  egli 
è  un  pretto  argomento  di  analogia  che  si  offre  al  foro, 
quando  si  debba  avventurare  il  prognostico  fin  dai 
primordi  del  male,  non  potendosi  allor  valutare  la 
quantità  della  lesione,  se  non  dalle  apparenze  di  so- 
miglianza con  altre  già  osservate  e  giudicate.  Intanto 
i  legisti  ne  avvertono  che  a  suhieclo  nunquam  ab- 
strahendum  videlur,  ani  ab  uno  homiue  ad  alium  ar- 
(juendum,  sed  in  relativa  ac  subiectiva  lethalitate  sub- 
sistendum  (Nani  in  Anton.  Matth.).  E  perchè  il  giu- 
dizio sia  tutto  relativo  e  concreto  fa  d'uopo  aspettare 
che  il  fatto  sia  consumato,  e  rivolgere  allora  lo  sguar- 
do al  corso  e  alla  durata  della  malattia,  alla  natura 
de'sintomi,  e  all'importanza  del  metodo  curativo  che 
si  è  dovuto  impiegare.  Allora  solo  potrà  dirsi  con 
piena  cognizione  di  causa  che  la  vita  dell'offeso  ha 
corso  quel  grado  di  pericolo,  e  non  altro,  cioè  si  potrà 
pesare  esattamente  il  danno  recatogli.  Come  adunque 
conciliare  i  bisogni  del  fìsco  cogl'interessi  della  me- 
dicina ?  11  fìsco  ci  chiede  il  prognostico  fìn  dal  prin- 
cipio del  male  per  due  principali   cagioni.  Ei    vuol 


28 
cioè  procurarsi  fin  dai  primi  momenti  una  notizfa 
genuina  e  originale  sulla  entità  della  ferita,  temendo 
che  se  ne  possa  in  seguito  o  per  malizia  o  per  er- 
rore dar  conto  meno  accurato:  ei  vuole  eziandio  pro- 
cedere sollecitamente  alle  sue  operazioni,  appena  gli 
venga  riferito  che  la  vita  dell'offeso  è  in  grave  peri- 
colo. A  questa  esigenza  del  foro  soddisfasi  coll'av- 
vertirlo  dell'  imminente  jjericolo  in  que'casi,  nei  quali 
anche  agli  occhi  de'meno  esperti  apparisce  che  il 
ferito  va  in  breve  tempo  a  soccombere  (1).  Alla  pri- 
ma si  provvede  abbastanza  ove  la  denunzia  com- 
prenda una  fedele  descrizione  della  sede,  forma,  pro- 
fondità, origine,  complicazioni  e  sintomi  della  ferita. 
Questo  scrupoloso  referto  servirà  assai  meglio  del- 
l'assoluto prognostico  ai  bisogni  del  fìsco  e  agl'inte- 
ressi del  chirurgo.  Questi  potrà  far  mostra  di  sapere 
e  di  precisione  senza  mettere  a  cimento  la  sua  fama, 
senza  rendersi  odioso  all'offeso,  o  all'offensore:  quello 
avrà  un  documento  sulle  qualità  originali  della  ferita, 
le  quali  confrontate  colla  successiva  denunzia,  colla 
durata  e  andamento  del  male,  e  coi  rimedi  che  fu- 
rono necessarii  a  combatterlo,  somministreranno  una 
idea  esatta  della  entità  della  ferita  medesima.  Ma 
questa  entità  vien  poi  ben  misurata  dalla  triplice  di- 

(1)  A  un  tale  bisogno  accennava  già  l'editto  Valenti  del  2  mag- 
gio  1750  del  seguente  tenore. 

«  Ferme  le  regole  osservate  finora  dai  medici  e  chirurghi  nel 
dare  il  giudizio  sopra  la  qualità  delle  ferite  se  siano  con  pencolo 
di  vita,  con  qualche  pericolo,  o  pure  senza  pericolo,  si  ordina  che 
qualora  considerino  che  il  ferito  sia  in  grave  pericolo  di  morire 
dichiarino  espressamente  nella  ralazionc  che  la  ferita  o  feri'e  sono 
con  grave  pericolo  di  vita,  w 


i29 

visione  del  foro  ?  È  sentenza  di  molti  che  essa  non 
soddisfi  ai  bisogni  dell'arte,  e  che  si  senta  ad  ogni 
passo  la  necessità  di  introdurre  qualche  altro  grado 
|)er  meglio  pesare  la  quantità  dell'offesa:  il  foro  però 
ha  rigettato  costantemente  questo  consiglio,  preten- 
dendo che  una  più  minuta  classificazione  sarebbe 
piuttosto  d'impaccio  che  di  aiuto  alle  sue  operazioni. 
A  malgrado  di  che  anche  noi  sosteniamo,  che  con- 
servando l'attuai  pratica  di  aggiungere  sempre  il  pro- 
gnostico alla  prima  denunzia,  non  si  possa  soggiacere 
all'angustia  della  divisione  forense,  senza  spesso  sen- 
tirsi a  turbar  la  coscienza  di  poter  collocare  una 
data  ferita  in  posto,  che  non  esprima  fedelmente  il 
grado  del  danno  recato,  senza  accorgersi  di  offender 
la  verità,  mettendo  per  esempio  nello  stesso  fascio 
una  lesione  della  testa  con  evidenti  segni  di  stra- 
vaso, ed  un'altra  del  petto  in  cui  sia  stato  ap- 
pena sfiorato  il  polmone.  Eppure  tale  è  la  pre- 
sente condizion  del  chirurgo:  ei  dee  denunziar  con 
peiicolo  tanto  la  ferita  che  sarà  in  poco  d'  ora  se- 
guita irreparabilmente  dalla  morte,  tanto  alcune  di 
quelle  che  ne  distano  per  un  frapposto  processo 
morboso  più  o  men  lungo,  e  dì  esito  incerto.  Non 
così  necessaria  ci  sembrerebbe  l'aggiunta  di  un  nuovo 
grado,  ove  si  introducesse  l'uso  di  differire  il  giudi- 
zio sulla  entità  della  ferita  fino  all'  esito  compiuto 
della  medesima.  Allora  in  fatti  verrebbero  ad  esclu- 
dersi dalla  triplice  divisione  tutte  le  offese  che  fi- 
niscono necessariamente  colla  morte.  Seguita  la  quale, 
il  titolo  vero  della  questione  è  di  letalità,  non  di  pe- 
ricolo: trattasi  cioè  di  provare  che  la  morte  sia  stata 
cagionata  unicamente  dalla  ferita,  e  che  non  vi  ab- 


30 

biano  contribuito  altre  cause.  Ora  esclusi  i  casi  di 
assoluta  letalità,  alle  rimanenti  lesioni,  ove  se  ne  pro- 
nunzi il  giudizio  a  fatto  compito  ,  si  adattano  più 
adequatamente  i  tre  gradi  forensi  del  ninno ,  del 
poco  e  del  molto  pericolo.  Né  dicasi  che  ricono- 
scendo la  necessità  di  avvertir  la  giustizia  sull'  im- 
minenle  pericolo  di  vita,  si  venga  ad  ammettere  un 
quarto  grado  nel  quantum  delle  ferite  :  imperoccliè 
in  tali  casi  la  questione  non  è  de  vulneralo^  ma  sib- 
bene  de  occiso  ,  e  quindi  la  denunzia  del  chirui'go 
non  serve  che  di  avvertenza  per  le  operazioni  fiscali. 
La  medicina  segue  a  farsi  consigliera  delle  pra- 
tiche necessarie  ad  aversi  durante  la  cura  dei  feriti, 
e  nell'apertura  de'cadaveri,  acciò  non  diasi  luogo  a 
maggiori  dubbi  nel  giudicare  della  quantità  dell'of- 
fesa, 0  della  causa  di  morte.  (ìerto,  il  buon  senso 
legale  è  bastante  a  stabilire,  che  se  il  defunto  per 
lesione  fu  curato  dagli  stessi  periti  fiscali ,  farà  di 
mestieri  che  al  visum  et  repertum  assistano  anche  al- 
tro medico  ed  altro  chirurgo:  lo  stesso  buon  senso 
deciderà.,  che  il  medico  e  chirurgo  curanti  debbano 
essere  invitati  all^  sezion  del  cadavere  istituita  dai 
periti  fiscali.  A  statuire  però  che,  ove  l'offeso  vòglia 
affidare  la  cura  del  suo  male  ad  altri  fisici,  che  non 
a'periti  fiscali,  allora  i  curanti  abbiano  a  distendere 
un  esatto  e  circostanziato  giornale  sullo  stato  del 
ferito  da  comunicarsi  a  quando  a  quando  ai  periti 
fiscali;  come  pure  che  in  tal  caso  essi  periti,  ove  Io 
credano  utile,  visitino  rinfermo  e  dirigano  ai  curanti 
qualche  osservazione  intorno  la  terapia ,  che  non 
sembrasse  lor  regolare:  dichiarando  anche  in  un  pro- 
tocollo a  parte,  da  sottoscriversi  dai  curanti  mede- 


31 

sìmi ,  se  questi  non  concorresseio  nel  i)arer  dei  fi- 
scali. Questa  è  tal  regola  che  non  può  essere  ordinata 
che  dalla  nostra  scienza  ,  conoscitrice  come  ella  è 
delle  varietà  e  complicazioni  che  si  presentano  nel 
corso  dei  morbi,  delle  anomalie  decloro  esiti,  della 
parte  che  vi  esercitano  i  diversi  metodi  curativi  e 
le  circostanze  esteriori.  Del  resto  a  chiunque  venga 
affidata  la  cura,  il  foro  dovrebbe  sempre  esigere  la 
redazione  di  un  giornale  che  raccolga  le  successive 
mutazioni  offerte  dalla  malattia  e  ne  esprima  l'an- 
damento. Per  mancanza  di  tali  notizie  e  jjeriti  e 
periziori  si  trovano  spesso  nella  incapacità  di  risol- 
vere con  piena  scienza  il  quesito:  se  la  lesione  sia 
stata  r  unica  causa  della  morte  ,  o  se  vi  abbiano 
contribuito  altre  circostanze. 

11  costume  invalso  nella  nostra  procedura  ,  che 
i  periti,  perlustrato  appena  il  cadavere,  pronunzino 
nell'arena  il  loro  giudizio,  non  è  il  più  conducente 
al  fine  della  giustizia.  Vi  sono  casi  intricati  ambi- 
gui complessi,  in  cui  la  verità  non  viene  subito  a 
galla,  e  conviene  pescarla  nel  fondo.  Dall'altro  lato 
sono  uomini  ed  assennati  che  non  hanno  il  dono 
della,  prontezza,  e  non  sanno  entrara  nel  giusto  senso 
dei  fatti,  se  non  venga  loro  concesso  di  raccogliersi 
un  tratto,  e  di  matui-are  nel  silenzio  il  giudizio.  Per 
an^bedue  queste  cagióni  sarebbe  forse  più  utile,  che 
nel  visum  repertum  si  dettassero  dal  chirurgo  le  av- 
vertenze fatte  sul  cadavere,  e  si  lasciasse  poi  che  i 
periti  riflettessero  sopra  i  risultamenti  della  sezione, 
e  ragionassero  sulla  causa  della  morte  in  separala 
scrittura  da  rendeisi  giudiziale  e  inserirsi  in  pro- 
cesso con  la  solita  pratica. 


:>2 

IJ  più  beli'  ornamento  del  magistero  penale  gli 
deriva  dall'essere  un  sistema  di  prevenzione:  ed  an- 
che in  questo  la  medicina  si  fa  ausiliaria  al  foro  , 
e  cospira  al  gran  fine  dell'ordine  sociale.  È  noto  in 
fatti  che  la  perversità  meditante  il  delitto,  ne  me- 
dita in  pari  tempo  1'  occultazione  per  ischivare  la 
pena  :  ogni  progresso  adunque  che  si  ottenga  nel- 
r  arte  di  scoprire  i  fatti  criminosi  ,  e  gli  autori  di 
essi,  sarà  un  freno  di  piiì  ai  malvagi,  che  li  trat- 
terrà dall'abbandonarsi  alle  prave  loro  inclinazioni. 
Non  isperino  essi  che  il  tempo  sparga  sempre  di 
insuperabili  difficoltà  la  ricerca  della  causa  di  mor- 
te: dopo  mesi  ed  anni  il  cadavere  divenuto  anche 
scheletro  darà  mezzi  alla  medicina  e  di  stabilire 
r  identità,  e  di  rintracciare  il  dehtto  nella  frattura 
delle  ossa,  indicando  il  genere  di  stromento  impie- 
gato a  opeiarla  ,  o  di  ritrovare  il  veleno  in  mezzo 
alla  putrilagine. 

Dopo  aver  mostrato  finora  di  qual  varietà  ed 
importanza  siano  gli  aiuti  che  porge  la  medicina  al 
foro,  rivolgasi  ora  1'  attenzione  ai  gradi  di  fiducia 
che  possono  meritar  questi  aiuti.  Due  obblighi  cor- 
rono al  medico  legale:  egli  dee  in  primo  luogo  sta- 
bilire le  circostanze  di  fatto  su  cui  riposa  il  giudizio; 
egli  deve  in  secondo  luogo  interpretarle  e  risalire 
alle  cause  di  esse.  Nel  soddisfare  al  primo  impegno 
il  perito  dee  conseguir  la  certezza  fisica:  è  neces- 
sario che  le  circostanze  di  fatto  siano  cadute  sotto 
i  suoi  sensi  ,  e  che  egli  non  si  trovasse  in  condi- 
zioni da  essere  illuso.  Ogni  dubbiezza  intorno  gli 
elementi  di  fatto,  ogni  espressione  ambigua  sulle 
condizioni  dei  medesimi,  fa  vacillare  necessariamente 


33 

il  giudizio  che  ne  discende.  Se  diasi  qual  verità  una 
enchimosi,  e  si  tratti  di  una  lividità  cadaverica;  se 
sì  registri  il  ritrovamento  dei  segni  dell'  infiamma- 
zione, e  i  tessuti  siano  colorati  da  sangue  sciolto  e 
putrefatto  ;  se  chiamate  sfacciato  un  viscere  che  è 
semplicemente  ammollito,  se  riponete  fra  le  lesioni 
operate  dal  feritore  quelle  che  fece  il  coltello  ana- 
tomico; se  dichiarate  offesa  una  parte  senza  averlo 
veduto  ;  voi  partite  da  dati  erronei,  che  dovranno 
partorire  erronei  giudizi.  Qui  l' imperfezione  è  del 
perito  non  dell'arte,  la  quale  addita  i  mezzi  di  in- 
vestigare con  ogni  diligenza  le  circostanze  di  fatto, 
e  insegna  a  ben  accertarle.  Nel  soddisfare  però  al 
secondo  incarico,  cioè  nell'interpretare  i  fatti,  il  pe- 
rito incontra  gradi  diversi  di  certezza  :  poiché  in 
questo  ,  come  in  ogni  altro  genere  di  dottrine  ,  lo 
stesso  fenomeno  può  accennare  a  diverse  origini,  e 
riconoscer  cause  diverse.  Così  avrassi  un  criterio  di 
semplice  probabilità,  un  indicium,  quando  la  circo- 
stanza di  fatto  può  riferirsi  ad  altre  cause ,  oltre 
quella  cui  mirasi  :  probabilità  piiì  o  men  forte  se- 
condo il  maggiore  o  minor  numero  di  spiegazioni 
che  possano  darsi  al  fatto  in  questione.  Si  ha  p.e. 
un  lieve  indizio  di  propinato  veleno  se  l'individuo, 
su  cui  cade  il  dubbio  ,  abbia  provato  poco  dopo  il 
pasto  cardialgagìa  e  vomito;  lieve  indizio,  perchè  molte 
altre  cause  ,  olire  una  sostanza  venefica  ,  potevano 
turbare  a  quel  modo  lo  stomaco.  Piiì  grave  sarà 
r  indizio  se  la  persona  accusò  percezione  d'insolito 
gusto  in  quella  vivanda,  e  atroci  siano  i  dolori,  sfre- 
nato il  vomito,  e  vi  si  aggiungano  la  diarrea,  il  te- 
nesmo, i  sudori  freddi,  la  prostrazion  delle  forze;  più 
G.A.T.CXXXIV.  3 


34 

gl'ave  indizio,  perchè  questo  cumulo  di  fenomeni  può 
riferirsi  ad  un  minor  numero  di  altre  cause  oltre  il 
veleno,  che  non  la  semplice  cardialgia  accompagnata 
da  vomito.  Si  avrà  indizio  veemente  di  attossica- 
mento,  se  il  sapore  del  cibo  sospetto  fu  acre  e  me- 
tallico, se  lasciò  nella  bocca  e  nelle  fauci  un  vivo 
bruciore,  se  le  materie  rese  per  vomito  sinno  tinte 
di  sangue,  se  ne  segua  in  breve  tempo  la  morte  in 
mezzo  ad  orribili  ambasce;  veemente  indizio,  perchè 
rarissimo  è  il  caso  che  questa  riunione  di  avveni- 
menti riconosca  altra  causa  che  non  un  veleno.  Ove 
poi  molte  circostanze  di  fatto,  e  ricavate  anche  da 
sorgenti  diverse,  si  colleghino  e  concordino  a  dimo- 
strare una  data  origine,  e  tanta  sia  l'armonia  di  essi 
fatti  da  generare  in  noi  una  piena  persuasione,  che 
quella  e  non  altra  sia  la  causa  di  essi,  avremo  allora 
un  criterio  di  verità,  avremo  una  prova  simigliante 
a  quella  che  i  giusdicenti  appellano  indiziaria.  Così 
se  ai  fenomeni  morbosi,  che  suggerivan  di  sopra  il 
grandissimo  indizio ,  aggiungansi  nel  cadavere  al- 
trettante lesioni  in  perfetta  corrispondenza  con  quei 
fenomeni,  e  vi  si  unisca  in  pari  tempo  la  morte  di 
qualche  animale  domestico,  che  casualmente  lambì 
le  materie  del  vomito,  o  divorò  il  residuo  del  cibo, 
vi  sarà  bene  di  che  esser  convinti  trattarsi  di  vene- 
ficio: ma  tuttavia  questa  piova  indiziaria  non  equi- 
vale ancora  ad  una  compiuta  e  inelluttabile  dhno- 
strazione  ,  la  quale  si  ottiene  solo  quando  res  ipsa 
loquilur  ,  quando  cioè  la  connessione  fra  le  circo- 
stanze di  fatto  e  la  causa  loro  è  di  piena  evidenza. 
Così  potremo  essere  moialmente  certi  del  venefìcio 
colla  prova  indiziaria,  ma  la  certezza  tisica  non  si 


35 

i-nggiunge    che    ritrovando  la  sostanza    venefica  fra 
viscere  maltrattate  da  essa. 

Se  intanto  la  prova  che  il  medico  raccoglie  da 
tanti  indizi,  che  accennano  tutti  ad  una  sola  origine, 
e  ripugnano  ad  ogni  altra,  cede  in  valore  alla  fìsica 
evidenza  ottenuta  per  la  via  diretta  dei  sensi  ,  non 
perciò  il  foro  le  dee  far  brutto  viso:  e  avutala  ap- 
pena in  conto  di  probabile  deduzione,  negarle  il  suo 
giusto  valore  in  quella  sintesi  giuridica  da  cui  sca- 
turisce il  giudizio.  Sostengono  gli  avvocati  e  non  dis- 
sentono i  giudici  che  la  certezza  morale  del  medico, 
scientifica  od  artistica  che  essa  sia,  confrontata  alla 
certezza  morale  logica  e  giuridica  ,  a  nulla  più  si 
riduca  che  a  uno  slato  di  dubbio  (1).  Sentenza  che 
dà  chiaramente  nei  falso  in  quanto  che  vi  si  mettono 
nello  stesso  fascio  le  speculazioni  della  scienza  colle 
deduzioni  dell'arte,  i  giudizi  che  versano  sulla  natura 
e  sulle  comunanze  dei  morbi  coi  puri  insegnamenti 
deiresperienza  sul  modo  di  ralFigurarli.  E  per  verità 
se  alcune  fra  le  dottrine  teoretiche  della  medicina 
non  aggiungono  a  tal  grado  di  certezza  da  poter  in- 
spirare una  pienissima  fiducia,  non  può  predicarsi  lo 
stesso  dei  principii  e  delle  regole  pratiche  ,  che  ci 
guidano  alla  conoscenza  delle  malattie,  che  hanno 
lor  saldo  fondamento  in  conformi  osservazioni  di  se- 
coli. Allorché  il  medico  abbia  verificato  che  un  in- 
dividuo soffre  di  febbre,  di  alterazion  di  respiro,  di 
tosse,  di  dolore  puntorio  al  destro  o  al  sinistro  co- 
stato; e  purché  questi  fenomeni  siano  ben  precisati; 
che  trattisi  cioè  di  vera  febbre  con  tutte  le  solennità 

(1)  Battoli  -  Difesa  di  Contini  -  Perugia. 


36 

sue  non  di  semplice  orgasmo  vascolare,  che  la  fre- 
quenza della  respirazione  non  sia  saltuaria  ma  per- 
manente e  continuata  ,  che  il  dolore  sia  fìsso  pro- 
fondo, pungitivo,  feroce  non  lieve,  superficiale,  inter- 
polato, fugace,  che  la  tosse  si  sollevi  aspra,  impor- 
tuna, esasperantesi  sotto  le  più  larghe  inspirazioni  e 
occasione  di  più  lancinante  dolore  :  il  medico  ,  noi 
diciamo,  verificati  questi  fenomeni  non  trovasi  nello 
stato  di  dubbio,  ma  ha  la  certezza  morale  che  l'indivi- 
duo soggiace  alla  infiammazion  della  pleura,  comun- 
que il  processo  morboso  non  si  manifesti  direttamente 
ai  suoi  sensi,  ma  ei  debba  arguirlo  delle  esterne  appa- 
renze. Lo  stesso  medico  avrà  pure  le  sue  convinzioni 
sul  modo  onde  si  generò  questa  malattia,  sulla  na- 
tura del  processo  che  la  costituisce,  sulle  condizioni 
che  l'alimentano:  ma  egli  non  oserebbe  mai  spacciare 
tali  sue  convinzioni  colla  medesima  sicurezza,  e  at- 
tribuir loro  in  pubblico  il  grado  istesso  di  certezza, 
di  che  ritiene  fornita  la  pratica  cognizione  del  male. 
La  credibilità  adunque,  cui  aspirano  in  medicina  le 
dottrine  speculative,  differisce  molto  da  quella  che 
meritano  i  corollari  che  si  deducono  legittimamente 
da  numerosi  e  limpidi  fatti.  Per  questi  impetriamo 
più  franca  cittadinanza  nel  foro,  e  maggior  fiducia 
dai  giudici,  consapevoli  che  la  malleveria  che  a  noi 
danno  di  lor  verità  non  diversifica  da  quella  che  i 
vindici  di  giustizia  ritrovano  nella  prova  indiziaria. 
Medici  e  giudici  in  fatti  nel  cercare  la  verità  per 
questa  indiretta  via  si  fondano  sul  gran  postulato,  che 
cause  ed  effetti  hanno  fra  loro  un  vincolo,  una  cor- 
rispondenza ,  una  proporzione  :  i  giudici  scrutando 
cause  ed  effetti  morali ,    i  medici  tenendo  dietro  a 


cause  ed  effetti  trordine  fisico;  ma  perchè  i  medici 
in  tale  dimostrazione  giungono  alla  verità  per  via  in- 
duttiva ,  così  la  certezza  che  se  ne  ha  rientra  nel 
mondo  morale.  Si  parte  adunque  e  in  medicina  e  nel 
foro  da  questo  principio,  che  i  fatti  fisici  come  le 
contingenze  morali  non  vanno  a  casaccio,  ma  pro- 
cedono con  un  certo  ordine  e  con  una  tal  quale  cor- 
rispondenza. Considera  pertanto  il  giudice  che  ogni 
essere  morale  agisce  per  un  fine,  che  a  conseguirlo 
deve  impiegare  mezzi  efficaci  ed  opportuni,  che  il 
fine  di  ogni  delitto  è  un  bene  apparente,  che  al  fine 
di  ottenere  il  bene  va  unito  l' intento  di  evitare  la 
pena:  e  non  dimentica  che  le  passioni  bollenti  facil- 
mente traboccano,  che  gli  uomini  maneschi  e  di  tem- 
pra  violenta  sono  più  acclini  ai  delitti  di  sangue,  che 
la  reità  suol  rendere  peritosi,  che  il  grido  delle  mol- 
titudini, ove  non  sia  provocato  da  maligne  insinua- 
zioni, parte  quasi  sempre  da  un  sentimento  di  giu- 
stizia. Con  questi  e  somiglianti  dati  innanzi  gli  occhi 
il  giudice  assume  il  fatto  concreto  e  verificato  con 
irreprensibili  argomenti  che  Tizio  era  spinto  ad  uc- 
cidere Caio  per  cagione  di  rivalità  ,  che  niun  altro 
in  quella  terra  nutriva  odio  contro  Caio,  che  questo 
non  fu  derubato,  che  Tizio  minacciò,  si  millantò  di 
capacità  omicidiaria,  fece  acquisto  dell'arma,  si  adde- 
strò a  maneggiarla;  che  fu  veduto  appostato  nel  luogo 
ove  seguì  l'omicidio;  che  poi  si  die  alla  fuga  e  visse 
latitante;  che  si  era  già  fatto  reo  altre  volte  di  in- 
giurie personali;  che  era  noto  a  tutti  per  la  ferocia 
del  suo  animo;  che  la  pubblica  voce  lo  indica  autore 
del  delitto;  che  accusato  non  sa  giustificarsi,  intimato 
a  render  conto  di  sé  in  quel  giorno,  in  quell'ora,  cade 


38 
in  menzogne,  sbugiardato  confondesi,  convinto  per- 
siste nella  negativa,  ma  raccommandasi  :  verificato 
tutto  questo,  il  giudice  ha  conseguito  la  prova  indi- 
ziaria che  Tizio  sia  il  reo.  E  similmente  il  medico 
pone  in  bilancia,  che  la  vita  e  la  morte,  la  sanità  e 
la  malattia  procedono  con  un  certo  ordine,  che  dalla 
salute  perfetta  non  si  precipita  di  repente  nell'agonia, 
od  almeno  in  una  infermità  pericolosissima  senza 
gravi  cagioni,  che  malattie  insolite  accennano  ad  in- 
solite cause,  e  forme  specifiche  riferisconsi  a  potenze 
nocive  di  speciale  natura:  e  discende  a  riflettere  che 
gli  umori  del  corpo  non  acquistano  mai  tutto  ad  un 
tratto  qualità  corrosive  o  deleterie,  che  la  sensazione 
di  sapore  mordicante,  metallico,  lazzo,  amaro,  bru- 
ciante prendendo  cibo  noto  e  ordinario  ci  dimostra 
chiaramente  l'aggiunta  di  estranea  sostanza;  che  fe- 
nomeni morbosi  aventi  inizio  nella  bocca  e  apparsi 
via  via  nelle  fauci,  nell'esofago,  nello  stomaco,  nelle 
intestina,  fattine  appresso  partecipi  i  centri  principali 
della  vita  accusano  evidentemente  estrinseca  origine; 
che  la  corrosione  ,  gelatinizzazione  ,  perforamento  , 
spappolamento  di  parti  nobili  son  tali  offese,  che  non 
potendo  conciliarsi  coli'  esercizio  delle  funzioni  più 
importanti  alla  vita,  debbono  avere  origine  recente, 
e  mostran  chiaro  l'inteivento  di  agenti  caustici;  che, 
salve  pochissime  eccezioni  e  fatta  ragion  della  dose, 
le  sostanze  che  riescono  venefiche  all'uomo  lo  sono 
anche  per  le  bestie.  Con  queste  ed  altrettali  verità 
in  mente  il  medico  assume  il  fatto  concreto:  e  dopo 
aver  messo  in  chiaro  che  Tizio  era  sul  fior  dell'età, 
e  dotato  di  tempra  linfatica  godeva  d'invidiabil  salute, 
che  non  era  mai  stato  offeso  da  alcun  male  alla  bocca, 


39 
alle  fauci,  che  mai  non  lo  aveva  turbato  alcuna  mo- 
lestia allo  stomaco:  niun  morbo  acquisito,  niun  vizio 
di  costituzione,  ninna  discrasia  umorale;  che  in  tale 
prosperità  tracannando  in  serata  d'inverno  un  bic- 
chiere di  birra  ne  veniva  interrotto  dal  reo  sapore 
di  essa,  e  accusava  all'istante  senso  di  bruciore  alla 
bocca,  gusto  aspro  e  metallico,  vivo  stringimento  alle 
fauci;  che  pochi  minuti  dopo  era  assalito  da  acuto 
dolore  allo  stomaco,  poi  da  vomito  di  materie  prima 
mucose,  indi  biliose,  e  in  fine  sanguinolente;  che  se- 
guivano scariche  alvine  di  materie  brunastre  e  san- 
guigne, arrestavasi  la  escrezion  dell'orina,  il  ventre 
non  poteva  tollerare  la  più  lieve  pressione  ,  i  polsi 
facevansi  celeri,  piccoli,  contratti,  la  respirazione  af- 
fannosa; che  vi  si  notava  la  sonnolenza  intervallata 
da  moti  convulsivi  nei  muscoli  della  faccia,  e  delle 
membra,  che  la  deglutizione  delle  bevande  era  dif- 
fìcile ed  accompagnata  da  dolor  mordace,  e  senso  di 
bruciore  e  serramento  alle  fauci  e  lungo  l'esofago; 
che  al  principiare  del  secondo  giorno  intenerivansi 
le  gengìe,  vacillavano  i  denti,  rendevasi  fetente  l'alito 
e  dalla  bocca  pioveva  saliva  in  gran  copia;  che  de- 
corse appena  quaranta  ore  dopo  aver  inghiottita 
quella  birra  morivasi  in  mezzo  ai  più  atroci  dolori 
ed  ambasce  crudeli;  che  qualche  animale  domestico, 
lambito  il  reciticcio,  era  stato  preso  da  vomito,  da 
smania  ,  da  sete  ;  che  aperto  il  cadavere  trovavasi 
corrugata  la  lingua  e  ingrossate  le  papille  della  sua 
base,  le  tonsille,  l'ugola  e  i  pilastri  del  velo  tumefatti 
e  di  color  violaceo,  arrossata  l'epiglottide  e  l'interno 
della  laringe,  l'esofago  di  color  biancastro,  lo  stomaco 
raccolto  in  se  stesso  colla  sua  esterna  superfìcie  mac- 


40 

chiata  di  punii  rosso-bruni,  e  colla  interna  tapezzata 
di  sangue  fosco,  stravasalo  o  offerente  nella  porzione 
splenica  numerose  coriosioni,  la  mucosa  colorata  in 
rosso  con  liste  nere  lungo  i  ripiegamenti;  segni  di 
flogosi  e  punti  corrosi  nel  tratto  del  colon  e  nel  retto, 
il  peritoneo  qua  e  colà  minutamente  iniettato...  Su})- 
ponete  che  questi  fatti  sian  comprovati  con  irrecu- 
sabili testimonianze,  e  ditemi  poi  se  vi  sarà  medico 
al  mondo  che  non  proclami  altamente  possedersi  iu 
questo  caso  la  certezza  morale  di  veneficio,  e  di  ve- 
neficio per  un  sale  solubile  di  mercurio.  E  questa 
certezza  morale  pare  egli  che  equivalga  ad  uno  stato 
di  dubbio  ?  Anzi,  se  non  siamo  offesi  da  errore,  è 
tale  certezza  che  rimove  daìVanimo  ogni  ragionevole 
esitazione,  come  appunto  la  legge  esige  per  la  certezza 
morale  dei  giudici.  Conciossiachè  nell'esempio  addotto 
non  sia  solo  da  valutare  il  numero  degli  argomenti, 
ma  Tarmonia  pure  e  11  concorso  di  essi  a  dimostrare 
la  stessa  causa,  e  ad  escluderne  qualunque  altra:  con- 
corso e  armonia  che  ne  accrescono  a  cento  doppi 
il  valore.  Così  la  prospera  sanità  esclude  un  prece- 
dente pervertimento  degli  umori ,  e  tale  esclusione 
viene  poi  avvalorata  dal  rapido  insorger  del  male  e 
dall'ordine  delle  sensazioni  dal  fuori  al  dentro.  Il  tem- 
peramento linfatico  e  la  stagione  invernale  allontanano 
l'idea  di  un  colèra  bilioso,  e  i  risultamenti  cadaverici 
si  accordano  ad  eliminarlo.  La  mancanza  di  epidemia 
nel  luogo  deiravvenìmento  rimove  il  sospetto  di  co- 
lèra asiatico,  e  a  ri  moverlo  concorre  pure  la  natura 
delle  materie  rese  per  vomito  e  per  secesso.  La  ga- 
stro-enterite acutissima  non  può  ammettersi  per  di- 
fetto di  causa  proporzionata  a  sì  gran  malattia,  e  si 


41 

unisce  ad  escluderla  la  salivazione  che  mai  non  l'ac- 
compagna. Concorrono  adunque  tutti  gì'  indizi  nel- 
l'escludere  le  diverse  origini  che  potrebbero  assegnarsi 
al  male  in  questione:  e  intanto  l'assalire  in  mezzo 
alla  sanità  più  ridente,  e  subito  dopo  aver  preso  una 
bevanda,  e  il  celere  corso  del  morbo,  e  l'insolita  gra- 
vezza, e  l'andamento  dei  fenomeni  che  si  mostrano 
prima  nella  bocca  e  nelle  fauci,  poi  nello  stomaco 
e  nelle  intestina,  in  seguito  nel  sistema  nervoso,  sono 
argomenti  che  si  accordano  tutti  a  stabilire  l'intro- 
duzione di  un  veleno  acre:  in  fine  la  salivazione  con 
quella  forma,  e  in  quel  periodo  del  male,  non  può 
essere  che  l'effetto  di  un  sai  di  mercurio.  E  questo 
un  complesso  d'indizi  concordi  e  di  calzanti  argo- 
menti capace,  a  mio  credere,  di  costituire  una  suffi- 
ciente dimostrazione  che  Tizio  sia  morto  avvelenato, 
quantunque  non  si  giungesse  a  scoprire  la  sostanza 
venefica.  La  quale  scoperta  acquista  per  certo  un 
più  gran  valore  alla  dimostrazione,  appagando  com- 
piutamente ogni  bisogno  dell'intelletto  nella  ricerca 
del  vero;  ma  una  prova  per  essere  suscettiva  di  mag- 
gior rigore  e  di  pienezza  maggiore  non  cessa  però  di 
meritar  questo  nome,  purché  induca  nell'animo  un 
vero  convincimento,  come  appunto  si  verifica  nel  caso 
nostro.  La  giustizia  è  danneggiata  non  poco  ne'suoi  in- 
teressi dalla  troppo  scolastica  interpretazione  del 
precetto  di  Plenck,  il  quale  nella  invenzion  del  ve- 
leno ravvisava  l'unico  segno  certo  del  veneficio.  Vi 
sono  non  poche  eccezioni  a  questo  dittalo,  e  però  non 
è  sempre  attendibile  la  esclamazione  dei  difensori  : 
bisogna  vederloì  Come  se  fosse  necessario  vedere  la 
materia  ignita  che  produsse  la  scottatura,  e  l'istro- 


42 
mento  che  fratturò  il  cranio,  per  decidere  che  la 
morte  avvenne  per  combustione,  o  per  violenza  re- 
cata da  un  corpo  contundente.  Ma  in  questi  casi , 
voi  dite,  gh  effetti  sono  così  propri  e  distinti,  che 
appena  constatati  vi  si  affaccia  necessariamente  l'idea 
delle  cause  che  gli  hanno  prodotti:  talché  l'osserva- 
zione di  questi  effetti  equivalga  precisamente  alla  di- 
mostrazion  delle  cause.  Or  bene,  la  medesima  con- 
dizione si  verifica  di  alcuni  veleni,  i  quali  toccando 
i  nostri  tessuti ,  e  tragittando  pei  nostri  canali,  vi 
stampano  tali  impronte,  e  vi  lascian  siffatte  vestigio 
che  uiun  osservatore  diligente  potrebbe  mai  confon- 
dere colle  vestigie  ed  impronte  lasciate  da  qualun- 
que altro  agente.  E  quando  la  fattispecie  ci  offra 
appunto  un  esempio  di  questa  singoiar  maniera  di 
agire,  dovrà  egli  riguardarsi  come  indispensabile  alla 
prova  generica  che  si  ritrovi  e  si  dimostri  il  veleno? 
Allorché  i  periti  belgi,  investigando  il  cadavere  di 
Gustavo  Fougnies,  rinvenivano  tracce  di  corrodimento 
sotto  la  regione  mascellare  sinistra,  le  labbra  pal- 
lide, riseccate  e  coperte  di  croste  grigiastre  ,  simili 
croste  occupanti  gli  interstizi  dei  denti,  la  lingua 
due  volte  piìi  voluminosa  dell'ordinario,  e  la  sua  mu- 
cosa nereggiante,  e  cosi  disfatta  sulla  faccia  supe- 
riore e  lungo  i  suoi  margini  da  staccarsi  in  molli 
brandii ,  appena  che  si  toccasse  col  manico  dello 
scalpello,  quella  della  superfìcie  inferiore  rubiconda 
e  iniettata;  la  membrana  tutta  che  tapezza  la  bocca 
rossa  e  cauterizzata  in  modo  da  togliersi  via  senza 
alcun  ostacolo,  la  palatina  e  quella  delle  fauci  di  un 
bianco  tendente  al  grigio  cauterizzate  anch'  esse  e 
distaccantesi  con  ogni  facilità,  la  bocca  piena  di  mu- 


43 

cosila,  le  tonsille  ingrossate  e  prive  della  loro  na- 
turai consistenza  in  modo  da  spappolarsi  fra  le  dita; 
la  mucosa  della  parte  superiore  del  faringe  rossa  e 
iniettata  coll'epidermide  pronta  a  distaccarsi,  lo  sto- 
maco rosso  e  iniettato  sparso  di  macchie  nerastre,  i 
polmoni  ingorgati  di  sangue  più  che  non  soglia:  essi, 
senza  punto  esitare,  conclusero  che  il  Fougnies  era 
morto  di  morte  violenta,  e  che  questa  dovevasi  ad 
una  sostanza  liquida  corrosiva  introdotta  nella  sua 
bocca  durante  la  vita.  E  i  periti  pronunziarono  un 
tal  giudizio  anche  prima  che  per  le  ricerche  chimi-^ 
che  si  dimostrasse  il  veleno  ,  e  lo  fondarono  sulla 
natura,  estensione  e  gravezza  delle  offese  rinvenute 
nelle  labbra,  nella  bocca,  nelle  fauci,  inesplicabili  con 
qualunque  altra  causa  fuorché  coll'azione  di  una  so- 
stanza corrosiva  allo  stato  liquido,  e  sulla  cauteriz- 
zazione del  collo  che  trovavasi  in  perfetto  rapporto 
colla  introduzione  violenta  di  essa  sostanza  nella 
bocca,  e  in  fine  sulla  mancanza  di  qualunque  altra 
origin  di  morte.  Or  poniam  caso  che  le  ingegnose 
e  perseveranti  indagini  dello  Stas  non  avessero  con- 
dotto alla  scoperta  della  nicotina  nei  tessuti  caute- 
rizzati, nello  stomaco  e  nel  pavimento  della  cam- 
mera,  il  giudizio  dei  periti  era  perciò  mal  fondato? 
E  avrebbe  egli  dovuto  pronunziarsi  il  non  liquet?  A 
noi  sembra  che  no.  Gustavo  Fougnies  si  era  recato 
in  ottima  salute  al  castello  del  conte  di  Bocarmè  , 
vi  aveva  desinato  di  buonissima  voglia,  e  mentre  si 
preparava  a  partirne  ascoltansi  grida  soffocate  che 
partivan  da  esso  :  pochi  minuti  dopo  era  morto. 
L'  esame  del  cadavere  dimostra  una  profonda  cau- 
terizzazione nelle    labbra  ,  nella  bocca,  nelle  fauci, 


i4 

nel  collo  ,  e  macchie  nere  nello  stomaco.  E  quale* 
altra  causa  può  mai  idearsi  di  tali  offese,  fuorché  un 
tossico  corrosivo?  Non  sono  esse  sufficienti  a  stabi- 
lire r  in  genere  ?  Certamente  la  dimostrazione  era 
più  luminosa  quando  il  chimico  dichiarava  la  specie 
del  veleno  :  ma  la  verità,  per  essere  circondata  di 
minor  splendore,  non  cessa  perciò  di  esser  tale.  Quat- 
tro testimoni  contesti  formano  una  prova  più  lucu- 
lenta  che  due,  e  pure  a  stabilire  un  fatto  la  legge 
si  contenta  anche  del  minor  numero.  Quante  volte 
per  cercar  l'evidenza  si  lascia  fuggir  la  certezza!  Per 
esigere  questa  evidenza  il  venefìcio  è  divenuto  og- 
gimai  indimostrabile.  Non  si  rinviene  il  veleno,  e  la 
difesa  trionfa  ad  ogni  costo  ,  sostenendo  che  dove 
manca  la  materia  la  prova  non  esiste  (1).  Si  ritrova 
e  dimostra  la  sostanza  venefica,  e  non  perciò  la  di- 
fesa perde  il  coraggio  e  abbandona  l'impresa.  I  ca- 
ratteri fisici  non  erano  a  bastanza  distinti ,  le  chi- 
miche reazioni  poco  numerose  e  concludenti,  non  si 
ripristinò  il  metallo,  non  si  isolò  il  principio  attivo; 
ovvero  il  ritrovato  veleno  aveva  altra  origine,  con- 
tenevasi  forse  nel  liquido  onde  fu  asperso  il  cadavere 
per  disinfettarlo,  o  (in  caso  di  disotterramento)  esi- 
steva nella  terra  che  circondava  la  cassa  e  se  n'era 
imbevuto  il  morto!  o  la  dose  del  veleno  era  minima 
e  perciò  incapace  per  se  solo  a  cagionare  la  morte, 
o  il  cadavere  presentava  altre  potenze  nocive,  altri 
processi  morbosi  .  .  .  i  lombrici,  un'ipertrofia  etc.  etc. 
E  mentre  da  un  lato  i  progressi  della  chimica  nella 
ricerca  del  corpo    del  delitto    tenderebbero  a  porre 

(1)  Barlolì  -  ivi 


45 
un  freno  alla  commissione  del  veneficio ,  dall'  altro 
poi  la  crescente  industria  dei  difensori,  e  la  ferma 
incredulità  dei  giudici  a  qualunque  altra  prova  che 
non  sia  visibile  e  palpabile,  assicurano  spesso  l' im- 
punità al  più  atroce  misfatto. 

E  quel  che  si  è  ragionato  sul  valor  delle  prove 
rispetto  alle  cause  di  veneficio  può  applicarsi  agli 
altri  argomenti  di  medicina  forense  e  specialmente 
ai  casi  di  traumatologia.  Valga  per  tutti  la  commo- 
zion  del  cervello,  per  la  quale  autori,  d'altronde 
assai  commendevoli ,  pretendono  invocare  l'acciden- 
talità ogni  volta  che  la  sezion  cadaverica  ne  lasci  a 
secco  sulla  causa  materiale  della  morte.  Dio  buono! 
non  vi  saranno  dunque  altri  veri  che  quelli  rive- 
latici immediatamente  dai  sensi,  e  nulla  potrà  la 
induzione  a  raccogliere  una  certezza?  Consta  p.e. 
che  Tizio  in  istato  di  ottima  sanità  fu  percosso 
alla  testa  da  pesante  bastone,  i  segni  della  contu- 
sione sono  evidenti:  è  noto  che  l'offeso  cadde  im- 
mediate in  terra  privo  di  sensi,  di  conoscenza  e 
di  moto  :  poco  stante  era  morto.  E  vorreste  qui 
dubitare  della  entità  della  causa  nociva ,  e  della 
vera  origine  dell'effetto  funesto,  per  ciò  solo  che  il 
cervello  non  vi  avesse  mostrata  alcuna  prova  ne- 
croscopica del  sofferto  scotimento?  Fatti  a  mille  ci 
attestano  il  potere  istantaneo  della  commozione , 
ne  misuriamo  i  gradi,  ne  conosciamo  l'estensione, 
sappiamo  che  può  scompagnarsi  da  qualunque  alte- 
razione visibile  :  se  Tizio  morì  in  un  subito  dopo 
una  percossa  capace  di  indurre  la  commozione,  noi 
siamo  certi  della  causa  di  morte,  quando  pure  sia 
muto   il    visum    reperlum.    Allora    che   Milone    nel- 


46 

l'arena  olimpica  colla  mano  raccolta  in  pugno  facea 
stramazzare  un  toro  per  terra,  avrebbe  mai  alcuno 
fra  i  numerosi  spettatori  chiamato  in  dubbio  che 
altra  causa  fuori  del  colpo  avesse  prodotta  quella 
subitanea  caduta  e  morte  dell'animale  ?  Un  giovane 
malfattore  era  stato  condannato  a  quella  specie  di 
supplizio  chiamato  ruota  ,  e  bramando  sottrarvisi , 
corse  ad  urtare  la  testa  contro  la  parete  della  sua 
prigione,  e  cadde  morto  all'istante.  Aperto  il  cadavere, 
non  si  potè  rinvenire  la  piiì  piccola  apparenza  di  le- 
sione nel  cranio,  né  nel  cervello,  nò  nel  midollo  spinale, 
tranne  una  minutissima  separazione  nella  sutura 
squammosa  di  un  lato  (Beatty).  E  non  vi  è  qui  la 
certezza  che  la  commozione  cerebrale  indotta  dall'urto 
veemente  fosse  la  sola  causa  di  morte  ?  Ninno  dubita 
che  il  fragore  del  tuono  valga  a  determinare  la  pa- 
ralisi del  nervo  acustico;  sa  ognuno  come  un  colpo 
violento  recato  al  globo  dell'occhio  possa  togliere  il 
senso  alla  retina:  e  se  una  grave  percossa  sul  capo 
interi'òmpe  le  funzioni  del  cervello,  si  avrebbe  égli 
a  rimanere  perplessi  nello  stabilire  il  rapporto  del- 
l'effetto alla  causa  ? 

L'incertezza  circonda  spesso  i  giudizi  medico-le- 
gali non  solo  ove  trattisi  d'interpretare  un  fatto  noto, 
ma  sippure  quando  il  foro  ci  chiami  a  servirci  della 
nostra  scienza  per  determinare,  se  una  circostanza 
di  fatto  possa  essere  avvenuta  nel  modo  che  si  pre- 
sume. Anche  in  questo  caso  se  tal  circostanza  risulti 
di  più  elementi,  se  molte  cause  perturbatrici  abbiano 
agito  durante  la  sua  produzione,  la  dottrina  medica 
neeessariamente  vacilla  per  la  difficoltà  di  sottoporle 
tutte  a  severa  analisi.  Si  domandi  p.  e.  se  un  indi- 


47 

viduo  abbia  percorso  un  certo  spazio  di  terra  cam- 
minando naturahnente  o  correndo.  A  risolvere  il 
quesito  tu  potrai  giovarti  della  forma ,  ordine  ed 
estensione  delle  impronte,  se  pur  vi  sono:  e  se  pos- 
siedi il  dato  del  tempo  impiegato  in  questo  transito, 
lo  confronterai  colle  tavole  già  pubblicate  degli  spazi 
che  si  percorrono  camminando  o  correndo;  e  met- 
terai a  calcolo  la  natura  del  suolo,  e  1'  andamento 
della  superfìcie,  e  la  lunghezza  delle  gambe  del  pre- 
venuto, e  Tesser  stato  libero  o  carico  di  qualche  peso, 
e  lo  spirar  propizio  o  contrario  del  vento,  e  la  quan- 
tità e  forma  delle  vesti:  e  su  questo  andare  potrai 
stabilire  un  certo  grado  di  probabilità  che  abbiasi 
camminato  o  corso,  ma  difficilmente  potrai  conseguir 
la  certezza,  attese  le  molte  condizioni  che  potevano 
turbare  il  naturale  andamento  del  fatto.  Necessita  al 
tribunale  di  istruirsi  se  un  prevenuto  potesse  dal 
luogo  in  cui  fu  commesso  il  delitto  trasportarsi  in 
un  dato  tempo  ad  altro  punto  in  cui  fu  veduto:  e 
qui  pure  si  potranno  raccogliere  tutti  i  dati  che  offre 
la  scienza,  e  i  calcoli  da  essa  redatti,  e  si  potrà  an- 
che imitare  il  caso  con  opportune  esperienze  sul 
luogo;  ma  l'elemento  della  forza  muscolare  capace 
di  più  o  men  pronto  esaurimento  ,  e  quello  della 
maggiore  o  minor  celerità,  onde  oscillan  le  gambe 
di  chi  corre,  rimangono  sempre  variabili  per  molte 
circostanze,  che  non  si  possono  valutare  con  preci- 
sione ,  e  lasciano  quindi  alquanto  dubbioso  il  giu- 
dizio. 

Fra  i  criteri,  onde  giovasi  il  medico  forense  nella 
ricerca  della  verità,  si  annovera  anche  la  presunzione 
tisica,  la  quale  ditferisce  dall'indizio  in  ciò,  che  questo 


48 
sì  fonda  sopra  circostanze  speciali,  mentre  la  prima 
si  appoggia  alle  leggi  fisiologiche  e  patologiche,  e  al- 
l'ordine consueto  della  natura.  Così  ad  ogni  periodo 
della  vita  competono  alcune  qualità  organiche,  e  certe 
funzioni  non  si  esercitano  in  ogni  età,  e  le  malattie 
istesse  han  loro  attenenze  col  numero  degli  anni. 
Perciò  in  mancanza  di  documenti  presumiamo  l'età 
dalle  condizioni  dell'organismo,  il  fanciullo  e  il  de- 
crepito si  presumono  impotenti,  e  nella  puerizia  man- 
cherebbe la  presunzione  di  un  parosismo  maniaco. 
Quando  dalla  prospera  sanità  si  cade  improvviso  in 
grave  malattia,  si  presume  l'opera  di  gagharda  potenza 
nociva.  La  verginità  come  «  qualitas  qiiaedam  mulieris 
ex  integrilate  muliebrium  vasorum  resultans,  qiiamdiu 
a  maris  coniiinctione  illibata  servatur  »  e  qualità  ana- 
tomica naturale  alla  donna,  e  perciò  si  presume  che 
esista-  11  bambino  maturo,  vegeto,  ben  formato,  senza 
vizio  di  sorta  si  presume  nato  vivo,  poiché  questo 
è  l'ordine  più  consueto  della  natura.  Le  quali  fìsiche 
presunzioni  ne  stabiliscono  spesso  delle  legali,  come 
appunto  nel  caso  della  verginità  la  quale  «  prae- 
sumilur  iure  adesse  et  conlrariwn  asserenti  incumhit 
onus  probandi.  »  (Zacch.) 

Dalle  cose  dette  apparisce  come  il  perito  riunisca  la 
fede  del  testimonio  all'autorità  del  giudice.  Ella  è  in 
fatti  una  testimonianza  di  constatare  il  seguito  aborto, 
ma  egli  è  un  giudizio  il  decidere  che  fu  non  accidentale, 
ma  procurato:  il  chirurgo  è  testimonio  della  ferita  che 
denunzia  e  delle  sue  condizioni,  ma  è  giudice  quando  ne 
stabilisce  il  prognostico:  la  parte  narrativa  di  un  visumet 
repertum  gli  è  un  cumulo  di  testimonianze,  ma  allorché 
il  medico  discende  ai  corollari  e  dichiara  quale  sia  stata. 


I 


4-9 

la  causa  della  inoite  ei  diviene  un  vero  giudice  del 
fatto.  E  qui  cade  in  acconcio  di  avvertir  gli  studiosi, 
che  se  il  medico  pubblico  ha  l'importanza  di  un  giu- 
dice, se  egli  divide  col  magistrato  il  grande  affare 
del  giudizio,  è  però  suo  stretto  dovere  di  non  piantare 
i  suoi  argomenti  sopra  altre  basi,  se  non  quelle  sog- 
gette alla  dottrina  ed  alla  esperienza  medica.  Il  qual 
precetto  non  osservato  fedelmente  da    tutti,  né  da 
tutti  creduto  utile  alla  esatta  amministrazione  della 
giustizia,  esige  da  noi  un  breve  commento.  Distin- 
guasi in  prima  l'officio  dei  periti  da  quello  dei  così 
detti  periziori,  e  dei  collegi  medici.  I  primi  narrano 
i  fatti  che  caddero  sotto  i  loro  sensi,  e  ne  traggono 
le  conseguenze  che  loro  sembrano  scaturirne;  i  secondi 
richiamano  a  sindacato  e  la  narrativa,  e  le  conse- 
guenze: l'una  per  giudicare  se  sia  esposta  secondo 
le  regole  dell'  arte,    le  altre  per  istabilire  se  siano 
ricavate  secondo  i  principii  della  scienza.  A  questi 
si  applica  anche  meglio  che  ai  primi  l'antico  dettato; 
Medici  proprie  sunt  lestes,  scd  est  marjis  iudicium  quam 
leslimonium:.  (Digest.).  Or  quanto  a'periti  ninno  è  che 
dubiti ,  esser  loro  vietato    dalla  natura  del  medico 
istituto  di  giovarsi  degli  elementi  morali,  che  fanno 
I)arte  della  storia  del   delitto:  né  già  il  potrebbero 
sì  facilmente,  dacché  i  loro  documenti  sogliono  ini- 
ziare il  processo;  sono  cioè  quasi  sempre  posti   in 
atti  quando  gì'  indizi  o  prove  morali  poco  o  nulla 
appariscono.  Ma  ad  ogni  modo  noi  debbono,  mercè 
che  tali  prove  o  indizi  potrebbero  preoccuparli  ,  e 
alterare  quella  ingenuità,  che  si  richiede  nell'esame 
delle  cose  sensibili,  e  trascinarli  a  giudizi  che  non 
fossei'o  la  fedele  espressione  dei  fatti  osservati.  Se 
G.A.T.CXXXIV.  4 


50 

quel  medico  fiscale,  dì  cui  parla  il  Plalner,  da  qualche 
sugellamenlo  della  calvaria,  dal  turgore  de'vasi  ce- 
rebrali, e  da  un  galleggiamento  quantunque  imper- 
fetto dei  polmoni   «  de  vita  infantis  tam  fidenler  prò- 
nuntiabat,   haec  probahilis  causa  erat,  quod  vagis  au- 
dilionibus  nimis  midtum  tribiiissel  {]):  »  quelle  osser- 
vazioni in  fatti  poterono  ricevere  una  diversa  inter- 
pretazione. E  l'altro  perito  che  in  un  cadavere  esposto 
per  venti  giorni  in  una  selva  ad  ogni  causa  di  ac- 
cidentali offeso,    avventurò  pure  un  giudizio  circo- 
stanziato  e  definitivo,  per  ciò  che  il  reo  era  confesso, 
e  convinto  ,    incontrò  giustamente    il  biasimo  dello 
stesso  autore.  «  Ex  quo  cadavere,  ei  scrive,  non  dicam 
informi  et  mutilo,  sed  destrncto  atque  corrupto,  cinn 
medicns  pidMcus  mortis  rationem  declarare  atque  adeo 
corpus  delicli  conslituere  auderet:  temere  omnino  atque 
inconsiderale  terminos  egrediebatur  sui  offìcii  ac  mU" 
neris.  Namque  os  frontis  instrumento  letifero  potius, 
an  grandioris  alicuius  bestiae  calcibus,  aut  lapidis  il" 
lapsu,  aut  alia  causa  fortuita,  fractum  fuisset:  quibus 
tandem  notis  in  ìiac  plagarum  obscuritate  ambiguità- 
teque  perspicicbat  ?  At  caedes  minime  dubia  erat,  reo 
iam  ante  confesso  et  convicto.  Quid  vero  ?  Mim  adeo 
ticebat  illi  idtra  oculos  videre,  ut  corpus  delieti,  man- 
cum  omnino  et  imperfectum,  vagis  auditionibus  sup- 
pleret  ?   Vel  si  quod  magis  credo,  ipsos  perlegeral  acto- 
rum  commenlarios:  an  liis  maior  in  hoc  negotio  quam 
sensibus  debebalur  auctoritas  ?  Et  mallem,  ut  dicam 
in  trascursu,  ab  illis  legendis  medicos  publicos,  prae- 
sertim  antequam  declaraverint  sententiamsuam,  omnino 

(1)   De  indie,  medie,  public.  1. 


51 

prohiberi.  Scilicet  hornm  inlerest  nosse  non  ea  qiiae  in 
iudicio,  sed  qiiae  in  corpore  laesi  et  emorlui  horninis 
acta  fueriint  (1).  »  Auvea  sentenza,  che  ogni  medico 
pubblico  dee  mettere  ben  addentro  alla  niente;  ma 
che  non  tutti  accolgono  rispetto  ai  collegi,  ai  quali 
si  vorrebbe  da  alcuni  attribuir  facoltà  di  pionunziare 
il  giudizio  anche  idtra  corpus  delieti.  Tale  opinione 
arrise  allo  stesso  Platner,  che  la  fondò  sull'  indole 
giudiziaria  delle  assemblee  collegiali,  sul  costume  di 
partecipar  loro  V  intero  fascio  de'commentari,  e  in 
fine  sulla  impunità  che  ne  risulterebbe  ai  piiì  nefandi 
delitti,  ove  i  periziori  non  potessero  in  alcun  modo 
uscire  dalla  sfera  che  racchiude  il  corpus  delieti.  Ma 
se  egli  è  vero  che  iudicum  munere  quodam  fuuqimur, 
come  si  esprime  l'a.,  et  ah  iis  qui  itroptia  et  forensi 
signifìcatione  iudices  simt,  considtores  et  arbitri  advo- 
camur:  ciò  non  prova  che  i  nostri  giudizi  possano 
derivare  da  altre  fonti,  che  non  siano  quelle  della 
dottrina  e  della  esperienza  medica.  Piantarli  in  qual- 
che parte  sui  dati  morali  sarebbe,  oltre  all'usurpa- 
zione, un  maneggiare  istromenti  di  ignota  forza.  Non 
vi  è  indizio  per  forte  ch'ei  paia,  non  prova  per  isma- 
gliante  che  apparisca,  che  non  abbisognino  di  severa 
critica  e  della  ragion  legale  per  apprezzarne  giusta- 
mente il  valore.  Sarà  egli  il  medico  che  peserà  le 
impulsioni  a  delinquere,  e  i  dati  testimoniali,  e  le 
confessioni  dei  prevenuti,  se  la  sapienza  istessa  dei 
giudici  vacilla  talora  nel  sentenziarne  ?  Si  comunica 
poi  ai  collegi  l'intero  processo,  acciò  essi  veggano 
se  in  quel  cumulo  di  documenti  non  si  contenessero 

(1)  De  indie,  medie,  public.  HI. 


52 

notizie  atte  a  chiarire  l'avvenimento  criminoso,  e  le 
questioni  che  vi  si  annettono.  Cosi  le  circostanze  di 
modo,  di  tempo  e  di  luogo,  che  accompagnano  il 
parto,  giovano  a  risolvere  i  dubbi  in  causa  d'infan- 
ticidio: e  se  i  periti  limitarono  il  lor  giudizio  al  fatto 
della  vita  del  feto  post  partimi,  e  alla  causa  sensibile 
della  sua  morte,  i  collegi  col  soccorso  di  queste  no- 
tizie allargano  la  sfera  delle  ricerche  fino  a  decidere 
ia  questione  casii  ne  vel  culpa  vel  dolo  perierit.  Così 
i  lumi  che  si  acquistano  sull'andamento  della  ferita, 
sui  mezzi  usati  a  curarla,  sull'assistenza  prestata  al 
paziente,  e  sulla  condotta  del  medesimo,  sono  spesso 
essenziali  a  stabilire  se  la  morte  seguitane  fosse  ne- 
cessaria 0  accidentale.  11  processo  adunque  è  sparso 
di  ragguagli  di  pertinenza  fìsica,  onde  i  periziori  deb- 
bono prendere  esatta  informazione,  innanzi  di  pro- 
nunziare il  giudizio.  Né  vuol  negarsi  che  la  cognizione 
dei  dati  morali  non  vada  essa  stessa  a  sparger  luce 
sulle  prove  fisiche,  e  non  giovi  a  concentrar  l'atten- 
zione sopra  alcuni  fatti,  e  non  valga  ad  instillarc 
nella  mente  dei  medici  maggior  fiducia  nelle  lor  de- 
duzioni; ma  tutto  ciò  non  vuol  dire  che  loro  sia  data 
copia  di  ricavarle  da  premesse,  che  escano  dall'ordine 
fisico.  Non  vediamo  in  fine  come  negata  ai  collegi 
la  facoltà  di  profittare  dei  dati  morali,  quali  elementi 
integranti  del  giudizio,  si  corra  il  pericolo  di  man- 
dare impuniti  i  delitti.  Come  nelle  investigazioni  dei 
periti,  così  nei  giudizi  dei  collegi,  le  prove  morali  non 
possono  mai  riuscir  suppletive  alle  fisiche  per  la  di- 
mostrazione del  corpus  delieti.  Se  p.  e.  il  delinquente 
è  confesso  di  aver  propinato  il  veleno,  questa  sua 
confessione  non  potrebbe  mai  equivalere  in  mente 


53 

(lei  medici  al  difetto  dei  criteri  dedotti  dai  sintomi^ 
dalle  lesioni  cadaveiichc  e  dalla  scoperta  del  veleno. 
E  quando  i  risultamenti  dell'analisi  siano  incerti,  e 
i  fenomeni  morbosi  offerti  durante  la  vita  e  lo  offese 
rinvenute  nel  corpo  dopo  la  morte  sian  tali  da  po- 
tersi riferire  anche  ad  altre  cause  fuorché  ad  un  ve- 
leno,  i  periti  nella  lor  scienza  e  coscienza  non  sa- 
prebbero portare  che  un  giudizio  di  semplice  proba- 
bilità di  veneficio.  Ove  però  questi  periti  dichiarino 
che  gl'indizi  ricavati  dai  sintomi   e  dalle  lesioni  ca- 
daveriche sono  in  perfettissimo  accordo  colla  con- 
fessione del  prevenuto  in  quanto  agli  effetti  produci- 
bili da  quella  specie  di  veleno,  che  esso  confessa  di 
aver  propinato:  di  grazia  che  può  cercarsi  di  piij  al 
fine  che  i  giudici  ottengano  la  pienezza  del  criterio 
morale  che  dee  guidarli  al  giudizio  ?  0  meglio  ancora 
nell'esempio  di  Platner,  se  la  donna  confessa  di  aver 
soffocato  il  bambino,  chiudendo  colle  sue  mani  ogni 
adito  all'ingresso  dell'aria  donec  animum  amisisset;  e 
intanto  i  periti  abbiano  constatata  la  vita  del  neonato 
dopo  il  parto,  e  il  genere  di  morte  per  soffocamento,, 
e  la  lussazione  della  mascella   inferiore,   che  resta 
egli  mai  per  conseguire  la  certezza  del  delitto  ?  Il 
foro  giuridico  ha  la  prova  di  una  confessione  ripe- 
tuta e  uniforme,  il  medico  offre  un  corpo  di  delitto 
che  è  in  piena  concordanza  con  la  confessione.  Ove 
è  lo   scampo  alla  rea?   Se  intanto  l'arguzia  di  un 
legale,  separando  i  due  ordini  di  prove,  opponesse 
che  il  corpo  di  delitto  è  manchevole  nel  primo  caso, 
e  che  nel  secondo  non  si  potrebbe  dimostrare  l'im- 
possibilità, che  quella  frattura  fosse  derivata  da  ca- 
duta, e  i  segni  di  soffocamento  si  riferissero  a  uno. 


54 

stato  morboso,  e  quando  i  giudici  facessero  si  poco 
conto  del  criterio  morale  da  lasciarsi  prendere  alle 
sottigliezze  del  difensore  ,  il  delitto  andrebbe  forse 
impunito  per  colpa  dei  medici  ?  L'operazione  del- 
Tunificare  le  prove  fìsiche  alle  morali  si  appoggia 
a'  principi!  giuridici,  e  quindi  non  può  spettare  che 
ai  giusdicenti:  i  periziori,  forti  di  tutte  le  cognizioni 
raccolte  in  processo,  estenderanno  giustamente  le  loro 
avvertenze  fino  a  mostrare  la  maggiore  o  minor  con- 
formità del  corpo  del  delitto  colle  prove  testimoniali, 
e  colle  confessioni  dei  delinquenti;  ma  togliere  ad 
imprestito  ai  dati  morali  quel  che  difetta  nei  fisici 
per  acquistare  a  questi  maggior  certezza,  ma  fondare 
in  somma  il  giudizio  ultra  corpus  delieti,  noi  potreb- 
bero essi  senza  trascorrere  i  limiti  del  loro  istituto, 
e  usurpare  i  diritti  del  foro. 

E  fa  d'uopo  confessare,  che  questi  diritti  vengono 
usurpati  in  molte  altre  guise  e  occasioni,  oltre  quelle 
cui  accenna  il  precedente  discorso,  e  che  il  canone 
del  rimanersi  gelosamente  al  quod  medicorum  est  non 
si  osserva  abbastanza  dai  medici.  Finché  p.  e.  essi 
rammentano  al  legislatore  che  lo  stato  fisiologico 
della  donna  nell'atto  del  partorire,  e  poco  stante  il 
parto,  si  allontana  alquanto  dall'ordine  consueto;  fin- 
ché avvertono  che  in  questo  stato  il  modo  di  rice- 
vere impressioni ,  e  quello  di  concepire  idee  ,  e  il 
determinarsi  della  volontà  sono  in  qualche  grado  al- 
terati ,  i  medici  servono  alla  legge,  rimanendo  nei 
giusti  confini  della  scienza  loro.  Se  poi  a  colorire  il 
quadro  con  tinte  più  vive  essi  aggiungano  come  l'a- 
nimo della  donna,  che  sgravasi  dopo  illegitimi  am- 
plessi, debba  essere  profondamente  turbato  dal  timore 


55 

d(3irinfjimin,  o  dolio  sdegno  dei  pai-enti,  e  della  pei'- 
dila  di  uno  stato  onorato  ,  essi  entrano  allora  nel- 
laltrui  campo,  adduccndo  motivi  che  il  giudice  sa 
conoscere  ed  apprezzar  per  sé  stesso.  Piammentisi 
pure  al  foro  che  nei  delitti  carnali  la  immissio  seminifi 
è  spesso  di  difficil  prova,  ed  esso  vegga  se  tale  dif- 
ficoltà non  dovesse  guidarlo  a  ordinare  che  questa 
condizione  non  sia  richiesta  a  stabilire  la  consumazion 
del  delitto;  ma  non  trascorra  la  medicina  a  dettare 
che  le  ragioni,  onde  la  giustizia  punisce  questo  genere 
di  delitti,  non  possono  partire  dalla  circostanza,  che 
la  copula  sia  seguita  da  immissione  del  seme.  Si  av- 
vertano i  giudici  che  nell'apprezzare  il  grado  di  pu- 
nibilità delle  azioni  commesse  durante  l'ubbriachezzai 
e  nel  mettere  a  tal  fine  in  bilancia  la  colpa  istessd 
dell'essere  incorsi  volontariamente  gli  attori  in  uno 
stato  pericoloso  all'altrui  sicurezza,  non  vuoisi  dimen- 
ticare come  il  fatto  dell'abbandonarsi  insolitamente 
all'abuso  dei  liquori  fermentati  è  talora  un  sintoma, 
o  un  foriero  di  alienazione  di  mente;  ma  si  asten- 
gano i  medici  dal  ventilar  la  questione  generica  della 
punibilità  dell'ubbriachezza,  che  non  è  lor  provincia. 
Si  ricordi  al  legislatore  che  il  sesso  femminino  per 
la  squisitissima  suscettività  del  sistema  nervoso,  per 
la  mollezza  e  debolezza  del  corpo,  per  la  signoria 
che  a  quando  a  quando  vi  usurpano  gli  organi  ge- 
nitali sulla  intera  macchina,  differisce  assai  dal  virile 
nella  maggiore  attitudine  a  ricevere,  e  accarezzare 
certe  impressioni,  e  nella  minor  facoltà  di  frenarne 
i  moti  corrispondenti;  e  vegga  indi  esso  se  questa 
verità  fisiologica  non  potesse  aspirare  a  qualche  ap- 
plicazione nello  stabilire  i  gradi  di  imputabilità,  nel 


5() 

misurare  la  quantità  dei  delitti  ,  nel  decidere  delle 
specie  dì  pene:  ma  non  si  arrischi  il  medico  di  te- 
nersi in  materia  con  più  sottili  considerazioni  sulle 
diverse  virtù  conoscitive  dei  due  sessi  rispetto  alla 
legge,  e  tanto  meno  si  attenti  di  sostener  1'  argo- 
mento, fondandosi  sulla  poca  ragionevolezza  di  li- 
mitare i  diritti  civili  delle  donne  come  incapaci  di  ben 
conoscere  il  loro  meglio,  e  di  trattarle  poi  allo  stesso 
modo,  del  sesso  più  forte  innanzi  la  ragion  criminale. 
Nella  diflìcil  questione  delle  tendenze  irresistibili  sarà 
officio  del  medico  legale  di  raccogliere  con  ogni  di- 
ligenza lutti  i  dati  fisici  da  cui  possa  risultare  uno 
stato  morboso:  egli  esamini  adunque  l'età,  il  tem- 
peramento, la  disposizione  ereditaria,  le  malattie  an- 
tecedenti ,  lo  stato  della  sensibilità  ,  i  modi  delle 
funzioni ,  la  tolleranza  ad  insolite  condizioni  degli 
agenti  esterni,  l'abito,  l'incesso,  la  fisionomia,  le  abi- 
tudini dell'agente;  ma  non  pigli  animo  a  scrutare  gli 
abissi  del  cuore  umano,  investigando  i  motivi  a  de- 
linquere, e  non  adduca  per  segni  di  malattia  se  esso 
agente  non  ebbe  complici  nel  fatto,  e  se  compitolo 
non  si  ascose,  non  fuggì,  non  dissimulò,  non  ismar- 
rissi,  non  usò  artifizi  di  sorta,  rivelando  anzi  con  in- 
genuità le  più  minute  circostanze  dell'avvenimento: 
che  tutti  questi  indizi  sono  tanto  alieni  dell'istituto 
medico,  quanto  le  indagini  dei  polsi  e  dei  visceri  lo 
sarebbero  dal  giuridico. 

Il  clima  è  certamente  una  condizione  che  mo- 
difica l'organismo;  la  verità  è  dell'ordine  fisiologico, 
e  useranne  a  buon  dritto  il  medico  legale  quando 
cada  in  acconcio:  p.  e.  ad  illustrare  i  dubbi  intorno 
l'identità,  la  storia  dei  fenomeni  cadaverici,  la  diversa 


57 
tolleranza  degrindividui  all'azione  delle  sostanze  ve- 
nefiche, il  vario  andamento  delle  malattie  per  ferite, 
e  segnatamente  la  questione  dell'  età  ,  indicandolo 
come  causa  potente  a  ritardare  o  favorire  il  perfe- 
zionamento degli  organi ,  e  la  manifestazione  delle 
respettive  funzioni.  Peraltro  il  farne  un  motivo  di 
aggravio  o  di  scusa  ad  azioni  vietate,  e  pretendere 
a  mò  di  dire  con  Fodere,  che  la  fanciulla  rapita  in 
un  paese  freddo,  o  montagnoso  abbia  a  riguardarsi 
come  punto  nulla  consenziente,  e  destituita  di  ogni 
libertà,  facendo  cadere  sul  rapitore  tutta  la  severità 
punitiva,  onde  bassi  a  perseguitare  la  completa  se- 
duzione; e  che  l'altra  di  pari  età  abitante  una  con- 
trada meridionale,  in  lussuriante  paese  ,  e  nel  seno 
di  una  famiglia  agiata,  non  possa  fuggire  al  sospetta 
di  avere  la  principal  parte  nell'azion  criminosa;  que- 
sto non  solo  è  un  esagerare  smisuratamente  l'impero 
del  clima  sull'uomo,  ma  un  correre  a  briglia  sciolta 
il  dominio  della  legge  innalzando  il  termometro  ed 
il  barometro  in  regolatori  del  magistero  penale. 

La  notizia  del  temperamento  potrà  anche'essa  tro- 
vare il  suo  luogo  nelle  discussioni  forensi  ed  essere 
adoperata  con  qualche  frutto.  L'  umor  melanconico 
ti  offrirà  un  indizio  di  più  nella  question  del  suicidio, 
e  la  tempra  acquidosa  accrescerà  peso  alle  altre  pi'ove 
di  frigidezza.  Nella  donna  fornita  di  più  squisito  sen- 
tire sarà  più  probabile  la  spontaneità  dell'aborto,  e 
in  un  sanguigno  la  caduta  in  terra  per  insulto  apo- 
plettico apparirà  più  verisimile  che  in  uomo  dotato 
di  altra  natura.  La  cognizione  del  temperamento  sarà 
utile  nel  risolvere  i  dubbi  sulla  priorità  della  morte, 
nello  spiegare  i  diversi  effetti  di  uno  stesso   veleno 


58 
sul  diversi  individui,  nel  calcolare  in  causa  di  feri- 
mento quel  che  devesi  alla  entità  della  potenza  no- 
civa, e  quel  che  ha  origine  dalla  natura  del  substra- 
to su  cui  essa  agisce.  In  queste  e  somiglianti 
circostanze  la  notizia  del  temperamento  potrà  essere 
inti'odotta  opportunamente  nelle  questioni  forensi:  ma 
usarne  ad  escusazion  dei  delitti,  ma  pretendere  che 
l'atra  bile  e  la  linfa,  gli  stami  nervosi  e  i  globuli  san- 
guigni possano  esser  messi  in  bilancia  al  valutare 
l'imputabilità  delle  azioni,  non  solo  è  un  disconoscere 
affatto  i  termini  prefìssi  all'applicazione  giuridica  dei 
fatti  fisici,  ma  quel  che  è  peggio,  è  un  servire  in 
qualche  modo  a  quell'assurda  e  pericolosa  dottrina 
che  i  trascorsi  dell'umanità  vorrebbe  ridurre  a  meri 
effetti  di  complessione.  Finalmente  Bohn  aveva  già 
avvertito  i  medici  pubblici,  che  essi  sono  chiamati  ad 
informare  il  pretore  «  non  an  septimestris  partiis  sit 
legilimus  ac  successionis  capax?  hoc  enim  determinare 
legnm  et  hariim  peritorum  erat,  sed  an  sit  vitalis  seu 
secundum  naluram  editus,  quod  sine  reflexione  ad  con- 
iuginm  superveniens  aut  contractum  decidere  tenelur.  » 
Queste  avvertenze  sulla  trasgressione  dei  limiti 
prescritti  alla  nostra  scienza  potrebbero  estendersi  a 
molti  altri  argomenti  di  medicina  legale:  ma  basterà 
il  fin  qui  detto  perchè  sappiano  gli  studiosi,  esser 
nostro  principio  che  si  debbano  in  ogni  occasione 
rispettare  i  diritti  del  foro,  sicché  l'intervento  me- 
dico nel  campo  della  giustizia  sia  aiuto  ,  non  in- 
vasione. 

Un  altro  difetto  da  evitarsi,  e  che  in  vece  di  al- 
largare il  dominio  della  medicina  legale  tende  anzi 
a  restringeilo  ,  consiste  in  una  esagerata  diffidenza 


59 

dei  poteri  dell'arte,  in  un  progetto  a  credersi  cir- 
condati da  tenebre,  anche  quando  abbonda  la  luce. 
Si  giunge  a  questo  stato  di  continua  dubitazione  scin- 
dendo il  complesso  degli  argomenti  diretti  a  stabilire 
una  prova,  ed  esercitando  separatamente  sopra  cia- 
scuno la  critica.  Certo  ,  ogni  indizio  considerato  a 
parte  è  impotente  a  generare  un  giudizio,  perchè  il 
giudizio  scaturisce  dal  paragone,  e  un  solo  dato  non 
[)uò  somministrare  alcun  solido  rapporto  alla  mente: 
si  va  però  dissipando  il  dubbio  a  misura  che  si  rac- 
colgono pii^i  indizi  concorrenti  allo  stesso  fine,  i  quali 
e  accrescono  ognun  da  sé  i  gradi  della  verisimi- 
glianza,  e  colfarmonia  e  corrispondenza  fra  loro  si 
fecondano  scambievolmente  ,  e  se  ne  moltiplica  il 
valore.  Fallace  è  p.  e.  ognuno  dei  segni  della  morte 
per  annegamento;  ma  riunite  gl'indizi  nel  caso  pra- 
tico, e  le  eccezioni  cui  ciaschedun  va  soggetto  in 
partito  esame  svaniscono.  Ecco  un  cadavere  ritratto 
di  recente  dall'acqua  che  vi  offre  delle  macchie  color 
di  rosa  alla  faccia,  alle  orecchie,  alle  coscie,  esco- 
riazioni sanguinolente  agli  estremi  dorsi  delle  dita, 
la  lingua  collocata  fra  i  denti,  e  iniettata  nella  sua 
base,  le  labbra  tumide,  la  bocca  semi-aperta  con  tracce 
di  finissima  spuma  al  di  fuori,  la  trachea  riempiuta  da 
un  fluido  bianco  e  spumoso,  i  bronchi  maggiori  lu- 
bricati da  umore  acquoso,  i  polmoni  turgidi,  di  una 
tinta  violacea,  e  ingorgati  di  sangue  che  n'esce  in 
copia  colla  pressione  insieme  a  bolle  di  aria,  le  cavità 
destre  del  cuore  piene  di  sangue  scioltissimo,  il  fe- 
gato e  la  milza  inzuppati  di  sangue,  lo  stomaco  con- 
tenente una  quantità  notabile  di  acqua  ,  la  vescica 
con  urina  sanguinolenta,  i  seni  della  dura  madre  e  i  vasi 
della  pia  iniettati  di  sangue, la  sostanza  cerebrale  spar- 


60 

sa  di  macchierelle  rosse,  e  finalmente  nessuna  Iraccia 
di  qualsisia  altra  causa  di  morte.  Dubitereste  or  voi 
di  affermare  che  quest'uomo  nell'atto  del  sommergi- 
mento  era  vivo  ?  È  egli  questo  un  caso  da  prendere 
alla  spicciolata  ciaschedun  segno,  e  dichiaratene  le 
possibili  eccezioni  concludere  all'incertezza  ?  Il  più 
magro  pedante  si  accorgerebbe,  che  il  difetto  di  ogni 
indizio  isolato  viene  qui  escluso  dalla  concorrenza 
di  altri  indizi,  e  che  in  tanto  legame  di  argomenti 
la  parzial  censura  di  essi  vien  meno.  E  un  buon  nu- 
mero dei  casi  che  s'incontrano  nella  pratica  presenta 
questa  riunione  di  circostanze  ,  onde  siamo  atti  a 
formare  il  criterio  medico  legale,  e  stabilire  un  giu- 
dizio definitivo  sulla  materia  in  questione. 

11  costume  di  magnificare  i  fatti,  o  di  troppo  ge- 
neralizzarli è  un  altro  difetto  dei  medici  capace  a 
intralciare  le  operazioni  della  giustizia.  Così  dichia- 
rano alcuni  autori,  che  V  atto  del  partorire  induce 
sempre  nella  donna  un  eccitamento  nervoso,  un  or- 
gasmo, uno  stato  d'irritazione,  ed  altri  aggiungono 
anche  una  condizione  maniaca.  La  cosa  espressa  così 
non  è  concorde  col  vero.  Avviene  talora  che  il  parto 
sì  faccia  caL,ione  occasionale  di  accessi  furiosi:  ma 
in  questi  casi  esisteva  di  già  la  predisposizione  a  tal 
malattia,  ed  il  parto  vi  ha  aggiunto  l'elemento  pro- 
vocatore, come  lo  aggiungono  altre  volte  la  gravi- 
danza, l'allattamento,  la  mestruazione  o  l'età  critica. 
Il  caso  adunque  è  tutto  speciale.  Sotto  altre  circo- 
stanze il  parto  senza  determinare  una  vera  pazzia 
suscita  una  certa  ambascia,  un'  agitazione  convulsa 
capace  di  spingere  ad  atti  inconsiderati:  ma  anche 
questo  esempio  appartiene  alle  eccezioni,  e  suol  vC' 


61 

rificarsi  per  complicanze  morbose  ,  o  per  difficoltà 
incontrate  nel  partorire.  Men  raio  ò  il  caso  del  col. 
lapsus,  di  un  insolito  abbattimento  del  corpo  e  dello 
spirito,  onde  la  donna  cade  in  tale  apatia  da  non 
commuoversi  alle  pii^i  tenere  sensazioni.  Talora  né 
pazzia,  ne  orgasmo,  né  languore.  Pertanto  se  la  le- 
gislazione lasciasse  un  piiì  libero  campo  al  senso 
morale  dei  giudici,  e  V  alleanza  della  medicina  col 
foro  camminasse  più  stretta  e  sincera,  dovrebbesi  in 
ogni  caso  concreto  investigare  con  diligenza  in  qual 
condizione  si  trovasse  la  donna  dopo  il  parto  ,  per 
metterla  quindi  in  corrispondenza  col  modo  onde 
fu  privato  di  vita  il  neonato:  e  se  p.  e.  i  dati  medici 
tendessero  ad  escludere  l'agitazione  e  l'orgasmo,  la 
morte  violenta  apprestata  all'infante  con  enormi  le- 
sioni non  troverebbe  nello  stato  patologico  della 
donna  un  fondamento  di  scusa;  mentrechè  gl'indizi 
di  coUapsìis  e  di  languore  sarebbero  in  rapporto  col- 
l'omissione  delle  cure  da  prestarsi  al   bambino. 

Dall'errore  di  generalizzare  inopportunamente  al- 
cuni fatti  particolari  nacque  pure  il  così  detto  mitismc 
medico-legale;  espressione  e  concetto  impropri  pe 
ogni  titolo:  Quasi  regula  illa  iiiris,  esclamava  già 

Bohn,    DUBIA  IN    MELIOREM  PARTEM  SUNT  INTEUPTETANDA  - 

DUBiis  MiTioR  SEt^TE?iT\xELìGE^Dxadmedicosqiioquespec 
quorum  obiectiimnihilominusnec  iustumnec  aequum 
veruni  est,  adeoqiie  iis  amlnguis  in  rebus  absoluturf 
dicium  haud  competit.  «  Intanto  il  mitismo  d" 
ragioniamo  si  annunzia  con  un  principio  sisteir*^ 
di  misurare  il  danno  recato  all'offeso  sotto  il  ^^ 
del  vero.  Nel  che  fare  non  si  riesce  miti,  ma  '^^ 
la  verità,  non  si  serve  alla  giustizia,  ma  se  P^~ 


62 
nilizza  i]  braccio.  Imperocché  la  legge  ci  ordina  di 
calcolare  il  grado  della  lesione,  non  ricavandolo  già 
sottilmente  da  argomenti  di  analogia  e  da    remote 
contingenze,  ma  valutandolo  nel  caso  pratico  giusta 
le  circostanze  di  persona,  di  tempo,  di  luogo.  Per- 
tanto le  avventurose  imprese  della  chirurgia  moderna, 
ad  esempio  delle  quali  si  vorrebbe  restringere  il  nu- 
mero delle  ferite  assolutamente  mortali,  non  possono, 
a  parer  nostro,  trasportarsi  tali  e  quali  nella  bilancia 
della  medicina  forense.  Invocare  que'fatti    a  norma 
di  quel  che  avrebbe  dovuto  farsi  nel  caso  in  questione 
e  non  si  fece,  e  voler  così  sdebitar  Toffensore  di  una 
parte  del  danno,  riversandolo  sulla  imperizia  dell'ar- 
tefice, egli  è  un  disconoscere  quanta  differenza  in- 
terceda fra  i  gloriosi  avvenimenti  dell'arte,  che  potè 
agire  pensatamente  e  con  ogni  comodo,  e  le  difficoltà 
che  ne  circondano  le  operazioni  nei  casi  di  ferimenti 
criminosi.    Se    insigni    chirurghi    legarono    1'  iliaca 
sterna  in  caso  di  aneurisma  della  crurale  vicino  al- 
nguine,  e  ne  ottennero  qualche  volta  la  guarigione, 
^ue   egli  perciò  che  la  morte  avvenuta  poco  dopo 
Isa  una  tale  arteria  presso  il  pube  non   abbia  a 
Htarsi  una  conseguenza  necessaria  della    ferita  ? 
^è  qui  la  parità  delle  circostanze?  Si  può  egli 
P'mere  che  in  mezzo  ad  una  strada,  in  una  cam- 
pus in  un  bosco,  si  trovasse  pronto  il    chirurgo 
^^\i  strettoio  ad  esercitare  la  compressione,   ed 
^^"oi  al  segno  da  condurre  a  fine  la  legatura  del 
vasoT^i  gj.g  p^j  ^gj.jg  Q  almen  probabile  la  gua- 
'■'S'^lopo  operata  la  legatura  ?  Ma  voi  ripigliate, 
che  r^i  (jiamo  della  falce  in  sul  pie,  e  che  dopo 
^^'^''  Itcato  a  lungo  sul  dovere  che  corre  ai  me- 


63 

dici  di  non  usurpare  i  diritti  del  foro,  entriamo  adesso 
in  una  disquisizione  di  pertinenza  giuridica.  Sta  bene; 
esamineranno  i  giudici  le  circostanze  del  ferimento' 
e  vedranno  per  loro  stessi  se  erano  tali  da  ammetter 
soccorso:  ma  intanto  sarà  officio  dei  periti  l'istruire 
li  fìsco,  che  quella  ferita  esigeva  un  aiuto  istantaneo, 
e  che  qualunque  indugio  toglieva  ogni  speranza  di 
salvezza  ;  che  richiedevasi  un  valoroso  artefice  per 
accingersi  alla  legatura  dell'arteria;  che  praticata  an- 
che l'operazione  subitamente  e  colla  maggiore  de- 
strezza, i  dati  sarebbero  stati  sempre  assaF  più  nu- 
merosi per  l'esito  ingiusto  che  pel  felice.  Di  questo 
sia  ammaestrato  il  foro  per  cura  dei  medici,  e  giu- 
dichi esso  poi  sulle  circostanze  del  fatto. 

Le  investigazioni  del  medico  forense  non  debbono 
avere  altra  mira  che  il  servizio  della  legge,  e  a  con- 
seguire tal  fine  egli  dee  procacciare  con  ogni  studio 
di  ben  comprenderla.  Così  nel  delitto  d'infanticidio 
a  stabilire  la  essema  di  fatto  richiedesi  che  nel  bam- 
bino Si  verifichi  la  condizione  di  recens  naltis;  colla 
quale  o  come  la  intendono  alcuni  giureconsulti,    la 
legge  attenda  a  raccogliere  una  circostanza   aggra- 
vante per  la  maggior  facilità  ,    e    per  la  più  facile 
impunità  nel  cancellar  subito  dal  novero  dei  vivi  un 
essere  non  ancora  iscritto  sul  ruolo  dei  componenti 
I  aggregato  sociale,  e  non  munito  ancora    di  quella 
tutela  e  custodia  onde  l'autorità  circonda  ogni  nato 
venuto  appena  a  sua  cognizione;  o  in  vece,  come  altri 
SI  avvisano  di  interpretarla  ,   che  vi  si  accenni  più 
tosto  ad  una  circostanza  attenuante  ,  in  quantochè 
la  madre  offendesse  il  bambino  durante  uno    stato 
di  perturbamento  dell'animo,  indotto  dai  patimenti 


64 
del  parto,  dalle  perdite  di  sangue,  e  da  quell'oscil- 
lazione del  sistema  nervoso  che  spesso  accompagna 
l'atto  del  mettere  in  luce  la  prole,  specialmente  ove 
questo  compiasi  clandestinamente  e  in  sequela  di 
illeciti  amplessi:  qualunque  dei  due  fini  si  proponga 
la  legge  nel  richiedere  la  sopraddetta  condizione,  certo 
che  il  medico  non  le  offrirebbe  opportuno  aiuto,  se 
pretendesse  col  Mende  bambini  nati  di  fresco  esser 
quelli  non  solo  usciti  or  ora  alla  luce,  ma  sippure 
tutti  di  altri  che  conservano  i  vestigi  di  lor  con- 
nessione  colla  madre,  concludendo  che  la  condizione 
di  nascita  recente  cessi  allora  che  1'  ombelico  sia 
pienamente  guarito.  Né  giova  che  poco  appresso,  de- 
posto il  linguaggio  fisiologico,  e  preso  il  forense,  ei 
circoscriva  la  durata  della  nascita  recente  a  quello 
spazio,  che  decorre  dalla  escita  in  luce  fino  alla  presa 
del  nutrimento.  Imperocché  anche  pria  che  il  bam- 
bino abbia  preso  alimento  è  decorso  tanto  spazio  di 
tempo,  entro  il  quale  egli  ha  potuto  far  risonare 
de'suoi  vagiti  la  casa,  sicché  si  rendesse  più  difficile 
che  la  sua  uccisione  fosse  incognita  a  tutti,  e  per 
conseguenza  impunita;  come  pure  nella  donna,  molto 
innanzi  che  si  alimenti  la  prole,  può  esser  cessato 
del  tutto  quel  perturbamento  dell'animo,  che  presso 
alcuni  la  rende  meno  imputabile  dell'azion  criminosa. 
Pertanto  disserve  alla  legge  chi  prolunga  di  troppo 
il  periodo  della  nascita  recente,  tendendo  così  a  far 
confondere  la  infanticida  colla  parricida:  e  qualunque 
sia  lo  scopo  che  si  prefigge  essa  legge  nel  richiedere 
questa  condizione,  sarà  sempre  dovere  del  perito  di 
circoscriverla  nei  primi  momenti  dopo  la  nascita,  in- 


65 
dicando  ì  segni  che  nel  neonato  annunziano  un  tal 
periodo  di  vita. 

Memore  delle  gravi  conseguenze,  che  hanno  ori- 
gine dai  suoi  giudizi,  guardisi  il  medico  legale  dal 
fondarli  su  basi  deboli  e  incerte.  Chi  per  dare  un 
fondamento  di  credibilità  a  un  disordine  mentale 
non  dimostrabile  per  altre  note,  pretendesse  appog- 
giarlo unicamente  al  maggiore  sviluppo  di  un  organo 
cerebrale  secondo  il  sistema  di  Gali,  non  presente- 
rebbe ai  giudici  una  verità  stabilita,  ma  una  sem- 
plice ipotesi.  Deboli  e  incerte  son  pure  le  basi  che 
dannosi  ai  giudizi  medico-legali,  ove  questi  si  ap- 
poggino a  fatti  incostanti  o  di  troppa  sottile  inve- 
vestigazione ,  come  se  volesse  dedursi  la  vita  del 
feto  post  partum  dalla  proporzione  dell'acido  fosfo- 
rico e  della  fibrina  nel  sangue,  o  dalla  forma  dello 
stomaco,  della  cistifellea,  del  canale  arterioso,  del 
forame  ovale.  Le  sensazioni  che  ci  procura  l'organo 
dell'  odorato  sono  troppo  fugaci  e  variabili  perchè 
alla  testimonianza  loro  si  aggiusti  quella  fede  che 
esigono  le  materie  forensi.  Concludere  francamente 
che  le  macchie  onde  è  imbrattato  un  drappo  od 
un'arma  sono  di  sangue  umano,  e  non  d'altro,  dal 
solo  odore  che  se  ne  svolge  con  appositi  mezzi,  sa- 
rebbe temerità:  non  che  questo  indizio  si  abbia  a 
vilipender  del  tutto,  ma  esso  non  basta  a  securarci 
del  fatto.  Notissimo  è  1'  odore  alliaceo  che  emana 
dall'arsenico  in  combustione,  tuttavia  non  vi  ha  oggi 
alcun  perito ,  che  su  questo  unico  segno  volesse 
fondare  un  giudizio  di  avvelenamento  arsenicale , 
come  si  costumava  in  altri  tempi.  L'odore  di  man- 
dorle amare  è  molto  significativo  ;  pure  da  questo 
G.A.T.CXXXIV.  5 


solo  fatto  non  si  potrebbe  arguire  con  piena  certezza 
cbe  l'individuo  dal  cui  cadavere  esala,  morì  per  acido 
prussico,  o  per  essenza  di  lauro  ceraso.  Le  sensa- 
iloni  che  suscita  l'organo  della  vista  sono  infinita- 
mente più  esalte  e  stabili  che  quelle  dcll'olfotto:  non 
ostante  quando  la  forza  visiva  viene  moltiplicata  dagli 
istromenti  fisici,  le  sue  testimonian/.e  possono  patire 
eccezioni,  sia  dalla  poca  perizia  dell'osservatore,  sia 
dall'  imperfezione  dell'  istromento  ;  ciò  che  spiega 
come  ì  risultati  microscopici  siano  spesso  tra  loro 
disfarmi.  Laonde  i  tatti  raccolti  a  tal  modo  vogliono 
essere  applicati  ai  bisogni  del  foro  con  molta  cir- 
cospezione. Noi  non  oseremmo  dichiarar  con  cer- 
tezza innanzi  ai  giudici  che,  un  dato  sangue  appar- 
tenga piuttòsto  ad  un  animale  che  ad  un  altro,  fondati 
suìla  sola  forma  dei  globetti ,  e  sul  loro  modo  di 
conqjortarsi  nell'acqua;  né  col  soccorso  di  queir i- 
slromento  vorremrtio  asseverare  che  la  materia,  onde 
è  intrisa  una  camicia,  sia  pretto  sperma  virile,  co- 
mecche  il  Bayard  abbia  saputo  rinvenire  zoospermi 
a  lung'a  còda  in  pannilini  già  da  sei  anni  macchiali 
di  tale  urtiore!       -JJ^ifiifii   ■    -Jia, 

11  mèdico  legale'  tiòh  defe  itìnalzarsi  più  allo  che 
non  Conduce  la  scala  delle  cose  sensibili,  dilFonden- 
dosi  in  teoriche  e  dottrine,  che  non  possono  essere  di 
alcuna  utilità  al  foro.  Poco  importa  se  le  conse- 
guenze prontamente  funeste,  che  derivano  al  feto  dalla 
sospesa  circolazione  della  placenta,  si  riferiscano  ad 
Una  funzione  respiratoria  che  si  compia  in  quel  vi- 
scere, 0  procedano  da  pletora,  o  da  estinzione  delle 
fm'iiiion'i  cel^ebf-ali  e  cardiache,  o  nascano  da  <}ualun- 
que  altra  caliga.    Basta  ai  bisogni    forensi  la  verità 


67 

costante  del  fatto,  che  la  compressione  del  cordone 
ombelicale,  e  la  interruzione  della  circolazione  pla- 
centare cagionano  rapidamente  la  morte  del  feto. 
Sarebbe  opera  perduta  intrattenerci  col  fisco  sulla 
maniera  di  agire  dei  veleni  ventilandone  le  varie 
ipotesi,  quando  esso  non  ci  richiede  che  i  segni  dia- 
gnostici del  venefìcio,  e  i  dati  empirici  che  ne  il- 
lustrano la  storia.  In  una  questione  di  sopravvivenza 
tra  pili  persone  perite  di  fame  o  di  freddo  non  si 
travagli  il  medico  ad  istruire  i  giudici  intorno  la 
causa  prossima  di  questi  generi  di  morte,  ma  strin- 
gasi a  raccogliere  le  circostanze  fìsiche,  dalle  quali 
si  renda  probabile  chi  sia  morto  prima,  chi  dopo. 
Lasciate  a  parte  la  essenza  dell'ubbriachezza  e  con- 
tentatevi di  notarne  i  gradi  e  le  condizioni  che  in- 
volontariamente la  favoriscono.  Se  volete  trarre  i 
giudici  nella  vostra  sentenza,  che  i  pazzi  anche  nel 
lucido  intervallo  non  cessano  dall'essere  in  qualche 
modo  alienati  della  mente,  non  vi  seduca  il  diletto 
della  teoria,  fondandovi  sul  principio,  che  siccome 
in  tutte  le  altre  malattie  periodiche,  cosi  in  questa 
l'intervallo  apparentemente  libero  del  male  dee  con- 
tenere in  sé  la  ragion  sufficiente  del  nuovo  accesso, 
ciò  che  non  può  spiegarsi  senza  ammettere  uno  stato 
morboso.  Attenetevi  in  vece  alla  pura  esperienza, 
che  i  pazzi  anche  nell'intervallo  lucido  all'abito,  alla 
fisionomia,  allo  sguardo  fan  travedete  a  chi  intende 
la  nascosta  agitazione  dell'animo;  che  le  loro  abi- 
tudini non  sono  regolari ,  che  le  funzioni  non  si 
esercitano  normalmente  ,  e  che  in  fine  se  durante 
questo  periodo  le  più  lievi  occasioni  valgono  a  ripro- 
durre innanzi  tempo  il  parosismo,  ciò  mostra  bene 


68 

che  le  condizioni  della  sensibilità  sono  luttora  in 
istato  di  malattia.  In  breve  rammentino  gli  studiosi, 
che  la  medicina  forense  quantunque  tesaureggi  dalla 
universa  fdosofìa  naturale,  e  da  tutte  le  scienze  me- 
diche, nondimeno  essa  è  operativa,  non  speculativa; 
essa  è  riposta  nell'uso,  nell'applicazione,  nell'eser- 
cizio, di  maniera  che  i  nostri  antecessori  solessero 
a  buon  dritto  riporla  fra  le  pratiche  diramazioni. 
Dogmata  et  observationes  y  quae  scientiam  natiiralem 
et  medicinam  concernunty  a  medicis  quidem  praecipiie 
ideo  declarantur  et  colliguntiir,  ut  ex  iis  medendi  nor- 
mam  in  praxi  clinica  et  chirurgica  petant.  Sed  cum 
eadem  ad  dubias  iuris  quaesliones  in  foro  enodandas 
applicenliir  tertia  inde  medicinae  practicae  pars  ori- 
tur,  quae  medicina  forensis  appellatur.  (Ludw.  med. 
for.  §.1). 

