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Full text of "Giornale Arcadico di Scienze / Lettere ed Arti"

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GIORNALE    ^ 


DI  SCIENZE,  LETTERE  ED  ARTI 

TOMO  XVII 
DELLA  NUOVA  SERIE 


ROMA 
TipograGa  delle  Belle  Arti 

1860 

Piazza  Poli  num.  91  dentro  il  Palazzo. 


^.n^^ 


GIORNALE 


DI 

SCIENZE,  LETTERE  ED  ARTI 

TOMO  CLXIII 

DELLA    NUOVA    SERIE 

XVII 

SETTEMBRE  E  OTTOBRE 
1859 


ROMA 

TIPOGRAFIA    DELLE    BELLE    ARTI 
1860 


Amputazione  parziale  della  mascella  inferiore  ed  al- 
lacciatura delV  arteria  femorale  eseguite  da  Ales- 
sandro Ceccarelli  dotlove  in  medicina ,  e  laureato 
ad  honorem  in  chirurgia. 

AMPUTAZIONE    PARZIALE    DELLA    MASCELLA 
INFERIORE. 


iV.  F.,  uoino  malsano  su  i  Irenlacinque  anni  circa, 
contrasse  già  son  dieci  anni  delle  ulceri  veneree,  le 
quali  non  curate  sì  per  difetto  di  mezzi,  e  sì  per  ne- 
gligenza dell'  infermo  stesso,  non  sanaronsi  se  non 
dopo  lungo  tempo  spontaneamente,  o  con  qualche 
indiretto  e  semplicissimo  rimedio  a  cui  pur  talora 
si  ebbe  ricorso.  Scomparse  però  le  ulceri  e  cessata 
ogni  sensazione  molesta,  credette  l' infermo  di  essere 
tornato  in  perfetta  salute.  Se  non  che  trascorsi  così 
molti  mesi,  ecco  tornare  di  nuovo  a  manifestarsi  il 
male  in  più  rea  forma  con  ulcerazioni  alle  fauci. 
Le  cagioni  che  avean  fatto  trascurare  la  malattia 
primitiva  fecero  altresì  che  malcurate  fossero  le  con- 
seguenze della  medesima.  Cominciarono  quindi  do- 
lori osteocopì  a  tormentare  1'  infermo  ,  il  quale  fu 
costretto  però  a  giacere  pili  mesi  in  letto:  e  ciò  gli 
valse  perchè,  sentendo  il  danno  della  sua  passata  tra- 
scuratezza, si  sottoponesse  ad  una  cura,  la  quale  per 
allora  lo  fece  risorgere.  Fu  nondimeno  continuata 
questa  per  troppo  breve  tempo:  ne  si  tosto  fece  tre- 
gua il  male,  che  1'  infermo  caduto  nuovamente  nel- 


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l'errore  di  credersi  completamente  guarito  abban- 
donò affatto  ogni  metodo  terapeutico.  Non  molto  ap- 
presso toi'nò  a  divenir  cagionevole,  avvicendandosi  in 
lui  ora  la  infermità,  ora  il  miglioramento.  Lo  stesso 
principio  morboso  peraltro  sotto  varie  forme  inva- 
deva sempre  più  il  generale  organismo.  Nello  spazio 
di  dieci  anni  segnalaronsi  nel  nostro  infermo  tutti 
gli  stadi  della  sifìlide  costituzionale;  così  il  reuma 
sifilitico,  la  cefalea,  la  sifìlide  pustolosa,  la  perio- 
stosi,  e  finalmente  l'osteite  e  la  carie- 
Mentre  per  lo  innanzi  trascurato  ed  insieme  ani- 
moso avea  sostenuto  tutti  i  mali  accennati  senza  as- 
sistenza veruna  dell'arte  salutare,  seguendo  soltanto 
i  suggerimenti  quando  di  una  quando  di  altra  per- 
sona in  cui  si  avvenisse  per  consiglio,  non  potè  non 
ricorrere,  sebbene  tardi  nell'osteite,  ai  soccorsi  della 
chirurgia.  Un  gonfiore,  accompagnato  da  profondo  ma 
sopportabil  dolore,  si  manifestò  nel  mese  dì  luglio 
del  passato  anno  in  corrispondenza  del  corpo  della 
mascella  inferiore, estendendosi  ancora  verso  la  bran- 
ca orizzontale  destra  di  detto  osso.  Questa  regione 
in  apparenza  leggermente  malata  divenne  i-apidamente 
sede  di  un  intenso  processo  flogistico,  perchè  cre- 
sciuto il  gonfiore  mostruosamente,  passò  alla  sup- 
purazione. Dato  esito  per  mano  chirurgica  a  tale  rac- 
colta di  marcia,  si  ottenne  un  alleviamento  al  do- 
lore, ed  il  gonfiore  diminuì.  Peraltro  la  suppurazione 
si  fece  cancrenosa  ,  la  muccosa  buccale  distaccata 
dalle  facce  alveolari  dei  denti  anteriori  lasciò  libera 
via  all'  infiltramento  delle  materie  ti'a  l'osso  e  le  parti 
molli,  con  erosione  anche  del  frenulo.  Caddero  in  se- 
guito i  denti  incisivi,  e  restarono  mobilissimi  ne'  loro 


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alveoli  il  canino,  ed  il  primo  molare  destro.  Le  tra- 
fitture nella  località  facevansi  di  giorno  in  giorno  e 
pili  vive  e  pili  spesse-  E  sebbene  materie  sottili  e 
fetidissime  abbondantemente  fluissero  dall'  apertura 
parallela  al  dente  canino,  praticata  in  corrispondenza 
del  margine  inferiore  della  mascella  di  sotto,  il  gon- 
fiore tuttavia  estendevasi  non  solo  nel  lato  destro 
fino  a  guadagnare  l'angolo  della  mascella,  ma  inva- 
deva eziandio  la  branca  oi'izzontale  sinistra  fino  al- 
lora rimasta  sana.  Oltre  a  tali  sconcerti  si  aggiun- 
geva ancora  V  impossibilità  di  masticare,  la  difficoltà 
di  deglutire,  il  parlare  impedito,  una  cefalea  conti- 
nua ,  ed  intensissime  febbri.  Con  tutta  l'atrocità  di 
così  vivi  patimenti  era  costretto  nondimeno  l'infer- 
mo recarsi  alla  casa  di  qualche  chirurgo  che  pieto- 
samente lo  medicasse,  non  volendo  egli  per  ragioni 
sue  proprie  lasciar  la  famiglia,  ed  entrai-e  in  un  ospe- 
dale. Venuta  a  cognizione  di  ciò  la  conferenza  di  S. 
Vincenzo  de'  Paoli  in  s.  Maria  della  Pace,  mi  avvertì 
che  dovessi  assistere  questo  infelice,  avendo  essa  dei 
soci  che  esclusivamente  si  dedicano  alla  cura  degli 
infermi. 

Recatomi  immantinente  presso  di  lui,  rinvenni 
i  guasti  che  sopra  accennai,  aumentati  da  altra  rac- 
colta purulenta  sulla  branca  orizzontale  sinistra,  cui 
subito  diedi  esito  con  ordinaria  apertura.  Intiodotlo 
quindi  uno  specillo  per  conoscere  direttamente  lo 
stato  dell'  osso  ,  mi  accertai  essere  esso  denudato 
per  lungo  tratto  del  suo  periostio  tanto  sul  destro, 
come  sul  sinistro  lato.  Una  medicatura  emolliente  e 
detersiva  continuata  per  più  giorni  fece  sgorgare  quei 
tessuti  infiltrati,  per  cui  cedette  in  parte  e  il  gon- 


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fiore  e  il  dolore.  La  cefalea  peraltro  rimaneva  co- 
stante, e  trascorreano  insonni  all'infermo  le  intere 
notti.  Frattanto  raccurato  esame  anamnestico,  che 
giornalmente  io  ripeteva,  non  mi  faceva  più  dubi- 
tare sulla  natura  del  male.  Reso  certo  però  trattarsi 
di  osteite  celtica,  credei  opportuno  di  instituire  im- 
mediatamente una  cura  interna  antivenerea  atta  a 
moderare  quei  guasti  che  minacciavano  ulteriori 
progressi. 

Secondo  le  viste  de'  più  moderni  sifilografi  sot- 
toposi l'infermo  all'uso  contemporaneo  dello  ioduro 
di  potassio,  e  del  sublimato,  amministrando  inter- 
namente il  primo  ed  usando  all'esterno  il  secondo. 
La  località  malata  veniva  più  volte  nel  giorno  de- 
tersa per  mezzo  d'iniezioni,  e  si  focilitava  ancora  la 
detumefazione  delle  parti  molli  e  lo  scolo  delle  ma- 
terie per  l'azione  continuata  di  un  erupiastio  emol- 
liente- Le  forze  dell'infermo  di  già  affievolite  e  per 
gli  spasimi  da  lungo  tempo  sofferti,  e  per  le  notevoli 
suppurazioni  ,  e  per  la  somma  scarsezza  e  cattiva 
qualità  del  nutrimento  ,  si  presero  a  ristorare  con 
dei  tonici  ed  amaricanti.  Tenendo  questo  governo, 
trascorsero  appena  dodici  giorni,  che  ebbe  a  notarsi 
sensibile  e  manifesto  miglioramento  tanto  nello  stato 
generale,  quanto  nella  parte  più  attaccata  dal  male. 
Finirono  le  febbri  ,  cessò  la  cefalea  ,  si  rialzarono 
leggermente  le  forze,  ed  il  gonfiore  esteso  ad  ambe 
le  branche  orizzontali  della  mascella  di  sotto  scom- 
parve ,  lasciando  soltanto  ingorgale  le  ghiandole 
sotto-mascellari.  Con  tutta  fiducia  si  insisteva  coll'e- 
nunciato  metodo  di  cura  ,  quando  un  disordine  di 
dieta  commesso  dall'infermo   dette  sviluppo  imme- 


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dialo  ad  intensissima  febbre,  e  a  nuovo  ingorgo  delle 
parti  molli  nella  regione  mentale  anteriore,  che  nei 
breve  spazio  di  dodici  ore  con  i  più  vivi  e  lanci- 
nanti dolori  volse  a  suppurazione,  e  spotaneamenle 
si  aprì.  Sospeso  per  tale  incidente  il  trattamento  an- 
tivenereo, si  prese  cura  del  gastricismo  e  della  re- 
crudescenza flogistica  al  mento-  Percorse  l'affezione 
gastrica  nella  forma  ordinaria  un  periodo  di  sette 
giorni:  e  come  ebbe  ceduto,  fu  ripreso  di  nuovo  il 
trattamento  antivenereo.  Frattanto  lo  specillamento 
praticato  sì  in  ciascun  dei  tre  fori  esteriori,  sì  anche 
nell'interno  della  bocca,  facea  conoscere  essere  l'osso 
ben  guasto  in  tutta  la  sua  tessitura,  poiché  vi  re- 
stava sempre  impegnato  lo  specillo  in  varie  cavità 
dell'  osso  stesso  ,  senza  però  che  potesse  mai  farsi 
passare  da  un  foro  all'  altro  malgrado  ogni  usatavi 
diligenza.  Le  iniezioni  peraltro  mostravano  esservi 
certa  comunicazione  di  tutti  i  fori  tra  loro.  Non 
potendo  io  dubitare  per  tali  segni  che  guasto  non 
fosse  l'osso  ,  mi  studiava  di  potere  togliere  quelle 
porzioni  che  o  per  lavorio  della  natura  fossero  già 
separate  dalle  sane,  o  che  distaccate  in  parte,  mi 
si  presentassero  airendevoli  alla  presa  di  una  pin- 
zetta, o  di  altro  adatto  istromento.  Con  tali  manovre 
peraltro  non  ebbi  che  una  limitata  porzione  di  alveolo 
corrispondente  al  primo  dente  incisivo  destro;  però 
mi  avvidi,  nel  provare  se  tutta  la  porzione  malata 
soffrisse  mobilità,  che  il  margine  inferiore  di  questo 
osso  offeriva  una  superficie  doppia  dell'ordinario,  e 
che  forte  resisteva  a  qualunque  comunicatogli  mo- 
vimento. Le  tre  piaghe  prodotte  dalle  anzidette  aper- 
ture si  facevano  piiì  grandi;  il  loro  aspetto  deter- 


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l'iorava  giornalmente,  e  sebbene  più  volte   replicate 
fossero  nelle  ventiquattro  ore  le  medicature  ,  pure 
lo  scolo  continuo  delle  materie  icorose  alterava  sem- 
pre più  i  circostanti  tessuti  molli. 

Per  la  cura  interna  si  era  di  già  ottenuto  un 
notevole  miglioramento  in  generale  ;  il  malore  lo- 
cale anch'esso  erasi  circoscritto  nei  suoi  limiti,  e  le 
parti  adiacenti  mostravano  non  partecipare  più  al 
guasto  vicino-  Togliere  l'osso  a  porzioni  mi  era  stato 
impossibile  fino  allora,  e  ninno  indizio  mi  si  mo- 
strava che  mi  desse  speranza  di  ciò  potere  indi  a 
breve  tempo;  l'attendere  lungamente  che  la  natura 
operasse  spontanea  la  separazione  dell'osso  malato 
sarebbe  stato  cattivo  consiglio  ,  perchè  dava  luogo 
al  guasto  progressivo  delle  parli  molli,  all'ulteriore 
emaciamento  del  malato  per  le  continue  suppura- 
zioni, ed  al  progressivo  morale  abbattimento  per  lo 
indefinito  prolungarsi,  in  mezzo  a  tante  miserie  di 
una  infermità  sì  schifosa.  Mi  risolsi  pertanto  col  pieno 
assenso  ,  anzi  con  espressa  richiesta  dell'  infermo 
stesso,  di  appigliarmi  al  partito  di  fare  la  resezione 
della  porzione  malata. 

Ad  eseguire  tale  operazione  mi  si  presentarono 
primi  alla  mente  ed  il  metodo  del  Signoroni  ,  ed 
il  processo  del  Dupuytren. 

Il  metodo  sottocutaneo  del  Signoroni  lusingò  da 
prima  le  mie  vedute  per  rapporto  alla  sua  applica- 
zione, trattandosi  del  corpo  della  mascella  su  cui  fa- 
cilmente poteano  adoperarsi  le  cesoie  ossivore  dello 
stesso  autore*  Considerai  nondimeno,  secondo  quanto 
molto  saviamente  era  stato  pubblicato  in  casi  con- 
simili dai  chiarissimi  professori  Malagodi  e  Baroni, 


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che  l'individuo  da  operarsi  essendo  di  piiì  che  me- 
diocre statura  presentava  uno  scheletro  molto  pro- 
nunciato: che  la  parte,  su  cui  dovea  eseguirsi  l'ope- 
razione, avea  sofferto  precedente  e  lunga  flogosi:  che 
lo  spessore  della  porzione  d'osso  da  doversi  aspor- 
tare essendo  molto  aumentato,  facea  temere  di  mag- 
giore aumento  anche  sulle  parti  ove  doveano  ca- 
dere i  tagli:  che  difficile  dovea  riuscire  il  distacco  delle 
parti  molli  dalla  sinfisi  mentale,  perchè  in  quel  punto 
aveano  acquistato  considerevol  durezza:  e  finalmente  - 
che  dovea  molto  temersi  l'emorragia,  non  ostante  che 
rilevanti  arterie  non  potessero  venire  offese,  per  la 
ragione  che  anche  le  piccole  aveano  acquistato  lume 
maggiore,  e  nel  distacco  dei  muscoli  genio-glossì  e 
genio-ioidi  si  sarebbero  troncati  i  rami  dell'arteria 
linguale,  le  cui  estremità  non  sarebbero  state  così 
facilmente  accessibili  alla  legatura. 

Tali  considerazioni  fecero  che  non  mi  attenessi  al 
metodo  del  Signoroni:  sebbene,  come  già  dissi,  la 
sua  applicazione  in  questo  caso  sembrasse  a  prima 
vista  molto  indicata. 

Preso  dunque  a  considerare  il  processo  del  Du- 
puytren,  adoperato  dal  medesimo  la  prima  volta 
nel  1812  per  la  resezione  del  corpo  della  mascella 
di  sotto,  riflettei  che  il  taglio  mediano  che  avessi 
praticato  sulle  parti  molli  della  regione  mentale  , 
oltre  che  mi  cadeva  precisamente  sopra  una  delle 
ulcerazioni  di  già  esistenti,  non  mi  facea  certo  dopo 
dissecati  i  lembi  di  poter  raggiungere  facilmente 
con  la  sega  Tosso  sano  :  poiché  lo  specillo  diretto 
obliquamente  nell'osso  penetrava  nella  di  lui  sostanza 
così  a  destra  come  a  sinistra  per  molte  linee,  senza 


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darmi  positiva  certezza  sul  limite  del  male  a  causa 
delle  varie  sinuosità  che  esistevano  nell'osso  stesso. 
Ora  se  dopo  dissecati  i  lembi  mi  si  fosse  mostrato 
l'osso  da  doversi  segare  al  di  là  della  dissezione  già 
eseguila,  avrei  allora  dovuto  dare  una  figura  crociala 
alla  prima  incisione  praticando  lateralmente  due  al- 
tri tagli  lungo  il  margine  inferiore  della  mascella 
stessa,  i  quali  parimenti  cadendo  o  sopra  le  due  ul- 
cerazioni preesistenti,  o  in  molta  loro  prossimità,  mi 
avrebbero  impedito  in  seguito  una  regolare  sutura, 
e  mi  avrebbero  difficoltato  la  riunione  di  prima  in- 
tenzione. Per  tali  riflessioni,  affine  di  pormi  più  che 
fosse  possibile  in  sicuro  contro  qualunque  compli- 
cazione, e  di  rendermi  più  facile  la  sezione  dell'osso 
a  qualunque  altezza  lo  trovassi  malato  ,  divisai  di 
portare  le  incisioni  su  parli  del  tutto  sane. 

Ciò  stabilito  ,  dopo  avere  il  giorno  23  novem- 
bre 1859  amministrato  un  purgante  all'  infermo  , 
procedetti  il  giorno  appresso  alla  operazione  nel  se- 
guente modo,  assistito  dai  signori  dottori  Lamberti 
e  Panegrossi,  ed  alla  presenza  di  altri  estranei  alla 
professione. 

Posto  r  infermo  a  sedere  di  contro  alla  luce  colla 
testa  appoggiata  sul  petto  di  un  assistente,  e  fatto- 
gli aprire  la  bocca,  strinsi  con  la  mia  mano  sinistra 
il  labbro  superiore  in  vicinanza  del  suo  angolo  de- 
stro, mentre  un  assistente  preso  il  labbro  inferiore 
nella  sua  medielà  me  lo  rendeva  egualmente  teso. 
Quindi  con  coltellino  a  taglio  convesso  a  tre  linee 
circa  lontano  dell'angolo  delle  labbra  cominciai  un'  in- 
cisione, che  diretta  obliquamente  all'  infuori  e  portata 
lungo  il  cammino  delle  fibre  del  muscolo  triango- 


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lare,  la  terminai  qualche  linea  al  disotto  del  mar- 
gino inferiore  dell'ossg  mascellare  in  corrispondenza 
dell'  attacco  del  muscolo  già  nominato.  Divisi  su 
questa  traccia  i  tessuti  molli,  e  legata  l'arteria  la- 
biale inferiore,  praticai  sul  sinistro  lato  con  le  stesse 
norme  altro  taglio  consimile,  il  quale  venne  a  for- 
mare un  lembo  quadrilatero  a  figura  di  trapezio,  la 
cui  parallela  inferiore,  concepita  passare  pei  due  estre- 
mi punti  ove  si  terminarono  le  due  incisioni,  in  tanto 
fu  più  lunga  dell'altra,  in  quanto  dovea  dare  spazio 
a  comprendere  nel  lembo  le  precedenti  ulcerazioni. 
Dissecato  e  rovesciato  questo  lembo,  si  dovettero  al- 
lacciare e  torcere  altri  vasi  arteriosi,  perchè  anche 
i  più  piccoli  davano  ragguardevole  copia  di  sangue. 
Quindi  esplorato  a  tutt'  agio  1'  osso  morboso  sì  nel 
destro  e  sì  nel  sinistro  lato  ,  vidi  che  poteva  pur 
francamente  applicare  la  sega  in  corrispondenza  di 
quei  punti  ove  cadevano  i  primi  tagli  ,  poiché  ivi 
l'osso  era  sano.  Qui  con  coltello  incisivo  staccai  il 
periostio  dall'osso  sì  nel  davanti  come  nella  parte  in- 
terna dell'osso  stesso,  e  quindi  per  mezzo  di  un  ago 
curvo  passalo  a  al  di  dietro  del  lato  sinistro  del  ma- 
scellare la  sega  di  Geffry,  montatone  sul  suo  manu- 
brio l'estremo  superiore,  e  consegnatolo  ad  un  mi- 
nistro, obliquamente  come  nel  taglio  delle  parti  molli 
divisi  l'osso,  facendo  agire  la  sega  in  corrispondenza 
dell'alveolo  del  secondo  dente  molare  di  già  man- 
cante, mentre  la  mano  di  altro  assistente  con  errina 
smussata, e  con  adattate  pezzoline,  mi  guarentiva  dalla 
azione  della  sega  e  il  labbro  superiore,  e  gli  altri 
tessuti  vicini.  Altrettanto  praticai  nel  lato  destro  con 
le  stesse  cautele,  dopo  avere  estratto  il  primo  dente 


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molare,  passando  subito  al  di  dietro  dell'osso  altra 
sega  che  per  maggior  speditezza  era  stata  già  pre- 
parata; ma  in  questo  lato  la  sezione  non  fu  sì  franca 
come  nel  precedente  per  la  maggiore  durezza  che  si 
trovò  avere  l'osso  in  tal  punto.  Troncata  pertanto 
la  porzione  d'osso  malata  d'ambe  le  parti,  mi  fu  fa- 
cilissimo dividerla  dagli  attacchi  interni  dei  muscoli 
genio-glossi,  genio-ioidi,  digastrici,  e  dagli  altri  molli 
tessuti,  che  in  parte  per  le  precedenti  suppurazioni 
erano  già  distaccati.  In  questo  ultimo  tempo  della 
liberazione  dell'osso  dalle  parti  cui  aderiva,  un  assi- 
stente mercè  di  una  spatola  tenne  in  freno  la  lingua, 
la  quale  sebbene  in  tal  modo  raffrenata,  pure  tosto 
che  restò  libera  dagli  attacchi  già  detti  mostrò  non- 
dimeno qualche  tendenza  al  rovesciamento.  L'arteria 
sotto-linguale  troncata  in  queste  incisioni,  ed  inter- 
natasi tra  i  muscoli  in  cui  serpeggiava,  rese  difficile 
la  sua  legatura,  e  diede  notevole  copia  di  sangue; 
fino  a  che  presa  direttamente  la  sua  boccuccia  con 
pinzetta  uncinata,  venne  stretta  con  refe  a  doppio 
nodo.  Legali  quindi  per  precauzione  anche  quei  rami 
arteriosi  che  si  sarebbero  potuti  torcere,  e  nettato 
tutto  con  spugne,  portai  accurato  esame  sulle  super- 
fìcie delle  branche  ossee  segate.  Vidi  esser  necessa- 
ria r  applicazione  della  tanaglia  incisiva  sul  destro 
lato  per  eguagliare  la  superfìcie,  dove  la  durezza  che 
dissi  avea  reso  la  sezione  non  così  netta  e  precisa. 
In  tutto  questo  fare  il  lembo  rovesciato  era  stato 
tenuto  avvolto  in  pezze  imbevute  di  fluido  caldo  per 
mantenervi  sempre  eguale  la  vita.  Assicuratomi  per- 
tanto della  cessazione  dei  moti  retroversivi  della  lin- 
gua, della  emorragia  non  più  valutabile,  e  dello  slato 


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sano  delle  ossa  rimaste,  dopo  aver  tutto  deterso,  e 
diretti  i  fili  delle  legature  negli  angoli  inferiori  dei 
tagli,  riportai  il  lembo  al  suo  luogo  ponendolo  esat- 
tamente a  contatto  dei  margini  corrispondenti  delle 
ferite,  e  praticai  d'ambo  i  lati  la  sutura  a  sopraggitto, 
cominciando  da  un  mezzo  pollice  al  di  sopra  degli 
angoli  inferiori  delle  ferite,  e  per  lasciare  ivi  in  ambe 
le  parli  libero  scolo  alle  consecutive  suppurazioni,  e 
perchè  quando  anche  da  qualsiasi  de'  due  lati  avessi 
voluto  portar  la  sutura  su  tutta  la  estensione  della  fe- 
rita, i  punti  quivi  non  mi  avrebbero  retto  come  troppo 
prossimi  alle  già  indicate  ulcerazioni.  Nell'estremo  su- 
periore poi  dei  tagli,  dopo  aver  fermato  il  refe  con 
cui  avea  praticato  la  sutura,  portai  in  vicinanza  degli 
angoli  della  bocca  in  ciascuna  parte,  con  ago  finis- 
simo e  con  corrispondente  refe,  altro  punto  staccalo, 
il  quale  tenesse  ad  immediato  contatto  l'epitelio  bue- 
cale,  e  favorisse  sempre  piii  la  cicatrizzazione  pri- 
mitiva. Introdotti  poscia  nell'  interno  della  bocca  dei 
piumacciuoli  di  filaccia  affidati  ad  un  filo,  ed  impre- 
gnati d'acqua  emostatica  del  Pagliari  acciò  mi  im- 
pedissero un  soverchio  gemizio  sanguigno,  e  soste- 
nessero il  mento,  terminai  la  medicatura  con  liste- 
relle  di  cerotto  adesivo,  con  pannolino  pertugiato, 
con  delle  filacce,  delle  compresse,  e  con  la  fionda 
del  mento. 

Il  malato  durante  l'operazione  soffrì  due  leggeri 
deliqui,  da  cui  prontamente  si  riebbe  e  coll'odorar 
dell'aceto,  e  con  pochi  cucchiai  di  pozione  cordiale. 
Terminato  così  tutto,  egli  da  se  solo,  ricusando  ogni 
altrui  aiuto,  si  tolse  le  vesti  imbrattate  di  sangue  e 
si   collocò  in  letto. 


u 

Gli  accidenti  che  seguirono  l'operazione  furono  sì 
leggeri,  che  non  meritarono  neppure  un  salasso.  Si 
limitarono  essi  a  moderata  febbre,  a  qualche  diffi- 
coltà nel  deglutire  ,  a  leggero  dolore  di  testa  ,  e  a 
mediocre  gonfiore  della  faccia.  Si  tenne  peraltro  ri- 
goroso regime  dietetico  per  più  giorni.  Al  secondo 
dalla  operazione  si  tolsero  le  filacce  dalla  bocca  so- 
stituendone delle  altre:  ed  al  quarto,  tolto  tutto  l'ap- 
parecchio, ebbi  la  compiacenza  di  vedere  aderite  in 
totalità  le  due  ferite  in  quei  punti  ove  erano  state 
messe  a  contatto  per  la  sutura,  la  quale  al  quinto 
giorno  venne  tolta  del  tutto  perchè  ormai  divenuta 
inutile.  Dagli  angoli  inferiori  delle  ferite  scolarono 
libere  le  marce  commiste  a  saliva. 

Le  medicature  giornaliere  furono  semplicissime  e 
mirarono  in  specie  alla  nettezza  della  parte  malata. 
Al  nono  giorno  cadde  l'ultima  delle  legature,  ossia 
quella  dell'arteria  sotto-linguale;  la  suppurazione  del- 
l' interno  della  bocca  ogni  giorno  si  fece  migliore; 
al  decimo  ottavo  giorno  erasi  cicatrizzato  comple- 
tamente anche  l'angolo  inferiore  sinistro,  e  solo  per 
comodità  degli  interni  lavacri  si  tenne  per  altri  po- 
chi dì  aperto  quello  destro.  Dal  ventesimo  quinto 
al  ventesimo  ottavo  si  distaccò  da  ciascuna  branca 
una  piccola  porzione  d'osso;  dopo  che  le  superficie 
resecate  rapidamente  si  coprirono  di  bottoni  cellu- 
iosi e  vascolari,  ed  ultimarono  così  la  totale  guari- 
gione dell'  infermo. 

Le  branche  della  mascella  rimaste  prive  di  un 
sostegno  anteriore  tendevano  a  ravvicinarsi  tra  loro 
ad  angolo,  e  a  deviare  così  il  parallelismo  dei  denti 
inferiori  con  quei  superiori.  A  tale  inconveniente  ri- 


15 

mediai  coll'applicare  una  sbarra  di  argento  piegata 
a  convessità  anteriore  e  fotta  a  forchetta  nei  suoi 
estremi.  Questa  prendendo  appoggio  sulla  corona  dei 
primi  denti  rimasti  in  sito,  mantenne  il  mutuo  ri- 
scontro delle  arcate  dentarie  ,  fino  a  che  la  natura 
riparatrice  non  supplì  alla  mancanza  della  porzionre 
d'osso  asportata,  con  la  riproduzione  di  altra  sostanza 
affine,  come  suole  osservarsi  nelle  resecazioni  tutte 
del  sistema  osseo.  Trentacinque  giorni  dopo  l'ope- 
razione anche  questo  sostegno  fu  tolto,  ed  il  malato 
senza  più  ritornò  sano  alle  sue  occupazioni. 

L'osso,  che  venne  tolto  ripulito  per  mezzo  della 
macerazione,  mostra  un  divaricamento  di  circa  un 
pollice  della  sostanza  compatta  ,  la  quale  a  forma 
cistoide  contiene  libera  e  rigonfia  la  sostanza  spun- 
giosa,  e  non  rattenuta  che  da  due  briglie  ossee,  le 
quali  dalla  lamina  anteriore  compatta  si  portano  alla 
posteriore,  e  dal  ristringimento  che  offre  l'osso  na- 
turalmente verso  il  margine  alveolare.  Oltre  a  ciò 
sulla  faccia  anteriore  e  posteriore  dell'osso  si  osser- 
vano vari  fori  prodotti  dalla  carie  preesistente,  pei 
quali  essendo  introdotto  lo  specillo  nelle  esplorazioni 
non  potea  però  mai  portarsi  in  comunicazione  di  un 
foro  con  l'altro,  per  la  presenza,  come  dico,  della  so- 
stanza spugnosa  che  si  era  distaccata  dalla  compatta, 
ed  era  contenuta  in  questo  cavo  cistoide  formato 
dall'eguale  allontanamento  delle  lamine  dure.  Le  trac- 
ce alveolari  sono  distrutte;  le  lamine  tutte  cribrate 
offrono  ineguale  superficie  su  tutti  i  punti.  La  la- 
mina anteriore  resta  più  corta  della  posteriore  di  pili 
linee,  come  quella  che  avea  sofferto  più  danno. 

Da  tale  fatto  sembrami  risultare,  che  niuno  debba 


16 

dispensarsi  giammai  dall'  istituire  e  ripetere,  a  seconda 
dell'entità  del  male,  le  cure  interne  nei  soggetti  at- 
taccati da  morbo  celtico,  anche  allora  che  dopo  la 
guarigione  dell'ulcere  primitivo  non  si  vedano  svi- 
luppare, né  apparire  immediatamente  sintomi  secon- 
dari a  carico  di  altre  parti  del  corpo.  L'  elemento 
morboso  di  tal  natura  si  deve  abbattere  completa- 
mente ,  e  prevenirlo  prima  che  giunga  a  tanto  da 
poter  manifestare  le  sue  terribili  forme.  A  tal  fine 
lo  spediente  siccome  il  più  sicuro,  così  anche  il  più 
congruo  ed  applicabile,  stimo  essere  l'uso  simultaneo 
del  sublimato  esternamente,  e  dello  ioduro  di  po- 
tassio all'  interno;  di  che  mi  dà  buona  pruova  l'espe- 
rienza anche  di  questo  fatto  da  aggiungersi  alla  stipe 
clinica  dei  simili,  cresciuta  massimamente  per  le  cure 
dell'  illustre  professore  della  clinica  interna  di  Roma 
cavalier  Benedetto  Viale. 

Intorno  alla  manualità  operativa  poi,  non  potendo 
questa  esser  soggetta  sempre  a  regole  fisse  e  costanti, 
ma  bensì  a  variabili  secondo  l'opportunità,  credo  di 
poter  dedurre  soltanto  come  tutte  le  volte  che  siasi 
obbligati  ad  asportare  una  notevole  porzione  della 
mascella  inferiore,  per  cui  sia  uopo  eseguire  uno  o 
più  tagli  in  corrispondenza  degli  angoli  della  bocca, 
si  debba  studiare  il  modo  di  non  farli  cadere  pre- 
cisamente sugli  angoli  stessi:  poiché  i  vantaggi,  che 
si  ritraggono  da  simile  precauzione,  vidi  per  le  mag- 
giori riflessioni  fattevi  nel  caso  occorsomi ,  essere 
veramente  molto  valutabili  ,  e  da  non  trascurarsi 
possibilmente  giammai.  Mi  riporto  su  tal  proposito 
al  saggio  clinico  (pag.  63)  pubblicato  nel  1855  dal 
nostro  chiarissimo   professore  di  clinica    chirurgica 


17 

cavalier  Giuseppe  Costantini,  da  cui  questa  modalità 
appresi,  e  della  quale  ebbi  io  già  veduta  l' utilità 
nelle  numerose  circostanze  in  cui  lo  vidi  operare. 
Finalmente  per  la  stima  ed  affezione  somma  che 
ho  alla  indicata  pia  istituzione,  la  quale  da  s.  Vincenzo 
de'  Paoli  prende  il  nome  e  lo  spirito  col  titolo  di 
conferenza,  non  potrei  nel  chiudere  questa  memo- 
ria non  adempiere  un  desiderio  espressomi  dall'in- 
fermo teste  risanato,  cioè  di  rendere  pubblico  atte- 
stato di  gratitudine  ai  soci  tutti  della  conferenza 
medesima,  i  quali  si  adoperarono  con  indicibile  cura 
e  sollecitudine  per  rilevare  un  uomo  sì  povero  e  me- 
schino da  tanto  penoso  stato,  non  solo  visitandolo 
spesso,  ma  rendendogli  personalmente  quei  servigi 
di  cui  abbisognava,  ed  assumendo  interamente  so- 
pra di  se  tutta  la  spesa  di  medicinali,  di  biancheria, 
e  di  nutrimento,  sì  per  lui,  e  sì  per  la  sua  famiglia. 
Istituzioni  filantropiche  molte  ha  1'  età  nostra  , 
la  quale  sembra  avere  un  vanto  per  questo  titolo 
sopra  le  età  trascorse;  o  che  intenda  supplire  con 
esse  a  ciò  che  manca  negli  individui  :  o  che  vo- 
glia r  azione  stessa  degli  individui  già  caldi  di  ca- 
rità rendere  più  efficace  e  più  atta  per  mezzo  delle 
associazioni  a  conseguire  1'  effetto.  Ma  di  tali  isti- 
tuzioni ed  associazioni  quelle  soltanto  che  ,  come 
questa  della  conferenza  si  informino  ai  sinceri  det- 
tami della  dilezione  del  prossimo,  quali  essi  ema- 
nano da  più  alti  principi ,  e  da  più  autorevole 
magistero,  credo  che  possano  realmente  raggiungere 
lo  scopo,  ritogliendo  alla  sventura  molti  infelici,  e 
porgendo  ad  essi  vero  ed  util  conforto,  e  ad  ogni 
animo  bennato  incitamento  ed  esempio. 
G.A.T.CLXlll.  2     . 


18 


LEGATUUA    DELI,  ARTERIA    FEMORALE 
SINISTRA 

Risulta  dai  clinici  fiuti,  che  delle  grosso  arterie 
del  corpo  umano  quella  che  con  più  facilità  va  sog- 
getta ad  esser  legata,  sia  per  aneurisma,  sia  per  fe- 
rita, si  è  certamente  l'arteria  femorale  superficiale. 
Ed  infatti  non  solo  gli  aneurismi  che  si  sviluppano 
sulla  femorale  stessa ,  ma  quelli  dell'  arteria  popli- 
tea  ,  e  quelli  eziandio  che  si  rinvengono  in  corris- 
pondenza delle  prime  diramazioni  di  questa,  si  so- 
glion  curare  ,  allorché  vani  riuscirono  gli  altri  ri- 
medi con  la  legatura  dell'  arteria  femorale-  Altret- 
tanto avviene  delle  ferite  che  cadono  o  sulla  femo- 
rale, o  sulla  poplitea,  0  che  ledono  i  rami  piii  grossi 
di  questa,  allorché  per  particolari  contigenze  non  si  può 
chiudere  il  vaso  con  un  laccio  in  vicinanza  del  punto 
ferito.  A  tale  scopo  vennero  dai  pratici  stabiliti  tre 
punti  lungo  il  decorso  dell'arteria  femorale,  seguendo 
l'interno  lembo  del  muscolo  sartorio,  su  i  quali  po- 
ter portare  una  legatura  per  rimediare  ad  uno  qua- 
lunque dei  mali  sopraccennati.  Si  può  legare  que- 
st'arteria nell'alto  della  coscia  dopo  superato  l'arco 
crurale  circa  un  pollice  in  distanza  da  questo  ;  si 
può  legare  alla  fine  del  triangolo  di  Scarpa  distante 
dall'arco  crurale  quattro  in  cinque  pollici  circa  ;  si 
può  legare  finalmente,  secondo  il  processo  di  Hun- 
ter,  nel  terzo  medio  della  coscia  al  di  sotto  del  mu- 
scolo sartorio  dai  sette  agli  otto  pollici  in  distanza 
dal  legamento  di  pauparzio. 


19 

Stabilirono  i  chirurgi  una  limitazione  sitTalta  per 
precisare  le  norme  pratiche  che  debbonsi  riguar- 
dare in  ciascun  caso  speciale,  lasciando  però  libere 
le  modificazioni  a  seconda  delle  evenienze; 

Ora  potendo  l'arteria  femorale  restar  legata  in 
qualunque  punto  di  sua  lunghezza,  e  dovendo  l'ope- 
ratore studiare  ogni  maggiore  risparmio  di  arteria, 
ravvicinandosi  sempre  al  punto  leso  per  il  passag- 
gio del  laccio,  io  credo  che  allorquando  o  per  fe- 
rita, o  per  aneurisma,  si  debba  legare  l'arteria  fe- 
morale secondo  il  processo  dì  Hunter  ,  e  che  per 
particolari  circostanze  non  si  possa  con  tutta  fidu- 
cia intraprendere  una  tale  manualità,  piuttosto  che 
ricorrere  al  processo  di  Scarpa,  di  legare  cioè  l'ar- 
teria alla  fine  del  triangolo  da  esso  stabilito,  quat- 
tro in  cinque  pollici  circa  lontano  dall'arco  crurale, 
si  debba  coH'incisione  scender  piìi  in  basso,  solle- 
vare quanto  convenga  il  muscolo  sartorio,  e  legare 
l'arteria  fra  i  due  punti  stabiliti  e  dallo  Scarpa  e 
dall'Hunter  ,  sei  in  sette  pollici  distante  dall'  ori- 
gine dell'arteria. 

Usando  di  simile  precauzione  risulta  chiaro,  che 
un  pollice  ,  od  un  pollice  e  mezzo  di  piii  di  arte- 
ria vien  conservata,  e  perciò  maggiore  probabilità 
per  il  mantenimento  del  membro  sottostante  a  causa 
della  più  facile  circolazione  anastomotica. 

Un  caso  speciale  che  mi  faccio  ora  a  descrivere, 
trattato  da  me  nel  modo  sopraccennato,  e  seguito  da 
guarigione  perfetta,  mi  fa  credere  potersi  fare  uso 
nella  pratica  di  tale  modalità. 

Alle  ore  dieci  pomer.  del  21  settembre  1857  fu 
portato  insieme  ad   altri  feriti    nell'  arciospedale  di 


20 

S.Giacomo  in  Angusta  un  tal  Ciucco  Giuseppe,  gio- 
vane di  ventidue  anni,  di  sana  e  robusta  costituzione, 
il  quale  poco  distante  dall'enunciato  ospedale  avea 
riportato  in  rissa  piij  ferite. 

Spogliato  l'infernfio  degli  abiti  molto  imbrattati 
dì  sangue,  e  coricatolo  in  letto,  oltre  varie  ferite  di 
poca  0  nessuna  entità  che  vennero  vedute  sparse 
sul  petto  e  sugli  arti  toracici  prodotte  da  istromento 
a  punta,  una  se  ne  osservò  sulla  coscia  sinistra  che 
richiamò  a  se  esclusivamente  tutta  l'attenzione  e  la 
cura. 

Questa  ferita  di  figura  lineare, situata  nella  regione 
anl'-interna  del  terzo  inferiore  della  coscia,  estesa 
due  centimetri  circa,  diretta  traversalmente  alla  co- 
scia medesima  e  dal  basso  in  alto,  penetrava  nella 
sostanza  del  muscolo  vasto  interno  per  tre  pollici 
circa,  tenendo  un  cammino  leggermente  obliquo  dal- 
l'esterno all'interno.  Dai  panni  molto  intrisi  di  san- 
gue, dalla  bassezza  dei  polsi,  da  un  notevole  infil- 
tramento in  corrispondenza  della  regione  ferita,  e 
dal  sanguinaie  tuttora  la  ferita  stessa  ,  ben  si  co- 
nosceva aver  sofferto  l'infermo  una  non  piccola  emor- 
ragia. Se  non  che  i  caratteri  tutti  che  questo  san- 
gue offriva,  e  la  posizione  stessa  della  ferita,  por- 
tavano a  giudicare  trattarsi  di  una  emorragia  ve- 
nosa, e  perciò  di  facile  mezzo  per  frenarla.  Infatti 
compresso  per  tutti  i  sensi  il  tumore,  ed  obbligati 
cosi  quei  neri  grumi  sanguigni  che  lo  costituivano 
ad  uscire  sebbene  un  pò  a  stento  dalla  ferita,  ritornò 
l'arto  quasi  allo  stato  naturale  :  e  quello  scolo  di 
sangue  venoso,  che  pur  tuttavia  usciva,  facilmente 
cedette  alla  sola  riunione  per  mezzo  di  due  liste  di 


21 

cerotto  agglutinativo.  Una  semplice  fasciatura  conten- 
tiva e  una  conveniente  positura  dell'arto  compirono 
la  medicatura.  L'indomani  mostrossi  bene  spiegata 
una  reazione.  Qui  si  tenne  un  metodo  antiflogistico 
e  locale  e  generale,  il  quale  associato  a  rigorosa  dieta 
mitigò  la  flogosi  sviluppata,  e  pose  in  uno  stato  di 
calma  l'infermo. 

Al  principiare  del  quarto  giorno,  osservato  per 
prima  volta  l'arto  malato,  si  trovarono  in  suppura- 
zione solo  i  lembi  della  ferita.  Alle  pressioni,  cbe 
d' ogni  lato  si  praticavano  per  la  ricerca  del  pus  , 
non  uscivano  che  neri  grumi  di  sangue.  Solo  all'ot- 
tavo giorno  si  cominciò  ad  osservare  il  gemizio  pu- 
rulento commisto  a  sangue  corrotto.  Frattanto  tro- 
vandosi in  generale  buone  condizioni,  delumefaltosi 
l'arto  completamente,  si  sperava  una  sollecita  guari- 
gione. Quando  la  sera  del  6  ottobre,  decimo  giorno 
dalla  ricevuta  ferita,  nel  momento  della  giornaliera 
medicatura,  dopo  l'uscita  di  poche  gocce  di  pus  insie- 
me a  piccolo  grumo  sanguigno,  ecco  improvvisamente 
spicciare  dalla  piaga  un  grosso  gitto  di  sangue  ver- 
miglio, che  dal  punto  ove  usciva  ,  si  portò  ad  un 
buon  passo  in  distanza.  Sul  momento  si  costituì  un 
tumore  della  grossezza  di  un  pugno  sull'estremo  della 
coscia.  Poco  era  da  dubitare  sulla  natura  del  san- 
gue, e  sul  punto  di  sua  partenza:  pur  non  ostante 
si  volle  con  molta  cautela  esperimentare,  e  si  vide 
che  l'emorragia  si  compieva  a  scosse  isocrone  ai  bat- 
titi del  cuore  ,  e  che  questa  si  arrestava  compri- 
mendo superiormente  la  femorale.  In  allora  si  pose 
subito  sul  terzo  superiore  della  coscia  in  corrispon- 
denza della  femorale  il  compressore,  e  venne  cosi 


22 

assicurato  l'infermo  per  il  momento  contro  una  nuova 
emorragia.  L'indomani  apparve  di  nuovo  la  febbre, 
il  dolore  alla  coscia,  ed  una  ambascia  generale.  Fu- 
rono necessarie  varie    sanguigne  ,  dei  sedativi  ,  ed 
un  regime  dietetico  rigoroso-  Ispezionato  dopo  qua- 
rantotto ore  questo   tumore,  che  con  tutta  ragione 
chiameremo  aneurisma  spurio   consecutivo  ,  si  vide 
che  al  togliere  della    fasciatura   uscì  dalla  piaga  in 
abbondante  quantità  pus  di  prava  indole.  Il  parere 
dei  più   dei    chirurgi  dell'  arciospedale    fé    ritenere 
il  compressore  e  proseguire  la  medicatura  più  sem- 
plice, rinnovandola  quattro  volte  ogni  giorno  a  causa 
della  troppo  abbondante  suppurazione.  Nel  diminuire 
dell'aneurisma  per  le  continue  suppurazioni  si  vedeva 
rendersi  edematoso  l'arto  superiormente  per' la  pre- 
senza del  torniquet,  il  quale  non  si  poteva  diminuire 
da  quel  dato   grado  di  pressione  ,  perchè   subito  si 
tingevano  di  un  colorito  più  rosso  le  marce.  Al  nono 
giorno  queste  cominciarono  a  scarseggiare:   tantoché 
non  solo  per  la  diminuzione  di  esse,  ma  anche  per 
il  buono  aspetto  che  offrivano,  e  perchè  l'arto  sem- 
pre più  s'infiltrava  ,  e  perchè  l'infermo  non  poteva 
più  sopportare  quella  continuata  pressione  esercitata 
dal  torniquet,  venne  questo  slenta to  e  reso  così  quasi 
completamente  libero  il  circolo.  Tutto  dopo  ciò  pro- 
cedeva a  seconda,  e  sebbene  lontana,  pure  nutrivasi 
una  speranza  di  guarigione,  fidando  sulle  molte  ri- 
sorse, e  su  gli  svariati  compensi  della  natura-  Ma  vane 
furono  le  lusinghe:  poiché  la  mattina  del  19  ottobre, 
decimoterzo  giorno  della  prima  emorragia,  si  vide  nel 
momento  della  medicatura   costituirsi  di  nuovo  un 
tumore  nella  già  enunciata    regione  ,  e  dalla  piaga 


23 

spicciare  sangue  arterioso.  Una  mano  di  chi  medicava 
l'infermo  portata  subito  a  comprimere  la  femorale 
impedì  che  l'aneurisma  si  costituisse  voluminoso  sic- 
come il  primo.  Si  tornò  di  nuovo  ad  applicare  il 
compressore,  poiché  era  questione  di  vari  fra  i  chi- 
rurgi dell'ospedale  se  veramente  il  tronco  principale 
fosse  rimasto  ferito,  ovvero  una  diramazione  subal- 
terna. Non  passarono  peraltro  due  ore  da  questa  me- 
dicatura, che  in  fretta  chiamato  a  visitare  l'infermo 
rinvenni,  non  so  per  quale  accidentalità,  che  il  tu- 
more avea  triplicato  il  suo  volume ,  guadagnando 
tutta  la  regione  anteriore-interna  del  terzo  inferiore 
della  coscia.  Il  sangue  usciva  dalla  nota  apertura  di 
un  bel  colorito  vermiglio,  e  il  malato  esigeva  un 
aiuto. 

Considerai  in  allora  che  l'infermo  non  poteva,  e 
non  voleva  più  sopportare  una  compressione  ;  che 
senza  questa  l'aneurisma  ingrandivasi;  che  anche  fre- 
nata pel  torniquet  una  terza  volta,  l'emorragia  sa- 
rebbesi  riprodotta  ad  ogni  più  leggera  cagione;  che 
il  compressore  stesso  non  valse  ad  infiienare  1'  au- 
mento dell'aneurisma;  e  che  finalmente  le  suppura- 
zioni abbondanti,  che  conseguivano  a  questo  succe- 
dersi di  emorragie,  avrebbero  condotto  all'  anemia 
ed  al  sepolcro  l'infermo.  A  tutto  ciò  si  aggiungeva 
l'autorizzazione  a  praticare  la  legatura  quante  volte 
occorresse  in  precedenza  data  dal  chiarissimo  pro- 
fessore Gaetano  Olivieri,  mio  primario  veneratissimo 
a  cui  professerò  sempre  gratitudine  e  riconoscenza 
per  i  continui  insegnamenti  che  mi  diede  ,  per  le 
molte  operazioni  che  mi  fé  eseguire  ,  e  per  quella 
stima  di  cui,  contro  mio  merito,  mi  ha  sempre  ono- 


24 

rato  Che  però  necessario  sembrommi  senz'altro  in- 
dugio eseguire  la  legatura  della  femorale. 

Preparati  i  necessari  istromenti,  situato  orizzon- 
talmente Tinfermo  sul  proprio  letto,  portata  un  poco 
all'  infuori  la  coscia  su  cui  doveva  eseguirsi  l'ope- 
razione, e  flessa  questa  leggermente  sul  bassoventre, 
affidai  l'infermo  ad  intelligenti  ministri  onde  impedis- 
sero qualunque  male  inteso  suo  movimento:  quindi  si- 
tuatomi dal  lato  destro  dell'operando,  alla  presenza 
degli  eccellentissimi  signori  dottori  Augusto  Panunzi, 
Borelli,  Zucchetti,  Savelli,  e  molti  altri  della  pro- 
fessione anco  estranei  allo  stabilimento  che  per  caso 
colà  ritrovaronsi,  mi  diedi  a  ricercare  secondo  gli 
stabiliti  precelti  de'nostri  autori  il  lembo  interno  del 
muscolo  sartorio,  onde  prendere  da  questo  il  punto 
di  partenza  per  l'incisione  della  cute.  Lo  stato  pe- 
raltro di  edema,  in  cui  ritrovavasi  l'arto,  mi  negò  di 
giovarmi  esclusivamente  di  questo  sussidio:  onde  mi 
prevalsi  anche  in  parte  dei  precetti  del  sig-  Lisfranc, 
tirando  mentalmente  una  linea  che  dalla  medietà  del 
ligamento  ffel  pauparzio  mi  conducesse  a  raggiungere 
il  centro  del  poplite.  Questa  presa  di  mira,  stabilii 
di  non  eseguire  a  minuto  il  processo  del  sig-  Scarpa, 
ma  di  attenermi  un  poco  ancora  a  quello  di  Hunter, 
onde  lasciare  campo  maggiore  alla  circolazione  ana- 
stomotica  dopo  eseguita  la  legatura  ,  non  potendo 
del  tutto  porre  in  pratica  questo,  secondo  gli  stabiliti 
precetti,  per  il  gonfiore  troppo  pronunciato  dell'arto. 
Infatti  verso  il  finire  del  triangolo  di  Scarpa  inco- 
minciai l'incisione  della  cute,  e  obliquamente  per 
tre  pollici  circa  la  portai  in  basso  sulla  direzione 
sempre  della  linea   stabilita  dal  sig.  Lisfranc.  Al  di- 


25 
sotto  del  tessuto  dermoideo  trovai,  siccome  già  pre- 
vedeva, un  edema  sanguigno.  Incisi  i  vari  strati  di 
adipe  e  di  cellulare  ,  misi  a  nudo  l'aponevrosi  del 
fascialata,  su  cui  eseguito  un  piccolo  foro  con  la 
punta  del  bistoiino,  vi  passai  al  disotto  una  tenta, 
e  la  divisi  in  quasi  tutta  la  lunghezza  corrispon- 
dente all'esteriore  ferita-  Mi  apparvero  allora  i  fasci 
carnosi  del  muscolo  sartorio  allontanati  l'uno  dall'al- 
tro per  la  presenza  del  siero,  il  quale  non  solo  era 
penetrato  nelle  cellule  del  tessuto  sptto-cutaneo,  ma 
in  quelle  eziandio  del  cellulare  interstiziale  finissimo 
che  unisce  e  collega  le  fibre  muscolari  tra  loro.  Di 
pili,  il  suddetto  muscolo  non  solo  per  la  presenza  del 
siero  erasi  aumentato  in  larghezza,  ma  per  la  con- 
tinuata azione  anche  del  torniquet,  che  lo  avea  spinto 
all'indentro,  erasi  fatto  più  interno,  e  così  non  cor- 
rispondeva pili  il  suo  lembo  alla  linea  di  Lisfranc. 
Per  la  qual  cosa  sollevato  il  lembo  interno  cutaneo, 
e  rintracciato  parimenti  1'  interno  del  sartorio  ,  lo 
liberai  dai  vincoli  celluiosi  che  lo  tenevano  fermo 
ai  tessuti  sottostanti  ,  e  rovesciatolo  quindi  all'  in- 
fuori, e  tenutolo  fisso  mercè  di  un'errina  smussata, 
lo  consegnai  ad  nn  assistente.  Niente  di  piià  facile 
dopo  questo  che  scuoprire  il  fascio  nerveo-vascolare 
che  immediatamente  si  ritrova  al  disotto.  Verso  la 
parte  inferiore  della  ferita  lacerai  con  la  punta  della 
tenta  la  guaina  che  contiene  il  nervo  ed  i  vasi  ,  e 
quindi  con  la  tenta  stessa  separata  V  arteria  dalla 
vena  che  turgida  la  costeggiava  all'  interno  ,  e  dal 
nervo  che  naturalmente  era  all'  esterno  ,  restommi 
ben  facile  di  dominarla  passandovi  sotto,  mercè  l'ago 
dì  Cooper,  un  nastrino  incerato-  Resomi  quindi  certo 


26 

che  l'arteria  e  null'altro  restava  compreso  dal  laccio, 
strinsi  questo  direttamente  sul  vaso  a  due  nodi ,  e 
portati  i  capi  all'angolo  inferiore  della  ferita,  la  riunii 
con  delle  liste  di  cerotto. 

Intercettato  appena  il  circolo  mediante  la  lega- 
tura, il  tumore  si  scolorì,  si  avvizzì  in  parte,  e  dopo 
qualche  minuto  l'arto  divenne  freddo.  Si  applicarono 
peraltro  subito  intorno  ad  esso  dei  panni  di  lana  ben 
caldi,  e  rinnovaronsi  sempre  tosto  che  il  calore  si 
disperdeva.  L'estremità  sottostante  alla  legatura  non 
restò  priva  di  circolo  che  per  sole  diciassette  ore; 
anzi  dopo  tal  tempo  non  solo  l'arto  avea  racquistato 
il  suo  naturai  colorito,  non  solo  sentivansi  le  pul- 
sazioni alla  poplitea  ,  ma  la  piaga  resultante  dalla 
prima  ferita  cominciò  di  bel  nuovo  a  dare  un  tra- 
sudamento sanguigno,  tanto  che  fui  obbligato  a  rin- 
novare l'apparecchio,  ed  a  maggior  sicurezza  apposi 
una  compressa  nel  cavo  del  poplite.  Si  praticarono 
vari  salassi,  poiché  sviluppossi  risentita  la  febbre,  si 
tenne  l'infermo  a  rigorosa  dieta,  e  dopo  due  giorni 
osservata  la  prima  piaga  si  eliminò  da  questa  con 
varie  pressioni  abbondante  quantità  di  cattivissima 
marcia;  per  la  qual  cosa  si  ripeterono  spesso  le  me- 
dicature. Tolto  poi  r  apparecchio  della  legatura  al 
quarto  giorno,  si  vide  la  ferita  cutanea  cicatrizzata 
per  due  buoni  terzi  nella  parte  superiore,  ed  il  pus 
che  uscì  dall'estremo  della  ferita  in  corrispondenza 
del  laccio  di  qualità  da  non  desiderarsi  migliore-  La 
suppurazione  peraltro  del  tumore  inferiore  mante- 
nevasi  tuttora  eguale.  Dì  più,  al  duodecimo  giorno, 
contando  dall'operazione  un  dolore  accusato  dall'in- 
fermo in  corrispondenza  dell'  esterna    regione  della 


27 

coscia,  mi  fece  avvertito  che  ivi  sotto  1'  aponeu- 
rosi contenevasi  altra  notevole  raccolta  di  marcia, 
cui  venne  dato  subito  esito  con  larga  apertura. 
Dopo  r  eliminazione  di  questa,  come  per  propizia 
contigenza,  tutto  cambiò  natura;  migliorarono  e  di- 
minuirono le  marce,  cedette  ogni  ambascia  che  per 
lo  innanzi  angustiava  l'infermo,  riacquistando  que- 
sti la  naturale  sua  ilarità.  Si  aiutarono  allora  con  mo- 
derato vitto  le  forze,  e  al  decimo  quinto  giorno  se- 
guì facilissimo  il  nastro  della  legatura  ad  una  leggera 
trazione.  Proseguì  regolarmente  la  suppurazione  di 
queste  tre  piaghe  di  cui  si  è  parlato,  le  quali  dimi- 
nuendo ogni  giorno  i  loro  diametri,  finirono  col  cica- 
trizzare del  tutto  in  brevissimo  tempo-  11  malato  ria- 
vuto completamente  nelle  forze  ,  e  senza  aiuto  di 
sorta  alcuna,  uscì  libero  dell'ospedale  il  giorno  5  di- 
cembre  1857. 

Non  son  molti  giorni  ebbi  occasione  di  rivedere 
questo  giovane,  e  con  piacere  lo  trovai  in  perfet- 
tissimo stato  di  salute,  assicurandomi  egli  non  aver 
mai  pili  inteso  molestia  alcuna  nell'  arto  operato  , 
sebbene  per  la  sua  professione  di  fornaciaro  sia  con- 
tinuamente esposto  a  fatiche,  e  ad  una  vita  disagia- 
tissima. 


28 


Opinioni  sulV  antichità  della  sfera  celeste.  Discorso 
recitalo  alla  pontificia  accademia  tiberina  dal  presi- 
dente prof,  ab,  Ignazio  Calandrelli  direttore  delVos- 
servalorio  astronomico  deW università  romana,  mem- 
bro del  collegio  fdosofico  ec. 

wuando,  contro  ogni  mio  merito,  ottimi  colleghi, 
cortesi  uditori,  mi  vidi  chiamato  a  far  parte  di  que- 
sta illustre  accademia,  compresi  subito  che  le  mie 
poche  cognizioni  e  le  mie  deboli  forze  erano  impari 
a  sostenere  il  nobile  incarico  di  parlare  a  voi  da  que- 
sto seggio  onorifico,  trattenendo  per  pochi  istanti  la 
.vostra  attenzione  su  qualche  argomento  scientifico  o 
letterario  che  potesse  essere  di  vostra  soddisfazione 
e  di  vostro  piacimento.  Se  non  che  mi  confortava 
il  pensiero  della  vostra  insigne  bontà,  la  quale,  se 
fu  grandissima  nello  accordarmi  l'alto  onore  di  se- 
dere fra  voi  ,  mi  lusingava  che  egualmente  grande 
sarebbe  stata  nel  compatirmi,  se  mai  il  mio  ragio- 
nare fosse  privo  di  quella  energia,  di  quella  eleganza, 
di  quella  forza,  di  quel  peso,  quale  si  conviene  ad 
un  discorso  accademico  che  deve  pronunciarsi  in  un 
nobile  consesso  di  dotti  filosofi  e  di  letterati  insigni 
che  da  gran  tempo  formano  la  gloria  di  Roma,  di 
questa  nostra  città  che  sempre  grande  negli  antichi 
tempi  per  opere  militari  e  pel  dominio  di  tutto  il 
mondo,  grandissima  e  magnificenlissima  nella  reli- 
gione, nella  civiltà,  nelle  scienze,  nelle  arti  sotto  il 
dominio  dei  nostri  sommi  pontefici,  deve  ai  suoi  fi- 


29 

gli  bagnati  dalle  acque  del  Tevere  inspirare  in  ogni 
tempo  cose  grandi  degne  della  sua  grandezza,  idee 
sublimi  degne  del  sublime  seggio  che  occupa  fra  tutte 
le  città  dell'universo.  Confidando  su  questo  vostro  be- 
nigno compatimento,  mi  accingo  con  maggior  corag- 
gio a  discutere  la  tesi  proposta  per  l'odierna  sessione 
della  nostra  accademia. 

§.  I.     . 

Le  questioni  di  cronologia,  che  si  riferiscono  ai 
fatti  storici  di  epoche  remotissime  dalla  nostra  età, 
sono  sempre  di  difficilissima,  e  il  più  delle  volte  d'im- 
possibile soluzione.  Sommi  uomini  versalissimi  nelle 
lingue  classiche,  e  nelle  lingue  orientali,  provveduti 
di  ogni  genere  di  cognizioni,  guidati  dalla  critica  la, 
più  severa,  profondissimi  nello  studio  delle  antiche 
storie,  amano  piuttosto  tacere  su  molte  questioni  di 
antica  cronologia,  che  in  mezzo  a  tante  scientifiche 
combinazioni  ,  in  mezzo  a  tante  ingegnose  ipotesi 
immaginate  da  altri  scrittori,  compromettere  il  loro 
giudizio  nel  definire  questioni,  le  quali,  secondo  il 
loro  savio  parere,  mancano  di  quelle  doti  che  le  pos- 
sono rendere  se  non  certe  ,  almeno  più  probabili 
a  preferenza  delle  altre.  Tali  e  tante  sono  le  tenebre 
in  cui  si  ravvolgono  i  fatti  storici  delle  antiche  età, 
che  senza  una  luce  che  le  rischiari  e  le  disperda  , 
nulla  di  certo  e  di  positivo  si  può  asserire.  Nelle  ri- 
cerche archeologiche  questa  luce  rischiaratrice,  questa 
face  luminosa,  sorge  quasi  dal  profondo  della  terra. 
La  scoperta  di  una  antica  medaglia  ,  di  un  antico 
monumento,  di  una  antica  iscrizione,  illustra  la  sto- 


30 

ria  di  una  data  età,  rende  certa  una  questione  rela- 
tiva all'epoca  medesima:  ecco  rischiarate  le  tenebre, 
dissipati  i  dubbi,  eliminate  le  ipotesi  mal  fondate, 
e  le  opinioni  già  pronunciate,  opinioni  che  per  man- 
canza di  questi  antichi  dati,  varie,  incerte,  e  forse' 
anche  contraddittorie  erano  presso  gli  archeologi  , 
non  hanno  più  alcun  peso,  alcuna  autorità,  e  restano 
in  un  perfetto  oblio.  Nelle  ricerche  uranologichc  la 
luce  rischiaratrice  deve  venir  dal  cielo.  È  il  cielo  , 
scrive  un  celebre  scrittore,  che  deve  istruire  la  terra. 
Se  nel  cielo  trova  la  geografìa  i  suoi  elementi  e  la 
sua  perfezione,  la  storia  non  può  trovarvi  i  suoi  soc- 
corsi ?  Il  cielo  non  è  forse  un  antico  e  durevole  ar- 
chivio, nel  quale  si  conservano  fatti  che  possono  riem- 
pire il  vuoto  delle  tradizioni  e  rannodare  il  filo  degli 
avvenimenti  ?  Le  osservazioni  dei  fenomeni  celesti 
non  sono  forse  i  monumenti  i  più  antichi  e  più  au- 
tentici del  soggiorno  dell'uomo  sulla  terra  (4)  ?  L'a- 
stronomia è  nata  coH'uomo.  L'uomo,  quell'essere  in- 
telligente e  libero  che  Dio  volle  creare  a  sua  imma- 
gine e  somiglianza:  l'uomo,  sotto  il  cui  dominio  pose 
Iddio  tutti  gli  altri  esseri  da  lui  creati:  l'uomo,  cui 
Dio  con  ammirabile  provvidenza  dispose  che  le  cose 
tutte  create  gli  servissero  di  benefizio,  di  confortOi 
di  piacere:  l'uomo,  solo  dotato  di  ragione  e  d'intel- 
ligenza, può,  a  preferenza  di  tutti  gli  altri  esseri  vi- 
venti, sollevare  gli  occhi  ai  cielo,  contemplarne  la 
bellezza,  ammirare  l'ordine  e  la  disposizione  di  quel 
numero  infinito  di  lucenti  astri  che  Io  abbelliscono 
e  lo  adornano:  l'uomo  solo  finalmente  nella  contem- 
plazione degli  astri  e  dei  loro  movimenti  può  for- 
marsi una  esalta  idea  di  un  ordine    immutabile  ed 


31 

eterno  stabilito  con  infinita  sapienza  dall'eterno  Crea- 
tore, che  con  infinita  provvidenza  e  con  eterne  leggi 
tutto  il  creato  regola  e  governa  [B).  Sia  pur  dunque, 
come  doltissinrii  scrittori  convengono,  che  nella  pa- 
rola dies  del  sacro  testo  non  debba  intendersi  un 
giorno  naturale,  ma  un'  epoca  indeterminata  di  tem- 
po, la  scienza  degli  astri  non  poteva  nascere  che  dopo 
la  creazione  dell'uomo.  La  creazione  di  questo  essere 
nobilissimo  fu  il  compimento  di  quell'opera  ammira- 
bile e  sorprendente  che  ab  aelerno  era  nella  mente 
di  Dio,  e  che  nel  tempo  volle  liberamente  eseguire: 
il  cielo  dunque  adorno  dei  suoi  lucenti  astri,  senza 
una  epoca  intermedia  di  tempo  indeterminato,  senza 
una  lunga  interposizione  di  anni  e  di  secoli,  si  pre- 
sentò immediatamente  agli  occhi  dell'uomo:  questi 
rapito  da  tanta  bellezza,  da  tanta  magnificenza,  lo 
contempla:  ecco,  o  colleghi,  il  principio  dell'astro- 
nomia. 

§.  11. 

Se  non  che  una  serie  di  anni  doveva  trascorrere 
affinchè  la  terra  si  popolasse  di  questi  esseri  intel- 
ligenti. Popolata  poi  la  terra,  formata  l'umana  so- 
cietà, l'aspetto  superficiale  del  cielo,  la  sua  bellezza, 
la  sua  magnificenza,  poteva  essere  oggetto  di  semplice 
ammirazione:  un  lungo  studio,  una  lunga  e  profonda 
meditazione  su  i  fenomeni  che  successivamente  si 
presentavano  agli  occhi  umani  nella  contemplazione 
degli  astri,  doveva  finalmente  istruire  gli  uomini  che 
nel  cielo  avrebbero  eglino  trovato,  non  solamente  ciò 
che  appagar  poteva  la  loro  curiosità,  ma  ciò  che  po- 
teva sviluppare  in  sommo  grado  la  loro  ragione,  il 


32 

loro  genio,  le  loro  facoltà  intellettuali,  e  ciò  final- 
mente che  poteva  servire  ai  più  grandi  bisogni  della 
vita  sociale. 

§.  "'- 

E  qui,  0  colleghi,  stimo  prevenirvi  che  io  in- 
tendo prescindere  da  quelle  cognizioni  che  il  Crea- 
tore comunicò  al  primo  uomo  AdamOf  e  che  colla 
successiva  tradizione  si  sono  propagate  agli  altri  uo- 
mini che  popolarono  la  terra  prima  e  dopo  l'uni- 
versale diluvio.  Giuseppe  Flavio  attribuisce  l'inven- 
zione dell'astronomia  alla  posterità  di  Selli.  Si  deve, 
dice  lo  storico,  parlando  de'  figli  di  Seth,  al  loro  ge- 
nio e  al  loro  studio  la  scienza  dell'  astrologia  (C). 
Il  sig.  Bailly,  benché  supponga  una  astronomia  an- 
tidiluviana talmente  perfezionata  che  in  alcune  co- 
gnizioni possa  stare  a  livello  della  moderna  astro- 
nomia, nulladimeno,  parlando  delle  tradizióni  di  Ada- 
mo,  di  Henoch  e  della  posterità  di  Seth,  afferma  che 
tali  nozioni  sono  troppo  vaghe  ,  e  che  non  hanno 
certezza  alcuna  nella  storia.  La  Genesi  ,  dice  egli, 
annunzia  un  fatto,  la  divisione  cioè  dall'anno  in  mesi 
e  giorni  :  dalle  dettagliate  circostanze  del  diluvio 
scritte  da  Mosè  sembra  che  in  quell'epoca  i  mesi  fos- 
sero di  30  giorni  (D). 

§.  IV. 

In  un  discorso  accademico  e  filosofico  mi  limito 
a  parlare  di  quelle  cognizioni  che  hanno  origine  dallo 
sviluppo  dell'umana  ragione,  dallo  studio,  dal  genio, 
e  passando  da  secolo  in  secolo  debbo  giungere  ad  un 


33 

popolo,  il  quale  colle  osservazioni,  collo  studio,  colla 
meditazione  dei  fenomeni  celesti  abbia  potuto  tanto 
progredire  nelle  cognizioni  astronomiche,  che  gli  sia 
stato  facile  immaginare  e  formare  una  sfera  che  rap- 
presentasse i  movimenti  e  le  posizioni  degli  astri. 
Limitando  il  discorso  a  queste  semplici  cognizioni 
naturali ,  dipendenti  dalle  osservazioni  e  dal  genio 
degli  uomini,  qual  lunga  serie  di  secoli  doveva  tra- 
scorrerle prima  che  gli  uomini  potessero  concretare 
i  risultati  delle  loro  osservazioni  ?  Basta  leggere  il 
libro  secondo  della  storia  dell'astronomia  antica  di 
Bailly  :  Du  dèveloppement  des  premier es  découvertes 
asironomiques  :  per  essere  convinti  che  lo  sviluppo 
naturale  di  quelle  cognizioni  astronomiche,  che  si 
richieggono  per  la  formazione  della  sfera,  non  po- 
teva essere  l'opera  di  uno,  ma  di  molti  e  molti  se- 
coli nella  prima  età  della  terra  abitata  da  semplici 
pastori  ed  agricoltori.  Le  sole  cognizioni  della  sfe- 
ricità della  volta  celeste,  della  rotondità  della  terra, 
del  movimento  proprio  del  sole,  cognizioni  che  sono 
la  base  della  sfera,  domandavano  una  lunga  e  pro- 
fonda meditazione  e  non  potevano  presentarsi  ovvie 
e  facile  ai  primi  abitatori  della  terra.  Se  supponia- 
mo, per  esempio,  che  la  rotondità  della  terra  siasi 
potuta  dedurre  dalle  nuove  stelle  che  si  rendono  vi- 
sibili a  quelli  che  cambiano  di  alcuni  gradi  di  la- 
titudine viaggiando  dal  tiord  al  sud  ,  o  dal  sud  al 
nordf  i  primi  abitanti  della  terra  non  potevano  con- 
cepire questa  idea,  parceque,  scrive  Bailly,  les  hom- 
mes  altachés  a  leurs  foyers,  à  leurs  troiipeaiix,  a  la 
culture  de  leurs  champs,  ont  existé  long-tems  avant  de 
s'  en  écarter.  On  ne  sortoit  gueres  de  chez  soi  quC' 
G.A.T.CXLIIL  3 


34 

pour  se  batlre;  encore  ne  se  balloit-on  qu'  avec  ses 
voisinis.  Il  a  fallii  qiie  le  commerce  ouvrit  quelques 
Communications^  que  la  guerre  se  portai  plus  lion.,  et 
sur-tout  que  les  philosophes  et  les  observateurs  voya- 
geassent  ,  car  les  marchands  et  les  gens  de  guerre 
s'  arréstent  peu  à  considérer  les  éìoiles. 

Ma  sia  pure  che  i  popoli  antidiluviani  sisieno  molto 
avanzati  nelle  cognizioni  astronomiche  e  nello  studio 
dei  fenomeni  celesti:  sia  pure  che  nel  contemplare 
il  cielo  stellato  abbiano  dato  dei  nomi  ad  alcuni 
gruppi  di  stelle:  sia  pure  che  colle  osservazioni  del 
nascere  e  tramontare  del  sole,  e  delle  stelle  le  più 
brillanti  ,  colle  osservazioni  delle  diverse  fasi  della 
luna,  sieno  giunti,  come  è  certo,  alla  divisione  del 
tempo ,  divisione  che  ai  primi  uomini  pastori  ed 
agricoltori  era  necessaria  a  regolare  le  campestri 
occupazioni  :  diremo  perciò  che  ai  popoli  antidilu- 
viani si  debba  attribuire  la  invenzione  della  sfera  , 
quando  nell'antica  storia  traccia  alcuna  non  si  trova 
di  quegli  elementi  che  la  compongono  ? 

§.  VI. 

E  riguardo  alla  divisione  del  tempo,  primo  bi- 
sogno della  civile  società,  la  diurna  osservazione  del 
nascere  e  tramontare  del  sole  era  facile  ed  ovvia  : 
la  rivoluzione  della  luna  richiedeva  uno  studio  mag- 
giore; ma  finalmente  era  anche  facile  contare  i  giorni 
solari  che  passavano  da  un  plenilunio  al  successivo, 
e  così  seguitando,  avvedersi  che  nell'anno  solare  si 
Compievono  dodici  lunazioni,    e  quindi  la  divisione 


35 

del  tempo  in  giorni  solari  e  in  mesi  lunari.  11  sig. 
Bailly  pretende  però  che  i  popoli  antidiluviani  aves- 
sero cognizioni  così  esatte  dei  movimenti  del  sole  e 
della  luna,  che  dalla  combinazione  di  questi  potes- 
sero formare  il  periodo  di  sei  secoli,  chiamato  Tanno 
grande  da  Giuseppe  Flavio.  La  scoperta  di.  questo  pe- 
riodo, dice  Bailly,  poteva  aversi  col  mezzo  delle  os- 
servazioni, 0  anche  per  la  cognizione  di  una  scienza 
già  da  lungo  tempo  coltivata,  e  sufficientemente  per- 
fezionata [E).  Fissata  la  divisione  del  tempo  in  giorni 
solari,  gli  antichi  attenti  alle  osservazioni  dei  novi- 
luni e  dei  pleniluni  notavano  il  giorno  in  cui  acca- 
devano queste  due  fasi  principali.  Seguitando  le  os- 
servazioni, si  avvidero  che  queste  due  fasi  dopo  19 
anni  ritornavano  nello  stesso  giorno.  Trascorsi  final- 
mente sei  secoli  potevano  acc3rgersi  che  i  noviluni 
e  i  pleniluni  accadevano,  non  solamente  nello  stesso 
giorno,  ma  anche  nella  stessa  ora:  ecco,  conchiude 
Bailly,  in  qual  modo  i  popoli  della  prima  età  del 
mondo  sono  giunti  ,  indipendentemente  dai  meri- 
diani, a  quelle  conclusioni  che  si  sarebbero  potute 
dedurre  in  un  osservatorio  fìsso  (F).  Che  poi  la 
cognizione  di  questo  periodo  possa  essere  stato  il 
frutto  di  una  scienza  da  lungo  tempo  coltivata,  mostra 
nello  storico  Bailly  quella  predilezione  che  egli  sem- 
pre ebbe  per  un  preteso  popolo  antico  dell'Asia,  il 
quale,  a  suo  parere,  possedeva  le  piti  sublimi  co- 
gnizioni della  scienza  astronomica  (G). 


VII. 


Giuseppe  Flavio  parlando  degli  antichi  patriarchi 
cosV'si  esprime  relativamente  al  periodo  di  sei  se- 


36 

coli:  «  Dio  prolungava  la  vita  dei  patriarchi,  sia  per 
premiare  le  loro  virtù  ,  sia  per  dar  loro  il  tempo 
per  perfezionare  le  scienze  della  geometria  e  del- 
l'astronomia da  essi  inventate:  e  ciò  non  avrebbero 
potuto  fare  se  la  loro  vita  fosse  stata  minore  di  600 
anni,  periodo  in  cui  si  compie  l'anno  grande.  »  II 
celebre  Domenico  Cassini  fu  il  primo  che  si  av- 
vide della  esattezza  di  questo  periodo.  Nous,  scrive 
questo  astronomo,  ne  trouvons  dans  les  monumens, 
qui  nous  restent  de  toiUes  les  autres  nations,  aucun 
veslige  de  celle  periode  de  600  aìiSf  qui  est  une  des 
plus  belles  que  Von  ait  invenlées.  Car  ,  supposanl  le 
mois  lunaire  de  29.^  \'2.°''  44."'  3,"'  on  trouve  que 
219146  jours  et  demi  foni  7421  mois  lunaires  ;  et 
ce  méme  nombre  de  219146  joitrs  et  demi  donne  600 
années  solaires  de  365.^  5.'"'  51.'"  36.*  Si  celle  année 
csl  celle  qui  éloit  en  usage  avant  le  déluge  ,  comme 
il  y  a  beaucoup  d^apparence,  il  faut  avouer  que  les 
anciens  *  patriarches  connoissoient  déjà  avec  beaucoup 
de  précision  le  mouvement  des  aslres-  Car  ce  mois 
lunaire  s^accorde,  a  une  seconde  prés,  avec  celui  qui 
a  élé  determinò  par  les  astronomes  modernes,  et  V année 
solaire  est  plus  jusle  que  celle  d'  Hypparque  et  de 
Plolemée  qui  donnent  a  V année  365.^  b-'"'  55."^  12.^ 

§.  Vili. 

Troppo  ,  0  colleghi ,  devierei  dal  mio  scopo  se 
qui  volessi  discutere  questa  questione  estranea  af- 
fatto alla  mia  tesi.  Il  periodo  di  sei  secoli  farebbe, 
senza  dubbio  ,  molto  onore  alla  astronomia  antidi- 
luviana. Si  può  però  osservare  che  molte  obiezioni 


37 

si  muovono  dagli  eruditi  contro  la  testimonianza  di 
Giuseppe  Ebreo,  sulla  quale  si  fonda  lo  scrittore  della 
storia  della  astronomia  antica:  si  può  notare  ciò  che 
afferma  Io  stesso  Bailly,  cioè  che  Plolemée  qui  vi- 
vali un  siede  aprés  Josephe  ne  parie  point  de  celle 
période  dans  son  Almagesle.  Il  rapporte  quelques  aulres 
périodes  des  chaldéens  quHijpparque  avail  examinèes. 
Il  s'ensuit  qiiHijpparque  el  Plolemée  ne  conoissoient 
poinl  celle  doni  il  .s'  agii,  ou  qu^ils  en  ignoroienl  la 
pisotesse:  finalmente  si  può  dire  che  non  mancano 
scrittori  i  quali  pensaho  che  1'  anno  antidiluviano 
fosse  di  360  giorni-  Questa  opinione  sulla  lunghezza 
dell'anno  antidiluviano  di  360  giorni  viene  confer- 
mata dalla  storia  egiziana.  Abramò,  dice  lo  storico 
delle  antichità  ebraiche,  insegnò  agli  egiziani  la  scienza 
dei  numeri  e  delle  stelle.  Ora  Abramo  visse  48  anni 
con  Faleg:  questi  fu  contemporaneo  di  Noè  per  an- 
ni 24-9  :  non  poteva  dunque  ignorare  le  tradizioni 
antidiluviane.  È  certo  poi  che  gli  egiziani  conserva- 
rono per  lungo  tempo  la  tradizione  di  questo-  anno 
di  360  g"orni:  data  poi  la  correzione  di  5.^  6,°''  gli 
egiziani  ritennero  sempre  la  memoria  di  questo  anno, 
che  essi  chiamarono  anno  religioso  consacrato  dal 
rito  di  360  vasi  posti  nel  tempio  di  Osiride,  i  quali 
con  diurna  cerimonia  si  colmavano  di  latte  da  360 
sacerdoti.  {H) 

§.  IX. 

Lasciando  però  ogni  altro  esame  su  questo  pe- 
riodo di  sei  secoli,  conchiuderò  che  quando  anche 
si  voglia  supporre  nei  popoli  antidiluviani  cognizione 
tanto  estesa  dei   movimenti  del   sole  e  della  luna  , 


38 
non  segue  perciò  che  essi  sieno  stati  i  primi  in- 
ventori della  sfera,  tanto  piii  che  a  sentimento  dello 
stesso  Bailly  sembra  che  i  popoli  antidiluviani  non 
avessero  cognizione  alcuna  del  meridiano  ,  uno  dei 
principali  circoli  della  sfera  che  suppone  la  cogni- 
zione del  polo. 


Il  nome  di  sfera  troppo  vagamente  si  suol  pren- 
dere dagli  antichi  scrittori-  Si  parla  di  sfere  più  o 
meno  perfette  ,  per  cui  si  potrebbe  affermare  che 
l'invenzione  della  sfera  quale  noi  conosciamo  non  sia 
opera  di  una  sola  nazione,  ma  che  siasi  formata  a 
misura  che  gli  antichi  popoli  progredivano  nelle  co- 
gnizioni astronomiche,  e  nello  studio  dei  movimenti 
dei  corpi  celesti  (/).  Egli  è  certo  però  che  non  può 
concepirsi  l' idea  della  sfera  senza  una  cognizione 
del  polo  ,  della  concavità  della  sfera  celeste  ,  della 
rotondità  della  terra,  e  del  movimento  proprio  del 
sole.  Una  sfera  dunque  composta  dei  circoli  orizzonte, 
meridiano,  equiìtore,  eclittica,  colurì,  è  quella  che 
si  riferisce  alle  mie  ricerche:  quali  sieno  le  opinioni 
le  più  probabili  sull'antichità  di  questa  sfera  com- 
pleta: a  qual  popolo  se  ne  debba  con  qualche  fon- 
damento attribuire  1'  invenzione:  in  quale  epoca  pros- 
simamente sia  slata  usata:  ecco,  o  colleghi,  le  que- 
stioni che  brevemente  saranno  da  me  sviluppate  in 
questo  accademico  trattenimento,  battendo  la  via  la 
più  sicura  per  giungere  alla  soluzione  di  queste  que- 
stioni, soluzione  che  non  può  ottenersi  senza  un  esa- 
me guidato  da  una  critica  rigorosa  dei  monumenti 


39 

storici,  e  delle  antiche  osservazioni  astronomiche  che 
ci  sono  giunte  dalle  memorie  degli  antichi  popoli  {L). 

§.  XI. 

E  qui,  o  colleghi,  mi  giova  osservare  che  sotto 
il  nome  di  eclitlica  intendo  il  solo  circolo  obliquo 
all'equatore  che  descrive  apparentemente  il  sole  in  un 
anno.  Prescindo  affatto  da  quella  fascia  circolare  che 
si  estende  di  pochi  gradi  al  di  sopra  e  al  di  sotto  di  que- 
sto circolo,  chiamata  zodiaco.  Prescindo  da  ogni  idea 
di  costellazione,  e  in  modo  speciale  dalle  12  costella- 
zioni zodiacali.  Non  intendo  di  entrare  nella  spinosa 
questione  sulla  origine  di  queste  e  delle  altre  costel- 
lazioni in  genere.  Devierei  troppo  dal  mio  scopo  e 
dalla  mia  via,  tanto  piiì  che  molti  scrittori  parlando 
della  antichità  dello  zodiaco  comprendono  sotto  que- 
sto nome  la  sfera  stessa  ,  quasi  che  lo  zodiaco  sia 
parte  tale  della  sfera  ,  che  senza  questo  non  possa 
concepirsi  quella  di  cui  intendo  parlare.  La  divisione 
dello  zodiaco  e  per  conseguenza  della  eclittica  in  un 
dato  numero  di  parti  eguali  è  ben  distinta  dalle  tì- 
gure  e  dai  nomi  delle  costellazioni  che  sogliono  oc- 
cupare le  parti  medesime  (M).  Presso  gli  antichi  le 
varie  stelle  di  uno  stesso  gruppo  erano  congiunte  per 
mezzo  di  linee  rette,  i  nomi  delli  diversi  gruppi  o 
configurazioni  di  stelle  erano  diversi  presso  le  diverse 
nazioni  :  le  costellazioni  dunque  non  formano  una 
parte  essenziale  della  sfera.  Saviamente  il  sig.  Le- 
tronne  [Journal  des  savanls  aonl  1839)  dopo  di  aver 
dimostrato  che  la  divisione  dello  zodiaco,  in  27  o 
28  parti  relativamente  al  moto  della  luna,  o  in  12 


40 

parti  e  nei  suoi  multipli  relativamente  al  moto  del 
sole,  poteva  esistere  chez  des  petiples  qui  n'  ont  eu 
entre  eux  aiicwie  commimication,  parce  qii'elle  rèsuUe 
de  phénoménes  constanls  et  partout  les  meme.s;*segue 
a  dire  :  Mais,  comme  les  groupes  rf'  étoiles  affectent 
raremenl  des  formes  délerminées,  et  comme  d'ailleurs 
on  peut  les  comjwser  de  vingl  maniéres  dijférentes,  il 
est  évident  que  Vusage  des  mémes  groupes  ou  des  mé- 
mcs  fignres,  ches  deux  peuples,  ne  petit  élre  un  effet 
du  hasard;  V  un  des  deux  les  aura  de  tonte  nécessité 
empruntés  àVautre.  Lo  stesso  astronomo  è  tanto  per- 
suaso di  questa  verità,  che  la  3."  delle  sue  proposi- 
zioni sulla  origine  dello  zodiaco  è  formulata  nel  modo 
seguente:  U  idée  de  la  division  zodiacale  est  étrangére 
à  la  sphére  primitive  des  grecs^  elle  ij  a  été  transpor- 
tèe  aprés  coup;  mais  les  noms  et  les  figures  du  zo- 
diaque  sont  d' invention  grecque.  Dopo  ciò,  segue  che 
dai  nomi  e  dalle  figure  delle  costellazioni  si  può  so- 
lamente dedurre  che    una  data  sfera  appartiene  ad 
una  data  nazione,  come  sono  appunto  le  tre  sfere 
delle  quali  parla  Scaligero  nelle   note  a  Manilio,  la 
persiana  cioè,  1'  indiana,  e  la  greca  :  segue  anche  es- 
sere, per  esempio,  cosa  ridicola  di  attribuire  ai  greci 
la  invenzione  della  sfera    perchè  quasi  tutte  le  co- 
stellazioni simboleggiano  la  storia  e  le  favole  di  que- 
sta nazione:  ai  greci  tardi  discepoli,  e  non  maestri 
delle  scienze  che  ebbero  culla  nell'Oriente:  ai  greci, 
i  quali  al  dir  di  Seneca:  Nondum  sunt  anni  giùngenti 
et  mille  ex  quo  stellis   numeros  et  nomina  fecerunt. 


41 

xn. 


Fissato  in  tal  modo  lo  stato  della  questione  è 
d'uopo  discendere  all'epoca  dopo  il  diluvio,  se  vo- 
gliamo pronunciare  un  giudizio  molto  probabile  e  for- 
se anche  certo  sull'antichità  della  sfera.  Ma  qui  siamo 
nuovamente  involti  nelle  tenebre  dell'antica  cronolo- 
gia. Incertezza  sull'epoca  di  questo  lacrimoso  disa- 
stro di  tutto  il  genere  umano  :  grande  disparità  di 
opinioni  nelle  opere  dei  più  dotti  scrittori.  Ma  senza 
fissare  questa  epoca,  a  me  sembi^a  che  il  filosofo 
debba  ragionare  nel  modo  seguente.  Egli  è  certo  che 
la  sola  famiglia  di  Noè  fu  salva  dalla  universale  inon- 
dazione :  la  terra  dunque  si  trovava  relativamente 
agli  uomini,  come  nei  primi  anni  del  mondo,  quando 
era  abitata  dalla  sola  famiglia  di  Adamo.  Doveva  dun- 
que trascorrere  una  lunga  serie  di  anni  affinchè  la 
terra  nuovamente  si  popolasse.  Le  nuove  popolazioni 
però  non  formarono  una  sola  famiglia,  una  sola  so- 
cietà. Disperse  e  separate'  dettero  origine  a  quattro 
grandi  nazioni,  indiana,  cinese,  caldaica  ed  egiziana. 
Anche  nell'epoca  dopo  il  diluvio,  il  sig.  Baillij  non 
può  dimenticare  il  preteso  suo  antico  popolo  asia- 
tico. Suppone  che  questo  popolo,  dottissimo  nell'a- 
stronomia, scolpisse  sopra  colonne  di  pietra  i  risul- 
tati delle  astronomiche  osservazioni:  pensa  che  queste 
colonne  abbiano  potuto  resistere  all'  impeto  delle 
acque  inondatrici,  e  che  sieno  restate  come  perenni 
monumenti  dell'  astronomia  antidiluviana,  A  senti- 
mento dunque  di  Dailly,  i  popoli  che  abitarono  la 
terra  dopo  il  diluvio  potevano  conservare  una  scienza 


42 

tradizionale,  e  pel  commercio  che  ebbero  cogli  in- 
dividui di  quella  sola  famiglia  che  fortunatamente 
contava  le  due  eia  del  mondo,  e  per  la  memoria  di 
questi  monumenti  scientifici  che  seppero  resistere 
alla  universale  inondazione:  che  anzi  suppone  mag- 
giori cognizioni  in  quei  popoli,  che,  non  ostante  la 
separazione,  abitarono  le  diverse  parti  dell'Asia,  paese 
già  abitato  dai  primi  uomini,  che  in  quelli,  i  quali 
emigrando  dall'Asia,  non  potevano  conservare  che  la 
sola  tradizione  ricevuta  dai  discendenti  di  Noè.  Ri- 
flette nello  stesso  tempo  che  i  fatti  astronomici  della 
scienza  antidiluviana  erano  tracciati  in  caratteri  eni- 
gmatici, e  in  geroglifici  molto  brevi,  e  senza  alcuna 
spiegazione.  Se  dunque  si  conservava  la  memoria  di 
queste  osservazioni,  l'utilità  e  l'uso  era  perduto:  quin- 
di conchiude  che  questi  popoli  possedevano  gli  avan- 
zi, e  non  gli  elementi  di  una  scienza  [N).  L'epoca 
del  diluvio  è  fissata  dallo  storico  40  secoli  avanti 
l'era  cristiana,  e  la  cronologia  delle  accennate  na- 
zioni monta  ai  34  in  35  secoli  avanti  l'era  mede- 
sima. 

§.  XJII. 

Sarebbe  cosa  inutile  perdersi  nelle  tenebre  del- 
l'antichità per  verificare  l'epoche  di  questi  popoli.  Le 
antiche  storie  sono  troppo  incerte  :  l'abuso  troppo 
grande  della  mitologia  mescolata  non  solamente  ai 
grandi  fatti  ed  avvenimenti  storici,  ma  anche  ai  riti 
delle  religioni  le  piij  ridicole  e  le  più  superstiziose, 
la  confusione  della  vera  astronomia  coll'astrologia  la 
pili  pazza  e  la  più  stolida,  la  pretensione  che  ave- 
vano di  appartenere  alla  più  remola  antichità   deri- 


43 

vando  la  loro  origine  dalle  false  loro  divinità,  le  ren- 
dono sempre  più  oscure  ed  involte  in  foltissime  te- 
nebre. La  luce  però  che  rischiara  e  disperde  queste 
folte  tenebre  sono  le  sole  osservazioni  astronomiche 
consegnate  nelle  antiche  memorie  di  queste  nazioni. 
Un  rigoroso  esame  di  questi  autentici  monumenti  del- 
l'antica astronomia  giunti  a  noi  dalla  Babilonia,  dal- 
l' Egitto,  dalla  Grecia;  uno  studio  profondo  su  i  me- 
lodi astronomici  usati  nella  Cina  e  nell'  India;  esame 
e  studio  corroborato  dalle  sublimi  cognizioni,  sco- 
perte, e  metodi  che  si  debbono  alla  moderna  astro- 
nomia, è  la  sola  luce  che  può  rischiarare  queste  te- 
nebre. Questa  luce  è  vivissima.  Noi  non  vogliamo 
indagare  le  epoche  delle  dinastie  di  queste  nazioni. 
I  popoli,  che  si  sottomisero  ai  loro  duci  nella  sepa- 
razione dell'  umana  società  dopo  il  diluvio,  non  su- 
bito potevano  essere  giunti  alle  cognizioni  astrono- 
miche: secoli  e  secoli  dovevano  trascorrere  prima  che 
questi  popoli  si  dessero  allo  studio  delcielo:  biluce 
vivissima  di  cui  parliamo  ci  assicura  delle  epoche, 
nelle  quali  questi  popoli  coltivarono  la  scienza  astro- 
mica  :  ciò  è  piij  che  sutTiciente  per  fissare  l'epoca 
della  invenzione  e  dell'uso  della  sfera. 


XIV. 


Questa  luce  medesima  è  già  da  un  secolo  che  il- 
lumina l'orizzonte  scientifico  di  Europa.  Allo  apparire 
di  questa  luce  sparve  it  preteso  popolo  abitatore  del- 
l'Asia centrale  immaginato  da  Bailhj.  Questo  popolo 
che  in  tempi  remotissimi,  e  lontanissimi  da  ogni  sto- 
ria possedeva  le  piiì  sublimi  cognizioni  della  scienza 


u 

astronomica:  questo  popolo  che  emigrando  dal  paese 
natio,  e  trascorrendo  le  diverse  i)arti  del  mondo,  fu 
il  maestro,  e  l'istitutore  della  scienza  astronomica: 
questo  popolo  ,  o  colleghi,  le  sue  dotte  cognizioni 
sono  una  favola,  una  idea  fittizia,  e  la  sua  esistenza 
è  cancellata  dalla  storia.  Allo  apparire  di  questa  luce 
cadde  l'assurda  e  ridicola  opinione  di  Ditpiiis.  Soste- 
nere contro  ogni  sana  critica,  che  lo  zodiaco  sia  di 
origine  egiziana  nella  semplice  ipotesi  che  simboleg- 
giasse i  fenomeni  naturali  dell'Egitto  nel  corso  di  un 
anno  :  pretendere  che  l'origine  debba  contarsi  dal- 
l'epoca in  cui  l'ariete  corrispondeva  allo  equinozio  di 
autunno,  cioè  130  e  150  secoli  avanti  l'era  cristiana, 
sono,  0  colleghi,  vane  e  ridicole  congetture,  sono  so- 
gni di  un  uomo  che  fondato  sulle  favole  e  sulle  su^ 
perstizioni  degli  antichi  popoli  ha  preteso  di  formare 
un  empio  e  falso  sistema:  all'apparire  di  questa  luce 
dimenticò  la  storia  quel  famoso  Atlante  figlio  di  Ura- 
no, e  fratello  di  Saturno  inventore  della  sfera.  Que- 
sta sfera  che  ebbe  la  sua  origine  r^el  nord  dell'Affrica, 
e  che  successivamente  passò  agli  egiziani,  agli  indiani, 
ai  caldei,  e  ai  cinesi,  è,  o  colleghi,  una  favola,  come 
appunto  è  favoloso  il  nome  dell'inventore  figlio  del 
eieìo,  e  fratello  del  tempo  [0]  (P).  Guidato  da  questa 
stessa  luce  il  cel-  Giovanni  Bernoitlli  nelle  sue  dotte 
ricerche  sulla  storia  della  polare  rinunziò  ad  ogni 
astronomia  antidiluviana:  Je,  dice  egli,  ne  in  arroterai 
pas  davanlàge  dans  cet  essai  historique  sur  Véloih  po- 
laire  aux_  lems  qui  ani  précède  le  déluge:  il  seroit  dif- 
ficile d'ailleurs,  (aule  de  données,  de  s'y  arrèler  plus 
longtems,  et  il  faudroit  toiicher  la  materie  si  delicate, 
encore  et  si  obscure  de  Vintervalle  à  supposer  entre 


45 

la  creàlion  et  le  déliige  {n).  .  .  .  Quoi  qiCil  en  soit^ 
je  crois  voir  non  seulment  dans  Vouvrage  de  M.  Bailly^ 
mais  dans  d'  aulres  encore  qne  fai  eu  occasion  de 
consulterà  des  preuves  assés  évidentes  qiCenviron  300 
ans  avant  notre  ere  les  peuples  orienta  èioient  dejà 
suffìsamment  avaneès,  aii  moins  dans  la  connoisance 
des  principales  apparences  qiie  présente  le  ciel  ètoilé 
et  qne  dés-lors  nos  conslellalions  circompolaires  leur 
doivent  avoir  élé  connues.  Dopo  ciò  ho  dovuto  an» 
che  io  rinunziare  ad  ogni  astronomia  antidiluviana: 
e  dopo  un  esame  rigoroso  sulle  antiche  osservazioni 
mi  sono  persuaso,  che  l'origine  di  una  sfera  com- 
pleta, quale  è  stala  da  me  descritta,  non  può  ri- 
montare che  ai  24  o  25  secoli  avanti  l'era  cristiana, 

§•  XV. 

È  vero  però  che  le  antiche  osservazioni  astrono- 
miche, le  quali  mi  portano  a  fissare  questa  epoca, 
non  sono  per  la  maggior  parte  riferibili  strettamente 
alle  mie  ricerche,  come  quelle  che  si  potevano  fare 
senza  la  cognizione  esalta  della  sfera;  ma  sono  sem- 
pre di  un  gran  vantaggio  per  fissare  con  certezza 
alcune  epoche  della  storia  dell'astronomia  presso  gli 
antichi  popoli,  epoche  sempre  minori  di  30  secoli 
avanti  l'era  cristiana.  In  lai  maniera  mi  confermo 
sempre  piii,  che  le  mie  ricerche  dovevano  partire  dalle 
epoche  posteriori  al  diluvio,  e  mi  persuado  che  in 
dette  epoche  si  trovano  presso  le  antiche  nazioni 
elementi  di  una  astronomia  sufficientemente  perfe- 
zionata, e  cognizioni  tali  del  cielo  stellato  che  faciU 


46 

mente  potevano  questi  popoli  giungere  alla  inven- 
zione della  sfera. 

S.  XVI. 

La  costellazione  delle  Pleiadi,  come  si  ha  dal  li- 
bro di  Giobbe,  era  ben  cognita  ai  popoli  dell'Asia. 
La  sua  forma  a  guisa  di  un  pesce,  l'unione  di  molte 
stelle,  delle  quali  alcune  molto  brillanti,  la  rendeva 
ben  rimarcabile,  e  degna  di  essere  osservata.  Ebbe 
diversi  nomi  presso  i  popoli  orientali  ,  e  fu  di  un 
uso  grande  nell'antichità.  Il  nascere  e  il  tramontare 
di  questa  costellazione  era  attentamente  osservato. 
II  principio  dell'anno  era  regolato  al  nascere  delle 
Pleiadi  nella  sera  :  il  nascere  o  il  tramontar  nella 
mattina  divideva  l'anno  rurale  in  due  parti;  il  na- 
scere delle  Pleiadi  nella  mattina  indicava  il  principio 
dell'estate,  e  il  tramontar  delle  stesse  Pleiadi  nella 
mattina  segnava  il  principio  dello  inverno-  Tolomeo 
riporta  una  antica  osservazione,  la  quale,  a  sentimento 
di  i?f«7/?/,  appartiene  agli  indiani-  In  questa  ossserva- 
zione  si  assegna  il  nascere  delle  Pleiadi  nella  sera 
sette  giorni  prima  dell'equinozio  di  autunno.  Nella 
epoca  dunque  della  osservazione  le  Pleiadi  dovevano 
precedere  di  7°  in  8°  l'eciuinozio  di  primavera.  Al 
principio  del  1750  la  bella  delle  Pleiadi  aveva  56".  30' 
di  longitudine:  dunque  dal  1750  fino  all'epoca  della 
osservazione  il  moto  in  longitudine  fu  di  circa  63"; 
ma  per  la  precessione  degli  equinozi  questo  inter- 
vallo si  descrive  in  4536  anni,  dunque  l'epoca  della 
osservazione  monta  all'anno  2786  avanti  l'era  cri- 
stiana- Il  sig.  Biot  con  calcolo  rigoroso  per    1'  an- 


47 
no  -  2357  (il  segno  -  posto  avanti  l'epoca  indica  sem- 
pre gli  anni  avanti  l'era  cristiana)  trova 

V3  Pleiadi  AR  =      358."  39.'  16." 
D=:-f-    3.  10.  26 

Supponiamo  l'obliquità  della  eclittica  di  23.o  59'.  10" 
e  si  avrà  per  l'epoca  medesima  —  2357 

>j  Pleiadi  long,  359.°  55'.  31" 

dunque  nell'anno  —  2357  la  >j  delle  Pleiadi  era  pros- 
simamente nell'equinozio  di  primavera;  ma  per  ve- 
rificare l'osservazione  riportata  da  Tolomeo,  le  Pleiadi 
dovevano  in  quell'epoca  precedere  l'equinozio  di  pri- 
mavera di  6."  in  7.",  dunqne  la  longitudine  doveva 
essere  di  circa  353.°;  ma  al  principio  del  1750  la 
longitudine  era  di  56.°  circa,  dunque  il  moto  in  lon- 
gitudide  dall'epoca  della  osservazione  fino  al  1750 
sarà  di  63.»  circa,  come  si  è  fissato.  Da  questo  cal- 
colo si  trova  anche 

—  2357  long.  >7=-359.''55.'31." 
-4-  1750  56.  30.  17. 

dunque  in  4.107  anni  moto  in  longitudine56.°34.'46.", 
e  r  annua  precessione  49."  59  lisultato  conforme 
alla  teoria.  Ciò  prova  che  l'obliquità  dell'eclittica  di 
23."  59.'  10."  per  l'anno  —  2357  è  compatibile  colla 
teoria. 


