GIORNALE ^
DI SCIENZE, LETTERE ED ARTI
TOMO XVII
DELLA NUOVA SERIE
ROMA
TipograGa delle Belle Arti
1860
Piazza Poli num. 91 dentro il Palazzo.
^.n^^
GIORNALE
DI
SCIENZE, LETTERE ED ARTI
TOMO CLXIII
DELLA NUOVA SERIE
XVII
SETTEMBRE E OTTOBRE
1859
ROMA
TIPOGRAFIA DELLE BELLE ARTI
1860
Amputazione parziale della mascella inferiore ed al-
lacciatura delV arteria femorale eseguite da Ales-
sandro Ceccarelli dotlove in medicina , e laureato
ad honorem in chirurgia.
AMPUTAZIONE PARZIALE DELLA MASCELLA
INFERIORE.
iV. F., uoino malsano su i Irenlacinque anni circa,
contrasse già son dieci anni delle ulceri veneree, le
quali non curate sì per difetto di mezzi, e sì per ne-
gligenza dell' infermo stesso, non sanaronsi se non
dopo lungo tempo spontaneamente, o con qualche
indiretto e semplicissimo rimedio a cui pur talora
si ebbe ricorso. Scomparse però le ulceri e cessata
ogni sensazione molesta, credette l' infermo di essere
tornato in perfetta salute. Se non che trascorsi così
molti mesi, ecco tornare di nuovo a manifestarsi il
male in più rea forma con ulcerazioni alle fauci.
Le cagioni che avean fatto trascurare la malattia
primitiva fecero altresì che malcurate fossero le con-
seguenze della medesima. Cominciarono quindi do-
lori osteocopì a tormentare 1' infermo , il quale fu
costretto però a giacere pili mesi in letto: e ciò gli
valse perchè, sentendo il danno della sua passata tra-
scuratezza, si sottoponesse ad una cura, la quale per
allora lo fece risorgere. Fu nondimeno continuata
questa per troppo breve tempo: ne si tosto fece tre-
gua il male, che 1' infermo caduto nuovamente nel-
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l'errore di credersi completamente guarito abban-
donò affatto ogni metodo terapeutico. Non molto ap-
presso toi'nò a divenir cagionevole, avvicendandosi in
lui ora la infermità, ora il miglioramento. Lo stesso
principio morboso peraltro sotto varie forme inva-
deva sempre più il generale organismo. Nello spazio
di dieci anni segnalaronsi nel nostro infermo tutti
gli stadi della sifìlide costituzionale; così il reuma
sifilitico, la cefalea, la sifìlide pustolosa, la perio-
stosi, e finalmente l'osteite e la carie-
Mentre per lo innanzi trascurato ed insieme ani-
moso avea sostenuto tutti i mali accennati senza as-
sistenza veruna dell'arte salutare, seguendo soltanto
i suggerimenti quando di una quando di altra per-
sona in cui si avvenisse per consiglio, non potè non
ricorrere, sebbene tardi nell'osteite, ai soccorsi della
chirurgia. Un gonfiore, accompagnato da profondo ma
sopportabil dolore, si manifestò nel mese dì luglio
del passato anno in corrispondenza del corpo della
mascella inferiore, estendendosi ancora verso la bran-
ca orizzontale destra di detto osso. Questa regione
in apparenza leggermente malata divenne i-apidamente
sede di un intenso processo flogistico, perchè cre-
sciuto il gonfiore mostruosamente, passò alla sup-
purazione. Dato esito per mano chirurgica a tale rac-
colta di marcia, si ottenne un alleviamento al do-
lore, ed il gonfiore diminuì. Peraltro la suppurazione
si fece cancrenosa , la muccosa buccale distaccata
dalle facce alveolari dei denti anteriori lasciò libera
via all' infiltramento delle materie ti'a l'osso e le parti
molli, con erosione anche del frenulo. Caddero in se-
guito i denti incisivi, e restarono mobilissimi ne' loro
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alveoli il canino, ed il primo molare destro. Le tra-
fitture nella località facevansi di giorno in giorno e
pili vive e pili spesse- E sebbene materie sottili e
fetidissime abbondantemente fluissero dall' apertura
parallela al dente canino, praticata in corrispondenza
del margine inferiore della mascella di sotto, il gon-
fiore tuttavia estendevasi non solo nel lato destro
fino a guadagnare l'angolo della mascella, ma inva-
deva eziandio la branca oi'izzontale sinistra fino al-
lora rimasta sana. Oltre a tali sconcerti si aggiun-
geva ancora V impossibilità di masticare, la difficoltà
di deglutire, il parlare impedito, una cefalea conti-
nua , ed intensissime febbri. Con tutta l'atrocità di
così vivi patimenti era costretto nondimeno l'infer-
mo recarsi alla casa di qualche chirurgo che pieto-
samente lo medicasse, non volendo egli per ragioni
sue proprie lasciar la famiglia, ed entrai-e in un ospe-
dale. Venuta a cognizione di ciò la conferenza di S.
Vincenzo de' Paoli in s. Maria della Pace, mi avvertì
che dovessi assistere questo infelice, avendo essa dei
soci che esclusivamente si dedicano alla cura degli
infermi.
Recatomi immantinente presso di lui, rinvenni
i guasti che sopra accennai, aumentati da altra rac-
colta purulenta sulla branca orizzontale sinistra, cui
subito diedi esito con ordinaria apertura. Intiodotlo
quindi uno specillo per conoscere direttamente lo
stato dell' osso , mi accertai essere esso denudato
per lungo tratto del suo periostio tanto sul destro,
come sul sinistro lato. Una medicatura emolliente e
detersiva continuata per più giorni fece sgorgare quei
tessuti infiltrati, per cui cedette in parte e il gon-
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fiore e il dolore. La cefalea peraltro rimaneva co-
stante, e trascorreano insonni all'infermo le intere
notti. Frattanto raccurato esame anamnestico, che
giornalmente io ripeteva, non mi faceva più dubi-
tare sulla natura del male. Reso certo però trattarsi
di osteite celtica, credei opportuno di instituire im-
mediatamente una cura interna antivenerea atta a
moderare quei guasti che minacciavano ulteriori
progressi.
Secondo le viste de' più moderni sifilografi sot-
toposi l'infermo all'uso contemporaneo dello ioduro
di potassio, e del sublimato, amministrando inter-
namente il primo ed usando all'esterno il secondo.
La località malata veniva più volte nel giorno de-
tersa per mezzo d'iniezioni, e si focilitava ancora la
detumefazione delle parti molli e lo scolo delle ma-
terie per l'azione continuata di un erupiastio emol-
liente- Le forze dell'infermo di già affievolite e per
gli spasimi da lungo tempo sofferti, e per le notevoli
suppurazioni , e per la somma scarsezza e cattiva
qualità del nutrimento , si presero a ristorare con
dei tonici ed amaricanti. Tenendo questo governo,
trascorsero appena dodici giorni, che ebbe a notarsi
sensibile e manifesto miglioramento tanto nello stato
generale, quanto nella parte più attaccata dal male.
Finirono le febbri , cessò la cefalea , si rialzarono
leggermente le forze, ed il gonfiore esteso ad ambe
le branche orizzontali della mascella di sotto scom-
parve , lasciando soltanto ingorgale le ghiandole
sotto-mascellari. Con tutta fiducia si insisteva coll'e-
nunciato metodo di cura , quando un disordine di
dieta commesso dall'infermo dette sviluppo imme-
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dialo ad intensissima febbre, e a nuovo ingorgo delle
parti molli nella regione mentale anteriore, che nei
breve spazio di dodici ore con i più vivi e lanci-
nanti dolori volse a suppurazione, e spotaneamenle
si aprì. Sospeso per tale incidente il trattamento an-
tivenereo, si prese cura del gastricismo e della re-
crudescenza flogistica al mento- Percorse l'affezione
gastrica nella forma ordinaria un periodo di sette
giorni: e come ebbe ceduto, fu ripreso di nuovo il
trattamento antivenereo. Frattanto lo specillamento
praticato sì in ciascun dei tre fori esteriori, sì anche
nell'interno della bocca, facea conoscere essere l'osso
ben guasto in tutta la sua tessitura, poiché vi re-
stava sempre impegnato lo specillo in varie cavità
dell' osso stesso , senza però che potesse mai farsi
passare da un foro all' altro malgrado ogni usatavi
diligenza. Le iniezioni peraltro mostravano esservi
certa comunicazione di tutti i fori tra loro. Non
potendo io dubitare per tali segni che guasto non
fosse l'osso , mi studiava di potere togliere quelle
porzioni che o per lavorio della natura fossero già
separate dalle sane, o che distaccate in parte, mi
si presentassero airendevoli alla presa di una pin-
zetta, o di altro adatto istromento. Con tali manovre
peraltro non ebbi che una limitata porzione di alveolo
corrispondente al primo dente incisivo destro; però
mi avvidi, nel provare se tutta la porzione malata
soffrisse mobilità, che il margine inferiore di questo
osso offeriva una superficie doppia dell'ordinario, e
che forte resisteva a qualunque comunicatogli mo-
vimento. Le tre piaghe prodotte dalle anzidette aper-
ture si facevano piiì grandi; il loro aspetto deter-
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l'iorava giornalmente, e sebbene più volte replicate
fossero nelle ventiquattro ore le medicature , pure
lo scolo continuo delle materie icorose alterava sem-
pre più i circostanti tessuti molli.
Per la cura interna si era di già ottenuto un
notevole miglioramento in generale ; il malore lo-
cale anch'esso erasi circoscritto nei suoi limiti, e le
parti adiacenti mostravano non partecipare più al
guasto vicino- Togliere l'osso a porzioni mi era stato
impossibile fino allora, e ninno indizio mi si mo-
strava che mi desse speranza di ciò potere indi a
breve tempo; l'attendere lungamente che la natura
operasse spontanea la separazione dell'osso malato
sarebbe stato cattivo consiglio , perchè dava luogo
al guasto progressivo delle parli molli, all'ulteriore
emaciamento del malato per le continue suppura-
zioni, ed al progressivo morale abbattimento per lo
indefinito prolungarsi, in mezzo a tante miserie di
una infermità sì schifosa. Mi risolsi pertanto col pieno
assenso , anzi con espressa richiesta dell' infermo
stesso, di appigliarmi al partito di fare la resezione
della porzione malata.
Ad eseguire tale operazione mi si presentarono
primi alla mente ed il metodo del Signoroni , ed
il processo del Dupuytren.
Il metodo sottocutaneo del Signoroni lusingò da
prima le mie vedute per rapporto alla sua applica-
zione, trattandosi del corpo della mascella su cui fa-
cilmente poteano adoperarsi le cesoie ossivore dello
stesso autore* Considerai nondimeno, secondo quanto
molto saviamente era stato pubblicato in casi con-
simili dai chiarissimi professori Malagodi e Baroni,
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che l'individuo da operarsi essendo di piiì che me-
diocre statura presentava uno scheletro molto pro-
nunciato: che la parte, su cui dovea eseguirsi l'ope-
razione, avea sofferto precedente e lunga flogosi: che
lo spessore della porzione d'osso da doversi aspor-
tare essendo molto aumentato, facea temere di mag-
giore aumento anche sulle parti ove doveano ca-
dere i tagli: che difficile dovea riuscire il distacco delle
parti molli dalla sinfisi mentale, perchè in quel punto
aveano acquistato considerevol durezza: e finalmente -
che dovea molto temersi l'emorragia, non ostante che
rilevanti arterie non potessero venire offese, per la
ragione che anche le piccole aveano acquistato lume
maggiore, e nel distacco dei muscoli genio-glossì e
genio-ioidi si sarebbero troncati i rami dell'arteria
linguale, le cui estremità non sarebbero state così
facilmente accessibili alla legatura.
Tali considerazioni fecero che non mi attenessi al
metodo del Signoroni: sebbene, come già dissi, la
sua applicazione in questo caso sembrasse a prima
vista molto indicata.
Preso dunque a considerare il processo del Du-
puytren, adoperato dal medesimo la prima volta
nel 1812 per la resezione del corpo della mascella
di sotto, riflettei che il taglio mediano che avessi
praticato sulle parti molli della regione mentale ,
oltre che mi cadeva precisamente sopra una delle
ulcerazioni di già esistenti, non mi facea certo dopo
dissecati i lembi di poter raggiungere facilmente
con la sega Tosso sano : poiché lo specillo diretto
obliquamente nell'osso penetrava nella di lui sostanza
così a destra come a sinistra per molte linee, senza
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darmi positiva certezza sul limite del male a causa
delle varie sinuosità che esistevano nell'osso stesso.
Ora se dopo dissecati i lembi mi si fosse mostrato
l'osso da doversi segare al di là della dissezione già
eseguila, avrei allora dovuto dare una figura crociala
alla prima incisione praticando lateralmente due al-
tri tagli lungo il margine inferiore della mascella
stessa, i quali parimenti cadendo o sopra le due ul-
cerazioni preesistenti, o in molta loro prossimità, mi
avrebbero impedito in seguito una regolare sutura,
e mi avrebbero difficoltato la riunione di prima in-
tenzione. Per tali riflessioni, affine di pormi più che
fosse possibile in sicuro contro qualunque compli-
cazione, e di rendermi più facile la sezione dell'osso
a qualunque altezza lo trovassi malato , divisai di
portare le incisioni su parli del tutto sane.
Ciò stabilito , dopo avere il giorno 23 novem-
bre 1859 amministrato un purgante all' infermo ,
procedetti il giorno appresso alla operazione nel se-
guente modo, assistito dai signori dottori Lamberti
e Panegrossi, ed alla presenza di altri estranei alla
professione.
Posto r infermo a sedere di contro alla luce colla
testa appoggiata sul petto di un assistente, e fatto-
gli aprire la bocca, strinsi con la mia mano sinistra
il labbro superiore in vicinanza del suo angolo de-
stro, mentre un assistente preso il labbro inferiore
nella sua medielà me lo rendeva egualmente teso.
Quindi con coltellino a taglio convesso a tre linee
circa lontano dell'angolo delle labbra cominciai un' in-
cisione, che diretta obliquamente all' infuori e portata
lungo il cammino delle fibre del muscolo triango-
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lare, la terminai qualche linea al disotto del mar-
gino inferiore dell'ossg mascellare in corrispondenza
dell' attacco del muscolo già nominato. Divisi su
questa traccia i tessuti molli, e legata l'arteria la-
biale inferiore, praticai sul sinistro lato con le stesse
norme altro taglio consimile, il quale venne a for-
mare un lembo quadrilatero a figura di trapezio, la
cui parallela inferiore, concepita passare pei due estre-
mi punti ove si terminarono le due incisioni, in tanto
fu più lunga dell'altra, in quanto dovea dare spazio
a comprendere nel lembo le precedenti ulcerazioni.
Dissecato e rovesciato questo lembo, si dovettero al-
lacciare e torcere altri vasi arteriosi, perchè anche
i più piccoli davano ragguardevole copia di sangue.
Quindi esplorato a tutt' agio 1' osso morboso sì nel
destro e sì nel sinistro lato , vidi che poteva pur
francamente applicare la sega in corrispondenza di
quei punti ove cadevano i primi tagli , poiché ivi
l'osso era sano. Qui con coltello incisivo staccai il
periostio dall'osso sì nel davanti come nella parte in-
terna dell'osso stesso, e quindi per mezzo di un ago
curvo passalo a al di dietro del lato sinistro del ma-
scellare la sega di Geffry, montatone sul suo manu-
brio l'estremo superiore, e consegnatolo ad un mi-
nistro, obliquamente come nel taglio delle parti molli
divisi l'osso, facendo agire la sega in corrispondenza
dell'alveolo del secondo dente molare di già man-
cante, mentre la mano di altro assistente con errina
smussata, e con adattate pezzoline, mi guarentiva dalla
azione della sega e il labbro superiore, e gli altri
tessuti vicini. Altrettanto praticai nel lato destro con
le stesse cautele, dopo avere estratto il primo dente
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molare, passando subito al di dietro dell'osso altra
sega che per maggior speditezza era stata già pre-
parata; ma in questo lato la sezione non fu sì franca
come nel precedente per la maggiore durezza che si
trovò avere l'osso in tal punto. Troncata pertanto
la porzione d'osso malata d'ambe le parti, mi fu fa-
cilissimo dividerla dagli attacchi interni dei muscoli
genio-glossi, genio-ioidi, digastrici, e dagli altri molli
tessuti, che in parte per le precedenti suppurazioni
erano già distaccati. In questo ultimo tempo della
liberazione dell'osso dalle parti cui aderiva, un assi-
stente mercè di una spatola tenne in freno la lingua,
la quale sebbene in tal modo raffrenata, pure tosto
che restò libera dagli attacchi già detti mostrò non-
dimeno qualche tendenza al rovesciamento. L'arteria
sotto-linguale troncata in queste incisioni, ed inter-
natasi tra i muscoli in cui serpeggiava, rese difficile
la sua legatura, e diede notevole copia di sangue;
fino a che presa direttamente la sua boccuccia con
pinzetta uncinata, venne stretta con refe a doppio
nodo. Legali quindi per precauzione anche quei rami
arteriosi che si sarebbero potuti torcere, e nettato
tutto con spugne, portai accurato esame sulle super-
fìcie delle branche ossee segate. Vidi esser necessa-
ria r applicazione della tanaglia incisiva sul destro
lato per eguagliare la superfìcie, dove la durezza che
dissi avea reso la sezione non così netta e precisa.
In tutto questo fare il lembo rovesciato era stato
tenuto avvolto in pezze imbevute di fluido caldo per
mantenervi sempre eguale la vita. Assicuratomi per-
tanto della cessazione dei moti retroversivi della lin-
gua, della emorragia non più valutabile, e dello slato
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sano delle ossa rimaste, dopo aver tutto deterso, e
diretti i fili delle legature negli angoli inferiori dei
tagli, riportai il lembo al suo luogo ponendolo esat-
tamente a contatto dei margini corrispondenti delle
ferite, e praticai d'ambo i lati la sutura a sopraggitto,
cominciando da un mezzo pollice al di sopra degli
angoli inferiori delle ferite, e per lasciare ivi in ambe
le parli libero scolo alle consecutive suppurazioni, e
perchè quando anche da qualsiasi de' due lati avessi
voluto portar la sutura su tutta la estensione della fe-
rita, i punti quivi non mi avrebbero retto come troppo
prossimi alle già indicate ulcerazioni. Nell'estremo su-
periore poi dei tagli, dopo aver fermato il refe con
cui avea praticato la sutura, portai in vicinanza degli
angoli della bocca in ciascuna parte, con ago finis-
simo e con corrispondente refe, altro punto staccalo,
il quale tenesse ad immediato contatto l'epitelio bue-
cale, e favorisse sempre piii la cicatrizzazione pri-
mitiva. Introdotti poscia nell' interno della bocca dei
piumacciuoli di filaccia affidati ad un filo, ed impre-
gnati d'acqua emostatica del Pagliari acciò mi im-
pedissero un soverchio gemizio sanguigno, e soste-
nessero il mento, terminai la medicatura con liste-
relle di cerotto adesivo, con pannolino pertugiato,
con delle filacce, delle compresse, e con la fionda
del mento.
Il malato durante l'operazione soffrì due leggeri
deliqui, da cui prontamente si riebbe e coll'odorar
dell'aceto, e con pochi cucchiai di pozione cordiale.
Terminato così tutto, egli da se solo, ricusando ogni
altrui aiuto, si tolse le vesti imbrattate di sangue e
si collocò in letto.
u
Gli accidenti che seguirono l'operazione furono sì
leggeri, che non meritarono neppure un salasso. Si
limitarono essi a moderata febbre, a qualche diffi-
coltà nel deglutire , a leggero dolore di testa , e a
mediocre gonfiore della faccia. Si tenne peraltro ri-
goroso regime dietetico per più giorni. Al secondo
dalla operazione si tolsero le filacce dalla bocca so-
stituendone delle altre: ed al quarto, tolto tutto l'ap-
parecchio, ebbi la compiacenza di vedere aderite in
totalità le due ferite in quei punti ove erano state
messe a contatto per la sutura, la quale al quinto
giorno venne tolta del tutto perchè ormai divenuta
inutile. Dagli angoli inferiori delle ferite scolarono
libere le marce commiste a saliva.
Le medicature giornaliere furono semplicissime e
mirarono in specie alla nettezza della parte malata.
Al nono giorno cadde l'ultima delle legature, ossia
quella dell'arteria sotto-linguale; la suppurazione del-
l' interno della bocca ogni giorno si fece migliore;
al decimo ottavo giorno erasi cicatrizzato comple-
tamente anche l'angolo inferiore sinistro, e solo per
comodità degli interni lavacri si tenne per altri po-
chi dì aperto quello destro. Dal ventesimo quinto
al ventesimo ottavo si distaccò da ciascuna branca
una piccola porzione d'osso; dopo che le superficie
resecate rapidamente si coprirono di bottoni cellu-
iosi e vascolari, ed ultimarono così la totale guari-
gione dell' infermo.
Le branche della mascella rimaste prive di un
sostegno anteriore tendevano a ravvicinarsi tra loro
ad angolo, e a deviare così il parallelismo dei denti
inferiori con quei superiori. A tale inconveniente ri-
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mediai coll'applicare una sbarra di argento piegata
a convessità anteriore e fotta a forchetta nei suoi
estremi. Questa prendendo appoggio sulla corona dei
primi denti rimasti in sito, mantenne il mutuo ri-
scontro delle arcate dentarie , fino a che la natura
riparatrice non supplì alla mancanza della porzionre
d'osso asportata, con la riproduzione di altra sostanza
affine, come suole osservarsi nelle resecazioni tutte
del sistema osseo. Trentacinque giorni dopo l'ope-
razione anche questo sostegno fu tolto, ed il malato
senza più ritornò sano alle sue occupazioni.
L'osso, che venne tolto ripulito per mezzo della
macerazione, mostra un divaricamento di circa un
pollice della sostanza compatta , la quale a forma
cistoide contiene libera e rigonfia la sostanza spun-
giosa, e non rattenuta che da due briglie ossee, le
quali dalla lamina anteriore compatta si portano alla
posteriore, e dal ristringimento che offre l'osso na-
turalmente verso il margine alveolare. Oltre a ciò
sulla faccia anteriore e posteriore dell'osso si osser-
vano vari fori prodotti dalla carie preesistente, pei
quali essendo introdotto lo specillo nelle esplorazioni
non potea però mai portarsi in comunicazione di un
foro con l'altro, per la presenza, come dico, della so-
stanza spugnosa che si era distaccata dalla compatta,
ed era contenuta in questo cavo cistoide formato
dall'eguale allontanamento delle lamine dure. Le trac-
ce alveolari sono distrutte; le lamine tutte cribrate
offrono ineguale superficie su tutti i punti. La la-
mina anteriore resta più corta della posteriore di pili
linee, come quella che avea sofferto più danno.
Da tale fatto sembrami risultare, che niuno debba
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dispensarsi giammai dall' istituire e ripetere, a seconda
dell'entità del male, le cure interne nei soggetti at-
taccati da morbo celtico, anche allora che dopo la
guarigione dell'ulcere primitivo non si vedano svi-
luppare, né apparire immediatamente sintomi secon-
dari a carico di altre parti del corpo. L' elemento
morboso di tal natura si deve abbattere completa-
mente , e prevenirlo prima che giunga a tanto da
poter manifestare le sue terribili forme. A tal fine
lo spediente siccome il più sicuro, così anche il più
congruo ed applicabile, stimo essere l'uso simultaneo
del sublimato esternamente, e dello ioduro di po-
tassio all' interno; di che mi dà buona pruova l'espe-
rienza anche di questo fatto da aggiungersi alla stipe
clinica dei simili, cresciuta massimamente per le cure
dell' illustre professore della clinica interna di Roma
cavalier Benedetto Viale.
Intorno alla manualità operativa poi, non potendo
questa esser soggetta sempre a regole fisse e costanti,
ma bensì a variabili secondo l'opportunità, credo di
poter dedurre soltanto come tutte le volte che siasi
obbligati ad asportare una notevole porzione della
mascella inferiore, per cui sia uopo eseguire uno o
più tagli in corrispondenza degli angoli della bocca,
si debba studiare il modo di non farli cadere pre-
cisamente sugli angoli stessi: poiché i vantaggi, che
si ritraggono da simile precauzione, vidi per le mag-
giori riflessioni fattevi nel caso occorsomi , essere
veramente molto valutabili , e da non trascurarsi
possibilmente giammai. Mi riporto su tal proposito
al saggio clinico (pag. 63) pubblicato nel 1855 dal
nostro chiarissimo professore di clinica chirurgica
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cavalier Giuseppe Costantini, da cui questa modalità
appresi, e della quale ebbi io già veduta l' utilità
nelle numerose circostanze in cui lo vidi operare.
Finalmente per la stima ed affezione somma che
ho alla indicata pia istituzione, la quale da s. Vincenzo
de' Paoli prende il nome e lo spirito col titolo di
conferenza, non potrei nel chiudere questa memo-
ria non adempiere un desiderio espressomi dall'in-
fermo teste risanato, cioè di rendere pubblico atte-
stato di gratitudine ai soci tutti della conferenza
medesima, i quali si adoperarono con indicibile cura
e sollecitudine per rilevare un uomo sì povero e me-
schino da tanto penoso stato, non solo visitandolo
spesso, ma rendendogli personalmente quei servigi
di cui abbisognava, ed assumendo interamente so-
pra di se tutta la spesa di medicinali, di biancheria,
e di nutrimento, sì per lui, e sì per la sua famiglia.
Istituzioni filantropiche molte ha 1' età nostra ,
la quale sembra avere un vanto per questo titolo
sopra le età trascorse; o che intenda supplire con
esse a ciò che manca negli individui : o che vo-
glia r azione stessa degli individui già caldi di ca-
rità rendere più efficace e più atta per mezzo delle
associazioni a conseguire 1' effetto. Ma di tali isti-
tuzioni ed associazioni quelle soltanto che , come
questa della conferenza si informino ai sinceri det-
tami della dilezione del prossimo, quali essi ema-
nano da più alti principi , e da più autorevole
magistero, credo che possano realmente raggiungere
lo scopo, ritogliendo alla sventura molti infelici, e
porgendo ad essi vero ed util conforto, e ad ogni
animo bennato incitamento ed esempio.
G.A.T.CLXlll. 2 .
18
LEGATUUA DELI, ARTERIA FEMORALE
SINISTRA
Risulta dai clinici fiuti, che delle grosso arterie
del corpo umano quella che con più facilità va sog-
getta ad esser legata, sia per aneurisma, sia per fe-
rita, si è certamente l'arteria femorale superficiale.
Ed infatti non solo gli aneurismi che si sviluppano
sulla femorale stessa , ma quelli dell' arteria popli-
tea , e quelli eziandio che si rinvengono in corris-
pondenza delle prime diramazioni di questa, si so-
glion curare , allorché vani riuscirono gli altri ri-
medi con la legatura dell' arteria femorale- Altret-
tanto avviene delle ferite che cadono o sulla femo-
rale, o sulla poplitea, 0 che ledono i rami piii grossi
di questa, allorché per particolari contigenze non si può
chiudere il vaso con un laccio in vicinanza del punto
ferito. A tale scopo vennero dai pratici stabiliti tre
punti lungo il decorso dell'arteria femorale, seguendo
l'interno lembo del muscolo sartorio, su i quali po-
ter portare una legatura per rimediare ad uno qua-
lunque dei mali sopraccennati. Si può legare que-
st'arteria nell'alto della coscia dopo superato l'arco
crurale circa un pollice in distanza da questo ; si
può legare alla fine del triangolo di Scarpa distante
dall'arco crurale quattro in cinque pollici circa ; si
può legare finalmente, secondo il processo di Hun-
ter, nel terzo medio della coscia al di sotto del mu-
scolo sartorio dai sette agli otto pollici in distanza
dal legamento di pauparzio.
19
Stabilirono i chirurgi una limitazione sitTalta per
precisare le norme pratiche che debbonsi riguar-
dare in ciascun caso speciale, lasciando però libere
le modificazioni a seconda delle evenienze;
Ora potendo l'arteria femorale restar legata in
qualunque punto di sua lunghezza, e dovendo l'ope-
ratore studiare ogni maggiore risparmio di arteria,
ravvicinandosi sempre al punto leso per il passag-
gio del laccio, io credo che allorquando o per fe-
rita, o per aneurisma, si debba legare l'arteria fe-
morale secondo il processo dì Hunter , e che per
particolari circostanze non si possa con tutta fidu-
cia intraprendere una tale manualità, piuttosto che
ricorrere al processo di Scarpa, di legare cioè l'ar-
teria alla fine del triangolo da esso stabilito, quat-
tro in cinque pollici circa lontano dall'arco crurale,
si debba coH'incisione scender piìi in basso, solle-
vare quanto convenga il muscolo sartorio, e legare
l'arteria fra i due punti stabiliti e dallo Scarpa e
dall'Hunter , sei in sette pollici distante dall' ori-
gine dell'arteria.
Usando di simile precauzione risulta chiaro, che
un pollice , od un pollice e mezzo di piii di arte-
ria vien conservata, e perciò maggiore probabilità
per il mantenimento del membro sottostante a causa
della più facile circolazione anastomotica.
Un caso speciale che mi faccio ora a descrivere,
trattato da me nel modo sopraccennato, e seguito da
guarigione perfetta, mi fa credere potersi fare uso
nella pratica di tale modalità.
Alle ore dieci pomer. del 21 settembre 1857 fu
portato insieme ad altri feriti nell' arciospedale di
20
S.Giacomo in Angusta un tal Ciucco Giuseppe, gio-
vane di ventidue anni, di sana e robusta costituzione,
il quale poco distante dall'enunciato ospedale avea
riportato in rissa piij ferite.
Spogliato l'infernfio degli abiti molto imbrattati
dì sangue, e coricatolo in letto, oltre varie ferite di
poca 0 nessuna entità che vennero vedute sparse
sul petto e sugli arti toracici prodotte da istromento
a punta, una se ne osservò sulla coscia sinistra che
richiamò a se esclusivamente tutta l'attenzione e la
cura.
Questa ferita di figura lineare, situata nella regione
anl'-interna del terzo inferiore della coscia, estesa
due centimetri circa, diretta traversalmente alla co-
scia medesima e dal basso in alto, penetrava nella
sostanza del muscolo vasto interno per tre pollici
circa, tenendo un cammino leggermente obliquo dal-
l'esterno all'interno. Dai panni molto intrisi di san-
gue, dalla bassezza dei polsi, da un notevole infil-
tramento in corrispondenza della regione ferita, e
dal sanguinaie tuttora la ferita stessa , ben si co-
nosceva aver sofferto l'infermo una non piccola emor-
ragia. Se non che i caratteri tutti che questo san-
gue offriva, e la posizione stessa della ferita, por-
tavano a giudicare trattarsi di una emorragia ve-
nosa, e perciò di facile mezzo per frenarla. Infatti
compresso per tutti i sensi il tumore, ed obbligati
cosi quei neri grumi sanguigni che lo costituivano
ad uscire sebbene un pò a stento dalla ferita, ritornò
l'arto quasi allo stato naturale : e quello scolo di
sangue venoso, che pur tuttavia usciva, facilmente
cedette alla sola riunione per mezzo di due liste di
21
cerotto agglutinativo. Una semplice fasciatura conten-
tiva e una conveniente positura dell'arto compirono
la medicatura. L'indomani mostrossi bene spiegata
una reazione. Qui si tenne un metodo antiflogistico
e locale e generale, il quale associato a rigorosa dieta
mitigò la flogosi sviluppata, e pose in uno stato di
calma l'infermo.
Al principiare del quarto giorno, osservato per
prima volta l'arto malato, si trovarono in suppura-
zione solo i lembi della ferita. Alle pressioni, cbe
d' ogni lato si praticavano per la ricerca del pus ,
non uscivano che neri grumi di sangue. Solo all'ot-
tavo giorno si cominciò ad osservare il gemizio pu-
rulento commisto a sangue corrotto. Frattanto tro-
vandosi in generale buone condizioni, delumefaltosi
l'arto completamente, si sperava una sollecita guari-
gione. Quando la sera del 6 ottobre, decimo giorno
dalla ricevuta ferita, nel momento della giornaliera
medicatura, dopo l'uscita di poche gocce di pus insie-
me a piccolo grumo sanguigno, ecco improvvisamente
spicciare dalla piaga un grosso gitto di sangue ver-
miglio, che dal punto ove usciva , si portò ad un
buon passo in distanza. Sul momento si costituì un
tumore della grossezza di un pugno sull'estremo della
coscia. Poco era da dubitare sulla natura del san-
gue, e sul punto di sua partenza: pur non ostante
si volle con molta cautela esperimentare, e si vide
che l'emorragia si compieva a scosse isocrone ai bat-
titi del cuore , e che questa si arrestava compri-
mendo superiormente la femorale. In allora si pose
subito sul terzo superiore della coscia in corrispon-
denza della femorale il compressore, e venne cosi
22
assicurato l'infermo per il momento contro una nuova
emorragia. L'indomani apparve di nuovo la febbre,
il dolore alla coscia, ed una ambascia generale. Fu-
rono necessarie varie sanguigne , dei sedativi , ed
un regime dietetico rigoroso- Ispezionato dopo qua-
rantotto ore questo tumore, che con tutta ragione
chiameremo aneurisma spurio consecutivo , si vide
che al togliere della fasciatura uscì dalla piaga in
abbondante quantità pus di prava indole. Il parere
dei più dei chirurgi dell' arciospedale fé ritenere
il compressore e proseguire la medicatura più sem-
plice, rinnovandola quattro volte ogni giorno a causa
della troppo abbondante suppurazione. Nel diminuire
dell'aneurisma per le continue suppurazioni si vedeva
rendersi edematoso l'arto superiormente per' la pre-
senza del torniquet, il quale non si poteva diminuire
da quel dato grado di pressione , perchè subito si
tingevano di un colorito più rosso le marce. Al nono
giorno queste cominciarono a scarseggiare: tantoché
non solo per la diminuzione di esse, ma anche per
il buono aspetto che offrivano, e perchè l'arto sem-
pre più s'infiltrava , e perchè l'infermo non poteva
più sopportare quella continuata pressione esercitata
dal torniquet, venne questo slenta to e reso così quasi
completamente libero il circolo. Tutto dopo ciò pro-
cedeva a seconda, e sebbene lontana, pure nutrivasi
una speranza di guarigione, fidando sulle molte ri-
sorse, e su gli svariati compensi della natura- Ma vane
furono le lusinghe: poiché la mattina del 19 ottobre,
decimoterzo giorno della prima emorragia, si vide nel
momento della medicatura costituirsi di nuovo un
tumore nella già enunciata regione , e dalla piaga
23
spicciare sangue arterioso. Una mano di chi medicava
l'infermo portata subito a comprimere la femorale
impedì che l'aneurisma si costituisse voluminoso sic-
come il primo. Si tornò di nuovo ad applicare il
compressore, poiché era questione di vari fra i chi-
rurgi dell'ospedale se veramente il tronco principale
fosse rimasto ferito, ovvero una diramazione subal-
terna. Non passarono peraltro due ore da questa me-
dicatura, che in fretta chiamato a visitare l'infermo
rinvenni, non so per quale accidentalità, che il tu-
more avea triplicato il suo volume , guadagnando
tutta la regione anteriore-interna del terzo inferiore
della coscia. Il sangue usciva dalla nota apertura di
un bel colorito vermiglio, e il malato esigeva un
aiuto.
Considerai in allora che l'infermo non poteva, e
non voleva più sopportare una compressione ; che
senza questa l'aneurisma ingrandivasi; che anche fre-
nata pel torniquet una terza volta, l'emorragia sa-
rebbesi riprodotta ad ogni più leggera cagione; che
il compressore stesso non valse ad infiienare 1' au-
mento dell'aneurisma; e che finalmente le suppura-
zioni abbondanti, che conseguivano a questo succe-
dersi di emorragie, avrebbero condotto all' anemia
ed al sepolcro l'infermo. A tutto ciò si aggiungeva
l'autorizzazione a praticare la legatura quante volte
occorresse in precedenza data dal chiarissimo pro-
fessore Gaetano Olivieri, mio primario veneratissimo
a cui professerò sempre gratitudine e riconoscenza
per i continui insegnamenti che mi diede , per le
molte operazioni che mi fé eseguire , e per quella
stima di cui, contro mio merito, mi ha sempre ono-
24
rato Che però necessario sembrommi senz'altro in-
dugio eseguire la legatura della femorale.
Preparati i necessari istromenti, situato orizzon-
talmente Tinfermo sul proprio letto, portata un poco
all' infuori la coscia su cui doveva eseguirsi l'ope-
razione, e flessa questa leggermente sul bassoventre,
affidai l'infermo ad intelligenti ministri onde impedis-
sero qualunque male inteso suo movimento: quindi si-
tuatomi dal lato destro dell'operando, alla presenza
degli eccellentissimi signori dottori Augusto Panunzi,
Borelli, Zucchetti, Savelli, e molti altri della pro-
fessione anco estranei allo stabilimento che per caso
colà ritrovaronsi, mi diedi a ricercare secondo gli
stabiliti precelti de'nostri autori il lembo interno del
muscolo sartorio, onde prendere da questo il punto
di partenza per l'incisione della cute. Lo stato pe-
raltro di edema, in cui ritrovavasi l'arto, mi negò di
giovarmi esclusivamente di questo sussidio: onde mi
prevalsi anche in parte dei precetti del sig- Lisfranc,
tirando mentalmente una linea che dalla medietà del
ligamento ffel pauparzio mi conducesse a raggiungere
il centro del poplite. Questa presa di mira, stabilii
di non eseguire a minuto il processo del sig- Scarpa,
ma di attenermi un poco ancora a quello di Hunter,
onde lasciare campo maggiore alla circolazione ana-
stomotica dopo eseguita la legatura , non potendo
del tutto porre in pratica questo, secondo gli stabiliti
precetti, per il gonfiore troppo pronunciato dell'arto.
Infatti verso il finire del triangolo di Scarpa inco-
minciai l'incisione della cute, e obliquamente per
tre pollici circa la portai in basso sulla direzione
sempre della linea stabilita dal sig. Lisfranc. Al di-
25
sotto del tessuto dermoideo trovai, siccome già pre-
vedeva, un edema sanguigno. Incisi i vari strati di
adipe e di cellulare , misi a nudo l'aponevrosi del
fascialata, su cui eseguito un piccolo foro con la
punta del bistoiino, vi passai al disotto una tenta,
e la divisi in quasi tutta la lunghezza corrispon-
dente all'esteriore ferita- Mi apparvero allora i fasci
carnosi del muscolo sartorio allontanati l'uno dall'al-
tro per la presenza del siero, il quale non solo era
penetrato nelle cellule del tessuto sptto-cutaneo, ma
in quelle eziandio del cellulare interstiziale finissimo
che unisce e collega le fibre muscolari tra loro. Di
pili, il suddetto muscolo non solo per la presenza del
siero erasi aumentato in larghezza, ma per la con-
tinuata azione anche del torniquet, che lo avea spinto
all'indentro, erasi fatto più interno, e così non cor-
rispondeva pili il suo lembo alla linea di Lisfranc.
Per la qual cosa sollevato il lembo interno cutaneo,
e rintracciato parimenti 1' interno del sartorio , lo
liberai dai vincoli celluiosi che lo tenevano fermo
ai tessuti sottostanti , e rovesciatolo quindi all' in-
fuori, e tenutolo fisso mercè di un'errina smussata,
lo consegnai ad nn assistente. Niente di piià facile
dopo questo che scuoprire il fascio nerveo-vascolare
che immediatamente si ritrova al disotto. Verso la
parte inferiore della ferita lacerai con la punta della
tenta la guaina che contiene il nervo ed i vasi , e
quindi con la tenta stessa separata V arteria dalla
vena che turgida la costeggiava all' interno , e dal
nervo che naturalmente era all' esterno , restommi
ben facile di dominarla passandovi sotto, mercè l'ago
dì Cooper, un nastrino incerato- Resomi quindi certo
26
che l'arteria e null'altro restava compreso dal laccio,
strinsi questo direttamente sul vaso a due nodi , e
portati i capi all'angolo inferiore della ferita, la riunii
con delle liste di cerotto.
Intercettato appena il circolo mediante la lega-
tura, il tumore si scolorì, si avvizzì in parte, e dopo
qualche minuto l'arto divenne freddo. Si applicarono
peraltro subito intorno ad esso dei panni di lana ben
caldi, e rinnovaronsi sempre tosto che il calore si
disperdeva. L'estremità sottostante alla legatura non
restò priva di circolo che per sole diciassette ore;
anzi dopo tal tempo non solo l'arto avea racquistato
il suo naturai colorito, non solo sentivansi le pul-
sazioni alla poplitea , ma la piaga resultante dalla
prima ferita cominciò di bel nuovo a dare un tra-
sudamento sanguigno, tanto che fui obbligato a rin-
novare l'apparecchio, ed a maggior sicurezza apposi
una compressa nel cavo del poplite. Si praticarono
vari salassi, poiché sviluppossi risentita la febbre, si
tenne l'infermo a rigorosa dieta, e dopo due giorni
osservata la prima piaga si eliminò da questa con
varie pressioni abbondante quantità di cattivissima
marcia; per la qual cosa si ripeterono spesso le me-
dicature. Tolto poi r apparecchio della legatura al
quarto giorno, si vide la ferita cutanea cicatrizzata
per due buoni terzi nella parte superiore, ed il pus
che uscì dall'estremo della ferita in corrispondenza
del laccio di qualità da non desiderarsi migliore- La
suppurazione peraltro del tumore inferiore mante-
nevasi tuttora eguale. Dì più, al duodecimo giorno,
contando dall'operazione un dolore accusato dall'in-
fermo in corrispondenza dell' esterna regione della
27
coscia, mi fece avvertito che ivi sotto 1' aponeu-
rosi contenevasi altra notevole raccolta di marcia,
cui venne dato subito esito con larga apertura.
Dopo r eliminazione di questa, come per propizia
contigenza, tutto cambiò natura; migliorarono e di-
minuirono le marce, cedette ogni ambascia che per
lo innanzi angustiava l'infermo, riacquistando que-
sti la naturale sua ilarità. Si aiutarono allora con mo-
derato vitto le forze, e al decimo quinto giorno se-
guì facilissimo il nastro della legatura ad una leggera
trazione. Proseguì regolarmente la suppurazione di
queste tre piaghe di cui si è parlato, le quali dimi-
nuendo ogni giorno i loro diametri, finirono col cica-
trizzare del tutto in brevissimo tempo- 11 malato ria-
vuto completamente nelle forze , e senza aiuto di
sorta alcuna, uscì libero dell'ospedale il giorno 5 di-
cembre 1857.
Non son molti giorni ebbi occasione di rivedere
questo giovane, e con piacere lo trovai in perfet-
tissimo stato di salute, assicurandomi egli non aver
mai pili inteso molestia alcuna nell' arto operato ,
sebbene per la sua professione di fornaciaro sia con-
tinuamente esposto a fatiche, e ad una vita disagia-
tissima.
28
Opinioni sulV antichità della sfera celeste. Discorso
recitalo alla pontificia accademia tiberina dal presi-
dente prof, ab, Ignazio Calandrelli direttore delVos-
servalorio astronomico deW università romana, mem-
bro del collegio fdosofico ec.
wuando, contro ogni mio merito, ottimi colleghi,
cortesi uditori, mi vidi chiamato a far parte di que-
sta illustre accademia, compresi subito che le mie
poche cognizioni e le mie deboli forze erano impari
a sostenere il nobile incarico di parlare a voi da que-
sto seggio onorifico, trattenendo per pochi istanti la
.vostra attenzione su qualche argomento scientifico o
letterario che potesse essere di vostra soddisfazione
e di vostro piacimento. Se non che mi confortava
il pensiero della vostra insigne bontà, la quale, se
fu grandissima nello accordarmi l'alto onore di se-
dere fra voi , mi lusingava che egualmente grande
sarebbe stata nel compatirmi, se mai il mio ragio-
nare fosse privo di quella energia, di quella eleganza,
di quella forza, di quel peso, quale si conviene ad
un discorso accademico che deve pronunciarsi in un
nobile consesso di dotti filosofi e di letterati insigni
che da gran tempo formano la gloria di Roma, di
questa nostra città che sempre grande negli antichi
tempi per opere militari e pel dominio di tutto il
mondo, grandissima e magnificenlissima nella reli-
gione, nella civiltà, nelle scienze, nelle arti sotto il
dominio dei nostri sommi pontefici, deve ai suoi fi-
29
gli bagnati dalle acque del Tevere inspirare in ogni
tempo cose grandi degne della sua grandezza, idee
sublimi degne del sublime seggio che occupa fra tutte
le città dell'universo. Confidando su questo vostro be-
nigno compatimento, mi accingo con maggior corag-
gio a discutere la tesi proposta per l'odierna sessione
della nostra accademia.
§. I. .
Le questioni di cronologia, che si riferiscono ai
fatti storici di epoche remotissime dalla nostra età,
sono sempre di difficilissima, e il più delle volte d'im-
possibile soluzione. Sommi uomini versalissimi nelle
lingue classiche, e nelle lingue orientali, provveduti
di ogni genere di cognizioni, guidati dalla critica la,
più severa, profondissimi nello studio delle antiche
storie, amano piuttosto tacere su molte questioni di
antica cronologia, che in mezzo a tante scientifiche
combinazioni , in mezzo a tante ingegnose ipotesi
immaginate da altri scrittori, compromettere il loro
giudizio nel definire questioni, le quali, secondo il
loro savio parere, mancano di quelle doti che le pos-
sono rendere se non certe , almeno più probabili
a preferenza delle altre. Tali e tante sono le tenebre
in cui si ravvolgono i fatti storici delle antiche età,
che senza una luce che le rischiari e le disperda ,
nulla di certo e di positivo si può asserire. Nelle ri-
cerche archeologiche questa luce rischiaratrice, questa
face luminosa, sorge quasi dal profondo della terra.
La scoperta di una antica medaglia , di un antico
monumento, di una antica iscrizione, illustra la sto-
30
ria di una data età, rende certa una questione rela-
tiva all'epoca medesima: ecco rischiarate le tenebre,
dissipati i dubbi, eliminate le ipotesi mal fondate,
e le opinioni già pronunciate, opinioni che per man-
canza di questi antichi dati, varie, incerte, e forse'
anche contraddittorie erano presso gli archeologi ,
non hanno più alcun peso, alcuna autorità, e restano
in un perfetto oblio. Nelle ricerche uranologichc la
luce rischiaratrice deve venir dal cielo. È il cielo ,
scrive un celebre scrittore, che deve istruire la terra.
Se nel cielo trova la geografìa i suoi elementi e la
sua perfezione, la storia non può trovarvi i suoi soc-
corsi ? Il cielo non è forse un antico e durevole ar-
chivio, nel quale si conservano fatti che possono riem-
pire il vuoto delle tradizioni e rannodare il filo degli
avvenimenti ? Le osservazioni dei fenomeni celesti
non sono forse i monumenti i più antichi e più au-
tentici del soggiorno dell'uomo sulla terra (4) ? L'a-
stronomia è nata coH'uomo. L'uomo, quell'essere in-
telligente e libero che Dio volle creare a sua imma-
gine e somiglianza: l'uomo, sotto il cui dominio pose
Iddio tutti gli altri esseri da lui creati: l'uomo, cui
Dio con ammirabile provvidenza dispose che le cose
tutte create gli servissero di benefizio, di confortOi
di piacere: l'uomo, solo dotato di ragione e d'intel-
ligenza, può, a preferenza di tutti gli altri esseri vi-
venti, sollevare gli occhi ai cielo, contemplarne la
bellezza, ammirare l'ordine e la disposizione di quel
numero infinito di lucenti astri che Io abbelliscono
e lo adornano: l'uomo solo finalmente nella contem-
plazione degli astri e dei loro movimenti può for-
marsi una esalta idea di un ordine immutabile ed
31
eterno stabilito con infinita sapienza dall'eterno Crea-
tore, che con infinita provvidenza e con eterne leggi
tutto il creato regola e governa [B). Sia pur dunque,
come doltissinrii scrittori convengono, che nella pa-
rola dies del sacro testo non debba intendersi un
giorno naturale, ma un' epoca indeterminata di tem-
po, la scienza degli astri non poteva nascere che dopo
la creazione dell'uomo. La creazione di questo essere
nobilissimo fu il compimento di quell'opera ammira-
bile e sorprendente che ab aelerno era nella mente
di Dio, e che nel tempo volle liberamente eseguire:
il cielo dunque adorno dei suoi lucenti astri, senza
una epoca intermedia di tempo indeterminato, senza
una lunga interposizione di anni e di secoli, si pre-
sentò immediatamente agli occhi dell'uomo: questi
rapito da tanta bellezza, da tanta magnificenza, lo
contempla: ecco, o colleghi, il principio dell'astro-
nomia.
§. 11.
Se non che una serie di anni doveva trascorrere
affinchè la terra si popolasse di questi esseri intel-
ligenti. Popolata poi la terra, formata l'umana so-
cietà, l'aspetto superficiale del cielo, la sua bellezza,
la sua magnificenza, poteva essere oggetto di semplice
ammirazione: un lungo studio, una lunga e profonda
meditazione su i fenomeni che successivamente si
presentavano agli occhi umani nella contemplazione
degli astri, doveva finalmente istruire gli uomini che
nel cielo avrebbero eglino trovato, non solamente ciò
che appagar poteva la loro curiosità, ma ciò che po-
teva sviluppare in sommo grado la loro ragione, il
32
loro genio, le loro facoltà intellettuali, e ciò final-
mente che poteva servire ai più grandi bisogni della
vita sociale.
§. "'-
E qui, 0 colleghi, stimo prevenirvi che io in-
tendo prescindere da quelle cognizioni che il Crea-
tore comunicò al primo uomo AdamOf e che colla
successiva tradizione si sono propagate agli altri uo-
mini che popolarono la terra prima e dopo l'uni-
versale diluvio. Giuseppe Flavio attribuisce l'inven-
zione dell'astronomia alla posterità di Selli. Si deve,
dice lo storico, parlando de' figli di Seth, al loro ge-
nio e al loro studio la scienza dell' astrologia (C).
Il sig. Bailly, benché supponga una astronomia an-
tidiluviana talmente perfezionata che in alcune co-
gnizioni possa stare a livello della moderna astro-
nomia, nulladimeno, parlando delle tradizióni di Ada-
mo, di Henoch e della posterità di Seth, afferma che
tali nozioni sono troppo vaghe , e che non hanno
certezza alcuna nella storia. La Genesi , dice egli,
annunzia un fatto, la divisione cioè dall'anno in mesi
e giorni : dalle dettagliate circostanze del diluvio
scritte da Mosè sembra che in quell'epoca i mesi fos-
sero di 30 giorni (D).
§. IV.
In un discorso accademico e filosofico mi limito
a parlare di quelle cognizioni che hanno origine dallo
sviluppo dell'umana ragione, dallo studio, dal genio,
e passando da secolo in secolo debbo giungere ad un
33
popolo, il quale colle osservazioni, collo studio, colla
meditazione dei fenomeni celesti abbia potuto tanto
progredire nelle cognizioni astronomiche, che gli sia
stato facile immaginare e formare una sfera che rap-
presentasse i movimenti e le posizioni degli astri.
Limitando il discorso a queste semplici cognizioni
naturali , dipendenti dalle osservazioni e dal genio
degli uomini, qual lunga serie di secoli doveva tra-
scorrerle prima che gli uomini potessero concretare
i risultati delle loro osservazioni ? Basta leggere il
libro secondo della storia dell'astronomia antica di
Bailly : Du dèveloppement des premier es découvertes
asironomiques : per essere convinti che lo sviluppo
naturale di quelle cognizioni astronomiche, che si
richieggono per la formazione della sfera, non po-
teva essere l'opera di uno, ma di molti e molti se-
coli nella prima età della terra abitata da semplici
pastori ed agricoltori. Le sole cognizioni della sfe-
ricità della volta celeste, della rotondità della terra,
del movimento proprio del sole, cognizioni che sono
la base della sfera, domandavano una lunga e pro-
fonda meditazione e non potevano presentarsi ovvie
e facile ai primi abitatori della terra. Se supponia-
mo, per esempio, che la rotondità della terra siasi
potuta dedurre dalle nuove stelle che si rendono vi-
sibili a quelli che cambiano di alcuni gradi di la-
titudine viaggiando dal tiord al sud , o dal sud al
nordf i primi abitanti della terra non potevano con-
cepire questa idea, parceque, scrive Bailly, les hom-
mes altachés a leurs foyers, à leurs troiipeaiix, a la
culture de leurs champs, ont existé long-tems avant de
s' en écarter. On ne sortoit gueres de chez soi quC'
G.A.T.CXLIIL 3
34
pour se batlre; encore ne se balloit-on qu' avec ses
voisinis. Il a fallii qiie le commerce ouvrit quelques
Communications^ que la guerre se portai plus lion., et
sur-tout que les philosophes et les observateurs voya-
geassent , car les marchands et les gens de guerre
s' arréstent peu à considérer les éìoiles.
Ma sia pure che i popoli antidiluviani sisieno molto
avanzati nelle cognizioni astronomiche e nello studio
dei fenomeni celesti: sia pure che nel contemplare
il cielo stellato abbiano dato dei nomi ad alcuni
gruppi di stelle: sia pure che colle osservazioni del
nascere e tramontare del sole, e delle stelle le più
brillanti , colle osservazioni delle diverse fasi della
luna, sieno giunti, come è certo, alla divisione del
tempo , divisione che ai primi uomini pastori ed
agricoltori era necessaria a regolare le campestri
occupazioni : diremo perciò che ai popoli antidilu-
viani si debba attribuire la invenzione della sfera ,
quando nell'antica storia traccia alcuna non si trova
di quegli elementi che la compongono ?
§. VI.
E riguardo alla divisione del tempo, primo bi-
sogno della civile società, la diurna osservazione del
nascere e tramontare del sole era facile ed ovvia :
la rivoluzione della luna richiedeva uno studio mag-
giore; ma finalmente era anche facile contare i giorni
solari che passavano da un plenilunio al successivo,
e così seguitando, avvedersi che nell'anno solare si
Compievono dodici lunazioni, e quindi la divisione
35
del tempo in giorni solari e in mesi lunari. 11 sig.
Bailly pretende però che i popoli antidiluviani aves-
sero cognizioni così esatte dei movimenti del sole e
della luna, che dalla combinazione di questi potes-
sero formare il periodo di sei secoli, chiamato Tanno
grande da Giuseppe Flavio. La scoperta di. questo pe-
riodo, dice Bailly, poteva aversi col mezzo delle os-
servazioni, 0 anche per la cognizione di una scienza
già da lungo tempo coltivata, e sufficientemente per-
fezionata [E). Fissata la divisione del tempo in giorni
solari, gli antichi attenti alle osservazioni dei novi-
luni e dei pleniluni notavano il giorno in cui acca-
devano queste due fasi principali. Seguitando le os-
servazioni, si avvidero che queste due fasi dopo 19
anni ritornavano nello stesso giorno. Trascorsi final-
mente sei secoli potevano acc3rgersi che i noviluni
e i pleniluni accadevano, non solamente nello stesso
giorno, ma anche nella stessa ora: ecco, conchiude
Bailly, in qual modo i popoli della prima età del
mondo sono giunti , indipendentemente dai meri-
diani, a quelle conclusioni che si sarebbero potute
dedurre in un osservatorio fìsso (F). Che poi la
cognizione di questo periodo possa essere stato il
frutto di una scienza da lungo tempo coltivata, mostra
nello storico Bailly quella predilezione che egli sem-
pre ebbe per un preteso popolo antico dell'Asia, il
quale, a suo parere, possedeva le piti sublimi co-
gnizioni della scienza astronomica (G).
VII.
Giuseppe Flavio parlando degli antichi patriarchi
cosV'si esprime relativamente al periodo di sei se-
36
coli: « Dio prolungava la vita dei patriarchi, sia per
premiare le loro virtù , sia per dar loro il tempo
per perfezionare le scienze della geometria e del-
l'astronomia da essi inventate: e ciò non avrebbero
potuto fare se la loro vita fosse stata minore di 600
anni, periodo in cui si compie l'anno grande. » II
celebre Domenico Cassini fu il primo che si av-
vide della esattezza di questo periodo. Nous, scrive
questo astronomo, ne trouvons dans les monumens,
qui nous restent de toiUes les autres nations, aucun
veslige de celle periode de 600 aìiSf qui est une des
plus belles que Von ait invenlées. Car , supposanl le
mois lunaire de 29.^ \'2.°'' 44."' 3,"' on trouve que
219146 jours et demi foni 7421 mois lunaires ; et
ce méme nombre de 219146 joitrs et demi donne 600
années solaires de 365.^ 5.'"' 51.'" 36.* Si celle année
csl celle qui éloit en usage avant le déluge , comme
il y a beaucoup d^apparence, il faut avouer que les
anciens * patriarches connoissoient déjà avec beaucoup
de précision le mouvement des aslres- Car ce mois
lunaire s^accorde, a une seconde prés, avec celui qui
a élé determinò par les astronomes modernes, et V année
solaire est plus jusle que celle d' Hypparque et de
Plolemée qui donnent a V année 365.^ b-'"' 55."^ 12.^
§. Vili.
Troppo , 0 colleghi , devierei dal mio scopo se
qui volessi discutere questa questione estranea af-
fatto alla mia tesi. Il periodo di sei secoli farebbe,
senza dubbio , molto onore alla astronomia antidi-
luviana. Si può però osservare che molte obiezioni
37
si muovono dagli eruditi contro la testimonianza di
Giuseppe Ebreo, sulla quale si fonda lo scrittore della
storia della astronomia antica: si può notare ciò che
afferma Io stesso Bailly, cioè che Plolemée qui vi-
vali un siede aprés Josephe ne parie point de celle
période dans son Almagesle. Il rapporte quelques aulres
périodes des chaldéens quHijpparque avail examinèes.
Il s'ensuit qiiHijpparque el Plolemée ne conoissoient
poinl celle doni il .s' agii, ou qu^ils en ignoroienl la
pisotesse: finalmente si può dire che non mancano
scrittori i quali pensaho che 1' anno antidiluviano
fosse di 360 giorni- Questa opinione sulla lunghezza
dell'anno antidiluviano di 360 giorni viene confer-
mata dalla storia egiziana. Abramò, dice lo storico
delle antichità ebraiche, insegnò agli egiziani la scienza
dei numeri e delle stelle. Ora Abramo visse 48 anni
con Faleg: questi fu contemporaneo di Noè per an-
ni 24-9 : non poteva dunque ignorare le tradizioni
antidiluviane. È certo poi che gli egiziani conserva-
rono per lungo tempo la tradizione di questo- anno
di 360 g"orni: data poi la correzione di 5.^ 6,°'' gli
egiziani ritennero sempre la memoria di questo anno,
che essi chiamarono anno religioso consacrato dal
rito di 360 vasi posti nel tempio di Osiride, i quali
con diurna cerimonia si colmavano di latte da 360
sacerdoti. {H)
§. IX.
Lasciando però ogni altro esame su questo pe-
riodo di sei secoli, conchiuderò che quando anche
si voglia supporre nei popoli antidiluviani cognizione
tanto estesa dei movimenti del sole e della luna ,
38
non segue perciò che essi sieno stati i primi in-
ventori della sfera, tanto piii che a sentimento dello
stesso Bailly sembra che i popoli antidiluviani non
avessero cognizione alcuna del meridiano , uno dei
principali circoli della sfera che suppone la cogni-
zione del polo.
Il nome di sfera troppo vagamente si suol pren-
dere dagli antichi scrittori- Si parla di sfere più o
meno perfette , per cui si potrebbe affermare che
l'invenzione della sfera quale noi conosciamo non sia
opera di una sola nazione, ma che siasi formata a
misura che gli antichi popoli progredivano nelle co-
gnizioni astronomiche, e nello studio dei movimenti
dei corpi celesti (/). Egli è certo però che non può
concepirsi l' idea della sfera senza una cognizione
del polo , della concavità della sfera celeste , della
rotondità della terra, e del movimento proprio del
sole. Una sfera dunque composta dei circoli orizzonte,
meridiano, equiìtore, eclittica, colurì, è quella che
si riferisce alle mie ricerche: quali sieno le opinioni
le più probabili sull'antichità di questa sfera com-
pleta: a qual popolo se ne debba con qualche fon-
damento attribuire 1' invenzione: in quale epoca pros-
simamente sia slata usata: ecco, o colleghi, le que-
stioni che brevemente saranno da me sviluppate in
questo accademico trattenimento, battendo la via la
più sicura per giungere alla soluzione di queste que-
stioni, soluzione che non può ottenersi senza un esa-
me guidato da una critica rigorosa dei monumenti
39
storici, e delle antiche osservazioni astronomiche che
ci sono giunte dalle memorie degli antichi popoli {L).
§. XI.
E qui, o colleghi, mi giova osservare che sotto
il nome di eclitlica intendo il solo circolo obliquo
all'equatore che descrive apparentemente il sole in un
anno. Prescindo affatto da quella fascia circolare che
si estende di pochi gradi al di sopra e al di sotto di que-
sto circolo, chiamata zodiaco. Prescindo da ogni idea
di costellazione, e in modo speciale dalle 12 costella-
zioni zodiacali. Non intendo di entrare nella spinosa
questione sulla origine di queste e delle altre costel-
lazioni in genere. Devierei troppo dal mio scopo e
dalla mia via, tanto piiì che molti scrittori parlando
della antichità dello zodiaco comprendono sotto que-
sto nome la sfera stessa , quasi che lo zodiaco sia
parte tale della sfera , che senza questo non possa
concepirsi quella di cui intendo parlare. La divisione
dello zodiaco e per conseguenza della eclittica in un
dato numero di parti eguali è ben distinta dalle tì-
gure e dai nomi delle costellazioni che sogliono oc-
cupare le parti medesime (M). Presso gli antichi le
varie stelle di uno stesso gruppo erano congiunte per
mezzo di linee rette, i nomi delli diversi gruppi o
configurazioni di stelle erano diversi presso le diverse
nazioni : le costellazioni dunque non formano una
parte essenziale della sfera. Saviamente il sig. Le-
tronne [Journal des savanls aonl 1839) dopo di aver
dimostrato che la divisione dello zodiaco, in 27 o
28 parti relativamente al moto della luna, o in 12
40
parti e nei suoi multipli relativamente al moto del
sole, poteva esistere chez des petiples qui n' ont eu
entre eux aiicwie commimication, parce qii'elle rèsuUe
de phénoménes constanls et partout les meme.s;*segue
a dire : Mais, comme les groupes rf' étoiles affectent
raremenl des formes délerminées, et comme d'ailleurs
on peut les comjwser de vingl maniéres dijférentes, il
est évident que Vusage des mémes groupes ou des mé-
mcs fignres, ches deux peuples, ne petit élre un effet
du hasard; V un des deux les aura de tonte nécessité
empruntés àVautre. Lo stesso astronomo è tanto per-
suaso di questa verità, che la 3." delle sue proposi-
zioni sulla origine dello zodiaco è formulata nel modo
seguente: U idée de la division zodiacale est étrangére
à la sphére primitive des grecs^ elle ij a été transpor-
tèe aprés coup; mais les noms et les figures du zo-
diaque sont d' invention grecque. Dopo ciò, segue che
dai nomi e dalle figure delle costellazioni si può so-
lamente dedurre che una data sfera appartiene ad
una data nazione, come sono appunto le tre sfere
delle quali parla Scaligero nelle note a Manilio, la
persiana cioè, 1' indiana, e la greca : segue anche es-
sere, per esempio, cosa ridicola di attribuire ai greci
la invenzione della sfera perchè quasi tutte le co-
stellazioni simboleggiano la storia e le favole di que-
sta nazione: ai greci tardi discepoli, e non maestri
delle scienze che ebbero culla nell'Oriente: ai greci,
i quali al dir di Seneca: Nondum sunt anni giùngenti
et mille ex quo stellis numeros et nomina fecerunt.
41
xn.
Fissato in tal modo lo stato della questione è
d'uopo discendere all'epoca dopo il diluvio, se vo-
gliamo pronunciare un giudizio molto probabile e for-
se anche certo sull'antichità della sfera. Ma qui siamo
nuovamente involti nelle tenebre dell'antica cronolo-
gia. Incertezza sull'epoca di questo lacrimoso disa-
stro di tutto il genere umano : grande disparità di
opinioni nelle opere dei più dotti scrittori. Ma senza
fissare questa epoca, a me sembi^a che il filosofo
debba ragionare nel modo seguente. Egli è certo che
la sola famiglia di Noè fu salva dalla universale inon-
dazione : la terra dunque si trovava relativamente
agli uomini, come nei primi anni del mondo, quando
era abitata dalla sola famiglia di Adamo. Doveva dun-
que trascorrere una lunga serie di anni affinchè la
terra nuovamente si popolasse. Le nuove popolazioni
però non formarono una sola famiglia, una sola so-
cietà. Disperse e separate' dettero origine a quattro
grandi nazioni, indiana, cinese, caldaica ed egiziana.
Anche nell'epoca dopo il diluvio, il sig. Baillij non
può dimenticare il preteso suo antico popolo asia-
tico. Suppone che questo popolo, dottissimo nell'a-
stronomia, scolpisse sopra colonne di pietra i risul-
tati delle astronomiche osservazioni: pensa che queste
colonne abbiano potuto resistere all' impeto delle
acque inondatrici, e che sieno restate come perenni
monumenti dell' astronomia antidiluviana, A senti-
mento dunque di Dailly, i popoli che abitarono la
terra dopo il diluvio potevano conservare una scienza
42
tradizionale, e pel commercio che ebbero cogli in-
dividui di quella sola famiglia che fortunatamente
contava le due eia del mondo, e per la memoria di
questi monumenti scientifici che seppero resistere
alla universale inondazione: che anzi suppone mag-
giori cognizioni in quei popoli, che, non ostante la
separazione, abitarono le diverse parti dell'Asia, paese
già abitato dai primi uomini, che in quelli, i quali
emigrando dall'Asia, non potevano conservare che la
sola tradizione ricevuta dai discendenti di Noè. Ri-
flette nello stesso tempo che i fatti astronomici della
scienza antidiluviana erano tracciati in caratteri eni-
gmatici, e in geroglifici molto brevi, e senza alcuna
spiegazione. Se dunque si conservava la memoria di
queste osservazioni, l'utilità e l'uso era perduto: quin-
di conchiude che questi popoli possedevano gli avan-
zi, e non gli elementi di una scienza [N). L'epoca
del diluvio è fissata dallo storico 40 secoli avanti
l'era cristiana, e la cronologia delle accennate na-
zioni monta ai 34 in 35 secoli avanti l'era mede-
sima.
§. XJII.
Sarebbe cosa inutile perdersi nelle tenebre del-
l'antichità per verificare l'epoche di questi popoli. Le
antiche storie sono troppo incerte : l'abuso troppo
grande della mitologia mescolata non solamente ai
grandi fatti ed avvenimenti storici, ma anche ai riti
delle religioni le piij ridicole e le più superstiziose,
la confusione della vera astronomia coll'astrologia la
pili pazza e la più stolida, la pretensione che ave-
vano di appartenere alla più remola antichità deri-
43
vando la loro origine dalle false loro divinità, le ren-
dono sempre più oscure ed involte in foltissime te-
nebre. La luce però che rischiara e disperde queste
folte tenebre sono le sole osservazioni astronomiche
consegnate nelle antiche memorie di queste nazioni.
Un rigoroso esame di questi autentici monumenti del-
l'antica astronomia giunti a noi dalla Babilonia, dal-
l' Egitto, dalla Grecia; uno studio profondo su i me-
lodi astronomici usati nella Cina e nell' India; esame
e studio corroborato dalle sublimi cognizioni, sco-
perte, e metodi che si debbono alla moderna astro-
nomia, è la sola luce che può rischiarare queste te-
nebre. Questa luce è vivissima. Noi non vogliamo
indagare le epoche delle dinastie di queste nazioni.
I popoli, che si sottomisero ai loro duci nella sepa-
razione dell' umana società dopo il diluvio, non su-
bito potevano essere giunti alle cognizioni astrono-
miche: secoli e secoli dovevano trascorrere prima che
questi popoli si dessero allo studio delcielo: biluce
vivissima di cui parliamo ci assicura delle epoche,
nelle quali questi popoli coltivarono la scienza astro-
mica : ciò è piij che sutTiciente per fissare l'epoca
della invenzione e dell'uso della sfera.
XIV.
Questa luce medesima è già da un secolo che il-
lumina l'orizzonte scientifico di Europa. Allo apparire
di questa luce sparve it preteso popolo abitatore del-
l'Asia centrale immaginato da Bailhj. Questo popolo
che in tempi remotissimi, e lontanissimi da ogni sto-
ria possedeva le piiì sublimi cognizioni della scienza
u
astronomica: questo popolo che emigrando dal paese
natio, e trascorrendo le diverse i)arti del mondo, fu
il maestro, e l'istitutore della scienza astronomica:
questo popolo , o colleghi, le sue dotte cognizioni
sono una favola, una idea fittizia, e la sua esistenza
è cancellata dalla storia. Allo apparire di questa luce
cadde l'assurda e ridicola opinione di Ditpiiis. Soste-
nere contro ogni sana critica, che lo zodiaco sia di
origine egiziana nella semplice ipotesi che simboleg-
giasse i fenomeni naturali dell'Egitto nel corso di un
anno : pretendere che l'origine debba contarsi dal-
l'epoca in cui l'ariete corrispondeva allo equinozio di
autunno, cioè 130 e 150 secoli avanti l'era cristiana,
sono, 0 colleghi, vane e ridicole congetture, sono so-
gni di un uomo che fondato sulle favole e sulle su^
perstizioni degli antichi popoli ha preteso di formare
un empio e falso sistema: all'apparire di questa luce
dimenticò la storia quel famoso Atlante figlio di Ura-
no, e fratello di Saturno inventore della sfera. Que-
sta sfera che ebbe la sua origine r^el nord dell'Affrica,
e che successivamente passò agli egiziani, agli indiani,
ai caldei, e ai cinesi, è, o colleghi, una favola, come
appunto è favoloso il nome dell'inventore figlio del
eieìo, e fratello del tempo [0] (P). Guidato da questa
stessa luce il cel- Giovanni Bernoitlli nelle sue dotte
ricerche sulla storia della polare rinunziò ad ogni
astronomia antidiluviana: Je, dice egli, ne in arroterai
pas davanlàge dans cet essai historique sur Véloih po-
laire aux_ lems qui ani précède le déluge: il seroit dif-
ficile d'ailleurs, (aule de données, de s'y arrèler plus
longtems, et il faudroit toiicher la materie si delicate,
encore et si obscure de Vintervalle à supposer entre
45
la creàlion et le déliige {n). . . . Quoi qiCil en soit^
je crois voir non seulment dans Vouvrage de M. Bailly^
mais dans d' aulres encore qne fai eu occasion de
consulterà des preuves assés évidentes qiCenviron 300
ans avant notre ere les peuples orienta èioient dejà
suffìsamment avaneès, aii moins dans la connoisance
des principales apparences qiie présente le ciel ètoilé
et qne dés-lors nos conslellalions circompolaires leur
doivent avoir élé connues. Dopo ciò ho dovuto an»
che io rinunziare ad ogni astronomia antidiluviana:
e dopo un esame rigoroso sulle antiche osservazioni
mi sono persuaso, che l'origine di una sfera com-
pleta, quale è stala da me descritta, non può ri-
montare che ai 24 o 25 secoli avanti l'era cristiana,
§• XV.
È vero però che le antiche osservazioni astrono-
miche, le quali mi portano a fissare questa epoca,
non sono per la maggior parte riferibili strettamente
alle mie ricerche, come quelle che si potevano fare
senza la cognizione esalta della sfera; ma sono sem-
pre di un gran vantaggio per fissare con certezza
alcune epoche della storia dell'astronomia presso gli
antichi popoli, epoche sempre minori di 30 secoli
avanti l'era cristiana. In lai maniera mi confermo
sempre piii, che le mie ricerche dovevano partire dalle
epoche posteriori al diluvio, e mi persuado che in
dette epoche si trovano presso le antiche nazioni
elementi di una astronomia sufficientemente perfe-
zionata, e cognizioni tali del cielo stellato che faciU
46
mente potevano questi popoli giungere alla inven-
zione della sfera.
S. XVI.
La costellazione delle Pleiadi, come si ha dal li-
bro di Giobbe, era ben cognita ai popoli dell'Asia.
La sua forma a guisa di un pesce, l'unione di molte
stelle, delle quali alcune molto brillanti, la rendeva
ben rimarcabile, e degna di essere osservata. Ebbe
diversi nomi presso i popoli orientali , e fu di un
uso grande nell'antichità. Il nascere e il tramontare
di questa costellazione era attentamente osservato.
II principio dell'anno era regolato al nascere delle
Pleiadi nella sera : il nascere o il tramontar nella
mattina divideva l'anno rurale in due parti; il na-
scere delle Pleiadi nella mattina indicava il principio
dell'estate, e il tramontar delle stesse Pleiadi nella
mattina segnava il principio dello inverno- Tolomeo
riporta una antica osservazione, la quale, a sentimento
di i?f«7/?/, appartiene agli indiani- In questa ossserva-
zione si assegna il nascere delle Pleiadi nella sera
sette giorni prima dell'equinozio di autunno. Nella
epoca dunque della osservazione le Pleiadi dovevano
precedere di 7° in 8° l'eciuinozio di primavera. Al
principio del 1750 la bella delle Pleiadi aveva 56". 30'
di longitudine: dunque dal 1750 fino all'epoca della
osservazione il moto in longitudine fu di circa 63";
ma per la precessione degli equinozi questo inter-
vallo si descrive in 4536 anni, dunque l'epoca della
osservazione monta all'anno 2786 avanti l'era cri-
stiana- Il sig. Biot con calcolo rigoroso per 1' an-
47
no - 2357 (il segno - posto avanti l'epoca indica sem-
pre gli anni avanti l'era cristiana) trova
V3 Pleiadi AR = 358." 39.' 16."
D=:-f- 3. 10. 26
Supponiamo l'obliquità della eclittica di 23.o 59'. 10"
e si avrà per l'epoca medesima — 2357
>j Pleiadi long, 359.° 55'. 31"
dunque nell'anno — 2357 la >j delle Pleiadi era pros-
simamente nell'equinozio di primavera; ma per ve-
rificare l'osservazione riportata da Tolomeo, le Pleiadi
dovevano in quell'epoca precedere l'equinozio di pri-
mavera di 6." in 7.", dunqne la longitudine doveva
essere di circa 353.°; ma al principio del 1750 la
longitudine era di 56.° circa, dunque il moto in lon-
gitudide dall'epoca della osservazione fino al 1750
sarà di 63.» circa, come si è fissato. Da questo cal-
colo si trova anche
— 2357 long. >7=-359.''55.'31."
-4- 1750 56. 30. 17.
dunque in 4.107 anni moto in longitudine56.°34.'46.",
e r annua precessione 49." 59 lisultato conforme
alla teoria. Ciò prova che l'obliquità dell'eclittica di
23." 59.' 10." per l'anno — 2357 è compatibile colla
teoria.
48
§. XVII.
Da un'altra antica osservazione risulta che il set-
timo giorno dopo l'equinozio di autunno le Pleiadi
erano visibili nella mattina e nella sera. Dal calcolo
del P.Petavio si riporta l'osservazione all'anno — 2200.
La longitudine della n era di 2.° 06.' 21 ." Finalmente
per una testimonianza di Plinio esisteva una antica
astronomia pubblicata sotto il nome di Esiodo. In
questa si trova che nel giorno dell'equinozio di au-
tunno, il tramonto delle Pleiadi era visibile al na-
scere del sole. Lo stesso P. Pelavio riporta questo
fenomeno all'anno — 2278 e la >3 delle P/e/urf? a vea
circa 1.° di longitudine.
§. XVIIL
L' epoche che risultano dalle osservazioni delle
Pleiadi sono tutte posteriori al diluvio. Se però non
m' inganno, le stesse osservazioni dimostrano un certo
successivo sviluppo nelle cognizioni astronomiche. La
prima monta all'anno — 2700, cioè 2 o 3 secoli dopo
il diluvio: in questa si parla del solo nascere delle
Pleiadi, osservazione ovvia e facile: si assegna questo
fenomeno sette giorni avanti l'equinozio di autunno:
la divisione dunque dell'anno nelle quattro stagioni,
e l'epoca se non precisa, almeno prossima del prin-
cipio di ciascuna stagione, si deve credere ben co-
gnita ai popoli orientali. Le altre osservazioni che
si riportano agli anni — 2300 mi sembrano più ri-
cercate: si parla in queste della visibilità delle Pleiadi
49
nella sera e nella mattina; del tramonto di questa
costellazione al nascer del sole ; dell' epoca precisa
di questi fenomeni: tutto ciò mi sembra dimostrare
una certa costanza nelle osservazioni di questa co-
stellazione, e un certo maggior sviluppo nelle cogni-
zioni astronomiche. Difatti il tramonto delle pleiadi
nel giorno dell' equinozio di autunno al nascer del
sole altro non è in buoni termini che l'opposizione
del sole colle pleiadi, essendo 180° la longitudine
del sole e 0." 21 .' quella della v] pleiadi {Q).
§. XIX.
Dall'antica storia dei caldei di Zend-avesta tra-
dotta dal sig. Anquetil sappiamo che questi popoli
riguardavano le stelle come una moltitudine di sol-
dati. Quattro belle stelle, cioè taschieì-f satevis,venandi
hastoreng, erano, secondo la loro opinione, i coman-
danti che sorvegliavano e custodivano le altre. La pri-
ma custodiva l'on'eH/e, l'altra il sudala terza Vocci-
dente, e la quarta il nord. Ecco intanto una divisione
della sfera celeste in quattro parti eguali, le quali
corrispondevano ai quattro punti cardinali est^ sud,
oivestj nord. Bailly è di parere che le quattro stelle
sieno Aldebaran, Regolo, Antares, Fomalhaut. Le lon-
gitudini di queste quattro stelle al principio dell'an-
no 1860 sono
a Toro long.
67.
"49.
56." 7
« Leone
147.
53.
0. 0
a Scorpione
246.
48.
28, 0
a Pese. Aust.
331.
53.
14. 6
G.A.T.CXLIII.
50
Le differenze di queste longitudini non sono di 90."
e riportate ad una slessa epoca di 27 o 28 secoli
avanti l'era cristiana non collimano esattamente ai
punti cardinali: non ostante però le differenze sono
ben piccole, e compatibili colle osservazioni grosso-
lane di quei tempi : si avrebbe infatti
■^ 2700 a Toro long.
4.'
' (7.
a Leone
84.
21
« Scorpione
183.
16
« Pese. Ausi.
268.
21
§. XX.
Nella cronologia cinese troviamo cognizioni astr(^-
nomiche molto superiori a quelle delle altre nazioni.
Un gran nombre, scrive il lodato Bernoulli, lant cìii-
nois qiieuropéens, s'accordenl à dire que l'aslronomie
étoit cléjà fori avancée sous Fo-hij qu ih regardent
cornine le fondaleur de l'empire de la Chine, et que
la plùpart disenl avoir comm.§ncé de régner 2952 ans
avant I. C. Le P. Gaubil regarde^ d^aprés les livres
Y-King, Tcheou-pey et d'aiitres, comme une tradition
assés probable que Fo-hi ou Fou-hi a le premier en-
seignè V astronomie', et M. Bailly dit, sur la foi du P.
Martini, que suivant V hisloire c'étoit un prince con-
sommé dans Vastronomie , qu il donna la figure des
corps célesles, qu il cut la connoissance de leurs mou-
vemens et qu' il en dressa des tables. Je ne trouve ce-
pendant rien de précis ni de certain sur les travaux
astronomiques de cel empereur, pas me me des obser-
vations superficielles qu il ail faites en considérant les
51
éloiles éparses dans le del; et suppose qiie Ics histo-
riens (issent menlion plus posilivemenl de quelqne oh-
servation intéressante, seroit-il permis 'd'y ajouler foi,
tandis que ceux qui ont délivré cette tradition du re-
gne de Fo^hi ont pu dire qiC il étoit fils d'un arc-en-
ciel, qu' il navoit de V homme que la téle, et qu il
étoil serpent par tout le corps ? Dopo ciò l' illustre
astronomo, nelle sue ricerche sulla polare, lascia da
parie questo amfibio e il suo successore Chin-nong.,
al quale la tradiziooe attribuisce la testa di bove,
chianrìandolo VApis Chinois, e passa iaimediatamonte
ai 27 e 24 secoli avanti l'era cristiana, cioè agli im-
peratori Hoang-ti ed Yao, sotto i quali l'astronomia
fiorì neir impero cinese, come risulta da molte os-
servazioni, delle quali citerò quelle solamente che for-
mano la base del mio argomento.
§. XXI.
1 cinesi, sciive Bernoulli, ont transporté en quel-
qne sorte tonte la Chinesdans le del, en plagant du
còte du nord ce qui a le plus de rapport à la cour
et à la personne de Vempereur: quindi il polo, o la
polare, era il simbolo dell' imperatore: le stelle più.
vicine al polo simboleggiavano 1' imperatrice, l'erede
della corona, i primi ministri dello stato, le guardie
del trono. Ora sotto l' impero di Hoang-ti uno dei
suoi ministri chiamato Yu-clii determinò la polare.
Ecco, dice Bernoulli, la prima menzione che si faccia
nelle antiche storie di quella stella vicinissima al polo
che appunto per la sua vicinanza si dice polare. L'e-
poca rimonta ai 26 o 27 secoli avanti l'era cristiana.
52
Bailhj pensa clic la polare di Yu-chl possa essere
r oc del Dragone. Biol con calcolo rigoroso per l'an-
no — 2357, cioè sotto l' ioìpero di Yao, trova quattro
stelle del Dragone vicinissime al polo. Le declina^
zioni sono le seguenti
^ 2357 42/ Dragone Deci. 88.°23.' 59."
184. 88. 0. 2
lOi. 88. 14. 16
«. ^ 87. 32. 47
Se poniamo che la scoperta accadesse nell' an-
no — 2690, r « del Dragone di 3." grandezza visi-
bile ad occhio nudo avrebbe avuto una declinazione
di circa 89.° 20.' Le altre tre stelle di 5." in 6." gran-
dezza non potevano prendersi per polare , e anche
noi diciamo polare 1' & deWorsa minore di 2." gran-
dezza a preferenza del X più vicina al polo, ma di 5."
grandezza. Dope ciò possiamo affermare che nell'an-
no — 2690 circa si conosceva il polo , cognizione
indispensabile per la formazione della sfera. Difatti
dalla storia cinese noi sappiamo, che lo stesso Yu-chi
scopritore della polare avoil compose une certame
machine en forme de sphere, la quelle représentoit les
orhes célesles. Ecco, o colleghi, la prima idea di una
sfera che venne immediatamente dopo la scoperta
della polare. Questa prima sfera deve però dirsi im-
perfetta ed incompleta : le cognizioni astronomiche
erano ancora ben limitate: ma circa tre secoli dopo,
sotto r impero di Yao, noi abbiamo presso i cinesi
un tal sistema di osservazioni , sistema invariabil-
mente legato alla forma, ai riti religiosi, e all'uso
53
continuo dell'aslrologia, che abbiamo lulto il diritto
di asserire avere i cinesi perfezionala la sfera ideata
già da Yu-chi {R). Leggiamo difatti che quattro stelle
mao, nias, hi, hiu determinavano i due equinozi e i
due solstizi. Bailhj è di parere che queste quattro
stelle sieno quelle stesse che presso i caldei deter-
minavano i quattro punti cardinali. Dalle recenti ri-
cerche del sig. Biol [Journal des savants 1839 et 1840)
i nomi delle quattro stelle sono mao, sing, fang, hiu,
corrispondenti alle vj delle pleiadi, a delV idra, n scor-^
pione, /3 aquaiib. Le longitudini pel l.*del 1750 sono
-+- 1750 >j Pleiadi long. 56.°30.'17
a Idra " 143. 48. 8
n Scorpione 239. 27. 4
/3 Aquario 319. 54. 35
Riportando queste longitudini alla stessa epoca non
potranno mai collimare esattamente ai punti equi-
noziali e solstiziali , ma le differenze sono piccole.
Si ha per esempio
— 2350 >7 Pleiadi long. 359. 16. 32
« Idra 86. 34. 23
n Scorpione 182. 13. 19
/3 Aquario 262. 40. 50
§. XXIL
Finalmente dagli annali cinesi sappiamo, che le
osservazioni degli astronomi erano dirette a fissare
la posizione delle stelle rispetto al piano dell'equa-
54
tore. Ora la posizione di un astio rispetto a que-
sto piano si ha da quelle due coordinate che noi
diciamo ascensione retta e distanza polare'dell'astro.
È vero però che nella moderna astronomia le ascen-
sioni rette , che si contano sull' equatore , partono
tutte da uno stesso punto , cioè dalla intersezione
della eclittica coH'equatore, variando dallo zero fino
a 360°, ovvero dallo 0'' fino alle 24*; ma è anche
vero che qualunque punto dell'equatore può servire
di origine alle ascensioni rette. Ciò posto, ecco in
qual maniera Biol riporta questo metodo di osser-
vazioni cinesi, metodo che rimonta a pili di '20 se-
eoli avanti G. C. Les posilions des aslres s'y deter-
minaient par les époques de leur passage aii méndieUi
et par leurs dislances angulaires.au pòle visible, exacte-
meni comme noiis le faisons aujord' km. Les inier-
valles temporaires des passages observès, èlant expri-
mès en parùes d\ine mème revolution diurne, don-
naient les angles dièdres conipris enire les mèridiens
propres des astres observès; ces inlervalles s'apprecia-
ienl an moyen f/' horloges d'eau, qui peraissent avoir
élé de très-bonne heure à niveau Constant: condition
necessaire de Vexactitude que Von trouve dans plu^
sieurs déterminalions astronomiques forte anciennes, dè-
pendanles de leur èvalualion. Pour èviler qu ils ne
fussent trés-prolongèsy auquel cas les irrégularités pos-
sibles des horloges auraient introduit trop d'errenrs
dans leurs mesures, les chinois employaient un arti-
fice auquel nous avons également recours. Ils avaient
choiai un certain nombre d'ètoiles, conventionnellement
désignées comme celles que nous appelons aujourdliui
fondamentales; puis, concevanl la sphère celeste coupée
?5
par les méridiens de ces éloiles en sectcurs sphèri-
qiies aijaiit leur sommet commun au pòle visible, ih
rapportaienl à ces plcins , que notis appellerions ho-
raires, tous les méridiens des atres compris dans cha-
qiie trancile; de sorte quils avaient seidement à me-
surer ^intervalle de temps restreint qui s'ècoidait entre
le passage au méridien de Vaslre quils voulaient ob-
server, et le passage de Vét'oile fondamentale doni le
méridien s'en trouvait angidairement le plus proche.
Questo metodo di osservazioni è ingegnosissimo, e
da esso risulta evidentemente che i cinesi 23 in 24
secoli avanti G C. conoscevano esattamente il polo,
il meridiano, e l'equatore.
§,. XXIII.
Le stelle fondamentali, o le determinatrici dei
cinesi, erano 28. Quattro però, come si ò veduto ,
determinavano i due punti equinoziali, e i due punti
solsliziali: i meridiani propri di queste stelle formano
per coseguenza i due coluri. Per completare la sfera
manca l'eclittica, o la via che apparentemente de-
scrive il sole in un anno- Lo stesso Biot così sì
esprime rispetto alla eclittica: Uannèe solaire, sup-
posée di 365^ 6"'', étail, chez les chinois partagèe de-
puis une antiquilè immémoriale en quatre inlervcdles
temporaires egaux, doni les limiles répondaient oupour
mieux dire étaient censées officìellement répondre aux
époques des deux équinoxes et des deux solslices. Celle
dii solstice d'hiver seule se dèterminait par Vobservalion
des plus longues ombres d'un gnomon à sigle, doni la
hanleur étail fixèe par les rites à 8 pieds chinois.
56
Chaque quadranl de Vannée élail sudivìsé en Irois par-
ties tcmporaires égales appelées Ichongki, de sorte que
Vannée enliéve contenait dome Ichonqki. Dans ce syslè-
me, fonde toni entier sur la mesnre égale du temps, on
ri'avail aucitn besoin de suivre la marche anmielle du
soleil sur le cercle oblique de la sphère celeste que
nous appelons récliptique- Ce cercle ne servati à aucun
usage. Il fut cependant connu el considerò spèculali-
vement par Icheon-Kong qui y praliqua douze divi-
sions limitées par les cercles de déclinaison élevés
par les exlremites des douze Ichongki équaloriaux-
L'eclittica dunque presso i cinesi era divisa in 12
parti : queste parli non potevano essere eguali fra
loro, come erano appunto eguali le 12 parti equa-
toriali: ed è perciò che le 12 divisioni della eclit-
tica presso i cinesi non si debbono confondere colle
12 parti 0 costellazioni dello zodiaco. È appunto
su questa differenza che insiste Biot dicendo : Ce
nombre de douze , identique à celui des dodécaté-
mories grecques, les a faìt quelquefois confondre ine-
xactement par les européens avec celles-ci qui en dif-
fèraienl par la condiiion de leur égalité ; e tanta
più debbono differire , giacche al dire dello stesso
Biot , tout le del stellaire chinois était partagé en
groupes cVeloiles unies par des lignes droites qui n'ava-
ient aucun rapporl avec nos conslellations.
§. XXIV.
Dopo ciò che ho brevemente esposto, chi di
noi, 0 colleghi, potrà rinunziare alla autenticità di
tanti monumenti storici , i quali tutti provano che
57
chela nazione cinese 26 in 27 secoli avanti l'era cri-
stiana possedeva già cognizioni astronomiche superiori
a quelle delle altre nazioni, e metodi di osservazioni
dei quali non sì trova traccia alcuna nella storia
degli altri popoli (5) ? Chi di noi potrà asserire che
queste cognizioni e questi metodi di osservazioni
non potevano condurre gli astronomi cinesi ad im-
maginare una sfera, quale da me è stata descritta,
quando dagli slessi monumenti storici noi sappiamo
che la nazione cinese ne conosceva perfettamente
tuttQ le parli che la compongono ? Ma ciò non hasta.
Consultiamo le antiche storie e troveremo una espli-
cita descrizione della sfera nell'anno — 2277, cioè
une sphere monlée sur son pied, el dont le pale se-
ptenlrional est élevé de 36", on y voit lliorizon, le
méridien , /' équateiir, V ecHptiqiie, Vaxe du monde.
Oulre ces choses, il y a encore deux cercles, dont
Vun paroil étre le colure des solslices, et Vanire pe-
roit élre le colure des éqidnoxes. Dopo questa de-
scrizione così segue BernouUi: Il est dono très-vrai
semblable qiie la sphere armille, exècutée dhine ma-
niere si complete sous le recjne d'Yao, a pu étre ébau-
chèe et invenlée sous le reyne d'Hoang-ti : cioè dal
ministro Yu-chi di questo imperatore, il quale scoprì
la polare. Cium poi successore di Yao, dice lo stesso
Bernoullij fit (aire ime sphere d'or enrichie de pier-
reries avec un tube au dessus pour voir les astres.
Tant' è , o colìeghi , se noi consideriamo la sfera
quale è stata da me descritta , indipendentemente
dallo zodiaco e dalle costellazioni , 1' invenzione e
r uso si deve ai cinesi, e 1' origine si deve fissare
ai 23 in 24 secoli avanti l'era cristiana. La critica
58
la più severa non può rinunziare ad occhi chiusi
alla autenticità di tanti monumenti storici. Che se
poi nello esame di questi monumenti mi fossi, dirò
così, ingolfato nella questione sulla origine delle co-
stellazioni, non sarei mai giunto ad una chiara e
pretta conclusione. E non è appunto che, basando
r esame sulle costellazioni e specialmente sulle zo-
diacali , Bailly trova una somiglianza fra la sfera
persiana e la greca ? Non è forse nello esame delle
costellazioni, che Io stesso storico non dubita asse-
rire che la sfera indiana è la sfera primitiva che
trae la sua origine dall'origine stessa delle costel-
lazioni [F) ? Benché, come ho già dimostrato con
forti argomenti , le costellazioni non possano mai
provare, l'antichità della sfera, quale è stata da me
descritta, giacché le costellazioni, come arbitrarie,
non sono parti essenziali della sfera; nulladimeno a
compimento di questo mio discorso mi sia permesso,
o colleghi, di distruggere l'antichità della sfera in-
diana, dimostrando con solidi argomenti contro Bailly
non essere la sfera indiana la più antica.
§. XXV.
Il ce\. Biol comincia a stabilire che l'anno-SlOl
sia la data più certa dell'astronomia indiana- Ciò
posto, segue a dire: « Les hindous comme les grecs
partagent la circonférence en 360 parties fraction-
nées suivant tous les ordres de la division sexagé-
simale. Ils cogoivent pareillement dans le ciel deux
cercles abstraits, l'équateur et l'écliptique, celui-ci
élant incline sur le premier de 24° ; ce qui sem-
59
bleiait montrer que l'astronomie des hindous n'est
pas d'une date si ancienne qu' ils le prétendent, ou
que dans ces temps-là ils étaient aussi peii habiles
aux obseivations qu' ils se sont rnaintenant- Ils di-
visent, cotntne les grecs, l'ecliptique en douze par-
ties égales ou signes, le premier de leurs signes est
mesha le bélier: la méme identité de designation
existe pour les onze autres signes ; d'où l'on peut
conclure en tonte assurance, que l'un des deux peu-
ples a empruntò à l'autre cette suite de symboles
en-tiòrement et individuellement arbitrares, on que
si l'on veut en croire Bailly cet ensemble de divi-
sions et de designations fìguratives a été originai-
rement établi par un peuple antèrieur parvenu 5
un très-haut degrè de civilisations: mais créer ainsi
un passe imaginaire pour expliquer les choses prò-
sentes, c'est une liberté que ne se permet plus la
critìque moderne. Ce genre de solutions fantasti-
ques, fort goùtè au temps de Bailly, est passe de
mode. )) Il fin qui detto basterebbe a mostrare che
l'astronomia indiana può appena montare all'epoca
dell'astronomia cinese, con questa differenza però che
gli astronomi cinesi avevano metodi di osservazioni
molto pili esatti degli astronomi indiani : per cui
mi fu forza conchiudere, che i soli cinesi potevano
colle loro osservazioni giungere alla invenzione e
all'uso della sfera. Le 28 divisioni stellari dei ci-
nesi, quattro delle quali determinavano i due punti
equinoziali e i due solstizi, il modo di fissare la
posizione degli astri colla osservazione dei loro pas-
saggi al meridiano, e col misurare le loro distanze
dal polo visibile, sono, o colleghi, metodi tali che
60
non si trovano presso le altre nazioni. Nò qui vale
ricorrere alle 28 divisioni degli indiani e confon-
dere le une colle altre : quelle dei cinesi sono di-
visioni equatoriali determinate dai 28 meridiani che
passavano per le 28 stelle determinatrici; le 28 di-
visioni degli indiani appartengono alla eclittica, chia-
mate da essi nakshatras o mansioni della luna. Lo
stesso Biot , al quale si devono le piiì belle e le
più interessanti memorie sulla cronologia di queste
due nazioni, così scriveva nel 1840. « Dans l'Inde,
au contraire , ce systeme se présente non seule-
ment sans date (le 28 divisioni stellari dei cinesi
portano, come si è detto, la data di 23 in 2i se-
coli avanti 1' era cristiana) mais sans aucune indi-
cation d'usage, ni de relation avec les observations
réelles, dans les ouvragcs originaux où il est rap-
portò. Le choix des coordonnées»cèlestes, par le
quel on le definii, ne se prète a aucune application
astronomique, et méme y rèpugne en dèguisant et
dènaturant ses relations avec l'équaleur. Enfin le li-
vre qu'il est suppose décrit originalement, et que
l'on donne comme révélé, porte des indices astro-
nomiques qui appartiennent au VP siòcle de notre
óre. Toutes ces circonstances s'accordent donc, sans
qu' aucune autre les contredise, pour montrer que
ce systòme de divisions célestes né chez les chi-
nois, a élé transporté chez les hindous qui, en le
transformant, ne Pont plus employé que pour des
usages astrologiques aux quels il leur sert encore
aujourd'hui.» E pili chiaramente, questo illustre astro-
nomo, nella età di 85 anni, così si esprime ai no-
stri giorni. « Reste la derniére forte resse de la science
61
astronomique indienne, l'institution des nakshatras
ou mansions de la lune- Mais ce n'est qu'un édifice
fantastique, image trompeuse de la realité, le tali-
sman de la critique le fera évanouir. Ces vingt^huit
divisions stellaires ne sont en réalité que les vingt-
huit divisions stellaires des anciens aslronomes chi-
nois détournées de leur emploi astronomique et tran-
sportées par les hindous, à des speculations d'astrolo-
gie-»Le28 divisioni stellari dei cinesi « ontété emplo-
yées depuis un temps immémorial à des usages astro-
nomiques,auxquels ils sont parfaitement appropriés: »
le 28 divisioni degli indiani non hanno scopo al-
cuno colla scienza della vera astronomia, esse ser-
virono e servono anche adesso agli usi astrologici:
le prime fondate sulla vera scienza potevano con-
durre alla invenzione e all'uso della sfera; le altre,
fondate sulla falsa e ridicola astrologia, non potevano
condurre che a false e ridicole predizioni; e se que-
ste ultime altro non sono che quelle dei cinesi pes-
simamente applicate, se le 28 divisioni stellari dei
cinesi potevano, come si è dimostrato, condurre alla
invenzione e all' uso della sfera , conchiuderò con
Biot: Reconnaisons dono Vemprunt à la maladresse de
Vapplication et reporlons V honneur de Vinvenlion aux
chinois ((/).
02
IN 0 T E
Nota [A).
Cesi mi cìél. à instruire la terre. Voiis savez, mon-
sieur, quon tj troiive les élémens et la perfeclion de
la géograpliie- Lliistoire peni également y trouver cles
secours. Ces archives anliqncs et durables conservent
certains fails, qui peuvent remplir le vide des tradi-
tions et renoiier le fd des événemens: les observations,
les délerminalions astronomiques sont en mcme lems
les plus authenliques, et les plus anciens momimens
du sejour des hommes sur la terre- [Bailly Leltres sur
r origine des sciences addressées à M. De Voltaire).
Nota (B).
Le spectacle du ciel a frappé les regards deVhomme.
Saisi d'admiration , il est tombe dans une profonde
réverie, il a sitivi tranqiiillemcnt et sans effort le cours
des idées qui se sont présenlées à son esprit. Tandis
quaulour de lui lout se meut avec bruit sur la terre^
le mouvement accompagne du silence lui a imprimé
du respect; Vuniformilé des mouvcmens, qui sans cesse
renaissent les mémes, lui a donne Videe d\tn ordre
immuable et élernel ; les mouvemens parlicidiers des
corps célestes, qui s'accomplissent en meme tems suìis
se mure, et qui ne sont point detruits quoiqii' oppose
au mouvement general, lui annongoient une saggesse
()3
prefonde, qui a toiit réglè par des loix loujours exé-
cutées; il a senti la présence de VElre Supreme, et
il a voulti connoilre pour admirer davantage. Cosi
scriveva Bailly nel 1781. Pare impossibile che un
uomo di tanto merito e di tanto ingegno siasi ,
pochi anni dopo, ingolfato nel vortice di quella ter-
ribile rivoluzione di cui egli fu vittima ; di quella
funesta e perniciosa setta filosofica che, fondata sulla
incredulità , cercò togliere dal cuore degli uomini
ogni idea di Dio e di sudditanza. Sono già piii di
,70 anni da che l'umana società prova i deplorabili
effetti di questa rivoluzione.
Nota (C).
Les anciens confundoienl sous ce nom d'astrologie,
Vastrologie judiciaìre et la saine astronomie. [Bailly,
not. au livre 1).
Nota {D).
Ce qne nous avons dit de V astronomie aiilédilu^
Vienne n'est point fonde sur ce que l'on rapporle
d'Adam, d'Henoch, et de la postérilé de Selli: ce soni
des nolions trop vagues et qui n'onl d'ailleurs aucune
certilude historique. La Genese ne nous fournit quun
^ait; e est le partage de Vannée en mois et en jours.
On voit par le dètail des circostances du récit de
Moke, quau tems du déluge les ìuois étoient de 30
jours, [Bailly, not. au lire li).
64
Nota {E).
« On demanderà comment cette période a élé dé-
couverte; on ne peut y parvenir qua de deux ma-
nieres. Par des observations suivies , ou par les
eonnoissances d'une astronomie long-tems cultivée
et suffisamment perfectionnée. » E in altro luogo: « On
peut donc expliquer la découverte de cette periodo
altribuée aux plus anciens habitans de la terre, ou
par la constance de leurs observations, ou par une
astronomie perfectionnée qu'on ne peut guere leur
refuser. »
Nota (F).
C'est ainsi que des peuples nomades purent ar-
river à des conelusions astronomiques, indépendantes
de la connoissance des méridiens et telles qu'elles
auroient etì lieu dans un observaloirc fixe.
Nota (G).
L' idea di un antico popolo abitatore dell'Asia,
maestro della scienza astronomica, si trova spessis-
simo indicata quasi in tutti i libri della storia del-
l'astronomia antica di Bailly. Benché , secondo lo
storico, l'origine di questo popolo si perda nelle te-
nebre dell'antichità, benché Io» dica un popolo per-
duto e dimenticato, nulladimeno, nous sommes donc,
scrive egli, bien fondés a penser que Vastronomie a
élé cidiivée plus de 1500 ans avanl le déluge, et quelle
a aujourdlmi plus de 7000 ans d'existence. Nò qui
65
si tratta di una astronomia setTlpllce quale poteva
acquistarsi dai primi uomini pastori ed agricoltori
nella contemplazione del cielo, ma di una astrono-
mia filosofica e ben perfezionata. Tutto concorre ,
segue lo storico , ad ammettere /' existence de ce
peuple éclairé, anterieiir au cléluge, et instituteur de
tous les peuples de Vorienl, peuples qui nont été que
dépositairesy jusquà ce que le genie de V Europe vini
reprendre le fd des idées aalronomiques. Questa idea
viene poi diffusamente trattala nella lettera VII sulle
scienze diretta a Vollaire^ cui il titolo è « Gel ancien
peuple a eu des sciences perfectionnéesj une philoso-
phie sublime et suge ». Ed è appunto in queste let-
tere nelle quali il nostro storico cerca di sviluppare
tutte le sue idee sulla esistenza di questo antico po-
polo, finché ne viene alla scoperta nella lettera XX
n Décotiverte d'un petiple perdu)) . Se stiamo alle epoche
fissate da Bailhj e alla nostra cronologia, bisogne-
rebbe dire che gli uomini delle primissime età del
mondo fossero già bene instruiti nella scienza astro-
nomica; ma ciò ripugna alle altre idee dello stesso
scrittore che ^i trovano e nella storia della astro-
nomia antica e nelle citate lettere. Parlando dei
molti secoli che dovevano trascorrere prima che gli
uomini potessero acquistare la vera scienza del mo-
vimento del sole , così scrive a Voltaire : Mais je
n insiste ici que sur la connaissance du mouvement
du soleil constatée par celle des équinoxes et des sol-
slices. J'en atteste les astronòmes, les philosophes et
sour-toul vous, qui avez si bien observé dans Vhistoire
la marche lente et pénible de Vesprit humain. Combien
na-t-il pas fallii donner de siecles à Vétvde du cieU
G.A.T.CXLIII. 5
66
pour soupgonner seulement le mouvemenl du soleil !
Combien de siecles ensiiite pour délerminer les qualre
intervalles de sa course ! E nella storia dell' astro-
nomia parlando anche della invenzione della sfera:
La connaissance, dice , du mouvemenl du soleil qui
rCa pu élre acquise que par un elude réfléchie, el
de longues observations; V invention de la sphei'e qui
est le résullal de plusieurs inventions, apparliennent
à une science déjà fondée , ei de puis long-tems
cullivée. Ciò posto, come ò possibile che si possa
ammettere 1' esistenza di questo popolo éclairé el
instiluleur de tous les peuples de V orienl anlerieur
al diluvio di 15 e più secoli ? come asserire che
l'astronomia nel 17'81 possa contare più di 70 se-
coli di esistenza ? Per avere poi una astronomia ben
perfezionata non bastava la sola cognizione del moto
proprio del sole. Ma se per sospettare soltanto que-
sto movimento dovevano trascorrere secoli e secoli,
se per determinare questo movimento altri secoli
e secoli dovevano passare ; quanti e quanti secoli
dovevano passare per conoscere il movimento della
luna e dei pianeti ? Non posso poi comprendere
per quul ragione il nostro storico cerchi di togliere
il merito delle cognizioni astronomiche ai popoli
orientali che vissero dopo il diluvio, dei quali co-
nosciamo la storia. E un fatto che quando Bailly
trova presso queste nazioni alcune cognizioni astro-
nomiche un poco elevate, ricorre sempre alla astro-
nomia perfezionata di questo antico popolo. Il a
existé , dice positivamente , une aslronomie perfe-
ctionnée à un degré que Von ne peul pas fixer, mais
doni quelques tradilions font concevoir une grande
67
idée. Ma se liuilly , rispetto al suo antico popolo
antidiluviano, scrive a Voltaire: Vous avouerez que ce
que nous avons fait , on a pii le [aire avant nous :
per qual ragione non si può egualmente dire dei
popoli che vissero dopo il diluvio ?
Nota {H).
« La mesure du tems, dice Bailly, et de l'année
a subi beaucoup de changement chez les egypliens
et fut fort differente dans les difFérens tems; d'où
nait la confusion de leur chronologie». Thaut o Mer-
curio è stimato presso gli egiziani l' inventore del-
l'astronomia, e si crede che la correzione di 5^. 6°'.
fatta all'anno di 360 venisse in conseguenza di un
avviso dato da Mercurio. Diodoro di Sicilia rife-
risce che Osiride è sotterrato in una isola che forma
il Nilo sui confini dell' Egitto e della Etiopia : il
suo sepolcro è circondato da 360 urnes que chaque
pur les prélres remplissenl de lait.
Nota (/).
« M. Bailly, scrive Dernoulli (nouveaux mémoires
de l'académie royale de Berlin an. 1788), me pa-
roìt prendre le mot de sphere dans tout son ou^
vrage, un peu trop indistinctement, tantót pour la
sphere armillaire, tantót pour un globe où l'on au-
roit distingue déjà l'ecliptique , et d'autres cercles
qui supposent des connoissances fort mures; et quel-
quefois peut-étre y attache-t-il une idée plus simple.M
68
Nota (L).
La via sicura è indicata dal citato Bailly. u Farmi,
scrive egli, les peuples anciens, chinois, chaldéens,
ìndiens et egyptiens l'examen de ceux qui ne doi-
vent rien qu'à eux-mémes, ou de la nation unique
qui seroit la source de la lumiere, appartìcnt à une
critique delicate. Il fout rassembler des Iraditions
obscures, les éclairer fune par l'autre, et peser les
probabililés; en remonlant aux premieres traces de
l'astronomie, il faut fixer la date des faits, et com-
parer cesfaitsavec le degré de la civilisation, avec
le genie du peuple, avant de prononcer qu' il a pu
s'élever au mérile de l' invention ». Se nelle mie ri-
cerche abbia fedelmente tenuta questa via, i lettori lo
potranno giudicare,
Nola {M).
« 11 faut distinguer,dans le zodiaque, deux no-
tions trés-différentes, quoiqu'on les ait présque tou-
jours confondues: 1° la di vision en tei ou tei nom-
bre de parties: 2° le choix des fìgures et des déno-
minations par lesquelles on a représenté ou désigné
les costellations placées sur les divers points de la
route de la lune ou du soleil »•
[LetronnCy Journal des savants'f aout 1839).
Nota (iV).
Bailly parlando dei popoli antidiluviani così si
esprime: « Avant l'écriture alphabétique, ils [cioè gli
69
anlidiluviani) avoient des signes hiéi'oglyphiques, de
quelque espece qu' ils fussent, pour designer les faits
dont ils vouloient conserver la inéinoire- Us s' en
servoient pour écrire leurs observations. Leurs re-
gistres étoient des pierres sur les quelles ces obser-^
vations etoient gravées, et qu' ils laissoient dans le
lieu inéme où ils avoient observé ». Venendo ai tempi
dopo il diluvio, e alla separazione dei popolii dice :
« Chacune des colonies, qui furent l'origine de ces na-
lions , emporta quelque notion de connoissances
échappées au dèluge. Mais les nations les plus ri-
chement partagées dans cette succession, furent celles
de l'Asie, qui resterent dans le pays ménne où avo-
ient habité les preiniers hommes. Les unes n'avo^
ient que la tradition, les autres avoient de plus les
monumens. Car nous pensons que les observations,
les résullats, les préceptcs astronoiniques, tout étoit
grave sur des pierres, et la tradition qui subsista
aprés le déluge , fut tirée des instructions écriles
sur ceux de ces monumens qui ròsisterent a l' inon-
dation generale. Ces faits, ces préceptes tracés en
caracteres hiéroglyphiques, fort abrègés sans doute,
n'etoient accompagnés d'aucune explication; la mé-
moire s'en conserva , mais l'utilité et l'usage s'en
perdirent. Yoilà pourquoi l'on retrouve cbez les in-
diens tant de préceptes sans explications; cbez les
cbaldéens tant de périodes dont on ignoroit les avan-
tages; en un mot, comme nous l'avons dit, les dé-
bris plutót que les élémens d'une science ». Ma, se
ciò è vero , per qual ragione Bailly ricorre sempre
air idea del suo amico popolo asiatico , quando nei
popoli che vissero dopo il diluvio trova qualche co-
70
gnizione un poco sublime della scienza astronomica ?
« Les faits, dice egli, de l'histolre indiquent une autre
marche au genre humain: mais ce que nous cro-
yons avoir établi sur des présomptìons et des pro-
babilités trés fortes, c'est l'existence de ce peuple
trés puissant, trés éclairé, qui a été la souche de
tous les peuples de l'Asie, ou du moins la source
de leurs lumieres ». In im altro luogo: «Voilà des tra-
ees Lien marquées de l'astronomie antérieure dont
nous avons parie». Finalmente, per tacere di molti
altri, parlando di Fohi, primo imperatore della Cina,
stimato il fondatore dell'astronomia in quello impero:
« On ne peut dire ce qu'étoient ces tables, ni cette
connoissance des mouvemens célestes [tavole astro-
nomiche dei movimenti dei corpi celesti che si vo-
gliono attribuire a questo imperatore), mais on avoit
donc déjà sur l'astronomie des idées suivies et ran-
gées suivant un certain ordre ». Ma ciò sarebbe troppo
per la nazione cinese; dunque segue: uCe qui annon-
ceroit une science depuis long-tems cullivée, et un
peuple beaucoup plus ancien que l'epoque de Fohi.»
Nola (0).
Fu già nel terminar del passato secolo che gì' in-
creduli presero di fronte la storia mosaica. L'empio
scopo cui tendevano era quello di togliere dal cuor
degli uomini ogni idea di sudditanza: e poiché omnis
potestas a Beo est, bisognava togliere ogni idea di Dio
e di religione. Le abbominevoli opere di Voltaire, La
Bibbia finalmente spiegata: di Dupuis, Sulla origine di
tutti i culti, nel qual libro si pone per assioma che non
71
havvi punto opera ispirata, né libro avvi che opera
non sia degli uomini; provano bastantemente, per la-
cere di altri, gli sforzi della incredulità per giungere
allo scopo prefisso. Pare poi impossibile, che, mentre
la scienza astronomica nella stessa epoca aveva già
fatto luminosi progressi e sublimi scoperte, di essa
specialmente siensi abusati gli increduli per lottare
contro la verità, e per servire alla causa dell'empietà
e della irreligione. Colle stesse armi però celebri fi-
losofi e veri astronomi del nostro secolo hanno saputo
vincere i cavilli, i sofismi, e le favole degli increduli,
rendendo in tal modo ai nostri sacri libri il dovuto
omaggio di venerazione e di rispetto. Mi sia dunque
permesso di riportare alcune testimonianze, le quali
strettamente si riferiscono alla mia tesi. Il sig. Ideler
nel 28 giugno del 1838 così leggeva nell'accademia
delle scienze di Berlino: (( Personne n ignare qtie fon
s'est presque qénéralement accorclé jmqiC icl à cher-
cher en Orient Vorigine du zodiaque, aiissi hien que
le germe de toutes les connaisances astronomiques des
grecs: seulement on ne s'est pas accordò sur la que-
stion de savoir à quel peuple il faut allribuer la prio-
rité. Baillij , qui , dans son histoire de V astronomie
ancienne, ne s'est pas expliquè là-dessus d'une ma-
niere expresse, s'esf prononcé plus tard en faveur de
ses Atlantes (nelle lettere sulle scienze dirette a Vol-
taire): ce prétendu peuple de VAsie centrale, possesseur
de profondes connaissances, dont quelqnes débris seide-
ment sont parvenus aux indiens, aux égijptiens, aux ba-
byloniens et au^ grecs; entre autres, le connaissance du
zodiaque, auquel Bailly attribue une anliquilé de 4600
ans avant J. C. U incrilique (unkritrische) Dupuis re-
72
mont encore bien plus head. Présumant par une pure
hypolhése , qiie le zodiaque représenlait les phéno-
ménes naturels en Égypte, dans le cours d'une année,
il en reporta Vorigine j^lsquau lemps où le signe du
bélier répondait à Véquinoxe d'automne, quelque 13000
ans avant notre ère. Celle vue fanlaslique , que les
quatres zodiaqiies découverts en Ègyple pendant Vex-
pédilion francaise paraissaient confirmer, est mainte-
nani entiérement détruile par la crilique de M. Le-
tronne. Avec le secours des inscriplions grecques qui
se trouvent au tempie de Denderah et au petit tem-
pie d'Esné, il a montré que Vun na été termine que
sous Tibérey et que rautre nest pas anlérieur au ró-
gne d'Adrien. Les caractéres hiéroglyphiquesy déchif-
frés par Champollion, onl confirmé ce resultai^ et mis
hors de donlé que méme le grand tempie d'Esné^ du
moins son portique, avec le zodiaque, appartiennent
à r epoque romaine. Aucune trace de /' epoque pha-
raonique ne s'apergoil dans ces monnments. Un cin-
quiéme zodiaque^. trouvé sur le corner de d'une mo-
mie, apparlient d'aprés V inscription grecqiie à la 19.^
année du rógne de Trojan ». Il sig. Letronne [Journal
des savanls, aout 1839) si esprime nello slesso mo-
do: « Dans sa prédileclion pour le peuple asiatique qui,
antérieurement à tonte histoire, étail , selon lui , en
possession des connaissances les plus élendues, Bailly
ne pouvait hésiler sur la patrie du zodiaque, comme
de tonfes Ics inslilulions scienlifiques de V antiquité.
Son fameux pcnple anlédiluvien en devint V inven-
teur : le zodiaque avait été Iransmis avec tous^les
dèbris de la science antique aux indiens, aux perses,
aux clialdéens , aux égypiiens , cnfin aux grecs ; ces
73
disciples si lardifs el si inexpérimentcs., en comparaison
des orientaux leurs mailres.
Diipuis iiadopla point celle origine asialiqiie- Par-
tant de Videe qiie les douze signes se rapporlaienl à
Vagricidlure, il crut dèconvrir quils ìi'avaienl de sens
quappliqués au climat de VÈgypie; il transporla donc
a ce pays Vhonneiir de Vinvenlion- Il est vrai que ,
polir rèussir à expliqiier les signes dans celle hypolhèse,
il fallait en changer complèlement le rapport avec les
saisons; admettre ionie ime demi-conversion du del,
par suite de la prècession des éqiiinoxes, et [aire ré-
pondre nos signes d'été à ceux dliiver , et ceux du
printemps à ceux dUiulomne, ce qui placali Vorigine
du zodiaque à V epoque oit la concordance cut lieu
vers 13000 ou 15000 ans avant nolre ère. Celle an-
tiquilè ne fui pas et^ne pouvail éire du goùl de tout
le monde. Finalmente dopo un esame dei monumenti
antichi i sig. Ideler e Letronne stabiliscono, che les
figures zodiacales représenlées dans les zodiaques ègij-
pliens soni d' origine grecque el onl élé introduites
pour la première fois en Emjpte au lemps des Plo-
lomées »,
Finalmeute il sig. Biol nel suo trattalo di astro-
nomia publicato nel 1847 sullo stesso oggetto così si
es[)i*ime: « Des ècrivains trés-érudits et aussi des astro-
nomes onl crudevoir faire remonler (Pinvenzione dello
zodiaco) à des èpoques qui dèpassenl tout ce que les le-
moignages de Vhisloire et méme les Iradilions semblent
accorder d'anliquilé à Véiablissernenl règulier des so-
ciètès humaines. Ces syslèmes onl èie pendant queU
que lemps en vigueur, surlout dans le siede dernier-
Mais un examen plus crilique des bases, une apprè-
74
ciation plus jusle des anciens documents d'astronomie
venus jusqn à nous de la Grece, de Babylone et de
r Egyple , surloul tuie connaissance plus approfondie
des mèthodes aslronomiques usilées dans linde el à la
Chine, ani délruil patir loujotirs ces vaines conjecliires ».
Mi resta ora a dire qualche cosa sulla favola di
Aliante. Bailhj ò di parere che nelle favole vi sia
sempre qualche cosa di reale, per cui, concluons, dice,
donc qiie la fable parlant réellement d\ine prince nom-
ine Atlas et dhin prince occiipè de l'astronomie , on
ne peni s'empècher d\j reconnòitre Vinvention de la
sphere , exprimée f/' une maniere trés claire et Irés
caraclèrisèe. Atlante si dico figlio di Urano: e a sen-
timento di Bailly, Urbano visse 3890 avanti G. C,
l'epoca del diluvio viene fissata dallo storico 4000
anni avanti G. C. Dunque, concesso anche che Urano
e Atlante sieno veri personaggi , 1' invenzione della
sfera dovuta ad Atlante conterà sempre l'epoca dopo
il diluvio.
Nola (P).
Bailly dalla creazione del mondo fino al diluvio
conta 2250 anni circa. 11 preteso suo popolo lo vuole
anteriore al diluvio di 1500 anni; dunque, quando
il mondo contava 750 anni di età, esisteva già un
popolo possessore in sommo grado di alte e sublimi
cognizioni astronomiche ! ! !
Nota (Q).
Da un calcolo rigoroso ho trovato per le citate
epoche le seguenti longitudini della >? Plejadi.
75
2357 long. 359." i 6/ 35."
— 2278 . .
. 0. 21. 02.
— 2200 . .
. 1. 27. 50.
H- 1860 . .
. 58. 2. 15.
Si deve però notare che gli antichi astronomi non
parlavano di una data stella delle Pleiadi; ma della
intera costellazione.
Nota (fi).
Al dire di Bailly lo scoprimento del polo e della
polare sembra ben facile. Fissato nella sua idea che
i primi uomini sieno stati attenti osservatori del
cielo stellato, e che abbiano profondamento medi-
tato su i fenomeni che si presentavano ai loro oc-
chi, così prende a ragionare: « On voyoit que parmi les
éloileSf il y en avoit qiielques-unes, itlles, par exern-
ple, que celles de la grande ourse , qui paroissoienl
tanlót à Vorient et à Vocciderity tantòl au nord et au
midi: d'aiUres ètoiles ne paroissoient jamais au nord.
On en infera que les premieres faisoienl une revolu-
tion entiere. Mais pourquoi celles- ci auroient-elles eu
une marche differente^ ety pour ainsi dire, un privi-
lege particulier ? On s'appercut méme qu il y aroit
une certaine étoile qui ne changeoit pas sensiblement
de place pendant tout le cours de la nidi. Elle éloit
comme le cenlre du mouvemenl , et les aulres sem-
hloient tourner aulour d'elle; en conséguence on ap-
pella pòle le point qu elle occupoit dans le del , et
celte étoile prit le nom d' étoile polaire. Voilà donc
une étoile immobile , quelques-unes qui foni aulour
76
d'elle une revolution enticre , tandis que la pliipari
n en achevent qii une panie. Des speculaleurs jjIus
profonds oserent suivre ces éloiles au-delà méme de
leur appariiion, et suppléer par Vimafjinalion à la por-
lion de leurs cours que la vue ne -pouvoil alleindre.
Le ciel devint une sphere enliere: et comme pour le
mouvoir , il falloit deux points fixes, on supposa^ à
Vexemple du pòh quon voyoil dans le ciel, un au-
tre point fixe diamètralement oppose , qui èloit som
la terre dans Vautre parlie du ciel: et la ligne quon
imagina joindre ces deux points, autour de la quelle
se faisoit lout le mouvement diurne t fai appellée Vaxe
du monde ».
Bernoulli suppone altre cognizioni. « Nous avons,
dice egli , a considérer quon a du commencer par
[aire une attention particuliere aux étoiles circompo-
laires en general avant d'apprendre à connottre: \.°
quHl y eùt une étoile à peu près immobile dans le
ciel: 2.° que cette étoile ne laissoit pas de dècrire son
petit parallele autour d\in paini plus fixe encore: 3."
que ce parallele nétoit pas toujours à égale dislance
du Pòle, et méme que le parallele le plus proche n'étoit
pas décril toujours par la méme étoile ». Alcune delle
cognizioni volute da Bernoulli non potevano aversi
né dai popoli autidiluviani, né dai popoli che vissero
dopo il diluvio, almeno fino ai tempi d'Ipparco, il
quale, si dice, che polessse aver una qualche cogni-
zione della precessione annua degli equinozi. Tutto ciò
che poteva sperarsi dagli uni e dagli altri era sola-
mente la cognizione di una stella quasi immobile nel
cielo dalla parte del nord: ed è appunto che noi ciò
troviamo nella storia della Gina, 26 in 27 secoli avanti
77
G. C: e non ne abbiamo traccia alcuna nell'astrono-
mia antidiluviana.
Nota (S).
Parlando Biol delle cognizioni aslronomiche e dei
melodi di osservazioni presso la nazione cinese: « On
en connait, dice, positivement toute 1' histoirc qui
remonte à plus de deux mille ans avant l'ère chré-
tienne Elle est rapportèe dans des textes ecrits
d'une authenticité indubitable qui sont arrivès jus-
qu' à nous. On y voit que depuis cette baule anti-
quié les chinois onl cu un système règulier d'ob-
servations astronomiques, continuées sans interrup-
tion, lequel est reste invariablement lié à leur forme
du gouvernement , ainsi qu' à leurs riles , par son
usage pour le numération des temps et par les con-
séquences astrologiques qu' on dèduìsait. Questo si-
stema regolare di osservazioni era poi con tanta re-
ligione e con tanto scrupolo conservato e manlenutoy
che restò invariabile fino ai nostri tempi : giacche ,
segue Biot, « les savants missionaires qui ont intro-
duit en Chine l'astronomie européenne, vers la fin
du seizieme siede de notre ère, durent se confor-
mer à une coutume si anciennement établie w.
Nola {T).
« En examinant, scrive Bailly, ces trois spheres
{Vindianay la persiana , e la greca), on trouve que
la sphere indienne n' a aucun rapport avec le deux
autres ; mais ces deux-ci ont entre elles des res-
semblances qui ne permeltent point de douter
78
que l'une n'ait été construite d'après Pautre, avoc
les changemens qui résultent nécessairement de la
différence des usages, et des idées de peuples. « Ma
perchè mai questa somiglianza?)) On volt dans la sphe-
itì persienne une femme qui est Cassiopee ou Ancro-
mede, le Iriangle, les poissons; un homme assis sur
un tióne qui peut étre Cephée; l'hidre, la téle du
diable, dont on à fait sans doule la téle de Me-
duse . . . )) Ma se i cambiamenti indicati risultano
dagli usi e dalle idee dei popoli , ne segue che le
costellazioni sono del tutto arbitrari^ e non formano
parte essenziale della sfera. « Nous croyons, segue lo
storico , que de ces trois spheres la plus ancienne
doit étre la sphere indienne , parceque ce peuple
n' a jamais rien pris des autres peuples, qu' il est
lui-méme très ancien, et que par conséquent ses con-
noisances doivent avoii' été pris à la source pre-
miere. Ainsi nous croirions volenliers que cette
sphere est la sphere primitive, que a la méme date
à peuprès quo les constellations du zodiaque ».
Nota {U).
Tutti conoscono con quanto zelo gli increduli
del passato secolo abbiano cercato di distruggere ,
se fosse slato possibile, ì'aulenticilà e la santità delle
divino scritture, l loro libri hanno ariecato un gran
danno alla religione: scritti con uno stile più poe-
tico che filosofico, ripieni di errori e di sofismi, al-
lettavano le umane passioni, proclamavano una as-
soluta libertà di pensiero , e spargevano massime
sovversive di ogni società bene ordinata col togliere
79
dai cuore degli uomini ogni idea di sudditanza verso
Dio che empiamente negavano, verso i principi che
pubblicamente odiavano. Ma a tale empietà non si
poteva giungere finché i santi libri esistevano. Da
questi gli uomini sono ammaestrati, che il mondo
non è eterno: che il culto si deve al solo Dio che
con infinita sapienza ha creato, e con infinita prov-
videnza regola e governa le cose tutte dell'universo:
che a questo Dio signore assoluto di tutte le cose,
e agli uomini da esso ordinati, si deve prestare ob-
bedienza e rispetto : che T anima semplice e puro
spirito sopravvive alla morte del corpo: che un'al-
tra vita immortale rimane, nella quale le virtù e i
vizi delle umane generazioni avranno premi e pene
eterne. Contro i santi libri dunque vomitarono gli
increduli le loro empie bestemmie: Dirumpamiis, dis-
sero , vincula eorum et proiiciamus a nobis iugum
ipsoriim. Si provi dunque l'antichità del mondo, si
gitti a terra la storia mosaica, e crollata la Genesi,
crollerà in seguito tutto l'edifìcio dei libri santi. Ma
quel Dioche abita nei cieli mis/i et siibsannavU gli
empi sforzi degli increduli. A questo celeste e di-
vino dileggio corrispose qui io terra il riso e iJ di-
leggio di tanti sommi uomini, i quali guidati dalla
sana critica e dalle antiche e moderne cognizioni
astronomiche hanno annichilato gli empi sforzi della
incredulità. Credo di aver dimostrato abbastanza
nelle mie note, che l'empio sistema degli increduli
del passato secolo è interamente distrutto, che le
loro ipotesi e i loro sofismi sono sogni e vane con-
getture. Siccome però un altro argomento contro
la storia mosaica si desumeva dall'antica astrono-
80
mia degli indiani, e siccome Voltaire, benché di sen-
timento contrario a Bailly sulla esistenza del pre-
teso popolo asiatico, teneva molto per l'antichità
della nazione indiana, così ho creduto cosa benfatta
di notare gli argomenti più forti per distruggere la
pretesa antichità della astronomia indiana. Vohaire
col suo solilo sarcasmo, vecchio di 82 anni e ma-
lato , ricevuta appena l'opera di Bailly cosi scrive
al medesimo : « Vous pouviez intituler votré livre
histoire du ciel à bien plus juste ti tre que l'abbé Plu-
che, qui, à mon avis, n'a fait qu' un mauvais roman.
Ses conjectures ne sont pas mieux fondées que cel-
les de ce vieux fou qui prétendait que les douze
signes du zodiaque étaient évidemment invenlés par
les patrìarches juifs H y a long-temps que
j'ai regardè l'ancienne dynastie des bracmanes comme
celte nation primitive. . . . Vous devez avoir été bien
élonné des fragmens de l'ancien Shastabad, écrit il
y a environ 5000 ans. C est le seul monument un
peu antique qui reste sur la terre. . . . Enfìn je suis
convaincu que tout nous vient des bords du Gange,
astronomie, astrologie, mètempsycose. • . . J' ose tou-
jours vous denjander grace pour les bracmanes....
Je n'ai pas de peine à croire que nos soldats en-
voyés dans l'Inde et nos commis, encore plus cru-
cis et plus fripons, aient un peu dérangé les étu-
des des écoles que Zoroaslre etPythagore venaient
consuller. Mais enfìn nous n'avons point encore brulé
Bénarés; les espaguois n' y ont point ètabli l'inqui-
sition comme à Goa; et l'on m'assure que dans celte
ville, que est pcut-étre la plus ancienne du monde,
il y a encore de vrais savans ». Ecco l'idee di Voi-
81
taire sull' antichità della nazione indiana. Che se i
lettori bramano conoscere per qual ragione \ollaire
e Bailly facciano poca stima degli scritti dell'ab- Plu-
che, rispondo : la vera ragione si fonda su quella
moda che ha regnato e regna tuttora presso gl'in-
creduli di chiamar pazzi ed imbecilli quelli che non
si associano ai loro sentimenti- Il preteso popolo
asiatico di Bailly, la pretesa antichità degli indiani
di Voltaire, è fondata sulle favole e sulle supersti-
zioni degli antichi popoli; ma M. Pluche « pense que
Thaut, Uranus, Saturne, Atlas et tous les personna-
ges célebres de la plus haute antiquité, n' ont ja-
mais e\Ì3té. Il préterid que les noms de ces person-
nages étoient jadis des signes symboliques : )> nella
quale ipotesi cadevano le opiriioni di Bailly e Vol-
taire: dunque l'ab- Pluche è un pazzo , così con-
clude Bailly dopo di aver riportato i sentimenti di
Pluche. « Cette conjecture peut élre vraie à I' ègard
de quelques uns des personnages de la haute anti-
quité: mais les conjprendre tous dans une explica-
tion generale , vouloir les anéantir , et n' en faire
qne des fantómes malgré les témoignages réunis des
historiens de toutes les nations, nous paroit un si-
sléme insensé et dénué de fondement. C est un jeu
ingénieux, mais un abus de l'esprit. » Ma, rispetto
alla famosa antichità dell'astronomia indiana, al sig,
Voltaire malato di 82 anni ha risposto ai nostri
giorni un vecchio di 85 anni. Questo celebre astro-
nomo gravalo dal peso degli anni, ma giovane nello
spirito, da 20 anni a questa epoca ha sempre du-
bitato sull'antichità dell'astronomia indiana. Ecco le
sue parole: « Il y a une vingtaine d'annés je fus con-
G.A.T.CXLIII 6
82
duit à reconnaitie que les 28 divisions steliaires ,
appélées par les hindous nakshatras ou inansions
de la lune, ne sont en réalité que les 28 divisions
stéllaires des anciens astrononnes chinois détournées
de leui' application astronomique et transporlées à
des spéculations d'astrologie. Cela m' avait fait soup-
<;onner (ecco il dubbio) que loute celle science astro-
nomique, dont les brames disent étre en possession
depuis des millions d'années, pounait bien n' étre
ni si ancienne, ni si puremenl indienne qu' on l'avait
cru sur leur parole ». Ma ciò che era dubbio nel 1839
divenne certezza nel 1859- L'illustre Bfof non 000--
sultando le favole , ma meditando sopra les trailés
d'astronomie indous de diverses èpoques, à commen^
cer par celia qui est considère comme un texte sa-
cre dont lous les aulres dérivent et que l*on appella
le Sàrya - Suddhànla , aiutato nelle interpretazioni
da uomini sapientissimi dell'accademia delle inscri-
zioni e belle lettere , è slato costretto ad emettere
sur Vanliquilò et V origìnalilé de la science astrono-
mique des hindous, une opinion tonte contraire à celle
qu on en avait eue jusqu ici: opinione che è fondata
sopra solidi argomenti, opinione che è il frutto di
una lunga meditazione. Gli articoli di questa scien-
tifica discussione si possono leggere nel Journal de sa-
vants, mesi di aprile, maggio, giugno, luglio, e ago-
sto 1859.
83
Se Giulio Cesare ed Augusto intesero mai di portare
la sede dell' impero ad Ilio. Ragionamento recitato
alla pontificia accademia romana di archeologia
dal cav. Salvatore Betti presidente.
PARTE PRIMA.
I. vJhe le memorie de'cesari, massimamente de' pri-
mi, sieno piene d'incertezze e di favole, non avvi savio
che saprebbe metterlo in dubbio. Di che indagando
la ragione, stimo trovarla principalmente in Tacito
là dove dice nel primo della storia : « È stata in
vari modi storta la verità : prima per lo non sa-
pere i fatti pubblici , non più nostri : poscia per
r odiare o adulare i padroni , senza curarsi né gli
offesi né gli obbligati degli avvenire. » Grave sen-
tenza , o signori : ma piiì grave ancora è ciò che
lo storico aggiunge nel primo degli annali , quasi
a porre in guardia i lettori contro tutto quello ch'egli
stesso racconta: imperocché » a narrare (egli scrive)
i tempi "di Augusto non mancarono ingegni onorati,
(neutre 1' adulazione crescendo non li guastò. Le
cose di Tiberio , di Caio , di Claudio e di Nerone
furono compilate false, vivendo essi, per paura : e
di poi, per li freschi rancori. » Certo un avverti-
mento sì chiaro e assoluto dee renderci, mi pare,
assai guardinghi nel dar facile credenza soprattutto
ai racconti de' suoi annali. Essendoché nato Tacito
sotto Nerone , e fiorito dall' impero di Vespasiano
84
a quello di Traiano, non solo non trovossi presente
a nnoltissimi fatti da lui narrali, ma neppure potè
conoscere alcuno che visse negli anni de' primi ce-
sari: ne potendo, per confessione sua stessa, fidarsi
di quanti le memorie romane compilarono viventi
que* potentissimi , e poi dopo la loro morte , non
so d'onde egli dovesse trarre con apparenza di vero
tanta parte di quelle cose che ci dà come storiche:
non bastando, allorché mancano alla storia i saldi fon-
damenti, il protestare che egli fa « di non tenere
ira nò parte, come lontano dalle cagioni ». Ho io
in altro discorso, recitato in quesl' accademia, già
mostrato di assai dubitare d'alquanti racconti di lui
intorno all'imperatore Tiberio : né le grida che ne
hanno alcuni levalo, quasi di propugnata tirannide,
valgono punto a farmi cambiar sentenza. Perciocché
altri si piaccia chinare servilmente il capo all'auto-
rità cieca di qualsivoglia scrittore, solo [)erchè scrit-
tore, neppur curando se narri fatti non avvenuti a'suoi
tempi , né potuti infallantemente sapersi : io nelle
cose umane vorrò sempre tenermi a ciò che ne' dotti
chiamerò magistero di critica e buon criterio, in me
uso puro della ragione che Dio m'ha dato. Abba-
stanza si è fatto sfoggio da molti, a me paie, di una
erudizione che omai sa di collegio: abbastanza, dirò
con Tucidide, si è stimato fastidio il ricercare severa-
mente il vero, e di leggieri si sono lasciali gli uomini
strascinare alle opinioni che corrono. Né credasi per
questo, o signori, che io non tenga Tacito in grande
onore, e non lo reputi una gloria del senno latino. Ma
non volendo consentire al primo Napoleone, che tutto
quanto da lui si recita giudicò un romanzo, quasi Ta-
85
cito siasi troppo spesso piaciuto (come altri il tassò)
dire le cose non quali furono, ma quali immaginava
che dovessero essere, per poter poi mos'trare con certa
ostentazione T acutezza della sua mente in quelle
politiche sentenze, forse in una stoiia soverchie, ben-
ché sì eccellenti: non saprei però rifiutare affatto il
parere d'altro famoso principe, e uomo di stato, e
sapiente, e guerriero, Federico II di Prussia: il quale
sci"isse che salvo le narrazioni di Giulio Cesare, che
si leggono ne' cotnentari, quelle de' ftitti de' cesari
non sono generalmente che panegirici o satire.
11. Assai maggiori sono i mici dubbi sulle loro
vite che pubblicò Svetonio : a cui chiederei d'onde
anch'egli cavò, tardo postero, le notìzie di que' tanti
segreti intimissimi sì della vita particolare de' prin-
cipi e sì della loro corte : non poche delle quali a
me sembrano, checché voglia stimarsi della probità
dello storico, mostrare a segni chiarissimi ora la in-
certezza, ora la improbabilità. Spesso contraddicono
infatti, come alcuni critici hanno pure avvertito, a
Velleio e a Plutai co: non si fondano per lo più, quasi
manifeste dicerie del popolo, sopra veruna testimo-
nianza: e se concordano talora con Tacito, non sarà
incredibile che forse Svetonio di molti antichi rac-
conti fosse largo all'amico. Fra le cose che assolu-
tamente non ho mai [>otuto risolvermi a tener vere,
una è quella che si ha nella. vita di Cesare ditta-
tore (1): là dove narra lo storico, essere corsa fama
(1) Gap. 79. Quin eiiam varia fama percrebnit, migra-
turum Alexandriam vel Ilium , translatis simul opibus im-
pera , exhaustaque Italia delectibus , ei procuratione urbis
amicis permissa.
86
che volesse quel!' ambizioso e potente partirsi da
Roma, e recar seco la sede dell' impero con tutte
le sue forze ad Alessandria o ad Ilio , fatta Italia
esausta di gioventù atta alle armi, ed a' suoi amici
commessa la cura della città. Hanno molti moderni,
) quali
A voce più ch'ai ver drizzati li volti,
senza più ripetuto questa novella: non brigandosi al so-
lito di far ragione, se fosse pur possibile al romano ed
alto animo del tiranno una malvagità sì vile e a tutte
le sue azioni contraria, ed insieme 1' imprudenza e
stoltezza di propalarla: bastando loro che alcuno lo
abbia scritto. Il non trovare parola però di tal fama
in nessuno degli storici antichi , che tanto hanno
parlato di Cesare e de' suoi fatti , come a dire in
Plinio il vecchio, in Plutarco, in Appiano, in Dione,
e il non^ vederla avvalorata da veruna prova o fede
che ne rechi Svetonio , doveva fare che almeno i
prudenti l'accogliessero con diffidenza. Come inoltre
mostrò d' ignorarla Strabone, che vecchissimo com-
pilava quel tesoro di geografìa regnando Tiberio :
che aveva già continuato la storia di Polibio (opera
fatalmente perduta) lino all'uccisione del dittatore :
che non solo si era trovato ne' tempi di Cesare e
di Ottaviano, ma aveva seguito l'esercito del suo
amico Elio Gallo, e storico e fdosofo conversato dot-
tamente in Roma con molti nostri ? Strabone, ripeto,
che nel decimoterzo della geografia sì a lungo e
con tanta curiosità ed affezione, in riverenza soprat-
tutto di Omero, discorse gli avvenimenti della Troade
87
da lui visitata, le sciagure del vecchio e del nuovo
ilio, e le larghezze e onoranze fatte alla famosa città
da molti principi e capitani, e da Giulio Cesare stes-
so ? Come potè passare così gran cosa, che Cesare
avesse avuto già in animo di trasportare colà il seg-
gio dell' impero ?
III. Ma v' ha di più. Come di proponimento sì
scellerato verso la patria non trovasi motto in ve-
runa di quelle lettere , nelle quali Cicerone fram-
mettendosi in tutto , e tutto sapendo , ricorda con
gli amici e con Attico tante voci ree ed azioni mal-
vage di Cesare ? Come ne tace nelle Filippiche, spe-
cialmente nella terribile seconda: e nel terzo degli
Uffici (1), dove con parole e sentenze così fiere vi-
tupera r oppressore già spento ? Né io potrò mai
credere che, se quella fama fosse corsa pur vaga-
mente, Bruto e Cassio, dopo trucidato il dittatore,
non se ne fossero giovati con utilità somma della
causa loro e della repubblica ad infiammare la plebe
contro la memoria e 1' iniquità di chi a grandis-
simo danno pubblico intendeva usare in fine un'au-
torità usurpata sotto spezie di pubblico bene ; gri-
dando (come pare che si dovesse) eh' erasi Cesare
al tutto proposto di abbassare senato , popolo ,
Italia , e togliere a Roma fino la maestà dell' im-
pero. Voleva cioè il perverso cittadino far quello che
già gloriosamente Camillo impedì che avesse effetto
quando i romani dopo una lunga guerra erano per
prendere il mal consiglio d' andarne a stanziare a
Veio, e quindi ne ottenne il titolo di secondo fon-
ti) Gap. 21.
(latore di Roma. « Abbandonare, o romani, il caro
y> e sacro suolo, dove riposano le ossa de' nostri pa-
)) dri, figliuoli, fratelli ! I templi degl' iddii patrii,
» i venerandi penati , gli eterni fuochi di Vesta !
» Trarre all'aperto il fatai simulacro ad ogni pro-
» fana vista celato , pegno di tanto impero ! Nò
» ciò solo : ma perfidamente lasciare senza forze
» Italia tutta in preda a quanti barbari l'assaltas-
» sere, e una terra di vincitori scambiare con al-
» tra di vinti , rendendo vani i benefìcii del cielo
» e i trionfi vostri e de' vostri maggiori ! Avere in
» non cale ogni diritto del popolo re, ogni dignità
» romana, ogni italiano pericolo, e da empio con-
» trastare perfino ai decreti di Giove ottimo mas-
» simo ! Là , là ,. vi diceva il buon Camillo , o
» cittadini , là sul Campidoglio vuol esser la sede
» dell'alta possanza che governa il genere umano. »
Aggiungasi che se Cesare ciò si propose, non potè
essere che nella dittatura, quando era di fatto si-
gnore ed arbitro della repubblica. Ora tutti sanno
che appunto in quella somma grandezza , pili non
temendo di dover essere in Roma il secondo, si diede
con magnificenza regia ad abbellir la città come
sua, e ad ordinarvi tante grandissime opere, quante
ci si ricordano drigli storici e da esso Svetonio. Note
sono del pari le larghezze del suo testamento a fa-
vore del popolo romano: il qual testamento aveva
egli fatto nel settembre del 708, allorché si dispose
alla guerra de' parli, cioè sette mesi prima che fosse
ucciso. Certo è dunque che nel tempo della mag-
gior potenza non pensò Cesare di portare il seggio
dell' impero ne in Alessandria, nò in Ilio, né altrove:
com'è parimente certo, che dopo la morte di lai il
popolo romano gì' innalzò subito quella famosa co-
lonna col titolo di Padre della patria. Il che non
mi sembra possibile che dovesse fare, se nel dittatore
fosse stato solo il sospetto di aver voluto reo ma-
gistrato avvilire siffattamente e quasi toglier via la
sua patria : credo anzi che avrebbe , non ostante
l'arte e l'eloquenza di Antonio, strascinato il cadavere
del traditore alle gemonie.
IV. Che volesse Cesare far d'Alessandria il capo
dell'impero è tal fola, quale chiaramente dimostra
l'aver dato con sovranità libera tutto il regno di
Egitto a Cleopatra. Perchè darglielo, o signori, se
gli era in animo di faine una provincia romana e
la propria sede ? E fuori perciò di dubbio secondo
l'argomento certo de' fatti, ch'egli né per sé, né per
Roma volle quel regno: fosse per amore verso la bella
regina: fosse per alta ragione politica: o anche, sic-
come io penso, perchè nessun popolo più dell'egi-
zio mostrassi costantemente avverso a lui ed al nome
romano. Intantochè il dittatore 1' infamò non solo
d'insolente, ma di falso e bugiardo (1) : ed Irzio ,
o chi altro è l'antico che scrisse la storia della guerra
alessandrina , 1' ebbe per nato fatto a ordir tradi-
menti (2) : Quum vero uno tempore et natio eoriim
et natura cognoscatur : aptissimum esse hoc genus ad
proditionem , nemo dubitare potest. Di che accadde
che per la sua malvagità fu insieme coi cartaginesi
dichiarato indegno d'ogni romana magistratura, sc-
(1) Hirtius, Debello alexandrino, cap. 8 e 24.
(2j Cap. 7.
90
concio il richiamo che ne faceva fino nel secolo V
dell' era cristiana sant' Isidoro Pelusiota (1 ) in una
lettera a Rufino prefetto del pretorio. Imperocché,
scriveva l'illustre padre della chiesa, agli egiziani ed
ai cartaginesi è negato nell'impero ciò che pur si
concede ai perversi di Cappadocia.
V. Quanto agl'iliesi, era quasi una religione non
solo della gente Giulia, ma del popolo romano, aver
di essi tutela e affezione, come di proprio sangue.
La pili antica memoria, che di ciò si ricordi, è forse
la lettera che i nostri mandarono al re Seleuco of-
frendogli amicizia e alleanza se avvesse favorito il
popolo d' Ilio : la qual lettera Claudio imperatore
dottissimo rammentava in una orazione greca detta
al sonato (2). Questo Seleuco non crederò dover es-
sere, né il primo, cioè il Nicatore, vissuto poten-
tissimo in tempo che i romani, verso il mezzo del
secolo V della città, non avevano ancora un nome
illustre nell'Asia: né il quarto, cioè il Filometore, fi-
gliuolo d'Antioco il grande vinto da Lucio Scipione,
poi denominato 1' Asiatico : perocché non faceva
mestieri che i romani se gli profferissero alleati ed
amici, avendo egli per le mutate condizioni del re-
gno dovuto essere sempi'e ligio alle loro volontà.
Sì lo crederò o il secondo , detto Calinìco , o il
terzo , detto Cerauno , che regnarono in Siria nel
sesto secolo. Non fu indi capitano de' nostri che
conducesse in Asia l'esercito, il quale non reputasse
debito di figliuolo il visitare quella terra de' padri:
(1) Lib. I epist. 485 e 489.
(2) Svetonio in Claudio e. 23.
91
non volendo in ciò mostarsi da meno, non solo dei
greci che sì spesso viaggiavano colà in ossequio di
Omero , ma de' barbari stessi : perciocché si legge
in Erodoto (1) (e in lui ne sia la fede), come an-
che Serse , avendo passato lo Scamandro nel!' in-
camminarsi ad assaltare la Grecia , giunto che fu
nella Troade, desiderò vedere, dice lo storico, Per-
gamo di Priamo , ed ivi a Minerva iliaca immolò
un sacrificio di mille buoi. Perciò a Siila parve di-
gnità romaaa il non parlamentare con Mitridate in
altro luogo, che in Cardano città di quella provincia:
perciò Lucullo, andato anch'egli ad Ilio nella guerra
d'Asia , volle , secondo Plutarco , dormire ivi nel
tempio di Venere. E tutti di qualche beneficio con-
fortavano que' cittadini: benché si avesse per certo
che il nuovo Ilio fosse trenta stadi lontano dal luogo
dove sorgeva l'antico. Non è a dire come gì' diesi
se ne vantavano, stimando gloria grande l'esser chia-
mati fra tutte le genti primogeniti fratelli del po-
polo dominatore. È a leggersi in Giustino (2) le fè-
ste che fecero ai romani, che di altrettante li ricam-
biarono, al giungere colà di Scipione Asiatico e delle
legioni. Né cosa favorevole o avversa direi quasi acca-
deva in Roma, che subito la boria iliese, qual d'affare
domestico, non volesse parteciparvi persuoi ambascia-
tori. Nel che non andò esente talvolta dal porgere an-
che materia al riso: come allora che si condolse a Ti-
berio della morte del figliuolo Druso. Giunsero, al
narrar di Svetonio (3), sì tardi in Roma i legati iliesi^
(1) Lib. VII cap. 3.
(2) Lib. XXXI cap. 8.
(3) In Tiberio e. 32.
i>2
che già quasi non parla vasi piìi di quella morte :
sicché Tiberio, ch'era talor faceto, alla tanta opera
che facevano dopo sì gran tempo di consolare il suo
animo: « Ed anch'io, rispose, a voi mi condolgo per-
chè perdeste Ettore uomo egregio. »
VI. Tratto all'esempio degli altri illustri romani
narrasi che anche Cesare volle nella Troadc visitare la
culla di Roma e di casa Giulia. Dovette ciò essere
per brevi istanti dopo la vittoria di Farsaglia, quando
egli pensò che Pompeo, da Mililene fuggitosi nella
Cilicia ed a Cipro, intendesse non già passare, come
fece, in Egitto, ma rialzar capo nella Siria. Al modo
de' poeti (nulla dicendone Cesare slesso ne' conf»en-
tari) ci conta Lucano (1) l'andata del sommo ca-
pitano ad Ilio , ponendo sulle labbra di lui queste
accese paiole :
Di cinenim, phnjrjias colitis quicumque ruinaSf
Aeneaeque mei, quos nunc Laviìiia sedes
Servai et Alba lares, et quorum lucei in aris
ignis adirne plirygius, nidlique adspecla virorum
PallaSf in abslruso pignus memorabile tempio,
Genlis luleae vestris clarissimus aris
Dal pia tura nepos, et vos in sede priore
Rite vocat : date felices in celerà cursus :
Restituam populos : grata vice moenia ìeddenl
Aiisonidae phrygibus, romanaque Pergama surgenl.
Io non crederò mai che Svctonio da questi versi
traesse la fama corsa , che Cesare intendesse tra-
(1) Lib. X V. 990.
93
sfei'iie il seggio dell'impero ad Ilio: che egli avrebbe
gravemente errato. Primo, perchè non deve per niun
patto uno storico fondarsi sull'estro di un poeta :
chiarissimo essendo che quella parlata del dittatore
è tutta una creazione della fantasia di Lucano. Se-
condo, perchè dato pure che fosse alcuna parte di
vero nella promessa fatta agl'iddìi, in contraccambio
di gratitudine {graia vice) pel corso felice delle sue
imprese , di rialzare le mura di Troia e di ricon-
durvi ad abitare le genti, già non volea dir questo
ch'egli pensasse di portare colà il seggio della ro-
mana possanza: altro essendo il restaurare una cara
e famosa città, altro l'eleggerla a suo domicilio: ma
sì accenna ad un celebre fatto stoiico, che Lucano
non doveva certo ignorare. Ed è che il nuovo Ilio,
cui gli abitatori mal sognavano, secondo Strabone,
essere l'antico di Priamo, in quc' tempi giaceva an-
cor guasto orribilmente dal furore di Caio Fimbria,
il quale assediatolo in punizione d'aver parteggialo
contro di lui a favore di Siila pioconsole, lo prese
a tradimento dopo undici giorni, e, come nota l'ab-
breviatore di Livio , expugnavil et delevU (1). Av-
venne il fatto nel 667 : e fra le ruine e le ceneri
della città infelice dicevano essersi tiovato solo il-
leso il simulacro di Minerva iliaca : se deve pre-
starsi fede a Giulio Ossequente (2) ed a S. Agostino,
il quale nella. Città di Dio (3) reca di ciò un passo
di Livio nel libro ottantesimoterzo , che andò mi-
(1) Lib. 83.
(2) De mirabilibus cap. 166.
(3) Lib. 3 e. 7.
94
seramente perduto con altri della stupenda istoria.
Un prodigio siffatto, aggiunge Ossequente, fu agl'iliesi
certo presagio della riedificazione della loro patria.
E ciò essi sperarono probabilmente dal gran cuore
di Cesare, non essendo state a tanto danno bastanti
le beneficenze di Siila ricordateci da Strabene. Sic-
ché pareva probabile a Lucano che il dittatore ne
avesse loro data intenzione, invocando fra quelle ce-
neri gì' iddii della sua casa :
Di cinerum, phrygias colitis quicurnque minasi
Aeneaeque mei :
non altro con ciò intendendo, che richiamarli, se-
condo il rito, nella loro sede primiera per la nuova
fondazione che prometteva delle mura iliache :
Et vos in sede priore
Rite vocat.
Fa duopo infatti essere bene ignari delle antichità
pagane da non sapere, che presa una città dal ne-
mico, nessuna cosa in essa stimavasi più sacra. Cum
loca capta simt ab hoslihus (così il giureconsulto Se-
sto Pomponio), omnia desimi esse sacra (1). Né senza
ragione: perciocché reputavasi che ne partissero an-
che gl'iddìi: come nel secondo dell'Eneide (2) dice
appunto il pio troiano vedendo già Troia in fiamme:
(1) Lib. XI Pandecl til. 7.
{2j Verso 331.
95
Excessere omnes, adytis arisque reliclis,
Dii, qiiibus imperium hoc steleral.
VII. Ma questa, se non in tutto, certo in gran
parte, non fu che una vivace e dotta immaginazione
del cordovese: essendoché in ben altro modo narri
il fatto Strabone, il quale non molto dopo viaggiò
nella Troade, e tutte, come dissi, ne' ricercò con amo-
roso studio le notizie antiche e moderne. Ci fa sa-
pere il gravissimo geografo (1), che Alessandro, ot-
tenuto eh' ebbe la vittoria del Cranico , offrì doni
nel nuovo Ilio al tempio di Minerva, e ordinò chi
dovesse intendere agli edifici da rialzarsi nella città,
la quale fu anche resa libera del suo governo e franca
d'ogni tributo: né ciò solo, ma avendo poi vinti al
tutto i persiani, scrisse agi' iliesi una lettera beni-
gnissima proinettendo loro di hv d' Ilio una città
grande, con tempio magnifico e giuochi sacri e so-
lenni, a Ai nostri tempi però (seguita il geografo)
si prese il divo Cesare molto maggior pensiero e
cura di essi: e volle insieme fare a concorrenza con
Alessandro. Perciocché questi si mosse alla lor pro-
tezione per rinnovare la parentela, ed anche per es-
sere studioso ed affezionato di Omero. « Adunque
(aggiunge poi) sì per l'affezione che Alessandro por-
tava al poeta, e sì per l'affinità che teneva co' di-
scendenti d'Eaco, che avevano signoreggiato i mo-
lossi , appo i quali scrivono che regnò pure An-
dromaca stata moglie di Ettore , egli aveva tolto
(1) Lib. 13.
96
a proteggere gì' illesi. E Cesare, che amava mollo
Alessandro, ed aveva chiarissimi testimoni anch'egli
di parentela cogl'iliesi, fu d'animo pronto a benefi-
carli. E i testimoni chiarissimi erano, priiiio d'es-
ser romano : e i romani tengono Enea per primo
loro autore: poi d'esser Giulio, disceso cioè da Giulio
uno de' suoi antichi, il quale venne così nominato
per quel Giulo che fu de' figliuoli di Enea. Laonde
egli accrebbe agl'iliesi il contado, e conservò loro la
libertà e la franchigia da' tributi : e così insino ad
oggidì si mantengono ».
Tanto, 0 signori, scriveva Strabone da storico,
anziché da poeta, regnando Tiberio : né altro dice
che facesse Cesare sì per congiunzione di sangue
cogl' illesi , e sì per emulazione di Alessandro.
Solo cioè accrebbe a quel popolo, come sventurato
e povero, il territorio, e mantenne le franchigre che
dopo il fatto atroce di Fimbria aveva ottenuto dalla
riconoscenza di Siila. Le quali però gli vennero tolte
probabilmente da una delle iracondie o forsenna-
tezze di Caligola : leggendosi in Tacito , che fat-
tane nuova istanza a Claudio, orante il giovinetto
Nerone, le riebbero per le tante cose che si ricor-
darono dell'origine de' romani e della casa im[ erante;
aliaque (dice lo storico) haiid procul fabulis velerà.
Vili. Giurando sulla vaga voce sparsa d'un ini-
quo proponimento così contrario in lutto alle me-
morie e al palese intento delle azioni di Cesare ;
voce riferitaci senz'addurne verun testimonio dal solo
Svelonio cento sessant' anni dopo : Pietro Giordani
stampò, che volesse Augusto porre appunto ad ef-
fetto quel proponimento o per ragione di stalo, o
97
per ossequio al padre adottivo e autore di tanta sua
eredità. Lungi da me l'ingiustizia insolente di ne-
gare al Giordani, il quale mi onorò finche visse di
singolare benevolenza, il merito d'essere stato uomo
assai dotto, come certo fu elegantissimo: ma lungi
pure da me il credere che sieno sempre sicure al-
cune sue novità letterarie. E quanto a quello scritto,
in cui egli tratta delle finali e meno palesi intenzioni
di alcuni poemi, io non vorrò mai concorrere nelle
sue opinioni né per l'Eneide nò per la Gerusalemme
Liberata. Imperciocché nel leggere consideratamente
l'Eneide a lui « parve sentire (così egli dice) uno
studio, coperto sì, ma continuato ed intenso, di af-
fezionare il popolo romano alle cose orientali e alla
bella origine del troiano Cesai'e: e di persuadere che
il portarsi colla córte ad Ilio fosse alla famiglia do-
minante così giusto e decente , come il tornare a
casa propria y>. Ragionerò di questo vaneggiamento
quasi non credibile del celebre piacentino, e dirò in-
sieme del vero e manifesto fine dell'Eneide, se vi de-
gnerete, o signori, in altra tornata prestarmi udienza
cortese.
PARTE SECONDA.
I. Ripigliando il filo del ragionamento che con
tanta umanità, o signori, degnaste ascoltare nella
passata adunanza, dirò primieramente che se un solo
scrittore, qual fu Svetonio, ci ricorda la fama corsa
che Giulio Cesare intendesse trasportare la sede del-
l' impero ad Ilio, da nessuno ci è detto che ciò mai
cadesse né pure in sogno ad Augusto- Certo se quel
principe ne avesse avuto alcun pensiero, due cose
G.A.T.CXLIII 7
98
fra le altre non avrebbe fatto. La prima , che nel
famoso partaggio della repubblica con Antonio e
con Lepido non sarebbe stata da lui ceduta ad An-
tonio la Troade colle province d' oriente , ma ne
avrebbe a se conservato il dominio. La seconda ,
che nel viaggio intrapreso per l'Asia dal 733 al 735
(seguo la cronologia del Petavio), come visitò quasi
tutte le città più illustri di quelle nazioni , e fino
andò nella Frigia, così non avrebbe trascurato, se-
condo le memorie che se ne hanno (1) , di veder
Ilio. N'ebbe sì vaghezza la sua figliuola Giulia, al-
Jora carissima e sposa di Marco Agrippa : e male
per quella città. Perciocché nell'avvicinarsi di notte
ad Ilio avendo la principessa trovato grosso d'acque
il fiume Scamandro, per poco nel traghettarlo non
annegò con quanti erano alla sua compagnia. Di che
non essendosi avveduti gì' iliesi , né perciò mossi
al soccorso, n'arse Agrippa di tanto sdegno, che li
condannò in cento mila dramme d'argento. Né già
per la grazia, o signori, si rivolsero que' poveri cit-
tadini a colui dalla bella origine troiana: ma sì col
patrocìnio del celebre Nicolao Damasceno implora-
rono anzi r intercessione di uh giudeo, di Erode il
grande. Il quale presa avanti ad Agrippa la loro di-
fesa, ottenne in fine che dell' ingiusta pena fossero
franchi, come quelli che provarono non aver avuto
del giungere di Giulia nessun avviso. La cosa ci è
narrata non solo da Giuseppe Flavio (2) , ma dal
(1) Crevier, Hist. des empereurs romains t. 1, ann. 732.
(2) Aiilichilà giudaiche lib. XVI cap. 3.
99
Damasceno medesimo ne' frammenti che pubblicò
il Valesio.
II. De' favori di Augusto verso la Troade non
si danno dagli storici che due soli esempi, i quali
niente rilevano. Fu il primo 1' aver restituito un
antico simulacro di Aiace alla città di Rezio di
quella regione : imperocché M. Antonio, a compia-
cerne Cleopatra di là rapitolo, secondo Strabone (1),
se l'era portato in Egitto. Ma è noto sì per esso
Strabone, e sì pel monumento ancirano, che l' im-
peratore a tutte le città d'Asia aveva restituiti del
pari gli ornamenti dell'antichità e delle arti: emulo
di Scipione Emiliano , che presa Cartagine stimò
gloria il rendere a' siciliani tutte le statue tolte loro
dalla punica rapacità. Fu il secondo favore (se pur
deve chiamarsi tale) l'aver mandato una colonia ro-
mana ad abitare in quella città sulla marina di Te-
nedo , la quale anch' essa per vanità voleva essere
l'antica Troia: città che da Antigono, detto Code,
re d'Asia fu denominala Antigonia, e poi Alessandria
da Lisimaco re di Tracia, in onore del grande Ales-
sandro. Condottavi però la colonia, si nominò ora
Colonia Augusta Troes (COL. AVG. TRO) , ed ora
Colonia Alexandria Troes Augusta ( COL. AL. T.
AVC- ) , ovvero Colonia Alexandria Augusta Troes
(COL. ALEX. AVG. TRO) , come si ha nelle sue
monete incominciate a coniarsi col capo di Augusto,
imperando Caligola. Ma è a sapersi , che Augusto
(1) Lib. XIII.
100
mandò colonie in tutto quasi l' impero, e nelle parli
d' Italia, secondo Svetonio (1), ne condusse ventotto.
Che Augusto adunque intendesse trasferire la
sede imperiale ad Ilio è assai maggior fola del cre-
dere, che volesse ciò fare Giulio Cesare : percioc-
ché il proposito del dittatore ha per se almeno la
fama del volgo ricordataci da uno scrittore; quello
dell' imperatore non ha tradizione neppur volgare e
testimonianza veruna,
III. A ciò non attese Pietro Giordani: il quale
non trovando autore antico, che confortasse la sua
sentenza, aderì anch'egli, benché noi confessi , al-
l'opinione del Le-Fevre comentatore di Orazio, Quel
francese infatti per le cose che disse intorno al-
l'ode terza del libro terzo fu da molti reputato quasi
un oracolo. Ma io che nelle lettere non uso adorare
oracoli, non adorerò né pure il Le-Fevre, uomo per
altro assai dotto ed acuto : perchè nelle cose di
pura umana ragione non credo immuni fermamente
da fallo ch'Euclide e i rigidi suoi seguaci. Stimò
dunque il Le-Fevre, contraddicendo a tutti, se non
erro, gì' interpreti antecedenti, che Orazio compo-
nesse quell'ode per dissuadere Augusto dal portare
ad Ilio la sede romana , desideroso di dare efFetto
ad un proponimento di Giulio Cesare- La confuta-
zione della quale sentenza sarebbe vittoriosissima
col solo opporle d'esser fondata sopra di un fatto
storico , che non fu mai. Ma oserò dire anche di
pili: cioè che l'ode, la quale si vorrebbe politica ,
non è che al tutto morale, come tante e sì splen-
(1) hi Ottavio cap. iB.
lOÌ
dide ne ha il venosino: non essendosi in essa il poeta
proposto altro che cantare la rettitudine, da cui nes-
suna cosa varrebbe a rimuovere luslum et tenacem
propositi virum. Lodati perciò e Polluce, ed Ercole^
e Bacco, e Quirino,
Quos inter kiiguslus recumbens
Purpureo bibii ore nectar :
con volo pindarico, con uno cioè di que' passaggi
arditissimi , de' quali il tebano levossi maestro sì
mirabile e sì pericoloso , si fa improvvisamente a
ricordare un esempio terrilìile di gastigo , quanto
più noto a' romani, tanto più loro di documento:
introducendo Giunone nel concilio degl' iddii a rian-
dare con gravi parole la punizione giustamente presa
del popolo troiano , coU'assenso di tutti i celesti ,
per Io spergiuro di Laomedonte e di Priamo, e pel
rapimento d' Elena contro la santità dell' ospizio :
suggetto di tante lotte ed ire per ben dieci anni :
ma finalmente
Nostris diictum seditionibus
Bellum resedit.
IV. Certo fra le divinità, che avversarono Troia,
fa più potente e fiera fu la grande Saturnia, siccome
quella che sposa e sorella a Giove, ed a lui uguale
nel cielo , come la celebra l' inno omerico , aveva
i regni sotto il suo speciale dominio: e stimata era
tanto superba , quanto nelle sue vendette inesora-
bile. Avrebbe ella ne' romani, stirpe di Troia» con-
102
tinuato il suo sdegno : se già non le fossero stale
note per alto prevedinfienlo le virtù non solo guer-
riere, ma religiose e civili, che ornar dovevano quei
magnanimi, e soprattutto la frugalità e il dispregio
delle ricchezze :
Aunim irreptum, et sic meìius silum,
Ciim terra celai, spernere forlior.,
Qitam cogere ìmmanos in usiis,
Omne sacriim rapienle dexlra-
Perciò in grazia di Marte suo figliuolo, che d' Ilia
troiana aveva generato Romolo, concede la sua graziz
ai romani così in Orazio , come in Ovidio (1) » e
consente che Quirino abbia seggio in Olimpo. Ma
non per questo la terribile dea d'Argo vuol perdo-
nare a Troia prevaricatrice: né per affetto alla casa
de' Giuli ed a Roma sì spegne in lei l'odio contro
la città delle colpe, ad abbatter la quale stavasi già
saevissima, dice Virgilio, sulle porte scee. Tantaene
animis caelestibas irae, esclameremo anche noi col
mantovano ! Surga Roma gloriosa, e la generazione
d' Ilia trionfi e signoreggi la terra: ma Troia, la rea
Troia , giaccia neir esterminio. Un immenso mare
si frammetta fra Roma e la sede antica de* suoi fon-
datori, e l'armento calpesti le ossa di Priamo e di
Ettore. No, mai la romana pietà non si attenti di
rialzare le abborrite mura, che andate a distruzione
d'armi e di fuoco vogliono essere esempio alla terra
del gastigo che dà il cielo alle grandi malvagità.
(1) Fastor. Iib. VI cap. I.
103
E questo decreto di Giunone fu al tutto eseguito,
consenzienti non pur Nettuno e Minerva, ma, se-
condo Eschilo (I), Giove stesso domestico , o sia
punitore del tradito ospizio. Ipse, dice anche Vir-
gilio (2),
Ipse pater danais animos viresque secundas
Sufficit: ipse deos in dardana suscitai arma.
Anzi fu esso eseguito con tale eternità di effetto ,
che Ovidio nel IV de' Fasti (3) immagina che ap-
punto Elettra, una delle pleiadi e madre di Dardano,
siasi perennemente resa invisibile, copertasi colle mani
il viso per non veder le ruine mai non mutabili della
sua Troia. Né infatti fu opera d'uomo che da quel
guasto- la facesse risorgere : e tuttoché Euripide
nella tragedia delle Troiane (4) introduca Ecuba a
sperare che la città dovesse un dì rilevarsi , non-
dimeno appresso gli antichi ostava sempre lo spa-
vento dell' ira celeste : e correva fama , al dir di
Strabone , essere stata fino maledetta dal re Aga-^
m^nnone: talché gli uomini avevano in ogni tempo
(segue a dire il geografo) abborrito qu€l suolo in-
fausto , e perciò edificato in altro luogo un nuovo
Ilio. Avvertirò pure, o signori, che Agamennone avrà
dato quella maledizione non già in nome proprio,
non arrogandosi le ragioni del cielo : ma in nome
(1) Nell'Agamennone parecchie volte.
(2) Eneide, lib. II v. 617.
(3) Gap. I.
(4) Scena sesta, in fine.
104
sì degl' iddii, e probabilissimamente della sua Gia-
none argiva.
V. Ciò ebbe, a me par certo, in mente Orazio
nella sua ode : dove tutto è virtù , rettitudine , e
timor degl' iddii , i quali , secondo anche le mas-
sime della teologia pagana riferiteci da Esiodo (1),
spesso per la colpa d'un solo uomo puniscono un' in-
tera città. Né voglio qui tacere un sottile avvedi-
mento del venosino: il quale a non offendere la mo~
rale, né scemare in Giunone la dignità dello sdegno,
si attenne pur solo di toccare la cagion vera che
i poeti, venuti dopo di Omero e di Esiodo , asse-
gnarono a quello sdegno, cioè il virgiliano
Manel alla mente reposium
ludicium ParidiS) spraetaeqiie inmria formae,
Et genus invisum et rapii Ganimedis honores.
Ricordanze affatto indegne, se fossero state ne' versi
oraziani: volendo quivi principalmente il poeta ram-
mentare le divine punizioni de' violatori della giu-
stizia, e le minacce severe centra coloro che in ciò
contrastassero ai decreti celesti: non trascurando, al
solito, di piaggiarvi solennemente Augusto che già
cogli altri eterni bevevasi il nettare , e insieme di
blandire alla gente Giulia, così, secondo l'ode, fa-
vorita in cielo dalla stessa dea d'Argo, non ostante
l'odio che aveva al sangue troiano. Ma l'esser nato
Romolo d'un figliuolo di lei valse a placarla. Amò
altresì, poiché glie ne venne sì bene il destro, esal-
(1) Opere e giorni, lil). I v. 238.
105
tai'vi i romani, popolo di Quirino, per le loro virtù
tanto accetti agi' iddii e soprattutto a Marte. Il che
non tacque parimente un altro adulatore famoso della
gran casa, Ovidio : il quale ne' Fasti , intitolati a
Germanico Cesare , così di Roma fa dire a Giu-
none (1) :
Jpse mihi Mavors, Commendo moenia, dixit,
Haec libi: tu polens urbe nepotis eris-
Per la qual cosa 1' intera ode, benché trattata con
tanta maestria pindarica d' estro e di libertà, non
vorrà essere che appieno corrispondente (né potrebbe
altro) al principio tutto morale di essa :
lustiim et tenacem proposili virum
Non civiiim ardor prava iubentiiimy
Non vullus instanlis tyranni
Mente quatit solida : neqiie Auster
Dux inquietus tiirbidus Adinae^
Nec fidminantis magna lovis maniis.
Si fractus illabalur orbis,
Impavidum ferient ruinae.
Permettetemi in fine di aggiunger anche, o signori,
che se veramente Augusto si fosse deliberato di tra-
sportare la gran sede altrove, non avrebbe forse ar-
dito l'uomo di corte contraddire in una poesia tanto
solenne alla volontà del principe, così da lui sempre
adulato con certa che m' incresce chiamare pro-
(1) Lib. VI cap. L
106
slituzione d' ingegno, fino a reputarlo partecipe della
divinità : egli che inoltre nell'ode decimasesta del-
l'Epodo, detestando le sette civili, consigliava i ro-
mani, poeta e natio di Venosa, a lasciare senza piiì
le rive del Tevere e andarsene ad abitare nelle isole
Fortunate.
Vi. Ma il Giordani, più che nell'ode di Orazio,
fondavasi nell'Eneide : nella quale, come dissi nella
prima parte, a lui sembrava sentire uno studio, co-
perto si, ma continuato ed intenso, di affezionare il
popolo romano alle cos$ orientali, e alla bella origine
del troiano Cesare , e di persuadere che il portarsi
colla corte ad Ilio fosse alla famiglia dominatrice così
giusto e decente come il tornare a casa propria- Sia
senza ingiuria di tanto uomo, io nel poema virgi-
liano trovo anzi assolutamente il contrario: e dico
e mantengo (e, lasciatemi aggiungere, fuor di tema
di prender fallo) che il poeta ad esaltare quell'Au-
gusto suo dio, da chi avea ricevuto ciocché d'ozio
e di bene godeva al mondo (1), non ebbe nel com-
porre l'Eneide altro fine vero e palese che di mo-
strare , con quanto ha di più nobile lo stile e la
fantasia, come il dar principio a Roma fosse stata
cosa di consiglio altissimo in tutti gì' idii :
Tantae molis eral romanam condere gentem (2):
e come il porlo ad effetto dovevasi alla virtù eroica
dì Enea tornato d'Asia in Italia patria de'suoi mag-
(1) Eclog. I.
(2) Eneide, lib. 1. v. 37.
107
giori, seguendo il volere dei fati , i quali alla sua
stirpe avevano conceduto senza termine 1' impero
della grande città. Cosa all' imperante e di somma
gloria e di sommo prò: legittimandosi in lai per tal
credenza la potestà dell'alto dominio della terra, che
aveva il cielo ordinato dov<?r essere su i sette colli.
E già nessuno ignora quanto quel potentissimo si
tenesse della divinità della sua stirpe : sia eh' ella
discendesse , come vuole Dionigi d'Alicarnasso , da
Giulo primogenito di Ascanio: sia che provenisse da
Ascanio medesimo, detto Giulo, secondo il vecchio
Catone, dalla lanugine delle gote. Né certo dimen-
ticava che Cesare, nella famosa orazione funebre che
questore aveva recitato di Giulia sua zia, erasi fatto
pomposamente a parlare in tal modo e di essa e del
padre: « La stirpe materna di Giulia mia zia ha ori-
gine dai re, e la paterna è congiunta cogl' iddii im-
mortali. Conciossiachè da Anco Marcio derivano i
Marcii Re, del cui nome fu mia madre: da Venere
i Giuli, della cui gente è la nostra famiglia. Trovasi
dunque nel ceppo antico della nostra casa e la san-
tità dei re, la quale appresso gli uomini è grandis-
sima autorità, e la cerimonia degl' iddii, nella potestà
de' quali sono essi re (1). » Laonde Augusto van-
tandosi molto di tale origine , procacciò di tenerla
sempre viva e veneranda nel popolo, sia col gradire
che i suoi poeti la celebrassero, sia coH'aver fatto
rappresentare nel tempio di Marte Ultore , sul cui
frontone grandeggiava inciso il nome dell' imperatore,
le immagini di Enea e di tutt' i discendenti di lui,
(1) Svetonio, in Giulio e, 6.
108
sottopostevi acconce iscrizioni, che rendessero ben note
ai romani le glorie della sua regia e divina prosapia.
Ce lo dice Ovidio, che quel tempio descrive nel V
de' Fasti (1):
Hinc videi Aenean ornalum fondere sacro,
Et tot iuleae nobilitatis avo'i.
Hinc videt Iliaden humeris ducis arma ferentem:
Claraque disposilis acta subesse viris.
Perciò non è ad immaginare quanto egli dovea sen-
tirsi gioire di quel gran vaticinio di Giove nel pri-
mo dell' Eneide (2):
Quin aspera luno ,
Quae mare nunc terrasque metu coeliimque faligatf
Consilia in melius referet, mecumque fovebit
Romanos rerum dominos, gentemque togatam.
Sic placitiim. Veniet lustris labenlibus aelas,
Cum domus Assaraci, Phlhiam, clarasque Mycenas
Servitio premei, ac viclis dominabilur Argis.
Nascelur pulchra troianus origine Caesar,
Imperium oceano, famam qui lerminet aslris.
lulius, a magro demissum nomen lido.
Ecco, 0 signori, in qual modo è chiamato Augusto
da Virgilio troianus: in quello stesso cioè, onde Ro-
molo ne' versi sopra citati è detto iliade da Ovidio:
volendo così dinotare l'uno e l'altro poeta, che tanto
(1) Gap. 5.
(2) Verso 283.
109
Romolo, quanto Augusto, discendevano dalla casa di
Enea. Ecco pur la ragione perchè tanto operossi Au-
gusto che r Eneide non fosse arsa , come Virgilio
in sul morire aveva ordinato: e sì ebbe caro , che
Tucca e Vario attendessero a renderla del tutto de-
gnissima d'essere pubblicata. Benché non potrebbero
oggi, altro che da un' ignoranza, attribuirsi ad esso
Augusto i versi che col suo nome vanno intorno su
questo fatto: nondimeno l'epigramma all' imperatore
in morte di Virgilio, se non vuol dirsi assolutamente
di Asinio Gallo, è però assai antico, secondo il pa-
rere del Wernsdorff e de' migliori critici : ed ivi
pregasi il principe di non consentire che 1' Eneide
sia gittata alle fiamme, l'Eneide nella quale anche
quel poeta non vede altro che le lodi degT italiani e
ciò che i fati avevano decretato intorno ad Aua;usto;
'&'
Fac laudes itahim, fac tua fata legi.
VII. Io so bene che non potè un Giordani, let-
terato della grande scuola , non aver letta e som-
mamente ammirata l'epopea virgiliana: ma non so
poi come leggendola dovesse dimenticare l'obbligo
solenne che al poeta correva (massimamente per
l'esempio del primo pittore delle antiche memorie
ch'egli emulava) di ben ritrarre i costumi de' popoli
fra' quali conduceva l'eroe troiano: non avvertendo
che se talora Virgilio dipingeva da pari suo gli orien-
tali, negl' italiani antichi usò tal' erudizione e cura
diligentissima, che l'autorità di lui fra i dotti per
poco non è uguale a quella di uno storico. Non te-
merò inoltre d'essere smentito affermando, che verso
110
non ha nell' Eneide, da cui possa inferirsi uno stu-
dio, quanto si voglia coperto, di persuadere ai no-
stri come sarebbe stato giusto e decente il passaggio
del principe ad Ilio. Tutto v' è anzi altamente glo-
rioso alla terra, dove Roma per voler divino fu edi-
ficata: né saprebbesi indicare un romano famoso, che
non vi sia celebrato. Mi valga di recarne ad esem-
pio il solo libro sesto, dove avanti ad Anchise e ad
Enea passano a schiere le anime de'sommi di Roma,
e quella di Augusto medesimo. Quali parole a far
heta la casa troiana di dover soggiornare nella città
eterna ! Leggasi al verso 716 :
Hos equidem memorare libi atque oslendere coram
lampridem hanc prolem cupio enumerare meorum:
Quo magis Italia tandem laetere reperta:
e più al verso 781 :
En huius, nate, auspiciis illa inchjta Roma
Imperium terris, animos aequabil Ohjmpo,
Seplemque una siti muro circumdabil arces.
Felix prole virum. Qualis lìerecynlliin maler
Invehilnr curru plirygias turrita per urbes,
Laeta deum pariu, centum complexa nepoles,
Omnes caelicolas, omnes supera alta tenentes.
Huc, geminas ime flecte acies: hanc aspice gentem,
Romanosque tuos. Hic Caesar, et omnis luli
Progenies, magnum caeli ventura sub axem.
Hic viri hic est, libi quem promitti saepius audis ,
Auguslus Caesar, divum genus: aurea condet
11]
Saecula qui rursus Lalio, regnata per arva
Saturno quondam.
Vili. A meglio mostrare però come assai s' in-
gannasse il Giordani nella sua sentenza, ed insieme
a mantener vero che assolutamente Virgilio non al-
tro vagheggiò nell' immortale poema, che la stabi-
lilà dell' impero in Roma; datemi di grazia, o si-
gnori, che vi torni a memoria pochi altri passi de'
più principali dell' Eneide, i quali affatto, se non erro,
risolvono la quistione.
Dichiarando Giove a Venere nel libro primo l'or-
dine eterno suo e de' fati intorno alla stirpe di Enea
in Italia, attendasi ciò che dice (1):
Inde lupae fulvo nutricis tegmine laelus
Romulus excipiet gentem, et mavortia condel
Maenia, romanosque suo de nomine dicet.
His ego nec metas rerum, nec tempora pono:
Imperium sine fine dedi.
Ed aggiunge solennemente, sic placitum. Ora come
avrebbe Virgilio immaginato si gran decreto di Giove
intorno all'impero senza fine conceduto al popolo della
città di Marte, e quell'eterno sic placitum^ se fosse
stato suo pensiero di consigliare Augusto a far d' Ilio
la sede di esso impero ? Io, se l'ora tarda non m' in-
calzasse, avrei materia abbondantissima di provare,
essere stata adulazione comune di tutti i poeti della
corte imperale il dire che veramente i numi alla
(1) Verso 279.
112
casa di Enea, o sìa alla gente Giulia, avevano dato
quella signoria del mondo, che doveva aver seggio
sul Campidoglio. Ne solo de' poeti latini, ma si de'
greci : perciocché si hanno in Quinto Calabro tali
versi, che aggiungono non lieve fede a coloro, i quali,
come diceva il Ginguenè all' instituto di Francia (1),
fanno vivere quel poeta ai tempi augustei, anziché
nel quinto secolo dell'era volgare, secondo che al-
cuni pretendono. Sono essi versi nel libro XIII (2),
in cui queste cose grida Calcante:
» Cessate olà di tirar lance e dardi
» Sul capo al prode Enea: de' numi eccelso
)) Decreto destinò, ch'egli dal Xanto
)) Drizzi il suo corso al maestoso Tebro:
» Che un'augusta cittade erga, e sia questa
)) Gran meraviglia ai posteri più tardi:
» Che a varie e sparte regioni imperi,
» E la prosapia sua regni poi tanto,
» Che giunga a dominar l'orto e l'occaso.
Ma tornisi all' Eneide. GÌ' iddii troiani nel libro
terzo (3), apparendo in sogno ad Enea, gli annun-
ziano:
Est lociis, Hesperiam graii cognomine dicunt,
Terra antiqua, potens armis alqne ubere glehae.
(1) Rapporto all' instituto di Francia inserito nel Magaz-
zino enciclopedico del Millin, volume di luglio 1811, a carte 63.
(2) Uso il volgarizzamento di Luigi Rossi, volume secondo
a carte 121.
(3) Verso 163.
113
Oenotrii coluere viri: mine fama minor es
Italiam dixisse, ducis de nomine, gentem.
Haec nohis propriae sedes: hic Dardanus orlus,
lasiusque pater, gemis a quo principe nostrum.
GÌ' iddii stessi dunque di Troia vogliono in Virgi-
lio, che la loro sede sia quìnd' innanzi in Italia, e
non pili nella distrutta patria: in Italia, ond'erano
nati Dardano e lasio , dai quali traeva origine la
gente troiana.
Dimorava Enea in Cartagine, per gli amori della
regina dimentico vilmente di se, della sua prole e
degli eterni decreti. Giove gì' invia Mercurio coll'or-
dine di partirsi quanto prima dall'Affrica (1). E che
dice ?
Vade age, nate, voca zephyros et labere pennis:
Dardaniumque ducem, tijria Cartagine qui nunc
Expectat, fatisque datas non respicit urbes,
Alloquere, et celeres defer mea dieta per auras.
Non illum nohis genilrix puleherrima talem
Promisit, graiumque ideo bis vindicat armisi
Sed [ore, qui gravidam imperiis, belloque frementem
llaliam regeret, genus alto a sanguine Teucri
Froderei, ae totum sub leges mitteret orbem.
Apprestasi il troiano ad eseguire l'onnipotente vo-
lontà : ne smania d'affanno e di sdegno Bidone : e
(1} Libro IV verso 2^23.
G.A.T.CLXIII. S
114
quali sono le parole di Enea a scusarsi della par-
tenza (1) ?
Sed nunc Italiam magnam grynaeus Apollo,
Ilaliam lyciae iussere capessere sorles.
Hic amor, haec patria est.
Ma quello a che poi nessuno avrà cosa , io credo,
da contrapporre sono i seguenti versi del libro XII (2).
Vuole Giove alfine che cessi Giunone, contrastando
al destino, di tanto faticare Enea nella guerra con
Turno , o sia nella dominazione d' Italia. Ulterhis
tentare veto. È astretta ad obbedire la dea , chie-
dendo però in guiderdone, che poiché Troia è ca-
duta, lascisi che pur sempre si giaccia con esso il
suo nome:
Sii Lalium, sint albani per saecula reges,
Sit romana polens itala virtute propago.
Occidity occideritqiie sinas ciim nomine Troia.
Al che volentieri Giove acconsente, soggiungendole
subito:
Do quod vis, et me vinctiis volensque remitto.
Sermonem ausonii patrium moresque tenebunl:
Utque est, nomen erit: commixti corpore tantum
Siibsident teucri: morem ritusque sacronim
Adiiciam, faciamque omnes imo ore lalinos.
(1) Ivi, verso 3i5.
(2) Verso 828 e seg
115
Hinc genus, ausonio mixlum quod sanguine surget,
Supra homines, supra ire deos pielate videbis:
Nec gens lilla luos aeque celebrabil honores.
IX. Che altro di meglio poteva scrivere Virgilio
a dichiarare solennemente , che per ordine celeste
non dovevasi più da' nostri pensare a Troia ? Che
altro di più conforme a ciò che vedemmo voler Giu-
none, sebbene con diverso intendimento, nell'ode di
Orazio ? Che altro infine di più aperto a distogliere
anzi Augusto dallo sconsigliato proponimento, ^ avu-
to lo avesse (come non l'ebbe mai per nessuna notizia
e probabilità), di trasmutarsi dalla gloriosa città del
mondo in quell" Ilio, obliato appunto dalla Fortuna,
secondo che all' imperatore cantava pur Manilio nel-
l'Astronomico (1) , perchè sorgesse il romano im-
pero ?
X. Né solo in Ilio, come slima il Giordani per poco
d'avvertenza all'Eneide , ma molto meno fra' bar-
bari della Gallia, secondo che afferma Dione esserne
andata intorno la voce. Imperocché narrando Io sto-
rico nel libro LIV come 1' imperatore nel consolalo
di Domizio Enobarbo e di Cornelio Scipione, cioè
nell'anno 738, viaggiò nella Gallia, dice che sì fosse
a ciò indotto per togliersi da Roma, dove a molti
era divenuta grave la sua presenza: né egli inten-
deva col perdonare a' colpevoli contraffare alle leggi.
Sicché prese la risoluzione, scrive esso Dione, di an-
darne in paesi lontani, come già fece Solone. Alcuni
però (segue il niceese) sospettarono che avesse in-
(1) Lib. I, verso SOO.
116
vece voluto intraprendere quel viaggio a cagione di
Terenzia moglie di Mecenate: per potersi cioè tro-
vare con essa, senza darne al pubblico un mal con-
cetto: essendoché già dal volgo parlavasi variamente
del loro amore. Ed invero la donna eragli tanto cara,
che fino fece starla una volta a confronto con Livia
per la sua bellezza. Cosi Dione. Ora che Augusto
avesse già fatto credere, sia per simulazione, sia per
essere veramente stanco, di voler rinunciare la po-
testà, è noto per tutti gli storici. Ma egli intendeva
rendersi di nuovo a vita cittadinesca, sgravatosi del
gran peso, come diceva, di tanta dominazione: ed
era perciò ben lontano da ogni pensiero d' andarne
anzi colla sede dell' impero medesimo fuori d' Italia,
dove a lui quel peso non sarebbe stato certamente
minore. Riposa colai notizia sopra un' incerta voce
giunta agli orecchi del solo Dione : tacendone fino
Svetonio che aveva, come ognun sa, cercato in Roma
le cose più riposte e curiose della vita di quel ce-
sare cent'anni prima di esso Dione: sulla cui auto-
rità vori'emo inoltre essere sempre cauti a giurare. Dio-
nem cum iudicio lagendiim esse, ci avvisa il Lipsio (1):
e il Vossio di più gli appone di narrare spesso fatti
non veri: A verilalis orbila saepe deflectere (2). Certo
è che tante baie si hanno in questa sua novella ,
quante parole. Non poteva infatti Augusto rassomi-
gliarsi a Solone , il quale non fu mai signore di
Atene, ma solo arconte a tempo con ufficio di le-
gislatore in città del tutto franca: nò si ritrasse per
(1) Epistolar. qiiaesl. lib. IV episl. 3.
(2) De arte liistor. pag. 49.
117
essere stanco de' carichi della patria, o per non vo-
lere far contro alle sue leggi, ma sì fuggendo, caldo
di libertà , la tirannide di Pisistiato. Chi dirà poi
sì leggiero di mente x\ugusto, che dovesse preten-
dere d' impor silenzio alle male voci intorno l'amor
suo per Teren/ia, conducendosi dietro palesemente
compagna del viaggio l' adultera ? Tutto impune-
mente fare, dicevasi già cosa da re: ma non potrei
nondimeno senza difficoltà credere in esso Augusto
un disprezzo così svergognato di quella legge Giulia
da lui medesimo pubblicata, essendo la sesta volta
console nel 726, contro i violatori della fede ma-
trimoniale: per la qual severissima legge è noto che
poi condannò, approvante il senato, a perpetua pena
figliuola e nipote. Il riferire , non dandosi neppur
briga d'un'avvertenza per lo meno di dubbio , sif-
fatte chimere di tradizioni volgari dugento quaran-
t'anni dopo, è indegno non solo della gravità, ma
del giudìzio di uno storico.
XI. Non ha dubbio che Augusto, secondo Sve-
tonio (1) in ciò concorde co' fatti , si fosse pro-
posto di visitare tutte le province dell' impero a
lui sottoposte. E tutte veramente le visitò , salvo
l'AtTrica (o sia la regione cartaginese) e la Sardegna:
non potuto andarvi per gravi cure di stato che vi
si opposero, benché ne avesse avuto sempre la vo-
lontà. Si condusse perciò nella Gallia, provincia im-
portantissima, e già famosa palestra de' trionfi del
padre suo adottivo. E molte palesi ragioni di guerra
e di pace ve lo consigliarono: perciocché volle da
(1) In Ottavio cap. il.
à
118
se stesso giudicare colà de' casi pressanti della Ger-
mania, i cui popoli minacciavano potentemente 1' im-
pero , ed avendo sorpreso e disfallo Marco Lollio
legato, si erano con maggiore ardimento mossi alle
armi. Inteso però che Augusto medesimo si tro-
vava di là non lontano a combatterli, implorarono,
dati ostaggi, la pace e tornarono in dietro. Non cosi
i reti , che molestavano non meno le Gallie , che
r Italia superiore: contro de' quali spedì con un eser-
cito prima il figliuolo Druso, poi esso Druso e Ti-
berio. Stimò anche debito d' imperatore il render
giustizia a que' popoli de' molti soprusi e ladro-
necci, de' quali veniva accasalo il gallo Licinio suo
liberto, deputalo a riscuotere le gabelle e i tributi.
Divise inoltre in quattro parti la Gallia, al contra-
rio , dice Slrabone (I), di ciò che aveva fatto
Giulio Cesare. Avendo ultimamente condotto colo-
nie così in quel paese , come nella Spagna vicina,
prese a farne il censo, che lasciò indi compiere a
Druso. Sicché (è Dione medesimo che così scrive)
w avendo assettalo Augusto le cose della Gallia, della
Spagna, della Germania: fatto di molte spese in cia-
scuna città dove andava: da alcune ricevuto grandis-
sime somme: ad altre conceduto la libertà e il di-
ritto delfa romana cittadinanza, e ad altre toltolo:
lasciò Druso in Germania, e tornossone a Roma es-
sendo consoli Tiberio e Quintilio Varo ». E sì la
patria , o signori , vivamente lo richiamava: e già
Orazio sollecitavalo con un'ode bellissima (2) a non
(1) Lib. IV.
(2) Ode Y dei lib. IV.
119
frappone maggior indugio al ritorno. Laonde ognun
vede che secondo la vera storia , e secondo Dione
medesimo allorché non raccoglie fole dal volgo, Au-
gusto nelle Gallie operò cose di gran momento sì
alla sicurtà dell* impero e si al bene di quelle pro-
vince: e che la cagione del suo viaggio di là dal-
l' alpi fu ben altra che il voler trasferirvi la sede
della regina del mondo, o il coprire vanamente di un
velo l'amor suo verso Terenzia.
Xll. No, signori. Augusto non pensò mai, lo ri-
peto, di togliere alla sua patria tanta grandezza e
maestà. Tutta la romana sua vita dalla gioventù alla
vecchiezza ne rende buona testimonianza. Chi più
di lui ossequioso al culto antico, ed a ciò che sti-
mavasi dover mantenere eterna fra noi la potestà
della terra: di lui, che sì fervente in quel zelo volle
perfino trasferire nelle stesse sue case il sacrario e
fuoco di Vesta (1), per tenerne pontefice massimo
e maggior sacerdote della dea (2) una cura più re-
ligiosa ? Ninno inoltre il passò per quanto più po-
tevasi civilmente(resosi impossibile Tanlico stato) nel-
l'essere sollecito così del bene, come della dignità
de'suoi concittadini. Non fu Augusto che accrebbe
il numero de' patrizi, e se ne vantò nel monumento
ancirano ? Non fu Augusto che restituì al popolo il
diritto già toltogli da Cesare di eleggere ne'comizi
i consoli e gli altri magistrati curuli ? Non fu Au-
gusto che stanziò la legge Papia Poppea , perchè
dopo le sciagure della guerra civile dovesse Roma
(1) Ovidio, Fast. lib. Ili cap. 4, e lib. IV cap. 6.
(2) Ovidio, ivi lib. V cap. 5.
120
rifiorire della sua popolazione ? Non fu Augusto, che
memoriarum veterum exequenlissimus, come lo chia-
ma Gellio (1), ornò il suo foro delle statue non solo
de' Giuli, ma de' più illustri romani, infiammando
per tal modo i posteri ad operar cose degne della
città dea della terra e delle nazioni (2) ? Non fu Au-
gusto che a diffondere sempre più nel gran popolo
ogni maniera di liberali studi fondò e fece pubbliche,
emulando Lucullo e Pollione da re, due celebri bi-
blioteche ? Non davasi vanto d'aver ricevuto Roma
di muro, e di volerla render di marmo? Che si chiede
altro ? Narra fino Svetonio (3), che un giorno arrin-
gando Augusto si avvide che alquanti romani ave-
vano deposta la nobile veste de' loro padri. Di che
mostrandosi altamente adiralo (tanto slavagli a cuore
di mantenere l'onor patrio in tutto), ecco, disse ad
alta ed ironica voce, ecco
Romanos rerum dominos (jentemque togatam:
ed impose agli edili di provvedere, che quind' in-
nanzi nessuno ardisse comparire non togato nel foro
e nel circo. Bello e degno , ma inutile ordine del
gravissimo imperatore: essendoché dovevano purtrop-
po pochi anni dopo i romani quasi tutti, per mal
vezzo straniero, mostrarsi cotidianamente in pubblico
senza toga, e meritarne il dileggio di Giovenale (4) !
(1) Notti attiche lib. X cap. 24.
(2) Terrarum dea gentiumque Roma. Marziale.
(3) Id Ottavio cap. 40.
(4) Satira terza.
121
Tal era Augusto, o signori, secondo tutte Ih me-
morie che di lui ci rimangono; principe a chi pos-
sono imputarsi non lievi colpe, ma non quella certo
d'essersi mai rinnegato romano. Oltreché in tutte le
cose pubbliche fu di sì forte volontà e sì avventurato,
che forse impero non s'ebbe in Roma più tranquillo
e più alla devozione del suo sovi'ano: giudice anche
Tacito (1), che vuole in ciò facilmente esser cre-
duto. E molto se ne gloriava, secondo Plutarco (2),
Augusto medesimo : il quale inviando Caio Cesare la
prima volta all'esercito: « Fate, disse, o iddii im-
mortali, di concedere a mio nipote il valor di Sci-
pione, la giazia di Pompeo, e la mia fortuna ».
Le quali cose, o sjgnori, da me discorse a fine
di dichiarare ( il primo , io credo ) se possa mai
essere stato vero o probabile in due grandissimi
principi di sangue romano un proponimento d'im-
portanza forse non ultima, se non erro, alla storia
e alla dignità di questa patria carissima, con ossequio
sottopongo all'autorità del vostro giudizio.
(1) Annali lib. 1 cap. 2 e 3.
(2) Della fortuna de' romani.
122
1 bastioni di Antonio da Sangallo disegnati sul ter-
reno per fortificare e ingrandire Civitavecchia Van-
no 1515. Lettera al chiarissimo signor cavaliere
e professore Salvator Betti.
I. J\ voi, che come compiuto modello non meno di
squisita cortesia che di bello scrivere noi tutti ono-
riamo , piacque tra le varietà del vostro Arcadico
(tomo XIV, nuova serie) tener discorso di quel mio
tenue lavoro che , estratto dal giornale delle stra-
de ferrale , pubblicai anonimo nel novembre del
mille ottocento cinquantotto. Io vi rendo infinite
grazie , perchè coli' autorevole vostro giudizio in
ogni punto mi confortaste , massime nel primato
che sopra al Sammicheli pel notissimo baslion di
Verona rivendicai al Sangallo pc' suoi bastioni di
Civitavecchia , e perchè ( essendomi appena stato
possibile in quel mio scritto dare un cenno di sif-
fatto primato) voi pur voleste con grazia e genti-
lezza tutta vostra far noto ai lettori, che di ciò avreb-
bero trovata una più ampia dimostrazione nel libro
settimo della mia Marina. Ma con questo invogliaste
pili d'uno a chiedermene contezza, a farmi pressa,
e ancora a muovermene dubbi. Ondechè io, volendo
risolvere le difficoltà, e per quanto posso far pago
il desiderio di tutti, senza aspettare chi sa quando
r edizione del predetto libro, ho divisato cavarne la
richiesta dimostrazione, sciogliere la mia e la vostra
promessa, e di presente in cosa di non lieve momento
123
chiarire la storia dell'arie, il meiito dei Sangallo,
e la prima opeia da lui falla in Civitavecchia. Mi
passerò di notare le mende di quegli scrittori tanto
nostrani che forestieri, i quali hanno trattalo piiì o
meno di proposito questo argomento rispetto a Ci-
vitavecchia, il continuo confondere la fortezza e le
fortificazioni, il mettere sossopra i tempi e le per-
sone: donde non è meraviglia che sia venuta l'oscu-
rità e r incertezza che ho preso a rimuovere.
Con voi, che siete tutto ordine e tutto critica, vengo
diritto a sostenere la verità dell'assunto , e di ciò
vi presento per filo il fatto e le piove.
II. Giorgio Vasari nella vila di Antonio Picconi da
Sangallo narra, che; (1) « Andando il papa (Leone X)
a Civitavecchia per fortificarla, ed in compagnia di
esso infiniti signori, e fra gli altri Giovan Paulo
Baglioni e 'I signor Vitello (Alessandro) , e simil-
mente di persone ingegnose, Pietro Navarra (il conte),
ed Antonio Marchisi architetto allora di fortifica-
zioni , il quale per commessione del papa era ve-
nuto da Napoli; e ragionandosi di fortificare detto
luogo, infinite e varie circa ciò furono le opinioni:
e chi un disegno e chi un altro tacendo, Antonio fra
tanti ne spiegò loro uno, il quale fu confermato dal
papa e da quei signori ed architetti, come di tutti
migliore per bellezza e fortezza, e bellissime ed utili
considerazioni : onde Antonio ne venne in giandis-
(1) Vasari, Le vite dei pittori scultori e architetti, pub-
blicate per cura di una società di amatori delle arti belle
in 8.° Firenze. Tipografia Lemonnier 1846-57. Tom. X, p. 6.