Spazia  la  medicina  legale  per  così  vasto  campo, 
quanto  ne  abbracciano  le  innumerevoli  cognizioni 
che  raccolse  e  va  raccogliendo  la  scienza  dell'uomo 
sano  e  malato.  Non  vi  è  notizia,  onde  si  arricchi- 
sca alcuna  delle  mediche  discipline,  che  non  possa 
adattarsi  quando  che  sia  alla  illustrazione  di  un 
qualche  dubbio  forense.  D'altronde  le  nuove  combi- 
nazioni sociali  e  i  raffinamenti  della  malizia  sempre 
intenta  a  cercare  nuovi  stromenti  al  delitto,  e  nuove 
strade  alla  impunità,  suscitano  dalla  parte  del  foro 
inusitate  questioni,  che  esercitando  l'ingegno  dei  me- 
dici legali  allargan  la  sfera  de' loro  studi.  Perciò  a 
duon  diritto  scriveva  il  lodato  Bohn  che  ,,  inge- 
ninm  humamrm  forsan  superat  rerum  huc  spectantium 
varielas  atque  midlitiido,  ut  si  per  plura,  ac  hactenus 
factum,  saecida  colalur  haec  scientia,  vix  sibi  quis-^ 


()9 
piam  promitlere  possi t  cmiclorum  casiinm  speciaUum, 
quos  experientia  non  lam  fmgit  qnam  gifjnit,  adac- 
quatam  enarrationem ,  milito  minus  evolntionem  per- 
feclarn  ac  necessariam  ».  Così  insolite  forme  di  paz- 
zia atte  a  fìngersi  dai  malvagi  chiamano  i  medici  a 
nuove  indagini  per  fissarne  i  segni  diagnostici;  inu- 
sitate maniere  di  attentare  alla  vita  gl'impegnano  a 
seguirne  le  tracce,  modi  non  ancora  tentati  di  simu- 
lare le  malattie  ne  provocano  la  solerzia  al  fine  di 
svelarli;  nuovi  morbi  di  tal  ferocia  da  incuter  so- 
spetto di  morte  violenta  in  ehi  ne  fu  colpito  mo- 
strano, ad  essi  la  necessità  di  ben  stabilirne  i  carat- 
teri. D'altra  parte  gl'incrementi  dell'anatomia  pratica 
e  della  chirurgia,  che  suggeriscono  metodi  piiì  esatti 
a  non  ismarrire  il  corpo  del  delitto  ,  e  tendono  a 
modificare  le  questioni  sulla  entità  delle  ferite;  gli 
acquisti  nell'anatomia  patologica,  che  insinuano  il  bi- 
sogno di  attento  esame  per  ben  distinguere  gli  ef- 
fetti delle  malattie  fortuite  dalle  violente  ,  e  quelli 
di  ambedue  dalle  variabili  alterazioni  cadaveriche  ; 
le  invenzioni  della  chimica  che  danno  il  bando  ai 
vecchi  processi  in  servizio  del  foro,  e  ne  adottano 
dei  più  delicati.  Ecco  V  apparato  di  Marsh  che  ha 
mutato  l'aspetto  alle  ricerche  chimico-legali  del  ve- 
neficio arsenicale  ,  e  ha  suscitato  non  poche  que- 
stioni sul  retto  suo  uso.  Ecco  un  più  delicato  rea- 
gente scoperto  da  Leabig  e  modificato  da  Taylor 
per  isvelare  la  presenza  dell'acido  prussico,  che  non 
si  applicherà  ai  bisogni  del  foro  senza  dover  prima 
risolvere  qualche  dubbio  sul  suo  valore.  Nuovi  pro- 
cessi disinfettanti  permettono  oggi  ai  periti,  anzi  loro 
ingiungono,  di  cercare  il  coipo  del  delitto  in  mezzo 


10 

alla  putrilagine  dei  cadaveri:  ciò  che  innanzi  il  ri- 
trovamento dei  cloruri  non  potea  praticarsi.  La  ster- 
minata potenza  dell'  etere  e  del  cloroformio  recen- 
temente introdotti  nell'esercizio  della  chirurgia  potrà 
dar  luogo  ad  abusi  criminosi,  ed  è  perciò  necessa- 
rio che  il  medico  legale  raccolga  minutamente  tutti 
i  fatti  che  illustrano  la  storia  di  questi  due  agenti. 
Ma  se  nuovi  fatti  e  avvenimenti  nuovi  hanno  am- 
pliato e  vanno  ampliando  l'arena,  in  cui  è  chiamato 
ad  esercitarsi  il  medico  pubblico,  non  si  argomenti 
da  ciò  che  mutabili  siano  i  principii  che  debbono 
servii'gli  di  guida.  L'arte  di  considerare  gli  elementi 
di  fatto  nell'ordine  in  cui  li  presenta  il  caso  prati- 
co ,  di  attribuire  a  ciascuno  il  suo  giusto  valore  , 
separando  gli  essenziali  dai  fortuiti ,  i  significativi 
dai  men  concludenti,  di  applicare  tali  elementi  alla 
risoluzione  dei  dubbi  forensi  secondo  lo  spirito  della 
legge:  quest'arte  è  sempre  la  stessa.  Quindi  avviene 
che  i  responsi  del  nostro  Zacchia,  benché  dettati  in 
tempi  che  non  si  era  accesa  tanta  face  agli  studi 
sussidiari  della  medicina  forense,  rimangono  a  noi, 
e  rimarranno  ai  posteri ,  quali  esempi  imitabili  di 
critica  medico-legale. 

Dopo  il  fin  qui  detto  sulle  attribuzioni  e  sulla 
importanza  della  medicina  forense  potrebbe  sembrare 
supervacàneo  il  toccare  la  necessità  di  uno  studio  spe- 
ciale di  questa  scienza,  se  illustri  autori  non  aves- 
sero divulgato  che  i  fondamenti  di  essa  contenendosi 
nei  comuni  decreti  delle  mediche  discipline,  l'insegna- 
mento suo  debba  unicamente  consistere  nell'esercizio 
delle  scritture.  «  Al  huius,  scrive  il  lodato  Platner 
intorno  la  nostra  scuola,  aut  nulla  ulililas,  aut  haec 


71 

Cftt  apeclundti,  ni  iuvcnefi,  ailìiibìlo  slfiìo,  crudiuulur 
jnueceplis  iis,  qmie  viam  efficere  pofisinl.  componemli 
scìipfiunes  omnia  generis,  perlinenles  ad  officium  me- 
dicorwn  publicornm  ».  E  niuiio  sarà  certamente  che 
non  riconosca  il  grandissimo  comodo  derivante  alla 
gioventù  studiosa  dall'interpretare  i  casi  forensi,  e 
tesserne  le  opportune  scritture:  sarebbe  anzi  a  desi- 
derarsi che  a  questo  esercizio  si  aggiungessero  gli 
altri  della  esplorazione  delle  ferite,  dei  visa-reperta, 
delle  docimasie,  e  le  indagini  dei  veleni,  e  le  visite 
dei  pazzi,  e  la  clinica  ostetrica,  e  tutto  in  fine  che 
possa  addestrare  praticamente  gli  alunni  al  servizio 
della  giustizia;  ma  che  poi  le  acroases  hahitae  per- 
petua oratione  abbiano  a  bandirsi  affatto  dallo  stu- 
dio della  medicina  legale  ,  come  sostiene  il  citato 
autore  ,  è  tal  principio  cui  non  tutti  vorranno  ap- 
plaudire. Notisi  in  fatti  che  la  medicina  forense  pos- 
siede una  dottrina  sua  propria,  della  quale  non  può 
aversi  esatta  cognizione  per  altri  studi,  e  che  perciò 
vuol  essere  insegnata  a  parte.  La  vitalità,  come  la 
intende  il  foro  civile,  non  è  l'attitudine  a  prolungare 
la  vita  come  la  intende  la  scienza.  La  superfeta- 
zione e  il  parto  serotino  sono  argomenti  esposti 
anche  dal  fisiologo  ,  ma  senza  discendere  ai  criteri 
che  ne  contrassegnano  le  realtà  nella  pratica.  Non 
ogni  impotenza,  così  dichiarata  dal  patologo,  adem- 
pie alle  condizioni  volute  dalla  legge  canonica  per 
dirimere  il  matrimonio.  Le  molte  insidie  che  si  pos- 
sono tendere  alla  vita  dell'uomo  appena  nato,  o  na- 
scituro ,  0  già  adulto  ,  non  si  apprendono  in  altra 
scuola  fuorché  in  quella  di  medicina  legale.  Le  fe- 
rite vi  si  studiano  e  si  classificano  rispetto  alla  leg- 


72 

gè,  non  secondo  i  bisogni  della  chirurgia  curativa. 
La  storia  delle  docimasie  e  delle  fallacie,  cui  vanno 
soggette  nelle  applicazioni  forensi,  è  una  specialità 
medico-legale.  Altro  è  conoscere  e  curare  una  ma- 
lattia da  veleno,  altro  è  adempire  a  tutti  i  doveri 
che  corrono  al  perito,  allorché  trattasi  di  dimostrare 
l'avvelenamento.  Un'apertura  di  cadavere  intrapresa 
per  curiosità  patologica  differisce  grandemente  da  un 
visum-reperlum,  e  si  debbono  perciò  esporre  le  cau- 
tele necessarie  a  ben  condurlo.  Poche  notizie  tro- 
verebbonsi  in  altri  libri  sulla  morte  per  sommergi- 
mento  ,  per  istrangolamento  ,  per  appiccamcnto,  e 
molte  ne  raccoglie  la  medicina  forense.  Le  tante  e 
stranissime  guise  di  simulare  le  infermità  non  ven- 
gono insegnate  in  altri  corsi.  Le  mutazioni  che  sof- 
fre il  cadavere  per  andar  di  tempo  ,  e  secondo  la 
diversità  del  mezzo  in  cui  giace,  sono  studiate  dal 
solo  medico  legale  ,  per  istabilire  approssimativa- 
mente l'intervallo  decorso  dopo  la  morte. 

Ma  se  la  medicina  legale  non  si  restringe  all'arte 
di  compilare  le  relazioni,  egli  è  però  innegabile  che 
il  foro  non  può  risentirne  pienamente  i  vantaggi  e 
rispettarne  i  decreti ,  ove  le  scritture  che  essa  gli 
dirige  non  siano  redatte  con  iscienza  e  coscienza. 
Pertanto  stimiamo  pregio  dell'opera  di  entrar  per 
poco  in  questo  argomento,  considerandolo  qui  sotto 
il  doppio  aspetto  della  medicina  legale  e  della  poli- 
zia medica. 

I  vari  generi  di  scritture,  per  mezzo  delle  quali 
ci  mettiamo  in  comunicazione  coi  magistrati,  pos- 
sono ridursi  ai  seguenti:  cioè  k  denunzia,  la  rela- 
zionCy  il  certificato,  il  viso-reperto,  la  difesa,  il  parere. 


73 

la  perizia,  il  voto.  Una  breve  dichiarazione  di  questi 
vocaboli  mostrerà  che  ciascuno  di  essi  accenna  ad 
un  officio  speciale,  e  che  merita  perciò  di  venir  di- 
stinto dagli  altri.  Così  la  denunzia  [renunùatio)  è  una 
scrittura  con  cui  si  partecipa  ai  tribunali  un  avveni- 
mento che  interessa  la  salute  pubblica  o  la  giustizia 
punitiva,  ed  ha  ciò  di  proprio  che  si  debba  fare  spon- 
taneamente. Il  chirurgo  dee  denunziare  l'offesa  che 
è  stato  chiamato  a  curare  ,  il  medico  è  tenuto  ad 
accusare  il  veneficio  in  cui  imbatta  ,  la  morte  im- 
provvisa, o  il  caso  di  malattia  contagiosa  che  po- 
tesse farsi  origine  di  pubblico  danno  senza  nuovo  ed 
espresso  invito  del  magistrato.  La  denunzia  intro- 
ducesi  colle  notizie  sul  giorno,  ora,  e  luogo  della 
visita,  nomi  ed  età  dell'  offeso  ;  indi  procede  alla 
descrizione  della  malattia  o  lesione  annoverandone 
esattamente  le  qualità  ,  i  sintomi,  1'  origine,  e  ter- 
mina ,  secondo  la  legge  vigente,  collo  stabilirne  il 
prognostico  non  senza  notare  il  pericolo  dei  guasti 
che  permarranno  all'offesa.  Questo  genere  di  scrit- 
tura abborrisce  più  di  ogni  altro  dai  dottrinali  e 
ragionamenti  scolastici,  e  raccommandasi  sopra  tutte 
per  concisione  e  chiarezza.  Non  vi  si  parli,  durante 
la  vita  dell'offeso,  di  mortalità  assoluta  ma  di  solo 
pericolo  :  e  ove  tutto  mostri  che  la  vita  sta  per 
cessare,  si  indichi  il  pericolo  imminente.  Se  nell'of- 
feso esista  qualche  condizione  che  valga  ad  aggravare 
il  corso  della  lesione,  conviene  accennarlo  nel  pro- 
gnostico. Se  trattisi  di  un  incognito,  fa  d'uopo  rac- 
rogliere  le  circostanze  fìsiche  capaci  a  stabilire  la 
identità  del  soggetto.  Alla  denunzia  si  riferiscono 
quali  specie  le  informazioni    che  si  trasmettono  al 


74 

foro  sull'andamento  e  mutazioni  della  malattia  [di- 
aria) ,  le  ritrattazioni  sul  pi'ognostico  ,  V  annunzio 
della  morte,  o  la  fede  di  convalescenza.  Nel  denun- 
ziare la  morte  si  avverta  di  non  limitarsi  al  giorno 
ed  ora  della  medesima,  ma  di  raccogliere  i  princi- 
pali sintomi  che  la  precederono,  e  notarne  la  forma; 
cioè  se  sia  stata  apopletica,  convulsiva,  sincopale, 
stertorosa  ;  potendo  queste  notizie  influir  grande- 
mente nel  risolvere  le  questioni  che  si  sollevano 
dopo  il  visum  repertum.  Nel  compilare  la  fede  di 
convalescenza  o  come  altri  chiamano  di  salute  ,  la 
quale  non  dee  rilasciarsi  ove  la  guarigione  non  sia 
compiuta  e  nella  parte  offesa  e  in  ogni  sua  atte- 
nenza, si  riassuma  brevemente  la  storia  del  male,  e 
si  avverta  se  la  sua  durata,  e  la  quantità  de'rimedi 
che  sono  stati  necessari  a  combatterlo,  trovinsi  in  cor- 
rispondeza  colla  sola  lesione,  od  anche  con  altri  ele- 
menti morbosi  indipendenti  da  essa.  Rimanendo  qual- 
che imperfezione  ,  si  noti  se  abbia  a  riguardarsi 
come  sanabile  o  insanabile. 

Il  referto  [relalio]  non  differisce  dalla  denunzia 
che  per  esser  provocata  ogni  volta  dall'autorità,  la 
quale  ne  determina  pure  il  preciso  oggetto.  Ordina 
così  il  tribunale  che  il  medico  visiti  un  infermo 
che  si  sospetta  avvelenato,  che  il  chirurgo  esamini 
le  condizioni  di  una  ferita  sulla  cui  entità  si  è  sol- 
levato qualche  dubbio,  che  l'ostetrico  osservi  se  una 
donna  offra  i  segni  di  recente  puerperio;  ed  eglino 
procedono  alle  visite  e  riferiscono  in  proposito.  Apresi 
il  referto  colla  indicazione  del  magistrato,  per  or- 
dine del  quale  si  instituisce  l'esame,  e  del  resto  si 
conduce  colle  stesse  regole  della  denunzia. 


75 

Semplicissima  fra  le  scritture  è  il  certificato  o 
attestato  consistente  nella  dichiarazione  di  un  fatto 
fisico,  e  nel  giudizio  che  ne  conseguita.  Ma  quanto 
è  facile  il  dettarlo,  tanto  è  ovvia  la  leggerezza  onde 
suol  rilasciarsi,  e  non  senza  discapito  del  pubblico 
servizio,  dell'  erario  e  della  retta  amministrazione 
della  giustizia.  Pensino  adunque  i  medici  che  il  fatto 
da  certificarsi  non  vuol  essere  enunciato  nella  sua 
nudità,  ma  che  deve  andare  fornito  di  qualche  no- 
tizia che  ne  provi  l'esistenza,  ne  accenni  l'origine, 
ne  misuri  il  grado,  al  fine  di  allontanare  ogni  so- 
spetto di  simulazione  dal  lato  del  postulante,  o  di 
connivenza  da  quella  dello  scrivente.  Il  certificato 
viene  rirhiesto  dalla  parte  interessata  più  spesso  che 
dall'autorità:  nell'uno  e  nell'altro  caso  chi  lo  detta 
prende  la  veste  di  medico  pubblico  ,  dacché  V  uso 
di  tale  scrittura  suol  rivolgersi  all'  interesse  della 
comunità,  o  almeno  di  più  individui. 

Chiamasi  visnm  et  repertum  ,  o  perizia  fiscale 
quella  scrittura  in  cui  narransi  le  condizioni  pre- 
sentate dal  cadavere  che  forma  I'  oggetto  delle  ri- 
cerche forensi ,  e  in  cui  si  giudica  quale  sia  stata 
la  causa  della  morte.  Secondo  la  nostra  procedura 
questo  scritto  fa  parte  integrante  dell'  incarto  pro- 
cessuale, ove  è  registrato  dal  notaio  alla  presenza 
del  giudice  e  dei  testimoni  nell'atto  istesso  in  che 
il  chirurgo  procede  alla  ispezione  ed  all'apertura  del 
cadavere,  e  colle  medesime  espressioni  onde  viene 
dettato  dal  medico.  Componesi  tale  scrittura  di  tre 
parti;  cioè  1  di  un  preambolo  che  suole  essere  re- 
datto dal  ministro  di  giustizia  ,  e  in  cui  si  notano 
il  tempo  e  il  luogo  della  sezione,  il  nome  e  il  co- 


76 
gnome  deirindividuo  fatto  cadavere,  i  connotati  ac- 
conci a  stabilirne  l' identità  ,  la  sua  posizione ,  le 
vesti  se  ne  ha,  e  qualunque  altra  circostanza  este- 
riore che  possa  istruirne  sul  fatto  in  questione  : 
2°  della  esposizione  fedele  di  ogni  condizione  esterna 
ed  interna  del  cadavere  capace  a  chiarire  la  causa 
della  morte:  3°  finalmente  del  giudizio  definitivo  in- 
torno essa  causa.  Nello  esporre  le  esterne  appa- 
renze non  dimentichi  il  perito  di  accennare  anche 
le  condizioni  morbose  antecedenti,  come  i  seni  fi- 
stolosi,  le  piaghe,  i  tumori,  le  ernie,  le  protube- 
ranze, i  vestigi  di  sifìlide;  e  quelle  che  si  riferiscono 
allo  stato  generale  della  macchina,  come  l'obesità  o 
la  magrezza,  gli  edemi,  il  giallume  od  altro  colore 
insolito  della  pelle,  la  flaccidità  dei  tessuti;  e  le  al- 
tre indotte  dall'  applicazione  di  rimedi,  come  cica- 
trici di  salassi,  sanguisughe,  tagli  o  incisioni  di  ferri 
chirurgici,  segni  di  vescicanti,  cauteri,  setoni,  mo- 
xe  ec.  Non  trascuri  gli  indizi  relativi  al  seguito 
esercizio  di  alcune  funzioni:  come  la  mancanza  del- 
l'imene e  dell'abito  verginale,  il  sangue  mestruo  in 
vagina,  le  rughe  dell'addome  e  delle  mammelle,  il 
seme  diseccato  sul  membro,  le  materie  gettate  per 
vomito  sul  mento  o  sul  collo,  gli  escrementi  ade- 
renti ai  dintorni  del  podice,  la  camicia  macchiata  di 
sperma,  o  di  orina  ,  o  di  fecce  ,  i  pugni  stretti  ed 
altre  notizie  di  simil  fatta.  Non  ometta  i  cambia- 
menti avvenuti  nel  corpo  per  la  cessazion  della  vita, 
e  il  grado  preciso  di  essi,  al  fine  di  stabilire  appros- 
simativamente il  tempo  decorso  dopo  la  morte  nei 
casi  in  cui  manca  tale  notizia.  I  lacci,  le  funi,  la 
stoppa,  i  cenci,    gli    spilli,  i  frammenti  di   vetro,  i 


77 
proiettili  ed  altri  stromenti  di  offesa  o  di  morte  che 
esistano  nella  periferia  del  corpo,  o  nelle  cavità  ac- 
cessibili alla  esterna  ispezione  ,  vogliono  esser  de- 
scritti con  ogni  diligenza.  Seguirà  poi  la  fedele 
esposizione  delle  esterne  lesioni  ,  noverandole  con 
ordine  anatomico  se  ve  ne  ha  più  di  una,  e  indi- 
candone con  precisione  il  sito,  Torigine,  lo  stato, 
la  direzione,  le  dimensioni,  Tapparecchio  chirurgico 
ed  ogni  altra  attenenza  che  valga  ad  illustrare  l'in- 
dole della  ferita.  Dettando  i  trovati  cadaverici  ram- 
menti il  perito  come  la  descrizione  delle  parti  of- 
fese debba  essere  minuta  e  circostanziata.  Non  basta 
il  dire  che  era  offesa  tale  o  tale  altra  arteria,  ma 
convien  precisare  a  quale  distanza  dalla  sua  origine, 
dalla  sua  biforcazione  o  dal  suo  ingresso  nel  vi- 
scere; non  basta  il  dire  che  era  ferito  il  vaso,  ma 
conviene  aggiungere  in  quanta  estensione.  Non  si 
limiti  ad  accennare  lo  stravaso  sanguigno,  il  ver- 
samento sieroso,  la  raccolta  purulenta,  ma  indichi 
esattamente  la  quantità  e  la  qualità  del  pus,  del 
siero,  del  sangue.  Non  si  restringa  a  chiamare  in- 
fiammato un  viscere,  gangrenata  una  membrana,  ma 
noti  pure  i  caratteri  onde  si  fan  manifesti  questi 
stati  morbosi.  Citando  un  fatto  che  quasi  sempre 
ne  trae  seco  un  altro,  non  rendasi  in  verisimile  il 
primo  col  silenzio  del  secondo.  Spargesi  di  oscu- 
rità il  corpo  del  delitto  ove  in  ferita  di  vase  co- 
spicuo e  profondo  non  si  faccia  menzione  di  stravaso 
sanguigno,  o  se  parlando  di  rottura  dello  stomaco, 
delle  intestina,  della  cistifellea,  della  vessica  uri- 
naria, non  si  faccia  motto  della  orina,  della  bile, 
delle  fecce,   del   chimo  e  delle  conseguenze  che  ne 


78 
derivano.  Oltre  la  esatta  descrizione  delle  parti  of- 
fese, non  si  trascuri  di  accennare  quelle  condizioni 
del  cadavere  che  o  possono  illustrare  F  indole  della 
letalità,  o  chiarire  l'origine  e  le  circostanze  del  fatto. 
Così  le  magagne  viscerali  accennano  ad  una  malsa- 
nìa  di  costituzione  che  può  aver  contribuito  al  triste 
esito  della  ferita:  un  vizio  strumentale  nel  cervello 
può  render  probabile  il  suicidio:  lo  stomaco  pieno 
di  cibi  è  notizia  utile  al  foro,  e  se  ne  esalino  fumi 
di  vino  o  di  liquori  spiritosi  si  rende  più  verisimile 
la  caduta,  e  la  morte  casuale.  Sappia  finalmente  il 
perito  come  il  giudizio  da  pronunziarsi  sulla  causa 
della  morte  non  voglia  esjtrimersi  seccamente  a  modo 
di  oracolo  ,  ma  debba  essere  motivato  e  folcito  di 
opportuni  argomenti:  altrimenti  correrà  pericolo  dì 
non  essere  atteso.  «  È  un  errore  di  molti  giudici 
(così  s'indirizza  a'  colleghi  il  Mittermaier  nelle  sue 
contribuzioni  alla  dottrina  del  delitto  d'infanticidio) 
il  credersi  assolutamente  legati  dalla  dichiarazione 
dei  medici ,  e  il  non  rilletlere  che  non  già  V  arido 
parere  dì  essi,  ma  le  ragioni  sulle  quali  è  fondato, 
debbono  muovere  il  tribunale,  che  non  può  ammet- 
tere come  certo  un  fatto,  quando  non  vengano  as- 
segnati sufficienti  ai'gomenti  dalla  sua  verità  ».  Non 
basta  adunque  il  certificare  che  il  feto  era  vitale  , 
ma  conviene  addurre  i  caratteri  che  lo  dimostiavano 
rivestito  di  questa  condizione  ;  non  basta  asserire 
che  il  neonato  aveva  vissuto,  ma  bisogna  recitarne 
le  prove;  non  basta  in  fine  pronunziar  la  sentenza 
che  la  ferita  fu  V  unica  causa  della  morte  ,  ma  fa 
d'  uopo  inserire  i  motivi  che  ne  autorizzano  a  giu- 
dicare in  tal  modo. 


79 
SiB  in  vece  di  spendere  le  sue  cognizioni  in  ap- 
poggio del  fisco  le  volga  in  aiuto  dell'  inquisito,  il 
medico  prende  la  veste  di  difensore.  Pietoso  e  lo- 
devole ufiìcio,  ove  si  renda  con  decoro,  con  dottiina, 
con  discrezione;  biasimevole  se  sì  eserciti  o  adden- 
tando la  riputazione  dei  periti  fiscali,  o  negando  i 
fatti  più  limpidi,  o  non  brandendo  altre  arme  che 
i  motteggi  e  i  cavilli:  inopportuno  poi  se,  uscendo 
dai  limiti  della  scienza,  fondisi  sui  dati  morali,  o 
imprenda  a  censurare  la  procedura  e  il  magistero 
penale.  La  scrittura  intesa  a  difendere  alimentasi  di 
discussione,  consente  la  copia  del  dire,  si  allarga 
in  dottrinali,  e  può  giovarsi  di  citazioni  erudite  e 
di  autorità,  purcliò  sien  tolte  a  famigerati  scrittori. 
La  difesa  si  esercita  sull'  origine  della  offesa ,  se 
fortuita  o  criminosa  :  è  provata  la  frattura  della 
lesta  del  fèto,  ma  potè  essere  cagionata  da  parto 
laborioso  :  è  provata  la  contusione  al  capo  ,  ma 
potè  derivare  da  caduta  in  colluttazione:  è  dimo- 
strata la  piesa  del  veleno  nelle  viscere,  ma  si  du- 
bita che  fosse  stato  amministrato  in  antecedenza 
come  rimedio.  Toglie  ad  impugnare  il  fatto  allor- 
ché non  sia  stato  esposto  colla  dovuta  esattezza  : 
voi  parlate  di  rottura  della  vena  porta,  di  cui  son 
rari  gli  esempi  nella  storia  dell'  arte  ,  e  non  date 
peso  al  vostro  asserto  col  riferire  il  punto  preciso 
della  lesione  ,  la  forma  e  1'  ampiezza  della  mede- 
sima, la  quantità  e  la  natura  del  sangue  effuso;  il 
fatto  non  è  bastevoimente  provato.  Sostiene  che  la 
lesione  fu  operata  dopo  la  morte,  o  che  le  pre- 
tese apparenze  morbose  eran  fenomeni  cadaverici: 
si  dichiara  la  lussazione  delle  vertcbie  cervicali  e  si 


80 
tacciono  le  effusioni  sanguigne  nel  tessuto  cellulare 
circonvicino  ,  e  negli  interstizi  muscolari ,  dunque 
non  avvenne  durante  la  vita  :  si  narra  d'un  versa- 
mento sanguigno  nella  cavità  dell'addome,  e  non  si 
dice  se  il  sangue  fosse  in  parte  coagulato,  intanto 
la  putrefazione  era  già  incominciata,  e  poteva  esser 
causa  di  un  trasudamento  sanguigno.  Interpreta  i 
fatti  in  modo  contrario  alle  presunzioni  fiscali:  è  pro- 
vata la  respirazione  del  feto,  è  provata  la  sua  morte 
per  soffocamento  ;  ma  le  circostanze  di  un  parto 
lungo  e  laborioso  autorizzano  a  sospettare  che  il 
feto  abbia  potuto  respirare  nel  passaggio,  e  che  sia 
perito  per  istringimento  del  collo  dell'  utero.  Pro- 
caccia di  attenuare  la  quantità  dell'offesa  raccoglien- 
do esempi  di  autorità,  onde  apparisca  che  non  poche 
lesioni  simigliantissime  a  quella  di  cui  si  tratta  non 
portarono  necessariamente  alla  morte.  Studiasi  di 
escludere  la  imputabilità  raccogliendo  indizi  e  do- 
cumenti, dai  quali  risulti  che  quando  si  fece  autore 
di  quella  violenza  l'individuo  non  era  sano  di  men- 
te. Se  i  periti  fiscali  trascurarono  l'apertura  di  una 
cavità,  se  nel  riferire  i  trovati  necroscopici  usarono 
espressioni  improprie  ed  ambigue,  se  la  docimasia 
non  fu  istituita  secondo  le  regole  dell'  arte,  se  la 
perzia  chimica  non  fu  condotta  con  tutti  i  raffina- 
menti della  scienza,  la  difesa  ne  trae  sostegni  alla 
sua  causa.  Ma  il  campo  più  fecondo  di  argomenti 
0  di  scuse  il  difensore  lo  rinviene  nelle  circostanze 
antecedenti  o  successive  al  ferimento  capaci  ad  ag- 
gravarne le  conseguenze:  qui  la  scrittura  trova  un 
pascolo  abbondante  e  spesse  volte  il  trionfo. 


81 

Allorché  esistono  fatti  e  lagionamenti  per  con- 
trarie sentenze,  e  però  dubbio  offresi  il  giudizio,  i 
magistrati  o  le  parti  interessate  invocano  il  parere 
(consilium)  degli  uomini  competenti.  Questa  scrittura 
che  si  esercita  sulle  materie  di  polizia  sanitaria,  come 
su  quelle  di  medicina  legale,  differisce  anche  piìi  dalle 
altre  per  libertà  di  modi  e  scioltezza  di  discorso. 
Non  vincolato  da  formole,  da  divisioni  preordinate^ 
da  limiti  di  trattazione,  il  parere  spazia  nel  campo 
delle  indagini  erudite,  si  conforta  dell'autorità,  con- 
sulta le  analogie,  critica,  discute,  ragiona,  e  in  que- 
sto andare  non  ricusa  gli  ornamenti  della  eloquenza. 
Si  ricerca  il  parere  dei  medici  sulla  impotenza  di 
un  coniuge,  sulla  vitalità  di  un  feto,  sullo  stato  sano 
0  alienato  della  mente  allorché  dettavasi  un  testa- 
mento: ovvero  se  una  malattia  sia  veramente  con- 
tagiosa, se  sia  opportuno  un  diboscamento,  se  qui 
o  colà  possa  ammettersi  una  coltivazione  di  risi  > 
qual  grado  d'insalubrità  presenti  un  dato  ramo  d'in- 
dustria, qual  sia  la  causa  della  insolita  mortalità  di 
una  popolazione  ec.  ec.  Come  già  lo  suggerisce  il 
vocabolo,  il  parere  suol  chiudersi  con  espressioni  che 
indicano  piuttosto  un  opinamento  che  una  sentenza, 
piuttosto  un  intimo  convincimento  che  una  formale 
dimostrazione,  senza  intanto  escludere  il  caso  in  cui 
la  copia  dei  fatti  e  il  peso  delle  ragioni  possano  co- 
stituire una  prova  compiuta. 

«  Qualora  al  giudizio  dei  periti  fiscali  contrap- 
ponga l'inquisito  altra  perizia,  e  questa  resa  giudi- 
ziale discordi  sostanzialmente  dal  primo,  si  richiede 
il  voto  di  un  collegio  medico-chirurgico,  a  cui  ven- 
gono rimessi  gli  atti  necessari  «.  Così  il  regola- 
G.A.T.CXXXIV.  6 


mento  organico  al  §.  182:  dal  che  si  apprende  come 
i  collegi  si  innalzino  sulle  decisioni  dei  periti  fiscali, 
e  adempiano  all'ofFicio  di  veri  giudici.  E  acciocché 
al  giudizio  non  manchi  luce  da  veruna  parte,  si  par- 
tecipano a  questi  collegi  i  commentari  del  processo, 
al  fine  che  sia  loro  noto  ogni  fatto  ,  svelata  ogni 
circostanza,  chiarito  ogni  dubbio.  Il  voto  [responsum) 
non  si  assoggetta  ad  un  ordine  così  rigoroso  come 
la  denunzia  ed  il  visnm  et  repertiim,  ma  dee  pure 
compi-endere  quattro  parti  ,  cioè  :  1  V  occasion  del 
rispondere,  ossia  il  mandato  del  tribunale  coi  ter- 
mini precisi  onde  fu  redatto  :  2  1'  epilogo  dei  ftitti 
più  essenziali,  acciò  siano  richiamati  alla  mente  dei 
giudici:  3  l'esame  e  il  sindacato  delle  operazioni  fi- 
scali, delle  cose  fatte  dai  curanti,  della  condotta  del 
paziente,  la  critica  degli  argomenti  affacciati  dalla 
difesa,  donde  poi  scaturisce:  4  il  giudizio  definitivo 
sul  punto  in  questione.  Anche  in  questa  scrittura  il 
giudizio  non  vuol  essere  secco  e  sentenzioso  ,  ma 
dee  corredarsi  di  motivi  e  di  buone  ragioni. 

Quando  il  nerbo  dei  fatti,  sui  quali  dee  fondai-si 
il  giudizio,  non  potrebbe  ottenersi  senza  l'aiuto  e  le 
operazioni  di  un  uomo  istruito  ed  esercitato  nell'arte 
di  ben  condurle,  dicesi  allora  che  vi  è  bisogno  della 
perizia.  Non  si  può  decidere  con  piena  cognizione 
di  causa  che  un  dato  vino  debba  riuscire  nocivo  alla 
salute,  0  che  una  certa  farina  sia  inetta  alla  pani- 
ficazione, se  prima  il  perito  non  abbia  esaminato  le 
qualità  fìsiche,  e  chimiche  di  questo  vino,  e  di  co- 
testa  farina.  La  certezza  fisica  del  veneficio  scatu- 
risce dai  processi  chimici ,  pei  quali  si  mette  in 
chiaro  la  esistenza  del  veleno  ha  le  materie  conte- 


83 
nule  nello  stomaco  o  nelle  inlcslina,  o  fra  ,gli  f^^e^sit 
tessuti  organici.  Chiamasi  adunque  perizia  la  sctil,t|Ljn 
ra,  in  cui  il  perito  dell'arte  espone  le  operazioni  .in- 
traprese al  fine  di  investigare  e  conoscere  il  fattt> 
in  questione,  e  colla  scorta  di  queste  ne  afferma  o 
nega  definitivamente  la  esistenza.  Una  perizia  esatta 
dee  contener  quattro  punti;  il  preambolo,  che  espone 
donde  venga  l'incarico,  e  a  qual  fine  siano  state  in- 
traprese le  ricerche  :  la  dichiarazione  del  metodo 
usato  a  condurle  e  delle  cautele  prese  per  evitare 
ogni  sorgente  di  errore:  la  narrazione  ordinata  de- 
gli esperimenti ,  e  finalmente  le  nette  conseguenze 
'  che  ne  derivano.  Questa  scrittura  ama  lo  stile  rac- 
colto e  conciso,  non  divaga  in  teoriche,  in  episodi 
eruditi,  in  ragionamenti,  e  va  diritta  al  suo  scopo. 

Se  la  medicina  legale  è  ministra  e  consigliera 
del  foro,  è  chiaro  che  la  sua  storia  dovrà  prender 
luce  più  dall'  indole  delle  legislazioni ,  e  dai  modi 
della  procedui'a  giudiziaria,  che  dallo  stesso  anda- 
mento delle  mediche  discipline.  Quando  la  fabbrica 
del  corpo  umano  era  mal  conosciuta,  e  allora  che 
i  medici  non  davano  opera  agli  studi  di  anatomia 
patologica  ,  e  che  ignota  em  1'  arte  di  analizzare  ì 
corpi ,  certamente  i  giudizi  della  medicina  forense 
dovevano  in  molti  casi  andar  vacillanti ,  o  riuscire 
erronei.  Ogni  avanzamento  nella  scienza  dell'uomo 
sano  e  malato  ha  offerto  un  nuovo  appoggio 
all'  arte  di  sciogliere  i  dubbi  medico-legali.  Ma 
quando  le  leggi  trascuravano  i  dati  fisici  per  la 
prova  e  per  la  entità  del  delitto  ,  e  se  di  conse- 
guenza la  procedura  non  chiamava  i  periti  innanzi 
il  foro,  come  potevano  essi  dirigere  F  attenzione  a 


84 
tal  maniera  di  studi?  Ponete  che  il  processo  cri- 
minale appo  i  romani  fosse  stato  d'indole  inquisito- 
ria, tale  cioè  da  impegnare  il  fìsco  nella  pronta  ri- 
cerca del  corpus  clelicti,  e  forse  noi  troveremmo  in 
Galeno  notizie  e  dottrine  intorno  le  morti  violente, 
come  ve  ne  troviamo  sulle  malattie  simulate  e  dis- 
simulate, di  che  correva  già  a  quel  tempo  il  biso- 
gno di  farne  esame  per  isvelare  la  malizia  dei  servi. 
Se  Giustiniano  statuendo  disposizioni  sul  matrimo- 
nio, e  distinguendo  l'impotenza  assoluta  dalla  tem- 
poranea, non  avesse  invocata  in  giustizia  la  testimo- 
nianza dei  medici.  Se  Carlo  Magno  ne'suoi  capitolari 
non  avesse  riconosciuto,  che  nelle  cose  risguardanti 
la  parte  fisica  dell'  uomo  i  giudici  non  sono  com- 
petenti, e  non  avesse  perciò  ordinato  che  essi  do- 
vessero ricorrere  al  consiglio  delle  persone  dell'arte. 
Se  il  sommo  pontefice  Innocenzo  III,  prima  di  san- 
cire la  irregolarità  degli  ecclesiastici  che  si  facevano 
rei  di  ferite,  non  avesse  decretato  che  «  perilorum 
iudicio  medicorum  talis  percussio  asserereliir  fiiisse 
lethalis  ».  Se  Carlo  V  nella  sua  costituzione  non 
avesse  imposto  per  legge,  che  medici po&a/ae  artis 
et  (idei  dovessero  stabilire  il  corpo  del  delitto  ,  e 
giudicare  quando  la  morte  dipendesse  essenzialmente 
dalla  ferita,  e  quando  vi  avessero  contribuito  altre 
cause,  e  soccorrere  regolarmente  il  foro  con  oppor- 
tune denunzie  e  relazioni  sull'indole  e  genere  e  grado 
delle  lesioni.  Se  per  ultimo  l'esplicamento  delle  nuove 
teorie  giudiziarie  non  avesse  allargato  il  campo  della 
difesa,  e  non  richiedesse  la  prova  matei'iale  del  de- 
litto; senza  queste  iniziative,  e  senza  questi  proce- 
dimenti delle  leggi,  la  medicina  forense  aspetterebbe 


85 
ancora   dì  avere  un  posto  fra  i  làmi    deOo  scibile. 
Della  lunga  infanzia  adunque  in  che  rimasero  i  no- 
stri studi  se  ne  dee  accagionare    l' indole  delle  le- 
gislazioni ,  più  che   r  imperfetto    svolgimento    delle 
scienze  mediche;  e  se  la  medicina  clinica  ebbe  già 
opere  classiche  nell'  antichità  ,  e  le  forense  non  ne 
vide  fino  al  secolo  decimosettimo,   la  causa  è  tutta 
riposta  nella  procedura  giudiziaria.  L'epoca  in  fatti 
più  luminosa  della  medicina  legale  corrisponde  ap- 
punto al  regno  di  Carlo  V,  nel  cui  codice  più  espres- 
samente e  più    ampiamente    che    negli   antecedenti 
viene  ordinato  Tintervento  dei  periti  nel  foro  in  ogni 
questione  di  competenza  medica.  Gli  è  poco  dopo  la 
promulgazione  del  codice  Carolino  che  apparvero   i 
primi  scritti  di  argomento  medico-legale,  come  i  li- 
bri di  Parco  e  di  Codronchi ,   ne  molto    tardarono 
a  venne  in  luce  le  due  insigni  opere  di  Fortunato 
Fedeli  e  di  Paolo  Zacchia  ,  in  cui  le  materie  tutte 
di  polizia  medica  e  di   medicina    legale    conosciute 
allora  e  richieste  dai  magistrati,  vi  sono  trattate  com- 
piutamente ,  e  per  le  quali  rimane  all'Italia  incon- 
trastato il  vanto    di    aver    poste  le  fondamenta    di 
queste  scienze.  Et  Paulus  quidem  (così  del  secondo 
scriveva  Haller)  lolum  amhitum   huim  arlis  pruden- 
ler,  ingenue  et  cum  jiidicii   lande  complexus  est ,  ut 
princeps  eliam  nostro  aevo  opus  sit.  Al  contrario  ogni 
tirannia  di  barbari  costumi  e  di  crassa  superstizio- 
ne, ogni  dimentican/.a  di  savie  leggi,  rendevano  inu- 
tili le  fatiche  de'medici  in  sussidio  del  foro.  Quando 
i  supremi  criteri  dei  delitti  erano  costituiti  dai  così 
detti  giudizi  dell'acqua  e  del  fuoco,  e  in  que'tempi 
in  che  credevasi  che  le  ferite  sanguinassero  alla  vista 


86 
delTuccisore,  e  che  la  spuma  uscita  dalla  bocca  di 
un  cadavere  fosse  il  veleno  che  sboccava  fuori  alla 
vista  del  reo  ;  e  allorché  la  tortura  estorceva  alla 
inquisita  d'infanticidio  una  confessione  non  sempre 
Veridica;  che  luogo  poteva  ci  rimanere  alla  scienza 
per  la  retta  investigazione  dei  fatti?  I  progressi  adun- 
i(Jue'  della  medicina  legale  rappresentano  in  qualche 
modo  i  miglioramenti  della  legislazione,  e  della  pra- 
tica giudiziaria. 

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87 


La  Palentiana.  o  massa  Palentiana  di  Cassiodoro 
e  i  luoghi  annessi.  Ricerche  del  prof.  Francesco 
Orioli. 

Continuazione  e  fine. 

13.  n."  421,  a.  963.  «  In  nomine  Domini  I.  Ch. 
Temporibus  domni  nostri  lohannis  XII,  summi  pon- 
tificis  in  sede  sancii  Petri  apostoli  anno  VII  mense 
ianuarii,  indictione  VI.  In  nomine  Domini  commu- 
taverunt  inter  se  domnus  Adam  vir  venerabilis  ab- 
bas  monasteriì  sanctae  Dei  genitricis  Mariae  quae 
constructa  est  in  loco  qui  dicitur  Acutianus  terri- 
torii  sabinensis.  Et  Cardo  filius  bonae  memoriae  Sil- 
vestri scabini  de  vico  fofflano  territori!  veterbensis. 
Dedi  atque  tradidi  in  primis  ego  Adam  abbas  per 
consensum  et  voluntatem  primatum  et  praeordina- 
torum  monachorum  qui  sunt  congregati  et  aggre- 
gati in  suprascripto  monasterio  nostro  tibi  supra- 
scripto,  Cardo,  in  commutationis  nomine  tres  petias 
terrarum  quae  pertinent  ad  partem  nostri  monaste- 
riì quae  reiacere  et  esse  videntur  infra  territorium 
veterbense;  et  est  mensurata  una  ipsarum  petiarum 
terrarum  quae  reiacet  in  casalae  sunsa  tota  in  cir- 
cuitu  perticarum  trecentarum  ,  et  habet  fìnes  ipsa 
terra.  De  una  parte  vinca  sanctae  Mariae.  De  alia 
parte  terra  Tedemarii  scabini  et  de  cìus  consorti- 
bus.  De  III  parte  vìneae  quae  fuerunt  sanctae  Ma- 
riae. De  IV  parte  terra  quae  fuit  Leonis  de  Han- 
gar ia  [di  Baynaia,  odierna    grossa   terra).   Alia  petia 


88 
terrae  quae  reiacet  in  casale  flaviano,  et  mensurata 
tota  in  circumitu  perticariim  XCVII  et  habet  fìnes. 
De  duab.us  partibus  viae  publicae.  De  III  parte 
terra  Aldonisiet  Ioannis  guaregangiorum.  De  IIII  parte 
terra  tua,  suprascripte  Cardo  commutator  ,  et  Sil- 
vestri germani  tui.  Alia  petia  fossatus  unde  curri t 
rivus,  et  terrarn  et  petras,  quae  reìacere  et  esse  vi- 
dentur  in  vico  piri,  et  est  mensurata  tota  in  circumitu 
perticarum  XL  ,  et  habet  fìnes  ipse  suprascriptus 
fossatus  et  petrae  et  terra.  De  duabus  partibus  ter- 
rarn sanctae  Mariae.  De  alia  parte  terra  sancti 
Sentiae  [sic)-  De  lUI  parte  via  publica.  Unde  ad  vi- 
cem  recepì  ego  suprascriptus  adani  abbas  a  te,  iam 
diete  Cardo,  prò  omnibus  suprascriptis  tribus  petiis 
terrarum,  plus  et  melioratas,  similiter  in  commuta- 
tionis  nomine  ad  partem  suprascripti  monasterii. 

Idest  unam  petiam  vineae,  et  tres  petias  terra- 
rum  quae  reiacere  et  esse  videntur  infra  territorium 
veterbense,  et  est  mensurata  ipsa  vinca  quae  est  in 
casale  paetiniano  tota  in  circumitu  perticas  LX,  et  ha- 
bet fìnes  ipsa  vinca.  De  duabus  partibus  vineae 
Siefridi.  De  III  parte  currit  rivus.  De  UH  parte  via 
publica.  Alia  petia  terrae  de  ipsis  quae  reiacere  et 
esse  videtur  in  casale  Palentiana,  mensurata  tota  in 
circumitu  perticas  CLXXV,  et  habet  fìnes.  De  duabus 
partibus  terrae  suprascripti  Cardonis  ,  et  Silvestri 
germani  eius.  De  III  parte  terra  sanctae  Mariae. 
De  mi  parte  via  pubjica.  Alia  petia  terrae  est  men- 
surata quae  jeia,cere  videtur  in  casale  Maternae,  tota 
in  circumitu  perticarum  ducentaruna  et  novem,  et  ha- 
bet fìnes. 
i;,;o.j   I.,. 


De  duabus  pai'libus  terrae  langobardoi  um  [no- 
talnle  denominazione).  De  III  parte  terra  sarrctae 
Mariae.  De  IIII  parte  via  publica.  Quarta  petia  ter- 
rae quae  reiacere  et  esse  videtur  in  vico  quinzano 
est  mensurata  tota  in  circumìtu  pertìcas  LXY  et 
sunt  omnes  mensuratae  ad  perticam  legitiniam  pe~ 
dum  duodecim;  et  babet  fìnes  ipsa  terra.  De  duabus 
partibus  vinea  et  terra  Luponis  et  Adelberti  germa- 
norum.  De  IH  parte  terra  Tediraarii  scabini.  De  IllI 
parte  terra  Petronis  niarfonis  (marfonis  è  forse  un  al- 
terazione della  voce  di  medio  evo  niarpahis,  o  mar- 
phais,  equivalente  al  latino  stralor,  V.  Gloss.).  Et  prò-, 
.  fessi  sumus  nos  suprascripti  commutatores,  quia  de 
omnibus  supiascriplis  commutalionibus  nostris  infia 
suprascriptas  mensuras  vel  confìnia  et  designata  loca 
nichil  nobis,  ncque  in  haeredibus  nostris,  vel  posteris 
successoribus  reservavi mus  in  polestate  ,  scd  inter 
nos  unus  alteri  una  Qum  omnibus  super  eas  ha- 
bentibus  et  accessionibus  earum  in  integrum  et  in 
transactum  concambiavimus.  Et  acstimatao  fuerunt 
omnes  suprascriptae  res  per  trcs  bonos  et  idoneos 
et  Deum  limentes  bomines,  quorum  fides  admitti- 
tur  Hi  sunt  Petrus  niarfo ,  et  leo  filiaster  suus , 
ambo  de  vico  Quinzano,  seu  et  Azo  fil.  Amizae  de 
intus  Castro  Viterbo  [come  notavamo  di  sopra,  cosi 
dice  per  distinguere  il  castrum  del  colle  del  duomo, 
dai  borghi  esteriori),  missi.  Tedmarii  et  Franconis  iu- 
dicum,  secunduiTfi  legem  nostram  langobardorum,  et 
quatcnus  edicti  continet  pagina.  Qui  omnes  supra- 
scriptas res  diligenter  acstimaverunt.  Et  paruerunt 
plus  melioratae  ipsius  vineae,  et  tres  petiac  terrarum. 
quas  Ca,rdo  dedit,  quam  illae  terra^  quas  recepit.  linde 


90 

spondemus ,  atque  repromittimus  nos  suprascripti 
commutatores  cum  nostri  (sic)  haeredibus,  vel  poste- 
ris,  alque  successoribus  ipsas  suprascriptus  com- 
mutationes    nostras  ab  omni   homine  defendere  ec. 

«  Actuni  in  suprasci-ipto  monasterio  sanctae  Ma- 
riae  sabinensi.  Sign.  )^in.  suprascripti  Cardonis  com- 
mutatoris  qui  hanc  cartam  commutationis  sicut  supra 
legitur  de  sua  parte  scribi  rogavit.  )^  Ego  Guima- 
rius  testis  suin.  Sign.  >J(  m.  Guarnolfì  testis  )^  Ego 
Tedmarius  scabinus  et  notarius  compievi  et  dedi.   » 

Fin  qui  le  carte  farfensi  che  ho  giudicato  impor- 
tante di  premettere  al  rimanente  del  mio  ragionamento', 
dove  però  giova  notare  [poiché  molti,  i  quali  citano 
il  regestum,  non  sogliono  avvertirlo)  ,  che  Gregorio 
catinense  ne  accomodò  a  suo  modo  la  latinità,  come 
egli  stesso  confessa  nella  seguente  prefazione  a  esso 
regestum  ,  che  stimo  non  inutile  di  qui    trascrivere. 

((  In  Christi  omnipotentis  nomine  incipit  prologus 
domni  lohannis  grammatici  super  huius  opera  libri. 

«  In  nomine  sanctae  et  individuae  Trinitatis.  Ad 
honorem  et  laudem  sanctae  Dei  genitricis  semper- 
que  Virginis  Mariae  gloriosissimae  dominae  nostrae. 

{(  Imperante  domno  Heinrico  IIII  romanorum 
patricio  et  imperatore.  Ab  incarnatione  domini  no- 
stri lesu  Christi  anno  millesimo  nonagesimo  secun- 
do.  Indictione  XV,  XIII  Kal.  maias.  Divina  inspi- 
rante gratia,  placuit  domno  Berardo  reverentissimo 
abbati  huius  ecclesiae  pharphensis,  nobilissima  gente 
progeniti  florentinae  urbis,  quatenus  istius  sacri  coeno- 
bii  universa  privilegia  et  praecepla,  necnon  et  tomos 
et  legales  cartas  nimìa  vetustate  iam  pene  consum- 
pta  in  unum  volumen  colligere,  eaque  ad  memoriam 


91 

postei'itatis  studiosissime  declarata,  veracissimo  tran- 
sciipta  relinquere.  Et  hoc  prudentissimo  actiim  est 
Consilio,  ne  forte,  quod  saepissime  iam  evenisse  no- 
vimus,  aut  custodum  negligentia,  aut  vaetustate  (sic) 
consumente  nimia  ,  praedicta  oblivioni  traderentur 
praecepta,  tomi,  carta,  et  privilegia.  Quae  veraciter 
elucubrando,  nihil  omnino  addidimus  vel  minuimm, 
nec  mutavimus,  sed  corruptis  partibus  rethorice  emen- 
datisi eo  respeetu  quo  scripta  erant  ea  legaliler  translu- 
limus  per  manus  confratris  nostri  magnae  sagacita- 
tis  Gregorii,  sabinensi  comitatu  oriundi,  in  castro 
catinensi,  nobilissimis  parentibus  progeniti,  et  no- 
strae  ecclesiae,  fere  ab  ipsa  infanlia,  lacte  enutriti. 
E  seguita  il  seguente  acrostico 

Gregorius  sancte  servus  famulusque  Mariae 
Regni  perpetui  vitam  cupiens  adipisci 
Eiusdem  semper  renovavit  scripta  beatae. 
Gliscens  post  obitum  famosum  linquere  votum. 
Optulit  hunc  genitor  Bonadaeus  quoque  dono, 
Restituens  libras  centenas  ac  nonagentas 
In  templi  fratres  0EOTOKOC  aede  benigne. 
Ut  caperent  normae  pharphensis  praemia  sacrae. 
Sic  primus  pastor  Berardus  monachat  ambos. 
Caelum  paulo  post  migravi!  in  ordine  maior 
Annos  sex  denos  post  Christi  mille  vel  octo. 
Tandem  qui  minimus  frater  Gregorius  auctus, 
Indeque  teirdenos  trascendcns  plus  minus  annos. 
Nam  postquam  vestram  percepii  in  ordine  normae, 
Expletis  denis  annis  bis,  necne  quaternis, 
Nostro  migrato  primo  pastore  Berardo, 
Scaedas  has  compie  cartarum  Virginis  almae 


92 

lussit  Berai'dus  tantum  quod  abba  secundus, 
Sci'ipsit  enirn  gratis  vitae  quia  praemia  quaerit. 
Gregorium  nosces  de  versibus  bis  catinensem, 
Grammata  si  relegis  quae  sunt  exoidia  dicti. 
Scriptorem  Christe  (sic)  donet  quem  scandere  caelum. 
Presbiteri  Petri  sunt  haec   primordia  Hbrl 
Soldos  namque  decem  per  cartis  optulit   ipse.  » 

E  poiché  siamo  in  ciò,  non  sarà  inutile  trascrivere 
quest'altra  notizia  relativa  al  libro.  Dopo  il  n."  1160. 
All'anno  1098.  Ind.  V. 

«  Actenus  Cbristo  propitio  eiusque  integerrimae 
genitricis  ac  dominae  nostrae  Mariae  fretus  au- 
xilio,  propriis  manibus  ego  Gregorius  infìmus  mo- 
nachorum  omnium,  hunc  maximum  fìdeliter  studui 
perficere  opusculum.  lam  debinc  non  nimio  lassus 
senio,  sed  oculorum  gravatus  caligine,  per  alium  di- 
gnae  indolis  confratrem  iuvenem,  Todinum  nomine, 
consanguineum  meum,  utique  a  cunabulis  penes  su- 
prascriptum  in  huius  scola  coenobii  enutritum  sa- 
gaciter  nisus  sum  exercere  promptissime.  Ita  sane, 
ut  amodo  non  minus  hoc  opus  sana  recipiat  fide 
exaratum,  cum  duorum  aeque  tidelium  studio  per- 
fectum  fuerit  denotatum,  veruni  hoc  nutu  concedi- 
mus  divino  evenisse,  ut  et  alterius  fìdeliter  in  hoc 
opere  laborantis  aecrescat  digna  meres  in  caelis.   « 

E  da  indi  in  là  comincia  la  seconda  parte  d''al- 
tra  mano  ,  colla  numerazione  delle  pagine  in  alto  , 
in  numeri  romani,  seguitati  da  lettere  colVordine  al- 
fabetico. 

Ripigliando  ora  la  serie  de'documenti,  e  passando 
a  quelli  che  ho  potuto  copiare  dagli  archivi  viterbesi, 


93 

ad  uso  sempre  delle  conseguenze,  che  in  fine  irarron-- 
ne,  giudicai  pregio  delV  opera ,  por  qui  gli  appresso 
notati. 

14.  Dall'archivio  di  s.  Angelo,  in  una  pergamena 
originale  delta.  1061.  "^  In  nomine  Domini  N.  I.  C. 
Temporibus  domno  Nicolaus  summo  pontifìce  eccle- 
siae  universalis  secundu  papa  in  sacratissima  sede 
beati  Petri  apostoli  anno  secundo,  mense  decembi'i, 
indictione  quartadecima  feliciter.  Constam  [formala 
ovvia)  ego  Raifredu  fìlium  b.  m.  Fifredu,  nepote  Leo 
laubardum  (/.  lombardmn),  qui  est  abitatore  in  vico 
fofianu  supra  castro  Biterbu  ,  livera  potestate  ven- 
dededisse  [sic)  quod  e  [sic)  vindedi  tibi  Malveti  fìlium 
b.  m.  Benedictu  qui  est  abitatore  in  burgo  supra 
Castro  Biterbu.  Ide  e  (idest)  in  integrum  una  pezia  de 
terra  mea  adque  ortale  qui  reiacere  et  esse  videtur 
in  ipsa  plaia  que  dicitur  fìlillu  de  partibus  aquilone 
insta  ecclesia  sanctu  Marianu  cum  ipsa  grupta  que 
in  dieta  terra  edificata  est,  que  est  mensurata  dieta 
terra  tota  per  in  circuitu  eius  pertice  vigintidue  a 
pertica  sueia  legitima  de  pedis  duodeci,  et  abet  fini 
dieta  terra  da  una  parte  terra  de  monasterio  san- 
ata Maria  de  Palenzanu  [la  lingua,  come  lo  si  vede, 
già  volge  tutta  quanta  alV italiano,  e  si  sarebbe  trovalo 
lo  stesso  in  molte  delle  carte  antecedenti ,  senza  le 
alterazioni  di  Gregorio  Catinense  nel  Regesto  di  Far  fa), 
et  da  alia  parte  et  (/.  est)  ortu  ehredibus  [sic)  Coz- 
zarellu  ,  et  via  pulvica  (  /.  publica  )  ,  et.  da  terzia 
parte  terra  de  ehredibus  Tolfu  filiu  Albertu,  fìliu  Ubo, 
et  da  quarta  ,vero  parte  via  pulvica,  omnia  dieta  terra 
infra  diete  mensure  vel  confini,  et  dexinate  (/.  desi- 
gnatos)  locos,  una  cum  omnia  super  se,  et  infra  se, 


94 

abenles,  et  accessìonibus  eamm  in  integrum  et  in 
transactum  vindendi,  et  inde  recepit  precium  dictu 
venditore  da  te  dictu  emtore  ineum  prò  indicta  [l.iam* 
dieta)  mea  vindita,  de  argentu,  et  in  alium  ineritu 
usque  in  solidos  tres,  finitum  pretium,  sicut  inter  nos 
bono  animo  convenit  etc.  Actum  in  Biterbum  ^ 
Sig.  )^  manu  dictu  Raifredu  venditore  qui  an  [sic) 
charta  voluit  scribere  rogabit  ^  Sig.  )^  manu  Guizzo 
de  Rollandu  Martellu  ,  quam  et  Petru  fdiu  Bertus, 
seu  et  Falcuncellu  filiu  Litolfu  de  Florentinu  toti 
rogati  es  [sic)  testis  —  Ego  Senguorittu  scabinus 
et  notarius  rogatu  da  dictu  venditore  uius  chartam 
descripsi  et  compievi  et  apsolvi. 

15.  Dallo  slesso  archivio^  in  una  carta  delVa.  1090, 
soUo  Vantipapa  Clemente  III.  >J(  In  nomine  Domini 
anno  septimo  domni  Clemente  summo  pontifìce  et 
universali  terzio  papa  in  sacratissima  sede  beati  Pe- 
tri  apostoli  in  mense  decembri,  indictione  tei*ziade- 
cima  feliciter.  Commutavimus  inter  nos  ego  lohan- 
nes  grazia  Dei  umilis  abba  qui  est  rector  et  cu- 
stodes  de  venerabili  monasterio  sancta  Maria  de 
Palenzana  una  cum  te  lohannes  fllius  Benedictus  de 
lohannes  de  Cristianu  qui  est  avitatore  in  burgu  de 
castro  Biterbu,  in  loco  qui  vocatur  pratu  Gavalluc- 
calu  [è  il  borgo  fuori  del  castello  nel  luogo  ov'  è 
oggi  la  piazza  del  comune)  dedit  atque  tradidit  ego 
dictu  abba  in  commutationis  nomine  una  per  con- 
sensum  et  uoluntate  de  primati  et  ordinati  monachi 
mei  de  dictu  monasterio.  Idest  una  casa  nosti'a  que 
pertinet  a  parte  dictu  monasterio  que  leiacere  esse 
vidctur  dieta  casa  in  dictu  burgu  et  abet  finis  dieta 
casa  da  una  parte    casa  et  or  tu  de  Girard  u  Gasuni 


95 
et  da  alia  parte  casa  et  ortu  de  lohannes  fillus  Bi- 
terbu  de  Ristuta  et  da  tcrzia  parte  casa  de  Bonizzo 
de  Gizzo  de  Andria  et  da  quarta  nero  parte  uia  pu- 
blica  unde  ad  vicem  recepii  [sic]  ego  dictu  domnus 
abba  da  te  dictu  lohannes  simili  ter  in  cuminutatio- 
nis  nomine  idest  quattuor  partille  de  terra  uestra 
que  reiacere  esse  uidetur  dieta  terra  in  loco  qui  uo- 
catur  uia  spultanisca  et  quindici  solidi  de  dinari  da 
Pavia  infra  diete  fini  de  dieta  casa  {italiano  pretto) 
et  designata  loca  una  cum  omnia  super  se  et  infra 
se  abente  et  accessionibus  earum  in  integrum,  sicut 
superius  legitur  etc.  Actum  Biterbu  )^  Ego  Hioan- 
nes  abbas  manu  mea  scripsit  j|J(  Ego  Dominicus 
prepositus  manus  mea  scripsit  >$(  Ego  Dominicus 
prepositus  manus  mea  scripsit  >J(  Signum  manu  Pe- 
ti'us  de  Leo  Mangattarius  et  lohannes  Mangattu 
quam  et  Petrus  Curtu  de  la  Villa  toti  rogati  sunt 
testes.  Ego  Opizo  iudice  qui  anc  charta  scripsi  et 
complevit. 

16.  a.  1202.  Dal  Bussi.  Isl.  di  Viterbo  pag.  ^Q. 
Appendice  documento  XI  pag.  403. 

)>  Bolla  colla  quale  il  pontefice  Innocenzo  III  con- 
ferma la  donazione  fatta  dal  popolo  di  Viterbo  al 
loro  vescovo  Raniero,  ed  ai  di  lui  successori  in  per- 
petuo, de'  due  castelli  di  Bagnala  e  della  Palenzana.» 
Si  vegga  esso  Bussiy  dove  si  leggerà:  u  Ecclesiam  san- 
etae  Mariae  de  Palenzano  cum  universis  appendiciis 
et  pertinentiis  suis.» 

17.  Dall'archivio  del  duomo',  e  ivi  da  un  venerando 
registro  autografo  o  copialettere  dello  stesso  Raniero 
secondo  vescovo  di  Viterbo,  preziosissimo  per  la  na- 
tura delle  notizie  d'ogni  genere  contenutevi,  e  restalo 


96 

fui  qui  ignoto^  il  quale  tutto  inlero,  a  cura  e  mia  e 
dello  spesso  citato  con  lode  signor  Girolamo  Zelli  la- 
cobuzzi  patrizio  viterbese,  diligentemente  copiato,  sarà 
quando  che  sia  dato  alla  luce. 

)ì  Raynerius  viteibiensis  episcopus  dilecto  filio  M. 
viterbicnsi  potestati  salutern  et  benedictionem.  [Sup- 
pongo con  M.  podestà  intendersi  il  Mosca  di  Firenze, 
podestà  di  Viterbo,  ricordato  dal  Bussi  pag.  385,  alVa. 
1218,  0  piuttosto  1820,  se  non  è  il  Malabraca  o  il 
Milanzolo  del  1225,  citato  ivi). 

))  Si  laici  viterbienses  saltem  Deo  redderent  que 
sunt  Dei,  nam  forte  a  tributo  Cesaris  sunt  immunes, 
ex  eo  quod  ad  patrimonìum  beati  Petri  spectare  di- 
cuntur  [scriveva  dunque  Ranieri  in  un  tempo,  in  cui 
Vimperator  Federico  II  lasciava  pacificamente  al  papa 
la  signoria  di  Viterbo),  et  ecclesia  mitius  agere  con- 
suevit  cum  suis  subditis,  quam  principes  seculares, 
non  esset  mirum  si  ad  episcopum  et  clericos  suos 
interdum  prò  suis  nccessitatibus  recursum  haberent, 
licet  redditus  ecclesiastici  ad  captivorum  redemptio- 
nem  et  pauperum  alimoniam  ,  preter  victum  cleri- 
corum  sint  solummodo  deputati;  sed  qua  fronte  sub- 
sidium  ab  eis  et  eorum  servientibus  postulent  igno- 
ramus.  Servientes  eorum  intelligimus  proximiores 
consanguineos  cum  quibus  morantur ,  cum  eorum 
ecclesie  de  quibus  loquuntur  nuUas  possessiones  ha- 
beant.  [Pare  che  allora  molli  vescovi,  tra''  quali  esso 
Ranieri,  dimorassero  co^  parenti  loro,  e  che  godessero 
de'  beni  delle  chiese  co'  vescovi,  il  qual  godimento  qui 
lo  scrivente  nega),  sicut  ecclesie  multarum  civitatum 
que  in  numerositate  populi  et  temporalibus  divitiis 
a  Viterbio  magnopere  supcrantur.   [Sì  noti  Vimpor- 


97 

lanza  della  c'Ulà  no-tlra  a  quel  tempo.  Ciò  aggiunge 
fede  a  ciò  che  scrive  alV  ann.  1224  il  de  la  Tuccia 
[lesto  di  Francesco  d'Andrea)-  Erano  in  Viterbo  circa 
LX  milia  persone  intra  grandi  e  piccoli,  tra  li  quali 
erano  XVIII  [altri  lesti  dicon  XX  milia  da  difender 
loro  persone).  Ecce  si  requiras  inter  ceteras  terraai 
nostre  nativitatis,  qua  bis,  imo  ter  tantum,  [due  o 
tre  volle  laute)  Viterbium  est  maior  [Che  paese  era 
dunque  la  patria  di  questo  Ranieri?  Certo  un  paese 
vicino,  e  nolo  al  podestà,  e  tuttavia  una  città  episco- 
pale assai  splendida,  come  s'intenderà  tra  poco.  Era 
Toscanella?  Era  Corneto?  Era  Civitavecchia?  Lo  vedre- 
mo or  ora),  invenies  in  episcopali  ecclesia  ipsius  XLII 
canonicos  [nota  bene)  suffìcienter  habentes  necessaria 
vitae;  in  episcopatu  aulem  viterbiensi  sunt  tres  vel 
quatuor  [nota  egualmente)  qui  nec  homines  surit  fìec 
oves  vel  boves,  possunt  vero  recte  dici  bubones  qui 
cucumbis  [sic)  succinunt,  et  cucubae  [V.  Papia  e  il 
Glossario.  Intende  le  civette  o  coccoveggie)  organant 
eis,  et  dicunt  viterbienses,  ecce  episcopatus  et  epi- 
scopus  nostei',  qui  nec  boves  habet  nec  oves  nec  alia 
pecora  campi,  sicut  Pilatus  iudex  de  Christo  dicebat: 
Ecce  rex  noster.  Novit  enim  ille  quem  nullum  latet 
secretum ,  quod  totum  frumentum  a  viterbiensibus 
hoc  anno  prò  decimis  datum,  venditum  fuit  prò  XXII 
libris,  quas  solvimus  quibusdam  debitoribus  nostris 
[doveva  scrivere  creditoribus),  nec  ob  aliud  absentes 
sumus  a  dieta  terra  (  dunque  non  vi  lisiedeva  ;  ma 
era  di  stanza  a  a  Toscanella  o  a  Corneto  o  a  Civi- 
tavecchia ,  che  si  raccoglie  da  questo  manoscritto 
essergli  stale  concalte drcdi),  nisi  quia  nichìl  inde  ha- 
bemus  unde  vivamus.  Erubescimus  inde  nimium  et 
G.A.T.CXXXiV.  7 


98 
miramuv  plurimum,  quod  biteibìenses  magis  ex  hoc 
non  ei'iibescant,  cUm  periniserint  praedecessoi'i  nostro 
qui  episcopaleni  titulum  recepeiat  («  quel  Giovanni 
cardinale  di  san  Clemente  che  fa  in  verità  il  primo 
vescovo  di  Viterbo ,  creato  da  Celestino  ìli ,  ciocché 
mule  a  proposito  impwjnarono  fin  qui  i  viterbesi),  quod 
ita  ditarent  eum  et  successores  ipsius,  quatenus  quo- 
libet  festo  pascali  XÌI  milites  facere  posset  {nota  uso). 
Quid  ci  fecerunt  ignoramus,  sed  scimus  quod  sic  no- 
bis  fecerunt,  nt  ab  omnibus  qui  eorum  malitiam  non 
cognoscunt  prò  nichilo  reputamur,  quoniam  paup«r 
quantumcùmque  sciens,  dispicitur  etiam  a  próximis 
suis.  0  utinam  ex  quo  in  nullo  episcopum  verbo  re- 
cognoscunt,  uwde  totus  alius  episcopalus  nos  vilis- 
simos  habet,  illam  miseram  ECCLESIAM  DE  PA- 
LENTIANA  [ecco  il  dono  del  quale  parla  il  numero 
precedente),  non  amplius  desolarent,  sed  restituerent 
ei  possessiones  quas  nequiter  abstulerunt!  Veruin 
cum  taìn  nos  quam  dicti  clerici  desideraverimus  et 
desideremus  quod  fueris  et  sis  potestas,  nedum  vi- 
terbiénsiu'm,  sed  in  toto  episcopatu,  et  fide  cum  la- 
boremus  ad  augmentum  tui  honoris,discretionem  tuam 
rogamtìs  quatinus  memoratis  clericis  tales  vos  exhi- 
beri  curetis,  satisfaciéndum  (sic,  ma  forse  d-ee  leggersi 
satisfacierido)  votis  ipsorum  ,  ut  exinde  tibi  gratias 
referamus,  et  eorum  dilec'tio  erga  tuam  behivolen- 
tiani  crescat. 

18  Nello  slesso  Regestum. 

»  Rainerius  viterbiensis  episcopus  dilecto  tìlio 
priori  de  Palenzana  [probabilmente  Andrea  prioi-e  , 
di  cui  daremo  qui  un  altra  memoria).  Solus  Christus 
in  iudicio  erit  accusator  et  iudex,  ut  ipse  testatur, 


99 

Cum  sederit  fiìius  homìnis  in  sede  maiesfalis  suac  eie. 
(sic),  et  alibi:  Pater  non  indicai  qnemqnam,  sed  omne 
indicinm  dedil  fUio:  nec  sibi  con  traci  icit  cum  snbse- 
quenter  subiungit:  Vos  secnndnm  carnem  indie atis. 
Eqo  non  iudico  quemquam,  et  si  iudico  ego^  iudicium 
menni  veruni  est.  Ergo  negai  se  nequiter  sicut  ho- 
mines  faciunt  iudicare.  Noquam  igitiir  est  illud  ili- 
ci icium  aemulorum  ,  et  aufertur  iufliciuin  filio  sibi 
datum  a  patre  iuribiLS  et  non  iiiribus  indicando.  Li- 
«ot  enirn  potentia  naturaliter  sapientiam  precedat , 
in  iudiciis  tamen  debet  sapientia  potentiam  preve- 
nire, subsequi  autem  potentia  in  contumaciam  iuste 
,  sententie  parere  nolentis.  Vix  credere  possiim,  quod 
eos  (/.  eis)  veritatem  evangelico  et  apostolico  lucis 
obscuritatem  dilucidans  veteris  testamenti  ,  de  me 
vel  aliquo  alio  male  loquatur  (/.  loquantur).  Certuni 
est  enim  quod  omnes  clerici  et  laici  compatres  mei 
{qui  compatres  vuol  dire  evidenlemenle  compatriottiy 
e  siccome  si  comprende  che  parla  di  Toscanclla,  cosi 
Toscanella  dovrebbe  essere  stata  la  sua  patria,  e  pro- 
babilmente la  sua  residenza  abituale)  bene  noverunt 
et  ipsimet  profitentur,  non  mea  culpa,  sed  sua,  tem- 
poralium  rerum  egenum  et  pauperem  esse ,  ac  a 
Saturnino  ej)iscopo  (  questo  vescovo  Saturnino  s'im- 
para da  un''  altra  lettera  del  manoscritto  che  gli  fu 
sostituito  per  una  ignorata  cagione,  appunto  in  To- 
scanella) quatuor  annis  redditibus  spoliatum.  Quo- 
modo  ergo  igitur  simulo  aegritudinem  cum  pau- 
pertate  ,  cum  haec,  stultitiam  ,  amorem  ,  proritum 
{sic)  et  tussim,  nemo  possit  quantumcumque  calli- 
dus  occultare?  An  ego  non  credidi  quod  dominus 
Alebrandus  {di  quale  Alebrando  od  Ildebrando  par- 


100 

la?  Pare  un  qualche  cardinale,  di  cui  qui  non  cerco) 
ìvei'it  ad  balnea  puleolana  propter  infìrmitatem  quam 
patiebatur?  An  similiter  non  credidi  quod  esset  rc- 
ctus  timens  Deum  et  recedens  a  malo?  Aut  (/.  At) 
ipse  omnibus  viribus  suis  nititur  me  inducere  ut 
dicam  quae  nunquam  dixi  et  contraria  bonis  quae 
de  ipso  dicere  solebam.  Nolui  et  nolo  adhuc  pre- 
venire tempus  quousque  revelentur  abscondita  te- 
nebra rum  ,  et  tunc  sciam  quod  dicere  debeam  vel 
silere,  scriptum  mente  tenens  quod  octava  sinodus 
dicit  :  Non  soìum  die  reus  est  qui  falsum  de  aliquo 
proferì,  sed  cliam  is  qui  aurem  cito  criminibus  prae- 
bel.  Ego  vero  causam  non  babeo  malcdicendi  de  do- 
mino papa  vel  aliquibus  cardinalibus  ;  imo  semper 
benedixi  de  eis  prò  posse,  sicut  etiam  scripta  mea 
declarant  propter  que  forte  ,  vel  ut  multi  asserimt 
sine  forte  ,  quidam  me  hoderunt  [sic).  Certe  si  in 
multis  gravissimis  culpabilis  essem  ,  lingue  tantum 
plurium  coherceri  [sic)  non  possunt,  quin  dicant  hoc 
mibi  ex  maxima  invidia  provenire.  Deterius  ergo 
faciunt  qui  taliter  de  me  intonant  quam  sibi.  Do- 
ctores  enim  ecclesie  debent  coruscare  miraculis,  do- 
ctrinis  pluere,  ac  minis  talibus  intonare  que  pre- 
missis  concordent.  Non  bene  consonai  ei  quidam 
cappellanus  suus  qui  probabat  in  faciem  Rainerii 
canònici  s.  Laurentii,  quod  recideram  in  fortiorem 
aegritudinem ,  quam  quondam  habebam  ,  sicut  per 
duos  nunctios  se  dixerat  explorasse  (  era  egli  slato 
pazzo,  0  curato  come  pazzo)?  De  XL  vero  libris,  unde 
alius  cardinalis  est,  sicut  placuit  sibi,  locutus,  auda- 
cter  dicas  quod  nec  a  diabolo  nec  ab  homine  fuit 
unquam  maius    mendacium    dictum.  Negare  tamen 


iOl 

non  debeo  quoniam  reeeperim  XL  libras  et  Jimi- 
(liain  a  quibusdam  clei'icis  tiiscanensibus,  antequam 
videreni  facieni  domini  papae  (  dee  Irallarsi  di  4-0 
lire  e  mezzo  per  celle  conlra  quello  che  si  credeva  il 
dirillo,  essendo  la  mensa  sotto  V  amministrazione  di 
Saturnino).  Alios  clericos  qui  noluei'unt  solvere  pe- 
cuniam  impositam  sibi  excommunicavi ,  sed  dictus' 
domnus  Alebiandus  ipse  absolvit.  Ego  postmodum 
ab  incepta  collcclionc  quievi.  Tu  autem  sic  facias, 
ut  si  bonum  auditoiem  habere  potes  qui  me  non 
boderit  sed  diligat  equitatem,  accipe  ipsum.Sin  autem 
facias  aliquibus  discretis  viris,  pula  dominis  peru- 
seino  vel  tudertino  episcopis,  dictam  causam  com^ 
mitti;  non  enim  tantum  est  sub  bominibus  bi  (sic, 
ed  è  poi  cancellalo,  ma  dee  dire  bis)  litigare  qui 
sicut  vides  me  sine  causa  boderunt  tanquam  serpen- 
tem,  et  questionem  in  meum  gravamen  faciunt,  ubi 
nulla  quaestio  est,  nodum  in  scirpo  querentes,  qui 
non  sic  me  devorabunt,  ut  putant.  Tu  ergo  non  ti- 
meas  a  facic  ipsorum  quia  dominus  erit  nobiscum,  si 
Deus  iustitiam  diligit,  sicut  ego  cum  ceteris  fidelibus 
credo  [Così  la  lettera.  Si  vede  dunque  che  il  priore 
di  Palentiana  era  un  uomo  di  fiducia  mandato  da 
Ranieri  a  Roma  per  suo  procuratore). 

E  ivi.  Dietro  la  pergamena.  Correzione  di  luogo 
incerto,  che  dovrebbe  cadere  dopo  le  parole  se  dixe- 
rat  explorasse. 

«  Nec  buie  eoncordavit  archipresbiter  suus  de 
Vico  dominus  meus  [manca  nam,  o  simile)  dixit  quod 
ipse  fortiter  restiterat  in  faciem  Guidocti  archipre- 
sbiteri  sancti  Lamentìi  coram  domno  papa;  incre- 
puerat  et  eum  nirnis,  quod  erat  inbobediens  meo...   ». 


102 

19  Di  nuovo,  dalVarchivio  del  duomo,  in  perga- 
mena delVa.  1219,  che  aggiungo  qui,  opportunamente 
anche  a  qualche  dilucidazione  del  precedente  docu- 
mento. 

In  nomine  domini  amen.  Cum  ego  Andreas  prior 
s.  Mariae  de  Palentiana  [lo  stesso  secondo  ogni  appa- 
renza che  il  precedenlemenle  nominalo)  receperim 
mandatum  tam  viva  voce,  quam  etiam  litteris,  a  do- 
nmo  Rainerio  vitcrbiensi  episcopo,  ut  causam  quae 
vertitur  inter  piesbiterum  Martinum  ex  una  parte,  et 
paiTochianos  sancii  Egidii  super  electione  de  eodem 
facta,  item  inter  presbiteruin  et  canonicos  s.  Lau- 
rentii  ex  una  parte  ,  et  dictos  parrochianos  sujjer 
electione  clericorum  ipsius  ecclesiae,  canonico  fine 
tenninarem;  et  cum  mandatis  dicti  episcopi  parere 
voluerim,  quidam  ex  parrochianis,  meo  iudicio  con- 
templo, remola  serra  ab  hostio  ecclesie,  violenler 
ecclesiam  intrarunt,  et  questione  pendente,  ac  etiam 
me  irrequisito  ,  quendam  intruserunt ,  unde  habito 
Consilio  et  deliberatione,  tam  violatores,  quam  etiam 
sacerdoteni  intrusum,  auctoritate  domni  episcopi  qua 
fungor,  excommunicationis  sententia  suppone.  Quam 
sententiam  per  manum  magistri  lobannis  notarii  pre- 
cipio  roborari,  qui  presens  in  claustro  sancii  Lau- 
rentii  Viterbii....  cono  [archidiacono?)  sancle  Marie 
in  Cella.  Thome  Buse  [sic).  lacobo  ....  Anno  do- 
mini min....  [MXCCXXIX)..  or.  [Honorio]  pp.  Ili, 
die  Vili,  intrante  iunio.  Indictione  VII.  Ego  lohan- 
nes...,.  notarius  bis  omnibus  interfui ,  et  ut  supra 
legitur,  mandalo  dicti  domni  Andreae  prioris  s.  Ma- 
rie in  Palentiana  scripsi  et  publicavi   ». 


103 

20.  Jìcilh  cronaca  di  Nicolo  della  Tuccia^  secondo 
il  mss.  di  Monte fiascoìie.  (Conf.  Opuscolo  mio:  Guerra 
(li  Federico  II,  sotto  Viterbo.  Giorn.  Arcad.  t.  GXX, 
p.  160  sq. ,  che  appena  differisce  in  poche  parole 
dal  testo  qui  addotto).  «  Già  si  erano  partiti  assai 
cittadini  da  Viterbo,  tra' quali  furono  dui  principali, 
e  questi  adunorno  altri  cittadini  viterbesi,  e  fecero 
consiglio  a  Todi;  e  dissero  M.  Federico  si  dovesse 
intromettere  coll'imperatore  acciò  si  pacificasse  con 
Viterbo,  e  che  li  volesse  far  bolla  della  commissio- 
ne, e  che  li  perdonasse  ogni  cosa,  che  secondo  que- 
sto tutto  il  popolo  si  sarebbe  dato  a  lui  senza  com- 
battere. Queste  cose  ordinorno  detti  cittadini  da  loro 
medesimi  senza  haver  volontà  di  pace.  M.  Federico 
andò  airimperator  esponendoli  sì  fatta  ambasciata, 
e  li  piacque  assai  perchè  haveva  per  volontà  haver 
Viterbo,  e  fé  una  bolla  pienissima  di  remissione,  e 
suggellolla  col  piombo,  e  così  il  detto  Fedeiico  tornò 
a  Todi  con  tal  bolla  [V.  Bussi  p.  407).  Li  cittadini 
viterbesi  vedendo  la  detta  bolla  dissero  non  valere 
niente  perchè  era  sugellata  col  piombo.  Dovesse 
ritornar,  e  farle  sigillo  d'oro.  Tornò  detto  Federico 
all'imp.  la  fece  sigillare  d'oro,  e  poi  ritornorno.  An- 
dorno  li  cittadini  di  terra  in  terra  ritrovando  viter- 
besi e  li  contavano  tutto  il  fatto,  e  se  ne  raduna- 
rono assai  in  Orvieto,  e  ivi  fecero  consiglio  di  venire 
a  Viterbo,  e  notificare  detta  bolla  a  M.  Alessandro 
di  Calvello.  Così  fecero  e  li  piacque  assai,  e  ordi- 
norno detti  cittadini  venire  presso  a  Viterbo  nella 
badia  di  S.  MARIA  DI  PALENZANA.  Erai?o  mille 
cittadini ,  e  mandorno  dui  ambasciatori  a  Viterbo 
notificando  che  loio  bavevano  la  bolla  della  rimes- 


104 

sione  dair  imperatore,  e  così  diceva  detta  bolla,  se 
li  viterbesi  si  davano  all'imp.  era  fatta  rimessione, 
altrimente  no.  Li  viterbesi  sentendo  così  fatta  im- 
basciata ferirò  detti  ambasciatori,  et  armati  corsono 
a  PALENZANA,  e  quanti  ne  trovavano  ne  ferivano. 
Questo  vedendo  li  cittadini  di  fuora,  fuggivano  chi 
qua  chi  là. 

«  L'imperatore  andò  a  Terni,  et  ordinò  che  Carlo 
suo  figliolo  fusse  il  signore  e  re  di  tutti  di  qua  da 
monti  con  tutti  li  titoli  che  si  potevan  dare.  Li 
piacque  di  metter  nelle  mani  di  M.  Sinibaldo 
tutta  la  pace  e  concordia  della  città  di  Viter- 
bo ,  et  lui  andossene  in  Lombardia.  La  seguente 
notte  tornorno  tutti  li  cittadini  in  PALENZANA,  e 
di  nuovo  tentorno  i  rimasti  a  Viterbo,  che  doves- 
sero consentire  alla  pace  coll'imperatore,  e  che  faces- 
sero questo  per  utile  della  città  acciò  non  si  venisse 
a  disfare.  Li  cittadini  di  dentro  havevano  sospetto 
questo  non  fosse  trattato  doppio  per  disfar  Viterbo, 
e  se  n'andorno  tutti  con  l'arme  alla  piazza  di  s.  Sil- 
vestro {oggi  piazza  del  Gesii,  o  di  mercato  vecchio; 
allora  piazza  del  comune),  e  vietorno  che  niuno  do- 
vesse parlare  con  quelli  in  Palenzana,  anzi  guardarsi 
da  lora  come  da  nemici.  E  poi  sino  a  vespero  fero 
far  la  i^uardia  alla  porta  di  s.  Sisto.  Il  seguente  dì 
due  consoli,  cioè  M.  Angelino  e  M.  Giovanni  di  Pe- 
rento, menomo  con  loro  il  giudice  del  comune  et 
andorno  sino  ai  ponte  di  Fofiano  {gli  altri  scrivono 
0  Biiffiano  o  Soffiano),  e  mandorno  dui  messi  in  Pa- 
lenzana ,  che  dovessero  venire  a  pailare  con  loro 
sino  a  detto  ponte.  lacobo  con  tutti  quelli  di  Pa- 
lenzana vennero  a  detto  ponte  ,  e  non  passorno  li 
confini,  talché  era  in  mezzo  il  detto  ponte  tra  loro. 


105 

iM.  Angelino  con  altri  li  disse  che  volete  voi  da  noi? 
Risposero,  volemo  il  bene,  la  pace,  e  quiete  della 
nostra  città;  e  parlavano  assai  humilinente.  Li  con- 
soli volevano  veder  la  bolla,  ina  loro  risposero  che 
la  volevano  leggere  presente  tutto  il  popolo.  Li  con- 
soli non  volsero  perchè  havevano  paura  che  il  po- 
polo facesse  rumoi'c,  e  così  ognuno  se  ne  tornò  a 
casa  sua. 

«  Il  giovedì  seguente  molti  cittadini  andorno  a 
Paìenzana  per  vedere  loro  amici  e  parenti,  e  com- 
pravano pane  et  altri  frutti  con  gran  festa:  e  quello 
costava  a  Paìenzana  un  bolognino,  lo  vendevano  cin- 
que a  Viterbo.  Nel  seguente  dì  quelli  di  Paìenzana 
vennero  sino  alla  chiesa  di  s.  Maria  in  Gradi  nel 
campo  di  s.  Sisto  pregando  il  popolo  volesse  jiace 
con  l'imperatore,  et  infine  fumo  lasciati  entrare  den- 
tro la  porta,  et  tutti  gridorno,  pace  pace  in  jiopolo, 
e  così  fu  fatto...» 

21.  Dal  sì  spesso  dialo  archivio  di  s.  Angelo 
n.  260.  «  In  nomine  domini  amen.  Anno  eiusdcm 
nativitatis  MCCLXVIIÌl,  apostolica  sede  vacante  [per 
errore  sede  è  scrino  dite  volle)  ,  die  XX  septem- 
bris  XII  indictione.  Benedictus  Rubens  de  PALEN- 
ZANA,  quamvis  infìrmus  coiporc,  sanus  tamen  men- 
te, et  conscientia  pura,  nolens  dccedeie  intestatus, 
nuncupativum  testamentum  quod  iure  civili  de  boni*^ 
suis  in  hoc  modo  facere  procuravi!.  In  primis  prò 
anima  sua  reliquit  et  legavit  prò  anima  sua  [sic)  ec- 
clesie s.  Marie  de  Paìenzana  ubi  suam  sepoltui-am 
elegit  duodeci  libras  denariorum  paparinorum  tali  mo- 
do, quod  teneatur  domnus  episcopus  viterbiensis  sa- 
tisfacere  de  ab  aliquo    vel  ab  aliquibus  prò  melio- 


106 

l'amento  diete  ecclesie  ppt  [con  segno  (V  abbrevia- 
tura sotto  il  primo  p,  e  dopo  il  t:  forse  propterea) 
quod  {dice  q)  eius  anima  esset  obligata...  etc.  Actum 
est  hoc  Yiteibii  in  domo  hominis  Gratiani  presen- 
tibus  ....  tro  (f.  Peti'o)  Fortis  guerre,  Francisco 
lohannis  Notario  de  Bagio  reg.  {Balneo  regio)  .  .  , 
lohanne  et  Gulielmo  familiaribus  domni  episcopi  vi- 
terbiensis,  et  ego  ....  lohannis  .  .  .  .  S.  R.  E. 
notarius  totis  hiis  omnibus  interfui,  et  ut  supra  le- 
gitur  rogatus  scripsi  et  publicavi  ». 

22.  Finalmente  dal  Della  Tucciay  citalo  di  sopra^ 
nella  sua  cronaca,  ove  neWa.  1462  favella  della  epi- 
demia, che  afflisse  Viterbo,  e  ne  cacciò  il  papa  Pio  Ily 
(Cf.  Bussi  p.  266).  «  Per  la  morìa  Viterbo  rice- 
vette grandissimo  dunnaggio,  che  morirno  circa  2000 
persone,  e  durò  fino  presso  la  festa  di  natale.  Assai 
cittadini  fuggirno  di  là  e  di  qua,  massime  a  s.  Mar- 
tino al  monte,  e  a  S.  MARIA  PALENZANA,  et  alle 
vigne,  e  chi  alla  Trinità  di  Soriano,  et  ad  altri  ca- 
stelli ove  non  era  morìa  ,  de'  quali  non  ne  morì 
nessuno  in  detto  tempo.» 

E  qui  fo  punto  ;  non  per  mancanza  di  docu- 
menti, ma  perchè  con  ciò  giugnemmo  al  tempo  mo- 
derno. Or  dalle  accumulate  testimonianze,  le  quali 
addussi,  io  mi  stimo  più  che  abbondantemente  con- 
dotto a  conchiudere,  la  odierna  Paranzana  di  Viterbo 
(poiché  così  la  chiama  oggi  più  comunemente  il  no- 
stro popolo)  non  solo  essere  veramente  l'antica  Pa- 
lentiana  di  Argolico  ed  Amandiano  romani  ,  e  dei 
loro  eredi,  e  poscia  di  Teodato  re,  cugino  e  mari- 
to della  sventurata  Amalasunta  ,  e  rispettivamente 
genero  e  nipote    del    gian    Teodorico  ;  ma   potersi 


107 

eziandio  e  di  essa  e  del  niaggioi-  numero  delle  sue 
adiacenze  riconoscere,  e  quasi  restituire,  colle  de- 
nominazioni primitive  altre  curiosa  particolarità  che 
la  riguardano,  e  che  un  attento  esame  fa  risaperci. 

E  primamente,  quanto  alla  casa  arbitana  (della 
quale  vedemmo  nel  V  delle  Varie  farsi  menzione  da 
Cassiodoro),  tolta  già  da  Teodorico  stesso  agli  eredi 
d'Amandiano  (altri  leggono  Amandino)  e  d'Argolico, 
sebbene  io  abbia  scritto  su  questo  non  avere  io  lume 
per  dire  quale  e  dove  la  si  fosse,  dirò  di  passaggio, 
che  col  primo  suo  nome  non  signitieò  certo  quel 
che  nell'etimologico  d'Isidoro  (XIV,  12,)  ed  in  Pa- 
pia  è  definito:  Casa  est  agreste  habitacuìum  polis  ^ 
arundinibiis ,  et  virgultis  contextum  ,  qiùbus  possimi 
lucri  a  vi  frigoris  ani  caloris.  Casa,  hospitiolurn;  o 
nelle  glosse  greco-latine  KaXv'/Svj ,  casa  ,  tuguriiim , 
pergnla  ;  o  in  Servio  (all'  Ecloga  11,  v.  29,  casas, 
cpiae  mapalia  dicuntur.  Evidentemente  ,  comechè  il 
Ducange  e  l'editore  ultimo  del  medesimo  noi  noti, 
essa  è  1'  equivalente  di  ciò  che,  poco  piìi  tardi,  fu 
chiamato  casalis,  o  casale,  e  eh' è  ovvio  nel  medio 
evo  in  significazione  di  luogo  nel  territorio  con  case 
sopro,,  e  terre  annesse  alle  case  per  coltivarle;  e  par 
prendere  non  di  rado  la  dignità  di  viciis,  pagus,  bur- 
gus  etc. 

11  secondo  nome  si  comprende,  che  per  usanza 
latina,  ha  la  desinanza  solita  darsi  a  ogni  fnndus  , 
cioè  ad  ogni  particolare  possedimento,  specialmente 
rustico;  ed  essendo  detto  Arbilanus,  a  due  supposizioni 
dà  luogo:  l'una  è  che  il  piccolo  errore  in  una  let- 
tera, abbia  a  correggersi  Orbitamis,  ossia,  nel  caso 
nostro,  Orbitana;  ed  allora  varrebbe  casale  orvietano: 


J08 

avvegnaché,  per  contentarmi  di  una  sola  lestimo  • 
nianza  ,  nel  n."  705  del  Regeslum  farfense  abbiamo 
come  testimonio  in  una  pergamena  sotto  Giovanni 
XVIII, indiz.Xin(ne'cominciamenti  dunque  del  sec.XI) 
un  Leo  Orbitanus,  e  così  altrove.  Sarebbe  dunque  stala 
la  qui  ricordata  casa,  cioè  l'ampia  possessione  degli  ere- 
di d'Amandiano  uomo  chiarissimo,  e  di  Argolico  già 
prefetto  di  Roma  (forse  tra  loro  congiunti  di  pa- 
rentela stretta,  che  perciò  la  possedevano  indivisa- 
mente, a  quel  modo  che  poscia  fecer  di  Palentiana), 
sarebbe,  dico,  stata  un  latifondio  antonomasticamente 
chiamato  orvietano,  e  perchè  a  Orvieto  immediata- 
mente suburbano  e  contiguo,  e  perchè  grandemente 
cospiuco  ,  siccome  nel  fatto  dovette  essere  ,  s'esso 
era  sufficiente  a  farne  un  tenimento  che  pur  di- 
viso tra  due  famiglie,  e  queste  delle  più  illustri, 
bastava  ad  entrambe,  e  potea  valere  un  così  vistoso 
equivalente  qua)  fa  la  Paranzana  nostra.  E  starebbe 
ciò  anche  bene  ,  perchè  le  terre  da  sostituire  alle 
perdute  stando  presso  Viterbo,  così  non  erano  gran 
fatto  lontane  da  quelle. 

L'altra  ipotesi  è  che,  giusta  la  regola  comune, 
la  casa  s'intitolasse  Avbitana  dal  nome  d'un  primo 
possessore  Arhilm  o  Arvilus,  sul  cui  casato  qui  non 
aggiungo  congetture;  e  questa  è  forse  la  più  vera. 

Passiamo  però  a  quel  che  propriamente  è  l'ar- 
gomento nostro,  ossia  veniamo  senza  nuovo  indugio 
al  luogo  che  ci  siam  proposti  d'illustrare.  E  qui  si 
incontra  dappi-ima  eh'  esso  è  chiamato  massa.  Ora 
io  non  ho  guari  bisogno  d'indicare  altrui  quel  che 
una  tal  denominazione  significa.  Si  sa  dal  Glossario 
eh'  ella  ei'a  un  raduno  di  poderi  compresi  sotto  un 
nome  comune  ;  cioè  quel  che  diciamo  oggi  una  te- 


109 
nuta},  quel  che  dicono  i  napolitani  una  masseria',  quel 
che  una  fattoria  diciam  noi:  lo  stesso  che  Mansns  e 
Mansa  -  conglobatio  ac  collectio  qiiaedam  possessio- 
num  ac  praedioriim,  scrive  il  Ducange  ;  parola  usi- 
tata  già  da' tempi  costantiniani,  conciossiachè,  di 
quell'evo,  Ammiano  Marcellino  (lib.  XIV,  11),  disse  di 
Gallo  Cesare  ch'era  nato  apiid  tiiscos  in  massa  Ve- 
ternensi,  palre  Constantio,  Constantini  fratre  impera- 
toris,  matre  Galla,  sor  or  e  Riifini  et  Cerealis,  qnos  tra- 
heae  consularcs  nohilitarunt,  et  praefecturae  provincia- 
rum.  Né  io  debbo  qui  ripetere  il  da  me  disputato  alla 
pag.  49  dell'opuscolo  Viterbo  e  il  sno  territorio,  dove 
m'ingegnai  di  provare,  che  questa  medesima  massa 
veternensis,  patria  di  Gallo,  non  altra  fu,  se  non  la 
nostra  Viterbo,  ridotta  ella  pure  in  quel  tempo  ad 
esser  niente  di  meglio  che  ciò,  dopo  la  sua  prima 
distruzione  ,  per  la  quale  le  sorse  a  poca  distanza 
Sorrina  Nova.  Dunque  il  tratto  di  terre  che  alla  casa 
arbitana  si  sostituirono  a' giorni  del  re  ostrogoto  co- 
stituivano allora  tutta  una  vasta  riunione  di  predii: 
ciocche  suppone  abitazioni,  non  pur  pe'  contadini  e 
pe' direttori  della  coltivazione,  ma  non  manco  case 
pel  signore  e  ville  o  palagi,  come  appunto  per  massa 
veternense  o  vetervense  dovette  essere,  se  Gallo  Cesare 
vi  nacque. 

Cercando  adesso  perchè  si  chiamò  Palentiana, 
per  fermo,  se  vogliamo  ritenere  le  dottrine  poco  fa 
esposte  su  questo  genere  di  desinenze  grammaticali 
in  simiglianti  casi  ,  bisognerà  dire  che  da  un  più 
antico  possessore  tal  denominazione  si  desunse,  e  do- 
vette essere  un  Palentius,  quando  non  abbia  a  con- 
ghietturarsi  che  il  nome  a'  tempi  di  Cassiodoro,  già 


110 

fosse  corrotto,  e  che  primitivamente  non  fosse  Pa- 
lenliana,  ma  Pallantiana,  da  un  Pallantius,  che  ò 
tanto  più  frequente  e  comune  di  quel  primo.  Ma 
queste  son  minuzie;  e  preferisco  d'accettar  senz'altro 
mutamento  la  forma  arrivata  fino  a  noi.  Dopo  di  che 
ornai  procedendo  oltre,  sarà  bene  notare,  che,  se  dalla 
prima  metà  del  secolo  VI  sbalziamo  alla  seconda 
deirVIII,  e  a'  due  secoli  seguenti,  già  non  è  più  un 
latifondio,  cioè  una  massa;  ma  un  vicus  Palenlianae^ 
0  viciis  Palentiana  {V.  documenti  numeri  1,  2,  7,  8 
e  11;  nel  qual  ultimo  numero  ad  Actiim  vico  Fonti, 
si  corregga  la  stam[)a  scrivendo  Actum  vico  Fontis): 
ciocché  viene  a  dire  ,  che  nelle  vicende  molte  ,  le 
quali  corsero  per  Italia  e  pel  nostro  paese,  dalla  fine 
del  già  ricordato  VI  secolo  al  cominciar  dell' Vili, 
dopo  un  secolo  o  due,  cessato  aveva  essa  massa  di 
esistere  come  un'  unione  di  beni  appartenenti  ad  un 
padrone  unico,  secondo  che  apparisce  dal  testo  stesso 
de'  documenti  riferiti,  diviso  ornai  tra  diversi  il  do- 
minio delle  terre  ;  ma  erano  restate  le  case  costi- 
tuenti borgata,  nel  senso  che  Papia  scrivendo  spiegò: 
Vicif  castella  et  pagi  sunty  qui  nulla  dignitnte  civilalls 
ornantiir  ;  sed  vukjari  homimim  coetu  iucohmlur,  et 
prò  parvilate  sui  civilalibus  attribuuntur.  E  indi  :  Vi' 
cusy  castrum  sine  munitione  murorum,  cioè  quello  che 
noi  chiamiamo  un  villaggio;  lasciando  stare  gli  ar- 
zigogoli d'Isidoro  (Orig.  XV,  %  11):  Dicitiir  autcm 
vicus,  eo  quod  sit  vice  civitatis,  vel  quod  vias  hjoheat 
tantum  sine  muris. 

Pai-e  anzi  che  tutta  la  nmssa  in  più  vici,  tra  lom 
prossimi,  si  spartisse,  cioè  in  più  gruppi  di  case,  o 
vici  subalterni  e  rurali,  come  da  quello  che  poi  di- 


Ili 

rassi,  più  distesamente  sarà  mostrato.  Nondimeno  il 
vicus  Palenliana  o  Palenlianae  era  rimasto  il  prin- 
cipale; che  poi  (dopo  la  metà  del  sec.  X)  si  trova 
aver  preso  piiì  volentieri  il  nome  di  casalis  Palen- 
liana (docum.  n.°  13),  o  come  stampa  il  Chronicon 
Farfense  presso  il  Mm-atori  (  S.  R.  I,  t.  2,  pag.  % 
col.  4-72)  casalis  PalenUamis,  dove  la  mutazione  di 
nomenclatura  non  è  che  apparente  ,  perciocché ,  a 
insegnamento  de'  glossari ,  casalis  o  casale  spesso 
di  cpie'  tempi  era  un  mero  sinonimo  di  vicus,  e  lo 
è  ancor  oggi  in  qualche  luogo,  siccome  per  cagion 
d'esempio  nell'italiano  della  corografìa  maltese.  Indi, 
in  secoli  più  a  noi  vicini,  troviamo  per  più  brevità 
omesso  il  vicus  o  casalis,  e  detto  a  dirittura  Palen- 
ùana,  Palenzaniis,  Palenzano,  Paranzena  e  Par  emano 
{doc.  14  fino  al  22,  e  altrove  passim  fino  al  tempo 
moderno).  Se  non  che,  a  maggior  conferma  delle  cose 
esposte,  secondo  un  documento  vigesimoterzo,  che 
non  ho  citato  ancora,  cioè,  secondo  un  curioso  ca- 
talogo di  tesori  da  me  veduto  in  Firenze  tra'  mss. 
della  riccardiana  (cod.  cartaceo  n.°  1941,  pag.  174 
seg.),  attribuito  a'  tempi  del  card.  Capocia  (proba- 
bilmente Pandolfo  Capocci  vescovo  scismatico  viter- 
bese verso  gli  anni  1128  e  seg.)  (1)  impariamo  il 
villaggio  essersi  verso  forse  il  mille  alzato  a  dignità 
d'i  castello,  senza  dubbio  perchè  vi  furono  aggiunte 
fortificazioni  esteriori,  rendute  necessarie  già  sin  dalle 
incursioni  degli  ungari  e  degli  agareni.  Infatti  quivi 
si  legge  continuatamente  questo  brano:  In  Viterbo,  in 
plano  s.  Petri  (2)  ,  iii  territorio   Viterbi  (pleonasmo) 

(1)  V.  l'opusc.  cit.  Viterbo  e  il  suo  territorio  p.  12  e  49. 

(2)  li  Piano  di  s.  Pietro.  Vedremo  tra  poco  che  appunto  è  il  sito 
del  vicus  Pakntiana,  ancora  a'  dì  nostri  così  chiamato. 


112 

invenies  criptam  cum  tomba  pulchra  valde.  Fode 
subtiis,  et  invenies  aurum  purissimum.  In  eadcm  re- 
gione est  lapis  (cum)  capite  catuli  et  capite  draconis. 