48 

§.  XVII. 

Da  un'altra  antica  osservazione  risulta  che  il  set- 
timo giorno  dopo  l'equinozio  di  autunno  le  Pleiadi 
erano  visibili  nella  mattina  e  nella  sera.  Dal  calcolo 
del  P.Petavio  si  riporta  l'osservazione  all'anno — 2200. 
La  longitudine  della  n  era  di  2.°  06.'  21 ."  Finalmente 
per  una  testimonianza  di  Plinio  esisteva  una  antica 
astronomia  pubblicata  sotto  il  nome  di  Esiodo.  In 
questa  si  trova  che  nel  giorno  dell'equinozio  di  au- 
tunno, il  tramonto  delle  Pleiadi  era  visibile  al  na- 
scere del  sole.  Lo  stesso  P.  Pelavio  riporta  questo 
fenomeno  all'anno  — 2278  e  la  >3  delle  P/e/urf?  a vea 
circa  1.°  di  longitudine. 

§.  XVIIL 

L'  epoche  che  risultano  dalle  osservazioni  delle 
Pleiadi  sono  tutte  posteriori  al  diluvio.  Se  però  non 
m' inganno,  le  stesse  osservazioni  dimostrano  un  certo 
successivo  sviluppo  nelle  cognizioni  astronomiche.  La 
prima  monta  all'anno  —  2700,  cioè  2  o  3  secoli  dopo 
il  diluvio:  in  questa  si  parla  del  solo  nascere  delle 
Pleiadi,  osservazione  ovvia  e  facile:  si  assegna  questo 
fenomeno  sette  giorni  avanti  l'equinozio  di  autunno: 
la  divisione  dunque  dell'anno  nelle  quattro  stagioni, 
e  l'epoca  se  non  precisa,  almeno  prossima  del  prin- 
cipio di  ciascuna  stagione,  si  deve  credere  ben  co- 
gnita ai  popoli  orientali.  Le  altre  osservazioni  che 
si  riportano  agli  anni  —  2300  mi  sembrano  più  ri- 
cercate: si  parla  in  queste  della  visibilità  delle  Pleiadi 


49 
nella  sera  e  nella  mattina;  del  tramonto  di  questa 
costellazione  al  nascer  del  sole  ;  dell'  epoca  precisa 
di  questi  fenomeni:  tutto  ciò  mi  sembra  dimostrare 
una  certa  costanza  nelle  osservazioni  di  questa  co- 
stellazione, e  un  certo  maggior  sviluppo  nelle  cogni- 
zioni astronomiche.  Difatti  il  tramonto  delle  pleiadi 
nel  giorno  dell'  equinozio  di  autunno  al  nascer  del 
sole  altro  non  è  in  buoni  termini  che  l'opposizione 
del  sole  colle  pleiadi,  essendo  180°  la  longitudine 
del  sole  e  0."  21 .'  quella  della  v]  pleiadi  {Q). 

§.  XIX. 

Dall'antica  storia  dei  caldei  di  Zend-avesta  tra- 
dotta dal  sig.  Anquetil  sappiamo  che  questi  popoli 
riguardavano  le  stelle  come  una  moltitudine  di  sol- 
dati. Quattro  belle  stelle,  cioè  taschieì-f  satevis,venandi 
hastoreng,  erano,  secondo  la  loro  opinione,  i  coman- 
danti che  sorvegliavano  e  custodivano  le  altre.  La  pri- 
ma custodiva  l'on'eH/e,  l'altra  il  sudala  terza  Vocci- 
dente,  e  la  quarta  il  nord.  Ecco  intanto  una  divisione 
della  sfera  celeste  in  quattro  parti  eguali,  le  quali 
corrispondevano  ai  quattro  punti  cardinali  est^  sud, 
oivestj  nord.  Bailly  è  di  parere  che  le  quattro  stelle 
sieno  Aldebaran,  Regolo,  Antares,  Fomalhaut.  Le  lon- 
gitudini di  queste  quattro  stelle  al  principio  dell'an- 
no 1860  sono 


a  Toro           long. 

67. 

"49. 

56."  7 

«  Leone 

147. 

53. 

0.  0 

a  Scorpione 

246. 

48. 

28,  0 

a  Pese.  Aust. 

331. 

53. 

14.  6 

G.A.T.CXLIII. 

50 

Le  differenze  di  queste  longitudini  non  sono  di  90." 
e  riportate  ad  una  slessa  epoca  di  27  o  28  secoli 
avanti  l'era  cristiana  non  collimano  esattamente  ai 
punti  cardinali:  non  ostante  però  le  differenze  sono 
ben  piccole,  e  compatibili  colle  osservazioni  grosso- 
lane di  quei  tempi  :  si  avrebbe  infatti 


■^  2700  a  Toro           long. 

4.' 

'  (7. 

a  Leone 

84. 

21 

«  Scorpione 

183. 

16 

«  Pese.  Ausi. 

268. 

21 

§.  XX. 

Nella  cronologia  cinese  troviamo  cognizioni  astr(^- 
nomiche  molto  superiori  a  quelle  delle  altre  nazioni. 
Un  gran  nombre,  scrive  il  lodato  Bernoulli,  lant  cìii- 
nois  qiieuropéens,  s'accordenl  à  dire  que  l'aslronomie 
étoit  cléjà  fori  avancée  sous  Fo-hij  qu  ih  regardent 
cornine  le  fondaleur  de  l'empire  de  la  Chine,  et  que 
la  plùpart  disenl  avoir  comm.§ncé  de  régner  2952  ans 
avant  I.  C.  Le  P.  Gaubil  regarde^  d^aprés  les  livres 
Y-King,  Tcheou-pey  et  d'aiitres,  comme  une  tradition 
assés  probable  que  Fo-hi  ou  Fou-hi  a  le  premier  en- 
seignè  V astronomie',  et  M.  Bailly  dit,  sur  la  foi  du  P. 
Martini,  que  suivant  V  hisloire  c'étoit  un  prince  con- 
sommé dans  Vastronomie  ,  qu  il  donna  la  figure  des 
corps  célesles,  qu  il  cut  la  connoissance  de  leurs  mou- 
vemens  et  qu'  il  en  dressa  des  tables.  Je  ne  trouve  ce- 
pendant  rien  de  précis  ni  de  certain  sur  les  travaux 
astronomiques  de  cel  empereur,  pas  me  me  des  obser- 
vations  superficielles  qu  il  ail  faites  en  considérant  les 


51 

éloiles  éparses  dans  le  del;  et  suppose  qiie  Ics  histo- 
riens  (issent  menlion  plus  posilivemenl  de  quelqne  oh- 
servation  intéressante,  seroit-il  permis  'd'y  ajouler  foi, 
tandis  que  ceux  qui  ont  délivré  cette  tradition  du  re- 
gne  de  Fo^hi  ont  pu  dire  qiC  il  étoit  fils  d'un  arc-en- 
ciel,  qu'  il  navoit  de  V  homme  que  la  téle,  et  qu  il 
étoil  serpent  par  tout  le  corps  ?  Dopo  ciò  l' illustre 
astronomo,  nelle  sue  ricerche  sulla  polare,  lascia  da 
parie  questo  amfibio  e  il  suo  successore  Chin-nong., 
al  quale  la  tradiziooe  attribuisce  la  testa  di  bove, 
chianrìandolo  VApis  Chinois,  e  passa  iaimediatamonte 
ai  27  e  24  secoli  avanti  l'era  cristiana,  cioè  agli  im- 
peratori Hoang-ti  ed  Yao,  sotto  i  quali  l'astronomia 
fiorì  neir  impero  cinese,  come  risulta  da  molte  os- 
servazioni, delle  quali  citerò  quelle  solamente  che  for- 
mano la  base  del  mio  argomento. 

§.  XXI. 

1  cinesi,  sciive  Bernoulli,  ont  transporté  en  quel- 
qne sorte  tonte  la  Chinesdans  le  del,  en  plagant  du 
còte  du  nord  ce  qui  a  le  plus  de  rapport  à  la  cour 
et  à  la  personne  de  Vempereur:  quindi  il  polo,  o  la 
polare,  era  il  simbolo  dell'  imperatore:  le  stelle  più. 
vicine  al  polo  simboleggiavano  1'  imperatrice,  l'erede 
della  corona,  i  primi  ministri  dello  stato,  le  guardie 
del  trono.  Ora  sotto  l' impero  di  Hoang-ti  uno  dei 
suoi  ministri  chiamato  Yu-clii  determinò  la  polare. 
Ecco,  dice  Bernoulli,  la  prima  menzione  che  si  faccia 
nelle  antiche  storie  di  quella  stella  vicinissima  al  polo 
che  appunto  per  la  sua  vicinanza  si  dice  polare.  L'e- 
poca rimonta  ai  26  o  27  secoli  avanti  l'era  cristiana. 


52 

Bailhj  pensa  clic  la  polare  di  Yu-chl  possa  essere 
r  oc  del  Dragone.  Biol  con  calcolo  rigoroso  per  l'an- 
no —  2357,  cioè  sotto  l' ioìpero  di  Yao,  trova  quattro 
stelle  del  Dragone  vicinissime  al  polo.  Le  declina^ 
zioni  sono  le  seguenti 

^  2357     42/  Dragone Deci.  88.°23.'  59." 

184.  88.    0.    2 

lOi.  88.  14.  16 

«.  ^  87.  32.  47 

Se  poniamo  che  la  scoperta  accadesse  nell'  an- 
no —  2690,  r  «  del  Dragone  di  3."  grandezza  visi- 
bile ad  occhio  nudo  avrebbe  avuto  una  declinazione 
di  circa  89.°  20.'  Le  altre  tre  stelle  di  5."  in  6."  gran- 
dezza non  potevano  prendersi  per  polare  ,  e  anche 
noi  diciamo  polare  1'  &  deWorsa  minore  di  2."  gran- 
dezza a  preferenza  del  X  più  vicina  al  polo,  ma  di  5." 
grandezza.  Dope  ciò  possiamo  affermare  che  nell'an- 
no —  2690  circa  si  conosceva  il  polo  ,  cognizione 
indispensabile  per  la  formazione  della  sfera.  Difatti 
dalla  storia  cinese  noi  sappiamo,  che  lo  stesso  Yu-chi 
scopritore  della  polare  avoil  compose  une  certame 
machine  en  forme  de  sphere,  la  quelle  représentoit  les 
orhes  célesles.  Ecco,  o  colleghi,  la  prima  idea  di  una 
sfera  che  venne  immediatamente  dopo  la  scoperta 
della  polare.  Questa  prima  sfera  deve  però  dirsi  im- 
perfetta ed  incompleta  :  le  cognizioni  astronomiche 
erano  ancora  ben  limitate:  ma  circa  tre  secoli  dopo, 
sotto  r  impero  di  Yao,  noi  abbiamo  presso  i  cinesi 
un  tal  sistema  di  osservazioni ,  sistema  invariabil- 
mente legato  alla  forma,  ai  riti   religiosi,  e  all'uso 


53 
continuo  dell'aslrologia,  che  abbiamo  lulto  il  diritto 
di  asserire  avere  i  cinesi  perfezionala  la  sfera  ideata 
già  da  Yu-chi  {R).  Leggiamo  difatti  che  quattro  stelle 
mao,  nias,  hi,  hiu  determinavano  i  due  equinozi  e  i 
due  solstizi.  Bailhj  è  di  parere  che  queste  quattro 
stelle  sieno  quelle  stesse  che  presso  i  caldei  deter- 
minavano i  quattro  punti  cardinali.  Dalle  recenti  ri- 
cerche del  sig.  Biol  [Journal  des  savants  1839  et  1840) 
i  nomi  delle  quattro  stelle  sono  mao,  sing,  fang,  hiu, 
corrispondenti  alle  vj  delle  pleiadi,  a  delV  idra,  n  scor-^ 
pione,  /3  aquaiib.  Le  longitudini  pel  l.*del  1750  sono 

-+-  1750  >j  Pleiadi        long.  56.°30.'17 

a  Idra                  "  143.  48.     8 

n  Scorpione  239.  27.     4 

/3  Aquario  319.  54.  35 

Riportando  queste  longitudini  alla  stessa  epoca  non 
potranno  mai  collimare  esattamente  ai  punti  equi- 
noziali e  solstiziali ,  ma  le  differenze  sono  piccole. 
Si  ha  per  esempio 

—  2350  >7  Pleiadi  long.  359.  16.  32 

«  Idra  86.  34.  23 

n  Scorpione  182.  13.  19 

/3  Aquario  262.  40.  50 

§.   XXIL 

Finalmente  dagli  annali  cinesi  sappiamo,  che  le 
osservazioni  degli  astronomi  erano  dirette  a  fissare 
la  posizione  delle  stelle  rispetto  al  piano  dell'equa- 


54 
tore.  Ora  la  posizione  di  un  astio  rispetto  a  que- 
sto piano  si  ha  da  quelle  due  coordinate  che  noi 
diciamo  ascensione  retta  e  distanza  polare'dell'astro. 
È  vero  però  che  nella  moderna  astronomia  le  ascen- 
sioni rette  ,  che  si  contano  sull'  equatore  ,  partono 
tutte  da  uno  stesso  punto  ,  cioè  dalla  intersezione 
della  eclittica  coH'equatore,  variando  dallo  zero  fino 
a  360°,  ovvero  dallo  0''  fino  alle  24*;  ma  è  anche 
vero  che  qualunque  punto  dell'equatore  può  servire 
di  origine  alle  ascensioni  rette.  Ciò  posto,  ecco  in 
qual  maniera  Biol  riporta  questo  metodo  di  osser- 
vazioni cinesi,  metodo  che  rimonta  a  pili  di  '20  se- 
eoli  avanti  G.  C.  Les  posilions  des  aslres  s'y  deter- 
minaient  par  les  époques  de  leur  passage  aii  méndieUi 
et  par  leurs  dislances  angulaires.au  pòle  visible,  exacte- 
meni  comme  noiis  le  faisons  aujord'  km.  Les  inier- 
valles  temporaires  des  passages  observès,  èlant  expri- 
mès  en  parùes  d\ine  mème  revolution  diurne,  don- 
naient  les  angles  dièdres  conipris  enire  les  mèridiens 
propres  des  astres  observès;  ces  inlervalles  s'apprecia- 
ienl  an  moyen  f/'  horloges  d'eau,  qui  peraissent  avoir 
élé  de  très-bonne  heure  à  niveau  Constant:  condition 
necessaire  de  Vexactitude  que  Von  trouve  dans  plu^ 
sieurs  déterminalions  astronomiques  forte  anciennes,  dè- 
pendanles  de  leur  èvalualion.  Pour  èviler  qu  ils  ne 
fussent  trés-prolongèsy  auquel  cas  les  irrégularités  pos- 
sibles  des  horloges  auraient  introduit  trop  d'errenrs 
dans  leurs  mesures,  les  chinois  employaient  un  arti- 
fice  auquel  nous  avons  également  recours.  Ils  avaient 
choiai  un  certain  nombre  d'ètoiles,  conventionnellement 
désignées  comme  celles  que  nous  appelons  aujourdliui 
fondamentales;  puis,  concevanl  la  sphère  celeste  coupée 


?5 

par  les  méridiens  de  ces  éloiles  en  sectcurs  sphèri- 
qiies  aijaiit  leur  sommet  commun  au  pòle  visible,  ih 
rapportaienl  à  ces  plcins  ,  que  notis  appellerions  ho- 
raires,  tous  les  méridiens  des  atres  compris  dans  cha- 
qiie  trancile;  de  sorte  quils  avaient  seidement  à  me- 
surer  ^intervalle  de  temps  restreint  qui  s'ècoidait  entre 
le  passage  au  méridien  de  Vaslre  quils  voulaient  ob- 
server,  et  le  passage  de  Vét'oile  fondamentale  doni  le 
méridien  s'en  trouvait  angidairement  le  plus  proche. 
Questo  metodo  di  osservazioni  è  ingegnosissimo,  e 
da  esso  risulta  evidentemente  che  i  cinesi  23  in  24 
secoli  avanti  G  C.  conoscevano  esattamente  il  polo, 
il  meridiano,  e  l'equatore. 

§,.  XXIII. 

Le  stelle  fondamentali,  o  le  determinatrici  dei 
cinesi,  erano  28.  Quattro  però,  come  si  ò  veduto  , 
determinavano  i  due  punti  equinoziali,  e  i  due  punti 
solsliziali:  i  meridiani  propri  di  queste  stelle  formano 
per  coseguenza  i  due  coluri.  Per  completare  la  sfera 
manca  l'eclittica,  o  la  via  che  apparentemente  de- 
scrive il  sole  in  un  anno-  Lo  stesso  Biot  così  sì 
esprime  rispetto  alla  eclittica:  Uannèe  solaire,  sup- 
posée  di  365^  6"'',  étail,  chez  les  chinois  partagèe  de- 
puis  une  antiquilè  immémoriale  en  quatre  inlervcdles 
temporaires  egaux,  doni  les  limiles  répondaient  oupour 
mieux  dire  étaient  censées  officìellement  répondre  aux 
époques  des  deux  équinoxes  et  des  deux  solslices.  Celle 
dii  solstice  d'hiver  seule  se  dèterminait  par  Vobservalion 
des  plus  longues  ombres  d'un  gnomon  à  sigle,  doni  la 
hanleur  étail  fixèe  par  les  rites  à  8  pieds    chinois. 


56 
Chaque  quadranl  de  Vannée  élail  sudivìsé  en  Irois  par- 
ties  tcmporaires  égales  appelées  Ichongki,  de  sorte  que 
Vannée  enliéve  contenait  dome  Ichonqki.  Dans  ce  syslè- 
me,  fonde  toni  entier  sur  la  mesnre  égale  du  temps,  on 
ri'avail  aucitn  besoin  de  suivre  la  marche  anmielle  du 
soleil  sur  le  cercle  oblique  de  la  sphère  celeste  que 
nous  appelons  récliptique-  Ce  cercle  ne  servati  à  aucun 
usage.  Il  fut  cependant  connu  el  considerò  spèculali- 
vement  par  Icheon-Kong  qui  y  praliqua  douze  divi- 
sions  limitées  par  les  cercles  de  déclinaison  élevés 
par  les  exlremites  des  douze  Ichongki  équaloriaux- 
L'eclittica  dunque  presso  i  cinesi  era  divisa  in  12 
parti  :  queste  parli  non  potevano  essere  eguali  fra 
loro,  come  erano  appunto  eguali  le  12  parti  equa- 
toriali: ed  è  perciò  che  le  12  divisioni  della  eclit- 
tica presso  i  cinesi  non  si  debbono  confondere  colle 
12  parti  0  costellazioni  dello  zodiaco.  È  appunto 
su  questa  differenza  che  insiste  Biot  dicendo  :  Ce 
nombre  de  douze  ,  identique  à  celui  des  dodécaté- 
mories  grecques,  les  a  faìt  quelquefois  confondre  ine- 
xactement  par  les  européens  avec  celles-ci  qui  en  dif- 
fèraienl  par  la  condiiion  de  leur  égalité  ;  e  tanta 
più  debbono  differire  ,  giacche  al  dire  dello  stesso 
Biot  ,  tout  le  del  stellaire  chinois  était  partagé  en 
groupes  cVeloiles  unies  par  des  lignes  droites  qui  n'ava- 
ient  aucun  rapporl  avec  nos  conslellations. 

§.  XXIV. 

Dopo  ciò  che  ho  brevemente  esposto,  chi  di 
noi,  0  colleghi,  potrà  rinunziare  alla  autenticità  di 
tanti  monumenti  storici  ,  i  quali  tutti  provano  che 


57 
chela  nazione  cinese  26  in  27  secoli  avanti  l'era  cri- 
stiana possedeva  già  cognizioni  astronomiche  superiori 
a  quelle  delle  altre  nazioni,  e  metodi  di  osservazioni 
dei  quali  non  sì  trova  traccia  alcuna  nella  storia 
degli  altri  popoli  (5)  ?  Chi  di  noi  potrà  asserire  che 
queste  cognizioni  e  questi  metodi  di  osservazioni 
non  potevano  condurre  gli  astronomi  cinesi  ad  im- 
maginare una  sfera,  quale  da  me  è  stata  descritta, 
quando  dagli  slessi  monumenti  storici  noi  sappiamo 
che  la  nazione  cinese  ne  conosceva  perfettamente 
tuttQ  le  parli  che  la  compongono  ?  Ma  ciò  non  hasta. 
Consultiamo  le  antiche  storie  e  troveremo  una  espli- 
cita descrizione  della  sfera  nell'anno  —  2277,  cioè 
une  sphere  monlée  sur  son  pied,  el  dont  le  pale  se- 
ptenlrional  est  élevé  de  36",  on  y  voit  lliorizon,  le 
méridien  ,  /'  équateiir,  V  ecHptiqiie,  Vaxe  du  monde. 
Oulre  ces  choses,  il  y  a  encore  deux  cercles,  dont 
Vun  paroil  étre  le  colure  des  solslices,  et  Vanire  pe- 
roit  élre  le  colure  des  éqidnoxes.  Dopo  questa  de- 
scrizione così  segue  BernouUi:  Il  est  dono  très-vrai 
semblable  qiie  la  sphere  armille,  exècutée  dhine  ma- 
niere si  complete  sous  le  recjne  d'Yao,  a  pu  étre  ébau- 
chèe  et  invenlée  sous  le  reyne  d'Hoang-ti  :  cioè  dal 
ministro  Yu-chi  di  questo  imperatore,  il  quale  scoprì 
la  polare.  Cium  poi  successore  di  Yao,  dice  lo  stesso 
Bernoullij  fit  (aire  ime  sphere  d'or  enrichie  de  pier- 
reries  avec  un  tube  au  dessus  pour  voir  les  astres. 
Tant'  è  ,  o  colìeghi  ,  se  noi  consideriamo  la  sfera 
quale  è  stata  da  me  descritta  ,  indipendentemente 
dallo  zodiaco  e  dalle  costellazioni  ,  1'  invenzione  e 
r  uso  si  deve  ai  cinesi,  e  1'  origine  si  deve  fissare 
ai  23  in  24  secoli  avanti  l'era  cristiana.  La  critica 


58 
la  più  severa  non  può  rinunziare  ad  occhi  chiusi 
alla  autenticità  di  tanti  monumenti  storici.  Che  se 
poi  nello  esame  di  questi  monumenti  mi  fossi,  dirò 
così,  ingolfato  nella  questione  sulla  origine  delle  co- 
stellazioni, non  sarei  mai  giunto  ad  una  chiara  e 
pretta  conclusione.  E  non  è  appunto  che,  basando 
r  esame  sulle  costellazioni  e  specialmente  sulle  zo- 
diacali ,  Bailly  trova  una  somiglianza  fra  la  sfera 
persiana  e  la  greca  ?  Non  è  forse  nello  esame  delle 
costellazioni,  che  Io  stesso  storico  non  dubita  asse- 
rire che  la  sfera  indiana  è  la  sfera  primitiva  che 
trae  la  sua  origine  dall'origine  stessa  delle  costel- 
lazioni [F)  ?  Benché,  come  ho  già  dimostrato  con 
forti  argomenti  ,  le  costellazioni  non  possano  mai 
provare,  l'antichità  della  sfera,  quale  è  stata  da  me 
descritta,  giacché  le  costellazioni,  come  arbitrarie, 
non  sono  parti  essenziali  della  sfera;  nulladimeno  a 
compimento  di  questo  mio  discorso  mi  sia  permesso, 
o  colleghi,  di  distruggere  l'antichità  della  sfera  in- 
diana, dimostrando  con  solidi  argomenti  contro  Bailly 
non  essere  la  sfera  indiana  la  più  antica. 

§.  XXV. 

Il  ce\.  Biol  comincia  a  stabilire  che  l'anno-SlOl 
sia  la  data  più  certa  dell'astronomia  indiana-  Ciò 
posto,  segue  a  dire:  «  Les  hindous  comme  les  grecs 
partagent  la  circonférence  en  360  parties  fraction- 
nées  suivant  tous  les  ordres  de  la  division  sexagé- 
simale.  Ils  cogoivent  pareillement  dans  le  ciel  deux 
cercles  abstraits,  l'équateur  et  l'écliptique,  celui-ci 
élant  incline  sur  le  premier  de  24°  ;   ce  qui  sem- 


59 

bleiait  montrer  que  l'astronomie  des  hindous  n'est 
pas  d'une  date  si  ancienne  qu'  ils  le  prétendent,  ou 
que  dans  ces  temps-là  ils  étaient  aussi  peii  habiles 
aux  obseivations  qu' ils  se  sont  rnaintenant-  Ils  di- 
visent,  cotntne  les  grecs,  l'ecliptique  en  douze  par- 
ties  égales  ou  signes,  le  premier  de  leurs  signes  est 
mesha  le  bélier:  la  méme  identité  de  designation 
existe  pour  les  onze  autres  signes  ;  d'où  l'on  peut 
conclure  en  tonte  assurance,  que  l'un  des  deux  peu- 
ples  a  empruntò  à  l'autre  cette  suite  de  symboles 
en-tiòrement  et  individuellement  arbitrares,  on  que 
si  l'on  veut  en  croire  Bailly  cet  ensemble  de  divi- 
sions  et  de  designations  fìguratives  a  été  originai- 
rement  établi  par  un  peuple  antèrieur  parvenu  5 
un  très-haut  degrè  de  civilisations:  mais  créer  ainsi 
un  passe  imaginaire  pour  expliquer  les  choses  prò- 
sentes,  c'est  une  liberté  que  ne  se  permet  plus  la 
critìque  moderne.  Ce  genre  de  solutions  fantasti- 
ques,  fort  goùtè  au  temps  de  Bailly,  est  passe  de 
mode.  ))  Il  fin  qui  detto  basterebbe  a  mostrare  che 
l'astronomia  indiana  può  appena  montare  all'epoca 
dell'astronomia  cinese,  con  questa  differenza  però  che 
gli  astronomi  cinesi  avevano  metodi  di  osservazioni 
molto  pili  esatti  degli  astronomi  indiani  :  per  cui 
mi  fu  forza  conchiudere,  che  i  soli  cinesi  potevano 
colle  loro  osservazioni  giungere  alla  invenzione  e 
all'uso  della  sfera.  Le  28  divisioni  stellari  dei  ci- 
nesi, quattro  delle  quali  determinavano  i  due  punti 
equinoziali  e  i  due  solstizi,  il  modo  di  fissare  la 
posizione  degli  astri  colla  osservazione  dei  loro  pas- 
saggi al  meridiano,  e  col  misurare  le  loro  distanze 
dal  polo  visibile,  sono,  o  colleghi,  metodi  tali  che 


60 

non  si  trovano  presso  le  altre  nazioni.  Nò  qui  vale 
ricorrere  alle  28  divisioni  degli  indiani  e  confon- 
dere le  une  colle  altre  :  quelle  dei  cinesi  sono  di- 
visioni equatoriali  determinate  dai  28  meridiani  che 
passavano  per  le  28  stelle  determinatrici;  le  28  di- 
visioni degli  indiani  appartengono  alla  eclittica,  chia- 
mate da  essi  nakshatras  o  mansioni  della  luna.  Lo 
stesso  Biot  ,  al  quale  si  devono  le  piiì  belle  e  le 
più  interessanti  memorie  sulla  cronologia  di  queste 
due  nazioni,  così  scriveva  nel  1840.  «  Dans  l'Inde, 
au  contraire  ,  ce  systeme  se  présente  non  seule- 
ment  sans  date  (le  28  divisioni  stellari  dei  cinesi 
portano,  come  si  è  detto,  la  data  di  23  in  2i  se- 
coli avanti  1'  era  cristiana)  mais  sans  aucune  indi- 
cation  d'usage,  ni  de  relation  avec  les  observations 
réelles,  dans  les  ouvragcs  originaux  où  il  est  rap- 
portò. Le  choix  des  coordonnées»cèlestes,  par  le 
quel  on  le  definii,  ne  se  prète  a  aucune  application 
astronomique,  et  méme  y  rèpugne  en  dèguisant  et 
dènaturant  ses  relations  avec  l'équaleur.  Enfin  le  li- 
vre  qu'il  est  suppose  décrit  originalement,  et  que 
l'on  donne  comme  révélé,  porte  des  indices  astro- 
nomiques  qui  appartiennent  au  VP  siòcle  de  notre 
óre.  Toutes  ces  circonstances  s'accordent  donc,  sans 
qu' aucune  autre  les  contredise,  pour  montrer  que 
ce  systòme  de  divisions  célestes  né  chez  les  chi- 
nois,  a  élé  transporté  chez  les  hindous  qui,  en  le 
transformant,  ne  Pont  plus  employé  que  pour  des 
usages  astrologiques  aux  quels  il  leur  sert  encore 
aujourd'hui.»  E  pili  chiaramente,  questo  illustre  astro- 
nomo, nella  età  di  85  anni,  così  si  esprime  ai  no- 
stri giorni.  «  Reste  la  derniére  forte  resse  de  la  science 


61 

astronomique  indienne,  l'institution  des  nakshatras 
ou  mansions  de  la  lune-  Mais  ce  n'est  qu'un  édifice 
fantastique,  image  trompeuse  de  la  realité,  le  tali- 
sman  de  la  critique  le  fera  évanouir.  Ces  vingt^huit 
divisions  stellaires  ne  sont  en  réalité  que  les  vingt- 
huit  divisions  stellaires  des  anciens  aslronomes  chi- 
nois  détournées  de  leur  emploi  astronomique  et  tran- 
sportées  par  les  hindous,  à  des  speculations  d'astrolo- 
gie-»Le28  divisioni  stellari  dei  cinesi  «  ontété  emplo- 
yées  depuis  un  temps  immémorial  à  des  usages  astro- 
nomiques,auxquels  ils  sont  parfaitement  appropriés:  » 
le  28  divisioni  degli  indiani  non  hanno  scopo  al- 
cuno colla  scienza  della  vera  astronomia,  esse  ser- 
virono e  servono  anche  adesso  agli  usi  astrologici: 
le  prime  fondate  sulla  vera  scienza  potevano  con- 
durre alla  invenzione  e  all'uso  della  sfera;  le  altre, 
fondate  sulla  falsa  e  ridicola  astrologia,  non  potevano 
condurre  che  a  false  e  ridicole  predizioni;  e  se  que- 
ste ultime  altro  non  sono  che  quelle  dei  cinesi  pes- 
simamente applicate,  se  le  28  divisioni  stellari  dei 
cinesi  potevano,  come  si  è  dimostrato,  condurre  alla 
invenzione  e  all'  uso  della  sfera  ,  conchiuderò  con 
Biot:  Reconnaisons  dono  Vemprunt  à  la  maladresse  de 
Vapplication  et  reporlons  V  honneur  de  Vinvenlion  aux 
chinois  ((/). 


02 

IN  0  T  E 


Nota  [A). 

Cesi  mi  cìél.  à  instruire  la  terre.  Voiis  savez,  mon- 
sieur,  quon  tj  troiive  les  élémens  et  la  perfeclion  de 
la  géograpliie-  Lliistoire  peni  également  y  trouver  cles 
secours.  Ces  archives  anliqncs  et  durables  conservent 
certains  fails,  qui  peuvent  remplir  le  vide  des  tradi- 
tions  et  renoiier  le  fd  des  événemens:  les  observations, 
les  délerminalions  astronomiques  sont  en  mcme  lems 
les  plus  authenliques,  et  les  plus  anciens  momimens 
du  sejour  des  hommes  sur  la  terre-  [Bailly  Leltres  sur 
r origine  des  sciences  addressées  à  M.  De   Voltaire). 

Nota  (B). 

Le  spectacle  du  ciel  a  frappé  les  regards  deVhomme. 
Saisi  d'admiration  ,  il  est  tombe  dans  une  profonde 
réverie,  il  a  sitivi  tranqiiillemcnt  et  sans  effort  le  cours 
des  idées  qui  se  sont  présenlées  à  son  esprit.  Tandis 
quaulour  de  lui  lout  se  meut  avec  bruit  sur  la  terre^ 
le  mouvement  accompagne  du  silence  lui  a  imprimé 
du  respect;  Vuniformilé  des  mouvcmens,  qui  sans  cesse 
renaissent  les  mémes,  lui  a  donne  Videe  d\tn  ordre 
immuable  et  élernel  ;  les  mouvemens  parlicidiers  des 
corps  célestes,  qui  s'accomplissent  en  meme  tems  suìis 
se  mure,  et  qui  ne  sont  point  detruits  quoiqii' oppose 
au  mouvement  general,  lui  annongoient  une  saggesse 


()3 

prefonde,  qui  a  toiit  réglè  par  des  loix  loujours  exé- 
cutées;  il  a  senti  la  présence  de  VElre  Supreme,  et 
il  a  voulti  connoilre  pour  admirer  davantage.  Cosi 
scriveva  Bailly  nel  1781.  Pare  impossibile  che  un 
uomo  di  tanto  merito  e  di  tanto  ingegno  siasi  , 
pochi  anni  dopo,  ingolfato  nel  vortice  di  quella  ter- 
ribile rivoluzione  di  cui  egli  fu  vittima  ;  di  quella 
funesta  e  perniciosa  setta  filosofica  che,  fondata  sulla 
incredulità  ,  cercò  togliere  dal  cuore  degli  uomini 
ogni  idea  di  Dio  e  di  sudditanza.  Sono  già  piii  di 
,70  anni  da  che  l'umana  società  prova  i  deplorabili 
effetti  di  questa  rivoluzione. 

Nota  (C). 

Les  anciens  confundoienl  sous  ce  nom  d'astrologie, 
Vastrologie  judiciaìre  et  la  saine  astronomie.  [Bailly, 
not.  au  livre  1). 

Nota  {D). 

Ce  qne  nous  avons  dit  de  V astronomie  aiilédilu^ 
Vienne  n'est  point  fonde  sur  ce  que  l'on  rapporle 
d'Adam,  d'Henoch,  et  de  la  postérilé  de  Selli:  ce  soni 
des  nolions  trop  vagues  et  qui  n'onl  d'ailleurs  aucune 
certilude  historique.  La  Genese  ne  nous  fournit  quun 
^ait;  e  est  le  partage  de  Vannée  en  mois  et  en  jours. 
On  voit  par  le  dètail  des  circostances  du  récit  de 
Moke,  quau  tems  du  déluge  les  ìuois  étoient  de  30 
jours,  [Bailly,  not.  au  lire  li). 


64 

Nota  {E). 

«  On  demanderà  comment  cette  période  a  élé  dé- 
couverte;  on  ne  peut  y  parvenir  qua  de  deux  ma- 
nieres.  Par  des  observations  suivies  ,  ou  par  les 
eonnoissances  d'une  astronomie  long-tems  cultivée 
et  suffisamment  perfectionnée.  »  E  in  altro  luogo:  «  On 
peut  donc  expliquer  la  découverte  de  cette  periodo 
altribuée  aux  plus  anciens  habitans  de  la  terre,  ou 
par  la  constance  de  leurs  observations,  ou  par  une 
astronomie  perfectionnée  qu'on  ne  peut  guere  leur 
refuser.   » 

Nota  (F). 

C'est  ainsi  que  des  peuples  nomades  purent  ar- 
river  à  des  conelusions  astronomiques,  indépendantes 
de  la  connoissance  des  méridiens  et  telles  qu'elles 
auroient  etì  lieu  dans  un  observaloirc  fixe. 

Nota  (G). 

L'  idea  di  un  antico  popolo  abitatore  dell'Asia, 
maestro  della  scienza  astronomica,  si  trova  spessis- 
simo indicata  quasi  in  tutti  i  libri  della  storia  del- 
l'astronomia antica  di  Bailly.  Benché  ,  secondo  lo 
storico,  l'origine  di  questo  popolo  si  perda  nelle  te- 
nebre dell'antichità,  benché  Io»  dica  un  popolo  per- 
duto e  dimenticato,  nulladimeno,  nous  sommes  donc, 
scrive  egli,  bien  fondés  a  penser  que  Vastronomie  a 
élé cidiivée  plus  de  1500  ans  avanl  le  déluge,  et  quelle 
a  aujourdlmi  plus  de  7000  ans  d'existence.  Nò  qui 


65 
si  tratta  di  una  astronomia  setTlpllce  quale  poteva 
acquistarsi  dai  primi  uomini  pastori  ed  agricoltori 
nella  contemplazione  del  cielo,  ma  di  una  astrono- 
mia filosofica  e  ben  perfezionata.  Tutto  concorre  , 
segue  lo  storico  ,  ad  ammettere  /'  existence  de  ce 
peuple  éclairé,  anterieiir  au  cléluge,  et  instituteur  de 
tous  les  peuples  de  Vorienl,  peuples  qui  nont  été  que 
dépositairesy  jusquà  ce  que  le  genie  de  V Europe  vini 
reprendre  le  fd  des  idées  aalronomiques.  Questa  idea 
viene  poi  diffusamente  trattala  nella  lettera  VII  sulle 
scienze  diretta  a  Vollaire^  cui  il  titolo  è  «  Gel  ancien 
peuple  a  eu  des  sciences  perfectionnéesj  une  philoso- 
phie  sublime  et  suge  ».  Ed  è  appunto  in  queste  let- 
tere nelle  quali  il  nostro  storico  cerca  di  sviluppare 
tutte  le  sue  idee  sulla  esistenza  di  questo  antico  po- 
polo, finché  ne  viene  alla  scoperta  nella  lettera  XX 
n Décotiverte  d'un  petiple  perdu)) .  Se  stiamo  alle  epoche 
fissate  da  Bailhj  e  alla  nostra  cronologia,  bisogne- 
rebbe dire  che  gli  uomini  delle  primissime  età  del 
mondo  fossero  già  bene  instruiti  nella  scienza  astro- 
nomica; ma  ciò  ripugna  alle  altre  idee  dello  stesso 
scrittore  che  ^i  trovano  e  nella  storia  della  astro- 
nomia antica  e  nelle  citate  lettere.  Parlando  dei 
molti  secoli  che  dovevano  trascorrere  prima  che  gli 
uomini  potessero  acquistare  la  vera  scienza  del  mo- 
vimento del  sole  ,  così  scrive  a  Voltaire  :  Mais  je 
n  insiste  ici  que  sur  la  connaissance  du  mouvement 
du  soleil  constatée  par  celle  des  équinoxes  et  des  sol- 
slices.  J'en  atteste  les  astronòmes,  les  philosophes  et 
sour-toul  vous,  qui  avez  si  bien  observé  dans  Vhistoire 
la  marche  lente  et  pénible  de  Vesprit  humain.  Combien 
na-t-il  pas  fallii  donner  de  siecles  à  Vétvde  du  cieU 
G.A.T.CXLIII.  5 


66 

pour    soupgonner  seulement  le  mouvemenl  du  soleil  ! 
Combien  de  siecles  ensiiite  pour  délerminer  les  qualre 
intervalles  de  sa  course  !  E  nella  storia  dell'  astro- 
nomia parlando  anche  della  invenzione  della  sfera: 
La  connaissance,  dice  ,  du  mouvemenl  du  soleil  qui 
rCa   pu  élre  acquise   que  par  un  elude  réfléchie,  el 
de  longues  observations;  V  invention  de  la  sphei'e  qui 
est  le  résullal  de  plusieurs  inventions,  apparliennent 
à  une    science    déjà    fondée  ,    ei  de  puis  long-tems 
cullivée.  Ciò    posto,  come  ò  possibile    che  si   possa 
ammettere  1'  esistenza    di   questo   popolo   éclairé  el 
instiluleur  de   tous  les  peuples  de  V  orienl  anlerieur 
al  diluvio  di    15  e  più    secoli  ?  come  asserire  che 
l'astronomia  nel  17'81   possa  contare  più  di  70  se- 
coli di  esistenza  ?  Per  avere  poi  una  astronomia  ben 
perfezionata  non  bastava  la  sola  cognizione  del  moto 
proprio  del  sole.  Ma  se  per  sospettare  soltanto  que- 
sto movimento  dovevano  trascorrere  secoli  e  secoli, 
se  per   determinare  questo   movimento    altri   secoli 
e  secoli    dovevano  passare  ;   quanti  e  quanti  secoli 
dovevano  passare  per  conoscere  il  movimento  della 
luna    e  dei    pianeti  ?  Non    posso   poi    comprendere 
per  quul  ragione  il  nostro  storico  cerchi  di  togliere 
il  merito    delle  cognizioni    astronomiche    ai   popoli 
orientali  che  vissero  dopo  il    diluvio,  dei  quali  co- 
nosciamo   la  storia.   E  un  fatto  che  quando  Bailly 
trova  presso  queste  nazioni  alcune  cognizioni  astro- 
nomiche un  poco  elevate,  ricorre  sempre  alla  astro- 
nomia   perfezionata    di  questo    antico  popolo.  Il  a 
existé  ,  dice    positivamente  ,  une  aslronomie  perfe- 
ctionnée  à  un  degré  que  Von  ne  peul  pas  fixer,  mais 
doni  quelques  tradilions   font  concevoir   une  grande 


67 

idée.  Ma  se  liuilly  ,  rispetto  al  suo  antico  popolo 
antidiluviano,  scrive  a  Voltaire:  Vous  avouerez  que  ce 
que  nous  avons  fait  ,  on  a  pii  le  [aire  avant  nous  : 
per  qual  ragione  non  si  può  egualmente  dire  dei 
popoli  che  vissero  dopo   il  diluvio  ? 

Nota  {H). 

«  La  mesure  du  tems,  dice  Bailly,  et  de  l'année 
a  subi  beaucoup  de  changement  chez  les  egypliens 
et  fut  fort  differente  dans  les  difFérens  tems;  d'où 
nait  la  confusion  de  leur  chronologie».  Thaut  o  Mer- 
curio è  stimato  presso  gli  egiziani  l' inventore  del- 
l'astronomia, e  si  crede  che  la  correzione  di  5^.  6°'. 
fatta  all'anno  di  360  venisse  in  conseguenza  di  un 
avviso  dato  da  Mercurio.  Diodoro  di  Sicilia  rife- 
risce che  Osiride  è  sotterrato  in  una  isola  che  forma 
il  Nilo  sui  confini  dell'  Egitto  e  della  Etiopia  :  il 
suo  sepolcro  è  circondato  da  360  urnes  que  chaque 
pur  les  prélres  remplissenl  de  lait. 

Nota  (/). 

«  M.  Bailly,  scrive  Dernoulli  (nouveaux  mémoires 
de  l'académie  royale  de  Berlin  an.  1788),  me  pa- 
roìt  prendre  le  mot  de  sphere  dans  tout  son  ou^ 
vrage,  un  peu  trop  indistinctement,  tantót  pour  la 
sphere  armillaire,  tantót  pour  un  globe  où  l'on  au- 
roit  distingue  déjà  l'ecliptique  ,  et  d'autres  cercles 
qui  supposent  des  connoissances  fort  mures;  et  quel- 
quefois  peut-étre  y  attache-t-il  une  idée  plus  simple.M 


68 

Nota  (L). 

La  via  sicura  è  indicata  dal  citato  Bailly.  u  Farmi, 
scrive  egli,  les  peuples  anciens,  chinois,  chaldéens, 
ìndiens  et  egyptiens  l'examen  de  ceux  qui  ne  doi- 
vent  rien  qu'à  eux-mémes,  ou  de  la  nation  unique 
qui  seroit  la  source  de  la  lumiere,  appartìcnt  à  une 
critique  delicate.  Il  fout  rassembler  des  Iraditions 
obscures,  les  éclairer  fune  par  l'autre,  et  peser  les 
probabililés;  en  remonlant  aux  premieres  traces  de 
l'astronomie,  il  faut  fixer  la  date  des  faits,  et  com- 
parer cesfaitsavec  le  degré  de  la  civilisation,  avec 
le  genie  du  peuple,  avant  de  prononcer  qu'  il  a  pu 
s'élever  au  mérile  de  l' invention  ».  Se  nelle  mie  ri- 
cerche abbia  fedelmente  tenuta  questa  via,  i  lettori  lo 
potranno  giudicare, 

Nola  {M). 

«  11  faut  distinguer,dans  le  zodiaque,  deux  no- 
tions  trés-différentes,  quoiqu'on  les  ait  présque  tou- 
jours  confondues:  1°  la  di  vision  en  tei  ou  tei  nom- 
bre  de  parties:  2°  le  choix  des  fìgures  et  des  déno- 
minations  par  lesquelles  on  a  représenté  ou  désigné 
les  costellations  placées  sur  les  divers  points  de  la 
route  de  la  lune  ou  du  soleil  »• 

[LetronnCy  Journal  des  savants'f  aout  1839). 

Nota  (iV). 

Bailly  parlando  dei  popoli  antidiluviani  così  si 
esprime:  «  Avant  l'écriture  alphabétique,  ils  [cioè  gli 


69 

anlidiluviani)  avoient  des  signes  hiéi'oglyphiques,  de 
quelque  espece  qu'  ils  fussent,  pour  designer  les  faits 
dont  ils  vouloient  conserver  la  inéinoire-  Us  s'  en 
servoient  pour  écrire  leurs  observations.  Leurs  re- 
gistres  étoient  des  pierres  sur  les  quelles  ces  obser-^ 
vations  etoient  gravées,  et  qu'  ils  laissoient  dans  le 
lieu  inéme  où  ils  avoient  observé  ».  Venendo  ai  tempi 
dopo  il  diluvio,  e  alla  separazione  dei  popolii  dice  : 
«  Chacune  des  colonies,  qui  furent  l'origine  de  ces  na- 
lions  ,  emporta  quelque  notion  de  connoissances 
échappées  au  dèluge.  Mais  les  nations  les  plus  ri- 
chement  partagées  dans  cette  succession,  furent  celles 
de  l'Asie,  qui  resterent  dans  le  pays  ménne  où  avo- 
ient habité  les  preiniers  hommes.  Les  unes  n'avo^ 
ient  que  la  tradition,  les  autres  avoient  de  plus  les 
monumens.  Car  nous  pensons  que  les  observations, 
les  résullats,  les  préceptcs  astronoiniques,  tout  étoit 
grave  sur  des  pierres,  et  la  tradition  qui  subsista 
aprés  le  déluge  ,  fut  tirée  des  instructions  écriles 
sur  ceux  de  ces  monumens  qui  ròsisterent  a  l' inon- 
dation  generale.  Ces  faits,  ces  préceptes  tracés  en 
caracteres  hiéroglyphiques,  fort  abrègés  sans  doute, 
n'etoient  accompagnés  d'aucune  explication;  la  mé- 
moire  s'en  conserva  ,  mais  l'utilité  et  l'usage  s'en 
perdirent.  Yoilà  pourquoi  l'on  retrouve  cbez  les  in- 
diens  tant  de  préceptes  sans  explications;  cbez  les 
cbaldéens  tant  de  périodes  dont  on  ignoroit  les  avan- 
tages;  en  un  mot,  comme  nous  l'avons  dit,  les  dé- 
bris  plutót  que  les  élémens  d'une  science  ».  Ma,  se 
ciò  è  vero  ,  per  qual  ragione  Bailly  ricorre  sempre 
air  idea  del  suo  amico  popolo  asiatico  ,  quando  nei 
popoli  che  vissero  dopo  il  diluvio  trova   qualche  co- 


70 

gnizione  un  poco  sublime  della  scienza  astronomica  ? 
«  Les  faits,  dice  egli,  de  l'histolre  indiquent  une  autre 
marche  au  genre  humain:  mais  ce  que  nous  cro- 
yons  avoir  établi  sur  des  présomptìons  et  des  pro- 
babilités  trés  fortes,  c'est  l'existence  de  ce  peuple 
trés  puissant,  trés  éclairé,  qui  a  été  la  souche  de 
tous  les  peuples  de  l'Asie,  ou  du  moins  la  source 
de  leurs  lumieres  ».  In  im  altro  luogo:  «Voilà  des  tra- 
ees  Lien  marquées  de  l'astronomie  antérieure  dont 
nous  avons  parie».  Finalmente,  per  tacere  di  molti 
altri,  parlando  di  Fohi,  primo  imperatore  della  Cina, 
stimato  il  fondatore  dell'astronomia  in  quello  impero: 
«  On  ne  peut  dire  ce  qu'étoient  ces  tables,  ni  cette 
connoissance  des  mouvemens  célestes  [tavole  astro- 
nomiche dei  movimenti  dei  corpi  celesti  che  si  vo- 
gliono attribuire  a  questo  imperatore),  mais  on  avoit 
donc  déjà  sur  l'astronomie  des  idées  suivies  et  ran- 
gées  suivant  un  certain  ordre  ».  Ma  ciò  sarebbe  troppo 
per  la  nazione  cinese;  dunque  segue:  uCe  qui  annon- 
ceroit  une  science  depuis  long-tems  cullivée,  et  un 
peuple  beaucoup  plus  ancien  que  l'epoque  de  Fohi.» 

Nola   (0). 

Fu  già  nel  terminar  del  passato  secolo  che  gì'  in- 
creduli presero  di  fronte  la  storia  mosaica.  L'empio 
scopo  cui  tendevano  era  quello  di  togliere  dal  cuor 
degli  uomini  ogni  idea  di  sudditanza:  e  poiché  omnis 
potestas  a  Beo  est,  bisognava  togliere  ogni  idea  di  Dio 
e  di  religione.  Le  abbominevoli  opere  di  Voltaire,  La 
Bibbia  finalmente  spiegata:  di  Dupuis,  Sulla  origine  di 
tutti  i  culti,  nel  qual  libro  si  pone  per  assioma  che  non 


71 

havvi  punto  opera  ispirata,  né  libro  avvi  che  opera 
non  sia  degli  uomini;  provano  bastantemente,  per  la- 
cere di  altri,  gli  sforzi  della  incredulità  per  giungere 
allo  scopo  prefisso.  Pare  poi  impossibile,  che,  mentre 
la  scienza  astronomica  nella  stessa  epoca  aveva  già 
fatto  luminosi  progressi  e  sublimi  scoperte,  di  essa 
specialmente  siensi  abusati  gli  increduli  per  lottare 
contro  la  verità,  e  per  servire  alla  causa  dell'empietà 
e  della  irreligione.  Colle  stesse  armi  però  celebri  fi- 
losofi e  veri  astronomi  del  nostro  secolo  hanno  saputo 
vincere  i  cavilli,  i  sofismi,  e  le  favole  degli  increduli, 
rendendo  in  tal  modo  ai  nostri  sacri  libri  il  dovuto 
omaggio  di  venerazione  e  di  rispetto.  Mi  sia  dunque 
permesso  di  riportare  alcune  testimonianze,  le  quali 
strettamente  si  riferiscono  alla  mia  tesi.  Il  sig.  Ideler 
nel  28  giugno  del  1838  così  leggeva  nell'accademia 
delle  scienze  di  Berlino:  ((  Personne  n  ignare  qtie  fon 
s'est  presque  qénéralement  accorclé  jmqiC  icl  à  cher- 
cher  en  Orient  Vorigine  du  zodiaque,  aiissi  hien  que 
le  germe  de  toutes  les  connaisances  astronomiques  des 
grecs:  seulement  on  ne  s'est  pas  accordò  sur  la  que- 
stion  de  savoir  à  quel  peuple  il  faut  allribuer  la  prio- 
rité.  Baillij  ,  qui  ,  dans  son  histoire  de  V  astronomie 
ancienne,  ne  s'est  pas  expliquè  là-dessus  d'une  ma- 
niere expresse,  s'esf  prononcé  plus  tard  en  faveur  de 
ses  Atlantes  (nelle  lettere  sulle  scienze  dirette  a  Vol- 
taire): ce  prétendu  peuple  de  VAsie  centrale,  possesseur 
de  profondes  connaissances,  dont  quelqnes  débris  seide- 
ment  sont parvenus  aux  indiens,  aux  égijptiens,  aux  ba- 
byloniens  et  au^  grecs;  entre  autres,  le  connaissance  du 
zodiaque,  auquel  Bailly  attribue  une  anliquilé  de  4600 
ans  avant  J.  C.  U  incrilique  (unkritrische)  Dupuis  re- 


72 

mont  encore  bien  plus  head.  Présumant  par  une  pure 
hypolhése ,  qiie  le    zodiaque  représenlait  les    phéno- 
ménes  naturels  en  Égypte,  dans  le  cours  d'une  année, 
il  en  reporta  Vorigine  j^lsquau  lemps  où  le  signe  du 
bélier  répondait  à  Véquinoxe  d'automne,  quelque  13000 
ans  avant  notre  ère.  Celle  vue  fanlaslique  ,  que  les 
quatres  zodiaqiies  découverts  en  Ègyple  pendant  Vex- 
pédilion  francaise  paraissaient  confirmer,  est  mainte- 
nani  entiérement  détruile  par  la  crilique  de  M.  Le- 
tronne.  Avec  le  secours  des  inscriplions  grecques  qui 
se  trouvent  au  tempie  de  Denderah  et  au  petit  tem- 
pie d'Esné,  il  a  montré  que  Vun  na  été  termine  que 
sous  Tibérey  et  que  rautre  nest  pas  anlérieur  au  ró- 
gne d'Adrien.  Les  caractéres  hiéroglyphiquesy  déchif- 
frés  par  Champollion,  onl  confirmé  ce  resultai^  et  mis 
hors  de  donlé  que  méme  le  grand  tempie  d'Esné^  du 
moins  son  portique,    avec  le  zodiaque,    appartiennent 
à  r  epoque  romaine.  Aucune  trace  de  /'  epoque  pha- 
raonique  ne  s'apergoil  dans  ces  monnments.  Un  cin- 
quiéme  zodiaque^.  trouvé  sur  le  corner  de  d'une  mo- 
mie,  apparlient  d'aprés  V  inscription  grecqiie  à  la  19.^ 
année  du  rógne  de  Trojan  ».  Il  sig.  Letronne  [Journal 
des  savanls,  aout  1839)  si  esprime  nello  slesso  mo- 
do: «  Dans  sa  prédileclion  pour  le  peuple  asiatique  qui, 
antérieurement  à  tonte  histoire,  étail ,  selon  lui ,  en 
possession  des  connaissances  les  plus  élendues,  Bailly 
ne  pouvait  hésiler  sur  la  patrie  du  zodiaque,  comme 
de  tonfes  Ics  inslilulions  scienlifiques  de  V  antiquité. 
Son  fameux  pcnple    anlédiluvien  en  devint  V  inven- 
teur  :  le  zodiaque    avait  été  Iransmis    avec  tous^les 
dèbris  de  la  science  antique  aux  indiens,  aux  perses, 
aux  clialdéens  ,  aux  égypiiens  ,  cnfin  aux  grecs  ;  ces 


73 

disciples  si  lardifs  el  si  inexpérimentcs.,  en  comparaison 
des  orientaux  leurs  mailres. 

Diipuis  iiadopla  point  celle  origine  asialiqiie-  Par- 
tant  de  Videe  qiie  les  douze  signes  se  rapporlaienl  à 
Vagricidlure,  il  crut  dèconvrir  quils  ìi'avaienl  de  sens 
quappliqués  au  climat  de  VÈgypie;  il  transporla  donc 
a  ce  pays  Vhonneiir  de  Vinvenlion-  Il  est  vrai  que , 
polir  rèussir  à  expliqiier  les  signes  dans  celle  hypolhèse, 
il  fallait  en  changer  complèlement  le  rapport  avec  les 
saisons;  admettre  ionie  ime  demi-conversion  du  del, 
par  suite  de  la  prècession  des  éqiiinoxes,  et  [aire  ré- 
pondre  nos  signes  d'été  à  ceux  dliiver  ,  et  ceux  du 
printemps  à  ceux  dUiulomne,  ce  qui  placali  Vorigine 
du  zodiaque  à  V  epoque  oit  la  concordance  cut  lieu 
vers  13000  ou  15000  ans  avant  nolre  ère.  Celle  an- 
tiquilè  ne  fui  pas  et^ne  pouvail  éire  du  goùl  de  tout 
le  monde.  Finalmente  dopo  un  esame  dei  monumenti 
antichi  i  sig.  Ideler  e  Letronne  stabiliscono,  che  les 
figures  zodiacales  représenlées  dans  les  zodiaques  ègij- 
pliens  soni  d'  origine  grecque  el  onl  élé  introduites 
pour  la  première  fois  en  Emjpte  au  lemps  des  Plo- 
lomées  », 

Finalmeute  il  sig.  Biol  nel  suo  trattalo  di  astro- 
nomia publicato  nel  1847  sullo  stesso  oggetto  così  si 
es[)i*ime:  «  Des  ècrivains  trés-érudits  et  aussi  des  astro- 
nomes  onl  crudevoir  faire  remonler  (Pinvenzione  dello 
zodiaco)  à  des  èpoques  qui  dèpassenl  tout  ce  que  les  le- 
moignages  de  Vhisloire  et  méme  les  Iradilions  semblent 
accorder  d'anliquilé  à  Véiablissernenl  règulier  des  so- 
ciètès  humaines.  Ces  syslèmes  onl  èie  pendant  queU 
que  lemps  en  vigueur,  surlout  dans  le  siede  dernier- 
Mais  un  examen  plus  crilique  des  bases,  une  apprè- 


74 
ciation  plus  jusle  des  anciens  documents  d'astronomie 
venus  jusqn  à  nous  de  la  Grece,  de  Babylone  et  de 
r  Egyple  ,  surloul  tuie  connaissance  plus  approfondie 
des  mèthodes  aslronomiques  usilées  dans  linde  el  à  la 
Chine,  ani  délruil  patir  loujotirs  ces  vaines  conjecliires  ». 
Mi  resta  ora  a  dire  qualche  cosa  sulla  favola  di 
Aliante.  Bailhj  ò  di  parere  che  nelle  favole  vi  sia 
sempre  qualche  cosa  di  reale,  per  cui,  concluons,  dice, 
donc  qiie  la  fable  parlant  réellement  d\ine  prince  nom- 
ine Atlas  et  dhin  prince  occiipè  de  l'astronomie  ,  on 
ne  peni  s'empècher  d\j  reconnòitre  Vinvention  de  la 
sphere  ,  exprimée  f/'  une  maniere  trés  claire  et  Irés 
caraclèrisèe.  Atlante  si  dico  figlio  di  Urano:  e  a  sen- 
timento di  Bailly,  Urbano  visse  3890  avanti  G.  C, 
l'epoca  del  diluvio  viene  fissata  dallo  storico  4000 
anni  avanti  G.  C.  Dunque,  concesso  anche  che  Urano 
e  Atlante  sieno  veri  personaggi  ,  1'  invenzione  della 
sfera  dovuta  ad  Atlante  conterà  sempre  l'epoca  dopo 
il  diluvio. 

Nola  (P). 

Bailly  dalla  creazione  del  mondo  fino  al  diluvio 
conta  2250  anni  circa.  11  preteso  suo  popolo  lo  vuole 
anteriore  al  diluvio  di  1500  anni;  dunque,  quando 
il  mondo  contava  750  anni  di  età,  esisteva  già  un 
popolo  possessore  in  sommo  grado  di  alte  e  sublimi 
cognizioni  astronomiche  !  !  ! 

Nota  (Q). 

Da  un  calcolo  rigoroso  ho  trovato  per  le  citate 
epoche  le  seguenti  longitudini  della  >?  Plejadi. 


75 


2357  long.  359."  i 6/ 35." 


—  2278  .  . 

.       0.  21.  02. 

—  2200  .  . 

.       1.  27.  50. 

H-  1860  .  . 

.     58.     2.  15. 

Si  deve  però  notare  che  gli  antichi  astronomi  non 
parlavano  di  una  data  stella  delle  Pleiadi;  ma  della 
intera  costellazione. 

Nota  (fi). 

Al  dire  di  Bailly  lo  scoprimento  del  polo  e  della 
polare  sembra  ben  facile.  Fissato  nella  sua  idea  che 
i  primi  uomini  sieno  stati  attenti  osservatori  del 
cielo  stellato,  e  che  abbiano  profondamento  medi- 
tato su  i  fenomeni  che  si  presentavano  ai  loro  oc- 
chi, così  prende  a  ragionare:  «  On  voyoit  que parmi  les 
éloileSf  il  y  en  avoit  qiielques-unes,  itlles,  par  exern- 
ple,  que  celles  de  la  grande  ourse ,  qui  paroissoienl 
tanlót  à  Vorient  et  à  Vocciderity  tantòl  au  nord  et  au 
midi:  d'aiUres  ètoiles  ne  paroissoient  jamais  au  nord. 
On  en  infera  que  les  premieres  faisoienl  une  revolu- 
tion entiere.  Mais  pourquoi  celles- ci  auroient-elles  eu 
une  marche  differente^  ety  pour  ainsi  dire,  un  privi- 
lege  particulier  ?  On  s'appercut  méme  qu  il  y  aroit 
une  certaine  étoile  qui  ne  changeoit  pas  sensiblement 
de  place  pendant  tout  le  cours  de  la  nidi.  Elle  éloit 
comme  le  cenlre  du  mouvemenl ,  et  les  aulres  sem- 
hloient  tourner  aulour  d'elle;  en  conséguence  on  ap- 
pella pòle  le  point  qu  elle  occupoit  dans  le  del ,  et 
celte  étoile  prit  le  nom  d'  étoile  polaire.  Voilà  donc 
une  étoile  immobile  ,    quelques-unes  qui  foni  aulour 


76 
d'elle  une  revolution  enticre  ,  tandis  que  la  pliipari 
n  en  achevent  qii  une  panie.  Des  speculaleurs  jjIus 
profonds  oserent  suivre  ces  éloiles  au-delà  méme  de 
leur  appariiion,  et  suppléer  par  Vimafjinalion  à  la  por- 
lion  de  leurs  cours  que  la  vue  ne  -pouvoil  alleindre. 
Le  ciel  devint  une  sphere  enliere:  et  comme  pour  le 
mouvoir  ,  il  falloit  deux  points  fixes,  on  supposa^  à 
Vexemple  du  pòh  quon  voyoil  dans  le  ciel,  un  au- 
tre  point  fixe  diamètralement  oppose ,  qui  èloit  som 
la  terre  dans  Vautre parlie  du  ciel:  et  la  ligne  quon 
imagina  joindre  ces  deux  points,  autour  de  la  quelle 
se  faisoit  lout  le  mouvement  diurne t  fai  appellée  Vaxe 
du  monde  ». 

Bernoulli  suppone  altre  cognizioni.  «  Nous  avons, 
dice  egli  ,  a  considérer  quon  a  du  commencer  par 
[aire  une  attention  particuliere  aux  étoiles  circompo- 
laires  en  general  avant  d'apprendre  à  connottre:  \.° 
quHl  y  eùt  une  étoile  à  peu  près  immobile  dans  le 
ciel:  2.°  que  cette  étoile  ne  laissoit  pas  de  dècrire  son 
petit  parallele  autour  d\in  paini  plus  fixe  encore:  3." 
que  ce  parallele  nétoit  pas  toujours  à  égale  dislance 
du  Pòle,  et  méme  que  le  parallele  le  plus  proche  n'étoit 
pas  décril  toujours  par  la  méme  étoile  ».  Alcune  delle 
cognizioni  volute  da  Bernoulli  non  potevano  aversi 
né  dai  popoli  autidiluviani,  né  dai  popoli  che  vissero 
dopo  il  diluvio,  almeno  fino  ai  tempi  d'Ipparco,  il 
quale,  si  dice,  che  polessse  aver  una  qualche  cogni- 
zione della  precessione  annua  degli  equinozi.  Tutto  ciò 
che  poteva  sperarsi  dagli  uni  e  dagli  altri  era  sola- 
mente la  cognizione  di  una  stella  quasi  immobile  nel 
cielo  dalla  parte  del  nord:  ed  è  appunto  che  noi  ciò 
troviamo  nella  storia  della  Gina,  26  in  27  secoli  avanti 


77 
G.  C:  e  non  ne  abbiamo  traccia  alcuna  nell'astrono- 
mia antidiluviana. 

Nota  (S). 

Parlando  Biol  delle  cognizioni  aslronomiche  e  dei 
melodi  di  osservazioni  presso  la  nazione  cinese:  «  On 
en  connait,  dice,  positivement  toute  1'  histoirc  qui 
remonte  à  plus  de  deux  mille  ans  avant  l'ère  chré- 
tienne  Elle  est  rapportèe  dans  des  textes  ecrits 
d'une  authenticité  indubitable  qui  sont  arrivès  jus- 
qu' à  nous.  On  y  voit  que  depuis  cette  baule  anti- 
quié  les  chinois  onl  cu  un  système  règulier  d'ob- 
servations  astronomiques,  continuées  sans  interrup- 
tion,  lequel  est  reste  invariablement  lié  à  leur  forme 
du  gouvernement  ,  ainsi  qu'  à  leurs  riles  ,  par  son 
usage  pour  le  numération  des  temps  et  par  les  con- 
séquences  astrologiques  qu'  on  dèduìsait.  Questo  si- 
stema regolare  di  osservazioni  era  poi  con  tanta  re- 
ligione e  con  tanto  scrupolo  conservato  e  manlenutoy 
che  restò  invariabile  fino  ai  nostri  tempi  :  giacche  , 
segue  Biot,  «  les  savants  missionaires  qui  ont  intro- 
duit  en  Chine  l'astronomie  européenne,  vers  la  fin 
du  seizieme  siede  de  notre  ère,  durent  se  confor- 
mer  à  une  coutume  si  anciennement  établie  w. 

Nola  {T). 

«  En  examinant,  scrive  Bailly,  ces  trois  spheres 
{Vindianay  la  persiana  ,  e  la  greca),  on  trouve  que 
la  sphere  indienne  n'  a  aucun  rapport  avec  le  deux 
autres  ;  mais  ces  deux-ci  ont  entre  elles  des  res- 
semblances    qui    ne    permeltent    point    de    douter 


78 
que  l'une  n'ait  été  construite  d'après  Pautre,  avoc 
les  changemens  qui  résultent  nécessairement  de  la 
différence  des  usages,  et  des  idées  de  peuples.  «  Ma 
perchè  mai  questa  somiglianza?))  On  volt  dans  la  sphe- 
itì  persienne  une  femme  qui  est  Cassiopee  ou  Ancro- 
mede,  le  Iriangle,  les  poissons;  un  homme  assis  sur 
un  tióne  qui  peut  étre  Cephée;  l'hidre,  la  téle  du 
diable,  dont  on  à  fait  sans  doule  la  téle  de  Me- 
duse .  .  .  ))  Ma  se  i  cambiamenti  indicati  risultano 
dagli  usi  e  dalle  idee  dei  popoli  ,  ne  segue  che  le 
costellazioni  sono  del  tutto  arbitrari^  e  non  formano 
parte  essenziale  della  sfera.  «  Nous  croyons,  segue  lo 
storico  ,  que  de  ces  trois  spheres  la  plus  ancienne 
doit  étre  la  sphere  indienne  ,  parceque  ce  peuple 
n'  a  jamais  rien  pris  des  autres  peuples,  qu'  il  est 
lui-méme  très  ancien,  et  que  par  conséquent  ses  con- 
noisances  doivent  avoii'  été  pris  à  la  source  pre- 
miere. Ainsi  nous  croirions  volenliers  que  cette 
sphere  est  la  sphere  primitive,  que  a  la  méme  date 
à  peuprès  quo  les  constellations  du  zodiaque  ». 

Nota  {U). 

Tutti  conoscono  con  quanto  zelo  gli  increduli 
del  passato  secolo  abbiano  cercato  di  distruggere  , 
se  fosse  slato  possibile,  ì'aulenticilà  e  la  santità  delle 
divino  scritture,  l  loro  libri  hanno  ariecato  un  gran 
danno  alla  religione:  scritti  con  uno  stile  più  poe- 
tico che  filosofico,  ripieni  di  errori  e  di  sofismi,  al- 
lettavano le  umane  passioni,  proclamavano  una  as- 
soluta libertà  di  pensiero  ,  e  spargevano  massime 
sovversive  di  ogni  società  bene  ordinata  col  togliere 


79 
dai  cuore  degli  uomini  ogni  idea  di  sudditanza  verso 
Dio  che  empiamente  negavano,  verso  i  principi  che 
pubblicamente  odiavano.  Ma  a  tale  empietà  non  si 
poteva  giungere  finché  i  santi  libri  esistevano.  Da 
questi  gli  uomini  sono  ammaestrati,  che  il  mondo 
non  è  eterno:  che  il  culto  si  deve  al  solo  Dio  che 
con  infinita  sapienza  ha  creato,  e  con  infinita  prov- 
videnza regola  e  governa  le  cose  tutte  dell'universo: 
che  a  questo  Dio  signore  assoluto  di  tutte  le  cose, 
e  agli  uomini  da  esso  ordinati,  si  deve  prestare  ob- 
bedienza e  rispetto  :  che  T  anima  semplice  e  puro 
spirito  sopravvive  alla  morte  del  corpo:  che  un'al- 
tra vita  immortale  rimane,  nella  quale  le  virtù  e  i 
vizi  delle  umane  generazioni  avranno  premi  e  pene 
eterne.  Contro  i  santi  libri  dunque  vomitarono  gli 
increduli  le  loro  empie  bestemmie:  Dirumpamiis,  dis- 
sero ,  vincula  eorum  et  proiiciamus  a  nobis  iugum 
ipsoriim.  Si  provi  dunque  l'antichità  del  mondo,  si 
gitti  a  terra  la  storia  mosaica,  e  crollata  la  Genesi, 
crollerà  in  seguito  tutto  l'edifìcio  dei  libri  santi.  Ma 
quel  Dioche  abita  nei  cieli  mis/i  et  siibsannavU  gli 
empi  sforzi  degli  increduli.  A  questo  celeste  e  di- 
vino dileggio  corrispose  qui  io  terra  il  riso  e  iJ  di- 
leggio di  tanti  sommi  uomini,  i  quali  guidati  dalla 
sana  critica  e  dalle  antiche  e  moderne  cognizioni 
astronomiche  hanno  annichilato  gli  empi  sforzi  della 
incredulità.  Credo  di  aver  dimostrato  abbastanza 
nelle  mie  note,  che  l'empio  sistema  degli  increduli 
del  passato  secolo  è  interamente  distrutto,  che  le 
loro  ipotesi  e  i  loro  sofismi  sono  sogni  e  vane  con- 
getture. Siccome  però  un  altro  argomento  contro 
la  storia  mosaica   si  desumeva  dall'antica  astrono- 


80 
mia  degli  indiani,  e  siccome  Voltaire,  benché  di  sen- 
timento contrario  a  Bailly  sulla  esistenza  del  pre- 
teso popolo  asiatico,  teneva  molto  per  l'antichità 
della  nazione  indiana,  così  ho  creduto  cosa  benfatta 
di  notare  gli  argomenti  più  forti  per  distruggere  la 
pretesa  antichità  della  astronomia  indiana.  Vohaire 
col  suo  solilo  sarcasmo,  vecchio  di  82  anni  e  ma- 
lato ,  ricevuta  appena  l'opera  di  Bailly  cosi  scrive 
al  medesimo  :  «  Vous  pouviez  intituler  votré  livre 
histoire  du  ciel  à  bien  plus  juste  ti  tre  que  l'abbé  Plu- 
che,  qui,  à  mon  avis,  n'a  fait  qu'  un  mauvais  roman. 
Ses  conjectures  ne  sont  pas  mieux  fondées  que  cel- 
les  de  ce  vieux  fou  qui  prétendait  que  les  douze 
signes  du  zodiaque  étaient  évidemment  invenlés  par 

les  patrìarches  juifs H  y  a  long-temps  que 

j'ai  regardè  l'ancienne  dynastie  des  bracmanes  comme 
celte  nation  primitive.  .  . .  Vous  devez  avoir  été  bien 
élonné  des  fragmens  de  l'ancien  Shastabad,  écrit  il 
y  a  environ  5000  ans.  C  est  le  seul  monument  un 
peu  antique  qui  reste  sur  la  terre.  .  .  .  Enfìn  je  suis 
convaincu  que  tout  nous  vient  des  bords  du  Gange, 
astronomie,  astrologie,  mètempsycose.  •  .  .  J'  ose  tou- 
jours  vous  denjander  grace  pour  les  bracmanes.... 
Je  n'ai  pas  de  peine  à  croire  que  nos  soldats  en- 
voyés  dans  l'Inde  et  nos  commis,  encore  plus  cru- 
cis et  plus  fripons,  aient  un  peu  dérangé  les  étu- 
des  des  écoles  que  Zoroaslre  etPythagore  venaient 
consuller.  Mais  enfìn  nous  n'avons  point  encore  brulé 
Bénarés;  les  espaguois  n'  y  ont  point  ètabli  l'inqui- 
sition  comme  à  Goa;  et  l'on  m'assure  que  dans  celte 
ville,  que  est  pcut-étre  la  plus  ancienne  du  monde, 
il  y  a  encore  de  vrais  savans  ».  Ecco  l'idee  di  Voi- 


81 
taire  sull'  antichità  della  nazione  indiana.  Che  se  i 
lettori  bramano  conoscere  per  qual  ragione  \ollaire 
e  Bailly  facciano  poca  stima  degli  scritti  dell'ab-  Plu- 
che,  rispondo  :    la  vera  ragione  si  fonda  su  quella 
moda  che  ha  regnato  e  regna  tuttora  presso  gl'in- 
creduli di  chiamar  pazzi  ed  imbecilli  quelli  che  non 
si    associano  ai  loro  sentimenti-    Il  preteso   popolo 
asiatico  di  Bailly,  la  pretesa  antichità  degli  indiani 
di   Voltaire,  è  fondata  sulle  favole  e  sulle  supersti- 
zioni degli  antichi  popoli;  ma  M.  Pluche  «  pense  que 
Thaut,  Uranus,  Saturne,  Atlas  et  tous  les  personna- 
ges  célebres  de   la  plus  haute  antiquité,  n'  ont  ja- 
mais  e\Ì3té.  Il  préterid  que  les  noms  de  ces  person- 
nages  étoient  jadis  des  signes  symboliques  :  )>  nella 
quale  ipotesi  cadevano  le  opiriioni  di  Bailly  e   Vol- 
taire: dunque  l'ab-   Pluche  è  un  pazzo  ,    così  con- 
clude Bailly  dopo  di  aver  riportato  i  sentimenti  di 
Pluche.   «  Cette  conjecture  peut  élre  vraie  à  I'  ègard 
de  quelques  uns  des  personnages  de  la  haute  anti- 
quité: mais  les  conjprendre  tous  dans  une  explica- 
tion  generale  ,   vouloir  les  anéantir  ,    et  n'  en  faire 
qne  des  fantómes  malgré  les  témoignages  réunis  des 
historiens  de  toutes  les  nations,  nous  paroit  un  si- 
sléme  insensé  et  dénué  de  fondement.  C  est  un  jeu 
ingénieux,  mais  un  abus  de  l'esprit.  »  Ma,  rispetto 
alla  famosa  antichità  dell'astronomia  indiana,  al  sig, 
Voltaire    malato  di    82    anni  ha   risposto  ai  nostri 
giorni  un  vecchio  di  85  anni.  Questo  celebre  astro- 
nomo gravalo  dal  peso  degli  anni,  ma  giovane  nello 
spirito,  da  20  anni  a  questa  epoca  ha  sempre  du- 
bitato sull'antichità  dell'astronomia  indiana.  Ecco  le 
sue  parole:  «  Il  y  a  une  vingtaine  d'annés  je  fus  con- 
G.A.T.CXLIII  6 


82 
duit  à  reconnaitie  que  les  28  divisions  steliaires  , 
appélées  par  les  hindous  nakshatras  ou  inansions 
de  la  lune,  ne  sont  en  réalité  que  les  28  divisions 
stéllaires  des  anciens  astrononnes  chinois  détournées 
de  leui'  application  astronomique  et  transporlées  à 
des  spéculations  d'astrologie.  Cela  m'  avait  fait  soup- 
<;onner  (ecco  il  dubbio)  que  loute  celle  science  astro- 
nomique, dont  les  brames  disent  étre  en  possession 
depuis  des  millions  d'années,  pounait  bien  n' étre 
ni  si  ancienne,  ni  si  puremenl  indienne  qu'  on  l'avait 
cru  sur  leur  parole  ».  Ma  ciò  che  era  dubbio  nel  1839 
divenne  certezza  nel  1859- L'illustre  Bfof  non  000-- 
sultando  le  favole  ,  ma  meditando  sopra  les  trailés 
d'astronomie  indous  de  diverses  èpoques,  à  commen^ 
cer  par  celia  qui  est  considère  comme  un  texte  sa- 
cre dont  lous  les  aulres  dérivent  et  que  l*on  appella 
le  Sàrya  -  Suddhànla  ,  aiutato  nelle  interpretazioni 
da  uomini  sapientissimi  dell'accademia  delle  inscri- 
zioni e  belle  lettere  ,  è  slato  costretto  ad  emettere 
sur  Vanliquilò  et  V  origìnalilé  de  la  science  astrono- 
mique des  hindous,  une  opinion  tonte  contraire  à  celle 
qu  on  en  avait  eue  jusqu  ici:  opinione  che  è  fondata 
sopra  solidi  argomenti,  opinione  che  è  il  frutto  di 
una  lunga  meditazione.  Gli  articoli  di  questa  scien- 
tifica discussione  si  possono  leggere  nel  Journal  de  sa- 
vants,  mesi  di  aprile,  maggio,  giugno,  luglio,  e  ago- 
sto 1859. 


83 


Se  Giulio  Cesare  ed  Augusto  intesero  mai  di  portare 
la  sede  dell'  impero  ad  Ilio.  Ragionamento  recitato 
alla  pontificia  accademia  romana  di  archeologia 
dal  cav.  Salvatore  Betti  presidente. 

PARTE  PRIMA. 

I.  vJhe  le  memorie  de'cesari,  massimamente  de'  pri- 
mi, sieno  piene  d'incertezze  e  di  favole,  non  avvi  savio 
che  saprebbe  metterlo  in  dubbio.  Di  che  indagando 
la  ragione,  stimo  trovarla  principalmente  in  Tacito 
là  dove  dice  nel  primo  della  storia  :  «  È  stata  in 
vari  modi  storta  la  verità  :  prima  per  lo  non  sa- 
pere i  fatti  pubblici  ,  non  più  nostri  :  poscia  per 
r  odiare  o  adulare  i  padroni  ,  senza  curarsi  né  gli 
offesi  né  gli  obbligati  degli  avvenire.  »  Grave  sen- 
tenza ,  o  signori  :  ma  piiì  grave  ancora  è  ciò  che 
lo  storico  aggiunge  nel  primo  degli  annali  ,  quasi 
a  porre  in  guardia  i  lettori  contro  tutto  quello  ch'egli 
stesso  racconta:  imperocché  »  a  narrare  (egli  scrive) 
i  tempi  "di  Augusto  non  mancarono  ingegni  onorati, 
(neutre  1'  adulazione  crescendo  non  li  guastò.  Le 
cose  di  Tiberio  ,  di  Caio  ,  di  Claudio  e  di  Nerone 
furono  compilate  false,  vivendo  essi,  per  paura  :  e 
di  poi,  per  li  freschi  rancori.  »  Certo  un  avverti- 
mento sì  chiaro  e  assoluto  dee  renderci,  mi  pare, 
assai  guardinghi  nel  dar  facile  credenza  soprattutto 
ai  racconti  de'  suoi  annali.  Essendoché  nato  Tacito 
sotto  Nerone  ,  e  fiorito  dall'  impero  di    Vespasiano 


84 
a  quello  di  Traiano,  non  solo  non  trovossi  presente 
a  nnoltissimi  fatti  da  lui  narrali,  ma  neppure  potè 
conoscere  alcuno  che  visse  negli  anni  de'  primi  ce- 
sari: ne  potendo,  per  confessione  sua  stessa,  fidarsi 
di  quanti  le  memorie  romane  compilarono  viventi 
que*  potentissimi  ,  e  poi  dopo  la  loro  morte  ,  non 
so  d'onde  egli  dovesse  trarre  con  apparenza  di  vero 
tanta  parte  di  quelle  cose  che  ci  dà  come  storiche: 
non  bastando,  allorché  mancano  alla  storia  i  saldi  fon- 
damenti, il  protestare  che  egli  fa  «  di  non  tenere 
ira  nò  parte,  come  lontano  dalle  cagioni  ».  Ho  io 
in  altro  discorso,  recitato  in  quesl'  accademia,  già 
mostrato  di  assai  dubitare  d'alquanti  racconti  di  lui 
intorno  all'imperatore  Tiberio  :  né  le  grida  che  ne 
hanno  alcuni  levalo,  quasi  di  propugnata  tirannide, 
valgono  punto  a  farmi  cambiar  sentenza.  Perciocché 
altri  si  piaccia  chinare  servilmente  il  capo  all'auto- 
rità cieca  di  qualsivoglia  scrittore,  solo  [)erchè  scrit- 
tore, neppur  curando  se  narri  fatti  non  avvenuti  a'suoi 
tempi  ,  né  potuti  infallantemente  sapersi  :  io  nelle 
cose  umane  vorrò  sempre  tenermi  a  ciò  che  ne'  dotti 
chiamerò  magistero  di  critica  e  buon  criterio,  in  me 
uso  puro  della  ragione  che  Dio  m'ha  dato.  Abba- 
stanza si  è  fatto  sfoggio  da  molti,  a  me  paie,  di  una 
erudizione  che  omai  sa  di  collegio:  abbastanza,  dirò 
con  Tucidide,  si  è  stimato  fastidio  il  ricercare  severa- 
mente il  vero,  e  di  leggieri  si  sono  lasciali  gli  uomini 
strascinare  alle  opinioni  che  corrono.  Né  credasi  per 
questo,  o  signori,  che  io  non  tenga  Tacito  in  grande 
onore,  e  non  lo  reputi  una  gloria  del  senno  latino.  Ma 
non  volendo  consentire  al  primo  Napoleone,  che  tutto 
quanto  da  lui  si  recita  giudicò  un  romanzo,  quasi  Ta- 


85 
cito  siasi  troppo  spesso  piaciuto  (come  altri  il  tassò) 
dire  le  cose  non  quali  furono,  ma  quali  immaginava 
che  dovessero  essere,  per  poter  poi  mos'trare  con  certa 
ostentazione  T  acutezza  della  sua  mente  in  quelle 
politiche  sentenze,  forse  in  una  stoiia  soverchie,  ben- 
ché sì  eccellenti:  non  saprei  però  rifiutare  affatto  il 
parere  d'altro  famoso  principe,  e  uomo  di  stato,  e 
sapiente,  e  guerriero,  Federico  II  di  Prussia:  il  quale 
sci"isse  che  salvo  le  narrazioni  di  Giulio  Cesare,  che 
si  leggono  ne'  cotnentari,  quelle  de'  ftitti  de'  cesari 
non  sono  generalmente  che  panegirici  o  satire. 

11.  Assai  maggiori  sono  i  mici  dubbi  sulle  loro 
vite  che  pubblicò  Svetonio  :  a  cui  chiederei  d'onde 
anch'egli  cavò,  tardo  postero,  le  notìzie  di  que'  tanti 
segreti  intimissimi  sì  della  vita  particolare  de'  prin- 
cipi e  sì  della  loro  corte  :  non  poche  delle  quali  a 
me  sembrano,  checché  voglia  stimarsi  della  probità 
dello  storico,  mostrare  a  segni  chiarissimi  ora  la  in- 
certezza, ora  la  improbabilità.  Spesso  contraddicono 
infatti,  come  alcuni  critici  hanno  pure  avvertito,  a 
Velleio  e  a  Plutai  co:  non  si  fondano  per  lo  più,  quasi 
manifeste  dicerie  del  popolo,  sopra  veruna  testimo- 
nianza: e  se  concordano  talora  con  Tacito,  non  sarà 
incredibile  che  forse  Svetonio  di  molti  antichi  rac- 
conti fosse  largo  all'amico.  Fra  le  cose  che  assolu- 
tamente non  ho  mai  [>otuto  risolvermi  a  tener  vere, 
una  è  quella  che  si  ha  nella. vita  di  Cesare  ditta- 
tore (1):  là  dove  narra  lo  storico,  essere  corsa  fama 


(1)  Gap.  79.  Quin  eiiam  varia  fama  percrebnit,  migra- 
turum  Alexandriam  vel  Ilium  ,  translatis  simul  opibus  im- 
pera ,  exhaustaque  Italia  delectibus  ,  ei  procuratione  urbis 
amicis  permissa. 


86 
che  volesse  quel!'  ambizioso  e  potente  partirsi  da 
Roma,  e  recar  seco  la  sede  dell'  impero  con  tutte 
le  sue  forze  ad  Alessandria  o  ad  Ilio  ,  fatta  Italia 
esausta  di  gioventù  atta  alle  armi,  ed  a'  suoi  amici 
commessa  la  cura  della  città.  Hanno  molti  moderni, 
)  quali 

A  voce  più  ch'ai  ver  drizzati  li  volti, 

senza  più  ripetuto  questa  novella:  non  brigandosi  al  so- 
lito di  far  ragione,  se  fosse  pur  possibile  al  romano  ed 
alto  animo  del  tiranno  una  malvagità  sì  vile  e  a  tutte 
le  sue  azioni  contraria,  ed  insieme  1'  imprudenza  e 
stoltezza  di  propalarla:  bastando  loro  che  alcuno  lo 
abbia  scritto.  Il  non  trovare  parola  però  di  tal  fama 
in  nessuno  degli  storici  antichi  ,  che  tanto  hanno 
parlato  di  Cesare  e  de'  suoi  fatti  ,  come  a  dire  in 
Plinio  il  vecchio,  in  Plutarco,  in  Appiano,  in  Dione, 
e  il  non^  vederla  avvalorata  da  veruna  prova  o  fede 
che  ne  rechi  Svetonio  ,  doveva  fare  che  almeno  i 
prudenti  l'accogliessero  con  diffidenza.  Come  inoltre 
mostrò  d' ignorarla  Strabone,  che  vecchissimo  com- 
pilava quel  tesoro  di  geografìa  regnando  Tiberio  : 
che  aveva  già  continuato  la  storia  di  Polibio  (opera 
fatalmente  perduta)  lino  all'uccisione  del  dittatore  : 
che  non  solo  si  era  trovato  ne'  tempi  di  Cesare  e 
di  Ottaviano,  ma  aveva  seguito  l'esercito  del  suo 
amico  Elio  Gallo,  e  storico  e  fdosofo  conversato  dot- 
tamente in  Roma  con  molti  nostri  ?  Strabone,  ripeto, 
che  nel  decimoterzo  della  geografia  sì  a  lungo  e 
con  tanta  curiosità  ed  affezione,  in  riverenza  soprat- 
tutto di  Omero,  discorse  gli  avvenimenti  della  Troade 


87 
da  lui  visitata,  le  sciagure  del  vecchio  e  del  nuovo 
ilio,  e  le  larghezze  e  onoranze  fatte  alla  famosa  città 
da  molti  principi  e  capitani,  e  da  Giulio  Cesare  stes- 
so ?  Come  potè  passare  così  gran  cosa,  che  Cesare 
avesse  avuto  già  in  animo  di  trasportare  colà  il  seg- 
gio dell'  impero  ? 

III.  Ma  v'  ha  di  più.  Come  di  proponimento  sì 
scellerato  verso  la  patria  non  trovasi  motto  in  ve- 
runa di  quelle  lettere  ,  nelle  quali  Cicerone  fram- 
mettendosi in  tutto  ,  e  tutto  sapendo  ,  ricorda  con 
gli  amici  e  con  Attico  tante  voci  ree  ed  azioni  mal- 
vage  di  Cesare  ?  Come  ne  tace  nelle  Filippiche,  spe- 
cialmente nella  terribile  seconda:  e  nel  terzo  degli 
Uffici  (1),  dove  con  parole  e  sentenze  così  fiere  vi- 
tupera r  oppressore  già  spento  ?  Né  io  potrò  mai 
credere  che,  se  quella  fama  fosse  corsa  pur  vaga- 
mente, Bruto  e  Cassio,  dopo  trucidato  il  dittatore, 
non  se  ne  fossero  giovati  con  utilità  somma  della 
causa  loro  e  della  repubblica  ad  infiammare  la  plebe 
contro  la  memoria  e  1'  iniquità  di  chi  a  grandis- 
simo danno  pubblico  intendeva  usare  in  fine  un'au- 
torità usurpata  sotto  spezie  di  pubblico  bene  ;  gri- 
dando (come  pare  che  si  dovesse)  eh'  erasi  Cesare 
al  tutto  proposto  di  abbassare  senato  ,  popolo  , 
Italia  ,  e  togliere  a  Roma  fino  la  maestà  dell'  im- 
pero. Voleva  cioè  il  perverso  cittadino  far  quello  che 
già  gloriosamente  Camillo  impedì  che  avesse  effetto 
quando  i  romani  dopo  una  lunga  guerra  erano  per 
prendere  il  mal  consiglio  d'  andarne  a  stanziare  a 
Veio,  e  quindi  ne  ottenne  il  titolo  di  secondo  fon- 
ti) Gap.  21. 


(latore  di  Roma.  «  Abbandonare,  o  romani,  il  caro 
y>  e  sacro  suolo,  dove  riposano  le  ossa  de'  nostri  pa- 
))  dri,  figliuoli,  fratelli  !  I  templi  degl'  iddii  patrii, 
»  i  venerandi  penati  ,  gli  eterni  fuochi  di  Vesta  ! 
»  Trarre  all'aperto  il  fatai  simulacro  ad  ogni  pro- 
»  fana  vista  celato  ,  pegno  di  tanto  impero  !  Nò 
»  ciò  solo  :  ma  perfidamente  lasciare  senza  forze 
»  Italia  tutta  in  preda  a  quanti  barbari  l'assaltas- 
»  sere,  e  una  terra  di  vincitori  scambiare  con  al- 
»  tra  di  vinti  ,  rendendo  vani  i  benefìcii  del  cielo 
»  e  i  trionfi  vostri  e  de'  vostri  maggiori  !  Avere  in 
»  non  cale  ogni  diritto  del  popolo  re,  ogni  dignità 
»  romana,  ogni  italiano  pericolo,  e  da  empio  con- 
»  trastare  perfino  ai  decreti  di  Giove  ottimo  mas- 
»  simo  !  Là  ,  là  ,.  vi  diceva  il  buon  Camillo  ,  o 
»  cittadini  ,  là  sul  Campidoglio  vuol  esser  la  sede 
»  dell'alta  possanza  che  governa  il  genere  umano.  » 
Aggiungasi  che  se  Cesare  ciò  si  propose,  non  potè 
essere  che  nella  dittatura,  quando  era  di  fatto  si- 
gnore ed  arbitro  della  repubblica.  Ora  tutti  sanno 
che  appunto  in  quella  somma  grandezza  ,  pili  non 
temendo  di  dover  essere  in  Roma  il  secondo,  si  diede 
con  magnificenza  regia  ad  abbellir  la  città  come 
sua,  e  ad  ordinarvi  tante  grandissime  opere,  quante 
ci  si  ricordano  drigli  storici  e  da  esso  Svetonio.  Note 
sono  del  pari  le  larghezze  del  suo  testamento  a  fa- 
vore del  popolo  romano:  il  qual  testamento  aveva 
egli  fatto  nel  settembre  del  708,  allorché  si  dispose 
alla  guerra  de'  parli,  cioè  sette  mesi  prima  che  fosse 
ucciso.  Certo  è  dunque  che  nel  tempo  della  mag- 
gior potenza  non  pensò  Cesare  di  portare  il  seggio 
dell'  impero  ne  in  Alessandria,  nò  in  Ilio,  né  altrove: 


com'è  parimente  certo,  che  dopo  la  morte  di  lai  il 
popolo  romano  gì'  innalzò  subito  quella  famosa  co- 
lonna col  titolo  di  Padre  della  patria.  Il  che  non 
mi  sembra  possibile  che  dovesse  fare,  se  nel  dittatore 
fosse  stato  solo  il  sospetto  di  aver  voluto  reo  ma- 
gistrato avvilire  siffattamente  e  quasi  toglier  via  la 
sua  patria  :  credo  anzi  che  avrebbe  ,  non  ostante 
l'arte  e  l'eloquenza  di  Antonio,  strascinato  il  cadavere 
del  traditore  alle  gemonie. 

IV.  Che  volesse  Cesare  far  d'Alessandria  il  capo 
dell'impero  è  tal  fola,  quale  chiaramente  dimostra 
l'aver  dato  con  sovranità  libera  tutto  il  regno  di 
Egitto  a  Cleopatra.  Perchè  darglielo,  o  signori,  se 
gli  era  in  animo  di  faine  una  provincia  romana  e 
la  propria  sede  ?  E  fuori  perciò  di  dubbio  secondo 
l'argomento  certo  de'  fatti,  ch'egli  né  per  sé,  né  per 
Roma  volle  quel  regno:  fosse  per  amore  verso  la  bella 
regina:  fosse  per  alta  ragione  politica:  o  anche,  sic- 
come io  penso,  perchè  nessun  popolo  più  dell'egi- 
zio mostrassi  costantemente  avverso  a  lui  ed  al  nome 
romano.  Intantochè  il  dittatore  1'  infamò  non  solo 
d'insolente,  ma  di  falso  e  bugiardo  (1)  :  ed  Irzio  , 
o  chi  altro  è  l'antico  che  scrisse  la  storia  della  guerra 
alessandrina  ,  1'  ebbe  per  nato  fatto  a  ordir  tradi- 
menti (2)  :  Quum  vero  uno  tempore  et  natio  eoriim 
et  natura  cognoscatur  :  aptissimum  esse  hoc  genus  ad 
proditionem  ,  nemo  dubitare  potest.  Di  che  accadde 
che  per  la  sua  malvagità  fu  insieme  coi  cartaginesi 
dichiarato  indegno  d'ogni  romana  magistratura,  sc- 


(1)  Hirtius,  Debello  alexandrino,  cap.  8  e  24. 
(2j  Cap.  7. 


90 
concio  il  richiamo  che  ne  faceva  fino  nel  secolo  V 
dell'  era  cristiana  sant'  Isidoro  Pelusiota  (1  )  in  una 
lettera  a  Rufino  prefetto  del  pretorio.  Imperocché, 
scriveva  l'illustre  padre  della  chiesa,  agli  egiziani  ed 
ai  cartaginesi  è  negato  nell'impero  ciò  che  pur  si 
concede  ai  perversi  di  Cappadocia. 

V.  Quanto  agl'iliesi,  era  quasi  una  religione  non 
solo  della  gente  Giulia,  ma  del  popolo  romano,  aver 
di  essi  tutela  e  affezione,  come  di  proprio  sangue. 
La  pili  antica  memoria,  che  di  ciò  si  ricordi,  è  forse 
la  lettera  che  i  nostri  mandarono  al  re  Seleuco  of- 
frendogli amicizia  e  alleanza  se  avvesse  favorito  il 
popolo  d'  Ilio  :  la  qual  lettera  Claudio  imperatore 
dottissimo  rammentava  in  una  orazione  greca  detta 
al  sonato  (2).  Questo  Seleuco  non  crederò  dover  es- 
sere, né  il  primo,  cioè  il  Nicatore,  vissuto  poten- 
tissimo in  tempo  che  i  romani,  verso  il  mezzo  del 
secolo  V  della  città,  non  avevano  ancora  un  nome 
illustre  nell'Asia:  né  il  quarto,  cioè  il  Filometore,  fi- 
gliuolo d'Antioco  il  grande  vinto  da  Lucio  Scipione, 
poi  denominato  1'  Asiatico  :  perocché  non  faceva 
mestieri  che  i  romani  se  gli  profferissero  alleati  ed 
amici,  avendo  egli  per  le  mutate  condizioni  del  re- 
gno dovuto  essere  sempi'e  ligio  alle  loro  volontà. 
Sì  lo  crederò  o  il  secondo  ,  detto  Calinìco  ,  o  il 
terzo  ,  detto  Cerauno  ,  che  regnarono  in  Siria  nel 
sesto  secolo.  Non  fu  indi  capitano  de'  nostri  che 
conducesse  in  Asia  l'esercito,  il  quale  non  reputasse 
debito  di  figliuolo  il  visitare  quella  terra  de'  padri: 


(1)  Lib.  I  epist.  485  e  489. 

(2)  Svetonio  in  Claudio  e.  23. 


91 
non  volendo  in  ciò  mostarsi  da  meno,  non  solo  dei 
greci  che  sì  spesso  viaggiavano  colà  in  ossequio  di 
Omero  ,  ma  de'  barbari  stessi  :  perciocché  si  legge 
in  Erodoto  (1)  (e  in  lui  ne  sia  la  fede),  come  an- 
che Serse  ,  avendo  passato  lo  Scamandro  nel!'  in- 
camminarsi ad  assaltare  la  Grecia  ,  giunto  che  fu 
nella  Troade,  desiderò  vedere,  dice  lo  storico,  Per- 
gamo di  Priamo  ,  ed  ivi  a  Minerva  iliaca  immolò 
un  sacrificio  di  mille  buoi.  Perciò  a  Siila  parve  di- 
gnità romaaa  il  non  parlamentare  con  Mitridate  in 
altro  luogo,  che  in  Cardano  città  di  quella  provincia: 
perciò  Lucullo,  andato  anch'egli  ad  Ilio  nella  guerra 
d'Asia  ,  volle  ,  secondo  Plutarco  ,  dormire  ivi  nel 
tempio  di  Venere.  E  tutti  di  qualche  beneficio  con- 
fortavano que'  cittadini:  benché  si  avesse  per  certo 
che  il  nuovo  Ilio  fosse  trenta  stadi  lontano  dal  luogo 
dove  sorgeva  l'antico.  Non  è  a  dire  come  gì'  diesi 
se  ne  vantavano,  stimando  gloria  grande  l'esser  chia- 
mati fra  tutte  le  genti  primogeniti  fratelli  del  po- 
polo dominatore.  È  a  leggersi  in  Giustino  (2)  le  fè- 
ste che  fecero  ai  romani,  che  di  altrettante  li  ricam- 
biarono, al  giungere  colà  di  Scipione  Asiatico  e  delle 
legioni.  Né  cosa  favorevole  o  avversa  direi  quasi  acca- 
deva in  Roma,  che  subito  la  boria  iliese,  qual  d'affare 
domestico, non  volesse  parteciparvi  persuoi  ambascia- 
tori. Nel  che  non  andò  esente  talvolta  dal  porgere  an- 
che materia  al  riso:  come  allora  che  si  condolse  a  Ti- 
berio della  morte  del  figliuolo  Druso.  Giunsero,  al 
narrar  di  Svetonio  (3),  sì  tardi  in  Roma  i  legati  iliesi^ 

(1)  Lib.  VII  cap.  3. 

(2)  Lib.  XXXI  cap.  8. 

(3)  In  Tiberio  e.  32. 


i>2 
che  già  quasi  non  parla  vasi  piìi  di  quella  morte  : 
sicché  Tiberio,  ch'era  talor  faceto,  alla  tanta  opera 
che  facevano  dopo  sì  gran  tempo  di  consolare  il  suo 
animo:  «  Ed  anch'io,  rispose,  a  voi  mi  condolgo  per- 
chè perdeste  Ettore  uomo  egregio.  » 

VI.  Tratto  all'esempio  degli  altri  illustri  romani 
narrasi  che  anche  Cesare  volle  nella  Troadc  visitare  la 
culla  di  Roma  e  di  casa  Giulia.  Dovette  ciò  essere 
per  brevi  istanti  dopo  la  vittoria  di  Farsaglia,  quando 
egli  pensò  che  Pompeo,  da  Mililene  fuggitosi  nella 
Cilicia  ed  a  Cipro,  intendesse  non  già  passare,  come 
fece,  in  Egitto,  ma  rialzar  capo  nella  Siria.  Al  modo 
de'  poeti  (nulla  dicendone  Cesare  slesso  ne'  conf»en- 
tari)  ci  conta  Lucano  (1)  l'andata  del  sommo  ca- 
pitano ad  Ilio  ,  ponendo  sulle  labbra  di  lui  queste 
accese  paiole  : 

Di  cinenim,  phnjrjias  colitis  quicumque  ruinaSf 
Aeneaeque  mei,  quos  nunc  Laviìiia  sedes 
Servai  et  Alba  lares,  et  quorum  lucei  in  aris 
ignis  adirne  plirygius,  nidlique  adspecla  virorum 
PallaSf  in  abslruso  pignus  memorabile  tempio, 
Genlis  luleae  vestris  clarissimus  aris 
Dal  pia  tura  nepos,  et  vos  in  sede  priore 
Rite  vocat  :  date  felices  in  celerà  cursus  : 
Restituam  populos  :  grata  vice  moenia  ìeddenl 
Aiisonidae  phrygibus,  romanaque  Pergama  surgenl. 

Io  non  crederò  mai  che  Svctonio  da  questi  versi 
traesse  la  fama  corsa  ,  che  Cesare  intendesse    tra- 


(1)  Lib.  X  V.  990. 