— Citerò sempre questa edizione come la più copiosa e cor-
retta.
124
Simo credito appresso la corte )). Posta la testimo-
nianza del Vasari , la quale in questo incontro e
regge a martello e concorda con molte altre che
appresso produrrò, vengo a dichiararla in ogni sua
parte, perchè si veda quanto bene ella torni al no-
stro proposito.
III. E prima volendo determinare il tempo della
gita di papa Leone a Civitavecchia, mi sovviene mon-
signor Paride de Grassi (2), prefetto delle cerimo-
nie, sempre colla penna in mano e sempre ai fian-
chi del pontefice, registrandone giorno per giorno,
secondo il costume della romana corte, i fatti: dal
quale ricavo cinque viaggi di Leon decimo a Ci-
vitavecchia. Il primo nel mese di gennaio del mil-
le cinquecento quattordici, il secondo nel mese di
ottobre del cinquecento quindici, altri due nel set-
tembre e nel novembre del sedici e del diciannove,
l'ultimo nel novembre del venti: l'anno appresso
papa Leone morì.
Ora ninna di queste date più che la seconda cor-
risponde alle minute accuratissime circostanze indi-
cate dal Vasari. Peichè allora, neìl'otlobre del 1515,
il papa stava pensieroso sopra le vittorie riportate
dai francesi a Milano (3); e sospettando non forse
(2) Paris de grassis , praefectus caeremoniarum, Dia-
rium Leonis papae decimi. - MSS. in molte biblioteche. — Alla
Casanatense XX. III. 6.
Sub die 1 lanuarii 1514.
1 Octobris 1515.
18 Septembris 1516.
26 Novembris 1519.
7 Decembris 1520.
(3) Guicciardini, Storia d' Italia, lib. XII.
125
i vincitori si volgessero contra Toscana e contra
Roma , levava soldati e capitani , e dava mano a
fortificarsi (4). Perchè tre mesi prima di questo viag-
gio, cioè nel luglio del 1515, Antonio da Sangallo
( il quale già per Giulio II insieme con Bramante
aveva lavorato nei fossi di caste! Santangelo in
Roma , e v' ha ogni ragione di credere che anche
nella rocca di Civitavecchia) era stato dal cardinal
Farnese introdotto ai servigi di Leone decimo (5): col
(4) Scipione Ammirato, Storie fiorentine, in fol.l641.T. II,
p. 317. Lib. XXIX. « Non era il pontefice senza sospetto che
il re vittorioso non si volgesse contra Toscana e contra
Roma. «
Paris de Grassis. cit. Die prima mensis octobris 1515.
«t Papa discessit ah urbe versus Viterbium, Montem Falisco-
rum, Tuscanellam , et Centumcellas sive Civitatem veterem.
Ubi cum esset rumore vario mmciatum est regem francorum,
qui nuper Mediolanum in potestatem suam redegerat , velie
ad papam personaliter cum suo exercitu venire, linde papa,
veritus ne quid novitatis in transitu machinaretur, operatus
est ut ipse ad Bononiam cum omni curia transcenderet ».
(5) Vasari cit. Vita di Antonio p. 5. « Mentre queste cose
giravano , avvenne che la vecchiezza di Bramante ed al-
cuni suoi impedimenti lo fecero cittadino dell' altro mondo.
Perchè da papa Leone subito furono costituiti tre architetti
sopra la fabbrica di san Pietro, Raffaello da Urbino, Giuliano
da Sangallo zio di Antonio, e fra Giocondo da Verona. E
non andò molto che fra Giocondo si parti da Roma, e Giuliano
essendo vecchio ebbe licenza di potere tornare a Firenze. Là
onde Antonio, avendo servitii col reverendissimo Farnese, stret-
tissimamente lo pregò che volesse supplicare a papa Leone che
il luogo di Giuliano suo zio gli concedesse: la qual cosa fu
facilissima a ottenere]... Andando poi il papa a Civitavecchia
per fortificarla » eccetera come alla nota 1.
Vasari, cit. T. VII. p. 139. Vita di Braaiante: « Bramante
fu sepolto in S. Pietro l'anno Ioli. »
126
quale non cavalcò a Civitavecchia nel gennaio del
quattordici, che sarebbe stato troppo presto e fuor
di stagione ; né altrimenti nel sedici o nel venti ,
cioè troppo tardi per questo fatto a cui dovette la j
sua riputazione nella corte, e che dal Vasari è posto
in ordine di tempo prima di ogni altro, subito che '
Antonio fu ricevuto ai servigi di papa Leone : ma j
sì bene tre mesi dopo il suo collocamento, cioè
nell'ottobre del rnille cinquecento quindici, quando
il papa ebbe bisogno di lui. Perchè nell'anno stesso, |
e fin dal mese di agosto, partitosi da Peiugia Giain- 1
paolo Baglioni era venuto al soldo del papa , e
quindi a Civitavecchia dove per testimonianza di :
Paride si formò il primo disegno di andare a Bo- :
logna (6). Perchè nell' istesso tempo il conte Pietro '
Navarro, messo fuori del castello di Milano il duca
Massimiliano Sforza (7), e avendo la via spedita da
Gave, Carteggio d'artisti, in 8." Firenze 1840. T. 11. p. 13I>.
« Maestro Bramante mori hiermattina XI marzo 1514. »
Vasari cit. VII. p. 236. Vita di Giuliano ed Antonio da
Sangallo. Commentario. « Al 1 di gennaio 1514 Giuliano da
Sangallo è nominato architetto di san Pietro in Roma. Al
l di luglio 1315 cessò da quell'ufficio. »
Vasari cit. X. p. 5. Vita di Antonio da Sangallo. • // luogo
di Giuliano suo zio fu facilissima cosa ottenere per Antonio. »
Dunque Antonio entrò a servigio di papa Leone nel mese di
luglio 1515.
(6) Teseo Alpani, Memorie perugine. Arch. Stok. It.
T. XVI. P. II. p. 272. « il di 29 agosto di mercoldt 1515
si partì da Perugia il signor Gian Paolo Baglioni per an-
dare al soldo di N. Signore Leone X a Bologna. » Vedi so-
pra la nota n." 4.
(7) Muratori, Annali 1515 prop. fin: « Nel quinto dì d'ot-
tobre uscì dal castello di Milano il codardo duca. »
127
Genova a Civitavecchia, doveva esser venuto tra i
primi a trattare dei congresso da tenersi a Bologna;
come quegli che pel re di Fi-ancia militava, e pel papa
aveva militato a Ravenna , e per intercessione di
Leone X era stato liberato dalla prigionia, e sempre
mantenuto in sua grazia (8). E senza altre riprove
a mostrare per 1' anno medesimo la presenza di
Alessandro Vitelli e di Antonio Marchisio, varrà per
tutti la testimonianza del celebre architetto mili-
tare capitan Francesco de Marchi (9), il quale, in-
direttamente , ma parlando delle fortificazioni alia
moderna, il conferma, dicendo: « La Sedia Aposto-
lica ha fatto da trent'anni in qua molte fortifica-
tioni. » E perciocché egli scriveva nel mese di agosto
del 1546, come si legge nella prima tavola de' suoi
disegni, ne segue l'essersi qui dato principio a for-
tificare co' nuovi melodi nello scorcio del 1515, in
tempo di Leone decimo, quando il Vasari ci mette
innanzi quel concorso d' infiniti signori, di capitani
e d' ingegnose persone in Civitavecchia per fortifi-
carla.
IV. Le quali fortificazioni non potevano riguardare
ne punto ne poco la rocca vecchia, edificata nel me-
dio evo sopra una rupe tra il porto e la darsena;
né la rocca nuova, detta oggi la fortezza, sulla riva
del mare a levante, disegnata e murata sia da Bra-
(8) Petri Bembi Cardinalis, Epistolarum Leonis X. Pont.
Max. nomine scriptarum. Pelro Navarro Cantabro. Fra tutte
le opere del Bembo in fol.° Venezia 1729. T. IV. p. 72. 113.
130. ecc.
(9) Francesco de marchi, Architettura militare. Lib. II.
Cap. X. in fogl. Brescia 1399. Prima tavola p. io*
128
mante (10), e poscia compita da Michelangelo; ma
sì bene esser dovevano un compiuto petìmetro di
muraglie per chiudere e ingrandire la città. Di che
fa pure testimonianza il Vasari, dicendo con molta
proprietà di termini che « Il papa andò per fortificare
Civitavecchia ... e ragionò di fortificar detto luogo. »
Cioè la terra tutta intorno , talché il luogo stesso
in ogni sua parte si rendesse forte. Indi il motto so-
lenne di Giulio terzo, che « Attorno alla città crebbe
le fortificazioni » ripetuto quattro volto sopra quattro
medaglie di diversi pontefici, i quali continuarono
l'opera medesima (11).
V. Ora avendo Antonio spiegato il disegno e fat-
tevi sue considerazioni, come a dire svolto il car-
tone e insieme le ragioni dell'arte sua nell'architet-
tura militare , ne riportò piena approvazione , fu
anteposto a tutti, venne in gran credito, ed ebbe
tanto onore di superlativi elogi per bellezza e for-
tezza, e bellissime ed utili considerazioni, alla pre-
senza del papa e di tanti signori e architetti, che
sarebbe un fatto ridicolo e indegno d'esser pur ri-
petuto da chicchessia, nonché da un artista e scrit-
tore come dal Vasari, se non alludesse a cosa ve-
ramente nuova e bella, cioè all' idea della moderna
fortificazione applicala al sito per circondare inte-
ramente una città. Dopo i primi saggi delle linee
fiancheggiate e della difesa radente mostrati dal vec-
(10) Ne darò io prove nella storia della Marina, e produrrò
un documento inedito che allude a questo fatto.
(11) « Urbemque. Vallo. Auxit. »
Come appresso alla nota nura. 28.
129
chio Giuliano da Sangallo nella rocca d'Ostia (12)
e nella cittadella di Pisa , e dopo le scritture di
Francesco Martini (13), l'uno zio e maestro, l'altio
contemporaneo e facilmente noto ad Antonio, non
se ne può dubitare. Tanto che , senza averne an-
cora quella pienezza di prove, che io appresso pro-
durrò, vennero a questa medesima congettura i tre
più grandi scrittori che hanno trattata al tempo
nostro r istoria e l'arte del fortificare. Carlo Pro-
mis (14), cercando quali siano stati i primi bastioni
in Italia, e contraddicendo all'opinione del marchese
Scìpion Maffei che ad ogni studio voleva trovare il
primo baluardo opera d'un veronese e fatto in Ve-
rona, esclude il primato del Sammicheli pel bastione
delle Maddalene fatto nel 1527, novera quasi dieci
(12) Carlo Theti, Discorso delle fortidcazloni, in fogl. Na-
poli 1617 p. 132. La pianta della rocca d'Ostia.
Attilio Orlandini Zuccagni, Corografia di tutta 1' Italia
in 8. Firenze 1843. Alle tavole la rocca d'Ostia.
PKOSPETfo della rocca d' Ostia in fotografia , presa l' an-
no 18S4, prima dei ristauri. Presso di me.
Pianta e veduta prospettica della rocca d' Ostia rica-
vata dall'architetto Giovanni Monliroli, sopra gli studi fattivi
nella primavera del 1859, in compagnia del cavalier Ravioli, mon-
signor Luigi Pila, e padre Alberto Guglielmotti. Presso di me.
(13) Francesco di Giorgio martini, scrittore del secolo
decimoquinto. Trattato di architettura civile e militare pubbli-
cato con appendice e note dal prof. Carlo Promis in i.° To-
rino 1841. Superba edizione di importantissimo lavoro pel
testo, per le tavole e pei commentari del chiarissimo editore.
Il cavalier Ravioli in Roma ne possiede una copia , che per
sua cortesia ho potuto consultare.
(14) Carlo Promis, Appendice e note al trattalo di Fran-
cesco di Giorgio Martini, cit. pag. 311.
G.A.T.CLXllI. 9
I
130
città che ne ebbero di più antichi , e conchiude
dicendo: (^ Tralascio siccome insufficientemente de-
scritte e non abbastanza confortate di documenti
istorici le fortificazioni erette con baluardi assai prima
del 1527 in qualche piccola città di Toscana, a Li-
gnago , a Parma , e fors'anche a Civitavecchia ».
11 cavalier Camillo Ravioli ripete l' istessa conget-
tura dicendo (15): « Vero è che il marchese Marini
innanzi al Sammicheli vorrebbe porre Antonio da
San Gallo sulla scorta del Vasari pel suo disegno
approvato da I.eon X per fortificare Civitavecchia;
non esita ad affermare che ponendo molto studio
suir oggetto forse per f invenzione dei bastioni si
troverebbero argomenti per dirli anteriori. « E l'istesso
marchese Luigi Marini prima d'ogni altro scriveva
in questa sentenza (16): « Prendiamo esempio dal di-
segno fatto da Antonio da S. Gallo per fortificar
Civitavecchia, approvato da Leone decimo; ... Che
questo disegno fosse secondo la moderna forlicazione,
vale a dire avesse i bastioni, ogni probabilità lo vuole...
L' epoca di un tal progetto non è certamente pili
recente del 1521, e perciò precede quella del primo
bastione del Sammicheli di qualche anno: onde se
si potesse rincontrare un tal progetto, in cui ci ò
tutta la probabilità di credere che ci fossero i ba-
stioni, si potrebbe per questo solo mezzo dimostrare
(15) Camillo Ravioli, Discorso della vita e delle opere
del marchese Luigi Marini, in 8.° Roma 1858. p. 14. — Estratto
dal Tomo Vili, nuova serie, del giornale Arcadico.
(16) Luigi Marini, marchese di Vacuna ed ingegnere ro-
mano, Saggio storico edalgebraico sui bastioni, in 8. "Roma 1801 ,
pag. 16.
131
del tutto falsa ropinione del Maffei ». Erra nondimeno
nel dire che il disegno del Sangallo non fu mai ese-
guito: e questo errore è stato causa di lasciar molti
dubbi nella storia dell'arte che niuno meglio di lui
avrebbe potuto risolvere (17).
VI. Senonchè le probabilità di questi ed altret-
tali valentuomini sono divenute ormai certezza , e
il desiderio del marchese Marini ò soddisfatto; il piano
del Sangallo per le mura di Civitavecchia non andò
perduto, anzi fu posto in esecuzione, e noi possiamo
francamente asserirlo, dappoiché gli originali disegni
dell'istesso Sangallo, che giacevano negletti nella gal-
leria di Firenze, desiderati ma non saputi indicare né
dal Gaye (18), né dal Promis(19),sono stati fatti cono-
scere al pubblico da una società di amatori delle arti
belle (20). Dai quali disegni, avendo io per introdotto
del gentilissimo cavaliere [.uigi Crisostomo Ferrucci,
(17) Marini, cit. p. 16. « // qxml disegno però non fu,
mai messo in esecuzione. »
Promis, cit. p. 75. « Antonio da San Gallo nel ponti-
ficato di Leone X diede per le mura di Civitavecchia un piano
che non fu effettuato. » Si confronti la pag. 311. citata.
(18) Giovanni Gaye, Carteggio inedito d'artisti dei seco-
li XIV, XV, e XVI, illustrato con documenti pure inediti,
in 8°. Firenze 1839-40 , T. Ili p. 393. « Importantissima
per la vita di Antonio da S. Gallo è questa nota delle sue
opere. Qual sorte abbiano avuta poi questi disegni, non sa-
prei indicare. »
(19) Promis, cit. pag. 76. a Di questo itigegniere (Antonio
da Sangallo) devono esistere scritture . . . però non trovo chi
ne faccia menzione ».
(20) Commentario alla vita di Antonio da Sangallo nella
edizione citata del Vasari, 1854. T. X p. 24 e 63.
132
bibliotecario della Laurenziana, potuto cavare il fac-
simile di quattro esemplari (21), intitolati Schizzi di
Civitavecchia, mi trovo aver sott'occhio la pianta di
essa città: e non solo la nuova sua cinta alla moderna
con sette bastioni reali , ma la traccia altresì dei
primi passi dati da Antonio nello studiare alla for-
tificazione sul terreno, e la ragione di quegli inge-
gnosi partiti che (presi in Civitavecchia per necessità
del sito) divennero poscia il principal carattere del
suo stile. Oltracciò devo e posso di presente notare
non senza compiacenza e maraviglia, che i disegni
del Sangallo pienamente rispondono alle fortifica-
zioni che sono in Civitavecchia dal secolo decimosesto
sino ai nostri tempi, massime ai cinque baluardi di
ponente che tuttora esistono inlatti. Si vedrà tra
poco come descrivendo i disegni di Antonio si trac-
cia a un tempo il perimetro delle mura, cortine, e
bastioni della stessa città.
VII. Prima però di mettermi alla descrizione mi
piace ribadire l'argomento con altri due colpi: il primo
dei quali sia dato per mano di Francesco de Mar-
chi, celeberrimo tra tutti gli scrittori di architettura
militare del secolo decimosesto. Il valoroso capita-
no, oltre alla sua grand'opera, ristampata in questo
secolo dal marchese Marini con quel lusso di edi-
zione che tutti sanno, lasciò una preziosa raccolta
di piante e disegni di diverse città e fortezze (ora
alla Magliabecchiana di Firenze) e insieme colle altre
(21) Antonio Picconi da Sangallo, Scritti e disegni inediti
nella Galleria di Firenze. T. VII, carte 108, num. 271. E a
carte 115, nuni. 284. 283. Ed i facsimile presso di me.
133
la pianta delle fortificazioni di Civitavecchia (22) ,
che il mio amico colonnello Alessandro Cialdi, co-
mandante della marina [jontificia, in un suo viaggio
di Toscana fecemi copiai-e, e presso di me conservo.
Or quelle piante, già tanto importanti pel nome di
chi le disegnò, sono altresì per l'autoic che le com-
pose: stimandosi comunemente che, rispetto a quelle
dello Stato pontifìcio e di Toscana, il de Marchi non
abhia fatto altro che copiarle dagli originali del San-
gallo, il quale per diveise commissioni e dei papi
e dei fiorentini le aveva disegnate o racconce. Di
che h pure testimonianza il cavalier Promis, dicen-
do (23): « Altro lavoro del capitano de'Marchi è la
raccolta di oltantacinque disegni .... la maggior
parte di città e fortezze d'Italia . . . Già ho notato
che devono esser tratti dalla raccolta dei disegni
originali di Antonio da S. Gallo, e ciò per le piante
di Toscana e Romagna » . Dunque molto più la
pianta di Civitavecchia , presa dal de Marchi co-
me sopra , deve esser copia di quell'originale car-
tone che il Sangallo presentò a Leon decimo. Quindi
come è questa copia, così fu quell'originale, cioè ba-
stionalo alla moderna La quale opinione eziandio per
questo fatto di Civitavecchia divien certezza. Perchè
(22) Francesco de Marchi, Piante diverse di città e for-
tezze. MSS. alla Magliabecchiana. « Pianta di Civitavecchia
in Toscana ».
Mariano d'Ayala, Bibliografia militare italiana, in 8." To-
rino, 18S4 p. 107.
(23) Carlo Promis, Appendice e note al trattato d'Archi-
tettura civile e militare di Francesco di Giorgio Martini in 4."
Torino 1841. Memoria prima, scrittori militari p. 118 e p. 76.
J34
nel vero gli schizzi di Antonio alla Galleria insieme
composti ci danno per punto il perimetro della pianta
del de Marchi alla Magliabecohiana. E tanto chiara-
mente si vede avere il secondo copiato dal primo,
che laddove quello confessa essorsi orizzontalo all'az-
zardo scrivendo di suo pugno (24) in un canto dello
schizzo : « Bisognia metteie la bussola a punto alli
4 venti, e none al falso della tramontana: « questi
fedelmente seguendolo , ti mette in mezzo al porto
la bussola al falso della tramontana: cioè settanta-
cinque gradi a levante.
Vili. Ma un più forte argomento si trae da quattro
medaglie pontifìcie tutte coniale nel secolo decimo-
sesto per ricordare le forlifìcazioni di Civitavecchia:
le quali medaglie portano scolj)ita sul rovescio nien-
temeno che la pianta geometrica del perimetro
bastionato alla moderna , come fu disegnalo dal
Sangallo ; cioè perfettamente simile agli schizzi di
lui , alla copia del de Marchi , e a quel che esiste
tuttora in Civitavecchia. Imperciocché i papi suc-
cessori di Leone X, continuando l'opera di lui, si
tennero sempre allo stesso disegno. Tanto era sti-
mato e avuto in pregio ! Valga per esempio Giu-
lio HI, che nel 1554 andato a Civitavecchia, non
già per la rocca nò per cominciare l'opera delle for-
tificazioni, ma per accrescerle, e per render la città
medesima piiì munita, come si dice nella medaglia
(24) Antonio Picconi da Sangallo, MSS. alla Galleria, sopra
il terzo dei quattro schizzi di Civitavecchia. E nel facsimile
presso di me.
Vasari, per la società delle arti bello, cit. T. X, p. 63
lin. 8.
135
e in una sua iscrizione (25), non menò seco né ar-
chitetti né capitani a congresso. Ne aveva abbastanza
co'cartoni del Sangallo, e colle deliberazioni di quei
sommi del tempo di Leone. Ciò r>on pertanto divei-si
scrittori insieme col Bonanni e col Venuti (26) di-
cono, che Giulio terzo condusse seco in Civitavecchia
Antonio da Sangallo: senza pensare che ai ventinove
di settembre del 1546, cioè otto anni prima, Anto-
nio era morto a Terni, nel terminare certo litigio
d'acque tia quei cittadini e i narnesi (27). Segno
certo che il nome di lui tornava sempre in campo,
e i suoi cartoni a Civitavecchia, quando i papi ri-
pigliavano il divisamento delle fortificazioni. E deve
notarsi bene come ninno dei successori di Leone
ha mai detto di essere stato il primo a costruire i
nuovi bastioni : ma in quella vece sempre ripeto-
no aver continuata e accresciuta l'opera medesima.
k più certezza di questo fatto , e per tramandare
(23) Lapida in Civitavecchia riportata dal Torraca nel-
l'opera intitolata: Le Terme taurine e le memorie cronologi-
che di Civitavecchia p. 50. a Julius. III. Moni. Pont. Centuni-
cellas. Adit. Ut. Illam. Redderet. Munitiorem. Eiusque. Por-
tum. Ut. Tutius. Esset. Nationibus. Refugium. Confecit.Atque.
Munivit. Ann. MDLIV »La leggenda sulla medaglia « Portus
Cemtumcell. Instauravit. Urbemque. Vallo. Auxit. » Si noti quel
Munitiorem Urbemque.
(26) Bonanni, Numismatica Roni. Ponlificum, in fol. Ro-
ma 1699 T. L p. 25L
Venuti, Numisra. Pont, in 4, Roma 1744. p. 93.
(27) Vasari, cit. T. X. p. 21.
Serie di ritratti degli uomini illustri in pittura, scultura,
e architettura in 4 Firenze 1771 p. 138 e 142. Bibl. Casa-
nat. P. VL 4.
13(5
alla posterità le forme del primitivo disegno papa
Giulio lo fece scolpire in bronzo con tanta verità e
così belle proporzioni che gli altri papi, come conti-
nuarono l'opera al modo istesso, così ne rinnovarono
la memoria con la medesima medaglia e coll'istessa
leggenda : tanto che nell' istesso secolo fu quattro
volte ribattuta, variata solo nell'effigie e nei nomi
de' vari pontefici, che furono prima Giulio 111, po-
scia Pio IV, il quale la fece due volte coniare con
la differenza della sua effigie più grande e piìi pic-
cola, e finalmente Gregorio XIII (28). Le ho dette
nel rovescio simigliantissime da doversi tenere per
eguali, non potendovisi conoscere altra diversità in
fuoi'i dalla fresche/za o stracchezza del conio. Le
accidentali varietà dimostrano pel tempo succes-
sivo il contìnuo avanzamento del lavoro : la essen-
zial forma e proporzione della pianta geometrica nelle
quattro medaglie in tanto si mantiene sempre la stes-
sa, in quanto che tutte fan ritratto dal medesimo
originale disegno dell'architetto, e tutte accennano
l'esecuzione invariabile dell'opera suH' istesso terreno.
IX. Con che a me sembra di aver ritrovato nelle
predette medaglie scolpita con pochi tratti e magi-
(28) BoNANNi, cit. T. 1, 251, 290, 354, 381.
Venuti, cit. 93 , 121 , (bis.) 145. Tutte coli' iscrizione
« Portus. Centumcellarnm. Instaurmit. Urbemqiie. Vallo. Au-
xit ».
Qui non parlo della medaglia di Sisto V per gli acque-
dotti di Civitavecchia , ne di Clemente Vili per il risarci-
mento del porlo, né di Urbano Vili, Innocenzo X, Alessan-
dro VII, e più altri pontefici fino a Clemente XIII, che per
diverse ragioni e lavori all'arsenale, al borgo, ai moli, alla
darsena, han coniato medaglie ove è la stessa pianta.
137
strali tutta la pianta del de Marchi, e tutto il car-
tone del Sangallo per foititicar Civitavecchia di muta
bastionate. E ciò, secondo il disegno fatto ed appro-
valo nel 1515 al tempo di Leone X: prima che il Sam-
micheli, meno provetto nell'arte e forse anche nel-
l'età, desse mano l'anno 1527 (cioè dodici anni dopo)
non a una cinta compiuta di fortificazione con sette
bastioni reali, ma ad un sol bastione isolato e che
pili non esiste tra le vecchie mui'a di Verona; la cui
rinomanza, anziché all' invenzione di Michele che lo
disegnò, è dovuta alla celebrità del marchese Maffei
che lo fece in ogni luogo conoscere e ne scrisse cose
mirabili , che furono poscia da quasi tutti sino ai
nostri gioini senza altri argomenti ripetute , tanto
che generalmente si è pensato che quello dovesse es-
sere il più antico. Ma indarno l'ei'udito veronese cita
a suo proposito il Vasari: il quale come amico di
Michele , per quanto sia largo di lodi verso di lui,
e senza scendere ai particolari lo chiami inventare
dei bastioni a cantoni, non tace però che nella vi-
sita delle rocche di Romagna, nelle fortificazioni di
Parma e Piacenza, e in altre commissioni sitfatte,
prima del 1527 Michele era andato per secondo ap-
presso ad Antonio. Quindi il Maffei, pensando che niun
altro se non qualcuno da Sangallo avrebbe potuto
mettere in dubbio l'assoluto primato del Sammicheli,
facevasi innanzi levando voce che (29) « Né di Giuliano
(29) Marchese Scipione Maffei, Verona illustrata in fol.
1732. Parte III, p. 121.
Vasari, cit. T. XI p. 111. Vita del Sammicheli.
E T. X p. 10. Vita di Antonio da Sangallo.
138
)) nò (li Antonio da Sangalio non si vede bastione
» nella nuova forma ». E conchiudeva dicendo: « Ab-
» biasi adunque per indubitato, che il bastion di Ve-
» rona fu il primo raggio della nuova arte : e in
» esso veramente vedesi appunto Parte ancor barn-
» bina )). Ma non è piiì bambina la storia ; e ve-
ramente appunto i documenti a grado a grado venuti
alla luce ci mostrano 1' arte già ben adulta prima
del 1527.
Valga per esempio la recente pubblicazione delle
opere di Francesco di Giorgio Martini, scrittore del
secolo decimoquinto, donde possiamo raccogliere che
se Francesco non fu il primo a fabbricar baluardi
alla moderna, fu però primo a immaginarli e dise-
gnarli circa l'anno 1500. Valgano gli studi fatti e da
fare intorno alla rocca d'Ostia, perchè si veda come
Giuliano da Sangalio nel 1483 vi murava un tal ba-
luardo al quale nulla mancherebbe per dirlo perfetto,
secondo le regole della moderna architetlura,se non vi
fosse una faccia di più. Valgano i lavori dello stesso
Giuliano alla cittadella di Pisa, tuttoché imperfetti nel
disegno e guasti nell'esecuzione. Valgano le fortifica-
zioni improvvisamente fatte di fascina e di piota dal
mio fra Giocondo a Treviso e forse anche a Padova
nel 1509. Appresso valgano per esempio le fortifica-
zioni bastionate di Carpi, Nizza, Bari, Urbino, Firenze,
Piacenza, condotte dal 1518 al 1526. E, tra quelle
prime pruove e quest'ultimo perfezionamento, valga
nel 1515 il disegno di Antonio da Sangalio per Ci-
vitavecchia, come passaggio certo e compiuto mo-
dello d'arte e di senno maturo. Con questo si veri-
fica il presentimento del già lodalo professor Promis
131)
di Torino, del marchese Marini di Roma e del de-
gnissimo nipole di lui cavalier Camillo Ravioli : il
quale scrivendo un discorso della vita e delle opere
dell' illustre suo zio, propose 1' islessa congettura,
e dette a me gradila occasione di manifestargli le
mie deduzioni , e di avere il suo parere conforme
al mio.
X. Per questo non mi fa dubbio cbe, prima del
Sammicheli e di molti altri , Antonio da Sangallo
abbia disegnate sul terreno le fortificazioni bastio-
nate; e che queste siano state condotte a termine
in Civitavecchia: se non interamente per mano sua,
sempre però sopra i suoi cartoni fatti e approvati
nel 1515. E ciò tanto più fermamente credo doversi
tenere, quanto che colà sulle mura di Civitavecchia
ognuno può vedere lo stile di Antonio , il perfetto
assettamento di tutta V opera al terreno, le cortine
brevi, i saglienti acuti, gli angoli del pentagono quasi
retti, la faccia tripla del fianco, la cortina quadrupla,
i fianchi doppi: e può quivi ciascuno toccar con mani
quattro fatti che non potrebbero rispondersi a caso;
cioè il poligono della città , le medaglie dei papi ,
gli schizzi del Sangallo, e la pianta del de Marchi,
tutti concordi tra loro.
XI. Ora mi bisogna descrivere queste opere: e non
potendo recare in una lettera ne i preziosi ma com-
plicati schizzi del Sangallo , né la troppo grande
(ìianla del de Marchi, né le quattro medaglie pon-
tifìcie, mi proverò a dichiarai'le tutte insieme, te-
nendo sott'occhio i primi disegni del Sangallo e il
primo compendio che è scolpito sulla medaglia
140
di (30) «Giulio III pontefice massimo, il quale raccon-
» ciò i due porli di Civitavecchia e accrebbe attorno
» alla città le fortificazioni ». Con questa leggenda
l'esemplare ha nel diritto il busto del pontefice am-
mantato: la falda del piviale trapunta a figure mette
in rilievo una chiesa, alla quale i popoli da ogni lato
concorrono; come se volesse indi mostrare la faci-
lità e la sicurezza dei viaggiatori e naviganti per
venire da qualunque parte del mondo cattolico alle
terre della romana Chiesa fortificate per loro difesa.
Nel rovescio è la città di Civitavecchia : prima il
porto grande, riparato da' due moli, coperto dall'an-
tim-urale, e difeso sulla bocca da due torri d'opera re-
ticolata che si appuntano ancora all'estremità degli
emicicli, ove furono dall'imperator Traiano edificate:
poscia il porto piccolo, cioè la darsena, onde viem-
meglio si prova r esistenza di esso bacino sin dal
tempo antico, e certamente prima del pontificato di
Pio IV, cui taluno voirebbe attribuirla (31). Oltrac-
ciò ti si mostra la pianta delle due rocche: a sini-
stra della riva la quadrangolare murata da Bramante;
a diritta la triangolare del medio evo, posta sopra
una rupe a cavaliero tra l'uno e l'altro porto, munita
(30) Venuti cit. p. 93. a. Julius HI Pont. Max- » [Caput
nudum cum pluviali in quo templum populo frequens).
« Portus Centumcell. Instaur. Urbe. Q. vallo, auxit ».
{Adspectus portus et Urbis Centumcellarum).
Gli esemplari che conservo presso di me li ho avuti in dono
dal valoroso incisore di carnei e coUetore di medaglie Anto-
nio Odelli romano.
(31) Ne parlerò distesamente e con inediti documenti nella
mia storia della Marina.
di tre torrioni ai vertici, e da un lato solo congiunte
alla città, secondo la descrizione di Flavio Biondo(32).
Nel mezzo la pianta delia città, come fu dal nono
al decimosesto secolo ; un quadrilatero con certe
torri agli angoli, delle quali alcuna tuttora rimane
quasi a segnarne i confini, che sono sulla fronte del
palazzo apostolico, all'altura della Morte, sulla piazza
di san Giovanni, e al Caracollo (33), ove è la di-
scesa più breve della città al porto. Cose tutte ri-
petute nella medaglia , come sono a capello negli
schizzi del Sangallo, ed eziandio nella pianta del de
Marchi; e notizia di non lieve momento per la to-
pografia antica della città medesima, che indarno si
cercherebbero altiove.
XII. Ma quel che più fa al nostro proposito è
la pianta del poligono di sette Iati attorno alla
città , con tutte quelle ragioni di bastioni e cor-
tine che formano la cinta delle moderne fortifica-
zioni, e queste condotte con gran maestria dal va-
loroso architetto : il quale per la sicurezza delle
linee , per la giustezza delle misure , per l'asset-
tainento al terreno , insieme all' aspetto di fie-
rezza e di forza , ha lasciato opera degna del suo
nome, e che mette ancora nei riguardanti gi-ande
ammirazione. 1 civitavecchiesi ricordano che i ge-
nerali del primo impero, e più d'ogni altro Gioac-
(32) Flavius Blondds, Historiaruni, in fol. Basilea lo31
Dee. 3 Jib. fi. pag. 462, 463.
(33) Frangipani, Storia di Civitavecchia, in 4." Roma 1761
p. 204.
Annovazzi, Storia di Civitavecchia, in 4 Roma 18S3 p. 463.
142
chino Mutai, non era mai clic là gingt)essei*o, se di
presente e a qualunque tempo non visitassero a ca-
vallo tutta la cinta delle fortificazioni. Pietro Colletta
ne fa pur motto. Il primo bastione in ordine pro-
gressivo , si spicca verso ponente dalla diritta del
porto sotto la rocca vecchia ; il secondo e il terzo
bastione accoi'tinati cingono da ogni altra parte la
darsena; i quattro seguenti chiudono la città verso
terra, e riconducono la cinta sempre fiancheggiata
all'altra banda del porto sotto la rocca nuova.
Xlll. Primo intendfhiento del Sangallo era chiuder
la darsena. E ciò tanto per assicurarvi la stazione
delle triremi pontificie, quanto per difendere il porto:
affinchè com'era già sicuro dalla sinistra per la rocca
di Bramante, il fosse altresì dalla dritta pe' suoi ba-
stioni. Ondechè nel primo schizzo , disegnata con
pochi e sicuri tratti da una parte la detta rocca ,
innanzi il poito, e dall'altra banda il bacino quasi
rettangolare della daisena, prima di tutto conduce una
cortina sul lato minore della medesima darsena rim-
petto alla bocca, e subito vi appicca all'estremila due
baluardi pentagonali, scrivendovi sopra di suo pugno:
« Bastioni del [ìorlicciolo « e distingue l'uno dal-
l'altro chiamandoli secondo la posizione loro » Ba-
» stion di Mare, e bastion di Terra. « E per quanto
in ogni altra parte de' suoi disegni lo si vegga an-
dar peritoso e tentar l'aite e l'effetto di più linee,
là sempre altrettanto è fermo , come sul punto
preso per base di fortificazione, intorno a che non
ammette più né consiglio nò pentimcn/o. Il perchè
e' vi disegna due bastioni simili ; acuti i saglienli
dell'uno e dell'altro, retti gli angoli della faccia e
U3
del fianco, l'opera a scarpa, le facce lunghe trenta
canne (34), i fianchi dieci, la cortina (a suo stile sem-
pie breve) quaranta, i fuochi incrociati e la difesa
radente su tutta la fronte. Muniti in questo modo
i due vertici del quasi rettangolar bacino della dar-
sena, si volge agli altri due : l'uno interno nella
città sotto la rocca vecchia non ha bisogno di di-
fesa, e l'abbandona ; l'altro esterno verso il mare,
e lo fortifica. Chiude con una cortina di cinquanta
canne il lato occidentale della darsena, alza il fianco
dritto quasi a squadia, e appunta l'ottuso sagliente
d'un altro bastione in mezzo al molo del Lazzaretto.
Senonchè la giacitura del terreno quivi lo stringe
e lo mena a diversi partiti. Oia lo si vede disegnare
il fianco sinistro d'una maniera, ora d'un altra : e
finalmente , non polendo assicurarvi la difesa ra-
dente , abbandonare il detto fianco , distendere la
faccia cori'ispondente in linea retta per sessanta canne
(più come alone che coaie faccia) siano alla bocca
della darsena, e difendeila colle feritoie della l'occa
(34) Vasari cit. Vita di Antonio da Sangallo. T. X p. 18.
« Perciocché secondo la misura dei muratori , la canna che
corre a Roma è dieci palmi ».
La misura usata negli schizzi del Sangallo e nelle note
e numeri di sua mano è la canna romana architettonica di-
visa in dieci palmi. Anche il capitan de Marchi usa sovente
la stessa misura. Il rapporto della canna al metro è come uno,
a 2, 2342. Quindi una canna è più che due metri. Ove non
sono segnate le misure per mano del Sangallo, le ho prese io
stesso deduceudole facilmente per approssimazione proporzio-
nale dagli schizzi medesimi e dalla copia del de Marchi e
da ciò che esiste sul terreno.
144
vecchia, posta dall'altro lato della bocca medesima.
Ecco nel 1515 i! modello del mezzo bastione.
XIV. 11 Sangallo, per quanto si può ricavare dalle
quarantadue righe di scrittura posta sopra i suoi
schizzi , chiamava il primo bastion della Casaccia ,
il secondo bastion di Mare, il terzo bastion di Ter-
ra, il quarto bastion del Monte , il quinto bastion
della Porta, il sesto bastion dell'Alto, il settimo final-
mente Baluardo: e questa parola deve notarsi bene,
perchè una sola volta, e a proposito dell'ultimo pro-
pugnacolo, è scritta. Appresso io penso che sarà forse
bastato chiamarli ciascuno dal primo al settimo col
numero d'ordine. Poscia, a segno di magiìior culto
verso alcuni santi venerati da quei cittadini , il
primo ebbe nome san Teofanio , il secondo santa
Barbara, il terzo santa Rosa, il quarto santa Ferma,
il quinto sant'Antonio , il sesto san Francesco , il
settimo san Bastiano (35) ; oggidì , o per qualche
(35) Jean Baptiste Labat, Voyage en Espagne et en Italie,
in 8 Parigi 1730 T. IV p. 21S. « k Bastion de S. Sebastien.
B Bastion de S. Francois, ou de la Sonnette. C Bastion de
S. Antoine, ou des Barbar ins. D Bastion de S'^ Ferme, ou
des Borghese. E Bastion de S'^ Barbe. F Bastion de S''^ Rose.
G. Bastion de S Theophane, ou te Casson ».
CiNTio Fiori, Pianta di Civitavecchia, preso il Bonanni,
Nuraismata cit. T. II p. 564. « Q Munimentum dictum del
Casone. R Munimentum dictum del Turco. S Munimentum
Sanctae Barbarae. X Munimentum dictum Campanella ».
Annovazzi, Storia di Civitavecchia, in 4.° Roma 1853 p.
281 " // bastione sull'altura della Vista: » e pag. 280 « La
Campanella ».
Frangipani, cit. p. 245: « 1 bastioni del Casone, del
Turco, e della Campanella ■>■•.
145
tabbi'ica aggiuntavi, o pei' gli usi che se ne pren-
dono , 0 per alcun restauro sono chiamati volgar-
mente il Casone, la Polveriera, il Turco, il Bor-
ghese, il Barbarino, la Campanella, e la Vista. Ma
perchè i nomi dei santi si trovano scritti nelle sto-
rie, nei documenti e nelle piante, ed ora non sono
usati, ne segue che quei nomi debbano essere più
antichi di questi : e che gli stessi bastioni esiste-
vano prima di pigliare i nomi moderni (36). Di che
abbiamo evidente riprova nei due bastioni chiamati
Borghese e Barberino, ove è ancora l'arma di Pio IV,
dal quale certamente furono o ristaurati o compiti
un secolo prima che le dette due famiglie venissero
in Boma ai sommi onori.
XV. Bifacendoci agli schizzi di Antonio, vi ritro-
viamo, che dopo i tre primi bastioni ai vertici esterni
della darsena, si rivolge verso terra al monte. Egli
Si vedano le piante di Bartolomeo Crescenlio , del Le-
blond, del Fidanza, del Fontana, dello Scotto, del de Fer, del
Blaev e qualunque altra pianta di Civitavecchia pei bastioni,
pe'nomi, e per le misure.
(36) La gonfiezza dominante nel seicento e anche prima
ha reso sovente equivoca l'epigrafia, come ben avverte Carlo
Fea, commissario delle antichità in Roma, a proposito di una
lapide di Paolo V. Si veda l'opera intitolata, La fossa Traiana,
in 8 Roma 1824 p. 22.
A proposito di Urbano Vili ecco cosa dice il p. Labat,
Yoyage en Espagne et en Italie, in 8 Parigi 1730 T. IV p. 215:
« Les armes de Urbain Vili sont a Civitavecchia avec celles
de bien autres papes, qui selon la coutume da pays noublient
jamais d'immortaliser leiirs noms par des armes et des inscri-
ptions , quelque mediocres que soient les ouvrages ausquels
ils ont fait travailler ».
G.A.T.CLXIII. 10
U6
chiama e scrive monte dell'Ulivo quel sito che i civita-
vecchiesi dicono oggidì la salila e l'altura della Morte,
per una chiesa ivi presso eretta nel secolo decimot-
tavo in suffragio delle anime dei defunti. Su quel
monte Antonio disegna il quario bastione, e il fti di
tanto maggior grandezza e robustezza quanto il silo
gli viene più eminente ed opportuno. Senonchè ,
misurata la distanza Ira questo e il precedente ba-
luardo, trova la cortina venirgli troppo lunga, fino
a cento ottantaquatlro canne , numero scrittovi di
sua mano così: « Dal Ulivo perfino alla punta del
» bastione di terra si è canne 184 ». Lunghezza
enorme , e da non esser potuta difendere da una
punta all' altra coli' archibugerìa (37). E non vo-
lendo a niun patto mai toglier giù dall' altura il
quarto bastione, né potendo avvicinargli il terzo sen-
za scatenarlo dal fiancheggiamento degli altri, lo si
vede grandemente perplesso e tulio intento alla mas-
sima sua fondamentale di studiare il terreno per ri-
mediarvi. Ora muta di posto il secondo bastione, e
così mena il terzo più presso al quarto; ora triplica
le dimensioni di quel mezzo per avvicinarlo ad am-
bedue gli estremi; ora introduce nuovi partiti. Ma
veduto che indi ne verrebbe guasto e fiacchezza al-
l'opera sua, lascia i bastioni ove sono, nel sito che
loro si conviene per natura, e aguzza 1' ingegno ad
altro ripiego. Con un tratto di penna sega in due
(37) Le canne 184 sono eguali a metri 411. 11 tiro di un
moschetto ordinario non giugne di punto in bianco che alla
distanza di metri 300, o canne 134.
P. Labat cit. T. IV p. 216.
U7
luoghi la lunga cortina, dà al terzo e al quarto ba-
stione due fianchi per ciascuno , e ravvicina sopra
quattro punti i fuochi della difesa radente per tutta
la fronte. Ecco V invenzione dell'ordine i-inforzato, o
dei baluardi a fianchi doppi. Questi esistono ancora
intatti a Civitavecchia: né posso passar sotto silen-
zio che la distanza loro esattamente misuiala da
punta a punta è ricisamenle di metri quattrocento
quìndici corrispondenti alle canne cento oltantaquat-
tro del Sangallo ; salvo una piccola differenza non
in meno, ma in più.
XVI. Sanno gli eruditi che neirarchilettura mi-
litare la duplicazione dei fianchi è bellissimo trovato
di uno da Sangallo. Quasi tutti col marchese Marini
hanno detto del nostro Antonio (38): qualcuno vor-
rebbe dire di Battista suo fratello, soprannominato
il Gobbo da Sangallo. Ecco il fatto. Paolo terzo nel
principio del suo pontificalo, cioè Tanno mille cin-
quecento trentacinque, volendo fortificar Roma, chia-
mò a consiglio i primi ingegneri d' Italia, e fece co-
sti'uire ira la porla Latina e la Ostiense il primo
baluardo d'ordine rinforzato, bellissimo, raro, e ma-
raviglioso, come lo chiama il capitan de Marchi. Ma
peichò a ricingere tutta la città sarebbero andati al-
meno altri diciollo baluardi simili , distolto dalla
grandezza della spesa e del tempo, lasciò V impresa.
(38) Luigi Marini, Saggio sui bastioni cit. p. 55.
Dissertazioni premesse all' opera del capitan de Marchi
T. I p. 33: « Esiste in Roma tra la -porta san Paolo e quella
di san Sebastiano un magnifico bastione costruito dal celebre
Antonio da San Gallo . . . E da questo ha origine finven-
zione dei fianchi duplicati ».
148
così che non pensò più ad altro che a fortificale il
Borgo (39). Ma un baluardo era già edificato, e questo
esiste ancora, porta l'arnni di Paolo terzo, lutti lo
chiamano del Sangallo (40), e il capitan de Marchi
sempre a Paolo terzo , e ad uno da Sangallo l'at-
tribuisce (41). Qui non v'ha dubbio: n^ alcuno po-
trà mai a questo proposito metter fuori il tenxpo di
Paolo quarto, nò il nome di un ingegnerò oscuro, o
che non sia da Sangallo (42).
La difficoltà è quale dei due fratelli, Antonio o
Battista, sia l'architetto del baluardo e l'inventore
dell'ordine rinforzato, posto che nella edizione del
de Marchi fatta co' tipi di Brescia si legge che (43)
K La duplicatione alli fianchi delli bellovardi fu in-
ventione di maestro Gio. da S. Gallo, huomo famo-
sissimo in tempo di papa Paulo terzo, quando egli
diede principio di fortificar Roma, dove almeno an-
(39) De Marchi, Lib. I cap. 5: « Paolo Terzo diede prin-
cipio di fortificar Roma che fece doi bellovardi /' uno alla
porta di S. Paolo in una collina e l'altro tra detta porta e
San Sebastiano: ma perchè v' andana gran tempo e spesa per
fortificar Roma, pensò di fortificare il Borgo ».
(40) Antonio Nibby e William Gell. Le mura di Roma
in 8.
(41) De Marchi Lib, I cap. 5.
Lib. I cap. 39.
Lib. Ili cap. 8.
Lib. Ili cap. 34.
Lib. Ili cap. 44.
(42) Promis cit. Memoria prima p. 76.
(43) De Marchi, Architettura militare in fol. Brescia 1599
Libro 3 cap. 34 p. 78,
E Lib. 1 cap. 39, « Questo bellovardo ha fianchi doppi
e questo è un modo nuovo ».
I
149
dava diciollo bellovardi a fortificarla; e così ne fa
fatto uno )). Or cosa egli è qua cotesto Gio. ? È
un errore del copista , del Marchi, o d'altri ? Non
ardisco sentenziare su ciò: ma né anche posso ta-
cere che siffatta abbreviatura mi è sospetta , che
l'edizione è postuma, che in diversi codici sono di-
verse lezioni e diverse mende, che in quella stessa
pagina è scritto capitan Monte Lino invece di capitan
Montemellino. E pognamo pur che il Gio. abbia a
significare Battista, non posso tacere che costui non
era altro se non il fattore di Antonio (44): che tra
i primi maestri della moderna fortificazione il capitan
de Marchi non nomina Battista, ma Antonio (45) :
che il famosissimo in tempo di Paolo terzo non
era Battista, ma Antonio : che le commissioni per
fortificare Firenze , Parma , Piacenza , Gastro , Pe-
rugia , Ascoli , Ancona non ebbe Battista , ma
Antonio : che in una di quelle diete degli archi-
tetti per fortificar Roma il Vasari non mette Bat-
tista , ma Antonio (46) : che le sdegnose parole
quivi scambiate con Michelangelo Buonarroti non si
convenivano alla mansuetudine di Battista, ma alla
fierezza di Antonio : che i disegni di tutta l'opera
(44) Vasari cit. T. X p. 21. « Rimase, dopo la morte
di Antonio, Battista Gobbo suo fratello, persona ingegnosa,
che spese tutto il tempo nelle fabbriche di Antonio ».
(4o) De Marchi, Lib. I. cap. 16 nomina sette ingegneri
che hanno trovato il modo di fiancheggiare le fortezze: Pier-
francesco da Viterbo, Antonio da Sangalio ecc.
(46) Vasari citato. Vita di Michelangelo. T. XIl p. 225.
« Aveva Paolo III dato principio a fortificar Borgo, e coti-
dotto molti signori con Antonio da Sangalio a questa dieta,
dove volle che intervenissi ancora Michelangelo ».
150
del detto bastiono « Pei* la porta santo Bastiano ,
monte Teslaccio, monte Aventino, baluardo Anlo-
niano, baluardo in sulla muraglia che va a san Pa-
golo, e presso porta Latina » son tutti di mano di
Antonio(47): che Hnalmente a Civitavecchia con Leon
decimo andò Antonio (48): e che colà, ove ninno ha
posto mente, 1' istesso Antonio (per adattarsi alla
qualità del sito) fu per la prima volta condotto, anzi
dirò meglio sforzato, a mettere quei fianchi doppi
che luttoia vi sono sul vero, come pare sulle copie,
sulle medaglie , e sul cartone del de Marchi. Per
(piesto fatto di C4Ì vita vecchia a me pare potersi ri-
solvere il dubbio : e conchiudere che la cifra del
fi-" debba leggersi /'{(■" V invenzione darsi ad An-
tonio; ed il bastione rinforzato di Roma essere copia
di que' due che lo slesso Antonio avea venti anni
prima disegnati a Civitavecchia. Ciò non toglie che
Battista possa essere intervenuto alcune volte al con-
gresso, come rappresentante del fratello assente.
XVII. La celebrità di quesl' uomo, e la sua de-
strezza nello studiare al modo delle fortificazioni se-
condo il sito, ed i trovati suoi, mi richiamano alla
mente come il cavalier Ravioli sovente citava un
passo oscuro, ma importantissimo, di Francesco Ma-
ria della Rovere duca d' Urbino; il quale, circa l'an-
(47) Antonio Picconi da Sangallo, Disegni originali e
schizzi in |)iù volumi MSS. alla Galleria di Firenze. Voi. IV
VII - Vili.
Giovanni Gaye, Carteggio di artisti, in 8 Firenze 1839.
T. Ili p. sn.
Commentario alla vita di Antonio da Sangallo nella edi-
zione del Vasari cit. T. X. p. 36 37.
(48) Le note di sopra 1. 14. 15. 16. 17. 21.24.26. 54. ecc.
151
no 1538, scriveva così: (49) « Et chi intende bene
questa cosa delli siti , di dentro et di fuori , cioè
delli alti et delli bassi, et delle girate intorno, e delli
cavalieri, è sforzato a un modo, volendo far bene
la fortezza sua . . . Questa cosa dei siti è intesa da
pochi capitani, da nessuno ingegnerò; salvo che da
due bora vivi, et uno già morto che era Pier Fran-
cesco da Urbino ». Le quali parole del celebre ca-
pitano dimostrano a priori come l'abile ingegnerò,
tenendo conto del sito, per voler far bene le cose
sue, è condotto dalla necessità a nuove scoperte e
a nuovi modi: con che non sì potrebbe indicare me-
glio il fatto di Antonio da Sangallo, il quale, per
queste ragioni e in modo nuovo, pose sulla darsena
di Civitavecchia il mezzo bastione, e sul monte del-
l' Ulivo i fianchi doppi. Dimostrano altresì tre soli
ingegneri avere a suo tempo posseduta questa ec-
cellenza nell'arte, l'uno già morto e due vivi. Quanto
al primo, sottentra il cavalier Ravioli e con buone
ragioni corregge il tipografo mettendo in luogo del-
l'oscurissimo Pierfrancesco da Urbino, che niimo sa
chi fosse, il chiarissimo Pierfrancesco da Viterbo,
noto a tutti per l'opere sue, e per quel che ne di-
cono il Guicciardino, il Vasari, e più altri (50). Quanto
ai vivi, io penso che ninno quinci innanzi vorrà tanto
(49) Francesco M. della Rovere, Discorsi militari, in 12.
Ferrara 1583. p. 17.
L'Autore morì nell'ottobre del 1S38.
(50) Promis eli. p. 300. « Pierfrancesco da Viterbo era
invece un rinomato ingegnere ».
De Marchi, cit. lib. I. cap. 16. « Saprete che le sopra-
scritte fortezze hanno le lor mura ben fatte , con le loro eon-
152
contraslare al merito di quei luminari dell'aichilet-
tura militare, che furono Antonio da Sangallo e Mi-
chele Sammicheli, da volere dire che essi a prefe-
renza di ogni altro, e più il primo che il secondo,
non abbiano a essere i due campioni dell'arte, di
che parla il duca di Urbino. Per Antonio da San-
gallo fanno testimonianza di molti scrittori, il Marchi,
e questi fatti di Civitavecchia: pel Sammicheli il Va-
sari , massime quando loda Giangirolamo nipote di
lui ed allievo (51). Antonio sopravvisse al duca olio
anni, Michele ventuno, Pierfrancesco non può dirsi
abbia vissuto oltre il 1534. Così si comprova che
questi era il morto, e gli altri due i vivi nel 1538.
XVIII. Ma passiamo innanzi al quarto bastione
che supera gli altri in grandezza, e torreggiante sul
ciglio del monte rinserralo. Dodici canne il fianco,
trentacinque la faccia, quaranta la cortina, venti le
semigole. Ottuso il sagliente, ottusi gli angoli della
faccia, acuti quelli del fianco. Con questo si perde-
tromine, et himinari, e porte scerete, et molte altre cose cke
s' usano , e che se usavano nel tempo che fortificava il va-
lenfuomo di maestro Francesco da Viterbo, et maestro An-
tonio da S. Gallo, et Girolamo Marino, il Frate di Modena,
et Giovan Mangone, et altri valentissimi nelFarte di fortificare ».
Gate, Carteggio d'artisti cit. T. Il p. 177. Lettera della
Balìa di Firenze a Giovanni Ciati, mandatario in Urbino. Del 4
gen. 1529: « Che ci vogli subito compiacere di mandar qui
el magnifico nostro Pierfrancesco da Urbino, ingegnere excel-
lentissimo, dell'opera del quale desideriamo valerci » Questo
passo conferma l'equivoco degli amanuensi nel tradurre la cifra
Urbo per Urbino, in vece di Viterbo, massime quando le cose
0 lo persone dell'una città si riferivano all'altra.
(51} Vasari , cit. T. XI. p. 127. « Ebbe Giangirolamo
( Sammicheli nipote ed allievo di Michele) gran giudizio di
conoscere la qualità dei siti... delle sue fortificazioni ».
153
rebbe anche In piccola gloria che i francesi danno
ad Errard di Bar-le-Duc, per siffatta specie di acu-
tezza ordinala ad occultare le artiglierie del fianco.
Appresso viene il quinto, tutto di stile sangallesco;
acuto l'angolo fiancheggiato, retti o quasi retti gli
altri quattro; la faccia quasi tripla, la cortina qua-
drupla , posto il fianco per unità. E questi cinque
bastioni al modo che ho detto sono oggidì in piedi
sodi e terrapienati a Civitavecchia ; salvo qualche
piccola differenza nell'esecuzione e nei restauri, o lo
spostamento di alcuna linea o punto; e salva la mu-
tazione fatta nelle piazze basse. Imperciocché la se-
conda batteria che era nei fianchi dei baluardi, co-
me se ne vedono i segni sulle medaglie e sulla pianta
del Crescentio, è stala nel secolo decimosettimo ac-
ciecata. Onde è che il signor de Per geografo del
re di Francia, nella sua grande raccolta dei disegni
delle principali fortezze d' Europa, dà la pianta di
Civitavecchia con le piazze basse nei fianchi: ed è
in questa parte ripreso a torto dal tnarchese Mari-
ni (52). Perchè, se colà non sono al presente le pre-
dette piazze basse, eranvi nel tempo passato: e ne
restano ancora le tracce visibilissime sopra quattro
fianchi rimurati.
XIX. Or quale di siffatte opere abbia avuto
compiniento per mano di Antonio in tempo di Leon
decimo, quale sia stata continuata da esso o da al-
tri sopra gli stessi disegni nel tempo successivo, è
(52) De Fer, Introduclion a la fortification in fol. oblongo.
Parigi 1690-94 Tavola 158.
M. Luigi Marini, Saggio sui bastioni cil. p. 14.
154
(ìifficile accertare, e poco a noi monta. Basta aver di-
mostrato che le predette fortificazioni sono state ese-
guite sopra un disegno fatto ed approvato nel 1515.
Ma non può negarsi che i primi bastioni, secondo il
divisamento e le ragioni dell'architetto, non abbiano
a essere quelli della base attorno alla darsena. A
prima vista mostiano la loro maggiore antichità ,
massime quello di san Teofanio. E deve oltracciò
ritenersi, che lutto il perimetro sia stalo tracciato
sin dal principio sul terreno, e da un capo all'altro
condotto con opera piiì o meno perfetta, prima di
terra e poi di muro. (ìome si fa manifesto dal ter-
mine tecnico bastiono, che Antonio sempre adopera
negli schizzi di Civitavecchia, meno una sola volta
in (ine, che scrive baluardo: e come si può inferire
da ciò che egli stesso ed altri con lui non guari
dopo fecero a Piacenza (53). Col perimetro bastio-
nato la città ebbe il primo ingrandimento; essen-
dosi accresciuti i raggi maggiori del nuovo poligono
attorno alle vecchie mura qual sessanta qual ot-
tanta canne; e Antonio, che avealo disegnato, tornava
colà, faceva fondere le artiglierie, e muniva di nuove
armi le nuove fortificazioni. Basterà notare come
sino a veni' anni dopo, tra i ricordi scritti di sua
mano si legge (54): « Colubrina di mastro Andrea.
Questa colubrina ò fatto la prova a Civitavecchia
addì 10 d'ottobre 1538 ».
I
(53) Promis cit. p. 300.
Vasari eli. T. X p. tO.
(54) Antonio da Sangallo, MSS. alla galleria di Firenze,
citati nel commentario della sua vita. T. X p. 83.
155
XX. Quindi per la prima (netà del secolo de
cimosesto non è a trovare nella storia fatto alcune
di guerra o di pace o di altra rilevante novità in-»
torno a Roma , ove non entri eziandio Civitavec-
chia, e sempre come luogo fortificato. Nel 1522 alli
ventisette d' agosto, venendo di Spagna, sbarcò in
quel porto colle galere pontificie il successore di Leo-
ne papa Adriano VI (55), e seco lui don Biagio Or-
tiz cappellano, che ne scrisse 1' itinerario. Questi
narra le feste dei civitavecchiesi, il ricevimento del
pontefice , il concorso dei cardinali e della nobiltà
romana: e poscia bonamente, più da canonico che
da ingegnerò, parla delle fortificazioni. E avvegnaché
non spieghi chiaro quanto sarebbe mestieri, ciò non
pertanto dice: (56) « Abbiam veduto la città e il ca-
stello, l'artiglierie, e il fosso; che quando sarà com-
piuto si pensa che debba riuscire inespugnabile ».
Nel 1527allisei di maggio l'esercito imperiale, capita-
nato prima dal duca di Bui bone, e poi dal principe
d'Orange, prese e saccheggiò Roma:nui non ebbe Civi-
tavecchia, né per forza nò per patti; dicendo il Guic-
ciardino che (57): « 1 fanti spagnuoli e tedeschi en-
(53) Blasius de Cesena, magister caereinoniarum, In diario
Hadriani papae VI, ad dieni 27 augusti 1522. MSS. alla Bar-
beriniana, 1102.
(56) Blasius Ortizids, Itinerarium Hadriani papae VI in-
ter Misceli: Balutii, in 8, Parigi 1680. T. III p. 399. « Vidi-
mu s urbem et castnim nondum consummahim , munitumque
instrumentis ferreis , nec non aquosa fovea ferme cinctum ;
qnod quidem post quam fuerit consiimmatum inexpugnabile
fore creditur ».
(57) GuicciARDiNt, Libro XIII in 4 senza indizio di luo-
go 1645, T. li. p. 452.
Muratori, Annali d'Italia 1527.
156
tiarono in castello Santangelo, ma non furono colla
medesima facilità consegnate le altre fortezze et terre,
perchè quella di Civitavecchia ricusò consegnare An-
drea Doria, benché n'havessc comandamento dal pon-
tefice ». Dunque la fortezza e la terra erano l'una
e r altra tali che potevasene ricusare la consegna
anche a siffatto arrabbiato e vittorioso esercito. Nel
vero Andrea Doria (poscia famoso ammiraglio di
Carlo V, e allora capitano della marineria pontificia
e governator delle armi in Civitavecchia) tenne a si-
curtà, finché volle, la terra e la rocca: che se egli
cedevale, certamente papa Clemente sarebbe stato
al paro del re Francesco condotto prigioniero in
Spagna (58). Nell'anno 1544, avendo le galere pon-
tificie nell'Arcipelago bruciata la casa e devastati i
giardini che il famoso Ariadeno Burbarossa s'aveva
con molto dispendio fatti nel luogo stesso della sua
nascila (59), costui venne con tutta l'armata otto-
mana per pigliarne vendetta sopra Civitavecchia: ma
se ne andò via senza tentarla , ritenuto non tanto
dal rispetto verso il papa e verso i francesi suoi
(58) Lorenzo Cappelloni, Vita di Andrea Doria, in 4 Ve-
nezia presso il Giolito p. 29.
Agostino Olivieri, Monete , medaglie e sigilli di casa
Doria, in 8 Genova 1859 p. 42. Pubblica un sigillo d'Andrea
« Attaccato ad ima lettera che quel principe (non ancora
principe) scriveva ai protettori di S. Giorgio V agosto 1S27
da Civitavecchia ».
(59) Giacomo Bosio, Storia del militar ordine gerosolimi-
tano, in fol. Roma 1602 T. Ili pag. 228. A. 232 D.
Paolo Giovio, Storie tradotte dal Domenichi , in 4 Ve-
nezia 1608, T. II p. 771.774.
i
157
alleati, quanto dalla fortezza del luogo (60). L'an
no 1554 papa Ginlio III si condusse a Civitavecchi
pel medesimo fine delie fortificazioni. Ma né esso
se, né gli storici di lui narrano mai che sia sta»
il primo a fortificarla; che se fosse stato così, ifl
ne avrebbero certamente taciuto. Anzi per queo
fatto alcuni scrittoli tornano al Sangallo come'é
già morto. Le iscrizioni di papa Giulio ripetono le
andò a Civitavecchia per renderla più forte, e laJa
medaglia comprova che accrebbe le fortifìca^ni
attorno alla città. Dunque almeno in parte già este-
vano secondo il disegno del Sangallo: e quantujue
non siano più sopra quelle mura né le armi di Due
né quelle di Giulio, pur nondimeno restano la lepn-
da, le medaglie, e il Vasari (6!). F)ue anni do fu
il principio della guerra combattuta tra spagnli e
Paolo IV nella campagna romana. Il duca dlba,
considerata l' importanza di Civitavecchia, divi im-
padronirsene, non di viva forza (che non si iliva
da tanto) ma per sorpresa: ondeché fece veie da
Milano alla Spezia tre mibà fanti spagnuoli, e dinò
che di là per la via del mare movessero impvvisi
sopra Civitavecchia Ma la tardanza loro e dili-
genza di Flaminio Orsini, governatore delie ffii in
questa piazza, mandarono a vuoto il diseg (62).
(60) Sabellico , Supplemento alle istorie in ■ Basi-
lea 1S60 p. 663.
(61) Vedi sopra le note 2S e 28. La lapida divitavec-
chia, e la medaglia con la leggenda ivi scolpita Centimi-
cellas mimitiorem . . . Urbemque vallo auxit ».
(62) Giambattista Adriani, Storia de' suoi tea in foglio
Firenze 1583 p. 544 F, e 546 F.
158
I4driiini , che narra questo fatto , aggiugne come
ICO dopo il maresciallo « Pietro Strozzi andò pel
p>a a visitar Civitavecchia, e le fortificazioni che
^1 icurlà vi aveva fatte Flaminio Orsini ». L' an-
n(1561,dopo la terrihile disfatta dell'armata cri-
stiia presso all' isola delle Gerbe (laddove il pre-
àe\ p'iaminio Orsini capitano delle galere ponti-
ficirinverdì le glorie della virtiì romana e incontrò
la i)rte del pari gloriosa quanto fu la vittoria del
suoiiccessore a Lepanto) deliberò Pio IV ripigliare
Top» delle fortificazioni attorno alla città Leonina,
alla viaggia romana, ed alle due città di Civitavec-
chia d'Ancona (63), perchè i popoli della capitale
e del circostanti province [totessero vivere in pace,
e sici dalle invasioni dei turchi (64). Per questo
andò Civitavecchia (65), e pose mano a murare
gli ulni due baluardi.
X. Non senza intendimento mi sono riserbato
di pairne in questo luogo, perchè furono disegnati
in dutianiere dal Sangallo, e in due maniere trac-
(63j[cRATORi, Annali d'Italia, 1S61 in medio: «Né ciò ba-
stando . Pio IV ordinò che si riducessero in miglior forma
le forìifizioni dei -porti di Civitavecchia e d'Ancona »
(6i)u Papae V CoNSTiTUTio : « Sane felicis record.
Pius fnjJV praedecessor noster prospiciens quantum pro-
vinciis Jhchiae, Patrimonii, Urbi ac toti denique statui ec-
clesiastf.ctxpediret Anconam et Civitatem Vetulam et illa-
ram poHiet arces munitissimas ab omnium infidelium in-
cursibus ì'iere , quo propiignaculis eiusmodi et antemura-
libus omii'aitimaloca in pace et tranquillitate quiescerent ».
ÀpuJ Veccuis, De bono regimine, in fol. Roma 1732
p. 286.
(6oj T;AC4, Memorie cit. p. 51.
I
159
ciati sul terreno: ultimi murati, e primi demoliti. In
uno schizzo Antonio mette la sola metà del sesto
bastione, e conduce la faccia dritta del medesimo
con una lunga muraglia, fino ad incontrare per filo
il diametro di una delle torri della rocca nuova. Con
questo lisparmia la metà del sesto bastione, e tutto
il settimo: e nondimeno fiancheggia l'ultimo tratto
coi fuochi delia detta rocca. Siffatto ripiego si vede
disegnato da lui, e si vuol ritenere che sia slato ap-
provato da Leone X, ed eseguilo sul terreno, perchè
quesl' istesso si trova nella piìi volte citata pianta
del capitan de Marchi, l/altra maniera è nel quarto
foglio: ove, cancellala la troppo lunga muraglia, si
spicca per intiero il sesto bastione , e al pai-o di
quello il settimo nello stile medesimo dei precedenti:
salvo che l'ultimo bastione rigira ingegnosamente il
fianco per accostarsi alla rocca senza toccarla. Donde
si vede con quanto senno Antonio divisò il suo pe-
rimetro; perchè, cominciato a ponente sul porto, e
cinta per ogni Iato verso terra, la città si terminasse
presso r istesso porto a levante. La base sulla dar-
sena, l'asse tra le due rocche.
Questa seconda maniera piacque a Pio IV , il
quale sotto la direzione di Gabrio Serbelloni (66)
e di Francesco Laparelli (67), famosi ingegneri e sol-
(66) Bosio cit. T. IH p. 4o3 D. « Garbio Serbelloni for-
tificò Civitavecchia ».
(67) Luigi Marini, edizione del de Marchi T. I p. 8: «Do-
vendosi fortificare l' isola di Malta furono colà spediti tre
ingegneri italiani. Pio IV vi spedì Francesco Laparelli cor-
tonese , il quale aveva già fortificato Civitavecchia e il suo
porto ».
160
dati di quella eia, non solo munì le portelle di sortita
e di soccorso (68) e fece alcuni rivestimenti al quinto
baluardo (69), ma murò di pianta i due bastioni di
verso levante (70), che poscia furono condotti a com-
pimento da Pio V; come si fa manifesto dalla se-
guente leggenda che era scolpita, ed io la vidi, in
mezzo alla cortina sulla porta principale della città
verso Roma (71): « Girolamo Melchiorri vescovo di
Macerala e decano dei chierici di camera prima
per ordine di Pio IV aulore, poscia per comanda-
mento di Pio V pontefice massimo fece costruire
questa fortificazione a cura e diligenza di Giammaria
(68) Panvinids, Vita Pii IV. « Pius Centumcellas vetustate
disiectas moenibus, arctibiis, sepivit ac munivit ».
CuccoNius. Vitae Pontif. III. 881.
Sopra due porlelle della seconda e quarta cortina è l'arma
di Pio IV, sei palle in campo d'oro, e l'iscrizione « Pius. IV.
Medices. Mediol. Pont. Max. An. Sai. MDLXlll «.
(69) Sotto al cordone del quinto baluardo, chiamato vol-
garmente il Barberino, l'arma di Pio IV, e l'iscrizione come
sopra.
(70) BoNANNi cit. Numism. Ponti f. I 290 : « Mnnitiones
qiias Pius IV Centumcelhs vel addìdit vel restituii, orientem
solem respiciunt ».
(71) ToRRACA cit. p. 52: a ffieronymus. Melchiorius. Epus.
Macerateti. Cam. Ap. Decanus. lussu. Primum. Pii. IV.Aii-
ctoris. Mox. Et.Pii. V. Pont. M. Munitionem. liane. Cura.
Et. Diligentia. lo. Mariae. Agamontis. A. Bosco. Arcis.
Praefecti. F. C. An. MDLXXI ».
Frangipani cit. 265.
Avvisi di Roma. Cod. urbinate alla Vaticana 1043. Data
del 13 febbraio 1S72. - Parlerò a suo tempo della gran rac-
colta di questi Avvisi che sono le gazzette di Roma mano-
scritte, prima che si usassero le stampate.
161
Agamonte del Bosco, castellano della rocca, 1' an-
no 1571 )).
XXII. Dal che si può inferire che san Pio V con gli
ultimi due bastioni compì la cinta nella seconda ma-
niera del Sangallo. E per ciò il suo nome, a prefe-
renza d'ogni altro, si vede spesseggiare nel mezzo di
quasi tutte le cortine e sotto al cordone dei baluar-
di: dove sono l'armi sue, tre bande di rosso in campo
d'argento, e la leggenda (72): « Pio quinto Ghislieri
alessandrino pontefice massimo 1' anno della salu-
te 1566 » : che è il primo del pontiHcato. Coloro
che composero questa iscrizione secca e artificiosa
schifarono i verbi e i nomi di caso obliquo: né fece,
né compì, né restaurò, né muraglia, né cortina, nò
baluardo, né terrapieno: perchè i lettori a lor grado
pensassero quel più che piaceva. Ma, postavi la data
dell'anno 1566, niuno penserà mai che Pio V sia
stato l'autore di tutte quelle opere: perchè egli non
avrebbe potuto in un anno solo far tanto. Che, se
fatto l'avesse, si leggerebbero in Civitavecchia i par-
ticolari dell'opera, come si leggono sul forte di san
Michele alla marina d'Ostia (73): « Pio V fece co-
struire dai fondamenti questa torre , e comandò
che dovesse essere armata e presidiata, 1568 ». Né
è da farne maraviglia chi ponga mente che non po-
tevano in ciò né il castellano Agamonte né il ve-
scovo Melchiorri, l'uno concittadino e tenuto di gra-
(72) " Pius. V. Ghislerius. Alexandrinus. Pont. Max.
An. Sai. MDLXVl ».
(73) « Pius. V. Pont. Max... Turrim ffanc... a fun
damentis Erìgi. Munirì. Et. Ciistodirì. Mandavit. An,
MDLXVl II «.
G.A.T.LXIII. 11
162
illudine, l'altro ministro e creatura del regnante pon-
tefice, non tener dietro al comun vezzo di maggior-
mente onorare chi ad alcuna opera dà compimen-
to (74). Di qui l'errore di molti ad attribuire tutte
le fortificazioni di Civitavecchia a Pio V. Dove il
vero è che l'istesso papa con la sua costituzione (75),
e l'Agamonte e il Melchiorri con la loro leggenda (76),
ci rimandano ad un altro autore più antico che è
Pio IV (77). Questi per la sua storia e le due me-
daglie ci mena a Giulio III (78). E Giulio riprodu-
cendo, come ho detto, nella sua medaglia il cartone
del Sangallo, ci conduce a Leon X (79) : al quale
non si può non ritornare, e dal quale si deve par-
tire, perchè in vero fu il primo.
XXIII. Or che ho compito dal principio alla fine
il giro del primario recinto, non mi fermerò a de-
scrivere le opere esteriori (80); cinque rivellini, un
tanaglione, il fosso, il camin coperto, gli spalti, i
ponti, e simili opere fatte nel tempo successivo da
Gregorio XIII, che principiò il rivellin doppio innanzi
alla cortina dei fianchi doppi (81), sino ad Urbano Vili
(74) Si veda sopra la noia 36.
(73) Citata sopra, nota 64.
(76) Sopra alla nota 71.
(77) Alle note 63. 67. 68. 69.
(78) Nota 28.
(79) Note 25. 26. 28.
(80) Né gli schizzi del Sangallo, né la pianta del de Mar-
chi, né le quattro medaglie pontificie portano opere esteriori,
men che il fosso. Il primo segno di un rivellino è nella pianta
del Crescenzio, incisa sulla fine del cinquecento.
(81) Sul sagliente del rivellino ritirato è l'arma di Gre-
gorio XIII, il drago alato in campo di rosso, senza nessuna
iscrizione
163
quando fu compita l'opera a corno (82): intorno alla
quale non ho dubitato asserire che debba essersi ado-
perato il padre Vincenzo Maculano dell' abito di san
Domenico, celebre tra gli architetti militari del suo
tempo, e dallo stesso Urbano Vili innalzato alla di-
gnità di cardinale (83). Ma sarebbe troppo grave di-
fetto se lasciassi di dire come gli ultimi due bastioni
sono stati ai nostri giorni spianati, tanto che non
se ne vede piti vestigio. Per ciò mi è bisogno ri-
cordare che la popolazione di Civitavecchia da tre
secoli in qua è venuta sempre crescendo (8i): e sa-
rebbe oggidì per avventura molto maggiore , e la
città più grande e bella, se l'angustia delle muraglie
non l'avesse compressa. L' ingrandimento di Leone X
Venuti, Num. p. 145 produce la medaglia coH'iscrizione
» Portus. Centumcellarum. Istaurami. Urbemque. Vallo. Au-
xit -Gregor'ms XIII. Pont. Max. »
Giampietro Maffei, Annali di Gregorio XIII in 4. Roma
1743 lib. VII p. 376.
Bompiani, Ciacconio, ed altri.
(82) Sulla cortina e bastione dell'opera a corno si vede
l'arma di Urbano Vili, tre api in campo d'azzurro: e ciò non
prova che Urbano incouiinciasse l'opera, ma che al suo tem-
po era compita.
(83) P. Vincenzo Fortunato Marchese, Pittori, scultori,
e architetti^domenicani. Libro III cap. 20.
Sforza Pallavicino, Vita d'Alessandro VII, lib. I. cap.
X p. 83, in 8. Prato 1842.
Ecbard, Touron.
(84) Nella parrocchia di santa Maria, secondo che mi ha
mostrato il padre Tommaso Giordani parroco, sono stati l'an-
no 1859 battezzati centotrenlacinque bambini : morti di ogni
età quarantotto. Onde in una sola parrocchia ed anno la po-
polazione indigena è cresciuta di ottantaselte anime.
164
non guari dopo fu stimalo insufficiente; e nello scor-
cio del seguente secolo Innocenzo XII dovette rimet-
tersi all'opera istessa dell' ingrandire per dar ricovero
alla popolazione , che piiì non capiva nelle vecchie
mura. Si avevano però a vincere molte difficoltà. Prima
trovare il danaro , essendo sempre stato cotesto il
punto difficile dei camerali. Poi la ripugnanza a di-
struggere le mura già esistenti: e ciò tanto per ri-
spetto dell'autore, quanto della cosa: non si volendo
diminuire le difese di città e porto così presso a Ro-
ma, e sempre per quei tempi minacciato dai barba-
reschi. Finalmente bisognava, per le ragioni mede-
sime e per mantenere le franchigie della dogana ,
chiudere con nuove muraglie il nuovo borgo. Era al-
lora fuori di Civitavecchia dalla parte che guarda a
Roma una fortificazione avanzata di quella specie che
chiamano tanaglione, o meglio opera a corno; e que-
sta larga cento canne , ed altrettanto discosta dal
corpo della piazza: fatta per coprire porta romana,
fronteggiare i due bastioni dì levante, e tener lon-
tani gli approcci dalla piazza medesima e dalla for-
tezza. Era formata di due mezzi bastioni e una cor-
tina sulla fronte, e due grand'ali sui fianchi: terra-
pienate bensì, ma di bassa muraglia come tutte le
opere esteriori , e soggette alla batteria del ricinto
primario. L'esistenza di quest'opera sin dal principio
del seicento si prova colle armi ivi scolpite di Urba-
no Vili, e con una medaglia di Alessandro VII (85),
che la mette in rilievo. Or nell'interno spazzo di que-
(83) BoNANNi, Niimism. eli. T. Il p. 6b8.
Vedi sopra nota N. 82.
165
sta fortificazione Innocenzo XII ordinava che si fa-
cesse il borgo. Con questo manteneva in piedi al
modo che erano i due bastioni di levante, guada-
gnava dieci mila canne quadrate di superficie dentro
il recinto dell'opera a corno, e con le muraglie della
fortificazione medesima già esistenti , e senza altra
spesa, aveva bello e fortificato il borgo: non restan-
dogli altro a fare se non prolungare le ali di quella in
retta linea sino alla scarpa dei predetti bastioni: come
fu fatto nell'anno 1692. Ondechè Civitavecchia ebbe
allora dal lato di levante due recinti fortificati: il pri-
mario della città , difeso dai grandi baluardi ; e il
secondario del borgo chiuso dalla muraglia dell'opera
a corno. Tra l'uno e l'altra, fosso, ponte e porta :
e questa militarmente tenuta , e sempre abbarrata
nella notte. Per tutto il passato secolo andava la
sera un viceparroco nel borgo , ed ivi doveva la-
sciarsi chiudere sino alla mattina seguente; senza di
che i borghigiani non avrebbero avuta assistenza nelle
loro spirituali necessità, durante la notte. Nel giorno
non era che un solo passaggio, ed una porta (86).
Difficili tra la città e il borgo le comunicazioni ,
il commercio, il mutar di casa, per sino il dialetto
diverso.
XXIV. Ciò non pertanto quel sito presto fu pieno
di popolo, e tale che non potendone più contenere
i magistrati della città ripeterono più volte l'istanza
perchè si concedesse loro la facoltà di ingrandirlo.
Per avventura l'anno 1835 papa Gregorio XVI, an-
dato colà a diporto, udì le suppliche, vide il bisogno,
. (86) Frangipane cit. 247.- Torraca cit. 64.
166
e decretò il terzo ingrandimento. Se non che per gli
stessi rispetti del danaro, della franchigia, e delle for-
tificazioni si tenne al poco. Gli mostrarono la interna
fascia di terreno tra il borgo e la città inutilmente
occupata da due baluardi, dalla cortina, dai terra-
pieni , e dal fosso; ed egli consentì che si spianasse
perchè la città al borgo si unisse con quell' ordine
di strade e di palazzi che tutti hanno veduto com-
pirsi in dieci anni. Il cavalier Paolo Emilio Provin-
ciali, comandante del corpo del genio, diresse (87),
e dai suoi ufficiali fece eseguire i lavori; abbattere
la cortina, demolire i bastioni, colmare il fosso, ra-
dere i terrapieni , collegare il vecchio col nuovo
recinto, condurre i rondelli dalle antiche mura sino
ai terrapieni dell'opera a corno, e fiancheggiare sue
ali: quella di mare con lo sporto del bastion san Ba-
stiano, e con una falsabraca d'opera nuova murata
a livello tra la porta Romana e la fortezza; quelle
di terra col fuoco di cortina in isbieco per alcune
cannoniere ivi acconciamente praticale. Così 1' an-
no 1835 furono demoliti i due bastioni di levante,
ultimi nella cinta del Sangallo(88). Indi la città crebbe
di spazio e di popolo, non di fortezza: perchè toltine
i due baluardi reali, restò la meschina opera esteriore
come primario recinto sulla fronte di verso levante.
(87) Cav. Camnillo Ravioli, Della vita e delle opere del
marchese Luigi Marini. Estratto dal giornale Arcadico, nuova
serie, T. Vili. p. 94.
(88) Monsignor Vincenzo Annovazzi, Storia di Civitavec-
chia cit. in 4.0 Roma 1883. p. 435.
Cavalier Pietro Manzi, Stato antico ed attuale della città
porta e provincia di Civitavecchia. 8. Prato 1837, p. 24.
167
XXV. Se non che dopo veni' anni alle strettez-
ze della popolazione unitasi quella dei costruttori
della ferrovia per aver sito spazioso da mettervi la
stazione, i magazzini e le attenenze necessarie alla
testa di linea da congiungere Civitavechia ed An-
cona, i due mari, i due porti e la capitale, presto
si venne al quarto e pili di ogni altro amplissimo
ingrandimento, decretalo nel mese d'ottobre del 1857
dal regnante pontefice Pio IX. Le nuove mura del
nuovo borgo sono state tracciate a levante dal quinto
bastione per una curva di piiì che mille metri sino
alla spiaggia del mare; e le nuove fabbriche non po-
tranno non circondare da ogni parte e rendere inutile
l'opera a corno. Delle due ali, quella di mare sol-
tanto potrà forse servire alla nuova cinta bastionata
che gli ufficiali francesi del genio ivi stanziati vi con-
ducono dall' istesso lato di levante ; 1' ala di verso
terra e tutto il resto dell'opera medesima con gli
stessi argomenti con che papa Gregorio atterrò i
due bastioni intercetti tra il primo e il secondo re-
cinto, anzi per più forti ragioni civili militari eco-
nomiche e morali, dovrà o tosto o tardi sbrattarsi di
mezzo. Ma di questo ho detto a bastanza nell'altro
mio scritto, e dirò forse anche a cose finite.
XXVI. Ora, prestantissimo professore, gli è tempo
di conchiudere. E avendo, per quanto a me sembra,
dimostrato come Antonio da Sangallo disegnò per
Civitavecchia nel 1515 (prima del Sammicheli in
Verona) una compiuta cinta bastionata, quando fu-
rono eseguiti i suoi disegni, perchè due baluardi sono
stati demoliti, ed in che modo altri cinque tuttora
ne rimangono intatti, devo far voti e con voi ral-
168
legrarmi, amantissimo come siete della conservazione
dei capolavori e monumenti dell'arte, che la buona
nostra fortuna ce li mantenga : tanto più che le
opere che si vanno colà facendo o che si faranno,
borgo, mura, rada, bacini, ferrovia, stazione, for-
tificazioni, e ogni altra novità, v'ha ogni ragione da
credere che debbano progredire non verso ponente
ove sono i cinque bastioni del Sangallo , ma dal
lato opposto, cioè verso Roma.
Questo mio tenue lavoro per voi scritto abbiatevi
come pegno della rispettosa slima che vi professa
Dalla biblioteca Casanatense in Roma li 28 apri-
le 1860.
11 vostro devotissimo
P. Alberto Guglielmotti
de* predicatori.
169
Ragionamento di Domenico de Crollis a sua eccel-
lenza D Mario duca Massimo.
Savissimo e cortesissimo duca,
I. k^e la somma cortesia vostra verso me nun mi
fosse per moltissimi argomenti nota, io non oserei
volgervi quest'altro mio discorso colle slampe pubbli-
cato. Ma poiché sono di questa vostra cortesia cer-
tissimo, a voi di nuovo mi rivolgo, e vi dico che
io scrivendo desidero mostrarvi la fedele immagine
della mia mente per apparirvi, in qualche picciola
parte almeno, degno dell'amicizia vostra. Perciò ne
incominciai la pittura con le terzine a voi intitola-
te; ed ora intendo compierla con questa mia novella
prosa. Vero è che io avrei potuto fare questo com-
pimento nei nostri privati discorsi, senza scrivere,
ed andar mendicando lettori, che nel nostro tempo
sono rarissimi. Ma non avrei con questo modo po-
tuto soddisfare al dovere che tutti, e molto più gli
scrittori , hanno di cercare e di effettuare il pub-
blico bene; poiché io ho sempre creduto che il di-
rigere pubblicamente uno scritto a chi per nobiltà
dì sangue, per senno e per avere è quanto esser si
può lucente, sia il più efficace mezzo di renderlo
utile. Questo mio credere ha più valore nel secolo,
in cui la politica chiama a sé l'attenzione di tutti;
ed il libro , che tratta di ben altro, o è sconcia-
mente schernito, o è vilmente negletto. Cotal sorte
170
è quasi comune a qualunque altro libro di tal ge-
nere: e solo può esserne esente quello che o per
la luce propria, o per questa unita a quella riflessa,
è così risplendente che prima abbaglia la vista di
ognuno, e poscia da chi ha gli occhi di aquila è
attentamente e con pubblico vantaggio considerato.
Lo scritto, che per sola virtù propria siffattamente
raggia , è gemma preziosa e rara , e non può es-
ser parto del mio povero ingegno. Ho dovuto per-
ciò e debbo cercare i raggi, che dalla vostra ono-
rata nominanza riflessi rendano visibili le mie oscu-
rissime carte.
E se taluno coll'esempio della mia Visione poe-
tica credesse vana questa mia ricerca; io gli direi
che non può del creder suo esser certo ; perche i
miei versi , essendo fuori del moderno uso, o re-
stano immobili negli scaffali, o sono letti da po-
chi, e da pochissimi dopo debita considerazione giu-
dicati; e perchè la vita degli scritti con le stampe
pubblicati è varia tanto , che taluni di essi muo-
iono nati appena ; altri subito e per breve tempo
fanno un ingiusto e vano romore; ed altri, prima
di essere adulti, restano lungamente nella debolis-
sima loro puerizia. E per mostrare in altri modi i
destini dei libri, soggiungo che taluni vanno di ga-
loppo alla virilità perfetta; altri sono dai sopravve-
nienti oscurati o spenti; ed altri vanno nello stalo
di crisalide, lungamente vi restano, e poi riappari-
scono in forma di angelica farfalla.
11. Dopo avervi mostrato la cagione di que-
sta mia novella prosa , debbo dirvi il perchè npn
vado con essa continuando il mio discorso rivolto
171
ai miei scolari, nel quale pur poteva la mia mente
essere effigiata. Vi dico adunque io averne lasciata
la continuazione per due ragioni, oltre a quella che
io rese monco ; delle quali 1' una è per sé stessa
evidente, l'altra richiede un mio breve ragionamento.
Rispetto alla prima, essendo in me scemala la fa-
coltà di udire, ed essendo l'udito nella sua squisi-
tezza divenuto utile molto nelle moderne cliniche
scuole , non ho voluto che i miei scolari fossero
privi di questo mezzo, che, unito agli altri dei quali
si sogliono servire i buoni medici, fa piiì facilmente
conoscere le diverse qualità dei mali; e perciò chiesi
il sostituto alla mia scuola , e vi proposi l'ottimo
professor Valeri. 11 Santo Padre per la sua somma
clemenza si degnò di soddisfare la mia richiesta, e
stabilì il Valeri a sostituto mio non solo, ma della
clinica medica scuola. Ond'è che questi come otti-
mamente fa le mie veci nell'ammaestrare gli scolari
parlando, così lo farà scrivendo.
Quanto è alla cagione che richiede un mio breve
ragionamento, dico che la lunga storia della molto
male avventurata medicina ci fa sapere aver ella
variato sempre, non solo nella sua teorica, ma nella
pratica cura degl'infermijnon solo di secolo in secolo,
ma di anno in anno, e forse anche di mese in mese;
e dico ancora che fino a tanto che per nuova provvi-
denza divina non si avrà la scienza e l'arte di sa-
nare gl'infermi lutti, e da qualunque infermità stra-
ziati, la medicina non starà mai ferma. Se in un
paese con un modo di curare, comechè ragionato,
muoiono due o tre infermi che erano in allo stato;
e se con un altro stranissimo altri due o tre della
172
medesima condizione guariscono; questo modo è a
quello generalmente sostituito. Queli'Ippocrate, che da
tanti secoli ha la fama tra tante nazioni vivamente
accesa, quante volte è stato per lungo tempo negletto,
e da quanti medici sconciamente vituperato ? E non
volendo parlare degli antichi, voi, caro duca, che
siete nella età virile , avrete più volte veduto cu-
rare la infermità dei vostri pari, non pur con isva-
riati, ma con oppositi rimedi.
Questo continuo mutamento della medicina fa
sì che alcuni medici, e più che gli altri i giovani,
non potendo, studiando nei libri comuni e seguendo
i loro antecessori, acquistar fama con quella pron-
tezza da loro richiesta , si giovano dell'esempio di
molti fortunati novatori, scrivono una nuova dot-
trina, e ne fanno un fruttifero remore; ed altri di
più scarso ingegno o di minore ardimento, i quali
pur vogliono diventar sollecitamente famosi, danno
scrivendo una nuova e spesso sconcia forma alle
cose già da gran tempo note. E così di cento me-
dici, cinquanta circa esercitano l'arte loro co' soli
materiali sensi, qua e là correndo, e salendo ango-
sciose scale; altri circa cinquanta sono intesi a scri-
vere ed a far mercato dei loro scritti, come ven-
dendoli, così donandoli; e due o tre de' più intel-
ligenti spendono una parte del loro tempo a leg-
gere. Questa è la seconda cagione per cui , non
essendo più mio dovere, non ho continuato il di-
scorso medico ai miei scolari, lo ho fra me detto:
Se dei pochi e brevi miei scritti in medicina, dove
mi sono ingegnato d' intromettere qualche piccolo
saggio di alcune altre scienze, ho avuto uno scar-
173
sissimo numero di lettori; scjivendo di quella fasti-
diosa pratica che può trarre raltenzione de' soli me-
dici, sono certo che il mio scritto o sarà lento ed
insensibile pasto dei tarli, o sarà smozzicatamente
letto da chi non legge i libri per ben giudicarli ,
ma per cicalarne secondo il suo torto o forse ma-
ligno affetto. Né varrebbe il dirmi , che io potrei
scrivere per quei due o tre medici piiì intelligenti;
poiché costoro non hanno bisogno delle mie cian-
ce: né volendo io ripetere ciò che da altri é stato
più volte detto, pochi altri miei concetti avrei po-
tuto unire a quelli che ho con alcune mie laconi-
che carte pubblicato.
Terminato dunque per siffatte ragioni il mio di-
scorso in medicina , e volendo continuare a scri-
vere , debbo trattare di qualche altra materia, nò
però perder mai di vista il bene pubblico, che, come
sopra ho detto, vuol essere nell'animo di chiunque
vive nel mondo, e segnatamente di colui che con
le stampe manifesta i suoi pensieri. Io parlerò del
matrimonio. Forse vi farà ridere, mio caro duca,
questo mio novello tema, non per la essenza sua,
che la gente savia mette fra le più sagrate cose ,
ma perché suole esser trattalo dai gran maestri in
cattolica morale. Se ne riderete , il vostro ridere
sarà breve, perchè tosto vedrete che io lascio stare
ciò che direttamente ai sacerdoti si appartiene , e
parlo del matrimonio come di quello stato, da cui
dipendono la vita fisica, le affezioni, e gli atti degli
uomini col viver comune in società raccolti.
III. Ognuno sa che amore è quasi sempre la
principal cagione del matrimonio. Kd io credo che
174
quella parola pe' vari suoi significati produca molti
individuali e civili turbamenti. Voi ben sapete che
per quanto una lingua sia ricca, non può aver tante
parole, quante sono le cose, quante le loro qualità,
e quante le diverse loro azioni. Di questo ^difetto
si sono lagnati i letterati di tutti i tempi e di tutte
le nazioni; perchè oltre lo stento di che avevano biso-
gno per significare i loro concetti, vedevano come la
miseria della lingua era cagione di falsi ragionamenti
e d' interpretazioni false. Ha nella lingua alcune voci
che esprimono cose, qualità, ed azioni diverse. Fra
queste voci sono quelle dei così detti enti morali, ed
uno di tali enti è amore certamente. Questa parola nel
suo largo senso indica il desiderio di tutte le cose,
che 0 subito o dopo alcun tempo possono giovare.
E benché parlando del matritnonio si possa restrin-
gere questo largo significato nella naturai voglia
che l'un sesso ha di fisicamente e moralmente con-
giungersi con l'altro; pure, avuto riguardo alle in-
numerevoli cagioni di sì fatta voglia, il senso della
parola amore, anche in tal caso, è ampio piiì che
altri forse non crede. A mostrare la varietà delle
sue cagioni, ed a poterne causare alcuni tristi ef-
fetti, io mettendo da un de' lati quello che ciascuno
può trarre dalla propria esperienza, voglio valermi
della mitologia, la quale fra molte stranissime e mal
ordinate narrazioni, mostra sotto il velo di alcune
favole gli antichi costumi delle più eulte nazioni ,
e può dare utilissima luce a chi sa guardarla bene
addentro- E venendo a' fatti: la donna orgogliosa,
che desidera aver marito locato in alto e luminoso
stato , può frenare il suo dannoso desiderio con
175
l'esempio della vanagloriosa Semele, che dagli ab-
bracciamenti del sommo Giove rimase incenerita.
L' uomo, che senza aver esaminato il cuore e la
mente di una femmina , è sommamente invaghito
di quella di lei qualità più ad esso piacente, e che
frettoloso corre alle sue nozze, può sospettoso ri-
tirare il suo franco piede sapendo dalle antiche e
dotte carte, che Amore, infingendosi sempre, fa al
bisogno ed a suo talento variare le qualità della
donna amata , e la facoltà visiva dell'amante. Chi
vuole maritarsi non da giusta cagione, ma solo da
caldo amore sospinto (che io credo simile a colui
che inesperto e con bugiarda guida si mette per
aspra e selvaggia strada) , provvede forse alla sua
salvezza , se volge il pensiero a quel comando di
Giove per cui Venere doveva uccidere questo suo
malignissimo figlio, e se sa che per la materna pietà
fu egli nascosto nei boschi, e con il latte delle fe-
roci belve nutritole se sa ancora che Esiodo lo chiama
figliuolo del Caos; che Platone Io crede nato della
petulante miseria, perchè chiede sempre , e non è
mai pago; che Almeone lo dice figlio di Flora e di
Zaffiro, cioè della bellezza e della volubilità somma;
che i pittori lo effigiano bendato e con 1' arco in
mano , per indicar colui che ferisce senza vedere
se giusto o ingiusto sia il bersaglio; e che se tal-
volta lo mostrano senz'arco e senza turcasso, met-
tono fra le sue mani una misera ed innocente far-
falla, che egli spietatamente strazia. In questi savi,
benché favolosi detti , può antivedere la sua mala
ventura chi solo per cieco e caldo amore vuol di-
ventar marito.
176
Se non temessi di troppo noiare quei lettori ,
che non sempre vedono in molte parti della mito-
logia la più profonda filosofia degli antichi; e che
credono potersi con le favole sì e no poetare , e
non mai andar con giusta morale ragionando; e se
pili che costoro non mi facessero paura alcuni mo-
derni letterati, che mettono in non cale le favole,
con cui scrissero Omero , Virgilio ed altri sommi
poeti greci e latini, per avere in pregio i loro stra-
nissimi romantici voli; io molto più direi del mal
governo che il cieco Amore fa della misera gente
da lui con esca diversa e con diversi artificii ingan-
nata. Ma sono contento di terminare questa parte
del mio discorso solo dicendo a prò di chi vuol
maritarsi abbagliato dalla ricchezza , che Amore ,
stando nel bosco , si fece i dardi di frassino e di
cipresso per la comunal caccia, e poi per ferire ta-
luni di più dura pelle se lì fece d' oro; e dicendo
infine che esso Amore prende non altrimenti che
Proteo mille forme , e non è come questi verace
indovino per conoscere i tristi effetti dello svariato
operar suo. Dopo ciò lascio stare la mitologia , e
m' ingegnerò di concordarvi qualche mio filosofico
e breve ragionamento.
IV. A lutti è noto che il matrimonio è un
contratto elevato alla dignità di sagramento; e che
perciò prima di farlo è necessaria 1' autorità della
chiesa, e la mutua conoscenza non solo della cor-
porale appariscenza, ma dei cuore e della mente ;
e che ciascun contraente abbia la sua ragione o il
suo rispettivo che dir si voglia, e non a breve tempo,
ma finché la vita dura. Quanto all' appariscenza ,
177
non si può giudicare di questa col caldo amore che
annebbia la vista, ma sibbene con la semplice sim-
patia , la quale basta a far sì che 1' uno consideri
bene il fisico ed il morale dell'altro, e non fa di-
menticare che come l'una così l'altra di queste due
qualità non solo può rendere lieto o tristo l'animo
dei coniugi, ma influir molto sopra la buona o mala
ventura dei figli. In quanto al rispettivo, esso non
consiste solo nella gioventù , nella bellezza , nel-
l'avere, e nel civile stato (nelle quali cose conver-
rebbe, per quanto è possibile, esser pari), ma in
ogni umana faccenda che parlando ed operando far
debbono 1' uno a prò dell' altro i virtuosi coniugi.
L' esatto adempimento di questo dovere può forse
dar concordia anche a coloro che per età, per bel-
lezza, e per condizione sono sensibilmente dispari.
E questo esalto adempimento utilissimo non può
procedere dall'amor caldo, che di giorno in giorno
va intiepidendo ; ma dalla sola simpatia , la quale
è costante, e raddoppia il dolce effetto del vicen-
devole bene operare. 11 marito che spende una parte
del suo danaro per appagare il giusto volere della
simpatica sua compagna, gode per la coscienza del
suo ben fare, e per la vista dell'appagato aspetto.
Benché , chiosando un poco ciò che ho detto
della coniugale concordia, ciascuno da se possa fa-
cilmente trarre il seguente corollario , pure voglio
significarlo, perchè lo credo utile molto. Dico adun-
que che nel matrimonio non solo 1' avere diventa
comune tra i coniugi , ma sì tutto il loro paren-
tado , e talvolta anche le loro amicizie. E questa
G.A.T.LXIll. 12
178
comunanza pure deve attentamente considerare chi
non vuole dalle nozze avere angosciosa vita.
Lasciando stare le amicizie , che talvolta più
che i parentadi ci sono fitte nell'animo, non può lo
sposo essere insensibile alla miseria del parente della
sua sposa ; poiché se questa miseria nulla ad essa
cale, non può egli avere in molto pregio il cuore
di lei; e se ne è dolente, il dolore si apprende al-
l'animo dell'affettuoso marito, e turba la sua pace,
e spesso anche le sue ben misurate spese.
V. Dopo aver' brevemente parlato dell' accor-
gimento necessario per ammogliarsi , senza toccar
quei minuti particolari che ad un siffatto ragiona-
mento disconverrebbero, conviene con la medesima
brevità parlare delle cagioni, che possono turbare
la coniugale concordia. Il matrimonio non è come
gli altri contratti, nei quali si fanno tanti articoli,
quanti sono i casi che possono accadere. Tra due
persone che aver debbono cose, atti, e pensieri co-
muni, i casi possibili sono innumerevoli, e non si
possono tutti antivedere , nò apporre a ciascuno i
corrispondenti patti. Ciò non ostante voglio far motto
di alcuni di questi casi , e prima di quello in cui
un qualche falso amico può esser funesta cagione
di discordia.
Non potendo l'uomo vivere sempre una solitaria
vita, deve o per sue faccende, o per predilezioni,
o per ventura, conversare con altri, ed avere amici
e conoscenti. E la quotidiana esperienza ci fa ve-
dere , che dalla qualità degli uni e degli altri di-
pende quasi sempre il tristo o lieto viver nostro.
Noi spesso non possiamo allontanarci dalle persone
179
che le nostre faccende o la ventura ci mettono in-
nanzi ; ma ben possiamo dirigere le nostre predi-
lezioni.
Le cose dette dai filosofi morali intorno l'ami-
cizia basterebbero per empire non uno, ma piij e
più grossi volumi. Io ne dirò solo quello che mi
pare conveniente al mio proposito. L' uomo, gui-
dato naturalmente dall'amor di se stesso, incomincia
a credere amico chi spesso dice o fa ciò che a lui
piace. Per vedere se il principio di questa sua cre-
denza sia 0 non sia giusto , è necessario che egli
esamini attentamente il suo stato e quello di co-
lui che nell'amicizia sua si va insinuando.
Ogni nostro discorso ed ogni operar nostro ha
il suo fine. Nelle parole e negli, atti che continua-
mente si fanno per cose di poca injportanza , noi
medesimi non ci accorgiamo del loro fine; ma quando
si tratta di ciò che molto importa , lo vediamo e
lo esaminiamo bene anche prima di muovere il lab-
bro 0 la mano. E se in tal caso il fine varia nelle
menti deboli, nelle robuste è fermo finché una nuo-
va 0 più forte cagione non le rimuove. L' andar
cercando questo fine nell' animo altrui è impresa
difficile, che solo può essere agevolata dall'anzidetta
conoscenza dello stato di chi parla ed opera, e di
quello di colui che ascolta e vede.
Quel marito che, senza aver prima fatto queste
ricerche, prepone uno de' suoi conoscenti, ed in-
cautamente, e forse ingiustamente, lo chiama amico,
e gli fa le più liete accoglienze , non può , dopo
averlo meglio conosciuto, evitarne il danno, comechè
0 lo blandisca o da se lo allontani. II suo minor
180
danno in questo secondo caso è lo spiacentissimo
titolo di sciocco, perchè non seppe antivedere. Le
medesime considerazioni giovar ci possono rispetto
a quei conoscenti, che le faccende o la ventura ci
porgono innanzi.
Dallo stuolo dei conoscenti, e dal distinguerli,
nascer può la gelosia, che è basso e velenoso af-
fetto , se in vece di subito soffocarla si seconda.
La gelosia può molto difficilmente entrare nell'animo
dell'accorto marito, che ha posto tutta la sua cura
nello scegliere una virtuosa ed a se conveniente com-
pagna, e che fra' suoi conoscenti non ha scelto il
ricco o il possente, ovvero l' industrioso adulatore;
ma l'uomo savio che, sebbene galante, non mai si
varrebbe della galanteria per turbare la concordia
dei virtuosi coniugi. La galanteria sarebbe in questo
caso non una colpa, che la gente facilmente per-
dona, ma un grave e vergognoso misfatto.
Ma se, ciò non ostante, qualche indizio di que-
sta madre della discordia s' intromette fra i coniugi,
si guardi bene l'uno di manifestarlo all'altro ; chi
prima lo sente, cerchi di distruggerlo come micidial
veleno. La gelosia è maligna e vergognosa tanto ,
che pochi confessano di averla e di sentirne l'an-
goscioso effetto. Questo ha fatto sì che pochi hanno
parlalo di tal fiera ed occulta malattia, e pochis-
simi vi hanno proposto convenientente rimedio.
A me pare che l'amor proprio, maestrevolmente
eccitato, e secondo la condizione del geloso, esser
possa il solo rimedio a cotanto male. Chi è geloso,
senza avvedersene si umilia, e dice a se stesso che
i suoi meriti sono minori di quelli del suo rivale.
181
Se l'amico, che ha pietà di lui, di ciò lo avveile,
Tainoi' proprio del geloso si desta e fa sì che egli
con tutti i possibili modi si sforzi di togliere dal
suo cuore la cagione che vilmente l'umilia. L'amico,
che vuol curare il geloso, deve, parlando dei me-
riti, far considerare la somma di essi, e non il va-
lore di questo o di quello, in uno dei quali il ri-
vale può essere al geloso sensibilmente superiore.
La seconda cagione di domestica discordia, ben-
ché forse di minor peso, è la non giusta propor-
zione tra r avere e lo spendere. Come gli spinosi
pruni, stretti in fascio, vicendevolmente si pungono;
così i coniugi miserabili l'uno l'ahro noia. La po-
vertà coir impedire la soddisfazione delle giuste e
necessarie voglie inasprisce i modi e la favella, e
spesso, annebbiando 1' intelletto, non fa conoscere
i virtuosi ed i viziosi confini. Ma la Dio mercè, la
miseria si può quasi sempre antivedere e cansare
da chi accortamente guarda , e conserva la giusta
proporzione tra l'avere e lo spendere; e se ne pos-
sono anche non sentire gli effetti, conoscendo bene
la vera miseria e la vera ricchezza. Misero solo è
colui, che non ha nessun modo da guadagnare ciò
che alla vita è assolutamente necessario; ed è sem-
pre ricco chi riceve quello che, secondo la sua con-
dizione, deve necessariamente spendere, ed ha un
picciolissimo avanzo per qualche malavventura.
Queste verità deve avere in mente chi vuole am-
mogliarsi; deve egli esser certo di trovarle fitte nel-
l'animo della sua fidanzata; e deve con caratteri inde-
lebiliimprimerlenel cervello dillei primachèella diven-
ti sua moglie. Lo spendere convenientemente è prova
182
(li verace senno, poiché quasi tutti gli uomini sono
o all'avarizia o alla prodigalità con lor danno disposti.
La terza cagione di coniugale perturbazione è
il desiderio di comandare. Dai puerili trastulli fino
alle spietate guerre tra sommi potentati costante e
comune è il desiderio di soprastare. Ond'è che seb-
bene per le umane e divine leggi, e per le antiche
costumanze, sia al marito dovuta la facoltà di co-
mandare , pure , non potendo essere annullato nel
cuore delia moglie quel comune e costante desi-
derio, f'à mestieri somma prudenza perchè non ne
nasca turbamento di animo. Ad avere cosi fatta pru-
denza gioverà narrare la seguente favoletla, che non
è mica di quelle toccate di sopra come prova del-
l'antica sapienza, ma delle volgari che pur possono
migliorare le ordinarie nostre usanze.
I quattro venti principali, che soffiano dai quat-
tro punti cardinali dell'oi'izzonte, videro un giovane
robusto e bello della persona gaiamente adorno di
un largo e ricco mantello : ed a ciascuno di essi
venne in cuore la voglia di spogliamelo. 11 vento
orientale il tentò prima, e poscia l'occidentale ; e
l'uno e l'altro vanamente; poiché piiì essi violente-
mente soffiavano, e più il gentil garzone se lo rav-
volgeva. L'aquilone, mostrandosi per la sua mag-
gior forza sicuro dell'acquisto, fu il terzo assalitore.
Ed egli pure vi rimase scornato; perchè il robusto
giovane, non solo vie più lo strinse al suo dosso,
ma col mento, con le braccia, e con le mani vi-
gorosamente il ritenne. Lo scilocco , alla vista di
questi inutili sforzi de' suoi fratelli, sorrise un poco,
e poi li pregò di star fermi, mentre egli incomin-
183
ciò tranquillamente ed insensibilmente a spirare. Di
che il giovane, che più non doveva affaticarsi, fu
da prima assai contento; e dopo breve tempo, un
poco pili che non gli era bisogno riscaldato, sentì
la superfluità del mantello , e lo diede al placido
scilocco volontariamente, e senza esserne stato da
lui richiesto. La moralità di questa festevole scena
favolosa è per se chiara. I cortesi modi piegano
r altrui volere così dolcemente , che colui che si
piega non si accorge del suo piegare, e sembra fare
la sua voglia. Nel ricercare le cagioni di turbamento
è pur necessario ritoccare quel coniugale rispettivo,
e comprendervi anche la forza dell' intelletto sì del
marito e sì della moglie ; poiché, se l'uomo è per
coltivato ingegno piiì della donna commendevole ,
l'ubbidirgli poco o nulla può a questa pesare; ma
se egli ha la mente meno di quella della donna
istrutta, l'ubbidire ad esso è contro la naturai legge,
e perciò non può essere perseverante. Non può per
la immutabile legge di gravità il corpo piiì leggiero
far contrapeso a quello piiì greve , e molto meno
farlo traboccare. L'uomo, che non ha ben misurato
la mente sua con quella della sua futura sposa, si
compiace e forse si gloria del peregrino sapere e
del raro senno di lei, e non antivede i mali del-
l' inevitabile sbilancio ; né sa che egli difficilmente
può essere da quella saccentona amato , ed ancor
pili difficilmente obbedito. Ad una donna, che deve
cittadinescamente vivere, basta la facoltà di ben or-
dinare le domestiche faccende, nelle quali ancor essa
può soddisfare la innata voglia di comandare. Men-
tre l'uomo gode nell' ingegnarsi, e sovente affaticarsi
184
ancora per guadagnare onestamente il danaro ; la
donna si compiace delia giusta libertà che ella ha
di convenientemente spenderlo pe' domestici bisogni.
Questa giusta partizione di faccende, che dir si può
anche di comando, non deve impedire il vicendevole
consiglio, che non mai vuol essere nò apparire so-
perchiante, ma che ciascun di loro attentamente ha
da considerare. Quanto è più difficile un così fatto
contegno , tanto più è necessario il costantemente
praticarlo. Il dar consiglio invece di comando è quasi
sempre lodevole , e nei casi dubbi è sommamente
richiesto. E qui viene in acconcio il diie, che nel
mutuo consigliarsi non conviene alla donna prudente
mostrarsi troppo vaga del parer suo ; perchè nella
incertezza è assai meglio che il marito sia come
mallevadore di ciò che si delibera.
[ja quinta cagione è il nessun conto che i
coniugi fanno delle piccole offese. Questa cagione,
che è meno delle altre notata, non ò meno nocevole
certamente. Io ho detto che le nozze debbono es-
sere temperate e non soverchiamente calde; ed ora
dico che la tiepidezza ancora diventa freddezza mar-
morea, se il caldo, che per naturai legge di mano
in mano scema, non si rinfranca. Ed a far ciò non
bastano le sensuali dilettanze; ma è necessaria la
mutua cortesia, con la quale si cerca tutto quello
che può piacere, e si cansano le parole , i modi ,
e le cose spiacenti; ed è necessario ancora che se
alcuna volta per mala ventura, o per poco accor-
gimento, l'uno all'altro fa la benché minima offesa,
dar si debba subito 1' ammenda , e non indugiare
tanto che per essa la coniugale affezione in parte
185
alcuna diminuisca. La più piccola noia, che poteva
essere compensata con poche e sollecite parole gen-
tili, distrugge sovente le piiJ virtuose ed utili ami-
cizie.
VI. Dopo aver brevemente ed in genere par-
lato di quelle cose che si debbono veder prima di
stringere il matrimoniale nodo , e delle principali
cagioni che possono renderlo assai molesto , con-
viene colla medesima brevità parlare della gravidan-
za, del partorire, e dell'allattamento: cioè delle tre
naturali operazioni della donna maritata durante la
sua giovanezza. E prima di procedere innanzi debbo
dire , che io in tutto il seguente discorso parlerò
dei ricchi signori, e non dei popolani; non perchè
io non faccia moltissimo conto di costoro, ma per-
chè sono certo che con un piccol numero dei grandi
ben allevati possono facilmente migliorare comuni
e regni sotto qualunque forma di governo. Ed oltre
a ciò debbo con più evidente necessità dire , che
io nel proporre con la mia povera filosofia le norme
all'ammogliato ricco signore non ardisco credere ,
che con queste si possa esser certo di veder mol-
tiplicata la famiglia de' Gracchi. Io so bene che tra
i virgulti commessi a Pier Crescenzi, principe degli
agricoltoii italiani, si possono vedere alcune piante
mal nutrite e torte e con rami nodosi e sconci; e
so pure che Socrate fu allevato dalla dottrina di uno
scultore che non era certo né Fidia né Prasitele.
lo sarei quanto esser si può pago, se in un comune
0 in un regno fosse letto da qualche possente que-
sto mio scritto , e fosse creduto una non mal si-
cura guida. Questo giudizio, confermato dall'eco di
186
molti, sarebbe al mio proposito utilissimo. L'errore
non si corregge finche non Vha vinto il ver con più
persone.
Tutti i coniugi per molte e svariate cagioni ,
chi per l'una e chi per l'altra , desiderano di co-
noscere il principio della gravidanza. E questa co-
noscenza è per essi difficilissima; perchè i così detti
segni razionali sono quali più quali meno tutti fal-
laci, e perchè talvolta tali sono ancora quelli sen-
sibili alla mano dell' esperto chirurgo. Vero è che
il non potere i coniugi appagare questo loro desi-
derio poco ad essi importa rispetto al come deb-
bano regolarsi quando ne hanno qualche indizio.
Se io non temessi la lingua dei motteggiatori,
che quando sono sagaci e pronti sono piacevoli mol-
to, e non meno temibili; io direi che la gravidan-
za, salvo la durata, somiglia la digestione. 11 cibo
sta nello stomaco, e prima si converte in chimo ;
poscia, cambiando sede, si muta in chilo ed in san-
gue: il quale dopo il suo giro, scorrendo nei mi-
nimi vasi, compensa le continue perdite, e sostenta
la vita dell' individuo. E l'embrione sta nell'utero,
e vi cresce; e quando le sue parti sono organate,
esce fuori per rinfrancare l'uman genere delle per-
sone che di giorno in giorno va perdendo. E nel
caso che si potesse fare questo paragone, soggiun-
gerei; che come la digestione per poche ore, così
la gravidanza per circa nove mesi cagiona qualche
mutamento negli organi e nei sistemi della pregnan-
te, ed in quello irrigatore più sensibilmente; e direi
ancora, che se talvolta è penosa la digestione, tale
può essere la gravidanza. Ma già ho tanto detto ,
187
che basta ad eccitare i solazzevoli dicitori; perciò
altro non posso che confidare nella sentenza di
Dante , Che saetta previsa vieti più lenta. Ma ben-
ché io potessi non pensare ai detti acuti, pur sarei
certo che le verità significate con quel paragone non
nni sarebbero mandate buone da quelle donne che
vogliono vendere a caro prezzo le loro sofferenze,
e che «e ne sdegnerebbero quei medici, i quali non
solo credono che nessuna infermità possa natural-
mente guarire, ma che dell'opera loro abbiano quasi
sempre bisogno anche quelle tre anzidette opera-
zioni, alle quali le femmine sono dalla natura de-
stinate.
Caro duca , voi piìi volte mi avete udito par-
lare di medicina: e forse vi sarete meravigliato della
poca fidanza che io ripongo in essa. Per iscemare
tal vostra meraviglia io voglio qui ritoccare questo
obbietto.
La medicina è un misto di scienza e di arte ,
che dalle persone sane e robuste è spesso scher-
nita o messa in non cale, e da taluni infermi dei-
ficata. Fra questi due estremi io credo che si debba
tenere una mezzana via.
In altre mie carte ho detto, che il vero medico
dovrebbe conoscere la parte fisica e la morale del-
l'uomo, le cose che operano in esso per sostentare
la vita, quelle che la scompigliano, e quelle che la
possono rioi'dinaie. Se voi col vostro senno e colla
vostra dottrina considererete questi temi , vedrete
che solo il favoloso Esculapio o il Salomone della
sacra nostra istoria potrebbe convenientemente trat-
tarli; e perciò non vi meraviglierete molto della di-
188
screta mia fidanza nella medicina. Io non ho in anima
di vituperare gii onesti medici, che hanno preso un
saggio degli anzidetti difficilissimi temi; anzi vorrei
che, avuto riguardo al nostro corto intelletto, fos-
sero lodati e tenuti cari, ma non però deificati. E
vorrei che essi come il bianco dal nero fossero di-
stinti da coloro, che infingendosi delle principali cose
umane istrutti, guastano e bruttano il nobilissimo
esercizio di quel sommo ippocrate, che natura. Agli
animali fé ch'ella ha più cari.
Questa è la mezzana via che io propongo all'ac-
corto marito, e che gli farà apprezzare debitamente
i consigli dell'onesto e savio medico; e più che la
peste tener lontano dalla sua casa l'anima vile che,
menando rumore delle guarigioni avute malgrado
de' suoi rimedi , trae profitto da quella credulità ,
alla quale più che gli uomini sono le femmine di-
sposte. Il desiderio di viver sano e lungamente ò
fìtto nell'animo di tutti; e chi crede che il medico
possa esser utile a soddisfare un tale desiderio, lo
ha per sua guida assai più sicura che non bisogne-
rebbe; e perciò non deve il marito credere cosa di
pochissimo affare lo sceglierne uno per la sua fa-
miglia.
Ora tornando m via ; 1' onesto medico dirà ai
coniugi, che 1' esser gravida non è, come si suole
affermare, una malattia di nove mesi, ma un na-
turale effetto dello stato coniugale; e che se ognuno
deve aver giusta norma in tutto ciò che ò neces-
sario a sanamente vivere, convien che questo do-
vere sia nel cuore della donna raddoppiato quando
ha nel suo seno il suo dilettissimo pegno.
189
VII. Termine della gravidanza è il parto. E l'one-
sto medico dirà ai coniugi, che il parto è ordina-
riamente effetto naturale senza alcun danno, ed ac-
cidentalmente morboso ; che questo secondo caso
è assai raro, poiché la Maternità di Parigi ed altre
somiglianti pubbliche case dimostrano co' fatti, che
di cento parti novantanove sono naturali e facili ;
e che quello morboso sarebbe ancor più raro , se
il pudore e l'uso concedessero che al contratto nu-
ziale prima del notaio accedesse l'ostetrico peritis-
simo. Questa concessione sarebbe nel suo principio
stranissima e ridevole; ma di quante stranezze an-
che impudiche non è piena la stoiia delle nozze nei
diversi tempi e nei diversi luoghi ? E non volendo
considerar questo, certo è che in quel parto, in cui
agli sforzi, che naturalmente e vogliosamente fa la
madre, è necessario unire l'arte, si guardino bene
i coniugi di non fula adoperare se non da oste-
trica mano.
Nel prossimo passato secolo 1' ostetricia era
un'arte esercitata dalle sole levatrici ; e benché in
Parigi fossero esse nominate ed approvate dai più
dotti chirurgi, e particolarmente dal primo chirurgo
del re, pure convien confessare che questo privi-
legio, 0 come dicono i moderni, questa privativa,
era ingiusta e dannosa. Nessuno può non meravi-
gliarsi come nel tempo, che più che le altre virtù
non signoreggiava certo la pudicizia, erano per amor
di questa preferite le levatrici agli esperti chirurgi,
ed i castroni alle graziose donne, che dilettando con
la dolce armonia potrebbero ancor più piacere al-
l' intelletto, se allo loro armoniose note fossero uniti
190
i versi morali della vera nostra letteratura. Ma il
nostro maligno destino imperiosamente vuole che
se da un lato si progredisce, dall'altro si retroceda;
e ciò che più spiace a chi ama veramente il pub-
blico bene è il vedere, che questo moto retrogrado
si fa per volontà e per opera dei piiì caldi pro-
gressisti. L'alto e ricco stato di ogni ramo della mo-
derna industria, e l'umiltà in cui giacciono le scienze
e le lettere, sono la evidente prova di ciò che io
francamente asserisco.
Dopo il parto, il cui necessario effetto è il puer-
perio, ancor esso senza danno nei novantanove casi
dei cento, convien far motto dell'allattamento-
Dovere naturale e civile della madre è l'allat-
tare il proprio figlio. Rispetto al primo , è facile
provare con la comunale scienza dei medici , che
il latte è prodotto di quel medesimo sangue da cui
è derivato il nutrimento del feto per circa nove mesi.
Or chi da ciò non vede, che per diminuire quanto
è possibile gli effetti dei sensibili cambiamenti, dan-
nosi sempre in qualunque età , e molto pili nella
prima, sia al neonato conveniente il latte della ma-
dre assai pili che quello di qualsivoglia altra donna ?
Ed oltre a ciò anche il piiJ misero filosofante può
chiaramente diseernere, che volendo la benigna na-
tura che grandissimo sia l'affetto della madre verso
il suo figliuolo, fece prima sentirle sommo diletto
nel concepirlo, e poscia, come per compensarla delle
noie della gravidanza e dei dolori del parto, le rin-
nova allattando piìi e più volte al giorno una parte
del sensuale diletto. Ed affinchè tra la madre ed il
figlio sia vicendevole l'affezione, la medesima he-
191
nigna natura rende al gusto del bambino assai più
grato il latte materno che il più squisito cibo al
nostro palato, dove dall'uso è la sensibilità notabil-
mente scemata. Il fantolino dà di questo suo godi-
mento chiarissime prove tostochè la vista dal tatto
corretta incomincia a distinguere gli oggetti; poiché
lei più che le altre persone guarda; a lei più spesso
dolcemente sorride; e con lei affettuosamente si tra-
stulla. E perchè cedere questi dolcissimi privilegi a
prezzolata fantesca ? Ma posto pure che ella vo-
lesse fare questo vii rifiuto, ed esser sorda alle voci
della benigna natura , tale non potrebbe essere ai
giusti civili ordinamenti.
Voi, carissimo duca, ben sapete che Aristotile,
vedendo col suo filosofico sguardo come dai cinque
sensi vengono tutte le idee della nostra mente, mo-
strò ingiusto il parere di Pittagora e di Platone, i
quali credevano che le nostre anime avessero in se
alcune idee prima che fossero nel corpo rinchiuse;
e stabilì che nessuna idea sta nel nostro cervello
che non vi sia stata dai sensi portata. Cartesio e
molti seguaci si opposero a questo parere, benché
significato dal maestro di coloro che sanno. E l'esa-
me di tale opposizione giova molto al mio proposito.
Dal momento che il neonato incomincia a poppare
si fa attentissimo discente della sua nutrice. Ma poi-
ché delle lezioni di questa né essa medesima né altri
si accorsero; quando il bambino per gli atti e per
le sorrise parolette brevi dimostra prima le idee più
semplici, e poscia le altre, e che né queste né quelle
furono viste per qual via erano venute, la comune
gente le chiamò indole o naturale disposizione. Ed
192
il filosofo quando senti il bambino, già fatto adulto,
ragionare degli enti morali^ e specialmente della giu-
stizia, non essendogli noto ciò che questi aveva pri-
ma dalla nutrice, e poscia dagli altri, per i suoi sensi
appreso, chiamò innate alcune idee degli enti mo-
rali , e specialmente quella della giustizia. Siffatta
dottrina per se chiarissima ci dimostra esser cosa
ingiusta e dannosa il dare per ammaestratrice al
bambino , non la propria madre che in famiglia
esser deve in moltissimo pregio avuta, ma una vi-
lissima fantesca.
Io non nego che la corporale tessitura, e prin-
cipalmente quella dei sistemi irrigatore, linfatico e
nervoso, influisca molto nei nostri naturali affetti ,
e nel valore della nostra mente; ma ho per fermo
che le idee , che dal principio della vita vengono
dai nostri sensi, e che sono dette ingiustamente in-
nate (salvo le mutazioni che accadono per le molte
e svariate mondane vicende), formano V essenziale
germe delle nostre naturali inclinazioni e del nostro
intellettuale valore.
Questo scambio di madre in balia, o per pigrizia
della moglie, o per poco senno del marito, o per
altra snaturala ed ingiusta cagione, ci fa vedere tal-
volta persone di alto lignaggio aver modi, parole,
e volgarissimi affetti. Quel padre, che dopo le pri-
mitive idee che il figlio ha ricevuto dalla fantesca
balia, crede formargli un cuore magnanimo, è si-
mile a chi con le fondamenta di un misero caso-
lare vuol edificare un alto e magnifico palagio. Egli
si trova dal suo vedere ingannato col danno suo ,
193
della- sua famiglia, e di chi per qualunque faccenda
deve conversare con l'adulto suo figliuolo.
Vili. Nel tempo dell'allatlamento, benché tutti
gli oggetti che toccano i sensi del bambino lo istrui-
scano, la principale istruzione, che nei primi giorni
dir si potrebbe l'unica , la riceve dalla nutrice ; e
dopo lo spoppamento , non piccola parte egli ne
prende da chi lo imbocca e lo soccorre. La scelta
di chi deve fare questo ufficio è il secondo diffici-
lissimo punto nel bene allevare ì figliuoli nati da
alto e ricco lignaggio.
Sogliono i ricchi signori annoverare tra i loro
famigliari una fantesca che chiamano soprabalia ,
ed a lei commettono la cura dell' infante per tutto
ciò che gli bisogna. Questa femmina volgare, che
col suo nuovo titolo innalza molto il suo stato, deve
dar norma ai molti e svariati puerili desideri, ora
secondandoli, ora modificandoli, ed ora frenandoli.
Ma ciò facendo, deve sempre avere in mente che
se il bambino, su cui ella ha questa ombra d' im-
pero, se ne mostra spiacente, ella imita la caduta
di Simon Mago , e perde ogni cosa che la faceva
stare in alto.
Da ciò segue chiaramente che , posto anche il
caso stranissimo che questa soprabalia abbia senno
e costume conveniente alla guida di un nobile fan-
tolino, che nel suo cuore e nella sua mente va sta-
bilendo la base della sua vita civile, non potrebbe
ella mai esser libera ne' suoi giudizi, e molto meno
nell'operar suo per la perfetta contraddizione in cui
si trova nel dovere imporre a quel medesimo bam-
bolino, il quale ha diritto di essere da lei temuto.
G.A.T.CLXIII. 13
194
Questo mescolamento di cose contraile, cioè di
comando e di timore, va dalla soprabalia al primo
maestro, ed è fedele compagno di tutti coloro che
debbono stare nella sua corte in qualità o di me-
dico, 0 di avvocato, o di regolatore del suo ricco
avere, o con qualunque altro titolo.
Rispetto al primo maestro, oltre alla contrad-
dizione pei' l'autorità sua mista al timore di dispia-
cere al suo scolare, e quindi di perdere il suo slato
e le concette speranze , egli suole essere dannoso
pel suo corto senno-
E quasi generale opinione, che un uomo mez-
zanamente istruito mal potrebbe terminare 1' am-
maestramento di chi è verso il fine della sua let-
teraria carriera, ed a cui rimane lo studio nella ret-
torica e nella filosofia ; ma sibbene potrebbe dar
principio alla istruzione di un garzoncello, che deve
apprendere le prime lettere, e le prime conoscenze
della vita morale e civile. Colui che filosoficamente
considera l'officio intellettuale del maestro, chiara-
mente conosce la falsità di questa opinione.
Chi deve iniziare la formazione della mente di
un fanciullo è simile al coltivatore di un terreno
incognito. Deve questi principalmente acquistar chia-
ra conoscenza in genere della qualità di tutto il ter-
reno, e poscia delle qualità dell'umor terrestre , e
del clima di ciascuna sua parte , per adattarvi le
convenienti piante, il conveniente seme, e la con-
veniente coltura. Ed il maestro deve prima cono-
scere in genere la naturale intelligenza del suo sco-
lare, e poi con singolare industria andare investi-
gando tutte le parli dell' intelletto di lui per sapere
195
quale più quale meno è vigorosa, e quale piii quale
meno è disposta ad apprendere un tal ramo del-
l'umano sapere ; e come vuol essere stimolata la
parte pigra, e secondala la piii ben disposta. Questo
punto di metafisica , che a me pare chiaramente
esposto, è in pratica difficilissimo; ed è perciò as-
sai ridevole il vederlo commesso a quegli sventurati
pedanti, i quali non solo non sono atti a tali ri-
cerche, ma non hanno mai pensato che esse for-
mino parte delle umane conoscenze.
Questa difficilissima pratica è assai meno ardua
al maestro che deve insegnare rettorica e filosofia
ad un giovanetto , benché ad esso ignoto ; perchè
come r agricola può giovarsi delle prove fatte dai
suoi predecessori circa la qualità in genere del suo
novello podere , e circa le particolarità delle sue
diverse contrade; così quel maestro può essere in-
formato da chi ha prima di lui insegnato all' in-
cognito scolare la grammatica e le altre cose ele-
mentari.
Dopo aver dimostrato la falsità del parere di
chi crede non esser necessario al primo maestro
molto senno e molta dottrina , farò un dilemma
riguardo al maestro di corta mente: 0 lo scolare
comincia ad avere in pregio il suo men che mez-
zano maestro , e la carriera de' suoi studi ve lo
va confermando; ed egli diventa ammiratore e vago
dei concetti di lui comechè monchi o falsi, e men-
tre crede di farne ricco tesoro nella sua mente, ne
fa un disordinato accozzamento di larve, di mon-
cherini, e di mostri; 0 il medesimo scolare si va
di mano in mano accorgendo dello scarso ingegno,
196
e della scarsa o falsa dottrina del suo maestro, ed
ei, più non facendone conto, va senza guida e senza
freno qua e là naturalmente vagando fino al ter-
mine del corso dei suoi studi. Questo secondo caso
è assai più del primo facile ad accadere ; perchè,
oltre alle osservazioni che lo scolare di giorno in
giorno può fare da sé stesso, il contegno degli al-
tri familiari, e quello dei parenti e conoscenti suoi
verso il suo maestro, ben presto lo fanno accorto
dello scarso di lui valore. E nel caso che lo strano
vagare dello scolare , e le stranissime voglie che
quindi nascono, siano per autorità paterna , o per
altra cagione, in alcun tempo rattenute, escono sol-
lecitamente fuori con più scandalo , e con quella
violenza, con la quale scoppia il vapore che vinse
la potenza che lo teneva compresso.
Fra i molti danni di questa falsa guida deve
essere annoverato quello che essa medesima ne ri-
ceve ; poiché Io scolare non è pago del solo non
curarla, ma spesso cangia la trascuranza, prima in
disprezzo, e poscia in disdegno. Io ne ho nella mìa
lunga età veduto alcuni esempi, in uno dei quali,
essendo stata la magistrale ignoranza mista a qual-
che non lieve colpa, io mi sovvenni del bue di Fa-
laride, che Mugghiò prima col pianto di colui - Che
lo avea temperalo con sua lima. Per giustizia me
ne compiacqui, e per umanità me ne condolsi.
Questa è la principal cagione per cui in ricche
e lucentissime famiglie si vede talvolta colui che
non solo non può col suo mal colto intelletto di-
scernere ciò che è giusto , ma piena la mente ed
il cuore del signorile orgoglio , giusto crede solo
197
quello che a lui piace e che meglio soddisfa alla
sua gonfiezza. E se per mala ventura di tutti co-
loro che debbono trattare con esso, egli al potere
della sua famiglia unisce quello che gli dà chi go-
verna il comune o il regno, gli occhi suoi diven-
tano ancor più foschi, e la tracotanza assai mag-
giore; onde è che impunemente calpesta qualunque
sacro diritto con volto fermo, e con quella coscienza
con cui neir Areopago di Atene si rendeva a cia-
scuno la sua ragione. 11 danno, che procede dal ve-
lenoso frutto di queste alte e ramose piante, è im-
menso; io farò motto di una sua picciolissima parte.
Quando il male allevato ricco signore operar
può ad arbitrio suo, sceglie per suoi familiari, non
chi per costume, per zelo, e per attitudine natu-
rale e di arte può meglio adempiere l'ufficio al quale
è destinato; ma chi con più malizia e più dolce-
mente sa ingannarlo, e prepone sempre quello che
in quest'arte è più degli altri valente. E Iddio vo-
lesse che solo nello scegliere la sua bassa famiglia
tenesse questo sconcio e vituperevole modo ! Egli
l'adopera similmente nello stabilire l'alta sua corte.
Ond' è che la sua casa , mentre sgomenta i vol-
gari onesti che hanno bisogno di pane, e la savia
gente che vuole onestamente valersi del suo lungo
studio per cittadinescamente vivere, rende ardimen-
toso colui che non vuole piegare il collo all'utile
e grossolana fatica, e tale rende ancora il fraudo-
lente astuto, che, oziando ed occultamente trastul-
landosi, fa vista di avere appreso scienze ed arti dif-
fìcili ed utili molto. E quello che più importa, per
uno che fu dal signore ingiustamente anteposto, mille
198
col mal esempio sperano di avere quesla ingiusta
preferenza. E tutti quelli che rimangono delle loro
speranze delusi, formano quelle popolari masse, di
cui si sono talvolta serviti coloro che desideravano
di dar nuova forma al mondo, non con giusti e ben
considerati argomenti, e col debito tempo, ma per
bestiale violenza. Il filosofo, che attentamente guar-
da le cose mondane, vede come sovente gli effetti
più grandi e più meravigliosi derivano da cagioni
piccolissime, ed alle quali assai pochi pongono mente.
Io qui vorrei il corno di Orlando, che orribil-
mente sonò quando Carlo Magno perde la santa gesta,
e gridare a tutta possa per atterrire quei ricchi si-
gnori che hanno male allevato i loro figliuoli; e par-
ticolarmente vorrei scoccare le mie impetuose pa-
role contro colui, che per guidare i suoi figli nelle
lettere e nelle scienze accatta a vilissimo prezzo
l'opera di un misero pedante, che promette e forse
crede di potere insegnare ai nobili garzoncelli ciò
che egli medesimo non sa, e non è più in caso di
apprendere. Oh meraviglia ! chi largamente spende
smisurata somma di danaro per magnifici palagi ,
per peregrini drappi, per finissimi intagli in marmo
o in dorato legno; chi per mostrare la sua magni-
ficenza fa bella mostra di se sopra ricchissimo coc-
chio con destrieri che trottando ed ambiando pare
vogliano somigliare quelli del sole: questo ricco e
splendido personaggio mette all' incanto ed al mi-
nore offerente l'ufficio di maestro de' suoi figli: cioè
la essenzial base del morale e del civile viver loro-
Ed affinchè il tutto sia concorde, egli spesso a se
chiama chi presiede alla così detta scuderia per sa-
199
pere se i suoi cavalli sono da' suoi garzoni ben trat-
tati; e non mai, o assai di rado, si volge studio-
samente al maestro de' suoi figli per conoscere ,
non dico il giornaliero loro progresso , ma la na-
turai disposizione almeno di ciascun di loro. E ben-
ché la quotidiana esperienza dimostri, che il signore
ben allevato accresca lo splendore e 1' avere della
sua famiglia, e che per lo contrario l' ignorante di
tardo ingegno scemi sensibilmente 1' una e 1' altra
cosa; puro spesso, e sempre con generale scandalo,
si vede che al nobile e ricco padre piiì piace la-
sciare al figlio un centesimo di piià nella pingue
eredità sua, che un giusto senno, una conveniente
dottrina, ed una limpida morale.
Carissimo duca, benché, come dissi nell'esordio
di questo mio discorso , il mio fine principale sia
il porgere a voi la immagine fedele della mia mente,
pure sento che ancora un poco mi fruga la spe-
ranza di recar qualche micolino di utilità alla gente
futura: non perchè io sia certo che i nostri discen-
denti leggeranno i miei scritti, ma perchè nulla spero
fino a tanto che soffia quel tempestoso vento che
travolge antichi reami e vasti imperi , e che non
solo disperde a guisa di sentenza di sibilla le mie
lievissime carte, ma fino ai fondamenti dirocca l'uno
e r altro sodissimo giogo di Parnaso. Per questa
mia lontana speranza io piij non ispendo parole per
lo sciaurato signore, che fin dal principio della sua
vita fu messo nella via torta, e che vi corse con
danno suo, de' suoi parenti, de' suoi prossimani ,
ed alcuna volta anche di un comune e di un non
piccolo regno ; e parlerò invece di quel bene av-
200
venlurato giovano, che, ammaestrato ottimamente da
chi che sia, fu sempre dal suo padre guidato-
IX. II giovane, più che l'uomo di età matura,
sente bisogno di avere un confidente ; ed avutolo,
gli dà facilmente e volentieri il titolo di amico. Ed
il padre, che non lo deve mai perder d'occhio, ha
da por mente a questo primo passo del morale e
civile viver suo. Due giovani l'uno dell'altro amico
accomunano i loro costumi, ì loro desideri, e quasi
tutti i loro pensieri. Ed il padre deve conoscere que-
sta comunanza, ed intromettervisi. So bene non es-
ser ciò molto facile per la età diversa, che fa di-
versi i pensieri, i desideri, ed i modij ma se il pa-
dre o da se o con l'aiuto di un savio maestro ha
fatto dell' intelletto del figlio una copia del suo, e
se egli trattando co' due giovani amici si ricorda
della sua giovanezza, e con un leggiero sforzo un
poco si trasmuta; egli diventa terzo tra i due gio-
vani amici con somma utilità di entrambi. Nel for-
mare questo ternario convien ricordarsi, che i gio-
vani per troppa mobilità della loro fibra mal volen-
tieri soffrono 1' indugio, e che quando due di essi
mirano un medesimo punto vi vanno di galoppo.
Questa sollecitudine mostrano essi piii chiaramente
allorché uno brama di diventare dell' altro amico.
Ed il savio genitore, benché sia certo che quell'amì-
cizia non disconvenga al suo figlio, deve con molto
accorgimento opporsi al galoppo, e a grado a grado
aver chiara conoscenza del loro avvicinamento.
Due amici debbono co' pensieri di ciascuno for-
mare una mente comune; e perciò se ciascun pen-
siero si considera, e si muta, o si modifica prima
201
di fermarlo nella mente comune, questa a misura
che si va formando, e poscia che è formata , non
può non piacere ai due che V hanno costrutta. Le
pietre misuratamente tagliate meglio tra loro com-
baciano, e costruiscono il muro più bello, più forte,
e più durevole- A questo ben misurato taglio di pie-
tre, cioè ai pensieri cangiati o modificati avanti di
stabilirli, debbono al primo tempo attendere i due
novelli amici, e più di essi il padre, facendone meno
che può vista.
Mentre per questo modo si va costruendo l'ami-
cizia, possono i novelli amici dar principio alla sod-
disfazione dei loro doveri nel consigliarsi, nel soc-
corrersi, e nel difendersi a vicenda. Questi tre verbi
sono di gran peso e formano la essenza della vera
amicizia. Se io fossi uno di quei vecchi sempre lo-
datori del passato tempo, direi che negli anni della
mia giovinezza era il senso loro meglio inteso; ma
non posso per verità asserirlo, perchè le cause che
adesso li rendono oscuri a molti, sono quelle me-
desime che operavano allora. E a dire il vero , è
poco men di un secolo , da che i generali turba-
menti, sollevando rapidamente alcuni, e portandoli
dall' infima alla più sublime condizione, hanno ec-
citato le universali comechè ingiuste speranze , e
non lasciano nessuno contento del suo stato. L'amor
di se (che i moderni dicono egoismo) è cagione di
queste universali speranze , e forma la essenza di
tutti i nostri pensieri. E perciò l'egoista sconosce
l'amico quando per le continue variazioni sociali teme
di perdere il suo stato, o spera di migliorarlo tanto
che il miglioramento possa essergli di sicuro riparo
202
in altre sociali vicende. Ma sia ora quale esser si
voglia r amicìzia , io conliniio il mio teorico di-
scorso, ripetendo che la prima parte essenziale del-
Tamicizia è il consigliarsi a vicenda. Questo non
può aver luogo nel primo tempo, cioè prima che gli
amici abbiano l'uno all'altro aperto l'animo suo in
modo, che ciascuno abbia chiara conoscenza dei bi-
sogni, delle intenzioni e delle facoltà dell'amico.
Quando , dopo questa conoscenza , conviene il
consigliarsi, è necessario distinguere il caso in cui
l'amico chiede all'altro consiglio, da quello nel quale
è dall'uno all'altro offerto. Quando l'amico è del
consiglio richiesto ha subito da mostrare la sua buona
e calda voglia ; ma guardarsi dì darlo con troppa
sollecitudine , perchè a chi consiglia è prima me-
stieri conoscere a parte a parte la. cosa di cui si
tratta, tutto quello che l'amico ne sa per se stesso,
ed a quale deliberazione egli è disposto, perciocché
deve unire le sue conoscenze con quelle dell'amico,
e poi secondare la disposizione di lui, se la crede
giusta, e nel caso contrario opporvisi colla dolcezza
e colla pazienza con cui il buon agricoltore dirizza
le piante torte. E ciò meglio può farsi se il con-
sigliere mostra la ragionevolezza dell' opposizione
con qualche verità significata dall'amico in qualche
suo discorso. Così si giova col consìglio, e non si
offende l'amor proprio di chi lo riceve.
Tutte queste cautele vogliono essere raddoppiate
quando il consiglio è offerto. L' offrire il consìglio
è un mostrare che l'amico in quel caso non saprebbe
da se solo uscirne: e questo è una umiliazione, è
203
una feritn, alla quale il consigliere deve cautamente
apporre opportuno rimedio.
Se il consiglio dato fu eseguito, e se felice ne
fu la esecuzione , chi lo diede par che non possa
astenersi di compiacersene. E questa compiacenza
si deve per quanto è possibile nascondere, ingegnan-
dosi a tutta possa di provare che il buon effetto,
pili che dal consiglio , è proceduto dal modo con
cui è stato posto in atto.
In somma debbono gli amici aver fitto nell'animo,
che l'amicizia o non nasce , o non cresce , o non
è durevole, se l'uno amico non lascia illeso l'amor
proprio dell'altro, e se ad opportuno tempo non sa
secondo giustizia blandirlo.
L'altro dovere dell'amicizia è il soccorrersi. Io
ho sopra detto che gli amici debbono accomunare
i loro pensieri; e Cicerone dice che lo stesso deb-
bono fare del loro avere. Gli amici, che considerano
questo lor dovere, debbono fermare nella loro me-
moria Che quale aspetta prego, e V uopo vede. Ma -
lignamenle già si mette al nego. Chi conosce i de-
sideri, i bisogni, le facoltà, e quasi tutti i pensieri
dell'amico, non solo può prevenire la richiesta, ma
può anche agli stessi desideri precorrere , e far sì
che il bisogno dell'amico resti appagato quasi pri-
ma che sia concepito. Colui che aspetta la richiesta
dell'amico, benché volentieri e sollecitamente la sod-
disfaccia, intiepidisce l'amicizia; perchè, posto an-
che il favorevole caso che il soddisfacente non ne
faccia sentire il benché minimo peso all'amico sod-
disfatto, pure non può non essere certo di aver con-
204
tratto un debito, e che l'amico è il suo creditore,
o almeno lo rassembra.
Il difendersi è il terzo dovere dell'amicizia; ed in
ciò la mia lunga esperienza mi fa liberamente affer-
mare, che la difesa non fatta con intero accorgimento
nuoce talvolta piià che l'accusa. Chi sa che l'amico
suo è stato accusato di colpa , quale che essa sia ,
deve prima informarsi del fatto diligentemente e par-
titamente; poscia distinguere in esso l'atto volontario
da quello che la necessità richiede; ed in fine con-
siderare la intenzione dell'operante. Con questo esa-
me si può chiaramente vedere, che non tutte le opere
buone sono per se ugualmente lodevoli, né le cattive
vituperevoli. La cieca ventura è spesso sgabello agli
eroi, ed è fortissimo incitamento ai malvagi. Se dopo
sì fatto esame apparisce chiaro la colpa, non deve
l'amico negarla con fole o con sofismi, ma sì mo-
strarne il meno brutto aspetto , e ricordare a chi
ascolta che un' azione separatamente considerata non
fa dell'uomo vizioso o virtuoso sicura prova. Questa
parte del mio discorso farà sì che taluno dirà, che
io presuppongo una società d' uomini non dissimile
da quelli della repubblica di Platone, e del sognato
regno di Saturno. Ed io risponderò che parlo in
teorica; e che se la morale degli uomini è nella sua
difficilissima pratica manchevole, tale non deve es-
sere nella assai pili agevole teorica; dirò che come i
greci immaginarono Venere qual tipo di bellezza, e
pur dissero belle le Ninfe; così io dico tipo di vera
amicizia l' amico da me supposto , e dirò ottimo
quello che piij a questo si avvicina. Ed oltre a ciò
andrò ripetendo , che io ho qualche speranza che
205
forse alcune mie sottili considerazioni teoriche pos-
sano a miglior tempo giovare alla pratica, e portar
qualche ristoro alla nostra morale che miseramente
in molti langue.
X. Mentre il buon padre vede che il suo figliuolo
e l'amico di lui provvedono ai doveri di amicizia,
può facilmente accorgersi che forse in uno di essi,
0 forse anche in entrambi, nasce e va crescendo il
sentimento di amore. Egli , come savio , sa certo
che nell'amore, specialmente in quello dei giovani,
è un misto di sensualità e di vanagloria ; che la
prima ha piij o meno vigore, secondochè il corpo
è più 0 meno disposto a sentire l'amoroso fuoco;
e che la seconda è potentissima se si lascia sola
nel cuore novello. Egli sa parimente che amore, re-
presso senza debita prudenza, diventa cieco e vio-
lentissimo; e sa finalmente che questo naturale af-
fetto suol esser cagione di somme virtù e di sommi
vizi. Perciò deve nel miglior modo possibile unirlo
alle virtù morali, ora secondandolo, ora dirigendolo,
ed ora rattenendolo; e farne vista assai raramente.
Nel far questo può molto giovarsi dell' amico,
benché innamorato ancor esso; poiché in questi fatti
l'amicizia tiene il campo, e vi fa quelle prove che
né il ragionamento, né l'autorità, né il minacciato
danno possono fare.
Assai meno difficile è la direzione dei fatti di
amore, se nel cuore dell'amante sia prima nato qual-
che desiderio virtuoso che vada mano mano cre-
scendo. II voler dire quale, sarebbe strana voglia;
perché deve esso rispondere alla naturale disposi-
zione fìsica ed intellettuale del giovane, allo stato
206
della sua famiglia, ed a qaelli svarialissimi acciden-
tali fatti, che ogni dì accadono, e che possono ren-
dere pili conveniente 1' uno che 1' altro deside-
rio. Solo posso in genere affernnare , che il vivo
intendimento di diventar dotto nelle scienze fisiche o
nella buona letteratura può ragionevolmente essere
agli altri anteposto.
11 ricco signore trova nelle scienze fisiche la parte
meccanica che sensibilmente lo diletta; trova la parte
intellettuale che per mezzo delle matematiche lo
aggrandisce e lo sublima; e trova il modo da spen-
dere il suo danaro con sommo piacer suo, con or-
namento della sua famiglia e della sua patria , e
con utilità di quello scientifico ramo, che distingue
le nazioni e con eterna fama le glorifica.
Non meno delle scienze fisiche vale a questo
fine la buona letteratura. Dico la buona, perchè la
comunale per l' immenso danno che ha recato, e va
recando, dovrebbe dalla divina provvidenza esser di-
strutta. Quella letteratura che molti sogliono ap-
prendere studiando in grammatica ed in rettorica
assai parcamente, ed a cui dà un misero soccorso
la filosofia di talune nostre scuole, è stata ed è quasi
sempre la principal cagione, per cui infinito è il nu-
mero di coloro che scrivendo versi e prose si di-
cono letterati, e che per la traboccante moltitudine
sono lo scherno degl' ignoranti, e tali pur sono degli
assennali per la sconcezza del dettato e per gli strani
o falsi e talvolta ridevoli concetti.
Nelle scienze fisiche non può aver luogo la in-
gannevole fama: poiché posto il caso in cui un istrio-
ne possa vanagloriosamente parlarne in qualche bra-
207
no, 0 farvi qualche meccanica esperienza, un sol
problema in matematica basta per ismascherarlo.
Ma in letteratura chi tratta un tema che diletta gli
oziosi, 0 che soddisfa il desiderio dei capi di parte
o del numero maggiore di coloro che parteggiano;
chi in un'accademia calcata recita versi e prose giu-
dicate con l'udito, e non con l' intelletto: chi stampa
un grosso volume, e sa menarne romore: tutti co-
storo possono salire in fama, e dai soli letterati me-
tafìsici profondi possono essere ben giudicati.
Il buon padre che guida il suo figliuolo deve,
dopo aver conosciuto la sua buona disposizione alla
letteratura, con sodo ragionamento mostrare e chio-
sare questa verità, onde il suo giovane sia fra i veri,
e non fra i falsi letterati. Egli deve mostrargli an-
cora che il ricco signore, assai più che il semplice
cittadino, reca danno con la fallace letteratura; per-
chè , non volendo considerare il male che egli fa
per se stesso con il suo falso stile , e con gì' in-
giusti suoi giudizi, si fa centro di attrazione di lutti
coloro che lo somigliano. Egli come sole nel centro
del sistema planetario illumina tutti quei pianeti
e quei satelliti che gli fanno corona; ma di quella
luce che rischiara la persona, e non vivifica l' in-
telletto, che via più si abbuia.
XI. Il desiderio di comandare è un altro affetto
che nel giovane sollecitamente si manifesta, e che
il buon padre deve saviamente regolare. Chi ne vuol
vedere la sollecitudine, ponga mente ai puerili tra-
stulli, dove l'uno all'altro contrasta il finto e mo-
mentaneo comando; e chi vuol conoscerne la vio-
lenza, lasciando slare la moderna, trascorra l'antica
208
istoria, e consideri fra i molti fatti quelli di Eteocle
e Polinice, di Geta e Caracalla. Questo violento af-
fetto non può essere nel cuore umano distrutto, ma
deve insensibilmente andar dispiegando le sue forze,
e può e deve essere fin dai primi tempi ben diretto.
Io mi sono più volte meravigliato di taluni giovani
che dopo il ventesimo primo anno della età loro,
essendo liberi dal pedagogo, potevano liberamente
qua e là vagare ed operare a loro talento; ed assai
pili mi sono meravigliato di taluni altri, che per la
morte del padre diventati anzi tempo padroni di
ricco avere , a guisa di sfrenato e focoso cavallo
galoppando , calpestavano persone e cose che do-
vevano essere da essi venerate. Il comando è simile
al poderoso vino che dà la sconcia ebbrezza a chi
non è di questo usato; ed a chi ne incomincia l'uso
conveniente fin dalla fanciullezza, accresce robustezza
di stomaco e di tutta la persona. Nelle case dei
ricchi signori sono molti e vari uffici piiì o meno
difficili, più 0 meno importanti. Ed il sagace padre
deve alla cura del suo figliuolo comtnetterli, inco-
minciando dal più facile e meno importante fino a
quello che dà la potestà di fare le sue veci. Per
questo modo senza alcun danno si soddisfa il desi-
derio del comando.
XII. La politica pure non tarda molto ad occu-
pare la mente del giovane, si perchè questa spesso
è congiunta al desiderio del comando, e sì ancora
perchè nel nostro tempo è diventata una generale
dottrina. Benché Brunetto Latini dica « che la politica
)) è la più alta scienza ed il più nobil mestiero
» che sia infra gli uomini, ch'ella insegna governare
2t)9
» genti e regni e popoli delle cittadi, e un comune
» in tempo di pace e di guerra secondo ragione ,
» e secondo giustizia , e e' insegna tutte le arti e
» mestieri che sono bisogno alla vita dell'uomo; »
benché ciò sia stato detto da quel valente scrittore,
pure vediamo che dall'ultimo uomo volgare fino al
più alto signore tutti ora si mostrano gran maestri
di questa difficilissima scienza; e non mostrandosi
punto dubbiosi, giudicano e condannano chi governa
comuni e regni, quale che esso sia. Qual danno ap-
porti questo cieco giudizio, io non lo dico perchè
ognun lo vede; voglio soltanto accennare la perpetua
discordia fra chi governa ed i governati. Affinchè
il buon padre possa cansare il suo figlio da questo
pericoloso scoglio, deve eccitargli l'amor proprio, di-
cendo che tranne i ministri, che conoscono i segreti
delle corti, tutti quelli che parlano di politica pec-
cano in logica. E a dire il vero questa, che dicono
chiave delle scienze, e' insegna come con le cose note
si possono conoscere le ignote, e che tale è il fine
del sillogismo ; e che perciò i matematici hanno
bisogno dei dati per risolvere un problema. Ora come
può avere quelle cose note e questi dati chi vede
l'operare dei governanti, ed ignora le cause che li
muovono e li sospingono ? Questo che io dico po-
trebbe togliere al giovane la voglia di parlare di
politica, 0 almeno renderlo molto cauto in sì fatta
materia.
Ma nel caso che egli abbia atteso sagacemente
alla letteratura vera, la quale assai bene si congiunge
colle dottrine morali, e che o per se o per l'altezza
della sua famiglia conosca i fatti di chi governa ,
G.A.T.CLXIII. U
210
e le cagioni moventi, e vede che non sempre dirit-
tamente si procede, non deve palesamenle meravi-
gliarsene , molto meno vituperar chi che sia ; ma
valersi della sua buona letteratura per far sì che
con modi riverenti e sommesse parole chi governa
conosca il vero e non se ne adonti. Non è vietato
volgere l'umile discorso al suo principe per dir quello
che giova ai suoi soggetti, e rende più lucente il
suo seggio e la sua storia. Vituperevolissima cosa
è il menar rumore , mettendo in piena luce quei
fatti non giusti, in lutti i loro lati per ombrare il
regio soglio, per togliere dal cuore de' sudditi l'amore
verso il loro signore, o per sensibilmente intiepi-
dirlo. Questo è uno de' principali doveri della let-
teratura vera, che per diritta opposizione rimbecca
quella falsa , che ha cercato e cerca di travolgere
il mondo tempestosamente.
A siffatto modo di pensare e di operare, già sta-
bilito nella mente del ricco giovine signore , deve
essere unita la conoscenza di quella rete che ordi-
scono coloro, i quali, dopo aver qua e là seminato
le loro false dottrine, vengono a fatti con generale
turbamento.
Debbono i ricchi giovani signori sapere, che in
quasi tutte le forme di governo i comuni sono com-
posti di volgari, di cittadini e di potentati. 1 vol-
gari, benché garruli e non contenti del loro stalo,
non sogliono formar congreghe, se da qualche pos-
sente non sono o direttamente o per mezzo di loro
capi eccitati con oro e con promesse. Il secolo nostro
ce ne dà continue provo. Dopo che questo possente
ha foruìalo la sua congrega, pone tutta la sua cura
211
di annovoraivi molti altri cittadini e taluni ricchi
giovani signori; e li va stimolando con ogni genero
di lusinghe, e più con la soddisfii/.ione del desiderato
comando. Questa reto vuol essei' nota ai giovani
ricchi signori, che debbono esserne in continuo so-
spetto per non esservi presi.
XIII. Non altrimenti che alle anzidette cose deve
por niente il savio padre al contegno del figlio verso
coloro con cui questi ha da conversare. Il contegno
dei gran signori può nascondere i loro vizi e le loro
virtij; e perciò debbono essi aver molto accorgimento
per bene usarne. A me pare che in prima sia ne-
cessario distinguere le condizioni , perchè secondo
queste deve il signore variare o modificare il suo
contegno. Co' suoi pari basta la comun;d cortesia,
che egli deve avere appresa: co' volgari convenien-
tissima è la carità evangelica adoperata in modo
che non li inorgoglisca, nò che vilmente li umili ;
co' cittadini è necessario un misto di carità e di
cortesia , variandone al bisogno le proporzioni ; e
con coloro che son ricchi d' ingegno e di dottrina
fa solo snestieri il non mostrarsi superiori ad essi
per nobiltà di sangue o per soperchiante ricchezza.
Il ricco signore, trattando co' veri savi, deve chia-
ramente mostrare che li distingue non solo dai vol-
gari e dai cittadini , ma da quella immensa turba
de' falsi letterali e de' filsi scienziati. Questa giusta
distinzione anima i veri seguaci di Sofia, e rattiene,
per quanto ò possibile, la tracotanza delle ingan-
natrici larve. Ed oltre a ciò , se il signore è per
intellettuale valore simile al savio, possono costoro
212
a vicenda vie più istruirsi; e se il signore è meno
valente, può riceverne utilissimi consigli.
XIV. La religione deve più che ogni altro tema
esser trattata nei paterni ragionamenti, non solo per
vieppiù confermare il figliuolo nelle verità fin dalla
puerizia apprese, ma per render vani i maligni in-
citamenti, e per moderare i troppo vivi affetti della
calda politica. Vuoisi dal buon padre dimostrare che
la religione nostra, con la mercede d^lla vita futura,
è sicura guida e dolce conforto della presente; che
è tutta concorde colle leggi naturali e civili; e che
gli uomini in società raccolti , coaie non possono
né da queste né da quelle esser disciolti, così non
possono essere senza religione congiunti. E per la
parte, di cui la politica si serve come esca ed uc-
cello di richiamo, io dovrei mettere a fronte a fronte
la religione nostra con quella delle altre genti; ma
ciò sarebbe fuor del mio proposito, ne io sarei da
tanto. Non però voglio tacere dei protestanti, che
più degli altri s' ingegnano di dilatare i loro con-
fini; e perciò dico che, lasciando stai-e gli altri er-
rori, si noti quello del senso privalo. Nessuno è buon
(jiudice in causa propria: questo generale proverbio
suona in bocca del volgo, e in quella del più sagace
legista. I molti e svaria tissimi nostri affetti offu-
scano la nostra mente, e non solo ci fanno errare
sovente, ma in alcuni punti ci fanno essere costan-
temente torti. Come dunque può il protestante es-
ser sicuro del senso pi-ivato ? cioè del giudizio che
egli per se, e da se solo, crede giusto ? E come può
con esso non solo regolare la sua coscienza , ma
l'operar suo verso se , verso il prossimo , e verso
213
Dio ? E costoro , che cocamenlo si confidano nel
loro senso privato, sono quei medesimi che vitu-
perano le monarchie, se dai calcati parlamenli non
sono frenate e corrette. Ma più là non voglio inol-
trare il passo per una via dove si sono messi molli
fastidiosi novatori. Dico fastidiosi, non perchè a me
spiacciano le cose nuove, ma perchè vorrei che prima
di accettarle fossero assai ben ponderate. Se il mio
scritto pubblicato colle stampe nel 1850 non avesse
col solo suo titolo (desiderio di concordia senza spi-
rito di parte) rattenuta la gente , che quasi tutta
parteggia, dal leggerlo, si sarebbe con esso chiara-
mente veduto che sono progressista ancor io ; ma
che progredendo, vorrei aver sempre allato la lo-
gica e la buona morale.
XV. Lo zelante ed accorto genitore , che con-
siglia e guida suo figlio , por deve ancor 1' animo
ad indicare il modo di far buon uso delle ricchez-
ze. Il trovare il come spendere il danaro conve-
nientemente è il problema il più diffìcile che pro-
por si possa ad un ricco signore. Molti di essi ere-
dono di potere a lor talento, e meglio direi a lor
capriccio, o spendere o accumulare o fondere le loro
ricchezze, lo credo che la Divina Provvidenza metta
pei comuni alcune ricchissime famiglie per pubblico
bene, lo assomiglio ciascuna di queste ad una co-
piosa fontana , cui segue una larghissima conca ,
dove l'acqua si raccoglie e da dove escono molti
ruscelli, che per diversi rivi si spandono in un vasto
campo ripieno di diversi seminati e di diverse piante,
ed innaffiano quelli e queste secondo i bisogni che
hanno per ben vegetare. La ubertosa fontana è sim-
214
bolo (Iella co[»iosa entrata ; 1' acqua adunata nella
larga conca ò il danaro messo nei forzieri; ed i ru-
scelli sono lo scompartimento che se ne fa ai di-
versi ministri nobili, cittadini e volgari pei loro di-
versi offici.
Ora se dalla conca esce una copia d'acqua mag-
giore di quella che essa riceve dalla fontana, alcuni
ruscelli rimangono a secco, e forse quelli [uh ne-
cessari o più utili ; se minore , l'acqua riversa ed
infruttuosamente si disperde per lo campo; e se i
ruscelli non portano il conveniente umore ai diversi
seminati ed alle diverse piante, il troppo fa sì che
quelli e queste s' infracidano, ed il poco fa gli uni
e le altie soIlccitarDcnte seccare. Affinchè con que-
sta comparazione si mostri il giusto modo con cui
(1 ricco signore deve far uso delle sue licchezze ,
a me non pare necessario lo spendervi più parole.
Ecco, mio carissimo duca, la prosa che ho ag-
giunto alle mie terzine per piesentarvi la fedele im-
magine della mia mente. Essendo tale il mio fine
precipuo , a me poco importa 1' esser quasi certo
che questo ancora sarcà come gli altri miei scritti
negletto. Ciò non ostante voglio dirvi che, se fra
lo scarsissimo numero di coloro che per istrana ven-
tura Io leggeranno, vi sarà colui che per altra ven-
tura più strana ancora abbia voglia di ragionarne,
vi prego di diigli che io scrivendo di siffatta ma-
teria desidero il vero pubblico bene senza civili tur-
bamenti ; che per natura , per costume e per ra-
gionamento anjo la pace ; e che ho quest' amore
apertamente significato nei seguenti versi della mia
Visione poetica C. XX ;
21S
30. Io fui mai sempre amico della pace :
E nelle antiche storie e nelle nuove
Stizzosamente la maligna face
31 . Della Discordia io sempre guato ; e dove
Discerno la cagione che raccende,
E veggo la persona che la muove,
32. Vorrei lanciarmi per squarciar la benda,
Che non lascia veder come quel foco
Nella parte miglior ratto si apprenda.
E se lo vedete paziente e maravigliato dell' ardi-
mento mio nel pubblicare con le stampe questi bre-
vissimi saggi di filosofia morale nel tempo che tutto
il mondo è in gran tempesta , e in ogni dove si
ragiona dei diritti e dei destini de' più antichi reami
e dei più vasti imperi; gli direte, che se la voce dì
un uomo in basso stato è nel nostro tempo vana,
tale forse non sarebbe quella di un possente av-
valorata dall'eco di molti dotti ed onesti scrittori,
e che nelle grandi imprese è pur lodevole il solo
tentarle. State sano e come rupe nelle vostre virtù
civili fermissimo.
216
Terapia. Di Vincenzo Catalani dottore in medicina e
chirurgia. (Continuazione)
SEZIONE QUARTA.
Entiatemesi.
CAPO PBIMO.
Definizione.
L
ematemesi ò il vomito di sansue o rosso-florido
o^
e fluido , o atro e coagulalo in grumi ; o puro o
mischiato colle deglutite sostanze. Che emanato dal-
l' interna superficie del ventricolo e dalle contigue
parti, esce per il cardias e per il piloro, e per se-
cesso e per vomito scappa dal corpo.
CAPO SFXONDO.
Forma.
1 prodromi dell*ematemesi sono l'addominale ten-
sione, la dolorosa epigastria sensazione, la palpita-
zione, la diffìcile respirazione, il singhiozzo, la car-
dialgia, l'aberrazione della sete e della fame, la flatu-
lenza, la nausa, il vomito, ed il nauseante dolciume
che nella bocca sentesi, e la lemittente e lenta or-
ganica reazione. Fenomeni, che oltre il non essere
217
continui, egualmente in lutti non si manifestano, e
compariscono e scompaiiscono ; e senza tosse vo-
mitasi poi 0 puro sangue, o disciolto o coagulalo,
0 corrotto e fetido, o mescolato alle biliose zavorre.
Ed il sangue dall' interna ventricolare superficie ema-
nato, non solo scappa per l'esofago, ed anche scorre
per r intestinale tubo; e per vomito e per secesso
viene espulso dal corpo.
CAPO TERZO.
Cattse remote.
Ed all'ematemesi predispone il vizio organico ,
l'anemia e principalmente la pletora. E cause de-
terminanti sono l'epigastrica compressione, i corpi
esterni, vivi che mordono, e morti che corrodono;
lo scorbuto, la lenta gastrite, il cancro, e la scom-
parsa del flusso emorroidale e della mcnsilericorrenza.
CAPO QUARTO.
Causa prossima.
E dell'ematecnesi la condizione è la mancanza
della correlativa corrispondenza tra la capillare re-
sistenza, la crasi e 1' impeto del sangue; per cui in
parte versatosi nel ventricolo è, per l'apertura car-
diaca e pilorica, espulso dal corpo o per vomito o
per secesso.
218
CAPO QUINTO.
Necroscopici.
Nel cadavere, di chi per ematemesi era morto,
è stata trovata la ventricolare mucosa arrossata, in-
gorgata, biancata ed anemica. Varicose e dilatate le
vene, ed aperte le arteriose diramazioni. Scoriate le
glandole; ulceri estese e profonde; 1' indurimento, lo
scirro ed il ventricolare cancro.
CAPO SESTO.
Pronostico.
«
La stomacale emorragia è meno comune dell'al-
tre ; e più spesso nelle adulte femmine, che nelle
altre età e negli uomini comparisce. E la conse-
cutiva alla pletora ed alla scomparsa del flusso emor-
roidale e della mensile ricorrenza facilmente col
salasso guariscesi , e col richiamare le scomparse
evacuazioni. Spesso ritorna; ed è anche periodica;
e raramente ò strabocchévole al segno da farci al-
l' istante morire.
CAPO SETTIMO.
CAira.
Alla pletorica ematemesi giova il salasso ed il
piediluvio , che dallo stomaco allontana il sangue.
I
219
Ed alla consecutiva alla scomparsa dell'ediorroidale
flusso , e della mensile l'icorrenza nella vulva e
nell'ano le sanguisughe si attaccano. E le giovano
gli acidi e la china, se dallo scorbuto ella deriva.
Ed alla stenia succedendo l'adinamia, l'astringente
prescrivesi; e le languenti forze si rianimano, e si
nutrisce alquanto V infermo. Internamente poi vo-
lendosi il freddo applicare, affinchè sia giovevole,
deve essere continuo, altrimenti nuoce. Esternamente
poi applicato è sempre nocevole. Mentre è impos-
sibile che raffreddi la superficie intei-na del ventricolo.
Altro adunque non fa, che farci afifluiie maggiore
copia di sangue. Ecco come i rimedi dagli inesperti
prescritti giovano a caso, e quasi sempre nocciono.
SEZIONE QUINTA.
Enteroragia.
CAPO PRIMO.
Definizione.
■'tei
L'enteroragia è il sangue, che enjana dalla su-
perfìcie interna del tubo intestinale; che non è flusso
emorroidale , e che se congiungesi alla stomacale
emorragia dicesi melena.
220
CAPO SECONDO.
Forma.
L'enteroragia è l'anello, che congiunge l'ema-
lemesi all' emorroidale flusso. E Y appariscente sua
manifestazione consiste nella forma dell'una e del-
l'altra. Ed è la tipica espressione della gastro-en-
terica emorragia. In questa come in quelle versasi
sangue per secesso e per vomito. Per poco sangue
che versasi, talora si muore; tale altra molto se ne
versa e si guarisce; ed il caso contrario può anche
succedere. Una sola volta può comparire, ed anche
più volte , e prendere un tipo ; e durare qualche
giorno, ed anche maggiormente prolungarsi.
CAPO TERZO.
Cause remole.
All'enteroragia ci predispongono la pletora ed il
bilioso temperamento. E ce la determina la cronica
enterite, la follicolare esulcerazione, lo scirro ed il
cancro, la verminosa zavorra, l'intempestiva scom-
parsa del flusso emorroidale e della mensile ricor-
renza.
CAPO QUARTO.
Causa prossima.
E causa prossima dell'cnteroragia è o la potenza,
221
che direttamente consuma l' intestinale mucosa, ed
apre i vasi; o il rilasciamento dell'enterica capilla-
l'ilà, per cui non più completamente reagisce all' im-
peto del sangue, e lo lascia in parte scappare.
CAPO QUINTO.
Necroscopia.
Nel cadavere, di chi per enteroragia era morto,
è stato trovato poco ed anche disciolto sangue. K
neir intestinale tubo sangue aggrumalo e sciolto.
E r interna mucosa ora rilasciata e bianca ta; ed ora
arrossata ed ingorgata. I vasi dilatati e varicosi, i
follicoli esulcerati, e la parete intestinale perforata,
indurita, scirrosa e cancerosa.
CAPO SESTO.
Pronostico.
La melroragia, che dalla pletora deriva, facil-
mente guariscesi; e segue i pericoli della malattia
la sintomatica; a cui è anche complicazione fune-
sta. Qualche volta versasi poco sangue, e si muore;
allre moltissimo, e si campa; ed anche ha luogo il
contrario caso. Una sola volta comparisce, e si di-
legua, e non ritorna; ritorna ancora, e prende pe-
riodico corso. Può esservi una sola cruenta evacua-
zione, e molte ancora; e persistere oltre alla decima
giornata; e chi la soffre sfinire per la continua per-
dita di sangue.
222
C.\PO SETTIMO.
Cura.
Se dalla pletora dipende , cavasi sangue ; e se
dall' intempestiva scomparsa del flusso emorroidale
^ dalla mensile ricorrenza, si attaccano le sangui-
sughe nell'ano e nella vulva, e si fanno i profondi
e caldi piediluvi. E la freddo-oppiata bevanda in-
troducesi per le due estremità del gastro-enterico
canale; in cui si introducono egualmente gli astrin-
genti; verbigrazia, la ratania, la limonata vegetabile
e la minerale, l'acqua di Rabel e l'emostatica del
Pagliari.
SEZIONE SESTA.
Atro-gastro-enteroragia.
CAPO PRIMO.
Definizione.
L'atro-gisstro-enteroragia ò il sangue nero e vi-
scoso, che dopo avere stagnato negli infarciti vasi,
stravasa dalla superficie interna del tubo-gastro-cn-
terico ; e che egualmente è poi espulso dal corpo
per vomito e p(M' secesso.
223
CAPO SECONDO.
Forma.
Ai macilenti ipocondrici, paUido-gialIaslri e ver-
dognoli si tumefà e duole il ventre; ed agli addo-
minali dolori succedono i borborismi ed i toimini.
Gli si stremano le forze , gli vacillano i sensi , e
cadono in eminente lipotomia. E poi gli si aprono
le varici, egli infarciti vasi nelK interno del gaslro-
enterico-canale ; in cui versasi viscoso e nerissimo
sangue, che dal corpo viene espulso per vomito e
per secesso.
CAPO TERZO.
Cause remote.
La predisposizione all'atro-gastro-enterico-etnor-
ragia è la venosa [)revalenza nel bilioso ii)ocondrico;
cui innalzano alla condizione di malattia le debili-
tanti e disorganizzanti potenze, che la debolezza e
la corruzione determinano , e nel tubo gasti-o-en-
terico maggior copia di sangue spingono impuro e
corrotto.
CAPO QUARTO.
Causa prossima.
La condizione dell' atro-gaslro-enterica-emor-
ragia ò il venoso temperamento, ed il rilasciamento
della capillarità della superficie interna del gastro-
224
enterico opinale; per cui prima ii sangue vi ristagna
e si conompe; e poi viscoso e nero nel canale si
versa, e per le due estremità si rigetta.
CAPO QUINTO.
Necroscopia.
Nel cadavere, di chi per l'atro-gastro-enterica-
emorragìa era morto, ò stata trovata la superficie
interna del gastro-enterico-caoale intonacata di vi-
scoso e nerissimo sangue. Che essendo stata la mu-
cosa lavala, è stata trovata varicosa, esulcerata, e
in vari luoghi staccata dalla sottoposta membrana.
CAPO SESTO.
Pronostico.
Il pronostico dell'atro-gastro-enterica- emorragia
è sempre funesto; e di sperarne la g\iarigione non
vi è ragione, se alla tifoide congiungesi.
CAPO SETTIMO.
Cura.
Oltre alla cura del morbo, di cui ella può es-
sere 0 consecutiva, o complicazione, o sintomatica
manifestazione; sempre bene internamente le fanno
il succo della mela granata, la fredda e gelata acqua,
la minerale e la vegetabile limonata. E nella emi-
225
«ente lipotomia ricoriesi al siero alluminoso e al-
l'alcool disciolto in freddissima acqua; ed anche ie
giova l'acqua emostatica del Rabel e del Pagliari.
SEZIONE SETTIMA.
Emorroide.
CAPO PRIMO.
Definizione.
L'emorraidale flusso è lo scolo che proviene dal
retto , e che scappa dall'ano , di puro sangue , ed
anche di sierosità e di materia puriforme. Cui co-
gnominarono occulta, interna, cieca, bianca, mucosa,
critica, sintomatica, abituale, periodica, secondaria e
primaria.
CAPO SECONDO.
Foìma.
I prodromi degli emorroidali tumori, che devono
venire fuori, sono i brividi, il vago dolore e certa
dorsale e lombare oppressione, e la bianca e mucosa
evacuazione, a cui succede lo scolo di sangue. Qual-
che volta non escono, e poco crescono; ed escono an-
cora, e molto si ingrossano ; e difficile, ed anche
impossibile rendono l'alvina evacuazione. Incomodo
il movimento diventa, e penosa la stazione; e chi
le soffre è abbattuto e dolente. 11 dolore limitasi
nel retto, ed anche maggiormente estendesi, colica
G.A.T.CLXIII. 15
226
emorroidale. E la prodrometria dell'emorroidale flusso
dall' una estendesi alla decima giornata ; e poi in-
comincia a colare il sangue , e viene rimettendosi
il penoso stato. Spesso nella medesima maniera ri-
compariscono e rispariscono; vaghe frequentemente
sono, e raramente periodiche.
CAPO TERZO.
Cause remote.
11 temperamento sanguigno-bilioso all' emor-
roidale flusso predispone ; cui determinano i nu-
trienti, gli eccitanti, la venere, la stazione, l'equi-
tazione, la costipazione, e l'abuso dei purganti.
CAPO QUARTO.
Causa prossima.
La condizione del flusso emoroidale è il rilascia-
mento delle membrane dei vasi emorroidali; per cui
essi cedono , e non resistono all' impeto del san-
gue; sì dilatano, formano tumori, e versano sangue.
CAPO QUINTO.
Necroscopia.
In principio trasuda il sangue, senza che vi siano
tumori, ed il retto intestino è rosso ed ingorgato.
In seguito formansi i tumori; che in principio sono
227
semplici varici; poi cisti a cellulose pareti; ed infine
erettili tumori di annulare tessuto con sviluppala rete.
Ora poco crescono ; ed ora molto si estendono, e
sono mostruosi; suppurano, ed anche si gangrenano.
CAPO SESTO.
Pronostico.
Prevengonsi l'emorroidi; e difficilmente guariscon-
si , se venute sono fuori. Irritandole infilamraansi ,
suppurano, ed anche si gangrenaoo. Intempestiva-
mente represse , producono interni malanni ; che ,
non richiamandole presto, fannoci anche morire.
CAPO SETTIMO.
Cura.
Si combattono le nascenti emorroidi; e non si re-
primono , se a sollievo d' altro malanno fluiscono.
E se contratta hanno abitudine , si lasciano fare ;
e moderansi, se smodate sono. Alla turgida, infiam-
mata e non fluente emorroide attaccansi le sangui-
sughe nell'ano; ed anche giovale il cataplasma am-
molliente. Ed alla intempestiva scomparsa, altro peg-
giore malanno venendo fuori, devonsi prestamente
richiamare o col vapore dell'acqua bollente, o colle
sanguisughe nell'anno attaccate. E per sempre dif-
ficilmente guarisconsi; e gli astringenti localmente
applicati, la legatura, l' incisione e l'escisione sono
cose pericolose, e quasi sempre riprovevoli.
228
SEZIONE OTTAVA.
Uropoìetragia.
CAPO PRIMO.
Definizione.
L'ui'opoietragia è la sanguigna emanazione, che
se compiesi nei reni dicesi renale, negli ureteri ure-
terica, nella vescica vescicale, nell'uretra emorragia
uretrale o m'etroragia. E solo d'una di queste parti,
0 successivamente dall'una e dall'altra, o da tutte
nello stesso tempo il sangue emana.
CAPO SECONDO.
Forma.
Il sangue morbosamente emana dai reni, dagli
ureteri, dalla vescica e dall'uretra. E nella sanguigna
renale emanazione sentesi calore, fastidiosa gravezza,
e incomoda lombare tensione. E poco sangue emana
dalla superfìcie interna degli ureteri; in cui il ca-
lore , la gravezza ed il dolore sentesi nello spazio
interposto tra i reni ed il trigone vescicale. E sen-
tesi ardore, peso e dolore ipogastrigo, se il sangue
emana dalla sola interna superficie della vescica. E
piccoli e concentrati sono i polsi, freddo il sudore,
e ricorrente la lipotomia. E gli ipogastrici incomodi
della ematuria quasi sempre sono interposti da sfug-
229
gevole organiga reazione. E sentesi poi nell'uretre-
ragia, lungo all' uretra, bruciore, tensione, ed an-^
che vi è erezione e priapismo. Tale quadruplice san-
guigna emanazione, che dal medesimo fuori il san-
gue dal corpo scappa; ora è periodica e vaga; ed ora
primaria e sintomatica; ora attiva, ed ora passiva; ora
critica, ed ora acritica e traumatica.
CAPO TERZO.
Cause remote.
Il venoso temperamento e la pletora all'uropo^
ietragia predispongono; cui innalzano alla condizione
di malattia le percosse, l'equitazione, i diuretici, i
calcoli, la lenta infiammazione, le ulceri, Io scirro»
il carcinoma, e la scomparsa del flusso emorroidale
e della mensile ricorrenza^
CAPO QUARTO.
Causa prossima.
La condizione dell'emanazione sanguigna renale,
Ureterica, vescicale e uretrale è o la potenza chi-
mico-organica, che lacera e rompe i vasi, per cui ver-
sasi sangue; o il rilasciamento della capillarità; che di-
ramasi neir interna superficie del sistema uro-poìe-
tico, per cui non più resiste all' impeto del sangue*
che dai vasi scappa.
230
CAPO QUINTO.
Necroscopia.
I reni sono stati trovati nei cadaveri, di chi per
«ropoietragia era morto , ipertrofizzati , ulcerali e
tubercolosi, induriti ed anche rammolliti, ingorgati
e varicosi, ed anche bìancati ed esangui. Gli ureteri
dilatati; ulcerati, ingorgati e varicosi, ed anche ri-
stretti e rammolliti. E la vescica esangue e ram-
mollita; e spesso ingorgata, varicosa, scirrosa e car-
cinomolosa. E l'uretra quasi sempre ingorgata ed
ulcerata. Organiche alterazioni, che non sono state
trovate in un cadavere; e che sono il sunto, di ciò
che si è osservato nell'autopsie, che sono state fatte.
CAPO SESTO.
Pronostico.
Tanto pericolosa non è la pletorica uropoietragìa,
che ce la mantiene o la scomparsa d'altra sanguigna
evacuazione, che facilmente può richiamarsi, o l'equi-
tazione, 0 l'abuso dei diuretici. E molto pericolosa
è quando deriva dall'universale rilasciamento della
capillarità del sistema uro-poietico,e che all'adinamia
congiungesi.
■*-*.
^1
CAPO SETTIMO.
Cura.
La cura non discorriamo, che cura le malattie»
di cui ella è sintomatica. E nell' attiva , finché vi
è pletora, caviamo sangue. E nell'intempestiva scom-
parsa del flusso emorroidale e della mensile ricor-
renza , le sanguisughe nella vulva e nell' ano at-
tacchiamo. E promoviamo la intestinale revulzione|
e la bevanda fredda e sub-acida prescriviamo. Alla
passiva uropoietragia male fanno i rilascianti , e
le sottrazioni sanguigne; e bene si conviene il nu^
triente e 1' astringente. Ed alcuni forse malamente
prescrivono i rimedi» che allo stimolo congiungono
il restringimento ; verbigrazia, V elesir di vetriolo»
la polvere di Dower, la digitale, la corteccia peru-
viana, r allume , la gomma Kino , e 1' emostatiche
acque. E bene fanno nell* uretroragia le iniezioni
astringenti, e l' interna e l'esterna compressione*
SEZIONE NONA.
Metroragia.
CAPO PRIMO.
Definizione,
La metroragia è il sangue che, dai vasi uterini
emanando , scappa , per la vulva , al di fuori del
232
corpo. E la raonsile ricorrenza , nella nostra fem~
mina, non ò preternaturale emorragia ; e solo tale
la rende la strabocchevole quantità di sangue, che
dagli uterini vasi versasi.
CAPO SECONDO.
Forma.
La metroragia eminente annunciano i brividi da
vampe di calore interposti , il pieno duro e fre-
quente polso, il calore vaginale ed uterino, il peso
ed il lombare dolore, V intorpetimenlo e la lassezza
delle pelviche membra. E viene poi l'oripilazione >
ed il sangue incomincia a scorrere per la vagina.
Ed in contraria proporzione, che si versa, si dimi-
nuiscono i fenomeni di locale congestione. Dura per
tempo indeterminato; ed anche la quantità, che ver-
sasi, non è la stessa ; ed anche in poche ore fino
alla lipotomia versasi, e ritorna o no, per indeter-
minate volte.
CAPO TERZO.
Cause remote.
L'adolescenza, il sanguigno ed il nervoso tem-
peramento alla metroragia le fanciulle predispongono;
e ad esse la determinano l'abuso dei nutrienti, gli
stimolanti, il calore, gli emenagoghi, le commoventi
e deluse passioni, la non soddisfatta venere, e l'abuso
del sessuale piacere.
233
CAPO QUARTO.
Causa prossima.
La causa prossima della metroragia è la potenzn
che tronca i vasi e rilascia e indebolisce la capil-
larità, che diramasi nella interna superficie dell'utero
e della vagina; per cui non più resiste all' impeto
del sangue , che versasi e per la vulva dal corpo
scappa.
CAPO QUliNTO.
Necroscopia.
Nei cadaveri, di chi per metroragia erano morti,
in alcuni nulla di rimarchevole hanno trovato nel-
r interna superfìcie dell'utero e della vagina; ed in
altri hannovi trovate rosee macchie, vasi ingorgali
e varicosi, scirrosi indurimenti, polipi e sarcomi,
e cancerose degenerazioni. E corpi estranei hanno
ancora trovati neh' interna cavità dell'utero; verbi-
grazia, la placenta, le moli, ed i frastagli di feto.
CAPO SESTO.
Pronostico.
La metroragia anche una volta viene , e non
ritorna; spesso ritorna, e di raro diventa regolare
e tipica. Spesso è continua; e diverse giornate dura.
234
E se dura lungamente ed è abbondante, sfinisce e
consuma, e fa moiiie.
CAPO SETTIMO.
Cura.
Alla melroragia bene si applicano le cose, che
giovano alle altre cruenti evacuazioni. A cui l' in-
dividuale condizione determina la cura. Ed alla donna
atletica e pletorica , lasciasi il sangue liberamente
colare, finche vi è pletora. E se chi la soffre è de-
bole, e dalla stenia è alfadinamia passata , prima
si estraggono, se vi sono, i corpi dall'uterina cavità,
e poi ricorresi agli astringenti , ai nutrienti ed ai
corroboranti. E localmente gli astringenti ancora si
applicano; e se questi non giovano, al tamponamento
ricorresi.
CONCLUSIONE.
Abbiamo discorse le principali emanazioni san-
guigne ; e certe altee né meno le abbiamo nomi-
nale ; verbigrazia, quella che compiesi nella pelle,
nell'occhio , nell'orecchio , nell'ombellico , e d'ogni
parte del corpo, che tagliata versa sangue, emorra-
gia traumatica. Ed abbiamo solo esposto le prin-
cipali e tipiche cruenti emanazioni; perchè da quello
che abbiamo detto di queste facilmente rilevasi
ciò che potremmo dire delle altre. Una parte l'ab-
biamo lasciata a fare a chi legge; mentre negli altri
presupponiamo sempre mente e discernimento.
23G
PARTE SECONDA.
Emanazioni sieriose.
La sierosa emanazione è l'abbondante secrezione
ed escrezione di quasi aeriforme prodotto; che colla
forma di limpida e tenue sierosità scappa dall'esterne
e dalle interne superfìcie del corpo. Se dall'esterne
emana, la dicono sieroso profluvio; se dalla interna,
sierosa ritenzione. E noi che questa accidentalità non
calcoliamo, riuniamo l'une alle altre, e in questa
seconda parte 1' esponiamo. E come 1' emanazioni
sanguigne, solo le principali discorriamo; mentre in
chi legge ottimo discernimento noi supponiamo.
SEZIONE PRIMA.
Efidrosi.
CAPO PRIMO.
Definizione.
L' efidrosi è il parziale e il generale aumento
della insensibile traspirazione cutanea; a cui al di-
fetto di quantità congiungesi spesso quello di qua-
lità. E generale e parziale , sintomatica e critica ,
ed anche acritica e colliquativa.
236
CAPO SECONDO.
Forma.
Il sudore precede l'aumento del movimento car-
dìaco-vascolare e della calorificazione. I polsi si ac^
cellerano, ed il corpo si riscalda e suda; ed anche
si raffredda e suda; ed il sudore è viscoso e freddo^
Spesso dall' intera superfìcie del corpo emana, ge-
nerale ejìdrosi; e di raro parzialmente sudasi, par-
ziale efidrosi. E tenue e viscoso ; ed ora natural-
mente odora; ed ora l'odore che tramanda è ace-
toso, vinoso e cadaverico. E solamente non mutasi
l'odore; ma anche il sapore, il colore e la quantità.
Ora è giallo-pallido, ora luteo e croceo; ora ver-
dastro, ora sanguigno e ceruleo, ed ora nero. Ed
anche è moderato, abbondante, critico, acritico e
colliquativo.
CAPO TERZO.
Cause remote.
L' elevata temperatura è principale causa del-
l'efìdrosi. E quando generalmente e parzialmente ri-
scalda, la insensibile traspirazione aumenta.
CAPO QUARTO.
Causa prossima.
E la condizione, per cui sudasi, è l'aumentatasi
237
azione del sistema cardiaco-vascolare ; per cui il
sangue con maggiore impeto se ne viene nella pe-
riferia del corpo; e la pelle si riscalda, i pori e gli
esalanti si dilatano, ed il corpo di sudore bagnasi.
CAPO QUINTO.
Necroscoifia.
Invano cercasi nel cadavere la patologica con-
dizione, in chi vivendo fuvi colliquativo sudore. Im-
perocché se egli è leggero, non è pericoloso; e se
è abbondante e colliquativo, è sempre sintomatico
della malattia che fa morire.
CAPO SESTO.
Pronostico.
Il copioso e fetente sudore, che in certuni dal-
l'ascella e dalla pianta del piede emana, solo è pe-
ricoloso se intempestivamente sopprimesi. Ed il par-
ziale, il freddo e viscoso sudore non è cosa buona;
e pessimo è poi il colliquativo, che nelle gravi ma-
lattie le forze estrema. Buono è il critico, che non
devesi reprimere, ma che anzi bisogna favorire.
CAPO SETTIMO.
Cura.
Rimediasi al copioso acritico sudore col dimi-
238
nuire i panni che ci coprono, col moderare la tem-
peratura dell'aria che ci circonda, colla bevanda ri-
frescante, e coU'allontaparci dagli eccitanti e dai ri-
scaldanti che di soverchio la traspirazione promuo-
vono. Ed al sudore adinamico giovano i corrobo-
ranti; ed all'alassico gli antispasmodici. E favoriscesi
il critico ; ed il sintomatico curasi , col curare il
malanno che, ci fa sudare.
SEZIONE SECONDA.
Anasarca.
CAPO PRIMO.
Definizione.
L'anasarca è il sieroso infìltiamento del cellulare
tessuto; che può formarsi, come in fatto formasi ,
in qualsiasi parte ove esso trovasi. Cui dividono in
attiva e passiva, in primaria e secondaria ed in sin-
tomatica.
CAPO SECONDO.
Forma.
Svoli,esi sempre nell'attiva anasarca qualche flo-
gistico fenomeno; e nell'adinamica nulla di soverchio
eccitamento osservasi. In certe parti del corpo il
locale circoscrivesi; ed invade l'universale l'esterna
superfìcie del corpo , ed anche nell' interna esten-
desì. Lentamente viene; e quando è universale prin-
239
cipia attorno al malleolo ed al dorso del piede, e
poi estendesi verso le gambe, le cosce e lo scroto;
invade il petto, il collo, la testa e le toraciche mem-
bra , ed infine V addome e ovunque diffondesi. Ed
estendesi ancora l' infiltramento nell' interne parti
del corpo ; e nelle cavità sierose la sierosità ac-
cumulasi.
CAPO TERZO.
Cause remole.
Segue principalmente l'anasarca l'erisipela ede-
matosa. E le femmine e i vecchi sonovi maggior-
mente predisposti. E nella femmina meglio viene
fuori nel venire meno la mensile ricorrenza. E poi
la determina quando impedisce I' abituale evacua-
zione, e che la cutanea deflorescenza determina.
CAPO QUARTO.
Causa prossima.
L' anasarchica condizione ascondesi nella lenta
ed anche istantanea soppressione della sierosa eva-
cuazione; per cui la sierosità non potendo più dal
corpo scappare si accumula e adinamicamente ingorga
il cellulare tessuto.
240
CAPO QUINTO.
Necroscopia.
Le anatomiche investigazioni dell'edematose parti
hanno mostrato il cellulare tessuto turgido e di sie-
rosità inzuppato , ed anche arrossato e di sangue
ingorgato, e qua e là indurito, e contenente marcia
sierosa e sanguinolenta.
CAPO SESTO.
Pronostico.
Spontaneamente anche, nei giovani, o col sudore
o coH'orina risolvesi: e colla sanguigna emanazione,
se lo mantiene l' irritazione e la lenta infiammazione.
E non più ritorna guaritasi , ed anche facilmente
riproducesi. Ora si limita, ed ora maggiormente si
diffonde. E nella vecchiaia facilmente V esterna e
r interne superficie invade; ed il vecchio fa lenta-
mente morire.
CAPO SETTIMO.
Cura.
Il morbo primario che si guarisce, la sintoma-
tica anasarca risolve. E gli antiflogistici ed i re-
vulsivi sono indicati all'attiva, ed alla consecutiva
alla cutanea dcflorescenza. Ed il salasso le nuoce,
241
dileguala che siasi la morbosa irritazione. E bene
allora le fanno i tonici, che le languenti forze so-
stengono; e gli evacuanti; verbigrazia, gli emeto-ca-
tartici, i diuretici e i diaforetici.
SEZIONE TERZA.
Idrotorace.
CAPO PRIMO.
Definizione.
L' idrotorace è la sierosa colluvie nell' esterna
superficie o costale o polmonare, o nella cavità della
pleura; che raramente è primaria, e che quasi sem-
pre è consecutiva alla pleuro-pneumonite. E l'esala-
zione, che l'assorbimento predomina, è la condizione
che lo determina.
CAPO SECONDO.
Forma.
Difficile la respirazione diventa, di mano in mano
che la sierosa colluvie viene formandosi. E chi la
soffre si riposa nel lato che la contiene ; e giace
supino, se doppia è la sierosa colluvie. E percossa
nel di sopra la parte, che nel di sotto vi è accu-
mulata la sierosità, dà un suono ottuso. E nel lato
opposto, in cui non v' è la sierosa colluvie, com-
piesi la puerile respirazione. Ed al romore respira-
G.A.T.CLXIII. 16
242
torio succede la bronchiale respirazione nel polmone
o nei polmoni , in cui è la sierosità raccolta. E
la parte che la contiene si estende, e lo spazio in-
tercostale si dilata; ed anche vi si sente l' interna
fluttuazione.
CAPO TERZO.
Cattse remote.
L' idrotorace spesso ò consecutivo al vizio or-
ganico , ed alla lenta pleuro-pneumonite. E queste
morbose condizioni pare che ne siano la predispo-
sizione, ed anche la causa determinante.
CAPO QUARTO.
Causa prossima.
E la condizione dell' idrotorace è la maggiore
estensione dell'esalante a carico del momento as-
sorbente: per cui segregasi più di ciò che assorbesi,
e la toracica cavità riempiasi di sierosità.
CAPO QUINTO.
Necroscopia.
La pleura nei cadaveri , di chi per idrotorace
erano morti, è stata trovata opaca e granulosa. E
nel di fuori e nel di dentro copiosa sierosità citri-
na, e alquanto rossa, in cui ondeggivano fiocchi di
concreta fibrina. E nella superficie costale e poi-
243
monare, e nella cavità sono state trovate false mem-
brane, che, traversando il liquido, all'opposta parte
si attaccavano.
CAPO SESTO.
Pronostico.
L' idrotorace che o dall' intempestiva scomparsa
di altra secrezione deriva , o che segue la pleuro-
pneumonite, si guarisce quella richiamando, e questa
risolvendo. E poi è ostinato se il lento processo flo-
gistico l'alimenta; ed è sempre mortale, se dal vizio
precordiale dipende.
CAPO SETTIMO.
Cura.
L' idrotorace curasi col richiamare le naturali,
e le preternaturali scomparse evacuazioni; e coli' in-
teramente risolvere il lento processo flogistico, che
lo mantiene; ciò che si ottiene cogli antiflogistici,
coi derivativi e coi revulsivi. E maggiormente cogli
evacuanti attivansi le evacuazioni; verbigrazia, cogli
emeto-catartici, coi diurerici e coi diaforetici. E la
sierosa colluvie, che non è riassorbita , dal torace
j ostraesi colla pericolosa chirurgica operazione.
2U
SEZIONE QUARTA.
Idropericardio.
CAPO PRIMO.
Definizione.
V idropericardio è la colluvie sierosa, ora lim-
pida ed ora verdognola e giallagnola, nella cavità
deli' interna membrana del pericardio. Che, durante
la vita, lo manifesta il peso, l' ottusità del suono,
l'estensione dei battiti, la piccolezza, la frequenza
e r irregolarità del polso.
m
CAPO SECONDO.
Forma.
Incomincia l' idro-pericardio colla dispnea e colla
palpitazione; e sentesi poco precordiale dolore; e a
chi lo soffre pare che il cuore pesi, e che nell'acque
fluttui. Percorso il terzo inferiore dello sterno, sen-
tesi ottuso suono. Nel mentre che i battiti sono oscu-
ri, fluttuanti e irregolari; ed il polso è piccolo, con-
centrato e intermittente. E di soverchio la sierosa
colluvie crescendo , universale rendesi l' idrope , e
muoresi.
245
CAPO TERZO.
Cause remote.
Air idro-pericardio ci predispongono le retro-
pulse articolari infiammazioni, e certe passioni; ver-
bigrazia, l'ambizione coi suoi crucci, ed ogni sorla
di protratto e di violento dispiacere.
CAPO QUARTO.
Causa prossima.
Causa prossima dell' idro-^pericardio è il vizio
precordiale, e la lenta infiammazione della sierosa
che il cuore involge; per cui rompesi l'antagonistica
corrispondenza tra l'esalazione ed il precordiale as-
sorbimento, e la colluvie sierosa formasi.
CAPO QUINTO.
Necroscopia.
Nei cadaveri, di chi per idro-pericardio erano
morti, è stata nel pericoedio trovata la sierosità di-
versa per la quantità , per la consistenza e per il
colorito. E morbose aderenze colle contigue parli.
Ed il pericardio opaco, ed ingrossato, granuloso,
con false membrane, ed anche ossificato. lì cellulare
tessuto di sierosità infiltrato; e diverse colluvie mar-
ciose sono state egualmente trovate.
246
CAPO SESTO.
Pronostico.
Diffìcilmente la stravasala sierosità riassorbesi;
ed allo stato di salute ritornasi. E quasi sempre la
morte all' idropericardio succede o per soffocazione,
o per universale idropisia.
CAPO SETTIMO.
Cura.
Curando l' infiammazione, curasi l' idro-pericar-
dio sintomatico , ed alla lenta flogosi consecutivo.
Ciò che facilmente non si ottiene cogli antiflogi-
stici , coi rivalsivi , e coi derivativi. Nulladimeno
procurasi sempre cogli evacuati di maggiormente
attivare qualunque naturale ed anche preternaturale
evacuazione. E questi non giovando, è stata proposta
la precordiale perforazione, che mai con successo è
stata praticata.
SEZIONE QUINTA.
Ascite.
CAPO PRIMO.
De^nizione.
L' ascite è o la verdognola o la flava colluvie
2it
sierosa , che o nella peritoneale cavità formasi , o
nella superficie intestinale o nel!' addominale. Per
cui il basso ventre gonfiasi; ed il versamento liquido
difficilmente riassorbesi ; e se estraesi , altro subi-
tamente riformasi.
CAPO SECONDO,
Forma,
L'urina scarseggia, arde la sete, le palpebre coi
malleoli si gonfiano, e per pili volte si sgonfiano.
E a chi nel basso ventre la colluvie sierosa formasi,
consumasi, e taciturno ed ipocondrico diventa. Prima
la sierosità scende nel basso, a riempire il piccolo
bacino ; e poi innalzasi fino all'ombellico , e tutto
il basso ventre riempie. E mosso e con arte per-
cosso , sentesi l' interna aquea fluttuazione. E di
mano in mano che 1' addome ingrossasi, 1' ascitico
indeboliscesi e consumasi. La sete aumentasi; e la
pelle seccasi e scabrosa diventa. Contraggonsi i polsi,
e maggiormente indebolisconsi. La sonnolenza e l'as-
sopimento ricorrono; eminente è la lipotomia; e asfì-
tico 0 apopletico l'ascitico muore.
CAPO TERZO.
Cause remote.