Fode   sublus,  et  invenies  tesaunim   tnagnum In 

territorio  civitatis  Toscanelle,  prope  caslriim  Herculis 
[mn  pi^ope  castrum  Herculis  è  cancellato  (1)  e  doveva 
invece  cancellarsi  civitatis  Toscanelle)  (2)  est  castrum 
Planzanum,  ubi  est  leuga  petra  (3),  est  lapis  magnus 
cum  signo  ^  Sub  ipso  tribus  pedibus  est  tesaurum 
abatis  dicti  castri,  qui  vocabatur  abas  Lanterninus  (4), 
invenies  florenos  quinque  milia  regis  Piphii.  In  dieta 
Castro  Palenzanni  (e  ciò  serve  a  correggere  il  Plan- 
zanum  precedente),  prope  vallem  Vecchiarelle  (5),  est 
tesaurum  magnum  in  loco  qui  dicitur  il  Pian  di  san 
Pietro  (e  ciò,  per  quel  che  osservammo  poco  fa,  de- 
cide al  tutto  la  quistione),  in  cripta  in  qua  positus 
fuerat  rex  Pipinus,  videlicet  in  medio;  et  sunt  floreni 
tercentum  milia  et  ultra,  ubi  fuerunt  fundamenta  do- 
mus  maximi  valoris.  (E  qui  ancora  essendo  nominato 
il  re  Pipino,  come  nella  precedente  notizia,  si  vede, 


(1)  Sic.  Ma  qui  non  può  parlarsi  di  Piansano;  sì  bene  di  Pa- 
lensanum,  come  piii  sotto. 

(2)  Perchè  tutto  il  tratto  è  relativo  evidentemente  alle  terre 
viterbesi  ,  ossia  del  Castrum  Herculis  ,  come  allora  la  tradizione 
volgare  chiamava  il  Viterbo  primitivo. 

(3)  Grecismo  ibrido  per  Xsuy.-n  petra,  cioè  pietra  bianca;  e  trovo 
in  un  antico  inventario  de'  beni  degli  ospedali  della  nostra  città 
mentovata  la  via  Pietre  Bianche,  che  sono  probabilmente  il  luogo 
stesso. 

(4)  Detto  Corse  Lanternino  ,  perchè  nella  opinione  del  popolo 
.soleva  apparir  la  notte   con  una  lanterna  in  mano. 

(5)  Parimente  nel  pubblico  archivio  è  il  distretto  mss.  delle  vi- 
gne, compilato  circa  tre  secoli  i'a,  dove  presso  la  Paranzana  si  ri- 
corda il  fosso  della  Fecchiarella- 


113 

che  tutto  il  brano  parla  degli  stessi  luoghi  e  dello 
stesso  castrum;  dove  sospetto  che  la  memoria  d'un 
re,  antico  padrone  della  contrada,  qual  fu  certamente 
Teodato ,  confusa  con  quella  piiì  famosa  ancora  di 
Pipino,  aiutasse  a  scambiare  l'uno  coll'altro,  e,  se- 
condo che  porta  l'immaginazione  del  volgo ,  a  far 
credere  questo  Pipino  ivi  sepolto  co' suoi  tesori  presso 
a'  fondamenti  dell'  antico  palagio,  de'  quali  forse  un 
tempo  fossero  superstiti  alcune  vestigie,  comechè  a 
Teodato  e  non  a  Pipino  riferibili).  Chiaro  dunque 
apparisce,  che  da  ultimo  Parenzana  era  un  castello, 
cioè  che  il  villaggio  dalle  mura  fu  cinto  ,  le  quali 
da  principio  non  ebbe.  E  valga  il  vero,  tale  ancora 
costringe  a  supporlo  il  documento  n.°  20  co'  fatti 
raccontati  dal  De  la  Tuccia  ,  de'  mille  viterbesi  al 
tempo  di  Federico  II,  lassù  ricoverati,  dove  per  fermo 
iti  non  sarebbero,  se  il  luogo  non  fosse  da  essi  stato 
giudicato  sicuro  da  ogni  ostile  assalto. 

E  qui  è  superfluo  ricordare  a  chi  legge,  che,  nel 
mentovare  questo  luogo  e  gli  altri  connessi  de'  quali 
favelleremo  poscia,  le  pergamene  non  tacciono  ch'esso 
era  in  finibus  vederbensium  o  vecterbensiiim  (docum. 
num.  3),  anzi  territorii  velerhensis  (doc.  n.  7  e  8); 
rispetto  a  che  è  da  ricorrere  al  Bussi  per  impararne 
di  più  (pag.  52  e  403),  averlo  il  comune  di  Viterbo 
sì  bene  da  ultimo  posseduto  ,  che  al  vescovado  fi- 
nalmente come  dote  lo  cedette,  confermatane  la  do- 
nazione da  Innocenzo  III,  e  indi  da  altri. 

Ma  a  questo  non  si  ristringono  i  particolari  ,   i 

quali  su  ciò  pur  sappiamo.  Vuoisi  di  più  avvertire, 

che  conteneva  Palentiana  una  principal  sua  chiesa, 

cioè  ecclesiam  s.   Petriy  fino   almeno  dall'  anno  766 

G.A.T.CXXXIV.  8 


114 

(doc.  n.  2),  la  qiial  chiamo  pmieipale ,  perchè  ciò  mi 
prova  un  ventiquattresimo  documento  degli  anni  852 
od  853  che  qui  aggiungo  ,  ed  è  la  nota  lettera  ad 
Virum  bmum  episcopum  tuscamensem  di  Leone  IV 
(Collez.  Baluziana  dell'epist.  d'Ionocei>zo  IJI  ep.  142, 
ediz.  di  Parigi  1682,  pag.  80),  dove  noverando  i  doni 
al  vescovo  di  Toscanella  delle  possessioni  a  quella 
mensa  assegnate  (legittimo  o  spurio  che  voglia  giu- 
dicarsi il  documento)  si  legge:  Iwfra  Castrnm  Viterbii 
pleheml  s.  Pelvi  in  vico  Palenzano  eum  suis  ecefesiis 
s.  Petri  et  Valentini.  E  vogliasi  pui*  giudicare  spurio 
anche  piià  risolutamente  che  noi  fece  il  Faure  (Meni, 
apolog.  del  Decreto  di  Desiderio,  appendice  pag.  71). 
Certo  a'tempi  d'Innocenzo  HI  quando  fu  prodotto, 
quanto  a'  luoghi  de'  quali  si  parlava,  non  può  non 
credersi  che  sì  sia  parlato  esattamente,  secondo  altre 
memorie,  piti  o  men  vive,  che  se  ne  avevano;  e  per- 
ciò (o  i  beni  ceduti  alla  mensa  di  Viterbo  fosser  già 
in  più  antica  età  stali  inco  porati  alla  mensadi  To- 
scanella, o  la  incorporazione  del  tempo  di  Leone  IV 
fosse  tutta  una  favola)  non  senza  buon  fondamento 
debbo  esservi  stata  nominata  la  plebs  s.  Petri  in  vico 
Palenzano  ciim  suis  ecclesiis  etc,  almeno  rispetto  alla 
realtà  delle  denominazioni.  JNon  dunque  dubito  che» 
per  lo  manco  nel  secolo  XII,  fosse  cosa  non  contro^ 
vertibile,  esistere  nel  Castrum  Palenzani  una  plebs 
s.  Petri ,  cioè  una  pieve  col  suo  piviere  di  questo 
nome,  e  per  conseguente  la  chiesa  di  san  Pietm  e 
quella  di  s.  Valentino  a  lei  soggetta.  La  qual  chiesa 
di  s.  Pietro  essere  poi  stata  la  più  cospicua  ed  in- 
tramuranea,  lo  prova  perfino  il  nome  da  lei  lascialo, 
e  sussistente  ancor  oggi,  al  Pian  di  s.  Pietro,  del  quale 


115 

parlammo  di  sopra;  mentre  n^l  particolare  lenimeiaM 
di  Palentiana,  comechò  non  deutro  della  cerchia,  non 
è  dubbio  essei'si  potuto  comprendere  il  co41e  aacbe 
modernamente  chiamato  di  san  Valentino  ,  dove  le 
rovine  della  chiesa  di  esso  santo,  sono  pure  a' dì 
nostri  sì  cospicue,  da  lasciarle  facilmente  delineare 
con  tutti  i  lor  particolari  ;  consistenti  in  una  gra^> 
cinta  rettangolare,  formante  peribolo  esteriore,  ?,defl- 
tro  questo  spazio,  in  un  secondo  rettangolo  più  pic- 
colo, il  quale  ha  nel  minor  lato  la  icoqa  senìici^-- 
colare,  e  al  fianco  sur  uno  de'  lati  maggiori,  la  porta 
con  casse  sepolcrali  di  sasso  sopra  terra  violate,  e 
-  qua  e  là  sparse. 

Ora,  ad  ultimo  confortamento  delle  cose  fin  qui 
esposte,  dico  che  le  rovine  del  caslrum  sono  siffat- 
tamente superstiti  mentre  scrivo,  che  ho  potuto,  da 
circa  due  anni,  riconoscerle,  appunto  nel  bel  mezzo 
del  sopraddetto  Piano  di  san  Piclro  ;  selvoso  tutto 
quanto,  e  coperto  adesso  di  cespugli,  pure,  dove  già 
furon  case  o  mura,  copei-lQ  di  sassi  riquadiati,  ed 
alcuni  di  notabile  grandezza.  Dove,  presso  a  poeo, 
nel  centro  de'ruderi,  è  visibile  quello  che  si  crede 
essere  il  luogo  e  l'ayanzo  della  ecdemi  o  i>hhs  ^Ivi 
Pelvi,  che  però  avrebbe  bisogno  d'alcuno  scavo  a 
ben  rilevarne  la  pianta. 

Sono  anche  certe  ,  da'  contadini  dette  ,  mura 
saracinesche,  ossia  (distanti  tra  loro  d'un  qualche 
tratto)  tre  castelli  d'un  acquedotto  antico,  de'tempi, 
credo,  romani,  e  sufficientemente  grandi,  in  forma, 
due  di  due  quadrilunghi,  uno  rotonda,  de'fjuali  ca- 
stelli ^Qn  sussistono  cl]e  gli  ^clieletri,  ppv  l?fist?iij^,e,- 
meiite  interi ,  benché  spogliati  della  loro   prhnitiya 


116 

impiallacciatura,  dentro  e  fuori,  che  debbono  aver 
servito  ad  abbeverare  i  palanzianesi;  e  par  che  pren- 
desser  acqua  dai  contigui  monti  di  Bagnaia  (1). 
Dove  questa  particolarità  merita  d'esser  qui  riferita, 
che  il  terzo  e  più  lontano  castello,  cioè  il  rotondo, 
per  una  derivazione  fatta  mercè  un  cunicolo  sot- 
terraneo a  superficie  stuccata  (e  qua  e  là  se  ne 
scuoprono  alcuni  pezzi),  raccoglieva  l'acqua  dirigen- 
dola a  un  vicin  luogo  ,  evidentemente  esteriore  al 
paese,  ed  incluso  oggi  in  un  fondo  de'signori  Poli- 
dori,  il  qual  sembra  essere  stato  un'  antica  e  ma- 
gnifica villa  romana,  tanto  mostrando  gli  spessi  fram- 
menti di  marmi  nobili,  di  musaici,  e  di  mattoncini 
a  superficie  solcata  per  simular  musaico  ,  che  gre- 
miscono il  suolo,  oltre  a  qualche  sepolcro,  comechè 
ignobile  e  di  tegoli,  trovalo  a  piccola  distanza.  Nò 
è  da  passar  sotto  silenzio,  che  l'acqua  sebbene  oggi 
dispersa,  par  però,  ivi  appresso,  essersi  formata  sot- 
terranee vie,  dapoichè,  poco  indi  lungi,  e  inferior- 
mente, corre  anche  oggidì  una  fonte  abbondantissima, 
detta  delle  sette  cannelle,  donde  un  rivo  è  alimen- 
tato, che  si  chiama  il  fosso  appunto  delle  sette  can- 
nelle, di  cui  diremo  tra  poco  altro  che  lo  risguarda. 
Ma  non  questo  solo  acquidoccio  mostra  d'  es- 
ser quivi  stato  formato  dall'  arte.  In  un'  altra  dire- 
zione, lungo  la  via  moderna  che  dal  così  detto  con- 
vento della  quercia  conduce  al  casino  del  vescovo  , 
sulla  sinistra    di  chi  vi  va ,    forse  a  mezzo   miglio 

(1)  I  colli  in  faccia  son  delti  le  caorcie  ,  e  rivelano  forse  col 
nome  qualche  caorcino  dell'infimo  evo,  cioè  qualche  banchiere  che 
li  possedeva. 


117 

di  distanza  dal  castnim  Palenlianae,  sono  grandi  vesti- 
gio di  fondamenta  costituite  da  grandissimi  pietroni 
senza  interposizione  di  cemento,  che  meriterebbero 
speciale  esame,  giacche  non  se  ne  determina  bene 
il  contorno,  né  l'estensione,  tra  le  quali  vestigie  si 
liconosce  benissimo  la  traccia  d'un  ampio  incana- 
lamento artificiale  per  acqua. 

Finalmente,  al  di  sopra  del  mentovato  casino 
vescovile,  e  allo  radici  del  contiguo  colle  di  s.  An- 
gelo, dentro  l'orto  de'padri  cappuccini,  in  occasione 
che  vi  si  facevano  scavi  per  procurarsi  alcun  modo 
d'irrigare  esso  orto,  s'imbatterono  que'padri,  or  non 
è  bene  un  triennio,  in  un  terzo  acquedotto  ignorato, 
cioè  in  un  sotterranno  cunicolo,  conducente  tuttor 
acqua,  che  per  occulte  vie  va  ora  a  perdersi  nel 
poco  discosto  [osso  hiparo  ,  ciocché  evidentemente 
in  piìi  antica  età  non  dovette  essere.  E  di  qui 
s'impara  che  in  tempi  più  felici,  o  dell'impero  fio- 
rente, 0  dell'etruria  autonoma,  il  luogo  era  ben  al- 
tro che  incolto,  e  selvoso. 

Nò  dilettamente  di  Palenziana  ho  più  a  dire. 
Ma  la  più  rispettabile  e  famosa  sua  dipendenza  è 
FcKjianuSy  o  casalis  Fagianusy  cella  in  finilms  Veder- 
bcnsiiim  in  loco  qui  dicitur  FagiamiSy  oratomim  s.  Ma- 
riae  in  Fagiano;  che  poi  divenne  monasterium  s.  Marie 
de  Palenzana,  Ecclesia  s.  Mariae  de  Palenzano,  Prio- 
ria s.  Marie  de  Palenzano  o  semplicemente  s.  Ma- 
riae di  Palenzana  (  passim  ne  documenti  riportati 
n."  1  ,  2 ,  3  ,  U  ,  15  ,  16  ,  17  ,  18  ecc.  ).  Si  ri- 
conosce il  luogo  ,  al  tutto  connesso  col  Pian  di 
s.  Pietro,  in  quel  che  chiamano  gli  odierni  il  pian 
di  s.  Maria  ;  e  par  si  dicesse  Fagianus,  a  fagis  i 
quali  un  tempo  dovevan   formarvi  bosco.    La    sto- 


J18 

ria  quasi  intera,  almeno  rispetto  agli  esordi,  se  ne 
legge  soprattutto  nelle  addotte  carte  farfensi.  Ap- 
partenne già  il  casale  ad  un  Anselmo  di  Viterbo  (doc. 
n.*  3),  ne'principi  del  secolo  Vili,  il  qual  Anselmo 
avendo  una  figliuola,  di  nome  Anslrudu  (doc.  n.°  4), 
"0  Witsèlruda  (doc.  n.°  5)  ,  diello  a  questa  in  dote 
quando  maritolla  ad  Aimone  voìlario,  e  (juarefjan(jo, 
ìiìob forestiero, che  abitava  in  Viterbo  (doc.  suddetti  (1). 
Dico  diegli  fagiano,  ed  in  ispecie  le  terre  o v'era, 
là  céilh  di  s.  Maria  ,  ò  V  oratorium  di  questo  no- 
me, ciocché  vuol  dire,  com'è  noto,  una  chiesuola 
'có'h  ima  canonica,  abitata  da  }>re;ti  regolari,  o  mo- 
riaci,  subordinali   a  un  monastero  supeiiore. 

Non  si  sa,  come  in  progresso  di  tempo,  pa^sò 
'esfea  cella  od  esso  oratorio  da  Anselmo ,  e  dalla 
fì^ia  e  dal  genero  che  n'  eran  padroni ,  ad  esser 
cosa  della  regale  donzella  Ansìlberga,  figliuola,  come 
altrove  ndtammo  ,  dell'  infelice  re  Desiderio  ,  e  di 
Ansa,  e  poscia  abbadessa  in  Brescia  (doc.  n."  13). 
Probabilmente  fu  ciò  per  donazione  d'Aimone  che 
foi'sè   era  di    quelle   parti. 

È  'détto  che  Ansilberga  commutò  queste  terre 
"cò''trionaci  di  Farfa  (ivi).  Tuttavia  si  fatta  muta- 
zione Ulteriore  di  dominio  non  s'estese  a  quanl'al- 
Iro  nel  viterbese  possedettero  Aimone  ed  Ansetruda 
dopo   Anselmo ,   il    quale    par    già   fosse    passato   a 

fi)  il  Troya  nei  loc.  cit.  spiega  Foltarius  per  lìipuarius,  ma 
forse,  perch'egli  (Aimone)  era  probabilmente  daComacini,  cioè  dei 
oapimastri  muratori  ,  col  dirsi  così  ,  non  voleva  altro  significare, 
se  non  che  specialmente  s'  occupava  del  far  le  volte,  operazione , 
com'è  noto,  Jélle  più  difficili,  per  la  quale  era  cresciuto  in  fama 
e  aveva  meritalo  doni  e  lavori  di  principi  (doc  n.°  4). 


119 

vita    migliore    ne]    760    (doc.    n."    1)  ;    avvegnaché 
(doc.    n."   5)  da    essi  ereditarono   Anastasia    e    Pe- 
trone   ioro    figli,  possessioni  appunto  e   in   quel   di 
Viterbo  e  in  quel  di  ToscaneJla,  per   le  quali  po- 
scia fu  lite   civile,  l'a.   812   od    813  (doc.  n."  13, 
la  cui   sbagliata  intitolazione   così   si  corregga,   se- 
condo  il   Troia    loc.    cit.)   tra  gli   stessi  monaci  di 
Farfa   ed    Ildeperga  ed   Ermei^erto   suo  marito.  E  la 
lite  in   ciò  consistette   (doc.  cit.   n."  5)   che  questa 
Ildeperga    (e    per  conseguenza    il    consorte)    affac- 
ciava ragioni  ereditarie  contra  la  porzione  che  toc- 
car  dovette    ad    Anastasia    sua    madre,  e   rispetti- 
vamente suocera  d'Ermeperto,  dall'asse  di  suo  nonno 
Aimone,   omai  morto    con   suo   fratello    Petrone  o 
Pietro,  dopo  essersi  renduti  oblati  in  Farfa  la.  775 
(doc.  n/  4),   e  dopo  aver   fatta  a   quel   monastero 
plenai-ia  donazione   de'beni  loro   (doc.   n."  8,   et  5) 
senza   (a  quel   che   pare)   avere  avuto  memoria  de- 
gl'interessi di  questa   Anastasia.   Dove  è  da  vedere 
U    giudicaito    (ivi),    col    quale  di    buon    accordo    si 
stabili   e  fu  dato  un  compenso    che   pose  fine  alle 
controversie,   state    secondo  che   s'impara,   calde  e 
lunghe. 

Ma  la  breve  riferita  ist<W'ia  mi  fa  credere,  a 
ben  ponderai^e  le  autorità,  che  s.  Maria  in  Fagiano 
fu  veramente  più  antica  d'Anselmo,  perchè  da  lui, 
e  indi  da  Aimone,  Ammone,  od  Iramone,  è  detta 
posseduta  (doc.  3),  dunque  non  fabbricata,  o  fon- 
data. E  da  che  vedemmo,  questo  Anselmo  essere 
già  morto  nel  766 ,  bisogna  ben  dire  che,  come 
oratorium,  o  celia  (parole  equipollenti),  avesse  antica 
esistenza,   almeno    fin   dalla   prima    metà    del  seco- 


120 
Io  Mll.  Nò  può  esser  passata  sotto  il  dominio  del 
monastero  di  s.  Salvatore  di  Brescia  ,  ossia  della 
figliuola  di  Desiderio  quivi  abbadessa  (doc.  3),  che 
quando  già  morto  Anselmo,  Aimone  possedevala. 
Per  fatto  dunque  di  questo  ultimo,  e  forse  per 
libero  dono  di  esso  Ammone,  ciò  avvenne,  il  quale 
Ammorie  le  cose  antecedenti  ci  mostrano  assai  pro- 
clive a  lasciare   il  suo    a'iuoghi   santi. 

Così  sul  finire  deirVIil  secolo,  e  per  piccolo 
giro  di  anni,  s.  Maria  fu  sottoposta  ad  Ansilberga. 
Presto  poi  passata,  come  narrossi,  a'farfcnsi,  co- 
minciò ad  avere  celebrità  maggiore.  Si  vede  anzi 
che  qualche  anno  avanti  alla  conclusione  del  cam- 
bio colla  regale  donzella,  que'  da  Farfa  cominciarono 
a  negoziare,  in  vista  della  futura  permutazione,  l'ac- 
quisto d'altre  terre  adiacenti,  quali  fin  dal  mento- 
vato an.  766  furono  i  due  pezzi  di  vigna;  quello  di 
Ferulo  (doc.  2),  e  l'altro,  stato  esso  pur  già  d'An- 
selmo, quanto  almeno  al  suolo,  e  dovuto  comperarsi 
da  Miccinello  (doc.  1),  co'  tanti  poi  che  si  procura- 
rono più  tardi,  giusta  l'insegnato  da'  documenti  che 
adducemmo. 

Or  l'antica  celebrità  non  sì  e  oscurata,  che  non 
sia  possibile  riconoscere  (con  una  precisione  anche 
maggiore  che  non  la  pieve  soprannominata  di  san 
Pietro),  e  sito  e  perimetro  e  chiesa  e  molti  parti- 
colari del  tempo  in  che  i  farfensi  v'  erano.  Infatti 
dentro  il  chiamato  ancor  oggi  Pian  di  s.  Maria,  che 
spesso  ricordammo,  nel  luogo  stesso,  come  altrove 
notai,  del  palagio  subur^jano  destinato  alla  villeggia- 
tura de'  vescovi,  tutte  queste  cose  sono  patenti  ad 
ognuno. 


!21 

E  prima,  nella  massima  sua  parie,  la  chiesa  della 
slessa  piaiila  di  quella  cui  descrivemmo,  di  s.  Va- 
lentino, vale  a  dire,  formata  da  un  parallelogrammo 
rettangolo,  coli' icona  semicircolare  sopra  uno  de'lati 
l)iù  piccoli  resta  tutta  intera,  tranne  il  lato  minore 
dinanzi,  che  forse  è  decurtato  e  rinnovato.  Dove  si 
riconoscono  gli  avanzi  delle  pitture  che  decoravano 
le  pareti  interne,  visibilissimi  ancora  qua  e  là  nel- 
l'icona, e  in  pai'te  della  parete  sinistra,  specialmente 
a  un  lato  dell'odierna  porta  d'ingresso  (giacché  oggi, 
e  da  lungo  tempo,  la  chiesa  è  trasformata  in  rimessa), 
appresso  all'uscio,  in  una  figura  antica  di  santo,  gra- 
fita e  poi  dipinta.  V'ò  anche  indizio  manifesto  nello 
innanzi,  dell'  area,  s'io  non  mi  inganno,  dove  sor- 
geva il  campanile. 

Esternamente  sopra  un  buon  tratto  di  suolo  più 
elevato  che  il  resto,  e  impossibile  di  non  iscorgere 
il  contorno  dell'antica  cella,  posta  in  gran  parte  die- 
tro essa  chiesa,  in  figura  d'un  molto  piià  grande  ret- 
tangolo, aggiuntavi  dalla  parte  anteriore  un'appendice 
che  forma  oggi  la  corte  del  casino.  E  qui  molti  muri 
sussistono  della  costruzion  primitiva,  tra'  quali  in  une 
degli  angoli  uno  spicchio  di  muro  fatto  con  grandi 
lastroni  di  lavoro  diligentissimo  ,  ed  altri  in  altri 
punti. 

V'è  da  ultimo  tutto  il  tratto  superiore  della  gola 
interna  d'  un  pozzo  che  mostra  antichità  non  infe- 
riore a  quella  di  qual  altro  siasi  antico  pezzo. 

Il  luogo  par  che  cessasse  d'appartenere  al  mo- 
nastero di  Farfa  in  quel  periodo  di  tempo  ,  in  cui 
da  Farfo  stessa,  per  la  incursione  de'  barbari  si  riti- 
rarono i  monaci,  a  che  successero  alternative  di  re- 


122 

stamazione  e  di  perdila;  e  suppongo  che  di  buon'ora 
pensassero  essi  a  sceglier  per  cella  una  più  sicura 
stazione  in  queste  contrade,  la  qual  fu  l'altra  cella 
s.  Mariae  in  Castro  Vilerbii,  esistente  ancor  oggi  sotto 
la  denominazione  di  s.  Maria  della  Cella,  vicino  al 
duomo,  intorno  alla  qiiale  si  vegga  il  Bussi  alla  pa- 
gina 44. 

Infatti  si  ha  nel  Cìwonicon  presso  il  Muratori  co- 
lonna 455,  all'anno  920  il  seguente  vigesimoquinto 
documento  «  Anno  V.  Domni  Berengarii  (I)  seu  domni 
loannis  (X)  summi  pontifìcis  anno  Yll  in  mense  apri- 
lis,  indiotione  Vili,  praedictus  abbas  Rimo  concessit 
quibusdam  viris  in  annos  XXIX  casale  Faganum  [evi- 
dentemente dee  correggersi  Fagianum  )  super  viam 
Fotianam  [di  che  diremo  tra  j)oco)  territorii  viter- 
biensis  ad  reddendam  pensionem  denariorum  XXX  in 
cella  nostra  s.  Mariae  de  Viterbo.  Item  alteri  viro 
concessit  res  huius  monasterii  in  supradicto  vico  Sof- 
fiano [de)  sub  pensione  denariorum  XX  in  supradi- 
cta  cella  reddenda  [documento  che  non  è  nel  Regesto). 
E  sotto  l'abate  suo  antecessore  (  col.  407  ,  docum. 
vigesimosesto)  Venerabilis  autem  abbas  Ioannes  huius 
monasterii  recoUegit  in  Rescaniano  terras  modiorum 
XXX,  et  dedit  cuidam  Adiperto  casalem  huius  mo- 
nasterii, idest  Maternionem  in  Pantanione  ad  omnem 
laborem  dividendum  ibidem  cura  praeposito  nostro 
de  Viterbo  [altro  documento  assente  dal  Regesto),  dove 
il  prevosto  farfense  di  Viterbo  non  .può  essere  sta- 
to altro  che  il  prevosto  di  s.  Maria  della  Cella. 

Infatti,  da  indi  in  poi  della  cella  de  intro  castrum 
è  frequente  discorso,  mentre  l'altra  non  comparisce 
guari  più,  almen  come  luogo  dove    particolarmente 


J 


123 

risiedesse  ramministra<zione  óe\  iprinoipale  monastero 
(li  Farfa,  sin  per  esempio  dall'an.  887,  sotto  l'abate 
Teutone,  del  quale  si  ha  nel  chronicon  muratoriano 
(col.  409,  e  sarà  il  doc.  26)...  Cuidam  lordani  pre- 
bitero  conccssit,  in  vico,  vel  in  casale  Quintanione 
(ecco  prova  incidente  che  vicus  e  casalis  aveano  un 
valore  stesso)  res  hiiius  monasterii  ad  pensionem  de- 
ìiarionim  XLV  in  cnrle  nostra  infra  castrum  viter- 
biense  ;  anzi  fin  sotto  l'abate  Sicardo,  ne' principii 
del  secolo  IX,  di  cui  scrivesi  nel  medesimo  chroni- 
con (col.  391,  docuni.  che  chiameremo  27)..  .  .  Ef 
cuidam  viro  presbitero  concessit  res  ciim  piscinis  V 
ad  Unum  macerandum  in  decano,  et  de  excleto  in  ca- 
sale snrinae,  et  vineam  de  rielìo,  et  terram  in  placane, 
et  pratnm  super  rivum,  ad  pensionem  pendendam  an- 
mialern  solidi  imius  (vedi  tenuità  di  somma  come 
spesso  in  questi  contratti)  in  curie  nostra  viterhiensi. 
(Confcr.  Viterbo  e  il  suo  territorio  pag.  12).  0  per 
dir  meglio,  forse  la  cella  s.  Mariae,  presso  al  duo- 
mo, e  dentro  la  città,  dove  senza  dubbio  avrà  stan- 
ziato la  corte  chiamata  viterbese,  in  cui  si  riscuote- 
vano le  pensioni  di  tutta  la  possidenza  urbana  e  ru- 
stica appartenente  al  monastero  in  Acutiano ,  era 
antichissima ,  e  per  avventura  preesistente  anche 
air  altra  cella  in  Fagiano  (almeno  il  contrario  non 
potrebbe  prò  vaisi),  e  non  a  torto  avrà  scritto  il  De  la 
Tuccia  compilatore  delle  smarrite  cronache  del  Lan- 
cellotto  (mss.  di  Francesco  d'Andi-ea)  —  Li  terrazzani, 
cioè  i  viterbesi,  pigliato  la  fede  del  bactisimo  ferno 
lì  una  chiesa,  la  quale  oggi  si  chiama  s.  Maria  della 
Cella.  Perchè  quella,  per  la  mag^;ior  sicurezza  del 
luogo    eniro  la  cerchia  fortificala,  più  eia  adatta  a 


124 

servir  di  sode  in  tempi  torbidi  o  di  facili  iiicuisioni. 
Fagiano  poi  colla  sua  cella  si  sarà  aggiunto  poi  come 
subalterno.  E  può  convalidare  questa  supposizione  il 
pensare  che  altre  celle  ancora  ed  altre  chiese  acquistò 
in  seguito,  negli  stessi  luoghi,  il  farfense  cenobio,  sa- 
pendosi che  possedette  pure  1'  ecclesia  s.  Valenùni 
in  hunjo  od  in  silice,  dietro  agli  edifizi  degli  odierni 
bagni,  e  al  di  là  del  ponte  Camillario,  della  quale 
ho  bastantemente  favellato  altrove  (opusc.  sudd.  su 
Viterbo  pag.  126,  ed  Album  romano  an.  XVII,  pag. 
197),  citando  parecchie  memorie  che  la  riguardano; 
e  la  chiesa  di  s.  Michele  Arcangelo  (chiesa  oggi  di 
s.  Angelo  sulla  piazza  del  comune),  di  cui  fa  ricordo 
il  Regestum  (parte  2,  pag.  M.  CC.  XV.  I,  doc.  28) 
in  nn  catalogo  delle  chiese  che  dovevano  censo  al 
monastero  in  Aculiano  (all'an.  1295),  ove  si  legge: 
Ecclesia  s.  Miclmelis  de  Vitcrbio  C.  solidos  de  provisi- 
nis.  X  che  d'altre  chiese  potrei  far  giunta,  che  ora 
taccio,  perchè  al  mio  argomento  non  si  l'iferìscono, 
ma  che  possono  riscontrarsi  in  più  luoghi  del  chro- 
nicon  presso  il  lodato  Muratori. 

Dopo  dunque  di  ciò,  si  può  tenere  per  fermo  che 
la  cella  in  Fabiano  non  fosse  risparmiata,  insiem  co'beni 
connessi ,  dalle  frequenti  usurpazioni  di  que'  secoli 
disgraziati,  delle  quali  è  spesso  notizia  nel  più  volte 
nominato  Regestum],  siccome,  tra  gli  altri  luoghi,  nei 
n.  1077,  1078  e  1079,  e  part.  2,^)ag.  M.CC!XXIIII 
V.  docum.  29,  mentre  regnava  Enrico  IV  imperatore 
nell'an.  1083,  ed  era  in  assedio  sotto  Roma,  dicen- 
dovisi  :  quidam  comites ,  videlicel  Piodilandiis  Rocci 
comitis,  el  Guido  Guidonis  comitis,  et  Rainerius  Gi- 
rardiy  iussu  eiusdem  imperatoris,  refutavernnt  in  marni 


125 

domni  Berardi  farfensis  abbalis  primi  ,  omne  ius  , 
et  malam  consuetudinem  ,  quam  facicbant  adver- 
siis.  .  .  .  cellam  nostrani  de  Viterbio,  sub  oblùjatione 
argenti  optimi  lib.  C;  SED  POSTEA  MINIME  CU- 
STODIERUNT;  ciocche  viene  a  dire  che  le  usur- 
pazioni, a  dispetto  della  refutazione  e  della  pena  delle 
cento  libbre,  continuarono,  e  non  le  sole  quivi  men- 
tovate, come  ciò  pur  dimostra  il  precetto  dello  stesso 
imp.  che  pubblicai  nel  cit.  voi.  dell'Album  pag.  199 
dato  nel  borgo  di  s.  Valentino  Tanno  susseguente. 

I  soprusi  però  più  consistevano  nell'impadronirsi 
delle  terre,  delle  giurisdizioni  e  de'  lucri,  che  in  altro. 
Chiese  e  celle  si  conservavano,  detto  al  più  agli  abi- 
tanti: veteres  migrate  coloni.  Quindi  ò  che,  come  san 
Valentino  in  silice  o  in  burgo  ,  così  restò  in  piede 
s.  Moria  della  Cella,  s.  Michele  Arcangelo,  e  la  nostra 
s.  Maria  in  Fagiano,  dico  le  chiese  e  le  canoniche 
annesse.  E  così  incontrasi  da  indi  in  là  nel  nostro 
proposito,  monasterinm  s.  Marie  de  Palenzana,  Van.i 
1061  (doc.  14),  e  in  esso  (doc.  15),  loìiannes  grazia 
Dei  umilis  abba,  qui  est  rector  et  custodes  (sic),  con  due 
preposili  0  prevosti  sottoscriventi  insiem  con  lui;  ed 
ecclesia  de  Palentiana  (doc.  17),  e  un  prior  de  Palen- 
zana  (doc.  18),  e  Andreas  prior  s.  Mariae  de  Palen- 
tiana (doc.  19),  e  la  badia  di  s.  Maria  di  Palenzana 
(doc.  20),  ed  ecclesia  s.  Marie  de  Palenzana  (doc.  21) 
ecc.,  eccetto  che,  nell'uscire  del  secolo  XI,  si  vede 
che  il  comune  di  Viterbo,  e  per  esso  i  suoi  consoli, 
vendicarono  a  se  cella  e  monistero  e  beni,  e  poi  ce-- 
dettero  tutto  ciò  alla  mensa  vescovile,  in  un  col  ca- 
stello di  Bagnala  (doc.  16,  e  Bussi  pag.  52  ed  altrove, 
e  doc.  17),  con  che  sparisce  pure  il  nome  di  Fagia- 


1^ 

nus  e  di  casalis  Fagianus,  che  più  non  si  distingue 
appunto  da  Palentianay  alla  quale  ornai  chiesa  e  cella 
farfense  s'annettono. 

Non  però  qui  fluisce  (  e  già  lo  avvertimnao  )  il 
nuiQtiei'o  de'  vici  o  casali  che  a  questa  Palentiana  fa- 
cevan  contorno.  Era  a  que'  tempi  là  il  simile  di  quel 
che  si  vede,  anche  oggidì  intorno  alla  vicina  Moh^ 
tefiasconé,  il  cui  territorio  di  siniiglianti  piccoli  hor-r 
ghi  è  cosparso.  Novererò  pertanto  il  terzo  borgo  degno 
d'attenzione,  e  sarà  il  Foffimius  (due.  2  e  6),  di  cui 
vedemmo  liu  da  principio  nelle  pergamene  citate  farsi 
ricordo.  Perchè  esso  è  detto  in  tutte  lettere  vicm 
Foffianus  territorii  viterbensis  o  velerbensis  (doc.  12 
e  13),  e  casalis  Fo/fninns  loco  qui  dicilur  fontis  (doc. 
11),  aggiuntovi  (doc.  U)  ch'era  supra  CaslrO' Bilerbu, 
e  fatto  ricordo  che  il  locus  fontis  da  esso  incluso,  o 
ì\  vicus  fantiSi  dì  cui  tra  poco  darem  qualche  altro 
cenno,  ei*a  prope  viciim  Paleutiane  esso  medesimo 
(doc.  cit.  n.  11).  Dirò  pure,  che  carte  numerose,  e  pii'i 
recenti,  dell'archivio  viterbese,  che  qui  non  adduco, 
ne  tramutano  la  denominazione  in  Soffìanus  e  Buf-r 
fianus.  E  per  vero  anche  dal  chronicon  presso  il  Mu- 
ratori, col.  455  all'anno  920,  trascrivemmo  già  la 
notizia  delle  res  monasterii  in  supradicto  vino  sof- 
fiano (sic)  (doc.  30),  dove  imparammo  che  ivi  era 
altresì  una  via  Fotiana,  la  quale  i)erò  dee  quivi  essersi 
così  scritta  per  cacografia,  dovendo  invece  scriversi, 
come  già  spesso  altrove,  Fofiana,  ossia  restituita 
un^  ortografia  più  antica,  secondo  eh'  io  penso,  Fu- 
fia/na.  E  oggi  questo  è  un  nome  sparito  della  topo^r 
grafia  viterbese.  Tuttavia  è  luogo  famoso,  meno  an- 
cora  per  quel  che  dovette   essere   ne'  suoi  rapporti 


127 

con  Fai'fa,  che  per  quel  che  fu  a'  tempi  della  guerra 
di  Federico  H,  e  della  pace  coll'imperatore,  alla  quale 
furono  costretti  i  viterbesi  dalla  fame  (V.  gioru.  are, 
voi.  cit.  120,  pag.  160  e  seg.).  Faceva  io  menzione 
poco  indietro  delle  trattative  discoise  tra  viterbesi  e 
viterbesi  appunto  ad  un  ponte  Foffiano,  che  i  diversi 
mss.  delle  cronache  scrissero  negli  altri  due  modi  da 
me  poco  fa  rammentati,  e  che  doveva  essere  sulla 
sulla  via  Foffiana  o  Fufiana.  E  in  una  delle  mie  ultime 
gite  a  Viterbo  io  ne  ho  fatto  ricerca,  ma  nessuno  sa- 
peva dirmi  ove  piià  fosse. 

Certo  doveva  essere  tra  la  Paranzana  e  Viterbo, 
e  sopra  un  fosso,  e  tra  i  fossi  sul  più  cospicuo,  poi- 
ché il  ponte  dovette  essere  bastantemente  lungo  per 
separar  d'uno  spazio  non  minimo  i  due  partiti  ne- 
mici. A  qualche  ulterior  lume,  trovava  nella  cronaca 
del  Della  Tuccia  mss.  all'an.  1469.  Erasi  ordinato 
edificar  la  chiesa  grande  di  detta  madonna  (detta  della 
Ouercja).  Però  fumo  portate  otto  colonne  di  pietra  et 
grandi^  et  altre  pietre  per  tal  edi(izio,  quali  fumo  le- 
vate da  sassi  grandissimi  che  stavano  sotto  al  ponte 
Poffiano  (altra  variante)  a  canto  im  casale  detto  il 
casale  di  CaJcagnone,  (qui  casale  è  come  ognun  capi- 
sce, nel  senso  moderno  della  parola,  secondo  il  quale 
vai  casa  rustica).  E  leggeva  in  un  altro  mss.  deirarchi- 
vio  comunale,  intitolato:  Ricordi  Cordelli  (dal  nome 
d'un'estinta  famigha  viterbese).  An.  1479  AlbanetOy 
e  la  Albanara  (in  mai'gine  sotto  e  sopra  alla  colta) 
che  era  dinanti  a  detta  Valchiera  posta  nel  territorio  di 
Viterbo  nella  contrada  del  Ponte  Buffìano,  ed  a.  stesso: 
Valchiera  con  tutto  il  piano  dinanti^  et  tutto  el  fossatale 
coiralvanif   et  una   alvanaia  posta  nella  contrada  del 


128 

Ponte  Buffianoj  appresso  alle  cose  del  dello  Giovan- 
hatlista  sopra  alle  morve,  el  le  cose  di  scr  Mutteo 
Mazzalosla  et  la  via  pubblica.  Ora,  ben  ponderati 
questi  ed  altri  passi,  tengo  per  fermo  d'aver  ritro- 
vato il  qui  nominato  ponte ,  sulla  così  detta  via 
vecchia  della  Quercia  o  di  Bagnaia,  là  dove  il  fosso 
d'Arcione,  ivi  oggi  chianiato  Arcionello  attraversa  la 
strada  sotto  i  cappuccini  di  san  Paolo,  accanto  a 
certe  antiche  cave  di  peperino.  Più  in  là  è  bene 
il  fosso  chiamato  di  sette  cannelle,  ma  è  minore  e 
derivante  dal  Rispoglio,  di  cui  diremo  qui  appresso, 
e  non  v'è  peperino  di  buona  qualità,  né  indizio  del 
ponte  che  ci  bisogna.  Anche  la  circostanza  del  Casale 
di  Calcagnone  conviene,  perciocché  casali  d' antica 
apparenza,  benché  mutati  oggi  di  nome,  non  vi  man- 
cano. E  conviene  la  vicinanza  d'una  gualchiera,  per- 
ché quella  che  allora  fu  gualchiera  par  oggi  mutata 
in  mulino;  anzi  non  più  in  muhno,  giacché  acqui- 
stolla  recentemente  il  Bazzichelli  pe'  suoi  opifìcii. 
Solo  é  da  notare  che  il  ponte  niente  più  serba  d'an- 
tico, senza  dubbio  perchè  più  volte  distrutto  e  ri- 
fabbricato. 

Ciocché  infine  decide  al  tutto  la  questione  è  la 
rubrica  dello  statuto  del  1251:  Quod  omnes  legae 
a  porta  s.  Mariae  Magdalenae,  usqiie  ad  monlem  Lo- 
pagnum  destruanlur,  perché  dicendosi  ivi,  lege  omnes... 
a  ponle  Foffiano  usque  ad  ponlem  Lopagnum  deslruan- 
tur,  è  chiai'o  che  si  risale  lungo  il  fosso  Luparo,  cioè 
V Arcione,  sino  alla  sua  origine,  ch'é  al  monte  Luparo, 
una  delle  colline  che  fiancheggiano  immediatamente 
la  Paranzana;  e  si  parla  delle  leghe,  cioè  degli  allora 
anche  detti  alvani  ed  alvanari, eh'' erano  lungo  il  fosso. 


129 

Dunque  il  casalis  Fofiaìius  non  poteva  trovarsi  guarì 
dal  casale  di  Calcagnone  distante,  e  forse  i  casolari 
rusticani  di  che  testé  dicemmo  ne  facevano  antica 
parte. 

Giova  ora  tornare  a  quel  quarto  che  nomavasi, 
come  avemmo  occasione  di  avvertire  in  parte,  Fons 
(doc.  6),  vicus  fontis  prope  vicum  Palentianae,  o  vi- 
cus  fontis  assolutamente  (doc.  11),  considerato  qual 
porzione  del  casale  Fofìano,  e  quindi  di  Palenziana,  e 
questo  io  non  credo  che  vi  sia  molto  a  penare  per 
ritrovarlo. 

Esso  non  può  essere  a  mio  parere  altro  che  una 
-borgata  intorno  alla  fontana  di  sette  cannelle,  di  cui 
già  dicemmo  un  nonnulla,  superstite  ancora  agli  an- 
tichi acquedotti,  dalla  quale  esce  un  rio,  denominato 
in  antico  il  Rianese,  oggi  il  Rispoglio,  o  fosso  di  sette 
cannelle,  che  per  condotto  in  parte  viene  a  Viterbo  ad 
alimentarvi  alcuna  delle  fonti  pubbliche,  e  libero  in  al- 
tra parte,  traversa  il  ponte  della  quercia,  scorre  per 
le  valli  dell'oro  e  di  s.  Rosa,  attraversa  la  strada  ro- 
mana, 0  cassia  moderna,  e  va  verso  il  bulicame. 

E  per  provar  1'  antico  nome  di  Rianese  basterà 

pur  solo  addurre  la  corruzione  moderna  per  la  quale 

di  fosso  Rianese  s'è  oggi  fatto   presso  il  volgo  fosso 

Sorianese,  ch'è  un  altro  de'suoi  sinonimi.  Ma  porrò 

inoltre    dall'archivio  di  s.  Angelo    la    carta  n.°   14- 

del  secolo  XII  :  Anno    ab  incarnatione  D.  N.   J.    C. 

Millesimo   C.    quinquagesimo    Vili.    Temporibus    dni 

Adriani   quarti  pape  anno  ejus  quarto    mense     mare. 

j  Ind.  VI.   Constat  me    Gualfreducium    de  Gerardo  de 

\  lanne  libi  domno  Presbitero  Petro  de  Valenaio  ,  qui 

li  nunc  cs  prior  et  reclor  sci  Angeli  de  Spata....  Idest  in 

!    G.A.T.CXXXIV.  9 


130 

integrum  unum  petium  de  terra  quae  reiacet  in  loco 
qui  vocalur  Pùonese  etc.  e  così  è  in  altre  carte  del  me- 
desimo luogo,  nelle  quali  si  mostra  più  evidente  ancora 
il  nome  nella  forma  che  ho  posto ,  siccome  per 
esempio: 

N.  36.  In  N.  D.  N.  I.  C.  Anno  incarnationis  eius 
Mill.  C.  LXHII.  Temporibus  domni  Frederici  Roma- 
norum  irnp.  augiisti,  mense  ianuarii^  die  septima.  In-^ 
dictione  V.  -  Ego  Guarnerius  nepos  Alvianensis,  pro- 
pria et  mea  bona  voluntate,  vendo  et  corporaliter  trado 
vobis,  domne  Petre  prior  et  rector  beali  Angeli  cui  Dei 

gralia  piacesse  dignosceris   videlicet  unam  petiam 

terrae  cum  introitu  et  exitu  suo,  et  cum  omnibus  ad  eam 
pertinentìbus,  et  est  posita  in  perlinentia  Viterbi,  in  loco 
qui  dicitur  Rianise;  e  dell'a.  1188,  archivio  stesso.  - 
In  N.  D.  Anno  ab  incanì,  eius  M.CLXXXVIIl.  Tem- 
poribus domni  Frederici  imp.  et  semper  augusti  simul 
cum  patre  regnante,  mense  augusti,  die  1 1  exeunte.  In- 
dictione  sexta  -  Ego  Machabeus  ciipiens  Jerosolimam 
proficisci  prò  redemplione  peccatorum  meorum,  volens 
eliam  evitare  liligia  et  altere  ationes  in  posterum  inter 
haeredes  meos  fieri,  testamentum  feci,  quod  jure  civili 
solet  vocari  nuncupativum,  .  .  .  sicuti  inferius  legitur  .... 
In  primis  mihi  ludam  haeredem  instiluo  in  terris  .... 
quas  habeo  Rianese  etc Ma  siccome  alcuno  po- 
trebbe dubitare  se  per  questo  Rianese  abbia  vera- 
mente ad  intendersi  il  rivo  del  quale  trattiamo,  così 
aggiungerò  qui ,  dallo  stesso  archivio  pur  sempre, 
questa  tra  molte  altre  membrane.  -  In  N.  D.  N.  I.  C. 
Anno  eiusdem  nalivitatis  M.  CC.  XX.  Temporibus  Do- 
mmini  Honorii  III pp.  mense  februarii,  die  UH  exeun- 
te indictioneVlI.  Cum  inter  mepriorem  Vigilanlem  eccle- 


131 

sie  s.  AìKjcli,  ipsitis  ecclesie  nomine  ex  una  parte,  et  me 
Petrum  de  Alber(ja  ex  altera,  qneslio  esset  diiitius  agi- 
tala super  medietate  ecclesie  s.  lacchi,  et  domus  prò  ho- 
spitali  extra  Viterbium  in  strafa  positarum,  in  loco  qui 
dicitur  Rianese,  et  ipsarum  circuitu  etc.    dove  nomi- 
nandosi s.  Giacomo  e  l'ospedale  annesso  ,  che  si  sa 
essersi  chiamato  di  Rossignolo,  e  che    sussiste   tut- 
tora, comechò  mutato  di  destina:^ione,   in  strata,  cioè 
sidVantica  via  consolare,  ed  in  loco  qui  dicitur   Ria- 
nese, viene  a  qualificarsi  il  rivo  presso  a  cui  sta  o 
stette,  ch'è  appunto  quel  desso  da  noi  cercato.  Fi- 
nalmente giovi  citare  anche  quest'ultimo  brano  del 
1083  da  un  originale  pur  di  s.  x\ngelo,  che   per  ca- 
gione   della    veneranda   antichità    trascriverò  piii  a 
lungo  così  :  In  nomine  s.  individue  Trinilatis,  anni  au 
(1 .  ab)  incarnazione  Dni  nri  Ih.  Ch.,  acmi  millesimo 
octuagesimo  tertio,  temporib.Dni  gregorio  sumo  poniifice 
et  universali  septimo  pp.  pontificatus  in   anno  decimo 
pontificatu  (sic)  in  mense  martiu.  Lidiclione  septima  fe- 
liciter.  Comnmtaverunt  inter  se  ego  bilerbo  (ilium  ber- 
nardii  de  presbitero  marni  cuide  (quidem  ?)  adque  tru- 
didit  in  primis  ego   clic  tu  biterbo  una  cum  te  bene- 
fica (ilia  bonizo  capuanu  et  cum  berta  uxore  vestra  et 
genetrice  mea  ....anitatori  in  burgo   de  castro   biterbo 
\  (nel  borgo  esteriore  al  colle  del  duomo  ch'era,  come 
:  altrove  notammo,  il  castrwn)  prope  ecclesia  stu  Stefanu 
j  (alla  piazza  oggi  dell'erba)  commutazionis  nomine  Idest 
i  in  integrum  unum  pezium  de  vinca   mea  que  reiucere 
I  esse  nidelur  dieta  uinea  in  casale  qui  uocautur  larcanu, 
\  {ine.)  et  medietatem  de  ipsum  caslengitum  menni  quod 
ego  abeo  basalderi,  (sic)  quod  reiacere  esse  videtur  in 
casale  qui  uocalur  fossianisc  [o  foffianise,  incerto)  ier- 


132 

rilorio  bilcrbcsc,  el  ahcl  jinis  dieta   viiiea  da  una  paiie 
vinea  de  Arnaldu  guiUunc,  el  da  alia  parie  vinea  de 
chrede  de   omicco   de   monle  fistidi,    de   terùa  parte 
uinea  de  azw  fdium  pimpo   de  lohanne  de  loto,  el  da 
quarta  nero  parte  uinea  de  lohanne  fdium  pelrus  de 
presbitero  et  romanu,  el  diclu  caslengilu  meu  .  .  e  (abe) 
fini  el  cum  ipsa  terra  ubi  de  arboribus  sul  (sic)  piantala, 
linde  ad  uice  recepii  ego  dictu  biterbo  de  vobis  dicti  be- 
nefici el  berla  ipsa  quarta  parte  quod  da  dieta  berta 
uxore  vcslra  et  genitrice  mea  abuil  in  ipsa  casa  mea 
que  reiacere  esse  uidclur  dieta  casa  in  burgo  de  ca- 
stro biterbo  jiista  ecclesia  sia    Maria    nova   (esistente 
ancor  oggi  con  questo  nome  )  similiter   in  commu- 
tazionis  nomine  prò  dieta  vinea  el  caslengilu  el  ìiabel 
fmi  dieta  casa  da  una   parte  ...  orla  (f.    porta)    .... 
de  dieta  sta  Maria  de  V ospitale  et  da  alia  parte  casa 
de  lohanne  filiu   Dorninicu  Ironu  et  da  duo  vero  parli 
uie  publice   et   ....  siimus    uos    dicti   commulalori   et 
a  de  omia  (f.  et  ad  hoc  omnia)  commulazionis  nomine 
infra  diete  finis  el  designate  loca  el  acesionib.,  ea  ni- 
chil  nobi  neq.  in  hredih.   nostri s  non   reseruauimus   e 
potestalem  ,  el   inler  nos  uni  alterum  una  cum  dieta 
uinea  el  caslengilu  et  casa  una  cum  omnia  super  se  el 
infra  se  abente  et  designate  loca  qualiler  superius  le- 
gilur  in  inlegrum  concambiavimus  ....  etc.  (  seguitano 
le  solite  formole).  Actu  Biterbu  unde  duo  charte  uno 
tenore  .  .  ce  sul  actu  .  >J<  Signum  manu  dictu  biterbu 
qui  anc  diaria  sicut  superius  legil  q.  scribere  rogavit 
)^  Signum   manu  pinco  lingusu  el  biterbo  el  iohanne 
fìliu  eius  Ioli  rogali  sul  lestes.  Ego  opizo  index  et  no- 
tarius  q.  anc    charta  scripsi  et  compi eui ,  el  absolui. 
Nella  qual  pergamena  se  leggasi  al  passo  notato  fossi 


133 

anisi,  ciò  ne  spiega  il  riancse  facendolo  un  sinonimo 
di  rio  anese,  e  se  foffiamse  ciò  ci  dà  un'altra  forma 
di  Foffiano  che  sarebbe  Foffianensis. 

Ora,  in  qualunque  modo  determinato  il  nome  an- 
tico della  spezie  di  fìumicello  che  deriva  dal  vicus 
o  casalis  fontis,  o  ad  fontem,  volendo  penetrare  più 
addentro  nella  segreta  cognizione  delle  sue  antichità 
delle  quali  tratto,  non  so  se  de'due  antichi  nomi  Fo^ 
fianns  o  lìinnensis,  il  primo  o  il  secondo  ci  può  per 
avventura  condurre  a  conoscere  donde  sì  fatta  no- 
menclatura primitivamente  provenne.  Io,  se  m'è  le- 
cito esporre  l'opinion  mia,  penso  che  in  ciò  ambi- 
due  son  ottime  guide  ad  ottenere  il  nostro  assunto. 
Perchè,  ritenuto  che  l'uno  e  l'altro  risalgano  a  re- 
mota epoca,  parmi  potersi  e  doversi  dire,  che  la  via 
Fofiana,  e  il  Fofiamim  ci  conducono  a  supporre  un 
primitivo  padrone  di  nome  Fofins  o  meglio  fuifiiis , 
che  forse,  innanzi  a'goti ,  e  ad  Argolico  ed  iVman- 
diano  possedendo  que'luoghi,  e  tra  questi  anche  la 
villa  che  di  sopra  indicammo,  die  loro  le  denomi- 
nazioni che  poscia  conservarono  a  quella  regione  i 
venuti  poi  (1);  mentre  il  Bianese  sciolto  in  rivus  Anien- 

(i)  Direi  che  a  questa  famiglia  è  da  riferire  la  seguente  lapida 
murata  in  una  delle  pareti  interne  della  della  stamperia  del  semi- 
nario di  Montefìascone  : 

FORTVNE  .    SANCTE 

PRO    SALUTEM    (sic) 

FUFIORUM 

PESTI 

MARCELLIW 

ET    .    PROCUt.1 

C    .    C    .    C    .    V    .    V    .     V. 

A^'TIGONUS 

SKRATCUMS 

cioè  {dervus  actor  cum  suis). 


134 

sis  allijde  per  avventura  al  primo  che  l'acqua  ebbe 
allacciata,  e  forse  è  quel  medesimo  che  die  nascita 
al  nome  di  luogo  Qnintanione  (Opusc.  su  Viterbo  p. 
100).  E  veramente  par  che  in  tale  ipotesi  avrebbe 
dovuto  dirsi  Rianiamis  secondo  il  modo  di  termina- 
zione e  di  pronuncia  più  familiare  a'iatini;  giacché 
Aniensis  è  derivato  di  Anto  ,  Anienis  ,  piuttostochè 
di  Aniiis  Anil  y  ma  niente  proibisce  di  credere  che 
appunto  Aìiio,  e  non  Anius  si  chiamasse  il  supposto 
autor  primo  dell'aver  allacciata  l'acqua.  Ciò  ancora 
s'accosterebbe  pili  (livellando  noi  di  paese  etrusco) 
alla  natura  toserà  del  nome,  che,  nell'epigrafi  di  lin- 
gua toscana  ricorre  spesso  sotto  la  forma  Ane  (I^anzi, 
Saggio  ec.  Voi.  III.  Indice),  ed  Anei  (Vermiglioli, 
I.  P.,  voi.  I-  Indice)  ec.  Dunque  può  tenersi  per  ba- 
stantemente soda  l'origine  vetusta  de'due  nomi,  e  la 
storia  conghietturale  che  vi  si  annette. 

^^estano  alcuni  altri  luoghi  da  riconoscere  tra 
quelli  mentovali  ne'documenti  che  citammo,  almen 
quelli  phe  oggidì  ci  è  lecito  determinare  ,  e  sia  il 
primo  il  (;asali§  campus  aiwcus,  che  non  può  ossero 
stato  altrove  che  nella  denominata  ancor  oggi  inaile 
delV  oro  ,  lungo  il  Rianese  ,  nella  pianura  ,  la  quale 
dalla  Paranzana  vien  giù  dopo  la  strada  della  Quer- 
cia ,  sotto  il  casino  già  de'Bussi  ,  e  di  là  verso  la 
strada  romana  già  da  noi  mencovata.  Un  altro  è  il  ca- 
salis  Grazianusj  che  si  sa  essersi  detto  il  luogo  vicino  a 
quello  dove  or  sorge  la  chiesa  di  s.  M.  della  quer- 
cia, e  il  campo  dove  si  fanno  le  due  fiere  di  mag- 
gio e  di  settembre  (Bussi,  p.  267).  E  basterà  trarre 
a  convalidazione  questa  rubrica  dallo  statuto  del  1251 . 
De  divisione  aquae  Rispolii  et  Gmzzani.    Ordinatmis 


135 

quod  elUjanliir  IIII  boni  homincs  et  fideles  a  domini:^ 
ortorum  super  aqua  Rispolii  {\)  (del  Rianese già  detto) 
dividenda  ad  irrigandos  ortos  ipsorum  ;  qui  eligunlur 
hoc  modo,  scilicet  quod  domini  ortorum  Rispolii  eli- 
gant  alium  hominem  de  Grazano  eie.  Rispetto  a  che 
sol  noterò ,  che  la  forma  antica  e  legittima  do-' 
vette  essere  Gratiano,  la  qual  denominazione  non  so  se 
possa  riferirsi  a  Graziano  imperadore,  possessoi*  per 
avventma  di  questa  porzione  di  regale  dominio  ,  a 
che  potrehhe  aggiunger  fede  il  leggere  ricordata  nel 
documento  1 1  una  tetra  dominao  reginae:  Un  terzo 
è  il  locus  qui  dicitur  vallis  propa  vicuirù  Pal&ntiane; 
e  un  tratto,  detto  appunto  assolutamente  la  valle  , 
esiste  ancora  oggidì  sotto  la  mentovata  possessione 
de'Polidori,  verso  Ragnaia.  La  ripa  quae  dicitur  iu~ 
gum  (doc.  suddetto),  non  può  essere  stata  altra  che 
alcuna  delle  vicine  pendici  ciminie.  Il  locus  qui  di- 
citur mancupa,  o  piuttosto  mancupa  (ivi),  sembra  una 
corruzione  di  mancipia,  ed  alludere  ad  un  ergastolo 
destinato  a  schiavi  lavoratori  della  terra.  Del  easa- 
lis  surine  ,  e  del  casalis  sunse  o  sonse  ,  e  dal  ca- 
salis  materne,  già  bastantemente  ho  discorso  nell'o- 
pusculo  su  Viterbo,  e  nel  citato  luogo  dell'Album.  Se 
non  che  forse  è  da  essere  più  riservati  che  non 
fui  nelle  conghìetture  sul  nome  di  Sunsa  ,  derivato 
all'etrusca  da  Siirina,  per  un'origine  un  pò  forzata... 
Degli  altri  luoghi  non  so  ancor  troppo;  o    non  ap- 

(1)  Anche  questo  nome  di  Rispoglio,  se  fu  aulico  e  conti^mpora- 
neo  a  quello  di  Rianese,  é  suscellivo  di  un'anotomia  lìiologica  per 
la  quale  facilmente  si  riduce  a  vicus  PoUii,  o  res  Pollii.  Ci  ri- 
velerebbe dunque  un  terzo  antico  possessore  di  que'  luoghi  chia- 
mato Pollio,  ciocché  però  sempre  rimarrà  incerto  ,  finché  almeno 
nuovi  documenti  scoperti  non  ci  aiutino  in  ciò  a  veder  più  chiaro. 


136 

partengono  alle  vicinanze  di  Palentiana.  Ritornando 
alla  quale  giovami  tornare  a  notare  per  giunta,  che 
la  importanza  sua  è  confermata  dal  trovare  ivi  stan- 
ziati o  ne'casali  vicini  centenarii,  di  cui  dicemmo,  e 
sueldascii ,  e  scahini,  secondo  le  diversità  de'tempi, 
che  del  resto  in  nessun  villaggio,  in  un  co'notari,  non 
potevan  mancare.  Né  altro  avendo  ad  aggiungere  la- 
scio a  più  fortunati  o  più  diligenti  di  me  l'adunare 
maggiori  e  più  ricise  notizie,  di  queste  che  laborio- 
samente raccolte  offro  qui  in  dono  a'miei  lettori,  a' 
quali  chiedo  scusa  dell'  aridità  veramente  soverchia 
della  mia  elucubrazione. 


137 


Praecepla  arlis  rhetoricae  et  oratoriae  lectissimis  ve- 
terum  scriptoribits  latinae  atqiie  italicae  linfiuae  exem- 
plis  illustrata  cura  et  studio  fosephi  Ignatii  Mon- 
tanari in  usum  tyronum  ven.  seminarii  auximani. 
Anconae,  ex  tijpis  I.  Aureli  et  soc.,  1852  et  53, 
{Voi  %  in  12°.) 

I^uando  toccammo  nell'Album  (1)  della  vita  di  s. 
Giuseppe  da  Copertino,  scritta  dal  chiarissimo  pro- 
fessore G.  I.  Montanari  (dì  cui  sentiamo  esser  testé 
uscita  una  nuova  impressione  in  Napoli),  citammo 
in  nota,  fra  le  altre  opere  didascaliche  edite  dal  me- 
desimo, quella  che  fu  qui  sopra  annunziata,  intorno 
alla  quale,  poiché  ora  ne  abbiamo  sotto  gli  occhi  un 
esemplare,  ci  piace  dire  alcuna  parola. 

E  innanzi  tutto  a  noi  sembra  di  poter  affermare, 
che  questo  lavoro  riempie  un  vuoto  confessato  ,  se 
non  da  tutti ,  almeno  dalla  più  parte  de'  professori 
dell'arte  oratoria.  Imperciocché  i  lesti,  a  oui  essi  si 
attenevano,  erano  più  comunemente  il  Blair  e  il  De- 
colonia. Ma  il  primo  compendiato  già  dal  p.  Soave, 
e  accomodato  all'uso  delle  scuole  dal  nostro  eh.  au- 
tore, è  giudicato  troppo  profondo  e  diffuso:  talché 
alcuni  toglievano  da  quello  le  principali  teoriche,  det- 
tando, e  talvolta  Iddio  sa  come,  ristretti  ed  epitomi 
per  uso  dei  loro  allievi;  il  secondo  poi  oggi  si  re- 
puta un  pò  troppo  povero  e  meschino,  fatta  ragione 

(1)  Vedi  voi.  XX,  pag.  106  e  seq. 


138 

alla  presente  condizione  delle  cose  e  dei  tempi:  e  noi 
portiamo  opinione  che  se  questo  benemerito  retore 
vivesse  a'dì  nostri,  coordinerebbe  meglio  sotto  un  sol 
punto  di  vista  le  sue  dottrine  ,  migliorerebbe  varie 
definizioni,  da  cui  farebbe  più  spontaneamente  ram- 
pollare le  divisioni,  le  quali  cose  sono  di  tanto  mo- 
mento, che  Platone  giudicava  un  Dio  colui  che  sa- 
peva ben  defmire  e  ben  dividere;  allargherebbe  inol- 
tre e  darebbe  piiì  luce  a  certe  idee  fondamentali , 
toccherebbe  dei  diversi  generi  dello  scrivere  in  prosa, 
e  farebbe  un  qualche  cenno  degli  autori  e  delle  opere, 
le  quali  si  denno  mettere  in  mano  degh  studiosi,  né 
gli  cadrebbe  affatto  di  mente  che  noi  pure  abbiamo 
una  letteratura  che  si  chiama  italiana,  da  cui  si  ponno 
trarre  a  dovizia  gli  esempi  per  ogni  maniera  di  com- 
porre, i  quali  c'insegnano  molto  meglio  delle  regole 
come  debbasi  ritrar  dagli  antichi  ,  trattando  anche 
sacri  argomenti.  Ma  se  ogni  discreto  non  vorrà  im- 
putare agh  uomini  le  colpe  dei  tempi,  così  non  vorrà 
neppure ,  per  soverchia  vaghezza  di  tenersi  ai  più 
vecchi,  risalire  al  celebre  trivio  e  quadrivio  ,  rifiu- 
tando quei  savi  miglioramenti  che  ci  vengono  porti 
dagli  uomini  d'ingegno  ,  teneri  del  bene  della  gio- 
ventù e  delle  lettere. 

Ora  quello  stesso  che  noi  dicevamo  avrebbe  fatto 
il  retore  gesuita,  se  fosse  vissuto  a'giorni  nostri,  l'ha 
fatto  il  professor  Montanari ,  come  egli  afferma 
(I);  e,  a  nostro  avviso,  in  una  maniera  degna  di  sé, 
e  del  nome  che  gli  tributa  l'intera  penisola.  Noi  lo- 
diamo in  primo  luogo  il  partito  di  aver  prescelto, 

(1)  Vedi  la  pref.  premessa  al  11  volume,  pag.  VI. 


139 

nell'esposizione  delle  dottrine,  il  dialogo  smesso  dai 
moderni  ;  perchè  in  siffatti  libri  che  precedono  lo 
studio  della  dialettica,  trovandovi  i  giovani  le  pro- 
posizioni ben  formolate,  restano  sgravati  da  una  fa- 
tica, cui  la  lor  mente  non  basterebbe.  Né  è  da  tutti 
il  supplirvi  bene,  perchè  non  è  da  tutti  sapere  di- 
spiccar bene  le  diverse  parti  nelle  loro  giunture  senza 
romperle  o  sgrtìtolarle;  non  è  da  tutti  afferrare  il  vero 
spirito  del  concetto,  e  da  quello  cavare,  in  poche  ag- 
giustate e  polite  parole,  sullo  stile  del  testo,  la  ri- 
spettiva domanda  ,  la  quale  poi  vada  a  rannodarsi 
senza  stento  e  fatica  alle  antecedenti.  Molti  avvisano 
che  la  forma  dialogistica,  in  tali  opere,  rompa  il  filo 
delle  idee,  le  quali  devono  correre  da  sé  nelle  varie 
parti  senza  alcun  intoppo:  ma  a  noi  pare  che,  quan- 
do è  usata  dagli  uomini  della  tempera  del  Monta*' 
nasi,  non  turbi  punto  il  libero  andamento  delle  me- 
desime. 

Faranno  taluni  le  niaraviglie,  che  quest'opera  sia 
seritta  in  latino;  ma  ,  oltre  che  per  quelli  che  non 
vi  pescano,  o  vi  pescano  in  superfìcie,  l'autore  stesso 
ha  dato  fede  di  voltarla  in  italiano,  cesserà  ogni  stu- 
pore se  porranno  mente  che  è  indirizzata  agli  alunni 
dei  seminari,  i  quali  devono  rendersi  famigliare  que- 
sta lingua  matrona,  che  è  la  lingua  della  chiesa  e 
della  religione,  al  cui  poco  studio  si  dee  attribuire 
in  gran  parte  lo  stato  sempre  più  scadente  delle 
lettere  italiane.  E  poiché  abbiamo  fatto  motto  della 
lingua,  in  cui  è  stato  steso  questo  lavoro,  non  pos* 
siamo  a  meno  di  non  dire  ancora,  che  nel  Monta- 
nari la  perizia  dello  scrivere  latino  ci  pare  gareggi 
colla  maestria  dello  scrivere   italiano  ;    sendochè  lo 


140 

stile  corre  sempre  facile,  naturale,  elegante  ,  disin- 
volto: nei  quali  pregi  dimora  l'eccellenza  di  qualsi- 
voglia scrittura. 

L'opera  è  divisa  in  due  volumi  :  il  primo  con- 
tiene i  precetti  dell'elocuzione  e  dello  stile,  seguendo 
l'ordine  il  più  facile  e  razionale  che  porta  a  parlar 
prima  della  parola,  poi  del  periodo,  poi  del  discorso 
ec.  Tutto  nuovo  e  di  getto  ci  sembra  il  Trattalo  del- 
rimitazione,  ove,  distinti  i  vari  suoi  gradi,  si  risol- 
vono colla  massima  lucidezza  le  più  scabrose  que- 
stioni intorno  alla  medesima.  L'uomo,  come  fu  sen- 
tenziato da  un  profondo  filosofo  ,  è  un  essere  per- 
fettamente imitativo;  e  in  qual  modo  poi  debba  imi- 
tare, senza  perdere  la  flsonomia  e  le  fattezze  pro- 
prie, lo  mostrarono  coi  fatti  i  più  originali  scrittori, 
e  innanzi  tutti  Dante  Alighieri:  e  i  giovani  lo  appren- 
deranno dalle  sapienti  dottrine  del  professore  osi- 
mano.  Alla  fine  del  libro  s'inculca  agli  studiosi  di 
correggere  ed  emendare  i  propri  scritti  ,  giusta  gli 
avvertimenti  e  gli  esempi  dei  più  grandi  ingegni  di 
tutti  i  tempi.  L'utile  e  il  diletto,  che  prova  il  let- 
terato e  l'artista  nell'opera  della  lima,  lo  mostrò  be- 
ne un  moderno  scrittore.  «  Di  questo  lavoro  della 
«  lima  molti  si  lamentano  ,  come  di  fatica  insop- 
w  portabile,  macchinale  ,  che  agghiaccia  il  cuore  e 
»  isterilisce  la  mente  ;  altri  lo  sbei'ta  come  una  sti- 
»  tichezza  dell'ingegno,  che  a  furia  di  ritocchi,  gua- 
»  sta  o  tormenta  l'opera  sua.  Darò  ragione  ai  primi 
«  quando  vedrò  le  madri ,  non  indegne  di  questo 
»  nome,  diventare  sfaticate  o  disamorate  via  via  che 
»  spendono  cure  e  fatiche  intorno  ai  figliuoli  tanto, 
)>  [ter  allevarli  e  mandarli  ritti;  sappiano  i  secondi 


ut 

))  che  non  ò  fabbro  perfetto  quello,  il  quale  dopo  aver 
»  ben  posto  un  ordigno  a  forza  di  fuoco  e  di  mar- 
»  tello ,  lo  peggiora  tirandolo  a  pulimento  ....  11 
»  pensiero  e  la  parola  sono  tanto  congiunti ,  che 
»  lo  studio  dell'una  importa  studio  dell'altro  ...,  ma 
»  la  parola  rimane  sempre  difettiva  al  pensiero  .... 
»  L'  artista  vero  non  fa  altro  che  sforzarsi  di  rag- 
»  giungere  coi  segni  sensibili  il  concetto  intimo  , 
»  profondo  ,  inarrivabile  che  sente  e  idoleggia  in  sé 
»  stesso.  Più  torna  sul  suo  lavoro,  più  versa  se  nel 
))  lavoro  medesimo  ,  più  si  avvicina  al  tipo  ideale 
))  che  gli  balena  davanti  :  e  questo  avvicinarsene  è 
»  un  ritrovare  sé  stesso  ,  è  il  suo  premio ,  la  sua 
))  vita,  è  cosa  piena  di  voluttà  grande,  ineft'abile,  e 
))  sto  per  dire,  più  che  umana  ».  Queste  parole  vor- 
remmo bene  scolpite  nella  mente  e  nel  cuor  dei  gio- 
vani, i  quali  credono  la  lima  invenzione  de'pedanti, 
mentre  è  legge  dell'umana  natura. 

Nel  volume  secondo,  che  comprende  l'arte  ora- 
toria, l'A.  ha  mandato  innanzi  un  saggio  storico  in- 
torno all'eloquenza  dei  più  grandi  oratori  greci,  la- 
tini, e  italiani.  In  fine  poi  vi  ha  collocato  (oltre  ai 
diversi  generi  del  comporre  in  prosa)  un  trattato 
bell'e  compiuto  di  eloquenza  sacra  per  gli  alunni  dei 
seminari,  tratto  dai  più  lodati  maestri  antichi  e  mo- 
derni. E  come  da  tutta  1'  opera  si  rivela  lo  studio 
che  singolarissimo  fu  posto  nella  scelta  degli  esem- 
pi latini  e  italiani ,  che  racchiudessero  ancora  utili 
documenti  per  ben  vivere;  così  questo  ci  pare  che 
si  manifesti  segnatamente  nel  volume  dell'arte  ora- 
toria, e  soprattutto  in  questa  parte  della  sacra  elo- 
quenza ,  ove  vcggiamo  con  savio    accorgimento  re- 


U2 

cati  sempre  in  mezzo  i  luoghi  del  più  grande  imi- 
tatore di  Cicerone,  Paolo  Segneri.  Gli  esempi,  mo- 
strando recate  alla  pratica  le  regole  che  sono  prin- 
cipii  universali  ed  astratti  ,  le  avvalorano  potente- 
mente ,  aiutano  a  meraviglia  l'intelligenza ,  le  fer- 
mano nelle  menti  dei  giovani ,  e  lord  additano  la 
maniera  di  usufruttarle.  Noi  ci  guarderemo  dall'en- 
trare in  minuti  paiticolari;  perchè  il  voler  dire  d'o- 
gni cosa,  cel  vietano  e  i  limiti  di  un  articolo,  e  il 
nome  del  eh.  retore  Montanari  che  solo  vince  qua- 
Imique  elogio.  Invece  lo  ringraziamo  del  bel  dono 
che  con  quest'opeca  ha  fatto  alla  gioventù  spezial- 
mente ecclesiastica  ,  la  quale,  siam  certi ,  lo  acco- 
glierà colla  debita  gratitudine  per  aggiugnere  più 
agevolmente,  col  buon  uso  della  parola,  al  suo  line 
sublimissimo  che  è  riposto  nel  procurare  la  maggior 
gloria  di  Dio,  nel  migliorare  e  santificare  gli  uomini. 

Can.  Prof.  Antonio  Fazi. 


143 

Teoria  del  tetano. 

1.  Lia  dinamica  della  fisiologia  e  della  patologia, 
fin  da  primi  tempi  della  medicina,  faceva  rapidi  e 
maravigliosi  progressi,  ma  non  del  pari  in  grandi- 
vasi  Io  studio,  né  progrediva  l'analisi  delle  forze  che 
determinane  gli  atti  vitali,  né  di  quelle  che  questi  me- 
desimi atti  conturbano. 

2.  Gli  antichi  discrivevano  con  esattezza  e  mirabile 
precisione  i  fenomeni  morbosi ,  ed  inimitabili  sono 
le  storie  delle  malattie  popolari  e  dei  morbi  epide- 
mici d'ippocrate.  Ma  allorché  essi  volevano  rintrac- 
ciarne la  condizione  patologica,  per  mancanza  di  co- 
gnizioni anatonnche  e  di  chimica  organica  raggira- 
vansi  infruttuosamente  in  vani  e  sterili  pensamenti,  e 
vagheggiavono  le  dinamiche  malattie  indipendenti  da 
cause  interne  ed  esterne.  Risultava  così  manchevole 
la  loro  patologia  ,  ed  era  insozzata  da  ipotesi  e  da 
falsi  sistemi. 

3.  In  seguito,  che  la  scienza  divenne  meno  in- 
certa e  più  positiva,  incominciaronsi  allora  a  rintrac- 
ciare le  condizioni  essenziali  dei  morbi ,  e  si  con- 
venne essere  la  dinamica  dello  stato  di  malattia  l'e- 
spressione del  preternaturale  modo  di  compiersi  del- 
lantagonisma  vitale.  E  così  di  mano  in  niano,  che  le 
tenebre  diradavansi,  eran  sbandite  le  assurde  ipotesi 
ed  1  filisi  sistemi  ;  e  V  arte  salutare  devincolandosi 
dal  cieco  e  gretto  empirismo  diveniva  scienza  ra- 
zionale e  diversativa. 


144 

4.  Ma  tino  ti  tanto  o  che  l'anatomia  patologica, 
o  che  la  chimico-organica  non  determineranno,  né 
maggiormente  rischiareranno  gli  elementi  morbosi 
delle  singole  malattie,  sarà  sempre  lusinghiero  e  pia- 
cevole ideale  la  pretensione  di  colui,  che  vuole  fon- 
dare la  distinzione  delle  medesime  sulla  costante  suc- 
cessione di  certi  fenomeni  morbosi  a  certe  costanti 
cause,  che  gli  determinano.  E  nostro  mal  grado  ci 
converrà  ritenere  una  classificazione  sintomatica  di 
quelle  malattie,  delle  quali  non  si  sono,  fino  ad  ora, 
discoperte  le  condizioni  essenziali ,  da  cui  esse  di- 
pendono. Un  esempio  ne  sia  il  tetano,  che  o  fu  dai 
patologi  considerata  in  esso  solamente  la  parte  dina- 
mica, ed  allora  gli  uni  uniformaronsi  agli  altri;  o  essi 
invano  tentarono  assegnargli  un  posto  nella  nosologia 
a  norma  dell'alterazione  chimico-organica,  ed  allora 
furono  gli  uni  dagli  altri  discordi.  Manifestasi  chiara 
la  contraddizione  dei  pensamenti  dai  risultati  delle 
autopsie  cadaveriche,  sui  quali  essi  basano  le  respet- 
tive  opinioni.  Incominciando  da  quella  di  Nereto  Ne- 
rucci  che,  nel  secolo  sedicesimo,  pel  primo  seziona- 
va il  cadavere  di  un  tetanico,  e  di  mano  in  mano 
discendendo  a  quelle  d'Andrai,  e  di  altri  che  sono  riu- 
nite nel  saggio  clinico  di  Firenze,  sensibile  ed  am- 
miranda apparisce  la  contraddizione  dei  risultati,  e 
delle  illazioni  che  da  essi  deduconsi. 

5.  I  flogosisti  in  vano  raccolsero  una  ben  lunga 
serie  di  autopsie  cadaveriche  per  dimostrare  la  na- 
tura infiammatoria  del  tetano.  Eglino  uniformansi 
gli  uni  agli  altri  nel  credere  alla  natura  flogistica; 
e  tra  di  loro  discordano  nel  localizzare  la  flogosi , 
generatrice  del  tetano.  Chi  la  pone  nell'encefalo,  chi 


145 

negli  organi  spinali,  taluno  nei  gangli,  certuni  negli 
intestini,  qualche  altro  nel  sistema  linfatico.  Tutti  si 
fondano  nelle  autopsie  cadaveriche  ,  dalle  quali ,  a 
seconda  del  lor  modo  di  pensare,  ne  segue  la  falsa 
illazione,  che  la  flogosi  può  esistere  in  tessuti  assai 
diversi,  e  con  tutto  ciò  esser  causa  del  tetano.  Egli- 
no, per  essere  coerenti  ai  risultati  cadaverici,  sono 
costretti  di  ammettere  o  che  i  diversi  tessuti  sono 
suscettibili  di  contrarre  due  diverse  flogosi,  una  cioè 
capace  di  determinare  il  tetano,  e  l'altra  no;  o  con- 
siderarlo come  fenomeno  morboso  comune  a  più  ma- 
lattie ;  come  appunto  è  la  palpitazione  del  cuore  , 
l'asma,  e  la  febbre,  che  non  si  collegano  ad  una  co- 
stante alterazione  chimico-organica;  e  che  senza  della 
quale  non  è  possibile  la  loro  manifestazione. 

6.  Onde  costrignere  ad  ogni  costo  i  flogosisti  a 
rigettare  la  supposta  da  loro  causa  del  tetano,  ad 
essi  mostreremo  le  autopsie  dei  cadaveri,  nei  quali 
non  fu  trovata  alcuna  traccia  di  congestione  sangui- 
gna; come  nel  caso  osservato  dal  Frank,  e  nell'altro 
dal  Murdo;  e  in  quelli  che  derivarono  da  vizio  or- 
ganico, o  da  semplice  pervertimento  di  azione  ner- 
vea.  La  flogosi  spesso  gli  si  congiunge  o  come  ma- 
lattia concomitante  omopaùa;  o  come  semplice  effetto; 
o  sussiste  negli  individui  come  causa  occasionale,  che 
in  seguito  determina  la  condizione  essenziale  del 
tetano. 

7,  La  midolla  spinale,  da  cui  hanno  origine  i  nervi 
ministri  del  moto  muscolare,  essendo  irritata  negli 
animah  vivi  da  sostanze  veneiiche,  i  muscoli  sotto- 
posti alla  volontà  si  contiaggono.  La  stricnina,  che 
ha  una  azione  diretta  sulla  midolla  spinale,  essendo 

G.yV.T.CXAXIV.  10 


U6 

stata  prescritta  ad  alta  dose  nella  clinica  di  Bolo- 
gna dal  professor  Comelli,  determinò  il  tetano  alla 
donna  paralitica,  che  sospendendone  l'uso  all'istante 
si  dileguò.  Se  dal  Magendie  deterininavasi  a  suo  pia- 
cimento la  contrazione  spasmodica,  introducendola  nel 
cavo  rachideo,  pare  essere  così  comprovato  dal  fatto, 
che  nella  midolla  spinale  risiede  il  principio  di  quel 
grande  sconvolgimento  d' influenze  nervee  ,  onde  si 
forma  il  tetano.  Ma  l'anatomia  patologica  e  la  chimica 
organica,  non  ne  hanno,  fino  ad  ora,  determinata  la 
condizione  essenziale  ;  così,  nostro  mal  grado,  dob- 
biamo crederlo  di  natura  occulta  e  indeterminata. 

8.  Il  tetano  è  malattia  nervosa;  e  le  nevrosi  sono 
ancora  avvolte  in  oscure  ed  impenetrabili  tenebre  , 
di  cui  non  si  può  stabilire  i  caratteri  essenziali  per 
distinguerle  1'  une  dalle  altre.  Onde  a  ragione  disse 
Baglivi  -  In  morbis  enim  sìve  acutis  sive  chronicis 
producendis  viget  occultum  quid  per  humanas  specida- 
tiones  fere  incomprehensibile.  -  Sicché  è  cosa  convene- 
vole di  limitarsi  a  dire,  che  egli  è  caratterizzato  dalla 
rigidezza,  dalla  contrazione  spasmodica,  e  dalla  ten- 
sione convulsiva  di  uno  o  più  muscoli,  ed  anche  di 
tutti  quelli  che  sono  sottoposti  alla  volontà  ;  e  che 
per  la  forma  esterna,  che  ci  presenta,  può  dividersi 
in  generale  e  parziale;  e  questo  ultimo  in  trismo,  in 
opistolono,  in  emprostotono,ed  in  pleiirostotono.  lì  Cullcn 
ritiene  non  doversi  distinguere  il  trismo  daìVopisto- 
tono;  perchè  derivano  dalla  medesima  causa,  e  sono 
costantemente  riuniti  nella  medesima  individuahtà. 
Le  distinzioni  ritenute  da  Ippocrate,  da  Celso,  d'Are- 
teo  e  da  Cclio-Aurehano  sono  esatte,  allorché  si  ri- 
tiene con  Roche  e  Sanson,  che  il  numero  e  la  di- 


147 

Tersità  dei  muscoli  irrigiditi  e  spasmodicamente  con- 
tratti non  cambiano  la  sua  natura,  e  che  in  tutte  le 
forme  il  corso  ed  i  pericoli  sono  all'  incirca  i  me- 
desimi. Sicché  noi  lo  descriveremo  in  generale,  senza 
intrattenerci  a  discorrere  delle  sue  specie,  ad  oggetto 
di  evitare  inutili  e  tediose  ripetizioni. 

9.  I  prolungatisi  oltre  ai  quaranta  giorni,  ed  an- 
che ad  un  anno,  come  il  caso  osservato  da  Huffe- 
land,  sono  eccezioni,  che  non  provano  nulla  contro 
la  continuità  ed  il  corso  acuto  del  tetano;  e  gl'inter- 
mit/enti,  narratici  dagli  scrittori  medici,  sono  febbri 
perniciose  mascherate  da  gravi  accidenti  convulsivi, 
e  che  indistintamente  cedettero  all'uso  della  china. 
Ad  onta  però  della  sua  continuità,  si  osservano  nel 
suo  corso  alcune  remissioni  e  certe  esacerbazieni;  ciò 
che  costituisce  1'  essenzialità  dello  stato  di  malat- 
tia; ed  in  fatto  non  si  danno  morbi  continuo-conti- 
nenti. 

10.  La  invasione  è  istantanea,  né  preceduta  da 
sintomi  prodromi.  Quegli  enumerati  da  Celio-Aure- 
liano  ,  come  osservano  il  Roche  ed  il  Sanson,  non 
hanno  alcun  valore,  perchè  si  manifestano  in  altre 
malattie,  e  costantemente  non  compariscono  prima 
del  suo  sviluppo.  Solo  il  traumatico  è  talvolta  an- 
nunziato dalla  sensazione  dolorosa,  dall'agitazione,  e 
dai  movimenti  spasmodici  del  sistema  nervoso.  La 
spasmodica  contrazione  suole  incominciare  dai  mas- 
seteri e  dai  temporali,  che  gonliansi,  indurisconsi,  e 
tengono  fortemente  le  mascelle  l'una  contro  l'altra. 
Per  qualche  giorno  può  rimanere  la  spasmodica  con- 
trazione limitata  ai  masseteri  ed  ai  temporali.  Il  più 
di  sovente  ha  luogo  il  contrario  ,   e  rapidamente  si 


U8 

propaga  ai  muscoli  della  faccia  e  delle  membra;  e 
così  il  corpo,  meno  le  dita,  diviene  rigido,  immo- 
bile ed  inflessibile.  Alcune  volte  non  aumentasi  la 
temperatura  del  corpo,  ed  il  polso  si  rimane  nello 
stato  naturale;  in  certe  altre  la  pelle  è  asciutta,  mor- 
dicante,  ed  urente,  ed  il  polso  frequente  e  duro;  ciò 
che  probabilmente  dipende  dall'essere  nel  primo  caso 
esenti  d'irritazione  le  vie  digerenti,  e  dall'essere  in- 
fiammate nell'altro. 

11.  La  fisonomia  del  malato  è  sempre  animata, 
ed  esprime  la  peculiare  interna  sofferenza,  dispiacente 
alla  vista  se  i  muscoli  locomotivi  dell'occhio  soffrono 
la  rigidezza  tetanica.  Gli  occhi  risplendono,  e  riman- 
gonsi  immobili,  la  pupilla  si  dilata,  le  palpebre  sco- 
stansi  l'una  dall'altra,  e  la  superficie  del  corpo  co- 
presi  di  copioso  e  vischioso  sudore.  La  deglutizione 
in  principio  è  difficile,  ed  in  seguito  impossibile;  la 
respirazione  è  laboriosa,  ed  incompleta  è  l'articola- 
zione del  verbo.  Le  sofferenze  sono  crudeli,  i  dolori 
insopportabili;  ed  il  dott.  Liòboat,  che  ha  sofferto  il 
tetano,  lo  paragona  alla  sensazione  molesta  ed  intol- 
lerabile del  granchio.  Talvolta  la  contrazione  spas- 
modica si  limita  ai  muscoli  della  faccia,  e  determina 
il  semplice  serramento  delle  mascelle  ;  tal'  altra  ai 
muscoli  laterali  del  corpo,  e  lo  piega  a  sinistra,  o 
all'opposto  lato;  in  certi  altri  casi  sono  contratti  spa- 
smodicamente 0  i  muscoli  anteriori  o  i  posteriori , 
ed  il  corpo  si  piega  al  di  dietro  o  all'innanzi.  In  al- 
cuni la  contrazione  spasmodica  si  estende  in  tutti  i 
muscoli  sottoposti  alla  volontà,  ed  il  corpo  rimane 
teso  ed  inflessibile.  La  contrazione  dei  muscoli  addo- 
minali rende  involontarie  l'egestioni,  e  l'orine  ora  si 


U9 

accumolano  ed  ora  soitono  involontario;  senza  che 
o  l'una  o  l'altra  di  tali  cose  riferiscansi  ad  una,  che  ad 
un'altra  forma.  La  febbre  ed  il  delirio  non  isvolgonsi 
sempre  nell'uomo  colpito  da  tetano;  sicché  anziché 
essere  sintomi  essenziali,  sono  fenomeni  accidentali, 
che  sviluppansi  o  per  la  debolezza  o  per  la  soverchia 
sensibilità  degli  infermi;  o  pel  concorso  violento  delle 
cause  occasionali  che,  oltre  l'essere  capaci  di  deter- 
minare il  tetano,  in  alcuni  suscitano  il  delirio,  ed  in 
altri  accendono  il  calore  febbrile. 

12.  Che  la  febbre  risolva  la  condizione  morbosa 
del  tetano,  fu  antica  opinione  d'Ippocrate  contrad- 
detta da  Celio-Aureliano  e  dall'  iterata  esperienza. 
Talora  apparisce  l'eruzione  emiliare,  senza  però  ac- 
crescerne nò  diminuirne  i  pericoli,  nò  in  alcun  modo 
modificarne  il  corso.  Sicché  é  da  supporsi  con  il  Cul- 
len,  che  sia  un  sintomo  accidentale,  o  un  semplice 
effetto  della  medicatura,  o  una  semplice  complica- 
zione omopalia. 

13.  Il  tetano  è  malattia  commovente,  terribile  e 
spaventevole;  alla  quale  non  è  permesso  determinare 
i  limiti  tra  l'esistenza  di  vita,  e  lo  stato  di  morte. 
Il  chiarissimo  Speranza,  dimostrata  la  falsità  dell'ip- 
pocratica sentenza,  cioè  che  il  calore  febbrile  sciol- 
ga il  tetano,  sostiene  che  il  solo  corso  del  morb») 
può  cambiarne  il  prognostico;  e  che  se  esso  ha  un 
corso  violento,  è  sempre  mortale;  e  che  sempre  più  si 
diminuiscono  i  pericoli  di  mano  in  mano  che  si  al- 
lontana dal  quarto  giorno;  e  che  la  morte  soprav- 
viene nel  terzo  o  nel  quarto,  alle  volte  in  capo 
alle  ventiquattro  ore;  e  che  quasi  mai  ha  oltrepassato 
il  settimo  e  l'ottavo  giorno. 


150 

j/i.  Il  Franck  distingue  le  cause  in  predisponenti 
ed  in  occasionali;  nel  numero  di  quelle  colloca  le  re- 
gioni calde  e  marittime,  l'ai'ia  corrotta  degli  ospedali, 
delle  carceri  e  delle  sale  ove  sono  raccolti  più  fan- 
ciulli e  più  puerpere;  alle  quali  riporta  eziandio  il 
decubito  supino  di  soverchio  prolungato,  e  la  cattiva 
alimentazione.  Il  chiarissimo  Speranza  contraddice  al 
Franck,  che  l'aria  corrotta  degli  ospedali  e  delle  sale 
delle  puerpere  sia  causa  predisponente;  e  ripone  le 
variazioni  atmosferiche,  e  principalmente  il  rapido 
passaggio  dal  caldo  al  freddo,  tra  le  cause  principali 
e  maggiormente  attive;  facendosi  scudo  dei  più  di- 
stinti etiologisti.  Per  non  essere  di  soverchio  prolissi, 
noi  ci  tratteniamo  da  fare  l'enumerazione  delle  cause 
determinanti;  imperocché  per  volerle  tutte  menzio- 
nare converrebbe  esporne  l'intera  etiologia;  mentre  , 
per  quanto  rilevasi,  tutte  le  potenze  nocive  furono  in 
diversi  tempi  credute  valevoli  a  determinarlo.  Il  te- 
tano segue  spesso  la  difficile  dentizione,  l'irritazione 
intestinale,  la  tristezza,  lo  spavento,  l'abuso  delle  di- 
lettazioni veneree,  il  parto  laborioso  e  la  propinazione 
delle  sostanze  che  hanno  un'azione  diretta  sul  siste- 
ma nervoso  ec.  Sicché  sintomi  e  cause  ci  mostrano 
la  sua  nervosa  ed  occulta  natura. 

15.  Passando  a  discorrere  della  cura,  che  gli  si 
conviene,  faremo  osservare,  che  sono  impiegati  ri- 
medi di  contraria  ed  anche  opposta  azione;  e  che  tutti 
vantano  egualmente  guarigioni  stupende.  Devesi  adun- 
que ritenere,  o  che  le  guarigioni,  che  se  ne  ottengo- 
no, sono  indipendenti  dai  medicamenti,  e  che  sono 
compite  dalle  semplici  forze  organiche,  le  quali  deb- 
bellano  gli  elementi  morbosi;  o  che  le  sostanze  am- 


151 

ministrate  risolvono  solo  le  cause  occasionali  interne, 
e  di  mano  in  mano  che  queste  vengono  meno  la  con- 
dizione essenziale  del  tetano  si  dilegua.  Forse  per 
questa  e  non  altra  ragione  è  utile  il  salasso  ai  tetimi 
promossi  da  flogosi;  gli  antelmitici  a  quello  occasio- 
nato dall'irritazione,  provocata  dai  vermi  intestinali; 
e  al  traumatico  giovano  l'estrazione  dalla  ferita  dei 
corpi  estranei,  ed  il  taglio  dei  fUetti  nervosi  irritati 
e  dei  nervi  incompletamente  tagliati.  11  caso  osser- 
vato da  Fournier  promosso  dal  parto  laborioso,  com- 
piutosi il  parto  istantaneamente  dileguavasi. 

16.  Se  la  sottrazione  sanguigna,  il  bagno  caldo  e 
l'oppio  propinato  ad  alta  dose  sempre  giovano  al  te- 
tano promosso  da  cause  diverse  :  come  dalla  ferita, 
dalla  flogosi  e  dalla  semplice  irritazione,  dallo  spa- 
vento e  dal  parto  laborioso  ce;  è  da  supporsi,  che 
queste  tre  potenze  terapeutiche  costituiscono  la  me- 
dicatura che  maggioraiente  gli  si  conviene.  Come  di- 
spieghino poi  la  rispettiva  azione,  onde  debellarne  la 
condizione  essenziale;  nello  stato  attuale  ^  in  cui  si 
trova  la  patologia  del  sistema  nervoso,  non  è  per- 
messo di  soddisfare  all'inchiesta  se  non  con  inge- 
gnosa ed  inutile  ipotesi.  L'azione  di  queste  tre  po- 
tenze terapeutiche  non  è  in  rapporto,  né  si  conviene 
a  tutte  le  condizioni  morbose,  credute  dai  medici  es- 
senziali; conviene  così  credere  che  fossero  ad  essi 
suggerite  dal  puro  empirismo;  e  che  quindi  fossero 
sostenute  dall'unica  ragione:  a  iuvantibus  et  laedenti- 
bus.  Da  quanto  abbiamo  esposto  chiaro  apparisce  , 
che  il  tetano  è  tuttora  soggetto  di  controversie  e  di- 
screpanze, e  che  la  scienza  ha  bisogno  di  un  mag- 
gior numero  di  fatti;  o  per  lo  meno,  che  quegli  che 


152 

di  già  esistono  siano  con  maggiore  esattezza  e  cir- 
cospezione analizzati;  per  rilevarne  primo  la  condi- 
zione morbosa,  e  quindi  i  compensi  igienici  e  tera- 
peutici, che  razionalmente  gli  si  convengono. 

Doli.   Vincenzo  Catalani. 


Intorno  a  Sallustio  ed  al  suo  comentario  della  fjuerra 
(jiugurlina.  Discorso  recitalo  alla  pontificia  accade- 
mia romana  di  archeologia  dal  cavaliere  Salvatore 
Betti  socio  ordinario  e  censore. 

PARTE  PRIMA 

I.  vJhi  legge  le  istorie,  eminentissimi  principi,  ono- 
randi colleghi,  senza  usarvi  l'arte  de'critici  e  con  li- 
bertà giudicarle,  io  credo  che  non  faccia  opera  da  let- 
terato e  filosofo,  e  molto  meno  da  politico.  Impe- 
rocché a  tutti  gli  uomini,  per  quanto  grandi,  è  pur 
troppo  fatale  il  lasciarsi  turbare  e  spesso  volgere  alle 
vive  passioni  dell'animo,  e  il  dar  segno  in  se  di  quel- 
la prepotente  natura,  la  quale  benché  sia  vigorosa- 
mente cacciata,  nondimeno  torna  sempre  a  mostrarsi. 
Certo  io  non  sarò  mai  di  quelli  che  nelle  cose  pura- 
mente umane  chinano  il  capo  con  servitù  di  mente  all' 
autorità  degli  antichi,  paghi  solo  di  dire  :  Questo  i 
nostri  avi  hanno  creduto.  Che  altro  ,  signori,  è  ciò 
se  non  un  favorire  l'ignoranza  e  l'errore,  un  contra- 
stare alla  ragione  che  non  avanzi  giammai  d'un  pas- 
so, un  gl'avare  infine   la  posterità  a  dover  esser  seni- 


153 

pre  credula  ed  ingannata  ?  (iran  dovere  d'ogni  uo- 
mo, non  che  del  sapiente,  è  in  tutte  le  cose  indagare 
principalmente  la  verità.  Né  dalla  mia  persuasione  sa 
rimuovermi  l'esser  lo  storico  vissuto  contemporaneo 
al  fatto  clic  narra.  Quanto  ciò  debba  valere,  e  chiaro 
leggendo  le  cronache  dell'età  di  mezzo,  chi  raffronti 
i  vari  scrittori  di  esse  con  molte  autentiche  memo- 
rie che  per  ventura  ci  sono  rimase:  è  chiaro  soprat- 
tutto considerando  ciò  che  accade  alla  nostra  età, 
nella  quale  non  so  se  abbiamo  due  soli  storici,  che 
delle  cose  stesse  più  celebri,  avvenute  sotto  de'no- 
stri  occhi ,  portino  egual  giudizio  e  facciano  egual 
narrazione  :  ed  anzi  non  mostrino  manifeste  le  incli- 
nazioni, onde  sono  tutti  più  o  meno  tirati  alla  piena 
del  parteggiare. 