93 

sfei'iie  il  seggio  dell'impero  ad  Ilio:  che  egli  avrebbe 
gravemente  errato.  Primo,  perchè  non  deve  per  niun 
patto  uno  storico  fondarsi  sull'estro  di  un  poeta  : 
chiarissimo  essendo  che  quella  parlata  del  dittatore 
è  tutta  una  creazione  della  fantasia  di  Lucano.  Se- 
condo, perchè  dato  pure  che  fosse  alcuna  parte  di 
vero  nella  promessa  fatta  agl'iddìi,  in  contraccambio 
di  gratitudine  {graia  vice)  pel  corso  felice  delle  sue 
imprese  ,  di  rialzare  le  mura  di  Troia  e  di  ricon- 
durvi  ad  abitare  le  genti,  già  non  volea  dir  questo 
ch'egli  pensasse  di  portare  colà  il  seggio  della  ro- 
mana possanza:  altro  essendo  il  restaurare  una  cara 
e  famosa  città,  altro  l'eleggerla  a  suo  domicilio:  ma 
sì  accenna  ad  un  celebre  fatto  stoiico,  che  Lucano 
non  doveva  certo  ignorare.  Ed  è  che  il  nuovo  Ilio, 
cui  gli  abitatori  mal  sognavano,  secondo  Strabone, 
essere  l'antico  di  Priamo,  in  quc'  tempi  giaceva  an- 
cor guasto  orribilmente  dal  furore  di  Caio  Fimbria, 
il  quale  assediatolo  in  punizione  d'aver  parteggialo 
contro  di  lui  a  favore  di  Siila  pioconsole,  lo  prese 
a  tradimento  dopo  undici  giorni,  e,  come  nota  l'ab- 
breviatore  di  Livio  ,  expugnavil  et  delevU  (1).  Av- 
venne il  fatto  nel  667  :  e  fra  le  ruine  e  le  ceneri 
della  città  infelice  dicevano  essersi  tiovato  solo  il- 
leso il  simulacro  di  Minerva  iliaca  :  se  deve  pre- 
starsi fede  a  Giulio  Ossequente  (2)  ed  a  S.  Agostino, 
il  quale  nella.  Città  di  Dio  (3)  reca  di  ciò  un  passo 
di  Livio  nel  libro  ottantesimoterzo  ,  che  andò  mi- 


(1)  Lib.  83. 

(2)  De  mirabilibus  cap.  166. 

(3)  Lib.  3  e.  7. 


94 
seramente  perduto  con  altri  della  stupenda  istoria. 
Un  prodigio  siffatto,  aggiunge  Ossequente,  fu  agl'iliesi 
certo  presagio  della  riedificazione  della  loro  patria. 
E  ciò  essi  sperarono  probabilmente  dal  gran  cuore 
di  Cesare,  non  essendo  state  a  tanto  danno  bastanti 
le  beneficenze  di  Siila  ricordateci  da  Strabene.  Sic- 
ché pareva  probabile  a  Lucano  che  il  dittatore  ne 
avesse  loro  data  intenzione,  invocando  fra  quelle  ce- 
neri gì'  iddii  della  sua  casa  : 

Di  cinerum,  phrygias  colitis  quicurnque  minasi 
Aeneaeque  mei  : 

non  altro  con  ciò  intendendo,  che  richiamarli,  se- 
condo il  rito,  nella  loro  sede  primiera  per  la  nuova 
fondazione  che  prometteva  delle  mura  iliache  : 

Et  vos  in  sede  priore 
Rite  vocat. 

Fa  duopo  infatti  essere  bene  ignari  delle  antichità 
pagane  da  non  sapere,  che  presa  una  città  dal  ne- 
mico, nessuna  cosa  in  essa  stimavasi  più  sacra.  Cum 
loca  capta  simt  ab  hoslihus  (così  il  giureconsulto  Se- 
sto Pomponio),  omnia  desimi  esse  sacra  (1).  Né  senza 
ragione:  perciocché  reputavasi  che  ne  partissero  an- 
che gl'iddìi:  come  nel  secondo  dell'Eneide  (2)  dice 
appunto  il  pio  troiano  vedendo  già  Troia  in  fiamme: 


(1)  Lib.  XI  Pandecl  til.  7. 
{2j  Verso  331. 


95 


Excessere  omnes,  adytis  arisque  reliclis, 
Dii,  qiiibus   imperium  hoc  steleral. 

VII.  Ma  questa,  se  non  in  tutto,  certo  in  gran 
parte,  non  fu  che  una  vivace  e  dotta  immaginazione 
del  cordovese:  essendoché  in  ben  altro  modo  narri 
il  fatto  Strabone,  il  quale  non  molto  dopo  viaggiò 
nella  Troade,  e  tutte,  come  dissi,  ne' ricercò  con  amo- 
roso studio  le  notizie  antiche  e  moderne.  Ci  fa  sa- 
pere il  gravissimo  geografo  (1),  che  Alessandro,  ot- 
tenuto eh'  ebbe  la  vittoria  del  Cranico  ,  offrì  doni 
nel  nuovo  Ilio  al  tempio  di  Minerva,  e  ordinò  chi 
dovesse  intendere  agli  edifici  da  rialzarsi  nella  città, 
la  quale  fu  anche  resa  libera  del  suo  governo  e  franca 
d'ogni  tributo:  né  ciò  solo,  ma  avendo  poi  vinti  al 
tutto  i  persiani,  scrisse  agi'  iliesi  una  lettera  beni- 
gnissima  proinettendo  loro  di  hv  d'  Ilio  una  città 
grande,  con  tempio  magnifico  e  giuochi  sacri  e  so- 
lenni, a  Ai  nostri  tempi  però  (seguita  il  geografo) 
si  prese  il  divo  Cesare  molto  maggior  pensiero  e 
cura  di  essi:  e  volle  insieme  fare  a  concorrenza  con 
Alessandro.  Perciocché  questi  si  mosse  alla  lor  pro- 
tezione per  rinnovare  la  parentela,  ed  anche  per  es- 
sere studioso  ed  affezionato  di  Omero.  «  Adunque 
(aggiunge  poi)  sì  per  l'affezione  che  Alessandro  por- 
tava al  poeta,  e  sì  per  l'affinità  che  teneva  co'  di- 
scendenti d'Eaco,  che  avevano  signoreggiato  i  mo- 
lossi ,  appo  i  quali  scrivono  che  regnò  pure  An- 
dromaca   stata  moglie  di   Ettore  ,  egli  aveva  tolto 

(1)  Lib.  13. 


96 

a  proteggere  gì' illesi.  E  Cesare,  che  amava  mollo 
Alessandro,  ed  aveva  chiarissimi  testimoni  anch'egli 
di  parentela  cogl'iliesi,  fu  d'animo  pronto  a  benefi- 
carli. E  i  testimoni  chiarissimi  erano,  priiiio  d'es- 
ser romano  :  e  i  romani  tengono  Enea  per  primo 
loro  autore:  poi  d'esser  Giulio,  disceso  cioè  da  Giulio 
uno  de'  suoi  antichi,  il  quale  venne  così  nominato 
per  quel  Giulo  che  fu  de'  figliuoli  di  Enea.  Laonde 
egli  accrebbe  agl'iliesi  il  contado,  e  conservò  loro  la 
libertà  e  la  franchigia  da'  tributi  :  e  così  insino  ad 
oggidì  si  mantengono   ». 

Tanto,  0  signori,  scriveva  Strabone  da  storico, 
anziché  da  poeta,  regnando  Tiberio  :  né  altro  dice 
che  facesse  Cesare  sì  per  congiunzione  di  sangue 
cogl'  illesi  ,  e  sì  per  emulazione  di  Alessandro. 
Solo  cioè  accrebbe  a  quel  popolo,  come  sventurato 
e  povero,  il  territorio,  e  mantenne  le  franchigre  che 
dopo  il  fatto  atroce  di  Fimbria  aveva  ottenuto  dalla 
riconoscenza  di  Siila.  Le  quali  però  gli  vennero  tolte 
probabilmente  da  una  delle  iracondie  o  forsenna- 
tezze di  Caligola  :  leggendosi  in  Tacito  ,  che  fat- 
tane nuova  istanza  a  Claudio,  orante  il  giovinetto 
Nerone,  le  riebbero  per  le  tante  cose  che  si  ricor- 
darono dell'origine  de'  romani  e  della  casa  im[  erante; 
aliaque  (dice  lo  storico)  haiid  procul  fabulis  velerà. 

Vili.  Giurando  sulla  vaga  voce  sparsa  d'un  ini- 
quo proponimento  così  contrario  in  lutto  alle  me- 
morie e  al  palese  intento  delle  azioni  di  Cesare  ; 
voce  riferitaci  senz'addurne  verun  testimonio  dal  solo 
Svelonio  cento  sessant'  anni  dopo  :  Pietro  Giordani 
stampò,  che  volesse  Augusto  porre  appunto  ad  ef- 
fetto quel   proponimento  o  per  ragione  di  stalo,  o 


97 

per  ossequio  al  padre  adottivo  e  autore  di  tanta  sua 
eredità.  Lungi  da  me  l'ingiustizia  insolente  di  ne- 
gare al  Giordani,  il  quale  mi  onorò  finche  visse  di 
singolare  benevolenza,  il  merito  d'essere  stato  uomo 
assai  dotto,  come  certo  fu  elegantissimo:  ma  lungi 
pure  da  me  il  credere  che  sieno  sempre  sicure  al- 
cune sue  novità  letterarie.  E  quanto  a  quello  scritto, 
in  cui  egli  tratta  delle  finali  e  meno  palesi  intenzioni 
di  alcuni  poemi,  io  non  vorrò  mai  concorrere  nelle 
sue  opinioni  né  per  l'Eneide  nò  per  la  Gerusalemme 
Liberata.  Imperciocché  nel  leggere  consideratamente 
l'Eneide  a  lui  «  parve  sentire  (così  egli  dice)  uno 
studio,  coperto  sì,  ma  continuato  ed  intenso,  di  af- 
fezionare il  popolo  romano  alle  cose  orientali  e  alla 
bella  origine  del  troiano  Cesai'e:  e  di  persuadere  che 
il  portarsi  colla  córte  ad  Ilio  fosse  alla  famiglia  do- 
minante così  giusto  e  decente  ,  come  il  tornare  a 
casa  propria  y>.  Ragionerò  di  questo  vaneggiamento 
quasi  non  credibile  del  celebre  piacentino,  e  dirò  in- 
sieme del  vero  e  manifesto  fine  dell'Eneide,  se  vi  de- 
gnerete, o  signori,  in  altra  tornata  prestarmi  udienza 
cortese. 

PARTE  SECONDA. 

I.  Ripigliando  il  filo  del  ragionamento  che  con 
tanta  umanità,  o  signori,  degnaste  ascoltare  nella 
passata  adunanza,  dirò  primieramente  che  se  un  solo 
scrittore,  qual  fu  Svetonio,  ci  ricorda  la  fama  corsa 
che  Giulio  Cesare  intendesse  trasportare  la  sede  del- 
l' impero  ad  Ilio,  da  nessuno  ci  è  detto  che  ciò  mai 
cadesse  né  pure  in  sogno  ad  Augusto-  Certo  se  quel 
principe  ne  avesse  avuto  alcun  pensiero,  due  cose 
G.A.T.CXLIII  7 


98 
fra  le  altre  non  avrebbe  fatto.  La  prima  ,  che  nel 
famoso  partaggio  della  repubblica  con  Antonio  e 
con  Lepido  non  sarebbe  stata  da  lui  ceduta  ad  An- 
tonio la  Troade  colle  province  d'  oriente  ,  ma  ne 
avrebbe  a  se  conservato  il  dominio.  La  seconda  , 
che  nel  viaggio  intrapreso  per  l'Asia  dal  733  al  735 
(seguo  la  cronologia  del  Petavio),  come  visitò  quasi 
tutte  le  città  più  illustri  di  quelle  nazioni  ,  e  fino 
andò  nella  Frigia,  così  non  avrebbe  trascurato,  se- 
condo le  memorie  che  se  ne  hanno  (1)  ,  di  veder 
Ilio.  N'ebbe  sì  vaghezza  la  sua  figliuola  Giulia,  al- 
Jora  carissima  e  sposa  di  Marco  Agrippa  :  e  male 
per  quella  città.  Perciocché  nell'avvicinarsi  di  notte 
ad  Ilio  avendo  la  principessa  trovato  grosso  d'acque 
il  fiume  Scamandro,  per  poco  nel  traghettarlo  non 
annegò  con  quanti  erano  alla  sua  compagnia.  Di  che 
non  essendosi  avveduti  gì'  iliesi  ,  né  perciò  mossi 
al  soccorso,  n'arse  Agrippa  di  tanto  sdegno,  che  li 
condannò  in  cento  mila  dramme  d'argento.  Né  già 
per  la  grazia,  o  signori,  si  rivolsero  que'  poveri  cit- 
tadini a  colui  dalla  bella  origine  troiana:  ma  sì  col 
patrocìnio  del  celebre  Nicolao  Damasceno  implora- 
rono anzi  r  intercessione  di  uh  giudeo,  di  Erode  il 
grande.  Il  quale  presa  avanti  ad  Agrippa  la  loro  di- 
fesa, ottenne  in  fine  che  dell'  ingiusta  pena  fossero 
franchi,  come  quelli  che  provarono  non  aver  avuto 
del  giungere  di  Giulia  nessun  avviso.  La  cosa  ci  è 
narrata  non  solo  da   Giuseppe  Flavio  (2)  ,  ma  dal 


(1)  Crevier,  Hist.  des  empereurs  romains  t.  1,  ann.  732. 

(2)  Aiilichilà  giudaiche  lib.  XVI  cap.  3. 


99 
Damasceno  medesimo   ne'  frammenti  che    pubblicò 
il  Valesio. 

II.  De'  favori  di  Augusto  verso  la  Troade  non 
si  danno  dagli  storici  che  due  soli  esempi,  i  quali 
niente  rilevano.  Fu  il  primo  1'  aver  restituito  un 
antico  simulacro  di  Aiace  alla  città  di  Rezio  di 
quella  regione  :  imperocché  M.  Antonio,  a  compia- 
cerne Cleopatra  di  là  rapitolo,  secondo  Strabone  (1), 
se  l'era  portato  in  Egitto.  Ma  è  noto  sì  per  esso 
Strabone,  e  sì  pel  monumento  ancirano,  che  l' im- 
peratore a  tutte  le  città  d'Asia  aveva  restituiti  del 
pari  gli  ornamenti  dell'antichità  e  delle  arti:  emulo 
di  Scipione  Emiliano  ,  che  presa  Cartagine  stimò 
gloria  il  rendere  a'  siciliani  tutte  le  statue  tolte  loro 
dalla  punica  rapacità.  Fu  il  secondo  favore  (se  pur 
deve  chiamarsi  tale)  l'aver  mandato  una  colonia  ro- 
mana ad  abitare  in  quella  città  sulla  marina  di  Te- 
nedo  ,  la  quale  anch'  essa  per  vanità  voleva  essere 
l'antica  Troia:  città  che  da  Antigono,  detto  Code, 
re  d'Asia  fu  denominala  Antigonia,  e  poi  Alessandria 
da  Lisimaco  re  di  Tracia,  in  onore  del  grande  Ales- 
sandro. Condottavi  però  la  colonia,  si  nominò  ora 
Colonia  Augusta  Troes  (COL.  AVG.  TRO)  ,  ed  ora 
Colonia  Alexandria  Troes  Augusta  (  COL.  AL.  T. 
AVC-  )  ,  ovvero  Colonia  Alexandria  Augusta  Troes 
(COL.  ALEX.  AVG.  TRO)  ,  come  si  ha  nelle  sue 
monete  incominciate  a  coniarsi  col  capo  di  Augusto, 
imperando  Caligola.  Ma  è  a  sapersi  ,  che  Augusto 


(1)  Lib.  XIII. 


100 

mandò  colonie  in  tutto  quasi  l' impero,  e  nelle  parli 
d' Italia,  secondo  Svetonio  (1),  ne  condusse  ventotto. 

Che  Augusto  adunque  intendesse  trasferire  la 
sede  imperiale  ad  Ilio  è  assai  maggior  fola  del  cre- 
dere, che  volesse  ciò  fare  Giulio  Cesare  :  percioc- 
ché il  proposito  del  dittatore  ha  per  se  almeno  la 
fama  del  volgo  ricordataci  da  uno  scrittore;  quello 
dell'  imperatore  non  ha  tradizione  neppur  volgare  e 
testimonianza  veruna, 

III.  A  ciò  non  attese  Pietro  Giordani:  il  quale 
non  trovando  autore  antico,  che  confortasse  la  sua 
sentenza,  aderì  anch'egli,  benché  noi  confessi  ,  al- 
l'opinione del  Le-Fevre  comentatore  di  Orazio,  Quel 
francese  infatti  per  le  cose  che  disse  intorno  al- 
l'ode terza  del  libro  terzo  fu  da  molti  reputato  quasi 
un  oracolo.  Ma  io  che  nelle  lettere  non  uso  adorare 
oracoli,  non  adorerò  né  pure  il  Le-Fevre,  uomo  per 
altro  assai  dotto  ed  acuto  :  perchè  nelle  cose  di 
pura  umana  ragione  non  credo  immuni  fermamente 
da  fallo  ch'Euclide  e  i  rigidi  suoi  seguaci.  Stimò 
dunque  il  Le-Fevre,  contraddicendo  a  tutti,  se  non 
erro,  gì'  interpreti  antecedenti,  che  Orazio  compo- 
nesse quell'ode  per  dissuadere  Augusto  dal  portare 
ad  Ilio  la  sede  romana  ,  desideroso  di  dare  efFetto 
ad  un  proponimento  di  Giulio  Cesare-  La  confuta- 
zione della  quale  sentenza  sarebbe  vittoriosissima 
col  solo  opporle  d'esser  fondata  sopra  di  un  fatto 
storico  ,  che  non  fu  mai.  Ma  oserò  dire  anche  di 
pili:  cioè  che  l'ode,  la  quale  si  vorrebbe  politica  , 
non  è  che  al  tutto  morale,  come  tante  e  sì  splen- 


(1)  hi  Ottavio  cap.  iB. 


lOÌ 

dide  ne  ha  il  venosino:  non  essendosi  in  essa  il  poeta 
proposto  altro  che  cantare  la  rettitudine,  da  cui  nes- 
suna cosa  varrebbe  a  rimuovere  luslum  et  tenacem 
propositi  virum.  Lodati  perciò  e  Polluce,  ed  Ercole^ 
e  Bacco,  e  Quirino, 

Quos  inter  kiiguslus  recumbens 
Purpureo  bibii  ore  nectar  : 

con  volo  pindarico,  con  uno  cioè  di  que'  passaggi 
arditissimi  ,  de'  quali  il  tebano  levossi  maestro  sì 
mirabile  e  sì  pericoloso  ,  si  fa  improvvisamente  a 
ricordare  un  esempio  terrilìile  di  gastigo  ,  quanto 
più  noto  a'  romani,  tanto  più  loro  di  documento: 
introducendo  Giunone  nel  concilio  degl'  iddii  a  rian- 
dare con  gravi  parole  la  punizione  giustamente  presa 
del  popolo  troiano  ,  coU'assenso  di  tutti  i  celesti  , 
per  Io  spergiuro  di  Laomedonte  e  di  Priamo,  e  pel 
rapimento  d'  Elena  contro  la  santità  dell'  ospizio  : 
suggetto  di  tante  lotte  ed  ire  per  ben  dieci  anni  : 
ma  finalmente 

Nostris  diictum  seditionibus 
Bellum  resedit. 

IV.  Certo  fra  le  divinità,  che  avversarono  Troia, 
fa  più  potente  e  fiera  fu  la  grande  Saturnia,  siccome 
quella  che  sposa  e  sorella  a  Giove,  ed  a  lui  uguale 
nel  cielo  ,  come  la  celebra  l' inno  omerico ,  aveva 
i  regni  sotto  il  suo  speciale  dominio:  e  stimata  era 
tanto  superba  ,  quanto  nelle  sue  vendette  inesora- 
bile. Avrebbe  ella  ne'  romani,  stirpe  di  Troia»  con- 


102 

tinuato  il  suo  sdegno  :  se  già  non  le  fossero  stale 
note  per  alto  prevedinfienlo  le  virtù  non  solo  guer- 
riere, ma  religiose  e  civili,  che  ornar  dovevano  quei 
magnanimi,  e  soprattutto  la  frugalità  e  il  dispregio 
delle  ricchezze  : 

Aunim  irreptum,  et  sic  meìius  silum, 
Ciim  terra  celai,  spernere  forlior., 
Qitam  cogere  ìmmanos  in  usiis, 
Omne  sacriim  rapienle  dexlra- 

Perciò  in  grazia  di  Marte  suo  figliuolo,  che  d'  Ilia 
troiana  aveva  generato  Romolo,  concede  la  sua  graziz 
ai  romani  così  in  Orazio  ,  come  in  Ovidio  (1)  »  e 
consente  che  Quirino  abbia  seggio  in  Olimpo.  Ma 
non  per  questo  la  terribile  dea  d'Argo  vuol  perdo- 
nare a  Troia  prevaricatrice:  né  per  affetto  alla  casa 
de'  Giuli  ed  a  Roma  sì  spegne  in  lei  l'odio  contro 
la  città  delle  colpe,  ad  abbatter  la  quale  stavasi  già 
saevissima,  dice  Virgilio,  sulle  porte  scee.  Tantaene 
animis  caelestibas  irae,  esclameremo  anche  noi  col 
mantovano  !  Surga  Roma  gloriosa,  e  la  generazione 
d' Ilia  trionfi  e  signoreggi  la  terra:  ma  Troia,  la  rea 
Troia  ,  giaccia  neir  esterminio.  Un  immenso  mare 
si  frammetta  fra  Roma  e  la  sede  antica  de*  suoi  fon- 
datori, e  l'armento  calpesti  le  ossa  di  Priamo  e  di 
Ettore.  No,  mai  la  romana  pietà  non  si  attenti  di 
rialzare  le  abborrite  mura,  che  andate  a  distruzione 
d'armi  e  di  fuoco  vogliono  essere  esempio  alla  terra 
del  gastigo   che  dà  il   cielo   alle   grandi   malvagità. 

(1)  Fastor.  Iib.  VI  cap.  I. 


103 

E  questo  decreto  di  Giunone  fu  al  tutto  eseguito, 
consenzienti  non  pur  Nettuno  e  Minerva,  ma,  se- 
condo Eschilo  (I),  Giove  stesso  domestico  ,  o  sia 
punitore  del  tradito  ospizio.  Ipse,  dice  anche  Vir- 
gilio  (2), 

Ipse  pater  danais  animos  viresque  secundas 
Sufficit:  ipse  deos  in  dardana  suscitai  arma. 

Anzi  fu  esso  eseguito  con  tale  eternità  di  effetto  , 
che  Ovidio  nel  IV  de'  Fasti  (3)  immagina  che  ap- 
punto Elettra,  una  delle  pleiadi  e  madre  di  Dardano, 
siasi  perennemente  resa  invisibile,  copertasi  colle  mani 
il  viso  per  non  veder  le  ruine  mai  non  mutabili  della 
sua  Troia.  Né  infatti  fu  opera  d'uomo  che  da  quel 
guasto-  la  facesse  risorgere  :  e  tuttoché  Euripide 
nella  tragedia  delle  Troiane  (4)  introduca  Ecuba  a 
sperare  che  la  città  dovesse  un  dì  rilevarsi  ,  non- 
dimeno appresso  gli  antichi  ostava  sempre  lo  spa- 
vento dell'  ira  celeste  :  e  correva  fama  ,  al  dir  di 
Strabone  ,  essere  stata  fino  maledetta  dal  re  Aga-^ 
m^nnone:  talché  gli  uomini  avevano  in  ogni  tempo 
(segue  a  dire  il  geografo)  abborrito  qu€l  suolo  in- 
fausto ,  e  perciò  edificato  in  altro  luogo  un  nuovo 
Ilio.  Avvertirò  pure,  o  signori,  che  Agamennone  avrà 
dato  quella  maledizione  non  già  in  nome  proprio, 
non  arrogandosi  le  ragioni  del  cielo  :   ma  in  nome 


(1)  Nell'Agamennone  parecchie  volte. 

(2)  Eneide,  lib.  II  v.  617. 

(3)  Gap.  I. 

(4)  Scena  sesta,  in  fine. 


104 

sì  degl'  iddii,  e  probabilissimamente  della  sua  Gia- 
none  argiva. 

V.  Ciò  ebbe,  a  me  par  certo,  in  mente  Orazio 
nella  sua  ode  :  dove  tutto  è  virtù  ,  rettitudine  ,  e 
timor  degl'  iddii  ,  i  quali  ,  secondo  anche  le  mas- 
sime della  teologia  pagana  riferiteci  da  Esiodo  (1), 
spesso  per  la  colpa  d'un  solo  uomo  puniscono  un'  in- 
tera città.  Né  voglio  qui  tacere  un  sottile  avvedi- 
mento del  venosino:  il  quale  a  non  offendere  la  mo~ 
rale,  né  scemare  in  Giunone  la  dignità  dello  sdegno, 
si  attenne  pur  solo  di  toccare  la  cagion  vera  che 
i  poeti,  venuti  dopo  di  Omero  e  di  Esiodo  ,  asse- 
gnarono a  quello  sdegno,  cioè  il  virgiliano 

Manel  alla  mente  reposium 
ludicium  ParidiS)  spraetaeqiie  inmria  formae, 
Et  genus  invisum  et  rapii  Ganimedis  honores. 

Ricordanze  affatto  indegne,  se  fossero  state  ne'  versi 
oraziani:  volendo  quivi  principalmente  il  poeta  ram- 
mentare le  divine  punizioni  de'  violatori  della  giu- 
stizia, e  le  minacce  severe  centra  coloro  che  in  ciò 
contrastassero  ai  decreti  celesti:  non  trascurando,  al 
solito,  di  piaggiarvi  solennemente  Augusto  che  già 
cogli  altri  eterni  bevevasi  il  nettare ,  e  insieme  di 
blandire  alla  gente  Giulia,  così,  secondo  l'ode,  fa- 
vorita in  cielo  dalla  stessa  dea  d'Argo,  non  ostante 
l'odio  che  aveva  al  sangue  troiano.  Ma  l'esser  nato 
Romolo  d'un  figliuolo  di  lei  valse  a  placarla.  Amò 
altresì,  poiché  glie  ne  venne  sì  bene  il  destro,  esal- 

(1)  Opere  e  giorni,  lil).  I  v.  238. 


105 
tai'vi  i  romani,  popolo  di  Quirino,  per  le  loro  virtù 
tanto  accetti  agi'  iddii  e  soprattutto  a  Marte.  Il  che 
non  tacque  parimente  un  altro  adulatore  famoso  della 
gran  casa,  Ovidio  :  il  quale  ne'  Fasti  ,  intitolati  a 
Germanico  Cesare  ,  così  di  Roma  fa  dire  a  Giu- 
none (1)  : 

Jpse  mihi  Mavors,  Commendo  moenia,  dixit, 
Haec  libi:  tu  polens  urbe  nepotis  eris- 

Per  la  qual  cosa  1'  intera  ode,  benché  trattata  con 
tanta  maestria  pindarica  d'  estro  e  di  libertà,  non 
vorrà  essere  che  appieno  corrispondente  (né  potrebbe 
altro)  al  principio  tutto  morale  di  essa  : 

lustiim  et  tenacem  proposili  virum 
Non  civiiim  ardor  prava  iubentiiimy 
Non  vullus  instanlis  tyranni 
Mente  quatit  solida  :  neqiie  Auster 

Dux  inquietus  tiirbidus  Adinae^ 

Nec  fidminantis  magna  lovis  maniis. 
Si  fractus  illabalur  orbis, 
Impavidum  ferient  ruinae. 

Permettetemi  in  fine  di  aggiunger  anche,  o  signori, 
che  se  veramente  Augusto  si  fosse  deliberato  di  tra- 
sportare la  gran  sede  altrove,  non  avrebbe  forse  ar- 
dito l'uomo  di  corte  contraddire  in  una  poesia  tanto 
solenne  alla  volontà  del  principe,  così  da  lui  sempre 
adulato  con    certa  che  m' incresce   chiamare    pro- 

(1)  Lib.  VI  cap.  L 


106 

slituzione  d' ingegno,  fino  a  reputarlo  partecipe  della 
divinità  :  egli  che  inoltre  nell'ode  decimasesta  del- 
l'Epodo, detestando  le  sette  civili,  consigliava  i  ro- 
mani, poeta  e  natio  di  Venosa,  a  lasciare  senza  piiì 
le  rive  del  Tevere  e  andarsene  ad  abitare  nelle  isole 
Fortunate. 

Vi.  Ma  il  Giordani,  più  che  nell'ode  di  Orazio, 
fondavasi  nell'Eneide  :  nella  quale,  come  dissi  nella 
prima  parte,  a  lui  sembrava  sentire  uno  studio,  co- 
perto si,  ma  continuato  ed  intenso,  di  affezionare  il 
popolo  romano  alle  cos$  orientali,  e  alla  bella  origine 
del  troiano  Cesare  ,  e  di  persuadere  che  il  portarsi 
colla  corte  ad  Ilio  fosse  alla  famiglia  dominatrice  così 
giusto  e  decente  come  il  tornare  a  casa  propria-  Sia 
senza  ingiuria  di  tanto  uomo,  io  nel  poema  virgi- 
liano trovo  anzi  assolutamente  il  contrario:  e  dico 
e  mantengo  (e,  lasciatemi  aggiungere,  fuor  di  tema 
di  prender  fallo)  che  il  poeta  ad  esaltare  quell'Au- 
gusto suo  dio,  da  chi  avea  ricevuto  ciocché  d'ozio 
e  di  bene  godeva  al  mondo  (1),  non  ebbe  nel  com- 
porre l'Eneide  altro  fine  vero  e  palese  che  di  mo- 
strare ,  con  quanto  ha  di  più  nobile  lo  stile  e  la 
fantasia,  come  il  dar  principio  a  Roma  fosse  stata 
cosa  di  consiglio  altissimo  in  tutti  gì'  idii  : 

Tantae  molis  eral  romanam  condere  gentem  (2): 

e  come  il  porlo  ad  effetto  dovevasi  alla  virtù  eroica 
dì  Enea  tornato  d'Asia  in  Italia  patria  de'suoi  mag- 


(1)  Eclog.  I. 

(2)  Eneide,  lib.  1.  v.  37. 


107 
giori,  seguendo  il  volere  dei  fati  ,  i  quali  alla  sua 
stirpe  avevano  conceduto  senza  termine  1'  impero 
della  grande  città.  Cosa  all'  imperante  e  di  somma 
gloria  e  di  sommo  prò:  legittimandosi  in  lai  per  tal 
credenza  la  potestà  dell'alto  dominio  della  terra,  che 
aveva  il  cielo  ordinato  dov<?r  essere  su  i  sette  colli. 
E  già  nessuno  ignora  quanto  quel  potentissimo  si 
tenesse  della  divinità  della  sua  stirpe  :  sia  eh'  ella 
discendesse  ,  come  vuole  Dionigi  d'Alicarnasso  ,  da 
Giulo  primogenito  di  Ascanio:  sia  che  provenisse  da 
Ascanio  medesimo,  detto  Giulo,  secondo  il  vecchio 
Catone,  dalla  lanugine  delle  gote.  Né  certo  dimen- 
ticava che  Cesare,  nella  famosa  orazione  funebre  che 
questore  aveva  recitato  di  Giulia  sua  zia,  erasi  fatto 
pomposamente  a  parlare  in  tal  modo  e  di  essa  e  del 
padre:  «  La  stirpe  materna  di  Giulia  mia  zia  ha  ori- 
gine dai  re,  e  la  paterna  è  congiunta  cogl'  iddii  im- 
mortali. Conciossiachè  da  Anco  Marcio  derivano  i 
Marcii  Re,  del  cui  nome  fu  mia  madre:  da  Venere 
i  Giuli,  della  cui  gente  è  la  nostra  famiglia.  Trovasi 
dunque  nel  ceppo  antico  della  nostra  casa  e  la  san- 
tità dei  re,  la  quale  appresso  gli  uomini  è  grandis- 
sima autorità,  e  la  cerimonia  degl'  iddii,  nella  potestà 
de' quali  sono  essi  re  (1).  »  Laonde  Augusto  van- 
tandosi molto  di  tale  origine  ,  procacciò  di  tenerla 
sempre  viva  e  veneranda  nel  popolo,  sia  col  gradire 
che  i  suoi  poeti  la  celebrassero,  sia  coH'aver  fatto 
rappresentare  nel  tempio  di  Marte  Ultore  ,  sul  cui 
frontone  grandeggiava  inciso  il  nome  dell'  imperatore, 
le  immagini  di  Enea  e  di  tutt'  i  discendenti  di  lui, 

(1)  Svetonio,  in  Giulio  e,  6. 


108 
sottopostevi  acconce  iscrizioni,  che  rendessero  ben  note 
ai  romani  le  glorie  della  sua  regia  e  divina  prosapia. 
Ce  lo  dice  Ovidio,  che  quel  tempio  descrive  nel  V 
de'  Fasti  (1): 

Hinc  videi  Aenean  ornalum  fondere  sacro, 

Et  tot  iuleae  nobilitatis  avo'i. 
Hinc  videt  Iliaden  humeris  ducis  arma  ferentem: 

Claraque  disposilis  acta  subesse  viris. 

Perciò  non  è  ad  immaginare  quanto  egli  dovea  sen- 
tirsi gioire  di  quel  gran  vaticinio  di  Giove  nel  pri- 
mo dell'  Eneide  (2): 

Quin  aspera  luno  , 
Quae  mare  nunc  terrasque  metu  coeliimque  faligatf 
Consilia  in  melius  referet,  mecumque  fovebit 
Romanos  rerum  dominos,  gentemque  togatam. 
Sic  placitiim.   Veniet  lustris  labenlibus  aelas, 
Cum  domus  Assaraci,  Phlhiam,  clarasque  Mycenas 
Servitio  premei,  ac  viclis  dominabilur  Argis. 
Nascelur  pulchra  troianus  origine  Caesar, 
Imperium  oceano,  famam  qui  lerminet  aslris. 
lulius,  a  magro  demissum  nomen  lido. 

Ecco,  0  signori,  in  qual  modo  è  chiamato  Augusto 
da  Virgilio  troianus:  in  quello  stesso  cioè,  onde  Ro- 
molo ne'  versi  sopra  citati  è  detto  iliade  da  Ovidio: 
volendo  così  dinotare  l'uno  e  l'altro  poeta,  che  tanto 


(1)  Gap.  5. 

(2)  Verso  283. 


109 

Romolo,  quanto  Augusto,  discendevano  dalla  casa  di 
Enea.  Ecco  pur  la  ragione  perchè  tanto  operossi  Au- 
gusto che  r  Eneide  non  fosse  arsa  ,  come  Virgilio 
in  sul  morire  aveva  ordinato:  e  sì  ebbe  caro  ,  che 
Tucca  e  Vario  attendessero  a  renderla  del  tutto  de- 
gnissima d'essere  pubblicata.  Benché  non  potrebbero 
oggi,  altro  che  da  un'  ignoranza,  attribuirsi  ad  esso 
Augusto  i  versi  che  col  suo  nome  vanno  intorno  su 
questo  fatto:  nondimeno  l'epigramma  all'  imperatore 
in  morte  di  Virgilio,  se  non  vuol  dirsi  assolutamente 
di  Asinio  Gallo,  è  però  assai  antico,  secondo  il  pa- 
rere del  Wernsdorff  e  de'  migliori  critici  :  ed  ivi 
pregasi  il  principe  di  non  consentire  che  1'  Eneide 
sia  gittata  alle  fiamme,  l'Eneide  nella  quale  anche 
quel  poeta  non  vede  altro  che  le  lodi  degT  italiani  e 
ciò  che  i  fati  avevano  decretato  intorno  ad  Aua;usto; 


'&' 


Fac  laudes  itahim,  fac  tua  fata  legi. 

VII.  Io  so  bene  che  non  potè  un  Giordani,  let- 
terato della  grande  scuola  ,  non  aver  letta  e  som- 
mamente ammirata  l'epopea  virgiliana:  ma  non  so 
poi  come  leggendola  dovesse  dimenticare  l'obbligo 
solenne  che  al  poeta  correva  (massimamente  per 
l'esempio  del  primo  pittore  delle  antiche  memorie 
ch'egli  emulava)  di  ben  ritrarre  i  costumi  de'  popoli 
fra'  quali  conduceva  l'eroe  troiano:  non  avvertendo 
che  se  talora  Virgilio  dipingeva  da  pari  suo  gli  orien- 
tali, negl'  italiani  antichi  usò  tal'  erudizione  e  cura 
diligentissima,  che  l'autorità  di  lui  fra  i  dotti  per 
poco  non  è  uguale  a  quella  di  uno  storico.  Non  te- 
merò inoltre  d'essere  smentito  affermando,  che  verso 


110 

non  ha  nell'  Eneide,  da  cui  possa  inferirsi  uno  stu- 
dio, quanto  si  voglia  coperto,  di  persuadere  ai  no- 
stri come  sarebbe  stato  giusto  e  decente  il  passaggio 
del  principe  ad  Ilio.  Tutto  v'  è  anzi  altamente  glo- 
rioso alla  terra,  dove  Roma  per  voler  divino  fu  edi- 
ficata: né  saprebbesi  indicare  un  romano  famoso,  che 
non  vi  sia  celebrato.  Mi  valga  di  recarne  ad  esem- 
pio il  solo  libro  sesto,  dove  avanti  ad  Anchise  e  ad 
Enea  passano  a  schiere  le  anime  de'sommi  di  Roma, 
e  quella  di  Augusto  medesimo.  Quali  parole  a  far 
heta  la  casa  troiana  di  dover  soggiornare  nella  città 
eterna  !  Leggasi  al  verso  716  : 

Hos  equidem  memorare  libi  atque  oslendere  coram 
lampridem  hanc  prolem  cupio  enumerare  meorum: 
Quo  magis  Italia  tandem  laetere  reperta: 

e  più  al  verso  781  : 

En  huius,  nate,  auspiciis  illa  inchjta  Roma 
Imperium  terris,  animos  aequabil   Ohjmpo, 
Seplemque  una  siti  muro  circumdabil  arces. 
Felix  prole  virum.  Qualis  lìerecynlliin  maler 
Invehilnr  curru  plirygias  turrita  per  urbes, 
Laeta  deum  pariu,  centum  complexa  nepoles, 
Omnes  caelicolas,  omnes  supera  alta  tenentes. 
Huc,  geminas  ime  flecte  acies:  hanc  aspice  gentem, 
Romanosque  tuos.  Hic  Caesar,  et  omnis  luli 
Progenies,  magnum  caeli  ventura  sub  axem. 
Hic  viri  hic  est,  libi  quem  promitti  saepius  audis , 
Auguslus  Caesar,   divum  genus:  aurea  condet 


11] 

Saecula  qui  rursus  Lalio,  regnata  per  arva 
Saturno  quondam. 

Vili.  A  meglio  mostrare  però  come  assai  s' in- 
gannasse il  Giordani  nella  sua  sentenza,  ed  insieme 
a  mantener  vero  che  assolutamente  Virgilio  non  al- 
tro vagheggiò  nell'  immortale  poema,  che  la  stabi- 
lilà  dell'  impero  in  Roma;  datemi  di  grazia,  o  si- 
gnori, che  vi  torni  a  memoria  pochi  altri  passi  de' 
più  principali  dell'  Eneide,  i  quali  affatto,  se  non  erro, 
risolvono  la  quistione. 

Dichiarando  Giove  a  Venere  nel  libro  primo  l'or- 
dine eterno  suo  e  de'  fati  intorno  alla  stirpe  di  Enea 
in  Italia,  attendasi  ciò  che  dice  (1): 

Inde  lupae  fulvo  nutricis  tegmine  laelus 
Romulus  excipiet  gentem,  et  mavortia  condel 
Maenia,  romanosque  suo  de  nomine  dicet. 
His  ego  nec  metas  rerum,  nec  tempora  pono: 
Imperium  sine  fine  dedi. 

Ed  aggiunge  solennemente,  sic  placitum.  Ora  come 
avrebbe  Virgilio  immaginato  si  gran  decreto  di  Giove 
intorno  all'impero  senza  fine  conceduto  al  popolo  della 
città  di  Marte,  e  quell'eterno  sic  placitum^  se  fosse 
stato  suo  pensiero  di  consigliare  Augusto  a  far  d'  Ilio 
la  sede  di  esso  impero  ?  Io,  se  l'ora  tarda  non  m' in- 
calzasse, avrei  materia  abbondantissima  di  provare, 
essere  stata  adulazione  comune  di  tutti  i  poeti  della 
corte  imperale    il    dire  che  veramente  i  numi  alla 

(1)  Verso  279. 


112 

casa  di  Enea,  o  sìa  alla  gente  Giulia,  avevano  dato 
quella  signoria  del  mondo,  che  doveva  aver  seggio 
sul  Campidoglio.  Ne  solo  de'  poeti  latini,  ma  si  de' 
greci  :  perciocché  si  hanno  in  Quinto  Calabro  tali 
versi,  che  aggiungono  non  lieve  fede  a  coloro,  i  quali, 
come  diceva  il  Ginguenè  all'  instituto  di  Francia  (1), 
fanno  vivere  quel  poeta  ai  tempi  augustei,  anziché 
nel  quinto  secolo  dell'era  volgare,  secondo  che  al- 
cuni pretendono.  Sono  essi  versi  nel  libro  XIII  (2), 
in  cui  queste  cose  grida  Calcante: 

»  Cessate  olà  di  tirar  lance  e  dardi 

»  Sul  capo  al  prode  Enea:  de'  numi  eccelso 

))  Decreto  destinò,  ch'egli  dal  Xanto 

))  Drizzi  il  suo  corso  al  maestoso  Tebro: 

»  Che  un'augusta  cittade  erga,  e  sia  questa 

))  Gran  meraviglia  ai  posteri  più  tardi: 

»  Che  a  varie  e  sparte  regioni  imperi, 

»  E  la  prosapia  sua  regni   poi  tanto, 

»  Che   giunga  a  dominar  l'orto  e  l'occaso. 

Ma  tornisi  all'  Eneide.  GÌ'  iddii  troiani  nel  libro 
terzo  (3),  apparendo  in  sogno  ad  Enea,  gli  annun- 
ziano: 

Est  lociis,  Hesperiam  graii  cognomine  dicunt, 
Terra  antiqua,  potens  armis  alqne  ubere  glehae. 


(1)  Rapporto  all'  instituto  di  Francia  inserito  nel  Magaz- 
zino enciclopedico  del  Millin,  volume  di  luglio  1811,  a  carte  63. 

(2)  Uso  il  volgarizzamento  di  Luigi  Rossi,  volume  secondo 
a  carte  121. 

(3)  Verso  163. 


113 

Oenotrii  coluere  viri:  mine  fama  minor es 
Italiam  dixisse,  ducis  de  nomine,  gentem. 
Haec  nohis  propriae  sedes:  hic  Dardanus  orlus, 
lasiusque  pater,  gemis  a  quo  principe  nostrum. 

GÌ'  iddii  stessi  dunque  di  Troia  vogliono  in  Virgi- 
lio, che  la  loro  sede  sia  quìnd'  innanzi  in  Italia,  e 
non  pili  nella  distrutta  patria:  in  Italia,  ond'erano 
nati  Dardano  e  lasio  ,  dai  quali  traeva  origine  la 
gente  troiana. 

Dimorava  Enea  in  Cartagine,  per  gli  amori  della 
regina  dimentico  vilmente  di  se,  della  sua  prole  e 
degli  eterni  decreti.  Giove  gì'  invia  Mercurio  coll'or- 
dine  di  partirsi  quanto  prima  dall'Affrica  (1).  E  che 
dice  ? 

Vade  age,  nate,  voca  zephyros  et  labere  pennis: 
Dardaniumque  ducem,  tijria  Cartagine  qui  nunc 
Expectat,  fatisque  datas  non  respicit  urbes, 
Alloquere,  et  celeres  defer  mea  dieta  per  auras. 
Non  illum  nohis  genilrix  puleherrima  talem 
Promisit,  graiumque  ideo  bis  vindicat  armisi 
Sed  [ore,  qui  gravidam  imperiis,  belloque  frementem 
llaliam  regeret,  genus  alto  a  sanguine  Teucri 
Froderei,  ae   totum  sub  leges  mitteret  orbem. 

Apprestasi  il  troiano  ad  eseguire  l'onnipotente  vo- 
lontà :  ne  smania  d'affanno  e  di  sdegno  Bidone  :  e 


(1}  Libro  IV  verso  2^23. 
G.A.T.CLXIII.  S 


114 

quali  sono  le  parole  di  Enea  a  scusarsi  della  par- 
tenza (1)  ? 

Sed  nunc  Italiam  magnam  grynaeus  Apollo, 
Ilaliam  lyciae  iussere  capessere  sorles. 
Hic  amor,  haec  patria  est. 

Ma  quello  a  che  poi  nessuno  avrà  cosa ,  io  credo, 
da  contrapporre  sono  i  seguenti  versi  del  libro  XII (2). 
Vuole  Giove  alfine  che  cessi  Giunone,  contrastando 
al  destino,  di  tanto  faticare  Enea  nella  guerra  con 
Turno  ,  o  sia  nella  dominazione  d'  Italia.  Ulterhis 
tentare  veto.  È  astretta  ad  obbedire  la  dea  ,  chie- 
dendo però  in  guiderdone,  che  poiché  Troia  è  ca- 
duta, lascisi  che  pur  sempre  si  giaccia  con  esso  il 
suo  nome: 

Sii  Lalium,  sint  albani  per  saecula  reges, 
Sit  romana  polens  itala  virtute  propago. 
Occidity  occideritqiie  sinas  ciim  nomine  Troia. 

Al  che  volentieri  Giove  acconsente,  soggiungendole 
subito: 

Do  quod  vis,  et  me  vinctiis  volensque  remitto. 
Sermonem  ausonii  patrium  moresque  tenebunl: 
Utque  est,  nomen  erit:  commixti  corpore  tantum 
Siibsident  teucri:  morem  ritusque  sacronim 
Adiiciam,  faciamque  omnes  imo  ore  lalinos. 


(1)  Ivi,  verso  3i5. 

(2)  Verso  828  e  seg 


115 

Hinc  genus,  ausonio  mixlum  quod  sanguine  surget, 
Supra  homines,  supra  ire  deos  pielate  videbis: 
Nec  gens  lilla  luos  aeque  celebrabil  honores. 

IX.  Che  altro  di  meglio  poteva  scrivere  Virgilio 
a  dichiarare  solennemente  ,  che  per  ordine  celeste 
non  dovevasi  più  da'  nostri  pensare  a  Troia  ?  Che 
altro  di  più  conforme  a  ciò  che  vedemmo  voler  Giu- 
none, sebbene  con  diverso  intendimento,  nell'ode  di 
Orazio  ?  Che  altro  infine  di  più  aperto  a  distogliere 
anzi  Augusto  dallo  sconsigliato  proponimento,  ^  avu- 
to lo  avesse  (come  non  l'ebbe  mai  per  nessuna  notizia 
e  probabilità),  di  trasmutarsi  dalla  gloriosa  città  del 
mondo  in  quell"  Ilio,  obliato  appunto  dalla  Fortuna, 
secondo  che  all'  imperatore  cantava  pur  Manilio  nel- 
l'Astronomico (1)  ,  perchè  sorgesse  il  romano  im- 
pero ? 

X.  Né  solo  in  Ilio,  come  slima  il  Giordani  per  poco 
d'avvertenza  all'Eneide  ,  ma  molto  meno  fra'  bar- 
bari della  Gallia,  secondo  che  afferma  Dione  esserne 
andata  intorno  la  voce.  Imperocché  narrando  Io  sto- 
rico nel  libro  LIV  come  1'  imperatore  nel  consolalo 
di  Domizio  Enobarbo  e  di  Cornelio  Scipione,  cioè 
nell'anno  738,  viaggiò  nella  Gallia,  dice  che  sì  fosse 
a  ciò  indotto  per  togliersi  da  Roma,  dove  a  molti 
era  divenuta  grave  la  sua  presenza:  né  egli  inten- 
deva col  perdonare  a'  colpevoli  contraffare  alle  leggi. 
Sicché  prese  la  risoluzione,  scrive  esso  Dione,  di  an- 
darne in  paesi  lontani,  come  già  fece  Solone.  Alcuni 
però  (segue  il  niceese)  sospettarono  che  avesse  in- 

(1)  Lib.  I,  verso  SOO. 


116 

vece  voluto  intraprendere  quel  viaggio  a  cagione  di 
Terenzia  moglie  di  Mecenate:  per  potersi  cioè  tro- 
vare con  essa,  senza  darne  al  pubblico  un  mal  con- 
cetto: essendoché  già  dal  volgo  parlavasi  variamente 
del  loro  amore.  Ed  invero  la  donna  eragli  tanto  cara, 
che  fino  fece  starla  una  volta  a  confronto  con  Livia 
per  la  sua  bellezza.  Cosi  Dione.  Ora  che  Augusto 
avesse  già  fatto  credere,  sia  per  simulazione,  sia  per 
essere  veramente  stanco,  di  voler  rinunciare  la  po- 
testà, è  noto  per  tutti  gli  storici.  Ma  egli  intendeva 
rendersi  di  nuovo  a  vita  cittadinesca,  sgravatosi  del 
gran  peso,  come  diceva,  di  tanta  dominazione:  ed 
era  perciò  ben  lontano  da  ogni  pensiero  d'  andarne 
anzi  colla  sede  dell'  impero  medesimo  fuori  d'  Italia, 
dove  a  lui  quel  peso  non  sarebbe  stato  certamente 
minore.  Riposa  colai  notizia  sopra  un'  incerta  voce 
giunta  agli  orecchi  del  solo  Dione  :  tacendone  fino 
Svetonio  che  aveva,  come  ognun  sa,  cercato  in  Roma 
le  cose  più  riposte  e  curiose  della  vita  di  quel  ce- 
sare cent'anni  prima  di  esso  Dione:  sulla  cui  auto- 
rità vori'emo  inoltre  essere  sempre  cauti  a  giurare.  Dio- 
nem  cum  iudicio  lagendiim  esse,  ci  avvisa  il  Lipsio  (1): 
e  il  Vossio  di  più  gli  appone  di  narrare  spesso  fatti 
non  veri:  A  verilalis  orbila  saepe  deflectere  (2).  Certo 
è  che  tante  baie  si  hanno  in  questa  sua  novella  , 
quante  parole.  Non  poteva  infatti  Augusto  rassomi- 
gliarsi a  Solone  ,  il  quale  non  fu  mai  signore  di 
Atene,  ma  solo  arconte  a  tempo  con  ufficio  di  le- 
gislatore in  città  del  tutto  franca:  nò  si  ritrasse  per 


(1)  Epistolar.  qiiaesl.  lib.  IV  episl.  3. 

(2)  De  arte  liistor.  pag.  49. 


117 

essere  stanco  de'  carichi  della  patria,  o  per  non  vo- 
lere far  contro  alle  sue  leggi,  ma  sì  fuggendo,  caldo 
di  libertà  ,  la  tirannide  di  Pisistiato.  Chi  dirà  poi 
sì  leggiero  di  mente  x\ugusto,  che  dovesse  preten- 
dere d'  impor  silenzio  alle  male  voci  intorno  l'amor 
suo  per  Teren/ia,  conducendosi  dietro  palesemente 
compagna  del  viaggio  l' adultera  ?  Tutto  impune- 
mente fare,  dicevasi  già  cosa  da  re:  ma  non  potrei 
nondimeno  senza  difficoltà  credere  in  esso  Augusto 
un  disprezzo  così  svergognato  di  quella  legge  Giulia 
da  lui  medesimo  pubblicata,  essendo  la  sesta  volta 
console  nel  726,  contro  i  violatori  della  fede  ma- 
trimoniale: per  la  qual  severissima  legge  è  noto  che 
poi  condannò,  approvante  il  senato,  a  perpetua  pena 
figliuola  e  nipote.  Il  riferire  ,  non  dandosi  neppur 
briga  d'un'avvertenza  per  lo  meno  di  dubbio  ,  sif- 
fatte chimere  di  tradizioni  volgari  dugento  quaran- 
t'anni  dopo,  è  indegno  non  solo  della  gravità,  ma 
del  giudìzio  di  uno  storico. 

XI.  Non  ha  dubbio  che  Augusto,  secondo  Sve- 
tonio  (1)  in  ciò  concorde  co'  fatti  ,  si  fosse  pro- 
posto di  visitare  tutte  le  province  dell'  impero  a 
lui  sottoposte.  E  tutte  veramente  le  visitò  ,  salvo 
l'AtTrica  (o  sia  la  regione  cartaginese)  e  la  Sardegna: 
non  potuto  andarvi  per  gravi  cure  di  stato  che  vi 
si  opposero,  benché  ne  avesse  avuto  sempre  la  vo- 
lontà. Si  condusse  perciò  nella  Gallia,  provincia  im- 
portantissima, e  già  famosa  palestra  de'  trionfi  del 
padre  suo  adottivo.  E  molte  palesi  ragioni  di  guerra 
e  di  pace  ve  lo  consigliarono:  perciocché    volle  da 

(1)  In  Ottavio  cap.  il. 

à 


118 

se  stesso  giudicare  colà  de'  casi  pressanti  della  Ger- 
mania, i  cui  popoli  minacciavano  potentemente  1'  im- 
pero ,  ed  avendo  sorpreso  e   disfallo   Marco  Lollio 
legato,  si  erano  con  maggiore  ardimento  mossi  alle 
armi.  Inteso  però  che    Augusto    medesimo    si   tro- 
vava di  là  non  lontano  a  combatterli,  implorarono, 
dati  ostaggi,  la   pace  e  tornarono  in  dietro.  Non  cosi 
i  reti  ,  che   molestavano   non   meno  le  Gallie  ,  che 
r  Italia  superiore:  contro  de'  quali  spedì  con  un  eser- 
cito prima  il  figliuolo  Druso,  poi  esso  Druso  e  Ti- 
berio. Stimò    anche  debito    d'  imperatore  il  render 
giustizia  a   que'  popoli  de'   molti    soprusi  e   ladro- 
necci, de'  quali  veniva  accasalo  il  gallo  Licinio  suo 
liberto,  deputalo  a  riscuotere  le  gabelle  e  i  tributi. 
Divise  inoltre  in  quattro  parti  la   Gallia,  al  contra- 
rio ,    dice  Slrabone    (I),    di  ciò    che    aveva    fatto 
Giulio  Cesare.  Avendo  ultimamente  condotto  colo- 
nie così  in  quel  paese  ,  come  nella  Spagna  vicina, 
prese  a  farne  il  censo,  che  lasciò  indi  compiere  a 
Druso.  Sicché  (è  Dione  medesimo  che  così  scrive) 
w  avendo  assettalo  Augusto  le  cose  della  Gallia,  della 
Spagna,  della  Germania:  fatto  di  molte  spese  in  cia- 
scuna città  dove  andava:  da  alcune  ricevuto  grandis- 
sime somme:  ad  altre  conceduto  la  libertà  e  il  di- 
ritto delfa  romana    cittadinanza,  e  ad  altre  toltolo: 
lasciò  Druso  in  Germania,  e  tornossone  a  Roma  es- 
sendo consoli    Tiberio  e  Quintilio    Varo   ».  E  sì  la 
patria  ,  o  signori  ,  vivamente  lo  richiamava:  e  già 
Orazio  sollecitavalo  con  un'ode  bellissima  (2)  a  non 


(1)  Lib.  IV. 

(2)  Ode  Y  dei  lib.  IV. 


119 

frappone  maggior  indugio  al  ritorno.  Laonde  ognun 
vede  che  secondo  la  vera  storia  ,  e  secondo  Dione 
medesimo  allorché  non  raccoglie  fole  dal  volgo,  Au- 
gusto nelle  Gallie  operò  cose  di  gran  momento  sì 
alla  sicurtà  dell*  impero  e  si  al  bene  di  quelle  pro- 
vince: e  che  la  cagione  del  suo  viaggio  di  là  dal- 
l' alpi  fu  ben  altra  che  il  voler  trasferirvi  la  sede 
della  regina  del  mondo,  o  il  coprire  vanamente  di  un 
velo  l'amor  suo  verso  Terenzia. 

Xll.  No,  signori.  Augusto  non  pensò  mai,  lo  ri- 
peto, di  togliere  alla  sua  patria  tanta  grandezza  e 
maestà.  Tutta  la  romana  sua  vita  dalla  gioventù  alla 
vecchiezza  ne  rende  buona  testimonianza.  Chi  più 
di  lui  ossequioso  al  culto  antico,  ed  a  ciò  che  sti- 
mavasi  dover  mantenere  eterna  fra  noi  la  potestà 
della  terra:  di  lui,  che  sì  fervente  in  quel  zelo  volle 
perfino  trasferire  nelle  stesse  sue  case  il  sacrario  e 
fuoco  di  Vesta  (1),  per  tenerne  pontefice  massimo 
e  maggior  sacerdote  della  dea  (2)  una  cura  più  re- 
ligiosa ?  Ninno  inoltre  il  passò  per  quanto  più  po- 
tevasi  civilmente(resosi  impossibile  Tanlico  stato) nel- 
l'essere sollecito  così  del  bene,  come  della  dignità 
de'suoi  concittadini.  Non  fu  Augusto  che  accrebbe 
il  numero  de'  patrizi,  e  se  ne  vantò  nel  monumento 
ancirano  ?  Non  fu  Augusto  che  restituì  al  popolo  il 
diritto  già  toltogli  da  Cesare  di  eleggere  ne'comizi 
i  consoli  e  gli  altri  magistrati  curuli  ?  Non  fu  Au- 
gusto che  stanziò  la  legge  Papia  Poppea  ,  perchè 
dopo  le  sciagure  della  guerra  civile  dovesse  Roma 

(1)  Ovidio,  Fast.  lib.  Ili  cap.  4,  e  lib.  IV  cap.  6. 

(2)  Ovidio,  ivi  lib.  V  cap.  5. 


120 

rifiorire  della  sua  popolazione  ?  Non  fu  Augusto,  che 
memoriarum  veterum  exequenlissimus,  come  lo  chia- 
ma Gellio  (1),  ornò  il  suo  foro  delle  statue  non  solo 
de'  Giuli,  ma  de'  più  illustri  romani,  infiammando 
per  tal  modo  i  posteri  ad  operar  cose  degne  della 
città  dea  della  terra  e  delle  nazioni  (2)  ?  Non  fu  Au- 
gusto che  a  diffondere  sempre  più  nel  gran  popolo 
ogni  maniera  di  liberali  studi  fondò  e  fece  pubbliche, 
emulando  Lucullo  e  Pollione  da  re,  due  celebri  bi- 
blioteche ?  Non  davasi  vanto  d'aver  ricevuto  Roma 
di  muro,  e  di  volerla  render  di  marmo?  Che  si  chiede 
altro  ?  Narra  fino  Svetonio  (3),  che  un  giorno  arrin- 
gando Augusto  si  avvide  che  alquanti  romani  ave- 
vano deposta  la  nobile  veste  de'  loro  padri.  Di  che 
mostrandosi  altamente  adiralo  (tanto  slavagli  a  cuore 
di  mantenere  l'onor  patrio  in  tutto),  ecco,  disse  ad 
alta  ed  ironica  voce,  ecco 

Romanos  rerum  dominos  (jentemque  togatam: 

ed  impose  agli  edili  di  provvedere,  che  quind'  in- 
nanzi nessuno  ardisse  comparire  non  togato  nel  foro 
e  nel  circo.  Bello  e  degno  ,  ma  inutile  ordine  del 
gravissimo  imperatore:  essendoché  dovevano  purtrop- 
po pochi  anni  dopo  i  romani  quasi  tutti,  per  mal 
vezzo  straniero,  mostrarsi  cotidianamente  in  pubblico 
senza  toga,  e  meritarne  il  dileggio  di  Giovenale  (4)  ! 


(1)  Notti  attiche  lib.  X  cap.  24. 

(2)  Terrarum  dea  gentiumque  Roma.  Marziale. 

(3)  Id  Ottavio  cap.  40. 

(4)  Satira  terza. 


121 

Tal  era  Augusto,  o  signori,  secondo  tutte  Ih  me- 
morie che  di  lui  ci  rimangono;  principe  a  chi  pos- 
sono imputarsi  non  lievi  colpe,  ma  non  quella  certo 
d'essersi  mai  rinnegato  romano.  Oltreché  in  tutte  le 
cose  pubbliche  fu  di  sì  forte  volontà  e  sì  avventurato, 
che  forse  impero  non  s'ebbe  in  Roma  più  tranquillo 
e  più  alla  devozione  del  suo  sovi'ano:  giudice  anche 
Tacito  (1),  che  vuole  in  ciò  facilmente  esser  cre- 
duto. E  molto  se  ne  gloriava,  secondo  Plutarco  (2), 
Augusto  medesimo  :  il  quale  inviando  Caio  Cesare  la 
prima  volta  all'esercito:  «  Fate,  disse,  o  iddii  im- 
mortali, di  concedere  a  mio  nipote  il  valor  di  Sci- 
pione, la  giazia  di  Pompeo,  e  la  mia  fortuna  ». 

Le  quali  cose,  o  sjgnori,  da  me  discorse  a  fine 
di  dichiarare  (  il  primo  ,  io  credo  )  se  possa  mai 
essere  stato  vero  o  probabile  in  due  grandissimi 
principi  di  sangue  romano  un  proponimento  d'im- 
portanza forse  non  ultima,  se  non  erro,  alla  storia 
e  alla  dignità  di  questa  patria  carissima,  con  ossequio 
sottopongo  all'autorità  del  vostro  giudizio. 


(1)  Annali  lib.  1  cap.  2  e  3. 

(2)  Della  fortuna  de'  romani. 


122 


1  bastioni  di  Antonio  da  Sangallo  disegnati  sul  ter- 
reno per  fortificare  e  ingrandire  Civitavecchia  Van- 
no 1515.  Lettera  al  chiarissimo  signor  cavaliere 
e  professore  Salvator  Betti. 


I.  J\  voi,  che  come  compiuto  modello  non  meno  di 
squisita  cortesia  che  di  bello  scrivere  noi  tutti  ono- 
riamo ,  piacque  tra  le  varietà  del  vostro  Arcadico 
(tomo  XIV,  nuova  serie)  tener  discorso  di  quel  mio 
tenue  lavoro  che  ,  estratto  dal  giornale  delle  stra- 
de ferrale  ,  pubblicai  anonimo  nel  novembre  del 
mille  ottocento  cinquantotto.  Io  vi  rendo  infinite 
grazie  ,  perchè  coli'  autorevole  vostro  giudizio  in 
ogni  punto  mi  confortaste  ,  massime  nel  primato 
che  sopra  al  Sammicheli  pel  notissimo  baslion  di 
Verona  rivendicai  al  Sangallo  pc'  suoi  bastioni  di 
Civitavecchia  ,  e  perchè  (  essendomi  appena  stato 
possibile  in  quel  mio  scritto  dare  un  cenno  di  sif- 
fatto primato)  voi  pur  voleste  con  grazia  e  genti- 
lezza tutta  vostra  far  noto  ai  lettori,  che  di  ciò  avreb- 
bero trovata  una  più  ampia  dimostrazione  nel  libro 
settimo  della  mia  Marina.  Ma  con  questo  invogliaste 
pili  d'uno  a  chiedermene  contezza,  a  farmi  pressa, 
e  ancora  a  muovermene  dubbi.  Ondechè  io,  volendo 
risolvere  le  difficoltà,  e  per  quanto  posso  far  pago 
il  desiderio  di  tutti,  senza  aspettare  chi  sa  quando 
r  edizione  del  predetto  libro,  ho  divisato  cavarne  la 
richiesta  dimostrazione,  sciogliere  la  mia  e  la  vostra 
promessa,  e  di  presente  in  cosa  di  non  lieve  momento 


123 

chiarire  la  storia  dell'arie,  il  meiito  dei  Sangallo, 
e  la  prima  opeia  da  lui  falla  in  Civitavecchia.  Mi 
passerò  di  notare  le  mende  di  quegli  scrittori  tanto 
nostrani  che  forestieri,  i  quali  hanno  trattalo  piiì  o 
meno  di  proposito  questo  argomento  rispetto  a  Ci- 
vitavecchia, il  continuo  confondere  la  fortezza  e  le 
fortificazioni,  il  mettere  sossopra  i  tempi  e  le  per- 
sone: donde  non  è  meraviglia  che  sia  venuta  l'oscu- 
rità e  r  incertezza  che  ho  preso  a  rimuovere. 
Con  voi,  che  siete  tutto  ordine  e  tutto  critica,  vengo 
diritto  a  sostenere  la  verità  dell'assunto  ,  e  di  ciò 
vi   presento  per  filo  il  fatto  e  le  piove. 

II.  Giorgio  Vasari  nella  vila  di  Antonio  Picconi  da 
Sangallo  narra,  che;  (1)  «  Andando  il  papa  (Leone  X) 
a  Civitavecchia  per  fortificarla,  ed  in  compagnia  di 
esso  infiniti  signori,  e  fra  gli  altri  Giovan  Paulo 
Baglioni  e  'I  signor  Vitello  (Alessandro) ,  e  simil- 
mente di  persone  ingegnose,  Pietro  Navarra  (il  conte), 
ed  Antonio  Marchisi  architetto  allora  di  fortifica- 
zioni ,  il  quale  per  commessione  del  papa  era  ve- 
nuto da  Napoli;  e  ragionandosi  di  fortificare  detto 
luogo,  infinite  e  varie  circa  ciò  furono  le  opinioni: 
e  chi  un  disegno  e  chi  un  altro  tacendo,  Antonio  fra 
tanti  ne  spiegò  loro  uno,  il  quale  fu  confermato  dal 
papa  e  da  quei  signori  ed  architetti,  come  di  tutti 
migliore  per  bellezza  e  fortezza,  e  bellissime  ed  utili 
considerazioni  :  onde  Antonio  ne  venne  in  giandis- 


(1)  Vasari,  Le  vite  dei  pittori  scultori  e  architetti,  pub- 
blicate per  cura  di  una  società  di  amatori  delle  arti  belle 
in  8.°  Firenze.  Tipografia  Lemonnier  1846-57.  Tom.  X,  p.  6. 
—  Citerò  sempre  questa  edizione  come  la  più  copiosa  e  cor- 
retta. 


124 

Simo  credito  appresso  la  corte  )).  Posta  la  testimo- 
nianza del  Vasari  ,  la  quale  in  questo  incontro  e 
regge  a  martello  e  concorda  con  molte  altre  che 
appresso  produrrò,  vengo  a  dichiararla  in  ogni  sua 
parte,  perchè  si  veda  quanto  bene  ella  torni  al  no- 
stro proposito. 

III.  E  prima  volendo  determinare  il  tempo  della 
gita  di  papa  Leone  a  Civitavecchia,  mi  sovviene  mon- 
signor Paride  de  Grassi  (2),  prefetto  delle  cerimo- 
nie, sempre  colla  penna  in  mano  e  sempre  ai  fian- 
chi del  pontefice,  registrandone  giorno  per  giorno, 
secondo  il  costume  della  romana  corte,  i  fatti:  dal 
quale  ricavo  cinque  viaggi  di  Leon  decimo  a  Ci- 
vitavecchia. Il  primo  nel  mese  di  gennaio  del  mil- 
le cinquecento  quattordici,  il  secondo  nel  mese  di 
ottobre  del  cinquecento  quindici,  altri  due  nel  set- 
tembre e  nel  novembre  del  sedici  e  del  diciannove, 
l'ultimo  nel  novembre  del  venti:  l'anno  appresso 
papa  Leone  morì. 

Ora  ninna  di  queste  date  più  che  la  seconda  cor- 
risponde alle  minute  accuratissime  circostanze  indi- 
cate dal  Vasari.  Peichè  allora,  neìl'otlobre  del  1515, 
il  papa  stava  pensieroso  sopra  le  vittorie  riportate 
dai  francesi  a  Milano  (3);  e  sospettando  non  forse 

(2)  Paris  de  grassis  ,  praefectus  caeremoniarum,  Dia- 
rium  Leonis  papae  decimi.  -  MSS.  in  molte  biblioteche.  —  Alla 
Casanatense  XX.  III.  6. 

Sub  die    1  lanuarii       1514. 

1  Octobris      1515. 

18  Septembris  1516. 

26  Novembris  1519. 

7  Decembris   1520. 

(3)  Guicciardini,  Storia  d' Italia,   lib.  XII. 


125 

i  vincitori  si  volgessero  contra  Toscana  e  contra 
Roma  ,  levava  soldati  e  capitani  ,  e  dava  mano  a 
fortificarsi  (4).  Perchè  tre  mesi  prima  di  questo  viag- 
gio, cioè  nel  luglio  del  1515,  Antonio  da  Sangallo 
(  il  quale  già  per  Giulio  II  insieme  con  Bramante 
aveva  lavorato  nei  fossi  di  caste!  Santangelo  in 
Roma  ,  e  v'  ha  ogni  ragione  di  credere  che  anche 
nella  rocca  di  Civitavecchia)  era  stato  dal  cardinal 
Farnese  introdotto  ai  servigi  di  Leone  decimo  (5):  col 


(4)  Scipione  Ammirato,  Storie  fiorentine,  in  fol.l641.T.  II, 
p.  317.  Lib.  XXIX.  «  Non  era  il  pontefice  senza  sospetto  che 
il  re  vittorioso  non  si  volgesse  contra  Toscana  e  contra 
Roma.  « 

Paris  de  Grassis.  cit.  Die  prima  mensis  octobris  1515. 
«t  Papa  discessit  ah  urbe  versus  Viterbium,  Montem  Falisco- 
rum,  Tuscanellam ,  et  Centumcellas  sive  Civitatem  veterem. 
Ubi  cum  esset  rumore  vario  mmciatum  est  regem  francorum, 
qui  nuper  Mediolanum  in  potestatem  suam  redegerat  ,  velie 
ad  papam  personaliter  cum  suo  exercitu  venire,  linde  papa, 
veritus  ne  quid  novitatis  in  transitu  machinaretur,  operatus 
est  ut  ipse  ad  Bononiam  cum  omni  curia  transcenderet  ». 

(5)  Vasari  cit.  Vita  di  Antonio  p.  5.  «  Mentre  queste  cose 
giravano  ,  avvenne  che  la  vecchiezza  di  Bramante  ed  al- 
cuni suoi  impedimenti  lo  fecero  cittadino  dell'  altro  mondo. 
Perchè  da  papa  Leone  subito  furono  costituiti  tre  architetti 
sopra  la  fabbrica  di  san  Pietro,  Raffaello  da  Urbino,  Giuliano 
da  Sangallo  zio  di  Antonio,  e  fra  Giocondo  da  Verona.  E 
non  andò  molto  che  fra  Giocondo  si  parti  da  Roma,  e  Giuliano 
essendo  vecchio  ebbe  licenza  di  potere  tornare  a  Firenze.  Là 
onde  Antonio,  avendo  servitii  col  reverendissimo  Farnese,  stret- 
tissimamente lo  pregò  che  volesse  supplicare  a  papa  Leone  che 
il  luogo  di  Giuliano  suo  zio  gli  concedesse:  la  qual  cosa  fu 
facilissima  a  ottenere]...  Andando  poi  il  papa  a  Civitavecchia 
per  fortificarla  »  eccetera  come  alla  nota  1. 

Vasari,  cit.  T.  VII.  p.  139.  Vita  di  Braaiante:  «  Bramante 
fu  sepolto  in  S.  Pietro  l'anno  Ioli.  » 


126 

quale  non  cavalcò  a  Civitavecchia  nel  gennaio   del 
quattordici,  che  sarebbe  stato  troppo  presto  e  fuor 
di  stagione  ;  né  altrimenti  nel  sedici  o  nel  venti  , 
cioè  troppo  tardi  per  questo  fatto  a  cui  dovette  la   j 
sua  riputazione  nella  corte,  e  che  dal  Vasari  è  posto 
in  ordine  di  tempo  prima  di  ogni  altro,  subito  che  ' 
Antonio  fu  ricevuto  ai  servigi   di   papa   Leone  :   ma  j 
sì  bene    tre    mesi  dopo    il    suo  collocamento,  cioè 
nell'ottobre  del  rnille  cinquecento  quindici,  quando 
il  papa  ebbe  bisogno  di  lui.  Perchè  nell'anno  stesso,  | 
e  fin  dal  mese  di  agosto,  partitosi  da  Peiugia  Giain-  1 
paolo    Baglioni     era    venuto  al   soldo   del  papa  ,  e 
quindi  a  Civitavecchia    dove    per    testimonianza  di   : 
Paride  si  formò  il   primo   disegno   di  andare  a   Bo-   : 
logna   (6).  Perchè  nell'  istesso  tempo  il  conte  Pietro  ' 
Navarro,  messo  fuori  del   castello  di  Milano  il  duca 
Massimiliano  Sforza  (7),  e  avendo  la  via   spedita  da 


Gave,  Carteggio  d'artisti,  in  8."  Firenze  1840.  T.  11.  p.  13I>. 
«  Maestro  Bramante  mori  hiermattina  XI  marzo  1514.  » 

Vasari  cit.  VII.  p.  236.  Vita  di  Giuliano  ed  Antonio  da 
Sangallo.  Commentario.  «  Al  1  di  gennaio  1514  Giuliano  da 
Sangallo  è  nominato  architetto  di  san  Pietro  in  Roma.  Al 
l  di  luglio  1315  cessò  da  quell'ufficio.  » 

Vasari  cit.  X.  p.  5.  Vita  di  Antonio  da  Sangallo.  •  //  luogo 
di  Giuliano  suo  zio  fu  facilissima  cosa  ottenere  per  Antonio.  » 
Dunque  Antonio  entrò  a  servigio  di  papa  Leone  nel  mese  di 
luglio  1515. 

(6)  Teseo  Alpani,  Memorie  perugine.  Arch.  Stok.  It. 
T.  XVI.  P.  II.  p.  272.  «  il  di  29  agosto  di  mercoldt  1515 
si  partì  da  Perugia  il  signor  Gian  Paolo  Baglioni  per  an- 
dare al  soldo  di  N.  Signore  Leone  X  a  Bologna.  »  Vedi  so- 
pra la  nota  n."  4. 

(7)  Muratori,  Annali  1515  prop.  fin:  «  Nel  quinto  dì  d'ot- 
tobre uscì  dal  castello  di  Milano  il  codardo  duca.  » 


127 

Genova  a  Civitavecchia,  doveva  esser  venuto  tra  i 
primi  a  trattare  dei  congresso  da  tenersi  a  Bologna; 
come  quegli  che  pel  re  di  Fi-ancia  militava,  e  pel  papa 
aveva  militato  a  Ravenna  ,  e  per  intercessione  di 
Leone  X  era  stato  liberato  dalla  prigionia,  e  sempre 
mantenuto  in  sua  grazia  (8).  E  senza  altre  riprove 
a  mostrare  per  1'  anno  medesimo  la  presenza  di 
Alessandro  Vitelli  e  di  Antonio  Marchisio,  varrà  per 
tutti  la  testimonianza  del  celebre  architetto  mili- 
tare capitan  Francesco  de  Marchi  (9),  il  quale,  in- 
direttamente ,  ma  parlando  delle  fortificazioni  alia 
moderna,  il  conferma,  dicendo:  «  La  Sedia  Aposto- 
lica ha  fatto  da  trent'anni  in  qua  molte  fortifica- 
tioni.  »  E  perciocché  egli  scriveva  nel  mese  di  agosto 
del  1546,  come  si  legge  nella  prima  tavola  de'  suoi 
disegni,  ne  segue  l'essersi  qui  dato  principio  a  for- 
tificare co'  nuovi  melodi  nello  scorcio  del  1515,  in 
tempo  di  Leone  decimo,  quando  il  Vasari  ci  mette 
innanzi  quel  concorso  d'  infiniti  signori,  di  capitani 
e  d' ingegnose  persone  in  Civitavecchia  per  fortifi- 
carla. 

IV.  Le  quali  fortificazioni  non  potevano  riguardare 
ne  punto  ne  poco  la  rocca  vecchia,  edificata  nel  me- 
dio evo  sopra  una  rupe  tra  il  porto  e  la  darsena; 
né  la  rocca  nuova,  detta  oggi  la  fortezza,  sulla  riva 
del  mare  a  levante,  disegnata  e  murata  sia  da  Bra- 


(8)  Petri  Bembi  Cardinalis,  Epistolarum  Leonis  X.  Pont. 
Max.  nomine  scriptarum.  Pelro  Navarro  Cantabro.  Fra  tutte 
le  opere  del  Bembo  in  fol.°  Venezia  1729.  T.  IV.  p.  72.  113. 
130.  ecc. 

(9)  Francesco  de  marchi,  Architettura  militare.  Lib.  II. 
Cap.  X.  in  fogl.  Brescia  1399.  Prima  tavola  p.  io* 


128 

mante  (10),  e  poscia  compita  da  Michelangelo;  ma 
sì  bene  esser  dovevano  un  compiuto  petìmetro  di 
muraglie  per  chiudere  e  ingrandire  la  città.  Di  che 
fa  pure  testimonianza  il  Vasari,  dicendo  con  molta 
proprietà  di  termini  che  «  Il  papa  andò  per  fortificare 
Civitavecchia  ...  e  ragionò  di  fortificar  detto  luogo.  » 
Cioè  la  terra  tutta  intorno  ,  talché  il  luogo  stesso 
in  ogni  sua  parte  si  rendesse  forte.  Indi  il  motto  so- 
lenne di  Giulio  terzo,  che  «  Attorno  alla  città  crebbe 
le  fortificazioni  »  ripetuto  quattro  volto  sopra  quattro 
medaglie  di  diversi  pontefici,  i  quali  continuarono 
l'opera  medesima  (11). 

V.  Ora  avendo  Antonio  spiegato  il  disegno  e  fat- 
tevi sue  considerazioni,  come  a  dire  svolto  il  car- 
tone e  insieme  le  ragioni  dell'arte  sua  nell'architet- 
tura militare  ,  ne  riportò  piena  approvazione  ,  fu 
anteposto  a  tutti,  venne  in  gran  credito,  ed  ebbe 
tanto  onore  di  superlativi  elogi  per  bellezza  e  for- 
tezza, e  bellissime  ed  utili  considerazioni,  alla  pre- 
senza del  papa  e  di  tanti  signori  e  architetti,  che 
sarebbe  un  fatto  ridicolo  e  indegno  d'esser  pur  ri- 
petuto da  chicchessia,  nonché  da  un  artista  e  scrit- 
tore come  dal  Vasari,  se  non  alludesse  a  cosa  ve- 
ramente nuova  e  bella,  cioè  all'  idea  della  moderna 
fortificazione  applicala  al  sito  per  circondare  inte- 
ramente una  città.  Dopo  i  primi  saggi  delle  linee 
fiancheggiate  e  della  difesa  radente  mostrati  dal  vec- 


(10)  Ne  darò  io  prove  nella  storia  della  Marina,  e  produrrò 
un  documento  inedito  che  allude  a  questo  fatto. 

(11)  «   Urbemque.  Vallo.  Auxit.   » 
Come  appresso  alla  nota  nura.  28. 


129 

chio  Giuliano  da  Sangallo  nella  rocca  d'Ostia  (12) 
e  nella  cittadella  di  Pisa  ,  e  dopo  le  scritture  di 
Francesco  Martini  (13),  l'uno  zio  e  maestro,  l'altio 
contemporaneo  e  facilmente  noto  ad  Antonio,  non 
se  ne  può  dubitare.  Tanto  che  ,  senza  averne  an- 
cora quella  pienezza  di  prove,  che  io  appresso  pro- 
durrò, vennero  a  questa  medesima  congettura  i  tre 
più  grandi  scrittori  che  hanno  trattata  al  tempo 
nostro  r  istoria  e  l'arte  del  fortificare.  Carlo  Pro- 
mis  (14),  cercando  quali  siano  stati  i  primi  bastioni 
in  Italia,  e  contraddicendo  all'opinione  del  marchese 
Scìpion  Maffei  che  ad  ogni  studio  voleva  trovare  il 
primo  baluardo  opera  d'un  veronese  e  fatto  in  Ve- 
rona, esclude  il  primato  del  Sammicheli  pel  bastione 
delle  Maddalene  fatto  nel  1527,   novera  quasi  dieci 


(12)  Carlo  Theti,  Discorso  delle  fortidcazloni,  in  fogl.  Na- 
poli 1617  p.  132.  La  pianta  della  rocca  d'Ostia. 

Attilio  Orlandini  Zuccagni,  Corografia  di  tutta  1'  Italia 
in  8.  Firenze  1843.  Alle  tavole  la  rocca  d'Ostia. 

PKOSPETfo  della  rocca  d' Ostia  in  fotografia ,  presa  l' an- 
no 18S4,  prima  dei  ristauri.  Presso  di  me. 

Pianta  e  veduta  prospettica  della  rocca  d'  Ostia  rica- 
vata dall'architetto  Giovanni  Monliroli,  sopra  gli  studi  fattivi 
nella  primavera  del  1859,  in  compagnia  del  cavalier  Ravioli,  mon- 
signor Luigi  Pila,  e  padre  Alberto  Guglielmotti.  Presso  di  me. 

(13)  Francesco  di  Giorgio  martini,  scrittore  del  secolo 
decimoquinto.  Trattato  di  architettura  civile  e  militare  pubbli- 
cato con  appendice  e  note  dal  prof.  Carlo  Promis  in  i.°  To- 
rino 1841.  Superba  edizione  di  importantissimo  lavoro  pel 
testo,  per  le  tavole  e  pei  commentari  del  chiarissimo  editore. 
Il  cavalier  Ravioli  in  Roma  ne  possiede  una  copia ,  che  per 
sua  cortesia  ho  potuto  consultare. 

(14)  Carlo  Promis,  Appendice  e  note  al  trattalo  di  Fran- 
cesco di  Giorgio  Martini,  cit.  pag.  311. 

G.A.T.CLXllI.  9 


I 


130 

città  che  ne  ebbero  di  più  antichi  ,  e  conchiude 
dicendo:  (^  Tralascio  siccome  insufficientemente  de- 
scritte e  non  abbastanza  confortate  di  documenti 
istorici  le  fortificazioni  erette  con  baluardi  assai  prima 
del  1527  in  qualche  piccola  città  di  Toscana,  a  Li- 
gnago  ,  a  Parma  ,  e  fors'anche  a  Civitavecchia  ». 
11  cavalier  Camillo  Ravioli  ripete  l' istessa  conget- 
tura dicendo  (15):  «  Vero  è  che  il  marchese  Marini 
innanzi  al  Sammicheli  vorrebbe  porre  Antonio  da 
San  Gallo  sulla  scorta  del  Vasari  pel  suo  disegno 
approvato  da  I.eon  X  per  fortificare  Civitavecchia; 
non  esita  ad  affermare  che  ponendo  molto  studio 
suir  oggetto  forse  per  f  invenzione  dei  bastioni  si 
troverebbero  argomenti  per  dirli  anteriori.  «  E  l'istesso 
marchese  Luigi  Marini  prima  d'ogni  altro  scriveva 
in  questa  sentenza  (16):  «  Prendiamo  esempio  dal  di- 
segno fatto  da  Antonio  da  S.  Gallo  per  fortificar 
Civitavecchia,  approvato  da  Leone  decimo;  ...  Che 
questo  disegno  fosse  secondo  la  moderna  forlicazione, 
vale  a  dire  avesse  i  bastioni,  ogni  probabilità  lo  vuole... 
L'  epoca  di  un  tal  progetto  non  è  certamente  pili 
recente  del  1521,  e  perciò  precede  quella  del  primo 
bastione  del  Sammicheli  di  qualche  anno:  onde  se 
si  potesse  rincontrare  un  tal  progetto,  in  cui  ci  ò 
tutta  la  probabilità  di  credere  che  ci  fossero  i  ba- 
stioni, si  potrebbe  per  questo  solo  mezzo  dimostrare 

(15)  Camillo  Ravioli,  Discorso  della  vita  e  delle  opere 
del  marchese  Luigi  Marini,  in  8.°  Roma  1858.  p.  14.  — Estratto 
dal  Tomo  Vili,  nuova  serie,  del  giornale  Arcadico. 

(16)  Luigi  Marini,  marchese  di  Vacuna  ed  ingegnere  ro- 
mano, Saggio  storico  edalgebraico  sui  bastioni,  in  8. "Roma  1801 , 
pag.  16. 


131 

del  tutto  falsa  ropinione  del  Maffei  ».  Erra  nondimeno 
nel  dire  che  il  disegno  del  Sangallo  non  fu  mai  ese- 
guito: e  questo  errore  è  stato  causa  di  lasciar  molti 
dubbi  nella  storia  dell'arte  che  niuno  meglio  di  lui 
avrebbe  potuto  risolvere  (17). 

VI.  Senonchè  le  probabilità  di  questi  ed  altret- 
tali valentuomini  sono  divenute  ormai  certezza  ,  e 
il  desiderio  del  marchese  Marini  ò  soddisfatto;  il  piano 
del  Sangallo  per  le  mura  di  Civitavecchia  non  andò 
perduto,  anzi  fu  posto  in  esecuzione,  e  noi  possiamo 
francamente  asserirlo,  dappoiché  gli  originali  disegni 
dell'istesso  Sangallo,  che  giacevano  negletti  nella  gal- 
leria di  Firenze,  desiderati  ma  non  saputi  indicare  né 
dal  Gaye  (18),  né  dal  Promis(19),sono  stati  fatti  cono- 
scere al  pubblico  da  una  società  di  amatori  delle  arti 
belle  (20).  Dai  quali  disegni,  avendo  io  per  introdotto 
del  gentilissimo  cavaliere  [.uigi  Crisostomo  Ferrucci, 


(17)  Marini,  cit.  p.  16.  «  //  qxml  disegno  però  non  fu, 
mai  messo  in  esecuzione.  » 

Promis,  cit.  p.  75.  «  Antonio  da  San  Gallo  nel  ponti- 
ficato di  Leone  X  diede  per  le  mura  di  Civitavecchia  un  piano 
che  non  fu  effettuato.  »  Si  confronti  la  pag.  311.  citata. 

(18)  Giovanni  Gaye,  Carteggio  inedito  d'artisti  dei  seco- 
li XIV,  XV,  e  XVI,  illustrato  con  documenti  pure  inediti, 
in  8°.  Firenze  1839-40  ,  T.  Ili  p.  393.  «  Importantissima 
per  la  vita  di  Antonio  da  S.  Gallo  è  questa  nota  delle  sue 
opere.  Qual  sorte  abbiano  avuta  poi  questi  disegni,  non  sa- 
prei indicare.  » 

(19)  Promis,  cit.  pag.  76.  a  Di  questo  itigegniere  (Antonio 
da  Sangallo)  devono  esistere  scritture  .  .  .  però  non  trovo  chi 
ne  faccia  menzione  ». 

(20)  Commentario  alla  vita  di  Antonio  da  Sangallo  nella 
edizione  citata  del  Vasari,  1854.  T.  X  p.  24  e  63. 


132 

bibliotecario  della  Laurenziana,  potuto  cavare  il  fac- 
simile di  quattro  esemplari  (21),  intitolati  Schizzi  di 
Civitavecchia,  mi  trovo  aver  sott'occhio  la  pianta  di 
essa  città:  e  non  solo  la  nuova  sua  cinta  alla  moderna 
con  sette  bastioni  reali  ,  ma  la  traccia  altresì  dei 
primi  passi  dati  da  Antonio  nello  studiare  alla  for- 
tificazione sul  terreno,  e  la  ragione  di  quegli  inge- 
gnosi partiti  che  (presi  in  Civitavecchia  per  necessità 
del  sito)  divennero  poscia  il  principal  carattere  del 
suo  stile.  Oltracciò  devo  e  posso  di  presente  notare 
non  senza  compiacenza  e  maraviglia,  che  i  disegni 
del  Sangallo  pienamente  rispondono  alle  fortifica- 
zioni che  sono  in  Civitavecchia  dal  secolo  decimosesto 
sino  ai  nostri  tempi,  massime  ai  cinque  baluardi  di 
ponente  che  tuttora  esistono  inlatti.  Si  vedrà  tra 
poco  come  descrivendo  i  disegni  di  Antonio  si  trac- 
cia a  un  tempo  il  perimetro  delle  mura,  cortine,  e 
bastioni  della  stessa  città. 

VII.  Prima  però  di  mettermi  alla  descrizione  mi 
piace  ribadire  l'argomento  con  altri  due  colpi:  il  primo 
dei  quali  sia  dato  per  mano  di  Francesco  de  Mar- 
chi, celeberrimo  tra  tutti  gli  scrittori  di  architettura 
militare  del  secolo  decimosesto.  Il  valoroso  capita- 
no, oltre  alla  sua  grand'opera,  ristampata  in  questo 
secolo  dal  marchese  Marini  con  quel  lusso  di  edi- 
zione che  tutti  sanno,  lasciò  una  preziosa  raccolta 
di  piante  e  disegni  di  diverse  città  e  fortezze  (ora 
alla  Magliabecchiana  di  Firenze)  e  insieme  colle  altre 


(21)  Antonio  Picconi  da  Sangallo,  Scritti  e  disegni  inediti 
nella  Galleria  di  Firenze.  T.  VII,  carte  108,  num.  271.  E  a 
carte  115,  nuni.  284.  283.  Ed  i  facsimile  presso  di  me. 


133 

la  pianta  delle  fortificazioni  di  Civitavecchia  (22)  , 
che  il  mio  amico  colonnello  Alessandro  Cialdi,  co- 
mandante della  marina  [jontificia,  in  un  suo  viaggio 
di  Toscana  fecemi  copiai-e,  e  presso  di  me  conservo. 
Or  quelle  piante,  già  tanto  importanti  pel  nome  di 
chi  le  disegnò,  sono  altresì  per  l'autoic  che  le  com- 
pose: stimandosi  comunemente  che,  rispetto  a  quelle 
dello  Stato  pontifìcio  e  di  Toscana,  il  de  Marchi  non 
abhia  fatto  altro  che  copiarle  dagli  originali  del  San- 
gallo,  il  quale  per  diveise  commissioni  e  dei  papi 
e  dei  fiorentini  le  aveva  disegnate  o  racconce.  Di 
che  h  pure  testimonianza  il  cavalier  Promis,  dicen- 
do (23):  «  Altro  lavoro  del  capitano  de'Marchi  è  la 
raccolta  di  oltantacinque  disegni  ....  la  maggior 
parte  di  città  e  fortezze  d'Italia  .  .  .  Già  ho  notato 
che  devono  esser  tratti  dalla  raccolta  dei  disegni 
originali  di  Antonio  da  S.  Gallo,  e  ciò  per  le  piante 
di  Toscana  e  Romagna  » .  Dunque  molto  più  la 
pianta  di  Civitavecchia  ,  presa  dal  de  Marchi  co- 
me sopra  ,  deve  esser  copia  di  quell'originale  car- 
tone che  il  Sangallo  presentò  a  Leon  decimo.  Quindi 
come  è  questa  copia,  così  fu  quell'originale,  cioè  ba- 
stionalo alla  moderna  La  quale  opinione  eziandio  per 
questo  fatto  di  Civitavecchia  divien  certezza.  Perchè 


(22)  Francesco  de  Marchi,  Piante  diverse  di  città  e  for- 
tezze. MSS.  alla  Magliabecchiana.  «  Pianta  di  Civitavecchia 
in  Toscana  ». 

Mariano  d'Ayala,  Bibliografia  militare  italiana,  in  8."  To- 
rino, 18S4  p.  107. 

(23)  Carlo  Promis,  Appendice  e  note  al  trattato  d'Archi- 
tettura civile  e  militare  di  Francesco  di  Giorgio  Martini  in  4." 
Torino  1841.  Memoria  prima,  scrittori  militari  p.  118  e  p.  76. 


J34 

nel  vero  gli  schizzi  di  Antonio  alla  Galleria  insieme 
composti  ci  danno  per  punto  il  perimetro  della  pianta 
del  de  Marchi  alla  Magliabecohiana.  E  tanto  chiara- 
mente si  vede  avere  il  secondo  copiato  dal  primo, 
che  laddove  quello  confessa  essorsi  orizzontalo  all'az- 
zardo scrivendo  di  suo  pugno  (24)  in  un  canto  dello 
schizzo  :  «  Bisognia  metteie  la  bussola  a  punto  alli 
4  venti,  e  none  al  falso  della  tramontana:  «  questi 
fedelmente  seguendolo ,  ti  mette  in  mezzo  al  porto 
la  bussola  al  falso  della  tramontana:  cioè  settanta- 
cinque gradi  a  levante. 

Vili.  Ma  un  più  forte  argomento  si  trae  da  quattro 
medaglie  pontifìcie  tutte  coniale  nel  secolo  decimo- 
sesto  per  ricordare  le  forlifìcazioni  di  Civitavecchia: 
le  quali  medaglie  portano  scolj)ita  sul  rovescio  nien- 
temeno che  la  pianta  geometrica  del  perimetro 
bastionato  alla  moderna  ,  come  fu  disegnalo  dal 
Sangallo  ;  cioè  perfettamente  simile  agli  schizzi  di 
lui  ,  alla  copia  del  de  Marchi  ,  e  a  quel  che  esiste 
tuttora  in  Civitavecchia.  Imperciocché  i  papi  suc- 
cessori di  Leone  X,  continuando  l'opera  di  lui,  si 
tennero  sempre  allo  stesso  disegno.  Tanto  era  sti- 
mato e  avuto  in  pregio  !  Valga  per  esempio  Giu- 
lio HI,  che  nel  1554  andato  a  Civitavecchia,  non 
già  per  la  rocca  nò  per  cominciare  l'opera  delle  for- 
tificazioni, ma  per  accrescerle,  e  per  render  la  città 
medesima  piiì  munita,  come  si  dice  nella  medaglia 


(24)  Antonio  Picconi  da  Sangallo,  MSS.  alla  Galleria,  sopra 
il  terzo  dei  quattro  schizzi  di  Civitavecchia.  E  nel  facsimile 
presso  di  me. 

Vasari,  per  la  società  delle  arti  bello,  cit.  T.  X,  p.  63 
lin.  8. 


135 

e  in  una  sua  iscrizione  (25),  non  menò  seco  né  ar- 
chitetti né  capitani  a  congresso.  Ne  aveva  abbastanza 
co'cartoni  del  Sangallo,  e  colle  deliberazioni  di  quei 
sommi  del  tempo  di  Leone.  Ciò  r>on  pertanto  divei-si 
scrittori  insieme  col  Bonanni  e  col  Venuti  (26)  di- 
cono, che  Giulio  terzo  condusse  seco  in  Civitavecchia 
Antonio  da  Sangallo:  senza  pensare  che  ai  ventinove 
di  settembre  del  1546,  cioè  otto  anni  prima,  Anto- 
nio era  morto  a  Terni,  nel  terminare  certo  litigio 
d'acque  tia  quei  cittadini  e  i  narnesi  (27).  Segno 
certo  che  il  nome  di  lui  tornava  sempre  in  campo, 
e  i  suoi  cartoni  a  Civitavecchia,  quando  i  papi  ri- 
pigliavano il  divisamento  delle  fortificazioni.  E  deve 
notarsi  bene  come  ninno  dei  successori  di  Leone 
ha  mai  detto  di  essere  stato  il  primo  a  costruire  i 
nuovi  bastioni  :  ma  in  quella  vece  sempre  ripeto- 
no aver  continuata  e  accresciuta  l'opera  medesima. 
k  più  certezza  di  questo  fatto  ,    e  per  tramandare 


(23)  Lapida  in  Civitavecchia  riportata  dal  Torraca  nel- 
l'opera intitolata:  Le  Terme  taurine  e  le  memorie  cronologi- 
che di  Civitavecchia  p.  50.  a  Julius.  III.  Moni.  Pont.  Centuni- 
cellas.  Adit.  Ut.  Illam.  Redderet.  Munitiorem.  Eiusque.  Por- 
tum.  Ut.  Tutius.  Esset.  Nationibus.  Refugium.  Confecit.Atque. 
Munivit.  Ann.  MDLIV  »La  leggenda  sulla  medaglia  «  Portus 
Cemtumcell.  Instauravit.  Urbemque.  Vallo.  Auxit.  »  Si  noti  quel 
Munitiorem  Urbemque. 

(26)  Bonanni,  Numismatica  Roni.  Ponlificum,  in  fol.  Ro- 
ma 1699  T.  L  p.  25L 

Venuti,  Numisra.  Pont,  in  4,  Roma  1744.  p.  93. 

(27)  Vasari,  cit.  T.  X.  p.  21. 

Serie  di  ritratti  degli  uomini  illustri  in  pittura,  scultura, 
e  architettura  in  4  Firenze  1771  p.  138  e  142.  Bibl.  Casa- 
nat.  P.  VL  4. 


13(5 

alla  posterità  le  forme  del  primitivo  disegno  papa 
Giulio  lo  fece  scolpire  in  bronzo  con  tanta  verità  e 
così  belle  proporzioni  che  gli  altri  papi,  come  conti- 
nuarono l'opera  al  modo  istesso,  così  ne  rinnovarono 
la  memoria  con  la  medesima  medaglia  e  coll'istessa 
leggenda  :  tanto  che  nell'  istesso  secolo  fu  quattro 
volte  ribattuta,  variata  solo  nell'effigie  e  nei  nomi 
de'  vari  pontefici,  che  furono  prima  Giulio  111,  po- 
scia Pio  IV,  il  quale  la  fece  due  volte  coniare  con 
la  differenza  della  sua  effigie  più  grande  e  piìi  pic- 
cola, e  finalmente  Gregorio  XIII  (28).  Le  ho  dette 
nel  rovescio  simigliantissime  da  doversi  tenere  per 
eguali,  non  potendovisi  conoscere  altra  diversità  in 
fuoi'i  dalla  fresche/za  o  stracchezza  del  conio.  Le 
accidentali  varietà  dimostrano  pel  tempo  succes- 
sivo il  contìnuo  avanzamento  del  lavoro  :  la  essen- 
zial  forma  e  proporzione  della  pianta  geometrica  nelle 
quattro  medaglie  in  tanto  si  mantiene  sempre  la  stes- 
sa, in  quanto  che  tutte  fan  ritratto  dal  medesimo 
originale  disegno  dell'architetto,  e  tutte  accennano 
l'esecuzione  invariabile  dell'opera  suH' istesso  terreno. 
IX.  Con  che  a  me  sembra  di  aver  ritrovato  nelle 
predette  medaglie  scolpita  con  pochi  tratti  e  magi- 


(28)  BoNANNi,  cit.  T.  1,  251,  290,  354,  381. 

Venuti,  cit.  93  ,  121  ,  (bis.)  145.  Tutte  coli'  iscrizione 
«  Portus.  Centumcellarnm.  Instaurmit.  Urbemqiie.  Vallo.  Au- 
xit  ». 

Qui  non  parlo  della  medaglia  di  Sisto  V  per  gli  acque- 
dotti di  Civitavecchia  ,  ne  di  Clemente  Vili  per  il  risarci- 
mento del  porlo,  né  di  Urbano  Vili,  Innocenzo  X,  Alessan- 
dro VII,  e  più  altri  pontefici  fino  a  Clemente  XIII,  che  per 
diverse  ragioni  e  lavori  all'arsenale,  al  borgo,  ai  moli,  alla 
darsena,  han  coniato  medaglie  ove  è  la  stessa  pianta. 


137 

strali  tutta  la  pianta  del  de  Marchi,  e  tutto  il  car- 
tone del  Sangallo  per  foititicar  Civitavecchia  di  muta 
bastionate.  E  ciò,  secondo  il  disegno  fatto  ed  appro- 
valo nel  1515  al  tempo  di  Leone  X:  prima  che  il  Sam- 
micheli,  meno  provetto  nell'arte  e  forse  anche  nel- 
l'età, desse  mano  l'anno  1527  (cioè  dodici  anni  dopo) 
non  a  una  cinta  compiuta  di  fortificazione  con  sette 
bastioni  reali,  ma  ad  un  sol  bastione  isolato  e  che 
pili  non  esiste  tra  le  vecchie  mui'a  di  Verona;  la  cui 
rinomanza,  anziché  all'  invenzione  di  Michele  che  lo 
disegnò,  è  dovuta  alla  celebrità  del  marchese  Maffei 
che  lo  fece  in  ogni  luogo  conoscere  e  ne  scrisse  cose 
mirabili  ,  che  furono  poscia  da  quasi  tutti  sino  ai 
nostri  gioini  senza  altri  argomenti  ripetute  ,  tanto 
che  generalmente  si  è  pensato  che  quello  dovesse  es- 
sere il  più  antico.  Ma  indarno  l'ei'udito  veronese  cita 
a  suo  proposito  il  Vasari:  il  quale  come  amico  di 
Michele  ,  per  quanto  sia  largo  di  lodi  verso  di  lui, 
e  senza  scendere  ai  particolari  lo  chiami  inventare 
dei  bastioni  a  cantoni,  non  tace  però  che  nella  vi- 
sita delle  rocche  di  Romagna,  nelle  fortificazioni  di 
Parma  e  Piacenza,  e  in  altre  commissioni  sitfatte, 
prima  del  1527  Michele  era  andato  per  secondo  ap- 
presso ad  Antonio. Quindi  il  Maffei,  pensando  che  niun 
altro  se  non  qualcuno  da  Sangallo  avrebbe  potuto 
mettere  in  dubbio  l'assoluto  primato  del  Sammicheli, 
facevasi  innanzi  levando  voce  che  (29)  «  Né  di  Giuliano 


(29)  Marchese  Scipione  Maffei,  Verona  illustrata  in  fol. 
1732.  Parte  III,  p.  121. 

Vasari,  cit.  T.  XI  p.  111.  Vita  del  Sammicheli. 
E  T.  X  p.  10.  Vita  di  Antonio  da  Sangallo. 