L'ascìtica predisposizione è il linfatico tempe-
ramento; cui innalzano alla condizione di ventrale
celluvie sierosa ciò che impedisce la insensibile tra-*
248
spirazione, e che determina la cutanea deflorescenzay
e difficile rende l'addominale venosa circolazione.
CAPO QUARTO.
Causa prossima.
La prevalenza dell'esalazione al peritonneale as-
sorbimento l'ascile determina. Ciò che probabilmente
deriva o dall' idroemia del sangue , o dall' attività
degli esalanti e dalla debolezza degli assorbenti ,
o dalla meccanica condizione che l'epatica cireola-
zione impedisce.
CAPO QUINTO.
Necroscopia.
La materiale espressione dell'ascile è l'addomi-
nale sierosa colluvie, limpida, ed anche giallo-ver-
dognola; insipida e dolciastra. E negli ascitici ca-
daveri sono stati trovali i visceri addominali bian-
cati e rilasciati, il fegato e la milza induriti e ram-
molliti, ingrossati ed impiccoliti, e la vena porta
ristretta ed anche interamente obliterata.
CAPO SESTO.
Pronostico.
Guariscesi Tascite, che dal soverchio eccitamento
deriva, e dalla cutanea deflorescenza. E lungamente
249
dura quella che la mantiene la meccanica condizione,
ed all'adinamia congiungesi. Che chi la soffre con-
sumasi, ed all'estratta sierosità altra prestamente ri-
producesi; e termina l'ascitico di vivere o per asfissia
o per apoplessia.
CAPO SETTIMO.
Cura.
La consecutiva ascite, alla peritonite, alla cutanea
deflorescenza, alla scomparsa della preternaturale e
della naturale secrezioni, curasi coli' interamente ri-
solvere il processo flogistico, col richiamare le scom-
parse efflorescenze, col riattivare le soppresse evacua-
zioni,e coll'aprirne altre artificialmente. E si promuo-
vono violentemente, cogli evacuanti, le consuete eva-
cuazioni; verbigrazia, coll'emeto-catartico, co! diure-
tico e col diaforetico. E i tonici prescrivonsi , se
l'ascite all'adinamia congiungesi. E prima l'addome
bucasi, che il corpo siasi indebolito e consunto.
SEZIONE SESTA.
Idrocele.
CAPO PRIMO.
Definizione.
L' indole è colluvie sierosa nella vaginale o testi-
colare, sierosa, congenita e connata, limpida e chiara.
250
CAPO SECONDO.
Forma.
Nella vaginale cavità lentamente la sierosità ac"
cumolasi; e lo scroto gradatamente gonfiasi e forma
tumore. Irritato che sia, finche V irritazione dura ,
rapidamente cresce, e lentamente ingrossasi termi-
nata che sia. E tanto gonfiasi, che anche si rompe
la vaginale membrana; ed il contenuto liquido è ri-
assorbito, e infiltrasi nel cellulare contiguo. E per
la vaginale rottura , qualche volta guariscesi ; e la
sierosità non si può riaccumulare, se la membrana
non riuniscesi.
CAPO TERZO.
Cause remote.
V idrocele congenito deriva dalla facilità , con
cui la peritoneale sierosità discende nello scroto, e
vi si accumula; ed il connato o degli adulti gli ir-
ritanti lo producono, che il testicolo colle sue di-
pendenze infiammano.
CAPO QUARTO,
Causa prossima.
E deir idrocele la causa prossima è la lenta in-
fiammazione del testicolo e delle sue dipendenze ;
251
che l'esalazione estende a carico deirassorbimento;
per cui formasi nella vaginale cavità la sierosa col-
luvie, e Io scroto distendesi.
CAPO QUINTO.
Necroscopia»
Aperto lo scroto, si è trovata la vaginale mem-
brana sottile, pallida e tras[jarente; e di citrina e
diafana sierosità ripiena. Ed anche hannovi trovato
il liquido fioccoso, bianco e rossastro, e la vagi-
nale membrana indurita, ed anche ossificata.
CAPO SESTO.
Pronostico.
L' idrocele, che non guariscesi, è fastidioso in-
comodo. E nel congenito, o lentamente l'inguinale
anello ristringesi, e si guarisce; o maggiormente di-
latasi, e non si risolve, e può anche succedergli l' in-
guinale ernia. Rompesi ancora nel connato idrocele
il vaginale sacco; ed il versatosi liquido è riassor-
bito, e non riaccumolasi, se la squarciatura non ri-
chiudesi.
CAPO SETTIMO.
Cura.
Prima che il testicolo nello scroio discenda ,
v'è poco da fare; e disceso che siavi, si fa perma-
252
nente compressione nell' inguinale foro ; e poi se
la colluvie sierosa non è riassorbita, bucasi lo scroto,
ed il liquido si fa scappare. E solo la sierosità eva-
cuasi nella pagliativa cura ; e nella radicale rime-
diasi anche alla cavità, che la contiene, o col di-
struggere la membrana, o col determinarvi perma-
nente adesione. Nel primo caso incidesi ed escidesi;
e nell'altro irritasi coi liquidi, che ad arte vi si in-
troducono; e coi solidi, che la traversano. Ed anche
nell'esterno devesi tentare la permanente irritazione;
che qualche volta dicono che abbia giovato.
CONCLUSIONE.
II siero naturalmente emana dalle membrane
sierose, ed ovunque sono pori e vasi linfantici. E
dalla sierosità derivano le morbose emanazioni, che
abbiamo discorse; e che alle sanguigne le mucose
riuniscono. E nel corpo nostro sono tre fluidi ,
da cui scaturisce un tripode morboso di emana-
zioni; che sono le sanguigne e le sierose, che ab-
biamo esposte ; e le mucose , che noi dobbiamo
esporre.
PARTE TERZA.
Emanazioni mucose.
Le morbose emanazioni mucose compionsi nelle
membrane mucose; e sono la soprabbondante pre-
parazione della materia bianca, trasparente e filante,
che naturalmente segregano.
253
SEZIONE PRIMA.
Catarro.
CAPO PRIMO.
Definizione.
Il catarro primario, se lo vogliamo ammettere,
altro non è che l'abbondante secrezione di bianca,
filante e trasparente materia, che emana dall'aerea
mucosa; che non è sintomatica della flogosi, e che
volgarmente dicesi broncorrea.
CAPO SECONDO.
Forma.
Cronico è del catarro il corso, che molto sempre
dura. Colla dispnea principia, e prosegue coll'abbon-
dante secrezione di mucosa materia. Intermittente
è il corso, e gli insulti sono sempre seguiti da lar-
ghe remissioni. E in queste bene si sta; ed in quelle
estrema è 1' angoscia ed eminente la soffogazione.
Leggera e quasi continua è in principio la dispnea;
che poi fattasi intermittente , quotidianamente ri-
corre mattina e sera. Ed una o due ore dura ; e
circa due libre si versano di materia bianca, filante
e trasparente. Per qualche tempo sospendesi ancora;
e poi ritorna maggiormente grave. In fine gli in-
sulti più spesso si succedono, e durano più tempo;
254
e poi quasi continua diventa l'angoscia e la dispnea;
e chi la soffre muore consunto e soffocato.
CAPO TERZO.
Cause remole.
La catarrosa predisposizione è la linfatica vec-
chiaia ; cui favorisce , ed il catarro determina ciò
che rilascia la mucosa dell'apparecchio respiratorio.
CAPO QUARTO.
Causa prossima.
La flogosi, che invade la mucosa doll'apparec-
chio respiratorio, il sintomatico, e non il catarro
primario promuove. Mentre il primario non deriva
dalla flogosi, ma dal rilasciamento dell'aerea mucosa;
per cui emana maggiore quantità di materia bianca,
filante e trasparente.
CAPO QUINTO.
Necroscopia.
Nel primario catarro hanno nel cadavere trovate
alcune bronchiali diramazioni di mucosità ripiene ;
e rilasciata, pallida e scolorata la mucosa della la-
ringe, della trachea e dei bronchi. E nel sintoma-
tico hanno poi trovati i guasti delle primarie ma-
lattie.
255
CAPO SESTO.
Pronostico.
In poco tempo difficilmente il catarro risolvasi;
e sempre si prolunga e dura per mesi ed anche per
anni. Spesso è acritico; e quasi sempre alla lunga
vi si more consunti e soffogati.
{Continua)
Errori occorsi nel Ragionamento del sig. Cav. Betti.
Pag.
ERRATi
^
CORRIGE
102 lin.
11 graziz
grazia
105 lin.
17 inquietus
inquieti
108 lin.
21 magro
magno
116 lin.
22 lagendum
legendum
INDICE
Ceccarelli, Amputazione jìarziale della mascella
inferiore ed allacciatura deW arteria femo-
rale pag. 3
Calandrelli , Opinioni sidl' antichità dalla sfera
celeste » 28
Bettij Se Giulio Cesare ed Augusto intesero mai
di portare la sede delV impero ad Ilio. )) 83
Guglielmotti^ I bastioni di Antonio da Sangallo
disegnati sid terreno per fortificare e in-
grandire Civitavecchia » 122
De Crollis , Ragionamento al duca D. Mario
Massimo » 169
Catalani, Terapia (Continuazione) . . . » 216
IMPRIMATUR
Fr. Hieronynius gigli Ord. Praed. S. P. Ap. Mag.
IMPRIMATUR
Fr. AnU Ligi Archiep. Icon. Vicesgerens
Nel giornale si dà il sunto, o viene inse-
rito l'annunzio, delle opere presentate in dop-
pio esemplare alla Direzione. Esse debbono
essere inviate franche d'ogni spesa di porto
e dazio.
Le notizie di scienze, di lettere, e di belle
arti, quelle di scoperte utili per 1' agricol-
tura, industria ec, come anche i programmi dei
concorsi accademici, dovranno similmente es-
ser mandati franchi di posta alla Direzione.
Chi si associa per dieci copie, o ne garan-
tisce la vendita, avrà l'undecima gratis.
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GIORNALE
DI SCIENZE T.ETTERE ED ARTI
TOMO XVIII
DELLA NUOVA SERIE
ma
" ROMA
Tipografi» delle Belle Arti
1860
GIORNALE
or
SCIENZE, LETTERE ED ARTI
TOMO GLXIV
DELLA NUOVA SERIE
XVIII
NOVEMBRE E DICEMBRE
1859
ROMA
TIPOGRAFIA DELLE BELLE ARTI
1860
SulVEcclisse solare del 18 luglio 1860. Disseriazione
Iella air Accademia Tiberina dal P. Angelo Secchi.
I
n tutti i tempi (Eminentissimo principe (j) Colleghi
e uditori prestantissimi) le occultazioni e i delìquii dei
maggiori luminari furono oggetto del piiì alto stu-
pore, non solo all' ignorante selvaggio che ne temea
la sua imminente distruzione, o al volgo imperito
che ne traeva pronostico piiì o meno sinistio, ma
alla pili colta schiera dei dotti che videro sempre
in colali semplici fenomeni della natura una prova
sublime dello stupendo magistero che regola i moti
celesti, e vi riconobbero preziosi momenti per isco-
prire le loro leggi o per verificare le già trovate;
quindi Tavvenimento di un ecclisse solare totale nel
mezzo delle regioni abitate dalle più colte nazioni
della Terra, quale è quello che aspettiamo nel pros-
simo luglio, è un sì raro fenomeno che eccita merita-
mente non meno la curiosità del pubblico, che l'at-
tenzione dei dotti.
Però è assai singolare la diversità che si scorge
in questa materia tra gli antichi e i moderni astro-
nomi; i primi moltissimo studiarono le ecchssi lu-
nari, per la facilità della loro osservazione e della
loro predizione mediante cicli costanti, e ne fecero
uso eccellente per determinare gli elementi de'moti
lunari e solari ; ma quelle del Sole furono sempre
per essi di difficile abordo e quasi impossibili a pre-
vedere e trarne partito per la teoria de'moti cele-
sti (2). Adesso invece per la perfezione a cui è arri-
4
vota la teoria del calcolo astronomico, e per la preci-
sione con cui possono farsi le osservazioni coi moderni
strumenti, vengono queste predilette dagli astronomi
presenti, e sono realmente divenute importantissime
per pili punti capitali nella scienza , come la ret-
tificazione delle tavole lunari, la determinazione delle
longitudini geografiche, e soprattutto la cognizione
della struttura fisica del Sole. Che se tutte le ecclissi
solari sono preziose pei suddetti l'iguardi, quella che
stiamo attendendo e che avverrà il 18 luglio di que-
st'anno 1860, lo sarà in un modo pili speciale, per
la comodità del sito di sua osservazione; per esser
l'unica tra quelle che avverranno in questo secolo
in cui si possa sperare di studiare con successo le
singolari particolarità del corpo solare svelateci in
questi ultimi anni dalle ecclissi precedenti; e soprat-
tutto finalmente per suggellare i grandi lavori re-
centemente compiuti sulle teoriche lunari.
Questa ecclisse per Koma non sarà che parziale;
essa avrà principio alle ore 2/ 58."' 32.^ pom., il
massimo sarà alle k} 4.'" 5?.% e il fine 5.* 5.'" 29.-'.
La porzione di sole coperta sarà di 10 digiti ossia ^/g
del diametro solare: onde sarà un poco piiì che quella
del 1851 , e in ora egualmente favorevole. Anche
senza il prestigio proprio dei luoghi ove passa la
oscurazione tolale, essa sarà assai importante, e le os-
servazioni della posizione relativa dei due astri sa-
ranno qui da noi sommamente utili pel più princi-
pale di tutti gli oggetti, cioè la rettificazione delle
tavole lunari.
il vasto e difficilissimo studio del corso del nostro
satellite è stata una delle più assidue occupazioni
o
degli asti'onomi nella trascorsa metà di questo secolo,
e onde ridurlo a perfezione non si è risparmiato nò a
spese in erigere strunrienti o in assoldar calcolatori, nò
a fatica per moltiplicare le osservazioni attuali o per
trar profitto dalle antiche. La sterminata copia delle
osservazioni lunari fatte a Greenwich da oltre a un se-
colo a questa parte, è stata tutta novellamente rie-
saminata e discussa; e quest'opera immensa ha servito
dì base ad un'altra non men colossale e difficile, cioè
a quella di una nuova teoria matematica della Luna
dedotta dalla sola legge della gravitazione univer-
sale, colla costruzione dì nuove tavole fatte dal da-
nese Hansen, pubblicate nel prossimo passato an-
no 1857 (3). Ora si è appunto l'accordo che si avrà tra
la previsione del calcolo e il risultato della osserva-
zione nella prossima ecclisse che sarà la più bella san-
zione del merito di tante fatiche, e del progresso della
scienza, nella quale pure resta ancora dubbioso qual-
che punto non indifferente (4). Un vantaggio speciale
hanno le ecclissi totali sopra le altre, cioè che non
solo sono preziose le osservazioni fatte da periti astro-
nomi, ma quelle eziandio di ogni osservatore che sia
capace anche solo di accertare fin dove si estese la
sua totalità, cioè quale fu il limite dell'ombra lunare
sulla Terra. Questo genere di osservazione, che di
per so non esige grande scienza, né accurati stru-
menti , sarà certo riccamente fornito in un paese
sparso di tante città e borgate, ove la cultura e am-
piamente diffusa, e gli astronomi vi si raccoglieranno
in numero considerabilissimo.
La linea di oscurità totale comincerà nell'Ame-
rica settentrionale nell'Oregon, traverserà l'Atlantico,
6
ed enU'ei'à nella Spagna fra Santander e Giyon co-
prendo queste due città e attraversandola tutta, quasi
lungo il eorso dell' Ehro. Passerà sopra le città di
Bilbao, Burgos, Logrogno, Galahorra, Soria, Agredo,
Calatayud, Saragozza, Monlalvan, Castellon della pla-
na. Oropesa, e di là sul Mediterraneo ove toccherà
1' isolelta di Iviza una delle Baleari, e quindi passando
in Afi'ica presso Bugia e attraversando la Cabilia an-
drà a finire in Etiopia ed in Egitto. La zona oscu-
rata sulla Spagna sarà di circa 50 leghe di larghezza
e 133 di lunghezza, impiegando circa 10 minuti di
tempo assoluto a percorrerla (5).
La maggior parte di questi siti essendo nel centro
della civiltà e della scienza europea e di facile ac-
cesso agli astronomi; e il principio stesso cadendo
negli Stati Uniti di Amciica e nelle colonie anglo-ame-
ricane del nord, e la fine in una parte dell'Africa ove
la cultura già comincia a rifioiire, forniranno un'oc-
casione favorevolissima onde determinare preziosi
elementi astronomici e contemplare l'imponente spet-
tacolo della natura privata del suo luminare. Aggiun-
gete poi che, come accennai, tale opportunità sarà
l'unica per tutto il resto del secolo attuale: giacché
risulla dai calcoli fatti, che quasi tutte le altre ecclissi,
che avranno luogo sino alla sua fine, saranno presso-
ché inutili per la scienza, andando esse a passare fra
regioni inospile o fra i ghiacci polari. La sola che po-
trebbe in ciò ftu-e eccezione sarebbe quella del 1887
il 19 agosto, che comincerà alle rive dell'Elba e toc-
cherà Berlino, Vilna e Mosca, e la parte meridionale
della Siberia; ma olire la stagione allora incerta per
tali climi e paesi, essa non avrà luogo che a poca
7
altezza sopra dell'orizzonte (cioè 30.°), mentre Pat-
tuale ha anche questo vantaggio di accadere in
climi ed ore nelle quali è piiì che mai, da sperare
tempo propizio nelle osservazioni.
Una tale combinazione di favorevoli circostanze
spiega r impegno e l'ardore che sì è preso dai cul-
tori della scienza e dai governi , onde organizzare
private e pubbliche spedizioni: talché può dirsi che
dall'epoca del passaggio di Venere avanti al Sole nel
3 giugno 1769 non siasi fin'ora veduto simile mo-
vimento ed espettazione , in cui peraltro gli astro-
nomi non sono i soli a prender parte (6).
Infatti la rettificazione delle tavole lunari non
è il solo utile che possa trarne la scienza, né sarebbe
ciò un'attrattiva sufficiente per trasportare molti da
remote regioni. In un ecciisse solare non solo l'astro-
nomo trovasi intei'essato, ma ogni studioso della na-
tura, ogni anima sensibile alle grandi e potenti emo-
zioni che destar sogliono i piiì sublimi ed insoliti
fenomeni della creazione: in essa non meno che la
precisione della scienza vi ha pascolo la vivacità
della poesia, che trova la realtà dei fenomeni su-
periore all' ispirazione della piiì fervida fantasia. La
scena, che si presenta in una ecclissi totale, è la più
imponente che possa presentarsi ad occhio mortale
nell'ordine attuale dell'universo : noi siamo troppo
abituati a vedere un limpido cielo adorno del suo
indefettibile luminare, per poter concepire l'aspetto
della natura al mancare di questo: né la cognizione
di ciò che suole accadere nelle ecclissi parziali può
darcene la minima idea: soltanto lo svanire dell'ul-
timo raggio produce quell' indescrivibile scena , in
8
cui roscui'ità ò forse il fenomeno meno sorprendente,
in confronto della singolare riunione di tutte le altre
insolite circostanze. Quel veder grado grado lan-
guire la fulgida luce del dì, e spargersi sulla crea-
zione un freddo gelo e una lurida tinta di morte;
quel trovarsi trasportato in un istante dal chiaro del
giorno allo scarso barlume di un tardo crepuscolo ve-
spertino, e alla fulgida faccia del sole sostituirsi un
negro disco circondato da fioca e pallida corona di
raggi, campato in un cielo del color di piombo, che
veste tutta la circostante natura di un'atra graraaglia;
è tal soggetto che non esige, cred'io, la fantasia nò
di un Pindaro, né di un Byron, per esserne tocco ;
ed è ancora a trovarsi uno spettatore, al quale in
sì* solenne momento non venga meno la geometrica
severità, e il pili gelido sangue freddo non trovisi
ricercato dalle più profonde e sensibili emozioni.
L'oscurità fu forse esagerata dagli antichi , ma
non si può negar loro fede su le forti impressioni
che produce nell'animo un tal fenomeno, li chiaror
generale del cielo, per testimonianza concorde, non è
superiore a quello che suole aver luogo a luna piena:
e anche più precisamente a quella del crepuscolo
estivo un'ora dopo calato il sole. Quindi è che d'or-
dinario riescono visibili le stelle di prima grandezza,
e i primari pianeti : e questa volta si avrà la ra-
rissima configurazione dei quattro più belli tra essi,
cioè Giove, Venere, Saturno, e Mercurio, che tutti
e quattro si troveranno disposti in cielo sotto del Sole
e ad esso vicinissimi in uno spazio non maggiore di
quello occupato dalla costellazione dell'Orsa maggio-
re. Per più singolare combinazione eziandio, si trove-
9
ranno nelle loro vicinanze le più fulgide stelle del
firmamento, cioè Regolo e Procione al di sotto, Ca-
store e Polluce al di sopra, con Orione e Sirio il
Toro e la Capra a non molta distanza. Sarà anche
questa una favorevolissima circostanza per vedere
pianeti inferiori a Mercurio, se è vero che essi esi-
stano, secondo che tanto se n' è parlato in questi
ultimi tempi (7).
La visibilità degli oggetti terrestri in queste circo-
stanze molto dipende dallo stato più o meno puro del
cielo; ma trovo che in genere riesce difficile il leggere
libri a stampa ed il prendere appunti alla matita, onde
è cautela fornirsi di lucerna fatta indispensabile in pie-
no meriggio! La durata massima della oscurità nella
zona centi'ale sarà questa volta di tre minuti e mezzo
al più: e in quel tempo per sé così breve, e che suol
volare in un istante, dovrà cercarsi di fare quanto
appena basterebber più giorni interi di osservazioni
e di ricerche. Le lunghe tenebre descritte dai vec-
chi racconti debbon mettersi fra le conseguenze per-
donabili ad una imaginosa apprensione, a cui sembrò
interminabile un tempo pieno di sì ansiosa espetta-
zione, in sì strane circostanze: giacché è pienamente
provato, che nessuna ecclisse sulla Terra può durare
più di 8 minuti di tempo. Ma non è tanto il grado
delle tenebre o la loro durata, quanto il rapido loro
avanzarsi, che produce in quel momento una scena
di insolito orrore.
Finché il Sole non è che per metà ricoperto, ap-
pena si può ravvisare la diminuzione della sua luce;
anche presso alla totalità, finché ne resta svelata una
tenue falce, l'effetto sulla natura è al più quei che
10
si scorge comunemente all'accostarsi di un tempo^
rale(8). Ma negli ultimi momenti previi allo sparire
del raggio finale, la natura prende un insolito aspetto
che riempie involontariamente l'animo di tristezza
e di terrore: il cielo di azzurro si tinge in verdastro,
al cui debole chiarore i volti delle persone cuopronsi
di pallore mortale, e gli oggetti terrestri appaiono
come veduti attraverso di un vetro tinto di verde.
Se avvenga che il cielo sia sparso di nubi, la scena
è ancora più triste: le lontane, su cui stender si scorge
l'ombra lunare, vestonsi di un cupo nero, e gli squarci
frapposti e i pezzi leggermente velati si tingono di
un giallo verdastro di un indicibile aspetto.
All'ulteriore restringersi della fase, le ombre di-
vengono incerte, e i contorni sfumati, indecisi e in-
stabili in modo singolare sembrano annunziare pros-
sima l'estinzione della vita universale. Pure malgrado
tale preparazione, lo sparire dell'ultimo raggio succe-
de con piena sorpresa dell'animo il più premunito,
che si trova quasi oppresso da una forza superiore a
se stesso. « L'esser ridotto il Sole ad un tenue filo »
dice un celebre fisico scozzese, il Forbes, che nel 1842
ne fu testimonio a Torino (9), « non è ancora prepa-
» razione sufficiente al gran momento, perchè tale è
» r intensità del suo fulgore che la centesima parte
» del suo disco dà forse luce sufficiente per tutti i bi-
» sogni della vita. Il passaggio dal giorno alla notte
)) in una ecclissi totale si fa con tanta celerilà che
» sembra quasi istantanea, e la transizione fu tal-
» mente rapida che io rabbrividii come all'entrare
» in una grotta umida ed oscura.
11
Ma il più terrifico degli effetti, per chi potè os-
servarlo con agio e in favorevoli circonstanze, è il ra-
pido volare dell'ombra lunare sulla terra )). Chi ha ve-
duto (c prosegue lo stesso autore « una locomotiva a
» vapore su di una strada ferrata slanciarglisi incontro
)) con una velocità di 30 a 40 miglia l'ora, si faccia se
» può un' idea della terribile sensazione che far deve
» quest'ombra, che a guisa di colonna tenebrosa di-
» stesa sull'orizzonte remoto vedeasi accostare colla
» velocità del lampo (cioè più di 9 mila miglia all'ora)
» e che in meno di mezzo minuto attraversò tutta
» la pianura compresa tra l'alpi marittime e Tori-
» no (10) ! Confesso che questo per me fu lo spet-
» tacolo più terribile che io abbia mai veduto : e
» come avviene sempre nel caso di moti repentini,
» inaspettati e taciti, che lo spettatore sembra con-
» fuso tra i moti reali e i relativi, io mi sentii per
« un istante sbalordito, come se il vasto edifìzio
» su cui stava si inclinasse sotto a' miei piedi , o
)) piuttosto come se la natura intera venisse meno
» per l'azione di una potenza esteriore che ci op-
)) primesse, nascosta sotto le tenebre di una notte
» quasi istantanea. Io non posso dubitare che la cir-
ì) costanza di una nube, che appunto allora mi oc-
)) cullava il sole, non aumentasse molto l'effetto mi-
ì) sterioso e terribile dell'ombra volante. Ma certa-
» mente non mai senza una esatta cognizione della
» vera natura dell'ecclisse non l'avrei attribuito alla
» Luna, 0 ad altra causa fuori della nostra atmo-
» sfera, tanto essa pareva vicina (11).
)) Certo gli uomini poco istruiti di ogni epoca
» ebber ragione di guardar con paura una sì spaven»
12
» tosa apparenza, e confesso francamente che se mi
» fossi trovato colto all' improvviso in pari circo-
)) stanze , il mio primo pensiero sarebbe stato si-
» curamente che la natura intera si disfaceva e che
» l'ultimo giorno era giunto (12). » Fin qui il Forbes.
Nò è solo esso a tener tale linguaggio ma con
lui tutti consuonano in espressione, né lo stato di
un cielo più o men favorevole ha tolto il sentire di
quella profonda emozione (13). E tale impressione
non è sola dell'uomo, ma si estende altresì a bruti
animali, e la si scorge nelT inquietudine de' loro mo-
vimenti nell'errare incerto degli uccelli e nell'azzittire
del lor canto, nell'accovacciarsi dei cani, e nei mo-
vimenti violenti de' cavalli, talora con non piccolo
pericolo de'cavalieri (14) e infine nella generale sen-
sazione di freddo che tutta invade in quel momento
la creazione; onde per converso a questa proporzio-
nale ò l'allegria con cui è accolto il primo riapparire
del raggio solare, che tutta ravviva la natura, al cui
splendore tutto ripiglia il suo corso, e il Sole infal-
libilmente riceve un saluto perfino dal garrulo sire
del pollaio.
Se non chu tutto ciò che può interessare il con-
templatore della natura non attrae che lievemente
l'attenzione dell'astronomo. Il suo sguardo e il suo
spirito sono assorbiti alla disamina di quell'astro che in
que' fugaci momenti si presenta nel più insolito aspet-
to, lo non ve lo posso meglio descrivere che colle
parole di un altro testimonio di veduta, il celebre
Baily che a bella posta nel 1842 si recò a Pavia (15).
« Io stava attento » dice esso « a contare le bat-
» tute del mio cronometro per cogliere V istante
13
» (Iella totale disparizione , e una quiete profonda
» teneva sospesi in silenzio gli sguardi e le menti
» di un popolo di curiosi raccolti nella sottoposta
)) piazza: quand'ecco allo sparir dell' ultimo punto
» di Sole mi scuote repentinamente e mi elettrizza
» un fremito ed un applauso di evviva che scoppia
)) dalla raccolta folla: levo attonito lo sguardo dalla
» mostra del ci'onometro verso cui mi era incurvato,
)) e miro al cielo, e veggo la ragione dell'entusiasmo:
» all'astro del giorno trovo sostituito un negro disco
)) della piij nera pece, circondato da una corona di
)) raggi qual si dipinge attorno le teste dei beati.
» A tal vista inaspettata sto anch' io attonito
» come l'uomo del volgo, e per poco non dimentico
» lo scopo principale del mio viaggio e perdo così
» una gran parte di que' preziosi momenti. Riavu-
» tomi un istante dalla sorpresa, levo in fretta il ve-
» tro oscuro del mio cannocchiale e miro il Sole a
» occhio indifeso, e la mia maraviglia è ancor mag-
)) giore. La corona di gloria, che cinge l'oscura Luna,
» è in tre sili quasi interrotta da tre vive e gigan-
)) lesche fiamme di color purpureo, che nella fretta
» della osservazione non ben so discernere se fiam-.
)) ma siano oppur montagne: e mentre cerco di stu-
» diarne la slruttuia, un raggio di sole che sfavilla
» mi ruba la vista dell' incantevole spettacolo , e
)) mentre ridona alla natura la vita, lascia me colla
» tristezza di chi si vede sfuggito lo scopo del suo
)) desio' al momento che stava per afferrarlo. »
Avete, 0 signoi'i, in questo semplice ed ingenuo
racconto esposti i motivi che trarranno una folla di
dotti alle rive dell' Ebro. II riconoscere che cosa siano
14
quelle fiamme, qual sia la causa di quella corona,
ecco i principali problemi , la risoluzione de' quali
sarà il premio delle loro ansiose ricerche e de' loro
viaggi. E questa, come vedete, una rivelazione novella
€he inaspettati misteri ci scopre sulla struttura tisica
del Sole, ma che ci sono riservati a studiare solo ed
unicamente in que' brevi momenti.
Quanto riguarda il Ministro maggior della natura
è sì nobil soggetto, che ninna fatica può stimarsi
maggior dell' impresa, nessun incomodo maggior del
guiderdone; ma la sua cognizione, quale può rilevarsi
dalle osservazioni che possono farsi nelle comuni cir-
costanze, è estremamente limitata. Malgrado le molte
cure e i molti sludi fatti su di ciò, le possiamo ri-
capitolare in poche parole (16). Noi sappiamo sol-
tanto che esso è un immenso corpo infiammato av-
volto da uno strato luminoso, e che qua e là ci si
presenta sparso di variabilissime macchie oscure.
Uno studio assai diligente della struttura di tali mac-
chie ci ha fatto vedere , che esse sono squarci di
quello strato luminoso stesso, detto fotosfera, che ri-
cuopre il nucleo dell'astro comparativamente oscuro
che ci si lascia talora vedere attraverso tali aperture.
Mercè di delicate misure, si è perfino potuto deter-
minare la spessezza di tale inviluppo che si è tro-
vato assai tenue in proporzione di quel vastissimo
corpo, cioè non superiore alla centesima parte del
suo diametro, ossia minore del diametro terrestre.
Le macchie presentano due specie di movi-
menti, uno intestino che cambia prodigiosamente ,
le loro forme fino a discioglierle in breve tempo: e
l'altro estrinseco, che le trasporta sulla superficie so-
15
lare, variando longitudine e latitudine. Sono assai fre-
quenti in esse le forme a spira che in molti casi si
sono trovate girare in verso opposto nei due emisferi:
onde mostrano somma analogia coi nostri vortici
atmosferici detti cicloni o uragani.
Qualora molte osservazioni di macchie solari spet-
tanti a successive rotazioni si disegnino in un foglio
colle rispettive posizioni eliografiche , si trova che
esse di rarissimo si estendono oltre a 36." di lati-
tudine, e non arrivano che in pochi casi eccezionali
sotto a 5.° Così una zona di 10." sull'Equatore è
quasi in quiete: e se vi nascono macchie, queste ra-
pidamente svaniscono. La copia loro si produce mag-
giore in certe regioni che in altre; onde sembra ar-
gomentarsi qualche causa locale nel globo solare che
le determini a preferenza , e vaste correnti che le
trasportino. Le lor latitudini sembrano variare perio-
dicamente, ma con simmetria, nei due emisferi; e se
in un lato si accostano all'equatore, vi si accostano
anche nell'altro (17).
Oltre le macchie oscure , si vedono d' ordina-
rio sulle stesse zone copiose strisce di luce più viva,
dette facole, state mistero per molto tempo, ma che
finalmente si è riconosciuto esser le alte cime delle
grandi ondate di quell'oceano tempestoso, che si er-
gono sulla pili bassa e densa sua atmosfera, e che
così splendono di luce più brillante. Una diligente
disamina della intensità della luce e del calore nelle
varie parti del disco solare ha dimostrato che l'una
e l'altra sono più forti al centro che alla circonfe-
reaza , onde si è concluso esistere attorno a quel
globo un involucro trasparente, ma assorbente, ana-
logo alla atmosfera che circonda la Terra. Scoperta
i6
importantissima, e che ci apre una nuova vìa per
ispiegare moltissimi de' fenomeni, che si osservano
nelle ecclissi. Ma se questa atmosfera sia oscura o
luminosa ancor essa, e qual sia il suo grado di luce,
quali le sue vicende; se in essa abbian luogo nubi
e moti analoghi a quelli che vediamo nella nostra,
quali siano i suoi limiti; e se essa congiungasi colla
luce zodiacale e involga o no i pianeti pili vicini,
nulla possiamo dedurre dalle osservazioni ordinarie.
Ora è appunto per la soluzione di questi pro-
blemi che sono preziose le ecclissi totali. Essendo
allora la sua lucida fotosfera coperta dall' interposto
corpo lunare, può diventare visibile la sua atmosfera,
che sembra di troppo debol luce fornita per compa-
rire discernibile in faccia al resto : allora riescon
visibili quelle misteriose fiamme notate nel 1842 e
rivedute poscia in forme diverse nelle altre ecclissi
successive , la cui natura è ancor problematica , e
su la cui spiegazione , per la varietà degli aspetti
che presentarono , non sono ancora concordi tutti
gli astronomi. Si credette dagli antichi che la corona
che cinge la Luna fosse la sua atmosfera (18); ma
essendo il nostro satellite per altri motivi creduto
privo di tale involucro , comunemente si tiene
più tosto che essa sia la solare ; però non manca
chi ricusi perfino di ammettere il fenomeno come
reale, e stimi che possa essere, se non in lutto al-
meno in parte, effetto d'uno sparpagliamento di raggi
al radere che essi fanno il lembo lunare. Per capire
qual fondamento possono avere tali dissensioni, è me-
stieri che io vi accenni più in particolare qualche
cosa delle sue apparenze.
17
La luce della corona è sempre assai viva presso
rorlo lunare, ma illanguidisce rapidamente senza che
si possa precisare il termino dove essa finisce; tal-
ché il paragone delle aureole che si sogliono dipin-
gere attorno alle teste de'santi è riconosciuto da tutti
per esattissimo (19). Essa però apparisce piij grande
sotto un cielo più limpido, e mentre Baily a Pavia
la stimò larga un semidiametro lunare, negli altri
luoghi , e neir ecclisse del 51 sotto un cielo men
terso fu slimata appena un quarto di quella gran-
dezza. I raggi estremi di sua luce sembrano ani-
mali da un movimento intestino analogo a quello
che si scorge nel raggio solare riflesso da' frantumi
di vetro, appunto come se riflessioni irregolari sul
corpo lunare ne sparpagliassero il lume in varie dire-
zioni; inoltre essa è sempre più brillante dalla parte
che è più vicina all'orlo ove sta per uscire il sole. Ma
quel che più rende complicata la sua origine si è che
talora ha presentato fasci di luce affatto obliqui alla
circonferenza del disco lunare e irregolari prolun-
gamenti senza veruna simmetria col corpo solare
nascosto e perfino delle interruzioni oscure. Queste
particolarità sembrano difficili a conciliarsi colla re-
altà di una vera materia spettante al sole , che si
estenda fino al limite visibile di que' raggi.
Un altro argomento di diversa origine è vero, ma
non meno concludente contro la realtà di sì vasta
atmosfera visibile, sembrami potersi dedurre dal corso
delle comete , più d' una delle quali , come quella
del 1843, è passata nel suo perielio più vicina assai al
Sole che non si estendono cotali splendori: quindi io
reputo che, salve le future apparenze che ci possano
G.A.T.CLXIV. 2
18
dai" nuovi lumi, per ora sia assai probabile che una
gran parte di que'raggi siano semplice diffusione di
luce nata da varia riflessione e diffrazione che essi
subiscono al radere del corpo lunare. Ho io peitanto
cercato di assicurarmi se realmente siano sulla Luna
porzioni capaci di produr tali riflessioni, e sembrami
averle trovate. Delicate esperienze di polaiizzazione
della luce mi hanno fatto conoscere che la superficie
del nostro satellite è fornita di un vero potere ri-
flettente speculare, e non solamente diffondente, come
farebbe una carta, una parete, o una ruvida pietra.
Ora un corpo di tal natura, come ne assicura l'espe-
rienza diretta, quando passi rasente al suo orlo un
raggio solare, forma una frangia di luce assai vi-
vace, e di là riverbera raggi piiì deboli in tutte le
direzioni esteriori: laonde per ciò che spelta quella
diffusione radiale mi sembra che possa essere in
parte un effetto di tale costituzione della superfìcie
lunare (20).
Tuttavia non sembrami potersi dire lo stesso della
porzione della corona piti viva e più vicina al corpo
solare. Le pi'ove di ciò sono desunte primieramente
dall'essersi veduto anche in ecclissi anulari un filo
di luce rossastra assai debole terminare il lembo
solare restato visibile in forma quasi di colline vedute
in un lontano orizzonte : il che mostra essere il
sole ricoperto di uno strato irregolare assai men
lucido che la fotosfera. Ma sopratutto ciò mi par
certo dietro 1' indole stessa di quelle prominenze
rosse che vidersi spuntare attorno della Luna in tutte
le ecclissi totali. Questi oggetti singolari benché vedu-
ti da altri astronomi in altre ecclissi anteriori, non fu-
rono compresi, e nemmeno fu capito che cosa indicas-
19
otìro gli osservatori col nome vago con cui le defi-
nivano, e solo nel 1842 si rilevò la loro importanza.
Si credettero da alcuni montagne lunari per la lor for-
ma conica, ma il colore e la loro troppa grandezza,
rende questa opinione inammissibile. La loro altezza
è stata spesso di oltre un minuto di arco, onde ri-
ferite al sole sarebbero almeno 4 diametri terrestri,
e, benché enormi, non punto impossibili in sì gran
corpo, se pur le volessimo creder montagne solide:
ma i più le credettero mere fiamme. Però non es-
sendosi potuto nel 1842 vedere in esse movimento
certo per la brevità del tempo che restaron visibili,
e per la sorpresa inaspettata con cui si presentarono
agli osservatori, la lor natura restò dubbiosa.
Furono rivedute a Honololu, ma con poco più
di frutto; solo nel 1851, apparvero dì tal forma ca-
ratteristica da non lasciar dubbio ragionevole sulla
loro pertinenza e natura. Le più anche allora erano
della solita forma conica, ma una se ne vide di for-
ma stranissima e assai istruttiva. Sorgea essa per un
tratto perpendicolarmente al lembo lunare e arrivava
quasi diritta fino ad una altezza di l'| : giunta a
tal punto piegavasi bruscamente quasi ad angolo ret-
to, e correva per un tratto parallela al lembo lunare,
onde era impossibile nel vederla di non correr su-
bito colla imaginazione a quelle colonne di fumo che
uscite con impeto da un ampio camino, arrivate a
certa altezza si ripiegano orizzontalmente per la forza
del vento (21). Poco distante da questa ne era un
altra assai minore, ma che da provveduti di buoni
strumenti, fu notata essere a quella unita per tenui
archi bianchi. 1 più la videro isolata e sospesa nella
20
corona come un globo aerostatico in aria. Espertis-
simi osservatori assicurano di aver veduto questa e
le altre prominenze allungarsi mano mano che la
Luna movendosi, veniva col suo orlo ad accostarsi
a quello del Sole (22).
Da queste fortunate osservazioni, confermate nei
loro particolari da moltissimi testimonii, si rilevano
due cose fondamentali: t.°che le prominenze rosse
appartengono al corpo solare , giacché si coprono
e scoprono a seconda che la Luna vi passa sopra:
2." che masse tali non sono montagne, che non po-
trebbero restare sospese e conformale in quella stra-
na foggia, ne rimanere del tutto isolate, e che per-
ciò è mestieri ammettere un fluido trasparente che
le sostenga; il quale non può esser altro che quella
atmosfera stessa che ci si manifesta in tanti altri
fenomeni, i piiì ovvii de* quali sono la differenza di
luce e calore tra le parti centrali e il contorno del
disco solare, che accennai poco fa; certa indecisione
del lembo solare che lo rende alquanto sfumato la
quale tanto risalta nelle ecclissi comparando i limiti
dei dischi de' due astri; finalmente quella singolare
colorazione verdastra che tinge gli oggetti terrestri
all'accostarsi dell'ecclisse totale pei raggi che arrivano
allora a noi solo dopo aver traversato quell'enorme
strato, e così hanno perduto il lor candore (23).
La luce e la grandezza delle fiamme maggiori
è tale , che da molti sono slate vedute ad occhio
nudo, ma tutte al primo raggio di Sole svaniscono, e
le diligenze fatte per vederle in altro tempo fuori
d'ecclisse son riuscite vane: sì forte è la luce solare
'che tulio assorbe e rende invisibile (24). Lo studio
21
adunque rVi queste singolari apparenze, è riservato
a que' soli momenti della'totalc oscurità, e per finir
di togliere ogni dubbio sarebbe mestieri riconoscere
se sono soggette a movitnenti e di che specie ,
e se in siti lontani presentano i medesimi aspetti.
Più d'uno credette nel 1851 avervi notato dentro,
moti intestini sensibili, il che confermerebbe la loro
natura, ma sì breve è il tempo in cui sono visibili,
tanta è la copia degli oggetti da contemplare, tanta
la molliplicilà delle cose da esaminare, e tale Tap-
prensione e sorpresa delle menti in quel ci-ilico istan-
te, che i meglio preparati osservatori trovansi scon-
certali, e senza quella tranquillità che tanto sarebbe
necessaria per fare una osservazione precisa. Quindi
è che malgrado le molte osservazioni fatte, molto
ancora resta da accertare su tante minute questioni.
I^a pratica ha oramai insegnalo che un solo osserva-
tore non basta a tutto, che fa duopo dividere il lavoro
od assegnare a ciascuno una speciale attribuzione,
ma tale è in quel momento la generale eccitazione
che mal può tenersi in regola un oidine qualunque
preventivamente fissato.
Per meglio assicurarsi di questi fugaci fenomeni
non solo è mestieri aumentare il numero degli esperti
osservatori ma anche trar partito di tutti i mezzi pos-
sibili per evitare le illusioni. Quindi grande soccorso
si spera dalla fotografia, e già un apparato destinato e
costrutto a tale effetto sarà nella prossima occasione
spedito in Spagna dalla società Reale di Londra. Nuovi
micrometri esclusivamente destinati alle misure e
alla determinazione del sito delle prominenze e alla
grandezza della corona, e polariscopii per vedere se
22
I;» luce sia diretta o riflessa, e molti altri congegni
sono in pronto pel 18 luglio in cui si spera un ot-
tima riuscita (2i). Ma può essere che anche questa
volta le nostre indagini siano frustrate e che un nuovo
inaspettato fenomeno venga a modificare tutte le no-
stre idee, e mutare i nostri progetti.
Ma qualunque sia per esseie il successo , sarà
sempre tale da rendere vieppiù ammirande per noi
le opere del Creatore, e che per ciò ogni premura,
ogni impegno sarà sempre inferiore al merito del
soggetto, onde è sommamente degno di lode l'entu-
siasmo destato per lo studio di sì importante fenome-
no. Certo il contemplare il Sole nella fulgida maestà
dei suoi splendori, è mille volte piiì bello che vederlo
languente e sfinito , onde sarebbe segno di quella
somma imbecillità a cui le meraviglie stesse per
l'abitudine diventar) vili, se più ci stimolasse il guar-
darlo per pochi istanti privo de'suoi raggi che am-
mirarlo di essi sfavillante. Ma nasce il desio da ciò
che solo in quegli islanli ci è dato di meglio cono-
scerne la sua natura quando meglio si accosta alla
debolezza dc'nostri sensi. Anche allora vera iinagine
del suo Fattore in quella scena di orrore che pre-
senta la natura, vieppiù ci si rivela la sua potenza
infinita, che sembra per noi risplendere maggiormente
quando ci sottrae gli abituali favori; e quella specie di
morte momentenea della natura, e la subita sua risur-
rezione, sublima il pensieio a quello Spirito che tolto
dalla materia la riduce alla sua polve, e al ritornarvi
la ridona alla vita e rinnova la faccia della Terra
(Ps. 103).
23
NOTE
(1) Sua EiTinza Rma il sig. Card. Santucci Prefetto della
Sacra Congregazione degli Studi , onorò di sua presenza la
sessione.
(2) Benché si triviali oggidì e sì neglette, pure le ecclissi
della Luna di notabile grandezza non mancano della loro attrat-
tiva ed importanza. Quel vedere nel suo placido splendore
il brillante luminare che prima facea sparire le stelle, in bre-
ve tratto da un lato coprirsi di lurida macchia nericcia, che
ingrandendosi mano mano veste una cupa tinta sanguigna,
se anche si prescinda da superstiziosi timori , essa non può
a meno di non eccitare l' imaginazione. Così nell'ultima ec-
clisse del 6 febbraio 1860 quando ridotto l'astro a tenue falce,
l'argentea luce della parte superiore contrastava mirabilmente
colla porpora della inferiore ecclissata, e si vedea ritornato al
cielo l'onore delle sue stelle, le più belle delle quali coi pia-
neti Giove e Saturno gli sembravan formare corona: si avea
una scena , anche per chi ne conosceva appieno la cagione ,
mista di bellezza e di terrore.
Gli antichi fecero un uso utilissimo delle ecclissi lunari:
da esse dedussero il tempo della rivoluzione sinodica della
Luna, il moto de'nodi della sua orbita, e alcune delle princi-
pali ineguaglianze del suo movimento. Prendendo poi la di-
stanza della Luna ecclissata dalle stelle fisse e aumentandola
di 180" aveano la posizione del Sole rispetto alle stelle stes-
se, e sapendo quanto esso distasse dall'equinozio conoscevano
la posizione dì questo punto rapporto alle fisse, e così Ipparco
fece la grande scoperta della precessione degli equinonozi.
Però sfuggirono a lui quelle grandi ineguaglianze nei moti lu-
nari che non sono sensibili nelle opposizioni, ma si rilevano
nelle quadrature, scoperta riservata a Tolommeo e a suoi suc-
cessori.
La famosa ecclisse solare che avvenne nella guerra de' Medi
e de Lidi, dicesi che fosse stata predetta da Talele. Ciò non
è impossibile, perchè ora sappiamo che questi fenomeni erano
24
■da gran tempo prima di quel!' epoca diligentemente studiali
in Cina ove esisteva un sistema regolare di calcolo ed osser-
vazioni, e che i frutti de' loro studi passarono agli Indiani, e
quindi ai Greci. Credesi comunemente che quel lilosofo avesse
potuto predire l'ecclisse di Sole in genere, mediante i cicli,
ma l'essere accaduto totale sembra che fosse a lui stesso ina-
spettato, e certo mero effetto del caso.
(3) L'osservatorio di Greenwich è un esempio molto no-
tabile del vero dovere e successo dell' astronomo pratico. Il
suo lavoro, non sembra altro a chi più non conosce che un
andazzo ordinario e triviale, ed è privo di tutto quel brillante
che costituisce ciò che dicesi una scoperta. Non una cometa, non
nn pianeta è slato trovato a Greenwich, eppure quello è il primo
osservatorio della Terra, che ha l'atto le prime scoperte della
scienza, nel somministrare i dati fondamentali per costruire
tutta l'astronomia. Sfortunatamente i direttori degli osserva-
tore secondari non possono adossarsi il grave peso dalle os-
servazioni Lunari, e sono costretti a pascere il pubblico delle
occorrenti novità della scienza, ma non so con quanto van-
taggio reale: il certo è che tutto quello che si sa fuori delle
osservazioni di Greenwich, può rifarsi ora in un anno o due da
qualunque astronomo fornito di buoni strumenti, ma sui lavori,
di Greenwich la presente abilità non può aver forza retroattiva,
uè potranno esser rivaleggiale da alcuno per tutto il tempo
avvenire quelle tante osservazioni che servirono a fare e perfe-
zionare la scienza. All'osservatorio di Greenwich non solo si e
sempre religiosamente custodita l'antica tradizione di osservare
la Luna ogni giorno al suo passaggio al meridiano in un colle
stelle circonvicine, ma si è costruito un nuovo strumento appo-
sitamente per poterla osservare presso l'orizzonte in quei giorni
in cui non potevasi osservare al meridiano. Tutte queste os-
servazioni non sono restate, come spesso avviene, sepolte nei
registri astronomici , ma corredate di tutte le necessarie ri-
duzioni sono state recate (ino al punto di venir confrontate
colle tavole teoretiche per averne gli errori, e conseguente-
mente le correzioni: lavoro di fatica immensamente maggiore
che non quello delle semplici osservazioni , e che al fastidio
del calcolo associa profonde cognizioni nella teoria.
Né conlento di questo, l'Astronomo Reale britanno, il
sig. Airv, mercè di ricchi fondi assegnati dal suo Governo, ha
25
intrapreso e condotto a fine un impresa ancor più colossale, e.
desiderata da gran tempo, ma die per la sua arduitcà e vastità,
avea scoraggilo più astronomi, voglio dire la revisione e nuova
riduzione di tutte le osservazioni della Luna fatte a Greenwich
dal 1730 al 1830, e che unita alle susseguenti forma più di
un secolo di corso lunare osservato colla massima precisione.
Una tal riduzione oltre l'aver purgato queir importante te-
soro da una moltitudine di inesattezze scorse nei calcoli an-
teriori, lo ha reso direttamente paragonabile coi risultati mo-
derni, mediante l'uniforme sistema di dati su cui sono basate
le riduzioni.
(4) È troppo celebre la controversia attualmente accesa
tra più celebri teorisli sul valore dell' accelerazione secolare
del moto medio della Luna, che da llausen, Plana, Pontécoulant
si trova 12" circa, quasi eguale a ciò che si ha dall'osserva-
zione, mentre da altri non meno abili calcolatori cioè Delanuay
e Adams, si trova solo la metà cioè 6". La questione resta in-
decisa ancora sulla vera origine di tal divergenza che sembra
non provenir punto da errore di calcolo, essendo quest'ultimo
valore concluso da tre metodi diversi e da due calcolatori affatto
indipendenti. Questo valore è di somma entità per la veri-
fica delle antiche ecclissi.
Un altro punto su cui resta qualche dubbio ancora è il
diametro de'due astri, che nelle osservazioni meridiane essendo
sempre assai influenzato dalla dilatazione prodotta dalla irra-
diazione , sembra doversi notabilmente diminuire quando si
tratta della determinazione dell' istante del principio , fine e
durata di un ecclisse. Così nell'ecclisse del 7 settembre 1838 os-
servata al Brasile, gli osservatori si trovarono sconcertati es-
sendo slata più breve la durata di 40" che non dava il calcolo.
Per questo sono preziosi i dati dedotti dal limite dell'ombra,
cioè dai luoghi ove 1' ecclisse cesserà di esser totale: si do-
vranno però premunire gli osservatori di cannocchiale, perchè
altrimenti la corona può far comparire 1' ecclisse non totale
in luoghi in cui lo è realmente, come è avvenuto altre volte.
(3l V. Maedleu L'écUpse solaire clu 18 Jul. 1800. inem.
dell' Oss. di Dorpat. 1839. Ecco la posizione di questi limili
della zona centrale.
26
A. limite Boreale 1
C.Machichaco.Plasencia Segura^^^^^^.^^Ayl)ai^ ^ Luna ^^^^^
' Versara Sadara |
Mequinenza
Miravet. C. torlosa. Dragovera. Cabrerà
B. linea Centrale
Cabazon
S. Vincent de laBarquera Sonci Ilo. Ponte Arenas -
Angiano
Poncorbo — S. Domingo de Calanda Villoslada —
Albega ^
Almanza — Villaroya Maynar — Guesa —
Calatayud
Canta Vieja — Oropesa
M. Campvey
C. limite Australe
C.Busto ^, '^^n.a. Pnladelena r„;,.,. ^^ vega. Villamarlir
— ~ oaias j
Luarca
Torquemada.Aranda.Siguenza. Cabela^Chelva . Torrente
Carrica — -^ ^"'J'*
Cullerà — C. S. Antonio — Torrechica (africa)
N. B. La linea sotto o sopra il nome indica che esso
sta discosto dal limite al Sud al NorA di qualche spazio non
però maggiore di una lega, l calcoli del Prof. Volfers danno
dei punti pochissimo diversi pel centro, ma più ristretti per
i limiti estremi per non aver tenuto conto dell' ingrandimento
paralitico del raggio apparente della Luna.
(6) Tra le spedizioni Governative o a spese di pubbliche
Accademie sono ora fissate quelle del governo francese sotto
la direzione di M. Faye, quella della Soc. R. di Londra che
avrà a capi De La Rue e Carrington e che per fotografare il
27
sole farà trasportare lo strumento ora a Kew per cui la Soc.
Reale ha fissato un fondo. Quelli degli astronomi spagnuoli
con due equatoriali di Steinheil, alla quale sono stato invitato
ancor io: quella di Baviera del Sig. Lamont, la Russa del sig.
Maedier e Winneke.
(7) Per il grado di oscurità vedi le osservazioni e con-
fronti di Forbes Bibl. Univ. voi. 48. pag. 363. e Carlini
Bibl. Univ. voi. 44. p. 361. La configurazione del Sole coi
quattro pianeti principali è questa
Giove
TP
,.^ Sole
Levante Saturno 2 ,, Ponente
Venere
Mercurio
Le posizioni loro più accurate sono le seguenti
Longitudine Latitudine Distanza del Sole
Mercurio 141° 55' — 1" 14' 25° 51'
Venere 116 48 — 5 41 5 23
Giove 123 52 + 0 30 7 47
Saturno 144 58 — 5 31 28 53
Il pianeta inferiore a Mercurio, sarebbe quello che dicesi ve-
duto dal Lescarbault passare sul Sole.
(8) Nelle ecclissi parziali come si avrà in Roma, l'effetto
non è punto differente da quello di un temporale: però anche
in questi non comincia ad esser sensibile l'oscurità finché non
è coperto il centro del sole. Diverse esperienze eseguite per
la prima volta al coli. Rom. nel 1851 fecero vedere la rapida
diminuzione che accade nella luce e nel calore solare appena
questo è coperto. Una serie di ricerche fatte col termomolti-
plicatore di Melloni mi fece vedere essere i raggi centrali assai
più efficaci che quelli de' contorni, nella proporzione di 2:1.
La cagione di ciò è l'atmosfera solare come si dirà appresso.
(9) Bihl.Un. di Gin.vol. 48 pag. 263. Il Sig. Forbes osservò
l'ecclissi telale del 1842 a Torino dalla cima della torre del
palazzo ove è l'Osserv. governativo, insieme col Bar. Plana,
ma per una assai particolare circostanza una nube isolata gli
•28
tenne coperto il sole durante lutto il tempo dell'ecclissc, mentre
a pochi passi di distanza altri poterono goderlo completamente:
ciò però diede luogo a varie importanti riflessioni e conside-
razioni , comunemente omesse dagli altri astronomi, occupati
in tult' altre cose in quei brevi momenti. Struyke fino dai
tempi d'Ilalley godè che simile sorte fosse a lui toccata, che
l'emozione sembra divenir maggiore.
(10) Nella prossima ecclisse la velocità dell'ombra sarà
di 900 metri per secondo {Faye ann. du Cosmosl860 pag.lB2),
e in 10 minuti di tempo attraverserà la Spagna al collo della Pe-
nisola. Lo stato atmosferico di quel clima rendendo dubbiose
le osservazioni al piano, gli astronomi hanno destinato per le
stazioni le più alte cime de'monti. Una delle più elevate èMon-
cayo quasi nel centro dell'ombra e della sua strada. Colà certo
l'efletto di questa specie di ombra volante deve riuscire sor-
prendente.
(11) Per una singolare illusione anche il sig. Airy osser-
vando a Snperga il Sole a lui scoperto, ebbe la stessa impres-
sione di una somma vicinanza della Luna come se fosse posta
a poche braccia di distanza (V. M. Astr. Soc. voi. XV. pag.lS).
Quest'astronomo nota anche il terribile effetto di una nube
sottoposta che apparendo di nera pece accresceva in modo
strano l'orrore della scena (p. 12).
(12) Anche altri prima avea osservato il fenomeno del
camminare dell'ombra, masi credeva esser stata illusione: non
vi ha dubbio come riflette lo stesso Forbes che il suo limite
sia ben definito, ma non deve omettersi che la rapidità del suo
movimento deve farla comparire ancor più decisa (Forbes
loc. cit.)
(13) Vedi il racconto del ISSldelCap. Biddulf a Dròback
{Astr. Soc. voi. XXI. pag. 36.) Vedi anche la relazione del
sig. Piazzi nelle osservazioni di Edimburgo per l'anno 1849-55.
(14) Più cavalli sul ponte della Dora a Torino, ombrarono
all' accostarsi dell'ombra : e lo stesso accadde a un ufficiale
l)russiano nel ISSI, che per diporto cavalcava presso un fiume
e che in quel punto fu in gran pericolo della vita. Il canto
del gallo al riapparire del sole è cosa notata dovunque erano
prossimi de'pollai.
(15) Astr. Soc. voi. XV. pag. 1. e seg.
(16) Le ricerche nella struttura fisica del Sole e in ge-
nerale de' corpi celesti furono assai promosse dopo il Galileo e
29
lo Scheincr, dal Cassini, e dal Wilson e vi si fecero progressi
immensi da Herschel, ma da qualche tempo erano cadute in
una specie di disprezzo presso gli Astronomi matematici. Certo
non sono queste [.ricerche così interressanti come quelle dei
moli, ma pure è un hel ramo di scienze che coi moderni pro-
gressi della fisica e coi polenti strumenti che oggidì si pos-
siedono merita ogni attenzione. Le ecclissi solari hanno con-
tribuito grandemente a tali studi, e per una più diffusa no-
tizia sullo stalo delle nostre cognizioni intorno al Sole può
vedersi quanto ho scritto neW Illustrazione del Quadro fisico
del sistema solare. Tip. delle Belle Arti 1858.
(17) Tutto porta a credere che esistono sulla superficie
solare delle immense correnti che strascinano la macchie , e
che lo strato dell'atmosfera solare si trova lacerato per la pic-
cola spessezza che ha. Questa spessezza cosi tenue è provata
da delicate misure della penombra delle macchie. In ogni mac-
chia si distingue la parte nera centrale che dicesi nucleo, e un
contorno più sfumato detto peìiombra. Wilson pel primo si ac-
corse che giunta la macchia presso all'orlo del disco, la penom-
bra si restringeva sempre prima della parte del centro che dalla
circonferenza, appunto come accadrebbe a chi guardasse una
gran buca mettendosi da un lato e a distanza, che perderebbe
di vista la pendenza del lato suo. Ciò prova che la penombra
è formata dalle scarpate della materia fluida che copre il Sole
che tende a livellarsi: questa penombra guardata coi forti in
grandimenli si vede tutta divisa a piccoli filamenti e corrcntellc,
le quali appunto col loro alternare chiaro e oscuro formano la
mezza tinta propria delle macchie. Le misure delle macchie re-
golari e circolari, danno per la spessezza dello strato fotosferico
un terzo del raggio terrestre , ma è da credere che in molti
sili e ove sono le facole, tale strato sia più spesso, e circa un
diametro terrestre, ma certo non superiore a questa spessezza.
(18) Che la corona fosse l'atmosfera lunare, lo dice chiaro
Louville (Meni. Ac. di Francia 1715). Ed ecco ciò che Vas-
senio dice di questa e delle prominenze rosse, vedute ai 2 di
maggio 1733 a Gotenburgo in Svezia. « Tempore quo sol tolus
« tegebatur praeler maximam parlem raacularum in disco, atmo-
« spheram Lunae per leloscopium fere 20 ped. suet. vidi . . .
« eanique in limbo Lunae occidentali sub maxima immersione
•' paulo lucidiorem ; absque tamen irregularitate illa et inae-
« qualilate luminosorum radiorum quae in oculos sine tubo in-
30
« tuentiuiii occurrebat. Admiratione non solum, sed el judicio
« illustrissiniae regiac societatis maxime dignae videbantur
« subrubiciindae nonnullae maculae in illa (atmosfera Lunare)
« extra peripheriam disci lunaris conspectae, numero tres aut
« quatuor, quas inter una ceteris major medio fere loco inter
« nieridiem et occidentem quantum judicare licuit. Composita
a haec erat tribus quasi partibus seu nubeculis minoribus pa-
« rallelis , inaequaiis iongitudinis cum aiiquali obliquitate ad
« peripheriam lunae ...» E continua dicendo che le rivide
dopo aver levato 1' occhio dal cannccchiale per più di 40*.
(Phil. trans, voi. 38. p. 135. ann. 1733-34. e Schum. Astr.
Nach. n. 463). La corona fu osservata pure a Ginevra nel 1806
(v. ph. Tr. T. 25). Ciò che Vassenio dice delle macchie del
del disco lunare visibili nel momento della oscurità totale, lo
trovo indicato anche da altri ma non sempre. È chiaro che ciò
non è punto difiicile ad avvenire: è in sostanza la luce della
Terra riflessa sulla luna, come avviene nella luce cwerma or-
dinaria della luna nova. Qoesta è la prima memoria sicura
delle pertuberauze; poscia vennero osservate in tutte le altre
ccclissi totali dal 1842 in poi, cioè in quella del 1850 , ai 7
di Agosto a Honololu nelle isole Sandwich dal Kutczycki :
quella del 28 luglio 1852 osservate in Isvezia, e Danimarca da
un grandissimo numero di osservatori; quella nel 30 novem-
bre 1853 osservala al Chile dall'astronomo Moesta, e quella
del Brasile da Liais nel 7 Settembre 1858.
(19) V. la mem. citata da Baily sulla ecclisse del 1842 e la
descrizione estesissima di questa stessa ecclissi che fu fatta
da Arago nell'appendice all' Annuaire du Bureau des Longit.
per r anno 1846 e più importanti descrizioni individuali che
si trovano in lutti i giornali scientifici di quell'epoca.
(20) La maggior parte di queste particolarità sono de-
scritte nelle relazioni dell' ecclisse del 1851 raccolte nel vo-
lume XXI. delle memorie della Soc. Astronomica di Londra.
La luce del primo anello contiguo al lembo è così vivace
che ha talora fatto credere anulari delle ecclissi veramente
totali : tanto questo anello è spesso apparso sì ben termi-
nato. La forma della corona disegnata dal Liais può vedersi
nel (7o5mo5 giornale del Moigno: essa è così strana ed irrego-
lare che ha molto modificato le prime idee, però si desidera una
conferma di così inaspettate apparenze di raggi, che in essa
sono disposti a fasci paraboloidali che rivolgono la convessità
31
verso la Luna e ed è diflìcile formarsi una idea del modo di loro
genesi. Il Moesla vide al Chile nel 18S3 , due fasci di raggi
estendersi uno sopra e l'altro sotto, ma non simmelricamente,
e il primo era lungo circa mezzo grado, il secondo un quarto. Il
fenomeno singolare da esso notato fu quello di una decisa in-
terruzione dell'anello brillantissimo che circondala luna, vi-
cina al suo lembo, la quale interruzione era del colore del cielo,
onde non poteva dirsi che essa fosse una montagna lunare.
(F. Informe sopra r eclisse del 1853 ecc. S. Iago Chile) Per
le mie osservazioni che most-ano esser la luna polarizzante
e riflettente specularmente V. Atti dell' Acc. de' Lincei an-
no 1860 sess. 2. e C. R. dell'Ac. di Francia 1860.
(21) Non è da ommettere che il verso della curvatura di
questa macchia è dall' Equatore solare al polo , quale cioè
hanno le correnti superiori dei nostri venti alisei. V. il suo
disegno nel quadro fisico del Sistema Solare. Yassenio pure le
descrive inclinate. Alcuni hanno sospettato che le protuberanze
avessero connessione colle macchie, e fossero le colonne di fumo
lanciate da questa specie di vulcani. Ma l'osservazione non
ha ancora nulla deciso in proposito della mutua loro corri-
spondenza.
(22) V. Carrington 1. e. Mem. Astr. Soc. XXI. Anche Ottone
Struveche osservò a Lomja l'ecclisse del 18S1 prendendo diverse
misure delle pertuberanze , concluse che la loro grandezza
variava col moto della Luna (Melanges Mathem. et Astron.
de VAcc. de S. Petersbourg tom.X. troisiéme livraison). Tnl-
tavia ad alcuni non sembra ciò prova sufTiciente che esse ap-
partengono al sole : si crede che sarebbe più sicura prova
di ciò la mutazione dell' angolo di posizione. Ma se le di-
mensioni possono variare per illusione ottica, come non potrà
variare la posizione? il massimo trasporto si calcola 6": ma
chi può prendere in quelle circostanze un angolo di posizione
entro limiti così precisi? Sarebbe interessante confrontare
le forme e le posizioni osservate ai due estremi della linea
dell'ombra, o almeno in Spagna e in Africa, che saranno sepa-
rate da tempi assoluti maggiori. Ma allora possono entrare
in giuoco le parallassi.
(23) Il sig. Faye sembra quasi affatto dichiarato contro
tale atmosfera, ma non so con quanta ragione. L'achille dei
suoi argomenti sembra essere che l'assorbimento di luce e
calore osservato da me sul disco solare non segue la legge
32
teorica di Laplace. Ma io vorrei sapere se la detta teoria
rappresenta nemmeno l'assorbimento de' raggi solari nel-
r atmosfera terrestre , la cui esistenza davvero nessuno ne-
gherà? Quindi credo che non possa assolutamente negarsi per
ciò solo l'atmosfera solare, ma dovrà cercarsi invece una miglior
teoria. E noto che quella teoria è in fondo quella delle refrazioni
astronomiche, le quali non sono da essa rappresentate che im-
perfettamente al di sotto di 12 gradi di altezza sull'orizzonte.
(24) Galileo fin dal suo tempo avea concluso che i nuclei
delle macchie solari, che pur sembrano neri devono essere
più lucidi di Venere; quindi non fa meraviglia che non si vedano
le protuberanze, che non devono esser più luminose di questo
pianeta. Le osservazioni nostre e di M. Dawes provano che
sul sole sono anche delle nubi leggiere o cirri semilucidi ;
sono essi quelli che formano le protuberanze rosse?
(25) Lascio da parte i grandi preparativi progettati da
alcuno di trasportare sul posto colossali telescopi coi quali
fotografare la Luna colla sua corona al tempo della totalità ;
e l'altra di connettere le stazioni tutte coi fili telegrafici onde
avere il tempo con più precisione; quella di esplorare le vi-
cende meteoriche con istrumenli collocali in palloni volanti ;
ed altre mille che forse non avranno alcuna elTettiva esecuzione,
e solo mi limiterò a dire, che un prezioso strumento sarebbe
quello di potere usare di registro elettrico pel tempo della
durata ; per 1' osservazione delle fiamme rosse , la parte più
importante deve essere di assicurare con precisione la loro
posizione, le loro direzioni, e specialmente confermare amcor
meglio il fatto del loro crescere o calare secondo che il moto
della luna le copre o discopre. Questa osservazione sarà de-
cisiva , e trionferà delle obiezioni che furono fatte contro
della loro realtà da alcuni che peraltro non le hanno mai
osservate. Per ciò utilissimo sarà un micrometro a tre fili
paralleli la distanza de' quali sia il raggio lunare, e due altri
vicini agli estremi de' tre suddetti distanti un minuto in arco,
e l'usare una punta per segnare 1' angolo di posizione su di
un cartone posto sul circolo del micrometro, per non perder
tempo a leggere. Le fotografìe saranno difficili per la corona
se essa non ha altra luce che quella della luna piena. Un
accessorio indispensabile sarebbe quello di poter mutar ra-
pidamente l'oculare e l'oiTuscante dal cannocchiale.
33
Sulle forme del cranio cinese. Annotazione
del prof. Maggiorani.
Làe seguenti notizie dipendono specialmente dall'esa-
me di un cranio cinese datomi a studiare dal noto
viaggiatore Martucci, il quale avendo dimoralo lun-
gamente in Canton, alla larga suppellettile di arnesi,
vesti, utensili, libri, disegni, istromenti dei cinesi da
esso raccolta , e offerta poi per molto tempo alla
nostra curiosità qui in Roma, potè unire anche il
cranio di un malfattore punito coH'ultimo supplizio.
La descrizione del cranio cinese di Emilio Blan-
cliard, riportata dal dott. Nicolucci nella sua eru-
ditissima opera sulle razze umane, è concepita nei
seguenti termini: (v Veduto dinanzi, la sua parte an-
teriore si mostra allungata e gradatamente ristretta
verso la sommità ; di profilo la fronte comparisce
assai dietreggiante, sicché l'apertura dell'angolo fa-
ciale è sempre inferiore a quella degli europei. M
mascellare superiore è stretto ed allungato; V infe-
riore egualmente stretto in comparazione della parte
superiore della lesta; l'occipite compresso e poco o
nulla sporgente. » A queste apparenze , che sono
certamente veridiche, aggiungendo quelle che risul-
tano dall'esame del cranio Martucci, e di altre teste
cinesi da me vedute, io mi affido di poter ampliare
il quadro del cranio cinese col novero dei seguenti
caratteri.
(J.A.T.CLXIV 3
34
1." Il cranio cinese rotondeggia sìmilinenle a
quello dei turchi, i quali appunto procedono dalla
stessa razza, cioè dalla tartaro-sinica.
2." Le regioni temporali protuberano notabil-
mente, e più che non suole nelle altre stirpi. Ove
è a notarsi come gli antichi scultori prestarono tal
conformazione di capo a Mercurio, che la favola ci
rappresenta qual maestro di astuzie e ministro di
inganni. Pertanto i viaggiatori e gli scrittori tutti,
che descrissero i costumi e il carattere dei cinesi,
li dipinsero come seguaci dell'araldo di Giove. « Di
sottile ingegno (così li giudica il Bartoli), scaltriti,
finissimi aggiratori, e gran maestri di fìngere, e at-
teggiare il volto in tutt'altro affetto di quello che
si nascondono nel cuore. »
3." La fronte non solo indietreggia, ma è pur
bassa. I sommi artefici dell'antichità, allorché vol-
lero effigiare V ideale della potenza intellettiva al pili
alto grado, attribuirono molto spazio alla fronte come
lo vediamo rappresentalo nelle teste di Giove. Ora
i cinesi sono più operativi che speculativi, e si di-
stinguono più nelle arti meccaniche che nelle filo-
sofiche discipline. Le generalità del sapere, e le astrat-
tezze della scienza non furono mai conseguite da
quel popolo, o almeno non costituirono il lato splen-
dido delle menti cinesi. Così la fronte bassa e sfug-
gente air indietro va d'accordo con una limitata in-
telleltività.
4." La radice del naso è molto infossata come
nella stirpe isriaelitica, ma le ossa nasali sono meno
protuberanti che non sia in quella stirpe; anzi of-
fronsi alquanto schiacciale.
35
5." Le orbite sono molto distanti fra loro , e
situate obliquamente; la loro larghezza eguaglia l'al-
tezza; i contorni ne sono più tosto rìgidi che dolci.
Così i margini superiori rappresentati dalle eleva-
zioni so[iraciliari, invece di offrire un segmento di
circolo, come nelle stirpi europee, decorrono in linee
rette o quasi tali.
6.* La faccia è grande, piana, e tutte le linee
che la costituiscono si avvicinano al retto andamento:
ossia i contorni tutti delle ossa faciali non sono sì
dolci come nei crani moderni europei, e specialmente
come si scorge nei teschi antichi degli etruschi e
dei greci.
7." Le ossa zigotnatiche son molto grandi, spor-
genti, e invece di offrirsi di figura romboidale, si
stringono alquanto verso le orbite: e nel margine
inferiore, piuttostochè slaccarsi rotondeggiando dal
mascellar superiore, se ne dividono in modo reciso,
e fornnandovi un angolo.
8." 1 mascellari superiori non solo grandeggiano
nel diametro trasversale a livello delle eminenze ma-
lari in modo di diriger queste all' infuori, ma spor-
gono anche in avanti; se non in guisa da produrre
la inclina/ione dei denti, certo però a bastanza per
indurre un lieve grado di prognatismo^ tale almeno
apparisce il cranio Martucci, osservandolo di profilo.
9." La distanza fra il centro delle ossa zigoma-
tiche e il forame auricolare liesce nel cranio cinese
molto minore di quella che intercede tra questo fo-
rame e la protuberanza occipitale, fatto confronto
coi teschi di altre stirpi: di maniera che conducendo
una curva, la quale da un orecchio all'altro passasse
36
verticalmente per la volta parietale, ne risulterebbe
nel cranio cinese una tal divisione da attribuirne
circa i due terzi alla parte posteriore e uu solo terzo
all'anteriore. E siccome la linea che congiunge i meati
auditori! esterni nella base del cranio rasenta il mar-
gine anteriore del forame occipitale, così dee av-
venirne che il capo non sia ben equilibrato sulla
colonna vertebrale: e tendendo questo a portarsi al-
l' indietro, renda necessario uno sforzo per condurlo
in avanti. Questo continuo istintivo esercizio ci spiega
in parte la nota mobilità della lesta in quella stirpe
d'uomini, e il costume dei continui suoi movimenti
dall'avanti all' indietro, e dall' indietro all'avanti in
ogni incontro ed in tutte le cerimonie. I costutni
hanno quasi sempre a fondamento una condizion di
natura.
10.° Questa posizione del foro vertebrale molto
in avanti trae anche seco la necessità anatomica di
un collo più stretto: ciò che in fatti si verifica spesso
nei cinesi, e ciò che pur tende ad accrescere la mo-
bilità della testa sul tronco.
I1.° L'osso occipitale sporge poco all' infuori,
e mostrasi quasi tagliato a picco.
12." L'apertura dell'angolo faciale avvicinasi più
al settantesimo grado che all'ottantesimo.
Ecco i più distinti caratteri del cranio cinese,
per quanto mi fu concesso il raccoglierli. A coloro
che dedicandosi di proposito a questa maniera di
studi hanno anche la comodità di attingere a più
larghe fonti di osservazioni, è riservato di giudicare
fino a qual punto il mio quadro sia conforme al vero.
Debbo intanto confessare come alcuni fra i carat-
37
Ieri (la me annotali differiscano sostanzialmente di!
quelli che fuion raccolti da Pietro Camper, il quale
trovò che nel cranio cinese le orbite erano poco
elevate, molto ravvicinate, e assai più larghe che
alte; ciò che spiegherebbe, secondo il citato autore,
il melanconico sguardo dei cinesi, e come l'aper-
tura delle loro palpebre sembri naturalmente allun-
gata. Nel cranio Martucci al contrario le orbite sona
fra loro molto distanti, e i loro forami sono egual-
niente larghi che alti. Notò pure il Camper come
nei cinesi i condili dell'osso occipitale siano quasi
equidistanti dai due estremi limitati dalle tangenti
dell'occipite e del mascellar superiore, di modo che
il capo si trovi ben equilibrato sul tronco, cioè non
inclini allo innanzi come nei calmucchi; né riesca
pesante all' indietro come nei negri: ed in vece nel
nostro cranio il foro occipitale è situato chiaramente
più verso la faccia di maniera che ne sbilanci l'oc-
cipite.
Dal che può raccogliersi come la Cina debba
essere abitata da varietà della medesima stirpe, ove
però sempre predomina il carattere della razza mon-
golica costituito dalla faccia larga e depressa, dalla
regione malare assai spaziosa e sporgente all' infuori,
dalla glabella schiacciata. La natm'a poi, dopo aver
impresso in un ramo della specie alcuni caratteri
fondamentali e cospicui, non rifina dall' inserirvi qua
e colà delle apparenze diverse e più o men rile-
vanti. Cosi il cranio Martucci, indubitatamente ci-
nese, ha forma rotondeggiante, mentre i due alunni
cinesi del ven. collegio per la propagazione della
fede hanno il capo di figura piramidale. Così nei
3S
nostro cranio l:i glabella è un pò depressa, ma la
ossa nasali spiccansi avanti notabilmente, quantun-
que i viaggiatori attribuiscano tutti al naso cinese
la forma schiacciala. Nel cranio Martucci ò rimar-
chevole la obliquità delle orbite, che ben si accorda
eolla nota obliquità che offre quel popolo nelle pal-
pebre dal basso in alto, e da fuori in dentro: e pure
i nostri alunni, non degeneri dalla stirpe quanto alla
piccolezza degli occhi e alla figura ellittica del canto
nasale, gli hanno però situati in linea retta. Pallas
ne informa che le orecchie dei cinesi sono larghis-
sime, e Barrow annota il mento aguzzo come ca-
rattere essenziale della lor faccia: ora ninna di queste
apparenze sì verifica dislintan)ente nei citati alunni.
Pertanto non è da fare le meraviglie se Spurzhein»,
esaminati in Londra dodici cinesi, li trovò differenti
gli uni diagli altri, e conformi solo nelle condizioni
degli occhi.
Eliminando adunque le apparenze più variabili,
e raccogliendo lepiìi costanti, può dirsi che la stirpe
cinese nel vivo si distingua così: a fronte poco ele-
vata , faccia larga sotto gli occhi e che dalle ossa
inalari va stringendosi fino al mento; occhi piccoli,
molto distanti fra loro, bislunghi , addentrati nelle
orbite ; palpebre formanti nell'angolo maggiore un
solco profondo; glabella depressa, naso breve, roton-
dato; occipite poco protuberante- »
1 cinesi offrono i contorni della testa conformi
a quelli degli otaiti, le ossa malari sporgenti come
i negri, gli occhi stretti, distanti e coll'angolo in-
terno rotondato come gli ottentoti, la sommità del
capo foggiata talvolta in piramide come gli arabi.
39
il naso schiacciato come i calmucchi, i capelli neri
0 grossi come i giapponesi, la fronte bassa, le or-
bite oblique, la barba rada, il color della pelle giol-
lognolo o rossiccio come gli americani. E così vie
meglio confermasi come le varietà della nostra specie
non siano per caratteri netti e recisi separate l'una
dall'altra, ma, come nelle facoltà morali, così nelle
fisiche condizioni con fraterni vincoli di somiglianza
vicendevolmente congiunti.
40
Elogio storico del cardinale Chiarissimo Falconieri
Millini scrino da monsignor Francesco Fabi Mon-
tani, e da lui offerto aW lllmo e Emo monsignor
Giovanni Monetti novello vescovo di Cervia.
j\ mantener vivo nella iricmoria de' posteri il nome
di alcun personaggio, non fa di mestieri ne di sot-
tili argomenti, nò di lobusta eloquenza, né di for-
bitissimo stile, né di quanto altro mai inventar seppe
l'arte oratoria, quando quegli, di cui vuoisi favellare,
sia stato non apparentemente, ma in realtà virtuoso,
e ne abbia con costanza dati sfolgorantissimi esempi.
Conciosiacchè la stima per la virtù è negli umani
petti ingenita, e per quanto sieno i costumi corrotti,
malvagi i tempi , guasti gli uomini , essa riscuote
mai sempre ammirazione e rispetto. Se altri fatti
ne mancassero, lo abbiamo oggidì toccato con mano
nel cardinal Falconieri, il quale ebbe, come suol
dirsi , un popolo solo , e la sua dipartita innanzi
tempo venne come pubblico lutto lamentata. Ma
omesso ogni preambolo egli è subito da cominciare,
dovendo per la brevità al mio dire prescritta mol-
tissime cose tralasciare affatto, molle altre accennarle
appena.
1.
DI nobilissima famiglia fiorentina (1) da più secoli
tramutatasi in Roma, stretta in parentela colle pri-
41
marie d' Ilalia, erede del nome e delle dovizie dei
Millini, e senz'averne mai preso il titolo pareggiala
fra noi alle principesche, nacque il 17 di settembre
del 1794. Secondo ed ultimo penilo de'coniui<i don
Alessandro generale, come allora dicevasi, delle pon-
tificie poste e donna Marianna Lante duchessa di
Santa Croce di Magliano nel Sannio, ebbe il nome
di Chiarissimo, rinnovato sempre nella sua casa, e
notissimo ne' fasti de'servi di Maria per essersi così
chiamato il padre di santa Giuliana, germano fratello
al beato Alessio, uno de'selle fondatori di quell'isti-
tuto. Fin dalla puerizia addimostrossi allenissimo da
ogni secolaresco passatempo, e dedito sovrammudo a
quanto sa{)er potesse di chiesa.
Fece gli studi di umane lettere e di filosofia nel
nobile collegio Tolomei di Siena. Venuto ne'diciol-
to anni fu colla primaria nobiltà d' Italia chiamalo
ne' collegi di Francia, e ascritto alla imperiale pagge-
ria, ov'ebbe pili volte l'onore di servire l'imperatore,
e dove restò fino alla caduta di esso. Tornato in Ro-
ma, per lo straordinario affetto che portava al sommo
pontefice Pio VII divisava entrare fra le sue guar-
die nobili, ma l'abate don Pio Guidi suo spirituale
direttore gli disse, essere volontà di Dio, che a lui
si sacrasse nel sacerdozio. Frattanto studiò giuiispru-
denza sotto la disciplina dell' illustre canonico e av-
vocato della romana curia D. Alessandro Bellotti, e
vi applicò r animo in guisa da esserne conventato
nella romana università. In pari tempo dette opera
alle teologiche discipline, avendo a guida quel so-
lenne maestro in divinità, che fu l'abate don Bario-
42
lomeo Cavani modenese, professore di scolastica teo-
logia nel collegio romano (2).
Aggregatosi immantinente alla clericale milizia,
fn nella generale ordinazione de' 19 di settembre
deir anno 1818 nella basilica lateranense sacrato
prete da monsignor Candido Maria Frattini arcive-
scovo di Filippi e vicegerente di Roma. Né il Fal-
conieri, come non di rado avviene, col volger degli
anni rimise alcun poco del primo fervore. Imperoc-
ché avendo già dato il nome alla pia unione de'sa-
cerdoti secolari in s. Galla e all' altra di s. Paolo
apostolo, due istituzioni che abbracciano e si allar-
gano per quanto mai può immaginare ed estendersi
la pili eroica carità a vantaggio del clero e de'pros-
simi , le frequentò con costanza e ne divenne per
così dire Tanima. La visita degli spedali, l'assistenza
ai marinai, ai moribondi, agli oratori notturni, le
missioni estive ai birocciai e fienaroli, la predica-
zione, il confortare coloro che dannati erano all'ul-
timo supplizio, l'aver cura delle congregazioni dei
giovani, ed in ispecie di quella delle belle arti in
san Luca, cui affezionatissimo rimase per tutto il
tempo della vita (3), il seppellire i morti nel vene-
rabile ospitale di santo Spirito in Sassia, furono sue
principalissime cure. Il perchè questo giovane prete
divenne ben presto il cuore di tutti, in ispecie del
basso popolo, che ne sperimentava i benefìci, e ve-
niva da chiunque il vedesse invidiato e mostro a
dito.
E per verità fra gli ecclesiastici toccatigli a guida
ebbe la ventura di sortire un padre Felici gesuita,
un venerabile del Bufalo, ed a fervorosi coetanei,
43
emuli e colleghi i Mastai, gli Odescalchi, i Patrizi,
i Ferretti, i Corsi, il pi-imo de' quali governa oggidì
con tanta gloria la chiesa universale, il secondo morì
povero ed in concetto di santo nella compagnia di
Gesù , e gli altri risplendono nell'apostolico senato
de'cardinali.
n.
Pio VII, cui erano ben note le virtù del Falco-
nieri , il vivissimo desiderio che nutriva di evan-
gelizzare fi a i poverelli di Cristo ed accomunarsi
con essoloro, stabilì ad ogni costo di promuoverlo: e
tengo da fonte sicura, che il cardinale Litta vicajio
generale del papa glielo proponesse nel 1820 a succes-
sore del Riario Sforza suo maestro di camera, cosa
ch'egli seppe assai destramente frastornare ed impe-
dire. Ciò non pertanto nel dicembre del 1822 lo an-
noverò fra i camerieri segreti soprannumerari, ed ab-
legato lo spedì a portare la berretta a monsignor
Clermont-Tonnerre arcivescovo di Tolosa, sublimato
da lui alla porpora de'cardinali nel concistoro de' 2
dello stesso mese. Postosi in viaggio nel cuor dell' in-
verno fu il pontificio ablegato sommamente accetto
alla maestà del re Luigi XVIII, che lo colmò di onori,
alla corte, al cardinale che lo ebbe sempre a suo
ospite, e a tutto l'episcopato francese. Imperocché
approfittò egli di questa occasione per rivedere il
collegio, dove avea dimorato, per visitare le princi-
pali città, ed in pari tempo venerare i più memorandi
santuari della Francia. Le sue virtù, il suo aspetto,
la sua amabilità il facevano immantinente a tutti
palese, ed ognimo ambiva di conversare con esso-
u
lui, e stringeiglisi in amicizia. Tornato in Roma, il
medesimo pontefi(;e lo promosse a canonico della ba-
silica vaticana (4), lo nominò prelato domestico, re-
ferendario dell'una e dell'altra segnatura, e poco dopo
ponente della sacra congregazione del buon governo.
Succeduto al Chiaramonti Focone XII, desideran-
do al Falconieri di accelerare la via a maggiori di-
gnità. Io ascrisse nel 1824 fra gli uditori della sacra
romana rota , posto tenuto già dal suo antenato
cardinale Alessandro; e varcato appena l'anno, nel
concistoro de' 3 di luglio 1826 lo promosse alla co-
spicua sede di Ravenna, vacata per la morte dell'ar-
civescovo Codronchi, il quale non saprei dire per
quale combinazione erasi trovato presente, allorquan-
do il Falconieri fu colle battesimali acque rigenerato.
Non è a dire quanto grata giungesse questa elezione
ai ravennati, i quali con particolari deputazioni ne
vollero rendute grazie al supremo gerarca della chie-
sa, e al Falconieri stesso, della cui rinunzia erano
stati in tanto timore.
11 santo padre medesimo, per moltiplicargli i con-
trassegni di stima e di benevolenza, desiò ungerlo
del sacro crisma in una al cardinale Pianetti, eletto
di Viterbo, nella chiesa di s. Maria degli Angeli alle
terme diocleziane, la quale sebbene vastissima con-
teneva a stento la moltitudine accorsa. Era il gioiiio
sacro alle glorie di Maria assunta in cielo, e Leo-
ne XII aveva ad assistenti monsignor Filonardi nuovo
arcivescovo di Ferrara già suo limosiniere, ed il sa-
grisla monsignor Perugini dell'ordine romitano di s.
Agostino vescovo di Porfirio; di poi g!' impose con
grande solennità il pallio, di cui facendo le veci di
45
camerlengo di santa chiesa aveva fatta postulazione
monsignor Isoard decano della sacra iota, e gli die
luogo fra i vescovi assistenti al soglio pontificio.
Ili
Spacciatosi al più presto da ogni negozio, nel se-
guente ottobre volò il novello arcivescovo in mezzo
ai suoi spirituali figliuoli preceduto da fama, che per
quanto grandissima, videsi poi assai minore del vero.
Datosi ad adempiere i pastorali doveri, e fattosi sin-
ceramente forma del giegge, lo guidò sempre ai mi-
gliori pascoli coll'esempio, colla voce, collo scritto,
e con quanto suggerire gli seppe la carità. Visitò
più volte ogni angolo della vastissi(na diocesi, chiamò
banditori evangelici per darvi le sante missioni, istruì
da se stesso ogni domenica nella dotti'ina cristiana i
figliuoli, riformò monasteri, restaui-ò chiese, l'eresse
dalle fondamenta, dotò parrocchie, le acciebbe di
numero, incorò la pia opera della propagazion della
fede, ed adoperossi mai sempre nel pi'ocurare a'suoi
diocesani ogni spirituale e temporale vantaggio. So-
prattutto mirò alla buona educazione della gioventù,
saviamente argomentando derivarsi da ciò il miglior
farmaco della corrotta società. Né invigilò soltanto
sulla disciplina del comunale liceo e collegio sì ri-
nomato in ogni tempo, ma anco sulle scuole le più
elementari di ogni terricciuola. Fornì di egregi mae-
stri e rettori il seminario, ne aperse uno più piccolo
pe' poveri chierici (5), chiamò i fratelli delle scuole
cristiane, e propagò fra gli uomini nelle domeniche e
nelle feste le congregazioni di nostra Signora. Nò
46
meno sollecito per le donne , le ascrisse ad altre
congregazioni [)oslo sotto il pnlrocinio di s. Doro-
tea e dirette da sacerdoti. Fece venive dalla Francia
le suore della carità, cui commise una scuola gra-
tuita per le povere , un convitto per le agiate , la
direzione degli asili infantili: e perchè non avessero
a mancare sì buone istitutrici, ne formò due case,
neir istituto cioè delle orfane e nel pubblico spedale.
Portò mai sempre somma riverenza ed amore al cle-
lo; in particolar guisa all' illustre capitolo della me-
tropolitana, non di nome ma di fatto tenuto per suo
senato e consigliero. Non si saprebbe dire se il car-
dinale piij amasse il capitolo, o questi il cardinale.
Egli non lasciava occasione per gratiHcarselo, e co'
spessi donativi alla basilica Orsiana, col rifare per-
fino a sue spese la sagrestia, andata sventuratamente
in fiamme la notte del 21 di giugno 1851, e con
vera magnificenza costruirgli un coro invernale: be-
nefizi da non obliarsi giammai.
Le quali cose soltanto, a tacer di molte altre,
quanto gli avessero a recare di sollecitudine, di di-
spendio, di tempo e di amarezze, ognuno di leggieri
sei vede. Eppur sono un vero nulla, e perdono, quasi
dissi, ogni luce poste a confronto di quelle limosino,
che in tutto il suo vivere fece specialmente in Ra-
venna, potendo con sicurezza atfermarsi, che le an-
nuali sue rendite, compreso il paterno retaggio, su-
perassero gli scudi 25,000. Erasi proposta la re-
gola insegnata da s. Ambrogio: « Avrai riguardo, dice
egli (6), all'età e all' impotenza, talvolta anco alla
verecondia delle persone civili: ti mostrerai pm largo
co'vecchi, non potendo eglino colle braccia lucrarsi
47
il pane, gì' Infermi son degni di pronto soccorso, e
soprattutto sovvengansi coloro che senza colpa ven-
nero in basso slato ».
Gregorio XVI non soffrì, che più a lungo man-
casse nel sacro collegio un tanto vescovo, e restituì
in pari tempo alla chiesa ravennate quella porpora,
che avea perduta nel 1767 colla morte del cardinal
Oddi. Pertanto nel concistoro de' 12 di febbraio
del 1838 lo annoverò fra i padri del sacro senato,
gli conferì il titolo presbiterale di s. Marcello, a lui
doppiamente caro, per aversi quella chiesa in cu-
stodia dai servi di Maria, e gli assegnò, come è uso,
varie saere congregazioni. Grandi feste per tale pro-
mozione fecersi in Roma, maggiori in Ravenna, e
più splendide se ne sarebbero vedute, se la somma
di scudi due mila, che a tal uopo decretata avea il
municipio , non si fosse a richiesta del cardinale
adoperata nelP ingrandimento della chiesa parroc-
chiale del borgo Adriano. Il nuovo porporato nuli;»
rimise dell'antico e modesto suo modo di vivere ,
ed il color delle vesti fu il solo cangiamento che
in lui si notò.
11 regnante pontefice Pio IX, già suo intimo e
suffraganeo nella sede d' Imola, non appena salilo
alla cattedra di s. Pietro, a dimostrargli sempre più
l'amore e la stima, divisò porgergli nel 1847 uno
straordinario onore, deputandolo ad imporre la car-
dinalizia berretta all'Emo Baluffi suo successore nella
sede d' Imola, annoverato il 21 di dicembre del I84(j
fra i cardinali. La cerimonia, con principesca splen-
didezza eseguita, avvenne nella metropolitana, e alla
presenza di tulli i vescovi della provincia. Né qui
48
tini. Ma nel 1848 gli concesse la grazia di poter
consecrare monsignor Antonio Mecrini novello ve-
scovo di Terni: funzione pur essa fatta con grandissi-
ma pompa nella metropolitana: e nel seguente anno
vacata la chiesa di Forlì per la traslazione alla sede
reatina di monsignor Gaetano Carletti, gliene affidava
l'amministrazione, ritenuta dal cardinale con sommo
vantaggio di quella diocesi per lo spazio di quattro
anni, ognuno de' quali fu da lui con qualche singoiar
benefizio segnalato.
Nel 1848 si trattenne in mezzo a' suoi diocesani,
fintanto che gli fu consentito. Astretto a dipartirsene,
né volendo di troppo dilungarsi, fermò sua stanza
nella vicina Venezia, dalla quale proseguì a gover-
nare un gregge tanto pili bisognoso di guardia, quan-
to più da' pericoli accerchiato. Sedate le cose fu suo
prima pensiero il restituirsi alla sua sede, e perorava
a favore de'suoi diocesani, siccome in ogni evento
avea falto. Nò sarò rimproverato di lunghezze, se qui
riferirò, come bellissima prova di affetto avesse già
dato ai ravennati, quando nel secondo anno del suo
episcopato mosse a bella posta in Roma perimpetrare,
come fece, da Leone Xll, che alla sua sede non si
togliesse la residenza del cardinale legato, onore che
assolutamente il papa voleva concesso a Faenza in
pena delf attentato alla vita del cardinale Rivarola,
legato della Emilia, commesso in Ravenna da alcuni
mentecatti.
Non posso trapassare in silenzio le pubbliche e
private preghiere , e gli umani provvedimenti non
solo dal pontificio governo, ma da lui eziandio presi
neir inverno del 1855 ad impedire, che il flagello
49
del cholera, prima ed unica volta, non piombasse
in quella città. Fallitagli ogni speranza, eccolo in-
trepido e coraggioso accorrere ovunque maggiore
fosse il bisogno, farsi tutto a tutti, penetrare ne'più
umili abituri, amministrare in qualsivoglia ora della
notte il sagramento della confermazione, nudrir mol-
ta compassione per tutti, fin pei domestici, ninna
per se: far sua delizia e stanza il lazzaietto ogni gior-
no visitato, per trovarsi qual padre fra i morienti
figliuoli. Né mancò chi gli ponesse a scrupolo sì poca
curanza della propria vita.
Cessata la morìa, innanzi alla quale tenute avea
già le congregazioni preparatorie, adunò per la solen-
nità della Pentecoste dello stesso anno, nella metro-
politana il sinodo provinciale, che in ogni sua parte
appiovato dalla sacra congregazione del concilio, e da-
to alle stampe, reputasi a buon diritto tesoro di eccle-
siastica dottrina e di canoni alla età nostra opportuni.
Nel modo il più splendido accolse nel luglio del 1857
l'augusto Pio IX, il quale nel dì sacro al vescovo ed
apostolo dell' Emilia santo Apollinare tenne cappella
papale nella basilica Orsiana. Quanto poi egli e i
ravennati adoperassero nel tributargli i più chiari se-
gni di sudditanza, di devozione e di giubilo, gli an-
nali di quella provincia ed i pubblici fogli lo hanno
a perenne memoria registrato. F'inalmente nell'ulti-
ma domenica di maggio del [)rossimo passato anno
con solenne triduo celebrò il centenario della beatis-
sima Vergine denominata del Sudore (7), principale
protettrice della città: festa che volle preceduta da
un corso di esercizi dati con molto frutto per lo
spazio di quindici giorni dai padri passionisti, in cui
G.A.T.CLXIV. 4
50
il cardinale, por trovarsi in Roma, non potè rinno-
vellare quegli esempi di zelo e di umiltà da lui altre
volte mostrati in somiglievoli occcasioni, e che pur
troppo esser dovevano gli ultimi del lungo suo epi-
scopato !
IV.
Ora rifacendomi indietro, fin dall'inverno del 1852
il Falconieri condottosi in Roma era stato assalilo
da grave infermità che ne minacciò i giorni, e da
cui parve non appena visitato dal sommo pontefice
uscisse di ogni pericolo. Non si riebbe però mai in
guisa da rifiorirgli a[)pieno l'antica salute. Indarno
gli fu dai medici insinuato il perpetuo ritorno al-
l'aria nativa. Voler serbare fede alla chiesa da Dio
datagli nella sua gioventù: non volersi allontanare
da que'cari ravennati, la maggior parte de'quali aveva
veduto nascere: il valoroso capitano morir nel campo
combattendo fra' suoi- Consenti solo di passare in
patria i mesi invernali; e quando il regnante pon-
tefice, non mai stanco di dargli significazioni di amo-
re , lo volle nel 1857 segretario de' memoriali , il
cardinale accettava l' incarico, fattagli grazia di di-
morare a vicenda in Roma ed in Ravenna-
Rendulo a questa città sul finire di maggio del (
caduto anno in mezzo a quelle feste , che gli so- |
levano fare il clero ed il popolo, incominciò poco
stante a dare non dubbi segni di quella infermila,
che da più anni ne logorava sottilmente le membra.
Alla qual cosa contribuirono non poco le politiche
vicissitudini , che suo malgrado vide compiersi , e
che gran parte gli tolsero dell' antica sua ilarità. j.
51
Ne' primi di agosto il morbo incrudelì, ed in breve
fu spacciato dai medici. Appena per la città si sparse
la trista novella, il capitolo, il municipio, tutte le
chiese fecero tridui e preghiere. II 13 di quel mese
il cardinale stesso supplicò, perchè dai medici gli si
consentisse il viatico, ma non vi condiscesero. Vi-
vissime istanze ripetè il giorno sacro all' Assunta ,
anniversario di sua consecrazione. Non vi fu chi la-
sciasse di accorrere ad accompagnare l'augustissimo
Sagramento portatogli secondo che impone il ceri-
moniale de' vescovi. Nella celebre cappella interna
dell'episcopio, eretta già da san Pier Crisologo, si
comunicò in abito violaceo, cioè di penitenza, ed
in ginocchio, non potendo per la natura del male
giacersi nel letto, il solo capitolo potè entrarvi, ri-
manendo gli altri nelle sale ad orare per lui. Finita
la solenne professione di fede, (issò le accese pupille
nell'Ostia sagratissima, pregò per sé, pregò per la
diocesi tutta ; di poi con fioca ed interrotta voce
dimandò agli astanti perdono, di non avere appieno
adempiuto a'suoi doveri, ed edificato il gregge con
quegli esempi, che in tanti anni avevan tutto il di-
ritto di esigere da lui. Alle quali parole tutti scop-
piando in dirottissimo pianto, l'arcidiacono a nome
dei suoi colleghi singhiozzando replicò : ringraziar
anzi l'eminenza sua degli edificantissimi esempi di
ogni genere di virtù dati in pontificato sì luogo, e
mancar le parole a lamentarne la dipartita.
Infuriando la malattia, il 21 richiese l'estrema
unzione: e pregando il Signore, perchè fosse sempre
pili la santa chiesa glorificata, conservato a lungo
un pontefice così grande, ed accettasse la sua anima
52
in pio olocausto , nel seguente giorno alle ore tre
e 3 quarti antimeridiane , dopo aver poco prima
provveduto a non so quale negozio della diocesi, pla-
cidissimamente si riposò nel Signore.
Eppure, chi il crederebbe ? qualche mese innanzi
eragli entrato lo scrupolo di non essere piti buono
a governar la sua chiesa, e pensava di trattarne col
pontefice. iMa fu chetato, ripctendoglisi le stesse pa-
role dette già a santo Alfonso de' Liguori: « bastare
la sola sua ombra, m
V,
Non ebbe funerali da cardinale, né quali ven-
nero poi da Benedetto XIV prescritti; ma secondo
r uso antichissinjo di quella metropolitana , splen-
didissimi cioè e quasi dissi sovrani , prendendovi
parte ogni ordine della città. Né di leggiei-i sareb-
besi dai ravennati assentito, che ad arcivescovo sì
desiderato non si rendessero in ugual modo, o fos-
sero nella più piccola guisa menomati. Nel primo
giorno ne fu curato il cadavere, nel secondo con abiti
pontificali fu esposto nella gran sala del palagio, al-
zati in ogni intorno altari per la celebrazione delle
messe. Le milizie frenavano a stento la ognor cre-
scente moltitudine, che accorreva a pregargli pace.
A tarda notte fu processionalmente portalo alla me-
tropolitana per le consuete vie della città accom-
pagnato dal clero, dalle corporazioni religiose, dalle
confraternite, dal municipio, da chi tenevasi la somma
della provìncia e da tutte le autorità civili e mili-
tari. Ogni corpo di milizie scortava il convoglio ac-r
(cerchiato e seguito da non mai veduta calca.
53
Il capitolo cantò V intero officio de' morti e pon-
tificò la solenne messa assistcntlovi que' medesimi,
che nella precedente sera ne avean seguito il fe-
retro: e facendosi dai soldati tre fuochi di parata.
Mancò la funebre orazione: ed il capitolo, che tanto,
come dissi, lo amava, volle venerare il divieto, che
il cardinale ne avea fatto. Deposta dall' altissima
mole la salma, tutti le furon d' intorno ad {strappare
lo vesti, i capelli , a toccarla con fazzoletti e co-
ione. Si penò assai dalle guardie a metterla in salvo
nella cap[)ella della beatissima Vergine, lasciati fuori
della cancellata i piedi, perchè si potesser comoda-
mente baciare: nò per V intero giorno cessò il po^
polo di accorrere a vedere por l'ultima volta il sua
benefattore.
Non tramandando il cadavere alcun cattivo odore,
(piantunque lunga fosse stata la malattia, scorsi tre
dì dalla morte, non avesse voluto essere imbalsa-
mato, la stagione fosse caldissima, e ne accresces-
sero l'ardore tante accese faci e tanti fiati insieme
riuniti, fu il capitolo pregato di ritenerlo ancor sovra
terra., Non si credette hene di Condiscendervi : e a
notte assai inoltrata, co' soldati, a porte chiuse, e
secondo che il rito voleva fu sepolto nella totwba
de' suoi pr&decessori. Nel testamento legò al sommo
pontefice, a testimonianza di quella riverenza ed amo-
re in cui lo aveva sempre tenuto, una bellissima im-
magine di Gesù deposto dalla Cioce, basso rilievo
in aigento di mano maestra; e di que' pochi beni
liberi di famiglia, che non fece in tempo a chiu-
dere ne' celestiali tesori depositandoli nelle mani de'
povei'i , chiamò ei'edc il nuovo seminario de' che-
54
liei ricoid:ilo di sopii), nccioechè pei- mancanza di
rendite non avesse un giorno a venir meno istitu-
zione a lui SI cara. Nell'ottavo giorno gli vennei'o
nella metropolitana rinnovellati i funerali, invitan-
dosi il popolo al mest' officio con latine epigrafi
dettate da quell'egregio professoie del collegio ra-
vennate signoi- Pacifico del Fiate, che le avea pur
composte nel giorno della deposizione , e che ne
avea scritto il funebie elogio latino posto entro di
un tubo nella sua cassa. Né gli inar)carono sontuo-
sissime esequie in Ronia: piimieiamente nella ven.
chiesa di santa Galla, pontificando la solenne messa
monsignor Sillani Aretini vescovo già di Tenacina,
leggendone la funebre orazione uìousig. Monetti vica-
rio generale del cardinnln ora degnissimo vescovo di
Cervia, ed assistendovi insieme all'Emo signor cardi-
nale Patrizi vicario di Sua Santità il fiore del clero ro-
mano: quindi nella chiosa del suo titolo, san Mar-
cello, accorrendovi in folla la fatniglia tutta de'sei vi
di Maria, al (juale ordine era egli ascritto siccome
terziaiio. Nò debbo ometteie, come njn molto doj»o
una lunga biografia se ne inserisse da me nel gior-
nale di Koma de' 10 di settembre 1859 , ripub-
blicata poi in altri giornali, e che in appresso pei
torchi dell'Aureli ce ne donò una elegantissima ed
assai ben circostanziata vita il reverendo sacerdote
D. Davide Farabulini ravignano, alunno di quel semi-
nario Pio, che tanto oiioia la pietà del regnante pon-
tefice.
VI.
Molto potrei e dovrei aggiiingei' qui delle virtù
del cardinale: compendierò dicendo, che si propose
r imitazione di san Francesco di Sales , e che fin
, dalla prima giovinezza assai bene lo ricopiò. Fu di
statura forse alta, proporzionato in ogni sua parte,
e di elegantissime forme. Fronte larga, occhio vi-
vace, gote rubiconde: ispirava al solo vederlo mo-
destia e santità. Di temperamento forte, di umore
lieto, di molta acutezza di mente, di finissimo tatto
in ogni negozio. Le quali doti sapeva nascondere sì
bene, da non potersene avere piena contezza, se non
da chi lo avesse avuto lungamente in pratica. Co-
stantissimo nelle amicizie, conservò anco da arcive-
scovo e cardinale quelle della prima gioventù: ospi-
taliero al sommo, potevasi con tutta ragione chia-
marsi il suo palagio l'albergo de' peregrini. E che
io non mentisca, o di soverchio colori il mio qua-
dro, ed abbia anzi moltissime cose , siccome pro-
misi, taciuto, ne chiamo a testimonianza la soprad-
detta vita del Farabulini, e quanti in Roma e fuori
per breve o lungo spazio di tempo conobbero un
cardinale , in cui per maggiore sventura si spense
r ultimo superstite di famiglia (8), da cui usciron
due santi, tre cardinali, vari prelati e letterati illustri
e che fu in ogni tempo si buona, generosa e caris-
sima a Roma.
Esempi di virtij, quali ho accennato, non sono
né unici, né rari nell'apostolico senato de' cardinali
e de' vescovi; ed ove ne avessi talento potrei con
recenti ed antichi fatti confortarne le prove. La ve-
ridica istoria senza studio di parti , senza tema o
speranze, ammaestrata dagli eventi dirà un giorno
alla pili tarda posterità quali furono sempre i veri
benefattori del genere umano, se quelli che alluci-
56
nando gì' incanii con vano utoi)ie ne abusano il no-
me, ovvero chi come il Falconieri in ogni suo allo
si conformò agli insegnamenli della dollrina di Cristo.
Non sarà discaro ai leltori , se per appendice
aggiungiamo le epigrafi, le quali vennero, come dissi,
dettate dal eh. sig. professore Pacifico del Frate.
IN FUNERE CARDINALIS CLARISSIMl FALCONIERII
In fronte metropolitani templi
HODIE . PABENTALIA . SVNT . CLARISSIMl . FALCONERII . CARDINALIS
PONTIFICIS . MAIOBIS . RAVENNA? . ADESTE . CIVES . EX . OMNI
ORDINE . ET . PH . VOLENTES . ANIMAE . MAGNAE . SEDEM . BEATORVM
ET . HONORES . MERITOS . ADPRECAMINOR . VICEM . APVD
DEVM . REPENSVRI . ANTISTITI . SANCTISSIMO . PARENTI . PUBLICO
In mole funebri
L
CLARISSIMO . FALCONERIO . ARCHIEPISCOPO . CARDINALI . TITVLO
MARCELLO . ITEMQVE . D . N . PII . IX . SVMMO . SCBINIARIO
A . LIBELLIS . CYIVS . VIRTVTVM . MAXIMARVM . EXEMPLIS . MVLTORVM
QVE . RECTB . FACTORVM . LAVDE . ECCLESIAM . UANC . YLTRA
ANNOS . XXXIII . INSIGNEM . EXTITISSE . OMNES . AD . VNVM
CONSENTIVNT . OBSEQVIA . POSTREMA . FVNVS . ET . LACRIMAE.
PATRI . DESIDERATISSIMO.
II.
CTSTODl . ET . VINDICI . RELIGIONIS . INTEGERRIMO . FIDEM . ET
CONSTANTIAM . DECESSOR . IMITATO . EIDEMQYE . AVCTORI . ET
MAGISTRO . PIETATIS . SANCTIMONfAE . AVITAE . RETINENTISSIMO
FELICES . ANIMAE . QVAS . FALCONERIA . DOMVS . QVAS . ECCLESIA
RAVENN . COELO . PEPERIT . OBVIAM . LAETO . AGMINE . OCCVRRENTES
SVVM . INVITENT . CONSORTIQVE . ADPLAYDANT . BEATITATIS
SEMPITERNAE.
57
IH.
SALVTIS . ANIMARVM . STVDIOSISSIMVS . ELOQVIO . EXEMPLIS
MORVMQTE . SVAVITATE . COMMEMORABILI . AD . OFFICIA . CHRISTIANAE
VITAE . PLYRIMOS . REVOCAVI! . ADLEXIT . OMNES . DIVINI . CVLTVS
DIGNITATEM . IN . DELICIIS . HABENS . ALVMNOS . ECCLESIAB . SVAE
AD . DOCTRINAM . ET . VIRTVTEM . INSTITVIT . TEMPLVM . MAXIMVM
SVBSELLIARIO . HIBERNO . AVCTVM . PRAEDIVITE . SVPPELLECTILI
EXORNAVIT . SACBAS . AEDES . EXCITARI . INSTAVRARIVE . IVSSIT
VETERIS . DISCIPLINAE . TENAX . CONCILIVM . PROVINCIALE . INDIXIT
RITEQVE . nABVIT . HVIC . VOS . QVOT . ESTIS . OMNES
ADCLAMATE . HAVE . ET . VALE . PONTIFEX . PIENTISSIME.
IV.
QVI . DVM . VITA . MANSIT . SOLATOB . MISERORVM . ADSIDVVS . EFFVSO
IN . OMNES . AMORE . EGENTIVM . PLEBEM . ALVISTI
STIPEM . QVAERERE . ERVBESCENTIVM . INOPIAM . SECRETO . LEVASTI
ADFLICTIS . ET . lACENTIBVS . DEXTERAM . PORREXISTl . IPSE . 0
NVNC . ADSIS . E . COELO . VICESQVE . MISERATVS . CIVITATIS . TVI
AMANTISSIMAE . ADFER . OPEM . ET . SOLATIVM . IMPLORANTIBVS.
IN FUNERE INSTAVRATO DIE 30 AVGVSTI
Supra portam templi maximi
HONORI . ET . VlRTVTl . CLARISSIMI . FALCONERII . CARDINALIS
ARCHIEPISCOPI . N . QVEM . IX . KAL . SEPT . ANN . MDCCCLIX
MAGNA . CiVITATIS . FREQVENTIA . MAXIMO . BONOR . LVCTV
EFFEBRI . NEMO . NON VIDIT . ITERVM . PARENTAMVS.
In mole funebri
\.
QVAE . TE . PONTIFICEM . PIVM . MVNIFICVM . ADSERTOREMQVE
RELIGIONIS . INVICTVM . DIV . FELICITER . EXPERTA . EST . HAVE
ITERVM . OLAIUSSIME . HAVE . 0 . MIDI . NOVVM . ADDITE . IN
58
COELO . DECVS . ADCLAMAT . TOTVMQVE . ADCLAMABIT . IN . AEVVM
ECCLESIA . RAVENNATENSIVM.
II.
evi . NVPER . VNVS . HEIC . TV . SVPERERAS . TVTELA . INGENS
ET . SOLATIVM . IPSA . NVNC . AD . CAELESTIA . DEMIGRANTEM
TE , TE . VOTIS . OMNIBVS . MISEROQVE . FLETV . COMPELLAT
ORBA . PARENTE . CIVITAS,
m.
QVOS . OMNIGENA . CARITATE . AI) . SVPREMAM . DIEM . COMPLEXVS . ES
QVIQVE . DVRAM . SOSPITE . TE . NVNQVAM . SENSERE . INOPIAM
EHV ! . QVANDO . ALIVM . INVENIENT . PAREM . MISERI . ET
EGENTES.
59
NOTE
(1) La famiglia Falconieri trae la sua prima origine da
Fiesole ; trovasi registrata fra quelle, che nel 1210 avevano
l'onore del consolato, ed andavano a Firenze divisa allora per
sestieri. Vedi l'istoria fiorentina di Marchionne di Coppo Ste-
fani inserita nelle « Delizie degli eruditi toscani. Firenze 1776
in 8. »
Della famiglia Millini, nobilissima pur essa, scrisse in la-
tino la storia genealogica Iacopo Lauro, e la pubblicò in Roma
nel 1636. Ha dato quattro illustri cardinali, i quali sono tutti
sepolti nella loro gentilizia cappella in santa Maria del popolo.
Sono Giovanni Battista creato nel 1476 da Sisto IV; Gio: Gar-
zia da Paolo V nel 1606; Savo da Innocenzo XI nel 1681; e
Mario da Benedetto XIV nel 1747-
(2) Elogio storico del professore D. Bartolomeo (^avani del
Sillico in Garfagnana. Modena. Tipografia di Antonio ed An-
gelo Cappelli 1848. Monsig. Falconieri cantò la solenne messa
nell'esequie fattegli in sant'Ignazio, cui assistettero tutti gli sco-
lari e i professori colleghi dell'università Gregoriana, ov'cra
morto il 23 novembre 18'23 in età di anni 46.
(3) In questa occasione contrasse intima amicizia col
professore Luigi Bonelli, illustre metafisico e teologo romano
troppo presto rapito agli studi e alla religione. Non è a dire
quanto il Falconieri si adoperasse per la morale coltura di quella
gioventù, cui rimase aflezionatissimo: ne visitava anco da car-
dinale assai spesso la congregazione, godendo eziandio di con-
tinuare a predicarvi. Molti ne ridusse a savio, molti a perfetto
tenore di vita, fra' quali due giovani romani architetto l'uno,
pittore l'altro, che rendutisi carmelitani scalzi, edificarono
quel severo istituto, in cui dopo non molti anni santamente
morirono.
(4) Il giorno 20 aprile 1823 prese possesso del canoni-
calo vacato per la promozione alla sacra porpora dell' Ode-
scalchi: nel maggio del 1823 lo dimise perchè divenuto udi-
tore della sacra rota, col quale officio sono le canonicali pre-
bende incompatibili. Nel partirsi volle lasciare in memoria di
se alla vaticana basilica un piside di oro di assai elegante la-
(iO
voro, del peso di circa 11 once, per Carne uso le Ceste nelle
messe cantale alla comunione de' ministri.
(5) Lo Condò nel 1833, lo intitolò ai santi Angeli Custodi:
vi unì i chierici meno agiati, o poveri di beni di beni di Cor-
tuna, una gran parte de' quali manteneva a sue spese. Gli die
comuni coir altro seminario le scuole e la chiesa di san Gi-
rolamo, perchè in alcune feste dell'anno la officiassero insieme.
(6j Degli offici lib. 1 cap. 30.
(7) E dipinta in una tavoletta di legno: ferita di coltello
da un empia mano nella guancia destra gittò sangue. Sul co-
minciare del secolo XV, quando le armi straniere innonda-
vano i campi ravignani straziando la città, quando nelsecento
furono quasi tutti i luoghi d'Italia assaliti dalla pestilenza ,
fu più volte veduta impallidire, piangere e sudar sangue, delle
cui gocce anco di presente si vede aspersa; quindi il volgar
nome di Madonna del sudore. Questa effigie non si deve con-
fondere colla Madonna greca, venuta dall'oriente in Ravenna
con istraordinario prodigio sopra le onde del mare fra due
angeli che spandeano immensa luce. Fu ricevuta nel lido dai
beato Pietro Onesti detto il peccatore, e si vede nella basi-
lica di Classe, come quella sta nella metropolitana dedicala al
vescovo sant'Orso. Immagini ambedue veneratissime dai ra-
vennati.
(8) Il beato Alessio, santa Giuliana illustri nell'ordine dei
servi di Maria: fra Carlo, abbracciata fra i carmelitani lari-
forma di santa Teresa, vi morì in concetto di santo. Lelio ar-
civescovo di Tebe, nunzio in Fiandra, fu fatto cardinale da Ur-
bano YIII nel 1643, ebbe il titolo di santa Maria del popolo,
fu legato di Bologna, morì in Viterbo nel 1648. Alessandro,
celebre uditore della sacra rota , le cui decisioni sono assai
stimate, fu governatore di Roma, e decorato della sacra por-
pora da Benedetto XIII nel 1724. Fu diacono di santa Maria
della scala, e per soli due lustrì godè della meritala dignità.
Ottavio, per tacere di ogni altro, mancato di anni 50 nel 1616,
fu uno de' più illustri antiquari, non pur del suo, ma di ogni
tempo: Grevio e Gronovio arricchirono le loro collezioni cogli
scrini di Ottavio Falconieri. A lui si deve la prima edizione
della Roma antica del Nardini fatta in Romane! 1606 ed ar-
ricchita di giunte: a lui si devono le Iscriptiones athleticae
ed altri lavori dottissimi. Insieme all'archeologia coltivò pure
le belle leltcre.
61
Terapia. Di Vincenzo Catalani dottore in medicina
e chirurgia. (Continuazione e fine).
Del Catarro.
CAPO SETTIMO.
Cura.
J\\ robusto e pletorico catarroso giova il salas-
so , r emetico e la revulsione intestinale. Ed al
vecchio debole bisogna sempre corroborare l'aerea
mucosa ; e all'esterno gli umori richiamare, o col
permanente emuntorio, o col volante vescicante. E
internamente gli si somministrano gli espettoranti,
i tonici e gli eccitanti ; ed esternamente sempie
mantiensi libera la insensibile traspirazione cutanea.
SEZIONE SECONDA
Gastrorrea.
CAPO PRIMO.
Definizione,
La gastrorrea è l'abbondante emanazione, della
interna superficie dello stomaco, di mucosa materia,
che si rigetta.
62
CAPO SECONDO.
Forma.
L'epigastrico peso la gastrorrea precede, cui au-
menta la mucillaginosa bevanda ; e che i tonici e
gli eccitanti, che la digestione facilitano, alleggeri-
scono. Naturale è agli alimenti l'appetito; e manca
la sete , e scipita e patinosa ed anche amara è la
bocca. Le forze languono; e chi la sotTre, lentamente
consumasi. E poi viene la nausa, e quotidianainente
vomitasi bianca, filante e semi-trasparente materia.
Cui per settimane e per mesi, ed anche per anni,
vomitasi ; e poi per qualche mese non piìi si vo-
mita, e facilmente litornasi, dopo qualche tempo, a
rivomitarla.
CAPO TERZO.
Cause remote.
A preferenza degli altri i linfatici vecchi sonovi
predisposti; e la predisposizione innalzano alla con-
dizione di gastrorrea il digiuno, l'astinenza , 1' uso
dei rilascianti, e l'abuso degli eccitanti.
CAPO QUARTO.
Causa prossima.
La condizione della gastrorrea è il rilasciamento
63
della ventricolare mucosa , determinato dal lento
processo flogistico , dall' uso dei rilascianti , e dal-
l'abuso degli stimolanti.
CAPO QUINTO.
Necroscopia.
Aperto il ventricolo hannovi trovata di mucosità
intonacata la interna superficie. E lavata che hanno
la membrana mucosa , 1' hanno trovata scoloiata ,
biancala, floscia e rilasciata.
CAPO SESTO.
Pronostico.
Spesso la gastrorrea recidiva; e in pochi giorni
non si risolve; sorpassa il mese, e dura anche |)er
anni. Difficilmente guariscesi; spesso stazionaria ri-
manesi; e raramente vi si muore consunti.
CAPO SETTIMO.
Cura.
La gastrorrea incominciasi a curare cogli emetici;
e si prosegue coi nutrienti, coi tonici e cogli ecci-
tanti. E si prescrive l'animale vitto, il vino austero
e generoso , l' infusione di centauro , il decotto di
cicoria e di china, l' infusione di rabarbaro e di as-
senzio, i preparati di marte, l'aria libera e tempe-
rata, e la ginnastica.
64
SEZIONE TERZA.
Enteronea.
CAPO PRIMO.
Definizione.
I/enlcrorrea è l'adinamica secrezione, di abbon-
dante matei'ia filante e senji-trasparenle, dclT intesti-
nale mucosa, che per secesso scappa dal corpo.
CAPO SECONDO.
Forma.
Prima incomincia nei leucoflemmatici a farsi sen-
tire r intestinale flatulenza; e poi viene V inappeten-
za, manca la sete, e sciogliesi il ventre. Indeboli-
scesi il polso; e vengono meno le forze. E per se-
cesso esce la mucosità prima alla feccia mescolata,
0 poi sola ed abbondante. E dura per giorni , per
mesi, ed anche per anni.
CAPO TERZO.
Cause remote.
Predispone ed anche 1' enterorrea determina il
luogo che si abita caldo-umido, i rilascianti, i pur-
ganti e la lenta gastro-enterite.
65
CAPO QUARTO.
Causa prossima.
Il linfatico temperamento alla enterorrea predi-
spone; e la condizione che la determina è il rila-
sciamento della mucosa intestinale, determinato dal-
l'abuso dei rilascianti, e dal lento processo flogistico.
CAPO QUINTO.
Necroscopia.
Aperto il gaslro~enterico canale, si è trovata di
muco la mucosa intonacata; che essendo stata la-
vata, è slata trovala scolorata, bianeata e rammollita.
CAPO SESTO. ;,.„(
Pronoslico.
La enterorrea sintomatica segue la malattia, che
la mantiene. E grave malanno è poi la primaria ;
principalmente T antica, che difficilmente risolvesi,
e che spesso fa morire consunti.
CAPO SETTIMO.
Cura.
Alia scarsa mucosa-intestinale evacuazione basta,
G.A.T.CLXIV. 5
66
se ella è morbosa, la calda aromatica bevanda. Ed
all'abbondante, che chi la soffre consuma e sfinisce,
si prescrivono i nutrienti, i tonici e gli astringenti.
E curasi la sintomatica coi rimedi, con cui si me-
dica la malattia che la mantiene.
SEZIONE QUARTA.
Medorrea.
CAPO PRIMO.
Definizione.
Per medorrea generalmente intendesi l'adinamico
profluvio sieroso e mucoso, che emana dall' interna
superficie dell'apparecchio genito-urinario femminile
e maschile ; che non è contagioso, e che non di-
pende da specifica virulenza.
CAPO SECONDO.
Forma.
Generalmente la medorrea incomincia e finisce
collo scolo di limpida sierosità. In principio è sie-
rosa emanazione, che a poco a poco addensasi, e
prende col tempo la mucosa e purulente forma. Che,
pervenuta che sia alla massima estensione, attenuasi
lentamente, diventa sierosa e col tempo dileguasi.
E la morbosa secrezione placidamente compiesi senza
strepito di fenomeni; ne all' infiammazione congiun-
67
gesi; e presto lisolvesi, ed anche dura lungamente,
e difficilmente anche guariscesi.
CAPO TERZO.
Cause remole.
I deboli e cagionevoli linfatici, a preferenza degli
altri, sonovi predisposti. E poi la determina ciò che
indebolisce e rilascia la genito- urinaria mucosa.
CAPO QUARTO.
Causa prossima.
La morbosa condizione della medorrea è il ri-
lasciamento della mucosa genilo-urinaria ; cui de-
termina il parto laborioso, l'aborto, le tocologiche
operazioni ed il lento processo flogistico.
CAPO QUINTO.
Necroscopia.
Aperto, nel cadavere, l'apparecchio genito-uri-
nario, vi si trova l' interna mucosa scolorata e ram-
mollita, e di tenue mucosità intonacata. Ed anche
vi si trovano ulceri , scirrose e cancerose degene-
razioni.
Pronostico.
Persistente e non pericolosa è la medorrea, che an-
68
che si guarisce; ma che spesso fastidioso incomodo
rimanesi.
CAPO SETTIMO.
Cura.
Alla medorrea , che dal generale e dal locale
rilasciamento deriva, giovano internamente e nella
parte applicati i tonici e gli astringenti. Meglio però
è di dare internamente i nutrienti e i tonici; e lo-
calmente applicare gli astringenti. Mentre questi in-
ternamente dati, difficilmente operano nella mucosa
genilo-urinaria, e la medorrea risolvono.
CONCLUSIONE.
La morbosa emanazione, di materia bianca fi-
lante e viscosa, compiesi ovunque sono mucose mem-
brane. E solo le principali noi abbiamo discorse ;
mentre le altre, queste conoscendosi, facilmente da
chicchessia si concepiscono. E quasi sempre sinto-
matiche essendo le emanazioni sanguigne, sierose e
mucose; ci conviene gli altri malanni trattando, di
ridiscorrerne. Alcuni le hanno trascurate affatto; e
noi le abbiamo esposte, per solo dare la generale
idea delle preternaturali emanazioni, che nel corpo
animale morbosamente si compiono
69
LIBRO SESTO
Somasenografìa.
Minerali e animali ingeneransi talora entro di
noi , che profondamente ci conturbano ; e che ci
fanno anche spasmodicamente morire^ se dal nostro
corpo non li possiamo espellere. E gli uni e gli
altri ora brevemente esponiamo.
PARTE PRIMA.
Prodotti animali.
Dagli umani discendendo, per la scala zoologica,
a discorrere degl'inumani^poche cose diremo diquelli,
che entro del nostro corpo annidansi, e che ci con-
turbano. E parleremo ancora poco degli esterni, che
introdottisi nell' interno non vi prolificano né vi
prosperano, e che solamente l'economia ci contur-
bano.
SEZIONE PRIMA.
Umano parassitismo.
CAPO PRIMO.
Definizione.
I parassiti sono gli esseri, che nascono e cre-
scono negli altri csserij ed il parassitismo è talmente
70
Bell'organica condiziono, chft inHislintamente Io com-
portano gli esseri vìtodIì. E la parassitica indivi-
duale esistenza alimentasi a carico del primitivo or-
ganismo; ed esso ne soffre; e talora perisce, senza
ebe la parassitica esistenza si accresca , né si in-
grandisca a carico di quello; e si l'una e sì l'altro
simultaneamente periscono. E quella deesi distrug-
gere, se volsi questo conservare.
CAPO SECONDO.
Riduzione deìVumano parassismo.
Gli antilinneani tre varietà d' intestinali vermi
conoscevano; e quelli che dopo di loro furoiM), tal-
mente ne accrebbero il numero, che molte varietà
se le immaginarono. Ed intralciarono maggiormente
la elmintologia col riportarne le varietà a distinte
classi. Noi, oltre di ristringerne il numero, ne for-
miamo una classe distinta dalle altre, con po<;a zoo-
logica precisione, che compiendo le seguenti varietà;
cioè 1 ." la tenia; 2." il vescicolare; 3." il iricocefalo;
4.° Vascaride; 5.° il lombricoide.
TENIA. Sono le tenie vermi schiacciati e lun-
ghi, che risultano da piccoli pezzi coi loro margini
riunitisi gli uni agli altri. Annidansi nei tenui in-
testini, colla testa in alto^ e la coda che pende al
basso. Il capo, simile ad un tubercolo, è munito di
quattro laterali aperture, da cui dipartonsi gli ali-
mentari canali. Il collo componesi di piccoli pezzi»
che leggermente allargandosi ne formano la lun- }
ghezza, che al corpo congiungesi. L'estremità o è
71
tronca, o ai margini laterali elevansi due subolate
terminali corna. Nelle schiacciate anella apronsi i
due genitali canali; il maschile è superiormente col-
locato , ed inferiormente il femminile. E le uova
nell'uscire da questo, da quello vengono fecondate;
e la tenia è parassita umano ovipero ermafrodito;
e si divide in armata ed in inerme.
L'armala conosciuta comunemente col nome di
tenia concurbitina, di verme solitario e di tania ar-
mata, ha la testa munita di circolare e stellata co-
rona , nel cui mezzo esiste la proboscide ; da cui
ha principio il mediano canale, che diramandosi si
estende fino alla coda.
La inerme, conosciuta col nome volgare di tenia
lata, ha la piccola testa munita di quattro laterali
popille e di una centrale; ed a cui manca la circo-
lare e stellata corona , che la proboscide circonda
della tenia armata.
VESCICOLARE. [ vescicolari dividonsi in so-
ciali e in solitari ; i primi convivono in comune
vescichetta, e di raro si trovano nel corpo umano;
e gli altri in gruppi riuniti, ha ciascuno peculiare
vescichetta;e costituiscono una varietà dell'umano pa-
rassitismo. Dalla vescichetta il solitario verme estrae
la testa munita di unciformi protuberanze, mediante
cui attaccasi nelle contigue parti ; e colla centrale
popilla attrae il convenevole alimento. Non si co-
nosce il genere, ne' il sesso; e pare essere sempre
spontanea la loro generazione.
TRICOCEFALO. Il dicotomo ed ovipero trico-
cefalo annidasi principalmente nel retto intestino ,
ed è tra noi rarissimo. Egli ha la spirale forma ,
72
di mezza linoa di grossezza, e di uno o due pol-
lici di lunghezza. La capitale estrentiità termina in
ripiegata fìloforcne setola; e la coda spiralmente gi-
rando termina in ottuso amo, in cui apresi il tubo
intestinale. Ed il maschio dalla femmina differisce
per la ripiegata coda e la maschia proboscide ; e
questa differisce da quello perchè manca della pro-
boscide, ed ha l'ovario, e la coda oblungata, piatta
e più larga del coipo. ••
ASCARIDE. La vivipcra ascaride è rotonda ed
è schiacciata ai lati, e della grossezza di una linea,
e della lunghezza <li un pollice. Guizza, e veloce-
mente saltella; non vive sola, e riuniscesi in con-
clobalc masse ; di raro osservasi nello stomaco ,
nell'esofago, nella vagina e nell'urinaria vescica ; e
comunemente annidasi nei crassi intestini , e prin-
cipalmente nelle cellule cavernose del calon, e nel
retto intestino. Lungamente gli ascaridi persistono; e
narrasi di taluni, che ne furono affetti oltre ai dieci an-
ni. Col microscopio guardati si vede la testa guarnita
di ovali prominenze, e longitudinalmente divisa. E che
dalla testa in poi leggermente ingrossandosi, giunta
al massimo della sua grandezza, incomincia lenta-
mente a sottigliarsi , e termina in subulata coda.
Dall'apertura longitudinale della testa principia il
tubo intestinale , che va ad aprirsi nella contraria
estremità. Nel maschio al di sotto del tubo inte-
stinale apparice il maschile canale , che estendesi
fino all'apice della coda; e vedesi il femminile in-
testino circondato di embrioni, che colla pressione
si fanno scappare per l'ascaridea cloaca. Straordi-
nario è il numero degli embrioni, che in se racchiude
73
la feinmina; ed e^nessi che gli abbia, la madre sen
muore.
LOMBRICOIDE. Il dicotomo e vivipero lombri-
coide è rotondo , della grossezza d' una penna da
scrivere, e della lunghezza di circa cinque pollici;
ed il maschio è sempre più piccolo e meno lungo
della femmina. Il maschile sesso è a poche linee
distante dall'apice della coda; ed il femminile alla
distanza di due pollici dalla testa. E la fammina e
il maschio convivono negli intestini con altri pa-
rassitici vcimi.
Degli altri, di cui fimno menzione gli elminto-
logi , in questo luogo noi non facciamo verfjo :
mentre li riguardiamo o come varietà , o come
estranei, che quantunque non parassiti umani , nel
nosti'o corpo entrano e ci conturbano.
CAPO TERZO.
Parassi toijenesi.
Il parassitismo è nella condizione universale; che
indistintamente l'organismo lo comporta. Ed egli ha
un'archetipa modalità, che nell'essenza non cambiasi,
ed egualmente riproducesi. La cui genesi, per alcuni
è discendentale, e che non si compia senza dei pa-
terni germi. Egli è peculiare ipodalità, che annidasi
negli esseri organici viventi; e da cui solo può ri-
cavare gli elementi indispensabili pel suo manteni-
mento. Dalla quale stazione allontanato che sia, ne-
cessariamente perisce; come il tei-restre animale, che
si tuffa nell'acqua, e l'aquatico che da essa ostraesi.
74
Senza diflfondeici in parassilogenesiclie Irascen-
denlali disquisizioni , noi ci atlenianrio all' opposta
sentenza, senza contraddire alla prinna. Imperocché
nel mentre che ammettiamo la spontanea parassito-
geuesi, riteniamo del pari la discendenlale ovipera
e la vivipera generazione dell'umano parassitismo.
1 fatti o che sostengono, o che si oppongono si al-
l'una e sì all'altra sono tali, che non si possono di-
struggere né combinare se l'una e l'altra parassito-
genesi non si ritiene. Ecco come i naturalisti di-
sputavano, e disputano ancora, senza potersi né so-
stenere, né la contraria certezza distruggere. Nella
maniera di concepire la parassitogenesi umana, tanto
gli ovaristi ed i viviperisli, quanto gli eterogenisli
hanno dei falli che li sostengano ; come di quelli
che li contraddicono. In tal guisa mantiensì la sco-
lastica disquisizione; mentre se o gli uni o gli altri
tutti i falli avessero nel canto loro; gli uni trionfe-
rebbero, e gli altri necessariamente soccomberebbero.
CAPO QUAKTO.
Condizioni parassilogenesiclie.
L'adinamia é condizione favorevole alla genesi,
ed alla parassitica figliazione. La favoriscono il lan-
guore del sistema cardiaco-vascolare, e la predomi-
nanza delle vene sulle arterie, ed il linfatico tempe-
ramento, l'adinamia del tubo gastro-enterico, e l'ab-
bondante secrezione mucosa , e la poca irritabilità
e r indebolitasi coesione dei solidi. Cosicché i fan-
ciulli e le donne la soffrono a preferenza degli adulti
75
e degli uomini. E di sovente complicasi alle adina-
miche malattie; nò viene meno, nò dileguasi prima
che siansi ristorate le organiche forze.
La favoriscono ancora le cose esterne, che affie-
voliscono la plastica attività; e determinano il lan-
guore e la debolezza ; verbigrazia, i luoghi umidi,
e circondati dalle stagnanti acque. Le ombrose abi-
tazioni, e non illuminate dalla vivificante azione della
luce; né riscaldate dai calorifici raggi del sole; e che
sono dominate dai venti che la rapida intemperie
determinano, il cattivo e manchevole nutrimento; e
lo smodato uso dei rilascianti e dei succulenti, come
le acquee bevande ed i farinacei alimenti.
CAPO OLINTO.
Riduzione deWnmana parassitica manifestazione.
Sviluppatosi r umano parassitismo , turbasi lo
stato di salute a ragione della quantità e qualità dei
vermi, e dell'universale e locale sensibilità della parte
ove sogliono annidarsi. E la parassitica manifesta-
zione è comune e particolare, locale ed universale.
CAPO SESTO.
Coniìine manifestazione deWiimano parassitismo.
Incerta è la parassitica espressione , e la sola
espulsione dei vermi è il sintomo caratteristico e
significante. Nulladimeno noi l'esponiamo, affinchè
abbiasi a rilevare da chicchessia quali inconvenienti
76
siano capaci di provocare i venni. Cambiasi la espres-
sione facciale ; ed ella diviene o rosea, o pallida,
o plumbea. Un semicerchio azurro dispiegasi nella
circolare inferiore parte delTorbita; e 1' inferiore pal-
pebra gonfiasi ed ingialliscesi, e la flava tinta leg-
germente ditfondesi nell' oculare bianco. L' occhio
perde la naturale vivacità , si rimane immobile , e
la pupilla si dilata. Insopportabile prurito destasi
nelle narici e nell'ano. Duole il capo, ed il sonno è
turbato, susurrano le orecchie, e segue la vertigine
e lo svenimento. Esala dalla salivosa bocca odore
fedito e verminoso: stridono i denti; la sete è ar-
dente, e l'appetito è perturbato. La tosse è secca,
ricorrente e soffocante; ed alla diffìcile respirazione
associasi il singhiozzo. La pronunzia è interrotta ,
e l'articolazione impedita; e talora la cardialgia tor-
menta r infermo, e tal'altra l'affoga. Palpita il cuore,
e battono duri i polsi, frequenti, celeri e intermit-
tenti. Si svolgono gli addominali gas, ed il ventre
gonfiasi, e seguono i borborigmi, i rutti, la nausa
ed il vomito. Duole l'addome, e l'ammalato lamen-
tasi di lacerazioni e puntme non fisse , ma vaghe
per la cavità addominale.il ventre ora è sciolto, ed
ora è costipato. Le urine sono tenui e crude , nò
gli escrementi fetenti. Segue la noia, 1' ansietà, la
negligenza, e la stravaganza nell'operare.
CAPO SETTIMO.
Manifestazione della tenia.
Rendoncela sensibile ed appariscente il succia-
77
mento, il rotatorio movimento, la gravezza, le pun-
ture, le morsicature addominali, ed il frequente sti-
ramento nasale. L'aura fredda e alternativa dei vi-
sceri, ed il gonfiarsi e l'abbassarsi alternativamente
del ventre. La tinta plumbea della faccia, la dila-
tazione della pupilla, l'abbondante lagrimazione, la
vertigine, il deliquio, il vomito, la consunzione e
la straordinaria voracità. La debolezza delle gambe,
e l'universale tremore. E talora violenti dolori ad-
dominali, ed orribili spasmodiche convulsioni fanno,
chi la soffre, terminare di vivere.
>flfiifl00!
CAPO OTTAVO.
Manifestazione del vescicolare.
I vescicolari svolgonsi a preferenza negli indi-
vidui di linfatico temperamento ; e la tristezza u
la rapida emaciazione ne costituiscono la caratte-
ristica espressione. Sparsi nella cerebrale sostanza
della pecora, ella diventa macilente, vertiginosa e
stupida; e fluttuanti nei ventricoli cerebrali umani,
l'uomo diviene apopletico, e muore.
CAPO NONO.
Manifestazione del tricocefalo.
II tricocefalo irrita coi rapidi movimenti la su-
perfìcie interna dell' intestinale tubo. E raccolti in
grandissimo numero , si riuniscono in conglobata
massa, e dilatano ed infiammano 1' intestinale mu-
78
cosa; e privano il corpo del necessario nutrimento,
e la consunzione determinano. Principalmente osser-
vansi nei deboli; ed all'asteniche malattie spesso con-
giungonsi.
CAPO DECIMO.
Manifestazione dell'ascaride.
Velocissima ed agile nel muoversi suscita nei
crassi intestini, e principalmente nel retto, il pru-
rito ed il penoso dolore pungente- Ed in masse con-
globate ammucchiandosi irritano la membrana mu-
cosa del retto, suscitano il tenesmo, ed anche l' in-
testino infiammano.
CAPO DECIMOPKIMO.
Manifestazione del lombricoide.
Colla prominenza dura ed aguzza determina il
lambriooide dolori pungenti e lancinanti. Talora sdi-
tesi un interno succiamento; e traforando gli inte-
stini determina, nelle parti ove trasferiscesi, atroci
dolori. I tormini e gli addominali sussulti sono i fe-
nomeni caratteristici del lombricoide.
CAPO DECiMOSECONDO.
Manifestazione consensuale dclVumano parassitismo.
Dal parassitismo umano derivano ostinate e gra-
vissime malattie. E nei verminosi si osserva la pai-
79
pitazione, la sincope, la vertigine, l'afonia, l'amii-
tilamento, la cecità, il susurro alle orecchie, l'abbat-
timento, la stupidità, il delirio, le notturne contra-
zioni, i sogni inquieti, i torbidi pensieri, l' inquietu-
dine, l'ansietà, il singhiozzo, la convulsione, l'epi-
lessia, l'apoplessia, la cefalagia, la mania, la dissen-
teria , la corea di s. Vito , la catalessi , il tetano ,
l'asma convulsa, l'amaurosi, la pleuritide, e la sop-
pressione nelle donne della mensile ricorrenza. In-
fine il parassitismo umano complicasi generalmente
alle adinamiche malattie; verbigrazia, alla tifoide, ed
al morbo glandolare.
CAPO DECIMOTERZO.
Necroscopia.
Nel cadavere dei verminosi sonosi trovati vivi
e morti vermi nel gastro-enterico canale. Ed anche
nelle altre parti del corpo; verbigrazia, nei cerebrali
ventricoli , nella cavità toracica e addominale , ne!
fegato, nella milza, nel pancreas, nei reni e nella
vescica. E le parti che li contenevano , sono state
trovate arrossate, ingorgate, ed anche corrose e per-
forate.
CAPO DECIMOQUARTO.
Pronostico.
Le funeste conseguenze della verminazione furo-
no, e sono tuttora amplificate. Non già che i vermi
non facciano grandissimo male; ed anche non siano
80
Ciìijsa di molle; ma pei'chò la verminosa piedispo-
sizione, e le malattie che la determinano, più male
ci fanno degli stessi vermi.
CAPO DECIMOQUINTO.
Cura comune dell'umano parassitismo.
La comune cura del parassitismo umano con-
siste nel cacciare al di fuori del corpo la zavorra, la
mucosità ed i vermi; e nel rianimare le forze orga-
niche, e piincipalmente il gastro-enterico canale. La
prima indicazione compiesi coi purganti, e cogli an-
telmitici, che vogliono che i vermi ammazzino; e l'al-
tra coi tonici e principalmente cogli amari; verhi-
grazia, col rabarbaro, colla china e coi marziali. E
furono vermifughi creduti la cipolla, l'aglio, il santo-
nico seme, il chenopodio, la sciarappa, Tassa-fetida, la
gioffroea, la canfora, il felce maschio, la spigelia,
il tanaceto, la valeriana, la sabatiglia, l'aloè, il ra-
barbaro, la grazinola, la gomma gutta, lo scammo-
nio, il diagridio solforalo, l'ammoniaca, la barite, i
marziali, i mercuriali, lo stagno, il zinco, lo zolfo
ecc. A cui noi non accordiamo anliparassilica spe-
cificità, né cieca deferenza. E giovevoli li crediamo,
qualora siano convenevolmente propinati, solo per-
chè agiscono sulla fibra organica, ed allontanano le
condizioni favorevoli alla parassitica propagazione,
ed alla sua tranquilla stazione nel corpo umano.
81
CAPO DECIMOSESTO.
Cura della tenia.
Rosenstein procura di snidarla dal corpo umano
col far bere molta acqua fredda al tenioso, che ha
preso un purgante; Maier col prescrivere per una o
due giornate in ogni ora, prima una piccola cucchiaiata
di carbonato di magnesia , e poi altra di cremore
di tartaro; Chabert coll'olio essenziale di tereben-
tino, distillato col carbonato liquido d'ammonìaca;
Odier coll'olio di ricino; e Desaulte colle mercuriali
frizioni, e coli' interno mercuriale purgante. Il me-
todo di Nouffer , prima segreto , e poi pubblicato
dalla sua vedova, consiste nel somministrare ai bam-
bini uno scrupolo, ed agli adulti tre dramme di pol-
vere di poli podio, /e/ce masc/iz'o; e due ore dopo alla
incorporazione della vermifuga polvere, nel far pren-
dere un medicamento composto di dodici grani di
muriato di mercurio , e di altrettanti di resina di
scammonio aleppense, e di cinque di gomma-gutta
insieme incorporati colla confezione giacintina. E
uno specifico non abbiano , che la faccia morire ,
senza alterare il gastro enterico canale. I mezzi che
possediamo, e che fino ad ora l'arte ha sommini-
strati, sono i tonici, e i purganti che il peristalico
movimento ingagliardiscono. Dall' individuo ben por-
tante e robusto col purgante cacciasi la tenia fuori
dal corpo; e dal debole e rilasciato non snidasi senza
dei tonici e degli eccitanti. Un debole purgante ed
un mite eccitante espellono la inerme ; e l'armata
G.A.T.CLXIV. 6
82
non staccasi dagli intestini, nò espellesi dal corpo
senza i drastici, clic sconvolgono ed ingagliardiscono
il peristalico gastro-enterico movimento- E nel filare
al di fuori del corpo la tenia armata ed inerme, am-
ministrasi 0 una leggera infusione di fiori di camo-
nulla, 0, nell'acqua disciolto, il solfato di magnesia,
CAPO DECIMOSETTIMO.
Cura del vescicolare.
Il vescicolare viene meno nella pecora , che
pascesi in luogo elevato , in cui V aria ò asciutta
e pura. E bene gli fanno i tonici, gli eccitanti, ed
i rimedi che maggiormente attivano il linfatico si-
stema; verbigrazia i diaforetici e i diuretici. A cui
congiungesi ancora il tenue alimento, il vino gene-
roso, la china e la ginnastica.
CAPO DECIMOTTAVO,
Cura del tricocefalo.
La prolificazione del tricocefalo, essendo favo-
rita dalle cose che indeboliscono ed il corpo ema-
ciano, così bisogna prima nutrire e la macchina cor-
roborare ; e poi curare Padinamiche malattie, alle
quali spesso congiungesi. E fortificata che sia la fi-
bra organica, e corroborato il gastro-enterico canale
coi tonici e cogli eccitanti, fiicilmente perisce il tri-
cocefalo- E quando riunisconsi in conglobate masse
neir intestinale tubo , bisogna prima eliminarli coi
83
purganti; e poi si prescrive la canforo, Tassa-fetida,
la valeriana, la corallina ed il santonico seme.
CAPO DECIMONONO.
Cura deli'a&caride.
Giova spesso introdurre nell'ano un pezzo di le-
gato lardo, a cui attaccandosi gli ascardi con esso
si tirano fuori. Anche i cristieri giovano di tie-
pido salato latte , e di semplice acqua salata ,
d'assa-fetida , di sabadiglia , e d'olio di ricino. Al
tenesmo, alla tensione, alla irritazione ed all'anale
infiammazione giova il cristiere e l'ammolliente fo-
mentazione. Ed agli anali rimedi vanno congiunti
quelli che per bocca si pigliano; verbigrazia, la can-
fora, la valeriana, il muriate di barite, il ferro ed
il sublimato di zinco. E per molto tempo bisogna
i rimedi pigliare; mentre difiìcilmente snidasi, e lun-
gamente conturba l'umana economia.
CAPO VENTESliMO.
Cura del lombricoide.
Rosenstein non fa preparare, né odorare i me-
dicamenti a chi dee prenderli; ne congiunge gli in-
terni agli astemi; e per alcune giornate, prima che
r infermo sottoponga alla cura, l'alimenta con cibi
grossolani, duri e salati. I medicamenti gli ammi-
nistra nel mattino, e gli discioglie nel tiepido latte,
nell' idroiiiel e nelT acqua mercuriale. E sono i ri-
84
medi , che al lombi'icoide si convengono, il santo-
nico seme unito alla polvere di radice di sciarappa,
il chenopodio antelmitico , la corteccia d'angelica ,
l'assa-fetida, Taglio, il felcio maschio, la valeriana,
i marziali, i mercuriali, lo zolfo, l'olio di ricino, il
rabarbaro, l'elleboro fetido, 1' estratto di noce con
ìa cannella e la canfora,
CAPO YENTESIMOPRIMO.
Cura preservativa delViimano parassitismo.
La parassitogen(5SÌ con la sua moltiplice figlia-
zione viene favorita dalla debolezza e dall' univer-
sale rilasciamento , dalla discrasia umorale e dalla
indebolitasi coesione dei solidi, e principalmente dalla
gastro-enterica debolezza, per cui segregasi sover-
chia copia di mucosità , ed accumolasi in esso la
gastrica sozzura. Cosicché prevengono la parassi-
togenesia , ciò che rende libere e spedite le fun-
zioni gastro-enteriche, ed accresce la crasi umorale
e la coesione dei solidi. In quanto concernesi alle
peculiari varietà dell'umano parassitimo, pon havvi
igienica peculiare precauzione; deonsi in genere pre-
scrivere le cose, che rendono libere le gastriche fun-
zioni, ed animano e corroborano l'umana economia.
85
SEZIONE SECONDA.
Inumano parassitismo.
CAPO PRIMO.
toefinitione .
Inumani parassiti gli animali sono, che non nai-
scono, e che non si propagano nel corpo umano ;
e che neir estreno ingenerati , fortuitamente m
esso si introducono, e non vi prolificano, e lunga-
mente non vi vivono.
CAPO SECONDO.
Forma.
nii animaletti che dall' esterno si introducono
neir interno, poco male vi fanno; perchè lungamente
non vi vivono, e facilmente dal corpo si estraggono.
E come i corpi estranei, le contigue parti irritano
ed infiammano. E non sempre ci accordiamo di con-
tenerli, perchè piccoli sono, e poca forza hanno.
CAPO TERZO.
Cause remole.
Le cause remote sono le circostanze, per cui nel
nostro corpo l'animaletto introducesi ; verbigrazia
l'aria, che respiriamo, e l'acqua che noi beviamo.
86
CAPO QUAHTO.
Causa prossima.
Causa prossima è l'animaletto esterno, ehe nel
corpo nostro introducesi. I volanti gli ispiriamo ;
e i notanti gli beviamo. E fortuitamente nelle altre
parti si intruducono, senza che uno se ne avveda.
E nel seno frontale è stato trovato V estro pecorino-,
e nell'orecchio Vacoro equino; e le larve della mosca
cibaria sono state espulse per vomito e per secesso.
Ed anche raccontasi che siano state introdotte vive
nel nostra corpo le sanguisughe, le lucertole, le ninfe
della mosca pendula , lo scolopendrio, il carabo, i germi
delle ì^anocchie, e altri simili animali.
CAPO QUINTO.
Necroscopia.
Non nell'uomo, ma nelle beschie, che vivi ani-
nsali avevano ingogliati ; quelle morte, questi vivi
sono stati trovati. Ed anche vivi animali nell'uomo
vivo hanno trovati; verbigrazia, Vestro pecorino , e
f acoro equino, che bene Gio. Pietro Fcank descrive.
CAPO SESTO.
Pronostico.
Gli animaletti , che nel nostro corpo si intro-
87
ducono, poco male generalmenle gli fanno , e ra-
ramente molto gliene producono. E solo Vacoro, sep-
pure egli è umano parassita, ingenera la scabbia e
la psora schifosissime malattie. Ed irritano, come
i corpi estranei, le contigue parti, ed anche le in-
fiammano.
CAPO SETTIMO.
Cura.
ì parassiti, che non sono umani, si curano come
i corpi estranei, che si levano dal corpo. E quelli
che si vedono, bene si estraggono; ed anche facil-
mente si levano quelli, che rimangonsi compressi tra
il globo oculare e l' interna superficie della palpebra;
0 che annidansi nelle fosse nasali , o nel canale
auricolare esterno. E cacciansi o per vomito o per
secesso, se sono nel gastro-entei'ico canale , o col
purgante o coll'emetico.
CONCLUSIONE.
Noi abbiamo divise 1' elmenliche ritenzioni in
parassilismoumano,ed in parassitismo inumano. Men-
tre alcuni animaletti nascono, crescono e si propa-
gano nel corpo nostro; ed altri, dentro di noi, non
come quelli vi prosperano, e vi prolificano; ed en-
trati che vi sono, soffrono e prestamente vi periscono.
88
PARTE SECONDA.
Prodolli minerali.
F'ormansi i minerali in varie parli del corpo ;
e Io stesso sangue li contiene. E di quelli non par-
lianfìo , che naturalmente nel corpo animale si in-
generano; e solo gli altri discorriamo, che in esso
morbosamente si formano.
SEZIONE PRIMA.
Calcoli uro-poieliei.
CAPO PRIMO.
Definizione.
I minerali prodotti uro-poietici sono i piccoli
corpi, calcoli , ora composti d'acido urico , ora di
fosfato ammoniaco-magnesico, e di raro d'ossalato
di calce, che si formano, e che si fermano nei ca-
lici e nelle pelvi, calcoli lenali; o negli ureteri, cal-
coli ureterici; o nella vescica, calcoli cistici; o nel-
l'uretra, calcoli uretrali. Ed il minerale prodotto ora,
in forma globulosa minuta , dall'uretra si emette ,
renella; ed ora si formano uno o più corpi di con-
siderevole grandezza, calcoli; che dal corpo non si
cavano senza la chirurgica operazione.
89
CAPO SECONDO.
Forma.
Il minimo renale prodotto diffìcilmente da ehi
Io soffre sentesi; e solo dal sabbioso deposito, che
formano forine , riconoscesi. Ma se la renella in-
grossasi, prima sentesi renale dolore; e poi, se la con-
tigua parte irrita e infiamma, comparisce la nefri-
tica forma, che l'ammalalo atrocemente tormenta.
E i piccoli calcoli difficilmente negli ureteri si fer-
mano; e se vi si fermano, il dolore si sente nello
spazio interposto tra i reni ed il trigore vescicale.
E la renella, che altrove e nella vescica si forma,
0 facilmente emettesi, o nell'uretra fermandosi l'ir-
rita ed anche l'infiamma. E nella vescica formansi
ancora grossi calcoli, che il perineo dall' interno al-
l'esterno comprimono, e fanno dolente. Dolgono an-
cora i reni ed il glande; evie tenesmo, e continuo
orinario prurito. E spesso l'orina è giallo-oscura, tor-
bida e fetente , mucosa , sabbiosa ed anche puru-
lenta. Ed il cistico calcolo bene non si conosce senza
la cauterizzazione.
CAPO TERZO.
Cause remale.
Predispongono all'etcrologa genesi dei minerali
nell'uro-poietico apparecchio la discendenza, la ma-
tura età, il mascolino sesso, i climi umidi e tempe-
rati, e l'abuso degli azotati alimenti.
90
CAPO QUARTO.
Cousa peossima.
La condizione della genesi dei prodotti minerali,
nell'uropoietico apparecchio, è la preternaturale crasi
del sangue, e la pervertita renale sensibilità; per cui
nell'orina segregatasi o più elennenti ci si trovano,
o manca la proporzione di quelli che naturalmente
la compongono.
CAPO QUINTO.
Necroscopia.
Nel corpo dei calcolosi trovansi i calcoli di va-
ria figura e grandezza, ed ingorgate ed anche infiam-
mate le contigue parti- Quelli d'acido urico sono
raggiati, lisci, friabili e bianchi; e cineracei quelli
d' urato d' ammoniaca ; e friabili quelli di fosfato
ammoniaco magnesiaco ; e finalmente grigi quelli
di ossalato di calce.
CAPO SESTO
Ptwioslico-
Di mano in mano che i calcoli si formano, sono
dall'orina portati fuori del corpo- Ed anche si fer-
mano nei calici, nella pelvi, negli ureteri, nella ve-
scica, e nell'uretra; e le contigue parti irritano ed
91
infìammano. Ed anche uno, o più calcoli nella vescica
si ingrossano, che non scappano per l'uretra; e che
non si estraggono senza la cistolomia e la litotri-
psia.
CAPO SETTIMO.
Cura.
Difficilmente prevengonsi i renali calcoli; e for-
mati che siansi, si curano come la nefriiide si me-
dica. E calmasi la renale spasmodia colla generale,
e colla locale sottrazione di sangue. L'ammolliente
cataplasma si applica, e la dolente parte fomentasi;
e piccoli cristieri narcotio-ammollienti si fanno; e
nella calda acqua i piedi profondamente s'immergono.
E la bevanda, vogliono che sia njucillaginosa e tenue
il vitto- Ed aiutasi la calcolosa espulsione col mo-
vimento, ed anche colla diuretica bevanda. E col-
l'operazione si estraggono i cistici calcoli che per
la loro grandezza non possono , per V uretra , dal
corpo scappare.
SEZIONE SECONDA.
Calcoli epatici-
CAPO PRIMO.
Definizione,
Sono i calcoli biliari le piccole concrezioni, che
formansi nei biliari condotti, nel canale epatico, nel
92
cistico, nella vescichetta biliare e nel coledoco ; e
che principalmente compongonsi della materia co-
lorante della bile e dell'albescente colesterina, alla
adipocera analoga.
CAPO SECONDO.
Forma
Nagli epatici calcoli si sente peso , lancinarte
e atroce dolore nell'ipocondrico destro- E viene la
nausea ed il vomito , e 1' universale organica rea-
zione. Che non compariscono se i calcoli sono nella
biliare vescichetta, e si muovono, e liberamente il
secretorio biliare apparecchio percorrono. E la bile
non potendo scappare, inturgediscesi la vescichetta, e
r itterizia comparisce. E la turgida vescichetta si-
mula ancora V epatico ascesso; e votasi anche nel
duedeno , comprimendola j e viene il vomito e il
bilioso secesso- Per le naturali vie , talvolta ven-
gono i calcoli anche cacciati dal corpo; tale altra nel
biliare apparecchio si fermano, l'irritano e l'infiam-
mano. E fanno anche chi li soffre morire per l'epa-
tica infiammazione, e per la biliare ritenzione.
CAPO TERZO,
Cause remole.
Agli epatici prodotti i vecchi e le femmine
sono predisposti a preferenza dei fanciulli e degli
93
uomini- E la biliare calcolosa genesi è sempre fa-
vorita dall'inverno e dalla vita sedentaria.
CAPO QUARTO.
Causa prossima.
La condizione, che la genesi degli epatici pro-
dotti determina , è la soprabbondante secrezione
della colesterina, che maggiormente la bile glutinosa
rende,
CAPO QUINTO.
Necroscopia.
Nei cadaveri, di chi per gli epatici calcoli erano
morti, sono stati trovati i biliari condotti, il canale
epatico, il cistico, la vescichetta ed il coledoco di-
latati, ingorgati, esulcerati ed anche perforati- Ed
il fegato ipertrofizzato, indurito e rammollito, ed an-
che la parete addominale perforata, fistola biliare. E
sono stati trovati i calcoli, ora poco ed ora molto
numerosi, e diversi per la figura, per la grandezza
e per il colorito, nei condotti biliari, nel canale epa-
tico, nel cistico, nella biliare vescichetta, nel cole-
doco , nel duodeno e nel ventricolo. Che essendo
stati analizzati, sono stali trovati formati di diversi
strati diversamente colorali, composti di bile e di
colesterina.
94
CAPO SESTO.
Pronostico.
Gli epatici prodotti, formati che siansi, scorrono
per il condotto epatico, cistico e coledoco, ed en-
trano nel duodeno. Ditricilmente si fermano nei ca-
nali del secretorio biliare apparecchio; e se vi si fer-
mano, la bile ristagna ed è riassorbita, e viene l'itte-
rizia, e l'epatite. E quasi mai la biliare vescichetta alle
contigue parti aderisce, esulcerasi ed apresi nel co-
lon, nel duodeno, o esternamente, attraversando l'ad-
dominale parete, forma la fìstola biliare.
CAPO SETTIMO.
Cura
La formazione degli epatici prodotti si previene
colla vegetabile dieta, col sugo di cicoria, di cer-
foglio e di saponaria. E formati che siansi, procu-
i-asi di farli dal corpo uscire coi purganti , che
esercitano nel fegato azione predominante. E gif
atroci dolori, che i calcolosi tromentano, calmansi
coi mucillaginosi, cogli ammollienti e cogli antispas-
modici. E per risolvere I' epatico ingorgo i piedi
profondamente si mettono nel tiepido bagno; e le
sanguisughe nell'ano e nell' ipocondrio si attaccano.
E la consecutiva infiammazione del fegato come
l'epatite curasi. Ed all'esterno apresi la turgida ve-
scichetta, se alla parete addominale aderisce, e sia
95
per rompersi spontaneamente. E se poi non ade -
risce, lasciasi spontaneamente rompere; mentre egual-
mente nell'addome la bile verserebbesi, ed i visceri
addominali irriterebbe ed infiammerebbe.
CONCLUSIONE.
Nella prima parte del libro sesto abbiamo riu-
nite l'elmcntiche ritenzioni che nascono in noi ; e
quelle che, nate esternamente, in noi accidentalmente
introduconsi. E nell'altra parte del medesimo libro
abbiafno discorsi i minerali, che morbosamente in
noi si formano. E quegli abbiamo trascurati , che
dall'esterno si introducono nel nostro corpo; come
facenti parte dell'esterna patologia; di cui per ora
non vogliamo occuparci.
LIBRO SETTIMO.
Nososexigrafìa.
I morbi sono costituzionali, se la chimico-orga-
nica modalità lentamente invadono , e lentamente
si risolvono. Di questi alcuni sono legittimi, altri
spuri; perchè in quelli, meglio che in questi, vi è
illusione di morbosa universalità. Gli uni e gli altri
nel libro setlicno riuniamo, e colla nostra consueta
brevità discorriamo.
96
PARTE PRIMA.
Morbi coslilnzionali legittimi.
Morbi universali non vi sono, e indistintamente
sono locali, che tendono a farsi universali, e rag-
giugnere lo scopo colla morte. Ma vi sono delle ma-
lattie, che hanno un' illusoria universalità; per cui
morbi costituzionali legittimi sono cognominali.
SEZIONE PRIMA.
Clorosi.
CAPO PRIMO.
Definizione'
La clorosi è la defficiente chimico-organica fem-
minile riparazione, che la vita animale a preferenza
della plastica conturba. Ed anche è illusione , che
sia malanno nervoso, che cogli antispasmodici non
guariscasi; e che cogli analetici bene in salute ri-
tornasi.
CAPO SECONDO.
Forma.
Incomincia la clorosi col pallore e colla leggiera
turgescenza, col fastidio e la noia; e poi viene la
inappetenza, e la mucosa della bocca biancasi, ed
97
è illusione che da tenue velo sia ricoperta. Bianca
e tenue è l'orina; costipato il ventre; e per gì' in-
testini scorrono le flatulenze. Il cuore palpita ; e
il debole polso ora è frequente , ed ora è lento e
irregolare. E l'orecchio applicandovi, sentesi il soffio
nel cuore e nell'arterie, principalmente nell'esterna
carotide. Diffìcile e soffocante è la respirazione ;
molesto ed oltre modo sensibile 1' utero ; da cui
è illusione, che parta 1' isterico globo, che sentesi
scorrere per la linea che al collo lo conduce, e che
r ammalata pare che affoghi. Scarsa ed anche ab-
bondante , regolare ed anche mancante è la men-
sile ricoi'renza. E chi la soff're debole, strana e tor-
pita diventa; consumasi, ed al desiderato sonno ab-
bandonasi, senza gustarne il placido ed il ristorante.
E lentamente incomincia col fastidio e la noia; e
senza strepito di fenomeni progredisce; lentamente
risolvesi, e per guarirla ci vogliono mesi ed anche
anni di ristorante cura
CAPO TERZO.
Cause remote.
Nelle femmine la clorosi sviluppasi, che vi sono
predisposte ; e se ciò che gliela determina agisce
in quelle che non vi sono proclive, non la clorosi,
ma la consunzione e la convulsione le determina.
Ed alla clorosi generalmente predispone ed anche
la determina quanto la chimico-organica assimila-
zione indebolisce e conturba; verbigrazia, il patema,
che i nei'vi indebolisce; l'emanazione sanguigna, che
G.A.T.GLXIV. 7^^
H sangue attenua; i rilascianli ed il soverchio moto,
che la tonicità dei solidi estrema
CAPO QPARTO.
Causa prossima,
L' attenuatasi erasi del sangue è la condizione
essenziale della clorotica infermità. E nel sangue
sovrabbondono gli acquei, e vi scarseggiano i solidi
principii. Ed il sistema nervo-ganglionare, irritato
dal tenue sangue, spasmodicamente reagisce ; e &i
svolgono i fenomeni adinamico-atassici, che insieme
congiunti la clorotica forma compongono.
CAPO QUINTO.
Necroscopia.
La patologica condizione della clorosi osservasi
viva essendo la femmina, che la soffre. Estratto il
sangue, decomponesi; e bene si vede che vi scar-
seggia il ferro, la fibrina, e l'emocroina , e che vi
soprabbonda il siero e l'albumina. E le altre cose
che nel cadavere sono state trovate, altro non sono
che conseguenze e clorotiche complicazioni,
CAPO SESTO.
Pronostico.
In principio bene curata la clorosi, facilmente
99
guariscesi; in seguito diventa ostinata, e molto tempo
ci vole pei' medicarla. A sé stessa abbandonata, il
precordiale vizio in fine forma ; ed anche la clo-
rotica fa convulsa morire.
CAPO St.TTIMO.
Cura.
Per bene curare la clorosi , bisogna corrobo-
rare i solidi, e regolare il nervo-ganglionare siste-
ma, ed aumentare la sanguigna crasi. Ciò che prin-
cipalmente si ottiene coi tonici astringenti , cogli
antispasmodici , e cogli analetici ; verbigrazia , col
moto attivo e passivo, colla canfora, col muschio,
coH'oppio, colla china, coi marziali e col vitto ani-
male. Ed a seconda della morbosa espressione , si
amministrano questi, a preferenza di altri medica-
menti. E predominando la spasmodia, si preferiscono
gli antispasmodici; il rilasciamento, i tonici astrin-
genti; l'umorale discrasia, il vitto animale ed i mar-
ziali. Ed i nutrienti coi marziali sempre bene fanno;
e vogliono che siano lungamente somministrati, per
impedirne la recidiva.
100
SEZIONE SECONDA
Scorbuto.
CAPO PRIMO.
Definizione.
Costituzionale malanno ò lo scorbuto; che deriva
dalla lenta decomposizione del sangue, che la fac-
cia inturgidisce, e la pelle ingiallisce e di nero ma-
cula, le gengive infiamma e fa sanguinolenti, i denti
smuove, e Tossa rammollisce e caria.
CAPO SECONDO.
Forma.
Precursori della scorbutica manifestazione sono
il pallore, la leggera turgescenza, la tristezza e l'ab-
battimento. E sentesi prima prurito nelle gengive,
che poi illividisconsi, si gonfiano, si rammolliscono e
sanguinolenti diventano. E fuori vengono nelle gam-
be, nelle cosce, nelle braccia, nel petto e nel torace
le macchie purpuree , turchine e nere. Edematiz-
zansi i piedi e le gambe ; e la pelle scolorasi ed
illividiscasi ; sopravviene l'epistassi, la stomatorra-
gia, e sangue ancora si versa dalle altre parti del
corpo. E sentesi vago dolore, che scorre per le ar-
ticolazioni, per il torace, e per i lombi. E versano
sangue, e le antiche ulceri si riaprono. Si disorga-
101
nizzano le fungose gengive; e sangue ne emana, e
fetido odore; e la respirazione felenlissima, ed ane-
lante diventa. Vacillano e cadono i denti; l'ossa si
rammolliscono e si cariano. Le riunite si ridividono,
e le fratture non si riuniscono. I muscoli si ram-
molliscono, e per debole sforzo si rompono; ed il
corpo d'umori impregnasi. E freddo e umido sudore
emana; e spesso in fine l'emorragia ricorre. Ed al
minimo sforzo succede la sincope; a cui spesso se-
guono r abbondante salivazione , e la sanguigna e
mortale alvina evacuazione.
CAPO TERZO
Cause remote.
Allo scorbuto predispone, ed anche lo determina,
la cattiva alimentazione , e la corporale immondi-
zia. Addiughton ritiene essere lo scorbuto marino
determinato dall' immondizia e poca pulizia della
nave, dall'aria marina, dalla voracità dei marinari,
dalla cattiva provvisione che fanno, e dal sale bianco
e nero, di cui servonsi per conservare la carne, che
mangiano.
CAPO QUARTO.
Causa prossima.
La condizione dello scorbuto è la indebolitasi
coesione sanguigna ; cui ignorasi la quantità ed il
principio mancante, che la determina.
102
CAPO QUINTO.
Necroscopia.
Nel cadavere rinvengonsi ovunque tracce di pev-
corsa flogosi. E di sangue infiltrato il succutaneo
tessuto, la muscolare sostanza, V interposto cellula-
re, la milza, i polmoni e le altre parti del corpo.
Ed anch€ di gialla sierosità infiltrata il cellulare tes-
suto, la sierosa e la sinoviale membrana. Attenuati,
e rammolliti i muscoli; scabre, cariate e molli l'os-
sa ; staccate le cartilagini ; ed alcune parli putre-
Calle, ed altre distrutte.
CAPO SESTO.
Pronostico.
Lungo è dello scorbuto il corso ^ e di ra^o in
poco tempo risolvesi. In principio curato, facilmente
guariscesi ; ed in seguito ostinato diventa. E spe-
ranza non vi è di salute , se interni guasti sonosi
ingenerati , e non si possono allontanare le cause
che lo mantengono.
CAPO SETTIMO;
Cura.
Colloca Addinghton tra le scorbutiche cause il
marino sale - idro cloruro di sodio; - e curalo poi
103
colla purga iterata dell'acqua del mare. E bene guaf-
liscesi il marinaio scorbutico, che sbarca in spiag-
gia asciutta, ariosa e temperata, e che nutriscesì di
vegetabili e di fresca carne. E rimosse che siano le
cause che lo determinano , curasi generalmente lo
scorbuto col collocare chi lo soffre in loco asciutto,
arioso e temperato, col tenerlo allegro, e con ali-
mentarlo coi sub-acidi vegetabili, colla fresca carne,
e col moderato uso del vino. Ed anch« bene gli fa
l'acidula bevanda, il vegetabile sugo, l' infusione eé
il decotto della peruviana corteccia (1).
SEZIONE TERZA.
Scrofola.
CAPO PRIMO.
Definizione.
La scrofola è il costituzionale e l'ereditario m'a-
lanno, che la linfa altera, e accumula, e freddi tu-
mori forma che lentamente suppurano; e da cui an-
che emana specifico umore, che forma addensandosi
la tubercolosa materia.
(1) Colla denominazione d'emacelinosi, morbo macoloso di
Werlhot, si nomina il malanno non preceduto da dolore, né
da calore; e che si mostra colla generale maculazione rossa,
violetta e livida, variabile per la forma, e per la grandezza;
e che j?tw*pMm comunemente dicesi.
104
CAPO SECONDO.
Forma.
La leggera labiale enfiagione, e quella dei mar-
gini dell' aperture anteriori delle fosse nasali pre-
cede la scrofolosa tubercolizzazione. E poi incomin-
ciano a venire fuori duri e bernoccoluti tumori noi
collo, nell'ascelle, nella congiuntura anteriore delle
cosce e nelle altre parti del corpo. Che in princi-
pio sono mobili, freddi e indolenti; e poi immobili,
caldi, dolenti e fluttuanti. E risplendente, turchina,
e rosso-oscura diventa la soprapposta pelle; che poi
rompendosi, versasi marcia tenue, sierosa e fioccosa.
E duro ed elevato, e rosso-oscuro è il margine del-
l' irregolare apertura; e che sempre rimarginandosi,
rimanevi l' incancellabile cicatrice. Successivamente
e alternativamente nascono, crescono, suppurano, e
lentamente si risolvono. E gli esterni destano anche
interne morbose simpatie, e si ingenerano tubercoli
nei polmoni , nel mesenterio , e in qualsiasi altra
parte del corpo. Che indeboliscono, consumano; e
certamente, chi li ha, fanno morire.
CAPO TERZO.
Cause remote.
Chi dagli scrofolosi, e dai sifilitici discende, fa-
cilmente strumoso diventa. E la stessa venere in-
fetta, e soverchiamente usata dai giovani, i sani fa
105
anche scrofolosi. E ciò che indebolisce , e la chi-
mico-organica assimilazione conturba, prinna la pro-
clività, e poi la scrofola determina.
CAPO QUARTO.
Causa prossima.
Deriva la slrumosa tubercolizzazione dalla so-
verchia linfatica coagulizzazione, dall'eccedente as-
sorbimento, dalla perturbatasi corrispondenza tra i
rossi ed i vasi bianchi, dalla soverchia irritabilità,
dalla sub-infiammazione del linfatico sistema, e dal-
l'abbondante e glutinosa linfa , che accumolandosr
si coagula , ed ovunque depositasi in tubercolare
forma.
CAPO QUINTO.
Necroscopia.
In principio la scrofolosa tubercolizzazione è
fredda , minuta e mobile ; e poi ingrandiscesi , si
fìssa, si l'iscalda, e diventa dolente e fluttuante. E
infine si apre , e lungamente versa sierosa e fioc-
cosa materia. Ed il margine irregolare, elevato, e
rosso-oscm'o, difficilmente riuniscesi; e riunito che
siasi, sempre rimanevi la mostruosa cicatrice. E nel-
l'esterno principalmente coesistono gli scrofolosi tu-
mori nel collo, nell'ascella, e nelTanteriore congiun-
tura delle cosce. E 1' interna coll'esterna tubercoliz-
zazione coesiste colle sue moltiplici forme; cioè di
granolazione grigia o scolorata e semi-trasparente,.
106
di grigi tubercoli più voluminosi , gialli ed opachi
e consistenti, d' infiltramento tubercolare grigio, ge-
latinoso e giallo, di tubercoli rammolliti nel centro,
e di escavazioni più o meno profonde.
CAPO SESTO.
Pronostico.
La scrofola , che all' esterno limitasi , bene in
primavera curata, lentamente guariscesi. Ed i tu-
mori che risolvonsi, lasciano sempre mostruosa ci-
catrice. Ma dall'esterno nell' interno passando, prin-
cipalmente se il mesenterio , i polmoni e gli altri
visceri invade, sempre fa col tempo morire.
CAPO SETTIMO.
CAtra.
Preservansi i bambini dalla scrofolosa tuberco-
Uzzazione col sano latte^ coi convenevolii alimenti,
e con un poco di vino. Di flanella si vestono , ed
in luogo temperato^ asciutto ed arioso si tengono;
ed anche giova loro la insolazione. È nell' esterno
ungonsi i tumori con risolvente pomata. E interna-
mente prescrivonsi gli amari, i marziali ed il vitto
animale. Ed allo scrofoloso bene fanno 1' aria li-
bera, asciutta e temperata, il vestimento di lana ,
la ginnastica, gli amaricanti, la tenera carne, il vino
e l'uso continuato dei marziali.
107
SEZIONE QUARTA.
Rachitide.
CAPO PRIMO.
Delìnizione.
La rachitide è il costituzionale malanno , che
nei primi anni della vita svolgesi; che deriva dal-
l' inequabile organica ripai-azione; onde è che certe
parti rammollisconsi, ed altre maggiormente indu-
wisconsi, ed il corpo si piega e si deforma
CAPO SECONDO.
Forma.
Chi rachitico diventa ha la testa grande , e la
fronte spaziosa e sporgente , la fisonomia senile e
precoce il mentale sviluppo. Ed in alcuni la rachi-
tica invasione è preceduta dalla tristezza, dalla de-
bolezza, dall' inappetenza e dalla costipazione; e in
certi altri, oltre alla debolezza, altro non osservasi.
E poi le membra si consumano, le articolazioni si
ingrossano, ed il ventre ingrandiscesi. Pesa la testa,
e non è in rapporto colla piccolezza del collo che
la sopporta. E del capo l'ossa molli rimangonsi, e
bene non si induriscono, e le suture restano aperte
e non riunisconsi. Prima gli inferiori, e poi i mem-
bri superiori si piegano, e l'articolazioni maggior-
108
mente si ingrossano. E poi piegasi la vertebrale co-
lonna; sporge Io sterno; ed il torace, ed il bacino
si deformano. Seguono i viscerali malanni ; ed il
rachitico consumasi e muore.
CAPO TERZO.
Cause remote.
Il muscalare rilasciamento, il temperamento lin-
falico , e r idroemia del sangue costituiscono la
morbosa proclività ; cui alla rachitica condizione
innalza ciò che indebolisce il locomotive ed il nervo-
ganglionare sistema , attenua la crasi del sangue y
e disordina la corrispondenza che esiste natural-
mente tra i liquidi ed i solidi; verbigrazia, il poco
e cattivo alimento, il sucidume del corpo, l'abita-
zione ombrosa e freddo-umida.
CAPO QUARTO.
Causa prossima.
La rachitica condizione è il disarmonico pro-
cedimento dell'azione e della chimico-organica rea-
zione , che naturalmente compiesi tra le potenze ,
che Torgariica composizione mantengono.
109
CAPO QUINTO.
Necroscopia .
Dei rachitici lo scheltro è deformato; e le ossa
che lo compongono sono cariate, indurite e ram-
mollite, assottigliate ed ingrossate. Atrofizzati, in-
duriti ed anche i muscoli rammolliti. E sono an-
che nel cadavere visceri ostrutti, etcrologhe sostanze
e versamenti sierosi.
CAPO SESTO.
Pronostico.
Il rachitismo è cattivo e pericoloso malanno ;
eh* è o meno o più grave a norma dell' estensione
o minore o maggiore dell'osseo rammollimento, e
delle morbose complicazioni.
CAPO SETTIMO.
Cura.
Lunga e igienica è quasi della rachitide la cura.
E le medicinali sostanze vogliono che siano per
lungo tempo amministrate. Ed ai poppanti il latte
si porge di sana e ben nutrita femmina. A cui i
nutrienti e i tonici congiungonsi; verbigrazia, il sugo
della carne, ed un poco di generoso vino. E di fla-
nella anche il rachitico vestesi, affinchè non si raf-
no
freddi, e caldo si mantenga. E bene anche gli fanno
i marziali e la ginnastica; e in opera bisogna met-
tere ciò che regola e rianima l'organica assimila-
zione (I).
SEZIONE QUINTA.
Sifilide.
CAPO PRIMO.
Definizione.
La sifilide è costituzionale malanno, che dall'af-
fetto nel sano passa; e che ingenerasi anche spon-
taneamente. Lentamente invade, e rimanesi locale
e si guarisce; diffondesi ancora e l'organismo attacca;
e se bene non curasi , lentamente fa anche mo-
rire. Il noslro genus illorum riprodusse la mortifera
acquetta di Perugia ; che altro non è, che il virus
sifilitico preso per bocca. E molte sifilitiche affe-
zioni manifestaronsi; senza che l' individuo sapesse
d' essere slato avvelenato. Alcuni si guarirono coi
mercuriali; e certi altri altrimenti, e malamente sì
curarono, ed alla lunga morirono. Turpissima pra-
tica degna del nostro genus illorum', mentre i mali
si devono allontanare, e non si possono con inganno
propagare; INFAMI, che se l' incontri svolta, e fatti
della croce il segno (2).
(1) Monografia della rachitide.
(2) Di una scoperta fatta intorno alla composizione e ai
i
tu
CAPO SECONDO.
Forma.
La venerea incubazione generalmenie la quarta
giornata non sorpassa. E poi dall' irritala uretrale
micidiali effetti dell'acquetta di Perugia: lettera al sig, prof'
Luigi cav. Malagodi direttore del Raccoglitore medico.
Chiarissimo signore,
La lettera che mi pregio indirizzarle spero otterrà un
posto nel suo famigerato giornale, come quella che contiene
una scientifica scoperta da me fatta a caso, rovistando molti
manoscritti in una biblioteca. In uno dei quali rinvenni al-
cune nozioni relative alla natura ed agli effetti della morti-
fera acquetta di Perugia; di cui non intendo esporre il modo
di prepararla e di amministrarla, come turpissima cosa da non
ricordarsi. Solo dirò che questo micidiale veleno non è mai
stato nelle mani dei medici e dei farmacisti , ed ha sempre
circolato come segreto di nefandissima gente. E quegli che lo
conoscevano , e V amministravano , leggesi nel manoscritto ,
avevano fra loro una intelligenza e si chiamavano-gfcmt^ il'
lorum. Oltre di che si apprende ancora in quel manoscritto
che la detta acquetta altro non è che il virus sifilitico, preso
per bocca ; i di cui primi effetti si manifestano colla inap-
petenza, col ventricolare eretismo e colle intestinali flatulenze.
Quindi lentamente si produce la sifilide, la quale non essendo
col mercurio curata, uccide lentamente, arrecando esulcerazioni,
carie e consunzione, E chiara apparisce l'analogia di questo
veleno con il sifilitico, se le storie degli avvelenati dal genus
illorum si confrontano con quelle dei sifilitici, che morivano
prima che la malattia fosse curata col mercurio. Farmi adun-
que, che il manoscritto esponga il vero, ed io non ho la mi-
nima curiosità di farne la prova, nemmeno nel bruto.
112
mucosa emana tenue sierosità, che si addensa e pu-
rulenta diventa; ed il prepuzio ed il glande si esul-
cerano , e gonfiansì le linfatiche glandolo , buboni.
L'organismo conturbasi, ed alla locale infezione rea-
gisce; e qualche volta la vince: ed il male circo-
scrive e dal coipo espelle, sifilide locale. Ed in cer-
tuni anche il morbo vince la reazione, si diffonde
e r intero organismo invade , sifilide cosliliizionale.
Nella prima infezione quasi sempre locale è il ma-
lanno; e generalmente la sifilide non costituzionale
diventa, che dopo diverse veneree infezioni. K com-
parisce quando il locale malanno sparisce ; e che
l'attaccato credesi guarito. Mentre tempo ci vuole
per invadere l'organismo intero. Ed il sifilitico ve-
leno lentamente agisce; e senza appariscenti feno-
meni l'organismo guasta. E chi la sifilide soffre si
indebolisce , si rilascia e si abbandona ; il fresco
colorito perde, e piglia il colore eh' è tra il verde
ed il giallo. Poco mangia, perchè l'appetito gli man-
ca, e si consuma. Nel tempo buono sta meglio, e
se si guasta sta peggio. Ingorgansi e gonfiansi i lin-
fatici gangli; e la grigia esulcerazione viene fuori;
ed il tetoscopieo dolore tormenta. Escrescenze car-
Persuaso di essere compiaciuto dalla S. V., colla dovuta
stima e rispetto ho il vantaggio di sottoscrivermi.
Roma 16 novembre 1858.
Devino AffiBo servitore
Vincenzo dolt. Catalani.
Estralta dal Raccoglitore medico. Anno XXI. Serie II.
Voi. XVIII.
N. 10.30 novembre 1 838.
113
nose, sarcomi, ed ossee esoslesi formansi; ed anche
l'ossa si cariano. Ed in principio lentamente la si-
filide invade e poi o fermasi, e si è valetudinari per
sempre; o maggiormente estendendosi, i visceri in-
vade ; ed il sifilitico consumasi, esulcerasi, cariasi
ed anche muore.
CAPO TERZO.
Cause remote.
Il temperamento linfatico è la sifilitica predi-
sposizione ; e le cause remote che la determinano
sono le grazie femminili, e le invereconde azioni,
che r impuro amplesso combinano.
CAPO QUARTO.
Causa prossima.
E causa prossima della sifilide è il principio con-
tagioso, che o spontaneamente in noi ingenerasi; o
che r infame al sano comunica.
CAPO QUINTO.
Necroscopia.
E nei sifilitici cadaveri hannovi trovato il glan-
dulare indurimento, l'escrescenze carnose, e gli os-
sei tumori; ed alcune parli indurite e gangrenate, e
certe altre cariate.
G.A.T.CLXIV. 8
114
CAPO SESTO.
Pronostico.
Lento e lungo è della sifilide il corso. La locale,
anche a se stessa abbandonata, guariscesi; e la co-
stituzionale da per sé stessa mai non risolvesi. E bene
curata guariscesi; ed è sempre malanno assai peri-
coloso, per i rimedi che si adoperano per medicarla.
CAPO SETTIMO.
Cura.
Localmente si medica la locale sifìlide ; e bi-
sogna astenersi dagli stimolanti, essere in riposo, ed
usare i rifrescanti. E meglio è di lasciare lunga-
mente colare lo scolo; e poi di fermarlo coli' igne-
zione astringente. E nella ingorgata gianduia, huho-
7?e, le sanguisughe si attaccano, e Tammoliente ca-
taplasma si mette ; e col caustico e col ferro si
apre, se fluttua; e scappata che ne sia la marcia,
mettevisi ingrassato stuello, affinchè l'apertura non
si richiuda; e sopra vi si rimette il cataplasma, per
bene farlo sgorgare. E subito, che compariscono,
le ulceri si bruciano. E la locale sifilide fattasi co-
stituzionale, bisogna per guarirla fare la mercuriale
cura; perchè bene gli altri medicamenti non la ri-
solvano. Ed incominciasi il mercurio a prendere tanto
internamente quanto esternamente in piccole dosi,
che poi si annientano- E quanto lo stomaco lo com-
115
porta, tanto latte consumasi. Ed al bagno ricorrasi,
se principiano a manifestarsi i mercuriali fenome-
ni; e tanti se ne fanno, che bastino a dileguarli. Ed
il mercurio sospendesi, se il bagno non giova; per
poi riprenderlo finché siasi dileguato il sifilitico
morbo.
SEZIONE SESTA
Erpete.
CAPO PRIMO.
Definizione.
Vogliono alcuni, che sia l'erpete cutaneo ma-
lanno; e costituzionale noi lo crediamo; e riteniamo
esser l'eruzione la manifestazione del morbo; che altri
credono che ne sia l'essenziale condizione. E l'erpete
è poi peculiare morbosa modalità, che aJl'tìsterno
spinge r interna acredine ; ed in cui determina la
squamosa eruzione. E che l'esterna non lo risolva,
senza l' interna medicatura.
CAPO SECONDO.
Forma.
In temperamento bilioso, sanguigno e adusto
lentamente preparasi l'erpetica diatesi. E poi vengono
fuori disperse e confluenti pustole pellucide, rosse
e gialle; che rompendosi, di squamose croste rico-
116
pronsi. Kd anche, per l'esterne forme, Io nominarono
flittenoide , mordente e fagelenico. E dall' esterno
passa qualche volta nell'interno ; e se prestamente
non richiamasi fuori , è funesto ed anche mortale
malanno. Lungamente dura; è continuo; ed anche
sparisce, e altrove o nello stesso luogo, dopo qual-
che tempo, ricomparisce,
CAPO TERZO.
Caitse remole.
Predisposto all'erpetico malanno è il sanguigno e
bilioso individuo, che uutriscesi di acri e caustiche
sostanze , e che per quello che fa continuamente
tocca panni vecchi e sudici.
CAPO QUATO.
Causa prossima.
Condizione essenziale dell'erpetica efflorescenza
è la preternaturale chimico-organica modalità che la
materia segrega corodente e disorganizzante.
CAPO QUINTO.
Necroscopia.
Nella superfìcie, che l'erpete invade, vengono bol-
licine fuori, che apronsi e formano piaghe, che ri-
copronsi di squamose croste, diverse l'une dall'altre
117
per il colorito , per la figura, per la consistenza e
per la grandezza. E Pesulcerazioue ancora approfon-
dasi, e l'organismo consuma; e le cartilagini e l'ossa
si cariano, e l'erpetico deformasi.
CAPO SESTO.
Pronostico.
L'infantile erpete spesso nella pubertà dileguasi.
E quasi sempre, sorpassata che l'abbia, il gentilizio
dura per sempre. E dalle straordinarie condizioni
derivando, queste rimovendo, facilmente risolvesi; al-
trimenti dura per sempre, e fa anche finire di vivere.
CAPO SETTIMO.
Cura.
Curasi il sintomatico e V erpete secondario col
morbo primario medicare. E poi nel primario biso-
gna per quanto è possibile l'umorale crisi correg-
gere , e la corrodente materia dal corpo espellere.
E compiesi la prima indicazione coli' aria libera e
pura, col tenue e sano alimento; e l'altra colla gin-
nastica , cogli evacuanti e col solfureo bagno. E
pare anche, che abbiano eerte sostanze azione an-
tierpetica; verbigrazia, la salsapariglia, la dulcamara,
gli antimoniali, i mercuriali ed i solfuri.
CONCLUSIONE.
I morbi , che abbiamo discorsi , si estendono
118
nell'organismo, e l'individuale ntìodalitfì invadono. E
gli abbiamo nominati costituzionali legittimi; perchè
a preferenza degli altri, che dobbiamo discorrei'e >
si diffondono e l'organismo perturbano.
PARTE SECONDA.
Morbi costituzionali spuri.
Dei morbi costituzionali sono poi spuri quelli
ehe come i legittimi invadono lentamente l'organica
modalità; ma che prediligono certa parte del corpo;
in cui è illusione, che interamente la malattia con-
sista. E tali sono la pellagra, la ittiosi ed il tricoma.
SEZIONE PRIMA.
Pellagra.
CAPO PRIMO
Definizione.
Malanno costituzionale spurio è la pellagra, che,
se non guariscesi, sempre nel terminare l' inverno
e nell'incominciare la primavera viene all'esterno ;
e che mediante vescicolare pruriente eruzione si ma-
nifesta; che fino all'autunno dura, e poi si dilegua,
per ritornare nello stesso tempo fuori. Chi la soffre,
prima è taciturno, e spasmi nervosi soffre; e poi o
sì guasta, o delirando muore.
119
CAPO SECONDO.
Forma.
La vescicolare pellagrosa eruzione viene fuori
nella parie anteriore del collo, nella regione sternale,
nei piedi, nelle mani e nella faccia. E la parte in
cui si manifesta pruriente e rossa diventa. E le ve-
scichette prestamente riempionsi di gialla sierosità*
che rompendosi di croste ricopronsi. Poco durano*
ma le nuove alle vecchie succedendo , la cocente
eruzione fino all'autunno mantiensi, e poi dileguasi;
e neir inverno rigenerasi 1' untuosa pelle. E nella
primavera ricompariscono , e nell' autunno si dile-
guano per indeterminate volte. Ed anche certa pel-
lagrosa varietà ci è che, pel sapore che sentesi da
chi la soffre, dicesi salsedine, E scola dagli occhi
e dalle narici acre sierosità; viene il diarroico flusso,
e pallida e fetente emettesi l'orina; e di muffa il
sudore odora , ed i capelli si arrossano e cadono.
Soffrono i pellagrosi il crampo, lo spasmo e la ri-
corrente sincope; ed alcuni sono j)aralitici; nel men-
tre che altri sempre tremano. La demenza spesso la
pellagra segue; ed il pellagroso è ipocondrico; e quasi
sempre di vivere termina in varie guise guastandosi.
CAPO TERZO.
Cause remote.
La pellagra è malanno endemico della Lombardia;
120
che di raro in altre ptirti osservasi. E l'interne a pre-
ferenza dell'esterne eause la determinano. E gene-
ralmente ritiensi, che l'abuso, che i contadini nella
Lombardia fanno del granone, gliela determini.
CAPO QUARTO.
Causa prossima.
Consiste la condizione del pellagroso malanno
neJla preternaturale chimico-organica modalità, che
lentamente formasi, come il suo corso lento e gra-
duato lo conferma. Così preparasi 1' acre principia
che il sistema nervo-ganglionare irrita, e nella su-
perficie del corpo compie l'acrilica vescicolare eru-
zione.
CAPO QUINTO.
Necroscopia.
La patologica condizione della pellagra osservasi
solo nella parte in cui viene fuori la vescicolare eru-
zione. In principio , fannosi pruriginose e rosse le
narici , la faccia , la parte anteriore del collo , la
sternale regione, il piede e la mano; e poi fuori ven-
gono vescichette di limpida sierosità ripiene ; che
rompendosi, esulcerano, e dall' ulceretta continua-
mente emana glutinosa materia, che forma nerastra
crosta; e glutinosa diventa V interposta pelle. E le
croste che in primavera si formano, nel!' inoltratosi
autunno screpolandosi si slaccano. E poi la pelle,
che neir inverno rigenerasi , sempre rimanesi un-
121
tuosa. Nella primavera fuoii riviene la vescicolare
pruriente eruzione; e le vescichette rompendosi, ri-
fannosi crostose, e screpolano, si staccano e ricadono
per indeterminale volte.
CAPO SESTO.
Pronostico.
Lentamente e senza strepito di fenomeni invade
e progredisce la pellagra. Nella primavera la pru-
riente vescicolare eruzione incomincia, e nell'autunno
sparisce; e poi ritorna e nello stesso tempo si ri-
dilegua. E in seguito, airalternativa di molte efflo-
rescenze e deflorescenze, spesso la segue la demenza;
o chi la soffre delirando muore, o ipocondrico di-
venta, 0 termina di vivere in strane guise guastandosi.
CAPO SETTIMO.
Cura.
Nella pellagra molti medicamenti si esperimen-
tarono, e vi si fece pompa di polifarmacìa. E me-
glio dei rimedi ai pellagrosi si conviene il metodo
di vivere; e i buoni e i freschi alimenti; verbigra-
zia, la carne dei giovani e piccoli animali, il brodo,
la gelatina ed il latte. E coi dolcificanti e coi nar-
cotici calmasi il cocente prurito. Giovano ancora i
tonici, che il pellagroso fortificano; ed i bagni che
lo puliscono, e maggiormente attiva le rendono la
cutanea traspirazione.
122
SEZIONE SECONDA.
Ittiosi.
CAPO PRIMO.
Definizione.
Anche la ittiosi crediamo che sia spurio costi-
tuzionale malanno ; la cui sensibile forma compa-
risce nell'esterna superficie del corpo; e eh' è per-
sistente se è parziale; e se è generale consuma ed
alla lunga fa sempre chi la soffre morire.
CAPO SECONDO.
Forma.
Le tipiche forme della ittiosi sono la serpentina^
la periata y e la cornea. E la ittiosi è serpentina,
se le squame non si induriscono; e se un poco dure
diventano , è periata ; ed è cornea , se dure come
l'ossa si fanno. E la serpentina è analoga al cuoio del
serpente, che ha tenue scaglie, simili alla cutanea
screpolatura. Principalmente i vecchi invade , che
sempre gli accompagna al sepolcro. Ed incomincia
eolla fosforea disquamazione la periata e la cornea;
e poi vengono fuori tenui squame nell'antibraccio ,
nel braccio, nella gamba, nella coscia e nelle altre
parti del corpo. E la scagliosa eruzione ora si li-
mita, ed ora maggiormente si diffonde, e quasi gè-
123
neiale diventa. Le scaglie spesso rinnovansì; e dif-
ficilmente la ittiosì guarisoesi. Dura per anni; e se
generale diventa , fa sempre chi la soffre morire.
CAPO TERZO.
Cause remole.
La discendenza e la diatesi erpetica sono la it-
tiosica predisposizione; cui favoriscono, ed alla con-
dizione di malattia innalzano i guasti alimenti e le
cattive bevande, e l'abitazione ombrosa, occidentale
e freddo-umida.
CAPO QUARTO.
Causa prossima.
Consiste parie la esterna manifestazione della it-
tiosi nella epidermica ipertrofia, o nel sebaceo in-
farcimento; sarà sempre la condizione che la deter-
mina una preternaturale chimico-organica modalità,
che segrega, e che spinge all'esterno la sebacea ma-
teria, che al contatto dell'aria si solidifica e forma
scaglie.
CAPO QUINTO.
Necroscopia.
Gì" interni guasti della ittiosì non si conoscono;
e gli esterni Umitansi nella superficie del corpo, cui
deformano. La pelle induriscesi e screpola, ed è il-
124
lusione che siasi contratta, e che la parte non basti
a ricoprire. E nella periata, meglio che nella ser-
pentina si vedono le scaglie. E di maggiore consi-
stenza formansi nelle scabrose parti; e affatto non
si formano ove la pelle è liscia e fina. E meglio
che altrove si sviluppano nella parte anteriore delle
rotelle, nel gomito, nella regione esterna del brac-
cio, dell'antibraccio, della gamba e della coscia. E
nella cornea bene si scorgono l'ossee superfìcie; che
ora si innalzano colla cornuta forma.
CAPO SESTO.
Pronostico.
Con qualsiasi forma la ittiosi comparisca è sem-
pre persistente ed ostinato malanno. La circoscritta,
se non guariscesi , non è mortale ; e la diffusa e
quasi universale, non subito, ma col tempo fa sem-
pre morire.
CAPO SETTIMO.
Cura.
A chi la ittiosi soffre, meglio che i medicamen-
ti, giova d'abbandonare i luoghi infetti , le cattive
consuetudini, e gli alimenti che nocivi gli sono. E
se in luogo ombroso, occidentale e paludoso abita
e male si nutrisce , in altro luogo cerchi migliore
abitazione, e si nutrisca di scelti ed ottimi alimenti.
Mentre l'aria e ciò che ci nutrisce influenza su noi
hanno grandissima. E anche a chi la soffre giova
'
125
il bagno, ed all' interno ed àll'eslerno il zolfo ed il
mercurio.
SEZIONE TERZA.
Tricoma.
C.\PO PRIMO.
Definizione.
11 tricoma è malattia costituzionale spuria ; in
cui i capelli si intrigano e si agglutinano; ed il tri-
comalico consumasi, tristo ed apatico diventa.
CAPO SECONDO.
Forma.
Sono prodr£>mi del tricoma l'abbattimento, il tor-
pore, l'articolare dolore, l'auricolare tininno, la ce-
falagia , il glutinoso sudore , e la lenta universale
organica reazione. E poi i capelli o si mescolano e
insieme si avviluppano, tricoma falso; o in vari coni
si attortigliano, tricoma vero. Ed anche riunisconsi
in unico inestrigabiie cono, tricoma caudato. E i peli
del pube e quelli delle ascelle si agglutinano ancora,
e la medesima malattia soffrono. Da insensibili fan-
nosi sensibili e dolenti; ed anche tagliandoli versano
sangue ; e colla medesima malattia ricrescono. Ed
il tricomatico soffre , e lentamente si consuma , e
poi fattosi ipocondrico muore.
126
CAPO TERZO.
Cause remole.
Raro è il liicoma nella Polonia e nella Litua-
nia; e come straordinario fenomeno negli altri luo-
ghi comparisce. Ed a contrarlo ci predispone il tem-
peramento nervo-bilioso; e poi ce lo determina ciò
che fortemente l'animo ci conturba; e che profon-
damente l'economia ci perturba; vale a dire ogni
sorta di morale e di fisico patimento.