II.  Hanno  alcuni  pronunciato  contro  la  storia  as- 
sai severe  sentenze.  Né  io  loderolli  ,  nò  mai  con- 
verrò con  loro.  Ma  è  gran  divario  da  quel  dispregio 
all'accusare  che  molti  usano  di  temerità  coloro,  che 
anche  de'fatti  reputati  storici  intendono  giudicare 
coll'eterne  regole  della  dialettica,  o  sia  del  buon  sen- 
no :  e  stimano  che  meno  dubitativamente  ,  se  non 
con  certezza,  si  possano  per  esse  regole  così  bene  ac- 
cogliere molte  verità,  come  molte  falsità  rifiutare  : 
specialmente  se  le  cose  da  un  solo  scrittore,  oltreché 
antico,  ci  sieno  narrate.  Ho  detto  che  anche  i  grandi 
palesano  segni  talvolta  del  fervore  delle  passioni,  uo- 
mini essendo  pur  essi.  Grande  fu  infatti  Tucidide  , 
e  scrisse  ciò  che  accadde  a'suoi  anni,  anzi  ciò  che 
vide  in  parte  e  trattò  egli  stesso ,  personaggio 
principalissimo  fra  gli  ateniesi  e  politico  e  capitano: 
e  nondimeno  (lasciando  anche  stare  le  censure,  ve- 


154 

ramonte  alquanto  sofistiche,  onde  tentò  d'abbassarlo 
Dionigi  d'Alicamasso)  Giuseppe  Flavio  nel  libro  con- 
tro di  Apione  afferma  che  in  alcune  cose  veniva  tac- 
ciato di  mentitore.  Grande  fu  Senofonte,  ed  anch'egli 
scriveva  non  solo  de'f:\tti  dell'età  sua  ,  ma  de'pro- 
pri  :  e  nonpertanto  Marcellino  (1)  ci  avverte  non  ave- 
re per  altro,  che  per  mal  animo  verso  Platone,  detto 
que'biasimi  di  Mennone,  che  fioriva  nell'amicizia  del 
fdosofo.  Che  dirò  di  Polibio,  l'amico  e  compagno  di 
Scipione  Emiliano,  da  noi  reputato  storico  non  men 
sincero  che  grave  ?  E  tuttavia  nel  narrare  i  fatti  ro- 
mani fu  in  continua  contraddizione  con  Filino  carta- 
ginese :  talché  poi  uno  Scillace,  secondo  Snida,  le- 
vossi  a  scrivere  contro  dì  lui.  Chi  avesse  ragione  , 
non  so:  ma  parmi  voler  giustizia  che  del  vero  e  del 
fiilso  si  faccia  un'equa  parte  fra  loro.  Di  Tucidide,  di  Se- 
nofonte e  di  Polibio  non  fu  minore  per  nessuna  gran- 
dezza Giulio  Cesare,  che  dettò  i  comentari  delle  sue 
geste  :  ed  or  chi  non  sa  la  taccia  che  gli  die  Pol- 
lione  (2)  d'avere  alcuni  fatti  riferito  neglettamente, 
altri  non  veramente  ?  Vanno  pure  fra  gli  storici  per 
la  maggiore,  e  meritamente,  Sallustio,  Livio  e  Ta- 
cito :  non  si  però  che  tutti  si  siano  sempre  appa- 
gati de'loro  racconti,  e  che  anzi  Yopisco  fino  dall' 
età  sua  non  si  porgesse  pronto  a  indicare  in  quante 
cose  fecero  fallo  alla  verità.  E  del  Guicciardini  chi 
più  solenne,  chi  più  pratico  del  suo  secolo,  chi  più 
partecipò  de'consigli  e  delle  imprese  ch'egli  racconta? 
E  con  tutto  ciò  chi  al  pari  di  lui  lasciò  non  di  rado 

(1)  Nella  vita  di  Tucidide. 

(2)  Svetonio,  in  Cesare  cap.  36. 


155 

trasportarsi  a  corto  maligno  talento,  ti'oppo  evidente 
al  savio  che  legge,  oltre  a  quel  suo  non  credere  ad 
alcuna  virtù  ?  Inììne,  o  signori,  chiamerò  grandi  (e 
fra  essi  il  Botta)  anche  alcuni  che  scrissero  del  pri- 
mo INapoleone.  Eppure  noi  stessi,  noi  vissuti  in  quel- 
l'impero, dobbiamo  sì  spesso  maravigliare  le  tante 
discordi  sentenze  sulla  sua  persona,  su'  governi  suoi, 
e  fino  sulla  sua  gloria  di  capitano,  quanti  sono  gli 
scrittori  non  solo  delle  nazioni  d'Europa  o  confede- 
rate o  vinte,  ma  della  Francia  e  dell'Italia,  dov'egli 
regnò.  E  il  singolare  si  è  che  tutti  per  prima  cosa 
ne'loro  libri  sonosi  protestati  di  scriver  con  fede  di 
storico  veritiero. 

III.  Uno  degli  antichi  autori,  i  cui  scritti  ho  più 
attentamente  e  letti  e  considerati,  è  Sallustio.  Qual 
più  poderoso  e  nobile  scrittore,  o  signori,  qual  più 
ricca  e  limpida  vena  di  dir  latino  !  Qual  più  splen- 
dida immagine  della  maestà  del  linguaggio  che  pieno 
d'impero  sonò  sul  labbro  al  popolo  re  ?  Qual  altro 
inoltre  de'nostri  meritò  più  di  lui  delle  romane  let^ 
tere,  alle  quali  die  ciò  che  fino  all'età  sua  non  ave- 
vano :  intendo  una  storia  degna  di  stare  a  fronte 
delle  eccellentissime  greche  ?  Essendoché  prima  di 
Sallustio  non  potesse  Roma  veramente  mostrare  che 
o  compilatori  di  cronache,  o  storici  tali  da  non  con- 
tentarsene più  una  gente  di  tant'altezza  d'ingegno  : 
salvo  L.  Sisenna,  vissuto  a'tempi  delle  civili  contese 
di  Siila  e  di  Mario,  uomo  anch'cgli  di  egregia  lati- 
nità, oltreché  pratico  della  repubblica.  Ma  superando 
certo  tutti  gli  altri,  ch'erano  fioriti  prima  di  lui,  pa- 
lesò nondimeno  anche  Sisenna  ,  per  grave  giudizio 
di  Cicerone  u  quanto  si  allontanava  dal  sommo  ,  e 


156 

come  (Qno  a  que'giorni)  siffatto  genere  di  scrittura 
non  era  stato  dalle  lettere  latine  illustrato.  »  Così 
nel  Bruto  (1).  E  benché  io  non  sia  di  coloro  che 
Sallustio  antepongono  in  tutto  a  Livio,  grandissimo 
e  realissimo  fiume  d'oro,  tuttavia  non  so  dir  quanto 
mi  esalti  il  suo  scrivere  con  sì  mirabile  forza,  vi- 
vezza, rapidità,  soprattutto  allorché  leggo  quelle  alte 
e  maschie  sentenze.  Confesserò  ciò  non  ostante  il  ve- 
ro, o  signori,  che  questo  esaltamento  non  molto  dura: 
perché  quando  considero  i  vizi  che  infamarono  la 
vita  dello  storico,  e  che  altro  non  sono  in  fine  quelle 
sentenze  che  un  puro  tema  rettorico  ,  allora  il  suo 
dire  cessa  in  me  d'aver  efficacia  ,  cessando  in  esso 
l'autorità.  Perciocché  dico  :  Chi  é  colui  che  mi  parla? 
Ognuno  il  sa  :  mi  parla  un  uomo,  qual  fu  Sallustio, 
che  per  le  turpitudini  del  suo  vivere  venne  con  sen- 
tenza censoria  cacciato  dal  numero  de'sonatori  :  un 
uomo  che  ignominiosamente  pe'suoi  adulteiii  provò 
quanto  pesino  le  verghe  :  un  uomo  che  invialo  a 
reggere  una  provincia ,  ne  tornò  coli'  onta  d'  averla 
co'suoi  furti  spogliata.  Laonde  fu  sbeffato  da  Yar- 
rone  (2),  chiamalo  uomo  reo  da  Lattanzio  (3),  ri- 
prensore  e  censore  della  lussuria  altrui  da  Macro- 
bio  (i)  :  ed  il  Casaubono  giunse  a  dire,  parergli  che 
siffatto  scrittore  si  sdegni  centra  le  altrui  libidini  , 
quasi  invidiandole.  Noi  non  abbiamo  inoltre  l'opera 
che  pubblicò  Leneo,  liberto  di  Pompeo  il  grande  , 
centra  ciò  che  per  setta  cesaiiana  avca  scritto  Sal- 
ii) Gap.  62. 

(2   Gelilo,  Noct.   Actic.   lib.   XVII  cap.  18. 
(3)   luslit.  divinar,  lib.   II.  cap.    12. 
^4)    Satiirnal.  lib.  II.  cap.  9. 


157 

lustio  a  disonorare  esso  Pompeo  :  opera,  nella  quale, 
secondo  Svetonio  (1),  non  solo  pe Vocaboli  il  chiamò 
rubatorc  deVecchi,  e  principalmente  di  Catone  ,  di 
cui  anche  Frontone  il  disse  frequens  sectator  (2),  ma 
sì  per  le  cose  il  tassò  d'animo  inverecondo  e  bugiar- 
do. Ora  qual  fede  si  debba  a  uno  storico,  così  no- 
toriamente privo  d'ogm'  pudore,  veggalo  chi  ha  fior 
d'intelletto.  Quanto  a  me,  la  presterò  a  Sallustio  as- 
sai meno  che  ad  altro  :  o  sia,  non  glie  la  presterò 
senza  un  profondo  esame  : 

Quamvis  turato  meliiam  libi  credere  testi: 

(•becche  abbiano  a  dirne  tanti  superstiziosi  dell'anti- 
chità, e  teneri  d'una  erudizione  storica  omai  da  col- 
legio. E  neir  ammirare  quella  sua  gran  potenza  di 
scrivere,  non  potrò  non  rammaricarmi,  che  imitando 
Catone  non  l'imitasse  ancora  nell'aver  sul  labbro  ciò 
che  nella  mente  e  nel  cuore:  come  usò  appunto  quel- 
l'austero e  sommo  romano,  le  cui  parole  per  santo 
debito  di  scrittore  non  furono  smentite  mai  dalla  vita. 
^  IV.  Cacciato  egli  a  gran  disonore,  come  ho  detto, 
pe'vizi  suoi  dal  senato,  non  pare  che  altro  si  pro- 
ponesse in  tutto  il  suo  vivere  sì  civile  e  sì  lettera- 
rio che  di  vendicarsene.  Perciò  accostossi  da  prima 
a  Clodio,  delle  cui  furie  tribunizie  fu  in  parte  reo: 
poi  a  Cesare,  il  quale  del  pretesto  di  favorire  l'au- 
torità popolare  facendo  velo  alla  sua  sfrenata  ambi- 
zione di  soprastare  ad  uomini  e  leggi  ,    operava  di 


(l)De  illiiblr.  granimat.  e.    lo. 

(2)  Epistolar,  ad  Marciim  caesanm   lib.  IV.  ep.  3. 


158 
conculcare  ed  avvilire  l'ordine  senatorio,  l'unico  po- 
tente freno  che  avesse  Roma  contra  ogni  tirannide, 
com'  erasi  costantemente  veduto.  Imperocché  tutta 
la  libertà  vera  e  la  gloria  romana,  dalla  cacciata  dei  re 
m  poi,  non  fu  d'altri  opera  che  del  senato:  il  quale, 
senz'essere  perciò  immune  da'vizi  che  accompagnano 
la  qualità  d'uomini,  certo  con  dignità  e  sapienza  gui- 
dò la  repubblica:  finché  non  sursero  quelle  temerità 
tribunizie  a  far  prevalere  una  democrazia,  che  d'ogni 
nato  facea  senz'altro  un  legislatore  ,  e  che  feroce- 
mente poi  scapestratasi  per  cupidigia  soprattutto  di 
trarre  a  se  i  profitti  dell'  altrui  sudore  ,  poltrendo 
nell'ozio  0  vendendosi,  crollò  a  poco  a  poco  e  indi  at- 
terrò lo  stupendo  edificio  di  tanti  forti  e  prudenti. 
Altra  gran  prova,  o  signori,  a  persuaderne  che  una 
condizione  di  assoluta  balìa  popolare,  di  tutte  peri- 
colosissima, appena  fu  mai  possibile  altrove  che  in 
piccolo  stato  :  com'erano  appunto  le  greche  repubbli- 
che, le  quali  di  quando  in  quando  si  vedevano  sor- 
gere dopo  espulsi  o  spenti  i  loro  tiranni  ;  benché 
l'una  di  esse  perfettamente  non  rassomigliasse  mai 
l'altra.  Dal  qual  parteggiare  pel  dittatore  due  cose 
principalmente  ottenne  Sallustio:  primo,  d'aver  nuovo 
seggio,  malgrado  dc'padri,  nell'ordine  senatorio  :  se- 
condo, d'esser  tratto  nuovamente  questore,  e  poi  in- 
viato pretore  con  autorità  di  proconsole  a  governar 
la  Numidia,  là  dove  ognun  sa  di  quali  concussioni  e 
latrocini  si  rendesse  colpevole  :  talché  tornatone  col- 
l'impunità  della  dominante  fazione,  non  fu  in  Roma 
a  que'tempi  chi  poi  superasse  in  dovizie  e  in  ville 
sontuosissime  quest'uomo  plebeo  d'Amiterno,  questo 
sì  rigido  propugnatore  del  parco  e  santo  vivere  degli 
antichi. 


159 

V.  Ciò  non  dico,  o  signori,  con  animo  crindurie 
alcuno  a  volger  le  spalle  a  un  autore,  di  cui  non  pos- 
siamo lamentare  abbastanza,  per  la  gravità  dello  scri- 
vere e  per  l'aurea  latinità,  la  perdita  che  si  è  fatta 
di  tanta  e  preziosa  parte  di  opere  :  ma  sì  per 
mostrare  il  bisogno  che  v'ha  d'attentamente  disami- 
nare i  fatti  che  tal  uomo  dissoluto  e  fazioso  ci  nar- 
ra, non  v'essendo  ragione  di  doverli  cosi  ad  un  tratto 
reputar  veri.  Guardiamoci  sopiattutto  di  credere,  eh' 
egli  scrivesse  da  senno  quando  porgevasi  così  ardente 
di  libertà:  quando  lodatore  delle  giovanesche  prosun- 
zioni  e  insolenze  de'Gracchi,  e  clodiano  e  cesariano, 
infamava  un  venerando  ordine  della  patria,  il  quale 
perchè  appunto  non  potè  esser  corrotto,  e  volle  sem- 
pre che  il  popolo  camminasse  non  avanti  ma  appresso 
alle  leggi,  fu  cagione  prima  ad  essi  Gracchi,  secondo 
Dione  (I),  poi  a  Cesare  di  gittarsi  a  disviare  dall'onesto 
una  plebe  ognor  facile  in  tutte  le  nazioni  e  l'età  a 
seguitare  chi  la  blandisce  o  la  compra,  ed  a  crearsi 
d'ogni  audace  un  dominatore.  Se  egli  fosse  stato  al 
tutto  di  liberi  spiriti,  se  una  favilla  di  sincera  virtù 
romana  gli  avesse  accesa  l'anima  a  quel  perfetto 
amore  di  patria 

Ch'empie  a  mille  la  bocca,  a  dicci  il  petto, 

saiebbesi  partito  da  Clodio  e  da'furori  di  quella  li- 
cenza, e  volto  poi  là  dove  con  Pompeo,  con  Tullio, 
con  Marcello,  con  Scipione,  con  Cotta,  con  Sulpicio, 
con  Catone,  con  Bruto  e  con  tah  altri  cittadini  gra- 

(1)  Frammento  LXXXVI. 


160 

vissimi,  era  la  santità  delle  leggi,  la  giusla  potestà 
de'  consoli  e  del  senato,  la  maestà  in  fine  ,  anzi  la 
vera  immagine  di  essa  patria.  Sarebbesi  fatto  cioè  de- 
gno precursore  di  Livio,  il  ({uale  per  quella  sua  onestà 
di  giudizio  fu  tacciato  di  pompeiano  da  Cesare  Augusto, 
cioè  a  dire  di  veramente  romano:  secondo  che  Te- 
vento  non  tardò  a  comprovare.  Essendoché  il  trionfo 
della  plebe  sugli  ottimati,  opera  principalmente  del 
dittatore,  strascinò  seco  la  ruina  dello  stato  ,  come 
poi  quella  d'ogni  giustizia,  umanità  e  buon  costume 
sotto  de'cesari  ,  ed  in  fine  fu  seme  che  recò  frutti 
amarissimi  a  tutta  Italia. 

VI.  Di  Sallustio  ci  rimangono,  com'è  noto,  molti 
brani  delle  storie  e  due  comentari,  l'uno  sulla  con- 
giura di  Catilina,  l'altro  sulla  guerra  contro  Giugurta: 
non  consentendo  tutti  i  critici,  ed  a  ragione,  nell'at- 
tribuirgli  le  due  lettere  a  Cesare  sull'  ordinamento 
della  repubblica.  Nel  primo  comentario,  trattandosi 
di  cosa  ch'era  vivissima  nella  memoria  di  quanti  al- 
lora vivevano,  non  potè  allargare  il  freno  a  tutto  il 
suo  mal  volere  contra  i  nobili  ed  il  senato.  Sebbene 
in  gran  parte  il  fece  ;  così  con  molti  tratti  qua  e  là, 
come  col  porre  in  bocca  a  Catilina  ed  a'suoi  tante 
acerbe  e  sediziose  querele  senza  il  riscontro  d'alcuna 
confutazione  :  non  imitando  egli  il  costume  lodevole 
degli  altri  sommi,  che  ad  un'arringa  di  accusa  fanno 
seguirne  sempre  un'altra  di  difesa.  E  ben  Sallustio  il 
dovea,  volendo  acquistar  fede  all'  ufficio  storico  di 
non  mai  favorire  alcuno  a  danno  del  vero  :  percioc- 
ché tutti  sanno  come  nella  storia  siffatte  arringhe  non 
sono  altro  che  un  trovato  dello  scrittore,  sia  per  fare 
sfoggio  della  propria  facondia,  sia  per  dichiarare  più 


16Ì 

evidentemente  i  diversi  consigli  che  mossero  principi 
o  popoli  a  condurre  un'impresa.  Or  come  in  tutte 
le  arringhe,  che  si  conoscono  di  Sallustio  ,  non  av- 
vene  alcuna  in  favor  del  senato,  ma  tutte  sono  a 
caldeggiare  la  plebe  ?  Se  pur  non  volesse  trarsene 
quella  di  L.  Filippo  (non  però  scevra  da  ingiurie  ) 
che  si  ha  ne'frammenti.  Per  comune  giudizio  è  però 
certo,  ch'egli  di  Cicerone  suo  nemico  non  disse  ,  e 
quasi  a  mal  cuore,  se  non  ciò  che  non  potea  pas- 
sarsi di  dire  :  considerando  che  dalla  libera  Roma 
aveva  il  gran  console  e  cittadino  avuto  la  gloria  , 
dopo  Camillo  non  toccata  a  nessun  altro  de'nostri, 
di  essere  salutato  padre  della  patria.  Molto  meno  pose 
sul  labbro  al  principe  dell'eloquenza  alcuna  di  quelle 
sue  immortali  oraziani,  colle  quali  fulminò  il  tradi- 
tore della  repubblica.  \nzi  al  morto  oratore,  la  cui 
gloriosa  facondia  osò  in  un  luogo  delle  storie  chia- 
mar cagnesca,  die  carico  iniquamente  di  un  fatto  , 
ch'egli  afferma  narratogli  da  M.  Crasso,  il  quale  era 
pur  morto  :  fatto,  la  cui  manifesta  calunnia  mi  ma- 
raviglio non  essere  stata  avvertita  né  dal  Middleton, 
ne  da  altro  scrittore,  ch'io  sappia,  della  vita  di  Ci- 
cerone. 11  qual  carico  fu  d'avere  un  tal  L.  Tarquinio 
pubblicamente  riferito  a'  padri,  per  frode  di  esso  Ci- 
cerone, d'essere  stato  inviato  da  Crasso  con  avvisi  a 
Catilina.  «  Io  poi  (dice  Sallustio)  udii  Crasso  mede- 
simo apertamente  affermare  essergli  stata  apposta  una 
tale  contumelia  da  Cicerone  (1).  »  Certamente  fra 
Cicerone  e  Crasso  passarono  gravissime  inimicizie  an- 
che prima  della  famosa  congiura  del  690  :  ed  è  in- 

(1)  Gap.   48., 

G.A.T.CXXXIV.  It 


162 

dubitato  che  non  men  Crasso  che  Cesare,  ambidue 
viziosissimi,  erano  in  gran  sospetto  di  parteggiare  al- 
lora per  l'impresa  di  Catilina  :  non  altrimenti  ch'ave- 
vano già  fatto,  e  principalmente  Crasso  (secondo  la 
testimonianza  di  Asconio),  per  l'altra  congiura  di  esso 
Catilina  e  di  Cneo  Pisone  a  fine  di  trucidare  tutto  il 
senato,  essendo  consoli  nel  688  Cotta  e  Torquato. 
Cip  non  fu  una  contumelia;  né  a  Cicerone  era  animo 
così  abbietto  da  subornare  calunniatori,  egli  che  in 
una  orazione,  la  quale  fu  pubblicata  dopo  la  morte  di 
Crasso  e  di  Cesare,  palesemente  aveva  rivelato  a'pa- 
dri  siffatte  cose,  come  si  ha  da  Plutarco  nella  vita 
di  Cr^^ssQ.  Sembra  nondimeno  che  questi  non  tar- 
dasse a  ravvedersi  di  tanta  nequizia  ;  anche  perchè 
possessore  di  gran  ricchezza,  non  meno  che  avaro  , 
considerò  come  tutto  poteva  egli  perdere,  nulla  in 
fine  acquistare,  gittandosi  con  que'disperatissimi  d' 
ogni  avere  :  sicché  Tullio  medesimo,  nell'orazione  del 
suo  consolato  citata  da  Plutarco,  narrò  poi  come 
Crasso,  andato  una  notte  a  trovarlo,  gli  recò  una  let- 
tera in  cui  dicevasi  delle  insidie  di  Catilina,  e  così 
gli  tolse  ogni  dubbio  intorno  a  quell'atroce  setta,  eh' 
era  allora  il  subbietto  di  tante  ricerche.  Le  rivelazio- 
ni dunque  di  L.  Tarquinio  potevano  esser  ben  vere, 
senza  che  le  indettasse  Cicerone,  il  quale  poco  prima 
aveva  avuto  anzi  da  Crasso  così  gran  testimonio  di 
non  esser  più  ne'consigli  del  malvagio  cospiratore.  Il 
fatto  è,  o  signori,  che  se  in  Crasso  fosse  entrato  solo 
il  sospetto  d'essere  stato  supposto  reo  di  sì  odiosa 
colpa  per  istigazione  dell'arpinate,  non  sarebbesi  con 
tanta  solennità  levato  in  favore  del  consolato  di  quel- 
lo, e  di  ciò  che  allora  operò  a  difendere  e  conservare 


163 

la  patria  già  vicina  ad  essere  oppressa  :  fino  a  fiir- 
gliene  pubblicamente  in  senato  il  maggior  elogio  che 
mai  uomo  facesse  al  suo  salvatore.  «  Surse  Crasso 
(  così  riferì  subito  Cicerone  ad  Attico  )  ed  orna- 
tissimamente favellò  del  mio  consolato:  a  tal  punto 
di  dire,  ch'aveva  egli  da  me  l'essere  senatore,  l'es- 
sere cittadino,  l'esser  libero,  il  vivere  :  e  che  quan- 
te volte  vedeva  la  moglie  ,  quante  la  casa  ,  quante 
la  patria,  altrettante  pur  vedeva  il  mio  beneficio  (1).» 
Questo  non  è  ,  parmi ,  il  linguaggio  uso  a  tenersi  da 
un  sì  potente  verso  il  suo  turpe  calunniatore:  tanto 
più  ch'era  libero  a  Crasso  il  tacere. 

VII.  Se  non  che  mio  intendimento  non  è  parlare 
del  comentario  sulla  congiura  di  Catilina  :  sì  di  quello 
particolarmente  sulla  guerra  contra  Giugurta.  Non 
so  che  alcuno  fin  qui  n'abbia  tolto  ad  esame  la  parte 
puramente  storica,  favellando  di  un  antico  con  libertà 
antica  :  la  quale,  come  dice  un  famoso  scrittor  lati- 
no, abbiamo  più  perduta  che  l'eloquenza.  Il  che  sem- 
brami cosa  importantissima  a  doversi  fare  ,  perchè 
n'esca  un  retto  giudizio,  sia  dell'animo  e  della  fede 
di  Sallustio,  sia  della  condizione  romana  in  sì  cele- 
bre secolo,  e  delle  cagioni  di  molte  ire  che  poi  ar- 
sero nella  repubblica. 

Vili.  Della  guerra  giugurtina  non  abbiamo  notizia 
che  scrivesse  altro  storico  latino  prima  di  Sallustio. 
Gli  storici,  che  vennero  poi,  chi  meno  e  chi  più  servil- 
mente (e  fra  questi  L.  Floro)  il  seguirono,  presi  all' 
eccellenza  di  quello  stile,  che  come  tutte  le  cose  clas- 
siche mai  non  invecchia.  Quasi  al  tempo  medesimo 

(U  Ad  AUic.  lib.   1.  ep.  14. 


164 

{yevò  ne  scrisse  in  greco  Diodoro  siculo  ,  il  (juale 
aveva  vinggiato  anch'egli  nella  Numidia.  Non  fiorì 
Sallustio  al  tempo  deirimpresa  che  narra  :  essendo- 
ché nacque  nel  668  di  Roma,  e  i  fatti  della  guerra 
ci  compierono  dal  636  al  649,  in  cui  Giugurta  fu  dal 
re  Bocco  dato  piigioniero  ai  romani.  Solo  poi  nel 
708  andò  pretore  in  Numidia  ,  dopo  essere  stato 
quel  regno,  per  la  morte  di  Giuba,  fatto  nostra  pro- 
vincia da  Cesare  dittatore. 

IX.  Una  cosa  delle  principali  che  vuol  Sallustio 
nel  Giugurtino  si  è  di  mostrare  la  gran  corruttela, 
che  in  que'tempi  facea  del  senato  l'ignominia  della 
repubblica.  Tutto  v'era,  dic'egli,  in  rivendere  :  si  pro- 
stituivano i  voti  :  ogni  cosa  più  sacra  dai  nobili  po- 
sponevasi  al  danaro,  dai  nobili  in  quante  sono  brut- 
tezze dissolutissimi.  Ora  se  io  a  Sallustio  non  cre- 
derò essere  stato  allora  sì  gran  vituperio  non  solo  nel 
senato,  ma  generalmente  nella  repubbhca,  ne  attri- 
buisca egli  la  cagione  a  se  stesso.  Perchè  afferma  nel 
Catilinario,  che  i  costumi  non  divennero  guasti  se  non 
dopo  che  Siila  colle  armi  s'insignorì  dello  stato  :  es- 
sendoché prima  l'ambizione,  vizio  dalla  virtù  non  lon- 
tano, dominava  gli  animi  più  che  l'avarizia.  «  Più 
l'ambizione  che  l'avarizia  (così  egli)  da  prima  gli  ani- 
mi travagliava  :  vizio  prossimo  alla  virtù.  Ma  dacché 
L.  Siila,  ricuperata  coirarmi  la  repubblica,  da  buoni 
principii  trasse  le  cose  a  mal  fine,  diessi  ognuno  a 
rapire,  a  trarre  a  se  :  chi  l'altrui  casa,  chi  i  campi 
agognare  :  niun  modo,  niuna  modestia  essere  ne'vin-  ^ 
citori  :  sozzi  e  crudeli  fotti  ne'  cittadini  commetter-  I 
si  (1).  «  Avete  udito,  o  signori  ?  Tutta  questa  pra- 

(1)  Sed  primo  rriitgis  ambilio,  quam  uvaritia,  animos  hotninum 


165 

vita  (li  vizi  adunque  per  sua  stessa  sentenza  (  non 
disgiunta  da  qualche  amplificazione  rettorica  )  non 
surse  che  dopo  le  civili  vittorie  di  Siila  :  dopo  cioè 
alquanti  anni  che  fu  guerreggiato  con  Giugurta:  per-^ 
ciocché  prima  i  romani  non  altro  maggiormente  se- 
guirono che  una  specie  di  virtiì  ,  la  quale  Sallustio 
chiama  ambizione,  ed  altri  dicevano  gloria.  Che  s'egli 
altre  volte  si  contraddisse  (1),  tal  sia  di  lui.  Ac- 
cadeciò  sempre  agli  scrittori  che  riferiscono  cose 
non  vere.  Benché  io  creda,  non  ostando  a  ciò  vera- 
mente neppur  lo  storico  (2),  che  la  coriuzione  ,  la 
quale  non  negherò  incominciata  in  Roma  dopo  l'ultima 
guerra  punica,  giungesse  al  sommo  non  sotto  la  cru- 
deltà di  Siila,  ma  sotto  la  seduzione  di  Cesare,  che  ab- 
rogò in  parte  le  leggi  conservatrici  di  Siila  ,  tolse 
all'autorità  ogni  riverenza,  e  tutte  quasi  sfrenò  con- 
tro alle  leggi  patrie  la  popolari  licenze.  Indi  le  ab- 
bominazioni  dell'infame  triumvirato.  Ed  infatti  non 
doveva  Roma,  ne'tempi  che  ricorda  Sallustio,  essere 
ancora  tralignata  cotanto  dai  costumi  degli  avi,  se 
Tullio  nell'orazione  per  Cluenzio  (3)  non  si  tenne  di 
chiamarli  anzi  ottimi,  ragguagliati  con  quelli  dell'età 
sua.  E  certo  non  fa  in  un  governo  la  corruttela,  che 


exercebat  -.  quod  vitium  propius  virtuti  erat  ...  Sed  postquam  L. 
Sulla,  armis  recepta  republica,  ex  bonis  initiis  malos  eventus  ha- 
buit,  rapere  omncs,  truhere  -.  domum  alius,  alius  agros  cupere:  nc- 
que modum,  neqiie  modestiam  victores  habere  :  foeda  cru4eliaque  in 
eivibus   facinora  tacere.  Catilin.  ca|i.  II. 

(1)  Giugurt.  cap.  41   e  42. 

(2)  Ivi  e.  4. 

(3)  Gap.  33. 


166 

gli  uomini  attendano  ingordamente  a'  loro  profitti  r 
spesso  laidi  e  scellerati,  anziché  alla  cesa  pubblica? 
Non  fa  che  l'onestà,  la  temperanza,  la  magnanimità, 
la  giustizia  periscano,  e  che  popolo  e  ricchezze  non 
tornino  più  a  benelìcio  e  forza,  ma  piuttosto  a  danno 
e  pericolo  dello  stato  ?  Ora  se  in  tanto  guasto  tro- 
vavasi  Roma,  se  anzi  non  era  ancora  in  un  bel  vi- 
gore di  virtù  cittadina,  né  caduta  in  tutte  l'esage- 
razioni d'un'abusata  civiltà;  donde  avveniva,  o  signo- 
ri, che  continuasse  tuttavia  a  fiorirvi,  non  solo  il  ri- 
spetto alla  religione,  ma  grande  e  magnanimo  lo  spi- 
rito romano,  e  che  tutti,  se  un  generoso  morire  po- 
teva giovare  a  servir  la  patria,  obbedienti  e  pronti 
gareggiassero  a  far  di  se  un  sagrificio  ?  Potrei  qui 
recarne  irmumerevoli  esempi  :  e  dimostrare  come 
tanta  parte  d'Europa,  d'Asia  e  d'Affrica  colla  gagliar- 
dia  de'pO|3oli  virili  e  forti  fu  allora  conquistata  alla 
repubblica  :  poniamo  pure  per  ambizione  ,  se  così 
vuoisi,  non  però  in  tutto  per  avarizia,  la  quale  dell' 
ambizione,  o  ,  secondo  che  meglio  la  chiamavano  , 
della  gloria,  fu  ?empre  la  maggiore  avversaria  :  sic- 
come quella  che  di  veleni  imbevuta,  dice  Sallustio 
medesimo  (1),  corpo  ed  anima  infemminisce.  Inten- 
do, già  si  sa,  dir  questo  ampiamente  :  in  quanto  cioè 
vale  nella  storia  a  chiarire  il  carattere  generale  d' 
una  nazione  :  perchè  scendendo  a'particolari,  anche  i 
romani  erano  uomini,  e  sarebbe  stolto  che  io  fran- 
cassi tutti  in  sì  gran  dominio  dalle  passioni  più  o 
meno  perverse  degli  altri  uomini.  Affermo  nondimeno 
esser  somma  ingiustizia  in  uno  storico  il  tanto  esten- 

(1)  Catilin.  cap.  II.  Ed  Aulo  Gelilo  lib.  Ili  cap.  1. 


167 
dersi,  come  fa  Sallustio,  nell'enumerazione  de'mali, 
e  il  tacere  affatto  de'beni.  Più  cauto  in  ciò  fu  il  suo 
imitatore  Cornelio  Tacito.    Si    accesero  in  Roma  i 
pessimi  umori  principalmente   al  tempo  del  tumul- 
tuare de'Gracchi  :  e  non  pur  nella  plebe,  ma  nel  se- 
nato, che  venne  colla  plebe  a  sì  grave  e  lungo  con- 
trasto. Pochi  anni  prima  però  della   guerra   giugur- 
tìna  i  censori  Enobarbo  e  Metello  avevano  già  espulse 
dall'ordine  senatorio  quelle  persone,  che  in  qualche 
modo  s'erano  rese  colpevoH  co' loro  fatti,  secondo  che 
sempre  accade  nelle  civili  discordie.  Sicché  non  do- 
veva allora  il  senato  esser  certo  così  depravato,  co- 
me Sallustio  pretende  :  aggiuntavi  la  riverenza  che 
ancor  durava  grandissima  verso  la  potestà  censoria. 
X.  Ma  veggasi  alfine  quello  che  il  senato  operò 
con  Giugurta,  e  se  può  esser  vero  il  vergognoso  mer- 
cato che  tanti  nobilissimi  senatori  fecero  con  lui  del- 
l'utile e  della  dignità  della  patria. 

Assai  benemerito  della  repubblica  era  Giugurta, 
come  quegli  che  fu  con  Scipione  a  Numanzia  ,  ed 
avea  combattuto  al  suo  fianco  non  meno  con  fortezza 
che  con  lealtà,  capitanando  gh  aiuti  numidi  dal  re 
Micipsa  inviati  ai  romani.  «(  Con  assai  fatica  (  dice 
di  lui  Sallustio)  con  assai  studio,  modestissimamente 
inoltre  obbedendo,  e  spesso  ne' pericoli  avventuran- 
dosi, egli  in  breve  si  alzò  a  fama  sì  chiara,  che  som- 
mamente ai  nostri  caro,  venne  ai  numantini  in  ter- 
rore grandissimo.  E  di  vero  (cosa  soprammodo  ardua) 
in  battaglia    era    prode  e  savio  in  consiglio  (1).    » 

(1)  Multo  labore  multaque  cura,  praeterea  modestissume  pa- 
rendo, et  saepe  obviam  emdo  periculis,  in  tantam  claritudìnem  bre- 
vi pervenerit,  ut  nostris  vehementer  carus,  numantinis  maxumo  ter- 


J68 
Talché  da  Scipione,  ch'altamente  1'  ebbe  in  onore  , 
era  poi  stato,  finita  l'impresa,  esaltato  con  singolari 
lodi  innanzi  all'esercito,  donato  dei  doni  della  mili- 
zia, e  caramente  raccomandato  ad  esso  Micipsa  con 
una  lettera  afTettuosissima  che  ci  reca  Sallustio  (1), 
ed  è  questa  :  «  Grandissima  fu  la  prodezza  del  tuo 
Giugurta  guareggiando  a  Numanzia  :  il  che  son  certo 
doverti  riuscir  lieto.  Caro  è  a  noi  pe'suoi  meriti,  e 
somma  cura  porremo  che  tale  pur  sia  al  senato  e 
popolo  romano.  Per  l'amicizia  nostra  me  ne  congra- 
tulo teco.  Eccoti  un  uomo  degno  di  te  e  dell'  avo 
suo  Massinissa.  «  Il  che  essendo,  o  signori,  ognun 
vede  che  male  avrebbe  fatto  il  senato,  se  poi  leg- 
germente al  primo  richiamo  si  fosse  dimenticato  de' 
molti  obblighi  che  lo  stringevano  ad  un  principe  di  sì 
gran  cuore  e  consiglio  :  ad  un  principe  che  datasi 
cagione  di  romper  guerra  alla  Mauritania  o  all'Egitto 
poteva  essere  di  sommo  aiuto  alla  repubblica.  Tutti 
poi  sanno  che  massima  generalmente  di  que'  nostri 
savi,  oltre  al  non  costringere  mai  le  genti  soggetto 
a  spogliarsi  del  loro  essere  nazionale  ,  e  a  lasciare 
alcuna  delle  civili  abitudini,  con  che  spesso  natuia 
differenzia  fra  loro  i  popoli,  si  fu  il  non  usare  la  forza 
del  comando  se  non  dopo  solo  tornati  vani  del  tutto 
i  consigli  :  dalla  qual  sapienza  derivò  certo  quel  con- 
servare che  fece  Roma  per  tanti  secoli  le  sue  con- 
quiste in  paesi  fra  loro  così  vari  di  climi,  di  lingue, 
di  religioni.  Chi  allora  accusava  Giugurta?  Era  Ader- 
bale suo  competitore.  Che  fatto  avea  questo  Ader- 

rori  esset.  At  sane,   quod  difjicillumum  in  primis  est.,  et  praeiio  slre- 
nuus  erat,  et  bonus  Consilio.  Giiigurt.  e.  7. 
(1)   Gap.  9. 


169 

baie  ?  Provocatolo  a  battaglia  ,    era    stato  vinto.  E 
perchè  provocarlo  ?  Perchè  l'incolpava  d'avergli  uc- 
ciso il  fratello  lemsale.  Ma  la  cosa  non   era  affatto 
chiara  :  essendoché  se  Aderbale  l'aff'ermava,  gli  am- 
basciatori di  Giugurta  con  gran  sicurtà  la  negavano: 
e  dicevano  in  vece  che  fu  lemsale  ucciso  da'numidi 
per  le  sue  crudeltà,  né  per  altro  Aderbale  sì  quere- 
lava, se  non  perché  affrontatolo  colle  armi,  era  stato 
da  lui  superato.  Che  dunque  doveva  fare  il  senato? 
Ciò  che  appunto  fece  :  non   correre  a  recargli  ver- 
gogna, ma  inviare  dieci  de'suoi  più  prudenti^'in  Nu- 
midia,  i  quali  riconciliati  gli  animi  fraterni,  divides- 
sero per  futura  tranquillità  fra  Giugurta  e  Aderbale 
li  regno  tutto  di  Massinissa,  aggiunta  per  metà  all' 
uno  e  all'altro  la  parte    che    lemsale    avea  lasciata 
morendo. 

XI.  Trova  qui  subito  Sallustio  di  che  dannare  il 
senato  sotto  apparenza  che  avesse  Giugurta  co'doni 
sedotto  la  maggior  parte  di  esso  (1).  Pur  vinsero 
poro  coloro,  soggiunge,  che  alla  grazia  e  al  danaro 
anteponevano  il  vero:  Vidi  tamen  pars  illa,  qui  vero 
prelium  et  graliam  an/e/erc^^af  (2).  Or  altri  creda  dun- 
que, non  io,  che  questi  buoni  fossero  pochi  di  nume- 
ro, come  avea  già  detto  lo  storico  nel  capo  decimo- 
quinto:  At  cantra  panai,  quibns  bonnm  et  aequnm  di- 
viliis  carins  ;  perchè,  s'io  non  fallo,  i  voti  de'pochi, 
1  quali  seguitavano  il  retto,  non  avrebbero  mai  po- 
tuto vincere  in  senato  quelli  de'molti  rei  di  corru- 
zione. Ma  Sallustio,  che  sembra  non  aver  dettato  il 


(i)  Gap.   13. 

(2)  Cap.    16. 


170 

suo  comentario  quasi  per  altro  fine,  che  per  grati- 
ficarsi la  parte  demagoga,  alla  quale  aderiva,  ed  in- 
sieme per  vendicarsi  dell'onta  ricevuta  da'nobili  e  dal 
senato,  non  si  curò  d'esser  qui  (mi  sia  lecito  Udirlo) 
neppur  consono  alla  ragione  :  lasciando  anche  stare 
quel  gittarsi  con  tanto  fiele  contro  di  Scauro  e  di 
Opimio,  grandi  cittadini,  che  il  testimonio  della  co- 
scienza preferirono  a  tutti  i  discorsi  degli  uomini  , 
e  che  io  prenderò  volentieri  a  purgare  d'ogni  indegna 
calunnia  nella  seconda  parte. 

XII,  Giunti  i  legati  romani  in  Numidia,  tutta  la 
divisero  fra  i  due  fratelli.  Di  che  lo  storico  trova  dì 
nuovo  a  dire  :  essendo,  secondo  lui,  toccata  a  Giu- 
gurta  la  parte  meglio  ubertosa,  quando  l'altro  non 
ebbe  che  la  pili  riguardevole  di  porti  e  di  edifici  : 
Portuosior  et  aedifìcus  magis  exornata  (1).  Corruzione 
adunque  di  essi  legati.  Ma  come  avevano  a  gover- 
narsi ?  Non  correva  il  regno  numidico  tutto  eguale 
dall'un  capo  all'  altro  per  positura  e  condizione  di 
luoghi.  Conveniva  ad  ogni  modo  fare  la  divisione  fra 
una  parte  più  fiorente  di  ubertà,  ed  un'altra  più  bella 
di  porti  e  di  edifici.  Ognun  vede  che  i  pregi  di  am- 
bedue a  un  di  presso  si  bilanciavano  :  ed  a  Giugurta 
cadde  in  partaggio  la  più  fertile  ed  opulenta,  o  per- 
chè non  potevasi  che  far  così;  o  perchè  meglio  con- 
facevasi  a  lui  di  spiriti  alti,  che  all'altro  dallo  stesso 
Sallustio  ritrattoci  per  un  paventoso  di  tutto  e  un 
codardo  (2);  o  anche  perchè  il  senato  amò  cogliere 
questa  opportunità  di  riconoscere  i  grandi  suoi  me- 


(1)  Gap.    16. 

(2)  Gap.  20. 


171 

l'iti  e  la  fede  fino  allora  serbata  a  Roma.  E  lo  po- 
teva senza  mancare  all'onesto  :  essendoché  il  senato 
fosse  fra  i  due  fratelli  entrato  arbitro,  e  non  giudi- 
ce :  niuno  ignorando  che  l'arbitro  si  attiene  con  al- 
cuna latitudine  all'  equità  ,  come  il  giudice  stretta- 
mente alla  legge.  Aggiungasi  ,  non  esser  noto  per 
nessun  passo  del  comentario  stesso,  che  mai  Ader- 
bale ne  facesse  richiamo. 

XIII.  Partito  il  regno  così  da'legati,  e  tornati  essi 
a  Roma,  vuol  Sallustio  (1)  che  Giugurta,  sia  pe'con- 
forti  di  que'romani  ch'egli  avea  compri  coH'oro,  sia 
perchè  tutto  credeva  in  Roma  venalia  esse,  e  perciò 
poter  commettere  senza  tema  ogni  enormità,  invase 
improvvisamente  la  parte  del  regno  ch'era  di  Ader- 
bale. Non  altro  è  questa  che  una  supposizione  dello 
storico,  soprattutto  vana  quanto  all'animo  segreto  del 
re,  come  sono  generalmente  le  cose  che  alcuno  pre- 
sume indovinando  affermare  degl'intimi  pensieri  degli 
uomini.  E  che  sia  tale,  chiaramente  si  raccoglie  da 
quello  che  subito  avvenne:  cioè  che  il  senato  riprovò 
altamente  il  fatto  di  Giugurta  ;  e  quando  seppe  che 
i  contendenti  erano  venuti  di  nuovo  alla  guerra,  non 
solo  impose  ad  ambidue  di  cessar  dalle  armi  ,  ma 
inviò  in  Affrica  altri  legati  perchè  aiutassero  le  ra- 
gioni di  Aderbale  che  si  raccomandava.  Così  senza 
niun  maligno  sospetto  narra  semplicemente  la  cosa 
Diodoro  siculo  in  un  frammento.  Lo  scaltro  e  feroce 
Giugurta  voleva  spacciar  l'impresa  prima  che  i  legati 
giungessero  :  segno  manifestissimo  che  nulla  in  essi 
sperava.  I  legati  infatti,  i  quali  con  estrema  spedi- 

(1)  Gap    20. 


172 

lezza  compierono  il  viaggio,  pervenuti  che  fiuono  in 
Affrica,  e  saputo  che  il  vinto  Aderbale  giù  tcnevasi 
stretto  d'assedio  in  Cirta,  gli  raffermarono  la  volontà 
del  senato,  dichiarando  che  avessero  l'uno  e  l'altro 
a  far  valere  le  loro  ragioni,  non  per  via  d'armi,  ma 
per  autorità  di  diritto  (1).  A  grande  onore  li  raccolse 
Giugnrta,  con  magnifiche  parole  esaltando  la  rive- 
renza sua  verso  i  padri,  i  suoi  meriti  a  Numanzia  , 
l'antico  favor  di  Scipione  :  quanto  però  alle  novità 
presenti,  pesargli,  diceva,  non  pure  i  continui  oltraggi 
che  ricevea  dal  fratello,  ma  l'avergli  esso  insidiata 
la  vita,  e  l'essersi  dopo  ciò  spinto  anche  a  combat- 
terlo :  mal  operare  il  senato  vietando  a  lui  la  ragion 
delle  genti  (2).  Nondimeno  spedirebbe  sopra  questo 
a  Roma  un'ambasceria.  Laonde  i  legati,  che  cosi  com*^ 
erano  senza  esercito  altra  commissione  non  avevano 
che  d'autorevoli  mediatori  fra  due  alleati,  non  potuto 
far  altro  e  neppur  vedere  Aderbale,  ripresero  la  via 
di  Roma  partecipando  ai  senatori  la  promessa  dell' 
ossequioso  re  d'inviare  quanto  prima  i  suoi  oratori 
a  giustificare  il  fatto. 

XIY.  Prima  però  che  questi  oratori  fossero  in 
Roma,  eccoti  lettere  di  Aderbale,  il  quale  miserabil- 
mente pregava  non  pur  d'aiuto,  ma  di  scampo  dal 
vicino  strazio  che  Giugurta  era  per  fare  dì  lui.  Niun 
dica  se  di  tanto  ardire  fieramente  si  adirasse  il  se- 
nato, quasi  il  barbaro  si  facesse  omai  beffe  della  po- 
testà romana,  benché  in  parole  protestasse  rispetto 
e  obbedienza.  Sicché  avrebbe  voluto  incontanente  spe- 


li) Cap.  21. 
(2)   Cap.  22. 


173 

dire  un  esercito  nella  Numidia.  Ma  Cirta  trovavasi 
strettamente  assediata  :  Aderbale  in  imminente  peri- 
colo :  levar  legioni  ed  apprestar  navi  a  condurle  non 
era  cosa  che  si  potesse  in  tempo  sì  breve.  Fu  dun- 
que deciso  che  senza  frapporre  indugio  partissero  pel 
regno,  non  più  con  esortazioni,  ma  con  assoluti  or- 
dini e  con  minacce,  nuovi  legati,  uomini  per  auto- 
rità gravissimi,  capo  de'quali  era  Marco  Scauro,  stato 
console ,  e  allora  principe  del  senato.  Qual  cosa 
avrebbe  più  potuto  mostrare  la  gran  sollecitudine 
della  repubblica  verso  di  Aderbale  ?  Navigano  essi 
dopo  soli  tre  giorni  da  Roma  in  Affrica,  presto  pren- 
dono terra  ad  Utica,  e  di  là  scrivono  imperiosamente 
a  Giugurta  :  essere  inviati  dal  senato  ;  venga  senza 
più  a  render  conto  di  se  nella  provincia  romana.  Non 
pareva  ancor  tempo  al  barbaro  dì  scoprirsi  :  perciò 
temendo  che  col  tardare  più  oltre  non  si  adirasse 
Scauro,  ch'egli  assai  temeva,  qiiem  phirimum  meliic- 
hat  (1)  (segno  che  Scauro  non  era  corrotto)  dopo  in- 
vano tentata  ogni  opera  d'aver  prima  nelle  mani  la 
città  di  Cirta  ed  Aderbale  ,  obbedisce  :  ma  presen- 
tatosi sotto  colore  di  sommissione  ai  legati:  «  Ben- 
ché questi  (scrive  Sallustio)  gli  denunziassero  gravi 
minacce  in  nome  del  senato  se  non  lasciasse  l'espu- 
gnazione; nondimeno,  dopo  essere  stati  in  un  gran 
parlare,  i  legati  senza  nulla  concludere  dovettero  ri- 
tornarsene. «  Forse  di  questo  colloquio  tocca  un  al- 
tro frammento  di  Diodoro,  in  cui  dicesi,  che  quan- 
tunque Giugui'ta  «  ammirasse  il  valor  de'  romani , 
non  pertanto  coraggiosamente  ed  a[tei'tamonte  dichia- 

(1)  Cap.  25. 


174 

rò  con  parole  la  loro  smisuranza  di  potestà,  la  quale 
perciò  facevali  assaltar  l'Affrica .  »  E  veramente  non 
è  a  credersi  che  quel  sì  prode  ed  altero  dovesse  por- 
tar' con  pazienza  d'essere  dalla  repubblica  reputato 
in  fatti  piuttosto  suddito,  che  re  collegato,  sicché  in 
regno  libero  e  forte  ,  e  diviso  da  tanto  nnare  ,  non 
potesse  neppur  muoversi  contra  un  insidiatore,  senza 
volontà  e  ordine  del  senato.  Preso  perciò  da  ira  e 
da  orgoglio,  ed  impaziente  omai  di  scuotere  il  giogo 
di  quel  vassallaggio  facendo  sua  tutta  Numidia,  tanto 
stringe  d'ogni  parte  lo  sciagurato  Aderbale,  che  lo 
sforza  in  fine  alla  resa,  purché  salva  la  vita,  la  que- 
stione del  regno  si  rimettesse  a  giudicare  ai  romani. 
Questa  seconda  condizione  è  in  Sallustio,  non  in  Dio- 
doro :  il  quale  afferma  solo,  avere  Aderbale  ceduto 
lo  stato  con  patto  di  poterne  altrove  andar  libero. 
Ma  niun  patto  fu  sacro  a  quella  crudele  cupidigia 
di  regno  :  laonde  Giugurta,  avuto  in  balìa  l'infelice, 
non  rispettando  né  sangue,  né  qualità  di  supplicante 
(perciocché,  secondo  Diodoro,  Aderbale  uscì  di  Cirta 
colle  insegne  sacerdotali)  a  grande  strazio  l'uccise. 
XV.  Avutasi  notizia  in  Roma  di  fatto  sì  reo,  in- 
credibile è  a  dirsi,  scrive  Sallustio,  come  gli  amici 
del  re  si  brigassero  di  scemarne  l'atrocità  e  di  porre 
indugio  al  decreto  della  meritata  vendetta.  Se  ciò  fu 
vero,  o  signori,  dovevano  costoro  esser  ben  pochi  e 
di  niun  credito.  Il  vero  si  fu  che  il  senato,  anziché 
lasciarsi  sopraffare  da  doni  e  lusinghe  regie,  e  man- 
care vergognosamente  a  se  stesso  (e  quanti  uomini 
eccellentissimi  non  aveva  ?  ),  di  fatto  determinò  che 
uno  de'consoli,  L.  Calpurnio,  traghettasse  in  Numi- 
dia  con  le  legioni  e  gran  forza  di  danaro  e  di  vet- 


175 

tovaglie  per  condurre  finalmente  la  guerra  centra  Giu- 
gurta  :  e  fargli  costar  caro  d'avere  in  onta  dell'in- 
timazione del  senato,  dice  l'antico  abbreviatore  di  Li- 
vio, commesso  cotanto  eccesso  contro  di  x\derbale 
alleato  della  repubblica. 

PARTE  SECONDA 

I.  Quando  intese  Giugurta  che  non  più  messaggi 
d'accordo  e  di  pace  venivano  in  Numidia,  ma  romani 
eserciti,  contro  a'quali  sapea  per  prova  se  fosse  duro 
il  combattere,  subito  pensò  via  di  scampare  da  tanto 
pericolo,  provando,  se  mai  potevasi,  di  prendere  co' 
doni  il  senato.  Adopriamo,  egli  disse.  Toro,  incontro 
a  cui  per  ordinario  non  v'ha  forza  che  regga.  Fece 
perciò  che  incontanente  movessero  alla  volta  di  Ro- 
ma in  qualità  d'oratori  il  figliuolo  ed  alcuni  de'suoi 
più  intimi,  imponendo  loro  di  non  risparmiare  cor- 
ruzione alcuna.  Che  operarono  allora  i  principali  della 
repubblica,  i  quali  Sallustio  vuol  farci  credere  vinti 
dal  danaro  numidico  ?  Che  operò  il  senato,  secondo 
lui,  votato  quasi  a  Giugurta?  Questo,  o  signori:  che  a 
coloro,  senza  grazia  alcuna  d'esser  ascoltati  da'padri, 
fu  comandato  di  sgombrare  l' Italia  ,  termine  dieci 
giorni  :  recando  solo  al  re,  essere  volontà  romana 
ch'egli  ponesse  nell'arbitrio  del  senato  se  stesso  ed 
il  regno.  Se  i  corrotti  e  parlano  e  operano  con  sif- 
fatta risoluzione  e  maestà,  io  non  so  che  farebbero 
se  corrotti  non  fossero. 

II.  Approda  intanto  il  console  Calpurnio  in  Af- 
frica traendo  seco  di  compagnia ,  siccome  usavasi  , 
alquanti  nobili  di  gran  credito,  fra'quali  il  consolare 


176 
M.  Scauro  sì  pratico  delle  cose  della  Numidia.  Uo- 
mo d'animo  era  Calpurnio,  faticante,  ingegnoso,  ac- 
corto, fortissimo  ne'pericoli  :  ma  tutte  queste  buone 
arti,  secondo  Sallustio,  impedia  l'avarizia.  Entra  egli 
in  Numidia,  e  guerreggiando  s'impadronisce  di  molte 
città  e  d'assai  gente.  Se  non  che  Giugurta,  ridottosi 
ornai  in  grandi  strette,  trova  modo,  e  gli  succede  , 
se  prestiamo  fede  allo  storico,  di  sedurre  il  console 
per  opera  soprattutto  di  Scauro.  Ora  qui  cade  il 
dire  di  questo  Scauro,  verso  cui  non  ha  Sallustio 
altre  parole  che  d'odio  e  disprezzo.  Ed  egli  e  i  suoi 
pari  (mi  pesa  il  dirlo)  ciò  facevano  per  cagione  ben 
rea  :  perciocché  Scauro,  della  nobilissima  gente  Emi- 
lia, aderente  sempre  al  senato  e  fautor  delle  leggi , 
aveva  armato  col  suo  consiglio  Opimio  contra  C.  Grac- 
co, Mario  contra  Glaucia  e  Saturnino  ,  sommi  capi 
e  dirò  quasi  regnanti  della  setta  plebea,  e  pesti  di 
quella  età.  Di  che  rodendosi  i  faziosi,  non  si  tennero 
per  vendicarsene  di  chiamarlo  tante  volte  in  giu- 
dizio, quante  si  legge  ne'frammenti  dell'  arringa  di 
Cicerone  in  ftwore  di  Scauro  suo  figliuolo.  Ma  sem- 
pre invano.  Ora  ch'egli  fosse  uomo  da  lasciarsi  vin- 
cere ad  un  turpe  guadagno,  credo  che  solo  Sallustio 
fra  gli  antichi  lo  abbia  detto  o  per  alcuna  ira  pri- 
vata contro  di  esso  Scauro  figliuolo  ,  pompeiano  di 
parte  e  amico  di  Cicerone,  o  trattone  forse  cagione 
da  un  sarcasmo  del  furibondo  accusatore  Memmio  (1): 
indi  lo  ripetè,  quattro  e  più  cent'anni  dopo,  Publio 
Vittore  :  il  quale  stranamente  poi  si  contraddice  nelle 
somme  lodi,  onde  fu  costretto  onorarlo  :    come    se 

(1)  Ciceroiif,   De  orai.   lib.  II  cap.   70. 


177 

un  magistrato  rotto  alla  corruzione  potesse  risplen- 
dere d'alcuna  vera  virtù.  Cicerone,  che  d'oltre  a  vent' 
anni  avanzava  d'età  Sallustio,  e  che  nella  prima  sua 
giovanezza  aveva  conosciuto  il  venerando  vecchio  (1), 
grandemente  in  tutte  le  sue  opere  lo  esalta  di  bontà, 
di  sapienza,  di  fede,  di  rettitudine  (2)  :  gli  dà  titolo 
d'uomo  sommo  e  grave,  d'ottimo  cittadino,  di  for- 
tissimo senatore  (3)  :  giunge  fino  ad  innalzarlo  al 
vanto  di  custode  della  repubblica  (4),  il  quale  (sono 
sue  proprie  parole)  a  tutte  le  sedizioni  da  C.  Gracco 
fino  a  Q.  Vario  aveva  fatto  fronte,  senza  ritrarsene  o 
per  violenza,  o  per  odio,  o  per  minaccia  (5).  Anzi 
nel  trattato  degli  offici  (6)  lo  celebra  per  non  mi- 
nore del  suo  Cr  Mario  :  perciocché  poco  valgono  fuori 
le  armi  (dice  il  sapientissimo  oratore)  se  in  casa  non 
è  consiglio.  E  duolsi  nel  Bruto  (7),  che  si  leggesse 
da'romani  la  vita  di  Ciro,  anziché  la  scrittasi  da  Scau- 
ro,  avvisando  che  se  preclarissima  doveva  stimarsi  la 
prima,  non  era  però  in  tutto  acconcia  alle  cose  no- 
stre, ne  punto  da  preferirsi  alle  lodi  di  sì  egreggio 
senatore,  console  e  cittadino.  Sentenza  oltre  ad  ogni 
dire  onorevolissima:  alla  quale  fa  eco  pur  Tacito  nel 
proemio  della  vita  di  Agricola.  Sicché  fu  tanta  in 
Roma  la  venerazione  di  quella  ,  cui  anche  Valeno 
Massimo  chiamò  bontà  e  santità  di  vita  (8),  che  nel 

(i)  De  oOlc.  lib.  I.  cap.  22.  Fragmenta  Oration.   prò  Scaiiro. 

(2)  In  Brut.  e.  29.  Pro  domo  sua  e.   19. 

(3)  Pro  Murena  e.  17.  De  Offic.  lib.  1.  cap.  39. 

(4)  Pro  Scauro,  presso  Asconio  : 

(5)  Pro  Sextio  e.  47. 

(6)  Lib.  1  cap.  22. 

(7)  Loc.  cit. 

(8)  Lib.  vili  cap.  5.  —  Ascon  ,  in  orai  prò  Scauro. 

G.A.T.CXXXIV.  12 


178 
senato  e  nel  foro  valevagli  per  eloquenza  meglio  che 
se  fosse  stato  grande  oratore  (1).  B'  onde  avvenne 
quel  fatto  eosl  dagli  antichi  celebrato,  ch'egli  col  pro- 
nunciare il  5U0  nome,  e  col  dire  :  «  Vario  sucrone- 
se,  o  romani,  afferma  che  M.  Scauro  ha  incitato  alla 
guerra  i  confederati  :  M.  Scauro  lo  nega  :  testimoni 
non  v'ha  :  a  chi  voi  crederete  dei  due  (2)  ?  »  con 
questo  solo  dire  invittamente  trionfò  d'una  capitale 
accusa  datagli  dal  tribuno  Q.  Vario.  E  di  lui  certa- 
mente intendeva  Orazio  quando  nell'ode  duodecima 
del  libro  primo  a  grande  onore  cantava  : 

Regidum  et  Scauro^  animaeque  magnae 
Prodigimi  Paulum  superante  poeno  : 

di  lui  Giovenale  nella  satira  seconda  là  dove  sbeffa 
coloro  che  volevano  innanzi  alle  genti  fingersi  Scauri, 
essendo  d'ogni  vizio  vituperati  :  e  specialmente  nella 
satira  undecima,  in  cui  il  severo  cittadino  è  posto, 
non  ch'altro,  in  ischiera  co'Fabi,  Fabrizi  e  Catoni  : 

Qmm  tremerent  autem  Fabios  dunimque  Catonem 
Et  Scauros  et  Fabricios,  postremo  severos 
Censoris  mores  etiam  collega  timer  et. 

E  infatti  delle  sue  virtìi  si  raccontavano  molte  cose: 
fra  le  quali  chiarissima  è  quella,  degna  invero  dell' 
antica  austerità  romana,  del  non  permettere  che  più 
venisse  al  suo  cospetto   il   figliuolo,  che  disonorato 

(1)  Cic.  in  Bruto  e.  29. 

(2)  Cic.  nell'orazione  prò  Scauro,  Valerio  Massimo  e  P.  Viitore. 


179 

aveva  la  casa  disertando  le  romane  insegne  :  per  la 
rigidezza  della  qual  punizione  il  misero  giovane  si  dio 
la  morte  (1).  Fu  egli  console,  principe  del  senato  , 
trionfatore  de'liguri  e  de'  gantisci  :  e  in  tempo  ap- 
punto della  guerra  giugurtina,  anzi  dopo  il  suo  ri- 
torno dalla  Numidia,  venne  eletto  alla  censura  coti 
M.  Livio  Druso  :  sicuro  argomento  che  mai  non  era 
caduto  in  concetto  al  popolo  d'imputargli  alcitna  di 
qualle  infamie  che  gli  appone  Sallustio.  De'costumi 
di  Calpurnio  non  ci  dà  notizia,  ch'io  sappia  ,  altro 
scrittore,  salvo  Plutarco  (2);  il  quale  per  bocca  del 
vanitoso  Mario  lo  taccia,  non  d'alcuna  reità,  ma,  con- 
traddicendo a  Sallustio,  di  non  atto  a  i*eggere  il  ca- 
rico di  tanta  guerra. 

III.  Ora  tutte  le  cose  che  scrive  Sallustio  contra 
que'due  personaggi  a  ciò  si  riducono,  che  Calpurnio, 
qual  se  ne  fosse  la  militar  cagione,  e  probabilmente 
perchè,  secondo  la  risposta  fatta  intimare  in  Roma 
al  figliuolo  di  Giugurta,  non  credeva  in  fine  doversi 
altro  chiedere  da'romani  al  guerrier  di  Numanzia,  al 
re  alleato,  al  nipote  ed  erede  di  Massinissa,  se  non 
di  riconoscere  in  tutto  la  superiorità  della  repubbli- 
ca, e  ad  essa  rendere  omaggio  :  ad  essa  pronta  del 
pari  e  a  perdonare  a^'suggetti  e  a  domare  i  superbi: 
Calpurnio,  dissi  (non  essendo  forse  discorde  il  con- 
siglio di  Scauro),  in  vece  di  spìnger  la  guerra  all'ul- 
timo guasto  della  Numidia  e  mettere  in  disperazione 
popolo  e  re,  fu  pago  che  atterrito  Giugurta,  né  pre- 
sumendo di  più  levar  capo  e  óémbattei'e  contro  Ro- 

(1)  P.  Vittore,  De  vir.  ìllusilr.  e.  76. 

(2)  In  Mario. 


180 

liia,  ignominìosamente  si  arrendesse  al  nostro  eser- 
cito, pagasse  gran  somma  all'erario,  desse  elefanti  , 
cavalli  ed  altro.  Che  il  console  ciò  facesse  senz'averne 
ottenuto  licenza  dal  senato  e  dal  popolo,  non  sembra 
potersi  mettere  in  dubbio  anche  per  l'autorità  dell'ab- 
breviatore  di  Livio  (che  secondo  il  Niebuhr  sarebbe 
Livio  medesimo),  il  quale  passandosi  d'ogni  suppo- 
sizione maligna  dice  solo  di  lui,  che  pacem  cum  lu- 
gurta  iniussu  populi  et  senatus  fedi.  Il  che  saputosi 
in  Roma,  scrive  Sallustio,  se  ne  alterò  gravemente  il 
popolo  biasimando  il  console,  e  disputossi  in  senato 
se  doveva  o  no  approvarsi  il  fatto.  Lo  credo  bene, 
0  signori  :  perchè  tal  era  l'uso  della  repubblica  quan- 
do chiare  abbastanza  non  apparivano  le  cagioni,  dalle 
quali  un  capitano  potè  essere  indotto  a  i^overnarsi 
più  in  uno  che  in  altro  modo  :  né  ai  trattati ,  sic- 
com'è  noto,  davasi  veruna  forza  dal  popolo  re,  se  non 
dopo  una  pubblica  deliberazione  e  una  legge.  Se  ciò 
ch'erasi  risoluto  in  provincia  non  aveva  ricevuto  la 
conferma  in  Roma,  non  serve  ch'io  ricordi  ciò  che 
accadde  ai  consoli  Postumio  e  Mancino,  non  sedotti 
certo  da  nessun  oro,  per  gl'ignobili  patti  di  Gaudio 
e  di  Numanzia.  Comechè  sia,  ciò  stesso  chiaramente 
dimostra  che  Giugurta  non  aveva  in  Roma  un  gran 
numero  di  parziali,  se  l'accordo  preso  con  lui  da  Gal- 
purnio,  anche  con  tanto  utile  e  onore  della  repub- 
blica, così  commosse  e  il  senato  ed  il  popolo. 

IV.  Non  sembrò  vero  a  Sallustio  d'esserghsi  c/ata 
qui  l'occasione  d'insultare  a  sua  posta  tutto  l'ordine 
de'nobili  :  attribuendo  cioè  per  solo  esercizio  orato- 
rio a  G.  Memmio,  tribuno  eletto  della  plebe,  un'ora- 
zione non  meno    veementissima  eh'  eloquentissima  : 


181 

nella  quale  non  parlandosi  che  poche  cose  della  guerra 
o  di  Giugurta,  tutta  la  facondia  del  demagogo  si  versa 
a  vituperare  patrizi  e  senato.  Ho  detto  per  esercizio 
oratorio  :  perciocché  V  orazione  è  assolutamente  di 
Sallustio,  e  non  di  Memmio,  come  ben  palesano  e  lin- 
gua e  stile.  Memmio  infatti,  ch'egli  ci  esalta  per  lode 
di  eloquenza  come  uno  de'maggiori  di  quell'età,  non 
fu  che  un  dicitore  mediocre,  benché  accusatore  acre 
ed  acerbo,  per  sentenza  di  chi  in  queste  cose  vuol 
esser  sovrano  giudice,  cioè  di  Cicerone  nel  Bruto  (1). 
Certo  non  si  ha  ricordo  alcuno  di  lui  né  in  Quinti- 
liano né  nell'autore  del  trattato  della  perduta  elo- 
quenza. Non  altrimenti  ch'esercizio  oratorio  é  nel  co- 
mentario  stesso  l'altra  orazione  così  splendida  e  tersa 
di  C.  Mario  tornato  di  Numidia  e  fatto  console  quasi 
a  grido  di  plebe  :  orazione  ugualmente  piena  a  ri- 
bocco di  contumelie  contro  chi  non  aveva  a'suoi  oc- 
chi il  vanto  d'esser  nato  dell'ultima  sordidezza.  Es- 
sendoché Mario  come  fu  degl'invittissimi  capitani  che 
avesse  mai  la  repubblica,  così  fu  pure  idiota  affatto 
d'ogni  sorta  di  lettere.  Sicché  io  nel  leggere  quella 
sua  diceria,  nella  quale  tutti  quasi  ardono  gli  spiriti 
sallustiani,  mentre  lodo  l'arte  efficacissima  dello  sto- 
rico, non  posso  però  fra  me  stesso  riderne  meno  , 
che  del  discorso  così  sapiente  ed  ornato,  il  quale  da 
Q.  Curzio  è  posto  sul  labbro  degli  sciti  presentatisi 
ad  Alessandro.  Ma  perchè  Sallustio,  prontissimo  sem- 
pre a  metterci  innanzi  corruttele  e  delitti,  perchè  poi 
lascia  di  svelar  l'innocenza  indubitatamente  ricono- 
sciutasi del  virtuoso  ed  infelice  Turpilio  (2),  il  quale. 

(1)  Cap.  36. 

(2)  Giugurt.  cap.  67  e  69. 


182 

essendo  uscito  salvo  della  città  di  Vacca,  fu  condan- 
nato qual  traditore  nelle  verghe  e  nel  capo  per  opera 
fattane  principalmente  da  Mario,  che  vantavasì,  dice 
Plutarco  (1),  di  aver  messa  con  ciò  addosso  a  Me- 
t^Ilp,  mQÌmi'&  dell'ospite  suo,  una  furia  che  gli  la- 
cerasse ognor  la  coscienza  ?  Il  perchè  è  chiaro  ,  e 
(mi  duole  doverlo  dire)  indegnissimo  d'uno  storico  : 
cioè  che  Mario  fu  capo  di  quella  setta,  la  quale  poi 
Gasare  fece  rivivere  e  mantenne  in  potere  colla  pre- 
potenza della  vittoria. 

V.  j^ra  prossimo  il  tempo  che  dovevano  adunarsi 
i  comizi,  ed  avendo  Calpurnio  fatto  ritorno  a  Roma, 
fu  inviato  in  Numidia  per  ordine  del  popolo  il  pre- 
tore L.  Cassio,  affinchè  data  a  Giugurta  la  fede  pub- 
blici» qua  il  conducesse.  Che  è  questo,  o  signori  ? 
Dunque  cessò  la  guerra  ?  La  resa  capitolata  col  re 
ebbe  dunque  in  Roma  l'assenso  ?  Dunque  senato  e 
popolo  accettarono  in  fine  ciò  che  aveva  patteggiato 
Calpurnio  ?  Trovò  Cassio ,  dice  Sallustio  ,  un  gran 
guasto  in  Numidia,  e  d'ogni  cosa  fatto  danaro  della 
cupidigia  de'capi,  mancandovi  la  presenza  del  console 
e  capitano.  Il  che  non  vorrò  affatto  negare:  né  pren- 
derò maraviglia  di  ciò  che  per  taute  storie  si  è  ve- 
duto accadere  anche  in  altri  tempi  ed  in  altre  na- 
zioni, e  nella  romana  stessa  quando  l'Emiliano  giunse 
all'esercito  sotto  Numanzia.  Farò  bene  avvertenza  , 
che  la  cosa  non  doveva  essere  tale  appunto,  quale  al 
suo  solito  amplificando  la  narra  Sallustio  :  e  che  anzi 
le  nostre  schiere  dovevano  colà  trovarsi,  non  fiacche 


(1)  lu  Mario- 


183 

e  prive  di  disciplina,  ma  gagliarde  e  prontissime  ai 
comandi  del  lor  capitano  :  se  Giugurta ,  eh'  era  sì 
scaltro  e  sapeva  ben  cogliere  le  occasioni  d'  alzarsi 
sul  collo  de'suoi  nemici ,  lasciò  tuttavia  da  Cassio 
strascinarsi  a  Roma  contra  deciis  regiiim  (sono  parole 
di  Sallustio),  cullu  qiiam  maxume  miserabili  (1).  È 
pur  questa  una  gran  cosa,  o  signori  :  essersi  allora 
Giugurta  rimesso  così  umilmente  alla  nostra  mercè 
e  discrezione  !  A  tale  Calpurnio  lo  aveva  ridotto  ! 

VI.  Giunto  il  re  numida  in  Roma ,  vari  furono 
i  pareri  che  andarono  fra  la  plebe  :  chi  voleva  strin- 
gerlo in  catene,  chi  trarlo  al  supplizio,  se  non  rive- 
lava i  complici  de'suoi  consigli.  Ma  datagli  di  nuovo 
da  Memmio  la  fede  pubblica,  e  fattogli  cuore  a  pa- 
lesare il  vero,  sperando  nella  clemenza  del  popolo 
romano;  allorché  Giugurta  era  sul  rispondere,  ecco 
il  tribuno  C.  Bebio  imporgli  che  si  tacesse.  Clamor 
grandissimo  suscitossi  nel  popolo  :  lunga  ed  accesa 
l'altcrcazione  :  né  vi  mancarono  protesti  e  minacce. 
Tutto  però  fu  inutile  a  rimuovere  dal  suo  divieto  il 
tribuno.  Chi  era  questo  Bebio  ?  Era  uno  della  plebe. 
Se  v'ebbe  adunque  un  sedotto,  non  fu  il  senato,  sì 
fu  questo  plebeo:  perciocché  il  senato  né  punto  si 
mosse,  né  prestò  al  re  favore  alcuno.  Ed  anche  il 
fatto  così  assoluto  e  dirò  sfrontato  di  Bebio  mi  ha 
molto  dell'improbabile,  almeno  come  lo  narra  Sallu- 
stio. Certo  l'abbreviatore  di  Livio  né  tace.  Ed  io  (se 
potessi  qui  dire  senza  temerità  ciò  che  penso)  cre- 
derei piuttosto  che  Bebio,  il  quale  non  doveva  pro- 
babilmente partecipare  del  furore  e   della  protervia 

(1)  Gap.  33. 


184 

de'suoi  colleghi,  non  per  altro  imponesse  silenzio  a 
Giugurta,  se  non  perchè  questi  colle  sue  arti  e  per- 
fidie (sapendosi  forse  che  teneva  accordo  co'semina- 
tori  di  scandalo)  non  potesse  crescere  i  pessimi  umori 
non  ancora  spenti  del  tutto  dopo  le  discordie  de'Grac- 
chi:  e  maggiormente  umiliare  i  padri,  i  quali  la  plebe 
godeva  sempre,  come  avverte  Plutarco  (1),  di  veder 
vilipesi,  specialmente  i  più  riguardevoli.  Non  era  in- 
fatti Roma  in  quell'anno,  secondo  Sallustio  stesso  (2), 
così  tutta  mossa  a  romore  dalle  tribunizie  contese, 
che  non  fu  neppur  possibile  di  convocare  i  comizi 
per  la  rabbia  e  la  pertinacia  de'tribuni  L.  Lucullo  e 
L.  Annio,  i  quali  ostando  insolentemente  ai  loro  col- 
leghi e  agli  ordini  dello  stato,  rifiutavano  d'uscire  dì 
magistrato  ? 

VII.  Ma  v'ha  di  più.  Dimorava  allora  in  Roma 
un  Massiva,  figliuolo  di  Gulussa  nipote  anch' egli  di 
Massinissa,  rifuggitosi  qua  dalle  insidie  di  Giugurta, 
che  non  voleva  lasciare  niun  vivo  della  casa  reale  per 
tener  solo  e  sicuro  il  regno  numidico.  A  costui  il 
console  Spurio  Albino  mise  in  animo  di  chiedere  per 
se  la  corona,  traendo  profitto  dalla  condizione  odio- 
sissima in  cui  era  caduto  Giugurta,  e  di  fare  di  ciò 
istanza  al  senato.  Come  dunque  il  senato  parteggiava 
pel  re,  se  il  console  aveva  sì  gran  fiducia  che  anzi 
volesse  dare  il  regno  a  Massiva  ?  E  glie  lo  avrebbe 
dato,  credo  io,  e  lasciato  al  suo  destino  soggiacere 
Giugurta,  se  questi  non  vi  riparava  al  solito  con  un 
delitto,  facendo  cioè  da  un  Bomilcare  suo  fidissimo 


(1)  Fn  Mario. 

(2)  Cap.  37. 


J85 

trucidare  a  tradimento  quel  giovane.  Dice  Sallustio 
(non  potendo  qui  contrastare  all'evidenza  de'  fatti  ) 
ch'erano  già  caduti  d'animo  i  parziali  del  re,  chi  per 
coscienza,  chi  per  timore.  Ma  io  stimo,  il  ripeto,  che 
0  non  fossero  stati  mai  questi  parziali,  o  ve  ne  fos- 
sero stati  ben  pochi,  e  per  avventura  i  soli  stretti  a 
Giugurta,  come  usavasi,  per  sacro  vincolo  di  ospi- 
talità :  perchè  tutto  mostra  che  le  cose  riuscirono 
appunto  al  sommo  fine  romano  di  mantenere  in  ri- 
verenza alla  terra  la  gravità,  la  giustizia  e  la  pos- 
sanza della  repubblica  :  vedendosi  perfino  in  Roma 
Giugurta  non  solo  prostrato  e  misero,  ma  in  punto 
di  perdere  regno  e  vita.  Che  più  potea  Roma  volere 
a  serbar  forte  e  onorata  la  maestà  dell'impero  ? 

Vili.  Che  fosse  imposto  al  re  di  partirsi  da  Ro- 
ma, lo  afferma  Sallustio.  Livio  però,  secondo  l'abbre- 
viatore,  dice  che  fuggì  :  ciani  profiigit.  Così  ripete 
Appiano  in  un  frammento  della  storia  della  guerra 
numidica  pubblicato  dal  nostro  sommo  cardinal  Mai. 
E  tale  forse  fu  il  vero.  Ora  chi  crederebbe  che  Giu- 
gurta, dopo  veduta  Roma  sì  avversa  alle  sue  iniquità, 
e  nelle  proprie  miserie  avuto  un  esempio  sì  luminoso 
di  quanta  fosse  la  dignità  e  risoluzione  della  repub- 
lica,  chi  crederebbe  che  potesse  allora  chiamarla  città 
venale  ,  e  pronta  a  perire  ,  se  le  accadesse  trovare 
chi  la  comprasse  ?  Urbem  venalem  el  mature  periiu- 
ram  si  empio? em  inveneril  (1).  E  non  aveva  egli  in- 
fatti tentato  ogni  opera,  al  dir  dello  storico,  d'esserne 
compratore  ?  Eppure  nessuno,  ovvero  pochi  ed  oscuri, 
si  lasciarono  prendere  a  quella  viltà:  benché  egli  po-^ 

(1)  Gap.  34. 


186 

tesse  ancora  usar  tutto  l'oro  che,  secondo  Sallustio, 
per  lui  guardavasi  a  Sutul  (1).  Se  stato  non  fosse 
così,  così  fermamente ,  avrebbe  egli  avuto  quasi  di 
grazia  il  fuggirsi  qual  miserabile  delinquente?  0,  se 
meglio  vuoisi,  l'avrebbe  il  senato,  che  religiosamente, 
com'è  de'magnanimi  e  forti,  volle  serbargli  la  fede 
pubblica,  ancorché  reo  :  l'avrebbe,  dico,  senza  prò 
licenziato,  e  subito  denunciatogli  guerra  ?  Certo  non 
v'ha  paese  o  nazione  dove  le  leggi  non  debbano  ta- 
lor  vergognarsi  d'essere  da  perversi  capi  o  vituperate 
o  vendute  :  ma  è  fuor  di  dubbio,  che  di  tali  perversi 
avea  Roma  in  quel  tempo  assai  minor  numero  delle 
altre  terre  civili,  e  che  nell'immensa  parte  de'citta- 
dini,  cittadini  veri,  conservavasi  ancora  l'antica  lode 
di  probità.  Chi  udì  però  dal  fuggiasco  quelle  insen- 
sate parole,  le  quali  almeno  dovevano  in  tanto  peri- 
colo essere  state  da  lui  proferite,  non  certo  ad  alcun 
romano,  ma  segretamente  a'suoi  numidi  ?  E  proprio 
le  udì  in  un  istante,  che  tutto  doveva  solennemente 
smentirle  ?  Se  non  che  né  Sallustio  né  l'antico  au- 
tore del  compendio  di  Livio  mostrano  poi  di  por- 
gervi intera  fede  ;  l'uno  e  l'altro  scrivendo  essere 
stata  questa  una  voce  :  fertur,  dicitur:  ed  anzi  Sal- 
lustio, per  render  la  cosa,  dirò  così,  meno  probabile, 
prese  anche  ad  abbellirla  coll'arte  de'drammatici,  in- 
ducendo Giugurta  a  pronunciare  quella  sentenza  sae- 
pe  tacitus  respiciens  la  potente  e  gloriosa  città. 

IX.  V'ha  però  chi  dirà  :  È  nondimeno  il  vero  che 
fu  ordinato  in  Roma  un  processo,  e  si  venne  poi  ad 
un  pubblico  giudizio  centra  i  sedotti  dall'oro  del  re. 

(1)  Gap.  37. 


187 
È  certo  il  vero,  io  rispondo,  che  non  avendo  potuto 
il  popolo  saper  nulla  da  Giugurta  stesso,  o  pel  silenzio 
impostogli  da  Bebio,  o  per  che  altro  si  fosse,  cercò 
con  un'inquisione  d'ottenere  il  suo  fine,  propostane 
la  legge  dal  tribuno  Mamilio  Limetano.  Ma  dovette 
Sallustio  medesimo  confessare ,  vinto    dall'  estremo 
della  vergogna  e  dalla  grande  notorietà  del  fatto,  es- 
sersi intrapresa  tale  inquisizione  piuttosto   per  odio 
della  nobiltà,  a  cui  apparecchiavasi  la  ruina,  che  per 
zelo  della  repubblica  :  tanta  era  la  fantasia  del  par- 
teggiare (1).  Ed  aggiunge,  che  fu  l'inquisizione  con- 
dotta con  asprezza  e  violenza,  e  secondo  le  grida  e 
i  capricci  della  plebe,  la  quale  allora  così  imbizzar- 
riva per  la  fortuna  prospera,  come  altre  volte  avea 
fatto  la  nobiltà  (2).  Parole  ben  memorabili  in  un  uo- 
mo qual  fu  Sallustio.  Sicché  ognun  vede    come  da 
siffatta  condizione  di  spiriti  non  doveva  escirne  al- 
tro che  una  delle  solite  iniquità  tribunizie  e  plebee: 
benché  fra  i  tre  cittadini  deputati  all'inquisizione  ve- 
nisse scelto  quel  M.  Scauro,  il  quale  é  tanto  falso  che 
fosse  in  sospetto  della  colpa  attribuitagli  dallo  sto- 
rico, che  anzi  tribuni  e  plebe  lo  reputarono  non  solo 
integerrimo,  ma  infestissimo  a  qual  si  sia  corruzio- 
ne, secondo  eh'  avea  già  mostrato  nel  chiamare  in 
giudizio  per  la  colpa  medesima  uno  de'Bruti,  come 
abbiamo  in  Carisio  (3).  I  tre  però  non  potevano  se- 

(1)  Gap.  40.  Sed  plebes  incredibile  memoratu  est  quam  intenta 
tuerlty  quantaque  vi  rogationem  iumrit,  magis  odio  nobUitatis,  cui 
mala  Illa  parabantur,  quam  cura  reipublicae  -.  tanto  lubido  in  par- 
tibus. 

(2)  Sed  quaestio  exercita  aspere  violenierque,  ex  rumore  et  tu- 
btdine  plebi».  Ut  saepe  nobilitatemi  sic  ea  tempestate  pkbem  ex  se- 
cundts  rebus  insolentia  ceperat. 

(3)  lastit.  gramm.  lib.  I. 


188 
dei'  giudici  :  almeno  non  Io  poteva  Scanio  senatore 
e  patrizio:  essendoché  perla  legge  sempronia  diC. 
Gracco  l'ordine  de'patrizi  e  il  senato  erano  ancora 
esclusi  dall'ufFicio  del  giudicare.  Ho  detto  che  doveva 
escirne  una  delle  solite  iniquità  tribunizie  e  plebee: 
di  quelle  cioè,  o  signori,  che  rendono  talora  la  li- 
bertà più  rea  di  qualunque  servaggio.  E  qual  si  fosse, 
ci  è  narrata  da  Cicerone,  il  quale  avverte  nel  Bru- 
to (1),  che  tutti  i  giudici  furono  tratti  dalla  fazione 
de'Gracchi  :  gracchani  iudices. 

X.  Sì,  dalla  fazione  de'Gracchi,  o  signori,  furono 
tratti  svergognatamente  coloro,  che  dovevano  senten- 
ziare dell'onore,  della  libertà  e  della  vita  di  quanti  più 
mostraronsi  avversi  alla  fazione  medesima,  e  soprat- 
tutto di  queirOpimio,  il  quale  nel  vincerla  era  stato 
sì  acerbo.  Laonde  Cicerone,  preso  da  grande  sdegno, 
non  die  loro  altro  titolo  che  d'iniqui  (2),  e  di  parri- 
cidi (3)  :  come  con  altro  nome,  che  d'invidiosa,  non 
appellò  la  proposizione  del  tribuno  Mamilìo  (4).  Per- 
ciò vennero  da  quella  nequizia  privati  della  patria 
C.  Galba  sacerdote,  e  i  quattro  consolari  L.  Calpur- 
nio,  C.  Catone,  Spurio  Albino,  e  L.  Opimio.  Tutti 
o  per  famiglia  o  per  fatti  erano  di  parte  contrari  alla 
plebe,  secondochè  se  ne  sa.  Certo  a  C.  Galba  per  la 
condanna  bastava  essere  del  gran  sangue  Sulpicio. 
Lodavanlo  i  nostri  padri,  dice  Cicerone,  lo  favorivano 
anche  per  la  memoria  di  quell'eloquentissimo  Servio 
suo  genitore  :  e  andava  attorno  una  perorazione  re- 
fi) Gap.  34. 

(2)  Pro  Sextio  e.  67 . 

(3)  Pro  Plancio  e.   29. 

(4)  In  Bruto,  cap.   33.  34. 


189 

citata  da  lui  a'giudicì  in  questa  causa,  che  Tarpinate 
stesso  in  sua  gioventù  aveva  appresa  a  memoria  (I). 
L.  Calpurnio,  già  nemico  particolare  di  Memmio  (2), 
erasi  comportato  in  modo  nell'ufficio  del  tribunato, 
che  Cicerene  glie  ne  dà  merito,  ricordando  come 
aveva  fra  le  altre  cose  restituito  alla  patria  P.  Po- 
pilio,  stato  console,  e  cacciato  in  esilio  dalla  forza 
di  C.  Gracco  (3).  Spurio  Postumio  Albino,  quegli  che 
voleva  fin  togliere  il  regno  a  Giugurta  per  darlo  a 
Massiva,  non  era  (che  sappiasi)  reo  d'altra  colpa,  ol- 
tre alla  sua  qualità  di  patrizio,  che  d'essersi  tempo- 
reggialo a  dare  un  battaglia,  e  poi  partitosi  dal  cam- 
po per  assistere  in  Roma  ai  comizi,  lasciando  pro- 
pretore all'esercito  Aulo  suo  fratello  :  il  quale  colto 
da  Giugurta  in  un  agguato,  e  stretto  d'ogni  parte  , 
fu  ridotto  all'umiliazione  di  passar  sotto  il  giogo,  non 
certo  per  seduzione,  di  cui  neppur  sospetta  lo  sto- 
rico, ma  o  per  malignità  di  fortuna,  o  per  sua  va- 
nità e  poca  prova  nell'armi,  o  per  gi'ande  scaltrezza 
del  re  (4).  Tornato  Spurio  indi  a  poco  con  autorità 
di  proconsole  in  Affrica,  non  potè  riparare  a  cotanto 
danno,  né  al  tutto  restaurare  negli  ordini  la  discipli- 
na, prima  che  giungesse  nuovo  capitano  della  guerra 
il  grande  Metello,  colui  che  meritò  il  titolo  di  Numi- 
dico,  e  poi  per  non  essersi  contra  coscienza  voluto 
stringere  a  un  giuramento,  s'ebbe  anch'egli  della  vio- 
lenza plebea  l'oltraggio,  o  a  dir  meglio  l'onore,  del 
bando.  C.  Catone,  figliuolo  della  sorella  di  Scipione 

(1)  Ivi  e.  33. 

(2)  Cicerone,  De  orai.  lib.  Il  cap.  70. 

(3)  In  Bruto  e.  34. 

(4)  Giugurl.  e.  38. 


190 
Affricano,  chiamato  uomo  chiarissimo  da  Cicerone  (t)^ 
potè  aver  solo  qualche  apparenza  di  reità,  come  que- 
gli ch'essendo  console  fu  accusato  de  repetiindis,  o  sia 
di  concussione,  dai  mamertini  (2):  simili  forse  anch' 
essi  agli  altri  siciliani,  i  quali  andavano  allora  in  pro- 
verbio di  loquacità  per  le  accuse  appunto  che  non 
finivano  di  promuovere  de  repetundis,  secondo  il  te- 
stimonio degli  antichi  scolii  dell'orazione  ciceroniana 
centra  Clodio  e  Curione  pubblicati  dal  cardinal  Mai 
coll'opinione  che  siano  d'Asconio.  Benché  di  tali  ac- 
cuse e  condanne,  per  le  fazioni  e  le  ire  che  veglia- 
vano nella  repubblica,  non  si  facesse  più  in  Roma 
gran  caso  :  dopo  essersi  veduti  per  simil  pretesto 
cacciato  in  bando  Camillo,  multati  Livio  Salinatore  e 
Scipione  Asiatico,  e  costretta  a  lasciar  la  patria,  non 
degnando  rispondere,  la  gloriosa  virtìi  del  vincitore 
d'Annibale.  Laonde  Cicerone  nell'arringa  in  favore  di 
Scauro  giunse  fino  a  dire,  che  soprattutto  allora,  es- 
sendo i  giudizi  nell'ordine  de'cavalieri,  o  sia  de'pub- 
blicani,  ninno  potè  più  retuparsi  così  innocente  che 
non  temesse  d'essere  sentenziato  reo,  quando  l'ini- 
quità di  coloro  non  risparmiò  neppur  P.  Rutilio  il 
virtuosissimo  de'romani.  E  si  avevano  in  vece  per 
due  volte  assoluti  un  Lentulo  Sura  ed  un  Catilina, 
conti'o  a'cui  latrocini  s'erano  levati  in  senato,  dice 
Asconio  (3),  i  più  onorandi  fra  i  padri,  sdegnosi  di 
una  malvagità  che  a  tripudio  volea  vivere  delle  co- 
muni miserie. 

XL  Ma  forse  fra  tutti  di  quell'età  era  illustre  L. 

(l)Pro  Balbo  eli. 

(2)  Cicerone,  in  Verr.IV.  cap.   10. 

(3)  In  orat.  prò  toga  candida. 


191 

Opimi«>,  nomo  dì  sì  rigido  amor  patrio  e  di  tal  pro- 
bità incorruttibile,  che  quantunque  Velleio  Patercolo 
non  approvi  la  tanta  sua  severità  contra  la  vinta 
parte  de'Gracchi,  nondimeno  Io  chiama  vir  sanctus 
et  frcms  (1).  Ora  contro  di  lui  più  che  contro  di  qua- 
lunque altro,  dopo  essere  stata  spenta  iniquamente 
fra  i  domestici  lari  la  gran  vita  di  Scipione  Emi- 
liano, arsero  le  ire  de'seduttori  della  plebe:  contri 
di  lui  ch'essendo  nato  di  sangue  plebeo,  benché  ono- 
rato altra  volita  d'elle  curuli,  crasi  nelle  imprese  de' 
Gracchi  accostato  animosamente  ai  patrizi  e  al  se^ 
nato,  come  quegli  che  buono  reputava  un  governo, 
non  che  meglio  piacesse,  ma  che  meglio  fosse  con- 
veniente al  popolo.  Ne  potutolo  condannare  dopo 
l*uccisiane  di  Caio  e  dei  complici,  secondo  l'accusa 
datagli  da  P.  Decio  tribuno,  perchè  troppo  evidente 
era  il  bene  che  console  fortissimo  aveva  recato  per 
suo  dovere  alla  patria  in  quello  spavento  di  sovver- 
sione, non  cessarono  mai  di  volerne  vendetta.  E  ot- 
tenuta che  l'ebbero  alfine  in  questa  scelleraggine  di 
giudizio,  non  restarono  anche  di  vilipenderne  l'ono- 
randa vecchiezza  :  non  altrimenti  che  fatto  avevano" 
verso  la  memoria  dell'Emiliano,  il  cui  cadavere  d!* 
que'furibondi  non  fu  giudicato  pur  degno  {un  uomo 
sì  grandemente  uomo)  di  pubblica  sepoltura  e  di  pom- 
pa funebre  (2).  Ma  invano  :  che  contra  quel  mal  vo- 
lere non  tardò  a  levarsi  una  voce  del  pari  autore- 
vole e  generosa,  la  voce  di  Cicerone,  il  quale  in  tutte 
le  opere  esalta  Gpimio  per  modo  da  incuterne  rive- 


fi)  Histor.  lib.  Il  cap.  7. 
(2)   Appian.  Bell,  civil.  lib,  I. 


192 

renza  e  impor  silenzio  a'suoi  detrattori.  Perchè  solo 
si  addurrà  in  testimonio  Sallustio,  e  sì  trascurerà  la 
fede  di  Cicerone  ?  Si  leggano  principalmente  le  ora- 
zioni in  favore  di  Plancio  e  di  Sestio  :  nella  prima 
delle  quali  è  veramente  insigne  un  passo  (1)  che  qui 
mi  concederete  in  grazia  di  recitare.  «  Così  volesse 
Iddio  (dice  il  sommo  oratore)  che  la  sciagura  di  Opi- 
mi© potesse  dalla  memoria  degli  uomini  cancellarsi  ! 
Certo  non  dee  stimarsi  un  giudizio  quello  che  il  con- 
dannò, ma  sì  una  ferita  della  repubblica,  un'onta  del 
nostro  impero,  una  turpitudine  del  popolo  romano. 
Imperocché  di  qùal  più  grave  scure  potevano  per- 
cuotere la  repubblica  siffatti  giudici  (se  giudici  hanno 
a  chiamarsi)  e  non  anzi  parricidi),  quando  dalla  città 
cacciarono  colui,  che  pretore  aveva  essa  repubblica 
liberato  dalla  guerra  di  un  popolo  vicino,  console 
dalla  domestica  ?»  E  questo  in  fine,  o  signori,  sia 
suggello  che  sganni  ogni  uomo  intorno  la  vita  e  le 
geste  di  un  preclarissimo  personaggio,  che  ancora 
poeti  e  storici  non  restano  di  straziare  :  e  contra 
cui  oppresso  e  giacente  osò  anche  il  greco  Plutarco 
gittare  un  pietra  più  di  dugento  vent'anni  dopo:  mo- 
strando fino  ignorare  che  non  in  Roma  invecchiò  il  be- 
nemerito cittadino,  ma  in  Durazzo  dove  andò  esule, 
e  dove  secondo  Cicerone  vedevasi  il  suo  sepolcro.  Al- 
tro argomento  a  confermare  il  giudizio  di  molti  cri- 
tici (e  principalmente  dell' Algarotti  nel  quinto  dei  di- 
scorsi militari),  che  Plutarco  non  è  storico  da  po- 
tersene fidar  sempre  nelle  cose  romane.  Sì,  esule  finì 
Opimio  i  suoi  giorni,  come  il  maggioi'C  Affricano  e 

(1)  Cap.  29. 


193 

Rutilio:  nien  fortunato  in  ciò  di  Camillo,  di  Me- 
tello Numidico  e  di  Cicerone,  i  quali  per  le  loro  virtù 
essendo  stati  ugualmente  dall'insolenza  plebea  cac- 
caeiati  in  bando  ,  furono  pure  alla  patria  restituiti 
quando  i  buoni  poterono  (e  raro  il  poterono  dopo 
i  Gracchi  e  Mario)  vincere  in  alcun  modo  le  arti  dei 
pessimi. 

Tali  sono  le  cose   che  mi  è  occorso  considerare 
intorno  ad  alcuni  fatti  dell'impresa  centra  Giugurta, 
fra  le  romane  così  famosa,  e  perpetuo   tema  di  chi 
intende  garritore  accigliato  vituperare  senato  e  con- 
soli de'signori  del  mondo  di  quell'età,  giurando  senza 
più  oltre  attendere  sulle  parole  di  Sallustio,  che  l'e- 
spose con  quante  veramente  ha  seduzioni    l'arte  di 
imo  scrittore,  il  quale  a  ninno  degli  eccellenti  vuol 
esser  detto  secondo  per  evidenza  di  narrazione,  per 
gravità  di  sentenze,  per  virtù  di  stile  maravigliosa. 
Se  nella  ragione  di  un  esame  necessario  sempre  a 
guidar  la  ìiiente,  non  meno  di  chi  scrive  che  di  chi 
legge,  io  abbia  errato,  o  signori,  sia  vostro  il   giu- 
dizio. 


G.A.T.CXXXIV.  13 


194. 


Elogio  del  canonico  Casimiro  Basi  accademico  ordi- 
nario della  crusca,  segretario  perpetuo  deW  ateneo 
italiano  e  cavaliere  delV  ordine  di  Carlo  IH  di 
Spagna.  Recitato  alV accademia  tiberina  di  Roma 
il  dì  15  maggio  1854  da  Alessandro  Checcucci 
delle  scuole  pie. 


Ouis  desiderio  sit  pudor,  aut  modus 
tam  cari  capilis?  Hor. 


F, 


u  antico  e  santo  costume  ornare  di  Iodi  que' be- 
nemeriti, che  partendo  di  questa  mortai  vita  ci  le- 
garono ricco  patrimonio  di  virtù  e  di  sapienza.  E 
tanto  nobile  insieme  e  operantissima  consuetudine, 
qual  face  che  accende  gli  animi  a  tener  diritto  cam- 
mino, a  far  paragone  d'ingegno,  ad  emulare  coloro 
che  vanno  per  la  maggiore,  troviamo  che  non  ci  man- 
cò giammai,  neppure  in  tempi  corrottissimi,  nei  quali 
se  era  più  rara,  non  era  perciò  appunto  meno  pre- 
giata ed  amabile  la  virtù.  Tanto  meglio  fo  avviso  ci 
corra  oggi  questo  debito  verso  que'  valorosi,  che  sorti 
dalla  volgare  schiera  lasciarono  di  sé  bellissimi  in- 
segnamenti di  bontà  e  di  dottrina  ,  quanto  più  ci 
diamo  vanto  d'urbanità  e  gentilezza,  e  si  fa  scarso 
e  quasi  raro  il  fruttuoso  esempio  de'  sapientissimi, 
che  con  paziente  sollecitudine  soccorrano  efficace- 
mente al  decoro  delle  lettere  e  all'  utile  degli  studi, 
caduti  ormai  per  colpa  de'  tempi  e  degli  uomini,  non 
so  qual  più,  in  basso  stato  di  fortuna. 


195 

Per  siffatte  ragioni  ini  son  posto  nell'animo,  o 
tiberini,  di  farvi  in  questo  giorno  parola  di  un  no- 
stro socio,  che  fu  il  canonico  Casimiro  Basi,  segre- 
tario pei'petuo  dell'ateneo  italiano,  accademico  ordi- 
nario della  crusca  e  cavaliere  dell'ordine  di  Carlo  III 
di  Spagna. 

E  ben  mi  persuado  che  nel  tenervi  oggi  ragio- 
namento di  questo  chiaro  lume  delle  nostre  lettere, 
non  ha  guari  estinto,  non  dovrò  ricorrere  (tanta  ne 
è  soprabbondante  e  squisita  la  materia  della  lode),  ne 
a'ienocini  dell'arte,  nò  alle  vane  pompe  dell'eloquenza. 
Per  lo  che  fo  io  ragione,  che  se  possono  essere  per- 
donate, come  fu  detto,  le  menzogne  pietose  che  si 
incidono  su  i  sepolcri,  non  potremo  né  dovremo  mai 
(cessato  quell'impeto  pjimo  del  dolore  e  delle  dolci 
atfezioni,  che  può  per  un  istante  far  velo  al  giudi- 
zio) ,  tessere  l'elogio  se  non  alla  vera  virtù  ,  senza 
un  manifesto  oltraggio  al  pudore  ed  al  ministero 
geloso  ed  importaate  della  storia. 

(jhe  se  è  vizio  antico  disperatissimo  di  adulare 
p  alla  stupida  potenza  o  alle  oziose  soverchianti  ric- 
chezze 0  ad  altre  troppo  palesi  e  ridicole  ambizio- 
ni, e  di  lasciar  poi  senza  premio  e  senza  lode  chi 
ebbe  grido  di  bontà  e  di  sapienza:  se  è  dolente  il 
vedere  che  siamo  omai  giunti  in  ciò  a  tale  di  ser- 
vile venalità,  che  i  buoni  veracemente  e  dotti  deb- 
bono sdegnarsi  di  esser  lodati,  è  chiaro  altresì  che 
l'età  trascorse  e  le  future  ne  fecero  e  ne  faranno 
sicura  ammenda,  disdicendo  il  turpe  e  bugiardo  en- 
comio, nato  0  dalla  corruzione  de'  tempi  o  dal  pre- 
giudizio degli  uomini.  E  qui  mi  è  pur  dolce  leggere 
in  Plutarco,  che  come  si  vendevano  le  statue  di  Dio- 


196 

nigi  e  di  Trasibulo,  si  onoravano  poi  quelle  del  ma- 
gnanimo Gelone. 

Di  tal  maniera,  secondo  che  avviso,  nessuno  po- 
trà appuntarmi  di  voler  dare  lodi  non  sue  al  raro 
uomo  che  mi  tolsi  a  encomiare.  Perocché  parlano 
abbastanza  di  lui  e  gli  alti  gradi  che  tenne  e  gli  onori 
che  conseguì  e  le  opere  che  ci  lasciò,  e  forse  meglio 
la  riverenza  e  l'affetto  di  quanti  lo  conobbero,  e  che 
piansero  tutti  ad  un  cuore  l'immatura  sua  fine.  Che 
se  nello  scriver  di  lui  avrò  adempiuto  male  le  mie 
parti,  e  più  presto  che  prendermi  incarico  del  do- 
loroso ufficio,  mi  era  meglio  il  tacerne,  spero  che 
dai  discreti,  e  massime  da  voi,  umanissimi  soci,  mi 
sarà  perdonato;  e  non  potendosi  far  grazia  all'inge- 
gno, si  farà  almeno  all'  affetto  e  alla  gratitudine  che 
ebbi  ed  avrò  sempre,  finché  mi  duri  la  vita,  verso 
la  memoria  di  un  sì  tenero  ed  incomparabile  amico. 
Ma  è  ormai  tempo  che  intraprenda  a  narrarne  la 
storia.  La  quale  ove  vi  sembri,  o  accademici,  uscire 
dai  confini  di  una  vigorosa  brevità ,  spero  che  non 
vorrete  attribuirlo  più  a  colpa  mia  che  del  soggetto, 
e  che  non  vi  avrò  ciò  non  pertanto  meno  attenti  e 
benevoli  neirascoltarmi. 