138 

))  nò  (li  Antonio  da  Sangalio  non  si  vede  bastione 
»  nella  nuova  forma  ».  E  conchiudeva  dicendo:  «  Ab- 
»  biasi  adunque  per  indubitato,  che  il  bastion  di  Ve- 
»  rona  fu  il  primo  raggio  della  nuova  arte  :  e  in 
»  esso  veramente  vedesi  appunto  Parte  ancor  barn- 
»  bina  )).  Ma  non  è  piiì  bambina  la  storia  ;  e  ve- 
ramente appunto  i  documenti  a  grado  a  grado  venuti 
alla  luce  ci  mostrano  1'  arte  già  ben  adulta  prima 
del   1527. 

Valga  per  esempio  la  recente  pubblicazione  delle 
opere  di  Francesco  di  Giorgio  Martini,  scrittore  del 
secolo  decimoquinto,  donde  possiamo  raccogliere  che 
se  Francesco  non  fu  il  primo  a  fabbricar  baluardi 
alla  moderna,  fu  però  primo  a  immaginarli  e  dise- 
gnarli circa  l'anno  1500.  Valgano  gli  studi  fatti  e  da 
fare  intorno  alla  rocca  d'Ostia,  perchè  si  veda  come 
Giuliano  da  Sangalio  nel  1483  vi  murava  un  tal  ba- 
luardo al  quale  nulla  mancherebbe  per  dirlo  perfetto, 
secondo  le  regole  della  moderna  architetlura,se  non  vi 
fosse  una  faccia  di  più.  Valgano  i  lavori  dello  stesso 
Giuliano  alla  cittadella  di  Pisa,  tuttoché  imperfetti  nel 
disegno  e  guasti  nell'esecuzione.  Valgano  le  fortifica- 
zioni improvvisamente  fatte  di  fascina  e  di  piota  dal 
mio  fra  Giocondo  a  Treviso  e  forse  anche  a  Padova 
nel  1509.  Appresso  valgano  per  esempio  le  fortifica- 
zioni bastionate  di  Carpi,  Nizza,  Bari,  Urbino, Firenze, 
Piacenza,  condotte  dal  1518  al  1526.  E,  tra  quelle 
prime  pruove  e  quest'ultimo  perfezionamento,  valga 
nel  1515  il  disegno  di  Antonio  da  Sangalio  per  Ci- 
vitavecchia, come  passaggio  certo  e  compiuto  mo- 
dello d'arte  e  di  senno  maturo.  Con  questo  si  veri- 
fica il  presentimento  del  già  lodalo  professor  Promis 


131) 

di  Torino,  del  marchese  Marini  di  Roma  e  del  de- 
gnissimo nipole  di  lui  cavalier  Camillo  Ravioli  :  il 
quale  scrivendo  un  discorso  della  vita  e  delle  opere 
dell'  illustre  suo  zio,  propose  1'  islessa  congettura, 
e  dette  a  me  gradila  occasione  di  manifestargli  le 
mie  deduzioni  ,  e  di  avere  il  suo  parere  conforme 
al  mio. 

X.  Per  questo  non  mi  fa  dubbio  cbe,  prima  del 
Sammicheli  e  di  molti  altri  ,  Antonio  da  Sangallo 
abbia  disegnate  sul  terreno  le  fortificazioni  bastio- 
nate; e  che  queste  siano  state  condotte  a  termine 
in  Civitavecchia:  se  non  interamente  per  mano  sua, 
sempre  però  sopra  i  suoi  cartoni  fatti  e  approvati 
nel  1515.  E  ciò  tanto  più  fermamente  credo  doversi 
tenere,  quanto  che  colà  sulle  mura  di  Civitavecchia 
ognuno  può  vedere  lo  stile  di  Antonio  ,  il  perfetto 
assettamento  di  tutta  V  opera  al  terreno,  le  cortine 
brevi,  i  saglienti  acuti,  gli  angoli  del  pentagono  quasi 
retti,  la  faccia  tripla  del  fianco,  la  cortina  quadrupla, 
i  fianchi  doppi:  e  può  quivi  ciascuno  toccar  con  mani 
quattro  fatti  che  non  potrebbero  rispondersi  a  caso; 
cioè  il  poligono  della  città  ,  le  medaglie  dei  papi  , 
gli  schizzi  del  Sangallo,  e  la  pianta  del  de  Marchi, 
tutti  concordi   tra  loro. 

XI.  Ora  mi  bisogna  descrivere  queste  opere:  e  non 
potendo  recare  in  una  lettera  ne  i  preziosi  ma  com- 
plicati schizzi  del  Sangallo  ,  né  la  troppo  grande 
(ìianla  del  de  Marchi,  né  le  quattro  medaglie  pon- 
tifìcie, mi  proverò  a  dichiarai'le  tutte  insieme,  te- 
nendo sott'occhio  i  primi  disegni  del  Sangallo  e  il 
primo     compendio    che   è   scolpito    sulla   medaglia 


140 

di  (30)  «Giulio  III  pontefice  massimo,  il  quale  raccon- 
»  ciò  i  due  porli  di  Civitavecchia  e  accrebbe  attorno 
»  alla  città  le  fortificazioni  ».  Con  questa  leggenda 
l'esemplare  ha  nel  diritto  il  busto  del  pontefice  am- 
mantato: la  falda  del  piviale  trapunta  a  figure  mette 
in  rilievo  una  chiesa,  alla  quale  i  popoli  da  ogni  lato 
concorrono;  come  se  volesse  indi  mostrare  la  faci- 
lità e  la  sicurezza  dei  viaggiatori  e  naviganti  per 
venire  da  qualunque  parte  del  mondo  cattolico  alle 
terre  della  romana  Chiesa  fortificate  per  loro  difesa. 
Nel  rovescio  è  la  città  di  Civitavecchia  :  prima  il 
porto  grande,  riparato  da'  due  moli,  coperto  dall'an- 
tim-urale,  e  difeso  sulla  bocca  da  due  torri  d'opera  re- 
ticolata che  si  appuntano  ancora  all'estremità  degli 
emicicli,  ove  furono  dall'imperator  Traiano  edificate: 
poscia  il  porto  piccolo,  cioè  la  darsena,  onde  viem- 
meglio si  prova  r  esistenza  di  esso  bacino  sin  dal 
tempo  antico,  e  certamente  prima  del  pontificato  di 
Pio  IV,  cui  taluno  voirebbe  attribuirla  (31).  Oltrac- 
ciò ti  si  mostra  la  pianta  delle  due  rocche:  a  sini- 
stra della  riva  la  quadrangolare  murata  da  Bramante; 
a  diritta  la  triangolare  del  medio  evo,  posta  sopra 
una  rupe  a  cavaliero  tra  l'uno  e  l'altro  porto,  munita 


(30)  Venuti  cit.  p.  93.  a.  Julius  HI  Pont.  Max-  »  [Caput 
nudum  cum  pluviali  in  quo  templum  populo  frequens). 

«  Portus  Centumcell.  Instaur.  Urbe.  Q.  vallo,  auxit  ». 
{Adspectus  portus  et  Urbis  Centumcellarum). 

Gli  esemplari  che  conservo  presso  di  me  li  ho  avuti  in  dono 
dal  valoroso  incisore  di  carnei  e  coUetore  di  medaglie  Anto- 
nio Odelli  romano. 

(31)  Ne  parlerò  distesamente  e  con  inediti  documenti  nella 
mia  storia  della  Marina. 


di  tre  torrioni  ai  vertici,  e  da  un  lato  solo  congiunte 
alla  città,  secondo  la  descrizione  di  Flavio  Biondo(32). 
Nel  mezzo  la  pianta  delia  città,  come  fu  dal  nono 
al  decimosesto  secolo  ;  un  quadrilatero  con  certe 
torri  agli  angoli,  delle  quali  alcuna  tuttora  rimane 
quasi  a  segnarne  i  confini,  che  sono  sulla  fronte  del 
palazzo  apostolico,  all'altura  della  Morte,  sulla  piazza 
di  san  Giovanni,  e  al  Caracollo  (33),  ove  è  la  di- 
scesa più  breve  della  città  al  porto.  Cose  tutte  ri- 
petute nella  medaglia  ,  come  sono  a  capello  negli 
schizzi  del  Sangallo,  ed  eziandio  nella  pianta  del  de 
Marchi;  e  notizia  di  non  lieve  momento  per  la  to- 
pografia antica  della  città  medesima,  che  indarno  si 
cercherebbero  altiove. 

XII.  Ma  quel  che  più  fa  al  nostro  proposito  è 
la  pianta  del  poligono  di  sette  Iati  attorno  alla 
città  ,  con  tutte  quelle  ragioni  di  bastioni  e  cor- 
tine che  formano  la  cinta  delle  moderne  fortifica- 
zioni, e  queste  condotte  con  gran  maestria  dal  va- 
loroso architetto  :  il  quale  per  la  sicurezza  delle 
linee  ,  per  la  giustezza  delle  misure  ,  per  l'asset- 
tainento  al  terreno  ,  insieme  all'  aspetto  di  fie- 
rezza e  di  forza  ,  ha  lasciato  opera  degna  del  suo 
nome,  e  che  mette  ancora  nei  riguardanti  gi-ande 
ammirazione.  1  civitavecchiesi  ricordano  che  i  ge- 
nerali del  primo  impero,  e  più  d'ogni  altro  Gioac- 


(32)  Flavius  Blondds,  Historiaruni,  in  fol.  Basilea  lo31 
Dee.  3  Jib.  fi.  pag.  462,  463. 

(33)  Frangipani,  Storia  di  Civitavecchia,  in  4."  Roma  1761 
p.  204. 

Annovazzi,  Storia  di  Civitavecchia,  in  4  Roma  18S3  p.  463. 


142 

chino  Mutai,  non  era  mai  clic  là  gingt)essei*o,  se  di 
presente  e  a  qualunque  tempo  non  visitassero  a  ca- 
vallo tutta  la  cinta  delle  fortificazioni.  Pietro  Colletta 
ne  fa  pur  motto.  Il  primo  bastione  in  ordine  pro- 
gressivo ,  si  spicca  verso  ponente  dalla  diritta  del 
porto  sotto  la  rocca  vecchia  ;  il  secondo  e  il  terzo 
bastione  accoi'tinati  cingono  da  ogni  altra  parte  la 
darsena;  i  quattro  seguenti  chiudono  la  città  verso 
terra,  e  riconducono  la  cinta  sempre  fiancheggiata 
all'altra   banda  del  porto  sotto  la   rocca  nuova. 

Xlll.  Primo  intendfhiento  del  Sangallo  era  chiuder 
la  darsena.  E  ciò  tanto  per  assicurarvi  la  stazione 
delle  triremi  pontificie,  quanto  per  difendere  il  porto: 
affinchè  com'era  già  sicuro  dalla  sinistra  per  la  rocca 
di  Bramante,  il  fosse  altresì  dalla  dritta  pe'  suoi  ba- 
stioni. Ondechè  nel  primo  schizzo  ,  disegnata  con 
pochi  e  sicuri  tratti  da  una  parte  la  detta  rocca  , 
innanzi  il  poito,  e  dall'altra  banda  il  bacino  quasi 
rettangolare  della  daisena,  prima  di  tutto  conduce  una 
cortina  sul  lato  minore  della  medesima  darsena  rim- 
petto  alla  bocca,  e  subito  vi  appicca  all'estremila  due 
baluardi  pentagonali,  scrivendovi  sopra  di  suo  pugno: 
«  Bastioni  del  [ìorlicciolo  «  e  distingue  l'uno  dal- 
l'altro chiamandoli  secondo  la  posizione  loro  »  Ba- 
»  stion  di  Mare,  e  bastion  di  Terra. «  E  per  quanto 
in  ogni  altra  parte  de'  suoi  disegni  lo  si  vegga  an- 
dar peritoso  e  tentar  l'aite  e  l'effetto  di  più  linee, 
là  sempre  altrettanto  è  fermo  ,  come  sul  punto 
preso  per  base  di  fortificazione,  intorno  a  che  non 
ammette  più  né  consiglio  nò  pentimcn/o.  Il  perchè 
e'  vi  disegna  due  bastioni  simili  ;  acuti  i  saglienli 
dell'uno  e  dell'altro,    retti  gli  angoli  della  faccia  e 


U3 

del  fianco,  l'opera  a  scarpa,  le  facce  lunghe  trenta 
canne  (34),  i  fianchi  dieci,  la  cortina  (a  suo  stile  sem- 
pie  breve)  quaranta,  i  fuochi  incrociati  e  la  difesa 
radente  su  tutta  la  fronte.  Muniti  in  questo  modo 
i  due  vertici  del  quasi  rettangolar  bacino  della  dar- 
sena, si  volge  agli  altri  due  :  l'uno  interno  nella 
città  sotto  la  rocca  vecchia  non  ha  bisogno  di  di- 
fesa, e  l'abbandona  ;  l'altro  esterno  verso  il  mare, 
e  lo  fortifica.  Chiude  con  una  cortina  di  cinquanta 
canne  il  lato  occidentale  della  darsena,  alza  il  fianco 
dritto  quasi  a  squadia,  e  appunta  l'ottuso  sagliente 
d'un  altro  bastione  in  mezzo  al  molo  del  Lazzaretto. 
Senonchè  la  giacitura  del  terreno  quivi  lo  stringe 
e  lo  mena  a  diversi  partiti.  Oia  lo  si  vede  disegnare 
il  fianco  sinistro  d'una  maniera,  ora  d'un  altra  :  e 
finalmente  ,  non  polendo  assicurarvi  la  difesa  ra- 
dente ,  abbandonare  il  detto  fianco  ,  distendere  la 
faccia  cori'ispondente  in  linea  retta  per  sessanta  canne 
(più  come  alone  che  coaie  faccia)  siano  alla  bocca 
della  darsena,  e  difendeila  colle  feritoie  della  l'occa 


(34)  Vasari  cit.  Vita  di  Antonio  da  Sangallo.  T.  X  p.  18. 
«  Perciocché  secondo  la  misura  dei  muratori ,  la  canna  che 
corre  a  Roma  è  dieci  palmi  ». 

La  misura  usata  negli  schizzi  del  Sangallo  e  nelle  note 
e  numeri  di  sua  mano  è  la  canna  romana  architettonica  di- 
visa in  dieci  palmi.  Anche  il  capitan  de  Marchi  usa  sovente 
la  stessa  misura.  Il  rapporto  della  canna  al  metro  è  come  uno, 
a  2,  2342.  Quindi  una  canna  è  più  che  due  metri.  Ove  non 
sono  segnate  le  misure  per  mano  del  Sangallo,  le  ho  prese  io 
stesso  deduceudole  facilmente  per  approssimazione  proporzio- 
nale dagli  schizzi  medesimi  e  dalla  copia  del  de  Marchi  e 
da  ciò  che  esiste  sul  terreno. 


144 

vecchia,  posta  dall'altro  lato  della  bocca  medesima. 
Ecco  nel  1515  i!  modello  del   mezzo  bastione. 

XIV.  11  Sangallo,  per  quanto  si  può  ricavare  dalle 
quarantadue  righe  di  scrittura  posta  sopra  i  suoi 
schizzi  ,  chiamava  il  primo  bastion  della  Casaccia  , 
il  secondo  bastion  di  Mare,  il  terzo  bastion  di  Ter- 
ra, il  quarto  bastion  del  Monte  ,  il  quinto  bastion 
della  Porta,  il  sesto  bastion  dell'Alto,  il  settimo  final- 
mente Baluardo:  e  questa  parola  deve  notarsi  bene, 
perchè  una  sola  volta,  e  a  proposito  dell'ultimo  pro- 
pugnacolo, è  scritta.  Appresso  io  penso  che  sarà  forse 
bastato  chiamarli  ciascuno  dal  primo  al  settimo  col 
numero  d'ordine.  Poscia,  a  segno  di  magiìior  culto 
verso  alcuni  santi  venerati  da  quei  cittadini  ,  il 
primo  ebbe  nome  san  Teofanio  ,  il  secondo  santa 
Barbara,  il  terzo  santa  Rosa,  il  quarto  santa  Ferma, 
il  quinto  sant'Antonio  ,  il  sesto  san  Francesco  ,  il 
settimo    san  Bastiano  (35)  ;  oggidì ,  o  per  qualche 


(35)  Jean  Baptiste  Labat,  Voyage  en  Espagne  et  en  Italie, 
in  8  Parigi  1730  T.  IV  p.  21S.  «  k  Bastion  de  S.  Sebastien. 
B  Bastion  de  S.  Francois,  ou  de  la  Sonnette.  C  Bastion  de 
S.  Antoine,  ou  des  Barbar ins.  D  Bastion  de  S'^  Ferme,  ou 
des  Borghese.  E  Bastion  de  S'^  Barbe.  F  Bastion  de  S''^  Rose. 
G.  Bastion  de  S  Theophane,  ou  te  Casson  ». 

CiNTio  Fiori,  Pianta  di  Civitavecchia,  preso  il  Bonanni, 
Nuraismata  cit.  T.  II  p.  564.  «  Q  Munimentum  dictum  del 
Casone.  R  Munimentum  dictum  del  Turco.  S  Munimentum 
Sanctae  Barbarae.  X  Munimentum  dictum  Campanella  ». 

Annovazzi,  Storia  di  Civitavecchia,  in  4.°  Roma  1853  p. 
281  "  //  bastione  sull'altura  della  Vista:  »  e  pag.  280  «  La 
Campanella  ». 

Frangipani,  cit.  p.  245:  «  1  bastioni  del  Casone,  del 
Turco,  e  della  Campanella  ■>■•. 


145 

tabbi'ica  aggiuntavi,  o  pei'  gli  usi  che  se  ne  pren- 
dono ,  0  per  alcun  restauro  sono  chiamati  volgar- 
mente il  Casone,  la  Polveriera,  il  Turco,  il  Bor- 
ghese, il  Barbarino,  la  Campanella,  e  la  Vista.  Ma 
perchè  i  nomi  dei  santi  si  trovano  scritti  nelle  sto- 
rie, nei  documenti  e  nelle  piante,  ed  ora  non  sono 
usati,  ne  segue  che  quei  nomi  debbano  essere  più 
antichi  di  questi  :  e  che  gli  stessi  bastioni  esiste- 
vano prima  di  pigliare  i  nomi  moderni  (36).  Di  che 
abbiamo  evidente  riprova  nei  due  bastioni  chiamati 
Borghese  e  Barberino,  ove  è  ancora  l'arma  di  Pio  IV, 
dal  quale  certamente  furono  o  ristaurati  o  compiti 
un  secolo  prima  che  le  dette  due  famiglie  venissero 
in   Boma  ai  sommi  onori. 

XV.  Bifacendoci  agli  schizzi  di  Antonio,  vi  ritro- 
viamo, che  dopo  i  tre  primi  bastioni  ai  vertici  esterni 
della  darsena,  si  rivolge  verso  terra  al  monte.   Egli 


Si  vedano  le  piante  di  Bartolomeo  Crescenlio  ,  del  Le- 
blond,  del  Fidanza,  del  Fontana,  dello  Scotto,  del  de  Fer,  del 
Blaev  e  qualunque  altra  pianta  di  Civitavecchia  pei  bastioni, 
pe'nomi,  e  per  le  misure. 

(36)  La  gonfiezza  dominante  nel  seicento  e  anche  prima 
ha  reso  sovente  equivoca  l'epigrafia,  come  ben  avverte  Carlo 
Fea,  commissario  delle  antichità  in  Roma,  a  proposito  di  una 
lapide  di  Paolo  V.  Si  veda  l'opera  intitolata,  La  fossa  Traiana, 
in  8  Roma  1824  p.  22. 

A  proposito  di  Urbano  Vili  ecco  cosa  dice  il  p.  Labat, 
Yoyage  en  Espagne  et  en  Italie,  in  8  Parigi  1730  T.  IV  p.  215: 
«  Les  armes  de  Urbain  Vili  sont  a  Civitavecchia  avec  celles 
de  bien  autres  papes,  qui  selon  la  coutume  da  pays  noublient 
jamais  d'immortaliser  leiirs  noms  par  des  armes  et  des  inscri- 
ptions  ,  quelque  mediocres  que  soient  les  ouvrages  ausquels 
ils  ont  fait  travailler  ». 
G.A.T.CLXIII.  10 


U6 

chiama  e  scrive  monte  dell'Ulivo  quel  sito  che  i  civita- 
vecchiesi  dicono  oggidì  la  salila  e  l'altura  della  Morte, 
per  una  chiesa  ivi  presso  eretta  nel  secolo  decimot- 
tavo  in  suffragio  delle  anime  dei  defunti.  Su  quel 
monte  Antonio  disegna  il  quario  bastione,  e  il  fti  di 
tanto  maggior  grandezza  e  robustezza  quanto  il  silo 
gli  viene  più  eminente  ed  opportuno.  Senonchè  , 
misurata  la  distanza  Ira  questo  e  il  precedente  ba- 
luardo, trova  la  cortina  venirgli  troppo  lunga,  fino 
a  cento  ottantaquatlro  canne  ,  numero  scrittovi  di 
sua  mano  così:  «  Dal  Ulivo  perfino  alla  punta  del 
»  bastione  di  terra  si  è  canne  184  ».  Lunghezza 
enorme  ,  e  da  non  esser  potuta  difendere  da  una 
punta  all'  altra  coli'  archibugerìa  (37).  E  non  vo- 
lendo a  niun  patto  mai  toglier  giù  dall'  altura  il 
quarto  bastione,  né  potendo  avvicinargli  il  terzo  sen- 
za scatenarlo  dal  fiancheggiamento  degli  altri,  lo  si 
vede  grandemente  perplesso  e  tulio  intento  alla  mas- 
sima sua  fondamentale  di  studiare  il  terreno  per  ri- 
mediarvi. Ora  muta  di  posto  il  secondo  bastione,  e 
così  mena  il  terzo  più  presso  al  quarto;  ora  triplica 
le  dimensioni  di  quel  mezzo  per  avvicinarlo  ad  am- 
bedue gli  estremi;  ora  introduce  nuovi  partiti.  Ma 
veduto  che  indi  ne  verrebbe  guasto  e  fiacchezza  al- 
l'opera sua,  lascia  i  bastioni  ove  sono,  nel  sito  che 
loro  si  conviene  per  natura,  e  aguzza  1'  ingegno  ad 
altro  ripiego.  Con  un   tratto  di  penna  sega  in  due 


(37)  Le  canne  184  sono  eguali  a  metri  411.  11  tiro  di  un 
moschetto  ordinario  non  giugne  di  punto  in  bianco  che  alla 
distanza  di  metri  300,  o  canne  134. 

P.  Labat  cit.  T.  IV  p.  216. 


U7 

luoghi  la  lunga  cortina,  dà  al  terzo  e  al  quarto  ba- 
stione due  fianchi  per  ciascuno  ,  e  ravvicina  sopra 
quattro  punti  i  fuochi  della  difesa  radente  per  tutta 
la  fronte.  Ecco  V  invenzione  dell'ordine  i-inforzato,  o 
dei  baluardi  a  fianchi  doppi.  Questi  esistono  ancora 
intatti  a  Civitavecchia:  né  posso  passar  sotto  silen- 
zio che  la  distanza  loro  esattamente  misuiala  da 
punta  a  punta  è  ricisamenle  di  metri  quattrocento 
quìndici  corrispondenti  alle  canne  cento  oltantaquat- 
tro  del  Sangallo  ;  salvo  una  piccola  differenza  non 
in  meno,  ma  in  più. 

XVI.  Sanno  gli  eruditi  che  neirarchilettura  mi- 
litare la  duplicazione  dei  fianchi  è  bellissimo  trovato 
di  uno  da  Sangallo.  Quasi  tutti  col  marchese  Marini 
hanno  detto  del  nostro  Antonio  (38):  qualcuno  vor- 
rebbe dire  di  Battista  suo  fratello,  soprannominato 
il  Gobbo  da  Sangallo.  Ecco  il  fatto.  Paolo  terzo  nel 
principio  del  suo  pontificalo,  cioè  Tanno  mille  cin- 
quecento trentacinque,  volendo  fortificar  Roma,  chia- 
mò a  consiglio  i  primi  ingegneri  d' Italia,  e  fece  co- 
sti'uire  ira  la  porla  Latina  e  la  Ostiense  il  primo 
baluardo  d'ordine  rinforzato,  bellissimo,  raro,  e  ma- 
raviglioso,  come  lo  chiama  il  capitan  de  Marchi.  Ma 
peichò  a  ricingere  tutta  la  città  sarebbero  andati  al- 
meno altri  diciollo  baluardi  simili  ,  distolto  dalla 
grandezza  della  spesa  e  del  tempo,  lasciò  V  impresa. 


(38)  Luigi  Marini,  Saggio  sui  bastioni  cit.  p.  55. 

Dissertazioni  premesse  all'  opera  del  capitan  de  Marchi 
T.  I  p.  33:  «  Esiste  in  Roma  tra  la  -porta  san  Paolo  e  quella 
di  san  Sebastiano  un  magnifico  bastione  costruito  dal  celebre 
Antonio  da  San  Gallo  .  .  .  E  da  questo  ha  origine  finven- 
zione  dei  fianchi  duplicati  ». 


148 

così  che  non  pensò  più  ad  altro  che  a  fortificale  il 
Borgo  (39). Ma  un  baluardo  era  già  edificato,  e  questo 
esiste  ancora,  porta  l'arnni  di  Paolo  terzo,  lutti  lo 
chiamano  del  Sangallo  (40),  e  il  capitan  de  Marchi 
sempre  a  Paolo  terzo ,  e  ad  uno  da  Sangallo  l'at- 
tribuisce (41).  Qui  non  v'ha  dubbio:  n^  alcuno  po- 
trà mai  a  questo  proposito  metter  fuori  il  tenxpo  di 
Paolo  quarto,  nò  il  nome  di  un  ingegnerò  oscuro,  o 
che  non  sia  da  Sangallo  (42). 

La  difficoltà  è  quale  dei  due  fratelli,  Antonio  o 
Battista,  sia  l'architetto  del  baluardo  e  l'inventore 
dell'ordine  rinforzato,  posto  che  nella  edizione  del 
de  Marchi  fatta  co'  tipi  di  Brescia  si  legge  che  (43) 
K  La  duplicatione  alli  fianchi  delli  bellovardi  fu  in- 
ventione  di  maestro  Gio.  da  S.  Gallo,  huomo  famo- 
sissimo in  tempo  di  papa  Paulo  terzo,  quando  egli 
diede  principio  di  fortificar  Roma,  dove  almeno  an- 


(39)  De  Marchi,  Lib.  I  cap.  5:  «  Paolo  Terzo  diede  prin- 
cipio di  fortificar  Roma  che  fece  doi  bellovardi  /'  uno  alla 
porta  di  S.  Paolo  in  una  collina  e  l'altro  tra  detta  porta  e 
San  Sebastiano:  ma  perchè  v' andana  gran  tempo  e  spesa  per 
fortificar  Roma,  pensò  di  fortificare  il  Borgo  ». 

(40)  Antonio  Nibby  e  William  Gell.  Le  mura  di  Roma 
in  8. 

(41)  De  Marchi  Lib,  I     cap.  5. 

Lib.  I     cap.  39. 
Lib.  Ili  cap.  8. 
Lib.  Ili  cap.  34. 
Lib.  Ili  cap.  44. 

(42)  Promis  cit.  Memoria  prima  p.  76. 

(43)  De  Marchi,  Architettura  militare  in  fol.  Brescia  1599 
Libro  3  cap.  34  p.  78, 

E  Lib.  1  cap.  39,  «  Questo  bellovardo  ha  fianchi  doppi 
e  questo  è  un  modo  nuovo  ». 


I 


149 

dava  diciollo  bellovardi  a  fortificarla;  e  così  ne  fa 
fatto  uno  )).  Or  cosa  egli  è  qua  cotesto  Gio.  ?  È 
un  errore  del  copista  ,  del  Marchi,  o  d'altri  ?  Non 
ardisco  sentenziare  su  ciò:  ma  né  anche  posso  ta- 
cere che  siffatta  abbreviatura  mi  è  sospetta  ,  che 
l'edizione  è  postuma,  che  in  diversi  codici  sono  di- 
verse lezioni  e  diverse  mende,  che  in  quella  stessa 
pagina  è  scritto  capitan  Monte  Lino  invece  di  capitan 
Montemellino.  E  pognamo  pur  che  il  Gio.  abbia  a 
significare  Battista,  non  posso  tacere  che  costui  non 
era  altro  se  non  il  fattore  di  Antonio  (44):  che  tra 
i  primi  maestri  della  moderna  fortificazione  il  capitan 
de  Marchi  non  nomina  Battista,  ma  Antonio  (45)  : 
che  il  famosissimo  in  tempo  di  Paolo  terzo  non 
era  Battista,  ma  Antonio  :  che  le  commissioni  per 
fortificare  Firenze  ,  Parma  ,  Piacenza  ,  Gastro ,  Pe- 
rugia ,  Ascoli  ,  Ancona  non  ebbe  Battista  ,  ma 
Antonio  :  che  in  una  di  quelle  diete  degli  archi- 
tetti per  fortificar  Roma  il  Vasari  non  mette  Bat- 
tista ,  ma  Antonio  (46)  :  che  le  sdegnose  parole 
quivi  scambiate  con  Michelangelo  Buonarroti  non  si 
convenivano  alla  mansuetudine  di  Battista,  ma  alla 
fierezza  di  Antonio  :  che  i  disegni  di  tutta  l'opera 


(44)  Vasari  cit.  T.  X  p.  21.  «  Rimase,  dopo  la  morte 
di  Antonio,  Battista  Gobbo  suo  fratello,  persona  ingegnosa, 
che  spese  tutto  il  tempo  nelle  fabbriche  di  Antonio   ». 

(4o)  De  Marchi,  Lib.  I.  cap.  16  nomina  sette  ingegneri 
che  hanno  trovato  il  modo  di  fiancheggiare  le  fortezze:  Pier- 
francesco  da  Viterbo,  Antonio  da  Sangalio  ecc. 

(46)  Vasari  citato.  Vita  di  Michelangelo.  T.  XIl  p.  225. 
«  Aveva  Paolo  III  dato  principio  a  fortificar  Borgo,  e  coti- 
dotto  molti  signori  con  Antonio  da  Sangalio  a  questa  dieta, 
dove  volle  che  intervenissi  ancora  Michelangelo  ». 


150 
del  detto  bastiono  «  Pei*  la  porta  santo  Bastiano  , 
monte  Teslaccio,  monte  Aventino,  baluardo  Anlo- 
niano,  baluardo  in  sulla  muraglia  che  va  a  san  Pa- 
golo,  e  presso  porta  Latina  »  son  tutti  di  mano  di 
Antonio(47):  che  Hnalmente  a  Civitavecchia  con  Leon 
decimo  andò  Antonio  (48):  e  che  colà,  ove  ninno  ha 
posto  mente,  1' istesso  Antonio  (per  adattarsi  alla 
qualità  del  sito)  fu  per  la  prima  volta  condotto,  anzi 
dirò  meglio  sforzato,  a  mettere  quei  fianchi  doppi 
che  luttoia  vi  sono  sul  vero,  come  pare  sulle  copie, 
sulle  medaglie  ,  e  sul  cartone  del  de  Marchi.  Per 
(piesto  fatto  di  C4Ì  vita  vecchia  a  me  pare  potersi  ri- 
solvere il  dubbio  :  e  conchiudere  che  la  cifra  del 
fi-"  debba  leggersi  /'{(■"  V  invenzione  darsi  ad  An- 
tonio; ed  il  bastione  rinforzato  di  Roma  essere  copia 
di  que'  due  che  lo  slesso  Antonio  avea  venti  anni 
prima  disegnati  a  Civitavecchia.  Ciò  non  toglie  che 
Battista  possa  essere  intervenuto  alcune  volte  al  con- 
gresso, come  rappresentante  del   fratello  assente. 

XVII.  La  celebrità  di  quesl'  uomo,  e  la  sua  de- 
strezza nello  studiare  al  modo  delle  fortificazioni  se- 
condo il  sito,  ed  i  trovati  suoi,  mi  richiamano  alla 
mente  come  il  cavalier  Ravioli  sovente  citava  un 
passo  oscuro,  ma  importantissimo,  di  Francesco  Ma- 
ria della  Rovere  duca  d'  Urbino;  il  quale,  circa  l'an- 


(47)  Antonio  Picconi  da  Sangallo,  Disegni  originali  e 
schizzi  in  |)iù  volumi  MSS.  alla  Galleria  di  Firenze.  Voi.  IV 
VII  -  Vili. 

Giovanni  Gaye,  Carteggio   di  artisti,  in  8  Firenze  1839. 

T.  Ili  p.  sn. 

Commentario  alla  vita  di  Antonio  da  Sangallo  nella  edi- 
zione del  Vasari  cit.  T.  X.  p.  36  37. 

(48)  Le  note  di  sopra  1. 14. 15. 16. 17.  21.24.26.  54.  ecc. 


151 

no  1538,  scriveva  così:  (49)  «  Et  chi  intende  bene 
questa  cosa  delli  siti ,  di  dentro  et  di  fuori  ,  cioè 
delli  alti  et  delli  bassi,  et  delle  girate  intorno,  e  delli 
cavalieri,  è  sforzato  a  un  modo,  volendo  far  bene 
la  fortezza  sua  .  .  .  Questa  cosa  dei  siti  è  intesa  da 
pochi  capitani,  da  nessuno  ingegnerò;  salvo  che  da 
due  bora  vivi,  et  uno  già  morto  che  era  Pier  Fran- 
cesco da  Urbino  ».  Le  quali  parole  del  celebre  ca- 
pitano dimostrano  a  priori  come  l'abile  ingegnerò, 
tenendo  conto  del  sito,  per  voler  far  bene  le  cose 
sue,  è  condotto  dalla  necessità  a  nuove  scoperte  e 
a  nuovi  modi:  con  che  non  sì  potrebbe  indicare  me- 
glio il  fatto  di  Antonio  da  Sangallo,  il  quale,  per 
queste  ragioni  e  in  modo  nuovo,  pose  sulla  darsena 
di  Civitavecchia  il  mezzo  bastione,  e  sul  monte  del- 
l' Ulivo  i  fianchi  doppi.  Dimostrano  altresì  tre  soli 
ingegneri  avere  a  suo  tempo  posseduta  questa  ec- 
cellenza nell'arte,  l'uno  già  morto  e  due  vivi.  Quanto 
al  primo,  sottentra  il  cavalier  Ravioli  e  con  buone 
ragioni  corregge  il  tipografo  mettendo  in  luogo  del- 
l'oscurissimo  Pierfrancesco  da  Urbino,  che  niimo  sa 
chi  fosse,  il  chiarissimo  Pierfrancesco  da  Viterbo, 
noto  a  tutti  per  l'opere  sue,  e  per  quel  che  ne  di- 
cono il  Guicciardino,  il  Vasari,  e  più  altri  (50).  Quanto 
ai  vivi,  io  penso  che  ninno  quinci  innanzi  vorrà  tanto 


(49)  Francesco  M.  della  Rovere,  Discorsi  militari,  in  12. 
Ferrara  1583.  p.  17. 

L'Autore  morì  nell'ottobre  del  1S38. 

(50)  Promis  eli.  p.  300.  «  Pierfrancesco  da  Viterbo  era 
invece  un  rinomato  ingegnere  ». 

De  Marchi,  cit.  lib.  I.  cap.  16.  «  Saprete  che  le  sopra- 
scritte fortezze  hanno  le  lor  mura  ben  fatte ,  con  le  loro  eon- 


152 

contraslare  al  merito  di  quei  luminari  dell'aichilet- 
tura  militare,  che  furono  Antonio  da  Sangallo  e  Mi- 
chele Sammicheli,  da  volere  dire  che  essi  a  prefe- 
renza di  ogni  altro,  e  più  il  primo  che  il  secondo, 
non  abbiano  a  essere  i  due  campioni  dell'arte,  di 
che  parla  il  duca  di  Urbino.  Per  Antonio  da  San- 
gallo fanno  testimonianza  di  molti  scrittori,  il  Marchi, 
e  questi  fatti  di  Civitavecchia:  pel  Sammicheli  il  Va- 
sari ,  massime  quando  loda  Giangirolamo  nipote  di 
lui  ed  allievo  (51).  Antonio  sopravvisse  al  duca  olio 
anni,  Michele  ventuno,  Pierfrancesco  non  può  dirsi 
abbia  vissuto  oltre  il  1534.  Così  si  comprova  che 
questi  era  il  morto,  e  gli  altri  due  i  vivi  nel  1538. 
XVIII.  Ma  passiamo  innanzi  al  quarto  bastione 
che  supera  gli  altri  in  grandezza,  e  torreggiante  sul 
ciglio  del  monte  rinserralo.  Dodici  canne  il  fianco, 
trentacinque  la  faccia,  quaranta  la  cortina,  venti  le 
semigole.  Ottuso  il  sagliente,  ottusi  gli  angoli  della 
faccia,  acuti  quelli  del  fianco.  Con  questo  si   perde- 


tromine,  et  himinari,  e  porte  scerete,  et  molte  altre  cose  cke 
s'  usano  ,  e  che  se  usavano  nel  tempo  che  fortificava  il  va- 
lenfuomo  di  maestro  Francesco  da  Viterbo,  et  maestro  An- 
tonio da  S.  Gallo,  et  Girolamo  Marino,  il  Frate  di  Modena, 
et  Giovan  Mangone,  et  altri  valentissimi  nelFarte  di  fortificare  ». 

Gate,  Carteggio  d'artisti  cit.  T.  Il  p.  177.  Lettera  della 
Balìa  di  Firenze  a  Giovanni  Ciati,  mandatario  in  Urbino.  Del  4 
gen.  1529:  «  Che  ci  vogli  subito  compiacere  di  mandar  qui 
el  magnifico  nostro  Pierfrancesco  da  Urbino,  ingegnere  excel- 
lentissimo,  dell'opera  del  quale  desideriamo  valerci  »  Questo 
passo  conferma  l'equivoco  degli  amanuensi  nel  tradurre  la  cifra 
Urbo  per  Urbino,  in  vece  di  Viterbo,  massime  quando  le  cose 
0  lo  persone  dell'una  città  si  riferivano  all'altra. 

(51}  Vasari  ,  cit.  T.  XI.  p.  127.  «  Ebbe  Giangirolamo 
(  Sammicheli  nipote  ed  allievo  di  Michele)  gran  giudizio  di 
conoscere  la  qualità  dei  siti...  delle  sue  fortificazioni  ». 


153 

rebbe  anche  In  piccola  gloria  che  i  francesi  danno 
ad  Errard  di  Bar-le-Duc,  per  siffatta  specie  di  acu- 
tezza ordinala  ad  occultare  le  artiglierie  del  fianco. 
Appresso  viene  il  quinto,  tutto  di  stile  sangallesco; 
acuto  l'angolo  fiancheggiato,  retti  o  quasi  retti  gli 
altri  quattro;  la  faccia  quasi  tripla,  la  cortina  qua- 
drupla ,  posto  il  fianco  per  unità.  E  questi  cinque 
bastioni  al  modo  che  ho  detto  sono  oggidì  in  piedi 
sodi  e  terrapienati  a  Civitavecchia  ;  salvo  qualche 
piccola  differenza  nell'esecuzione  e  nei  restauri,  o  lo 
spostamento  di  alcuna  linea  o  punto;  e  salva  la  mu- 
tazione fatta  nelle  piazze  basse.  Imperciocché  la  se- 
conda batteria  che  era  nei  fianchi  dei  baluardi,  co- 
me se  ne  vedono  i  segni  sulle  medaglie  e  sulla  pianta 
del  Crescentio,  è  stala  nel  secolo  decimosettimo  ac- 
ciecata.  Onde  è  che  il  signor  de  Per  geografo  del 
re  di  Francia,  nella  sua  grande  raccolta  dei  disegni 
delle  principali  fortezze  d'  Europa,  dà  la  pianta  di 
Civitavecchia  con  le  piazze  basse  nei  fianchi:  ed  è 
in  questa  parte  ripreso  a  torto  dal  tnarchese  Mari- 
ni (52).  Perchè,  se  colà  non  sono  al  presente  le  pre- 
dette piazze  basse,  eranvi  nel  tempo  passato:  e  ne 
restano  ancora  le  tracce  visibilissime  sopra  quattro 
fianchi  rimurati. 

XIX.  Or  quale  di  siffatte  opere  abbia  avuto 
compiniento  per  mano  di  Antonio  in  tempo  di  Leon 
decimo,  quale  sia  stata  continuata  da  esso  o  da  al- 
tri sopra  gli  stessi  disegni  nel  tempo  successivo,  è 


(52)  De  Fer,  Introduclion  a  la  fortification  in  fol.  oblongo. 
Parigi  1690-94  Tavola  158. 

M.  Luigi  Marini,  Saggio  sui  bastioni  cil.  p.  14. 


154 

(ìifficile  accertare,  e  poco  a  noi  monta.  Basta  aver  di- 
mostrato che  le  predette  fortificazioni  sono  state  ese- 
guite sopra  un  disegno  fatto  ed  approvato  nel  1515. 
Ma  non  può  negarsi  che  i  primi  bastioni,  secondo  il 
divisamento  e  le  ragioni  dell'architetto,  non  abbiano 
a  essere  quelli  della  base  attorno  alla  darsena.  A 
prima  vista  mostiano  la  loro  maggiore  antichità  , 
massime  quello  di  san  Teofanio.  E  deve  oltracciò 
ritenersi,  che  lutto  il  perimetro  sia  stalo  tracciato 
sin  dal  principio  sul  terreno,  e  da  un  capo  all'altro 
condotto  con  opera  piiì  o  meno  perfetta,  prima  di 
terra  e  poi  di  muro.  (ìome  si  fa  manifesto  dal  ter- 
mine tecnico  bastiono,  che  Antonio  sempre  adopera 
negli  schizzi  di  Civitavecchia,  meno  una  sola  volta 
in  (ine,  che  scrive  baluardo:  e  come  si  può  inferire 
da  ciò  che  egli  stesso  ed  altri  con  lui  non  guari 
dopo  fecero  a  Piacenza  (53).  Col  perimetro  bastio- 
nato la  città  ebbe  il  primo  ingrandimento;  essen- 
dosi accresciuti  i  raggi  maggiori  del  nuovo  poligono 
attorno  alle  vecchie  mura  qual  sessanta  qual  ot- 
tanta canne;  e  Antonio,  che  avealo  disegnato,  tornava 
colà,  faceva  fondere  le  artiglierie,  e  muniva  di  nuove 
armi  le  nuove  fortificazioni.  Basterà  notare  come 
sino  a  veni'  anni  dopo,  tra  i  ricordi  scritti  di  sua 
mano  si  legge  (54):  «  Colubrina  di  mastro  Andrea. 
Questa  colubrina  ò  fatto  la  prova  a  Civitavecchia 
addì  10  d'ottobre    1538   ». 


I 


(53)  Promis  cit.  p.  300. 
Vasari  eli.  T.  X  p.  tO. 

(54)  Antonio  da  Sangallo,  MSS.  alla  galleria  di  Firenze, 
citati  nel  commentario  della  sua  vita.  T.  X  p.  83. 


155 

XX.  Quindi  per  la  prima  (netà  del  secolo  de 
cimosesto  non  è  a  trovare  nella  storia  fatto  alcune 
di  guerra  o  di  pace  o  di  altra  rilevante  novità  in-» 
torno  a  Roma  ,  ove  non  entri  eziandio  Civitavec- 
chia, e  sempre  come  luogo  fortificato.  Nel  1522  alli 
ventisette  d'  agosto,  venendo  di  Spagna,  sbarcò  in 
quel  porto  colle  galere  pontificie  il  successore  di  Leo- 
ne papa  Adriano  VI  (55),  e  seco  lui  don  Biagio  Or- 
tiz  cappellano,  che  ne  scrisse  1'  itinerario.  Questi 
narra  le  feste  dei  civitavecchiesi,  il  ricevimento  del 
pontefice  ,  il  concorso  dei  cardinali  e  della  nobiltà 
romana:  e  poscia  bonamente,  più  da  canonico  che 
da  ingegnerò,  parla  delle  fortificazioni.  E  avvegnaché 
non  spieghi  chiaro  quanto  sarebbe  mestieri,  ciò  non 
pertanto  dice:  (56)  «  Abbiam  veduto  la  città  e  il  ca- 
stello, l'artiglierie,  e  il  fosso;  che  quando  sarà  com- 
piuto si  pensa  che  debba  riuscire  inespugnabile  ». 
Nel  1527allisei  di  maggio  l'esercito  imperiale, capita- 
nato prima  dal  duca  di  Bui  bone,  e  poi  dal  principe 
d'Orange,  prese  e  saccheggiò  Roma:nui  non  ebbe  Civi- 
tavecchia, né  per  forza  nò  per  patti;  dicendo  il  Guic- 
ciardino  che  (57):  «  1  fanti  spagnuoli  e  tedeschi  en- 


(53)  Blasius  de  Cesena,  magister  caereinoniarum,  In  diario 
Hadriani  papae  VI,  ad  dieni  27  augusti  1522.  MSS.  alla  Bar- 
beriniana,  1102. 

(56)  Blasius  Ortizids,  Itinerarium  Hadriani  papae  VI  in- 
ter  Misceli:  Balutii,  in  8,  Parigi  1680.  T.  III  p.  399.  «  Vidi- 
mu  s  urbem  et  castnim  nondum  consummahim ,  munitumque 
instrumentis  ferreis  ,  nec  non  aquosa  fovea  ferme  cinctum  ; 
qnod  quidem  post  quam  fuerit  consiimmatum  inexpugnabile 
fore  creditur  ». 

(57)  GuicciARDiNt,  Libro  XIII  in  4  senza  indizio  di  luo- 
go 1645,  T.  li.  p.  452. 

Muratori,  Annali  d'Italia  1527. 


156 

tiarono  in  castello  Santangelo,  ma  non  furono  colla 
medesima  facilità  consegnate  le  altre  fortezze  et  terre, 
perchè  quella  di  Civitavecchia  ricusò  consegnare  An- 
drea Doria,  benché  n'havessc  comandamento  dal  pon- 
tefice ».  Dunque  la  fortezza  e  la  terra  erano  l'una 
e  r  altra  tali  che  potevasene  ricusare  la  consegna 
anche  a  siffatto  arrabbiato  e  vittorioso  esercito.  Nel 
vero  Andrea  Doria  (poscia  famoso  ammiraglio  di 
Carlo  V,  e  allora  capitano  della  marineria  pontificia 
e  governator  delle  armi  in  Civitavecchia)  tenne  a  si- 
curtà, finché  volle,  la  terra  e  la  rocca:  che  se  egli 
cedevale,  certamente  papa  Clemente  sarebbe  stato 
al  paro  del  re  Francesco  condotto  prigioniero  in 
Spagna  (58).  Nell'anno  1544,  avendo  le  galere  pon- 
tificie nell'Arcipelago  bruciata  la  casa  e  devastati  i 
giardini  che  il  famoso  Ariadeno  Burbarossa  s'aveva 
con  molto  dispendio  fatti  nel  luogo  stesso  della  sua 
nascila  (59),  costui  venne  con  tutta  l'armata  otto- 
mana per  pigliarne  vendetta  sopra  Civitavecchia:  ma 
se  ne  andò  via  senza  tentarla  ,  ritenuto  non  tanto 
dal  rispetto    verso  il    papa  e  verso  i  francesi   suoi 


(58)  Lorenzo  Cappelloni,  Vita  di  Andrea  Doria,  in  4  Ve- 
nezia presso  il  Giolito  p.  29. 

Agostino  Olivieri,  Monete  ,    medaglie  e  sigilli  di  casa 
Doria,  in  8  Genova  1859  p.  42.  Pubblica  un  sigillo  d'Andrea 
«  Attaccato   ad  ima  lettera  che   quel  principe  (non  ancora 
principe)  scriveva  ai  protettori  di  S.  Giorgio  V  agosto  1S27 
da  Civitavecchia  ». 

(59)  Giacomo  Bosio,  Storia  del  militar  ordine  gerosolimi- 
tano, in  fol.  Roma  1602  T.  Ili  pag.  228.  A.  232  D. 

Paolo  Giovio,  Storie  tradotte   dal  Domenichi ,  in  4  Ve- 
nezia 1608,  T.  II  p.  771.774. 


i 


157 

alleati,  quanto  dalla  fortezza  del  luogo  (60).  L'an 
no  1554  papa  Ginlio  III  si  condusse  a  Civitavecchi 
pel  medesimo  fine  delie  fortificazioni.  Ma  né  esso 
se,  né  gli  storici  di  lui   narrano  mai  che  sia  sta» 
il  primo  a  fortificarla;  che  se  fosse  stato  così,  ifl 
ne  avrebbero    certamente  taciuto.  Anzi  per  queo 
fatto  alcuni  scrittoli    tornano  al  Sangallo  come'é 
già  morto.  Le  iscrizioni  di  papa  Giulio  ripetono  le 
andò  a  Civitavecchia  per  renderla  più  forte,  e  laJa 
medaglia    comprova    che  accrebbe  le    fortifìca^ni 
attorno  alla  città.  Dunque  almeno  in  parte  già  este- 
vano  secondo  il  disegno  del  Sangallo:  e  quantujue 
non  siano  più  sopra  quelle  mura  né  le  armi  di  Due 
né  quelle  di  Giulio,  pur  nondimeno  restano  la  lepn- 
da,  le  medaglie,  e  il  Vasari  (6!).  F)ue  anni  do   fu 
il  principio  della  guerra  combattuta  tra  spagnli  e 
Paolo  IV  nella  campagna  romana.  Il  duca   dlba, 
considerata  l' importanza  di  Civitavecchia,  divi  im- 
padronirsene, non   di  viva  forza  (che  non  si   iliva 
da  tanto)  ma  per  sorpresa:  ondeché  fece  veie  da 
Milano  alla  Spezia  tre  mibà  fanti  spagnuoli,  e  dinò 
che  di  là  per  la  via  del  mare  movessero  impvvisi 
sopra  Civitavecchia    Ma  la  tardanza  loro  e    dili- 
genza di  Flaminio  Orsini,  governatore  delie  ffii  in 
questa  piazza,  mandarono  a   vuoto  il    diseg  (62). 


(60)  Sabellico  ,  Supplemento  alle  istorie  in  ■  Basi- 
lea 1S60  p.  663. 

(61)  Vedi  sopra  le  note  2S  e  28.  La  lapida  divitavec- 
chia,  e  la  medaglia  con  la  leggenda  ivi  scolpita  Centimi- 
cellas  mimitiorem  .  .  .  Urbemque  vallo  auxit  ». 

(62)  Giambattista  Adriani,  Storia  de' suoi  tea  in  foglio 
Firenze  1583  p.  544  F,  e  546  F. 


158 

I4driiini  ,  che  narra  questo  fatto  ,  aggiugne  come 
ICO  dopo  il  maresciallo  «  Pietro  Strozzi  andò  pel 
p>a  a  visitar  Civitavecchia,  e  le  fortificazioni  che 
^1  icurlà  vi  aveva  fatte  Flaminio  Orsini  ».  L' an- 
n(1561,dopo  la  terrihile  disfatta  dell'armata  cri- 
stiia  presso  all'  isola  delle  Gerbe  (laddove  il  pre- 
àe\  p'iaminio  Orsini  capitano  delle  galere  ponti- 
ficirinverdì  le  glorie  della  virtiì  romana  e  incontrò 
la  i)rte  del  pari  gloriosa  quanto  fu  la  vittoria  del 
suoiiccessore  a  Lepanto)  deliberò  Pio  IV  ripigliare 
Top»  delle  fortificazioni  attorno  alla  città  Leonina, 
alla  viaggia  romana,  ed  alle  due  città  di  Civitavec- 
chia d'Ancona  (63),  perchè  i  popoli  della  capitale 
e  del  circostanti  province  [totessero  vivere  in  pace, 
e  sici  dalle  invasioni  dei  turchi  (64).  Per  questo 
andò  Civitavecchia  (65),  e  pose  mano  a  murare 
gli  ulni  due  baluardi. 

X.  Non  senza  intendimento  mi  sono  riserbato 
di  pairne  in  questo  luogo,  perchè  furono  disegnati 
in  dutianiere  dal  Sangallo,  e  in  due  maniere  trac- 


(63j[cRATORi,  Annali  d'Italia,  1S61  in  medio:  «Né ciò  ba- 
stando .  Pio  IV  ordinò  che  si  riducessero  in  miglior  forma 
le  forìifizioni  dei  -porti  di  Civitavecchia  e  d'Ancona  » 

(6i)u  Papae  V  CoNSTiTUTio  :  «  Sane  felicis  record. 
Pius  fnjJV  praedecessor  noster  prospiciens  quantum  pro- 
vinciis  Jhchiae,  Patrimonii,  Urbi  ac  toti  denique  statui  ec- 
clesiastf.ctxpediret  Anconam  et  Civitatem  Vetulam  et  illa- 
ram  poHiet  arces  munitissimas  ab  omnium  infidelium  in- 
cursibus  ì'iere ,  quo  propiignaculis  eiusmodi  et  antemura- 
libus  omii'aitimaloca  in  pace  et  tranquillitate  quiescerent  ». 

ÀpuJ  Veccuis,  De  bono  regimine,  in  fol.  Roma  1732 
p.  286. 

(6oj  T;AC4,  Memorie  cit.  p.  51. 


I 


159 
ciati  sul  terreno:  ultimi  murati,  e  primi  demoliti.  In 
uno  schizzo  Antonio  mette  la  sola  metà  del  sesto 
bastione,  e  conduce  la  faccia  dritta  del  medesimo 
con  una  lunga  muraglia,  fino  ad  incontrare  per  filo 
il  diametro  di  una  delle  torri  della  rocca  nuova.  Con 
questo  lisparmia  la  metà  del  sesto  bastione,  e  tutto 
il  settimo:  e  nondimeno  fiancheggia  l'ultimo  tratto 
coi  fuochi  delia  detta  rocca.  Siffatto  ripiego  si  vede 
disegnato  da  lui,  e  si  vuol  ritenere  che  sia  slato  ap- 
provato da  Leone  X,  ed  eseguilo  sul  terreno,  perchè 
quesl'  istesso  si  trova  nella  piìi  volte  citata  pianta 
del  capitan  de  Marchi,  l/altra  maniera  è  nel  quarto 
foglio:  ove,  cancellala  la  troppo  lunga  muraglia,  si 
spicca  per  intiero  il  sesto  bastione  ,  e  al  pai-o  di 
quello  il  settimo  nello  stile  medesimo  dei  precedenti: 
salvo  che  l'ultimo  bastione  rigira  ingegnosamente  il 
fianco  per  accostarsi  alla  rocca  senza  toccarla.  Donde 
si  vede  con  quanto  senno  Antonio  divisò  il  suo  pe- 
rimetro; perchè,  cominciato  a  ponente  sul  porto,  e 
cinta  per  ogni  Iato  verso  terra,  la  città  si  terminasse 
presso  r  istesso  porto  a  levante.  La  base  sulla  dar- 
sena, l'asse   tra  le  due  rocche. 

Questa  seconda  maniera  piacque  a  Pio  IV  ,  il 
quale  sotto  la  direzione  di  Gabrio  Serbelloni  (66) 
e  di  Francesco  Laparelli  (67),  famosi  ingegneri  e  sol- 


(66)  Bosio  cit.  T.  IH  p.  4o3  D.  «  Garbio  Serbelloni  for- 
tificò Civitavecchia  ». 

(67)  Luigi  Marini,  edizione  del  de  Marchi  T.  I  p.  8:  «Do- 
vendosi fortificare  l'  isola  di  Malta  furono  colà  spediti  tre 
ingegneri  italiani.  Pio  IV  vi  spedì  Francesco  Laparelli  cor- 
tonese ,  il  quale  aveva  già  fortificato  Civitavecchia  e  il  suo 
porto  ». 


160 

dati  di  quella  eia,  non  solo  munì  le  portelle  di  sortita 
e  di  soccorso  (68)  e  fece  alcuni  rivestimenti  al  quinto 
baluardo  (69),  ma  murò  di  pianta  i  due  bastioni  di 
verso  levante  (70),  che  poscia  furono  condotti  a  com- 
pimento da  Pio  V;  come  si  fa  manifesto  dalla  se- 
guente leggenda  che  era  scolpita,  ed  io  la  vidi,  in 
mezzo  alla  cortina  sulla  porta  principale  della  città 
verso  Roma  (71):  «  Girolamo  Melchiorri  vescovo  di 
Macerala  e  decano  dei  chierici  di  camera  prima 
per  ordine  di  Pio  IV  aulore,  poscia  per  comanda- 
mento di  Pio  V  pontefice  massimo  fece  costruire 
questa  fortificazione  a  cura  e  diligenza  di  Giammaria 


(68)  Panvinids,  Vita  Pii  IV.  «  Pius  Centumcellas  vetustate 
disiectas  moenibus,  arctibiis,  sepivit  ac  munivit  ». 

CuccoNius.  Vitae  Pontif.  III.  881. 

Sopra  due  porlelle  della  seconda  e  quarta  cortina  è  l'arma 
di  Pio  IV,  sei  palle  in  campo  d'oro,  e  l'iscrizione  «  Pius.  IV. 
Medices.  Mediol.  Pont.  Max.  An.  Sai.  MDLXlll  «. 

(69)  Sotto  al  cordone  del  quinto  baluardo,  chiamato  vol- 
garmente il  Barberino,  l'arma  di  Pio  IV,  e  l'iscrizione  come 
sopra. 

(70)  BoNANNi  cit.  Numism.  Ponti f.  I  290  :  «  Mnnitiones 
qiias  Pius  IV  Centumcelhs  vel  addìdit  vel  restituii,  orientem 
solem  respiciunt  ». 

(71)  ToRRACA  cit.  p.  52:  a  ffieronymus.  Melchiorius.  Epus. 
Macerateti.  Cam.  Ap.  Decanus.  lussu.  Primum.  Pii.  IV.Aii- 
ctoris.  Mox.  Et.Pii.  V.  Pont.  M.  Munitionem.  liane.  Cura. 
Et.  Diligentia.  lo.  Mariae.  Agamontis.  A.  Bosco.  Arcis. 
Praefecti.  F.  C.  An.  MDLXXI  ». 

Frangipani  cit.  265. 

Avvisi  di  Roma.  Cod.  urbinate  alla  Vaticana  1043.  Data 
del  13  febbraio  1S72.  -  Parlerò  a  suo  tempo  della  gran  rac- 
colta di  questi  Avvisi  che  sono  le  gazzette  di  Roma  mano- 
scritte, prima  che  si  usassero  le  stampate. 


161 

Agamonte  del  Bosco,  castellano  della  rocca,  1'  an- 
no 1571  )). 

XXII.  Dal  che  si  può  inferire  che  san  Pio  V  con  gli 
ultimi  due  bastioni  compì  la  cinta  nella  seconda  ma- 
niera del  Sangallo.  E  per  ciò  il  suo  nome,  a  prefe- 
renza d'ogni  altro,  si  vede  spesseggiare  nel  mezzo  di 
quasi  tutte  le  cortine  e  sotto  al  cordone  dei  baluar- 
di: dove  sono  l'armi  sue,  tre  bande  di  rosso  in  campo 
d'argento,  e  la  leggenda  (72):  «  Pio  quinto  Ghislieri 
alessandrino  pontefice  massimo  1'  anno  della  salu- 
te 1566  »  :  che  è  il  primo  del  pontiHcato.  Coloro 
che  composero  questa  iscrizione  secca  e  artificiosa 
schifarono  i  verbi  e  i  nomi  di  caso  obliquo:  né  fece, 
né  compì,  né  restaurò,  né  muraglia,  né  cortina,  nò 
baluardo,  né  terrapieno:  perchè  i  lettori  a  lor  grado 
pensassero  quel  più  che  piaceva.  Ma,  postavi  la  data 
dell'anno  1566,  niuno  penserà  mai  che  Pio  V  sia 
stato  l'autore  di  tutte  quelle  opere:  perchè  egli  non 
avrebbe  potuto  in  un  anno  solo  far  tanto.  Che,  se 
fatto  l'avesse,  si  leggerebbero  in  Civitavecchia  i  par- 
ticolari dell'opera,  come  si  leggono  sul  forte  di  san 
Michele  alla  marina  d'Ostia  (73):  «  Pio  V  fece  co- 
struire dai  fondamenti  questa  torre  ,  e  comandò 
che  dovesse  essere  armata  e  presidiata,  1568  ».  Né 
è  da  farne  maraviglia  chi  ponga  mente  che  non  po- 
tevano in  ciò  né  il  castellano  Agamonte  né  il  ve- 
scovo Melchiorri,  l'uno  concittadino  e  tenuto  di  gra- 


(72)  "  Pius.  V.  Ghislerius.  Alexandrinus.  Pont.   Max. 
An.  Sai.  MDLXVl  ». 

(73)  «  Pius.  V.  Pont.  Max...    Turrim   ffanc...    a  fun 
damentis    Erìgi.    Munirì.    Et.    Ciistodirì.    Mandavit.    An, 
MDLXVl II  «. 

G.A.T.LXIII.  11 


162 

illudine,  l'altro  ministro  e  creatura  del  regnante  pon- 
tefice, non  tener  dietro  al  comun  vezzo  di  maggior- 
mente onorare  chi  ad  alcuna  opera  dà  compimen- 
to (74).  Di  qui  l'errore  di  molti  ad  attribuire  tutte 
le  fortificazioni  di  Civitavecchia  a  Pio  V.  Dove  il 
vero  è  che  l'istesso  papa  con  la  sua  costituzione  (75), 
e  l'Agamonte  e  il  Melchiorri  con  la  loro  leggenda  (76), 
ci  rimandano  ad  un  altro  autore  più  antico  che  è 
Pio  IV  (77).  Questi  per  la  sua  storia  e  le  due  me- 
daglie ci  mena  a  Giulio  III  (78).  E  Giulio  riprodu- 
cendo, come  ho  detto,  nella  sua  medaglia  il  cartone 
del  Sangallo,  ci  conduce  a  Leon  X  (79)  :  al  quale 
non  si  può  non  ritornare,  e  dal  quale  si  deve  par- 
tire, perchè  in  vero    fu  il  primo. 

XXIII.  Or  che  ho  compito  dal  principio  alla  fine 
il  giro  del  primario  recinto,  non  mi  fermerò  a  de- 
scrivere le  opere  esteriori  (80);  cinque  rivellini,  un 
tanaglione,  il  fosso,  il  camin  coperto,  gli  spalti,  i 
ponti,  e  simili  opere  fatte  nel  tempo  successivo  da 
Gregorio  XIII,  che  principiò  il  rivellin  doppio  innanzi 
alla  cortina  dei  fianchi  doppi  (81),  sino  ad  Urbano  Vili 


(74)  Si  veda  sopra  la  noia  36. 
(73)  Citata  sopra,  nota  64. 

(76)  Sopra  alla  nota  71. 

(77)  Alle  note  63.  67.  68.  69. 

(78)  Nota  28. 

(79)  Note  25.  26.  28. 

(80)  Né  gli  schizzi  del  Sangallo,  né  la  pianta  del  de  Mar- 
chi, né  le  quattro  medaglie  pontificie  portano  opere  esteriori, 
men  che  il  fosso.  Il  primo  segno  di  un  rivellino  è  nella  pianta 
del  Crescenzio,  incisa  sulla  fine  del  cinquecento. 

(81)  Sul  sagliente  del  rivellino  ritirato  è  l'arma  di  Gre- 
gorio XIII,  il  drago  alato  in  campo  di  rosso,  senza  nessuna 
iscrizione 


163 
quando  fu  compita  l'opera  a  corno  (82):  intorno  alla 
quale  non  ho  dubitato  asserire  che  debba  essersi  ado- 
perato il  padre  Vincenzo  Maculano  dell'  abito  di  san 
Domenico,  celebre  tra  gli  architetti  militari  del  suo 
tempo,  e  dallo  stesso  Urbano  Vili  innalzato  alla  di- 
gnità di  cardinale  (83).  Ma  sarebbe  troppo  grave  di- 
fetto se  lasciassi  di  dire  come  gli  ultimi  due  bastioni 
sono  stati  ai  nostri  giorni  spianati,  tanto  che  non 
se  ne  vede  piti  vestigio.  Per  ciò  mi  è  bisogno  ri- 
cordare che  la  popolazione  di  Civitavecchia  da  tre 
secoli  in  qua  è  venuta  sempre  crescendo  (8i):  e  sa- 
rebbe oggidì  per  avventura  molto  maggiore  ,  e  la 
città  più  grande  e  bella,  se  l'angustia  delle  muraglie 
non  l'avesse  compressa.  L' ingrandimento  di  Leone  X 


Venuti,  Num.  p.  145  produce  la  medaglia  coH'iscrizione 
»  Portus.  Centumcellarum.  Istaurami.  Urbemque.  Vallo.  Au- 
xit -Gregor'ms  XIII.  Pont.  Max.  » 

Giampietro  Maffei,  Annali  di  Gregorio  XIII  in  4.  Roma 
1743  lib.  VII  p.  376. 

Bompiani,  Ciacconio,  ed  altri. 

(82)  Sulla  cortina  e  bastione  dell'opera  a  corno  si  vede 
l'arma  di  Urbano  Vili,  tre  api  in  campo  d'azzurro:  e  ciò  non 
prova  che  Urbano  incouiinciasse  l'opera,  ma  che  al  suo  tem- 
po era  compita. 

(83)  P.  Vincenzo  Fortunato  Marchese,  Pittori,  scultori, 
e  architetti^domenicani.  Libro  III  cap.  20. 

Sforza  Pallavicino,  Vita  d'Alessandro  VII,   lib.  I.  cap. 
X  p.  83,  in  8.  Prato  1842. 
Ecbard,  Touron. 

(84)  Nella  parrocchia  di  santa  Maria,  secondo  che  mi  ha 
mostrato  il  padre  Tommaso  Giordani  parroco,  sono  stati  l'an- 
no 1859  battezzati  centotrenlacinque  bambini  :  morti  di  ogni 
età  quarantotto.  Onde  in  una  sola  parrocchia  ed  anno  la  po- 
polazione indigena  è  cresciuta  di  ottantaselte  anime. 


164 

non  guari  dopo  fu  stimalo  insufficiente;  e  nello  scor- 
cio del  seguente  secolo  Innocenzo  XII  dovette  rimet- 
tersi all'opera  istessa  dell'  ingrandire  per  dar  ricovero 
alla  popolazione ,  che  piiì  non  capiva  nelle  vecchie 
mura.  Si  avevano  però  a  vincere  molte  difficoltà. Prima 
trovare  il  danaro  ,  essendo  sempre  stato  cotesto  il 
punto  difficile  dei  camerali.  Poi  la  ripugnanza  a  di- 
struggere le  mura  già  esistenti:  e  ciò  tanto  per  ri- 
spetto dell'autore,  quanto  della  cosa:  non  si  volendo 
diminuire  le  difese  di  città  e  porto  così  presso  a  Ro- 
ma, e  sempre  per  quei  tempi  minacciato  dai  barba- 
reschi. Finalmente  bisognava,  per  le  ragioni  mede- 
sime e  per  mantenere  le  franchigie  della  dogana  , 
chiudere  con  nuove  muraglie  il  nuovo  borgo.  Era  al- 
lora fuori  di  Civitavecchia  dalla  parte  che  guarda  a 
Roma  una  fortificazione  avanzata  di  quella  specie  che 
chiamano  tanaglione,  o  meglio  opera  a  corno;  e  que- 
sta larga  cento  canne  ,  ed  altrettanto  discosta  dal 
corpo  della  piazza:  fatta  per  coprire  porta  romana, 
fronteggiare  i  due  bastioni  dì  levante,  e  tener  lon- 
tani gli  approcci  dalla  piazza  medesima  e  dalla  for- 
tezza. Era  formata  di  due  mezzi  bastioni  e  una  cor- 
tina sulla  fronte,  e  due  grand'ali  sui  fianchi:  terra- 
pienate  bensì,  ma  di  bassa  muraglia  come  tutte  le 
opere  esteriori  ,  e  soggette  alla  batteria  del  ricinto 
primario.  L'esistenza  di  quest'opera  sin  dal  principio 
del  seicento  si  prova  colle  armi  ivi  scolpite  di  Urba- 
no Vili,  e  con  una  medaglia  di  Alessandro  VII  (85), 
che  la  mette  in  rilievo.  Or  nell'interno  spazzo  di  que- 


(83)  BoNANNi,  Niimism.  eli.  T.  Il  p.  6b8. 
Vedi  sopra  nota  N.  82. 


165 

sta  fortificazione  Innocenzo  XII  ordinava  che  si  fa- 
cesse il  borgo.  Con  questo  manteneva  in  piedi  al 
modo  che  erano  i  due  bastioni  di  levante,  guada- 
gnava dieci  mila  canne  quadrate  di  superficie  dentro 
il  recinto  dell'opera  a  corno,  e  con  le  muraglie  della 
fortificazione  medesima  già  esistenti  ,  e  senza  altra 
spesa,  aveva  bello  e  fortificato  il  borgo:  non  restan- 
dogli altro  a  fare  se  non  prolungare  le  ali  di  quella  in 
retta  linea  sino  alla  scarpa  dei  predetti  bastioni:  come 
fu  fatto  nell'anno  1692.  Ondechè  Civitavecchia  ebbe 
allora  dal  lato  di  levante  due  recinti  fortificati:  il  pri- 
mario della  città  ,  difeso  dai  grandi  baluardi  ;  e  il 
secondario  del  borgo  chiuso  dalla  muraglia  dell'opera 
a  corno.  Tra  l'uno  e  l'altra,  fosso,  ponte  e  porta  : 
e  questa  militarmente  tenuta  ,  e  sempre  abbarrata 
nella  notte.  Per  tutto  il  passato  secolo  andava  la 
sera  un  viceparroco  nel  borgo  ,  ed  ivi  doveva  la- 
sciarsi chiudere  sino  alla  mattina  seguente;  senza  di 
che  i  borghigiani  non  avrebbero  avuta  assistenza  nelle 
loro  spirituali  necessità,  durante  la  notte.  Nel  giorno 
non  era  che  un  solo  passaggio,  ed  una  porta  (86). 
Difficili  tra  la  città  e  il  borgo  le  comunicazioni  , 
il  commercio,  il  mutar  di  casa,  per  sino  il  dialetto 
diverso. 

XXIV.  Ciò  non  pertanto  quel  sito  presto  fu  pieno 
di  popolo,  e  tale  che  non  potendone  più  contenere 
i  magistrati  della  città  ripeterono  più  volte  l'istanza 
perchè  si  concedesse  loro  la  facoltà  di  ingrandirlo. 
Per  avventura  l'anno  1835  papa  Gregorio  XVI,  an- 
dato colà  a  diporto,  udì  le  suppliche,  vide  il  bisogno, 

.  (86)  Frangipane  cit.  247.-  Torraca  cit.  64. 


166 
e  decretò  il  terzo  ingrandimento.  Se  non  che  per  gli 
stessi  rispetti  del  danaro,  della  franchigia,  e  delle  for- 
tificazioni si  tenne  al  poco.  Gli  mostrarono  la  interna 
fascia  di  terreno  tra  il  borgo  e  la  città  inutilmente 
occupata  da  due  baluardi,  dalla  cortina,  dai  terra- 
pieni ,  e  dal  fosso;  ed  egli  consentì  che  si  spianasse 
perchè  la  città  al  borgo  si  unisse  con  quell'  ordine 
di  strade  e  di  palazzi  che  tutti  hanno  veduto  com- 
pirsi in  dieci  anni.  Il  cavalier  Paolo  Emilio  Provin- 
ciali, comandante  del  corpo  del  genio,  diresse  (87), 
e  dai  suoi  ufficiali  fece  eseguire  i  lavori;  abbattere 
la  cortina,  demolire  i  bastioni,  colmare  il  fosso,  ra- 
dere i  terrapieni  ,  collegare  il  vecchio  col  nuovo 
recinto,  condurre  i  rondelli  dalle  antiche  mura  sino 
ai  terrapieni  dell'opera  a  corno,  e  fiancheggiare  sue 
ali:  quella  di  mare  con  lo  sporto  del  bastion  san  Ba- 
stiano, e  con  una  falsabraca  d'opera  nuova  murata 
a  livello  tra  la  porta  Romana  e  la  fortezza;  quelle 
di  terra  col  fuoco  di  cortina  in  isbieco  per  alcune 
cannoniere  ivi  acconciamente  praticale.  Così  1'  an- 
no 1835  furono  demoliti  i  due  bastioni  di  levante, 
ultimi  nella  cinta  del  Sangallo(88).  Indi  la  città  crebbe 
di  spazio  e  di  popolo,  non  di  fortezza:  perchè  toltine 
i  due  baluardi  reali,  restò  la  meschina  opera  esteriore 
come  primario  recinto  sulla  fronte  di  verso  levante. 


(87)  Cav.  Camnillo  Ravioli,  Della  vita  e  delle  opere  del 
marchese  Luigi  Marini.  Estratto  dal  giornale  Arcadico,  nuova 
serie,  T.  Vili.  p.  94. 

(88)  Monsignor  Vincenzo  Annovazzi,  Storia  di  Civitavec- 
chia cit.  in  4.0  Roma  1883.  p.  435. 

Cavalier  Pietro  Manzi,  Stato  antico  ed  attuale  della  città 
porta  e  provincia  di  Civitavecchia.  8.  Prato  1837,  p.  24. 


167 

XXV.  Se  non  che  dopo  veni' anni  alle  strettez- 
ze della  popolazione  unitasi  quella  dei  costruttori 
della  ferrovia  per  aver  sito  spazioso  da  mettervi  la 
stazione,  i  magazzini  e  le  attenenze  necessarie  alla 
testa  di  linea  da  congiungere  Civitavechia  ed  An- 
cona, i  due  mari,  i  due  porti  e  la  capitale,  presto 
si  venne  al  quarto  e  pili  di  ogni  altro  amplissimo 
ingrandimento,  decretalo  nel  mese  d'ottobre  del  1857 
dal  regnante  pontefice  Pio  IX.  Le  nuove  mura  del 
nuovo  borgo  sono  state  tracciate  a  levante  dal  quinto 
bastione  per  una  curva  di  piiì  che  mille  metri  sino 
alla  spiaggia  del  mare;  e  le  nuove  fabbriche  non  po- 
tranno non  circondare  da  ogni  parte  e  rendere  inutile 
l'opera  a  corno.  Delle  due  ali,  quella  di  mare  sol- 
tanto potrà  forse  servire  alla  nuova  cinta  bastionata 
che  gli  ufficiali  francesi  del  genio  ivi  stanziati  vi  con- 
ducono dall'  istesso  lato  di  levante  ;  1'  ala  di  verso 
terra  e  tutto  il  resto  dell'opera  medesima  con  gli 
stessi  argomenti  con  che  papa  Gregorio  atterrò  i 
due  bastioni  intercetti  tra  il  primo  e  il  secondo  re- 
cinto, anzi  per  più  forti  ragioni  civili  militari  eco- 
nomiche e  morali,  dovrà  o  tosto  o  tardi  sbrattarsi  di 
mezzo.  Ma  di  questo  ho  detto  a  bastanza  nell'altro 
mio  scritto,  e  dirò  forse  anche  a  cose  finite. 

XXVI.  Ora, prestantissimo  professore,  gli  è  tempo 
di  conchiudere.  E  avendo,  per  quanto  a  me  sembra, 
dimostrato  come  Antonio  da  Sangallo  disegnò  per 
Civitavecchia  nel  1515  (prima  del  Sammicheli  in 
Verona)  una  compiuta  cinta  bastionata,  quando  fu- 
rono eseguiti  i  suoi  disegni,  perchè  due  baluardi  sono 
stati  demoliti,  ed  in  che  modo  altri  cinque  tuttora 
ne  rimangono  intatti,  devo  far  voti  e  con  voi  ral- 


168 
legrarmi,  amantissimo  come  siete  della  conservazione 
dei  capolavori  e  monumenti  dell'arte,  che  la  buona 
nostra  fortuna  ce  li  mantenga  :  tanto  più  che  le 
opere  che  si  vanno  colà  facendo  o  che  si  faranno, 
borgo,  mura,  rada,  bacini,  ferrovia,  stazione,  for- 
tificazioni, e  ogni  altra  novità,  v'ha  ogni  ragione  da 
credere  che  debbano  progredire  non  verso  ponente 
ove  sono  i  cinque  bastioni  del  Sangallo  ,  ma  dal 
lato  opposto,  cioè  verso  Roma. 

Questo  mio  tenue  lavoro  per  voi  scritto  abbiatevi 
come  pegno  della   rispettosa  slima   che  vi  professa 
Dalla  biblioteca  Casanatense  in  Roma  li  28  apri- 
le 1860. 

11  vostro  devotissimo 

P.  Alberto  Guglielmotti 

de*  predicatori. 


169 


Ragionamento  di   Domenico  de  Crollis  a  sua  eccel- 
lenza D    Mario  duca  Massimo. 

Savissimo  e  cortesissimo  duca, 

I.  k^e  la  somma  cortesia  vostra  verso  me  nun  mi 
fosse  per  moltissimi  argomenti  nota,  io  non  oserei 
volgervi  quest'altro  mio  discorso  colle  slampe  pubbli- 
cato. Ma  poiché  sono  di  questa  vostra  cortesia  cer- 
tissimo, a  voi  di  nuovo  mi  rivolgo,  e  vi  dico  che 
io  scrivendo  desidero  mostrarvi  la  fedele  immagine 
della  mia  mente  per  apparirvi,  in  qualche  picciola 
parte  almeno,  degno  dell'amicizia  vostra.  Perciò  ne 
incominciai  la  pittura  con  le  terzine  a  voi  intitola- 
te; ed  ora  intendo  compierla  con  questa  mia  novella 
prosa.  Vero  è  che  io  avrei  potuto  fare  questo  com- 
pimento nei  nostri  privati  discorsi,  senza  scrivere, 
ed  andar  mendicando  lettori,  che  nel  nostro  tempo 
sono  rarissimi.  Ma  non  avrei  con  questo  modo  po- 
tuto soddisfare  al  dovere  che  tutti,  e  molto  più  gli 
scrittori  ,  hanno  di  cercare  e  di  effettuare  il  pub- 
blico bene;  poiché  io  ho  sempre  creduto  che  il  di- 
rigere pubblicamente  uno  scritto  a  chi  per  nobiltà 
dì  sangue,  per  senno  e  per  avere  è  quanto  esser  si 
può  lucente,  sia  il  più  efficace  mezzo  di  renderlo 
utile.  Questo  mio  credere  ha  più  valore  nel  secolo, 
in  cui  la  politica  chiama  a  sé  l'attenzione  di  tutti; 
ed  il  libro  ,  che  tratta  di  ben  altro,  o  è  sconcia- 
mente schernito,  o  è  vilmente  negletto.  Cotal  sorte 


170 

è  quasi  comune  a  qualunque  altro  libro  di  tal  ge- 
nere: e  solo  può  esserne  esente  quello  che  o  per 
la  luce  propria,  o  per  questa  unita  a  quella  riflessa, 
è  così  risplendente  che  prima  abbaglia  la  vista  di 
ognuno,  e  poscia  da  chi  ha  gli  occhi  di  aquila  è 
attentamente  e  con  pubblico  vantaggio  considerato. 
Lo  scritto,  che  per  sola  virtù  propria  siffattamente 
raggia  ,  è  gemma  preziosa  e  rara  ,  e  non  può  es- 
ser parto  del  mio  povero  ingegno.  Ho  dovuto  per- 
ciò e  debbo  cercare  i  raggi,  che  dalla  vostra  ono- 
rata nominanza  riflessi  rendano  visibili  le  mie  oscu- 
rissime  carte. 

E  se  taluno  coll'esempio  della  mia  Visione  poe- 
tica credesse  vana  questa  mia  ricerca;  io  gli  direi 
che  non  può  del  creder  suo  esser  certo  ;  perche  i 
miei  versi  ,  essendo  fuori  del  moderno  uso,  o  re- 
stano immobili  negli  scaffali,  o  sono  letti  da  po- 
chi, e  da  pochissimi  dopo  debita  considerazione  giu- 
dicati; e  perchè  la  vita  degli  scritti  con  le  stampe 
pubblicati  è  varia  tanto  ,  che  taluni  di  essi  muo- 
iono nati  appena  ;  altri  subito  e  per  breve  tempo 
fanno  un  ingiusto  e  vano  romore;  ed  altri,  prima 
di  essere  adulti,  restano  lungamente  nella  debolis- 
sima loro  puerizia.  E  per  mostrare  in  altri  modi  i 
destini  dei  libri,  soggiungo  che  taluni  vanno  di  ga- 
loppo alla  virilità  perfetta;  altri  sono  dai  sopravve- 
nienti oscurati  o  spenti;  ed  altri  vanno  nello  stalo 
di  crisalide,  lungamente  vi  restano,  e  poi  riappari- 
scono in  forma  di  angelica   farfalla. 

11.  Dopo  avervi  mostrato  la  cagione  di  que- 
sta mia  novella  prosa  ,  debbo  dirvi  il  perchè  npn 
vado  con  essa  continuando  il   mio  discorso  rivolto 


171 
ai  miei  scolari,  nel  quale  pur  poteva  la  mia  mente 
essere  effigiata.  Vi  dico  adunque  io  averne  lasciata 
la  continuazione  per  due  ragioni,  oltre  a  quella  che 
io  rese  monco  ;  delle  quali  1'  una  è  per  sé  stessa 
evidente,  l'altra  richiede  un  mio  breve  ragionamento. 
Rispetto  alla  prima,  essendo  in  me  scemala  la  fa- 
coltà di  udire,  ed  essendo  l'udito  nella  sua  squisi- 
tezza divenuto  utile  molto  nelle  moderne  cliniche 
scuole  ,  non  ho  voluto  che  i  miei  scolari  fossero 
privi  di  questo  mezzo,  che,  unito  agli  altri  dei  quali 
si  sogliono  servire  i  buoni  medici,  fa  piiì  facilmente 
conoscere  le  diverse  qualità  dei  mali;  e  perciò  chiesi 
il  sostituto  alla  mia  scuola  ,  e  vi  proposi  l'ottimo 
professor  Valeri.  11  Santo  Padre  per  la  sua  somma 
clemenza  si  degnò  di  soddisfare  la  mia  richiesta,  e 
stabilì  il  Valeri  a  sostituto  mio  non  solo,  ma  della 
clinica  medica  scuola.  Ond'è  che  questi  come  otti- 
mamente fa  le  mie  veci  nell'ammaestrare  gli  scolari 
parlando,  così  lo  farà  scrivendo. 

Quanto  è  alla  cagione  che  richiede  un  mio  breve 
ragionamento,  dico  che  la  lunga  storia  della  molto 
male  avventurata  medicina  ci  fa  sapere  aver  ella 
variato  sempre,  non  solo  nella  sua  teorica,  ma  nella 
pratica  cura  degl'infermijnon  solo  di  secolo  in  secolo, 
ma  di  anno  in  anno,  e  forse  anche  di  mese  in  mese; 
e  dico  ancora  che  fino  a  tanto  che  per  nuova  provvi- 
denza divina  non  si  avrà  la  scienza  e  l'arte  di  sa- 
nare gl'infermi  lutti,  e  da  qualunque  infermità  stra- 
ziati, la  medicina  non  starà  mai  ferma.  Se  in  un 
paese  con  un  modo  di  curare,  comechè  ragionato, 
muoiono  due  o  tre  infermi  che  erano  in  allo  stato; 
e  se  con  un  altro  stranissimo  altri  due  o  tre  della 


172 

medesima  condizione  guariscono;  questo  modo  è  a 
quello  generalmente  sostituito.  Queli'Ippocrate,  che  da 
tanti  secoli  ha  la  fama  tra  tante  nazioni  vivamente 
accesa,  quante  volte  è  stato  per  lungo  tempo  negletto, 
e  da  quanti  medici  sconciamente  vituperato  ?  E  non 
volendo  parlare  degli  antichi,  voi,  caro  duca,  che 
siete  nella  età  virile  ,  avrete  più  volte  veduto  cu- 
rare la  infermità  dei  vostri  pari,  non  pur  con  isva- 
riati,  ma  con  oppositi  rimedi. 

Questo  continuo  mutamento  della  medicina  fa 
sì  che  alcuni  medici,  e  più  che  gli  altri  i  giovani, 
non  potendo,  studiando  nei  libri  comuni  e  seguendo 
i  loro  antecessori,  acquistar  fama  con  quella  pron- 
tezza da  loro  richiesta  ,  si  giovano  dell'esempio  di 
molti  fortunati  novatori,  scrivono  una  nuova  dot- 
trina, e  ne  fanno  un  fruttifero  remore;  ed  altri  di 
più  scarso  ingegno  o  di  minore  ardimento,  i  quali 
pur  vogliono  diventar  sollecitamente  famosi,  danno 
scrivendo  una  nuova  e  spesso  sconcia  forma  alle 
cose  già  da  gran  tempo  note.  E  così  di  cento  me- 
dici, cinquanta  circa  esercitano  l'arte  loro  co'  soli 
materiali  sensi,  qua  e  là  correndo,  e  salendo  ango- 
sciose scale;  altri  circa  cinquanta  sono  intesi  a  scri- 
vere ed  a  far  mercato  dei  loro  scritti,  come  ven- 
dendoli, così  donandoli;  e  due  o  tre  de'  più  intel- 
ligenti spendono  una  parte  del  loro  tempo  a  leg- 
gere. Questa  è  la  seconda  cagione  per  cui  ,  non 
essendo  più  mio  dovere,  non  ho  continuato  il  di- 
scorso medico  ai  miei  scolari,  lo  ho  fra  me  detto: 
Se  dei  pochi  e  brevi  miei  scritti  in  medicina,  dove 
mi  sono  ingegnato  d'  intromettere  qualche  piccolo 
saggio  di  alcune  altre  scienze,  ho  avuto  uno  scar- 


173 

sissimo  numero  di  lettori;  scjivendo  di  quella  fasti- 
diosa pratica  che  può  trarre  raltenzione  de'  soli  me- 
dici, sono  certo  che  il  mio  scritto  o  sarà  lento  ed 
insensibile  pasto  dei  tarli,  o  sarà  smozzicatamente 
letto  da  chi  non  legge  i  libri  per  ben  giudicarli  , 
ma  per  cicalarne  secondo  il  suo  torto  o  forse  ma- 
ligno affetto.  Né  varrebbe  il  dirmi  ,  che  io  potrei 
scrivere  per  quei  due  o  tre  medici  piiì  intelligenti; 
poiché  costoro  non  hanno  bisogno  delle  mie  cian- 
ce: né  volendo  io  ripetere  ciò  che  da  altri  é  stato 
più  volte  detto,  pochi  altri  miei  concetti  avrei  po- 
tuto unire  a  quelli  che  ho  con  alcune  mie  laconi- 
che carte  pubblicato. 

Terminato  dunque  per  siffatte  ragioni  il  mio  di- 
scorso in  medicina  ,  e  volendo  continuare  a  scri- 
vere ,  debbo  trattare  di  qualche  altra  materia,  nò 
però  perder  mai  di  vista  il  bene  pubblico,  che,  come 
sopra  ho  detto,  vuol  essere  nell'animo  di  chiunque 
vive  nel  mondo,  e  segnatamente  di  colui  che  con 
le  stampe  manifesta  i  suoi  pensieri.  Io  parlerò  del 
matrimonio.  Forse  vi  farà  ridere,  mio  caro  duca, 
questo  mio  novello  tema,  non  per  la  essenza  sua, 
che  la  gente  savia  mette  fra  le  più  sagrate  cose  , 
ma  perché  suole  esser  trattalo  dai  gran  maestri  in 
cattolica  morale.  Se  ne  riderete  ,  il  vostro  ridere 
sarà  breve,  perchè  tosto  vedrete  che  io  lascio  stare 
ciò  che  direttamente  ai  sacerdoti  si  appartiene  ,  e 
parlo  del  matrimonio  come  di  quello  stato,  da  cui 
dipendono  la  vita  fisica,  le  affezioni,  e  gli  atti  degli 
uomini  col  viver  comune  in  società  raccolti. 

III.  Ognuno  sa  che  amore  è  quasi  sempre  la 
principal  cagione  del  matrimonio.  Kd  io  credo  che 


174 

quella  parola  pe'  vari  suoi  significati  produca  molti 
individuali  e  civili  turbamenti.  Voi  ben  sapete  che 
per  quanto  una  lingua  sia  ricca,  non  può  aver  tante 
parole,  quante  sono  le  cose,  quante  le  loro  qualità, 
e  quante  le  diverse  loro  azioni.  Di  questo  ^difetto 
si  sono  lagnati  i  letterati  di  tutti  i  tempi  e  di  tutte 
le  nazioni;  perchè  oltre  lo  stento  di  che  avevano  biso- 
gno per  significare  i  loro  concetti,  vedevano  come  la 
miseria  della  lingua  era  cagione  di  falsi  ragionamenti 
e  d' interpretazioni  false.  Ha  nella  lingua  alcune  voci 
che  esprimono  cose,  qualità,  ed  azioni  diverse.  Fra 
queste  voci  sono  quelle  dei  così  detti  enti  morali,  ed 
uno  di  tali  enti  è  amore  certamente.  Questa  parola  nel 
suo  largo  senso  indica  il  desiderio  di  tutte  le  cose, 
che  0  subito  o  dopo  alcun  tempo  possono  giovare. 
E  benché  parlando  del  matritnonio  si  possa  restrin- 
gere questo  largo  significato  nella  naturai  voglia 
che  l'un  sesso  ha  di  fisicamente  e  moralmente  con- 
giungersi con  l'altro;  pure,  avuto  riguardo  alle  in- 
numerevoli cagioni  di  sì  fatta  voglia,  il  senso  della 
parola  amore,  anche  in  tal  caso,  è  ampio  piiì  che 
altri  forse  non  crede.  A  mostrare  la  varietà  delle 
sue  cagioni,  ed  a  poterne  causare  alcuni  tristi  ef- 
fetti, io  mettendo  da  un  de'  lati  quello  che  ciascuno 
può  trarre  dalla  propria  esperienza,  voglio  valermi 
della  mitologia,  la  quale  fra  molte  stranissime  e  mal 
ordinate  narrazioni,  mostra  sotto  il  velo  di  alcune 
favole  gli  antichi  costumi  delle  più  eulte  nazioni  , 
e  può  dare  utilissima  luce  a  chi  sa  guardarla  bene 
addentro-  E  venendo  a'  fatti:  la  donna  orgogliosa, 
che  desidera  aver  marito  locato  in  alto  e  luminoso 
stato  ,  può    frenare   il    suo    dannoso   desiderio    con 


175 

l'esempio  della  vanagloriosa  Semele,  che  dagli  ab- 
bracciamenti del  sommo  Giove  rimase  incenerita. 
L' uomo,  che  senza  aver  esaminato  il  cuore  e  la 
mente  di  una  femmina  ,  è  sommamente  invaghito 
di  quella  di  lei  qualità  più  ad  esso  piacente,  e  che 
frettoloso  corre  alle  sue  nozze,  può  sospettoso  ri- 
tirare il  suo  franco  piede  sapendo  dalle  antiche  e 
dotte  carte,  che  Amore,  infingendosi  sempre,  fa  al 
bisogno  ed  a  suo  talento  variare  le  qualità  della 
donna  amata  ,  e  la  facoltà  visiva  dell'amante.  Chi 
vuole  maritarsi  non  da  giusta  cagione,  ma  solo  da 
caldo  amore  sospinto  (che  io  credo  simile  a  colui 
che  inesperto  e  con  bugiarda  guida  si  mette  per 
aspra  e  selvaggia  strada)  ,  provvede  forse  alla  sua 
salvezza  ,  se  volge  il  pensiero  a  quel  comando  di 
Giove  per  cui  Venere  doveva  uccidere  questo  suo 
malignissimo  figlio,  e  se  sa  che  per  la  materna  pietà 
fu  egli  nascosto  nei  boschi,  e  con  il  latte  delle  fe- 
roci belve  nutritole  se  sa  ancora  che  Esiodo  lo  chiama 
figliuolo  del  Caos;  che  Platone  Io  crede  nato  della 
petulante  miseria,  perchè  chiede  sempre  ,  e  non  è 
mai  pago;  che  Almeone  lo  dice  figlio  di  Flora  e  di 
Zaffiro,  cioè  della  bellezza  e  della  volubilità  somma; 
che  i  pittori  lo  effigiano  bendato  e  con  1'  arco  in 
mano  ,  per  indicar  colui  che  ferisce  senza  vedere 
se  giusto  o  ingiusto  sia  il  bersaglio;  e  che  se  tal- 
volta lo  mostrano  senz'arco  e  senza  turcasso,  met- 
tono fra  le  sue  mani  una  misera  ed  innocente  far- 
falla, che  egli  spietatamente  strazia.  In  questi  savi, 
benché  favolosi  detti  ,  può  antivedere  la  sua  mala 
ventura  chi  solo  per  cieco  e  caldo  amore  vuol  di- 
ventar marito. 


176 

Se  non  temessi  di  troppo  noiare  quei  lettori  , 
che  non  sempre  vedono  in  molte  parti  della  mito- 
logia la  più  profonda  filosofia  degli  antichi;  e  che 
credono  potersi  con  le  favole  sì  e  no  poetare  ,  e 
non  mai  andar  con  giusta  morale  ragionando;  e  se 
pili  che  costoro  non  mi  facessero  paura  alcuni  mo- 
derni letterati,  che  mettono  in  non  cale  le  favole, 
con  cui  scrissero  Omero  ,  Virgilio  ed  altri  sommi 
poeti  greci  e  latini,  per  avere  in  pregio  i  loro  stra- 
nissimi romantici  voli;  io  molto  più  direi  del  mal 
governo  che  il  cieco  Amore  fa  della  misera  gente 
da  lui  con  esca  diversa  e  con  diversi  artificii  ingan- 
nata. Ma  sono  contento  di  terminare  questa  parte 
del  mio  discorso  solo  dicendo  a  prò  di  chi  vuol 
maritarsi  abbagliato  dalla  ricchezza  ,  che  Amore  , 
stando  nel  bosco  ,  si  fece  i  dardi  di  frassino  e  di 
cipresso  per  la  comunal  caccia,  e  poi  per  ferire  ta- 
luni di  più  dura  pelle  se  lì  fece  d'  oro;  e  dicendo 
infine  che  esso  Amore  prende  non  altrimenti  che 
Proteo  mille  forme  ,  e  non  è  come  questi  verace 
indovino  per  conoscere  i  tristi  effetti  dello  svariato 
operar  suo.  Dopo  ciò  lascio  stare  la  mitologia  ,  e 
m'  ingegnerò  di  concordarvi  qualche  mio  filosofico 
e  breve  ragionamento. 

IV.  A  lutti  è  noto  che  il  matrimonio  è  un 
contratto  elevato  alla  dignità  di  sagramento;  e  che 
perciò  prima  di  farlo  è  necessaria  1'  autorità  della 
chiesa,  e  la  mutua  conoscenza  non  solo  della  cor- 
porale appariscenza,  ma  dei  cuore  e  della  mente  ; 
e  che  ciascun  contraente  abbia  la  sua  ragione  o  il 
suo  rispettivo  che  dir  si  voglia,  e  non  a  breve  tempo, 
ma  finché  la  vita   dura.  Quanto   all'  appariscenza  , 


177 

non  si  può  giudicare  di  questa  col  caldo  amore  che 
annebbia  la  vista,  ma  sibbene  con  la  semplice  sim- 
patia ,  la  quale  basta  a  far  sì  che  1'  uno  consideri 
bene  il  fisico  ed  il  morale  dell'altro,  e  non  fa  di- 
menticare che  come  l'una  così  l'altra  di  queste  due 
qualità  non  solo  può  rendere  lieto  o  tristo  l'animo 
dei  coniugi,  ma  influir  molto  sopra  la  buona  o  mala 
ventura  dei  figli.  In  quanto  al  rispettivo,  esso  non 
consiste  solo  nella  gioventù  ,  nella  bellezza  ,  nel- 
l'avere, e  nel  civile  stato  (nelle  quali  cose  conver- 
rebbe, per  quanto  è  possibile,  esser  pari),  ma  in 
ogni  umana  faccenda  che  parlando  ed  operando  far 
debbono  1'  uno  a  prò  dell'  altro  i  virtuosi  coniugi. 
L'  esatto  adempimento  di  questo  dovere  può  forse 
dar  concordia  anche  a  coloro  che  per  età,  per  bel- 
lezza, e  per  condizione  sono  sensibilmente  dispari. 
E  questo  esalto  adempimento  utilissimo  non  può 
procedere  dall'amor  caldo,  che  di  giorno  in  giorno 
va  intiepidendo  ;  ma  dalla  sola  simpatia  ,  la  quale 
è  costante,  e  raddoppia  il  dolce  effetto  del  vicen- 
devole bene  operare.  11  marito  che  spende  una  parte 
del  suo  danaro  per  appagare  il  giusto  volere  della 
simpatica  sua  compagna,  gode  per  la  coscienza  del 
suo  ben  fare,  e  per  la  vista  dell'appagato  aspetto. 
Benché  ,  chiosando  un  poco  ciò  che  ho  detto 
della  coniugale  concordia,  ciascuno  da  se  possa  fa- 
cilmente trarre  il  seguente  corollario  ,  pure  voglio 
significarlo,  perchè  lo  credo  utile  molto.  Dico  adun- 
que che  nel  matrimonio  non  solo  1'  avere  diventa 
comune  tra  i  coniugi  ,  ma  sì  tutto  il  loro  paren- 
tado ,  e  talvolta  anche  le  loro  amicizie.  E  questa 
G.A.T.LXIll.  12 


178 
comunanza  pure  deve  attentamente  considerare  chi 
non  vuole  dalle  nozze  avere  angosciosa  vita. 

Lasciando  stare  le  amicizie  ,  che  talvolta  più 
che  i  parentadi  ci  sono  fitte  nell'animo,  non  può  lo 
sposo  essere  insensibile  alla  miseria  del  parente  della 
sua  sposa  ;  poiché  se  questa  miseria  nulla  ad  essa 
cale,  non  può  egli  avere  in  molto  pregio  il  cuore 
di  lei;  e  se  ne  è  dolente,  il  dolore  si  apprende  al- 
l'animo dell'affettuoso  marito,  e  turba  la  sua  pace, 
e  spesso  anche  le  sue  ben  misurate  spese. 

V.  Dopo  aver' brevemente  parlato  dell'  accor- 
gimento necessario  per  ammogliarsi  ,  senza  toccar 
quei  minuti  particolari  che  ad  un  siffatto  ragiona- 
mento disconverrebbero,  conviene  con  la  medesima 
brevità  parlare  delle  cagioni,  che  possono  turbare 
la  coniugale  concordia.  Il  matrimonio  non  è  come 
gli  altri  contratti,  nei  quali  si  fanno  tanti  articoli, 
quanti  sono  i  casi  che  possono  accadere.  Tra  due 
persone  che  aver  debbono  cose,  atti,  e  pensieri  co- 
muni, i  casi  possibili  sono  innumerevoli,  e  non  si 
possono  tutti  antivedere  ,  nò  apporre  a  ciascuno  i 
corrispondenti  patti.  Ciò  non  ostante  voglio  far  motto 
di  alcuni  di  questi  casi  ,  e  prima  di  quello  in  cui 
un  qualche  falso  amico  può  esser  funesta  cagione 
di  discordia. 

Non  potendo  l'uomo  vivere  sempre  una  solitaria 
vita,  deve  o  per  sue  faccende,  o  per  predilezioni, 
o  per  ventura,  conversare  con  altri,  ed  avere  amici 
e  conoscenti.  E  la  quotidiana  esperienza  ci  fa  ve- 
dere ,  che  dalla  qualità  degli  uni  e  degli  altri  di- 
pende quasi  sempre  il  tristo  o  lieto  viver  nostro. 
Noi  spesso  non  possiamo  allontanarci  dalle  persone 


179 

che  le  nostre  faccende  o  la  ventura  ci  mettono  in- 
nanzi ;  ma  ben  possiamo  dirigere  le  nostre  predi- 
lezioni. 

Le  cose  dette  dai  filosofi  morali  intorno  l'ami- 
cizia basterebbero  per  empire  non  uno,  ma  piij  e 
più  grossi  volumi.  Io  ne  dirò  solo  quello  che  mi 
pare  conveniente  al  mio  proposito.  L'  uomo,  gui- 
dato naturalmente  dall'amor  di  se  stesso,  incomincia 
a  credere  amico  chi  spesso  dice  o  fa  ciò  che  a  lui 
piace.  Per  vedere  se  il  principio  di  questa  sua  cre- 
denza sia  0  non  sia  giusto  ,  è  necessario  che  egli 
esamini  attentamente  il  suo  stato  e  quello  di  co- 
lui che  nell'amicizia  sua  si  va  insinuando. 

Ogni  nostro  discorso  ed  ogni  operar  nostro  ha 
il  suo  fine.  Nelle  parole  e  negli,  atti  che  continua- 
mente si  fanno  per  cose  di  poca  injportanza  ,  noi 
medesimi  non  ci  accorgiamo  del  loro  fine;  ma  quando 
si  tratta  di  ciò  che  molto  importa  ,  lo  vediamo  e 
lo  esaminiamo  bene  anche  prima  di  muovere  il  lab- 
bro 0  la  mano.  E  se  in  tal  caso  il  fine  varia  nelle 
menti  deboli,  nelle  robuste  è  fermo  finché  una  nuo- 
va 0  più  forte  cagione  non  le  rimuove.  L'  andar 
cercando  questo  fine  nell'  animo  altrui  è  impresa 
difficile,  che  solo  può  essere  agevolata  dall'anzidetta 
conoscenza  dello  stato  di  chi  parla  ed  opera,  e  di 
quello  di  colui  che  ascolta  e  vede. 