CAPO QUARTO.
Causa prossima.
La morbosa capillarità è fenomeno e non tri-
comatica causa ; la cui essenza ascondesi , e non
conoscesi. E come malanno costituzionale consiste
nella preternaturale chimico-organica modalità, che
principalmente si manifesta col capillare aglulina-
mento.
CAPO QUINTO.
Necroscopia.
L' appariscente condizione del tricoma consiste
nella capillare alterazione; per cui i peli diventano
glutinosi, e intrigansi, e formano anche coni inestri-
cabili, e pare che raggiata sia la pelosa parte.
127
CAPO SESTO.
Pronostico.
Lentamente incomincia , e dura lungamente il
tricoma. In principio è fastidioso incomodo, che il
ti'icomatico fa tristo e noioso. E tagliati i capelli,
sempre glutinosi rincrescono , si riattortigliano , e
formano confuso peloso ammasso; ed anche in di-
stinti coni riunisconsi; ed infine ritagliandoli versano
sangue. E dopo qualche anno di fastidiosa vita, con-
sumasi il tricomatico, e fattosi tristo ed ipocondrico,
ed anche demente, muore.
CAPO SETTIMO.
Cura.
Nella Polonia e nella Lituania i tricomatici poco
la plica si curano; forse perchè la ritengono feno-
meno critico, 0 perchè fiducia non hanno ai medi-
camenti. E come nella itliosi e nella pellagra solo
i sintomi e le complicazioni si medicano. Mentre
non si conosce la cura razionale, e la specifica af-
fatto la ignoriamo. E generalmente vogliono , che
si prescriva l'aria asciutta e temperata, lìbera e pura,
e tenue alimento, la ginnastica, e ciò che l'animo
abbattuto solleva e l'allegra. Ed anche giova le se-
crezioni di riattivare cogli evacuanti ; verbigrazia ,
cogli emeto-catartici, coi diuretici e coi diaforetici.
E cogli alteranti , gli umori si attenuano ; cui ri-
128
tengono alcuni essere specifici medicamenti. Ed an-
che prescrivonsi gli antimoniali, i solfuri e i mer-
curiali, il semplice bagno, il solfureo ed il mercu-
riale.
CONCLUSIONE.
Le malattie, che abbiamo riunite nel libro set-
limo, presentano a preferenza dell'altre certa illu-
soria universalità , per cui morbi costituzionali gli
abbiamo cognominati. E siccome di questi, alcuni
ci presentano maggiore , altri minore estensione
morbosa; così gli abbiamo divisi in spuri e in morbi
costituzionali legittimi.
(1) In questa noia facciamo l'analesi dei titoli dei
libri, che dovevamo in ciascuno mettere.
a) Titolo del libro primo — PIRETOGRAFIA — ;
che componesi delle parole — nvpttìg — febris — dtoc-
ypfrjì descriplio.
b) Titolo del libro secondo — NOSONEUROGRA-
FIA — ; che componesi delle parole , vocsog morbus ,
vivpov, nervus, diayptpv;, descripsio.
e) Titolo del libro terzo — FLEMMONOGRAFIA-;
che componesi delle parole, ^\€ixovv}V, inflammatio, §£«-
'^pfY}, descriplio
d) Titolo del libro quarto ~ ESANTEMATOGRA-
FIA — ; che componesi delle parole — z^oc'j^rìp.axu ,
exanthemata, dtocypipvi, descriplio.
e) Titolo del libro quinto — CATARROGRFIA — ;
che componesi delle parole ■x.ot.-:afpoò,pro{luvium,^ioqpatfr,,
descriplio.
f) Titolo del libro sesto — SOMASENOGRAFIA — ;
che componesi delle parole — acù[j.cx, corpus, ^ivcg, ex-
Iraneus, dtaypo(<pTtj, descriplio.
g) Titolo del libro settimo — NOSOSEXIGRA-
FIA — ; che componesi delle parole , vSaog , morbus ,
ì^ig, coslitutio, àcocypoccp'^, descriplio.
129
Storia geologica del Tevere, discorso del prof. CmÌu-
seppe Ponzi recitalo alVaccademia Tiberina nella
tornata solenne del 5 febbraio 1860.
ì^e l'anima umana è capace dì elevarsi ai più su-
blimi concetti, egli è certamente sotto l' influsso delle
più forti emozioni : come accade quando in una
limpida e tranquilla notte alziamo lo sguardo al
maestoso spettacolo del cielo. Lo splendoie degli
astri , il loro esercito spiegato negli spazi infiniti ,
il roteare dei pianeti in virtù di misteriose forze ,
la pallida luce della periodica luna, e perfino l'eter-
nità di quel silenzio che terribile regna colassù ,
hanno su di noi tale azione, che sveglia Io spirito
alle più vaste idee, e ne spinge il volo per le ar-
cane vie dell' infinito. Ma la cnrosità e il desiderio
di metterci in relazione con- quegli esseri vieppiù
si fa vivo , quando la nostra debole vista venga
soccorsa e rinforzata da quegli stromenti, la cui
invenzione e perfezionamento sono la gloria dei se-
coli nostri. Allora presi da vivissima gioia intie-
ramente ci consagriamo alle più assidue ricerche ,
onde indovinare le arcane cagioni di tante magni-
ficenze. Vogliamo leggere sulla superficie lunare
gli effetti della sua vita , le condizioni della sua
massa, la materia di cui è formata, e le relazioni
che fra essa e la terra intercorrono. Ponendo quindi
niente ai pianeti, e ai satelliti che loro fanno co-
rona, procuriamo penetrar la natura e le leggi del
G.A.T.CLXIV. 9 ^^
130
loro orbitale cammino; quiridi ci volgiamo al sole,
e quindi tiascoirendo di stella in stella ci facciamo
a calcolarne le sorprendenti dislan/xs la qualità della
luce etriessa, il peso, il volume, ovvero il loro ag-
giupparsi in isvariale costellazioni. E qu^si che
tutto ciò fosse poco ad un'attrazione potentissima,
ad una irresistibile tendenza, ci trasportiamo al di
là del nostro sistema stellario, e ci spingiamo negli
spazi incommensurabili all' ardita ricerca di altri
sistemi fors' anche del nostro maggiori , di quelle
nebulose che in numero indefinito son collocate a
distanze che 1' inimaginazione piià accesa non vale a
comprendere. Ma menti-e questo insaziabile desiderio
ei trascina in un campo tanto vasto, anzi indefinito,
mentre cerchiamo estendervi il regno del nostro
pensiero, non ci accorgiamo che più l'uomo aumenta
in estensione delle sue idee , più deve umiliarsi
r umana natura al cospetto di una creazione im-
mensa, indefinita, incomprensibile.
Non altrimenti avviene se abbassiamo gli occhi
alla terra , parte ancor essa , sebbene minima , di
quest' immenso universo. I suoi caratteri planetari,
la sua atmosfera, i suoi mari, le catene dei monti,
le valli, i fiumi e i viventi stessi che 1' abitano ,
stimolano tanto la nostia curiosità, che somma gioia
e diletto spei-imentiamo, tosto che veniamo a sco-
prire le sue correlazioni cogli altri pianeti , collo
stesso centro solare , e le cause di tutti gli altii
fenomeni puramente terrestri, come i vulcani, i ter-
remoti, i venti, le burrasche, i fulmini, e tante altre
sorprendenti meteore. Con non minore soddisfazione
ci dedichiamo alla contemplazione della sua geo-
131
logica nalura , n di formazione In fonnazione , (Jj
rivoluzione io livoIu/Jone percorrendo a litroso i
lunghi periodi di tempo Irascoi'si dalla vita terrestre,
andiamo a raggiungere quel primo fiat incompren-
sibile , quella misteriosa creazione della materia
ultimo confine dello scibile , ove giunto 1' umano
orgoglio deve piegar la fronte umiliata innanzi al
segreto di un essere onnipotente, di un Dio crea-
tore infinito.
Né meno sorprendente è 1' armonia e 1' ordine
che si ammira in tutto il complesso del creato. La
considerazione di un legame intimo che connette gli
esseri ci ricolma di mei-aviglia e di compiacenza.
Quelle leggiere nubecole risplendenti di una luce
dolce e tranquilla, che il pili polente telescopio ap-
pena rende manifeste, sono altrettanti sistemi com-
posti di un numei'o incalcolabile di stelle. L'enorme
massa di Sirio contrapposta a quelli esilissimi infu-
sori , che per discoprirli fa d' uopo del più acuto
microscopio; sono tali estremi da sgomentare una
mente abituata ai più vasti concepimenti. Eb-
bene, fra queste distanze si distende una serie notr
interrotta di esseii creali, tutti destinati ad un uf-
ficio speciale, tutti concordanti ad un fine. Avve-
gnaché la loro esistenza non solo è parte integrale
di tutto il crealo , ma lo sono eziandio perfino le
pili minute parti, di cui sono formati, insieme alle
loro rispettive e minutissime azioni. Quindi lo stretto
vincolo che lega e connette tulli gli esseri alla com-
posizione di quel quadro mirabile che appelliamo
Nalura: comples.-o stupendo che ad alta voce prò-
132
elama l'onnipotenza divina , e perenneinenle canla
ed esalta le lodi dell' infinito Fattore.
Tali considerazioni, o signori, era necessario pre-
mettere a preparare la vostra benigna attenzione,
diretta all'esposizione di una parte di quell' immenso
quadro, che sebbene minima in confronto del com-
plesso,è pur necessaria, perchè legala e connessa coi
fenomeni cosmici; nella stessa guisa che un membro
anche più piccolo forma parte integrale del corpo cui
appartiene. Tale è una seriedi avvenimenti chea modo
di vecchia cronaca si legge a caratteri indelebili
scolpiti sulle rocce : la storia geologica del Tevere
che oggi mi è concesso d'esporvi. Vi parlerò adun-
que di quelle cose che siam giunti a distinguere per
via di lunghe e laboriose osservazioni ; e m' inge-
gnerò dimostrarvi , quali furono i cosmici avveni-
menti che valsero a formare questo celebre fiume,
e i suoi diversi aspetti nelle diverse età della terra,
seguendo il naturale suo corso, dalle sorgenti che
gli danno origine fino alla sua foce nel mare tir-
reno ; per la quale impresa spero rinvenire nella
vostra gentile condiscendenza la forza necessaria a
raggiungere la meta prefissami.
11 primato dei fiumi nell' Italia centrale devesi
cei'lamante al Tevere, non tanto per l'estensione in
lunghezza del suo corso, quanto per il numero e di-
stribuzione dei suoi principali affluenti Avvegnaché
tutte le acque, che sotto i nostri occhi attraversano
la città di Roma, parte son derivate dalla Toscana,
parte scesero dal più gran tratto del piovente cen-
trale dell'Appennino, parte hanno le loro sorgenti
nel regno di Napoli. Il Tevere propriamente detto
133
ha le sue scaturigini fra le balze dell'Alpe della Luna
in prossimità di quelle dell'Arno, che su di un altro
piovente scende ad irrigar la Toscana. Come in tutti
gli altri fiumi, una riunione primiliva di poche acque
bastevoli a costituire un torrentello è 1' origine di
questo classico fiume, che scendendo e serpeggiando
fra scoscesi e alpestri dirupi trascorre il suolo etrusco
ad incontrar nuove acque, e così cammin facendo
dar incremento al suo volume. Ma ancora povero
entrato negli stati romani, e presa la direzione da NNO
a SSE, si viene ingrossando nel procedere verso Città
di Castello, in grazia del contributo di tanti secon-
dari fossi e torrenti che lateralmente gli conducono
gli scoli delle prossime contrade. Quasi sotto Pe-
rugia cambia di direzione declinando a mezzo giorno
con largo cerchio, sulla cui convessità si accresce
notabilmente per l'aggiunta delle acque di due co-
spicui fiumi insieme innestati: il Chiascio scendente
dai monti della Scheggia , e il Maroggia a cui si
associò il Topino, ambedue conducenti la copia delle
acque che raccoglie il vasto bacino dell'Umbria. Ri-
cevuto un tale incremento, corre il Tevere a libe-
rarsi dai monti da cui ebbe origine, e ad aprirsi sulla
pianura, camminando verso Tordimonte paese dell'Or-
vietano, sotto il quale un' anza acuta serve a lipri-
slinarlo nella sua primiera direzione. In questa spira
il Tevere guadagna ancor più per 1' aumento delle
acque del Paglia formato da tanti rami nel bacino
d'Acquapendente affluenti in un tronco principale
destinato a confluire sul Tevere. Ma avanti di ranj-
giungerlo, sotto la città di Orvieto raccoglie quelle
che conduce la Chiana da tutto il versante orientale
' 134
dei monti toscani. In questa guisa fatto più dovi-
zioso, costeggia dal lato dei monti le pianure viter-
besi lungo le quali riceve il Vezza. Quindi oltrepassato
il Cimino si conduce oltre il paese di Orte fino ad
incontrare la Nera, fiume non men ricco e potente.
La Nera nello scaricarsi nel Tevere è un fiume
complesso risultante dalla riunione di quattro sistemi
idraulici distinti, i quali sono; il suo proprio, quelli
del Velino, del Salto e del Turano. Il sistema nerino
nella sua origine riunisce tutte le acque che piovono
sulla catena della Sibilla, il maggiore apennino de-
gli stati romani, e dell'altipiano di Norcia. Poi at-
liaverso erte balze cala a Triponso, dove riceve per
mezzo del Corno le acque orientali del Tei'minillo,
e cosi si dirige verso il bacino di Terni. Il Velino
dalle sue sorgenti sulle falde occidentali di Pizzo di
Sivo vien negli Abbruzzi per addentrarsi nella valle
Falagrina, poi nella Cutiìiana, e girando dietro Ter-
minillo si getta nel vasto bacino realino, luogo di
riunione di due altri fiumi suoi consorti. Col primo
di essi s' incontra sotto la citlà di Rieti, e questo
è il Salto, fiume di breve corso, ma che pure raduna
le acque delle pendenze del monte Velino e dei campi
palentini nel bacino di Fucino, e le conduce nel fiume
Velino al suo sbocco sulla valle reatina. Ricevuto
il Salto, questo fiume si ravvolge in larghe spire, per
le quali incontra il Turano che discende dal Cigo-
lano nel regno di Napoli trascorrendo la valle del
Cavaliere. In cotal modo arricchitosi il Velino si
stringe in una gola di monti, fra le cui balze si di-
lata nel lago di Pediluco, e finalmente corre a pre-
cipitarsi nella Nera, formando una delle piiì belle
135
cadute tra quante sono ammirate, qual è quella dello
Marmore. La Nera così accresciula sì porta nel ba-
cino di Terni per caricarsi dell'Aia sotto Narni, di-
scendente dai gioghi sabini; poi con travagliato corso
rapidamente s'introduce fra i monti per attraversarne
la catena narnese, scende a Stifone posto allo stretto
di un passaggio che il fiume varca con gran fragore,
al ^i là del quale esce sotto Montoro, d'onde s'avvia
alla pianura, e pei' le sue spire fatto piiì lento viene
ad incontrar il Tevere sotto Orto.
Accresciuto questo da una così gran quantità
d'acque, si fa navigabile in tutto il restante del suo
corso, sul quale procedendo maestoso, mantiene il
suo ordinai'io serpeggiante andamento , ed a mano
a mano, a destra s'appropi'ia il Treia, formato sulle
pianure intercorrenti fra il Cimino e Roccaromana, a
sinistra il Farla conducente gli scoli della Sabina.
Raggiunto il solitario monte Soratte, gli gira attorno
ripiegandosi di nuovo a mezzo giorno, e così si av-
vicina a Roma; ma prima di toccare la metropoli
riceve l'Aniene.
Le ricche sorgenti di quest'ultimo fra l'Autore
e il Colente presto lo rendono di notevole ampiezza,
e i suoi due biacci di origine scendenti, uno dal ba-
cino di Filettino , l'altro da quello di Vallepietra ,
camminando sopra un suolo aspro e scosceso si
riuniscono in un tronco , che dopo passato sotto
r Arcinazzo si conduce ad uscire nel bacino subla-
cense , formandovi altre volte lago e cascata. Poi
dietro il monte Ruffo si ripiega nella valle degli
Arci , e sotto il monto Calillo , giunto a Tivoli si
136
getta nella campagna romana con un salto mirabile
e pittoresco.
Associato l'Aniene e oltrepassata la città di Roma,
il Tevere corre ratto al mare Tirreno, per dividere
la sua conente in due braccia a mettervi foce: una
naturale, detta fiumana di Ostia, l'altra dall'umana in-
dustria prodotta, denominata di Fiumicino, lasciando
fra loro un delta.
Così costituito r attuale sistema idraulico del
Tevere , facil cosa è scorgere di quale interesse
geografico egli sia per lo studio fisico dell' Italia
eentrale. Peraltro questo interesse tanto più si fa
vasto , quando vogliasi considerare sotto 1' aspetto
geologico, lilgli è naturale che un complesso di tanti
eorsi d'acqua così svariati e diffusi non abbia sor-
tita un' istantanea e contemporanea origine, ma siasi
a poco a poco determinato in ragione dei fenomeni
cosmici, dei quali fu teatro questa regione. Così an-
che è razionale argomentare dal cammino istesso
delle acque, che le prime a formarsi siano slate le
ultime radici del torrenti per procedere ai rami ,
quindi alle braccia successivamente maggiori, final-
mente al compimento dei principali tronchi per dare
unità a tutto il sistema. Le moltiplici osservazioni,
e una critica severa portata sul sistema tiberino, ci
confermano sempre la verità, che in ogni cosmica
operazione la superficie del suolo italiano siasi mo-
dificata nella forma, e cambiando d'aspetto il decorso
delle acque, che da esso scaturirono, abbia seguito
sempre diversi e successivi andamenti.
Se vi piaccia per poco rimontare col pensiero
allo stato di questa regione del globo prima che le
137
sue forze facessero emergere dal fondo delle aeque
r italica penisola ; voi vedrete che tutta la distesa
occupata da questa terra altro non era che un vasto
oceano, forsanche dotato di notabilissima profondità.
Ma tosto che venne infranto l' involucro solido che
forma la corteccia del globo dall' espansione delle
forze interne, i lacerti di questa rintorti e malme-
nati furono spinti in alto , quale colle loro coste ,
quale coi loro angoli, e videsi allora comparire il
primo rudimento dell' Italia rapprentato da tante
isole rocciose sparse lungo la linea su cui si dires-
sero quelle potenze, e che è la stessa che ci dimostra
r Italia.
Non deve far meraviglia se fino da quel tempo
abbiasi a ripetere la prima origine dei fiumi, e per-
ciò quella del Tevere. Conciossiachè la superfìcie
del suolo messo in secco fu posta immediatamente
sotto il dominio delle intemperie, e gli squilibri ter-
moelettrici dell' atmosfera determinandovi le piogge,
furono la cagione che quelle allure venissero ba-
gnate e trascorse dalle acque pluviali. Fertilizzando
il suolo , suscitandovi un rivestimento di boschiva
vegetazione , e questa attraendo nuove piogge, le
acque islesse furono principio del loro proprio in-
cremento: e così si formarono i primi letti dei tor-
renti , che giìi per le pendici di quelle scogliere,
già esposte ad un lento e continuo disfacimento ,
scendevano a versarsi immediatamente nel mare. Per-
altro questo stato di cose non poteva essere sta-
bile: come niente, meno le sue leggi, è stabile in
natura: perchè le reiterate spinte eruttive, a cui ve-
niva assoggettato il suolo italiano colla graduale
emersione, dilatando la base di quelle isole , o le
138
ravvicinava fra loro o le riuniva in un sol corpo ,
intanto che nei frap[ìOsli spazi nuove 8 svariate cime
sorgevano. Questo processo d' operazioni telluriche
Dio sa per quanto tempo venner protratte! Ma egli
è certo che alla fine il risultato fu l'emersione to-
tale e la riunione di quelle |)rime scogliere in in-
genti e colossali masse montane notabilmente spor-
genti, quali sono quelle che costituiscono il lungo
Apennino o la spina dorsale dell' Italia.
Da una tale emersione deriva che quei primi
torrenti, rudimento dei maggiori fiumi, dovettero con-
fluire nelle valli inleriiiontane poste in secco, e così
dar principio a tronchi di maggior entità prolungati
a raggiungete il comune recipiente, Ed ecco come
cbbeio a costituirsi già tanti piccoli sistemi idrau-
lici , moltiplicati , separati e indipendenti fra loro.
Noi non sappiamo peranche con precisione accen-
nare in quale epoca geologica ebher principio tali
opere di natura, né conosciamo se venissero inter-
rotte da quei periodi d' inerzia o di liposo che sem-
pre si osservano, e sembrano diretti al listabilimento
delle forze d'azione. Però la mancanza delle l'occe
paleozoiche in Italia ci fa sospettare , che l'emer-
sione o il sollevamento apennino possa aver avuto
principio nel secondario periodo, ed essersi [)rotratto
fino all'epoca miocenica che segna la metà del ter-
ziario: perchè egli è certo che a questo tempo le
catene de monti erano già emerse, e il mare lam-
bendo le loro radici ne seguiva l'andamento, intio-
ducendosi fra esse in tante guise , da lisultare la
costa tirrena frastagliata e divisa a fnodo d'un com-
plicalo arcipelago. Tali coste vengon bastantemente
139
disegnate dai sedimenti che vi lasciò quello stesso
mare, i quali mai non oltrepassano il loro relativo li-
vello, e che oggi vcngon rappresentali dalle colline
sabbiose e marnose che da tutti si conoscono col
nome di sub-apennine.
Conosciuta V idrografia delle acque salse di quel
tempo, a nostro bell'agio argomentiamo delle dolci
fluviali, concorrenti a formare il sistema idraulico
del Tevere, oggi così diffuso, ma che allora era ri-
strettissimo, e limitato solo a quel brevissimo tratto
che trascorre sugli Apennini che gli diedero ori-
gine. Similmente avveniva di tulli gli altri suoi tri-
butari, che a notabili distanze fra loro, con brevis-
simo corso scendevano a scaricarsi nel sottoposto
mare. Il Paglia e la Chiana non si erano ancora for-
mati, ma solamente venivano rappresentali da so-
litari torrenti che precipitavano sulle balze dei morili
toscani. Il Chiascio, il Topino e il Mareggia man-
tenevano un corso lislrettissimo , e separatamente
scaricavano le acque raccolte da contrade diverse
nel bacino drll' Umbria ancor riempito dal mare.
La Nera avea la sua foce prima di raggiunger la
valle ternana: il Velino avea fine verso Antrodoco,
il Salto sotto la catena del monte Velino, e il Tu-
rano terminava nella valle del Cavaliere. Del Farfa
non erano che vari torrentelli, e l'Aniene sboccava
nel mare nel bacino di Subiaco.
Da questo stato idrografico ben si comprende,
che neir epoca pliocenica o subapennina tutte le
campagne romane e viterbesi erano ancora som-
merse, 0 per dir meglio si venivan formando sot-
t'acqua coi sedimenti di quel medesimo mare, for-
mali di marne turchine, sabbie gialle e ghiaie. Però
questo stato incominciato dopo il sollevamento apen-
nino , non procedette sempre tranquillo. Avvegna-
ché dopo una breve tregua succeduta all'emersione
dei monti, dopo i primi sedimenti marnosi, quella
estensione che oggi vediamo intercorrere dagli
apennini di Sabina al mare, fu di nuovo messa a
soqquadro dalla natura accintasi a nuovo lavoro ,
il cui risultalo fu la comparsa del gruppo dei monti
Ceriti. Queste giogaie che ci offrono le sommità
delle Allumiere e del Sasso nella provincia di Civi-
tavecchia, in virtù di eruzione trachitica, costituirono
un' isola dirimpetto agli apennini sabini sulla linea
dei monti di Toscana costituenti la massa metal-
lifera. Queir isola però veniva da questa separati
mercè un tratto di mare solo interrotto dal monte
di Canino, o scoglio, elevato per segnare il punto
culminante di una sotterranea catena che lega le
prominenze etrusche delPAmiata con quelle di Ceri.
Le nuove terre sopraggiunte, sebbene indipendenti dal
sistema tiberino, servirono ciò non ostante a pre-
parargli le pendenze nel suolo sommeiso, ond' es-
sere nei secoli posteriori solcate dalle numerose sue
circonvoluzioni.
Dopo siffatta o[)erazione cosmica le forze sov-
versive sembrano rallentarsi a restituire la calma
alla superfìcie del suolo italiano. Ma questa calma,
sebbene prolungala a lutto il restante dell' epoca
subapennina, non fu che apparente, e solamente per
dar tempo ad una restaurazione delle stesse forze
agitalrici del globo, che celate sotto la sua crosta
con un incessante lavorio si preparavano a nuove
141
manifestazioni. E difatlì mentre alla superficie il
mare depositava tranquillo le sabbie e le brecce ,
questo medesimo suolo si veniva lentamente innal-
zando , e le spiagge marine si ritiravano coli' al-
lungamento dei fiumi che correvano a mettervi foce.
Un tal rigonfiamento del suolo, sebbene lento, do-
vette sempre più incalzare fino a che, rotto l'equi-
librio , le interne azioni sovversive comparvero al-
l' esterno. Alloia fu che su tre punti di una linea
parallela agli apennini fra questi e i monti Ceriti,
nel fondo istesso del mare, si spalancarono quelle
enormi bocche vulcaniche che colle loro conflagra-
zioni furono causa di gravi cambiamenti nel suolo
dell'Italia centrale. Egli è poi chiaro che le materie
eruttate da questi spiragli in sorprendente quantità,
fatte preda di un mar tempestoso, venisser trasci-
nate e diffuse su tutto il fondo marino fino alle
più estreme spiagge, e disegnarne tutto il loro an-
damento.
Per questo criterio sappiamo, che al comparir
dei vulcani moli' isole eiano già congiunte alla ter-
raferma,e molti rientramenti intermontani scomparsi,
pel ritiramento delle acque salse. Il mare entro più
ristretti confini veniva contenuto in un vastissimo
golfo aperto a mezzogiorno e circondato dai monti
di S. Fiora e dell'Amiata nel toscano, e dalla mon-
tagna della Peglia nell'orvietano, dirimpetto al quale
faceva barriera o antemurale 1' isola Tolfetana e di
Allumiei'e. Varie altre isolette o scogli si vedevan
disseminati sul lato occidentale di questo golfo, per
i quali la navigazione vi sarebbe lisultala difficile.
11 resto delle spiagge marine camminava a un di-
142
presso coll'andamento del moderno Tevere tìn scilo
i monli Cornicolani riuniti a formare un promon-
torio.
Tale nuovo stato idrografico del mare ci assi-
cura, che a quell'epoca il Paglia era già costituito,
e terminava nelle vicinanze di Acquapendente : la
(-'hiana si era molto allungata per raijsiunafere il
mare sotto Orvieto: il Tevere istesso avea già ri-
cevuto il tributo delle acque del Chiascio, del To-
pino, e del Maroggia, e apertosi un varco fra le
proniinenze della Peglia e l'estremità della catena
narnense si gettava nei mare sotto Tordimonte. 11
Turano e il Salto si erano associati al Velino nella
valle reatina, e questo alla Nera, che attraversato
il bacino di Terni, e i monti di Narni, usciva pei*
versarsi nel mare sotto Orte. Il Farfa girava sotto
i monti della Fara per terminare dietro Toffla , e
TAoiene raccolte le Cono incontrava il mare dove
oggi trovasi il paese di Vicovaro.
Gli stessi vulcani, causa di tanti cambiamenti
colle loro eruzioni, non cessavano di contribuire in
gran parte a pi'epaiai-e nuova configurazione al suolo
italiano. 1 crateri Vulsinio , Cimino e Sabatino si
elevarono, e le materie eruttate accumulandosi loro
d' intorno gì' innalzarono su dì tre coni schiacciati,
fino a che, sia per le reiterate spinte, sia per ad-
dizione delle nuove materie sul fondo, comparvero
alla supei'ficie del mare a modo d' isole ignivome
collocate in serie nel mezzo di quell'anjpio golfo.
Ma l'azione loro duiando per lunga serie di secoli,
alimentiiva eziandio 1' innalzamento e l'emersione ,
di modo che venne finalmente il tempo in cui quei
143
Ire coni furono messi allo scoperto e diseccato V in-
tero golfo colio scoprimento delle pianui'c romane
e viterbesi. Dietro queste cosmiche operazioni , il
mare seguì confini tanto più ristretti , per i quali
r isola ceritia si saldò al continente, e formossi il
capo Linaro.
Notabilissime niodificazioni derivarono ai sistemi
delle acqne irriganti da siffatti effetti del fuoco ter-
restre. Il Paglia allungò il suo cammino per incon-
trare le Cbiana sotto Orvieto, raggiungere il Tevere
sotto Tordimonte, e procedere lutt'insieme sulla linea
delle spiagge abbandonate. Se si presti attenzione
al corso dei principali ti'onchi del Paglia e del Te-
vere, chiaramente si vedrà descr'ivere essi tre curve
alternate da angoli ottusi. Queste disegnano esatta-
mente le basi orientali dei tre coni vulcanici, Vul-
sinio, Cimino e Sabatino, sulle quali fui'ono costretti
a trascorrere in virtù delle contrarie pendenze. Così
il Tevere si condusse a superare il Soiatte rilevato
sulla base del terzo cono, e ripiegarsi attoi'no di que-
sto declinando a mezzogiorno. Per tali fenomeni due
nuovi fiumi, originati dalla emersione dei coni vul-
canici, vennero a scaricarsi alla destra del Tevere :
il Vezza che raccolse le acque fra il (limino e il
Vulsinio: il Treìa che riunì gli scoli fra il Cimino e
il Sabatino. A sinistra poi il Farfa giunse ad incon-
trare il Tevere per sovvenirlo delle acque sabine: e
la foce dell'Anienc così scomparsa, questo fiume si
condusse a non avei' più diretta comunicazione
col mare , essendo costretto dal ritirarsi di questo
ad oltrepassar lo stretto di MonteCatillo e di Ripoli;
gettarsi nella campagna romana e raggiungere il Te-
\u
vere prossimamente a quella contrada dove poi fu
Roma. Da questo punto il Tevere prese la via diretta
al mare per compiere il suo cammino e iscaricarvisi
con larga foce tra Pontegalera e Dragoncella, sotto
le cui colline si dilungavano le coste.
Nò di minor valore è la copia delle acque ra-
dunate dal sistema tiberino e le loro alluvioni. Seb-
bene non sia concesso alla scienza conoscere le idro-
grafiche vicinissitudini del Tevere durante tutto il
periodo subapennino, pure i nostri argomenti tro-
vano un appoggio nell'osservare i fatti congiunti dallo
scoprimento del suolo fino a noi. Giustamente si
argomenta quale dovette essere la temperatura del
globo in quei lontanissimi tempi, quando il mare sub-
apennino ricopriva ancora le nostre campagne ,
e sappiamo che il clima d'allora era così elevato da
eguagliare quello che oggi si rincontra sotto le tropi-
cali zone. Per tali condizioni era concesso agli ele-
fanti, rinoceronti, e ippopotami, con altri animali
delle più calde regioni, menare la loro vita nell'Italia
centrale; taluni dei quali ora estinti, taluni costretti
ad emigrare, e confinarsi sotto la sferza dell'adente
zona torrida. Peraltro quella temperie sì elevata venne
ad abbassarsi, e cambiò: e all'età della terra in cui
regnava un clima tropicale presso di noi, e tanto fuo-
co vulcanico si diffuse, un intensissimo freddo succe-
dette, da cambiare in gelo tutte le acque sulle alture
dei monti, e convertirle in distese e numerose ghiac-
ciaie. Molte questioni sono ancora agitate nell'agone
scientifico sulle cause determinanti l'epoca glaciale,
tuttora insolute, e che volentieri tralasciamo per re-
stringersi ai soli fatti osservali. Le morane e la dif-
fusione delle masse erratiche, vestigie di quelle an-
145
liche ghiacciaie, apertamente accennano ad un lun-
ghissimo periodo freddo, che venne per gradi a ces-
sare col rialzarsi della temperatura fino al grado
che tuttora la terra manifesta e mantiene. Validi
argomenti portano a credere che tale congelazione
sia effetto di causa esteriore; ma in qualunque ma-
niera abbia avuto luogo quell' innegabile fatto , il
certo si è che il globo si liscaldò di nuovo, e ciò
a noi basta per comprendere come tanti ghiacci
vennero a fondersi. Ed ecco come pel logoramento
di quelle masse d'acqua gelata ebbero a gonfiarsi i
torrenti, che precipitosi scendevano di balza in balza
fr,' le aspre scogliere montane per gettaesi sulle
pianure, e ricopiirle di diluviali inondazioni. Ecco
Tescavazione di quelle immense fosse o alvei, nel
fondo dei quali i maggiori nostri fiumi si aggirano.
Ecco il rimescolamento delle materie trascinatevi,
miste ad avanzi di esseri organici contemporanei.
Ecco finaln)ente la diminuzione delle acque tosto
che furono logoiati i ghiacci , col ristabilimento
dell'equilibrio di temperatura.
A tali vicende venne eziandio assostaiettato il si-
ce?
stema tiberino : imperocché nelle vaste vallate che
lo conducono, chiari segni si appalesano delle fiu-
mane impetuosissime discese dai monti cui trae ori-
gine. Le sabbie e le ghiaie rimaneggiate colle ma-
terie vulcaniche che riempiono il fondo di quegli
enormi alvei : i travertini disposti in letti in certi
punti dei loro fianchi: le reliquie di piante e di ani-
mali terrestri e d'acqua dolce che frammisti vi si
rinvengono, danno prove manifeste della fisonomia
dei secoli trascorsi fra il ritiro dello acque marine,
G.A.TCLXIV. 10
U6
e la cotuparsii (ìelT uomo. L' ingente volume delle
correnti, elevale a circa trenta metri sul livello delle
acque attuali, variava d'aspetto a seconda delle locali
accidentalità incontrate nel loro passaggio. Le de-
pressioni del suolo , le ristrettezze degli alvei , gli
ostacoli al libero transito , obbligarono le acque a
diverso comportamento. Ora dilatale in distesi laghi,
come il Topino e il Maroggia inondanti tutta la
grande vallala dell'Umbria, l'Aniene sotto Tivoli, e
il Tevere a Fiano: ora strette in angusti passaggi,
come fu del Paglia sotto I' altipiano dell'Alfìna , e
del Tevere sotto il Soratte: ora divise in bracci ri-
confluenti per comprendervi brani insulari , come
avvenne dei colli Palatino, Capitolino, e Aventino,
a suo tempo compresi entro la stessa città di Roma.
Sono queste tante combinazioni, per cui la rapidità
delle correnti fu diversa lungo il decorso del Tevere,
che procedeva dilatandosi ad aprirsi nel mare Tir-
reno con una foce almeno di due chilometri di lar-
ghezza.
Trascorsa l'epoca quaternaria, si approssimavano
i tempi in cui la divina provvidenza si disponeva a
far si che l'essere intelligente prendesse possesso e
stanza nella classica terra d'Italia. Noi siamo ancora
nell'oscurità in qual punto della storia geologica ebbe
principio l'epoca antropica; ma ci è dato poter an-
nunziare con certezza, che dal tempo in cui l'uomo
comparve, il sistema idraulico del Tevere presso a
poco ha mantenuto l'aspetto attuale, e ad altri cangia-
menti non andò soggetto se non a quelle modifi-
cazioni derivate solo da un leggiero e ulteriore in-
nalzamento del suolo per opera di non estinto vulca-
U7
nismo, od ad interramenti per materie trasportate,
e lasciate in banchi lungo il suo corso, ovvero ri-
gettate dal mare per allungare la sua foce* In questa
guisa si formò quel triangolo scaleno di più basso
livello, che oggidì notiamo alTestiemità del Tevere,
sul quale si conduce il fiume per dividersi in due
braccia e raggiungere con doppia bocca il recipiente
generale delle acque.
Ma per quanto voglia concedersi alla diminuzione
delle masse acquee, al sollevamento del suolo, agl'in-
terramenti delle materie di trasporto, lo scolo delle
acque non fu istantaneo; anzi venne in taluni luoghi
ritardato per lunga serie di anni. Le più vetuste
tradizioni ci fanno trasparire come in un cristallo
una serie di personaggi, dominatori delle genti stan-
ziate sulle sponde del Tevere , durante la quale
nulla si dice della valle continente le tiberine acque.
Ai tempi però di Saturno e di Giano ci vien detto es-
sere questa ancora ingombra di schifose paludi e tene-
brose foreste, e che il fiume veniva distinto col nome
di Albula.QuandoKomolo si accinse a fabbricar l'eter-
na città si manteneva ancor quello stato, perchè i ve-
labri distesi sotto il Capitolino e Palatino, la palude
Caprea, gli stagni di Perento, altro non erano che i
residui delle acque diluviali a scolo ritardato fino
a quei tempi, in ragione della profondità delle fosse
e depressione del suolo in quella contrada. Venner
però ben tosto a scomparire, allorché alle opere di
natura si aggiunse il soccorso di quelle della umana
industria. 1 romani sotto i primi loro re si libe-
rarono di quell'ingombro abbattendo le foreste, sco-
lando i vclabri nella cloaca massima, e diseccando
U8
paludi affine di migliorare la contrada nello igieniche
condizioni, e prepararla a quello sviluppo e incre-
mento che formò poi la gloria di Roma. Lo stato
delle acque stagnami rinvenute dai romani, e di cui
abbiamo meno incerte notizie, deve essere stato pres-
so a poco quello di tutto il restante del sistema
idraulico del Tevere. Avvegnaché Topeiosità intel-
ligente dei nostri primi progenitori non solo si ma-
nifestò nei contorni di Roma , ma irradiò eziandio
diffondendosi in lontane contrade a spiegarsi non
solamente sul princìpal tronco del loro fiume, ma
eziandio su quello delle braccia dei tributari. Per
ossi si eseguirono tante operazioni degne della lor
grandezza, sempre dirette a meglio ordinare il corso
delle acque, e aprofittarne a prò della vita comune.
Dai secoli dei romani tino ai piij moderni giorni
il Tevere non lasciò mai di richiamare l'attenzione
dei sapienti allo studio dei continui cambiamenti di
direzione, a cui va soggetto l'alveo che lo contiene;
alle alluvioni che lo modificano; a soccorrere il suolo;
e a correggere i danni da quelle arrecali. Di ma-
niera che il sistema idraulico tiberino, siccome per
lo passato così per l'avvenire, sarà sempre occasione
permanente di studi gravissimi, e profonde medi-
tazioni per le scienze e per le arti , e una quoti-
diana applicazione dei loro principii.
Una catena d'avvenimenti di tal fatta, distesa at-
traverso una lunga serie d'età diverse, ebbe luogo
neir Italia centrale. Il solleva.mento degli apennini,
per il quale l'intera penisola sottratta dal doiriinio ma-
rino fu assoggettata a quello delle acque dolci: l'emer-
sione della massa insulare dei monti ceriti; un vio-
149
lento vulcanismo che prosciugò le basse contrade
italiane; i diluvi derivati dalle ghiacciaie nel periodo
di raffreddamento terrestre, sono tali e tanti feno-
meni cosmici, per i quali si formarono i fiumi, e che
necessariamente devono rientrare nell'ordine univer-
sale delle cose create , nell' immenso quadro della
natura. La storia tiberina pertanto diviene una parte
integrale della storia stessa della Terra, siccome epi-
sodio procedente dall'azione di quelle cause comuni
ed arcane dalla Provvidenza disposte, e che a noi è
soltanto concesso contemplare e ammirare quale in-
negabile argomento dell'onnipotenza dell'Essere in-
finito.
150
Riflessioni criiiche sopra alcune recenti opinioni in-
torno Vuffizio della milza, e tentativo di concilia-
zione delle opposte sentenze sullo stesso argomento,
del prof. C. Mag(jiorani.
k^embrava oggimai che i fisiologi rimanesser d'ac-
cordo neir attribuire alla milza qualche parte nel-
l'opera della sanguificazione, e tanto più ei-a da spe-
rare concordia in cjuesta credenza quando lo stesso
Kòlliker che, forte delle osservazioni microscopiche,
aveva in principio oppugnata cotesta dottrina, so-
stenendo in vece che in quel viscere si compisse
un' opeia di disfacimento de' globuli sanguigni , si
mosse poi dal suo parere, e nelle sue ultime scrit-
ture inclinò ad ammettervi anche un lavoro di prò
gressiva elaborazion de' corpuscoli. « lo considero
la milza (così egli scrive nell'ultima edizione della
sua Istologie) come un organo nel cui parenchima
si versano alcuni principii costituenti del sangue ,
ed in certi periodi in maggior copia che in altii,
al fine di sperimentarci mercè gli elementi cellu-
iosi, che sono in un lavoro incessante di formazione
e di dissoluzione una metamorfosi piincipalmente
regressiva, ma in parte anche progressiva, e per es-
sere in seguilo ripresi dal sangue e dai vasi lin-
fatici nello scopo definitivo di essere eliminati dal-
l'economia o di servire ad altri usi, quello special-
mente di dare origine ai globuli bianchi. » (P. 505).
E poco appi'esso parlando dei globuli del sangue
151
si esprime così: « Noi noti conosciariìo a bastanza
l'officio dei globuli bianchi nel sangue perchè della
loro presenza ne sia permesso di concludere a una
formazione di globuli rossi. Devo dire inlanlo che
in qnesli ultimi tempi ho osservato, che nei gio-
vani mammiferi si producono glolmìi rossi nella polpa
splenica, e che questa produzione si verifica anche
nel sangue del fegato. Perciò mi sembra verisimile
che anche negli animali adulti la milza sia sede di
una genesi abbondante di globuli bianchi, i quali si
trasformano in quest'organo istesso in globuli rossi, e
forse ciò accade anche nel fegato. « P. 657.
Ed ecco il D. Jones che in un suo vasto lavoro
fisiologico testé dato alla luce si dimosti-a avver-
sario di tale dottrina, e sostiene che noi siamo af-
fatto ignoranti del vero officio della milza , e che
questo non può mai intendere alla cofifezione del
sangue. Tale sentenza, che mette al niente tutto in
un'ora le fatiche passate, fondasi specialmente sopra
alcune indagini dimostranti il ra|)[)orto di peso fra
l'organo splenico e il corpo intiero in parecchi ani-
mali a sangue caldo e freddo che vivono in Ame-
l'ica. Ma udiamo lo stesso autoie.
<f Se la funzione dalla milza fosse la elabora-
zione e la distruzione di alcuni fra i più importanti
elementi del sangue, perchè questo viscere è così
piccolo negli uccelli, e proporzionatamente sì grande
in molli animali a sangue freddo ? E egli possibile
che un viscere, il quale in molti rettili ed uccelli
non pesa che pochi grani, possa eseicitare un'azione
importante sulle pi'oprietà fisiche , e sulla chimica
costituzione del sangue ? Questi fatti non mostrano
152
forse perentoriamente che noi ignoriamo le funzioni
della milza ?
« Il D. Fraes suppone che un officio dei cor-
puscoli di Malpighi sia quello di raccogliere sostanza
nuli'itizia, quando ci ò un sopravvanzo di materiali
alimentari, per fornirne poi il sangue allorché siavi
deficienza dì tali elementi. Egli è però difficile a
concepirsi come una materia nutritizia di qualche
importanza possa conservarsi nei corpuscoli di un
organo che pesa pochi grani. La quantità che po-
tesse accumularvisi sarebbe microscopica , e non
mollo maggiore di un centesimo di grano.
« Anche negli animali a sangue caldo la quantità
di corpuscoli albuminosi contenuta nei corpuscoli di
Malpighi non merita di essere menzionata in con-
fronto di quella che si lacchiude nelTapparato cir-
colatorio, il quale, secondo i più recenti calcoli, con-
tiene neir uomo adulto ventidue libre in circa di
sangue, mentre i coipuscoli di Malpighi sono appena
capaci di pochi grani.
« Avrebbe mai la natura fabbricato un ergono,
il cui importante officio fosse quello di somministrare
pochi grani di materia nutritizia, mentre il sistema
circolatorio ne contiene dieci mila volte altrettanto ?
« Il sig. Graus ha istituito una serie di ricerche
intorno gli effetti della dieta sulla milza dei gatti ,
dei conigli e dei sorci, e osservò che quest'organo
aumenta di mole durante una nuti'izione attiva. Per
quanto estendonsi le mie indagini, un tal fenomeno
non si verifica negli animali a sangue freddo.
« Neil' Emys lerrapin, e neWEmys serrala, che
erano stale aff'amale e assetate per lungo tempo e
153
/ornilo abbondevolmente di cibo vegetabile e di ac-
qua , la milza non si mostrò accresciuta di peso.
Ho anche osservato più volte come la milza degli
animali a sangue freddo non soddisfi all' officio di
un diverliculum, allorché il tonente circolatorio ri-
donda di matei'iali nutritizi e di acqua. Le milze di
cheloniani carnivori, il cui apparato sanguigno per
copioso cibo era divenuto sì pieno da cagionare ef-
fusioni aqueo- albuminose nel tessuto cellulare e nella
cavità, non presentavano aumento né di peso né di
volume. Le milze degli ofidiani , i quali divorano
masse notabili di carne, non si mostrarono più grandi
per maggior copia di cibo.
« Che adunque la milza sia un viscere di una
importanza secondaria nell'economia animale è mo-
strato dai fatti seguenti. - Manca in tutti gli inver-
tebrati e negli Ampliìoxus, che sono l'anello di ca-
tenazione fra i pesci e le forme più perfette dei mol-
luschi. Negli Amphioxus e negli invertebrati i eor-
picelli del sangue sono privi di colore- La manife-
stazione della milza coincide con il cambiamento
nel calore del sangue. Avrebbe forse la milza qual-
che parte nella produzione dei coipicelli rossi del
sangue ?
« Un sistema vascolare, che conduce un fluido
fornito di corpuscoli colorati, esiste innanzi la for-
mazione di alcun organo speciale, ed é quindi pro-
babile che la milza abbia poco da fare con la for-
niazion dei corpuscoli, e col loro coloramento. Questa
conclusione é poi avvalorata dal fatto che l'ampu-
tazion della milza nei cani e in altii animali non è
seguita da alterazione di quantità o di qualità del
154
sangue, e che essi godono buona salute, e non ino-,
strano differenza sensibile dagli alili che non hanno
sopportato l'operazione.
« Da queste premesse può concludersi : 1° La
milza degli uccelli e di molti rettili è troppo piccola
per esercitare un' azione importante sulla economia
animale. 2° La sua mole non corrisponde affatto al
numero dei corpuscoli del sangue o alla rapidità della
composizione e decomposizione degli elementi ani-
mali. 3° Noi siamo tuttora ignoranti del vero officio
della milza. 4° La funzione di questo viscere non è
indispensabile al mantenimento della vita ».
Fin qui il Jones, cui si potrebbe or domandare
se tali conclusioni sian veramente legittime, e se i
fatti su cui si fondano siano poi sì copiosi da ri-
cavarne verità generali. E pare che no. Se in fatti
riflettasi come il chiaro autore abbia cercate le re-
lazioni di peso fra la milza e l'intiero corpo in tre
sole specie di pesci, e in sei degli uccelli, dovrà con-
venirsi che da un sì ristretto numero di animali non
si è autorizzali a desumerne, che in tutta l'ampia
classe di volatili la milza sia più che troppo piccola
rispetto al corpo , e che proporzionatamente mag-
giore si offra nella serie de'pesci. Un poco più vasto
fu il campo delle osservazioni dell'autore riguardo
ai iettili, avendone rinchiusi tredici specie; ma pur
un tal numero non è bastante a sentenziare , che
in tutta questa famiglia la milza in confronto al
corpo ha piccolezza visibile. E quand'anche questa
proporzione della milza all'in liero corpo si mostrasse
uniforme nella schiera universa dei rettili e dei vo-
latili, potrà egli arguirsene che la sua mole non cor-
155
risponde affatto ai corpuscoli del sangue? Conoscia-
mo noi forse con precisione il rapporto numerico
dei corpuscoli al sangue , e del sangue all' intiero
corpo nei diversi ordini di animali? Quel che sap-
piamo con certezza gli è che il sangue dei mam-
mìferi è il pili elaborato, e il pili abbondante di cor-
puscoli , e che intanto i mammiferi sono dotati di
milza e assolutamente e respettivamente piiì grande.
Della copia dei corpuscoli nel sangue degli uccelli e
dei rettili non siamo così bene istruiti : ma pure
sappiamo che la quantità del sangue rispetto al corpo
è in questi animali molto minore che non sia nei
mammiferi : ed è anche materia di fatto come il
sistema muscolare, tranne rare eccezioni, non offrasi
in quelli colorato dal sangue, quanto lo si mostra
nei mammiferi. Con che viene a dirsi che di molta
ematosina, che fa parte integrante dei coriìuscoli ,
non si ha bisogno nei rettili e negli uccelli, corno
se ne ha nella prima classe degli animali. E questa
rapidità di composizione e scomposizione del sangue
è poi così ben dimostrata da assumerla a postulalo
fisiologico ? Leggiamo quel che ne scrive il Paget.
(( E probabile che noi ci siamo troppo preoc-
cupati del farsi e disfarsi delle particelle elemen-
tari dell' organismo come operazione essenziale al
loro mantenimento. Ne! primo foggiaisi dei tessuti
e delle i)arti durante lo sviluppo e l'accrescimento
è assai verisimile che ne occorra la perfetta lin-
novazione; ma non è provato che a conservare uni-
camente le parti organizzate debba effettuarsi il con-
tinuo lor cambiamento; anzi a questa dottrina ri-
156
pugna il fatto dell' incontrarsi raramente rudimenti
di struttura fra le strutture perfette, lo dubito se
nei più attivi muscoli si incontrino mai rudimenti
di fibre , o fibre in via di sviluppo : noi abbiamo
prove bastanti del continuo cambiarsi dei lor ma-
teriali , non però di un egual cambiamento nella
struttura. E così pure del sangue; il cambiamento
dei materiali è rapidissimo, ma la rinnovazione in-
tiera dei corpuscoli, cbe possiamo valutare dal rap-
porto dei globuli bianchi, o cellule rudimentali del
sangue, è probabilmente assai lenta. La piccolissima
quantità di ferro, che trovasi nelle escrezioni, è pure
un indizio del tardo disciogliersi dei corpicelli rossi
del sangue, e suggerisce l'idea che nelle vicende della
nutrizione non vi ci sia un'eguale rinnovazione di
tutte le sostanze che compongono le strutture. Salve
poche eccezioni, non ci sono argomenti per credere
che in ogni atto secretorio le cellule glandulari scop-
pino e si disciolgano in modo da rendere necessaria
la formazione continua di nuove e fresche cellule.
Nelle pili attive glandule non è considerevole il nu-
mero delle cellule degenerate, e le osservazioni di
Ludwig e di Rahn intorno la secrezione della saliva
indicano che nell'ordinario lavorio i contenuti delle
cellule gradualmente trasformate escono fuori attra-
verso pareti di cellule persistenti. Pertanto il lavoro
nutritivo non richiede probabilmente altro che una
sostituzione moleculare. Atomi della sostanza di rifiuto
possono entrare, ed atomi delle rinnovatrice possono
uscire di mezzo a strutture di un ordito persistente.
Possono le pareti delle cellule viver più a lungo ,
157
mentre il contenuto delle medesime soffre una pe-
renne mutazione (1) ».
Tale era pure l'opinione di Kòlliker, il quale pro-
postosi da se stesso il quesito : Quando e in qua!
misura i corpuscoli del sangue si distruggono nel-
l'adulto ? Risponde : « Inclino a credere che gli
elementi del sangue non siano così transitori! come
si crede generalmente. (2) )> E per veiità non è
conforme alla ragion fisiologica e a quel che sap-
piamo intorno la economia degli organismi che i
corpuscoli del sangue, i quali costituiscono la parte
più elaborata e complessa di questo latice vitale ,
abbiano ad ogni istante a scomporsi. Limpide os-
servazioni ne ammaestrarono, che i globuli non si
risarciscono con tanta prontezza. E noto come il
sangue dopo i ripetuti salassi si impoverisca di glo-
buli ; si esige adunque a formarli un lavorio, che
non è l'opera spedita della sola digestione, e del-
l'assorbimento solo; e che non saprebbe nemmeno
spiegarsi coi semplici giri attraverso il polmone e
nelle reti dei capillari. Or se a comporre i globuli
richiedesi maggior tempo e lavoi'O che non sia per
gli altri materiali, non è verisimile che appena for-
mati debbano essi risolversi nei loro elementi. E
se poi la vita dei globuli non è sì fugace , come
per avventuia si crede. Allora anche un viscere di
piccola mole potrà soddisfare all'officio di elaborarli.
Piccolissimi sono i gangli linfatici: e pure il chilo,
(1] Paget - Sulla causa del moto ritmico del cuore -Letta
allaSoc. R. di Londra 18S7.
(2) Hislologia 18156 p. 656.
158
dopo esservi passato dentro, presenta cellule più nu-
mei'ose e più gi'osse.
Questa maggiore stabilità degli elementi dei glo-
buli si avvera specialmente per la ernatosina, che
può considerai'si come la più permanente di ogni
altra sostanza oiganica del sangue. Ed infatti allor-
ché si disgregano i globuli essa resiste alla disso-
luzione, e riman capace di colorire uniformemente
il siero od ogni altro liquido in cui fossero sospesi
i corpuscoli. Nella effusione del sangue, la emato-
sina penetra spesso in vita i tessuti , come questi
se ne imbevono dopo morte. E che [)oi il principio
colorante del sangue non sopporti, almen di frequente,
In permutazione a cui vanno soggette le sostanze or-
ganiche, si dimostra anche pel fallo notato di sopra:
cioè che il ferro non trovasi che in quantità minime
nei materiali di escrezione che trascinan via il de-
trito dell'organismo. Ora e noto come il ferro co-
stituisca non solo un elemento della ematosina, ma
siavi anche in dose considerevole. Adunque questa
materia non è soggetta a permutazione come l'al-
bumina e la fibrina. Di tale sostanza o permanente,
0 poco alirien disf.ittibile, è assai ricca la milza, la
(|uale dee contenerne un deposito allo stato libero,
se comunque spogliata di sangue colle lavande e
colle iniezioni, offre pur sempre il suo parenchima
così imbevuto di parie colorante da tingere in rosso
i liquidi in cui si immerga. Ho sperimentato più
volte che pochi grani di milza diseccata bastavano
a colorire una quantità notabile di siero del sangue:
ciò che non avveniva adoperando eguali dosi di le-
galo 0 di sostanza muscolai-e dello stesso animale.
159
Non dirò come allo stato di freschezza gi'andissìma
sìa la preminenza della mil/,a sopra gli altri visceri
nella facoltà di arrossai-e i liquidi, potendo ciò at-
tribuirsi alla copia maggiore di sangue onde è irro-
rata; ma non voglio preterire il fatto, che in alcuni
animali non vi è altro viscere del corpo che offra
un color rosso uniforme se non la milza: le stesse
branchie in molti pesci sono piuttosto rosee che
rosse; il rosso carico appartiene alla milza. -
Nò a chi volesse insistere sulla parte che dee
prendere la milza sul coloramento dei corpuscoli
del sangue riuscirebbe insuperabile la difficoltà pro-
mossa dall'A.: che cioè « un sistema vascolare, che
conduce un fluido fornito di corpuscoli colorati, esiste
innanzi la formazione di alcun organo speciale « ;
imperocché è oggimai noto come i globuli sanguigni
primordiali siano assai più imperfetti non solo di
forma , ma anche nel grado di permanenza , della
sostanza colorante, essendo ne' primordi della vita
assai più facile a distruggersi che noi sia in aj)-
pi'esso. I globuli primordiali sono rotondi , granu-
lali, forniti di nucleo e appena tinti di un color ro-
seo: gli è nel procedimento della organica evoluzione
che questi corpicciuoli a poco a poco maturatisi, spo-
gliandosi delle gr'annulazioni, raccogliendosi in più
piccola mole di foi'ma discoide, perdendo il nucleo
e saturandosi di un bel rosso. Or se i globuli im-
perfetti dell'embrione possono piodursi sulla super-
ficie dei tessuti in via di formazione, ciò non prova
che i corpuscoli più maturi, che chiamano tipici, non
abbisognino dell' opera di un paienchima viscerale
per essere elaborali. Ed in fatti le più recenti os-
160
servazloni di Kòlliker tendono a mostrare che già
al tempo della nascila una parie dei globuli trae la
sua origine dalla polpa della milza.
Alla ematogenesi splenica nemmen si oppone la
osservazione di (ìray, che cioè il sangue reduce dalla
milza sia più povero di corpuscoli rossi , che non
quello condottovi dall'arteria, potendo ben conciliarsi
il disfacimento di alquanti globuli col rinnovamento
di altri , ai quali è aperta la via dei linfatici per
entrare nel torrente della cii-colazione. Così anzi ac-
cordansi mirabilmente i ti'ovati di Kòlliker che nella
polpa splenica vide globuli in via di disgregagazione;
quelli del Tigri, il quale ci rinvenne le cellule epi-
teliali distaccate della interna superficie dei vasi
sanguigni; e gli altri di Graes, che nel sangue della
milza notò molti giani pigmentali , oi-a liberi, ora
riuniti in masse od anche racchiusi in cellule, quali
più e quali men rossi o nereggianti, e ribelli lutti
all'azione dell'alcool, dell'etere, degli alcali, dell'acido
acetico: brani verisimilmente prodotti da scomposi-
zione di globuli: e finalmente le indagini fotografiche
instituite da Draper su goccioline di sangue splenico
arterioso e venoso estratti dalla rana, e insegnanti,
che nel sangue della vena splenica vi è un maggior
numero di corpuscoli alterati, rigonfi, allungati, fra-
stagliati, che non se ne rinvengano nel sangue ar-
terioso : questi trovati, io dico, si accordano colle
ossesvazioni di Hewson, di Tiedeman e di Gmelin, i
(juali videro rosseggiare i linfatici della milza per
globuli rossi, che da questo viscere erano trasportati
al condotto toracico. Attribuendo alla milza un la-
voro di scomposizione, e ad un tempo un ministero
161
di rifacimento, s' intende il perchè cotesto viscere
lasci scoprire all'analesi della sua polpa e acido urico,
che procede dalla trasformazione dei tessuti, e osma-
zoma, che riguardasi ppre come un prodotto di de-
composizione di alcuni materiali immediati, e allato
a questi ematosina , fosfati e materia grassa che
servono a fabbricare i corpuscoli. Adunque e le ri-
cerche istologiche e le chimiche concorrono ad uni-
ficare le due opposte dottrine, e a stabilire che la
milza accoglie bensì i globuli logori e disformati ,
ma di queste spoglie a mò di fermento si giova a
suscitare nei materiali organici un processo di for-
mazione e così a crearne dei nuovi.
La notabile piccolezza della milza in alcuni ani-
mali affacciata dal Jones come prova del poco valore
da attribuirlesi in un' opera di sanguificazione, può
solo mostrare che questo lavoro non le viene affidato
esclusivamente, e che non in tutte le specie il viscere
splenico consegue la stessa importanza, e adempie
al suo ufficio colla medesima continuità ed energia.
Se per grazia di esempio la milza fosse destinata a
saturare di azoto i materiali che ne difettano , se
dovesse convertire lo zucchero in grasso del sangue,
è chiaro come questo viscere avrebbe a mostrarsi,
tanto pili sviluppato e operoso quanto più V ani-
male introducesse materie zuccherine e amilacee.
Non è adunque necessario che si verifichi una esat-
ta proporzione fra il volume della milza e la co-
pia del sangue per dimostrare che questo viscere
partecipa alla sua formazione. Altri organi concor-
rono similmente allo stesso ufficio, e possono alter-
nare con esso nello sviluppo. Così fu osservato da
G.A.T.CLXIV. H
162
Heusinger, che qnantunque la milza sia nei pesci or-
dinariamente più piccola che negli altri vertebrati
comparativamente al fegato e al resto del corpo ,
pure in alcune specie di questi animali essa è molto
voluminosa rispetto al fegato, e allora questo viscere
offresi assai più piccolo in paragone del corpo.
(Strut. e funz. della milza). E il Carus insegna aper-
tamente che la milza è tanto più sviluppata, quanto
più decresce il volume del fegato. Così negli squali,
nelle trotte, negli storioni notabile è la mole della
milza, e piccolo il fegato.
La ricantata obbiezione del non alterarsi la quan-»
tilà del sangue negli animali cui viene tolta la milza,
non è poi sempre giusta, né così decisiva come fa-
cilmente si giudica. Non è giusta, se molti fra questi
animali soccombono indipendentemente dagli effetti
traumatici; se nei caqi di Bernardo il sangue mo«
stravasi nero e incapace di coagulazione, o i gangli
linfatici si offrivano alterati, e sparsi di ascessi. Non
si reputerà decisiva, ove pongasi mente al magistero
della natura capacissima di supplire colla maggior
operosità di altri visceri concorrenti allo stesso uf-
ficio alla mancanza del nostro ganglio sanguigno.
Ed in fatti nelle esperienze di Malpighi, i cani, ai
quali era stata estirpata la milza, uccisi ed aperti
dopo qualche tempo mostravano il fegato notabil-
mente accresciuto di mole: indizio della compensa-
zion fisiologica determinatasi in questo viscere ema-
togenico. E volendo poi chiamare in soccorso lo
stato patologico, cioè l'abolizione del tessuto splenico
per opera di processo morboso, si potrebbero recare
in mezzo non pochi fatti a conferma del sopra espo-
sto principio. Così il Fuchrer in un caso di fungo
163
midollare della milza, airalterazione totale di questo
viscere vide congiungersi un più notabile sviluppo di
tutti i gagli linfatici, alcuni dei quali giungevano al
volume di una prugna e presentavano un color di
rosso cupo. « Un sang noir et liquide gonflait les
veines de la rate, comme celles des organes prin-
cipaux, il y avait formation de gravelle et d'acide
urigne ». Le stesso autore ne assicura di aver os-
servato questo stato ipertrofico dei gangli linfatici
nelTatrofia della milza, e negli animali ai quali essa
era stata estirpata.
I fatti patologici sono poi tutti in acconcio di
attribuire alla milza qualche parte nell'opera della
sanguificazione. Fonte principale delle varie caches-
sie è lo stato morboso di questo viscere: ed è noto
che la condizione cachettica è sempre accompagnata
da respettiva diminuzione di corpuscoli e di albu-
mina nel sangue. Quante volte in questo latice vi-
tale trovansi alterati i globuli rossi , o si rinven-
gono corpicelli insolili, come cellule granulate pig-
mentarie, o ammassi di materia granulare, o cellule
somiglianti ai corpicciuoli del pus , altrettante la
milza è ammalata (1). La leucocitemia, in cui vi è
diminuzione dei globuli rossi, aumento dei bianchi
e impoverimento di virtiì plastica nel sangue, donde
la tendenza all'emorragia, suol riconoscere per con-
dizion patologica l' ipertrofia della milza. Lo scor-
buto, r idrope, la clorosi, il diabete, in cui viziata
(1) I documenti di questa proposizione possono leggersi
nella nota di M. Edwards a pagina 78 deli' opera - Lecons
sur la physiologie etc. Paris 1857.
164
è la crasi del sangue, non riconoscono spesso altra
eausa che un' alterazione splenica. Nel marasmo e
nella vecchiezza la milza è piccola, flaccida, pallida,
porosa; le cellule capillari e i corpuscoli di Malpighi
vi si rinvengono in piccola quantità, e d'accordo con
queste apparenze il sangue trovasi impoverito di
globuli.
Alla costituzione pletorica , allo sviluppo car-
diano e muscolare, alla disposizione alla flogosi e
all'apoplessia, corrisponde un maggiore svolgimento
della milza; cioè una mole più grande senza dimi-
nuzione della genuina consistenza, ed un aumento
dei coipuscoli del Malpighi e delle cellule capillari.
Questa osservazione è di Fuchrer, il quale segnalò
tale condizione del vìscere splenico coH'appellativo
di pletorica. Per verità si potrebbe sollevar qualche
dubbio se lo stato prospero della milza figuri qui
come causa, od abbiasi piuttosto a riguardar quale
effetto. Ed in fatti trattandosi di un organo assai
vascolare, non sarebbe a maravigliare un suo mag-
giore sviluppo nella costituzione pletorica. Il dubbio
però viene sciolto dalla considerazione dello stato
morboso, il quale ci ammaestra come nella serie dei
fatti il vizio della milza preceda quasi sempre quello
del sangue, in modo da poternelo riguardar come
causa senza tema di errare. Non è abuso dell'argo-
mento di analogia il tradurre questa succcssion di
fenomeni dal campo della malattia alla condizion
fisiologica.
Pertanto le ragioni critiche del dottor lones non
sono così pesanti da trarne vinti alla sua sentenza
- essere noi tuttavia ignoratiti del vero ufficio della
165
milza, e potere intanto affermare che questo non e
di gran rilevanza. - Per certo che la funzione sple-
nica non sia essenziale al mantenimento immediato
della vita, come lo sono il fegato, il ventricolo, le
fntestina, i reni, il polmone, il cuore, il cervello,
il midollo spinale, è materia di fatto; che la man-
canza della milza possa essere in qualche modo su{>-
plita da maggiore sviluppo e da operosità maggiore
di altri organi, vien pure insegnato dalla esperienza:
ma che il ministero di questo viscere non abbia il
suo gran peso nella organica economia, e che la na-
tura di tal ministero si asconda tuttavia in una oscu-
rità impenetrabile, è tal sentenza che io non saprer
professare.
{Conlimiay
166
Intorno a tre problemi proposti nella raccolta inti-
tolata (i NonveUes annales de mathématiques w e
pubblicata dai sigg. Terqiiem e Gérono , Nola di
Francesco Siacci,
N.
Iella raccolta che si pubblica a Parigi, intitolata
NouveUes annales demathématiques,
trovansi inserite col titolo di Q u e s t i o n s sotto
i n.' 290, 470, 493 le ire seguenti proposizioni:
I. Trovare il coefficiente di a;""^ neW equazione in
X di grado n-\-\, che ha per radici gli n -+- 1 coef-
ficienti biniomali di (a -4- h)" (*).
II. Se sulla diagonale d\in rettangolo come corda
si descrive un cerchio, il luogo delle estremità d'un
diametro parallelo alV altra diagonale è un' iperbola
equilatera (**).
III. Sia P un punto di una conica, C il centro
di cavatura in P, 0 il centro della conica; per C
si conduce un parallela alla tangente in P; sia D il
punto, ove questa parallela è incontrala dal diame-
tro OP ; si ha CD eguale al terzo del raggio di cur-
vatura della evoluta in C- Abel Transon ^***)
(*) NouveUes annales de mathématiques. Journal des can-
didats aux écoles polytechnique et normale redige par M.
Terquem et M. Gérono. Tome XIII. Paris, Mallet-Bache-
lier, 1854, pag. 192.
(**) Noudelles annales de mathématiques. Journal des
candidats aux écoles polytecnique et normale: redige par M.
Terquem et M. Gérono. Tome XVIII. Paris, Mallet-Bache-
lier 1859, pag. 170.
(***) NouveUes annales de mathématiques. Journal des
167
La risoluzione o la dimostrazione di queste pro-
posizioni è Toggetto di questa Nola.
1. Trovare il coefficiente di af''^ neW equazione in
X di grado n-i-1 , che ha per radici gli n-f-l coef-
ficienti binomiali di (a -+- 6)".
Nell'opera del sig. Agostino Luigi Cauchy in-
foiata Analyse Algebrique, cap. IV, §. 3.
trovasi (*) la seguente formola numerata (2);
{x -+- y){x -+- y — 1) . . . (ic-f-j/— rt-f-1)
'' 1.2.3. . . n
__x{x~ì)...{x—n-+-\) x{x—\)...{x—n-+-2) ^
" ~" 1.2.3...n ^ 1.2.3.. .(n—1) '1
x{x—\)...{x~n-h-3) y{y—'i)
1.2.3 . . . (n~2) 1.2
etc.
X y(y~1)..-(y— n-f-2) y(y-l)...(y-n-4-l) ^
1 ■ 1.2.3...(n— 1) 1.2.3...JI
Nell'opera medesima alla fine della Nota VI si
legge (**): « Si dans la formule (2) [chap. IV. §. 3|
« on suppose à-la-fois x = n, y = n on trouvera
2«(2w— l)...(n-f-1)
= 1
1.2.3...(u-— \}n
nV fn.n^Y
i; V 1.2
candidats aiix écoles polyfcclinique et normale: redige par. M.
Terquem et M. Gérono. Tome XV III. Paris Mallet-Bache-
lier 1859, pag. 443.
(*) Cours d'analyse de l'école royale polytecnique; par M.
Angus tin-Louis Cauchy. /.'« Partie. Analyse algebrique. De
l'imprimerie royale, chez Debure frères 1821, pa? 100.
n Ivi, pag. 536.
168
Oi'a il coefficiente richiesto essendo la sonnma
dei prodotti binari degli n H-l coefficienti binomiali,
chiamando B questo coefficiente, A il coefficiente
di x", Sg la sommadei quadrati degli n -+- 1 coeffi-
cienti binomiali, dalle funziont simmetriche avremo
/V2— S„
B =
'2
2 '
ed essendo
A__9n e . 2n(2».-l)...(n-f-1)
' ^ '^ 1 .2.3...(H-l)n ' .
sostituiti tali valori, il coefficiente richiesto sarà
22-1 _ (2n-l)(2>t-2). ..(n-f-l)
1.2.3...^n — 1)
II. Se sulla diagonale d'un rettangolo come corda
si descrive un cerchio, il luogo delle estremità d\ui
diametro parallelo all' altra diagonale è un iperbola
equilatera.
1. Sia la la diagonale di questo rettangolo. I
centri degl'infiniti cerchi, che si costruiscono sopra
questa diagonale come corda, debbono trovarsi lutti
sopra una retta, che passa pel centro del rettangolo,
ed è normale alla diagonale medesima. Tale retta sia
l'asse delle ascisse; l'altra diagonale sia l'asse delk
ordinate. Dunque l'ordinata y di un punto qualunque
del luogo sarà sempre data dal raggio del circolo
corrispondente, mentre il piede di questa ordinala
coinciderà col centro del cerchio medef5Ìmo. Con-
gFungo per mezzo di un raggio il piede di quest'or-
dinata con l'estremità della diagonale corda di tutti
i cerchi. Questo raggio sarà = j/, talché avremo un
169
triangolo rettangolo, di cui l'ipotenusa è y, e ì cateti
sono a, X. Dunque
elle è l'equazione di un'iperbola equilatera riferita
ad assi diametrali coniugati (*).
Se chiamiamo A l'angolo formato dai diametri
coniugati , ai quali 1' iperboia equilatera è riferita
neirequazione (1), il semiasse principale, che chia-
meremo r, sarà dato dall'equazione
(2) r^ = a^senA.
Per trovarne poi la posizione giova ricordare ,
che il prodotto delle tangenti trigonometriche degli
angoli forniati da ciascuno dei diametri coniugati
di un'iperbola equilatera col suo semiasse principale,
è sempre =1, cioè a dire, che questi angoli sono
fra loro complementari. Onde essendo A l' angolo
dei due diametri, se chiamiamo u l'angolo, che l'uno
di essi fa col semiasse principale, l'angolo che farà
r altro col semiasse medesimo sarà =r n :±: A , ed
avremo
(3 ) K -H W rt: A = —
ossia 2u è complemento di =±: A, o ciò che torna
lo stesso ± 2u è il complemento di A. Ora 1' an-
golo acuto formato dalie due diagonali, preso po-
sitivamente o negativamente , secondo che per A
(*) È da osservare, che non essendo stata in questa di-
mostrazione supposta alcuna proprietà caratteristica del ret-
tangolo , il teorema, di cui qui è proposito, potrà estendersi
ad ogni quadrilatero, eccetto, come vedremo pel quadrato,
quei quadrilateri, ove le diagonali facessero angolo retto. .
170
debba essere preso il segno superiore o l'inferiore,
è sempre il complemento di A: dunque il suddetto
semiasse principale coincideià colla retta bisettrice
dell'angolo acuto , che fanno tra loro le diagonali
del rettangolo.
Dalla (3) si ha
±: senA = cos2m
Sostituendo questo valore nella (2), si ottiene
m r^ = a^cos2w
e per conseguenza la detta iperbola equilatera ri-
ferita agli assi principali avrà per equazione
(5) x^ — y^ = ahos2u .
Da questa equazione si deduce:
V. che r iperbola passa pei quattro vertici del
rettangolo: infatti questi punti hanno per coordinate
x= ^ flcosM , 1/ = rt asen ii ,
valori, che sostituiti nella (5), la rendono una iden-
tità;
2? che scemando fino a 0 l'angolo 2u , 1' asse
dell'iperbola equilatera cresce fino a 2a;
3" che crescendo 2h, decresce l'asse dell'iper-
boia, e quando, come avviene nel quadrato, 2m= ^
non si ha più iperbola , ma una retta coincidente
alla diagonale, che non è corda degli infiniti cer-
chi (*).
(*) L'equazione (S) darebbe y^^x^, ossia y==ì=x, equa-
zione, che esprime non una ma due rette. Ritornando però alla
supposta costruzione si viene a riconoscere che nell'equazione
medesima il solo segno superiore deve essere considerato.
171
TI
4! che quando 2« supera ^ , gli assi dell'iper-
bola s'invertono, e vanno continuamente crescendo,
col crescer di 2u, fino a che sia 2m = tt, oltre il
qual limite decrescono subendo le stesse fasi già
osservate nella variazione di 2i< da 0 fino a n.
2. Se ora rimanendo fissa una delle diagonali
del rettangolo, facciasi variare l'inclinazione dell'altra
da 2u = i), fino a 2u = Tt, il luogo geometrico dei
vertici delle iperbole equilatere corrispondenti sarà
espresso dalla equazione (4), cioè a dire dalla equa-
zione polare
(4) r^ = à"^ cosali .
Dalle equazioni
X = rcosw , ij = rsenw
si ricava
X ^~~ Il X li
r^=x^'-^ii^y cos2m=cos^w — sen^«= k — =—5 — ^o •
Per la sostituzione di questi valori la (4) si tra-
sforma in
(«^ -+- tff' =■ a^{x^ — if)
equazione appartenente alla lemniscata di Bernoulli.
i III. Sia P un punto di ima conica, C il centra
di curvatura in P, 0 il centro della conica; per C
si conduce una parallela alla tangente in P ; sia D
il punto ove questa parallela è incontrata dal dia-
metro OP; si ha CD eguale al terzo del raggio di
curvatura della evoluta in C.
1. Sia p il raggio di curvatura della conica al
punto P, e p^ il raggio di curvatura della evoluta
172
al punto C; siano ^, $ gli angoli, che le tangenti
in P e in C fanno coll'asse delle ascisse; siano fi-
nalmente ds, dS i differenziali degli archi rispettivi
della conica e dell'evoluta nei punti P e C. Si avrà
ds dS
ma
|2) dS = dp , 0 = A-4-9 :
eseguendo tali sostituzioni, e divise quindi le (1)
l'uno per l'altra, si ha
(3) ..=^.
Considerando ora il triangolo PCD, essendo la
retta CD parallela alla tangente in P, sarà rettan-
golo in C, ed avrà l'angolo in D eguale all'angolo
formato dalla tangente col diametro OP, Onde chia-
mando E quest'angolo, avremo
(4) CD = CPcotE = jscotE .
La questione adunque riducesi a dimostrare l'egua-
glianza delle due espressioni
£dp_
ds
ovvero di
3|ocotE
-— , 3cotE
ds
Si riferisca la conica ad assi diametrali con l'ori-
gine in un punto qualunque della curva, e sia £ l'in-
clinazione di questi assi. La sua equazione sarà in
generale
173
(5) y^ •= Aa;'2 -+- 2Ba; :
Da questa estraendo le derivate si ricava
/ , A^ H- B
,„ SB^Ax -+- B)
y = -. —
Ora
_ (1-f- r/'-^-H2y'coss)^
^^ ^~ y"sen£
Differenziando l'equazione (7), si ottiene
1 ^
1 r3(l-+-i/'^-h2?/'cose)%'-4-coS£)t/"^-(lH-t/'^H-2y'cos£)Y
seneL y"^
e dividendo questa per
i_
ds = (1 -+- y'^ -H 2i/'cose)"^ dic
ne risulta
do;
Sostituendo ora ?/', y", y'" per mezzo delle forinole (
nell'equazione (8) si avrà primieramente
174
6s
sensj B* y^
sensL
^6
3 p(Aa;-HB)y^-4-(Aa;-f-B)^-i-2y(Aa:-t-B)-^cos£-B^(Ax-H B -f-ycos<
B-^j/ ~
e se si pone
(9) M = Aa; -+- B
si avrà
(10) ^ — 3 rMt/^-^(2M^— B^)ycos£H-M^--B^M-|
d-s sensL B"^j/ J
ma dalla (9) si ha
M2 == (Aa; -+- B)2 =z Aj/2 -+- B2 ,
2M2— B2=:2Ai/2-f-B2, M^~B2M=:M(M2- B2)=AMy2
quindi per tali sostituzioni la (10) diviene
dp __ _3_rM(1 -4- A)i/-+-(2Ay2_HB2)ycos='-i
ós sensL y J
e, rimesso per M il suo valore, l'icaviamo
dp _ ,^r(2Ay^ -H B-^)coss -^ (1 H- A)(A^ + B)y-|
^^*^d".-'^L B^iiil^ J '
Ora polendo l'origine delle coordinate trovarsi in
un punto qualunque della curva, sia P questo punto.
Si avrà allora
x = 0 , y = 0 , s = E .
Eseguite queste sostituzioni si ha
1T5
(12) ^ = 3cotE,
come doveasl dimostrare.
2. Veniamo a qualche applicazione. Neil' equa-
zione (12) si ha l'angolo E formato dalla tangente
in un punto qualunque della conica col diametro
che passa pel punto medesimo , in funzione del
raggio di curvatura della conica in esso punto. Essa
quindi ci offre un metodo per conoscere il mede-
simo angolo in funzione delle coordinate del punto
della conica.
Prendendo l'ellisse o l' iperbola riferite al ver-
tice di equazione
avremo
n . b^ ^ b^
2 a^ a
(13) :
a'2q=6^ c^ b'^
1-1- A= — —=—. Ax-hB=^-^{a — x)
i quali valori sostituiti nella (11) ci danno
dp _^ 3c^(a — a;)y
ds à^b^
Se al luogo di x si pone a; h- a, si ottiene
dj3 Sc'^xy
ds à^b^
ove X, y sono le coordinate delle due curve riferite
al centrojed eliminato — per mezzo della (12) si ha
t76
e quindi
tangL = =P -5— .
In queste equazioni il segno superiore è relativo
all'ellisse, e 1' inferiore all' iperbola. Per un circolo,
e = 0, e quindi tangE = oc; cioè a dire che l'an-
golo E nel circolo è costantemente retto, siccome
è nolo.
Per una parabola riferita al vertice di equazione
abbiamo
La {llj per tali sostituzioni diverrà
««) t-j
d/3
ed eliminato -p- per mezzo della (12) ricavasi
ds
(17)
e quindi
ora chiamando ip V angolo , che fa la tangente nel
punto [x^y] coll'asse, si ha
p Ali
L=^^ = tangy ,
y da;
cotE
V
tangE :
y'
177
dunque
E =^ f ,
ossia un diametro qualunque della parabola è j3a-
rallelo all'asse della medesima; siccome è noto.
3. Il teorema or ora dimostrato del slg. Abel
Transon può essere applicato a determinare o^, os-
sia il raggio di curvatura in C dell'evoluta della co-
nica, in funzione delle coordinate del punto P.
Sia di nuovo l'equazione generale
(5) if = Ax' H- %Bx
riferita però ad assi ortogonali. Avendosi per la (7)
9 = u — »
y
sostituendo in questa i valori di ij\ y" per mezzo
delle formole (6), abbiamo
(l»j P = ~ B2 •
Per un'ellisse od un'iperbola di equazione
sostituendo nella (18) 1 -+- A , B^ per mezzo delle
formole (13), si ha
3
^= — d? — '
e questa espressione essendo indipendente da x varrà
anche quando l'equazione dell'ellisse o dell'iperbola
sia
G.A.T.CLXIV. 12
178
in virtù della quale si ha anche
3
Ora dalla (3) e dalla (12) avendosi
Pj = 3pcolE.
sostituendo cotE per mezzo dell'equazione (15), e
p per mezzo della (19) si ottiene
3
Sc'xuiaY -H b'xY
(20) P,==-:^ '-^, -^
nella quale equazione il segno superiore vale per
Tallisse, e l'inferiore per l'iperbola.
Prendendo una parabola di equazione
ij^ = 2px
si ha
A:==0 , B = p :
per cui l'equazione (18) ci dà
(21) p = ^
e per la parabola avendosi dalla (17)
cotE = ^
P
troveremo per il raggio di curvatura della sua evo-
luta
179
4. Le espressioni di p^ trovate di sopra per l'el-
lisse, l'iperbola e la parabola, potevano dedursi di-
versamente delle formole antecedentemente stabilite.
Chimando infatti X , Y le coordinate del punto C
dell'evoluta, e facendo
dY d^Y
22__ Y' Y"
dX ~ ' dX2 ~ •
si ha, assumendo X per variabile indipendente,
(23) Pi = YTi
Determinato che sia dX, e dY si ricaverà im-
mediatamente Y', e Y". Ora in virtù delle (2) es-
sendo
da: dY ós ós
d7 = -dX' '^P-Ty'^^ = -Tj^
si avrà
Per un ellisse od una iperbola di equazione
a2 "^ 62
avendosi
Ax a^y
180
e colla forinola (14) essendosi trovalo
óp Sc'^xy
Ts ^ a^b'
sostituendo tali valori nelle (24), si ricava
^ 3cVdx ,-, — 3cVdy
(25) dX.-=— ^^, dY:= ^^— .
Per conseguenza
dY ci%
-— — Y'=-+
dX ~ ~~ b-^x
e quindi differenziando, e dividendo questa per dX,
si troverà
dX2 3c Vj/ ■
Sostituito adunque Y', Y" nella (23), si ottiene per
il raggio di curvatura dell'evoluta dell'ellisse e del-
l' iperbola
3c''xy{aY -h b'x'^y^
espressione identica alla (20).
Finalmente per una parabola di equazione
y^ = 2pX
avendosi
àx y
ed essendosi trovato colla (16)
As p
181
sostituendo tali
valori
nelle
(24)
, si ricava
(26) dX ::=
= Sdx ,
dY=:
= —
9 ' '
p2
per cui differenziando l'equazione
dX p
e quindi dividendola per dX, si troverà
d^Y 1
dX2 — — 3y •
Sostituite adunque Y', Y" nella (23) si ottiene per
la parabola
"i — ■
.3
2\2
Osserverò ancora, come colle espressioni or óra
trovale di dX, e di dY per le tre curve coniche ,
possano determinarsi 1' evolute delle tre medesime
curve.
Le (25) integrate danno per l'ellisse e per Ti-
perbola
(27) X=^-^^C, Y = — ^-+-C' .
Osservando poi che nell'ellisse e nell'iperbola ad
a:; = a , y = 0
debbono corrispondere
X = a=H— , Y = 0,
a
182
b^
[ove rt— sono i valori , che prende il raggio di
curvatura delle due curve quando si fa x=a, y=0,
sicconne vedesi dalla equazione (19)J , si conclude
che
C^O , C' = 0
e perciò dalle (27) può dedursi
aX
donde
x'
b\ . f
^'
e" b^
x^
//,Y\I f
a^'
W ] ~~b' '
Sommando le equazioni (28) deducesi per l'evoluta
dell'ellisse
E delle medesime equazioni (28) sottraendo la se-
conda dalla prima, per l'evoluta dell'iperbola ricavasi
Per la parabola poi le (26) integrate danno
(29) X = 3x-^C, Y = — ^--hC;
ed osservando che ad
X=:0 , y = 0
debbono corrispondere
183
X=-;; , Y=0
[ove p è i! valore, che assume il raggio di curva-
tura nella paiabala quando x = 0, y -- 0, siccome
vedesi dalla equazione (21)], si conclude che
C = p , C' = 0 .
Onde dalle (29) può ricavarsi
\ = 3x~^p , Y2=--
P
ed eliminando la x, si ottiene
Tale è, siccome è noto, l'evoluta della parabola.
5. Terminerò colPosservare come la formola (3),
che vale per ogni curva, cioè a dire la formola
(3ì ^ — ^^
sia suscettibile di qualche applicazione.
Per esempio ponendo p^ costante, ed integrando,
si ha
2p^{s -H e) = p2
dalla quale si conclude, che il raggio di curvatura
in un punto qualunque delV evolvente del circolo è
sempre una media geometrica fra il diametro di esso
circolo e Varco compreso tra esso punto, ed un altro
punto fisso.
Immaginiamo adunque un circolo di raggio
OC = p, ,
e sia A il punto della sua circonferenza, dal quale
principia l'evolvente- Da un altro punto C della cir-
184
conferenza parta il filo generatore dell'evolvente, e
sìa P il punto corrispondente di questa. Avremo evi-
dentemente
p = C?y s-+-c = AP
donde
(30) CP=20C . AP .
Ora dal punto P conducasi una secante, la quale
passi pel centro 0 del circolo, e ne seghi la cir-
conferenza nei punti B e D. Dal punto 0 condu-
casi una retta che passi per C, e sul prolungamento
PB
di OC prendasi CE == -^ . Congiungasi BE, e da P
condotta una parallela a BE , sia F il punto , in
cui questa parallela a BE , sia F il punto , in cui
questa parallela incontra il prolungamento di OC :
avremo nella retta EF l'arco AP rettificato.
Infatti è evidente, che
(31) OB:BP = OE:EF
D'altronde
Pcf=PB . PD
— 2
e per mezzo della (30) eliminando PC si ha
PD
OC . AP = BP . -^
2
Ma
PD
OC = OB, 7r = ^E
2
quindi avremo
OB . AP = BP ^
185
ossia
OB : BP=:OE : AP
Confrontando questa colla (31) si Eia
AP = EF .
Inoltre chiamando p^ il raggio dell'evoluta del-
l'evoluta (o se vogliamo dirla così) dell'evoluta se-
conda delia curva, abbiamo analogamente alla (3)
^^— dS~
ma
dS = d^
dunque
^■^- -df
e così per l'evoluta terza
Pz
P2^P
h
d
ed in generale per l'evoluta ennesima
__pu^àpn^
dp„_2
Con questa formola , data che sia 1" equazione
di una curva, per mezzo di successive differenzia-
zioni si può ricavare il raggio di curvatura della
sua evoluta di qualunque ordine in un punto cor-
rispondente ad altro punto della curva primitiva.
186
La vita arlislica di Carlo Goldoniy
per Ignazio Ciampi (1).
I.
Jje condizioni delle lettere nostre nel cadere del
seicento e sul principio del settecento danno ma-
teria di tristezza chi pensi che da quel tempo in
appresso le forastiere nazioni si disvezzarono dal te-
ner gli occhi fisi all'Italia come a fonte e ad esempio
d' ogni artistica e letteraria bellezza. Però se v' ha
ragione di piangere, è uopo anche dire che più piange
chi meno vede: da che noi non siamo stati mai così
poveri e ignudi da non avere o un brano del manto
antico o tra i cenci una gemma, come che fosse, per
darcene gloria- Allorché il seicento impazzava, Ga-
lileo insegnava le leggi fìsiche : e quando dal 1700
al 1750 r Italia era fatta trista per oratori bislacchi
e poeti eunuchi , viveano pure quei sommi critici
della storia e dell'antiquaria, i quali, oltre al dibo-
scare la via , gitlarono il seme che germogliò la
eloquenza d' infiniti storici posteriori. Viveva Apo-
stolo Zeno , che dagli errori scoperti trasse luce
d' ignoti fatti: vivea Scipione MafFei, che le romane
antichità e veronesi diseppelliva animandole: vivea
Francesco Bianchini, pur veronese, mente vasta e
profonda , il quale giudicando le figure dei monu-
menti come allegoriche, e illustrando la mitologia
(1) L'autore pone il presente scritto sotto la tutela delle
leggi veglianti sopra la proprietà letteraria degli stati italiani.
187
planolaiia con calcoli astronomici squarciava il velo
che la finzione poetica avea messo sopra la storia dei
popoli oramai dati alla dimenticanza dei secoli: final-
mente pure allora spirava la vita lo strano Maglia-
becchi, il quale ponea studio a nascondere la scienza
acquistata, là dove il gran Muratori la spandeva per
mezzo de'suoi dotti volumi, sommo e non superalo
nelle tre arti necessarie alla storia, cioè raccogliere
monumenti, dissertare sui punti dubbi, ordinare i
fatti secondo cronologia. Queste erano le gemme poco
meno che inavvertite allora agli italiani ed agli stra-
nieri visitatori: i quali ultimi, nulla sapendo di tal
germe di scienza nuova, indarno cercavano arte, elo-
quenza e poesia nei raccoglitori di statue e di qua-
dri e d'anticaglie, nei rabberciatori di stoi-ie, negli
oratori enfatici, nei mille fabbricatoi-i di versi stem-
perati in una lingua gonfia , sconcia, debole, senza
elevatezza vera né grazia pudica. D'altra pai-le chi
avesse guardato bene addentro in quella errante e
sparsa vita delle arti e delle lettere, vi avrebbe ve-
duto un certo vago desiderio di levarsi dall'abbat-
timento di un secolo, un riguardare all' indietro cer-
cando di riprendere la interrotta tradizione italiana,
un interrogare la vita e gli scritti dei padri nostri
per toglierne lume ad una via piuttosto indovinata
che veduta. Quindi il sorgere dell'Arcadia e delle altre
accademie, che con nomi nuovi e nuovi intenti cer-
cavano di svecchiare le artistiche discipline e sosti-
tuire ai vieti i nuovi principi non senza orgoglio
d' ingegno, ostinazione di parte e intolleranza d'opi-
nione. Tutti vedevano il male e ciascuno vi voleva
apporre un rimedio di suo capo. A molti parca ba-
188
stasse purgare il rigoglio ond'eran gonfie le ani e
le lettere dei secentisti, nò s'addavano che questo
era originato da febbie e non da soverchio di vita:
ad altri, che non vedevano, a curare il male, buon
medico paesano, sembrava necessario chiamarne d'oU
tre mare e monte: i più voleano non più parere del
secolo e mostrarsi invece ai contemporanei vestiti
da cinquecentisti: pochi (com'è sempre) non vedeano
scampo che rifarsi da capo alle opere dei padri, ri-
temperarsi all' affettuoso studio di quelle e pren-
derne viva forza a parlare un linguaggio inteso dai
presenti, richiamandoli alla bellezza e alla virtù per
via dell'arte dei colori, dello scarpello e della pa-
rola. Ben si potè questo in appresso quando cinque
0 sei grandi compierono l'edifizio nazionale rimasto
quasi a mezzo nel sopravvenire del secolo dicias-
settesimo, fra i quali i tre sommi. Alfieri, Metastasio
e Goldoni : i tre sommi, che quasi rinnovarono il
miracolo dei triumviri del secolo decimoquarto ,
Dante, Boccaccio e Petrarca, portando il terribile,
il lepido e l'amoroso nella parte drammatica, come
quelli nell'epica, nella novella, nella lirica Taveano
portato. L' uno la severa natura delle Alpi, l'altro
l'armonia del cielo e dei colli lomani, l'ultimo ispi-
rarono la festività della gaia Venezia. Ma ciò fu dopo
la metà del secolo, mentre in sul primo entrare di
esso era quella battaglia e quei vani tentativi che
abbiamo divisato. Naturalmente la commedia parteci-
pava di questo movimento, e qua e là per via d'uomini
insigni 0 almeno di buona intenzione ella dava segno
di volersi rilevare: se bene coloro, che si sforzavano
d'aiutarla, persuasi di dover abbattere ciò che v'era.
189
non parea sapessero che cosa sostituirvi di meglio ,
la quale soddisfacesse a un tempo V ingegno dei dotti
ed occupasse l'atlenzione del volgo. Nicolò Amenta
napolitano, correndo al senno antico, prese a mo-
dello i cinquecentisti: però tolse a imitare gli ultimi
e specialmente il Porta e gl'inviluppi da questo in-
trodotti: ma in verità non riuscì a molto, e fu copia
di quelli e non valse a creare nuova scuola. Il Tar-
tufo del Molière fu voltato in volgare liberamente
dal Gigli, che pur compose la Sorellina di Don Pi-
lone, la quale fu da lui per intiero inventata, se bene
valesse assai meno del Tartufo : ad ogni modo
i sali sanesi e alcuna copia di costumi italiani non
valsero a procacciargli buon viso nei pubblici teatri.
Nell'Atene italiana parea dovesse nascere un poeta
comico, e veramente un fiorentino a fatica annaspava
qualcosa. Giambattista Fagiuoli diede mano a sem-
plici orditure di fatti casalinghi: ma nel luogo delle
maschere pose i contadini toscani, e si pensò d'aver
fatto di molto mentre a cosa in generale gradita e
nazionale sostituiva più municipali ritratti- Del rima-
nente, benché scevro in gran parte dai difetti, che de-
turpavano la commedia antica, non ispargeva, come
vuoisi , il ridicolo nei caratteri e nel!' intreccio, e
tutto lo concentrava nel Ciapino intanto che gli altri
personaggi cicalavano lungamente al modo solilo, e
pur non facea ridei-e perchè, a detto dei ciilici, volea
far jidere sempre sonando la corda medesima. Al-
tri vi furono o prima o quasi nello stesso tempo
che surse il Goldoni, sole che oscui'ò del tutto que-
ste minute stelle della comica letteratura. Vagamente
si ricordano un Teodoli, un Beccelli, un Salerno,
un Federico. Più distesa memoria si fa di Jacopo
190
Nelli sanese, scrittole di quasi venti commedie, che
pui' diede un passo spargendo ilarità per tutta l'azione,
e da ultimo del marchese de' IJveri che a comme-
die romanzesche e popolai-i poi'tò fasto di decora-
zioni e di scene come s'addiceva al teatro privato
del re Carlo III di Napoli.
11.
Sestiere di San Paolo: parrocchia
di San Tommaso : strada di Cà
Cent' anni fra il ponte di JSom-
holi e il ponte di Donna Onesta;
numero civico 2569.
Casa del Goldoni a Venezia.
Carlo Goldoni , a sedici anni , avviato per la
scienza delle leggi si slava chiuso dentro una bi-
blioteca. Forse il suo maestro diceva: così si vuol
fare per girare da padroni nel tempio della scienza
oscura: ecco questo buon zitello, che frugale ri-
fruga per ritrovare il bandolo, e io vi so dire che
ne verrà a capo e quindi uscirà dottore da vei-o e
farà sbalordire la gente. Ma per contrario parca che
il giovanetto avesse altro per il capo che sorbire
la sonnifera sapienza , che scaturisce non dirò dai
Digesti (che del senno antico non è da ftìr beffa), ma
da lunghi e spaventevoli interpreti del diritto usciti
delle costole di Bartolo e di Baldo: io parlo di quelli,
che non sai se per il sonno che spandono intorno
o per gli anni che portano sulle spalle , sono dai
nostri scolari chiamati barboni. A lui giravano per
la testa, vive e parlanti, le ombre di Plauto, di
191
Terenzio , del Machiavelli e del Molière , e avida-
mente correa con la mano dove il dorso dei libri
gli mostrava sciitti questi nomi venerati, e avida-
mente leggeva e meditava lungamente. E così leg-
gendo e meditando egli ebbe campo di vedere come
tra molta masserizia di letteratura, la nostra patria
fosse povera in fatto di arte drammatica, cui pur
essa avea risuscitato prima d'ogni altro popolo mo-
derno. Volgendo poi nella mente le cagioni del sor-
gere sì presto e del sì presto cadere, e il modo pos-
sibile ond' ella si potesse rialzare tra noi; egli sin
da quel tempo con ìmpeto giovanile fermava nel
cuore di mettere ogni sua possa a così grande ef-
fetto. In tal guisa pensava e proponeva la giovinezza
dell'uomo , a cui meglio che ad ogni altro natura
disse: Tu se' nato a questo. Nel che è da osservare
che molti casi della vita, o che si chiamano tali per
ignoranza delle cause riposte , ci vengono in gran
parte preparati dal nostro carattere, o che almeno
il nostro naturale costume od ingegno, determinan-
doci piuttosto ad una che ad un'altra azione, ci fa
la strada a una certa maniera di vita avvenire. Quindi
è che Carlo decivSamente tagliato all'arte comica,
se bene pareva porgli avvenimenti della sua vita sviato
da quella, pur nondimeno o dalla esterna forza si
sottrasse o quasi dallo stesso contrasto trasse vigore
a camminare per la via segnatagli dalla natura. Da
fanciullo recitò nelle piccole commedie che si atteg-
giavano nella casa paterna. All'età di otto anni, dopo
la lettura del Cicognini (ne so se del padre o del figlio)
tolse a scrivere un'azione comica. Un filosofo lo an-
noia a Rimini con le sue scabre lezioni, ed egli per
192
ammenda si dà a quella gentile e pratica filosofia
che s' impara dagli scrittori comici, e lutto intiero
si versa nella lettura di Plauto, di Terenzio e dei
frammenti di Menandro. Che anzi per dimenticare
assai meglio le tirate del poco gradevole maestro,
si fa uditole assiduo nel teatro, e innamorato dei
recitanti si trafuga con essi dentro una barca, sopra
cui, salpando da Rimini, lietamente veleggiavano a
Chioggia. In verità il vispo e affettuoso giovinetto
si consumava di riabbracciare la madre, e non gli
parca vero di raggiungere il suo desiderio, portato da
sì gai e spensierati compagni. Nel passaggio del mare
lo spirito di lui si compiace del bizzarro misto di
faceto , d' iracondo , di strano e d'allegro , che si
ricetta nella barca animata e da risse e da cortesie
e da giuochi e da amori e da canti. Veggasi nelle
sue memorie questo passo, dove la vecchiezza (per-
chè vecchio le scriveva) sembra che si rianimi al
soffio delle ricordanze e prenda il fare allegro e vi-
vace che più conviene all'aprile della vita. Un giorno
poi gli viene tra mano la Mandragola del Machia-
velli, e certo non si loda della lascivia dell'argomento,
ma pure si stupisce del buono e del bello, che den-
tro v' è sparso, e chiama in colpa gì' italiani di non
essersi valsi di quell'esempio dell'arte, e di aver la-
sciato, con tali opere a casa, che il Molière cogliesse
la palma inc(mtraslala della commedia moderna.
111.
Se non fosse la inesperienza de' primi anni, poco si
vedrebbe forse di generoso o di quanto si levi pili alto
della vita comune. I vecchi, i quali hanno assaggiato
il mondo, si spaventano degl'impeti de' loro fanciulli;
e quando ne veggono uno portato, per esempio, alle
lettere e alle arti, mettono ogni possa per deviarlo di
quella inclinazione, pili sovente per avarizia, talora
per istintiva pietà quasi previdente i futuri travagli.
Ora il genitore di Carlo volea che questi diventasse
proprio un dottore di medicina. Per intercessione
dell' angelica sua madre , Carlo ottenne di potere
scegliere lo studio delle leggi , che secondo il suo
avviso, era tra due mali il male minore. Pertanto
si recò a Pavia, dove tra il sì ed il no forse sarebbe
giunto a cogliere il lauro dottorale, se non gli fosse
intervenuto un bizzai'ro e miserabile caso. Gli scolari
di Pavia per le loro avventale soverchianze s'aveano
fatto d'ogni cittadino un nemico. E però alcuni di que-
sti ultimi nel tempo delle vacanze fabbricarono un de-
creto che laconicamente diceva: se una donzella ricet-
terà mai nella sua casa uno scolare, non sarà più degna
di esser chiesta in matrimonio da un cittadino. De-
creto spaventevole alle fanciulle! Quando tornarono
gli scolari e si videro chiuse le porte, fu un cas'al
diavolo, un parapiglia. Al Goldoni, che era la quiete
in persona, vennero un giorno due o tre compagni
di scuola, i quali correano verso i venticinqne o i
tient'anni: volpi vecchie a petto a lui che ne toc-
cava appena diciollo. Da prima fermarono, che la
ingiuria fatta alla scuola era ingiuria di ciascuno in
particolare e quindi a ciascuno correva il debito di
farne vendetta: cosa facile e possibile a gente come
loro, avvezzi a farsi rispettare e valere. In prova
di ciò, come per saggio, narrarono di porle sforzale,
G.A.T.CLXIV. ^ 13
194
di rivali abbattuti e di altre imprese che mai non
fui" viste. Allora il fanciullo di rimando , per non
farsi tener da meno, facea del valente, e raccontava
ostacoli superati e figlie e madri impaurite e squa-
driglie di bravi fugati. Fattogli assai plauso, gli scal-
tri lo esortarono a ben seguitare, e gli diedei'o l'arme
per la difesa e l'offesa. Comunque si fosse pei-ò la fac-
cenda, il buon Carlo si lasciò cogliere alla sprovvista
dai superiori con la pistola in tasca, che in veiità nep-
pure sapea maneggiare, ed ebbe assegnata per pri-
gione una stanza del collegio dove soletto si diede
a rodere la collera e la paura. Kcco di nuovo in
campo i suoi tentatori. Tu se' poeta : beato te !
chi [)uò meglio vendicarsi ? bisogna fargliela vedere
a costoro; scrivi una satira co'fiocchi. E tanto dis-
sero ciie quel semplice di Carlo acconsentì. Egli da
prima volea togliere a modello Aristofane: poi questa
gli parve troppa soma per la sua schiena : in fine
compose una informe satira (ei dice , come corto
d'erudizione, a ino' delle Atellane) e le dette nome il
Colosso, perchè , descrivendo una specie di grande
statua, a mano a mano che dalla fronte per le di-
verse membra scendea sino ai piedi , svertava le
magagne delle donne in più stima della città. 1 suoi
cari amici gli aveano promesso la fede del segreto,
e per certo non gli fiillirono come non falliva l'ora-
colo di Delfo. Dalla bocca loro non uscì verbo; ma
sotto il manoscritto, che correa da per tutto, ap
piccai'ono una quartina fatta già da Carlo, dove era
espresso il nome e il cognome e la patria sua. Se in
iiuesta prima ed ultima satira egli ebbe di che lo-
darsi della sua vena comica , ebbe anco a patire
195
liintc sciagure da doversene ricordare per tutta la
vita. 1 cittadini gridavano al lupo ; chi gli volea
metter gli occhi sulla collottola; chi volea passarlo
da parte a parte : tanto che sì per pena contie per
cavarlo da pericolo, i rettori lo cacciarono di col-
legio , donde a notte fitta nascosamente sfrattò.
Tra dolore e rimorso non vuol più presentarsi al
padre: trema la dolce sembianza materna. Allora la
fantasia gli corre a disperati partiti ; né crediate
ch'egli sogni navi, armi, viaggi. Tanto è vero che
ciascuno immagina e finge a seconda della sua in-
clinazione, eh' egli vola con la mente e col cuore
al riravina , venerando vecchio , tenuto per lume
della dottrina drammatica. Perchè io non andrò a
lui sino a Roma ? Forse non mi potrebbe pigliare
affetto? Ei raccolse dalla via il fanciullo Trapassi e
ne fece un Melastasio, quel valent'uomo che lutti
sanno: andiamo dunque a Roma. A Roma, a Roma!
Ma la sua risoluzione venne meno quando si frugò
nelle tasche. Già si sa che 1' amore dei genitori ,
come sempre usa , gli perdonò. Viaggiò col padre
pel Friuli: poi fu creato aggiunto d'un cancelliere
nel criminale , come a dire segretario d'un segre-
tario: appresso arrivò ad essere coadiutore: e por-
tatosi da Chioggia a Feltre (in cui diede i primi
saggi di comica poesia scrivendo per dilettanti due
farse , il Buon Padre e la Canlalrice) e da Feltre
a Ragnacavallo , dove gli mancò il padre cui s'era
condotto a visitare ; finalmente, pei conforti della
madre, si risolvè nuovamente a rappattumarsi con
Giustiniano e con Rartolo , e fare d' incoronarsi a
Padova per gingillare l'umanità a Venezia.
196
IV.
In breve a Padova fu salutato dottore. Fu coperto
della negra berretta: gli piovvero sul capo i fiori:
i sonetti augurali ne predissero gran bene. Eccolo
quindi a Venezia coperto della trionfale parrucca e
avvoltolato nella toga, che quasi emulava la toga
patrizia. Si rappresenta a Palazzo e viene accolto so-
lennemente nel branco. Che si ha a fare ? Niente al-
tro che procacciarsi clienti e intascare zecchini. Ve-
nezia era allora per gli avvocati la terra promessa.
Non parlo della riputazione e degli onori: quel che
monta , quarantamila lire all' anno non si facevan
penare. Ne al Goldoni da principio parca fosse av-
versa la rota della fortuna. Ma che ? Gli avvenne
di dar fuori un almanacco burlesco, genere che non
fu sdegnato dal Leibnitz e dallo Swilf tra' i forastieri,
e dal Verri e da altri tra noi. L'almanacco si chia-
mava: V esperienza del passato astrologo deWavve-
nire (1732). Le argute sentenze quivi raccolte in-
contrano il gradimento universale. E come avviene
che taluno meglio stima sé medesimo se vegga
per avventura 1' affetto che muove in altrui ; cosi
Carlo, provando la forza de' propri strali , dolente
di avere abbandonato la scherzevole musa , tornò
a vagheggiare le comiche fantasie, le quali pareano
poco meno che svanite dalla mente rivolta a cose
tenute dal volgo per molto più gravi. Così dubitando,
avvenne ch'egli stava per essere avviluppato dentro
a uno strano matrimonio, quando, scoperto il pe-
ricolo , prese il partito dì voltare il dosso e pre- i
197
stamente si fuggi di Venezia. Che via prendere fuori
di patria per campare la vita ? Ecco. Nelle ore, che
in toga era stalo invano aspettando che qualche
cliente picchiasse alla porta, avea per diporto cucito
scene di un dramma per musica sopra l'argomento
del fine tragico di Amalasunta regina dei goti. Im-
perocché non è da credere , ch'egli meglio d'ogni
altro taglialo al comico, andasse pur franco di quel!;»
specie di dubbiezza, che prende i grand' ingegni prima
ch'ei si fermino a quella scienza od arte od a quei
rami della scienza od arte, di cui toccheranno la cima.
Rari e beati sono coloro, che quasi di lancio af-
ferrano r istromenlo di loro grandezza: i piìi sono
ver.-^atili e vanno tentando sé stessi in più d' una
cosa, e non si conoscono creati davvero per una di-
sciplina ch€ dopo averne coltivalo diverse con poco
successo. Aggiungi che quella volta a lui parve di
doversi dare un po' d' aria seria in grazia della
toga che gl'ingrandiva la persana o tult'al piiJ sve-
stirsene per poco e sostituirvi altro che potesse
degnamente stare in loco di quella. Quindi non volle
andar succinto e lieve ne' calzari della scherzosa
Talìa, ma procedere a passo solenne gravato le spalle
del tragico manto. Ma comunque sia, un dramma
per musica era solo che potesse ne' giorni amari
rinfrescarlo dell'arsura. Era cosa da guadagnare su-
bito da cento zecchini. E però, tutto tremante, legge
a Milano la sua opera innanzi al direttore degli
spettacoli ed a'musici che la doveaoo rappresentare.
Tra costoro eia Caffariello, cima dell' impertinen-
za di tutti i musici passali e avvenire. Costui can-
ticchiando e strascicando sulle labbra il nome di
198
Amalasunta, cominciò a far tremare i polsi al poeta
dicendo quel nome assai lungo. A un vecchio musico,
che sulle dita numerò i personaggi, quella parve trop-
pa comitiva: a un tenore allampanato non garbava
né l'opera né il poeta, e con le sue picchiale al cem-
balo interrompeva la faticosa lettura. Alla fine il
direttore conte Prata ebbe pietà del mal capitato
e lo trasse di quella stietta menandolo in altra
stanza, dove udì da capo a fondo la infelice trage-
dia. Essa gli parea buona quando avesse dovuto ser-
vire a recitanti; ma perchè dovea porsi in musica,
gli parve intinta nel peccalo di star troppo, non dirò
nella via della natura, ma sulle regole dell'arte. E
accoltosi che il Goldoni non era ancor bene addentro
ne'precetli del dramma musicale; ei glie ne snocciola
di molti e di tal fatta, che |)otrebbero giovare anche
ai nostri compositori moderni. Ma qui pure il tempo
adoperò le sue forze, e la moda ha da lo opera ai
suoi mille capricci mutando qua e là a sua posta,
pur fernm sempre alla massima, che in tal genere
di composizioni tutto sia buono fuori del semplice
del naturale e del verosimile. Il poeta udì l'ammo-
nizione: prese il suo manoscritto, e ridottosi a casa
gittò sul fuoco la misera Amalasunta, fermo nel pro-
posito di non più mettersi in quel ginepraio. Però,
poiché fu creato gentiluomo di camera del ministro
di Venezia a Milano, forse non avendo cuore di se-
pararsi di netto dalla musica, dolce sirena che in-
canta la giovinezza degl'italiani; scrisse gli inter-
mezzi per musica buffa più confacente al suo lepido
ingegno : onde per lui si conobbe nell' alta Italia
quella specie di comico musicale, il quale poco pri-
199
ma era nato sotto i più lieti e az/uni cieli di Napoli
e di Roma. 1 titoli di quest'intermezzi, alcuni dei
quali furono composti piìi tardi, sono il Gondoliere
veneziano, la Pupilla, la Birba, la Fondazione di Ve-
nezia. Quivi il suo ingegno per avventura ebbe cam[)0
di aguzzarsi nel campo della composizione comica :
imperocché gli bisognasse cercare quanto più fosse
allegro e grazioso e meglio vestisse di ridicolo i per-
sonaggi e gli avvenimenti, e trovare in fine le cir-
costanze che son più proprie al buon'effetto di qua-
lunque commedia. Inoltre fu messo nella necessità
di osservare, meglio che prima non facesse, le opere
e i costumi della gente viva, in luogo di guardare
alla storia ed ai caratteri antichi. Da che quest'ultimo
studio più si conviene a coloro, che vogliono ver-
sare sopra le cose passate, e per conseguenza più
ai tragici, che mai però non giungeranno a gran-
dezza dove forte iinmaginare non congiungano a
dottrina piofonda. II prin)o al contrai-io è condi-
zione di essere per ([ualunque voglia scrivere com-
medie : per le quali non vairà mai studio di li-
bri, ove non si abbia non solamente l'attitudine, ma
l'esercizio dell'ingegno a vedere i! naturale e il vivo
delle cose e i lievi accidenti e il vario muovere dei
casi e il mutare e il degradare, direi, de'colori dei
caratteri umani: avvertenze che quanto più ovvie e
frequenti, tanto meno vengono avvertite dall'univer-
sale. Sopra ciò l'ingegno del poeta fa come il raggio
del sole che penetra in una stanza e là per dove
passa scuopre una infinita quantità di piccoli corpi
moveotisi per ogni parte:
200
Così si veggion qui dii'ifle e torte
Veloci e tarde, rinnovando vista,
Le minuzie de' corpi lunghe e corte
Muoversi per lo raggio, onde si lista
Tal volta l'ombra che per sua difes»
La gente con ingegno ed arte acquista.
(Danfe Par. XIV).
V.
Appresso cominciano altre avventure, per le quali
il Goldoni talvolta parve tutto oramai dell'arte: parve
talvolta esserne devialo e per allora e per sempre.
Quando nel 1733 arse la gueri-a che fu detta di Don
Carlo tra Francia, Spagna e Sardegna da una parte,
e casa d'Austria dall'altra, egli si sbrigò del ministro,
e di città in città, accompagnatosi a certi comici,
tornato a Venezia quivi fece rappresentare il Beli-
sario, poi a Padova la Griselda, e nuovamente a Ve-
nezia il Don Giovanni Tenorio. Poi si ammogliò: poi
scrisse il Rinaldo di Montalbano e 1' Enrico re di
Sicilia. Di poi, veduto che il popolo s'avvezzava a
udirlo con intendimento , più che mai gli crebbe
l'animo alla riforma che già gran tempo andava ru-
minando, e cominciò dallo studiare il carattere pro-
prio dei comici e a tradurlo in commedia affinchè più
naturalmente potessero recitare. Per tanto compose
il Momolo corlesan, parte scritta e parte a soggetto:
poi il Prodigo allo stesso modo , non lasciando di
dare ésca alle maschere ed agli spasimati amatori
di esse con le Trentadue disgrazie d'Arlecchino. Men-
tre così procede di bene in meglio, accade ch'egli
vien fatto console di Genova in Venezia: incarico
201
pieno dlonore, pieno di brighe, ma che, allo strin-
gere, non (lava che fumo. Ecco scoppia la guerra
delta di Don Filippo tra i francesi e gli spagnuoli
da un lato, e gli austriaci dall'altro. Gli vien sospeso
ri pagamento di alcune rendite che avea per eredità
del padre a Modena. Egli subito corre al duca che
slava al campo degli spagnuoli a Rimini. Picchia e
ripicchia ; ma non gli viene risposto. E senza più
consolato e senza più rendite, quindi si parte e giunge
a Pisa, dove gli occorse di riprendere la toga che
avea deposto a Venezia, e stette a un pelo di non
ismarrirsi negli oscuri ma lucrosi laberinti del foro,
tutl' al più sfogando un poco dell' umore poetico
ne'sonnolenti giardini d'Arcadia. Per buona ventura
lo tolse di questo pericolo il celebre Arlecchino Sac-
chi, pure allora tornato in Italia: il quale, saputolo
a Pisa, gì' invia una lettera con cui chiede e vuole
una commedia a ogni costo. Carlo ruba tempo al
foro e scrive di furto le due felicissime commedie
a soggetto il Servitore de'' due padroni e il Figlio
d'Arlecchino perduto e ritrovalo. 11 buon successo di
queste lo incuora, mentre più gli viene in uggia l'av-
vocare per non essere sialo promosso, perchè fora-
stero, a un officio vacante ch'egli avea dimandato. In
quella gli viene innanzi il Darbes, Pantalone della
compagnia Madebac: che branditosi della persona e
picchiatosi con le palme il ventre, così tra il lepido e il
fiero gli domanda una commedia. E' la vuole; l'ha
promessa a'suoi compagni: con essa è pronto a sfidare
i più celebrati Pantaloni e morti e viventi, a Son gio-
vane (grida), il mio nome non è noto ancora abbastanza:
ma io andrò a sfidare i Pantaloni di Venezia; i Rubini
202
« san Luca e i Corrini a san Samuele : attaccherò
Ferramonli a Bologna, Pasini a Milano, Bellotti detto
Tiziani in Toscana, Gollinetti nel suo ritiro. Garelli
nella tomba. Il bel garbo e 1' audacia del chiedere
è soccorso dalla tendenza all'accordare. Il compia-
cente avvocalo non può tener forte » e ben presto
dà fine a una commedia tratta da un'antica dell'arte
intitolata Pantalone paroncin e le dà nome di Tonin
bela grazia. Con questo componimento si reca a Li-
vorno, dove s'avviene al capo di compagnia Made-
bac, il quale gli domanda il concorso dell'opera sua
per cinque o sei anni in un teatro di Venezia. Su-
bito è stretto il patto, e addio per sempre a toghe,
a codici, a grandi parrucche. Il Genio dell' arte ha
vinto, e oramai Carlo ò tutto di quella, che gli darà
insieme e ingiurie e onori e dolori e gioie e fama
e miseria. Ma nulla monta. 1/ ingegno fatto poten-
temente per un'arte |)uò forse a lungo esser tenuto
fuori della sua vita vera, ma in ultimo vince ogni
contrario ritegno, e come pesce all'acqua od uccello
alParia corre a spaziare nel proprio elemento.
VI.
Poco fa ci venne detto di alcuni dratnmi vecchi
rammodernati , vale a dire Belisario , Rinaldo da
Montalbano, Don Giovanni ed altri. Ora è da sapere
che il nostro autore, mentre si esercitava con gì' in-
termezzi nell'arte di far commedie, anche ponea cura
di aggraziarsi il pubblico per via di tentativi di altro
genere. Imperocché chiunque voglia darsi a novità,
gli convenga prima di tutto acquistare l'altiui con-
203
fidenza. Erano famosi o cari a quel tempo alcuni
drammi venutici di Spagna o almeno nati di bastardo
connubio e però nalurabnente più brutti. Rosmunda,
se bene la trinciasse da eroina, puie bizzarramente
ballava la furlana: Belisario dava busse alle guardie,
e alla sua volta, quando gli aveano cavato gli oc-
chi, era carezzato le spalle dal pistoiese d'Arlecchi-
no. Rinaldo di Montalbano compariva in giuJizio
appena coperto d' un mantello stracciato, e il suo
valletto Arlecchino (o leggiadri scudieri, ove siete
voi ? ) della torma de'soldali venuti a carcerare Ri-
naldo facea sbai'aglio a colpi di pentole rotte. Ma
sopra tutti era felice il Convitato di pietra. I comici
stessi, che lo vedeano sì bene accolto come la gio-
vinezza dalle donne mature, stupivano grandemente:
e perchè sempre si pretende spiegare checche ne oc-
corra quantunque la spiegazione avanzi in oscurità
la cosa spiegata; affermavano per certo che l'autore
di quel dramma avea stretto, componendo, un bel
patto col diavolo perchè il suo lavoro mai non mo-
risse nel corso dei secoli. In verità che quegli onesti
comici si mostravano assai poveri di scienza a petto
di molti critici moderm' , che vi scoprono dentro
un mondo di bellezza e di filosofìa. Però in mezzo
al mare di tante torbide cicalate, io, fidato alla scorta
di un cotal lume di senso naturale, sommessamente
direi; ancora che sia vero che nel Don Giovanni si
possa , benché a fatica , rinvenire il simbolo della
felicità ricercata nei diletti si come daFausloe pescata
nella scienza; pur nondimeno (lasciando che non v'ha
cosa al mondo , in cui non si possa i invenire per
forza una qualche verità recondita o fisica o inorai®
204
o intellettuale) cotal fine è troppo nascosto e avvi-
luppato dentro le stravaganze enorntìi che ogni dì
quasi crescevano nel dramnfia. Ed io vi so dire che
il popolo, stupefatto della statua che cammina e
dell' eroe che scappa fuori del mare asciutto co-
m'èsca, non s'affaticava ad entrare per tanti riposti
significati, e piuttosto che inorridire alla miseranda
fine dello scellerato, si figurava, andando a casa, che
una volta o l'altra o Pasquino a Roma o i Mori a
Livorno o Gaitamelata a Venezia si levassero del loi*
piedistallo e gli dessero i numeri per vincere al lotto.
Gli artefici di paradossi faceian pure palese la beltà
recondita di tal sorta componimenti. Che se ad essi
fa stupore la loro lunga durata, ne chiedano ragione
alla oscillante civiltà dei popoli. Pensino che molti
secoli la durarono i goffi Misteri : pensino che non
presso noi, dove fu almeno ringentilita , ma nelle
parti settentrionali d' Europa, per lungo tempo stette
salda l'architettura, che di mostri, di cagnacci, (fi
smorfie , di dèmoni sfregiava i capitelli e gli orli
de' tetti delle sante cattedrali. Brevi al contrario ,
ma sempre rimpianti e ricorsi con 1' imitazione, fu-
rono i tempi, che dalle arti gentili addotte a gran-
dissima altezza per le antecedenti condizioni del vi-
vere , furono chiamati di Pericle, d'Augusto e di
Leone. Dove non vogliano pensare, stieno pur fitti
nella loro opinione. A me ed a chi ami la sa-^
pienza civile giovi levar con le lodi e ntìostrare al
popolo, senza ch'egli s'affanni ad aguzzare gli occhi
per entro a un velo fittissimo, la limpida moralità
che si tragge dalle Meropi , dai Misantropi e dai
Burberi benefici.
205
VII.
Egli dunque pose mano a questi drammi; e se
bene avesse filo così arruffato da non poterne tes-
sere un forbito lavoro , pure a forza d' industria
giunse a pulirli e a rinnovarli quasi e a farli udire
con silenzio inusato e quasi ignoto negli spet-
tacoli d'Italia. È vero che Belisario veniva ancora
sulla scena con gli occhi cavi e sanguinosi, e che
Don Giovanni non avea smesso l'arroganza entratagli
in corpo con l'aria del suo paese nativo. Pure, gittate
le gagliofferie e tolti gì' incredibili casi, que' drammi
facevan figura di cosa rincivilita, e diedero nuova
luce alla mente del popolo, facendolo accorto cbe
si può aver diletto anche da ciò che non sia o mi-
racoloso 0 gigantesco o stupidamente ridicolo. An-
cora egli mise in iscena la Griselda già scritta in
prosa dal Pariali, alla quale aggiunse il personag-
gio del padre , che vede senza orgoglio e senza
lagrime montare e scendere dal trono la figlia : e
da ultimo il Don Enrico di Sicilia e qualche altro
dramma o tragedia, che non lo levarono al di sopra
della fama d'ingegno mediocre. Intanto per andare
passo passo alla riforma che gli stava pili a cuore,
incominciò a combattere di sbieco la commedia a
soggetto e le maschere, o adoperando le prime più
secondo ragione, o scrivendo qualche parte almeno
della commedia come fece nel Prodigo e nel Mo-
molo corlesan. Giunse alla fine a scrivere intera la
Donna di garbo, e mise da poi il suggello alla sua
riforma e alla sua fama in quell'anno che diede le
206
celebrale sedici commedie : prova di potenza e di
feracità d'ingegno, a oii nemmeno sarìu bastato il più
fecondo scrittore drammatico che sia stato al mondo:
io voglio intendere Lope de Vega. Uua di queste fu
il Teatro comico, specie d'introduzione o di prologo
alle altre, nella quale egli avverte gli abusi del teatro
di quel tempo, e come debbano e possano correg-
gersi, e quai fondamenti s'avvisa di porre per questa
grand'opera. Quella volta il teatro non fu solamente
scuola morale, ma fu cattedra di [ìubblico insegna-
mento. Nel che è da osservare come ei-ano mutate
anche le condizioni del popolo che udiva. Se Luigi
Riccoboni fosse risorto dalla sua tomba , non lo
avrebbe riconosciuto per quello, che già s'immaginò
di rivedere nella Scolastica dell'Ariosto i cavalieri
armoggianti: onde, fallitagli la speranza, mosti'ò coi
sibili il suo sgradimento a chi glie l'avea lisuscitata.
Ma forse il Riccoboni si sarebbe fatto i-agìone della
cosa, pensando eh' egli ebbe torto e a non avere
l'ingegno del Goldoni e a richiamare il cinquecento
nel principio del secolo decimottavo. Oltre a questo
avrebbe pensato ch'erano pur còrsi degli anni, du-
ranti i quali la persuasione della riforma del teatro
dalla mente dei letteiati era scesa in quella del
|)opolo insieme con la coltura che si volea perchè
gli uni e l'altro s'intendessero un tratto fra loro.
E anche ventura somma il nascere a tempo : e a
tempo nacque il Goldoni, e fu in eccellenza nel tempo
che il tei-reno italiano era , per così diie , parato
al suo felice ardimento. Né con questo io voglio
assentire a certe dottrino, che non solo agl'insigni
avvenimenti , ma anche al fiorire d' uomini insigni
207
danno cagione una certa fatale necessità. All'opposto
a me sembra che nel governo del mondo l'inaspet-
tato abbia pure sua parte, e che talora grandi cose
furono operate nelle arti, nelle lettere, nella politica,
perchè vi ebbero grandi uomini accomodati , per
così diie, a raccogliere la messe dei tempi: tal'altra,
perchè non vi furon tali, l'occasione, invano spie-
gando le sue ali brevi, o passò inavvertita o male
afferrata passò. Spesso gl'ingegni muoiono sotto la
durezza dei tempi ; pili raramente li sforzano e li
vincono: in generale però è vero che al loro fiorire
è necessaria una favorevole temperatura. Sia pur
buona in sostanza una pianta : essa non metterà
frutto se la condizione del suolo e dell' aria non
l'aiuta a prosperare. Del rimanente non si creda che
cotesto buon popolo veneziano non si ricordasse tal
fiata de'suoi Sansoni, di guisa che non chiedesse e
non avesse dal nostro Menandro qualche cibo più
confacente al suo gusto. Ne son testimoni le Ircane,
le Peruviane e le Belle selvagge, sorte in quel me-
desimo tempo che il teatro s'arricchiva del Curioso
accidenle , del Medico olandese e degl' Innamorati.
(1740 — 1761.) Non è mestieri al nostro assunto
correr dietro a ciascuna delle sue produzioni, al
modo stesso che non si raccontano a parte a parte
i casi della sua vita, i quali per vero dire, salvo la
varietà, non si distinguono guari da quelli che in-
tervengono alla comune degli uomini. Noi abbiamo
voluto solamente segnare i passi che furono per luì
più decisivi e , diremmo , i punti più scolpiti che
distinguono la sua carriera, acciocché per questi si
richiami alla memoria e il modo ond'egli procedette
208
e come vinse i contrasti a lui fatti dal tempo e
dagli uomini e dalia fortuna. Tra i quali contrasti
non fu men lungo e singolare quello eh' egli ebbe
a sostenere rispetto ai comici , lutti , chi più chi
meno, portati e assuefatti alla commedia a braccio
e alle njasch^re. Anche qui gli bisognò maneggiarsi
con artifìcio, ora con blandizie , ora con ammoni-
zioni, ora accarezzando la vanità loro, ora compo-
nendo drammi in cui l'uno o l'altro di essi a vi-
cenda piimeggiasse. Quindi son nate assai commedie
dove le servette tengono il primo luogo, e tali sono
la Castalda, la Donna di governo, la Cameriera bril-
lante, ed altre ed altre, che a primo aspetto dimo-
strano come l'autore s'ingegnasse di scrivere piut-
tosto per favorire alla parte d'un personaggio, che
alla bellezza intiera della commedia. Però io non
penso , come alcuno già fece , che a lui nocesse
r esercizio dell' arte sua in mezzo alla sbrigliata
compagnia de' commedianti. Imperocché si sappia
che alcuni dei principali poeti furono quasi allevati
tra quelli, e pur da ciò non ebbero impaccio perchè
non toccassero l'altezza mirata. Si sa da tutti del
Molière: si racconta popolarmente dello Shakspeare
ch'egli stava alla porla d'un teatro di Londra a tenere^
come scudiero, i cavalli di coloro che venivano alla
commedia, e di quivi fu raccolto dagl'istrioni e messo
Ira loro. Sia favola o no, non è men cerio che i più
grandi autori drammatici moderni hanno sempre o
(piasi sempre vissuto tra coloro, la cui arte recarono
a quel seggio dov'essa può guardare senza vergogna
uli antichi.
209
Vili.
(ìhi da natura è chiamato ad un' arte ha per
solito il primo aiuto o il primo ostacolo dallo stato
medesimo in cui la trova nel tempo in chV*i vive.
Quindi è che s'egli la trova nascente, la fa procedere
innanzi; se già grande, la porla a maggiore altezza;
se cadente, s' adopra a riportarla al suo principio.
La fatica s'accresce ogni volta: suprema è l'ultima;
talvolta vana. Per quanto l' ingegno veda il meglio
assoluto, pure non può non essere ingannato o molto
o poco da ciò che esiste : non può sciogliersi, io
direi, da sé stesso e dal tempo in maniera che rag-
giunga di primo tratto la egregia forma vagheggiata
nella mente. L'abitudine che prendono i sensi alla
vista continua del peggio, e il favore popolare che
leva a rinomanza, non dico le produzioni, ma i mostri
dell'aite, mettono nell'animo di chi vuol fare opera
degna un dubbio penoso, e lo tolgono dallo astrarre
del tutto la mente da ciò che lo circonda, e dall' af-
ferrare la bellezza, la quale, benché veduta e sen-
tita, pur lungamente gli sfugge dalla mano che trema.
Che se pure egli è sì alto e sì conscio di sé, che
vegga il punto , a cui , quando che sia , giungerà
indubbiamente; nulla di meno egli ha sempre bisogno
di posare il piede sopra una via già tentata, per-
chè s'assuefaccia a correre spedilo e sicuro per al-
tre vie men conosciute. Aggiungi a questo , che
anche 1' uomo capace di grandi cose suoi meglio
sentire che non definire; onde s'avvia da prima ti-
rato da un sentimento confuso delle proprie forze;
^ G.A.T.CLXIV. 14
210
poi, comballendo contro agli ostacoli, vede d'ora in
ora diradarsi di bronchi il cammino : la via più
spedita gli apre la veduta, a lui prima nascosa o
almen palese come campi celati dalle fronde d'una
via boscosa: eccolo, animato da doppia forza e da
doppio coraggio, correre velocemente alla mela. Per
queste cose è chiaro come il Goldoni tanto non
potè fare in principio che si disbrigasse degli ele-
menti, che aveano portato a corruzione l'arte co-
mica; e come questi, suo mal grado, prevalessero
lunga pezza nelle sue produzioni: tinche, nel proce-
dere, disparissero lasciando alla sua natura, schietta
od originale, spargere disusate ricchezze nel mondo
dell'arte. Naturalmente lo spagnolismo (se m' è le-
cito così chiamarlo) potè gran tempo nelle opere
sue. Cotesta corruzione non s'è ancora sbarbicata
all' in tutto dalle nostre istituzioni e da' nostri co-
stumi : tanto profondamente ci ha tarlato le ossa.
È vero che gli spagnuoli bevvero alle nostre fonti:
Boscan e Garcilasso de Yega furono poeti petrar-
cheschi sul principio del secolo decimosesto. Diego
Hurtado de Mendoza , guerriero , poeta e storico ,
con r una mano ficcava la spada nel corpo della
bella e infelice Siena; con l'altra raccoglieva nostri
libri e nostre memorie, ammirando grandezze nostre:
imparava dagl' italiani e li pagava di ferro. Le let-
tere spagnuole furono poi grandi per Cervantes, per
Lope de Vega e per Calderon, che da noi la ele-
ganza, dalla loro nazione presero 1' ispiramento. Ma
in meno d'un mezzo secolo traboccarono al peggio,
e il Gongora colà viveva quando presso a noi poe-
tava il Marino. Portate, quasi per rapina, in Ispagna,
211
pi'cslo perirono come frulli non nali di sponlaneo
germoglio : quanto di bello esse aveano , portalo
con violenza in Italia , in Italia imbozzacchì stra-
namente. E tale avvenne del dramma: il quale colà
nacque, come in Inghilterra, dal Sacro Mistero svi-
luppato dalla idea religiosa e fecondato dall'amore
della patria, e a noi, che fattici di netto alla com-
media antica l'avevamo lasciato alla plebe ed alle
campagne, a noi ritoinò infardalo della vernice stra-
niera e quindi più alto a peggio corrompere che a
recar salute all'arte già inferma. Il Goldoni dunque,
se bene lo vedesse .sì tristamente osceno , pur vi
SI mise attorno sì come usa amorevole artista. E
già per noi s'è detto quanto basta del Rinaldo da
Monlaìbano e del Belisario e d'altri drammi da lui
rinnovati ed accolli dal popolo con qualche favore.
Egli però sentiva che questa non era bellezza , e
mise da parte il genere: ma non sì che gli si le-
vasse dalla memoria e non gli nocesse un poco
nei futuri componimenti. Così un vecchio pellegrino,
per lungo vivere che faccia nella città, non tanto
imbianchisce la pelle, che le tolga ogni traccia della
ingiuria del sole. ÌJ^eW Uomo prudente la moglie av-
velena il marito; neW Adulatore Sigismondo era av-
velenalo dal cuoco genovese; nella j^anca rolla s'amo-
reggia sulla via, e il servo apre la lettera del pa-
drone, e l'amico non rifugge dal leggerla e dal ser-
varla per se; nel Padre di [amiglia 1 rapimenti delle
fanciulle stan lì a nuvoli; nella Incornila s'aggru(>-
pano e agnizioni e biiii e duelli e cose simili.
212
IX.
Nel modo medesimo in parte gli fece ostacolo,
in parte gli diede aiuto, la commedia deWarle. V'ha
tali commedie in cui V ordito meccanico ed anco
r intrinseco carattere sa lutto quanto di essa, anzi
paiono proprio quegli scheletri di soggetti rivestiti e
rimpolpati del dialogo. 1 Gemelli veneziani e il Ser-
vitore de' due piidroni arieggiano delle vecchie comme-
die del cinquecento ridotte a ordine pili ingegnoso,
e ravvivale e fiorite per l'arguta favella e le inge-
gnose facezie delle maschere. A queste va pure
appaiala la Vedova scaltra, ove sono i quattro ca-
ratteri dolio spagnuolo , del francese , dell' inglese
e dell' italiano così falsamente veduti e dipinti, come
è grosso ed ingiusto il giudizio che dai lontani si
fa della nazione lontana, i quali indovinano e sen-
tenziano secondo i piiì sentiti lineamenti che primi
appaiono in ogni umana sembianza. Forse è vero
solamente il simbolo cui può nascondere la scaltra
vedova, la quale schermendo è piegando sé stessa alla
spagnuola alterigia , alla leggerezza francese , alla
gravità inglese, alla gelosia italiana, tutti conduce
ad esser presi perdutamente di lei. Anche de' ca-
ratteri e degl' intrichi convenzionali di lai sorta com-
medie il nostro autore non potè spacciarsi alcun
tempo: e qua e là te ne dà saggio nelle sue migliori,
e persino nelle popolari dove meglio copia dal vero,
come le donne in vesti virili e pellegrine pel mondo,
e semplicette, e garzoni scemi di cervello, e amanti
concettosi, e bravi maneschi, e uomini con barbe
213
posticce: lutli arnesi e necessari arnesi delle vec-
chie commedie a braccio. Quantunque poi egli vo-
lesse nettare intei'amente la comica delle maschere;
pur vedendo come il popolo portasse loro tenace
affetto, le servò quanto più lungamente esse poteano
adattarsi, o almeno non portar nocumento al concetto
della sua riforma; anzi talora le adoperò in guisa
da far dubitare se quella invenzione tutta italiana
meritasse poi d'esser fugata inesoi-abilmente dai no-
stri teatri. Doveano per certo avere grandissima va-
lentìa quegli attori che per quasi due secoli occu-
parono le nostre scene recitando all' improvviso. Ed
io mi figuro che se il Goldoni non fosse slato te-
stimonio dei loro lazzi, delle loro facezie, delle loro
movenze ridicole, non avrebbe potuto né concepire
nò scrivere il Servitore dei due padroni. Si dia pure
al tempo una certa bonarietà che accogliea piìi sem-
plicemente la letizia, e gli si dia pure una grossezza
di senso, che facea tenero per ispiritoso il motto e
il gesto che ora offenderebbe il ceto più civile e
appena appena moverebbe il riso del popoletto.
Ma io pure ho veduto recitata quella commedia da
uno Stenterello, che non valea sicuramente gli Sca-
ramuccia ed i Sacchi , e non mi dea vergogna es-
sermi abbandonato all' ilarità con grave scandalo de-
gli spasimati di madamigella Violetta. D'altra parte
se alcuna volta le maschere messe in iscena dal no-
stro danno idea dello spirito di quegli attori ; al-
cun' altra ne dan sentoie della loro licenza, tanto
più temuta quanto più si levarono le passioni poli-
tiche: così che lo sfratto dato loro dal buon gusto
fu verso il 1796 confermato dall'autorità dei sover-
2U
ni. Però il Goldoni, adoperandole, o le riduce a ciò
che facevano i valletti e gli scudieri nelle commedie
di Lope di Vega e di Calderon, o non cessa di dar
loro queir ufficio più ragionevole a cui pareano in
certa guisa chiamate: vale a dire di parere la voce
della coscienza al cuoie del vizio , come i buffoni
difesi dal lor privilegio spiattellavano il vero nel viso
ai tiranni. Arlecchino dice a Lelio bugiardo, che gli
confida d'essere innamorato: Non è vero. E perchè ?
AI bugiardo non si ciede nemmeno la verità. Oltre
di ciò ne delineava il carattere a modo, ch'esse più
non paiono o quel goffo o quello scaltro o quella
ideale mistura d'ambedue che tutto permette , ma
bensì una più disegnala e vera figura d'uomo di carne
e d'ossa. Pantalone ora è un padre amoroso, ora è
un geloso avaro, ora l'onesto mercante delle lagune,
ora il bizzarro coriesano invecchiato. Aibìcchino ,
meno pieghevole di quello, pur si presenta talvolta da
semplice innamorato, ora da scroccone che vive alle
spalle della sorella. Una volta Brighella diventa il
padre d' una ballerina, borioso delle capriole e dei
salii della figlia, e più dei donativi che le capriole
e i salti procacciavano alla figlia: figura che non è
morta, o che, morendo, ha lascialo la slampa di sé
ad altre, che potesseio ispirare l'autore del Poeta e
della ballerina. Finalmente pure allora che libera-
tosi d'esse in Italia dovè nuovamente abbracciarle
a Parigi; le adoperò in sì gentile e delicata maniera,
che per nulla ricordano le goffe e sfrontate ma-
schere , le quali per tanto tempo furono il condi-
mento alla pace infingarda degli arcavoli nostri.
215
X.
Voglionsi anche licoidare il romanzo e il leatrd
francese, che più o meno ebbor parte agli atteggia-
menti della sua fantasia ed all'esplicamento del suo
ingegno, ovverainente concorsero a foi-maine il gusto
e a dare un certo aspetto alla meccanica costruzione
delle sue commedie. È indubitato che la lelteratura
dei racconti abbia sempre potuto sopra il teatro e
sopra quella, quantunque in grado minore, il teatro
uìedesimo. I cinquecentisti, perchè tenevano 1' oc-
chio intento al tealio latino, non si valsero molto
dei novellieri: pure non si poteron difendere dal to-
gliere da essi alcuni soggetti , e più specialmente
quelli che davano beffe e burle più confacenti alle
loro farse chiamate commedie, e più pieghevoli a
quel certo meccanismo di scene , a cui stimavano
doversi adoperare chi volesse toccar l'eccellenza. Nel
settecento non vivea la novella, anzi s'era poco meno"
che dimenticata, come lutto o quasi tutto che fosse
italiano da vero. Invece si leggevano avidamente i
romanzi che ci diluviavano d'oltre jnonte e d'oltre
mare, e tanto più avidamente in quanto che i nostri
letterati non attendevano a far libri, che dilettando,
dessero alimento buono alla popolare vaghezza, la
quei romanzi per lo più le virtù umane, come fug-
gite del mondo circostante, si vedeano grandeggiare
ti-a i circassi, tra i turchi e tra i cinesi, e favel-
lare un linguaggio tra l'affettato, l'eroico e lo sve-
nevole, che vuole solenne pazienza perchè si porti
in pace. A questi amori, a queste voghe di fora-
216
slieri racconli dobbiamo alcune jii'oduzioni del no-
stro tutte piene del sentimentale proprio della filo-
sofia del suo secolo tutta fondala sopra il fenomeno
della sensazione. Tali sono la Peruviana , la Bella
selvaggia, la Giorgiana^ la Dalmalina, le Ircane. Dalle
quali vuoisi distinguere la Pamela tolta dal celebrato
l'omanzo del Richardson, dov' ò una conoscenza di
cuore umano e una temperanza e verità di passione,
che la rendono ancor fresca e piacevole ai tempi
moderni. Alcune scene comiche le accrescono etfetto;
e così com'è lunge dal goffo ridicalo che si ficcava
nei drammi anche più gravi d'allora e dall' intermi-
nabile piagnisteo che usa oggidì; par proprio l'esem-
pio 0 il germe di quel dramma, che delineando le
domestiche sciagure aspetta ancora, non so se fuori,
ma cei'to in Italia, il suo creatore. Circa al teatro
francese, checché si voglia dire da certi troppo fer-
vidi italiani, a me giova di porger grazie a quella
nobile nazione, che, raccogliendo la eredità nostra,
non la disperse , ma sì prima l'accrebbe in onore
della civiltà nelle opere dei Pascal, Descartes, La
Fontaine, La Bruyére, Bossuet, Fenelon, Bourdaloue,
Corneille, Bacine e d'altri grandissimi. Quindi, se-
guendo il destino provvidenziale ,che di questa civiltà
europea fa un tutto onde ciascuna toglie dall'altra
liberamente e poi liberalmente nell'altra riversa; a
noi ridiede l'esempio di ciò che avevamo dimenti-
cato, e ci ripagò nelle lettere dell'Alighieri, del Po-
liziano, del Machiavelli, dell'Ariosto e del Tasso; al
modo slesso che 1' Europa intiera, in noi travasando
i materiali progressi, onde ha camminato per due
secoli, ci ripaga di que'sommi lumi delle scienze e
217
delle aiti, quali furono e Colombo e Raffaele e Mi-
chelangiolo e Galileo e Volta. Come i barbari al-
l' invito delle frutta di Narsete calarono a torme nel
banchetto meridionale; così i tedeschi, i francesi e
gli spagnuoli corsero a bere alle nostre limpide fonti,
e meglio bevvero quanto meglio eran disposti e piiì
per sangue e per indole ci assomigliavano. Per tanto
i primi venuti furon gli ultimi ad avere lo splendore
delle lettere, e coloro i quali contemplarono le nostre
arti sin dal tempo degli svevi, non poterono farle pro-
prie e gloriarsene che alla fine del secolo passato
quando Gaspare Gozzi vedea le muse abbandonare i
campi aprici e fuggirsene sotto il gelido cielo della
Germania:
.Alzò Macrino gli occhi,
E vide le divine alme soi'elle
Preste a fuggirsi, e ad apprestar Parnaso
In gelate nevose alpi tedesche
E a vestir d'armonia rigida lingua.
Ora il teatro francese , quella pai-te di letteratura
in cui la nostra vicina sopravvanza ogni altra, do-
vea naturalmente potere sopra il veneziano, che ri-
teneva il Molière per suo maestro e per maestro
migliore che non gli fossero gli stessi Ialini. Certa-
mente il Molière , checché avesse potuto imparare
dagl' italiani scrittori, fu quegli che gì' insegnò come
si portino sulla scena i vizi, le virtù, le ridicolezze
del secolo in che si vive, e come queste si atteg-
gino nella commedia con la composta distribuzione
delle scene, con la rapidità del dialogo, con il pro-
fondo e comico contrasto delle circostanze. Ma so-
218
pra ogni altra cosa gì' insegnò a studiare nella na-
tura, quasi dicendogli: Vedi, per m' è t' è aperto co-
m'ella è sovrana maestra e corn' io me le son fatto
discepolo induslre: ora impara da me a non dilun-
garti da lei e a ri trarla così viva, profonda, sem-
plice nelle tue pitture: se io ho dimostrato com'essa
è bella, e tu dimostra com'essa è bella insieme e
feconda, e stendi, quanto più puoi, il cerchio del-
l'arte. E certo parca che non altro al Goldoni ri-
manesse per toccare la meta , fuorché osservare i
costumi del suo tempo e della sua nazione, e ope-
rare secondo che innanzi di lui avea già fatto il
sommo francese. Se non che vide che il campo
poteva essere ancora infinito , dove egli si fosse
vòlto alle varie condizioni della società, e quanto
non potesse in sostanza, aggiungesse all'arte in lar-
ghezza di soggetti. Quindi fu primo (e primo è sem-
pie chi fa meglio in un dato compito, o fa in guisa
che sia bello quanto prima o fu brutto o non av-
vertito) fu primo, dico, che sulla scena portasse la
rappresentazione d'ogni grado della vita civile. Egli
non disse a sé stesso: La commedia, perche sia quale
si vuole dai solenni maestri, deve tenersi nella pit-
tura di questa o quell' altra condizione : ma tutte
quante recò sulla scena e le dipinse vive e spiranti,
e da per tutto trovò di che far ridere sopra difetti,
di che far fremere de'vizi, di che innamorare della
virtiJ. Adunque questi elementi diversi contrastarono
o aiutarono l'ingegno comico del Goldoni: ma non
in guisa ch'ei lottando coi cattivi non dimostrasse
il futuro vincitore, ed emulando i buoni non desse
a divedere come il discepolo avesse forti ale per
219
diventare Ira poco , in sembianza diversa , il vero
compagno de' primi maestri.
XI.
Prima di lutto egli portò nell'arte un carattere
nobile e intemeiato : onde va degnamente ascritto
Ira gì' insigni uomini di lettere , i quali han fatto
onore all'Italia nel gran secolo che si chiude col 1850.
Costoro, se stanno al di sotto dei cinquecentisti per
la lingua, per lo stile, per la eleganza della veste
esterna; per certo li sopravvanzano nella grandezza
delle materie trattate, nella maestà dei portamenti,
nella purezza delle intenzioni , nella gravità della
vita. In questo secolo non si vide gente del conio
dell'Aretino: o se vi fu, non venne a galla: da che
le lettere, fatte meno procaccianti di splendide pro-
tezioni, cercarono miglioie alimento nella coscienza
de' loro cultori. Il nostro poi fu specialmente tem-
peralo a ineffabile bontà. La sua madre 1' amava
quanto può amare una madre, anche perchè l'avea
partorito senza dolore: ed egli, non piangendo come
sogliono i bambini , diede segno sin d'allora della
sua pacifica natura. Pei ripetuti colpi datigli da'suoì
nemici si gittava talvolta a malinconia : più rara-
mente, come ferito, si risentiva e acerbamente par-
lava: pur sempre e volentieri perdonava le ingiurie,
e quando scrisse la sua vita si vendicò de'suoi ne-
mici col dignitoso silenzio. Così buono essendo ,
portò nella commedia la impronta dell'indole pro-
pria. Non odiando mai, mai non cadde nell'esagerato
e nel ftdso : da che l'odio vede 1' oggetto odiato n
220
colorì più cupi che naturalmente non ha. Forse non
sarebbe a lui slato sconveniente quel giusto sdegno,
che rampolla d'animo retto vedendo il vizio in alto
e la innocenza oppressa: giusta ira, di cui furono
armati i satirici piiì grandi come Giovenale, Persio e
il Parini, per lo che vanno distinti da coloro, i quali
portarono nella satira più odio verso gli uomini
che amor dell'onesto. E a me avrebbe fatto prò di
vederlo, infiammato, dipingerò con foschi ed evi-
denti colori quanta bruttezza della società di quel
tempo era larvata della frivola vernice, cui l'Asti-
giano con quel lìero piglio, ch'era il segreto della
sua grandezza, senza pietà e senza riserbo scoperse.
Ma il non esser passivo a questo incitamento del-
l'animo, tanto non gli nocque nell'arte comica, quanto
se fosse stato o tragico o satirico, se bene in questi
due rami dell'arte si può degnamente e con efficacia
maneggiare la tenerezza degli affetti e l'urbano di-
scorso del sermone oraziano. Non gli nocque, dico,
essendo comico : imperocché la commedia possa dì
ciò passarsi: non già perchè non debba far altro ,
come vogliono i rettorici, che irridere i difetti che
son meno nocevoli alla società, ma perchè può an-
che raggiungere il suo scopo circoscritta che sia
per entro a questo limite più angusto. Quindi egli
non isferza mai acerbamente come già fecero Ari-
stofane e l'Aretino, e per fermo non corse pericolo
che qualche Alcibiade berteggiato , come 1' antico
dal commediante Eupolide , lo facesse gittare a
mare perchè le sirene , cantando , gì' imparassero
a indolcire 1' amarezza delle parole. Anzi da que-
sta bontà d'animo trasse ispirazione a portare sulla
221
scena, più distintamente che non fece il Molière,
la pittura della virtù nell'uomo e nella famiglia a
consoliizione e incoraggiamento della specie umana.
Nel che, se non ad altri, egli piacerà sommamente
a coloro , che sostengono la rappresentazione del
male non esser cosa che possa utilmente istruire:
da che V odio al male è anche un male per sé ,
dove noi proceda l'amore del bene: e il male stesso
ha sempre alcuna parvenza pericolosa , onde può
parere altrui o piacevole alla vista o degno almeno
di scusa.
XII.
Né questa bontà era in lui costretta a vacillare
0 fuorviare, almeno nel giudizio, dalle forti passioni,
che per solito agitano la vita degli uomini e più
d'ogni altro i poeti. Amò le donne nella prima gio-
vinezza a quel modo forse che s'ama una volta sola:
in appresso, non avendo di che lodarsene, con più
brio che passione. Molto dilesse la moglie, e la madre
moltissimo. Di questa, prima d'ammogliarsi quando
la rivide dopo assai tempo, diceva: Era, è vero, ima
specie assai diversa d'amore; ma sino a tanto che io
non avessi potuto gustare le delizie di una onesta e
dilettevole passione, l'amor materno mi era di grande
contento. Le quali parole mi paiono assai cordiali e
tenere , e se vi manca qualcosa , questa è l'enfasi
che un uomo d'oggi adoprerebbe in tal caso. D'altra
parte ciò non dimostra che profondamente sentisse
d'amore: anzi farebbe credere al contrario il modo
leggieri onde talora si lamenta delle sue innamorate,
più riguardando al pericolo e al male sopravvenutogli
222
che al terribile vuoto che si sente nel cuoie, quando
un ideale vagheggiato gran tempo sparisce al gelido
soffio del vero. Per tanto nelle sue commedie in-
darno cerchi l'altezza dei pensieri e degli affetti, la
quale sta in istretta relazione con l'animo che molto
sente : anzi in esse t' è dato a vedere di continuo
la serena indole dell'uomo, che non si chiude dentro
a se stesso pensando e interrogando l'intimo dell'ani-
mo proprio : ma volentieri e intieramente si pone
ad osservare e a dipingere la esterna varietà delle
cose, che gli si girano lietamente all'intorno. Quindi
procede il bene e il male de'suoi componimenti.
Da che se per mancanza di profondo sentire egli
dipinse piuttosto le lievi apparenze che le nascose
cagioni degli umani affetti, e se ritraendo il vizio e
la malvagità non iscelse di esse che il lato men tristo;
d'altra parte potè così piiì stare ne'confini assegnati
a commedia, e piiì agevolmente sfuggì lo scoglio a
cui rompe chi vuol troppo addentrarsi negli arcani
del cuore. Dappoiché ciascuno , che ponga mente
a sé stesso, darà lagione che il vero nel cuor nostro
e si nascoso, profondo, impenetrabile, che paiono
sogni e fanciullaggini le fantasie de'romanzieri e dei
poeti che tentano livelarlo. Con che io non voglio
venire alla severa conclusione che taluni fanno: vale
a dire che l'ai'te poetica sarebbe più da presso al
vero, quando lasciasse la drammatica , l'epica e il
romanzo ancora, dov'è forza addentrarsi nella pas-
sioni negli uomini, e si restringesse alla lirica, sfogo
inìprovviso de'movimenti dell'animo. Ma per fermo
vorrei che si avesse meno audacia nell'entrare nei
segreti del cuore, e meno superbia nella pretensione
di averli scoperti. Facciano loro arte i hlosofi. Al
223
poeta, qualunque genere egli scelga, tocca di porre
l'uomo che naturalmente si chiudo dentro a se slesso
in quella parte di mondo o in quella fortuita o ca-
gionata serie di avvenimenti, dove a se scuopre in
certa guisa so stesso o agli altri non conosciuto si
manifesta. La serenità costante, se non che alcuni
vapoii di mestizia la turbavano raramente, veniva
al Goldoni aiutata dalla buona cotnplessione del
corpo. Quindi un'allegria naturale, per cui le cose gli
erano sempre circondate da un'aura lieta. Nelle Ba-
ruffe Chiozzolle, nel Ventaglio, nei Pettegolezzi ed in
altre, scorre quest'allegra e vivace vena, la quale può
ammirarsi, ma non imitarsi efFicacemente giammai,
se non da quello che nasca sì come il Goldoni fu
temperato. E tali commedie lo rendono appunto sin-
golare ed oi'iginale : in quanto che in altri autori
troverai cose meglio architettate, più profonde forse,
ma non mai quel sorriso grazioso, quella candidezza
d' espressione procedente da animo che ci'cde alla
bontà delle cose; in somma quella festività che non
islà più qui che là, ma tutto penetra e conìprende co-
me la luce e il calore del sole. Inimitabili fatture come
sono le melodie del Bellini: fiori che, come la Son-
nambula, non potevano e non possono nascere che
sotto l'azzurro del cielo italiano. E non altrove pure
che sotto gl'influssi di questo cielo possono prospe-
rare quelle tempre di facile ingegno, che impazienti
di mettere in atto la ingenita polen/>a creatrice,
quasi sdegnano ogni disciplina che per avventura le
dirigga al meglio, e come posseduti da un nume,
con estro infiammalo, improvvisano nelle arti, nella
poesia e nelle lettere. Non altrimenti il nostro poeta
(e non niego che talora ciò facesse per la necessità
224
di guadagnarsi la vita) non tollerò freno di lunga
meditazione, nò sottopose il lavoro alla lima; ma
così come gli nascevano all'improvviso nella mento,
dallo scrittoio lanciava i suoi co(nponimenli alla
scena. Onde procede che talora essi venner fuori
belli in tutte le loro parti come Paliade dalla testa di
Giove : talora buoni per concetto , ma punto ben
connessi e compiuti, se bene qua e là vi balenano
bellezze di scene stupende. Non ò a dire però che tale
facilità fosse in lui fiacca e slombata, come avviene
in coloro che Than sortila da natura senza la fiamma
d'un ingegno potente. Anxi perchè tal facoltà in lui
s'accompagnava a potenza d'intelletto, così essa gli
diede modo a ottenere quello che taluni non mai rag-
giungono, o raggiungono a pena con aspra fatica.
Imperocché se talora desideri nelle sue commedie
più composto artificio e più bella economia ne'par-
ticolari e nel tutto; sempre rinvieni un procedere na-
turale , uno sfuggire quasi sempre i tioppi viluppi
dove i casi si annodino a si accentrino come in mac-
china le ruote, il non tendere mai al curioso, un
cei'car le bellezze universali nelle circostanze comu-
ni, in fine una continua spontaneità di scioglimenti
che da tutte queste cause naturalmente procede. Ma
tali doti naturali in lui non vennero aiutate dalla
coltura dell' intelletto. Poco importava all'arte sua o
almeno alle qualità più rilevanti di essa, il conoscei'e,
a mo' d'esempio, i costumi forestieri. Bastava ch'egli
avesse avuto meno temerità nella scelta degli argo-
menti, di certe commedie, ove, per vero dire, gli orien-
tali, i tedeschi e gì' inglesi appariscono assai diversi
da quello che sono o che si conoscono generalmente.
225
Oltre a ciò se in que'tali argomenti la pittura tlei
costumi e delle passioni fossero state conformi al-
Tumatia naturajdi leggieri si sarebbero scusati come si
scusano i difetli, che nascono dalla ignoianza dei mo-
di speciali di ciascun popolo. Assai ci piacerebbe il
Filosofo inglese se da vero egli ci venisse innanzi
con animo, intelletto e vita confacenti a filosofo: il
male si è ch'egli non è filosofo ne inglese: quindi,
per manco d'avvertimento, diamo cagione del dispia-
ceie al difetto che viene più agevolmente alla vista.
Ma se il poeta comico può passarsi di tali nozioni,
o almeno sfuggire dal trattare materie che abbiso-
gnino del loro soccorso; non può e non deve rifug-
gile dallo studio delle scienze morali , onde si ha
lume non solamente per discernere il vizio sotto la
maschera della virtù nella confusione che d'ambe-
due si fa dalla gente guasta o dalle passioni più
proprie degli uomini o dalle idee che più regnano
nel tempo che si vive la vita. E perchè il nostro
mancava di tale scienza, e quindi era soccorso dalla
sola rettitudine naturale, talora incespica nel dare
per vizio quello che sarebbe virtù e nel dare per
virtù ciò che di vero è vizio e difetto: per la qual
colpa non sempre colse in fallo la inesorabile frusta
di Giuseppe Baretti.
XIII.
Come i poeti romanzeschi, raccogliendo la messe
di cento romanzieri, muovono da mare a terra, da
castello ad abituro , da nani a giganti , da caso a
caso, da meraviglia a meraviglia; non altrimenti il
G.A.T.GLXIV. ^ 15
226
nostro poeta, fecondo e mobile come quelli, trapassa
per vario ed infinito ordine di caralteii e d' intrecci
e di catastrofi , lutto traendo dalla sua fantasia o
dalla osservazione sempie sveglia ne' varia li casi della
sua vita. Durante la quale o insieme col padre da
giovinetto visilò le case degrinfermi, o scrutò, come
avvocato, dentro le cagioni de'turbamenti domestici,
o come compilatore di processi gli andamenti della
giustizia , o come segretario d' un diplomatico le
fiacche brighe e l'orgoglio patrizio. E cosi vide molto
e mollo provò : quindi trasse potenza a fare : da
che i moti dell' intelletto si concatenano alle pas-
sioni che dì e notte e d'ora in ora l'uomo va pro-
vando, e talora turbano e talora spronano il vigore
della volontà e dell' azione. Laonde nell' immensa
armonia della società potè vedere e mostrare, come
la pace d'una famiglia venga talvolta turbala dall'u-
mile e perigliosa azione d' un servo , un governo
dalla cupidigia d'un ministro, la riverenza ai nobili
dai loro pregiudizi e dal vano orgogliu, le relazioni
del viver sociale dalla maldicenza , dalla invidia e
dalla calunnia, l'agiatezza dal lusso, e così via via:
sempre mirando a quell'ultima dimostrazione, che
meglio a se stesso, alle sue passioni, alle sue con-
traddizioni, alle sue debolezze, che agli esterni av-
venimenti l'uomo debba infine imputare i miserandi
suoi casi: e però la necessità di migliorare sé stesso
per raggiungere, comunque sia, quanta felicità sulla
terra gli può esser concessa. Chi voglia farsi un'idea
della sua ricca immaginativa , guardi la immensa
varietà dei soggetti da lui trattali, e ne faccia para-
gone, non dico con qualsivoglia autore nostrano o
227
lornslieio, ma bensì con un'epoca, con un secolo
intiero, e, senica uscire (le'termini d'Italia, col fecon-
dissimo cinquecento. Allora qui si contavano a mi-
gliaia coloro, che vestendosi francamente della vec-
chia toga e lasciando al teatro plebeo la novità
sbrigliata, invadevano i teatri nelle gravi accadenn'c
e nelle corti eleganti. Il Grazzini nel Prologo dell'Ar-
zigogolo così grida : Oggidì non c'è dovizia d' altro
che di poeti e di compositori, o per favellare pili rel-
lamenle, di guastatori. Perciocché, lasciando da parie
i notai, i pedagoghi e i frati, infine gli artefici mec'
canichi e vilissimi si mettono a comporre commedie
come se elle fnssero rispetti o frottole, senza sapere
appartenenza e osservanza veruna che si appartenga
e si osservi nelle commedie. Solamente ch'elle sieno
divisate e distinte in cinque atti , basta loro : delli
svarioni, delle disaggnaglianze , delle contraddizioni,
delle disonestà e delle discordanze poi non ne tengon
conto . . . In quanto alle osservazioni della lingua ,
danno la colpa agli strioni , o che non sanno prof-
ferire, 0 che vogliono dire a lor modo: ma la verità
è elici non la intendono e non la sanno uè favellare
uè scrivere. Rassicuratevi che qui parla il Grazzini vis-
suto al tempo dei lucchi e delle zazzere, e non già
uno scrittore dell'ottocento, come qualche maligno
potrebbe far credere. Anzi colui seguita, tirandola
un po' rozzamente contro al bel sesso: « Non per
questo, uditori cortesissimi, che non pensiamo e non
crediamo , che la nostra commedia non sia , come
Valtre, che per insino a oggi si sono vedute e recitate,
perciocché, da quelle dell Ariosto in fuori, tutte quante
le altre sono come le leggi e gli statuti delle donne,
228
senza aiUorilà e senza fede. E si noti che nel boi
cinquecento si tenevano per nnigliori di tutte io com-
medie dell'Ariosto, e si avea poco rispetto alla bella
metà del genere umano. Errori massicci ambedue.
Del rimanente non solo agli artefici di quella sorla,
che descrive il Golii , parca lecito rubaic a man
salva , ma pure i buoni si chetavano persuasi di
aver fatto qualcosa di bene, purché avessero ripetuto
un'antica favola, e per pudore, mutati i nomi, l'aves-
sero vestita d'un abito più casareccio o rifioritala di
eleganze fiorentinesche. Che anzi alcuni menavan
vanto di questa imitazione o direi ruberìa, e grida
vano doversi ciò faie chi senza dubbio volesse far
bene.
XIV.
Udite in fatti Ercole Benti voglio nel Prologo
de' Fantasimi in versi scioltissimi:
Diasi pur vanto questa nostra etate
D' ingegno e di saper, sia pur superba
E stiasi nel suo error, ne la sua vana
Persuasioni eh' io dirò sem prema!
Che i nostri antiqui fur tanto ingegnosi
In ogni studio loro, e tanto bene
Seppero dire e far, che noi moderni
Non sappiam dir né far perfettamente
Alcuna cosa, se dietro ai famosi
Vestìgi lor non ci sforziam di gire.
Onde l'autore
A ciò pensando, e che Terenzio e Plauto
229
Fiir grandi imitatori (perchè Puno
Epicarmo imitò, l'altro Menandro)
E che troppa sarehbe prosonzione,
Troppo espressa ignoranza, s'ancor egli
Non fusse imitator di questa sacra
Anliquitate, ha questa sua commedia
Fatta air imitazion d'una di Plauto.
E non altrimenti ripeteva il Bibbiena nel Prologo
della Calandra, scusandosi col dire che s'egli era la-
dro di Plauto , a Plauto stava mollo bene 1' esser
furato s'egli teneva le sue cose senza chiave o cu-
stodia al mondo. Così altri molti, non eccetto co-
loro che la recitavano da inventori {tranne Pietro
Aretino), seguivano, come pecore, il movimento let-
terario e artistico, che scoprendo statue, edifizi e
libri greci e latini, non era pago se non li copiava
e ricopiava, scambiando pei' novità quell'opera assi-
dua e faticosa di disotterramento. Quindi è inutile
che ricerchiato novità e varietà nella immensa far-
ragginc delle commedie di quel secolo. Solamente
ci valgono per la gran copia di lingua di che vanno
ricche. Scostatevi da questa considerazione e cadrete
in una seccaggine mortale. Invano un titolo un poco
strano o fuor del comune, ovvero il nome dell'au-
tore, tentano la vostra curiosità. Vi chiama a sé il
nome di Ercole Bentivoglio ? Quel bizzarro spirito
che conversò co' grandi del suo tenipo e che ri-
cordò gli orrori dell'assedio di Firenze nella celebre
satira : Soi;ra i bei colli che vagheggian VAi^wj vi
mette innanzi nei Gelosi e nei Fantasimi le solite farse
coi parassiti , i vecchi balordi e i servi astuti ed
230
altro di simil conio. 0 forse tragge la vostra atten-
zione Lorenzino de' Medici ? L'uomo coperto, tra i
tumulti e i bagordi della plebe rozzo e facinoroso,
piaggiatore fra i grandi, simulatore di vizi e virtìi,
volpe e coniglio, bacchettone ed ateo, pudico e dis-
soluto, mozzatore delle teste dell'arco di Costantino
e uccisore del duca Alessandro; ha persino neWAri-
dosia spianato il suo ghigno beffardo, e vi presenta
una cosa arida come il titolo che la dislini<ue e
come l'avaro vecchio che atteggia la parte princi-
pale. Tutta intiera ò di Plauto, e v' ha del Medici,
fuor della lingua , il peggio , vale a dire le lascive
passioni e le buffonate sacrileghe. Cercale a vostro
grado nel Grazzini, nell'Ariosto, nell'Alamanni, nel
Celli, nel Firenzuola e in altri, e vi girerà il capo
come un aicolaio e nulla avrete che vi rimanga con-
fìtto nella mente. Vi punge forse l'animo il nome
dei Lanzi che sta in capo alla commedia di messer
Francesco Mercati ? Non ritroverete che un figlio
perduto, il quale torna dall'Alemagna biasciando la
lingua bastarda de' tedeschi assoldati dal duca. Che
se in ultimo vi gilterete sopra le curiosità letterarie,
poniamo che vi venga innanzi la commedia di Ago-
stino Ricchi lucchese distinta col nome dei Tre li-
ranni^ dedicata al cardinale Ippolito de' Medici e reci-
tata per r incoronamento di Carlo V a Bologna. Voi
stupirete che l'amore e la fortuna e l'oro sieno co-
testi famosi tiranni: l'ultimo dei quali, a dir vero,
fu di soverchio benigno con lo scrittore, giovane di
diciotto anni e di belle speranze, come oggi appunto
si direbbe, lo voglio significare, che costui fu bene
rimunerato, anzi fu fatto cavaliere e famigliare del-
231
r impeintoro: laonde pensò poi di godersi tranquil-
lamente la poco sudata pensione, lasciando pure che
altri lamentasse a suo grado le belle speranze an-
negale nell'ozio sccuro.
XV.
Voi ci potete trovare dentro questa
bella città una molto grande
gentilezza di vecchi uomini e di
mezzani e di damigelli ad ab-
bondanza che molto fanno lodare
loro nobiltà ; e mercadanti che
vendono e acquistano e cambia-
tori di moneta e cittadini di tutti
i mestieri e marinai di tutte gui-
se e navi per condurre in tutti
i luoghi e galee per dannaggio
deglinemici. Ancora sièin quella
bella città belle dame e damigelle
e pidcelle a gran numero addob-
bate molto riccamente.
Cronoca veneta di Martin Ca-
nale.
Se girando a diporto per la bella Venezia, t'oc-
corra di giungere nella Mercerìa , tu vedrai lungo
di essa far mostra sfoggiata e fettucce e nastri e
confetti e ninnoli d'or[)elJo e libricciuoli dorati di
poca sostanza nelle botteghe, che prima eran su-
perbe dei volumi degli .Aldi e dei Giunta, e di la-
vori massicci d'oro e di gemme, e di copia d'aro-
mati e d'elmi e di corazze e di scudi. Non altri-
menti la città di Venezia nel secolo passato differiva
dall' antica signora dell' Adriatico, scaduta oramai
232
della sua grandezza. Ella viveva aneoi'a; ma vivea
nell'affaticato riposo che annuncia il termine della
vita degli uomini e delle nazioni. Veramente con-
finata nel fondo della laguna, non distendea più Tale
pei mari lontani: il leone accovacciato sulla colonna
guardava mesto e silenzioso verso l'Oriente che fu
campo trionfale delle sue prodezze. Pui', come fosse-
ro ancora ne' loro bei tempi, il doge e i patrizi, che
già fecer paura all' Italia ed al mondo, parea non
s'accorgessero delle mutate condizioni, e tutte con-
servavano le pompe avite come se d'ora in ora fos-
sero per risuscitare il vecchio e cieco Enrico Dan-
dolo e Vittore Cappello e il Peloponnesiaco Morosi-
no. Tale e la natura degli antichi poteri. Come al
vecchio sembra dar parte di sua vita abbandonando
anche per poco le care abitudini, così ad essi ogni
esterno spettacolo, più caro quanto più si rifei'iva
al lontano passato, poi'geva soavissimo inganno: e
la Regata e il Buccntoro e le sponsalizie del mare
rifiorivano un poco l'orgoglio d'una potenza, che
vedeano al ver-de nella casa , nel palagio dogale e
nei segreti consigli. Ma il popolo avvezzo ad ap-
pagarsi dell'apparenza, non cessando di rispettare il
potere del governo , si dava a credere di essere a
quella potenza medesima che in antico , e tutto
lieto e baldo si gioiva della memoria delle antiche
vittorie rinnovate ogni anno nelle splendide feste, che
poi Giustina Henier Michiel descriveva in italiano e
in francese, quasi volesse al vincitore e abbattitore
della repubblica ispirare verso di lei pietà e rive-
renza. Per certo il carattere lieto e usalo a libera
domestichezza convenevole a città data a traffici e
:^33
•A relazioni foreslicie , spira da pei* tutto nella
commedia goldoniana e mette per essa un'auia di
vivacità che bea e rinfresca il nostro arido cuore.
Ma quasi cosa socia, l'altiero patrizio non è figu-
ralo in mezzo a quel popolo vario e festivo: e sì
che s'egli fu altiero e tenace delle antiche usanze,
e geloso sino alla crudeltà del proprio decoro , fu
|.>ure meglio fastoso che soverchiante, e fu buono e
schietto e amorevole e caldo protettore della sua
clientela di minuti plebei, a cui si avvicinava, co-
minciando dal lavacro battesimale , per varie gra-
dazioni di patronato. Imperocché si racconta che due
plebei, e talvolta sino a centocinquanta, reggevano
come compari il ()argoletto patrizio al battesimo ,
che in tal modo legava questi all' amore e quello
alla ossei'vanza di particolare tutela. Ma sia live-
l'enza, sia timore, sia poca conoscenza, o lutto in-
sieme, d'essi patrizi non si trova traccia in questo
poema della viia veneziana. In quella vece, e forse
perchè tal parte di società più si pi'estava al ridi-
colo, noi troviamo in ceiti nobili e rozzi e miseri
0 avventati e incivili il ritratto dei Barnabolti, così
detti da santo Barnaba , chiesa intorno alla quale
solevano abitare. Costoro scendevano dalle costole
dei cadetti, ossia secondogeniti, delle principali fa-
miglie e dalle famiglie aggregale alla nobiltà in
occasione della guerra di Chioggia. Classe povera
esupoiba: turbolenta, come in tulli i liberi slati la
nobiltà scaduta. Le donne di essi aveano il privilegio
di mendicare in zendado, e di quella stirpe uscivano
scrocconi, giuocalori, sollceilatori di cause, mercanti
di voli nel Broglio. Più volte cospirarono contro allo
234
stalo, e più quando osso era [>iù infiacchilo: meglio
che da virtù tenuti a freno dall'antica fortezza dell'or-
dine giudiziario. Del rimanente i costumi caduti a
lascivie sono delineati e sferzali più d'una volta: se
non che in coleste cose è ritraila, direi, la parte
lieta e gioviale solamente , come conveniva nello
slesso tempo alla commedia e alla gelosia del paese.
Da che non era impresa da pigliare a gabbo per
uomo privato, il penetrare dentro agli intrighi che
per via delle maschere s' inlesseano dai grandi.
Spesso il tabarro e la baulla e il eappello a tre
punte e il cuoio nero che coprìa me/.zo il viso di-
sbrigavano il patrizio della toga solenne e della
pubblica vista: e quando egli poteva girovagare a
suo talento e favellare persino agli esteri ministri ma
solo nelle piazze, ne' casini e al teatro; per certo
dovea gioire come un'uccello fuori del carcere gode
de'suoi svolazzi, o come giovinetto, a cui riesce fug-
gir della vista del pedagogo e correre a suo grado per
l'aperta campagna. Così piuttosto è adombrata che
dipinta, e meglio si lascia indovinare che vedere, la
licenza di essi patrizi quando convenivano segreta-
mente a solazzarsi nelle case delle cortigiane, e quivi
traspariscono più velate ancora la rilassatezza del vin-
colo matrimoniale e la feroce prepotenza de' baroni
provinciali non ancora sdentata dei bravi maneschi.
Quanto al giuoco, non mi posso passare dall'avver-
lire, che gli stranieri hanno menalo gran rumore
della tolleranza soverchia avutasene a Venezia, non
pensando che da per tutto in quel tempo succedeva
il medesimo. E il Daru francese, storico della ca-
duta repubblica, avrebbe meglio frenato sua lingua.
235
se levando un poco raniino dal suo tema o dall'odio,
si fosse ricordato che in sua patria nel tempo della
Reggenza, le fiaccole accese indicavano i luoghi dove
convenivano i giocatoti, e che nel 16 aprile del 1722
otto bische furono permesse a Parigi in cambio d'un
tributo di ducenlomila lire per poveri vergognosi ,
come può vedersi nella storia della Keggenza del Li-
montcy. Però è sempre vero che a Venezia questa
pessima usanza fu troppo incoraggiata ab antico: e
non ripeterò la storiella di quell'architetto lombardo
Baratterio (onde il nome di baratliere), il quale in
premio di aver trovato l' ingegno per innalzare le
due colonne sulla piazzetta di san Marco, ebbe pri-
vilegio di porre tavola di giuoco nell' intercolunnio,
e appresso a lui degli altri, finche il luogo non ebbe
infomia peggiore dal supplizio dei condannati. Bensì
ricorderò il Ridotto fondato nel 1676, ov'erano ses-
santa e più tavolieri , in cui per diritto tenevano
banco i patrizi decaduti, che tagliavano a conto di
doviziosi ebrei. Non tenevan maschera in viso, e sta-
vano in sul grave come siedessero in tribunale: in-
torno erano donne e uomini e patrizi e mercanti
e ambasciatori e ministri che mettevano, palpitando,
la posta. E tanto era l'amore del vizio, che il Gioca-
tore, una delle sedici commedie del 1750, ebbe sfor-
tunato successo, dice lo stesso autore, perchè in una
città di ducentomila anime, cenlontila ahneno erano
spasimati del giuoco, e al Ridotto veneziano conve-
nivano giocatori da tutte quattro le parti del mondo.
Come che fosse però , quando il poeta nostro era
in Francia, il Ridotto fu chiuso per sempre; e dieder
vóto per la chiusura anche quei signori del gran
236
consiglio , che \)m amavano di oziare nel loco , il
quale divorava senza posa e pubbliche e privale foi'-
Hine.
XVI.
Ma veramente è viva e pittrice la coinmedia gol-
doniana (piando ella si volge alla classe media ed
all'intimo popolo. Comincia dall'avvocato veneziano,
anello che in tutte le società congiunge la classo
media alTaristocrazia, e ti si ricordano le accademie
ove si esercitavano i giovani ad airingare, e i tri-
bunali della donna dell'Adiiatico, che odono la sciolta
eloquenza dei veneziani trionfante della grave e im-
pacciata dei bolognesi e dei romani, ai quali non
sapea buona la ragione ove non avesse avuto puntello
dall'autorità. Vuoi tu sentire il modo di vivere dei
buoni borghesi veneziani? Odilo nei Rusteghi [Allo 1.
scena 1). L'autunno tre o quattro volte in campagna:
nel cainevale cinque o sei: rare volle all'Opera; più
spesso alla commedia. Taluna volta al Ridotto e un
tratto sul lislon nella ()iazza di san Marco ove pas-
seggiavan le niaschere, e anco un poco sulla Piaz-
zetta a godersi le marionette e gli astrologhi. Talora
la gondolelta portava la buona flimiglia alla Giudecca
o al Castello, ove la vista del mare esilarava il bel
mondo che vi conveniva. I costumi però erano mutati
dal tempo di prima, e la tnoda e le usanze foiestiere
vi avean potuto. Gli uomini una valla , viaggiando
per la campagna , si mellevano il buon giubbone di
panno , le gambiere di lana , le scarpe grosse : ora
parlano la polverina, gli scarpinelli con le fibbie di
brilli, e inonlano in calesse con le cahelle di sela, e
237
non iiftano più il bastone, ed usano il palossello ri-
tolgo e parlano V ombrellino per ripararsi dal sole.
Così nelle Smanie della villeggiatura. 0 fernpi ! 0
usanze ! 0 prodi uomini, vi cadde dalla memoria che
il mare fu patria vostra ! Voi vi disusaste dal pen-
sare che la nave e il vento furono e doveano essere
per sempre il vostro suolo e la vostra fortuna ! Al
contrario vi piacque allargarvi col dominio sopi'a la
terra, ed eccovi molli, effemminati e magri, avveiando
la profezia scritta a ligure nel solaio della chiesa di
san Marco: dove la genie vedendo effigiati leoni ma
cilenti sulla terra, e pingui leoni in mezzo dell'acqua,
profetava che Venezia sarebbe stala sempre grande,
se guardando meno alla terra, avesse posto continuo
e solo studio alle marittime cose. Intanto cotesto
popolo , dissuefatto dall'ardite imprese , vivea lie-
tamente a cielo aperto sotto l'intlusso del bel sole
d'Italia. Nel Campielo sono dipinti i giuochi, i sol-
lazzi, le brigate , i cicalecci della genie del volgo
così veracemente, che tradotta essa commedia non
dirò nel dialetto, ma nel corrotto linguaggio roma-
nesco, pare appunlo cosa nostra, come fu ed è ve-
neziana. Più speciali poi del popolo veneziano ap-
paiono e il costume delTudir le storie cantate dai
vali plebei e i compari e il giuoco della mora e il
minuetto e la furlana e le donne volgari coi manimi
o braccialetti e le pule col zendado sino alla cintura
e le serenate nelle peole e le gaie scene dei vispi
gondolieri. Eppure cotesla plebe, così vivente alla
spensierata, all'annunzio della viltà dei palrizi surse
gridando viva san Marco: ma fu sbaragliata dal can-
none della repubblica posto sul ponte di Rialto
238
nella notte del 12 al 13 maggio 1797, ed empì di
cadaveri mutilali il campo e le sepolture di san Bar-
tolomeo. E fu l'ultima volta che il cannone della
repubblica tonava, e l'ultima volta tuonando, feriva
i suoi figli. Ora, fuori degli antichi monumenti, non
è rimasta più traccia dell'antica magnificenza. I co-
lombi, venuti da Cipro a trastullo della dogaressa
(ì dalle sue damigelle, svolazzarono invano in cerca
delle antiche signore lungo le logge e i portici vuoti,
e la vecchia Marcolina , ultima delle poverelle di
palazzo , le quali aveano privilegio di elemosinare
nelle camere dei legisti, rimase alcun tempo chie-
dendo l'obolo e lamentando al forestiero il misero
fato della caduta repubblica. Forse con minore na-
turalezza, 0 per dir meglio con meno intima cono-
scenza delle cose , il Goldoni dipinge i costumi ,
ch'erano più speciali al rimanente d'Italia. Ma qual'era
forestiera usanza o nostra corruzione, che non fosse
sparsa in ogni classe del bel paese ? E chi non sa che
dissomigliami in tutto, pur le varie parti d'Italia, s'ag-
guagliavano nelle abitudini dell'ozio, del vizio e della
servitù ? Le ragioni della povertà in un suolo fertile
invano e invano rigato da fiumi reali e cinto di mari
spaziosi, voi vedete adombrata nel Cavalier di spirilo,
il quale esercita la mercatura in segreto nella città
di Napoli, dove per l'indole fastosa e per l'esempio
dei signori spagnuoli era entrala l'ubbìa che il com-
mercio fosse cosa indegna di qualunque originasse
di nobile stirpe. La pessima educazione , sia nella
casa paterna sia fuori, vi si dimostra nel Padre di
faniicjlia. Eccovi la smania del lusso, la mala fede
nei contralti, la fanciullaggine , in cui cascava un
popolo che già tenea primato per la scaltrezza dell'in-
239
gegno, nella Banca rotta, nelle Villeggiature, nell'/m-
postore. Taccio di altre tnacchic, di cui l'ombra non
s'è ancora dileguata dalle nostre persone. Bensì non
potrei tacermi della strana forma dei cicisbei, distesi
per lutto il suolo italiano : nò amanti , né amici ,
né servi, nò mariti, ma mirabilmente composti di
negative qualità. Dei quali ( lasciando da parte la
coriuzione delle nozze e della famiglia) non sai se
più irridere la frivolezza o dubitare delle platoniche
dottrine. Quando tu vedi nella nervosa commedia
dell' Alfieri stipolati cotesti confidenti delle mogli
sin nei contratti di nozze, e nel Cavaliere e la damo,
del Goldoni (eh' ei non intitolò / cicisbei, per non
chiamarsi addosso una turba accanita ) due inai-iti
e due mogli incrociati a cicisbei con iscambievole
soddisfazione; dubiti se hai i)iiì da sprezzare il mi-
sero ozio e la ridicola mollezza, o da piangere il
vizio che non si scusi della passione, che lo renda
compassionevole e vitando per lo spettacolo de' suoi
necessari tormenti. Pei' altro io pi'otesto di credere
in tutto e per tutto ai soavi precetti che si leggono
neir atto secondo della detta commedia e che per
giustizia solennemente trascrivo : Senza offendere la
onestà della dama può soffrire qualche inclinazione
per essa anche il cavaliere più saggio; basta che non
permetta mai che giungano i fantasmi dell'amore a
intorbidare la purezza delle sue intenzioni. Il che
pare fosse facile ai ben composti cuori dei nostri
nonni incipriati.
XVII.
1 compositori di drammi, commedie e romanzi
ed epopee rompono prima di ogni altra cosa nello
240
scoglio dei caratteri. Essi credono bonariamente di
crearne, e invece riftinno quelli che diconsi di con-
venzione, vale a dire che non sorgono dalla natura,
ma da un certo tipo ideale quale ha foggiato l'autore
stesso, 0 quale a lui porge il secolo e la letteratura
vivente. Questi caratteri hanno la ventuia di piacere
entro un dato tempo: i posteri pciò, che li veggono
senza la nebbia delle opinioni e dei sentimenti con-
temporanei, se ne ridono a ragione. Ne dieno esem-
pio ora le maschere e le donne eroiche del sette-
cento, nella stessa guisa che lo daranno ai futui'i i
brillanti modevn'ì. Al contrario il bello più universale
è quello che più si fonda sopra le più minute e par-
ticolari osservazioni; e chi non ha ingegno e pa-
zienza da ciò, non farà altro che dare nel falso. Il
nostro, nelle prime commedie specialmente, cadde
nel vizio di rifare quei tipi, che trovò belli e fog-
giati, come un rcttorico iì quale caschi ne' luoghi
eonmni. Lo sciocco Zanelo nel Chi la [a Vaspella
sa proprio di quelli , che dalle commedie del cin-
quecentd ci vennero sino alle farse del Giraud: la
Rosaura nel Cliiaccherone imprudente poco meno che
non guasta V intiero ordito per la caricata sempli-
cità che la veste. Ma poi nel procedere tanto si cor-
resse di tale errore , che rifiutando ogni fisonomia
senza espressione e di riempitura, invece di lumeg-
giare un sol carattere a cui gli altri personaggi ser-
vano siccome il fondo al quadro, giunse a fare com-
medie ove sono tanti ritratti vivi quante le persane
che vi figurano. Ricordisi V Apatista, in cui il servo
pieno di vizi, protestando di non averne alcuno, si
distingue fra le altre principali figure, che di solito
spiccano a danno di queste più umili e più inos-
241
servate. « Io cercava da per lutto la natura^ e la tro-
vava sempre bella . . . = I caratteri veri e conosciuti
piaceranno sempre, e ancorché i caratteri non sieno
infiniti in genere, sono infiniti in specie: mentre ogni
virtii , ogni vizio, ogni costume prende aria diversa
dalla varietà delle circostanze . . . = I miei caratteri
sono umani, verisimili e forse veri: ma io li traggo
dalla turba universale degli uomini . . . )) Così diceva
il nostro autore sia nelle Memorie , sia nel Teatro
comico. Ora volgi e rivolgi a tua posta queste pa-
role, e verrai sempre alla conclusione: Guarda inten-
tamente il vero. Ed è così come al giovane artista
che avrà lunga pezza copiato e statue e quadri, e si
congederà dal maestro chiedendo consiglio perchè non
si perda, così solo, fuori della diritta via, il buon mae-
stro additerà il cielo e la terra e i viventi, e dirà
come si legge nel libro del Solitario: Ecco che tu
vedi il cielo e la terra e lutti gli elementi, e di questi
elementi son falle tutte le cose. Nel leggiadro intelletto
del Veneziano la natura s' è specchiata come in acqua
limpidissima, così bella e varia e infinita. Sarebbe di
soverchio ripetere le mille voci che lo han chiamato
verace pittore dell'uomo e degli umani costumi; ma
degno studio sarebbe e di grande utilità premiato,
il guardar sottilmente dentro a quelle commedie
quanto quelle figure ritratte tengan proprio del vero,
ossia della invariabile stampa dell'uomo, e quanto,
nel modo, nel colore, nella manifestazione dell'affet-
to, del secolo in cui vissero, e quanto né del vero
né del secolo, ma del gusto passeggiero delle mol-
titudini. Per verità io credo che cogliere sì diritto
il vero sia piuttosto un dono di Dio che frutto di
<i.A.T.CLXIV. 16
242
lunghi e tenaci studi, o che questi potrebbero so-
himente, come aratro nella dura terra, svolgere dal-
l' involucro e mettere all'aperto quanto per avven-
tura r ingegno dentro a sé stesso racchiude. Ma il
Goldoni sortì appunto il dono di Dio: ed ebbe lim-
pida veduta , acume d' intelletto , facile vena. Dal
gondoliere al patrizio, dalla buona moglie alla donna
vendicativa, dal Tonin bela grazia al Momolo cortesan
(semplicità e accortezza veneziana), dal prodigo al-
l'avaro geloso, in somma in ogni età e condizione
umana, egli non solo vide la verità, ma seppe pur
l'arte di pingerla a meraviglia e quasi coglierla, per
dir così, in quel momento in cui essa all' impensata
si manifesta ad altrui: ebbe la facoltà di entrare
ne' penetrali dello spirito e di far percettibili le me-,
nome gradazioni della volontà, destro a far tesoro
di tutto ciò che di sottile, di facile, di ridicolo e
di decente a un tempo offre la colta società, men-
tre la vanità e la decenza , il pregiudizio e la ra-
gione continuamente contrastano in essa. Egli non
si rovescia a far 1' anatomìa della passione , come
dopo il Molière faceano i francesi, né pone sulla scena
una specie dì filosofo che fiso in sé stesso dica: Io
sono o mi par d'essere così e così: e narri più che
dimostri co' fatti il suo proprio carattere: ma con
una parola, e una frase detta a tempo e luogo, con
un'azione che par colta più che cercata, ti mette pa-
lesemente in vista l'umore e l'animo della persona,
sì che ti sembri averle veduto a occhio nudo il pro-
fondo del cuore.
[Conlimia).
243
VARIETÀ'
Del diritto pubblico e privato delV antica Roma. Di-
scorsi due letti nella biblioteca comunale di Ma-
cerala da Matteo Ricci prefetto della biblioteca
suddetta f socio corrispondente deW accademia delle
scienze di Torino ec. - 8.° Macerata dalla tipo-
grafìa Bianchini 1859. {Sono pag. 120.)
Il signor marchese Matteo Ricci è di qua' giovani
cavalieri di alto intelletto, i quali stimano dover es-
serci sempre di grave consiglio la sapienza civile de-
gli avi. Non vuoisi infatti, se non dalle piccole menti,
revocare in dubbio, che pochissime cose i moderni
hanno aggiunto a ciò che con profondità di senno
considerarono e statuirono i filosofi, i giureconsulti,
i legislatori si della Grecia e sì di Roma. Avemmo
già da lui alle stampe fino dal 1853 il Volgaiiz-
zamenlo della politica di Aristotele con importanti
note ed un bel discorso preliminare. Or ecco una
sua opera originale, che verrà letta con ammaestra-
mento da quanti vorranno ben conoscere nella ra-
gione delle pili solenni leggi il governo romano dei
re e dei consoli.
I
2U
Storia generale delle missioni francescane del P. Mar-
cellino da Civezza min. oss. - Volume IH. - 8."
Roma tipografìa Tiberina 1859. (Sono pag. 296.)
Continua egregiamente il P. Marcellino l'opera
delle Missioni francescane in questo terzo volunme, dì
non minore importanza degli altri alla storia sì re-
ligiosa e sì civile di tanti popoli della terra. Quante
peregrine notizie , esposte sempre con rara critica
ed elegante facondia, intorno allo stato in cui erano
nel secolo XIY la Cina, la Persia, l'Egitto, la Tar-
taria, la Crimea, la Polonia, la Russia, l'IIliria, là
dove i figliuoli del patriarca d' Assisi sparsero ge-
nerosamente tanti sudori e tanto sangue a prò del-
la fede e civiltà cristiana ! Di qual numero d'eroi
evangelici, veri benefattori dell'uman genere, vi si
narrano le azioni , e principalmente di que' nostri
Giovanni da Monte Corvino , Tommaso da Tolen-
tino, e B. Oderico da Pordenone ! Del qual ultimo
r illustre autore ci ha dato di più, traendolo da un
manoscritto della real biblioteca di Monaco in Ba-
viera , r Iter ad parles infidelium a fratre Henrico
de Glars eiusdem ordinis descriptum: testo che riu-
scirà carissimo non pure a' geografi , ma ad ogni
classe di eruditi. Per la qual cosa riceva nuovamente
il P. Marcellino le nostre vivissime congratulazioni,
come quegli che può a ragione gloriarsi di dare al
pubblico un'opera che sommamente onora non solo
r insigne ordine de' minori, ma l' italiana letteratura.
245
// Libro della Sapienza con alcuni nuovi imporlanli
studi sopra la Divina Commedia, la Profezia di
Sofonia, il Magnificat e la Salveregina , tradotti
in versi rimati dal marchese Giovanni Broli di
Narni, socio dell'istituto di corrispondenza archeo-
logica di Roma e di altre accademie 8." Narni
tipografìa del Gattamelata 1859. (Un voi. di
pag. 229).
Questo libro non ha bisogno di raccomanda-
zione, bastando che sia opera del signor marchese
Eroli, così , come ognun sa , studioso de' classici.
Ai nobili volgarizzamenti del Libro della Sapienza
in terza rima, della Profezia di Sofonia in ottave,
del Magnificat , della Salve Regina , e del salmo
cinquantesimo terzo, tengono dietro alquanti discorsi
intorno alla Divina Commedia, i quali con profitto
e piacere saranno letti non solo dai cementatori ,
ma da ogni maniera di amatori dell'altissimo poema.
Le favole di Fedro volgarizzate in rima dal profes-
sore Giuseppe Giacolelti delle scuole pie, socio di
diverse accademie. 12. Torino tipografia di G.
Favale e compagnia. (Sono pag. 152).
Fra i molti volgarizzamenti che ha 1' Italia delle
sapientissime favole esopiane di Fedro, uno de' piiì
pregiati vorrà certamente esser questo del Giaco-
letti. Pochi infatti de' nostri, al pari del chiaris-
246
slmo professore , si conoscono egregiamente delle
grazie latine e italiane, e sanno da buon maestro
battere i loro versi ad ogni maniera d' incudine.
Lui autore splendido di versi lirici nell'una e nel-
l'altra favella : lui meritamente lodatissimo ne' di-
dascalici, ne' quali ci diede VOllica in terza rime e
ultimamente lo Specimen poelicum de vapore. Or
eccolo a prova di gentile semplicità col liberto di
Augusto: e con quanto onor suo, valga a mostrarlo
il saggio che ne lechiamo.
LA CORNACCHIA SUPERBA E IL PAVONE.
Perchè iiesswio gloriarsi ardisse
De' beni allrui, ma si viva conlento
Di sua condizione^ a monimcnlo
D^ ognun si fatto esempio Esopo scrisse.
Gonfia dì vóto orgoglio una cornacchia
Tolse le penne ad un pavon cascate»
E postesele intorno,
Manto sen fece svariato e adorno.
Indi, spregiando sue compagne, al bello
Si mischiò de' pavoni almo drappello.
Ma questo, affìgurando
L'audace, ecco l'assale e la spennacchia,
E la fuga a beccate.
Ella, così malconcia, dolorando
A far si avvia ritorno
Tra le sue pari: ma da lor reietta
N'è tosto, e piena di tristezza e scorno.
Allora una di lor, che già spregiate
247
Avea: Se tu, le disse,
Stata fossi contenta a! nostro ostello,
E paziente a quello
Che natura ci diede e ci prescrisse,
Né scorata e dispetta
Dai pavon, né respinta ora da noi.
Non piangeresti gì' infortuni tuoi.
L' ASINO AL VECCHIO PASTORE.
Qui si dimostra come
Nel variar del piincipe
NuWallro cangia il povero
Che del padrone il nome.
Un vecchio pauroso in verde prato
Un asinel pascea ;
Quando da ostil clamore
Repente spaventato
11 giumento esorlò quanto potea
Ratto a fuggir, perché dei vincitore
Non cadesser prigioni.
Ma quello il pie' movendo tardo e lento,
E ad or ad or dell'erbe tenerelle
Pur facendo bocconi,
Di grazia, disse, forse due bardelle
Avrà d' impormi il vincitor talento ?
No, disse il vecchio. Ebbene,
L'altro rispose, venga pur chi viene.
248
Che cale a me qual io m'abbia padrone,
Se ugual basto avrò sempre il sul groppone ?
IL NIBBIO E LE COLOMBE.
Chi d\iom malvagio in guardia pon sua vitUy
Trova rovina dove cerca aita.
Già le colombe avean spesse fiate
Sfuggito il nibbio, e dalle lievi penne
A ratto voi portate
Evitala la morte.
Ma l'augel rapitore ad opra venne
Di fraude, e sì ingannò le malaccorte :
— Perchè sempre traete
Giorni turbati e rei :
Anzi che a vostro re con fermo patto
Me nominar, che intatto
Da tutte offese, che temer potete.
Per sempre il viver vostro serberei ? —
Quelle gli prestan fede, e ai lui si danno.
Ma come al regno ei giugne,
Quel barbaro tiranno
A lacerare colle rabid'ugne
E ad una ad una a divorarle prende.
Viste le morti orrende
Dell'altre, allor sì parla una di loro :
Ahi stolte ! Ah ben mertiam questo martoro!
249
FEDRO CONTRO I CENSORI DELLE FAVOLE
DI ESOPO.
Tu che gli scritti miei con naso adunco
Afferri e mordi, e d'esti scherzi in uggia
Hai la lettura, questo mio libretto
Soffri per poco ancor : eh' io della fronte
Sgombrar ti voglio le severe nubi.
Mostrandoti d' insolito coturno
Calzato Esopo, a tragic'arte intento.
Deh ! mai non fosse del pelìaco monte
Negli alti boschi il pin tessalo a terra
Caduto a colpi di fatai bipenne !
Ned Argo mai novella ardita via
Dischiusa avesse a morte orrenda e certa.
Fabbricando di Pallade con arte
La nave, che primiera aprì del Ponto
I seni inospitali, ohimè ! con quanta
E de' greci e de' barbari ruina !
Da quel funesto, atroce, orribil giorno
D' Eéla illustre regnator possente
Tutta di pianto e duol s'empia la reggia,
E il trono del buon Pelia a terra giacque
Per barbaro misfatto e tradimento
Dell' iniqua Medea. Costei, 1' ingegno
Cupo e feroce in cento insidiosi
Sembianti ravvolgendo, a se la fuga
In prima assicurò, le calde membra
Del fratello da lei spento e sbranato
Qua e là spargendo in suo cammio : fé' poscia
Di Pelia alle ingannate incaute figlie
250
Bruttar le mani del sangue paterno !
Che ti senmbra, o lettor, di questo stile
Sublime, e di sì tragico argomento ?
Pur questo, tu rispondi, è sciocco, e privo
D'ogni sapore : anzi è menzogna. Assai
Pria ch'Argo il mar solcasse, i flutti egei
Con sua flotta Minosse avea premuti,
E con giusto supplizio vendicata
Del prode figliuol suo 1' iniqua morte.
Che dunque io teco far potrò, novello
Difficile Caton, se tutte a! paro
Sdegni le Tavolette e le stupende
Favole degli eroi ? Deh ! cessa ornai
A le tranquille lettere ed amene
Recar molestia, se non vuoi da quelle
Di molestia maggiore il contraccambio.
E s'abbia anche per se questi miei detti
Ogni altro stolto a te simil, che tutto
Schifiltoso ripudia, e il cielo stesso,
Per parer saggio, rimbrottar presume.
Lettere familiari dei migliori scrittori italiani del se-
colo XIX, proposte in esempio ai giovani studiosi
da Michele Melga. Seconda edizione migliorala
ed accresciuta. 12. Napoli, tipografia di G. Li-
rnongi 1859. (Sono pag. 154.)
Fra le pili savie scelte di lettere italiane ad am-
maestramento de' nostri giovani noi vogliamo por
questa che testé ci ha dato Michele Melga, giovane
251
napoletano, già scolare del Puoli, intendentisslmo
del bello scrivere e autore di opere da noi ricor-
date con meritata lode nel giornale arcadico. Qui
si hanno ottime regole generali non solo, ma esempi
nobilissimi di lettere di avviso e ragguaglio, di rac-
comandazione, di domanda e preghiera, di offerta e
dono, di ringraziamento, di condoglianza e conso-
lazione, di lagnanza e rimprovero, di giustificazione
e di scusa, di consiglio, di officiosità e di augurio. Gli
autori delle lettere sono i seguenti: Arcangeli Giu-
seppe, Betti Salvatore, Botta Carlo, Colombo Mi-
chele, Costa Paolo, Farini Pellegrino, Fornaciari Lui-
gi, Foscolo Ugo, Frediani Francesco, Giordani Pietro,
Grassi Giuseppe, Guasti Cesare, Leopardi Giacomo,
Monti Vincenzo, Pellico Silvio, Perticari Giulio, Pin-
demonte Ippolito, Puoti Basilio, Rezzi Luigi Maria.
Dissertazione sopra un passo di Dante. 8.° Perugia^
tipografia di Vincenzo Bartelli 1859. (Sono pa-
gine 24).