Casimiro  Basi  nacque  di  Vincenzo  e  di  Geltrudc 
Begliomini  del  popolo  di  s.  Martino  in  Pianfrancese 
nel  Valdarno  superiore  il  4  marzo  del  1794,  anno 
pur  troppo  memorabile  per  la  fortuna  delle  armi 
francesi  sotto  Pichegre  e  Jourdan  ,  per  la  giornata 
di  Fleurus,  per  l'uccisione  di  Marat,  per  la  morte  di 
Robespierre  e  per  la  prima  calata  de'  francesi  in  Ita- 
lia. E  lui  fortunato  che  ti'ascorse  l'infanzia  senza 
dover  dolorare  su  que'  tempi  pur  troppo  lagrimevoli, 


197 

in  cui  per  civili  ri  volgimenti,  per  ire  e  studio  di  parti 
il  vortice  delle  opinioni  mise  a  trambusto  e  a  sac- 
comanno l'Europa!  E  questa  povera  Italia  in  mezzo 
alla    improntitudine  e  al  contrasto   di   mille    strane 
fazioni,  di  guerre  intestine,  di  superbe  ambizioni  e 
di  mille  oltraggi  di  fortuna,  collo  specioso  titolo  di 
libertà  e  con  false  promesse  di  bene,  onde  si  lusin- 
gano e  si  adulano  i  popoli,  fu  data  in  mano  a  sa- 
ziarne ogni   voglia  più  sfrenata  e  più  rea  al  fiu^ore 
spietato  degli  stranieri.  Ne'  quali   tempi  sì   orrendi, 
in  cui,  come  spesso  addiviene,  le  pubbliche  calamita 
sono  infausta    sorgente  di  privata    fortuna  ,  tutto  o 
perdette  o  vide  corrompersi  la  infelicissima,  perfino 
la  lingua  e  i  costumi,  e  solo  le  rimase  la  memoria 
della  sua  passata  grandezza,  che  la  faceva  più  do- 
lorosa del  suo  presente  infortunio.  E  ciò  che  è  più 
dolente,  sì  strani  e  memorabili  avvenimenti  e  sì  fu- 
neste sciagure  durarono  per  anni  ed  anni  a  strazio 
delle  umane  genti:  e  gli  animi  si  ricomposero  a  con^ 
cordia,  e  voltate  in  calma  le  faccende  civili  e  preso 
uno   stabile  assetto,  il  mondo  ebbe  pace  solo  allora 
che  si  vid«  ecclissata  tutto  improvviso  la  stella  del 
temuto  guerriero. 

In  questo  mentre  il  nostro  Casimiro  fornito  il 
tirocinio  delle  lettere  nella  terra  di  Figline,  e  giunto 
su  i  tredici  anni,  si  fece  uomo  di  chiesa  ,  e  poco 
stante  entrò  a  dar  opera  ai  maggiori  studi  nel  se- 
minario di  Fiesole.  E  qui  gli  fu  gran  ventura  per  i 
tempi  che  correvano  di  avere  a  maestri  uomini  piìi 
che  di  sufficienti  lettere  ,  che  gli  schiusero  le  vie 
dell'intelletto  e  gli  resero  familiare  la  lingua  del  La- 
zio. Il  giovanetto  ricambiavali  d'amore  e  diligenza: 


198 
e  per  l'indoJe  ingenua,  per  la  bontà  dell'animo  e  la 
prontezza  dell'ingegno  dava  loro  sicure  speranze  che 
non  avrebbe  fallito  a  glorioso  porto.  E  nel  vero  , 
connecchè  non  arridesse  al  Basi  troppo  la  fortuna 
per  avito  retaggio,  pure  colla  felice  natura  dell'  in- 
telletto seppe  ammendarne  l'errore  e  vincerne  ogni 
sinistro.  Sicché  non  andò  guari  ,  tanto  fu  preso 
d'amore  per  le  alte  discipline,  e  nelle  medesime  vide 
sì  addentro,  che  cominciò  a  raccoglierne  soav/ssimi 
frutti,  ed  a  far  manifesto  a  quanti  lo  couveisavano 
che  si  sarebbe  facilmente  levato  sopra  il  comune  deg^i 
uomini.  Ond'  è  che  non  aggiungeva  ancora  al  suo 
quarto  lustro,  quando  al  vescovo  di  Cortona  venuto 
in  animo  di  provvedete  di  valenti  maestri  il  suo  se- 
minario (sapiente  consiglio  ed  importantissimo  esem- 
pio )  elesse  ira  molti  il  Basi  a  professore  di  elo- 
quenza; 

E  qui  non  è  da  pretermettere  che  mentre  il  nuovo 
maestro  bandiva  da  quella  scuola  ogni  strana  gret- 
tèiiza,  6d  astt'userià,  ogni  nudità  di  precetto  ed  ogm 
servile  imitazione,  e  rifiorivala  di  buone  regole,  atte 
a  risvegliare  ne'  giovani  le  naturali  attitudini  ed  a 
nutrirli  del  prelibato  succo  de'  classici,  avido  essendo 
di  scienza  e  fornito  de'  mezzi,  con  foi'ti  e  sevei'e  let- 
ture §i  rifece,  come  era  usalo  dire,  tutto  sé  negli 
studi,  i^  Vblgéndoiiì  ^quindi  a  più  diritto  cammino,  e 
postosi'  iri  questo  solo  pensiero,  màtuJrò  a  cose  più 
alte  l'ingegnò  nella  eloquenza  di  Tullio,  nella  schietta 
semplicità  e  grazia  di  Marone,  nella  gravità,  nel  nei^vo 
e  nella'  grslilrfezza^Jéli  L^ivioj'e  nelle  stupende  òper^ 
di  quanti  altri  roridettero  famoso  l'aureo  secolo' di 
Augusto  e  furono    maestri  ai  più   somjni.    Essendo 


199 

altresì  tenerissimo  de'  nostri  scrittori  che  ottennero 
sì  alta  e  degna  nominanza,  intese,  come  fu  sempre, 
con  ogni  estremo  di  sua  possa  e  scrutarne  dentro 
con  sottile  giudizio  gl'intimi  sensi,  le  pure  eleganze 
e  le  riposte  bellezze,  ad  ammirarne  gli  alti  concepi- 
mtnti,  i  nobili  veri,  significati  colle  più  sfolgoranti 
forrqe  di  quella  eloquenza  che  trionfa  del  tempo;  ad 
emuifirne  la  virtù  e  la  gloria.  E  questa  gli  crebbe 
tanto,-^d  il  frutto  dell'ingegno  gli  corrispose  di  modo, 
che  la  fama  dei  suoi  benemeriti  abbisognava,  a  far 
di  sé  pia  vaga  mostra,  di  un  più  vasto  orizonte:  e 
di  lì  a  ncn  molto  se  ne  vide  aperta  la  strada. 

Perciocìhè  fu  appunto  di  quel  tempo  che  il  col- 
legio di  Prato  lo  richiese  e  lo  ebbe  a  maestro  di  elo- 
quenza e  di  eiitetica.  E  quanto  efficacemente  soccor- 
resse il  Basi  a  quell'  alto  ufficio  di  savie  istituzioni 
e  di  profittevoli  esempi,  quanto  empisse  la  mente  e 
il  cuore  de'  giovani  di  vera  tìlosofìa  ,  di  casta  elo- 
quenza, quanto  gli  movesse  a  venerazione  dell'  an- 
tica sapienza,  gli  educasse  ad  ogni  senso  del  bello, 
gl'innamorasse  delle  pure  grazie  e  delle  dolci  armonie 
della  lingua  e  della  poesia  italiana,  e  gelosamente  gli 
guardasse  dalle  perigUose  infezioni  di  una  nuova 
scuola,  che  irrompendo  con  impeto  forsennato  in 
Italia,  sdegnava  ogni  legge  di  autorità  e  di  precetto, 
ne  fan  prova  così  i  valorosi  che  uscirono  di  quella 
palestra,  come  la  degna  fama  a  cu  il  Basi  salì  di  sper- 
tissiiìio  retore  e  di  elegante  scrittore.  Questa  poi  si  alzò 
anche  a  maggior  segno  per  la  eccellente  sua  opera 
dell'Arte  Oratoria,  che  più  tardi  resosi  a  Firenze,  dette 
alla  luce  della  stampa  (1). 

(1)    Pubblicò  la  prima  volta  la  sua  Arie  oratoria  in  Fir.  mei  .1836. 


200 

E  qui  mi  bisognano  ben  largbo  parole  (  cbè  con 
poche  non  potrei  spacciarmene)  a  dichiarare  ai  meno 
veggenti  l'intendimento  di  quel  libro,  i  saldi  e  sani 
precetti  che  vi  si  insegnano,  il  profondo  criterio  onde 
è  immaginato,  le  alte  considerazioni  e  l'eletta  erudi- 
zione di  cui  è  ricco,  le  belle  e  proprie  espressimi 
onde  è  scritto,  l'utile  che  può  derivarne  allo  studioso, 
le  lodi  che  per  sì  lieto  successo  il  dotto  autore  si  pro- 
cacciò. E  per  tuttocìò  che  ho  detto  porto  giudizio, 
che  ove  ci  mancassero  altre  norme  a  chiarir»;  il  fe- 
lice ingegno  del  canonico  Basi,  questa  sola  oyeva.  ba- 
sterebbe a  farne  amplissimo  testimonio. 

E  nel  vero  a  formare  un  libro  di  tanta  mole,  dove 
sottilmente  si  discorrono  le  ragioni  del  l^llo,  e  si  di- 
chiara per  via  di  precetti  e  di  autorevoli  esempi  l'arte 
finissima  dello  scrivere,  si  conviene  essere  bene  a 
dentro  nella  classica  letteratura ,  av^re  a  sua  posta 
cognizioni  non  vulgari,  e  innanzi  tratto  critica  seve- 
rissima ,  e  quanto  altro  è  richiesto  (  e  certamente 
non  è  opera  di  lieve  momento)  a  formare  il  perfetto 
scrittore. 

S'ingannerebbe  poi  a  partito  chi  si  desse  a  cre- 
dere che  l'Arte  oratoria  del  canonico  Basi  fosse  libro 
rifatto  di  molti  libri,  come  spesso  e'  intravviene  di 
vedere  in  scritture  di  questo  genere.  Ma  è  bensì 
lavoro  tutto  di  un  getto,  e  che  manifestamente  ha 
l'impronta  di  opera  fatigata  sì,  ma  però  originale.  E 
ciò  te  lo  mostra  chiaro  l'ordine  osservatissimo,  ri- 
levato e  mirabilmente  dedotto  delle  materie,  un  modo 
al  tutto  nuovo  nel  ragionarle  ,  ed  uno  stile  di  una 
medesima  tempera  ornato  e  puro,  che  t'induce  ad 
un  tempo  nell'animo  persuasione  e  diletto.  Non  dee 


■20  \ 

perciò  recar  gran  fatto  maiaviglia  se  in  breve  spazio 
tre  edizioni  che  se  ne  fecero  ed  ebbero  rapidissimo 
smercio,  e  se  il  Basi  ne  fu  applaudito  da  molti  dotti 
italiani,  e  rimeritato  di  degni  encomi  dai  giornali 
nazionali  e  stranieri.  A  dir  tutto,  quella  sua  Arte  ora- 
toria è  libro  dettato  con  tanto  d' accorgimento  e 
perspicuità,  che  se  mal  non  mi  appongo,  chi  volesse 
far  meglio  ne  perderebbe  la  prova. 

Giova  quindi  osservare,  che  l'autore  tenendo  die- 
tro in  quest'opera  a  quanto  intorno  a  tale  argo- 
mento lasciarono  scritto  il  filosofo  di  Stagira,  il  poeta 
di  Venosa  e  Longino,  e  per  venire  ai  nostri  tempi, 
il  Venanzio,  non  ebbe  in  iscopo  solamente  di  dettar 
precetti  alle  scuole,  ma  di  richiamar  con  essi  altresì 
la  nascente  generazione  a  miglior  consiglio,  veden- 
dola intesa  non  al  serio  ed  al  grave  di  una  soda  istru- 
zione, ma  sì  veramente  a  ridicole  fole,  a  lettuie  di 
romanzi  (peste  reissima  de'  nostri  tempi)  od  a  tutt'al- 
tro  che  può  lusingar  le  passioni  e  corrompere  il  co- 
stume della  malavveduta  gioventù.  E  che  il  nostro 
autore  fosse  animato  da  sì  provvido  e  salutare  in- 
tendimento ne  è  testimonio  il  forte  dolorare  che  fa- 
ceva continuo  nel  veder  ritornate  nulle  o  poco  pro- 
fittevoli le  industrie  incessanti  de'  più  addottrinati 
uomini  che  mai  ci  vivessero,  che  fioriti  nei  principii 
del  secolo  con  prepotente  ingegno  e  solertissime  cure 
valsero  a  riporre  in  onore  gli  studi  e  la  gloria  della 
italiana  letteratura. 

Né  a  quei  sovrani  intelletti  nocquero  punto,  anzi 
parvero  servir  loro  più  di  sprone  che  di  freno,  quei 
civili  rivolgimenti,  quelle  guerre  ingiuste  e  spietate, 
quelle  baldanze  incojnporfabili,  quelle  strane  insolen- 


202 

ze,  sfrenate  ambizioni  e  sottilissime  frodi,  ed  altre 
brutture  onde  quei  tempi  si  fecero  famosi.  E  noi  ben 
sappiamo,  o  tiberini,  quanto  si  travagliarono  sopra 
ogni  umana  credenza  a  raggiungere  fine  sì  impor- 
tante e  gloriosissimo  e  i  Monti  e  i  Pindemonti,  gli 
Strocchi  e  i  Parini,  i  Cesari  e  i  Giordani,  i  Botta,  i 
Nìccolini,  i  Perticar!,  i  Montrone,  i  Costa, i  Marchetti  e 
molti  altri  ingegni  di  questa  schiera,  per  non  dire 
degli  scienziati  ed  artisti:  che  tra  quelli  si  levarono 
fra  i  pili  grandi  dei  secolo  i  nomi  di  Ennio  Quirino 
Visconti,  di  Volta,  di  Lagrangia,  di  Fontana,  di  Ro- 
magnosi,  di  Scarpa,  di  Mascagni,  di  Oriani,  d'Inghi- 
rami  e  di  altri  assai  che  mi  taccio:  tra  questi  basta 
per  tutti  un  Canova,  che  scemò,  come  fu  detto,  ma- 
raviglia ai  miracoli  dell'antichità,  e  cui  il  consenso 
degli  uomini  stimò  la  prima  cosa  del  secolo. 

Ma  dappoiché  vide  il  Basi  che  sforzi  si  generosi 
di  tanto  senno  andavano  in  dileguo,  e  non  produce- 
vano più  i  larghi  frutti  che  ne  era  dato  sperare,  statuì 
col  suo  libro  di  tracciare  agli  studiosi  la  via  che  deb- 
bono percorreie  a  procacciarsi  questo  nelle  ottime 
discipline  ,  e  salire  per  tal  maniera  a  quell'  altezza 
di  fama,  alla  quale  pervennero  gl'ingegni  piìi  eccel- 
lenti di  tutte  l'età.  Ed  è  perciò  che  con  mirabile 
pazienza  e  maturo  consiglio  dischiude  ai  medesimi  i 
più  puri  fonti  della  sapienza  italiana,  gli  addestra  al 
sublime  dell'eloquenza,  ne  risveglia  il  genio,  l'imma- 
ginazione, gli  affetti:  gli  sorregge  nei  voli  della  Éan- 
tasia,  gli  educa  alle  armoniose  dolcezze,  alle  caste 
eleganze  della  nostra  bellissima  lingua,  e  tratto  tratto 
adopera  che  ai  canoni  della  ragione  soccorra  poten- 
tenìcnte,  a  meglio    rafforzarli,  la    virtù  e  rautorità 


203 

dell'esempio.  E  tulto  ciò  fon  tanfn  semplicità  e  grazia 
di  dettato,  che  pei-  sì  pulite  e  lucidissime  forme  ti 
si  suggellano  neiranimo,  come  marchio  indelebile,  gli 
alti  precetti,  di  cui  ti  vuole  insegnato.  Oltre  a  questo 
trovi  facilmente  in  queir  opera  il  profondo  filosofo 
che  ti  discorre  con  sottili  accorgimenti  e  con  sano 
giudizio  le  leggi  eterne  e  invariabili  della  natura  e 
dell'  arte  :  ti  dichiara  e  pone  sott'  occhio  le  ragioni 
del  sublime  e  del  bello.  Scorgi  l'oratore,  che  pieno 
la  mente  e  il  petto  di  persuadente  eloquenza,  ti  di- 
mostra il  modo  di  usarla  nelle  varie  contingenze  della 
vita  dall'  umile  forma  della  lettera  alla  più  sublime 
della  prosa  oratoria:  e  qui  ed  altrove,  a  rincalzo  delle 
regole,  ti  reca  in  mezzo  le  grandi  opere  di  quei  so- 
vrani intelletti,  che  fecero  sé  e  noi  famosi  nella  me- 
moria degli  uomini.  E  questo  sapientissimo  consiglio 
è  molto  da  lodare,  qual  potente  eccitamento  a  virtù; 
come  fu  quello  di  Zenone  d' insegnar  filosofia  nel 
Pecilé,  ove  Polignoto  effigiò  le  pugne  di  Maratona: 
persuadendosi  egli  di  buona  ragione  che  i  giovani 
presi  agli  esempi  di  quei  magnanimi  eroi,  ivi  dipinti, 
avrebbero  un  forte  ed  acuto  sprone  ad  emularne  la 
gloria. 

Vedi  altresì  nell'arte  oratoria  del  Basi  l'erudito, 
che  discorre  per  luoghi  e  per  secoli:  e  quanto  trova 
di  bello  e  di  grande  che  faccia  al  suo  disegno,  te  lo 
rivela  al  pensiero,  e  con  sì  vaghi  adornamenti  di  pa- 
role e  di  modi,  che  innamori  degli  stessi  precetti 
dell'arte  per  sé  aridi  e  fastidiosi.  Nò  solamente  del- 
l'arte dello  scrivere  ti  ragiona,  ma  eziandìo  delle  arti 
tutte  in  generale,  della  musica,  della  pittura,  della 
scultura,  perchè    esie  pUr  sono    un'alta  rivelazione 


204 

del  genio,  del  sublime  e  del  bello,  sì  per  il  eoticetlo 
e  sì  per  l'espressione. 

E  con  sì  generoso  intendimento  il  nostro  autore 
aggirandosi  ora  per  il  beato  e  fecondo  suolo  di  Gre- 
cia ,  ora  per  questo  ridentissimo  d' Italia,  qui  e  là 
ti  schiera  d'avanti  all'attonita  mente  quanto  queste 
due  gloriose  nazioni  hanno  di  più  maraviglioso  da 
Erodoto  a  Demostene,  da  questo  a  Tullio,  al  Segneri 
e  allo  stupendo  terribilissimo  Bartoli  :  da  Omero  a 
Dante  ed  al  Tasso:  da  Timante,Zeusi  ed  Apelle  a 
Raffaello:  da  Parrasio  a  quell'unico  prodigio  della  na- 
tura e  delle  arti  di  Michelangelo:  e  da  questo  ardito 
prepotente  ingegno,  in  mezzo  a  tanti  traviamenti  e 
fallacie,  fra  cui  si  trovò  involta  la  scultura,  al  tipo 
di  ogni  maggior  perfezione ,  da  emularne  i  greci 
Messi,  al  Canova. 

Ma  ciò  che  massimamente  il  nostro  socio  ben 
s'argomenta  di  persuadere  con  ogni  sua  maggior  lena 
f^i  è,  che  le  arti  furono  senza  vita  e  senza  affetto  finché 
ispirate  dalla  religione  di  Cristo  non  si  fecero  ai  po- 
poli maestre  di  civiltà.  E  qui  è  dove  si  apre  largo 
campo  all'eloquenza  del  Basi  a  far  manifesto  quanto 
di  singolare  e  sovrumano  seppe  produrre  un  senti- 
mento religioso  nei  nostri  grandi  italiani  incomin- 
ciando dall'  Alighiei'i.  Ma  ne  avverte  peraltro,  che 
questo  sentimento  religioso  si  conviene  averlo  ben 
impresso  e  radicato  nel  cuore  per  rivelarlo  nelle  tele 
e  nei  marmi,  di  maniera  che  valga  quindi  a  trasfon- 
dersi potentemente  nell'animo  de'riguardanti.  Ne  ab- 
biamo dagli  antichi  esempi  in  grandissima  copia.  E 
come  non  ti  senti  di  fatto  compresa  e  forte  inondata 
r  anima    da  una  gioia  tutta  celestiale  in  rimirando 


205 
le  pitture  di  Giotto,  di  Masaccio,  di  Domenico  Ghir- 
landaio ,  di  Andrea  del  Sarto  ,  e  innanzi  tratto  di 
quel  portento  dell'  arte ,  che  per  tal  rispetto  e  per 
uno  stile  dolce  e  vago  su  gli  altri  del  suo  tempo 
come  aquila  vola,  dico  del  beato  Angelico,  che  ap- 
parve negli  stupendi  suoi  quadri  divinamente  ispi- 
rato ?  Onde  è  che  le  sue  figure,  piene  di  una  cara 
armonia  e  di  una  pura  soavità,  ti  si  rivelano  con 
anima  ed  affetti,  con  espressione  e  rilievi,  con  vita 
e  favella  al  tutto  celesti.  E  chi  non  vede  e  non  sente 
inoltre  questo  sublime  religioso  nel  giudizio  di  Mi- 
chelangelo ,  nella  trasfigurazione  di  Hatfaello  ,  noi 
s.  Girolamo  del  Domenichino,.  nella  deposizione  dalla 
croce  del  Volterrano?  Nelle  pitture  dei  quali  al  primo 
mirai'le  tu  scorgi  trasfusa  per  atti  e  movenze,  per 
semplicità  e  grazia  maravigliosa  di  volti,  per  candore 
vivacissimo,  una  incantevole  suprema  bellezza,  che 
non  è  di  quaggiù,  e  che  ti  rapisce  in  estasi  di  dol- 
cezza e  tutta  di  se  t'innamora. 

E  tanto  è  ciò  vero,  secondo  che  rettamente  os- 
.serva  il  nostro  autore,  che  sebbene  Fidia,  adorato  , 
al  dir  di  Luciano,  come  i  numi,  i  quali  scolpì,  quando 
formò  il  Giove  Olimpico,  tutta  producesse  la  perfe- 
zione dell'arte,  talché  quasi  non  vi  fu  alcun  greco, 
che  prima  di  morire  non  volesse  vederlo,  puie  quel 
sovrano  artista  pieno  di  maraviglia  cederebbe  al  pa- 
ragone ,  se  vedeste  oggi  il  Padre  Eterno  ,  che  con 
magnanima  audacia  il  Buonarroti  dipinse  nel  giudizio, 
ove  r  immensa  figura  dell'  Onnipotente  pose  dentro 
un  breve  spazio  in  iscorcio,  perchè  mettendo  solo 
in  evidenza  la  testa  e  le  mani,  si  comprendesse  esser 
egli  tutto  intelletto  e  potenza.  Talché  con    ragione 


206 

si  può  dire  del  Biionanoli,  e  degli  altri,  che  tennero 
negli  accorgimenti  dell'aite  ogni  cima  di  perfezione 
e  di  fama,  che  notano  come  religione  gl'ispira,  ed  a 
quel  modo,  che  delta  dentro,  van  significando. 

Ma  per  tornare  ora  all'argomento,  da  cui  ci  siam 
dipartiti,  ed  alquanto  dilungati,  dirò  che  lodevolis- 
simo  fu  r  avviso  del  nostro  socio  di  persuadere  ai 
giovani  (sono  due  parole)  che  i  veri  fonti  del  bello 
intellettuale  e  morale,  dell'espressione,  del  sublime, 
stanno  meglio  che  altrove  riposti  nei  libri  santi,  nei 
misteri  della  fede  ,  nelle  verità  della  religione.  Di 
qui  emanarono  come  da  pura  sorgente  le  grandi  fat- 
ture degli  ingegni  creatori  e  supremi  :  di  qiii  le 
grandi  commozioni  ed  i  tremendi  fantasmi:  di  qui, 
a  dir  breve,  esce  il  sublime  dinamico  se  si  sviluppa 
nella  forza:  matematico  se  si  distende  nella  durata 
del  tempo  e  nella  propagazione  dello  spazio  quando 
lo  contempliamo  nel  vero.  I  libri  di  Mosè,  e  di  Giobbe, 
i  salmi,  le  visioni,  i  vaticini  de' profetir  sono  i  più 
antichi  del  mondo,  ed  insieme  i  più  sublimi  di  qua- 
lunque scrittura. 

Dopo  tanti  e  sì  chiari  esemjii ,  che  abbiamo  di 
poeti  e  d'artisti,  che  ispirarono  il  loro  genio  creatore 
alle  ineffabili  bellezze  della  religione,  chi  potrà  ne- 
gare che  il  cristianesimo  santificò  le  arti  ordinandole 
al  debito  fine  ? 

Dante  fu  il  primo  che  ne  impose  la  strettissima 
legge.  Ed  è  per  questo  appunto  che  la  Divina  Com- 
media, come  sentenziò  un  solenne  scrittore,  è  1'  e- 
sempio  il  più  perfetto  del  bello  ideale.  Questo  poema, 
cosi  ampio  come  lo  scibile  umano ,  abbraccia  la 
virtù  e  la  colpa,  la  gioia  e  la  sventura,  la  luce  e  le 


207 
tenebre,  la  fiiosofia  e  la  religione,  la  storia  e  la  fa- 
vola, il  passato  e  l'avvenire  ,  la  terra  e  il  cielo  ,  il 
tempo  e  l'eternità.  Or  qual  osservatone  di  natura  più 
sagace  si  può  immaginare  di  Dante  ?  Qual  artefice 
di  stile  più  fino,  più  vasto,  più  polente  ?  Egli  pos- 
siede in  modo  maraviglioso  la  semplicità,  la  natu- 
ralezza, la  proprietà,  la  concisione^  l'eleganza,  l'evi- 
denza ,  r  efficacia,  la  sublimità  della  frase:  né  vi  è 
scrittore  ,  che  lo  avanzi.  11  suo  poema,  mirabile  in 
tutto  il  disegno,  è  così  perfetto  eziandio  nelle  parti 
le  più  minute,  che  per  quanto  si  legga  e  si  studi, 
ninno  può  promettersi  di  gustare  ed  esaurire  tutte 
le  sue  bellezze.  In  questo  gran  maestro  pertanto 
cerchi  lo  scrittore  e  l'artista  il  vero  disegno  dell'i- 
dea^,  cerchi  il  bello,  cerchi  il  sublime,  e  cerchi  le 
tinte  native,  che  mai  non  isbiadiscono,  se  vuol  dare 
a'suoi  concepimenti  le  vere  e  durature  sembianze. 

In  questa  od  in  altra  somigliante  guisa  il  Basi 
ragiona  con  larghissimo  stile  e  profondo  senno  delle 
regole  dell'arte,  i  canoni  della  quale  ti  conduce  quasi 
per  mano  a  contemplare  nei  sommi  maestri ,  che 
gl'incorporarono  nelle  loro  opere.  A  dir  breve  il  suo 
principalissimo  scopo  si  fu,  come  scrisse  egli  stesso 
di  riporre  1'  arte  oratoria  a  quel  grado  ,  che  le  si 
spetta  ,  considerandola  come  sorella  della  poesia  e 
imitatrice  della  natura,  e  di  ricondurla  dalle  scuole 
di  Gorgia  ad  esercitare  signoria  in  quella  provincia, 
che  lo  stagirita  il  primo  di  tutti  alle  sublimi  arti 
assegnò.  Intese  a  collegare  le  liberali  discipline  gre- 
che e  latine  con  gl'insegnamenti  che  massime  ai  di 
nostri  gl'ingegni  più  chiari  dettarono,  affinchè  si  ab- 


208 
bia  per  ferino  che  uno  sempre  universale  ed  inva- 
riabile fu  il  vero  buon  gusto  di  tutte  l'età. 

Giova  inoltre  avvertire,  che  il  Basi  col  suo  libro 
dell'oratoria  non  ebbe  solamente  in  iscopo  di  porre 
un  freno  alla  scuola  de'  novatori,  la  quale  grida  da 
forsennata  che  le  regole  sono  un  inceppamento  ai 
forti  e  liberi  ingegni,  e  che  la  imitazione  degli  an- 
tichi sente  troppo  di  schiavitù;  ma  volle  altresì  ban- 
•dir  dalle  scuole  quegli  sterili  e  fastidiosi  precetti  con 
quel  superbo  apparato  di  figure  e  di  tropi  dettato 
da  una  gelida  e  troppo  materiale  rettorica,  che  in- 
tenebra la  mente,  tarpa  le  ali  alla  fantasia,  e  smorza 
ogni  lume  di  ragione. 

E  questo  fa,  come  dice  Paolo  Costa,  che  la  gio- 
ventù esce  da  quello  studio  pasciuta  di  vano  suono 
di  parole,  ed  ignara  di  quella  filosofia,  che  sola  in- 
segna a  conoscere  quali  sieno  le  forme  a  ciascuna 
scrittura  convenienti,  e  a  dirittamente  usare  secondo 
i  diversi  casi  le  regole.  Per  siffatte  mancanze  inter- 
viene che  la  più  parte  degli  uomini  sì  tortamente 
giudicano  e  delle  poesie  e  delle  prose,  che  talvolta 
tengono  per  buono  il  pessimo,  e  per  ispregevole  il 
naturalo  :  e  che  quei  pochi ,  che  si  accorgono  del- 
l'errore, e  desiderano  di  scrivere  lodevolmente,  sono 
obbligati  di  cominciar  da  capo  gli  studi,  e  di  cer- 
care le  cagioni  dell'arte  nelle  gravi  opere  de'filosofi, 
e  spesso  inutilmente,  per  distruggere  i  mali  abiti  for- 
mati alla  scuola. 

Da  tuttociò  si  fa  chiaro  quanto  di  bene  col  suo 
libro  abbia  recato  il  Basi  alle  lettere  ed  agli  studiosi, 
redimendoli  e  dalla  sfrenata  licenza  dei  novatori*  e 
dagli  storti  e  riprovevoli  metodi  delle  scuole.  Se  l'ab- 


209 
biano  pertanto  cara  e  pregiata  quest'opera  e  scolari 
e  maestri,  e  la  studino  continuo  di  profondo  ingegno, 
se  tenendo  dietro  a  quella  savia  e  sicura  guida,  bra- 
mano vantaggiare  nelle  lettere,  e  procacciarsi  fama 
duratura.  Perchè  facilmente  mi  persuado  che  chi 
vorrà  con  fino  accorgimento  scrutar  ben  addentro 
in  quel  libro,  vi  troverà  nuovi  e  fecondi  semi  di  molta 
sapienza. 

Noi  poi,  0  accademici,  e  quanti  qui  siamo  desi- 
derosi del  bene,  dobbiamo  gratificar  molto  a  siffatti 
uomini  (e  parecchi  ne  ebbe  il  nostro  secolo)  che  per 
amore  de'giovani,  delle  lettere  e  della  gloria  italiana, 
lasciate  forse  opere  di  maggior  grido  (a  cui  aveano 
bene  acconcio  ed  addestrato  l'ingegno)  non  di  mag- 
giore utilità  a  contenere  la  stupida  audacia  ,  e  le 
matte  fole  de'romantici,  si  porsero  umili  insegnatori 
de'  precetti  dell'  arte  e  delle  bellezze  degli  antichi 
maestri.  Ed  è  perciò  che  non  sono  più  da  pregiare 
per  altri  lavori  di  degna  fama,  che  per  gli  aiuti  che 
procacciarono  alla  italiana  gioventù  nell'ottima  dire- 
zione degli  studi,  e  Michele  Colombo  e  Paolo  Costa 
e  Pellegrino  Farini  e  Giuseppe  Grassi  e  Basilio  Puoti 
e  Ignazio  Montanari,  ed  altri  illustri  e  vivi  esempi 
del  secolo,  di  cui  ragioniamo,  ai  quali  l'Italia  dovrà 
sempre  tanto  d'amore,  di  riverenza,  e  di  gratitudine, 
quanto  non  mai  a  bastanza. 

E  ciò  che  meglio  qui  giova  considerare  si  è,  che 
gli  studi  di  questi  benemeriti  uomini,  di  sopra  ri- 
cordati, versarono  per  lo  più  sulla  elocuzione,  parte 
singolarissima  ,  e  ciò  non  pertanto  sì  poco  curata 
dell'eloquenza;  ed  è  questa  parte  appunto  che  il  no- 
stro dotto  accademico  trattò  con  intenso  ed  acceso 
G.A.T.CXXXIV.  14 


210 

animo.  Perchè  se  nelle  altre  della  invenzione,  della 
disposizione,  della  memoria,  della  pronunciazione  si 
scorge  il  sapiente  magistero  del  profondo  fdosofo  , 
del  severo  critico,  dell'uomo  eruditissimo,  come  si  è 
dimostrato;  se  tale  inoltre  apparisce  allorché  ti  detta 
i  più  savi  ed  utili  insegnamenti  intorno  all'eloquenza 
deliberativa,  o  dei  pubblici  consigli,  quando  con  gravi 
detti  ti  parla  della  giudiziale,  ossia  dei  tribunali  e 
delle  corti  (delle  quali  materie  per  amore  di  brevità 
ed  altre  buone  ragioni  mi  passo),  nell'  elocuzione  è 
dove  egli  incalza  di  piiì,  spiegando  maggior  vigoria 
d'ingegno,  larghezza  di  pensieri  e  calore  d'affetti.  E 
questo  suo  proposto  non  fu  per  avventura  senza 
buone  ragioni,  sendo  l'elocuzione  ciò  che  ha  di  più 
prezioso  ed  importante  l'eloquenza,  come  quella  che 
dà  luce  grazia  ed  efficacia  al  pensiero.  Ed  è  per  que- 
sto appunto  che  Cicerone  reputa  la  invenzione  e  la 
disposizione  doti  proprie  di  un  savio  ,  1'  elocuzione 
dell'  oratore.  Perchè  è  di  suo  ufficio  lo  sporre  con 
ogni  splendore  di  dettato  e  di  modi  tutto  ciò  che  si  è 
conceputo  nell'animo  a  convincere,  persuadere  e  di- 
lettare chi  ci  legge  o  ci  ascolta. 

Ed  il  Basi  parlando  della  nostra  bellissima  lingua 
e  delle  nobili  e  vaghe  forme,  che  dee  prendere  il  di- 
scorso, dopo  avere  per  sottili  precetti  e  lucidi  esempi 
toccato  degli  elementi,  onde  si  forma  lo  stile,  quali 
sono  la  purità,  la  urbanità,  la  convenienza,  la  chia- 
rezza e  l'ornamento,  accenna  e  riprova,  perchè  i  gio- 
vani massimamente  se  ne  guardino,  mille  brutti  bar- 
barismi, neologismi,  ed  altre  sconcezze  di  linguaggio, 
che  sì  stranamente  deturpano  e  imbastardiscono  l'ita- 
liana favella,  e  che  pur  sono  sì  familiari  a  chi  non 


211 

ne  conosce  a  fondo  le  più  riposte  proprietà,  e  le  più 
pure  e  fine  eleganze.  E  ciò  valga  a  sgannare,  se  pure 
è  possibile,  quei  dappochi  uomini,  i  quali  per  una 
massiccia  ignoranza,  che  fa  loro  velo  al  giudizio,  av- 
versano quella  innegabile  verità  (  che  qui  mi  toina 
opportuna  nella  memoria)  di  uno  de'  nostri  sovrani 
ingegni,  che  la  facoltà  cioè  della  parola  aiuta  incre- 
dibilmente la  facoltà  del  pensiero,  e  le  spiana  ed  ac- 
corcia la  strada. 

Si  tenne  poi  l'autore  col  giudizio  del  Monti  nel 
condannare  l'ambizioso  abuso  de'termini  tecnici,  che 
seduce  la  vanità  dei  poeti.  Perchè,  come  dice  quel 
grand'uomo,  quando  si  monta  in  Parnaso,  fa  d'uopo 
deporre  il  pallio  d'Aristotele  ed  indossare  il  manto 
d'Omero. 

Questi  ed  altrettali  sono  i  pregi  di  questo  libro, 
i  quali  se  tutti  si  volessero  solamente  accennare,  non 
sarebbe  opera  di  poco  tempo  ,  e  mancheremmo  ad 
ogni  confine  di  brevità.  Valga  ora  questa  opera  (nella 
quale  per  quanto  mi  sia  studiato  di  tenermi  ristretto, 
forse  colle  mie  parole  ho  trascorso  troppo  dentro)  a 
confortare  le  menti  dei  giovani  all'imitazione  de'mag- 
giori  e  più  sani  intelletti,  a  tenerli  in  freno  contro 
le  improntitudini  e  le  strane  licenze  de'novatori,  a 
sostenere  valorosamente  con  ogni  possa  il  glorioso 
patrimonio  delle  lettere.  Valga  finalmente  a  porli  in 
amore  della  italiana  favella,  della  quale  non  vi  ha  per 
avventura  altra  lingua,  che  possa  venire  in  paragone; 
regina,  come  fu  chiamata,  di  tutte  le  lingue  viventi, 
e  delle  morte,  se  non  regina,  certo  non  suddita. 

Ma  ciò  che  dee  assai  rammaricarci  si  è,  che  in 
quello  che  il  Basi  si  preparava  dopo  altre  dotte  fa- 


212 

tiche  a  dare  in  luce  la  sua  aite  poetica,  che  tutti 
aspettavano  con  inestimabile  desiderio,  la  morte  ci 
furò  questo  sapientissimo  uomo.  E  dovea  essere  il 
lavoro  ben  degno  di  lui,  perchè  si  mostrò  in  effetto 
(oltre  al  gusto  squisitissimo  che  possedeva  per  giudi- 
care dell'altrui),  non  meno  che  valoroso  oratore,  gen- 
tile ed  elegante  poeta  nel  fare  del  proprio.  Egli  ce 
ne  lasciò  a  prova  splendidissimi   esempi. 

E  ciò  che  per  prima  intorno  alle  poesie  del  ca- 
nonico Basi  fa  mestieri  osservare  si  è,  che  l'arte  sua 
notabilissima  consiste  singolarmente  nel  dare  felice 
e  ingegnoso  impasto  alle  cose  più  vulgari,  e  rivestirle 
poeticamente  di  tanta  semplicità,  che  forte  maravigli 
in  vedere  come  in  modi  sì  naturali  e  di  si  apparente 
sprezzatura  serbino  sì  caldo  e  vivace  colorito  di  pen- 
sieri e  di  affetti.  La  poesia  del  Basi,  a  parlar  breve- 
mente, è  di  quel  genere,  che  ti  scende  soave  al  cuore, 
e  signoreggia  l'umana  ragione.  Essa  trae  immagine  e 
sentimento  dalle  ridenti  scene  della  natura,  che  rende 
vago  e  beato  il  suolo  toscano:  dal  limpido  cielo,  che 
lo  irradia  e  feconda  della  sua  luce:  dai  gentili  costumi, 
dalla  copia  e  dall'armoniosa  dolcezza  del  nativo  lin- 
guaggio. Del  quale  fu  preso  siffattamente  1'  amico 
nostro,  e  se  lo  ebbe  sì  familiare,  e  quasi  direi  ridotto 
in  sangue,  che  le  lucide  e  varie  forme,  onde  ha  vita 
il  pensiero  atteggiandosi  opportunamente  ad  ogni  su- 
bietto, gli  fluivano  così  spontanee  e  dolci  da  quella 
sua  sì  limpida  vena,  che  rispondevano  sempre  ob- 
bedienti al  fuoco  dell'  immaginazione  (che  agita  ed 
incende  gl'ingegni),  alla  foga,  all'impeto  degli  affetti. 
Onde  è  che  le  sue  poesie,  schive  di  ogni  servile  imi- 
tazione, risplendono  tutte  di  soave  leggiadria  e  di  ef- 


213 

ficacissima  grazia  della  nostra  divina  favella,  che  è 
come  la  veste  onde  le  idee  acquistan  potenza  ed  ef- 
fetto. Ed  a  guisa  appunto  di  un  quadro  che  dalle 
ombre,  dai  ben  risposti  e  compartiti  colori  e  dalle 
tinte  sfumanti  ritrae  vita  e  splendore,  non  altrimenti 
la  lingua  su'  pensieri.  E  perciò  forte  stupiva  il  Basi 
come  tutti  di  grand'amore  non  amassero  questa  gen- 
tile, e  peggio  come  altri  con  insopportabile  demenza 
l'avessero  in  dispregio  qual  merce  inutile,  qual  freno 
al  pensiero  ,  qual  ridicola  vanità  ,  ed  osassero  pure 
con  irose  parole  vituperar  quegli  stessi,  che  ne  fanno 
tesoro:  si  stupiva  come  altri  sapessero  contaminarla, 
dicendola  povera,  perchè  ne  sdegnano  la  fatica  del 
possederla  ,  deturpandola  di  mille  guise  con  laido 
garbuglio  di  sconce  e  mostruose  parole:  altri  infine 
(vedi  varietà  di  sinistri  umani  giudizi)  col  troppo  li- 
marla ed  assottigliarla  la  guastassero.  Onde  avviene 
che  storpiandola,  a  dir  così,  per  troppe  morbidezze 
e  lindure  (o  ciò  addivenga  per  soverchio  di  sazievole 
sollecitudine  della  parola,  o  per  arte  troppo  misurala 
di  costrutto  ,  che  esclude  ogni  vaiietà  ,  ogni  libero 
andamento)  mancano  poi  di  chiarezza,  di  copia,  d'ef- 
ficacia. E  quindi  pareva  strano  e  incomportabile  al- 
l'amico nostro,  che  non  volessero  per  anche  assennarsi  i 
seguaci  di  una  falsa  scuola,  figli  degeneri  e  schifosi 
di  bella  e  gloriosa  madre:  che  male  si  avviserebbero 
tramandare  agli  avvenire  i  loro  concetti  ,  sebbene 
nobilissimi,  ove  non  fossero  colorili  da  quella  pro- 
prietà di  linguaggio,  che  richiede  relocuzionc,  detta 
propriamente  dallo  Speroni,  cuore  della  eloquenza. 

E  nel  vero  questo  mal  vezzo  antico  d'  infrancio- 
sa^'si  tiene  assai  dello  sconcio  e  del  turpe,  non  es- 


214 

sendo  facile  a  comprendere  come  in  onta  alla  ragione 
ed  alla  autorità  de'nostri  padri,  ed  ai  chiari  esempi, 
che  ci  lasciarono  ,  si  attenti  con  estrema  vergogna 
cacciar  via  di  casa  l'oro  purissimo,  di  cui  ci  fu  larga 
la  provvidenza  ,  per  inzozzarci  nel  lordo  brago  di 
schifose  immondezze.  Né  ci  bastò  (  poveri  e  ciechi 
che  siamo  dell'intelletto)  che  il  cielo  di  tanto  ci  fosse 
benigno,  che  quasi  a  guardia  del  buono  e  del  bello, 
onde  fece  ricca  l'Italia,  ci  ricingesse  di  monti  e  di 
mari  :  che  noi  con  visibile  e  invereconda  baldanza 
gli  valichiamo  solamente  per  matta  boria  di  renderci 
di  usi ,  di  costumi ,  di  gusto  di  lingua  al  tutto  fo- 
restieri. 

Cessi  peraltro  Dio  che  fra  le  molte  sventure  e 
vergogne  che  lamentiamo,  e  con  altre  che  d'ora  in 
ora  ci  minacciano,  non  si  rinnovi  anche  questa,  che 
contenti  alle  antiche  memorie,  e  ai  degni  fatti  onde 
ci  fece  sì  gloriosi  l'inclita  schiera  de'  nostri  sommi, 
si  voglia  a  tutta  posta  cadere  nei  fondo  della  bar- 
barie, e  si  vedano  come  altra  volta  gl'ingegni  ambi- 
ziosi e  superbi  disprezzare  ciò  che  cento  generazioni 
hanno  ammirato!  ed  infastiditi  di  questo  cielo  e  del 
materno  linguaggio,  perduto  ogni  senso  del  vero  e 
del  bello, 

Correre  insanamente  a  cercar  (ìojì 
Per  la  Scozia  sassosa! 

Bene  intendo  che  questo  mio  schietto  parlare  mi 
darà  mala  voce  presso  molti  che  discorrono  e  scri- 
vono con  modi  liberi  e  dissoluti,  e  come  di  |)ro[)rio 
cervello,  senza  curai-  |)unto  nulla  i  precetti  dell'arte. 


215 

Ma  v.ifl:i  In  cosa  pur  come  vuole,  dirò  che  a  me, 
tolto  ogni  altro  rispetto,  importa  solo  di  gratificarmi 
al  vero  ,  ed  a  quei  sapienti  che  lo  intendono  e  lo 
sentono.  Ed  a  questi  ripeterò  volentieri  ciò  che  scri- 
veva quell'alto  intelletto  del  Perticari  a  Paolo  Costa: 
«  Imitiamo,  diceva  egli  quelF egregio  uomo,  gli  an- 
tichi, che  si  gloriavano  nello  scandalo  della  croce. 
Sono  di  presente  gli  studi  lo  scandalo  degli  igno- 
ranti. E  noi  gloriamoci  in  questo  beatissimo  scan- 
dalo, che  ci  frutterà  il  cibo  della  mente,  che  è  il 
.  primo  bene  della  vita  e  la  buona  fama,  che  è  una 
seconda  vita  dopo  la  mortew 

Ma  tornando  ora  al  proposito  delle  poesie  del 
canonico  Basi,  dirò  che  né  l'ardente  immaginazione, 
né  la  facile  e  feconda  vena  che  appariscono  in  molte 
pregevoli  delle  sue  rime,  erano  d'impedimento  alla 
giustezza  delle  sue  idee,  al  suo  profondo  criterio:  né 
questo  tarpava  punto  le  ale  alla  rapida  ed  accesa 
fantasia.  Anzi  parmi  che  queste  due  qualità,  sì  dispa- 
rate e  sì  rare,  in  lui  sieno  di  maniera  contemperate, 
che  ben  lungi  dal  turbarsi  e  nuocersi  insieme,  l'una 
e  l'altra  a  vicenda  si  rechino  aiuto  e  giovamento. 
Che  se  non  poche  creazioni  del  suo  genio  sono  am- 
mirabili per  rara  semplicità,  se  sono  piene  di  brio 
e  di  originali  bellezze  ,  te  le  trovi  tutte  felicissime 
nella  pittura  de'  caratteri,  ne'  passaggi,  negli  affetti, 
negli  oi'namenti,  alcune  più  singolarmente  ti  spirano 
una  viva  fragranza,  una  dolce  soavità,  un'  ineffabile 
candore.  E  tra  queste  spicca  di  preferenza,  o  io  mi 
inganno,  per  riguardevoli  qualità  di  concetti  e  di  stile 
quella  avvenentissima  che  ci  dettò  per  le  nozze  del 
comune  amico  Cesare  Guasti,  cui  il  Basi  per  somi- 


216 
glianza  di  sludi,  d'animo,  di  costumi  amò  fino  all'ul- 
timo spirito  di  caldissimo  affetto.  Né  meno  pregiata 
per  saporita  dolcezza  e  leggiadria,  per  vivacità  ed 
apparente  sprezzatura,  si  è  la  traduzione  che  ei  fece 
delle  Quattro  Stagioni  del  celebre  poeta  siciliano  Gio- 
vanni Meli,  sì  conforme  a  lui  per  temperamento  di 
ingegno,  per  indole  soave  e  giocondissimi  spiriti,  e 
che  pubblicò  colle  stampe  per  le  nozze  di  Gio:  Batt. 
Martini  e  Virginia  Capoquadri,  e  che  con  uno  scherzo 
poetico  tutto  pieno  di  gaiezza  e  di  amabile  disinvol- 
tura intitolò  a  Francesco  Martini  padre  dello  sposo, 
di  gentilezza,  sapienza  e  bontà  rarissimo  esempio. 

Che  se  laccio  di  molte  altre  poesie  del  Basi  che 
vanno  sparse  qua  e  là,  e  forse  alcune  perdute,  ragione 
e  giustizia  vuole  che  non  pretermetta  la  sua  delicata 
traduzione  delle  favole  dello  spagnuolo  Hyriart,  pro- 
fondo e  singolare  ingegno,  che  sebbene  mancato  in 
fresca  età,  pure  lasciò  alla  patria  colle  molte  e  molte 
svariate  sue  opere  un  perenne  monumento  di  gloria. 
Ora  al  Basi  venne  vaghezza,  avendo  familiare  e  cor- 
rente la  lingua  di  quel  paese,  di  darci  tradotte  nel 
nostro  idioma  le  favole  del  solenne  scrittore,  dedi- 
candole con  una  ode  epitalamica  di  squisita  amabi- 
lità alla  ingegnosa  e  cultìssima  dama  marchesa  Ca- 
rena già  Bertolini.  Ed  in  questa  prova  ci  fornì  il 
nostro  socio,  forse  piiì  acconciamente  che  altrove, 
argomenti  del  suo  gusto  delicato  e  fino  giudizio  del- 
l'amenità, della  grazia,  dei  vezzi  del  suo  pronto  e 
festivissimo  ingegno,  e  delle  schiette  native  forbitezze 
del  nostro  volgare.  Certo  si  è  che  quel  suo  lavoro  si 
levò  a  tanto  grido,  che  gli  amatori  delle  lettere  ita- 
liane assai  lo  commendarono  ,  e  la  Spagna  lo  ebbe 


217 

in  conto  SI  onorevole  e  segnalato,  che  quella  corte 
dette  al  valoroso  traduttore  quel  più  e  quel  meglio 
che  potè  e  seppe  donargli  di  singolare  dimostrazione, 
la  croce  di  Carlo  III. 

E  qui  credo  opportuno  il  ricordare,  che  il  nostro 
amico  avea  pur  posto  mano  alla  traduzione  di  Pro  - 
perzio:  e  da  quelli  squarci  che  me  ne  lesse,  corsero 
già  molti  anni,  mi  parve  che  quella  impresa  assai 
malagevole,  piena  di  rischi  e  strettezze,  non  avrehhe 
fallito  al  suo  scopo,  tanto  copiosa  ne  appariva  la  vena 
del  poetare  e  l'eleganza  del  dire.  Ignoro  peraltro  lo 
cagioni  perchè  non  abbia  mai  pubblicato  (se  pure  Io 
condusse  a  fine)  quel  lavoro,  di  cui  si  erano  destate 
sì  liete  speranze.  Ma  forse,  come  è  da  credere,  le  sue 
continue  e  gravi  incumbenze  ,  che  ebbe  dopo  quei 
giorni  di  vita  piuttosto  riposata  ,  lo  distolsero  dal 
colorire  questo  disegno.  Se  pure  non  si  dissuase  dal 
tentare  quel  periglioso  arringo  da  lodevoli  prove  che 
altri  ne  fecero,  o  dai  tempi  che  sdegnando  risoluta- 
mente ogni  nenia  canora ,  o  racconti  di  favole  co- 
me sono  in  Properzio,  e  poco  più  poco  meno  negli 
altri  poeti  del  gentilesimo ,  avean  fatto  della  poe- 
sia la  espressione  di  un  sentimento  religioso  e  ci- 
vile ,  più  conveniente  ai  costumi  ,  alle  glorie  ,  alle 
fortune  o  buone  o  ree  dei  popoli,  ai  fatti  gloiiosi 
e  degni  di  restarne  memoria.  Ma  tanta  potenza 
d'intelletto  e  tanta  fama  di  dottrina  ,  degno  frutto 
di  un  intenso  insuperabile  amore  per  i  buoni  stu- 
di, non  rimasero  per  l'amico  nostro  senza  premio. 
Perocché,  oltre  il  gran  concetto  in  che  l'ebbero  gli 
uomini  i  più  eccellenti  e  gli  amici  i  più  cari,  trovo 
che  in  un  anno  stesso  (che  fu  il  1838)  conseguì  l'alta 


218 
dignità  di  canonico  delia  basilica  fiorentina  di  san 
Lorenzo  ,  e  l'accademia  della  crusca  ,  visto  quanto 
avrebbe  giovato  d'opera  e  di  consiglio  quell'  illustre 
consesso,  lo  nominò  fra  i  dodici  soci  ordinari  per  la 
compilazione  del  vocabolario.  Soddisfece  il  Basi  lar- 
gamente agli  uffici  di  sì  alti  carichi,  e  col  dar  opera 
diligentissima  ad  ogni  studio  di  lingua  e  col  consa- 
crarsi in  utile  alimi,  come  maestro  del  popolo,  nel- 
l'alto ministero  ecclesiastico. 

E  come  l'ingegno  del  nostro  socio  era  mirabil- 
mente attemperato  ad  ogni  ragione  di  studi,  talché 
in  qualunque  cosa  ei  poneva  mano,  non  falliva  ad  ogni 
più  arduo  intendimento,  così  la  sua  naturale  attitu- 
dine richiamavalo  più  specialmente  all'eloquenza:  la 
quale  apparve  in  lui  sì  viva ,  sì  ornata  e  corrente  , 
non  dirò  solo  nelle  opere  di  studio  e  nelle  sacre  con- 
cioni, ma  eziandio  ne'  discorsi  più  familiari.  Di  questa 
pertanto,  secondo  che  più  gli  veniva  il  destro,  si  giovò, 
pieno  l'animo  di  una  soave  bontà,  ora  per  ispegnere 
le  ire  e  ridurre  gli  animi  e  concordia,  ora  per  spar- 
gere il  balsamo  della  consolazione  sullo  sconforto 
della  misera  umanità,  ora  a  penetrar  nelle  carceri 
de'  più  perduti  e  richiamarli  ad  atti  di  nuova  rige- 
nerazione, lenirne  le  piaghe  dell'animo,  ridurre  le  menti 
a  più  savi  consigli,  riconfortarli  col  dolce  della  spe- 
ranza e  del  perdono.  E  voi,  o  anime  generose,  che 
intendete  a  sì  nobile  e  profittevole  ufficio  nei  peni- 
tenziari di  Firenze,  e  che  per  solo  effetto  di  evange- 
lica carità  ed  amore  della  società  fate  vostre  le  pene 
degli  infelici,  che  furono  segno  alla  umana  giustizia, 
voi  che  foste  testimoni  dello  zelo  del  canonico  Basi, 
e  con  pubbliche  e  solenni  dimostrazioni    l'onoraste 


219 

quando  ei  non  era  più  che  una  memoria  un  desi- 
derio, narrateci  di  cortesia  gli  atti  della  sua  mira- 
bile carità ,  gli  effetti  della  sua  grave  ed  ubertosa 
facondia. 

Quando  poi  esercitava  questa,  ed  era  ben  di  so- 
vente, nell'apostolico  ministero,  dolce  e  mirabil  cosa 
era  vedere  il  popolo  accorrere  a  lui  avidamente  per 
sentir  dichiarate  colla  maestà  della  religione  o  le 
verità  della  fede  o  i  canoni  della  morale  ,  e  presi 
dalla  persuadente  eloquenza  di  sì  egregio  oratore 
benedire  a  quella  parola  di  vita  ,  che  gli  sgorgava 
dall'  animo ,  e  che  tosto  diveniva  seme  fecondo  di 
buone  opere.  Padrone  de'  cuori,  ne  signoreggiava  a 
sua  voglia  gli  affetti.  Tanto  questa  importantissima 
parte  del  sacerdozio,  per  lo  più  sì  negletta,  trattata 
dal  Basi  con  quella  sua  sì  calda  facondia  e  con  quel 
suo  sì  facile,  sì  pronto  ed  ornato  eloquio,  convinceva 
gl'intelletti  e  moveva  i  cuori  a  salute!  E  qui  è  ap- 
punto ove  forte  dolorava  quel  savio  nel  vedere  l'elo- 
quenza sacra  caduta  in  sì  povero  stato  fra  noi,  e  co- 
me a  tanta  altezza  di  fine  non  avesse  corrispondenza 
di  mezzi  :  dappoiché  alcuni  la  trattavano  in  modi 
troppo  dimessi  e  vulgari:  altri  al  contrario  in  forme 
di  troppo  affettata  eleganza  per  soverchio  di  lusin- 
ghe e  di  fallaci  adornamenti,  e  tolgono  così  fede  e 
luce  alle  verità  rivelate.  Ma  peraltro  finché  le  calde 
brame  dei  pastori  del  popolo  non  saranno  tenute  che 
in  conto  di  semplici  velleità,  finché  i  Basili,  i  Cri- 
sostomi, i  Nazianzeni,  i  Girolami,  gli  Ambrogi  e  gli 
Agostini  saranno  solo  invocati  come  santi,  e  non  an- 
cora studiati  come  maestri,  e  le  opere  loro  saranno 
considerate  come  lettere  morte  in  quei  sacri  recinti 


220 

dove  colla  coltura  dell'ingegno  si  maturano  le  sorti 
del  sacerdozio,  credo  che  l'eloquenza  sacra  sarà  forse 
all'età  nostra  un  vano  ed  inutile  desiderio. 

Né  meno  il  Basi  soddisfece  alle  ben  nutrite  spe- 
ranze dell'accademia  della  crusca,  la  quale,  secondo 
che  si  è  naarrato,  avealo  eletto  a  suo  socio.  E  sic- 
come ei  di  nulla  piìi  si  travagliò  che  di  giovare  di 
sane  regole  e  di  esempi  la  gioventù,  cosi  prendeva 
sicurtà  che  con  tal  mezzo  avrebbero  acquistato  onore 
ed  incremento  gli  studi.  Ed  è  perciò  appunto,  che 
inteso  come  fu  sempre  a  serbar  viva  la  purezza  e 
proprietà  della  nostra  lingua  ,  oltre  la  solerzia  che 
usava  continua  nell'opera  del  Vocabolario,  nella  quale 
perseverò  per  molti  anni  con  maravigliosa  pazienza, 
oltre  ai  discorsi  accademici  che  dettò,  ed  agli  elogi 
che  scrisse  per  soci  defunti  (l'ultimo  de'  quali  fu  per 
il  celebre  e  degnamente  celebre  traduttore  di  Calli- 
maco, Dionigi  Strocchi)  volle  altresì  donarci  di  al- 
cuni preziosi  codici  del  buon  secolo  ,  che  pubblicò 
colle  stampe. 

Il  primo  dei  quali  fu  per  avventura  la  vita  di 
Numa  Pompilio  scritta  con  aurea  e  maestosa  ele- 
ganza, e  con  finezza  di  modi,  da  monsignor  Ugolino 
Martelli  vescovo  di  Glandeva,  che  ornato  di  ottime 
lettere  e  di  bellissimi  costumi  si  meritò  l'intima  con- 
fidenza di  Benedetto  Varchi  e  di  Annibal  Caro.  Egli 
visse  con  molta  fama  di  virtù  e  di  sapienza  in  quel 
secolo  fortunato,  in  cui  una  mano  di  uomini  prestan- 
tissimi, senza  toglier  nulla  all'antica  vivezza  e  sem- 
plicità delle  voci,  crebbero  nervo,  eloquenza  e  leg- 
giadria all'italiano  linguaggio,  adoperando  vigorosa- 
mente che  andasse  di  pari  co'  procedimenti  dell'umano 


221 

ingegno,  ed  ai  mille  e  stupendissimi  trovati,  onde  le 
scienze  per  opera  singolarmente  di  quel  gran  lume 
di  Galileo  in  processo  di  tempo  si  vantaggiarono.  E 
di  questa  fatica  ritornò  al  Basi  ben  degna  lode,  si 
per  aver  rimesso  in  onore  un  nobilissimo  ingegno, 
che  parve  dimenticato,  sì  per  le  squisite  ed  incan- 
tevoli grazie  che  trovi  sparse  a  larga  mano  in  quel- 
l'opera, della  quale  ogni  gentile  che  sia  punto  preso 
alle  bellezze  dell'  ottimo  favellare,  conviene  che  ne 
abbia  maraviglioso  diletto. 

Né  oltre  a  ciò  il  Basi,  che  non  rimetteva  mai  della 
sua  attività  né  del  suo  amore  per  gli  studi,  è  meno 
da  pregiare  per  l'altro  utile  e  diligente  lavoro  che  si 
tolse  a  condurre,  confortatovi  da  quel  fiore  di  senno 
e  di  bontà  di  Cesare  Guasti,  che  furono  le  Metamor- 
fosi d'Ovidio  di  ser  Arrigo  Simintendi  da  Prato.  E 
qui  si  voglion  riferire  molte  e  sincere  grazie  a  quei 
benevoli,  non  solamente  per  averci  donati  di  questo 
libro,  dove  risplende  tanta  venustà  di  lingua  di  quel 
beato  trecento,  ma  eziandio  per  avercelo  dato  per 
severi  e  profondi  studi  su  i  codici,  e  per  dotte  illu- 
strazioni e  note  (per  tacere  delle  gravissime  prefa- 
zioni),quale  si  poteva  sperare  di  averlo  netto  di  molte 
mende  dalle  mani  stesse  dell'autore.  Ma  già  que'  due 
benemeriti  per  questo  buon  servigio  reso  alle  lettere 
si  procacciarono  degni  encomi  da  quanti  uomini  di 
aito  valore  tengono  in  pregio  il  nativo  linguaggio. 
E  che  inoltre  quel  libro  delle  Metamorfosi  sia  da  aversi 
in  molto  conto,  e  debba  ritornar  fruttuoso,  lo  ebbe 
eziandio  chiarito  collo  spoglio  che  ne  fece  delle  più 
ingenue  eleganze  il  P.  Francesco  Frediani  minore  os- 
servante, di  siffatti  studi  espertissimo. 


222 

A  mostrar  poi  con  qual  sublime  intendimento 
que'  due  valorosi  uomini  si  facessero  a  pubblicare 
queir  ottimo  testo  di  lingua  ci  giova  riportar  qui 
alcune  loro  parole  intorno  a  una  disputa  fdologica 
insorta  fìerissima  a  cagione  di  quel  libro  fra  due  in- 
gegni certamente  non  di  piccola  stima. 

((  Amore  di  questa  bellissima  lingua  (così  s'espri- 
mono gli  eruditi  editori)  desiderio  di  conservare  questo 
tesoro  che  ancora,  ci  resta  a  consolazione  di  tante 
perdite,  ci  furono  solo  conforto  all'impresa:  contenti 
di  umili  studi,  non  cerchiamo  di  conseguir  fama,  ma 
utile  diletto,  innocente  soddisfazione.  Che  se  le  let- 
tere ci  negassero  questi  premi  modesti,  noi  volentieri 
le  abbandoneremmo,  come  quelle  che  usurpandone  il 
nome,  non  avrebbero  più  qualità  di  umane.» 

Oh  !  sacre  e  venerande  parole  ,  che  in  breve  ti 
rivelano  l'alto  ministero  nelle  lettere,  e  l'ufficio  vero 
di  chi  le  professa.  Esse  ti  mostrano  che  l'umana  sa- 
pienza, emanazione  della  divina,  non  ci  è  data  a  cor- 
rompere i  cuori ,  ma  a  correggerli  e  a  far  sani  i 
costumi:  non  a  pervertirne  o  intenebrar  gl'intelletti, 
ma  sibbene  ad  accenderli  dell'amore  della  virtù,  dei 
canoni  eterni  della  morale:  non  a  sbrigliar  le  pas- 
sioni, ma  a  temperarle,  indirizzandole  all'unico  scopo 
della  privata  felicità  del  pubblico  bene,  che  ha  suo 
stabile  e  sicuro  fondamento  nella  religione:  che  esse 
(le  lettere)  non  sono  istrumcnto  di  ridicole  gare  di 
inverecondi  piati,  ma  sì  bene  semenza  di  concordia 
e  di  pace:  non  pretesto  ad  invidie  oltraggiose  ,  ma 
fuoco  sacro  che  accende  gl'intelletti  ed  i  cuori  a  ge- 
nerosi pensieri  ed  affetti.  Ah  !  si  cessi  il  malvezzo 
pur  troppo  antico  fra  noi  di  lacerarci  a  vicenda.  Che 


223 

se  non  si  vuol  provvedere  alla  propria,  si  provveda 
almeno  alla  gloria  della  nazione,  al  decoro  delle  let- 
tere ,  e  non  si  contraffaccia  col  turpe  esempio  alla 
verità  innegabile  che  esse  ingentiliscono  gli  animi  e 
fanno  miti  i  costumi,  e  perciò  appunto  son  dette 
umane. 

Pur  troppo  abbiamo  fra  noi  antichi  svergogna- 
tissimi  esempi  da  deplorare  e  da  piangere  di  inge- 
gni, che  fatti  segno  alla  malevolenza  de' tristi  furono 
gran  peccato  di  fortuna!  Che  più?  neppure  i  sommi 
,coiralta  nominanza,  a  cui  salirono,  non  seppero  di- 
sarmare l'implacabile  invidia.  E  voi  fra  gli  altri  lo 
provaste,  o  supremi  intelletti  dell'Alighieri,  del  Co- 
lombo, del  Galileo  e  del  Tasso.  Le  vostre  indegne 
sciagure  furono  sopra  ogni  misura  ed  umana  cre- 
denza ,  ed  appena  appena  ebbero  fine  colla  morte. 
E  sebbene  col  raro  e  sovrabbondante  ingegno  ci  no- 
bilitaste di  fecondissimi  veri,  rivelandoci  i  più  ma- 
ravigliosi  e  profondi  arcani  della  natura,  ci  creaste 
una  lingua ,  una  poesia  ,  e  per  dir  così ,  un  nuovo 
cielo  e  un  nuovo  mondo,  pure  la  stupida  ed  orgo- 
gliosa ignoranza  non  cessò  dal  vilipendervi,  dal  ma- 
ledire a  quella  sovrumana  sapienza,  che  irradiò  di 
sua  luce  benefica,  a  dir  così,  tutta  la  terra,  e  fece 
sacro  ed  invidiato  questo  suolo  d'Italia.  Oh!  poveri 
noi  ed  insensati,  che  accusiamo  i  raggi  troppo  vivi 
del  sole ,  perchè  la  debole  vista  non  può  affissarvi 
lo  sguardo.  Ah!  cessino  per  pietà  una  volta  fra  noi 
gare  sì  disoneste,  e  più  co'  fatti  che  colle  parole  si 
risponda  alle  acerbe  rampogne  dello  straniero,  che 
ci  chiama  polve  d'eroi,  e  non  a  torto  ci  accusa  che 
incuranti  di  riportar  nuove    palme  a  crescer  lustro 


224 

alla  nazione,  ci  riposiamo  beali  e  contenti  in  un  ozio 
infingardo  all'ombra  delle  antiche  sue  glorie. 

Non  fu  peraltro  così  la  vita  intellettuale  ,  che 
menò  Casimiro  Basi,  ma  bensì  vita  operantissima, 
che  tutta  spendeva  assai  dolcemente  a  benefizio  delle 
lettere  e  ad  utile  altrui ,  come  chiaro  lo  mostrano 
le  opere  di  che  ho  ragionato,  ed  altre  parecchie  di 
minor  conto,  di  cui  mi  taccio  per  brevità.  Certo  ò 
che  egli  non  mancò  mai  a  sé  medesimo  sì  nel  mi- 
nistero di  sacerdote  ,  sì  negli  uffici  di  accademico  , 
che  furono  laboriosissimi,  massime  quegli  che  tenne 
nell'Ateneo  italiano,  del  quale  dirittamente  fu  eletto 
a  segretario  perpetuo,  perchè  risorto  per  lui  (nel  1 842) 
a  nuova  e  più  splendida  vita  lo  ebbe  confortato  di 
provvide  istituzioni ,  ed  arricchito  di  molti  soci  tra 
gli  uomini  più  cospicui  e  notabili  d'Europa. 

Che  se  peraltro,  o  accademici,  nel  discorrervi  che 
ho  fatto  finora  le  segnalate  virtù  della  mente  del  no- 
stro socio  non  ho  corrisposto,  come  per  me  si  do- 
veva, al  mesto  ufficio  impostomi  così  dall'amicizia, 
come  da  un  vostro  molto  cortese  ed  onorevole  co- 
mandamento, chi  potrà  aver  quindi  bastevoli  parole 
a  ritrarne  l'interna  figura  dell'animo  ?  Chi  saprebbe 
esprimere  acconciamente  quei  soavi  costumi,  quel- 
l'ingenuo candore,  quell'indole  sensitiva  per  ogni  uma- 
na sciagura  ?  Quell'ardente  brama  che  aveva  di  farsi 
utile  a  tutti,  anche  ai  meno  degni,  e  in  modo  sin- 
golare ai  poco  agiati  de'  beni  del  mondo  ?  Chi  po- 
trebbe narrarvi  di  quell'intimo  senso  del  bello,  on- 
de sì  vivamente  gli  si  accendeva  la  concitata  fan- 
tasia ?  E  soprattutto  di  quella  sua  naturale  giovia- 
lità, e  di  quell'inclita  ed  universale  benevolenza,  onde 


225 
sli'ingeva  tutti  con  vincoli  di  efficacissimo  amore,  fa- 
cendo suo  il  piacere  di  ciascheduno  ? 

Ma  ad  averne  almeno  in  profilo  un  ritratto  che 
renda  qualche  somiglianza  del  vero,  sappiano  quegli 
che  non  lo  conobbero  di  veduta  ,  ma  solamente    di 
fama,  che  al  canonico  Basi  da  tutti,  anche  dai  meno 
amorevoli,  vien  dato  lode  di  mansuetudine,  di  mo- 
destia, d'interissima  fede.  Tutti  gli  consentono  modi 
dolci,  umani,  piacevolissimi:  costanza  nelle  amicizie, 
alle  quali  non  ruppe  mai  fede,  anzi  le  coltivò  e  nu- 
trì di  caldo  affetto:  ai  piiì  intimi,  e  dì  questi  anche 
agl'ingratissimi  che  Io  abusarono,  e  che  egli  di  cheto 
sopportò,  fu  largo  di  beneficio:  seppe  dissimular  molte 
ingiurie  ,  e  sinceramente  perdonarle.  Temperantissi- 
mo, come  egli  era,  fu  lontano  dall'invidia  o  da  al- 
tra rea  passione,    che  non  allettò  giammai  in  quel- 
l'anima di  schietta  e  squisita  bontà  e  rettitudine.  E 
di  ciò  oltre  ai  fatti  ed  alle  parole  era  pure  specchio 
fedele  l'aria  del  volto,  che  al  primo  vederlo  ti  dava 
tosto  immagine  di  una  natura  dolce,  equabile  e  beni- 
gna, come  gli  occhi  vivaci  e  sfavillanti  ti  rivelavano 
ad  un  tratto  la  prontezza  e  fecondità  dell'  ingegno. 
E  questo  inoltre  s'era  sì  arguto  e  sagace,  sì  giocon- 
do e  sollazzevole,  che  non  mai  più.  E  di  ciò  fan  te- 
stimonio i  festevoli  soli  e  gli  urbani  motti,  onde  di 
onesta    grazia    condiva  ogni  suo   discorso  ,  e  di  cui 
tanto  allegravansi  e  le  brigate  degli  amici  e  i  signo- 
rili convegni.  E  questi  gentili  intertenimenti  gli  va- 
levano assai  a  temperare  colla  onesta  quiete  dell'a- 
nimo la  severità  degli  studi. 

Quanto  poi  amasse  quell'eletta  schiera  de'cari  e 
stretti  amici,  che  ebbero  con  lui  familiare  consuetu- 
G.A.T.CXXXIV.  15 


^26 

dine  ,  se  ne  può  aver  manifesta  prova  tra  le  altre 
dalle  affettuose  lettere  che  scriveva  ai  medesimi.  Le 
quali  per  il  brio  e  la  festiva  eleganza  onde  son  sem- 
pre ripiene,  ed  il  risalto  che  in  esse  si  dà  non  che 
ai  virili  e  generosi  concetti  che  vi  si  ragionano,  ma  alle 
poco  rilevanti  o  minime  cose,  ben  a  ragione  meri- 
terebbero la  luce  della  stampa.  Certo  è  che  trovi  in 
quelle  lettere  un  modo  assai  raro,  perchè  disinvolto 
ed  abbandonato,  ed  in  pari  tempo  proprio  ed  espres- 
sivo nel  significare  altrui  così  alla  domestica  i  pro- 
pri pensieri,  e  sempre  opportuno  ed  acconcio  ad  ogni 
argomento  o  materia. 

Non  basta  poi  a  dire  come  palpitava  il  suo  cuo- 
re di  pure  gioie  nel  riabbracciare  un  amico  che  ve- 
nivagli  di  lontano.  E  queste  eran  sì  vive  ed  intense, 
che  pareva  non  trovassero  riposo:  tanta  era  la  foga 
degli  affetti,  che  a  ribocco  tutta  inondavangli  l'animo. 

Che  se  per  isquisita  bontà  non  fu  troppo  rite- 
Duto  lodatore,  specialmente  co'giovani  che  amano  es- 
ser confortati  di  benigne  parole  sul  metter  le  ali 
all'inigegno,  né  io,  né  altri  forse  vorrà  condannarlo. 
Non  avvenne  però  mai  che  facendo  oltraggio  ai  vero 
adulasse  o  alla  boriosa  potenza,  od  alle  codarde  ed 
avare  ricchezze;  meno  ai  tempi  esorbitanti  e  fanatici 
l^er  civili  rivolgimenti  che  non  ha  guari  tempo  sì  stra- 
tìamente  ci  travagliarono.  Perchè  essendo  ei  di  miti 
e  pacate  tempere,  e  giusto  estimatoi'e  delle  cose  e 
degli  uomini,  abomva  da  ogni  passione  politica,  co- 
tìie  è  richiesto  a  chi  ha  ferma  e  dignitosa  coscien- 
za, massimamente  se  è  uomo  di  chiesa.  A  dir  tutto 
in  poco,  la  bontà  delFanirao  suo  era  tale,  che  chiun- 
que per  avventura  fosse  entrato  anche  una  volta  sola 


227 

in  discorso  con  lui,  era  costretto  ad  amarlo  :  tanto 
le  sue  parole,  i  suoi  atti,  ed  una  natura  dolce  e  com^ 
portevole  t'ispiravano   fiducia    e    benevolenza,    i^on 
dee  perciò    recar  maraviglia  se  egli  era  affatto  ne- 
mico di  ogni  burbanza,  di  uno  zelo  indiscreto,  di 
una  soverchia  severità.  Perciocché  ei   diceva,    e  di- 
ceva bene,  che  anche  la  severità,  ove  importi  usarla, 
dee  essere  imposta  da  ragione,  non  prodotta  da  fa- 
natismo. E  forte  biasimò   taluni    uomini    che  strani 
ad  ogni  senso  di  pietà  ed  avversari  di  ogni  bene,  a 
pretesto,  come  fu  detto,  di  odii  implacabili  si  ten- 
gono sciolti  da  tutte  qualità  umane.   E  volendo  che 
il  mondo  vada  secondo  le  idee  del  loro  balzano  cer- 
vello, maledicono  a  quanto  ha  esso  di   più  sacro  e 
venerando,  e  miseramente  bistrattano  uomini  e  cose 
a  loro  talento.  Ma  gente  di  simil  fatta,  che  non  vede 
bene  se  non  co'propri  pensieri,  che  per  preconcette 
opmioni  non  han  chiaro  di  ragione,  non  è  certamente 
della  scuola  del  Redentore,  che  ha  imposto  agli  uo- 
mini per  prima  legge,    non  gli  odi  ,  né  le  insì)lenti 
audacie,  ma   sibbene  la  mitezza,  la  mansuetudine  e 
l'amore. 

Per  tutte  le  quali  doti  dell'animo  e  dell'ingegno 
salì  in  tanto  concetto  il  nome  del  Basi,  che  si  levò 
ad  un  tratto  una  voce  che  acclamavalo  vescovo  di 
Cortona.  Se  vera  o  falsa  fosse  noi  so,  né  mi  rilieva 
1  indagarlo:  a  me  basta  che  la  pubblica  opinione  lo 
stimasse  degno  di  quel  supremo  grado  del  sacerdo- 
zio; dappoiché  tutti  se  ne  lodavano  con  lui,  sebbe- 
ne Ignaro  e  repugnante,  e  quasi  direi  avverso  a  quella 
dignità  con  tanta  coscienza  di  meritarsela;  e  ne  fa- 
cevan  festa  colla    diocesi ,  che  secondo  il  voto  co- 


228 
mune  avrebbe  dovuto  governare.  E  tanto  meglio  si 
rinforzò  una  tal  voce,  quantochè  o  in  queir  andare 
di  tempo,  o  poco  innanzi,  dalla  università  teologica 
fiorentina  conseguì  il  nostro  socio  la  laurea  in  di- 
vinità. 

Vi  aveva  peraltro  una  virtù  che  cresceva  solita- 
ria e  modesta,  ma  bensì   operantissima,  nell'  animo 
del  nostro  accademico:  e  questa  si  è  la  beneficenza, 
che  ristretta  e  nascosa  in  sé  medesima,  quasi  ad  un 
tratto  svelossi  dopo  morto,  dal  cupo  dolore  e  dalle 
copiose  lagrime  de'molti  beneficati.    Allora   apparve 
manifestamente  come  ei  si  tenne    geloso  che  la   si- 
nistra non  sapesse  ciò  che  ei  dava  colla   destra  ,  e 
quanto  e'  fu  larghissimo  nel  sovvenire  del  suo  alla 
indigenza,  alla  quale  per  sola  mercede  dell'opera  pia 
richiedeva  il  silenzio.  Dopo  ciò  non  fu  più  maravi- 
glia per  quelli  che  lo  conobbero  come  ei  vivesse  vita 
sì  stretta  e  sottile,  godendosi  fortuna  piuttosto  agiata: 
dappoiché  si  vide  che  ei  poneva,  da  quel  savio  che 
egli  era,  in  mano  dei  poveri  (in'  molti  dei  quali,  co- 
me si  seppe,  prevenne   il  timore  e  la  vergogna  del 
domandare  )  i  tesori    terreni  per   ricambiarseli    con 
larga  usura,  quando  che  fosse,  con  gli  eterni,  là  dove 
hanno  fine  e  premio  i  travagli,  dove  è  muta  l'invi- 
dia e  ogni  altra  umana  passione,  e  perpetua  la  gioia. 
Per  tutte  le  quali    cose  narrate  io  penso  che  il 
Basi  potesse  dire  a  giusta  ragione  a  sé  stesso  come 
il  figlio  di  Santippo.  In  tanti    anni  di  vita  non  feci 
danno  a  persona;  compiacqui  alle  oneste  voglie  di  tutti: 
perciò  morendo  dirà  ciascuno  di  aver  perduto  un  ami- 
co. E  così  discorrendola  non  si  sarebbe  egli  oppo- 
sto al  vero:  che  l'elogio  il  più  schietto  ed  affettuoso 


229 

alle  virtù  di  lui  si  fu  l'universale  cordoglio  ,  che  in 
tulli  si  appalesò  al  Iristo  annunzio  della  inopinala 
sua  morte.  Gli  amici  e  i  letterati  d'Italia  (tra  i  quali 
a  cagion  d'onore  mi  piace  ricordare,  di  quelli  che  eb- 
bero con  lui  commercio  di  lettere  ,  il  Venanzio  ,  il 
Gherardini ,  il  Paravia  ,  il  Sorio  ,  i  professori  Fer- 
racci e  Montanari  )  che  ne  aveano  ammirato  il  ve- 
loce e  profondo  ingegno,  la  molla  sapienza,  le  dol- 
ci maniere,  lo  piansero  passionatamente.  Ma  però  so- 
pra d'ogn'altro  lo  pianse  l'egregio  nostro  eav.  Betti, 
il  quale  preso  alle  care  virtù  di  quel  raro  uomo  lo 
ebbe  in  islima  ed  in  amore  singolarissimo  e  quanto 
non  bastano  parole  a  significarlo.  Nulla  poi  vo'  dire 
dì  Firenze,  che  riguardò  la  dipartita  da  noi  del  no- 
stro socio,  come  pubblica  sciagura,  non  ignorando  che 
quanto  egli  avea  fatto  e  detto  di  bene  non  era  una 
vana  speculazione  della  mente,  ma  un  generoso  sen- 
timento dell'animo. 

Che  dirò  ora  di  te  garzoncello  infelicissimo,  o 
Americo  Corsini  ,  che  per  otto  e  più  anni  lo  con- 
versasti continuo  ,  che  per  lui  educasti  il  pronto  e 
vivace  ingegno  ad  ogni  senso  del  bello  nella  scuola 
de'classici ,  ai  precetti  della  morale,  alla  santità  del- 
l'insegnamento religioso  e  civile,  alla  cognizione  pro- 
fonda di  quegli  eterni  volumi ,  nei  quali  la  copiosa 
scuola  de'dotti  toscani,  che  si  fecero  maestri  all'Eu- 
ropa, raccolse  la  sapienza  di  molti  secoli  ?  Che  dirò 
di  te,  che  colla  scorta  di  quel  savio  ti  dilettasti  del 
bello  della  poesia,  e  per  l'alto  ministero  di  lui  im- 
parasti a  conoscer  gli  uomini  dalla  storia,  vera  luce 
dell'  antichità,  madre  de'  buoni  ed  utili  consigli,  e 
maestra  della  vita?    Ma  oh!  fralezza, oh!  caducità 


230 

delle  cose  umane!  Tu,  o  giovane  egregio  e  deside- 
rato, tu  che  usasti  con  lui  alla  domestica  e  che  avre- 
sti forse  pili  d'ogni  altro  potuto  narrarci  le  rare  qua- 
lità di  queir  anima   nobilissima ,  le  care  virtù  che 
l'ornavano,  il  felice  ingegno,  la  pronta  memoria,  ed 
altrettali  doti,  di  cui  sortillo  natura,  e  che  meglio 
alcuna  volta  si  rivelano  nelle  pareti  domestiche  che 
alla  luce  del  pubblico:  tu,  garzoncello  infelice,  nel  fio- 
re dell'  età  e  delle  speranze,  nei  maggiori  agi  e  in 
tutte  le  splendidezze  della  fortuna  ,  desiderio  unico 
e  perpetuo  di  una  famiglia  nobilissima,  e  singolar- 
mente della  madre  che  ti  amava  sopra  la  vita   sua, 
tu,  come  se  non  potessi  sopravvivere  a  quell'egregio 
meglio  amico  che  maestro,  il  giorno  si  può  dire  delle 
tue  auspicatissime  nozze  lo  seguisti  nel  sepolcro.  E 
siccome  la  morte  del  suo  precettore  trasse  non  trop- 
po lontana    cagione  dal  subito  turba:mento  che  egli 
ebbe  di  un  tuo  fortunoso  accidente,  onde  fu  nell'a- 
riimo  sì  commosso  ,  e  addolorato  di  maniera  ,   che 
poco  pili  che  indugiassero  i  rimedi  dell'arte  ei  mo- 
riva nell'atto,  tu  quasi  gareggiando  con  lui  d'amore 
e  d'amicizia,  preso  da  una  grata  pietà  e  sdegnando 
questo  nostro  reissimo  mondo,  volesti,  o  anima  be- 
nedetta, volare  icon  lui  al  tuo  primo  soggiorno.  Oh! 
tristo  avvicendarsi  delle  cose  umane!   Oh!  sciagura 
propriamente  pietosa  e  lagrimevole  !  Non  già  per  te 
che  impavido  e  quasi  lieto  guardasti  in  faccia  la  mor- 
te, ma  per  la   tua  famiglia,  che  sa  quanto  prezioso 
tesoro  le  è  stato  rapito:  per  Firenze,  che  ebbe  della 
immatura  tua    fine    inestimabile    cordoglio    vedendo 
mancarle  in  te  sul   meglio  della   vita  il  germe    più 
caramente  diletto  di  vetusto  e  cospicuo  legnaggio  per 


231 

uomini  di  straordinario  virtù  e  di  degnissima  fama. 
Oh  !  beni  fallaci,  o  splendide  illusioni  in  questo  mai- 
di  travagli  !  leii  una  famiglia  di  principi  sì  gloriosa 
per  tanta  felicità  di  figliuolo,  oggi  sì  misera  e  dere- 
litta per  il  grave  infortunio  di  averlo  sì  presto  per- 
duto. Oh  !  colpo  subitaneo  ed  acerbo  ,  che  supera 
ogni  argomento  di  pazienza,  ogni  conforto  di  ragione! 
Si ,  o  accademici ,  il  doloroso  accidente  che  il 
penultimo  venerdì  di  luglio  (1853)  incolse  nella  re- 
gale villa  di  Castello  a  poche  miglia  da  Firenze  il 
giovanetto  D.  Amerigo  Corsini  per  la  rottura  del 
braccio  sinistro,  come  produsse  una  scena  desolan- 
tissima da  non  descriversi  in  quella  famiglia ,  così 
fu  la  principal  cagione  de'disastri  del  canonico  Basi. 
Perciocché  da  sì  inopinata  disavventura  ne  ebbe  sì 
intenso  travaglio  e  stretta  così  crudele,  che  il  sangue 
gli  andò  si  spaventosamente  in  gran  copia  e  repen- 
tino e  minaccioso  al  cuore,  che  per  poco  non  per- 
dette in  quell'istante  per  soffocamento  la  vita.  Soc- 
corso dall'arte,  si  riebbe  alquanto:  ma  la  prifina  origine 
del  male  ,  fatto  indomabile ,  non  era  spenta  ,  anzi 
minacciava  insidiosamente  i  suoi  giorni.  Gli  amici 
intanto  ne  stavano  affannosi  in  sollecitudine  :  ed  a 
me  pure,  che  smisuratamente  l'amava,  recò  molto  di 
doglia  e  sconforto  ,  e  quasi  cadde  ogni  speranza  (e 
pur  troppo  l'effetto  non  fu  contrario  all'avviso!) quando 
a  mezzo  il  settembre  lo  rividi  in  Firenze.  Che  non 
trovai  più  nel  suo  volto  quell'aspetto  rorido,  il  quale 
era  testimonio  che  ei  teneva  sajde  per  robusta  e  ga- 
gliarda salute  le  forze  del  corpo  ,  e  le  fibre  agili  e 
pronte  ad  ogni  operazione  dell'  animo.  Vidi  spelta 
od  offuscata  quella  sua  giovialità,  che  avea  da  natura. 


232 

Già  un  soltil  velo  d'umor  melanconico  gli  si  era  dif- 
fuso sul  volto,  segno  evidente  che  il  male  non  era 
ancor  vinto,  e  funesto  presagio  del  colpo  irreparabile, 
onde  disperato  d'ogni  rimedio  uccise  l'amico  nostro 
il  26  ottobre  1853.  Oh!  iattura  veramente  impensata 
ed  incomportabile. 

!•;  Che  se  dall'universale  fu  pianta  amaramente  tanta 
perdita,  e  se  fra  ogni  ordine  di  cittadini  sorse  invi- 
diabile gara  di  dolore,  io  più  d'ogni  altro  ebbi  forse 
a  lamentar  quella  morte,  che  mi  rapì  il  più  caro,  il 
più  affettuoso  degli  amici.  Oggi  però  mi  è  alquanto 
dolce  l'averne  confortata  la  memoria  con  questo  uf- 
ficio pietoso,  sapendo  che  ho  potuto  lodare  l'amico 
senza  punto  offendere  il  vero.  E  chiunque  a  questo 
vorrà  far  ragione  dirà:  che  il  canonico  Casimiro  Basi, 
come  si  è  visto,  ebbe  eccellenza  d'ingegno,  segnalate 
virtù,  grandissimo  animo,  spiriti  generosi,  bellissimi 
e  giaziosi  costumi. 

Ed  a  voi ,  o  giovani  singolarmente  se  qui  mi 
udite,  fa  mestieri  imitare  tanto  esempio  di  bontà  e 
di  dottrina,  a  voi  singolarmente,  per  i  quali  il  Basi 
non  cessò  straordinarie  fatiche  e  cure  fastidiose,  ed 
à  cui  tutto  parca  nulla  purché  ritornasse  in  vostro 
prò.  E  frattanto  sull'esempio  di  quel  valoroso  fate  a 
voi  stessi  sicura  ed  invincibile  ragione,  che  non  si 
viene  in  gloriosa  fama  per  potenza  e  ricchezze  vane 
e  superbe,  non  per  stolte  e  temerarie  ambizioni,  non 
per  intollerabile  povertà  di  lettere,  ma  sibbene  per 
ingegno,  per  soda  pietà,  per  virtù  vere,  per  dottrina. 
Che  se  poi  vorrete  (e  dovrete  volerlo),  per  aggiungere 
a  sì  nobile  intendimento,  esser  sicuri  del  diritto  cam- 
mino, ispiratevi  fervidamente  ai  sensi  di  quel  generoso, 


233 

di  cui  oggi  si  lamenta  l'immatura  fine:  studiate  nelle 
opere  che  con  tanta  ricchezza  di  bello  ei  scrisse  per 
voi,  e  che  vi  lasciò  come  in  sacro  deposito:  e  giurate 
sulle  ceneri  di  quel  valentuomo,  che  voi  emulando  in 
lui,  ed  in  altri  sapienti  che  vi  soccorsero  di  ottimi 
studi,  la  bontà  dell'animo,  le  industrie  dell'ingegno, 
l'amore  per  le  lettere,  svolgerete  dì  e  notte  quei  sacri 
volumi  fruttuosissimi  che  ei  vi  dette  in  esempio,  e 
che  gli  avi  nostri  dettarono  con  tanta  fama  e  lode  di 
sapienza,  e  che  vogliono  essere  ad  ogni  gran  costo 
contìnuamente  letti  e  studiati. 

Tenete  quindi  per  fermo,  che  così  adoperando  gli 
eifetti  non  mancheranno  alle  speranze  in  un  suolo, 
ove  la  potente  natura  produsse  tanti  sommi,  purché 
peraltro  destandosi  in  voi  la  sacra  fiamma  dell'emu- 
lazione, prendendo  a  guida  la  religione  e  gl'insegna- 
menti  de'savi,  e  tenendovi  fortemente  in  Dio,  facciate 
ogni  possibile  per  conseguire  quella  gloria  e  quella 
vera  grandezza,  per  la  quale  tanto  si  travagliarono 
ingegni  d'immortal  fama;  gloria  e  grandezza,  che  ove 
Dio  ci  aiuti,  e  non  si  voglia  da  noi  invidiare  a  noi 
stessi  cotanto  bene  ,  non  ci  mancherà  giammai ,  lo 
spero,  né  per  volger  di  tempi,  sieno  pur  calamitosi 
e  strani,  nò  per  sinistro  o  malignità  di  fortuna. 


234 


Florilegio  viterbese  del  prof.  Francesco  Orioli. 


VJhe  buon  numero  di  pellegrine  notizie  possan  rac- 
corsi  dallo  studio  accurato  delle  cose  attenenti  ai 
municipi  nostri,  o  cercando  nelle  carte  degli  archivi, 
ne'  tempii,  ne'  palagi  o  nelle  vecchie  cronache,  o  fra 
le  curiosità  della  natura  e  dell'  arte  ,  le  quali  tutti 
più  o  meno  racchiudono  entro  le  cerchie  de'  muri 
loro,  0  sparse  per  le  terre  de'  lor  distretti  contengo- 
no, 0  tra'  costumi  e  gli  usi  del  popolo,  è  proposizione 
di  cui  niun  può  dubitare.  Solamente  non  abbondano 
gli  studiosi  che  bisognerebbero  a  quest'  uopo.  Non- 
dimeno io  non  so  qual  più  degno  subbietto  alle  oc- 
cupazioni loro  letterarie  dar  potrebbono  tanti,  che 
pur  le  lettere  mostrano  d'amar  grandemente  nelle 
città  nostre  e  di  coltivarle  non  senza  ardore,  m  nihil 
agendo  plurimum  occupati. 

Passano  il  tempo  nell'ozioso  trastullo  del  compor 
versi!  scrivon  sonetti  e  strimpellano  le  cetre!  stuz- 
zicano le  ceneri  delle  accademie  per  vedere  di  pur, 
se  è  possibile,  ridestarvi  qualche  scintilla  di  vita.... 
gli  ardenti  della  mia  Viterbo,  gli  ottusi  di  Spoleto, 
i  volsco-veliterni  di  Velletri ,  i  fdergiti  di  Forlì ,  i 
truentini  d'Ascoli,  i  pergaminei  di  Fossombrone  .  .  ! 
Essi,  se  pure  alcuni  di  loro  non  nomino  a  vuoto,  e 
cento  altri,  che  m'hanno  onorato  d'aggregazione  al 
rispettabile  loro  ceto,  di  che  rendo,  come  si  dee,  le 
debite  grazie....  si  battono  i  fianchi  perchè  tornate 
non  manchino  nell'anno....  nel  mese....  nella  setti- 


235 

mana;  e  che  vi  fanno?  Versi  e  sempre  versi....  che 
non  rade  volte  non  sono  né  manco  versi  !  o  prose 
accademiche....  su  che?  Intorno  ad  argomenti  o  fri- 
voH  0  tali,  su  cui  niente  di  nuovo  o  d'utile  può  in- 
segnarsi al  mondo,  e  spesso  insegnano  non  quel  che 
il  mondo  già  ne  sa,  ma  errori  che  non  dovrebbero 
essergli  detti  con  tanta  solennità  d' apparecchio  e 
petulanza  d'eloquio. 

Giovani  usciti  di  fresco  dalle  scuole,  pienissimi 
per  lo  più  d'ingegno  e  di  buona  volontà  !  tornati  alle 
patrie  vostre ,  o  scelta  a  vostra  dimora  tale  o  tale 
altra  terra,  dove  o  libera  elezione  o  fortuna  vi  con- 
dusse ed  è  per  trattenervi!  imparate  a  conoscere  quello 
che  importa  e  quello  che  no.  Senza  uscire  dalle  con- 
trade vostre ,  per  poco  che  cercar  vogliate  ,  cento 
subbietti  di  leggieri  incontrerete,  degnissimi  d'esser 
descritti,  illustrati  e  fatti  conoscere  per  istampa. 

Trattati  con  disinvoltura,  con  brio,  con  erudizio- 
ne; toccati  con  man  leggiera;  messi  in  carta  con  uno 
stil  convenevole;  ravvivati  e  renduti  importanti  col 
corredo  di  riflessioni  filosofiche  od  osservazioni  filo- 
logiche opportune,  acquisteranno  valore,  nella  tenuità 
loro,  e  frutteranno  a  voi  lode,  ed  alle  terre  vostre  fama 
e  celebrità. 

Non  ad  esempio  di  bel  modo  nel  dar  atto  a  questo 
proponimento,  ma  degli  argomenti,  i  quali  a  mio  pa- 
rere appartengono  alla  categoria  di  che  dissi,  con- 
segno a'  torchi  il  Florilegio  che  offro  a'  lettori.  Quei 
che  si  senton  disposti  a  imitarmi,  faccian  meglio:  ma 
soprattutto   facciano. 


236 
1. 


Fanum  Vultumnae,  luogo  delle  solenni  adunanze  de'XII 
popoli  toscani  delVElruria.  Lo  stemma  di.  Viterbo. 
Le  sue  monete.  Monumenti  falsi  o  falsificali. 

Nel  primo  volume  degli  Opuscoli  letterari  di  Bo- 
logna^ stampati  l'anno  1818,  pag.  293-316,  trattai 
di  Voltumna,  divinità  principale  della  nazione  tosca; 
e  mi  sembra  d'avere  allora  provato  che  questa  divi- 
nità era  la  stessa  che  il  Vertunno  de'latini.  Rispetto 
a  ciò  non  ho  ragioni  per  cangiar  opinione.  Si  sa  che 
Voltumna  o  Vertunno  aveva  un  celebre  fano,  al  quale 
accorrevano,  a  determinati  e  indeterminati  periodi, 
secondo  il  bisogno,  per  trattarvi  le  faccende  di  comune 
interesse,  o  le  dimande  dirette  all'  universale,  i  XH 
popoli  delle  XII  lucumonìe  etrusche,  cioè  i  lor  depu- 
tati o  capi  (Livio  IV,  23,  24,  25,  61;  V.  17;  VI,  2,  3). 
È  incerto  dove  questo  illustre  fano  stesse  collocato, 
e  se  il  nome  fosse  esteso  alla  città  o  al  quale  che 
siasi  paese  che  contenevalo,  o  se  dato  al  solo  tempio, 
nominato  il  quale, non  v'avesse  alcun  bisogno  di  men- 
tovare il  luogo  dove  avesse  a  cercarsene.  Il  Lanzi 
{Saggio  ecc.  ed.  2,  voi.  2,  pag.  89  sq.)  [dopo  il  Cel- 
lario, a  sua  detta,  e  i  migliori  geografi)  confermò  col- 
Tautorcvole  suo  voto  l'anniana  opinione  ch'esso  fosse 
in  Viterbo  (1).  Lo  stesso  parve  probabile  piij  recen- 


(1)  V.  Andreucci  ec.  Notizie  isteriche  de' gloriosi  santi  talen- 
tino ed  Ilario.  Roma  i740,  pag.  24,  8,  48,  dove  si  adducono  a 
favor  di  (questa  opinione  anclie  il  Cluverio,  il  Magri,  TOIsUmiìo  ec. 


237 

temente  ancora  airArnbrosch  {Meni.  delVinsl.  archeol. 
Roma  1832,  fase.  Il,  pag.  149).  La  cosa  a  me  sem- 
brò sempre  incerta  ed  involta  di  grave  dubbio.  Negli 
Annali  dell'  instituto  di  corrispondenza  archeologica 
(voi.  4-,  an.  1832,  pag.  42,  sq.);  e  più  tardi  nel  pri- 
mo volume  della  Rivista  europea  che  stampavasi  in 
Milano,  in  un  opuscolo  intitolato:  Nuove  ricerche  in- 
torno ai  re  Tarquinio ,  Servio  Tullio  ed  altri  loro 
contemporanei  [Rivista  ec.  1843,  fase.  VI  e  VII),  pren- 
dendo luce  dalla  eleg.  2  di  Properzio,  lib.  V,  e  dal 
secondo  verso  del  primo  distico,  stimai  d'aver  potuto 
inferire  che  il  tempio  fosse  o  in  Vulci  o  nel  suolo 
vulciente,  o,  come  i  migliori  codici  del  poeta  scri- 
vono, volscano  o  volscino.  Quando  poi,  nel  giornale  ar- 
cadico (  tom.  XVIII  ),  inserii  l'operetta:  Viterbo  e  il 
suo  territorio,  an.  1849,  stampata  anche  a  parte,  mi 
venne  scrupolo  d'aver  mancato  all'affetto  di  patria,  coo- 
perando a  privarla  d'un  vanto,  che  generalmente  dai 
più  savi  fin  qui  le  si  accordò:  e  per  questo  scrupolo, 
sottoponendo  a  esame  nuovo  tutta  la  questione,  mi 
credei  legittimamente  condotto  a  tornare  alla  più 
comune  sentenza.  In  che  soprattutto  fece  forza  sul 
mio  intelletto  l'esame  dello  stemma,  onde  il  comune 
nostro  da  più  secoli  si  fregia. 

Perchè  il  leone ,  il  quale  n'  è  il  principale  em- 
blema ,  vi  preme  colla  zampa  dritta  una  palla  di- 
visa in  4  da  due  circoli  massimi  che  si  tagliano  ad 
angolo  retto,  e  i  quattro  spicchi  della  palla  sono  in- 
signiti ciascuno  da  una  delle  quattro  letteere  F  A  V  L, 
intorno  alle  quali  tanto  schiamazza  e  Annio  e  la 
schiera  de'miei  concittadini  anniani.  E  per  verità  An- 
nio e  gli    anniani    han    creduto  di  dovervi    leggere 


338 
Fanuruy  Arbanum,  Vetulonia,  Longula,  quattro  nomi 
delle  4  parti  d'una  sognala  tetrapoli,  della  quale  tutti 
oggi  ridono;  ma  i  più  discreti  v'avevan  letto  Fa.  FL, 
cioè  Fanum  Voliumnae.  Tale  infatti  fu  il  parere  del 
famigerato  Magri  (1)  autore  del  notissimo  Hierolexi- 
con:  ciocché  non  incontra  le  difficoltà,  o  dirò  me- 
glio le  assurdità,  dell'altra  interpretazione,  e  per  con- 
trario è  spiegazione  opportunissima  di  esse  lettere, 
che  non  possono  esser  quivi  state  poste  a  caso,  quan- 
d'elle  si  giudichino  e  siano  più  antiche  d'Annio. 