Quel  marito  che,  senza  aver  prima  fatto  queste 
ricerche,  prepone  uno  de'  suoi  conoscenti,  ed  in- 
cautamente, e  forse  ingiustamente,  lo  chiama  amico, 
e  gli  fa  le  più  liete  accoglienze  ,  non  può  ,  dopo 
averlo  meglio  conosciuto,  evitarne  il  danno,  comechè 
0  lo  blandisca  o   da  se  lo  allontani.   II  suo   minor 


180 
danno  in  questo  secondo  caso  è  lo  spiacentissimo 
titolo  di  sciocco,  perchè  non  seppe  antivedere.  Le 
medesime  considerazioni  giovar  ci  possono  rispetto 
a  quei  conoscenti,  che  le  faccende  o  la  ventura  ci 
porgono  innanzi. 

Dallo  stuolo  dei  conoscenti,  e  dal  distinguerli, 
nascer  può  la  gelosia,  che  è  basso  e  velenoso  af- 
fetto ,  se  in  vece  di  subito  soffocarla  si  seconda. 
La  gelosia  può  molto  difficilmente  entrare  nell'animo 
dell'accorto  marito,  che  ha  posto  tutta  la  sua  cura 
nello  scegliere  una  virtuosa  ed  a  se  conveniente  com- 
pagna, e  che  fra'  suoi  conoscenti  non  ha  scelto  il 
ricco  o  il  possente,  ovvero  l' industrioso  adulatore; 
ma  l'uomo  savio  che,  sebbene  galante,  non  mai  si 
varrebbe  della  galanteria  per  turbare  la  concordia 
dei  virtuosi  coniugi.  La  galanteria  sarebbe  in  questo 
caso  non  una  colpa,  che  la  gente  facilmente  per- 
dona, ma  un  grave  e  vergognoso  misfatto. 

Ma  se,  ciò  non  ostante,  qualche  indizio  di  que- 
sta madre  della  discordia  s' intromette  fra  i  coniugi, 
si  guardi  bene  l'uno  di  manifestarlo  all'altro  ;  chi 
prima  lo  sente,  cerchi  di  distruggerlo  come  micidial 
veleno.  La  gelosia  è  maligna  e  vergognosa  tanto  , 
che  pochi  confessano  di  averla  e  di  sentirne  l'an- 
goscioso effetto.  Questo  ha  fatto  sì  che  pochi  hanno 
parlalo  di  tal  fiera  ed  occulta  malattia,  e  pochis- 
simi vi  hanno  proposto  convenientente  rimedio. 

A  me  pare  che  l'amor  proprio,  maestrevolmente 
eccitato,  e  secondo  la  condizione  del  geloso,  esser 
possa  il  solo  rimedio  a  cotanto  male.  Chi  è  geloso, 
senza  avvedersene  si  umilia,  e  dice  a  se  stesso  che 
i  suoi  meriti  sono  minori  di  quelli  del  suo  rivale. 


181 

Se  l'amico,  che  ha  pietà  di  lui,  di  ciò  lo  avveile, 
Tainoi'  proprio  del  geloso  si  desta  e  fa  sì  che  egli 
con  tutti  i  possibili  modi  si  sforzi  di  togliere  dal 
suo  cuore  la  cagione  che  vilmente  l'umilia.  L'amico, 
che  vuol  curare  il  geloso,  deve,  parlando  dei  me- 
riti, far  considerare  la  somma  di  essi,  e  non  il  va- 
lore di  questo  o  di  quello,  in  uno  dei  quali  il  ri- 
vale può  essere  al  geloso  sensibilmente  superiore. 

La  seconda  cagione  di  domestica  discordia,  ben- 
ché forse  di  minor  peso,  è  la  non  giusta  propor- 
zione tra  r  avere  e  lo  spendere.  Come  gli  spinosi 
pruni,  stretti  in  fascio,  vicendevolmente  si  pungono; 
così  i  coniugi  miserabili  l'uno  l'ahro  noia.  La  po- 
vertà coir  impedire  la  soddisfazione  delle  giuste  e 
necessarie  voglie  inasprisce  i  modi  e  la  favella,  e 
spesso,  annebbiando  1'  intelletto,  non  fa  conoscere 
i  virtuosi  ed  i  viziosi  confini.  Ma  la  Dio  mercè,  la 
miseria  si  può  quasi  sempre  antivedere  e  cansare 
da  chi  accortamente  guarda  ,  e  conserva  la  giusta 
proporzione  tra  l'avere  e  lo  spendere;  e  se  ne  pos- 
sono anche  non  sentire  gli  effetti,  conoscendo  bene 
la  vera  miseria  e  la  vera  ricchezza.  Misero  solo  è 
colui,  che  non  ha  nessun  modo  da  guadagnare  ciò 
che  alla  vita  è  assolutamente  necessario;  ed  è  sem- 
pre ricco  chi  riceve  quello  che,  secondo  la  sua  con- 
dizione, deve  necessariamente  spendere,  ed  ha  un 
picciolissimo  avanzo  per  qualche  malavventura. 

Queste  verità  deve  avere  in  mente  chi  vuole  am- 
mogliarsi; deve  egli  esser  certo  di  trovarle  fitte  nel- 
l'animo della  sua  fidanzata;  e  deve  con  caratteri  inde- 
lebiliimprimerlenel  cervello  dillei  primachèella  diven- 
ti sua  moglie.  Lo  spendere  convenientemente  è  prova 


182 

(li  verace  senno,  poiché  quasi  tutti  gli  uomini  sono 
o  all'avarizia  o  alla  prodigalità  con  lor  danno  disposti. 

La  terza  cagione  di  coniugale  perturbazione  è 
il  desiderio  di  comandare.  Dai  puerili  trastulli  fino 
alle  spietate  guerre  tra  sommi  potentati  costante  e 
comune  è  il  desiderio  di  soprastare.  Ond'è  che  seb- 
bene per  le  umane  e  divine  leggi,  e  per  le  antiche 
costumanze,  sia  al  marito  dovuta  la  facoltà  di  co- 
mandare ,  pure  ,  non  potendo  essere  annullato  nel 
cuore  delia  moglie  quel  comune  e  costante  desi- 
derio, f'à  mestieri  somma  prudenza  perchè  non  ne 
nasca  turbamento  di  animo.  Ad  avere  cosi  fatta  pru- 
denza gioverà  narrare  la  seguente  favoletla,  che  non 
è  mica  di  quelle  toccate  di  sopra  come  prova  del- 
l'antica sapienza,  ma  delle  volgari  che  pur  possono 
migliorare  le  ordinarie  nostre  usanze. 

I  quattro  venti  principali,  che  soffiano  dai  quat- 
tro punti  cardinali  dell'oi'izzonte,  videro  un  giovane 
robusto  e  bello  della  persona  gaiamente  adorno  di 
un  largo  e  ricco  mantello  :  ed  a  ciascuno  di  essi 
venne  in  cuore  la  voglia  di  spogliamelo.  11  vento 
orientale  il  tentò  prima,  e  poscia  l'occidentale  ;  e 
l'uno  e  l'altro  vanamente;  poiché  piiì  essi  violente- 
mente soffiavano,  e  più  il  gentil  garzone  se  lo  rav- 
volgeva. L'aquilone,  mostrandosi  per  la  sua  mag- 
gior forza  sicuro  dell'acquisto,  fu  il  terzo  assalitore. 
Ed  egli  pure  vi  rimase  scornato;  perchè  il  robusto 
giovane,  non  solo  vie  più  lo  strinse  al  suo  dosso, 
ma  col  mento,  con  le  braccia,  e  con  le  mani  vi- 
gorosamente il  ritenne.  Lo  scilocco  ,  alla  vista  di 
questi  inutili  sforzi  de'  suoi  fratelli,  sorrise  un  poco, 
e  poi  li  pregò  di  star  fermi,  mentre  egli  incomin- 


183 

ciò  tranquillamente  ed  insensibilmente  a  spirare.  Di 
che  il  giovane,  che  più  non  doveva  affaticarsi,  fu 
da  prima  assai  contento;  e  dopo  breve  tempo,  un 
poco  pili  che  non  gli  era  bisogno  riscaldato,  sentì 
la  superfluità  del  mantello  ,  e  lo  diede  al  placido 
scilocco  volontariamente,  e  senza  esserne  stato  da 
lui  richiesto.  La  moralità  di  questa  festevole  scena 
favolosa  è  per  se  chiara.  I  cortesi  modi  piegano 
r  altrui  volere  così  dolcemente  ,  che  colui  che  si 
piega  non  si  accorge  del  suo  piegare,  e  sembra  fare 
la  sua  voglia.  Nel  ricercare  le  cagioni  di  turbamento 
è  pur  necessario  ritoccare  quel  coniugale  rispettivo, 
e  comprendervi  anche  la  forza  dell'  intelletto  sì  del 
marito  e  sì  della  moglie  ;  poiché,  se  l'uomo  è  per 
coltivato  ingegno  piiì  della  donna  commendevole  , 
l'ubbidirgli  poco  o  nulla  può  a  questa  pesare;  ma 
se  egli  ha  la  mente  meno  di  quella  della  donna 
istrutta,  l'ubbidire  ad  esso  è  contro  la  naturai  legge, 
e  perciò  non  può  essere  perseverante.  Non  può  per 
la  immutabile  legge  di  gravità  il  corpo  piiì  leggiero 
far  contrapeso  a  quello  piiì  greve  ,  e  molto  meno 
farlo  traboccare.  L'uomo,  che  non  ha  ben  misurato 
la  mente  sua  con  quella  della  sua  futura  sposa,  si 
compiace  e  forse  si  gloria  del  peregrino  sapere  e 
del  raro  senno  di  lei,  e  non  antivede  i  mali  del- 
l' inevitabile  sbilancio  ;  né  sa  che  egli  difficilmente 
può  essere  da  quella  saccentona  amato  ,  ed  ancor 
pili  difficilmente  obbedito.  Ad  una  donna,  che  deve 
cittadinescamente  vivere,  basta  la  facoltà  di  ben  or- 
dinare le  domestiche  faccende,  nelle  quali  ancor  essa 
può  soddisfare  la  innata  voglia  di  comandare.  Men- 
tre l'uomo  gode  nell'  ingegnarsi,  e  sovente  affaticarsi 


184 

ancora  per  guadagnare  onestamente  il  danaro  ;  la 
donna  si  compiace  delia  giusta  libertà  che  ella  ha 
di  convenientemente  spenderlo  pe'  domestici  bisogni. 
Questa  giusta  partizione  di  faccende,  che  dir  si  può 
anche  di  comando,  non  deve  impedire  il  vicendevole 
consiglio,  che  non  mai  vuol  essere  nò  apparire  so- 
perchiante,  ma  che  ciascun  di  loro  attentamente  ha 
da  considerare.  Quanto  è  più  difficile  un  così  fatto 
contegno  ,  tanto  più  è  necessario  il  costantemente 
praticarlo.  Il  dar  consiglio  invece  di  comando  è  quasi 
sempre  lodevole  ,  e  nei  casi  dubbi  è  sommamente 
richiesto.  E  qui  viene  in  acconcio  il  diie,  che  nel 
mutuo  consigliarsi  non  conviene  alla  donna  prudente 
mostrarsi  troppo  vaga  del  parer  suo  ;  perchè  nella 
incertezza  è  assai  meglio  che  il  marito  sia  come 
mallevadore  di  ciò  che  si  delibera. 

[ja  quinta  cagione  è  il  nessun  conto  che  i 
coniugi  fanno  delle  piccole  offese.  Questa  cagione, 
che  è  meno  delle  altre  notata,  non  ò  meno  nocevole 
certamente.  Io  ho  detto  che  le  nozze  debbono  es- 
sere temperate  e  non  soverchiamente  calde;  ed  ora 
dico  che  la  tiepidezza  ancora  diventa  freddezza  mar- 
morea, se  il  caldo,  che  per  naturai  legge  di  mano 
in  mano  scema,  non  si  rinfranca.  Ed  a  far  ciò  non 
bastano  le  sensuali  dilettanze;  ma  è  necessaria  la 
mutua  cortesia,  con  la  quale  si  cerca  tutto  quello 
che  può  piacere,  e  si  cansano  le  parole  ,  i  modi , 
e  le  cose  spiacenti;  ed  è  necessario  ancora  che  se 
alcuna  volta  per  mala  ventura,  o  per  poco  accor- 
gimento, l'uno  all'altro  fa  la  benché  minima  offesa, 
dar  si  debba  subito  1'  ammenda  ,  e  non  indugiare 
tanto  che  per  essa  la  coniugale  affezione   in  parte 


185 
alcuna  diminuisca.  La  più  piccola  noia,  che  poteva 
essere  compensata  con  poche  e  sollecite  parole  gen- 
tili, distrugge  sovente  le  piiJ  virtuose  ed  utili  ami- 
cizie. 

VI.  Dopo  aver  brevemente  ed  in  genere  par- 
lato di  quelle  cose  che  si  debbono  veder  prima  di 
stringere  il  matrimoniale  nodo  ,  e  delle  principali 
cagioni  che  possono  renderlo  assai  molesto  ,  con- 
viene colla  medesima  brevità  parlare  della  gravidan- 
za, del  partorire,  e  dell'allattamento:  cioè  delle  tre 
naturali  operazioni  della  donna  maritata  durante  la 
sua  giovanezza.  E  prima  di  procedere  innanzi  debbo 
dire  ,  che  io  in  tutto  il  seguente  discorso  parlerò 
dei  ricchi  signori,  e  non  dei  popolani;  non  perchè 
io  non  faccia  moltissimo  conto  di  costoro,  ma  per- 
chè sono  certo  che  con  un  piccol  numero  dei  grandi 
ben  allevati  possono  facilmente  migliorare  comuni 
e  regni  sotto  qualunque  forma  di  governo.  Ed  oltre 
a  ciò  debbo  con  più  evidente  necessità  dire  ,  che 
io  nel  proporre  con  la  mia  povera  filosofia  le  norme 
all'ammogliato  ricco  signore  non  ardisco  credere  , 
che  con  queste  si  possa  esser  certo  di  veder  mol- 
tiplicata la  famiglia  de'  Gracchi.  Io  so  bene  che  tra 
i  virgulti  commessi  a  Pier  Crescenzi,  principe  degli 
agricoltoii  italiani,  si  possono  vedere  alcune  piante 
mal  nutrite  e  torte  e  con  rami  nodosi  e  sconci;  e 
so  pure  che  Socrate  fu  allevato  dalla  dottrina  di  uno 
scultore  che  non  era  certo  né  Fidia  né  Prasitele. 
lo  sarei  quanto  esser  si  può  pago,  se  in  un  comune 
0  in  un  regno  fosse  letto  da  qualche  possente  que- 
sto mio  scritto  ,  e  fosse  creduto  una  non  mal  si- 
cura guida.  Questo  giudizio,  confermato  dall'eco  di 


186 
molti,  sarebbe  al  mio  proposito  utilissimo.  L'errore 
non  si  corregge  finche  non  Vha  vinto  il  ver  con  più 
persone. 

Tutti  i  coniugi  per  molte  e  svariate  cagioni  , 
chi  per  l'una  e  chi  per  l'altra  ,  desiderano  di  co- 
noscere il  principio  della  gravidanza.  E  questa  co- 
noscenza è  per  essi  difficilissima;  perchè  i  così  detti 
segni  razionali  sono  quali  più  quali  meno  tutti  fal- 
laci, e  perchè  talvolta  tali  sono  ancora  quelli  sen- 
sibili alla  mano  dell'  esperto  chirurgo.  Vero  è  che 
il  non  potere  i  coniugi  appagare  questo  loro  desi- 
derio poco  ad  essi  importa  rispetto  al  come  deb- 
bano regolarsi  quando  ne  hanno  qualche   indizio. 

Se  io  non  temessi  la  lingua  dei  motteggiatori, 
che  quando  sono  sagaci  e  pronti  sono  piacevoli  mol- 
to, e  non  meno  temibili;  io  direi  che  la  gravidan- 
za, salvo  la  durata,  somiglia  la  digestione.  11  cibo 
sta  nello  stomaco,  e  prima  si  converte  in  chimo  ; 
poscia,  cambiando  sede,  si  muta  in  chilo  ed  in  san- 
gue: il  quale  dopo  il  suo  giro,  scorrendo  nei  mi- 
nimi vasi,  compensa  le  continue  perdite,  e  sostenta 
la  vita  dell'  individuo.  E  l'embrione  sta  nell'utero, 
e  vi  cresce;  e  quando  le  sue  parti  sono  organate, 
esce  fuori  per  rinfrancare  l'uman  genere  delle  per- 
sone che  di  giorno  in  giorno  va  perdendo.  E  nel 
caso  che  si  potesse  fare  questo  paragone,  soggiun- 
gerei; che  come  la  digestione  per  poche  ore,  così 
la  gravidanza  per  circa  nove  mesi  cagiona  qualche 
mutamento  negli  organi  e  nei  sistemi  della  pregnan- 
te, ed  in  quello  irrigatore  più  sensibilmente;  e  direi 
ancora,  che  se  talvolta  è  penosa  la  digestione,  tale 
può  essere  la  gravidanza.  Ma  già  ho   tanto  detto  , 


187 
che  basta  ad  eccitare  i  solazzevoli  dicitori;  perciò 
altro  non  posso  che  confidare  nella  sentenza  di 
Dante  ,  Che  saetta  previsa  vieti  più  lenta.  Ma  ben- 
ché io  potessi  non  pensare  ai  detti  acuti,  pur  sarei 
certo  che  le  verità  significate  con  quel  paragone  non 
nni  sarebbero  mandate  buone  da  quelle  donne  che 
vogliono  vendere  a  caro  prezzo  le  loro  sofferenze, 
e  che  «e  ne  sdegnerebbero  quei  medici,  i  quali  non 
solo  credono  che  nessuna  infermità  possa  natural- 
mente guarire,  ma  che  dell'opera  loro  abbiano  quasi 
sempre  bisogno  anche  quelle  tre  anzidette  opera- 
zioni, alle  quali  le  femmine  sono  dalla  natura  de- 
stinate. 

Caro  duca  ,  voi  piìi  volte  mi  avete  udito  par- 
lare di  medicina:  e  forse  vi  sarete  meravigliato  della 
poca  fidanza  che  io  ripongo  in  essa.  Per  iscemare 
tal  vostra  meraviglia  io  voglio  qui  ritoccare  questo 
obbietto. 

La  medicina  è  un  misto  di  scienza  e  di  arte  , 
che  dalle  persone  sane  e  robuste  è  spesso  scher- 
nita o  messa  in  non  cale,  e  da  taluni  infermi  dei- 
ficata. Fra  questi  due  estremi  io  credo  che  si  debba 
tenere  una  mezzana  via. 

In  altre  mie  carte  ho  detto,  che  il  vero  medico 
dovrebbe  conoscere  la  parte  fisica  e  la  morale  del- 
l'uomo, le  cose  che  operano  in  esso  per  sostentare 
la  vita,  quelle  che  la  scompigliano,  e  quelle  che  la 
possono  rioi'dinaie.  Se  voi  col  vostro  senno  e  colla 
vostra  dottrina  considererete  questi  temi  ,  vedrete 
che  solo  il  favoloso  Esculapio  o  il  Salomone  della 
sacra  nostra  istoria  potrebbe  convenientemente  trat- 
tarli; e  perciò  non  vi  meraviglierete  molto  della  di- 


188 
screta  mia  fidanza  nella  medicina.  Io  non  ho  in  anima 
di  vituperare  gii  onesti  medici,  che  hanno  preso  un 
saggio  degli  anzidetti  difficilissimi  temi;  anzi  vorrei 
che,  avuto  riguardo  al  nostro  corto  intelletto,  fos- 
sero lodati  e  tenuti  cari,  ma  non  però  deificati.  E 
vorrei  che  essi  come  il  bianco  dal  nero  fossero  di- 
stinti da  coloro, che  infingendosi  delle  principali  cose 
umane  istrutti,  guastano  e  bruttano  il  nobilissimo 
esercizio  di  quel  sommo  ippocrate,  che  natura.  Agli 
animali  fé  ch'ella  ha  più  cari. 

Questa  è  la  mezzana  via  che  io  propongo  all'ac- 
corto marito,  e  che  gli  farà  apprezzare  debitamente 
i  consigli  dell'onesto  e  savio  medico;  e  più  che  la 
peste  tener  lontano  dalla  sua  casa  l'anima  vile  che, 
menando  rumore  delle  guarigioni  avute  malgrado 
de'  suoi  rimedi  ,  trae  profitto  da  quella  credulità  , 
alla  quale  più  che  gli  uomini  sono  le  femmine  di- 
sposte. Il  desiderio  di  viver  sano  e  lungamente  ò 
fìtto  nell'animo  di  tutti;  e  chi  crede  che  il  medico 
possa  esser  utile  a  soddisfare  un  tale  desiderio,  lo 
ha  per  sua  guida  assai  più  sicura  che  non  bisogne- 
rebbe; e  perciò  non  deve  il  marito  credere  cosa  di 
pochissimo  affare  lo  sceglierne  uno  per  la  sua  fa- 
miglia. 

Ora  tornando  m  via  ;  1'  onesto  medico  dirà  ai 
coniugi,  che  1'  esser  gravida  non  è,  come  si  suole 
affermare,  una  malattia  di  nove  mesi,  ma  un  na- 
turale effetto  dello  stato  coniugale;  e  che  se  ognuno 
deve  aver  giusta  norma  in  tutto  ciò  che  ò  neces- 
sario a  sanamente  vivere,  convien  che  questo  do- 
vere sia  nel  cuore  della  donna  raddoppiato  quando 
ha  nel  suo  seno  il  suo  dilettissimo  pegno. 


189 

VII.  Termine  della  gravidanza  è  il  parto.  E  l'one- 
sto medico  dirà  ai  coniugi,  che  il  parto  è  ordina- 
riamente effetto  naturale  senza  alcun  danno,  ed  ac- 
cidentalmente morboso  ;  che  questo  secondo  caso 
è  assai  raro,  poiché  la  Maternità  di  Parigi  ed  altre 
somiglianti  pubbliche  case  dimostrano  co'  fatti,  che 
di  cento  parti  novantanove  sono  naturali  e  facili  ; 
e  che  quello  morboso  sarebbe  ancor  più  raro  ,  se 
il  pudore  e  l'uso  concedessero  che  al  contratto  nu- 
ziale prima  del  notaio  accedesse  l'ostetrico  peritis- 
simo. Questa  concessione  sarebbe  nel  suo  principio 
stranissima  e  ridevole;  ma  di  quante  stranezze  an- 
che impudiche  non  è  piena  la  stoiia  delle  nozze  nei 
diversi  tempi  e  nei  diversi  luoghi  ?  E  non  volendo 
considerar  questo,  certo  è  che  in  quel  parto,  in  cui 
agli  sforzi,  che  naturalmente  e  vogliosamente  fa  la 
madre,  è  necessario  unire  l'arte,  si  guardino  bene 
i  coniugi  di  non  fula  adoperare  se  non  da  oste- 
trica mano. 

Nel  prossimo  passato  secolo  1'  ostetricia  era 
un'arte  esercitata  dalle  sole  levatrici  ;  e  benché  in 
Parigi  fossero  esse  nominate  ed  approvate  dai  più 
dotti  chirurgi,  e  particolarmente  dal  primo  chirurgo 
del  re,  pure  convien  confessare  che  questo  privi- 
legio, 0  come  dicono  i  moderni,  questa  privativa, 
era  ingiusta  e  dannosa.  Nessuno  può  non  meravi- 
gliarsi come  nel  tempo,  che  più  che  le  altre  virtù 
non  signoreggiava  certo  la  pudicizia,  erano  per  amor 
di  questa  preferite  le  levatrici  agli  esperti  chirurgi, 
ed  i  castroni  alle  graziose  donne,  che  dilettando  con 
la  dolce  armonia  potrebbero  ancor  più  piacere  al- 
l' intelletto,  se  allo  loro  armoniose  note  fossero  uniti 


190 
i  versi  morali  della  vera  nostra  letteratura.  Ma  il 
nostro  maligno  destino  imperiosamente  vuole  che 
se  da  un  lato  si  progredisce,  dall'altro  si  retroceda; 
e  ciò  che  più  spiace  a  chi  ama  veramente  il  pub- 
blico bene  è  il  vedere,  che  questo  moto  retrogrado 
si  fa  per  volontà  e  per  opera  dei  piiì  caldi  pro- 
gressisti. L'alto  e  ricco  stato  di  ogni  ramo  della  mo- 
derna industria,  e  l'umiltà  in  cui  giacciono  le  scienze 
e  le  lettere,  sono  la  evidente  prova  di  ciò  che  io 
francamente  asserisco. 

Dopo  il  parto,  il  cui  necessario  effetto  è  il  puer- 
perio, ancor  esso  senza  danno  nei  novantanove  casi 
dei  cento,  convien  far  motto  dell'allattamento- 

Dovere  naturale  e  civile  della  madre  è  l'allat- 
tare il  proprio  figlio.  Rispetto  al  primo  ,  è  facile 
provare  con  la  comunale  scienza  dei  medici  ,  che 
il  latte  è  prodotto  di  quel  medesimo  sangue  da  cui 
è  derivato  il  nutrimento  del  feto  per  circa  nove  mesi. 
Or  chi  da  ciò  non  vede,  che  per  diminuire  quanto 
è  possibile  gli  effetti  dei  sensibili  cambiamenti,  dan- 
nosi sempre  in  qualunque  età  ,  e  molto  pili  nella 
prima,  sia  al  neonato  conveniente  il  latte  della  ma- 
dre assai  pili  che  quello  di  qualsivoglia  altra  donna  ? 
Ed  oltre  a  ciò  anche  il  piiJ  misero  filosofante  può 
chiaramente  diseernere,  che  volendo  la  benigna  na- 
tura che  grandissimo  sia  l'affetto  della  madre  verso 
il  suo  figliuolo,  fece  prima  sentirle  sommo  diletto 
nel  concepirlo,  e  poscia,  come  per  compensarla  delle 
noie  della  gravidanza  e  dei  dolori  del  parto,  le  rin- 
nova allattando  piìi  e  più  volte  al  giorno  una  parte 
del  sensuale  diletto.  Ed  affinchè  tra  la  madre  ed  il 
figlio  sia    vicendevole   l'affezione,  la   medesima  he- 


191 

nigna  natura  rende  al  gusto  del  bambino  assai  più 
grato  il  latte  materno  che  il  più  squisito  cibo  al 
nostro  palato,  dove  dall'uso  è  la  sensibilità  notabil- 
mente scemata.  Il  fantolino  dà  di  questo  suo  godi- 
mento chiarissime  prove  tostochè  la  vista  dal  tatto 
corretta  incomincia  a  distinguere  gli  oggetti;  poiché 
lei  più  che  le  altre  persone  guarda;  a  lei  più  spesso 
dolcemente  sorride;  e  con  lei  affettuosamente  si  tra- 
stulla. E  perchè  cedere  questi  dolcissimi  privilegi  a 
prezzolata  fantesca  ?  Ma  posto  pure  che  ella  vo- 
lesse fare  questo  vii  rifiuto,  ed  esser  sorda  alle  voci 
della  benigna  natura  ,  tale  non  potrebbe  essere  ai 
giusti  civili  ordinamenti. 

Voi,  carissimo  duca,  ben  sapete  che  Aristotile, 
vedendo  col  suo  filosofico  sguardo  come  dai  cinque 
sensi  vengono  tutte  le  idee  della  nostra  mente,  mo- 
strò ingiusto  il  parere  di  Pittagora  e  di  Platone,  i 
quali  credevano  che  le  nostre  anime  avessero  in  se 
alcune  idee  prima  che  fossero  nel  corpo  rinchiuse; 
e  stabilì  che  nessuna  idea  sta  nel  nostro  cervello 
che  non  vi  sia  stata  dai  sensi  portata.  Cartesio  e 
molti  seguaci  si  opposero  a  questo  parere,  benché 
significato  dal  maestro  di  coloro  che  sanno.  E  l'esa- 
me di  tale  opposizione  giova  molto  al  mio  proposito. 

Dal  momento  che  il  neonato  incomincia  a  poppare 
si  fa  attentissimo  discente  della  sua  nutrice.  Ma  poi- 
ché delle  lezioni  di  questa  né  essa  medesima  né  altri 
si  accorsero;  quando  il  bambino  per  gli  atti  e  per 
le  sorrise  parolette  brevi  dimostra  prima  le  idee  più 
semplici,  e  poscia  le  altre,  e  che  né  queste  né  quelle 
furono  viste  per  qual  via  erano  venute,  la  comune 
gente  le  chiamò   indole  o  naturale  disposizione.  Ed 


192 

il  filosofo  quando  senti  il  bambino,  già  fatto  adulto, 
ragionare  degli  enti  morali^  e  specialmente  della  giu- 
stizia, non  essendogli  noto  ciò  che  questi  aveva  pri- 
ma dalla  nutrice,  e  poscia  dagli  altri, per  i  suoi  sensi 
appreso,  chiamò  innate  alcune  idee  degli  enti  mo- 
rali ,  e  specialmente  quella  della  giustizia.  Siffatta 
dottrina  per  se  chiarissima  ci  dimostra  esser  cosa 
ingiusta  e  dannosa  il  dare  per  ammaestratrice  al 
bambino  ,  non  la  propria  madre  che  in  famiglia 
esser  deve  in  moltissimo  pregio  avuta,  ma  una  vi- 
lissima  fantesca. 

Io  non  nego  che  la  corporale  tessitura,  e  prin- 
cipalmente quella  dei  sistemi  irrigatore,  linfatico  e 
nervoso,  influisca  molto  nei  nostri  naturali  affetti  , 
e  nel  valore  della  nostra  mente;  ma  ho  per  fermo 
che  le  idee  ,  che  dal  principio  della  vita  vengono 
dai  nostri  sensi,  e  che  sono  dette  ingiustamente  in- 
nate (salvo  le  mutazioni  che  accadono  per  le  molte 
e  svariate  mondane  vicende),  formano  V  essenziale 
germe  delle  nostre  naturali  inclinazioni  e  del  nostro 
intellettuale  valore. 

Questo  scambio  di  madre  in  balia,  o  per  pigrizia 
della  moglie,  o  per  poco  senno  del  marito,  o  per 
altra  snaturala  ed  ingiusta  cagione,  ci  fa  vedere  tal- 
volta persone  di  alto  lignaggio  aver  modi,  parole, 
e  volgarissimi  affetti.  Quel  padre,  che  dopo  le  pri- 
mitive idee  che  il  figlio  ha  ricevuto  dalla  fantesca 
balia,  crede  formargli  un  cuore  magnanimo,  è  si- 
mile a  chi  con  le  fondamenta  di  un  misero  caso- 
lare vuol  edificare  un  alto  e  magnifico  palagio.  Egli 
si  trova  dal  suo  vedere  ingannato  col  danno  suo  , 


193 

della- sua  famiglia,  e  di  chi  per  qualunque  faccenda 
deve  conversare  con  l'adulto  suo  figliuolo. 

Vili.  Nel  tempo  dell'allatlamento,  benché  tutti 
gli  oggetti  che  toccano  i  sensi  del  bambino  lo  istrui- 
scano, la  principale  istruzione,  che  nei  primi  giorni 
dir  si  potrebbe  l'unica  ,  la  riceve  dalla  nutrice  ;  e 
dopo  lo  spoppamento  ,  non  piccola  parte  egli  ne 
prende  da  chi  lo  imbocca  e  lo  soccorre.  La  scelta 
di  chi  deve  fare  questo  ufficio  è  il  secondo  diffici- 
lissimo punto  nel  bene  allevare  ì  figliuoli  nati  da 
alto  e  ricco  lignaggio. 

Sogliono  i  ricchi  signori  annoverare  tra  i  loro 
famigliari  una  fantesca  che  chiamano  soprabalia  , 
ed  a  lei  commettono  la  cura  dell'  infante  per  tutto 
ciò  che  gli  bisogna.  Questa  femmina  volgare,  che 
col  suo  nuovo  titolo  innalza  molto  il  suo  stato,  deve 
dar  norma  ai  molti  e  svariati  puerili  desideri,  ora 
secondandoli,  ora  modificandoli,  ed  ora  frenandoli. 
Ma  ciò  facendo,  deve  sempre  avere  in  mente  che 
se  il  bambino,  su  cui  ella  ha  questa  ombra  d' im- 
pero, se  ne  mostra  spiacente,  ella  imita  la  caduta 
di  Simon  Mago  ,  e  perde  ogni  cosa  che  la  faceva 
stare  in  alto. 

Da  ciò  segue  chiaramente  che  ,  posto  anche  il 
caso  stranissimo  che  questa  soprabalia  abbia  senno 
e  costume  conveniente  alla  guida  di  un  nobile  fan- 
tolino, che  nel  suo  cuore  e  nella  sua  mente  va  sta- 
bilendo la  base  della  sua  vita  civile,  non  potrebbe 
ella  mai  esser  libera  ne'  suoi  giudizi,  e  molto  meno 
nell'operar  suo  per  la  perfetta  contraddizione  in  cui 
si  trova  nel  dovere  imporre  a  quel  medesimo  bam- 
bolino,  il  quale  ha  diritto  di  essere  da  lei  temuto. 
G.A.T.CLXIII.  13 


194 

Questo  mescolamento  di  cose  contraile,  cioè  di 
comando  e  di  timore,  va  dalla  soprabalia  al  primo 
maestro,  ed  è  fedele  compagno  di  tutti  coloro  che 
debbono  stare  nella  sua  corte  in  qualità  o  di  me- 
dico, 0  di  avvocato,  o  di  regolatore  del  suo  ricco 
avere,  o  con  qualunque  altro  titolo. 

Rispetto  al  primo  maestro,  oltre  alla  contrad- 
dizione pei'  l'autorità  sua  mista  al  timore  di  dispia- 
cere al  suo  scolare,  e  quindi  di  perdere  il  suo  slato 
e  le  concette  speranze  ,  egli  suole  essere  dannoso 
pel  suo   corto  senno- 

E  quasi  generale  opinione,  che  un  uomo  mez- 
zanamente istruito  mal  potrebbe  terminare  1'  am- 
maestramento di  chi  è  verso  il  fine  della  sua  let- 
teraria carriera,  ed  a  cui  rimane  lo  studio  nella  ret- 
torica  e  nella  filosofia  ;  ma  sibbene  potrebbe  dar 
principio  alla  istruzione  di  un  garzoncello,  che  deve 
apprendere  le  prime  lettere,  e  le  prime  conoscenze 
della  vita  morale  e  civile.  Colui  che  filosoficamente 
considera  l'officio  intellettuale  del  maestro,  chiara- 
mente conosce  la  falsità  di  questa  opinione. 

Chi  deve  iniziare  la  formazione  della  mente  di 
un  fanciullo  è  simile  al  coltivatore  di  un  terreno 
incognito.  Deve  questi  principalmente  acquistar  chia- 
ra conoscenza  in  genere  della  qualità  di  tutto  il  ter- 
reno, e  poscia  delle  qualità  dell'umor  terrestre  ,  e 
del  clima  di  ciascuna  sua  parte  ,  per  adattarvi  le 
convenienti  piante,  il  conveniente  seme,  e  la  con- 
veniente coltura.  Ed  il  maestro  deve  prima  cono- 
scere in  genere  la  naturale  intelligenza  del  suo  sco- 
lare, e  poi  con  singolare  industria  andare  investi- 
gando tutte  le  parli  dell'  intelletto  di  lui  per  sapere 


195 

quale  più  quale  meno  è  vigorosa,  e  quale  piii  quale 
meno  è  disposta  ad  apprendere  un  tal  ramo  del- 
l'umano sapere  ;  e  come  vuol  essere  stimolata  la 
parte  pigra,  e  secondala  la  piii  ben  disposta.  Questo 
punto  di  metafisica  ,  che  a  me  pare  chiaramente 
esposto,  è  in  pratica  difficilissimo;  ed  è  perciò  as- 
sai ridevole  il  vederlo  commesso  a  quegli  sventurati 
pedanti,  i  quali  non  solo  non  sono  atti  a  tali  ri- 
cerche, ma  non  hanno  mai  pensato  che  esse  for- 
mino parte  delle  umane  conoscenze. 

Questa  difficilissima  pratica  è  assai  meno  ardua 
al  maestro  che  deve  insegnare  rettorica  e  filosofia 
ad  un  giovanetto  ,  benché  ad  esso  ignoto  ;  perchè 
come  r  agricola  può  giovarsi  delle  prove  fatte  dai 
suoi  predecessori  circa  la  qualità  in  genere  del  suo 
novello  podere  ,  e  circa  le  particolarità  delle  sue 
diverse  contrade;  così  quel  maestro  può  essere  in- 
formato da  chi  ha  prima  di  lui  insegnato  all'  in- 
cognito scolare  la  grammatica  e  le  altre  cose  ele- 
mentari. 

Dopo  aver  dimostrato  la  falsità  del  parere  di 
chi  crede  non  esser  necessario  al  primo  maestro 
molto  senno  e  molta  dottrina  ,  farò  un  dilemma 
riguardo  al  maestro  di  corta  mente:  0  lo  scolare 
comincia  ad  avere  in  pregio  il  suo  men  che  mez- 
zano maestro  ,  e  la  carriera  de'  suoi  studi  ve  lo 
va  confermando;  ed  egli  diventa  ammiratore  e  vago 
dei  concetti  di  lui  comechè  monchi  o  falsi,  e  men- 
tre crede  di  farne  ricco  tesoro  nella  sua  mente,  ne 
fa  un  disordinato  accozzamento  di  larve,  di  mon- 
cherini, e  di  mostri;  0  il  medesimo  scolare  si  va 
di  mano  in  mano  accorgendo  dello  scarso  ingegno, 


196 
e  della  scarsa  o  falsa  dottrina  del  suo  maestro,  ed 
ei,  più  non  facendone  conto,  va  senza  guida  e  senza 
freno  qua  e  là  naturalmente  vagando  fino  al  ter- 
mine del  corso  dei  suoi  studi.  Questo  secondo  caso 
è  assai  più  del  primo  facile  ad  accadere  ;  perchè, 
oltre  alle  osservazioni  che  lo  scolare  di  giorno  in 
giorno  può  fare  da  sé  stesso,  il  contegno  degli  al- 
tri familiari,  e  quello  dei  parenti  e  conoscenti  suoi 
verso  il  suo  maestro,  ben  presto  lo  fanno  accorto 
dello  scarso  di  lui  valore.  E  nel  caso  che  lo  strano 
vagare  dello  scolare  ,  e  le  stranissime  voglie  che 
quindi  nascono,  siano  per  autorità  paterna  ,  o  per 
altra  cagione,  in  alcun  tempo  rattenute,  escono  sol- 
lecitamente fuori  con  più  scandalo  ,  e  con  quella 
violenza,  con  la  quale  scoppia  il  vapore  che  vinse 
la  potenza  che  lo  teneva  compresso. 

Fra  i  molti  danni  di  questa  falsa  guida  deve 
essere  annoverato  quello  che  essa  medesima  ne  ri- 
ceve ;  poiché  Io  scolare  non  è  pago  del  solo  non 
curarla,  ma  spesso  cangia  la  trascuranza,  prima  in 
disprezzo,  e  poscia  in  disdegno.  Io  ne  ho  nella  mìa 
lunga  età  veduto  alcuni  esempi,  in  uno  dei  quali, 
essendo  stata  la  magistrale  ignoranza  mista  a  qual- 
che non  lieve  colpa,  io  mi  sovvenni  del  bue  di  Fa- 
laride,  che  Mugghiò  prima  col  pianto  di  colui  -  Che 
lo  avea  temperalo  con  sua  lima.  Per  giustizia  me 
ne  compiacqui,  e  per  umanità  me  ne  condolsi. 

Questa  è  la  principal  cagione  per  cui  in  ricche 
e  lucentissime  famiglie  si  vede  talvolta  colui  che 
non  solo  non  può  col  suo  mal  colto  intelletto  di- 
scernere ciò  che  è  giusto  ,  ma  piena  la  mente  ed 
il  cuore  del    signorile  orgoglio  ,    giusto  crede  solo 


197 

quello  che  a  lui  piace  e  che  meglio  soddisfa  alla 
sua  gonfiezza.  E  se  per  mala  ventura  di  tutti  co- 
loro che  debbono  trattare  con  esso,  egli  al  potere 
della  sua  famiglia  unisce  quello  che  gli  dà  chi  go- 
verna il  comune  o  il  regno,  gli  occhi  suoi  diven- 
tano ancor  più  foschi,  e  la  tracotanza  assai  mag- 
giore; onde  è  che  impunemente  calpesta  qualunque 
sacro  diritto  con  volto  fermo,  e  con  quella  coscienza 
con  cui  neir  Areopago  di  Atene  si  rendeva  a  cia- 
scuno la  sua  ragione.  11  danno,  che  procede  dal  ve- 
lenoso frutto  di  queste  alte  e  ramose  piante,  è  im- 
menso; io  farò  motto  di  una  sua  picciolissima  parte. 
Quando  il  male  allevato  ricco  signore  operar 
può  ad  arbitrio  suo,  sceglie  per  suoi  familiari,  non 
chi  per  costume,  per  zelo,  e  per  attitudine  natu- 
rale e  di  arte  può  meglio  adempiere  l'ufficio  al  quale 
è  destinato;  ma  chi  con  più  malizia  e  più  dolce- 
mente sa  ingannarlo,  e  prepone  sempre  quello  che 
in  quest'arte  è  più  degli  altri  valente.  E  Iddio  vo- 
lesse che  solo  nello  scegliere  la  sua  bassa  famiglia 
tenesse  questo  sconcio  e  vituperevole  modo  !  Egli 
l'adopera  similmente  nello  stabilire  l'alta  sua  corte. 
Ond'  è  che  la  sua  casa  ,  mentre  sgomenta  i  vol- 
gari onesti  che  hanno  bisogno  di  pane,  e  la  savia 
gente  che  vuole  onestamente  valersi  del  suo  lungo 
studio  per  cittadinescamente  vivere,  rende  ardimen- 
toso colui  che  non  vuole  piegare  il  collo  all'utile 
e  grossolana  fatica,  e  tale  rende  ancora  il  fraudo- 
lente astuto,  che,  oziando  ed  occultamente  trastul- 
landosi, fa  vista  di  avere  appreso  scienze  ed  arti  dif- 
fìcili ed  utili  molto.  E  quello  che  più  importa,  per 
uno  che  fu  dal  signore  ingiustamente  anteposto,  mille 


198 

col  mal  esempio  sperano  di  avere  quesla  ingiusta 
preferenza.  E  tutti  quelli  che  rimangono  delle  loro 
speranze  delusi,  formano  quelle  popolari  masse,  di 
cui  si  sono  talvolta  serviti  coloro  che  desideravano 
di  dar  nuova  forma  al  mondo,  non  con  giusti  e  ben 
considerati  argomenti,  e  col  debito  tempo,  ma  per 
bestiale  violenza.  Il  filosofo,  che  attentamente  guar- 
da le  cose  mondane,  vede  come  sovente  gli  effetti 
più  grandi  e  più  meravigliosi  derivano  da  cagioni 
piccolissime, ed  alle  quali  assai  pochi  pongono  mente. 
Io  qui  vorrei  il  corno  di  Orlando,  che  orribil- 
mente sonò  quando  Carlo  Magno  perde  la  santa  gesta, 
e  gridare  a  tutta  possa  per  atterrire  quei  ricchi  si- 
gnori che  hanno  male  allevato  i  loro  figliuoli;  e  par- 
ticolarmente vorrei  scoccare  le  mie  impetuose  pa- 
role contro  colui,  che  per  guidare  i  suoi  figli  nelle 
lettere  e  nelle  scienze  accatta  a  vilissimo  prezzo 
l'opera  di  un  misero  pedante,  che  promette  e  forse 
crede  di  potere  insegnare  ai  nobili  garzoncelli  ciò 
che  egli  medesimo  non  sa,  e  non  è  più  in  caso  di 
apprendere.  Oh  meraviglia  !  chi  largamente  spende 
smisurata  somma  di  danaro  per  magnifici  palagi  , 
per  peregrini  drappi,  per  finissimi  intagli  in  marmo 
o  in  dorato  legno;  chi  per  mostrare  la  sua  magni- 
ficenza fa  bella  mostra  di  se  sopra  ricchissimo  coc- 
chio con  destrieri  che  trottando  ed  ambiando  pare 
vogliano  somigliare  quelli  del  sole:  questo  ricco  e 
splendido  personaggio  mette  all'  incanto  ed  al  mi- 
nore offerente  l'ufficio  di  maestro  de'  suoi  figli:  cioè 
la  essenzial  base  del  morale  e  del  civile  viver  loro- 
Ed  affinchè  il  tutto  sia  concorde,  egli  spesso  a  se 
chiama  chi  presiede  alla  così  detta  scuderia  per  sa- 


199 
pere  se  i  suoi  cavalli  sono  da'  suoi  garzoni  ben  trat- 
tati; e  non  mai,  o  assai  di  rado,  si  volge  studio- 
samente al  maestro  de'  suoi  figli  per  conoscere  , 
non  dico  il  giornaliero  loro  progresso  ,  ma  la  na- 
turai disposizione  almeno  di  ciascun  di  loro.  E  ben- 
ché la  quotidiana  esperienza  dimostri,  che  il  signore 
ben  allevato  accresca  lo  splendore  e  1'  avere  della 
sua  famiglia,  e  che  per  lo  contrario  l' ignorante  di 
tardo  ingegno  scemi  sensibilmente  1'  una  e  1'  altra 
cosa;  puro  spesso,  e  sempre  con  generale  scandalo, 
si  vede  che  al  nobile  e  ricco  padre  piiì  piace  la- 
sciare al  figlio  un  centesimo  di  piià  nella  pingue 
eredità  sua,  che  un  giusto  senno,  una  conveniente 
dottrina,  ed  una  limpida  morale. 

Carissimo  duca,  benché,  come  dissi  nell'esordio 
di  questo  mio  discorso  ,  il  mio  fine  principale  sia 
il  porgere  a  voi  la  immagine  fedele  della  mia  mente, 
pure  sento  che  ancora  un  poco  mi  fruga  la  spe- 
ranza di  recar  qualche  micolino  di  utilità  alla  gente 
futura:  non  perchè  io  sia  certo  che  i  nostri  discen- 
denti leggeranno  i  miei  scritti,  ma  perchè  nulla  spero 
fino  a  tanto  che  soffia  quel  tempestoso  vento  che 
travolge  antichi  reami  e  vasti  imperi  ,  e  che  non 
solo  disperde  a  guisa  di  sentenza  di  sibilla  le  mie 
lievissime  carte,  ma  fino  ai  fondamenti  dirocca  l'uno 
e  r  altro  sodissimo  giogo  di  Parnaso.  Per  questa 
mia  lontana  speranza  io  piij  non  ispendo  parole  per 
lo  sciaurato  signore,  che  fin  dal  principio  della  sua 
vita  fu  messo  nella  via  torta,  e  che  vi  corse  con 
danno  suo,  de'  suoi  parenti,  de'  suoi  prossimani , 
ed  alcuna  volta  anche  di  un  comune  e  di  un  non 
piccolo  regno  ;  e  parlerò  invece  di  quel    bene  av- 


200 

venlurato  giovano,  che,  ammaestrato  ottimamente  da 
chi  che  sia,  fu  sempre  dal  suo  padre  guidato- 

IX.  II  giovane,  più  che  l'uomo  di  età  matura, 
sente  bisogno  di  avere  un  confidente  ;  ed  avutolo, 
gli  dà  facilmente  e  volentieri  il  titolo  di  amico.  Ed 
il  padre,  che  non  lo  deve  mai  perder  d'occhio,  ha 
da  por  mente  a  questo  primo  passo  del  morale  e 
civile  viver  suo.  Due  giovani  l'uno  dell'altro  amico 
accomunano  i  loro  costumi,  ì  loro  desideri,  e  quasi 
tutti  i  loro  pensieri.  Ed  il  padre  deve  conoscere  que- 
sta comunanza,  ed  intromettervisi.  So  bene  non  es- 
ser ciò  molto  facile  per  la  età  diversa,  che  fa  di- 
versi i  pensieri,  i  desideri,  ed  i  modij  ma  se  il  pa- 
dre o  da  se  o  con  l'aiuto  di  un  savio  maestro  ha 
fatto  dell'  intelletto  del  figlio  una  copia  del  suo,  e 
se  egli  trattando  co'  due  giovani  amici  si  ricorda 
della  sua  giovanezza,  e  con  un  leggiero  sforzo  un 
poco  si  trasmuta;  egli  diventa  terzo  tra  i  due  gio- 
vani amici  con  somma  utilità  di  entrambi.  Nel  for- 
mare questo  ternario  convien  ricordarsi,  che  i  gio- 
vani per  troppa  mobilità  della  loro  fibra  mal  volen- 
tieri soffrono  1'  indugio,  e  che  quando  due  di  essi 
mirano  un  medesimo  punto  vi  vanno  di  galoppo. 
Questa  sollecitudine  mostrano  essi  piii  chiaramente 
allorché  uno  brama  di  diventare  dell'  altro  amico. 
Ed  il  savio  genitore,  benché  sia  certo  che  quell'amì- 
cizia  non  disconvenga  al  suo  figlio,  deve  con  molto 
accorgimento  opporsi  al  galoppo,  e  a  grado  a  grado 
aver  chiara  conoscenza  del  loro  avvicinamento. 

Due  amici  debbono  co'  pensieri  di  ciascuno  for- 
mare una  mente  comune;  e  perciò  se  ciascun  pen- 
siero si  considera,  e  si  muta,  o  si  modifica  prima 


201 

di  fermarlo  nella  mente  comune,  questa  a  misura 
che  si  va  formando,  e  poscia  che  è  formata  ,  non 
può  non  piacere  ai  due  che  V  hanno  costrutta.  Le 
pietre  misuratamente  tagliate  meglio  tra  loro  com- 
baciano, e  costruiscono  il  muro  più  bello,  più  forte, 
e  più  durevole-  A  questo  ben  misurato  taglio  di  pie- 
tre, cioè  ai  pensieri  cangiati  o  modificati  avanti  di 
stabilirli,  debbono  al  primo  tempo  attendere  i  due 
novelli  amici,  e  più  di  essi  il  padre,  facendone  meno 
che  può  vista. 

Mentre  per  questo  modo  si  va  costruendo  l'ami- 
cizia, possono  i  novelli  amici  dar  principio  alla  sod- 
disfazione dei  loro  doveri  nel  consigliarsi,  nel  soc- 
corrersi, e  nel  difendersi  a  vicenda.  Questi  tre  verbi 
sono  di  gran  peso  e  formano  la  essenza  della  vera 
amicizia.  Se  io  fossi  uno  di  quei  vecchi  sempre  lo- 
datori del  passato  tempo,  direi  che  negli  anni  della 
mia  giovinezza  era  il  senso  loro  meglio  inteso;  ma 
non  posso  per  verità  asserirlo,  perchè  le  cause  che 
adesso  li  rendono  oscuri  a  molti,  sono  quelle  me- 
desime che  operavano  allora.  E  a  dire  il  vero  ,  è 
poco  men  di  un  secolo  ,  da  che  i  generali  turba- 
menti, sollevando  rapidamente  alcuni,  e  portandoli 
dall'  infima  alla  più  sublime  condizione,  hanno  ec- 
citato le  universali  comechè  ingiuste  speranze  ,  e 
non  lasciano  nessuno  contento  del  suo  stato.  L'amor 
di  se  (che  i  moderni  dicono  egoismo)  è  cagione  di 
queste  universali  speranze  ,  e  forma  la  essenza  di 
tutti  i  nostri  pensieri.  E  perciò  l'egoista  sconosce 
l'amico  quando  per  le  continue  variazioni  sociali  teme 
di  perdere  il  suo  stato,  o  spera  di  migliorarlo  tanto 
che  il  miglioramento  possa  essergli  di  sicuro  riparo 


202 

in  altre  sociali  vicende.  Ma  sia  ora  quale  esser  si 
voglia  r  amicìzia  ,  io  conliniio  il  mio  teorico  di- 
scorso, ripetendo  che  la  prima  parte  essenziale  del- 
Tamicizia  è  il  consigliarsi  a  vicenda.  Questo  non 
può  aver  luogo  nel  primo  tempo,  cioè  prima  che  gli 
amici  abbiano  l'uno  all'altro  aperto  l'animo  suo  in 
modo,  che  ciascuno  abbia  chiara  conoscenza  dei  bi- 
sogni, delle  intenzioni  e  delle  facoltà  dell'amico. 

Quando  ,  dopo  questa  conoscenza  ,  conviene  il 
consigliarsi,  è  necessario  distinguere  il  caso  in  cui 
l'amico  chiede  all'altro  consiglio,  da  quello  nel  quale 
è  dall'uno  all'altro  offerto.  Quando  l'amico  è  del 
consiglio  richiesto  ha  subito  da  mostrare  la  sua  buona 
e  calda  voglia  ;  ma  guardarsi  dì  darlo  con  troppa 
sollecitudine  ,  perchè  a  chi  consiglia  è  prima  me- 
stieri conoscere  a  parte  a  parte  la.  cosa  di  cui  si 
tratta,  tutto  quello  che  l'amico  ne  sa  per  se  stesso, 
ed  a  quale  deliberazione  egli  è  disposto,  perciocché 
deve  unire  le  sue  conoscenze  con  quelle  dell'amico, 
e  poi  secondare  la  disposizione  di  lui,  se  la  crede 
giusta,  e  nel  caso  contrario  opporvisi  colla  dolcezza 
e  colla  pazienza  con  cui  il  buon  agricoltore  dirizza 
le  piante  torte.  E  ciò  meglio  può  farsi  se  il  con- 
sigliere mostra  la  ragionevolezza  dell'  opposizione 
con  qualche  verità  significata  dall'amico  in  qualche 
suo  discorso.  Così  si  giova  col  consìglio,  e  non  si 
offende  l'amor  proprio  di  chi  lo  riceve. 

Tutte  queste  cautele  vogliono  essere  raddoppiate 
quando  il  consiglio  è  offerto.  L'  offrire  il  consìglio 
è  un  mostrare  che  l'amico  in  quel  caso  non  saprebbe 
da  se  solo  uscirne:  e  questo  è  una   umiliazione,  è 


203 

una  feritn,  alla  quale  il  consigliere  deve  cautamente 
apporre  opportuno  rimedio. 

Se  il  consiglio  dato  fu  eseguito,  e  se  felice  ne 
fu  la  esecuzione  ,  chi  lo  diede  par  che  non  possa 
astenersi  di  compiacersene.  E  questa  compiacenza 
si  deve  per  quanto  è  possibile  nascondere,  ingegnan- 
dosi a  tutta  possa  di  provare  che  il  buon  effetto, 
pili  che  dal  consiglio  ,  è  proceduto  dal  modo  con 
cui  è  stato  posto  in  atto. 

In  somma  debbono  gli  amici  aver  fitto  nell'animo, 
che  l'amicizia  o  non  nasce  ,  o  non  cresce  ,  o  non 
è  durevole,  se  l'uno  amico  non  lascia  illeso  l'amor 
proprio  dell'altro,  e  se  ad  opportuno  tempo  non  sa 
secondo  giustizia  blandirlo. 

L'altro  dovere  dell'amicizia  è  il  soccorrersi.  Io 
ho  sopra  detto  che  gli  amici  debbono  accomunare 
i  loro  pensieri;  e  Cicerone  dice  che  lo  stesso  deb- 
bono fare  del  loro  avere.  Gli  amici,  che  considerano 
questo  lor  dovere,  debbono  fermare  nella  loro  me- 
moria Che  quale  aspetta  prego,  e  V  uopo  vede.  Ma  - 
lignamenle  già  si  mette  al  nego.  Chi  conosce  i  de- 
sideri, i  bisogni,  le  facoltà,  e  quasi  tutti  i  pensieri 
dell'amico,  non  solo  può  prevenire  la  richiesta,  ma 
può  anche  agli  stessi  desideri  precorrere  ,  e  far  sì 
che  il  bisogno  dell'amico  resti  appagato  quasi  pri- 
ma che  sia  concepito.  Colui  che  aspetta  la  richiesta 
dell'amico,  benché  volentieri  e  sollecitamente  la  sod- 
disfaccia, intiepidisce  l'amicizia;  perchè,  posto  an- 
che il  favorevole  caso  che  il  soddisfacente  non  ne 
faccia  sentire  il  benché  minimo  peso  all'amico  sod- 
disfatto, pure  non  può  non  essere  certo  di  aver  con- 


204 

tratto  un  debito,  e  che  l'amico  è  il  suo  creditore, 
o  almeno  lo  rassembra. 

Il  difendersi  è  il  terzo  dovere  dell'amicizia;  ed  in 
ciò  la  mia  lunga  esperienza  mi  fa  liberamente  affer- 
mare, che  la  difesa  non  fatta  con  intero  accorgimento 
nuoce  talvolta  piià  che  l'accusa.  Chi  sa  che  l'amico 
suo  è  stato  accusato  di  colpa  ,  quale  che  essa  sia  , 
deve  prima  informarsi  del  fatto  diligentemente  e  par- 
titamente;  poscia  distinguere  in  esso  l'atto  volontario 
da  quello  che  la  necessità  richiede;  ed  in  fine  con- 
siderare la  intenzione  dell'operante.  Con  questo  esa- 
me si  può  chiaramente  vedere,  che  non  tutte  le  opere 
buone  sono  per  se  ugualmente  lodevoli,  né  le  cattive 
vituperevoli.  La  cieca  ventura  è  spesso  sgabello  agli 
eroi,  ed  è  fortissimo  incitamento  ai  malvagi.  Se  dopo 
sì  fatto  esame  apparisce  chiaro  la  colpa,  non  deve 
l'amico  negarla  con  fole  o  con  sofismi,  ma  sì  mo- 
strarne il  meno  brutto  aspetto  ,  e  ricordare  a  chi 
ascolta  che  un'  azione  separatamente  considerata  non 
fa  dell'uomo  vizioso  o  virtuoso  sicura  prova.  Questa 
parte  del  mio  discorso  farà  sì  che  taluno  dirà,  che 
io  presuppongo  una  società  d'  uomini  non  dissimile 
da  quelli  della  repubblica  di  Platone,  e  del  sognato 
regno  di  Saturno.  Ed  io  risponderò  che  parlo  in 
teorica;  e  che  se  la  morale  degli  uomini  è  nella  sua 
difficilissima  pratica  manchevole,  tale  non  deve  es- 
sere nella  assai  pili  agevole  teorica;  dirò  che  come  i 
greci  immaginarono  Venere  qual  tipo  di  bellezza,  e 
pur  dissero  belle  le  Ninfe;  così  io  dico  tipo  di  vera 
amicizia  l' amico  da  me  supposto  ,  e  dirò  ottimo 
quello  che  piij  a  questo  si  avvicina.  Ed  oltre  a  ciò 
andrò  ripetendo  ,  che  io  ho  qualche   speranza    che 


205 

forse  alcune  mie  sottili  considerazioni  teoriche  pos- 
sano a  miglior  tempo  giovare  alla  pratica,  e  portar 
qualche  ristoro  alla  nostra  morale  che  miseramente 
in  molti  langue. 

X.  Mentre  il  buon  padre  vede  che  il  suo  figliuolo 
e  l'amico  di  lui  provvedono  ai  doveri  di  amicizia, 
può  facilmente  accorgersi  che  forse  in  uno  di  essi, 
0  forse  anche  in  entrambi,  nasce  e  va  crescendo  il 
sentimento  di  amore.  Egli  ,  come  savio  ,  sa  certo 
che  nell'amore,  specialmente  in  quello  dei  giovani, 
è  un  misto  di  sensualità  e  di  vanagloria  ;  che  la 
prima  ha  piij  o  meno  vigore,  secondochè  il  corpo 
è  più  0  meno  disposto  a  sentire  l'amoroso  fuoco; 
e  che  la  seconda  è  potentissima  se  si  lascia  sola 
nel  cuore  novello.  Egli  sa  parimente  che  amore,  re- 
presso senza  debita  prudenza,  diventa  cieco  e  vio- 
lentissimo; e  sa  finalmente  che  questo  naturale  af- 
fetto suol  esser  cagione  di  somme  virtù  e  di  sommi 
vizi.  Perciò  deve  nel  miglior  modo  possibile  unirlo 
alle  virtù  morali,  ora  secondandolo,  ora  dirigendolo, 
ed  ora  rattenendolo;  e  farne  vista  assai  raramente. 

Nel  far  questo  può  molto  giovarsi  dell'  amico, 
benché  innamorato  ancor  esso;  poiché  in  questi  fatti 
l'amicizia  tiene  il  campo,  e  vi  fa  quelle  prove  che 
né  il  ragionamento,  né  l'autorità,  né  il  minacciato 
danno  possono  fare. 

Assai  meno  difficile  è  la  direzione  dei  fatti  di 
amore,  se  nel  cuore  dell'amante  sia  prima  nato  qual- 
che desiderio  virtuoso  che  vada  mano  mano  cre- 
scendo. II  voler  dire  quale,  sarebbe  strana  voglia; 
perché  deve  esso  rispondere  alla  naturale  disposi- 
zione fìsica  ed  intellettuale  del  giovane,  allo   stato 


206 

della  sua  famiglia,  ed  a  qaelli  svarialissimi  acciden- 
tali fatti,  che  ogni  dì  accadono,  e  che  possono  ren- 
dere pili  conveniente  1'  uno  che  1'  altro  deside- 
rio. Solo  posso  in  genere  affernnare  ,  che  il  vivo 
intendimento  di  diventar  dotto  nelle  scienze  fisiche  o 
nella  buona  letteratura  può  ragionevolmente  essere 
agli  altri  anteposto. 

11  ricco  signore  trova  nelle  scienze  fisiche  la  parte 
meccanica  che  sensibilmente  lo  diletta;  trova  la  parte 
intellettuale  che  per  mezzo  delle  matematiche  lo 
aggrandisce  e  lo  sublima;  e  trova  il  modo  da  spen- 
dere il  suo  danaro  con  sommo  piacer  suo,  con  or- 
namento della  sua  famiglia  e  della  sua  patria  ,  e 
con  utilità  di  quello  scientifico  ramo,  che  distingue 
le  nazioni  e  con  eterna  fama  le  glorifica. 

Non  meno  delle  scienze  fisiche  vale  a  questo 
fine  la  buona  letteratura.  Dico  la  buona,  perchè  la 
comunale  per  l' immenso  danno  che  ha  recato,  e  va 
recando,  dovrebbe  dalla  divina  provvidenza  esser  di- 
strutta. Quella  letteratura  che  molti  sogliono  ap- 
prendere studiando  in  grammatica  ed  in  rettorica 
assai  parcamente,  ed  a  cui  dà  un  misero  soccorso 
la  filosofia  di  talune  nostre  scuole,  è  stata  ed  è  quasi 
sempre  la  principal  cagione,  per  cui  infinito  è  il  nu- 
mero di  coloro  che  scrivendo  versi  e  prose  si  di- 
cono letterati,  e  che  per  la  traboccante  moltitudine 
sono  lo  scherno  degl'  ignoranti,  e  tali  pur  sono  degli 
assennali  per  la  sconcezza  del  dettato  e  per  gli  strani 
o  falsi  e  talvolta  ridevoli  concetti. 

Nelle  scienze  fisiche  non  può  aver  luogo  la  in- 
gannevole fama:  poiché  posto  il  caso  in  cui  un  istrio- 
ne possa  vanagloriosamente  parlarne  in  qualche  bra- 


207 
no,  0  farvi  qualche  meccanica  esperienza,  un  sol 
problema  in  matematica  basta  per  ismascherarlo. 
Ma  in  letteratura  chi  tratta  un  tema  che  diletta  gli 
oziosi,  0  che  soddisfa  il  desiderio  dei  capi  di  parte 
o  del  numero  maggiore  di  coloro  che  parteggiano; 
chi  in  un'accademia  calcata  recita  versi  e  prose  giu- 
dicate con  l'udito,  e  non  con  l' intelletto:  chi  stampa 
un  grosso  volume,  e  sa  menarne  romore:  tutti  co- 
storo possono  salire  in  fama,  e  dai  soli  letterati  me- 
tafìsici profondi  possono  essere  ben  giudicati. 

Il  buon  padre  che  guida  il  suo  figliuolo  deve, 
dopo  aver  conosciuto  la  sua  buona  disposizione  alla 
letteratura,  con  sodo  ragionamento  mostrare  e  chio- 
sare questa  verità,  onde  il  suo  giovane  sia  fra  i  veri, 
e  non  fra  i  falsi  letterati.  Egli  deve  mostrargli  an- 
cora che  il  ricco  signore,  assai  più  che  il  semplice 
cittadino,  reca  danno  con  la  fallace  letteratura;  per- 
chè ,  non  volendo  considerare  il  male  che  egli  fa 
per  se  stesso  con  il  suo  falso  stile  ,  e  con  gì'  in- 
giusti suoi  giudizi,  si  fa  centro  di  attrazione  di  lutti 
coloro  che  lo  somigliano.  Egli  come  sole  nel  centro 
del  sistema  planetario  illumina  tutti  quei  pianeti 
e  quei  satelliti  che  gli  fanno  corona;  ma  di  quella 
luce  che  rischiara  la  persona,  e  non  vivifica  l' in- 
telletto, che  via  più  si  abbuia. 

XI.  Il  desiderio  di  comandare  è  un  altro  affetto 
che  nel  giovane  sollecitamente  si  manifesta,  e  che 
il  buon  padre  deve  saviamente  regolare.  Chi  ne  vuol 
vedere  la  sollecitudine,  ponga  mente  ai  puerili  tra- 
stulli, dove  l'uno  all'altro  contrasta  il  finto  e  mo- 
mentaneo comando;  e  chi  vuol  conoscerne  la  vio- 
lenza, lasciando  slare  la  moderna,  trascorra  l'antica 


208 
istoria,  e  consideri  fra  i  molti  fatti  quelli  di  Eteocle 
e  Polinice,  di  Geta  e  Caracalla.  Questo  violento  af- 
fetto non  può  essere  nel  cuore  umano  distrutto,  ma 
deve  insensibilmente  andar  dispiegando  le  sue  forze, 
e  può  e  deve  essere  fin  dai  primi  tempi  ben  diretto. 
Io  mi  sono  più  volte  meravigliato  di  taluni  giovani 
che  dopo  il  ventesimo  primo  anno  della  età  loro, 
essendo  liberi  dal  pedagogo,  potevano  liberamente 
qua  e  là  vagare  ed  operare  a  loro  talento;  ed  assai 
pili  mi  sono  meravigliato  di  taluni  altri,  che  per  la 
morte  del  padre  diventati  anzi  tempo  padroni  di 
ricco  avere  ,  a  guisa  di  sfrenato  e  focoso  cavallo 
galoppando  ,  calpestavano  persone  e  cose  che  do- 
vevano essere  da  essi  venerate.  Il  comando  è  simile 
al  poderoso  vino  che  dà  la  sconcia  ebbrezza  a  chi 
non  è  di  questo  usato;  ed  a  chi  ne  incomincia  l'uso 
conveniente  fin  dalla  fanciullezza,  accresce  robustezza 
di  stomaco  e  di  tutta  la  persona.  Nelle  case  dei 
ricchi  signori  sono  molti  e  vari  uffici  piiì  o  meno 
difficili,  più  0  meno  importanti.  Ed  il  sagace  padre 
deve  alla  cura  del  suo  figliuolo  comtnetterli,  inco- 
minciando dal  più  facile  e  meno  importante  fino  a 
quello  che  dà  la  potestà  di  fare  le  sue  veci.  Per 
questo  modo  senza  alcun  danno  si  soddisfa  il  desi- 
derio del  comando. 

XII.  La  politica  pure  non  tarda  molto  ad  occu- 
pare la  mente  del  giovane,  si  perchè  questa  spesso 
è  congiunta  al  desiderio  del  comando,  e  sì  ancora 
perchè  nel  nostro  tempo  è  diventata  una  generale 
dottrina.  Benché  Brunetto  Latini  dica  «  che  la  politica 
))  è  la  più  alta  scienza  ed  il  più  nobil  mestiero 
»  che  sia  infra  gli  uomini,  ch'ella  insegna  governare 


2t)9 

»  genti  e  regni  e  popoli  delle  cittadi,  e  un  comune 
»  in  tempo  di  pace  e  di  guerra  secondo  ragione  , 
»  e  secondo  giustizia  ,  e  e'  insegna  tutte  le  arti  e 
»  mestieri  che  sono  bisogno  alla  vita  dell'uomo;  » 
benché  ciò  sia  stato  detto  da  quel  valente  scrittore, 
pure  vediamo  che  dall'ultimo  uomo  volgare  fino  al 
più  alto  signore  tutti  ora  si  mostrano  gran  maestri 
di  questa  difficilissima  scienza;  e  non  mostrandosi 
punto  dubbiosi,  giudicano  e  condannano  chi  governa 
comuni  e  regni,  quale  che  esso  sia.  Qual  danno  ap- 
porti questo  cieco  giudizio,  io  non  lo  dico  perchè 
ognun  lo  vede;  voglio  soltanto  accennare  la  perpetua 
discordia  fra  chi  governa  ed  i  governati.  Affinchè 
il  buon  padre  possa  cansare  il  suo  figlio  da  questo 
pericoloso  scoglio,  deve  eccitargli  l'amor  proprio,  di- 
cendo che  tranne  i  ministri,  che  conoscono  i  segreti 
delle  corti,  tutti  quelli  che  parlano  di  politica  pec- 
cano in  logica.  E  a  dire  il  vero  questa,  che  dicono 
chiave  delle  scienze,  e'  insegna  come  con  le  cose  note 
si  possono  conoscere  le  ignote,  e  che  tale  è  il  fine 
del  sillogismo  ;  e  che  perciò  i  matematici  hanno 
bisogno  dei  dati  per  risolvere  un  problema.  Ora  come 
può  avere  quelle  cose  note  e  questi  dati  chi  vede 
l'operare  dei  governanti,  ed  ignora  le  cause  che  li 
muovono  e  li  sospingono  ?  Questo  che  io  dico  po- 
trebbe togliere  al  giovane  la  voglia  di  parlare  di 
politica,  0  almeno  renderlo  molto  cauto  in  sì  fatta 
materia. 

Ma  nel  caso  che  egli  abbia  atteso  sagacemente 

alla  letteratura  vera,  la  quale  assai  bene  si  congiunge 

colle  dottrine  morali,  e  che  o  per  se  o  per  l'altezza 

della  sua  famiglia   conosca  i  fatti  di  chi  governa  , 

G.A.T.CLXIII.  U 


210 

e  le  cagioni  moventi,  e  vede  che  non  sempre  dirit- 
tamente si  procede,  non  deve  palesamenle  meravi- 
gliarsene ,  molto  meno  vituperar  chi  che  sia  ;  ma 
valersi  della  sua  buona  letteratura  per  far  sì  che 
con  modi  riverenti  e  sommesse  parole  chi  governa 
conosca  il  vero  e  non  se  ne  adonti.  Non  è  vietato 
volgere  l'umile  discorso  al  suo  principe  per  dir  quello 
che  giova  ai  suoi  soggetti,  e  rende  più  lucente  il 
suo  seggio  e  la  sua  storia.  Vituperevolissima  cosa 
è  il  menar  rumore  ,  mettendo  in  piena  luce  quei 
fatti  non  giusti,  in  lutti  i  loro  lati  per  ombrare  il 
regio  soglio,  per  togliere  dal  cuore  de'  sudditi  l'amore 
verso  il  loro  signore,  o  per  sensibilmente  intiepi- 
dirlo. Questo  è  uno  de'  principali  doveri  della  let- 
teratura vera,  che  per  diritta  opposizione  rimbecca 
quella  falsa  ,  che  ha  cercato  e  cerca  di  travolgere 
il  mondo  tempestosamente. 

A  siffatto  modo  di  pensare  e  di  operare,  già  sta- 
bilito nella  mente  del  ricco  giovine  signore  ,  deve 
essere  unita  la  conoscenza  di  quella  rete  che  ordi- 
scono coloro,  i  quali,  dopo  aver  qua  e  là  seminato 
le  loro  false  dottrine,  vengono  a  fatti  con  generale 
turbamento. 

Debbono  i  ricchi  giovani  signori  sapere,  che  in 
quasi  tutte  le  forme  di  governo  i  comuni  sono  com- 
posti di  volgari,  di  cittadini  e  di  potentati.  1  vol- 
gari, benché  garruli  e  non  contenti  del  loro  stalo, 
non  sogliono  formar  congreghe,  se  da  qualche  pos- 
sente non  sono  o  direttamente  o  per  mezzo  di  loro 
capi  eccitati  con  oro  e  con  promesse.  Il  secolo  nostro 
ce  ne  dà  continue  provo.  Dopo  che  questo  possente 
ha  foruìalo  la  sua  congrega,  pone  tutta  la  sua  cura 


211 

di  annovoraivi  molti  altri  cittadini  e  taluni  ricchi 
giovani  signori;  e  li  va  stimolando  con  ogni  genero 
di  lusinghe,  e  più  con  la  soddisfii/.ione  del  desiderato 
comando.  Questa  reto  vuol  essei'  nota  ai  giovani 
ricchi  signori,  che  debbono  esserne  in  continuo  so- 
spetto per  non  esservi   presi. 

XIII.  Non  altrimenti  che  alle  anzidette  cose  deve 
por  niente  il  savio  padre  al  contegno  del  figlio  verso 
coloro  con  cui  questi  ha  da  conversare.  Il  contegno 
dei  gran  signori  può  nascondere  i  loro  vizi  e  le  loro 
virtij;  e  perciò  debbono  essi  aver  molto  accorgimento 
per  bene  usarne.  A  me  pare  che  in  prima  sia  ne- 
cessario distinguere  le  condizioni  ,  perchè  secondo 
queste  deve  il  signore  variare  o  modificare  il  suo 
contegno.  Co'  suoi  pari  basta  la  comun;d  cortesia, 
che  egli  deve  avere  appresa:  co'  volgari  convenien- 
tissima  è  la  carità  evangelica  adoperata  in  modo 
che  non  li  inorgoglisca,  nò  che  vilmente  li  umili  ; 
co'  cittadini  è  necessario  un  misto  di  carità  e  di 
cortesia  ,  variandone  al  bisogno  le  proporzioni  ;  e 
con  coloro  che  son  ricchi  d'  ingegno  e  di  dottrina 
fa  solo  snestieri  il  non  mostrarsi  superiori  ad  essi 
per  nobiltà  di  sangue  o  per  soperchiante  ricchezza. 
Il  ricco  signore,  trattando  co'  veri  savi,  deve  chia- 
ramente mostrare  che  li  distingue  non  solo  dai  vol- 
gari e  dai  cittadini  ,  ma  da  quella  immensa  turba 
de'  falsi  letterali  e  de'  filsi  scienziati.  Questa  giusta 
distinzione  anima  i  veri  seguaci  di  Sofia,  e  rattiene, 
per  quanto  ò  possibile,  la  tracotanza  delle  ingan- 
natrici larve.  Ed  oltre  a  ciò  ,  se  il  signore  è  per 
intellettuale  valore  simile  al  savio,  possono  costoro 


212 

a  vicenda  vie  più  istruirsi;  e  se  il  signore  è  meno 
valente,  può  riceverne  utilissimi  consigli. 

XIV.  La  religione  deve  più  che  ogni  altro  tema 
esser  trattata  nei  paterni  ragionamenti,  non  solo  per 
vieppiù  confermare  il  figliuolo  nelle  verità  fin  dalla 
puerizia  apprese,  ma  per  render  vani  i  maligni  in- 
citamenti, e  per  moderare  i  troppo  vivi  affetti  della 
calda  politica.  Vuoisi  dal  buon  padre  dimostrare  che 
la  religione  nostra,  con  la  mercede  d^lla  vita  futura, 
è  sicura  guida  e  dolce  conforto  della  presente;  che 
è  tutta  concorde  colle  leggi  naturali  e  civili;  e  che 
gli  uomini  in  società  raccolti  ,  coaie  non  possono 
né  da  queste  né  da  quelle  esser  disciolti,  così  non 
possono  essere  senza  religione  congiunti.  E  per  la 
parte,  di  cui  la  politica  si  serve  come  esca  ed  uc- 
cello di  richiamo,  io  dovrei  mettere  a  fronte  a  fronte 
la  religione  nostra  con  quella  delle  altre  genti;  ma 
ciò  sarebbe  fuor  del  mio  proposito,  ne  io  sarei  da 
tanto.  Non  però  voglio  tacere  dei  protestanti,  che 
più  degli  altri  s' ingegnano  di  dilatare  i  loro  con- 
fini; e  perciò  dico  che,  lasciando  stai-e  gli  altri  er- 
rori, si  noti  quello  del  senso  privalo.  Nessuno  è  buon 
(jiudice  in  causa  propria:  questo  generale  proverbio 
suona  in  bocca  del  volgo,  e  in  quella  del  più  sagace 
legista.  I  molti  e  svaria tissimi  nostri  affetti  offu- 
scano la  nostra  mente,  e  non  solo  ci  fanno  errare 
sovente,  ma  in  alcuni  punti  ci  fanno  essere  costan- 
temente torti.  Come  dunque  può  il  protestante  es- 
ser sicuro  del  senso  pi-ivato  ?  cioè  del  giudizio  che 
egli  per  se,  e  da  se  solo,  crede  giusto  ?  E  come  può 
con  esso  non  solo  regolare  la  sua  coscienza  ,  ma 
l'operar  suo  verso  se  ,   verso  il  prossimo  ,  e  verso 


213 

Dio  ?  E  costoro  ,  che  cocamenlo  si  confidano  nel 
loro  senso  privato,  sono  quei  medesimi  che  vitu- 
perano le  monarchie,  se  dai  calcati  parlamenli  non 
sono  frenate  e  corrette.  Ma  più  là  non  voglio  inol- 
trare il  passo  per  una  via  dove  si  sono  messi  molli 
fastidiosi  novatori.  Dico  fastidiosi,  non  perchè  a  me 
spiacciano  le  cose  nuove,  ma  perchè  vorrei  che  prima 
di  accettarle  fossero  assai  ben  ponderate.  Se  il  mio 
scritto  pubblicato  colle  stampe  nel  1850  non  avesse 
col  solo  suo  titolo  (desiderio  di  concordia  senza  spi- 
rito di  parte)  rattenuta  la  gente  ,  che  quasi  tutta 
parteggia,  dal  leggerlo,  si  sarebbe  con  esso  chiara- 
mente veduto  che  sono  progressista  ancor  io  ;  ma 
che  progredendo,  vorrei  aver  sempre  allato  la  lo- 
gica e  la  buona  morale. 

XV.  Lo  zelante  ed  accorto  genitore  ,  che  con- 
siglia e  guida  suo  figlio  ,  por  deve  ancor  1'  animo 
ad  indicare  il  modo  di  far  buon  uso  delle  ricchez- 
ze. Il  trovare  il  come  spendere  il  danaro  conve- 
nientemente è  il  problema  il  più  diffìcile  che  pro- 
por  si  possa  ad  un  ricco  signore.  Molti  di  essi  ere- 
dono  di  potere  a  lor  talento,  e  meglio  direi  a  lor 
capriccio,  o  spendere  o  accumulare  o  fondere  le  loro 
ricchezze,  lo  credo  che  la  Divina  Provvidenza  metta 
pei  comuni  alcune  ricchissime  famiglie  per  pubblico 
bene,  lo  assomiglio  ciascuna  di  queste  ad  una  co- 
piosa fontana  ,  cui  segue  una  larghissima  conca  , 
dove  l'acqua  si  raccoglie  e  da  dove  escono  molti 
ruscelli,  che  per  diversi  rivi  si  spandono  in  un  vasto 
campo  ripieno  di  diversi  seminati  e  di  diverse  piante, 
ed  innaffiano  quelli  e  queste  secondo  i  bisogni  che 
hanno  per  ben  vegetare.  La  ubertosa  fontana  è  sim- 


214 

bolo  (Iella  co[»iosa  entrata  ;  1'  acqua  adunata  nella 
larga  conca  ò  il  danaro  messo  nei  forzieri;  ed  i  ru- 
scelli sono  lo  scompartimento  che  se  ne  fa  ai  di- 
versi ministri  nobili,  cittadini  e  volgari  pei  loro  di- 
versi offici. 

Ora  se  dalla  conca  esce  una  copia  d'acqua  mag- 
giore di  quella  che  essa  riceve  dalla  fontana,  alcuni 
ruscelli  rimangono  a  secco,  e  forse  quelli  [uh  ne- 
cessari o  più  utili  ;  se  minore  ,  l'acqua  riversa  ed 
infruttuosamente  si  disperde  per  lo  campo;  e  se  i 
ruscelli  non  portano  il  conveniente  umore  ai  diversi 
seminati  ed  alle  diverse  piante,  il  troppo  fa  sì  che 
quelli  e  queste  s'  infracidano,  ed  il  poco  fa  gli  uni 
e  le  altie  soIlccitarDcnte  seccare.  Affinchè  con  que- 
sta comparazione  si  mostri  il  giusto  modo  con  cui 
(1  ricco  signore  deve  far  uso  delle  sue  licchezze  , 
a  me  non   pare  necessario  lo  spendervi  più  parole. 

Ecco,  mio  carissimo  duca,  la  prosa  che  ho  ag- 
giunto alle  mie  terzine  per  piesentarvi  la  fedele  im- 
magine della  mia  mente.  Essendo  tale  il  mio  fine 
precipuo  ,  a  me  poco  importa  1'  esser  quasi  certo 
che  questo  ancora  sarcà  come  gli  altri  miei  scritti 
negletto.  Ciò  non  ostante  voglio  dirvi  che,  se  fra 
lo  scarsissimo  numero  di  coloro  che  per  istrana  ven- 
tura Io  leggeranno,  vi  sarà  colui  che  per  altra  ven- 
tura più  strana  ancora  abbia  voglia  di  ragionarne, 
vi  prego  di  diigli  che  io  scrivendo  di  siffatta  ma- 
teria desidero  il  vero  pubblico  bene  senza  civili  tur- 
bamenti ;  che  per  natura  ,  per  costume  e  per  ra- 
gionamento anjo  la  pace  ;  e  che  ho  quest'  amore 
apertamente  significato  nei  seguenti  versi  della  mia 
Visione  poetica  C.   XX  ; 


21S 

30.  Io  fui  mai  sempre  amico  della  pace  : 

E  nelle  antiche  storie  e  nelle  nuove 
Stizzosamente  la  maligna  face 

31 .  Della  Discordia  io  sempre  guato  ;  e  dove 
Discerno  la  cagione  che  raccende, 

E  veggo  la  persona  che  la  muove, 

32.  Vorrei  lanciarmi  per  squarciar  la  benda, 

Che  non  lascia  veder  come  quel  foco 
Nella  parte  miglior  ratto  si  apprenda. 

E  se  lo  vedete  paziente  e  maravigliato  dell'  ardi- 
mento mio  nel  pubblicare  con  le  stampe  questi  bre- 
vissimi saggi  di  filosofia  morale  nel  tempo  che  tutto 
il  mondo  è  in  gran  tempesta  ,  e  in  ogni  dove  si 
ragiona  dei  diritti  e  dei  destini  de'  più  antichi  reami 
e  dei  più  vasti  imperi;  gli  direte,  che  se  la  voce  dì 
un  uomo  in  basso  stato  è  nel  nostro  tempo  vana, 
tale  forse  non  sarebbe  quella  di  un  possente  av- 
valorata dall'eco  di  molti  dotti  ed  onesti  scrittori, 
e  che  nelle  grandi  imprese  è  pur  lodevole  il  solo 
tentarle.  State  sano  e  come  rupe  nelle  vostre  virtù 
civili  fermissimo. 


216 


Terapia.  Di  Vincenzo  Catalani  dottore  in  medicina  e 
chirurgia.  (Continuazione) 

SEZIONE  QUARTA. 

Entiatemesi. 
CAPO  PBIMO. 

Definizione. 


L 


ematemesi  ò  il  vomito  di  sansue  o  rosso-florido 


o^ 


e  fluido  ,  o  atro  e  coagulalo  in  grumi  ;  o  puro  o 
mischiato  colle  deglutite  sostanze.  Che  emanato  dal- 
l' interna  superficie  del  ventricolo  e  dalle  contigue 
parti,  esce  per  il  cardias  e  per  il  piloro,  e  per  se- 
cesso e  per  vomito  scappa  dal  corpo. 

CAPO  SFXONDO. 

Forma. 

1  prodromi  dell*ematemesi  sono  l'addominale  ten- 
sione, la  dolorosa  epigastria  sensazione,  la  palpita- 
zione, la  diffìcile  respirazione,  il  singhiozzo,  la  car- 
dialgia, l'aberrazione  della  sete  e  della  fame,  la  flatu- 
lenza, la  nausa,  il  vomito,  ed  il  nauseante  dolciume 
che  nella  bocca  sentesi,  e  la  lemittente  e  lenta  or- 
ganica  reazione.  Fenomeni,  che  oltre  il  non  essere 


217 

continui,  egualmente  in  lutti  non  si  manifestano,  e 
compariscono  e  scompaiiscono  ;  e  senza  tosse  vo- 
mitasi poi  0  puro  sangue,  o  disciolto  o  coagulalo, 
0  corrotto  e  fetido,  o  mescolato  alle  biliose  zavorre. 
Ed  il  sangue  dall'  interna  ventricolare  superficie  ema- 
nato, non  solo  scappa  per  l'esofago,  ed  anche  scorre 
per  r  intestinale  tubo;  e  per  vomito  e  per  secesso 
viene  espulso  dal  corpo. 

CAPO  TERZO. 

Cattse  remote. 

Ed  all'ematemesi  predispone  il  vizio  organico  , 
l'anemia  e  principalmente  la  pletora.  E  cause  de- 
terminanti sono  l'epigastrica  compressione,  i  corpi 
esterni,  vivi  che  mordono,  e  morti  che  corrodono; 
lo  scorbuto,  la  lenta  gastrite,  il  cancro,  e  la  scom- 
parsa del  flusso  emorroidale  e  della  mcnsilericorrenza. 

CAPO  QUARTO. 

Causa  prossima. 

E  dell'ematecnesi  la  condizione  è  la  mancanza 
della  correlativa  corrispondenza  tra  la  capillare  re- 
sistenza, la  crasi  e  1'  impeto  del  sangue;  per  cui  in 
parte  versatosi  nel  ventricolo  è,  per  l'apertura  car- 
diaca e  pilorica,  espulso  dal  corpo  o  per  vomito  o 
per  secesso. 


218 
CAPO  QUINTO. 

Necroscopici. 

Nel  cadavere,  di  chi  per  ematemesi  era  morto, 
è  stata  trovata  la  ventricolare  mucosa  arrossata,  in- 
gorgata, biancata  ed  anemica.  Varicose  e  dilatate  le 
vene,  ed  aperte  le  arteriose  diramazioni.  Scoriate  le 
glandole;  ulceri  estese  e  profonde;  1'  indurimento,  lo 
scirro  ed  il  ventricolare  cancro. 

CAPO  SESTO. 

Pronostico. 

« 

La  stomacale  emorragia  è  meno  comune  dell'al- 
tre ;  e  più  spesso  nelle  adulte  femmine,  che  nelle 
altre  età  e  negli  uomini  comparisce.  E  la  conse- 
cutiva alla  pletora  ed  alla  scomparsa  del  flusso  emor- 
roidale e  della  mensile  ricorrenza  facilmente  col 
salasso  guariscesi  ,  e  col  richiamare  le  scomparse 
evacuazioni.  Spesso  ritorna;  ed  è  anche  periodica; 
e  raramente  ò  strabocchévole  al  segno  da  farci  al- 
l' istante  morire. 

CAPO  SETTIMO. 

CAira. 

Alla  pletorica  ematemesi  giova  il  salasso  ed  il 
piediluvio  ,  che  dallo  stomaco  allontana  il  sangue. 


I 


219 

Ed  alla  consecutiva  alla  scomparsa  dell'ediorroidale 
flusso  ,  e  della  mensile  l'icorrenza  nella  vulva  e 
nell'ano  le  sanguisughe  si  attaccano.  E  le  giovano 
gli  acidi  e  la  china,  se  dallo  scorbuto  ella  deriva. 
Ed  alla  stenia  succedendo  l'adinamia,  l'astringente 
prescrivesi;  e  le  languenti  forze  si  rianimano,  e  si 
nutrisce  alquanto  V  infermo.  Internamente  poi  vo- 
lendosi il  freddo  applicare,  affinchè  sia  giovevole, 
deve  essere  continuo, altrimenti  nuoce.  Esternamente 
poi  applicato  è  sempre  nocevole.  Mentre  è  impos- 
sibile che  raffreddi  la  superficie  intei-na  del  ventricolo. 
Altro  adunque  non  fa,  che  farci  afifluiie  maggiore 
copia  di  sangue.  Ecco  come  i  rimedi  dagli  inesperti 
prescritti  giovano  a  caso,  e  quasi  sempre  nocciono. 

SEZIONE  QUINTA. 

Enteroragia. 
CAPO  PRIMO. 

Definizione. 

■'tei 

L'enteroragia  è  il  sangue,  che  enjana  dalla  su- 
perfìcie interna  del  tubo  intestinale;  che  non  è  flusso 
emorroidale  ,  e  che  se  congiungesi  alla  stomacale 
emorragia  dicesi  melena. 


220 
CAPO  SECONDO. 

Forma. 

L'enteroragia  è  l'anello,  che  congiunge  l'ema- 
lemesi  all'  emorroidale  flusso.  E  Y  appariscente  sua 
manifestazione  consiste  nella  forma  dell'una  e  del- 
l'altra. Ed  è  la  tipica  espressione  della  gastro-en- 
terica emorragia.  In  questa  come  in  quelle  versasi 
sangue  per  secesso  e  per  vomito.  Per  poco  sangue 
che  versasi,  talora  si  muore;  tale  altra  molto  se  ne 
versa  e  si  guarisce;  ed  il  caso  contrario  può  anche 
succedere.  Una  sola  volta  può  comparire,  ed  anche 
più  volte  ,  e  prendere  un  tipo  ;  e  durare  qualche 
giorno,  ed  anche  maggiormente  prolungarsi. 

CAPO  TERZO. 

Cause  remole. 

All'enteroragia  ci  predispongono  la  pletora  ed  il 
bilioso  temperamento.  E  ce  la  determina  la  cronica 
enterite,  la  follicolare  esulcerazione,  lo  scirro  ed  il 
cancro,  la  verminosa  zavorra,  l'intempestiva  scom- 
parsa del  flusso  emorroidale  e  della  mensile  ricor- 
renza. 

CAPO  QUARTO. 

Causa  prossima. 

E  causa  prossima  dell'cnteroragia  è  o  la  potenza, 


221 

che  direttamente  consuma  l' intestinale  mucosa,  ed 
apre  i  vasi;  o  il  rilasciamento  dell'enterica  capilla- 
l'ilà,  per  cui  non  più  completamente  reagisce  all'  im- 
peto del  sangue,  e  lo  lascia  in  parte  scappare. 

CAPO  QUINTO. 

Necroscopia. 

Nel  cadavere,  di  chi  per  enteroragia  era  morto, 
è  stato  trovato  poco  ed  anche  disciolto  sangue.  K 
neir  intestinale  tubo  sangue  aggrumalo  e  sciolto. 
E  r  interna  mucosa  ora  rilasciata  e  bianca ta;  ed  ora 
arrossata  ed  ingorgata.  I  vasi  dilatati  e  varicosi,  i 
follicoli  esulcerati,  e  la  parete  intestinale  perforata, 
indurita,  scirrosa  e  cancerosa. 

CAPO  SESTO. 

Pronostico. 

La  melroragia,  che  dalla  pletora  deriva,  facil- 
mente guariscesi;  e  segue  i  pericoli  della  malattia 
la  sintomatica;  a  cui  è  anche  complicazione  fune- 
sta. Qualche  volta  versasi  poco  sangue,  e  si  muore; 
allre  moltissimo,  e  si  campa;  ed  anche  ha  luogo  il 
contrario  caso.  Una  sola  volta  comparisce,  e  si  di- 
legua, e  non  ritorna;  ritorna  ancora,  e  prende  pe- 
riodico corso.  Può  esservi  una  sola  cruenta  evacua- 
zione, e  molte  ancora;  e  persistere  oltre  alla  decima 
giornata;  e  chi  la  soffre  sfinire  per  la  continua  per- 
dita di  sangue. 


222 
C.\PO  SETTIMO. 

Cura. 

Se  dalla  pletora  dipende  ,  cavasi  sangue  ;  e  se 
dall'  intempestiva  scomparsa  del  flusso  emorroidale 
^  dalla  mensile  ricorrenza,  si  attaccano  le  sangui- 
sughe nell'ano  e  nella  vulva,  e  si  fanno  i  profondi 
e  caldi  piediluvi.  E  la  freddo-oppiata  bevanda  in- 
troducesi  per  le  due  estremità  del  gastro-enterico 
canale;  in  cui  si  introducono  egualmente  gli  astrin- 
genti; verbigrazia,  la  ratania,  la  limonata  vegetabile 
e  la  minerale,  l'acqua  di  Rabel  e  l'emostatica  del 
Pagliari. 

SEZIONE  SESTA. 

Atro-gastro-enteroragia. 

CAPO  PRIMO. 

Definizione. 

L'atro-gisstro-enteroragia  ò  il  sangue  nero  e  vi- 
scoso, che  dopo  avere  stagnato  negli  infarciti  vasi, 
stravasa  dalla  superficie  interna  del  tubo-gastro-cn- 
terico  ;  e  che  egualmente  è  poi  espulso  dal  corpo 
per  vomito  e  p(M'  secesso. 


223 
CAPO  SECONDO. 

Forma. 

Ai  macilenti  ipocondrici,  paUido-gialIaslri  e  ver- 
dognoli si  tumefà  e  duole  il  ventre;  ed  agli  addo- 
minali dolori  succedono  i  borborismi  ed  i  toimini. 
Gli  si  stremano  le  forze  ,  gli  vacillano  i  sensi  ,  e 
cadono  in  eminente  lipotomia.  E  poi  gli  si  aprono 
le  varici,  egli  infarciti  vasi  nelK  interno  del  gaslro- 
enterico-canale  ;  in  cui  versasi  viscoso  e  nerissimo 
sangue,  che  dal  corpo  viene  espulso  per  vomito  e 
per  secesso. 

CAPO  TERZO. 

Cause  remote. 

La  predisposizione  all'atro-gastro-enterico-etnor- 
ragia  è  la  venosa  [)revalenza  nel  bilioso  ii)ocondrico; 
cui  innalzano  alla  condizione  di  malattia  le  debili- 
tanti e  disorganizzanti  potenze,  che  la  debolezza  e 
la  corruzione  determinano  ,  e  nel  tubo  gasti-o-en- 
terico  maggior  copia  di  sangue  spingono  impuro  e 
corrotto. 

CAPO  QUARTO. 

Causa  prossima. 

La  condizione  dell'  atro-gaslro-enterica-emor- 
ragia  ò  il  venoso  temperamento,  ed  il  rilasciamento 
della  capillarità  della  superficie  interna  del  gastro- 


224 

enterico  opinale;  per  cui  prima  ii  sangue  vi  ristagna 
e  si  conompe;  e  poi  viscoso  e  nero  nel  canale  si 
versa,  e  per  le  due  estremità  si  rigetta. 

CAPO  QUINTO. 

Necroscopia. 

Nel  cadavere,  di  chi  per  l'atro-gastro-enterica- 
emorragìa  era  morto,  ò  stata  trovata  la  superficie 
interna  del  gastro-enterico-caoale  intonacata  di  vi- 
scoso e  nerissimo  sangue.  Che  essendo  stata  la  mu- 
cosa lavala,  è  stata  trovata  varicosa,  esulcerata,  e 
in  vari  luoghi  staccata  dalla  sottoposta  membrana. 

CAPO  SESTO. 

Pronostico. 

Il  pronostico  dell'atro-gastro-enterica- emorragia 
è  sempre  funesto;  e  di  sperarne  la  g\iarigione  non 
vi  è  ragione,  se  alla   tifoide  congiungesi. 

CAPO  SETTIMO. 

Cura. 

Oltre  alla  cura  del  morbo,  di  cui  ella  può  es- 
sere 0  consecutiva,  o  complicazione,  o  sintomatica 
manifestazione;  sempre  bene  internamente  le  fanno 
il  succo  della  mela  granata,  la  fredda  e  gelata  acqua, 
la  minerale  e  la  vegetabile  limonata.  E  nella  emi- 


225 

«ente  lipotomia  ricoriesi  al  siero  alluminoso  e  al- 
l'alcool disciolto  in  freddissima  acqua;  ed  anche  ie 
giova  l'acqua  emostatica  del  Rabel  e  del  Pagliari. 

SEZIONE  SETTIMA. 

Emorroide. 
CAPO  PRIMO. 

Definizione. 

L'emorraidale  flusso  è  lo  scolo  che  proviene  dal 
retto  ,  e  che  scappa  dall'ano  ,  di  puro  sangue  ,  ed 
anche  di  sierosità  e  di  materia  puriforme.  Cui  co- 
gnominarono occulta,  interna,  cieca,  bianca,  mucosa, 
critica,  sintomatica,  abituale,  periodica,  secondaria  e 
primaria. 

CAPO  SECONDO. 

Foìma. 

I  prodromi  degli  emorroidali  tumori,  che  devono 
venire  fuori,  sono  i  brividi,  il  vago  dolore  e  certa 
dorsale  e  lombare  oppressione,  e  la  bianca  e  mucosa 
evacuazione,  a  cui  succede  lo  scolo  di  sangue.  Qual- 
che volta  non  escono,  e  poco  crescono;  ed  escono  an- 
cora, e  molto  si  ingrossano  ;  e  difficile,  ed  anche 
impossibile  rendono  l'alvina  evacuazione.  Incomodo 
il  movimento  diventa,  e  penosa  la  stazione;  e  chi 
le  soffre  è  abbattuto  e  dolente.  11  dolore  limitasi 
nel  retto,  ed  anche  maggiormente  estendesi,  colica 
G.A.T.CLXIII.  15 


226 

emorroidale.  E  la  prodrometria  dell'emorroidale  flusso 
dall'  una  estendesi  alla  decima  giornata  ;  e  poi  in- 
comincia a  colare  il  sangue  ,  e  viene  rimettendosi 
il  penoso  stato.  Spesso  nella  medesima  maniera  ri- 
compariscono e  rispariscono;  vaghe  frequentemente 
sono,  e  raramente  periodiche. 

CAPO  TERZO. 

Cause  remote. 

11  temperamento  sanguigno-bilioso  all'  emor- 
roidale flusso  predispone  ;  cui  determinano  i  nu- 
trienti, gli  eccitanti,  la  venere,  la  stazione,  l'equi- 
tazione, la  costipazione,  e  l'abuso  dei  purganti. 

CAPO  QUARTO. 

Causa  prossima. 

La  condizione  del  flusso  emoroidale  è  il  rilascia- 
mento delle  membrane  dei  vasi  emorroidali;  per  cui 
essi  cedono  ,  e  non  resistono  all'  impeto  del  san- 
gue; sì  dilatano,  formano  tumori,  e  versano  sangue. 

CAPO  QUINTO. 

Necroscopia. 

In  principio  trasuda  il  sangue,  senza  che  vi  siano 
tumori,  ed  il  retto  intestino  è  rosso  ed  ingorgato. 
In  seguito  formansi  i  tumori;  che  in  principio  sono 


227 

semplici  varici;  poi  cisti  a  cellulose  pareti;  ed  infine 
erettili  tumori  di  annulare  tessuto  con  sviluppala  rete. 
Ora  poco  crescono  ;  ed  ora  molto  si  estendono,  e 
sono  mostruosi;  suppurano,  ed  anche  si  gangrenano. 

CAPO  SESTO. 

Pronostico. 

Prevengonsi  l'emorroidi; e  difficilmente  guariscon- 
si ,  se  venute  sono  fuori.  Irritandole  infilamraansi  , 
suppurano,  ed  anche  si  gangrenaoo.  Intempestiva- 
mente represse  ,  producono  interni  malanni  ;  che  , 
non  richiamandole  presto,  fannoci  anche  morire. 

CAPO  SETTIMO. 

Cura. 

Si  combattono  le  nascenti  emorroidi;  e  non  si  re- 
primono ,  se  a  sollievo  d'  altro  malanno  fluiscono. 
E  se  contratta  hanno  abitudine  ,  si  lasciano  fare  ; 
e  moderansi,  se  smodate  sono.  Alla  turgida,  infiam- 
mata e  non  fluente  emorroide  attaccansi  le  sangui- 
sughe nell'ano;  ed  anche  giovale  il  cataplasma  am- 
molliente. Ed  alla  intempestiva  scomparsa,  altro  peg- 
giore malanno  venendo  fuori,  devonsi  prestamente 
richiamare  o  col  vapore  dell'acqua  bollente,  o  colle 
sanguisughe  nell'anno  attaccate.  E  per  sempre  dif- 
ficilmente guarisconsi;  e  gli  astringenti  localmente 
applicati,  la  legatura,  l' incisione  e  l'escisione  sono 
cose  pericolose,  e  quasi  sempre  riprovevoli. 


228 
SEZIONE  OTTAVA. 

Uropoìetragia. 

CAPO  PRIMO. 

Definizione. 