N' è autore il P. Bonaventura Viani agostiniano
scalzo, il quale vi discorre di papa Anastasio, che
secondo Dante fu tratto dall'eretico Fotino delta via
dritta (Inf. canto XI). Egli mostra con ragioni evi-
dentissime, che il poeta seguì una fama al tutto con-
traria al vero : essendo più che certo che Anasta-
sio II, pontefice di santi e miti costumi, non comu-
nicò con Fotino, venuto in Roma, se non « per con-
vincerlo intorno alla conformità della fede di san
25-2
Leone Magno colla dottrina del concilio niceno, pre-
sentandogli l'originale e dandogli copia della lettera
dì quel santo, affinchè la version greca, depravata
dagl' interpreti, nella sua vera e genuina lezione si
rimettesse. »
Une excursion a Monte-Vergine , par V. T. A. de
N. - 8.® Rome chez Joseph et Francois fils Sal-
viiicci 1859. (Sono pag. 30).
Non sapremmo dire se maggior sia la vivacità
o la dottrina di questa operetta. Essa non solo ci
dà la storia e la descrizione d'uno de' più celebri
monasteri e santuari del regno di Napoli , ma ci
porge molte particolarità della vita di que' rigidi
cenobiti, e de'costumi delle circostanti popolazioni.
N' è autore un prelato dottissimo, monsignor Vin-
cenzo Tizzani arcivescovo di Nisibi.
Vicende degli alti de^ fratelli arvali ed un nuovo fram-
mento di essi. Memoria del cav. G. B. De Rossi.
8." Roma tipografia tiberiìia 1858. (Sono pag. 28,
con un rame).
Le stazioni delle sette coorti dei vigili nella città di
Roma. Memoria del cav. G. B. De Rossi. 8.° Ro-
ma tipografia tiberina 1859. (Sono pag. 35).
253
DeWarco Fabiano nel foro. Lettera del cav. G. D.
De Rossi al sig. prof. Teodoro Mommsen. 8.° Ro-
ma tipografìa tiberina 1859. (Sono pag. 20).
Piacerà agli archeologi la notizia di questi scritti
ultimamente pubblicati da un nostro letterato, che
in età ancor verde ha reso chiarissimo il suo nome
di qua e di là dalle alpi.
INDICE
Secchi, SidV ecclisse solare del \ 8 luglio 1 860. pag. 3
Maggiorarli , Sulle forme del cranio cinese » 33
Fabi Montani, Elogio del card. Chiarissimo Fal-
conieri » 40
Catalani, Terapia (Continuazione e fine) . » 61
Ponzi, Storia geologica del Tevere . . » 129
Maggiorani, Riflessioni critiche sopra alcune re-
centi opinioni intorno Vufjicio della milza, e
tentativo di conciliazione delle opposte sen-
tenze )) 150
Siacci, Intorno a tre problemi proposti nei nuovi
annali di matematica dei signori Terquem e
Gerono » 166
Ciampi, La vita artistica di Carlo Goldoni » 186
Varietà •. ■ m 243
IMPRIMÀTUR
Fr. Hieronynius Gigli Ord. Praed. S. P. Ap. Mag.
IMPRIMATUR
Fr. Ant. Ligi Archiep. Icon. Vicesgerens
Nel giornale si dà il sunto, o viene inse-
rito l'annunzio, delle opere presentate in dop-
pio esemplare alla Direzione. Esse debbono
essere inviate franche d'ogni spesa di porto
e dazio.
Le notizie di scienze, di lettere, e di belle
arti, quelle di scoperte utili per 1' agricol-
tura, industria ec, come anche i programmi dei
concorsi accademici, dovranno similmente es-
ser mandati franchi di posta alla Direzione.
Chi si associa per dieci copie, o ne garan-
"^^ tisce la vendita, avrà l'undecima gratis.
^3>
i^f. *
i Y
iti il
GIOUNALE
DI SCIENZE, LETTERE ED ARTI
TOMO XIX
DELLA NUOVA SERIE
ROMA
Tipografia delle Belle Arti
1860
Piazza Poli niim. 91 (lenirò il Palazzo.
GIORNALE
SCIENZE, LETTERE ED ARTI
TOMO CLXV
DELLA NUOVA SERIE
XIX
GENNAIO E FEBBRAIO
1860
ROMA
TIPUGRAFIA DELLE BELLE ARTI
1860
DIRETTORE DEL GIORNALE
Commendatore PIETRO ERCOLE VISCOiNTI, commissario del-
le antichità romane , presidente dei collegio filologico e
professore di archeologia nell'università, presidente ono-
rario del museo capitolino , segretario perpetuo e socio
ordinario della pontificia accademia di archeologia, mem-
bro della commissione consultiva di antichità e belle arti
appresso il ministero del commercio e belle arti, e di quella
di archeologia sacra, corrispondente dell'imperiale istituto
di Francia ec.
COMPILATORI
BETTI cav. SALVATORE , presidente della pontificia acca-
demia di archeologia, professore di storia e mitologia e
segretario perpetuo dell'insigne e pontificia accademia di
san Luca, membro del collegio filologico dell'università
romana, e della commissione governativa deputata al pre-
mio delle opere teatrali, accademico della crusca.
MAGGIORANI dott. CARLO , membro del collegio medico-
chirurgico e professore di medicina politico-legale nel-
l'università romana, socio ordinario della pontificia acca-
demia dei nuovi lincei.
POLETTI coni. LUIGI, presidente onorario perpetuo e profes-
sore di architettura teorica nell'insigne e pontificia acade-
mia di s. Luca, ingegnere ispettore membro del consiglio
d'arte, professore onorario della R. accademia delle belle
arti di Modena, architetto direttore della riedificazione
della basilica di s. Paolo, consigliere della commissione
IV
consultiva di antichità e belJe arti appresso il ministero
del commercio e belle arti, aggregato architetto al collegio
filosofico dell' università romana , socio ordinario della
pontificia accademia di archeologia.
Pietro Biolchini
Segretario
ONORARI
CARPI cav. PIETRO, professore di mineralogia, membro del
collegio medico-chirurgico e direttore del gabinetto mine-
ralogico dell'università romana, socio ordinario della pon-
tificia accademia de' nuovi lincei.
DE-CROLLIS cav. DOMENICO, presidente del consiglio sani-
tario militare, membro del collegio medico chirurgico e
professore di medicina clinica nell'università romana.
GERARDI dott. FILIPPO.
COLLABORATORI
ANGELINI padre Antonio, della compagnia di Gesù, profes-
sore nel collegio romano, consultore della sacra congre-
gazione dell'indice, in Roma.
BARTOLINI monsignor Domenico, uditore della segnatura di
giustizia, consultore delle sacre congregazioni dell'indice
e delle sacre indulgenze e reliquie, membro della com-
missione di archeologia sacra, socio ordinaria e censore
della pontificia accademia di archeologia, in Roma.
BELLONI dott. Pio, medico, in Roma.
BELLUCCI Giuseppe, a Cervia.
BIANCHINI Antonio, in Roma.
BIOLCHINI Pietro, segretario del giornale, in Roma.
BONCOMPAGNI S. E. don Baldassare, socio ordinario della
pontificia accademia de' nuovi lincei e di quella di archeo-
logia, in Roma.
V
BORGOGNO padre don Tommaso, somasco, in Roma.
BRIGHENTI cav. Maurizio , ingegnere ispettore emerito , a
Rimini.
BUSTELLI Giuseppe, in Roma.
CAPOZZI Francesco, a Firenze.
CATALANI dolt. Vincenzo, medico, in Roma.
CAVALIERI SAN-BERTOLONiccola, ingegnere ispettore mem-
bro del consiglio d'arte, membro del collegio filosofico e
professore emerito di architettura statica ed idraulica
neir università, presidente capo della giunta di revisione
del nuovo estimo, consigliere e professore dell' Insigne e
pontificia accademia di s- Luca , socio ordinario della
pontificia accademia de nuovi lincei, in Roma.
CHELINI padre Domenico, delle scuole pie, professore nel-
l'università, a Bologna.
CHIMENS doti. Baldassare, medico, in Roma.
CIALDI commendatore Alessandro , socio onorario dell'acca-
demia de' nuovi lincei, in Roma.
CICCONETTI avv. Felice, giureconsulto, in Roma.
COPPI ab. cav. Antonio, segretario del pontificio istituto agra-
rio , membro della commissione speciale consultiva di
agricoltura, socio ordinario delle pontificie accademie di
archeologia e de' nuovi lincei, in Roma.
DE RIGNANO padre Antonio, ex-procuratore generale de'mi-
nori osservanti, consultore delle sacre congregazioni del
sant'uffizio e dell'indice , esaminatore de' vescovi , socio
onorario della pontificia accademia d'archeologia» in Roma.
DE-FERRARI padre maestro Giacinto , dell'ordine de' predi-
catori, commissario generale del sant'uffizio , consultore
delle sacre congregazioni dell'indice, dei vescovi e rego-
lari, di propaganda e del concilio, socio ordinario e cen-
sore della pontificia accademia di archeologia, in Roma.
DE-MINICIS avv Gaetano, corrispondente della pontificia ac-
cademia romana di archeologia, a Fermo.
VI
DE-ROSSI cav. Giambattista , membro del collegio filologico
dell'università, scrittore di lingua lattna nella biblioteca
vaticana , membro della commissione consultiva d' anti-
chità e belle arti e di quella di archeologia sacra, socio
ordinario e censore della pontificia accademia di archeo-
logia, in Roma.
DIONIGI ORFEI contessa Enrica, in Roma.
FARI de' conti MONTANI monsignor Francesco, cameriere se-
greto soprannumerario di Sua Santità, canonico della pa-
triarcale basilica di s. Maria maggiore , consultore delle
sacre congregazioni dell'indice e di propaganda fide, mem-
bro del collegio teologico della università fiorentina, socio
onorario della pontificia accademia di archeologia, in Roma.
FERRUCCI cav. Luigi Crisostomo, bibliotecario laurenziano e
marucelliano , socio corrispondente della pontificia acca-
demia romana di archeologia, a Firenze.
FERRUCCI cav. Michele, professore e bibliotecario dell'univer-
sità, a Pisa.
FIORINI MAZZANTI Elisabetta , socia ordinaria della ponti-
ficia accademia de' nuovi lincei, in Roma.
FOLCIII commendatore Clemente, architetto di Sua Santità,
consigliere dell'insigne e pontificia accademia di S. Luca,
ingegnere ispettore emerito membro del consiglio d'arte,
aggregato ingegnere al collegio filosofico della università
romana, socio ordinario della pontificia accademia di ar-
cheologia, consigliere della commissione consultiva di an-
tichità e belle arti appresso il ministero del commercio e
belle arti, in Ronra.
FRANCESCHI FERRUCCI Caterina, a Pisa.
GIACOLETTI padre Giuseppe, delle scuole pie, professore, a
Pesaro,
GIULIANI padre don Giambattista , somasco , professore , a
Firenze.
GORI prof. Fabio, in Roma.
VII
GRIFI cav. Luigi, segretario generale del ministero del com-
mercio, belle arti ec. , socio ordinario e conservatore per-
petuo dell'archivio della pontificia accademia di archeo-
logia, in Roma.
GUGLIELMOTTI padre maestro Alberto, dell'ordine de' pre-
dicalori, teologo casanatense, socio ordinario della pon-
tificia accademia di archeologia, in Roma.
MASETTI monsignor Celestino, cameriere d'onore di Sua San-
tità, professore, a Fano.
MERCURI Filippo, in Roma.
MONTANARI Giuseppe Ignazio, professore, a Osimo.
NARDUCCI Enrico, in Roma.
PERETTI Pietro, professore emerito di farmacia nell'univer-
sità, in Roma.
PIANCIANI padre Giambattista , della compagnia di Gesù ,
presidente del collegio filosofico dell'università, socio or-
dinario della pontificia accademia de'nuovi lincei, in Roma.
PONZI Giuseppe , professore d'anatomia e fisiologia compa-
rata nell'università, socio ordinario della pontificia acca-
demia de'nuovi lincei, in Roma.
PUCCINOTTI cav. Francesco, professore nella università, ac-
cademico della crusca, a Pisa.
RÀMRELLI Gio. Francesco, professore, a Persiceto.
RANGHIASCI-RRANCALEONI marchese Francesco, a Gubbio.
RAVIOLI cav. Camillo, in Roma.
RICCI marchese cav. Amico, a Rologna.
SASSOLI avv. Enrico, membro del collegio filologico dell'uni-
versità, a Rologna.
SECCHI padre Angelo , della compagnia di Gesù , direttore
dell'osservatorio astronomico del collegio romano , socio
ordinario della pontificia accademia de' nuovi lincei , in
Roma.
SORGONI Angelo, primo medico, a Tolentino.
vili
SPEZI Giuseppe, membro del collegio filologico e professore
di lingua greca nella università romana, socio ordinario
della pontificia accademia di archeologia, in Roma.
TORTOLINI ab. Barnaba, membro del collegio filosofico e pro-
fessore di calcolo sublime nella università, professore di
fisica matematica nel collegio urbano di propaganda e nel
seminario romano, socio ordinario della pontificia acca-
demia de' nuovi lincei, in Roma.
VANZOLINl Giuliano, a Pesaro.
VERCELLONE padre don Carlo, procuratore generale de'chie-
rici regolari di san Paolo, consultore della sacra congre-
gazione dell'indice, socio ordinario e censore della pon-
tificia accademia di archeologia, in Roma.
VESCOVALI cav. Luigi, socio ordinario della pontificia acca-
demia di archeologia, membro della commissione dell' in
dustria appresso il ministero del commercio , in Roma.
VISCONTI cav. Carlo Lodovico , coadiutore al commissario
delle antichità,segretario generale dell'insigne congrega-
zione artistica de'virtuosi al Panteon, socio ordinario della
pontificia accademia di archeologia, in Roma.
YOLPICELLI cav. Paolo , membro del collegio filosofico e
professore di fisica sperimentale nella università, direttore
del gabinetto fisico, segretario della pontificia accademia
dei nuovi lincei, in Roma.
ZANELLI canonico Domenico , socio onorario della pontificia
accademia di archeologia, in Roma.
SCIENZE, LETTERE ED ARTI
La vita artistica di Carlo Goldoni^
per Ignazio Ciampi.
{Continuazione e fine).
0
l duella maniera di falsi pittori mi ricorda una no-
vella di un senatore veneziano al tempo che erano
in voga sì in Francia come in Italia le commedie
spagnuole, quando parea che tutto il mondo dovesse,
buono o mal grado, un giorno o V altro vestire il
collare incartocciato e le brachesse alla sivigliana.
Dovete sapere che a quel secolo del guardinfante
era venuta una strana voglia di mescolare il sacro
al profano , per modo che nella commedia ancora
parea leggiadra cosa discorrere di astruse materie ;
spesso avveniva che l'attore nel bel mezzo d'un col-
loquio affannoso vi citasse la Scrittura e i concili
e santo Agostino. Un amoroso si compiangeva di
sé stesso e della spietata sua bella, e frammetteva
alle doglianze una grave dicerìa sulla predestinazione
e la grazia : un altro, che innanzi all' innamorata
avea messo a sacco i vulcani e il sole e le stelle
G.A.T.CLXV 1
2
a prova di squisito parlare, poi si gittava a capo chino
a tessere argomenti in forma e a provare con certi
passi d'Aristotile ch'ella dovea sentir pietà della sua
profonda passione. Per il che si conchiude che ogni
secolo ha, poco più poco meno, avuto le sue pazzie
mutatesi a mano a mano solamente nella apparenza.
E se ai rustici d' ogni tempo pur sembra che nel
passato le cose procedessero meglio, ciò avviene per
manco di erudizione : imperciocché il pessimo dei
passato se l' ingoi il fiume Lete ; il buono resti a
galla e si ricordi. Or dunque a un senatore vene-
ziano , stando a Vicenza , avvenne di trovarsi alla
rappresentazione d' una commedia che facea trase-
colare i savi della città e una intiera accademia che
vi assisteva. Egli però, mentre gli altri gongolavano
di piacere, parca stesse a mal'agio, e come morso
da' dolori di ventre si contorceva e scoteva la testa,
e tre quattro volte sì drizzò dalla seggiola e si
asciugò col fazzoletto la fronte. Nel terzo atto Cin-
zie amoroso, non istanco del lungo discorrere, si
diede a dissertare sulla natura delle passioni, e a
stento tiratosi fuori d' una questione di morale, si
sprofondava, a furia, in una questione di fisica. Al-
lora il buon senatore non potè più contenersi e, al-
zata la mano, gittò un cedro, eh' egli teneva, sul
capo dell'eterno sermoneggiatore gridando nel suo
dialetto: Bufon, fame rider. Che effetto producesse,
non so: ma certo quando si veggono o si leggono
opere teatrali, dove si parli più che si dipinga, a
me viene in capo il senatore veneziano: e se non
fosse eh' io non sono senatore, avrei voglia d' imi-
3
tarlo. Questo è il racconto : se non fa al propo-
silo, ne chiedo scusa: non sempre si può slare in
ìsquadra di logica sottile. Circa alla pittura de' ca-
ratteri a me pare che il Goldoni talvolta si possa
assomigliare all' Alighieri, il quale si dimostra sì
conciso ed efficace nella descrizione delle cose e
delle passioni. Altri ha già detto che Dante è padre
ancora della drammatica: e n' è padre per certo, non
già nella forma esterna , ma bensì nella parte più
essenziale dell' immaginare e scolpire caratteri co-
mici e tragici, e porli in quel movimento eh' è ne-
cessario affinchè appariscano altrui come nel dramma
conviene. E non è egli tragico nel Farinata superbo,
eretto dalla cintola in su nella tomba rovente ?
Ed ei s'ergea col petto e colla fronte
Come avesse l' inferno in gran dispitto.
{Inf. C. X).
Ricordati quand'egli dipinge il contedi Montefeltro,
scena dove la terribile ironia del demonio fa ve-
ramente arricciare i peli :
Venir se ne dee giiì tra'miei meschini
Perchè diede il consiglio frodolente.
Dal quale in qua stato gli sono a' crini;
Ch' assolver non si può chi non si pente,
Né penlere e volere insieme puossi,
Per la contraddizion che noi consente.
0 me dolente ! cotne mi riscossi
4
Quando mi prese dicendomi : Forse
Tu non pensavi eh' io loieo fossi !
{inf. a XXVII).
Né cito tanti passi , che oramai stanno un' altra
volta in bocca del popolo. E non ti sembra dia-
logo da tragedia (e certo 1' Alfieri vi ha studiato)
quello che corre tra la madre chiedente vendetta e
Traiano che parte per la guerra ?
Madre . . . Signor fammi vendetta
Del mio fìgliuol eh' è morto, ond' io m'accoro.
Traiano Ora aspet/a
Tanto eh' io tornì.
Madre Signor mio,
Se tu non torni ?
Traiano Chi fia dov' io
La ti farà.
Madre L'altrui bene
A te che fia, se il tuo metti in oblio ?
Traiano ... Or ti conforta, che conviene
Ch' io solva il mio dovere anzi eh' io muova;
Giustizia vuole, e pietà mi ritiene.
{Purg. C. X).
E così dello stile comico si hanno bellissimi esem-
pi nelle risse de' diavoli e nel dialogo tra Sinone
greco e maestro Adamo falsatore di monete. Ma qui,
per non dir troppo, voglio ricordar solamente il pas-
5
so, dove si scorge viva la persona e si ride, come
in commedia, del pigro Belacqua.
Ed un di lor, che mi sembrava lasso,
Sedeva ed abbracciava le ginocchia,
Tenendo il viso giù ira esse basso. ^
0 dolce signor mio, diss' io, adocchia
Colui che mostra sé più negligente
Che se pigrizia fosse sua sirocchia.
Allor si volse a noi, e pose mente.
Movendo il viso pur su per la coscia,
E disse: Va su tu, che sei valente.
Conobbi allor chi era; e quell'angoscia
Che m'avacciava un poco ancor la lena
Non m' impedì l'andare a lui; e poscia
Che a lui fui giunto, alzò la testa appena
Dicendo: Hai ben veduto come il sole
Dall'omero sinistro il carro mena ?
Gli atti suoi pigri e le corte parole
Mosson le labbra mie un poco a riso;
Poi cominciai: Belacqua, a me non duole
Di le omai: ma dimmi perchè assiso
Quiritta se' ? Attendi tu iscorta,
0 pur lo modo usato l' hai ripriso ?
Ed ei: Frate, l'andare in su che porta ?
Che non mi lascerebbe ire a' martiri
L'angel di Dio che siede in su la porta.
{Piirg. C. IV).
XVIJI.
L' intendimento maraviglioso che all' Alighieri
facea cogliere in breve i lineamenti di ogni carat-
tere^ era intieramente posseduto dal Goldoni in fatto
di comica. E ciò può vedersi per l'esempio solo di
quel pigro, ch'egli dipinge nel Tutore, dov'è mira-
bile la somiglianza col Belacqua del sommo poeta.
Laonde può vedersi che quando le finzioni sono at-
tinte dal vero, due grand' ingegni si avvicinano, e pu-
re non si somigliano: perchè ambedue, pur guardando
alla natura, la riflettono in loro stessi e la ripro-
ducono secondo che il loro intelletto l'ha meditata.
Pantalone e Ottavio sono tutori di Rosaura, nipote
di quest'ultimo. Rosaura è stala rapita di casa per
negligenza della madre e per le male arti di un furbo.
Pantalone sen corre a Ottavio e lo invita a voler-
glisi accompagnare per cercare e cogliere colui che
r ha rapita. Ottavio pigro ode il caso ed esprime
la sua meraviglia più brevemente che sa, cioè con
un oh ! Né per questo tralascia di trarre fumo dalla
sua pipa. Finalmente ha consumato il tabacco e si
accinge a porsi addosso i vestiti per seguire il suo
compagno , a cui dà rimprovero di troppa furia e
impazienza. E chiama Brighella. Ehi !
B. Signor.
0. Mi voglio vestire.
B. (Oh che miracolo!) Volela lavarsele man?
0. Eh non importa.
B. (L'è do mesi che noi se lava). ^
i
O. Dov'è Arlecchino ?
lì Le andà via brontolando e no so dove el sia.
0. Tu solo non mi potrai vestire.
P. Mo via deslrigheve. Cossa ghe voi a vestirve ?
ve agiuteiò anca mi.
B. Mi no §0 pratica. La perdona : dove tienla le
scarpe ?
0. Saranno sotto il letto.
P. {A Brighella) Presto, caro vii, che preme.
B. {porla scarpe vecchie affibbiale) Eie queste ?
0. Sì, quelle.
B. Come s'ha da far a metterle ?
O. Oh io non le tiro mai su le scarpe: patisco di
calli. {Si melle le scarpe a pianta)
P. Cussi faremo più presto.
B. Volela la velada ?
P. Oibò: meleve su el tabaro.
0. Si, dite bene, il tabarro.
B. Dov'elo?
0. Sarà sul Ietto.
B. El tabaro per coverta.
P. Via, leveve suso.
O. {Brighella viene col tabarro) Aspettate {A Bri-
ghella). Dammi mano.
B. Son qua.
0. {A Pantalone) Anche voi.
P. Oh che pazienza ! {Ottavio si leva).
{Scena XI. Atto II).
E scriverei tutta la scena dov'ella non pigliasse
troppo spazio. Basti dire , che raccolti per la ca-
8
mera e parrucca e cappello e scatola da tabacco
e fazzoletto si giunge passo passo a vestire il fan-
toccio. In fine egli è pronto : dimanda che vento
tira e gli par che Castello, a cui debbono andare,
sia in capo del mondo. Ma nel punto che sta per
mettere il piede fuor della soglia, s'accorge e grida
che gli scappano i calzoni: onde l'amico, montato
in collera, gli volta le spalle; e il pigro torna pla-
cidamente a sedersi dicendo : Che uomo furioso è
quel Panlalone ! Sa dove sono^ li ha trovati ; poco
più,, poco meno, non vi era tanta fretta. E ti ram-
menta Belacqua : L' andare in su che porla ? Che
non mi lascerebbe ire a' martiri UAngel di Dio che
siede in su la porla. Ora cotesto pigro è uno dei
cento caratteri originali, che il nostro poeta ha fi-
gurato con la varietà che distingue i pittori com-
paesani Giorgione , Tintoretto ed altri : i quali se
non raggiunsero l'aggraziato e severo disegno della
scuola romana, la superarono, a detta di molti mae-
stri, nella molteplice varietà delle teste ispirate al
certo per gli orientali che convenivano nella sede
dell' impero dell' Adriatico. Pur non è tanto a far
meraviglie della novità delle figure stesse e delle
circostanze accidentali onde si mutano, quanto del
modo vero e convenevole e nuovo con cui egli ritrasse
Je passioni e i costumi che hanno costante valore,
come il sesso, l'età, la condizione, il grado e simili:
e più che altro dell'aver dipinto con novità que' ca-
ratteri che furono in guisa esemplati da sommi au-
tori, che paresse temerità rifarli e disperata cosa rag-
giungerli non che superarli. A lui, come sagace os-
servatole, era facile il vedere come la morale natura
9
degli uomini non mai s'assomiglia perfeltamenle, sì
come nella fisica anche tra due gemelli, la vista d'un
pittore o d'un fisonomista può veder differenze che
sfuggono per solilo a chi li guarda senza intendi-
mento e alla sfuggita. Gli accademici ti ritraggon
ne' quadri certi loro tipi di scuola, come se l'arie
fosse finita negli artifìci. Gli artisti veri guardano
non gli esempli, ma 1' uomo, né raccozzano le varie
parti dj più corpi, come contano certe favole di an-
tichi, ma, scelto quello che conviene a ciò che de-
vono rappresentare, vi si fermano con amore: e se
v'aggiungono qualcosa, questa è nel sentimento eh' è
parte della facoltà creatrice dell' uomo. Laonde sia
nel porre in luce piiì viva la verità naturale del
bello, sia nel trarre dal fondo della mente umana
ciò che la natura non dimostra che in ombra, essi
creano piìi veramente che non facciano i pretesi idea-
listi , e creano senza dipartirsi mai dal naturale e
dal vivo delie cose. Nel che può temersi piuttosto
che alla natura manchi l'osservatore, anziché all'os-
servatore la natura, sempre feconda e inesauribile e
varia nell'apparente uniformità. Così il tempo, che
volge seco tanta diversità di cosiumi e d'idee, fa sì
che mutino aspetto nella espressione dell' indole e
l'avaro e il prodigo e il parassito e il giocatore e il va-
naglorioso o qual'altro faccia parte ridicola in questo
teatro del mondo: in guisa che dalla maniera che
ciascuno adopera nel rappresentarli si scuopra, chi
ben guardi, il diverso grado dell'artistico ingegno.
Pedante e copiatore è colui che, per esempio, non
sa immaginarsi altro avaro fuori di quello che fu
ritratto da Plauto e dal Molière: ingegno inventivo
10
è quegli che nella natura, eguale nel fondo, scuopre
la veste nuova in cui si manifesta diversamente in
ogni secolo questo vizio eterno del genere umano.
Che anzi come la morale manifestazione prende abito
e colore dal tempo mutato; così pure la espressione
fisica delle figure, secondo che osservano i vecchi,
si cangia dall' un secolo all'altro e quasi di genera-
zione in generazione: tanto che a Cesare Balbo le
donne d'oggidì non apparivano come quelle del tempo
di Maria Antonietta, né le gravi figure dei generali
repubblicani e dei soldati della guardia imperiale a
lui tornavano a memoria guardando le assise eleganti
dell'esercito degli orleanesi. Quanto all'opposizione
dei caratteri il nostro autore ha raggiunto talora lo
scopo, non già per la contrarietà, ma bensì per la so-
miglianza, come nei Rusleghi si può vedere. Dove un
medesimo carattere è compartito in quattro perso-
naggi tulli vestili della rusticità, non già in un modo
uniforme, ma bensì con vario grado di forza e di
colore, così che in un medesimo dramma si vegga
questo vizio dipinto ne' diversi suoi aspetti. Ciò non
s'era mai veduto fatto dai comici antichi (né credo
da alcun'altro dopo il Goldoni): e certamente, a chi
ne va in traccia, questo sarebbe tesoro da aggiun-
gere ad altri precetti. Né io me gli opporrei: sola-
mente vorrei che ciò facesse gridando ad alta voce:
1 retori fan le regole, i grandi artefici creano bel-
lezze onde i retori fan regole nuove. Il male si è
che i retori non concedono mai che un uomo sia
grande mentr'essi vivono sulla terra e stridono mai
sempre : il libro dell'arte è chiuso e suggellato. E
la turba crede ai loro clamori, e ne amareggiano il
11
cuore al poeta e all'ailisfa. Ma tornando ai Rusliciy
si noti come per questa maniera di lappresentare
piij uomini di natura somigliante, si raggiunge un al-
tro bello , anzi mirabile scopo. Egli avviene , cbe
dovendosi nel dramma dipingere e lumeggiare un ca-
rattere in tutte le sue parti e volgerlo dinanzi allo
spettatore così come l'artefice, girando la statua, ne
mostra ogni lato; talvolta non si possa far questo
senza mandare l'azione e divisa e minuta e a rilento
con episodi e scene che si direbbero tanti fuor d'opra^
onde al certo vien menomato il calore e l'effetto del
dramma. Per contrario , ove sieno con lievi gra-
dazioni e dissomiglianze dipinte o quattro, o più o
meno, figure medesime; si possono agevolmente ma-
nifestare ad altrui tutte lo pai ti del vizio o del di-
fetto, perchè quelle, che le dimostrano, sono disposte
in molte e diverse combinazioni, con bella ed ef-
ficace varietà, senza impaccio.
XIX.
La musa del Veneziano si compiace gradevol-
mente di ritrarre dal vero le sembianze femminili.
Quasi un mezzo centinaio delle sue commedie pel
solo nome che hanno in fronte possono attestare
com'elle sieno ispirate all'amabile tèma, onde i poeti
gentili traggono le più squisite e commoventi me-
lodie. Lascio le Ircane, le Dalmaiine, le Peruviane,
le Incognite , le Belle selvagge, portate sulla scena
piuttosto per accarezzare fantasie romanzesche che
per elezione spontanea del cuore e dell' ingegno.
L'amore materno, il più vero e grande amore che
sia nella terra, ci è ricordato nella Buona madre e
12
nella Madre amorosa: l'affetto filiale nella Figlia ob-
bediente: la fortezza, la costanza, la fedeltà coniugale
nella Moglie saggia, nella Buona moglie^ nella Sposa
sagace. Le virtiì , le infei-mità , i difetti stessi più
propri del sesso femminile ti si promettono dipinti
con la grazia che si conviene nei titoli della Dama
prudente, della Vedova infatuata, delle Donne gelose,
delle Femmine puntigliose, della Vedova scaltra e di
altre moltissime. Sia che il tèma scelto lo chiami
a delineare il carattere d' una donna, sia che altri
che una donna sia il protagonista del comico com-
ponimento, egli non viene mai meno a sé slesso nel
cercare e trovare e dipingere quei tratti, che le fanno
amare e rispettare e compatire, se vuoisi, dalla parte
che si dice e non so se sia veramente più forte.
Prendete il Giocatore e vi occorrerà il carattere di
Rosaura, che sdegna l'amore di quello finche Io sa
rotto al vizio: si placa e giunge ad amarlo quando a
lei balena la speranza sola del suo pentimento. Ben-
ché abbozzataappena(come dicono gli scultori), pur vi
farà dolcemente sognare nell' Uomo di mondo Eleo-
nora, che perdutamente innamorata del Corlesan ,
con delicato ardire lo esorta a sciogliersi dalla pas-
sione de' svagati piaceri e piegarsi a più degno e
soave giogo: si fa da lui promettere che ove si ri-
solva ad ammogliarsi, non ad altra si stringerà che
a lei : e lo vince del tutto quando a lui caduto
nell'infortunio, superando i soverchi ritegni, manda
in dono le proprie gioie, i più cari ornamenti della
femminile bellezza. Vi sovviene la madre amorosa,
che alla figlia ingrata dà per isposo quello stesso
ch'ella adora in segreto ? E non vi seduce grado-
13
volmente quella Donna Felicita nel Ricco insidiato,
la quale si fa arma del proprio sesso contro le in-
sidie che tendono al conte Orazio e il servo e la
sorella e i parassiti, e scuopre accortamente i raggiri,
e fuga con l'aspetto del giusto la falsa lusinga e la
scaltra rapina ? E non vi par bello il carattere di
Giacinta nelle Villeggiature, che promessa ad altrui,
pure incautamente apre le orecchie alle lusinghiere
parole d'un giovane, e nel momento di lasciarsi vin-
cere dal cuore, supera sé slessa per serbare la fede
al suo fidanzato? M'ha sempre commosso o leggendo
0 vedendo sulla scena la fedeltà e l'accortezza della
Serva amorosa: e mi ha fatto pensare più volte alla
dolce tutela che talor prende di noi questa custodia
della vita nostra , la buona Marcolina nel Todero
bronlolon, che col vivace spirito corregge la flemma
e il timore del giovane marito affinchè resista alla
irragionevole volontà d'un vecchio ostinato. Le no-
stre antiche donne e donzelle, che per diporto si rac-
coglievano a novellare de' troiani , di Fiesole e di
Roma, vi si richiamano alla mente nelle Donne olan-
desi, rappresentate quasi a porgere alle italiane un
esempio dell'amabilità e cortesia domestica, a con-
trapposto della tendenza che le donne meridionali
porta a spargere l'ingegno all'aria aperta, anzi che
ne' penetrali della casa propria. L' autore volle per
avventura dimostrare come le doti del cuore e del-
l'intelletto, la grazia, la coltura e le altre virtù, non
sieno date alle donne solamente per isvegliare nel
mondo una sterile ammirazione, ma si bene per ab-
bellire la vita domestica, e come in tal guisa adoperate
compiano forse meglio l'ufficio a cui somma prov-
14
videnzrt le destina. Non si può né si deve credere
che la stanza, ove si nutre l'affetto maritale e ma-
ritale e materno, sia destinata alle povere di spirito,
che quivi si rifuggano dalla irrisione e dalla non-
curanza del mondo. Ivi pure si pasce l'ingegno eletto,
ivi pure l'arte ispirata dal cuoie ahbeilisce il talamo
e la cuna: che anzi, quivi raccolta, feconda i germi
gentili , che poi si spargono e si diffondono sulla
terra nativa. Ma descrivendo, anzi dipingendo fedel-
mente le inclinazioni, i difetti, la sensibilità e per-
sino gli artifìci di questa soave metà del mondo ,
era ed è innanzi al piede di chi si mette all'opera
un pendìo di facile scesa. Si corre rischio di ren-
derle meno amabili al cuore della giovinezza , di
ribadire noli' animo de' viziosi il disprezzo verso di
esse, di solleticare il vezzo della maldicenza, e, se
vuoi ancora, di offendere le più care affezioni che a
madri e a figlie e a spose son dedicate dall'universale
n»eritamente. In tal guisa Euripide, desioso di dar
loro nel dramma la parto che pure aveano nella vita,
non seppe ritrarle in modo ch'elle non paressero un
fiore delicato preso a maneggiare da ruvida mano.
Però lo spiritoso Veneziano ha corso da signore
del vento questo mare pericoloso, e non ha dipinto
donna vana , lusinghiera , petulante , prodiga , spi-
golistra , fastidievole od altro, che non l'abbia in
certo modo resa amabile dal sorriso delle grazie
onde si ride piacevolmente del vizio senza aver a
odio e a schifo il soggetto in cui si rivela. Egli mai
non s'avviene ad agonìa di lusso, a frivola fatuità ,
a curiosità, a gelosia, a sete di vendetta e simili,,
che non paia un padre amoroso o uno sposo infiam-
15
tnato, il quale corregga senza condurre airavviliaien-
to la donna de'suoi pensieri. E a me giova credere
che tanto quelle che si veggono quivi dipinte sieno
persuase a emendarsi per via della dolce e affet-
tuosa correzione, quanto i padri e gli sposi sentansi
inclinati a guardare con meno amarezza e a scusare
più amorevolmente que'difetli , ond'ha turbamento
la serena aura delle domestiche mura. Cecilia nella
Casa nova, che per fasto e capricci riduce a mal ter-
mine il giovane marito, se nel principio e nel pro-
cedere dell'azione ci dà motivo di biasimarla, pure
nel tutt' insieme , così com'ella si porla, ci piega
a compatire la credula giovinezza, l'adulata vanità,
la torta educazione ricevuta nella casa paterna. In-
tieramente poi ella guadagna l'animo nostro, quando,
messo sotto ai piedi l'orgoglio, si raccomanda all'au-
stero zio del marito, implorando che voglia perdo-
nare a questo perchè li'ascinato da lei giovane troppo
e troppo male avvezza dall'amore e dalla condiscen-
denza altrui. Cotale carattere fu pure risuscitato d^il
Goldoni nel Burbero benefico, con quella varietà che
distingue il suo ingegno: mentre la donna del Burbero
ne lascia sicuri della sincerità del suo ravvedimento;
quella della Casa nova ne fa dubitare se la umilia-
zione presente non sia mezzo per soddisfare a doppio
nell'avvenire l'orgoglio celato. Non v'ha dubbio che
nei Rusteghi non apparisca la sottile scaltrezza di
Felicita, che divenuta signora dello spirito di Can-
ciano, ora con blandizie, ora facendosi assai viva ,
ora accarezzando , or minacciando, lo volge a suo
modo sì che invano egli tenta farsi scudo della ru-
videzza propria e de'suoi compagni. Può essere che
16
qualche sottile vi abbia trovato di che scandalezzaisi
della femminile sagacia. Ma si pensi che Felicita dee
far contrapposto alle altre donne: l'una delle quali,
collerica e stizzoisa, non fa che inasprire Lunardo;
l'altra, stupida e malaccorta, non approda nulla
nell'animo di Simone. Al contrario la vivace Felicita
non tende che a saggio fine, cioè a domesticare il
marito e gli amici di lui, ad ispirar loro il diletto
d' una lieta e piacevole compagnia, e a far cono-
scere come la femminile pieghevole accortezza sia
potente a correggere una scabra e ruvida natura e
a portare la pace nel seno delle famiglie. E la mo-
ralità della commedia si riduce a queste ultime
parole di lei : Se volete viver quieti, se volete goder
pace con le vostre mooli , fate da uomini e non da
selvatici , comandate e non tiranneggiate , e amale
se volete esser amati. Insomma, portando nella me-
ditazione del carattere delle donne una giustezza di
senso rarissima, il nostro poeta ne dipinse al vivo le
bizzarrie, le inquietezze, le contraddizioni, la irritabi-
lità provenienti dalla immaginativa più mobile che
profonda, dal sentire più che pensare, e dalla vivacità
onde a loro, per la trama nervosa soverchiante, giun-
gono al cuore le esterne impressioni. Ma nello stesso
tempo seppe porre in luce bellissima quanto può dirsi
piuttosto proprietà che movimento dell'animo loro:
vale a dire la compassione, la benevolenza, la timi-
dità, la verecondia e più che altro l'amore verso ai
genitori, al marito ed ai figli, ond'elle si levano alla
cima della virtù e affrontano stupende prove di sa-
crifizio, a cui non giunge mai lo spirito più riflessivo
dell' uomo.
Ì7
XX.
Se io dicessi che la commedia dei latini e quella
dei cinquecentisti non attinse la perfezione, perchè
non potè valersi delle donne proscritte dal loro teatro;
parrebbe a prima vista che per darmi aria io vo-
lessi dar saggio di paradossi. Ma la cosa fu senz'al-
tro così. Come dar varietà, colore, delicatezza, pas-
sione a qualunque dramma, ma piìì specialmente a
quello che rappresenta la vita domestica, senza questa
metà del genere umano, ond'essa vita ha fondamento
e bellezza ? Non è egli vero che l'uomo nel primo
uscire alla luce da una donna è raccolto e poi da una
donna è guidato sino alla palestra che raccoglie la
giovinezza agli studi meno possenti a imprimersi
nelle tenere menti che le prime e indelebili parole
materne ? Non è forse la donna e custodia degli
affetti pili santi e consolazione nell' infortunio e bal-
samo alle ferite del cuore e corona della vita ?
Ogni carattere, ogni passione buona o cattiva, che
alligna nel nostro cuore , si dispiega e in certo
modo si dimostra qual' è più schiettamente che mai
quando ci accostianio a questo essere sottile, sen-
tito, di fine e sagace intelletto. E lasciando ciò che
la donna messa in azione nella vita e nel dramma
possa sì nel carri ttere degli uomini, come nella di-
mostrazione di esso; ben doveva esser gelida e ru-
vida la commedia senza 1' aiuto di queste, che per
lu loro flessibilità, sensibilità ed anco leggerezza e
bizzarria danno più curiosa materia al poeta pit-
tore, il quale sappia giungere oltre la scorza lieve
G.A.T.CLXV. 2
che pur cuoprc generose e profonde passioni f lo
non ricorderò i greci, presso i quali (e vedine Ari-
stofane) le donne si vedeano sulla scena come ne' ro-
manzi di cavalleria recitati molti secoli dopo nella
corte di Ferrara. Poi , per salvare il pudore , le
oneste vi furon proscritte, e pare che non altrimenti
fosse la commedia nuova quale ci appare nelle
latine imitate dai perduto Monandro. Alcune scene
di Terenzio , se sono belle come poesia , oggi sul
teati'o darebber noia perchè povere di quei personaggi
appunto, intorno a cui si aggjiano e i movimenti e
le idee e lo passioni degli uomini. Basta ricordare
neir Andria la descrizione del funerale e della fan-
ciulla che vi assiste , la quale vi si dipinge nella
niente come una delle creazioni di Dante o di
Byron, e pur desiderate invano di vedere, se bene
dalle prime alle ultime scene tutti ne parlano come
cagione di culto e d'amore. I cinquecentisti poi ver-
savano nelle medesime condizioni. Donne si veggono
sulla scena; ma vecchie e meretrici e peggio, parti
non convenienti a donne vere e però atteggiate da
uomini mascherati. Sopra di che è notevole un passo
di messer Giambattista Giraldi Cinthio nel suo Di-
scorso intorno al comporre dei romanzi^ delle com-
medie e delle tragedie (Venezia 1554), che vuol es-
sere ricordato: « Serva la commedia certa religione
che mai giovine, vergine o polzella non viene a ra-
gionare in scena, e per contrario nelle scene tragiche
vi s' inlrodncon lodevolmente. Perchè, egli aggiunge,
la scena comica è lasciva e v' intervengono ruffiani,
meretrici e parassiti. Ed anche che la commedia fosse
onestissima, come i Captivi di Plauto, non vi s' in-
19
Irodiirrebbe anco vergine alcuna , perchè già è cosi
impressa negli animi degli nomini che la commedia
porti con lei queste sorli di genti e questi modi di
favellare, pieni di licenza, che ciò non sarebbe senza
pregiudicio delle polcelle. Udite ? Io poi domando
se le polceile si portavano a udite queste rappre-
sentazioni licenziose. Pare che sì. E allora lo scru-
polo è veramente degno di quelle generazioni di
letterati e d' uditori, che s' aveano messo in capo
che le commedie doveano esser così e non altri-
menti composte. I poveri poeti del cinquecento erano
dunque privi di una fonte di belle ispirazioni : e
chi dicesse che n'eran privi per mancanza di esem-
plari atti ad esser tradotti in artistiche figure, por-
terebbe innanzi una ragione assai futile e parago-
nabile a quella, la quale seccamente vorrebbe che
in certi secoli commedi.) non fu perchè non vi potea
essere: come se talora lo stato della letteratura ed
anco i mezzi e gli aiuti esterni non concorrano allo
sviluppo più o meno pieno di qualsiasi parte del-
l'umano sapere. Ogni arte, e specialmente la pittura
e la drammatica, si collega nel suo crescere e ne' suoi
atteggiamenti ai materiali di cui si serve, sì come
quelli che sono effetti e cause a un tempo di condi-
zioni, alle quali non s'è data forse avvertenza o spie-
gazione. Ma questo sarebbe tòma di lungo discorso,
e volentieri il farei se il mio proposito non mi richia-
masse al compito preso. Ciò lasciando, io ripeto che
mentirebbe per la gola chi osasse affermare che in
quel secolo non fossero esemplari belli ed onesti
che si confacessero alla virtù della scena. Io pro-
testo in nome della nazione italiana e delle donne
20
d'ogni popolo del mondo. Egli ò vero che visse al-
lora una Impella cortigiana (Aspasia senza Pericle)
lodata in prosa e in verso dal Randello, da Beraoldo
il giovane, dal Sadoleto; la quale fu liberale e magni-
fica, ed ebbe casa ripiena di tappeti, e sfoggiò vel-
luti e broccati e pieni forzieri di grandissimo prezzo
e liuti e cetre e libri volgari e latini riccamente ador-
nati, ed ebbe l' immeritato onore di avere una figlia,
che per sottrarsi all' infamia, si uccise di veleno. Egli
è vero. Ma era pur quello il secolo, in cui l'amore
platonico ( benché più accostato alla idea pagana )
dovea dare un certo che di bello e di cullo alla
conversazione, e render più facile la onesta e civil
comunanza de' due sessi. Ed era pur quello il
tempo che le arti abbellivano più che mai la vita,
e non erano scusa d' ozi o arnese di turpitudine ,
ma veio ornamento del vivere urbano , alle quali,
davan opeia affettuosa le donne: e lasciando la pit-
tura e le lettere più comuni a' due sessi, per certo
quasi le sole donne coltivavano la musica, come fanno
fede e Anna e Lucrezia figlie del duca Ercole li
di Ferrara, lodate dal Ricci, dal Giraldi, dal Cal-
cagnini e dal Patrizi. Era pur vivo quel fiore di
gentilezza e di virtù che fu Vittoria Colonna, la quale
consolò la vita del gran Michelangelo. Fervido culto
e meritato ebbero le donne, che eccitarono e fre-
narono a un tempo le forze della mente e ressero
il cuore di poeti illustri: in quel secolo davano esem-
pio di generoso disdegno Caterina Ginori e Giulia
Aldobrandini , e nelle care veglie fiorentine splen-
deano le virtù di quelle, che il Rosini, più nalu-
2Ì
ralmente degli altri romanzieri, ci ha descritto nella
Luisa Strozzi.
XXI.
La divisione che suol farsi delle commedie chia-
mandole di carattere o d'inlreccio, a me pare poco
fondata sulle ragioni intrinseche dell'arie. Imperoc-
ché s'egli è vero che in esse più o meno prevalgano
o gl'intrecci o i cai-atteri, pur non di meno nò gli
uni né gli altri possono pi'etendere all'onore di dare
per loro stessi il nome che distingua la specie. Non
è buona commedia dove non sieno e caratteri più o
meno svolti e un intreccio più o meno intricato: quindi
vedendola o recitata o scritta, noi diremo: Qui gli
avvenimenti seguono e portano un fine senza opera
degli uomini ; ovvero , qui gli uomini sono cagione
degli avvenimenti e quasi li conducono e li costrin-
gono al loro volere. Poi nel nostro giudizio faremo
misura del bene e del male che tale disposizione di
cose produca: ma non per questo ci arrogheremo di
nominarla d'inlreccio o di carattere, ma si la dii-emo.
tale dove l'uno de' due elementi meglio può sopra
l'altro, secondo che sieno più avvenimenti che ca-
ratteri o viceversa. Per tanto noi non adotteremo
rispetto alle commedie goldoniane la solita nomi-
nazione , ma piuttosto le guarderemo e noteremo
secondo 1' indole loro pai'ticolare, o sia che condi-
zioni esterne dell'arte prevalse in esse abbian loro
dato un aspetto proprio, o sia che, avvolgentisi più
in una classe di persone, possano in modo distinto
specificarsi. Da prima dunque verrebbero quelle ,
-l'I
come il Servitore dei due padroni ed i Gemelli ve-
neziani, dove, per così dire, si lascia ai posici i la
immagine viva della commedia dell'arte : la quale,
com'è scolpita in que' vivaci componimenti, può
dirsi non intieramente perduta con la memoria degli
attori che la rendeano celebrata pel mondo. Ap-
presso verrebbero quelle, dove l'indole vera dell'au-
tore si perde entro il falso meraviglioso degli av-
venimenti e dei caratteri , o perchè la sua imma-
ginazione si è piegata alla moda del tempo , o
perchè i racconti forestieri gli abbiano dettato ciò
ch'era uopo per soddisfare a quella. Queste com-
medie potrebbero dirsi romanzesche, e di tal fatta
sono le Dalmatine, le Giorgiane, le Scozzesi ed al-
tre. Ma sì delle commedie dell'arte come delle ro-
manzesche abbiamo fatto lungo parole più sopra
quando ci siam fermati sopra gli esterni elementi,
che concorsero nel teatro goldoniano. Bensì sopra
a questo tèma non possiamo passarci dal conside-
rare , che quel principio stesso che nell' immenso
regno del vero portava il Goldoni ad allargare il
freno dell'arte, facea sì che egli non rifuggisse dal
dramma così detto quasi stia di mezzo alla trage-
dia e alla commedia : anzi egli nella seconda parte
delle sue Memorie lo chiama (un poco alla maniera
dell'Arnaud) un divertimento di piii fatto pei cuori
seììsitivi, ben conoscendo che meglio si piange sui
casi comuni della vita , che sopra le sventure dei
grandi personaggi sieno o no coronati. E benché
non si desse tutto a tal genere , pure dimostrò a
che altezza sarebbe giunto quando tolse dal cele-
brato romanzo inglese il soggetto delle due Pamele,
23
commedie che sulle scene li danno aria di csi^ei'
nate pur ieri. Poiò nessuno che sia Iroppo tenero
dei dranrinii arruffati, che si veggori'oggi sovente, si
gioisca troppo del consenso del testa ina tore , anzi
del creatore della commedia italiana. Imperocché
vuoisi avvertire che mentre il nostro non disapprova
che sulle scene si rappresentino anche gli infortuni
de'nostri eguali; non per questo dimostra di lodare
que'drammi di sentimento, i quali allora prendeano
voga nella Francia, e appresso la rivoluzione c'inon-
darono, ci affogarono e impedirono che l'opera del
Goldoni portasse i suoi frutti. E quantunque le va-
ghe parole, ch'ei dice, possano forse tirarsi a qaesto
concetto ; pur sono da avvertire due cose , che , a
parer mio , fanno più debole 1' approvazione di sì
grande aitefice. La prima, ch'egli scrisse le Memorie
in Francia, dove appunto in quel tempo era andazzo
di queste rappresentazioni scritte da gente riputata
e autorevole, contro a cui la timida sua natura non
dava ch'ei contendesse, egli che pure cercava pane
in teria straniera. La seconda cosa , ohe se non
ha disapprovato apertamente tale specie, egli è per-
chè vedeva come nei campo dell'arte anche que-
sta può esser buona e bella e utile, purché non si
distolgano gli occhi dalla maestra natura. A ogni
modo se pure il dramma può coltivarsi come ge-
nere medio tra la comtnedia e la tragedia , esso
in sino ad ora, eh' io sappia, non è stato fatto in
guisa che se ne possano contentare gì' ingegni più
severi. Da che, così conj'egli è, non appare che un
genere tutto artificiato, fuor del mondo , il quale
potrebbe rassomigliarsi alle antiche pastorali od a
24
certi l'omanzi cavalleiesehi , con la difttìion/.a che
quelli erano e sono sgradevoli per la squisita ricei-
catezza del bello fisico e nnoiale, laddove questi sono
orribili per la ricerca d'ogni cosa più schifosa e
più bi'utta, sì che paiano ispirati dalla ebbrezza o
dalla pazzia.
XXII.
.Appresso alle romanzesche si possono annove-
rare quelle che direi sloriche, in quanto che si ag-
girano sopra un personaggio che veramente visse,
operò e sofferse. Tali sono il Terenzio, il Molière e
il Torquato Tasso , nelle quali egli non raggiunse
l'ottimo per varie ragioni. In prima perchè non era
si dotto nella storia, o foise meglio non era giunta
tra noi la storia a tal punto, che potesse dar lume
del carattere dei personaggi e della condizione dei
trascorsi tempi così prestamente, come sarebbe stato
necessario a scrittore, che di questa disciplina non
facea né potea fare studio indefesso. In secondo luogo
egli non era per avventura ingegno atto a quella spe-
cie di astrazione che vuoisi per togliere in certa
guisa sé Slesso al proprio tempo e porsi come vi-
vente tra gli uomini dei secoli andati : ingegno ne-
cessario più che altro a chi voglia scriver tragedie,
del quale pochissimi furono privilegiati, e tra questi,
a memoria nostra, il Delavigne e il Marengo nella
drammatica e nelle altre parti della letteratura il
Leopardi , meraviglioso sia che faccia da greco ,
sia che s'atteggi da ingenuo trecentista. Da ultimo
egli non volle, a dir vero, fare appunto la commedia
storica, ma bensì scegliendo uno storico personaggio,
trovar modo che gli valesse a difendersi dalle ire
25
0 dalle calunnie de' suoi nemici : laonde non deve
in questo giudicarsi con troppo ligore, né appoi'glisi
a colpa se non aggiunse a quanto in verità non era
nella sua intenzione. Nel che non mi posso trapas-
sare dal dire, che in questa specie di commedia va
lodato altamente Paolo Ferrari, il quale nel Goldoni
e le sedici commedie e nel Parila e la satira ci diede
la viva pittura di quegli uomini sommi e le guerre
da loro patite e i costumi e i vizi del secolo in
cui vissero. Bello e sublime scopo non solamente
ricordare le glorie nostre a chi sa, ma porle, direi,
sotto gli occhi a chi pei' ignavia non vuol sapere,
e rendei- famigliari al popolo , che ignora , i nomi
che pili onorano la nostra patria. Bellissimo inlento
fare il teatro non solamente scuola di costume, ma
pur anco della storia lettei-aria che più ci onora :
imperocché non possa un popolo aspirare a lode di
gentilezza dove non riverisca i sacri ingegni che lo
hanno fatto segno di rispetto alle altre nazioni, il
Torquato Tasso fu sci'itto dal Goldoni per dimostrare
come quello riducessero i nemici e come lui slesso
avrebbon voluto ridurre tirando malignamente la cri-
tica delle opere sopra le [)ettegole questioni gram-
maticali. Ma l'immagine di Torquato non è. 11 per-
sonaggio, a cui vien dato questo sacro nome, ciancia
sopra la Gerusalemme e sopra il sistema nervoso :
monta in collera spesso e se la piglia coi servi ad
ogni minimo gesto o parola; al contrario è dolcis-
simo e pazientissimo verso il curioso Don Gherardo
e il cav. Del Baiocco cruscante : per carità non pro-
nunciate il nome di amore, ch'eì dà un gran tuffo
nello scimunito. L'azione poi si aggira sulla favola
delle tre Eleonore. Egli, s'intende, ne ama una dav-
vero, la quale è dama di onore e fidanzala al duca :
le altre due corteggia in pubblico insieme con quella
per confondere la vista altrui. A tutte tre però non
cale né punto nò poco di lui, e lor piace per mera
vanità d'essere inchinate e lodate da sì famoso poeta.
In fine il pover'uomo è rinchiuso all'ospedale de'mat-
ti: e quando, uscendone poco dopo, corre alla sua
dama, questa gli canta a chiare note che si risolva
di andarsene, e sia pure a Roma, per essere inco-
ronato, ovvero ella sarà costretta a gittarsi per di-
sperata e prestamente sgombrar di Ferrara. Questa
commedia, voi vedete, è uno strazio di quel grande
che tanti ne ha ricevuti in vita ed in morte. Eppure
alcune scene comiche da vero, e il ridicolo di qual-
che carattere secondario, e la felicità dell'intreccio
la fanno rivivere talvolta sulle scene. Ma se ella si
chiamasse il poeta innamorato o fosse distinta per
qualunque altro nome, nulla , veramente nulla sa-
rebbe tolto air azione, e il nome di Torquato sta-
rebbe ina riverito nella mente del pojìolo. Il Molière
fu composto per dimostrare com'egli onorasse quel
grande maestro, a cui molti, nel delirio dell'ammi-
razione, lo preponevano. È scritto senza maschere,
senza mutamenti di scene, e in versi martelliani li-
suscitati con vero danno dell'autore e della scena
comica : metro che fece andare in visibilio quanti
aveano perduto l'orecchio alla nobile armonia degli
antichi poeti. Egli congiunse due fatti della vita del
sommo comico francese : il matrimonio da lui ru-
minato con Isabella figlia della Bejard, e la proibi-
zione del Tartufo : in cotale intreccio si mesce un
27
certo Don Pirlone ipoci'itu , carica kira dello stessa
Tartufo , onde nasce un insieme ben connesso e
condotto e sparso elegantemente di comiche circo-
stanze, che danno a tutta hi composizione un'aria
arguta e festiva. Ancorché il Molière non apparisca
nel suo verissimo aspetto , pure il tempo vi è di-
pinto verace: né mi farò a cercare se l'autore debba
riferirne grazie ai caratteri immaginati sulla stampa
del Francese, ovvero alla vicinanza dell'epoca in cui
si finge razione, nella quale gli uomini più somi-
gliavano naturalmente nelle idee, nei costumi e nel
linguaggio a (}uelli che, vivendo, cadeano sotto gli
occhi del nostro. Ma non così gli accadde nel Te-
renzio, la qual commedia fu più lavoiata e forbita
e a lui prediletta sopra le altre, perchè gli uomini
e gli autori amano ciò che più hanno penato a ot-
tenere. E di vero non può negarsi eh' ella non
sia squisitamente condotta. Ma Terenzio tien molto
del carattere del Molière , e in tutta la compo-
sizione è quel grave peccalo che pur s' appone ai
drammi del Metastasio ; vale a dire che nei mondo
romano e greco sia portato il costume del settecento,
indarno sforzato a prendere le antiche sembianze
non sue, per via di grandi parole e d'inutili dottrine.
Per ammenda intanto è bello l'amore di Livia, figlia
di Lucano, verso Tei-enzio, padiona orgogliosa che
pur non vorrebbe uno schiavo a suo sposo , e si
leva a nobiltà il carattere della schiava greca Creusa,
amante riamata di Terenzio , che difende la sua
patria caduta , e nel suo stato infelice conserva la
generosità del cuore e l'arditezza della parola.
28
XXIII.
Anche la eoinniedia allegorica egli tentò nel Disin-^
ganno in corte, la fantastica nel Genio buono e genio
cailivoy cui mandò in Italia da Parigi a solletico del
volgo, che parca pazzo per le fiabe del Gozzi. La sati-
rica e allegorica commedia, ad esempio del greco Ari-
stofane, allignò poco in Italia. Nel cinquecento Pietro
Aretino lodava e sferzava sul teatro e buoni e cat-
tivi, intanto che, senza ormare strettamente Plauto
e Terenzio, dava più vivo il secolo ch'egli svergo-
gnava della sua persona. Le sue paiono appunto le
scene del Cellini che pili volentieri s'aggirano, tra
plebe di sgherri e di cortigiane. E qui sia detto di
passaggio, chi vuol vedere la condizione di Venezia
e dell' Italia nella licenza degli scritti e delle opere
di Pietro Aretino, ricordisi ch'egli rappresentava il
peggio di quella età, ov'era gran copia di virtù tra
mezzo a vizi sterminati, miscuglio di antiche e nuove
idee come si confaceva a trapasso del medio evo
nei secoli moderni : ricordisi che Venezia , mentre
poetavano l'Aretino e Nicolò Franco, venerava pure
r intemerato Trifone Gabriele detto il Socrate di
Murano, e l'onorevole sua schiera di amici; Venezia,
dando esempio d' inflessibile fortezza, combatteva al-
loia la formidata alleanza di Cambrai. Del rimanente
l'Aretino, valendosi della libertà che dava la repub-
blica sopra tutto ciò che non si riferisse a governo,
anche nella commedia scagliò dardi a sua posta con-
tro ad uomini, a costumi, a corti, preludendo an-
che alla commedia politica, la quale meno che mni
^29
ebbe speranza di attecchire e d' ingrandire nei secoli
che vennero appresso. Più copia avemmo di paro-
die. Le Rivolle di Parnaso di Scipione Eurico mes-
sinese volsero a ridicolo la manìa de' poeti spagnuoli
che racchiudevano dentro la commedia una storia
intera. Forse Torquato Tasso negl' Intrighi d'amore
satireggiò gì' intricati viluppi annaspandone molti nel
breve giro di un atto. Che so io ? Benedetto Mar-
cello veneziano compose il Cruscante impazzito, e Va-
laresso fece il Rutzvanscad , parodìa della ti-agedia
dell' abate Domenico Lazzarini grecista intitolata
Ulisse il giovane. La scena è in una città misteriosa
di cui non si può dire il nome perchè composto di
tutte consonanti : i cori sono gli orbi di piazza :
r indovina di Apollo è una zingara: e perchè nella
tragedia burlata Ulisse sposa, senza saperne, sua fi-
glia, così qui Rutzvanscad dà l'anello a sua nonna.
Chi ammazza, chi è ammazzato: restano due che si
litigano il trono e vanno dietro la scena a battaglia.
Gli spettatori attendono. Invano. Essi urlano e sbuca
fuori il suggeritore cantando :
Uditori, m'accorgo che aspettate
. Che nuova della pugna alcun vi porti:
Ma lo aspettate invan: son tutti morti.
0 prima o dopo. Appiano Buonafede compose al-
cune sue commedie filosofiche, dove metteva in ri-
dicolo grandi inventori delle umane discipline, con
che ragione non so. Far parlare Talete in iscena
come bestia, e poi inferirne ch'egli era tale, è cosa
che ripugna al buon senso ed alla ragione. Per altro
30
il Buonafede non fu noto al teatro, ne piacque al
popolo , né ai lellerali , nò ai giornalisti e molto
meno al Baretti. Fu più fortunato il Casti che sotto
r ombra del manto imperiale di Caterina 11 lanciò
saette amare contro Gustavo HI re di Svezia, il quale
alle satire rispose con l'armi: argomento che genera
persuasione. Ma pure il poeta vendicò la paura di
Caterina col dramma satirico il Re Teodoro a Ve-
nezia, dove rappresentando cotesto fantoccio di re
de' valorosi corsi, punse mortalmente la miseria ed
il fasto del re dei goti. La musica del Paesiello ab-
bellì e rese popolare la comica festività del dramma.
Caterina ne gongolò: 1' inìperatore Giuseppe II fece
sua delizia de'versi del felice poeta, il quale, oltre
gli applausi, ebbe dalla regale munificenza una su-
perba pelliccia e rubli seimila. Né Terenzio, né il
Molière, nò il Goldoni ebbero mai sì largo prezzo
delle loro opere veramente immortali. Carlo Gozzi
in appresso avrebbe potuto, là dov'era piìi libertà
o licenza, dare esempio di commedie allegoriche e
satiriche. E così cominciò sua via ; e alcune fiabe
starebbero ancora nella memoria nostra, se elle fos-
sero animale da vera poesia. Tentò la commedia al-
legorica neWAucjellino Bel Verde, dove volle sferzare
i filosofi alla moda; la commedia satirica nella pa-
rodia delle Tre Melarance. Ma errò quando, sapen-
dosi popolare, traeva il popolo nell'errore. E ehi lo
lodò d'aver saputo valersi o almeno d'avere indovi-
nato l'effetto che si può trarre da cose piacevoli al
volgo, non curò né volle ricordarsi che il Goldoni
l'avea prima, e meglio di lui, sentito col dipingere il
vero della virtù e del vizio come si conviene rap-
31
presentarlo a popolo che si stima o si vuol poitare
innanzi nel viver civile. Anzi dicnoslrò ancora ngl
Genio buono e cattivo come queste commedie alle-
goriche potessero recarsi a grande utilità, facendo per-
sona dei principi del bene e del male che pugnano
nella vita nostra, e dipingendo comicamente i vari
costumi delle forestiere nazioni. E s' io dicessi ch'egli
ha pur rinnovato la commedia rusticale, forse non
ne trarrei approvazione da chi suol vedere questo
genere beli' e foggiato dai fiorentini a modo che non
sia lecito da essi dipartirsi. Ma pure a me pare ,
o m' inganno, che il Feudatario se non si pregia della
squisita eleganza delle rusticali fiorentine, meglio di
quelle ritragga la sembianza del vero: che di que-
gl' innamorali villani o non è mai stata o forse è
perduta la specie: di questi contadini, non sai se più
animati da gelosia o gonfi di boria municipale, ove
che li volga, puoi vederne tulio giorno la stampa.
XXIV.
Delle altre comtnedie si potrebbe far divisione
di alte , di medie e d' infime, secondo che elle si
attengono o alla classe signorile o al mezzo ceto o
alla popolare Simiglia. Ma questa partizione è men
facile presso noi che presso gli antichi : da che
nella società del secolo andato e nella presente il
primo e il secondo grado si confondono spesso tra
loro, e più dove sia più civiltà, e meno là ove il pri-
vilegio contrasti ancora alla civiltà dilagante. Pur
non di meno v' ha tali commedie dove l'azione si
volge quasi intieramente tra i grandi: però non si
32
rivela sì schietta, come volea per avventura la verità
delle cose, anzi par che si ouopra d'un timido velo
atto a nascondere la segreta intenzione dell'autore.
Egualnfìente ve n' ha delle altre, ove si vuol dipin-
gere un ceto, che sta più sopra della semplice cit-
tadinanza. Ma sì nell'une e sì nell'altre , o ch'egli
si sia abbattuto ad originali poco felici, o che non
li abbia veramente avuti, direi così, tra le mani a bel-
l'agio, o sia che la sua maniera naturale di sentire
e di descrivere meno convenisse alla classe dov' è
pili apparenza che verità di gentilezza e persino di
passioni ; sia come si voglia, egli non ha colto in
queste, come è solito, il segno, e si dimostra im-
pacciato e goffo e senza dubbio inferiore a se stesso.
NeWAdulatore il carattere di Don Sancio, che pur
siede in elevata condizione a Napoli, è tratteggiato
a modo che appena sarebbe comportabile in un vil-
lano arricchito, e Sigismondo adulatore sdrucciola
sino al punto di fare al suo signore il mercurio
d'amore. Egli è vero che alcuni vizi non grandeg-
giano solamente nel fondo della comunanza civile,
e dò anche per probabile che certe turpitudini rap-
presentate nel vero aspetto mettano più schifo e sien
lontane dal sedurre l'animo altrui a quella maniera
che fa la commedia francese in questi ultimi tempi:
nella quale si vede di nuovo l'atellana e la plauti-
na condita in guisa, che qualunque disprezza le Àspa-
sie non potrebbe di cuore seguitar nel proposito se le
fossero veramente così leggiadre e compite. Ma breve-
mente, se bene la commedia e l'arte abbiano facoltà di
scegliere, devono rappresentare al vero quanto per
loro è scello; e in tal cosa io sfido chi mi provi che il
33
vizio ancora e l' iniquità non si nascondano e non
si manifestino là dove è grandezza di stato con di-
versi modi e apparenze diverse, che non facciano tra
la gente media e l' infimo volgo. Nel Raggiratore in-
terviene un certo Don Eraclio nobile, tutto rigonfio
dell'antichità di sua schiatta, che meglio fa vedere
la sua ignoranza quanto piti si dà credere di sa-
pere ogni cosa. Quantunque io mi sappia per la espe-
rienza del presente che anche per lo passato la fa-
miglia nobilesca, come tutte le altre benché con più
colpa, dovea fregiarsi o sfregiarsi di sì fatti ridicoli
personaggi; pure non mi asterrò dal notare , che ,
levata la pompa e i titoli, cotesto Eraclio non ha
nulla di quanto ò più speciale di quella gente che
non lavora da un pezzo. Ciò dunque lasciando, noi
diremo che il pittore veneto sta proprio nel suo vero
elemento di grandezza, quando toglie a modello delle
sue fatture la classe cittadina e popolare, in cui
nacque e visse e sottilmente osservò. Le tre com-
medie della Villeggiatura , il Curioso accidente , la
Bottega del caffè, il Ventaglio, la Locandiera, gì' In-
namorali, il Burbero benefico, V Avaro fastoso, il Bu-
giardo, le Donne curiose, la Serva amorosa, la Finta
ammalata , il Medico olandese , le tre commedie di
Zelinda e Lindoro ed altre che lascio di rnemorare,
sono gemme sì splendide che non temono paragone
di bellezza sia con antichi sia con moderni autori.
Il volerle meditare e analizzare una per una, oltre
al portarci alla lunga sino a deviarci troppo dal
nostro cammino, non sarìa che ripetere ciò che al-
tri e più valenti hanno già fatto a distesa. Ma Io
scoraggiamento, che ce ne viene, potrebbe esser forse
G.A.T.CLXV. 3
34
superato dall' idea del diletto nell'aggiraici fra tante
delizie, se le conriinedie che abbiamo accennato, non
fossero vive e fresche, anche dopo cent'anni, nella
memoria di tutti gV italiani, anzi non fossero ancora
rappresentate da tutte le compagnie comiche, e più
volentieri dai più solenni attori che si sono adope-
rati e s'adoprano al ristauro dell'ediHzio nostro tea-
trale. Chi è maturo di età e non ricorda Luigi Ve-
stri, che fu men fortunato, ma rimarrà per certo più
celebre degli Scaramuccia e dei Sacchi, chi non lo
ricorda, io dico, atteggiante il Burbero, o il vecchio
nella Serva amorosa, o il Don Marzio nella Bottega
del caffè sì veramente da parere una sola cosa e
l'ai'le ed il vero ? E chi non vede ancora come il
tempo non fosse corso, la Finta ammalala resa viva
dalla giovinetta Adelaide Ristori prima ch'ella la-
sciasse r Italia e la commedia per mietere, calzando
il coturno, meritate palme in paesi stranieri ? lo fre-
mei e scopersi tutta l'anima dell'Avaro geloso nel ce-
lebre monologo declamalo con evidenza e passione dal
giovane figlio del Vestii, e avrei voluto che il Goldoni
risorto, vedendo il Calloud e Amilcare Belotti nel-
V Ollavio della Serva amorosa e nel Lelio del Bu-
giardo, avesse gioito, e ammirato come natura met-
tesse suggello ai suoi naturali e profondi e festevoli
concetti. Parvemi poi trovarmi quasi nel mezzo de-
gl'intimi amici miei quando vidi nel carnevale del 1853
il Ritorno della Villeggiatura l'ccitata dalla compagnia
di Alamanno Morelli diretta dal vecchio Bon: quel
desso che per i Ludri e per altic festevoli invenzioni
ha con altri pochi nel presente secolo continuato
la scuola del gran Veneziano. Ma volete voi la
musa popolare associata alle grazie della greca mu-
35
sa ? Volete voi l'esempio dell' ideale della mente fon-
dato sull'aspetto della natura ? Vi piace contemplare
la purezza del disegno e la eleganza della compo-
sizione accompagnate alla vivacità del colorito e alla
finezza dei particolari, appunto come le doli del Te-
niei's e del Rembiandt fossero congiunte a quelle di
Raffaele da Urbino ? La Pula onorata e la Buona
moglie formano un insieme eh' è il più bel poema
popolare che possa immaginarsi. Queste due com-
medie non sono pili nella masserizia dei comici, e
sta bene: perchè dubito che non si confacciano al
gusto odierno non so se troppo falso o troppo squi-
sito. Eppure se Adelaide Ristori ritornasse alla prima
prima giovinezza che mai non dovrebbe sfiorire, e si
vestisse del soave e forte carattere della popolana di
Venezia, io penso che ad onta della noia ftislidievole,
la qual vuole apparenza di nuovo per essere solleticata
e scossa, ella desterebbe in noi quello stesso commo-
vimenlo> che provavano a udirla cent' anni sono i
pacifici nostri antenati. Tuttavia questo poema vive
ancora nell'arte, e chi lo legga ed abbia cuore gen-
tile non può non sentirsene al tutto innamorato.
XXV.
Retina veneziana è una fanciulla povera 6 dab-
bene, che ama ed è riamata da Pasqualino creduto
figlio d'un gondoliere. Renchè istigata dalla sorella
Gate a raccogliere in casa il suo amante, ella sem-
pre sul niego fa forza a sé stessa, e dall'altana, che
guarda il canale, ode i sospiri e le parole del giovi-
netto. V ha intanto più d'uno che contrasta al fe-
lice successo di questo maritaggio. Da una parte
36
Pantalone vcccliio mercante , che ha visto la fan-
ciulla sin da bambina e l'è più che padre all'amore,
la sconsiglia dal congiungersi a un povero gondo-
liere: d'altra parte Menego, padre di Pasqualino, si
ricusa anch'egli di dare assenso alle nozze perchè son
gente meschina, e vuole che il figlio maneggi il remo
per guadagnare il pane a soccorso della propria fa-
miglia. Pasqualino però si sente portato a mestiere
più civile, e vorrebbe in luogo del berretto rosso e
della giubba coprire il capo con la parrucca e in-
dossare il tabairo di scarlatto e recarsi la penna allo
orecchie. Oltre a questo un certo marchese Ottavio
di Ripaverde, veramente al verde e ammogliato, ha
posto occhi e mente sopra la fanciulla, e riuscitegli
a nulla le seduzioni e i tentativi di farla sposare a
Pasqualino sotto le ali, s' intende, della sua prote-
zione; ricorre infine, come violento e passionato, a
più riciso spediente. Mentr'ella scende della gondola
che la conduceva in compagnia del vecchio mercante
in casa d'una certa sua zia, dove fosse difesa da tutto
insidie; appunto allora è i-apita da'cngnotti del mar-
chese e portata nel coviglio d' un suo palazzotto.
Ma quivi è Beatrice moglie di lui che non tar^Ja a
scoprire la tresca, e mossa alle preci della fanciulla,
prende sopra sé l' incarico di proteggerla, non tanto
persuasa dalla carità quanto dalla gelosia, favilla che
j'ianima talvolta amore che sonnecchia o sta per
morire. Quindi ella veste Betina de'suoi abiti, ed ella
si copre delle vesti di Betina , ed ambedue ma-
scherate si portano al teatro della commedia. Otta-
vio , ossia il marchese , che va dietro lor tracco
come segugio bravo, tanto fa che le piglia al varco
37
mentre scendono sulla riva. Ma il poverello, dando
troppa fede alla vista, alferra gli abiti della bella e
la persona della moglie, e dà in custodia Betina vera
con le vesti della consorte a Pasqualino ch'ei si por-
tava appresso dandogli bere le sue solite ciance. Ora
è uopo sapere che v' ha nell'azione il personaggio
di un colai Lelio, dissoluto, scherano, che si tien
figlio di Pantalone : il quale , tornando di Livorno
ov'era cresciuto; a istigazione del marchese Ottavio,
che subito V ha odorato per arnese da patibolo, corre
a Venezia il primo palio glorioso tentando di per-
cuotere il padre da lui non conosciuto mai di per-
sona. Provvidenza vuole che qualcheduno lo avverta
che la designata vittima è propio suo padre. Questi
vuol farlo arrestare, e veduto che Livorno ne avea
fatto un tristo, si delibera mandarlo a imparare la
creanza in Levante, mozzo di nave, destinato a pian-
tar la banderuola sul pappafico. Però i gondolieri,
che aveano avuto Lelio per compagno nelle goz-
zoviglie, s' intromettono e lo scampano a forza dai
birri. Tra costoro era pur Menego, padre di Pasqua-
lino, il quale, mosso a compassione, ricella il va-
gabondo in sua casa. Oia a Pantalone, che va in
traccia di Betina, salla in capo di frugare anco nella
casa di Menego, gondoliere a servizio del conte Ot-
tavio. Quivi s' abbatte in Lelio : sta per succedere
una scena funesta. In quella la moglie vecchia di
Menego, vedendo che Lelio è a mal punto, si sente
rinascere nel cuore la carità di madre, e allora su-
bito svela che non Pasqualino ma Lelio è suo figlio,
e che il primo ò figlio di Pantalone. Ella li ha scam-
biati nella culla acciocché il frutto delle proprie vi-
38
scere godesse (ruu'agiata condizione. Lelio è con-
tento di levarsi dalla soggezione del buibero vec-
chio e di fare il barcaiuolo a cui proprio si vede
crealo da madre natura: Pantalone è lieto di aver
perduto un cattivo per acquistare un buon figlio.
Non occorre dire che si finisce con le nozze di Pa-
squalino e di Betina. Ora seguono i casi della Buona
moglie. Il germe del cai'altere femminile si svolge
nel suo pieno vigore e nell' intiera sua bellezza quan-
d'ella versa i suoi tesori di affetto sopra la nuova
famiglia, sul compagno della sua vita, sopi'a i fi-utli
delle sue viscere , e tutta si concentra nella cura
del presente e nel pensiero dell'avvenire, che amo-
rosamente va sin'oltre la moi'te. S'apre la scena nella
casa di Betina. Ella è intenta alle cure materne e
piange in segreto. Pasqualino, salito a miglior for-
tuna, non è piij quel desso. Eccitato da Eelio, dia-
volo tentennino, s' è dato alle femmine e al giuoco.
Qualche sera neppur torna a casa: e la madre po-
veretta, piangendo sul frutto dell' amore, anco nel
profondo della miseiia cela a tutti il suo danno. Il
vecchio suocero va a visitarla, ma non le può trari-e
di bocca un lamento. A sentir lei, ella nuota in un
mare di beni. Ma Pantalone non si lascia ingannare;
anzi, sapendo dei mali portamenti del figlio, vuole
l'icondurlo sulla buona via ad ogni costo. In verità
Pasqualino non è che un uomo fiacco, trascinato dalle
sugg-eslioni e dall'esempio altrui. E' si fa portare per
la briglia da Lelio : e addolorato d' aver percosso
la moglie e di averla abbandonata, pure non si ri-
solve a ritornare nelle braccia di lei, e trema pili
dello scherno de'suoi compagni che non si strugga
39
del desldei'io deirainorosa sua donna e del figlio lat-
tante. Giiioca, e il mai-chese Ottavio lo spoglia : si
gilta nelle osterie, e Lelio e le sgualdrine gli nettan
la tasca. Quivi Io coglie suo padre. E' si nasconde
per vergogna sotto il desco : è scoperto : la con-
fusione e la pena gli tolgono la parola. Pantalone
lo consiglia con paterno e commovente discorso a
ravvedersi. 11 giovine tutto promette. Ma che ? Men-
tre il padre va a pagare l'ostiero, ecco Lelio che gli
pinge alla fantasia le spasimate che lo cercano, e gli
piange la gioventù male spesa nella vita domestica,
e seco lo trascina di nuovo- Pasqualino intanto fa
visite spesso e volentieri alla marchesa Beatrice. Be-
tina, che ha saputo di questa frequenza, corre al-
l' astuta marchesa a pregarla di non incoraggire il
dabhen' uomo a si fatto scioperìo- Pasqualino, che
nascosto ode il. parlar della moglie, esce inviperito,
la discaccia con male parole , ma non sì che non
travolga V impeto della collera iuìprecando alla ma-
ledetta casa ove ha perduto danaro e riputazione.
Ma l'ha udito il marchese Ottavio, e lo assale con
furia. Pasqualino con uno stile vuol difendersi, ma
caglia; e dove Belina non s' interponesse tra lui e
il feritore, egli sarìa beli' e spacciato. La giovine ,
uscendo di quel luogo, tanto fa che persuade il ma-
rito a gittar l'arme in canale, e per dai'gli modo a
pagaie i debiti, gii porge i suoi manini, ossia brac-
cialetti, cari alle più poveie fanciulle di Venezia co-
me le scioccaglie alle nostre minenti. Ella sta pei'
ricuperare il suo sposo: Lelio torna e tutto è perduto
Trionfando costui la debolezza del giovane, seco lo
trascina di nuovo nelle tane del vizio. Ma dietro il de-
40
li Ito corre la pena. Il marchese Ottavio, mentre fugge
i debiti e i birri , viene imbavagliato da questi e
condotto in prigione. La sua moglie, costretta a men-
dicare un asilo, lo ha dalla stessa generosa Betina,
che pili non ricorda le ingiurie avute non tanto nella
sua persona, quanto nell'atnore e nell'onore del suo
sciagurato marito. Lelio, stando all'osteria, pretende
che il suo padre Mcnego gli mantenga i suoi vizi:
tra i gondolieri sorge una baruffa: egli vi s'intrica,
e i gondolieri, avvinazzati, l'uccidono. Presente al
tremendo fato del suo compagno è il misero Pasqua-
lino. Innanzi a quel cadavere ò preso da rimorso e
da compassione di quel tristo e di sé medesimo.
Corre alla sua moglie che l'accoglie come l'angelo
accoglie il pentito. Ella che gli ha sempre perdo-
nato, ora gì' implora il perdono dal padre, in ginoc-
chio piangendo e mostrando dall'un lato Pasqualino,
dall' altro il pargolo innocente. E il buon vecchio,
piangendo, perdona.
XXVL
Eccovi cotesto poema popolare dove una varietà
continua di avvenimenti e di scene danno fedele
ritratto degli uomini e dei costumi del tempo.
La strada , il canale , la povera casa di Betina ,
povera ma pur consolata dalla virtiì; la casa della
marchesa, a cui battono e Scanna usuraio e ruf-
fiani e creditori; la porta del teatro ove accoirono
le vivaci maschere , e la tana dell' ostei'ia dove il
vizio in ogni tempo s'accoscia; tutti questi luoghi
passano avanti agli occhi dolio spettatore senza in-
il
ceppare lo sciolto andamento e il facile sviluppo del-
l'azione. I sicari, i tagliacantoni, i histrissimi co la
panica de sluco e i loquaci gondolieri vi figurano na-
turalmente e sono connessi all'andamento del dram-
ma, che non paiono messi là per intarsio. La virtù
appare bella, il vizio deforme, senza che si sforzino
a farli così comparire le smorfie, le declamazioni,
le grida, le spettacolose circostanze. E se pure Retina
non vincesse ogni cosa, tutte le donne gentili, non
che le popolane, vorrebbero essere la cara, l'amore-
vole, la generosa Betina. Oh com'è bello il soliloquio
nell'atto terzo della Buona moglie^ ov'ella rimpiange
la sua fanciullezza ! Altri traduca queste gentili e
tenere parole dettale nel dialetto nativo; io per me
non posso che trascriverle com'elle sono, per paura
di velarne la grazia e toglierne la freschezza. Co
me ricordo co giera viva mia mare, povarela , che
ani che giera quelil Che spasso che gaveva sa queìVal-
tana ! No vedeva V ora rf' aver fenìo la mia lasca
per andarme a sollazzar ! La festa che gusto che
gaveva a ziogar a la semmola, a ziogar a le scon-
dariole ! Con che gusto che baiava quele furlane \
Adesso, liolè, son qua povarela, abandonada da tuli l
El mario no me voi più bene, el missier non me vien
più a trovar, me deslruzzo in lagreme e no ghe nes-
sun che me compatissa ! Alla bella creazione di questa
Betina dovette l'autore il trionfo dell'opera sua. Egli
però modestamente ne dà merito ai gondolieri. Co-
storo aveano diritto di entrare nella sala degli spet-
tacoli quando la platea non era piena, e portavan
ira al Goldoni che chiamava gran gente, ond' essi
passavano la notte al sereno. Per farli contenti Carlo
42
chiese ed ottenne che loro si lasciasse luogo nella
platea, perchè vedessero so stessi nei loro cosliiini
e si meravigliassero dell'esser posti nei palchi ove
per solito passeggiavano eroi coronati, e applaudis-
sero a quelle parole e a quegli atti che tutto giorno
diceano e faceano , senza pensare che un bizzarro
poeta li avrebbe creduti degni d'essere così fedel-
mente imitati. Pantalone apparisce un padre amo-
l'oso e severo quanto glie ne consentono la ragione
ed il cuore. L'allettamento dei vizi non ha in guisa
mutato il cuore di Pasqualino , ch'egli non ricordi
la soggezione dovuta al padre e il buono e modesto
suo vivere antico. Una circostanza condotta al na-
turale serve a spiegare i due caratteri. Pantalone
corre all'osteria per cogliervi all' improvviso suo fi-
glio: questi s'è nascosto per paura sotto d'un tavolino.
Precede una scena comica, in cui Arlecchino, com-
pagnone, pur tradisce l'amico e mostra al vecchio
il nascondiglio. Il vecchio va, furioso, per iscoprire
il tappeto: poi, ripensando, si calma e pianamente
lo apre. Pasqualino tutto confuso si leva , fa una
impacciata riverenza , vuol prendere il suo tabarro
e partire. Ma il padre lo ferma, e con una eloquenza
che va al cuore , lo rimprovera , lo persuade , lo
intenerisce e lo fa cadere ai suoi piedi. {Buona mo-
glie a. Jl. s. 3.) Anche una scena sola basta a far
conoscere la fiacchezza di Pasqualino, la perversità
di Lelio e la dolcezza dell' amor di Betina , ed è
quando ella ha tolto il pugnale dalle mani dell'in-
cauto marito. Cosi le fidanzate della campagna ro-
mana , peritose che i loro amanti sieno troppo
corrivi alle risse, si fan poigei-e per primo dono il
43
coltello , sul quale incidono un motto che rieoidi
il primo giorno di amore. Retina ha dunque tolto
il pu^gnale ed è quasi al punto di ricondurre a casa
il marito. Mentre pacificati si abbracciano, soprag-
giunge Lelio, il quale chiamando ramico schiavo di
donna, Io schernisce e lo incita a sciogliersi di quelle
braccia, e così, soffiandogli nelle orecchie, seco lo
trasporta, quantunque a pi'ieghi ed a grida s'abban-
doni la trafitta Betina. (a. li. s. 23.) Ma la voce della
donna innocente giunge al cielo, e la morte coglie
Lelio traditore dell'amico e percussore del padre.
Lo spettacolo di sì tristo fine fa ravvedere il giovane
traviato. Altri dirà forse che l'uccisione d'un uomo
non è spediente di buona commedia. Può essere.
Ma se talor giova uscire di certe regole che alla
fin fine approdano poco, questa volta non si potea
meglio dar di cozzo alla consuetudine. Questa, direi,
è pili che commedia: è vera rappresentanza della vita
umana. Quali parole , quali esempì avrebber fatto
ripentirò Pasqualino ? Ecco un cadavere : un passo
è dal vizio al delitto e dal delitto alla morte. Va,
va e potrai uccidere od essere ucciso : tremendo
baleno al pensiero : e Pasqualino si pente. Non è
grand'opera senza mende: censori più severi e sottili
qui forse ne troveranno a ribocco. Quanto a me ,
le infinite bellezze me li fanno sparire dagli occhi;
ed io perdono a qualche inverosimile della condot-
ta , a qualche volgarità di azione e di parole, in
grazia della bella dipintura dei costumi e dei ca-
ratteri e della moralità dell'azione, pili eh' io non
mi pieghi a perdonare per dialoghi politi e piallali
u
i mostruosi e famosi quadri drammatici che ho
spesso veduto oggidì. È fama che alla veduta della
scena, dove Pasqualino è trovato dal padre nascoso
nella bettola ed amorosamente richiamato all' os-
servanza del suo dovere, un giovane traviato tor-
nasse in grembo della propria fVmiiglia. Ella è cosa
credibile chi guardi alla naturalezza onde quel fatto
si vede come fosse vero : né può negarsi che questa
fosse la più bella lode della commedia e il più dolce
premio che potesse raccogliere da essa l'autore.
XXVII.
Il poeta nostro nella lingua fu incolto : vero e
naturale e bollo , come s' addice a commedia , fu
nello stile. Al che se avessero posto mente e il
Baretti e i grammatici, che vennero dopo, avreb-
bero schivato r intrigarsi in tante dicerìe. Imperoc-
ché , se gran pregio é un dialogo semplice , viva-
ce , proprio , breve , scorrevole , arguto , certa-
mente egli ebbe tal pregio. Non vedo poi eh' egli
potesse agevolmente imparare questo artificio dagli
scrittori comici del cinquecento e del seicento ,
tranne forse dall'Aretino e dal Caro. Né vorrei af-
fermare ch'ei lo imparasse dai francesi. Quegli che
indagava e ritraeva la natura nei caratteri , nelle
circostanze, nell'ordine degli avvenimenti, potea
bene osseivarla e coglierla nei modi spontanei, onde
essa per via della favella si disvela nell'umano con-
sorzio. Né alcuno mi negherà che a questo non
avesse ingegno capace. Ma i contrari aggiungono :
ebbe modi di dire curialeschi, infranciosati e peggio.
45
E sia pure. Ma ditemi, chi fu tra noi, tranne Danto,
che seppe sì perfettamente imitare il linguaggio de-
gli uomini, non in quella certa maniera stabilita, che
direi d'artificio e non d'arte, ma in quella che anco
nelle forme esterne riliagge la interiore natura del-
l'uomo ? Chi v'ha fra i più eleganti scrittori co-
mici nostri, se vero scrittore comico abbiamo fuori
di questo, chi v'ha che nella stessa giacitura e col-
locazione delle parole faccia indovinare l'ambizioso,
il collerico, l'impazienlc, il flemmatico e le altre infi-
nite e luci e ombre e colori e mezzi colori della varia
indole nostra ? Certo nessuno : perchè nessun' altro
ebbe, come lui, facoltà di penetrare nell'interno del
cuore altrui, e tenace memoria da ricordare, e spon-
tanea vena da esprimere ogni minima gradazione
del carattere umano. E ch'egli avesse facilità d'in-
tendere e sapienza di cogliere dal vivo linguaggio
quanto è atto a esprimere ogni movimento ed af-
fetto specialmente ridicolo, ne abbiamo prova nelle
commedie da lui scritte nel dialetto veneziano, il
quale è da lui adoperato a quel modo, che scoccando
dalla bocca, a primo tratto precisa 1' interna atfe-
zione altrui. Che s'egli non fu puro ed elegante nel
linguaggio italico, molte cagioni gli si opposero: e
prima di tutto l'esser nato piuttosto nelle lagune che
nella gentile Firenze o in altra parte dove Ja favella
avesse più del toscano, e il dovere in certa guisa tra-
durre le sue idee dalla maniera onde gli sorgevano in
mente, facili e scolpite e aggraziate, nella favella con
cui non avea completa famigliarità. Si sa bene quanto
la lingua aiuti le idee : e se c'immaginiamo il lavoro
che il pensiero fa mentre scompone, scolorisce, ri-
46
tarda la frase straniera per poi riconnelterla, inca-
lorarla, accelerarla nel linguaggio in cui la dee tra-
passare ; ci sarà presto l'intendere come in questo
lavorìo perdesse di freschezza, di calore, di vivacità
la frase veneziana passata a fatica nel linguaggio
della nazione. Oltre a questo gli nocque il secolo
che mal parlava e peggio scriveva : da che verso
quel tempo era pur venutaci una smania di buon
linguaggio; ma chi volea purgarlo dell'ampolloso e
del barbai'ico, a forza di regole lo rendea freddo ,
timido e snervato. Quindi sì per la corruzione di
esso linguaggio, come per la condizione delie lettere,
che avrebbon dovuto, risalendo ai principi, dirug-
ginarlo ; chiunque non ne avesse fatto studio spe-
ciale, avea tra mano cattiva materia, e tale era co-
stretto adoperare. Né con questo io voglio dire che
l'autore comico debba spacciarsi d'ogni studio della
lingua patria e lasciarsi andare alla sola attenta
osservazione del buono o cattivo scrivere o par-
lare che usa nel suo secolo. Imperocché io consideri
la comica un' arte come tutte le altre, e non una
copia ignuda del vero : quindi come arte deve ri-
cercare e scegliere tra i moltiplici elementi, e idea-
lizzare alcun poco , tanto nella composizione del
soggetto, quanto nella espressione delle figure che
lo compongono. E perciò la lingua umana deve
avere anco la sua parte in questo ideale, acciocché,
come l'oggetto idealizzato mirando a più alto segno
può aggiungere lo scopo di migliorare altrui mez-
zanamente ; così la favella meglio e più riccamente
adoperata si sparge e s'insinua nelle moltitudini, e
la ricchezza letteraria muta a mano a mano in pò-
47
popolare dovizia. Non per tanto giova tenere poi-
fermo , che se ogni altro scrittore è più tenuto a
curar la bellezza del linguaggio , certamente v' è
meno obbligato io scrittore comico, a cui può ba-
stare di esprimere gli affetti e il ridicolo nel modo
che usa comunemente , senza affaticarsi a cercar
troppo se sia di buono o di mal conio: specialmente
se pensi che talora una espressione comune, quantun-
que non sia bellissima, dà meglio viva l'idea e me-
glio risponde alla intelligenza della moltitudine, che
qualsivoglia piiì leggiadia e pura fiase rimenata dal
buratto e pescala tra le delizie archeologiche degli
ascetici del mille e trecento. ,
XXVlll.
Ma la sua perfezione in questa parte fu avver-
sata da quell'antica diffìcollà, ch'ebbe, ha, ed avrà in
Italia chiunque scriva commedie. In Italia una è la
lingua, ma variati i dialetti- E come questa unilà
di lingua è il legame e il simbolo della nazione, così
i dialetti diversi ne dimostrano le scissure. Le quali
si veggono pili forti dove sono piiì difiTerenti i dia-
letti: imperocché la dissonanza delle lingue sia quella
che dimostra la dissonanza delle anime, da che la
favella è, per dir così, tutto l'uomo, e come l'unità
del vocabolo conserta in uno il sentimento di mille,
così la varietà divide e disaccorda il sentimento di
dieci. E più appresso di noi che di nessun' altro
popolo furono tenacemente usati i dialetti, perchè
in nessun'altro paese del mondo angoli di terra die-
dero sì grandi slati rispetto almeno alla civiltà, e
48
nessun fiancesc trasse più gloria dal chiamarsi o
normanno o piccardo o provenzale piuttosto che
francese , come potean essere superbi gli abitatori
delle nostre provincie di chiamarsi , piuttosto che
italiani, genovesi o fiorentini o veneziani o siciliani.
Ma comunque si fosse , egli è da considerare che
la lingua nostra, la quale pur vive e corre per tutte
le bocche del popolo italiano, ebbe pulimento, leg-
giadria, decoro e maestà presso la gente fiorentina.
Questa (secondo che ne dice il Foscolo) la quale più
si assomigliò alla gente ateniese, trapassando quasi
a un punto dalla barbarie alla civiltà, in sé riunì
nella età medesima sì il criterio come le passioni,
le quali sogliono dispaiarsi e preponderare secondo
le differenti età negli uomini, nei popoli e nelle lin-
gue: e coronando ad un tempo la virtù ed esilian-
dola, trucidando tiranni, debellando nemici e dando
norme di arti e di giustizia, dovea nelle varie vicende
di gloria, di dolore e di prosperità esercitare levarle
nature dei cuori e degl' ingegni; per le quali cose na-
turalmente la lingua prendea suoni confacenti e all'in-
dole del forte, e alla prudenza del savio, e alla pre-
cisione del legislatore, al colorito e al disegno e alla
musica surgenli dall'entusiasmo d'un popolo giovane.
La ricca e originale letteratura che ne nacque, per-
sonificata nei grandi scrittori, quali furono e il Ca-
valcanti e il Compagni p l'Alighieri e il Petrarca e
il Boccaccio, si diffuse prestamente nelle altre pro-
vincie italiane, e diede ai dialetti popolari una parte
della sua virile e leggiadra veste, e li mutò via via
in quella lingua più universale, che dicesi letteraria,
con iscambio continuo di parole, di frasi, di colori,
49
d' idee. Nella qual cosa, oltre 1' utile che avemtno
d' una lingua letteraria precisa e meno soggetta a
mutazioni , e quindi usata ed intesa sempre insino
noi per cinque secoli intieri; si ebbe pur quello che
ciascuno scrittore di ciascuna provincia vi mise di
ciò che gli dava V indole del proprio dialetto quanto
poteva acconsentire quella stessa lingua letteraria
adottata e oramai succhiala quasi col latte nelle pub-
bliche scuole. Quindi furono copiosi e coloristi i na-
politani; eleganti e aggraziati i veneziani; severi e
parchi i romani; robusti e duri alquanto i piemon-
tesi, secondo che può vedersi per esempio nel Tasso,
nel Bembo, nell'Alfieri, nel Leopardi: onde anco nelle
lettere la Italia dal delicato e amoroso trapassa tem-
peratamente nel robusto e quasi selvaggio, come la
sua terra dalle valli fiorite per molte gradazioni
giunge alla grandezza selvatica dell' Apennino. Ma
questo che approdava alla lingua letteraria destinata
a cadere come spillo di acqua che casca in istille
e in rugiada a fecondare il campo d' intorno, non
era bastante alla lingua della commedia e alla com-
media stessa. La quale ha bisogno d' essere ali-
mentata e ringiovanita da quanto è piij puro, pili
natio, più espressivo nei dialetti popolari, vivi, spi-
gliati e caldi, e non dalle fredde e magistrali e ret-
loriche diciture: che pur sarebbero meno glaciali se
i letterali rinfrescassero la favella imparata sui libri
nella viva e parlata, ritraendo dalle fonti incorrotte
e perenni del popolo. Egli è certo che se gli scrit-
tori si fossero persuasi che il volgare fiorentino non
può dirsi propriamente dialetto, ma quello che gli
sparsi dialetti d' Italia in sé riunisce e ritempra ed
G.A.T.CLXV. 4
50
abbella; se i non toscani avessero stimato che per
iscrivere commedia era necessario bere alle fonti to-
scane; e i toscani avessero creduto conveniente di
correre le altre provincie italiane per conoscere quan-
to in quelle di toscano non fosse inteso; forse forse
si avrebbe in ultimo avuto un linguaggio comico
sempre fresco e vegeto e qual vuole la sciolta vi-
vacità della festevole musa. Ma invece fu tutt'allro:
anzi tenendosi i dialetti come piiì adatti all'allegro e
al ridicolo, si veniva parlandoli nel teatro, o alcune
volte i più goffi, così come a qualche famoso comico
veniva in talento. 11 che però da principio parve scu-
sato da una certa necessità: da che i drammi e le
commedie erano destinate ai piaceri delle singole città
e non uscivano fuori di esse, e però raggiungevano
meglio lo scopo quanto più fedelmente ritraevano
anche nel linguaggio i costumi e l'indole di ciascuna.
In appresso peiò che più s'accomunarono le dovizie
letterarie, non avea più valore questa sembianza di
scusa: e finché gli accademici Rozzi e Intronali diSiena
(diconsi fondali verso il 1450 da Enea Silvio Piccolo-
mini che fu poi Pio II pontefice) dieron voga al dialetto
sanese , potea chiamars l'Italia fortunatissima. Ma
che diremo ricordandoci dell'amore costante di Ales-
sandro Piccolomini poi vescovo di Siena, produzione
data al piacere di Carlo V che passò per quella città
nel 1536, dove il prologo è un dialogo in italiano
e spagnuolo, e nel corpo dell'opera è adoperata la
lingua castìgliana e la tedesca, e i volgari sanese e
napolitano ? Vera immagine dell'impero dell'ambi-
zioso fiammingo. Che diremo quando Angelo Beolco,
detto il Ruzzante padovano e Roselo moderno, scrisse
commedie ove gli attori parlavano e il bolognese e
51
il veneziano e il bergamasco e il contadinesco di Pa-
dova e il fiorentino e la greca vivente ? Vera torre
di Babele. Le maschere in appresso crebbero cotesto
vezzo, tanto più che quasi del tutto affogarono la
commedia scritta. Le compagnie comiche, composte
nella maggior parte di gente raccolta dalle varie
Provincie, più che mai diedero spinta alla confusione
delle lingue e alla barbarie italiana: da che messa
da canto la commedia scritta ciascun'attore creando
di se stesso un fantoccio balzano, parlava all' im-
provviso il proprio volgare, o bene o male, basta che
facesse ridere il facile volgo.
XXIX.
intanto che il Goldoni si godeva gli applausi po-
polari, una turba di nemici gli mosse accanite guerre,
le quali pur valsero finalmente a farlo peregrinare
in terra straniera. Se l' ira gli si fosse accesa contro
per cagione delle maschere e della commedia del-
l'arte da lui combattute; ella si vorrebbe un poco
scusare in grazia della nazionalità portata innanzi
dai fautori di esse. Ma la guerra a lui mossa nacque
di bassa invidia. Nelle prime prove de'novelli scrittori
si vede ciò che interviene alla giovinezza dell'uomr
accarezzata e quasi incoraggiata alla vita. Il primo
e il secondo saggio d'un ingegno che nasce, si ap-
plaudisce come cosa che non avrà durata, anzi vuol
brillare e morire come stella cadente. Ma quando
costui chiede il seggio che gli conviene , allora si
suona all'arme e si addita il superbo, e la turba gli
grida : Scendi, sgombra, che quello non è loco da
52
le. E questo toccava in sorte al Goldoni: che non
uscito ancora di pupillo e stretto all'antica comme-
dia, ebbe critiche man severe e libelli più amore-
voli che satirici. Ma poi che si sciolse della briglia,
allora si levò un remolino di ehiacchere: e qua' ca-
pocchi che aveano insino allora sbarrato gli occhi
ai lazzi d'Arlecchino, parvero cattedre donde «i spac-
ciavano i nomi dì Aristotile, di Orazio, del Castel-
vetro e persino del Crescimbeni, e si cicalava a dritto
e a rovescio di unità, di regole e d'altro, come aves-
sero di ciò meditato sin dal tempo che la balia dava
loro la poppa. Allora uscirono libelli critici ; e la
piazzetta di san Marco risonava de' nomi strani di
protagonista e ài protasi in luogo del mare, del ven-
to, del commercio, del turco. La critica è necessa-
ria e buona perchè 1' arte cammini : ella fa talora
come r acciaio battuto nel selce : ne fa scaturire
scintille. Trista e contraria all'officio suo se ella pre-
sume e sfregia, anzi che giudicare e pungere: infame
se amareggia la vita del sapiente mutando sé stessa
in satira e procace calunnia. Alla Vedova scaltra del
Goldoni si contrappose a' san Samuele la Scuola delle
vedove, la quale non fu dramma, ma invettiva aperta
contro di lui che si degnò rispondere col Prologo
apologetico. Laonde i magistrati avvertirono il no-
cumento che può recare la licenza degli spettacoli:
e colà dove prima il solo magistrato degli esecutori
contro la bestemmia mezzo vegliava sulle rappre-
sentazioni teatrali, fu creata una censura che meglio
difendesse la decenza pubblica e l'onore delle pri-
vate persone. Intanto il favore popolare si spartiva
tra due uomini diversi, cioè tra il nostro e Pietro
53
Chiari. Emulazione ed ira: clamori e baruffe: nelle
quali spicca bizzarraoìente il nome di Jacopo Ca-
sanova celebre ciurmatore di mente acutissima, il
quale nel luglio del 1755, per aver fischiato troppo
sonoramente il Chiari, venia messo nei piombi (donde
poi fuggì quasi volando) come perturbatore della
pubblica quiete.
XXX.
La luce dell'ingegno splende ne'secoli avvenire.
Oblìo ricuopre i nomi di quelli che tentarono di
oscurarla. Né io cercherò questi nomi, né trovandoli
li ricorderò. Bensì m'è forte che uomini valenti si
mescolassero alla torma , la quale accaneggiava lo
spedito viandante. Nulla m'importa di Pietro Chiari,
romanziere e scrittore di commedie, che nella mise-
ria si pavoneggiava col mantello di seta e turava le
oiecchie ai sibili coi ricci della parrucca, lìgli si tenga
della sua fama che non trapassò dieci anni. F*erò mi
duole di Carlo Gozzi e di Giusej)pe Baretti, buoni in-
telletti ma loschi e superbi. II Barelli sortiva ingegno
pronto e sagace: laonde io penso che vedesse, ma non
volesse confessare nel Goldoni una novella gloria ita-
liana. L'astio ammantò con la giusta censura della
lingua mal conosciuta e peggio adoperata dal Vene-
ziano. Gli fecero eco quanti pedanti furono, sono e sa-
ranno, che per lo zelo infiammato di questa lingua
manderebbero a dar calci al rovaio e un Colombo e
un Galileo, se questi avesse dettato le sue scoperte alla
peggio, e quegli avesse avuto bisogno di ciarle per
iscoprire un mondo. Egli è vero che non ha valore
54
anche un profondo e nuovo pensiero senza lo siile
che lo dia schietto ai vivi ed ai nascituri: e questo
è più necessario per quelle cose, in cui l'utile non
pare a prima vista o sembra pili lontano: e perciò
vi si chiede più aperta e immediata bellezza. Per
tanto alcuno potrebbe forse dar biasimo al Barelli
che sì fieramente addentasse il Beccaria e il Verri
spargitori di verità, le quali, anco rozzamente rivelale,
pur non cessano dal giovare al mondo: per contrario
lodarlo che avversasse il Goldoni , il quale avendo
a trattare cosa del tutto artistica, non la compieva
come si conviene, non dico con l'ornamento, ma con
la necessità dello stile e della lingua. A costui ri-
spondo, che rispetto ai primi io non iscuso né il
Barelli nò loro. Il Barelli dovea inchinarsi al pen-
siero sapiente, ancora che non facesse sagrifizio alle
grazie : di quelli ammiro altamente l'ingegno e le
opere , ma li chiamo in colpa di non aver fidato
nella lingua nostra, com'ella non avesse bastato e
non basti a quanti nuovi e pellegrini concetti sieno
usciti e possano uscire di mente umana. Questo era
dimostralo in quei tempi medesimi da Francesco
Maria Zanotti nella filosofìa e da Ferdinando (ialiani
nella scienza economica, clie si slimava dagl'imperiti
sbocciata allora allora tanto che paresse necessario
ricorrere alla sognata abbondanza dei linguaggi stra-
nieri. A chi poi non riprendesse il Barelli di aver fru-
stato sì fieramente il Goldoni, in prima io dirò che sa-
rebbe da vedere se lo stile di questo (e passi la lingua)
non convenisse da vero alla sua opera : in secondo
luogo, che quello era il caso in cui le infinite ric-
chezze della natura e dell'arte possedute dal Vene-
55
xìano doveano scusarlo del minore difetto, special-
mente in un secolo che per certo non iscriveva con
eleganza e purezza. Del rimanente l'Aristarco, chia-
mato dal Monti accetta rozza che fa netto e sicuro
il taglio, nel numero dodicesimo del suo Giornale
mise in un fascio il Goldoni con i poeti marineschi,
petrarcheschi, arcadici e ossianeschi, e portò l'ira
più oltre che non conviene a cortese nemico, per-
seguitando l'avversario che per lontananza non potea
più difendere sé stesso. Di fatti il primo foglio della
Frusta segna ottobre del 1763, e il Goldoni s'era
già da qualche anno innanzi partito di Venezia. Né si
possono leggere senza fremito di sdegno i fogli XIF,
XIV, XVII, XXI, XXII, dove fra ingiuriosi sarcasmi,
egli mette la musa di Carlo a paragone di quella onde
s' ispirarono un Chiari, un Vicini e il P'rugoni. Sa-
rebbe come porre a riscontro d' una vista di vera
campagna o d' una festa villereccia gli stupidi pro-
spetti d'una lanterna magica o le ridda d'un carne-
vale cittadinesco. Né so con che fronte potesse rim-
proverare al Goldoni e i Pantaloni e i Dottori misti
a turchi dotti, a inglesi taciturni, e a tedeschi ubriachi,
egli che levava a cielo Carlo Gozzi che s' affannava
a riportare il popolo, da lui detto incolto, a rimbam-
bolire con le favole del Serpente, del Corvo e delle
Tre melarance.
XXXI.
Molti hanno inteso parlaie di Carlo Gozzi sì come
di quello che amareggiò la vita del nostro Terenzio.
Pochissimi hanno veduto le sue opere : da che, ces-
sato il grido della fama contemporanea, egli fu quasi
56
intieramente dimenticalo. Una vaga memoria è ri-
masta che lo dipinge ardito , immaginoso , dispre-
giatore d'ogni regola dell'arte. Ad alcuni ciò è sem-
brato assai, e per questo Io inchinano : ad altri è
bastalo ancora por tenerlo un pazzo sicuramente.
Noi , che non vediamo , sia pure a nostro modo ,
l'arte né vagolante tra nuvoli d'idee metafìsiche, nò
ferma ai cancelli della prigione fabbricatale dai pe-
dagoghi ; noi ci studieremo dirne alla meglio il
nostro intendimento così come ci nasce nel capo ,
lasciando a chi vuole le dicerìe gonfie e le incor-
nature pigmèe. Carlo Gozzi nacque nel 1722 e morì
nel 1806, e scrisse le memorie della sua vita col
titolo d'inutili. V'ha chi dice che non fu mai titolo
meglio corrispondente a sostanza di libro. Egli era
fratello del mite e sereno ingegno di Gaspare Gozzi:
ma per contrario di natura torbida e inquieta : avea
del buffone insieme e dello scaltro. Die dentro alle liti
che minavano il patrimonio avito: si mischiò ne'com-
medianti, e di Teodora Ricci s' incapò fare costu-
mata donna e attrice valente : nò potè avere altro
se non che ella fosse valente. Poi si cacciò nelle
brighe letterarie, non so se con piìi tristizia o più
villania. Nel Ragionamento ingenuo sopra lo sue fiabe
parla dell'opuscolo sul Teatro di Francesco Milizia,
e approvando che fosse stato arso (il che non era
vero) giunge a dire che i libri si fanno ardere coi
loro scrittori talora per salute dei popoli e degli stali.
Un tratto gli venne in uggia Pietro Antonio Gratarol
segretario del Senato, scimia di stranieri costumi.
E perciò scrisse le Droghe d'amore, comjnedia dove
acutamente lo fece ridicolo, lì pover'uomo bisogna
57
che fosse proprio di buona pasta. Fuggì da Venezia:
scrisse a Stockolm una dichiarazione apologetica :
poi andò a morire di rabbia, lontano lontano, nel
Madagascar. AI Gozzi in appresso non sofferiva l'ani-
mo di veder grandeggiare la fama di due uonjini
diversi, cioè del Chiaii e del Goldoni. Pertanto scrisse
un libretto in versi faceti detto la Tarlana degli in-
flussi, nel quale cuculiava ambedue i poeti. Il Chiari ri-
spondeva a quando a quando ne'sonetti per monache
e per nozze: il poeta comico additava la gente che
traeva in folla alle sue commedie. Al Gozzi uscì
detto che la folla non dimostra il pi-egio dell'opera,
e ch'egli ne avrebbe chiamata altrettanta con le
panzane che allettano al sonno i baìnbini. E dal
Cunto delli amie Irattenimenlo per le piccirielle, ca-
pricciosa raccolta di favole scritte in dialetto na-
politano , cavò fuori VAmore delle tre melarance ,
che mise in farnetico il teatro Sant' Angelo. Egli
si meravigliò del successo maggiore della propria
espettazione : e fatto un passo , andò innanzi ti-
rando favole 0 fiabe, com'egli diceva, dalla Biblio-
teca de' Geni, dalle novelle arabe, persiane, cinesi:
insomma andò in capo al mondo. Per dare una
qualche idea di queste fiabe, non mi fermerò sulla
prima, solamente tracciata perchè libero fosse ai
commedianti il parlare improvviso. Basti dire che
Truffaldino, il quale rappresenta la maschera italiana,
la vince contro a Celio mago e alla Fata Morgana
(vale a dire Goldoni e Chiari) giungendo a far ridere
il Re di coppe, che piìi non rideva ammalinconito
pei versi martelliani datigli a bere da. un traditore
entro una certa medicina Bensì mi fermerò sopra
58
una favola tragica intitolata il Corvo, dove con l'ar-
gomento basato sul falso si vuol commuovere il
popolo a pianto.
XXXll.
Jennaro, fratello del re Millo, va in traccia d'una
fanciulla dalle ciglia e dai capelli del colore del cor-
vo, candida come la pietra su cui moriva un corvo:
sola, a seconda degli astrologi , che avesse potuto
guarire il re uscito del cervello per la gran colpa
d'avere ucciso un corvo fatato- Cerca e ricerca, gli
par proprio il fatto suo Armilla, figlia del re No-.
rando, e senza cerimonie la piglia e la porla via. II
re Norando è dotto nella negromanzia e non è uomo
da pigliarsela in santa pace. Già si sa che giura ven-
detta. Avrebbe fatto meglio, essendo così bravo, di
ripigliarsi la figlia e farla finita. Ma no, egli la pensa
altrimenti; e subito, là ove i naviganti stanchi del
fugato corso riposano , manda nientemeno che un
cacciatore sovra un bel cavallo tigrato e con un
falco di bellezza maravigliosa sul pugno. Pantalone
ammiraglio se ne invaghisce e a caro prezzo li com-
pra e ne fa tosto presente a Jennaro: il quale gon-
gola di gioia polendo recare al fratello , olire ad
una bellissima sposa, un cavallo e un falco di quella
sorta. Ma quando sonnecchia sotto un albero , due
colombe appollaiate tra le fronde, lamentano il fato
del misero Jennaro. Il falco, subito che sarà portato
innanzi al re, gli si avventerà sul viso e gli caverà
gli occhi: il cavallo se lo scolerà di dosso e spran-
gandogli calci l'ucciderà: ove si facciano le nozze,
nella prima notte un certo moslro si trangugerà vivo
59
vivo lo sposo: in ultimo se Jennaio non consegna
i doni , o scopra ad altri questi terribili segreti ,
egli diventerà di pietra. Norando sopravviene a ca-
valcione d'un mostro marino e gli ribadisce sul capo
la maledetta profezia. Ecco Jennaro in tragica dub-
biezza: e voi potete figurarvi con che cuore giun-
gesse a corte. La reggia è in giolito: il re Millo gua-
risce del pazzo: Jennaro solo, Jennaro solo, è triste
come una giornata d' inverno quando piove. Però
non perde la memoria, anzi sta sull'avviso: e men-
tre vengono consegnati al re il falcone e il destriero,
lesto come un gatto, aggrappa la spada e al falco
la testa, al cavallo recide le gambe. Il re fa occhi
pazzi, e si persuade che il fratello s'adoperi a tal modo
per fargli dispetto, e giunge persino a credere che
questi ami d'amore la sua fidanzata e tutto faccia
per istornare le nozze vicine. Intanto Jennaro sup-
plica in ginocchio Armilla a far quanto può per dif-
ferirle. Ma l'ode il re che stava in agguato, e salta
fuori, e comanda che sieno celebrate le sponsali-
zie subito, e dà ordine che Jennaro sia messo dove
il sole si vede a scacchi. Questi però, non so come»
può svignarsela del carcere: e disperato che i pro-
messi si abbian dato l'anello, pensa di scendere in
certi sotterranei, che per torti giri riescono all'an-
ticamera regia, donde per certo dovea passare il dra-
gone affamato. Ecco il dragone: e Jennaro s'azzuffa
con esso, che pare Orlando. Da ultimo cala un gran
fendente, pel quale e il mostro sparisce, e la porta
della stanza regia, battuta dalla spada, si spalanca.
Il re tra l' ignudo e il vestito salta fuore, e vedendo
il fratello e le spadone sguainato, crede, e chi non
60
1 avrebbe credulo ? che colui sia venuto per ammaz-
zarlo. Jennaro nuovamente è sostenuto in carceì-e,
e quivi tanto prega che induce il re di venirlo a vi-
sitare. Non gli resta che svelare il segreto del suo
fero destino. Appena egli ha detto, che la predizione
si avvera , e a mano a mano egli diventa di pie-
tra. Millo piange a piò della statua, e grida di vo-
ler morire. Norando , il negromante vendicativo ,
gli apparisce , e gli dice che solamente il sangue
d' Armilla trucidata potrà rincarnare il fratello, li
povero Millo vorrebbe star cheto, ma in faccia ad
Armilla che l' interroga, si tiene a pena: finché, dagli
e ridagli , si fa sfuggire di bocca l'arcano. Poi se
ne va; e qui non gli perdono. È cosa crudele lasciar
quivi sola la sposa già disperata. Appunto ne av-
viene che costei si uccide sotto la statua. 11 sangue,
sprizzando sulla pietra, risuscita Jennaro, che a sua
volta vuol rimorire vedendo moribonda Armilla, so-
pra cui vuol cadere anche , morto , il marito. Ma
questo chiasso è ammorzato da Norando , il quale
sbuca di non so dove, ed urla che tutto è finito per-
chè (indovinate perche ?) il corvo, il celebre corvo,
ucciso da Millo, ha ripreso la vita. A tutti torna il
fiato e l'allegria, e si recita la canzonetta delle favolo
Si rinnovelhno le nozze.
xxxiir.
Ecco il genere delle famose fiabe. Da una iin-
para le altre. Nelle quali il Gozzi mescendo ridicolo
e tragico feroce arcano (com'egli diceva), e prosa e
versi, e re e plebei e ogni cosa, seguitò per qualche
tempo sino a che la sazietà venuta nel popolo, Io
61
portò a imitare e raffazzonare a suo modo commedie
spagnuole, io credo sino al 1799 che diede Annibale
duca d'Atene. Intanto il Baretti nel libro inglese con-
tro il viaggiatoreSharp intitolato ^V Italiani e i costumi
d'Italia lo chiama il più singolare ingegno che sia nato
al mondo dopo lo Shakespeare: potente a creare ca-
ratteri che non si veggono nella natura e pur sono
naturalissimi: grande nella invenzione, nella purezza
della lingua, nell'ardimento de'pensìeri, nella bellezza
del colorito, nell'intreccio, negli scioglimenti: in
somma un miracolo. Ma perchè pativa del bisbetico,
un'altra volta chiamò le fiabe un mucchio d'oro e
di fango, una tal quale poltiglia di bene e di male.
Gli stranieri, e specialmente gli alemanni, Io levarono
a cielo. Tradussero le fiabe e le stamparono più volte
e le spiegarono in cattedra. Alcune furono voltate
in tedesco dallo Schiller e dal Goethe, a dir vero con
eloquenza e poesia migliore che non sia nel testo.
Appresso furon viste tra i più grandi lavori dram-
matici antichi e moderni nel teatro della corte di
Weimar, dove, durante la reggenza di Amalia di Brun-
swick e la guerra dei sette anni, conveniva il fiore
dei letterati di quella nazione. La Stael e lo Schlegel
lo tengono più grande dell' Alfieri : il Ginguené lo
dice veramente italiano: al Sismondi pare un tedesco
sputato. Andate a fidarvi dei giudizi degli stranieri !
In Italia pochi se ne ricordano, e v' ha taluno che
disse le sue favole buone per satire o per tracce di
pantomime. Ultimamente vi fu chi lo volle rialzare
e tra gli altri mi ricorda del Maroncelli- Il quale,
cercando il nuovo se non altro nel disusato, pone
l'Adamo di Gianbattista Andreini tra le cose più su-
62
blimi che possa vantare la nostra letteratura; e come
appella costui il Vico de' poeti, barbaro e ignorato
al paro di lui, così loda altamente il Gozzi e lo grida
creatore d' un nuovo genere, e ingegno veramente
singolare, augurando. il giorno che gli venga data nella
patria la ospitalità che insino ad ora gli venne con-
tesa.
XXXIV.
Che Carlo Gozzi non fosse dotato d' ingegno ar-
dito, immaginoso, inventivo, non è chi non voglia
affermare. Ma prima di tutto gli nocque il basso
fine a cui mirò. L' arte vuoisi riguardare con alti
principi, e più sopra forse che la possa non giunga,
sì come lo scopo dal bersagliere il quale sappia la
curva che suol delineare la palla scagliata. Il cuore
dà forza alla mente che per esso vola piiì alto. Per-
chè il Gozzi (nel volume XIV delle sue opere stam-
pate a Venezia nel 1802) nega d' aver mai cono-
sciuto il Baretti, io non voglio credere al racconto
della baruffa nata in una libreria tra il Gozzi stesso
e il Goldoni, onde V Italia, disse 1' Aristarco, potè
menar vanto del suo più grande poeta. E lascio pure
r intento di voler mostrare che il popolo accorro
anco alle fiabe per cui le balie addormentano i fan-
ciulli. In qualunque modo di questo volea darsi prova
una volta sola : che non conveniva portare tanto
oltre la beffa. Animo gentile, che sa il teatro mezzo
di civiltà, non adopra per giungnere al contrario, né
accresce inganni alla ignoranza del volgo. Anzi io
mi piego a credere che non per mala intenzione di
abbassare il suo avversario , ma per sostenere la
63
commedia dell' arte e le maschere perseguitate da
quello , gli venisse talento di esercitare il suo in-
gegno. E' diceva esser giusta cotale difesa, prima
perch'esse erano cosa nazionale e piij conformi alla
robusta indole nostra, che non fosse il nuovo ge-
nere venutoci dalla sensitiva delicatezza dei francesi:
in secondo luogo perchè V Italia (sono sue parole)
per impossibilità di premio alle belle lettere, sarebbe
stata sempre priva di scrittori che con lo studio delle
umane passioni, con gli artificiosi apparecchi, con la
verità eia sana morale giungano a dirozzare gV in-
telletti sul teatro. In quanto alla prima ragione, egli,
tuffato nel vecchio, s' ingannava a partito. La com-
media dell' arte era nazionale come l' improvvisare
in poesia: meravigliosa come questo, e non possibile
in altra terra fuori della nostra rigogliosa e fera-
cissima. Ma chi non sa che la improvvisa nuoce
alla meditata poesia ? Chi non sa che dove fosse
ancora la commedia dell'arte, noi non avremmo avuto
nò. il Goldoni, né il Nota, né il Giraud, né il Bon,
come non li avemmo nel seicento ? Quando la bar-
barie era distesa pel suolo italiano, i pantomimi e i
mimi, in sé forse raccogliendo i buffoni, presero il
luogo del dramma e della commedia, e vissero in
mezzo alle sacre rappresentazioni: si rannicchiarono,
ma non tacquero allorché la coltura italica risusci-
tava r antico , anzi che creare un nuovo teatro :
grandeggiarono un'altra volta nel secolo diciasset-
tesimo: ora sono confinati in piccoli paesi e ignoti
villaggi per rinascere quando, se dar si potesse, la
nostra nazione minasse a nuova decadenza. Circa
al premio degli scrittori, posto che fosse allora im-
64
possibile, e sia anche adesso e fosse per esser sem-
pre neir avvenire , questa non era ragione perchè
la penna servisse ad altro che non paresse buono.
Lo scrittore debbe aver la coscienza dì fare opera
giusta: dove no, si taccia. Se la ingenua confessione
che ne fa, può scusarlo in parte, non però lo purga
del peccato di non aver voluto o saputo conoscere
il nobile fine a cui tendono le arti e le lettere. Se
il Gozzi credea che l'arte comica per povertà degli
scrittori non potesse levarsi di sua bassezza, perchè
egli, il quale era in gr'ado di esercitarla con agio,
non dava esempio di quel meglio a che altri non
poteva, anzi che aggiungere al male il peggio col
misero scopo di saziare il Sacchi e la sua com-
pagnia ?
XXXV,
Veduto a che misero fine egli adoperò 1' ingegno
e l'arte, forse sarebbe inutile ricercare a che giunse.
Ma perchè talvolta gli uomini aprono a caso una
strada nuova al pensiero , e perchè di queste fiabe
son nate dispute serie e facete; non sarà male eh' io
sopra vi spenda alcune brevi parole, se non altro per
dire la mia , chiedendo mercè a' lettori ed al mio
eroe che da lungi mi accenna, il meraviglioso che
non sorga dagli affetti, dalie virtù e dai vizi degli
uomini, ma bensì dal soprannaturale, dal misterioso
e dal fantastico, sta senza dubbio tra i mezzi del-
l' arte. Il soprannaturale è un evento contrario al
procedere della natura, e originato da cause supe-
riori alle leggi che la governano, e consiste nel!' in-
tervento di esseri soprammondani o in persona o nei
65
loro effetti, come iddii, semidei, mostri, ombre. Il
misterioso s' estrinseca meno nella forma, e risulta
dall' ignoto e dall'arcano , in cui stanno nascoste le
cagioni di effetti sensibili. Il fantastico si può dire
più propriamente quello che riproduce i fenomeni
della immaginazione dando loro una forma che paia
alla vista. Per mezzo del primo si porta nel campo
della poesia il prodigio, eh' è naturale alle religioni
e alla storia: pel secondo si dà venustà ed incan-
tesimo al noto, come la distesa infinita del mare,
che porge idea della immensità, accresce vaghezza
ai distinti contorni d' un lito o d' un monte : per
l'ultima vien dato all'arte il modo di riprodurre con
efficacia gì' ìntimi pensieri e gli arcani commovi-
menti dell'anima umana, come l'ombra di Banco
e di Agrippina sono le immagini materiali di quelle
forme che sorgono in fantasia e cruciano 1' animo
rimorso di Macbot e di Nerone. In ogni genere di
poesia, e specialmente nella drammatica, s'è fatto uso
di questi elementi ne' tempi antichi e moderni, come
di cose che hanno fondamento e sopra le leggi della
immaginazione e sopra la immutabile natura del-
Tuomo. Quindi non è mestieri di fare l'oziosa ricerca
se 0 l'uno o l'altro o tutti insienie possano adope-
rarsi in qualunque opera che tenda al fine di mi-
gliorare civilmente e moralmente gli uomini per via
del diletto. L'epica, la drammatica, la satira, la lirica
se ne valgano alla lìbera, purché li tengano nella de-
bita misura di economia e di convenienza: vale a
dire non li lascino spargersi troppo per tutto il corpo
del componimento, e non li pongano dove non sono
chiamati naturalmente ed efficacemente al loro uf-
G.A.T.CLXV. 5
66
fìcio. Io voglio dii'e che non si porli, per esempio,
al serio ciò che di sua natura è ridicolo, se bene
al ridicolo portato il serio, pel contrasto che ne nasce,
fa meglio raggiungere il fine del riso; né il meravi-
glioso soprannaturale o fantastico, che più si attaglia
a certi tempi e costumi, si porti a tempi e costumi
diversi, ed altro ed altro che vorrebbe lunga tela se
qui si dovesse far mostra di precetti rettorici. 11 tutto
poi si ammanti di vera poesia: poesia nelle passioni,
nelle immagini, nello stile: poesia piena d'affetto e
d'armonia, che dia splendore quasi abbagliante come
il sole di mezzogiorno, il quale dà fusione e mistero
alle cose: e voi vedrete che l'animo di chi vede e ascol-
ta meno darà mente anche all' impossibile di certe cir-
costanze, ma quasi trasportato suo malgrado, si sen-
tirà commosso com'egli stesso avesse veduto quel-
l'ombre e que' fantasmi , che danno argomento di
pena e di terrore e di gioia ai personaggi della scena.
Da queste considerazioni con.segue che il Gozzi non
va rimproveralo di aver messo mano a tal genere,
e specialmente avendone avuto antichissimo esempio
da Eschilo, da Aristofane e dai drammatici spagnuoli
e dallo Shakespeare, se bene cotesto esempio poco
allignasse, rispetto alla drammatica, in Italia: anzi
deve scusarsi di aver dato luogo ne' suoi drammi
anche al deforme e all'orrido, perchè questi nel so-
prannaturale fanno il medesimo effetto che nel mondo
morale e fisico, mettendo in rilievo il contrario. Che
se avesse le sue composizioni, non dico ornato, ma
nutrito di vera e splendida poesia, e se, riuscendogli
la commedia satirica ed allegorica, avesse perseverato
67
in quella, né al serio avesse portalo ciò che dovea
rimanersi baia, né al burlesco il grave e il patetico;
egli avrebbe per certo provveduto meglio alla sua
fama e all' incremento sicuro dell'arte. In vece fa
mescolanza d'ogni contrario elemento, senza l'intimo
legame che fa parere connesse le cose piiì dispa-
rate : anzi par che voglia tornare V arte al caos
de' Misteri, da cui s'era da qualche secolo tratta a
fatica. De' maghi poi, dell'ombre, delle trasforma-
zioni, non è parco come si vorrebbe, ma ne impinza
i suoi drammi, io direi non con lusso ma con dis-
sipazione di fantasia. Egli non pensò che nell'epica,
e generalmente in ogni poema che si legge, si può
esser piiì larghi (ma non mai prodighi) di tali mezzi:
imperocché le orecchie sieno men delicate degli oc-
chi, e tanto possa l'ingegno e l'arte del poeta da
far loro accogliere ciò che alla vista sdegnosa ripu-
gnerebbe. Inoltre non pensò che l'onore d'una viva
descrizione, di un mostro o d' un evento va tutto
intiero al poeta o al narratore che ve la pone sotto
gli occhi; mentre sul teatro il plauso, che può na-
scere dalla rappresentazione di essi, si volge tutto
al macchinista ed al sarto. Bene spese la lingua e
r ingegno l'Alighieri quando descrisse il mutarsi di •
serpente in uomo e di uomo in serpente ne' ladri
tormentati nella settima bolgia. Voi vedete, sentite
e v'atterrile: che vista o pennello non polca meglio
osservare e rappresentare quella terribile trasfor-
mazione, lasciando pure il pregio che l'orribile e lo
strano è cavato dalla stessa natura presa nelle sue
straordinarie alterazioni. Ma date che il poeta dram-
matico non cerchi far nascere o il riso o le lagrime
68
dall' intimo dei soggetto stesso, e tutto s'affidi a quei
mezzi meccanici: egli non ne trarrà lode, che niente
fece: forse ne avrà V ingegno di chi li pose ad atto,
salvo a ritorcere contro il poeta la beffa del pub-
blico, se la macchina preparata non risponda, o ri-
sponda in contrario, alla intenzione e allo scopo del
dramma.
XXXVI.
Lascio ancora come al Gozzi , non bastandogli
e maghi e ombre e statue parlanti e ogni altra specie
di capriccio, si ardì persino nella Donna serpente far
narrare a una maschera, che figurava un venditore
di storie , i fatti appartenenti al dramma, che non
si vetleano sulla scena: e ne'FraleUi nemici osò fìn-
gere un poeta, atteggiato da Brighella, che, testi-
monio beffardo degl'intricati avvenimenti , racconta
in fine agli attoniti spettatori punto per punto come
il nodo avviluppato si sciolga. Qui non si crede né
al vero, né al bello, né al dramma, né al popolo.
Che s' egli avesse avuto 1' intento di incolorare le
follie e gli aberramenti dello spirito umano, come
già fecero l'Ariosto e il Cervantes, o almeno non
per altro avesse operato che per farci ridere ; io
non solamente gli perdonerei que'suoi maghi e quelle
sue streghe e que'suoi diavoli, ma anche di averne
evocati più che non ne vide la fantasia del Cellini
sorgenti dai ruderi e svolazzanti per le finestre
del Colosseo. Ma siccome s'incapò di eccitare il ter-
rore trattando gli spettri come occorrenti all' ap-
parato tragico; mise anche la critica nella necessità
di osservarli severamente, e di vedere se tali mezzi
69
si convenivano allo scopo prefìsso. Sta bene che a
Sanile coaiparisca lo spettro dì Samuele evocato
dalla Pitonessa ; che Oreste sia perseguitato dalle
Kumenidi; che a Macbet le streghe rivelino gli eventi
futuri. Erano cose credute nei tempi, in cui si fin-
ge l'azione: credute quando si composero que'dram-
nii la prima volta: buone, sempre che sieno riguar-
date storicamente. Anche le immagini soprannatu-
rali devono corrispondere al tempo, al luogo e alle
persone: ne le cristiane credenze possono trarsi a
tempi pagani; né gli dei del paganesimo farsi mo-
tori di effetti nelle cose dei tempi cristiani. Nel
che osservo che il primo non venne mai in capo
ad alcuno , siccome troppo visibile errore ; il se-
condo a moltissimi , tratti da confusione d' idee.
Ma se avessero guardato al sommo Alighieri, avreb-
bero veduto com'egli usasse della mitologia o per
fine simbolico o per dar forma ad alcune imma-
gini già pienamente conformate alla fede cristiana,
mentre adopera gli enti soprannaturali in modo cor-
rispondente alle nuove credenze. Pertanto fu cosa
fanciullesca risuscitare, non per far i-idere ma per
far piangere, le streghe e gì' incanti sulla fine del
secolo deciinottavo, mentre appena pili si soffrivano
ne' romanzi cavallereschi, e già erano stati sepolti
insieme con questi dalla musa beffarda del Forti-
, guerri nel Ricciardetto. In somma o questa credenza
più non v'era, e cade tutta la macchina del poeta:
0 ve n'era ancora uno strascico tra le femminette
e tra '1 volgo, ed era male innalzarla tra le cose onde
muovono effetti gravissimi. Sarebbe come far sog-
getto di considerazioni sublimi la ubbìa della vec-
chia, che tragge maluria dalla pagliuzza che le oc-
70
corre Ira* piedi. Sia pure Jennaro agitato dalla volontà
di salvare il fratello e dalTangoscia di tenersi cre-
dulo per traditore, nrientre gli conviene tacere la
predizione fatale. Sarà sempre pur vero, che la ri-
dicola morte d'un corvo fatato e la vendetta d' un
mago ridicolo l'ha messo a tali strette; e chi ciò
pensi, non può non cadere tutta I' architeltui-a dei
dramma in un fascio, quantunque, a ordirlo, il Gozzi
facesse mostra di non mediocre potenza d'ingegno.
In qualunque modo egli si mostrò crudelmente ani-
moso contro il Goldoni. Del quale, poi che gli venne
meno l'odio fanatico alimentato da'[)lausi e dai sihili
del volgo , egli espicsse giudizio meno contrario ,
ma non meno ingiusto. Egli slimava che la man-
canza di coltura e la necessità di dovere scrivere
troppe opere fossero i carnefici di cotesto buon ingegno
italiano. Fu sollecito osservatore (egli aggiunge) della
natura e de'costumi: ma copiò materialmente, se-
guendo il falso principio che la verità piace benché
non iscelta. Nelle Pule onorate, dipinge fanciulle
lascive e bugiarde : ne' Cavalieri di spirito, sedut-
tori : ne'^V Impresari delle Smirne dà scuola d'immo-
destia, e così via via. Cercò novità per piacere : e
da prima piacque con le maschere : poi minacciò
di volerle annichilire chiamandole pezzi di cuoio :
appresso cercò miglior novità nei caratteri nazionali,
specialmante veneziani : in fine incespicò nei fantocci
mussulmani e nel romanzesco flebile, e al lutto s'im-
brogliò nel tragico e nel verso martelliano: laonde,
cascando di male in peggio, ritornata la compagnia
Sacchi di Portogallo, dove darsi alla fuga e celare
la sua vergogna a Parigi. Così egli. Ma i vituperi
71
del Gozzi fuion sempre stnentiti dal plauso popolare,
più costante alle coinmedie del nostro che non fosse
alle fiabe di qualunque conio. Inoltre assai dotti ed
illustri uomini conobbero il suo valore e lo difesero,
animando gì' italiani a seguire la via tracciala da
esso. Tra quegli eh' ei ricorda nelle sue Memorie
risplende Gaspare Gozzi, che in vero non imitò la
vile animosità del fratello, e Pietro Verri e l'abate
Roberti, nomi non oscuri al certo nelle lettere ita-
liane. Del primo (quantunque sia vero che in una
cicalata lo congiunga al Chiari) mi sovvengono al-
cuni articoli sopra i Rusteghi e la Casa nova, i quali
dovrebbero, a mio parere , ammaestrare i presenti
del come si scriva la critica teatrale. 11 Hoberti
compose un poemetto intitolato la Commedia: e un
altro in versi martelliani ne scrisse il Verri prima
che si desse alla storia e alla filosofìa, meglio della
poesia confacenti al suo ingegno. Sono poi celebri
le parole del Voltaire dii-ette al Veneziano: Io vorrei
inlilolare le vostre commedie V Italia liberata dai goti:
ver'e in un verso , esagerate nell'altro : secondo che
si riguaidino o rispetto all'arte drammatica o rispet-
to alla intiera civiltà italica, sonnecchiante forse, ma
non morta, an/i tale che nella sua coiruzione con-
teneva i gertrìi della futuia salute.
XXXVII.
Ghi pensi lo sterminato numero delle opere di
Carlo domanderà: Che guadagni ne trasse ? Quanto
agli onori, voi avete inteso: quanto al denaro, girale
gli occhi all' intorno e tenete per sicuro che da quel
tempo ad oggi non s' è fatto gran passo. Testé ,
72
quando a Bruselle s'adunavano persone famigerate
per dissertare solennemente sulla proprietà lettera-
ria, Nicolò Tommaseo, quasi cieco per lunghi studi,
scriveva che un solo de'suoi libri avrebbe in altre
parti d'Europa procacciato lungo sostentamento a
sé e alla sua famiglia, cui molti in Italia non aveano
potuto. A memoria nostra Tommaso Grossi dovè far
servire a' rogiti notarili quella penna, onde furono
scritti Ildegonda e Marco Visconti. Eppure non sarà
mai che sotto a questo sole, chi ha favilla nel cuore,
la spegna per disprezzo o miseria che glie ne in-
colga. A dir vero però nel settecento le cose anda-
vano peggio. Al Gozzi si pagavano tre o quattro lire
al foglio le traduzioni: sei lire al foglio gli fu pagata
Io Chambers e il Middleton. Centocinquanta zecchini
ebbe l'autore del Giorno ; e fu assai e fu ventura
rarissima. Dicono fosser dati cento zecchini al Mor-
gagni in merito delle sue opere. Per ammenda poi
correa sulla pia/za una merce, la quale oggi è sca-
duta di prezzo: e questa era le poesie per mona-
che, per nozze, per laurea, le quali di solitosi pla-
smavano a forma di sonetti. Ne'versì di Gaspare Gozzi
si leggono molti componimenti simili, nei quali il
genere è portato a quanta forbitezza e gentilezza
poteva. Ora un sonetto si pagava mezzo filippo: così
che un verso era valutato a Venezia meno d' un
punto di ciabattino. Ma in paiagone de'sonettài, chi
faceva commedie gongolava da vero. Trecento lire
per ciascuna davano gì' impresari al Goldoni. Così
afferma il Baretti: al contrario il Gozzi vuole che
gli si dessero tre zecchini per quelle a soggetto ,
trenta per le scritte, quaranta per il dramma. Bi-
73
sognerà pure, per saperne il vero, frugare gli ar-
chivi. Intanto si sa che gì' impresari del secolo scor-
so dimostravano piiì larghezza dei presenti, chi guardi
la povera condizione de' teatri d' allora : perchè il
prezzo maggiore dell'entrata ne'teatri ove si recita-
vano commedie non passava un paolo romano , e
quasi lutti i palchetti erano di privati padroni, che
non pagavano naturalmente la tessera d' ingresso.
Quindi scarsi i guadagni : anzi una volta si fecer
miracoli che alla porta del teatro la ciotola fu ve-
duta portare da secentosettantasette lire. Ma la gente
in quella sera per verità s'affollava a ragione: si re-
citava niente meno che il Convitalo di pietra. E
COSI un poeta, per tirare innanzi alla meglio, do-
veva 0 rallegrare i conviti sbrigliando lingua male-
dica e impura, o stillarsi il cervello per rabberciare
un dramma da musica- Oggi pure così: anzi peggio.
Da che non so se al tempo del Melastasio la gente
avrebbe portato in pace, che le fosser dati per vi-
vande squisite certi strani composti di drammi con
la ridevole solennità che usa. Allora si facea male
dai più con una certa schiettezza, né si ravvolgea
l'etisia del pensiero con una zimarra di frasi idro-
piche. E passi la frase barocca in grazia del lepido
soggetto. A' poeti dunque rimanea, come palladio ,
il dramma per musica; nel quale lavorando all' im-
pazzata riescivano a raspollare l'avanzo di Farinello
e di Carestino :
Però vedrai Caton fra poco esangue
Cantar morendo. 11 popol tenerino
Troppo alle doglie altrui s'agita e langue.
74
Che impoi'tan leggi al poeta meschino,
Purché quel poco al fin vada buscando
Che avanza a Faiinello e a Caiestino ?
Così Giuseppe Pai-ini nella satira sul teatro, in cui,
a dir vero , non mi tocca come nell'argute scene
delle ore del Giorno e nelle nervose e severe odi
civili. Che se a voi talenta sapere chi fossero Fa-
rinello e Carestino, io vi posso dire che del secondo
non so nulla: ma certo ne io ne voi ce ne curiamo.
Circa a Farinello, mi ricorda ch'egli si chiamava
Carlo Broschi, ed era il re degli eunuchi, e cantando
guarì della malinconia Filippo V di Spagna, e fu il
favorito della regina Barbara pure di Spagna, e si
beccava, così per la cipria, quattromila sterline al-
l' anno. Del rimanente i suoi amici, e tra gli altri
il Metastasio nelle lettere a lui scritte, lo ammira-
vano e lodavano per gì' inaspeltati e brillanti grup-
petti che doveano a Ini la loro esistenza. 0 mondo
felice, se Farinello ti partorì quei gruppetti ! Io lo
esalto perchè del favore si servì a porgere buoni
consigli e a sollevare infelici, non altrimenti che
il greco Damone, il quale, per nascondere al po-
polo la propria sufficienza, usava il velo della mu-
sica e conversava con Pericle, come ungitore e mae-
stro, per insegnargli la lotta da usarsi nel governo
civile. Intanto non valse al Goldoni, per uscire della
stretta sua vita, di ricorrere alla stampa delle sue
commedie. L' impresario Madebac se ne giudicava
padrone per avergli sborsato quel gi-andissimo prezzo
che avete udito. E si tenne forte nella sua pretesa,
e tanto, che all'autore, come per carità , concesse
75
alla fine licenza di stamparne un tomo solo per anno.
Così cominciò nel 1751 1' edizione del Bettinelli.
Ma che ? Dopo il primo volume costui si ricusa di
seguitare per conto del Goldoni: poi , svergognalo
com'era, continua l'edizione a conto del venale im-
presario. E Carlo, nemico di risse, ne dà mano ad
un'altra in Firenze nel 1753. Ecco il Bettinelli in-
vocare il suo privilegio: il coi'po de' librai spalleg-
giarlo : proibita a Venezia la forestiera edizione.
Quindi sulle rive del Po si recavano cinquecento
esemplari in sicuro asilo , là ove una comitiva di
nobili veneziani veniva a prenderli [>er darne pub-
blicamente in Venezia a chi ne voleva. E così il
governo (come avviene in cose che è più sapienza
tollerare) per non abrogare la legge del privilegio,
dovea soffrire che venisse violata alla scoperta. Né
per questo 1' autoie facea grandi avanzi , giacche
quindici edizioni diverse mettevano a sacco i suoi
lavori. Da ultimo, nel 1760, diede mano a sue spese
alla edizione così detta del Pasquali , la quale sì
lenta procedeva, che appena dopo venti anni era giun-
ta al volume diciassettesimo, di trenta onde si dovea
comporre. Quivi egli sparse le notizie della sua vita
da lui poscia riprese e riscritte in francese, così
schiette e festive, che ad alcuno, forse non a torto,
parvero più comiche del suo stesso teatro. Forse
troppo io mi sono fermato su questo argomento.
Però non mi paiono parole gittate quelle che si spen-
dono a lamentare la ingratitudine usata verso agli
uomini che onorano, non che la patria, la specie
umana. Ufficio che forse toccherà sempre ai posteri.
Ma scusatemi. Io non pensava che nel 1756 egli
76
ebbe da Don Filippo Infante di Parma, a' conforti
del ministro Du Tillot, una tenue pensione e quel
che più monta la patente di poeta di corte.
XXXVIII.
Una volta si recitò a Parigi il Figlio cV Arlec-
chino perduto e ritrovalo. Si piacquero i francesi di
quella commedia che pur il Goldoni non avea voluto
mettere a coda del suo teatro. E perciò i gentiluo-
mini della camera del re , i quali soprastavano ai
pubblici spettacoli, diedero incarico al Zanuzzi, primo
amoroso del teatro italiano, di proporre al Goldoni
che gli piacesse venire e Parigi e starvi con asse-
gnamento onorevole due anni per' rinfrancare quel
teatro con la novità de'suoi lavori. A questo giunse
la lettera del Zanuzzi nel 1769, quando pili era la
pressa de' suoi nemici : e pure esitò lungamente.
Poco o nulla gli rimeritava il proprio paese : ma
come lasciare la sua Venezia ? Come lasciare Ve-
nezia, dove^ cessale le critiche , godeva d' una dol-
cissima iranquillilà ? Così egli , che mai non pro-
nunciava parola che non fosse amore e riverenza
al paese natale. E quantunque i suoi nemici ancora
lo molestassero, amore di patria pur lo teneva ancora
alle sue lagune, donde mai non si sarebbe dipartito se
una provvisione qualunque, sia come avvocato, sia
come scrittore , gli avesse procacciato agio e de-
coro. Alle sue richieste si rispose : In uno stalo
repubblicano le grazie non si accordano che a mag-
giorila di voli : è uopo che i postidanli chiedano lunga
77
pezza, prima che la loro dimanda sia messa a partito:
quanto alle pensioni , se vi ha concorrenza , le arti
utili si preferiscono alle piacevoli. Quasi non sia e non
fosse utile per eccellenza l'arte degli scrittori comici,
quando venuto il teatro a questa presente necessità,
ha bisogno di molti e buoni autori che diano nobile
ésca al popolo pasciuto quasi sempre di strane e
viziose composizioni ! La triste vecchiezza urgeva,
e al Goldoni mancava un pane sicuro: eppure egli
avea cinto la patria d'una nuova corona. In verità
eh' è da compiangersi fortemente dell'umano con-
sorzio, allorché si veggono uomini così fatti non
avere, vivendo, ciò che si piange per non dato sul
loro sepolcro. E così va la vita : per il funerale
del Peruzzi i «landi offrivano l'oro, che a lui vivo
avrebbe risparmiato indicibili angosce. Nella qual cosa
sorge nella mente un altro pensiero. V'ha degli uo-
mini stimati grandi o grandi veramente, i quali par
che preparino alla società la scusa del non averli
soccorsi. L'indole sdegnosa, severa ed anche superba
e talora malvagia , allontana gli amorevoli proteg-
gitori : la scabra loro natura punge e rimuove ogni
pietosa sollecitudine. Ma Carlo era l'amore di quanti
l'avvicinavano: era d'indole mansueta e cortese. Non
ebbe forse l'improntezza e l'audacia che vuoisi nel
chiedere: qualità che abbonda ne' mediocri ingegni
e negl'ignoranti, ai quali dava precetti l'infame Are-
tino. Non bastava a lui un canto di quegli alteri
palagi ? La repubblica era vecchia. Ma erano vecchi
i suoi cittadini? E poi quale altra gloria maggiore
ella ebbe negli ultimi suoi anni ? Armi non più :
non pili commerci e ricchezze. Non furono allora.
78
tra gli altri, e Gaspare Gozzi e Carlo Goldoni, che
le diedero lume di gloria nella inerte vecchiezza?
E perchè almeno non li sostentò ? Scioltosi d'ogni
impaccio, Carlo nell'aprile del 1761 si accinse alla
partenza. Ma prima volle dare mesto e amorevole
addio alla sua patria. Nella commedia intitolata
Una delle nllime sere di carnevale, mette in iscena
un giovane disegnatore chiamato Anzoleto, che per
l'esercizio dell'arte sua fu chiamato a Parigi. E forse
perchè da poi gli parve Parigi o troppo vicina o
troppo còlta , 0 troppo altiera perchè tollerasse di
esser finta bisognevole delle arti italiane, ei la mutò
nelle stampe in Moscovia, paese piiì lontano e men
conosciuto a Venezia fattasi casalinga. Adunque An-
zoleto era chiamato a Parigi : ma per l'amore che
egli divide tra una fanciulla e la sua patria, sta lun-
gamente in forse. Alla fine il desiderio di assicu-
rarsi uno stato la vince sopra le altre considerazioni,
e parte promettendo a se stesso e ad altrui di rive-
dere ben presto la sua terra nativa. Non è in questa
commedia lungo lamento che ricordi le querele dei
tnoderni poeti. Egli è un semplice e commovente
commiato dai cari veneziani. Ecco l'ultimo discorso
d'Anzoleto, che mostra l'anima del poeta, e eh' io
traduco a malincuore dal dialetto veneziano, donde
traspare limpida l'interna commozione. « lo dimen-
licarmi del mio paese ? Della mia adorata patria ?
De' miei protettori ? De' miei amici ? Non è questa
la prima volta che me ne parto , e sempre , dovun-
que io sia stato , portai il nome di Venezia scolpito
nel cuore : mi sono sempre ricordato delle (jrazie e
dei benefizi che vi ho ricevuto : ho sempre desiderato
79
di tornare : e ritornato , ?ie ho avuto sempre conso-
lazione. Qualunque paragone io n abbia fallo , mi è
sempre apparso più bello, piii magnifico, pili rispet-
tabile il mio paese : ogni volta che Ilio riveduto, vi
ho scoperto maggiori bellezze : e così sarà pure questa
volta, se il cielo mi concederà di rivederlo. Confesso
e giuro sulVonor mio che parlo col cuore straziato, e
che nessun allettamento, nessuna ventura, se ne avessi,
mi compenserà del dolore di starmene lungi da chi
mi vuol bene. Conservatemi il vostro amore : il cielo
vi benedica: e ve lo dico di cuore. È calata la tela:
il teatro eccheggia d'applausi, e voci distinte s'odono
gridare: Buon viaggio] felice ritorno \ non mancate.
Carlo ne fu commosso sino alle lagrime. E sieno
rese grazie a questi ignoti, che lo salutarono d'amore.
Essi non doveano più rivederlo , nò comporne la
spoglia mortale, nò avere le sue ossa. Addio dunque
a Venezia, all'antica regina dei mari, ch'ora al tra-
monto della sua gloria ! Addio ai vivaci e lepidi
e cortesi suoi abitatori ! Quante volte, o Carlo, ri-
tornerai cou la memoria alle tue lagune, e già vec-
chio , narrando i casi della tua vita , ti riderà un
raggio della serena e gaia tua giovinezza nel de-
scrivere le barche, le gondole , i canti, le limpide
notli , le festevoli brigate della tua patria , che da
lunge saluterai con desiderio infinito ! Intanto giunto
a Nizza passò il Varo che divide la Francia dal-
l' Italia, e rinnovando al suo paese l'addio, invocò
r ombra di iMoiiere perchè lo guidasse felicemente
nella sua patria ospitale.
so
XXXIX.
Bondi, Venezia cara,
Sondi, Venezia mia.
Veneziani, siorìal
(Il Campielo - scena ultima).
La commedia italiana fu portata in Plancia da
tempo antico. Quando Carlo Vili scese in Italia, ebbe
per prima cosa a vedere in Torino non so che rap-
presentazione fatta con la splendidezza da noi usata;
della quale si compiacquero i suoi soldati e mene-'
strelli pili che degli edifizi, delle arti, e non dirò delle
lettere da lor conosciute appena di nome. Da quel
momento fu assicurala la sorte degl' istrioni, i quali
cominciarono a conoscere la via delle Alpi aperte
per la fortunata violenza delle milizie straniere. Na-
turalmente come le alleanze, le guerre, i connubi,
le ambascerìe colà traevano e diplomatici e donne
e capitani e artisti, e con esse la sapienza e l'astu-
zia e l'audacia e l'eleganza e la lingua e le lettere
e le arti italiane; così pure questa minor parte di
coltura passava con esso, accolta e ammirata da pri-
ma, poi imitata e sorpassata, come quella che pili
sì confaceva all' indole della spiritosa nazione fran-
cese. I mercanti fiorentini, che formavano a Lione
una vasta colonia, e poi si distaccarono vergognosa-
mente della madre patria (secondo si vede nella
supplica dove dichiaravano di volere esser francesi,
tra i documenti di nostra storia raccolti dal Molini
nel 1836 a Parigi); i mercanti fiorentini, dico, nelle
sponsalizie di Arrigo II con la Caterina de' Medici
81
fecero colà venire istrioni italiani. Fu da questi rap-
presentata la celebre Calandra del Bibbiena, cosa
nuova per certo, e specialmente a chi non era uso
che alle solite macchine de' misteri. Appresso una
compagnia fu chiamata da Arrigo III per divertire
la gente acciocché non si crucciasse troppo della
uccisione dei Guisa nel castello di Blois. Ma primi
ad aprire a Parigi un teatro privilegiato furono i
Gelosi , cioè la compagnia dove splendea la vir-
tuosa , veramente virtuosa , Isabella Andreini. Ed
altre poi : le quali di sicuro atteggiavano migliori
commedie che non fossero la Rivolta delle rmiocchie
{Rebellion des granoidlles) dove gli attori si vestivano
da cotali bestie , o 1' Ospitalità violala dell'Hardi ,
Lope de Vega della Francia, in cui si udivano die-
tro la scena le grida d' una giovane svergognata.
E perchè ciascuno porta il sacco pieno di quel che
piace, così, alla nuova chiamata del Mazzarino, il
famoso Scaramuccia recò le commedie a soggetto,
le quali anche in Francia spadroneggiarono, e a mano
a mano la facezia italiana vestirono nel francese ver-
nacolo. Verso la fine del seicento la commedia ita-
liana fu discacciata , ma nuovamente ella tornò
circa agli anni della Reggenza. Luigi Riccoboni si
accompagnò con Domenico figlio del più famoso Do-
menico Biancolelli: e sempre invaso dal pensiero di
rialzare il teatro italiano, fé' prova in Francia di ciò
ch'ei non avea raggiunto in Italia, e mise in iscena
regolari produzioni del vecchio teatro. Di lui dicea
Pier Luigi Martelli nel discorso sulla tragedia antica
e moderna: Appresso della nazione francese è in pre-
gio ed in costume il declamar su' teatri con voce ca-
r.A.T.CLXV. 6
82
rìcatamente sonora. Gli spagmioU niente declamano,
ma tulio dicono con sussiego e gravità . . . Voi altri
italiani ora vi componete, ora vi scomponete, secondo
che vi pare portare il bisogno, ora gravi, ora fami-
gliari; ma più pendete al famigliare che al grave, più
all'espressione che alla tragica declamazione ...»
Seguitando aggiunge» vorrebbe che V italiano tem-
perasse il suo costume con le qualità francesi e spa-
gnuole, e conclude che il Riccoboni detto Lelio e
la Flamminia sua moglie gli davano speranza di ciò,
ehiamanda il primo, vero riformatore de'recitamenti
italiani. Ma che ? La commedia dell'arte avea messo
più salde radici in Francia che non forse tra noi; e il
popolo, che pur tanto si piaceva delle belle commedie
del suo Molière, amava i gesti ridicoli e le smorfie
e i motti buffoneschi delle maschere sbrigliate, anzi
che le gelide nostre produzioni del cinquecento: o
sia che poco le intendesse, o sia che agevolmente
le giudicasse inferiori alle proprie. Ciò non di meno
il Riccoboni fece sua possa per sostenere 1' onore
italiano; e gli sieno rese grazie e grazie infinite, corno
si merita chi pospone guadagno privato all' onore
del proprio paese.
XL.
Ed ora veniva la volta di Carlo Goldoni colà
chiamato, non come istrione, ma come autore, a so-
stenere la fama cadente dell'arte nostra. Al tempo
ch'egli giunse , il teatro degl' italiani era nella via
Mauconseille nell'antico albergo di Borgogna. Quivi,
dice lo stesso Goldoni, diede i suoi primi passi il
Molière. Però non pare così : da che , secondo il
83
Voltaire nella vita del Terenzio francese, quello stu-
pendo autore dalla provincia si recò a Parigi noi 1688,
e si mostrò la prima volta a quel popolo nella sala
delle guardie del vecchio Louvre. V erano già dei
commedianti nWHolel di Borgogna, e il Molière ebbe
il teatro del Piccolo Borbone {Petit- Bourbon) a mezzo
con gì' istrioni italiani: da ultimo si recò nella sala
del palazzo reale. Ma comunque si fosse, alla ve-
nuta di Carlo la commedia italiana era lungi del-
l'antico splendore, e da prima parte facea la seconda,
lasciando luogo a una certa opera detta buffa, me-
scolanza di prosa e di ariette. Circa agli attori non
era proprio allo stremo; perchè vi avea taluno che
lichiamava a memoria i più celebri vecchi. Da poco
però vi si era tolta Elena Balletti Riccoboni: la quale
in una sua lettera all' abate Antonio Conti affer-
mava averle confessato il sommo Baron d'aver preso
il tono famigliale anco nella tragedia dopo aver
seduto alle recitazioni della compagnia italiana. Al-
lora ella s' era data a scrivere romanzi in lingua
francese. Ma in compenso (dice Goldoni) vi rima-
neva Collalto e Carlino. Il Collalto veramente si chia-
mava Antonio Mattiucci, ed era di Vicenza, e s'era
educato alla maniera del recitare moderno per via
del nostro, e aveva esordito nelle sedici commedie
sotto la maschera di Pantalone. Appresso, portatosi
a Pai'igi, vi avea dato i Gemelli veneziani, in cui si
valse della licenza dei recitanti improvvisatori, ag-
giungendovi un terzo gemello di carattere iracondo:
licenza meno pericolosa quando l'usava un valente
come costui, il quale, dicono, dava sangue e moto
alla maschera, ed anche a viso scoperto nulla per-
u
deva della sua naturale prontezza e vivacità. Car-
lino poi ei-a Carlo Bertinazzi, che nell'atteggiare il
Bergamasco fu cima, e fu l'ultimo astro della com-
media italiana a Parigi, e compagno al Sacchi nel
consolare di sua virtù gli estremi singulti della com-
media dell'arte. Questi erano gli attori: ma non vi
aveva autori per essi. Le più viete e stracciate com-
medie a braccio erano da loro imbandite al pub-
blico francese: né mettevano mano ad alcuna che
nuova fosse senza imbellettarla d' ornamenti a lor
modo, che la rendevano, come Gabrina, più trista.
In sul viso allo slesso Goldoni misero in iscena il
Figlio d'Arlecchino, che pur valse all'autore d'esser
chiamato a Parigi, tutto travisato e infiorato di le-
pidezze rubate al Coen imaginaire, di maniera che
dispiacque oltre misura alla corte. L'esule volon-
tario, che vedea così posta a pericolo la sua ripu-
tazione, si deliberò di porre in iscena ad ogni costo
le commedie scritte. Ma quivi più che in Italia era
difficile torcere gli attori dalla vecchia strada, cui
battevano , quasi cavalli avviziati , da gran tempo.
Lasciar la commedia, in cui menavano la lingua a
lor grado, per imparare a mente, come fiìnciulli ,
la parte, era cosa che ripugnava troppo a superbia
e a poltronaggine. Oltre a questo non era penuria
anche in Francia di chi sostenesse a spada tratta
la commedia dell'arte , gridando che appunto colà
viveva perchè si discostava dall'uso e meno era age-
vole agl'istrioni di altro popolo qualsivoglia. Eppure,
picchia e ripicchia, il Goldoni potè vincerla un trat-
to, e tessè una commedia di semplice orditura, dove
non fosse mestieri di troppo esatta esecuzione , e
85
questa fu VAmor paleruo ossia la Serva riconoscenl€ .
Ma il come fu accolta non parve troppo lusinghiero
alfautoi-e ; e i partigiani delia commedia dell' arte
trionfarono e zufolarono alle orecchie di lui le solite
parole che fanno i venditori del senno di poi, cioè
Ve V ho dello. In guisa che mentre il suo ingegno
era giunto al più bello del suo rigoglio (e lo mostrò
di poi nel Burbero benefico) dovè ricalcare le proprie
orme, e ritornare alle maschere, contro alle quali
avea già combattuto e vinto in Italia. Datosi a cer-
care quelle combinazioni, che si dicono con pari ele-
ganza stillazioni interessanti e colpi di scena, e quel
comico artifizio che scusasse la mancanza del dialogo
e stesse forte contro al capriccio degl'istrioni; egli
ebbe per avventura soccorso dalla feracità del suo
ingegno, e in due anni potè mettere insieme ven-
tiquattro commedie : otto delle quali , da lui poi
scritte per intero, fanno parte del suo teatro. Tra
queste sono il Ventaglio, gli Amori di Arlecchino e
Camilla , le Gelosie di Arlecchino , le Inquietudini
di Camilla (mutati i nomi in Zelinda e Lindoro) ,
gli Amanti timidi, il Buon compatriota rimasto an-
cora tra scritto e a soggetto, ed altre. Intanto non
cessava di ricordare la sua patria e di lodarla e
d'innalzarla al cospetto dei forestieri: e così nell'atto
secondo del Genio buono e cattivo , che da lui era
mandato a Venezia, finge che ad Arlecchino piovuto
a Parigi , un Veneziano segni e rimproveri il mal
vezzo dei francesi di parlare a dritto e a rovescio
dell'Italia senza punto conoscerla: e nel Matrimonio
per concorso, lodando Venezia a Parigi, s'augura che
a lui così lontano giungano le voci liete e ricor-
86
devoli de' ;suoi conciltadini. Ma a lungo andare la
commedia a soggetto venne anche in uggia ai fran-
cesi. Com'ella cacciò una volta la commedia fran-
cese, così ora l'opera buffa pose piede nel teatro col
pretesto di aiutarla : ma in effetto per cacciarla ,
come fanno tutti gli aiutatori dei deboli, e dar loco
alla commedia nazionale. Cailo s' affaticò per so-
stenere il cadente edificio : ma fu invano. Esso
ruinò nel 1780. Agli attori fu data licenza: il vec-
chio Carlino e il Camerani solamente rimasero per
buoni a qualcosa nella commedia francese. Intanto
a Parigi e a Londra s'udivano risonare le melodie
del Piccini e del Sacchini, foriere del melodramma
italiano , il quale , portalo dal Pesarese alla cima
del bello, dovea poi, trionfando, percorrere il mondo.
XLI.
Intanto il Veneziano, accolto nelle veglie eleganti
dove conveniva il fiore dei letterati, e chiamato ad
ammaestrare nella lingua italiana le reali figlie di
Luigi XV, potè bene addentrarsi nello spirito della
favella francese e in ispecie in quella parte di essa,
che meno di sé dà copia agli stranieri, vale a dire
nella famigliare e popolare. Di guisa che già vecchio
di sessantaquattro anni, fu ardito di salire sulla scena,
e nel 4 novembre del 1771 esporre a Parigi il suo
Burbero benefico. Un illustre autore, De Barante, nel
libro intitolato la Lelleraliira francese del seco-
lo XVJII, ci dà notizia dello stato in cui era allora
la commedia condotta già dal Molière a punto sì
alto. Non più la schietta e profonda pittura del cuore
87
ornano, nella quale il Molière toccò 1' eccellenza 'ù
appiesso a lui il Dancourt e il Le Sage. Linguag-
gio , carallcri , costumi erano cosa fiittizia. Si di-
pingeva qualche ridicolaggine di quelle che il tempo
spazza via subito, nò questa leggerissima scorza si
sapea figurare con verità. Era un accozzare circo-
stanze sì tristi come liete, l'effetto delle quali era
stato da piima cercato con la lanterna e in certa
guisa misurato. Si faceano orditi, e s' iiiuìiaginavano
contrasti per istordire lo spettatore e piacergli co-
munque si fosse, non già per 1' amore dell' arte e
del vero. Non eran più quegl' ingegni e quella scuola,
che vedeano la natura per forza d' istinto e schietta-
mente la rivelavano altrui, e solo a questo e non a
produrre effetti abbaglianti si valevano dell'arte che
l'arte nasconde. Ciò non di meno alcuni di questi
jiutori aveano pregi diversi, e se non dipingevano
secondo verità i personaggi da loro ideati, pur sotto
in veste di quelli faceano mostra de' lor propri sen-
timenti e della loro immaginazione. Tra questi sono
nominati il Destouches, il Lachaussée e l'autore del
Metromane. Ma la cosa volse al peggio dopo il Gres-
set. Era venuto a moda un linguaggio artificiato ,
che falsava e copriva piiì che svelasse gì' interni
sentimenti dell'animo: ed ecco gli autori comici a
farsene prò e quindi non riuscire ad alti'o che a fai*
pittura della frivolezza delle sale eleganti. A queste
commedie di effunera sostanza si mescolavano i
drammi del Diderot e de' suoi imitatori , dove era
meravigliosa la pompa delle parole, la esagerazione
dei sentimenti, e la smania di annobilire ciò ch'era
basso e ciò ch'era alto avvilire. Ma tutto ha poi-tato
88
via il lempo : uè quella turba d'autori si ricorde-
rebbe dove non mostrasse l' indole del secolo in cui
vissero. Il Colle solamente die cenno come poteva
farsi ancora la commedia; ma dell' ingegno suo la-
sciò poche tracce. In tale stato era il teatro fran-
cese quando comparve il Burbero benefico del Gol-
doni. La qual commedia a me non sembra parte-
cipi dei difetti, che fi De Barante rimprovera a'suoi
compatriotti. Noi però non verremo a odiosi para-
goni, e ci teniamo assai paghi che il nostro fosse
onorevolmente ascritto tra gli autori di quella illu-
stre nazione. Pari sorte non ebbe 1' Avaro fastoso.
Quindi egli si tacque. E vide i trionfi del Voltaire
ritornato a Parigi, e quelli di Mesmer, di Montgolfier,
di Beaumarchais,e la collana di Cagliostro, e la guer-
ra americana. E scrisse le sue memorie sino all'an-
no 1787, ottantesimo dell'età sua. Intanto si avvi-
cinava la tempesta della rivoluzione; né so se egli
se ne addesse. Ma quando essa scoppiò, e' sì vide
còlto dalla miseria sul letto di morte, perchè la sua
pensione di quattromila lire iscritta nella lista ci-
vile fu cassata ai 10 di agosto del 1792. Però nel
dì 7 gennaio dell'anno seguente, la convenzione per
relazione dello Chenier decretò gli fosse pagata dal
tesoro nazionale con le somme arretrate sino dal
luglio del 1790. Il giorno appresso Carlo Goldoni
era morto. Alla consolatrice della sua vita, alla sua
vedova, vecchia di settantasei anni, fu decretata una
pensione di milledugento franchi. Gravi e tremendi
eventi si compievano, e più gravi e tremendi se ne
preparavano alla Francia e all' Europa. Chi potea
volgere il pensiero al vecchio scrittore italiano e alla
89
sua antica compagna ? Che disse egli nell'ore estre-
me ? In che parte della travagliata città fu sepolto ?
Niuno il sa : e a me postero, in queste affannose
ore della mia vita, sembra vedere quella veneranda
canizie, quell'aspetto anco negli ultimi momenti se-
reno, volgere uno sguardo d'addio alla donna, che
gli sorrise la vita dividendo le sue gioie e i suoi
dolori, ispiratrice e moderatrice de'suoi estri feste-
voli. Se non che gli giungono alle orecchie le grida
popolari che si levano nella via , e il suo spirito
s'addolora: poi volge le luci moribonde al cielo pre-
gando pietà per la infelice famiglia che dal piij bello
dei troni era trascinata all' ignominia del supplizio.
Felice che non vide il capo della regina dell'Adria-
tico, della veneranda sua patria, nudato della prin-
cipesca corona, mostrare a dileggio di libertà quel
berretto, che meglio sarebbesi convenuto a giullari !
90
Sili bagni pubblici slabilili in Sicilia
negli antichi tempi.
[
Lia società italiana, compilatrice del dizionario delle
invenzioni e scoperte, pubblicato in Milano nel 1828,
all'articolo Bagni pubblici, opinò che se ne dovesse
attribuire la introduzione agli orientali, della quale
i greci non tardarono a seguir l'esempio. Soggiunse
sulla autorità di Plinio, che in Roma non prima del
tempo di Pompeo vi fossero all'oggetto destinati edi-
fìci pubblici. Diodoro Siculo non parla, per quanto
mi ricordi, di bagni pubblici nei tempi più vetusti
in oriente , nò in Egitto, ove per ragione del cal-
dissimo clima sarebbeio slati più necessari. Che i
particolari slensi bagnati nel maie ovvero ne' fiumi,
e i più agiati poi siensi fatti costruire per privato
uso nelle loro case de' bagni, ciò non dovette solo
accadere in oriente, ma in ogni dove, per procurarsi
la nettenza del corpo, o per guarirsi d'alcune infermi-
tà, 0 per ristoro delle membra nel tempo estivo (1).
(1) Ricavasi dal Pollerò (Archeol. greca presso Gronovio
l. 12, pag. 750) il seguente passo: Certwn est ex Artemidori
loco, lib. 1, cap. 66, publica balnea veteribus nulla fiiisse.
Ateneo scrive che i persiani furono i primi in oriente a
far uso di bagni; ma da principio per delizia de' particolari
nelle proprie case, e poi a pubblico comodo. Dario nella sua
reggia ne avea di tal magnificenza, che furono ammirali dallo
slesso Alessandro, al dir di Plutarco. Allora adottar si dovette,
secondo asserisce Strabone , la pratica de' bagni pubblici in
91
Ma di bagni pubblici non molto prima della greca
civiltà non ho trovato memoria negli antichi scrit-
tori, se non in Sicilia, come ci vien detto dallo stesso
Diodoro. I sicani, che precedettero di non pochi se-
coli le gieche colonie ad abitar 1' isola nosli'a, co-
nobbero la necessità per uso medicinale di costruir
edifici alle terme minerali che sgorgano in varie parti
della medesima. Ercole, al dir di quell' isterico, fe-
steggiato tra'sicani, fu condotto dalle ninfe per ri-
sloiarsi nelle terme imeresi, la cui polla vicino al
mare spiccia calda, e a breve distanza raffreddasi,
e similmente in quelle segestane (1).
Sin da' tempi mitici, o semi-storici adunque, e
prima che Imera fosse fondata da Euclide, Simo e
Sacone, circa 649 anni av. G. C, ed Egesta ante-
riormente d'assai , le terme di quelle due contrade
aver doveano un recinto di mura per uso di bagni
degli indigeni e degli stranieri; perocché non è ve-
risimile che Ercole si spogliasse delle vesti di ani-
mali che recava addosso, e si esponesse ignudo alle
nostre forosette, da Diodoro appellale ninfe. So che
il mio chiarissimo amico Nicolò Palmieii, di cara
e acerba ricordanza, giudicò che la icnografia del-
l'antico edifìcio imerese, scoperta nella costruzione
del nuovo, indicasse l'epoca romana; ma, a mio av-
Grecia ad imitazione di quelli delle loro colonie di Sicilia, e
innanzi dagli spartani, come attestano Polibio e Dione. [Bac-
cius De thermis veter, ap. Gron. t. 12, f. 295].
(1) L'arrivo di Ercole in Sicilia, le sue avventure, e l'of-
ferta fattagli dalle ninfe de' bagni imeresi e de'segestani, sono
narrate da Diodojo nel lib. IV cap. X!I della sua Bib.
92
viso, la pianta di due circoli concentrici, che chiuJ
deano un arco circolare di ottanta palmi di diame-
tro , con mura attorno di sei palmi , dìscostandosi
alquanto da quella de' romani , descritta da Vitru-
vio, ci richiama all'epoca greca. Però quell'edifizio,
che mostrava il progresso dell'arte, non fu certo il
primitivo , che creder dobbiamo essere stato assai
rozzo; ma quello costruito ne'due cento quarant'anni,
in cui fiorì, e rimase in piedi la detta città distrutta
da Annibale per vendicar la morte del suo consan-
guineo Amilcare.
Né questi soli bagni termali son rammentati da
Diodoro in Sicilia, come appartenenti ad epoca re-
molissima.
Cocalo re de' sicani aveva un bagno presso la
sua reggia in Gamico, ove poscia sorse Agrigento.
Quegli regnava, come può ricavarsi da Erodoto, tre
generazioni, ossia circa un secolo, prima della presa
di Troia.
II nostro Diodoro accenna quel bagno all'occa-
sione di descrivere la venuta di Minos con l'esercito
cretese in Sicilia, ove Dedalo, famoso artista, erasi
ricovrato presso Cocalo, e che l'altro intendeva di
strappargli di mano, onde vendicarsene per aver fa-
vorito gli amori di sua moglie Pasifae. Però essendo
stato prima dal re sicano con astuzia accolto ospi-
talmente, e condotto a'suoi bagni, fu ivi fatto sof-
focare, per liberarsi di quel potentissimo straniero,
il quale avea forse in mira d' impadronirsi de'suoì
dominii. L' antichità di questa terma , e più della
93
imerese, fu liconosciuta anteriore a quelle delle allre
nazioni (1).
Dedalo, ch'eccelleva non meno nella scultura che
nell'architetluia, costruì indi ad imitazione de' no-
stri antichi bagni le terme selinuntine, senza meno,
con pili intelligenza ed arte di quelle imeresi. Essi
furono cavate nella viva roccia , e dando adito al
fuoco sotterraneo di esalare, eccitavano un vapore
salutifero per mezzo delle acque minerali che vi sgor-
gano. Queste terme son quelle che tuttavia esistono
in Sclacca, antica contiada de'seliiiunlini, e vengon
celebrate da Diodoro tra le opere di quell' insigne
artefice (2). Kgli è vero che i bagni nelle case di
ragguardevoli personaggi, o ne'fìumi o nel mare senza
appositi edifizi sulle sponde, rimontano presso i greci
all'epoca eroica, come attesta Omero nell' Iliade e
nell'Odissea (3); ma non di quelli con casamento a
pubblico comodo, come in Sicilia.
Dopo la guerra di Troia coli' iniziala civiltà co-
minciarono i greci a Irar vantaggio prima dalle acque
(1) Vedi Diodoro Siculo, Bibliot. lib. IV cap. XXX. Ivi
leggesi pure che Dedalo fabbricò in Sicilia a' selinuntini una
terma, in cui ingegnosamente raccolse il vapore che cocentis-
sinio usciva di sotterra da eccitare in chiunque un voluttuoso
e salutare trasudamento. Ecco i bagni pubblici termali in uso
nella nostra isola , e costruiti artisticamente da Dedalo pria
della guerra di Troia e delle nostre greche colonie. Quell'ar-
chitetto, secondo la plausibile cronologia di Newton, fiorì 986
anni avanti G. C. Ma le terme della campagna imerese e
selinuntina, ove bagnossi Ercole, erano anche prima in uso in
Sicilia; perchè egli è più antico di Dedalo.
(2) Diod. loc. cit.
(3) Iliad. lib. X e XXI, Odiss, lib. IV e VI.
94
termali per la cura di peculiari infennità, costruen-
dovi edifici, e poi innalzando pubblici bagni di acque
dolci, 0 marine, per il popolo. All'epoca di Platone,
di Aristofane e di Senofonte, che fu quella del lor
maggiore incivilimento, si estese la costumanza dei
bagni pubblici, e vi si aggiunse per i più agiati cit-
tadini la voluttà degli unguenti e degli odori (1), che
indi fu imitata da' romani ne' tempi posteriori im-
periali.
Quando l'ateniese Teocle verso P olimpiade XI
(734 av. G. C.) condusse i suoi calcidesi in Sicilia,
e vi fondò la prima greca città da lui detta Nasso,
quegli arditi avventurieri non aveano lasciato bagni
pubblici in Grecia , e li ritrovarono in quest' isola
da più secoli stabiliti nelle città sicane e sicule, e
ne adottarono subito l'uso che fu imitato dalle altre
posteriori colonie elleniche che qui passarono suc-
cessivamente. Dalla Sicilia sembra adunque , che
prima nella vicina Magna Grecia, ov'eran trascorse
altre colonie, e poi nella Grecia madre, colla quale
i greco-sicoli aveano frequenti comunicazioni, pas-
sasse tal costumanza, come è provato dall'epoca di
anteriorità de' nostri bagni e di quelli del vicino con-
tinente.
Il clima di Sicilia, mite generalmente nell' in-
verno, e caldo nell'està, e l'indole voluttuosa de'greci,
ne rese comune l'usanza, se non in tutte o almeno
nelle città principali dell'isola da essi o dagli altri
popoli precedenti occupate. E quelle a cui la natura
(1) Aristoph. in Pini. v. o3o, e Schol. ibid. Polluce lib. VII,
cap. 13-.
95
nelle loro vicine campagne era stala generosa di sa-
lutifere acque minerali non trascurarono per certo
di fornirle di comodi e decorosi edifìci, le cui stanze
furono distribuite, secondo un sistema, che la espe-
rienza madre antichissima della medicina indicava
opportuno, per Irar profitto della virtù delle acque
termali, e colla diversa temperatura dell'aria assi-
curar la vita degl'infermi. Laonde sin d'allora la fe-
conda lingua de' greci prestossi alla denominazione
delle diverse stanze destinate a'vari usi, come quella
di apodilerio per ispogliarsi : l'altra di lautvon pei
bagni nelle acque già rese fresche per lo allontana-
mento della sorgente: quella appellata ihermolousia.,
che essendone più vicina, calde le apprestava: laco-
nicum per la stanza destinata alla trasudazione per
mezzo de'vapori caldi prodotti dal fuoco, che nella
camei'a contigua si accendeva, e li tiamandava coi
tubi che li facevan penetrare pe'muri forati, e final-
mente di una stanza di media temperatura: affinchè
chi uscisse dal bagno non fosse istantaneamente col-
pito dall'aria fredda a danno della salute.
Di questa ellenica terminologia quella soltanto
della stanza destinata a sudare, detta laconicum, ri-
chiama l'uso speciale speculato forse in Laconia, e
non in Sicilia, ove dovette essere adottata posterior-
mente alle altre nate qui colla distribuzione de'nostri
bagni, e dopo che s'impadronirono gli abitanti di
Magna Grecia, madre del nostro sistema architetto-
nico de'bagni che poscia passò a'romani con un piano
più vasto e magnifico nello edificarli.
I nostri bagni col gusto crescente delle belle arti
fuiono per certo adornati di statue. Quelle di Venere
96
e di Esculapio, l'una di egregio scarpello greco, da
gareggiai' con la capitolina, e l'altra inferiore, ri-
trovate in Siiacusa, e che or si ammirano nel suo
piccolo museo, puossi argomentar che servissero per
qualche privalo o pubblico bagno; perocché son di
tulio finimento anche nella parte di dietro: il che
fatto non avrebbero gli artisti, se fossero state de-
stinate a collocarsi in nicchie : e ciò praticavano
quando doveano essere vagheggiate da tutti i punti,
come nelle vasche de'bagni. La dea di amore per
altro bene addicevasi alla voluttà dei medesimi, e
il dio della salute alla guarigione, sperata dalle per-
sone che li frequentavano.
K che anche in Roma da Sicilia, e non da Grecia,
trascorresse l'uso e il sistema architettonico de'bagni
pubblici, ho l'agion di argomentarlo da un fatto isto-
rico: cioè, che i romani non pria della CXLI olim-
piade (214 avanti G. C.) quando essi furono chiamati
in Epiro, come truppe ausiliarie contro Filippo, co-
minciarono a visitare la Grecia; ma all'incontro assai
prima frequentarono la Sicilia per provvedersi di fru-
menti, di vini, e di pelli di animali. E indi vieppiiì
si dimesticarono con noi, e adottarono molte nostre
costumanze (1) dopo l'olimpiade CXXVil (269 avanti
(1) Fra le molte accennerò l'uso di tosarsi la barba, in-
trodotto in Roma per mezzo de'barbieri chiamativi da Sicilia
nel 454 dalia fondazione di quella capitale del mondo, come
scrive Varrone De re rust. , e parimente la introduzione di
alcune monete di argento a detto dello stesso autore nella
suddetta opera 1. IV. In argento numi , id a siculis ; de-
narii , quod denos aeris valebant ; quinarii , quod quinos :
sesterdus quod semis tertiiis. Imitarono la veste lunga detta
97
G, C.) allorché strinsero alleanza con Cerone li che
durò per molti anni, e in fine dopo che per la in-
fedeltà e stoltezza del suo successore Geronimo la
conquistarono. In questo intervallo appunto, o poco
appresso, s'introdusse in Roma la pratica de'pubblici
bagni, da loro costruiti sulla nostra icnografia, ma
con maggior sontuosità e lusso al tempo del niagno
Pompeo e successivamente. La greca denominazione
delle stanze a' diversi usi de' bagni ritennero e tra-
sportarono sin anco nella loro lingua (1). E come
ne divennero amantissimi in Sicilia, e ne ritrassero
dalla medesima i modelli per imitarli in Roma; così
curarono di riparare ben anco quelli, che in questa
isola ritrovati aveano rovinati dalle vicende delle
guerre e del tempo ; perocché, avendo qui spedite
talare siciliana, inventanta pel teatro da Formo siracusano ,
secondo Snida e la denominarono Chiridota; sebbene la ri-
guardassero comò degna d' uomini molli , preferendo quella
corta al ginocchio, Lex. t. 3, p. 1078. Adottarono pure il nostro
orologio solare sul modello di Catania , recato in Roma dal
consoie Messala , e la sfera di Archimede , copiata indi da
Posidonio in Roma. Qual meraviglia che dalia Sicilia abbiano
ricevnta ancora l'usanza dei bagni pubblici?
(1) Pottero, Op. e ioc. cit., scrive che i romani prima
aveano bagni privati, come l'accerta Varrone: Domi suae quisque
lavatur. Ateneo, che fioriva verso l'anno 228 di G. C, afferma
che non molto innanzi del suo tempo si erano introdotti bagni
pubblici in Roma, permessi solo fuori la città (Dipn. lib. 1,
in fin.). Le stanze per bagni all'uso romano erano come qu&lle
di Sicilia, cioè :
1. Quella per ispogliarsi, ubi vestes exebant.
2. Stanza di forma rotonda, appellata sudatorium.
3. Lavacrum calidae.
4. Lavacrum frigidae.
3. Locus in quo post lotionem ungebantur.
G.A.T.CLXV. 7
98
molte colonie per popolarla, ed essendosi qui sta-
biliti non pochi patrizi che acquistato aveano vasti
possedimenti , si rese ad essi una nuova abitudine
contratta necessario l'uso dei bagni sotto il nostro
clima più caloroso.
Catania conserva gli avanzi di un magnifico ba-
gno nella piazza del duomo entro il suo cimitero.
Per un lungo corridoio si va ad una stanza quadrala
di palmi 46 per lato , sostenuta da quattro piloni
del vano di undici palmi: segue un portico, ove sono
cinque stanze a volta semi-sferica, destinate al ba-
gno. Allato al muro ad est si scorge l'antico aqui-
dotto. La fabbrica è di masse di lava, e gli archi e
zoccoli degli stipiti delle aperture son di mattoni.
Le volte e le pareti si veggono intonacate con istue-
chi di ligure ed ornamenti, fra' quali vi han putti,
tralci e grappoli di uva, ed altri emblemi baccanali.
Varie monche iscrizioni rinvenutevi, e conservatesi
nel museo di Biscari, palesano quel bagno essere stato
denominato Achilleo, e restaurato sotto il procon-
sole Q. Lucio Laberio. L' edifizio esser dovea più
esteso di quel che si scorge; perocché le fondamenta
del duomo ed altre fabbriche moderne impediscono
di osservarne la continuazione.
Nel vicolo de'canali e nel convento dell' Indirizzo
della stessa città si osserva ancora un altro bagno
con varie stanze, fra le quali una ottagona della dia-
gonale di palmi 22. 50. Le fornaci , la conserva
d'acqua, vari condotti, i tubi di piombo per l'aria
rarefatta, tutto annunzia di essere stato quell'antico
edifizio destinato all' uso anzidetto. E così pure è
creduto l'altro della strada della Rotonda nella casa
99
de' PP. della Concezione, ove si rinvenne una stanza
oltagona della diagonale di palmi 46, che proba-
bilmente era V ipocausto di qualche grandiosa terma.
Lì presso furono trovati de' pezzi di musaico e ta-
lune lapidi col motto: Utere feliciler: di cattiva pa-
leografìa.
Questi bagni, appartenenti senza meno all'epoca
greca, furono ristorati nella romana successiva, e l'ul-
timo forse anche ne' bassi tempi come si argomenta
dalla forma delle lettere,
L' abitudine di tener polita la persona divenne
così indispensabile a'greci, che essi fornivan anche
di vasche i legni di alta portala per bagnarsi ne' lun-
ghi viaggi (1). Forse ne ritrassero l'esempio dal ba-
gno di marmo che Cerone II avea fatto riporre nella
sua magnifica nave, fornita di cisterna, di statue, di
musaici, di gallerie, di giardini, di torri, e di tutt'al-
tro per apprestar delizia e meraviglia, e che volle
donare a Ptolomeo Filadelfo re di Egitto. Secondo
il calcolo del Palmieri , la vasca del bagno capiva
poco più di cinque barili e mezzo siciliani, e l'acqua
potabile all'uso della ciurma era di settanta botti e
un barile (2).
Nella generale devastazione che soffrirono le an-
tiche nostre città per la lunga guerra co'cartaginesi
e co'romani, e poi cogli arabi, e di questi co'nor-
manni, e per la forza ineluttabile del tempo che di-
strugge, in pochi siti si sono rinvenuti resti di ve-
li) Spanh. in Aristoph. nub. v. 987.
(2) Palmieri, Stor. di Sic. pag. 80, che ne ritrasse la de-
scrizione da Ateneo.
100
tusti bagni ; tnn non è da dubitare di quelli della
contrada imerese, de'segeslani e de'selinuntini, ram-
mentati da Diodoro. Però nell'ottobre del 1771 nel
territorio tra Avola e Siracusa, al di là del fiume
Cassibili, in un rialto che si avvicina al mare si sco-
prirono alcune stanze lastricate di marmo con mura
ornate anche di marmi colorati, che successivamente
eran distribuite secondo il sistema architettonico dei
bagni de'greci da me poc'anzi indicato. Un vestibolo,
ovvero una palestra lunga palmi 24 larga 18, ac-
cresceva decoro e comodo a quell'edificio , che fu
con molta erudizione descritto dal conte Cesare Gae-
tani (1), e ben dimostrava per le fabbriche di ap-
partenere all'epoca greca. Che se questo bagno così
nobilitato di marmi e d'un vestibolo o d' una pa-
lestra non era incluso nel recinto di Siracusa, mas-
sima, al dir di Cicerone, tra le greche città, ben
può argomentarsi quali fossero stati i bagni di quella
regina dell' isola nostra (2), e quelli di Agrigento,
di Catana, di Messana, di Taormenio e delle altre
cospicue nostre città, le quali se agguagliarla non
potevano in ricchezza e in lusso, procuravano di av-
vicinarsele, come dimostrano i resti di teatri e di
(1) Nuova raccolta di opusc. sic. tom. IH, pag. 119 e seg.
Palermo, per Solli, 1790.
(2) Tra i monumenti di Siracusa, che sono slati sottraili
dalla devastazione, si scorgono in Orligia alcuni bagni. 11 più
bello è in casa Bianchi, conservandovisi ancora le stanze del
calidario e tepidario, e la vasca presso una sorgiva d'acqua
in parie sulfurea. (Chindemi, Rudim. sulla Sicilia, pag. 87 e
seg. Palermo 1843). Il Fazello accenna fra gli altri nostri an-
tichi bagni quelli di Maccara, piccola città greco-sicula, ram-
mentata da Cicerone, da Tolomeo e da Plinio.
101
tempii, ammirali e studiati da'nazionali e stranieri.
S. Cirillo, scrittore greco di età ignota, ma forse del
medio-evo, ne'suoi Apologhi morali parla de' bagni
di Palermo (1).
L' istoria anche accenna un bagno pubblico in
Siracusa, ove 1' imperatore Costante, che era di-
venuto odiosissimo, fu trucidato da'suoi familiari non
siciliani (2).
Anche nei tempi arabi e normanni, Palermo avea
due pubblici bagni, uno sulle sponde dell'Oreto verso
la Guadagna (3) , e -V altro vicino al palazzo nor-
manno nella contrada di Mare dolce (4). Di amen-
(1) Mong. Mon. hist. Mans. SS. Trio. p. 23.
(2) Questo bagno, ove fu ucciso Costante nipote delfim-
peratore Eraclio da Andrea e da Mezzanzio bizantini , era
chiamato bagno di Dafnide, che forse esisteva in Siracusa sin
dall'epoca greca (Di filasi, Stor. pi Sic, l. 5, pag. 676, ediz.
di Palermo 1844).
(3) Di filasi, Stor. di Sic, t. 1. pag. 636, edit. di Paler-
mo 1844.
(4) Quell'edificetto degli antichi bagni a Mare dolce, ora
ridotto a fenile , è di forma rettangolare. Quando fu da me
ossorvato con A. Schonberg conservava ancora quasi tutti i
compartimenti principali.
Vi si scorgea una stanza per accendere il foco e riscaldar
l'acqua nelle caldaie, e vari tubi di piombo per comunicar
la medesima e quella fredda , e per trasmettere il vapore
caldo nelle altre. Più stanze erano destinate per bagni, una
senza meno in acqua fredda che i greci chiamavano laiitron,
e l'altra in acqua tepida da essi appellata fliermolousia, e un
altra per bagno a vapore caldo detta laconicim. In questo
stavano attorno sul pavimento molti piccoli sedili di pietra,
affinchè ciascuno adagiandovisi ignudo ricevesse su tutta la
snperficie del corpo la salutare ed eccitante impressione del
vapore, che penetrava dalle mura circostanti per mezzo dei
102
due esistono ancora i lesti ; anzi del secondo, co-
struito al doppio oggetto di bagni a vapore , e di
acqua dolce, fu ritratto alla mia presenza il disegno
dal mio amico A. Schònberg, dottissimo medico, il
quale ne lodò l'artifizio architettonico e l' intelligenza
per l'uso medicinale.
Nella campagna di Diana Cefalà, distante 20 mi-
glia da Palermo, si scorge tuttavia un bello e sem-
plice edifizio dell' epoca mussulmana, destinato sin
d'allora a bagni per le acque minerali che vi sgor-
gano , e sono anche adesso utilmente adoperale
per alcune infermità.
Dal fin qui detto par che si possa dedurre che
l'uso «dei bagni medicinali, e di quelli di acqua dolce,
necessari alla nettezza e al ristoro del corpo, prima
che altrove sia stato introdotto in Sicilia: e ciò non
è li^re argomerjlo dell' incivilimento precoce dei
nativi di quest' isola.
tubi anzidetti. Non mi ricordo se vi fossero una o due ca-
menette superiori, ove ascendevasi per piccola scala a sca-
glioni , e queste eran forse destinate ad ispogliarsi e vertirsi i
bagnanti, denominale dai greci apocUterii.
Questo bagno, che per la sua piccolezza sembrava ad-
detto ad uso della famiglia reale, quando soggiornava nel con-
tiguo palazzo, non ostante che fosse stato costrutto nell'epoca
normanna , come quello, tuttavia riteneva, se non la pianta
de'greci, i compartimenti de' loro bagni: perchè la Sicilia sino
a quel tempo ne conservava molte costumanze in prosegui-
mento delle colonie greche, e della denominazione bizantina,
non ostante le intermedie interruzioni di dominii de' romani
e degli arabi, che precessero la conquista normanna. Ma già
la pianta generale e la forma parziale de'bagni era alterata,
e con maggior pregiudizio nel laconicum, la cui rotondità molto
influisce a tramandare e accrescere inslantanearaente il calore
sull'uomo ; laonde fu con fina intelligenza preferita da' greci.
103
Ma recar deve meraviglia, che essendo qui sta-
biliti i bagni da sì remota antichità, ne'tempi mo-
derni manchi un pubblico bagno sinanche in Pa-
lermo, capitale della Sicilia. Anzi aggiungerò che ne
fu da me presentaio al governo verso il 1828 il
progetto: e inviato al d^curionalo , è rimasto ino-
peroso tino adesso (I).
(1) Le idee principali di quel mio progetto orano le se-
guenti :
11 luogo da destinarsi a'pubblici bagni esser dovea l'an-
tico fabbricato nel macello abolito degli animali bovini nel
largo di S. Onofrio di proprietà del comune, che trovasi gran
copia d' acqua che pur gli appartiene. Questo sito in appa-
renza appaltato ha il vantaggio di comunicare immediata-
mente colla strada Macqueda, una delle più frequentate della
città; e però diveniva opportunissimo all'oggetto. Il comune
dovea far la spesa per la riforma e lo ingrandimento delle
fabbriche; affinchè, convertitosi l'edificio in hagni, qualche
particolare speculatore lo togliesse e fitto annuale discretis-
simo , avuto riguardo alla pubblica utilità che ne risultava ,
per la quale il comune sacrificar dovea parte de' frutti del
capitale impiegato, coU'espressa condizione del modico prezzo
delle begnature.
I bagni doveano essere costruiti secondo un sistema medio
tra l'antico e il moderno facilmente combinabile.
Un piccolo portico con un caffè a destra, con un risto-
ratorio a sinistra, decorarne dovevano il prospetto. Tre in-
gressi doveano condurre alle stanze interne ; quello centrale
con una sala con vòlta acuminata a cristalli come il bazar dì
Milano, e bene addobbata per adagiarsi e attendervi i ba-
gnanti. Due corridoi, uno a destra e l'altro a sinistra, con file
successive di camerette da bagni esser doveano destinati, uno
per gli uomini, e l'altro per le donne, servite da persone del
rispettivo sesso.
Ogni cameretta dovea avere un lucernale superiore e cri-
stalli, e un piccolo stanzino per segreta, con fornimento da
104
Nò mirioi' meraviglia recar deve che in tutta l'i-
sola nostra, dominata nel tempo estivo dall'urente
sirocco, e sottoposta ad un clima assai caldo, non
solo in Palermo, ma in Catania e in Siracusa (meno
che in Messina più frequentata, anzi scelta a sog-
giorno di molti stranieri) non vi siano bagni puh-
brici: mentre godono di questo vantaggio quasi tutte
le città d'Italia, che ho visitato, non esclusa la pic-
cola Terni nell'Umbria, che conta poche migliaia
di abitanti (1).
Le stesse acque termali, che la natura genero-
samente ci ha laigito in pili siti per guarirci di molte
infermità, o mancano di edifìci decorosi <; comodi,
0 sono forniti appena di casolari che ispirano orrore,
toilette, biancheria ed altro. Quattro camere a parte in fondo,
due per ciascun lato, erano destinate una a coloro che voles-
sero prendere il bagno d'acqua di mare, che ogni giorno tra-
sportar si doveva nello stabilimento, e un'altra per bagno a
vapore, sia semplice, sia solforoso per raalatie cutanee, pre-
paralo secondo il metodo del celebre professore Assalini. Il
vapore, dell'una o dell'altra maniera dovea comunicarsi per
mezzo di tubi di piombo.
Questa era l'idea del compartimento generale del nuovo
stabilimento de' bagni, non molto diverso da quelli da me os
servati in varie città d'Italia.
Quanto a'parziali per tutti gli altri comodi, si lasciavano
ad escogitarli all'architetto intelligente a cui era commesso il
fabbr reato.
(1) L' abbondanza delle acque sorgive in Palermo e in
altre città di Sicilia, che si fan salire artificialmeute sino agli
ultimi piani delle case, rende per vero qui meno necessari i
bagni pubblici, che in Napoli e nelle altre parti d'Italia e di
Europa. Ne'migliori alberghi delle nostre principali città tro-
iano i forestieri vasche per bagnarsi ; sebbene a prezzo in-
discreto.
105
tranne quelle di Termini che per ordine di S. A. R.,
indi re Francesco I, furono fornite di un' elegante
fabbrica , ideata dal celebre architetto Emanuele
Marvuglia: e sì pure le terme di Caslroreale, che
hanno comodo e decente alloggio per gl'infermi. E
qui ci spiace di ricordare che le acqne sulfuree di
Sclafant, che dal nobile proprietario erano state ri-
cinte di un bel fabbricato, presentano ormai pel eroi-
lamento del medesimo un mucchio di rovine. Le
acque minerali di Segesta sì decantate nell'antichità,
secondo attesta Diodoro, per la loro virtù salutifera,
scorrono sbrigliate a impaludar le campagne, e ad
uccidere gli uomini, viziando l'aria circostante nel
tempo estivo. Eppure quelle nostre terme, che per
la qualità de'minerali che tengono in dissoluzione,
e che possono esser facilmente studiate coll'analisi
chimica, e con applicarsi a'diversi malori, diverreb-
bero sorgente di vita e di ricchezza agli abitanti ,
come sono i bagni di Pisa, di Lucca, di Baden e
di altre contrade, sono pressoché abbandonate, ad
eccezione delle poche surriferite !
Da quanto ho esposto puossi ritrarre , che per
riguardo a'pubblici bagni, sia destinati a ristoro e
delizia dell'uomo, sia per restituirgli il prezioso dono
della salute, nel tempo attuale noi siamo di molto
indietro agli antichi, che piià provvidi di noi dieronsi
pensiero di un oggetto tanto interressante. E Paler-
mo in particolare, cresciuta indubitamente di po-
polazione e di civiltà, fastosa del titolo e della con-
dizione di capitale della Sicilia , manca ancora di
bagni , che pur possedea nell' epoca mitica , nella
106
cartaginese, romana, bizantina e nel medio evo, e
benaneo sotto le denominazioni saracena e nor-
manna, da noi ingiustamente poco men che derise
e spacciate come barbare (1).
(1) Verso il 1812 , se non mi gabba la memoria, fu da
uno speculatore particolare stabilito un mediocre pubblico ba-
gno nella villa Giulia al prezzo di tari sei per ciascuno che
ne avesse voluto godere. L'eccedenza del prezzo, la distanza
dalla città , e l'uso della carrozza che a' bagnanti rendeasi in-
dispensabile, ne scemarono la frequenza, e finalmente ne fe-
cero abbandonare l'impresa. In Italia l'ordinario costo dei
bagni non è più di una lira, cioè tari due siciliani. In està si
sono sostituiti in Palermo indecenti baracche di legno nel mare.