Arroge,  che  siffatte  lettere  non  nel  solo  stemma 
della  città  s'incontrano,  ma  si  narra  essere  non  man- 
co state,  in  bronzo  ed  in  grande,  nell'antica,  e  da 
lungo  tempo  distrutta  porta,  denominata  già  la  Por- 
ticella,  presso  alla  chiesa  della  Trinità  appartenente 
a' padri  di  s.  Agostino,  e  perciò  detta,  secondo  che 
si  afferma,  qtiatriaera,  quasi  a  quatnor  aerihus.  S'ag- 
giugne  che  questo  non  men  consuona  col  nome  della 
valle,  a  cui  la  quadriera  sovrastava  immediatamente, 
che  è  ancora  a'  dì  nostri  la  valle  di  faulley  parola 
pressoché  evidentemente,  formata  dall'aver  congiunto 
in  un  sol  vocabolo  il  FA  VL  dell'arma  e  della  porta. 
Si  noti  non  manco  a  corroborazione  di  tutto  ciò , 
che  presso  a  questa  quadriera  fu  ed  è  la  chiesa  e 
il  monistero  di  s.  Maria  in  VoUurnaj  od  in  Volturno, 
che,  poste  tutte  le  antecedenti  cose,  può  benissimo 
riputarsi  aver  questa  sua  cognominazione  ereditato 
dagli  avanzi  del  tempio  di  Voltumna.  Si  pensi  infine 
a  tutti  gU  argomenti  di  rin fianco,  i  quali  esposi  nella 


Hi  Aiiclreiicci  loc.  cit. 


239 
citata  operetta  su   Viterbo  e  il  suo  territorio  (  Ediz. 
separata  p.  80 — 94) 

Ma  tutta  questa  speciosa  argomentazione  ho  poi 
veduto  che  ha  piccola  forza.  E  prima,  esaminata  me- 
glio ogni  cosa,  trovai  che  la  ragion  capitale  tratta 
dalfo  stemma  ò  un  falso  supposto.  Lo  stemma,  qua! 
è  oggi,  è  una  falsificazione  del  secolo  XVI  incipien- 
te, 0  XV  in  sul  finire,  operata  da  chi  noi  so  ,  ma 
certo  operata  a  bello  studio. 

GH  stemmi  delle  città,  in  generale  ,  conu'nciano 
a  mostrarsi  in  Italia  nel  nascere  de'  municipi  che 
divengon  piccoli  stati  costituitisi  in  indipendenza.  Un 
principale  emblema,  che  volentieri  sceglievano  i  comuni 
liberi  di  parte  guelfa,  è  noto  ch'era  il  leone,  come 
l'aquila  piìi  volentieri  lo  era  delle  città  ghibelline  od 
imperiali.  Di  qui  l'uso,  in  alcune  di  esse  città,  co- 
me in  Firenze,  di  nutrire  ,  per  lor  giandigia  ,  leoni 
vivi  pi-esso  il  palagio  della  signoria,  a  pubbliche  spe- 
se (1).  Dove  questo  non  si  poteva,  s'effigiavano  vo- 
lentieri in  pietra,  od  anche  in  marmo,  come  più  di 
uno  se  ne  vede  in  Viterbo  in  tutto  rilievo,  scolpito 
con  arte  che  non  ha  lasciato  la  sua  rozzezza:  in  pro- 
va dì  che  uno  intero  se  ne  vede  all'angolo  della  piaz- 
za ov'è  il  palazzo  municipale.  S'introduceva  indi  vo- 
lentieri ne'suggelli  da  imprimere  con  autorità  pub- 
blica. Perciò  Fano,  a  cagion  d'esempio,  accettando 
sul  suo  suggello  il  leone,  aggiungeavi  il  motto  — 
In  Fani  portis,  custos  est  hic  ho  foriis  (Manni  de'si- 
gilli,  t.  V,  n.  5)  :  e  Viterbo,  facendo  altrettanto,  po- 
neavi  pei-  sua  leggenda  —  Non  timeo  verbum,  leo  sum 

(i)   V.  Hectoris  Boethii  lib.   iO,  histor.  p.  198. 


240 

qui  signo  Viterbum  (Bussi,  Storia  di  Viterbo,  p.  38. 
Di  questo  verso  non  m'  è  però  toccato  in  sorte  di 
vederne  fin  qui ,  alcuna  traccia  ne'documenti  degli 
archivi  o  fuori)  (1).  Ma  quel  che  posso  dire  ,  que- 
sto è  ,  che  prima  d'Annio  e  degli  anniani  la  palla 
quadriscìitta  in  nessun  luogo  apparisce;  e  dopo  An- 
nio  non  apparisce  accettata  generalmente  che  assai 
più  tardi. 

Viterbo  ebbe  per  impronta,  alle  volte  S.  Loren- 
zo, e  più  spesso  il  leone;  e  più  che  altrove,  appun- 
to sugli  stemmi,  e  su  i  sugelli,  conformente  a  quello 
che  scrive,  prima  delle  favole  anniane,  frate  Fran- 
cesco d'  Andrea  (nelle  Cronache  di  essa  città ^  Bibl. 
angelica  di  s.  Agostino  in  Roma,  ms.  B.  7,  23),  scrit- 
tore del  secolo  XV,  il  quale  non  andò  più  innanzi 
del  1450,  e  compilò,  com'ei  dice,  le  cronache  ante- 
riori di  Geronimo  medico  ,  e  di  Cola  di  Covelluzzo 
speziale,  e  d'altri  cittadini:  presso  a  cui  leggo  (p.  1, 
retro)  :  In  quel  tempo  capitò  nel  dicto  paese  uno  va- 
lentliomo  chiamato  Hercide  figliolo  de  Amphitrione  e 
di  Almena  di  Grecia  ....  e  per  lo  amor  che  li  por- 
tava, li  donò  per  insegna  e  per  arme  el  lione,  impero- 
chè  lui  sempre  el  portava  a  dosso  uno  cario  de  leone 
per  uno  che  se  ne  uccise  per  sua  vigoria;  o  come  di- 
ce Giovanni  di  luzzo  di  Cobelluzzo,  altro  cronista  dei 
tempi  medesimi:  Et  volse  che  havesse  per  arme  lo 
leone  per  cascione  che  il  detto  Hercole  era  vestito  di 
pelle  di  leone  da  lui  morto  (  esemplare  della  riccar- 
diana  di   Firenze)  ;   o  come  il  terzo  contemporaneo 

(1)  La  memoria  è  d'Annio,  De  excisis  memoriis,  che  scrive:  — 
Inscriptio  antiquissima  est  sub  leone  —  Non  timeo  verbum,  leo  sum 
qui  signo  Viterbum.  — 


241 

di  frate  Francesco,  e  voglio  dire  Nicolò  della  Tuccia 
—  Edificò  un  bel  castello  che  fu  chiamato  il  castello 
d'Ercole,  e  per  Vamore  che  li  portava  donolli  per  ar- 
ma il  leone  della  cui  pelle  handava  egli  coperto,  por- 
tando addosso  un  cor  di  leone  per  haverne  virtìi  con 
la  sua  bravura  (Esemplare  di  Montefiascone).  Ma  è 
osservabile  che  nessuno  di  costoro  ha  sentore  alcu- 
no e  della  tetrapoli  supposta  [Fano,  Arbano,  Vetu- 
lonia  ,  Longola)  ,  e,  quel  che  più  fa  al  caso  nostro, 
della  palla  e  delle  quattro  Jettere  sotto  la  branca 
leonina. 

Né  quel  che  i  cronisti  non  dicono,  lo  dicono  al- 
meno i  monumenti,  de'  quali  v'  è  abbondanza  sotto 
tutte  le  forme.  Nel  celebre  palazzo  del  vescovado 
sul  colle  del  duomo,  intitolato  domus  pontificalis,  che 
si  edificò  negli  anni  1266 — 1267,  secondo  le  iscri- 
zioni (Bussi  p.  154,  155)  ,  delle  quali  una  comincia 

Rainerius  Gatlus  iam  ter  capitaneus  actus 
Aedem  papalem  struit  istam  pontificalem  etc. 

l'altra,  non  giusta  l'errata  lezione  della  stampa  Cum 
gerat,  ma 

Tunc  erat  Andreas  studio  sum  condita  cuius 
Beralli  proles  terrae  capitaneus  huius  etc. 

palazzo  eretto  dalle  fondamenta  dopo  la  sconfitta  e 
la  morte  di  Federico  II  imp.,  da  cui  data  sotto  In- 
nocenzo IV  papa  e  i  suoi  successori  immediati  ,  il 
rifarsi  della  città  accresciuta  di  privilegi  ,  d'  edifizi, 
e  di  leggi)  ;  in  questo  palagio,  io  dico,  che  la  gra- 
G.A.T.CXXXIV.  16 


242 

tìtudine,  e  un  po'  ancora  l'interesse  de'vilerbesi,  ap- 
prestò a  residenza  de'papi  per  adescarveli,  e  dove  è 
famoso  il  primo  conclave  a  regola  di  chiusura,  il  qua- 
le ivi  sì  tenne,  sussiste  ancora  una  delle  due  ale  (che 
ne  richiama  evidentemente  per  legge  di  simn?etria 
una  seconda  uguale  dall'  altro  lato  verso  i  giardini 
oggi  vescovili ,  da  lungo  tempo  perita  )  è  un  fregio 
che  ne  corona  la  cima,  tutto  scompartimenti  a  pic- 
coli stemmi.  Ora  esso  fregio,  lasciato  stare  quel  che 
a  noi  non  importa,  e  che  accenna  a  età  forse  alcun 
poco  più  recenti,  ha  lo  stemma,  che  più  volte  ricorre, 
di  Viterbo,  intercalato  a  quello  de'gatteschi  e  all'a- 
quila de'prefetteschi,  dove  esso  stemma  viterbese  ri- 
ducesi  tutto  alla  figura  in  rilievo  del  leone  progredien- 
te, che  ha  dietro  di  se  una  picca  dritta  col  ferro  tri- 
fido  simulante  una  foglia  di  trifoglio;  ma  non  con  altro 
che  appaia  di  lettere  o  di  globo. 

Questo  merlesimo  s'  osserva  in  altri  luoghi  più 
antichi,  e  segnatamente  in  alcuna  delle  rappresenta- 
zioni più  vecchie,  ugualmente  su  pietra,  tolte,  a  quel 
che  pare,  dagli  edifizi  anteriori,  e  murate  oggi  sopra 
la  parete  principale  di  quello  che  già  fu,  nella  piazza 
del  comune,  palagio  del  podestà,  poi  prigione,  e  og- 
gi è  quartiere  di  soldatesca. 

La  picca  si  vede  aver  presto  alterato  il  ferro  a 
trifoglio  con  un  dividersi  della  cima  dell'asta  in  ra- 
mi, prima  brevi  ed  incerti,  indi  più  manifesti  e  più 
diffusi,  a  foggia  d'una  sommità  di  palma,  che  final- 
mente prevalse,  escludendo  al  tutto  l'altra  forma;  e 
la  leggenda  in  questo  proposito  così  narra:  A.  Dui 
1 1 72  li  viterbesi  entrarono  per  forza  nella  città  di  Fe- 
renti et  tutta  la  rohharono  et  scarcamo  .  .  .  per  la  quat 


243 

vittoria  li  viterbesi  adgionsero  al  leone  del  comuno  la 
palma  ch'era  Varme  del  commi  di  Ferenti  (ms.  di  frate 
Francesco  d'Andrea.  Né  diversamente  hanno  gli  al- 
tri) :  storia  che  mi  sarebbe  piaciuto  di  leggere  nel 
Bussi  riferita  co'suoi  particolari,  come  pur  fé'  Lean- 
dro Alberti  nella  Descritlione  d'Italia  (Ven.  presso 
Lodovico  degli  Avanzi,  MDLXI  pag.  75).  In  che  tut- 
tavia molte  cose  son  da  correggere  (quantunque  per 
me  ciò  è  quistione  al  tutto  incidente).  Io  ne  noterò 
una  sola.  Ferento  (che  i  viterbesi  pronunzian  come 
dattilo)  non  fu  distrutta  interamente  nel  1071,  come 
si  suppone  aver  notato  il  Gottifredi;  nò  nel  11 72, 
come  vedemmo  che  scrivono  i  cronisti,  e  come  par 
si  raccolga  dall'assoluzione  che  il  Bussi  inserì  nella 
sua  storia  (pag.  398),  data  a  nome  di  Federico  I  dal 
suo  legato  imperiale  Cristiano  arcivescovo  di  Magon- 
za;  nò  nel  1173  come  vuole  il  Corretini;  né  nel  1174 
come  il  Pennazzi  nella  vita  di  s.  Eutizio;  ma  segui- 
tò evidentemente  a  stanziarvisi  alcuni  anni  ancora; 
e  daronne,  tra  più  altre,  una  prova  nella  pergamena 
seguente  dell'archivio  di  s.  Angelo  (secolo  XII,  n.  39). 
In  nomine  dui  amen.  A.  einsdem  M.  C.  LXXXI.  Tem- 
poribus domni  Frederici  imperatoris.  mense  octobris. 
Indictione  W.  Constat  me  quidem  Guidonem  vice 
comilis  consenziente  Adilascia  uxore  mea  dedisse  tibi 
Guaherio  Claragemme  habi latori  ferenti  nomine  com- 
mutalionis  et  transacti  lerram  de  piscinalibus  Mafjon- 
ynani  et  VII  solidos,  que  vero  iacet  inter  hos  eonfines. 
Ab  una  parte  habel  sanctus  Bonif alias.  Ab  alia  Tuziii^ 
faber.  Ab  alia  filii  tedisci.  Ab  alia  via  publica.  Hanc 
aulem  superius  circumscriplam  lerram  trado  et  concedo 
libi  in   integrum  et   transaclum   cura   accessionibus    et 


244 

ingressionibus  suis,  ut  a  pi  aesenti  die  jiire  pvoprietatis 
haheas  potestalem  habendi  tenendi  vendendi  donandi, 
et  qiiodquod,  vel  quomodo  volueris  faciendi  sine  onini 
mea  meorumque  heredum  condictione,  prò  qua  com- 
mutatione  a  te  recepì  silvam  de  Salceto.  Quapropter 
promitto  prò  me  meosqiie  heredes  tibi  luisque  heredi- 
biis,  predictam  lerram  ab  omni  homine  rationabiliter 
de  fender  e  e  te.  Hoc  actum  est  ante  domiim  praedicti 
Guidonis  coram  presentia  testium  quorum  nomina  hec 
sunt.  Benedictns  et  lohannes  Petri  Lelli  ac  Alberlinus 
Vaccelli.  Isti  tres  rogali  sunt  testes.  Ego  cittadimis 
alme  prcfecture  notarius  rogatiis  scribere  hanc  cartam 
scripsi  atqiie  compievi  et  reddidi  (copia  antica). 

L'anno  precedente,  temporibus  Alexandri  HI  pape y 
mense  februariiy  ind.  .  .  Malavranca  habitator  Ferenti 
cum  uxore  mea  etc.  vende  allo  stesso  Gualterio  Cla- 
regemme  ima  petia  terre  in  loco  qui  vocatur  Valle 
Grimalda  etc.  (copia  come  sopra).  Dunque  eran  già 
dieci  anni  circa  passati  dalla  supposta  distruzione 
totale,  e  v'erano  ancora  abitatori  :  ciocché  vie  piiì 
si  conferma  da  due  rubriche  dello  statuto  munici- 
pale del  1231,  che  prescrivono  a  quell'età  già  tarda 
di  distruggere  i  resti  dell'antico  teatro  [circulus  o  i 
cercini)^  e  di  tagliarne  tutti  gli  alberi  fruttiferi  sen- 
za più  poter  coltivarveli. 

Più  di  così  non  ne  dico  per  non  tenermi  più  a 
lungo  lontano  dal  mio  argomento.  Ravvicinandomi 
pertanto  ad  esso,  dedurrò  dalle  cose  esposte,  che  la 
trasformazione  della  picca  in  palma,  non  essendo  a 
me  ben  chiaro  essersi  operata  sul  finire  del  XII  se- 
colo; e  ad  ogni  modo  non  trovandosi  con  una  certa 
universalità  usata  se  non  in  età  molto  a  noi  più  vi- 


245 

Cina,  v'è  forte  ragione  per  dubitare  dell'asserir  dei 
cronisti,  che  ciò  dalla  distruzione  di  Perento  tragga 
origine. 

Sopraggiunge  intanto  il  tempo  in  che  una  nuova 
giunta  è  operata  sul  l'arma,  la  quale  Francesco  d'An- 
drea, seguitato,  0  piuttosto  preceduto  dagli  altri,  così 
riferisce.  A.  dui  1187....  li  viterbesi  ruppero  el  conte 
Aldobrandino  per  favorigiar  dui  cardinali^  et  cacciarlo 
insino  ad  Monlcfuiscone,  et  arsero  el  borgo  di  santo 
Fuciano  (cor.  cogli  altri  Flaviano);  et  el  dicto  conte 
s'arendè  libero  lui  et  la  roba  sua,  et  rendè  Montefia- 
scone  et  la  roccha  a  li  dicti  cardinali,  et  li  viterbesi 
tornarno  ad  Viterbo,  per  la  qual  Victoria  el  papa  donò 
ad  honor  del  coniano  la  bandiera  colle  chiavi  come 
le  tiene  per  insegna.  E  qui  pure  i  cronisti  sono  in 
error  grave,  perocché  la  concessione  della  bandiera 
pontifìcia  da  por  sull'arma,  si  ha  documento  certo 
essersi  fatta  nel  1316  da  Bernardo  di  Cuccinaco  (Bussi 
pag.  184),  come  ricavasi  dal  diploma  (appendice 
n.  XXIX),  eh'  esso  Bussi  ricopia  (pag.  418),  brutta- 
mente ciò  non  ostante  errando  ,  secondo  che  notò 
il  Garampi  (  Illustraz.  d'  un  sigillo  della  Garfagnana. 
Roma  1759,  pag.  109),  il  quale  dice  su  questo  pro- 
posito: Merita  di  essere  specialmente  ricordato  un  di- 
ploma che  nel  1316  concesse  ai  viterbesi  Bernardo 
di  Cucuiaco  (sic)  vicario  del  patrimonio  di  s.  Pietro, 
che  originale  ho  io  veduto  nell'archivio  segreto  della 
città,  e  che  assai  deforme  e  scorretto  è  stalo  prodotto 
in  luce  dal  P.  Bussi  (pag.  418),  perchè  il  testo  emen- 
dato accorda,  ultra  arma  vestra  propria  quae  habelis, 
seilicet  leonem  cum  palma  (la  palma  dunque  già  c'era, 
ma  delle    palle  e  delle  lettere  ne  verbum  quidem  al 


2i(ì 

cominciar  dol  secolo  XIV)  vcxilliim  et  insìgnia  romaue 
ecclesie  prope  ipsum  leonem.  A  che  soggiunge  l'emo 
autore:  Nel  diploma  slesso  fu  espressa  in  miniatura  la 
detta  insegna y  che  consiste  in  uno  stendardo  rosso  che 
svolazza  e  finisce  in  due  code.  Una  gran  croce  bianca 
lo  divide  tutto  in  quattro  parti;  e  in  ognuna  vedesi  una 
chiave  parimente  bianca:  tulle  particolarità  che  noji 
furono  in  conto  alcuno  avvertile  dal  dello  scrittore,  e 
che  non  dovevano  esser  così  trascurate.  Per  fermo, 
chi  primo  registrò  nelle  cronache  la  notizia  nel  modo 
che  vi  giace,  confuse  la  sconfìtta  a  Montefiascone  del 
conte  Ildibrandino,  colla  sconfìtta  nello  stesso  luogo 
de'  ribellati  alla  chiesa,  operata  soprattutto  da'viter- 
besì  questa  e  quella  volta,  supponendo  il  premio  dato 
a  questa  essere  stato  invece  dato  a  quella,  per  uno 
scusabile  error  di  memoria.  Intanto,  come  già  di- 
chiarava io  poc'anzi,  dopo  la  giunta  conseguita  dal 
Cucuiaco,  non  perciò  la  palla  quadripartita  compa- 
risce ancora.  E  non  l'ha  la  facciata  del  tempio  di 
s.  Maria  della  Quercia  ,  fabbricato  in  sul  chiudersi 
del  secolo  XV,  quantunque  la  si  trovi  mendacemente 
effigiata  ed  intrusa  nella  tavola  l'appresentante  esso 
tempio  alla  pag.  222  del  Bussi....  e  non  l'ha  ogni 
altro  monumento  di  data  che  sia  con  certezza  ante- 
cedente al  menzionato  tempo. 

E  non  comparisce  né  manco  nelle  pergamene, 
ossia  ne'  documenti  scritti  ;  e  facciamene  di  nuovo 
testimonianza,  nella  ricordata  con  lode  opera  sua,  il 
Garampi  (pag.  55),  dove  racconta:  Due  instrumenli 
ho  io  veduti  neW archivio  di  s.  Angelo  di  Viterbo,  e  un 
altro  nelV  archivio  della  città  ,  tutti  degli  anni  1 1 98 
<?  1199,   corroborati  sigillo  civitatis,  ?7  quale   sigillo 


24-7 

ne  due  imlrumenli  suddetli  rimane  anohe  appeso.,  aven-' 
do  per  segno  un  drago  o  leone  con  una  palma,  e  colla 
iscrizione'  CONSULES  VITERBIENSES.  E  così 
infatti,  uno  almeno  di  essi  anche  oggi  intero  l'ho  io 
avuto  sott'  occhio  fra  le  pergamene  della  mentovata 
chiesa,  privo  d'ogni  indizio  di  globo  che  sin  qui  non 
incontrammo  dunque  mai. 

Si  fa  forza,  per  vero,  sopra  certi  esametri  attri- 
buiti a  Gottifredo  viterbese,  scrittor  celebre  del  se- 
colo XII,  e  più  volte  stampati  da'  miei  concittadini, 
e  distesamente  dal  Faure  [Mem.  apolog.  del  marmo 
di  Desiderio  par t.  ìypag.  45),  così: 

In  republica  viterbiensi  insignii  historiae  exposiiio 
Ghottiphredi  presbyteri  viterbiensis  —  Leo  loquitur 
ad  viatorem. 

Lumina  qui  transis  toUe,  ac  insister  parumper; 

Humanaque  feram  procul  audi  voce  loquentem. 

Olim  pestis  eram  Nemaea,  sed  Herculis  ictu 

Confossa  hoc  sumor  loco  (1)  consistere  signum. 

Ungue  pilam  dextro  inscriptam  comprehendo  qua- 
ternis 

Ante  notis,  partes  quae  signant  quatuor  urbes. 

Falucerum,  Arbanum,  Vetulonum,  Longaque:  quo- 
rum 

Volturnum  Agricolae,  rex  miles  idemque  sacerdos 

Arbanum,  cives  Vetulonum,  operumque  magistri 


(1)  L' umanista  che    questi  versi  compose,  avrà  scritto  senza 
dubbio:  Hoc  confossa  loco  sumor. 


248 

Longum   habltaveiunt  Paratussum  (1)  :  has    cinxit 

in  unam, 
Ai'bano  excluso,  insuber  rex  moenibus  urbem, 
Ac  triplici  ex  veteri   oita  ,  nova  est  vox  una  Vi- 
te rbi. 
Quid  sibi  palma  velit  quaeris  post  terga?  Ferenti 
Antiquae  urbis  erat  signum,  quam  marte  secundo 
Delevit  virtus  saepe  irritata  Viterbi. 
Cum  cruce  vexillum  paro:  Pietasque  Fidesque 
Integra  municipum  romana  ab  sede  recepit. 
Sic  est,  ne  dubita;  sed  abi  cum  pace,  viator. 

Io  mi  maraviglio  che  s'  abbia  avuto  il  coraggio  di 
stamparli  a  quel  modo  e  con  quella  intitolazione,  e 
la  speranza  di  farli  accettare  come  legittimi.  Li  ha 
trasmessi  a  noi...  chi?  Qualche  vecchio  manoscritto 
di  cronista?  Non  già.  Il  piìi  credulo  e  il  meno  in- 
strutto degli  scrittori,  quel  dolcissimo  di  sale,  notaio 
Domenico  Bianchi  (a  cui  censura  basti  ciò  che  il  Bussi 
e  il  Faure  suoi  difensori,  pur  non  han  potuto  non 
lasciarsi  fuggir  di  penna  intorno  alla  stolidità  della  sua 
compilazione),  che  scrisse  dopo  il  sec.  XVI  le  sue 
aniles  fabellas,  con  uno  stile,  che  Dio  ce  ne  salvi, 
beendosi,  il  gocciolone,  checché  gli  venisse  da  ogni 
fonte,  purché  relativo  alle  glorie,  vere  o  false  del  suo 
paese.  E  non  s'  accorge  il  pover  uomo  che  quivi  si 
tratta  d'una  impostura  moderna  (ei  l'intitola  Elegia)\ 
composta  sullo  stemma  falsificato ,  per  darle  una 
sembianza  d'autorevolezza  che  le  mancava,  e  ch'era 
smentita  da  niente  meno  che  dal  consenso  de'  mo- 
li) Per  l' intfllij^enza  di  queste  cianco  si  leggano  le  opere  di 
Annio  che  tulle  in  pili   luoghi  lo  spiega  e   le  comeiila. 


249 

nuinenli  più  antichi.  Non  s'accorge  che  il  Gotlifre- 
do,  uomo  degli  imperatori,  non  avrebbe  a  quel  modo 
ftivellato  della  sede  romana,  e  della  pietà  e  della  fede 
a  quella,  e  di  premi  per  fatti  posteriori  all'età  in  che 
visse.  Non  s'accorge  di  nulla!!! 

Vuoisi  un  vero  esempio  dello  stile  e  della  ma- 
niera del  celebre  viterbese?  Scelgo  un  passo  del  Pan- 
theon, dove  favella  della  sua  patiia,  e  manifesta  ri- 
spetto ad  essa  sentimenti  intimi,  che  giova  intendere 
quali  ei  li  esprime  (Murat.  S.  R  I,  l.  VII,  col.  465, 
dove  si  discorre  di  Federico  11  imp.): 

Thuscia  devota  sese  dedit  undique  tota, 
Nota  vel  ignota  subduntur  regna  remota. 

Ad  pendentis  aquae  praedia  castra  iacent. 
Ad  vitae  meritum  veniunt  veglila  Viterbum  (1), 
linde  patens  Erebus  fontem  facit  igne  protervum  (2). 

Fortis  ibi  populus,  miles  ad  arma  probus. 
Oplimus  indigenis  fons  balnea  multa  paravit. 
Fertilis  est  patria,  quam  copia  multa  beavit: 

Nam  genus  et  species  fertilitate  trahit  (3). 
Illic  Roma  suos  voluit  requiescere  fessos, 
Emeritos  equites,  senio  vel  vulnere  pressos. 

Sic  vitae  meritum  res  facit  ipsa  locum  (4). 
Longa  per  obsequia,  cum  vita  labore  gravetur, 
Si  senio  premitur,  si  vulnete  debilitetur, 


(1)  Per  la  rima  leggasi  Fiteriium. 

(2)  E  chiaro  che  parla  del  Bulicame.    . 

(3)  Argutezza  scolastica  v  la  quale   afiTHIa  linguaggio  trado  da 
filosofia. 

(4)  V.   Bussi   pag.   38.  Allude   a  iiiranliia    Iradizionc   die    |>u<> 
esser  vera,  in   ragione   speci-Tlincnlo   dalle  suo   acque   salulil'ere. 


250 

Ilic  liabeat  requiem  saepe  senile  deeus 
Si  praeclai-a  velit  Caesar  sua  gesta  foveri, 
Hoc  (lecus  impei'ii  decet  omni  lege  teneri, 

Debeat  ut  senibus  vita  quieta  feri  (1). 
Non  haec  servorum  sit  (2)  gloria,  sed  dominorum, 
Si  defectorum  stet  salvus  honor  seniorum, 

Si  nitet  ipsorum  veste  platea,  forum. 
Si  miserum  praestat  famulum,  si  dira  potestas, 
Dedecus  infestat  dominum,  cui  servit  egestas; 

Non  sibi,  sed  domino  stat  miser  ille  suo  (3). 

Or  quale  analogia  v'  è  tra  i  due  testi  posti  un  vi- 
cino dell'altro?  e  in  che  somiglia  lo  stile  ampolloso, 
e  d' una  misera  grandiloquenza  del  moderno ,  alla 
rozza,  ma  saggia  gravità  dell'antico?  Perciò  non  du- 
bito d' affermar  evidente  la  spuria  natura  del  qui 
disputato  brano,  e  crederei  perdere  il  mio  tempo, 
e  far  grave  torto  alla  intelligenza  de'  miei  lettori, 
se  m'accingessi  con  più  minuta  analisi  a  dimostrarla. 
Ben  mi  fa  stupore  il  dotto  F'aure  (loc.  cit.),  che  a 
difenderne  l'autenticità,  consentì  a  spendere  tutto  un 
lungo  articolo,  sciupato  in  moizorecchierie  niente  de- 
gne del  valentuomo. 


(1)  F.  gerì. 

(2)  f.  fit. 

(3)  Giovi  qui  ricordare  che  un  magnìfìco  ms.  minialo  del  Pan- 
theon è  nella  bibhoteca  del  duomo  di  Viterbo,  do'e,  oltre  al  Pan- 
theon, sono  -  La  continuazione  di  prete  Giovanni  di  santo  Stefano 
de  piscina  -  Il  Pantheon  ripigliato  alle  particole  XXV  de  Mstoria 
anglorum  et  saxonum  •  Miracoli  della  madonna  e  altri  -  Liber  Ari- 
stotilis  de  secretit  sccretorum,  sive  de  regimine  principum,  vel  re- 
gum,  seu  dominorum  -  Libellus  Petri  Adelfonsi  servi  Ihesu  Christi  - 
TuUo  Ialino^  e  degno  di  speciale  esame. 


251 
Rosta  un  ultimo  ai'goinento,  disperato  non  nien 
degli  altri,  e  lo  traggon  da  monete  (che  niun  uomo 
da  ciò  ha  mai  potuto  esaminare).  Per  giudicar  della 
cui  forza  basti  trascrivere  dal  Sarzana  [Eugenio.  - 
Della  capitule  de'  luscaniensi  ec.  Montefiascone 
MDCCLXXXIII,  pag.  298.  nota  3)  .  .  .  Altre  monete 
vi  sono  da  me  vedute;  ed  ima  ne  presenta  il  signor 
Gaetano  Corretini  ncWelegante  suo  libro  che  ha  titolo: 
Brevi  notizie  ec.  a  carte  71.  Queste  in  ima  parte  han 
Vimmagine  di  s.  Lorenzo,  e  nel  giro  si  legge:  s.  Lau- 
'  rentius,  e  dalV  altra  parte  mirasi  il  leone  col  globo, 
e  le  lettere  in  esso  F.  A.  V.  L,  e  la  palma,  cui  par 
che  s'  appoggi  il  detto  leone  ,  ed  intomo  si  legge  de 
Viterbio  -  //  nobile  viterbese  sig.  D.  Sebastiano  Zaz- 
zara,  già  canonico  di  quella  cattedrale,  poi  arciprete 
della  collegiata  di  s.  Sisto,  uomo  molto  dotto  ed  esem- 
plare ecclesiastico,  la  famigliarità  erudita  di  cui  morte 
sollecita  mi  tolse,  m'  ebbe  regalata  una  di  queste  mo- 
nete di  rame,  che  da  ima  parte  ha  s.  Lorenzo  colla 
graticola,  e  le  dette  lettere  nel  giro,  s.  Laurentms,  e 
nell'altra  parte  de  viterbio  col  leone  che  tiene  il  globo 
colle  lettere  F.  A.  V.  P,  ed  è  senza  palma,  indizio, 
che  fu  coniata  innanzi  la  distruzione  di  Ferenti,  cioè 
prima  delVan.  1172.  Dirà  dunque  ognuno  che  il  Sar- 
zana, il  quale  cita  a  testimonio  un  libro  stampato 
(il  Corretini)  vi  ha  veramente  veduto  alla  pag.  71  la 
monetina  incisavi ,  e  in  essa  il  leone  col  globo  e  le 
lettere  F.  A.  V.  L,  e  la  palma.  Tuttavia  (sto  per  dire, 
crimine  ab  uno  disce  omnes),  egli  non  v'  ha  veduto 
niente,  perchè  niente  di  quel  ch'ei  dice  v'è.  V'è  bene 
il  leone,  ma  del  globo  non  v'è  traccia,  né  delle  let- 
tere che  vi  siano  mai  state.  Nò  v'è  la  palma,  sì  bene 


252 

la  picca  col  ferro  trlfido.  Né  intorno  è  de  Yilerhia, 
ma  de  Vilbio:  ciocché,  per  vero,  torna  allo  stesso. 
Or  s'egli  aveva  le  traveggole  nel  leggere  lo  stampato 
e  chiarissimo  ,  come  possiamo  sperare  che  non  le 
avesse,  quando  credeva  vedere  nella  monetina  di  rame, 
posseduta  da  lui,  la  palla  e  il  F.  A.  V,  P? 

Nel  libro,  Antiqui  romanorum  pontificum  denarii 
etc.  notis  illustrati  a  Benedicto  ab  Floravante.  Romae 
MDCCJXZVIII,  pag.  46  e  143,  si  cita  nummus  Vi- 
terbii  percussus,  quale  vedesi  effigiata  presso  Felice 
Contelori,  De  praefecto  urbis  cap.  4 ,  pag.  20,  post 
numeriim  45.  Il  Fioravanti,  seguitando  l'autore  da 
lui  citato,  dice  che  si  coniò,  dum  ea  civitas  in  po~ 
testate  esset  familine  Vicanae^  seu  de  Vico,  quae  et  de 
praefectis  dieta  fuit,  cum  praefeclurae  dignitas  in  ea 
ftiisset  per  duo  et  amplius  secula;  e  così  la  descriver 
In  illiiis  autem  nummis  adversa  parte,  est  totam  aream 
occnpans  littera  P,  quae  prima  est  nominis  praefecli, 
et  in  aversa  parte  leo  effictus  (  Vilerbii  insigne  )  sex 
panibus  ad  nummi  aream  disposilis,  qui  ab  unoquoque 
pistoriae  artis  in  singulos  dies  praefecto  urbis  pende- 
bantur.  In  nostro  autem  denario  visitur  imago  s.  Lau- 
rentii  viterbiensis  urbis  tutelaris  ad  significandam  erga 
eumdem  maì'tyrem  civium  religionem.  Or  si  riscontri 
l'effigie  di  questa  monéta.  Il  leone  apparirà  come  nel 
precedente  caso  senza  le  lettere,  e  senza  altro  indi- 
zio del  contrastato  emblema. 

Ciò  medesimo  conferma  quanto  conosciamo  della 
numismatica  viterbese  (almeno  quanto  a  me  é  riu- 
scito conoscerne)  presso  questo  Fiora van te  ,  presso 
Saverio  Scilla  che  scrisse  prima  di  lui...  presso  per- 
fino il  Bussi  pag.  228.  Dio  sa  quali  monete  fossero 


253 

(se  fur  monete  e  viterbesi)  quelle  di  cui  parlano  An- 
nio,  il  Mariani,  il  Sarzana,  il  Faure,  di  cui  non  si 
son  mai  dati  i  disegni,  e  che  ne'  musei  non  so  che 
si  veggano!  Ho  scritto  alcun  tempo  fa  ad  un  intel- 
ligentissimo della  numismatica  del  medio  evo,  il  dot- 
tissimo cav.  di  s.  Quintino,  che  in  Torino  onora  questi 
studi,  e  m'ha  risposto  di  non  conoscere  nulla  di  si- 
mile. Tutto  anzi  questo  ramo  di  filologia  municipale 
si  può  dire  intatto.  Imparo  dalle  insufficienti  parole 
del  Bussi,  che  la  zecca  in  Viterbo  fu  a  più  riprese. 
-Dà  egli  al  n.  XIV  dell'appendice  pag.  425,  copia  del 
diploma  di  Federico  II  (a.  1240),  col  quale  concede 
(  se  tuttavia  ben  trascrive  ,  e  se  il  documento,  che 
non  m'  è  caduto  sott'  occhio,  è  legittimo  quale  sin 
qui  lo  credo)  ut...  publicae  peciiniae  sicla  cudantui\ 
quae  imaginis  nostrae  subscriptwne  praefulgeant  (?), 
et  ad  honorem  nostri  nominis  iibiqiie  per  regionem 
effusa,  ad  communes  expensas  omnium  expendantur. 
Ita  quod  denarius  parvae  monetae  prò  parvo  senensi, 
et  denarius  grossus  prò  duodecim  denariis  parvis  re- 
cipi  debeat  et  expendi.  Numerose  pergamene  de'  se- 
coli XIII  e  XIV  parlano  de'  vilerbini.  Per  es-  nell'ar- 
chivio di  s.  Sisto,  all'an.  1323,  perg.  n.  112,  in  un 
testamento  di  Caracosa  moglie  d'un  certo  Petruccio, 
essa  lascia  ad  Angelo  vescovo  di  Viterbo  duos  solidos 
viterbinortim-  Item  a  s.  Maria  a  gradi  V  solidos  vi- 
terbinorum,  e  più  giù  a  non  so  chi  altro,  tres  libras 
viterbinorum  denariorum  minutorum.  Nel  n.  117,  in 
una  locazione  di  un  orto,  qiiadraginta  libras  et  X  so- 
lidos denariorum  viterbinorum.  Nel  n.  119  (stesso  a. 
1323),  novem  libras  viterbinorum.  In  un  altro  testa- 
mento dell'a,  1267,  n.  242  dell'archivio  di  s.  Angelo 


254 
Giovanni  di  Nicola  Gavanolli  lascia  all'  ospedale  di 
Porta  santa  Lucia  cetilum  soldos  honorum  denarionim 
parvorum  usualiter  vilerhiensium,  e  così  altre  volte. 
lo  non  fo  che  toccar  la  materia,  la  quale  richiede- 
rebbe più  studi. 

11  della  Tuccia  (esemplare  di  Montefìascone)  al- 
l'an.  1388  scrive:  -  A'  4  di  aprile  il  prefetto  ìiebbe 
Toscanella^  Montalto  ec.  e  fé  batter  la  moneta  in  Vi- 
terbo, bolognini  da  due  soldi  Vano  con  s.  Lorenzo  e 
la  grata,  e  qnatrini  con  la  golpe  e  la  croce.  Nelle 
riformazioni  dell'archivio  municipale  a.  1430  si  ha: 
-  M.  ecce.  XXX.  Indictione  Vili,  die  XXVII  iulii  - 
Magnifici  insimul  convenientes  in  palatio  ipsorum  soli- 
tae  residentiae  prò  ipsorum  officio  laudabiliter  conve- 
nientes exercendo,  habito  colloquio  cum  rcctoribus  mer- 
calorum  super  muUiludinc  denariorum  parvulorum,  sive 
picciulorum,  qui  in  magna  quantitate  reperiuntur  in 
civitate  Vitei'bii,  et  hoc  est,  quod  omnis  denarius  cuius- 
cumque  conii  cxpendalur  Ine  prò  denario,  et  dantur 
tantununodo  viginliunus  prò  bononeno,  facla  declaru- 
tione  per  prefatos  reclores  mercatorum,  qualenus  cor- 
respondel  debito  si  dantur  duo  picciuli  prò  uno  denario, 
exceptis  denariis,  seu  picciulis  qui  jiunt  nunc  in  urbe 
Viterbii  ubi  est  leo  (si  noti  bene,  leo  e  non  altro), 
et  picciulis  qui  hactenus  facti  fuerunt  in  Viterbio.  Et 
a.  (  f.  amodo  o  simile  )  commisenml  et  mandaverunt 
praefati  domini  Francisco  et  Petra  lubicanis  et  bapni- 
toribus  communis  presentibus,  quod  .  .  .  vadant  per  loca 
publica  et  consueta  diete  civitatis,  et  in  suprascriptia 
locis  sono  tube  premisso  bapnianl  et  preconiient  quod 
omnis  persona  in  dieta  civitate  Viterbii  et  eius  districlu 
et  comitalu  expendens  picciuolos  debeat  solvere  duos 


255 

picciulos  prò  imo  denario  el  sic  recipeie,  exceptis  dc- 
mriis  qui  mine  fiiint  in  quibus  est  leo,  el  denariis  qui 
fuerunl  haclemis  piiblicati  in  Viterbio,  qui  expendanlur 
ex  more  solilo,  videlicet  unus  prò  uno  ad  penam  XXV 
ducatorum  aureorum,  el  plus  arbitrio  dominornm  pre- 
dictorum. 

Aggiungasi  a  tutto  ciò  quel  che  dal  Bussi  può  im- 
pararsi a  pag.  217  e  278.  E  di  qui  tornando  all'ar- 
goniento  si  conchiuda  con  sempre  maggior  fermez- 
za, che  dunque  l'argomento  delle  monete  non  men 
vacilla  di  tutti  gli  altri,  e  che  i  viterbesi  miei  son 
costretti  a  conchiudere,  com'io  diceva  in  principio, 
1.  che  il  loro  stemma  è  oggi  deturpato  dall'adulte- 
rina intrusione,  la  quale  spero  aver  dimostrata  piìi 
che  ad  abbondanza;  2.  che  dalle  lettere  Faid,  pro- 
vate così  non  antiche,  niente  può  legittimamente  ri- 
cavarsi a  favore  deiresistenza  nella  città  nostra  del 
primitivo  funum  Voltumnae,  comunque  elle  vogliano 
interpretai'si. 

Facile  adesso  è  mostrare  che  indarno  s'adduco- 
no a  puntellare  la  crollante  opinione  intorno  a  que- 
sto celebre  tempio,  la  quadriera  d'Annio;  il  nome  di 
Faule  dato  alla  valle;  e  quello  di  s.  Maria  in  Voltur- 
no dato  alla  chiesa  ed  al  monistero  presso  gli  ago- 
stiniani. Le  quattro  lettere  di  bronzo  ,  che  posson 
credersi  aver  fregiato  la  Porlicella  ,  chi  le  nomina 
prirrui  d'  Annio  e  degli  anniani  ?  Se  ne  dice  forse 
un  nonnulla  ne'cronisti  ?  Non  già.  Il  nome  stesso  di 
Porlicella  dichiara  che  non  fu  una  gran  cosa,  e  altro 
mostra  che  non  fu  molto  antica.  Si  può  mdovinare 
dov'era,  perchè  restano  per  un  occhio  esercitato  le 
vestigie  del  muro  antico  di  cinta  da  quella    parte  , 


256 

airimboccatiira  della  piazza  della  Trinità,  da  un  lato 
e  dall'altro.  Evidentemente  s'accavalcava  alla  strada, 
che  sappiamo  ,  per  cagion  della  larghezza  ,  essersi 
allor  detta  strada  maggiore  (V.  la  carta  del  Ligustri 
a.  1596);  ma  era  cosa  comparativamente  moderna, 
perchè  appartiene  al  tempo  in  cui  si  rafforzò  di  mura 
il  sobborgo  di  s.  Faustino.  Né  ciò  dico  per  con- 
ghiettura.  11  fatto  è  registrato,  presso  a  poco  cogli 
stessi  termini,  nel  ms.  delle  cronache  di  Francesco 
d'Andrea,  in  quello  della  biblioteca  barberiniana,  e  nei 
due  della  riccardiana  e  di  Montefiascone.  Così  p.  e. 
ha  il  testo  bavberiniano  —  A.  d.  1215  (la  data  è  tolta 
dagli  altri  testi)  :  Fu  fatto  il  muro  sopra  la  porta  di 
Bove  insino  al  muro  del  piano  di  s.  Faustino,  il  quale 
piano  di  s.  Faustino  era  stalo  serrato  di  muri  da^  vi- 
terbesi certo  tempo  innanti,  cioè  nel  milleducento  otto. 
E  seguita  l'esemplare  riccardiano  meno  scorretto  qui 
del  codice  de' Barberini — 1208.  Fu  serrato  di  muro 
il  piano  di  s.  Faustino,  e  fatto  il  muro  dalV  entrata 
delV  acqua  del  muro  del  borgo  di  s.  Matteo,  e  della 
chiesa  di  s.  Marco  insino  al  monastero  di  s.  Maria  di 
Botorno  contro  le  ripe  sotto  il  ponte  tremolo  ,  dove 
furon  fatte  tre  porte,  cioè  la  porta  che  oggi  si  chia- 
ma Porticella,  e  la  porta  di  s.  Lucia,  e  la  porta  sot- 
to s.  Francesco.  Nel  quale  piano  furono  ordinate  le 
strade  a  corda  et  abitate  da'  cittadini  viterbesi  e  feren- 
tesi.  E  da  ultimo,  attaccando  qui  l'esemplare  di  Mon- 
fiascone:  E  così  neWanno  1215  fu  fatta  la  porta  di 
bove,  e  '/  muro  sotto  detta  porta  sino  alle  ripe,  ove  fu 
fatta  una  torre,  et  insino  al  muro  del  piano  di  s.  Fau- 
stino sopra   la  Porticella,  tra'  quali  muri  furono  fatti 


257 

assai  enfiamenti  da  foresiien  che  volenlieri  venivano 
ad  liabilare  Viterbo. 

Or  tutto  questo ,  a  chi  conosce  la  città  nostra, 
è  ben  chiaro.  Segna  un  tempo  anterioie,  in  cui  ^:ià 
essa  ingrandita  per  la  giunta  all'antico  Caslrum  dei 
Ire  borghi  di  s.  Pier  dell'  olmo,  di  ver  Sonsa,  e  di 
ver  Borgo  Longo  ,  arrivava  col  già  più  esteso  giro 
delle  sue  mura,  dalla  parte  di  Montefìascone  fino  a 
s.  Matteo  della  Svolta,  e  dalla  parte  del  mare  aveva 
per  naturai  contine  l'Arcione  colla  porta  detta  di  Son- 
sa, colla  porta  Marchesana,  colla  porta  di  ponte  Tre- 
molo, con  quella  di  s.  Maria  Maddalena,  con  quella 
di  s.  Biagio,  con  quella  di  s.  Lorenzo  innanzi  al  pon- 
te del  duomo,  congiunte  con  una  forte  linea  di  muta 
e  di  carbonaie  ,  delle  quali  è  visibile  la  traccia  ,  e 
che  i  documenti  degli  archivi  chiamano  muros  an- 
tiquos  (1),  accostati,  non  so  se  per  tutta  la  lor  lun- 
ghezza, dalla  via  rasemori,  cioè  radi  il  muro,  ed  ester- 
namente dalla  vallata  di  filello  (cose  che  accenno,  e 
potrei  provare,  e  proverò  altrove).  E  tutto  ciò  fu  sino 
air  a.  detto  di  sopra   1208. 

Allora,  nel  piano  di  s.  Faustino  ,  non  per  que- 
sto la  terra  era  vuota  ,  o  solo  campagna  coltivata. 
V'era  caseggiato  sparso,  e  v'eran  orti  e  casalini,  o 
simile.  Ma  ne'  mentovati  anni  ,  spesseggiando  ivi  i 
ricoverati  da  Perento  recentemente  distrutta,  ed  al- 
tri forestieri,  si  pensò  a  trasformarlo  dalla  qualità  di 


(1)  A.  13i8  ,  archivio  di  s.  Angelo  —  Fendilio  molendini  etc. 
positi  in  civ.  Vt7.  in  conlrala  pontis  Tremuli  ....  iuxta  muros 
antiquos  Com.  Fit.  ,  fossatum  eie. 

Ivi  a.  1330.  Altro  allo  concernente  lo  .slesso  molino  colle  stesse 
conlinazioni  ec. 

G.A.T.CXXXIV.  17 


258 
boi'giita  esteriore  [viais  o  casalis)  m\  appendice  mu- 
rata della  città,  la  quale  facesse  tutto  un  corpo  colla 
parte  antecedentemente  racchiusa  ,  e  col  borgo  di 
s.  Marco  datosi  a  popolare  l'a.  1191  (1),  e  col  ca- 
ste! di  s.  Angelo,  unito  di  que'  dì  ai  resto,  e  mu- 
tato di  denominazione  ,  chiamandolo  palazzo  degli 
Alamanni  (2),  e  col  borgo  di  s.  Luca,  a  quel  modo, 
che  quel  sobborgo  suburbano,  da  un'altra  parie,  tìn 
dal  1148,  0  1187,  aveva  formato  la  borgata  di  Piano 
Scadano  [Vicus  Sqiiarranus  sotto  i  re  longobardi). 

La  porticeUa  dunque,  secondo  il  fin  qui  esposto, 
non  può  essere  più  antica  di  esso  anno  1208,  o  piut- 
tosto del  1215:  e  per  conseguente  le  famose  quat- 
tro lettere,  per  cagion  delle  quali  fu  chiamata  al  dir 
d'Annio  qnadriera.,  non  possono  esservi  state  messe 
che  a  fabbrica  (ìnita,  quando  pur  si  provasse  che  vi 
fossero  state  messe. 

Ma  chi  le  ha  vedute  queste  lettere  ?  Cito  l'edi- 
zione d'Annio,  De  antiquitate  et  rebus  Ethruriae  — 
Lugdnni  apud  Ioannem  Temporalem  1555,  e  ivi  p.  510 
dove  si  legge  della  qui  discorsa  porta:  Ab  his  qua- 
tuor  sacris  literis  (  quelle  di  cui  parliamo  )  inlroitiis 
Faidy  sive  Faup  (perchè  egli  dice  trovarsi  ne'monu- 
menti  or  Faul^  or  Faup;  e  Faup  ciascun  vede  che 
non  fa  punto  al  caso  nostro)  dicitur  in  conlractibiis 
porla  qnadriera,  quia  qualuor  aereis  denariis  inscul- 

(1)  Archivio  de'monaci  di  monte  Amiata,  n.  34.  Copia  Palle- 
schi. 

(2)  Cronache.  Frano.  d'Andrea,  cogli  altri.  A.  dni.  1208  «  El  ca- 
stello de  Sco  Angelo  di  Viterbo  fu  guasto  da'viterbesi,  et  in  quello 
loco  l'u  facto  uno  bello  palazzo  delli  Alamanni  ».  Credo  così  noma- 
to, perchè  da  quella  parte  esso  era  stalo  una  bastìa  occupata  dai 
tedeschi  contro  il  Caslrum  f-'ilcrbii,  come  altrove  diremo. 


259 

ptae  eranl  istae  qualuor  litcrae  diini  sacrarelur.  Dun- 
que parla  d'un  fatto  passato.  D'  un  fatto  che  tutto 
si  fonda,  non  sopra  ispezione  oculare  e  contempo- 
ranea, ma  so}>ra  Tinterpretazione  d'un  nome  ,  cioè 
sull'interpretazione  del  nome  qnadriera  dato  alla  por- 
la: ciocche  gli  dà  luogo  a  congetturare,  come  ap- 
par  dal  suo  stesso  detto,  quia  qualuor  aereis  clena- 
riis  iìisculplae  erant  (notisi  ciò:  erant,  non  simt)  islae 
qualuor  lillerae,  dum  sacrareiur.  Si  parla  poi  di  (piat- 
irò denarii  acrei.  Dunque  non  veramente  di  quattro 
(jruìidi  letlere  scolpile  sulla  porta;  ma  di  quattro  mo- 
nete che  Annio  supponeva  senza  dubbio  sepolte  nelle 
fondamenta  quando  fu  fondata  come  s'usa,  e  perciò 
non  poteva  aver  vedute.  Peggio  è,  che  in  quel  dum 
sacrareiur  [porla)  è  una  tacita  allusione  a  consacra- 
zion  pagana  ,  e  quindi  una  tacita  supposizione  che 
la  porta  risalisse  all'età  antichissime  e  gentilesche. 
Or  apprendemmo  da  quanto  di  sopra  fu  registrato, 
che  h  porlicella  era  non  più  antica  del  1215.  Tutta 
indi  l'argomentazione  si  fonda  sulla  fede  d'un  epiteto, 
il  qual  davasi  alla  porta ,  siccome  avvertii,  di  qua- 
dricra  ,  in  antichi  contratti  del  convento  di  Gradi  : 
ma  io  confesso  di  non  avervelo  saputo  trovare,  quan- 
tunque molti  e  nobilissimi  della  famiglia  gattesca  , 
ancor  oggi ,  dai  primordi  del  convento  ,  vi  si  con- 
servino. E  nondimeno  egli  ritorna  sull'  asserzione 
medesima  nella  questione  undecima,  scrivendo  —  Ad- 
ditar el  VolturnaePomoerium,  quod  vulgus  Porlicellam, 
coulracius  vero  a  Viscoìite  Gallo  convenlui  nostro  por- 
tam  qnadriaeram  vocant ,  quia  Faul  qualuor  litleris 
aereis  sacrum  erat  more  thusco:  e  quaest.  24.  Sc- 
cunda  icujio  est  Porlieella  ,  quae  et  quadriuera,  quia 


260 

ibi  pnmoeriiim  quatuor  aereis  lilteris  Fani  sacratimi 
fuit.  ut  nomen  ipsiim  arguit.  Eppure,  concessa  anco- 
ra la  realtà  dell'aggiunto,  mille  altre  ragioni  pote- 
vano esservi  d'averla  chiamata  quadriera^  senza  ar- 
(fuere  dal  nome,  che  si  fosse  mai  pensato  a  quattro 
lettere  di  bronzo,  tra  le  quali  la  ipotesi  piii  sempli- 
ce è  che  fosse  quadrata,  e  così  detta  con  un  voca- 
bolo mal  pronunziato  per  idiotismo. 

Non  mi  trattengo  sopra  un'altra  prova  che  si  cre- 
dette poter  trarre  dalla  così  detta  li  tavola  libiscilla 
d'  Annio  ,  la  quale  nella  mia  operetta  non  credetti 
necessario  ne  manco  di  mentovare,  perchè  riferirla 
ne'termini  con  che  è  data  dal  suo  autore  è  confu- 
tarla. 

Dic'egli  p.  504  —  Altera  lihijscilla  tabula  fuit  ad- 
veda  ....  alabastrina  ad  quantitatem  magnae  ma- 
nus,  quam  idcirco  incanlatam  appellabant,  quia  mine 
sine  literis  eminentibus  cernebatur,  mine  ab  intus  eer- 
nebantur  ipsae  litterae  ,  et  mine  unum ,  inde  alium 
mentiebantur  colorem.  Quidam  vero  quia  quaedam  male 
legebantur,  cum  saepius  corio  et  oleo  atque  aceto  ter- 
gerent,  mimcn  (?)  ipsum  delevemnt.  In  ea  tabula  ila 
exeisum  erat. 

»  FAVL  Faluceres  pellunt  Agillum  tyrannum. 
Yetulones  hostiis  placant  Volturnae  Voltuinum.  Agyl- 
lae  stultitiae  succedit  Tarcon  et  Ocnus.  Sic  Tur- 
rena  Ethurae  Longola  sancta  manet.  Etrusco  qua- 
terno  populo  !  !  !   » 

Vengo  invece  al  nome  di  Faide  dato  alla  valle, 
e  questo  almeno  è  certo,  sebbene  non  mancano  va- 
rianti. Si  fatta  valle  dapprima,  non  tutta  partecipava 
a  questo  nome,  la  porzione  soggiacente  alle  auliche 


261 

mura,  o  fonriante  il  lato  prossimo  al  castmm,  di  qua 
dal  duomo,  lunghesso  l'Arcione  era  detta  {passim 
negli  antichi  documenti,  come  già  notammo),  valle  o 
piafjgia  di  FileUo;  quella  che  comincia  dalla  piazza 
odierna  del  duomo,  e  va  all'altro  estremo  dell'anti- 
co caslrum,  si  denominava  valle  del  Tignoso,  che  le 
cronache,  all' a.  1169,  pongono  dirimpetto  alla  porla 
di  Valle,  e  di  cui  notano  all' a.  1257  :  Fu  fatta  la 
chiesa  della  Trinità  di  Viterbo,  e  fu  fatto  il  muro  a 
piede  di  Faule,  cioè  dalla  ripa  del  muro  sotto  la  porta 
di  bove,  infino  le  ripe  di  santo  Chimento,  il  quale  loco 
si  chiamava  la  valle  del  Tignoso;  o  come  altrove  a. 
1243:  Valle  del  Tignoso,  cioè  dal  castello  di  s.  Lo- 
renzo, e  insino  ale  mura  di  porta  di  Bove  ,  in  quel 
Iodio  che  ora  si  chiama  a  piedi  a  Fabule  ,  infino  a 
s.  Chimenti.  Dunque  pare  che  il  nome  fosse  per  lo 
meno  di  più  assai  ristretta  applicazione. 

Provai  nell'operetta  su  Viterbo  e  il  suo  territorio 
p.  82»  che  nell'a.  1293  già  si  distingueva  un  Faide 
nuovo  0  uno  vecchio  (Bussi  doc.  p.  414),  e  una /wrto 
Faulis.  Nel  1265  ,  ho  ivi  ricordato  un  istrumenlo 
dove  si  dice  venduto  un  orto  positum  in  Fauule-f  e 
le  memorie  mss.  di  casa  Sacchi,  ove  al  1320  si 
parla  di  s.  Austino  sopra  a  Faide;  e  i  cronisti,  che 
scrivono  ne'  due  modi,  ed  anche  Fabule,  come  poco 
fa  vedennno.  Or  che  si  può  dedurre  da  ciò?  Certo 
che  una  parte  almeno  di  quel  che  Faulle  si  chiama 
oggi,  così  fu  detta  in  più  antico  tempo  (senza  tut- 
tavia che  possiam  determinare  fin  da  quando)  ,  e 
che  probabilmente  questa  denominazione  fu  da  prin- 
cipio riservata  allo  spazio  superiore  della  valle  sot- 
to il  monistero  di  s.  Maria.  Ma  che  discende  da  ciò? 


262 

Forse  che  fu  detta  Faide,  Fauulcy  o  Fahule  per  al- 
lusione a  fanum  Voltumnae  ?  Questo  supposto  pa- 
reva aver  qualche  forza,  quando  potevasi  credere  an- 
tica la  impressione  delle  quattro  lettere  F  A  V  L 
sopra  monumenti,  p.  e.  sopra  la  Porticella;  perchè 
allora  si  rendeva  verisimile  la  opinione  del  Magri  , 
che  F  A  V  L  avesse  a  sciorsi  in  Fa,  YL,  e  che  il 
popolo  ,  leggendole  materialmente  come  giacciono, 
applicasse  alla  valle  quel  che  apparteneva  al  tem- 
pio, e  cominciasse  a  chiamare  essa  valle,  sottopo- 
sta alla  quadriera,  Valle  di  Faule  o  di  Faulle:  ma 
abbattute  quelle  premesse  chi  avrà  più  il  coraggio 
di  pretendere  che  tal  voce  sia  generata  da  un  abbre- 
viatura del  contrastato  Fanum  Voliiimnae  ?  o  come 
non  diverrà  invece  più  naturale  e  più  probabile,  che 
la  parola  sia  nata  dalla  destinazione  di  quella  terra 
a  coltivazione  di  fave  (  fabule  (1)  ),  o  da  un  anti- 
co possessore  del  luogo  chiamato  Fau/us?  Di  Faiili 
non  mancano  esempi  nelle  carte  del  medio  e  del- 
Tinfimo  evo.  Dal  Regestum  Farf.  n.  210  ho  io  (loc. 
cit.)  addotta  la  donazione  nell'a.  809  Fault  et  Au- 
tarii  fratrum,  facla  Vilerbi;  e  mi  sarebbe  facile  ad- 
durne  più  d'un  altro   esempio. 

Così  ogni  base  è  sempre  meglio  disfatta  all'opi- 
nione cui  combatto;  e  un  minimo  valore  già  rima- 
ne all'ultimo  appiglio  c\e\V Ecclesia  s.  Mariae  in  Vol- 
turno, alla  quale  ornai  passo,  per  disbrigarmene  con 
brevità. 

L'argomentazione,  che  può  quinci  formarsi,  l'ho 
io  dichiarata  nella  più  volte  ricordata   operetta  so- 

(1)  Ann.  Coniment.  in  Sempron.  —  Mei  rustici  viterbienses 
dicunt  Faul  sacrum  idcirco  dictum,  quia  ibi  fabae  serebantur. 


2(ì:3 

pra  Viterbo  p.  83  e  seg.,  (love  ho  eomineiato  col- 
l'adunat-e  le  prove  del  fatto,  cioè  deirantichità  della 
denominazione.  Le  quali  giudico  vano  il  ripeter  qui, 
tanto  più  che  all'uopo  non  mi  bisognano.  Ma  dato 
che  realmente  quel  nome  risalga  fino  all'antichità 
gentilesca,  qual  conseguente  può  trarsene  ?  Allude 
esso  a  un  VoUiinio.  Sì  fatto  nome  però  non  è  esclu- 
sivamente proprio  d'un  nume  pagano.  Esso  si  trova 
anche  dato  ad  un  fiume,  al  fiume  presso  Capua,  e 
qui  ancora  abbiamo  l'Arcione  che  lambisce  il  piede 
al  monistero  (giacché  è  da  credere  che  in  piiì  aji^ 
tico  tempo  r  acqua  corresse  piìi  vicina  al  piede  di 
esso,  scostatasene  per  un  successivo  profondamento 
dell'alveo).  Or  perchè  in  antico  non  può  yo/fumo  es- 
sersi quello  chiamato  ? 

Veramente  nella  citata  mia  operetta  opinai  che 
il  fiumicello,  la  cui  denominazione  antica  certo  non 
era  Arcione ,  fosse  Sunsa:  ma  riandando  gli  argo- 
menti su  cui  mi  fondava ,  mi  sono  accorto  (  e  ne 
aveva  dato  un  cenno  fin  da  principio)  che  Sansa,  a 
dir  più  giusto,  era  il  nome  del  borgo,  già  vicus  fia 
dai  tempi  almen  de'longobardi.  Se  poi  troviamo  che 
lo  stesso  nome  fu  qualche  volta  dato  al  rivo,  ciò  fu 
per  denominarlo,  come  pur  si  suole,  dal  luogo  cui 
lambiva.  In  prova  di  che  i  passi  che  s'adducono  son 
chiari  quanto  all'  aver  appartenuto  un  tal  nome  al 
vico,  non  lo  son  punto  quanto  all'essere  stato  pro- 
prio del  fosso.  Sansa,  quando  si  parla  del  vico,  è  sem- 
pre in  nominativo:  quando  del  fosso,  quasi  sempre 
in  genitivo,  cioè  sotto  la  forma  di  riviis,  o  simile, 
Simsae.  Ov'è  altrimenti,  ciò  è  perchè  san  tutti  che 


264 

rispetto  a  uso  di   casi  la  grammatica  di  quelle    età 
è  tutt'altio  che  regolare. 

Ma  tengasi  pure  tutto  ciò  per  falso;  Volturno  non 
è  a  rigore  Vollumna  nò  Verinntius,  ed  è  invece  no- 
me d'una  divinità  speciale  e  diversa  (V.  Varr.  de  L.L. 
VI,  21,  e  VII,  45  etc).  E  sia  Vertimno  o  Voltumna, 
ciò  vorrà  dire  al  piiì  che  nel  luogo  dove  or  sorge 
il  monistero  di  s.  Maria  fu  già  un  tempio  di  Ver- 
tunno.  Ma  varrà  questo  a  dar  prova  che  il  tempio 
fu  quello  di  cui  parla  Tito  Livio  ?  Dirà,  spero,  ognu- 
no che  no.  E  allora,  tolto  ogni  vigore  alla  serie  di 
raziocinii  su  i  quali  pretendevasi  poter  fondarsi  per 
confermare  alla  mia  Viterbo  il  vanto  d'avere  avuto 
tra'suoi  fregi  il  luogo  delle  solenni  adunanze  di  tutta 
Etruria,  ben  sarà  d'uopo  che  cerchiamo  questo  luo- 
go in  qualche  altra  meglio  provata  sede,  e  avrò  di- 
ritto a  ritornare  all'abbandonata  sentenza  per  che  sti- 
mai trovare  la  indicazione  corografica,  la  quale  ci 
bisogna,  nella  citata  elegia  di  Properzio.  E  vi  ritor- 
no infatti,  e  mi  vi  fermo,  non  ostante,  per  ultimo, 
lo  screditato  brano  dell'  Itinerario  d'  Antonino  (Vet. 
Roman,  itiner.  Car.  Weseling.  Amstel.  1735  p.  532), 
del  quale  nessun  più  oggi  non  riconosce  l'apocrifa 
e  suppositizia  natura. 


Notizie  d'alcune  poche  conosciute  terre  lungo  il 
tratto  viterbese  della  via  cassia. 

L'Ughelli  nell'Italia  Sacra  (Ed.  Ven.  del  1717, 
t.  1,  col.  976)  ,  frate    Gioacchino  da  Montefiascone 


265 
minor  cappuccino  nella  pi-afrasata  traduzione  di  quel 
che  neirUghelli  si  legge,  e  i  Bollandisti  sotto  il  gior- 
no ^^X  di  luglio,  riferiscono  un  favoloso  itinerario 
de'sacri  resti  di  s.  Margherita,  chiamata  V.  e  M.  di 
Antiochia,  che  recando  in  fronte  la  data  dell'a.  898, 
è  però  evidentemente  lavoro  d'un  assai  più  recente 
scrittore.  L'epoca  può  credersi  non  più  remota  del 
secolo  XV.  Le  cose  narrate  son  quasi  tutte  eviden- 
temente una  poco  spiritosa  invenzione.  Tuttavia  la 
severità  di  giudizio  intorno  ad  alcuni  particolari  è 
spinta  tropp'oltre  dn'Bollandisti.  Per  quanta  pur  sia 
la  convenienza  di  sì  fatta  severità,  io  trovo  prezioso 
questo  documento  per  le  indicazioni  di  luoghi,  i  quali 
vi  si  contengono  ,  donde  il  più  retto  giudizio  che 
possa  trarsi,  riducesi  al  dire  che  il  vero  sta  nel  rac- 
conto seguente.  Una  specie  di  circumcelHone,  del  ge- 
nere di  que'  Teofìlo,  Sergio  ed  Igino,  da'quali  si  ri- 
ferisce mandata  a'posteri  la  Vita  sancii  Macarii  ro- 
mani servi  Dei,  qui  invenlns  est  iiixla  paradisiim  (Se- 
hastian.  Surii  sub  die  26  octob.),  piena  zeppa  d'in- 
credibili assurdità,  che  nessun  cristiano  scrittore,  for- 
nito di  qualche  dottrina,  oggi  non  riconosce  come 
tali,  funne  di'  leggieri  il  primo  autore. 

Costui  venuto  dalle  parti  di  Puglia  a  Roma,  in 
qualità  di  romeo  con  duo  compagni  della  stessa 
farina,  e  ricoveratovi  presso  il  tempio  di  s.  Teodoro 
martire  (a  Campitelli),  infermatosi  ne  parte,  e  viag- 
giando verso  Lombardia,  della  quale  par  fosse  ori- 
ginario, giunge  a  Sutri  :  ciocche  è  d'  intera  verisi  - 
miglianza,  tale,  nell'  infimo  evo,  essendo  la  strada 
solita  a  tenersi  da  chi  andava  in  quella  direzione,  e 
la  stazion  principale  lungo  la   Cassia:  Sutri   infoiti 


266 

già  fin  dai  longobaidi  divideva  il  ducato  romano  da 
quel  di  Toscana;  e  lo  desiderarono  essi  sempre,  ed 
invasero  più  d'una  volta  siccome  dopo  Tanno  714 
sotto  s.  Gregorio  II  (Anastas.  Vit.  Pont,  apud  Mu- 
tator.  S.  R.  I  ,  t.  3,  p.  1,col.  157,  V.)  ,  al  cui  con- 
fine verso  Monte  Piosi  doveva  essere  una  prima  Chiusa 
come  allor  si  diceva,  e  una  seconda  verso  il  Castrum 
Viterbi  ,  poiché  tal  esser  deve  l'origine  della  deno- 
minazione di  laais  lanidae  dato  al  lago  di  Monte- 
rosi,  e  della  vinea  de  Cinse  nominata  nella  bolla  con- 
cistoriale, con  che  il  pontefice  Innocenzo  111  prese 
sotto  la  sua  protezione  la  chiesa  ed  il  monistero 
de'  benedettini  di  Monte  Fogliano  ,  presso  Vetralla 
(Bussi  p.  403). 

A  queste  fermate  colà  de'pellegrini,  e  in  generale 
de'romei  quali  che  si  fossero,  si  riferisce  nella  Dis- 
sert.  XIX  il  Muratori  (Antiq.  M.  aev.  t.  %  col.  13 
seq.)  ,  quando  narra:  Consueiudines  et  tura  quae  ha- 
het  domimis  papa  in  burgo  SiUrino  (nel  borgo,  per- 
chè non  entravano  in  città  per  dimora;  e  parla  del- 
l'a.  1320.  Dunque  in  età  già  comparativamente  tar- 
da) ,  e  nota  :  Quum  aliquis  peregrinus  in  burgo  Su- 
trino  fuerit  infirmatus,  si  sacerdos,  prò  danda  sibi  poe- 
nitentia  vocatus  ad  ipsum  accesserit,  debet  secum  ha- 
bere  caslaldnm  curiae.  Quem  si  habere  nequiverit  , 
duos  ad  minus  legales  vassallos  ecclesiae  romanae  se- 
cum habebit,  in  quorum  praesenlia  peregrinus  de  suis 
bonis  prò  sua  voluntate  disponat.  Si  aliter  actum  fue- 
rit, peregrini  dispositio  non  valebit.  Quod  ideo  nosci- 
tur  esse  slatutum  ,  quoniam  sacerdotes  solilarii  pere- 
grinos  adeuntes,  proponebant  eis,  quod  nisi  de  rebus 
suis  omnia  disponerenl,  curia  sibi  omnia  iudicaret 


267 

Ma  in  Sull'i  (  rìpiiìjliando  il  discorso  )  il  nostro 
Agostino  non  rimase.  Il  giorno  dopo  la  piccola  sua 
compagnia,  facendo  un  cortissimo  viaggio  ,  secondo 
che  comportavano  le  poche  forze  del  malato,  posò 
ad  temphim  D.  Vicloriae  in  via  pnblica  iuxla  Vele- 
rem  aulam;  ed  è  aggiunto,  nec  uUerius  progredi  po- 
tuerunt  oh  prioris  (Augustini)  infirmilalem.  Et  quo- 
niam  eo  die,  quo  beati  Marci  papae,  ss.  Sergii  et  Bac- 
chi, solemnitas  celebratur,  basilica  B.  Vicloriae  in  ec- 
clesiam  fuerat  consecrala,  de  reliquiis  beatae  Marga- 
ritae,  unius  scilicel  coslae  parlicidam  Irihuil ,  et  ad 
laiidem  Omnipotenlis  Dei  sub  incìijto  Virginis  nomi- 
ne ibidem  altare  erectum  est.  Al  qual  racconto  non 
so  che  cosa  si  potrehhe  opporre. 

Si  parla  di  Vetralla,  e  per  vero  non  ivi  è  detta 
Vetralla,  ma  Vetiis  aula:  e  qui  alcuno  potrehhe  suh- 
odorare  una  penna  di  famiglia  anniana,  perchè  An- 
nio  nei  commentari  super  duo  fragmenta  Ilinerarii 
Antonini  (Vedi  i  frammenti,  che  mentovammo  di  so- 
pra, de'quali  egli  stesso  scrive:  Duo  fragmeula  apud 
me  siint  ex  collectaneis  magislriGuilielmi  collecta  a.sa- 
lutis  M.  ecc.  XV)  ,  ha:  S.  Mariam  fori  Cassii,  vulgo 
For  Cassi  dicimus,  et  oppidum  Vetrallam,  i.  e.  veterem 
aulam,  nominamus.  Ma  la  giustizia  vuol  che  si  dica 
che  questa  interpretazione  o  etimologia  è  più  an- 
tica di  esso  Annio.  Leggo  in  prova  di  ciò  in  una 
pergamena  dell'archi  vie  di  s.  Angelo  :  Anno  ab  in- 
carna tione  domini  nostri  Ihesu  dir  isti  M."  C.°  LXXVIÌII. 
Temporib.  domni  Alexandri  IH  papae  ,  et  Frederici 
imperatoris  et  semper  augusti  mense  ianuario,  indi- 
elione  XII.  Constai  me  Aldrigum  vendidisse  quod  ven- 
didi  libi    Parte  comparatori  meo  idesl  in  integrum  et 


268 
in  transactum  ficctimam  parlcm  unim  molendini  po- 
sila in  riguaragneìo  (il  rigagnolo)  siipra  pontcm  tre- 
midum  curri  omnibus  accessionihus  et  utilitatihits  suis, 
et  ciim  foroia  et  lega,  et  arenariis  et  farenariis  suis 
in  integnim  et  in  transactum  vendidi  ego  iamdictus 
Aìdrigus  tihi  Parte  comparatori  meo.  Et  recepi  pre- 
tium  prò  predieta  sectima  parte  predicti  molendini 
XVI.  libras  honorum  denariorum  fmitum  et  bene  com- 
pletum  pretiam  etc.  —  Actum  hoc  Viterbi  ante  casam 
Combersani  insta  scalam  palatii.  Signa  munuum  ,  Gi- 
mundus  Leonis  vicani,  et  Turdus,  et  Adinolfus  de  Ve- 
teri  aulay  et  Oderiscius  et  Lambertucii  de  Forcassi. 
Hi  omnes  rogati  sunt  testes.  Ego  Aliottus  imperialis 
aule  index  ac  notarius  rogatus  hanc  cartam  scripsi  at- 
que  compievi. 

E  due  cose  son  qui  da  osservare:  1 .  Si  parla  d'un 
molino  famoso  negli  annali  della  chiesa  di  s.  An- 
gelo ,  poiché  soggetto  a  grandi  liti  civili.  2.  Tra  i 
testimoni  ve  ne  ha  di  que'  di  Forcassi  (nome  sus- 
sistente ancora)  ,  e  di  que'  di  Vetralla,  distinta  da 
s.  Maria  Fori  Cassi,  ma  conservante  ancora  il  suo 
nome  di  Vetns  aida,  di  cui  diffìcile  non  è  restaurare 
per  assai  verisimile  congettura  la  storia. 

È  nel  Bussi  (p.  405)  il  diploma,  cui  dovemmo  ri- 
cordare un'  altra  volta  ,  di  Federico  II  (dell'  anno 
M.  CCXXXX)  col  (|uale,  tra  molti  privilegi  che  dona 
a  Viterbo,  così  favella:  Ad  id  .  .  .  .  recta  deliberati  o 
nos  favorabiliter  inclinavit,  ut  eamdem  nobis  devotis- 
simam  civitatem,  caput  quodammodo  regionis  et  pro- 
li inda  e  facientes,  imperialem  aulam  in  ea  fieri  man- 
daverimus,  in  qua  sit  habitatio  nostra  continua,  et  ibi- 
dem ad  exaltationem  nostram,  sedem  caesaream.  sta- 


269 

tuenles,  quae  pacis  ci  hiris  sinil  auctorilate  caesarea 
disponamus.  Dunque  un  aula  nuova  certo  si  fece  (ben 
egli  è  vero,  nel  secolo  Xlll  uscente).  E  non  fu  una 
promessa  vana.  11  palazzo  dell'i mp.  si  sa  che  sorse 
e  dove  sorse.  Occupava  il  così  detto  colle  del  Ti- 
gnoso ,  ed  esistono  più  copie  del  documento  della 
compera  a  questo  eftetto  fatta  di  40  case  che  biso- 
gnò distruggere  perciò  sopra  s.  Maria  del  Poggio  e 
s.  Giovanni  in  Chiocula  o  Zoccoli.  Lo  statuto  stesso 
dell'a.  1251  ne  parla  alla  rubrica  —  Qnod  mdlus  fa- 
cial  lurpitudinem  circa  monaslerium  dominarum  (  il 
monastero  oggi  detto  di  s.  Rosa),  dove  è  detto:  Sla- 
tuimus  quod  nidlus  audeat  lapides,  aut  ossa,  aut  ali- 
quid  aliud  prohicere  in  palalium  aut  domum  paupe- 
rum  dominarum,  et  de  monaslerio  Vilerbii,  nec  slare  ad 
canlandum  in  parte  illa  ubi  fuil  inceptum  palalium 
impcraloris,  aut  iuxta  fossalum  eie.  e  altrove  alla  ru- 
brica: Quod  omnia  casalina  quae  fuerimt  empia  ab 
imperatore  (Federico  11  pur  sempre)  deveniant  ad  com- 
mune.  —  Statuimus  quod  poleslas  ,  vicarius,  et  index 
eiiis  teneantur  iuramento  intra  primum  mensem  sui 
regiminis  ....  capere  et  apprehendere  possessionem  et 
tenutam  omnium  rerum  et  casalinorum  quae  nomine  im- 
pcraloris F.  (Friderici)  empia  fuerunl,  ci  deiincre  fa- 
cere  prò  communi,  ad  iilililulem  communilalis  etc.  —  La 
cosa  è  pertanto  certa,  come  io  diceva.  L'aula  fu  al- 
men  decretata,  e  cominciata  ad  erigere.  Ma  non  è 
ugualmente  certo  che  ve  ne  fosse  un'altra,  o  in  Vi- 
terbo ,  o  ne'  dintorni  ,  la  quale  meritasse  nome  di 
vclus  aula,  dopo  la  fabbricazione  della  nuova.  Potè 
però  esservi,  perchè  gl'imperadori  tedeschi,  non  sotto 
il  solo  Fcdei'ico  11,  od  anche  sotto  il  solo  1,  ebbe- 


270 

10  cagioni  di  posare  più  o  meno  stabilmente  il  piede 
nella  nostra  provincia.  Bisogna  anzi  dire,  che  se  vi 
fu,  era  già  chiamata  da  lungo  tempo  velus,  prima 
che  la  nuova,  da  noi  leste  ricordata,  sorgesse,  poi- 
ché cosila  troviam  detta  in  contratti  del  1179.  II 
nome  anzi,  fin  d'allora,  nelle  bocche  del  volgo  era 
già  alterato,  poiché,  se  in  un  documento  incontriamo 
velus  aula,  in  altri  più  antichi,  troviamo  già  invalso 
il  nome  di  Vclvalla,  siccome  nel  seguente  (Archivio 
di  s.  Angelo)  — A.  ab  incarnalione  dui  uri  lini  Chri- 
sliM.°C.  LX.  Temporibus  Frederici  im per aloris,  men- 
se novembri,  indiclione  Villi.  Constai  me  Cecum  (ilium 
quondam  lohaìmis  de  Velralla,  aslanlibus  el  consenlien- 
libus  tribus  filiabus  meis,  videlicet  Inglest,  Zartese  et 
\icina,  el  accedentibus  marilis  earum,  sciUcet  Slampa 
[olia,  Pelro  mago,  el  Gerardo  (ilio  quondam  Piuffl  Mel- 
liflue, nullo  cogente  imperio,  et  propria  el  spontanea  no- 
stra bona  vohmtate  vendidisse  quod  vendidimus  libi 
presbitero  Pelro  del  \alenaio  reclori  et  procuratori  al- 
que  priori  Sci  Angeli  de  Spala,  luisque  siiccessoribus, 
idest  in  inlegrum  unum  campum  qui  reiacel  in  loco  qui 
dicitur  Mal  varico  (Mal  varco)  el  habel  fìncs  et  acces- 
siones  ab  ima  parie  terram  el  intero  Manente  el  de  Ta- 
sca. A  secunda  slratam  velulam.  A  tertia  terram  he- 
redìiìn  Clarembaldi  el  terram  heredum  Piuffi  Melliflue. 
A  quarta  vero  terram  prcdicte  ecclesie  s.  Angeli  infra 
iam  dictos  (ìnes  de  ium  dieta  terra  eie.  .  .  .  et  recepi- 
mus  pretium  prò  hac  venditione  tredecim  libras  bono- 
rum  inforliatorum,  finilum  el  bene  completum  pretium 
etc.  Aclum  est  hoc  Vilerbi.  In  curia  s.  Arujeli  in  Spala. 
Signa  manuum.  Farulfus  lohannis  Manganerri  Tebal 
ducius  carne  de  capra.  Azzo  de  mannulo.  Aialfus.   Io- 


271 

hatmes  del  Valenaio.  Rainahlus  de  Tessennano.  Tebid- 
diicius  gamba  stidla.  Hi  omnes  rogali  sunt  tesles.  Et 
ego  lohannes  s.  romane  ecclesie  notarius  hanc  carlam 
scripsi  compievi.  —  Ma  pareva  esseivi  ad  un  tempo 
l'uso  coiroUo  e  plebeo  del  nome,  e  Fuso  regolare, 
come  in  quello  di  Viterbo  più  volte  bo  mostrato  es- 
sersi usate  promiscuamente  molte  varianti,  Velur- 
bim,  Vclurvinm,  Beterbon,  Dclerbum,  Vitcrhum,  Vctev- 
vurn,  Biternum  etc.  E  può  benissimo  essersi  formata 
la  denominazione  di  vclus  aula,  prima  della  forma- 
zione dell'  altra,  per  memoria  che  questa  era  una 
gloria  antica  del  luogo,  stata  un  tempo,  e  poi  non 
più.  Una  qualche  coi'te  vi  si  sarà  tenuta.  Non  si  po- 
trebbe egli  dire  per  es.  (;he  quivi  era  il  forum  impe- 
raloris ,  di  cui  favella  l'annalista  sassone  (nel  corpo 
degli  storici  del  medio  evo  pubblicati  dalFEccardo, 
t.  1,  col.  766)?  dove,  raccontando  de'tempi  d'Inno- 
cenzo Il  papa,  e  dell'a.  1137,  mentre  regnava  l'imp. 
Lotario,  e  spediva  contro  all'  antipapa  Anacleto,  o 
Pietro  di  Leone,  a  soccorso  del  vero  pontefice  ,  il 
duca  Arrigo,  dice  (Hcinricus)  ad  civitalem  Grosset 
(Grosseto)  iter  telendil....  in  ipsa  auiem  papam  hmo- 
nocenlium  dux  invenit,  quem  honorifice  suscipieus,  et 
cantra  adversarios,  potenler  per  civitales  circiimdiicensy 
venit  B ilerhiam  (Sìtevh.)  ciiius  maior  pars  Imìocenlio, 
firmior  aulem  favebal  Pelro  Leonis  (il  popolo  pel  pa- 
pa legittimo,  la  nobiltà  per  lo  spurio;  quello  ne'bor- 
ghi,  questa  nel  castello),  qid  el  prius  urbem  s.  Valeu- 
tini  adiacenlem,  el  forum  imperatoris  destriixeranl: 
qui  tandem  papae  monilis,  et  terrore  ducis  impidsi  se 
tradiderunl  cwn  tribus  millibus  talenlis;  ubi  et  dissensio 
magna  j'acla  est  inter  papam  et  ducem,  ilio  eandem  pe- 


272 

cuniam  ex  proprietate  mae  civilalis  vindicante  ,  isto 
vero  iure  belli  obtineìile.  Inde  venienles  Sulherem  (a 
Satri)  episcopum  Pelvi  Leonis  fautorem  deposuerunt. 
Questo  passo  io  Tlio  già  addotto  una  prima  volta 
neirAlbum  romano  (anno  XVII,  p.  205);  ma  credo 
si  possa  meglio  illustrarlo.  Qìiando,  come  riferisce 
Bertoldo  Costanziese  (Collez.deirUrstisio,t.  l,p.  311), 
Enrico  IV  drizzava  contro  Roma  bastìe  stabili  on- 
de oppugnarla  e  lasciarvi  truppe  a  svernare,  men- 
tr'ei  ritornava  a  passare  il  verno  in  Germania,  per 
poi  ripigliare  in  estate  la  guerra,  lo  stesso  metodo 
si  sa  che  usò  egli  contro  a  Viterbo,  al  dir  de'nostri 
cronisti  :  giacché  ad  effetto  di  bloccarne  il  caslriim 
del  colle  di  s.  Lorenzo,  non  men  quivi  a  rimpetto 
una  bastìa  fé'  costruire  (l'anno  1080  dicon  essi)  a 
s.  Sisto,  o  piuttosto  nel  luogo  di  s.  Maria  ad  gradus 
fino  alla  chiesa  del  detto  santo;  e  fu  la  bastìa,  cui 
nomò  Vegezia  dalla  fonte  di  Vigeto  che  vi  chiuse  den- 
tro (V.  Viterbo  e  il  suo  territorio,  p.  118  e  seg.).  È 
narrato  (  implicitamente  )  che  durò  quella  30  anni, 
poiché  è  detto  che  non  potè  esser  distrutta,  se  non 
quando  Enrico  V  devastò  Arezzo,  ciocché  si  sa  che 
accadde  Ta.  1110.  Certo,  in  sì  lungo  periodo  di  tem- 
po i  fati  della  bastìa  saranno  stati  vari  ;  comechè 
a  noi  sconosciuti;  e  la  guerra  a  piìi  riprese  dev'es- 
sere stata  gagliarda.  Nel  1095,  a  tutela  de'borghi 
troppo  esposti,  gli  abitatori  del  caslrum  dovettero  , 
suU'altrove  ricordato  Piano  di  s.  Faustino,  fabbrica- 
re essi  pure  un  antemurale,  cioè  un'altra  bastìa  che 
denominarono  Castel  di  s.  Angelo,  e  circondar  di  mura 
anche  i  borghi,  dove  con  varia  sorte  ebbero  spesso 
lotte  or  con  imperiali,  or  con  romani,  or  con   en- 


273 

trami)!.  Narro  cose  note  nella  stoiia  del  mio  paese. 
Circa  100  anni  dopo,  cioè  Ta.  1172  a  95,  perdet- 
tero contro  a'  tedeschi  questa  seconda  bastìa,  tolta 
loro  a  forza  ;  e  fu  rotta  che  costò  alla  città  gran 
moneta  di  riscatto.  Nò  piima  del  1208  potei'ono 
racchiudere  entro  la  cinta  co'borghi  tutto  anche  il 
plano  di  s.  Faustino,  come  altrove  raccontammo,  e 
per  conseguente  il  caste!  di  s.  Angelo,  nel  quale,  da 
che  chlamaronlo  allora  il  palazzo  degli  alemanni,  ben 
è  forza  dire  che  grimperiali  stessero  a  lungo. 

Ora  è  chiaro  che  in  tutto  il  qui  indicato  perio- 
do di  tempo  ,  non  radaiiiente  Enrico  IV  ed  il  V 
dovettei'O  presso  a  Viterbo  stanziare  colle  truppe  loro. 
Ho  in  prova  di  ciò  pubblicato  nell'  Album  (t.  cit. 
p.  199)  un  solenne  giudicato  del  1°  dei  due  impe- 
radori  mentovati,  dato  presenzialmente  a  favor  dei 
farfensi  in  quella  che  l'annalista  sassone  chiama  la 
civilas  s.  Valentini,  e  ne'documenti  nostrali  è  detta  bur- 
gus  s-  Vulentini,  già  posto  al  di  sopra  dell'  odierno 
edifizio  de'bagni,  e  distrutto,  com'esso  annahsta  sog- 
giunge, prima  dell'a.  1137,  e  secondo  ch'io  conget- 
turo appunto  nell'a.  1110,  o  non  molto  dopo,  cioè 
quando  que'da  Viterbo  pur  distrussero  la  bastìa  Vege- 
zia.  Oh  qual  maraviglia  dunque,  se  di  que' tempi,  furon 
soliti  i  detti  imperatori  di  scer  ne'luoghi  prossimi  a 
quel  teatro  di  guerre  uno  speciale  luogo  per  tem- 
poranea stanza  ? 

E  par  che  lo  scegliessero  in  realtà,  poiché  il  ci- 
tato annalista  non  ricorda  solo  il  biirgìis  s.  Valentini, 
da  lui  magnificato  col  nome  di  città,  ma  ,  distinto 
da  esso,  nomina  ancora  Forum  imperatoris,  al  quale 
di  certo  gratuitamente  non  sarà  stata  imposta  una 
G.A.T.CXXXIV.  18 


274 

tal  denominazione.  E  dov'  era  questo  Forum  ?  Per 
fermo,  assai  vicino  a  Viterbo  e  alla  civitas  s.  Valeniini. 
Probabiimenle  sulla  gran  via  cassia,  che  era  la  via 
delle  armate.  Or  su  questa  via,  con  quelle  condi- 
zioni, non  v'era  luogo  pili  opportuno  del  Forum  Cas- 
sii.  Dunque  si  sarà  esso  nomato  (appunto  dalla  tem- 
poranea residenza  dell'imperatore)  col  nome  che  di- 
cemmo. E  perchè  il  Forum  Cassii  non  era  troppo 
una  posizione  strategica,  si  sarà  un  po'mosso  di  luo- 
go, e  si  sarà  allora  trasportato  a  Vetralla  pochissi- 
mo discosta  ;  ossia  Vetralla  si  sarà  fondata  con  quel 
primo  suo  nome.  Poi,  distrutta,  in  un  col  borgo  di 
s.  Valentino,  da' viterbesi  tra  il  1110  e  il  1137,  il 
nome  di  Forum  imperatoris  sarà  perito  con  lei  nel- 
l'uso de'vicini,  e  restata  nondimeno  la  memoria  del- 
la imperiai  residenza ,  si  sarà  cominciata  a  dirla 
vctus  aula  o  veter  aula  da'  più  instrutti,  e  Vetralla 
dal  volgo  (in  una  età,  nella  quale  quasi  tutti  eran 
volgo),  che  avrà  nella  comun  consuetudine  abolito 
presto  l'altro  nome.  Sopra  siffatta  opinione  pertanto 
mi  fermo,  sinché  un  documento  non  mi  cada  sot- 
t'occhio,  antecedente  al  Interzo  del  secolo  Xll,  dove 
Vetralla  in  tutte  lettere  sia  detto  il  luogo  ;  docu- 
mento che  confesso  di  non  avere  insino  ad  ^ra  in- 
contrato (1). 

(1)  Luigi  Serafini  ,  nella  sua  detraila  antica  (Viterbo  1648)  , 
libro  servilmente  anniano,  che  dà  per  etiinologie  Veterum  aula,  o 
yeter  GaMa  (.'),  riferisce,  copiando  il  Baronio,  un  breve  d'Eugenio  III 
(a.  H43)  ,  datum  FetraUae  (p.  47).  Ma  questo  è  piti  recente  pur 
sempre  della  distruzione  di  Forum  imperatoris.  Così  la  pergamena 
del  1146  presso  il  Muratori  Ant.  med.  aevi,  t.  2,  col.  559 — 60,  che 
ha:  Cerlum  est  me  Girardum  comilem  de  FetraUa;  e  l'altra  (1147) 
.Sj'i^iia  manuum  SenebaUi  fìuberti  fiiii,  et  vicecomitis  Vetrallae. 


275 

Ma  inHipendeiiteinente  da  tutto  questo,  e  s'ac- 
cetti 0  non  s'accetti  la  validità  del  precedente  mio 
ragionare,  a  me  poi  basta  che  la  stazione  velus  aula 
d'Agostino  priore,  qual  ei  s'intitolò,  sia  indicala  da 
un  nome  che  non  è  inventato  dal  compilatore  del 
qui  disputato  itinei-ario,  perchè  io,  lungi  dal  trarne 
argomento  di  falsità,  rispetto  almeno  al  viaggio,  ne 
tragga  invece  una  conferma  dell'antica  realtà  della 
denominazione  che  l'itinerario  ci  offre. 

Sarà  adesso  da  vedere  che  cosa  abbia  a  dirsi  di 
quel  che  la  leggenda  aggiunge  della  fermata  ad  lem- 
plum  B.  Vicloriae  in  via  jmblica:  rispetto  a  che  può 
eccitare  forte  sospetto  d'impostura  agl'ipercritici  l'in- 
dica/ìone  di  questo  tempio,  del  quale  non  è  restata 
memoria  nel  paese,  come  ho  imimrato  dall'egregio 
sig.  Giuseppe  Tirasacchi,  interrogato  a  quest'  uopo 
per  lettera;  conìechè  sia  detto  Basilica,  e  specificato 
che  il  giorno  della  sua  consacrazione  fu  dies ,  quo 
beali  Marci  pp.y  ss.  Sergii  et  Bacchi  solemnitas  cele- 
bratur  ;  e  che  il  romeo  Agostino  vi  lasciò  de  re- 
liqiiiis  b.  Margaritae,  unius  scilicel  coslae  pariiculaìn; 
e  finalmente  che,  ad  laudem  omnipolentis  Dei  ,  sub 
inchjto  Virginis  nomine  ibidem  altare  erectum  est:  par- 
ticolarità perdute  oggi  nel  ricordare  degli  uomini. 
Ma  tutte  queste  ,  per  chi  ben  consideri ,  non  sono 
difficoltà  d'alcun  momento. 

Ritenuto  che  lo  scrittore  ultimo  dell'  itineraiio 
compilasse  la  sua  leggenda  verso  i  tempi  che  ho 
supposto,  raffazzonando  però  a  suo  modo  memorie  più 
antiche  ancora,  non  può  far  maraviglia  la  perdita  e 
la  dimenticanza  di  notizie  così  fatte.  Vetralla  era  stata 
allora  distrutta  e  disertata  più  volte-   Lasciamo  stare 


276 

la  rovina  del  secolo  XII.  Leggiamo  nelle    cronache 
viterbesi,  ch'essa  si  ripetè  Va.  1189  (Bussi  p.  101). 
Una  IH  devastazione  l'ebbe  nel  1379  (Bussi  p.  213). 
Una  IV  Ta.   14-32  (De  la    Tuccia,  Cronaca  de' prin- 
cipali fatti  d'Italia,  da  me  edita,  p.  22)....   Chi  dun- 
que si  stupiià,  se  la  chiesa  suburbana,  in  onor   di 
s.  Vittoria,  posta  sulla  via  consolare, di  buon'ora  cessò 
d'esistere  ?  Non  v'è  forse  mala  consuetudine  di  ciò  ? 
0  non  ho  io  stesso  stampato,  da  una  relazione  con- 
temporanea  dell'assedio  di  Viterbo  per  Federico  II, 
Quidam....  timore  ac  reveremia  divina  calcatis  ,   non 
solnm  imagines  crucifixi ,  verum  el  beatae  virginis  , 
et  sanctonim^  quas  domo  ìeprosorum^  et  ruralibns  ec- 
clesiis  absttderunt,  sibi  prò  scutis  aptatas  (eran  su  ta- 
vole secondo  l'uso  di  quelle  età)  impudenier   sagil- 
tarum  ictibns  opponebant  (Giorn.  Arcad.  t.CXX,  p.  83)? 
E  senza  allargarmi  in  esempi  piìi  concludenti  anco- 
ra, alcuni  de'quali,  purtroppo,  di  questo  secolo  in  cui 
viviamo,  dove  or  sono,  per  parlar  pur  solo  di  Vi- 
terbo, le  antiche  chiese  di  s.  Sentia,  di  s.  Mariano, 
di  s.  Nicolò  delle  Vascella,  di  s.  Pietro  della  rocca, 
di    s.  Stefano   ecc.  ecc.  ?  Il  Serafini  nella   Vctralla 
antica  (p.  79)  ricorda  17  chiese  vetrallesi  diroccate 
fin  dal  suo  tempo,  una  delle    quali   d'ignoto  titolo, 
nel  giardino  della  rocca;   né  penso  abbia  avuto    la 
pretensione  d'  averle  numerate  tutte.   Numerò    solo 
quelle  di  cui  s'era  potuto  procacciare  notizia.  Intanto 
egli  mentova  ne!  suo  libro  (pag.  84),  favellando  della 
chiesa  parrocchiale  di  s.  Giovanni  evangelista,  giu- 
dicata da   esso   la  più    antica  la    qual   fosse   al  suo 
tempo  dentro  Vetralla,  tra  24  reliquie  de' santi  che 
formano  il  principal   pregio  di  quel  sacro   tempio  , 


277 
per  prima  quella  di  s.    Margherita  ;  o  ciò  eh'  è  piii 
notabile,  una  seconda  ne  nota  (p.  81)  neiraltra  chie- 
sa de'  ss.  Giacomo  e  Filippo.  Solo  in  nessuna  parte 
park  0   di  reliquie,  o  d'altari  di  s.  Vittoria:  ciocché 
però,  dopo  le  cose  esposte,  non  può  risguardarsi  co- 
me impedimento  grave  all'accordar  fede,  in  sì  fat- 
to particolare,  al  relatore  del  viaggio  del  nostro  pel- 
legrino. 11  quale,  se  basilica  chiama  la  chiesa,  ciò  fa 
a  ragion  veduta,  perchè,  di  quella  età.  basilica  s'usa- 
va in  senso  di  chiesa  ufficiata  da'monaci:  e  così  do- 
veva essere,  se  potè  Agostino  trovarvi  ricovero  es- 
sendo infermo,  in  una   co'suoi  (V.  il  Glossario  a  que- 
sta voce)  ;  o  perchè    inoltre  le  chiese  dicevansi   da 
alcuni  basiliche  prima  della  lor  consacrazione,  e  ap- 
punto nel  caso  nostro  a  questo  modo    lo    scrittore 
usa  un  tal  vocabolo,   come  lo  sì  impara  dal  testo. 

È  omai  non  più  di  Vetralla  e  di  ciò  che  le  spetta. 
Ripigliando  la  narrazione.  Io  scrittore  della  medesi- 
ma, dice:  Die  vero  posterà  ad  monlem  Liicae  profecti 
sunt  (i  tre  viaggiatori)  ad  aedem  ss.  ,  videlicet  Mariae, 
et  B.  Candidae,  ubi  prior  donavit  optimum  pallium  et 
diias  sindones.  E  qui  l'annotator  bollandista  esclama: 
montem  Liicae,  sub  isto  nomine^  non  invenio;  ciocche, 
essendo  la  confessione  d'un  fatto,  non  mi  dà  luogo 
ad  alcuna  risposta  che  lui  riguardi.  Ben  dico,  che  se 
l'annotator  bollandista  non  invenil,  posso  io  farglielo 
ritrovare. 