L'ui'opoietragia  è  la  sanguigna  emanazione,  che 
se  compiesi  nei  reni  dicesi  renale,  negli  ureteri  ure- 
terica, nella  vescica  vescicale,  nell'uretra  emorragia 
uretrale  o  m'etroragia.  E  solo  d'una  di  queste  parti, 
0  successivamente  dall'una  e  dall'altra,  o  da  tutte 
nello  stesso  tempo  il  sangue  emana. 

CAPO  SECONDO. 

Forma. 

Il  sangue  morbosamente  emana  dai  reni,  dagli 
ureteri,  dalla  vescica  e  dall'uretra.  E  nella  sanguigna 
renale  emanazione  sentesi  calore,  fastidiosa  gravezza, 
e  incomoda  lombare  tensione.  E  poco  sangue  emana 
dalla  superfìcie  interna  degli  ureteri;  in  cui  il  ca- 
lore ,  la  gravezza  ed  il  dolore  sentesi  nello  spazio 
interposto  tra  i  reni  ed  il  trigone  vescicale.  E  sen- 
tesi ardore,  peso  e  dolore  ipogastrigo,  se  il  sangue 
emana  dalla  sola  interna  superficie  della  vescica.  E 
piccoli  e  concentrati  sono  i  polsi,  freddo  il  sudore, 
e  ricorrente  la  lipotomia.  E  gli  ipogastrici  incomodi 
della  ematuria  quasi  sempre  sono  interposti  da  sfug- 


229 

gevole  organiga  reazione.  E  sentesi  poi  nell'uretre- 
ragia,  lungo  all'  uretra,  bruciore,  tensione,  ed  an-^ 
che  vi  è  erezione  e  priapismo.  Tale  quadruplice  san- 
guigna emanazione,  che  dal  medesimo  fuori  il  san- 
gue dal  corpo  scappa;  ora  è  periodica  e  vaga;  ed  ora 
primaria  e  sintomatica;  ora  attiva,  ed  ora  passiva;  ora 
critica,  ed  ora  acritica  e  traumatica. 

CAPO  TERZO. 

Cause  remote. 

Il  venoso  temperamento  e  la  pletora  all'uropo^ 
ietragia  predispongono;  cui  innalzano  alla  condizione 
di  malattia  le  percosse,  l'equitazione,  i  diuretici,  i 
calcoli,  la  lenta  infiammazione,  le  ulceri,  Io  scirro» 
il  carcinoma,  e  la  scomparsa  del  flusso  emorroidale 
e   della  mensile  ricorrenza^ 

CAPO  QUARTO. 

Causa  prossima. 

La  condizione  dell'emanazione  sanguigna  renale, 
Ureterica,  vescicale  e  uretrale  è  o  la  potenza  chi- 
mico-organica, che  lacera  e  rompe  i  vasi,  per  cui  ver- 
sasi sangue;  o  il  rilasciamento  della  capillarità;  che  di- 
ramasi neir  interna  superficie  del  sistema  uro-poìe- 
tico,  per  cui  non  più  resiste  all'  impeto  del  sangue* 
che  dai  vasi  scappa. 


230 
CAPO  QUINTO. 

Necroscopia. 

I  reni  sono  stati  trovati  nei  cadaveri,  di  chi  per 
«ropoietragia  era  morto  ,  ipertrofizzati  ,  ulcerali  e 
tubercolosi,  induriti  ed  anche  rammolliti,  ingorgati 
e  varicosi,  ed  anche  bìancati  ed  esangui.  Gli  ureteri 
dilatati;  ulcerati,  ingorgati  e  varicosi,  ed  anche  ri- 
stretti e  rammolliti.  E  la  vescica  esangue  e  ram- 
mollita; e  spesso  ingorgata,  varicosa,  scirrosa  e  car- 
cinomolosa.  E  l'uretra  quasi  sempre  ingorgata  ed 
ulcerata.  Organiche  alterazioni,  che  non  sono  state 
trovate  in  un  cadavere;  e  che  sono  il  sunto,  di  ciò 
che  si  è  osservato  nell'autopsie,  che  sono  state  fatte. 

CAPO  SESTO. 

Pronostico. 

Tanto  pericolosa  non  è  la  pletorica  uropoietragìa, 
che  ce  la  mantiene  o  la  scomparsa  d'altra  sanguigna 
evacuazione,  che  facilmente  può  richiamarsi,  o  l'equi- 
tazione, 0  l'abuso  dei  diuretici.  E  molto  pericolosa 
è  quando  deriva  dall'universale  rilasciamento  della 
capillarità  del  sistema  uro-poietico,e  che  all'adinamia 
congiungesi. 


■*-*. 


^1 

CAPO  SETTIMO. 

Cura. 

La  cura  non  discorriamo,  che  cura  le  malattie» 
di  cui  ella  è  sintomatica.  E  nell'  attiva  ,  finché  vi 
è  pletora,  caviamo  sangue.  E  nell'intempestiva  scom- 
parsa del  flusso  emorroidale  e  della  mensile  ricor- 
renza ,  le  sanguisughe  nella  vulva  e  nell'  ano  at- 
tacchiamo. E  promoviamo  la  intestinale  revulzione| 
e  la  bevanda  fredda  e  sub-acida  prescriviamo.  Alla 
passiva  uropoietragia  male  fanno  i  rilascianti  ,  e 
le  sottrazioni  sanguigne;  e  bene  si  conviene  il  nu^ 
triente  e  1'  astringente.  Ed  alcuni  forse  malamente 
prescrivono  i  rimedi»  che  allo  stimolo  congiungono 
il  restringimento  ;  verbigrazia,  V  elesir  di  vetriolo» 
la  polvere  di  Dower,  la  digitale,  la  corteccia  peru- 
viana, r  allume  ,  la  gomma  Kino  ,  e  1'  emostatiche 
acque.  E  bene  fanno  nell*  uretroragia  le  iniezioni 
astringenti,  e  l' interna  e  l'esterna  compressione* 

SEZIONE  NONA. 

Metroragia. 
CAPO  PRIMO. 

Definizione, 

La  metroragia  è  il  sangue  che,  dai  vasi  uterini 
emanando  ,  scappa  ,   per  la  vulva  ,  al  di  fuori  del 


232 

corpo.  E  la  raonsile  ricorrenza  ,  nella  nostra  fem~ 
mina,  non  ò  preternaturale  emorragia  ;  e  solo  tale 
la  rende  la  strabocchevole  quantità  di  sangue,  che 
dagli  uterini  vasi  versasi. 

CAPO  SECONDO. 

Forma. 

La  metroragia  eminente  annunciano  i  brividi  da 
vampe  di  calore  interposti  ,  il  pieno  duro  e  fre- 
quente polso,  il  calore  vaginale  ed  uterino,  il  peso 
ed  il  lombare  dolore,  V  intorpetimenlo  e  la  lassezza 
delle  pelviche  membra.  E  viene  poi  l'oripilazione  > 
ed  il  sangue  incomincia  a  scorrere  per  la  vagina. 
Ed  in  contraria  proporzione,  che  si  versa,  si  dimi- 
nuiscono i  fenomeni  di  locale  congestione.  Dura  per 
tempo  indeterminato;  ed  anche  la  quantità,  che  ver- 
sasi, non  è  la  stessa  ;  ed  anche  in  poche  ore  fino 
alla  lipotomia  versasi,  e  ritorna  o  no,  per  indeter- 
minate volte. 

CAPO  TERZO. 

Cause  remote. 

L'adolescenza,  il  sanguigno  ed  il  nervoso  tem- 
peramento alla  metroragia  le  fanciulle  predispongono; 
e  ad  esse  la  determinano  l'abuso  dei  nutrienti,  gli 
stimolanti,  il  calore,  gli  emenagoghi,  le  commoventi 
e  deluse  passioni,  la  non  soddisfatta  venere,  e  l'abuso 
del    sessuale  piacere. 


233 
CAPO  QUARTO. 

Causa  prossima. 

La  causa  prossima  della  metroragia  è  la  potenzn 
che  tronca  i  vasi  e  rilascia  e  indebolisce  la  capil- 
larità, che  diramasi  nella  interna  superficie  dell'utero 
e  della  vagina;  per  cui  non  più  resiste  all'  impeto 
del  sangue ,  che  versasi  e  per  la  vulva  dal  corpo 
scappa. 

CAPO  QUliNTO. 

Necroscopia. 

Nei  cadaveri,  di  chi  per  metroragia  erano  morti, 
in  alcuni  nulla  di  rimarchevole  hanno  trovato  nel- 
r  interna  superfìcie  dell'utero  e  della  vagina;  ed  in 
altri  hannovi  trovate  rosee  macchie,  vasi  ingorgali 
e  varicosi,  scirrosi  indurimenti,  polipi  e  sarcomi, 
e  cancerose  degenerazioni.  E  corpi  estranei  hanno 
ancora  trovati  neh'  interna  cavità  dell'utero;  verbi- 
grazia,  la  placenta,  le  moli,  ed  i  frastagli  di  feto. 

CAPO  SESTO. 

Pronostico. 

La  metroragia  anche  una  volta  viene  ,  e  non 
ritorna;  spesso  ritorna,  e  di  raro  diventa  regolare 
e  tipica.  Spesso  è  continua;  e  diverse  giornate  dura. 


234 

E  se  dura  lungamente  ed  è  abbondante,  sfinisce  e 
consuma,  e  fa  moiiie. 

CAPO  SETTIMO. 

Cura. 

Alla  melroragia  bene  si  applicano  le  cose,  che 
giovano  alle  altre  cruenti  evacuazioni.  A  cui  l' in- 
dividuale condizione  determina  la  cura.  Ed  alla  donna 
atletica  e  pletorica  ,  lasciasi  il  sangue  liberamente 
colare,  finche  vi  è  pletora.  E  se  chi  la  soffre  è  de- 
bole, e  dalla  stenia  è  alfadinamia  passata  ,  prima 
si  estraggono,  se  vi  sono,  i  corpi  dall'uterina  cavità, 
e  poi  ricorresi  agli  astringenti  ,  ai  nutrienti  ed  ai 
corroboranti.  E  localmente  gli  astringenti  ancora  si 
applicano;  e  se  questi  non  giovano,  al  tamponamento 
ricorresi. 

CONCLUSIONE. 

Abbiamo  discorse  le  principali  emanazioni  san- 
guigne ;  e  certe  altee  né  meno  le  abbiamo  nomi- 
nale ;  verbigrazia,  quella  che  compiesi  nella  pelle, 
nell'occhio  ,  nell'orecchio  ,  nell'ombellico  ,  e  d'ogni 
parte  del  corpo,  che  tagliata  versa  sangue,  emorra- 
gia traumatica.  Ed  abbiamo  solo  esposto  le  prin- 
cipali e  tipiche  cruenti  emanazioni;  perchè  da  quello 
che  abbiamo  detto  di  queste  facilmente  rilevasi 
ciò  che  potremmo  dire  delle  altre.  Una  parte  l'ab- 
biamo lasciata  a  fare  a  chi  legge;  mentre  negli  altri 
presupponiamo  sempre  mente  e  discernimento. 


23G 
PARTE  SECONDA. 

Emanazioni  sieriose. 

La  sierosa  emanazione  è  l'abbondante  secrezione 
ed  escrezione  di  quasi  aeriforme  prodotto;  che  colla 
forma  di  limpida  e  tenue  sierosità  scappa  dall'esterne 
e  dalle  interne  superfìcie  del  corpo.  Se  dall'esterne 
emana,  la  dicono  sieroso  profluvio;  se  dalla  interna, 
sierosa  ritenzione.  E  noi  che  questa  accidentalità  non 
calcoliamo,  riuniamo  l'une  alle  altre,  e  in  questa 
seconda  parte  1'  esponiamo.  E  come  1'  emanazioni 
sanguigne,  solo  le  principali  discorriamo;  mentre  in 
chi  legge  ottimo  discernimento  noi  supponiamo. 

SEZIONE  PRIMA. 

Efidrosi. 
CAPO  PRIMO. 

Definizione. 

L'  efidrosi  è  il  parziale  e  il  generale  aumento 
della  insensibile  traspirazione  cutanea;  a  cui  al  di- 
fetto di  quantità  congiungesi  spesso  quello  di  qua- 
lità. E  generale  e  parziale  ,  sintomatica  e  critica  , 
ed  anche  acritica  e  colliquativa. 


236 
CAPO  SECONDO. 

Forma. 

Il  sudore  precede  l'aumento  del  movimento  car- 
dìaco-vascolare e  della  calorificazione.  I  polsi  si  ac^ 
cellerano,  ed  il  corpo  si  riscalda  e  suda;  ed  anche 
si  raffredda  e  suda;  ed  il  sudore  è  viscoso  e  freddo^ 
Spesso  dall'  intera  superfìcie  del  corpo  emana,  ge- 
nerale ejìdrosi;  e  di  raro  parzialmente  sudasi,  par- 
ziale efidrosi.  E  tenue  e  viscoso  ;  ed  ora  natural- 
mente odora;  ed  ora  l'odore  che  tramanda  è  ace- 
toso, vinoso  e  cadaverico.  E  solamente  non  mutasi 
l'odore;  ma  anche  il  sapore,  il  colore  e  la  quantità. 
Ora  è  giallo-pallido,  ora  luteo  e  croceo;  ora  ver- 
dastro, ora  sanguigno  e  ceruleo,  ed  ora  nero.  Ed 
anche  è  moderato,  abbondante,  critico,  acritico  e 
colliquativo. 

CAPO  TERZO. 

Cause  remote. 

L'  elevata  temperatura  è  principale  causa  del- 
l'efìdrosi.  E  quando  generalmente  e  parzialmente  ri- 
scalda, la  insensibile  traspirazione  aumenta. 

CAPO  QUARTO. 

Causa  prossima. 
E  la  condizione,  per  cui  sudasi,  è  l'aumentatasi 


237 

azione  del  sistema  cardiaco-vascolare  ;  per  cui  il 
sangue  con  maggiore  impeto  se  ne  viene  nella  pe- 
riferia del  corpo;  e  la  pelle  si  riscalda,  i  pori  e  gli 
esalanti  si  dilatano,  ed  il  corpo  di  sudore  bagnasi. 

CAPO  QUINTO. 

Necroscoifia. 

Invano  cercasi  nel  cadavere  la  patologica  con- 
dizione, in  chi  vivendo  fuvi  colliquativo  sudore.  Im- 
perocché se  egli  è  leggero,  non  è  pericoloso;  e  se 
è  abbondante  e  colliquativo,  è  sempre  sintomatico 
della  malattia  che  fa  morire. 

CAPO  SESTO. 

Pronostico. 

Il  copioso  e  fetente  sudore,  che  in  certuni  dal- 
l'ascella e  dalla  pianta  del  piede  emana,  solo  è  pe- 
ricoloso se  intempestivamente  sopprimesi.  Ed  il  par- 
ziale, il  freddo  e  viscoso  sudore  non  è  cosa  buona; 
e  pessimo  è  poi  il  colliquativo,  che  nelle  gravi  ma- 
lattie le  forze  estrema.  Buono  è  il  critico,  che  non 
devesi  reprimere,   ma  che  anzi  bisogna  favorire. 

CAPO  SETTIMO. 

Cura. 
Rimediasi  al  copioso  acritico  sudore  col  dimi- 


238 

nuire  i  panni  che  ci  coprono,  col  moderare  la  tem- 
peratura dell'aria  che  ci  circonda,  colla  bevanda  ri- 
frescante, e  coU'allontaparci  dagli  eccitanti  e  dai  ri- 
scaldanti che  di  soverchio  la  traspirazione  promuo- 
vono. Ed  al  sudore  adinamico  giovano  i  corrobo- 
ranti; ed  all'alassico  gli  antispasmodici.  E  favoriscesi 
il  critico  ;  ed  il  sintomatico  curasi  ,  col  curare  il 
malanno  che,  ci  fa  sudare. 

SEZIONE  SECONDA. 

Anasarca. 
CAPO  PRIMO. 

Definizione. 

L'anasarca  è  il  sieroso  infìltiamento  del  cellulare 
tessuto;  che  può  formarsi,  come  in  fatto  formasi  , 
in  qualsiasi  parte  ove  esso  trovasi.  Cui  dividono  in 
attiva  e  passiva,  in  primaria  e  secondaria  ed  in  sin- 
tomatica. 

CAPO  SECONDO. 

Forma. 

Svoli,esi  sempre  nell'attiva  anasarca  qualche  flo- 
gistico fenomeno;  e  nell'adinamica  nulla  di  soverchio 
eccitamento  osservasi.  In  certe  parti  del  corpo  il 
locale  circoscrivesi;  ed  invade  l'universale  l'esterna 
superfìcie  del  corpo  ,  ed  anche  nell'  interna  esten- 
desì.  Lentamente  viene;  e  quando  è  universale  prin- 


239 

cipia  attorno  al  malleolo  ed  al  dorso  del  piede,  e 
poi  estendesi  verso  le  gambe,  le  cosce  e  lo  scroto; 
invade  il  petto,  il  collo,  la  testa  e  le  toraciche  mem- 
bra ,  ed  infine  V  addome  e  ovunque  diffondesi.  Ed 
estendesi  ancora  l' infiltramento  nell'  interne  parti 
del  corpo  ;  e  nelle  cavità  sierose  la  sierosità  ac- 
cumulasi. 

CAPO  TERZO. 

Cause  remole. 

Segue  principalmente  l'anasarca  l'erisipela  ede- 
matosa. E  le  femmine  e  i  vecchi  sonovi  maggior- 
mente predisposti.  E  nella  femmina  meglio  viene 
fuori  nel  venire  meno  la  mensile  ricorrenza.  E  poi 
la  determina  quando  impedisce  I'  abituale  evacua- 
zione, e  che  la  cutanea  deflorescenza  determina. 

CAPO  QUARTO. 

Causa  prossima. 

L'  anasarchica  condizione  ascondesi  nella  lenta 
ed  anche  istantanea  soppressione  della  sierosa  eva- 
cuazione; per  cui  la  sierosità  non  potendo  più  dal 
corpo  scappare  si  accumula  e  adinamicamente  ingorga 
il  cellulare  tessuto. 


240 
CAPO  QUINTO. 

Necroscopia. 

Le  anatomiche  investigazioni  dell'edematose  parti 
hanno  mostrato  il  cellulare  tessuto  turgido  e  di  sie- 
rosità inzuppato  ,  ed  anche  arrossato  e  di  sangue 
ingorgato,  e  qua  e  là  indurito,  e  contenente  marcia 
sierosa  e  sanguinolenta. 

CAPO  SESTO. 

Pronostico. 

Spontaneamente  anche,  nei  giovani,  o  col  sudore 
o  coH'orina  risolvesi:  e  colla  sanguigna  emanazione, 
se  lo  mantiene  l' irritazione  e  la  lenta  infiammazione. 
E  non  più  ritorna  guaritasi  ,  ed  anche  facilmente 
riproducesi.  Ora  si  limita,  ed  ora  maggiormente  si 
diffonde.  E  nella  vecchiaia  facilmente  V  esterna  e 
r  interne  superficie  invade;  ed  il  vecchio  fa  lenta- 
mente morire. 

CAPO  SETTIMO. 

Cura. 

Il  morbo  primario  che  si  guarisce,  la  sintoma- 
tica anasarca  risolve.  E  gli  antiflogistici  ed  i  re- 
vulsivi sono  indicati  all'attiva,  ed  alla  consecutiva 
alla  cutanea  dcflorescenza.  Ed  il  salasso  le  nuoce, 


241 

dileguala  che  siasi  la  morbosa  irritazione.  E  bene 
allora  le  fanno  i  tonici,  che  le  languenti  forze  so- 
stengono; e  gli  evacuanti;  verbigrazia,  gli  emeto-ca- 
tartici,  i  diuretici  e  i  diaforetici. 

SEZIONE  TERZA. 

Idrotorace. 
CAPO  PRIMO. 

Definizione. 

L' idrotorace  è  la  sierosa  colluvie  nell'  esterna 
superficie  o  costale  o  polmonare,  o  nella  cavità  della 
pleura;  che  raramente  è  primaria,  e  che  quasi  sem- 
pre è  consecutiva  alla  pleuro-pneumonite.  E  l'esala- 
zione, che  l'assorbimento  predomina,  è  la  condizione 
che  lo  determina. 

CAPO  SECONDO. 

Forma. 

Difficile  la  respirazione  diventa,  di  mano  in  mano 
che  la  sierosa  colluvie  viene  formandosi.  E  chi  la 
soffre  si  riposa  nel  lato  che  la  contiene  ;  e  giace 
supino,  se  doppia  è  la  sierosa  colluvie.  E  percossa 
nel  di  sopra  la  parte,  che  nel  di  sotto  vi  è  accu- 
mulata la  sierosità,  dà  un  suono  ottuso.  E  nel  lato 
opposto,  in  cui  non  v'  è  la  sierosa  colluvie,  com- 
piesi  la  puerile  respirazione.  Ed  al  romore  respira- 
G.A.T.CLXIII.  16 


242 

torio  succede  la  bronchiale  respirazione  nel  polmone 
o  nei  polmoni  ,  in  cui  è  la  sierosità  raccolta.  E 
la  parte  che  la  contiene  si  estende,  e  lo  spazio  in- 
tercostale si  dilata;  ed  anche  vi  si  sente  l' interna 
fluttuazione. 

CAPO  TERZO. 

Cattse  remote. 

L' idrotorace  spesso  ò  consecutivo  al  vizio  or- 
ganico ,  ed  alla  lenta  pleuro-pneumonite.  E  queste 
morbose  condizioni  pare  che  ne  siano  la  predispo- 
sizione, ed  anche  la  causa  determinante. 

CAPO  QUARTO. 

Causa  prossima. 

E  la  condizione  dell'  idrotorace  è  la  maggiore 
estensione  dell'esalante  a  carico  del  momento  as- 
sorbente: per  cui  segregasi  più  di  ciò  che  assorbesi, 
e  la  toracica  cavità  riempiasi  di  sierosità. 

CAPO  QUINTO. 

Necroscopia. 

La  pleura  nei  cadaveri  ,  di  chi  per  idrotorace 
erano  morti,  è  stata  trovata  opaca  e  granulosa.  E 
nel  di  fuori  e  nel  di  dentro  copiosa  sierosità  citri- 
na, e  alquanto  rossa,  in  cui  ondeggivano  fiocchi  di 
concreta   fibrina.  E  nella  superficie    costale   e   poi- 


243 

monare,  e  nella  cavità  sono  state  trovate  false  mem- 
brane, che,  traversando  il  liquido,  all'opposta  parte 
si  attaccavano. 

CAPO  SESTO. 

Pronostico. 

L' idrotorace  che  o  dall'  intempestiva  scomparsa 
di  altra  secrezione  deriva  ,  o  che  segue  la  pleuro- 
pneumonite, si  guarisce  quella  richiamando,  e  questa 
risolvendo.  E  poi  è  ostinato  se  il  lento  processo  flo- 
gistico l'alimenta;  ed  è  sempre  mortale,  se  dal  vizio 
precordiale  dipende. 

CAPO  SETTIMO. 

Cura. 

L' idrotorace  curasi  col  richiamare  le  naturali, 
e  le  preternaturali  scomparse  evacuazioni;  e  coli'  in- 
teramente risolvere  il  lento  processo  flogistico,  che 
lo  mantiene;  ciò  che  si  ottiene  cogli  antiflogistici, 
coi  derivativi  e  coi  revulsivi.  E  maggiormente  cogli 
evacuanti  attivansi  le  evacuazioni;  verbigrazia,  cogli 
emeto-catartici,  coi  diurerici  e  coi  diaforetici.  E  la 
sierosa  colluvie,  che  non  è  riassorbita  ,  dal  torace 
j  ostraesi  colla  pericolosa  chirurgica  operazione. 


2U 
SEZIONE  QUARTA. 

Idropericardio. 
CAPO  PRIMO. 

Definizione. 

V  idropericardio  è  la  colluvie  sierosa,  ora  lim- 
pida ed  ora  verdognola  e  giallagnola,  nella  cavità 
deli'  interna  membrana  del  pericardio.  Che,  durante 
la  vita,  lo  manifesta  il  peso,  l' ottusità  del  suono, 
l'estensione  dei  battiti,  la  piccolezza,  la  frequenza 
e  r  irregolarità  del  polso. 


m 


CAPO  SECONDO. 

Forma. 


Incomincia  l' idro-pericardio  colla  dispnea  e  colla 
palpitazione;  e  sentesi  poco  precordiale  dolore;  e  a 
chi  lo  soffre  pare  che  il  cuore  pesi,  e  che  nell'acque 
fluttui.  Percorso  il  terzo  inferiore  dello  sterno,  sen- 
tesi ottuso  suono.  Nel  mentre  che  i  battiti  sono  oscu- 
ri, fluttuanti  e  irregolari;  ed  il  polso  è  piccolo,  con- 
centrato e  intermittente.  E  di  soverchio  la  sierosa 
colluvie  crescendo  ,  universale  rendesi  l' idrope  ,  e 
muoresi. 


245 
CAPO  TERZO. 

Cause  remote. 

Air  idro-pericardio  ci  predispongono  le  retro- 
pulse  articolari  infiammazioni,  e  certe  passioni;  ver- 
bigrazia,  l'ambizione  coi  suoi  crucci,  ed  ogni  sorla 
di  protratto  e  di  violento  dispiacere. 

CAPO  QUARTO. 

Causa  prossima. 

Causa  prossima  dell'  idro-^pericardio  è  il  vizio 
precordiale,  e  la  lenta  infiammazione  della  sierosa 
che  il  cuore  involge;  per  cui  rompesi  l'antagonistica 
corrispondenza  tra  l'esalazione  ed  il  precordiale  as- 
sorbimento, e  la  colluvie  sierosa  formasi. 

CAPO  QUINTO. 

Necroscopia. 

Nei  cadaveri,  di  chi  per  idro-pericardio  erano 
morti,  è  stata  nel  pericoedio  trovata  la  sierosità  di- 
versa per  la  quantità  ,  per  la  consistenza  e  per  il 
colorito.  E  morbose  aderenze  colle  contigue  parli. 
Ed  il  pericardio  opaco,  ed  ingrossato,  granuloso, 
con  false  membrane,  ed  anche  ossificato.  lì  cellulare 
tessuto  di  sierosità  infiltrato;  e  diverse  colluvie  mar- 
ciose sono  state  egualmente  trovate. 


246 
CAPO  SESTO. 

Pronostico. 

Diffìcilmente  la  stravasala  sierosità  riassorbesi; 
ed  allo  stato  di  salute  ritornasi.  E  quasi  sempre  la 
morte  all'  idropericardio  succede  o  per  soffocazione, 
o  per  universale  idropisia. 

CAPO  SETTIMO. 

Cura. 

Curando  l' infiammazione,  curasi  l' idro-pericar- 
dio sintomatico  ,  ed  alla  lenta  flogosi  consecutivo. 
Ciò  che  facilmente  non  si  ottiene  cogli  antiflogi- 
stici ,  coi  rivalsivi  ,  e  coi  derivativi.  Nulladimeno 
procurasi  sempre  cogli  evacuati  di  maggiormente 
attivare  qualunque  naturale  ed  anche  preternaturale 
evacuazione.  E  questi  non  giovando,  è  stata  proposta 
la  precordiale  perforazione,  che  mai  con  successo  è 
stata  praticata. 

SEZIONE  QUINTA. 

Ascite. 
CAPO  PRIMO. 

De^nizione. 
L'  ascite  è  o  la  verdognola  o  la  flava  colluvie 


2it 
sierosa  ,  che  o  nella  peritoneale  cavità  formasi  ,  o 
nella  superficie  intestinale  o  nel!'  addominale.  Per 
cui  il  basso  ventre  gonfiasi;  ed  il  versamento  liquido 
difficilmente  riassorbesi  ;  e  se  estraesi  ,  altro  subi- 
tamente riformasi. 

CAPO  SECONDO, 

Forma, 

L'urina  scarseggia,  arde  la  sete,  le  palpebre  coi 
malleoli  si  gonfiano,  e  per  pili  volte  si  sgonfiano. 
E  a  chi  nel  basso  ventre  la  colluvie  sierosa  formasi, 
consumasi,  e  taciturno  ed  ipocondrico  diventa.  Prima 
la  sierosità  scende  nel  basso,  a  riempire  il  piccolo 
bacino  ;  e  poi  innalzasi  fino  all'ombellico  ,  e  tutto 
il  basso  ventre  riempie.  E  mosso  e  con  arte  per- 
cosso ,  sentesi  l' interna  aquea  fluttuazione.  E  di 
mano  in  mano  che  1'  addome  ingrossasi,  1'  ascitico 
indeboliscesi  e  consumasi.  La  sete  aumentasi;  e  la 
pelle  seccasi  e  scabrosa  diventa.  Contraggonsi  i  polsi, 
e  maggiormente  indebolisconsi.  La  sonnolenza  e  l'as- 
sopimento ricorrono;  eminente  è  la  lipotomia;  e  asfì- 
tico  0  apopletico  l'ascitico  muore. 

CAPO  TERZO. 

Cause  remote. 

L'ascìtica  predisposizione  è  il  linfatico  tempe- 
ramento; cui  innalzano  alla  condizione  di  ventrale 
celluvie  sierosa  ciò  che  impedisce  la  insensibile  tra-* 


248 
spirazione,  e  che  determina  la  cutanea  deflorescenzay 
e  difficile  rende  l'addominale  venosa  circolazione. 

CAPO  QUARTO. 

Causa  prossima. 

La  prevalenza  dell'esalazione  al  peritonneale  as- 
sorbimento l'ascile  determina.  Ciò  che  probabilmente 
deriva  o  dall'  idroemia  del  sangue  ,  o  dall'  attività 
degli  esalanti  e  dalla  debolezza  degli  assorbenti  , 
o  dalla  meccanica  condizione  che  l'epatica  cireola- 
zione  impedisce. 

CAPO  QUINTO. 

Necroscopia. 

La  materiale  espressione  dell'ascile  è  l'addomi- 
nale sierosa  colluvie,  limpida,  ed  anche  giallo-ver- 
dognola; insipida  e  dolciastra.  E  negli  ascitici  ca- 
daveri sono  stati  trovali  i  visceri  addominali  bian- 
cati  e  rilasciati,  il  fegato  e  la  milza  induriti  e  ram- 
molliti, ingrossati  ed  impiccoliti,  e  la  vena  porta 
ristretta  ed  anche  interamente  obliterata. 

CAPO  SESTO. 

Pronostico. 

Guariscesi  Tascite,  che  dal  soverchio  eccitamento 
deriva,  e  dalla  cutanea  deflorescenza.  E  lungamente 


249 

dura  quella  che  la  mantiene  la  meccanica  condizione, 
ed  all'adinamia  congiungesi.  Che  chi  la  soffre  con- 
sumasi, ed  all'estratta  sierosità  altra  prestamente  ri- 
producesi;  e  termina  l'ascitico  di  vivere  o  per  asfissia 
o  per  apoplessia. 

CAPO  SETTIMO. 

Cura. 

La  consecutiva  ascite,  alla  peritonite,  alla  cutanea 
deflorescenza,  alla  scomparsa  della  preternaturale  e 
della  naturale  secrezioni,  curasi  coli'  interamente  ri- 
solvere il  processo  flogistico,  col  richiamare  le  scom- 
parse efflorescenze,  col  riattivare  le  soppresse  evacua- 
zioni,e  coll'aprirne  altre  artificialmente.  E  si  promuo- 
vono violentemente,  cogli  evacuanti,  le  consuete  eva- 
cuazioni; verbigrazia,  coll'emeto-catartico,  co!  diure- 
tico e  col  diaforetico.  E  i  tonici  prescrivonsi ,  se 
l'ascite  all'adinamia  congiungesi.  E  prima  l'addome 
bucasi,  che  il  corpo  siasi  indebolito  e  consunto. 

SEZIONE  SESTA. 

Idrocele. 
CAPO  PRIMO. 

Definizione. 

L' indole  è  colluvie  sierosa  nella  vaginale  o  testi- 
colare, sierosa,  congenita  e  connata, limpida  e  chiara. 


250 
CAPO  SECONDO. 

Forma. 

Nella  vaginale  cavità  lentamente  la  sierosità  ac" 
cumolasi;  e  lo  scroto  gradatamente  gonfiasi  e  forma 
tumore.  Irritato  che  sia,  finche  V  irritazione  dura  , 
rapidamente  cresce,  e  lentamente  ingrossasi  termi- 
nata che  sia.  E  tanto  gonfiasi,  che  anche  si  rompe 
la  vaginale  membrana;  ed  il  contenuto  liquido  è  ri- 
assorbito, e  infiltrasi  nel  cellulare  contiguo.  E  per 
la  vaginale  rottura  ,  qualche  volta  guariscesi  ;  e  la 
sierosità  non  si  può  riaccumulare,  se  la  membrana 
non  riuniscesi. 

CAPO  TERZO. 

Cause  remote. 

V  idrocele  congenito  deriva  dalla  facilità  ,  con 
cui  la  peritoneale  sierosità  discende  nello  scroto,  e 
vi  si  accumula;  ed  il  connato  o  degli  adulti  gli  ir- 
ritanti lo  producono,  che  il  testicolo  colle  sue  di- 
pendenze infiammano. 

CAPO  QUARTO, 

Causa  prossima. 

E  deir  idrocele  la  causa  prossima  è  la  lenta  in- 
fiammazione del  testicolo  e  delle  sue  dipendenze  ; 


251 

che  l'esalazione  estende  a  carico  deirassorbimento; 
per  cui  formasi  nella  vaginale  cavità  la  sierosa  col- 
luvie, e  Io  scroto  distendesi. 

CAPO  QUINTO. 

Necroscopia» 

Aperto  lo  scroto,  si  è  trovata  la  vaginale  mem- 
brana sottile,  pallida  e  tras[jarente;  e  di  citrina  e 
diafana  sierosità  ripiena.  Ed  anche  hannovi  trovato 
il  liquido  fioccoso,  bianco  e  rossastro,  e  la  vagi- 
nale membrana  indurita,   ed  anche  ossificata. 

CAPO  SESTO. 

Pronostico. 

L' idrocele,  che  non  guariscesi,  è  fastidioso  in- 
comodo. E  nel  congenito,  o  lentamente  l'inguinale 
anello  ristringesi,  e  si  guarisce;  o  maggiormente  di- 
latasi, e  non  si  risolve,  e  può  anche  succedergli  l' in- 
guinale ernia.  Rompesi  ancora  nel  connato  idrocele 
il  vaginale  sacco;  ed  il  versatosi  liquido  è  riassor- 
bito, e  non  riaccumolasi,  se  la  squarciatura  non  ri- 
chiudesi. 

CAPO  SETTIMO. 

Cura. 

Prima  che  il  testicolo  nello  scroio  discenda  , 
v'è  poco  da  fare;  e  disceso  che  siavi,  si  fa  perma- 


252 

nente  compressione  nell'  inguinale  foro  ;  e  poi  se 
la  colluvie  sierosa  non  è  riassorbita,  bucasi  lo  scroto, 
ed  il  liquido  si  fa  scappare.  E  solo  la  sierosità  eva- 
cuasi nella  pagliativa  cura  ;  e  nella  radicale  rime- 
diasi anche  alla  cavità,  che  la  contiene,  o  col  di- 
struggere la  membrana,  o  col  determinarvi  perma- 
nente adesione.  Nel  primo  caso  incidesi  ed  escidesi; 
e  nell'altro  irritasi  coi  liquidi,  che  ad  arte  vi  si  in- 
troducono; e  coi  solidi,  che  la  traversano.  Ed  anche 
nell'esterno  devesi  tentare  la  permanente  irritazione; 
che  qualche  volta  dicono  che  abbia  giovato. 

CONCLUSIONE. 

II  siero  naturalmente  emana  dalle  membrane 
sierose,  ed  ovunque  sono  pori  e  vasi  linfantici.  E 
dalla  sierosità  derivano  le  morbose  emanazioni,  che 
abbiamo  discorse;  e  che  alle  sanguigne  le  mucose 
riuniscono.  E  nel  corpo  nostro  sono  tre  fluidi  , 
da  cui  scaturisce  un  tripode  morboso  di  emana- 
zioni; che  sono  le  sanguigne  e  le  sierose,  che  ab- 
biamo esposte  ;  e  le  mucose  ,  che  noi  dobbiamo 
esporre. 

PARTE  TERZA. 

Emanazioni  mucose. 

Le  morbose  emanazioni  mucose  compionsi  nelle 
membrane  mucose;  e  sono  la  soprabbondante  pre- 
parazione della  materia  bianca,  trasparente  e  filante, 
che  naturalmente  segregano. 


253 
SEZIONE  PRIMA. 

Catarro. 
CAPO  PRIMO. 

Definizione. 

Il  catarro  primario,  se  lo  vogliamo  ammettere, 
altro  non  è  che  l'abbondante  secrezione  di  bianca, 
filante  e  trasparente  materia,  che  emana  dall'aerea 
mucosa;  che  non  è  sintomatica  della  flogosi,  e  che 
volgarmente  dicesi  broncorrea. 

CAPO  SECONDO. 

Forma. 

Cronico  è  del  catarro  il  corso,  che  molto  sempre 
dura.  Colla  dispnea  principia,  e  prosegue  coll'abbon- 
dante  secrezione  di  mucosa  materia.  Intermittente 
è  il  corso,  e  gli  insulti  sono  sempre  seguiti  da  lar- 
ghe remissioni.  E  in  queste  bene  si  sta;  ed  in  quelle 
estrema  è  1'  angoscia  ed  eminente  la  soffogazione. 
Leggera  e  quasi  continua  è  in  principio  la  dispnea; 
che  poi  fattasi  intermittente  ,  quotidianamente  ri- 
corre mattina  e  sera.  Ed  una  o  due  ore  dura  ;  e 
circa  due  libre  si  versano  di  materia  bianca,  filante 
e  trasparente.  Per  qualche  tempo  sospendesi  ancora; 
e  poi  ritorna  maggiormente  grave.  In  fine  gli  in- 
sulti più  spesso  si  succedono,  e  durano  più  tempo; 


254 

e  poi  quasi  continua  diventa  l'angoscia  e  la  dispnea; 
e  chi  la  soffre  muore  consunto  e  soffocato. 

CAPO  TERZO. 

Cause  remole. 

La  catarrosa  predisposizione  è  la  linfatica  vec- 
chiaia ;  cui  favorisce  ,  ed  il  catarro  determina  ciò 
che  rilascia  la  mucosa  dell'apparecchio  respiratorio. 

CAPO  QUARTO. 

Causa  prossima. 

La  flogosi,  che  invade  la  mucosa  doll'apparec- 
chio  respiratorio,  il  sintomatico,  e  non  il  catarro 
primario  promuove.  Mentre  il  primario  non  deriva 
dalla  flogosi,  ma  dal  rilasciamento  dell'aerea  mucosa; 
per  cui  emana  maggiore  quantità  di  materia  bianca, 
filante  e  trasparente. 

CAPO  QUINTO. 

Necroscopia. 

Nel  primario  catarro  hanno  nel  cadavere  trovate 
alcune  bronchiali  diramazioni  di  mucosità  ripiene  ; 
e  rilasciata,  pallida  e  scolorata  la  mucosa  della  la- 
ringe, della  trachea  e  dei  bronchi.  E  nel  sintoma- 
tico hanno  poi  trovati  i  guasti  delle  primarie  ma- 
lattie. 


255 
CAPO  SESTO. 

Pronostico. 

In  poco  tempo  difficilmente  il  catarro  risolvasi; 
e  sempre  si  prolunga  e  dura  per  mesi  ed  anche  per 
anni.  Spesso  è  acritico;  e  quasi  sempre  alla  lunga 
vi  si  more  consunti  e  soffogati. 

{Continua) 


Errori  occorsi  nel  Ragionamento  del  sig.  Cav.  Betti. 


Pag. 


ERRATi 

^ 

CORRIGE 

102  lin. 

11  graziz 

grazia 

105  lin. 

17  inquietus 

inquieti 

108  lin. 

21  magro 

magno 

116  lin. 

22  lagendum 

legendum 

INDICE 


Ceccarelli,  Amputazione  jìarziale  della  mascella 
inferiore  ed  allacciatura  deW  arteria  femo- 
rale        pag.       3 

Calandrelli ,  Opinioni  sidl'  antichità  dalla  sfera 
celeste »     28 

Bettij  Se  Giulio  Cesare  ed  Augusto  intesero  mai 

di  portare  la  sede  delV  impero  ad  Ilio.      ))     83 

Guglielmotti^  I  bastioni  di  Antonio  da  Sangallo 
disegnati  sid  terreno  per  fortificare  e  in- 
grandire Civitavecchia »   122 

De  Crollis  ,  Ragionamento  al  duca  D.  Mario 
Massimo »   169 

Catalani,  Terapia  (Continuazione)     .     .     .     »  216 


IMPRIMATUR 

Fr.  Hieronynius  gigli  Ord.  Praed.  S.  P.  Ap.  Mag. 

IMPRIMATUR 

Fr.  AnU  Ligi  Archiep.  Icon.  Vicesgerens 


Nel  giornale  si  dà  il  sunto,  o  viene  inse- 
rito l'annunzio,  delle  opere  presentate  in  dop- 
pio esemplare  alla  Direzione.  Esse  debbono 
essere  inviate  franche  d'ogni  spesa  di  porto 
e  dazio. 


Le  notizie  di  scienze,  di  lettere,  e  di  belle 
arti,  quelle  di  scoperte  utili  per  1'  agricol- 
tura, industria  ec,  come  anche  i  programmi  dei 
concorsi  accademici,  dovranno  similmente  es- 
ser mandati  franchi  di  posta  alla  Direzione. 


Chi  si  associa  per  dieci  copie,  o  ne  garan- 
tisce la  vendita,  avrà  l'undecima  gratis. 


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GIORNALE 


DI  SCIENZE  T.ETTERE  ED  ARTI 

TOMO  XVIII 
DELLA  NUOVA  SERIE 


ma 


"  ROMA 
Tipografi»  delle  Belle  Arti 

1860 


GIORNALE 


or 

SCIENZE,  LETTERE  ED  ARTI 

TOMO  GLXIV 

DELLA   NUOVA   SERIE 
XVIII 

NOVEMBRE  E  DICEMBRE 
1859 


ROMA 

TIPOGRAFIA   DELLE   BELLE   ARTI 
1860 


SulVEcclisse  solare  del  18  luglio  1860.  Disseriazione 
Iella  air  Accademia  Tiberina  dal  P.  Angelo  Secchi. 


I 


n  tutti  i  tempi  (Eminentissimo  principe  (j)  Colleghi 
e  uditori  prestantissimi)  le  occultazioni  e  i  delìquii  dei 
maggiori  luminari  furono  oggetto  del  piiì  alto  stu- 
pore, non  solo  all'  ignorante  selvaggio  che  ne  temea 
la  sua  imminente  distruzione,  o  al  volgo  imperito 
che  ne  traeva  pronostico  piiì  o  meno  sinistio,  ma 
alla  pili  colta  schiera  dei  dotti  che  videro  sempre 
in  colali  semplici  fenomeni  della  natura  una  prova 
sublime  dello  stupendo  magistero  che  regola  i  moti 
celesti,  e  vi  riconobbero  preziosi  momenti  per  isco- 
prire  le  loro  leggi  o  per  verificare  le  già  trovate; 
quindi  Tavvenimento  di  un  ecclisse  solare  totale  nel 
mezzo  delle  regioni  abitate  dalle  più  colte  nazioni 
della  Terra,  quale  è  quello  che  aspettiamo  nel  pros- 
simo luglio,  è  un  sì  raro  fenomeno  che  eccita  merita- 
mente non  meno  la  curiosità  del  pubblico,  che  l'at- 
tenzione dei  dotti. 

Però  è  assai  singolare  la  diversità  che  si  scorge 
in  questa  materia  tra  gli  antichi  e  i  moderni  astro- 
nomi; i  primi  moltissimo  studiarono  le  ecchssi  lu- 
nari, per  la  facilità  della  loro  osservazione  e  della 
loro  predizione  mediante  cicli  costanti,  e  ne  fecero 
uso  eccellente  per  determinare  gli  elementi  de'moti 
lunari  e  solari  ;  ma  quelle  del  Sole  furono  sempre 
per  essi  di  difficile  abordo  e  quasi  impossibili  a  pre- 
vedere e  trarne  partito  per  la  teoria  de'moti  cele- 
sti (2).  Adesso  invece  per  la  perfezione  a  cui  è  arri- 


4 

vota  la  teoria  del  calcolo  astronomico,  e  per  la  preci- 
sione con  cui  possono  farsi  le  osservazioni  coi  moderni 
strumenti,  vengono  queste  predilette  dagli  astronomi 
presenti,  e  sono  realmente  divenute  importantissime 
per  pili  punti  capitali  nella  scienza  ,  come  la  ret- 
tificazione delle  tavole  lunari,  la  determinazione  delle 
longitudini  geografiche,  e  soprattutto  la  cognizione 
della  struttura  fisica  del  Sole.  Che  se  tutte  le  ecclissi 
solari  sono  preziose  pei  suddetti  l'iguardi,  quella  che 
stiamo  attendendo  e  che  avverrà  il  18  luglio  di  que- 
st'anno 1860,  lo  sarà  in  un  modo  pili  speciale,  per 
la  comodità  del  sito  di  sua  osservazione;  per  esser 
l'unica  tra  quelle  che  avverranno  in  questo  secolo 
in  cui  si  possa  sperare  di  studiare  con  successo  le 
singolari  particolarità  del  corpo  solare  svelateci  in 
questi  ultimi  anni  dalle  ecclissi  precedenti;  e  soprat- 
tutto finalmente  per  suggellare  i  grandi  lavori  re- 
centemente compiuti  sulle  teoriche  lunari. 

Questa  ecclisse  per  Koma  non  sarà  che  parziale; 
essa  avrà  principio  alle  ore  2/  58."'  32.^  pom.,  il 
massimo  sarà  alle  k}  4.'"  5?.%  e  il  fine  5.*  5.'"  29.-'. 
La  porzione  di  sole  coperta  sarà  di  10  digiti  ossia  ^/g 
del  diametro  solare:  onde  sarà  un  poco  piiì  che  quella 
del  1851  ,  e  in  ora  egualmente  favorevole.  Anche 
senza  il  prestigio  proprio  dei  luoghi  ove  passa  la 
oscurazione  tolale,  essa  sarà  assai  importante,  e  le  os- 
servazioni della  posizione  relativa  dei  due  astri  sa- 
ranno qui  da  noi  sommamente  utili  pel  più  princi- 
pale di  tutti  gli  oggetti,  cioè  la  rettificazione  delle 
tavole  lunari. 

il  vasto  e  difficilissimo  studio  del  corso  del  nostro 
satellite   è   stata  una  delle  più  assidue   occupazioni 


o 
degli  asti'onomi  nella  trascorsa  metà  di  questo  secolo, 
e  onde  ridurlo  a  perfezione  non  si  è  risparmiato  nò  a 
spese  in  erigere  strunrienti  o  in  assoldar  calcolatori,  nò 
a  fatica  per  moltiplicare  le  osservazioni  attuali  o  per 
trar  profitto  dalle  antiche.  La  sterminata  copia  delle 
osservazioni  lunari  fatte  a  Greenwich  da  oltre  a  un  se- 
colo a  questa  parte,  è  stata  tutta  novellamente  rie- 
saminata e  discussa;  e  quest'opera  immensa  ha  servito 
dì  base  ad  un'altra  non  men  colossale  e  difficile,  cioè 
a  quella  di  una  nuova  teoria  matematica  della  Luna 
dedotta  dalla  sola  legge  della  gravitazione  univer- 
sale, colla  costruzione  dì  nuove  tavole  fatte  dal  da- 
nese Hansen,  pubblicate  nel  prossimo  passato  an- 
no 1857  (3).  Ora  si  è  appunto  l'accordo  che  si  avrà  tra 
la  previsione  del  calcolo  e  il  risultato  della  osserva- 
zione nella  prossima  ecclisse  che  sarà  la  più  bella  san- 
zione del  merito  di  tante  fatiche,  e  del  progresso  della 
scienza,  nella  quale  pure  resta  ancora  dubbioso  qual- 
che punto  non  indifferente  (4).  Un  vantaggio  speciale 
hanno  le  ecclissi  totali  sopra  le  altre,  cioè  che  non 
solo  sono  preziose  le  osservazioni  fatte  da  periti  astro- 
nomi, ma  quelle  eziandio  di  ogni  osservatore  che  sia 
capace  anche  solo  di  accertare  fin  dove  si  estese  la 
sua  totalità,  cioè  quale  fu  il  limite  dell'ombra  lunare 
sulla  Terra.  Questo  genere  di  osservazione,  che  di 
per  so  non  esige  grande  scienza,  né  accurati  stru- 
menti ,  sarà  certo  riccamente  fornito  in  un  paese 
sparso  di  tante  città  e  borgate,  ove  la  cultura  e  am- 
piamente diffusa,  e  gli  astronomi  vi  si  raccoglieranno 
in  numero  considerabilissimo. 

La  linea  di  oscurità  totale  comincerà   nell'Ame- 
rica settentrionale  nell'Oregon,  traverserà  l'Atlantico, 


6 

ed  enU'ei'à  nella  Spagna  fra  Santander  e  Giyon  co- 
prendo queste  due  città  e  attraversandola  tutta,  quasi 
lungo  il  eorso  dell'  Ehro.  Passerà  sopra  le  città  di 
Bilbao,  Burgos,  Logrogno,  Galahorra,  Soria,  Agredo, 
Calatayud,  Saragozza,  Monlalvan,  Castellon  della  pla- 
na. Oropesa,  e  di  là  sul  Mediterraneo  ove  toccherà 
1'  isolelta  di  Iviza  una  delle  Baleari,  e  quindi  passando 
in  Afi'ica  presso  Bugia  e  attraversando  la  Cabilia  an- 
drà a  finire  in  Etiopia  ed  in  Egitto.  La  zona  oscu- 
rata sulla  Spagna  sarà  di  circa  50  leghe  di  larghezza 
e  133  di  lunghezza,  impiegando  circa  10  minuti  di 
tempo  assoluto  a  percorrerla  (5). 

La  maggior  parte  di  questi  siti  essendo  nel  centro 
della  civiltà  e  della  scienza  europea  e  di  facile  ac- 
cesso agli  astronomi;  e  il  principio  stesso  cadendo 
negli  Stati  Uniti  di  Amciica  e  nelle  colonie  anglo-ame- 
ricane del  nord,  e  la  fine  in  una  parte  dell'Africa  ove 
la  cultura  già  comincia  a  rifioiire,  forniranno  un'oc- 
casione favorevolissima  onde  determinare  preziosi 
elementi  astronomici  e  contemplare  l'imponente  spet- 
tacolo della  natura  privata  del  suo  luminare.  Aggiun- 
gete poi  che,  come  accennai,  tale  opportunità  sarà 
l'unica  per  tutto  il  resto  del  secolo  attuale:  giacché 
risulla  dai  calcoli  fatti,  che  quasi  tutte  le  altre  ecclissi, 
che  avranno  luogo  sino  alla  sua  fine,  saranno  presso- 
ché inutili  per  la  scienza,  andando  esse  a  passare  fra 
regioni  inospile  o  fra  i  ghiacci  polari.  La  sola  che  po- 
trebbe in  ciò  ftu-e  eccezione  sarebbe  quella  del  1887 
il  19  agosto,  che  comincerà  alle  rive  dell'Elba  e  toc- 
cherà Berlino,  Vilna  e  Mosca,  e  la  parte  meridionale 
della  Siberia;  ma  olire  la  stagione  allora  incerta  per 
tali  climi  e  paesi,  essa  non  avrà  luogo  che  a   poca 


7 
altezza  sopra  dell'orizzonte  (cioè  30.°),  mentre  Pat- 
tuale    ha  anche  questo    vantaggio    di  accadere    in 
climi  ed  ore  nelle  quali  è  piiì  che  mai,  da  sperare 
tempo  propizio  nelle  osservazioni. 

Una  tale  combinazione  di  favorevoli  circostanze 
spiega  r  impegno  e  l'ardore  che  sì  è  preso  dai  cul- 
tori della  scienza  e  dai  governi  ,  onde  organizzare 
private  e  pubbliche  spedizioni:  talché  può  dirsi  che 
dall'epoca  del  passaggio  di  Venere  avanti  al  Sole  nel 
3  giugno  1769  non  siasi  fin'ora  veduto  simile  mo- 
vimento ed  espettazione  ,  in  cui  peraltro  gli  astro- 
nomi non  sono  i  soli  a  prender  parte  (6). 

Infatti  la  rettificazione  delle  tavole  lunari  non 
è  il  solo  utile  che  possa  trarne  la  scienza,  né  sarebbe 
ciò  un'attrattiva  sufficiente  per  trasportare  molti  da 
remote  regioni.  In  un  ecciisse  solare  non  solo  l'astro- 
nomo trovasi  intei'essato,  ma  ogni  studioso  della  na- 
tura, ogni  anima  sensibile  alle  grandi  e  potenti  emo- 
zioni che  destar  sogliono  i  piiì  sublimi  ed  insoliti 
fenomeni  della  creazione:  in  essa  non  meno  che  la 
precisione  della  scienza  vi  ha  pascolo  la  vivacità 
della  poesia,  che  trova  la  realtà  dei  fenomeni  su- 
periore all'  ispirazione  della  piiì  fervida  fantasia.  La 
scena,  che  si  presenta  in  una  ecclissi  totale,  è  la  più 
imponente  che  possa  presentarsi  ad  occhio  mortale 
nell'ordine  attuale  dell'universo  :  noi  siamo  troppo 
abituati  a  vedere  un  limpido  cielo  adorno  del  suo 
indefettibile  luminare,  per  poter  concepire  l'aspetto 
della  natura  al  mancare  di  questo:  né  la  cognizione 
di  ciò  che  suole  accadere  nelle  ecclissi  parziali  può 
darcene  la  minima  idea:  soltanto  lo  svanire  dell'ul- 
timo raggio  produce  quell'  indescrivibile  scena  ,  in 


8 
cui  roscui'ità  ò  forse  il  fenomeno  meno  sorprendente, 
in  confronto  della  singolare  riunione  di  tutte  le  altre 
insolite    circostanze.  Quel  veder  grado  grado    lan- 
guire la  fulgida  luce  del  dì,  e  spargersi  sulla  crea- 
zione un  freddo  gelo  e  una  lurida  tinta   di  morte; 
quel  trovarsi  trasportato  in  un  istante  dal  chiaro  del 
giorno  allo  scarso  barlume  di  un  tardo  crepuscolo  ve- 
spertino, e  alla  fulgida    faccia  del  sole  sostituirsi  un 
negro  disco  circondato  da  fioca  e  pallida  corona  di 
raggi,  campato  in  un  cielo  del  color  di  piombo,  che 
veste  tutta  la  circostante  natura  di  un'atra  graraaglia; 
è  tal  soggetto  che  non  esige,  cred'io,  la  fantasia  nò 
di  un  Pindaro,  né  di  un  Byron,  per  esserne  tocco  ; 
ed  è  ancora  a  trovarsi  uno  spettatore,  al  quale  in 
sì*  solenne  momento  non  venga  meno  la  geometrica 
severità,  e  il  pili  gelido  sangue  freddo  non  trovisi 
ricercato  dalle  più  profonde  e  sensibili  emozioni. 

L'oscurità  fu  forse  esagerata  dagli  antichi ,  ma 
non  si  può  negar  loro  fede  su  le  forti  impressioni 
che  produce  nell'animo  un  tal  fenomeno,  li  chiaror 
generale  del  cielo,  per  testimonianza  concorde,  non  è 
superiore  a  quello  che  suole  aver  luogo  a  luna  piena: 
e  anche  più  precisamente  a  quella  del  crepuscolo 
estivo  un'ora  dopo  calato  il  sole.  Quindi  è  che  d'or- 
dinario riescono  visibili  le  stelle  di  prima  grandezza, 
e  i  primari  pianeti  :  e  questa  volta  si  avrà  la  ra- 
rissima configurazione  dei  quattro  più  belli  tra  essi, 
cioè  Giove,  Venere,  Saturno,  e  Mercurio,  che  tutti 
e  quattro  si  troveranno  disposti  in  cielo  sotto  del  Sole 
e  ad  esso  vicinissimi  in  uno  spazio  non  maggiore  di 
quello  occupato  dalla  costellazione  dell'Orsa  maggio- 
re. Per  più  singolare  combinazione  eziandio,  si  trove- 


9 

ranno  nelle  loro  vicinanze  le  più  fulgide  stelle  del 
firmamento,  cioè  Regolo  e  Procione  al  di  sotto,  Ca- 
store e  Polluce  al  di  sopra,  con  Orione  e  Sirio  il 
Toro  e  la  Capra  a  non  molta  distanza.  Sarà  anche 
questa  una  favorevolissima  circostanza  per  vedere 
pianeti  inferiori  a  Mercurio,  se  è  vero  che  essi  esi- 
stano, secondo  che  tanto  se  n'  è  parlato  in  questi 
ultimi  tempi  (7). 

La  visibilità  degli  oggetti  terrestri  in  queste  circo- 
stanze molto  dipende  dallo  stato  più  o  meno  puro  del 
cielo;  ma  trovo  che  in  genere  riesce  difficile  il  leggere 
libri  a  stampa  ed  il  prendere  appunti  alla  matita,  onde 
è  cautela  fornirsi  di  lucerna  fatta  indispensabile  in  pie- 
no meriggio!  La  durata  massima  della  oscurità  nella 
zona  centi'ale  sarà  questa  volta  di  tre  minuti  e  mezzo 
al  più:  e  in  quel  tempo  per  sé  così  breve,  e  che  suol 
volare  in  un  istante,  dovrà  cercarsi  di  fare  quanto 
appena  basterebber  più  giorni  interi  di  osservazioni 
e  di  ricerche.  Le  lunghe  tenebre  descritte  dai  vec- 
chi racconti  debbon  mettersi  fra  le  conseguenze  per- 
donabili ad  una  imaginosa  apprensione,  a  cui  sembrò 
interminabile  un  tempo  pieno  di  sì  ansiosa  espetta- 
zione,  in  sì  strane  circostanze:  giacché  è  pienamente 
provato,  che  nessuna  ecclisse  sulla  Terra  può  durare 
più  di  8  minuti  di  tempo.  Ma  non  è  tanto  il  grado 
delle  tenebre  o  la  loro  durata,  quanto  il  rapido  loro 
avanzarsi,  che  produce  in  quel  momento  una  scena 
di   insolito  orrore. 

Finché  il  Sole  non  è  che  per  metà  ricoperto,  ap- 
pena si  può  ravvisare  la  diminuzione  della  sua  luce; 
anche  presso  alla  totalità,  finché  ne  resta  svelata  una 
tenue  falce,  l'effetto  sulla  natura  è  al  più  quei  che 


10 

si  scorge  comunemente  all'accostarsi  di  un  tempo^ 
rale(8).  Ma  negli  ultimi  momenti  previi  allo  sparire 
del  raggio  finale,  la  natura  prende  un  insolito  aspetto 
che  riempie  involontariamente  l'animo  di  tristezza 
e  di  terrore:  il  cielo  di  azzurro  si  tinge  in  verdastro, 
al  cui  debole  chiarore  i  volti  delle  persone  cuopronsi 
di  pallore  mortale,  e  gli  oggetti  terrestri  appaiono 
come  veduti  attraverso  di  un  vetro  tinto  di  verde. 
Se  avvenga  che  il  cielo  sia  sparso  di  nubi,  la  scena 
è  ancora  più  triste:  le  lontane,  su  cui  stender  si  scorge 
l'ombra  lunare,  vestonsi  di  un  cupo  nero,  e  gli  squarci 
frapposti  e  i  pezzi  leggermente  velati  si  tingono  di 
un  giallo  verdastro  di  un  indicibile  aspetto. 

All'ulteriore  restringersi  della  fase,  le  ombre  di- 
vengono incerte,  e  i  contorni  sfumati,  indecisi  e  in- 
stabili in  modo  singolare  sembrano  annunziare  pros- 
sima l'estinzione  della  vita  universale.  Pure  malgrado 
tale  preparazione,  lo  sparire  dell'ultimo  raggio  succe- 
de con  piena  sorpresa  dell'animo  il  più  premunito, 
che  si  trova  quasi  oppresso  da  una  forza  superiore  a 
se  stesso.  «  L'esser  ridotto  il  Sole  ad  un  tenue  filo  » 
dice  un  celebre  fisico  scozzese, il  Forbes,  che  nel  1842 
ne  fu  testimonio  a  Torino  (9),  «  non  è  ancora  prepa- 
»  razione  sufficiente  al  gran  momento,  perchè  tale  è 
»  r  intensità  del  suo  fulgore  che  la  centesima  parte 
»  del  suo  disco  dà  forse  luce  sufficiente  per  tutti  i  bi- 
»  sogni  della  vita.  Il  passaggio  dal  giorno  alla  notte 
))  in  una  ecclissi  totale  si  fa  con  tanta  celerilà  che 
»  sembra  quasi  istantanea,  e  la  transizione  fu  tal- 
»  mente  rapida  che  io  rabbrividii  come  all'entrare 
»  in  una  grotta  umida  ed  oscura. 


11 

Ma  il  più  terrifico  degli  effetti,  per  chi  potè  os- 
servarlo con  agio  e  in  favorevoli  circonstanze,  è  il  ra- 
pido volare  dell'ombra  lunare  sulla  terra  )).  Chi  ha  ve- 
duto (c  prosegue  lo  stesso  autore  «  una  locomotiva  a 
»  vapore  su  di  una  strada  ferrata  slanciarglisi  incontro 
))  con  una  velocità  di  30  a  40  miglia  l'ora,  si  faccia  se 
»  può  un'  idea  della  terribile  sensazione  che  far  deve 
»  quest'ombra,  che  a  guisa  di  colonna  tenebrosa  di- 
»  stesa  sull'orizzonte  remoto  vedeasi  accostare  colla 
»  velocità  del  lampo  (cioè  più  di  9  mila  miglia  all'ora) 
»  e  che  in  meno  di  mezzo  minuto  attraversò  tutta 
»  la  pianura  compresa  tra  l'alpi  marittime  e  Tori- 
»  no  (10)  !  Confesso  che  questo  per  me  fu  lo  spet- 
»  tacolo  più  terribile  che  io  abbia  mai  veduto  :  e 
»  come  avviene  sempre  nel  caso  di  moti  repentini, 
»  inaspettati  e  taciti,  che  lo  spettatore  sembra  con- 
»  fuso  tra  i  moti  reali  e  i  relativi,  io  mi  sentii  per 
«  un  istante  sbalordito,  come  se  il  vasto  edifìzio 
»  su  cui  stava  si  inclinasse  sotto  a'  miei  piedi  ,  o 
))  piuttosto  come  se  la  natura  intera  venisse  meno 
»  per  l'azione  di  una  potenza  esteriore  che  ci  op- 
))  primesse,  nascosta  sotto  le  tenebre  di  una  notte 
»  quasi  istantanea.  Io  non  posso  dubitare  che  la  cir- 
ì)  costanza  di  una  nube,  che  appunto  allora  mi  oc- 
))  cullava  il  sole,  non  aumentasse  molto  l'effetto  mi- 
ì)  sterioso  e  terribile  dell'ombra  volante.  Ma  certa- 
»  mente  non  mai  senza  una  esatta  cognizione  della 
»  vera  natura  dell'ecclisse  non  l'avrei  attribuito  alla 
»  Luna,  0  ad  altra  causa  fuori  della  nostra  atmo- 
»  sfera,  tanto  essa   pareva  vicina  (11). 

))  Certo  gli  uomini  poco  istruiti  di  ogni  epoca 
»  ebber  ragione  di  guardar  con  paura  una  sì  spaven» 


12 

»  tosa  apparenza,  e  confesso  francamente  che  se  mi 
»  fossi  trovato  colto  all'  improvviso  in  pari  circo- 
))  stanze  ,  il  mio  primo  pensiero  sarebbe  stato  si- 
»  curamente  che  la  natura  intera  si  disfaceva  e  che 
»  l'ultimo  giorno  era  giunto  (12).  »  Fin  qui  il  Forbes. 

Nò  è  solo  esso  a  tener  tale  linguaggio  ma  con 
lui  tutti  consuonano  in  espressione,  né  lo  stato  di 
un  cielo  più  o  men  favorevole  ha  tolto  il  sentire  di 
quella  profonda  emozione  (13).  E  tale  impressione 
non  è  sola  dell'uomo,  ma  si  estende  altresì  a  bruti 
animali,  e  la  si  scorge  nelT  inquietudine  de'  loro  mo- 
vimenti nell'errare  incerto  degli  uccelli  e  nell'azzittire 
del  lor  canto,  nell'accovacciarsi  dei  cani,  e  nei  mo- 
vimenti violenti  de'  cavalli,  talora  con  non  piccolo 
pericolo  de'cavalieri  (14)  e  infine  nella  generale  sen- 
sazione di  freddo  che  tutta  invade  in  quel  momento 
la  creazione;  onde  per  converso  a  questa  proporzio- 
nale ò  l'allegria  con  cui  è  accolto  il  primo  riapparire 
del  raggio  solare,  che  tutta  ravviva  la  natura,  al  cui 
splendore  tutto  ripiglia  il  suo  corso,  e  il  Sole  infal- 
libilmente riceve  un  saluto  perfino  dal  garrulo  sire 
del  pollaio. 

Se  non  chu  tutto  ciò  che  può  interessare  il  con- 
templatore della  natura  non  attrae  che  lievemente 
l'attenzione  dell'astronomo.  Il  suo  sguardo  e  il  suo 
spirito  sono  assorbiti  alla  disamina  di  quell'astro  che  in 
que'  fugaci  momenti  si  presenta  nel  più  insolito  aspet- 
to, lo  non  ve  lo  posso  meglio  descrivere  che  colle 
parole  di  un  altro  testimonio  di  veduta,  il  celebre 
Baily  che  a  bella  posta  nel  1842  si  recò  a  Pavia  (15). 
«  Io  stava  attento  »  dice  esso  «  a  contare  le  bat- 
»  tute  del  mio    cronometro  per  cogliere    V  istante 


13 

»  (Iella  totale  disparizione  ,  e  una  quiete  profonda 
»  teneva  sospesi  in  silenzio  gli  sguardi  e  le  menti 
»  di  un  popolo  di  curiosi  raccolti  nella  sottoposta 
))  piazza:  quand'ecco  allo  sparir  dell'  ultimo  punto 
»  di  Sole  mi  scuote  repentinamente  e  mi  elettrizza 
»  un  fremito  ed  un  applauso  di  evviva  che  scoppia 
))  dalla  raccolta  folla:  levo  attonito  lo  sguardo  dalla 
»  mostra  del  ci'onometro  verso  cui  mi  era  incurvato, 
))  e  miro  al  cielo,  e  veggo  la  ragione  dell'entusiasmo: 
»  all'astro  del  giorno  trovo  sostituito  un  negro  disco 
))  della  piij  nera  pece,  circondato  da  una  corona  di 
))  raggi  qual  si  dipinge  attorno  le  teste  dei  beati. 

»  A  tal  vista  inaspettata  sto  anch'  io  attonito 
»  come  l'uomo  del  volgo,  e  per  poco  non  dimentico 
»  lo  scopo  principale  del  mio  viaggio  e  perdo  così 
»  una  gran  parte  di  que'  preziosi  momenti.  Riavu- 
»  tomi  un  istante  dalla  sorpresa,  levo  in  fretta  il  ve- 
»  tro  oscuro  del  mio  cannocchiale  e  miro  il  Sole  a 
»  occhio  indifeso,  e  la  mia  maraviglia  è  ancor  mag- 
))  giore.  La  corona  di  gloria,  che  cinge  l'oscura  Luna, 
»  è  in  tre  sili  quasi  interrotta  da  tre  vive  e  gigan- 
))  lesche  fiamme  di  color  purpureo,  che  nella  fretta 
»  della  osservazione  non  ben  so  discernere  se  fiam-. 
))  ma  siano  oppur  montagne:  e  mentre  cerco  di  stu- 
»  diarne  la  slruttuia,  un  raggio  di  sole  che  sfavilla 
»  mi  ruba  la  vista  dell'  incantevole  spettacolo  ,  e 
))  mentre  ridona  alla  natura  la  vita,  lascia  me  colla 
»  tristezza  di  chi  si  vede  sfuggito  lo  scopo  del  suo 
))  desio'  al  momento  che  stava  per  afferrarlo.   » 

Avete,  0  signoi'i,  in  questo  semplice  ed  ingenuo 
racconto  esposti  i  motivi  che  trarranno  una  folla  di 
dotti  alle  rive  dell'  Ebro.  II  riconoscere  che  cosa  siano 


14 

quelle  fiamme,  qual  sia  la  causa  di  quella  corona, 
ecco  i  principali  problemi  ,  la  risoluzione  de'  quali 
sarà  il  premio  delle  loro  ansiose  ricerche  e  de'  loro 
viaggi.  E  questa,  come  vedete,  una  rivelazione  novella 
€he  inaspettati  misteri  ci  scopre  sulla  struttura  tisica 
del  Sole,  ma  che  ci  sono  riservati  a  studiare  solo  ed 
unicamente  in  que' brevi  momenti. 

Quanto  riguarda  il  Ministro  maggior  della  natura 
è  sì  nobil  soggetto,  che  ninna  fatica  può  stimarsi 
maggior  dell'  impresa,  nessun  incomodo  maggior  del 
guiderdone;  ma  la  sua  cognizione,  quale  può  rilevarsi 
dalle  osservazioni  che  possono  farsi  nelle  comuni  cir- 
costanze, è  estremamente  limitata.  Malgrado  le  molte 
cure  e  i  molti  sludi  fatti  su  di  ciò,  le  possiamo  ri- 
capitolare in  poche  parole  (16).  Noi  sappiamo  sol- 
tanto che  esso  è  un  immenso  corpo  infiammato  av- 
volto da  uno  strato  luminoso,  e  che  qua  e  là  ci  si 
presenta  sparso  di  variabilissime  macchie  oscure. 
Uno  studio  assai  diligente  della  struttura  di  tali  mac- 
chie ci  ha  fatto  vedere  ,  che  esse  sono  squarci  di 
quello  strato  luminoso  stesso,  detto  fotosfera,  che  ri- 
cuopre  il  nucleo  dell'astro  comparativamente  oscuro 
che  ci  si  lascia  talora  vedere  attraverso  tali  aperture. 
Mercè  di  delicate  misure,  si  è  perfino  potuto  deter- 
minare la  spessezza  di  tale  inviluppo  che  si  è  tro- 
vato assai  tenue  in  proporzione  di  quel  vastissimo 
corpo,  cioè  non  superiore  alla  centesima  parte  del 
suo  diametro,  ossia  minore  del  diametro  terrestre. 

Le  macchie  presentano  due  specie  di  movi- 
menti, uno  intestino  che  cambia  prodigiosamente  , 
le  loro  forme  fino  a  discioglierle  in  breve  tempo:  e 
l'altro  estrinseco,  che  le  trasporta  sulla  superficie  so- 


15 

lare,  variando  longitudine  e  latitudine. Sono  assai  fre- 
quenti in  esse  le  forme  a  spira  che  in  molti  casi  si 
sono  trovate  girare  in  verso  opposto  nei  due  emisferi: 
onde  mostrano  somma  analogia  coi  nostri  vortici 
atmosferici  detti  cicloni  o  uragani. 

Qualora  molte  osservazioni  di  macchie  solari  spet- 
tanti a  successive  rotazioni  si  disegnino  in  un  foglio 
colle  rispettive  posizioni  eliografiche  ,  si  trova  che 
esse  di  rarissimo  si  estendono  oltre  a  36."  di  lati- 
tudine, e  non  arrivano  che  in  pochi  casi  eccezionali 
sotto  a  5.°  Così  una  zona  di  10."  sull'Equatore  è 
quasi  in  quiete:  e  se  vi  nascono  macchie,  queste  ra- 
pidamente svaniscono.  La  copia  loro  si  produce  mag- 
giore in  certe  regioni  che  in  altre;  onde  sembra  ar- 
gomentarsi qualche  causa  locale  nel  globo  solare  che 
le  determini  a  preferenza  ,  e  vaste  correnti  che  le 
trasportino.  Le  lor  latitudini  sembrano  variare  perio- 
dicamente, ma  con  simmetria,  nei  due  emisferi;  e  se 
in  un  lato  si  accostano  all'equatore,  vi  si  accostano 
anche  nell'altro  (17). 

Oltre  le  macchie  oscure  ,  si  vedono  d'  ordina- 
rio sulle  stesse  zone  copiose  strisce  di  luce  più  viva, 
dette  facole,  state  mistero  per  molto  tempo,  ma  che 
finalmente  si  è  riconosciuto  esser  le  alte  cime  delle 
grandi  ondate  di  quell'oceano  tempestoso,  che  si  er- 
gono sulla  pili  bassa  e  densa  sua  atmosfera,  e  che 
così  splendono  di  luce  più  brillante.  Una  diligente 
disamina  della  intensità  della  luce  e  del  calore  nelle 
varie  parti  del  disco  solare  ha  dimostrato  che  l'una 
e  l'altra  sono  più  forti  al  centro  che  alla  circonfe- 
reaza  ,  onde  si  è  concluso  esistere  attorno  a  quel 
globo  un  involucro  trasparente,  ma  assorbente,  ana- 
logo alla  atmosfera  che  circonda  la  Terra.  Scoperta 


i6 

importantissima,  e  che  ci  apre  una  nuova  vìa  per 
ispiegare  moltissimi  de'  fenomeni,  che  si  osservano 
nelle  ecclissi.  Ma  se  questa  atmosfera  sia  oscura  o 
luminosa  ancor  essa,  e  qual  sia  il  suo  grado  di  luce, 
quali  le  sue  vicende;  se  in  essa  abbian  luogo  nubi 
e  moti  analoghi  a  quelli  che  vediamo  nella  nostra, 
quali  siano  i  suoi  limiti;  e  se  essa  congiungasi  colla 
luce  zodiacale  e  involga  o  no  i  pianeti  pili  vicini, 
nulla  possiamo  dedurre  dalle  osservazioni  ordinarie. 
Ora  è  appunto  per  la  soluzione  di  questi  pro- 
blemi che  sono  preziose  le  ecclissi  totali.  Essendo 
allora  la  sua  lucida  fotosfera  coperta  dall'  interposto 
corpo  lunare,  può  diventare  visibile  la  sua  atmosfera, 
che  sembra  di  troppo  debol  luce  fornita  per  compa- 
rire discernibile  in  faccia  al  resto  :  allora  riescon 
visibili  quelle  misteriose  fiamme  notate  nel  1842  e 
rivedute  poscia  in  forme  diverse  nelle  altre  ecclissi 
successive  ,  la  cui  natura  è  ancor  problematica  ,  e 
su  la  cui  spiegazione  ,  per  la  varietà  degli  aspetti 
che  presentarono  ,  non  sono  ancora  concordi  tutti 
gli  astronomi.  Si  credette  dagli  antichi  che  la  corona 
che  cinge  la  Luna  fosse  la  sua  atmosfera  (18);  ma 
essendo  il  nostro  satellite  per  altri  motivi  creduto 
privo  di  tale  involucro  ,  comunemente  si  tiene 
più  tosto  che  essa  sia  la  solare  ;  però  non  manca 
chi  ricusi  perfino  di  ammettere  il  fenomeno  come 
reale,  e  stimi  che  possa  essere,  se  non  in  lutto  al- 
meno in  parte,  effetto  d'uno  sparpagliamento  di  raggi 
al  radere  che  essi  fanno  il  lembo  lunare.  Per  capire 
qual  fondamento  possono  avere  tali  dissensioni,  è  me- 
stieri che  io  vi  accenni  più  in  particolare  qualche 
cosa  delle  sue  apparenze. 


17 

La  luce  della  corona  è  sempre  assai  viva  presso 
rorlo  lunare,  ma  illanguidisce  rapidamente  senza  che 
si  possa  precisare  il  termino  dove  essa  finisce;  tal- 
ché il  paragone  delle  aureole  che  si  sogliono  dipin- 
gere attorno  alle  teste  de'santi  è  riconosciuto  da  tutti 
per  esattissimo  (19).  Essa  però  apparisce  piij  grande 
sotto  un  cielo  più  limpido,  e  mentre  Baily  a  Pavia 
la  stimò  larga  un  semidiametro  lunare,  negli  altri 
luoghi  ,  e  neir  ecclisse  del  51  sotto  un  cielo  men 
terso  fu  slimata  appena  un  quarto  di  quella  gran- 
dezza. I  raggi  estremi  di  sua  luce  sembrano  ani- 
mali da  un  movimento  intestino  analogo  a  quello 
che  si  scorge  nel  raggio  solare  riflesso  da'  frantumi 
di  vetro,  appunto  come  se  riflessioni  irregolari  sul 
corpo  lunare  ne  sparpagliassero  il  lume  in  varie  dire- 
zioni; inoltre  essa  è  sempre  più  brillante  dalla  parte 
che  è  più  vicina  all'orlo  ove  sta  per  uscire  il  sole.  Ma 
quel  che  più  rende  complicata  la  sua  origine  si  è  che 
talora  ha  presentato  fasci  di  luce  affatto  obliqui  alla 
circonferenza  del  disco  lunare  e  irregolari  prolun- 
gamenti senza  veruna  simmetria  col  corpo  solare 
nascosto  e  perfino  delle  interruzioni  oscure.  Queste 
particolarità  sembrano  difficili  a  conciliarsi  colla  re- 
altà di  una  vera  materia  spettante  al  sole  ,  che  si 
estenda  fino  al  limite  visibile  di  que'  raggi. 

Un  altro  argomento  di  diversa  origine  è  vero,  ma 
non  meno  concludente  contro  la  realtà  di  sì  vasta 
atmosfera  visibile, sembrami  potersi  dedurre  dal  corso 
delle  comete  ,  più  d'  una  delle  quali ,  come  quella 
del  1843,  è  passata  nel  suo  perielio  più  vicina  assai  al 
Sole  che  non  si  estendono  cotali  splendori:  quindi  io 
reputo  che,  salve  le  future  apparenze  che  ci  possano 
G.A.T.CLXIV.  2 


18 
dai"  nuovi  lumi,  per  ora  sia  assai  probabile  che  una 
gran  parte  di  que'raggi  siano  semplice  diffusione  di 
luce  nata  da  varia  riflessione  e  diffrazione  che  essi 
subiscono  al  radere  del  corpo  lunare. Ho  io  peitanto 
cercato  di  assicurarmi  se  realmente  siano  sulla  Luna 
porzioni  capaci  di  produr  tali  riflessioni,  e  sembrami 
averle  trovate.  Delicate  esperienze  di  polaiizzazione 
della  luce  mi  hanno  fatto  conoscere  che  la  superficie 
del  nostro  satellite  è  fornita  di  un  vero  potere  ri- 
flettente speculare,  e  non  solamente  diffondente,  come 
farebbe  una  carta,  una  parete,  o  una  ruvida  pietra. 
Ora  un  corpo  di  tal  natura,  come  ne  assicura  l'espe- 
rienza diretta,  quando  passi  rasente  al  suo  orlo  un 
raggio  solare,  forma  una  frangia  di  luce  assai  vi- 
vace, e  di  là  riverbera  raggi  piiì  deboli  in  tutte  le 
direzioni  esteriori:  laonde  per  ciò  che  spelta  quella 
diffusione  radiale  mi  sembra  che  possa  essere  in 
parte  un  effetto  di  tale  costituzione  della  superfìcie 
lunare  (20). 

Tuttavia  non  sembrami  potersi  dire  lo  stesso  della 
porzione  della  corona  piti  viva  e  più  vicina  al  corpo 
solare.  Le  pi'ove  di  ciò  sono  desunte  primieramente 
dall'essersi  veduto  anche  in  ecclissi  anulari  un  filo 
di  luce  rossastra  assai  debole  terminare  il  lembo 
solare  restato  visibile  in  forma  quasi  di  colline  vedute 
in  un  lontano  orizzonte  :  il  che  mostra  essere  il 
sole  ricoperto  di  uno  strato  irregolare  assai  men 
lucido  che  la  fotosfera.  Ma  sopratutto  ciò  mi  par 
certo  dietro  1'  indole  stessa  di  quelle  prominenze 
rosse  che  vidersi  spuntare  attorno  della  Luna  in  tutte 
le  ecclissi  totali.  Questi  oggetti  singolari  benché  vedu- 
ti da  altri  astronomi  in  altre  ecclissi  anteriori,  non  fu- 
rono compresi,  e  nemmeno  fu  capito  che  cosa  indicas- 


19 

otìro  gli  osservatori  col  nome  vago  con  cui  le  defi- 
nivano, e  solo  nel  1842  si  rilevò  la  loro  importanza. 
Si  credettero  da  alcuni  montagne  lunari  per  la  lor  for- 
ma conica,  ma  il  colore  e  la  loro  troppa  grandezza, 
rende  questa  opinione  inammissibile.  La  loro  altezza 
è  stata  spesso  di  oltre  un  minuto  di  arco,  onde  ri- 
ferite al  sole  sarebbero  almeno  4  diametri  terrestri, 
e,  benché  enormi,  non  punto  impossibili  in  sì  gran 
corpo,  se  pur  le  volessimo  creder  montagne  solide: 
ma  i  più  le  credettero  mere  fiamme.  Però  non  es- 
sendosi potuto  nel  1842  vedere  in  esse  movimento 
certo  per  la  brevità  del  tempo  che  restaron  visibili, 
e  per  la  sorpresa  inaspettata  con  cui  si  presentarono 
agli  osservatori,  la  lor  natura  restò  dubbiosa. 

Furono  rivedute  a  Honololu,  ma  con  poco  più 
di  frutto;  solo  nel  1851,  apparvero  dì  tal  forma  ca- 
ratteristica da  non  lasciar  dubbio  ragionevole  sulla 
loro  pertinenza  e  natura.  Le  più  anche  allora  erano 
della  solita  forma  conica,  ma  una  se  ne  vide  di  for- 
ma stranissima  e  assai  istruttiva.  Sorgea  essa  per  un 
tratto  perpendicolarmente  al  lembo  lunare  e  arrivava 
quasi  diritta  fino  ad  una  altezza  di  l'|  :  giunta  a 
tal  punto  piegavasi  bruscamente  quasi  ad  angolo  ret- 
to, e  correva  per  un  tratto  parallela  al  lembo  lunare, 
onde  era  impossibile  nel  vederla  di  non  correr  su- 
bito colla  imaginazione  a  quelle  colonne  di  fumo  che 
uscite  con  impeto  da  un  ampio  camino,  arrivate  a 
certa  altezza  si  ripiegano  orizzontalmente  per  la  forza 
del  vento  (21).  Poco  distante  da  questa  ne  era  un 
altra  assai  minore,  ma  che  da  provveduti  di  buoni 
strumenti,  fu  notata  essere  a  quella  unita  per  tenui 
archi  bianchi.  1  più  la  videro  isolata  e  sospesa  nella 


20 

corona  come  un  globo  aerostatico  in  aria.  Espertis- 
simi osservatori  assicurano  di  aver  veduto  questa  e 
le  altre  prominenze  allungarsi  mano  mano  che  la 
Luna  movendosi,  veniva  col  suo  orlo  ad  accostarsi 
a  quello  del  Sole  (22). 

Da  queste  fortunate  osservazioni,  confermate  nei 
loro  particolari  da  moltissimi  testimonii,  si  rilevano 
due  cose  fondamentali:  t.°che  le  prominenze  rosse 
appartengono  al  corpo  solare  ,  giacché  si  coprono 
e  scoprono  a  seconda  che  la  Luna  vi  passa  sopra: 
2."  che  masse  tali  non  sono  montagne,  che  non  po- 
trebbero restare  sospese  e  conformale  in  quella  stra- 
na foggia,  ne  rimanere  del  tutto  isolate,  e  che  per- 
ciò è  mestieri  ammettere  un  fluido  trasparente  che 
le  sostenga;  il  quale  non  può  esser  altro  che  quella 
atmosfera  stessa  che  ci  si  manifesta  in  tanti  altri 
fenomeni,  i  piiì  ovvii  de*  quali  sono  la  differenza  di 
luce  e  calore  tra  le  parti  centrali  e  il  contorno  del 
disco  solare,  che  accennai  poco  fa;  certa  indecisione 
del  lembo  solare  che  lo  rende  alquanto  sfumato  la 
quale  tanto  risalta  nelle  ecclissi  comparando  i  limiti 
dei  dischi  de'  due  astri;  finalmente  quella  singolare 
colorazione  verdastra  che  tinge  gli  oggetti  terrestri 
all'accostarsi  dell'ecclisse  totale  pei  raggi  che  arrivano 
allora  a  noi  solo  dopo  aver  traversato  quell'enorme 
strato,  e  così  hanno  perduto  il   lor  candore  (23). 

La  luce  e  la  grandezza  delle  fiamme  maggiori 
è  tale  ,  che  da  molti  sono  slate  vedute  ad  occhio 
nudo,  ma  tutte  al  primo  raggio  di  Sole  svaniscono,  e 
le  diligenze  fatte  per  vederle  in  altro  tempo  fuori 
d'ecclisse  son  riuscite  vane:  sì  forte  è  la  luce  solare 
'che  tulio  assorbe  e  rende  invisibile  (24).  Lo  studio 


21 

adunque  rVi  queste  singolari  apparenze,  è  riservato 
a  que'  soli  momenti  della'totalc  oscurità,  e  per  finir 
di  togliere  ogni  dubbio  sarebbe  mestieri  riconoscere 
se  sono  soggette  a  movitnenti  e  di  che  specie  , 
e  se  in  siti  lontani  presentano  i  medesimi  aspetti. 
Più  d'uno  credette  nel  1851  avervi  notato  dentro, 
moti  intestini  sensibili,  il  che  confermerebbe  la  loro 
natura,  ma  sì  breve  è  il  tempo  in  cui  sono  visibili, 
tanta  è  la  copia  degli  oggetti  da  contemplare,  tanta 
la  molliplicilà  delle  cose  da  esaminare,  e  tale  Tap- 
prensione  e  sorpresa  delle  menti  in  quel  ci-ilico  istan- 
te, che  i  meglio  preparati  osservatori  trovansi  scon- 
certali, e  senza  quella  tranquillità  che  tanto  sarebbe 
necessaria  per  fare  una  osservazione  precisa.  Quindi 
è  che  malgrado  le  molte  osservazioni  fatte,  molto 
ancora  resta  da  accertare  su  tante  minute  questioni. 
I^a  pratica  ha  oramai  insegnalo  che  un  solo  osserva- 
tore non  basta  a  tutto,  che  fa  duopo  dividere  il  lavoro 
od  assegnare  a  ciascuno  una  speciale  attribuzione, 
ma  tale  è  in  quel  momento  la  generale  eccitazione 
che  mal  può  tenersi  in  regola  un  oidine  qualunque 
preventivamente   fissato. 

Per  meglio  assicurarsi  di  questi  fugaci  fenomeni 
non  solo  è  mestieri  aumentare  il  numero  degli  esperti 
osservatori  ma  anche  trar  partito  di  tutti  i  mezzi  pos- 
sibili per  evitare  le  illusioni.  Quindi  grande  soccorso 
si  spera  dalla  fotografia,  e  già  un  apparato  destinato  e 
costrutto  a  tale  effetto  sarà  nella  prossima  occasione 
spedito  in  Spagna  dalla  società  Reale  di  Londra. Nuovi 
micrometri  esclusivamente  destinati  alle  misure  e 
alla  determinazione  del  sito  delle  prominenze  e  alla 
grandezza  della  corona,  e  polariscopii  per   vedere  se 


22 

I;»  luce  sia  diretta  o  riflessa,  e  molti  altri  congegni 
sono  in  pronto  pel  18  luglio  in  cui  si  spera  un  ot- 
tima riuscita  (2i).  Ma  può  essere  che  anche  questa 
volta  le  nostre  indagini  siano  frustrate  e  che  un  nuovo 
inaspettato  fenomeno  venga  a  modificare  tutte  le  no- 
stre idee,  e  mutare  i  nostri  progetti. 

Ma  qualunque  sia  per  esseie  il  successo  ,  sarà 
sempre  tale  da  rendere  vieppiù  ammirande  per  noi 
le  opere  del  Creatore,  e  che  per  ciò  ogni  premura, 
ogni  impegno  sarà  sempre  inferiore  al  merito  del 
soggetto,  onde  è  sommamente  degno  di  lode  l'entu- 
siasmo destato  per  lo  studio  di  sì  importante  fenome- 
no. Certo  il  contemplare  il  Sole  nella  fulgida  maestà 
dei  suoi  splendori,  è  mille  volte  piiì  bello  che  vederlo 
languente  e  sfinito  ,  onde  sarebbe  segno  di  quella 
somma  imbecillità  a  cui  le  meraviglie  stesse  per 
l'abitudine  diventar)  vili,  se  più  ci  stimolasse  il  guar- 
darlo per  pochi  istanti  privo  de'suoi  raggi  che  am- 
mirarlo di  essi  sfavillante.  Ma  nasce  il  desio  da  ciò 
che  solo  in  quegli  islanli  ci  è  dato  di  meglio  cono- 
scerne la  sua  natura  quando  meglio  si  accosta  alla 
debolezza  dc'nostri  sensi.  Anche  allora  vera  iinagine 
del  suo  Fattore  in  quella  scena  di  orrore  che  pre- 
senta la  natura,  vieppiù  ci  si  rivela  la  sua  potenza 
infinita, che  sembra  per  noi  risplendere  maggiormente 
quando  ci  sottrae  gli  abituali  favori;  e  quella  specie  di 
morte  momentenea  della  natura,  e  la  subita  sua  risur- 
rezione, sublima  il  pensieio  a  quello  Spirito  che  tolto 
dalla  materia  la  riduce  alla  sua  polve,  e  al  ritornarvi 
la  ridona  alla  vita  e  rinnova  la  faccia  della  Terra 
(Ps.   103). 


23 
NOTE 


(1)  Sua  EiTinza  Rma  il  sig.  Card.  Santucci  Prefetto  della 
Sacra  Congregazione  degli  Studi ,  onorò  di  sua  presenza  la 
sessione. 

(2)  Benché  si  triviali  oggidì  e  sì  neglette,  pure  le  ecclissi 
della  Luna  di  notabile  grandezza  non  mancano  della  loro  attrat- 
tiva ed  importanza.  Quel  vedere  nel  suo  placido  splendore 
il  brillante  luminare  che  prima  facea  sparire  le  stelle,  in  bre- 
ve tratto  da  un  lato  coprirsi  di  lurida  macchia  nericcia,  che 
ingrandendosi  mano  mano  veste  una  cupa  tinta  sanguigna, 
se  anche  si  prescinda  da  superstiziosi  timori  ,  essa  non  può 
a  meno  di  non  eccitare  l' imaginazione.  Così  nell'ultima  ec- 
clisse  del  6  febbraio  1860  quando  ridotto  l'astro  a  tenue  falce, 
l'argentea  luce  della  parte  superiore  contrastava  mirabilmente 
colla  porpora  della  inferiore  ecclissata,  e  si  vedea  ritornato  al 
cielo  l'onore  delle  sue  stelle,  le  più  belle  delle  quali  coi  pia- 
neti Giove  e  Saturno  gli  sembravan  formare  corona:  si  avea 
una  scena ,  anche  per  chi  ne  conosceva  appieno  la  cagione , 
mista  di  bellezza  e  di  terrore. 

Gli  antichi  fecero  un  uso  utilissimo  delle  ecclissi  lunari: 
da  esse  dedussero  il  tempo  della  rivoluzione  sinodica  della 
Luna,  il  moto  de'nodi  della  sua  orbita,  e  alcune  delle  princi- 
pali ineguaglianze  del  suo  movimento.  Prendendo  poi  la  di- 
stanza della  Luna  ecclissata  dalle  stelle  fisse  e  aumentandola 
di  180"  aveano  la  posizione  del  Sole  rispetto  alle  stelle  stes- 
se, e  sapendo  quanto  esso  distasse  dall'equinozio  conoscevano 
la  posizione  dì  questo  punto  rapporto  alle  fisse,  e  così  Ipparco 
fece  la  grande  scoperta  della  precessione  degli  equinonozi. 
Però  sfuggirono  a  lui  quelle  grandi  ineguaglianze  nei  moti  lu- 
nari che  non  sono  sensibili  nelle  opposizioni,  ma  si  rilevano 
nelle  quadrature,  scoperta  riservata  a  Tolommeo  e  a  suoi  suc- 
cessori. 

La  famosa  ecclisse  solare  che  avvenne  nella  guerra  de'  Medi 
e  de  Lidi,  dicesi  che  fosse  stata  predetta  da  Talele.  Ciò  non 
è  impossibile,  perchè  ora  sappiamo  che  questi  fenomeni  erano 


24 
■da  gran  tempo  prima  di  quel!'  epoca  diligentemente  studiali 
in  Cina  ove  esisteva  un  sistema  regolare  di  calcolo  ed  osser- 
vazioni, e  che  i  frutti  de' loro  studi  passarono  agli  Indiani,  e 
quindi  ai  Greci.  Credesi  comunemente  che  quel  lilosofo  avesse 
potuto  predire  l'ecclisse  di  Sole  in  genere,  mediante  i  cicli, 
ma  l'essere  accaduto  totale  sembra  che  fosse  a  lui  stesso  ina- 
spettato, e  certo  mero  effetto  del  caso. 

(3)  L'osservatorio  di  Greenwich  è  un  esempio  molto  no- 
tabile del  vero  dovere  e  successo  dell'  astronomo  pratico.  Il 
suo  lavoro,  non  sembra  altro  a  chi  più  non  conosce  che  un 
andazzo  ordinario  e  triviale,  ed  è  privo  di  tutto  quel  brillante 
che  costituisce  ciò  che  dicesi  una  scoperta.  Non  una  cometa,  non 
nn  pianeta  è  slato  trovato  a  Greenwich,  eppure  quello  è  il  primo 
osservatorio  della  Terra,  che  ha  l'atto  le  prime  scoperte  della 
scienza,  nel  somministrare  i  dati  fondamentali  per  costruire 
tutta  l'astronomia.  Sfortunatamente  i  direttori  degli  osserva- 
tore secondari  non  possono  adossarsi  il  grave  peso  dalle  os- 
servazioni Lunari,  e  sono  costretti  a  pascere  il  pubblico  delle 
occorrenti  novità  della  scienza,  ma  non  so  con  quanto  van- 
taggio reale:  il  certo  è  che  tutto  quello  che  si  sa  fuori  delle 
osservazioni  di  Greenwich,  può  rifarsi  ora  in  un  anno  o  due  da 
qualunque  astronomo  fornito  di  buoni  strumenti,  ma  sui  lavori, 
di  Greenwich  la  presente  abilità  non  può  aver  forza  retroattiva, 
uè  potranno  esser  rivaleggiale  da  alcuno  per  tutto  il  tempo 
avvenire  quelle  tante  osservazioni  che  servirono  a  fare  e  perfe- 
zionare la  scienza.  All'osservatorio  di  Greenwich  non  solo  si  e 
sempre  religiosamente  custodita  l'antica  tradizione  di  osservare 
la  Luna  ogni  giorno  al  suo  passaggio  al  meridiano  in  un  colle 
stelle  circonvicine,  ma  si  è  costruito  un  nuovo  strumento  appo- 
sitamente per  poterla  osservare  presso  l'orizzonte  in  quei  giorni 
in  cui  non  potevasi  osservare  al  meridiano.  Tutte  queste  os- 
servazioni non  sono  restate,  come  spesso  avviene,  sepolte  nei 
registri  astronomici  ,  ma  corredate  di  tutte  le  necessarie  ri- 
duzioni sono  state  recate  (ino  al  punto  di  venir  confrontate 
colle  tavole  teoretiche  per  averne  gli  errori,  e  conseguente- 
mente le  correzioni:  lavoro  di  fatica  immensamente  maggiore 
che  non  quello  delle  semplici  osservazioni ,  e  che  al  fastidio 
del  calcolo  associa  profonde  cognizioni  nella  teoria. 

Né  conlento  di  questo,  l'Astronomo  Reale  britanno,  il 
sig.  Airv,  mercè  di  ricchi  fondi  assegnati  dal  suo  Governo,  ha 


25 

intrapreso  e  condotto  a  fine  un  impresa  ancor  più  colossale,  e. 
desiderata  da  gran  tempo,  ma  die  per  la  sua  arduitcà  e  vastità, 
avea  scoraggilo  più  astronomi,  voglio  dire  la  revisione  e  nuova 
riduzione  di  tutte  le  osservazioni  della  Luna  fatte  a  Greenwich 
dal  1730  al  1830,  e  che  unita  alle  susseguenti  forma  più  di 
un  secolo  di  corso  lunare  osservato  colla  massima  precisione. 
Una  tal  riduzione  oltre  l'aver  purgato  queir  importante  te- 
soro da  una  moltitudine  di  inesattezze  scorse  nei  calcoli  an- 
teriori, lo  ha  reso  direttamente  paragonabile  coi  risultati  mo- 
derni, mediante  l'uniforme  sistema  di  dati  su  cui  sono  basate 
le  riduzioni. 

(4)  È  troppo  celebre  la  controversia  attualmente  accesa 
tra  più  celebri  teorisli  sul  valore  dell'  accelerazione  secolare 
del  moto  medio  della  Luna,  che  da  llausen,  Plana,  Pontécoulant 
si  trova  12"  circa,  quasi  eguale  a  ciò  che  si  ha  dall'osserva- 
zione, mentre  da  altri  non  meno  abili  calcolatori  cioè  Delanuay 
e  Adams,  si  trova  solo  la  metà  cioè  6".  La  questione  resta  in- 
decisa ancora  sulla  vera  origine  di  tal  divergenza  che  sembra 
non  provenir  punto  da  errore  di  calcolo,  essendo  quest'ultimo 
valore  concluso  da  tre  metodi  diversi  e  da  due  calcolatori  affatto 
indipendenti.  Questo  valore  è  di  somma  entità  per  la  veri- 
fica delle  antiche  ecclissi. 

Un  altro  punto  su  cui  resta  qualche  dubbio  ancora  è  il 
diametro  de'due  astri,  che  nelle  osservazioni  meridiane  essendo 
sempre  assai  influenzato  dalla  dilatazione  prodotta  dalla  irra- 
diazione ,  sembra  doversi  notabilmente  diminuire  quando  si 
tratta  della  determinazione  dell'  istante  del  principio  ,  fine  e 
durata  di  un  ecclisse.  Così  nell'ecclisse  del  7  settembre  1838  os- 
servata al  Brasile,  gli  osservatori  si  trovarono  sconcertati  es- 
sendo slata  più  breve  la  durata  di  40"  che  non  dava  il  calcolo. 
Per  questo  sono  preziosi  i  dati  dedotti  dal  limite  dell'ombra, 
cioè  dai  luoghi  ove  1' ecclisse  cesserà  di  esser  totale:  si  do- 
vranno però  premunire  gli  osservatori  di  cannocchiale,  perchè 
altrimenti  la  corona  può  far  comparire  1' ecclisse  non  totale 
in  luoghi  in  cui  lo  è  realmente,  come  è  avvenuto  altre  volte. 

(3l  V.  Maedleu  L'écUpse  solaire  clu  18  Jul.  1800.  inem. 
dell' Oss.  di  Dorpat.  1839.  Ecco  la  posizione  di  questi  limili 
della  zona  centrale. 


26 

A.  limite  Boreale  1 

C.Machichaco.Plasencia  Segura^^^^^^.^^Ayl)ai^      ^  Luna  ^^^^^ 

'  Versara  Sadara  | 

Mequinenza 


Miravet.   C.  torlosa.   Dragovera.  Cabrerà 

B.  linea  Centrale 

Cabazon 
S.  Vincent  de  laBarquera Sonci  Ilo.  Ponte  Arenas  - 

Angiano 
Poncorbo  —  S.  Domingo  de  Calanda  Villoslada  — 

Albega  ^ 

Almanza  —  Villaroya  Maynar  —  Guesa  — 

Calatayud 

Canta  Vieja  —  Oropesa 


M.  Campvey 
C.  limite  Australe 


C.Busto  ^,     '^^n.a.  Pnladelena    r„;,.,.  ^^  vega.  Villamarlir 
— ~ oaias  j 


Luarca 

Torquemada.Aranda.Siguenza.  Cabela^Chelva       .    Torrente 
Carrica  — -^ ^"'J'* 

Cullerà  —  C.  S.  Antonio  —  Torrechica  (africa) 

N.  B.  La  linea  sotto  o  sopra  il  nome  indica  che  esso 
sta  discosto  dal  limite  al  Sud  al  NorA  di  qualche  spazio  non 
però  maggiore  di  una  lega,  l  calcoli  del  Prof.  Volfers  danno 
dei  punti  pochissimo  diversi  pel  centro,  ma  più  ristretti  per 
i  limiti  estremi  per  non  aver  tenuto  conto  dell'  ingrandimento 
paralitico  del  raggio  apparente  della  Luna. 

(6)  Tra  le  spedizioni  Governative  o  a  spese  di  pubbliche 
Accademie  sono  ora  fissate  quelle  del  governo  francese  sotto 
la  direzione  di  M.  Faye,  quella  della  Soc.  R.  di  Londra  che 
avrà  a  capi  De  La  Rue  e  Carrington  e  che  per  fotografare  il 


27 

sole  farà  trasportare  lo  strumento  ora  a  Kew  per  cui  la  Soc. 
Reale  ha  fissato  un  fondo.  Quelli  degli  astronomi  spagnuoli 
con  due  equatoriali  di  Steinheil,  alla  quale  sono  stato  invitato 
ancor  io:  quella  di  Baviera  del  Sig.  Lamont,  la  Russa  del  sig. 
Maedier  e  Winneke. 