Ciascuno ne immagina le conseguenze pel costume, comechè
siano vigilate dalla pubblica autorità.
Agostino Gallo.
107
Sperienze del prof. P. Volpicelìi sulla elettricità atmo-
sferica.
Il prof. Volpicelìi fece noti alcuni risullamenti, che
seguono, da esso raggiunti ricercando nelle giornate
non teniporalesche la natura dell'elettricità atmo-
sferica mediante un'asta di ottone fìssa, e nel mi-
glior modo possibile isolata sul tetto del mus^o fì-
sico della univeisità romana. 1/ estremo superiore
dell'asta medesima s' innalza di 45.'" 39 dal livello
del mare.
1.° L'asta medesima terminata superiormente in
punta, od in un globo metallico, se comunicava me-
diante l'estremo inferiore con un elettrometro il pili
sensibile, ancorché condensatore, di rado assai nella
posizione, in cui sempre fin ora si è dall'autore spe-
rimentato, manifestava l'elettricità atmosferica. Però
se comunicava con un eìettroficopio condensatore a
pile secche, sempre si avevano segni di elettricità,
ora positiva ed ora negativa. Perciò questo elettro-
scopio è l'unico, dal quale si possa ottenere sempre
nel modo indicato, cioè con un'asta fissa, la natura
dell' elettrico atmosferico. Ma per esser certi della
natura medesima, fa d'uopo in primo luogo assicu-
rarsi bene che innanzi tutto l'istromenlo è allo slato
naturale. Ciò si ottiene toccando contemporamente
i due suoi dischi, e poscia separandoli l'uno dall'al-
tro. Se la foglia d'oro in questa separazione resta
108
immobile , si potrà cominciare a sperimentare. In
secondo luogo bisogna raccogliere la elettricità stessa,
una volta col piattello superiore, un'altra coli' infe-
riore dell' indicato condensatore , osservando che i
due risultamenti sulla foglia d'oro si accordino am-
bidue neir indicare la stessa natura per la elettri-
cità raccolta, potendo accadere che queste due in-
dicazioni sieno contrarie fra loro se non siasi bene
usata la prima cautela. In terzo luogo, dopo aver
terminato la sperienza, bisogna lasciare sempre ognu-
no dei due piattelli del condensatore in contatto col
suolo, e separati l'uno dall'altro con una foglia me-
tallica non isolata. Tali precauzioni si rendono in-
dispensabili nell'uso dell'elettroscopio condensatore
a pile secche, quando si tratti di raccogliere picco-
lissime dosi di elettricità, quali appunto sono quelle
che nelle giornate non procellose appartengono al-
l'atmosfera. La ragione di ciò principalmente con-
siste nella somma squisitezza dell' istromento indi-
cato , e sarà sviluppata in altra comunicazione su
tale argomento.
2." La natura della elettricità atmosferica può
in qualche caso variare cinque o sei volle nel corto
spazio di tre o quattro minuti.
3." La elettricità atmosferica , presa coli' asta
medesima terminata superiormente, o da una punta
o da un globo metallico, riesce sempre della me-
desima natura con ambidue questi mezzi ; cioè se
positiva o negativa colla punta, sarà pure tale col
globo; e per quello riguarda la carica, questa po-
chissimo diversifica, e non di rado apparisce alquanto
109
maggiore col globo, di quello che sia colla punta,
bene inteso in una medesima sperienza.
4.° Ponendo sulla punta una fiamma, un globo
rovente, od anche dei carboni accesi, quasi sempre
la elettricità, che negativa si ottenne colla punta o
col globo , si trasforma subito in positiva tanto
forte, che gli elettrometri a pagliette possono per
lo pilli misurarne la carica, e gli elettroscopi sem-
plici a pile secche divengono sensibili alla medesi-
ma; cosa che assai raramente avviene colla semplice
punta o globo. Se poi la elettricità atmosferica ot-
tenuta colla punta o col globo sia positiva , come
fu trovata sempre nelle giornate di buon tempo, in
tal caso la fiamma ed i corpi roventane aumentano
grandemente la tensione. Più la fiamma è vigorosa,
e più la quantità di elettrico sull'elettrometro è mag-
giore : gli efl'etti della fiamma ad alcool superano
quelli della fiamma ad olio. Da ciò si conclude che la
fiamma il più delle volte induce in errore nell'esplo-
rare colla medesima la elettricità dell'atmosfera, e
questo errore si riferisce tanto alla natura dell'elet-
trico, quanto alla tensione del medesimo.
5.° In quei casi non frequenti, nei quali la fiam-
ma non cangia l'elettrico negativo, mostrato dalla
punta 0 dal globo, in positivo, essa neppure aumenta
la tensione del medesimo, anzi sembra che piuttosto
la diminuisca.
6.° In una camera e coi mezzi sopra indicati,
che sono i più squisiti, ottenni delle tracce sempre
positive di elettricità mediante le fiamme.
Queste mie sperienze non ancora sono state ri-
petute ad altezze maggiori di quella cui furono in-
110
cominciate, né in giorni temporaleschi; perciò debbo-
no continuarsi, tanto per fare, se mai fosse necessario,
qualche rettificazione a quello che ora fu comuni-
cato, quanto per aggiungere altre circostanze relative
al soggetto, lo studio delle quali non ha potuto an-
cora essere terminato. Quindi la presente comuni-
cazione ha principalmente per iscopo annunziare il
principio di uno studio , consistente nel confronto
fra i risultamenti che si ottengono, prendendo l'elet-
tricità atmosferica con un' asta metallica isolata e
fissa, ma terminata o da una punta, o da un globo,
o da fiamme diverse , od in fine da un corpo ro-
vente; confronto che fino ad ora mi sembra non sia
stato fatto ; e quando lo studio medesimo avrà mag-
giormente progredito , allora daremo di esso una
pili sviluppata notizia, facendo conoscere meglio le
precauzioni tutte usate per la maggiore esattezza
del medesimo.
112
Paraenaeticem -Carmen s. Gregorii Nazianzeni ad
Olympiadem. Ex graeco latine reddilum a Jacobo
Bilìio Prunaeo s. Michaelis in Eremo abbate.
il ala mea, Olympias, munus a Gregorio patre lue
accipe ;
Nam patris admonitio longe optima ac saluber-
rima est.
Non auruin nobilibus gemmis immixtum rnulie-
ribus ornamenlum offerì; nec regia facies lurpiler
iucundis coloribus lincia , perniciosàque alia facie
obducta.
Purpureae porro el aureae, eximiaeque et splen-
didae vesles bis demum conveniunl, quibus nullus
vitae splendor, nullum virlulis decus suppelit.
Al libi pudicitia curae sii, pulchritudoque etiam
clausis oculis admiranda. Mores aulem, praeclaram-
que famam, optimum cerlissimumque florem exi-
stima.
Deum quidem primo, deinde autem maritum vi-
tae luae oculum, consiliique lui arbitrum ac dueem,
cole ac venerare.
Hunc unum ama, buie piacere slude; idque eo
impensius, quo perfecliori, arctiorique amoris nexu
eum erga te devinclum perspexeris.
Atque illud libi providendum est, ne tantum fi-
duciae libertatisque capias, quantum libi viri cupi-
dilas offerì; sed quantum honestas ipsa concedit.
113
Ammonimenli di S. Gregorio Nazianzeno ad Olim-
piade, carme greco recalo dal latino aWitaliano
dal canonico Bernardino Qualrini , già prof, di
eloquenza nel collegio di Sinigaglia e di Perugia.
F
iglia mia, Olimpiade, ricevi in dono da Gregorio
padre tuo ;
L'ammonizione di un padre è dono de'migliori
e più salutari che mai.
L'oro n preziose gemme congiunto non dà or-
namento alla donna; come né anche un volto mae-
stoso d' artifiziosi colori imbellettato , e sformato
comunque da maschera.
Porporine e dorate vesti, ornate e sfolgoranti,
a quelle sì bene si affanno, cui nò lustro di azioni,
né gloria di virtù fa belle.
A te per altro sia cara l'onestà e quella bellezza
che pure a chiusi occhi si lascia ammirare. Mori-
geratezza poi e fama illustre tieni in conto di sin-
golare e saldissimo fiore.
A Dio in prima, quindi al marito, occhio della
tua vita , arbitro e guida della tua mente , porgi
osservanza e rispetto.
Ama questo solo , studia di piacere a questo ,
e tanto più di forza, quanto più lo scorgerai preso
all'amore di te.
Ben devi badare di non pigliarti tutta quella
confidenza e libertà che il voglioso marito ti offre,
ma quella soltanto che l'onestà ti consente.
n.A.T.CLXV. 8
114
Quandoquidorn omnium rerum salietas et faslì-
dium oboritur: omnium, inquam, rerum, seti polis-
simum amoris; a quo satietatem omni ratione ar-
ceri expedit.
Cave, ne cum foeminam te natura produxerit,
in virilem tumorem fastumque prorumpas.
Ne generis tui nobilitatem proferas; ne ob ve-
stìum elegantiam supercilicium tollas.
Ne sapientiae nomine glorieris; sapientia muh'e-
rum est matrimoni! legibus obtemperare.
Omnia enim matrimonium communia inter virum
et uxorem fecit.
Excandescenti marito cede: laborantì fer opem:
eumque et molli oratione et optimis admonitionibus
iuva.
Nam nec is, cui leonum cura commissa est, irà
aesluantis ac rugientis belluae robur corporis viribus
frangit; sed cam blanda manu, mollique verborum
sono permulsam domat.
Numquam tibi accidat, ut detrimentum ullum,
iacturamque, etiam gravissima irà percita, viro ex-
probres: nam ipse multo pluris tibi esse debet, quam
omnes facultates.
Nec si qua res contra ei cesserit, quam ipse sibi
proposuerat, id ei obiicias: nec enim aequum est,
te eum hoc nomine insectari.
Saepe enim daemonis malitià hoc usuvenit, ut
ea etiam, quae prudentissime cogitala sunl, teter-
rime cadanl
lllud etiam tibi cavendum censeo, ne quemquam
marito tuo parum amicum laudes, ut per compara-
tionem versutà eum oratione perstringas.
115
Sendochè di tulle cose si vien satolli e anno-
iali, sì di tulle cose, ma sopra tutte deiramoie: del
quale giova tenere con ogni ingegno lontana la sa-
zietà.
Siccome la natura ti ha voluto donna , guarda
di non pigliar tuono ed aria da uomo.
Non millantare la nobiltà della tua prosapia ,
né montare in superbia per isfoggiato vestire.
Non pretendere a titolo di dottoressa : dotta è
la donna che sa fare da moglie.
Che il matrimonio fece del marito e della ma-
glie in tutto una cosa.
Alla slizza del marito cedi ; ai suoi travagli sov-
vieni , e giovalo di dolci parole e di begli avver-
timenti.
Fn falli, anche colui che tiene in guardia leoni,
non già rintuzza con battiture la feroce rabbia onde
la bestia bolle e ruggisce, ma con carezzevole mano
e pieghevole suono di voce l'ammonisce e doma.
Non sia mai caso che tu acoesa in ira Serissima
rinfacci al marito qualche danno o ruina : dacché
il marito debbi averlo per assai più d'ogni tesoro.
E se in qualche cosa il suo divisamenlo gli fal-
lisca, non lo garrire; che non ti conviene per questo
dargli de'guai.
E nel vero, per malignità del demonio accade
sovente che pensamenti savissimi riescano alla ma-
lora
In oltre io penso che tu debba ritenerli di lo-
dare persona che sia poco nell'amore di tuo marito,
così che nel paragone il ferisca con insidiose pa-
role.
116
Nani eliam alioqui nobiles viros et mulieres ,
praeserlim tamen mulieres, morum simplicitas decet.
Voluptates eius omnes, dolores eìus denique, cu-
ras tuas etiam ducilo : nihil enim est , quod rem
familiarem auctiorem reddat.
Quod si res aliqua occurrat, quae Consilio opus
habeat, quin ipsa quoque quid censeas dicas, mi-
nime prohibeo; sed viri lui sententium vim maiorem
semper otinere volo.
Moerente marito, nonnullo ipsa etiam moerore
afficere; nam amicorum moeror ad doloris levatio-
nem plurimum momenti habet.
Caelerum statim frontis serenitate leceptà, animi
illius anxietatem aegritudinemque depelle : marito
enim in moerorem aliquem prolapso, commodissi-
mus portus est uxor.
lam quod ad vitae occupationes attinet, radio et
lanae operam da, atque in oraculorum sacrorum me-
dilatione versare.
Externa negotia viro committe. Noli pedem tuum
limine crebro efferre;
Nec ad publicos ludos , turbamque inconditam
pi'oficisci:
Id enim pudorem verecundis etiam excutit, ocu-
losque oculis iungit.
Pudoris aulem iactura flagitiorum omnium cer-
tissima est parens.
Ad honestos autem et laudabiles coetus cum pru-
dentibus foeminis te conferas iubeo;
Ut egregium aliquem sermonem in animo tuo
insculpas, quo vel villa tua deleas, vel virtutes al-
tius amplectaris.
117
Che d'altronde ai gentili uomini e alle donne,
alle donne poi molto più , uno schietto fare sta
bene.
Le gioie tutte e le pene tutte di lui fa conto
sieno pur tue : di questa guisa andrà sempre in me-
glio la casa.
Che se in qualche occorrenza ci sia mestieri il
consiglio, non ti vieto già che apra tu pure l'animo
tuo; ma voglio che la sentenza di tuo marito valga
sempre di più.
Se il marito è accorato, tu pure ti accora; le
lagrime degli amici sono balsamo al dolore.
Ma poi rasserenato ch'ei sia, cavagli dall'animo
ogn'ansia ed affanno : al marito che si trova in an-
gustia è ricovero opportunissimo la consorte.
Quanto alle occupazioni della vita , attendi al
tessere ed al filare, e sii continua nel meditare le
sagre carte.
Le brighe di fuori lascia al marito. Esci rado
di casa.
Non recarti a spettacoli pubblici, ne a tumul-
tuose brigate.
Quivi anche le modeste ci scapitano, attirando
gli sguardi sopra di se.
La perdita poi del pudore è senza fallo radice
d'ogni nequizia.
Fa di condurti alle oneste e lodevoli radunanze
in compagnia di savie donne,
A fine di scolpirti nell'animo qualche bel detto,
con cui tor via le magagne, o avanzare ben bene
nella virtù.
118
Domus libi urbis ac neiiiorum instar sit.
Ne aspectus tui copiam aliis facias, quam pro-
pinquis tuis, iisque gravibus et honestis, et sacer-
doti, ac senectuti iuventute praestantiori.
Nec vero earum mulierum consuetudine utere,
quibus et procèrum ac delicatum collum est, et for-
ma popularis ac merelricia.
Imo nec in piorum virorum, quos tamen mari-
tus tuus a domo sua arceal, conspectum prodeas,
quamlibet alioqui eos caros habeas, honoreque pro-
sequaris.
Quid enim tantum utilitatis afferre potest, quan-
tum probus maritus , si in eo solo amorem defì-
xeris ?
lam vero per me quidem tibi licet animo alto
atque excelso esse; modo ab insolentià.superbiàque
abhorreas.
Foeminas eas laudo, quae maribus prorsus inco-
gnitae sunt.
Sed et illud te admonilam velim, ut nec ad nu-
ptiale , nec ad natalitium convivium properes , ubi
et perpotatur, et saltatur, et ridetur, et denique in-
facetis facetiis iodulgetur.
Haec enim eiusmodi sunt, ut vel pudicum pectus
delìnire ac demulcere queanl:
Non secus ac solis radius ceram quam cilissime
penetrans.
Nec vero vel praesente vel absente marito com-
potationes domi excita.
Venter quidem moduin tenens perturbationibus
animi fortasse ac libidini dominari queat.
119
La casa ti sia e città e solitudine.
Non fare di le mostra ad altrui, se non è tuo pa*
rente, e di quei posali e da bene, o sacerdote , o
vecchio meglio che giovane,
Non fartela molto con quelle femmine che hanno
alterezza e leziosaggini , e atteggiamenti plebei e
sfacciati.
Che anzi non darti a vedere né anco a quelle
persone , le quali tuo marito non ritiene in casa ,
con tutto che d' altro canto tu le debba avere in
amore ed onoranza.
E in verità , chi a te pili vantaggioso del tuo
probo marito, laddove lui solo carezzi ?
Come pure non ti proibisco di portarti nobile
e dignitosa, ma non già insolente e tracotante.
Benedette quelle donne che i maschi non ce le
sanno !
Oltre a ciò voglio anche ammonirti che tu non
corra a banchetti di nozze o di battesimi, dove si
sbevazza, e si salta, e si ghigna, e fuori dell'onesto
si tripudia.
Cose tutte che valgono a pigliare e aflfascinare
un cuore anche pudico :
Siccome un raggio di sole cha va dentro alla
cera in un attimo.
Ci sia o no tuo marito, non fare in casa bal-
dorie.
La gola tenuta in freno può forte bastare alla
signoria dell'animo e delle passioni.
120
Helluonem autem, ingluvieque laboranlem, non
ego solum, sed maritus quoque ipse pertimescit.
Quin illud quoque cavere operae pretium est, ne
vel lascivis subsultationibus , vel irae aestu genae
tuae palpitent.
Hoc enim cum omnibus hominibus, tum piae-
cipue mulieribus, turpe ac faedum est formaeque ve-
nustalem labet'aclat.
Auriuni tuaium ornatus non in margarilis, sed
in eo situs sit, ut optima quoque verba excipiant:
Malis autem et perniciosis animi clavis impona-
tur : sicque tam clausis quam apeitis auribus sua
pudicilia constet.
Cura praeterea, ut virgineus pudor egregium sub
palpebris tuis ruborem marito fundat;
Atque etiam ad hominum adspectum erube-
scas, oculos caecos, superciliumque humi de[)ressum
habens.
Hoc insuper summo studio cavendum, ne lingua
tua praecipiti atque elFraenato impetu feratur;
Eamque ob causam tibi mariti odium confles:
Linguac enim procacitas innocenlibus etiam homi-
nibus noxam saepe invexit.
Tacere itaque praestal, cum loqui utile est, quam
loqui , cum tempus indecoro atque inhonesto ser-
moni silentium indicit.
Quo magis tibi in eo elaborandum est, ut raro
loquendo sermonis tui desiderium semper in homi-
num animis fixum relinquas.
Pedes porro superbe incedenles pudicitiam men-
tiunlur: gresslbusque etiam i|tsis libido inesse potest.
121
Un pacchione e un crapulone a me non solo ,
ma al marito altresì è pauroso.
h anche pregio dell'opera star sull'avviso , af-
finchè né a lascivi motti né a fuoco d' ira ti lasci
andare.
Questo a tutti, ma in ispecie a donne, è turpe
e sozza cosa, e guasta ogni fior di bellezza.
Non delle gemme, ma del suono di sante parole
si fregino le tue orecchie.
Alle voci maligne e scandalose non si dia l'en-
trata ; e così stiasi o no in orecchi , la pudicizia
starà sempre salda.
Bada in oltre che il candor verginale metta nel
tuo marito quella verecondia che ne' tuoi occhi ri-
posa.
Anche in faccia d' uomo prendi rossore , chiu-
dendo gli occhi e atterrando le ciglia.
Sii cauta soprammodo a non parlare furiosa e
con isfrenata foga;
E tirarti così addosso la malvoglienza del tuo
marito.
Lingua sfacciata anche gì' innocenti più volte
rese colpevoli.
Adunque mette meglio tacere anche quando
giova parlare, che parlare quando il decoro e l'one-
stà t'imponga tacere.
Perciò devi fare di tutto per lasciare, parlando
rado, continuo desiderio di le nea;li animi altrui.
Con passi gravi e superbi onestà non si lega :
ed anche V andare istesso può dire sfacciataggine.
122
Ad haec ila te compara, ut cainis impetum mi-
nime indomitum habeas, Icctoque geniali libi quovis
tempore indulgendum putes.
Maritum eo adducilo, ut sanctorum dierum ra-
tionem habeal.
Aequum est enim Dei imaginem divinis legìbus
obsecundare:
Tametsi Chrislus coniugalem legem generi no-
stro dederil, ut videlicet partim abeunlibus, partim
in lucem prodeuntibus hominibus genus nostrum flu-
vii cuiusdam instar decurrat ac propagetur : ut per
mortem fluxum ac fragile, ita per filiorum procrea-
tionem stabile ac perenne.
Sed quid ego haec singilialim persequor ?
Quod si quando sermonem meum aliquem ex-
cepisti, hunc animo tuo condas, omnique studio re-
tineas velimus Nunc hoc dono le afficio.
Sì autem hoc optimum futurum est, a Deo quo-
que supplex pelo, ut luculentam prolem in Incem
edas :
Ut Deus, cui et nascimur, et e vita migramus,
a pluribus celebretur.
123
Sta bene all'erta : gli appetiti del senso gli hai
da frenare, nò credere di poter fare la tua voglia
in ogni tempo.
Convieni col marito a rispettare i giorni santi.
Ragion vuole che l'immagioe di Dio stia sotto
alle leggi divine :
Quantunque Cristo abbia imposto al genere u-
mano la legge del matrimonio affinchè l'umana spe-
cie, col nascere e col morire che fanno gli uomini,
a guisa di corrente trapassi e si propaghi : scorra e
si corrompa per morte, per la generazione de' fi-
gliuoli si fermi e si rinnovi.
Ma a che tanto partitamentp io ragiono ? . . .
Tu , se gradisti alcuna volta le mie parole ,
queste vorrei che ti ponessi nell'animo, e te le fer-
massi ben dentro . . . Ecco il dono ch'ora ti fo.
Se poi quest'altro sia pel tuo meglio, io chiedo
ancora supplichevole a Dio , che sii feconda di
prole :
Affinchè quel Dio, per cui nasciamo e moriamo,
venga da piij creature celebrato.
124
Sulla natura e sul trallamenlo curativo della difteria.
Considerazioni del D/ Giidio Baslianelli lette alla
Conferenza Medica di Roma nella seduta ordinaria
del giorno 16 dicembre 1859.
JLia difteria, molto rara per Io innanzi, da circa due
anni si è resa frequente per modo in questa nostra
città e ne' luoghi vicini, e talmente grave e mortale,
da offrire i caratteri di una vera epidemia. La gra-
vità in una, e l'attualità del male, che lo rendono
degno di ogni medica sollecitudine, ha fatto che to-
gliessi io tal morbo a subbietto di alcuni miei studi,
i quali presento all'attenzione vostra, onorevoli col-
leghi, perchè da voi ricevano quel valore, comple-
mento e perfezione che da me non si ebbero forse,
non per difetto di zelo e volontà, ma per manco di
forze, e di quella eslesa osservazione per cui sola
si giunge a quel vero utile pratico, che esser dee il
supremo scopo della medicina.
La difteria, che or qua, or là infierisce epide-
mica, che alle gioie, all'amore ed alle speranze di
affettuosi genitori rapisce nella maniera più rapida
e terribile i pili cari fanciulli, che non risparmiando
regioni, età, né condizione mette in pericolo intere
numerose famiglie, non poteva a meno di non atti-
rare l'attenzione dei medici. Difatti i medici se ne
occuparono: ma, sìa perchè non abbia esistilo o poco
frequentemente, sia perchè poco conosciuta e distin-
125
ta, fu mollo tardi che se ne occuparono seriamente.
In Ippocrate, in Galeno, e specialmente in Areteo, si
trovano descrizioni di angine, che offrono i caratteri
di questa malattia, ma non sono talmente chiare da
togliere ogni dubbio; e questo dubbio ci resta leg-
gendo pure gli autori dei secoli successivi, che l'uno
dall'altro copiarono la descrizione dell'angina senza
distinguerne le specie. A. ragione quindi si riguarda
Baillou come il primo che nel 1576 abbia dato i
sintomi principali ed i segni anatomici caratteristici
dell' angina membranosa , che egli chiamò Affeclio
orlhopnoica, e che in seguito fu detta morbo stran-
golatorio da Carnevale , angina strepitosa da Ghisi ,
cynanche stridula, angina trachealis, angina suffuca-
toria^ angina strangulaloria infantum, angina polyposa
seu membranacea, tracheilis infantum da diversi au-
tori, angina laringea exudatoria da Hufeland, croiip
dagli scozzesi, laringo-tracheite da Blaud, diphterile
da Brettoneau. A queste potrei aggiungere molte al-
tre voci, che sono state impiegate per esprimere la
stessa malattia, e potrei fare emergere come quasi
tutti gli autori hanno sotto la stessa appellazione de-
scritto e il crup propriamente detto, e Vangina pseudo-
membranosa faringea. Da ciò, e dall'avere osservato
nelle varie epidemie, che la falsa membrana dell'an-
gina faringea invadeva quasi costantemente la larin-
ge, la trachea, ed i bronchi per produrre il crup, e
quella del crup dai bronchi, dalla trachea, e dalla
laringe estendesi a produrre la faringea , ed infine
che r una e 1' altra dimandavano gli stessi rimedi
generali, si è dalla maggioranza dei medici moderni
specialmente concluso, che il crup, o angina larin-
126
gea membranosa, e l'angina cotennosa faringea, siano
in essenza la slessa identica malattia, differenti solo
per sede. Bard di New-Jork fin dal 1784 aveva fatto
presentire tale conclusione; egli anzi andò più in là:
sostenne che Tangina cancrenosa descritta da molti
autori, la membranosa unita al cru(3, ed il crup stesso
primitivo erano tre malattie , la cui natura era la
s lessa , e stabiliva l'identità dell'affezione che egli
osservava con quella descritta da Home sotto il no-
me di crup. Poco dopo venti anni (cioè nel 1807)
quando ancora la più grande confusione regnava fra
i medici su quanto risguarda una si terribile ma-
lattia , un accidente improvviso apriva alla cono-
scenza delle angine difteriche un'ampia via, che gui-
dar doveva a grandi risullamenti. In quest' epoca
(noriva di crup il figlio di Luigi Bonaparte, amato
teneramente da Napoleone. L' imperatore ordinava
immediatamente un concorso col premio di fr. 12000
por l'autore della miglior memoria sulla Natura del
crup, sui mezzi di prevenirlo, ed assicurare i successi
della cura. X questo concorso presero parte i mi-
gliori medici di ogni paese. Ma da esso, come bene
osserva Jodin, un utile solo venne alla scienza, quello
di aver riunito tutte le conoscenze che di tal ma-
lattia erano sparse nelle differenti parti del mondo,
e nella repubblica medica. E tralasciando di riferire
la forma morbosa, perchè in essa tutti convengono,
e la parte storica perchè la toccai già in breve per
capi principali, esse conoscenze si riducono per me
a questo punto capitale, che tutti gli scrittori si ac-
cordano a riguardare la difteria per una infiamma-^
zione particolare. Nel resto ci lasciavano discordi co-
127
me pel passato, continuando ad esser contagiosa per
alcuni, non contagiosa per altri; per gli uni l'azione
strangolatoria doversi solamente alla falsa membra-
na, per gli altri concorrervi come parte pritiiaria la
tumefazione infiammatoria ed uno stato spasmodico.
Fa poi meraviglia come la dissenzione più grande
restasse nella cura, mentre si era d'accordo sulla na-
tura della malattia. Dunque nessuna delle questioni
proposte fu risoluta, nemmeno quella della natura:
perchè poco si apprendo quando si è detto infiam,'
mazione particolare, come ben nota Jodin.
Passano dieci anni, ed eccoci ad una nuova fasi.
Una epidemia di angina maligna si sviluppa a Tours
negli anni 1818 al 1821: Brettonneau la studia sotto
tutti i rapporti , e dal dubbio concepito per 1' au-
topsia di un cadavere sulla natura cancrenosa della
angina, per le altre proseguite con indefesso ardore,
acquista la certezza, che la falsa membrana rinve-
nuta nella laringe e nei bronchi è identica a quella
che viene emessa con la tosse e col vomito, cioè
bianca , molle , elastica , e continua con le credute
escare, che ricuoprono il velo del palato, e la re-
trobocca: che queste escare tolte, la faccia che riposa
sulla muccosa non è nera , né grigia come quella
esposta all'aria, ma del tutto eguale alla membrana
tolta dalla trachea: che la muccosa della faringe,
della laringe e dei bronchi, su cui aderiva la falsa
membrana, non offre la minima traccia di alterazione
cancrenosa: macchie rosse e punteggiate di un rosso
cupo , senza erosione, né ispessimento di tessuto,
sono le sole tracce d' infiammazione che si riscon-
trano : che , un sol caso accettuato , la falsa mem-
128
brana del condotto laringeo è sempre stata conse-
cutiva alle concrezioni della gola. Ne tira le conclu-
sioni seguenti, che noi togliamo per intero dal ci-
tato Jo'din :
\° Il carattere cancrenoso delle concrezioni della
gola nelle angine maligne non è che apparente :
questa apparenza si deve ad una composizione pu-
trida favorita dal calore umido della bocca, e dal-
l'azione dell'aria.
2." Queste concrezioni sono in fondo delle false
membrane , del tutto identiche a quelle del crup ,
le quali non ne sono che la continuazione.
3.° L' identità delle affezioni porta quella della
malattia.
4.° Questa malattia è una infiammazione speci-
fica consecutiva ad una infiammazione specifica con-
secutiva ad una diatesi , e per la quale propone il
nome di difleritey destinata a distinguerla dalle altre
infiammazioni.
Come vedete, sopra basi più positive, è vero, e
con analisi piiì profonda dei ritrovati necroscopici,
ma in ultimo costrutto Brettonneau non ha fatto che
richiamare l'idea di Bard , appliandola però , e di-
chiarando meglio la natura della malattia. Le opi-
nioni di Brettonneau sono state acclamate nella
scienza : l' identità della malattia è stata ammessa,
qualunque ne fosse la sede, riserbando solo il nome
di crup a quella che avesse sede nella laringe, ben-
ché Brettoneau avesse chiamato questa difterite la-
ringea, e faringea l'altra. La diatesi e la infiamma-
zione specifica si accottano pure senza discussione.
Ed eccoci giunti al campo , su cui senza scostarsi
129
di un passo si è iìggirala fino ai giorni noslii la
scienza delle angine membranose o difteriche. Ha
bensì patito qualche urto, ma si può dire che lutti
i medici hanno finito sempre per liconoscere in
queste angine una diatesi , ed una flemmasia spe-
cifica.
L'identità della malattia non va esente da critiche
e distinzioni profonde , specialmente se ad analisi
rigorosa si chiami quella unità di natura che si pro-
clama fra l'angina pseudo-membranosa propriamente
detta, il crup, e l'angina maligna o cancrenosa. La
diatesi e la infiammazione specifica non poigono
meno argomento di grave discussione; anzi è su di
esse che pili credo fissar ì" attenzione, onde, se è
possibile, dissipar quelle tenebre, nelle quali, con -
vien pur confessarlo , è ravvolta la quìstione delle
angine difteriche. E per procedere con quanto per
me si può ordine e chiarezza, mi propongo, nei li-
miti della maggior possibile brevità, passaie in ri-
vista le seguenti proposizioni.
1.° Il crup propriamente detto, l'angina pseudo-
membranosa , e r angina cancrenosa , sono una ed
identica malattia, o sono tre malattie distinte ?
2.° La difteria è una malattia di natura dia-
tesica ed inflammitoria specifica, o è una malattia
puramente locale ?
3.° Quale può essere il miglior trallamcnlo cu-
rativo di questa malattia ?
4". Havvi una profilassi ?
GA.T.CLXV.
PROPOSIZIONE PRIMA
Il crup propriamente dello, Vangina pseudo-membra-
nosa, e Vangina cancrenosa, sono una ed identica
malattia, o sono tre malattie distinte ?
E certo che alcune epidemie di angine maligne
0 cancrenose descritte dagli antichi debbono ri-
guardarsi quali angine membranose. E per es. chi
non dee dichiarar tale quella che regnò in Napoli
nel 1618 , e descritta nel 1620 da Carnevale ?
« li male incominciava come un'angina leggera, dice
» questo autore , con dolore di gola , tumefazione
)) delie tonsille , impedita la deglutizione : tutta la
)) gola si cuopre di placche bianche, che addiven-
» gono livide e nere ; ben presto le vie aeree ne
» sono invase ; la voce è rauca ed estinta, la re-
« spirazione facile da principio si imbarazza , ad-
» diviene stridula, ed il paziente muore come se-
» fosse stato strangolato con una corda . . . Stran-
» gnlalorium appellandiim merito existimavi, prose-
» gue Carnevale, quod languentes strangidare el siif-
« focare videantur .... Via spiritus intercludiliir y
» perii proinde strangulatus el suffocatus aeger []) »,
Cortesi nella decade nona in una lettera al dot-
tor Giovanni Anguilloni descrive pure, benché sotto
altro nome, una epidemia d'angine pseudo-membra-
nose o difteriche, regnata a Messina nel 1625. Non
altrimenti è a dirsi delle angine cancrenose, e dei
(1) De morbo strangulatorio - in 4" Napoli 1620.
131
crup dosci'itti a questa stessa epoca dal Sevejino.
Borsieri pure nel dar la descrizione dell'angina can-
crenosa , chiama la placca non escara , ma quasi
escara. « Dccidenle vero, dic'egli, aiU delracta prima
huiiismodi quasi eschara, quod inlerdum accidit, mox
uilera succrescit , ahiusque penetrai etc. . . » Parla
quindi della quasi costante diffusione alla laringe
ed ai bronchi, e della morte che sopravviene come
per strangolamento. Di moltissime altre descrizioni
di angine cancrenose epidemiche istituendo rigoi'osa
analisi si giungerebbe a dichiararle angine difteriche,
ma saria opera lunga, tal fiata malagevole, taraltra
impossibile. Cullen ciò vide fin dai suoi tempi; e nel .
parlare della Cynanche iracliealis, quando fu ad ad-
durre la sinonimia pel morbus slrangidalorius di Harr,
annotava: « An hic morbus ad cynanchen malignam,
)) an ad trachealem pertinet, mihi non certo constai,
w et saepius de eorumdem morboruni apud plures
» auctores descriptionibus itidem incertus sum ».
In mezzo però a tali incertezze, ed alle molle ra-
gioni che da tante parti si potriano attingere per
sostener la tesi di Bretonneau, noi non possiamo ac-
cettar la sua proposizione per assoluta. La mancanza
dei caratteri propri dell'angina cancrenosa in quella
osservata a Tours non 1' autorizza a negarla. Non
ogni epidemia è la stessa , ne in tutte si osserva
tutto. Autori degni di fede, e modelli di esattezza,
ci hanno lasciato descrizioni impugnabili di angine
cacrenose. Le ulceri profonde e dolorosissime, che
essi hanno notato al cader delle escare, non sono
proprie della difteria. Noi quindi crediamo all'esi-
stenza della angina cancrenosa, ma molto più rara
di cj,u;inlo si è preteso e si possa pietencfeie ; la
cretliaino dilficilmente epidemica, e se tale diffìcil-
menle primaria, il pili spesso associata ad altre ma-
lattie o ad angine di differente natura. Difalti le
angine epidemiche che regnarono in Cremona nel
1747, 1748, tanto bene descritteci dal nostro Ghisi^
offrirono la triplice forma di angina membranosa
faringea, di angina cancrenosa, e di crup.
Hioonosciula la necessità di ammettere una an-
gina cancrenosa distinta dalla pseudo-membranosa,
e dal crup propriamente detto , vediamo se queste
due forme di angine possano e debbano riguardarsi
. come una in essenza. Molte ragioni concoi-rerebbeio
ad amniettere V identità di natura. Vediamo quasi
costantemente V angina pseudo-membranosa inco-
minciar dalle tonsille, estendersi alla retro-bocca ,
alla faringe, investir la mucosa del naso, scendere
alla laringe, alla trachea, ai bronchi, produrre il
crup e strangolar 1' infermo. Osservianio per con-
verso la malattia incominciar dalla trachea , dalla
laringe, salire alle fauci, investire il palato molle ,
la faringe, e talora estendersi allo esofago e a tutte
le mucose. La fornai moibosa durante la vita, le
autopsie cadaveriche dopo la morte, ci danno piena
cot)ferma di (jucsto andamento inverso.
I caratteri fisici e chimici delle false membrane
sono in ap.ibedue i casi gli stessi : medesima è la
cura genciale , come vedremo , sia che la malattia
esordisca e si limiti alla sola laringe , sia che si
ap[)rcnda alle sole tonsille, alla faringe. Identici fe-
nomeni moi'bosi, (|uando avvengono, e che avremo
luogo di notar più innanzi, si vedono tener dietro
133
all'una e all'altra forma anche allora che esistano,
o procedano del tutto separatamente. Contagiosa è
l'una, contagiosa l'altra : amhedue sono proprie più
specialmente di una certa età , ed attaccano più
maschi che femmine : ambedue sono sporadiche, od
epidemiche , ambedue riconoscono le stesse cause
predisponenti ed occasionali ; dall'una si genera
l'altra e viceversa. In ainbedue precede ed accom-
(ìngna la febbre , se eccettui i casi di estrema mi-
tezza, o quelli nei quali la morte segue in pochis-
sime ore : benché sia qiii questionabile tale esclu-
sione, come faremo altrove vedere. Sono tutti questi
tali fortissimi impugnabili argomenti, che convin-
cono chiunque della identità di natura delle due af-
fezioni. Eppure non possiamo negare , che alcuni
ripugnano ad amiricttere così assolutamente tale iden-
tità. Questa ripugnanza nasce dall' avere osservato
fatti di crup che improvvisamente invasero, ed im-
provvisamente guarirono , mentre ciò non avvenne
mai , che io mi sappia , dell' angina cotennosa. Si
aggiunge che l'età innanzi ai tre anni è quella in
cui il crup gi manifesta di preferenza. Fra i molli
che ciò propugnano con tali ragioni havvi di re-
cente Tommaso Heslop (1), mentre considera egli
la difteria come malattia pestilenziale, astenica ec.
A me sembrano queste troppo deboli ragioni per
abbattere, o bilanciare almeno quelle che militano
per la identità delle due affezioni. E questi fatti
che si adducono , o sono sporadici per lo più , ed
ognuno sa che qualunque malattia quando si pre-
ci) Medicai Times - May. 29. 18S8.
134
senta sporadica offre meno gravezza, e mono crilei'f
su cui basare un giudìzio differenziale : o si hanno
in costituzioni epidemiche, ed ognuno converrà, che
nelle epidemie accanto a casi gravissin)i, e comples-
sivi, se ne ha pure milissimi, singolari, e che con-
vengono cogli altri nel solo sintomo principale. Chi
potrebbe negare , che il morbillo sia sempre della
stessa natura ? Eppure nella epidemia, che avemmo
in Roma nello inverno 1856 al 57 , io notai casi
allo spedale militare di S. Spirito, nei quali appena
si accennò alla febbre in sulle prime , mentre fu-
ronvi casi gravissimi terminati colla morte anche
prontamente : e gli uni e gli altri non si rassomi-
gliavano che per la eruzione morbillosa. Ciò che dico
del morbillo si estende ad altre malattie, come ci
viene notato da sommi pratici. Un giudizio ò solido
quando in se racchiude l'espressione de' fatti ; nel
caso nostro , se mal non mi appongo , il giudizio
che discende dai fatti è l'identità di natura delle due
affezioni , che non differiscono fra di loro se non
per la sede- E se nei bambini avanti i tre anni veri-
ficasi più spesso la forma laringea, non alla natura
diversa della angina , ma devesi alla disposizione
maggiore ad ammalare, che in quella età hanno le
mucose delle vie aeree. L' osservazione ed il con-
senso è universale su ciò: non mancano poi casi di
crup propriamente detto anche in età di quaranta
e sessanta anni. Quindi benissimo si appella l'una
difteria laringea , e difteria faringea 1' altra. Ve-
diamo ora se :
135
PROPOSIZIONE SECONDA.
La difteria è una malallia di natura diatesica ed in-
fiammatoria specifica, 0 è una malattia puramente
locale ?
Fino a Bietonnean lutli considerarono le angine
membianose di natura inflammatoria. Per alcuni però
fiva genuina, per altri era una infiammazione parti-
colare , che per noi, come dicenimp , non esprime
più della prima. Brelonneau proclama anch'esso la
natura inflammatoria, ma la dice una infiammazione
specifica e consecutiva ad una diatesi. Per esso dun-
que la difteria è una malattia diatesica di natura in-
flammatoria: e questa accettata, come notammo, dai
mondo medico, fu la opinione che prevalse e si ri-
tenne fino ai giorni nostri. Ora ecco Jodin, che im-
pugnando la diatesi e la natura inflammatoria, sì uni^
versalmente accreditate, dichiara la difteria una ma-
lattia puramente locale. Allo edifìcio innalzato con
tanti anni di fatiche egli arreca colpi da farlo erollar
dalle fondamenta.
Con maestrevole brevità (ma con ingegnose ar-
gomentazioni ad un tempo da disporre il lettore al
suo partito) in una erudita metnoria che porta il ti-
tolo « De la nature et du traitement du croup et des
angines couenneiises etc. » passa il Jodin in rivista
gli studi fatti sulla malattia che ci occupa, e dalla
analisi di questi studi conclude e dichiara essere la
difteria una malattia puramente locale, generata da un
agente esterno, che è un parassita vegetale, una crii-
136
togamUf ima mufjl'a, ima maialila insomma parassitica.
Pei" dimosliar lo assunto imprende lo studio della
inala Itia dalla etiologia. Qui ptova: !.• che è con-
tagiosa : 2." che si sviluppa senza fehbre iniziale :
che nel crup (si avverta che egli con questa parola
significa le due forme di angina membranosa) tutto
al più si osserva la frequenza di polso talvolta estre-
ma, ma nulla più; e quando la fehbre esiste, lo che
può accadere in tutti i periodi, è sempre sintoma-
tica di altra malattia, che può essere preesistente
come la scarlattina, intercoriente come la pneumo-
nite, o consecutiva conte il flemmone delle glandole
sottomascellari: 3.° che l'affezione locale si sviluppa
di una maniera tutta particolare, ben diversamente
da quella delle affezioni diatesiche; si presenta cioè
per punii bianchi, trasparenti, al disoilo ed intoi'uo
dei quali si vede un rossore del tulio superliciale e
senza il minimo gonfiamento, costituilo da una in-
iezione vascolare finissima, e da piccole ecchimosi:
pili tardi questi punti si allargano in tutti i sensi,
formano delle macchie [ladies), delle strie, o fa-
scette, che gettano dei ponti, si uniscono e finiscono
col formare delle masse più o meno estese, senza
che in tutto ciò vi sia nionie di regolare. Nello istesso
tempo la concrezione si ispessisce, perde la sua tra-
sparenza, cambia di colore, diviene più fosca, grigia,
bruna, nerastra, V ispessimento e la colorazione es-
sendo sempre più distinti nel centro, che alla peri-
feria. Insomma descrive l'andamento delle false mem-
brane , andamento che tutti conoscete , e perciò
per brevità tralascio: ma non posso tralasciarvi, che
chiude lo studio eliologico con queste parole, che
137
aviiinno por noi peso più innatizi. « All'affezione lo-
cale ed agl'i accidenti locali che essa (la falsa mem-
brana) produce, possono associarsi fenomeni generali,
adinamia, convulsioni . . .
Da questo studio ne tira le seguenti prove ra-
zionali: 1.° il contagio suppone l'esistenza di un prin-
cipio morbifico venuto dal di fuori: questo princi-
pio non può essere che un miasma, un 'virus, od un
corpo estraneo, essendo che tutti i principii morbihci
esteini appartengono a qualcuna di queste categorie.
La mancanza di febbre iniziale allontana l' idea che
questo principio possa essere un miasma, od un vi-
rus; deve dunque necessariamente essere un corpo
estraneo. Il carattere estensivo deiraffezione crupalo
non permette di ritenere che esso sia un corpo incile,
come una spina, o come la cantaride che produce
una membrana circoscritta: egli è dunque animale
o vegetale. Le affezioni crupali si comunicano senza
contatto immediato del malato, o degli oggetti toc-
cati da lui, e non hanno luogo che consecutivamente
e preceduta denudazione del tegumento cutaneo o
mucoso. L'agente produttore non può dunque essere
un parassita animale, che senza contatto non si de-
posila giammai sul tegumento, e non ha bisogno di
antecedente denudazione. Resta che sia un parassita
vegetale , mollo leggero , sospeso nell'aria che gli
serve di veicolo, ma incapace colle sue spore arro-
tondate d' impiantarsi se non trova un suolo tutto
preparalo e senza difesa. Questo corpo è il fungo
(Ielle muffe, che una volta impiantate, offrono, come
nei frutti, la più perfetta rassomiglianza con le af-
fezioni ci'upalì, seguendo con esattezza lo stesso an-
138
damenlo. Ne dù infine le prove microscopiche, li
parassita è una muffa: e come questa può attaccare
la laringe, la faringe, e la cute, divide la malattia
in tre categorie. 1 ." Muffe sopra laringee, in cui si
comprendono quelle che attaccano le parti situale
al disopra della laringe ; bocca, gola, fosse nasali.
2." Muffe laringo-tracheali - 3." Muffe cutanee. De-
duce quindi i seguenti criteri. - In etiologìa U ve-
dere, come i bambini lattanti per avere continua-
mente le parti boccali ricoperte da intonaco latteo,
cbe non permette al fungo d' impiantarsi, siano ge-
neralmente risparmiati dal crup : come attacchi di
preferenza gli scrofolosi, ed i convalescenti da febbri
eruttive, per avere i primi le tonsille ipertrofiche che
arrestano il fungo al suo passaggio, ed i secondi per
averle spogliate dello epitelio protettore. In sinto-
matologia avverte, come la mancanza della febbre
faccia sì che la malattia si sviluppi in un modo la-
tente, nulla sorgendo a darne avviso fino a che non
sopraggiungano gli accessi di soffoca/jonc. in dia-
gnostica finalmente nota , come la mancanza della
febbre sia un prezioso segno. L'alterazione della voce
e la tosse crupale, quando si offrono senza febbre,
fanno sospettare il crup, e provocano l'esame dello
parti: colla febbre allontanano l' idea di crup, ma
non sempre, perchè può coesistere ad una febbre sin-
tomatica.
Eccovi, 0 signori, la dottrina recentissima del
Jodin sulle angine cotennose ; dottrina di cui fin
dal 26 luglio 1858 aveva fatto parte all'accademia
delle scienze. Con quella brevità , che nulla toglie
al vero, la volli qui riprodotta, perchè tendendo essa
139
a sopprimere la dialesi, è d' uopo chiamarla in di-
scussione.
La difteria è contagiosa. - Siamo pienamente di
accordo. Chi oggi oppugnar volesse questo fatto, op-
pugnerebbe la luce del sole in pieno meriggio. En-
rico Roger (1) ha anche dimostrato clinicamente ,
che vi ha un periodo d' incubazione: esso è molto
variabile, ma la sua media durala è sensibilmente
quella stessa che si osserva nella più parte delle ma-
lattie contagiose febbrili: si può a un dipresso fis-
sare dai due ai nove giorni. Si tentò la inoculazione;
ina benché si adduca qualche fatto favorevole, molli
se ne hanno per negarla: i favorevoli poi starebbero
per provare forse anche una volta di piìi , che la
malattia è diatesica: poiché se la materia difterica
inoculata in un dato punto del corpo produce an-
gina faringea o tracheale, bisogna ammettere un as-
sorbimento, un attossicamento del sangue, che ha
la sua espressione nelle regioni citate. Se continuando
gli esperimenti si provasse la inoculabilità, avremmo
mezzo potente per studiar meglio la natura del male,
determinare il periodo d' incubazione, e trar criteri
per stabilir misure igieniche d' isolamento. Ma l'es-
sersi la malattia sviluppata con tutta la sua gravezza
in quei casi, nei quali si riguarda inoculata, allon-
tana troppo l'animo ad inculcarne la continuazione.
Si nega la febbre iniziale nella difteria, o essa
si dichiara sintomatica se svolgesi in qualunque pe-
liodo del male. È un travolger troppo le cliniche
osservazioni agli archivi della scienza consegnate da
(1) Tnion nictlicale - n. 122, 123.
140
tauli sommi e fedeli medici. Areleo, l;i cui osser-
vazione, al dir dello stesso Jodin, è restala un mo-
dello di esattezza, attesta solennemente la presenza
della febbre nel cap. IX De tomillarum idceribns, ove
si ritiene abbia egli descritto questa malattia. Né so
comprendere, come il sig. Jodin affermi, che Areleo
non abbia parlato di febbre: mentre degli affetti dal-
l' ulcere siriaco , che appunto si vuole per angina
difterica, dice « Pallida his seii livida facies, febres
aculae, sitisj ut igne accensi videanlur ». Tutti gli
altri in seguito hanno confermato il fatto. E chi di
noi non è al caso di rispondere ? lo per me ho la
osservazione di diversi casi bene avverati, uno dei
quali debbo all'amicizia e gentilezza del dott. Car-
dona: ed in tulli precedette ed accompagnò la feb-
bre 0 fino alla morte, o fino alla guarigione, e in
due essa persistette fino al nono giorno. Vari col-
leghi, che potrei nominare, hanno meco veduto que-
sti malati , e confermano il mio asserto. A molli
medici distinti di questa città, e ad alcuni ancora
dei vicini paesi, cui toccò di curar gian numero di
SI falle malattie, mi sono rivolto per avere schiari-
menti , e tutti unanimi hanno confermato la esi-
stenza della febbre. Non nego, che gli autori ammet-
tano la mancanza della febbre in qualche caso.
Barlhez e Rilliet, che nomino con riverenza per il
loro trattato sulle malattie dei fanciulli, si avven-
nero in un sol caso, in cui mancò la febbre nei pri-
mi giorni. Ma un qualche caso non costituisce la
regola: mollo v' inlluiscono la gravezza, e la costi-
tuzione epidemica. È vero però in generale che la
febbre è ordinariamente leggera, benché in due os-
lit
servazioni di Bretonneau, in due dei succitati autori,
e in due dei miei, essa era vivissima anche al piiu-
cipio. La leggerezza della febbre non è Io slesso che
mancanza. Né è necessario per costituir la febl)re,
che tutti insieme si trovino, come vorrebbe Jodin,
frequenza di polso, calore della pelle, cefalalgia con
abbattimento, perturbamento delle ficoltà intellet-
tuali, torpidezza dei sensi: essa può slare con alcuni
soltanto di questi caratteri. Ed è poi possi bileche
tanti grandi medici si siano ingannati nel giudicare,
che abbiano preso per febbre la sola frequenza di
]>olso, come egli sentenzia, o non abbiano saputo
discernere se essa fosse sintoma di qualche altra
malattia preesistente, intercorrente, o consecutiva ?
Che non abbiano saputo dai'e a ciascuna il giusto,
il reale valore ? Ciò è un voler troppo offendeie la
sapienza di tutto il mondo medico, è un mancar di
quella buona fede, senza di cui nulla ha piiì di leale
la medicina, tutto sarebbe scetticismo in essa, ed
ogni giorno torneremmo da capo. Che esso solo ab-
bia saputo vedere, distinguere e giudicare ? Noi, che
senza esser superbi, pretendiamo di saper ravvisare
se in un malato v'abbia o no febbre, e distinguere
se sia propria della malattia principale, o sintoma-
tica di altra, diciamo che nella difteria ordinaria-
mente vi è febbre, e che questa le appartiene come
carattere proprio. Ed accettando , poiché ci viene
garantito da autorità troppo degne di fede, che in
alcun caso rarissimo manchi, pensiamo che ciò per
nulla infermi il valore che noi accordiamo alla feb-
bre. Ognuno riguarda il vainolo come esantema feb-
brile: eppure in (jualche caso manca la febbre. « Feb-
Ìi2
)) bi'ilem ciim voco (dice il grande osservatore Bor-
» sieri, parlando del vaiuolo) quod plerumque febrom
)) comitein habet. Dico plerumque , nam interdum
» adeo mitis est et benignus, ut nulla febris eum
)) anteceda! aut comitetur, aut, si qua cum eo con-
« iungitur, vix sensibilis ipsa sit , neque continua
» eius Comes, sed modo accedat, modo recedat, ex-
» ce[)to graviori casu et malignitatis non experte,
» in quo febiis plus minus acuta, atque assidua lo-
» cum habet et tenet etc. » Mi si obbietterà, che
essa è mancata in casi gravissimi, e mortali entro
poche ore. Se sussista questo fatto, che io non co-
nosco, ha sempre per me un vab)re secondario. La
gravità del male, che in poche oie tronca una tenera
esistenza, lascia mal vedere in mezzo a tante am-
basce ; con esse spesso si perde quella febbre, che
in piij calma sarebbe patente. In una angina mali-
gna scarlattinosa accade spesso di veder confusi tutti
i sintomi coi fenomeni terribili di soffocazione e ner-
vosi : non pertanto la febbre esiste. In ogni modo
sarebbe per noi spiegabile la mancanza della febbre
in casi gravissimi e prontamente mortali colla cele-
rità del male; cioè che l'eruzfone difterica si compi
in tal copia e prestezza, che uccise lo infermo, pri-
ma che in esso si svolgesse il consueto treno sinto-
matico. Ritenuta la febbre come carattere proprio
della difteria, vediamo se questa è una ajfezione lo-
cale, che si sviluppi di una maniera tutta partico-
lare ben diversamente da quella delle affezioni dia-
tesiche.
Qui non so veramente intendere questa partico-
larità di sviluppo voluta dal Jodin. A me nella esiU-
U3
tissima descrizione clic egli ne dà, e che avete uditr,
0 signoi'i, sembra di vedere la più pei'fetta analogia
"fra lo svolgimento della eruzione difterica, e le ma-
lattie diatesiche per eccellenza, il vainolo, la scar-
lattina, il morbillo. Opponendo questi esempi, che
ognuno sa apprezzare e verificare, mi pare esaurita
la confutazione di questa, paite. E la confutazione
ò avvalorata dalla associazione non sì rara di feno-
meni generali, adinamia, convulsioni, ammessi dal-
l'autore stesso che son propri, almeno l'adinamia, e
tanti altri che vedremo, delle afTezioni generali dia-
tesiche.
Ammesso che la difteria è contagiosa , è afe-
brile , è affezione locale , il Jodin per esclusione ,
come abbiamo sentito , conclude che la causa ge-
neratrice non può essere che un parassita vegetale.
Ed esso al microscopio ritrova nelle membrane dil-
teriche una crittogama, che caratterizza per muffa.
Ecco la causa della difteria, che si sviluppa come nei
frutti. Disgraziatamente, e perchè poco esperto di mi-
croscopio, e perchè p'm di tutto mi mancarono mezzi
pronti, non ho potuto che tardi ripetere e verificare
gli esperimenti. Nel caso offertomi dall'amico Gar-
dena in via delle Botteghe Oscure num. 62, la ma-
lattia invase primitivamente la laringe, poi la retro-
bocca, le tonsille, e la faringe. Le false membrane
tubuliformì reiette in abbondanza per cinque giorni,
raccolte e custodite con diligenza , sottoponemmo
al valore delle lenti , aiutati e diretti dall' onore-
vole socio sig. dott. Gualandi, di cui tutti conoscete
la non comune perizia micrografica. Ebbene, nelle
false membrane dei primi giorni non vedemmo crii-
lU
logama, nelle ultime essa èva abbondantissima. So
che alcun altro sottopose al microscopio pezzi di
membrane difteriche raccolte con tutta cura, e non
vi trovò fungo di alcuna specie, non vide che false
membrane. Ma allo slesso sostenitore della critto-
gama avvenne più volte di non poter discoprire
nelle false membrane quel fungo, che già gli era nato
nella mente: a talché incominciava a disperar di tro-
varlo, come confessa egli stesso. Poi lo rinvenne,
ma perduto in mezzo alle false membrane ed ai
globuli di pus che lo involgevano da ogni parte. In
fine Io riscontra molte volte facilmente , distinto ,
e in grande quantità. Ecco dun(jue per esso il pa-
rassita, ecco la causa vera e genuina della difteria.
Anche altri ve lo aveano trovato prima di lui : il
nostro Pacini di Firenze, poi Robin, Bazin ed altri.
« Ma essi, dice Jodin, non hanno compreso il valore
)) patogenico ; il fungo è stato considerato come un
» epifenomeno , come un prodotto svoltosi conse-
)) cutivamejite alle false men)hrane che gli porgono
» il terreno favorevole per svilupparsi : essi hanno
» preso per effetto ciò che deve considerarsi causa:
w e ciò dipende dall' avere essi e tanti altri mal
)) proceduto , dall' avere incomincialo dove io ho
» finito )).
lo non sono micrografo da potere minutamente
combattere osservazioni microscopiche. Ma ognuno
senza esser tale vede, che onde considerare il fungo
che si ritrova nelle false membrane come causa della
malattia difterica, sarebbe necessario che esso sem-
pre ed immancabilmente si riscontrasse in ogni caso,
in ogni periodo del male (nel primo specialmente)
U5
ed in tale abbondanza da costituir per se solo la
composizione principale delle false membrane. Invece
alcuna volta è mancato, alcun'altra appena si è mo-
strato involto a tante sostanze , o soltanto a ma-
lattia avanzata. Un parassita, causa di una malattia,
non manca mai ed in abbondanza a qualunque stadio
del male. Nella tigna è costante , e di esso quasi
per intero si compone la produzione morbosa. An-
che pel fatto microscopico dunque nulla autorizza
a riconoscere nella crittogama la causa generatrice
della difteria ; per nulla dunque si può considerarla
come una malattia parassitica. Robin ed altri hanno
riscontrato il fungo anche in alcune false membrane
trovate nei bronchi dei tisici: e chi perciò oserebbe
considerar la lisi una malattia parassitica ? Nessuno
riguarderà mai come tali le febbri tifoidi, le flebiti,
le lìnfagiti mortali, le afte, nelle quali pure si rin-
venne il fungo all' ultimo periodo specialmente in
mezzo alle materie scerete dalle superficie malate
delle intestina , dei vasi sanguigni o linfatici etc.
Dunque il fungo nella difteria è, come in tante altre
affezioni , un epifenomeno. E la difteria sia per
ragioni etiologiche, sia per argomenti razionali, sia
per fatto microscopico, non è una malattia locale e
prodotta da un agente esterno cognito , ma una
malattia diatesica prodotta da un agente incognito
fin qui, che introdotto nell'organismo ha il suo pe-
riodo d' incubazione , e si manifesta alla maniera
stessa di altri agenti attossicanti pur essi incogniti,
come il virus del vaiolo, della scarlattina, del mor-
billo. Molti medici riconoscono oggi questa verità,
G.A.T.CLXV. 10
U6
e nella sintomatologia scorgono la prova di una rea-
zione della economia animale provocata da una lotta
stabilita tra gli agenti interni ed esterni. Fenomeni
morbosi di secrezioni come l'albuminuria, di ematosi
come r anemia , e risguardanti i sistemi nerveo e
muscolare, come la paralisi progressiva, si vedono
bene spesso accompagnare o tener dietro alla di-
fteria. La paralisi progressiva è il più spesso con-
secutiva , ed ha per singolare carattere di non
manifestarsi il più di sovente che un certo tempo
dopo la scomparsa degli accidenti locali. Le sue
prime manifestazioni hanno luogo verso il velo del
palato, e la mucosa nasale. L'ugola, dicono alcuni
autori antichi , diviene flaccida , la voce nasale ,
la vista si turba e s'indebolisce fino all'amaurosi ,
od almeno all'ambliopia, senza però, dee aggiungersi,
alcuna alterazione valutabile delle membrane oculari.
Ma se si osservi più da vicino, si riconoscono al
tempo stesso, o pochissimi giorni più lardi, dei sin-
tomi pronunciati d' indebolimento completo , e gli
indizi ordinari di una paralisi generalizzata con an-
damento progressivo. In questo proposito è inte-
ressante il rapporto comunicato, non è molto, alla
società medica degli spedali di Parigi da Enrico Roger
sopra una memoria del dolt. Maingault (1). 1 primi a
comparire sono i turbamenti della sensibilità, che
sono ben presto seguiti da lesioni analoghe del mo-
vimento. In un tal Rodolfo Bartoli di anni 6, in via
(1) De la paralysie diplhérique - Paris 1860 - che ora
abbiamo sotto gli occhi.
147
della i^ongara nurn. 138, ebbi io al finire di agosto
p. p. un quadro completo dei fenomeni nervosi so-
pradescritti. Ammalava questi di angina cotennosa
il 23 di detto mese, nel giorno appunto in cui alla
stessa malattia soccombeva un suo fratello cugino
col quale conviveva. La malattia fu gravissima, ga-
gliarda la febbre. 11 5 settembre era guarito del lutto.
Verso la metà di questo mese incominciarono i fe-^
nomeni di paralisi del velo palatino, della laringe,
quindi della faringe, ed infine del sistema locomo-
tore. Mentre nulla accennava a pericolo, improvvi-
samente il 14 di ottobre fu preso da accessi di sof-
focazione , che non cedendo ad alcun rimedio, in
poche ore lo tolsero di vita con tutti i segni di
asfissia. Mi fu negata l' autopsia , che avrei tanto
desiderata per spiegarmi il subitaneo cambiamento
e la morte , che io penso avvenisse per la caduta
forse nella trachea di qualche sostanza alimentare.
Simili accidenti sono frequenti nella circostanza della
paralisi dei muscoli della faringe e della laringe ,
come si attesta da esperti osservatori , e da molte
autopsie registrate nella scienza. Poiché nel resto
queste alterazioni funzionali dei sistemi nervoso e
muscolare, che si accompagnano coi caratteri esterni
dell'anemia e della debolezza apirattica, non offrono
generalmente una terminazione fatale. La paralisi,
dopo aver durato anche per mesi , diminuisce per
gradi, e finisce il piiì spesso con la guarigione.
A tutte queste prove, che addimostrano abba-
stanza essere la difteria una malattia diatesica, altre
ne abbiamo nello ingorgo e talvolta suppurazione
delle glandole cervicali, o soltomascellari, che ordi-
ì^8
nammcnle precede ed accompagna la comparsa
delle membrane difteriche. Tale ingorgo non può
riguardarsi come un fenomeno di puro consenso ,
di semplice vicinanza alla stessa maniera che av-
viene per le glandolo inguinali nella scorticatura di
un piede, a per le glandole sotto-ascellari nel pa-
nereccio , come verrebbe Jodin , poiché nel nostro
caso precede ed accompagna la comparsa delle false
membrane, e talvolta passa in suppurazione: il che
non avviene mai nelle circostanze accennate. Qui
}' ingorgo è effetto del veleno difterico , come nel
bubone della peste è del veleno pestifero.
Riconosciuto e stabilito così, come meglio pei*
me si poteva , che la difteria non è una malattia
locale, ma veramente diatesica, vediamo se ella è
di natura infiammatoria genuina o specifica. Dopo
tante pratiche osservazioni il consenso universale dei
medici respinge l'idea di una infiammazione legit-;
tima, ed accoglie quella della flogosi specifica. Che
voglia significarsi con tale espressione, io non so in-
tendere davvero. E sia che mediti sullo esordire ed
andamento della malattia, sia che rifletta sui carat-
teri della eruzione difterica, sia che analizzi i tanti
turbamenti funzionali concomitanti o consecutivi »
sia che ponga mente alla nessuna alterazione pato-
logica apprezzabile riscontrata nelle mucose sotto-
stanti alle false membrane , o negli altri organi ,
sia infine che prenda in considerazione il tratta-
mento curativo, io non iscorgo ovunque altro che
argomenti che mi forzano a negare la natura flo-
gistica , vuoi legittima , vuoi specifica. Per tali ra-
gioni appunto credo io, che si desse l'epiteto di spe-
U9
clfìca a questa infiammazione. Già Andrai sì espri'^
ixieva contro siffatta opinione, a Che i partigiani della
natura infiammatoria del crup spieghino , se pos-
sono, diceva egli, la comparsa simultanea di queste
novelle produzioni in molti punti del corpo ! Non
sarebbe più conforme ad una severa interpretazione
dei sintomi, del corso e cura della malattia di con-
siderar le membrane come effetto di una alterazione
più generale , che dia alle secrezioni la proprietà
singolare di fornire un liquido fortemente albumi-
noso ? » Noi saremmo di accordo con Andrai, se la
malattia fosse tutta e soltanto nelle false membrane;
ma tutta non è in quelle produzioni, come tutta la
malattia del vainolo non è nella sola eruzione va-
iolosa. Come in questo esantema , abbiamo nella
difteria ben altri turbamenti funzionali, che indicano
un'alterazione profonda delTorganismo. E questa al-
terazione profonda noi la riporremmo con Trousseau»
Peter Eade, e di recente Barthez in un attossica-
mento primitivamente generale. 11 principio poi at-
tossicante ci parrebbe potesse riguardarsi in un virus
analogo a quello del vaiuolo, della scarlattina, del
morbillo etc, quindi che la difteria potesse consi-
derarsi come una malatlia eruttiva^ e da chiamarsi
sempre, e soltanto difteria, come altri ha già propo-
sto, a fine di escludere quella idea di decisa infiamma-
zione intesa nell'espressione difierite: appellando poi,
secondo la sede, difteria laringea quella della laringe,
e difteria faringea quella della faringe, palato mol-
le etc. È forse questa mia una ipotesi ? La sotto-
pongo al giudizio vostro, o sapientissimi colleghi ,
che è per me di gravissimo peso, e volentieii ac-
150
colgo ogni vostra ossoivazione, che possa rischiarare
le mie convinzioni sopra la malattia, nella quale vi
trattenni già a lungo.
Nel mese di novembre dell' anno scorso in una
noia presentala da Velpeau alla ficcademia delle
scienze a nome di Vernhes , si legge come questo
medico avesse osservalo nel dipartimento de l'Hé-
rault, che da tre anni era sotto un' influenza epi-
demica crupale morlalissima , la quasi completa
scomparsa della rosalia: e concludendo una grande
rassomiglianza fra queste due malattie , pensò
che producendo sulla pelle un esantema generale
artificiale si potesse prevenire, o almeno arrestare
lo sviluppo del crup. Allo scopo impiegò il croton
tilium; e dice di aver veduto, che dopo l'apparizione
dello esantema la formazione delle false membrane,
se essa aveva già avuto luogo , si arrestava del
tutto (1). Vi confesso di non daie un valore assoluto
a questo racconto : sento peiò che racchiude una
qualche prova per riguardar la difteria come malattia
eruttiva. Ma consideriamo l'eruzione difterica. Essa
è per lo più preceduta da febbre dopo un periodo
d' incubazione , quindi comparisce in piccoli punti
bianchi , disseminati or su questa , or su quella
regione di preferenza; questi punti si fanno più co-
piosi, si allargano, si uniscono più o meno, secondo
la intensità del morbo. Restano più o meno a lungo,
quindi cambiano di colore, si distaccano, o insen-
sibilmente si consumano, come appunto avviene nelle
pustole vaiolose, specialmente per quelle che erom-
pono sulla mucosa della bocca , della faringe , e
(1) Gazelle des hopitaux num. 134. Novembre 1859.
151
della laringe. Mi si dirà , che l' idea di malallia
eruttiva non può applicarsi alla difteria laringea ,
che alle volte invade in mezzo alla più perfetta sa-
lute, e guarisce od uccide istantaneamente. Io credo,
che si sia troppo facili ad asserire così assoluta-
mente questi fatti. Si sottopongano a severa e spas-
sionata osservazione, e si vedrà che uno stato di
malessere precede e consegue la eruzione difterica;
si vedrà, che la tosse crupale continuerà per qual-
che giorno , e dei frammenti membranacei ven-
gono di tanto in tanto reietti senza avvertenza del
malato, degli astanti e forse anche del medico, se
questi non indaga attentamente le sostanze espulse
sia per vomito , sia colla tosse. In una bambina
di tre anni, in via di Tor de' Specchi num. 51, io
osservai ciò nelle materie espettorate, che con pre-
mura mi erano conservate dai parenti. Eppure ,
dopo il primo e brusco accesso di soffocamento, si
sarebbe detto , che la bambina stesse bene , se
acceltuavi la leggerissima febbre , la tosse cru-
pale e la persistenza di una placca difterica sulla
tonsilla destra, che apparve in seguito ai sintomi
laringei. Quando poi avvenga la morte in poche ore
si spiega benissimo o per la abbondanza soltanto
della eruzione in parti essenziali allo esercizio della
vita , 0 perchè il principio difterico agì in troppa
copia e forza sul sistema nervoso della vita organica
specialmente, giacché in alcun fatto di questi si rin-
venne poca eruzione alla laringe e al bronchi, mentre
l' infermo morì come strangolato. Quel che si as-
serisce dunque non è l'espressione del fatto. E am-
mettendolo pure, senza concederlo, cesserebbe per
questo di esser la difteria una malattia eruttiva ? Se
152
per malattie eruttive si considerino soltanto quelle,
che hanno in genere un corso necessario, come il
vaiuolo, il morbillo, la scarlattina, avrebbe l'obbie-
zione un valore per se; ma quando se ne ammettano
altre , come le afte , la miliare etc. irregolari nel
corso e negli stadi, essa cade a mio credere : e la
difteria può benissimo rassomigliarsi ad una di que-
ste , riportarsi ad una malattia eruttiva irregolare.
Io appoggio sarebbe pure la eruzione in differenti
parti dal corpo, come alla vulva, all'ano, alle su-
perficie denudate dai vessicanti. Gli studi di Peter
Eade, medico dello spedale di Norfolk e Norwich,
tendono a confermarci nella esposta opinione. Questo
medico osservò un malato, che uscito da un distretto
malmenato della epidemia difterica aveva avuto bensì
in principio un leggero male di gola, ma di tanta
poca entità da non fargli sospendere il suo lavoro
e da esser vinto con un lieve medicamento. Quindici
giorni dopo si osservarono io lui tutti i sintomi di
paralisi consecutiva , che noi descrivemmo , e che
cederoDO allo stesso trattamento alterante e tonico
adoperato dallo stesso medico per vincere le altro
paralisi consecutive alla difteria. Peter Eade non
dubitò di avere avuto sotl'occhio in questo caso un
esempio di difteria senza false membrane, come si
hanno scarlattine sine scurlatlinis , vainoli sine va-
riolis, roseole sine morhiUis. L'osservazione del medico
inglese non è tale da escludere ogni interpretazione
dubitativa, come dice Giraud-Teulon , perchè non
vi si può fondare un'opinione assicurata e dommatica;
ma pel nostro caso io credo, che debba accordarlesi
un valore reale , o almeno una giusta probabilità.
Dico pel caso nostro, perchè il Peter Eade inter-
153
preta il fatto diversamente, come può vedersi nella
- The lariceti luglio 1859.
Riassumendo ora in breve le conclusioni dei miei
studi sulla natura della difteria, dico:
1." Che l'angina cancrenosa è rara, ma esiste, ed
è essenzialmente differente dalla difteria, benché a
questa siano da riportarsi molle epidemie di angine
descritte per cancrenose.
2." Che il crup propriamente detto, e l'angina
cotennosa o pseudo-membranosa sono una ed iden-
tica malattia, diverse solo per la sede, e perciò ben
comprese ambedue sotto lo stesso nome di difleria.
3." Che la difteria è una malattia diatesica, di
natura eruttiva, e perciò da chiamarsi meglio con
tal nome, onde escludere 1' idea di flogosi genuina
inlesa coli' appellazione diflerile.
Avvertenze prognostiche.
Per lo assunto propostomi dovrei passare a par-
lar subilo della cura. Ma permettetemi, che ricordi
alcuni criteri prognostici , che vanno registrandosi
in Conseguenza degli sludi, che continuamente e do-
vunque si fanno oggidì sopra questa malattia. Allo
ingorgo delle glandole cervicali e sottomascellari ,
ed all'albumininia, hanno rapporto i criteri, che amo
di consegnare in questo scritto. Quanto lo ingorgo
delle glandole è maggiore , tanto la difleria è più
grave. Per lo pili questo ingorgo è in ragione di-
retta della estensione delle false membrane, benché
alcuna volta accada il contrario: cioè le false mem-
brane diminuiscono , e lo ingorgo glandolare resta
154
stazionario fino a che non migliori lo stato generale.
Quindi il prognostico deve fondarsi più sul detto in-
gorgo glandolare, che sulla estensione della eruzione
difterica. L' albuminuria , che spesso si offre nella
difteria, specialmente quando l'eruzione ò molto este-
sa, ci dà un criterio di maggiore o minor durata,
secondo che è più o meno abbondante e persistente.
Poco vale per predire la morte, ma sempre indica
che la malattia ha attaccato profondamente l'orga-
nismo: e in caso di guarigione fa prevedere la pa-
ralisi generale consecutiva , la quale per altro può
aver luogo senza preesistita albuminuria. Quanto agli
altri segni prognostici se ne ha in ogni trattato pra-
tico sulla difteria.
PROPOSIZIONE TERZA
Cura.
Eccoci alla parte veramente spinosa, su cui tutta
pesa r importanza del medico pratico, ed a cui prin-
cipalmente pretendono con ragione i malati, lo non
mi dilungherò molto in essa, perchè se mi dessi a
riportare i metodi proposti, ed i rimedi usati, non
offrirei che un utile storico sulla terapeutica di que-
sta malattia, lasciando dubbiose le menti nella scelta
di quei farmachi conducenti allo scopo.
Più o meno ognuno istituì un metodo di cura,
confoime al concetto che si era formato sulla na-
tura della malattia- Quindi finché prevalse l' idea ,
che le angine difteriche non fossero che infiamma-
zioni genuine, alle deplezioni sanguigne generali e
155
locali , ai rimedi minorativi , ai deprimenti , ed ai
derivativi, si affidava quasi per intero la cura, non
omettendo collutori e detersivi nelle località. Quando
poi subentrò V epoca della infiammazione specifica
s'insistè ancora per alcun tempo, e piiì o meno ge-
nerosamente, nelle emissioni di sangue; ma ricono-
sciutane la inefficacia, o a dir meglio, il danno quasi
costante, ognuno surse a proporre rimedi specifici.
Quel rimedio però che era accreditato dagli uni con
clinici risultati, con eguali argomenti veniva da altri
respinto. E qui si può dire davvero, che non vi fu
rimedio proposto, che non vantasse i suoi trionfi, e
non toccasse le sue sconfitte. Uno però ve ne ha,
il più antico di tutti, che è stato meno contrariato:
voglio dire, l'emetico. Vi è stata dissenzione nel pre-
ferire questo 0 quello , nel volere affidare tutta la
cura agli emetici , o chiamarli come ausiliari : ma
tutti han riconosciuto in essi un potentissimo soc-
corso, accanto all'emetico, i più accreditati in ogni
epoca sono stati i caustici applicati localmente allo
scopo di limitare, distruggere, o procurare il distacco
delle false membrane.
In mezzo al caos di terapia, vi confesso, che io
muovo trepidante ad indicar quella, che mi sembra
da prescegliersi, e specialmente oggi che si torna a
proporre alcun rimedio come specifico, ed altro co-
me più di tutti conducente allo scopo, e che io non
sperimentai, non perchè mi sia mancata occasione,
ma perchè me ne mancò il coraggio, per non essere
ancora clinicamente da altri confermata la loro ef-
ficacia preponderante su quelli che fin qui han dato
migliori risultamenti. Il percloniro di ferro liquido
156
e Vacqua bromata sono i due rimedi , che oggi si
preconizzano. L'uno e l'altro han sostenitori, e al-
ì'uno o all'altro si vuole esclusivamente affidata l'in-
tera cura. Jodin, coerente alla sua teoria, amministra
localmente soltanto il percloruro di ferro come pa-
rassiticida, e per esso è infallibile. « Le succés a ré-
pondu , dice egli , d unire attènte , et jamais , nou<i
pouvons le dire hardiment, il noits a manqiié de pa-
role dans les cas nombreux ou nous Vavons applique ».
Altri poi, e specialmente 1' inglese Heslop, lo danno
internamente : perchè riconoscendo la necessità di
una cura tonica fin dal principio, nel percloruro di
ferro trovano il potente rimedio atto ad un tempo
ad impedire quella dissoluzione umorale , che essi
vedono nella difteria lasciata a se stessa. Ai caustici
commettono la cura della località. Ozanam sostiene
per uso interno l'acqua bromata, ed il bromuro di
potassio, come quelli che sopra tutti i rimedi pos-
seggono, dice egli, la proprietà fluidificante o disgre-
gante le false membrane.
Accennati questi due rimedi, come i più recen-
temente proposti, e perchè ognuno all'opportunità
possa averli a calcolo, passo a indicare il metodo di
cura, che dalla esperienza de'sommi pratici ha ri-
portato la più estesa sanzione , e che più ci sembra
collimare al concetto , che ci siamo formato della
malattia, semplicizzandolo però e formulandolo con
quell'ordine, che più ci corrispose nei casi che avem-
mo a trattare. Come in ogni altra malattia diatesica
ed eruttiva può verificarsi 1' indicazione del salasso
generale o locale; ma tanto raramente, io credo, che
sia da ritenersi per eccezione l'opportunità della san-
157
guigna; e se presentasi, sarà quasi sempre pel sa-
lasso locale. Per regola quindi panni si debba esclu-
dere ogni sottrazione sanguigna. L'emetico conviene
quasi sempre, e giova più, a mio credere, dato in
principio, che in qualunque altro periodo, perchè
agisce allora come alterante; e sotto questo rispetto
lo vediamo pur sempre vantaggioso in tutte le ma-
lattie eruttive nel periodo dell' invasione. Potrà con-
venire anche in seguito, e più volte, per favorire
l'espulsione delle false membrane ostruenti la tra-
chea, o la laringe: ma soltanto allora, che per questi
prodotti morbosi si veda imminente un accesso di
solfocazione. Per la virtù sua alterante sopra gli altri
emetici mi sembra preferibile il tartaro stibiato nel
primo periodo , potendo in seguito esser surrogato
dalla ipecacuana, dal solfato di rame etc. allo scopo
di eccitare il vomito che si vuole. Attaccata così al
suo primo manifestarsi là difteria sia faringea, sia
laringea, è necessario passar subito all'amministra-
zione interna del calomelano a dose alterante, e per
es. uno 0 due grani ogni ora , da continuarsi con
costanza fino al decrescer della febbre, e della eru-
zione difterica. Alternativamente giova somministrare
Ire o quattro grani di allume ogni ora egualmente,
che sembra agir più sulla località pel suo contatto
di passaggio, che per altra ragione, se non vuoi che
possegga una virtù correggente l'azione del calome-
lano stesso sulla massa sanguigna. Per facilitare la
propinazione di questi rimedi nei bambini, restii per
lo più ad ogni medicamento, soccorre mirabilmente
l'associarli al miele semplice, facendo le debite pro-
porzioni , perchè in un cucchiaio da caffè possa il
158
piccolo malato ingoiare le dosi indicate sì del ca-
lomelano, e sì dell'allume. Nello incominciar questo
trattamento, che trovo registrato in Barthez e Ril-
liet , (già usato da Miquel , e da altri prima di
lui, però separatatnente e senza lo alternar dello al-
lume) ove l'eruzione difterica sia alle fauci, acces-
sibile insomma alla vista ed alla mano, non si dee
perdere un momento di tempo a praticare delle cau-
terizzazioni o col nitrato di argento solido o sciolto,
che è preferibile , o coll'acido cloroidrico concen-
trato 0 diluito, lo considero le cauterizzazioni ne-
cessarie non già perchè bastino a vincer la malattia,
ma perchè molto valgono a modificare la superficie
dell'eruzione, e della località che è invasa dì pre-
ferenza, ed a sollecitar il distacco e la caduta delle
false membrane, che talvolta per la loro presenza
soltanto danno alla difteria quella gravezza, che non
ha per se. Non credo peraltro che le cauterizzazioni
debbano essere così ravvicinate, come da alcuni si
prescrivono: sono esse soccorsi potenti, ma ausiliari,
e non valgono a trionfar della malattia finché l'or-
ganismo non abbia risentito i salutari effetti dei ri-
medi generali. La troppo spessa ripetizione non po-
trebbe forse indurre che danni locali, feraci spesso
di funeste conseguenze. Quando incomincia a de-
crescer la febbre e la eruzione ho io trovato van-
taggioso unire al calomelano l'estratto di china, quin-
di man mano cessare il preparato mercuriale, e tutto
affidare ai tonici, come rosolio di china, acqua vi-
nata, e particolarmente al siroppo di china e per-
cloruro di ferro. Tra i preparati di ferro il perclo-
ruro agisce a meraviglia. Sembra in realtà, che in
159
siffatta malattia abbia un'azione potente sul princi-
pio difterico: ma quando sia stato già domato dal
calomelano. Alcuni, come ricordammo, vorrebbero
al percloruro usato internamente commettere tutta
la cura. I fatti non autorizzano ancora pel suo uso
esclusivo : lo dichiarano solo potente ausiliare. La
dieta rigorosa nel primo, secondo, od anche terzo
giorno deve poi ordinariamente proscriversi, accor-
dando ai malati brodi e minestre nutrienti più volte
nella giornata; quindi anche sostanze solide possono
accordarsi , ma di facile digestione. Dei vari casi
di difteria, che io ebbi a curare fino ad oggi, ad ec-
cezione di uno, furono tutti gli altri sottoposti al
trattamento indicato, e guarirono: quell'uno, e fu il
primo, ai rimedi locali, agli emetici, ed al clorato
di potassa, che pure menò altissimo vanto, venne
affidata la cura, e morì al settimo giorno, come stran-
golato, perchè dalle fauci l'eruzione si estese copio-
samente alla laringe. Fu questi Tommaso Biagioli
di anni 6, in via del Gambaro n. 19. La paralisi gra-
vissima svoltasi in Rodolfo Bartoli , temo doverla
all'aver troppo ritardato l'uso dei tonici indicati. Di-
fatti nella bambina a Tor de' Specchi, ed in quella
alle Botteghe oscure, segni non equivoci di paralisi
ai muscoli laringei, faringei, ed al velo del palato
si presentarono, ma ebbero corta durata, e scom-
parvero del tutto. Il trattamento tonico e nutriente
dee pertanto attuarsi con molta sollecitudine ed av-
vedutezza. Al quarto, quinto, o sesto giorno, secondo
la gravezza del male e la violenza della febbre, se
ne presenta per lo più la indicazione- Questo tratta-
mento tonico e riparatore è reclamato, secondo me,
160
da alcune conseguenze, che quasi sempre e mollo
rapidamente si vedono tener dietro alla difteria: sono
esse il dimagramento e l'anemia. Alcuni vorrebbero
questi effetti attribuire all'azione del calomelano: ma
per due ragioni potissime io inclino meglio a con-
siderarli propri della natura della malattia. La prima
è, che il calomelano non possiede proprietà siffatte,
0 alnjeno non sì prontamente sensibili, ed in sì pic-
cola dose. La seconda, che gli stessi effetti hanno
avuto luogo in tanti casi di difteria , nei quali il
mercurio dolce mai non fece parte del trattamento
curativo. L'albuminuria, che molto spesso si mani-
festa durante il corso del male, le paralisi consecu-
tive, ci guidano a riconoscere altrove la causa di esse
conseguenze , ed in specie se pongasi mente , che
l'anemia ed il dimagramento sono quasi sempre in
ragion diretta della albuminuria medesima. Quanto
al calomelano, non avrei del resto che a dichiararlo
come il pili utile di tutti i rimedi proposti fin qui
per la cura della difteria, ed esente in essa da quelli
inconvenienti, che suole ordinariamente offrire usato
in altre malattie.
Per la tenerissima età , e qualche volta invin-
cibile indocilità dello infermo, si è in condizione di
non potere attuare il trattamento curativo accennato.
Per non restare inoperosi si procuri d'introdurre il
rimedio, il calomelano specialmente, sotto forma di
pomata per mezzo di frizioni praticate ripetutamente
alle parti laterali del collo, ed alle parti interne delle
cosce. Qualche volta può sostituirsi anche l'unguento
napolitano, o la pomata mercuriale. Se riesce, non
è da o«nettere la propina/Jone del medicamento na-
161
sooiiderlo nel latte, o nella minestra. Anche per cli-
stere è necessaiio iniettarlo, affinchè dai tanti modi
vari di propinazione possa risultarne un più sicuro
e sollecito assorhimento.
Mi sembra aver così soddisfatto alle indicazioni
principali, ed ordinariamente per se sole conducevoli
alla cura di si terribile malattia , scevra però da
qualunque altra complicanza: possono poi aver luogo
senapizzazioni parziali o generali, frizioni secche od
umide al dorso ed alle estremità, antispasmodici etc.
secondo le varie emergenze , e per le quali ha il
medico pratico ben donde attingere la regola di con-
dotta. Quanto a tanti altri rimedi preconizzati, noi
attendiamo per preferirli , come dicono Barthez e
Rilliet, che l'esperienza ne abbia dimostrato l'effica-
cia sopra quelli che accennammo.
Ora è duopo parlare della indicazione di un soc-
corso speciale per una forma particolare, che talvolta
assume la difteria , voglio dire della tracheotomia
nella difteria laringea , o crup propriamente detto.
Quanto pel passalo, ma sopra tutto ai dì nostri, e
specialmente in Francia si sia scritto e parlato a
favore e contro la tracheototnia nel crup, è noto ad
ognun di voi, e tutti sapete che nessuno dei dispu-
tanti ha vinto, nessuno ha perduto. Ognuno ha le sta-
tistiche in appoggio, e la propria esperienza. Io non
ho quest'ultima abbastanza estesa su tale malattia,
onde sorgere a fondata discussione; ma convinto per
le altrui e mie osservazioni che la difteria laringea è
morbo diatesico, penso che la tracheotomia debba,
contro il voler di moltissimi smaniosi solo di opera-
re , rarissimamente praticarsi. Non sono certo in-
G.A.T.CLXV. 11
162
frequenti i casi, nei quali, riuscito inutile ogni trat-
tamento curativo, il malato e sul punto di soccom-
bere di asfissia. Allora piuttosto che abbandonarlo
a morte sicura, io credo che si debba operare. Bar-
ihe/., il più competente per me in siffatta quistione,
sorge adesso (1) fra i dibattimenti per tentare di for-
nire una norma alla indicazione della tracheotomia,
tirandola dall'attenta e coscienziosa osservazione
delle epidemie di difteria regnate a Parigi negli
anni 1856, 57, 58. 59. Dopo avere esposte tante
distinzioni di forma e di grado (ritenendo pur sem-
pre in tutte r identità di natura), dopo aver sugge-
rito alcuni criteri, si esprime cori: « En presence
» d'un enfant qui offre les symptomes du croup sans
)) intoxication apparente, il emporie peu, pour dé-
)) cider l'opération, que l'on croie à 1' idénlité ou à
)) la difference de nature du croup semple , et du
» croup séptique. L' indicalion ne varie pas: si l'en-
» fant s'asphyxie, il faut opérer ». Sì, allora soltanto
bisogna operare. Si dica pure, che i tristi effetti della
tracheotomia derivino appunto dal farvisi troppo tar-
di ricorso. Abbiamo troppi fatti di vittime certe suc-
cedute a questa operazione praticata per tempissimo,
come ne abbiamo numerosissimi di guarigioni giu-
dicate impossibili senza la tracheotomia, che rispon-
dono ad ogni accusa ed obbiezione, u Due bambini,
dice il succitato Barthez, erano stati condotti sulla
tavola dell'operazione; ma non vedendo perduta ogni
speranza di risparmiar loro i pericoli del trattamento
chirurgico, furono riportati al loro letto, e guari-
rono )). Oh ! quanto è difficile giudicare sulla op-
fl) Gazeltehcbdomadaire. -Decembre 1859. N.' 48.49.50.
163
porlunità della tracheotomia ! Più volte avvenne di
operare per dare all'aria quel necessario passaggio,
che si credeva impedito nella laringe dalla presenza
delle false membrane fino quasi a completa occlu-
sione, e poi o ve se ne trovarono appena le tracce,
o erano talmente limitate da porgere all'aria baste-
vole ingresso. Talora si suscita sotto l'azione del ve-
leno difterico una contrazione sì forte dei muscoli
della laringe da far credere senza dubitazione, che
gli accessi di soffocamento, e le minacce di asfissia
dipendano dalle ftilse membrane. Sommi pratici la-
mentano di essere caduti in simili errori. Per queste
ragioni dunque, e per i grandissimi pericoli che di
natura sua trae seco la tracheotomia , a me pare,
che debba essa chiamarsi in soccorso allora solo, che
nessun'altra speranza resti per salvare il malato.
Per la cura dell'anemia, e delle paralisi generale
o parziale, che sogliono spesso conseguire la difteria
qualunque forma abbia essa presentato, non si ha
che da insistere nei rimedi tonici : per lo più gli
acccennati conducono la guarigione, o non abbiso-
gnano che degli affini, e di qualche bagno solfureo.
Per la paralisia difterica si preconizzano mollo i ba-
gni di mare, quando la stagione lo permetta : ef-
ficaci sommamente si dicono il solfato di stricnina
sotto forma di sciroppo, e la elettricità applicata in
alcuni, o in molti punti del corpo. Per la paralisi
specialmente del velo palatino la elettricità si con^
sidera come il più potente rimedio (l). Sulla ali-
fi) Vedi Maingault - De la paralysie diphthérique - Pa-
ris 1860.
164
mentazione poi è d' uopo porre mente assai. Nella
paralisi dei muscoli faringei i cibi possono con fa-
cilità deviare, e cadere nella laringe, nella trachea
fino ai bronchi. Ne abbiamo esempi molti. Sarà per-
tanto necessario, che il vitto sia nutriente sì, ma
il più possibilmente di sostanze liquide , o mollo
sciolte: e non già perchè queste non possano, come
le solide, deviare, ma perchè cadute nelle vie aeree
possono più facilmente essere estratte o capovol-
gendo lo infermo , o cogli emetici , o colla sonda
esofagea. Anzi quando la paralisi fosse grave, non
esiterei di praticare l'alimentazione colla sonda me-
desima, la quale mentre ci rassicura dai pericoli ac-
cennati, è poi tollerata benissimo, come ne attestano
medici autorevoli , e come è da credere pel fatto
stesso della paralisi.
PROPOSIZIONE QUARTA
Havvi una profilassi ?
Come per tutte le malattie contagiose, così per
la difteria, sarebbe da ricercaisi una profilassi. 1 mezzi
igienici di evitar l'umidità ed il freddo, e di allon-
tanarsi dall' influenza epidemica, giovano molto, ma
non bastano ad impedir lo svolgimento della difteria.
S'intrapresero pertanto degli studi al fine di trovare un
rimedio atto a prevenir la malattia, ma non vi si riu-
scì. Havvi oggi chi ripredne studi così necessari. Oza-
nam sostenuto da Devasse propone, e dichiara per
efficacissimo preservativo il bromo lasciato evaporare
nelle case o stabilimenti ove si svolgono malattie
165
difteriche, od anche dato internamente con le cautele
necessarie. Vi ha chi consiglia e sostiene efficace l'uso
interno de' sali alcalini, come il bicarbonato, il bo-
ralo di soda etc. Questi ed altii mezzi si vanno de-
cantando: ma fa d'uopo di una più lunga esperienza,
per escludere od ammettere gli annunciati vantaggi,
essendo la difteria un morbo sotto ogni aspetto ter-
ribile. Il prof. Manassei usò del bromo come mezzo
curativo e profilattico, ma senza vantaggio- Altri pure
connazionali e di oltre monte si accordano a negare
la virtù preservativa dei bromo, e de' sali alcalini.
Disgraziatamente dunque fino ai giorni nostri, come
per le altre malattie contagiose, così non si conosce
per la difteria mezzo preservativo. Quello proposto
da Carnevale nel « cede cito, longitiquus abi, serus-
qiie reverle » è bellissimo, spesso forse efficace, ma
non è quello che si cerca , perchè non applicabile
che a pochi, e talvolta in questi pure inutile: che il
veleno difterico circolava già nell'organismo, quando
si pensò a fuggire. Tentiamo dunque ancora mezzi
applicabili a tutti. L'amore del bene, ed i doveri su-
premi dei cultori della medicina impongono di non
abbandonar 1' impresa, e di non darsi mai per vinti
innanzi a tutti i rovesci. Io mi propongo di sperimen-
tar per uso interno il percloruro di ferro , che se
non vale a vincere la malattia dichiarala, come dissi,
per il cloro che contiene (antisettico più reputato)
e per la virtù sua tonica ed attiva sul sangue, penso
che posssa neutralizzare il veleno difterico al suo pri-
mo introdursi nell'organismo. Conosco che colla sola
pratica privata poco può farsi, e che sarebbero ne-
cessari spedali speciali per i fanciulli; ma nella man-
166
canza di mezzi migliori, non sarò condannato, spero,
se tenterò approfittare di quelli pochi che la mia po-
sizione mi presenta. E poiché tutto il mondo me-
dico si occupa oggi con calore dello studio di que-
sta malattia, io mi propongo di tener conto di tutte
le mie osservazioni passate e consecutive rischiaran-
dole al lume delle osservazioni e dei giudizi , che
altri potranno offrir per le stampe, disposto presen-
tarle sempre all'attenzione vostra, o signori, che tanto
benigna me l'avete per questa prima volta prestata,
di che rendo le grazie che io so maggiori.
167
Di alcune leggi pontifìcie prodrome alla gregoriana
Quae publice utilia e di alcuni traili di questa -
Discorso che nella pontifìcia accademia tiberina leg-
gevasi il 21 del novembre 1859.
c
he questa alma città, accadeaiici prestantissimi,
uditori umanissimi, che questa alma città debba in
gian parte la bellezza, la maestà, il decoro di cui
va superba, ripetere dal valore delle pontifìcie leggi,
che intorno all'ornato pubblico dai sovrani gerarchi
si pubblicarono, è tal fatto, che a me porse argo-
mento di intrattenere per ben due volte in questo
onorevole consesso la vostra illuminala e benevola
attenzione. E allora vi dimostrai in qual conto si
dovessero tenere siffatte leggi, le quali per variati
modi cozzando più indirettamente che direttamente
colla barbarie ed ignoranza dei tempi, dallo squal-
lore e dal lezzo traevano la nostra Roma allo splen-
dore, al lustro, alla magnificenza, alla gloria. Quindi
è che la storia ha segnato con indelebili aurei ca-
ratteri i nomi di un Sisto IV, di un Pio IV, di un
Gregorio XIIJ, e sapienti legislatori li ha chiamati.
Desci'ivendovi poi il materiale stato, di cui faceva mo-
stra di se questa inclita città quando sul trono di Pie-
tro il primo dei ricordati pontefici ascendeva, io vi
sposi lo spettacolo talmente brutto e lagrimevole of-
ferto da Roma, e vi dissi che umana mente non avreb-
be potuto dipingerselo più deforme anche in un ec-
168
cesso di commossa ed elevata fantasia. Salutai perciò
quale avventura lieta quella, che slancio d'ingegno,
sagacità dì consiglio, svegliatezza di mente, pensiero
creatore foce rinvenire con tanto bella e squisita
concoidanza in Sisto riuniti. Di tal maniera poteva
egli pel primo abbattere il baluardo, che le spessis-
sis>-<ime fiate, e quasi per massima, la pubblica com-
modilà alla privata faceva posporre, ed apriva va-
lorosamente un nuovo campo alla romana giuris-
prudenza introducendo un diritto per lo innanzi sco-
nosciuto, che nel suo duplice rapporto (jins di prela-
zione e gius di relrallo oi'a si appella. A ragione per-
tanto io dissi felice e fortunato doversi per Roma
ap[)ellare il millesimo quattiocentesimo ottantesimo
anno della volgare èra. Conciosiacosachò da que-
sto un' epoca veramente fortunata pel materiale
stato di essa città ebbe a derivarne. Difalti non in-
tesi io ciò dimostrarvi allora quando e sulla gre-
goriana costituzione - Quac pubiice nliìia - in so-
lenne ragunanza vi discorreva, e allor ([uando delle
altre pontificie costituzioni, prodroirie a quella gre-
goriana, in ordinaria tornata vi ragionava ?
Quantunque però abbia sì a lungo di queste leggi
parlato, accademici prestantissimi, sento tuttavia il
bisogno di tornare, in un senso quasi di appendice,
sugli stessi argomenti. La brevità del tempo con-
cessa a chi ha l'onore di intrattenere la vostra at-
tenzione in questo consesso, mi contrinse contro vo-
glia a sfiorar solo alcuni punti, che reclamavano un
più lungo svolgimento. Pertanto come nelle passate
letture, così in questa non mi defraudale la cortese
vostra attenzione , che avendomi sempremai con-
169
fortfito, variaiiimi ora eziandio che sono a completare
una materia riguardante sì da vicino il decoro ed
il comodo di questa nostra dilettissima patria-
Entrando dunque in argomento mi fa duopo ri-
chiamarvi alla memoria quanto altra volta ebbi a
dirvi del IV Pio, il quale, accettando le leggi di
Sisto IV , nel 1565 colla sua costituzione - Inter
muUiplices - migliorava di tal modo la nascente le-
gislazione Sistina, che quasi all'apice della perfezione
mirabilmente la conduceva. Rammenterete altresì
che nel 1571 per speciali ragioni, alcuna delle quali
facevami a congetturare, altre poi a chiaramente de-
finire , l'encomiate pontificie sanzioni in un tratto
rimanessero del tutto cancellate. Il privalo comodo,
che per effetto d' insana cupidigia mai sempre da
taluni si vorrebbe al bene publico anteposto, avendo
dipinte le disposizioni sistine e piane come leggi stra-
namente eccezionali, come leggi quasi iniquamente
correttorie del comune diritto , e per conseguenza
come leggi di una odiosità senza [)ari e agli altrui
diritti indistintamente offensive , arrivò a vederle
abolite. Siffatta conversione d' idee avrebbe senza
fililo recato estremo danno a questa inclita città se
nel 1574-, tie anni appena dopo la loro abolizione,
non le avesse novellamente tornale a far vivere l'im-
mortale XIII Gregorio. Or poiché questa legge è tut-
tavia in vigore, e tuttora quotidianamente nel foro
s' invoca, pi-ova luculentissima ne discende, che sa-
vie, giuste, conformi ai canoni del buono e comune
senso fossero i concetti, che informarono le menti
e di Sisto e di Pio.
170
Premesse quesle cose io comincerò col difen-
dere da un obietto la gregoriana costituzione, alla
quale si fa carico del perchè non estendesse il gius
di retratto a quei fondi, i quali divisamente da pili
condomini si possedessero. Noi di continuo scorgia-
mo brutture in alcuni edifici, che per vero dire muo-
vono a stomaco. Vedrai Ire quarti della esterna orto-
grafia di una casa ridotta a pulitezza ed eleganza,
mentre la rimanente ti si offre squallida, sudicia, e de-
turpante il pubblico ornato. E perchè, si ascolta ripe-
tere, non si estese il gius di retratto anche nel con-
dominio fra condomini ? Non è egli questo un vuoto,
una laguna, da non mandarla buona ai legislatori?
Però è da rispondere, che allorquando le suac-
cennate leggi pubblicavansi V idea del condominio
era eliminata del tutto, perchè gli edifìci si com-
ponevano in modo da porgere ricetto ad una sola
famiglia. Poteva darsi bensì condominio prò indiviso,
non già condominio nel senso odierno. Che se pure
alcuno fossevene stato, la singolarità del caso non
potea né dovea richiamare l'attenzione del pubbli-
cante la legge. I legislatori adunque si riportarono
a ciò che esisteva , non a ciò che avrebbe potuto
esistere. Provvidi adunque furono eglino nell'argo-
mento che trattavano, lasciando che altri introdu-
cesse quelle modificazioni, che le variate circostanze
de' tempi avrebbero potuto un dì richiedere e recla-
mare.
Altri poi sorgono a dire esasperante la condi-
zione, che il fondo retraendo dovesse innalzarsi nel
suo prezzo di un quinto o di un dodicesimo sopra
la stima.
171
Confesso che al primo aspetto tale obbiezione ha
qualche apparenza di verità. Ma riportiamoci, o si-
gnori, ai tempi in cui queste leggi furono emanate.
I mezzi onde rinvestire una soiìima non erano al-
lora sì facili ed agevoli come lo sono oggidì. Difet-
tavano in gran parte i pubblici fondi, né era ancor
sorto un Sisto V, che proludendo alle consolidate
rendite, gli avesse sì largamente estesi. Il denaro,
che il retrallario andava a percepire, poteva forse
non breve spazio di tempo rimanere ozioso nel suo
scrigno. La difficoltà dunque dei rinvestinienti som-
ministrava fondato argomento onde mentre si prov-
vedeva ad agevolare pel pubblico decoro la via ai
retraenti, men difficile si rendesse il modo ai re-
trattari a fine di rinvestire le somme retratte.
Certamente la gregoriana costituzione ancora vi-
gente non abbisogna piiì in questo lato delle di-
sposizioni , che allora dettavano gli accennati au-
menti. I mezzi onde impiegare una somma sono og-
gidì siffattamente pronti e spediti , che nulla più.
Che anzi non v' ha nelle varie anonime società e
pubbliche rendite opportunità , in cui non possa
trarsi anche un frutto superiore al ventesimo della
sorte. Aggiungi ancora, che il valore dei fondi ur-
bani avendo da molti lustri subito un gigantesco
incremento di valore, quale sta progredendo, a so-
miglianza della caduta dei gravi , con andamento
uniformemente accelerato, va a frapporre non lieve
ostacolo all'esercizio del retratto , ed una mora fa
sorgere contro quel successivo progresso, che il de-
coro e l'ornato della città richiederebbe.
172
Tuttavia alcuni dimandano : E perchè mai il
gius di letratto si volle ristretto a favore del vicino?
Perchè non renderlo esercibile a chiunque sopra
le fabbriche di umile architettura, e vieppiù sopra
le aree libere a fabbricarvi ?
A rispondere adequatamente a queste obbiezioni
torniamo, o signori, ai tempi nei quali vennero pub-
blicate le leggi di cui discorriamo, e fermiamoci
per un momento anche sopra l'indole, che deve as-
sociarsi a quelle stesse leggi.
Una nuova legge, la quale prende di fronte le
private comodità , e che queste pone in assoluto
non cale, deve essere accompagnata con tali saggi
temperamenti da non renderla molesta in modo da
reclamar tosto la sua cancellazione. Gli uomini deg-
giono essere riguardati non dal lato di ciò che do-
vrebbero essere, ma dal lato delle loro passioni in
quel verso che sono: per il che han mestieri, che
a passo a passo, e quasi insensibilmente, si vadano
assuefacendo a quelle disposizioni, che dirette sono
a contrariare le private comodità, e a far campeg-
giare i pubblici vantaggi. Era dunque un bisogno
che il novello gius procedesse con lentezza, e che
in vari tratti dissiti di tempo avesse successivi in-
crementi.
Di fatti la Sistina costituzione - Elsi de cuncta-
riim - resti'ingeva il coattivo e prelativo retratto
sopra la casa non abitata dal proprietario ,. solita
però a locarsi, ed accordava il gius di prelazione alla
casa del vicino sui luoghi non fabbricati. Ma la piana
- Inter mnltiplices - che dalla Sistina dista di 17
lustri, allargava le disposizioni di quella anche sulle
173
case non solite a locarsi, solile tuttavia ad essoie
abitate dal loro proprietario, ampliando l'esercizio del
coattivo retratto allorché irattavasi di costruire un
palazzo od un edificio di qualche importanza. Venne
dopo il lasso di vari anni la costituzione greso-
riana - Qnae piiblice ulilia. - ed esleso viepiù l'eser--
cizio del retratto accordandolo al vicino sopia il
fondo contermine, non ammettendo veruna altra di-
stinzione tranne quella dell'aumento del quinto se
la casa era abitata dal proprietario, del dodicesimo
se da lui data in affìtto. Ugualmente dicasi del gius
di prelazione.
Vedete adunque, o signori, con quale magistero
di arte, e con quale saviezza di accorgimento si fa-
cessero in uno spazio di poco minore ad un secolo
condurre ad uno stato di perfezione siffatte leggi,
a quella perfezione dico , che potevano nel 1574
sostenere.
Venendo ora alla parte storica, avvegnaché i co-
stunu sono la base fondamentale delle leggi, egli è
da conoscere quali fossero le circostanze che si as-
sociavano alle pubblicazioni di quelle leggi. Da sif-
fatte circostanze chiaramente apparirà perchè il gius
retrattivo e prelativo si restringesse nel suo eser-
cizio esclusivamente nel vicino sul fondo contermine.
Ai tempi del IV Sisto le case si presentavano
in tal guisa, che alla loro fronte si scorgevano ap-
plicate delle scale e loggiati , che proselli appella-
vano : inoltre eranvi dei portici che appoggiavansi
agli edifici. Gli uni e gli altri imbarazzavano per modo
le pubbliche vie da non dare simultaneo accesso
a due cavalieri , i quali per caso vi si incontras-
174
sero. Quel pontefice con un suo editto ordinò la de-
molizione dei proselli e dei portici , onde provve-
dere al comodo passaggio nelle vie. Fu allora me-
stieri che le scale si costruissero internamente ne-
gli edifici. Ma die avvenne ? Le case di angusta ca-
pienza non furono piià in grado di accogliere o as-
solutamente 0 convenientemente i loro abitatori, e le
officine, che ai portici si associavano integralmente,
ebbero pure ad incontrare uguale sorte. I proprie-
tari che vi dimoravano vedendosi o spossessali o
quasi spossessati dell'uso delle loro abitazioni, rese
inutili o di uso diffìcile, ebbero altamente a recla-
mare. Quindi fu veduto nascere il gius di retralto e
di prelazione. E poiché la causa autrice della Sistina
costituzione restringeva suoi eff'elti al bisogno di quel
tempo, né più copiosamente facevasi a laigheggiare
pel pubblico ornato, quindi fu che nel volgere di un
secolo, andandosi pian piano a scemare la ragione
di quel primo adottato temperamento, le successive
leggi si studiarono di ampliare via piiì l'uno e l'al-
tro esercizio, quale al certo non si volle più larga-
mente protrarre per i motivi, che superiormente io
allegava.
Di questa disposizione però che cosa mai dovrà
pensarsi a' nostri di, nei quali quasi per tre secoli
distiamo dalla pubblicazione della costituzione gre-
goriana ? A me pare bene che quella legge meritar
dovesse una ulteriore estensione. Avvegnaché se lo
stalo della città confrontato con le condizioni, che
nelle loro prolusioni ci offrono le precitate costitu-
zioni, e coH'esame delle mappe topografiche, potè ot-
tenere un miglioramento sempre progressivo, mi è
175
avviso che all' incremento dell'ornato e del pubblico
decoro meglio provederebbesi qualora una mano be-
nefica si facesse ad acconciare la gregoriana legge
ai bisogni, alle circostanze, alle abitudini de' nostri
tempi. Ma lasciando di spaziare su tale argomento,
a me sia bastevole lo averne fatto un cenno appena.
Del resto, collegando questo mio discorso cogli
altri che in quest'aula io ebbi l'onore di recitarvi ,
sembrami di avere con quello studio , che le mie
forze comportano , vieppiiì addimostrato quale e
quanta sia mai stala la saggezza di queste leggi
ampliative del comune diritto, e quanto mai questa
nostra città vada debitrice ai sovrani pontefici , i
quali coir averla riscossa dalla inerzia , alla quale
per la prevalenza delle idee barbariche erasi lasciala
abbandonare, la trassei'o con sapienza ed avveduta
costanza a quel lustro, che vieppiù crescendo di età
in età pose il suo materiale stato in accordo della
sua fama, e degli immortali destini, cui la divina
provvidenza pel massimo pontificato avea stabilito
di sublimarla.
Carlo Bop.gnana.
Ì76
Della vita e delle opere di Viìicenzo da Filicaia, Di-
scorso, del P. D. Emilio Arisio C. R. Somasco pro-
fessore di belle lettere nel nobile collegio demen-
tino , letto nella pontificia accademia tiberina il
cf^ 14 maggio 1860.
I
nomi di belle, di gentili, di amene che si dà alle
lettere sono tanto ricevuti presso tutti, che quasi sa
di vanità attribuirli, come chi dicesse lucente il sole,
candida la neve e sitnili che cantano insino ai fan-
ciulli. E sta bene: perchè dopo la virtù sono cose
fra le bolle bellissime, e fanno onore e piacere, de-
gne insomma ad ogni uomo d' intelletto di coltivare,
ad ogni onesto di ammettere in se, o certo di pre-
giare in altrui. Ma altri non le piglierebbe bene se
per tali qualità di stillata dolcezza che loio si danno
se le tìngesse conie dire un'arte di confettare con-
cetti piacevoli e lieti a esercizio d' ingegno, a sol-
lazzo di noia. Dove esse sono cosa intrinseca e pro-
fonda; e come l'animo si porta per un tal suo impeto
naturale, o per abito, verso le cose, o torna a certe
sue idee ribadite e care, cosi gli è forza che egli
si mostri ; e da questi impronti prende poi 1' elo-
quenza il suo colore , i lineamenti , la vita , e sì
stabilisce l'opinione di noi nelle menti degli uomini,
onde a premio o pena ne seguita la fama. Però
quanti hanno la vera e propria cognizione delle let-
tere, 0 ne fanno professione, debbono curare di due
cose. La prima che le abbiano in se bontà; al che
177
si appartiene furie insegnatrici di religione, di virtù,
di degne osservanze, in breve d'ogni cosa che con-
tenga pregio di utile e di onestà ; indi me le fac-
ciano fiorire di nerbo, di buon sangue, di sano co-
lore, infine di quella freschezza di cui non manca
la natura chi parli quel che amore spira. Le quali
due cose poniamo che la mente abbia virtù di di-
videre così in astratto, tuttavia convengono tutte due
in una solida e perfetta, così come anima e corpo
ti danno tutto 1' uomo. Certamente le lettere sono
ordinate a fare qualche buon frutto, e la bellezza,
secondo quei che discorrono sottilmente di queste
cose, è il pro|)rio splendore della bontà che è l'ani-
ma loro, la quale se tu togli, quel belletto e la vile
speciosità è mera malìa che le fa piiì scellerate e
laide. Ma io, mentre mi stimola zelo delle sane let-
tere, son divagato forse troppo; ora calo al mio te-
ma, ove se non mi verran dette cose nuove, e voi
fate conto eh' io neppure mi proponessi dover dirne.
lo intendo mostrare quali istituti si convenga
tenere, quali propositi seguire chi voglia ben usar^
di questa facoltà delle lettere; e perocché per esem-
pio meglio si profitta verso l'evidenza, e nel Fili-
caia mi pareva quella onesta forma rilucere in ge-
nere assai sincera, io fui contento, contando la sua
vita, spiegarla, più per fare utilità agli studiosi che
per aggiunger gloria a chi canta sì bene la sua ra-
gione. Onde all'ultimo questo veramente voglio che
sia ragionamento di uffìzi e di precetti dove in uni-
versale chi è più saggio e valente anche si studia
propor cose più antiche e consentite.
G.A.T.CLXV. 12
178
Vincenzo (h Filicaia nacque l'anno 1642 in Fi-
renze del senatore Braccio e di Caterina Spini pa-
renti l'uno e l'altro di famiglia antica molto, e di
nobiltcà onorata e chiara. E il cielo che non meno
per forte animo, che per utile uso del grande in-
gegno voleva farlo imitabile e famoso, lo cominciò
per tempo formare alle sventure, e gli rapì le amo-
rose sollecitudini della madre, che nel secondo anno
gli morì. Ma Braccio soltentrò con cure materne ,
e geloso che l' indole riposata e arguta insieme del
suo Vincenzo non gli fosse guasta né turbata , gli
si pose attorno per stabilirlo in ogni bontà, e disci-
plinarlo negli utili studi, e nei gentili uffizi del vi-
vere cittadinesco. E già nelle scuole urbane per molte
significazioni di egregie doti e valore, differiva dalla
comune de' compagni: e in quel che guarda ad ap-
plicazione di animo, ed a potenza di memoria am-
pia e sicura, non aveva forse chi gli fosse innanzi.
La quale facoltà io so bene che infine non è di prin-
cipale momento, se altri è di natura tardo, e non
soccorra con vigor d' intelletto, e sottilità di discre-
zione: ma in Vincenzo i germi di queste qualità cre-
scevano ancor essi lieti e fiorenti bene: e la gente
che considerava quelle belle forze con tanta armonia
composte, ne pigliava maraviglia e diletto, e se ne
prometteva grandi cose. Anche gli eguali vedendo-
selo non stare mica sulle competenze, ma attento,
modesto, tirare per la sua via, gli facevano onore,
e volonterosi gli davano luogo.
Adunque con questa disciplina come egli fu ve-
nuto a giusta età ; e guernito di assai buone let-
tere , il senatore Braccio che voleva condurlo in
179
grado , ove gli potesse far passare come in mano
l'autorità e riputazione sua, lo mandò in Pisa per-
chè studiasse in legge. Quivi le virili del nostro si
fecero più fondate e vigorose ; poiché assegnati i
suoi intervalli alla scienza del diritto, prese nel-
l'altro tempo i suoi punti, e reciso ogni vaneggia-
mento, attendeva di fare, come è stile degli ottimi,
d'ogni bel fiore ghirlanda. Ma dapprima quella solle-
cita e tenera pietà, che portava il suo cuore verso
Dio ottimo grandissimo, fu sempre nella più onorata
parte dell'animo suo. Però verso questa santissima
forma modellare i suoi studi ; a queste opere niente
recidere i loro tempi: insomma voglioso e grave
cercare sapienza nel regno suo. Intanto delle let-
tere latine ed italiane voler sapere quel che ne era,
non solo, com'egli avrebbe detto così a mezz'aria:
ma investigare le ultime vene dei concetti e delle
parole, seguendo un tal suo modo di studiare sot-
tile insieme e succoso. Indi allargando l'animo bevve
ogni varietà di erudizione sacra e profana; e per-
chè gli era gran piacere studiar filosofia, volle ac-
coppiare questa minor facoltà alla teologia, alla qua/e
la natura sua stessa, e l'antico senno italiano, mal
ripudiato, l'hanno congiunta. Ma lasciando ad altri
filosofare di questo argomento (che non mancano va-
lenti che il fiicciano, e sappiano ben fare): mi sem-
bra piuttosto sia da rispondere a chi ha questione
colla scienza quasi inopportuno ingombro alla poe-
tica disciplina. Oh ! non è il poeta, si dice, un non
so che volante e tempestoso nato a muovere V im-
maginativa massimamente ? Or che ha egli a divi-
dere con quelle facoltà gravi, assestate, quiete, tutte
volte a prenderti l' intelletto rimossa ogni turbazione
180
di fantasia ? Oh via, vien qua, valentuomo ! hai tu
mai dato mente alla natura ìntima dell'aurea poe-
sia ? non sai tu che essa, cosi bene come ogni altra
arte, è accomodata alla civile felicità, e cerca il vero
e nel vero si quieta ? Che se ella ti finge mostri,
e compone giganti ed altre simili strane fantasie e
novelle, ella adula i tuoi fastidi ; ma ti punge in-
sieme e sollecita, che non li basti la scorza, e miri
alla dottrina che s'asconde
Sotto il velame delli versi strani.
E se tu noi fai , ed essa non ha per sano né
per ben disposto 1' intelletto tuo. Adunque come un
uomo di grande scienza, e buono a faccende, o segga
nell'atto del suo uffìzio, o s' intrattenga in caro cir-
colo di amici è pur sempre egli con quel suo senno,
con quella discrezione; solo altri i modi, le parole,
la cera: così è di questo spirito, al quale s'appar-
tiene informare tutte le muse egualmente, che sono
tutte, direbbe Pindaro, dal petto profondo. Però im-
primili di questo, che il tener maestà nella scienza,
la gravità di quelle sue parole nude, severe, queste
sono aliene da tal genere, non essa che è cosa anzi
grandemente cognata , coadiutrice , necessaria alla
poetica facoltà. Sì certamente: far divulgata e pia-
cevole la sapienza; operarsi che altri impari, massi-
mamente quando men sembra che tu t' impacci di
ammaestrare; in breve tener gli animi del sapiente
e del volgo, questa è cosa che fa onore, e per que-
sto contende, o dovrebbe, chi fa professione di poeta.
Or va poi e tocca a un bel destro dell' onesto , e
181
del suo contrario , spiega le cagioni naturali delle
cose, apri le origini del diritto, mostra la santità dei
costumi, solleva o rammorbida gli animi, parla in-
somma di tutte le cose visibili ed invisibili con un
po' di fanlasiuccia, ineducata, sbrigliata, spiritata, e
vedrai scorrezioni, capriole, imperversamenli che sa-
ranno i tuoi. Per le quali cose se ti è caro stare
coi saggi, tieni pure che niun poeta per solo impeto
di natura è potuto esser mai utile né grande: ma
quei che hanno pensato sulla materia , e si sono
messi all'ordine con quelle facoltà, che si è toccato;
e oltre a ciò hanno considerato alla natura dei tempi
e degli uomini, per dire con dignità della cosa, con
utilità a grado degli uditori. Ma perchè anche senza
la passione grande che io porto in questo particolare,
la vastità della materia mi tirerebbe troppo lontano,
io lipiglio di Vincenzo. Il quale messosi in quella
via, che si è detto, usava anche alle accademie e cir-
coli d'uomini di lettere e di scienze. E quivi delle
cose da altrui imparate facendo suo capitale, e pren-
dendo esperienza delle sue, si aveva acquistato no-
me di uno de' più valorosi giovani di quello studio.
Ricreamento e conforto nelle veementi cure eragli
la musica: ma benché non ponesse in questa fuor-
ché le ore scioperate che pur necessarie 'gli erano
a rifare la mente stanca; tuttavia si fece innanzi be-
ne; tantoché o cantasse , o sonasse, o componesse
ancora, ciò era sempre con molta naturalezza, grazia
e convenienza. Ma in quel tempo ad oscurare sì lieta
serenità sorse in lui un affetto che non era de' con-
sueti , il quale benché né quanto al principio , né
quanto al suo fine, nulla avesse che non convenisse
182
all'onestà, tutlivia gli confuse e turbò l'animo gian-
flemente. La morte si intromise, e col tórre l'esca
tolse la fiamma; e Vincenzo riavutosi da quello sbi-
gottimento , e guardatosi intorno , si riconobbe , e
dato al fuoco quanto con quella impressione aveva
composto, legossi con certo proposito di non dover
più scrivere, salvo solo di grandi argomenti, e mas-
sime di religione. Così rinnovellato nell' animo , e
fresco di libertà e di vita, si gettò tutto nell'alto e
magnanimo cammino.
Veramente le lettere di quei tempi erano da ogni
lato per 1' Italia scompigliate ed ebbre, ed il Marini,
e la brigata avevano messo a lomore e confusione
il paese. Ma l'uso della favella vivo a guardia del
popolo, la diligenza degli scrittoli, e lo zelo dei prin-
cipi, avevano salvato Toscana da quel guasto- Però
chi quivi era dedito a gravi studi o aveva pieno
l'animo d'affetto, facilmente si trovava in queste cose
un'ancora agli ondeggiamenti fantastici dell'età. E
quanto a Vincenzo quella forte ed amara disciplina
a che Iddio l'andò sottoponendo, oltreché aveva ren-
duta pili corretta quella indole sua di virtù, anche
guardò sana la sua maniera. Poiché quell'animo gen-
tile, e infervorato di pietà, provato nelle sventure
che si diranno, s'aveva preso una tal' eloquenza di
dolore, la quale movendo dal cuore profondo, sincera
e buona, ti commuove e infiamma. Del resto a quel
punto ove lo conducemmo col nostro discorso quel
suo animo cresceva e ornavasi viemeglio ogni dì di
erudizione e lettere: e il medesimo che con accesi
sludi tanto si ingegnava per esse; con laudiy con ser-
moni e preghiere nelle compagnie si stimolava alla
183
bontà ed al vero valore. E di questo genere nnolle
cose si leggono nel nostro condite di mirabile amore
e grazia , e vi hanno massimamente inni che ten-
gono assai di quel non so che solenne e gemente che
l' innamora in quei della chiesa.
Ma egli già dottorato per gratificare al padre
tolse in moglie Anna Capponi, donna di gran san-
gue e di purgalissimi costumi , la quale di casta
e diligente aveva fama allora , e di forte acquistò
poi quando portò col marito la gloria, com'ei chia-
mavala , del sofferire. Poiché morto a Vincenzo il
padre, e crollate le fortune della sua casa, si trovò
il lustro della famiglia e il carico della dignità a
portare egli che doveva contendere duramente per
dar pane ai suoi. Non che per miseria d'animo s'ac-
casciasse sotto quel peso: anzi quelle sue virtù pa-
revano vieppiù sfavillare e fiorire ; ma la vista di
tre anime inserte nella sua, Io faceva sbigottire, e
gli rimescolava tutte le viscere per la grande pietà.
Però dato un mestissimo addio a Firenze^ si ridusse
a una sua villetta sola e quieta. Colà per dire di
un poeta come costumano i poeti, ricreava l'animo
tra quelle fonti e prati, e ombre purissime e care,
e contento al suo pentolino, si consolava che i figli
disciplinati a questa scuola aspretta e salutare, cre-
scerebbero in virtù ferme e stagionate. Ma mentre
i frutti di quella buona natura, e di quel suo in-
gegno moltiplicavano celati, se non quanto mostra-
vansi in piccolo drappelletto di amici, intervenne caso
onde il suo nome sorse quasi lui ripugnante ad al-
tissima fama.
184
Già da moiti secoli ei'a etistianità in guei'ra colla
gente di Maomcllo; e i papi, tutori della fede e dei
popoli, andavano riparando alla lotta gli animi e le
forze di Occidente. Ma corso cent'anni, da S Pio V
il campione di Lepanto, si erano coloio ben rifatti,
e terribili più che mai fossero , tornavano alle of-
fese difilati al cuore d'Europa. Già balenava a quella
ruina l'imperiale Vienna , e tutta Europa e Italia
massimamente che udiva quasi l'incomposto fremito
delle tuibe, ed il trambusto delle armi, stavasi in
gian gelosia de' suoi istituti, della libertà, della re-
ligione. Quando il prò' Sobieski, cui Innocenzo XI
aveva congiunto a Leopoldo, dà dentro in costoro
col Lorena, li rompe, li sperde , e rende lil>ero il
fiato agli sbigottiti fedeli. Allora guardarsi in viso
le genti stupefatte; a Dio, ai campioni, grazie inni
e canti, tanto più abbandonati nel tripudio, quanto
più erano stali sull'ultima pania. A questo brillando
Vincenzo sorse cantore di Dio e dei le suoi mini-
stri: e prorompendo concitato e profondo; nel fre-
mito de" trionfi, nella foga della speranza espresse
l'anima d'Europa. Tuttavia egli, naturalmente uomo
di riguardi e di modestia, avrebbe sempre tenuto
seco quasi arnesi di casa quegli splendidi canti: ma
i pochi amici, con cui se ne aperse, a quella luce
si spaventarono; e C(jme si fa ne' grandi commovi-
menti che vogliono partecipi e testimoni , ad altri
e poi ad altri passarono i versi e la fama, e quegli
scritti furono prima letti, copiati, cantati quasi per
tutta Italia, che Vincenzo nulla ne sentisse. Tanto
buon abito di virtù era nel nostro, che dove altri
portava in cielo le cose di lui, ed egli non trovava
183
in se quel che predicava tutto il mondo, e dell'al-
trui maraviglia si maravigliava, intanto Cosimo III
il duca avendo l'alto rendere le canzoni ai principi
ciascuna secondo che a lui toccava , l' imperatore
e il duca di Lorena ne scrissero in parole piene di
onore pel Filicaia; e il valente re di Polonia, in ter-
mini amicissimi lutto offerendoglisi, pose la canzone
nel primo luogo tra le tante per quel fatto. Tutta-
via né queste né altre lodi che gli fiorivano da ogni
lato toccavano grandemente il cuore di quell'uomo
solito attrihuire a un tal errore comune la buona
opinione che altri gli aveva , o certo ciascun suo
pregio a quel fonte, onde sorge ogni cosa bella e
perfetta. Così poneva il nostro a fondamento di sua
grandezza la magnanima umiltà, e la gente slimando
a qual gloria intendeva chi ne rifiutava cotanta più
s' infervorava in dargliene.
Ma mentre così montava la sua fama , non si
schiarivano punto le cose sue afflitte: onde egli che
degli studi si era promesso almeno un debile ali-
mento ai figli, poiché li vide sempre infelici e sem-
pre sparsi vanamente, si stava assai di mala voglia.
Quando Cristina di Svezia che nulla vedeva più caro
delle lettere italiane, e già molto prima ammirava
r ingegno del poeta, con regale magnificenza gli soc-
corse, ed ascrittolo alla sua accademia volle, quasi
fossero suoi piojiri, prendersi la cura dei figli di lui.
Poi abbellendo il benefizio colla modestia, gli fece
comando ch'ei non dovesse fiatarne, perchè pren-
derebbe vergogna, diceva, quando si udisse che ella
per tale faceva sì poco. E fu bello ed onorato alla
regina sollevar Vincenzo non chiedente , ma a lui
186
non meno avere in versi, in lettere, in ogni modo,
dato amplissime significazioni della gratitudine sua
immortale. Ond' io non vi dirò qual colpo fosse al
nostro quando ella gli morì pochi anni appresso. E
percossa ancor piij forte egli sostenne allorché Brac-
cio, il figlio suo maggiore, di buona espeltazione e
già paggio del granduca, seguì poco stante la regina.
II povero Vincenzo mal reggentesi in piedi per mor-
talissima infermità, donde era uscito mal vivo, si
portò in pazienza quel dolore, e le angustie casa-
linghe che lo assalivano ancora. A questo Paolo Fal-
conieri a lui amicissimo , ninna altra via vedendo
di potergli soccorrere, pose pratica di darlo a mae-
stro presso i Rospigliosi, casa grande e magnifica;
ma egli mal sapeva pigliare 1' attitudine di quella
carica : e però il negozio preso e non guari dopo
troncato frondeggiò vanamente in proposte e rispo-
ste. E chi sa quando avrebbero avuto fine i suoi
guai se a Cosimo HI non fosse rincresciuto di lui !
Egli dunque si fece incontro alla mina di quella
casa , e creato Vincenzo senatore , come lo ebbe
provato buono e destro, lo mandò al reggimento di
Volterra.
Si tiene che i poeti come di spiriti irritabili e
subiti non siano atti colà ove la ragione senza com-
movimenti, lenta, e sottile libra il diritto, e giudica
a premio o pena gli uomini e le opere. "Ma il Fi-
licaia fu attento e diligente: e quel che conchiude,
sapendo com'era fatta la sventura, era veloce a in-
tendere gli altrui guai, e colle pietose parole, colle
opere , colle lagrime infine sapeva temperarli. Del
resto ogni cosa voler vedere , conoscere : su certi
187
mali non filosofare importunamente, ma por rime-
di ; colla vigilanza, coll'autorità, coll'esempio spa-
ventare dalla colpa: rigidissimo in tórre le cause del
peccare, medicava la pena colla pietà: spesso con-
teneva l'autorità ove bastava l'amore : così vi eb-
bero falli senza castigo parecchi, senza emendamento
pochi. E qual grado gliene sapessero i popoli, l'istan-
za con che tempestarono il granduca pe! prolunga-
mento dell'uffizio, e le feste, anzi le pazzie che ne
fecero quando si videro esauditi , sono certissimi
documenti. Indi mandato a Pisa colla medesima au-
torità e grado, si videro la stessa industria, gravità,
amore; salvochè l'essere piiì ampio il campo fu con
più utilità degli uomini e lode del nostro. Ma sic-
come non montava così di onore in onore che non
si mostrasse degno di altro più sublime ; parendo
a Cosimo doverlo portare a quel che fosse il più
alto, lo chiamò a se perchè da Firenze come dal
capo facesse utilità a tutto il corpo dello stato. E
così lo creò segretario delle tratte, come dicevano,
uffizio posto come a tener ne' termini i prefetti delle
città. Ma di quei tempi Vincenzo, assottigliatosi già
la vena a comporre cose maggiori, si pose in cuore
dover riconoscere gli scritti suoi, e rivedendo e pu-
lendo scegliere quelli che gli paressero i più degni,
gli altri severo abolire. Chiamatili così a sindacato
e vagliatili; molte cose gettò; e perchè non v' era
persona che meno stesse in sul suo giudizio, si voltò
per aiuto ad uomini amicissimi. Adunque come già
aveva fatto col lindo Iledi mentre ci viveva , se-
guitò di fare con Benedetto Cori uomo acuto e ma-
turo, e col Malagotti signore di sottile giudizio, e
188
di una tal sua maniera spedila e brava. Oi- mentre
le cose sue erano già in parte emendate e anche
la slampa assai innanzi, i morbi che in lui da gran
tempo signoreggiavano , rincrudelirono , ed egli si
vide condotto all'estremo. Però ricreato l'animo di
ogni soavità della santa religione, con quel canto
alla Vergine sulla lingua che si aveva composto per
quel passo, e colla speranza dipinta in viso, volò
da questa affannosa alla vera vita , il 24 settem-
bre 1707 nel sessantesimo quinto suo anno.
E vivo tu l'avresti detto allora massimamente,
tanto grande era seguito il compianto dei dotti, il
desiderio degli amici e del principe; gli studi insom-
ma di tulli gli uonìini, pei quali pareva a ciascuno
pur mancare qualche cosa. K nemanco gli stranie-
ri, e massime gli inglesi, udirono senza pietà e com-
mozione la novella. Onde Lord Sommers, già gran
cancelliere, ne scrisse dolentissimo al Magalotti con
ogni dimostrazione di stima per Vincenzo: ed En-
rico Newton ambasciatore al granduca seguì la me-
moria di quoiroltimo con quest'encomio-
Acmulus hic voterum et victor Filicaia quiescit,
Carmine nec minor, et piotate prior.
Ebbe oneste esequie, e tomba onesta nella cap-
pella di sua famiglia in S. Pietro di Firenze: e Be-
nedetto Averani dotto in molle parti , e in latino
dottissimo, gli compose l'iscrizione in quella lingua
con lodi magnifiche o vere- Questi gemiti, e questi
segni di riverenza si mandarono nella morte di Vin-
cenzo ; i quali chi voglia ben considoiare a chi e
189
perchè troverà laramenle gli uomini avere avuta
materia sì degna. Poiché oltre le doli d' indole e di
addottrinamento che gli avevano acquistato tanto
di amore e di gloria; cogli scritti aveva fatto opera
da avergliene grado tutta quanta la posterità.
E già egli alla bella prima si era risolto che
quella vena onde derivano i profondi lamenti di
Giobbe, e gli altissimi voli di Isaia, e quella mesti-
zia di Geremia, e la soavità della Cantica, potesse
ben bastare a se stessa senza versare le dolcezze
del lusinghier Parnaso ne adornare
D'altri colori che de' suoi le carte.
E Vincenzo anche per questo capo ben stimava della
religione; perchè legando essa come fa e cielo e terra
in un volume, e congiungendo il tempo e l'eterno,
è cosa infinita, immensa, poetica sommamente. Ar-
rogi a questo che ognuno anche quando più fervono
le opere, e tumultua la vita, sentiamo il fluttuare
delle cose e delle speranze, e finire il riso nel pianto,
e questo in quello, e presto l'uno e l'altro con lor
cause trascorrere. Onde l'uomo fallendogli le pre-
senti cose, vive naturalmente nell'avvenire, e sente
che altro ordine aspetta una natura umile e subli-
me, che mal dura un giorno, e non l'empiono mille
anni. In questi moti degli animi ed agonie, qualisia
o pianga i passali tempi
I qua! pose in amar cosa mortale:
0 gema sul presente: o coli' impeto di chi spera si
190
protenda nell'avvenire; costui parla in nomo di chi
ben ama e crede, e i suoi affetti non saranno d'uomo,
ma di natura. Del resto Vincenzo che altamente aveva
bevuto ai fonti purissimi della religione; e sapeva
che essa pietosa ne lega tutti in un corpo solido e
compatto, e non perdona a te il godere se piange
il fratello; per ogni allegrezza o dolore dei tempi,
degli uomini, della chiesa ebbe un sospiro, un con-
forto, un canto. Però sommo fra i lirici per questo
particolare egli è pieno sempre del suo tema, e sde-
gnando fittizi ingegni li rovina profondo e sonante,
come ispirato; e quando altri a quel torrente teme
non si assottigli la piena , ed ella più erompe dal
cuor bollente, e ti fa attonito di maraviglia. Muovono
i cristiani le ire e le armi contra la gente del Co-
rano ? E le sue vergini muse armano le destre dì
tosco ferro' e sulle galee di Cosimo cantano di Le-
panto e Rodi; o in groppa col Sobiescki inseguono
l'Ottomano sul Rabbe: o istando con Leopoldo av-
ventano ai giganti achei gV inni animosi. Ma se le
cieche ire e le ingorde voglie cacciano in guerra
fraterna i cristiani, egli tempera al duolo il canto e
sospira dolcissimo
Pace, pace gridando, amore e fede.
E fa alla gran Vergine mostrare al figlio il Lazio
tremante e la misera Europa; ed entra fra gli ar-
mati e prega e chiede
Di sangue assai finora
Forse non bevver le pianure e i monti ?
Chiudete omai di tante vene i tonti.
191
Così per queste perplessità e commozioni degli nhi-
mi, per le subite esultanze, pei lunghi timori, in-
somma pel vario impulso che aveva l'animo, tu lo
vedi mutar colori , e sensi , e modi. Or fiero , or
mansueto, or pronto e minacciante, or rimesso e
dolce, or ebbro nei trionfi, or umile di paura, or
armato di pietà, or di vendetta: ma eloquente sem-
pre e lutto chiuso nella sua materia, e nell'affetto
che r ha compreso. Chi è sì selvaggio e alpestre
che non ami le lettere se le son tanto vaghe, ge-
nerose, schive come nella canzone: La poesia ? Né
io avrei per capace di sentir soavità chi non bevesse
con tutta l'anima la dolcissima armonia di quel canto
alla Vergine nel presepio. Il quale componimento è
veramente fiore di ogni idillio , e gentilezza della
poesia italiana; ma noi ci accendiamo contra il se-
cento magnanimamente, ed ammiriamo intanto quel
che luce e suona , il resto lasciam passare o non
veduto o non curato. E dolcissimo e pieno di un
caro abbandono è sempre Vincenzo quand' ei canta
della Vergine, o seco lei si condolga, o le additi il
pargoletto che se agli occhi credi
Ti par ch'Ei dica chiedi;
o ne oda la voce dirgli al cuore confida e laci; o
l'invochi in vita, o fra l'ansie della morte: o tocchi
infine dell'urna, che per breve ora la contenne.
Mentre sull'ali de' beati cori
Correa giiì per quell'aer luminoso
Dolce armonia di spiriti canori.
^92
Che lusingando il suo gentil riposo
Fean corona e concento alla bell'urna
Ov'era il pregio d'ogni pregio ascoso.
Ma questo temperare che egli fa di dolcezza il
suo stile, chi ben nota quasi che può seguire d'anno
in anno, e scorgere che tale qualitsì più e più prende
del suo animo e degli scritti, come più Vincenzo
si accosta all'ultim' ore, e sente e vede
Che di dentro e di fuor non è più desso.
Allora il fuggire di quegli onori che un tempo
aveva cari, e sono a lidurli a oro
Di moribonda luce alili estremi.
Allora quelle meste facezie sul guardarsi allo spec-
chio, nel coprire il capo di chiome non sue: quel
far protesti che egli non cerca fama dalla pittura
de' suoi affanni, e quei cari ritiramenti in se stesso,
e pentimenti e propositi : infine quella morte che
è a lui consigliera e senno e mente e consorte della
vita. Che più ?
Di quell'alma ond'ei vive alma è la morte.
Questi adunque ed altri affetti in su questo an-
dare in lui derivava la beJIa scuola del cristiane-
simo, la quale tutt'altia dalla pagana, è quella del- .
r interno e del futuro. E questi sensi prendendo tutto
il colore ed il calore che hanno i concetti intimi ,
193
profondi, con noi cresciuti, come è dello, impri-
mevano poi il suo siile di quei teneri gemiti , di
quelle soavi aspirazioni, che qualsiasi ha senso del
bello gusta, ma chi ben ama ne va perduto.
Ma a conciliare al suo stile soavità e tenerezza,
oltre le cause delle, e quelle sventure che lo sli-
molavano a gridare
Fera cuna m'accolse e nacque meco
Gemello il duolo ....
valsegli più che molto quelP animo mirabilmente
temperato ai domestici affetti. E V addio a Firenze,
e quel le^larnenlo ai figlia e il sempre caro sonetto
alla divina Provvidenza, sono per questo rispetto con-
diti di tanto amore e semplicissima grazia, che a
leggerli li soprabbonda la dolcezza. Né io so mai
tornare a quella corona di sonetti in morte della
sua zia degli Alessandri , che non scopra in essi
bellezze nuove, e non ammiri via più sempre quella
sicurezza , e quasi sprezzo di pennello ; e non mi
commova alla serena , equabile mestizia che vi è
diffusa. Ora di questa maniera, che i pittori direb-
bero la sua seconda, di tanto magistero e pietà, dolce
e succinta, io potrei proporre troppi più esempi e
la loro natura istessa mi ritiene; ma e quello che
io già dissi di lui, e quel che mi resta, mi sospinge;
ond'io mi sollecito toccando recisamente lo poesie
latine.
Esse veramente fioriscono di quei pregi mede-
simi che sopra si sono discorsi: tattavia non mancò
chi desiderasse ivi un tal colore di urbanità, e agi-
G.A.T.CLXV. 13
J94
lità e come sfumatezza maggiore. Certamente la
scienza intima della lingua, e il sapere a meravi-
glia versar lume di poesia in cose difficili e sottili
né prima tocche da latine muse, non è giudice sì
scortese che a lui contenda. Del resto se ad altri
parve lui peccar nel restio, anche altri s'avvisò ve-
dere nella sua maniera l'agilità e dolcezza libulliana,
tuttavia io me ne rapporto. Ma la prima elegia alla
beata Umiliana, e lo scherzo al Cori suU'aver l'au-
tore così correttor di popoli toccata la poesia; e la
fragrante e graziossima, e tutta greca ode alla Pu-
rità, non sia chi me le tocchi.
Oi-a dall'aver seguito con tante lodi le opere del
Filicaia non credeste , eh' io lo tenga per netto e
sincero da ogni lato e sempre. Poiché anche senza
cercar sottilmente , tu li abbatti a traslali troppo
audaci di rocche palpitanti; di macigni istessi che
piangono di gioia ed altre vanità che pel loro ec-
cesso mal rispondono alla mente del poeta. E ta-
lora declama e non commuove: e giuoca d'ingegno
secondo il suo secolo; e spesso fa vezzi ad alcuni
suoi idolctli, e in parole diverse ti compone, come
dicono , un piallellin di quel medesimo ; e alcuni
versi sanno d'infermeria, e vi è talora troppa imi-
tazione, anzi un trasporre di peso i modi altrui,
tantoché tu così in sul bel del leggere li restituisci
ai loro autori. Ma chi più n'ha più ne metta, di-
rebbe il Borni : io mi sono risolto che senza que-
ste giunte , ed altre simili , non avremo mai bene
finché stiamo a queste stiacciatine. Non ha il suo
buio anche 1' Alighieri ? Non t' offendono talora le
195
seste in Torquato ? E del sonnellino del buon Omero
chi non ne canta ?
Tal abito adunque tenne nella vita e nelle opere
quelPonoiato Filicaia. E benché la fama che di lui
sonava grandissima, e le cariche, e le virili lo fa-
cessero a tutti onoiato e caro, egli di sua grandezza
niente sentiva, salvo i doveri. Di modestia rarissima,
di verecondia verginale, a tutti affabile, comune, mo-
strava nella sceltezza dei modi la nobiltà della stirpe
e delle lettere, nella santità delle opere, quella della
virtij. Della privata e riposata vita seguilatore, amava
la solitudine ed il caro nido con una tal riverenza.
Amici pochissimi li volle , ma scelti in gioventù,
venuti su con lui, e via per tutte le età e casi pro-
vati : onde ad essi nelle cose sue credeva pili che
a sé stesso, come men sottoposti a errare, e amanti
non meno. La pietà, che prese a compagna fin dalla
cuna, anche crebbe con lui, e quale nei sacri luo-
ghi, tale nei magistrati, tale nelle domestiche pa-
reti: sicché non v' aveva casa piiì vicina alla rive-
renza di un tempio che la sua. Del tempo come
uom sollecito ch'egli era fu avarissimo: ma per non
anfare vanamente non pigliava negozio che al vero
Sole non l'esplorasse e non ne invocasse il lume.
Così furono utili i suoi fatti , buoni gli esempi e
gli corsero anni operosi e pieni.
196
Sulla febbre considerata in se stessa, e nelle princi-
pali tendenze od efficienze, che si mostrano nel suo
corso relativamente alle proprie cagioni, ed alla loro
importanza. Annotazioni patologiche del doti. An-
gelo Sorgoni da Recanali , membro della società
medico-chirurgica di Bologna, della fisico-medica
di Firenze , delV accademia medico-chirurgica di
Ferrara, de' lincei di Roma, de' Filomali di Luc-
ca ec.
Multa renascuntur quae iani cecidere.
Ilorat. ad Pison.
JLia febbre è al <:erl() quel male, che sopra tutte le
iiifei'iiiità più di fre(iucnte si sviluppa noirumano or-
ganismo; per il che ebbe a dire Sydcnham: « Fe-
bressuntduae fere lertiae omnium, quae sunt, mor-
borum ». E Vanswieten commentando Boerhaave
manifestava su di ciò ancor più esleso giudizio di-
cendo: « Nullum sine febie vivere hominem, imo et
paucos abs([ue febre mori ». Da ciò è derivato l' im-
pulso, che siffatto morbo ha sempre dato all'umana
mente di rivolgere le sue meditazioni su di codesto
modo d' infermare; e per queste o ne ò rimasta sbi-
gottita: nel quale stalo essa ha veduto nella febbre
una (jualche cosa di straordinario, e di sublime, giun-
gendo per fino a credere ne' tempi pagani essere la
febbre una malefica divinità , cui erigevasi anche
tempio ove placarne la ferocia : ovvero mercè le
stesse meditazioni 1' umana mente ha occupato la
sua intelligenza sull' intrinseco lavoro morboso su-
197
sellatosi nell'organismo pel producìmenlo della feb-
bre. Ma quivi da quesi'oscurissiino oggetto si trasse
una moltitudine di svariatissime ipotesi tra di loro
contrarie ed alcune anche opposte. E così mentre
per una parte le meditazioni sulla febbre cagiona-
vano lo sbigottimento e la superstizione, per un'al-
tra parte facevano esternare una farragine di giudizi.
Ma comun(jue ciò sia, non sono da stimarsi inu-
tili le fatte indagini e gli emessi giudizi; imperoc-
ché questi, qualunque essi fossero, erano sempre il
risultato di ragionamenti, che se completamente non
abbracciano il fatto morboso costituente la febbre,
però in una od in un'altra parte certamente lo con-
siderano. Ed appunto perchè questo fatto non in tutti
i suoi lati è stalo sempre considerato, è avvenuta
la pluralità de' giudizi; i quali però a motivo della
parte del fatto morboso che comprendono , hanno
sempre un certo lato di verità , quantunque sieno
nella loro esternazione talvolta contrari ed anco op-
posti.
Ottenebrava nondimeno questo vero il senso
esclusivo dato a' medesimi giudizi: mentre per quanto
in essi s' includa una verità a motivo della parte
del fatto, che comprendono, altrettanto si è errato
quando per questa parte si è preleso di abbracciare
il tutto. E di ciò relativamente alla febbre si hanno
molti esempi, come si potrà facilmente conoscere
esaminando l'esteso numero delle definizioni, che
da molli autori si sono date di quesl' infermità.
L'esame di tutte siffatte definizioni però non è
lo scopo di questa discussione: l'oggetto della me-
desima è soltanto quello d' indagare la febbre in se
198
slessa e nelle principali tendente od efficienze, che
si mostrano nel suo corso relativamente alle pro-
prie cagioni , per quindi dedurre se la febbre sia
un' operazione salutar» della natura destinala ad
espellare dall'organismo una materia morbifìca co-
munque in esso allocata, come si è definita da vaii
autori SI della remota e sì della presente età; o in-
vece sia piuttosto la febbre un morbo al pari di
tulli gli altri mali, nel corso de' quali si manife-
stano sempre due opposte tendenze od efficienze ,
l'una di distruggilivilà, l'altra di conservatività, come
risullamenli di differenti origini e cagioni. Intorno
a ciò qui voglionsi fare alcune ricerche ed analo-
ghe considerazioni, calcolando la febbre tanto in via
di fallo quanto in via di ragione relativamente al-
Toggetlo in esame. Lo che sarà esposto colle se-
guenti patologiche annotazioni.
I.
La febbre osservala come un fallo relalivamenle alle
principali tendenze od efficienze, che si mostrano
nel suo corso.
Onde svolgere V oggetto di questa discussione
primieramente in via di fallo, per vedere se nel corso
della febbre considerata come puro svolgimento mor-
boso si manifestano diverse tendenze od efficienze,
vuoisi notare in primo luogo cosa avvenga nella sua
evoluzione tanto considerata la febbre come morbo
ttpsenziale, primario, quanto risguardala come se-
condaria. Anzi tulio nel caso di primaria affezione
199
rimarcala la febbre come un fatto visto nella sola
esterna appaiiscenza, avvertasi, che per V intera sua
evoluzione di qualunque genere ella sia, di qualun-
que specie, di qualunque forma, si mostrano sem-
pre nel corso della medesima due stati differenti :
de' quali il primo esprime un disordine funzionale
con n\anifesta tendenza, od efficienza distruggiti ^a;
il secondo mostra parimenti un disordine funzionale;
ma in esso si ravvisa una tendenza opposta alla
prima, vale a dire approssimativa alla salute, o con-
servativa. E che neir intera evoluzione febbrile si
abbia sempre un funzionale disordine, viene indi-
cato da' caratteri di morbosità, che in tutto il suo
corso manifesta la febbre, appunto perchè è un mor-
bo, e perchè non si dà alcun malore, che non sia
annunciato da disordine funzionale.
Ma in questo disordine sono rimarcabili varie
tendenze od efficienze; epperò si nota che la febbre,
nella sua prima invasione fino ad un certo tratto del
suo corso, quantunque prorompa con un disordine
funzionale , pur con tutto ciò non manifestasi per
esso alcun segno, che denoti tendenza e repristina-
zione di sanità. E difatti se si fa particolar consi-
derazione sui caratteri essenziali di sua manifesta-
zione, quali sono, secondo il riepilogo de'medesimi
fatto dal chiarissimo Franceschi, la concitazione del
polso, Teccessività del calore, il senso di mal'essere,
la prostrazione delle forze, le alterate e scarse se-
crezioni, si trova, che nessun di essi indica tendenza
a normalità funzionale. Anzi si rinviene in ciascun
di loro una decisa opposizione alla stessa normalità;
imperocché qualunque di tali caratteri è talmente
200
ripugnante alla salute, che se circostanze favorevoli
all'organismo non sieno per manifestarsi, essi sempre
pili si allontanano dal normale esercizio della vita,
e finiscono colPestinzioue della medesima. Ed in vero
gli stessi sopra annunciali caratteri costituenti in es-
senzialità r esternazione del movimento febbrile, sì
considerati isolatamente che complessivamente, sono
un' es[)ressione vitale , ma d'una vita , che sempre
più s'allontana dalla sua normalità. Il che è tanto
certo, che per qualunque lato si consideri la febbre
nel suo primo stadio, che qui si contempla, mani-
festa senjpre un funzionamento deviato dal corso or-
dinario salutare della vita; e deviato in modo, che
in questo medesimo stadio il febbrile funzionamento
piesenla incessantemente uno stato diverso e con-
trario a quanto la natura produce per il normale
esercizio della vita medesima. Olfatti se nel primo
stadio febbrile in discorso si esamina la febbre dal
lato della sua calorificazione, e de'movimenli vasco-
lari, si trova, che l'eccessività del calore, e la con-
citazione del polso non esprimono altro che un grado
di calorico e di movimento arterioso diverso da quel-
lo, che si compete allo stalo normale della vita. Se
poi si considera la febbre dal lato del senso di ma-
l'essere, dalla prostrazione delle forze, e dell'altera-
zione delle secrezioni, si ravvisa uno stato di quesle
cose contrario a quello, che bassi nella condizione
di sanità.
La quale diversità di grado, e contrarietà di slato
fra i sintomi della febbre ed il funzionamento or-
ganico competente a sanità cresce a dismisura, al-
lorquando la febbre, oltre a' suoi caratteri essenziali
201
sopra citati, assume quelli relativi a lesione più o
meno intensa di qualche speciale funzionamento, ov-
vero di quello del sistema de' nervi, oppure relativi
ad uno stato di grave eterogeneità sanguigna spie-
gala specialmente nel sistema venoso. In questi casi,
sempre parlando dal primo stadio della febbre, di
quello stadio cioè chiamato di crudezza, l'allontana-
mento dallo stato sano non solo viene presentato
da' caratteri essenziali costituenti l'esternazione della
febbre, come sono stati superiormente espressi, nìa
ancora siffatto allontanamento dalla salute si palesa
in quanto all'alterazione nervosa mediante un com-
plesso di sintomi adinamici ovvero utassici ; ed in
quanto al sistema irrigatore sanguigno l'allontana-
mento medesimo si esprime con vibici, [>etecnhie,
emorragie, fetore, sviluppo di gas, lavori flogistici,
ed altro dinotante lesione sanguigna. E sullo stesso
proposito, relativamente al funzionamento speciale di
qualche apparato o viscere impegnato nel primo sta-
dio dell' evoluzione febbrile, si sviluppano sintomi
esprimenti l'alterazione di questo medesimo funzio-
namento. Ma tutti questi sintomi sì speciali e propri
d'im apparato o viscere , che generali appartenenti
a' vari tessuti, ed in ispecialità al sistema nervoso
e sanguigno, oltre i caratteristici della febbre, per
i quali resta costituito ciò che dicesi fatto morboso
febbrile di qualunque natura esso sia, nello stadio
di crudezza siffatti sintomi non esprimono altro, che
uno stato di vita e per diversità di gradi e per con-
trarietà di effetti allontanato dal normale organico
funzionamento.
202
Un eguale complesso di cose seguita a presen-
tarsi nell'evoluzione dell' intero stadio febbrile di cru-
dezza; imperocché durante tutto questo tempo i me-
desimi sintomi sopra narrali continuano a prodursi,
aumentando d' intensità fino a tanto che provengono
a quel punto chiamalo acme dei male, in cui resta
compilo il medesimo primo stadio febbrile.
Pertanto giunta la febbre al termine dello stadio
di crudezza considerata nella sua espressione di fatto
morboso, come qui si è annotato, non offre altro
in tutta la sua appariscenza che materiali morbiferi
sempre più offensivi e al generale dell' organismo,
ed alle parli singolarmente impegnate a tenore della
diversa qualità di essa febbre.
Ma in questi morbiferi materiali nella febbre ri-
sguardata come un fatto nel suo stadio di crudezza,
non riscontrandosi altro che un'espiessione sempre
piij offensiva dell'organismo, si mostra apertamente
per essi una tendenza od efficienza distruggitiva.
Però se il fatto morboso non si arresta nel suo
corso per esito funesto, e volge a compiere il suo
periodo con felice lisoluzione, lo stesso fallo n)or-
boso costituente la febbre se si presentava in tulio
quel tempo dì quest' infermità, che dicesi stadio di
crudezza, con i succitati sintomi, non a ciò ugual-
mente si mostra nell'altro tempo successivo a quello
descritto chiamato stadio di cozione e di crisi. In
quest'altro stadio del febbril movimento, quantunque
seguitino a manifestarsi i sintomi sopra annunciati,
pur con lutto ciò si vanno essi gradatamente am-
mansando, e si associa a' medesimi un'operosità in-
solita negli organi secernenli, ed in specie in qual-
203
cuno di loro, che sempre più si fa attiva nel de-
corso dello stadio di coziorie in corrispondenza alia
declinazione del male. Di maniera che nel fine di
questo stadio medesitno siffalla operosità diventa vera
crisi, con cui felicemente si risolve codesto male,
e così si compie il fallo morboso costituente la
febbre.
Pertanto si ravvisa, che nel secondo stadio della
febbre, ossia nel suo stadio di cozione e di crisi,
non si presenta come nel primo stadio un solo com-
plesso di sintomi tutti tendenti all' allontanamento
della salute; ma invece si scorge, che questi mede^
simi sintomi, oltre l'andare smontando di loro inten-
sità, sono anche associati ad altri sintomi proclivi
al ripristino della salute, per modo che in fine di
questo secondo stadio e gli uni e gii altri si con-
vertono in normale funzionamento. Difatti il calore
febbrile, che nei primo stadio della febbre, ossia nel
suo stadio di crudezza, si presentava secco, ardente,
veemente , ed anche talor di grado dissimile nelle
varie parti del corpo, in questo secondo stadio, detto
di cozione, viceversa diventa mite, congiunto a mol-
lezza , ed uguale in ogni punto. Così i polsi , che
nello slato di crudità si erano molto allpnlanali
dalla naturale e normal simmetria, passano ad es-
sere nel secondo stadio in discorso grandi, alti, mol-
li, ondosi. E paiimenli il senso di mal'essere, che
nello stadio di crudezza era angoscioso , molesto ,
pieno d'agitazione, di smania, d' inquietudine, d' im-
pazienza, addiviene nel periodo di cozione piiì tol-
lerante , più sostenibile, e quindi va quietandosi,
calmandosi, e gradatamente riducendosi a tranquil-
204
lilà. Similmente intorno alla prostrazion delle forze
notasi , che come essa da un certo grado aumen-
tando fino al massimo si realizza nello stadio di cru-
dezza, così la stessa prostrazione si effettua in senso
inverso nel secondo stadio del periodo febbrile detto
di cozione. Ed in quanto alle secrezioni, se queste
nel primo stadio febbrile sono scarse, crude, in va-
rio modo alterate, viceversa nel secondo stadio sono
abbondanti, concotle, e sempre più accostantisi allo
stato normale.
Quanto si osserva nell'andamento tenuto da' ca-
ratteri essenziali della febbre sì nel primo e sì nel
secondo stadio costituenti 1' intero suo sviluppo, al-
trettanto notasi ancora nell'evoluzione di tutti quei
sintomi, che a tenore della diversità delle forme feb-
brili trovansi associati cogli stessi caratteri essen-
ziali. Imperocché tanto l'andamento tenuto da' sin-
tomi relativi a' generali tessuti organici, quanto lo
stesso andamento prodotto da' sintomi riferibili al-
l'alterazione d" uno o di un'altro apparato, o di
qualche speciale viscere, che nelle differenti forme
febbrili suole aver luogo , come dimostrano nello
stadio di crudezza una progressiva gradazione sem-
pre in aumento di morbosa intensità ; così all'op-
posto nello stadio di cozione manifestano un retro-
cedimento della stessa intensità morbosa. Di maniera
che la sintomatica espressione di qualunque febbre,
considerata come malattia primaria ed essenziale, è
distinta nel suo stadio di crudezza con un devia -
mento dalla salute , e nello stadio di cozione con
un' avvicinanza alla medesima.
205
Queste medesime vicende , che si risconfrnno
nella febbre considerata come malattia essenziale
così detta pur febbre primaria, si notano ugualmente
nella febbre chiamata secondaria, dipendente per lo
più da un flogistico processo. E di vero in questo
secondo caso le vicissitudini della febbre s' imme-
desin)ano con quelle del processo flogistico, di cui
la febbre è un sintomo. E siccome tali vicissitudini
a ben ravvisarle si risolvono anch'esse a quanto com-
plessivamente costituisce gli stadi di crudezza e di
cozione: ne' quali stadi si rinvengono sernpi'e sotto
svariate sembianze le stesse fasi notate nella crudez-
za e cozione della febbre essenziale in maniera, che
nella prima evvi sempre un complesso di sintomi
dinotanti soltanto un allontanamento dalla salute, e
nella seconda si trova espressa pel cumulo sintoma-
tico una tendenza al ripristino della stessa salute;
in conseguenza nella febbre secondaria si realizzano
le medesime vicissitudini, che si manifestano nella
febbre primaria; e perciò vuoisi ritenere che queste
due maniere di febbricilare,considerale come un fatto,
sono identiche.
Se non che è notabile, che per quanto nella mag-
gior parte de' casi di febbre sieno distinti i due stadi
sopra narrati di crudezza e di cozione in tenipi presso
che uguali di durata colle speciali loro efficienze su-
periormente rimarcate ; pur con lutto ciò avviene
sovente il caso, in cui non si manifesta in modo pa-
lesissimo questa distinzione, mentre accade che l'un
delli due stadi 1' altro soverchia. Questi sono quei
casi, che per lo più sono susseguiti da esito funesto,
e ne' quali o è inefficace, o è soccombente l'efficienza
206
conservativa così espressa dal predominio de' sintonfii
indicanti allontanamento dalla salute sopra a quelli,
che sono indizi di ripristino della medesima.
Dal fin qui detto si conclude, che il fatto mor-
boso costituente la febbre piesenta nel corso de' suoi
due stadi una differenza essenziale di espressione;
mentre nel primo è decisamente manifesto un al-
lontanamento dalla salute , ossia una tendenza od
efficienza distruggiliva : nel secondo un ravvicina-
mento alla stessa salute, vale a dire un' efficienza
conservativa. La quale differente espressione in sif-
fatti due stadi nell' intero corso febbrile è così pa-
lese, che mai potrebbe confondersi quel che notasi
neir uno con quel che si rimarca nell' altro. Tal-
mentechè il fatto morboso costituente la febbre può
esser così formulato : Un funzionamento morboso
speciale di estuazione , nel di cui corso si mani-
festa in primo luogo un allontanamento dalla sa-
lute, ossia una tendenza, od efficienza distruggiliva,
ed in secondo luogo un ravvicinamento alla mede-
sima, cioè una tendenza di efficienza conservativa.
La quale conservativa efficienza mostratasi nel
corso della febbre ha fatto ritenere ad alcuni medici
sì della remota, e sì della presente età, che la feb-
bre avesse in se qualche cosa di salutare; e di essa
perciò si servisse la natura , anzi fosse uno sforzo
della stessa natura onde eliminare dalla macchina
vivente ogni morboso materiale, e così togliere ogni
impedimento all' organica evoluzione. Il valor del
qual pensamento sarà fatto palese colla presente
discussione.
207
§ II.
La febbre prodotla da eccessività di calorico consi-
derata in via di ragione come un processo di esliia-
zione in rapporto alle principali tendenze od effi-
cienze, che si mostrano nel suo corso.
Dopo d'essersi osservala la febbre come un fatto,
vuoisi consideraila in via di iMgione : il perchè fa
di mestieri esaminare come il fatto morboso, costi-
tuente la febbre nel modo superiormente esposto, sì
accordi con ogni ragionevol medica dottrina, ed in
ispecialità con quella, che libera da qualunque idea-
lismo si versa soltanto nell'esplicazione naturale del
funzionamento organico. Pertanto onde vedere come
questa naturale esplicazione si presti all' intendi-
mento della febbre per modo da risultarne una con-
seguenza identica alla formula della febbre sopra
citata , e che abbia ad essere la dimostrazione in
via di ragione del fatto in discorso, fa d'uopo con-
siderar lo slesso tallo costituente la febbre in rap-
porto alle sue proprie cagioni, ed alla sua rispet-
tiva evoluzione. La quale considerazione corrisponde
all' esplicazione teoretica , razionale del medesimo
fallo. Però è da premettersi, che l'esame da isti-
luirsi pei' quest'oggetto qui verrà limitato alla prin-
cipale dimostrazione del medesimo oggetto mediante
soltanto lo sviluppo di alcune forme febbrili per ciò
che ha eccitato l'attenzione de' medici di ogni tempo.
Ed intanto quel che singolarmente sin dalla più
remota antichità ha destato lo studio de' medici nello
208
sviluppo della febbre è stato il calorico , non solo
considerato come causa della febbie e come suo
sintomatico carattere , ma ancora come la febbre
stessa. E difatti Vanswieten ne' suoi Commentari agli
aforismi di Boerhaave cosi esprime un tal concetto
degli antichi medici: « Qui calorem dixeruut febris
essentiam: » e dimostra tra questi principalmente co-
me: « ab Hippocrate ignem vocari febrim ». Questa
è r idea della febbre avuta da Ippocrate. Oltredichò
nell'opera di Aiessandio Massaria intitolata « Practica
Medica » trovasi come questa idea ippocratica della
febbre siasi avuta ancora da altri autori. E di vero
rinviensi ivi avere egli il Massaria giudicalo insieme
con Avicenna consistere la febbre in un calore, che
lo dice « calor igneus «: e stabiliva pure « substan-
tiam febris esse iti geneie caloris ». Vi si nota ancora
come Galeno, « uniformandosi all' idea ippocratica
della febbre, la definiva così : « Conversio nalivae
caliditatis ad igneam ». Ciò stesso si rimarca am-
messo da vari altri autori.
Intorno alla quale definizione della febbre qui non
si starà ad indagai-e il valore assoluto dato al sud-
detto concetto della febbre da molti sommi cultori
delle scienze sanitarie, in ispecialità ne' prischi tempi,
non essendo questo l'esclusivo scopo della presente
discussione. Invece di tutto ciò qui vuoisi ricercare
soltanto come si effettui il sunnotato pensamento
ippocratico. La quale ricerca fassi qui secondo i rap-
porti dimostrativi analoghi all'oggetto di questo la-
voro. E però non è essenziale al presente argomento
quanto si è detto da vari autori sulla produzione
della febbre tanto quanto si è considerala qual fer-
209
mento concoltivo del sangue, quanto allorché si è
ritenuto sempre come un effetto del processo infiam-
matorio. Qui invece cade in acconcio 1' indagine sul-
l'eccessività del calorico ne' suoi rapporti coll'orga-
nismo sen^a ricorrere ad altro special funzionamento.
Intanto riguardo all'oggetto in discorso è da no-
tarsi anzi tutto l'avvertenza fatta sin dai medici delle
passate età sul calorico esistente nel corpo umana,
essendosi considerato duplice, e distinto in calorico
innato così detto o nativo, ed' in calorico preterna-
turale, avventizio, esterno. Fissata la qua! distinzione
del calorico, si ritenne il cuore per il principio del
calorico nativo, e se ne fece applicazione onde sta-
bilire la dottrina della febbre, per cui essa fu espressa
con i seguenti termini: « Febris, quae nihil aliud est
quam nativi caloris alterati©, in corde tamquam pro-
prio subiecto debet collocari )> (Vedasi Alessandro
Massaria nell'opera sopra citata pag. 541).
Questa maniera di considerare il calore sembra
esser corrispondente alla distinzione, che oggi fassi
del medesimo in calore animale, vitale, organico,
ed in calore meramente fisico. Si manifesta il primo
colla temperatura propria degli esseri viventi: egli
è individuale, sempre uguale a se stesso nel mede-
simo grado in qualunque stagione, in qualunque cli-
ma, ed in qualunque slato atmosferico: il secondo
poi si esprime colla tendenza contìnua a spargersi
ugualmente in tutti i corpi della natura per modo
da formare nella temperatura de' medesimi un certo
equilibrio. Varia lo sviluppo di questo calorico se-
condo la diversità de' climi, delle stagioni, del di-
verso stato e condizione atmosferica, tutt'all'opposto
G.A.T.CLXV. 14
210
dell' inviiriabililà del calorico animale. Il calorico
meramente tìsico è quel principio imponderabile sot-
tilissimo , che penetra tutti i corpi della natura , e
che si manifesta cogli ordinari fisici suoi caratteri
estrinseci alle condizioni dell'organismo, quantunque
espressi in qualche modo sul medesimo. Il calorico
poi animale, vitale, organico è lo stesso principio
imponderabile, sottoposto però, come si esprime il
Puccinotti (vedansi le sue lezioni su Isistema nervoso),
all'azione del processo vitale negli organi della vita
vegetativa non dissimile da un'assimilazione , me-
diante cui il calorico diventa assimilabile , forma
parte organica dell'organismo, ed acquista una na-
tura particolare distinta con singolari caratteri in
gran parte indipendenti da quelli del calorico me-
ramente fisico, con cui però conserva una certa af-
finità.
Il qual pensamento relativo alla duplice maniera
di esistere il calorico nel corpo umano veniva dilu-
cidata ancora dal chiarissimo Medici, il quale dopo
d'aver fatto conoscere nella sua Fisiologia cosa s' in-
tenda per potenza eccitante, e cosa per potenza ri-
producente, chiama così la prima quel corpo, che
cagiona nell'organismo un movimento più o meno
visibile, senza incorporarsi con i tessuti organici, e
senza trasmutarsi in loro parte integrale; e chiama
poi così la seconda, cioè potenza riproducenle quella,
che s' incorpora colle parti fluide e solide de'corpi
organizzati, e diventa parte integrale de' medesimi:
dopo, dissi, d'aver fatto conoscere ciò il Medici di-
mostra, che il calorico esiste nel corpo umano , e
per conseguenza in ogni essere organizzato, in co-
211 -"^-
desta duplice maniera, vale a dire sì come polenta
stimolante e sì come potenza riproducente. Lo che
egli comprova con fatti fisiologici e patologici.
Parimenti il Bichat ragionando sullo stesso ar-
gomento sostiene: 1.° che il calorico sia introdotto
nel corpo umnno mediante la respirazione, la dige-
stione, ed anche mediante l'assorbimento cutaneo:
2.'' che lo stesso calorico introdotto nell'economia
animale con tutti gli elementi ripatori , che ha il
potere di appropriarsi, si mescoli col sangue , con
cui circola allo stalo di combinazione: 3.° che non
viene esso restituito allo stato di libertà se non dopo
esser pervenuto nel sistema capillare, ove esso si svol-
ge quasi per una specie di esalazione, e siffatto svi-
luppo va soggetto a tutta la influenza delle forze vi-
tali appartenenti alla parte, in cui si effettua. Ogni
organo per simil guisa ha il suo modo particolare di
calorificazione, del pari che il suo modo di sensibi-
lità, di secrezione, di nutrizione; ed in tal foggia il
fenomeno del calore animale rientra nell'ordine co-
mune de' fenomeni fisiologici (Vedasi il Dizionario
classico di medicina interna ed esterna. Articolo ,
Calore animale).
Il qual pensatnento intorno al calorico non viene
in alcun modo abbattuto da quanto alcuni fisici, spe-
cialmente odierni, adducono sull'oggetto in esame,
rilenendo il calorico non un corpo imponderabile
come si è generalmente creduto, ma bensì un molo
od una modificazione d'una speciale eterea sostanza.
Ed ecco come ciò viene espresso dal Secchi in un
suo discorso intorno alla correlazione delle forze
fisiche, e alla sua influenza nel concetto dell'univer-
212
so: « Le indjigini del Melloni finirono di dimostrare
non essere le radiazioni luminose, calorifiche, elet-
triche essenzialmente diverse fi-a loro; ma le vibra-
zioni del medesimo etere riuscire pili o meno alto
ad illuminare, riscaldare o alterare chimicamente i
corpi secondo la loro lunghezza; e può anche ag-
giungersi secondo la natura della sostanza , in cui
s' imbattono ».
« Stabilita l' identità della luce e del calore ra-
diante, e la loro natura di moto, anche il calorica
ordinario (seguita il Secchi) deve esser moto. Si sa
inoltre, che dal calore ne viene l'elettricità, e quindi
il magnetismo ; e viceversa dal magnete si ottiene
la corrente, che produce di nuovo calore: onde non
poteva a meno di concludersi, che tutti questi fe-
nomeni, attribuiti da prima a tanti agenti diversi,
non erano altio che le modificazioni d'una sostanza
per via d'un moto in diverse guise trasformato » (Ve-
dasi il Giornale arcadico di Roma, maggio e giu-
gno 1858). Lo che, dico, non abbatte il sopraespo-
sto pensamento del passaggio del calorico dallo stato
fisico a quello chimico organico, onde costituire la
febbre , considerato il calorico come un corpo per
se esistente. E di vero già anche nelle passate età
era pure invalsa la questione sul caloi'ico se questo
fosse un corpo, od una semplice qualità, come ciò
tiovasi espresso nell'opera sopra citata del Massaria
coH'analoga critica riflessione, palesato il tutto con
i seguenti termini: « Ex libro Theophrasti, qui de
calido et frigido inscribitur, quaerunt hoc loco ple-
rique omnes interpretes, quidnam per calorem, an
corpus calidum, an simplicem qualitalem oporteat
213
ìntelligere. Quae sane dubita tio mihi videtur tam vana
et inepta, ut non indigeat longiore confutatione: nam
calor et caliditas, sicuti albedo et nigtedo, et alia
huismodi nomina, si accipianlur in abstracto, sempei*
qualitatem significant; si vero accipiantur in concic-
to , possunt significare non soluin qualitatem , sed
etiam corpus , vel substantiam illi qualitati subie-
tam ». Laonde vuoisi riflettere, che quand'anche il
calorico fosse un moto, od una modificazione, come
dimostra specialmente il Melloni, non per questo mo-
tivo perderebbe di sua forza quanto in questo lavoro
si attribuisce al calorico; imperocché un qualunque
moto, od una qualsiasi modificazione non può sus-
sistere se non esiste la materia, od il corpo, che si
muove o si modifica. In conseguenza anche secondo
l'opinione del Melloni non potendo stare il calorico
senza il corpo o sostanza, da cui viene espresso, ne
conseguita, che discorrendosi del calorico, quanto a
questo si attribuisce si debba intendere riferibile alla
sostanza esprimente il calorico stesso atta a subire
quelle modificazioni, che superiormente si sono con-
siderate col passaggio del calorico dallo stato fisico
a quello chimico organico, diventando molecola for-
mante parte dell'organismo con caratteri vitali, a dif-
ferenza di ciò che era nello stato semplicemente fi-
sico, in cui la medesima sostanza calorifica dì sif-
fatti caratteri era priva.
La quale modificazione subita dal calorico, o dalla
sostanza eterea, come vuoisi pur chiamare, espri-
mente il calorico, effettuata col producimcnto del sud-
detto passaggio, sebbene impugnata da alcuni fisici,
viene però sostenuta dal Puccinotti con estesissimo
214
numero delle più valide ragioni desunte da moltis-
simi fatti sì fisiologici e sì patologici, come amplis-
simamente può vedersi nelle sue lezioni sul sistema
nervoso pubblicate in Firenze , ed in specie nella
quarta lezione.
Con siffatta modificazione subita dalla suddetta
eterea sostanza, riflette il Puccinotti, si apre un vasto
campo all'umana intelligenza onde trovar ragione di
un' immensità di fenomeni, che si svolgono nell'es-
sere vivente considerato in relazione cogli oggetti a
lui d' intorno. Più ammirabile poi si rende la slessa
modificazione quando esaminata ne' rapporti cogli
organi centrali della vita, si estende non solo nelle
relazioni della stessa eterea sostanza manifeslantisi
col calorico, ma ancora con quelle riferibili all'elet-
tricità ed alla luce. Allora, su di tal proposito così
si esprime lo stesso Puccinotti « come luce della vita
riguarderemmo anche noi un etere nel piccini mondo
dell' umano organismo , e diremmo pertanto , che
cotesto etere esterno modificatosi per varie guise
nella materia bruta, va poi a ricevere un'altra mo-
dificazione entio i corpi della natura vivente, e si
converte in essi in quel fluido , che chiameremmo
volentieri etere nerveo. Quindi le principali affinità
etiologiche del sistema senziente colle cause esterne
tanto di vita che di malattia saranno con tutti quei
principi! imponderabili, ne' quali si svolge l'etere fi-
sico del mondo esteriore ».
Ciò premesso , vuoisi così ragionare sullo svi-
luppo della febbre per eccesso di calorico- Quando ha
luogo nell'organismo l'evenienza di cause morbose
ealorifìchp, di qualunque qualità elleno sieno, pri-
215
ma d'ogni altra cosa la natura, mercè la forza con-
traltiva, o resistenza organica, mette in opera ogni
suo potere onde V organismo non resti sopraffatto
da tali cagioni. Imperocché esse invadono il nostro
essere, e tendono a sopraccaricare il medesimo di
calorico : questo in prima come mei-amente fisico
agisce colle sue fisiche qualità producendo movimenti
espansivi, ed accelerando i medesimi, de'quali però
la forza conservativa con opposta tendenza per legge
di equilibrio, o come dicesi, per reazione organica,
frena l'eccesso, a cui que' primi movimenti giunge-
rebbero senza la stessa reazione. Al quale intento
la forza conservativa viemaggiormente perviene mer-
cè la cutanea evaporazione, o esalazione, o traspi-
razione sensibile ed insensibile, dileguando così l'ec-
cessivilà del calorico, che tende a penetrare nell'or-
ganismo, ed investirlo.
Ma se la natura in molti casi riesce a conse-
guire quest'intento; però o per la fralezza degl'in-
dividui, o per il loro innormale costituto, o per la
prepotenza della causa morbosa, o per altre parti-
colari circostanze, la stessa natura non sempre in-
teramente supera l'azione dell' eccissività del calo-
rico sull'organismo, per cui questo in tal caso sog-
giace a diverse alterezioni. Le quali si presentano
sotto due diversi aspetti, di cui uno è relativo alla
condizione morbosa fisica-organica insorta mercè
la causa in discorso ne' suoi rapporti fisici coll'or-
ganismo: l'altro aspetto è consentaneo alla condi-
zione morbosa chimico-organica, o vitale, prodotta
dalla stessa causa ne' suoi rapporti chimico-vitali
coll'organisino medesimo. Di siffatte due condizioni
216
morbose entro h sfera delle loro relazioni o sem-
plicemente fìsiche, 0 chimico-vitali, organiche colle
rispettive cagioni, discorieva egregiamente il chia-
rissimo Folchi in un suo lavoro inserito nel Gior-
nale Arcadico di Roma nel primo trimestre del 1824.
Relativamente a queste due maniere, con cui dal
calorico è leso l'oiganismo, è pui- da notarsi, che
l'alterazion fisica non costituisce processo, ma sol-
tanto si limita air espansione, all'accelerazione dei
movimenti organici, ad effettuare insomma la sua
manifestazione in corrispondenza alla sua causa
esterna, ed a risentire gli effetti de' me/.zi refrige-
ranti a tenore delle leggi dell'equilibrio. L' altera-
zione poi chimico-organica costituisce processo, per-
corre tutte le fasi dell' economia animale indipen-
dentemente dalla sua causa esterna , min cede ai
mezzi refrigeranti in forza delle leggi d'equilibrio,
nia piegando bene finisce soltanto colle maniere di
risoluzione tenute dalla stessa animale economia coa-
diuvata d'analoghi mezzi suggeriti dalla medicina :
piegando poi male degenera in altri sconcerti del-
l'organismo.
Ora è cosa indubitata, che la febbre in esame
non sia un' alterazione semplicemente fisica, perchè
i suoi caratteri non sono uniformi a' sopraddetti
propri della sunnominata fisica aliarazione suscitata
neH' organismo dall' eccessività di calorico. Bensì i
caratteri febbrili s'accordano con quelli dell'altera-
zione chimico-organica , come appunto sono stati
superioimente espressi; e perciò la febbre è un' al-
terazione di questa natura, vale a dire chimico-or-
217
ganica. In conseguenza volendosi precisare la ma-
niera di sviluppo della febbre prodotta dall' ecces-
sività di calorico, cioè ristabilire la sua patogenia,
fa di mestieri valutare come siffatta eccessività, una
volta che abbia compenetrato l'organismo coli' in-
durre la suddetta chimica organica alterazione, su-
bisce le fasi dell'economia animale percorrendo le
sue essenziali funzioni, vale a dire la disassimilazione
o la sensazione. Entro la sfera delle quali s'aggira
il processo febbrifaciente , perchè la slessa econo-
mia animale in tutte le sue vicende s'esercita mercè
queste tre somme funzioni, colle quali si produce
l'intera evoluzione organica sì nello stato fisiologico
e sì nel patologico. Il perchè per lo sviluppo di que-
sta medesima patogenia non sembra necessario il
ricorrere alle fermentazioni, o ad altro proprio della
chimica bruta: mentre per lo scopo organico la na-
tura non si sei ve di altro, che delle tre anzidette
somme funzioni, come già provai nella mia Memo-
ria sulla conservatività e caducità della vita pub-
blicata in Fano nel 1858.
Pertanto quando l'eccessività di calorico ha vinto
l'organica resistenza, e mercè il poter modificante
della vita, come lo chiama il Puccinolti, esercitato
dal sistema nervoso, passa dallo stalo meramente
fisico a quello vitale, e diventa parte organica, che
si combina colle altre parti di lai natura negli ap-
parati destinati all' assimilazione , ed in ispecialità
nel sangue arterioso, in cui essenzialmente e so-
stanzialmente avviene codesta permutazione, comin-
cia allora il processo febbrifaciente- Il quale in con-
seguenza nel suo primo stadio di crudezza non è
218
altro, che T assimilazione in istato innorinale, mor-
b/)so, o (li peituibamenlo della mistione organica,
resa tale dal principio termico in grado eccessivo
superiore a' bisogni organici, e che non può avere
il suo primo sviluppo se non negli apparati assimi-
latori, e singolarmente nel sangue ed apparato ar-
terioso. E così il primo sviluppo del processo feb-
brifaciente, vale a dire Tinnormale assimilazione del
principio termico avente sede nel sangue e nelle
arterie, che come diffuse per tutto l'organismo, così
egli invade ogni parte del medesimo , in cui pro-
rompe l'estuazione qual primo fenomeno dell'ecce-
dente elemento calorifero. Contemporaneamente vi
prorompe come effetto della stessa causa la conci-
tazione del polso, producendo l'aumento del calorico
l'accresciuto moto arterioso. Quindi dal fomite s'in-
genera il disordine funzionale sì dell'intero sistema
sanguigno e sì del nervoso. Mediante il perturba-
mento del primo resta impedito il regolare eserci-
zio delle secrezioni, per cui queste si fanno sc;»rse
ed alterate, e si rende il tutto arido e ardente :
mercè il perturbamento del secondo, ossia del si-
sistema neivoso, si disordinano i regolati rapporti
li a il sangue ed i nervi; per il che si alterano la
sensibilità e la motilità, d'onde derivano il senso di
mal'essere e la prostrazione delle forze, non che le
vicende di temperatura, che si rimarcano nel corso
febbrile. Tra le quali vicende evvi talvolta come pro-
dotto della slessa alterata innervazione il sommo
algore risultante dall'impedita manifestazione del ca-
lorico cagionala dall'influenza nervosa. Il qual calo-
rico perciò se in questo caso non resta esternato ,
219
non è però che latente non sussista colla medesima
eccedenza, e non agisca morbosamente colla stessa
energia. Tutto questo sviluppo morboso procede dal-
Talterata assimilazione riverberala sul sistema ner-
voso motivata dall'eccessivo elemento termico, che
è quanto dire dalla prima molla del processo feb-
brifaciente.
Ma il lavoro assimilativo una volta incominciato
non può arrestarsi: esso progredisce sempre in in-
tensità, gradatamente accostandosi al tessuto fino alla
formazione del medesimo: di maniera che dalla prima
molecola organica fino al tessuto non si effettua altro
che una graduaxione di assi(niIazione sempre cre-
scente in inlcnsità. Ed ò per questo motivo, che
la febbre nel suo primo periodo confusa col pro-
cesso assimilativo morboso deve necessariamente fare
il suo corso, e deve andar crescendo di veemenza
percorrendo il medesimo fino al suo acme, vale a
dire fino a quel punto, in cui il processo febbrifa-
ciente, ossia la moibosa assimilazione, o trova nel-
l'animale economia il modo efficace onde liberarsi
dall'entità morbifica, come in seguito vedrassi; op-
pure codesto modo rimasto inefficace per la prepo-
tenza del male, lo stesso processo febbrifaciente gua-
dagna quella parte di tessuto organico, che trovasi
più delle altre a ciò [)i'edisposta , e vi imprime il
suo morboso influsso con una nìulazione chimico-
organica costituita essenzialmente dall'eccessività del-
l'elemento termico, e dal sangue ivi in gran copia
affluito per l'azione del medesimo principio termico
eccedente.
Con siffatti elementi il chiarissimo Medici di-
mostra accadere lo sviluppo del processo flogistico
220
esprimendosi nel seguente modo: « Sia una flogosi
nata dall'azione soverchia del calorico. Fintantoché
e in questo e nel sangue, che nella parte infiam-
mata si arresta , io non considero che un' azione
stimolante: potrò ben intendere in essa parte l'au-
mento de' moti vitali, i fenomeni del tuigor vasco-
lare, e dell'angioidesi: ma non potrò alla stessa azione
iribuire un effetto diversissimo da' prodotti, qual si
è la formazione del processo flogistico, il quale con-
siste in una mutazione organica e materiale del
tessuto che s' infiamma. E pure quando nel calorico
oltre l'azione stimolante io ammetta la proprietà di
cangiare lo stato chimico e meccanico della materia,
quando nel sangue oltre l'azione stimolante ravvisi
la facoltà d' incorporarsi colle fibre, e di modificare
l'organizzazione, se non ho un' idea chiara del pro-
cesso flogistico (e in qualsivoglia dottrina è forse im-
possibile d'averla) posso almeno trovar la corrispon-
denza fra gli effetti e le cagioni, e riconoscere nel-
l'accresciuto dinamismo, o eccitamento, o moto vi-
tale della parte infiammata , una conseguenza del-
l'aumentala azione stimolante del calorico e del san-
gue, e nella materiale mutazione dell'organismo ve-
dere un effetto d'un altro e particolar modo di agire
del calorico e del sangue. La quale ultima azione
io chiamo riproducente, riferendola allo stato natu-
rale e ordinario del corpo: parendomi, che esprima,
dirò così, e la continua peimutazlone, o nuova for-
mazione della materia organica ». (Vedasi Medici,
Fisiologia, articolo Potenze riproducenti).
Pertanto dalle quali cose risulta, che il processo
febbrifaciente effettua il suo corso nel suo stadio di
22t
crudezza, cioè dal primo punto della di lui produ-
zione sino al suo acme, come si con^porta l'assi-
milazione morbosa dalla formazione della prima mo*
lecola organica sino alla costituzione del tessuto.
Laonde siccome in siffatto procedimento della mor-
bosa organica assimilazione non altro si ravvisa, che
una progressiva alterazione sempre crescente in in-
tensità, e sempre a discapito dell'organismo, in modo
da esser questo gradatamente danneggiato dal pili
piccol giado fino al massimo, a tenore del necessario
progredimento dello stesso processo morboso assi-
milativo; così la febbre consistente in siffatto pro-
cesso nel suo stadio di ciudezza, ossia nel periodo
di morbosa assimilazione, non può esprimeie altro
che un danno sempre crescente dell'organismo, un
progressivo allontanamento dalla salute. In conse-
guenza durante il corso di questo primo stadio della
febbre si manifesta palesemente una tendenza od
efficienza distruggitiva, come risultato dalla intrin-
seca natura del processo febbrifaciente fin qui con-
siderato, in cui consiste essenzialmente la febbre,
come si vedrà in appresso.
Contro il qual processo nello stadio in esame
l'arte medica spiega tutta la sua possa diretta dal
principio « Contraria contrariis ».
Ma il processo febbrile come lesione chimico-
organica prodotta nel caso in discorso dal calorico,
che nella sua eccessività è potenza nemica al tìsico
vivente, deve subire le fasi dell'evoluzione dell'or-
ganismo nelle vicissitudini dell' economia animale ;
e però come ha interessato l'assimilazione, impegna
pure la disassimilazione, e la sensazione, il perchè
222
l'una e l'altra devonsi valutare onde considerar la
febbre nelTintero suo procedinjento: ed oia l'oidine
esige , che si tenga discorso della disassimilazione
impegnala nello stesso processo.
Ed intanto affinchè sì mantenga l'equilibrio vi-
tale rivolto allo scopo di dirigere l'evoluzione or-
ganica sempie in coirispondenza al suo tipo forma-
tivo, quando l'assimilazione prodotta da potenza ne-
mica all'organismo tende ad offendere il medesimo,
la disassimilazione provocala dalla forza conservati-
va, ed attuata dall'azione della stessa nemica potenza
negli apparati disassimilatori, non tarda a spiegare
la sua energia onde distruggere quanto di morboso
si era composto mediante l'assitnilazicne, ed elimi-
nare dal corpo vitale in un colla causa i materiali
morbosi mercè l'una o l'ai Ira delle differenti secre-
zioni, quando la sua efficacia è superiore a quella
dell'opposto potere distruggitore: quando poi è in-
feriore, avviene altra serie di disordini, come flogosi
ed altro e la stessa morte. In questo modo succede
e si complica talora alla febbre l'infiammazione.
Tutto ciò può aver luogo nel caso della febbre,
che qui si contempla. E difalli quando l'efficacia
della disassimilazione va a vincere nell' organismo
il composto morboso prodotto dall'assimilazione, il
suo predominio si manifesta con una successione di
fenomeni, che costituiscono il secondo stadio della
febbre, ossia il secondo tempo dell'intei'o suo corso
detto di cozione, con un andamento tutt'opposto a
quel del piimo stadio chiamato di crudezza. Impe-
rocché quivi non si ha piiì il sempre crescente al-
lontanamanto dalla salute; ma invece a tenore che
223
le funzioni disassimilative vanno guadagnando sopra
gli effetti del potere assimilativo, si ha una graduata
approssimazione a sanità, che all'esterno si manifesta
con tutti que' segni, che si son visti sviluppali nel
secondo stadio della febbre, ossia nel suo stadio di
cozione, coll'esposizione di tutto ciò che costituisce
il suo fatto morboso.
F.o che dovendosi considerare nel processo feb-
brifaciente cagionalo dall' eccessività dell' elemento
tei-mico, notasi, che questa mentre dal potere assi-
milativo è condotto ad alterare la compage organica
in prima del sangue, e quindi anche talvolla de' tes-
suti colle forme superiormente descritte , soggiace
pure alla forza disassimilativa, che tende ad elimi-
narlo dal corpo per essere nel grado in esame po-
tenza nemica all'organistno. Ed alloi'chè risulta ef-
ficace l'attività del potere disassimilativo al di sopra
dell'assimilativo, incomincia il secondo stadio della
febbre. Durante il quale l'eccedente calorico riman
sottoposto in questo caso come elemento organico
all'elaborazione degli apparati disassimilativi, percor-
rendo i medesimi in tutto il tempo necessario a
codesl'elaborazione, il quale corrisponde a quello ,
che costituisce il secondo stadio della febbre detto
di cozione. Nel fine del quale, secondo le riflessioni
sopra esposte del Bichat, pervenuto l'elemento ter-
mico alle capillarità vascolari svolgesi da queste, e
resta eliminato dal corpo a guisa di esalazione at-
tivata dall'operosità secernenle del potere disassimi-
lativo come special sua crisi.
Questo è il caso dell'ordinario corso febbrile re-
lativo al suo secondo stadio, cioè alla sua cozione,
22i
quando il processo febbrifaciente piega a felice li-
siiltamento, che trovasi avere una durata presso a
poco uguale a quella del primo stadio percorribile
nel loro insieme per settenari. Di maniera che di
siffatti settenari il quarto giorno, l'undecimo, e via
discorrendo con questa proporzione , che i medici
sin da' remoti tempi chiamavan giorni indicatori ,
questi non sono altro ne'casi fausti che il passaggio
dal primo al secondo stadio, vale a dire la succes-
sione della disassimilazione all'assimilazione.
Nel corso di questo secondo stadio della febbre
mediante il lavoro disassimilativo compreso dentro
certi limiti si mostra una tendenza od efficienza tut-
t'opposta a quella, che si era manifestata nel primo
stadio; imperocché se durante il potere assimilativo
effettuato nello stesso primo stadio febbrile si palesa
una tendenza od efficienza distruggitiva ; viceversa
nel secondo stadio, vale a "dire durante la disassi-
milazione circoscritta entro le organiche barriere se-
condo il tipo formativo, si manifesta una tendenza
od efficienza in realtà conservativa.
In questo stadio febbrile, che qui si considera
successivo al primo, è dove Tarte medica esercita
il suo potere diretta dal principio: « Eo ducere opor-
tet quo natura verglt ».
L'esito fausto però dell'avvicendamento delli due
descritti stadi febbrili può essere eccezionato da
quella circostanza, che accade talora, per la quale
la disassimilazione eccede nella sua attività o per
la quantità somma dell'elemento eterogeneo da eli-
minarsi, 0 per una naturale tendenza indotta da spe-
ciali condizioni dell'organismo, dall'età, dal clima,
225
dalla stagione, e da altro a ciò consimile. In que-
sto caso avviene o l'initazione degli organi secer-
nenti , e quindi la loro infiammazione ; oppure la
trasmodata disassimilazione elimina dal corpo oltre
agli elementi eterogenei ancora gli omogenei con
•danno dell'organismo. Lo che dà alla febbre alcune
speciali forme basate sulle medesime efficienze del-
l'economia animale.
Ma se nella maggior parte de' casi si ha il pro-
cedimento della febbre anche di quella qui in esame
distinta ne' due diversi stadi, come è stato descritto,
avviene però talvolta, che o per la prepotenza della
sua cagione, o per la fralezza del paziente, o per
altra consimile circostanza, non si effettua la suc-
cessione del suddetto predominio della disassimila-
zione sull'assimilazione; ed in questo caso per quan-
to, il potere disassimilativo si adopri onde prevalere
sull'assimilativo , esso non riesce nel suo intento.
E però quivi non si ha più l'esatta distinzione dell?
due stadi o tempi del periodo febbrile; ma invece
sì manifesta il corso della febbre sempre crescente
in morbosa intensità; o tutt'al piiì presenta di quando
in quando qualche remissione corrispondente allo
sforzo, che fa il potere disassimilativo per superare
l'assimilazione, la quale in questo caso sempre pre-
domina fino al fine , che è la degenerazione della
febbre in altra malattia, o nella morte.
In ogni modo però anche quando il corso feb-
brile non è marcatamente distinto ne' suoi due stadi,
i quali d'altronde, come sopra si è detto, si realiz-
zano per ordinario nella maggior parte de' casi in
corrispondenza all'assimilazione ed alla disassimila-
G.A.T.CLXV. 15
226
zione sempre agenti in qualunque sviluppo organico
sano o morboso, e sia pure in tal caso di mancante
distinzione delli suddetti due stadi il funzionamento
assimilativo prevalente sul disassimilativo , egli ò
sempre vero, che la speciale tendenza od etficienza
manifestata nell'esercizio di questi due funzionamenti
giammai può mancare in qualunque febbre e caso
febbrile. Sarà pur talvolta predominante la tendenza
od efficienza dell'assimilazione su quella della disas-
similazione: lo che sarà causa di grave disordine:
ma non per questo motivo possono rimaner sop-
presse le efficienze nello sviluppo della febbre rela-
tivamente alle suddette funzioni dell'organismo.
Cosi pure nel caso che la disassimilazione pre-
ponderi in modo da fare eliminare dal corpo non
solo i materiali eterogenei, ma ancora gli omogenei,
il funzionamento disassimilativo conserva sempre, la
sua tendenza od efficienza finché non degenera in
processo dissolutivo, come succede appunto, quando
pel medesimo funzionacnento avviene l'eliminazione
ancora de' materiali omogenei. Lo che impedisce la
regolare manifestazione del secondo stadio febbrile.
In questo caso le efficienze in discorso prendono
un ordine inverso. Però è sempre vero, che nel de-
corso della febbre la natura si mostra sempre nel-
l'economia animale in qualunque suo stato o con-
dizione colle speciali efficienze sopra considerate.
Le quali non saranno sempre di ugual proporzione;
né sempre l'una o l'altra preponderante in grado a
tenore de' bisogni dell' organismo corrispondente-
mente alla conservazione del tipo evolutivo; ed anzi
in alcuni casi codesta preponderanza sarà soverchia-
227
niente eccessiva, e tale da cagionare l'oiganico di-
sfacimento; pur con tutto ciò le stesse tendenze od
efficienze in discorso mai cessano , e non possono
aver fine che col terminar della vita, essendo una
proprietà essenziale della vita stessa.
Laonde dalle cose fin qui discorse sulla febbre
prodotta dall' eccessività di calorico rilevasi esser
manifesto , che questa febbre per esser costituita
dall'elemento prototipo febbrile, qual' è il calorico,
può dirsi il tipo della febbre, nel corso della quale
si manifestano due essenziali tendenze od efficienze,
l'una distruggitiva appalesata nel primo stadio feb-
brile, ossia nel periodo di crudezza, l'altra conser-
vativa realizzata nel secondo stadio di essa febbre,
cioè nel periodo di cozione. Oltre di che dalle
stesse cose fin qui dette risulta, che queste mede-
sime tendenze od efficienze si manifestano anche
quando il corso di questa febbre non è regolarmente
espresso, e distinto ne' suoi due diversi stadi. Il per-
chè la manifestazione di siffatte due efficienze tro-
vasi corrispondere in via di ragione a quanto pre-
senta il fatto morboso costituente la febbre ne' suoi
due tempi , il primo marcato coli' allontanamento
dalla salute, il secondo coll'avvicinamento alla me-
desima.
Per completar poi la patogenia della febbre pro-
dotta dall'eccessività di calorico è pur mestieri va-
lutare il modo, con cui nel processo febbrifaciente
in discorso reeta impegnato il sistema de' nervi, os-
sia la sensazione, onde rilevare se sotto quest' im-
pegno ancora si manifestino le due opposte tendenze
od efficienze, che si palesano ne' due diversi tempi
228
o stadi costituenti 1' intero corso della febbre. In-
torno al quale oggetto è rimarcabile la duplice ma-
niera, colla quale il sisteiria de' nervi può rimanere
alterato nello sviluppo del processo febbrifaciente ,
cbe consiste, 1.° in una lesione dinamica, detta or-
dinariamente simpatica , che ha luogo ne' casi di
febbre di lieve intensità: 2.° in una lesione chimico-
organica, nominata per ordinario idiopatica, che av-
viene quando la febbre assume uno stato di special
«ravezza.
L'alterazione dinamica prodotta nella febbre in
esame dall' influenza del sangue sopraccarico dal-
l' eccessivo elemento termico esercitato sull' etere
nerveo, consiste nel disequilibrio di questo medesimo
principio etereo nelle sue correnti, per cui avven-
gono i disesti sensorio- motori notali nel!' intero corso
febbrile. Il quale etereo sbilancio si effettua col pre-
dominio de' movimenti contrattivi sugli espansivi ,
o di questi su di quelli, ma in modo che mentre
gli uni tendono a danneggiar l'organismo, gli altri
fanno ogni sforzo per opporsi a questo danno. In
siffatto contrasto, secondo le riflessioni di Kant, si
manifesta la vita, per cui fino a che questa si man-
tiene, esso contrasto pur si regge. E siccome egli
si risolve nelle due tendenze od efficienze sopra
dimostrate; così nell'alterazione dinamica avvenuta
nel sistema nervoso per influenza del sangue sovrac-
carico dell' elemento termico nel caso della febbre
in esame si realizza tanto la tendenza distruggitiva,
quanto la tendenza conservativa , e si confondono
colle stesse efficienze notale ne' due stadi della me-
desima febbre, esprimendosi in modo uniforme alla
229
tendenza sviluppata in ciascuno di questi stadi, come
ciò è stato supei'iornjente dimostrato.
L'alterazione poi chimico-organica del sistema
nervoso , che si produce nella febbre qui contem-
plata quando questa assume uno stato di forte in-
tensità, si risolve nel lavoro assimilativo e disassi-
milativo particolarizzato dall'eccessività dell'elemento
termico. In forza del quale la compage nervosa sog-
giace a quelle fasi, che sopra si sono notate avve-
nire allorché l'assimilazione dopo d'aver percorso gli
apparati assimilativi , se ivi non trova maniera di
risolversi, passa ad interessare il tessuto organico,
che in questo caso è il nervoso , e vi produce un
morboso lavoro per l'eccedenza dell' elemento ter-
mico nel modo che superiormente è stato consi-
derato. Kd allora in questo caso un tale impegno
avviene nel sistema de' nervi, quando la forte inten-
sità della causa morbosa, vale a dire il considera-
bile eccesso di calorico , e quando una particolare
suscettività del nerveo tessuto a risentire gli effetti
di codesta cagione a preferenza di altre parti si re-
alizzano neir individuo affetto dal processo febbri-
faciente qui esaminato.
Ma in quest'avvenimento stesso il lavoro assi-
milativo e disassimilativo effettua to nel tessuto ner-
voso in relazione al processo morbifero febbrile, nel-
l'atto che interessa il funzionamento di questo tes-
suto, non lascia d'avere i suoi rapporti di compo-
sizione e di decomposizione colla generale economia.