Certo,  qualche  tempo  fa,  nemmen  io  avrei  sa- 
puto ritrovarlo,  perchè  i  miei  viterbesi  o  i  monte- 
fiasconesi  nemmen  essi  invenerunt;  ma  cercando  in 
ispezie  l'archivio  di  s.  Sisto,  vi  ho  trovato  la  scienza 
che  a  me  e  agli  altri  mancava,  ed  ho  così  imparato 


278 
un  incognilo  castello  di  più  del  viterbese  territorio, 
che  verso  Montefiascone,  sulla  cassia   antica,  forma- 
vagli  confuiei  e  ciò  si  parrà  a  chi  legga  i  documenti 
che  qui  seguono. 

a.  n".  3  —  In  nomine  dni  nostri  I.  Ch.  Anno 
ab  incarnatione  eius  M.  C.  LVIl  indict.  V  mense  madii 
dies  YIII.  Tejnporib.  domni  Adriani  IIII  pp.  Ego  qui- 
dem  Calvulus  et  Contraria  coniux  mea  propria  et 
spontanea  voluntate  nostra  yendimus  libi  Pepo  ar- 
chipresbiter  sci  Sixti  et  tradimus  et  in  ius  ecclesie 
sci  Sixti  inrevocabiliter  transferimus  omnia  que  fue- 
runt  de  Azo  Guarnolfì  in  castro  Luco,  sive  in  ipso 
Castro,  sive  extra  ipsum  Castrum,  omnia  quecumque 
pertinent  ad  territorium  ipsius  Castri  que  iam  su- 
pradicto  Azo  fuerunt  cum  omnib.  suis  accessionib. 
et  utilitatib.  et  hec  omnia  ut  iam  dictum  est  ven- 
didimus  et  tradidimus  prò  pretio  XLV  solidorum  lu- 
censium  quod  nobis  solutum  est ,  et  quia  res  iste 
plus  valent,  ideo  superfluum  prò  redemptione  ani- 
marum  nostrarum  pietatis  intuitu  ecclesie  iam  diete 
donamus  et  penam  dupli  promittimus  etc.  Signum 
i^  ^  ^  ^  manus  supradictor.  venditorum  qui  anc 
cartulam  scribere  rogaverunt.  Sig.  ^  ^  )$(  >$^  mfi- 
nus  Amidei,  Gisleri  medici  et  Nicole  lohannis  Ildizi, 
et  Litolfi  fdii  Saraceni,  qui  duo  sunt  parentes  mu- 
lieris  ante  quos  facti  sunt  isti  contractus,  i  tres  ro- 
gati sunt  lestcs.  Et  ego  Gislerius  sacri  palatii  no- 
tarius  anc  cartulam  scripsi  adque  compievi. 

b.  n\  4.  In  noni,  dni  nri  I.  Ch.  A.  ab  incarnai, 
eius  M.  C.  LVIII.  Indict.  IIII  (  1.  VI  )  mense  martii 
dies  XVII.  Temporib.  domni  Adriani  IIII  pp.  Ego 
Bulgai;ellu  comite  de  Salci  prò  redemptione    anime 


à 


279 

mee  et  otnnium  parenditn  meorum  ecclesìe  sci  Sixli 
dono  concedo  et  irievocabiliter  trado  tibi  Peponi 
ampministratori  eius  ecclesie  videlicet  fundam  qui  re- 
iacere  videtur  illoco  qui  dicitur  Castangeta  territorio 
de  Castì-o  Luci,  et  abet  fìnes  a  primo  latere  teria 
contile  ,  a  secundo  latere  terra  sci  Sixti  cum  suis 
consortes,  a  tertio  latere  strada,  a  quarto  latere  via 
publica,  quod  si  ego  vel  mei  heredes  etc.  Sign.  )^ 
manus  Bulgarellu  qui  anc  cart.  scribere  rogavit.  Sig. 
^  ^  ^  ^  manus  Guarneri  Tediscu,  Nicolo  Man- 
cinus  ,  Berizo  de  Castro  Viterbi  i  tres  rogati  sunt 
testes.  Et  ego  Gislerius  etc. 

e.  n°.  7.  In  nom.  dni  nri  I.  Ch.  a.  incarnat.  ejus 
M.  C  LXXI.  Temporib.  domni  Calixti  tertii  pp.  et 
dorani  Federici  romanor.  imp.  aug.  mense  apr.  die 
quarta,  indict.  quarta.  Ego  Petrus  de  Ferenti  pro- 
pria et  mea  bona  voluntate  vendo  et  corporaliter 
trado  tibi  domne  Pepo  archipresbiter  sci  Six.ti  et 
prò  te  ipsi  ecclesie  in  perpetuum  videlicet  unum 
petium  terre  positum  in  loco  qui  dicitur  Luctis  et 
habet  affines  a  primo  latere  terram  santi  Sixti.  A 
secundo  terram  quam  Malapresa  et  Vurdulus  habent 
communem  cum  sco  Sixto.  A  tertio  terram  Petri  de 
Tinioso  et  Veraldncci.  A  quarta  vero  terram  Vual- 
fredi.  Pro  qua  venditione  accepi.  .  .  .  nomine  pretii 
tres  soldos  etc.  )^  Sign.  man.  Petri  cart.  huius 
rogatoris.  )^  Signa  testium  )J(  Magister  Guittone 
rogatus  testis  >^  Leo  de  Anda  in  nocte  rog.  te- 
stis.  )^  lohannes  Lercius  rog.  t.  Et  ego  lohannes 
de  Casamala,  causidicus  sacri  palatii  et  viterbiensiuirf 
iudex  et  notarius  rogatus.  Hanc  cart.  scripsi  atq, 
compievi. 


280 

(1.  n".  8.  Ili  n.  dni  mi  l.  Ch.  A.  incarnai,  eius 
M.  C.  LXXII.  Tenipoiib.  doinni  Freder.  roinanoium 
impeiat.  aug.  mense  mari,  die  XXIII.  Ind.  octava 
[o  corr.  F,  o  ranno  sia  1175).  Ego  Ursus  propria  et 
bona  voluntate  tiado  etc.  vobis  domne  Pepo  etc... 
duas  petias  terrar.  cum  intioitib.  et  exitib.  ear.  po- 
sitas  in  pertinentia  civitalis  Yiterbii  in  loco  qui  di- 
citnr  LucuSy  et  una  petia  fuil  quondam  Walfredi,  et 
habet  afflnes  terram  sci  Sixti,  et  a  secando  similiter, 
et  a  tertio  teiram  Gisofi.  A  quarto  viam  et  teri-ain 
filior.  lohannis  de  Kiia  et  terram  de  Donadeo.  Pro 
qua  venditione  accepi ,  a  vobis  nomine  pretii  duos 
raserios  grani  et  duodecim  soldos  lucenses  quos  re- 
puto michi  et  quos  habuit  Vualfredus  et  quos  sibi 
dedisti  prò  pignore  etc.  )^  Sign.  m.  Ursi  cart.  hu- 
ius  rogatoris.  >J(  Sìgna  testium  )^  lohannes  abbas 
rogatus  testis.  )J(  Guittone  Pettius  rog.  t.  )^  Ra- 
pitus  rog.  t.  )^  ego  lohes  de  Casamala  etc. 

e.  n°.  10.  In  n.  dni  amen.  A.  incarnationis  eius 
M.  C.  LXXIIII.  Temporib.  domni  Fred.  rom.  imper. 
aug.  mense  ianuarii  die  vicesimaquinta  ind.  VII.  Ego 
nomine  concambii  do  et  trando  tibi  domne  Petre 
custos  et  rector  et  frater  hospitalarius  lerusalem  et 
Christi  pauperum  tuiens  (  sic  )  ecclesie  sci  lohannis 
de  SCO  Yictore ,  et  per  te  ipsum  ecclesie  cui  Deo 
actore  preesse  dignosceris  tuisque  successoribus  in 
perpetuum,  videlicet  parlem  silve  de  Rotella,  et  pla- 
giam  super  ortum  ,  et  portiunculam  extremam  de 
orto  cum  terra  in  qua  est  nux,  et  terram  que  est 
ante  molendinum,  et  terram  de  Gavone  Guarnaldi, 
et.  .  .  .  et  plagiam  et  cavonem  super  molendina,  et 
vallem  et  plagiam  de  clusis  regis,  et.  .  .  .  vas  (f.  sii- 


281 

vas)  Curelli,  et  planum  quo  itur  ari  vaduiii  Marroki, 
et  duos  canapules....  et  alitici  canapule  in  Hialo,  et 
alium  petium  terre  de  Petreta,  et  duo....  (f.  petia) 
terre  minima,  unum  ex  una  parte  fossati,  et  alterum 
G\  alia  ante...  iusta  ecclesiam  dirutam  sancte  Lucie, 
et  aliud  petium  terre  in  ...  .  le  (f.  valle)  de  super 
vadum  ceci,  et  aliud  petium  terre  in  cavone  den.... 
iuris  habemus  in  vinca  sci  lohannis  ex  donatione 
Rustikelli  de  viv.  .  .  .  prò  eo  quod  eodem  nomine 
concambii    accepi   a   te    donine  Petre   terram   posi- 

tam    post tem    (  f.   montem  )    de    Luco ,    bis 

fìnibus  conclusam.  A  primo  latere  terram  de  casa 
Pini,  et  rechta  linea  ducitur  per  Carrariam  antiquam 
que  quondam  ibat  ad  casain  de  Pina,  et  transit  viam 
de  burgo  et  montis  Flasconis  ,  et  producitur  iusta 
vallem  et  circa  limitum  [pare  scruto  linuUem)  et  mur- 
ram.  Primus  terminus  positus  de  communi  volun- 
tate  nostra  ostendit  et  ducit  ad  alium  terminum  a 
nobis  positum  circa  viam  de  burgo,  et  rederam  que 
vadit  ad  agros  vicinales  et  postea  protenditur  usque 
ad  terram  sci  lohannis  et  fossatum  quod  reducit 
usque  ad  predictam  terram  sci  lohannis  et  fossatum 
quod  reducit  usque  ad  predictam  terram  de  casa  Pini, 
et  ego  Petrus  eodem  nomine  dono  et  trado  tibi  domne 
Pepo  et  est  terram  predictain,  prò  eo  quod  accepi  a 
te,  et  contra  (è  scritto  e  con  linea  sopra),  pena  unius 
libre  auri  alteri  ab  altero  promissa 

mediante  duo  Petro  priore  sci  Angeli  de 
Spala.  Ilec  acta  sunt  Viterbii  ante  Ecclesiam  sci 
Blasii,  in  prescntia  testium  quorum  nomina  inferius 
scripta  sunt.  Nicolaus  Mancinus  et  Manente  de  Ca- 
lia. Petrus  de  Munaldo  et  Petrus  Magus,  et  lohannes 


282 
de  Tlnioso,  et  Lambertus  de  Biiccalacia,  et  Hcnii- 
cus  magister.   Rogati  sunt  testes.    Et  ego  Johannes 
de  Casamala  etc. 

f.  n".  17.  In  n.  dni  I.  Ch.  A.  ab  incarnat.  eius 
M.  C.  nonagesimo  primo.  Temporib.  dornni  Celestini 
III  pp.  et  domni  Henn'ci  lotnanor.  imp.  aug.  mense 
madii.  Ind.  IX  die  secunda  intrante.  Constai  me  Leu- 
lum  de  Parmisana  libera  mea  voluntate  permutasse.... 
tìbi  Orso  de  Leo  Vicano,  idest  in  integrum  unum 
petium  terre  que  leiacet  ad  trestum  de  Luco,  et  ha- 
bet  fìnes  ab  una  parte  stradella.  A  secunda  terram 
Pctri  de  Melo  ,  et  a  tertia  terram  de  Marco  ,  et  a 
quarta  vero  terram  Petri  de  Melo  et  Urso,  infra  iam 
dictos  tìnes  de  iam  dieta  permutatione,  et  cambium 
et  designata  loca  cum  omnibus  utilitatibus  et  acces- 
sìonìb.  eius  in  integrum  et  in  transactum  permutavi 
et  cambiavi  tibi  Urso  predictam  terram.  Unde  re- 
cepì in  cambium,  nomine  permutationis,  a  te  unum 
petium  terre  que  reiacet  in  loco  qui  dicitur  roveta 
et  sambuc,  {con  linea  sopra  e,  forse  sambiiceta),  et 
habet  fìnes  a  duabus  partibus  terram  predicti  Leuli, 
et  a  duabus  partib  terram  Bonifatii  et  insup.  recepì 
a  le  Urso  novem  libras  et  dimidiam  de  senensib.  etc. 
Actum  est  hoc  ante  pomice  (pontice  sono  nel  lin- 
guaggio viterbese  di  quella  età  le  botteghe,  e  anche  nel' 
Vitaliano  che  poi  nacque).  Offreducii  de  Turdo.  Unde 
sunt  testes  Gismundus  de  Leo  Vicano,  et  lohannes 
de  Gemino,  et  Cresci  de  Rustico,  et  Offreducius  de 
Turdo.  Hii  omnes  rogati  sunt  testes.  Ego  Gregorius 
domni  imperatoris  notarius  rogatus  hanc  cartam  scri- 
psi  et  bene  compievi. 


283 

g.  II».  148.  In  I!.  (Ini.  Am.  A.  (Ini  M.  ecc.  XLIH. 
Temporib.  domni  Clementis  pp.  sexti.  Ind.  XI.  Ven. 
vii'  domnus  Petrus  ai'chipvesb.  regularis  ecclesie  sci 
Sisti  de  Vit...  locavit...  Tucio  Caselle  de  Montefla- 
scone  et  contrata  s.  Maigai'ite...  quendam  campum 
ipsius  ecclesie  qui  dici  tur  Campus  Mazole  positus  in 
tenimento  Vit.  in  pede  montis  Luci  iuxta  rem  ecclesie 
sanctor.  lohis  et  Yictoris  iuxta  fossatum  et  alios  suos 
confines  etc.  —  (  Il  notaio  è  Petrus  Longarulii  de 
Vit.) 

h.  In  un  inventario  dell'archivio  comunale  dell'a. 
1404  intitolato  Vineae  hospitalium  —  Item  quidam 
campus  positus  in  dicto  tenimento  (Vit.),  in  contrata 
Tresti  montis  diuchi  iuxta  stratellam,  iuxta  rem  ec- 
clesiae  sce  Trinit.  de  Vit.  iuxta  rem  ecclesie  s.  Sixti 
viterbien.  a  duabus   partib.  et  alios  suos  confines. 

i.  Nello  stesso  archivio  e  dello  stesso  anno.  In- 
ventario italiano.  Treslo  del  monte  di  luco. 

k.  In  un  inventario  anteriore  (ivi),  che  comincia 
così:  lìiventarium  honorum  hospitalium  discipline  et 
caritalis  factum  editum  et  compositum  tempore  recto- 
rie  providi  et  discreti  viri  ser  Nicolai  Francisci  de  Vi- 
terbio  rectoris  dictor.  hospitalium,  sub  anno  domini 
M.  ecc.  LXXVIII.  Ind.  1.  etc...  Item  quidam  cam- 
pus... in  contrata  Tresti  montis  diuchi  super  stratcllam. 

Ivi;  parte  italiana. 

1.  Nella  contrada  ilei  Tresto  di  monte  di  luco.  Uno 
campo  comprato  nella  detta  contrada  allato  alle  case 
della  Trinitade  e  di  sancto  Sisto  dalle  due  parti  di  sotto 
e  di  sopra  alle  stradelle  e  altri  suoi  confini,  la  quale  fu 
di  Leuzo  di  lazzo  Volto. 


284 

m.  Ncirai'chivio  di  s.  Angelo,  secolo  XI,  alto  di 
donazione  num.  3  (an.  1088):  segnato  fra'  testimoni 
Biterbo  Pe.'ru  di  Lucii. 

n.  Nello  stesso  archivio  e  dello  stesso  secolo.  In 
pergamena  originale,  o  certamente  coeva.  -  In  n.  sce 
et  indiv.  Trinitatis.  anni  av  incarnai,  dni  nri  I.  Ch. 
oc  sut  milles  octiiag.  quarto  lemporib.  domni  Gre- 
gorio summo  ponlifice  et  universali  seplimo  pp.  sede 
pontifìcatum.  in  anno  undecimo  in  mense  apli  ind. 
septima.  Conslam  ego  Atto  qui  vocatur  de  parata  (f. 
de  Parlata,  cioè  cVun  borgo  nella  valle  di  m.  Fiascone^ 
donde  a  quel  che  pare  essa  valle  tolse  il  nome  di 
Valle  Parlata),  et  Bona  uxorem  meam  et  Berta  filiastra 
mea  et  Alia  de  dieta  Bona  et  Lambertu  fìliastro  meo 
qui  est  germana  de  dieta  Berta,  et  sumus  avitalori 
in  castello  qui  vocatur  Chea  (f.  Ghia)  livera  potestate 
vendidisse  quod  et  vindedimus  nos  unanimiter  iasi- 
mul  ad  te  lohannes  vener.  presb.  qui  vocatur  de 
presbr.  Silvester  et  a  Guiltone  filius  Inmo  de  Franco 
qui  sitis  avitalori  in  castello  qui  vocatur  Corvianu. 
Idest  in  integrum  medietale  nra  de  ipsa  casa  (  ipsa 
qui,  come  spesso  nelle  pergamene  farfensi,  tien  luogo 
d'illa,  cioè  dell'articolo  italiano  la)  que  reiacere  esse 
videtur  dieta  casa  in  burgu  de  Caslio  Viterbu  (di- 
slingue il  borgo  dal  Castrum)  prope  ecclesie  sia  Cru- 
ce  [alla  imboccatura  della  piazza  del  seminario),  et 
habet  finis  dieta  casa  da  una  parte  casa  de  Guinizzo 
filius  Gualfridu  et  de  alia  parte  casalinu  de  Guinizzo 
fìlius  Azzo  filius  Gualfridu  ,  et  de  lerzia  parte  casa 
de  Pincu  magistru,  et  da  quarta  vero  parte  via  pu- 
blica,  simililer  et  vendimus  vobis  dicti  emtori  nostri 
medietale  nostra  de  unu  peliu  de  vinca  que  reiacere 


285 
esse  vidctur  dieta  vinca  in  casale  qui  voeatuf  Campu 
Forastieu  territorio  biterbense  et  abe  finis  dieta  vi- 
nca tota  da  una  parte  vinea  de  lohannes  fìlius  Gual- 
fridu  et  de  Rollandu  de  Ricica  et  de  lohannes  de  Fran- 
co et  de  Biterbo  de  Petrus  de  Liicii,  et  da  duabus 
partibus  vinea  de  Rollandu  de  Ricica  et  de  Carbone 
fraler  eius  et  da  quarta  vero  parte  vinea  de  chiede 
de  Orso  fìlius  Radolfo  et  de  ehrede  Leuzo  de  Rol- 
landu Martellu  infra  diete  fini  dieta  casa  et  vinea  et 
de  designate  loca  una  cum  omnia  super  se  et  infra 
se  abente....  unde  reecpinius  pretium  nos  dicti  ven- 
ditori et  venditrici  da  vos  dicti  emtori  nostri  prò 
dieta  nostra  vendit.  de  argentum  in  meritum  usque 
in  solidos  viginti  et  quinque  finitum  prezium  etc. 

Actum  Biterbu  )^  Sig.  in.  Adto  et  Bona  et  Lam- 
bertu  et  Berta  qui  anc  cha  sìcut  sup.  legitur  q.  seri- 
bere  rogaver.  )>^  Sig.  nianu  Guido  de  lohanne  de 
Franco  et  lohanne  fìlius  paganu  et  nepote  de  dictu 
Guido  et  Guido  de  Guinizzo  de  Rollandu  Martellu  toti 
rogati  sut  testes  -  Ego  Opizo  iudex  et  notarius  qui 
anc  cha  scripsit  et  conplevit  et  absolvit. 

0.  Per  ultimo,  nell'archivio  comunale  pur  sem- 
pre, e  in  un  libro  di  ricordi  della  estinta  casa  Car- 
dclli,  secolo  XYI.  Tenimento  di  Viterbo  contrada  di 
Monte  de  lugho. 

Ora  in  tutti  questi  documenti  (  forse  troppi  )  io 
richiamo  l'attenzione  di  chi  legge  sopra  più  cose;  e 
prima  sul  luogo  principale  ivi  mentovato  che  è  La- 
cus  (e,  d,  m,  n),  mons  Luci  (e),  pes  rnontis  Luci  (g), 
Caslrum  Luci  e  lerrilorium  ipsius  castri  (a)  Castan- 
(jeta  (il  castagneto)  territorio  de  castro  Luci  (b),  Tì'c- 
slum  de  Luco  (f  ),  contrata  Trcsti  inoutis  Diuchi  (h,  k). 


286 
Trcslo  de  monte  di  luco  (i),  Treslo  di  monte  Diuco  (1), 
contrada  di  monte  di  luglio  (o):  donde  è  chiaro  impa- 
rarsi che  v'  ebbe  un  Castrum  Luci  nel  viterbese,  e 
quindi  un  mons  Luci ,  lo  stesso  evidentemente  che 
il  mons  Lucae,  a  cui  si  dice  giunto  in  una  piccola 
giornata  da  infei-mo  il  priore  partito  di  Vetralla. 

Questo    Castrum  doveva    evidentementa  trovarsi 
sulla  grande  strada  che  conduce  a  Monteiìascone,  anzi 
alla  valle  Palata  o  Parlata,  che  è  la  valle  di  Monle- 
fiascone  in  riva  al  lago  (e,  etc.)  ;  e  si  vede  che  in 
progresso  di  tempo  il  nome  Lucus  cangiossi  in  lucm, 
o  luco  o  Iago  (h,  i,  k,  1,  o).    Infatti,  colle  qui  dette 
condizioni ,  ancor    oggi    è  al  confine    del    territorio 
montefìasconese  verso  Viterbo,  imminente  all'antica 
Cassia,  il  monte  Iago.  E  vi  son  salito  ed    ho  veduto 
ancora  superstiti  quivi  gli  avanzi  della  rocca.  Dun- 
que il  mons  Luci  o  Lucae,  il  Castrum  etc.  sono  ornai 
ritrovati,  né  su  ciò  può  piìi  nascere  controversia.  Ivi 
era  il  Trestum  montis  d'Iuchi,  o  de  Luco,  ciocché  dal 
Glossario  (che  non  lo  registra)  s'impara  di  leggieri  si- 
gnificare un  luogo  di  pedagio,  detto  per  solito  transi- 
torium,  transitum,   transitus,    trastura,   treslura   (V.)  ; 
e  sta  bene,  il  castello  dominando  appunto  la  via  prin- 
cipale che  vi  si  biforca  ancor  oggi  per  dirigersi  o  a 
Monlefiascone,  dalla  parte  di  monte    Arminio,  {\ivo- 
babilmente  mons  Armine),  o  verso  l'antico  monistero 
de'  ss.  Giovanni  e  Vittore  in  selva,  cioè  verso  la  oggi 
detta  Commenda:  cosicché  bassi  a  credere  che  vi  si 
riscotesse  in  antico  un  diritto,  a  che  forse  allude  la 
plagia  de  Clusis  regis   (e),  fin  da'  tempi    longobardi, 
cioè  delle  Chiuse  del  re:  supponendo  due  chiuse  sta- 
bilite nella    parte  acclive  ,  sulle  due  strade  poco  fa 


287 
mentovate,  ove  i  viandanti  pagavano  per  andar  ol- 
tre. Nò  ho  bisogno  di  spiegare  la  lerra  contile,  così 
detta  dal  conte  di  cui  era  ,  ne  il  vadum  Marroki , 
cioè  delle  Marruche  o  delle  Spine,  e  Roveta  e  Sambìi- 
ceta,  denominate  dai  rovi  e  dai  sambuchi;  né  Bede- 
ra  (pur  mancante  al  Glossario)  che  vale  stradello 
di  ritoino  a   redeundo  ec. 

È  manifesto  che  tolse  il  nome  di  Lucus  da' boschi 
che  v' eran  prima;  e  dovetter  sotto  i  romani  esser 
boschetti  di  delizia,  appartenenti  alla  villa  Calvisiana, 
immediatamente  sopra  alle  famose  Aquae  passeris  o 
passeriune,  di  che  a  lungo  favellai  più  volte  illustran- 
do la  iscrizione  di  Mumtnio  Nigro  Valerio  Vigeto 
consolare  [Viterbo  e  il  suo  territ.  pag.  92  e  seg.).  E 
par  vero  sotto  il  monte  lugo  sono  anche  al  presente 
le  così  dette  Palazze,  chiamate  a'  dì  nostri  il  Bacucco 
da  un  nome  di  villico  possessore;  ma  già  dette  Pa- 
lazze, e  non  mai  cessate  di  così  dirsi  da  alcuni,  con 
magnifici  avanzi  di  terme,  in  memoria  del  primo  loro 
splendore,  da  più  antico  tempo,  in  documenti  d'ogni 
età  posteriore  al  paganesimo,  di  che  mi  basti  citare, 
dall'archivio  di  s.  Sisto  quest'una  pergamena  (n.35). 

In  n.  d.  A.  A.  eiusd.  Nat.  MCCXVIII,  tejnporib. 
dni  Honorii  III  pp.  die  primo  aprilis  ind.  VI,  ego 
quidem  Farulfus  fìlius  quondam  Cualfieducii,  hoc  per- 
mutationis  instrumento,  presenti  die  iureproprio,  do 
et  trado  tibi  Prudentio  aichipresb.  Sci.  Sixti  prò  dieta 
ecclesia  recipienti  et  tuis  successoribus  in  perpe- 
tuum,  duas  lectas  prati  positas  in  pertinentiis  Vit. 
in  loco  qui  dicitur  Palalia  etc.  Pro  quibus  ego  di- 
ctus  archip.  prescntibus  et  consentientib.  meis  fra- 
tribus  ibidem  deo  servientibus...  do  et  concedo  tibi 


288 
Farulfo...  duas   petias  terre,  una  quarum  posita  est 
in  Contrata   Vussete  (le  Busse  te,  ancor  oggi  chiamate 
così).  Alia  posita  est  in  contrata  plani  de  halneo  etc. 
(luoghi  tutti  lungo  l'antica  via  Cassia)  dovemi  contento 
solo  di  far  osservare    che   il  Bussi  alla    pag.  403  , 
malamente  immagina  il  nome  di   Bussete  dimostrar 
la  grande  antichità  della  ili.  viterbese  famiglia  Bussi, 
qual  se  da  lei  tolto  avessero  questa  cognominazione. 
Bussete  è  a  buxis,  come  Paluzze  è  a  Palatiis  ,  quia 
buxis  consitae,  cioè  perchè  quivi  ancora  fu  una  ma- 
gnifica villa  romana,  come  mostrano  le  sue  vestigia 
maggiori  di  quelle  della  villa  di  Mummio  Vigeto;  e 
siano  prova  il  tonsile  buxetum  di  Marziale  (III  58), 
e  i  fragiles  buxi  (I  89),  e  V  inler  tepenles  post  me- 
ridiem  buxos  (III  20),  per  non  citare  che  un  solo... 
Ma  torno  all'itinerario.  Vi  è  parlato,  come  dicem- 
mo, della  aedes  ss.  B.  Mariae  et  beatae  Candidae,  ora 
scomparsa:  e  se  è  scomparso  il  castello,  del  quale 
io  qui  risuscito  la  memoria,    nessuno  trovi   inespli- 
cabile che  quella  sia  perita.  Certo  sarà  stata  sobbor- 
go ,    come    il    tempio    della    beata    Vittoria   presso 
Aula  Vetere,  e  probabilmente  esteriore  al   Tvesliim: 
ragion  di  più  perchè  perisse  indifesa  da  nemiche  scor- 
rerie. Di  più  quivi  pure    saranno    stati  monaci ,    o 
preti  regolari,  com'era  la  consuetudine  di  quella  età. 
Ed  ivi  è  detto  che  prior  donavil  optimum  pallium  et 
duas  sindones:  né  questo  è  fuor  degli  usi  che  allor 
si  avevano.  Così  lessi  io  già  in  un'antica  e  venerata 
pietra ,  mossa  di  luogo  ,    e  appartenuta  in  Viterbo 
alla  ora  spianata  chiesa  di  s.  Nicolò  delle  Vascelle 
(sulla  piazza  della  pace)  nelle  cantine  de'  Vanni,  la 
seguente  iscrizione  sepolcrale. 


289 
^  Hic  iiicet  Rad*  Teutenic'  Xpi  Fidel  et  devot 
Beati  Nicholai  Q  P  redeptione   anime  sue 
Hanc  Eccliam  totam  fecit  d  suo  pprio  re- 
pari et  medietatera  vinee  sue  reliqd  in 
Ecclia  predicta  Necn  Matheus  Capsor  Ex 
secutoi'  ipt  pallium  quoddam  donavit  ei 
deni  cui^  Aia  reqescat 
In  pace  sub  an 
n's  dni  Mill.  CC 

LXXXII  cioè,  come  del  resto  ognun  vede» 

((  Hic  iacet  Rad.  (p.  e.  Radulfus,  o  simile)  teutonicus 
christifidelis  et  devotus  beati  Nicolai  qui  prò  redem- 
ptione  animae  suae  hanc  ecclesiam  fecit  de  suo  pro- 
prio rcparari  et  medietatem  vineae  suae  reliquit  in 
ecclesia  praedicta.  NecnonMatthaeus  campsor  exsecu- 
tor  ipsius  testamenti  pallium  quoddam  donavit  eidem 
cuius  anima  requiescat  in  pace  etc.  »  (poiché  V eidem 
lo  riferisco  alla  chiesa).  È  poi  notabile  che  questo 
epitaflo  era  scritto  dietro  un  frammento  d'iscrizione 
monumentale  dedicata  che  è  così  :  Imp.  Cae.  — 
Traian  -  FU...  divi  -  Nepoii  -  Hadrian.  -.  ont  Ma.  -  ... 
0  ...  -  di  belle  lettere. 

Finisce  il  viaggio  alla  chiesa  di  s.  Pietro  in  Valle 
periata,  o  prelata,  o  parlata  iuxta  lacum  Vulsiniiim,  e  ivi 
si  racconta  la  morte  d'Agostino,  e  quel  che  seguita  sino 
al  trasporto  delle  l'eliquie  di  s.  Margherita  e  di  s.Eu- 
prepia  a  Roviliano  verso  il  fiume  Marta.  Ma  questo 
esce  dal  mio  soggetto,  e  più  in  là  di  così  non  pro- 
cedo, pago  di  chiudere  questo  articolo  affermando  , 
che  si  può  bene,  concessa  a'critici  la  natura  apocrifa 
del  qui  esaminato  racconto  circa  al  resto  ,  ritener 
come  vera  la  prova  la  quale  risguarda  1'  andata  di 
G.A.T.CXXXIV.  19 


290 

3  romei  da  Roma  a  Rovilliano  passando  pe'mento- 
vati  luoghi  intermedi  colle  circostanze  che  se  ne 
riferiscono  ;  e  quanto  al  rimanente  cerchino  i  più 
periti  quel  che  abbia  ad  ammettersene  e  quel  che 
a  rigettarne. 

[Sarà  continualo). 


291 


Sopra  un  ms.  inedito  ed  anonimo  intitolato  -  Trattato 
delle  fortificazioni  -  che  si  attribuisce  a  Giuseppe 
Leoncini,  cittadin  fiorentino,  matematico  ed  archi- 
tetto del  secolo  XVII.  Lettera  al  chiarissimo  Ot- 
tavio Gigli. 

Carissimo  Ottavio 


\Ahì  è  soltanto  legato  da  vecchia  e  provata  ami- 
cizia può  immaginare  quanto  lietamente  io  appren- 
dessi da'  fogli  di  Toscana  nel  marzo  decorso  ,  che 
tu,  mentre  andavi  rovistando  ne'documenti  della  sto- 
ria civile  e  letteraria  dTtalia  de'secoli  innanzi  a  quel- 
lo, che  prende  il  nome  dai  Medici,  ritrovavi  in  Fi- 
renze l'autografo  del  Galilei,  contenente  i  suoi  ra- 
gionamenti inediti  su  Dante. 

Appena  mi  giunse  questa  giocondissima  novella, 
ricordai  una  mia  lettera,  che  nell'agosto  1846  ti  di- 
ressi e  fu  pubblicata  in  un  nostro  giornale  ;  ove  ti 
parlavo  di  mss.  rinvenuti  e  posseduti  da  un  altro 
comune  amico:  io  voglio  dire  di  Carlo  Guzzoni  de- 
gli Ancarani,  dotto  ed  infaticabile  letterato.  E  dop- 
piamente fui  lieto;  imperocché  mi  persuadeva,  che 
ei  pure  si  sarebbe  aggiunto,  gentile  com'è  ed  aman- 
tissimo della  patria  letteratura,  a  godere  della  tua 
scoperta:  e  siccome  ben  ti  conosce,  così  non  a  for- 
tuna soltanto  egli  sarebbe  stato  per  attribuire  un 
tal  ritrovamento;  ma  piìi  peculiarmente  a  quel  de- 
licato latto,  a  quell'ingegno  forte  ed  elevato  che  ti 


292 

distingue.  E  già  m'  immagino  eh'  ei  ti  avrà  fatto  i 
suoi  rallegramenti;  e  tocco  da  nobile  emulazione  mi 
persuado  ,  quantunque  da  otto  anni  sia  io  privo  di 
sue  notizie ,  che  la  tua  bella  scoperta  sempre  più 
animerà  anche  lui  nelle  ricerche  letterarie  e  al  di- 
seppellimento de'  codici  obliati ,  donde  tanta  luce 
può  venire  alla  storia  nostrana,  nel  che  era  egli  ba- 
stantemente fortunato  scopritore. 

Ti  confesso  il  vero,  anch'io  fui  punto  da  questo 
lato;  e  poiché  era  da  un  anno  che  stava  nel  desi- 
derio di  rinvenire  Fautore  di  un  ms.  anonimo  ed 
inedito  ,  raddoppiai  di  ardore  alla  notizia  della  tua 
scoperta,  e  ti  dirò  di  piiì,  l'ebbi  per  destro  augurio: 
né  m'ingannai.  Son  pochi  giorni,  che  giunto  a  sco- 
prire, se  pur  non  erro,  l'autore  del  mio  ms.,  provo 
le  tue  stesse  sensazioni. 

Stiamo  però  ne'limiti:  non  è  un  Galileo,  né  sono 
ragionamenti  sopra  un  Dante,  il  mio  ms.  e  il  mio 
autore.  Se  non  ignoto  ,  poco  conosciuto  è  il  nome 
di  questo,  e  la  materia  del  suo  scritto  non  é  let- 
teraria. In  un  circolo  ben  ristretto  si  muovono  co- 
loro, che  possono  prendere  interesse  al  mio  libro  ed 
al  suo  autore.  Quindi  non  bastano  poche  parole  per 
dimostrare  l'importanza  relativa  della  mia  scoperta; 
mentre  tu  sei  favoritissimo  da  fortuna  ,  quando  in 
due  parole  manifesti  tutto  il  valore  della  tua,  asso- 
ciando i  due  nomi  di  Dante  e  di  Galileo,  e  a  chi  ? 
Ai  letterati  non  solo  d'Italia,  ma  del  mondo. 

È  oltre  r  anno  ,  che  mi  capitò  fra  le  mani  un 
ms.  cartaceo  in  4-°  di  172  pagine,  adorno  di  qua- 
ranta tavole,  di  una  rara  conservazione  col  titolo  sem- 
plicissimo Tratlalo  delle  forlificazioni.  Ne  fui  lieto  ol- 


293 

tremodo.  Tu  sai,  che  mio  zio,  il  marchese  Marini, 
quasi  a  compenso  della  indefessi tà  de'suoi  studi  sul- 
l'aichiteltura  militare,  favorendolo  Topporlunità  dei 
tempi,  ebbe  da  fortuna,  quarant'anni  or  sono,  il  de- 
stro di  darci  una  ristampa  del  De'  Marchi,  corredata 
da  quelle  illustrazioni  che  il  soggetto  esigeva,  e  il 
suo  ingegno  seppe  fornire.  Un  egual  tema  si  offe- 
riva a  me,  benché  sempre  d'interesse  molto  minore. 
Era  in  ogni  modo  quello,  che  si  poteva  desiderare. 
Spigolare  sul  campo  istesso  ,  ov'  altri  ha  mietuto  , 
quando  non  è  facile  sperarvi  una  seconda  messe,  è 
dono  singolare  del  cielo.  Subitamente  io  mi  accinsi 
all'opera.  Il  primo  passo  fu  l'esame  della  data  del  ms. 
Esso  citava  ben  sedici  autori,  di  cui  do  il  nome, 
e  la  data  delle  opere  nella  loro  prima  edizione^  e  sono: 
Stevin  1594,Lorini  1597,Errard  De  Bar-le-duc  1600, 
Marolois  1613,  Tensini  1624,  Mezio  1625,  Hondio 
1625,  De  Ville  1628,  Freylag  1635,  Goldman  1643, 
Pagan  1645,  Dògen  1647,  Fournier  1648,  Melder 
1658,  De  Cliales  1676,  Rossetti  1678,  Dunque,  io 
inferii  ,  è  posteriore  al  1678:  ma  esso  faceva  fre- 
quente menzione  dei  picchieri,  ne  parlava  affatto  de- 
gli antesignani  del  secolo  XVII,  quali  sono  Coehoorn 
1682  e  Vauban  1685.  Dunque,,  conclusi  aneora,  non 
può  essere  posteriore  al  1682,  Stabilita  la  data  pas- 
sai all'esame  seguente:  1°  Se  era  trattato  edito,  ov- 
vero inedito.  2°  Se  era  originale  italiano,  o  tradu- 
zione. 3"  Se  era  di  autore  conosciuto  per  simili  la- 
vori, o  no.  4"  Se  lo  stile  manifestava  il  soldato,  o 
il  matematico  o  entrambi.  5°  Se  le  tavole  mostra- 
vano il  loro  autore  versato  nell'  arte  del  disegno  e 


29i 

nelKuso  del  compasso.  E  potei  ben  presto  assicu- 
ra rmi: 

1.°  Che  non  era  edito  !  poiché  tra  il  Rossetti 
e  il  Coehoorn  si  conosce  soltanto  che  sieno  state  im- 
presse le  opere  di  Friedlein  1678,  Fango  1679,  Te- 
yler  1679;  tra  Coehoorn  e  Vauban  si  sa  che  abbian 
stampalo  soltanto,  Paan  1682,  De  Borgsdorff  1 682, 
Le  Maitre  1682,  Steiner  1682,  Capra 'l  683,  Troili 
1683,  Blondel  1683,  Ruta  1684,  Eschinardi  1684 
Pfeffinger  1684;  e  il  nostro  ms.  era  tutta  altra  cosa 
che  le  opere  di  costoio. 

2."  Che  non  era  traduzione;  avvegnaché  nulla  avea 
che  fare  con  i  ragionamenti  degli  autori  stranieri 
sopracitati. 

3."  Che  non  era  di  autore  conosciuto;  mentre  tolti 
gli  stranieri,  gli  autori  italiani  si  riducono  a  Capra 
Alessandro  di  Crema,  architetto;  a  Troili  Giulio  da 
Spiiamberto,  pittore  ;  a  Ruta  Giuseppe  parmigiano; 
ad  Eschinardi  Francesco  romano,  gesuita,  conosciuto 
sotto  il  nome  di  Costanzo  Amichevoli  :  e  le  opere 
stampate  di  costoro  sono  ben  note  per  la  distribu- 
zione delia  materia  e  per  lo  stile,  ben  distinto  dal  ms. 

4."  Che  lo  stile  tu  certo  modo  mostrava  il  sol- 
dato, poiché  lo  scritto  rapportasi  raramente  all'altrui 
opinione,  specialmente  nella  parte  terza,  ove  tratta 
dell'espugnazione  delle  piazze;  ma  più  il  matematico; 
imperocché  la  divisione  delle  materie,  come  appare 
anche  dalla  sola  ispezione  dell'  indice  ,  formato  sui 
capitoli  del  ms.,  il  parlar  logico  e  in  qualche  parte 
Anche  forbito,  addimostrano  un  uomo  versato  nel- 
l'arte óe\  dire  e  nella  geometria. 


295 

5.  Che  infine  era  in  possesso  del  disegno  archi'- 
tettonico,  e  conosceva  Tuso  del  compasso,  guardata 
l'esattezza  e  la  nitidezza  delle  tavole:  il  che  raro  si 
accorda  con  uomo  che  abbia  passato  la  sua  vita  sul 
campo,  0  sia  estraneo  alle  arti  belle.  Da  tutto  ciò, 
riassumendo  ,  risultava  V  autore  del  ms.  anonimo 
dover  essere  nome  nuovo  fra  gli  scrittori  di  archi- 
tettura militare,  essere  italiano,  matematico  almeno 
se  non  anche  architetto  e  soldato,  avere  scritto  cir- 
ca il  1 680  ,  infine  1'  opera  essere  inedita  ed  origi- 
nale. Passiamo  ora  alla  seconda  parte,  ossia  allo  sco- 
primento del  nostro  autore. 

11  conte  Galeazzo  Gualdo  Priorato  ,  vicentino  , 
consigliere  ed  istoriografo  di  Leopoldo  I  imperator 
d'Austria,  se  è  nome  celebre  per  la  quantità  delle 
sue  storie  militari,  e  per  la  turgidezza  e  negligenza 
del  suo  stile,  non  lo  è  meno  per  due  buone  opere 
didascaliche  militari,  l'una  intitolata  il  Guerrìero  pru- 
dente e  politico^  che  vide  la  luce  per  la  prima  volta 
in  Venezia  nel  1640  e  poi  nel  1641  a  Bologna;  l'al- 
tra VAi'te  della  guerra^  ossia  Maneggio  moderno  del- 
Varmiy  che  fu  impressa  per  la  prima  volta  certamente 
innanzi  al  1678,  anno  della  sua  morte;  ma  questa 
data  tuttora  sfugge  alle  mie  investigazioni.  Però  se 
ne  fece  ristampa  in  Roma,  per  il  Bernabò,  nel  1681 
con  alcune  particole  di  Gres  e pp e  Leoncini  ,  cittadin 
fiorentino  ,  della  radice  quadra,  e  modo  di  squadro- 
nare. Il  Leoncini,  per  la  morte  del  Gualdo,  reso  ar- 
bitro dell'opera  di  lui,  fece  entro  il  testo,  col  pro- 
posto di  darne  una  seconda  edizione,  quelle  aggiunte, 
che  credette  opportune,  ma  sempre  in  carattere  cor- 
sivo, perchè  si  distinguessero  dal  testo  del  Gualdo; 


296 

più ,  fece  una  lunga  dedica  ai  niarcliese  Agostino 
Niccolò  Pallavicino,  datata:  Roma  14  agosto  1681: 
dalla  quale,  piena  delle  solite  metafore  dell'epoca, 
nulla  si  rileva  intorno  alla  sua  vita:  infine  una  breve 
prefazione  al  benigno  lettore,  ove  espone  i  motivi, 
pe'quali  stimando  assaissimo  il  Gualdo,  e  vedendo  che 
per  far  perfetto  il  trattato  di  lui  mancava  l'espo- 
sizione della  radice  quadra,  e  il  modo  di  squadro- 
nare, egli  ve  li  aggiungeva.  E  siccome  fatta  lecita 
una  giunta,  una  seconda  ancora  poteva  avervi  luo- 
go; così  alla  pag.  202  credette  utile  d'inserire  quat- 
tro righe,  inavvertite  forse  finora,  di  poco  interesse 
per  altri,  per  me  di  gran  momento.  Di  fatto  nel  dire 
il  Gualdo,  ch'egli  vuol  parlare  alcun  che  di  fortifi- 
fìcazione:  «  quantunque  sopra  tal  materia  si  vedono 
»  per  le  stampe  infiniti  libri  ,  che  ampiamente  ne 
»  trattano  »  il  Leoncini  si  fa  lecito,  sempre  in  ca- 
rattere corsivo,  di  fare  la  seguente  osservazione  per 
suo  conto:  come  anco  in  breve  haverele  un  Compen- 
dio da  Gioseppe  Leoncini ,  estratto  dalle  opere  de^piii 
renomati  Scrittori  di  essa  fortificalione . 

Egli  adunque  ai  14  di  agosto  1681  aveva  già 
condotto  a  termine  una  sua  opera,  che  di  fortifica- 
zione trattava  ;  né  altro  quasi  mancava  che  di  vul- 
garla  per  le  stampe.  Che  essa  non  vedesse  mai  la 
luce  è  prova  bastante  il  silenzio  del  Marini,  del  Guar- 
nieri,  del  Promis,  del  D'Ajala  e  di  quanti  altri  bi- 
bliografi militari  vi  sono  stati  finora,  e  di  non  tro- 
vaisene  traccia  nelle  migliori  biblioteche  di  Pioma. 
Qual  causa  poi  avrà  impedito  al  Leoncini  di  man- 
dar ad  effetto  la  sua  promessa?  Non  saprei  ad  al- 
tro attribuirlo  che  ad  una  jnorte  prcmatuia.  hifatti 


297 
dopo  il  1681  non  si  ha  piii  notizia  alcuna  di  lui. 
Ho  potuto  conoscer  soltanto,  ch'egli  mandasse  alle 
stampe  un'opera  di  architettura  pratica  in  Roma  nel 
1679  (1);  la  qual  sola  notizia  accresce  molto  peso 
di  per  sé  nella  bilancia  per  persuaderci,  che  chi  sa- 
peva rendersi  utile  nell'  architettura  civile  ,  poteva 
eziandio  mostrare  il  suo  valore  nella  militare.  Il  ti- 
tolo di  quest'opera,  la  quale  invano  ho  cercato,  è 
tolto  dal  catalogo  pregiatissimo  ed  inedito  degli  scrit- 
tori fiorentini,  composto  nello  scorso  secolo,  e  che 
conservasi  nella  biblioteca  corsinìana.  In  esso  inol- 
tre trovasi  citato  il  libro  del  Gualdo  con  le  aggiunte 
del  Leoncini;  ma  fuorché  la  nuda  citazione  di  que- 
ste due  opere,  null'altro  rinviensi  sul  conto  di  lui. 
Qui  adunque  un  altro  vuoto  subentra  ,  il  quale  è 
l'oscurità  della  vita  del  nostro  autore.  Né  fa  mara- 
viglia: un  uomo  si  rende  celebre,  oltre  che  per  le 
sue  opere,  quando  queste  veggano  la  luce,  anche  per 
le  vicende  di  una  vita  non  ordinaria,  o  per  partico- 
larità, che  l'autore  inserisce  nelle  dediche,  o  ne'di- 
scorsi  preliminari  a'  suoi  lavori.  Qui  nulla  di  tutto 
ciò:  però,  la  vita  del  Leoncini  deve  esser  passata  , 
io  credo,  in.  gioventiì  modestamente  fra  le  armi,  e 
nella  virilità  deve  essere  stata  abbastanza  tranquilla 

(i)  Insiruttioni  arclnlelloiiklie  praliilie  concernenti  le  parli  princi- 
pali degli  Edifìici  delle  case,  secondo  la  dottrina  di  Vetruvio,  e  d'altri  classici 
autori.  Compendiate  da  Gioseppe  Leoncini  citladin  fiorentino,  a  prò  delti 
studenti  d'architettura.  Dedicale  all'altezza  serenissima  del  principe  France- 
sco Maria  di  Toscana.  In  Roma  appresso  Matteo  Gregorio  Rossi  in  Na\ona, 
1679.  La  prefazione  al  benigno  lettore  :  altra  prefazione  dello  stampatore  a' 
virtuosi:  e  l'indice  de' capi,  e  prima  definitionl  dell'architettura  (Cinelli,  Bi- 
scioni, Boltari.  -  Catalogo  de'scritlori  fiorentini,  voi-  Vili,  leti.  G,  ms.  car- 
taceo autografo,  alla  pag.  940). 


298 
e  casalinga  (1).  Ora  passiamo  a  vedere  come  il  ms.  da 
me  accennato  deve  appartenergli. 

Io  però  non  voglio  entrare  in  un'  analisi  molto 
lunga,  mi  sono  imposto  la  maggior  brevità:  quindi 
compendiosamente  porto  nove  prove,  le  quali  ci  sfor- 
zano a  riconoscere  nel  Leoncini  l'autore  del  ms. 

La  prima  è  la  coincidenza  dell'epoca,  ed  in  que- 
sto non  si  possono  dare  oppositori:  imperocché  os- 
servai che  il  ms.  era  stato  composto  tra  il  1678  e 
il  1682;  e  il  Leoncini  ci  annunzia  l'esistenza  del  suo 
compendio  nel  1681.  La  seconda  ,  la  presenza  in 
Roma  del  Leoncini  nel  1679  e  1681  e  il  ritrovamento 
in  Roma  del  ms.  La  terza,  è  la  materia  del  trattato, 
scritto  in  parte  sulla  autorità  di  sedici    autori  co- 

(i)  Il  nome  però  dei  Leoncini  non  è  nuovo  nella  storia,  [mperocchè 
sappiamo  p.  e.  che  nel  1607  Ferdinando  I  granduca  di  Toscana  ,  volendo 
dimostrare  la  sua  prolezione  a  Fakr-el-Din  Grand-Emir  dei  Drusi ,  spedì 
una  nave  in  Aleppo,  carica  di  munizioni  da  guerra  ed  insieme  di  molti  do- 
nativi. „  Furono  destinati  a  questa  spedizione,  dice  lo  storico  ,  come  am- 
„  basciatori  il  cavaliere  Ippolito  Leoncini  toscano,  persona  molto  pratica  di 
,,  quelle  provincie,  e  Michel  Angelo  Goral  nativo  di  Aleppo;  e  segretario 
,,  fu  Giorgio    Griiger.  „ 

Nel  i65o  le  Intrici  di  Ferdinando  II  spedirono  allo  slesso  Fakr-el- 
Din  cinque  navigli  con  altre  munizioni  e  doni  ,  uno  de'  quali  comandato 
dal  harone  De  la  Legras,  e  insieme  a  questi  vi  era  il  capitano  Francesco 
ia  Verrazano  nobile  fiorentino  ,  che  doveva  poi  esser  console  toscano  in 
Seida,  Francesco  Leoncini  e  G.  B.  Miccerri.  Ma  il  harone  in  quella  spedi- 
zione mori,  taolochè,  rimanendo  un  naviglio  senza  capo,  il  Grand'  Emir, 
aegue  a  dTre  lo  storico:  ,,  pregò  allora  che  le  incombenze  De  la  Legras 
,,  fossero  appoggiate  al  Leoncini,  di  cui  gli  piaceva  l'indole  e  il  naturale,  e 
,,  che  «d  esso  fosse  dato  il  comando  del  vascello  che  comandava  il  haro- 
ne ...  „  il  governo  di  Toscana  aderì  volentieri  ai  desideri  di  Fakr-el-Din, 
e  Francesco  Leoncini  nelle  qualità  sudette  fu  nuovamente  spedito  in  Soria 
nelPagosto  del  i63j  con  diversi  artisti  richiesti  dal  Grand-Emir  per  mi- 
gliorare 1  suoi  stali;  essi  gli  furono  presentati  dal  Leoncini  medesimo  in- 
sieme ad  altri  donativi  della  corte  di  Toscana.  (Istoria  di  Faccanlino  Grand- 
Emir  dei  brusi,  di  Giovanni  Mariti.  Livorno  1787,  in  8). 


299 
gniti ,  mentre  egli  ci  avverte  che  il  suo  lavoro ,  è 
un   estratto  delle  opere  de'  più  ì^e  nomati    scrittori  di 
essa  fortificatione .   La  quarta  ,  è  la  perizia  sua  nel- 
l'aritmetica e  nella    geometria  ;  la  quale  si  palesa , 
nelle  aggiunte  al  Gualdo  parlando  della  radice  qua- 
dra e  del  modo  di  squadronare,  nel  ms .  quando  tratta 
in    ispecie  le  dieci  proposizioni  :    Della  proporzione 
delle  speranze  che  hanno  i  difensori  in  difendcì-e  qua- 
lunque parte  della  fortezza.  La  quinta  ,  è  l'ortogra- 
fia che  coincide  costantemente  nel  verbo  avere  scrit- 
to sempre  con  17?  innanzi,  e  tanto  avere  quanto  do- 
vere adoperalo  senza  sincope  nel  futuro  e  nel  con- 
dizionale. Così  ancora  nelle  parole  repartitione,  mar- 
chia, spatio,  huomo,  doppo,  Principe  ec. ,  avvertendo, 
che  si  nota  tanto  nell'ortografia  del  libro  del  Gual- 
do, quanto  del  ms.  molta  incostanza  nell'  uso  del  t 
invece  del  z  ,  e  grande    inclinazione  per  la  copula- 
tiva e   e  ed,  piucchè  per  la  et.  Oltre  la  dizione,  la 
parte  sintetica  ancora  si  accorda  perfettamente  nel 
ms.  e  nelle   aggiunte  ,  come  può  rilevarsi  dal  sag- 
gio che  se  ne  dà  dopo  l'indice  dei  capi.  La   sesta, 
lo  stile  fluido,  corretto  e  scevro  per  sua  natura  dalle 
turgidezze  del  seicento,  così  nelle  aggiunte  al  Gualdo, 
come  nel  ms.  La  settima  ,  è  il  riportare  il  braccio 
toscano  nelle  tavole,  mentre  ordinariamente  si  è  ser- 
vito della  tesa  e  raramente  del  passo  veneziano,  sep- 
pure ciò  non  voglia  ascriversi  assolutamente  per  la 
menzione  ch'egli  fa  dei  metodi  del  Lorini,  anch'esso 
fiorentino.   L'ottava  ,  l'avere  scritto  e  stampato   un 
libro  d'architettura;  il  che  è  di  gran  rilievo  pel  caso 
nostro,  spiegandosi  con  ciò  ancora  la  perizia  di  lui 
nel  disegno.  F.a  nona,  infine,  l'aver  egli,  e  qui  è  la 


300 

pietra  angolare,  manifestato  di  tener  pronto  per  le 
stampe  un  ms.  di  fortificazione,  che  nessuno  ha  no- 
tato ,  che  nessuno  o  in  iscritto  o  in  istampa  ,  per 
quel  ch'io  sappia,  conosce;  e  che  pur  tuttavia  esi- 
ste intatto  ed  intero  ,  manifestante  a  chiare  note 
l'epoca  e  tutte  le  circostanze ,  che  lo  fanno  attri- 
buire a  lui  esclusivamente. 

Rivolgiamo  ora  le  attenzioni  al  merito  in  genere 
dell'opera.  Essa  nel  nostro  secolo,e  relativamente  ai  lu- 
mi che  si  hanno  oggi  sull'archeologia  militare,  mal  si 
presenta  con  la  scorta  di  sedici  sole  opere  e  non  tutte 
di  gi-an  nome,  specialmente  dopo  che  l'autore  stesso  ci 
avverte,  che  il  suo  lavoro,  almeno  in  parte,  è  un  estrat- 
to dalle  opere  de'più  renomati  scrittori.  A  lui  adunque 
erano  incogniti  fra  i  tanti  Bellucci,  Zanchi,  Maggi,  i 
due  Cataneo  ,  Theti ,  Alghisi  ,  Lupicini  fiorentino, 
Marchi,  Busca,  Fiammelli  fiorentino.  Sardi  romano, 
Pon-oni;  e  fra  gli  stranieri  il  Rimpler  e  il  De  Me- 
drano  ?  Non  so  che  dire.  È  d'uopo  però  convenire 
che  anche  i  migliori  autori  del  secolo  XVI  e  XVII 
rare  volte  tolsero  le  ispirazioni  da  dieci  o  dodici  in- 
gegneri, che  li  precedettero.  Che  il  lavoro  poi  non 
debba  essere  pregevole,  perchè  è  anteriore  a  Coe- 
hoorn  e  Vauban,  questo  assolutamente  nego.  Anzi 
asserisco,  per  quanto  le  mie  deboli  cognizioni  mi 
permettono  di  vedere,  ch'essa  ha  pregio  ed  ha  una 
parte  poco  o  non  mai  trattata  da  altri:  l'indice,  che 
appunto  ora  si  pubblica  con  la  vista  di  mostrare  in 
via  di  fatto,  senza  aiuto  di  parole,  il  valore  di  que- 
st'opera ;  parla  chiaro  agli  uomini ,  che  sanno  ad- 
dentro in  questa  parte  delle    scienze    matematiche. 


301 

Ma  questo  non  è  il  tema,  che  ci  siam  prefissi  ora 
di  trattare. 

Un'ultima  parte  rimane  a  toccarsi:  e  questa  è  il 
sapere  se  il  ms.  è  autografo  o  no.  Credo  questa  sia 
quistione  assai  spinosa.  Ad  ognuno  lasciando  in  que- 
sto l'opinare  a  sua  posta,  dico  che  se  una  scrittura 
autografa,  perchè  sia  tale,  deve  essere  distesa,  per 
intero  dall'autore  di  un'opera,  la  nostra  allora  non 
è  che  una  copia:  ma  le  postille  marginali,  le  can- 
cellature ,  le  correzioni  e  gli  aumenti  interlineari , 
più  il  disegno  di  quaranta  tavole  uscite  dalla  stessa 
mano ,  che  fece  postille,  cancellature  e  giunte,  mi 
avviso  che  meritino  qualche  considerazione  per  dar 
ad  un  ms.  valor  superiore  ad  una  copia  di  libro  ine- 
dito ,  stesa  per  mano  di  amanuense.  Ma  ,  sia  che 
vuoisi,  basti  per  ora  accennare  con  tutta  semplicità: 
1.°  Che  il  carattere  del  ms.  è  chiaro  e  bello  sem- 
pre egualmente  dalla  prima  pagina  all'ultima.  2.°  Che 
la  prima  parte  ha  chiamate,  correzioni  ed  aggiunte 
di  altro  inchiostro  e  di  carattere  diverso,  in  cui  si 
riconosce  facilmente  la  mano  dell'autore,  e  ciò  alle 
pag.  9,  10,  55,  56,  58,  64,  66,  71,  78,  81,  82;  ed 
ha  correzioni  di  ortografìa  e  cangiamento  ai  numeri, 
che  hanno  relazione  alle  tavole.  Nella  seconda  parte 
segue  il  cangiamento  dei  numeri,  che  si  riferiscono 
alle  tavole,  ma  vi  è  poca  correzione  nel  testo:  nella 
terza  parte  ogni  correzione  e  cangiamento  manca. 
3."  Che  il  numero  nelle  figure  delle  tavole  aumenta 
sul  primitivo  ;  poiché  in  esse  è  portato  a  sessanta 
sette,  mentre  il  testo  non  corretto  ne  nota  quaran- 
tatre soltanto.  Tutto  ciò  sempre  piii  mi  conferma 
che  il  lavoro  del  Leoncini,  quantunque  intero,  pur 


302 

tuttavia    rimase    non  castigato  ad  unyiicm  e  quindi 
inedito  per  morte. 

Questa  è  la  esposizione,  dalla  quale  risulta  l'e- 
sistenza di  un  trattato  di  fortificazione  inedito  ed 
anonimo,  che  debbe  sotto  ogni  aspetto  attribuirsi  a 
Giuseppe  Leoncini  cittadino  fiorentino,  matematico 
ed  architetto  del  secolo  XVII,  autore  di  due  opere, 
date  alle  stampe.  Per  la  qual  cosa  si  può  a  questo 
terzo  lavoro  adottare  col  ras.  alla  mano  ,  e  con  le 
parole  medesime  del  Leoncini,  il  seguente  frontispi- 
zio: Trattato  delle  fortificazioni^  o  sia  compendio  estrat- 
to daWopere  de'piìi  renomati  scrittori  di  essa  forlifi- 
catione  di  Giosepj)e  Leoncini,  cittadin  fiorentino,  au- 
tore delle  Instruttioni  architettoniche  pratiche  concer- 
nenti le  parti  principali  degli  edificii  delle  case,  se- 
condo la  dottrina  di  Vetrnvio  e  d'altri  classici  untori; 
Roma  1679;  ed  autore  di  alcune  particole  della  radi- 
ce quadra  e  modo  di  squadronare  inserte  nelV  arte 
della  guerra  del  conte  Galeazzo  Gualdo  Priorato;  Ro- 
ma 1681. 

Non  fidando  però  interamente  a'miei  studi  e  alle 
mie  forze,  ambedue  di  tempra  ben  fiacca,  e  siccome 
in  questa  sorta  d'investigazioni  è  d'  uopo  andar  di 
soverchio  cauti;  non  tardai  a  manifestare  queste  mie 
opinioni  al  chiarissimo  commendatore  Canina,  perchè 
egli  avesse  la  bontà  di  scriverne  all'illustre  architetto 
Carlo  Promis,  nome  ormai  celebre  in  Italia,  per  le 
sue  dottrine  nell'  ai'te  militare  di  qualunque  epoca, 
manifestate  per  il  Trattato  d'architettura  civile  e  Mili- 
tare di  Francesco  di  Giorgio  Martini  architetto  se- 
nese del  XV  secolo,  datoci  alle  stampe  nel  1841  con 
dissertazioni  e  note  interessantissime  :  ed  egli ,  che 


303 
pari  alla  dottrina  ha  la  cortesìa ,  soddisfece  a'  miei 
desideri ,  tantoché  sto  aspettando  quei  schiarimenli 
al  soggetto,  che  qualunque  sieno  per  essere,  non  mai 
metteranno  in  dubbio  il  mio  amore  per  questa  parte 
di  archeologia,  amore  sempre  subordinato  al  buono 
ed  al  vero. 

Intanto  tu  pure ,  o  carissimo  Ottavio ,  che  sei 
nella  sede  diletta  delle  arti  e  delle  scienze,  sorella 
ed  emula  in  questo  di  Roma,  poiché  trattasi  di  dar 
nuova  vita  ad  un  cittadin  fiorentino,  adopra  la  tua 
industria,  mercè  della  quale  ti  venga  fatto  di  rinvenire 
qualche  parola,  che  rischiari  la  vita  del  nostro  autore, 
e  possa  convalidare  le  opinioni  già  dette.  Un  valen- 
tuomo hai  costì,  molto  addentro  nell'archeologia  mi- 
litare, amatore  degli  studi  più  ch'altri  mai,  il  quale 
deve  menar  vita,  come  te,  fra  la  polve  delle  biblio- 
teche ;  e  questi  è  quel  chiaro  ingegno  di  Mariano 
d'  Ayala,  autore  del  Napoli  militare  e  delV  arte  mi- 
litare in  Italia  dopo  il  risorgimento.  Egli  può  giovare 
allo  scopo  delle  nostre  ricerche,  ove  meritino:  e  tutte 
volte  che  egli  sia  tuttora  in  Firenze,  son  sicuro  che 
non  si  ricuserà,  qualora  tu  gliene  faccia  preghiera. 

Ti  potrei  parlare,  afferrando  questa  circostanza, 
di  altri  due  mss.  autografi  inediti,  riuniti  in  un  vo- 
lume in  8°  di  piccola  mole:  l'uno  che  per  tutto  fron- 
tispizio nel  risguardo  ha:  —  Di  me  Arnoldo  Amol- 
di  1623,  e  nell'interno  Trattalo  delle  fortezze  à\  capi  16; 
l'altro  intitolato:  Breve  discorso  sopra  li  pezzi  d'arti- 
glieria raccolti  da  diversi  authori  per  Ottavio  Gal- 
biisira  capo  d'una  squadra  de'scolari  rf'  artiglieria  di 
Milano,  che  si  vanta  scolaro  del  capitano  Gabrio  Bu- 
sca, nome  celebre  fra  gl'ingegneri  militari. 


304 

Ti  potrei  dire  eziandio  delle  mie  ricerche  tuttora 
infruttuose  sulla  memoria  promessa  da  Gio:  Battista 
Isacchi  da  Reggio  nella  sua  opera:  Invenlioni  ec. 
Parma  1579,  che  avrebbe  il  titolo:  Risguardo  che  si 
dee  havere  in  fortificare  una  citlà,  e  in  fargli  i  suoi 
cavallieri,  o  baloardi,  che  dir  vogliamo.  Egualmente 
su  quelle  promesse  dal  conte  Alessandro  Borro  d'A- 
rezzo nel  suo  Carro  di  Cerere  -  Lucca  1699  in  fine, 
di  cui  il  titolo  sommario  è: 

1.°    BALISTICA    PORTENTA  NOVA  ET    VETERA  prO   qualibct 

arte:  praesertim  in  civili,  militari  et  navali  archite- 
clura  etc. 

2."  Disciplina  fluminum. 

3.°  FALx  MORTis,  scu  explicalio  machinae  muralis 
excogitatae  prò  militari  architectura. 

4.°  ciRciNvs  BEiiìc\s prò  militari  architectura  etc... 
in  hoc  volumine....  tota  militaris  architectura  breviter 
excutitur. 

Ma  l'unità  del  soggetto  e  la  lunghezza  di  questa 
lettera  m' impediscono  ora,  che  intorno  a  ciò  spenda 
parole  maggiori. 

Comunque  ciò  sia  ,  mi  dispiace  in  ogni  conto  , 
che  io  t'abbia  distratto  un  po' troppo  da'tuoi  studi, 
chiamandoti  ne'miei,  che  sono  poco  dilettevoli:  ma 
che  vuoi  ?  L'amicizia  ha  le  sue  noie;  e  tu  ringrazia 
Dio  di  esserne  uscito  a  buon  mercato:  imperocché 
lo  scritto  è  più  corto  della  mia  espettazione.  Il  cat- 
tivo sarà,  che  udrai  dirti  a'fìanchi:  qual  prò  ne  torna 
da  sì  lunga  diceria  ?  perchè  dar  si  grande  importanza 
ad  un  lavoro  e  ad  uno  scrittore  militare  dello  scorcio 
del  secolo  XVII  ?  Se  mi  si  facesse  questo  rimpro- 
vero, che  io  non  credo,  ed  io  mi  avessi  alle  fatiche 


305 
questo  premio  ,   che  non  mi  aspetto,  nel  morder  il 
freno  tacitamente,  rivolgerei  il   pensiero  all'inutilità 
di  più  lunghe    dissertazioni    in    soggetti    ancor  più 
frivoli. 

In  qualunque  modo  ,  se  avrò  colto  nel  segno  , 
proverò  sempre  nell'animo  viva  soddisfazione  per  aver 
aumentato  di  un  nome  pregevole  e  di  un'opera  ine- 
dita, non  inferiore  a  molte,  la  biblioteca  degli  scrit- 
tori di  fortificazione  moderna  permanente,  cominciata 
disordinatamente  dal  Guarnieri,  ordinata  ed  aumen-^ 
tata  dal  Marini  ,  resa  più  ricca  per  le  scoperte  del 
Promis,  e  alla  quale  spero  io  di  aggiungere  fra  poco 
un  cinquanta  altri  autori,  degni  di  far  parte  di  essa 
per  le  loro  opere  date  alle  stampe,  e  non  registrate 
ancora. 

Intanto  accogli  tu  queste  parole  come  tributo  di 
amicizia,  adatto  a  dimostrare  che,  sebbene  assente, 
ti  ho  vivo  alla  memoria,  e  che  persuaso  dell'utilità 
che  sarai  per  recare,  in  qualunque  luogo  tu  sia,  alla 
nostra  letteratura,  prego  dal  cielo  la  tua  conserva- 
zione; avvegnaché  nel  tempo  medesimo  che  vivrai^ 
come  ognor  vivesti,  a  decoro  della  patria,  io  potrò 
di  quando  in  quando  ricordarti  che  io  sono  qual  fui 
sempre 

Di  Roma  il  21  giugno  1854. 

Tuo  affettuoso  amico 
Camillo  cav.  Ravioli. 


G.A.T.CXXXIV.  20 


306 

/  INDICE 

Dei  capitoli  del  MS.  inedito  ed  anonimo  intitolato: 
Tmltalo  delle  Forlificazioni  ,  attribuito  a  Giuseppe 
Leoncini,   cittadìn  fiorentino. 


Protmio 

PARTE  PRIMA 

Cotitniziunc  delle  piante  e  profdi  delle  fortezze 
reijolari  ed  irregolari 

Capitolo   I. 

Varie  costru/,ioni    della   circonferenza  principale 
della  fortezza. 

Proposìz.  1'*.  Costruzione  della  circonferenza  della 
piazza  ,  o  fortezza  regolare,  secondo 
il  metodo  spagnuolo. 

))  2".  Costruzione  della  circonferenza  rego- 

lare, secondo  il  metodo  francese. 

»  3".  Costruzione  della  circonferenza    della 

piazza  regolare,  secondo  il  metodo  com- 
posto. 

»  4".  Costruzione  della  circonferenza    della 

piazza  fortitìcata  ,  secondo  il  metodo 
italiano. 


307 

Pioposiz.  5".  Costruzione  della  circonfeienza  della 
piazza  fortificata  con  l'angolo  fiancheg- 
giato retto,  difeso  da  due  fianchi. 

»  6".  Costruzione  della  circonferenza    della 

piazza  fortificata  con  l'angolo  del  ba- 
luardo acuto,  difeso- da  due  fianchi  (se- 
guendo in  ispecie  il  sistema  olandese, 
(^ostruzioni  tre  e  tavole  tre). 

Disegnare  la  pianta  di  una  fortezza  in  carta  se- 
condo le  tavole  calcolate  ec. 

Tavola  delle  fortificazioni  calcolate  secondo  il 
metodo  francese  moderno. 

Costruzione  della  circonferenza  della  piazza,  del 
ramparo  ,  del  parapetto  ,  del  fosso  , 
della  strada  coperta  e  dello  spalto. 

Tavola  delle  larghezze,  secondo  le  quali  le  cir- 
conferenze della  piazza  sono  tia  di 
loro  distanti. 

Luoghi  e  larghezze  delli  ponti  ,  porte  ,  strade  , 
alloggiamenti  e  corpi  di  guardia,  che 
si  devono  disegnare  nella  pianta  della 
fortezza. 

Costruzione  del  profilo  delle  fortezze    regolari    (con 
sua  tavola). 

Capitolo  In. 

Costruzione  delle    piante    dell'  opere    esterne    della 
fortezza. 


308 
Costruzione  della  [»ianta  dei  rivellini    (rostiuzioni  due 
e  tavola). 
»  della  pianta  delle  mezze  lune. 

»  della  pianta  delle  opere  cornute   (costru- 

zioni due) 
»  della  pianta  delle  opei'e  coronale. 

))  delle  piante  delle  tenaglie  o  forbici. 

«  della  pianta  delle  controguardie. 

))  della  pianta  delle  traverse. 

(Capitolo  IV. 

Costruzione  delle  circonferenze  principali  delle  fortezze 
irregolari. 

»  2".  della  cii'conferenza  delle  fortezze  ii're- 

golari. 

»  3".  della  circonferenza  delle  fortezze  irre- 

golari. 

»  4".  delle  fortezze  irregolari,  quando  l'an- 

golo del  baluardo  è  retto. 

»  5".  della  circonferenza  delle  fortezze  irre- 

golari. 

»  6".  delle  fortezze  irregolari,  quando  l'an- 

golo fiancheggiato  è  eguale  alla  metà 
dell'angolo  della  figura  con  gr.  15  o  20 
di  più,  ovvero  a  ^/^  dell'angolo  della 
figura. 

»  per  fortificare  le  figure   date  di  angoli    e 

lati  difettosi  e  mal  propri  per  essere 
fortificati- 

»  della  fortificazione  degli  angoli  acuti. 

»  della  fortificazione  dell'angolo  esterno. 


309 

Costruzione  della  i'oitiiicazione  dolli  lati  ti'oj)po  corti. 
))  della  fortificazione  del  lato  troppo  lungo. 

Capitolo  \. 

Dove  si  dimostra  la  necessità  delle  parti  della  for- 
tezza, la  resistenza  degli  angoli,  la  proporzione 
della  difesa  di  una  fortezza  all'altra. 

Proposizioni  circa  la  necessità  delle  partì  della  circon- 
ferenza principale  della  fortezza  (proposizioni  tre). 

Della  resistenza  degli  angoli  fiancheggiati  retti,  ot- 
tusi ed  acuti  (proposizioni  quattro). 

Comparazione  tra  le  difese  rette  ed  oblique,  e  delli 
loro  vantaggi  e  disavantaggi  (proposizioni  dieci). 

Della  proporzione  delle  speianze  che  hanno  i  difen- 
sori in  difendere  qualunque  parte  della  fortezza 
(proposizioni  dieci). 

PARTE  SECONDA 

Della  forlificazione,  nella  quale  si  iratla  della  fabbrica 
delle ,  fortezze. 

Capitolo   I. 

Del  modo  che  si  deve  tenere  per  mettere  e  dise- 
gnare nel  terreno  la  fortezza  regolare,  essendo- 
sene   fatta  la  pianta  in  carta. 

CAprroLo   II. 

Deirclevazione,  altezza  e  grossezza  delli  rampari,  ed 


310 

altie    parti   del    piolìlo  ,    come    si    cingono   con 
'  ::ttinuro. 

Capitolo  III. 

Della  costruzione  e  fabrica  delli  cavaglieri  ,  che  si 
fanno  nelle  piazze. 

Capitolo   IV. 
-fiooiio  i;  ' 

t)el  modo  di  fare  li  fianchi  coperti  con  gli  orecchioni, 

e  della  fabrica  delie  loro  casematte. 

.•i!!i;up  inoi^i'i'-'joi'i)  ìlmr,  l' 

Capitolo  V. 

Della  fortificazione  delle  piazze  sei'rate  di  muraglie 
■  e  vecchi  rampari,  secondo  la  difesa  degli  antichi. 

Capìtolo   VI. 

Della  fortificazione  delli  luoghi  situati  all'  estremità 
dell'acqua,  come  anco  di  quelli,  che  sono  posti 
all'estremità  del  mare,  o  di  qualche  porto. 

Capitolo  VII. 

D^lle  cittadelle,  o  castelli,  cjie  sì  devono  congiun- 
"     gere  alle  città. 


31  f 
PARTE  TERZA 

ÌMtiì^lìmjnazione  della  foriezzu,  nella  quale  si  Iratia 
degli  assedi,  del  modo  di  marchiare,  degli  allog- 
(jiamenli,  delle  batterìe,  aprocci,  gallerìe,  mine, 
assalti  e  della  resa  delle  fortezze. 

^Capitolo  1. 

Avvertimenti  necessari  per  quelli  ,  che  trattano  di 
assediare  le  fortezze. 

Capitolo  li. 

Dell'  alloggiamento  dell'  esercito,  e  delle  condizioni 
del  luogo,  dove  questo  si  deve   accampare  ec. 

Capitolo  III. 

Della  divisione  delli  quartieri  e  baracche  deirinfan- 
teria,  cavallerìa  e  dell'acquartierare  d'un  reggi- 
mento. 

Capitolo  IV. 

Delle  trinciere,  che  circondano  il  campo  alloggiato 
e  della  costruzione  delli  forti  dì  campagna  (con 
cinque  tavole  per  i  profili). 

Capitolo   V. 

Dell'  espugnazione  delle  fortificazioni  esteriori,  del- 
l'apertura della  controscai'pa  e  come  si  deve  pas- 
sa re  il  fosso. 


312 

Capitolo  VI. 

Delle  mine,  e  dell'ordine  che  si  deve  tenere  nell'at- 
taccare  la  breccia  e  dare  l'assalto. 

Capitolo  VII. 

Della  difesa  della  piazza  con  li  contr'approcci,  con- 
tramine, sortite,  tagliate  ,  e  dell'  ordine  che  si 
deve  tenere  per  sostenere  gli  assalti. 

))  Seguono  n.  40  tavole,  nelle  quali  sono  dise- 
»  gnate  a  contorno  n.  67  figure  di  piante  e  profili, 
))  e  dimostrazioni  a;eometriche.  « 


313 


Saggio  dello  filile  e  deW ortografia  di  Giuseppe  Leoncini 


ricavala 


Dall'  auffiunte  all'  Arte 
della  guerra  del  Conte 
Gualdo  stampata. 


.  .  .  Squadrone  (gene- 
ralmente parlando)  è  una 
quantità  di  Gente  unita 
insieme  ,  armata  di  Pic- 
che, Moschetti,  et  ogn'al- 
tra  sorte  d'Arme,  ordina- 
tamente compartita  in 
Manipoli,  File  et  Ordini. 
Ma  parlando  di  Squadrone 
di  Battaglie,  questo  s'in- 
tende di  semplici  Picche: 
e  può  essere  Quadro  di 
Gente,  ò  Quadro  di  Ter- 
reno, e  non  di  Gente,  ò 
Doblato,  ò  Granfronta,  e 
di  qualunque  sorte  si  farà 
in  Battaglia  se  ne  fan  tre 
simili,  che  sono  Vanguar- 
dia, Corpo  di  Battaglia, 
e  Retroguardia:  dovendosi 
de'  Moschetti,  et  altre  Ar- 
mi farne  Guarnitioni,  Ma- 
niche, Ali,  et  altri  fini- 
menti à  medesimi  Squa- 
droni ....  pag.    19. 


Dal  Trattato  di  fortifi- 
cazione 
MS. 


...  Allo  spontar  del  gior- 
no il  Generale  con  gValtri 
officiali  maggiori  si  pre- 
senterà nella  Piazza  d'Ar- 
mi dando  ordine  con  ogni 
prestezza  si  demolischino 
le  Fortificazioni  delle  quali 
il  Campo  era  circondato^ 
acciò  si  possìno  scoprire 
li  Squadroni  del  posto,  che 
s'era  occupato.  Do^ìpo  farà 
marchiare  V  Esercito  di- 
viso in  tré  parti  in  Avan^ 
tiguardia  (*),  battaglia  e 
retroguardia,  entrando  per 
fronte  deW Esercito  la  bat-  . 
taglia,  e  per  levare  ogni 
lite  die  per  ragione  del 
primo  luogo  potesse  na- 
scere tra  gV  Ufficiali.  Di 
pili  si  devono  questi  tré 
corpi  armare  ugualmente 
di  Picchieri,  Moschettieri, 

{*)  In   altri  punti  ilei   Irallato    si 
trova  scritto  sempre  Vanguardia. 


314 


...  E  fatta  roflossione 
se  havesse  tralasciato  tal 
punto  sul  motivo,  che  ri- 
chieda nel  Soldato  buon' 
Aritmetica  (già  che  per 
altri  fini  non  so  persua- 
dermelo) vedo  che  m'in- 
gannerei; mentre  il  privo 
di  quest'  iVrte,  non  solo, 
non  saprà  Squadronare  ; 
ma.  sarà  difettoso  nella 
repartitione  de'  Viveri  , 
Monilioni,  Paglie,  Aìlog- 
giamenti  ,  et  ogn'  alti'a 
parte  che  si  conviene  al 
buon  Soldato  .  .  .  Pre- 
fazione. 


e  Cavalli,  acciò  le  forze 
siano  ugualmente  divise  in 
questi  tré  Corpi  ec.  .  .  . 
pag.  126. 

.  .  .  Di  piti  bisogna  es- 
ser sictiro  dove  si  potranno 
fare  delle  nuove  levate  di 
Soldati  per  mettere  al  luo- 
go di  quelli,  che  morono-, 
0  fuggono  ,  e  da  dove  si 
potranno  provedere  le  Mo- 
nizioni tanto  di  gueira 
quanto  di  vivere  necessa- 
rie per  il  mantenimento 
degVassedianti,  la  provi- 
sione necessaria,  e  la  pili 
principale  per  tal  impresa 
è  il  danaro  .  .  .  Doppo 
bavere  considerato  tutte  le 
dette  Condizioni  e  deter- 
minato di  dover  assediare 
qualche  Fortezza  è  neces- 
sario ,  che  il  Generale 
mandi  con  qualche  truppa 
di  Cavallerìa  esperti  In- 
gegnieri  a  riconoscere  ec... 
acciò  doppo  haverla  esa- 
minata possi  alloggiare  il 
suo  Esercito  .  .  .  pag.  125. 


315 


Peregrinus  Romis  sermo  ìiahilus  coram  eminentissimo 
episcopo  Ioannc  Soglia  Ceroni  in  aula  ven.  semi- 
narii  nob.  coUegii  Campanae  Auximi  1853,  qiium 
alumni  praemio  donarenlur. 


H 


une  optatissimuin  laetissimumque  diein,  cardinalis 
amplissime,  collegae  et  auditores  quotquot  estis  hu- 
manissimi,  quo  adolescentes  optimi  studiorum  suo- 
rum  praemia  expetunt  et  accipiunt,  mihi  proponens 
summopeie  gaudebam,  atque  vehementissime  laeta- 
bar;  dignumque  tantae  celebritatis  ac  laetitiae  argu- 
mentum  pertractanduai  curabam,  quod  ab  instituto 
meo  minime  abhoireret,  atque  vobis  giatum  acce- 
ptumque  fere  confiderem.  Dumque  multa  animo  vo- 
lutans,  longum  excellentium  virorum  ordinem  ,  qui 
buie  loco  famam  pepeieie,  litlerisque  decus  addide- 
l'unt  mente  lecursabam,  bono  fato  spectandum  ante 
omnes  mibi  se  obtulit  vir  eximiae  virtutis  ac  sapien- 
tiae,  collegii  huius  nostii  iuventutisque  quam  maxi- 
me benemei'itus,  qui  quondam  hic  litterarmn  gloriam 
laudemqiie  excitavit ,  tantamque  suis  scriptis  apud 
homines  opinionem  sibi  conciliavit,  ut  aetas  nulla  vel 
obliterare  posse  vel  imminuere  videatur.  Eoque  li- 
bentius  anipui,  quod  me  iii  boc  honestissimo  docendi 
munere  tanta  cuin  laude  antecessit,  mihique  veluti 
facem  quam  sequerer  praetulit.  De  huiusce  igitur  viri 
ingenio  ac  virlutibus  nonnulla  attingere  constitui,  vo- 
bisque  quantus  ille  fuerit  breviore  sermone  demon- 


316 

strare,  et  quantum  nos  illi  deboamus  oslcndoic  ac 
praedìcare.  Dicam  itaque  Peregiinum  Ronum  primum 
inaximumque  litterarum  noslrarum  decus  ac  lumen 
extitisse,  et  sapientia  praeceptisque  cius  humaniora 
studia  hic  praecipue  floruisse  et  adhuc  vigere  ;  ne- 
minem  enim  vel  antea  vel  postea  seu  doctrina  seu 
latinitatis  gloria  illum  exequasse,  atfirmave  posse  ac 
piane  fateri  videor;  et  quidquid  existimationis  apud 
homines  obtinemus,  ex  ilio  fonte  praesertim  manare. 
Audite  ergo,  adolescentes  optimi  mihique  charìssimi, 
quae  de  Rono  sum  dicturus,  paremque  voluntatem 
aceipite  et  reddite:  tuque  eminentissìme  princeps,  hu- 
manitate  tua  verhis  mais  fìdem  addere,  meque  di- 
centem,  ea  qua  soles  benevolentia  complecti,  te  rogo, 
ne  graverò. 

Peregrinus  Ronus  valgeminensis  e  Garferoniana 
IH  idus  ianuarii  anno  a  partu  Virginis  millesimo  se- 
tingentesimo  decimo  honestissimo  loco  natus  est. 
Fa  treni  habuit  loannem  Peregrinum,  qui  inter  iuris- 
consultos  doctrina  et  abstinentia  nobilis  ferebatur: 
matrem  Catharinam  Fabriciam  et  generis  nobilitate, 
et  propria  maiorumque  laude  clarìssimam  ac  prima- 
riam  foeminam.  Haec  primum  pueri  aetatem  piis  re- 
ctisque  moi'ibus  instituit  et  mira  benevolentia  coluit. 
Ioannes  vero  primioribus  litleris  eiudivit,  ut  erat  do- 
cili acrique  ingenio;  eique  obtigit  eumdem  vitae  al- 
torem  et  magistrum  domi  sortir!  ;  ac  voluti  altera 
vita  recreari.  Cumque  ab  aetale  prima  excessissct, 
et  iam  inter  aequales  pueros  insignis  haberetur,  pri- 
mordia  studiorum  supergressus ,  lyceuin  publicuin 
adivit,  ibi({uc  favcnte  quidem  fortuna  optimis  usus 
pracceptoi'ibu5  rem  gram,maticam   couckisit,  linina- 


317 

nioribiisque  litteris,  ad  quas  cum  paterna  disciplina, 
lum  insita  quadam  facultate  aptissimus  erat,  bonam 
operam  navavit,  sibique  brevi  et  mira  ingenii  sua- 
vitate  et  mol-ibus  diligentiaque  nomen  comparavit. 
Quare  factum  est  ut  parenles  non  solum,  sed  cives 
omnes  de  eo  optime  sperarent ,  talemque  futurum 
pollicerentur,  qualem  cognitum  omnes  uno  ore  iu- 
dicarunt.  Itaque  pater  eius,  qui  filii  ingenium  ani- 
mumquc  fuerat  expertus  ,  eum  mittere  Auximum 
constituit,  nt  philosophicis  disciplinis  vacaret,  ibique 
optimis  artibus  omnibus,  quibus  tunc  temporis  col- 
legimii  hoc  florebat,  facile  imbuerelur.  Huius  enim 
loci  fama  late  per  Italiam  totam  increbuerat,  atquo 
omnium  sermone  celebrabatur,  ex  quo  Horatius  Phi- 
lippus  Spada  lucensis,  qui  et  amplissimus  S.  R.  E. 
cardinalis  auximanaeque  ecclesiae  pontifex  cxtitit,  et 
quem  conditorem  alterum  obsequenti  memoria  coli- 
mus,  praeceptores  optimos  undique  arcessiverat,  inter 
quos  Ioannem  Ronum  Peregrini  fratrem  germanum 
natu  maiorem,  quem  in  lucensi  seminario  cognitum 
laude  ingenii  ac  morum  habuerat.  Erat  enim,  ut  di- 
ctum  est,  ipse  lucensis,  et  Ronorum  familiam  nove- 
rat  ac  diligebat.  Cum  igitur  Ioannis  virtutes  ac  do- 
ctrinam  perspexisset,  utilemque  eius  operam  sibi  fore 
in  collegio  nostro  arbiti-aretur,  animo  praeceptorem 
designaverat,  et  ut  res  optime  cederet,  nihii  sibi  prae- 
termittendum  decreverat;  sed  fato  interceptus  diem 
suum  re  infecta  obivit.  At  cardinalis  Augustinus  Pi- 
pia,  qui  post  illum  pontificatum  auximanum  adeptus 
est,  consilii  negotiique  huius  intermissi  certior  factus 
rem  ad  exitum  perduxit:  illum  advocavit,  et  huma- 
nissime  susceptum  adolescentes  grammaticam  docere 


318 
iussit:  quo  in  munere  tanta  diligentia,  industria  ac 
felicitate  usas  est,  ut  pari  vix  quispiam,  maiori  nemo 
pi'oi'sus.  Sed  ut  ad  Peregrinum,  de  quo  sermo  est, 
revertar,  is  a  patre  Auxiinum  missus  est  annum 
agens  decinium  sextum,  et  a  fratre  et  praesidibus 
loci  effuso  sinu  exceptus,  politioribus  litteris  annuin 
alteruni  dedit,  doctore  Paulo  PonticeNio,  viro  supra 
onineni  laudeni  doctissimo,  cui  apprime  charissinius 
fuit.  Deinde  toto  pectore  disci[)linis  philosophicis, 
posteaque  theologicis  aninium  applicuit,  uberesque 
ex  bis  fructus  percepit  :  quippe  qui  in  unaquaquc 
scientia  priinas  setnper  tulerit,  seque  in  penitiores 
eai'umdem  recessus  ita  inimiserit,  ut  publico  propo- 
sito certamine,  facta  omnibus  in  arenam  descenden- 
di  digladiandique  copia  ,  is  strenue  summaque  cum 
laude  adversariorum  inipetum  sustinuerit,  fiegerit  ; 
magna  et  condiscipuloruni  et  auditorum  admiratio- 
ne,  qui  omnes,  nemine  abnuente,  Peregrini  virtutem 
praedicantes,  verbis  exquisitissimis  efferebant.  Inte- 
rea  sacerdotium  iniit  ;  ille  enim  vitam  iam  inde  a 
primioribus  annis  ita  instituerat,  ut  omnibus  casti- 
moniae  ac  pietatis  exemplo  esset,  nec  solum  a  culpa 
abesse,  verum  etiam  a  suspicione  cuiavit.  Religionis 
et  virtutis  omnigenae  a  teneris,  ut  gracci  aiunt,  un- 
guiculis  cultor  et  custos,  morum  integritate  sui  no- 
minis  famam  augebat,  sanctimonia  exornabat.  Cum- 
que  in  singularum  apud  omnes  doctrinae  et  inno- 
centiae  aestimationem  venissct ,  et  omnium  aratia 
vigerci ,  accidit  ut  curatores  Civitatisnovae  ,  quod 
oppidum  est  in  Picetiis,  rhctorem  sibi  quaercrent: 
auditoque  Koni  nomine,  illuni  exposcerent,  modcslia- 
que  renucntem  urgerent  ac  soilicilarent:  qui  tandem 


319 

tantorum  hominum  petltionibus  et  votis  vel  ceden- 
dum  vel  indulgendum  duxit.  Quamobrem  libehti 
animo  ivit,  magisteriumque  plaudentibus  civibus  as- 
sumpsit;  sed  non  diu  ibi  moratus  est.  Cardinalis  enim 
lacobus  Lanfredinius,  qui  postea  sacris  auximatum 
praefectus  fuerat,  sanctissimi  eruditissimique  sacer- 
dotis  desidei'ium  perferre  diiitius  baud  potuit:  quare 
illum  regredi  iussit,  et  in  numerum  praeceptoriun 
seminarii  et  collegii  nostri  cooplavit,  rhetoremque 
dixit.  Incredibile  memorata  est  quanta  animi  alacrita- 
te  munus  illud  susciperet,  sive  naturali  quodam  erga 
politiores  litteras  amore,  sive  fratris  benevolentia,  sive 
quod  erat  in  fatis  ut  ab  ilio  huius  loci  laudes  ad  supre- 
raum  dignitatis  fastigium  eveherentui'. Certe  duobus  ab 
bis  fratribus,  quibus  postea  Vincentius  nepos  acces- 
sit ,  collegii  et  litterarum  nostrarura  gloria  ,  maxi- 
mumque  decus  fluxisse  videtur.  Qua  solertia,  quibus 
stimulis,  qua  patientia  pueros  in  litteris  erudiret, -di- 
cere  supervacaneum  est:  mihique  affirmasse  sat  eiit 
nullum  ab  ilio  egregii  atque  peiitissimi  praeceptoris 
officium  praetei'missum  fuisse.  Quanta  vero  laude 
scliola  eius  floruerit,  et  multi  qui  Ronum  expostu- 
labant  sibi  magistrum,  atque  magna  poilicentes  in- 
vitabant,  et  innumera  denique  ingenii  sui  monumenta 
testantur.  Hoc  unum  de  discipulis  dicam,  missis  cae- 
teris,  Rono  obtigisse  inter  auditores  suos  numerare 
Petrum  Quatrinum  illuni,  qui  in  locum  eius  suffectus, 
doctoris  sui  famam  pene  exequare  visus  est.  Prae- 
teream  et  lucensem  archiepiscopum,  et  patavinum, 
aliosque  magna  mercede  proposita  provocasse  Ronum, 
ut  oblatum  docendi  munus  acciperet,  litterasque  in 
illis  praeclarissimis  seminariis  ecclesiae  alumnis  tra- 


320 

deret.  Ast  ille  honore  contenlus  provinciatn  ullro 
deiatani  rcnuit ,  ac  totis  viribus  auximanis  ephebis 
strenuiorem  navare  opeiam  instituit.  Singulos  in  an- 
nos  liberaliuni  disciplinarum  expeiimenta  piiblicavit, 
orationesve  babuit  luculentissimas,  in  quibus  vel  re- 
€ondilae  enulitionis,  vel  ecclesiasticae  et  sacrae  ar- 
gumenta,  eo  quo  par  erat  doctrinae  et  eloquentiac 
apparati!,  disseruit.  Quare  et  Lanfredinio  eminentis- 
simo  viro,  et  Pompeio  Compagnonio,  qui  ei  successit, 
antistili  doctissimo  doctorumque  bominum  amantis- 
simo ,  et  Guidoni  Calcagninio  denique  cardinaH  am- 
plissimo ita  carus  fuit,  ut  nemo  ante  illum:  omnes 
«nim  summa  benevolentia  fovebant,  atque  in  debciis 
babebant.  Compertum  babeo,  quod  nunc  affirmem; 
Compagnonium  cupientem  incrementis  sacrarura  Ilt- 
terarum  accademiam  condere,  sibi  adiutorem  adiun- 
xisse  Ronum,  et  veluti  illius  aedifìcii  fundamenta  in 
hmTiine  ilio  locasse.  Quod  et  feliciter  fecisse,  even- 
tus  sane  probavit.  Nam  ex  Illa  palestra  eruditissimos 
prodiere  sacerdotes,  qui  magno  ecclesiae  nostrae  usui 
fuerunt,  et  sibi  peienne  in  posleros  nomen  compa- 
rarunt.  Laus  enim  illorum  adbuc  viget ,  vigebitque 
dum  aliquis  virtuti  bonisque  litteris  bonos  apud  bo- 
mines  erit.  Multa  in  conventibus  illis  egregie  exco- 
gitata, et  politiore  stylo  descripta  recitavit,  quae  ne 
hac  in  re  nimius  videar,  quamquam  commentatione 
dignissima,  silenlio  praeterire  cogor.  Verum  ctsi  brc- 
vitatis  studio  obstringar,  de  monumcnlis  ingenii  bu- 
iusce  bominis  nullo  pacto  reticere  possum,  quae  in 
lucem  edita  opinionem  litteratissimi  viri  in  tota  Ita- 
lia et  apud  extcras  gentes  etiam  amplifìcarunt.  F»i- 
nmm  opus,  uti  ego  existimo,  a  Rono  adbuc  adolo- 


321 

sceiite  proditum,  fuit  Apoloyelicon  prò  Ludovico  Mu- 
ratorio.  Vulgavcrat  ea  tempestate  summus  ille  ani- 
madversiones  quasdam  in  Francisci  Petrarcae  carmi- 
na italica,  quae  ab  Aristarco  quodam  nimis  acriter 
oppugnatae  sunt ,  ne  salva  quidem  tanti  scriptoris 
dignitate.  Ronus  prò  Muratorio  dixit,  reiectisque  ad- 
versarii  cavillationibus,  argutiisque  detectis,  superior 
e  certamine  ,  bona  cum  doctorum  omnium  venia  , 
discessit.  Muratorius  ìpse  gratias  patrono  suo  egit, 
misitque  epistolam  perhumanissimam,  in  qua  rectum 
iudicium,  erudi tionem  et  stylum  laudai,  affirmatque 
alios  etiam  prò  se  dixisse;  neminem  praeter  Ronum 
satis  sibi  fecisse.  Quod  laudationis  genus  in  homine 
ilio  maximi  ponderis,  ni  fallor,  est.  Per  eadem  tem- 
pora veteri  revocata  controversia  grammatici  summa 
ingenii  vi  decertabant,  an  libellus  quidam  qui  Con- 
solalio  Ciceronis  inscribebatur  Marco  Tullio  tribuendus 
esset.  Hic  saeculo  decimo  sexto,  vix  dum  in  lucem 
prodierat,  maximos  clamores  in  re  litteraria  excita- 
verat,  multaque  de  eo  et  varia  doctorum  iudicia  evul- 
gata fuere.  Lipsius  acerbioribus  sane  verbis  repro- 
bavit,  liaud  pauci  cum  ilio.  Nonnulli  tamen  acriter 
contendebant ,  Tulliique  affirmabant.  Riccobonus , 
aliique  emunctioris  naris  homines  arma  expediebant, 
propugnante  Carolo  Sigonio,  viro  ab  eruditionis  copiis 
paratissimo  ,  et  omnibus  scribendi  latine  elegantiis 
instructo,  qui  primus  librum  illuni  lypis  mandaverat. 
Lis  erat  adhuc  sub  indice,  et  tunc  temporis  summa 
contentione  virium  redintegrala:  cum  Ronus,  ut  mihi 
videtur,  totam  penitus  enucleavit,  nodumque  piane 
dissoluit.  Nam,  ut  ipse  ait,  ex  libello  ipso  bis  terque 
perlccto  tanlam  argumentorum  copiam  et  vim  hausit, 
G.A.T.CXXXIV.  21 


322 

ut  niaiorem  exoptare  possit  nemo.  In  dissertatione 
enim  illa  sententias  sententiis,  facta  factis,  tempora 
temporibus  comparans,  rem  eo  deducit,  ut  si  Cice- 
ronis  esse  quis  affirmet ,  necessario  Ciceronem  sui 
rerumque  scriptarum  oblitum  fuisse  annuat,  sibique 
adversantem:  quod  quidem  nemo  sanus  facile  credet. 
Tota  disputatio  elegantiis  omnibus  latini  sennonis 
tìoret;  sed  quod  apprime  mirandum  putem,  modestia 
est  qua  dissoiit,  et  difficultates  enodat:  ita  ut  nihii 
arrogans,  nihil  acerbius  dictum  invenias;  tanta  comi- 
tate  scientissimus  ille  vir  praeditus  erat.  Quid  de  la- 
tinis  carminibus  dicam,quae  ut  Pompeio  Campagnonio 
auximatum  episcopo  obsequeretur  in  lucem  aspectum- 
que  protulit  ?  Tam  lepide  et  urbane  excogitata,  la- 
tineque  ad  optimorum  imaginem  expressa,  ut  exemplo 
esse  facile  possint?  Abunde  mihi  quidem  esse  deberet 
hoc  loco  asserere  posse  lacobum  Faciolatum,  Anto- 
nium  Vulpium,  Camillum  Zampierium,  Hieronymum 
Ferriuni  aliosque  egregie  cordatos,  ne  dum  spem  illi 
fecisse,  fore  ut  ingenuo  cuique  probarentur  (ut  ipse 
in  proemio  ait),  verum  etiam  commodum  iuventuti 
utilitatemque  afferrent.  Sed  cum  Ferrius  in  epistola 
quadragesima  inter  Alambertianas  iudicium  proferat, 
sapienterque  omnia  expendat ,  verba  eius  ipsissima 
referre  optimum  duco  «  Ego,  inquit,  ut  carminis  genus 
vidi,  probavi,  atque  opus  edendum  rescripsi.  Interest 
religionis,  interest  linguae  latinae  poetam  habere,  qui 
Prudentii,  Paullini,  caeterorumque  exemplum  secutus, 
ea  sumpserit  celebranda,  quae  ad  diviniorem  poesim 
pertinent,  atque  ita  fecerit,  ut  cum  sententiis,  tum 
verbis  scriptionis  dignitati  respondeat.  Multi  sane 
memoria  nostra  excelluerunt  in  carmino  :    pauci  ea 


323 

via  ac  ratione,  qua  tu  duodecim  praestantiiim  foe- 
minarum  nomina  et  actiones  versibus  mandasti,  quae 
fortitei*  prò  mysteriis  sanctissimis  mortem  oppetiere. 
Plerique  enim  nostrum  physica  scribeie  sunt  aggressi: 
([ui  si  sacra  attingere  voluissent,  prò  dignitate  fecis- 
sent,  Deoque  atllati,  quae  canesont,  factorum  magni- 
tudinem  scriptis  aequassent.  Quo  vero  pauciorès,  eo 
laudabilior  labor  tuus ,  quo  itali  et  ad  pietatem  et 
ad  linguae  cultum  accendantur,  quae  externarum  opi- 
nionum  irruptione,  si  non  conticescere,  aliquantum 
languere  visa  est.  ))  Quamquam  et  Ronus  ipse,  felici 
sane  exitu,  physica  describere  aggressus  est,  ut  ipse 
Zampierius,  catuilianus,  ita  vivam,  totus,  testatur;  qui 
cum  se  omnia  et  singnla  Peregrini  cai-mina  legisse 
et  probasse  fateatur,  primas  tamen  duobus  illis  con- 
cedit,  quae  De  nocturnis  phoenomenis  inscripsit.  In 
omnibus  Virgilium  sibi  imitandum  proposuit,  eo  ta- 
men imitationis  genere,  quod  artem  reddit  atque  ele- 
gantiam  ,  non  verbum  verbo,  ut  solet  servum  iilud 
pecus  bono  iure  a  Pisonum  praeceptore  ludibrio  ha- 
bituni.  Quod  si  scriptoris  animum  introspicere  liceat, 
affirmare  posse  videor,  hoc  primum  sibi  proposuisse, 
ut  maiestatem  elegantiamque  Maronis  lepore  et  con- 
cinnitate  catulliana  condiret;  ex  quo  novum  aliquod 
exoriri  videtur,  quod  venustatem  novitatemque  au- 
ream  prae  se  fert,  et  stylum  mirabili  arte  ac  suavi- 
tate  recreat.  Nomini  dubium  esse  potest  elegos  ad 
Catulli  normam  praecipue,  coetera  ad  Virgilii  effin- 
xisse,  sed  ita  ut  nescio  quid  virgiliani  elegi  sapiant, 
reliqua  nescio  quid  catulliani  redoleant.  Candidus 
scriptoris  animus  in  omnibus  elucet,  et  mira  ingenii 
suavitas  ex  vero  naturae   similitudineni  reddens,  et 


32i 

pietas  quae  legentiuiii  mentcs  mira  dulcedine  capii. 
Merito  itaque  optimoque  iure  Faciolatus  ,  cui  terna 
poernatia  in  novae  nuptae  laudein  concinnala  cum 
litteris  miserai ,  his  verbis  illi  rescripsit:  «  Amo  in 
illis  nativum  ac  simplicem  dictionis  candorem  cum 
dignitate  coniunctam  ,  amo  rerum  pulcherrirnarum 
delectum,  amo  texturam,  atque  ordinem;  amo  omnia: 
sed  maxime  auctorem  ipsum.  «  Decem  etiam  Theo- 
criti  idyllia  latine  reddidit,  et  publici  iuris  facienda 
existimavit ,  in  quibus  non  solum  siculi  poetae  pul- 
chritudinem  admirari  possumus,  sed  virtutes  omnes 
graphice  expressas  iisdem  lineamentis,  quibus  auctor 
ornavit.  Ipsum  Theocritum  virgiliano  stylo  canentem 
audire  putes:  in  quo  certe  opere  princeps  ille  fuil; 
nondum  enim  Theocrili  idyllia  a  Raimundo  Chuni- 
chio  latine  conversa  in  lucem  venéranl:  opus  posthu- 
mum  magni  illius  viri,  et  fere  decem  annis  post  eius 
obitum  typis  mandalum:  quod  Roni  laudem  augere 
nemo  inficiabitur.  Si  quis  tumen  Roni  cum  Cunichii 
interpretatione  conferre  cupiat,  facile  intelliget  illam 
Virgilio  propiorem,  et  certa  quadam  facilitate  Cuni- 
chio  iucundiorem  esse:  elegantiam,  fidelitatem,  alias- 
que  dotes  omnes  in  ambobus  pares.  Haud  omitten- 
dum  hoc  loco  vide  tur,  quod  ipsc  in  proemio  lectores 
docuit:  puritatem  enim  sanctitatemque  hominis  om- 
nino  indicai,  a  Illud  vero,  ait  ille,  praecipuum  est  in 
quo  mihi  elaborandum  censui,  ut  scilicet,  iis  omissis 
quae  castilati  labem  afferro  possent,  maxime  scri- 
ptoris  sententias  retinerem,  non  verbum  verbo  effe- 
rens,  sed  libera  quadam  utens  circuitione,  quae  magis 
perspicuitali  conduceret,  in  quo  sane  duo  mihi  eximii 
viri  exemplo  sunt,  qui  meo  quidem  iudicio  reliquos 


325 

longìssime  interprotes  antficelliint,  Annibal  Carus  et 
Andreas  Anguillara.  <(  Doctum  hunc  laborem  magni- 
fìcìs  vei'bis  Guidoni  Calcagninio  cardinali  moecenati 
suo  dicatum  voluit,  ut  uno  tempore  et  viri  eniinen- 
tissimi  beneficia,  et  hominis  sapientissimi  merita  in 
lucem  proferri  videantur.  Italicos  quoque  versus,  ita 
me  Deus  amet,  nobiles  ac  venustos  condidit,  in  qui- 
bus  ne  latum  quidem  unguem  a  Petrarca  discedere 
passus  est:  nam  illuni  prae  caeteris  colebat ,  atque 
hetruscae  poeseos  principem  esse  afifirmabat:  quod , 
temporum  ratione  habita  ,  facile  illi  condonandum 
putarim.  Ad  illius  exemplum  igitur  se  totum  flnxit, 
et  candorem  venustatemque  illius  propriis  carminibus 
expressit:  quae  si  interdum  spiritu  et  calore  destituì 
videntur,  nunquam  tamen  sententiis,  candore  ac  ve- 
neribus  careni.  Tragoediam  quoque  conscripsit  locis 
speciosam  et  recte  moratam,  quam  Titi  Manlii  Tor- 
quati  nomine  nuncupavit.  Versus  haud  tragico  colore 
diferre  videntur,  sententiis  et  affectibus  vigent:  vim 
tragicam  nonnulli  desiderant;  sed  nondum  Victorius 
ille,italicaeMelpomenis  alumnus  et  parens,italis  exem- 
plum dederat.  Si  cum  ilio  conferas,  cedet  :  sì  cum 
veteribus,  neminì  fonasse  locum  dabit.  Multas  deni- 
que  orationes  sententiarum  pendere  graves,  dictio- 
numque  luminibus  illustratas  habuit:  binas  nominabo; 
Pompei  Compagnonii  episcopi  funebrem  laudationem, 
et  divi  losephi  Cupertinatis  panegyrim  ,  in  quìbus 
artis  suae  haud  leve  periculum  fecit.  In  resurgentium 
sociorum  coetu  ,  quibus  praesidebat ,  saepe  saepius 
docte  ac  perpolite  disceptavit:  dissertatiunculam  ta- 
men unam  editam  habemus,  mira  eruditione  ac  so- 
brietate  elocubratam,  cui  titulus  -  Veterum  vota  prò 


326 
libeiorum  salute  suscepta.  =::  Ciincta  Italia  quanti  euin 
faceret  inde  apparuit,  quod  ex  doctis  hominibus  Au- 
ximo  transeuntibus  nemo  unquam  fuit  ,  qui  il- 
luni invisere  et  alloqui  non  exoptaret  ;  nemo  qui 
cum  conspexisset ,  et  collocutus  esset,  expectatio- 
nem  suam  valde  superatam  non  sentirei.  Omnes 
sibi  illurn  devincire  observantia  ac  benevolentia  , 
mutuoque  litterarum  commercio  amicitiam  alare 
studebant.  De  civibus  veio  mihi  satis  superque 
erit  monere  ,  cunctos  in  admirationem  sui  rapuis- 
se.  Principes  enim  viri  non  solum  honore  habe- 
bant,  sed  illum  omnibus  officiis  colebant  fovebant- 
que,  et  maximum  sibi  splendorem  additum  ex  illius 
familiaritate  arbitrabantur.  Multos  hoc  loco  nominare 
possem,  inter  quos  Annibalem  Simonettum  optimum 
atque  in  paucis  etiam  lectissimum  virum,  avumque 
eius,  senem  omnium  qui  fuerint  gravissimum,  quibus 
tam  plurima  et  maxima  se  debere  ipse  profiteretur, 
ut  facilius  animo  possit  complecti  quam  proferendo 
numerandoque  recenseri.  Nihil  enim  unquam  fuit  quod 
humanitas  impertiri  possit,  quod  illi  amantissime  im- 
pertitum  non  sit ,  ut  ipse  affnmare  non  dubitavit , 
quum  latinorum  carminum  librum  Annibalis  nomine 
inscriptum  ederet.  Tota  enim  Simonettorum  gens, 
civitatis  suae  facile  princeps,  litteratos  doctosque  omni 
tempore  in  suam  accepit  fìdem,  ac  usque  ad  hanc 
diem  exornat  atque  humanissime  complectitur.  Sed 
ut  haec  missa  faciam,  academiis  nobilissimis  adiun- 
ctus  est:  cuncti  enim  illum  summo  honore  prose- 
quebantur:  et  quamquam  magnae  gloriae  invidia  sit 
Comes,  nullos  Ronus  obtrectatores  habuit.  Is  igitur 
cum  in  Utteris,  et  in  puerorum    institutionc    totum 


327 

ferme  vìtae  spatium  insumpsisset,  et  sibi  et  collegio 
buie  nostro  splendorem  ac  decus  addidisset,  prove- 
cta  iam  aetate  (attigerat  enim  septuagesimum  pri- 
mum  annum)  laboribus  fractum,  cum  adversa  iamdiu 
conflictaretur  valetudine,  atque  in  apertimi  vitae  di- 
scrimen  adductus  esset,  christianae  religionis  myste- 
riis  sanctissime  expiatus,  summa  erectaque  in  Deum, 
in  quem  semper  unum  speraverat,  confidentia,  pla- 
cidissimo exitu  ad  superos  emigravit ,  ut  dignum 
virtutis  suae  proemium  acciperet.  Statura,  ut  ab  iis 
qui  coram  cognovere  accepi,  fuit  satis  procera:  ha- 
bitu  corporis  tenui ,  capite  grandi ,  et  in  bumerum 
nonnihil  reclinato;  fronte  exporrecta  lataque:  facie 
gravi  ac  periucunda:  caesiis  ac  vivacibus  oculis,  acri- 
que  visu:  magno  supercilio;  crassioribus  a  e  paullu- 
lum  demissis  labiis,  capillo  flavo  et  ad  senium  albo, 
a  sincipite  in  occiput  reiecto:  nobili  incessu,  vestita 
decoro.  Idem  comis,  ingenuus,  facilis,  facundus,  mo- 
destus  ;  nescio  quid  sancti  in  ore  prae  se  ferebat. 
Fortunate  senex!  cuius  mortem  deploratam  omnìum- 
que  lacrymis  honestatam;  cuius  vitam  in  exemplum 
propositam  vidimus!  Fortunati,  qui  eum  docentem 
audire  potuerunt!  tanti  enim  hominis  inter  auditores 
numerari  magnum  ferme  fuit.  Utinam  eadem  luce 
ac  splendore  locus  semper  hic  niteat!  utinam  famam, 
quam  Ronus  peperit,  in  posterum  tueri  ac  servare 
possiti  Et  poterit  sane  hoc  principe  auspice  et  pa- 
trono. Ego  certe  vestigiis  illius  ingredi  omni  cura 
totisque  viribus  conabor,  ne  cutpa  mea  tantum  decus 
ab  ilio  nobis  adeptum  apud  nos  minuatur,  aut  ulla 
ex  parte  sordescat. 

losEPH  Ignativs  MontAnarivs. 