(7)  Per  il  grado  di  oscurità  vedi  le  osservazioni  e  con- 
fronti di  Forbes  Bibl.  Univ.  voi.  48.  pag.  363.  e  Carlini 
Bibl.  Univ.  voi.  44.  p.  361.  La  configurazione  del  Sole  coi 
quattro  pianeti  principali  è  questa 


Giove 

TP 


,.^  Sole 


Levante  Saturno  2   ,,  Ponente 

Venere 


Mercurio 


Le  posizioni  loro  più  accurate  sono  le  seguenti 

Longitudine    Latitudine    Distanza  del  Sole 
Mercurio      141°  55'        —  1"  14'          25°  51' 
Venere         116   48         —  5  41  5  23 

Giove  123  52         +  0  30  7   47 

Saturno        144   58         —  5  31  28  53 

Il  pianeta  inferiore  a  Mercurio,  sarebbe  quello  che  dicesi  ve- 
duto dal  Lescarbault  passare  sul  Sole. 

(8)  Nelle  ecclissi  parziali  come  si  avrà  in  Roma,  l'effetto 
non  è  punto  differente  da  quello  di  un  temporale:  però  anche 
in  questi  non  comincia  ad  esser  sensibile  l'oscurità  finché  non 
è  coperto  il  centro  del  sole.  Diverse  esperienze  eseguite  per 
la  prima  volta  al  coli.  Rom.  nel  1851  fecero  vedere  la  rapida 
diminuzione  che  accade  nella  luce  e  nel  calore  solare  appena 
questo  è  coperto.  Una  serie  di  ricerche  fatte  col  termomolti- 
plicatore di  Melloni  mi  fece  vedere  essere  i  raggi  centrali  assai 
più  efficaci  che  quelli  de' contorni,  nella  proporzione  di  2:1. 
La  cagione  di  ciò  è  l'atmosfera  solare  come  si  dirà  appresso. 

(9)  Bihl.Un.  di  Gin.vol.  48  pag.  263.  Il  Sig. Forbes  osservò 
l'ecclissi  telale  del  1842  a  Torino  dalla  cima  della  torre  del 
palazzo  ove  è  l'Osserv.  governativo,  insieme  col  Bar.  Plana, 
ma  per  una  assai  particolare  circostanza  una  nube  isolata  gli 


•28 
tenne  coperto  il  sole  durante  lutto  il  tempo  dell'ecclissc,  mentre 
a  pochi  passi  di  distanza  altri  poterono  goderlo  completamente: 
ciò  però  diede  luogo  a  varie  importanti  riflessioni  e  conside- 
razioni ,  comunemente  omesse  dagli  altri  astronomi,  occupati 
in  tult'  altre  cose  in  quei  brevi  momenti.  Struyke  fino  dai 
tempi  d'Ilalley  godè  che  simile  sorte  fosse  a  lui  toccata,  che 
l'emozione  sembra  divenir  maggiore. 

(10)  Nella  prossima  ecclisse  la  velocità  dell'ombra  sarà 
di  900  metri  per  secondo  {Faye  ann.  du  Cosmosl860  pag.lB2), 
e  in  10  minuti  di  tempo  attraverserà  la  Spagna  al  collo  della  Pe- 
nisola. Lo  stato  atmosferico  di  quel  clima  rendendo  dubbiose 
le  osservazioni  al  piano,  gli  astronomi  hanno  destinato  per  le 
stazioni  le  più  alte  cime  de'monti.  Una  delle  più  elevate  èMon- 
cayo  quasi  nel  centro  dell'ombra  e  della  sua  strada.  Colà  certo 
l'efletto  di  questa  specie  di  ombra  volante  deve  riuscire  sor- 
prendente. 

(11)  Per  una  singolare  illusione  anche  il  sig.  Airy  osser- 
vando a  Snperga  il  Sole  a  lui  scoperto,  ebbe  la  stessa  impres- 
sione di  una  somma  vicinanza  della  Luna  come  se  fosse  posta 
a  poche  braccia  di  distanza  (V.  M.  Astr.  Soc.  voi.  XV.  pag.lS). 
Quest'astronomo  nota  anche  il  terribile  effetto  di  una  nube 
sottoposta  che  apparendo  di  nera  pece  accresceva  in  modo 
strano  l'orrore  della  scena  (p.  12). 

(12)  Anche  altri  prima  avea  osservato  il  fenomeno  del 
camminare  dell'ombra,  masi  credeva  esser  stata  illusione:  non 
vi  ha  dubbio  come  riflette  lo  stesso  Forbes  che  il  suo  limite 
sia  ben  definito,  ma  non  deve  omettersi  che  la  rapidità  del  suo 
movimento  deve  farla  comparire  ancor  più  decisa  (Forbes 
loc.  cit.) 

(13)  Vedi  il  racconto  del  ISSldelCap.  Biddulf  a  Dròback 
{Astr.  Soc.  voi.  XXI.  pag.  36.)  Vedi  anche  la  relazione  del 
sig.  Piazzi  nelle  osservazioni  di  Edimburgo  per  l'anno  1849-55. 

(14)  Più  cavalli  sul  ponte  della  Dora  a  Torino,  ombrarono 
all'  accostarsi  dell'ombra  :  e  lo  stesso  accadde  a  un  ufficiale 
l)russiano  nel  ISSI,  che  per  diporto  cavalcava  presso  un  fiume 
e  che  in  quel  punto  fu  in  gran  pericolo  della  vita.  Il  canto 
del  gallo  al  riapparire  del  sole  è  cosa  notata  dovunque  erano 
prossimi  de'pollai. 

(15)  Astr.  Soc.  voi.  XV.  pag.  1.  e  seg. 

(16)  Le  ricerche  nella  struttura  fisica  del  Sole  e  in  ge- 
nerale de'  corpi  celesti  furono  assai  promosse  dopo  il  Galileo  e 


29 

lo  Scheincr,  dal  Cassini,  e  dal  Wilson  e  vi  si  fecero  progressi 
immensi  da  Herschel,  ma  da  qualche  tempo  erano  cadute  in 
una  specie  di  disprezzo  presso  gli  Astronomi  matematici.  Certo 
non  sono  queste  [.ricerche  così  interressanti  come  quelle  dei 
moli,  ma  pure  è  un  hel  ramo  di  scienze  che  coi  moderni  pro- 
gressi della  fisica  e  coi  polenti  strumenti  che  oggidì  si  pos- 
siedono merita  ogni  attenzione.  Le  ecclissi  solari  hanno  con- 
tribuito grandemente  a  tali  studi,  e  per  una  più  diffusa  no- 
tizia sullo  stalo  delle  nostre  cognizioni  intorno  al  Sole  può 
vedersi  quanto  ho  scritto  neW Illustrazione  del  Quadro  fisico 
del  sistema  solare.  Tip.  delle  Belle  Arti  1858. 

(17)  Tutto  porta  a  credere  che  esistono  sulla  superficie 
solare  delle  immense  correnti  che  strascinano  la  macchie  ,  e 
che  lo  strato  dell'atmosfera  solare  si  trova  lacerato  per  la  pic- 
cola spessezza  che  ha.  Questa  spessezza  cosi  tenue  è  provata 
da  delicate  misure  della  penombra  delle  macchie.  In  ogni  mac- 
chia si  distingue  la  parte  nera  centrale  che  dicesi  nucleo,  e  un 
contorno  più  sfumato  detto  peìiombra.  Wilson  pel  primo  si  ac- 
corse che  giunta  la  macchia  presso  all'orlo  del  disco,  la  penom- 
bra si  restringeva  sempre  prima  della  parte  del  centro  che  dalla 
circonferenza,  appunto  come  accadrebbe  a  chi  guardasse  una 
gran  buca  mettendosi  da  un  lato  e  a  distanza,  che  perderebbe 
di  vista  la  pendenza  del  lato  suo.  Ciò  prova  che  la  penombra 
è  formata  dalle  scarpate  della  materia  fluida  che  copre  il  Sole 
che  tende  a  livellarsi:  questa  penombra  guardata  coi  forti  in 
grandimenli  si  vede  tutta  divisa  a  piccoli  filamenti  e  corrcntellc, 
le  quali  appunto  col  loro  alternare  chiaro  e  oscuro  formano  la 
mezza  tinta  propria  delle  macchie.  Le  misure  delle  macchie  re- 
golari e  circolari,  danno  per  la  spessezza  dello  strato  fotosferico 
un  terzo  del  raggio  terrestre  ,  ma  è  da  credere  che  in  molti 
sili  e  ove  sono  le  facole,  tale  strato  sia  più  spesso,  e  circa  un 
diametro  terrestre,  ma  certo  non  superiore  a  questa  spessezza. 

(18)  Che  la  corona  fosse  l'atmosfera  lunare,  lo  dice  chiaro 
Louville  (Meni.  Ac.  di  Francia  1715).  Ed  ecco  ciò  che  Vas- 
senio  dice  di  questa  e  delle  prominenze  rosse,  vedute  ai  2  di 
maggio  1733  a  Gotenburgo  in  Svezia.  «  Tempore  quo  sol  tolus 
«  tegebatur  praeler  maximam  parlem  raacularum  in  disco,  atmo- 
«  spheram  Lunae  per  leloscopium  fere  20  ped.  suet.  vidi .  .  . 
«  eanique  in  limbo  Lunae  occidentali  sub  maxima  immersione 
•'  paulo  lucidiorem  ;  absque  tamen  irregularitate  illa  et  inae- 
«  qualilate  luminosorum  radiorum  quae  in  oculos  sine  tubo  in- 


30 

«  tuentiuiii  occurrebat.  Admiratione  non  solum,  sed  el  judicio 
«  illustrissiniae  regiac  societatis  maxime  dignae  videbantur 
«  subrubiciindae  nonnullae  maculae  in  illa  (atmosfera Lunare) 
«  extra  peripheriam  disci  lunaris  conspectae,  numero  tres  aut 
«  quatuor,  quas  inter  una  ceteris  major  medio  fere  loco  inter 
«  nieridiem  et  occidentem  quantum  judicare  licuit.  Composita 
a  haec  erat  tribus  quasi  partibus  seu  nubeculis  minoribus  pa- 
«  rallelis ,  inaequaiis  iongitudinis  cum  aiiquali  obliquitate  ad 
«  peripheriam  lunae  ...»  E  continua  dicendo  che  le  rivide 
dopo  aver  levato  1'  occhio  dal  cannccchiale  per  più  di  40*. 
(Phil.  trans,  voi.  38.  p.  135.  ann.  1733-34.  e  Schum.  Astr. 
Nach.  n.  463).  La  corona  fu  osservata  pure  a  Ginevra  nel  1806 
(v.  ph.  Tr.  T.  25).  Ciò  che  Vassenio  dice  delle  macchie  del 
del  disco  lunare  visibili  nel  momento  della  oscurità  totale,  lo 
trovo  indicato  anche  da  altri  ma  non  sempre.  È  chiaro  che  ciò 
non  è  punto  difiicile  ad  avvenire:  è  in  sostanza  la  luce  della 
Terra  riflessa  sulla  luna,  come  avviene  nella  luce  cwerma  or- 
dinaria della  luna  nova.  Qoesta  è  la  prima  memoria  sicura 
delle  pertuberauze;  poscia  vennero  osservate  in  tutte  le  altre 
ccclissi  totali  dal  1842  in  poi,  cioè  in  quella  del  1850 ,  ai  7 
di  Agosto  a  Honololu  nelle  isole  Sandwich  dal  Kutczycki  : 
quella  del  28  luglio  1852  osservate  in  Isvezia,  e  Danimarca  da 
un  grandissimo  numero  di  osservatori;  quella  nel  30  novem- 
bre 1853  osservala  al  Chile  dall'astronomo  Moesta,  e  quella 
del  Brasile  da  Liais  nel  7  Settembre  1858. 

(19)  V.  la  mem.  citata  da  Baily  sulla  ecclisse  del  1842  e  la 
descrizione  estesissima  di  questa  stessa  ecclissi  che  fu  fatta 
da  Arago  nell'appendice  all'  Annuaire  du  Bureau  des  Longit. 
per  r  anno  1846  e  più  importanti  descrizioni  individuali  che 
si  trovano  in  lutti  i  giornali  scientifici  di  quell'epoca. 

(20)  La  maggior  parte  di  queste  particolarità  sono  de- 
scritte nelle  relazioni  dell'  ecclisse  del  1851  raccolte  nel  vo- 
lume XXI.  delle  memorie  della  Soc.  Astronomica  di  Londra. 

La  luce  del  primo  anello  contiguo  al  lembo  è  così  vivace 
che  ha  talora  fatto  credere  anulari  delle  ecclissi  veramente 
totali  :  tanto  questo  anello  è  spesso  apparso  sì  ben  termi- 
nato. La  forma  della  corona  disegnata  dal  Liais  può  vedersi 
nel  (7o5mo5  giornale  del  Moigno:  essa  è  così  strana  ed  irrego- 
lare che  ha  molto  modificato  le  prime  idee,  però  si  desidera  una 
conferma  di  così  inaspettate  apparenze  di  raggi,  che  in  essa 
sono  disposti  a  fasci  paraboloidali  che  rivolgono  la  convessità 


31 

verso  la  Luna  e  ed  è  diflìcile  formarsi  una  idea  del  modo  di  loro 
genesi.  Il  Moesla  vide  al  Chile  nel  18S3  ,  due  fasci  di  raggi 
estendersi  uno  sopra  e  l'altro  sotto,  ma  non  simmelricamente, 
e  il  primo  era  lungo  circa  mezzo  grado,  il  secondo  un  quarto.  Il 
fenomeno  singolare  da  esso  notato  fu  quello  di  una  decisa  in- 
terruzione dell'anello  brillantissimo  che  circondala  luna,  vi- 
cina al  suo  lembo,  la  quale  interruzione  era  del  colore  del  cielo, 
onde  non  poteva  dirsi  che  essa  fosse  una  montagna  lunare. 
(F.  Informe  sopra  r eclisse  del  1853  ecc.  S.  Iago  Chile)  Per 
le  mie  osservazioni  che  most-ano  esser  la  luna  polarizzante 
e  riflettente  specularmente  V.  Atti  dell'  Acc.  de'  Lincei  an- 
no 1860  sess.  2.  e  C.  R.  dell'Ac.  di  Francia  1860. 

(21)  Non  è  da  ommettere  che  il  verso  della  curvatura  di 
questa  macchia  è  dall'  Equatore  solare  al  polo  ,  quale  cioè 
hanno  le  correnti  superiori  dei  nostri  venti  alisei.  V.  il  suo 
disegno  nel  quadro  fisico  del  Sistema  Solare.  Yassenio  pure  le 
descrive  inclinate.  Alcuni  hanno  sospettato  che  le  protuberanze 
avessero  connessione  colle  macchie,  e  fossero  le  colonne  di  fumo 
lanciate  da  questa  specie  di  vulcani.  Ma  l'osservazione  non 
ha  ancora  nulla  deciso  in  proposito  della  mutua  loro  corri- 
spondenza. 

(22)  V.  Carrington  1.  e.  Mem.  Astr.  Soc.  XXI.  Anche  Ottone 
Struveche  osservò  a  Lomja  l'ecclisse  del  18S1  prendendo  diverse 
misure  delle  pertuberanze ,  concluse  che  la  loro  grandezza 
variava  col  moto  della  Luna  (Melanges  Mathem.  et  Astron. 
de  VAcc.  de  S.  Petersbourg  tom.X.  troisiéme  livraison).  Tnl- 
tavia  ad  alcuni  non  sembra  ciò  prova  sufTiciente  che  esse  ap- 
partengono al  sole  :  si  crede  che  sarebbe  più  sicura  prova 
di  ciò  la  mutazione  dell'  angolo  di  posizione.  Ma  se  le  di- 
mensioni possono  variare  per  illusione  ottica,  come  non  potrà 
variare  la  posizione?  il  massimo  trasporto  si  calcola  6":  ma 
chi  può  prendere  in  quelle  circostanze  un  angolo  di  posizione 
entro  limiti  così  precisi?  Sarebbe  interessante  confrontare 
le  forme  e  le  posizioni  osservate  ai  due  estremi  della  linea 
dell'ombra,  o  almeno  in  Spagna  e  in  Africa,  che  saranno  sepa- 
rate da  tempi  assoluti  maggiori.  Ma  allora  possono  entrare 
in  giuoco  le  parallassi. 

(23)  Il  sig.  Faye  sembra  quasi  affatto  dichiarato  contro 
tale  atmosfera,  ma  non  so  con  quanta  ragione.  L'achille  dei 
suoi  argomenti  sembra  essere  che  l'assorbimento  di  luce  e 
calore  osservato  da  me  sul  disco  solare  non  segue  la  legge 


32 

teorica  di  Laplace.  Ma  io  vorrei  sapere  se  la  detta  teoria 
rappresenta  nemmeno  l'assorbimento  de' raggi  solari  nel- 
r  atmosfera  terrestre  ,  la  cui  esistenza  davvero  nessuno  ne- 
gherà? Quindi  credo  che  non  possa  assolutamente  negarsi  per 
ciò  solo  l'atmosfera  solare,  ma  dovrà  cercarsi  invece  una  miglior 
teoria.  E  noto  che  quella  teoria  è  in  fondo  quella  delle  refrazioni 
astronomiche,  le  quali  non  sono  da  essa  rappresentate  che  im- 
perfettamente al  di  sotto  di  12  gradi  di  altezza  sull'orizzonte. 

(24)  Galileo  fin  dal  suo  tempo  avea  concluso  che  i  nuclei 
delle  macchie  solari,  che  pur  sembrano  neri  devono  essere 
più  lucidi  di  Venere;  quindi  non  fa  meraviglia  che  non  si  vedano 
le  protuberanze,  che  non  devono  esser  più  luminose  di  questo 
pianeta.  Le  osservazioni  nostre  e  di  M.  Dawes  provano  che 
sul  sole  sono  anche  delle  nubi  leggiere  o  cirri  semilucidi  ; 
sono  essi  quelli  che  formano  le  protuberanze  rosse? 

(25)  Lascio  da  parte  i  grandi  preparativi  progettati  da 
alcuno  di  trasportare  sul  posto  colossali  telescopi  coi  quali 
fotografare  la  Luna  colla  sua  corona  al  tempo  della  totalità  ; 
e  l'altra  di  connettere  le  stazioni  tutte  coi  fili  telegrafici  onde 
avere  il  tempo  con  più  precisione;  quella  di  esplorare  le  vi- 
cende meteoriche  con  istrumenli  collocali  in  palloni  volanti  ; 
ed  altre  mille  che  forse  non  avranno  alcuna  elTettiva  esecuzione, 
e  solo  mi  limiterò  a  dire,  che  un  prezioso  strumento  sarebbe 
quello  di  potere  usare  di  registro  elettrico  pel  tempo  della 
durata  ;  per  1'  osservazione  delle  fiamme  rosse  ,  la  parte  più 
importante  deve  essere  di  assicurare  con  precisione  la  loro 
posizione,  le  loro  direzioni,  e  specialmente  confermare  amcor 
meglio  il  fatto  del  loro  crescere  o  calare  secondo  che  il  moto 
della  luna  le  copre  o  discopre.  Questa  osservazione  sarà  de- 
cisiva ,  e  trionferà  delle  obiezioni  che  furono  fatte  contro 
della  loro  realtà  da  alcuni  che  peraltro  non  le  hanno  mai 
osservate.  Per  ciò  utilissimo  sarà  un  micrometro  a  tre  fili 
paralleli  la  distanza  de'  quali  sia  il  raggio  lunare,  e  due  altri 
vicini  agli  estremi  de'  tre  suddetti  distanti  un  minuto  in  arco, 
e  l'usare  una  punta  per  segnare  1'  angolo  di  posizione  su  di 
un  cartone  posto  sul  circolo  del  micrometro,  per  non  perder 
tempo  a  leggere.  Le  fotografìe  saranno  difficili  per  la  corona 
se  essa  non  ha  altra  luce  che  quella  della  luna  piena.  Un 
accessorio  indispensabile  sarebbe  quello  di  poter  mutar  ra- 
pidamente l'oculare  e  l'oiTuscante  dal  cannocchiale. 


33 


Sulle  forme  del  cranio  cinese.  Annotazione 
del  prof.  Maggiorani. 


Làe  seguenti  notizie  dipendono  specialmente  dall'esa- 
me di  un  cranio  cinese   datomi  a  studiare   dal  noto 
viaggiatore  Martucci,  il  quale  avendo  dimoralo  lun- 
gamente in  Canton,  alla  larga  suppellettile  di  arnesi, 
vesti,  utensili,  libri,  disegni,  istromenti  dei  cinesi  da 
esso  raccolta  ,  e  offerta   poi  per  molto    tempo  alla 
nostra  curiosità  qui  in   Roma,  potè  unire  anche  il 
cranio  di  un  malfattore  punito  coH'ultimo  supplizio. 
La  descrizione  del  cranio  cinese  di  Emilio  Blan- 
cliard,  riportata  dal  dott.   Nicolucci  nella   sua  eru- 
ditissima opera  sulle  razze  umane,  è   concepita  nei 
seguenti  termini:  (v  Veduto  dinanzi,  la  sua  parte  an- 
teriore si  mostra  allungata  e  gradatamente  ristretta 
verso  la  sommità  ;  di  profilo  la  fronte   comparisce 
assai  dietreggiante,  sicché  l'apertura  dell'angolo  fa- 
ciale è  sempre   inferiore  a  quella   degli    europei.  M 
mascellare  superiore  è  stretto  ed  allungato;  V  infe- 
riore egualmente  stretto  in  comparazione  della  parte 
superiore  della  lesta;  l'occipite  compresso  e  poco  o 
nulla    sporgente.  »   A  queste   apparenze  ,  che  sono 
certamente  veridiche,  aggiungendo  quelle  che  risul- 
tano dall'esame  del  cranio  Martucci,  e  di  altre  teste 
cinesi  da  me  vedute,  io  mi  affido  di  poter  ampliare 
il  quadro  del  cranio  cinese  col  novero  dei  seguenti 
caratteri. 
(J.A.T.CLXIV  3 


34 

1."  Il  cranio  cinese  rotondeggia  sìmilinenle  a 
quello  dei  turchi,  i  quali  appunto  procedono  dalla 
stessa  razza,  cioè  dalla  tartaro-sinica. 

2."  Le  regioni  temporali  protuberano  notabil- 
mente, e  più  che  non  suole  nelle  altre  stirpi.  Ove 
è  a  notarsi  come  gli  antichi  scultori  prestarono  tal 
conformazione  di  capo  a  Mercurio,  che  la  favola  ci 
rappresenta  qual  maestro  di  astuzie  e  ministro  di 
inganni.  Pertanto  i  viaggiatori  e  gli  scrittori  tutti, 
che  descrissero  i  costumi  e  il  carattere  dei  cinesi, 
li  dipinsero  come  seguaci  dell'araldo  di  Giove.  «  Di 
sottile  ingegno  (così  li  giudica  il  Bartoli),  scaltriti, 
finissimi  aggiratori,  e  gran  maestri  di  fìngere,  e  at- 
teggiare il  volto  in  tutt'altro  affetto  di  quello  che 
si  nascondono  nel  cuore.   » 

3."  La  fronte  non  solo  indietreggia,  ma  è  pur 
bassa.  I  sommi  artefici  dell'antichità,  allorché  vol- 
lero effigiare  V  ideale  della  potenza  intellettiva  al  pili 
alto  grado, attribuirono  molto  spazio  alla  fronte  come 
lo  vediamo  rappresentalo  nelle  teste  di  Giove.  Ora 
i  cinesi  sono  più  operativi  che  speculativi,  e  si  di- 
stinguono più  nelle  arti  meccaniche  che  nelle  filo- 
sofiche discipline.  Le  generalità  del  sapere,  e  le  astrat- 
tezze della  scienza  non  furono  mai  conseguite  da 
quel  popolo,  o  almeno  non  costituirono  il  lato  splen- 
dido delle  menti  cinesi.  Così  la  fronte  bassa  e  sfug- 
gente air  indietro  va  d'accordo  con  una  limitata  in- 
telleltività. 

4."  La  radice  del  naso  è  molto  infossata  come 
nella  stirpe  isriaelitica,  ma  le  ossa  nasali  sono  meno 
protuberanti  che  non  sia  in  quella  stirpe;  anzi  of- 
fronsi  alquanto  schiacciale. 


35 

5."  Le  orbite  sono  molto  distanti  fra  loro  ,  e 
situate  obliquamente;  la  loro  larghezza  eguaglia  l'al- 
tezza; i  contorni  ne  sono  più  tosto  rìgidi  che  dolci. 
Così  i  margini  superiori  rappresentati  dalle  eleva- 
zioni so[iraciliari,  invece  di  offrire  un  segmento  di 
circolo,  come  nelle  stirpi  europee,  decorrono  in  linee 
rette  o  quasi  tali. 

6.*  La  faccia  è  grande,  piana,  e  tutte  le  linee 
che  la  costituiscono  si  avvicinano  al  retto  andamento: 
ossia  i  contorni  tutti  delle  ossa  faciali  non  sono  sì 
dolci  come  nei  crani  moderni  europei,  e  specialmente 
come  si  scorge  nei  teschi  antichi  degli  etruschi  e 
dei  greci. 

7."  Le  ossa  zigotnatiche  son  molto  grandi,  spor- 
genti, e  invece  di  offrirsi  di  figura  romboidale,  si 
stringono  alquanto  verso  le  orbite:  e  nel  margine 
inferiore,  piuttostochè  slaccarsi  rotondeggiando  dal 
mascellar  superiore,  se  ne  dividono  in  modo  reciso, 
e  fornnandovi   un  angolo. 

8."  1  mascellari  superiori  non  solo  grandeggiano 
nel  diametro  trasversale  a  livello  delle  eminenze  ma- 
lari  in  modo  di  diriger  queste  all'  infuori,  ma  spor- 
gono anche  in  avanti;  se  non  in  guisa  da  produrre 
la  inclina/ione  dei  denti,  certo  però  a  bastanza  per 
indurre  un  lieve  grado  di  prognatismo^  tale  almeno 
apparisce  il  cranio  Martucci,  osservandolo  di  profilo. 

9."  La  distanza  fra  il  centro  delle  ossa  zigoma- 
tiche e  il  forame  auricolare  liesce  nel  cranio  cinese 
molto  minore  di  quella  che  intercede  tra  questo  fo- 
rame e  la  protuberanza  occipitale,  fatto  confronto 
coi  teschi  di  altre  stirpi:  di  maniera  che  conducendo 
una  curva,  la  quale  da  un  orecchio  all'altro  passasse 


36 
verticalmente  per  la  volta  parietale,  ne  risulterebbe 
nel  cranio  cinese  una  tal  divisione  da  attribuirne 
circa  i  due  terzi  alla  parte  posteriore  e  uu  solo  terzo 
all'anteriore.  E  siccome  la  linea  che  congiunge  i  meati 
auditori!  esterni  nella  base  del  cranio  rasenta  il  mar- 
gine anteriore  del  forame  occipitale,  così  dee  av- 
venirne che  il  capo  non  sia  ben  equilibrato  sulla 
colonna  vertebrale:  e  tendendo  questo  a  portarsi  al- 
l' indietro,  renda  necessario  uno  sforzo  per  condurlo 
in  avanti.  Questo  continuo  istintivo  esercizio  ci  spiega 
in  parte  la  nota  mobilità  della  lesta  in  quella  stirpe 
d'uomini,  e  il  costume  dei  continui  suoi  movimenti 
dall'avanti  all'  indietro,  e  dall'  indietro  all'avanti  in 
ogni  incontro  ed  in  tutte  le  cerimonie.  I  costutni 
hanno  quasi  sempre  a  fondamento  una  condizion  di 
natura. 

10.°  Questa  posizione  del  foro  vertebrale  molto 
in  avanti  trae  anche  seco  la  necessità  anatomica  di 
un  collo  più  stretto:  ciò  che  in  fatti  si  verifica  spesso 
nei  cinesi,  e  ciò  che  pur  tende  ad  accrescere  la  mo- 
bilità della  testa  sul   tronco. 

I1.°  L'osso  occipitale  sporge  poco  all' infuori, 
e  mostrasi  quasi   tagliato  a  picco. 

12."  L'apertura  dell'angolo  faciale  avvicinasi  più 
al  settantesimo  grado  che  all'ottantesimo. 

Ecco  i  più  distinti  caratteri  del  cranio  cinese, 
per  quanto  mi  fu  concesso  il  raccoglierli.  A  coloro 
che  dedicandosi  di  proposito  a  questa  maniera  di 
studi  hanno  anche  la  comodità  di  attingere  a  più 
larghe  fonti  di  osservazioni,  è  riservato  di  giudicare 
fino  a  qual  punto  il  mio  quadro  sia  conforme  al  vero. 
Debbo  intanto  confessare  come  alcuni  fra  i  carat- 


37 
Ieri  (la  me  annotali  differiscano  sostanzialmente  di! 
quelli  che  fuion  raccolti  da  Pietro  Camper,  il  quale 
trovò  che  nel  cranio  cinese  le  orbite  erano  poco 
elevate,  molto  ravvicinate,  e  assai  più  larghe  che 
alte;  ciò  che  spiegherebbe,  secondo  il  citato  autore, 
il  melanconico  sguardo  dei  cinesi,  e  come  l'aper- 
tura delle  loro  palpebre  sembri  naturalmente  allun- 
gata. Nel  cranio  Martucci  al  contrario  le  orbite  sona 
fra  loro  molto  distanti,  e  i  loro  forami  sono  egual- 
niente  larghi  che  alti.  Notò  pure  il  Camper  come 
nei  cinesi  i  condili  dell'osso  occipitale  siano  quasi 
equidistanti  dai  due  estremi  limitati  dalle  tangenti 
dell'occipite  e  del  mascellar  superiore,  di  modo  che 
il  capo  si  trovi  ben  equilibrato  sul  tronco,  cioè  non 
inclini  allo  innanzi  come  nei  calmucchi;  né  riesca 
pesante  all'  indietro  come  nei  negri:  ed  in  vece  nel 
nostro  cranio  il  foro  occipitale  è  situato  chiaramente 
più  verso  la  faccia  di  maniera  che  ne  sbilanci  l'oc- 
cipite. 

Dal  che  può  raccogliersi  come  la  Cina  debba 
essere  abitata  da  varietà  della  medesima  stirpe,  ove 
però  sempre  predomina  il  carattere  della  razza  mon- 
golica costituito  dalla  faccia  larga  e  depressa,  dalla 
regione  malare  assai  spaziosa  e  sporgente  all'  infuori, 
dalla  glabella  schiacciata.  La  natm'a  poi,  dopo  aver 
impresso  in  un  ramo  della  specie  alcuni  caratteri 
fondamentali  e  cospicui,  non  rifina  dall'  inserirvi  qua 
e  colà  delle  apparenze  diverse  e  più  o  men  rile- 
vanti. Cosi  il  cranio  Martucci,  indubitatamente  ci- 
nese, ha  forma  rotondeggiante,  mentre  i  due  alunni 
cinesi  del  ven.  collegio  per  la  propagazione  della 
fede  hanno   il  capo    di  figura  piramidale.  Così   nei 


3S 

nostro  cranio  l:i  glabella  è  un  pò  depressa,  ma  la 
ossa  nasali  spiccansi  avanti  notabilmente,  quantun- 
que i  viaggiatori  attribuiscano  tutti  al  naso  cinese 
la  forma  schiacciala.  Nel  cranio  Martucci  ò  rimar- 
chevole la  obliquità  delle  orbite,  che  ben  si  accorda 
eolla  nota  obliquità  che  offre  quel  popolo  nelle  pal- 
pebre dal  basso  in  alto,  e  da  fuori  in  dentro:  e  pure 
i  nostri  alunni,  non  degeneri  dalla  stirpe  quanto  alla 
piccolezza  degli  occhi  e  alla  figura  ellittica  del  canto 
nasale,  gli  hanno  però  situati  in  linea  retta.  Pallas 
ne  informa  che  le  orecchie  dei  cinesi  sono  larghis- 
sime, e  Barrow  annota  il  mento  aguzzo  come  ca- 
rattere essenziale  della  lor  faccia:  ora  ninna  di  queste 
apparenze  sì  verifica  dislintan)ente  nei  citati  alunni. 
Pertanto  non  è  da  fare  le  meraviglie  se  Spurzhein», 
esaminati  in  Londra  dodici  cinesi,  li  trovò  differenti 
gli  uni  diagli  altri,  e  conformi  solo  nelle  condizioni 
degli  occhi. 

Eliminando  adunque  le  apparenze  più  variabili, 
e  raccogliendo  lepiìi  costanti,  può  dirsi  che  la  stirpe 
cinese  nel  vivo  si  distingua  così:  a  fronte  poco  ele- 
vata ,  faccia  larga  sotto  gli  occhi  e  che  dalle  ossa 
inalari  va  stringendosi  fino  al  mento;  occhi  piccoli, 
molto  distanti  fra  loro,  bislunghi  ,  addentrati  nelle 
orbite  ;  palpebre  formanti  nell'angolo  maggiore  un 
solco  profondo;  glabella  depressa,  naso  breve,  roton- 
dato; occipite  poco  protuberante-  » 

1  cinesi  offrono  i  contorni  della  testa  conformi 
a  quelli  degli  otaiti,  le  ossa  malari  sporgenti  come 
i  negri,  gli  occhi  stretti,  distanti  e  coll'angolo  in- 
terno rotondato  come  gli  ottentoti,  la  sommità  del 
capo  foggiata  talvolta  in  piramide  come  gli  arabi. 


39 

il  naso  schiacciato  come  i  calmucchi,  i  capelli  neri 
0  grossi  come  i  giapponesi,  la  fronte  bassa,  le  or- 
bite  oblique,  la  barba  rada,  il  color  della  pelle  giol- 
lognolo  o  rossiccio  come  gli  americani.  E  così  vie 
meglio  confermasi  come  le  varietà  della  nostra  specie 
non  siano  per  caratteri  netti  e  recisi  separate  l'una 
dall'altra,  ma,  come  nelle  facoltà  morali,  così  nelle 
fisiche  condizioni  con  fraterni  vincoli  di  somiglianza 
vicendevolmente  congiunti. 


40 


Elogio  storico  del  cardinale  Chiarissimo  Falconieri 
Millini  scrino  da  monsignor  Francesco  Fabi  Mon- 
tani, e  da  lui  offerto  aW  lllmo  e  Emo  monsignor 
Giovanni  Monetti  novello  vescovo  di  Cervia. 


j\  mantener  vivo  nella  iricmoria  de'  posteri  il  nome 
di  alcun  personaggio,  non  fa  di  mestieri  ne  di  sot- 
tili argomenti,  nò  di  lobusta  eloquenza,  né  di  for- 
bitissimo stile,  né  di  quanto  altro  mai  inventar  seppe 
l'arte  oratoria,  quando  quegli,  di  cui  vuoisi  favellare, 
sia  stato  non  apparentemente,  ma  in  realtà  virtuoso, 
e  ne  abbia  con  costanza  dati  sfolgorantissimi  esempi. 
Conciosiacchè  la  stima  per  la  virtù  è  negli  umani 
petti  ingenita,  e  per  quanto  sieno  i  costumi  corrotti, 
malvagi  i  tempi  ,  guasti  gli  uomini  ,  essa  riscuote 
mai  sempre  ammirazione  e  rispetto.  Se  altri  fatti 
ne  mancassero,  lo  abbiamo  oggidì  toccato  con  mano 
nel  cardinal  Falconieri,  il  quale  ebbe,  come  suol 
dirsi  ,  un  popolo  solo  ,  e  la  sua  dipartita  innanzi 
tempo  venne  come  pubblico  lutto  lamentata.  Ma 
omesso  ogni  preambolo  egli  è  subito  da  cominciare, 
dovendo  per  la  brevità  al  mio  dire  prescritta  mol- 
tissime cose  tralasciare  affatto,  molle  altre  accennarle 
appena. 

1. 

DI  nobilissima  famiglia  fiorentina  (1)  da  più  secoli 
tramutatasi  in  Roma,  stretta  in  parentela  colle  pri- 


41 

marie  d'  Ilalia,  erede  del  nome  e  delle  dovizie  dei 
Millini,  e  senz'averne  mai  preso  il  titolo  pareggiala 
fra  noi  alle  principesche,  nacque  il  17  di  settembre 
del  1794.  Secondo  ed  ultimo  penilo  de'coniui<i  don 
Alessandro  generale,  come  allora  dicevasi,  delle  pon- 
tificie poste  e  donna  Marianna  Lante  duchessa  di 
Santa  Croce  di  Magliano  nel  Sannio,  ebbe  il  nome 
di  Chiarissimo,  rinnovato  sempre  nella  sua  casa,  e 
notissimo  ne'  fasti  de'servi  di  Maria  per  essersi  così 
chiamato  il  padre  di  santa  Giuliana,  germano  fratello 
al  beato  Alessio,  uno  de'selle  fondatori  di  quell'isti- 
tuto. Fin  dalla  puerizia  addimostrossi  allenissimo  da 
ogni  secolaresco  passatempo,  e  dedito  sovrammudo  a 
quanto  sa{)er  potesse  di   chiesa. 

Fece  gli  studi  di  umane  lettere  e  di  filosofia  nel 
nobile  collegio  Tolomei  di  Siena.  Venuto  ne'diciol- 
to  anni  fu  colla  primaria  nobiltà  d'  Italia  chiamalo 
ne'  collegi  di  Francia,  e  ascritto  alla  imperiale  pagge- 
ria,  ov'ebbe  pili  volte  l'onore  di  servire  l'imperatore, 
e  dove  restò  fino  alla  caduta  di  esso.  Tornato  in  Ro- 
ma, per  lo  straordinario  affetto  che  portava  al  sommo 
pontefice  Pio  VII  divisava  entrare  fra  le  sue  guar- 
die nobili,  ma  l'abate  don  Pio  Guidi  suo  spirituale 
direttore  gli  disse,  essere  volontà  di  Dio,  che  a  lui 
si  sacrasse  nel  sacerdozio.  Frattanto  studiò  giuiispru- 
denza  sotto  la  disciplina  dell'  illustre  canonico  e  av- 
vocato della  romana  curia  D.  Alessandro  Bellotti,  e 
vi  applicò  r  animo  in  guisa  da  esserne  conventato 
nella  romana  università.  In  pari  tempo  dette  opera 
alle  teologiche  discipline,  avendo  a  guida  quel  so- 
lenne maestro  in  divinità,  che  fu  l'abate  don  Bario- 


42 

lomeo  Cavani  modenese,  professore  di  scolastica  teo- 
logia nel  collegio  romano  (2). 

Aggregatosi  immantinente  alla  clericale  milizia, 
fn  nella  generale  ordinazione  de'  19  di  settembre 
deir  anno  1818  nella  basilica  lateranense  sacrato 
prete  da  monsignor  Candido  Maria  Frattini  arcive- 
scovo di  Filippi  e  vicegerente  di  Roma.  Né  il  Fal- 
conieri, come  non  di  rado  avviene,  col  volger  degli 
anni  rimise  alcun  poco  del  primo  fervore.  Imperoc- 
ché avendo  già  dato  il  nome  alla  pia  unione  de'sa- 
cerdoti  secolari  in  s.  Galla  e  all'  altra  di  s.  Paolo 
apostolo,  due  istituzioni  che  abbracciano  e  si  allar- 
gano per  quanto  mai  può  immaginare  ed  estendersi 
la  pili  eroica  carità  a  vantaggio  del  clero  e  de'pros- 
simi  ,  le  frequentò  con  costanza  e  ne  divenne  per 
così  dire  Tanima.  La  visita  degli  spedali,  l'assistenza 
ai  marinai,  ai  moribondi,  agli  oratori  notturni,  le 
missioni  estive  ai  birocciai  e  fienaroli,  la  predica- 
zione, il  confortare  coloro  che  dannati  erano  all'ul- 
timo supplizio,  l'aver  cura  delle  congregazioni  dei 
giovani,  ed  in  ispecie  di  quella  delle  belle  arti  in 
san  Luca,  cui  affezionatissimo  rimase  per  tutto  il 
tempo  della  vita  (3),  il  seppellire  i  morti  nel  vene- 
rabile ospitale  di  santo  Spirito  in  Sassia,  furono  sue 
principalissime  cure.  Il  perchè  questo  giovane  prete 
divenne  ben  presto  il  cuore  di  tutti,  in  ispecie  del 
basso  popolo,  che  ne  sperimentava  i  benefìci,  e  ve- 
niva da  chiunque  il  vedesse  invidiato  e  mostro  a 
dito. 

E  per  verità  fra  gli  ecclesiastici  toccatigli  a  guida 
ebbe  la  ventura  di  sortire  un  padre  Felici  gesuita, 
un  venerabile  del   Bufalo,  ed  a  fervorosi    coetanei, 


43 

emuli  e  colleghi  i  Mastai,  gli  Odescalchi,  i  Patrizi, 
i  Ferretti,  i  Corsi,  il  pi-imo  de' quali  governa  oggidì 
con  tanta  gloria  la  chiesa  universale,  il  secondo  morì 
povero  ed  in  concetto  di  santo  nella  compagnia  di 
Gesù  ,  e  gli  altri  risplendono  nell'apostolico  senato 
de'cardinali. 

n. 

Pio  VII,  cui  erano  ben  note  le  virtù  del  Falco- 
nieri ,  il  vivissimo  desiderio  che  nutriva  di  evan- 
gelizzare fi  a  i  poverelli  di  Cristo  ed  accomunarsi 
con  essoloro,  stabilì  ad  ogni  costo  di  promuoverlo:  e 
tengo  da  fonte  sicura,  che  il  cardinale  Litta  vicajio 
generale  del  papa  glielo  proponesse  nel  1820  a  succes- 
sore del  Riario  Sforza  suo  maestro  di  camera,  cosa 
ch'egli  seppe  assai  destramente  frastornare  ed  impe- 
dire. Ciò  non  pertanto  nel  dicembre  del  1822  lo  an- 
noverò fra  i  camerieri  segreti  soprannumerari,  ed  ab- 
legato  lo  spedì  a  portare  la  berretta  a  monsignor 
Clermont-Tonnerre  arcivescovo  di  Tolosa,  sublimato 
da  lui  alla  porpora  de'cardinali  nel  concistoro  de'  2 
dello  stesso  mese.  Postosi  in  viaggio  nel  cuor  dell'  in- 
verno fu  il  pontificio  ablegato  sommamente  accetto 
alla  maestà  del  re  Luigi  XVIII,  che  lo  colmò  di  onori, 
alla  corte,  al  cardinale  che  lo  ebbe  sempre  a  suo 
ospite,  e  a  tutto  l'episcopato  francese.  Imperocché 
approfittò  egli  di  questa  occasione  per  rivedere  il 
collegio,  dove  avea  dimorato,  per  visitare  le  princi- 
pali città,  ed  in  pari  tempo  venerare  i  più  memorandi 
santuari  della  Francia.  Le  sue  virtù,  il  suo  aspetto, 
la  sua  amabilità  il  facevano  immantinente  a  tutti 
palese,  ed  ognimo  ambiva  di  conversare  con  esso- 


u 

lui,  e  stringeiglisi  in  amicizia.  Tornato  in  Roma,  il 
medesimo  pontefi(;e  lo  promosse  a  canonico  della  ba- 
silica vaticana  (4),  lo  nominò  prelato  domestico,  re- 
ferendario dell'una  e  dell'altra  segnatura,  e  poco  dopo 
ponente  della  sacra  congregazione  del  buon  governo. 

Succeduto  al  Chiaramonti  Focone  XII,  desideran- 
do al  Falconieri  di  accelerare  la  via  a  maggiori  di- 
gnità. Io  ascrisse  nel  1824  fra  gli  uditori  della  sacra 
romana  rota  ,  posto  tenuto  già  dal  suo  antenato 
cardinale  Alessandro;  e  varcato  appena  l'anno,  nel 
concistoro  de' 3  di  luglio  1826  lo  promosse  alla  co- 
spicua sede  di  Ravenna,  vacata  per  la  morte  dell'ar- 
civescovo Codronchi,  il  quale  non  saprei  dire  per 
quale  combinazione  erasi  trovato  presente, allorquan- 
do il  Falconieri  fu  colle  battesimali  acque  rigenerato. 
Non  è  a  dire  quanto  grata  giungesse  questa  elezione 
ai  ravennati,  i  quali  con  particolari  deputazioni  ne 
vollero  rendute  grazie  al  supremo  gerarca  della  chie- 
sa, e  al  Falconieri  stesso,  della  cui  rinunzia  erano 
stati  in  tanto  timore. 

11  santo  padre  medesimo,  per  moltiplicargli  i  con- 
trassegni di  stima  e  di  benevolenza,  desiò  ungerlo 
del  sacro  crisma  in  una  al  cardinale  Pianetti,  eletto 
di  Viterbo,  nella  chiesa  di  s.  Maria  degli  Angeli  alle 
terme  diocleziane,  la  quale  sebbene  vastissima  con- 
teneva a  stento  la  moltitudine  accorsa.  Era  il  gioiiio 
sacro  alle  glorie  di  Maria  assunta  in  cielo,  e  Leo- 
ne XII  aveva  ad  assistenti  monsignor  Filonardi  nuovo 
arcivescovo  di  Ferrara  già  suo  limosiniere,  ed  il  sa- 
grisla  monsignor  Perugini  dell'ordine  romitano  di  s. 
Agostino  vescovo  di  Porfirio;  di  poi  g!'  impose  con 
grande  solennità  il  pallio,  di  cui  facendo  le  veci  di 


45 

camerlengo  di  santa  chiesa  aveva  fatta  postulazione 
monsignor  Isoard  decano  della  sacra  iota,  e  gli  die 
luogo  fra  i  vescovi  assistenti  al  soglio  pontificio. 


Ili 


Spacciatosi  al  più  presto  da  ogni  negozio,  nel  se- 
guente ottobre  volò  il  novello  arcivescovo  in  mezzo 
ai  suoi  spirituali  figliuoli  preceduto  da  fama,  che  per 
quanto  grandissima,  videsi  poi  assai  minore  del  vero. 
Datosi  ad  adempiere  i  pastorali  doveri,  e  fattosi  sin- 
ceramente forma  del  giegge,  lo  guidò  sempre  ai  mi- 
gliori pascoli  coll'esempio,  colla  voce,  collo  scritto, 
e  con  quanto  suggerire  gli  seppe  la  carità.  Visitò 
più  volte  ogni  angolo  della  vastissi(na  diocesi,  chiamò 
banditori  evangelici  per  darvi  le  sante  missioni,  istruì 
da  se  stesso  ogni  domenica  nella  dotti'ina  cristiana  i 
figliuoli,  riformò  monasteri,  restaui-ò  chiese,  l'eresse 
dalle  fondamenta,  dotò  parrocchie,  le  acciebbe  di 
numero,  incorò  la  pia  opera  della  propagazion  della 
fede,  ed  adoperossi  mai  sempre  nel  pi'ocurare  a'suoi 
diocesani  ogni  spirituale  e  temporale  vantaggio.  So- 
prattutto mirò  alla  buona  educazione  della  gioventù, 
saviamente  argomentando  derivarsi  da  ciò  il  miglior 
farmaco  della  corrotta  società.  Né  invigilò  soltanto 
sulla  disciplina  del  comunale  liceo  e  collegio  sì  ri- 
nomato in  ogni  tempo,  ma  anco  sulle  scuole  le  più 
elementari  di  ogni  terricciuola.  Fornì  di  egregi  mae- 
stri e  rettori  il  seminario,  ne  aperse  uno  più  piccolo 
pe'  poveri  chierici  (5),  chiamò  i  fratelli  delle  scuole 
cristiane,  e  propagò  fra  gli  uomini  nelle  domeniche  e 
nelle    feste  le  congregazioni   di  nostra  Signora.  Nò 


46 
meno  sollecito  per  le  donne  ,  le  ascrisse  ad  altre 
congregazioni  [)oslo  sotto  il  pnlrocinio  di  s.  Doro- 
tea  e  dirette  da  sacerdoti.  Fece  venive  dalla  Francia 
le  suore  della  carità,  cui  commise  una  scuola  gra- 
tuita per  le  povere  ,  un  convitto  per  le  agiate  ,  la 
direzione  degli  asili  infantili:  e  perchè  non  avessero 
a  mancare  sì  buone  istitutrici,  ne  formò  due  case, 
neir  istituto  cioè  delle  orfane  e  nel  pubblico  spedale. 
Portò  mai  sempre  somma  riverenza  ed  amore  al  cle- 
lo;  in  particolar  guisa  all'  illustre  capitolo  della  me- 
tropolitana, non  di  nome  ma  di  fatto  tenuto  per  suo 
senato  e  consigliero.  Non  si  saprebbe  dire  se  il  car- 
dinale piij  amasse  il  capitolo,  o  questi  il  cardinale. 
Egli  non  lasciava  occasione  per  gratiHcarselo,  e  co' 
spessi  donativi  alla  basilica  Orsiana,  col  rifare  per- 
fino a  sue  spese  la  sagrestia,  andata  sventuratamente 
in  fiamme  la  notte  del  21  di  giugno  1851,  e  con 
vera  magnificenza  costruirgli  un  coro  invernale:  be- 
nefizi da  non  obliarsi  giammai. 

Le  quali  cose  soltanto,  a  tacer  di  molte  altre, 
quanto  gli  avessero  a  recare  di  sollecitudine,  di  di- 
spendio, di  tempo  e  di  amarezze,  ognuno  di  leggieri 
sei  vede.  Eppur  sono  un  vero  nulla,  e  perdono,  quasi 
dissi,  ogni  luce  poste  a  confronto  di  quelle  limosino, 
che  in  tutto  il  suo  vivere  fece  specialmente  in  Ra- 
venna, potendo  con  sicurezza  atfermarsi,  che  le  an- 
nuali sue  rendite,  compreso  il  paterno  retaggio,  su- 
perassero gli  scudi  25,000.  Erasi  proposta  la  re- 
gola insegnata  da  s.  Ambrogio:  «  Avrai  riguardo,  dice 
egli  (6),  all'età  e  all'  impotenza,  talvolta  anco  alla 
verecondia  delle  persone  civili:  ti  mostrerai  pm  largo 
co'vecchi,  non  potendo  eglino  colle  braccia  lucrarsi 


47 

il  pane,  gì'  Infermi  son  degni  di  pronto  soccorso,  e 
soprattutto  sovvengansi  coloro  che  senza  colpa  ven- 
nero in  basso  slato  ». 

Gregorio  XVI  non  soffrì,  che  più  a  lungo  man- 
casse nel  sacro  collegio  un  tanto  vescovo,  e  restituì 
in  pari  tempo  alla  chiesa  ravennate  quella  porpora, 
che  avea  perduta  nel  1767  colla  morte  del  cardinal 
Oddi.  Pertanto  nel  concistoro  de'  12  di  febbraio 
del  1838  lo  annoverò  fra  i  padri  del  sacro  senato, 
gli  conferì  il  titolo  presbiterale  di  s.  Marcello,  a  lui 
doppiamente  caro,  per  aversi  quella  chiesa  in  cu- 
stodia dai  servi  di  Maria,  e  gli  assegnò,  come  è  uso, 
varie  saere  congregazioni.  Grandi  feste  per  tale  pro- 
mozione fecersi  in  Roma,  maggiori  in  Ravenna,  e 
più  splendide  se  ne  sarebbero  vedute,  se  la  somma 
di  scudi  due  mila,  che  a  tal  uopo  decretata  avea  il 
municipio  ,  non  si  fosse  a  richiesta  del  cardinale 
adoperata  nelP  ingrandimento  della  chiesa  parroc- 
chiale del  borgo  Adriano.  Il  nuovo  porporato  nuli;» 
rimise  dell'antico  e  modesto  suo  modo  di  vivere  , 
ed  il  color  delle  vesti  fu  il  solo  cangiamento  che 
in  lui  si  notò. 

11  regnante  pontefice  Pio  IX,  già  suo  intimo  e 
suffraganeo  nella  sede  d'  Imola,  non  appena  salilo 
alla  cattedra  di  s.  Pietro,  a  dimostrargli  sempre  più 
l'amore  e  la  stima,  divisò  porgergli  nel  1847  uno 
straordinario  onore,  deputandolo  ad  imporre  la  car- 
dinalizia berretta  all'Emo  Baluffi  suo  successore  nella 
sede  d' Imola,  annoverato  il  21  di  dicembre  del  I84(j 
fra  i  cardinali.  La  cerimonia,  con  principesca  splen- 
didezza eseguita,  avvenne  nella  metropolitana,  e  alla 
presenza  di  tulli  i  vescovi  della  provincia.  Né  qui 


48 
tini.  Ma  nel  1848  gli  concesse  la  grazia  di  poter 
consecrare  monsignor  Antonio  Mecrini  novello  ve- 
scovo di  Terni:  funzione  pur  essa  fatta  con  grandissi- 
ma pompa  nella  metropolitana:  e  nel  seguente  anno 
vacata  la  chiesa  di  Forlì  per  la  traslazione  alla  sede 
reatina  di  monsignor  Gaetano  Carletti,  gliene  affidava 
l'amministrazione,  ritenuta  dal  cardinale  con  sommo 
vantaggio  di  quella  diocesi  per  lo  spazio  di  quattro 
anni,  ognuno  de'  quali  fu  da  lui  con  qualche  singoiar 
benefizio  segnalato. 

Nel  1848  si  trattenne  in  mezzo  a'  suoi  diocesani, 
fintanto  che  gli  fu  consentito.  Astretto  a  dipartirsene, 
né  volendo  di  troppo  dilungarsi,  fermò  sua  stanza 
nella  vicina  Venezia,  dalla  quale  proseguì  a  gover- 
nare un  gregge  tanto  pili  bisognoso  di  guardia,  quan- 
to più  da'  pericoli  accerchiato.  Sedate  le  cose  fu  suo 
prima  pensiero  il  restituirsi  alla  sua  sede,  e  perorava 
a  favore  de'suoi  diocesani,  siccome  in  ogni  evento 
avea  falto.  Nò  sarò  rimproverato  di  lunghezze,  se  qui 
riferirò,  come  bellissima  prova  di  affetto  avesse  già 
dato  ai  ravennati,  quando  nel  secondo  anno  del  suo 
episcopato  mosse  a  bella  posta  in  Roma  perimpetrare, 
come  fece,  da  Leone  Xll,  che  alla  sua  sede  non  si 
togliesse  la  residenza  del  cardinale  legato,  onore  che 
assolutamente  il  papa  voleva  concesso  a  Faenza  in 
pena  delf  attentato  alla  vita  del  cardinale  Rivarola, 
legato  della  Emilia,  commesso  in  Ravenna  da  alcuni 
mentecatti. 

Non  posso  trapassare  in  silenzio  le  pubbliche  e 
private  preghiere  ,  e  gli  umani  provvedimenti  non 
solo  dal  pontificio  governo,  ma  da  lui  eziandio  presi 
neir  inverno  del   1855  ad  impedire,  che  il  flagello 


49 

del  cholera,  prima  ed  unica  volta,  non  piombasse 
in  quella  città.  Fallitagli  ogni  speranza,  eccolo  in- 
trepido e  coraggioso  accorrere  ovunque  maggiore 
fosse  il  bisogno,  farsi  tutto  a  tutti,  penetrare  ne'più 
umili  abituri,  amministrare  in  qualsivoglia  ora  della 
notte  il  sagramento  della  confermazione,  nudrir  mol- 
ta compassione  per  tutti,  fin  pei  domestici,  ninna 
per  se:  far  sua  delizia  e  stanza  il  lazzaietto  ogni  gior- 
no visitato,  per  trovarsi  qual  padre  fra  i  morienti 
figliuoli.  Né  mancò  chi  gli  ponesse  a  scrupolo  sì  poca 
curanza  della  propria   vita. 

Cessata  la  morìa,  innanzi  alla  quale  tenute  avea 
già  le  congregazioni  preparatorie,  adunò  per  la  solen- 
nità della  Pentecoste  dello  stesso  anno,  nella  metro- 
politana il  sinodo  provinciale,  che  in  ogni  sua  parte 
appiovato  dalla  sacra  congregazione  del  concilio,  e  da- 
to alle  stampe, reputasi  a  buon  diritto  tesoro  di  eccle- 
siastica dottrina  e  di  canoni  alla  età  nostra  opportuni. 
Nel  modo  il  più  splendido  accolse  nel  luglio  del  1857 
l'augusto  Pio  IX,  il  quale  nel  dì  sacro  al  vescovo  ed 
apostolo  dell'  Emilia  santo  Apollinare  tenne  cappella 
papale  nella  basilica  Orsiana.  Quanto  poi  egli  e  i 
ravennati  adoperassero  nel  tributargli  i  più  chiari  se- 
gni di  sudditanza,  di  devozione  e  di  giubilo,  gli  an- 
nali di  quella  provincia  ed  i  pubblici  fogli  lo  hanno 
a  perenne  memoria  registrato.  F'inalmente  nell'ulti- 
ma domenica  di  maggio  del  [)rossimo  passato  anno 
con  solenne  triduo  celebrò  il  centenario  della  beatis- 
sima Vergine  denominata  del  Sudore  (7),  principale 
protettrice  della  città:  festa  che  volle  preceduta  da 
un  corso  di  esercizi  dati  con  molto  frutto  per  lo 
spazio  di  quindici  giorni  dai  padri  passionisti,  in  cui 
G.A.T.CLXIV.  4 


50 

il  cardinale,  por  trovarsi  in  Roma,  non  potè  rinno- 
vellare  quegli  esempi  di  zelo  e  di  umiltà  da  lui  altre 
volte  mostrati  in  somiglievoli  occcasioni,  e  che  pur 
troppo  esser  dovevano  gli  ultimi  del  lungo  suo  epi- 
scopato ! 

IV. 

Ora  rifacendomi  indietro,  fin  dall'inverno  del  1852 
il  Falconieri  condottosi  in  Roma  era  stato  assalilo 
da  grave  infermità  che  ne  minacciò  i  giorni,  e  da 
cui  parve  non  appena  visitato  dal  sommo  pontefice 
uscisse  di  ogni  pericolo.  Non  si  riebbe  però  mai  in 
guisa  da  rifiorirgli  a[)pieno  l'antica  salute.  Indarno 
gli  fu  dai  medici  insinuato  il  perpetuo  ritorno  al- 
l'aria nativa.  Voler  serbare  fede  alla  chiesa  da  Dio 
datagli  nella  sua  gioventù:  non  volersi  allontanare 
da  que'cari  ravennati,  la  maggior  parte  de'quali  aveva 
veduto  nascere:  il  valoroso  capitano  morir  nel  campo 
combattendo  fra'  suoi-  Consenti  solo  di  passare  in 
patria  i  mesi  invernali;  e  quando  il  regnante  pon- 
tefice, non  mai  stanco  di  dargli  significazioni  di  amo- 
re ,  lo  volle  nel  1857  segretario  de'  memoriali  ,  il 
cardinale  accettava  l' incarico,  fattagli  grazia  di  di- 
morare a  vicenda  in  Roma  ed  in  Ravenna- 

Rendulo  a  questa  città  sul  finire  di  maggio  del  ( 
caduto  anno  in  mezzo  a  quelle  feste  ,  che  gli  so-  | 
levano  fare  il  clero  ed  il  popolo,  incominciò  poco 
stante  a  dare  non  dubbi  segni  di  quella  infermila, 
che  da  più  anni  ne  logorava  sottilmente  le  membra. 
Alla  qual  cosa  contribuirono  non  poco  le  politiche 
vicissitudini  ,  che  suo  malgrado  vide  compiersi ,  e 
che  gran    parte  gli  tolsero  dell'  antica  sua    ilarità. j. 


51 

Ne'  primi  di  agosto  il  morbo  incrudelì,  ed  in  breve 
fu  spacciato  dai  medici.  Appena  per  la  città  si  sparse 
la  trista  novella,  il  capitolo,  il  municipio,  tutte  le 
chiese  fecero  tridui  e  preghiere.  II  13  di  quel  mese 
il  cardinale  stesso  supplicò,  perchè  dai  medici  gli  si 
consentisse  il  viatico,  ma  non  vi  condiscesero.  Vi- 
vissime istanze  ripetè  il  giorno  sacro  all'  Assunta  , 
anniversario  di  sua  consecrazione.  Non  vi  fu  chi  la- 
sciasse di  accorrere  ad  accompagnare  l'augustissimo 
Sagramento  portatogli  secondo  che  impone  il  ceri- 
moniale de'  vescovi.  Nella  celebre  cappella  interna 
dell'episcopio,  eretta  già  da  san  Pier  Crisologo,  si 
comunicò  in  abito  violaceo,  cioè  di  penitenza,  ed 
in  ginocchio,  non  potendo  per  la  natura  del  male 
giacersi  nel  letto,  il  solo  capitolo  potè  entrarvi,  ri- 
manendo gli  altri  nelle  sale  ad  orare  per  lui.  Finita 
la  solenne  professione  di  fede,  (issò  le  accese  pupille 
nell'Ostia  sagratissima,  pregò  per  sé,  pregò  per  la 
diocesi  tutta  ;  di  poi  con  fioca  ed  interrotta  voce 
dimandò  agli  astanti  perdono,  di  non  avere  appieno 
adempiuto  a'suoi  doveri,  ed  edificato  il  gregge  con 
quegli  esempi,  che  in  tanti  anni  avevan  tutto  il  di- 
ritto di  esigere  da  lui.  Alle  quali  parole  tutti  scop- 
piando in  dirottissimo  pianto,  l'arcidiacono  a  nome 
dei  suoi  colleghi  singhiozzando  replicò  :  ringraziar 
anzi  l'eminenza  sua  degli  edificantissimi  esempi  di 
ogni  genere  di  virtù  dati  in  pontificato  sì  luogo,  e 
mancar  le  parole  a  lamentarne  la  dipartita. 

Infuriando  la  malattia,  il  21  richiese  l'estrema 
unzione:  e  pregando  il  Signore,  perchè  fosse  sempre 
pili  la  santa  chiesa  glorificata,  conservato  a  lungo 
un  pontefice  così  grande,  ed  accettasse  la  sua  anima 


52 

in  pio  olocausto  ,  nel  seguente  giorno  alle  ore  tre 
e  3  quarti  antimeridiane  ,  dopo  aver  poco  prima 
provveduto  a  non  so  quale  negozio  della  diocesi,  pla- 
cidissimamente si  riposò  nel  Signore. 

Eppure,  chi  il  crederebbe  ?  qualche  mese  innanzi 
eragli  entrato  lo  scrupolo  di  non  essere  piti  buono 
a  governar  la  sua  chiesa,  e  pensava  di  trattarne  col 
pontefice.  iMa  fu  chetato,  ripctendoglisi  le  stesse  pa- 
role dette  già  a  santo  Alfonso  de'  Liguori:  «  bastare 
la  sola  sua  ombra,  m 

V, 

Non  ebbe  funerali  da  cardinale,  né  quali  ven- 
nero poi  da  Benedetto  XIV  prescritti;  ma  secondo 
r  uso  antichissinjo  di  quella  metropolitana  ,  splen- 
didissimi cioè  e  quasi  dissi  sovrani  ,  prendendovi 
parte  ogni  ordine  della  città.  Né  di  leggiei-i  sareb- 
besi  dai  ravennati  assentito,  che  ad  arcivescovo  sì 
desiderato  non  si  rendessero  in  ugual  modo,  o  fos- 
sero nella  più  piccola  guisa  menomati.  Nel  primo 
giorno  ne  fu  curato  il  cadavere,  nel  secondo  con  abiti 
pontificali  fu  esposto  nella  gran  sala  del  palagio,  al- 
zati in  ogni  intorno  altari  per  la  celebrazione  delle 
messe.  Le  milizie  frenavano  a  stento  la  ognor  cre- 
scente moltitudine,  che  accorreva  a  pregargli  pace. 
A  tarda  notte  fu  processionalmente  portalo  alla  me- 
tropolitana per  le  consuete  vie  della  città  accom- 
pagnato dal  clero,  dalle  corporazioni  religiose,  dalle 
confraternite,  dal  municipio,  da  chi  tenevasi  la  somma 
della  provìncia  e  da  tutte  le  autorità  civili  e  mili- 
tari. Ogni  corpo  di  milizie  scortava  il  convoglio  ac-r 
(cerchiato  e  seguito  da  non  mai  veduta  calca. 


53 

Il  capitolo  cantò  V  intero  officio  de'  morti  e  pon- 
tificò la  solenne  messa  assistcntlovi  que'  medesimi, 
che  nella  precedente  sera  ne  avean  seguito  il  fe- 
retro: e  facendosi  dai  soldati  tre  fuochi  di  parata. 
Mancò  la  funebre  orazione:  ed  il  capitolo,  che  tanto, 
come  dissi,  lo  amava,  volle  venerare  il  divieto,  che 
il  cardinale  ne  avea  fatto.  Deposta  dall'  altissima 
mole  la  salma,  tutti  le  furon  d'  intorno  ad  {strappare 
lo  vesti,  i  capelli  ,  a  toccarla  con  fazzoletti  e  co- 
ione. Si  penò  assai  dalle  guardie  a  metterla  in  salvo 
nella  cap[)ella  della  beatissima  Vergine,  lasciati  fuori 
della  cancellata  i  piedi,  perchè  si  potesser  comoda- 
mente baciare:  nò  per  V  intero  giorno  cessò  il  po^ 
polo  di  accorrere  a  vedere  por  l'ultima  volta  il  sua 
benefattore. 

Non  tramandando  il  cadavere  alcun  cattivo  odore, 
(piantunque  lunga  fosse  stata  la  malattia,  scorsi  tre 
dì  dalla  morte,  non  avesse  voluto  essere  imbalsa- 
mato, la  stagione  fosse  caldissima,  e  ne  accresces- 
sero l'ardore  tante  accese  faci  e  tanti  fiati  insieme 
riuniti,  fu  il  capitolo  pregato  di  ritenerlo  ancor  sovra 
terra.,  Non  si  credette  hene  di  Condiscendervi  :  e  a 
notte  assai  inoltrata,  co'  soldati,  a  porte  chiuse,  e 
secondo  che  il  rito  voleva  fu  sepolto  nella  totwba 
de'  suoi  pr&decessori.  Nel  testamento  legò  al  sommo 
pontefice, a  testimonianza  di  quella  riverenza  ed  amo- 
re in  cui  lo  aveva  sempre  tenuto,  una  bellissima  im- 
magine di  Gesù  deposto  dalla  Cioce,  basso  rilievo 
in  aigento  di  mano  maestra;  e  di  que'  pochi  beni 
liberi  di  famiglia,  che  non  fece  in  tempo  a  chiu- 
dere ne'  celestiali  tesori  depositandoli  nelle  mani  de' 
povei'i  ,  chiamò  ei'edc  il  nuovo  seminario  de'  che- 


54 
liei  ricoid:ilo  di  sopii),  nccioechè  pei-  mancanza  di 
rendite  non  avesse  un  giorno  a  venir  meno  istitu- 
zione a  lui  SI  cara.  Nell'ottavo  giorno  gli  vennei'o 
nella  metropolitana  rinnovellati  i  funerali,  invitan- 
dosi il  popolo  al  mest'  officio  con  latine  epigrafi 
dettate  da  quell'egregio  professoie  del  collegio  ra- 
vennate signoi-  Pacifico  del  Fiate,  che  le  avea  pur 
composte  nel  giorno  della  deposizione  ,  e  che  ne 
avea  scritto  il  funebie  elogio  latino  posto  entro  di 
un  tubo  nella  sua  cassa.  Né  gli  inar)carono  sontuo- 
sissime esequie  in  Ronia:  piimieiamente  nella  ven. 
chiesa  di  santa  Galla,  pontificando  la  solenne  messa 
monsignor  Sillani  Aretini  vescovo  già  di  Tenacina, 
leggendone  la  funebre  orazione  uìousig.  Monetti  vica- 
rio generale  del  cardinnln  ora  degnissimo  vescovo  di 
Cervia,  ed  assistendovi  insieme  all'Emo  signor  cardi- 
nale Patrizi  vicario  di  Sua  Santità  il  fiore  del  clero  ro- 
mano: quindi  nella  chiosa  del  suo  titolo,  san  Mar- 
cello, accorrendovi  in  folla  la  fatniglia  tutta  de'sei vi 
di  Maria,  al  (juale  ordine  era  egli  ascritto  siccome 
terziaiio.  Nò  debbo  ometteie,  come  njn  molto  doj»o 
una  lunga  biografia  se  ne  inserisse  da  me  nel  gior- 
nale di  Koma  de'  10  di  settembre  1859  ,  ripub- 
blicata poi  in  altri  giornali,  e  che  in  appresso  pei 
torchi  dell'Aureli  ce  ne  donò  una  elegantissima  ed 
assai  ben  circostanziata  vita  il  reverendo  sacerdote 
D.  Davide  Farabulini  ravignano,  alunno  di  quel  semi- 
nario Pio,  che  tanto  oiioia  la  pietà  del  regnante  pon- 
tefice. 

VI. 

Molto  potrei  e  dovrei   aggiiingei'  qui  delle  virtù 
del   cardinale:  compendierò  dicendo,  che  si  propose 


r  imitazione  di  san  Francesco   di  Sales  ,  e  che  fin 
,    dalla  prima  giovinezza  assai  bene  lo  ricopiò.  Fu  di 
statura  forse  alta,  proporzionato  in  ogni  sua  parte, 
e  di  elegantissime  forme.  Fronte  larga,  occhio   vi- 
vace, gote  rubiconde:  ispirava  al  solo  vederlo  mo- 
destia e  santità.  Di   temperamento  forte,  di   umore 
lieto,  di  molta  acutezza  di  mente,  di  finissimo  tatto 
in  ogni  negozio.  Le  quali  doti  sapeva   nascondere  sì 
bene,  da  non  potersene  avere  piena  contezza,  se  non 
da  chi  lo  avesse  avuto  lungamente  in   pratica.  Co- 
stantissimo nelle  amicizie,  conservò  anco  da  arcive- 
scovo e  cardinale  quelle  della  prima  gioventù:  ospi- 
taliero  al  sommo,  potevasi   con  tutta  ragione  chia- 
marsi il  suo  palagio   l'albergo  de'  peregrini.  E  che 
io  non  mentisca,  o  di  soverchio  colori   il  mio  qua- 
dro, ed  abbia  anzi  moltissime  cose  ,  siccome  pro- 
misi, taciuto,  ne  chiamo  a  testimonianza  la  soprad- 
detta vita  del  Farabulini,  e  quanti   in  Roma  e  fuori 
per  breve  o  lungo  spazio  di   tempo  conobbero    un 
cardinale  ,   in  cui   per  maggiore  sventura  si  spense 
r  ultimo  superstite  di   famiglia  (8),  da  cui    usciron 
due  santi,  tre  cardinali,  vari  prelati  e  letterati  illustri 
e  che  fu  in  ogni  tempo  si  buona,  generosa  e  caris- 
sima a  Roma. 

Esempi  di  virtij,  quali  ho  accennato,  non  sono 
né  unici,  né  rari  nell'apostolico  senato  de'  cardinali 
e  de' vescovi;  ed  ove  ne  avessi  talento  potrei  con 
recenti  ed  antichi  fatti  confortarne  le  prove.  La  ve- 
ridica istoria  senza  studio  di  parti  ,  senza  tema  o 
speranze,  ammaestrata  dagli  eventi  dirà  un  giorno 
alla  pili  tarda  posterità  quali  furono  sempre  i  veri 
benefattori  del  genere  umano,  se  quelli   che  alluci- 


56 
nando  gì'  incanii  con  vano  utoi)ie  ne  abusano   il   no- 
me,  ovvero  chi  come  il  Falconieri  in  ogni  suo  allo 
si  conformò  agli  insegnamenli  della  dollrina  di  Cristo. 

Non  sarà    discaro  ai  leltori  ,  se  per  appendice 
aggiungiamo  le  epigrafi,  le  quali  vennero,  come  dissi, 
dettate  dal  eh.  sig.   professore  Pacifico  del   Frate. 
IN  FUNERE  CARDINALIS  CLARISSIMl  FALCONIERII 

In  fronte  metropolitani  templi 

HODIE  .  PABENTALIA  .  SVNT  .  CLARISSIMl  .  FALCONERII  .  CARDINALIS 
PONTIFICIS  .  MAIOBIS  .  RAVENNA?  .  ADESTE  .  CIVES  .  EX  .  OMNI 
ORDINE  .  ET  .  PH  .  VOLENTES  .  ANIMAE  .  MAGNAE  .  SEDEM  .  BEATORVM 
ET  .  HONORES  .  MERITOS  .  ADPRECAMINOR  .  VICEM  .  APVD 
DEVM    .  REPENSVRI    .    ANTISTITI    .    SANCTISSIMO    .    PARENTI  .  PUBLICO 

In  mole  funebri 
L 

CLARISSIMO  .  FALCONERIO  .  ARCHIEPISCOPO  .  CARDINALI  .  TITVLO 
MARCELLO  .  ITEMQVE  .  D  .  N  .  PII  .  IX  .  SVMMO  .  SCBINIARIO 
A  .  LIBELLIS  .  CYIVS  .  VIRTVTVM  .  MAXIMARVM  .  EXEMPLIS  .  MVLTORVM 
QVE  .  RECTB  .  FACTORVM  .  LAVDE  .  ECCLESIAM  .  UANC  .  YLTRA 
ANNOS  .  XXXIII  .  INSIGNEM  .  EXTITISSE  .  OMNES  .  AD  .  VNVM 
CONSENTIVNT  .  OBSEQVIA  .  POSTREMA  .  FVNVS  .  ET  .  LACRIMAE. 
PATRI    .    DESIDERATISSIMO. 


II. 


CTSTODl  .  ET  .  VINDICI  .  RELIGIONIS  .  INTEGERRIMO  .  FIDEM  .  ET 
CONSTANTIAM  .  DECESSOR  .  IMITATO  .  EIDEMQYE  .  AVCTORI  .  ET 
MAGISTRO  .  PIETATIS  .  SANCTIMONfAE  .  AVITAE  .  RETINENTISSIMO 
FELICES  .  ANIMAE  .  QVAS  .  FALCONERIA  .  DOMVS  .  QVAS  .  ECCLESIA 
RAVENN  .  COELO  .  PEPERIT  .  OBVIAM  .  LAETO  .  AGMINE  .  OCCVRRENTES 
SVVM  .  INVITENT  .  CONSORTIQVE  .  ADPLAYDANT  .  BEATITATIS 
SEMPITERNAE. 


57 

IH. 


SALVTIS  .  ANIMARVM  .  STVDIOSISSIMVS  .  ELOQVIO  .  EXEMPLIS 
MORVMQTE  .  SVAVITATE  .  COMMEMORABILI  .  AD  .  OFFICIA  .  CHRISTIANAE 
VITAE  .  PLYRIMOS  .  REVOCAVI!  .  ADLEXIT  .  OMNES  .  DIVINI  .  CVLTVS 
DIGNITATEM  .  IN  .  DELICIIS  .  HABENS  .  ALVMNOS  .  ECCLESIAB  .  SVAE 
AD  .  DOCTRINAM  .  ET  .  VIRTVTEM  .  INSTITVIT  .  TEMPLVM  .  MAXIMVM 
SVBSELLIARIO  .  HIBERNO  .  AVCTVM  .  PRAEDIVITE  .  SVPPELLECTILI 
EXORNAVIT  .  SACBAS  .  AEDES  .  EXCITARI  .  INSTAVRARIVE  .  IVSSIT 
VETERIS  .  DISCIPLINAE  .  TENAX  .  CONCILIVM  .  PROVINCIALE  .  INDIXIT 
RITEQVE  .  nABVIT  .  HVIC  .  VOS  .  QVOT  .  ESTIS  .  OMNES 
ADCLAMATE    .    HAVE    .    ET    .    VALE    .    PONTIFEX    .    PIENTISSIME. 


IV. 


QVI  .  DVM  .  VITA  .  MANSIT  .  SOLATOB  .  MISERORVM  .  ADSIDVVS  .  EFFVSO 
IN  .  OMNES  .  AMORE  .  EGENTIVM  .  PLEBEM  .  ALVISTI 
STIPEM  .  QVAERERE  .  ERVBESCENTIVM  .  INOPIAM  .  SECRETO  .  LEVASTI 
ADFLICTIS  .  ET  .  lACENTIBVS  .  DEXTERAM  .  PORREXISTl  .  IPSE  .  0 
NVNC  .  ADSIS  .  E  .  COELO  .  VICESQVE  .  MISERATVS  .  CIVITATIS  .  TVI 
AMANTISSIMAE    .   ADFER    .    OPEM    .    ET  .  SOLATIVM    .    IMPLORANTIBVS. 

IN  FUNERE  INSTAVRATO  DIE  30  AVGVSTI 

Supra  portam  templi  maximi 

HONORI  .  ET  .  VlRTVTl  .  CLARISSIMI  .  FALCONERII  .  CARDINALIS 
ARCHIEPISCOPI  .  N  .  QVEM  .  IX  .  KAL  .  SEPT  .  ANN  .  MDCCCLIX 
MAGNA  .  CiVITATIS  .  FREQVENTIA  .  MAXIMO  .  BONOR  .  LVCTV 
EFFEBRI    .    NEMO    .    NON   VIDIT    .    ITERVM    .    PARENTAMVS. 

In  mole  funebri 
\. 

QVAE  .  TE  .  PONTIFICEM  .  PIVM  .  MVNIFICVM  .  ADSERTOREMQVE 
RELIGIONIS  .  INVICTVM  .  DIV  .  FELICITER  .  EXPERTA  .  EST  .  HAVE 
ITERVM    .    OLAIUSSIME    .    HAVE    .    0    .    MIDI    .    NOVVM   .    ADDITE    .    IN 


58 


COELO  .  DECVS  .  ADCLAMAT  .  TOTVMQVE  .  ADCLAMABIT  .  IN  .  AEVVM 
ECCLESIA    .    RAVENNATENSIVM. 

II. 

evi    .  NVPER    .   VNVS    .    HEIC    .  TV    .    SVPERERAS    .   TVTELA  .  INGENS 

ET    .    SOLATIVM    .    IPSA  .    NVNC  .    AD    .     CAELESTIA     .     DEMIGRANTEM 

TE  ,  TE  .  VOTIS  .  OMNIBVS  .  MISEROQVE  .  FLETV  .  COMPELLAT 
ORBA    .    PARENTE    .    CIVITAS, 

m. 

QVOS  .  OMNIGENA  .  CARITATE  .  AI)  .  SVPREMAM  .  DIEM  .  COMPLEXVS  .  ES 
QVIQVE  .  DVRAM  .  SOSPITE  .  TE  .  NVNQVAM  .  SENSERE  .  INOPIAM 
EHV  !  .  QVANDO  .  ALIVM  .  INVENIENT  .  PAREM  .  MISERI  .  ET 
EGENTES. 


59 
NOTE 

(1)  La  famiglia  Falconieri  trae  la  sua  prima  origine  da 
Fiesole  ;  trovasi  registrata  fra  quelle,  che  nel  1210  avevano 
l'onore  del  consolato,  ed  andavano  a  Firenze  divisa  allora  per 
sestieri.  Vedi  l'istoria  fiorentina  di  Marchionne  di  Coppo  Ste- 
fani inserita  nelle  «  Delizie  degli  eruditi  toscani.  Firenze  1776 
in  8.  » 

Della  famiglia  Millini,  nobilissima  pur  essa,  scrisse  in  la- 
tino la  storia  genealogica  Iacopo  Lauro,  e  la  pubblicò  in  Roma 
nel  1636.  Ha  dato  quattro  illustri  cardinali,  i  quali  sono  tutti 
sepolti  nella  loro  gentilizia  cappella  in  santa  Maria  del  popolo. 
Sono  Giovanni  Battista  creato  nel  1476  da  Sisto  IV;  Gio:  Gar- 
zia  da  Paolo  V  nel  1606;  Savo  da  Innocenzo  XI  nel  1681;  e 
Mario  da  Benedetto  XIV  nel  1747- 

(2)  Elogio  storico  del  professore  D.  Bartolomeo  (^avani  del 
Sillico  in  Garfagnana.  Modena.  Tipografia  di  Antonio  ed  An- 
gelo Cappelli  1848.  Monsig.  Falconieri  cantò  la  solenne  messa 
nell'esequie  fattegli  in  sant'Ignazio,  cui  assistettero  tutti  gli  sco- 
lari e  i  professori  colleghi  dell'università  Gregoriana,  ov'cra 
morto  il  23  novembre  18'23  in  età  di  anni  46. 

(3)  In  questa  occasione  contrasse  intima  amicizia  col 
professore  Luigi  Bonelli,  illustre  metafisico  e  teologo  romano 
troppo  presto  rapito  agli  studi  e  alla  religione.  Non  è  a  dire 
quanto  il  Falconieri  si  adoperasse  per  la  morale  coltura  di  quella 
gioventù,  cui  rimase  aflezionatissimo:  ne  visitava  anco  da  car- 
dinale assai  spesso  la  congregazione,  godendo  eziandio  di  con- 
tinuare a  predicarvi.  Molti  ne  ridusse  a  savio,  molti  a  perfetto 
tenore  di  vita,  fra'  quali  due  giovani  romani  architetto  l'uno, 
pittore  l'altro,  che  rendutisi  carmelitani  scalzi,  edificarono 
quel  severo  istituto,  in  cui  dopo  non  molti  anni  santamente 
morirono. 

(4)  Il  giorno  20  aprile  1823  prese  possesso  del  canoni- 
calo  vacato  per  la  promozione  alla  sacra  porpora  dell' Ode- 
scalchi:  nel  maggio  del  1823  lo  dimise  perchè  divenuto  udi- 
tore della  sacra  rota,  col  quale  officio  sono  le  canonicali  pre- 
bende incompatibili.  Nel  partirsi  volle  lasciare  in  memoria  di 
se  alla  vaticana  basilica  un  piside  di  oro  di  assai  elegante  la- 


(iO 

voro,  del  peso  di  circa  11  once,  per  Carne  uso  le  Ceste  nelle 
messe  cantale  alla  comunione  de'  ministri. 

(5)  Lo  Condò  nel  1833,  lo  intitolò  ai  santi  Angeli  Custodi: 
vi  unì  i  chierici  meno  agiati,  o  poveri  di  beni  di  beni  di  Cor- 
tuna,  una  gran  parte  de' quali  manteneva  a  sue  spese.  Gli  die 
comuni  coir  altro  seminario  le  scuole  e  la  chiesa  di  san  Gi- 
rolamo, perchè  in  alcune  feste  dell'anno  la  officiassero  insieme. 

(6j  Degli  offici  lib.  1  cap.  30. 

(7)  E  dipinta  in  una  tavoletta  di  legno:  ferita  di  coltello 
da  un  empia  mano  nella  guancia  destra  gittò  sangue.  Sul  co- 
minciare del  secolo  XV,  quando  le  armi  straniere  innonda- 
vano i  campi  ravignani  straziando  la  città,  quando  nelsecento 
furono  quasi  tutti  i  luoghi  d'Italia  assaliti  dalla  pestilenza  , 
fu  più  volte  veduta  impallidire,  piangere  e  sudar  sangue,  delle 
cui  gocce  anco  di  presente  si  vede  aspersa;  quindi  il  volgar 
nome  di  Madonna  del  sudore.  Questa  effigie  non  si  deve  con- 
fondere colla  Madonna  greca,  venuta  dall'oriente  in  Ravenna 
con  istraordinario  prodigio  sopra  le  onde  del  mare  fra  due 
angeli  che  spandeano  immensa  luce.  Fu  ricevuta  nel  lido  dai 
beato  Pietro  Onesti  detto  il  peccatore,  e  si  vede  nella  basi- 
lica di  Classe,  come  quella  sta  nella  metropolitana  dedicala  al 
vescovo  sant'Orso.  Immagini  ambedue  veneratissime  dai  ra- 
vennati. 

(8)  Il  beato  Alessio,  santa  Giuliana  illustri  nell'ordine  dei 
servi  di  Maria:  fra  Carlo,  abbracciata  fra  i  carmelitani  lari- 
forma  di  santa  Teresa,  vi  morì  in  concetto  di  santo.  Lelio  ar- 
civescovo di  Tebe,  nunzio  in  Fiandra,  fu  fatto  cardinale  da  Ur- 
bano YIII  nel  1643,  ebbe  il  titolo  di  santa  Maria  del  popolo, 
fu  legato  di  Bologna,  morì  in  Viterbo  nel  1648.  Alessandro, 
celebre  uditore  della  sacra  rota  ,  le  cui  decisioni  sono  assai 
stimate,  fu  governatore  di  Roma,  e  decorato  della  sacra  por- 
pora da  Benedetto  XIII  nel  1724.  Fu  diacono  di  santa  Maria 
della  scala,  e  per  soli  due  lustrì  godè  della  meritala  dignità. 
Ottavio,  per  tacere  di  ogni  altro,  mancato  di  anni  50  nel  1616, 
fu  uno  de'  più  illustri  antiquari,  non  pur  del  suo,  ma  di  ogni 
tempo:  Grevio  e  Gronovio  arricchirono  le  loro  collezioni  cogli 
scrini  di  Ottavio  Falconieri.  A  lui  si  deve  la  prima  edizione 
della  Roma  antica  del  Nardini  fatta  in  Romane!  1606  ed  ar- 
ricchita di  giunte:  a  lui  si  devono  le  Iscriptiones  athleticae 
ed  altri  lavori  dottissimi.  Insieme  all'archeologia  coltivò  pure 
le  belle  leltcre.  


61 


Terapia.  Di    Vincenzo   Catalani  dottore   in  medicina 
e  chirurgia.   (Continuazione  e  fine). 

Del  Catarro. 

CAPO  SETTIMO. 

Cura. 

J\\  robusto  e  pletorico  catarroso  giova  il  salas- 
so ,  r  emetico  e  la  revulsione  intestinale.  Ed  al 
vecchio  debole  bisogna  sempre  corroborare  l'aerea 
mucosa  ;  e  all'esterno  gli  umori  richiamare,  o  col 
permanente  emuntorio,  o  col  volante  vescicante.  E 
internamente  gli  si  somministrano  gli  espettoranti, 
i  tonici  e  gli  eccitanti  ;  ed  esternamente  sempie 
mantiensi  libera  la  insensibile  traspirazione  cutanea. 

SEZIONE  SECONDA 

Gastrorrea. 
CAPO  PRIMO. 

Definizione, 

La  gastrorrea  è  l'abbondante  emanazione,  della 
interna  superficie  dello  stomaco,  di  mucosa  materia, 
che  si  rigetta. 


62 
CAPO  SECONDO. 

Forma. 

L'epigastrico  peso  la  gastrorrea  precede,  cui  au- 
menta la  mucillaginosa  bevanda  ;  e  che  i  tonici  e 
gli  eccitanti,  che  la  digestione  facilitano,  alleggeri- 
scono. Naturale  è  agli  alimenti  l'appetito;  e  manca 
la  sete  ,  e  scipita  e  patinosa  ed  anche  amara  è  la 
bocca.  Le  forze  languono;  e  chi  la  sotTre,  lentamente 
consumasi.  E  poi  viene  la  nausa,  e  quotidianainente 
vomitasi  bianca,  filante  e  semi-trasparente  materia. 
Cui  per  settimane  e  per  mesi,  ed  anche  per  anni, 
vomitasi  ;  e  poi  per  qualche  mese  non  piìi  si  vo- 
mita, e  facilmente  litornasi,  dopo  qualche  tempo,  a 
rivomitarla. 

CAPO  TERZO. 

Cause  remote. 

A  preferenza  degli  altri  i  linfatici  vecchi  sonovi 
predisposti;  e  la  predisposizione  innalzano  alla  con- 
dizione di  gastrorrea  il  digiuno,  l'astinenza  ,  1'  uso 
dei  rilascianti,  e  l'abuso  degli  eccitanti. 

CAPO  QUARTO. 

Causa  prossima. 


La  condizione  della  gastrorrea  è  il  rilasciamento 


63 
della  ventricolare    mucosa  ,  determinato  dal    lento 
processo  flogistico  ,  dall'  uso  dei  rilascianti  ,  e  dal- 
l'abuso degli  stimolanti. 

CAPO  QUINTO. 

Necroscopia. 

Aperto  il  ventricolo  hannovi  trovata  di  mucosità 
intonacata  la  interna  superficie.  E  lavata  che  hanno 
la  membrana  mucosa  ,  1'  hanno  trovata  scoloiata  , 
biancala,  floscia  e  rilasciata. 

CAPO  SESTO. 

Pronostico. 

Spesso  la  gastrorrea  recidiva;  e  in  pochi  giorni 
non  si  risolve;  sorpassa  il  mese,  e  dura  anche  |)er 
anni.  Difficilmente  guariscesi;  spesso  stazionaria  ri- 
manesi;  e  raramente  vi  si   muore  consunti. 

CAPO  SETTIMO. 

Cura. 

La  gastrorrea  incominciasi  a  curare  cogli  emetici; 
e  si  prosegue  coi  nutrienti,  coi  tonici  e  cogli  ecci- 
tanti. E  si  prescrive  l'animale  vitto,  il  vino  austero 
e  generoso  ,  l' infusione  di  centauro  ,  il  decotto  di 
cicoria  e  di  china,  l' infusione  di  rabarbaro  e  di  as- 
senzio, i  preparati  di  marte,  l'aria  libera  e  tempe- 
rata, e  la  ginnastica. 


64 
SEZIONE  TERZA. 

Enteronea. 
CAPO  PRIMO. 

Definizione. 

I/enlcrorrea  è  l'adinamica  secrezione,  di  abbon- 
dante matei'ia  filante  e  senji-trasparenle,  dclT intesti- 
nale mucosa,  che  per  secesso  scappa  dal    corpo. 

CAPO  SECONDO. 

Forma. 

Prima  incomincia  nei  leucoflemmatici  a  farsi  sen- 
tire r  intestinale  flatulenza;  e  poi  viene  V  inappeten- 
za, manca  la  sete,  e  sciogliesi  il  ventre.  Indeboli- 
scesi  il  polso;  e  vengono  meno  le  forze.  E  per  se- 
cesso esce  la  mucosità  prima  alla  feccia  mescolata, 
0  poi  sola  ed  abbondante.  E  dura  per  giorni  ,  per 
mesi,  ed  anche  per  anni. 

CAPO  TERZO. 

Cause  remote. 

Predispone  ed  anche  1'  enterorrea  determina  il 
luogo  che  si  abita  caldo-umido,  i  rilascianti,  i  pur- 
ganti e  la  lenta  gastro-enterite. 


65 
CAPO  QUARTO. 

Causa  prossima. 

Il  linfatico  temperamento  alla  enterorrea  predi- 
spone; e  la  condizione  che  la  determina  è  il  rila- 
sciamento della  mucosa  intestinale,  determinato  dal- 
l'abuso dei  rilascianti,  e  dal  lento  processo  flogistico. 

CAPO  QUINTO. 

Necroscopia. 

Aperto  il  gaslro~enterico  canale,  si  è  trovata  di 
muco  la  mucosa  intonacata;  che  essendo  stata  la- 
vata, è  slata  trovala  scolorata,  bianeata  e  rammollita. 


CAPO  SESTO.  ;,.„( 


Pronoslico. 

La  enterorrea  sintomatica  segue  la  malattia,  che 
la  mantiene.  E  grave  malanno  è  poi  la  primaria  ; 
principalmente  T  antica,  che  difficilmente  risolvesi, 
e  che  spesso  fa  morire  consunti. 

CAPO  SETTIMO. 

Cura. 

Alia  scarsa  mucosa-intestinale  evacuazione  basta, 
G.A.T.CLXIV.  5 


66 

se  ella  è  morbosa,  la  calda  aromatica  bevanda.  Ed 
all'abbondante,  che  chi  la  soffre  consuma  e  sfinisce, 
si  prescrivono  i  nutrienti,  i  tonici  e  gli  astringenti. 
E  curasi  la  sintomatica  coi  rimedi,  con  cui  si  me- 
dica la  malattia  che  la  mantiene. 

SEZIONE  QUARTA. 

Medorrea. 
CAPO  PRIMO. 

Definizione. 

Per  medorrea  generalmente  intendesi  l'adinamico 
profluvio  sieroso  e  mucoso,  che  emana  dall'  interna 
superficie  dell'apparecchio  genito-urinario  femminile 
e  maschile  ;  che  non  è  contagioso,  e  che  non  di- 
pende da  specifica  virulenza. 

CAPO  SECONDO. 

Forma. 

Generalmente  la  medorrea  incomincia  e  finisce 
collo  scolo  di  limpida  sierosità.  In  principio  è  sie- 
rosa emanazione,  che  a  poco  a  poco  addensasi,  e 
prende  col  tempo  la  mucosa  e  purulente  forma.  Che, 
pervenuta  che  sia  alla  massima  estensione,  attenuasi 
lentamente,  diventa  sierosa  e  col  tempo  dileguasi. 
E  la  morbosa  secrezione  placidamente  compiesi  senza 
strepito  di  fenomeni;  ne  all'  infiammazione  congiun- 


67 
gesi;  e  presto  lisolvesi,  ed  anche  dura  lungamente, 
e  difficilmente  anche  guariscesi. 

CAPO  TERZO. 

Cause  remole. 

I  deboli  e  cagionevoli  linfatici,  a  preferenza  degli 
altri,  sonovi  predisposti.  E  poi  la  determina  ciò  che 
indebolisce  e  rilascia  la   genito- urinaria  mucosa. 

CAPO  QUARTO. 

Causa  prossima. 

La  morbosa  condizione  della  medorrea  è  il  ri- 
lasciamento della  mucosa  genilo-urinaria  ;  cui  de- 
termina il  parto  laborioso,  l'aborto,  le  tocologiche 
operazioni  ed  il  lento  processo  flogistico. 

CAPO  QUINTO. 

Necroscopia. 

Aperto,  nel  cadavere,  l'apparecchio  genito-uri- 
nario,  vi  si  trova  l' interna  mucosa  scolorata  e  ram- 
mollita, e  di  tenue  mucosità  intonacata.  Ed  anche 
vi  si  trovano  ulceri  ,  scirrose  e  cancerose  degene- 
razioni. 

Pronostico. 

Persistente  e  non  pericolosa  è  la  medorrea, che an- 


68 
che  si  guarisce;  ma  che  spesso  fastidioso  incomodo 
rimanesi. 

CAPO  SETTIMO. 

Cura. 

Alla  medorrea  ,  che  dal  generale  e  dal  locale 
rilasciamento  deriva,  giovano  internamente  e  nella 
parte  applicati  i  tonici  e  gli  astringenti.  Meglio  però 
è  di  dare  internamente  i  nutrienti  e  i  tonici;  e  lo- 
calmente applicare  gli  astringenti.  Mentre  questi  in- 
ternamente dati,  difficilmente  operano  nella  mucosa 
genilo-urinaria,  e  la  medorrea  risolvono. 

CONCLUSIONE. 

La  morbosa  emanazione,  di  materia  bianca  fi- 
lante e  viscosa,  compiesi  ovunque  sono  mucose  mem- 
brane. E  solo  le  principali  noi  abbiamo  discorse  ; 
mentre  le  altre,  queste  conoscendosi,  facilmente  da 
chicchessia  si  concepiscono.  E  quasi  sempre  sinto- 
matiche essendo  le  emanazioni  sanguigne,  sierose  e 
mucose;  ci  conviene  gli  altri  malanni  trattando,  di 
ridiscorrerne.  Alcuni  le  hanno  trascurate  affatto;  e 
noi  le  abbiamo  esposte,  per  solo  dare  la  generale 
idea  delle  preternaturali  emanazioni,  che  nel  corpo 
animale  morbosamente  si  compiono 


69 
LIBRO  SESTO 

Somasenografìa. 

Minerali  e  animali  ingeneransi  talora  entro  di 
noi  ,  che  profondamente  ci  conturbano  ;  e  che  ci 
fanno  anche  spasmodicamente  morire^  se  dal  nostro 
corpo  non  li  possiamo  espellere.  E  gli  uni  e  gli 
altri  ora  brevemente  esponiamo. 

PARTE  PRIMA. 

Prodotti  animali. 

Dagli  umani  discendendo,  per  la  scala  zoologica, 
a  discorrere  degl'inumani^poche  cose  diremo  diquelli, 
che  entro  del  nostro  corpo  annidansi,  e  che  ci  con- 
turbano. E  parleremo  ancora  poco  degli  esterni,  che 
introdottisi  nell'  interno  non  vi  prolificano  né  vi 
prosperano,  e  che  solamente  l'economia  ci  contur- 
bano. 

SEZIONE  PRIMA. 

Umano  parassitismo. 
CAPO  PRIMO. 

Definizione. 

I  parassiti  sono  gli  esseri,  che  nascono  e  cre- 
scono negli  altri  csserij  ed  il  parassitismo  è  talmente 


70 

Bell'organica  condiziono,  chft  inHislintamente  Io  com- 
portano gli  esseri  vìtodIì.  E  la  parassitica  indivi- 
duale esistenza  alimentasi  a  carico  del  primitivo  or- 
ganismo; ed  esso  ne  soffre;  e  talora  perisce,  senza 
ebe  la  parassitica  esistenza  si  accresca  ,  né  si  in- 
grandisca a  carico  di  quello;  e  si  l'una  e  sì  l'altro 
simultaneamente  periscono.  E  quella  deesi  distrug- 
gere, se  volsi  questo  conservare. 

CAPO  SECONDO. 

Riduzione  deìVumano  parassismo. 

Gli  antilinneani  tre  varietà  d'  intestinali  vermi 
conoscevano;  e  quelli  che  dopo  di  loro  furoiM),  tal- 
mente ne  accrebbero  il  numero,  che  molte  varietà 
se  le  immaginarono.  Ed  intralciarono  maggiormente 
la  elmintologia  col  riportarne  le  varietà  a  distinte 
classi.  Noi,  oltre  di  ristringerne  il  numero,  ne  for- 
miamo una  classe  distinta  dalle  altre,  con  po<;a  zoo- 
logica precisione,  che  compiendo  le  seguenti  varietà; 
cioè  1 ."  la  tenia;  2."  il  vescicolare;  3."  il  iricocefalo; 
4.°  Vascaride;  5.°  il  lombricoide. 

TENIA.  Sono  le  tenie  vermi  schiacciati  e  lun- 
ghi, che  risultano  da  piccoli  pezzi  coi  loro  margini 
riunitisi  gli  uni  agli  altri.  Annidansi  nei  tenui  in- 
testini, colla  testa  in  alto^  e  la  coda  che  pende  al 
basso.  Il  capo,  simile  ad  un  tubercolo,  è  munito  di 
quattro  laterali  aperture,  da  cui  dipartonsi  gli  ali- 
mentari canali.  Il  collo  componesi  di  piccoli  pezzi» 
che  leggermente  allargandosi  ne  formano  la  lun-  } 
ghezza,  che  al  corpo  congiungesi.  L'estremità  o  è 


71 

tronca,  o  ai  margini  laterali  elevansi  due  subolate 
terminali  corna.  Nelle  schiacciate  anella  apronsi  i 
due  genitali  canali;  il  maschile  è  superiormente  col- 
locato ,  ed  inferiormente  il  femminile.  E  le  uova 
nell'uscire  da  questo,  da  quello  vengono  fecondate; 
e  la  tenia  è  parassita  umano  ovipero  ermafrodito; 
e  si  divide  in  armata  ed  in  inerme. 

L'armala  conosciuta  comunemente  col  nome  di 
tenia  concurbitina,  di  verme  solitario  e  di  tania  ar- 
mata, ha  la  testa  munita  di  circolare  e  stellata  co- 
rona ,  nel  cui  mezzo  esiste  la  proboscide  ;  da  cui 
ha  principio  il  mediano  canale,  che  diramandosi  si 
estende  fino  alla  coda. 

La  inerme,  conosciuta  col  nome  volgare  di  tenia 
lata,  ha  la  piccola  testa  munita  di  quattro  laterali 
popille  e  di  una  centrale;  ed  a  cui  manca  la  circo- 
lare e  stellata  corona  ,  che  la  proboscide  circonda 
della   tenia  armata. 

VESCICOLARE.  [  vescicolari  dividonsi  in  so- 
ciali e  in  solitari  ;  i  primi  convivono  in  comune 
vescichetta,  e  di  raro  si  trovano  nel  corpo  umano; 
e  gli  altri  in  gruppi  riuniti,  ha  ciascuno  peculiare 
vescichetta;e  costituiscono  una  varietà  dell'umano  pa- 
rassitismo. Dalla  vescichetta  il  solitario  verme  estrae 
la  testa  munita  di  unciformi  protuberanze,  mediante 
cui  attaccasi  nelle  contigue  parti  ;  e  colla  centrale 
popilla  attrae  il  convenevole  alimento.  Non  si  co- 
nosce il  genere,  ne'  il  sesso;  e  pare  essere  sempre 
spontanea  la  loro  generazione. 