11 perchè mentre durante il lavoro assimilativo for-
masi l'alterazione chimico-organica nel tessuto ner-
veo, si mostra una tendenza od efficienza atta a di-
230
sestare od anco talvolta guastare la compage normale
di questo medesimo tessuto: lo che è quanto dire,
si mosti-a in tal caso una tendenza od efficienza di-
slruggitiva. Viceversa poi durante il lavoro disassi-
milativo scomponendosi il prodotto della morbosa
assimilazione secondo le norme del tipo organico,
affinchè il tessuto alterato ritorni nella sua normale
condizione, si mostra una tendenza od efficienza con-
servatrice. Laonde anche neiralterazione nervea sotto
qualunque stato essa venga indotta, nella produzione
della febbre sì realizzano sempre le due tendenze od
efficienze, l'una distruggiti'ice, l'altra conservatrice,
come si mostrano nel corso del processo febbrifa-
ciente, e con le tendenze od efficienze sviluppate in
questo si confondono in maniera da soggiacere in-
sieme a tutte quelle fasi, che sono state sopra con-
siderate nelle varie vicende dell'assimilazione e della
disassimilazione a tenoie della moltiplicità e varietà
de* casi di produzione febbrile con diversità di risul-
tamenti. In conseguenza rimangono senipre inelut-
tabili le due opposte tendenze od efficienze mani-
festatesi nel corso dello stato febbrile, qual' è quello
fin qui discorso, distruggitrice l'una, conservatrice
l'altra.
Da quanto fin qui si è detto intorno all'evolu-
zione febbrile rilevasi il concetto della febbre quivi
esposto esser quello della febbre continua, e della
vera sinoca. Dal quale concetto però si eccettua la
febbre effimera, e quella così detta irritativa, le quali
non hanno per fondamento come la continua un
processo chimico-organico, quale è stato superior-
mente dimostrato , ma invece sono costituite da
231
un' allerazione dinamico-organica essenzialmente
formata da eccessività di calorico , da eccessività
de' battiti arteriosi, da eccedente espansilità sangui-
gno-vascolare in rapporto immediato con quelle ri-
spettive cagioni, dalle quali la stessa alterazione di-
namico-organica è mantenuta. Tale è la razionai dif-
ferenza, che passa tra la febbre continua e l'effimera
e r irritativa.
Siccome nella prima febbre, così anche in queste
ultime, vale a dire nella febbre effimera e nella irri-
tativa, si manifestano durante il rispettivo loro corso
le due opposte tendenze, od efficienze, come sono
state sopra considerate, delle quali in questo caso
la distruggitiva è il prodotto in immediato rapporto
delle cause morbose collegate essenzialmente con
esse cause, che è quanto dire l'altei'azione dinamico-
organica correlazionata colle morbose cagioni: l'ef-
ficienza conservativa poi proviene dalla resistenza or-
ganica nel modo sopra contemplato.
§. III.
La febbre prodotta da un miasma considerata come
un processo di estiiazione sanguigna in rapporto alle
principali tendenze od efficienze, che si manifestano
nel suo corso.
Un altr' oggetto, che pure ha destato lo studio
de' medici di tutti i tempi nello sviluppo della feb-
bre, è stato l'avvenimento di quest' infermità in se-
guito all' introduzione d'un miasma comunque acca-
duta nell'organismo. In questo caso lo sviluppo feb-
232
brile ha dalo motivo a varie interpretazioni, secondo
le diverse dottrine professate da' medici in diversi
tempi; mercè le quali- dottrine si è procurato di ren-
der ragione degli elementi della stessa febbrile evo-
luzione. E così ora si è creduto, che questa avven-
ga , perchè il miasma introdotto nel sangue desìi
in esso un fermento concollivo , in cui si è fatto
consistere il processo febbrifacicnte, ossia la stessa
febbre (Vedasi Franceschi sulle febbri). Ora si è ri-
tenuto, che la causa morbosa in discorso agisca sul
sistema de' nervi, da' quali diffusa 1' impressione al
centro senziente, e da questo lipeicossa nel punto
centrico dell' apparato irrigatore sanguigno , sia al
caso in questo modo di produrre il movimento feb-
brile a guisa di polen/a iiritativa inducente irrita-
zione nervoso-vascolare atta non solo a produrre un
tumulto locale o generale, ma ancoi'a ad opprimere
la vitalità. V ha chi ha pensato, che l'azione pato-
logica de' miasmi , essendo 1' irritativa particolar-
mente diretta sull' apparato gasti'o-enteio-epatico ,
possa ingenerarsi la febbre da questo fomite. E v' è
pur anco chi ha sostenuto, che nel caso in esame
intanto si sviluppa la febbre, in quanto che all'azione
irritativa del miasma succeda lo stato infiammatorio
in quello stesso punto del sistema organico, in cui
ha avuto luogo 1' irritazione. (Vedasi relativamente
a' vari opinamenti sull'azione del miasma Salvatore
De-Renzi nel suo lavoro sulle paludi).
Pertanto qualunque sia il valore di siffatti opi-
namenti stimasi qui opportuna un' ulteriore rifles-
sione, onde rilevare come il miasma infella l'oiga-
nismo per giungere al producimento dello stato feb-
233
brìle, e delle principali efficienze, che si mostrano
nel corso del medesimo. Intorno a ciò anzi tutto è
notabile, che l'azione del miasma avviene nel nostro
fisico in modo da risentire la sua presenza ed effi-
cacia l'assimilazione organica, e gli stessi organici
tessuti. Imperocché gì' individui affetti dal miasma
mostrano anche all' esterno un morboso sembiante,
che indica essere invasa la propria organizzazione
da un eterogeneo principio, che ne altera la tessi-
tura, e no perturba l' intera compage. Lo che sembra
non potere per altra maniera accadere, che per via
d'assorbimento. Mercè del quale in sulle prime la
materia eterogenea costituente il miasma vien por-
tata da' vasi assorbenti alle vene, e quivi se trova
pronto mezzo onde essere eliminata per opera degli
organi emuntori, l'assimilazione colla rispettiva or-
ganica tessitura ne rimane libera. Se poi una tal
prontezza eliminativa non si effettua a motivo di
particolari circostanze contrarie alla normalità della
salute individuale , in questo caso è compromessa
dalla presenza del miasma l'assimilazione in princi-
pio negli apparati assimilativi; e quindi se da questi
non viene il principio miasmatico sollecitamente sot-
tratto mediante un'opposta operosità propria degli
apparati disassimilativi sempre intenti a togliere dal-
l'assimilazione quanto di morboso essa conticene, onde
così conservar sempre intatto il tipo organico, resta
impegnato l'organismo ne' suoi speciali tessuti.
Ma sì neir uno e sì nell'altro caso non sempre
avviene lo sviluppo della febbre, come difatti si ve-
dono senza esser presi da febbrile invasione molti
individui abitanti in una località occupata dal mi-
234
asma aventi l'abito di corpo sì in islato ordinario,
e sì in condizione morbosa propria di siffatte loca-
lità infette. In conseguenza il miasma può essere as-
sorbito, ed anche assimilato, e così può alterare i
tessuti organici, avvenendo in tal caso quanto nota
il Puccinolti dimostrando « che vi son potenze mor-
bose , le quali quantunque improprie ad una sana
ematosi, pur sono assimilabili, ed atte a subire tal
mutamento da fare accadere una specie di satura-
zione organica » (Vedasi Puccinottì, Patologia in-
duttiva).
Con tutto ciò però in siffatto stalo di morbosa
assimilazione non sempre si sviluppa la febbre. Dun-
que quando in tal caso avviene la febbre, oltre Tas-
similazione del miasma deve aver luogo la conco-
mitanza di altra cagione, che valga a determinare
il producimento febbrile, e sia causa diretta del me-
desimo.
Per intendere la causa in discorso i patologi sono
stati di vario opinamento; imperocché v' è chi ha
creduto essa non poter consistere in altro che in una
fermentazione suscitata nel sangue dal miasma ; e
che quando essa avviene, si sviluppa la febbre, con-
fondendosi questa colla stessa fermentazione. Ma in-
torno a ciò già superiormente si è visto come una
tale opinit)ne si opponga al vital funzionamento. V è
pure chi ha ritenuto, che la febbie successiva al-
l' introduzione del iniasma nell'organismo sia un sin-
toma dell' infiammazione prodotta dal miasma stesso
in un tessuto organico. Lo che però si oppone al
fatto , poiché non trovasi sempre 1' infiammazione
ne' casi di producimento della febbre in esame. V è
235
pure chi sul medesimo oggetto ha emesso altri pa-
reri, che per esser troppo lontani dalla risoluzione
del presente argomento stimasi non esser necessario
il qui riferirli.
Quel che sembra più consentaneo al fatto in
rappoito alla causa diretta del movimento febbrile,
nel caso d' introduzione del miasma nell'organismo,
è che da questo miasma medesimo in combinazione
con i principi elementari del sangue si svolge un'ec-
cedente quantità tale di calorico da costituire l'ele-
mento termico produttore immediato del processo
febbrifaciente, costituendo esso stesso la febbre nel
modo, che sopra è stato dimostrato.
Il quale sviluppo di eccedente calorico sta in
rapporto colle condizioni elettriche sì del miasma
e sì del sangue sotto 1' influenza del sistema nervoso,
come da tal sorgente eletro -nervosa spiega la pro-
duzione del calore animale il Medici nella sua opera
di Fisiologia nel seguente modo: « Da molle osser-
vazioni si è compreso Teletlricilà operare il riscal-
damento de' corpi nella stessa maniera che il calo-
rico, siavi o no manifestazione di luce: ogni corpo
avere la sua elettricità: 1' elettricità operando mo-
strarsi sotto il doppio aspetto di positiva e di ne-
gativa: questo stato elettrico de'corpi tanto piiì ma-
nifestarsi, quanto piiì i corpi hanno reciproca affi-
nità, e tendono ad unirsi: e nell'atto dell'unione, o
composizione, le due elettricità libere opposte neu-
tralizzarsi producendo il fenomeno del calore. Il che
presupposto, la spiegazione del calore animale più
consentanea allo slato attuale delle nostre cogni-
236
zioni sarebbe, che ne' fenomeni chimici del respiro
non meno che in quelli, che accadono nella cute,
nei tubo alimentare, negli organi separatori, e in
tutti i punti del corpo vivo, i principii, i quali di
continuo tendono a comporsi e scomporsi, abbiano
la propria elettricità in uno stato libero ed opposto,
vale a dire di negativa e di positiva: che nell'alto
del compomento o scomponimento coteste due elet-
tricità sì neutralizzano: e che questo neutralizzamen-
to porti di necessità la manifestazione del calore.
Ma comunque si generi il calore animale, l'azione
de' nervi n' è la principale regolatrice w. Anzi que-
sl' azione è quella, mercè cui il calorico anche di
siffatta elettrica provenienza acquista i caratteri or-
ganici o vitali. Insomma è sempre il potere modi-
ficante del sistema nervoso, come lo chiama il Puc-
cinotti, quell'agente, che vitalizza il calorico di qua-
lunque sorgente egli sia, e ne determina i vari gradi
di temperatura tanto nello stato fisiologico, quanto
nejle svariate patologiche condizioni.
Pertanto l'eccedente sviIu[)po di calorico prove-
niente da fomite elettrico nel caso in esame del-
l' introduzione del miasma nel nostro fisico allora ha
luogo quando opportune circostanze riferibili tanto
allo slato dell' individuo atfetlo, alla sua età, al tem-
peramento, quanto relative a condizioni esterne, co-
me clima, stagione, stato particolare atmosferico, e
ad altro consimile , determinano quelle condizioni
elettriche in concomitanza colle altre proprie del
miasma, che sono capaci e necessarie a siffatto pro-
dotto dell'eccessivo elemento termico. In conseguen-
237
z!i non è il miasma, che direttamente cagiona la feb-
bre, ma bensì è l'eccessività del calorico. Per il che
quando questo eccedente calorico non si produce per
la mancanza delle necessarie condizioni elettriche da
svolgersi nella circostanza dell' introduzione del mi-
asma nel nostro corpo, il miasma subirà tutte le fasi
dell'economia animale, sottostando a' processi assi-
milativo e disassimilativo, ma non per questo ca-
gionerà la febbre. Affinchè essa in questo caso resti
prodotta è necessario, che sia costituita dall'ecce-
dente elemento termico svolto nel fatto in discorso
dalle condizioni elettriche suscitatesi tra lo stesso
miasma e lo stato del sangue dell' infermo unita-
mente alle altre avventizie circostanze sopra consi-
derate come agenti nella necessaria produzione elet-
trica. Motivo per cui in tal caso di affezione mi-
asmatica la febbre sviluppata in essa s' identifica
coir eccessività del calore animale , come già si è
visto.
Si fa pili grave il male in questo caso medesi-
mo di sviluppo di febbre nell' individuo invaso dal
miasma, perchè se la sostanza miasmatica penetrata
nell'organismo senza che si congiunga a movimento
febbrile è capace di costituire uno stato morboso,
che necessariamente per legge dell'economia animale
deve subire le fasi assimilative e disassimilative ;
allorché poi a questo stato morboso si associa la
febbre, evvi un'altra potenza nemica all'organismo,
qual' è l'eccessività dell'elemento termico, che può
produrre disastrose conseguenze, e che ancor esso
deve pur sottostare alle stesse fasi dell' economia
238
animale. In conseguenza in questo caso di sviluppo
di febbre nelP individuo affetto da miasma due sono
le cause morbose, che rendono lo stato dell' infermo
più grave di male di quello che lo renderebbe cia-
scuna di queste due cause agendo isolatamente. Né
questa maggior gravezza di male può esser garantita
dagli atti disassimilativi in maggior copia attivati
in seguito al movimento febbrile, perchè sono in-
certi del loro utile , e perchè non impediscono la
stessa aumentata morbosa gravezza.
{Coniiima).
239
VARIETÀ'
Dissertazioni della pontificia accademia romana di ar»
cheologia. Tomo XIV. - 4-.° Roma dalla tipografia
della reverenda camera apostolica 1860. (Sono pa-
gine CIX e 378).
JLIegno degli altri tomi è ora escito alla luce que-
sto decimoquarto a mostrare sì l'alta protezione che
la Santità di N. S. PIO IX concede alle dottrine
dell'antichità , e sì i vari studi degli accademici.
Precede la lettera dedicatoria a Sua Santità ,
umiliatale dal presidente dell'accademia cav. Salva-
tore Betti. Segue il catalogo de'soci ordinari, ono-
rari e corrispondenti, così viventi, come defunti. È
poi la notizia delle adunanze ordinarie e straordi-
narie dall'anno 1844 al 1850 , egregio lavoro del
segretario perpetuo commendatore Pietro Ercole Vi-
sconti.
Le dissertazioni , ond' è ricco il forno , sono le
seguenti:
I. Dell' uso ed utilità dei monumenti cristiani,
anteriori all'uso dell'era volgare, per la storia e cro-
nologia della chiesa. Del cav. Carlo Lodovico Vi-
sconti. (Coronata dall'accademia).
IL Sopra la iscrizione antica dell'auriga Scirto.
Del cav. Luigi Grifi.
240
III. Degli dei consenti , e del loro portico nel
clivo capitolino. Del cav- Luigi Grifi.
IV. Sulla patria del poeta comico Terenzio. Del
cav. Salvatore Betti. (Con appendice).
V. Sul ristabilimento e riparazione della parte
media verso 1' Esquilino dell'anfiteatro Flavio. Del
commend. Luigi Canina.
VI. Sulla scoperta della basilica Giulia noi foro
romano. Del commend. Luigi Canina.
Vii. Elogio di Luigi Canina socio ordinario. Del
commend. Clemente Folchi.
Vili. Dei correttori biblici della biblioteca va-
ticana. Del P. D. Carlo Vercellone.
IX. Lapida di Nora. Del P. Raffaele Garrucci.
X. Dell' uso de' monumenti epigrafici per 1' in-
terpretazioni delle leggi romane. Del prof. avv. Ilario
Alibrandi.
XL La filosofia e la vera medicina, sorte 300
anni avanti l'era volgare, producono inattesi e ma-
ravigliosi risultameuli. Del cav. Agostino Cappello.
XIL Cenni necrologici di Giuseppe de Mattheis
socio ordinario. Dell'ab. cav. Antonio Coppi.
XIIL Intorno allo specchio vulcante di Atlante,
e in occasione di esso a quel di Prometeo liberalo,
alle formolo vii ed avir, e ad alcune iscrizioni fu-
nebri etruscbe. Del P. Camillo Tarquini.
XIV. Dell'antichissimo codice vaticano della bib-
bia greca. Del P. D, Carlo Vercellone. (Con appen-
dice del cav. Giambattista de Rossi).
XV. Se Giulio Cesare ed Augusto intesero mai
di portare la sede dell' impero ad Ilio. Del cav. Sal-
vatore Betti.
241
Sopra una inedita medaglia di Francesco Massimo
dottore di legge e cavaliere morto nel 1498. Let-
tera del principe D. Camillo Massimo al principe
d' Arsoli D. Carlo Massimo suo figlio, in occasione
delle sue nozze con D. Francesca Lucchesi Palli
de' principi di Campofranco. 8.° Roma tipografìa
Sa/vmcd 1860. (Sono pag. 48 con due incisioni).
Il signor prìncipe Massimo è uno di que' patrizi
romani che i buoni studi congiungono coll'alta gen-
tilezza delia stirpe e dell'animo. Oltre al valor suo
nelle dottrine archeologiche, per le quali siede me-
ritamente fra i soci di onore della pontificia acca-
demia» non v' ha forse persona fra noi che gli sia
pari fiel saper le memorie annedote di tante pre-
clare famglie, che già furono nella città eterna, e
tanti fatti, comunemente ignorati, della nostra età
di mezzo. E questa lettera n' è un nuovo documento:
nella quale l'egregio signore dottamente illustrando
una medaglia inedita del suo antenato Francesco
Massimo, che nel secolo XV fu chiaro in giurispru-
denza e governatore di Benevento per Alessandro VI,
r ha di tante cose romane arricchita, che può dirsi
un tesoro d' importanti notizie patrie. Di che do-
vremo sapere novello grado a quella nobilissima fa-
miglia Massimo , che tenera sempre delle romane
onorificenze prima accolse e favorì in Roma l'arte
tipografica pocanzi nata in Germania, famosi essendo
i libri usciti nel 1467 ex aedibus de Maximis.
G.A.T.CLXV. 16
242
Annali d* Italia dal 1750 compilali da A Coppi- -
Tomo Xf 1848. - 8.° Firenze dalla tipografìa ga-
lileiana di M. Cellini e C. 1860. (Sono pag. XXIV
e 816).
Accolga il chiarissimo cav. Coppi i sinceri no-
stri rallegramenti. L'opera sua degli Annali conti-
nua di bene in meglio: e soprattutto questo tomo X
vuol dirsi veramente un capolavoro. Ordine egregio,
chiarezza somma di esposizione , gran cognizione
delle cose, notizie affatto autentiche, non ciance fa-
ziose, non declamazioni settarie, non esagerazioni:
ma fatti, non altro che fatti, e sempre fatti. Noi
non crediamo che a più limpide fonti possano attin-
gere quind' innanzi coloro, che di questi tempi scia-
guratissimi intenderanno scrivere puramente il ve-
ro , anziché dettare romanzi favorendo le parti
estreme, esaltando gli operatori di scandali, ed al
solito affascinando i semplici.
243
Sulla costruzione delle sale dette dei giganti, memo-
ria di S. M. il re Federico VII di Danimarca. Ver-
sione dal francese, preceduta da un discorso, del
conte Giancarlo Conestabile prof, di archeologia
nelV università di Perugia, membro della reale so^
cietà degli antiquari di Copenaghen e di altre ac-
cademie. - 8.° Firenze coi tipi di M. Cellini e C.
alla Galileiana, 1860. (Sono pag. 58 con varie
incisioni).
Voglionsi rendere molte grazie all'esimio conte
Conestabile dell' avere tradotto nella nostra favella
questa Memoria di un monarca dottissimo, il quale
a* nostri giorni onora cotanto le scienze e le let-
tere egregiamente da lui coltivate. Bello ed erudito
il discorso preliminare del traduttore, e pieno delle
sincere lodi del re : e sommamente ragionevoli a
noi sembrano le dichiarazioni di Sua Maestà intorno
a que' massi di grandi pietre, che si chiamano co-
munemente sale dei giganti^ né altro sono che ca-
mere sepolcrali operato dagli antichissimi popoli di
Scandinavia.
244
Lettere e memorie autografe e inedite di artisti^ tratte
dai manoscritti della Corsinianai pubblicate e an-
notate da Francesco Cerreti bibliotecario. - 8.°
l^oma 1860. Stabilimento tipografico , corso 387.
(Sono pag. 67 con due tavole litografiche).
Prezioso è sempre ciò che in fatto di belle arti
esce della penna de' valenti artisti. E preziosa per-
ciò chiamerenio questa raccolta de' loro autografi,
illustrandosi per essi non pochi pubblici monunnenti
innalzati soprattutto nella città eterna. Di che sieno
grazie all'egregio sig. Cerroti, il quale sì onorevol-
mente, cioè con utile de' buoni studi, presiede alla
Corsiniana. Le lettere qui pubblicate da lui, e il-
lustrate dove fu di mestieri , sono de' seguenti :
Baratta Gio. Maria ; Bartolozzi Francesco ; Bernini
Gio. Lorenzo; Berrettini Pietro; Billy Niccola; Bor-
romini Francesco; Bramante Donato;Caccianiga Fran-
cesco; Conca Sebastiano; Devizet Antonio; Drei Pie-
tro Paolo; Ghezzi Pietro Leone; Mayno Gio. Bat-
tista; Meucci Vincenzo; Morghen Filippo; Morghen
Baffaele; Palazzi Francesco; Panini Gio. Paolo; Pi-
ranesi Gio. Battista; Poleni Giovanni; Preisler Gior-
gio Martino; Rainaldi Girolamo; Re Vincenzo; Ric-
ciolini Nicolò; Rigaud Giacinto; Ruggieri Ferdinando;
Rusconi Giuseppe; Valeri Antonio; Vasi Giuseppe.
245
Ani dell'accademia di scienze e lettere di Palermo.
Nuova serie. Volume III. - 4." Palermo. Stabili -
mento tipografico di Fr. Lao 1859.
Oltre all'elenco de' soci contiene questo volume
le seguenti dissertazioni.
I. Sulla terza cometa del 1854. Del prof. Do-
menico Ragon-4.
II. Su taluni nuovi fenomeni di colorazione sub-
biettiva. Del prof. Domenico Ragona.
III. Catalogo degli uccelli delle Madonie. Del
dott. Francesco Mine - Palumbo. (Continuazione e
fine).
IV. Storia naturale delle Madonie, catalogo con
appendice dei tepidotteri diurni. Del dott. Francesco
Mine - Palumbo.
V. Sapra alcune conchiglie fossili dei dintorni
di Palermo. Del P. Ignazio Libassi.
VI. Intorno all'abolizione delle tasse sul pane e
sulle paste in Palermo. Di Giuseppe Biundi.
VII. Sulle monete punico-sicule. Di D. Gregorio
Ugdulena.
VIII. Iconografia numismatica dei tiranni di Si-
racusa. Del P. Giuseppe Romano.
IX. Necrologia del prof. Baldassare Romano
scritta da D. Gregorio Ugdulena.
246
Frammento di calendario romano illustralo dal cav.
G. B. de Ro§si. - 8.° Roma tipografia tiberina 1860.
(Sono pag. 12).
Scritto importantissimo di archeologo , come
tutti sanno, dottissimo.
Saggio della latinità biblica delVanlica volgata itala.
8." Modena , tipografia degli eredi Soliani 1860.
(Sono pag. 47).
Saggio critico sugli studi della letteratura greca presso
gli antichi israeliti. 8." Modena , tipografia degli
eredi Soliani 1860. (Sono pag. 25).
Una delle parabole evangeliche dichiarata co' riscontri
de^ monumenti e degli scrittori antichi. 8." Mode-
na 1860. (Sono pag. 8).
Sono operette preziose di un maestro celebre oi
antichità e di filologia, cioè di monsignor Celestino
<lavedoni, bibliotecario estense, e jjrofessore di let-
tere ebraiche e di ennanetitica sacra nell' università
di Modena.
Quanto alla parabola evangelica, di cui tratta il
terzo opuscolo, essa è ([uella recalaci da S. Matteo,
XVIll , 23-35 : la quale incomincia : Assimilalurn
est regnum caelorum homini regi, qui voluit rationem
ponere cum servis suis.
INDICE
Catalogo de' Compilatori e de* Collaboratori del
giornale.
Ciampi, Vita artistica di Carlo Goldoni (Conti-
nuazione e fine) pag. 1
Gallo, Bagni pubblici stabiliti in Sicilia negli an-
tichi tempi » 90
Quattrini, Traduzione degli ammonimenti di s. ■'à^^^
Gregorio Nazianzeno ad Olimpiade . . » 112
Bastianelli , Cura e trattamento curativo della
difteria. . . . ■ m 124
Borgnana , Di alcune leggi pontificie prodrome
alla gregoriana Quae publice utilia ec. )> 167
Arisio, Della vita e delle opere di Vincenzo da
Filicaia )> 176
Sorgoni, Sulla febbre considerata in se stessa e
nelle principali tendenze od efficienze, che si
mostrano nel suo corso relativamente alle pro-
prie cagioni ed alla loro importanza . » 196
Varietà » 239
1^ /itJL^'i^Jt^'ìAy^A^ ^'»^ //^(^^ ' ' ^C^-^^/L^^ <t-'-t'^^^-<-- /uM^^ *.^£^àA^f'*^
' a./i^.>^L>.^t'£.*^ '"^ /fi''
ERRORI CORREZIONI
Pag. 124 Un. 4 16 decembre 1839. 9 febbraio 1860.
» 12S » 29 estendesi estendersi
» 128 » 7 Composizione decomposizione
» » » 16 Consecutiva ad una Consecutiva ad una
infiammazione speci- diatesi, e per la quale
fica ec. ec.
» » » 23 appliandoia. ampliandola.
•/•
IMPRIMATUR
Fr. Hieronymus Gigli Ord. Praed. S. P. Ap. Mag.
IMPRIMATUR
Fr. Ant. Ligi Archiep. Icon. Vicesgerens
Nel giornale si dà il sunto, o viene inse-
rito l'annunzio, delle opere presentate in dop-
pio esemplare alla Direzione. Esse debbono
essere inviate franche d'ogni spesa di porto
e dazio.
Le notizie di scienze, di lettere, e di belle
arti, quelle di scoperte utili per 1' agricol-
tura, industria ec, come anche i programmi dei
concorsi accademici, dovranno similmente es-
ser mandati franchi di posta alla Direzione.
Chi si associa per dieci copie, o ne garan-
tisce la vendita, avrà l'undecima gratis.
€^p^^^
GIORNALE
m SCIEINZE, LETTERE ED ARTI
TOMO XX
DELLA NUOVA SERIE
p^p
^2>
ROMA
TipograGa delle Belle Arti
1860
Piazza Poli nuni. 91 dentro il Palazzo.
GIORNALE
SCIENZE, LETTERE ED ARTI
TOMO CLXVI
DELLA NUOVA SERIE
XX
MARZO E APRILE
1860
H
ROMA
rU'OGKAl'IA OELLE BELLli Alili
1860
SCIEISZE , LETTERE ED ARTI
Sulla febbre considerala in se stessa^ e nelle princi-
pali tendenze od efficienze, che si mostrano nel sito
corso relativamente alle proprie ca(jioni ed alla loro
importanza. Annotazioni patologiche del dolt. An-
gelo Sorgoni ecc. (Conlinuazione e fine).
M,
La la febbre sviluppala sotto l' intervento delle
suddette due morbose cagioni percorre i suoi stadi
di crudezza e di cozione , ossia di assimilazione e
di disassimilazione, sì in rapporto all'eccessivo ele-
mento termico, e sì in relazione alla sostanza mia-
smatica, essendo ciò indispensabile avvenimento del
processo febbrile. Talmentechè nell'intero corso della
febbre in esame riguardo a tutte e due sifTalte mor-
bose cagioni si svolgono le due sopra considerate
principali efficienze, l'una nel primo stadio febbrile
riferibile al lavoro assimilativo in offesa alla com-
page organica , e perciò tendente alla distruzione
della medesima; l'altra nel secondo stadio in rap-
porto al lavoro disassimilativo capace a scomporre
quanto di morboso aveva composto l'assimilazione,
ed eliminarne i materiali dal corpo, perciò tendente
alla conservazione dell' organismo nel modo simile
a quello, che ò stato sopra dimostrato nell'avveni-
mento del processo febbrile prodotto dall'eccessività
del calorico tanto nel caso di felice risoluzione ,
quanto nell'altro caso d'infausto evento.
Pei" quanto però la disassimilazione svolta nel
movimento febbrile distrugga l'elemento termico, e
liberi così l'organismo dalla febbre, altrettanto non
è del tutto sufficiente nello stato febbrile a dissipare
l'infezione miasmatica , vale a dire quello stato di
cachessia, che si è costituito mediante l'introduzione
del miasma nell'esser vivente, come vien dimostrato
dall'abito di corpo morbosamente espresso, che se-
guita a sussistere nell'infermo anche dopo cessato
il febbri] movimento.
La quale permanente infezion miasmatica ancor
dopo cessala la febbre nel modo sopra indicato è
una prova ulteriore della provenienza della febbre
medesima da un'altra causa oltre il miasma. Im-
perocché ciò dimostra ancora abbisognare 1' orga-
nismo non della febbre per esser liberato dal mia-
sma, ma piuttosto di que'mezzi disassimilativi, che
la natura coadiuvata dall'arte impiega onde conse-
guire un tale intento. Senza delle quali risorse l'or-
ganismo slesso, già infetto dal miasma, rimane piiì
infralito e logoro dopo d'aver sofferto in questo caso
la febbrile accensione.
Ed è tanto vero, che sussiste in parte l'affezione
miasmatica anche dopo cessata la febbre , special-
mente se si tratta di miasma palustre , che essa
torna da capo a dar motivo a nuovi accessi di feb-
bre accessionale, periodica, inlermitlente.
Gli accessi di cotesla febbre ancora sono co-
stituiti dall'elemento termico sviluppalo ad intervalli
regolari determinanti da elettriche condizioni, come
gi ò dimostrato da vari autori in ispecialilà sull' in-
tervento sbilancio elettrico qual produttore della
5
febbre di periodo in discorso. E difatli se si con-
sultano i lavori pubblicati su di quest' oggetto da
Sprengel, da Acherman, da Folcbi, da Lindhult, da
Derossi, e da altri autori, si rinviene, che la dot-
trina elettrica pensata per intendere lo svilppo del
periodo nella produzione della febbre intermittente
non è priva di ragionevol fondamento. Anzi vien
confermata una tal dottiina colla cura delle febbri
intermittenti fatta mercè dell'elettricità sin dal pros-
simo passato secolo da Lindhult in Svezia , e non
ha gran tempo dal Derossi in Roma. Il quale ultimo
autore ha pubblicate bellissime cure fatte della feb-
bre era discussa mediante T applicazione elettrica,
usando negl'infermi la pila di Volta modificala da
Kemp , come ciò può vedersi nella Corrispondenza
scientifica di Roma anno 1853. Oltredichè penetrato
il Folchi da quest' elettrica dottrina spiegava l'ac-
cesso della febbre periodica per un accumulo di elet-
tricità negativa avvenuto con regolari intervalli nel
corpo umano situato in ubicazione e circostanze ca-
paci a produrlo ; e dimostra nello stesso tempo con-
sistere l'azion del febbrifugo nell'elettricità positiva
atta a ridare l'equilibrio elettrico all'offeso organismo.
Intorno alla qual dottrina però vuoisi riflettere,
che ond' essa pervenga alla spiegazione del funzio-
namento febbrile in esame, è di mestieri che mostri
succedere al disequilibrio elettrico lo sviluppo del
calorico ; perchè la febbre non è un'eleltromozione,
ma bensì un processo e funzionamento calorifero
suscitato morbosamente nell'economia animale, co-
me risulta dalle ragioni dimostrative superiormente
esposte.
6
Se non che del funzionamento febbrile quello
che si realizza nella febbre continua è distinto dal-
l'altro, che si effettua nella febbre accessionale. La
quale distinzione non solo esiste nciresteina appa-
riscenza di questi due modi di febbricitare, mostran-
dosi l'uno continuo, l'altro ad eccessi con regolari
intervalli tra di loro; ma si rileva pure siffatta di-
stinzione nell'intrinseco lavoro morboso produttore
degli stessi due modi febbrili.
E però in quanto all' esterna appariscenza del
diverso funzior>amenlo qui trattato si rende esso pa-
lese col fatto : in quanto poi all' intrinseco lavoro
morboso proprio di ciascun de' modi di cotesto fun-
zionamento febbrile, vuoisi rivolgere l'indagine sulle
vicende dell' economia animale sotto l'azione della
sunnonìinala causa morbosa , e vedere come essa
economia si comporta nel producimento de'fenomeni
relativi all'appariscenza degli stessi due fatti.
Ed intanto l'economia animale nell'uno e nell'al-
tro caso si trova sopraffatta dal miasma, e quindi
dall'eccedente calorico svolto mediante le correnti
elettriche aventi luogo in circostanze opportune al
loro intervento, come sono state sopra accennate.
Jl perchè il calorico in rapporto agli elementi della
causa morbosa in discorso nelT invadere i materiali
ed apparati organici produce in essi un'alterazione
prorompente in un punto piuttosto che in un'altro,
secondo la predisposizione individuale del paziente,
ed è più 0 meno intensa a tenore della diversa en-
tità della stessa causa, e del vario stato dell'infermo.
La quale alterazione ne'priini accessi febbrili si li-
mita ad offesa dinamica relativa al solo funziona-
7
mento organico , a cui si unisce 1' alterazione chi-
mico-organica negli accessi successivi, per cui questi
presentano un carattere di subcontinuità , non ri-
manendo più interamente apirettici gli intervalli pre-
sentati fra l'uno o l'altro accesso. Nella febbre con-
tinua poi l'alterazione, di cui sì tratta, è sempre
chimico-organica.
Ed in quanto a' primi accessi febbrili d'un' in-
termittente l'alterazion dinamica si fa palese, mentre
in essi l'eccedente calorico coli' influenza del miasma
nell'impegnar di se slesso 1' organismo non giunge
ad alterare l'assimilazione, e con questa la compage
organica. Imperocché l'efficienza conservativa cono-
sciuta in questo caso col nome di organica resi-
stenza, ed espressa coll'azione degli apparati secer-
nenti, pone durante questo caso medesimo in tale
attività gli organi secratori sopraccitati dalla stessa
potenza morbosa , che mercè la loro energia resta
impedito all;i medesima potenza di prender parte
nell'organica assimilazione. E così 1' eccedente ca-
lorico senza offendere la compage organica in forza
del lavoro disassimilativo pervenuto al sistema ca-
pillare ivi si svolge per una specie di esalazione sotto
varia forma umorale, e resta eliminato dal corpo ,
come sopra è stato dimostralo a tenore delle ri-
flessioni di Bichat. In tal guisa finisce l'eccesso feb-
brile. Né diversamente quest'accesso medesimo po-
trebbe esser limitato al tempo di poche ore ; poiché
quando sotto di esso fosse interessata l'assimilazione,
che darebbe luogo alla formazione di un processo,
non sarebbe così limitato il tempo della durata del-
l'accesso febbrile medesimo; né si risolverebbe come
8
si risolve l'accidentale ebbrezza, od altri fenomeni
interessanti il solo funzionamento organico senza
impegnare la individuai compage.
Dopo di ciò l'organismo ritorna in nn certo equi-
librio ; ma non per questo egli è libero dall' alte-
razione prodotta dal miasma : il perchè riman di-
sposto a nuovi accessi di febbre.
Ne'quali accessi successivi l'azione dell'eccedonte
caloi'ico unito alla miasmatica influenza non si limita
più a produrre una lesion dinamica, come ne'primi
accessi, mercè cui avviene il parosismo febbrile della
durata di alcune ore, dopo delle quali ritorna l'in-
dividuo , che n' era affetto allo stato di apiressia ;
ma negli stessi accessi successivi alla suddetta lesion
dinamica prodotta dalla causa morbosa in discorso
si associa un'alterazion chimico-organica proveniente
dalla medesima causa, interressando questa l'assimi-
milazione e gli organici tessuti affmi alla stessa causa.
Per il che i medesimi accessi successivi non sono
piij distinti, come erano i primi, mediante un inter-
vallo fra di loro di decisa apiressia ; ma prendono
un certo stato di continuità febbrile cagionato dalla
sempre più alterata assimilazione calorifera. E ciò
avviene perchè ogni accesso febbrile è sempre un'of-
fesa fatta all'organismo, per quanto la forza conser-
vativa faccia resistenza alla causa morbosa onde non
impegni l'assimilazione. La qual forza riuscirà nel
suo intento una o più volte ; ma dopo che ripetu-
tamente ha resistito alla stessa potenza morbosa,
rimane infralita , ed è costretta in qualche modo
di farsi soverchiare dalla nemica cagione : per cui
questa dove arriva il suo potere s'impadronisce del-
9
r organismo , e ne altera 1' assimilazione. Ed ecco
come i replicati eccessi d'una febbre periodica quanto
più si moltiplicano , tanto più danneggiano l'orga-
nismo medesimo.
Questo raziocinio relativo all'andamento progres-
sivo dalla febbre accessionale vien confermato dal
fatto ; imperocché è cosa notissima, che gl'individui
atfetli dalla febbre intermittente tanto più diventano
malconci di salute , quanto più restano invasi dai
repplicati accessi di una tal febbre. Maggiormente
poi sono gli stessi individui danneggiati dai ripetuti
accessi febbrili , se questi si sviluppano con qualche
imponente sintoma come effetto di grave sconcerto
funzionale di qualche apparato necessario alla vita.
Il perchè l' idea prevalsa su qualche autore di
far sfogare in certi casi gli accessi febbrili d' una
intermittente abbisogna di molta circospezione , se
non abbia ad esser sempre dannosa.
L'eccedente calorico svolto poi nell'occasione di
circostanze atte al producimento delle condizioni
elettriche necessarie a tale effetto, allorché è al caso
di cagionare la febbre continua, non può agire che
in modo chimico-organico, nella guisa stessa in cui
sopra è stato considerato discorrendosi della febbre,
mentre vien prodotta dal miasma in genere.
Ma come in questa così ancora nella febbre ac-
cessionale si manifestano sempre le due opposte ten-
denze od efficienze superiormente discorse. E difatti
si noti cosa avviene su di tal proposito in ciascuno
degli accessi della febbre periodica : però non si
limiti l'annotazione sulli tre predicali fenomeni di
freddo, caldo, e sudore, con i quali suolsi comune-
10
mente giudicare ciascun'acccsso della febbre perio-
dica in esame. Ma piuttosto si rimarchino i due prin-
cipali tempi distintissimi in ognuno di siffatti accessi,
• ossia in ogni parossismo, il primo detto d'invasione,
il secondo di risoluzione. Imperocché in questi due
tempi si appalesano le due opposte tendenze , od
efficienze, che si mostrano nel corso di qualunque
febbre. E veramente l' invasione, a ben considerarla,
non è altro che la tendenza od efficienza distrug-
gitiva attuata dalla causa morbosa, che ha superato
sino ad un certo punto la resistenza organica , ed
ha condotto l'esercizio delle funzioni ad uno stato
morboso offensivo all'organismo con tendenza sem-
pre più grave a danneggiarlo. Cui però fa ostacolo
la disassimilazione mercè gli apparati destinati dalla
natura a tale oggetto. Lo che fassi dissolvendo quanto
di morboso si era formato , e si andava formando
mediante l'opera della suddetta tendenza , od effi-
cienza distruggiliva. Laonde quando questo funziona-
mento disassimilativo signoreggia sull'opposto stato
di morbosa costituzione od invasione in modo da
dissiparla, si effettua il tempo della risoluzione del-
l'accesso febbrile, che perciò presenta una tendenza
od efficienza conservativa.
Mediante l'indicato modo nella febbre intermit-
tente ancora considerata in ciascuno de'suoi paros-
sismi si mostrano, siccome nella febbre continua, due
principali tendenze od efficienze tra di loro opposte,
la prima distruggiliva, la seconda conservativa.
Per quanto però siano palesi cotesle opposte ef-
ficienze espresse ne' due tempi distinti in ogni pa-
rossismo, pur con tutto ciò talvolta si dà il caso,
il
in cui si mostrano con disequilìbrio tra di loro; ed
allora non si hanno piiì i regolari effetti delle me-
desime efficienze; ma invece si realizza quello stesso
disordine , che è stato sopra considerato , mentre
si è trattalo del medesimo disequilibrio avvenuto
nello sviluppo delle stesse efficienze mostratesi nel
corso della febbre continua prodotta dall'eccedente
elemento termico.
Oltre le quali cose fin qui discorse intorno all'og-
getto in esame vuoisi ancor considerare il miasma
nel caso di producimento febbrile in rapporto al si-
stema de'nervi. In siffatta considerazione rimarcasi
succedere la serie di tutti que'fenomeni, che sonosi
visti svolgere nel medesimo sistema sotto lo sviluppo
del processo febbrifacienle costituito dal solo ele-
mento termico nel modo sopra esaminato. Impe-
rocché nelle circostanze del miasma intervenienti al
producimento febbrile si effettuano quelle medesime
alterazioni sì dinamico-organica e sì chimico-orga-
nica nel sistema nervoso, che superiormente sonosi
notate accadere nel periodo febbrile svolte col solo
elemento termico. E difalti in ambedue codeste ner-
vee alterazioni si rimarcano le due opposte efficienze
proprie della loro natura, vale a dire effettuate con
opposti movimenti dinamici nell' alterazione dina-
mico-organica , e con opposte operazioni assimi-
lativo-disassimilative nell'alterazione chimico -orga-
nica. Il perchè rendesi manifesto , che il sistema
de'nervi ancora nella febbre , di cui qui si tratta ,
effettua il suo morboso impegno con due opposte
tendenze od efficienze
12
Pertanto l'analisi fin qui fatta , e l'istituita in-
duzione ragionando sulla febbre cagionata dall' ec-
cessività del calorico, e dal miasma, han dimostrato
il lavoro essenziale del processo febbrifaciente rag-
girarsi nell'alterata assimilazione e disassimilazione
riverberata sulla sensazione dell' elemento termico
eccedente a'bisogni organici. Di maniera che la feb-
bre può dirsi un processo morboso di estuazione
sanguigna, ossia calorifero, effettuato nel sangue sul
sistema artero-venoso-secretorio influente suH' in-
nervazione, e sugli apparati relativi alla specialità
delle diverse cagioni, che originano la stessa febbre,
e ne promuovono la risoluzione. Nel corso poi del
medesimo processo febbrifaciente si manifestano due
principali efficienze fra di loro opposte corrispon-
denti alli due stadi essenziali della febbre. E siccome
questi medesimi stadi trovansi essenzialmente in qua-
lunque forma febbrile costituiti dall' assimilazione
e dalla disassimilazione con i loro nervosi rapporti,
così è ragionevole il ritenere, che le principali ten-
denze od efficienze di queste somme funzioni svi-
luppale in siffatti stadi abbiano luogo in qualunque
febbre, secondo la loro propria natura offensiva per
l'una parte, e per l'altra conservativa dell'organismo.
Lo che è quanto dire , che la tendenza od efficienza
dislruggitrice , e la tendenza od efficienza conser-
vativa, sono le principali efficienze, che si mostrano
nel corso della febbre.
Diverse specie di febbre considerate anch'esse come
costituite essenzialmente dal processo di estiiazione
sanguigna colle principali efficienze^ che si mostrano
nel loro corso. Differenza tra queste specie e la
febbre secondaria ; essenzial costituzione parimenti
di quest'ultima nelV estuazion sanguigna di origine
locale.
Per quanto il fatto pratico abbia reso distinto
l'una dall'altra le diverse specie di febbre in moto,
che la febbre gastrica per es. si è sempre distinta
dalla biliosa, e queste due dalla reumatica ; pur con
tutto ciò mai sono state uniformi le dottrine, che
da' patologi si esposero onde dimostrare la natura
delle medesime specie di febbre. E la differenza in-
sorta su questo vario dottrinamento sono state tante
e tali da fare smarrire il vero sentiero necessario
a tenersi per l'acquisto della scienza in questo ramo
di medico sapere.
11 qual sentiero rinviensi solamente dove 1' os-
servazione pura, non alterata da svariate ipotesi e
preconcepiti sistemi, e sorretta soltanto da' lumi ra-
zionali, ne ha aperto l'origine, ne ha additato l'an-
damento , e ne ha mostrato la meta. A tener di
questo sentiero tracciato dalla osservazione, e scor-
tato da luce razionale, non si ha a far altro per cal-
carlo che valutar nelle diverse specie di febbre quello
stato fenomenale ridotto ad un centrico punto di
vista, che sin dalla più remota antichità ha destato
u
in ogni tempo l'attenzione de'medici. Ed ò questo
appunto quello stato, che relativo alle varie specie
di febbre qui vuoisi indagare, onde poter conoscere
se valutando questo stato medesimo nel sopraindi-
cato modo si possa stabilire delle stesse febbri una
razionai patogenia.
Ed intanto prima d'ogni altra cosa stimasi utile
esaminare il valore delle principali dottrine emesse
intorno alla febbre gastrica , alla biliosa , ed alla
reumatica , che sono le diverse specie di febbre ,
delle quali qui fassi discorso , secondo 1' ordine di
questa discussione.
E però relativamente a siffatte febbri due sono
le principali dottrine, che sopra ogni altra preval-
gono nell'esplicazione delle medesime. Mediante la
prima si considerano esse febbri come primarie ed
essenziali costituite da una fermentazione concottiva
del sangue : mediante poi la seconda si ritengono
le stesse febbri come secondarie prodotte da un lo-
cale lavoro morboso specialmente flogistico, di cui
la stessa febbre credesi un sintoma.
Applicando siffatte dottrine alle specie di febbre,
di cui qui si tratta , ed incominciando dalla feb-
bre gastrica , si sostiene , secondo la prima delle
dette due dottrine, esser questa febbre primaria ed
essenziale, e ritiensi costituita da uno stato di par-
ticolare inquinamento del sangue, il quale mentre
nel sistema arterioso viene eccitato a febbrii mo-
vimento mercè una fermentazione concoltiva indotta
nello stesso sangue arterioso per opera dell' etero-
geneità in esso concorsa; nel sistema venoso poi in
forza di siffatto movimento febbrile viene impulsa
15
la medesima eterogeneità sanguigna, che per spocìiile
relazione cogli apparali venosi del tubo gastro-
enterico, ivi prorompe, e desta nella superfìcie ga-
stro-intestinale una secrezione annunciata da collu-
vie, e da tutti i sintomi propri della febbre gastrica.
Seguitando l'applicazione dello stesso dottrina-
mento specificato nella febbre biliosa, ritiensi questa
secondo il medesimo dottrinamento parimenti come
primaria ed essenziale, mentre si giudica costituita
da un'etorogeneità introdotta t) prodotta nel sangue
sì per difetto d'analoga depurazione, che per qua-
lunque altra causa avente rapporti coli' apparato
epatico. Il perchè a tenore di questa dottrina su-
scitatosi nel sangue arterioso il concottivo fermento
motivato dalla stessa eterogeneità ivi esistente , si
sviluppa allora 1' appariscenza fenomenale febbrile
nel generale dell'organismo. Quindi refluito siffatto
lavoro morboso sanguigno nelle vene, e specialmente
in quelle dell'apparato epatico a motivo di una par-
ticolare affinila della materia morbosa con tale ap-
paralo, ivi in forza dello stesso lavoro cotesta ma-
teria ingenera i sintomi propri della febbre biliosa,
e produce ne'casi fausti un profluvio critico prove-
niente dal medesimo epatico apparato, per il quale
viene eliminata l'etorogeneità, che era la causa di una
tal febbre. Ne'casi funesti poi avvengono degenera-
zioni o nello stesso apparato, o nel sistema de'nervi.
In quanto poi alla febbre reumatica, secondo il
dottrinamento in discorso ritiensi anch'essa primaria
ed essenziale originata dall' umor traspirabile o re-
tropulso, o cumunque impedito nella sua elimina-
zione. Il quale in conseguenza trovasi commisto col
16
sangue. Ed in questo stato alloichè pergiunge nel
sistema arterioso, ivi come materia eterogenea desta
il processo concottivo , che dà luogo allo sviluppo
de'sintomi esprimenti lo stato febbrile. Di poi per
legge dell'economia animale la stessa materia mor-
bosa, dopo d'aver suscitato il suddetto fermento con-
cottivo dovendo soggiacere al processo di disassi-
milazione negli apparati destinati al funzionamento
disassimilativo , e specialmente nel caso in esame
ne' vasi esalanti delle membrane, e dell'apparalo cu-
taneo per essere affine con questo, determina in sif-
fatte località que' sintomi, che son conosciuti come
indicanti la febbre reumatica.
1 casi funesti, che avvengono nel procedimento
di queste febbri, a tenore della dottrina in esame
sono il risultato o dello sconcerto del primo stadio
febbrile relativo all'assimilazione, ovvero del disor-
dine avvenuto nel secondo stadio in rapporto alla
disassimilazione.
Relativamente alla seconda delle due principali
dottrine escogitate per dimo&lrare la patogenia delle
febbri in esame, queste febbri son considerate sem-
pre secondarie, come un sintoma dipendente da una
località morbosa, che in generale credesi, come si
è detto , il processo flogistico ordito in uno od in
un alilo viscere, o sistema, o parte qualunque. La
qual irjorbosa località oltre il lavoro infiiimmatorio
sostiensi pui' da vari patologi essei'e il processo reu-
matico, od altro qualunque processo di varia natura.
In tal caso pertanto di morbosa condizione lo-
cale si ritiene, che a tenore della diversa sede della
medesima diasi motivo alle differenti specie di febbre.
E però se questa sede ha luogo nel tubo gastro-
17
enleiico si sviluj)pa la febbre gastrica; se si slabi-
lisce ncirai)paralo o[)elico, si [)ioduce la f(!bbro bi-
liosa ; so si svolgo ncir appaiato membranoso , si
manifesta la febbre reumatica. Se non che per que-
st'ultima i patologi localizzatori non son (l'accordo
nel fissare la sua genesi flogistica , poiché alcuni
tra essi ritengono, che la condizione morbosa pro-
duttrice della febbre di reuma sia un processo di
particolar natura così detto reumatico diverso es-
senzialmente del flogistico.
Affinchè poi le diverse specie di febbre qui con-
sideralo fossero distinte da quelle forme morbose,
che costituiscono la fenomenale appariscenza propria
di ciascun particolar processo, sonosi assegnate due
speziali differenze. La prima delle quali consiste nella
preponderanza de' sintomi febbrili generali sopra i
locali relativi alla sede del processo : la seconda è
fondata sulla limitazione di questo processo medesimo
a differenza di ciò che avviene quando esso processo
ha una maggiore estensione ; per cui i sintomi locali
in tal caso prodominano sopra i generali, ed il morbo
non è pili nominato per una specie di febbre, ma
bensì per la sua sede locale.
Ora ponendo ciascuna delle due suddette dot-
trine in comparazione col fatto, che devono dilu-
cidare , e primieramente discorrendosi di tal con-
fronto in rapporto al sopra esposto modo di spiegar
la febbre essenziale o primaria nelle enunciate di-
verse specie, notasi, che la dottrina citata emessa
in proposito non è coriispondenle al fatto. lm(ieroc-
chè tralasciandosi qui di considci'are qual valore
abbia l'ipotesi del fermento concottivo immaginato
G.A.T.CLXVl. 2
18
per h spiegazione della febbre, ed invece valutati sol-
tanto gli stadi di crudezza, di cozione, e di crisi, co-
inè sono generalmente ammessi in tal dotlrinamento,
vuoisi fare su i medesimi la seguente riflessione.
Secondo quest'ipotesi si rimarca, che qualunque
sia la specie di febbre contemplala dalla medesima,
i suoi stadi sono distinti in modo , che nel primo
non si mostra alti-o aspetto fenomenale fuoi-i di quello
riconosciuto proprio soltanto della febbre in genere,
ossia delia sinoca. E difatti colla succitata dottrina
il primo stadio febbrile non presenta alcun sintoma
riferibile alle diverse specie di febbre in discorso ;
per conseguenza nel medesimo primo stadio non si
dovrebbe avere nella febbre gastrica alcun sintoma
gastrico, nella febbre reumatica alcun sintoma reu-
matico, e nella febbie biliosa alcun sintoma bilioso.
Questi sintomi speciali, secondo la dottrina in esame,
dovrebbero incominciare a manifestarsi dopo cessato
il primo stadio, quando principia la cozione, e pro-
seguire a svilupparsi in tutto il corso della medesima
sino alla completa crisi. Ed è appunto in questo
secondo stadio febbrile , che a tenore della stessa
dottrina si stabilisce la natura speciale della febbre.
Per il che in tal tempo soltanto resta determinata
la diagnosi della febbre gastrica, e di quella delle
altre sunnominate specie di febbre. E però avanti
di questo secondo stadio non solo non è possibile
con tale ipotesi aveisi i segni diagnostici delle febbri
di forma speciale, come sono quelle sopra indicate:
ma neppure è possibile, secondo la medesima ipotesi,
la dimostrazione della loro oiganica costituzione.
Talmenlechò colla stessa dottrina le forme febbrili
19
speciali sono tante successioni del fermento concot-
tivo del sangue, vale a dire della stessa febbre ; e
per conseguenza mai non possono caratterizzare l'in-
tero corso febbrile.
Ma a tutte coteste cose attribuite alle diverse
specie di febbre da siffatta dottrina, il fatto pratico
è in opposizione. Imperocché stando a ciò che viene
presentato dal fatto relativo alle differenti specie di
febbre succitate , cioè alla gastrica , alla biliosa ,
alla reumatica, i sintomi caratteristici di queste me-
desime specie non si mostrano soltanto nel secondo
stadio del periodo febbrile, a tenore delPesposta dot-
trina ; ma invece, come il fatto addita, si offrono
In tutto il corso della febbre, anzi incominciano con
i primordi antecedenti all' invasione della febbre
stessa, proseguono in tutto il periodo della medesima,
e qualcuno rimane talvolta ancora superstite alla ces-
sazione febbrile. In conseguenza a tenore del fatto
scevro da qualunque ipotesi, affinchè si presentino
i segni diagnostici di ciascuna delle diveise S(>ecie
di febbre , non decorre il tempo del primo stadio
febbrile senza di loro, ma essi si manifestano anche
in questo primo stadio medesimo. Per il che sin
da'primi giorni del male trovasi costituita la natura
delle diverse specie di febbre , delle quali qui si
tratta, vale a dire sin dal piimo stadio delle me-
desime, e non è d'uopo aspettare il secondo stadio,
perchè la stessa lor natura abbia ad avere effet-
tuazione.
Questo è l'andamento, che si osserva accadere
nello sviluppo ordinario delle specie di febbre qui
nominate. Avviene però talvolta nel caso specialmente
20
di sanguigna discrasia , che dopo un cerio corso
tenuto da quest'infermità esternato con i sintomi
propri della medesima e con febbre, si presenti un
gastrico fenomenale aspetto associato a febbril mo-
vimento. In questo caso il gastricismo anche febbrile
è una successione morbosa di una special malattia,
che nulla ha che fare colla febbre gastrica , e per
conseguenza non confondibile con questa febbre.
Sarà ancora lo stesso gastrico stato fenomenale in
siffatto caso l'espressione d'una maniera di risolu-
zione della malattia primitiva, come vuoisi; ma non
è per questo, ch'egli costituisca il complesso feno-
menale della febbre gastrica, come neppure indica
la natura di una tal febbre.
La stessa critica riflessione può farsi ancora
quando uno stato bilioso, o reumatico, circoscritto
negli appaiali al medesimo relativi sussegue ad un'af-
fezion generale sia ancor febbrile; imperocché an-
che in questo caso lo stato bilioso o reumatico o
ò una morbosa successione della primitiva malattia,
oppure è un modo di risoluzione della stessa ma-
lattia primaria. Giammai però un tale slato e per
il tempo di suo sviluppo limitato al solo secondo
stadio del male, e per la maniera di suo-produci-
mento, può esprimere la forma delle specie di febbre
in discorso analoghe al medesimo , e molto meno
può indicarne la loro special natura.
Da tutto ciò risulta , che il f\Uto pratico non
trovasi corrispondente alla dottrina della fermenta-
zione concotliva del sangue ammessa da vari pa-
tologi per ispiegare la genesi delle febbri ; laonde
questa medesima dottrina non sembra adattabile.
21
Il secondo principal rlottrinamcnto consiste, sic-
come sopra si è dello, nel ritenersi la febbre sem-
pre secondaria, come un sintoma dipendente da una
lesione locale sotto forma di processo per lo più
flogistico, senza però escluderne altro di diversa na-
tura.
Alla qual dottrina fa parimenti opposizione il
fatto pratico considerato tanto nella sua generale,
quanto nella sua speciale espressione. E veramente
in primo luogo che si dia la febbre manifestata dai
soli sintomi generali propri di essa, egli è un fatto
così costatato da potersi tenere per cosa certa e no-
tissima. Siane un esempio la febbre sinoca, che per
quanto siasi tentato di localizzare da parecchi siste-
matici, mai non si è riuscito a fissarne stabilmente la
sede locale in un punto esclusivo di qualsivoglia or-
gano, apparato, o sistema. Lo che non corrisponde
alla natura del processo flogistico, e di qualunque
altro processo morboso considerato nel solido , il
quale e dal fatto e dalla ragione viene sempre ad-
ditato per un lavoro di locale procedimento. In con-
seguenza la febbre, quando ha essenzialmente carat-
teri generali, non può essere l'espressione di un lo-
cale processo.
In secondo luogo allorché la febbre, oltre a' sin-
tomi generali, si manifesta ancora con speciali carat-
teri dando luogo alle sue diverse specie, come sono
la gastrica, la biliosa, la reumatica, delle quali qui
fassi parola, neppure in questo caso sembra potersi
sostenere con ragionevol fondamento la sua essenzial
derivazione locale da un processo o flogistico, o di
altra natura. Imperocché in questo caso medesimo
22
i sintomi speciali febbrili, quando fossero dipendenti
da un processo di locale alterazione, sarebbero ne-
cessariamente l'espressione del medesimo locale pro-
cesso, di cui porterebbero la denominazione, e né
vi sarebbe ragione sufficiente di appellarli col titolo
complessivo di febbre. Così allorcbè i caratteri "spe-
ciali dalla febbre gastrica, della biliosa, della reu-
matica dipendessero per una parte dal processo flo-
gistico del tubo gaslro-enterico, o del fegato; e per
un'altra parte gli stessi caratteri fossero lisultanti
dal proceisso reumatico ordito nell'apparato mem-
branoso; non vi sarebbe lagione a ritenere siffatti
caratteri per l'espressione di diverse specie di febbre,
e di chiamare l'unione di questi caratteii medesimi
coi nome o di febbre gastrica, o biliosa, o reuma-
tica ; ma bensì non potrebbe altro esprimere che
una gastro-enterite, un'epatite, un reuma; e perciò
con siffatti termini flogistici e reumatici sarebbe
d'uopo denominarla.
Nò il maggioi'6 o minor grado del pi'ocesso flo-
gistico 0 reumatico può far variare la denomina-
zione, e molto meno far credere il male di diffe-
rente natura. In conseguenza di tutto ciò è d'uopo
ritenersi, che anche la dottrina della località di pro-
cesso, ammessa per ispiegare la patogenia delle di-
verse specie di febbre, mal si presta alla loro espli-
cazione.
Veduta così la deficienza delle due suddette prin-
cipali dottrine al proposto scopo, ora è da indagarsi
se pur diasi un principio, od elemento morboso, sul
quale si è trovalo ragionevol fondamento atto al-
l' evoluzione delle diverse specie di febbre, tanto
23
ne' rapporti col generale dell'organismo, quanto nelle
relazioni speciali con uno, o con altro appaialo, per
cui la febbre oltre i sintomi generali si esprima an-
cora con sintomi speciali, insomma è da vedersi se
collo stesso principio od elemento morboso si tro-
vino conciliabili i medesimi rapporti febbrili gene-
rali e speciali in modo, che la febbre possa esse*'
primaria ed essenziale anche nelle sue specialità senza
dipendere da alcun locale piocesso.
Pertanto secondo la dottrina ippocratica intorno
alla febbre, come è stata superiormente esposta, nel
calorico considerato qual materiale oiganico ecce-
dente a' bisogni dell'organismo si è ritenuto il prin-
cipio od elemento morboso in discorso, e si è tro-
vato esso costituire nella sua evoluzione organica
lo stato febbrile, ossia la febbre stessa sì nella sua
es[)res8Ìon generale, e sì speciale, a tenore della di
lui derivazione. E difatti secondo la stessa dottrina
ippo<nalica dalla divisione delle febbri ammessa in
siffatta dottrina risulta il materiale per la soluzione
di quest'argomento. Ecco una tal divisione esposta
dal Massaria nella sua opera già sopra citata : « Quod
autem Hippocratis usus fuerit differenliis essentia-
libus, probat propterea quia substantia febris con-
sistit in calore praeter naturami ciini enim huiusmodi
caloris differentiae trifariatn sumi possint, uno modo
ex eo quod maioris minorisque rationem habet :
secundo ab ipsa materia, in qua ille calor praeter
oaturam accenditur : et tertio a modo motus. 11 per-
chè prosegue il Massaria: « Cum tia sint genera fe-
brium prò varietale subìeclorum, spiritus, humorum,
substantiae cordis, numquam erit febris, nisi calor
24
il) huiusmodl subiectis f^iclus fuerit ». E perciò sog-
giungeva lo slesso autore : « Neque alimenta, neque
vermes, neque aliud quidvis posse unquam febrem
excilare, nisi calor praeter naturam vel in spiritibus,
vel in humoribus, vel in subslanlia cordis accensus
fueiit ».
• Ed intanto per conoscere il valore di questa dot-
trina fa d'uopo indagare nell'organismo le svariale
sorgenti del calorico , mentre dalle diveisità delle
medesime derivano le differenti specie di febbre.
Relativamente a siffatta indagine discorrendo il
chiarissimo Franceschi su di alcuna delle sorgenti di
calorico nell'organismo si esprimeva con i seguenti
termini : « La termogenesi è di ragion chimica, e una
funzione che si compie fra le vicende molecolaii
della materia vivente ; né veruno potrà niegarmi ,
che il fonte propriamente di simili vicende non s'ab-
bia da ravvisare nel sangue, che è un liquido, dove
perennemente si alternano l'omogenia e l'eterogenia,
la somiglianza e la differenza, la diversità e la me-
desimezza, per cui non sì dà in lui conflitto, che
non determini altrettanti conflitti, e fra cotesto as-
sidue rimutazioni della sostanza liquida, e dal ina-
teriale liquidificato si apre una sorgente inesauribile
agli sviluppi, ed alle tensioni del calorico » (Vedasi
Franceschi, Dottrina delle febbri).
1 medesimi conflitti considerati nel sangue da
tale autore si realizzano ancora nell'apparato gastro-
enterico, e negli altri apparati; ed è perciò che ancor
ne' medesimi si hanno altrettante sorgenti di ca-
lorico coir influenza a tale sviluppo sotto i mede-
simi conflitti anche dell'elettromozione.
25
Ma il calorico così svolto non ha altri caratteri
che quelli fisici superiormente dimostrali; in con-
seguenza fino a tanto che le sorgenti termiche in
discorso sono comprese dentro la sfera normale som-
ministrano per materiale organico l'elemento pro-
porzionato all'ordine fisiologico, e non possono esser
considerate quali cause morbose. Allorché però sor-
lano da siffatta sfera, ed eccedano nella produzione
dell'elemento termico, le stesse sorgenti diventano
morbose cagioni, e sono atte a promuovere lo svi-
luppo del processo febbrifaciente, in quante che il
calorico per esse svolto in grado eccedente, supe-
rata l'organica resistenza, dallo stato semplicemente
fisico passa a quello chimico organico producendo
quelle fasi njorbose chiamate col nome complessivo
di febbre, che si riduce a percorrere lo stesso ec-
cedente elemento termico 1' organica assimilazione
e disassimilazione coli' analoga crisi nel modo me-
desimo, che è stato superiormente dimostrato.
Peitanto quando da un apparato qualunque ,
come per esempio dal gastro - enterico, a causa di
disordinata alimentazione o per quantità o per qua-
lità diasi luogo a tal gastricismo, in cui le molte
permutazioni succedenti nelle sostanze alimentari in
rapporto allo sconcertato apparato organico moli-
vano que' conflitti, per cui si sviluppa una quantità
eccedente di calorico, in questa circostanza si pos-
sono dare i seguenti casi; 1.° Il calorico si diffonde
talora dalla sorgente in discorso nell' intero organismo
senza che vinca la resistenza oiganica; ed in questo
caso esso non si assimila, non si appropria all'or-
ganismo medesimo, e non produce altro, che un'al-
26
terazione fisico-dinamica. Per il che avviene un'espan-
sione de' globuli sariguìgni , una celerità di movi-
ntienlo de' medesimi, donde un maggior ballilo del
sistema arterioso: insomma un'appariscenza di febbre,
che sta in rapporto colla causa produttrice, vale a
dire col gastricismo. Vinto il quale, resta vinta an-
cor la febbre. E questa è la così detta febbre d' ir-
ritazione o effimera gastrica. 2.° il calorico come
sopra sviluppato da gastrica sorgente, vinta l'orga-
nica resistenza, passa dallo stato fisico a quello chi-
mico-organico, s'impadronisce dell'organismo sov-
verchiandolo , e diventa molecola sovrabbondante
della sua mistione. Esso percorre in questo stato
le fasi dell'assimilazione e della disassimilazione sino
alla crisi, e così costituisce la febbre continua, come
sopra è stata dimostrala. Colla differenza che su-
periormente si è trattato della semplice sinoca pro-
dotta da eccessività di calorico, mentre nel caso in
esame quantunque si tratta parimenti di sinoca, per-
chè essenzialmente ancor quivi la febbre è costituita
dal calorico; pur con tutto ciò per esser diversa la
provenienza del medesimo, e per esser questo di-
pendente da un fomite gastrico , che è causa oc-
casionale di una tal febbre, si tratta in questo caso
d'una febbre , che percorre con i sintomi gastrici
r intero suo andamento, ed ha in forza de' mede-
simi sintomi una particolar fisonomia. Motivo per
cui questa febbre ò chiamata gastrica, o sinoca ga-
strica.
In cotesta febbre il calorico di fomite gastrico
mentre spiega la special fisonomia di questa febbre
medesima, spiega pure la sua condizione di primaria
27
ed essenziale in quanto che lo stesso calorico dallo
slato fisico-dinamico, come è quello di fomite ga-
strico, passa nel generale dell'organismo a quello chi-
mico organico diffuso nell'intero individuo, subendo
in allora le fasi assimilativo-disassimilative e criti-
che costituente così il vero stato febbrile, la decisa
febbre continua. Ed ecco come mercè d'un solo prin-
cipio od elemento morboso, qual'è l'eccedente ca-
lorico chimico-organico, si conciliano i rapporti ge-
nerali e speciali della febbre, senza esser questi di-
pendenti da un processo di locale alterazione.
E veramente in questo caso se evvi un'altera-
zione locale, qual'è il gastricismo, questo è di tal
naturi! da non formare un locale processo , ma
soltanto costituisce un disordine funzionale, il cui
procedimento e risolvimento si relaziona colla con-
dizione funzionale del solido organico , come essa
trovasi sotto i diversi stadi della febbre. Mentre poi
il calorico anche in questo caso medesimo, allorché
soltanto diventa principio generale chimico-organico,
costituisce la febbre. Il perchè questa è generale ed
essenziale in siffatta circostanza medesima , come
generale è il suo principio od elemento costituente,
e mostra nel suo corso le sue essenziali qualità.
Laonde anche nel periodo della febbre gastrica
così considerata si realizzano le due principali ten-
denze od efficienze, che superiormente si sono viste
prodursi nell'evoluzione organica essenziale della feb-
bre.
3.° Il gastricismo talvolta, dopo d'aver prodotto
irritazione nel tubo gastro-enterico, cagiona il pro-
cesso flogistico in qualche punto del medesimo più
28
degli altri punii iri-ilalo, e più predisposto a siffatto
procosso. In questo caso o la febbre si sviluppa in
seguito a tal processo, ed è dipendente dal mede-
simo: in allora essa è una febbre secondaria, e non
costituisce la febbre gastrica, ma bensì è un feno-
meno , un sintomo della gastro-enterite. Né vi è
ragione di chiamare siffatta flogosi colla denomina-
zione di febbre gastrica, benché si avesse a trattare
di una flogosi non mollo estesa, mentre la maggiore
0 minore estensione del processo infiammatorio non
può far cambiar di natura la stessa infiammazione;
ed in conseguenza il differente grado flogistico non
può esser causa sufficiente a costituir due mali da
doversi appellare con differenti denominazioni.
Parimenti nel caso in discorso di flogosi gastro-
enterica la febbre può esser prodotta dal calorico
sviluppato dal gastricismo come sopra considerato
prima che siasi ordito il processo infiammatorio, il
quale in allora avviene nel decorso della febbre ga-
strica. In questo caso la febbre conserva la sua na-
tura di primaria ed essenziale ; e la flogosi gastro-
enterica non è che una condizione morbosa associata
alla slessa febbre, come appunto veniva considerata
da Frank, che esju'imeva siffatta complicazione con
i seguenti termini : u Qualunque volta nella febbre
gastrica le materie irritanti si ritrovino in un uomo
o abbondante di sangue per cause speciali , o af-
fetto da pletora addominale, o che egli sia molto ir-
ritabile e sensibile , ne nascerà una complicazione
infiammatoria ». (Vedasi Frank Epitome eie. trad. del
Comandoli). Anche Borsierl ed altri autori confer-
mano la stessa complicazione avveniio talvolta nel
29
corso della febbre gastrica come da Frank viene
esposta , e come V esperienza conferma. In conse-
guenza quando si ba lo sviluppo dell' infiammazione
in qualche tratto del tubo gastro-enterico nel pe-
riodo della febbre gastrica, non bisogna ritenere il
processo flogistico come causa di una tal febbre, e
molto meno questa febbre come sintomo di siffatta
infiammazione; ma invece convien considerare queste
due aifezioni, febbre e flogosi, in questo caso come
due morbi distinti, due mali insieme associati, vale
a dire 1' infiammazione complicata colla febbre ga-
strica.
4.° Il gastricismo in alcuni casi per i morbosi
materiali, da cui è composto, è di tal condizione, che
dopo d'aver prodotto la febbre nella maniera sopra
indicata, cagiona pure un assorbimento di materie
infette per guisa, che in seguito a' primi giorni di
febbre gastrica si hanno ì sintomi della così detta
febbre putrida, o sinoco, o tifoide. In tal caso av-
vengono quelle medesime fasi tanto in rapporto all'as-
similazione, quanto alla disassimilazione sì relativa
al sistema sanguifero che al nervoso, quali sono state
superiormente considerate discorrendosi della febbre
succeduta al miasma comunque introdotto od avente
luogo nell'organismo in tutti i suoi rapporti dina-
mici e chimico-organici.
Parimenti ancor quivi ne' casi contemplati di feb-
bre gastrica si realizzano le due principali tendenze
od efficienze, che sonosL riscontrate svilupparsi nel
corso della febbre.
Le stesse annotazioni fatte sulla febbre gastrica
possono ugualmente farsi sulle altre specie di feb-
30
bre, come pur anco su quelle delle quali qui tiensi
discorso , vale a dire sulla biliosa e sulla reuma-
tica. E di vero in quanto alla febbre biliosa disor-
dinatosi ìi funzionamento dell'apparalo epatico per
qualsivoglia causa fìsica o morale, ch'ella sia, e da-
tosi luogo per questo disordine ad un'eccedente se-
crezione di bile in modo, che per la esuberante se-
crezione di tale umore avvengano insolite e molti-
piici permutazioni e nella bile stessa, e tra questa
e gli alili umori neli' apparato gastro-entei'ico in
correlazione collo apparato, si producono in siffatta
guisa que' numerosi conflitti , da' quali si sviluj)pa
reccessivìtà di calorico capace a tramutarsi in feb-
bre , come superiormente si è dimostrato avvenire
nelle evenienze del gastricismo. In cotesta circo-
stanza possano accadere tutti (|ue' casi, che si son
visti succedere al gastricismo njedesimo, vale a diro
quelli compresi dalla febbre d' irritazione biliosa sino
alla biliosa tifoidea nel modo stesso, che si ò sopra
indicato in rap|)orto alla febbre gastrica.
In ognuno de' casi in discorso hanno pur luogo
le due opposte tendenze od efficienze, che essenzial-
mente si manifestano nel corso febbrile sotto le
stesse vicende assimilativo -disassimilatìve, e senso-
rio-motorie, come sono state altrove esaminate in
questo medesimo lavoro.
In quanto poi alla febbre reumatica,. quando per
gli sbilanci atmosferici, o per qualsiasi altra causa
reumatizzante, si disequilibrano i normali rapporti fra
l'esalazione e rassorbimenlo, donde nasce un'oppo-
sizione all'esalazione, e quindi un arresto od ingorgo
d'umore traspirabile ne' vasi esalanti lungo le menti-
31
brane specialmente arlicolari, che dà motivo a' n oti
sintomi reumatici, allora in questo funzionale scon-
certo, in siffatto ingorgo, succedono quelle permuta-
zioni con que' conflitti , che danno luogo allo svi-
lu|)po dell'eccedente calorico. Il quale se è di poca
entità, rimane locale, e non giunge allo stato feb-
brile. Allora bassi il reuma apirellico. Se poi il ca-
lorico nel detto modo sviluppato è intenso, e si ge-
neralizza senza passare allo stato chimico-organico,
allora presentasi sotto forma di febbre effimera re-
umatica. Allorché infine il calorico sotto la condi-
ziono reumatica prodotto passa dallo stato tìsico a
quello chimico-organico nella maniera superiormente
dimostrato impegnando così il generale dell' orga-
nismo, si sviluppa in tal caso la febbre sinoca reu-
matica. Quindi la condizione morbosa costituente il
reuma, da semplice perturbamento funzionale può
passare alla formazione del processo reumatico nella
località offesa dalle cause morbose. Il qual processo
si complica in siffatta circostanza colla febbre sinoca
reumatica , come si è visto avvenire del processo
infiammatorio, ovvero costituisce il deciso reuma-
tismo, che differisce dalla febbre reumatica per es-
ser questa un'affezion generale, e quello un processo
di locale alterazione.
Finalmente la materia traspirabile impedita nella
sua esalazione, e trattenuta ne' rispettivi vasi, può
esser riassorbita, trasportata nel circolo sangui-
gno , e cosi per le sue morbose qualità contami-
nare la crasi del sangue, e ledere il sistema de'nervi.
In siffatto caso si avià la febbre tifoide prodotta da
cause comuni atmosferiche, la quale talvolta è anche
32
epidemica, come pure si presenta endemica in alcune
localilà. Ed in cotesla evenienza il producimento
della febbre sia sempre in rapporto col calorico svi-
luppato nel modo stesso, con cui sopra si è visto
prodursi nella circostanza del miasma comunque in-
fettante l'organismo.
Così pure nel corso della stessa febbre qui con-
siderata si trovano realizzate le due opposte tendenze
od efficienze , che sonosi riscontiate antecedente-
mente nel corso febbiile sotto qualunque aspetto
esaminato. Imperocché in quanto al calorico, sog-
giacendo esso alle fasi assimilativo-disassimilative dà
motivo a manifestarsi in queste fasi medesime le
efficienze in discorso. In quanto poi alla materia
morbosa particolarizzata nelle diverse specie di feb-
bre, 0 essa si limita all'azione meccanico-organica,
ossia all'irritazione , ed in questo caso le suddette
tendenze od efficienze sono in rapporto con i mo-
vimenti dinamici di conti-azione ed espansione di-
retti dalle forze generali dell'organismo, come su-
periormente ciò è stato dimostrato. Oppure la stessa
materia morbosa viene assorbita e trasferita nel san-
gue : e in questo caso essa soggiace all'assimilazione
ed alla disassimilazione, e dà luogo in queste fasi
alla manifestazione delle suddette due opposte ten-
denze od efficienze ; come pure a queste dà luogo
quando essa materia produce nel tessuto organico il
processo morboso, che nella sua composizione e de-
composizione manifesta le stesse efficienze. Tutte
cotesto vicende poi sì assimilativo-disassimilative,
e sì dinamico-organiche, nel caso di febbre vanno di
pari passo colle fasi assimilativo-disassimilative del
33
calorico, vale a dire cogli stadi della febbre; e però
le tendenze od efficienze, che si mostrano nel corso
febbrile, s' identificano con quelle d'ogni elemento in-
terveniente alla formazione delle diverse specie di
febbre.
In siffatta guisa nel modo indicato mediante il
calorico considerato come principio generale nel suo
producimento e fasi chimico-organiche , sebben di
origine locale nelle diverse specie di febbre, spiega
la condizione essenziale o primaria di queste mede-
sime specie, quantunque la loro specifica fenomeno-
logia sia locale , non derivando essenzialmente da
parzial processo, ed essendo la febbre anche in que-
sto caso lo stesso calorico nel generale in modo chi-
mico-organico costituito.
Diversamente da ciò avviene nella febbre secon-
daria, nella quale il fomite calorifero locale non ò
fisico, come lo è nelle diverse specie di febbre pri-
maria sopra annotate, ma bensì è chimico-organico,
il quale si diffonde con questo carattere nel generale
dell'organismo costituendo così la febbre. E difatti
che localmente nella febbre secondaria esista questo
fomite calorifero di tal natura lo avvertiva bene il
Massaria nell'opera sopra citata colle seguenti pa-
role: « Possunt enim in corpore esse multi calores
extranei (per calorico estraneo s' intende, come so-
pra si è notato, il calorico chimico-organico forma-
tosi in questo caso in una od in un'altra località)
qui tamen febres non sunt, veluti si iecur, vel alia
pars incalescat , si aliqua externa pars corripiatur
inflammatione; erunt quidem huiusmodi calores ex-
tranei, ac praeter naturam; vcruntamen non erunt
G.A.T.CLXVI. 3
34
febris nisi in corde calor accendatur », I.o che ò
quanto dire, che il calorico chimico-organico allora
soltanto costituisce la febbre quando dalla località,
in cui per primo si è acceso, si diffonde con que-
sto medesimo carattere nel generale dell'organismo.
Ed in questo caso si tratta di febbre secondaria, la
quale intanto è diversa dalla febbre primaria , in
quanto che questa non è altro che la conversione
del calorico dallo slato fisico a quello chimico-or-
ganico avvenuta nel generale delTorganisino;' quella
poi, cioè la febbre secondaria, esprime siffatta con-
versione eseguita in un locale processo, da cui nasce
diffusione del calorico chimico-organico nel generale,
che si relaziona colla località affetta, ossia col centro
dell' infezione.
Anche nella febbre secondaria si realizzano le
stesse due tendenze od efficienze, che sonosi riscon-
trate nel corso della febbre primaria, colla differenza
che nella febbre secondaria sono esse in rapporto
col processo di locale alterazione a tenore del suo
stato di composizione e di decomposizione, ossia di
assimilazione e di disassimilazione , o di crudezza
e di cozione relativa allo stesso processo locale in
rapporto allo stato generale; mentre che nella febbre
primaria le medesime tendenze od efficienze si re-
lazionano collo stato generale , o cogli stadi della
medesima febbi-e.
Tale è il concetto , che delle diverso specie di
febbre si è avuto da' sommi della scienza medica,
quando la medicina era scevra dalla farragine delle
ipotesi. Il- quale concetto trovasi per il piìi espres-
sivo della vera ippocratica dottrina.
35
A questo medesimo concetto più che a qualun-
que altro corrisponde il metodo di cura refrigerante-
eliminativo, che 1' esperienza di tutti i tempi e di
tutti 1 luoghi ha dimostrato sempre farace di somma
utilità nel debellare le febbri adattandolo alle di-
verse circostanze dell' infermo, a' diversi stadi della
febbre stessa. Il qual metodo si unisce anche all'an-
tinervino quando il sistema nervoso impegnato nel
decorso febbrile n'esige l'applicazione a tenore della
sua diversa maniera di prodursi, abbisognando dello
stesso metodo antinervino come sopra consociato ed
effettuato con mezzi di qualità diversa secondo che
il medesimo impegno nervoso si annuncia coll'atas-
sia, coli' adinamia, ovvero colla periodicità. Corri-
spondono parimenti alla pratica di siffatto metodo
anche i mezzi rivulsivi , che in alcune circostanze
nel decorso febbrile possono soddisfare a speciali
indicazioni con decisa utilità, siccome dall'esperienza
ciò viene addimostrato.
■ §. V.
Valore delle principali efficienze manifeslalesi nel corso
della febbre, fallo confronlo di quesla con allri ma-
li, ed imporlanza della slessa febbre.
Dopo d' essersi considerata la febbre come un
fatto, ed esaminata ne' suoi rapporti dottrinali, onde
portar l'oggetto, di cui qui si tratta, al suo risolvi-
mento è di mestieri far comparazione tra le effi-
cienze manifestatesi nelT intero periodo della febbre
36
e quelle che si mostrano nel corso degli altri mali
por vederne poi la loro importanza.
Ad effettuare una tal comparazione si esige un'ana-
lisi del fatto morboso relativa a qualunque sorte
di male. Però non stimasi necessario V istituirne qui
una nuova: vuoisi invece accettare in questa discus-
sione la medesima analisi già da altri istituita, e trar
profìtto dalle risultanze della medesima, affinchè que-
sta serva ancora di autorevole sanzione all'oggetto
in esame. Pertanto dalla fatta analisi risulta, che lo
stato morboso qualunque egli sia, e sotto qualsivo-
glia appariscenza si mostri, è sempre uno stato vi-
tale, in cui la vita è declinata dalla condizione di
salute, ma è sempre vita. La quale declinazione vien
prodotta da nemiche potenze, che investendo l'or-
ganismo riducono alcune funzioni del medesimo ad
agire a danno della stessa vita. Questa però in tutto
il tempo della durala di siffatta dannosa azione, il
che è quanto dire finché persiste il male, e per fino
a tanto che essa non si spegne, possiede sempre il
suo essenzial potere , qual' e la forza od efficienza
conservativa operante secondo il normale organico
tipo , ed esercitata con un funzionamento opposto
a quello, che investito ed attuato dalle ostili cagioni
tende alla distruzione dell'organismo, avente perciò
un'efficienza distruggitiva. Laonde nello stato mor-
boso si manifestano sempre coteste due opposte ten-
denze od efììcienze, l'una delle quali è distruggitiva,
l'altra è conservativa. E difatti il chiarissimo Fran-
ceschi considerando il processo di malattia notava
presentarsi nel corso della medesima due contrarie
efficienze, per l'una delle quali se è pronta, come
37
egli (liceva , molte volle a traboccar nella morte ,
per r altra all' incontro aver luogo la guarigione.
(Vedasi il Raccoglitor medico di Fano. Luglio 1858.).
Ora da lutto ciò, che superiormente si è rimar-
cato intorno alla febbre , ed intorno a qualunque
altra malattia si ravvisa, che tanto nel corso del-
l'una, quanto in quello dell'altra, manifestansi ugual-
mente due principali opposte efficienze. E perciò fa
d'uopo rilenener la febbre un morbo al pari di tutti
gli altri morbi sviluppati a danno dell' organismo,
esprimendo essi al pari della febbre un'alterazione
più 0 meno intensa, capace talvolta delle più fune-
ste conseguenze, come il fatto ciò palesemente di-
mostra.
Non si oppone a quest'uguaglianza tra la feb-
bre e gli allri mali l'osservare, che ne! corso delle
diverse malattie, e della stessa febbre, si mostra una
forza, od un'efficienza, che tende a ricondurre l'or-
ganismo al suo slato di sanità. Imperocché questa
non è altro , che la forza conservativa , la quale
come presiede allo sviluppo dell'organismo mede-
simo a tenore del proprio tipo evolutivo dal prin-
cipio sino al suo fine, così serve pure ad allonta-
nare quell'ostacolo costituito dal morbo, che si op-
pone alla normale organica evoluzione. E se non
sempre essa forza riesce nell' intento per la prepo-
tenza del morbo, non è per questo motivo che an-
cora in tal caso non faccia ogni sforzo per rag-
giungere il suo scopo.
La medesima forza conservativa si pone in atto
mercè le somme funzioni dell'organismo, cioè del-
l'assimilazione, della disassimilazione, e della se»-
38
sazlone , le quali finche dura la vita non possono
lasciare il loro esercizio, e mentre il lasciano, av-
viene la morte. Nell'evenienza poi della malattia la
forza in disiiorso seguita ad agire collo stesso scopo
costituito dall'evoluzione del tipo organico in guisa
tale, che le offese fatte sull'assimilazione sono ri-
parate dalla disassimilazione, e per contiario quelle
della disassimilazione vengono risarcite dall'assimi-
lazione. E cosi nel sistema motore sensitivo i mo-
vimenti contrattivi sono controbilanciati cogli espan-
sivi, e questi con quelli, il tutto coli' influenza delle
esterne cagioni.
La medesima forza conservativa, nel manifestarsi
colle suddette somme funzioni dell' organismo, si
palesa sempre con una tendenza all' equilibrio fra
queste medesime funzioni proporzionato alle diffe-
renti età dell'esser vivente, ed alle diverse fasi del-
l'evoluziene organica del medesimo, fn guisa che rotto
comunque siffatto equilibrio, e con ciò costituitosi
il morbo, il funzionamento espressivo della forma-
zione del male, che tende alla distruzione dell'orga-
nica compage, incontra un obice a questa tendenza
fatto da un altro funzionamento pronto ad agire in
senso opposto al primo propenso ed atto all'orga-
nica riparazione, che promana dalla forza primigenia
della vita.
Il perchè è manifesto, che la forza conservativa,
la quale libera l'organismo dal male minacciante la
sua distruzione, non nasce dal morbo, ma bensì dal
processo organizzante a tenore degl' intrinseci rap-
porti dell'evoluzione organica corrispodente sempre
allo special suo tipo. E se la medesima forza con-
39
servativa trovasi consociala allo stesso processo mor-
boso, non è perciò eh' ella sia costituita da tal pro-
cesso: essa vi prende parte come tutrice dell'orga-
nismo, onde allontanare ed eliminare dalla macchina
tutto ciò, che tende ad abbatterla. Ma cotesta forza
è sempre costituita dal processo organizzante me-
desimo, e trovasi perciò nell'essere dotato di vita
dal primordio di sua formazione fino alla morte.
Essa ne sorregge i suoi fisici destini sì nello stato
di salute e sì in quello di malattia per modo, che
in qualunque vicenda è sempre pronta a sostener
l'organismo stesso, moltiplicando per fino i suoi sforzi
in tutte quelle avverse circostanze, nelle quali l'in-
dividuo vivente è minacciato di danno e di ester-
minio.
Tutte le quali riflessioni sono applicabili al pro-
cesso febbiile, ed alla forza conservativa, che tro-
vasi consociata al medesimo. In conseguenza può
dedursi non esser la febbre, come non lo è qualun-
que altro male, che abbia per se stesso la tendenza,
l'efficienza, l'attitudine di condurre l'organismo alla
sua normal condizione quando è declinato dalla me-
desima in vigore dello stesso male. 11 processo mor-
boso, per ciò che importa la sua natura di qualun-
que indole sia , è sempre nemico all'organismo , ò
basato sulla forza distruggitrice , è sorretto dalla
medesima forza, e progredisce il suo corso sino al-
l'esito fatale sempre collo stesso principio. In con-
seguenza la febbre, ed una qualunque malattia, non
può avere alcun elemento con caratteri opposti a sif-
fatta tendenza distruggitiva» che nasca dalla sua pro-
pria natura , e che in virtù della medesima abbia
40
a ridonare all'organisiiio Io sialo di saltile. E di vero
la febbre, e qualunque altro male, nella supposizione
che avesse un tale elemento, avrebbe qualità opposte
tra di loro in maniera, che si eliderebbero insieme,
e giammai potrebbero conciliarsi coli' esistenza di
alcun processo morbifaciente. Non è possibile, che
con sitratte opposte qualità possa ordirsi un qualsi-
voglia lavoro morboso in un organico tessuto, o vi-
scere, o parte dell'essere vivente, mentre ad un tem-
po stesso il male sarebbe e non sarebbe, e non po-
trebbe aver luogo altro che il più palese assurdo.
Tanto è lungi , che dalla stessa natura del male
possa derivare un elemento di sanabilità, che formi
parte essenziale dei morbo medesimo , come uno
de' suoi intrinseci principi! necessario ed indispen-
sabile alla sua evoluzione !
Con tulio ciò però l'osservarsi nel secondo sta-
dio della febbre, e nel tempo di cozione di qualun-
que altro morbo, un ravvicinamento alla salute, una
tendenza a felice risoluzione tutt'all'opposto di quel
che si vedeva nel primo stadio sì della febbre, e sì
di altro male; il notarsi ciò slesso tanto considerato
qualsivoglia morbo come un fatto, quanto contem-
plalo il processo morbifaciente nelle leggi di suo
producimento, ha dato motivo ad alcuni patologi sì
della remota e sì della presente età a giudicare ,
che ne' morbi considerati in se stessi nel loro svi-
luppo come realmente esiste un'efficienza distruggi-
liva, così evvi ancora un' efficienza conservativa; e
che in ispecie la febbre sia un'operazione salutare
della natura effettuata onde espellere dall'organismo
41
la potenziì ostile comunque nel medesimo avente
luogo.
Intorno al qual giudizio esternato da vari pato-
logi di diverse età vuoisi riflettere, ch'esso è fon-
dato sull'appariscenza de' fenomeni, che avvengono
nel corso delle differenti malattie, e della stessa fe-
bre, e non sulla natura delle medesime. E veramente
stando all' appariscenza del fatto , non v' ha dub-
bio, che riguardo a' fenomeni manifestatisi nel corso
de' mali, e della stessa febbre, per quanto in quelli del
primo stadio si presenti un allontanamento sempre
crescente dalla salute, ossia un'efficienza propensa a
distruzione, altrettanto in contrario ne' fenomeni svi -
luppati nel secondo stadio si palesa una tendenza
opposta a quella espressa da' primi, ossia un ravvi-
cinamento alla salute medesima, vale a dire un'ef-
ficienza conservativa. Lo che però non conduce a
giudicare, che dal male stesso emerga la medesima
eftìcienza conservativa, e che la febbre sia un conato
salutare. Imperocché a tenore della ragione del fatto
dovendosi considerare il morbo non solo nella sua
estrinseca fenomenologia, ma ancora nella sua in-
trinseca natura relativamente alle condizioni vitali
dell'organismo, si offre la indagine onde conoscere
se le opposte efficienze, che si mostrano nel corso
delle differenti malattie, e della stessa febbre, emer-
gono realmente dal male, ovvero da que' principi!
che reggono l'organica evoluzione.
Pertanto considerato il morbo, ossia un'altera-
zione qualunque dell'organismo in rapporto alle sue
cause produttrici , ed in relazione a' poteri vitali ,
egli si presenta sotto due differenti aspetti. In uno
42
de' quali ò notabile il nesso tra le cause morbose
ed il male, nell' altro è rimarchevole l'energia del
poter vitale conservativo sulla malattia stessa. II
[ìrimo di questi medesimi due aspetti, con i quali
si presenta il morbo, esprime la formazione del male
generato dalle di lui cause produttrici in tutta la
sua attività. Una tal formazione è basata sulla forza
distruggitrice dell'organismo (come in altro mio la-
voro essa forza è stata già dimostrata pubblicamente
per le stampe di Fano 1858), e si effettua mercè di
quegli apparati organici, che sono offesi dalla causa
morbosa. Quivi propriamente e sostanzialmente con-
siste il male, poiché qualunque altro fenomeno pro-
veniente da causa al difuori di quella della di lui
formazione è estrinseco alla sua natura. E difatti
esso male in forza di sua natura formativa non può
per se stesso formarsi e risolversi: mentre questi due
elementi formativo e risolutivo non possono dipen-
dere da un solo fomite, poiché viceversa include-
rebbero contraddizione, sarebbero e non sarebbero.
In conseguenza il male per ciò che risguarda il suo
sviluppo , fino a tanto che non si risolve fino alla
minima sua parte, è sorretto sempre dalla stessa na-
tura tòrmaliva; e come tale offende incessantemente
l'organismo, allenta alla sua sussistenza; e perciò
nessun'altra efficienza può avere che quella distrug-
gitiva. La quale é l'unica efficienza, che sorge pro-
priamente dalla genesi del male considerato nella sua
natura, nel suo sviluppo, e nell' intera sua durata
formativa.
Il secondo aspetto, con cui si presenta qualun-
que infermità, non esclusa la febbre, é prodotto dal-
43
Peneigia del poter viiale conservativo effettuato con-
tro la formazione del processo morbifaciente, e ma-
nifesta la risoluzione del medesimo processo. 11 qual
poter vitale conservativo si esercita in quegli ap-
parati organici , che sono in opposizione a quelli ,
ne' quali ha luogo la formazione del morbo. Di ma-
niera che il lavoro risolutivo, per quanto operi sul
formativo , è sempre motivato in parti diverse da
quelle, in cui si costituisce il male. Laonde la for-
mazione del morbo, e la risoluzione del medesimo,
non solo sono due operazioni distinte , ma ancora
si promuovono in apparati tra di loro differenti. Con
ciò si stabilisce come ragionevol massima, che la ri-
soluzione del male sebbene si operi sul processo mor-
bifaciente, pur nondimeno vien prodotta da un po-
tere vitale distinto dal morbo medesimo, ed estrin-
seco alla sua formazione. Per il che giustamente
siffatto potere veniva denominato dal Puccinotti cogli
attributi di fisiologico superstite: volendo così di-
mostrare, che la risoluzione de' morbi, la quale av-
viene sempie mercè l'opera del suddetto potere vi-
tale, ossia della forza conservativa, non è un lavoro
effettuato da una forza morbosa inerente allo stesso
male, ma bensì viene eseguito in virtù d'un potere
estraneo alla natura formativa del processo moibi-
faciente, che è quanto dire dallo stesso male, ed è
retto da leggi fisiologiche , cioè da quel principio
che sostiene 1' organismo nella sua normale evolu-
zione. In questo principio, o poter vitale, consiste
propriamente 1' efficienza conservativa , che trovasi
manifestata nel corso di qualunque malattia, e della
stessa febbre.
Dalle quali cose risulta, che le due opposte ten-
denze od efficienze mostrantesi nel periodo de' mali
e della febbre, l'una distruggitiva, l'altra conservativa,
provengono da differenti origini. Imperocché in qua-
lunque stato morboso l'efficienza distruggitiva deriva
dal processo di formazione del male , e l'efficienza
conservativa promana dal poter vitale di conserva-
zione. La prima è il deciso risultato della condi-
zione di decadimento della vita, la seconda è il vero
prodotto de' poteri fisiologici superstiti di conser-
vazione.
In conseguenza difetta di fondamento l'asserire,
che dal male e dalla febbre promanano le due ef-
ficienze in discorso, e che nel processo di morbosa
formazione come evvi un potere offensivo all'orga-
nismo, COSI ve ne sia un altro redintegrativo. Le quali
proposizioni , perchè contraddittorie per se stesse
non possono coesistere rette da una sola stessa ca-
gione , cioè dall' unico lavoro morboso , e perciò
abbisognano per la loro manifestazione di sorgenti
diverse ed opposte, quali sono appunto quelle che
sono state sopra dimostrate.
Le due suddette efficienze si trovano espresse
nel corso de' mali in modo, che per quanto l'una
danneggia l'organismo dal principio del male sino
alla completa sua risoluzione, l'altra all'opposto fa
fronte a questo danno in tutto il periodo morboso,
con questa differenza che nel primo stadio del male
è in predominio la efficienza distruggitiva, e nel se-
condo stadio prepondera l'efficienza conservativa.
Ma siffatto predominio non esclude la continuità
delle rispettive efficienze in lutto il periodo morboso
45
palesale colle analoghe somme funzioni, perguisacbè
la formazione dei male espressa coli' efficienza di-
struggitiva quantunque dal suo principio fino al di
lui acme mostri il predominio di siffatta efficienza,
pur nondimeno continua a presentarsi fino al suo fine:
lo che è quanto dire in tutto il tempo del male ,
essendo questo tempo identico col suo processo for-
mativo. Né si potrebbe supporre la durata del male
senza la continuità della sua formazione, mentre il
processo risolutivo in fine non è altro che un gra-
duato scomponimento di forma. Così all' opposto
l'efficienza conservativa sempre intenta alla norma-
lità del tipo organico sebbene preponderi sull'effi-
cienza distruggitiva nel secondo stadio del morbo,
pur con tutto ciò ella esiste sempre fin dal princi-
pio del male; ed è appunto per tale esistenza, che
il processo di malattia non può progredire nella sua
morbosa elaborazione come farebbe senza di que-
st'obice, vien frenato nel suo progresso, ed impedito
le molte volte nelle sue funeste conseguenze. Nel
secondo periodo poi evvi di rimarchevole, oltre al-
l' efficienza conservativa generale mai cessante nel-
l'organismo finche vive, evvi, dico, lo sviluppo in
predominio della medesima efficienza speciale ope-
rante sul processo morboso formativo, ossia contro
l'efficienza distruggitrice: predominio caratterizzato
da particolare fenomenologia riconosciuta dai pratici
negli speciali sìntomi dimostrativi dello stato di co-
zione.
È pur notabile la diversità delle medesime effi-
cienze nel modo di loro sviluppo considerato sì nel-
r universale dell'organismo, e sì risguardato nella
46
parie affetta. Imperocché se nel generale si com-
portano esse presso a poco con quelPordinario an-
damento, che notasi sotto l'evenienza dolla quoti-
diana assimila/.ione, disassimilazione, e sensazione,
nella parte affetta poi , qualunque sia 1' influenza
ch'essa abbia colle stesse generali funzioni, si sco-
stano dalla condizione dell'universale, e si differen-
ziano dal medesimo, in quanto che nella parte af-
fetta il lavoro formativo del male non s'alterna quo-
tidianamente ed equabilmente colTopera risolutiva,
come ciò accade fino ad un certo punto nel gene-
rale; ma si estende ad un tempo pili o meno lungo
secondo la diversità di grado e di natura de' dif-
ferenti morbi. Alla qual durata poi del lavoro mor-
boso formativo corrisponde il risolutivo presso a poco
con altrettanto tempo. Il perchè le esposte tendenze
od efficienze, che sono le molli di siffatti lavori ,
quantunque sieno innalterabili nella loro rispettiva
natura , pur nondimeno a tenore della condizione
morbosa, in cui talora si trovano le varie parti del-
l'organismo , modificano in queste parli medesime
la loro espressione sì ne' rapporti d' intensità e sì
in quelli di alternativa durata a differenza di ciò
che sono nell'universale organico.
Ma in ogni modo per quanto l'efficienza distrug-
gitiva tenta a danneggiare la parte, su cui ha spie-
gato singolarmente la sua possa, l'efficienza con-
servativa all'opposto fa di tutto per impedire e di-
struggere i danni prodotti dal morboso potere, ri-
ducendo la parte atfetta al tipo normale, e portan-
dola ad armonizzare nella debita proporzione col-
l'universale, cui essa stessa incessantemente presiede
47
centralizzala ne' punti essenziali della vita , ed ir-
radiata nelle sìngole paiti. Così si dà a divedere co-
me quella forza conservativa, che regge l'organismo
nelle tante vicissitudini dello stato morboso, sia quella
stessa, che lo sostiene nella normalità della salute.
Ed è perciò, che anche in mezzo a queste medesi-
me morbose vicissitudini chiara apparisce la diffe-
rente derivazione delle due opposte tendenze od
efficienze, che si mostrano nel corso de' mali, e dalla
stessa febbre: essendo per le cose sopra esposte ba-
stantemente palese l'origine della tendenza od effi-
cienza distruggitiva , che sorge dalla genesi dello
stesso morbo, e la derivazione dell'efficienza conser-
vativa, che procede dal potere fisiologico superstite
conservatore inerente al primitivo stampo organico.
E perciò stesso quando si è detto che le due op-
poste efficienze in discorso sono attributi del male,
e della febbre, e derivano dal processo morbifacien-
te, si è espiessa soltanto l'appariscenza di ciò, che
si manifesta nel corso della malattia e della febbre;
ma non si è significata la vera origine delle mede-
sime efficienze; e molto meno si è annunciato con
ragionevole fondamento quanto di essenziale si rife-
risce alla loro sorgente.
In forza delle quali cose essendosi veduto come
la febbre a/ pari degli altri mali esprima un'altera-
zione dell'organismo, ed abbia nel suo corso in co-
mune con i medesimi le due già discorse opposte
tendenze od efficienze emergenti da diverse origini,
si potrà conoscere qual valore abbia il considerar
la febbre per un'operazione salutare della natura alla
ad espellere dall'organismo una materia eterogenea
48
comunque in lui intromessa, da cui veniva inquinalo.
Ed intanto per ciò conoscere vuoisi riflettere , clic
allora la febbre conseguirebbe questo scopo, quando
la sua formazione e sviluppo fosse connesso colle
principali suddescritte efficienze, che si mostrano nel
suo corso. La realtà del fatto però fa ravvisare, che
il medesimo sviluppo e formazione febbrile trovasi
connessa soltanto coH'effìcienza distruggiliva, come
ciò è slato dimostrato mediante le ragioni superior-
mente esposte. Colla forza conservativa poi si con-
nette il lavoro risolutivo della febbre. Il quale la-
voro viene effettuato mercè il potere fisiologico su-
perstite di conservazione inerente, come sopra si è
visto, al primitivo lipo organico onde promuovere
e dirigere costantemente ed inalterabilmente la sua
evoluzione. Il qual potere conservativo è estrinseco
al processo formativo del male, che e quanto del
male stesso; ed è propriamente quel che dicesi forza
medicatrice della natura.
Mediante questo medesimo risolutivo lavoro pro-
dotto dal suddetto potere fisiologico superstite' , il
quale è la slessa forza conservativa, o forza medi-
catrice della natura , in cui propriamente consiste
l'efficienza conservativa, che si mostra nel corso della
febbre, mediante questo lavoro, dissi, viene elimi-
nata dalla macchina vivente qualunque eterogeneità
in essa introposta, e si scompone la formazione dei
mali, e della stessa febbre, come ciò può ritenersi
qual proposizione dimostrata in forza delle ragioni
superiormente esposte. Dunque non è la febbre quel-
l'operazione salutare della natura, mercè cui viene
espulsa dall'organismo qualunque eterogeneità, che
49
in esso si alloghi, e merlianle la quale alcuni morbi
restano risoluti , come pure si asserisce ; ma tutto
all' opposto, anzi è la febbre stessa, che deve sog-
giacere all'operazione salutare del potere superstite
conservativo per essere risoluta. L'operazione salu-
tare della natura è quella, che viene effettuata dalla
forza conservativa come essenzial potere dell'orga-
nismo, mediante la quale son posti in azione gli ap-
paiati organici esecutori del lavoro risolutivo dei
mali, e della febbre slessa in opposizione a quelli,
che servono alla formazione della medesima febbre
e degli stessi mali. Lo che è tanto vero, che quando
la formazione febbrile è così prepotente da superare
gli sforzi del potere superstite conservativo onde ri-
solverla, la febbre slessa è cagion di morte.
Né a ciò può fare ostacolo il notar la febbre nel
suo secondo stadio non esser più 1' espressione di
un allontanamento dallo stato di sanità, come lo era
nello stadio [)rimilivo di essa febbre , ma invece
esprimere un ravvicinamento alla salute, sembrando
in tal modo opera della febbre cotesto salutar mo-
vimento. Ma ciò non è così; imperocchà il processo
formativo , cioè la febbre stessa , il qual processo
sussiste fino a tanto che dura il male, viene inve-
stito dall'opera risolutiva prodotta dal potere super-
stite di conservazione, ed in forza di quest'opera lo
stesso processo febbrile vien frenato nella sua effi-
cienza dislruggitiva, e gradatamente portato ne' casi
felici all' intera sua cessazione. Lo che cagiona il
ravvicinamento, della febbre in discorso. In conse-
guenza non è la febbre che produca cotesto salutar
movimento, ma invece egli risulta da un' operosità
G.A.T.CLXVL ' 4
50
opposta alla slessa febbre, come ciò sopra si è di-
mostrato.
Queste sono le annotazioni da me fatte sulla feb-
bre considerata essenzialmente come un processo di
estuazione sanguigna tantn di derivazione generale,
quanto di provenienza locale, che per siflFatto dif-
ferente fomite calorifero essa è primaria o secon-
daria, ed è ancor distinta in diverse specialità a tenor
del vario fomite locale medesimo riverberato su vari
punti dell' organismo. Quivi pure è considerala la
febbre nelle principali ed opposte efficienze, che si
mostrano nel suo corso viste nella loro intrinseca
natura sì nella tendenza distruggitiva e sì nella con-
servativa, manifestata la prima coll'allontanamento
sempre più intenso dalla salute, e la seconda vice-
versa espressa con un graduato avvicinamento alla
medesima a tenore degli stadi di crudezza, di co-
zione e di crisi della stessa febbre. Le quali effi-
cienze sonosi notate in modo, che dopo d'essersi viste
in rapporto col metodo curativo in genere atto a
debellar la febbre, sonosi pur considerate in rela-
zione colle loro rispettive cagioni. In forza della quale
relazione si è conosciuto, che come l'efficienza di-
^ struggitiva risulta dal processo morboso, così l'ef-
ficienza conservativa proviene dal potere superstite
di conservazione, che è proprietà essenziale dell'or-
ganismo. Per il che si è concluso, la febbre anziché
essere un'operosità salutare della natura, invece co-
stituisce un morbo al pari degli altri mali bisognoso
del potere conservatico superstite dell'organismo per
essere risoluto.
51
NOTA
Un'altra opinione si è pure emessa intorno alla
natura del calorico, della luce, dell'elettrico, ed è
quella pubblicata non ha guari dal chiarissimo Bo-
nucci, che consiste nel ritenersi da quest'autore non
essere sostanza imponderabile lo stesso calorico
ed elettrico, come si è creduto ; ma invece consi-
stere in tante efficienze dinamiche.
Sulla quale opinione qui non si starà a riportare
quanto contro alla medesima è stato opposto da
Delia-Valle , da Zanotti , da Purgotti : ma vuoisi
fare soltanto la seguente riflessione.
Le efficienze dinamiche o si considerano isola-
tamente in se stesse, o in corrispondenza a'corpi ,
da' quali promanano. Nel primo caso considerate le
etTicenze dinamiche in se stesse isolatamente non altro
esprimono che un'astrazione del nostro intendimento
senza alcuna reale esistenza, perchè dipendono asso-
lutamente da'corpi, da'quali promanano, e sono con i
medesimi essenzialmente e sostanzialmente confuse,
non essendo che qualità inseparabili degli stessi corpi.
Nel secondo caso le efficienze dinamiche in relazione
con i corpi, da'quali promano, considerate in potenza
si risolvono in mere attività degli stessi corpi, vale
a dire nell'attitudine de'medesimi ad agire: e perciò
in questo caso non esprimono alcun'oggetto in at-
tuale esistenza. Le stesse dinamiche efficienze poi
considerate in azione non altro significano, che l'a-
zione de'corpi da'quali promanano. Azione talmente
collegata col corpo, che la produce, da essere dal
52
medesimo inseperabile ; ed è di tal natura da non
potersi presentare con caratteri materiali.
Da ciò conseguita, che il calorico, la luce, l'elet-
Irico non possono essere efficienze dinamiche isola-
tamente considerate, perchè in questo caso non avreb-
bero alcuna reale esistenza: né possono essere sem-
plice azione de' corpi; imperocché non hanno i ca-
ratteri di semplice azione. E difatti trattandosi del
calorico, sul quale soltanto qui specialmente è diretta
questa riflessione, esso si presenta con caratteri ma-
teriali aventi qualifiche di corpo, e non di semplice
azione , come in ispecialità ciò può conoscersi da
quanto su di tale oggetto conclude fra tanti altri
autori a lui conformi il Musschenbroek nella sua
opera « Elementa Physicae «.Pertanto egli così espri-
mesi: « Ex omnibus bue usque de igne traditis se-
quitur manifesto, 1." ignem esse corpus, quia spatium
occupai, sese extendit ex corpore calefacto quaqua-
versum in alia corpora, vel in spatia: deide movetur
cum sese expandit, gravitalem habet 2."
Constabit ignis ex partibus subiilissimis, cum pene-
trai in poros quorumcumque corporum tam firmorum
quam fluidorum Corporibus adhaererc po-
test, augel enim eorum pondus, et cum iis , quae
volatilia fecit, avolat w.
53
Relazione delle osservazioni fatte in Spagna durante
Vecclisse totale del 18 luglio 1860 dal P. Angelo
Secchi d. C. d. G' direttore deWoss. del Collegio
Romano. Discorso letto alla pontificia accademia
Tiberina il giorno 13 agosto 1860, -
Ija somma cortesia e la benevolenza senza pari che
voi, illuslri colleghi, mostraste, quando v' intertenni
la prima volta sul gran fenomeno che era per ac-
cadere nel 18 luglio prossimo passato, esponendovi
gli avanzamenti che la scienza poteva aspettarsi dalle
osservazioni fatte in quelle singolari circostanze, mi
impegnarono ad offrirvi le primizie di quei lisulla-
menti che ho raccolto, e che sono in dovere di co-
municare al colto pubblico. E giacché voi oggi de-
rogando ai prefissi regolamenti avete voluto ascol-
tarmi, pieno di gratitudine per tanta vostra genti-
lezza, ma sollecitato dalla moltitudine delle cose,
passo senza indugio alla narrazione , con semplice
stile, sicuro della vostra cortese attenzione.
Se per tutti gli astronomi l'ecclisse del 18 lu-
glio 1860 offriva una attrattiva importante, per me
lo era in modo speciale, perchè da non pochi anni
seguiva come soggetto principale de' miei studi la
struttura fìsica del sole , ed andava già divisando
diversi preparativi e varie indagini da farsi in quei
preziosi momenti. Però assai ristretto sarebbe stato
il campo di mie ricerche, se ai tenui mezzi, di cui
io poteva disporre, non si fosse aggiunta la libera-
54
lità del Santo Padre che del suo privato peculio volle
contribuire, perchè la spedizione riuscisse decorosa
e fruttifera di utili risultati, molto superiori a quelli
che si sarebbero potuti avere da un privalo viag-
giatore (1).
Devo anche alla liberalità e alla generosità degli
astronomi spagnuoli facilitazioni ed aiuti di ogni spe-
cie, coi quali hanno contribuito all' esecuzione dei
miei progetti; onde posso dire senza vanità, che mercè
loro quanto si è fatto al Desierlo de las Palmas non
sarà inferiore all'eseguito altrove dai più illustri astro-
nomi contemporanei (2).
Accennai già nell'altra mia lettura i diversi pro-
blemi, la cui soluzione aspettava la scienza da queste
osservazieni, alcuni de' quali riguardavano la teorica
de' moli celesti, ed altri la costituzione fisica del
sole. Ma la vastità del soggetto in faccia alla bre-
vità del tempo permesso a studiarlo, impone la stretta
necessità di dividere, come dicesi, il lavoro, e la-
sciata ai miei amici e colleghi gli astronomi spa-
gnuoli la parte relativa alla determinazione del tem-
po , e per la quale essi erano a dovizia forniti di
squisiti strumenti, e limitandomi solo a coadiuvarli
in ciò in quanto comodamente avrei potuto , mi
attenni allo studio de'fenomeni fisici, e in tale vista
venni facendo tutti i necessari preparativi (3).
Le quistionl principali da decidersi colle presenti
osservazioni erano le seguenti :
1.° Le prominenze rosse che appaiono attorno
alla Luna sono esse realtà fisica , ovvero semplice
illusione ottica, originata de alcuna delle tante cau-
se che produr sogliono frange colorate e riflessioni
55
attorno agli orli de'corpi, conosciute sotto il titolo
di diffrazione, interferenza, miraggio e simili ?
2.° Posto che appartengano al Sole, sono esse
montagne o nubi o emanazioni e di che specie ?
3." La corona che cinge la Luna è pur essa illu-
sione dovuta alle succennate cause, ovvero è l'atmo-
sfera solare ?
4-.'' I lunghi raggi e discontinui osservati prolun-
garsi notabilmente oltre la corona, sono essi effetto
dovuto alla atmosfera terrestre, ovvero una realtà di
emanazioni solari ?
5." Finalmente , entra per nulla in queste ap-
parenze alcuna cosa che possa attribuirsi all'atmo-
sfera lunare o alla struttura fisica della superficie
del nostro satellite ?
Queste erano le quistioni che mi era proposto
di studiare io stesso, in modo principale, senza tras-
curare le cose accessorie de'cambiamenti meteorolo-
gici della nostra atmosfera e le variazioni del ma-
gnetismo del nostro globo , per le quali confidava
nell'aiuto de'collaboratori.
In conformità di questo progetto, due erano le
classi degli strumenti da usarsi, cioè gli ottici e i
fotografici. I primi hanno naturalmente la premi-
nenza, come quelli che forniscono i dati più sicuri
e pili completi, ma che sventuratamente per la fu-
gacità de'fenomeni sono lungi dal potere essere im-
piegati fuori di ogni pericolo, e che inoltre non la-
sciando traccia di sé non permettono di ritornar
sul fenomeno che per mezzo delle reminiscenze sem-
pre mal sicure. I fotografici, benché di lor natura
incompleti perchè incapaci di fissare i colori, di dif-
56
ficile maneggio in momenti si critici, e soggetti a
molli equivoci, ove non siano assistiti dell'occhio e
dall'intelletto, hanno però il grande vantaggio di fis-
sar permanentemente fenomeni, su cui poter ritor-
nare a mente fredda: e così l'uno dei due sistemi
compensando l'altro, fu risoluto di impiegarli amen-
due per assicurare un completo successo.
Per la parte ottica i miei colleghi erano forniti
di oltimi e bene scelti stromenti; io per me destinai
a questo uso nn eccellente refrattore di F'raunliofer
di 78 n)illimctri di apertura, che in questa occasione
fu fornito di vari interressanti accessorii.
Il primo fu un sistema di 3 oculari di Merz
cogli ingrandimenti di 60,90, e 130 volte, montati
su di una slessa piastra scorrevole fra due guide ,
che permetteva di camhiai- il campo e la forza in
un istante senza perder tempo a invitare e svitare.
11 campo del 1." oculare lasciava vedere il Sole colla
sua corona tutto intero ; il 2." il Sole solo colle
prominenze ; il 2." era destinato a ricerche speciali
se fossero occorse.
11 secondo fu un offuscante a tinta neutrale gra-
duata, e variabile in forza da 1 a 2. 75, che servir dovea
a riparar l'occhio e insieme fare da fotometro (4).
11 3.° un micrometro di posizione, col quale senza
perder tempo a leggere i gradi notavasi su di un
cartoncino colla semplice pressione di una molla la
posizione di una protuberanza qualunque vista sul
disco solare in vicinanza a una graduazione circo-
lare metallica, da leggersi poscia a tutto comodo.
Il 4-.° un reticolo speciale fatto di fili di ragno
e di fili di platino : questi (che furono i soli utili)
57
erano 4 in numero, e disposti in modo che i due
estremi dislavano precisamente di un diametro lu-
nare : gli altri due nel mezzo di essi erano posti
leggermente ad angolo, e distavano ai loro estre-
mi rispettivamente di 1' e l'|; onde potevansi fa-
cilmente stimare le dimensioni delle protuberanze
e determinare le loro direzioni. 11 cannocchiale era
montato equatoiialmente su robusto piede che gli
serviva pure di cassa , e benché non elegante , fu
trovato però di comodo e utilissimo servizio.
Alla fotografia fu destinato il nostro equatoriale
di Cauchoix, che per la sua robusta montatura in
ferro fuso si pi-estava a meraviglia ; e tutta quella
gran macchina venne tsasformata in grande apparato
fotografico con obiettivo di sei pollici di diametro
e lunghezza di metri 2. 50 mossa da un roteggio per
seguire il moto degli astri.
Non poche sono state le difficoltà che abbiam
dovuto superare per riuscire ad ottenere fotografie
solari abbastanza esatte da esser veramente utili alla
scienza, specialmente per quelle da farsi durante la
totalità onde avere le protuberanze e la corona. Basti
dire che era questo il primo saggio , e perciò era
affatto sconosciuta la forza della luce residua. Fu
quindi mestieri regolarci in modo da non fallire il
successo; e risoluti che le fotografìe del Sole intero
e delle fasi si prenderebbero ingrandite fino a 12
centimetri, ma che quelle della totalità si sarebbero
fatte di grandezza naturale dell' imagine focale , e
conforme a ciò fu proveduto Tistrumento di due di-
verse camere oscure applicabili al luogo dell'oculare.
58
e prima di partire da Roma furono fatti tutti gli
studi necessari coll'assistenza del mio amico e di-
stinto chimico e fotografo sig. Francesco Barelli.
Oltre questi apparati fondamentali ne portai me-
co diversi altri destinati ad alcune ricerche spe-
ciali, cioè un cronometro, un barometro aneroide,
2 termometri, una pila termoelettrica, un magne-
tometro di Jones, diversi polariscopi, ed altri ac-
cessori] che credetti riuscir utili alla osservazione.
La brevità del tempo non mi permette di de-
scrivervi il mio viaggio, e le cordiali dimostrazioni
di stima e di affetto che mi sono state prodigate
in Valenza, in Madrid, in Barcellona da tutti i pub-
blici funzionari e specialmente dagli scienziati che in
questa epoca hanno gareggiato di cortesia con tutti,
ma specialmente meco, e dimostrato un sincero amo-
re per la pura scienza, trascurando in vista del van-
taggio di questa la propizia occasione offertasi loro
di figurar soli nel mondo scientifico: il che avrebbero
potuto fare facilmente se avessero lasciato anche
solo di suggerire misure meno liberali al Governo
per la gratuita introduzione degli strumenti di os-
servazione (5).
Omesso ciò trasportiamoci al sito destinato per le
osservazioni. Questo fu il così detto Desierlo de las
Palmas in un gruppo di monti situato tra Oropesa
e Castellon de la Plana, ove trovasi un antico con-
vento de' PP. carmelitani scalzi tre miglia circa di-
stante del mare Mediterraneo. La stazione però non
fu trovala corrispondente alla aspettazione , ed il
convento restando troppo chiuso fra i monti, con-
venne trasportarci in punti più comodi per le os-
59
servazioni, e fu deciso di dividere in due parli la
comitiva. Quanto spettavasi alla fotografìa e al re-
golamento degli orologi fu collocato sulla spianala
avanti alla antica porteria del convento , ove due
eremi, adesso abbandonati, apprestavano comodo rico-
vero : gli strumenti maggiori furono lasciati all'aria
aperta guardati a vista da una scorta militare, quan-
tunque a dir vero non ve ne fosse bisogno , tanto
rispettosa fu sempre la curiosità di qua' molti che
ivi accorrevano. Ivi furono collocati su piedistallo
di opera muraria l'equatoriale di Cauchoix e il bello
strumento de'passaggi portato dagl'astronomi spa-
gnuoli : due stanze di un eremo furono convertite
in officina fotografica, un'altra in deposito di cro-
nometri e di orologi, le altre servirono di abitazione
e di studio (6).
11 sig. Monserrat prof, di chimica all'università
di Valenza e distinto fotografo , aiutato da alcuni
suoi allievi, si incaricò di tutta la parte fotografica,
e affidai la parte relativa al maneggio dell'equato-
riale al P. Venander della nostra compagnia, pro-
fessore di fisica nel seminario di Salamanca, che sé
ne disimpegnò con molta destrezza e diligenza. Re-
starono ancora quivi diversi amatori e professori con
diverse incombenze. Il prof. Barreda assunse a mia
istanza di studiare le variazioni dello spettro solare
con un apparato fornito dal sig. de Cepeda. Altri
si incaricarono di riconoscere gli astri che fossero
apparsi, altri lo slato del cielo; chi di osservare il
corso dell'ombra, chi di fare la fotografia generale
di tutto ij cielo, chi di fare scale fotometriche , e
specialmente il sig. Gaetano d'Aguilar e il sig. Al-
60
cover di osservare con attenzione il tempo delle
varie fasi deli'ecclisse.
Io col sig. D. Antonio d'Aguihir, direttore del-
Tosserv." di Madrid, fornito di un equatoriale di 4
pollici di Sleinheil, e col sig. deCepeda distinto av-
vocato e passionato amatore di astronomia , che
avea un ottimo cannocchiale di Lerebours, e il si-
gnor ingegn. Bolella , ci recammo fino dal giorno
innanzi alla cima più alta del Deserto, detta il monte
S. Michele da un piccolo eremo ivi costruito e a
quest'arcangelo dedicato. Questo era il solo nostro
ricovero , e perciò insufficiente per noi e per gli
altri che ci accompagnavano, ma vi fu supplito con
erigere tende militari.
La nostra posizione colà non poteva esser mi-
gliore per vedere 1' effetto generale dell' ecclisse :
alti 725 metri sul livello del mare, la nostra vista
estendevasi per tutto liberamente ; entro terra al
N. 0. per oltre 20 leghe fino a Pena -Golosa : al
N. E. era il mare : al S. E. le aguglie di s- Agata
e il capo di Oropesa, e per tutto il sud il mare,
e al S. 0. r ampia pianura del regno di Valenza.
Anche colà mi seguivano le memorie romane , e
vedeva a distanza l'antica Sagunto, ora Murviedro, e
a pie del monte distingueva col cannocchiale un arco
trionfale monumento di vittoria della immortale na-
zione. Se nonché corremmo rischio di pagar ben
cara la vaghezza del libero orizzonte: perchè la sta-
gione essendo stata fuor del solito sconcertata po-
chi giorni innanzi, una gran massa d'aria calda e
umida si sollevava dalle sottoposte pianure, e ar-
rivata colà se ne condensava il vapore sì che mentre
61
il più bel sole brillava al piano, noi o eravamo av-
volti in nebbia , o formavasi una nube immobile
sul nostro capo, che per forte soffiar di vento non
si dileguava, rinnovellandosi continuamente: finché
col progredire del giorno la temperatura del monte
essendo divenuta a un dipresso eguale a quella del
piano, potevasi allora godere di un cielo perfetta-
mente limpido e sereno, che era per ciò appunto
che avevamo scelto quel posto.
Atterriti da si sinistro presagio, ordinammo to-
sto che si avessero in pronto cavalcature pel giorno
appresso, onde se ricorreva il tristo giuoco potes-
simo discendere cogli strumenti alla pianura. Ma ap-
punto, quasi fosse per far più cruda I' irrisione, al
mattino seguente la nebbia era al piano e il chiaro
al monte; onde presa fiducia, ci affrettammo a con-
cludere quivi i preparativi incominciati e licenziate
furono le cavalcature. Ma non si tosto erano questi
finiti, che le nubi ripresero il lor mal vezzo e dura-
rono fino a tanto che indugiando colla speranza che
sparissero, l'ora divenne ormai tarda per cercare altro
luogo e convenne rassegnarsi a subire la sorte che
la provvidenza ci teneva» preparata.
Qual fosse allora la nostra ansietà è inutile il
descriverla : la mal dissimulata tristezza si dipin-
geva sui nostri visi , e formavano strano contra-
sto colla gaiezza della turba che ci faceva corona
e dava al monte una vista sommamente vaga e pit-
toresca e che senza quella nube importuna ci avrebbe
offerto il più caro piacere.
Già fin dal bel mattino allo spuntare del giorno
numerosi drappelli d'ogni specie di persone, partiti
62
da vicini villaggi, venivano colà raccogliendosi in
abiti di festa, e quivi giunti, con saporite colezioni
rifocillavansi della fatica fatta sul salire , e dopo
esaminati da rispettosa distanza i nostri strumonti ,
riliravansì a cantare, e ciarlare e divertirsi, finché
venisse l'ora del grande spettacolo. Non mancarono
di onorarci distinti professori e personaggi anche
di stato: e più ne avremmo avuti, se la nube vista
dal piano non li avesse distolti dal venire colà (7).
Intanto furono distribuiti i diversi uffici: il si-
gnor ingegn. Botella, ispettor delle miniere, si in-
caricò delle osservazioni del termomoltiplicatore di
Melloni, il sig. ingegnere Mayo delle osservazioni del
declinometro, altri delle osservazioni meteorologiche:
a tutti insomma fra non pochi capaci che ci erano
attorno fu data qualche incombenza, come si disse
dell'altra stazione, facendone la distribuzione come
suol dirsi sul tamburo.
Finalmente un quarto d'ora prima del principio
l'infausta nube si dileguò, e un cielo sereno e un'
aria oltremodo tranquilla ci annunziavano un com-
penso alle pene del mattino. Alcuni minuti prima
del principio a un nostro cenno la turba si ritirò
a discreta distanza e rimase sospesa in profondo si-
lenzio per tutto il tempo che stemmo aspettando
il primo contatto, finché all'atto de'nostri moli si
accorse che l'ecclisse era incominciato, e restò con-
vinta che la predizione non era stata come le altre
del lunario per la pioggia ed il bel tempo, lo presi
il primo contatto a un registrore elettrico di Morse
favoritoci gentilmente dalla direzione de'telegrafi di
Madrid, il quale marcava i secondi mediante un pen-
63
dolo contatore che apriva e chiudeva il circuito
elettrico, e con un altro semplicissimo meccanismo
segnava l'istante della osservazione.
Durante il corso della occultazione solare non
poteano aver luogo che le solile ordinarie osserva-
zioni eseguibili dappertutto. Tre cose mi paiono de-
gne di esser qui mentovate.
La 1.3 è che le macchie del sole non mostrarono
veruna distorsione all'istante della loro occultazione,
e solo trovai un poco di indecisione nell'occulta-
zione della penombra, il che si deve alla lor naturale
sfumatura.
La 2.3 fu che un quarto d'ora dopo il principio
potemmo distintamente tracciare il lembo della Luna
qualche poco più in là della fase fuori del Sole, ma
solo per un arco di circa 20.° : e appresso si ri-
tornò a vedere pure ad intervalli, ma non costan-
mente.
La 3.3 che mi sembra non meno importante fu
il vedere l'enorme diversità di precisione e di forza
di luce che correva tra i diversi orli che limitavano
la fase. L'interno formato dalla Luna era tagliente
e netto , e distintissimo era il contorno delle sue
montagne che rendevano assai scabro il corno su-
periore : l'altro lembo invece formato dal Sole era
incerto e malissimo terminato e realmente cinto da
una vera sfumatura che vedesi pure nelle fotografie-
Nò qui finiva la differenza, ma, ciò che era più im-
portante, il campo del cannocchiale era evidente-
mente più chiaro dalla parte del Sole che della Luna,
e ciò si riconosceva manifestamente perfino su la
proiezione in carta bianca. Vedremo l' importanza di
64
questa delicata osservazione per trarne una prova del-
l'esistenza della atmosfera solare.
A 2°i" 39*", cioè poco dopo coperto il centro ,
l'oscurità era già sensibilisrima, e 10 minuti prima
della totalilà essa era sì dichiarata che il lume era
già utile, l'orizzonte attorno era tutto fosco, ma più
dalla parte di Pena Golosa donde veniva 1' ombra
e parca presso ad un temporale ; la tinta degli og-
getti era come veduta attravesso un vetro fosco.
Ma sei 0 sette minuti prima della totalità, la luce
cominciò a vedersi calare a vista, e in una maniera
ehe avea qualche cosa di sinistro, per non dire di
terribile , talché un profondo silenzio si sparse su
tutti i circostanti, tanto che le battute del contatore
e del cronometro erano sì distintamente sentite come
fossimo soli nelle nostre stanze. Da allora in poi io
lasciai ad altri la cura di osservare i fenomeni , e
superando un certo ribrezzo che ispirava quella trista
scena , mi occupai solamente di ciò che faceva la
mia aspettazione. Levai tutti i vetri offuscanti fissi
dal cannocchiale, e seguii il fenomeno col vetro a
mano a luce graduata.
A 2.'" prima la falce era ridotta a un arco te-
nuissimo e la sua luce già non portava più l'offuscante
nella parte più densa onde feci uso della più sot-
tile. Le cuspidi erano acutissime, e così ebbi prova
della bontà dell'aria e dello strumento , quando la
superiore ad un tratto si spezzò per l'interposizione
di una montagna lunare , e ben presto il Sole fu
ridotto a un tenuissimo filo : allora la corona inco-
minciò a vedersi tutto attorno della Luna , e quel
filetto di luce lentamente si occultò senza dividersi
65
iti framinenli a coroncina. L'occultazione però non
fu istantanea come quella delle stelle, ma molto gra-
duata, sicché stimo impossibile accertarne la frazione
del secondo con precisione e la credo assai dipen-
dente dall'oscurità del vetro colorato.
Tolsi allora immediatamente l'offuscante dell'ocu-
lare, e fui sorpreso a rivedere tuttavia un filo di sole
bianco e di luce si forte che mi offese 1' occhio ;
ma il suo splendore andò si prestamente diminuendo
che potei sostenerlo , e pian piano esso si cambiò
in arco di luce porporina terminato da una infinità
di punte che dopo sei secondi furono occultate.
Subito due grandi protuberanze rosse compar-
vero presso il punto di occultazione, una la stimai
alta 2.' 30." e larga alla base 2.' : la sua forma era
conica, leggermente sfilata e curvata in punta. Presso
di questa più verso il basso apparente ve v'era un'al-
tra alta là metà circa , ma che si estendeva per
un arco di almeno 10.° sul bordo lunare. La sua
cima era a forma di sega a denti finissimi parallela
agli orli della Luna.
La loro luce era porporina mista a violetto, e
sì intensa che illuminava distintamente i fili di pla-
tino. Stetti quasi estatico per alcuni secondi a mi-
rare la vivacità penetrante di quelle fiamme, cer-
cando se pure in esse io discerneva alcun movimento;
ma quantunque qualche traccia di moto sembrasse
aver luogo presso la sommità , nulla io potei ac-
certare su ciò, e solo vidi il lor rapido andar ca-
lando, e avrei forse speso tutto il tempo in quel tra-
sporto, se un atto di riflessione non mi avesse fatto
portar lo sguardo alle altre pari** Corsi adunque
G.A.T.CLXVL 5
66
all'orlo opposto del Sole, ma nulla vidi quivi a com-
parire; e ritornando un istante ancora alle prime pro-
tuberanze , mi accorsi che si occultavano rapida-
mente.
Levai allora un poco l'occhio dal cannocchiale
per mirare liberamente il grande spettacolo della
natura circostante. La Luna in mezzo del cielo era
affatto nera , del più nero inchiostro , e per sin-
golare illusione pareva quasi staccata dal fondo del
firmamento. Essa era cinta tutta intorno da una
brillante corona di gloria alquanto più viva , ma
non più lai'ga dal lato dove il Sole si era occultato
che la circondava tutta senza discontinuità, ed era
vivissima nella sua vicinanza, ma sfumava rapida-
mente fino alla larghezza di un raggio lunare al-
meno. Da questa distanza essa cominciava ad aver
varie interruzioni , e vari fasci di luce si slancia-
vano in tutte le direzioni: nella parte superioie eranvi
almeno tre di questi gruppi e uno nella inferiore,
che stimai in lunghezza circa un diametro e mezzo
della Luna stessa. La forma de' raggi più lunghi ed
il loro aspetto era perfettamente pari a quelli che
si vedono la sera uscir dalle nubi al tramonto de!
Sole, e la mia impressione in quel momento fu che
essi fossero a simil causa dovuti. Quelli che vidi
io erano tutti rettilinei e diretti sensibilmente al
centro: però il sig. Cepeda nel cannocchiale ne vide
uno obliquo e ramificato (8). 11 cielo intorno era di
un fioco azzui'ro tendente al cenerino; sotto il Sole
brillavano vicinissimi i pianeti Venere e Giove , e
sopra la stella Polluce : di altre stelle non cercai.
Il chiarore residuo di quella notte istantanea era
67
a un di presso quello di un' ora dopo Iramontalo
il Sole in estate, ossia a uso nostro a mezz'ora di
notte: onde potei bensì senza difficoltà trovare gli
oggetti e vedere le persone vicine, non però distin-
guere la mostra dell'orologio due passi distante. Una
tinta giallastra dalla parte di N. E. riverberala da
una bassa nube lontana, nel cui seno romoreggiava
il tuono e da cui durante la totalità fu anche da
taluno veduto partire un lampo, faceva il piiì sin-
golare contrasto col cupo del cielo e gettava una
luce che mentre alquanto diminuiva l'oscurità, span-
deva però sulla scena terresti'e un non so che di
lugubre, e sembrava rammentarci quella nube che
ci avea perseguitati nel mattino, e così contrastava
mirabilmente colla gloria che si contemplava in
cielo.
Ma per incantevole che fosse questo spettacolo,
non mi trattenni gran fatto a contemplarlo; e per
accertare la natura de' raggi della corona posi l'oc-
chio ad un polariscopio di Arago, e vidi sicuramente
che le estremità loro non erano della stessa tinta
nelle due immagini, restando però in ambedue vivo
il bianco della parte centrale : nelle due immagini
la corona mi parve allungata in due direzioni per-
pendicolari. Avrei ben voluto studiare piiì addentro
queste importanti apparenze, ma la brevità del tem-
po, e l'oggetto per me secondario di quella osserva-
zione, non mei permisero, e rivenni al cannocchiale.
Ivi trovai l'aspetto del Sole assai cambiato da
quel di prima. Le due grandi prominenze accennate
dianzi erano quasi scomparse e solo vedevansi le loro
sommità : ma in lor vece dalla parte opposta del
68
lembo e tutto intorno ne erano comparse tante altre
che io mi trovai per un istante dubbioso quale sce-
gliere per misurarne la posizione , giacché vedeva
inutile prenderne la grandezza, che scorgevasi a oc-
chio crescere da un lato e scemare dall'altro. Ora-
zie alla costruzione del mio micrometro in pochi
secondi ne mism-ai sei ; ma quelle che vidi erano
assai più numerose e mi parvero quasi regolarmente
diffuse attorno al disco. La sterminata copia di que-
ste fiamme fu per me affatto inaspettata , giacché
in tutte le relazioni anteriori solo di poche viene
fatta menzione. Questa volta invece parve tutto il cor-
po solare ire in fiamme, e le lor punte schizzare
alte fuori dell'orlo della Luna incapace a coprire quel-
r incendio (9).
Un maggiore splendore della corona in un punto
del lembo lunare mi avvertiva già che colà era per
spuntare il Sole : diedi un'altra rapida occhiala alla
corona che non mi parve sostanzialmente cambiata,
ma non piiì simmetrica, e tosto io rivolsi colà im-
mediatamente tutta la mia attenzione. Un gran nu-
mero di piccole prominenze si vedevano venir pian
piano spuntando di sotto alla Luna e andar crescendo
visibilmente : ma attrasse tutta la mia attenzione
una di esse che emerse interamente e comparve tutta
affatto isolata a guisa di nube rosata sospesa nel
bianco della corona : la sua forma era sottile ed as-
sai allungata, di 30" circa nella maggior direzione
parallela all'orlo lunare, e circa 5" di larghezza : la
sua figura era serpeggiante e assottigliata alle estre-
mità. Alla vista di sì desiderato fenomeno, la cui
presenza era la piij concludente prova dell'atmosfera II ^s
69
solare, ruppi il silenzio che regnaVca nella moltilu-
dine e ne avvertii i compagni, perchè vi facessero
attenzione: del che essi mi assicurarono immediata-
mente. Son quasi certo che quella nuhe non era sola,
ma che avanti e appresso era accompagnala da altri
punti minori ancor essi isolati. 11 lor colore era an-
cor quello delle protuberanze, e solo un poco più
chiaro.
Intanto l'arco coronato di protuberanze si faceva
sempre più vivo e più largo, e la lor base rivestiva
una tinta più chiara che sfumava in un bianco de-
ciso. La sua estensione totale era almeno di 60";
quando la parte centrale, fattasi troppo viva, ecclissò
col suo chiarore tutte le luci rosate, e non potendo
più sostenere lo splendore, dovetti levar l'occhio dal
cannocchiale, e il Sole era già ricomparso.
Esso brillava allora in mezzo al firmamento co-
me un punto di luce elettrica , cinto dalla corona
che fu ancora visibile per 25.* e che coprendo con
un libro la parte lucente potei seguitare a vedere
fino a 40.* dopo finita la totalità. Le ombre erano
incerte e vacillanti , 1' aspetto dell' orizzonte ancor
cupo e mesto, ma una indicibile allegria sembrava
animare la risorta natura , e un sincero atfctto di
gioia e di tripudio si vide in tutti, che sarebbe scop-
piato in un applauso generale se più fossimo stati
intenti alle emozioni che sentivamo, che alla seve-
rità delle leggi che ci eravamo imposti di non la-
sciarci andare a trasporti, il cui effetto sarebbe stato
la confusione delle più importanti impressioni rice-
vute, che io mi sforzai di raccogliere colla più ener-
gica attività, innanzi che si dissipassero (10).
70
Tre tiri di fucile, intanto, sparati dalla stazione
inferiore, ci avvertirono secondo le convenzioni, «he
le fotografie della totalità erano ben riuscite: sul che
stavamo non poco ansiosi: e lasciando che la turba
de' curiosi sfilasse, come presto cominciarono a fare,
noi attendemmo alle osservazioni del fine della ec-
disse, che fu notato con ogni attenzione da ambe-
due noi, e alle ripetizioni di alcune cose più impor-
tanti osservate dianzi , come era la continuazione
del lembo lunare fuori del Sole che potei rivedere
con sicurezza.
L'oscurità generale durante la totalità fu alquanto
meno di quella che si aspettava, e da piij di uno si
potè leggere un libro a tipi ordinari. Le stelle ve-
dute con sicurezza furono le seguenti, secondo l'or-
dine di apparizione : Venere che si cominciò a ve-
dere dal sig. Aleover 28" prima della totalità e gli
restò visibile 1 1 minuti appresso, indi Giove, Pol-
luce, Castore, e due altre che non furono ben ac-
certate e forse una eia Mercurio.
Fu cercato del novello preteso pianeta di Lescar-
bault senza successo, né furono viste da' nostri le
piogge di meteore sul corpo solare aspettate secondo
alcune teorie (11), nò le macchie o i vulcani accesi,
né alcuna corruscazione luminosa su la Luna. L'effetto
su pochi animati a noi circostanti fu nullo affatto
in quel momento : da un eremitaggio basso fu visto
uscire un pipistrello, e azzittirono le numerose ci-
cale. Il progresso dell' ombra sulla terra fu scorto
da pili d'uno distintamente : non però sugli oggetti
vicini, in cui la gradazione di luce era troppo sfu-
mata, bensì sui piiì lontani, che vedevansi illuminare
71
e nascondersi successivamente nel momento che noi
stavamo nella totalità. Al chiarore cred' io di questa
luce e di quella inviata dall'atmosfera lontana, che
a non poca distanza dal limile delToiizzonle j-esla
in parte rischiarata dal sole (essendo la porzione di
atmosfera visibile maggiore della sezione del cono
ombroso), è dovuto lo scarso numero di stelle osser-
vale in confronto all' oscurità locale che era assai
forte, e pari alla quale di notte se ne vedono molle
di più: certo io malgrado quella luce maneggiai con
qualche difiicoltà il mio micrometro (12).
L'ago magnetico osservato di 5 in 5*" e anche
durante la totalità non die segno particolare di per-
turbazione. Per contrario (come doveva aspettarsi)
la variazione di temperatura fu assai sensibile , e
più d' uno nella stazione inferiore s' accorse di un
deciso principio di rugiada , ma i termometri non
calarono gran fatto. Circa ti-e gradi abbassò quello
all'ombra, e l'annerito al Sole dicese da 28 a 23°,
letti da me pochi minuti prima della totalità. Non
fu così della radiazione diretta esplorata col teimo-
moltiplicatore, e che diminuì rapidamente dopo oc-
cultato il centro solare, e fu insensibile durante la
totalità (13). AI riapparire del Sole la scala rico-
minciò in senso opposto e ritornò quasi esattamente
al suo punto di partenza, come avevamo sperimen-
tato nei giorni anteriori alla medesima ora.
11 vento, ossia la brezza marina, di abbastanza
forte che era prima dell'ecclisse si calmò gradata-
mente, e si quietò affatto nella totalità : il che ci
fu di gran piacere per la stabilità somma che così
poterono avere i nostri strumenti. Terminato l'ec-
72
disse discendemmo all'altra stazione, ansiosi di sa-
pere il lisultato dello fotografie.
L'attività de'nostri fotografi non era stata oziosa:
e certamente fu questo insigne merito del sig. Mon-
serrat, il quale avea lutto sì ben disposto, che quel
tempo prezioso non poteva esser meglio occupato.
Quattordici erano le fotografie fatte nelle fasi par-
ziali dell'ecclisse di grande dimensione: e nei tre mi-
nuti della totalità ne furono fatte cinque. In que-
ste l'ombra di un filo indica la direzione del moto
diurno. Piccoli di dimensioni e di non grandiosa
apparenza sono quel cinque dischetti, ma di valoie
incalcolabile per la scienza. In ciascuno la Luna è
circondala dalla sua corona colle protuberanze de!
Sole , che formano un monumento perenne dello
stalo dell'astro, e seivono a sciogliere i più diffi-
cili problemi della teoria solare. La prima imma-
gine, fatta in 6" dopo sparito ad occhio nudo il Sole,
mostra tutta intorno la corona più viva dalla parte
dell'occultazione, e l'aici) rosato presso il punto di
uscita: sopra e sotto questo vedonsi le varie pro-
tuberanze e una di esse isolata, che mi era sfug-
gita alla vista, ma che ho saputo essere stala da al-
tri osservala : in questa figura nessuna ancora ne
comparisce dall'altro lato.
La 2." fu tenuta tienta secondi, ed avea un'am-
pia corona ; ma per una scossa data alla mac-
china all' istante del chiudere il telarino si fecero
tre inunagini delle protuberanze, il che prova che la
lor forza luminosa è vivissima e capace da fare
una impressione istantanea. Questa, nel fissarla, sgra-
ziatamente si appannò un poco.
73
La 3.% malgrado qualche difetto di polvere che
nella fretta delle preparazioni fu inevitabile , mo-
stra le protuberanze diminuite dalla parte anteriore,
e nuove se ne scoprono nell' inferiore, e mostra l'au-
reola tutta intorno, ma piià larga in due direzioni
opposte e più stretta nelle altre: le prime si tro-
vano sensibilmente corrispondere alle regioni equa-
toriali del Sole , le altre alle polari. Questa foto-
grafìa corrisponde al mezzo circa della totalità: onde
la corona avrebbe dovuto esser simmetrica. Questa
conclusione importantissima è confermata anche
dalla 4.* fiuta pochi secondi dopo.
Questa mostra le protuberanze che spuntano
quasi egualmente tutte intorno , e per un leggier
tremito della macchina qui pure si vede un piccolo
raddoppiamento d'immagine, che prova la loro forza
istantiinea d'impressione.
La quinta, finita pochi secondi prima della riap-
parizione, mostra l'arco luminoso delle protuberanze
già abbastanza ampio, e si crederebbe il lembo so-
lare se non fossimo certi che esso allora non era
ancora visibile. Una sesta, fatta dopo questa, venne
bruciata al primo raggio di Sole comparso.
La brevità del tempo, in cui furon fatte queste
cinque fotografie, non ha dato luogo ad avere la co-
rona completa, il che già mi aspettava per la de-
bolezza del lume. Essa nella più ampia è limitata
a meno di un raggio solare: quindi per averla in-
tera fu preparata una camera oscura grande , di-
retta per ciò verso il cielo; ma l'equivoco di avere
usato un obiettivo a paesaggi, invece di quello da
me prescritto a ritratti, fece che solo una debole
7/i
4
e incerta tiaccia della corona si avesse sul collodion.
Da questa serie importante di impressioni ho rac-
colto il numero e la forma delle protuberan/.e quali
presento nei disegni (14).
Ma vediamo quali conclusioni si possono ma-
re da questi tatti, esposti colla più semplice since-
rità , per la soluzione de' problemi annunziati al
principio.
La prima e principale si è che le protuberanze
non sono né effetto di illusione ottica, ne monta-
gne lunari, né cosa dell'atmosfera terrestre, ma che
sono veramente proprie del Sole- 11 loro coprirsi e
scoprirsi a seconda del moto lunare, come non solo
la vista, ma pure lo mostrano perfino le impronte
fotografiche, tolgono ogni dubbiezza. Né solo variano
le grandezze, ma anche gli angoli di posizione tro-
vati diversi per una di 6° dalla prima all' ultima
prova. Le dimensioni, stimate e date di sopra, io
le credo alquanto esagerate dalla irradiazione; ma
questo non toglie che esse non sieno enormi ,^ e
parmi certo che alle maggiori non può negarsi un'al-
tezza di almeno 6 volte il diametro terrestre , e
una larghezza proporzionale alla base. La somma
vivacità della loro luce provala dalla istantanea im-
pressione fotografica, la loro forma variata e pro-
propria delle fiamme , toglie ogni idea di falsi ri-
flessi, di diffrazione e rifrazione e di miraggi: e il
vederle staccate e sospese lontano dall'orlo lunare
e solare e notanti a forma di nubi, prova che non
sono materia solida , ma gassosa analoga a' nostri
vapori e alle nostre nuvole.
La seconda conseguenza, non meno importante,
75
ò che questa materia riveste tutta ia superficie so-
lare, come un generale inviluppo trasparente. Infatti
il loro numeio prodigioso, e il loro estendersi per
archi continuati di molti gradi, ci mostra che è ir-
ragionevole su[)porle particolarità locali ed eccezio-
nali sulla superficie solare, come sono le macchio,
né possono dirsi eruzioni vulcaniche di pochi punti:
a! contiario il vedeile spuntale congiunte in lunghe
catene tanto al principio che al fine della totaliicà,
ci persuade che negli altri punti della circonferenza
si rendon visihili solo le cime maggiori e più ele-
vate , restando le minori e piià basse coperte dal
corpo lunare. Quindi s* intende come nelT ecclisse
solare osservala a Koenisberga tem[)o fa, e in altri,
il sottile anello solare sia comparso tutto cinto di
punte rossastre- Ad occhio nudo io non potei di-
stinguere le protuberanze, ma piiì persone ivi pre-
senti e di ottima vista dissero , che il Sole tenea
fuego intorno, sicché non dubbiamente le poterono
vedere , benché non discernere separatamente per
la loro copia straordinaria. Tanto numero sarebbe
esso conseguenza della fase di speciale agitazione in
cui sembra essere il Sole attualmente, corrispon-
dente al periodo di massimo delle sue macchie in
cui ora si trova, ovvero altra volta sono state po-
che perchè gli osservatori non hanno usate tutte
le premure possibili di osservarle al principio e al
fine della totalità , occupati da altri soggetti di-
versi ? Questo forse é più probabile, non essendo
altra volta mancalo chi abbia già indicato sinlili
apparizioni di archi luminosi colorati e terminati a
sega estendentisi per molti e molli gradi come si
76
si è visto (la noi. Kesta quindi messo fuor di dubbio
essere il Sole avvolto al limite della sua fotosfera
da una specie di involucro di debol luce rosea gas-
sosa trasparente, die ci si rende invisibile in tutte
le osservazioni ordinarie, ecclissato come si trova
dalla prevalenza della luce viva della fotosfera. La
loro tinta trasparente e senza corpo spiega come
noi non le vediamo ordinariamente sulla faccia del-
l'astro, e solo possiam credere che siano esse quelle
nubi che appaiono talora come cirri velare la parte
più oscura dei nuclei (15).
Una terza conseguenza si deduce da queste os-
servazioni, ed è che il diametro solare è ben mag-
giore di quello che comunemente si osserva cogli
ordinari strumenti. Infatti abbiam veduto che men-
tre il Sole era scomparso col grado anche più de-
bole dell'offuscante, tolto questo, e guardato ad oc-
chio nudo , la vista ne restò offesa , e che ben 6
secondi di tempo passarono finche lutto svanisse il
residuo candido segmento: vale a dire che almeno
3 secondi in arco si perdono da noi nelle nostre
abituali misure del raggio solare! Ne segue ancoia,
die usando diversi vetri colorati per offuscante si
dovià ottenere diverso diametro; e questa conclu-
sione r ho poscia confermata dal fatto (16).
In quarto luogo resta posto fuor di dubbio, che
sopra questo inviluppo ben definito di color rosato
violaceo, trovasi un'atmosfera bianca e trasparente,
nella quale nuotano talora masse staccate di cote-
sto stesso gas infiammato. Non ò facile definire la
sua estensione , ma certo non deve esser minore
dell'altezza stessa a cui sono slate osservate le prò-
77
tuberan/e. II fallo che la corona fu visibile prima
e dopo della lolalilà , con una eslensione di circa
mezzo raggio solare , sembia provare che questa
atmosfera si estende almeno a questa distanza: essa
deve esser soggetta alle leggi idrostatiche de' fluidi
clastici, e formare un inviluppo assai denso presso
la superficie solare che svanisce rapidamente assot-
ligliarjdosi. Le nostre fotografie tendono a dimostrare
che tale atmosfera è più estesa presso l' equatore
solare, come sembra richiederlo la forza centrifuga:
e questo favorirebbe grandemente l'opinione di chi
attribuisce a questa atmosfera la Iure zodiacale ;
ma un fatto di sì alla importanza merita di esser
meglio comprovato, e bisognerà attendere il risul-
talo ottenuto da altri osservatori e in altre ecclissi.
Tutt'altro però sembra doversi dire di que' lun-
ghi prolungamenti di raggi che svanirono al primo
apparire del Sole, alcuni dei quali in direzione ver-
ticale arrivavano fino a 3 diametri solari. Questi
io inclino a non crederli reali, ma meramente ef-
fetto dell'atmosfera terrestre illuminata dalla corona
e dalle protuberanze tra le aperture che gli offrono
le montagne lunari. Questa sembrami la parte del
fenomeno /puramente meteorologica nella sua ori-
gine. Appena ritornato in Roma, con ecclissi arti-
ficiali di corpi diversi sono riuscito ad imitarli per-
fettamente- Sospettai già fin d'allora una tal loro
origine per la differente forma che pigliò la corona
nelle due immagini del polariscopio, e per l'aspetto
generale di quei raggi di tinta uniforme assai lan-
guidi e in tulio simili a quelli che vediamo al tra-
monto del Sole scappar dalle aperture delle nubi.
78
La loro direzione divergente è assolutamente un
mero effetto di prospettiva, e li vedremmo paral-
leli! se fossimo da un lato, ed il loro chiarore spetta
all'aria atmosferica piiì o meno illuminata vivamente
nella direzione ove le montagne lunari interrotte, e
dove forse la corona e le protuberanze sono pili vi-
vaci. Ma per ciò che spetta l'interior cerchio o coro-
nUi non posso ammettere che sia fenomeno di simile
specie: e le mie ricerche ottiche anteriori mei per-
suadono, essendoché la frange di diffrazione ccc,
hanno lutl'altra estensione e carattere (17).
Resta dunque che la corona sia formata realmente
dalla atmosfera solare, la realtà della quale è messa
fuor di dubbio da quelle nubi losse che non po-
trebbero mai restare ivi sospese se non avessero un
sostegno, il quale non può esser altro che una massa
aerea. Questa dovendo andare decrescendo gradata-
mente, non fa meraviglia che possa estendersi no-
tabilmente al di là del limite delle protuberanze ,
ove lentamente svanisca, come fa nel nostro pia-
neta l'aria oltre le nubi, e colia sua luce graduata
produrre quel fenomeno. Tale conseguenza mi pare
anche appoggiata dal fatto che a fase non totale il
canjpo attorno all'orlo lunare era più scuro che at-
torno al solare, come pure dalla non equivoca osser-
vazione della visibilità del disco lunare fuori del
solare.
Questo , o signori , è quanto ho potuto racco-
gliere dalle mie osservazioni. Non mi illudo di avere
tutto osservato, anzi molto ho dovuto lasciare , e
non poco mi ò sfuggito che avrei potuto supplire
79
dalle relazioni altrui; ma ho voluto in questa espo-
sizione iimitai'ini allo mie sole impressioni lasciando
ad altra occasione il confrontare i miei cogli altri
lisultati. Quel solo che posso dirvi si è, che finora
il numero e il successo delle nostre fotografie su-
f)cra quello ottenuto dagli altri a noi cogniti, e le
conclusioni loro irrefragabilmente combinano colle
nostre (18).
Se però il successo in questa parte ha avuto
alcun che di singolare, se ne deve principalmente
anche il merito ai sìg. direttore d' Aguilar, al sig.
Monserrat, e agli altri miei dotti colleghi spagnuoli,
i quali lasciando a me una piena libertà di azione
e di disposizione in tutto, non solo mi hanno se-
condato in quanto io potei proporre e desiderare,
non essendosi essi mai occupati dianzi, di fotogra-
fia celeste, ma hanno efficacemente contribuito senza
riguardo nò a spese nò a sagrifizi personali di ogni
genere per riuscirvi. Disgraziatamente i funesti ru-
mori dell'invasione colerica in Valenza, unite a tri-
sti notizie domestiche arrivate al direttore, vennero
a turbarci al momento di nostra separazione, onde
non potè avere luogo un completo congresso astro-
nomico, come avevamo proposto di fare, per discu-
tere i risultati ottenuti (19).
A me però resterà sempre impressa la loro cor-
tesia e gentilezza verso di me: anzi devo aggiun-
gere che non solo i miei colleghi, ma lutti gene-
ralmente gli spagnuoli anche i più comuni e del
popolo han mostrato per me una sì cordiale affe-
zione da dividere meco persino i sentimenti di tri-
stezza o di gioia, quasi che lo fossi il solo impe-
80
gnato nella riuscita di questa impresa. Al che con-
tribuiva non dubbiamente 1' esser io fra tutti gli
astronomi di tutte le nazioni che colà erano con-
corsici solo che avea missione diretta da quel Sommo
cui quella nazione sinceramente cattolica ha sem-
pre venerato e ora più che mai altra volta mostra
di venerare di cuore sincero qual loro Padre Santo,
la cui soddisfazione fu pure per me il massimo dei
piaceri per l'ottenuto successo.
81
NOTE
(1) Debbo air Emo sig. cardinale Santucci pre-
fetto della sacra congregazione degli studi 1' aver
rappresentalo al Santo Padre la convenienza di tale
spedizione ; e la Santità Sua, sempre intenta a fa-
vorire i buoni studi, mi diede del suo privato pe-
culio un' amplissima sovvenzione.
(2) L'osservatorio di Madrid è posto sotto la
protezione di un commissario regio il sig. Gii y
Zarate, e a questo dotto e attivo signore si deve
il suo risorgimento e il suo stato attuale onde è
uno dei meglio forniti di Europa. Il direttore im-
mediato ò il sig. D. Antonio d' Aguilar, che ha an-
che il titolo di 1° astronomo, e il suo collega il
sig. Novella ha quello di 2° astronomo. Un 3" astro-
nomo il sig. Merino, e cinque o sei altri assistenti
formano il personale di servizio ordinario. Dall'os-
servatorio furono fatte due spedizioni, una al Mori
cayo diretta dal sig. Novella e 1' altra al Desierlo
las Palmas del sig. Aguilar. Sapendo questi il mio
progetto di occuparmi di ricerche fisiche durante
l'ecclisse , fui da esso invitato ad unirmi seco : a!
che io acconsentii, riserbandomi esclusivamente que-
sto studio, mentre esso con suo fratello sig. Gae-
tano si occupavano principalmente dal regolamento
degli orologi e della determinazione del tempo. I
G.A.T.CLXVI. 6
82
risultali relativi a questa parte saranno da essi pub-
blicati quanto prima. Anzi si avrà questa volta un
controllo ai calcoli di una stretta precisione in ciò
che spetta i limiti della zona di totale oscurità ,
perchè ad istanza del sig, direttore gli allievi della
scuola di stato maggiore ed altri molti amatori si
sono disposti a distanze di mille in mille metri
circa perpendicolarmente al limite del corso dell'om-
bra , per fissare esattamente ove fu totale e dove
no, e così questa traccia sarà segnata con una pre-
cisione straordinaria, e riuscirà utile per la solu-
zione di molti dubbi. Le operazioni fotografico-chi-
raiche furono riservate al sig. Monserrat.
Per le fotografìe minori V immagine diretta si
faceva cadere al luogo della lamina collodionata, al-
lungando però il foco, che fu trovato 10""" più lungo
pei raggi chimici che per i luminosi. Per le imuìa-
gini ingrandite la difficoltà principale fu in trovare
un tempo abbastanza corto di esposizione. Per ciò
si usò di una tavoletta scorridora, munita di pic-
cola asola e di un peso, la quale passava rapida-
mente avanti all'immagine. Così la durata di espo-
sizione era appena */jqq di secondo, e si aveano le
macchie precise colle loro penombre e gli orli del
Sole più deboli come si suol vedere nelle proiezioni
luminose ordinarie.
(3) Per la determinazione accurata del tempo
gli astronomi spagnuoli avevano portato seco un
magnifico strumento de' passaggi portatile di Rep-
sold, due cronometri di Dent, un pendolo pure di
Dent,un sestante coll'orizzonte artificiale, un con-
tatore a secondi che mediante un meccanismo sem-
83
plicissimo da me aggiuntovi segnava i secondi su
di una lista di carta di un telegrafo di Morse , e
con un altro piccolo accessorio dava l'istante della
osservazione. Due barometri uno de' quali fu lascialo
a Castellon per confronto delle altezze; una serie
completa di termometri di diverse qualità per le
osservazioni meteorologiche , e un anemometro di
Robinson per la velocità del vento. Avevano com-
prato espressamente per questa occasione due equa-
toriali di Steinheil di 122™™ di apertura, e uno di
questi era stato portato al Moncayo dal sig. Novella,
l'altro era con noi. Il sig. avvocalo Antonio Rodriguez
de Cepeda ci favoli un piccolo strumento de' pas-
saggi a prisma, che servì al sig. Barreda per stu-
diare lo spettro solare, e poi'tò per sé un bel can-
nocchiale di Lerebours di 93™™ di apertura, al quale
io applicai uno degli oculari di Cauchoix per dargli
campo più ampio da studiare il complesso de' feno-
meni della corona e delle protuberanze simultanea-
mente.
(4) L'offuscante graduato qui indicato è formato
di una lastra di vetro scuro., di tinta che dicono
neutrale, ma molto tendente al bleù, che è larga 23
millim. e lunga 80 , la sua spessezza da un capo
all'altro varia da 1 a 2, 75, ed è acromatizzata con
un vetro bianco per distruggere la sua azione di-
spersiva. Questo vetro ha il vantaggio di poter dar
luce conveniente alla parte del Sole che si studia,
che deve essere diversa secondo gli oggetti: e di più
non è sì facile a rompersi pel calore come gli al-
tri, potendosi muovere a mano facilmente. I molti
vetri fìssi, di cui erano provvisti gli altri , quasi
tutti si ruppero ad eccezione di questi. Le due la-
stre sono insieme unite con mastice, ma così spesso
si corre pericolo che il calore lo fonda e guasti :
onde meglio è lasciarle senza incollarle, avendo però
riguardo di non prendere abbaglio dai riflessi sulle
facce prismatiche.
(5) Il governo spagnuolo a fine di favorire gli
scienziati dichiarò che tutti gli strumenti destinati
a quest'uso e che dovessero tornar fuori sarebbero
esenti dal dazio, che ivi è assai forte, e richiesero
soltanto che ne fosse inviata nota preventiva al di-
rettore dell' osservatorio. Fu dato anche ordine a
tutti i governatori e alcaldi di favorire i dotti fo-
restieri in ogni circostanza, e ai professori di fisica
o di altre facoltà affini di prestare loro assistenza
e servizio in quanto avrebbero avuto bisogno: e que-
sto fu puntualmente eseguito, anzi la gentilezza dei
medesimi professori non si limitò a questo, ?Tia pre-
venne lutti nella maniera più cortese che si poteva
desiderare. Inoltre il giorno dell'ecclissi avendo il
governo saputo che sarebbe stato utile agli astro-
nomi l'avere il tempo esatto da Madrid, fu ordi-
nato che dalle 10 antm. fino alle 5 pom. i tele-
grafi fossero esclusivamente a disposizione loro, e
il sig. Merino fu incaricato di dare il tempo alle
linee che lo richiedessero. Non posso qui tacere
che se questa disposizione fosse stata notificata pri-
ma, si sarebbero potuti trarre dei vantaggi incal-
colabili per l'osservazione.
Quando il giorno 3 luglio arrivammo a Castel-
lon de la Plana , feci osservare al sig. d' Aguilar
the stando noi ad un estremo della linea dell'om-
85
bra, ove era la stazione telegrafica, se avessimo avuto
a nostra disposizione il telegrafo , e fossimo stati
in comunicazione con Santander o altro sito posto
all'altro estremo, avremmo potuto sapere immedia-
tamente gli oggetti più interressanti da studiare per
completare l'osservazione fatta all'altro capo, giac-
che l'ecclisse totale finiva colà 7 interi minuti pri-
ma che cominciasse da noi. Così una stazione avrebbe
potuto supplire air altra, e la durata della osser-
vazione prolungarsi fino 11 interi minuti, che era
il tempo che ia)piegava l'ombra a traversare la pe-
nìsola.
11 progetto non poteva non piacere, e si sarebbe
cercato di porlo in esecuzione, se l'altra commis-
sione non fosse stata già al Moncayo , e noi non
avessimo avuto il tristo desiderio di andare alle mon-
tagne; nel qual caso ci mancava il tempo per stendere
il filo locale. Finalmente ci pareva impossibile che il
governo avrebbe voluto concedere il favore del te-
legrafo: e così fu abbandonato il progetto. Ma l'e-
sperienza ha persuaso tutti che i monti , se non
sono altissimi, sono le peggiori situazioni per le os-
servazioni, essendo esposti a nebbie che a noi fal-
lirono a pena di togliere il successo e ci fecero
stare in una ansietà, il cui men tristo effetto è l'agi-
tazione dell'animo, in confronto della diffidenza che
ispira, che fa perdere un tempo prezioso ed impe-
disce molti preparativi e studi importantissimi ; e
. infatti al tanto vantato Moncayo fu perduto il prin-
cipio. Se poi sono altissimi, riescono impraticabili per
le strade che non vi sono , e pel vento che tutto
sturba; a tanti svantaggi ò poco compenso la mag-
86
gl'or purezza del cielo. La stagione è slata, è vero,
quest'anno affatto straordinaria, non essendo solito,
a quanto dicono, che colà piova in luglio: nna an-
che senza ciò il consiglio era improvvido. Invece
stando in basso alle città si poteva tenere un te-
legrafista accanto all' osservatore che trasmettesse
subito ad un altro il suo risultato, indicandogli le
cose a cui dovea fare attenzione, per completare
quanto non avea potuto osservare il primo. È da
sperare che in altra occasione questo possa aver
luogo ; ma sarà difficile che si combinino tutte le
circostanze favorevoli di questa volta.
(6) La cima del monte S. Michele al Desicrto
de las Palmas fu pure stazione di Biot ed Arago
nella prolungazione della meridiana francese fino a
Iviza, e sembra un silo destinato a scoraggire chi
si reca colà por operazioni scientifiche. Veggasi ciò
che dice Biot nel 4." tomo della Base du sysiéme
mélrique, Inlrod. Ecco un breve estratto del gior-
nale da me tenuto in questa occasione.
Alla sera del l.°di luglio partimmo da Madrid,
e monsig. Barili nunzio Apostolico presso quella
Corte , che mi avea colmalo di gentilezze durante
la mia dimora colà, mandò espressamente a com-
plimentarmi il suo signor fratello e il signor se-
gretario abate Pallotta. Viaggiammo tutta la notte
colla strada ferrata : la mattina alle 10 fummo a
Valenza, ove vennero ad accoglierci alla sta/,ione i
deputati dell'università: il resto del giorno fu im-
piegato a ordinare la spedizione degli strumenti a
Castellon , a visitare 1' università stessa e il suo
giardino botanico molto ricco e ottimamente te-
87
nulo sotto la direzione del sig. Pizqueta reltoio
della medesima- Al giorno 3 partimmo per Castel-
lon, e ivi arivammo la sera. La mattina appresso
del 4. di buon ora salimmo al Desierto. Il sito del
convento alto sul mare 300 metri circa, ove spe-
ravamo collocare gli strumenti e aver nostra abi-
tazione, fu trovato essere in un burrone in mezzo
alle montagne, donde non si vedeva quasi nò cielo
ne terra. Sul ciglio di un mofiticello vicino, alto
circa 80.™ sopra il convento, trovammo due ere-
mitaggi abbandonali , donde si godeva la vista li-
bera a tutto Sud e un poco di S. 0., ma ci re-
stava coperta la regione importante della via del-
l'ombra. Recatici alla cima del S. Michele, alto al-
tri 350"^ e di incomodo accesso , avremmo po-
sto colà stazione definitiva se vi fosse stato locale;
ma tutto si riduceva alla cella dell'oratorio di 4
meli'i quadrati, e l'area intorno era pure assai stretta.
Sperando però che l'altezza della stazione e la pu-
rezza del cielo potessero favorirci non poco, deter-
minammmo di fare colà il punto di nostra osser-
vazione andandovi uno o due giorni prima.
La mattina del 5 si cominciarono a portare gli
strumenti agli eremi e a piantare i pilastri di mu-
ratura per l'equatoriale e lo strumento de' passag-
gi, che furono montati il giorno 6. Nella notte del 6
al 7 si presero diverse fotografie lunari, come pure
nella notte deir8, per conoscere la durata di espo-
sizione per l'impressione della corona, la cui luce
non poteva esser gran fatto diversa da quella della
luna.
Fino dal giorno cinque io cominciai una serie
88
(li osservazioni magnetiche orarie e insieme di ba-
rometriche e termometriche.
La notte dal 6 al 7 fu orribilmente calda , o
alle S"""*"! dopo mezzanotte segnava 31.° 6 C, cal-
le 6 antem. 32.** 6: fortunatamente quell'aria bru-
ciante calmò, ma cominciò una serie di giorni di-
sturbati che molto sconcertarono i preparativi.
Il giorno 8 furono fatte molte fotografie solari.
Alli 9 si cominciò una serie di sperienze ter-
moelettriche per fissare la curva diurna della irra-
diazione; ma gli aghi del galvanometro furon tro-
vati troppo grevi, e si dovettero mutare.
Nei giorni 9 e 10 fu da me rettificato l'equato-
riale, determinato l'intervallo de' fili di ragno del mi-
crometro, messi quelli di platino a diversi reticoli
ecci ripetute le fotografie.
L' 11, 12, e 13 furono cattivi e piovosi.
Ai 14 si determinò la declinazione magnetica
assoluta trovala 18.°|, e si rifecero fotografie.
Il 15 si ripeterono le osservazioni termoelettri-
che , e si presero dal sig. Monserrat le fotografìe
di tutti gli strumenti riuniti cogli osservatori.
Il 16 si fecero i preparativi per salire a S. Mi-
chele, ove si passò tutto il 17 e il 18- Dal Desierto
partimmo il giorno 21. In tutto il tempo di no-
stra dimora colà avemmo ottima cortesia da quei
buoni religiosi che ci prestarono tutti i servizi che
poterono con ogni cordialità, non ostante la stret-
te/za di somma povertà in cui vivono.
La commissione spagnuola del resto volle ospi-
tare me, il mio compagno P. Yinader, e gli altri
89
non pochi concorrenti per qua' giorni affatto gra-
tuitamente e con ottimo trattamento.
(7) Fra le persone insignì che ci onorarono di
lor visita fu S. A. R. il sig. duca di Montpensier,
il sig. duca di Pestagua, diversi membri delle ca-
mere , molti professori di Barcellona , Salamanca ,
"Valenza , Castellon, parecchi giovani ingegneri, dei
quali diversi ci prestarono aiuto al momento delle
osservazioni. S. A. il duca di Montpensier avrebbe
voluto salire a S. Michele , ma vedendo la nube ,
continuò il suo viaggio ad Oropesa, dove era l'altra
commissione spagnuola dell'osservatorio di S. Fer-
nando e la commissione portoghese. A Castellon
della Plana si erano fermali gli astronomi sig. Pian-
tamour di Ginevra; sig. Bremicker di Berlino; sig.
Bar. Fielitzsch di Greifwalden; sig. Lamont di Mo-
naco, e il sig. Rumker di Amburgo e altri. Non molto
lungi da Oropesa, a Torreblanca, era il sig. Carlini
di Milano, il decano degli astronomi italiani, il sig.
Donali di Firenze, col sig. Tempel eccellente dise-
gnatole di oggetti celesti, il sig. Bonnet professore
di nautica in Barcellona. Alla stazione centrale del
Moncayo, oltre la spedizione francese composta dei
signori Leverrier , Foucault , Chacornac ecc., e la
spagnuola del sig. Novella, era il signor Bruhns di
Lipsia, e il sig. Klinkerfus di Gottinga; ma il mal
tempo ne li cacciò al piano e molti osservarono a
Tarazona. La maggior parte degl'inglesi era all'al-
tro Iato, a Burgos, Santander, Bilbao, ecc.; ma non
so ancora l'esito delle loro osservazioni , tranne il
felice successo del sig. De la Bue che ha fatto due
fotografìe della totalità.
90
(8) I raggi obliqui non sono difficili a spiegarsi
come vedremo: più lo sono i forcuti del sig. Ce-
peda , e più ancora quelli fatti a forma di foglie
che si danno nella figura fatta da Liais al Brasile.
Credo che la confusione svanirà quando sarà ben
fissato che cosa si è voluto rappresentare in que'
disegni , se le regioni di maggior chiarezza , o la
direzione delle linee di luce; queste possono molto
dipendere dalla costruzione dell'occhio, e in questa
materia non è facile fissare uno stile convenzionale.
(9) Le fiamme osservate nel 1842 non furono
che 3 o 4: piìi se ne osservarono nel 1851 in cui
si era piij preparato, e M. Malhieu ed altri videro
decisamente un arco circolare intero di pioininenze
l'osee. Che molti di questi fenomeni siano loro fa-
cilmente sfuggili si capisce dall'esser allora gli os-
servatori intenti a contare il tempo, e fissi coll'oc-
chio in un punto solo. Per me abbandonai affatto
questa parte, e solo mi prevalsi <lel contatore per
apprezzare la durala delle parti singole del fenomeno.
Tutte le altre osservazioni dei tempi le darò in al-
tra occasione quando avrò ricevuto da Madrid le
correzioni esatte degli orologi dietro il cotnplesso
di tutte le osservazioni meridiane. Non credo che
dispiacerà trovare qui il tempo del principio e del
line osservato in Roma al Collegio Romano dal P.
Rosa, che avea rettificato il circolo meridiano con
ogni diligenza nei giorni antecedenti, e lo darò ap-
presso in una appendice. In generale crederei buon
consiglio, e degno da ridursi in pratica durante le
ecclissi totali, l'uso di prendere i tempi o a buoni
registratori automatici, o per appulsi coi top, dati
91
ad un assistente, perchè la distrazione in voler con-
tare e osservare tutto da se produce errori ben su-
periori alle piccole incertezze probabili nel!' altro
sistema.
(10) Se tanto si studia l'impressione su la na-
tura materiale , non è certamente da dispregiarsi
r impressione morale che si eccita sulle intelligenze
degli osservatori in quel momento, che è ben più
importante che la sensazione dei bruti animali. Il
gran pensiero che sembrò occupare tutti gli osser-
vatori durante la totalità, fu l'annientamento della
creazione tutta per la mancanza del gran luminare;
e quindi 1' idea affatto naturale di una Potenza crea-
trice e conservatrice, sembrò esaltarsi a quel con-
trapposto. - Dios es grande ! - fu 1' esclamazione
che uscì da molte bocche in quel momento , e il
vedersi direi quasi scampato da quel pericolo au-
mentò l'allegria alla comparsa del giorno. Ma per
molto che se ne dica bisogna convenire che il fe-
nomeno è affatto indescrivibile, e in genere V im-
pressione molto dipende dalle idee di ciascuno; ma
anche i più preparati non furono esenti da certo ri-
brezzo al rapido calar della luce similissimo a quello
usato negli spettacoli per ftir notte. Malgrado i molti
avvisi e la notorietà pubblica del fenomeno, pure
non mancarono nella classe più bassa , e special-
mente nelle donne, de' forti sensi di timore, e in
Castellon alcune furono viste piangere e ansiosa-
mente raccogliere al seno i figlioletti.
(11) La curiosa teoria del sig. Thomson vorrebbe
che il calore fosse mantenuto da meteore cadenti sul
Sole pel lavoro meccanico esercitato nel loro urto.
92
Quindi si era raccomandata tale ricerca: ma nulla
si vide lassij dai nostri circostanti- Il sig. Leta-
inendi prof, di anatomia a Barcellona , che si era
recato a Perillon, mi assicurò essere stali veduti due
globi di fuoco, come stelle cadenti andare verso il
Sole. L' importanza dell'osservazione merita più det-
tagli. L'esistenza del pianeta intra-mercuriale, tanto
cercato invano, pare ora poco sicura.
(12) Le isole Columbretes furono viste in luce
mentre noi eravamo nell'oscurità- Per intendere poi
quello che qui si dice è da richiamare ciò che è
stato dimostrato dal sig. Biot (Comptes Rendus, to-
mo XXXIX pag. 825). Esso ha provato , che un
raggio luminoso, che arriva all'occhio per una tra-
iettoria orizzontale, è entrato nella nostra atmos-
fera in un punto la cui verticale sul globo terre-
stre dista 7." 30' da quella dell'osservatore (contati
dal centro della terra): e che se questo raggio per-
corre una linea inclinala all'orizzonte di 10.°, esso
è entralo ad una distanza di 2°. 19.' Ora il raggio
della sezione del cono dell'ombra lunare sulla su-
perficie terrestre, per chi era nel centro, non era che
di 2 gradi circa: donde si scorge che da almeno 10.°
gradi di altezza in giù la massima parte della at-
mosfera terrestre visibile dall'osservatore era illu-
minata parzialmente dal Sole- Quindi si spiega il
chiarore che allora si vedeva al basso tutto intor-
no, e la luce diffusa da questa massa d'aria , che
non 'è poca, ed il suo color giallastro proprio dei
raggi trasmessi a traverso di essa: e mi ricordo
che l'orizzonte mi parve più scuro dal lato donde
veniva l'ombra prima della totalità, che noi vidi du-
93
rante essa. Si spiega anche come presso al Sole
ecclissato, malgrado la luce della corona, siansi po-
tute vedere le stelle Castore e Polluce, e non siansi
potute vedere nò Sirio, né la Lira, che sono assai
più lucide , ma che stavano da esso più distanti.
Per facilitare la visibilità delle stelle io aveva fatto
copiare la carta di Maedier, traforandola al luogo
proprio di ciascuna delle principali.
Le mie osservazioni della polarizzazione sono
assai incomplete, ma mi mostrarono che la luce più
vicina della coiona non ò molto polarizzata, e che
la polarizzazione cresce colla distanza dall'orlo lu-
nare. Sfortunatamente queste osservazioni non sono
facili per chi non ha gran pratica. So che taluno
giudicò la corona perfettamente polarizzata, perchè
guardandola attraverso due tormaline, e girandone
una, la vide sparire ! La distrazione e la sorpresa
di quel momento potè dar luogo a questo equivoco,
e perciò bisogna stare assai in guardia in questa
materia e sapere i fatti con molti dettagli.
(13) La pila termoelettrica era diretta al Sole
mediante un cannocchiale che le serviva di guida,
perchè i raggi vi cadessero sempre perpendicolar-
mente sopra. II sig. Botella volle perciò prestarci
la sua tenda fotografica, nella quale fu collocato il
galvanometro a riparo del Sole, il cui circolo, co-
minciando da parecchi minuti prima della totalità,
fu letto colla lucerna. Benché durante la totalità
r indicazione sia nulla, non pretendo con ciò dimo-
mostrato che la corona non raggi punto calore; io
avea dimenticato di prendere meco il )iflettore co-
94
nico della pila, e così non potei studiare con esat-
tezza questo punto; ma è certo importante in que-
sta serie il vedere il rapido calare della forza calo-
rifica dopo coperto il centro del disco.
Ecco i numeri ottenuti cominciando dal momento
in cui si rischiarò il Sole ad intervalli nella mat-
tinata.
Tempo Gradi Tempo Gradi Tempo Gradi
l.h S.-^IO.oO
20. 21. 0
30. 20. 0
45. 20- 0
50. 21. 5
princ. 57. 20. 0
2.h 11."18.»5
25. 15.5
35.
58.
3. 5.
ose. 10.
11.5
2.0
1. 5
0. 0
3.h 11. "> 0.°5
20. 1. 0
35. 11.5
55. 15.0
4. 16. 17. 5
fin. 30. 20. 0
La pila stava scoperta finché l'ago fosse stazio-
nario e poi si ricopriva subito : e la forza che fa
deviare di 20." il galvanomelro faceva pure muovere
un termometro a bolla annerita di 4.°1 di Farhe-
neit. L'essere ritornato l'ago dopo il fine allo stes-
so posto di 20.", mostra l'insignificante freddo pro-
dotto dall'ombra sull'atmosfera terrestre. Le osser-
vazioni fatte il giorno 15, in ore quasi corrispon-
denti, sono le seguenti alla stazione bassa.
2.h 10.™
lo.-'e
2. 15.
19. 5
4. 0.
19. 7
4. 15.
19. 2
95
La piccola diversità è dovuta alla differenza di
altezza che non ò del tutto insensibile.
11 risultato più importante ottenuto dal sig. Bar-
reda, studiando Io spettro, fu il grande indebolimen-
to del giallo poco prima della totalità, e varie pic-
cole alterazioni nelle righe di Fraunhofer, ma non
di gran rilievo. Egli ne darà conto in una nota spe-
ciale.
II barometro non fece che una mossa piccolis-
sima, alla quale pareva già disposto d' avanti. Una
pili estesa discussione di tutti questi elementi sarà
forse fatta appresso.
(14) La piccolezza delle matrici non permette di
determinare la forma precisa che di poche protube-
ranze; le grandezze però possano bene determinarsi, e
gli angoli possono aversi dentro un grado. Qui do
quelli ottenuti dalla prima ed all'ultima fotografi;),
dalle quali è manifesto il moto del centro della Luna.
Gli angoli sono presi sulle positive tirate in carta
dall' Est pel Nord (apparente) all'Ovest ecc. e quindi
le figure sono rovesciate. Lo zero si è preso par-
tendo dall'ombra del filo teso nella camera oscura
e messo quanto si potè secondo il moto diurno ,
e che non fu mosso durante le cinque prove.
Prima TS»*; 88°; 11 3; da 135° a 148° arco lue. 2 12; 242*
Ultima 10"; 40; 76*; 248*; 290; 300; a 350<'ec. are. lue.
Angoli micrometrici 39°; 75°; 116; 211; 353; 410.
Le contrassegnate coll'asterisco sono le identiche nelle
duo prove, nelle quali l'angolo trovasi cambiato. La
quantità e la direzione del cambiamento corrisponde
96
colla posizione delle prominenze relativamente al
moto (Iella Luna, e perciò la variazione è in senso
opposto nelle due protuberanze. Non pretendo che
le figure di tutte le fiamme date nella tavola siano
esattissime, ed ho qualche dubbio se la nuvoletta
fosse un poco più basso; ma la forma delle due date
più in grande a lato della figura sono abbastanza
piecise. Dovesi avvertire che nella stessa tavola
posta in fine la corona è indicata come vedevasi ad
occhio nudo , mentre le prominenze sono come si
vedevano nel cannocchiale; e quindi per cercare le
relazioni fra le protuberanze e la corona quelle de-
vonsi iminaginare rovesciate. Inoltre per far vedere
simultaneamente tutte le protuberanze ho tenuto il
diametro della luna nera più piccola del vero ; per
imitare le fasi tutte sulla figura, basta far camminare
un disco di carta nera più glande di un millimetro
e mezzo di quello tracciato sulla figura in direzione
inclinata di 30' all'orizzontale della figura stessa.
(15) Da queste osservazioni trovasi mirabilmente
confermata la struttura fisica del globo solare, come
fu da me esposta in varie memorie scritte su questo
soggetto e special irien te nella illustrazione del quadro
fisico del sistema solare. Restano distrutti quegli
inviluppi di diverse atmosfere sovrapposte, che av-
volgevano il Sole, come sfoglie direi quasi di cipolla,
e una sola atmosfera luminosissima terminata da
punte diverse di fiamme rosate trasparenti, agitate
come un oceano in tempesta, forma la sua super-
fìcie. Dall'immensa agitazione, quello strato in pro-
porzione assai tenue , può esser squarciato e così
formarsi le macchie ed i cirri semilucìdi veduti sui
97
nuclei sono probabilmente dovuti a queste nubi "ro-
sate. Resta però ancora a decidere ce il loro color
roseo sia reale o dovuto all' assorbimento proprio
dell'altra atmosfera trasparente cbe tutte l'involge ,
appunto come i nostri vapori all' orizzonte paiono
di color roseo o violaceo. Però il roseo de' nostri
vapori non è mai sì trasparente come quello delle
protuberanze. In somma l' involucro roseo sarebbe
analogo ai nostri vapori acquei che forman le nebbie
e le nubi : e l'atmosfera trasparente al composto
diafano di ossigeno e nitrogene.
Quest'inviluppo, dice il sig. Leverrier nell'ultimo
rapporto inserito nel Monileur, sarà messo fn evi-
denza dalle misure colle irradiazioni. Non credo cbe
l'illustre astronomo ignori che fino dal 1851 io ho
preso tali misure, e calcolato i risullatl colle for-
molo di Plana, e ho sostenuto questo punto nell'ac-
cademia delle scienze di Parigi anche in opposizione
ad illustri membri della medesima. Persino l'espe-
rienza del bordo solare pari in intensità a quella delle
penombre delle macchie, che esso cita come propria
del sig. Chacornack, era già stata fatta prima da me.
Siccome può essere interessante il mettere a con-
fronto la legge dell'assorbimento dell'atmosfera so-
lare con quella dell'atmosfera terrestre, io mi pro-
poneva di studiar questo punto al Desierto ; ma il
tempo sempre cattivo me l'ha impedito. Darò però
una serie fatta in Roma nel 1851 ai 29 di luglio
col termomoltiplicatore dalle 9^^ 50"^ del mattino fino
all'ora del tramonto del sole. Eccola :
G.A.T.CLXVI. 7
Tempi
9.h50>nant.
10. 15
10. 30
1.^^45 pom.
1. 55
2. 15
2. 21
2. 30
2. 40
2. 50
3. 4
3. 15
3. 25
3. 36
3. 50
98
Gradi Tempi Gradi Term. centig. all'ombra
29.6
29.1
28.7
25.5
35.2
33.0
344
33.7
36.5
34.0
33.7
34.0
33.
34.
33.
h opponi
.32
15
33
30
33
. 40
32
50
32
5
30
15
29
30
30
45
25
0
23
20
20
35
17
50
11
0
7
10
0
9.h 50.°>
27.
"8
2. 42,
28.
2
3. 4.
28.
2
4. 0.
28.
2
5. 45.
27.
9
6. 35.
27.
0
Questa serie dimostra come la radiazione scema
poco fino a 12 0 13° di altezza in cui resta circa ^/^
ma la sua diminuzione diviene rapidissima presso
l'orizzonte ; essa potrà servire di base a calcolare
l'assorbimento di un atmosfera planetaria, la quale
secondo tutte le probabilità non sarà diversa in que-
sta parte da quella che deve circondare il Sole, e
così, potrà vedeisi fino a che punto combinano le
teorie imperfettissime proposte finora. 1 valori dei
raggiamonti solari da me trovati , e dati già nelle
memorie dell'osservatorio nel 1852 e dall'accademia
di Parigi (Comptes Rendus XLIX. 12 dicembre 1859),
sono i seguenti trovati col mio solito metodo del
lermomoltiplicatore al grande equatoriale Mera:
99
Cenlfo 1. 00
a V.C dal rai'fltio contando dall'orlo . 0. 89
» '/,. »>• 80
a ^8 2 (^''"^^ '"^ ^^° eliocentrici) . . 0. 52
Fin dal 1851 riconobbi che la diminuzione di
luce , e quella del calore , era accompagnata da
pari diminuzione di forza chimica , e ne ebbi la
prova nelle immagini su piastra dagherriana fatte
durante l'ecclisse, che erano sommamente sfumate
all'orlo. Questa verità fu poscia confermata col ter-
momoltiplicatore.
La medesima verità è stata confermata nelle
recenti fotografie fatte al Desierto dal sig. Monserrat.
Se il tempo di esposizione della lastra collodionata
sia brevissimo, l'impressione solare viene molto più
forte al centro che agli orli ; talché presso questi
resta una linea quasi nera , che dà al sole nelle
prove fotografiche positive una rotondità quale si
avrebbe se si disegnasse una sfera secondo le leggi
della sciografia: tanto presso gli orli la forza chimica
è sommamente debole !
La valutazione in numeri esatti delle radiazioni
chimica e luminosa sarà sempre difficile; e sicconie
i^ complesso de'fenomeni mostra che esse seguono
in questa parte le leggi dell'assorbimento calorifico,
pare che per ora dalle mie osservazioni la tesi di
una atmosfera solare sia abbastanza provata.
È poi inutile avvertire che le prominenze rosse
non possono formare un inviluppo staccato dalla fo-
tosfera : giacché fino nella mia prima lettera nell'ec-
clisse annunziai, che io avea veduto la fusione del
100
bianco della fotosfera col roseo della sua esteriore
superfìcie.
(16) La notabile differenza che ha il diametro
solare vero da quello che noi vediamo , costretti
come siamo a servirci di vetri molto foschi per os-
servarlo, è una cosa di somma importanza nell'astro-
nomìa esatta e nel calcolo dell'ecclissi. Una diversa
forza visiva e piiì il color del vetro può dare una
differenza sensibile. Per assicurarmi di ciò ho fatto
uso di un piccolo eliometro di Dollond, e messe le
due immagini perfettamente al contatto servendomi
di un vetro rosso, al sostituire il vetro bleu neu-
trale appariva una distanza sensibilissima , che da
molte riprove trovai essere 1." 85. Non credo essere
ciò mero effetto dovuto alla minor refrangibilità dei
raggi rossi, giacché quel vetro fosco ne lascia pas-
sare assai anche di questi. Io sospetto che sia effetto
del colore dell'orlo solare, che essendo rosato passa
in pili copia pel primo che pel secondo vetro : ad
ogni modo tale diversità merita di essere studiata
con più precisione e dettaglio.
(17) Tali raggi si vedono assai bene intercettando
un fascio di luce solare introdotto in una stanza
oscura con un disco alquanto scabro , e con un
disco tondo, purché l'apertura sia fornita di den-
tellature. Sollevando la polvere o facendo una nube
artificiale con fumo d'incenso, si vedeno anche me-
glio. Questi raggi sono paralleli, se si guardi da un
lato, e divengono divergenti se si collochi I' occhio
nell'asse, e secondo la posizione di questo rapporto
all'orlo vedonsi mclinarc più o meno al raggio del
disco, onde si spiegano i raggi veduti talora quasi
10!
tangenti alla Luna. Se la polvere o il fumo si sol-
levino in globi irregolari, ne nascono delle falde di
luce assai capricciose , che possono spiegare varie
delle particolarità notate da Lias. Per finire di pro-
vare che la corona non può esse effetto di diffra-
zione, dirò che quella che vedesi negli esperimenti
di questa specie , non nasce che quando usasi un
punto raggiante, e non mai con un disco : inoltre
essa non è in alcun modo comparabile in forza ed
estensione con quella dell'ecclisse, e si sa che nella
diffrazione la sfumatura è tutta interna e che al-
l'esterno si hanno frange alternanti. Ho intercettato
1 raggi con globi coperti di cristalli riflettenti e
rifrangenti, ed ho ottenuto de' fenomeni simili alle
protuberanze ; ma chi ha visto gli uni e le altre
non confonderà mai le due specie di fatti. Sarebbe
troppo lungo il descriverli qui tutti per minuto :
forse lo farò in altra occasione: qui solo dirò che
il fatto, il quale a prima vista appoggiar sembra la
teoria delle diffrazioni, è quello osservato dal sig.
BrUnhs, cioè della visibilità delle protuberanze dopo
comparso il Sole. Esso ne avrebbe veduta una fino
per 8 minuti dopo riapparsa la sua luce. Ma stu-
diando il fatto su la figura, ho visto che ciò è as-
solutamente possibile, secondo la posizione della pro-
minenza che solo taidi poteva esser coperta dall'orlo
lunare e restar visibile occultando il Sole, o, come
esso mi disse, osservando con un offuscante rosso,
che gli fece continuare più tempo la sua visibilità.
Non so se esso abbia misurato l'angolo di posizione,
come dice aver fatto Chacornac ; aspettiamo che
esso dia i dettagli della sua osssvazione.
102
(18) Il sig. de la Kiie, avendo falle due impres-
sioni fotografiche, annunziò subito per telegrafo che
esse comprovavano che le protuberanze appartene-
vano al Sole. La convinzione generale della massima
parte degli astronomi è stata questa , come si ri-
cava dai rapporti diversi finora arrivati. Veggasi ciò
che scrissi io stesso il giorno dopo l'ecclisse all'isti-
tuto di Francia dal Desierto e che è riportato nei
Compees Rendus Tom. LI, pag. 186, pubblicato
nella sessione del 30 luglio 1860. Un articolo del
Galignani pretende trovare le mie osservazioni in
opposizione cori quelle di altri osservatori. Non è
ancoi' tempo di discutere le irregolarità che possono
essere state notate secondo la pratica degli osser-
vatori e la bontà de' loro strumenti. Soltanto io ri-
porterò qui una lettera di un dotto francese, alla
quale non aggiungeiò commentario.
Montpellier, 6 aout 1860.
MoD Révérend Pére,
Bien que je n' aie pas 1' honneur d'étre connu
de vous, je pense néammoins n'étre pas indiscret en
sollicitanl de vous la favcurd'un evoi d'une épreuve
photographique des phénoménes de l'éclipse de so-
leil. Je vous en serai fortement reconnaissant. J'ai
observé l'éclipse totale à Miranda en Espagne. Mon
observation est assez conforme à celle de M. Le-
verrier, ex<;epté sur la position d'una petite protu-
bérance rose.
103
Votre observation publiée dans le Cosmos réta-
bìit la position de cette pvotubéi'ance comme jé
l'ai vue. Je veux parler d'une de celles qui faisa-
ient suite à la protubérance détachée et isolée. J'ai
vu aussi la couronrie pourprée se terminant en poin-
tes que ne parait pas mentionner M. Leverrier. J'ai
commencé comme vous à voir l'are presque continu
de lumiere pourprée (ses rudiments, au moins) 1 mi-
nute 2 avant la réapparition du soleil. M. Leverrier
estima cette apparition à 20 secondes avant la fin
de l'éclipse totale. Il résulte de cela que mon ob-
servation concorde plus avec la votre qu'avec celie
de M. Leverrier. C'est ce qui me fait desirer plus
ardemment encore de posseder une des épreuves pho-
tographiques. Des le 18, au soir , j'ai envoyé de
Miranda à M. Roche, professeur de mathématique
à la faculté des sciences de Montpellier, un croquis
et une description description détaillée de mon ob-
servation.
Je vous prie , Mon Réverend Pére , de vouloir
agréer l'expression de mon plus profond respect.
Le Ricque de Monchy
Montpellier, (Hérault)
Rue Jeu de paume N.° 10.
(19) Il Governo spagnuolo invitò tutti gli astro-
nomi ad un congresso in Madrid; ma l'avviso giunse
troppo tardi e le difficoltà delle comunicazioni in
Spagna, ove non è via ferrata, resero quasi inutile
l'invito. I pili erano già allora per partire o almeno
104
aveano deciso il loro viaggio, e così non fu esegui-
lo che tra pochissimi. Se è lecito fare un voto in
questa materia ove devesi lasciare una perfetta li-
bertà individuale, il congresso sarebbe stalo meglio
farlo prima: così non si sarebbero trovati aggrup-
pati tanti osservatori in pochi punti come questa
volta, lasciando deserte stazioni utilissime come p. e.
quella di Iviza che avrebbe allungato quasi di ^/^
la strada dell'ombra.
Un'altra volta ancora si potrà procedere con ap-
parati maggiori alle fotografie della totalità, essen-
do provata la lor forza chimica, e si potranno con-
giungere col telegrafo le varie stazioni fra loro, per
avvertirsi mutuamente nel momento stesso de' fatti
più tempo possibile dopo riapparso il Sole, copren-
do questo nel cannocchiale come io feci per la co-
rona ad occhio nudo. Finalmente fare disegni più
esatti della corona: per la qual cosa io credo il più
opportuno 1' uso di un vetro limpido attraverso il
quale si guardi e si segni su di esso la direzione
de' saoi raggi con un pezzo di sapone (come usano
i costruttori delle lenti de' fari) o di altra materia
per metter in chiaro se la teoria data sopra di quei
raggi sussista o no.
L'utilità del congicsso preliminare sarà quella di
Comunicarsi le sue viste reciprocamente, e di fare
che certe idee, restate questa volta sterili perchè te-
nute scerete o non potute attivare da chi le avea,
restino mediante la conferenza alla disposizione di
lutti, e che insieme sia assicurato il merito debito
a chi le propose nel congresso stesso.
105
Appendice
Durante la mia assenza dal Collegio Romano
l'osservatorio restò affidato al P. Rosa, il quale trovò
il principio
in T. m. di Roma 2h SS"' 5P 8
Fine 5 5 28 0
11 cielo fu bellissimo, e solo si videro alcuni veli
leggerissimi che diedero origine a varie strisce bian-
castre in cielo e attoino del Sole , con prolunga-
mento verso il sud: subito dopo finita Tecclisse si
sollevò un forte vento sud ovest e apparvero Cu-
muli intorno al Sole. L'abbassamento termometrico
al sito ordinario degli strumenti fu meno sensibile
che in altri luoghi, e fu solo di 2°, 5.
Gli strumenti magnetici seguirono il corso re-
golare senza perturbazione alcuna, benché osservati
ancor essi di 5 in 5 minuti.
Spiegazione della tavola.
Le 4 figure superiori sono copie quanto piiì si
è potuto esatte delle fotografie; ma non è stato pos-
sibile raggiungere la finezza di que'dettagli e delle
sfumature della corona. La 1» fu fatta in 10 secondi,
la 3» in 20, e queste sviluppate col solfato di ferro;
le altre due in 36", e 30" e sviluppate coli' acido
pirogallico , e perciò in proporzione vi sono meno
vive le aureole.
106
1 raggi della corona sono come si vedevano ad
occhio nudo, cioè drilli: ma le protuberanze sono
disegnate, come si vedono nel cannocchiale, a rove-
scio (vedi perciò quello che si dice nelle note a
pag. 40). 1 disegni parziali dai lati sono copia di
quelli fatti subito sul luogo ancora durante 1' ec-
clisse. Se per queste vi è varietà nelle forme di-
segnate altrove, potrà cercarsene la spiegazione in
altra origine che negli errori di osservazione , po-
lendo benissimo aver variato le apparenze durante 10
minuti in cui l'ombra attraversò la Spagna. Ciò sarà
deciso definitivamente dal confronto delle fotografie.
107
AGGIUNTA
Nella relazione antecedente delle osservazioni da
me falle in Spagna durante l'ecclisse del ISluglio p. p.
mostrai specialmente le importanti conseguenze che
si potevano trarre dalle fotografie del Sole fatte du-
rante la totalità. Per assicurarsi però su di altri punti,
richiedevansi le osservazioni fatte in alti'i luoghi, e
singolarmente ciò era necessario per decidere sulla
gran questione se le protuberan/e erano state iden-
tiche nei vaiì siti, e quindi in tempi assoluti diversi.
Per un tale scopo le osservazioni ottiche fatte anche
dai pila esperti osservatori sarebbero state di poco
peso, perchè la fretta, la prevenzione, e l' immagina-
zione di ciascuno, la diversità degli strumenti, hanno
troppi influenza nella interpietazione di que' pochi
fatti che possono osservarsi alla sfuggita in que' brevi
istanti, e di que' cenni con cui sul njomento può
sbozzarsi la figura delle protuberanze; e il loro ra-
pido coprirsi e scoprirsi fa confondere i cambia-
menti reali cogli apparenti. Quindi io aspettava con
ansietà i risultati del sig. De la Bue che si era re-
cato con un apparato simile al nostro a Rivabellosa
presso Miranda dell'Ebro, luogo distante circa 200
miglia dal Desierto de las Palmas, e nel quale la to-
talità dell'ecclisse accadeva nove minuti di tempo
prima. Questi risultati essendomi ora pervenuti, posso
108
fare il confronto desideralo che sarà grandemente
profittevole per la scienza.
Dalle relazioni del sig. De la Rue (1) si ricava
che ancor esso ha incontrato lo medesime difficoltà
che trovammo noi nei nostri preparativi, per la man-
canza totale d' informazione sulla intensità ed ef-
ficacia della luce delle protuberanze e della corona.
Nella dubbiezza di una riuscita noi ci eravamo
attenuti alla parte più sicura di fare le fotografie
piccole, perchè poi si sarebbero sempre potute in-
grandire, e le immagini dirette aveano già una non
mediocre dimensione {23, 5 millimetri). Il sig. De
la Rue invece operando con strumento minore e
poco potendo contare sulle piccole immagini di-
rette, anche a rischio, come egli dicQ, di perder lutto
si attenne alle immagini ingrandite: e sì poca era
la speranza di riuscirvi, che egli credeva che se pur
poteva fissar la corona , le protuberanze su questa
sarebbero venute in nero !