328 


Intorno  ad  alcuni  traltaii  di  aritmetica  e  di  geome- 
tria manoscritti  nelV  I.  e  R.  hihìioleca  riccar dia- 
na di  Firenze.  Lettera  del  prof.  Vincenzio  Nan- 
nucci  a  D.  Baldassare  Boncompagni. 

Eccellenza 

Il  codice  riccardiano,  segnato  n.°  2404,  di  cui  ella 
desidera  rillustrazione,  è  membranaceo  in  4%  legato 
in  cartapecora,  ben  conservato  ,  e  scritto  verso  la 
metà,  o  al  piìi  in  sulla  fine  del  secolo  XIII.  E  cor- 
rettissimo ,  e  di  carattere  tondeggiante ,  nitido  e 
chiaro.  Le  rubriche  dei  capitoli  ,  come  pure  i  nu- 
meri arabi,  che  ricorron  nelle  regole  dell'  arimme- 
tica  e  della  geometria,  sono  scritti  d'inchiostro  ros- 
so, e  le  iniziali  maiuscole  sono  alternativamente  blu 
e  rosse  :  con  fregi  rossi  le  blu ,  e  con  fregi  celesti 
le  rosse.  Le  scritture  ch'esso  contiene  sono  le  se- 
guenti. 

La  prima,  mancante  però  nella  fine,  è  di  136 
membrane,  ed  ha  per  titolo  :  Quinto  ene  lolivero  de 
labecho  (  lo  libro  dell'abbaco  )  secondo  la  oppenione 
de  maiestro  leonardo  de  lachasa  (della  Casa)  del  fi- 
gluogle  bonazie  (degli  figliuoli  Bonacci)  de  Pisa.  L'ori- 
ginale di  questa  scrittura  è  in  latino,  ed  è  intito- 
lata :  Liber  Abbaci  compositiis  a  Leonardo  filiorum 
Bonaccii  pisano  in  anno  MCCII,  et  correctus  ah  eo- 
dem  XXVIIh  cioè  MCCXXVIII.  È  inedita,  ed  una 
copia  di  essa  si  conserva  nella  libreria    riccardiana 


329 

nel  codice  783,  ed  un'altra  ne  possiede  la  maglia- 
bechiana.  Questo  Leonardo  della  Casa  è  conosciuto 
ancora  sotto  il  nome  di  Leonardo  Fibonacci^  perchè 
ne'ternpi  antichi  era  il  costume  di  cognominarsi  da 
colui,  da  cui  avevano  avuto  l'origine,  coli'  aggiunta 
di  ^li,  come  Filipetri,  cioè  figli  di  Pietro;  o  di  filii^ 
come  in  Gio.  Villani  lib.  I,  cap.  Ili  si  legge:  Capo- 
rali furono  i  fila  Giovanni,  i  filii  Gitineldi ,  e  i  filii 
Bidolfi  (così  l'edizioni  moderne:  le  antiche  i  figliuoli 
Giovanni  ec).  Ed  accorciato  il  filii  o  fili  in  fi,  le  sud- 
dette casate  si  dissero  poi  Figiovanni ,  Figiiineldi  e 
Firidolfi.  E  così  da  filii  Bonaccii,  figli  di  Bonaccio, 
sì  derivò  Fibonacci. 

La  seconda,  mancante  ancor  essa  nella  fine  ,  è 
di  membrane  40  ed  ha  per  titolo:  Quisto  ene  lo  primo 
amaeslramento  del  arte  dela  geometria.  Lo  primo  ca- 
pito de  retonde  (de' rotondi).  Anche  di  questa  l'ori- 
ginale è  in  latino  ,  ed  è  opera  inedita  dello  stesso 
Leonardo  da  Pisa,  della  quale  si  conserva  una  co- 
pia nella  librerìa  magliabechiana,  ed  ha  per  titolo: 
Incipit  practica  geometriae  composita  a  Leonardo  Pi- 
sano de  fdiis  Sonaci. 

Il  volgarizzamento  di  queste  due  scritture  con- 
tenute nel  nostro  codice  non  è  conforme  precisa- 
mente al  testo  latino,  ma.n'è  piuttosto  un  ristretto. 
E  che  il  traduttore  non  s'attenesse  fedelmente  a  quello, 
si  fa  chiaro  anche  dal  titolo  sopraccitato  del  libro 
dell'Abbaco,  ove  dice:  Secondo  la  oppenione  di  mae- 
stro Leonardo  della  Casa.  Ignoto  è  il  nome  del  vol- 
garizzatore, ma  si  hanno  dei  dati  che  alle  membra- 
ne 44,  45,  46,  47,  48,  49,  50  del  libro  dell'Abbaco 
egli  fa  la  regola  di  certi  conti  di  dare  e  avere  che 


330 

correvano  fra  lui  o  alcune  persone  ,  e  del  capitale 
e  del  prò,  e  cita  i  mesi  e  l'anno.  Così  per  es.  alla 
membrana  45  egli  dice:  Annome  de  Dio  am.  Anno 
1288  messer  Raniere  da  la  Terza  da  Uivielo  deie 
avere  ec.  E  alla  membrana  46.  Annome  de  Dio  am. 
Saldata  ragione  con  messer  Raniere  da  la  Terza.  Pa- 
rimenti alla  membrana  49.  Annome  de  Dio  am.  Anno 
dni  1288  Bienciviene  de  Grifo  deie  dare  ec.  anche 
n'ha  dato  ec.  E  alla  membrana  50  Annome  de  Dio 
am.  Anno  1289  saldata  ragione  con  Bienciviene  de 
Grifo  che  deie  dare  ec.  E  ammesso  anche  il  caso 
che  sia  questo  una  copia  d'  altro  anteriore  ,  nullo- 
stante  si  può  stabilire  ch'egli  fiorisse  verso  la  metà 
del  secolo  XIII.  Ma  sebbene  non  s'abbia  notizia  al- 
cuna né  del  suo  nome  nò  del  luogo  della  sua  na- 
scita ,  con  tutto  ciò  non  è  da  mettere  in  dubbio 
eh'  egli  non  fosse  d'alcuna  delle  città  dell'  Umbria, 
essendo  il  suo  volgarizzamento  scritto  nel  dialetto, 
specialmente  antico,  di  quella  provincia.  Così  vi  leg- 
giamo ex.  gr.  P croscia,  borscia,  roscio,  pisgione,  ni- 
sciuno,  sopre,  butiga,  cum,  comma,  puoie,  maie,  luie  ec. 
I  plur.  masc.  della  prima  declinazione  terminati  in 
e,  come  danare,  figliuole,  ditte,  quante,  quiste  ec.  Cosi 
quaglie  per  qtiali,  cavaglie  per  cavalli,  aglie  per  agli, 
glie  per  gli  ec,  e  nel  singolare  Spolete,  Fidigne,  As- 
sise ec.  Nell'indicativo  presente  la  seconda  persona 
singolare  terminata  in  e ,  come  vuole ,  dicie ,  traie, 
agiogne,  ec.  Nel  perfetto  respuse,  propuse,  compuse  ec. 
e  armase  per  rimase  ,  e  arpuse  per  ripuse  ec.  Non 
lascerò  di  notare  che  la  seconda  persona  singolare 
del  futuro  si  legge  sempre  terminata  in  aie  ,  come 
diraie,  faraie,  saraie ,  vorraie  ec.  la  qual  desinenza 


331 

ò  proprijimente  del  dialetto  napoletano;  ma  deve  es- 
sersi usata  anche  nell'antico  dialetto  umbro,  molto 
più  che  questi  due  dialetti  sono  fra  loro  somiglian- 
tissimi nella  forma  delle  voci  sì  dei  nomi  che  dei 
verbi.  Nel  mio  Saggio  del  prospetto  generale  di  lutti 
i  verbi  anomali  e  difettivi  ec.  riguardo  ad  alcune  ter- 
minazioni mi  sono  giovato  dei  due  sopraddetti  Trat- 
tati citandoli  sotto  il  nome  di  Tralt.  Ariim.  ms.  e 
Tratt.  Geomelr.  ms. 

La  terza  è  la  Visione  di  un  giovine  di  nome 
Tugdalo  della  città  di  Casella,  il  quale  menando  una 
pessima  vita  ,  a  caso  repentino  stette  tre  dì  e  tre 
notti  morto  ,  e  per  quel  tempo  fu  condotto  da  un 
angelo  a  vedere  le  pene  dell'inferno  e  la  gloria  del 
paradiso;  e  poi  resuscitato  si  die  a  vivere  santamente. 
Anonimo  è  Io  scrittore  di  questa  visione,  ma  è  certo 
ch'egli  appartiene  al  secolo  XIV,  come  apertamente 
si  vede  dalla  lingua  ch'è  oro  purissimo,  e  propria 
di  quel  tempo.  I  fatti  ch'egli  vi  narra  dice  d'averli 
imparati  dallo  stesso  Tugdalo  poi  che  fu  resuscita- 
to, e  di  avergli  scritti  secondo  eh'  egli  li  avea  ve- 
duti. Questa  scrittura  e  le  altre  che  seguono  sono 
in  carattere  ben  formato  e  chiaro,  ma  di  mano  di- 
versa da  quella  delle  due  antecedenti,  e  assai  infe- 
riore. La  lezione  è  corretta,  ma  parecchie  membra- 
ne sono  così  guaste  e  logore,  che  non  si  p  osson  leg- 
gere in  nessun  modo. 

La  quarta  è  un  volgarizzamento  dei  sette  salmi 
penitenziali,  d'autore  parimente  anonimo,  ma  ap- 
partenente anch'esso  al  secolo  XIV  per  la  purità  e 
sempHcità  dello  stile. 


332 

La  quinta  è  una  versione  delle  Litanie  dei  santi, 
nmneante  però  nella  fine. 

II  suo  principale  uopo  ,  Eccellenza  ,  in  deside- 
rando l'illustrazione  di  questo  codice,  essendo  stato 
quello  di  avere  i  maggiori  schiarimenti  possibili  sul 
Libro  dell'Abbaco  e  sulla  Geometria  di  Leonardo  Pi- 
sano ,  non  le  sarà,  mi  penso,  cosa  discara  se  io  co- 
gliendo questa  occasione  le  farò  qualche  cenno  di 
alcuni  altri  trattati  o  in  parte  volgarizzati  ,  o  in 
parte  ordinati  su  quelli  del  sopraddetto  Leonardo,  e 
che  parimente  esistono  nella  libreria  riccardiana. 

Il  codice  2186  cartaceo  in  fol.  del  secolo  XV 
contiene  il  Libro  dell'Abbaco  con  questo  tìtolo:  Que- 
sto è  la  somma  e  '/  modo  a  insegnare  V  abbaco  al 
modo  di  Pisa;  ossia  secondo  il  sistema  di  Leonardo 
Pisano.  Ed  in  fatti,  non  è  conforme  affatto  all'origi- 
nale latino,  ma  n'è  piuttosto  un  estratto.  E  man- 
cante nella  fine,  ove  dopo  una  pagina  in  bianco  se- 
gue una  scrittura,  in  cui  è  notato  quali  sono  i  gior- 
ni infelici  e  pericolosi  di  ciascun  mese;  e  quindi  si 
leggono  disegnati  in  un  tondo  i  mesi  dell'  anno,  e 
posto  il  loro  nome  per  numero,  e  indicata  la  ma- 
niera di  trovare  in  che  dì  entra  ogni  calenda  del 
mese.  Dopo  parecchie  pagine  in  bianco  si  trova  la 
geometria  ,  la  quale  benché  abbia  per  titolo  :  Qui 
incominciai  la  pratica  della  Geometria  di  mcsser  Leo- 
nardo Pisano  ,  con  tutto  ciò  non  segue  nemmeno 
questa  nò  l'ordine  nò  la  disposizione  medesima  del- 
le materie  come  stanno  in  (piella  del  suddetto  Leo- 
nardo. Il  codice  non  porta  il  nome  dell'autore,  ma 
chi  Io  scrisse,  in  che  anno,  e  dì  che  patria  egli  fos- 
se, è  detto  alla  pag.  9,  dove  si   legge:  Al  notnc  sia 


333 

dello  onnipolenle  Iddio  e  della  (jloriosissima  sua  ma- 
dre vergine  Madonna  Santa  Maria,  e  del  glorioso  con- 
fessore messer  santo  Guglielmo,  e  del  beato  santo  Ra- 
nicri  pisano,  e  di  lutti  santi  e  sante  della  corte  del 
paradiso,  e  salvamento  deW anima  e  del  corpo  Amen. 
Io  Cristofano  di  Gherardo  di  Dino  cilladino  pisano 
della  cappella  di  Santo  Bastiano  in  Ghinsica  quar- 
tieri di  Pisa,  oggi  questo  di  primo  di  maggio  1442 
col  nome  di  Dio,  e  di  sarvamento  cominciai  a  scri- 
vere lo  presente  libro  d' anbaco  (Abbaco) ,  nel  quale 
saranno  scritti  certi  e  diversi  modi  di  fare  ragioni  di 
mercanzie  ,  d'  arismctrica  e  geometria  ec.  E  non 
solamente  pisano  è  lo  scrittore  del  codice,  ma  an- 
che il  volgarizzatore  de'due  trattati  sopraddetti,  co- 
me lo  mostra  apertamente  la  lingua  sparsa  di  voci 
proprie  del  dialetto  pisano,  come  ex.  gr.  amburo  , 
antro,  taula  ,  taulieri,  picciolo,  sigondo  ec,  e  parti- 
colarmente per  lo  scambio  della  z  nella  s,  come  lar- 
ghessa,  lunghessa,  differensìa,  grasia,  terso,  sensa  ec. 
proprio  del  citato  dialetto.  Nò  andrebbe  forse  lon- 
tano dal  vero  chi  supponesse  che  l'autore  di  que- 
sto volgarizzamento  fosse  lo  stesso  Cristofano  so- 
praccitato ;  imperocché  dicendo  egli  nel  titolo  del 
libro  dell'Abbaco  Gominciai  a  scrivere  lo  presente  li- 
bro ec,  la  voce  scrivere  non  solamente  può  valere 
in  vergare  le  carte,  ma  ancora   comporre. 

Un  trattato  d' arimmetica  d'autore  anonimo ,  e 
dettato  in  buona  lingua,  si  ha  nel  codice  2358  car- 
taceo in  4°  del  secolo  XV.  È  diverso  dal  libro  del- 
l'Abbaco di  Leonardo  Pisano,  se  non  che  contiene 
alcune  regole  tratte  da  esso;  e  in  che  parte  del  suo 
trattato  lo  seguitasse  interamente  lo   dichiara  l'au- 


334 

tore  alla  pag.  105  ove  dice  :  Equesto  quanto  al 
modo  di  vendere  arienti  sia  abastanzn^  e  nel  seguente 
dire  si  dimostrerà  el  modo  di  consolare  colVaiuto  di 
Cristo  lesu.  Lionardo  Pisano  mi  pare  die  dica  me- 
glio di  questa  parte  che  altri,  e  per  lui  io  sì  mi  at- 
terrò, che  cosi  dice,  cioè  e  e. 

A  chi  appartenesse  il  codice ,  e  da  chi  fosse 
scritto,  è  dichiarato  alla  pag.  128  terg.  dove  si  leg- 
gono le  seguenti  parole:  Questo  libro  è  di  Giovanni 
di  Forese  Bizeri,  el  quale  scrisse  Nicolò  suo  zio.  E  di- 
cendosi ancora  qui  che  Nicolò  scrisse  questo  Libro, 
potrebbe  intendersi  per  la  ragione  allegata  di  sopra 
al  codice  antecedente,  ch'egli  ne  fosse  anche  l'autore. 
Che  il  codice  appartenga  alla  metà  del  secolo  XV, 
si  ricava  manifestamente  da  alcuni  conti  riportati 
alla  pag.   114  colla  data  dell'anno  1450  e   1451. 

11  codice  2263,  cartaceo  in  fol.  del  secolo  XV 
sul  principio,  contiene  una  parte  del  libro  dell'Ab- 
baco ed  una  delle  Regole  della  Geometria,  d'autore 
anonimo.  Questi  due  trattati,  scritti  in  lingua  pur- 
gata, non  sono  propriamente  un  volgarizzamento  di 
quelli  di  Leonardo  Pisano,  ma  comprendono  alcune 
parti  di  essi,  ed  anche  queste  in  ristretto  ;  e  sono 
mancanti  nel  mezzo  e  nella  fine.  11  primo  ha  per 
titolo:  Incomincia  il  primo  trattato  delV Alcibr a  amu- 
cabile;  e  qui  dee  dire  almucabala,  come  ha  il  testo 
latino  di  Leonardo  Pisano,  e  perchè  così  veramente 
è  scritta  questa  voce,  che  vien  dall'  arabo ,  e  vale 
libro  delle  cose  occulte,  o  meglio,  scienza  insegnata. 

Il  trattato  d' Arimmetica,  che  si  legge  nel  co- 
dice 2252  cari,  in  fol.  del  secolo  XV  e  che  ha  per 
titolo  :  Al  nome  di  Dio  e  della  Beata    Vergine  Maria 


335 

e  di  lutti  santiy  Qui  comincia  il  Trattato  delV Arisme- 
trica,  è  un  volgarizzamento  del  libro  dell'  Abbaco 
di  Leonardo  Pisano,  d'autore  parimente  anonimo,  e 
disteso  ancora  questo  in  buona  lingua:  se  non  che 
nel  principio  non  è  seguito  il  medesimo  ordine  che 
nell'originale  latino,  e  qualche  altra  varietà  s'incon- 
tra pure  talvolta  nel  corpo  del  trattato.  È  man- 
cante in  alcuni  luoghi  nel  mezzo  ,  e  alla  pag.  109 
terg.  è  interrotto  il  volgarizzamento,  il  quale  è  sup- 
plito col  testo  latino  di  Leonardo,  che  continua  fino 
alla  pag.  i4'3,  e  quindi  prosegue  come  per  l'avanti 
in  volgare.  Dietro  a  questo  trovansi  le  Regole  del- 
l'Algebra tratte  dal  sopraccitato  Libro  dell'Abbaco, 
ma  sono  mancanti  nella  fine. 

Ecco  ciò  che  m'  è  sembrato  doverle  dire  ,  Ec- 
cellenza, su  i  due  trattati  di  Leonardo  Pisano  con- 
tenuti nei  codici  sopraddescritti,  pregandola  ad  avermi 
per  iscusato  se  per  avventura  io  non  avessi  piena- 
mente sodisfatto  il  suo  desiderio.  Mi  protesto  in- 
tanto con  quella  stima  e  venerazione  eh'  ella  si 
merita 

Devmo  obblmo  servitore 
Vincenzio  Nanniicci 


336 


Paraphmsis  metrica  Isaiae  proph.  Gap.  XXIV. 


E 


cce  Deus!  terrain  qui  dissipai,  impete  et  acto 
Nudat  eaiii  facie  afflictam,  disperdit  et  omnes 
Indigenas.  Sic  se  populus,  sic  ipse  sacerdos, 
Sic  hera,  sic  dominus,  sic  se  famularis  habebit 
Turba;  nec  emptori  iam  fiet  venditor  impar, 
Fenoris  addictus  mensae  nec  suscipìenti 
Mutua,  nec  cupide  repetenti  debitor  aeris. 
Terra  patens  dabitur  pessum,  direptaque  abibit 
In  praedam.  Dominus  namque  haec  est  verba  lo- 

cutus. 
Terra  geniens  manca  sublapsa  est  mole  per  orbem; 
Et  populus  terrae  devexus  culmine  nauci  est. 
Seminis  ipsa  luem  persensit  terra  virilis: 
Transfuga  nani  legum  mutavit  iura  propago 
Virorum,  aeternuni  statuens  disperdere  foedus. 
Propterea  maledicta  dabit  cum  gente  scelesta 
Horribiles  poenas  dìgnis  absorpta  ruinis. 
Insanire  fuat  cultoribus  eius;  ibique 
Contigerit  paucos  hominum   superesse  relictos. 
Vite  infirmata,  vindemia  luxit;  et  inde 
Ingemuere  omnes  laeto  qui  corde  fuerunt. 
Tympana  laetitiae  iam  conticuere:  quievit 
Laetantum  sonitus,  cytharaeque  obmutuit  aura. 
Cantando  vinum  cyathis  haurire  nefas  est. 
Polio  namque  fugax,  et  amara  bibentibus  esset. 
Civibus  urbs  vanis  attrita  est,  interiusque 
Clostellum  domibus  iniectum  est  sic,  ut  ad  ipsas 


337 

Inti'oeat  nulliis.  lam  de  male  sospite  vino 
Clamor  erit  vulgo  in  plateis:  deserta  proinde 
Laetitia,  et  totis  abierunt  gaudia  terris. 
Sola  relieta  manet  secum  urbs;  nec  fornice  portab 
Omne  subire  genus  remorabitur  aerumnarum. 
Nam  terrae  in  medio  evenient  haec,  et  populorum 
Non  secus  ac,  olea  excussa,  cunctantis  olivae 
Siquid  adhuc  superest;  vel  siquis  forte  racemus 
Sub  casum  autumni  torquentes  vina  fefellit. 
His  dare  voce  sonos,  bis  solvere  labra  licebit 
Laudibus;  hinnitu  percellere  spumea  ponti, 
Gloria  njagna  Dei  dum  fiet  aperta  per  orbem. 
Doctrinis  ideo  Dominum  exaitate;  Deumque 
Isdraèl  quaevis  maris  insula  personet  ore. 
lustitiae  laudes  iterari  audivimus,  ut  sit 
Gloria  iustitiam  servanti  ex  omnibus  oris. 
Et  dixi:  Mibi  sit  secretum  mente!  mihi  sit! 
Vae,  nisi  mecum  habitem!  tot  praevaricantibus  orbe, 
Atque  modos  scelerum  praeterlabentibus  omnes. 
Formido  et  fovea,  et  laqueus  superimminet  ultor 
Heus  tibi,  qui  serus  terram  incolis!  Hoc  et  habeto 
Venturum:  cassa  qui  non  formidine  torpens 
Fugerit,  hunc  fovea  excipiet,  foveaque  receptus 
Incidet  in  laqueum,  nodoque  tenebitur  arcto. 
Nam  cataractarum  coeli  disclusa  per  altum 
Sunt  loca,  concussaeque  labant  fundamina  terrae! 
Quae  confracta  ruet,  contrita,  emotaque  versis 
Cardinibus:  quin  et,  velut  ebrius,  exagitata 
Motibus  insanis  rapietur;  opesque  revulsae 
Cedent,  unius  ceu  sint  tentoria  noctis. 
Admissis  oppressa  suis  sic  corruet  illa, 
Ncc  sibi  iam  adiiciet  quo  viribus  usa  resureat 
G.A.T.CXXXIV.  22      ^ 


338 

Hoc  et  ei'it:  Dominus  per  aperta  ut  visitet  olirn 
Militiam  coeli,  et  semen  regale  per  oras 
Terrestres;  quod  mox,  velut  uno  fasce  coactuin, 
Esse  gregale  lacu  feret,  atque  ibi  carcere  claudi; 
Postque  dies  multos  aderii  qui  visitet  illud. 
Luna  globo  rubicunda  suo  tunc  ibit,  et  atris 
Nubibus  offusum  sol  se  geret  orbe  dici: 
Monte  Sion  regnum  Solymorum  fortis  in  armis 
Cum  statuet  Dominus,  qui  laudibus  in  senioruni 
Concilio  praesens  celebrabitur  ipso  suorum. 

Alois.  Chrysostomus  Ferruccius. 


339 


Saggio  di  traduzione  di  Fedro  ,    o  sia   le  prime  olla 
favole  di  Fedro  volgarizzate  da  Giuseppe  Bellucci 


di  Ce 


rvia. 


FAVOLA  1. 


//  lupo  e  r agnello. 


\Jn  lupo  ed  un  agnello  eran  venuti 
Spinti  da  sete  ad  una  stessa  fonte. 
Più  sopra  stava  il  lupo,  e  alquanto  basso 
L'agnello.  Allora  quel  ladrone  ingordo 
Mise  in  mezzo  il  motivo  di  contendere, 
E  disse:  Perchè  questa,  di  che  io  bevo, 
M'intorbidasti?  E  il  timido  lanuto: 
Di  grazia  dì,  come  poss'  io  far  ciò, 
Onde  ti  lagni,  o  lupo  ?  da  te  scorre 
L'acqua  che  si  deriva  alla  mia  lingua. 
Dalla  forza  del  vero  egli  sospinto, 
Questi  sei  mesi  andati,  tu,  soggiunse, 
Mi  dicesti  del  male.  A  ciò  l'agnello: 
Ma  se  non  era  io  nato  !...  Affé,  proruppe. 
Che  il  tuo  padre  mi  disse  egli  del  male. 
E  ingiustamente  il  piglia,  e  mette  a  brani. 
Per  cagione  di  lor  scritta  è  la  favola 
Che  a  rii  pretesti  gl'innocenti  opprimono. 


340 
FAVOLA  II. 

Le  rane  che  vogliono  un  re. 

Quando  Atene  fiorìa  con  giuste  leggi 

Sconvolse  la  città  libertà  pazza, 

E  ruppe  la  licenza  il  freno  antico. 

Lì  (cospirando  i  cittadin  partiti) 

La  signoria  Pisistrato  si  tolse. 

Piangendo  gli  ateniesi  il  triste  giogo 

(Non  ch'ei  si  fosse  un  tiranno  crudele, 

Ma  perchè  grave  è  ogni  qualunque  peso 

A  chi  inai  noi  sostenne)  incominciaro 

A  spargerne  lamenti]  allora  Esopo 

Una  tal  favoletta  raccontò. 

Liberamente  vagando  le  rane 

Per  le  paludi,  con  grande  fracasso 

Chieser  da  Giove  un  re,  che  colla  forza 

Gli  sfrenati  costumi  reprimesse. 

Rise  il  padre  de'  numi,  e  un  travicello 

Lor  diede,  che  venuto  a  cader  giù, 

Alla  percossa  ed  al  suono  dell'acque 

Le  paurose  subito  atterrì. 

Lunga  pezza  rimasto  egli  sommerso 

Nel  limo,  una  per  caso  il  capo  fuori 

Mise  dal  stagno,  e  ben  squadrato  il  re, 

A  se  tutte  le  chiama.    Quelle,  posto 

Il  timore  da  banda,  a  gara  nuotano. 

E  nel  legno  sen  venne  a  seder  su 

La  turba  petulante.  Al  qual  com'  ebbero 

Fatto  ogni  obbrobrio  ed  ogni  contumelia, 


341 

Mandar  chiedendo  a  Giove  un  altro  re: 
Poiché  il  già  dato  er'  egli  inutil  cosa. 
Le  mandò  allora  un'  idro,  che  a  reo  morso 
A  stritolar  le  prese.  Invano,  invano 
Le  sì  dappoco  fuggono  la  morte: 
Il  terror  lor  precide  le  parole. 
Di  soppiatto  frattanto  dan  missioni 
A  Mercurio  per  Giove,  onde  soccorra 
Alle  afflitte.  Ma  allora  invece  il  dio, 
E  appunto,  disse,  perchè  il  vostro  bene 
Sopportar  non  voleste,  il  mal  vi  abbiate. 
Voi  pur,  soggiunse  Esopo,  o  cittadini, 
Ciò  sostenete  per  timor  del  peggio. 

FAVOLA  III. 

La  cornacchia  che  vestì  le  penne 
del  pavone. 

Perchè  non  ci  gloriam  di  roba  d'altri,. 
Ma  la  vita  meniam  ne' propri  panni, 
Esopo  quest'esempio  a  noi  produsse. 
Un  pallon  di  superbia,  una  cornacchia 
Vanagloriosa  si  tolse  le  penne 
Cadute  ad  un   pavone,  ed  adornossene. 
Quindi  i  suoi  dispregiando  s'immischiò 
Degli  pavoni  in  fra  la  bella  schiera. 
Eglino  alla  imprudente  giù  le  strappano 
Le  penne,  e  con  gli  rostri  via  la  cacciano. 
La  sciaurata  cornacchia  s'avviò 
A  ritornar,  gemendo,  al  proprio  stuolo; 
Ma,  rigettata,  n'ebbe  onta  e  vergogna. 


342 

Allora  una  di  lor  che  pria  spregiò: 
Se  fossi  stata  paga  a  star  con  noi, 
E  soffrir  quello  che  ti  die  natura, 
Né  avresti  fatto  il  duro  esperimento 
Di  quella  contumelia,  e  né  dovresti 
Ora  il  peso  sentir  della  repulsa. 

FAVOLA  IV. 

//  cane  ingordo. 

II  proprio  perde  chi  desia  l'altrui- 
Lungesso  un  fiume  mentre  della  carne 
Portava  un  cane,  in  lo  speglio  dell'acqua 
Vide  la  propria  effigie,  e  giudicando 
Che  un  altro  si  recasse  un'  altra  preda, 
Carpir  la  volle.  L'avido  deluso 
E  lasciò  andarsi  il  cibo  ch'avea  in  bocca, 
Né  perciò  potè  aver  quel  che  agognava. 

FAVOLA  V. 

La  vacca,  la  capra,  la  pecora  e  il  leone. 

La  lega  col  potente  è  mal  sicura. 
Testifica  il  mio  asserto  questa  favola. 
Una  vacca,  una  capra,  e  delle  ingiurie 
Una  paziente  pecora  si  furono 
Compagne  in  la  foresta  ad  un  leone. 
Costoro  preso  avendo  un  grosso  cervo. 
Così  il  leon  parlò,  fatte  le  parti: 
Io  mi  piglio  la  prima,  per  ragione 


343 

Che  mi  chiamo  il  leone;  la  seconda 
Me  la  darete  a  me,  per  esser  forte; 
Perchè  più  valgo,  mi  avrò  poi  la  terza; 
Chi  toccherà  la  quarta,  guai  a  lui  ! 
In  tal  maniera  solo  quel  ribaldo 
Tutta  quanta  la  preda  si  rubò. 

FAVOLA  VI. 

Le  rane  che  si  lamentarono  del  sole 
che  voleva  prender  moglie. 

Vide  Esopo  le  nozze  sontuose 
Di  un  ladro  suo  vicino,  e  nel  postutto 
Si  diede  a  cominciar  questo  racconto. 
Volendo  un  giorno  il  Sole  prender  moglie, 
Le  rane  un  grido  alzar  fino  alle  stelle. 
Mosso  Giove  a  quel  chiasso,  ne  dimanda 
Del  querelarsi  la  cagione;  allora 
Non  so  qual  dello  stagno  abitatrice: 
Or,  disse,  ei  solo  i  laghi  tutti  avvampa, 
Misere  e  noi  qui  fa  morir  senz'  acque; 
Deh  che  tìa  mai  se  crearà  figliuoli  ! 

FAVOLA  VII. 

La  volpe  ad  una  maschera  da  teatro. 

Una  volpe  per  caso  avea  veduta 
Da  teatro  una  maschera;  sclamò  : 
Che  speciosa  beltà  senza  cervello  ! 


344 

Questo  ò  por  lor,  cui  die  gloria  ed  onore 
Fortuna,  ma  lor  tolse  il  comun  senso. 

FAVOLA  Vili. 

//  lupo  e  la  gru. 

Chi  desia  la  mercè  del  benefizio 

Da  dei  ribaldi  doppiamente  falla; 

Prima  perchè  dà  aiuto  a  chi  n'  è  indegno, 

Poi  perchè  già  non  può  scamparne  immune. 

Avendo  un  lupo  un  osso  divorato, 

Gli  si  piantò  fra  mezzo  delle  fauci. 

Vinto  dal  gran  dolore  cominciò 

E  questo  e  quello  ad  allettare  a  prezzo 

Che  gli  cavasser  fuori  quel  malanno. 

Finalmente  una  gru  vi  ci  fu  indotta, 

Ma  previo  un  giuramento;  ed  affidando 

Quel  sì  lungo  suo  collo  in  gola  al  lupo, 

Gli  adoprò  medicina  con  gran  rischio. 

Per  cui  chiedendo  il  pattuito  premio: 

Una  ingrata  se' ,  disse,  la  qual  fuori 

Abbi  potuto,  trarre  il  capo  illeso 

Dalla  mia  bocca,  e  chiegga  la  mercede. 


345 


Necrologia  di  Agostino  Sasso 


v< 


oglianio  sìa  questo  uno  dei  pochissimi  casi,  ne'quali 
avviene  che  si  consacrino  alla  memoria  d'un  estinto 
semplici  e  sincere  parole,  senza  pur  l'ombra  di  quella 
vanità  vestita  a  bruno,  di  quella  postuma  adulazione 
che  spesso  profana  il  sepolcro  senza  riuscire  a  sal- 
varlo dall'oblìo.  Parliamo  d'una  vita  tutta  spesa  in 
vantaggio  della  scienza  e  del  pubblico  insegnamento 
di  essa,  con  operosità  tanto  costante  quanto  mode- 
sta; e  invero  ci  sembra  soddisfare  quasi  ad  un  co- 
mune debito  de'nostri  concittadini  ,  tentando  (  per 
quanto  ci  è  dato)  che  abbia  fra  noi  meritato  segno 
di  onoranza  e  di  compianto  il  nome  del  dottor  Ago- 
slino  Sasso,  professore  di  mineralogia  e  zoologia  nel- 
l'ateneo genovese,  testé  mancato  ai  vivi  ,  lasciando 
di  sé  molto  desiderio  fra  i  colleghi,  e  fra  ogni  classe 
di  eulte  e  gentili  persone. 

Agostino  Sasso,  nato  il  1794  nel  borgo  di  Ceriale 
presso  Albenga,  sortiva  una  inclinazione  spontanea, 
predominante  agli  studi  delle  scienze  naturali  ;  una 
di  quelle  inclinazioni  che  si  manifestano  fin  dai  più 
teneri  anni,  e  senza  esitare  palesano  al  fanciullo  la 
via  preferibile  per  l'ingegno  suo,  concentrando  sopra 
un  solo  oggetto  le  forze  della  mente.  Rara  fortuna, 
poiché  salva  dalle  distrazioni  e  dagl'  infruttuosi 
tentativi  che  per  lo  piii  riempiono  di  perplessità  e 
di  sfiducia  i  primi  anni  dello  studio  ,  e  spesso  ne 
isteriliscono  o  ritardano  il  frutto.  Per  lo  che,  finiti 


346 

appena  nella  università  di  Pavia  gli  studi  medici,  co- 
minciati in  quella  di  Genova,  fu  sollecito  di  recarsi 
a  Parigi,  ivi  tratto  dalla  copia  dei  mezzi  che  offrono 
ai  cultori  della  botanica,  della  zoologia,  della  mine- 
ralogia tante  insigni  raccolte  d'ogni  maniera,  ed  er- 
bari, e  giardini,  e  musei,  senza  contare  la  presenza 
di  parecchi  scienziati  di  fama  europea  che  allora  fio- 
rivano in  quella  metropoli.  Coi  De  Candolle,  coi  Bro- 
gniart,  coi  Cuvier  trovò  il  giovine  Sasso  per  così  dire 
viva  e  parlante  la  scienza  nella  sua  più  alta  perfe- 
zione; potè  in  breve  raccogliere  dalla  loro  voce  quel 
che  nemmeno  a  fatica  s'impara  svolgendone  i  libri, 
cioè  l'intimo  e  grande  concetto  scientifico;  e  con  tale 
profìtto,  che  non  solo  felice  discepolo,  ma  fu  anche 
stimato  compagno  delle  loro  dotte  adunanze.  Ne  fa 
fede  l'assidua  relazione  che  in  seguito  mantenne  anche 
lontano  per  carteggio,  massime  coli'  ili.  Brogniart. 
Tornato  in  Italia,  questa  percorse  con  diversi  viaggi, 
durante  i  quali  conobbe  i  migliori  naturalisti  della 
penisola,  e  ne  fu  vantaggiosamente  conosciuto,  e  con 
essi  rimase  d'allora  poi  legato  da  comunanza  di  studi; 
ci  basti  citare  di  questo  numero  i  chiarissimi  profes- 
sori Bertoloni  di  Bologna,  e  Savi  di  Pisa. 

Nel  1827  dava  il  primo  pubblico  saggio  del  suo 
svariato  sapere  coli'  opuscolo  sulla  geologia  e  sulle 
conchiglie  fossili  della  Liguria;  e  fu  la  prima  mono- 
grafia che  qui  comparisse  di  tali  studi  esercitati  sul 
ligure  suolo.  Inutile  notare  come  in  siffatto  ramo  di 
nuova  scienza  già  si  distinguesse  allora,  e  come  poscia 
vi  risplendesse  e  ne  ottenesse  il  primato  nella  patria 
nostra  il  chiar.  nostro  concittadino  Lorenzo  Pareto. 
Accennando  a  quel  saggio  del  Sasso,  volemmo  solo 


347 

iTietterne  il  luce  il  merito  relativo  all'epoca,  e  signi- 
ficare com'egli  avvertisse  una  lacuna  che  poi  venne 
così  felicemente  colmata.  Ed  intanto  abbiamo  occa- 
sione di  rendere  giustizia  ad  un  piegio  singolare  del 
nostro  sasso;  il  quale,  mentre  tuttodì  si  vede  che  la 
coltura  d'un  solo  ramo  della  scienza  naturale  basta 
ad  occupare  la  vita  ed  a  formare  la  fama  di  ogni  più 
distinto  scienziato  ,  riuscì  valente  e  profondamente 
versato  in  tutti  ,  e  ne  diede  non  dubbie  prove.  Si 
occupò  invero  con  eguale  successo  della  zoologia  , 
della  botanica,  della  mineralogia;  fece  assiduo  studio 
dell'anatomia  comparata;  ebbe,  come  si  è  detto,  vaste 
cognizioni  e  vedute  nella  geologia.  Il  che  spiega  come 
in  progresso  di  tempo  si  trovasse  onorato  della  stima 
e  dell'amicizia  di  molti  egregi  scienziati,  cultori  dei 
diversi  rami  della  scienza,  e  insieme  corrispondesse 
col  Bonaparte,  col  Gene,  come  poi  col  suo  successore 
Defilippi,  col  Moris,  col  Moretti,  col  grande  Oken  ecc. 
Dalle  lettere  dei  quali  apparisce  in  quale  pregio  te- 
nessero la  sua  dottrina  e  la  sua  corrispondenza. 

Il  noto  suo  merito  valevagli  nel  1833  la  nomina 
di  professore  supplementario  nella  università  di  Ge- 
nova per  la  cattedra  di  botanica  e  di  storia  naturale, 
fino  allora  occupata  dall'ili.  Viviani,  il  quale  con  do- 
lore di  tutti  trovavasi  impedito  dall'età  e  dalie  ma- 
lattie. Quest'  impedimento  non  cessò,  e  pochi  anni 
appresso  la  morte  rapivaci  l'ili,  botanico.  Il  Sasso  do- 
vette durare  nell'ufficio  di  supplementario  fino  al  1835. 
Gli  venne  allora  confidata  la  direzione  del  gabinetto 
di  storia  naturale,  e  accompagnata  dal  titolo  di  profes- 
sore onorario,  come  onorevole  contrassegno  (dicevasi) 
del  pregio  in  cui  si  teneva  la  di  lui  persona  e  le  co- 


348 

gnizìoni  di  cai  era  fornito.  Nel  1837  sottentrò  inte- 
ramente, e  collo  stesso  titolo,  al  luogo  dell'estinto 
Viviani;  carica  esercitata  fino  al  novembre  1849,  in 
cui  venne  nominato  a  professore  di  mineralogia  e 
zoologia. 

Il  suo  passaggio  in  questi  uffici  all'università  ge- 
novese rimane  attestalo  da  segni  onorevolissimi  e 
non  perituri,  i  quali  dimostreranno  ognora  quale  di- 
ligente e  fruttuosa  opera  prestasse  all'  incremento 
della  scienza  botanica,  zoologica,  e  mineralogica,  da 
lui  professate. 

Egli  infatti  deve  riconoscersi  come  il  vero  fon- 
datore del  museo  di  Genova,  il  quale  può  dirsi  con 
piena  esattezza  che  prima  di  lui  non  esisteva.  Arricchì 
e  mantenne  in  buon  ordine  l'erbario.  Arricchì  pure 
di  piante  l'orto  botanico;  e  fra  le  altre  testimonianze, 
che  se  ne  potrebbero  addurre,  citiamo  una  onorevo- 
lissima lettera  della  deputazione  agli  studi  per  un 
viaggio  da  lui  a  tale  intento  intrapreso  nelle  alpi  ma- 
rittime. La  raccolta  dei  minerali  fece  più  copiosa  ed 
utile  immensamente,  levandone  i  molti  saggi  doppi  e 
ripetuti,  accrescendola  di  nuovi  e  pregevoli. 

Circa  al  museo  zoologico,  del  quale  gli  appartiene 
in  principale  modo  il  merito,  fece  nell'S."  congresso 
degli  scienziati,  radunato  in  Genova ,  bella  attesta- 
zione di  encomio  la  commissione  deputata  ad  esami- 
narlo; la  quale,  composta  di  giudici  competentissimi, 
cioè  del  principe  Bonaparte  e  del  prof.  Gene  ,  di- 
chiarava =  quello  slabilimenlo  a  niuno  altro  secondo, 
cosi  per  la  perfetta  conservazione  degli  oggetti,  come 
per  la  importanza  di  molte  specie,  e  principalmente  di 
pesci.  =  Si  confessò  quindi  il  Bonaparte  -  sommamente 


349 

lusingalo  che  il  prof.  Sasso  abbia  prescelto  il  suo  si- 
stema pel  coordinamento  della  classe  dei  pesci  adot- 
tando la  sua  più  recente  nomenclatura,  benissimo  com- 
prendendo le  sue  intenzioni,  ed  applicando  pienamente 
i  suoi  principii  a  quella  classificazione.  =  Ed  il  prof. 
Gène  proponeva  solenni  ringraziamenti  al  professore 
e  direttore  del  museo  genovese:  al  che  la  sessione  tutta 
annuiva.  Giudizio  autorevole  quanto  asatto  ,  poiché 
il  museo  di  Genova,  per  le  cure  del  Sasso,  riguardo 
a>esci  è  il  più  ricco  d'Italia,  pareggia  per  gli  uccelli 
quello  di  Torino,  ed  ha  grande  copia  di  conchi^ie 
fossili. 

Confermano  quanto  si  è  detto  del  suo  vario  sa- 
pere le  ossei'vazioni  botaniche  inserite  negli  atti  della 
riunione  degli  scienziati  a  Pisa,  pag.  159,  ed  il  ca- 
talogo dei  mammiferi,  dei  rettili,  e  dei  pesci  della 
Liguria  nella  guida  di  Genova  per  gli  scienziati,  da  lui 
compilato  colle  analoghe  note.  E  quando  fu  chiamato 
a  leggere  zoologia  ,  meravigliò  vederlo  cominciare 
come  all'improvviso  una  serie  di  dotte  ed  ordinatis- 
sime  lezioni  sopra  un  ramo  d' insegnamento  affatto 
nuovo  nel  nostro  paese,  perchè  non  prima  svolto  mai 
nella  nostra  università;  tanto  egli  avea  famigliari  e 
pronte  senza  bisogno  di  meditato  lavoro  le  numerose 
ed  ardue  cognizioni  di  tale  parte  dello  scibile. 

^  Se  come  professore  si  cattivò  la  stima  e  l'affetto 
de'colleghi  e  degli  studenti,  merita  come  scienziato 
zelantissimo  un  encomio  speciale  in  Italia  ;  poiché 
fra  noi  questo  genere  di  studi  non  offre  l'allettamento 
di  lucrose  cattedre  e  di  pingui  stipendi  che  altrove» 
ed  in  ispecie  nella  Germania,  ricompensano  la  spinosa 
e  costante  occupazione  dei  naturalisti;  e  poi  si  tratta 


350 

di  scienza  tutta  teorica,  che  non  solo  manca  di  pro- 
fessionale ed  utile  applicazione  nella  società,  ma  ri- 
chiede eziandio  continuo  sacrifizio  di  tempo  e  di  da- 
naro, e  distoglie  chiunque  l'ama  da  ogni  altra  cura 
e  da  ogni  altro  lavoro.  Né  cosi  freq  uente  è  fra  noi 
r  esempio  di  doviziosi  che  delle  scienze  naturali  e 
de'  viaggi  si  facciano  abituale  e  nobile  passatempo  , 
associandosene  volentieri  gli  studiosi.  Sonvi  poi  quelli 
che  pregiano  solo  la  parte  di  scienza  suscettiva  d'im- 
mediata applicazione,  non  vedendo  come  questa  ap- 
punto prepari  elementi  all'avvenire,  e  sia  madre  di 
tutto  il  resto.  Chi  dunque  in  Italia  dedica,  come  il 
Sasso  fece,  tempo  e  mezzi  a  tale  scopo,  va  lodato 
per  singolare  amore  alla  scienza,  e  merita  essere  pro- 
posto ad  imitabile  esempio. 

Negli  ultimi  anni  di  sua  vita  intendeva  ad  am- 
pliare il  catalogo  della  guida  di  Genova,  facendo  una 
vasta  opera  che  avrebbe  compresi  e  descritti  i  pesci 
tutti  della  Liguria  non  solo,  ma  e  dell'intero  stato. 
Radunò  con  assidua  fatica  e  con  discernimento  sin- 
golare i  materiali  di  essa  opera;  e  potea  vedere  in 
breve  la  luce,  quando  il  Sasso,  benché  in  quasi  ses- 
santenne età,  pure  vegeto  ancora  e  vigoroso,  dovette 
con  sentimenti  di  vero  cattolico,  coni'  era  vissuto  , 
soccombere  (anche  per  causa  di  troppo  grave  e  non 
intermesso  lavoro)  a  breve  e  violento  morbo  il  7  apri- 
le 1854. 

Degli  onori  da  esso  ricevuti,  diremo  che  fu  pre- 
side della  facoltà  di  scienze  fìsiche  nel  nostro  ateneo, 
e  eh'  ebbe  la  croce  di  cavaliere  dei  ss.  Maurizio  e 
Lazzaro;  e  ciò  per  averne  occasione  di  notare  quanto 
fosse  alieno  dal  brigarli  non  solo,  ma  dal  pure  de- 


351 

siderarli,  potendosi  di  lui  dire  con  verità  quel  che  si 
trova  nell'elogio  fatto  dall'  ili.  Arago  di  un  valente 
quanto  modesto  scienziato  —  che  tutta  la  vita  intese 
alla  scienza,  non  a'premi  né  alle  ambizioni  di  essa: 
e  che  il  suo  merito  sarebbe  rimasto  occulto,  se  a  lui 
fosse  toccato  di  proclamarlo.  — 
Genova  V.  luglio  1854. 


Brieve  introduzione  a  dittare  di  maestro  Giovanni 
Bonandree  da  Bologna  scritta  nel  buon  secolo  della 
lingua  e  non  mai  fin  qui  stampata.  Bologna  1854. 


I 


1  chiarissimo  letterato  Francesco  Zambrini  ,  testé 
tramutatosi  di  faenza  in  Bologna  per  attendere  me- 
glio all'istruzione  della  numerosa  sua  prole,  ha  vo- 
luto con  una  squisita  gentilezza  d'animo  regalare  ai 
suoi  novelli  concittadini  un'operetta  di  antico  scrit- 
tore bolognese,  la  quale  giaceva  nell'obblivione  priva 
dell'onore  della  stampa.  Essa  è  la  Brieve  introduzione 
a  dittare  di  maestro  Giovanni  Bonandree  di  sopra 
enunciata,  che  l'indefesso  filologo  e  dilige ntissimo 
cercatore  di  codici  ha  tratto  dalla  doviziosa  biblio- 
teca riccardiana,  ed  ha  messa  alla  luce  in  Bologna 
corredandola  di  poche  ma  giudiziose  annotazioni.  Chi 
cercasse  in  questo  libro  un  compiuto  trattato  di  ret- 
torica  o  di  eloquenza,  s'ingannerebbe  a  partito:  esso 
è  una  semplice  istruzione  per  iscrivere  lettere,  non 
però  famigliari,  ma,  come  oggidì  si  dice ,  ufficiali  ; 
imperciocché  dittare  aveva  nel  trecento  questo  signi- 
ficato, conforme  insegna  il  Perticari  nella  Difesa  di 


352 

Dante  ("ip.  6,  affermando  che  gli  antichi  chiamavano 
dillalore  il  segretario  di  stato,  ed  aggiungendo  in  nota 
queste  parole:  Scopriamo  die  questo  era  il  titolo  de'' se- 
gretari da  due  luoghi  del  Villani  non  bene  osservati. 
Il  quale  dovendo  dire  di  questo  Piero  (dalle  Vigne) 
segretario  di  Federico^  lo  chiama  il  suo  buon  dittatore 
(6,  23,  2);  e  volendo  significare  che  Brunetto  fu  se- 
gretario della  repubbhlica  di  Firenze,  dice  cliei  fu  dit- 
tatore del  comune  (5,  Vili.  8,  10,  2).  V introduzione  a 
dittare  del  Bonandree  non  può  certamente  proporvsi 
a  regola  di  chi  voglia  ora  scriver  lettere,  ma  serve 
mirabilmente  alla  più  occulta  storia  della  nostra  let- 
teratura, massime  per  ciò  che  si  riferisce  allo  stile 
epistalare,  e  può  di  qualche  bella  voce  e  frase  ar- 
ricchire la  nostra  lingua,  o  convalidare  l'uso  che  se 
ne  fa  dai  moderni.  Belli  ci  sembrano  i  nuovi  voca- 
boli notati  dallo  Zambrini:  capitale  aggiunto  a  lettera 
per  maiuscola;  causativa  addiettivo;  famulato  per  tri- 
buto d'osse(iuio,  specie  di  dovuta  servitii;  risponsore, 
subdistinzione,  suspensivo,  lemevole,  Iransiezione  ecc. 
che  mancano  al  vocabolario;  e  i  seguenti  che  vi  sono 
registrati,  ma  con  esempi  moderni:  deprecazione,  de- 
scrizione, enunziazione,  illative,  vulgarilà  ecc.  Espres- 
sive e  leggiadre  sono  ,  a  mo'  di  esempio  ,  le  frasi  : 
Recare  all'udire  di  alcuno  qualche  cosa;  entrare  in- 
nanzi al  corso  delle  lettere  ;  arrecarsi  a  tiranneria  : 
Le  quali  (novelle)  con  ciò  sia  cosa  che  sieno  giudicate 
essere  degne  della  vostra  notizia,  benché  la  vulgarità 
della  fama,  la  quale  entra   innanzi  al  corso  delle 

LETTERE,  abbia  potuto  AVERLE  RECATE  AL   VOSTRO  UDIRE, 

nondimeno  ecc.   (Rub.  32).    Alcuni  indi  natii,  usati  di 
cercare  il  ferro  stilano,  arrecarono  sé  a  tiranneria 


353 

(Rub.  4-8).  Ed  oltre  a  queste  parecchie  altre  che  mi 
passo  dal  riportare,  potendo  chiunque  cerchi  quel  vo- 
lumetto per  se  stesso  avvisarle. 

Venendo  a  parlare  delle  note,  dico  ch'esse  sono 
brevissime,  ma  succose,  e  dimostrano  la  molta  pe- 
rizia del  signor  Zambrini  nelle  cose  della  nostra  lin- 
gua. Soltanto  egli,  cortese  com'è,  mi  permetterà  che 
io  accenni  un  mio  dubbio  sulla  parola  addiettivazione 
ch'egli  interpreta  a  pag.  12  per  mansione  o  sopra- 
scritta, mentre  a  me  pare  che  significhi  l'applicazio- 
ne 0  raggiungimento  dell'addiettivo  o  degli  addiet- 
tivi  al  nome  sostantivo;  e  direi  che  fosse  l'astratto 
di  quel  addiettivare  che  trovasi  a  pag.  24;  addietti- 
vando  gli  loro  nomi  secondo  le  loro  dignità  ecc.  Alle 
parole  del  testo  sono  accusato  illatore,  il  chiarissi- 
mo editore  appone  questa  nota:  Latinismo:  latore; 
aggiuntovi  anche  una  sillaba  avanti,  come  aveano  per 
usanza  gli  antichi;  onde  vedemmo  più,  addietro  amagio- 

NE  per    MAGIONE    6    APPENSATA    pcr     PENSATA.      Mauca 

questa  parola  a  vocabolari.  Che  sia  un  pretto  latinis- 
mo, non  ha  dubbio;  illatore  deriva  dal  verbo  inferre, 
e  l'abbiamo  anche  nella  sapientissima  sentenza  di 
Boezio:  Miserior  igilur  libi  iniuriae  illator,  quam  acce- 
ptor  esse  videretur;  ma  non  reputo  che  qui  stia  in 
luogo  di  latore,  aggiuntavi  una  sillaba  secondo  l'uso 
degli  antichi;  latore  è  semplicemente  portatore;  illa- 
tore, portatore  contro  o  dentro.  Così  parmi  che  alla 
Rub.  31  ninna  illazione  d'ingiuria  non  debba  spiegarsi 
illazione  per  azione,  come  nella  nota,  ma  sibbene  per 
l'azione  del  portar  contro,  Vinferre  de'  latini. 

Quantunque  l'accuratissimo  editore,  secondo  che 
ne  avvisa  nella  sua  prefazione,  scritta  con  molta  gra- 
G.A.T.CXXXIV.  23 


354 

zia  di  vocaboli  e  di  modi,  abbia  posto  ogni  studio 
nell'interpunzione  per  chiarire  il  senso  del  testo  offeso 
talvolta  nella  sintassi,  nulladimeno  io  credo  vi  reste- 
rebbe ancora  da  fare  qualche  cosa  giovandosi  delle 
opere  latine,  da  cui  trassero  i  trecentisti  in  grande 
parte  i  loro  ipsegnamenti,  oppure  di  quelle  de'  pre- 
cedenti 0  contemporanei  scrittori  che  la  medesima 
materia  ebbero  alle  mani.  Per  atto  di  esempio  a 
pag.  47  una  diversa  interpunzione  mette  in  chiaro 
questo  luogo  assai  oscuro:  E  se  gli  ablativi  (parlasi 
della  brevità)  si  pongono  assohuamenle  ,  prelermisso 
al  postutto  trasgressione  in  altra  materia:  quello  che 
non  nuocie  e  non  fa  prò.  E  la  repetizione  rf'  alcuno 
detto,  aperta  faranno  la  narrazione,  la  espressione  di 
ciascuna  cosa  in  quello  modo,  che  prima  fu  fatta,  l'or- 
dine osservato  delle  cose  e  de""  tempi,  e  V osservazione 
di  tutte  le  regole  della  brevità.  Tanta  confusione  viene 
tolta,  a  mio  avviso,  punteggiando  in  questa  maniera; 
pretermisso  al  postutto  trasgressione  in  altra  materia, 
quello  che  non  nuocie  e  non  fa  prò,  e  la  repetizione 
d'alcuno  detto.  Aperta  faranno  la  narrazione  la  espres" 
sione  ecc.  Che  poi  tale  debba  essere  la  punteggia- 
tura ed  il  senso,  Io  prova  evidentemente  questo  passo 
del  Fiore  di  Rettorica  analogo  a  quello  del  Bonan- 
dree:  E  colui  che  vuole  bene  il  fallo  narrare  non  deve 
solamente  tacere  il  fatto  che  gli  fa  danno,  ma  eziandio 
quello  che  non  gli  fa  né  danno  né  prode;  e  la  parola 
che  ha  detto  una  volta  non  la  ridica  poscia  più  come 

in  questo  modo Chiaro  ed  aperto  si 

può  il  fatto  narrare,  se  colui  che  favella,  dice  vera- 
mente il  fatto  com'  è  slato  ecc.  Il  rinvenimento  di  altro 
manoscritto  porgerebbe  forse  modo  di  rischiarare  di 


355 
qualche  luce  alcune  allie  oscurità  del  testo,  le  quali 
impediscono  al  lettore  di  poterne  agevolmente  trarre 
l'intendimento  ;  senza  di  tale  aiuto  non  mi  porrei 
all'  opera  di  studiarne  l'emendazione  ,  distogliendo- 
mene soprattutto  il  pensiero:  che  se  ciò  non  ha  po- 
tuto il  dotto  Zambrini,  espertissimo  di  siffatti  studi, 
non  potrei  certo  io  che  ne  sono  al  tutto  sprovveduto. 
Queste  poche  osservazioni  non  hanno  per  fine  di 
scemare  il  merito  del  diligente  editore,  a  cui  pro- 
fesso altissima  stima;  ho  voluto  con  esse  mostrare 
che  le  mie  lodi  non  sono  figlie  di  adulazione,  e  che 
dove  ho  trovato  da  notare  qualche  cosa,  l'ho  fatto 
con  quella  franchezza,  cui  m' inspira  la  rara  bontà 
dello  Zambrini  e  l'amore  sincero  ch'egli  professa  alle 
nostre  lettere.  Bologna  ha  accolto  il  dono  con  gran- 
dissimo piacere,  e  va  lieta  di  avere  acquistato  questo 
fiore  di  letterato,  facendo  voti  perchè  egli  possa  con- 
durre a  termine  l'altro  più  rilevante  lavoro,  a  cui  ha 
posto  mano,  intorno  alla  Fiorita  d'Italia  di  Arman- 
nino  giudice  di  Bologna ,  onde  parlò  assai  dotta- 
mente il  chiarissimo  Betti  e  porse  all'Italia  alcuni 
saggi.  Deh!  possano  le  cure  del  benemerito  Zambrini 
far  rifiorire  appo  noi  l'amore  della  nostra  vaghissi- 
ma hngua  troppo  negletta,  e  mettere  desiderio  nella 
bolognese  gioventù  di  non  tralignare  dagli  illustri 
suoi  antenati! 

Enrico  Sassoli. 


356 


Elogio  della  nobil  donna  signora  Maddalena   Pilli 
nei  Laparelli  Baldacchini. 


M< 


Laddalena  Pitti  ,  nata  in  Firenze  ai  20  d'  ago- 
sto 1795,  fu  figliuola  di  Ottavio  Pitti  cav.  di  santo 
Stefano,  ultimo  del  ceppo  del  eelebratissimo  Luca, 
e  di  Caterina  del  cavali^r  Verissimo  Pietro  Ruschi 
pisano 

Ella  fin  da  pìccola  fece  di  sé  pronosticare  una 
eccellente  riuscita  così  per  la  prontezza  o  tenacità 
di  sua  memoria,  come  per  l'ingegno  che  sortì  assai 
docile.  Mancatole  il  padre  in  età  assai,  tenera  fu  po- 
sta dalla  madre  ad  essere  educata  nel  patrio  ritiro 
delle  salesiane  detto  il  Conventino.  Appena  messo 
piede  in  quell'  asilo  di  pace,  prese  a  comporsi  allo 
specchio  delle  fanciulle  più  lodate  sì  nella  pietà  , 
ch'ebbe  sempre  carissima,  sì  nello  studio  e  nei  don- 
neschi lavori  :  e  le  riuscì  di  sorte,  che  ben  presto 
venne  in  tanta  grazia  ed  affetto  delle  sue  maestre, 
'^^  più  né  meglio  non  si  sarebbe  potuto  deside- 
rare. Affabile  per  natura  pudica,  modesta,  arrende- 
vole, si  diportò  di  guisa  colle  compagne  che  in  breve 
s'ebbe  guadagnato  il  cuore  di  ciascuna. 

Tornata  a  casa,  fu  di  quella  l'ornamento  più  vago, 
e  l'amore  e  la  delizia  della  madre  ,  cui  amò  e  ri- 
verì in  ogni  tempo  con  la  maggiore  diligenza.  Pre- 
mortale di  pochi  mesi ,  tale  ne  portò  un  dolore  al 
cuore  da  non  potersi  scrivere  ,  come  ben  dice  Ja 
memoria  con  che  ne  volle  raccomandato  il  caro  nome 
jii  futuri, 


357 

Unitasi  di  26  anni  in  matrimonio  con  Piei'anto- 
nio  Laparelli  Baldacchini  di  Cortona,  cavaliere  adorno 
d'  ogni  pili  specchiata  virtiì  ,  visse  con  esso  lui  in 
un  sol  volere,  senza  mai  un  disgusto,  33  anni;  la- 
sciando in  dubbio  se  più  coll'amore,  o  coH'opinione 
di  sue  virtù  se  l'ebbe  caramente  affezionato.  Mode- 
ratissima di  desiderii,  e  al  tutto  aliena  da  ogni  am- 
bizione di  maneggio,  commise  volenterosa  al  diletto 
consorte  il  governo  del  suo  ricco  avito  patrimonio. 
Con  lui  procacciò  diligentemente  una  buona  e  santa 
educazione  alla  prole,  accostumandola  per  tempo  a 
non  pregiare  né  amare  altro  che  Dio  e  la  vìrtìi,  la 
chiesa  e  la  religione.  De'  nove  figliuoli  ehe  partorì, 
a  nessuno    venne  mai  meno  pel   più   piccolo  ufficio 
di  amorosissima  madre.    Dinanzata  nel  sepolcro  da 
cinque  ne  pianse  amaramente   la   perdita  ,    tuttavia 
racconsolandosi  nella   cristiana  certezza  d'aver  dato 
al  cielo  altrettanti  angioletti.  Tutti  i  doveri  di  ma- 
dre di  famiglia    adempiè  per  forma   da    essere  alle 
altre  dame    posta  in  esempio.    Spesso   si   accostava 
alla  sacra  mensa,   e  vi  riceveva  con  fervente  devo-' 
zione  il  Corpo    di    Cristo.    Della  vergine    Maria    e 
de'  santi  era  così  devota  che  nulla  più:  e  della  glo- 
ria di  Dio  e  della  chiesa  tanto  zelante  quanto  po- 
teva essere.  Sui  doveri  de'  servi,  che  tirava  all'amore 
di  sé  colle  dolci  maniere,  e  alla  riverenza  col  nobile 
contegno,  non  lasciò  mai  di  vegliare  attentamente. 
Tenera  ognora  del  buon  costume  e  della  salute  delle 
anime,  si  diede  gran  pena  per  salvare  la  pericolante 
pudicizia.  A  molte  povere  fanciulle    procacciò    con 
larghi  soccorsi  oneste  nozze:  ad  altre  aprì  l'ingresso 
in  questo  o  in  quel  pio  monastero.   Ad  alcuni    che 


358 
ardevano  di  rendersi  religiosi  senza  averne  il  modo, 
agevolò  la  via,  assegnando  loro  tutta  o  buona  parte 
della  spesa  occorrente.  De'  poveri  fu  talmente  com- 
passionevole e  soccorritrice,  che  parve  talvolta  vo- 
lesse trasandare  la  misura  del  suo  ricco  stato.  In- 
chinevole per  indole  alle  opere  di  misericordia,  non 
andò  settimana  che  non  visitasse  le  pubbliche  car- 
ceri ,  né  di  quelle  si  partì  mai  che  non  avesse  li- 
beralmente consolati  i  poveri  prigionieri.  In  questi 
atti  di  sublime  carità,  ed  in  altri  simili,  ebbe  que- 
sta gentildonna  in  costume  di  spendere  la  più  parte 
del  suo  mensuale  assegnamento.  Onde  non  è  a  dire 
se.  la  morte  sua  fu  giudicata  una  pubblica  sventura; 
e  se  il  pianto  e  le  lagrime  de'  poverelli  e  delle  ve- 
dove l'accompagnarono  al  sepolcro. 

Costei,  donna  in  vero  non  men  prudente  e  man- 
sueta che  equanime  nelle  avversità,  dopo  essersi  dis- 
setata più  volte  ai  fonti  della  religione,  passò  tran- 
quillamente al  Signore  ai  20  di  aprile  1852,  di  56 
anni  e  8  mesi  d'età;  lasciando  al  marito,  ai  figliuoli, 
esempi  rari  di  molte  virtù  da  lei  cristianamente  eser- 
citate, e  un  desiderio  così  vivo  di  sé  da  non  essere 
racconsolato  che  in  paradiso. 

Uno  dei  molti,  che  hanno  in  grandissima  stima 
la  casa  Laparelli  Baldacchini  ,  reputò  ufiìcio  degno 
lo  scrivere  questi  fatti  ,  e  '1  pubblicarli  nel  primo 
anniversario  della  piissima  defunta  ,  così  per  ono- 
rai^ne  la  cara  memoria,  come  per  conforto  al  dolore 
sempre  acerbissimo  del  marito,  de'  figliuoli,  e  de'  pa- 
renti. 


359 


QUI  RIPOSA  NEL  SIGNORE 

MADDALENA  PITTI  FIORENTINA 

ULTIMA  DI  SUA  ANTICA  E  CHIARA  FAMIGLIA 

DAMA  INNOCENTISSIMA 

CHE  IN  LVI  ANNI  E  Vm  MESI  DI  VITA 

NON  EBBE  IN  DELIZIA  CHE  LE  CURE  DOMESTICHE 

L'AMORE  AL  CONSORTE  E  ALLA  PROLE 

COI   DOVERI  TUTTI  DEL  BUON  CRISTIANO 

MASSIME  LA  PIETÀ'  VERSO  I  POVERI 

TOLTA  IL  DI'  XX  DI  APRILE  MDCCCLH 

AL  MARITO  PIERANTONIO  LAPARELLI  BALDACCHINI 

CAVALIERE  DI  S.  STEFANO 

AI  FIGLHJOLI  DOTT.  GIAMBATISTA  CANONICO 

DOTT.  NICOLO',  PORZIA  NE' LEONI  DI  TODI,  E  FAUSTINA 

TUTTI  DESOLATISSIMI 


DI    G.    iUANUZZI 


360 

vXrTe^ta^ 


La  chiesa  romana  riconosciuta  alla  sua  carila  verso 
il  prossimo  per  la  vera  chiesa  di  Gesù  Cristo  , 
opera  del  cardinale  Gaetano  Baluffi  arcivescovo 
vescovo  d'Imola.  8."  Imola  tipografia  Galeati  1854 
(Un  volume   di  pag.  Vili  e  476). 


I 


I  nome  dell' emìnentissimo  Baluffi  è  celebre  nella 
nostra  letteratura  così  ecclesiastica,  come  civile.  Or 
ecco  un  parto  novello  della  sua  nobile  mente:  di  che 
vorranno  rendergli  grazie  quanti  adorano  questa  gran 
madre  di  santità  e  civiltà ,  eh'  è  la  chiesa  romana. 
Osiamo  dire,  che  libro  più  dotto,  elegante  ed  insi- 
gne non  è  forse  uscito  fin  qui  a  mostrare  ciò  che 
la  prefata  santissima  chiesa  di  G.  C.  ha  operato  di 
veramente  altissimo  a  prò  della  carità  del  prossimo 
in  tutte  le  nazioni  :  perciocché  V  esimio  porporato 
non  solo  vi  tratta  eruditissimamente,  secondo  che  è 
da  lui,  delle  cose  operate  in  tutti  i  passati  secoli, 
ma  sì  delle  moderne,  modernissime,  delle  quali  ha 
fatto  sì  prezioso  tesoro  nella  sua  opera  anzi  stori- 
ca ,  che  dommatica.  Oh!  la  leggano  e  senza  studio 
di  parte  la  meditino  coloro  che  vogliono  ancora  es- 
ser ciechi  alla  luce,  e  soprattutto  i  veri  devoti  delle 
verità  cattoliche  facciano  di  tradurla  nelle  varie  lin- 
gue d'Europa  e  del  mondo:  che  col  nome  del  car- 
dinale Baluffi  renderanno  sempre  più  chiare  e  fa- 
mose fra  le  genti  le  immortali  beneficenze  recate  al- 
l'umanità dalla  Sede  Apostolica. 


361 

Osservazioni  critiche  su  quanto  scrisse  sul  calendario 
il  Delambre  ,  e  replica  alla  sua  risposta  contro 
parte  delle  medesime  inserite  nel  primo  libro  della 
sua  storia  delV  astronomia  moderna,  di  Lodovico 
CÀccolini  commendatore  di  s.  Gio.  Battista  di  Or- 
vieto del  S.  M.  0.  G.  ,  già  direttore  della  spe- 
cola e  professore  di  astronomia  nell'università  di 
Bologna  ec.  8."  Boma  tipografia  Salviucci  1853- 
(Sono  pag.  Vili   e   163). 

Ju  nota  l'avversioiTe  che  aveva  il  Delambre  alla  cor- 
rezione del  calendario  fatta  per  ordine  del  pontefice 
Gregorio  XIII:  correzione  così  gloriosa  al  pontificato 
e  all'Italia.  Doveva  egli  perciò  mostrarsi  anche  av- 
verso alla  dimostrazione  apologetica  che  ne  avea  pub- 
blicato l'illustre  commendator  Ciccolini.  Ma  non  la- 
sciò l'italiano  sopraffarsi  dalle  ciance  del  francese:  ed 
ecco  la  risposta  ch'egli  ha  dato  invittamente  all'au- 
tore della  Storia  deW astronomia  :  risposta  che  con 
frutto  verrà  consultata  da  chi  in  avvenire  scriverà 
su  questo  argomento. 


Dante  spiegato  da  Dante,  comenti  alla  divina  com- 
media, nuovo  saggio  del  P.  Giambattista  Gmliani 
somasco.  8.°  Firenze,  tipografa  nazionale  italiana 

,  .,1854.  (Un  voi.  di  pag.   101). 

Lj  opera  di  gran  lena  di  un  letterato  che  ha  fatto 
profondissimi  studi  sulla  Divina  Commedia  ,  su  i 
santi  padri  e  sugli  altri  autori  che  hanno  aiutato  la 
sapienza  dell'immortal  fiorentino.  Senza  consultarla, 
ninno  potrà  quind'  innanzi  vantasi  d'  aver  bene  in- 


teso  e  interpretato  Dante.  Noi  facciamo  voti  perchè 
il  lavoro  dell'aureo  nostro  P.  Giuliani  continui  com'è 
incominciato. 


Biografia  di  Mario  Pieri  corcirese  scritta  da  Filippo 
Luigi  Polidori.  12.  Firenze  tipografia  gallileiana 
1853.  (Sono  pag.  62). 


M. 


ifiario  Pieri  si  scrisse  da  se  la  vita  pubblicata  in 
due  volumi  a  Firenze  nel  1850  pel  Lemonier.  Ma 
il  sig.  Polidori  non  ha  voluto  verso  l'estinto  amico 
mancare  della  testimonianza  di  una  cara  memoria 
in  questa  biografia,  nella  quale  alquante  cose  sono 
aggiunte  alla  vita,  e  specialmente  ciò  che  il  buon 
Pieri  si  tacque:  cioè  le  virtù  dell'  animo  suo  can- 
didissimo e  la  venerazione  in  che  era  meritamente 
presso  di  tutti.  Bello  di  sapienza,  di  effetto,  di  fa- 
condia, di  eleganza  è  questo  scritto,  e  degno  della 
penna  già  nota  del  valentissimo  autore. 


Lettere  inedite  di  Bernardino  Baldi  a  Francesco  Ma- 
ria II  duca  d'  Urbino.  8.°  Firenze  tipografia  di 
G.  B.  Campolmi  1854.  (Sono  pag.  16). 


E 


un  gentil  regalo  che  ci  fa  il  lodato  sig.  Filippo 
Luigi  Polidori.  Monsignor  Baldi ,  come  ognun  sa , 
fu  non  solo  degli  uomini  dottissimi,  ma  degli  scrit- 
tori pulitissimi  del  suo  secolo  :  e  perciò  dobbiamo 
assai  grazie  all'illustre  editore  d'aver  tratte  queste  IX 
lettere  dell'archivio  di  stato  di  Firenze,  e  pubblica- 
tele colle  savie  ed  opportune  sue  note. 


363 

Memorie  intorno  alla  vita  e  alle  opere  di  Evasio  Leo' 
ne  carmelitano  scritte  dalV  avvocato  Raffaele  De 
Minicis  di  Fermo.  8."  Ancona  tipogiafìa  Aureli 
e  compagno   1853.  (Sono  pag.  32). 

F 

r  ra  gli  scrittori  eh'  ebber  nome  nel  principio  del 
secolo  uno  si  fu  il  carmelitano  Evasio  Leone.  Poeta 
e  oratore,  soprattutto  amicissimo  del  Bodoni,  molte 
cose  scrisse  e  stampò  ,  nelle  quali  se  non  si  desi- 
derano la  dottrina  e  la  vivacità,  mancano  però  trop- 
po la  bontà  dello  stile  e  la  correzione  della  lingua 
italiana.  Noi  lodiamo  l'egregio  signor  avvocato  De 
Minicis  che  ci  abbia  con  gran  diligenza  fatto  cono- 
scere la  vi-ta  e  le  opere  di  un  valente,  il  quale  onorò 
l'università  di  Fermo,  in  cui  fu  professore. 

Raccolta  epistolare.  8."  Napoli  1853.  (Sono  pag.  55). 

Il  celebre  cavaliere  Giuseppe  De  Cesare  ha  voluto 
che  suo  figliuolo  conosca  com'egli  nelle  varie  con- 
dizioni della  lunga  sua  vita  ha  preferito  sempre  di 
seguir  la  virtù.  E  testimonio  glie  ne  dà  queste  let- 
tere a  lui  scritte  da  molti  potenti  e  illustri  del  se- 
colo. Eccone  i  nomi:  Vincenzo  Monti,  Pietro  Gior- 
dani, Akerblad,  il  re  di  Baviera  Massimiliano  Giu- 
seppe, il  re  di  Svezia  Oscar  ,  Bettinelli ,  Francesco 
Gianni,  Melchior  Cesarotti,  Giovanni  Carmignani,  Giam- 
battista Niceolini,  Giuseppe  Solari,  Giovanni  Fabbroni, 
duchessa  di  Devonshire,  Michele  Tenore,  Avellino, 
general  Miollis,  conte  Ricciardi,  Ballanche,  R.  Bar- 
tolini  Baldelli,  Giovanni  Rosini,  Giuseppe  Ceva  Gri- 


364 

maldi,  Angelo  Maria  Ricci,  Domenico  Lecca,  Carlo 
Vogel,  Giovanni  Colleoni,  Carlo  Torregiani. 


Monumenti  milriaci  di  Sentina,  antico  municipio  ro- 
mano, dichiarati  dal  professore  Camillo  Ramelli. 
8."  Fermo  1853,  tipografia  Paccasassi.  (Sono  pag. 
61  con  due  litografie). 

iVssai  importante  è  questa  operetta,  sia  per  le  dotte 
dichiarazioni  che  intorno  ad  alcuni  insigni  monu- 
menti vi  fa  l'autore,  sia  per  le  memorie  che  vi  si 
leggono  intorno  al  bello  ed  antico  tempio  de'monaci 
camaldolesi  in  Sassoferrato. 


Dei  riti  della  chiesa  cattolica.  Dissertazione  archeo- 
logica deir  avvocato  Secondiano  Campanari  socio 
di  varie  accademie.  4."  Montefiascone  dalla  tipo- 
grafia del  seminario  presso  Savini  e  Sartini  1 854. 
(Un  voi.  di  pag.  186). 


E 


eco  UD  altro  bel  libro  di  religione:  e  basti  dire  ch'ò 
del  dottissimo  Campanari.  Non  potevamo  con  piiì  eru- 
dizione archeologica  e  chiarezza  dichiararsi  i  riti  di 
santa  chiesa:  sicché  la  lettura  ne  sarà  utile  così  agli 
ecclesiastici,  come  a  que'  secolari  che  stimano  ver- 
gogna (  com'  è  di  fatti  )  il  mostrarsi  ignari  di  cose 
cotanto    importanti  ed  auguste  della  fede  cattolica. 


Della  vita  e  delle  opere  di  Marco  Giovanni  Ponta 
chierico  regolare  somasco  ,  discorso  di  Francesco 
Calandri  della  medesima  congregazione  e  rettore 
del  reale  collegio  convitto  di  Casal- Monferrato:  4." 


365 

Casale,  tipografia  Corrado  diretta  da  G.  Scrivano 
1854.  (Sono  pag.  36). 


C 


hi  ha  spesso  alle  mani  il  giornale  arcadico  avrà 
letto  più  volte  le  cose  che  per  tanti  anni  ha  qui 
pubblicato  il  P.  Ponta  somasco.  E  siccome  le  avrà 
certo  trovate  ricchissime  di  sapienza,  specialmente 
nel  dichiarare  tanti  luoghi  oscuri  della  Divina  Com- 
media, non  potrà  non  nascere  in  lui  il  desiderio  di 
conoscere  la  vita  di  sì  lodato  scrittore.  Eccola  di- 
ligentissima  ed  elegantissima  dettata  dall'illustre  suo 
confratello  P.  Calandri,  il  quale  non  ha  trascurato 
cosa  che  sia  degna  a  sapersi  intorno  alle  alte  vir- 
tù ed  agli  scritti  di  un  uomo  che  sommamente 
onorò  la  sua  congregazione,  non  meno  che  il  senno 
italiano. 

Era  nato  il  P.  Ponta  in  Arquata  presso  Novi  il 
14  di  aprile  1799  :  nell'aprile  del  1820  fece  i  suoi 
voti  nella  congregazione  somasca:  nel  1841  fu  pro- 
curatore generale:  nel  1844  preposito  generale:  nel 
21  di  luglio  1849  passò  agli  eterni  riposi  in  Casal- 
Monferrato. 


Della  cultura  scientilìca  di  san  Filippo  Neri  e  deWim- 
pulso  da  lui  dato  agli  studi  ecclesiastici.  Ragio- 
namento di  Francesco  de'  conti  Fabi  Montani.  8." 
Roma  1854  tipografia  Forense  presso  Fontana  di 
Trevi.  (Sono  pag.  40). 

Jjibretto  eruditissimo  ,  e  ricco  di  quelle  ricerche 
storiche  d'  ogni  maniera,  che  hanno  reso  così  me- 
ritamente   chiaro  il  nome  di  monsignor  Fabi  Mon- 


366 

tani.  Qui  cresciamo  sempre  più  nell'amore  di  quel 
beatissimo  Filippo  Neri ,  il  quale  fu  non  solo  pro- 
motore d'ogni  virtù  in  Roma,  di  cui  a  buon  diritto 
è  salutato  apostolo ,  ma  sì  autore  d' ogni  preclara 
dottrina  nella  sua  congregazione. 


Relazione  storico-critica  intorno  alVaria  della  città  e 
territorio  di  Pesaro.  8."  Pesaro  dalla  tipografia  di 
Annesio  Nobili  1854.  (Sono  pag,  33). 


D 


'a  molto  tempo  desideravasi  la  pubblicazione  di 
questo  scritto,  sia  per  le  cose  che  ben  sapevasi  es- 
sere contenute  in  esso  ,  sia  pel  nome  chiarissimo 
dell'autore  signor  marchese  Pietro  Petrucci.  Il  de- 
siderio è  stato  pur  soddisfatto:  e  giovaci  dire,  che 
la  preziosa  operetta  ha  ben  corrisposto  in  tutto  alla 
pubblica  espe nazione.  Ella  è  un  vero  bel  regalo  fatto 
non  solamente  a  Pesaro  ,  ma  si  alla  provincia  cui 
bagna  il  Metauro,  anzi  alle  scienze  fìsiche,  nelle  quali 
è  così  valente,  come  ognun  sa,  il  sig.  marchese  Pe- 
trucci. 


Degli  agrimensori  presso  i  romani  antichi.  Ragiona- 
mento del  professore  D.  Stefano  Ciccolini.  8."  Ro- 
ma coi  tipi  della  S.  C.  de  propaganda  fide  1834. 
(Sono  pag.  100), 

il on  tocca  ne'vasti  campi  dell'antica  erudizione  era 
la  messe  che  qui  a  gran  dovizia  ci  reca  il  sig.  pro- 
fessor Ciccolini.  Quanta  mai  dottrina!  Quanto  seta- 
no !  Quante  critiche  disquisizioni,  e  acute  e  giudiziose 
ricerche  !  La  cosa  è  trattata  dall'autore  per  forma, 


367 

che  il  suo  libro  può  veramente  dirsi  opus  absolutis- 
simiim,  sia  per  la  parte  storica  e  filologica  ,  e  per 
la  legale,  sia  anche  per  l'agraria  ed  economica.  Ne 
siano  rese  sommissime  e  meritatissime  lodi  al  sig. 
ab.  Ciccolini,  il  quale  non  rimanga  di  regalarci  spes- 
so di  lavori  tali,  che  onorano  l'italiano  sapere. 


SuWipogeo  della  famiglia  Vibia  scoperto  vicino  a  Pe- 
rugia  nel  novembre  del  1852,  e  sovra  alcuni  al- 
tri monumenti  scritti  venuti  recentemente  in  luce^ 
memoria  di  Giancarlo  Conestabile  professore  di 
archeologia  e  custode  del  gabinetto  archeologico 
della  imiversità  di  Perugia.  8.°  Roma  tipografìa 
delle  scienze  1833.  (Sono  pag.  50). 


E 


opera  di  polso  nell'archeologia  etrusca,  e  degna 
del  discepolo  e  successore  dell'  esimio  Vermiglioli. 
Di  questi  preziosi  ipogei  e  monumenti  va  sempre 
più  arricchendosi  la  città  di  Perugia  a  grande  stu- 
dio dei  dotti ,  fra'  quali  ci  è  grato  onorare  il  sig. 
conte  professore  Conestabile. 


Vara  massima  ed  il  tempio  d'EìXole  al  Foro  Boario. 
Ragionamento  del  cav.  G.  B.  De  Rossi  letto  neU 
radunanza  solenne  delV instituto  di  corrispondenza 
archeologica  nel  dì  9  dicembre  1853.  8."  Roma 
tipografia  delle  scienze  1854.  {Sono  pag.  44  con 
una  tavola  in  rame). 

>^i  è  assai  questionato  fin  qui  dai  dotti  d'ogni  na- 
zione, e  soprattutto  dai  nostri  topografi,  sul  luogo 
dove    sorgevano  in  Roma  la  celebre    Ara    massima 


ed  il  tempio  di  Ercole.  La  questione  è  oggi  assolu- 
tamente decisa  in  questo  scritto  dal  dottissimo  ar- 
cheologo sig.  cav.  De  Rossi:  il  quale  con  senno  fi- 
nissimo, oltre  alle  irrefragabili  testimonianze  di  mo- 
numenti e  di  scrittori  acutamente  da  lui  dichiarati, 
ha  mostrato  che  nulla  avendo  di  comune  la  così 
detta  Spelonca  di  Caco  coU'ara  e  col  tempio  di  Er- 
cole, debbano  questi  senza  più  collocarsi  nel  Foro 
Boario  fra  la  Scuola  Greca  (oggi  chiesa  di  s.  Maria 
in  Cosmedin)  ed  il  circo  massimo. 

Del  tempio  inoltre  ci  ha  dato  il  prospetto,  coi 
particolari  e  colle  misure  de'  capitelli  del  portico  , 
secondo  un  prezioso  disegno  di  Baldassare  Peruzzi, 
a'cui  anni  esso  tempio  fu  atterrato,  regnante  Sisto  IV 
pontefice.  Il  De  Rossi  lo  ha  tratto  dal  codice  va- 
ticano 3439. 


In  morte  della  maìxhesa  Clementina  Tanari ,  carmi 
del  marchese  Antonio  Tanari  padre  inconsolabile. 
4."  Bologna  tipografia  delV  àncora  1854.  (  Sono 
pag.  26). 

infelice  padre, poeta  ben  noto  all'Italia, piange  qui 
la  morte  della  dilettissima  figliuola  con  tali  versi  e 
sentenze,  che  pochi  saranno,  i  quali  leggendo  que- 
sti carmi  non  accompagnino  le  sue  lagrime.  Tutto 
ciò  che  un  filosofo  cristiano  può  dire  d'umile  e  pio 
in  tanta  sventura,  tutto  ciò  che  può  dettare  un  cuor 
nobile  e  sensibile,  tutto  quasi  ritrovi  principalmente 
nel  primo  carme  dell'  inconsolabile  cavaliere.  Po- 
tremmo recarne  molti  be'  passi:  ma  per  tutti  valga 


369 

questo,  in  cui  raffetto  cotanlo  si  aggiunge  alla  re 


ligione. 


Salve,  0  spirto  celeste  :  oia  tu  ascolti 

I  miei  sospiri  e  i  taciti  lamenti; 
Vedi  il  mio  pianto,  e  l'infinita  e  cruda 
Necessità  che  ogaor  m'incalza  e  preme. 
Miserere  di  me  !...  Ah  !  sì  ch'io  sento 
Tua  celeste  possanza,  e  della  nuova 
Felicità  già  mi  donasti  un  lampo. 

Una  luna  non  scorse,  che  la  tua 

Sorella  un  tempo,  a  me  figlia  dilettay 

Su  la  coltre  teiTibile  di  morte 

Stava  per  esalare  il  fiato  estremo. 

S'ella  respira  ancor,  se  delle  nere 

Funeree  bende  non  è  cinta,  il  dono 

A  te,  cara,  l'ascrìvo:  a  te  che  tutte 

Sai  le  nostre  sventure,  e  che  dal  cielo 

Le  riguardi  pietosa^  e  preghi  Iddio 

Che  l'infinito  suo  furor  rallenti. 

Pur  m'ascolta,  se  m'ami  :  io  vo'  che  iimalzi 

Davanti  al  tuo  Signor  questa  preghiera. 

Deh  !  dinne  a  lui,  che  di  più  gravi  pene 

II  mio  viver  cosperga,  e  che  di  nuove 
Sconosciute  miserie  il  breve  corso. 
Che  mi  resta  a  compir,  renda  dolente: 

Ma  che  non  voglio,  e  aperto  il  dico,  il  tuo 
Volto  perder  per  sempre,  e  voglio  un  giorno 
Riveder  le  tue  luci  alme  serene. 
Ove  tanta  di  ,ciel  par  te,. è,  rinchiusa. 

qL/;!')  fjb'iov  in  ni  •uh)  olpu. 


G.A.T.CXXXIV.  24 


350 

AH  Anna  santa,  madre  della  gran  madre  di  Dio^  tre 
inni  di  Giuseppe  Ignazio  Montanari.  4."  Ancona 
tipografia  Aureli  Giuseppe  e  comp.  (Sono  pag.  39). 


u 


guale  sempre  a  se  stesso  l'esimio  professor  Mon- 
tanari vuole  ognora  la  palma  ,  scriva  in  prosa  od 
in  verso,  in  italiano  o  in  latino.  Pochi  oggi  ci  vi- 
vono da  paragonarsi  con  questo  benemerito  e  valen- 
tissimo sia  per  la  bontà,  sia  pel  numero  de'lavori  di 
ogni  maniera  che  continuamente  escono  dalla  sua 
penna.  Che  il  cielo  per  lunghi  anni  lo  conservi  alle 
nostre  lettere,  che  tanto  hanno  bisogno  di  si  forti 
e  nobili  ingegni,  e  lo  consoli  d'ogni  prosperità  !  Ecco 
tre  inni  da  lui  novellamente  dati  alle  stampe,  tutti 
fiore  di  classica  poesia  e  di  lingua  italiana,  e  tutti 
principalmente  spiriti  biblici.  Non  potendo  qui  re- 
carli per  intero,  giovi  questo  passo  del  primo  inno 
a  darne  alcun  saggio.  Sant'Anna,  piena  d'interna  am- 
bascia per  vedersi  sterile,  muove  soletta  al  Carmelo: 

Coir  affanno  nel  cor  quivi  era  all'  ombra 
Degli  odorati  cedri,  e  sotto  l'alte 
Palme  orando  si  stava;  or  nel  segreto 
D'inaccesse  spelonche  a  tutti  sguardi 
Si  teneva  celata,  ed  or  scioglieva 
Di  fresco  ruscelletto  in  sulla  sponda 
Alle  lagrime  il  freno:  ed ,  0  beati 
Colli,  diceva,  quando  in  voi  le  prime 
Orme  io  stampava,  o  piante  amiche,  o  care 
Aure,  0  gelidi  fonti,  avreste  voi 
Vaticinato  che  in  sì  verde  etade 
Avrei  cercato  in  voi,  madre  infeconda, 


371 

Scherno  agli  occhi  di  tutti,  e  vergognosa 
Di  me  stessa,  in  voi  soli  avrei  cohforto  ? 
Beato  il  giorno,  in  che  mi  udiste  in  prima 
Lieta  disciorre  un  inno  ài  Signor  mio  ! .    . 
Io  lo  rammento,  ed  oh!  quanto  or  diversa 
È  la  mia  vita  !  almen  morte  venisse 
A  ristorar  tanti  miei  danni  !  Ad  altra 
Più  avventurata  donna,  o  Gioacchino, 
Allor  ti  aggiungeresti,  e  del  tuo  amoi'e 
Raccoglieresti  il  desiato  frutto. 

10  mi  godrei  dentro  la  tomba,  e  a  quella 
Felice  allor  perdonerei  gli  amplessi  i:H<:nu.: 
Ed  i  tuoi  baci  a  me  rapiti:  forfee    :;'''! 
Torresti  l'onta  rriia  con  dir:  Da  due 

Mogli  più  figli  io  m'ebbi.  In  quésto  amaro 
Lamentar  la  coglieva  il  fido  sposo,       i  - 
E  tergendole  il  pianto:  Anna,  diceva* 
Anna  mia  dolce,  vivi,  e  spera  ancóra.   ■ 
Portenti  io  t'aprirò  maravìgliosì: 
Che  a  me  sovente  avvien  d'udirmi  intorno 
Una  voce  che  grida:  Fortunato 
Padre  sarai  fra  breve:  ed  ogni  volta 
Che  cadono  dal  ciel  l'ombre  notturne 
Un  presagio  novello  a  me  si  porge. 
Quando  i  tuoi  lagrimosi  occhi  chiudeva 

11  sonno,  io  non  so  dir  se  l'alma  mia 
Fosse  dai  sensi  peregrina,  o  ancora 
Le  chiavi  ne  volgesse;  io  so  che  vidi 
Cosa  che  di  stupor  m'empiè  la  mente. 
Anna,  tu  stavi  in  sul  Carmelo  ;  seggio 
Faceanti  gigli  violette  e  rose; 

Cedri  e  palme  i  bei  rami  consertando 


372 
Ti  fean  ombra  e  eoi'tìna.   Immantinente 
Usciva  del  tuo  grembo  una  fanciulla, 
E  al  suo  apparir  l'aria  la  terra  e  il  cielo 
In  nuovo  lume  sfavillava:  intorno 
Correva  melodia  tutta  divina 
Che  dicea:  Vieni,  o  benedetta,  vieni 
Ristoratrice  della  colpa  antica; 
E  i  poggi  ignudi  e  le  covesse  valli 
Ed  il  bosco  dei  cedri  e  delle  palme 
Pur  ripetean  :  0  benedetta,  vieni. 
Le  formavan  d'intorno  ala  e  corona 
L'annosa  Sara,  e  la  pudica  e  bella 
Rebecca:  indi  Rachele  per  cui  tanto 
Il  buon  Giacobbe  adoperò:  Susanna, 
E  quell'invitta  che  del  capo  fece 
Scemo  Oloferne,  e  Es.terre,  e  la  virile 
Debora,  e  tu  pur  v'eri,  o  Sulamite, 
Umilemenle  in  tue  bellezze  altera; 
E  innanzi  a  lei,  così  come  a  regina, 
Fean  le  ginocchia  riverenti  e  il  ciglio. 


J    iJnBO')/:  I 


373 
INDICE  DELLE  MATERIE 

CONTENUTE 
NEL      TOMO      CXXXIV 

Voi.  400  401  402 


Catalogo  de*  compilatori  e  collaboratori  del  gior- 
nale  p.         IH 

Maggiorarli,  Prolegomeni  allo  studio  della  medi- 
cina politico-legale.  Parte  prima.      .     .     »        1 
Orioli,  La  Palentiana  ,    o  massa  Palentiana  di 

Cassiodoro »     87 

Mantanarij  Praecepta  artis  rhetoricae  et  orato- 

riae 137 

Catalani,  Teoria  del  tetano »  143 

Betti,  Intorno  a  Sallustio  e  al    suo    comentario 

della  guerra  giugurtina »   152 

Checcucci,  Elogio  di  Casimiro.  Basi.       .     .     »  194 
Orioli,  Florilegio  viterbese.        ......  234 

Bavioli,  Sopra  un  mss.  inedito  del  Trattato  delle 
fortificazioni  attribuito  a  Giuseppe  Leoncini.  »  251 

Montanari.  Peregrinns  Bonus »  315 

Nannucci,   Intorno  ad  alcuni  trattati  di  aritme- 
tica e  di  geometria  manoscritti  nella  biblioteca 

riccardiana »  328 

Ferrucci,  Paraphrasis  metrica  Isaiae  cap.  XXIV.))  336 


374 

Bellucci,  Saggio  di  Iradmione  di  Fedro.      .  »  339 

Necrologia  di  Agolstìko.lSàéOi  '    .     .^.     .  »  345 

Gianandree,  Brieve  introduzione  a  dittare.  »  351 
Manuzzi  ,    Elogio   di  Maddalena  Pitti  Laparclli 

Baldacchini »  356 

Varietà. 


IMPRIMATUR 
Fr.  D.  Butlaoni  Ord.  Praed.  S.  P.  A.  M. 
IMPRIMATUR 

Fr.  A.  Ligi-Bussi  Arch.  Icon.  Vicegerens