Fortunatamente la forte luce delle protuberanze
ha vinto tutte le difficoltà, e il sig. De la Rue ha
ottenuto immagini abbastanza grandi e vivaci che non
solo confermano quelle conclusioni che già tirammo
dalle nostre, ma danno anche una guida per distin-
guere nelle nostre stesse immagini più piccole le più
minute particolarità , e togliere ogni dubbio sulla
realtà degli oggetti in quelle rappresentati. La pic-
colezza infatti delle nostre figure non avrebbe per-
messo di decidere su la forma di alcune prominenze,
e sarebbe stata intollerabile baldanza 1' interpretare
per immagini di oggetti reali delle minime sfumature
(1) Times 5 agosto. lUustrated London news 25 agosto.
109
senza che si avessero altri elementi di controllo ;
e bisognava non conoscere che cosa sia fotografia
per fidarsi ciecamente in un oggetto di tanta novità
a de' segni che non aveano nessuna conferma nem-
meno, come vedremo, nei fenomeni ottici. Ma ora
che abbiamo a controprova le indicazioni delle altre
fotografie, è tolta ogni ambiguità , e le due classi
di immagini vicendevolmente si illustrano e ricevono
autorità.
Prima di passare alla discussione delle singole
protubeianze è da avvertire, che la indicazione dei
gradi fatta dal D. L. R. è diversa da quella data da
noi nelle note alla Relazione pag. 95, ma solo ap-
parentemente, perchè esso conta sulle sue immagini
che sono radrizzate cominciando dal punto Nord ver-
so l'Est vero, mentre noi contavamo sulle immagini
rovesciate dall'Est apparente pel Nord app. ecc. Quin-
di contando su le due figure a rovescio, e spostando
il principio de' gradi di 90, tutto combina perfet-
tamente. Le differenze salgono al più a uno o due
gradi dovuti allo spostamento lunare corrispondente
a una diversità di tempi relativi, e alla difficoltà di
valutare talora esaltamente il posto in figure così
piccole, e non è impossibile che anche vi possa aver
influito un piccolo cambiamento reale.
La prima protuberanza che apparisce sulle fo-
tografie, partendo dal punto Nord verso Est vero, sta
a 28°, ossia secondo noi a 242° nella 1" nostra fo-
tografia, e a 248° nella 5", la variazione dell'angolo
essendo dovuta alla mutazione di luogo del centro
della Luna. La cosa pili singolare è che questa pro-
tuberanza fu vista da diversi anche prima della di-
sparizione totale del Sole, e restò visibile dopo che
no
esso fu riapparso ancora per qualche tempo. Ciò è
dovuto alla sua posizione sul disco solare, che era
tale che il lembo lunare trovavasi parallelo alla di-
rezione del moto della Luna stessa. Questa visibilità
prima e dopo fa vedere che vi è speranza di osser-
vare per l'avvenire le protuberanze solari anche in
tempo di ecclisssi non affatto totali, ma di abbastanza
grande quantità perchè resti molto indebolita la luce
che riflette 1' atmosfera terrestre che sola sembra
impedirne la visibilità.
La seconda prominenza di figura più singolare
trovasi sotto l'angolo 57° di D. L. H. ossia 213° no-
stro. Ecco le parole di quest'osservatore: « A 57°
era situata 1' estremità Nord di una notabile nube
staccata, che quando fu vista la prima volta era cir-
ca mezzo minuto di là dal lembo lunare: essa pre-
sentava una doppia curva al lato Nord, e ambedue
le curve erano convesse verso questa parte. La nube
ora inclinata di 60° verso Est, ed era lunga un mi-
nuto e mezzo (cioè 42,000 miglia). Quando la Luna
nel suo corso se gli accostò e ne toccò 1' estrema
punta, brillò con tutto lo splendore di una nube ter-
lestre al tramonto del Sole e avea tinta decisamente
rosata ». Questa nube trovasi nella nostra fotografia
(come già dissi nella relazione) presa nel momento
in cui la Luna ne tocca l'apice inferiore; ha real-
u)ente un millimetro di lunghezza, ossia 1 ', 4, ed è
inclinata di 60° verso Est: onde combina perfetta-
mente. La sua forma qui rassomiglia a un fagiuolo
|)rolungato alla punta superiore da una appendice
(li luce piiì debole della protuberanza. È fatto degno
di attenzione il vivo brillar di luce che avvenne quando
ni
se gli accostò la Luna: e ciò combina con quanto
fu veduto in un'altra protuberanza dal Goldscmith,
che vide il passaggio quasi istantaneo dalla luce
bianca alla rosata. Questo fatto sarà forse schiarito
dall'esame delle seguenti protuberanze.
La terza mostrasi a 72° (ossia a 198° secondo
noi); è singolarissima perchè si impresse sulla lastra
senza essere stata visibile all'occhio. « La sua for-
ma è quella di un arco piegato, la cui lunghezza è
2' (56,000 miglia) : la punta à rivolta verso il nord
ed è inclinata in verso opposto della nube piece-
dente : è singolare che questa protuberanza siasi im-
pressa senza essere stata veduta ».
Questa meraviglia cessa affatto allo studio pili
accurato delle nostre fotografie. Questa protuberanza
è nelle nostre imagini così debole, che non avrei mai
ardito di tenerla per una realtà fisica senza un con-
trollo ottico 0 fotografico avuto d'altronde: aggiun-
gasi che essa non trovasi bene impressa che nella 1"
fotografia fatta in sei secondi, mentre nella 3" fatta
in venti secondi non è distinguibile e confondesi colla
corona, e solo se ne ha qualche traccia nelle altre
due prove dove la corona è pochissimo sviluppata.
La sua luce esser dovea adunque poco diversa da
quella della corona stessa, che l'ha ragguagliata affatto
per una più lunga esposizione, e per ciò essendo di
color bianco, poco diverso dal fondo generale, potè
esser perduta di vista facilmente.
La forma indicata da D. L. R. è giustissima ,
e nelle piccole fotografie rilevasi la gran lingua su-
periore che corre per un tratto quasi parallela al lem-
bo lunare, od ha un pezzo quasi staccato piesso alla
112
punta. La sua debolezza stessa ci è di sommo van-
taggio per riconoscere come vere protuberanze di
questa specie alcune altre impressioni che per la loro
sfumatura passerebbero inavvertite, e siamo condotti
così alla distinzione di due classi di protuberanze,
le une vivaci, le altre deboli. La lunghezza reale di
questa lingua è di l.'"'"""6, ossia molto prossima-
mente 2 minuti (circa 8 diametri della Terra!) , e
sotto di essa vedesi protendere una catena di nubi
che da una parte e dall' altra estendonsi a grande
distanza. Questa catena si estende fino a 135° con
una varietà indescrivibile di dettagli.
A 101° è una piccola protuberanza lucida, ap-
presso la quale a 110° circa ne viene una altissima
della classe delle deboli; essa è sormontata da una
lingua lunga almeno 2' inclinata pur essa verso Est
e non è molto diversa in forma da quella di 72°,
ed anche questa sfuggì la vista mia e del sig De
la Rue. Siccome questa rimane vicinissima alle due
grandi da me studiate con tanta diligenza, sono si-
curo che se fosse stata distinguibile e di color ro-
sato non mi sarebbe sfuggita. Come mai la fotografia
ha potuto produrre ciò che l'occhio non potè scor-
gere ? Se non avessimo qui 1' irrefragabile testimo-
nio concorde di due immagini prese a 200 miglia di
distanza e a 9"' di tempo di intervallo, non si esi-
lerebbe a creder ciò una illusione. Ma questa non
può ammettersi: e oltre la ragione accennata dell'es-
sere state queste prominenze di color bianco, e facil-
mente confuse col fondo della corona, può aggiun-
gersi che è notissimo che l'occhio non è punto sen-
sibile alle onde eteree che formano i raggi più ef-
113
fìcaci dello spettio chimico, talché se la nube solare
ne inviava quasi esclusivamente di questa specie, do-
vea essere invisibile, e dovea insieme disegnarsi sulla
lastra. Dal che si vede che gran passo hanno fatto
fare alla scienza questi esperimenti, e che per l'av-
venire le osservazioni delle ecclissi dovranno farsi più
cogli apparati fotografici che coi telescopici.
Queste due protuberanze sono le più lunghe di
tutte, ma nessuna eccede 2' |; onde le altezze ac-
cennate da alcuni di fino a 4' sono certameule esa-
gerate dalla irradiazione. Il sig. D. L. R. dice che
vide ivi la corona più vivace; ma non avendo esso
avuto tutta la corona impressa, non può giudicarsi
della sua estensione. A questo suppliscono le nostre
fotografie che danno la corona più larga in questo
punto che tutto altrove. Ed è cosa notabile come
questa in generale non sia terminata da un limite
uniforme, ma profondamente intagliata in vari punti.
Dopo questa protuberanza viene il grand' arco
rosato che si estende da 129" a 135", ossia secondo il
nostro giro da 135° a 148°; ma i dettagli qui sono spa-
riti per la dilatazione prodotta dalla solarizzazione o
eccessiva durata d'impressione delle prove, anche nelle
esposte per brevissimo tempo. Alcune sue particolarità
furono descritte nella Relazioney come pure quella del-
la seguente prominenza a 154° di D. L. R., ossia 113"
secondo noi, che avea completamente figura di fiam-
ma, ed è alta l'|, e nella sua figura combina perfet-
tamente con quella delle fotografie inglesi: solo in
ambedue rilevasi un filetto bianco alla base che si
estende verso la precedente, e che io non vidi mal-
grado il molto studio, e che estendendosi fino alla
G.A.T.CLXVI. 8
114
metà di distanza che corre tre le duo , mostra la
connessione loro.
A 193° ne abbiamo una bassissima e che appena
sporge di un filetto, e una singolare a doppia cima,
come di due piume rivolte in senso opposto trovasi
a 197° (ossia 78" secondo noi). Nella nostra la fo-
tografìa trovasi accennata la doppia punta della pro-
tuberanza posta a 230° di D. L. R., ossia 330" no-
stri, la cui intera mole vedesi nella prova fotografica
sviluppata in modo straordinario. A 290" nostri, ossia
352° di D. L. R., èvvene un'altra delle più belle e
lucenti, e a 265°, ossia 10° nostri, un'altra non men
bella e vivace. Tralasciamo per brevità di dare la
posizione delle minori e deboli che spuntano da tutte
le parti, come già vidi essere direttamente il fatto
quando il Sole mi parve tutto cinto di fiamme. Ma
sarebbe degno oltremodo di essere studiato l'arco
lucido corrente da 190° a 350, e che in D. L. R.
corre da 290 a 340°, in cui trova vasi la nuvoletta
isolata sì ben veduta da me, e dai miei compagni
e dal Leverrier; ma la grande intensità della luce
nelle fotografie ha qui tutto ragguagliato, ed i dettagli
sono spariti confusi in un arco lucido vivissimo.
Se gli esperimenti di questa volta non avessero
fatto altro che istruirci sul modo di portarci per
l'avvenire, ciò già non sarebbe piccolo vantaggio ;
ma vediamo che quantunque noi fossimo cólti in
molti punti alla sprovvista, i nostri esperimenti sono
stati fe€ondi di utilissimi risultati. Qui ne accenne-
remo alcuni pochi, lasciando i già esposti altrove.
1." Gli oggetti fotografati al Deslerto e a Riva-
bellosa sono identici.
115
2«. Esistono nel Sole ammassi di nubi che sfug-
gono anclie all'occhio armato, e pure hanno una forza
chimica sensibilissima.
La prima Hi queste conseguenze mette fine alle
numeiose contese sollevate dalla imperfezione dei
disegni su la variabilità di questi oggetti, e atterra
tutte le teorie di chi li vorrebbe fenomeni meramente
ottici; teoria incompatibile colle loro forme restate
costanti malgrado la distanza di tempo assoluto, e
la piccola rotazione che ha fatto il Sole nell'inter-
vallo di 8"» frapposti alle due fotografìe.
La 2^ mette in evidenza due classi di protube-
ranze di diverso genere : le une luminose e vivaci,
€ le altre immensamente più deboli; e dà forse la
spiegazione del come taluno abbia visto le promi-
nenze bianche ed altri le rosate, essendo probabile che
l'occhio di uno siasi arrestato all'una piuttosto che
all'altra classe di oggetti : se pure non vogliansi at-
tribuire tali differenze alla diversa sensibilità degli
occhi ne'vari individui per riconoscere i colori.
Il sig. Plantamour nella B. U. di Ginevra (agó-
sto 1860) crede trovare un argomento per provare
la teoria puramente ottica delle protuberanze in ciò,
che r occultarsi loro era in proporzione molto di-
versa da quella che corrispondeva al molo lunare.
Egli vide presso al mezzo dell' ecclisse sparire la
prominenza a forma di nube che sta ad angolo di 45»
la cui distanza dall'orlo lunare al principio della to-
talità fu da lui stimata ^ minuto almeno. Siccome
per la sua posizione il disco della Luna non vi si
accostava che 1 i" per minuto , ne conclude che
quando essa svanì , la Luna non 1' avea in realtà
116
ancora toccata Questo ragionamento dell'astronomo
ginevrino sarebbe giustissimo se sussistessero le basi
su cui si appoggia : ma le fotografie dicono il con-
trario e fanno vedere le grandi illusioni a cui sono
soggette le stime ottiche. In fatti la l'' fotografia,
fatta pochi secondi dopo cominciata la totalità, mo-
stra il lembo della Luna che tocca quasi l'apice in-
feriore della nube; donde si può concludere che la
distanza stimata da lui di | minuto almeno è certa-
mente esagerata, e la differenza supera tutto quello
che può esser effetto di parallasse nelle due vicinis-
sime stazioni in cui noi stavamo. In secondo luogo non
sussiste che la prominenza svanisse verso il mezzo
delPecclisse, perchè si ha il suo vertice chiaramente
impresso nella fotografìa 5^ finita 10" appena prima
del fine della totalità. Come mai per un osservatore
così pratico potè aver luogo tale equivoco ? Per me
la spiegazione è semplicissima, cioè che realmente
gli sfuggì di vista per non avervi fissato diretta-
mente l'occhio , essendo ormai abbastanza provato
che in quella fretta molte cose non si vedono benché
stiamo nel campo di visione, se non si fissano di-
rettamente. Nessuna delle protuberanze lucide su-
pera 1' 30", e così resta spiegato perchè al principio
e al fine della totalità le fotografie mostrino un
arco as.^ai esteso senza prominenze lucide dalla parte
donde viene o verso cui va la Luna, mentre ne spun-
tano certamente in più punti di quelle che abbiam
nominate deboli, che sono più alte. Infatti la diffe-
renza de' diametri essendo 96", non poteano restar
tutte coperte quelle che erano più alte di questa
iiuantità.
117
Per altra prova della sua teoria il sig. Pianta-
mour porta l' apparizione de' fascetti lucidi prove-
nienti da ciascuna protuberanza e notati nella sua
figura; ma que'disegni, cred' io, devono interpretarsi
alquanto benignannente, perchè io nulla vidi di ciò
che esso accenna, né le fotografie indicano altro che
un maggior chiarore della corona nella vicinanza
della protuberanze: e forse ciò solamente vogliono in-
dicare quelle figure, che del resto sono fatte piuttosto
per dare un cenno delle apparenze che per preten-
dere a veruna precisione, come lo mostra il limite
tagliente della corona interna, che certo non esisteva
affatto, essendo essa sfumata molto gradatamente.
La sola cosa su cui non si può negare che vi
resti ancora qualche oscurità per la spiegazione, è
il fatto notato sopra, e osservato dal De La-Rue,
dal Plantamour, ed ancor dal Goldscmith, che la-
luna delle prominenze cambiò tinta all' accostarsi
della Luna. Io porto opinione che ciò non sia che
un effetto di contrasto, allo scemare del lume: e ne
ho in prova il fatto, che la piccola nuvoletta da me
studiata con diligenza, di rossa che era quando spuntò
dalla Luna, venne ad illanguidirsi collo scoprirsi del
lembo, e svanì in bianco nella corona allo spuntare del
Sole. Tuttavia le fotografie mostrano che vi è una
realtà di differenza tra le due classi di protuberanze
più 0 meno lucide: quindi potrebbe aver luogo la se-
guente considerazione: E certo che le figure fotogra-
fate e proiettate su di un circolo massimo del globo
solare non possono tutte stare in un solo piano: ora
potrebbe essere che le più pallide fossero le protube-
ranze più lontane e viste solo per riflessione o attra-
118
verso un denso strato di atmosfera solare, e che le più
vive fossero le più vicine alPosservalore illuminate
per trasmissione. Metto in mezzo questa idea con
tutto riserbo, ma parmì degna di studio (1).
Concluderò insistendo su di un altro risultato non
meno importante che si cava dalle fotografìe con-
giunte , ed è il seguente :
3.° L'atmosfera solare è assai più eslesa nella re-
gione equatoriale che nelle polaii, e le regioni ove
trovansi le protuberanze più lunghe e più variate sono
quelle che corrispondono alle zone delle macchie,
ossia a quella di maggiore attività e temperatura
solare.
Per assicurarsi di ciò, non si ha a far altio che
tracciare su le fotografìe l'equator solare, e si vedrà
che la regione, ove l'aureola della corona è più viva,
corrisponde alla zona che estendesi da una parte o
dall'altra dell'equatore circa 50°, mentre nella di-
rezione polare è assai più ristretta. Questa conclu-
sione è appoggiata al complesso delle nostre fotogra-
fie esclusivamente, poiché in quella del De la Rue,
come si disse, l'aureola non è presa tutta; però le
cinque nostre prove combinando esattamente non
può esser ciò effetto del caso. La larghezza di questa
(1) Era già pubblicato questo ai'licolo nel giornale di Roma (7 Sei. 1860)
da molti giorni quando giunsero in Roma nei bullettini dell'osservatorio di
Parigi le descrizioni delle protuberanze osservale da Chacornac con un forte
equatoriale (4, 5, 6, 7, settembre) , e vedo che esso pure dalle sue osserva-
zioni è sialo condotto alla medesima conclusione. In somma questo sarebbe
il caso delle nostre nubi, clie finché si vedono per riflessione sono binnche,
e viste illuminale dai raggi trasmessi al tramontare del Sole vestono le tinte
rosate che lutti sappiamo. In questa ipotesi la luce delle protuberanze non
sarebbe propria, ma imprestata dal Sole; nò a ciò fa difficoltà la mancanza di [)o-
larizzazione osservata in esse, perche anche le nubi nostre non sono [)ohuizi'.ale.
119
atmosfera impressa è 6' almeno all'equatore, e al
polo non arriva a 3'; ma è certo che la fotografìa
fatta in soli 6s<^<=- non può rappresentare l'ultimo
limite della atmosfera solare, che deve essere assai
più estesa, ma però è sufficiente a mostrar bene la
legge di sua struttura. Questo conferma quanto fu
da noi scoperto fino del 1851, dell'esser cioè la zona
equatoriale la piiì eneigica, e quella dove la tem-
peratura fa da noi trovata più elevata. E singolaie
la forma di questa atmosfera che combina sì bene
con quella trovata dal Maury per la terra , e pare
effetto della forza centrifuga.
Questo per ciò che riguarda le fotografie fatte
durante la totalità. Anche il sig. De la Rue ha preso
varie fotografie delle fasi par/.iali, e ivi come nelle
nostre resta provata la grande differenza di preci-
sione fra l'orlo della fase spellante al bordo solare o
al lunare. La sfumatura del piimo è tale che si cre-
derebbe l'impressione fatta fuori del foco, se la preci-
sione dell'altro lembo non peisuadesse il contrario :
e si rileva pure che il bordo solare ha luce più de-
bole che la penombì'a stessa delle macchie , veiifì-
candosi ciò che noi trovammo in Roma per la luce
fino dal 1858, e quello che mollo prima provammo
accadere pel caloie. Queste fotografìe mettono inoltre
in evidenza un altro fatto importante: se l'impressio-
ne non sia realmente istantanea, il nucleo non viene
nero, ma bianco come il resto; donde si conclude che
que'punti non sono oscuri fuor che relativamente, e
assolutamente sono luminosissimi, come già si era
dedotto da! Galileo per altre consideiazioni. Così
pure l'orlo delle penombre non ò staccato e netto se
120
l'impressione non è sommamente istantanea, ma si
fonde un poco col resto : laiche si vede che il grande
distacco apparente del contorno delle penombre è
in gran parte effetto di contrasto. Ciò è confermalo
dalla importante osservazione del barone Dembowski,
che riconobbe i nuclei delle macchie apparire molto
meno neri che il lembo lunare all' atto della loro
occultazione.
Qui nascerebbe la discussione: se le forme delle
nostre protuberanze favoriscano l' opinione che le
macchie siano falle da nubi notanti nell' atmosfera
solare ; opinione che oggi cercasi far risuscitare
dalle antiche sue ceneii, e confutata le cento volte
dai tempi del Galileo, che la propose, fino a'giorni
nostri: le scoperte del Wilson da noi richiamate a
nuova luce, e riconfermate, la dimostrarono insus-
sistente, e non possono le presenti osservazioni darle
veruno appoggio, come spero mostrare in altra oc-
casione con più estensione. Qui dirò solo che in
questi giorni medesimi ho potuto verificare un altro
caso manifestissimo dell'esser esse cavità e squarci
della fotosfera medesima , la cui spessezza è assai
tenue in proporzione del vasto globo che essa ricopre.
Ma ritornando ai fenomeni più particolarmente
spellanti 1' ecclisse , chi vorrà gettare un' occhiata
attenta su tutti questi fatti complessivi resterà per-
suaso dell" immenso passo che si è fatto verso la
cognizione del Sole mediante le felici osservazioni
eseguite durante questa occasione: e, quel che è più,
resterà convinto che si è aperta una nuova via di
investigazioni che sarà certamente messa a profitto
dai nostri posteri, presso i quali avremo almeno la
121
gloria di aver tolto di mezzo le principali difficoltà
che rendevano incerta la sola vera via di studiare
questa materia, cioè T applicazione delia mirabile
arte della fotografìa. Resterà solo in una futura oc-
casione che gli osservatori si uniscano per telegrafo»
onde avvertirsi reciprocamente degli oggetti più im-
portanti da osservare e delle cose da fare; il che se
si fosse fatto, come io progettai a Castellon de la
Plana , avremmo potuto profittare delle istruzioni
del signor De la due, e avere fotografie maggiori, e
completato così lo studio di questi fatti immensa-
mente di più ! Ma ora che la questione non è più del
modo di operare, ma solo del tempo, siamo sicuri
che quello che non si è potuto compire da noi
sarà fatto quanto prima da altri, e questo ci basti.
122
Delle lodi di Bartolomeo Borghesi. Discorso recitalo
air insigne e pontificia accademia romana di san
Luca, nella premiazione de* grandi concorsi , dal
cav. Giambattista de Bossi accademico di onore.
L'> . .
argomento del mio discorso sembrerà a prima
vista alienissimo dalla letizia di questa solenne adu-
nanza, e dalle arti belle che qui onoriamo e pre-
miamo: né io l'avrei forse prescelto, se il sapiente
consiglio di chi in vostro nome mi ha cortesemente
chiamato a parlarvi non me ne avesse suggerito il
pensiero. Bartolomeo Borghesi, quell'onore d'Italia»
che in tutta Europa fu salutato oracolo sommo della
scienza epigrafica, della numismatica, della crono-
logia; la cui morte, benché all'età di lui quasi de-
crepita non immatura, ai cultori della romana an-
tichità immatura pare , acerbisima , e danno irre-
parabile ; Bartolomeo Borghesi sarà tema al mio
dire. Le lodi singolarissime d'un tanto maestro della
scienza archeologica, comechè asperse di molta ama-
rezza per il desidesio di lui, che lamentiamo per-
duto , non daranno certo un suono estranio e di-
scorde a questa solennità ed a questo consesso. Se
le arti belle, dacché in uno alle lettere risorsero a
novella vita, furono sempre compagne e sorelle in-
divise alla scienza dell'antichità; se il vostro collegio
nelle maggiori sue pompe ama affratellarsi a quel-
lo dell'archeologia; se nel vostro albo fra i nomi
pili illustri rifulse quello di Bartolomeo Borghesi;
123
come allo spegnersi d'un tanto lume quest'aula sarà
muta, né alla memoiia del sommo archeologo ita-
liano renderà il debito tributo di lodi l'accademia
romana delle belle arti ? E così avess' io facondia
pari all'altezza del subbietto, od almeno alcun uso
nella difficile arte del tessere elogi! Ma all' insuffi-
cienza ed inesperienza mia supplirà la copia e lo
splendore delle lodi , che nascono spontanee dalle
opere nobilissime e dal fecondo lavoro di quel so-
vrano intelletto; supplirà anco la riverenza e l'af-
fetto, che al Borghesi vivo mi strinse, e che la me-
moria di lui m' imprime nel cuore carissima ed
indelebile.
Quante volte io mi fo col pensiero alla vita ,
agli studi, alla fama del Borghesi, mi veggo innanzi
un uomo, cui veramente io non so trovare il simile
negli annali letterari sia dell'antica età sia della mo-
derna. I.a puerizia di lui assai somiglia a quella
d'Ennio Quirino Visconti. Ambidue intin dagli anni
più tenori dai genitori iniziati nella scienza , che
eglino slessi professavano, delle antichità; ambidue
nati quasi e cresciuti nel domestico museo di anti-
che monete, ed usi a trastullarsi con esse, ingegni
pronti e felici diedero frutti precocissimi e meravi-
gliosi. Il Borghesi fanciullo decenne mise alle stampe
uno scritto sopra una medaglia ravignana d'Eraclio
imperatore; dove è manifesto lui aver nella sua vi-
ril fanciullezza già tutto alacremente percorso il va-
sto campo della numismatica. Ma se il Borghesi
ed il Visconti ebbero somigliantissima la singolare
istituzione domestica , somigliantissimo il precoce
maturar del puerile intelletto negli studi , in che
124
tutta occupai'on la vita ; in quanto dissimile stato
salirono a quell'altezza di valore, di fama e di au-
torità, che quasi vince il segno dai grandi e fortu-
nati cultori delle umane scienze rare volte toccato!
Il Visconti, educato nella luce della nostra Roma,
sotto gli occhi de' sommi in ogni ragione di lettere
e d'arti, che quivi allora fiorivano, esercitato quasi
in prima palestra nella creazione stupenda del mu-
seo Pio-Clementino, crebbe di dì in di a grandezza
pari a così fatti principi! : e quando eclissato lo
splendore dell'eterna città , monumenti , lettere ed
arti trasmigrarono oltr'Alpi, trasmigrò anch'egli con
esse, e nella lor sede sempre visse e regnò. In fin
dalla prima giovinezza die al pubblico opere non
solo dotte, non solo grandi, ma splendide ed attraenti
per i capolavori dell'arte greca e romana, per l'ele-
ganza della dottrina e la regal magnificenza, che in
que* superbi volumi pompeggiano: opere commes-
segli e date in luce da principi e da monarchi, da
un Fio VI, da un Napoleone I. In tanto favore di
luoghi, d'uomini e d' imprese nobilissime, il romano
archeologo empiè del suo nome V Europa, ed a lui
comò ad arbitro supremo nella scienza dell' arte
antica 1' Inghilterra pubblicamente si volse, perchè
pronunciasse giudizio sulle sculture di Grecia a Lon-
dra trasferite. Ma nel nostro Borghesi tutto diverse,
anzi contrarie, ed in siffatta contrarietà singolari le
condizioni del vivere, dello studiare, del pubblicare
il prodotto del suo interminabil lavoro. Egli nato
in Savignano per lunga età non in altro teatro fé
alcuna mostra di se, che nella savignanese accade-
mia de' Simpemeni: visitò più volte Koma, Milano,
125
Torino , unicamente intero a far tesoro di monu-
menti, di manoscritti, di libri; né mai pose il piede
fuor dell'Italia: ed infine a studiare nel raccolto te-
soro si ritrasse in un'alta e poco meno che inac-
cessa cima dell'Apennino , in san Marino; e quasi
aquila sublime così annidato visse ben quaranta anni.
Quivi tutto si die al ritessere la scomposta e di-
sperata tela dei fasti della romana repubblica e del-
l'impero; ed in quest'opera volle spendere fino al-
l'ultimo dì l'intera sua vita, senza divulgarne mai
pur una pagina sola. Se il pubblico degli ingenti
studi del Borghesi ebbe de'saggi, gli ebbe in iscritti
di poca mole, di ninna apparenza, qua e là dispersi
e talvolta seppelliti in giornali letterari, in atti d'ac-
cademie, in opere altrui; talché l'autore medesimo
a chi gliene chiedeva il novero rispose di moltis-
simi avere smarrito ogni notizia. E l'argomento di
quegli scritti difficile, arido, sol da pochissimi in-
teso; la trattazione intessuta delle più intime e di-
sparate nozioni dell'epigrafia e della cronologia, le
due province spinosissime della dilettevole scienza
delle antichità. Siffatto modo di vita, di studi e di
pubblicazioni dovea sembrare appena bastante a far
nolo il romito di san Marino ad alquanti assidui
cultori dell' epigrafia e della numismatica ; dovea
certo di sua natura sequestrarlo dal commercio con
la letteraria repubblica , farlo vivere estranio alle
nuove scoperte ed al quotidiano progresso della
scienza; dovea infine piuttosto nasconderlo, che ri-
velarlo agli occhi del mondo. Ma troppo era egli
grande, da poter vivere ignoto ed oscuro, comun-
que Io strano proposito di vita lo dipartisse poco
126
men che dall' umano consorzio e Io togliesse alla
vista del volgo anco erudito. Aveva appena trascorsi
i trentacincjue anni, e dopo quel primo scritto nel-
l'età fanciullesca messo alla slampe, non aveva dato
al pubblico, che alquanti suoi versi, alquanti inediti
di Torquato Tasso, e qualch'altro letterario scritto
poco o nulla attenente all'ai-cheologia, e già il La-
bus, che di valente archeologo avea sì bella fama,
non altratnente lo nomina che V esimio nostro Bor-
ghesi. E gli aggiunti di esimio, di grande, di som-
mo divennero poi compagni perpetui del nome di
lui, né in Italia soltanto, ma nell'Europa, e soprat-
tutto nella dotta Germania de' tneriti letterari se-
vera eslimatiice. Ond' è , che non il silenzioso ed
inosservato lavoro potè seppellir nell'oblio il fasto-
grafo savignanese; non l'alpestre domicilio gli no -
eque alla pronta notizia delle novelle scoperte; non
la solitudine lo straniò dai quotidiani progressi della
scienza. Che anzi qui è dove egli parmi così sin-
golare, ed o maggiore od almen diversisissimo di
quanti sappiamo avere in alcuna dottrina fra i con-
temporanei mantenuto il primato , che stimo do-
vervene alquanto ragionale riposatamente.
Quando il Borghesi volse i suoi passi all' alta
cima di san Marino ben sapeva , che separato dal
civile consorzio e così liberissimo a profondarsi tutto
negli studi prediletti , non vivrebbe però separato
dai dotti» che quel medesimo od alcun simile stu-
dio professavano; né ignaro delle novità, che senza
danno ei non avrebbe ignorato. E per quel che
spetta a numismatica, il famoso medagliere creato
dal senilore di lui Pietro Borghesi , e da lui me-
127
desimo con ogni industria e molla spesa arricchito,
facea sì che come rara o nuova moneta appariva,
tosto o mercatanti di siffatta merce gliel'offerivano,
o i possessori e custodi de' gabinetti numismatici
gliene chiedevano alcun avviso, od infine per qual-
sivogh'a via gliene giungea la notizia- Ed invero alla
fama dell' eccellenza di lui in epigrafìa e cronolo-
gia pressoché in ogni luogo precorse quella della
meravigliosa sua dottrina nummaria : e le Decadi
di osservazioni numismatiche messe in luce dal ro-
nìano giornale Arcadico levai'ono tal grido , quale
appena mai siffatta maniera di opere e di pubbli-
cazioni suole destare. Né quel grido col tempo s'af-
fievolì e venne meno: i volumi dell'Arcadico, che
le preziose Decadi serbano, a gara richiesti diven-
iier rarissimi: italiani e stranieri cento volte prega-
rono l'illustre autore, che riunite in un sol volume
le desse nuovamente alle stampe: e dotti francesi
anch'oggi, dopo quarant'anni dacché la prima De-
cade vide la luce, chiedevano in grazia di poterle
volte nella lor lingua divulgare in Parigi, Tanto
pellegrine e tanto solide parvero coleste osserva-
zioni senza scelta, senz'ordine, senza metodo alcuno
per suo passatempo gittate in carta dal numismatico
di Savignano, che pareggiaron la fama delle opere
in siffatte materie piià limale e perfette ; e dopo
sì lungo volgere di anni e progredire di sludi né di
valore sembrano scemate, di né freschezza. Solo il
Borghesi, con modestia pari alla dottrina in lui sem-
pre crescente, negava alle famose Decadi, quali le
aveva primamente dettate, l'onor della seconda edi-
128
zione : né del tempo a maggior opera consecrato
avea copia da spendere nelle seconde cure della
desiderala ristampa.
Imperocché il grande amore, che fin dalla pue-
rizia egli pose nelle antiche monete, veramente lo
aveva a tal grado promosso nella scienza nummaria
da dividerne appena con pochi l'alto seggio e direi
quasi il regno; ed anco da que'pochi era egli ri-
chiesto di consiglio come maestro: pure egli stesso
affermò, che sol per trastullo e per ricrear Tanimo
dai maggioi'i suoi studi tratto tratto volgea 1' oc-
chio al medagliere. La gigantesca impresa, cui erasi
mancipato per tutta la vita, lo tenea dì e notte at-
tento e fiso all'esame delle antiche iscrizioni: né una,
una sola, di qualche momento ne restituiva la terra,
che egli non dovesse tosto procurar di conoscerla e
di accrescerne il suo tesoro. Ma come nella solitudi-
ne di san Marino poteva egli aver contezza di siffatte
novelle del regno epigrafico , le quali anco a chi
vive nelle maggiori metropoli giungono tarde, im-
perfette , od appena giungono mai ? Questa certo
parmi cosa piena di meraviglia, e gloria tutta pro-
pria ed unica del nostro Borghesi. Se greca o la-
tina iscrizione attenente alla romana istoria da qual-
sivoglia parte del mondo antico tornava in luce, un
esemplare, e spesso più d'uno, per vie diverse e per
opera di molti ad un tempo n'era spedito a san Ma-
rino: tributo spontaneo, che gl'italiani e gli stranieri,
gli amici e coloro che sol per fama lo conoscevano,
davano al sovrano censore de' fasti romani. Tanta
129
era nelle menti de' letterati l'opinione di colesti studi
del Boighesi, tanta luce dovea prendeine 1' istoria
e la cronologia, che l'impresa non a privala ma a
pubblica opera parea somigliante, cui tutti recavansi
a debito e gloria essere tributari. Nò questa nobile
e generosa cagione sola moveva i dotti d'ogni grado
e d'ogni gente a fornir volenterosi i monumenti
alla lestituzione de' nostri fasti spellanti: anco i più
avari e restii vincea la brama d'allingere al largo
fiume della borghesiana dottrina. Perocché se tutti
eran pronti e liberali in comunicare al Borghesi le
più belle novità della scienza epigrafica , ed egli era
prontissimo e libéralissimo nel rispondere a tutti
distesamente, rendendo pieno conto del profitto, che
da quelle novità aveva tratto. Onde avvenne, che le
sue lettere, veri trattali di alte quistioni , ch'egli
solo potea proporre e risolvere, e perfetti modelli
di giudizio finissimo congiunto a rara sagacità ed
a squisita e immensa dottrina, erano quale tesoro
inestimabile desiderate ed ambite: e chi s'accingeva
a divulgare antiche lapidi, chi nel leggerle ed in-
terpretarle s'imbatteva in un passo difficile ed oscuro
interrogava l'oracolo di San Marino. 11 numero di
siffatte dimande giunse a tale, che il Borghesi mo-
destissimo e alieno, quant'altri mai, dal magnificar
le cose sue, all' amico del cuore, al vostro illustre
segretario Salvatore Betti , in famigliare lettera
nel 1844 scrisse così: è più d\in anno, che non ho
potuto dettare due righe di mia elezione, e né meno
terminare molte cose incominciate, assorbendomi lutto
il tempo questo mio troppo esteso carteggio e lo stu-
dio necessario per alimentarlo.
G.AT.CLXVI. 9
130
Così egli , benché confinato in un eremo, non
solo tenea dietro ad ogni passo, di che progrediva
la scienza, ma dirigeva que' passi e dava legge a
quel progresso. Così solitario pur fu padre e mae*
Siro di eletta e nobile scuola : e i piiì valenti in-
terpreti delle antiche iscrizioni, di che vanno "oggi
gloriose le straniere nazioni, si stimano lodati nel
nome di suoi discepoli. Discepolo gli fu il celebre
epigrafista danese Olao Kellerman, in troppo verde
età rapito ai nosti-i studi. E il grande maestro, che
amaramente ne pianse la morte immatura , non
meno di cuore , che di mente nobilissimo , vietò
ai dotti alemanni che pubblicasser le lettere, nelle
quali avea al caro alunno a piena mano fornito i
documenti del suo sapere e dato aiuto potente al
comporre il lodato volume solla milizia de' vigili,
E discepoli del savignauese aman chianiassi il Mom-
msen, T Henzen, il Ranier; i maggiori nomi io dico,
che in questi studi vantino la Francia e la Germa-
nia. 1 libri e gli scritti minori di questi e d'altri
moltissimi studiosi delle antichità son pieui degli
insegnamenti del nostro dottore, e spesse volte ar-
ricchiti delle stesse lellere dì lui divulgate come
cosa preziosa: talché egli sembra aver dato mano
poco men che a tutte le opere epigrafiche segna-
tamente negli ultimi venti anni messe alle stampe.
Quando le infinite lettere del Borghesi da ogni parte
raccolte vedranno la luce, allora saprà il mondo
quale e quanto magistero egli esercitò, allora ap-
parirà la priora volta un epistolario, cui (né io esa-
gero punto) la storia letteraria nulla conosce di si-
mile, né di secondo. Molto è lo studio e l'amore;
131
cir io ho posto in cercare ne'libri e ne'manosciilti
le lettere degli uomini illustri in ogni ragione di
scienze, e posso affermare d'averne letto parecchie
migliaia: un corpo di lettere, che anco assai da lungi
regga al confronto di quelle del Borghesi, non vidi
io mai. E chi mi troverete voi, che dalla inaccessa
cima d' un monte per trenta ò quaranta continui
anni abbia spesa molta e forse la miglioi' parte delle
ore nel lispondere alle consultazioni di tutti, e nel-
l'ammaestrare per lettere a guisa di alunni e di sco-^
lari coloro, che in ogni altro luogo tenevan grado di
maestri ? Un oracolo siff*atto ed una tale cattedra
io non so rinvenire né nell'antica istoria, né nella
moderna.
Queste lodi sono sì grandi, che quasi dubito ,
non abbia altri a sospettarle per arte oratoria o per
privato aff'ello amplificate. Pur il mio è giunto a
questo punto piìi ricordando i lumiuosi fatti della
vita del Borghesi, che magnificandoli col paragone
di quanto intorno ai più famosi leggiamo negli an-
nali delle umane scienze e delle divine. Nel quale
argomento se io volessi entrare, e dirvi non l'opi-
nione mia soltanto, ma anco quella d'altrui, e se-
gnatamente d'alcuni oltramontani, che del Borghesi
tuttora vivo e di lui defonto hanno scritto biografie
ed elogi , allora dovrei forse temere di sembrarvi
mosso e sospinto da soverchio impeto di esaltare il
mio eroe. Perocché credo' bene, che altri lo abbia a
Varrone, il dottissimo degli antichi romani, paragona-
to; come non mancò chi nel Monitore officiale di Pari-
gi,quando fu egli aggregato agli otto soli soci stranieri
dell'istituto di Francia, arditamente lo paragonò al
132
dotlissiino dei padii Ialini, che per quaranl' anni
chiuso nella rupe di Betlemme rispose alle consulta-
zioni dell'oliente e dell'occidente.
Ma non è mio costume adoprare siffatte arti
oratorie; né per esse crescerebbero le lodi del Bor-
ghesi, che si levano a lant'altezza sul fondamento
saldissimo delle opere e degli scritti di lui. I quali
da ogni parte chieggono i dotti , che sieno riuniti
e dati tutti insieme alle stampe ; soprattutto quei
'•fasti immortali, che furono l'opera di tutta la lunga
vita del faslografo italiano. E già francesi, tedeschi
ed italiani si danno la mano e nobilmente cospirano
affin di raccogliere le lettere ed ogni menoma scrit-
tura di lui, e tutto ordinatamente mettere in luce
a benefìcio perenne dell' istorica scienza ; che per
volgei'e di anni e prosj)erare di sludi i lavori del
Borghesi non cesseianno dal frulliiicare con peipelua
fecondità. E qui dovrei io accingermi a dichiararvi
quale è il merito e V intrinseca natura, che questi
scritti sì privilegia , da farli sicuri contro la sorta
comune delle opere di erudizione, nelle quali, tolte
appena pochissime, i nuovi lavori prendono via via
il luogo de' vecchi, e di questi rimane solo il nome
e la memoria. Ma veramente dichiarare la natura
degli studi e degli scritti del Borghesi non è tema
da questo luogo, né da quest'ora. Esso vale quanto
entrar ne' penetrali più secreti della scienza epigra-
fica, e della numismatica e dell' istorica, per traine
la dottrina dell'ordine de' tempi e della successione
de' consoli da Bruto e Collatino fino al rovescio del
regno gotico in Italia sotto Giustiniano, le genea-
logie delle grandi famiglie romane, che illustrarono
i fasti della repubblica e deirimpero, le serie de'cen-
sori , de' proconsoli , de' pretori , degli edili , dei
questoii e di quanti magistiali ordinari e straordi-
nari tennero in Roma le maggiori sedi, e con vario
nome e potestà ne ressero le province. E quasi ciò
nulla fosse, a quella sterminala tela di cronologie
e di genealogie aggiungete lo specchio di tutta la
gerarchia delle grandi e delle minori magistrature,
de' sacerdozi , della milizia legionaria , urbana ed
ausiliare, e perfin degli uffici, delle amministrazioni,
de' collegi, e d'ogni altra istituzione della Roma re-
pubblicana e della imperiale, della città e delle pro-
vince. E di questa gerarchia tutte le fasi ed i mu-
tamenti, come a mano a mano fu svolta, e come
e quando alterata per le vicende ordinarie de' tempi,
per le scosse violente delle discordie e guerre cit-
tadine e per le leggi riformatrici della costituzione
civile: ed infine come tutta dall'antica fu trasfor-
mata per l'azione inanifesta e per Je arti coperte di
Cesare , di Augusto e de' segmenti imperatori fin
alla invasione de' barbari ed alla finale caduta della
romana grandezza. Chi non si sente compreso da
stupore e da sgomento alla vista d'un siffatto quadro
di studi, cui non potea certo bastare nò la lunga
vita, né l'attività senza posa, nò la perpetua appli-
cazion della mente in solitudine d'un uomo pur della
tempra del Borghosi ? Ma a ben conoscere l'arduità
e la grandezza di tanta impresa poco giova, che io
ve l'abbia accennata e definita. Anco l'immortale
Panvinio disegnò la gigantesca m.ole di ben cento libri,
ne' quali tutta tutta volea comprendere la romana
antichità; e benché morto in età freschissima, molti
134
ne dettò e diede alle stampe. Pur la smisurata quan-
tità della materia, che il Panvinio adunò, e 1' uso
che ne ideò , al confronto del tesoro radunato dal
Borghesi, e del frutto che ei ne raccolse, al tutto
scompaiono e sembrano un nulla Già veggo , che
questo confronto mi spinge dentio le intime parti
del tema , che io qui non voglio toccare. Perciò
m'arresto: e dico soltanto, che dei tempi, dei fatti,
delle istituzioni e delle persone di tutta la romana
istoria avea il Borghesi ottenuto una conoscenza sif-
fatta, che sembrava vissuto nell'antica Boma ed agli
antichi romani d'ogni età stato familiare; e molte
e molte fiate giunse perfino a conoscer meglio, che
non gli antichi medesimi, i fatti, le date, i perso-
naggi de' gloriosi loro «nnali. E quando io vi parlo
della rotnana storia in sì maravigliosa guisa come
sua posseduta dal Borghesi, non vi parlo io già di
quella storia, che leggiamo ne' libri greci e latini,
sieno essi da più secoli nelle mani di lutti , sieno
in questa nostra età tornali in luce dalle ravvivate
pagine dei palimpsesti: io vi parlo di quel!' istoria,
che il Borghesi medesimo di dì in dì veniva sco-
prendo e direi quasi creando.
Imperocché egli dapprima ad una ad una esa-
minò le antiche monete, massime quelle che diciamo
consolari e di famiglie, e ne studiò l'arte , i tipi ,
le lettere, tentandone e spesso ritrovandone la quasi
disperata cronologia. Si volse poscia alle iscrizioni
greche e latine: ed ancor queste cercate ne' marmi,
ne' libri, ne' codici, nelle copie fornitegli dagli amici
(non meno di sessantamila) ad una ad una analizzò;
non sol fermandone la vera lezione e l'interpreta-
135
t'ìone , ma accettando le vere, scartando le false :
e così egli primo purgò questo campo da infinite
imposture, che nella cronologia e nella storia strana
confusione e corruttela avean generato. Dopo ciò le
notizie di numero e di varia qualità veramente infi-
nite, che da questo mar senza fondo egli traea, venne
per tutta la vita disponendo e fondendo con quelle,
che 0 palesi o nascoste sono in tutti gli scritti a
noi pervenuti dall'antichità : nelle leggi ed in ogni
altra maniera di pubblici alti, ne'libri degli siorici
e de'geografi, de'giurecoosulti e de'fìlosofi, degli ora-
tori, de'grammatici e dei poeti. Or immaginate voi
quale luce sfavillava agli occhi acutissimi del Bor-
ghesi dalla fusione, e se lecito mi è usurpar il lin-
guaggio de'chimici, dalla combinazione di que'dispa-
rati e potenti elementi schietti da ogni mescolanza
men pura, ed adoperali in tanta copia, quanta ad
altri non fu data mai. Ed or intendete quale novella
istoria io vi dissi, che di giorno in giorno il Bor-
ghesi scopriva, e con la rara sagaoità della mente
e la ricchezza ognora crescente de'monumentali te-
sori quasi creava e componeva. Ma a costruire lo
smisurato edificio non potea bastargli la vita. Ed
egli non lo ignorava: né imprudente s'era sobbarcato
all'altissimo ufficio. 11 Borghesi per tante parti e
doti, che son venuto accennando, diverso dai savi
più singolari e famosi, in questo da tutti diversis-
simo, fermò nell'animo il proposito eroico ed inau-
dito di non veder messa in luce 1' opera sua : ma
questa cura lasciando ai posteri fino all' ultimo dì
continuar nello studio, e spingere fin dove dall'alto
136
gli sarebbe concesso i termini del suo lavoro. E
mantenne l'arduo proposto. Toccava ouiai l'ottantesi-
mo, anno e dato sesto alla serie de'prefetli di Roma,
era tornato al difficilissimo assunto di trovare la
debita sede a parecchie centinaia di consoli sulTetti,
de'quali con grave danno della cronologica e dell'epi-
grafica scienza ignoti sono gli anni e la storie, quando
il colse morte improvvisa (1), e con la vita gli troncò
in mano il filo, che ogni di più svolgeva de' fasti
romani.
E qui se io favellassi in.quell'anlica Roma, nella
quale il Borghesi visse col pensiero e con gli studi,
sarei forse mosso a lamentar 1' umana sorte e la
misera di nostra mortai condizione: che qunnto ci
sentiamo grandi e quasi divini all'ideare ed abbrac-
ciare nella mente qualsivoglia ardua e sterminata
ricerca del vero , nò limiti di spazio o di tempo
soffre l'irrequieta atlivilà del nostro intelletto, tanto
corta e meschina e di travagli piena e d'impedimenti
e verso le nostre impiese la vita anche più diuturna
e vigorosa. Ma l'amica Roma è caduta ; ed io parlo
in quella , eh' è rischiarata dall'Evangelio. Con la
scorta di sì verace lume intendiamo che la presente
vita ed il nostro affaticarci ora lieto, ora affannoso,
alla conquista del vero ed alla contemplazione del
bello, ha ragione sol d'esercizio e di prova, per otte-
nere oltre i termini di questa sempre breve peregri-
nazione l'imperituro bene delTintelletto. A voi adun-
que, 0 valorosi, che avete oggi il premio delle nobili
(1) Il Borghesi morì in san Marino la mattina dei 16 di
aprile 1860 Era nato in Savignano il dì 11 di luglio 1781.
137
opere della mano e dell'ingegno, l'alta impresa, che
del Borghesi io v' ho narrato, rotta a mezzo dalla
inesosabile legge di morie, non sia cagione di vane
querele , ma stimolo ed esempio che a ben operar
vi spioni e vi conforti. E se il grande nostro con-
cittadino segnò in caite, che non periianno, i fa-
sti gloriosi dell' antica Roma, e voi li fate i-ivivere
nelle tele e ne' marmi. Nò obliate, che alla Roma
pagana ò succeduta la Roma cristiana, che ai fasti
trionfali ed agli allori della prima fan seguilo le so-
vrumane maraviglie e le palme della seconda. Se il
Borghesi poco vide e poco studiò ne' monumenti
della Roma cristiana, colpa fu non sua, ma e dei
tempi e de' confini che dovette pur- segnare agli
immensi suoi studi. I tempi, ne' quali egli crebbe
e si preparò alla grand'opera, non correano egual-
mente propizi alla pagana archeologia ed alla cri-
sliana. E se questa aveva i suoi cultori, e fra essi
primissimo i! sommo Marini , quel Marini cui il
Borghesi tenne in conto di padre e di maestro, non
aveva un NONO PIO, che le riaprisse le catacombe,
le disotlerìasse le sepolte basiliche, le fondasse un
museo degno d'aver sede nei Lalerano. Or voi, che
di tanto beneficio potete fruire, voi, cui è dato leg-
gere una novella pagina nell' istoria dell'arte anti-
ca, e contemplare una novella seiie di uìonumenti,
quelli dell'arte classica cristiana, non {spregiate la
fortuna, eh» v' è offerta, né vi mostrate indegni
della vostra sorte. E come ora le quotidiane sco-
perte e la scienza archeologica mettono in piena
luce l'anello strettissimo, che all'arte classica e ro-
mana rannoda le origini della cristiana , così voi
138
runa dall' altra non separate. Sotto le forme del
bello dateci a contemplare la suslanza del vero: sia
la bellezza ereata e finita scala all'increata ed al-
l' infinita. Le nobili opere delle vostre arti, che hanno
irresistibil virtù di rapirci l'anima e a lor voglia si-
gnoreggiarla, ci sollevin lo spirito e lo sospingano
ai più^'sublimi voli verso la ragione del primo bello
e del primo vero: non ancelle e ministro d. sedu-
zione e di lascivia ci travolgano al fondo, aguz-
zando i bassi appetiti comuni al bruto, che non ha
intelletto. E la patria abbia in voi chi neUe arti le
mantenga quel vanto e quel primato, che nella scienza
alle arti sorella, dopo Ennio Quirino Visconti e Gae-
tano Marini, le mantenne e le ampliò Bartolomeo
Borghesi.
139
Intorno a due casi clinici di medicina ojìeratnria ,
esposti da Giuseppe Canettoli d'Imola.
Quae medicamenla non «anant ,
ferrum sanai.
Ippocrate.
Vi
i sono fatti clinici, i quali per la loro singolarità
sono degni di studio e ricordanza , poiché in casi
simili ci fanno camtninnare con minore incertezza
mercè l'osservazione e l'operato altrui, il quale ul-
timo tanto pili riesce opportuno ed attendibile se
ebbe esito fortunato. Con questo intendimento io
narrerò due casi di malattia che vidi , e le risul-
tanze che tennero dietro all'opera chirurgica da me
contrappostavi.
Prima esporrò ambedue i casi pratici, indi ac-
cennerò i vari metodi tenuti dagli antiehi e dai mo-
derni per la cura di queste infermità.
Oreste Cerafogli romano, di anni 15, nato da madre
di temperamento sanguigno ed abito pletorico, da
padre di tempra leucaflemmatiea, partecipò dell'im-
pasto organico di entrambi. Nell'anno dodicesimo di
sua età soffrì una gastrite (1), nel maggio 1857 fu
assalito da violenta epistassi alla narice sinistra. Es-
sendo io slato consultato intorno a questa, imme-
diatamente apprestai gli emostatici più forti ; ma
persistendo la emorragia, mi fu giocoforza praticare
(1) Dottor Venti e dottor Ciccioli curanti.
140
il tamponamento con la sonda di Belloq , e così
mi venne fatto di guarire la imponente epistassi.
Scorsero poscia diversi mesi di perfetta salute-, tin-
che il 13 novembre il Cerafogli ricadde malato di
gastrica putrida (1); e quasi non fosse ancora sazia
l'avversa fortuna contro di questo povero giovinetto,
il tre ottobre 1858 , tredicesimo anno di sua età,
fu ripreso da epistassi non meno grave delia prima,
ma alla narice opposta (2). Venni subito richiamato,
e nel visitarlo mi accorsi di un polipo entro la na-
rice, e di vari altri al faringe; oltre di che la sua
fìsonomia avea cambiato espressione e forma. Frenai
con sollecitudine )' imponente stillicidio sanguigno
prescrivendo 1' ergotina sotto forma pillolare alla
dose di trentasei grani nella giornata , all' esterno
poi la neve sulla fronte , gargarismi composti di
percloruro di ferro liquido unito all'acqua emostatica
del Paliari, ed in questa soluzione astringente ba-
gnai un grosso stuello di sfili che introdussi nella
narice. Cessala che fu la emorragia, rivolsi la mia
attenzione alla cura radicale dei polipi.
i sintomi che rinvenni furono, peso gravativo e
continuato alla regione frontale; dolevasi d' imper-
fetta respirazione (dispnea) dall'ultima gastrica sof-
ferta, agli odori i più piccanti era insensibile, non
distingueva il sapore dei cibi, e dalle narici fluiva
di sovente umore siero-mucoso fetentissimo : di
quando in quando lagnavasi di cefalaijìa ora fron-
tale ora sincipitale, quasi sempre tremulo, in ispe-
(1) Signori dottori Berlini e Magrini curanti.
(2) Narice destra.
Ul
cial modo se eranvi bruschi cambiamenti atmosfe-
rici ; il sno colorito era verdognolo , esisteva ano-
ressìa da molto tempo, e la narice destra ingros-
satasi a poco a poco appariva all' esterno di tale
forma che il naso veniva spinto a sinistia, il labbro
superiore lievemente alzalo , ed alquanto depressa
scoigevasi la palpebra inferioie. La sete inestin-
guibile, la masticazione difficile (disfagìa), e stentata
era la diglulizione ; il sonno penoso accompagnalo
da un forte russare; spesso svegiiavasi come se fosse
minacciato da soffocazione, slanciandosi dal letto qual
furibondo , non trovando sollievo che a restare in
piedi ; la voce pure era nasale e gutturale , tosse
fastidiosa, la vista indebolita (ambliopìa) , ed oltre
a questi sintomi un fetore ributtante suigeneris ema-
nava dalla superficie del coi'po.
Trovato adunque in questo stalo lagrimevole il
giovinetto, conveniva sollecitamente soccorrerlo: on-
de è che prefissomi a ciò, il giorno quattro di ot-
tobre 1858, unito ai chiarissimi signori doti. Gheson
e Balestia, praticai alla narice desti'a lo strappa-
mento (1) di un polipo situato precisamente a mezzo
la cavità della narice, fra il turbinalo superiore ed
inferiore.
(1) Lo strappamento à una operazione antichissima per
la cura dei polipi. In vero i figli d' Ippocrate, cioè Tessalo e
Bracone, l'usavano, come Rtiasez fra i greci, G. da Salicelo
nel medio evo: vennero appresso Pare e Fabrizio d' Acqua-
pendente. A Dionis in epoca molto più recente si deve il
perfezionamento di alcuni strumenti per strappare detti tu-
mori. Sliarp inventò le morse-curve, B. Bell immaginò le ta-
nagliette finestrate, Ricther ridusse le tanagliette a guisa di
forceps.
142
Per l'eccessivo dolore il Ceratogli non troppo si
prestava all'operazione: ma stante l'aiuto dei buoni
colleghi, i quali mi reggevano il paziente, tnentre da
me venivano fatte torsioni e stiramenti sul polipo
bene afferralo con pinzette, mi riesciva di strapparlo
col suo peduncolo.
Questo polipo era fibroso, duro, rosso di colo-
re, appariva levigato , di forma quasi pialla e del
peso di un ottavo circa. Poche gocce di sangue ag-
grumato fluirono dalla narice operala, seguile in ap-
presso da abbondante muco denso e di cattivo odore.
Terminata l'operazione, all'istante il respiro divenne
più libero, ed il malato dormì senza russamento per
quattro ore; ma la masticazione rimaneva tuttora
difficile , persisteva la disfagìa per la esistenza di
tre polipi, i quali otturavano quasi il faringe, ed
alzavano contra il palalo 1' ugola, quindi ne risulta-
vano frequenti conati al vomito. Allora là rivolsi
la mia attenzione, ed il 14 dello stesso mese in com-
paguia dell'ottimo e valente mio amico professore
Diego Benignetti coWescisione (1) li tolsi.
(1) Allorquando gli antichi si decidevano alla escisione
di un polipo, adopravano istrumenli in forma dì spattola o
di forbici. G. Fabrizio servivasi di una pinzetta terminata da
un doppio cucchiaio tagliente. Questo strumento venne mo-
dificato da Glandorp, Horn, e Solingen, in seguito fu adope-
rato da Dionis, Perey, e da B. Bell. Wathelx poi ha riabili-
tato per questo uso il bisturiinguainato o siringotomo.Saì.-
l'esempio però del Sacchi, Ledran, e Levret, i moderni, nei
casi in cui credono di trattare i polipi colla escisione, si ser-
vono 0 di forbici curve sul piatto a lunghe branche, oppure
del bisturi ordinario bottonaio, chiamato tonsiUotomo.
143
Prima con un lenzuolo avvolsi il malato situan-
dolo seduto avanti di me, poscia il collega sprreg-
geva il capo inclinandolo alcun poco in addietro, e
fissandolo contro del suo petto. Colto il destro, con
una forte pinzetta lunga e retta affenai il primo
polipo portandolo in avanti il piiì possibile, mentre
con le forbici, parimente lunghe e lievevemente curve
nella parte tagliente, con un solo colpo ne escisi il
peduncolo. Era desso qua e là di durezza cartilagi-
nea, e nel rimanente fibroso, di forma oblunga, rosso
carneo di colore, e mostravasi esulcerato nella parte
anteriore ed inferiore.
Visto lo stalo del paziente disposto per l'opera-
zione degli altri due polipi faringei rimasti , collo
stesso metodo la praticai.
Il primo di questi tre pesava due scrupoli e
mezzo, il secondo ed il terzo uniti acsieme un ot-
tavo e due scrupoli: questi nei loro caratteri fisici
non differivano punto dal primo. (!)•
Eseguita l'operazione, onde evitare la emorragia
feci praticare gargarismi astringenti di percloruro di
ferro liquido unito all' acqua. Due ore circa dopo
l'operazione venne vomito di materie siero-mucose
striate di sangue , del peso di otto once. Per tutto
rimedio mi limitai ad una misura coniposta di ac-
qua distillata di fiori di arancio, acqua di cinnamomo
lattiginosa, e sciroppo di alkermes: così scomparve
il vomito.
(1) Il distintissimo professore Malagodi, al quale li feci
vedere, trovandosi in Roma, li giudicò anch'esso per polipi
fibrosi.
La fisonomia del paziente dopo dieci giorni dalla
primaooperazione si ricompose, il colorito si fece
naturale , l'aspetto si rese tranquillo , tornarono i
sonni, di bel nuovo gustò i cibi, e distinse gli odori.
In questo soddisfacente stato lo vidi fino al 27
dello stesso novembre; nel qual giorno si riaffac-
ciò la epistassi alla narice non operata.
Accorsi appena avvertito dell' accaduto ; mi si
presentò il Cerafogli pallido come uno spettro e
lutto tremante. Indagando la cagioue di questa ul-
tima emorragia, rinvenni nella narice un altro po-
lipo che all'istante escisi. Era questo di colore rosso
vivo, informe, poco consistente, e del peso di mezzo
scrupolo circa.
Eseguita l'escisione, l'emorragia tuttavolta segui-
tava; allora osservai se il polipo fosse stato bene
csciso ; trovando che lo era , onde porre fine alla
cura esterna di questo schifoso morbo , mi servii
della sonda di Belloq per tamponare la narice.
A preservarlo poi m avvenire per quanto era
dato dal recidivare, prescrissi lo sciroppo di ioduro
di ferro del Ruspini, dal quale trasse deciso van-
taggio.
Or sono diciannove mesi dalla operazione. Il Ce-
rafogli ha acquistato alta statura e buona comples-
sione godendo perfettissima salute.
POLIPO UTEIUNO
La signora Anna vedova Girelli romana, di tem-
peramento linfatico sanguigno, nacque di madre che
morì di cancro all'utero, e di padre che fu vittima
di affezione calcolosa. Nell'età di anni sedici fu me-
struata: coniugatasi , fu sterile; nel 1829 soffrì di
pneumonite acuta, nel 1833 di angina, nel 1854 di
grave encefalite. Nella convalescenza di questa ma-
lattia il curante sig. dottore Petrucci le prescrisse
cambiamento di aria. Dessa si trasferì a s. Gio-
vanni di Rimino. Dopo pochi giorni di sua dimora
colà , le incominciò una palpitazione alla regione
cardiaca alquanto incomoda che le vietava di fare
qualsiasi cosa. La comparsa dei mestrui fece alleg-
gerire i palpiti al cuore: però quelli si protrassero
a diciannove giorni e più abbondanti del solito, men-
tre prima regolarmente di otto in dieci. Questo flusso
ripetevasi nel corso di tre mesi ben nove volte, ma
la palpitazione cardiaca non dava pili molestia, e
l'abbondante atillicidio sanguigno non arrecava alla
economia notevole danno.
Sul finire del novembre 1854 l'inferma ripatrió.
Appena giunta si riaffacciarono 1 corsi mensili con
regolarità per due mesi di seguito ; ma alla terza
ricorrenza durarono due settimane , e dopo undici
giorni di tregua apparve decisa metrorragia con-
giunta a vari grumi sanguigni, svenimenti, cefalal-
gia, dolori agl'inguini, annoresìa, privazione di forze
e di colorito.
Allora fu che ricorse ai medici consigli. Difatti
uei primi del mese di marzo 1855 il sig. dottore
Augerò le prescrisse alcune pillole (forse astringenti),
bibite rinfrescanti e stiptiche, neve per bocca, in-
iezioni, e per venti giorni il latte di somarella. Non
veddendo alcun miglioramento da questa cura, il
suUodato curante le ordinò la cicuta sotto forma
G.A.T.CLXVI. 10
146
pillolare unita alla digitale, e poscia i bagni di mare
Civitavecchia.
Colà fece cinquanta bagni, e ripatriò senza averne
ritratto profitto. In quel tempo volle consultare il
eh. sig. dottore Mucchieili. Questi per oltre quat-
tro mesi la curò prescrivondole l'estratto di rata-
nìa sciolto nell'aceto (! ?), bibite in neve di limo-
nala vegetabile e minerale, non che sette volte le
fece ripetere la flebotomia.
Ma neanco questa cura fu ad essa di sollievo,
anzi comparvero nuovi sintomi , cioè - perdita di
sonno, afonìa , indebolimento dell'organo visivo e
dello stomaco, edema ai piedi, convulsioni epilet-
tiche, e dimagrimento marcatissimo.
Fu in queir epoca che un distinto personaggio
in casa del sig. comend. Carenzi tenne meco ragio-
namento intorno a questa infermità. Considerata la
sua narrazione gli esposi che tutto poteva essere
cagionato da un polipo aWiUero- Allora egli mostrò
desiderio che io visitassi la sofferente.
Il giorno appresso, unito all'eccelmo sig. dottore
Mucchieili, mi recai dalla malata. Esso mise a mia co-
gnizione Vanamnesì, e la diagnosi che aveva stabilita,
cioè emorragia per varici neWiilero,e la cura praticata.
Dopo avere io fatto conoscere al distinto curante
che potevasi sospettare di polipo all'utero o in va-
gina, gli proposi di fare uso delia esplorazione tanto
encomiata dai moderni pratici quale unico mezzo
diagnostico onde conoscere e distinguere le ma-
lattie dell'organo della ganerazione; così avrebbe que-
sta posto in chiaro la sua diagnosi, oppure conva-
lidalo il mio supposto.
147
L' eccelso collega rispondevamì essere questo
tutto di spettanza chirurgica; e che per ciò mi ce-
deva l'inferma, soggiungendo « in questa guisa voi
» potrete praticare tutto che l'arte meglio vi delta ».
Non mi dispiacque l'idea del Mucchielli. L' in-
domani col dito esplorai la mia nuova cliente , e
m' avvidi che la causa della metrorragia non era
certo ona l'ance, ma bensì un grosso polipo, la base
del quale poggiava sul muso di tinca, perchè, come
poscia riscontrai, il suo peduncolo era impiantato
suir alto fondo dell' utero. Non contento a questo
modo di esploraziune, mi valsi pure dello speculum
uleri (1) per confermare la mia daignosi. Ed in
vero lo specuhim mi fece vedere la bocca dell'utero
(1) Questo istrumento era conosciuto fino dalla più alta an-
tichità; gli egiziani, i greci, i romani, e gli arabi ne hanno
data la descrizione nelle loro opere. Paolo d' Egtna, secondo
Rondelet, lo chiamava Sios-spa (diopera): questo aveva due val-
vole che per mezzo di una vile si ravvicinavano. Parlano pure
di uno speculum a due branche Albucasis, Franco, A. Pare, e
Scullet; a tre ne ha descritto uno Garengeot. Ma, o che si
pensasse che quest' istrumenti non presentassero una grande
utilità, 0 che si avessero poche occasioni di applicarli a ca-
gione dei pregiudizi dell'epoca, o per qualunque altra ragione,
certo è che erano quasi completamente dimenticati, quando il
sig. />e-^ecamier risolvette di rimetterli in pratica dimostrando
il torto nel disconoscerne tutta l'utilità. Egli si serviva di un
tubo di stagno lungo 6 pollici e mezzo ; Dupuytren lo ri-
dusse a 4 e mezzo; Lisfranc al contrario portò la sua lun-
ghezza ad otto pollici.
Madama Boivin inventò uno speculum composto di due
mezzi cilindri, adottato in seguito da Jobert e Ricord. Il sig.
Gnillon e Charrière ne inventarono uno a tre, ed uno a quat-
tro valvole: finalmente ad otto come quello di Colombai e
Bertze.
148
aperta in modo da permettere appunto l'anLrala di
un dito , e Io sporgere del polipo di alcune linee
entio la vagina. Eseguita l'esplorazione, ritirai l'istru-
mento, tranquillizzando la cliente, avvertendola che
r indomani mattina le si sarebbe tolto dall' utero
un tumore fibroso.
Le grandi perdite di sangue che essa soffriva
fino dal novembre 1854, la spossatezza di forze in
che trovavasi, la qualità di operazione che doveva
subire, mi davano argomento a sospettare di pronta
e grave metrorragia non facile ad arrestarsi.
La prudenza consigliommi a farle premettere i
religiosi conforti: e la mattina appresso 18 genna-
io 1855, alle ore nove, assistilo dal eh. professore
Venti praticai 1' escisione del polipo nel seguente
modo.
Prima preparai vari globetti di sfili pel tampo-
namento, un lungo schizzetto per iniezioni, una mi-
stura astringente di perclorui'o di ferio liquido sciolto
neir acqua- Indi posi la operanda alla sponda del
letto poggiandole il dorso sopra alcuni cuscini, due
sue amiche le reggevano le ginocchia divaricate, ed
io intanto portavo l'indice della sinistra a contatto di
quella porzione di polipo che vidi con lo speculum
Oggi due sono gli speculum più adottati. 11 quadri-valve
ed il cilindrico. Il primo si usa colla modificazione di yidal
de Cassis, la quale consiste nella possibilità di togliere a pia-
cere le branche dal manico: e con l'altra di Guillon che ag-
giunse uu imboccatura ben rotondata e levigata di ebano o
bosso onde facilitare la introduzione.
Galenzowki \)o\,])e.r il suo speculum a cilindro, o di avo-
rio 0 di metallo, fa uso della modificazione di Guillon, il quale
r attribuiva a madama Boivin.
149
uteri; poscia, presa colla mano destra la pinzetta di Mu*
saux, rinolliavo guidandola sul dito già introdotto)
verso il polipo. Appena toccai col detto ferro il tumo-
re, nello stesso tempo che io lo spingeva in alto, a
mano a mano aprivo la pinzetta per afferrarlo. Con-
seguito questo, affidai alla destra dell'assistente la
pinzetta avvertendolo di piegarla alquanto a sinistra.
Frattanto introdussi, coli' opposta mano, nell'utero
lunghe forbici leggermente ricurve nel tagliente, gui-
dandole sempre sul mio dito. Fatto ciò ripresi colla
mano sinistra dal collega l'istrumento affidatogli e con
questo tirando in basso il polipo rotolandolo sopra sé
stesso con animo di rintracciare, con le forbici, più fa-
cilmente il suo peduncolo: alla perfine rinvenuto, Io
intei'posi fra il tagliente delle stesse forbici e con un
sol colpo lo escisi (1).
(1) Nella icononrafia di medicina operatoria dal dottor
Bourgery in riguardo alla escisione del polipo all'utero si ri-
scontra quanto appresso :
« Quantunque questa operazione, in cui si tratta di portare
il tagliente in un punto ove l'occhio non può penetrare, sia tal-
mente ardita che anco al presente con tutti i mezzi di esplo-
razione posseduti dall' arte, molti chirurgi non sf azzardano
ancoraci eseguirla, sembra nondimeno che essa sia stata una
delle più anticamente praticate. Filoteno , Aezio , Moschione
presso gli arabi raccomandavano l'escisione di quello che chia-
mavano f^cre^cmza varicosa o omorroiclale dell'utero. Nel XVI
secolo (1570) Fabrizio di Acquapendente non solamente pra-
ticava l'escisione, ma la maniera colla quale egli precedeva,
prova quanto poco temesse la emorragia. Dopo di lui Tulp (1641)
riferisce altri fatti di escisione, ma è cosa evidente che divengo-
no sempre più rari. Lapeyronie (170S) non osa escidere i polipi,
se non che quando sono situati fuori della vulva. Ilerbiniaux,
più ardito, comincia a praticare più profondamente l'escisione,
e la porta con successo lino nella cavità uterina. Ma lungi
che il suo esempio Tenga seguitato, questa operazione sem-
150
La sua forma assomigliava ad una pera, bianco
grigio n'era il colorito, e scorgevasi in esso una rete
di fibre mirabilmente intersecate (vero polipo fi-
broso), ed il peso corrispondeva a tre once scarse.
Eseguita l'operazione si vide in copia dal dotto
vaginale sgorgare sangue liquido ed in grumi; al-
l'istante iniettai dell'acqua fredda, indi con globetti
bene imbevuti nella soluzione di percloruro di ferro
procedei al tamponamento, cbe poi al quinto giorno
rimossi. Poche ore dopo esplorando la bocca del-
l'utero la trovai allo stato normale.
Ricomparvero, scorsi settanta giorni , le me-
struazioni che fino ad oggi si mantengono regolari
ed abbondanti. Or souo di già tre anni dalla ope-
razione, e la signora Girelli non ebbe più nulla a
soffrire: per la qual cosa tutto porta a credere che
la guarigione sia stata radicale. A modo però di
precauzione in ogni estate fa uso dallo sciroppo
depurativo del Lanza unito al ioduro di ferro, e dei
bagni marittimi.
Esposti questi due fatti clinici, ed il trattamento
contrapposto, verrò, come promisi, a narrare succin-
tamente i vari metodi di cura dei polipi usati da-
gli antichi fino a noi , tanto rispetto a quelli del
naso, che a quelli dell'utero.
bra abbondonala dai chirurgi dell'ultimo secolo, sempre per
il timore della emorragia. Ai nostri giorni Boyer rimise un'al-
tra volta in pratica q-iesta escisione con buon successo. Du-
puytren, appoggiandosi sopra l'anatomia patologica e sopra un
grande numero di operazioni da lui eseguite cou successo, ha
fallo ogni sforzo onde venisse adottata come metodo gene-
rale.
151
Se vadasi all'origine di curare i polipi delle fosse
nasali possiamo essere convinti, che gli antichi non
solamente conoscevano tutti i melodi usati ai giorni
nostri , ma distinguevano ancora con precisione i
casi, nei quali l'uno o l'altro metodo meritava di
essere preferito. Ippocrate traccia pel primo la di-
stinzione dei polipi molli e dtiri, descrive Vallaccia-
tara pei molli , col ferro candente distrugge i se-
condi. La scuola alessandrina perfeziona questi due
metodi, insiste principalmente per la cauterizzazione,
ed inventa un grande numero di composizioni cau-
stiche ed essiccative; di qui nacque il modo di cu-
rare i polipi per essiccazione. Pili tardi si moltiplicò il
numero dei caustici, e la cauterizzazione era quasi
esclusivamente posta in uso da Archigene, Galeno,
Aezio, Alessandro di Tralles, e Giovanni Attuario, i
quali vantano ciascuno un numero grande di ri-
medi cateretici. Paolo d' Egina inventò un istromento
particolare nomato xnaB^ag nolvntog [apateos polipeos)
munito ad una delle sue estremità di uno scarpello
destinato ad escidere i polipi duri , perchè questo
autore siserbava la cauterizzazione per quelli di cat-
tivo carattere; del rimanente descrive l'allacciatura
appuuto come si trova nei libri ippocratici. Gli arabi
aggiungono poco a quello che averano insegnato i
greci; soltanto Rhesez pratica lo strappamento del
polipo passando un ansa di filo intorno alla sua
base. Più tardi questo esimio chirurgo propone di
segare il polipo con un filo guarnito di nodi. Quasi
tutti gli scrittori del medio evo si contentavano di
ripetere ciò che avevano trovato nei greci. Non è
che al secolo XVI che incominciò il perfeziona-
152
mento. Aranzio inventa una pinzetta con lunga branca
per lo strappamento. Falloppio alla sua volta mo-
difica Vallaccialura ed immagina il serra-nodi; sosti-
tuisce pure un filo metallico ai fili di lino d' Ip-
pocrate. Poscia Bruno e Gechlin vantano gli effetti
del setone e degli esntori, i quali erano di già con-
sigliati dagli antichi e dagli arabi. Manne, chirurgo
di Avignone, propone di fendere il velo del palato
nei casi in cui il polipo sia situato talmente in ad-
dietro, che non possasi raggiungerlo né per la parte
del naso, nò della bocca.
CENNI STORICI DEI POLIPI UTERINI.
I polipi dell' utero erano poco conosciuti dagli
antichi: essi li confondevano con delle malattie ben
differenti. Aspasia di fatti li considerava come tu-
mori, diceva essa, nascono ora sul collo , ora nei
fondo della matrice, di rado esternamente: si esci-
dono senza timore quando sono bianchi e duri: si
legano invece quando sono disposti a sanguinare.
Moschione li designò pel primo sotto il nome di
polpi 0 polipi nel suo trattato De mulieriim affec-
tibus 1566. Guillemeau, e scolaro di A. Pare, ne dà una
descrizione bastantemente esatta. Nulladimeno per
avere precisione sopra questo infermità bisogna
giungere al XVIII secolo e principalmente a Le-
vret, che ne ha molto illustrata Yetiologia, il diagno-
stico ed il trattamento. Successivamente un grande
litujpero di distinti medici, fra i quali si possono ci-
153
tare Desanlt (I), Bichat (2), Ronx (3), Hervez de
Cbegoin (4), Dupuytren (5),Gerdy (6), Duges (7), Co-
lombai (8) ne hanno egualmente fatto il soggetto
delle loro meditazioni e del loro lavori, di ma-
niera che al presente è questa una delle ifffezioni
bene conosciute sotto il triplice aspetto di Anato-
mia patologica, della diagnosi e del loro trattamento
(1) Opere chirurgiche tomo II.
(2) Memorie della società medica di emulazione tomo IL
(3) Miscellanea di chirurgia.
(4) Giornale generale di medicina 1827.
(4) Clinica chirurgica.
(6) Dei polipi e loro trattamento 1833.
(7) Alali dell'utero.
(8) Mali delle donne.
154
Sulla origine dell'acidità in alcuni prodoUi morbosi.
Osservazioni del prof. Carlo Maggiorani.
l
Ja prevalenza acida o alcalina de' nostri umori
così nello slato sano come nel morboso ha sempre
eccitalo la curiosità dei medici, e più specialmente
dopo i lecenti progressi della chimica, e i maggiori
diritti da essa affacciati nella interpretazione dei fe-
nomeni organici- La fisiologia si è giovata a suo
luogo delle notizie raccolte su tale argomento; ma
quelle che si possiedono finora dai patologi non sono
così numerose , né tanto ordinate da riuscire ad
utili applicazioni. Nel desiderio di contribuire per
la mia piccola parte all'aumento di questa dottrina
presento oggi all'accademia due osservazioni di acida
provalenza, che non mi sembrano vane, tanto più
che collimano al punto medesimo.
La prima osservazione riguarda l'intonaco della
lingua. E noto come in alcuni individui la superficie
superiore di quest'organo sia abitualmente spalmata
di una vernice biancastra e cenericcia, la quale è
più cospicua e più densa a stomaco digiuno, e prima
che siansi fatte le solite pulizie della bocca. Tali
persone a rigor di termine non sono ammalate, e
presentano anzi 1' aspetto della più florida sanità :
tuttavia, se ben vi si attenda, vedrassi come in alcuni
offrasi pigra la pelle ne' suoi atti di eliminazione, in
altri proceda stentatamente il processo della dige-
stione , ove il cibo non sia leggerissimo ; in certi
155
la bile si segreghi in copia maggiore dell'ordinario,
in certi altri ascondasi la diatesi podagrosa die non
ha ancor fatto la sua esplosione. Varie polendo es-
sere le condizioni, alle quali collegasi l'intonaco su-
burrale della lingua, è chiaro come diversa ne possa
anch'essere la natura. Ed infatti io mi sono imbat-
tuto in una di queste panie linguali che abbondava
oltremodo di un acido grasso, e di tal corpo non
fa menzione alcono degli auloi-i, che hanno esami-
nato l'intonaco in questione. 11 quale alle indagini
microscopiche otfrì cellule dell'epitelio e vibrioni in
gran numero; ai processi analilici cede muco e fos-
fato calcico e carbonato della stessa base; ma so-
stanze grasse, per quel eh' io mi sappia, non mai.
L' intonaco invece che tolsi ad esaminare, procu-
l'atomi raschiando con apposito e netto ordigno di
tartaiuga la lingua di un individuo digiuno, e ap-
pena risveglialo, mostrava una distinta reazione acida,
e ai più semplici esperimenti indicava la presenza
di una quantità notabil di glasso. Imperocché que-
sta pania introdotta in un tubo di vetro con alcool
puro, e questo scaldato, ottenevasi colla evapora-
zione del liquido filtrato un deposito bianchiccio e
untuoso. Tale deposito veniva trattato coll'etere lim-
pido, e fatto evaporare spontaneamente lasciava una
patina untuosa che non s' inumidiva per aggiunta di
acqua, fondevasi a lieve colore, e fusa imprimeva
sulla carta bianca una macchia giallognola, diafana e
persistente. Trattandoquesla patina con ammoniaca di-
luta formavasi un liquido leggermente opalino, il quale
aggiungendovi una soluzione di cloruro di sodio la-
sciò deporre dei fiocchetti bianchi. Esisteva dunque
156
nell'inlonaco suddetto una materia grassa , e pro-
babilmente l'acido butirico; poiché saponificata colla
potassa, e trattata con acido solforico allungato, of-
friva alla distillazione un prodotto che reagiva da
acido, e che rammentava l'odore del burro rancido.
Questi esperimenti furono ripetuti pili volte, sotto
circostanze diverse di alimentamento dell'individuo
che somministrava la pania linguale, e sempre coi
medesimi effetti.
Qual è l'origine, quale il significato di cotesto
acido grasso nell'intonaco della lingua ? Serve esso
di mezzo ad iniziare le trasformazioni del bolo ali-
mentare, 0 impastato con questo contribuisce a fa-
vorire la fermentazione stomacale ? Ovvero la na-
tura lo ha destinato a lubricare le vie della deglu-
tizione ? Ma in tali casi la presenza di tal mate-
ria grassa dovrebbe esser costante ; ciò che non
sembra avverarsi. Sarebbe essa stessa un prodotto
di fermentazione de' rimasugli del cibo ? Ma al-
lora una più studiata nettezza della bocca innanzi
di coricarsi avrebbe dovuto impedirne la forma-
zione: ciò che non fu confermato dalla esperienza.
Farmi piij verisimile che trattisi di una secrezione
yicaiia. È noto che un acido grasso fa parte della
materia secreta e traspirata dalla pelle: ove adun-
que r organo cutaneo non si presti con sufficiente
energia alla sua opera di eliminazione organica, vi
suppliranno le membrane mucose, segregando gli
stessi materiali che avrebbe dovuto secerner la pelle,
e con lo stesso fine di spogliare il corpo delle par-
ticelle rese inabili a vivere.
157
La seconda osservazione si riferisce alla reazione
acida degli escreati nella consunzion polnnonale. La
deplorabi! frequenza di tal malattia mi ha offerta
occasione di verificare spesse volte un tal fatto: cioè
che in periodo avanzato della medesima le carte di
tornasole stropicciate sui ridetti escreati arrossano
prontamente, e di un colore sì carico, come se fos-
sero immerse in un acido minerale. La reazione
acida degli sputi fu già veduta da Reale nella pneu-
monito passata in epatizzazione, e attribuita ad un
eccesso relativo dell'acido del polmone. Altri nota-
rono la reazione acida degli escreati nella bron-
chite, e la riferirono alla presenza di un acido gras-
so. A me parve che l'arrossamento delle carte ne-
gli sputi dei tisici fosse troppo pronto e vivace per
asscgnaigli tale origine , e venni in sospetto che
nelle caverne polmonari le lacinie della materia oi-
ganica facessero l'officio di coi-pi porosi, che a con-
tatto dell' aria atmosferica desseio campo ad una
specie di nitrifìca/ione; ma le esperienze istituite in
proposito esclusero totalmente la presenza dell'acido
nitrico. Ho potuto invece assicurarmi che la rea-
zione acida di questi escreati dipende dall'esistervi
un bifosfato. Ed infatti diluiti gli sputi in sufficiente
quantità di acqua distillata , coagulatane la parte
albuminosa colla ebullizione, concentrato il liquido
e correttane l'acidità colla potassa, se ne ottennero
reazioni bastanti a segnalarvi la presenza di nn fos-
fato solubile. Coir aggiunta cioè del nitrato di ba-
rite inducevasi un precipitato bianco abbondantis-
simo, e con quella di limpidissima acqua di calce
risultavano pure un precipitato bianco insolubile ;
158
ciò che escludeva 1' acido idroclorico e il lattico
quali cagioni possibili della rea/ione acida , come
quelli che formano sali solubili colla calce. La de-
cozione suddetta di sputi trattata con qualche goc-
cia di nitrato d'argento offriva un copioso precipi-
talo che si divideva in due strali, uno bianco avente
origine dei cloruri degli escreati , 1' altro color di
paglia prodotto dall'acido fosforico. Una porzione
di sale precipitato, cioè il cloruro d'argento, scio-
glievasi neir ammoniaca, l'altra vi era irresolubile
e scioglievasi invece nell'acido nitrico. Questa so-
luzione nitrica allungata precipitava in bianco per
aggiunta di qualche goccia di percloruro di ferro.
Le predette reazioni, comprovanti negli escreati in
questione la presenza di un fosfato solubile, si ot-
tengono egualmente allorché questo morboso pro-
dotto sia stato esaurito prima coU'etere. Vi si con-
serva la qualità acida, e vi seguono le stesse pre-
cipitazioni colla barite, colla calce e col nitrato di
argento, quantunque siasene estratta la materia gras-
sa, e questa in copia notabile. Dee credersi infine
che trattisi del fosfato acido di calce, se dimostrata
la presenza di un fosfato solubile con gli oppor-
tuni reagenti , rinvenutavi la calce coH'ossalato di
ammoniaca, eliminate le altre origini dell'acidità, si
prenda anche a calcolo le umidità in che si man-
tengono per lungo tempo essi sputi, dovuta, per
quel che sembra, alla nota qualità igrometrica di
quel sale.
La prefata osservanione della esistenza di un
fosfato acido negli escreati dei tisici in periodo inol-
trato di malattia potrebbe essere interpretata colla
159
seguente teoria. L'azione piià rimarchevole dei fos-
fati sui gas delia respirazione consiste nell 'assor-
bimento del gas acido carbonico in virili di affi-
nità chimica che si aggiunge alla forza dissolvente.
E noto poi che gli acidi ancorché deboli hanno la
facoltà di sottrarre ai sali neutri o basici una por-
zione del loro ossido, col quale essi combinansi. Il
sale neutro alla sua volta diviene acido. Ove adun-
que nel polmone sian già depositi di materia or-
ganica contenente fosfati alcalini e terrosi può av-
venire che l'acido carbonico sottragga porzione della
soda e della calce ai fosfati di queste basi conver-
tendoli in fosfati acidi, e dando luogo alla forma-
zione dei carbonati. Quindi la produzione del carbo-
nato di soda, il quale colla suaazion dissolvente favo-
risce la fusione tubercolare, e la origine di fosfati acidi
alti a spiegare la potenza acre e corrosiva sulle
parti in cui si producono, o su quelle per le quali
transitano.
Questa teoria va d'accordo col noto fatto che
l'angustia dell' abitazione sta fra le cause più effi-
caci della consunzion polmonale. Ed in fatti per tal
cagione non solo difetta all'uomo per njolte ore il
pabulo necessario del sangue, ma, per le note leggi
dello scambio dei gas, s' impedisce anche all'acido
carbonico prodotto dalle decomposizioni oi'ganiche
di esalare liberamente al di fuori ; sicché questo
gas debba accumularsi nelle ultime diramazioni deU
l'arteria polmonale, e favorire la genesi dei fosfati
acidi.
Dalia presenza di fosfati acidi , e dalla cogni-
zione della facoltà acre dei medesimi viene illustrata
160
la vastità delle corrosioni nelle caverne del polmo-
ne, assai meglio che noi sia col semplice processo
flogistico. La teoria può anzi allargarsi a molti altri
casi, in cui i tessuti organici si esulcerano profon-
damente, senza che il mero fenomeno dell'inflam-
mazione ne illustri a bastanza il processo. Basta
che allato dei fosfati neutri svolgasi un acido li-
bero: sia il butjrico, o il lattico, o l'urico o qua-
lunque altro, perchè diasi luogo all'eccesso di acido
fosforico nei predetti sali, e possano per conseguenza
manifestarsene gli effetti acri e corrosivi. Così se
l'intonaco delia lingua, come fu esposto di sopra ,
contiene ad un tempo e fosfati e un acido grasso,
non dovremo maravigliare se in circostanze favo-
revoli alla loro scambìevol reazione erompano ul-
cerazioni nella muccosa della bocca, quantunque nel-
l'universale non esistano indizi di una discrasia del
sangue.
Non sapendo militare sotto le insegne di Lea-
big, di Lehmann, di Moleschott, che intendono can-
cellare la forza vitale dal novero delle potenze della
natura , sottoponendo ogni fenomeno organico al-
l'impero delle forze fisiche e chimiche, stimo però
che esse debbano accogliersi come cittadine nel re-
gno della vita, e accettarne volentieri 1' aiuto, ove
ci prestino una lodevole interpretazione dei fatti che
avvengono nell'organismo vivente.
161
Dichiarazione del salmo CUI intorno aWEsamerone
Mosaico. Discorso lello alla ponti(ìcia accademia
Tiberina dal R. P. G. B. Pianciani della C. di
Gesù.
le rimembranze di notevoli avvenimenti, rivestite
di ammanto più o meno poetico, furono le prime
poesie degli antichi popoli. Non poteva tra i me-
morandi avvenimenti esser dimenticato il più grande,
quello senza il quale niun altro avrebbe avuto luogo,
e che perciò in ogni tempo ha destala la umana cu-
riosità. Voglio dire il cominciar delle cose, la crea-
zione del mondo.
E dicendo creazione, in questo luogo intendo non
tanto la creazione nel più stretto senso , il primo
esistere delle creature , il venir tratte le cose dal
nulla, ossia dalla non esistenza attuale, dallo stato
di mera possibilità. Questo gran fatto fu troppo di-
menticato dalle genti ed ignorato da coloro che in-
dagar pretendevano 1' origine delle cose : altronde
un' opera tutta soprannaturale, il comando dell' On-
nipotente compiuto in un attimo, meno per avven-
tura si acconciava a descrizioni ed ornamenti poe-
tici.
Parlo principalmente di ciò che alquanti appel-
lano creazione seconda, vale a dire della formazione
ed ordinazione del mondo, ossia della serie di opera-
zioni, che succedevansi dalla prima chiamata delle
creature all' esistenza fino al compiersi dell' opera
G.A.T.CLXVI. 11
162
del Creatore, di ciò che chiamiamo, quantunque men
propriamente, i giorni della creazione, e spesso con
greca voce 1' Esamerone Mosaico.
I gentili poco ci hanno lasciato e troppo misto
di favole: nò il politeismo era punto opportuno ad
introdurre unità e bellezza in tanta moltiplicità e
varietà di cose.
II cristianesimo, rendendo popolare ed univer-
sale il monoteismo, e diffondendo per tutto il globo
le tradizioni, confidate dapprima soltanto ai figliuoli
d' Israele, diresse gì' ingegni a questo alto e nobil
tema. Molti troviamo ditatti intorno ad esso occu-
pati nelle moderne letterature. Lasciando da parte
pochi versi di qualche vecchio e poco colto verseg-
giatore, ed omettendo ancora il tratto sublime (ma
alquanto oscuro) filosofico-teologico dell' Alighieri
nel e. 29 del Paradiso, il Tasso consacrò le ultime
sue fatiche a questo alto e nobilissimo argomento,
e dettò intorno ad esso un intero poema, diviso in
sette canti, o, come ei chiamolli, giornate {Le selle
giornale del mondo creato) (1). In questo poema ,
il quale , qualunque ne sia la cagione, non molto
aumentò la gloria dell' illustre autore, questi s' in-
nalza al di là dei principio del tempo, alla contem-
plazione dell' Eterno ed Uno, non solitario nella sua
maestosa unità, mentre era De' suoi pensali inondi
allo monarca: tocca della augustissima Triade, e sul-
l'orme de' sacri testi de' Proverbi e dell'Ecclesiastico,
(1) La prima edizione sembra quella di Viterbo del 1607
163
della divina sapienza, per cui lutto fu fatto. Viene
poi all'attuarsi del divino decreto :
« Già di quel che ab eterno in se prescrisse
» Dio, che è senza principio e senza fine,
)) Kra giunto il principio, e giunto il tempo
» Col principio del tempo; »
e il tempo esce dall'eternità:
. qual di gorgo
» 0 di pelago pur tranquillo ed alto,
» Che senza 'I moto e l'onde e posi e stagni,
» Esce talvolta il rapido torrente ».
E qui, indagata la cagione ed il fine della creazione,
entra a stesamente ed ordinatamente narrarla, se-
guendo fedelmente le orme del legislatore israelita,
tutto descrivendo, adornando, e, come meglio po-
teva , spiegando , ed a ciò chiamando in aiuto le
scienze soprannaturali e le naturali (qualunque si
fosse il soccorso che queste potevano somministrar-
gli), equa e là adorna il suo racconto di belle ri-
flessioni morali.
Pretermetto il lungo poema del Mortala intorno
allo stesso argomento, come pure 1' Esamerone ovve-
ro Vopera dei sei giorni di Felice Passero, e V Adamo
ovvero il Mondo creato di Tommaso Campailla.
Non senza lode toccarono l'alto soggetto il Men-
zini nel suo Paradiso terrestre, Giuseppe Cotta nel-
r Adamo, e il Pellegrini nel poemetto De' cieli.
Ma, convien confessarlo, la fama e la gloria di
164
questi poemi fu eeclìssala dall'alta fantasia dell'in-
glese Milton.
E difficile immaginare qualche cosa piij sublime,
magnifica e veramente poetica del racconto della
creazione che 1' angelo Raffaele fa ad Adamo nel
Paradiso per dillo. Soltanto la sua immaginazione corre
taloia troppo libera e sfrenata. Ma di ciò si dee, io
penso, principalmente la colpa allo sconvolgimento
delle idee religiose, che si era fatto nella sua pa-
tria.
Forse più confacente alla nostra debolezza, e al
gran rispetto dovuto e all' opera e alle parole del
Creatoi'e, è il celebrarne con brevi inni e cantici il
sublime lavoro, che non osare partitamente descri-
verlo.
Non saprei se per tal motivo , e forse ancora
per isfuggire il pericoloso confronto col Milton, più
non appaiono nei tempi più recenti poemi intorno
alla creazione; ma non mancano brevi lirici compo-
nimenti, fra i quali alcuni degni di non poca lode(l).
Ma lasciamo i moderni, de' quali non mi pro-
poneva di parlare.
Se gli antichi poeti profani non potevano in
mezzo alla loro assurda mitologia trattar degna-
mente questo soggetto, non è da dire lo stesso do-
gi' ispirati poeti israeliti. La loio sacra poesia, ve-
dendo per tutto il creatore e conservatore delle
coso, era più di ogni altra atta ad un argomento,
in cui a somma varietà dee congiungersi l'unità più
perfetta.
(1) V. Lanzonì, Sidl'uso filologico della sacra Bibbia L. I
e. 3. Mantova 1852.
lt>5
Udiamo ciò che ne dico il celebre Alessandro
di Humboldt :
« Uno de' caratteri, i quali distinguono la poe-
sia della natura presso gli ebrei, è che, riflessa dal
monoteismo , essa abbraccia sempre il mondo in
una imponente unità, comprendente ad un tempo
e il globo terrestre e gli spazi luminosi del cielo.
Essa di rado si trattiene ne' fenomeni isolati e si
compiace nel contemplare 1' insieme. La natura non
è rappresentala come esistente indipendentemente,
e degna di omaggi per la sua propria beltà : essa
apparisce sempre ai poeti ebrei nella sua relazione
colla potenza spirituale, che la governa dall'alto. La
natura è ad essi un'opera creata ed ordinata, l'espres-
sione viva di un Dio presente per tutto nelle me-
raviglie del mondo sensibile. Così, a giudicarne sol-
tanto dal suo oggetto , la poesia lirica degli ebrei
doveva essere imponente e maestosa; ma, è nota-
bile, malgrado la sua gi-andezza, essa mai non cade
nelle proporzioni smisurate della poesia indiana. »
Fin qui Alessandro di Humbolt.
Lasciando da parte il capo 1° del Genesi , che
nella .sua semplicità può pei' le immagini compa-
rarsi alla più sublime poesia, in più luoghi i sacri
poeti hanno mirabilmente parlato della creazione.
Non è qui necessai'io riferire i luoghi dei Proverbi
e dell' Ecclesiastico e i vari passi di Giobbe e de'
Salmi. Ma l' inno veramente della creazione, 1' Esa-
merone esposto liricamente, è il salmo 103." che
gli ebrei e con essi gl'interpreti protestanti nume-
rano 104.
166
Quando in esso non fosse una certa e perpetua
relazione col principio della storia mosaica, sarebbe
pure, in un beli' inno al Creatore, un saggio unico
di poesia descrittiva, cui nulla si conosce di compa-
rabile neir antichità che dicesi classica. Scrive di
esso il citato Humbolt : « Si può dire che il salmo
103.° è da se solo un compendio del mondo. «
Il Signore, rivestito di luce, ha steso il cielo come
una tenda. Esso ha fondato la terra sulla sua sta-
bilità , talché non vacillerà nella durata de' secoli.
Le acque dall' alto de' monti scorrono nelle valli ,
nei luoghi loro assegnali senza mai passare i limiti
prescritti , e dissetano tutti gli animali de' campi.
Gli uccelli del cielo cantano sotto le foglie. Gli al-
beri dell' Eterno, i cedri da Dio piantati, sorgono
pieni di succo e gli uccelli vi fabbricano i loro nidi.
Nello stesso salmo è descritto il mare, ove si agita
la vita di esseri innumerabili, ivi passano i vascelli,
e muovonsi i mostri, che tu, o Dio, hai creato, per-
chè vi scherzino liberamente.
La seminagione de' campi, la coltura della vite,
cbe rallegra il cuore dell'uomo, quella dell'olivo, vi
trovano pure il luogo. I corpi celesti compiono que-
sto quadro della natura. Il Signore ha creata la luna
per misurare i tempi, e il sole, conosce il termine
della sua corsa. Viene la notte, le fiere si spandono
sulla terra, i lioncelli rugghiano anelando alla preda
e chiedono a Dio il nutrimento.
Riappare il sole, ed essi si ritirano, e si rifug-
gono nelle loro caverne, mentre l'uomo esce a' suoi
lavori, ne' quali resta occupato fino alla sera. Sor-
prende il veder in così breve lirico componimento
107
il mondo intero , la terra, e il cielo dipinli in al-
cuni tratti. Alla vita confusa degli elementi fa con-
trasto l'esistenza tranquilla e laboriosa dell' uomo
dal levare del sole fino al momento, in cui la sera
segna il termine delle sue fatiche.
Questo contrasto, queste viste generali sull'azione
reciproca di fenomeni, questo ritorno al potere in-
visibile e presente, che può ringiovanire la terra o
ridurla in polvere, tutto è informato di un carat-
tere veramente sublime.... Somiglianti viste intorno
al mondo trovansi sovente esposte nei salmi.
Humboldt non fa osservare, che questo salmo si
riferisce totalmente alla storia mosaica della crea-
zione 0 piuttosto dell' Esamerone; ed ancora alcuni
interpreti omettono tale avvertenza.
Altri hanno ciò avvertito, e un altro erudito te-
desco lo appella acconciamente 1' eco della storia
della creazione: ben inteso che qui tutto è esposto
liricamente e non precisamente da storico o da cro-
nista. Ciò mi sembra assai chiaro , e tale, spero,
apparirà a voi eziandio, in seguito della esposizione
che passiamo a farne.
Nell'originale ebreo questo salmo è anepigrafico,
cioè senza titolo o nome di autore. Nella versione
greca (1) seguita dalla volgata latina è attribuito
a David. Siccome non vi ha obbiezione o difficoltà
di momento in opposizione a questa rispettabile au-
torità, possiamo tenerne autore il monarca guer-
(1) S. Atanasio avverte che nell'ebreo è anepigrafico, ma
esso lo intitola: Salmo di David sopra la costituzione (o la
formazione) del mondo.
168
riero e poeta, il quale dicesi per eccellenza il Sal-
mista.
Veniamo all' esposizione: « Benedic anima mea
» Domino: Domine Deus meus, magnificatus es ve-
» hementer. »
Oso leggervene una mia traslazione italiana in
metro libero , per non illanguidire soverchiamente
con pedestre e barbara prosa il brio ed i voli del
sacro poeta israelita. Conosco l'imperfezione di que-
sto lavoro della mia gioventiì- L' ho leggermente
qua e là ritoccato, soltanto affine di renderlo al-
quanto pili fedele, non già perchè m' illudessi a se-
gno di credermi atto a far risonare armoniosamente
la celia, ora che l'età cadente mi consiglierebbe a
deporla, quando ancora in verde età l'avessi saputa
maneggiare.
Offri un inno di laude al tuo Signore,
Alma mia. Chi né degno? il nume, il grande
Mio Dio. Tu eterno, onnipossente, immenso
Gloria vesti e splendore ;
Che di luce un ammanto ti circonda,
E l'universo di fulgoi-e inonda.
Comincia il salmista dall'eccitare se medesimo
a lodare il Creatore, indicando di ciò la convenienza
per la grandezza di lui, che quanto miriamo in cielo
ed in terra ha tratto con un cenno dal nulla ; e
senza fermarsi intorno alla creazione propriamente
detta, viene subito all'opera di sei giorni, incomin-
ciando dal primo , nel quale, secondo lo scrittore
del (jcnesi, disse Iddio: Sia luce; e luce fu. Questo
169
primo fallo viene qui espresso con orienlale ardi-
tezza, presenlandoci il Creatore come vestito di luce:
« Amictus lumine sicul vestimento ».
Se il cantore non si fosse proposto di seguire le
orme mosaiche , né rivolto avesse il pensiero alle
prime parole delGenesi, ma senza più a celebrare l'Au-
tore dell'univeiso, non pare probabile che avrebbe
incominciato dalla luce, la quale, sola e disgiunta
dalle sue soi'genti, mai non ci appare, ma piutto-
sto dal sole qui mentovato assai tardi. Bensì la luce,
e non il sole, figura in 1.° luogo nella narrazione
mosaica, e soltanto luce, luce vivissima, e daperlutto
diffusa sarebbe allora apparsa ad un osservatore, cui
fosse dato assistere a quel primo ordinarsi delle cose
ed al formarsi di tanti corpi composti della prima ma-
teria tenebrosa ed informe, ossia, come possiamo
interpretale, dalla congeiie degli atomi elementari.
Cessa quella prima Ilice , e con essa il primo
giorno : perocché giorno nel linguaggio del Genesi
è il tempo della luce, non il tempo del giro solare.
E nominò (Iddio) la luce giorno , e le tenebre no-
minò notte.
Viene immediatamente il salmista al secondo
giorno, al giorno dell'atmosfera; dacché così e non
altrimenti sembra doversi intendere nel luogo cor-
rispondente del Genesi il vocabolo firrnamentum e la
voce sinonima coelum: più volte leggiamo nubes coeliy
volucres coeli. Insegna s. Tommaso i^i) : « Palesi
intelligi per firrnamentum.... illa pars aeris , in qua
condensanlur nubes.... secundum liane opinwncm nihil
(1) S. I. P. qu. LXVIIl art. I.
170
sequilìir repugnans unicidqne opinioni ». Sciive il
Mazzocchi: e Habes quoti fìrmamenliim sit aer. Atque
eadern sentenlia palnim et theologoriim conscnsu ni-
titiir. Ergo aqiiae coelesles non alind quam nubes ».
I fenomeni meteorologici sono cosi indicati poe-
ticamente dall'ispirato cantore:
Qual tenda il ciel si curva e lassù d'acque
Alta stanza ei si fa; di folte nubi
In cocchio arduo grandeggia
E sull'ali dei turbine passeggia.
Suoi messaggi son venti veloci,
Suoi ministri son fuoco celeste,
Pronti al cenno dell'alte sue voci.
F'ormandosi l'atmosfera, dividente tra le acque
terrestri e le superiori, si stabilì la regione de' fe-
nomeni meteorologici , nubi , fulmini , tuibini, qui
adombrati con immagini soprammodo poetiche e in
relazione alla lor prima cagione. La prima frase ,
exlendens coeliim siciit pellem, allude all' apparenza
che r uno e l'altro cielo presentaci, o vuoi questo
inferioie, spesso offuscato dalle nuvole, o il superiore
seminato di stelle, l'apparenza cioè di un gran ta-
bernacolo, e tabernacolo di Dio sembra appellato il
cielo iu altro salmo. Abbiamo da Esichio che cieli
appellavansi dai persiani i tabernacoli legi per la
forma emisferica della volta. L'ultimo versetto {qui
facis angelos ttios spiritus et minislros luos ignem
urentem) può sembrare riferirsi anch'esso alle me-
teore e null'altro accennare se non venti e fulmini: è
noto che la voce spiritus spesso nelle sacre carte
171
suona vento, aria, e fiato. G. B. De Rossi traduce
dall' ebreo : u Egli fa suoi messaggi i venti, ha per
)) ministri un fuoco che arde ». Ma siccome l'apo-
stolo Paolo intende queste parole degli angeli (1),
a noi non è lecito da lui seperarci e trascurare,
e molto meno dispregiare, siffatta interpretazione-
Io, dopo alquanto esitare, ho preferito una trasla-
zione, che potesse, come l'originale, aggiustarsi egual-
mente alla interpretazione materiale e fisica ed alla
spirituale e teologica.
Suoi messaggi son venti veloci.
Suoi ministri son fuoco celeste
Pronti al cenno dell'alte sue voci.
Segue il salmista e viene all' opera del terzo
giorno :
Parli, e dal labbro creator chiamata
Ecco la terra in se stessa librata :
Niun la sostiene: ella in sua mole sta.
Né per urto di secoli cadrà.
Coprìa qual veste la terra nascente
E sormontava i monti il fluito amaro :
Fuggir dal tuo corruccio ed al possente
Tuon della voce tua l'acque tremare :
E là dove imponevi, ecco repente
Scendon le valli, ergonsi all'etra i monti
Tutti al tuo cenno ossequiosi e pronti.
Allor ponevi imperioso un termine
U' s' arretrino i flutti e 1' ire frangano,
Né la terra inondare oseran l'onde,
Né sormontar le venerate sponde.
(l) Uebr. I.
172
Mosè introduce Iddio a comandare: « Sieno rac-
colte le acque di sotto il cielo ad un luogo e com-
parisca l'asciutto. E COSI fu ». — Il salmista dice
il medesimo , ma adornalo d' immagine altamente
poetica , facendo fuggire le acque spaventate alla
voce sdegnosa del Creatore. Può fare un poco di
difficoltà quel diisi che le acque sormontavano i
monti, perocché monti non potevano esservi finché
lutto il globo era coperto dalle acque- Taluno ha
opinato qui alludersi al diluvio noetico : ma ciò è
al tutto inverisimile. Qual cosa ha quella catastrofe
di comune col periodo dell'Esamerone Mosaico ? Qui
non sono mentovate le presenti catene di montagne:
ma la terra coperta dalle acque avrà pure avute le sue
elevazioni o montagne subacquee, come le ha il letto
dell'odierno mare, e come le hanno a proporzione
i frutti più lisci. E forse più verisimile, che questi
monti sottoposti alle acque non altro sieno che gli
strali , le rupi, i terreni , che erano per levare il
capo dalle acque, e formare le montagne e le ca-
tene di montagne, ossia in quel primo apparire della
terra asciutta, o in altra epoca posteriore per altre
successive catastrofi.
iVccennato il primo sorgere delle acque della
terra abitabile, il salmista, che è qui poeta lirico,
e non legato strettamente dall'ordine cronologico ,
stendesi alquanto intorno agli usi di essa terra asciut-
ta, data a noi per abitazione, come pure agli ani-
mali, ed ai vegetabili a noi più utili; e a Dio rivolto
prosegue :
Tu scender fai nelle convalli i fonti :
Tra monti e monti - per te il rivo scorre.
173
Ve' come accorre - e dalla sete scampo
Del feitil campo - e dell'alpestre selva
Cerca ogni belva. - Sulle verdi sponde,
Delle fresche onde - appo i sonanti lidi,
Forman lor nidi - gli augellin canori,
Che a vari cori - or lusinghiero pianto.
Or lieto canto - da vaghi arbuscelli
Modular odi armoniosi e belli.
Dall'alte vette i monti irrighi e saziasi
Tutta, Signor, del dono tuo la terra.
Tu fai che l'erba al giumento verdeggi.
Tu che la piena spica all'uom biondeggi.
Per te dell'uva il dolce amabil sangue
Dell'uom che langue - rasserena il cuore;
Qual pingue umore - d'ulivo l'abbella,
E l'innovella - le sue foi'ze manche
A ravvivar le stanche - membra umane
Dato dal ciel, primo suo dono, il pane.
Dei benefico umor che per Te spandesi
Delle tue selve gli albei'i satollansi,
E i cedri che sugli altri signoreggiano
Da Te piantati sul fronzuto Libano.
Ad essi il nido fidar gode il passero
Ed al cipresso la cicogna affidalo;
Gli eccelsi monti son grato ricovero
All' ibice silvestre,
E il riccio ha tana nella rupe alpestre.
Qui si tocca dell'utilità delle montagne, dell'ir-
rigazione de' terreni necessaria alle piante non meno
che agli animali , e a modo di esempio alcuni si
nominano fra questi e fra quelle. ^
174
Alcuni dubbi sono tra gli espositori intorno al-
l' inteipjetazione di questa e di quella voce : ma
fortunatamente non sono di gran momento, e resta
sempre il concetto della provvidenza del Creatore,
la quale , col mezzo delle acque e delle piante da
questa alimentate, provvede ai volatili e non meno
ai quadrupedi, o sieno feroci e selvaggi, o dome-
stici, indicati nella Scrittura col nome generico di
giumenti.
Tra le piante si nominano le piià importanti e
più care all'uomo, non meno in Palestina, che in
Italia, il frumento, la vite, e l'ulivo; né dovevano
dal cantore israelita omettersi i magnifici e tanto
celebrati cedri del Libano, i quali diconsi da Dio
piantati, come in altro salmo (l)appellansi cedri di
Dio, essendo costume degli scrittori ebrei denomi-
nare di Dio le cose nel loro genere più grandi o
più eccellenti, nelle quali più splende la divina pos-
sanza: (( filimeli Dei, mons Dei, arciim meum, appella
Iddio l'iride o arco baleno, del quale altrove è scritto:
Manus excelsi aperuerunl illum w.
Ove io ho posto il cipresso, altri traducono abete.
Così ove ho tradotto il riccio, si tiene ora dai più
diligenti espositori che meglio sarebbe tradotto mar-
molta', ma ciò nulla rileva, né altro volle indicare
il salmista con una voce ebraica , forse specifica ,
che quella famiglia di animali abitatori dei monti
ed ivi usati a scavarsi una tana per ricovero.
Ignoro se sia identità di specie fra la marmotta
(1) Psal. 79 v. 11.
175
delle nostre alpi, e IVirc/om/s della Palestina (1): ma
certamente a me conveniva sfuggire un vocabolo ,
che avrebbe destato inopportuno riso, essendosi am-
messo fra noi, quantunque ingiustamente , non so
che di ridicolo all'idea di questo animale.
Toccata così, ad occasione della terra asciutta
e rivestita dal Creatore di piante, alcuna cosa dei
viventi destinati ad abitarla, s' innalza il sacro vate
a contemplare i corpi celesti- Sarebbe , io credo ,
impossibile dare ragione del trovarli in questo luogo,
se questo inno non fosse Veco della mosaica isto-
ria dell' Esamerone : ma, così essendo, agevolmente
si vede come qui e non prima sia dì essi menzione.
Mosè fa motto dell'apparizione de' corpi celesti sol-
tanto nel 4.° de' suoi giorni o periodi: il salmista,
seguendone le orme, pennelleggia le opere dei primi
tre giorni prima di far parola degli astri; e ad oc-
casione della terra asciutta tocca alcun che de' suoi
fini e degli animali che l'abitano, de' quali avrebbe
potuto seibare il discorso al 5." ed al 6." dì.
Per te (egli segue rivolto a Dio)
Per te distingue l'argentata luna
1 tempi, e pura splende,
E l'ombra fende della notte bruna.
(1) Sciendum animai esse non maius hericio habens si-
militudinem muris et ursi; unde in Palestina «fxro/xùg dicitur,
et magna est in istis reglonibus huius generis abundanlia ,
seniperque in cavernis petrarum et terrae foveis habitare con-
sueverunt. » S.Hieronimus Ep. ad Sunnam et Fretelam. Fra i
moderni naturalisti Gmelin ha denominato arctomys il ge-
nere delle marmotte.
176
Omette affatto le stelle, da Mosé accennate con
una sola parola, e si contenta di ramnnentarci i
due luminari , più importanti per 1' uomo, i quali
perciò e per la maggiore loro apparenza sono nel
Genesi appellati luminari grandi, o maggiori; come-
chè ivi stesso la luna in confronto col sole sia detta
luminare minore o piccolo.
Udiamo s. Tommaso (1): « Sicut Chrysostomus
)> dixit, dicuntur duo luminaria magna , non tam
)) quanlitate , quam efficacia et virtute- Quia etsi
» aliae stellae sint maiores quanlitate quam luna,
» tamen effeclus lunae magis scntitur in istis int'erio-
)) ribus, et etiam secundum sensum maior adparet.»
Viene poi al sole:
Per te l'aurato sol, compiuto il corso,
S'asconde e tenebria notte distende.
Escono allora dalle opache selve
Le crude belve; - del leone i figli
I feri artigli - squassano ruggendo,
E a Dio chiedendo - alla Jor fame cibo.
II sol risorge: ogni stanala fiera
Ne' covili s' asconde, ed esce l'uomo
All'opre usate ed a' diurni offici,
Finché l'astro del dì torni a celarsi.
Qui gli astri sono unicamente considerali quali
utili misuratori del tempo, come ancora da Mosò
a ut dividanl inler diem et noctem, et sint in signa
et tempora et dies et annos ».
(1) S. T. I. qu. LXX, art. 1 ad L
177
Anche Platone nominolli islrumenti del tempo;
e Claudiano scrisse: lUe pater rerum qui tempora di-
vidit astris. La frase mosaica in signa et tempora
può, mi sembra, interpretarsi in signa temporum: né
mancano esempi di analoghe locuzioni nelP uno e
nell'altro testamento.
Nel capo 3.° del Genesi leggiamo: Multiplicabo
dolorem et conceptum tuum, cioè dolorem conceptus
lui.
Simili modi non sono rari presso i latini : mo'
lemque et monles insuper allos imposuit, abbiamo in
Virgilio (1), cioè molem montium: e in Lucano, cha-
lybem fraenosque momordit, cioè fraenos chalybeos.
Il tempora di Mosè può intendersi dei mesi o
delle stagioni. Leggiamo ancora nell' Ecclesiastico:
Luna oslenlio temporis et signum aevi. A lima signum
diei festi.
Bella poi, benché brevissima , è la descrizione
del corso apparente del sole, il quale descrivendo
la metà della sua curva al di sopra dell' orizzonte
ne adduce giorno e luce , ed ascondendosi sotto
l'orizzonte ci lascia in tenebre; e bello pure mi pare
l'accordarsi il tempo notturno , quasi lor proprio ,
alle fiere , che allora escono delle caverne e van-
no in traccia della preda; mentre il tempo del sole
e della luce è concesso all' uomo per occuparsi
fino a sera in utili travagli di agricoltura, o di arti:
« Exibit homo ad opus suum et ad operationem suam
usque ad vesperam. »
(1) Yirg. Aen. I.
G.A.T.CLXVL 12
178
Esclama qui il sacro poeta: « Quam magnificala
snnt opera tua, Domine ! Omnia in sapienlia fecisti ».
Quanto son grandi di tua man possente
L' opre, o Signor ? portan l'impronte tutte
Di tua celeste sapienza: è piena
Di tue opre la terra. Il mare immenso
Nel sen delle voragini profonde
Viventi innumerabili nasconde.
Nel quinto e nel sesto giorno parla Mosè della
formazione degli animali e dell'uomo-
Di ciò, concie abbiamo udito, ha qualche cosa
toccato il salmista , all' occasione delle opere del
terzo e del quarto giorno, a mostrarci l'utilità della
terra e degli astri.
Perciò potrebbe dirsi in qualche modo compito
l'eco deW Esamerone-
Siccome però nulla si è detto degli animali ac-
quatici, che primi sono indicati nel quinto giorno
mosaico [brulichino le acque di renili, animali vi-
venti), perciò vien qui a mentovarli, e passa, se si
vuole, dal quaito al quinto giorno.
Gì' innumerabili abitatori delle acque sono qui'
indicati in generale, e quindi si accenna l'uso che
l'uomo fa del mare, il quale pareva destinato a di-
videre le varie parti della terra, e invece mirabil-
mente serve a ravvicinare i popoli piiì remoti fra
loro ed a far partecipe ciascuna parte del globo dei
prodotti delle altre.
E il mortale fidato a fragil legno
Delle tempeste signoreggia il regno.
179
E come ci ha mostrato la Provvidenza sollecita
a provvedere dei necessario gli animali della terra
e dell'aria, così ora ciò dimostra rispetto a quelli
dell'acqua:
Ma l'enorme balena,
Che de' marini flutti
Sembra schernir la minacciosa piena,
E degli azzurri ondosi campi tutti
Gli abitator sì vari
Attendono da te ristoro e cibo.
Apri la man benefica, e raccolgono
L'alimento opportuno e ognun si sazia.
Tuo volto ad essi ascondi; ecco già mancano
E fan ritorno alla nativa polvere.
Riedi in essi a spirar di vita il soffio,
E nuovi germi degli estinti il danno
Ecco pronti a supplir: ecco del mondo
Rinnovarsi la faccia, eccol giocondo.
Forse qui senza piiì vuol dirci, che tutti questi
animali sono anch' essi da Dio provveduti, e il lor
cercare il cibo ed aspettarlo dalle naturali vicende
è qui detto un attendere da Dio l'alimento, come
poc'anzi udivamo con frase anche più poetica, che
i leoncelli gliel chieggono ( qiiaerant a Beo escam
uhi).
E veramente: perocché essendo la natura ed i
naturali eventi tutti regolati dalle leggi e dalla vo-
lontà del Creatore, chi dalla natura aspetta ciò che
gli è necessario, il conosca, o l'ignori, lo aspetta
da Dio: e allorché , qualunque sia la cagione se-
180
conda, la Provvidenza non è così ad essi benefica
e nasconde loro il suo volto, molti animali e talora
intere specie periscano : ma al tornare dell'abbon-
danza torna ancora la abbondante popolazione, e il
Creatore, secondo la frase ebrea, torna a spirare il
soffio vitale, non già ravvivando gli estinti, ma pro-
ducendo in lor vece nuovi esseri.
Può ancora (benché ciò non sia necessario) l'ispi-
rato cantore alludere a certe straordinarie catastrofi,
nelle quali, come sembrano indicarci le osservazioni
geologiche, periva in massa , gran numero de' vi-
venti , ma poscia al difetto di questi suppliva la
Provvidenza, e rinnovavasi la faccia del globo ter-
raqueo.
Ho nominata la balena; e pare probabile che i!
salmista, rammentando gli animali acquatici, abbia
voluto nominare il maggiore, e a così dire, il loro
monarca. Tuttavia confesso essere incerto quale ani-
male sia qui indicato nell'originale col nome di Le-
vialan. Nel libro di Giobbe (1), ove è una terribile
ed estesa descrizione del Levìalan, s' intende il coc-
codrillo j ne è impossibile che ancora qui di esso
si parli. Forse con questa voce (2) indicavano gli
Ebrei ora l'uno ora l'altro de' mostruosi animali, che
si ascondono nelle acque (3).
La volgala traduce Draco.
(1) C. LX.
{%) E ancora colla voce Thannim.
(3) Alcuni rabbini, ad occasione del Leviatan, hanno la-
sciato libero corso alla fantasia, ad immaginare le più assurde
e talora empie favole. Hanno detto che Iddio ogni giorno per
tre ore si trastulla col Leviatan ; che questa bestia è così
181
Percorse le opere della creazione, altro non ri-
mane al salmista che di nuovo dichiarare il Crea-
tore degnissimo di eterna lode :
Lode in eterno a Dio: voli de' secoli
Sull'ali la sua gloi-ia, e goda il core
Sempre nelle opre sue del mio Signore.
Mira ei la terra e scuotesi {!),
I monti tocca e fumano (2).
Quest'ultimo versetto sta qui come isolato, né
appare legame tra i precedenti fenomeni ed i tre-
muoti ed i vulcani che sembrano qui indicati. Volle
per avventura il salmista con questo cenno rammen-
tarci che all'autore e conservatore della natura si
debbano pure i tremendi fenomeni che ne fanno
quasi temere la distruzione , e perciò che , come a
luì slam debitori di riconoscenza, di benedizioni e
di lodi, così lo siamo ancora di un giusto e rive-
rente timore.
Non so se m' inganno ; ma sembrami l'accop-
piamento della terra tremante coi monti fumanti
potere indicare la relazione fìsica tra i due tremendi
grande che agita tutte le acque del mare; ed è cagione del
flusso di esse; che è solo nella sua specie; dacché se fossero
più, sarebbe pericolo non capovolgessero tutto il globo ter-
raqueo; che da principio veramente il Creatore ne aveva for-
mati due, ma uno provvidamente lo uccise e ne conserva le
carni (speriamo che ben salate) per apprestarle in convito
agli eletti, dopo la consumazione de' secoli.
(1) Ab indignatione eius movebitur terra. lerem. X, 10,
(2) Tange montes et fumigabunt. Ps. CXLIII, 6.
182
fenomeni, terrernuoti, e vulcani, che spesso in na-
tura si osserva.
Inni e salmi cantar vo' a te, mio Dio,
Finché vivrò, finché sarò: che il mio
Laudar sia grato a lui.
Osserviamo che queste frasi , o più letteral-
mente traducendo : si ; canterò al Signore in mia
vita : si ; salmeggerò finché io sarò, paiono indica-
re un autore molto esercitato nella composizione
e nel canto de' salmi, e ciò sembra rendere sem-
pre più verisimile che l'autore di questo salmo sia
il real salmista, Davidde.
Nel presente magnilìco inno intorno all' istoria
della creazione non avea luogo il rammentare e il
deplorare i disordini morali o i peccati degli uo-
mini, ciò che si fa in molti altri salmi; ma sul fi-
nire sembra 1' ispirato cantore, quasi toinato a sé
stesso ed al tempo presente , ed afflitto al vedere
da tanti morali disordini e da tanti iniqui detur-
pata la bella opera del Creatore, a lui rivolgersi e
supplicarlo a tornar bello il suo lavoro, togliendo
dal mondo i vizi e le colpe:
La mia letizia
Fia tutta in lui. Dal mondo esterminali
Più non veggansi i figli di nequizia ;
Gli empi non sieno più. Godi, o mio cuore,
Offri un inno di laudi al tuo Signore.
183
E termina come aveva incominciato, eccitando
se stesso a lodare il Creatore:
Benedic, anima mea, Domino.
Il mio lavoro è finito. Io mi confondo, conoscen-
done r imperfezione, e mi vergogno di avere osato
comparirvi dinanzi e trattenervi con produzione co-
tanto meschina, e d'aver in certo modo deturpata
colla mia debole esposizione una delle piiì belle pro-
duzioni della sacra poesia. Nulla di buono, special-
mente in tal genere, potevate, è vero, aspettare da
chi, per dirlo con Dante (1), ha già Viin piede en-
tro la fossa, e si trovava, non ha guari, in punto
di esservi gittato con ambedue- Meglio per avven-
tura ed a me ed a voi io provvedeva, ritraendomi
dal preso impegno. Ma io ho preferito attenere la
data parola , e darvi , né altro poteva , un segno
della mia buona volontà. Farei torto al vostro buon
gusto e al purgato vostro giudizio se sperassi a
questo lavoro lode ed applauso; ma non farò torto
alla vostra umanità e cortesia, se ne attenderò quel
compatimento, che da animi gentili e cortesi, quali
i vostri sono, sembraini potere aspettare chi trovasi
a un dipresso nella condizione del vecchio pelle-
grino, sì ben pennelleggiato dal Petrarca :
Indi traendo poi l'antico fianco
Per l'estreme giornate di sua vita,
Quanto piij può col buon voler s'aila.
Rotto dagli anni e dal cammino stanco.
(1) Purgat. XVIII, 121.
Novità e varietà in fatto di etnische anticaglie. Chiusir
Orvieto^ Perugia, musei di Roma, Trento.
ilei recarmi a vedere in Chiusi, pochi mesi or sono,
presso il sig. Gio. Paolozzi, il ragguardevole monu-
mento in terra cotta, di cui tenni proposito non ha
guari nel Bulleltino delV istituto di corrispondenza ar-
cheologica di Roma (1) , mi avvenni in tre tegoli
scritti, che stimo hen fatto di dar qui in luce nelle
loro brevi leggende. - Due di essi sono frutto dello
scavo di quella tomba medesima, donde si estrasse
l'urna mirabile sovraricordata, e nella cui strada ab-
batteronsi gli operai in quegli embrici messi nelle
pareti tufacee a copertura di vasi cinerari, o resti
di corpi umani raccolti in nicchiotli, che soglionsi
così frequentemente incontrare al di fuori dei se-
polcri chiusini, e radissime volte in Perugia. Sovra
uno di quei tegoli sta scritto a grandi lettere, sic-
come d'ordinario si usò in questa classe di etruschi
monumenti,
I o q R 4
Nell'altro leggiamo in eguale paleografia :
VlV^Viì
(1) Bull, dei corr. anno p. 80 e segg.
185
che ci dà motivo a veder chiaramente una 4^» an-
ziché una J nel 3.° elemento dell'ultimo nome del
primo; sendochè qui ZCCHU (già cognito in Chiu-
si (1)) e non ZULÙ lipetesi per ben due volte, la
quale ripetizione di nome insieme a quella dell' AULE
raccorciato nelle 2." linea in AU, non ispiegasi che
supponendovi, o la ricordanza in genere di due mem-
bri della stessa famiglia con prenome identico, ov-
vero di un figlio Aulo, distinto tra le pareli dome-
stiche con lo stesso prenome del genitore. E figlia
di uno di questi due personaggi stimar deesi la fem-
mina menzionata nel primo tegolo , ove 1' AULES
ZUCHUS, che segue il prenome LARTHl, sta per indi-
care, a mio avviso, il legame paterno. Nò per altro mo-
tivo se non per la relazione evidente, che mi sembra
esistere fra le leggende dei due embrici, io veggo più
sicuramente ZUCHUS anche nel primo di essi: poten-
do del resto correr bene anche ZULUS, di che i monu-
menti di Perugia ci danno esempio (2); e il eh. Le-
psius dicea probabile la spiegazione Sullins del Ver-
miglioli (3) appoggiata perla corrispondenza dell'ele-
mento iniziale anche da alcune bilingui (4), tia le
quali però non è più a noverare la perugina che
il nostro dotto predecessore e maestro diede sic-
come tale nelle sue Lezioni di archeologia (5) , e
(1) Mus. Chius. n. 116,
(2) Presso Verni. Iscr. Penig. I 241 n. 163.
(3) In. An. Tnst. di Roma 1836 p. 167.
(4) Mns. Etrus. n. 117 - Bull. Inst. di Roma 1833 p. 49.
Tav. alla pag. 62 n. 1, riprodotto in Fabretti, Gloss. p. 73, oye
con le mie schede correggo il VENZILEAL: FNALISLE in YEN-
ZILE, ALFNALISLE, che così dice veramente nell'originale.
(5) Voi. 2. pag. 184 (Edizione milanese).
186
che avrebbe potuto conv.nlidare il ZULUS - Stdlius
col ZtlTINEI - seniia, dappoiché ivi positivamente si
tratta di due diverse iscrizioni , come giustamente
opinò dipoi lo stesso Vermiglioli, tanto piiì che il
testo etrusco non ha nell'originale I3i/lt34;'S6^^"*^"
che a lui sembrava, ma
Ma . lawai . loq/qj (i)
Tuttoché però il ZULUS possa convenevolmente
rispondere al Sullius , io amo meglio dubitare col
eh. Fabretti, che piuttosto ivi sia da leggere Tul-
lius: e ciò massimamente per il ZUCHU de' nostri
embrici, ove a me pare assai probabile la tradu-
ziione Tychiis da tu/>j proposta dal dotto mio amico
per simil voce (2), e in che si presenta quella mo-
dificazione di asprezza dalla z alla f, basata in tanti
confronti , che potriano dedursi dalla etrusca epi-
grafia , fra cui bastino il ZAU-/er dei famosi dadi
con nomi numerali (3) nella volterrana TRECS (4),
r ARCHAZE di uno specchio etrusco comparato al-
PARCATHI di una tazza aretina (5), il MEZU - Met-
(1) Conf. Fabretti, Gloss. s. v. ZETNEI p. 347.
(2) Loc. cit. pag. 550. - Tychus in Morarasen I. N.
n. 3233. Tychius in An. Inst. di Roma 18S6 p. 11, e Ty-
chenianus in Ann. Ist. di Roma 1844. p. 22.
(3) Conf. Maury, 31em. sur la langue etr. nei Compt.
Rend. de V Accademie des Inscript. par Des Jardins 18S8
(p. 172). Ei vi ritrova il celtico TRI.
(4) Conf. Fabretti in Archivio Stor. Ital. n. s. IV P. 1
p. 137, e segg.
(5) Cavedoni, Congett. sopra alcuni specchi etr. p. 346.-
Gamurrini, Le iscriz. degli ani. vasi fìtt. aretini, p. 52 n. 322.
187
tius del cippo genovese (1), il ZEG - TEC del fan-
ciullo in bronzo perugino del nnuseo gregoriano, la
cui- leggenda non sì die esattamente noi bei volumi di
quel Museo, -^e'ì nominali due tegoli adunque noi
abbiamo una Lartia Auìi Tychi (filia), e due volte
un Aulus Tychus, ovvero un Auìus Tychus Aldi Tychi
(filius), supponendo con molta probabilità trasan-
data per errore, o per idiotismo nel secondo ZUCHU
la sibilante, che vi dovremmo, qual genitivo, più
regolarmente inconlrare (2).
Nel terzo tegolo poi spettante ad altra tomba
chiusina si legge:
im . oj
VI/1IÌVt
che facilmente spiegasi Lars Mimitiiis Tiiseniiis , i
quali due nomi trovano riscontro in monumenti pe-
rugini , vale a dire quest' ultimo nell' AR : CAIS :
TUSNU della serie del Palazzone (3), l'altro in un
(1) Orioli , neir Album di Roma del IC dicembre 18S4,
e 27 genn. 1835. -Fabretti, nella Rivista Contemporanea di
Torino del 18S4 p. 398.
(2) Conf. Fabretti , Gloss. s. v. Athnu, forse anche per
Atonii. - Mon, Per. Ili n. 216 e 233. - Cf. Lanzi, Sag. I. 241
2.* ediz.
(3) 31on. di Perugia n. Ili p. 8. - Cf. Iscriz. Etr. Fior.
p. 19. - Cade in acconcio 1' addurre qui in mezzo la nuova
spiegazione del SEC data testé dal eh. Maury [Rev. krch. n.
I. 1860. p. 171, 1T6] , in che a lui sembrò di trovare rap-
porto col greco ì^uyla {l^i-vyu, ^suyvo/^i), G potCT ravvisar il si-
gnificato di moglie àalViden d\ accoppiament 0 Qcc. ^ofì oserei
188
urna del nostro museo, la cui esatta lezione ci porge
OHM . j/iinitH^imfiian4^q/ìM.it.!te/i8
vale a dire Fausta Titia Marcania Arrii (filia) e ge-
nere Minulianae , ovvero in legame con il genere ,
con la stirpe dei Minuziani (permutata V u in o);
per il che si vedrà corretto qualche errore del
Vermiglioli al n. 300 delle sue Iscrizioni (p. 291)
la cui silloge, largamente rifusa ed ampliata, s'in-
contrerà nei successivi volumi , che spero dare in
luce, di monumenti perugini, da far seguito ai già
editi negli scorsi anni, e con largo corredo di rap-
presentanze figurate , giusta anche i consigli e le
idee, che tanto saviamente mise innanzi nelle pagine
del Bulletlino delV isùlnto di Roma il eh. Brunn. -
Vado egualmente debitore ad altra mia ispezione
nelle vicinanze chiusine, in Die. 1858, di una ret-
tifica, che mi è avvenut fare nella lezione dell'epi-
grafe, che dalle schede Migliarini io diedi in Appen-
dice al volume delle Iscrizioni fiorentine ( n. 41
per ora pronunciarmi sulla validità di questa sentenza del
dotto archeologo: che addimanda una lunga serie di confronti
innanzi che abbiasi a dire stabilita definitivamente. Intanto
mi limito a citare una perugina (riprodotta nelle Iscrizioni
fiorentine pag. 278), che mi pare non si acconci alla sua spie-
gazione, senza incorrere, o nelle ridondanze da me notate in
esporre le mie idee sul CLAN {Pref. alle hertz, fior.), o nel
trasponimento di voci, nella cui supposizione sembra che,
a proposito dello stesso CLAN, voglia farmi rimbrotto il lo-
dato dottissimo Maury (CAFATES SEC).
189
p. 266), e di cui erami allora ignoto l'originale. Ri-
trovato questo presso il colono del sig. Lucioli, nel
predio voc Colle , conobbi essere come segue la
vera lezione di ciò che è scritto nella fronte di
quel snrcofago :
I^^3<lH^I4HIO<l/iJMI^J^:)J^3
Detto monumento trovasi non lungi dalla no-
tissima tomba Casuccini dello stesso nome; , entro
la quale mi abbattei in coperchio di urna di tra-
vertino con leggenda
: MyqaOÌ/in : J31 : lìAf\9f\ 1 0/1
che non bene rammento se in alcun luogo sia edita,
ma che ho motivo di credere più probabilmente
ignota, non veggendo l'ANCARNAL nel Gloss. del
eh. Fabretti. E poiché per verifiche oculari poste-
riori alla pubblicazione del mio volume, io sono in
grado di rettificare altro numero deW Appendice mi-
gliaiiniana , non vò omettere di recai* nuovo apo-
grafo dell'iscrizione aretina (in urna), paleografica-
mente interessante, che ivi si die al n. 46 dietro
le schede di quel dotto archeòlogo
In questa occasione non parmi inutile di far
qui menzione , a proposilo di anticaglie etrusche
del monumento orvietano, di cui favellò nello scorso
anno l'egregio sig. D. Romolo Remi di Siena nello
190
Spettatore Italiano di Firenze (1), giornale ebdoma-
dario per ora sospeso nella sua pubblicazione , e
poco noto agli archeologi, sebbene da un distinto
archeologo diretto, il cav. Gennarelli. Consiste esso
in una grande pietra di paragone, del peso di oltre
libbre 100, condotta a forma di scarabeo, nella cui
parte convessa scorgesi una linea larga un pollice,
e poco profonda , che gira tutta all' intorno dove
avrebbe dovuto essere la testa dell'insetto, e nella
cui opposta superficie piana è incisa la seguente
nota gentilmente a mezzo di calco :
s
o
^.
m
u
^
rv
■^
Ul
O
.O
*-„
E
%
r-
rottura di
una
lettera al
più.
L'egregio editore, amantissimo di etrusche an-
tichità , crede di tradurla Larthiae Alceciniae Ca-
merià nata canistrum (donum). A me in quella vece
(ed ecco il principale motivo per cui mi mossi a
riprodurla) sembrerebbe meglio di leggervi Lartiae
(filia) Caecina (forse etr. CAIGNEI) Cameni (uxor)
(1) Anno I n. 39, 15 giugno.
191
donum (dedit) , ì cui nomi hanno tutti bonissimo
riscontro nelle sillogi epigrafiche etrusche; e il C\M-
RIES nel richiamarci il CAMARINEI, il CAMARINE-
SA, il CAMVRIS, il CAMERE ec. di altre leggende, ci
fa tornar colla mente all'etrusco CAMARS(o Clusium)
ed ai Camertes Umbri di Livio (1). Né punto farà
meraviglia la precedenza del mationiuiico, bastando
di rammentare il LARTHIAL MUTIKUS dell' epi-
grafe di Tt,rino; né il LARTHEAL in luogo di LAR-
THIAL, pari al TITEAL-TlTlAL,al RANTHEAL
RANTHIAL, all'ARZNEAL - ARZNIAL di altri mo-
numenti; né CAICN in luogo di CEICN
sotto la cui forma comunemente ci si offre il nome
dei Cecini; dacché anzi vi troveremo più regolarità
nel suo dittongo, e una maggior corrispondenza alla
forma greca e latina dello stesso nome [Caecina e Kcxi-
x/v«) (2), al quale forse opinerei oggi, per successivi
confronti, non doversi riferire le forme CAGNA, CA-
GNI, CAGNEI, CAGEINAL, siccome fu d'avviso il eh.
Fabrctti, parendomi convalidato il dubbio, che già me
ne mosse il eh. Capei dal latino Cacimis, che ci diede
in due vasi aretini l'egregio sig. Gamurrini (3) (cui
pur sembrò vedervi un equivolente di GACCINAL
Lanziano), i quali potriano indurci a scorger ivi la
vera espressione, la vera pronuncia (alla latina) del-
l'etrusco CAGNA. Del CANA a me sembrerebbe
poter quivi ritenere il significato di donum, o dona-
(1) Conf. Boeckh, C. L G. n. 6S03, 6606.
(2) Cf. Iscriz. Etr. fior. p. 39 e 57. Mon. di Per. IJl
p. 74.
(3) L. cit. p. 49 n. 288-289.
192
rlum, che passati etruscologi gli attribuirono, e che
non trovasi punto in discordanza col resto dell'epi-
grafe, né coH'oggelto nel quale è scritto (1), ed in
cui se realmente si volle espriaiere il simbolico ìn-
solto, che indicammo, per nulla ci meraviglieremo,
che si procedesse al dono, come alla dedica del me-
desimo (2) : rammentando la parte occupata dallo
scarafaggio nella religiosa superstizione degli etru-
schi, siccome in quella degli egizi ed assiri, donde
ne si spiega il largo uso che incontrasi appo i no-
stri maggiori di preziosi oggetti adoperati nella vita
domestica in forma di quell'animale.
Passando ora a Perugia , mi occorre far noto
come per la generosità del defunto sig. D. Erme-
negildo Monti si accrescesse di un vaso dipinto la
collezione vascularia del nostro museo universita-
rio , ampliata di molto in questi ultimi anni per
acquisti fatti, secondo che appare eziandio da quello
che già ne sciissi nel BidleUino archeologico di Ro-
ma, e pili dagli articoli del eh. Brunn sui suoi Viaggi
in Elrurittj venuti in luce nel BuUetlino medesimo (3).
(1) Conf. Lanzi n. 41 -42 p. 465-466 2.* ed\z. - Bull.
Inst. 1833 p. 95 e 98. -Iscriz. Etr. Fior. n. 197 e p. 172. -
Vittori, Mem. di Polimarzo, p. 66.
(2) I seguaci del sistema semitico, scorgendo neJ CANA
un significato di consecrazione o di dedica, non si discostano
da quello che vi ravvisano gli avversari, i quali col donum,
donariwn, giungono al risultato medesimo di un' offerta , di
una consecrazione a persona divina.- Cf. lannelli, Tent. Er-
men. in Etr. Inscriz. p. 128. - Passeri, Ronc. II, Caloger. XXII
p. 38, XI Calog. XXIII p. 353.
(3) V. specialmente Bull. Arch. di Roma 1858 p. 145, e
seg:-Vaso Monti, ivi a p. 151 n. 3.
193
AI che è d'aggiungere l'atto cortese del sig. prof.
Dottorini, cui piacque depositare in esso museo il
sasso con tosca epigrafe interessante , e già edita
in queste pagine dell'amico Fabretti (1), la cui le-
zione mi permetto soltanto rettificare nella seconda
voce RUTIA invece di RUTIAN, dacché ivi è in
realtà :
.immuB'i.tA 11 HItvq.lOv^
etc... (2).
Nel museo medesimo, in che venne teste a pien-
dei' posto onorevoIissi(no un singolar coperchio di
(1) Bull, di Roma 1849 p. 35.
(2) Che r idea di custodia, di salvezza , di protezione,
abbiasi a trovare espressa nel SUTHI scritto sulle tombe
sepolcrali, come si affermò anche negli ultimi tempi dall' Orioli
(V. anche Lett. al Fabretti neW Album Anno XXII p. 178 e
segg. Cf. per varianti etimologiche il Fabretti, Riv. Coni. 1.
e. p. 403 Ascoli, Stiid. Orien. e Ling. p. 237), e dal eh.
Maury {Mem. cit. nei Compi. Rend. cit. p. 169. -V. an-
che Bull. n. 2 degli scavi della Società Colombaria in Ardi.
Stor. Hai. n. 1 I. XI. P. 2 1860) pare a me trovi nuovo ap-
poggio nel SQTEIPA dello striglie prenestino , ricordato testò
nel Bull. Ardi, di Roma, messo a confronto col SUTHINA di
molti bronzi etruschi (Cf. Civ. Catt. 3. serie voi. X pag. 346 e
segg.), in cui potrà ben ritenersi il significato di conservazione,
di tutela, di salute a mezzo del divino aiuto, che anche sot-
tinteso s' impetra pur sempre, o si augura, conforme vuoisi rav-
visare Dell'addotta voce greca dello slrigile, e nell'epigrafe Sors
Mercurii di una marmitta in bronzo, alla cui spiegazione (in
quel senso) si recò sussidio dal eh. Garrucci con lo strigile
medesimo (V. Bull. Inst. Arch. di Roma a. corr. p. 16J Cf.
Fiorelli , Noi. di vasi dipinti dimani Tav. XVII n. 2 e
pag. XXV.
G.A.T.CLVXI. 13
194
sarcofago chiusino con duplice figui'!), che si darà
in luce negli Annali delV islilulo ardi, di Roma di
quest'anno , a me parve utile di disporre eziandio
la collezione d' impronte in gesso , appo me esi-
stente , di circa 460 elrusche epigrafi sparse qua
e là per il contado perugino , potendo fare buon
seguilo alla ricca nostra collezione di originali di
monumenti scritti etruschi, ed essendo al caso di
recare alcun giovamento agli studi comparativi sulla
lingua e sulla paleografìa dell'Etruria. Oltre di che
possono eziandio valere qual documento alla lezione
dei nuovi, e alla correzione dei già noti monumenti
scritti della città nostra , che in parte demmo , e
in parte ci proponiamo di rimettere in luce: fra i
quali intanto piacemi anticipar qui la riproduzione
del frammento di stele, che il Vermiglioli malamente
pubblicò al n. 27 della sua classe IV ;
(rotta la slele)
m
m
{7-.
>
V
>
O
195
ove |)i'incij)ali)ienle è per me a far notare la voce
TUSURTHII creduta Hn qui esistente solo nelle due
urne bisomi dell'ipogeo perugino dei Pelronì (1), e
dal eh. Fabretti portata , con molta dottrina , per
mezzo della spiegazione iixor , alla classe di voci
che nelle favelle indo-germaniche esprimono relazioni
di parentela. Con che qui ben si accorda la termi-
nazione femminea del nome, in cui senza dubbio si
ha una Tarquinia, scritta etruscamenle senza aspi-
rata come altrove , sebbene meno frequentemente
che col ^X.• - Giovami poi notare, come testé si fa-
cesse l'acquisto pei' il nostro museo dì due grandi
tubi 0 condotti in terra cotta, facenti parte, insieme
ad altri cinque?, di una conduttura di acque, e rin-
venuti nel 1859 in luogo non guari lontano da quello,
da cui si estrasse nel 1822 il nostro gran cippo
etrusco con la iscrizione di 45 linee. I nominali due
tubi lunghi centim. 88, di un vuoto di 10 cent, di
diametro (questo, in totalità, di 18 cent.) mi par-
vero degni di venire nel nostro museo per la se-
ffuente marca etrusca :
^ 1.»
1."
(un pò abraso)
la prima delle quali , assai ben conservata , credo
poter togliere a sicura norma per dire che in amen-
due abbia a leggersi MI ANTHE , e che con esse
io debba rettificare la lezione della non bea chiara
(1) Conestabile, ilfow. Per. p. 43-44.
196
lucerna fìltile , data al n." CCCXX della serie pe-
rugina del Palazzone, in cui nella prima lettera (non
sicura) supposi una semplice m, laddove il modo chia-
rissimo, onde qui si presenta quell'elemento, mi per-
suade piuttosto aversi a sciogliere in MI con la ^
(usata pur dagli etruschi) (1) all' arcaico- dorica ,
sminuita di un'asta, o immedesimata per nesso nel-
r i seguente, e sì nella lucerna che in questi tubi
riconoscere una marca identica, la quale ha un op-
portuno riscontro neli' ANTHI di un piatto chiu-
sino (2).
Ora ad ognuno che sappia degli studi sull'etru-
sco si offre facile la spiegazione di questa marca,
siim (inlìims (3) allhis, con posposizione di prenome,
sendochè l'equivalente del MI etr. al snm latino, li-
conosciuta già in antico da! Lanzi, e sostenuta di
bel nuovo negli ultimi anni dall'Orioli (4), sembra
ormai affermata da tutti i dotti (5) sebbene siensi
(1) flO fl9 in epig. del musco gregoriano , per cui si
escludono ognor più i dubbi del eh. De Ville sull'uso della
forma M per m appo gli etruschi {Ann. InstAM'ì p. 153), e
si può convalidare il MA. JRANTHA, che io supposi potersi leg-
gere nei tempi indietro in una iscrizione sovanese, ora difettosa
nel suo destro lato [Bull. 2. degli scavi della Colombaria in Ar-
di. Stor. Hai. n. s. T. XI P. 2.).
{% Micali, Atlante Ta\. CI n. 11.
(3) Cf. Fabretti, Gloss. s. v. ANTHI.
(4) Album di Roma 21 luglio 1855 p. 170-171 -^m//. In-
st. 1854 p. XXI. Cf. Poti, Etymol. Forsch. Ann. I p. 273-274-
e V. anche Secchi in Bull. Inst. 1846 p. 14; Brunn in Annali
deU Jnst. 1855 p. 52; Minervini in Bull. Nap.n. s. Anno 2."
p. 164 167.
(5) Cf. anche Maury, Mem. cit. nei Compi. Rend. cit.
pag. 178.
197
emesse contrarie osservazione dal eh. Fabretti (1),
che ci-edè piuttosto vedervi il significato di ego [io)
(esistente anche oggi nel mi appo i rezi , odierni
trentini, (2) in una delle antiche stanze di etrus-
chi) stabilito in quella vece dal citato Orioli nel-
l'etrusco MA (3), ed oggi riscontrato, a quanto pare,
sotto la forma IN appo gli etruschi di Campania (4),
i quali nei loro resti epigrafici oltre che già cono-
sceano il SIM in luogo del Mi (5) , oggi ci fanno
nota la piiì schietta forma osco-latina SUM (6), se-
gno di una precoce alterazione, in quei luoghi, del
loro linguaggio rimasto piiì lungamennte saldo ed
inalterato in mezzo al centro della confederazione.
Che cosa poi voglia esprimere la frase, il sa bene
ognuno che sperlo sia di simili epigrafi, ove intro-
ducendosi a parlare i monumenti medesimi, il nome
del possessore, e se vuoi anche dell'artefìcf^, spesso
avviene s' incontri al nominativo: « perchè ognuno
)) in cosa sua (ripeterò coli' Orioli) può regolarissi-
» mamente contentarsi di scrivere in retto il pro-
» prio nome, ad esprimere, questo è mio. » (7); e
perchè realmente sembra essersi quasi preferito ap-
po loro di accennare in questa guisa dopo il MI,
(1) Riv. Contemp. di Torino 1. cit. pag. 402.- Cf. Eichhoff,
Parallèle de lang. p. 36, e 468 - 470.
(2) Giovannelli, dei Rezi ecc. p. 88.
(3) L. cit. deW Album di Roma p. 194- 195.- Cf. Bunsen
in Bull. Inst. di Roma 1833 p. 95.
(4) Bull. Ardi. Nap. 1859, Anno VII p. 148.
(5) Bull. Arch. Nap. 1852 p. 87.
(6) Bull. Nap. Vllp.145-146.-Cf. Mommsen, Unlerita-
lischen, Taf. X n. 18.^
(8) Album di Roma 1. cit. pag. 171.
198
siccome aiv'he (alvolta dopo il MA, alla persona, cui
liferiasi l'oggetto, tuttoché, giusta il modo praticato
dai gn&ei con il loro emi od eimi , costumassero
ben anche di addurre i nomi al genitivo e al da-
tivo, io sono di.... io sono a (1). Posto ciò , io
non esito a ravvisale nella marca di questi monu -
menti fittili il segno del fabbricante o del posses-
sore del fondo , vale a dire della persona che ne
loclama, o come artefice o come padrone, la perti-
nenza ; al modo slesso che si giudica per le lu-
cerne con la marca notissima ATRANE ATRA-
NESI.
Non credo quindi inutile far menzione di una
piccola corniola venuta in mie mani, che reca in-
cisa, a lavoro non tanto fino, una Fortuna, che io
stimerei Forlnna - Cerere, stante, ornata nel capo di
slefune, vestita di lunga chitone e manto, con corno
di abbondanza nella sinistra, spiga, e remo , che
poggia in terra, nella destra (2), e per cui si può
a un tempo nella stessa Tyche ravvisare molto bene
la Vrovvidenza (3). Essa proviene da recente inve-
li) Y. Bxdl. Nap. II p. 167 VII pag. 145 e segg.-Iscriz.
Etr. Fior. p. 80, 112 - 115, ed altrove; e Bull. Inst. di Roma
fra gli altri luoghi alla p. 100 del 1859 per il vaso di Volsinio;
non che in Album Anno XIII p. 159 -60 l' iscrizione ritmica MI
VIANAS i PLEN lANAS.
(2) Cf. Spanheim in Collimaco, III pag. 735; Buonarroti,
Medagl. ant. p. 240 - 243, Boettiger, Vesengem. I pag. 211. -
V. Ann. Inst. di Roma 1835. p. 151. - Fortuna piuttostochè
Cerere forse nella lucerna della raccolta archeologica del eh.
Spano, donata al museo di Cagliari [Calai, p. 58).
(3) CI. Zoega, Tyche e ^emesis in Abliandlungcn p. 32
Muller Handhuch §. 398 n. 2 (ediz. Welcker).
199
sligazione dell'antico teirilorio di quell'Arna umbro-
etrusca , in cui in genere si sa essersi onorato il
detto nume con ispecial culto, al quale perciò potè
essersi ivi atteso nelle varie diramazioni, e in vista
del quale appunto io fui d'avviso, potersi ricono-
scere un' immagine della Forliina nel bel bronzo pe-
rugino del sig- Bonucci (1), ove il eh. Cavedoni credè
di scorgere una semplice testa di Medusa, anche a
riguardo di queir impronta grave e severa della fìso-
nomia (2) ; lo che però a me sembra potesse to-
gliersi dall'arte ad esprimere l'idea di quel nume,
nel modo stesso che se ne servì a ritrarre imma-
gini gorgonee , visto anche che nel variato sim-
bolismo di queste ultime, nelle idee che in loro si
roncentrano, sulle orme anche dei classici e dei mi-
trografi, non mancano legami onde si riannodano ai
grandi destini dell' umanità , agi' inesorabili decreti
posti nelle mani di Nemesi, spesso immedesimata
colla Fortuna, sì nella mente degli scrittori, come
nei concetti dell'arte.
Adduco in fine dalle mie schede varie altre epi-
grafi. Una in vaso ansato, mostratomi gentilmente
dal sig. principe D. Marc'Antonio Borghese, e che
non trovo nella relazione Polimazziana del Vittori;
la quale epigrafe dice
^Y<3YOJaq
(1) Ann. ìnst. ISSO p. 25 -i7.
Ci] Bull. Inst. ISm p. 236.
200
forse da leggersi Vibennia (l) moglie di un Vellore
(o Vollurio) (2), riguardando in Velthurus piuttosto
un nome di famiglia, che non un prenome, qual si
avvisava scorgere l'Orioli nelle luraniensi (3). Altra
che io rinvenni presso i sigg. Sergardi in Camuscia
(presso Cortona) nel modo seguente disposta attorno
alla fionle di un' urna con fiore rosaceo nel mezzo :
■7 -7
o
che ignoi'o ove siasi data in luce, e che mi sì volle
hv credere trovala entro la ton)ba che illustrò Mis-
sirini, cosa alla quale non mi soscrivo, visto il ca-
rattere all' intuito diverso agli arcaici monumenti
a. b. r. estratti da quel sepolcro antichissimo. - Una
terza latina copiata da urna presso il sig. cav. Ot-
tieri della Ciaia in Chiusi :
C . PVLFENNIVS . C . F.
llSENTIA
NATVS
(1) Cf. LÀRTfllA UPNEIÀ la App. alle Iscriz. Fior. ecc.
p. 271 n. 72. -All'HUP VIP fa buon confronto l' HUl-
VIUS-PIIUIUS » filiiis (Iscriz. Fior. p. 7.-Fabretti e Miglia-
rini in Ardi. Stor. Hai. IV. Disp. 1. p. 141. -Cf. Gtoss.s. v.
nUl in significato femineo {filia] ].
(2) Per errore di stampa si legge Vettore nella traduzione
del YELTHURI, in Iscriz. Fior. p. 191.
(3) Giorml. Arcad. CXX p. 288 Bull. Inst. di Roma 1839.
p.26.
201
ed una quarta inedita, io credo, del museo kirke-
riano
Bl^imH : vomH<]
probabilmente (con l'analogia del RAMTHA yjoc'anzi
ricordalo in nota) ArnnUia (o fìaìinlhia, o Ranlho-
nia (?) (1)) Alsinia (2), ove nella desinenza in ?t, spet-
tante al primo come al secondo genere, è forse quel
troncamento dall'UI, che Orioli supponeva nel RAVN-
THU-RAVNTHUI di una tuscaniense (3), e per cui
può dirsi in buon accordo col femmineo Kl della se-
conda voce.
Mentre poi colgo di buon grado questa occasione
per faie dovuta ammenda di un abbaglio in che
caddi, per calco difettoso, a proposito dell' iscrizione
chiusina illustrata dal eh. P. Tarquini (nella Civ.
Cali, tomo X serie 3." p. 741), ove esclusi (4) in
tìne della 2." linea l'esistenza di due punti, che in
realtà vi ravvisai al nuovo riscontro faitone sull'ori-
ginale, ora al museo vaticano (SKL : || AFRA), mi
permetto trar fuori dal kirkeriano la esatta lezione
del vaso a campana, che il lodato eh. Tarquini con
il suo sistema semitico (5) noverava tra i vasi di-
vinalori, e che all'epoca della sua illustrazione non
(1) Orioli e Cainpanan Sec.
(2) Cf. Fabrelli, Gloss. s. v. ALSINAI, a cui può con la
presente aggiungersi ora quest'altra forma.
(3) Giornal. Arcad. di Roma CXX n. 16.
(4) Bull. Ardi. Nap. VI p. 112.
(oj Un nuovo esame critico di questo sistema e Teuuto
in luce testé per la penna del dotto filologo lt;iliano sig.
Ascoli neir Arch. Stor. Hai. di Firenze n. s. T. XI cap; I.
202
sembra fosse ancora fra i monumenli di quel museo
ove io 1' incontrai. Essa é nel modo che qui ap-
presso :
eVD33 : aAlUVJlA : IHll/1/ieqV : VA
Non saprei dire se con ciò si alterino le basi di
spiegazione del dotto padre; solo avvertirò, che per
siffatta lezione si toglie di mezzo quelP indubbia sua
assertiva, per cui, a miglior giovamento dei riscon-
tai ebraico-caldaici, l'epigrafe diceasi scritta e di-
visa nell'originale alla maniera seguente: AU U RSM:
APL U NIÀS: Ct:GUS(l). Per quanto nell'ortogra-
fia de' toschi monumenti si potesse procedere tal-
volta ad arbitrio o a capriccio, talvolta a sproposito
nella separazione di voci senza punti, ed anche dei
membri di wna voce, pure non sembrami, per quanto
conosco, si giungesse a quel grado che si da l'ebbe
a vedere nella lezione epigrafica testò rettificata.
Anzi io credo potermi fermare nell'avviso, che, ove
agli etnischi piacesse in alcun caso di staccare nella
scrittura, senza l'impiego di punti, un membro di
una parola dal resto della medesima, ciò si man-
dasse ad effetto generalmente con una certa regola
e giustezza. Del che si hanno le prove nelle desi-
nenze o finali de' nomi, messe a distanze o' sepa-
rate dal rimanente di essi, non pur negli esempi
che addussi altrove (2), sì bene anche iu VESU SA
(1) Civ. Catt. Serie cit. voi. X pag. 35S-S57.
(2) Pref. alle Iscr. Etr. Fior. p. CXVXVI.
203
di un' urna di terra cotta del museo Campana, in
ASPRE S di urna di nenfro nel museo Gregoria-
no (1), ed in altri che potriano certo addursi, spi-
golando nel campo della tosca epigrafìa.
In ultimo dirò con brevi parole di oggetti an-
tichi ulleiiormente discoperti nell'agi-o trentino al-
quanto più in gii!i della necropoli di Sladler, di cui
favellammo negli Annali delV islitulo arch. di Ro-
ma (2). Sebbene di non guari impoitanza, pur tut-
tavia non è inutile di prendeine ricoi'do , siccome
continua/Jone della serie di antichità rezio-etrusche,
di cui si pailò nelle pagine del Giovannelli, del Sul-
/ei-, e di alti'i archeologi. Per mezzo di abbozzi dì
disegni comunicatimi dal mio egregio amico e cor-
rispondente sig. Tito Rasetti di Trento, veggo con-
sistere essi in due coperchi di rame, e in due si-
tulo dello stesso metallo, una entro l'altra, identi-
che a quella famosa illustrala dal Giovannelli, ma
senza iscrizione; nella minore delle quali conteneasi
una punta di lancia in bronzo, cui dovea ricongiun-
gersi il suo manico di legno introdotto pel foio,
che vi si vede : sette di quegli ainesi metallici a
taglio di scure (tre in ferro e quattro in bronzo)
per uso gueiresco probabilmente, di cui tenni spe-
ciale proposito in discorrere delle scoperte trenti-
ne (3) e che riunivansi all' estremila superiore di
(1) Cf. Mus. Etr. Greg. Tav. XCIV. n. 3.
(2) Anno 18S6 p. 74-81.
(3) Annali Arch. di Roma I. e. - V. Mirali, Atlante
Tav. 114-1, e 3.
204
un' asta per via forse di coregge raccomandate ad
anello, che tuttora vi si scorge, siccome avviene di
riscontrare in ordigni presso a poco dello stesso
genere, venuti fuori da paesi settentrionali, ed ado-
perati anche oggidì, per es. in Islanda, a mò di pic-
cone (1): lo che potrebbe facilmente indurre a pen-
sare non si escludesse nemmeno appo gli etruschi
dagli usi della vita, ove occorresse, l'arnese a punta
summenzionato , restando pur sempre a far parte
eziandio degli attrezzi di guerra. Oltre di che è me-
stieri notare, fra quegli oggetti, una punta di ascia
in bronzo con grosso pertugio per l'introduzione del
manico, con una parte della testa, e ad un solo ta-
glio condotto nel modo di quelli delle bipenni amaz-
zonidi, sulla cui lama sono graffite le lettere lAI ;
il quale arnese io credo poter essere guen-esco, come
lo fu appo gli slavi e normanni (2): quindi una la-
mina di rame con graziosi ornamenti a graffito, per
la metà della sua superficie a volute che s' intrec-
ciano, e per l'altra metà ritraenti una specie di di-
sco solare vittato egualmente a graffito con assai
eleganza. - Lo stesso sig. Rasetti poi soggiugneami
in lettera del febbraio passato, favellaisi parimenti
in quei dì della scoperta di un tempio e di una te-
sta di Mercurio, avvenuta poche miglia più in giiì
(1) Guide to Northern archology eie. by The Earl. of.
Ellesmae (London) 1848. p. 60.
(2) Cf. Kunik, Die Bernefung der Schwedischen Rodsen 11
p. 271.-Koehac, Mus. du Prince Kotchoubey I p. 229.
205
nella medesima valle Atesina ; ma nemmeno egli
sapeane di preciso tanto quanto è necessario per di-
scorrere di cose simili con un pò di utile e di buon
risultato per la scienza. Se però in seguito si farà
luogo a novità, o dilucidazioni in proposito, mi pro-
mise darmene contezza con l'usata sua cortesia.
Perugia 29 aprile 1860.
GlANCAKLO CONCSTABILE
206
Sopra un opera deW ab. Anlonio Rosmini Serbati
intitolala : Della sommaria cagione per la quale
stanno o rovinano le umane società. Articolo let-
terario del professore Don Paolo Barala custode
generale d' Arcadia e membro del collegio fdolo-
gico nella R. U. (1).
k^aggio ed utile ammaestramento (accademici il-
lustri, gentilissimi ascoltatori) saggio ed utile am-
maestramento dava ai cultori delle muse ed a quanti
son bramosi del bello scrivere il poeta venosino, al-
lorché nella sua lettera ai Risoni, ove al vivo ritrag-
gesi la natura , esortavagli ad attignere il subietto
de' loro componimenti dalle fonti limpidissime della
sana e morale filosofia : « Rem tibi socraticae po-
terunl ostendere chartae ». 11 qual consiglio traeva
quel sublime scrittore da quell' aureo docAjmento
da lui medesimo stabilito , essere fonte e princi-
pio del bello scrivere il buon senno , o come noi
sogliamo appellare , il senso comune della natura:
« Scribendi recte sapere est et principium et fons ».
E a dir vero siccome da questo interior senso di
natura apprendiamo a porre in bella armonia le parli
col lutto, i concetti dell'animo ordinatamente espri-
mere con le parole, tenersi nello scrivere in una via
(1) Questo ragionamento fu letto in Arcadia nella tor-
nata ivi tenuta il dì 10 maggio 1860.
207
di mezzo evitando ogni ostiemo, ed osservare allre re-
gole a quel dettame conformi; così siam per esso av-
vertiti ad ornare di bello stile pensieri ed immagini
non vote di sostanza e sparute, ma che racchiudano
in se preziosi ed utili ammaestramenti. E quantun-
que conceder si debba essere il diletto uno dei fini
che propor si possa scrivendo il poeto, giusta il seo-
limento dello stesso Orazio; un altro ve ne ha tut-
tavia di quello più nobile, e che suole il sapiente
proporsi in ogni sua deliberata azione, volli dire fin-
tellettuale e il moiale vantaggio de' suoi simili. Lo
afferma espressamente il nostro Fiacco, il quale dopo
aver rammentato quel doppio fine, cui dee mirai'e
il cultor delle Muse e qualunque altro bramoso del
bello scrivere, soggiunge opportunamente , che ad
ottenere il pieno suffragio di chi ascolta, fa d'uopo
accoppiare all'utilità delle cose, la proprietà ed ele-
ganza dello stile :
« Aut prodesse volimi, aut deleclare poelae,
Ani simul el iucunda et idonea dicere vilae.
Omne lulit punctum (jui miscuit niile dui ci ,
Leclorem deleclando pariterque monendo ».
Così adoperarono i più solenni maestri della greca,
della latina e della italiana letteratura, e in singo-
golar modo il glande Alighieri , nel cui poema sì
spesso incontransi espresse con leggiadrissimi versi
gravi ed utilissime sentenze di sana e morale filo-
sofia. Laonde niuno, io mi avviso , sarà fra voi,
208
arcadi sapientissimi , cui recar possa meraviglia, o
riuscir forse discaro, se in mezzo all'amenità delle
lettere , cui principalmente è livolto 1' accademico
nostro istituto , tolga io a ragionare in questo dì
di un aigomento a morale e politica scienza appar-
tenente, parendomi essere oltremodo acconcio alle
circostanze calamitose de' tempi, in cui ora versiamo.
E poiché a ciò fare ben conobbi non esser le mie
sole forze bastevoli, stimai miglior consiglio seguir
le oi'me di sci'ittore cclebiatissimo , a cui già mi
strinse dolce nodo di amicizia, e che venerai qual
maestro, presentando a voi in pochi tratti un' ana-
lisi ragionata di un' opera uscita della sua penna
col titolo: Della sommaria cagione per la quale slanuo
0 rovinano le umane società. È questi il chiarissimo
ah. Antonio Rosmini-Serbati, il quale finché basto-
gli la vita, con sempre nuovi scritti, pregevolissimi
per la materia, ammirabilissimi per la profondità
della trattazione, mostrò come anche in mezzo alle
numerose e gravi fatiche del sacro suo ministero j)0-
tess' egli consacrare lunghe veglie ed assidui studi
al fine lodevole di vantaggiare la causa universale
de' suoi prossimi. E che io mal non mi apponga
così di lui favellando, il giudicherete per voi me-
desimi, se onorar mi vogliate per breve tempo della
cortese vostia attenzione.
In quest' opuscolo di poca mole, e di utilissime
verità, non si parla delle scosse che ad una umana
società venir possano dal di fuori per atteirarla ine-
vitabilmente per via di violenza; ma si ricerca la
somma di tutte le cagioni parziali, per le quali le
umane società da sé slesse pervengono alla loro
209
sussistenza o alla loro distruzione. E si stabilisce
per primo criterio politico la seguente massima: Si
miri a conservare e fortificare ciò che costituisce
l'esistenza o sostanza della società, anche a costo
di dover trascurare ciò che ne forma l'accidentale
finimento (cap. I).
Quindi si desume che gli errori massimi di go-
verno sono quelli, pe' quali si perde di vista quanto
costituisce la sussistenza della società per occuparsi
soverchiamente intorno al suo perfezionamento ac-
cidentale; e siccome sulle vestigie degli antichi lo-
gici tutte le infinite fallacie, a cui soggiacciono le
umane menti, si riducono a questo solo di pigliar
Vaccidente per la sostanza^ così il semplicissimo cri-
terio proposto veste una necessità ed universalità
logica, che lo colloca fra quei principi!, che si ri-
scontrano veri da per tutto, ed entrano a dominare
egualmente ogni ordine di cose o sieno ideali , o
sieno pratiche ed effettive (cap. 11).
L'evidenza di un tale primo criterio politico,
contestata dal senso comune degli uomini, è con-
fermata colla storia, la quale è una continua nar-
razione del nascere, crescere, declinare e perire delle
maggiori società umane , cioè degli stati civili. E
servano di esempio le massime sociali degli spar-
tani e de' romani, le più famose dell'antichità, nelle
quali agevolmente si scorge quel carattere solido ,
che dee manifestarsi in un ordine politico , dove
tutto miri a dare esistenza e vigor alla società ,
anziché a' fregi accidentali e minuziosi (cap. III).
E qui trasportando la mente al periodo oscuro dei
fondalorif i quali per le politiche società fecero quello
G.A.T.CLVXF. 14
210
che dipoi i legialalori in una stagione più splendida
dissero, si dimostra come la natura suggerisse agli
uomini, che voleano associarsi o mantenersi associa-
ti, di porre ogni cura in ciò che risgiiardava l'esi-
stenza della loro associazione, trascurando quello che
riguardava l'accidental suo finimento : coH'applicare
il primo criterio politico alle due leggi fondamen-
tali della società civile , voglio dire la legge della
proprietà e la legge dei matrimoni. In questa appli-
cazione chiaro apparisce, che le strane opinioni di
assoluta eguaglianza dei beni, e di arbitraria solu-
bilità dei connubi , colle quali si recò alle ultime
sue conseguenze la nuova teorica dei diritti dell'uo-
mo, nascono appunto dall' imprudenza di certi in-
temperanti ingegni, che invaghiti di qualche acci-
dental vantaggio , cui veggonsi brillare innanzi al-
l' immaginazione , sono fatti ciechi a riconoscere
quanto vi ha di necessario ed indispensabile all'esi-
stere di una umana e civil convivenza (cap. IV).
La dottrina posta dimostra avere dunque una
profonda ragione quel sommo rispetto, che noi reg-
giamo prestarsi iti tutti i tempi e da tutti i popoli
alle prime loro istituzioni. Questo naturale e sapiente
rispetto, senza renderci nemici delie utili innova-
zioni, ci obbliga a distinguere sottilmente fra quelle
innovazioni che distruggono il vecchio, e quelle che
aggiungono al vecchio. Rispetto a quelle che sono
volte a distruggere qualche cosa di antico , convien
sicuramente procedere con meno di confidenza e con
pili di cautela: conviene che gV innovatori si assicurino
bene, che ciò che distruggono è una centina, per dir
così, 0 un armatura, non un vólto maestro o un pilone
211
della fabbrica. Rispetto poi a quelle che aggiungono
e non distruggono, e che perciò involgono minor pe-
ricolo di ferire l'esistenza della società, conviene at-
tendere a far sì, che le cose nuove si avvengano bene
alle antiche , e si continuino aW addentellato lascialo
da' primi fabbricatori (cap. V).
La medesima dottrina fa intendere in che senso
sia vera la regola: « Una società dee ritirarsi spesso
verso il suo principio, acciocché si conservi:)) legola che
sempre ebhe in conto di fedel sua guida anche la
maggiore e sapientissima di tutte le società , la
Chiesa, cui Iddio sostiene il più delle volte mediante
le cagioni seconde, e non sempre facendo a dirit-
tura intervenire de' miracoli. « Omnino res Christiana
sancta antiquitate stat, nec ruinosa certius repara-
bitur, quam si ad originem censeatur. » Così Ter-
tulliano nelle sue prescrizioni (cap. VI).
Colle sue vicissitudini poi il criterio da noi sta-
bilito segna nelle società umane quattro principali
età, e sono :
Prima età sociale. Ella è quella, nella quale trat-
tasi di dare esistenza alla società , e però si pensa
unicamente alla sostanza: questa età dividesi in due
periodi, in quello delle fondazioni, ed in quello delle
prime legislazioni.
Seconda età sociale. Ella è l'età fiorente, nella
quale essendo già l'esistenza della società rassicu-
rata, si trapassa dalla considerazione della sostanza
alla considerazione degli accidenti, senza tuttavia an-
cor perdersi di vista la sostanza. In questo tempo
dopo essersi resa grande la nazione, questa fa pompa
della siia grandezza ; si arricchisce di adornamenti
212
agogni maniera; ella brilla di tulio lo splendore agli
occhi dello straniero, ed ai propri.
Terza età sociale. Alla seconda età succede la
terza, nella quale abbagliati gli uomini dalla pompa
esteriore , e da quanto rende la nazione adorna ed
invidiala, anziché forte, vanno perdendo di vista tutto
quello che è sostanziale: allora manifestasi nello spi-
rito pubblico il tuono di leggerezza e di fidatiza , e
già questa può dirsi Vepoca dello scadimento e della
corruzione della società !
Quarta età sociale. Veneìido per tal modo i mem^
bri componenti il corpo sociale a frivoli oggetti ,
si vanno guastando i solidi fondamenti su cui era
stato appoggiato Vedifizio dai primi autori, fino a che
si fa luogo al quarto accidente a cui soggiace lo stato,
cioè a quel periodo, nel quale ricevendo delle scosse
0 dai nemici esterni, o da interne turbolenze, peri-
cola la sua stessa esistenza.
In questo rilevantissimo periodo di tempo lo stato
subisce indubitatamente una crisi, o sia grande mu-
tazione, la quale da nessuna forza umana può essere
impedita; perciocché venuta a questo punto, la società
non può pili retrocedere, ed altro non può aspettare, se
non che venga protratta la crisi, ma causata non mai.
Questa è Vepoca, ove o lo stato rimane totalmente di-
strutto, perdendo la sua libertà, soggiogato da qualche
nemico esterno; ovvero se ha grandi forze e amica for-
tuna da resistere agli assalitori esterni ed al malore in-
terno,dopo orribili convulsioni si rinnovella e si ripurga,
ripigliando quasi un'' altra esistenza. In questo caso egli
ha fatto un passo innanzi nella civiltà, e nella prò-
213
sperila politica : un passo però che gli costa le aìi'
gosce della morte, cruenti sacrifici, innumerale vii-
lime, ma che è scritto con un bianco segno di gra^
zia nelVeterno volume della Provvidenza (cap. VII).
Entra qui in campo la curiosa ad un tempo ed
utile ricerca delle leggi, secondo le quali le società
trapassano dall'una all'altra delle età indicate, e si
osserva che le associazioni civili si trovano mosse
da due forze, le quali sebbene non sieno mai intera-
mente divise, tuttavia non operano sempre con egual
efficacia'^ ma ora domina Vuna, ora Vallra prevale »
e però ne costituiscono due stati diversi. Queste due
forze sono la ragione pratica delle masse come chia-
mar si sogliono, 0 vogliam dire moltitudini, e la ra-
gione speculativa degV individui, che dirigono la so-
cietà.
La ragione pratica delle masse è quel quasi istinto,
dal quale la parte più numerosa e men coltivata
viene condotta ad operare per un bene presente ed
immediato. E qui è facile vedere , come nei pri-
mordi la propria esistenza sociale è il bene , che
più vivamente colpisce gli occhi di tutti : indi ri-
mosso il pericolo della distruzione , si offrono per
bene immediati da conseguire quelli, che apparten-
gono alla potenza e alla gloria della società stessa.
Dopoché l'incremento dello stato è ottenuto, avendo
le forze stanche , gli uomini si volgono natural-
mente all'amore dei pacifici piaceri, e il lusso e le
delizie diventano i beni immediati, secondo i quali
operano le masse. Che se questa voluttuosa inerzia
spiega le forme di egoismo , e gli uni e soli pen-
sieri del popolo sono puramente panes et circenses,
214
allora ogni patriottismo è sjDento, e la società pre-
cipita verso la sua ruina (cap. Vili). Conciossiachè
quella nazione , che è già nel terzo o nel quarto
degli stadi accennati, trovandosi al contatto con qual-
che altra che è ancora nel primo o nel secondo
stadio di sua età, resta da questa soggiogata, come
avvenne dell' impero romano d' occidente distrutto
dai germanici (cap. IX). Quest'è la sorte che toccò
e toccherà alle società non cristiane, le quali hanno
questo loro proprio carattere di essere guidate pre-
valentemente della ragion pratica delle massej e ciò
perchè gli stessi uomini prevalenti in tali società
non sanno operare che in armonia della ragion pra-
tica delle masse , senza aver forza di rattenerle ,
quando si rivolgono al peggio, da una irreparahile
distruzione.
La ragione speculativa degl'individui consiste nel-
r idoneità a far uso del criterio politico , la quale
si apprende da certi uomini meglio istruiti, e in-
fluenti su la parte più rozza del corpo sociale. Que-
sta potenza sublime appartiene piiì particolarmente
alle società cristiane; imperocché lo spirito del cri-
stianesimo appunto perchè è sovrumano, solleva i
singoli uomini sopra le masse, dando loro un'ener-
gia tutta nuova, per la quale, senza farsi conniventi
a nessuno errore, sanno contrapporsi alle storte opi-
nioni- 0 al cieco movimento della maggiorità, e col-
rilluminarla e dirigerla salvano le società anche al-
lora, che sono volte per proprio moto all'intero loro
discioglimento , facendole, per così dire , risorgere
piene di vita novella e di novello splendore. Rela-
tivamente a ciò si dimostra come col rallargarsi
215
delle società e col procedere de' tempi l'uomo si rende
più atto ad usare del supremo criterio politico: poi-
ché per le due accennate cause 1' ingegno umano
acquista maggiore estensione di calcolo, con cui sa
anteporre alle parti il tutto, e fnaggiore altezza di
ostinazione , con cui sa sceverare il sostanziale dal-
l'accidentale con perfetta divisione (cap. X).
Ma ond' è che quantunque lo spirito umano per
r influenza del cristianesimo progredisca successi-
vamente di bene in meglio, tuttavia le società cri-
stiane non hanno meno per questo le lor politiche
vicissitudini ? Il perchè di ciò si dimostra essere ,
che al lato della progressione ascendente della ra-
gione speculativa dei governanti, non cessa di avere
il suo naturale andamento la progressione discen-
dente della ragion piratica delle masse ; sebbene la
prima progressione prevalga costantemente alla se-
conda. Operano adunque parallele, e quasi contem-
poranee queste due forze , della ragione speculativa
della parte colta e della ragione pratica della parte
rozza, della ragione degl'individui e di quella delle
masse. E in questa contemporanea e non sempre co-
spirante azione di quelle due forze si viene trac-'
cìando la spiegazione del perchè le società cristiane
spesso veggonsi poste in burrasca, ma non mai va-
dano naufraghe interamente, massime se si consideri
la cristianità come una società sola , di cui le na-
zioni particolari non sieno che membra (cap. XI).
Ma conviene ormai dire che cosa sia la sostanza)
e che cosa sia raccidente nella vita sociale; e per
preparare la via a questa gravissima ricerca , che
aprirebbe, a chi lo volesse percorrere, 1' immenso
21 r>
campo della scienza politica, si fa notare che le so-
tietà umane {simili in questo ai corpi, rfe' quali si
compone Vuniverso) non istanno mai ferme, ma sono
in continuo movimento. Ora noi possiamo determinare'
due limili, che viene a dire due stati estremi, a cui
vanno sempre accostandosi le società ne"* loro movi-
menti; questi limiti sono, lo stato di massima im-
perfezione in cui concepir si possa la società^ e lo
stato di massima perfezione. Noi dobbiamo altresì
concepire che ogni società si muove infra questi due
stati , di maniera che ora la società tende col suo
moto al limite superiore di perfezione, ora al con-
trario è volta verso il limite inferiore d' imperfe-
zione : limiti che ella non attinge mai per quantun-
que vi si accosti. Perocché la somma perfezione nelle
cose umane non si raggiunge : e ove la società po-
tesse toccare la somma imperfezione, già molto prima
ella cesserebbe di essere. Considerando questo fatto,
il quale per cangiare di generazioni, d' ingegni, di
umori, di costumi e di proporzioni fra le cose è per-
petuo; apparisce così in generale . che esistono due
sommarie forze rispondenti alle due sommarie ten-
denze o movimenti della società , V una delle quali
forze lei sospinge alla perfezione, l'altra la preme verso
r imperfezione. Tali forze somiglianti appunto alle
forze che chiamano contrifuga e centripeta, onde ven-
gono ne' lovo moli tangenziali sospinti gli astri, sono
cagioni a tutti i movimenti delV universo sociale, e
formano i due mezzi complessivi coi quali solo , se
giunge a impossessarsene, può il politico a suo senno
governarla. La somma di tutte insieme le cagioni
cospiranti al perfezionamento delle società, e la somma
217
di tutte le cagioni che mettono ostacolo a questo
perfezionamento, sono le due forze sommarie di cui
si tratta; per cui tutta l'arte del governo non può
finalmente avere altro scopo, che di accrescere quanto
più le sia possibile la prima forza , e diminuire la
seconda (cap. IX).
Gli elementi poi di queste due forze sommarie
sono :
1." Lo spirito umano, dal quale in ultima ana-
» lisi promana sempre l'azione, per la quale chicche-
» sia può operare a favore o a danno della società, e
» nel quale solamente esiste, dirò così, l'unità collet-
» tiva che dà esistenza alla società stessa.
)) 2." Le cose agli uomini desiderabili (ricchezze
» potenza ecc.) e le loro contrarie, le quali sono ma-
» teria, che informata dall'energia dello spirito umano
» diventa istromento di forza.
» 3." L' oggetto della forza, cioè l'organismo e
« compaginamento sociale, che è ciò sopra cui final-
)) mente qualsiasi forza esercita la sua operazione.
Perciò a fare che la società sussista :
)) Bisogna , che poste in collisione e distrutte
)) scambievolmente tutte le contrarie volontà dei
» membri sociali, ne resti pure una soprasussistente
» in favore della società stessa che si possa dire (ap-
)) punto perchè sovrasta) volontà del corpo sociale.
)) Bisogna, che tutte le cose , le quali hanno
» presso l'uomo opinione di bene e di male, e che
» perciò influiscono nella volontà e nelle azioni
» del corpo sociale , distrutte tutte le particolari
» azioni contrarie, agiscano con un' azione sopra-
» stante in questa volontà sociale , e la inchinino
218
)) favorevolmente al bene della società , e insieme
» la rendano atta ad operaie con effetto all'esterno.
)) Bisogna finalmente, che queste cose, le quali
« mediante l'energia dello spirito, operano su lo stes-
» so corpo sociale, e che sono il mezzo fra lo spirito
» dell'individuo e la società, esercitino un'azione fa-
» vorevole anziché sfavorevole alla sua esistenza, o
» in altri termini, che migliorino anziché peggiorino
» la costìluzione dello stato (cap. XIII).
Da questi tre elementi delle forze sommane tras-
sero origitie tre modi di trattare la politica scienza.
Molti autori avendo esclusivamente considerato
l'importanza, che il corpo sociale abbia quella che
noi chiamiamo una volontà positiva favorevole, si ap-
plicarono principalmente ad insegnare il modo di
dirigere la pubblica opinione; e appartengono a que-
sta classe i politici moralisti d'ogni genere.
Vi ebbero degli altri, che non dando troppo peso
direttamente alla forza di opinare, fermarono la loro
attenzione esclusivamente sopra tutto quello che è
esterno all'uomo, e furono principalmente solleciti
di trattare quanto s' appartiene alle ricchezze, alle
industrie meccaniche: spettano a questa classe i po-
litici-economisti.
Finalmente vi furono degli altri, che non conside-
rarono se non come argomenti accessori alla politica
scienza {"opinione e i beni esterni, dandosi ad esami-
nare con preferenza l'organismo stesso della macchi-
na sociale, l'equilibrio de' diversi poteri che la com-
pongono, la forza interna che ne risulta dalla varia
loro composizione; e a questi si dà il nome di po-
litici in senso stretto.
219
Ma dopo quello che noi dicemmo, non può es-
ser difficile accorgersi , che la scienza sociale non
sarà giammai completa , fino a che gli scrittori
si fermino a considerare con ingiusta parzialità
una di queste tre grandi parti , trascurando di
volgere la loro attenzione sopra le altre due , e
fino a che non considereranno quelle parti non pur
prese separatamente l'una dall'altra, ma ben anco
tutte e tre insieme ne' loro rapporti, nella loro unità
di fatto (cap. XIV).
E nello sviluppare quest'asserzione si giunge a
stabilire per conseguenza, che tutta la scienza del
governare non è altro che un continuo problema dei
massimi e dei minimi^ in cui sempre si cerca di rin-
venire qual sia il massimo bene risidtante da un me-
scolamento di beni e di mali crescenti e decrescenti
con certe leggi (cap. XV).
Ora qui cercasi se ne' diversi stali della società
vi abbia qualche forza speciale prevalente sopra le
altre: di maniera che basti tener conto di essa^ per-
chè la società sia salva; eziandioché si trascurino le
altre, come infinitamente piccole rispetto a quella: ed
essendovi questa forza {dove giace per conseguente la
sostanza), se ella sia sempre la medesima, o se cangi
per così dire di luogo , secondochè la società stessa
cangia di stato.
E si mostra che questa forza vi ha, e che muta
progressivamente di luogo col fatto del maggior urto,
che abbia mai sofferto la società civile in Europa:
e fu quello del secolo scorso, a cui in gran parte
assomigliasi l'età nostra- Nel quale si cominciò dal
riporre il fondamento e la guarentigia dell' umana
220
società nella forza, indi si passò a riporlo nell'av-
vedimenlo, finalmente si progredì a riporlo ne'/jrm-
c?p/7 della giustizia e della cristiana religione. E os-
servando come in questa maniera si è continuamente
passato da una forza meno solida ad una più so-
lida , da una men vera ad una più vera , da una
più esterna ad una più interna , si conchiude che
vi ha un quarto grado o termine, a cui fa d' uopo
che si avvicini irrepugnabilmente lo stato dell'uma-
nità: venir cioè, secondo la dottrina della giustizia,
da un diritto esterno e parziale ad un diritto per-
fetto, eh' è quanto dire, dal diritto alla morale presa
in tutta la sua estensione ; venire a riporre nella
\irtù praticata senza limitazione la suprema forza
sociale; e nello stesso cristianesimo ricercare final-
mente ciò che vi ha di più rilevante, di più com-
pito e più intimo per istabilirvi profondamente la
tranquillità e il buono stato de' popoli. E questo
che sarà mai ? Sarà, non se ne dubiti, un ridursi
al cattolicismo: sì al cattolicismo. Si troverà ulti-
mamente, questo solo aver fermezza : questo solo
essere una potenza assoluta, perchè questo solo è
una religione veramente completa, perchè divina ;
questo solo aver un capo indipendente e supremo
nell'esercizio del suo ministero, e che posto da Dio
medesimo al reggimento della chiesa da sé stabi-
lita, non può mai deviare dal sentiero della verità
e della giustizia nel guidare le anime a quel ter-
mine felicissimo, per cui furono unicamente collo-
cate su questa terra.
221
Alcuni sonetti inediti di Malatesta Malatesli signore
di Pesaro^ di Domenico da Prato , e di Bernardo
Tasso pubblicati a Pesaro per nozze.
i^ì dee la pubblicazione, di queste rime alle cure
dell' egregio sig. professore Giuliano Vanzolini pe-
sarese. Noi ne orniamo il nostro giornale, perchè
le cose stampate per nozze, oltreché pervengono alla
notizia di pochi, sogliono facilmente andare disperse.
Sonetti
di Malatesta Malatesti.
I.
AlV imperalor Sigismondo .
Invittissimo re, Cesar novello,
Principe glorioso, ìnclito, augusto,
Io sono Italia che nel capo e busto
Pili tempo lacerata a te m' appello.
Tu se' il mio prolettor, tu sol sei quello
Magnanimo signor, verace e giusto,
Che porgerai la man, la corda e '1 fusto
Al vero amico, e punirai il ribello.
Vien, dolce padre: col favor di sopre
Difendimi da tanti vari artigli :
Tu mi sei scudo, la via, esemplo e norma.
222
Trammi del sen le parti, aquile e gigli,
E con l'usate tue magnifich' opre
Riddu' (1) sotto un pastor l'errante torma.
II.
Risposta di ser Domenico da Prato ad Italia
in voce dello imperatore Sigismondo.
Ausonia mia, in cui di Dio l'uccello
Fermò la sedia al processor robusto.
Da cui l'eccelso cognome venusto
Assunto è da ciascun successor d'elio.
Prezioso monil, preclaro ostello,
Di ciascuna virtù soave gusto,
Ecco al tuo proclamar venir m' aggiusto
Con pace a darli il sposereccio anello.
Non prima Febo l'ariete copre,
Che ovante fia lo advento ai cari figli
Di me: ne già parrà mia spada dorma
Ai proditor tiranni: e poi che pigli
Per dìvin moto conviensi, e che sopre
L' ovil d'un ver pastor l'unica forma.
III.
Del medesimo Malatesta.
Tu hai ridotto. Cesar valoroso.
Sotto un pastor l'erranti pecorelle;
(1) Cioè riduci.
223
Tu hai mostrato all'alme lapinelle
La via di veiitade e di riposo.
Quanto merito arai, sir grazioso,
Di trarre opere tue leggiadre e belle
In ciel fra quelle rilucenti stelle
Che vivon nello Specchio glorioso !
Espugna, signor mio pien di ragione,
Gli eretici che la Boemia guasta,
Sì che sempre a tua lode accresca fama.
Poi ti scongiuro per questa passione
Che Dio portò per noi su la santa asta.
Visita Italia mia che tanto t'ama.
Sonelli
di Bernardo Tasso
I.
Né perchè mille lumi a paro a paro
Alzino al ciel le pure fiamme intorno
AUor che 'I tauro il dì porta col corno
Di splendor coronato altero e raro,
Rendeno il sol più rilucente e chiaro,
Anz' ei del proprio suo bel lume adorno
Rende or men bello, ed or più vago il giorno,
Com'è di quello a noi largo ed avaro :
Né per che scrittor mille accorti e saggi
Cerchìn più ardente far la gloria vostra
Crescon de la sua luce una favilla :
Anz' ella co' suoi vaghi aurati raggi
Alluma il mondo oscuro e l'età nostra :
A grado sì perfetto il ciel sortilla !
,224
11.
Candida luna, che vagando intorno
Per l'ampio elei fra tante vaghe stelle,
E coronata di rose novelle
Porti sempre negli occhi un lieto giorno;
Ed or rotonda, or col gelato corno
Mostri le guance colorite e belle,
E vai mirando in queste parti e in quelle
Il dolce degli amanti alto soggiorno ;
Quante volte dal elei tranquilla e lieta
Cor mi vedesti del giardin d'amore
Or vaghi fiori, or pallide viole !
Onde ridendo e con la faccia lieta
Dicevi a Endimion, anzi al tuo core :
Cosi raro piacer non vede il sole !
111.
Per la presa di Tunisi falla da Carlo V,
alla quale egli trovassi presente
in qualità di segretario del principe Sanseverino.
Ecco che a laureo giogo un' altra volta
Ti lega il sacro imperador romano ;
E tu vinta ed umil gli dai la mano.
Affrica piij che mai bugiarda e stolta.
Dianzi giacesti, or rimarrai sepolta,
E chiederai al ciel mercede invano,
Ch' altri dal nome tuo detto Affricano
La chioma s' ha de le tue glorie avvolta.
. 225
Svegliati, sonnacchiosa, e volgi gli occhi,
Che scorser tanto ne l'etate antica,
Al ben che Carlo si discopre e mostra.
Così di Cristo e di sua fede amica
Averai parte de la gloria nostra,
Né fia eh' altrui poter mai ti trabocchi.
G.A.T.CLXVI. 15
226
VARIETÀ'
Regola del governo di cura familiare compilata dal
beato Giovanni Dominici fiorentino dell'ordine dei
predicatori. Testo di lingua dato in luce ed il-
lustralo con note dal prof. Donato Salvi accade-
mico della crusca. - 8." Firenze presso Angiolo
Garinei libraio 1860. [Sono carte CLX e 258,
col ritratto del B. Giovanni.)
» È un' operetta breve (dice nella prelazione il
)) chiarissimo editore ed illustratore) ; ma, se ben
)) si stima, la piccolezza del suo volume vien lar-
)) gamente compensata dall'importanza del soggetto,
)) dalla molla dottrina che v' è racchiusa, dalla pu-
» rilà e facondia del dettato. E citata nel vocabo-
)) lario sotto il titolo di Trattato del governo della
)) famiglia. Primi a citarla furono gli accademici
1) della seconda impressione: i quali ne raccolsero
» copiosa messe di buoni vocaboli e modi di dire,
» valendosi di un testo a penna che apparteneva a
» monsignor Dini, e che ora si conserva nella li-
» breria Magliabechi. Agli esempi da essi recati ,
» altri ne aggiunsero i compilatori della quarta, to-
» gliendoli da un codice di casa Venturi , presen-
« temente della marchesa Ginori. Questi codici sono
» ambedue anonimi: ed ecco perchè l'antica scrit-
« tura, alla quale accenna la Csusca colla sigla Tratt.
» Gol'. Fam., fu sempre notata fra i libri d'inco-
» unito autore. »
227
« E pure (aggiunge altrove) un libro essenzial-
» mente spirituale, come son tutti gli altri del no-
» stro autore: avvegnaché dalla natura stessa del-
» l'argomento e' sia talvolta condotto a dover ra-
» gionare di cose mondane, e di affari attenenti alla
» vita civile. Ma il fondamento d'ogni regola, d'ogni
» ammonizione, sta in questo principio: Tulio ciò
» che l'uomo ha, gli viene da Dio, e a Dio deve
» rendere. Le potenze dell'anima, i sentimenti del
)) corpo, debbono adoperarsi a gloria del Creatore
» e nell'osservanza della legge divina: col medesimo
» intento si vuol far uso de' beni temporali, allevare
» e costumare i figliuoli. Si divide in quattro parti,
» quante sono le dimando, alle quali intende rispon-
» dere: insegnano le prime due come convenga go-
» vernar se medesimo: la terza e la quarta prescrivon
» norme a ben dirigere la famiglia. »
Giovanni Dominici domenicano fu de' pili santi
e celebri personaggi, che vissero fra il 1356, in cui
nacque in Firenze di poveri artigiani, e il 1420 in
cui morì a Buda. Il pontefice Gregorio XII lo elesse
prima arcivescovo di Ragusi, poi cardinale nel con-
cistoro dei 21 d'aprile 1408: talché poi si chiamò
il cardinal di Ragusi. Notissime nella storia civile
ed ecclesiastica sono le varie sue legazioni, e prin-
cipalmente le varie cose che operò per la pace della
chiesa nel concilio di Costanza. Il culto di beato ,
rendutogli da' popoli per ben quattro secoli, fu con-
fermato da Gregorio XVI con solenne decreto dei 9
di aprile 1832.
Degna in tutto del nome dell' illustre ed ono-
rando sig. prof. Salvi è la pubblicazione di questa
228
opera, che da tanto tempo gli amatori del bell'idioma
attendevano: avendo egli mostrato nuovamente al-
l' Italia la rara sua dottrina e sagacità sia nell'ele-
gante prefazione, sia nelle illustrazioni importantis-
sime d'ogni genere, delle quali certo si gioveranno
con assai prò, quanto alla lingua, i compilatori del
nuovo vocabolario della crusca.
La Matilde di Dante Alighieri indicala dal dott. An-
tonio Luhin prof, straord. di lingua e letteratura
italiana nelV I. R. università di Graz. - 8."
Graz 1860, coi tipi di Giuseppe A. Kienreich.
(Sono carte 84).
Pretende il sig. Lubin in questa erudita operetta
render probabile, che Matelda della Divina Comme-
dia sia la Matilde vergine, monaca benedettina del
monastero di Helpede presso Eisleben, nella Sasso-
nia prussiana , morta intorno al 1292. Noi persi-
steremo sempre a seguir la sentenza di tutti gli an-
tichi comentalori, i quali in essa riconobbero la piìs-
sima contessa Matilde di Toscana , cioè la Matilde
per eccellenza in Italia, e sì famosa in tutti gli scrit-
tori del medio evo.
229
Compendio storico del pontificio e singolare ordine del
Moretto accordato da Pio VII ai presidenti del-
Vaccademia di belle arti denominata di san Liica^
del cav. Ercolano conte Caddi Herculani socio
di varie accademie letterarie italiane e stranie-
re. - 4. Roma a spese dell- autore 1860. {Sono
carte 19 con due tavole colorate).
L'accademia romana di san Luca, principalissima
fra le italiane delle belle arti, e forse fra le euro-
pee, fu sempre d' insigni privilegi meritamente de-
corata da' sommi pontefici: fra' quali Pio VJI insti-
tuì un ordine cavalleresco in onore de' presidenti ed
ex-presidenti. L'egregio sig. conte Caddi Hercolani
ha qui con bella erudizione trattato sì dall'accademia
e sì dell'ordine suddetto: intitolando l'operetta sua
al celebre architetto e professore signor commen-
datore Luigi Poletti presidente onorario perpetuo
dell'accademia.
Memorie storiche-monumentali-artistiche del tempio
di san Francesco in Ferrara, di Luigi ISapoleone
Cittadella ferrarese. 8.° Ferrara tipografia di Do-
menico Taddei 1860. (Sono carte 83).
È lavoro di non lieve importanza per la storia
civile, ecclesiastica ed artistica della città di Ferrara:
e vuoisene dar lode al valente autore così tenero
d'illustrare ogni gloria della sua patria.
230
Le tombe cristiane, canto di Pierluigi Bruni roma-
no 8." Roma 1860, Stabilimento tipografico Au-
reli e C. - (Sono carte 52).
Facciamo plauso a questo giovane romano , il
quale seguendo le nobili orme del già suo zio chia-
rissimo Luigi Biondi, intende a rendere la poesia,
qual esser debbe, maestra di civiltà e di religione.
Molte belle cose Irovansi nel suo canto in ottava
rima , inspirato dalla lettura de' padri e de' poeti
sacri così latini come italiani, e principalmente dal-
l'Alighieri.
INDICE
Sorgoni, Sulla febbre considerata in sé stessa ec.
(Continuazione e fine) pag. 3
Secchi, Relazione delle osservazioni falle in Spa-
gna durante /' ecclisse solare del 18 lu-
glio 1860. (Con rame) » 53
De Rossi, Delle lodi di Bartolomeo Borghesi. » 122
Canettoli, Intorno a due casi clinici di medicina
operatoria » 139
Maggiorani, Sull'origine dell'acidità di alcuni pro-
dotti morbosi » 154
Pianciaìii, Dichiarazione del salmo CHI intorno
aW Esamerone Mosaico » 161
Conestabile, Novità e varietà di etrusche antica-
glie » 183
Barolo, Sopra un'opera del Rosmini intitolata:
Delia sommaria cagione per la quale stan-
no 0 rovinano le umane società . . » 206
Sonetti inediti di Malatesta Malatesti, di Dome-
nico da Prato e di Bernardo Tasso . «221
Varietà. . . . » 226
IMPRIMATUR
Fr. Hieronymus Gigli Ord. Praed. S. P. Ap. Mag.
IMPRIMATUR
Fr. Ant. Ligi Archiep. Icon. Vicesgerens
8J.UG-L10 1860,
-"^^PP.BSSO IL POSTE
APPARBINZF, MLL'ECCI.ISSE SOLARE TOTALE DEL Is. LUGLIO 1?.m)
OBSKRAaTE IN SPAGNA AL DBSIERTO DK LAS PALMAS'.
Nel giornale si dà il sunto, o viene inse-
rito l'annunzio, delle opere presentate in dop-
pio esemplare alia Direzione. Esse debbono
essere inviate franche d'ogni spesa di porto
e dazio.
^S
Le notizie di scienze, di lettere, e di belle
arti, quelle di scoperte utili per 1' agricol-
tura, industria ec, come anche i programmi dei
concorsi accademici, dovranno similmente es-
ser mandati franchi di posta alla Direzione.
Chi si associa per dieci copie, o ne garan-
tisce la vendita, avrà l'undecima gratis.
(\^