TRICOCEFALO.  Il  dicotomo  ed  ovipero  trico- 
cefalo annidasi  principalmente  nel  retto  intestino  , 
ed  è  tra  noi  rarissimo.  Egli  ha  la  spirale  forma  , 


72 

di  mezza  linoa  di  grossezza,  e  di  uno  o  due  pol- 
lici di  lunghezza.  La  capitale  estrentiità  termina  in 
ripiegata  fìloforcne  setola;  e  la  coda  spiralmente  gi- 
rando termina  in  ottuso  amo,  in  cui  apresi  il  tubo 
intestinale.  Ed  il  maschio  dalla  femmina  differisce 
per  la  ripiegata  coda  e  la  maschia  proboscide  ;  e 
questa  differisce  da  quello  perchè  manca  della  pro- 
boscide, ed  ha  l'ovario,  e  la  coda  oblungata,  piatta 
e  più  larga  del  coipo.  •• 

ASCARIDE.  La  vivipcra  ascaride  è  rotonda  ed 
è  schiacciata  ai  lati,  e  della  grossezza  di  una  linea, 
e  della  lunghezza  <li  un  pollice.  Guizza,  e  veloce- 
mente saltella;  non  vive  sola,  e  riuniscesi  in  con- 
clobalc  masse  ;  di  raro  osservasi  nello  stomaco  , 
nell'esofago,  nella  vagina  e  nell'urinaria  vescica  ;  e 
comunemente  annidasi  nei  crassi  intestini  ,  e  prin- 
cipalmente nelle  cellule  cavernose  del  calon,  e  nel 
retto  intestino.  Lungamente  gli  ascaridi  persistono;  e 
narrasi  di  taluni,  che  ne  furono  affetti  oltre  ai  dieci  an- 
ni. Col  microscopio  guardati  si  vede  la  testa  guarnita 
di  ovali  prominenze,  e  longitudinalmente  divisa.  E  che 
dalla  testa  in  poi  leggermente  ingrossandosi,  giunta 
al  massimo  della  sua  grandezza,  incomincia  lenta- 
mente a  sottigliarsi  ,  e  termina  in  subulata  coda. 
Dall'apertura  longitudinale  della  testa  principia  il 
tubo  intestinale  ,  che  va  ad  aprirsi  nella  contraria 
estremità.  Nel  maschio  al  di  sotto  del  tubo  inte- 
stinale apparice  il  maschile  canale  ,  che  estendesi 
fino  all'apice  della  coda;  e  vedesi  il  femminile  in- 
testino circondato  di  embrioni,  che  colla  pressione 
si  fanno  scappare  per  l'ascaridea  cloaca.  Straordi- 
nario è  il  numero  degli  embrioni,  che  in  se  racchiude 


73 

la  feinmina;  ed  e^nessi  che  gli  abbia,  la  madre  sen 
muore. 

LOMBRICOIDE.  Il  dicotomo  e  vivipero  lombri- 
coide  è  rotondo  ,  della  grossezza  d'  una  penna  da 
scrivere,  e  della  lunghezza  di  circa  cinque  pollici; 
ed  il  maschio  è  sempre  più  piccolo  e  meno  lungo 
della  femmina.  Il  maschile  sesso  è  a  poche  linee 
distante  dall'apice  della  coda;  ed  il  femminile  alla 
distanza  di  due  pollici  dalla  testa.  E  la  fammina  e 
il  maschio  convivono  negli  intestini  con  altri  pa- 
rassitici vcimi. 

Degli  altri,  di  cui  fimno  menzione  gli  elminto- 
logi  ,  in  questo  luogo  noi  non  facciamo  verfjo  : 
mentre  li  riguardiamo  o  come  varietà  ,  o  come 
estranei,  che  quantunque  non  parassiti  umani  ,  nel 
nosti'o  corpo  entrano  e  ci  conturbano. 

CAPO  TERZO. 

Parassi  toijenesi. 

Il  parassitismo  è  nella  condizione  universale;  che 
indistintamente  l'organismo  lo  comporta.  Ed  egli  ha 
un'archetipa  modalità,  che  nell'essenza  non  cambiasi, 
ed  egualmente  riproducesi.  La  cui  genesi,  per  alcuni 
è  discendentale,  e  che  non  si  compia  senza  dei  pa- 
terni germi.  Egli  è  peculiare  ipodalità,  che  annidasi 
negli  esseri  organici  viventi;  e  da  cui  solo  può  ri- 
cavare gli  elementi  indispensabili  pel  suo  manteni- 
mento. Dalla  quale  stazione  allontanato  che  sia,  ne- 
cessariamente perisce;  come  il  tei-restre  animale,  che 
si  tuffa  nell'acqua,  e  l'aquatico  che  da  essa  ostraesi. 


74 

Senza  diflfondeici  in  parassilogenesiclie  Irascen- 
denlali  disquisizioni  ,  noi  ci  atlenianrio  all'  opposta 
sentenza,  senza  contraddire  alla  prinna.  Imperocché 
nel  mentre  che  ammettiamo  la  spontanea  parassito- 
geuesi,  riteniamo  del  pari  la  discendenlale  ovipera 
e  la  vivipera  generazione  dell'umano  parassitismo. 
1  fatti  o  che  sostengono,  o  che  si  oppongono  si  al- 
l'una e  sì  all'altra  sono  tali,  che  non  si  possono  di- 
struggere né  combinare  se  l'una  e  l'altra  parassito- 
genesi  non  si  ritiene.  Ecco  come  i  naturalisti  di- 
sputavano, e  disputano  ancora,  senza  potersi  né  so- 
stenere, né  la  contraria  certezza  distruggere.  Nella 
maniera  di  concepire  la  parassitogenesi  umana,  tanto 
gli  ovaristi  ed  i  viviperisli,  quanto  gli  eterogenisli 
hanno  dei  falli  che  li  sostengano  ;  come  di  quelli 
che  li  contraddicono.  In  tal  guisa  mantiensì  la  sco- 
lastica disquisizione;  mentre  se  o  gli  uni  o  gli  altri 
tutti  i  falli  avessero  nel  canto  loro;  gli  uni  trionfe- 
rebbero, e  gli  altri  necessariamente  soccomberebbero. 

CAPO  QUAKTO. 

Condizioni  parassilogenesiclie. 

L'adinamia  é  condizione  favorevole  alla  genesi, 
ed  alla  parassitica  figliazione.  La  favoriscono  il  lan- 
guore del  sistema  cardiaco-vascolare,  e  la  predomi- 
nanza delle  vene  sulle  arterie,  ed  il  linfatico  tempe- 
ramento, l'adinamia  del  tubo  gastro-enterico,  e  l'ab- 
bondante secrezione  mucosa  ,  e  la  poca  irritabilità 
e  r  indebolitasi  coesione  dei  solidi.  Cosicché  i  fan- 
ciulli e  le  donne  la  soffrono  a  preferenza  degli  adulti 


75 
e  degli  uomini.  E  di  sovente  complicasi  alle  adina- 
miche malattie;  nò  viene  meno,  nò  dileguasi  prima 
che  siansi  ristorate  le  organiche  forze. 

La  favoriscono  ancora  le  cose  esterne,  che  affie- 
voliscono la  plastica  attività;  e  determinano  il  lan- 
guore e  la  debolezza  ;  verbigrazia,  i  luoghi  umidi, 
e  circondati  dalle  stagnanti  acque.  Le  ombrose  abi- 
tazioni, e  non  illuminate  dalla  vivificante  azione  della 
luce;  né  riscaldate  dai  calorifici  raggi  del  sole;  e  che 
sono  dominate  dai  venti  che  la  rapida  intemperie 
determinano,  il  cattivo  e  manchevole  nutrimento;  e 
lo  smodato  uso  dei  rilascianti  e  dei  succulenti,  come 
le  acquee  bevande  ed  i  farinacei  alimenti. 

CAPO  OLINTO. 

Riduzione  deWnmana  parassitica  manifestazione. 

Sviluppatosi  r  umano  parassitismo  ,  turbasi  lo 
stato  di  salute  a  ragione  della  quantità  e  qualità  dei 
vermi,  e  dell'universale  e  locale  sensibilità  della  parte 
ove  sogliono  annidarsi.  E  la  parassitica  manifesta- 
zione è  comune  e  particolare,  locale  ed  universale. 

CAPO  SESTO. 

Coniìine  manifestazione  deWiimano  parassitismo. 

Incerta  è  la  parassitica  espressione  ,  e  la  sola 
espulsione  dei  vermi  è  il  sintomo  caratteristico  e 
significante.  Nulladimeno  noi  l'esponiamo,  affinchè 
abbiasi  a  rilevare  da  chicchessia  quali  inconvenienti 


76 
siano  capaci  di  provocare  i  venni.  Cambiasi  la  espres- 
sione facciale  ;  ed  ella  diviene  o  rosea,  o  pallida, 
o  plumbea.  Un  semicerchio  azurro  dispiegasi  nella 
circolare  inferiore  parte  delTorbita;  e  1'  inferiore  pal- 
pebra gonfiasi  ed  ingialliscesi,  e  la  flava  tinta  leg- 
germente ditfondesi  nell'  oculare  bianco.  L'  occhio 
perde  la  naturale  vivacità  ,  si  rimane  immobile  ,  e 
la  pupilla  si  dilata.  Insopportabile  prurito  destasi 
nelle  narici  e  nell'ano.  Duole  il  capo,  ed  il  sonno  è 
turbato,  susurrano  le  orecchie,  e  segue  la  vertigine 
e  lo  svenimento.  Esala  dalla  salivosa  bocca  odore 
fedito  e  verminoso:  stridono  i  denti;  la  sete  è  ar- 
dente, e  l'appetito  è  perturbato.  La  tosse  è  secca, 
ricorrente  e  soffocante;  ed  alla  diffìcile  respirazione 
associasi  il  singhiozzo.  La  pronunzia  è  interrotta  , 
e  l'articolazione  impedita;  e  talora  la  cardialgia  tor- 
menta r  infermo,  e  tal'altra  l'affoga.  Palpita  il  cuore, 
e  battono  duri  i  polsi,  frequenti,  celeri  e  intermit- 
tenti. Si  svolgono  gli  addominali  gas,  ed  il  ventre 
gonfiasi,  e  seguono  i  borborigmi,  i  rutti,  la  nausa 
ed  il  vomito.  Duole  l'addome,  e  l'ammalato  lamen- 
tasi di  lacerazioni  e  puntme  non  fisse  ,  ma  vaghe 
per  la  cavità  addominale.il  ventre  ora  è  sciolto,  ed 
ora  è  costipato.  Le  urine  sono  tenui  e  crude  ,  nò 
gli  escrementi  fetenti.  Segue  la  noia,  1'  ansietà,  la 
negligenza,  e  la  stravaganza  nell'operare. 

CAPO  SETTIMO. 

Manifestazione  della  tenia. 
Rendoncela  sensibile  ed  appariscente  il  succia- 


77 
mento,  il  rotatorio  movimento,  la  gravezza,  le  pun- 
ture, le  morsicature  addominali,  ed  il  frequente  sti- 
ramento nasale.  L'aura  fredda  e  alternativa  dei  vi- 
sceri, ed  il  gonfiarsi  e  l'abbassarsi  alternativamente 
del  ventre.  La  tinta  plumbea  della  faccia,  la  dila- 
tazione della  pupilla,  l'abbondante  lagrimazione,  la 
vertigine,  il  deliquio,  il  vomito,  la  consunzione  e 
la  straordinaria  voracità.  La  debolezza  delle  gambe, 
e  l'universale  tremore.  E  talora  violenti  dolori  ad- 
dominali, ed  orribili  spasmodiche  convulsioni  fanno, 
chi  la  soffre,  terminare  di  vivere. 

>flfiifl00! 

CAPO  OTTAVO. 

Manifestazione  del  vescicolare. 

I  vescicolari  svolgonsi  a  preferenza  negli  indi- 
vidui di  linfatico  temperamento  ;  e  la  tristezza  u 
la  rapida  emaciazione  ne  costituiscono  la  caratte- 
ristica espressione.  Sparsi  nella  cerebrale  sostanza 
della  pecora,  ella  diventa  macilente,  vertiginosa  e 
stupida;  e  fluttuanti  nei  ventricoli  cerebrali  umani, 
l'uomo  diviene  apopletico,  e  muore. 

CAPO  NONO. 

Manifestazione  del  tricocefalo. 

II  tricocefalo  irrita  coi  rapidi  movimenti  la  su- 
perfìcie interna  dell'  intestinale  tubo.  E  raccolti  in 
grandissimo  numero  ,  si  riuniscono  in  conglobata 
massa,  e  dilatano  ed  infiammano  1'  intestinale  mu- 


78 
cosa;  e  privano  il  corpo  del  necessario  nutrimento, 
e  la  consunzione  determinano.  Principalmente  osser- 
vansi  nei  deboli;  ed  all'asteniche  malattie  spesso  con- 
giungonsi. 

CAPO  DECIMO. 

Manifestazione  dell'ascaride. 

Velocissima  ed  agile  nel  muoversi  suscita  nei 
crassi  intestini,  e  principalmente  nel  retto,  il  pru- 
rito ed  il  penoso  dolore  pungente-  Ed  in  masse  con- 
globate ammucchiandosi  irritano  la  membrana  mu- 
cosa del  retto,  suscitano  il  tenesmo,  ed  anche  l' in- 
testino infiammano. 

CAPO  DECIMOPKIMO. 

Manifestazione  del  lombricoide. 

Colla  prominenza  dura  ed  aguzza  determina  il 
lambriooide  dolori  pungenti  e  lancinanti.  Talora  sdi- 
tesi un  interno  succiamento;  e  traforando  gli  inte- 
stini determina,  nelle  parti  ove  trasferiscesi,  atroci 
dolori.  I  tormini  e  gli  addominali  sussulti  sono  i  fe- 
nomeni caratteristici  del  lombricoide. 

CAPO  DECiMOSECONDO. 

Manifestazione  consensuale  dclVumano  parassitismo. 

Dal  parassitismo  umano  derivano  ostinate  e  gra- 
vissime malattie.  E  nei  verminosi  si  osserva  la  pai- 


79 
pitazione,  la  sincope,  la  vertigine,  l'afonia,  l'amii- 
tilamento,  la  cecità,  il  susurro  alle  orecchie,  l'abbat- 
timento, la  stupidità,  il  delirio,  le  notturne  contra- 
zioni, i  sogni  inquieti,  i  torbidi  pensieri,  l' inquietu- 
dine, l'ansietà,  il  singhiozzo,  la  convulsione,  l'epi- 
lessia, l'apoplessia,  la  cefalagia,  la  mania,  la  dissen- 
teria ,  la  corea  di  s.  Vito  ,  la  catalessi ,  il  tetano  , 
l'asma  convulsa,  l'amaurosi,  la  pleuritide,  e  la  sop- 
pressione nelle  donne  della  mensile  ricorrenza.  In- 
fine il  parassitismo  umano  complicasi  generalmente 
alle  adinamiche  malattie;  verbigrazia,  alla  tifoide,  ed 
al  morbo  glandolare. 

CAPO  DECIMOTERZO. 

Necroscopia. 

Nel  cadavere  dei  verminosi  sonosi  trovati  vivi 
e  morti  vermi  nel  gastro-enterico  canale.  Ed  anche 
nelle  altre  parti  del  corpo;  verbigrazia,  nei  cerebrali 
ventricoli  ,  nella  cavità  toracica  e  addominale  ,  ne! 
fegato,  nella  milza,  nel  pancreas,  nei  reni  e  nella 
vescica.  E  le  parti  che  li  contenevano  ,  sono  state 
trovate  arrossate,  ingorgate,  ed  anche  corrose  e  per- 
forate. 

CAPO  DECIMOQUARTO. 

Pronostico. 

Le  funeste  conseguenze  della  verminazione  furo- 
no, e  sono  tuttora  amplificate.  Non  già  che  i  vermi 
non  facciano  grandissimo  male;  ed  anche  non  siano 


80 
Ciìijsa  di  molle;  ma  pei'chò  la  verminosa  piedispo- 
sizione,  e  le  malattie  che  la  determinano,  più  male 
ci  fanno  degli  stessi  vermi. 

CAPO  DECIMOQUINTO. 

Cura  comune  dell'umano  parassitismo. 

La  comune  cura  del  parassitismo  umano  con- 
siste nel  cacciare  al  di  fuori  del  corpo  la  zavorra,  la 
mucosità  ed  i  vermi;  e  nel  rianimare  le  forze  orga- 
niche, e  piincipalmente  il  gastro-enterico  canale.  La 
prima  indicazione  compiesi  coi  purganti,  e  cogli  an- 
telmitici,  che  vogliono  che  i  vermi  ammazzino;  e  l'al- 
tra coi  tonici  e  principalmente  cogli  amari;  verhi- 
grazia,  col  rabarbaro,  colla  china  e  coi  marziali.  E 
furono  vermifughi  creduti  la  cipolla,  l'aglio,  il  santo- 
nico seme,  il  chenopodio,  la  sciarappa,  Tassa-fetida,  la 
gioffroea,  la  canfora,  il  felce  maschio,  la  spigelia, 
il  tanaceto,  la  valeriana,  la  sabatiglia,  l'aloè,  il  ra- 
barbaro, la  grazinola,  la  gomma  gutta,  lo  scammo- 
nio,  il  diagridio  solforalo,  l'ammoniaca,  la  barite,  i 
marziali,  i  mercuriali,  lo  stagno,  il  zinco,  lo  zolfo 
ecc.  A  cui  noi  non  accordiamo  anliparassilica  spe- 
cificità, né  cieca  deferenza.  E  giovevoli  li  crediamo, 
qualora  siano  convenevolmente  propinati,  solo  per- 
chè agiscono  sulla  fibra  organica,  ed  allontanano  le 
condizioni  favorevoli  alla  parassitica  propagazione, 
ed  alla  sua  tranquilla  stazione  nel  corpo  umano. 


81 
CAPO  DECIMOSESTO. 

Cura  della  tenia. 

Rosenstein  procura  di  snidarla  dal  corpo  umano 
col  far  bere  molta  acqua  fredda  al  tenioso,  che  ha 
preso  un  purgante;  Maier  col  prescrivere  per  una  o 
due  giornate  in  ogni  ora,  prima  una  piccola  cucchiaiata 
di  carbonato  di  magnesia  ,  e  poi  altra  di  cremore 
di  tartaro;  Chabert  coll'olio  essenziale  di  tereben- 
tino,  distillato  col  carbonato  liquido  d'ammonìaca; 
Odier  coll'olio  di  ricino;  e  Desaulte  colle  mercuriali 
frizioni,  e  coli'  interno  mercuriale  purgante.  Il  me- 
todo di  Nouffer  ,  prima  segreto  ,  e  poi  pubblicato 
dalla  sua  vedova,  consiste  nel  somministrare  ai  bam- 
bini uno  scrupolo,  ed  agli  adulti  tre  dramme  di  pol- 
vere di  poli  podio, /e/ce  masc/iz'o;  e  due  ore  dopo  alla 
incorporazione  della  vermifuga  polvere,  nel  far  pren- 
dere un  medicamento  composto  di  dodici  grani  di 
muriato  di  mercurio  ,  e  di  altrettanti  di  resina  di 
scammonio  aleppense,  e  di  cinque  di  gomma-gutta 
insieme  incorporati  colla  confezione  giacintina.  E 
uno  specifico  non  abbiano  ,  che  la  faccia  morire  , 
senza  alterare  il  gastro  enterico  canale.  I  mezzi  che 
possediamo,  e  che  fino  ad  ora  l'arte  ha  sommini- 
strati, sono  i  tonici,  e  i  purganti  che  il  peristalico 
movimento  ingagliardiscono.  Dall'  individuo  ben  por- 
tante e  robusto  col  purgante  cacciasi  la  tenia  fuori 
dal  corpo;  e  dal  debole  e  rilasciato  non  snidasi  senza 
dei  tonici  e  degli  eccitanti.  Un  debole  purgante  ed 
un  mite  eccitante  espellono  la  inerme  ;  e  l'armata 
G.A.T.CLXIV.  6 


82 

non  staccasi  dagli  intestini,  nò  espellesi  dal  corpo 
senza  i  drastici,  clic  sconvolgono  ed  ingagliardiscono 
il  peristalico  gastro-enterico  movimento-  E  nel  filare 
al  di  fuori  del  corpo  la  tenia  armata  ed  inerme,  am- 
ministrasi 0  una  leggera  infusione  di  fiori  di  camo- 
nulla,  0,  nell'acqua  disciolto,  il  solfato  di  magnesia, 

CAPO  DECIMOSETTIMO. 

Cura  del  vescicolare. 

Il  vescicolare  viene  meno  nella  pecora  ,  che 
pascesi  in  luogo  elevato  ,  in  cui  V  aria  ò  asciutta 
e  pura.  E  bene  gli  fanno  i  tonici,  gli  eccitanti,  ed 
i  rimedi  che  maggiormente  attivano  il  linfatico  si- 
stema; verbigrazia  i  diaforetici  e  i  diuretici.  A  cui 
congiungesi  ancora  il  tenue  alimento,  il  vino  gene- 
roso, la  china  e  la  ginnastica. 

CAPO  DECIMOTTAVO, 

Cura  del  tricocefalo. 

La  prolificazione  del  tricocefalo,  essendo  favo- 
rita dalle  cose  che  indeboliscono  ed  il  corpo  ema- 
ciano, così  bisogna  prima  nutrire  e  la  macchina  cor- 
roborare ;  e  poi  curare  Padinamiche  malattie,  alle 
quali  spesso  congiungesi.  E  fortificata  che  sia  la  fi- 
bra organica,  e  corroborato  il  gastro-enterico  canale 
coi  tonici  e  cogli  eccitanti,  fiicilmente  perisce  il  tri- 
cocefalo- E  quando  riunisconsi  in  conglobate  masse 
neir  intestinale  tubo  ,  bisogna   prima  eliminarli  coi 


83 
purganti;  e  poi  si  prescrive  la  canforo,  Tassa-fetida, 
la  valeriana,  la  corallina  ed  il  santonico  seme. 

CAPO  DECIMONONO. 

Cura  deli'a&caride. 

Giova  spesso  introdurre  nell'ano  un  pezzo  di  le- 
gato lardo,  a  cui  attaccandosi  gli  ascardi  con  esso 
si  tirano  fuori.  Anche  i  cristieri  giovano  di  tie- 
pido salato  latte  ,  e  di  semplice  acqua  salata  , 
d'assa-fetida  ,  di  sabadiglia  ,  e  d'olio  di  ricino.  Al 
tenesmo,  alla  tensione,  alla  irritazione  ed  all'anale 
infiammazione  giova  il  cristiere  e  l'ammolliente  fo- 
mentazione. Ed  agli  anali  rimedi  vanno  congiunti 
quelli  che  per  bocca  si  pigliano;  verbigrazia,  la  can- 
fora, la  valeriana,  il  muriate  di  barite,  il  ferro  ed 
il  sublimato  di  zinco.  E  per  molto  tempo  bisogna 
i  rimedi  pigliare;  mentre  difiìcilmente  snidasi,  e  lun- 
gamente conturba  l'umana  economia. 

CAPO  VENTESliMO. 

Cura  del  lombricoide. 

Rosenstein  non  fa  preparare,  né  odorare  i  me- 
dicamenti a  chi  dee  prenderli;  ne  congiunge  gli  in- 
terni agli  astemi;  e  per  alcune  giornate,  prima  che 
r  infermo  sottoponga  alla  cura,  l'alimenta  con  cibi 
grossolani,  duri  e  salati.  I  medicamenti  gli  ammi- 
nistra nel  mattino,  e  gli  discioglie  nel  tiepido  latte, 
nell'  idroiiiel  e  nelT  acqua  mercuriale.  E  sono  i  ri- 


84 
medi  ,  che  al  lombi'icoide  si  convengono,  il  santo- 
nico seme  unito  alla  polvere  di  radice  di  sciarappa, 
il  chenopodio  antelmitico ,  la  corteccia  d'angelica  , 
l'assa-fetida,  Taglio,  il  felcio  maschio,  la  valeriana, 
i  marziali,  i  mercuriali,  lo  zolfo,  l'olio  di  ricino,  il 
rabarbaro,  l'elleboro  fetido,  1'  estratto  di  noce  con 
ìa  cannella  e  la  canfora, 

CAPO  YENTESIMOPRIMO. 

Cura  preservativa  delViimano  parassitismo. 

La  parassitogen(5SÌ  con  la  sua  moltiplice  figlia- 
zione viene  favorita  dalla  debolezza  e  dall'  univer- 
sale rilasciamento  ,  dalla  discrasia  umorale  e  dalla 
indebolitasi  coesione  dei  solidi,  e  principalmente  dalla 
gastro-enterica  debolezza,  per  cui  segregasi  sover- 
chia copia  di  mucosità  ,  ed  accumolasi  in  esso  la 
gastrica  sozzura.  Cosicché  prevengono  la  parassi- 
togenesia  ,  ciò  che  rende  libere  e  spedite  le  fun- 
zioni gastro-enteriche,  ed  accresce  la  crasi  umorale 
e  la  coesione  dei  solidi.  In  quanto  concernesi  alle 
peculiari  varietà  dell'umano  parassitimo,  pon  havvi 
igienica  peculiare  precauzione;  deonsi  in  genere  pre- 
scrivere le  cose,  che  rendono  libere  le  gastriche  fun- 
zioni, ed  animano  e  corroborano  l'umana  economia. 


85 
SEZIONE  SECONDA. 

Inumano  parassitismo. 
CAPO  PRIMO. 

toefinitione . 

Inumani  parassiti  gli  animali  sono,  che  non  nai- 
scono,  e  che  non  si  propagano  nel  corpo  umano  ; 
e  che  neir  estreno  ingenerati  ,  fortuitamente  m 
esso  si  introducono,  e  non  vi  prolificano,  e  lunga- 
mente non  vi  vivono. 

CAPO  SECONDO. 

Forma. 

nii  animaletti  che  dall'  esterno  si  introducono 
neir  interno,  poco  male  vi  fanno;  perchè  lungamente 
non  vi  vivono,  e  facilmente  dal  corpo  si  estraggono. 
E  come  i  corpi  estranei,  le  contigue  parti  irritano 
ed  infiammano.  E  non  sempre  ci  accordiamo  di  con- 
tenerli, perchè  piccoli  sono,  e  poca  forza  hanno. 

CAPO  TERZO. 

Cause  remole. 

Le  cause  remote  sono  le  circostanze,  per  cui  nel 
nostro  corpo  l'animaletto  introducesi  ;  verbigrazia 
l'aria,  che  respiriamo,  e  l'acqua  che  noi  beviamo. 


86 
CAPO  QUAHTO. 

Causa  prossima. 

Causa  prossima  è  l'animaletto  esterno,  ehe  nel 
corpo  nostro  introducesi.  I  volanti  gli  ispiriamo  ; 
e  i  notanti  gli  beviamo.  E  fortuitamente  nelle  altre 
parti  si  intruducono,  senza  che  uno  se  ne  avveda. 
E  nel  seno  frontale  è  stato  trovato  V estro  pecorino-, 
e  nell'orecchio  Vacoro  equino;  e  le  larve  della  mosca 
cibaria  sono  state  espulse  per  vomito  e  per  secesso. 
Ed  anche  raccontasi  che  siano  state  introdotte  vive 
nel  nostra  corpo  le  sanguisughe,  le  lucertole,  le  ninfe 
della  mosca  pendula ,  lo  scolopendrio,  il  carabo,  i  germi 
delle  ì^anocchie,  e  altri  simili  animali. 

CAPO  QUINTO. 

Necroscopia. 

Non  nell'uomo,  ma  nelle  beschie,  che  vivi  ani- 
nsali  avevano  ingogliati  ;  quelle  morte,  questi  vivi 
sono  stati  trovati.  Ed  anche  vivi  animali  nell'uomo 
vivo  hanno  trovati;  verbigrazia,  Vestro  pecorino  ,  e 
f acoro  equino,  che  bene  Gio.  Pietro  Fcank  descrive. 

CAPO  SESTO. 

Pronostico. 
Gli  animaletti  ,  che  nel  nostro  corpo  si  intro- 


87 
ducono,  poco  male  generalmenle  gli  fanno  ,  e  ra- 
ramente molto  gliene  producono.  E  solo  Vacoro,  sep- 
pure egli  è  umano  parassita,  ingenera  la  scabbia  e 
la  psora  schifosissime  malattie.  Ed  irritano,  come 
i  corpi  estranei,  le  contigue  parti,  ed  anche  le  in- 
fiammano. 

CAPO  SETTIMO. 

Cura. 

ì  parassiti,  che  non  sono  umani,  si  curano  come 
i  corpi  estranei,  che  si  levano  dal  corpo.  E  quelli 
che  si  vedono,  bene  si  estraggono;  ed  anche  facil- 
mente si  levano  quelli,  che  rimangonsi  compressi  tra 
il  globo  oculare  e  l' interna  superficie  della  palpebra; 
0  che  annidansi  nelle  fosse  nasali  ,  o  nel  canale 
auricolare  esterno.  E  cacciansi  o  per  vomito  o  per 
secesso,  se  sono  nel  gastro-entei'ico  canale  ,  o  col 
purgante  o  coll'emetico. 

CONCLUSIONE. 

Noi  abbiamo  divise  1'  elmenliche  ritenzioni  in 
parassilismoumano,ed  in  parassitismo  inumano. Men- 
tre alcuni  animaletti  nascono,  crescono  e  si  propa- 
gano nel  corpo  nostro;  ed  altri,  dentro  di  noi,  non 
come  quelli  vi  prosperano,  e  vi  prolificano;  ed  en- 
trati che  vi  sono,  soffrono  e  prestamente  vi  periscono. 


88 
PARTE  SECONDA. 

Prodolli  minerali. 

F'ormansi  i  minerali  in  varie  parli  del  corpo  ; 
e  Io  stesso  sangue  li  contiene.  E  di  quelli  non  par- 
lianfìo  ,  che  naturalmente  nel  corpo  animale  si  in- 
generano; e  solo  gli  altri  discorriamo,  che  in  esso 
morbosamente  si  formano. 

SEZIONE  PRIMA. 

Calcoli   uro-poieliei. 

CAPO  PRIMO. 

Definizione. 

I  minerali  prodotti  uro-poietici  sono  i  piccoli 
corpi,  calcoli  ,  ora  composti  d'acido  urico  ,  ora  di 
fosfato  ammoniaco-magnesico,  e  di  raro  d'ossalato 
di  calce,  che  si  formano,  e  che  si  fermano  nei  ca- 
lici e  nelle  pelvi,  calcoli  lenali;  o  negli  ureteri,  cal- 
coli ureterici;  o  nella  vescica,  calcoli  cistici;  o  nel- 
l'uretra, calcoli  uretrali.  Ed  il  minerale  prodotto  ora, 
in  forma  globulosa  minuta  ,  dall'uretra  si  emette  , 
renella;  ed  ora  si  formano  uno  o  più  corpi  di  con- 
siderevole grandezza,  calcoli;  che  dal  corpo  non  si 
cavano  senza  la  chirurgica  operazione. 


89 
CAPO  SECONDO. 

Forma. 

Il  minimo  renale  prodotto  diffìcilmente  da  ehi 
Io  soffre  sentesi;  e  solo  dal  sabbioso  deposito,  che 
formano  forine  ,  riconoscesi.  Ma  se  la  renella  in- 
grossasi, prima  sentesi  renale  dolore;  e  poi,  se  la  con- 
tigua parte  irrita  e  infiamma,  comparisce  la  nefri- 
tica forma,  che  l'ammalalo  atrocemente  tormenta. 
E  i  piccoli  calcoli  difficilmente  negli  ureteri  si  fer- 
mano; e  se  vi  si  fermano,  il  dolore  si  sente  nello 
spazio  interposto  tra  i  reni  ed  il  trigore  vescicale. 
E  la  renella,  che  altrove  e  nella  vescica  si  forma, 
0  facilmente  emettesi,  o  nell'uretra  fermandosi  l'ir- 
rita ed  anche  l'infiamma.  E  nella  vescica  formansi 
ancora  grossi  calcoli,  che  il  perineo  dall'  interno  al- 
l'esterno comprimono,  e  fanno  dolente.  Dolgono  an- 
cora i  reni  ed  il  glande;  evie  tenesmo,  e  continuo 
orinario  prurito.  E  spesso  l'orina  è  giallo-oscura,  tor- 
bida e  fetente  ,  mucosa  ,  sabbiosa  ed  anche  puru- 
lenta. Ed  il  cistico  calcolo  bene  non  si  conosce  senza 
la  cauterizzazione. 

CAPO  TERZO. 

Cause  remale. 

Predispongono  all'etcrologa  genesi  dei  minerali 
nell'uro-poietico  apparecchio  la  discendenza,  la  ma- 
tura età,  il  mascolino  sesso,  i  climi  umidi  e  tempe- 
rati, e  l'abuso  degli  azotati  alimenti. 


90 
CAPO  QUARTO. 

Cousa  peossima. 

La  condizione  della  genesi  dei  prodotti  minerali, 
nell'uropoietico  apparecchio,  è  la  preternaturale  crasi 
del  sangue,  e  la  pervertita  renale  sensibilità;  per  cui 
nell'orina  segregatasi  o  più  elennenti  ci  si  trovano, 
o  manca  la  proporzione  di  quelli  che  naturalmente 
la  compongono. 

CAPO  QUINTO. 

Necroscopia. 

Nel  corpo  dei  calcolosi  trovansi  i  calcoli  di  va- 
ria figura  e  grandezza,  ed  ingorgate  ed  anche  infiam- 
mate le  contigue  parti-  Quelli  d'acido  urico  sono 
raggiati,  lisci,  friabili  e  bianchi;  e  cineracei  quelli 
d'  urato  d'  ammoniaca  ;  e  friabili  quelli  di  fosfato 
ammoniaco  magnesiaco  ;  e  finalmente  grigi  quelli 
di  ossalato  di  calce. 

CAPO  SESTO 

Ptwioslico- 

Di  mano  in  mano  che  i  calcoli  si  formano,  sono 
dall'orina  portati  fuori  del  corpo-  Ed  anche  si  fer- 
mano nei  calici,  nella  pelvi,  negli  ureteri,  nella  ve- 
scica, e  nell'uretra;  e  le  contigue  parti  irritano  ed 


91 

infìammano.  Ed  anche  uno,  o  più  calcoli  nella  vescica 
si  ingrossano,  che  non  scappano  per  l'uretra;  e  che 
non  si  estraggono  senza  la  cistolomia  e  la  litotri- 
psia. 

CAPO  SETTIMO. 

Cura. 

Difficilmente  prevengonsi  i  renali  calcoli;  e  for- 
mati che  siansi,  si  curano  come  la  nefriiide  si  me- 
dica. E  calmasi  la  renale  spasmodia  colla  generale, 
e  colla  locale  sottrazione  di  sangue.  L'ammolliente 
cataplasma  si  applica,  e  la  dolente  parte  fomentasi; 
e  piccoli  cristieri  narcotio-ammollienti  si  fanno;  e 
nella  calda  acqua  i  piedi  profondamente  s'immergono. 
E  la  bevanda,  vogliono  che  sia  njucillaginosa  e  tenue 
il  vitto-  Ed  aiutasi  la  calcolosa  espulsione  col  mo- 
vimento, ed  anche  colla  diuretica  bevanda.  E  col- 
l'operazione  si  estraggono  i  cistici  calcoli  che  per 
la  loro  grandezza  non  possono  ,  per  V  uretra  ,  dal 
corpo  scappare. 

SEZIONE  SECONDA. 

Calcoli  epatici- 

CAPO  PRIMO. 

Definizione, 

Sono  i  calcoli  biliari  le  piccole  concrezioni,  che 
formansi  nei  biliari  condotti,  nel  canale  epatico,  nel 


92 
cistico,  nella  vescichetta  biliare  e  nel  coledoco  ;  e 
che  principalmente   compongonsi  della  materia   co- 
lorante della  bile  e  dell'albescente  colesterina,  alla 
adipocera  analoga. 

CAPO  SECONDO. 

Forma 

Nagli  epatici  calcoli  si  sente  peso ,  lancinarte 
e  atroce  dolore  nell'ipocondrico  destro-  E  viene  la 
nausea  ed  il  vomito  ,  e  1'  universale  organica  rea- 
zione. Che  non  compariscono  se  i  calcoli  sono  nella 
biliare  vescichetta,  e  si  muovono,  e  liberamente  il 
secretorio  biliare  apparecchio  percorrono.  E  la  bile 
non  potendo  scappare,  inturgediscesi  la  vescichetta,  e 
r  itterizia  comparisce.  E  la  turgida  vescichetta  si- 
mula ancora  V  epatico  ascesso;  e  votasi  anche  nel 
duedeno  ,  comprimendola  j  e  viene  il  vomito  e  il 
bilioso  secesso-  Per  le  naturali  vie  ,  talvolta  ven- 
gono i  calcoli  anche  cacciati  dal  corpo;  tale  altra  nel 
biliare  apparecchio  si  fermano,  l'irritano  e  l'infiam- 
mano. E  fanno  anche  chi  li  soffre  morire  per  l'epa- 
tica infiammazione,  e  per  la  biliare  ritenzione. 

CAPO  TERZO, 

Cause  remole. 

Agli  epatici  prodotti  i  vecchi  e  le  femmine 
sono  predisposti  a  preferenza   dei  fanciulli  e   degli 


93 

uomini-  E  la  biliare  calcolosa  genesi  è  sempre  fa- 
vorita dall'inverno  e  dalla  vita  sedentaria. 

CAPO  QUARTO. 

Causa  prossima. 

La  condizione,  che  la  genesi  degli  epatici  pro- 
dotti determina  ,  è  la  soprabbondante  secrezione 
della  colesterina,  che  maggiormente  la  bile  glutinosa 
rende, 

CAPO  QUINTO. 

Necroscopia. 

Nei  cadaveri,  di  chi  per  gli  epatici  calcoli  erano 
morti,  sono  stati  trovati  i  biliari  condotti,  il  canale 
epatico,  il  cistico,  la  vescichetta  ed  il  coledoco  di- 
latati, ingorgati,  esulcerati  ed  anche  perforati-  Ed 
il  fegato  ipertrofizzato,  indurito  e  rammollito,  ed  an- 
che la  parete  addominale  perforata,  fistola  biliare.  E 
sono  stati  trovati  i  calcoli,  ora  poco  ed  ora  molto 
numerosi,  e  diversi  per  la  figura,  per  la  grandezza 
e  per  il  colorito,  nei  condotti  biliari,  nel  canale  epa- 
tico, nel  cistico,  nella  biliare  vescichetta,  nel  cole- 
doco ,  nel  duodeno  e  nel  ventricolo.  Che  essendo 
stati  analizzati,  sono  stali  trovati  formati  di  diversi 
strati  diversamente  colorali,  composti  di  bile  e  di 
colesterina. 


94 
CAPO  SESTO. 

Pronostico. 

Gli  epatici  prodotti,  formati  che  siansi,  scorrono 
per  il  condotto  epatico,  cistico  e  coledoco,  ed  en- 
trano nel  duodeno.  Ditricilmente  si  fermano  nei  ca- 
nali del  secretorio  biliare  apparecchio;  e  se  vi  si  fer- 
mano, la  bile  ristagna  ed  è  riassorbita,  e  viene  l'itte- 
rizia, e  l'epatite.  E  quasi  mai  la  biliare  vescichetta  alle 
contigue  parti  aderisce, esulcerasi  ed  apresi  nel  co- 
lon, nel  duodeno,  o  esternamente,  attraversando  l'ad- 
dominale parete,  forma  la  fìstola  biliare. 

CAPO  SETTIMO. 

Cura 

La  formazione  degli  epatici  prodotti  si  previene 
colla  vegetabile  dieta,  col  sugo  di  cicoria,  di  cer- 
foglio e  di  saponaria.  E  formati  che  siansi,  procu- 
i-asi  di  farli  dal  corpo  uscire  coi  purganti  ,  che 
esercitano  nel  fegato  azione  predominante.  E  gif 
atroci  dolori,  che  i  calcolosi  tromentano,  calmansi 
coi  mucillaginosi,  cogli  ammollienti  e  cogli  antispas- 
modici. E  per  risolvere  I'  epatico  ingorgo  i  piedi 
profondamente  si  mettono  nel  tiepido  bagno;  e  le 
sanguisughe  nell'ano  e  nell'  ipocondrio  si  attaccano. 
E  la  consecutiva  infiammazione  del  fegato  come 
l'epatite  curasi.  Ed  all'esterno  apresi  la  turgida  ve- 
scichetta, se  alla  parete  addominale  aderisce,  e  sia 


95 

per  rompersi  spontaneamente.  E  se  poi  non  ade  - 
risce,  lasciasi  spontaneamente  rompere;  mentre  egual- 
mente nell'addome  la  bile  verserebbesi,  ed  i  visceri 
addominali  irriterebbe  ed  infiammerebbe. 

CONCLUSIONE. 

Nella  prima  parte  del  libro  sesto  abbiamo  riu- 
nite l'elmcntiche  ritenzioni  che  nascono  in  noi  ;  e 
quelle  che,  nate  esternamente,  in  noi  accidentalmente 
introduconsi.  E  nell'altra  parte  del  medesimo  libro 
abbiafno  discorsi  i  minerali,  che  morbosamente  in 
noi  si  formano.  E  quegli  abbiamo  trascurati  ,  che 
dall'esterno  si  introducono  nel  nostro  corpo;  come 
facenti  parte  dell'esterna  patologia;  di  cui  per  ora 
non  vogliamo  occuparci. 

LIBRO  SETTIMO. 

Nososexigrafìa. 

I  morbi  sono  costituzionali,  se  la  chimico-orga- 
nica modalità  lentamente  invadono  ,  e  lentamente 
si  risolvono.  Di  questi  alcuni  sono  legittimi,  altri 
spuri;  perchè  in  quelli,  meglio  che  in  questi,  vi  è 
illusione  di  morbosa  universalità.  Gli  uni  e  gli  altri 
nel  libro  setlicno  riuniamo,  e  colla  nostra  consueta 
brevità  discorriamo. 


96 
PARTE  PRIMA. 

Morbi  coslilnzionali  legittimi. 

Morbi  universali  non  vi  sono,  e  indistintamente 
sono  locali,  che  tendono  a  farsi  universali,  e  rag- 
giugnere  lo  scopo  colla  morte.  Ma  vi  sono  delle  ma- 
lattie, che  hanno  un'  illusoria  universalità;  per  cui 
morbi  costituzionali  legittimi  sono  cognominali. 

SEZIONE  PRIMA. 

Clorosi. 
CAPO  PRIMO. 

Definizione' 

La  clorosi  è  la  defficiente  chimico-organica  fem- 
minile riparazione,  che  la  vita  animale  a  preferenza 
della  plastica  conturba.  Ed  anche  è  illusione  ,  che 
sia  malanno  nervoso,  che  cogli  antispasmodici  non 
guariscasi;  e  che  cogli  analetici  bene  in  salute  ri- 
tornasi. 

CAPO  SECONDO. 

Forma. 

Incomincia  la  clorosi  col  pallore  e  colla  leggiera 
turgescenza,  col  fastidio  e  la  noia;  e  poi  viene  la 
inappetenza,  e  la  mucosa  della  bocca  biancasi,  ed 


97 

è  illusione  che  da  tenue  velo  sia  ricoperta.  Bianca 
e  tenue  è  l'orina;  costipato  il  ventre;  e  per  gì'  in- 
testini scorrono  le  flatulenze.  Il  cuore  palpita  ;  e 
il  debole  polso  ora  è  frequente  ,  ed  ora  è  lento  e 
irregolare.  E  l'orecchio  applicandovi,  sentesi  il  soffio 
nel  cuore  e  nell'arterie,  principalmente  nell'esterna 
carotide.  Diffìcile  e  soffocante  è  la  respirazione  ; 
molesto  ed  oltre  modo  sensibile  1'  utero  ;  da  cui 
è  illusione,  che  parta  1'  isterico  globo,  che  sentesi 
scorrere  per  la  linea  che  al  collo  lo  conduce,  e  che 
r  ammalata  pare  che  affoghi.  Scarsa  ed  anche  ab- 
bondante ,  regolare  ed  anche  mancante  è  la  men- 
sile ricoi'renza.  E  chi  la  soff're  debole,  strana  e  tor- 
pita  diventa;  consumasi,  ed  al  desiderato  sonno  ab- 
bandonasi, senza  gustarne  il  placido  ed  il  ristorante. 
E  lentamente  incomincia  col  fastidio  e  la  noia;  e 
senza  strepito  di  fenomeni  progredisce;  lentamente 
risolvesi,  e  per  guarirla  ci  vogliono  mesi  ed  anche 
anni  di  ristorante  cura 

CAPO  TERZO. 

Cause  remote. 

Nelle  femmine  la  clorosi  sviluppasi,  che  vi  sono 
predisposte  ;  e  se  ciò  che  gliela  determina  agisce 
in  quelle  che  non  vi  sono  proclive,  non  la  clorosi, 
ma  la  consunzione  e  la  convulsione  le  determina. 
Ed  alla  clorosi  generalmente  predispone  ed  anche 
la  determina  quanto  la  chimico-organica  assimila- 
zione indebolisce  e  conturba;  verbigrazia,  il  patema, 
che  i  nei'vi  indebolisce;  l'emanazione  sanguigna,  che 
G.A.T.GLXIV.  7^^ 


H  sangue  attenua;  i  rilascianli  ed  il  soverchio  moto, 
che  la  tonicità  dei  solidi  estrema 

CAPO  QPARTO. 

Causa  prossima, 

L'  attenuatasi  erasi  del  sangue  è  la  condizione 
essenziale  della  clorotica  infermità.  E  nel  sangue 
sovrabbondono  gli  acquei,  e  vi  scarseggiano  i  solidi 
principii.  Ed  il  sistema  nervo-ganglionare,  irritato 
dal  tenue  sangue,  spasmodicamente  reagisce  ;  e  &i 
svolgono  i  fenomeni  adinamico-atassici,  che  insieme 
congiunti  la  clorotica  forma  compongono. 

CAPO  QUINTO. 

Necroscopia. 

La  patologica  condizione  della  clorosi  osservasi 
viva  essendo  la  femmina,  che  la  soffre.  Estratto  il 
sangue,  decomponesi;  e  bene  si  vede  che  vi  scar- 
seggia il  ferro,  la  fibrina,  e  l'emocroina ,  e  che  vi 
soprabbonda  il  siero  e  l'albumina.  E  le  altre  cose 
che  nel  cadavere  sono  state  trovate,  altro  non  sono 
che  conseguenze  e  clorotiche  complicazioni, 

CAPO  SESTO. 

Pronostico. 
In  principio  bene  curata  la  clorosi,  facilmente 


99 
guariscesi;  in  seguito  diventa  ostinata,  e  molto  tempo 
ci  vole  pei'  medicarla.  A  sé  stessa  abbandonata,  il 
precordiale  vizio  in  fine  forma  ;  ed  anche   la  clo- 
rotica  fa  convulsa   morire. 

CAPO  St.TTIMO. 

Cura. 

Per  bene  curare  la  clorosi ,  bisogna  corrobo- 
rare i  solidi,  e  regolare  il  nervo-ganglionare  siste- 
ma, ed  aumentare  la  sanguigna  crasi.  Ciò  che  prin- 
cipalmente si  ottiene  coi  tonici  astringenti  ,  cogli 
antispasmodici  ,  e  cogli  analetici  ;  verbigrazia  ,  col 
moto  attivo  e  passivo,  colla  canfora,  col  muschio, 
coH'oppio,  colla  china,  coi  marziali  e  col  vitto  ani- 
male. Ed  a  seconda  della  morbosa  espressione ,  si 
amministrano  questi,  a  preferenza  di  altri  medica- 
menti. E  predominando  la  spasmodia,  si  preferiscono 
gli  antispasmodici;  il  rilasciamento,  i  tonici  astrin- 
genti; l'umorale  discrasia,  il  vitto  animale  ed  i  mar- 
ziali. Ed  i  nutrienti  coi  marziali  sempre  bene  fanno; 
e  vogliono  che  siano  lungamente  somministrati,  per 
impedirne  la  recidiva. 


100 
SEZIONE  SECONDA 

Scorbuto. 
CAPO  PRIMO. 

Definizione. 

Costituzionale  malanno  ò  lo  scorbuto;  che  deriva 
dalla  lenta  decomposizione  del  sangue,  che  la  fac- 
cia inturgidisce,  e  la  pelle  ingiallisce  e  di  nero  ma- 
cula, le  gengive  infiamma  e  fa  sanguinolenti,  i  denti 
smuove,  e  Tossa  rammollisce  e  caria. 

CAPO  SECONDO. 

Forma. 

Precursori  della  scorbutica  manifestazione  sono 
il  pallore,  la  leggera  turgescenza,  la  tristezza  e  l'ab- 
battimento. E  sentesi  prima  prurito  nelle  gengive, 
che  poi  illividisconsi,  si  gonfiano,  si  rammolliscono  e 
sanguinolenti  diventano.  E  fuori  vengono  nelle  gam- 
be, nelle  cosce,  nelle  braccia,  nel  petto  e  nel  torace 
le  macchie  purpuree  ,  turchine  e  nere.  Edematiz- 
zansi  i  piedi  e  le  gambe  ;  e  la  pelle  scolorasi  ed 
illividiscasi  ;  sopravviene  l'epistassi,  la  stomatorra- 
gia,  e  sangue  ancora  si  versa  dalle  altre  parti  del 
corpo.  E  sentesi  vago  dolore,  che  scorre  per  le  ar- 
ticolazioni, per  il  torace,  e  per  i  lombi.  E  versano 
sangue,  e  le  antiche  ulceri  si  riaprono.  Si  disorga- 


101 

nizzano  le  fungose  gengive;  e  sangue  ne  emana,  e 
fetido  odore;  e  la  respirazione  felenlissima,  ed  ane- 
lante diventa.  Vacillano  e  cadono  i  denti;  l'ossa  si 
rammolliscono  e  si  cariano.  Le  riunite  si  ridividono, 
e  le  fratture  non  si  riuniscono.  I  muscoli  si  ram- 
molliscono, e  per  debole  sforzo  si  rompono;  ed  il 
corpo  d'umori  impregnasi.  E  freddo  e  umido  sudore 
emana;  e  spesso  in  fine  l'emorragia  ricorre.  Ed  al 
minimo  sforzo  succede  la  sincope;  a  cui  spesso  se- 
guono r  abbondante  salivazione  ,  e  la  sanguigna  e 
mortale  alvina  evacuazione. 

CAPO  TERZO 

Cause  remote. 

Allo  scorbuto  predispone,  ed  anche  lo  determina, 
la  cattiva  alimentazione  ,  e  la  corporale  immondi- 
zia. Addiughton  ritiene  essere  lo  scorbuto  marino 
determinato  dall'  immondizia  e  poca  pulizia  della 
nave,  dall'aria  marina,  dalla  voracità  dei  marinari, 
dalla  cattiva  provvisione  che  fanno,  e  dal  sale  bianco 
e  nero,  di  cui  servonsi  per  conservare  la  carne,  che 
mangiano. 

CAPO  QUARTO. 

Causa  prossima. 

La  condizione  dello  scorbuto  è  la  indebolitasi 
coesione  sanguigna  ;  cui  ignorasi  la  quantità  ed  il 
principio  mancante,  che  la  determina. 


102 
CAPO  QUINTO. 

Necroscopia. 

Nel  cadavere  rinvengonsi  ovunque  tracce  di  pev- 
corsa  flogosi.  E  di  sangue  infiltrato  il  succutaneo 
tessuto,  la  muscolare  sostanza,  V  interposto  cellula- 
re, la  milza,  i  polmoni  e  le  altre  parti  del  corpo. 
Ed  anch€  di  gialla  sierosità  infiltrata  il  cellulare  tes- 
suto, la  sierosa  e  la  sinoviale  membrana.  Attenuati, 
e  rammolliti  i  muscoli;  scabre,  cariate  e  molli  l'os- 
sa ;  staccate  le  cartilagini  ;  ed  alcune  parli  putre- 
Calle,  ed  altre  distrutte. 

CAPO  SESTO. 

Pronostico. 

Lungo  è  dello  scorbuto  il  corso  ^  e  di  ra^o  in 
poco  tempo  risolvesi.  In  principio  curato,  facilmente 
guariscesi  ;  ed  in  seguito  ostinato  diventa.  E  spe- 
ranza non  vi  è  di  salute  ,  se  interni  guasti  sonosi 
ingenerati  ,  e  non  si  possono  allontanare  le  cause 
che  lo  mantengono. 

CAPO  SETTIMO; 

Cura. 

Colloca  Addinghton  tra  le  scorbutiche  cause  il 
marino  sale  -  idro  cloruro  di  sodio;  -  e  curalo  poi 


103 

colla  purga  iterata  dell'acqua  del  mare.  E  bene  guaf- 
liscesi  il  marinaio  scorbutico,  che  sbarca  in  spiag- 
gia asciutta,  ariosa  e  temperata,  e  che  nutriscesì  di 
vegetabili  e  di  fresca  carne.  E  rimosse  che  siano  le 
cause  che  lo  determinano  ,  curasi  generalmente  lo 
scorbuto  col  collocare  chi  lo  soffre  in  loco  asciutto, 
arioso  e  temperato,  col  tenerlo  allegro,  e  con  ali- 
mentarlo coi  sub-acidi  vegetabili,  colla  fresca  carne, 
e  col  moderato  uso  del  vino.  Ed  anch«  bene  gli  fa 
l'acidula  bevanda,  il  vegetabile  sugo,  l' infusione  eé 
il  decotto  della  peruviana  corteccia  (1). 

SEZIONE  TERZA. 

Scrofola. 
CAPO  PRIMO. 

Definizione. 

La  scrofola  è  il  costituzionale  e  l'ereditario  m'a- 
lanno,  che  la  linfa  altera,  e  accumula,  e  freddi  tu- 
mori forma  che  lentamente  suppurano;  e  da  cui  an- 
che emana  specifico  umore,  che  forma  addensandosi 
la  tubercolosa  materia. 


(1)  Colla  denominazione  d'emacelinosi,  morbo  macoloso  di 
Werlhot,  si  nomina  il  malanno  non  preceduto  da  dolore,  né 
da  calore;  e  che  si  mostra  colla  generale  maculazione  rossa, 
violetta  e  livida,  variabile  per  la  forma,  e  per  la  grandezza; 
e  che  j?tw*pMm  comunemente  dicesi. 


104 

CAPO  SECONDO. 

Forma. 

La  leggera  labiale  enfiagione,  e  quella  dei  mar- 
gini dell'  aperture  anteriori  delle  fosse  nasali  pre- 
cede la  scrofolosa  tubercolizzazione.  E  poi  incomin- 
ciano a  venire  fuori  duri  e  bernoccoluti  tumori  noi 
collo,  nell'ascelle,  nella  congiuntura  anteriore  delle 
cosce  e  nelle  altre  parti  del  corpo.  Che  in  princi- 
pio sono  mobili,  freddi  e  indolenti;  e  poi  immobili, 
caldi,  dolenti  e  fluttuanti.  E  risplendente,  turchina, 
e  rosso-oscura  diventa  la  soprapposta  pelle;  che  poi 
rompendosi,  versasi  marcia  tenue,  sierosa  e  fioccosa. 
E  duro  ed  elevato,  e  rosso-oscuro  è  il  margine  del- 
l' irregolare  apertura;  e  che  sempre  rimarginandosi, 
rimanevi  l' incancellabile  cicatrice.  Successivamente 
e  alternativamente  nascono,  crescono,  suppurano,  e 
lentamente  si  risolvono.  E  gli  esterni  destano  anche 
interne  morbose  simpatie,  e  si  ingenerano  tubercoli 
nei  polmoni  ,  nel  mesenterio  ,  e  in  qualsiasi  altra 
parte  del  corpo.  Che  indeboliscono,  consumano;  e 
certamente,  chi  li  ha,  fanno  morire. 

CAPO  TERZO. 

Cause  remote. 

Chi  dagli  scrofolosi,  e  dai  sifilitici  discende,  fa- 
cilmente strumoso  diventa.  E  la  stessa  venere  in- 
fetta, e  soverchiamente  usata  dai  giovani,  i  sani  fa 


105 

anche  scrofolosi.  E  ciò  che  indebolisce  ,  e  la  chi- 
mico-organica assimilazione  conturba,  prinna  la  pro- 
clività, e  poi  la  scrofola  determina. 

CAPO  QUARTO. 

Causa  prossima. 

Deriva  la  slrumosa  tubercolizzazione  dalla  so- 
verchia linfatica  coagulizzazione,  dall'eccedente  as- 
sorbimento, dalla  perturbatasi  corrispondenza  tra  i 
rossi  ed  i  vasi  bianchi,  dalla  soverchia  irritabilità, 
dalla  sub-infiammazione  del  linfatico  sistema,  e  dal- 
l'abbondante e  glutinosa  linfa  ,  che  accumolandosr 
si  coagula  ,  ed  ovunque  depositasi  in  tubercolare 
forma. 

CAPO  QUINTO. 

Necroscopia. 

In  principio  la  scrofolosa  tubercolizzazione  è 
fredda  ,  minuta  e  mobile  ;  e  poi  ingrandiscesi  ,  si 
fìssa,  si  l'iscalda,  e  diventa  dolente  e  fluttuante.  E 
infine  si  apre  ,  e  lungamente  versa  sierosa  e  fioc- 
cosa materia.  Ed  il  margine  irregolare,  elevato,  e 
rosso-oscm'o,  difficilmente  riuniscesi;  e  riunito  che 
siasi,  sempre  rimanevi  la  mostruosa  cicatrice.  E  nel- 
l'esterno principalmente  coesistono  gli  scrofolosi  tu- 
mori nel  collo,  nell'ascella,  e  nelTanteriore  congiun- 
tura delle  cosce.  E  1'  interna  coll'esterna  tubercoliz- 
zazione coesiste  colle  sue  moltiplici  forme;  cioè  di 
granolazione  grigia  o  scolorata  e   semi-trasparente,. 


106 
di  grigi  tubercoli  più  voluminosi  ,  gialli  ed  opachi 
e  consistenti,  d' infiltramento  tubercolare  grigio,  ge- 
latinoso e  giallo,  di  tubercoli  rammolliti  nel  centro, 
e  di  escavazioni  più  o  meno  profonde. 

CAPO  SESTO. 

Pronostico. 

La  scrofola  ,  che  all'  esterno  limitasi  ,  bene  in 
primavera  curata,  lentamente  guariscesi.  Ed  i  tu- 
mori che  risolvonsi,  lasciano  sempre  mostruosa  ci- 
catrice. Ma  dall'esterno  nell'  interno  passando,  prin- 
cipalmente se  il  mesenterio  ,  i  polmoni  e  gli  altri 
visceri  invade,  sempre  fa  col  tempo  morire. 

CAPO  SETTIMO. 

CAtra. 

Preservansi  i  bambini  dalla  scrofolosa  tuberco- 
Uzzazione  col  sano  latte^  coi  convenevolii  alimenti, 
e  con  un  poco  di  vino.  Di  flanella  si  vestono  ,  ed 
in  luogo  temperato^  asciutto  ed  arioso  si  tengono; 
ed  anche  giova  loro  la  insolazione.  È  nell'  esterno 
ungonsi  i  tumori  con  risolvente  pomata.  E  interna- 
mente prescrivonsi  gli  amari,  i  marziali  ed  il  vitto 
animale.  Ed  allo  scrofoloso  bene  fanno  1'  aria  li- 
bera, asciutta  e  temperata,  il  vestimento  di  lana  , 
la  ginnastica,  gli  amaricanti,  la  tenera  carne,  il  vino 
e  l'uso  continuato  dei  marziali. 


107 
SEZIONE  QUARTA. 

Rachitide. 
CAPO  PRIMO. 

Delìnizione. 

La  rachitide  è  il  costituzionale  malanno  ,  che 
nei  primi  anni  della  vita  svolgesi;  che  deriva  dal- 
l' inequabile  organica  ripai-azione;  onde  è  che  certe 
parti  rammollisconsi,  ed  altre  maggiormente  indu- 
wisconsi,  ed  il  corpo  si  piega  e  si  deforma 

CAPO  SECONDO. 

Forma. 

Chi  rachitico  diventa  ha  la  testa  grande  ,  e  la 
fronte  spaziosa  e  sporgente  ,  la  fisonomia  senile  e 
precoce  il  mentale  sviluppo.  Ed  in  alcuni  la  rachi- 
tica invasione  è  preceduta  dalla  tristezza,  dalla  de- 
bolezza, dall'  inappetenza  e  dalla  costipazione;  e  in 
certi  altri,  oltre  alla  debolezza,  altro  non  osservasi. 
E  poi  le  membra  si  consumano,  le  articolazioni  si 
ingrossano,  ed  il  ventre  ingrandiscesi.  Pesa  la  testa, 
e  non  è  in  rapporto  colla  piccolezza  del  collo  che 
la  sopporta.  E  del  capo  l'ossa  molli  rimangonsi,  e 
bene  non  si  induriscono,  e  le  suture  restano  aperte 
e  non  riunisconsi.  Prima  gli  inferiori,  e  poi  i  mem- 
bri superiori  si  piegano,  e  l'articolazioni  maggior- 


108 
mente  si  ingrossano.  E  poi  piegasi  la  vertebrale  co- 
lonna; sporge  Io  sterno;  ed  il  torace,  ed  il  bacino 
si  deformano.  Seguono  i    viscerali    malanni  ;   ed   il 
rachitico  consumasi  e  muore. 

CAPO  TERZO. 

Cause  remote. 

Il  muscalare  rilasciamento,  il  temperamento  lin- 
falico  ,  e  r  idroemia  del  sangue  costituiscono  la 
morbosa  proclività  ;  cui  alla  rachitica  condizione 
innalza  ciò  che  indebolisce  il  locomotive  ed  il  nervo- 
ganglionare  sistema  ,  attenua  la  crasi  del  sangue  y 
e  disordina  la  corrispondenza  che  esiste  natural- 
mente tra  i  liquidi  ed  i  solidi;  verbigrazia,  il  poco 
e  cattivo  alimento,  il  sucidume  del  corpo,  l'abita- 
zione ombrosa  e  freddo-umida. 

CAPO  QUARTO. 

Causa  prossima. 

La  rachitica  condizione  è  il  disarmonico  pro- 
cedimento dell'azione  e  della  chimico-organica  rea- 
zione ,  che  naturalmente  compiesi  tra  le  potenze  , 
che  Torgariica  composizione  mantengono. 


109 
CAPO  QUINTO. 

Necroscopia . 

Dei  rachitici  lo  scheltro  è  deformato;  e  le  ossa 
che  lo  compongono  sono  cariate,  indurite  e  ram- 
mollite, assottigliate  ed  ingrossate.  Atrofizzati,  in- 
duriti ed  anche  i  muscoli  rammolliti.  E  sono  an- 
che nel  cadavere  visceri  ostrutti,  etcrologhe  sostanze 
e  versamenti  sierosi. 

CAPO  SESTO. 

Pronostico. 

Il  rachitismo  è  cattivo  e  pericoloso  malanno  ; 
eh*  è  o  meno  o  più  grave  a  norma  dell'  estensione 
o  minore  o  maggiore  dell'osseo  rammollimento,  e 
delle  morbose  complicazioni. 

CAPO  SETTIMO. 

Cura. 

Lunga  e  igienica  è  quasi  della  rachitide  la  cura. 
E  le  medicinali  sostanze  vogliono  che  siano  per 
lungo  tempo  amministrate.  Ed  ai  poppanti  il  latte 
si  porge  di  sana  e  ben  nutrita  femmina.  A  cui  i 
nutrienti  e  i  tonici  congiungonsi;  verbigrazia,  il  sugo 
della  carne,  ed  un  poco  di  generoso  vino.  E  di  fla- 
nella anche  il  rachitico  vestesi,  affinchè  non  si  raf- 


no 

freddi,  e  caldo  si  mantenga.  E  bene  anche  gli  fanno 
i  marziali  e  la  ginnastica;  e  in  opera  bisogna  met- 
tere ciò  che  regola  e  rianima  l'organica  assimila- 
zione (I). 

SEZIONE  QUINTA. 

Sifilide. 
CAPO  PRIMO. 

Definizione. 

La  sifilide  è  costituzionale  malanno,  che  dall'af- 
fetto nel  sano  passa;  e  che  ingenerasi  anche  spon- 
taneamente. Lentamente  invade,  e  rimanesi  locale 
e  si  guarisce;  diffondesi  ancora  e  l'organismo  attacca; 
e  se  bene  non  curasi  ,  lentamente  fa  anche  mo- 
rire. Il  noslro  genus  illorum  riprodusse  la  mortifera 
acquetta  di  Perugia  ;  che  altro  non  è,  che  il  virus 
sifilitico  preso  per  bocca.  E  molte  sifilitiche  affe- 
zioni manifestaronsi;  senza  che  l' individuo  sapesse 
d'  essere  slato  avvelenato.  Alcuni  si  guarirono  coi 
mercuriali;  e  certi  altri  altrimenti,  e  malamente  sì 
curarono,  ed  alla  lunga  morirono.  Turpissima  pra- 
tica degna  del  nostro  genus  illorum',  mentre  i  mali 
si  devono  allontanare,  e  non  si  possono  con  inganno 
propagare;  INFAMI,  che  se  l' incontri  svolta,  e  fatti 
della  croce  il  segno  (2). 


(1)  Monografia  della  rachitide. 

(2)  Di  una  scoperta  fatta  intorno  alla  composizione  e  ai 


i 


tu 

CAPO  SECONDO. 

Forma. 

La  venerea  incubazione  generalmenie  la  quarta 
giornata  non  sorpassa.  E  poi  dall'  irritala    uretrale 


micidiali  effetti  dell'acquetta  di  Perugia:  lettera  al  sig,  prof' 
Luigi  cav.  Malagodi  direttore  del  Raccoglitore  medico. 

Chiarissimo  signore, 

La  lettera  che  mi  pregio  indirizzarle  spero  otterrà  un 
posto  nel  suo  famigerato  giornale,  come  quella  che  contiene 
una  scientifica  scoperta  da  me  fatta  a  caso,  rovistando  molti 
manoscritti  in  una  biblioteca.  In  uno  dei  quali  rinvenni  al- 
cune nozioni  relative  alla  natura  ed  agli  effetti  della  morti- 
fera acquetta  di  Perugia;  di  cui  non  intendo  esporre  il  modo 
di  prepararla  e  di  amministrarla,  come  turpissima  cosa  da  non 
ricordarsi.  Solo  dirò  che  questo  micidiale  veleno  non  è  mai 
stato  nelle  mani  dei  medici  e  dei  farmacisti ,  ed  ha  sempre 
circolato  come  segreto  di  nefandissima  gente.  E  quegli  che  lo 
conoscevano  ,  e  V  amministravano  ,  leggesi  nel  manoscritto  , 
avevano  fra  loro  una  intelligenza  e  si  chiamavano-gfcmt^  il' 
lorum.  Oltre  di  che  si  apprende  ancora  in  quel  manoscritto 
che  la  detta  acquetta  altro  non  è  che  il  virus  sifilitico,  preso 
per  bocca  ;  i  di  cui  primi  effetti  si  manifestano  colla  inap- 
petenza, col  ventricolare  eretismo  e  colle  intestinali  flatulenze. 
Quindi  lentamente  si  produce  la  sifilide,  la  quale  non  essendo 
col  mercurio  curata,  uccide  lentamente,  arrecando  esulcerazioni, 
carie  e  consunzione,  E  chiara  apparisce  l'analogia  di  questo 
veleno  con  il  sifilitico,  se  le  storie  degli  avvelenati  dal  genus 
illorum  si  confrontano  con  quelle  dei  sifilitici,  che  morivano 
prima  che  la  malattia  fosse  curata  col  mercurio.  Farmi  adun- 
que, che  il  manoscritto  esponga  il  vero,  ed  io  non  ho  la  mi- 
nima curiosità  di  farne  la  prova,  nemmeno  nel  bruto. 


112 

mucosa  emana  tenue  sierosità,  che  si  addensa  e  pu- 
rulenta diventa;  ed  il  prepuzio  ed  il  glande  si  esul- 
cerano ,  e  gonfiansì  le  linfatiche  glandolo  ,  buboni. 
L'organismo  conturbasi,  ed  alla  locale  infezione  rea- 
gisce; e  qualche  volta  la  vince:  ed  il  male  circo- 
scrive e  dal  coipo  espelle,  sifilide  locale.  Ed  in  cer- 
tuni anche  il  morbo  vince  la  reazione,  si  diffonde 
e  r  intero  organismo  invade  ,  sifilide  cosliliizionale. 
Nella  prima  infezione  quasi  sempre  locale  è  il  ma- 
lanno; e  generalmente  la  sifilide  non  costituzionale 
diventa,  che  dopo  diverse  veneree  infezioni.  K  com- 
parisce quando  il  locale  malanno  sparisce  ;  e  che 
l'attaccato  credesi  guarito.  Mentre  tempo  ci  vuole 
per  invadere  l'organismo  intero.  Ed  il  sifilitico  ve- 
leno lentamente  agisce;  e  senza  appariscenti  feno- 
meni l'organismo  guasta.  E  chi  la  sifilide  soffre  si 
indebolisce  ,  si  rilascia  e  si  abbandona  ;  il  fresco 
colorito  perde,  e  piglia  il  colore  eh'  è  tra  il  verde 
ed  il  giallo.  Poco  mangia,  perchè  l'appetito  gli  man- 
ca, e  si  consuma.  Nel  tempo  buono  sta  meglio,  e 
se  si  guasta  sta  peggio.  Ingorgansi  e  gonfiansi  i  lin- 
fatici gangli;  e  la  grigia  esulcerazione  viene  fuori; 
ed  il  tetoscopieo  dolore  tormenta.  Escrescenze  car- 


Persuaso  di  essere  compiaciuto  dalla  S.  V.,  colla  dovuta 
stima  e  rispetto  ho  il  vantaggio  di  sottoscrivermi. 
Roma  16  novembre  1858. 

Devino  AffiBo  servitore 
Vincenzo  dolt.  Catalani. 

Estralta  dal  Raccoglitore  medico.  Anno  XXI.    Serie  II. 
Voi.  XVIII. 

N.  10.30  novembre  1 838. 


113 

nose,  sarcomi,  ed  ossee  esoslesi  formansi;  ed  anche 
l'ossa  si  cariano.  Ed  in  principio  lentamente  la  si- 
filide invade  e  poi  o  fermasi,  e  si  è  valetudinari  per 
sempre;  o  maggiormente  estendendosi,  i  visceri  in- 
vade ;  ed  il  sifilitico  consumasi,  esulcerasi,  cariasi 
ed  anche  muore. 

CAPO  TERZO. 

Cause  remote. 

Il  temperamento  linfatico  è  la  sifilitica  predi- 
sposizione ;  e  le  cause  remote  che  la  determinano 
sono  le  grazie  femminili,  e  le  invereconde  azioni, 
che  r  impuro  amplesso  combinano. 

CAPO  QUARTO. 

Causa  prossima. 

E  causa  prossima  della  sifilide  è  il  principio  con- 
tagioso, che  o  spontaneamente  in  noi  ingenerasi;  o 
che  r  infame  al  sano  comunica. 

CAPO  QUINTO. 

Necroscopia. 

E  nei  sifilitici  cadaveri  hannovi  trovato  il  glan- 
dulare  indurimento,  l'escrescenze  carnose,  e  gli  os- 
sei tumori;  ed  alcune  parli  indurite  e  gangrenate,  e 
certe  altre  cariate. 
G.A.T.CLXIV.  8 


114 
CAPO  SESTO. 

Pronostico. 

Lento  e  lungo  è  della  sifilide  il  corso.  La  locale, 
anche  a  se  stessa  abbandonata,  guariscesi;  e  la  co- 
stituzionale da  per  sé  stessa  mai  non  risolvesi.  E  bene 
curata  guariscesi;  ed  è  sempre  malanno  assai  peri- 
coloso, per  i  rimedi  che  si  adoperano  per  medicarla. 

CAPO  SETTIMO. 

Cura. 

Localmente  si  medica  la  locale  sifìlide  ;  e  bi- 
sogna astenersi  dagli  stimolanti,  essere  in  riposo,  ed 
usare  i  rifrescanti.  E  meglio  è  di  lasciare  lunga- 
mente colare  lo  scolo;  e  poi  di  fermarlo  coli'  igne- 
zione  astringente.  E  nella  ingorgata  gianduia,  huho- 
7?e,  le  sanguisughe  si  attaccano,  e  Tammoliente  ca- 
taplasma si  mette  ;  e  col  caustico  e  col  ferro  si 
apre,  se  fluttua;  e  scappata  che  ne  sia  la  marcia, 
mettevisi  ingrassato  stuello,  affinchè  l'apertura  non 
si  richiuda;  e  sopra  vi  si  rimette  il  cataplasma,  per 
bene  farlo  sgorgare.  E  subito,  che  compariscono, 
le  ulceri  si  bruciano.  E  la  locale  sifilide  fattasi  co- 
stituzionale, bisogna  per  guarirla  fare  la  mercuriale 
cura;  perchè  bene  gli  altri  medicamenti  non  la  ri- 
solvano. Ed  incominciasi  il  mercurio  a  prendere  tanto 
internamente  quanto  esternamente  in  piccole  dosi, 
che  poi  si  annientano-  E  quanto  lo  stomaco  lo  com- 


115 

porta,  tanto  latte  consumasi.  Ed  al  bagno  ricorrasi, 
se  principiano  a  manifestarsi  i  mercuriali  fenome- 
ni; e  tanti  se  ne  fanno,  che  bastino  a  dileguarli.  Ed 
il  mercurio  sospendesi,  se  il  bagno  non  giova;  per 
poi  riprenderlo  finché  siasi  dileguato  il  sifilitico 
morbo. 

SEZIONE  SESTA 

Erpete. 
CAPO  PRIMO. 

Definizione. 

Vogliono  alcuni,  che  sia  l'erpete  cutaneo  ma- 
lanno; e  costituzionale  noi  lo  crediamo;  e  riteniamo 
esser  l'eruzione  la  manifestazione  del  morbo;  che  altri 
credono  che  ne  sia  l'essenziale  condizione.  E  l'erpete 
è  poi  peculiare  morbosa  modalità,  che  aJl'tìsterno 
spinge  r  interna  acredine  ;  ed  in  cui  determina  la 
squamosa  eruzione.  E  che  l'esterna  non  lo  risolva, 
senza  l' interna  medicatura. 

CAPO  SECONDO. 

Forma. 

In  temperamento  bilioso,  sanguigno  e  adusto 
lentamente  preparasi  l'erpetica  diatesi.  E  poi  vengono 
fuori  disperse  e  confluenti  pustole  pellucide,  rosse 
e  gialle;  che  rompendosi,  di  squamose  croste  rico- 


116 

pronsi.  Kd  anche,  per  l'esterne  forme,  Io  nominarono 
flittenoide  ,  mordente  e  fagelenico.  E  dall'  esterno 
passa  qualche  volta  nell'interno  ;  e  se  prestamente 
non  richiamasi  fuori  ,  è  funesto  ed  anche  mortale 
malanno.  Lungamente  dura;  è  continuo;  ed  anche 
sparisce,  e  altrove  o  nello  stesso  luogo,  dopo  qual- 
che  tempo,  ricomparisce, 

CAPO  TERZO. 

Caitse  remole. 

Predisposto  all'erpetico  malanno  è  il  sanguigno  e 
bilioso  individuo,  che  uutriscesi  di  acri  e  caustiche 
sostanze  ,  e  che  per  quello  che  fa  continuamente 
tocca  panni  vecchi  e  sudici. 

CAPO  QUATO. 

Causa  prossima. 

Condizione  essenziale  dell'erpetica  efflorescenza 
è  la  preternaturale  chimico-organica  modalità  che  la 
materia  segrega  corodente  e  disorganizzante. 

CAPO  QUINTO. 

Necroscopia. 

Nella  superfìcie,  che  l'erpete  invade,  vengono  bol- 
licine fuori,  che  apronsi  e  formano  piaghe,  che  ri- 
copronsi  di  squamose  croste,  diverse  l'une  dall'altre 


117 

per  il  colorito  ,  per  la  figura,  per  la  consistenza  e 
per  la  grandezza.  E  Pesulcerazioue  ancora  approfon- 
dasi, e  l'organismo  consuma;  e  le  cartilagini  e  l'ossa 
si  cariano,  e  l'erpetico  deformasi. 

CAPO  SESTO. 

Pronostico. 

L'infantile  erpete  spesso  nella  pubertà  dileguasi. 
E  quasi  sempre,  sorpassata  che  l'abbia,  il  gentilizio 
dura  per  sempre.  E  dalle  straordinarie  condizioni 
derivando,  queste  rimovendo,  facilmente  risolvesi;  al- 
trimenti dura  per  sempre,  e  fa  anche  finire  di  vivere. 

CAPO  SETTIMO. 

Cura. 

Curasi  il  sintomatico  e  V  erpete  secondario  col 
morbo  primario  medicare.  E  poi  nel  primario  biso- 
gna per  quanto  è  possibile  l'umorale  crisi  correg- 
gere ,  e  la  corrodente  materia  dal  corpo  espellere. 
E  compiesi  la  prima  indicazione  coli'  aria  libera  e 
pura,  col  tenue  e  sano  alimento;  e  l'altra  colla  gin- 
nastica ,  cogli  evacuanti  e  col  solfureo  bagno.  E 
pare  anche,  che  abbiano  eerte  sostanze  azione  an- 
tierpetica;  verbigrazia,  la  salsapariglia,  la  dulcamara, 
gli  antimoniali,  i  mercuriali  ed  i  solfuri. 

CONCLUSIONE. 

I  morbi  ,    che  abbiamo  discorsi  ,  si  estendono 


118 

nell'organismo,  e  l'individuale  ntìodalitfì  invadono.  E 
gli  abbiamo  nominati  costituzionali  legittimi;  perchè 
a  preferenza  degli  altri,  che  dobbiamo  discorrei'e  > 
si  diffondono  e  l'organismo  perturbano. 

PARTE  SECONDA. 

Morbi  costituzionali  spuri. 

Dei  morbi  costituzionali  sono  poi  spuri  quelli 
ehe  come  i  legittimi  invadono  lentamente  l'organica 
modalità;  ma  che  prediligono  certa  parte  del  corpo; 
in  cui  è  illusione,  che  interamente  la  malattia  con- 
sista. E  tali  sono  la  pellagra,  la  ittiosi  ed  il  tricoma. 

SEZIONE  PRIMA. 

Pellagra. 
CAPO  PRIMO 

Definizione. 

Malanno  costituzionale  spurio  è  la  pellagra,  che, 
se  non  guariscesi,  sempre  nel  terminare  l' inverno 
e  nell'incominciare  la  primavera  viene  all'esterno  ; 
e  che  mediante  vescicolare  pruriente  eruzione  si  ma- 
nifesta; che  fino  all'autunno  dura,  e  poi  si  dilegua, 
per  ritornare  nello  stesso  tempo  fuori.  Chi  la  soffre, 
prima  è  taciturno,  e  spasmi  nervosi  soffre;  e  poi  o 
sì  guasta,  o  delirando  muore. 


119 

CAPO  SECONDO. 

Forma. 

La  vescicolare  pellagrosa  eruzione  viene  fuori 
nella  parie  anteriore  del  collo,  nella  regione  sternale, 
nei  piedi,  nelle  mani  e  nella  faccia.  E  la  parte  in 
cui  si  manifesta  pruriente  e  rossa  diventa.  E  le  ve- 
scichette prestamente  riempionsi  di  gialla  sierosità* 
che  rompendosi  di  croste  ricopronsi.  Poco  durano* 
ma  le  nuove  alle  vecchie  succedendo  ,  la  cocente 
eruzione  fino  all'autunno  mantiensi,  e  poi  dileguasi; 
e  neir  inverno  rigenerasi  1'  untuosa  pelle.  E  nella 
primavera  ricompariscono  ,  e  nell'  autunno  si  dile- 
guano per  indeterminate  volte.  Ed  anche  certa  pel- 
lagrosa varietà  ci  è  che,  pel  sapore  che  sentesi  da 
chi  la  soffre,  dicesi  salsedine,  E  scola  dagli  occhi 
e  dalle  narici  acre  sierosità;  viene  il  diarroico  flusso, 
e  pallida  e  fetente  emettesi  l'orina;  e  di  muffa  il 
sudore  odora  ,  ed  i  capelli  si  arrossano  e  cadono. 
Soffrono  i  pellagrosi  il  crampo,  lo  spasmo  e  la  ri- 
corrente sincope;  ed  alcuni  sono  j)aralitici;  nel  men- 
tre che  altri  sempre  tremano.  La  demenza  spesso  la 
pellagra  segue;  ed  il  pellagroso  è  ipocondrico;  e  quasi 
sempre  di  vivere  termina  in  varie  guise  guastandosi. 

CAPO  TERZO. 

Cause  remote. 
La  pellagra  è  malanno  endemico  della  Lombardia; 


120 

che  di  raro  in  altre  ptirti  osservasi.  E  l'interne  a  pre- 
ferenza dell'esterne  eause  la  determinano.  E  gene- 
ralmente ritiensi,  che  l'abuso,  che  i  contadini  nella 
Lombardia   fanno  del  granone,  gliela  determini. 

CAPO  QUARTO. 

Causa  prossima. 

Consiste  la  condizione  del  pellagroso  malanno 
neJla  preternaturale  chimico-organica  modalità,  che 
lentamente  formasi,  come  il  suo  corso  lento  e  gra- 
duato lo  conferma.  Così  preparasi  1'  acre  principia 
che  il  sistema  nervo-ganglionare  irrita,  e  nella  su- 
perficie del  corpo  compie  l'acrilica  vescicolare  eru- 
zione. 

CAPO  QUINTO. 

Necroscopia. 

La  patologica  condizione  della  pellagra  osservasi 
solo  nella  parte  in  cui  viene  fuori  la  vescicolare  eru- 
zione. In  principio ,  fannosi  pruriginose  e  rosse  le 
narici  ,  la  faccia  ,  la  parte  anteriore  del  collo  ,  la 
sternale  regione,  il  piede  e  la  mano;  e  poi  fuori  ven- 
gono vescichette  di  limpida  sierosità  ripiene  ;  che 
rompendosi,  esulcerano,  e  dall'  ulceretta  continua- 
mente emana  glutinosa  materia,  che  forma  nerastra 
crosta;  e  glutinosa  diventa  V  interposta  pelle.  E  le 
croste  che  in  primavera  si  formano,  nel!'  inoltratosi 
autunno  screpolandosi  si  slaccano.  E  poi  la  pelle, 
che  neir  inverno  rigenerasi  ,  sempre    rimanesi  un- 


121 

tuosa.  Nella  primavera  fuoii  riviene  la  vescicolare 
pruriente  eruzione;  e  le  vescichette  rompendosi,  ri- 
fannosi  crostose,  e  screpolano,  si  staccano  e  ricadono 
per  indeterminale  volte. 

CAPO  SESTO. 

Pronostico. 

Lentamente  e  senza  strepito  di  fenomeni  invade 
e  progredisce  la  pellagra.  Nella  primavera  la  pru- 
riente vescicolare  eruzione  incomincia,  e  nell'autunno 
sparisce;  e  poi  ritorna  e  nello  stesso  tempo  si  ri- 
dilegua. E  in  seguito,  airalternativa  di  molte  efflo- 
rescenze e  deflorescenze,  spesso  la  segue  la  demenza; 
o  chi  la  soffre  delirando  muore,  o  ipocondrico  di- 
venta, 0  termina  di  vivere  in  strane  guise  guastandosi. 

CAPO  SETTIMO. 

Cura. 

Nella  pellagra  molti  medicamenti  si  esperimen- 
tarono, e  vi  si  fece  pompa  di  polifarmacìa.  E  me- 
glio dei  rimedi  ai  pellagrosi  si  conviene  il  metodo 
di  vivere;  e  i  buoni  e  i  freschi  alimenti;  verbigra- 
zia,  la  carne  dei  giovani  e  piccoli  animali,  il  brodo, 
la  gelatina  ed  il  latte.  E  coi  dolcificanti  e  coi  nar- 
cotici calmasi  il  cocente  prurito.  Giovano  ancora  i 
tonici,  che  il  pellagroso  fortificano;  ed  i  bagni  che 
lo  puliscono,  e  maggiormente  attiva  le  rendono  la 
cutanea  traspirazione. 


122 
SEZIONE  SECONDA. 

Ittiosi. 

CAPO  PRIMO. 

Definizione. 

Anche  la  ittiosi  crediamo  che  sia  spurio  costi- 
tuzionale malanno  ;  la  cui  sensibile  forma  compa- 
risce nell'esterna  superficie  del  corpo;  e  eh'  è  per- 
sistente se  è  parziale;  e  se  è  generale  consuma  ed 
alla  lunga  fa  sempre  chi  la  soffre  morire. 

CAPO  SECONDO. 

Forma. 

Le  tipiche  forme  della  ittiosi  sono  la  serpentina^ 
la  periata y  e  la  cornea.  E  la  ittiosi  è  serpentina, 
se  le  squame  non  si  induriscono;  e  se  un  poco  dure 
diventano  ,  è  periata  ;  ed  è  cornea  ,  se  dure  come 
l'ossa  si  fanno.  E  la  serpentina  è  analoga  al  cuoio  del 
serpente,  che  ha  tenue  scaglie,  simili  alla  cutanea 
screpolatura.  Principalmente  i  vecchi  invade  ,  che 
sempre  gli  accompagna  al  sepolcro.  Ed  incomincia 
eolla  fosforea  disquamazione  la  periata  e  la  cornea; 
e  poi  vengono  fuori  tenui  squame  nell'antibraccio , 
nel  braccio,  nella  gamba,  nella  coscia  e  nelle  altre 
parti  del  corpo.  E  la  scagliosa  eruzione  ora  si  li- 
mita, ed  ora  maggiormente  si  diffonde,  e  quasi  gè- 


123 

neiale  diventa.  Le  scaglie  spesso  rinnovansì;  e  dif- 
ficilmente la  ittiosì  guarisoesi.  Dura  per  anni;  e  se 
generale  diventa  ,  fa  sempre  chi  la  soffre  morire. 

CAPO  TERZO. 

Cause  remole. 

La  discendenza  e  la  diatesi  erpetica  sono  la  it- 
tiosica  predisposizione;  cui  favoriscono,  ed  alla  con- 
dizione di  malattia  innalzano  i  guasti  alimenti  e  le 
cattive  bevande,  e  l'abitazione  ombrosa,  occidentale 
e  freddo-umida. 

CAPO  QUARTO. 

Causa  prossima. 

Consiste  parie  la  esterna  manifestazione  della  it- 
tiosi  nella  epidermica  ipertrofia,  o  nel  sebaceo  in- 
farcimento; sarà  sempre  la  condizione  che  la  deter- 
mina una  preternaturale  chimico-organica  modalità, 
che  segrega,  e  che  spinge  all'esterno  la  sebacea  ma- 
teria, che  al  contatto  dell'aria  si  solidifica  e  forma 
scaglie. 

CAPO  QUINTO. 

Necroscopia. 

Gì"  interni  guasti  della  ittiosì  non  si  conoscono; 
e  gli  esterni  Umitansi  nella  superficie  del  corpo,  cui 
deformano.  La  pelle  induriscesi  e  screpola,  ed  è  il- 


124 

lusione  che  siasi  contratta,  e  che  la  parte  non  basti 
a  ricoprire.  E  nella  periata,  meglio  che  nella  ser- 
pentina si  vedono  le  scaglie.  E  di  maggiore  consi- 
stenza formansi  nelle  scabrose  parti;  e  affatto  non 
si  formano  ove  la  pelle  è  liscia  e  fina.  E  meglio 
che  altrove  si  sviluppano  nella  parte  anteriore  delle 
rotelle,  nel  gomito,  nella  regione  esterna  del  brac- 
cio, dell'antibraccio,  della  gamba  e  della  coscia.  E 
nella  cornea  bene  si  scorgono  l'ossee  superfìcie;  che 
ora  si  innalzano  colla  cornuta  forma. 

CAPO  SESTO. 

Pronostico. 

Con  qualsiasi  forma  la  ittiosi  comparisca  è  sem- 
pre persistente  ed  ostinato  malanno.  La  circoscritta, 
se  non  guariscesi  ,  non  è  mortale  ;  e  la  diffusa  e 
quasi  universale,  non  subito,  ma  col  tempo  fa  sem- 
pre morire. 

CAPO  SETTIMO. 

Cura. 

A  chi  la  ittiosi  soffre,  meglio  che  i  medicamen- 
ti, giova  d'abbandonare  i  luoghi  infetti  ,  le  cattive 
consuetudini,  e  gli  alimenti  che  nocivi  gli  sono.  E 
se  in  luogo  ombroso,  occidentale  e  paludoso  abita 
e  male  si  nutrisce  ,  in  altro  luogo  cerchi  migliore 
abitazione,  e  si  nutrisca  di  scelti  ed  ottimi  alimenti. 
Mentre  l'aria  e  ciò  che  ci  nutrisce  influenza  su  noi 
hanno    grandissima.  E  anche  a  chi  la  soffre  giova 


' 


125 

il  bagno,  ed  all'  interno  ed  àll'eslerno  il  zolfo  ed  il 
mercurio. 

SEZIONE  TERZA. 

Tricoma. 
C.\PO  PRIMO. 

Definizione. 

11  tricoma  è  malattia  costituzionale  spuria  ;  in 
cui  i  capelli  si  intrigano  e  si  agglutinano;  ed  il  tri- 
comalico  consumasi,  tristo  ed  apatico  diventa. 

CAPO  SECONDO. 

Forma. 

Sono  prodr£>mi  del  tricoma  l'abbattimento,  il  tor- 
pore, l'articolare  dolore,  l'auricolare  tininno,  la  ce- 
falagia  ,  il  glutinoso  sudore  ,  e  la  lenta  universale 
organica  reazione.  E  poi  i  capelli  o  si  mescolano  e 
insieme  si  avviluppano,  tricoma  falso;  o  in  vari  coni 
si  attortigliano,  tricoma  vero.  Ed  anche  riunisconsi 
in  unico  inestrigabiie  cono,  tricoma  caudato.  E  i  peli 
del  pube  e  quelli  delle  ascelle  si  agglutinano  ancora, 
e  la  medesima  malattia  soffrono.  Da  insensibili  fan- 
nosi  sensibili  e  dolenti;  ed  anche  tagliandoli  versano 
sangue  ;  e  colla  medesima  malattia  ricrescono.  Ed 
il  tricomatico  soffre  ,  e  lentamente  si  consuma  ,  e 
poi  fattosi  ipocondrico  muore. 


126 
CAPO  TERZO. 

Cause  remole. 

Raro  è  il  liicoma  nella  Polonia  e  nella  Litua- 
nia; e  come  straordinario  fenomeno  negli  altri  luo- 
ghi comparisce.  Ed  a  contrarlo  ci  predispone  il  tem- 
peramento nervo-bilioso;  e  poi  ce  lo  determina  ciò 
che  fortemente  l'animo  ci  conturba;  e  che  profon- 
damente l'economia  ci  perturba;  vale  a  dire  ogni 
sorta  di  morale  e  di  fisico  patimento. 

CAPO  QUARTO. 

Causa  prossima. 

La  morbosa  capillarità  è  fenomeno  e  non  tri- 
comatica  causa  ;  la  cui  essenza  ascondesi  ,  e  non 
conoscesi.  E  come  malanno  costituzionale  consiste 
nella  preternaturale  chimico-organica  modalità,  che 
principalmente  si  manifesta  col  capillare  aglulina- 
mento. 

CAPO  QUINTO. 

Necroscopia. 

L'  appariscente  condizione  del  tricoma  consiste 
nella  capillare  alterazione;  per  cui  i  peli  diventano 
glutinosi,  e  intrigansi,  e  formano  anche  coni  inestri- 
cabili, e  pare  che  raggiata   sia  la  pelosa  parte. 


127 
CAPO  SESTO. 

Pronostico. 

Lentamente  incomincia  ,  e  dura  lungamente  il 
tricoma.  In  principio  è  fastidioso  incomodo,  che  il 
ti'icomatico  fa  tristo  e  noioso.  E  tagliati  i  capelli, 
sempre  glutinosi  rincrescono  ,  si  riattortigliano  ,  e 
formano  confuso  peloso  ammasso;  ed  anche  in  di- 
stinti coni  riunisconsi;  ed  infine  ritagliandoli  versano 
sangue.  E  dopo  qualche  anno  di  fastidiosa  vita,  con- 
sumasi il  tricomatico,  e  fattosi  tristo  ed  ipocondrico, 
ed  anche  demente,  muore. 

CAPO  SETTIMO. 

Cura. 

Nella  Polonia  e  nella  Lituania  i  tricomatici  poco 
la  plica  si  curano;  forse  perchè  la  ritengono  feno- 
meno critico,  0  perchè  fiducia  non  hanno  ai  medi- 
camenti. E  come  nella  itliosi  e  nella  pellagra  solo 
i  sintomi  e  le  complicazioni  si  medicano.  Mentre 
non  si  conosce  la  cura  razionale,  e  la  specifica  af- 
fatto la  ignoriamo.  E  generalmente  vogliono  ,  che 
si  prescriva  l'aria  asciutta  e  temperata,  lìbera  e  pura, 
e  tenue  alimento,  la  ginnastica,  e  ciò  che  l'animo 
abbattuto  solleva  e  l'allegra.  Ed  anche  giova  le  se- 
crezioni di  riattivare  cogli  evacuanti  ;  verbigrazia  , 
cogli  emeto-catartici,  coi  diuretici  e  coi  diaforetici. 
E  cogli  alteranti  ,  gli  umori  si  attenuano  ;  cui  ri- 


128 
tengono  alcuni  essere  specifici  medicamenti.  Ed  an- 
che prescrivonsi  gli  antimoniali,  i  solfuri  e  i  mer- 
curiali, il  semplice  bagno,  il  solfureo  ed  il  mercu- 
riale. 

CONCLUSIONE. 

Le  malattie,  che  abbiamo  riunite  nel  libro  set- 
limo,  presentano  a  preferenza  dell'altre  certa  illu- 
soria universalità  ,  per  cui  morbi  costituzionali  gli 
abbiamo  cognominati.  E  siccome  di  questi,  alcuni 
ci  presentano  maggiore  ,  altri  minore  estensione 
morbosa;  così  gli  abbiamo  divisi  in  spuri  e  in  morbi 
costituzionali  legittimi. 

(1)  In  questa  noia  facciamo  l'analesi  dei  titoli  dei 
libri,  che  dovevamo  in  ciascuno   mettere. 

a)  Titolo  del  libro  primo  —  PIRETOGRAFIA  —  ; 
che  componesi  delle  parole  —  nvpttìg  —  febris  —  dtoc- 
ypfrjì  descriplio. 

b)  Titolo  del  libro  secondo  —  NOSONEUROGRA- 
FIA  —  ;  che  componesi  delle  parole  ,  vocsog  morbus  , 
vivpov,  nervus,  diayptpv;,  descripsio. 

e)  Titolo  del  libro  terzo  —  FLEMMONOGRAFIA-; 
che  componesi  delle  parole,  ^\€ixovv}V,  inflammatio,  §£«- 
'^pfY},  descriplio 

d)  Titolo  del  libro  quarto  ~  ESANTEMATOGRA- 
FIA  —  ;  che  componesi  delle  parole  —  z^oc'j^rìp.axu  , 
exanthemata,  dtocypipvi,  descriplio. 

e)  Titolo  del  libro  quinto  —  CATARROGRFIA  —  ; 
che  componesi  delle  parole  ■x.ot.-:afpoò,pro{luvium,^ioqpatfr,, 
descriplio. 

f)  Titolo  del  libro  sesto  —  SOMASENOGRAFIA  — ; 
che  componesi  delle  parole  —  acù[j.cx,  corpus,  ^ivcg,  ex- 
Iraneus,  dtaypo(<pTtj,  descriplio. 

g)  Titolo  del  libro  settimo  —  NOSOSEXIGRA- 
FIA  —  ;  che  componesi  delle  parole  ,  vSaog  ,  morbus  , 
ì^ig,  coslitutio,  àcocypoccp'^,  descriplio. 


129 


Storia  geologica  del  Tevere,  discorso  del  prof.  CmÌu- 
seppe  Ponzi  recitalo  alVaccademia  Tiberina  nella 
tornata  solenne  del  5  febbraio  1860. 


ì^e  l'anima  umana  è  capace  dì  elevarsi  ai  più  su- 
blimi concetti,  egli  è  certamente  sotto  l' influsso  delle 
più  forti  emozioni  :  come  accade  quando  in  una 
limpida  e  tranquilla  notte  alziamo  lo  sguardo  al 
maestoso  spettacolo  del  cielo.  Lo  splendoie  degli 
astri  ,  il  loro  esercito  spiegato  negli  spazi  infiniti , 
il  roteare  dei  pianeti  in  virtù  di  misteriose  forze  , 
la  pallida  luce  della  periodica  luna,  e  perfino  l'eter- 
nità di  quel  silenzio  che  terribile  regna  colassù  , 
hanno  su  di  noi  tale  azione,  che  sveglia  Io  spirito 
alle  più  vaste  idee,  e  ne  spinge  il  volo  per  le  ar- 
cane vie  dell'  infinito.  Ma  la  cnrosità  e  il  desiderio 
di  metterci  in  relazione  con-  quegli  esseri  vieppiù 
si  fa  vivo  ,  quando  la  nostra  debole  vista  venga 
soccorsa  e  rinforzata  da  quegli  stromenti,  la  cui 
invenzione  e  perfezionamento  sono  la  gloria  dei  se- 
coli nostri.  Allora  presi  da  vivissima  gioia  intie- 
ramente ci  consagriamo  alle  più  assidue  ricerche  , 
onde  indovinare  le  arcane  cagioni  di  tante  magni- 
ficenze. Vogliamo  leggere  sulla  superficie  lunare 
gli  effetti  della  sua  vita  ,  le  condizioni  della  sua 
massa,  la  materia  di  cui  è  formata,  e  le  relazioni 
che  fra  essa  e  la  terra  intercorrono.  Ponendo  quindi 
niente  ai  pianeti,  e  ai  satelliti  che  loro  fanno  co- 
rona, procuriamo  penetrar  la  natura  e  le  leggi  del 
G.A.T.CLXIV.  9  ^^ 


130 
loro  orbitale  cammino;  quiridi  ci  volgiamo  al  sole, 
e  quindi  tiascoirendo  di  stella  in  stella  ci  facciamo 
a  calcolarne  le  sorprendenti  dislan/xs  la  qualità  della 
luce  etriessa,  il  peso,  il  volume,  ovvero  il  loro  ag- 
giupparsi  in  isvariale  costellazioni.  E  qu^si  che 
tutto  ciò  fosse  poco  ad  un'attrazione  potentissima, 
ad  una  irresistibile  tendenza,  ci  trasportiamo  al  di 
là  del  nostro  sistema  stellario,  e  ci  spingiamo  negli 
spazi  incommensurabili  all'  ardita  ricerca  di  altri 
sistemi  fors'  anche  del  nostro  maggiori  ,  di  quelle 
nebulose  che  in  numero  indefinito  son  collocate  a 
distanze  che  1'  inimaginazione  piià  accesa  non  vale  a 
comprendere.  Ma  menti-e  questo  insaziabile  desiderio 
ei  trascina  in  un  campo  tanto  vasto,  anzi  indefinito, 
mentre  cerchiamo  estendervi  il  regno  del  nostro 
pensiero,  non  ci  accorgiamo  che  più  l'uomo  aumenta 
in  estensione  delle  sue  idee  ,  più  deve  umiliarsi 
r  umana  natura  al  cospetto  di  una  creazione  im- 
mensa, indefinita,  incomprensibile. 

Non  altrimenti  avviene  se  abbassiamo  gli  occhi 
alla  terra  ,  parte  ancor  essa  ,  sebbene  minima  ,  di 
quest'  immenso  universo.  I  suoi  caratteri  planetari, 
la  sua  atmosfera,  i  suoi  mari,  le  catene  dei  monti, 
le  valli,  i  fiumi  e  i  viventi  stessi  che  1'  abitano  , 
stimolano  tanto  la  nostia  curiosità,  che  somma  gioia 
e  diletto  spei-imentiamo,  tosto  che  veniamo  a  sco- 
prire le  sue  correlazioni  cogli  altri  pianeti  ,  collo 
stesso  centro  solare  ,  e  le  cause  di  tutti  gli  altii 
fenomeni  puramente  terrestri,  come  i  vulcani,  i  ter- 
remoti, i  venti,  le  burrasche,  i  fulmini,  e  tante  altre 
sorprendenti  meteore.  Con  non  minore  soddisfazione 
ci    dedichiamo  alla    contemplazione  della    sua  geo- 


131 

logica  nalura  ,  n  di  formazione  In  fonnazione  ,  (Jj 
rivoluzione  io  livoIu/Jone  percorrendo  a  litroso  i 
lunghi  periodi  di  tempo  Irascoi'si  dalla  vita  terrestre, 
andiamo  a  raggiungere  quel  primo  fiat  incompren- 
sibile ,  quella  misteriosa  creazione  della  materia 
ultimo  confine  dello  scibile  ,  ove  giunto  1'  umano 
orgoglio  deve  piegar  la  fronte  umiliata  innanzi  al 
segreto  di  un  essere  onnipotente,  di  un  Dio  crea- 
tore infinito. 

Né  meno  sorprendente  è  1'  armonia  e  1'  ordine 
che  si  ammira  in  tutto  il  complesso  del  creato.  La 
considerazione  di  un  legame  intimo  che  connette  gli 
esseri  ci  ricolma  di  mei-aviglia  e  di  compiacenza. 
Quelle  leggiere  nubecole  risplendenti  di  una  luce 
dolce  e  tranquilla,  che  il  pili  polente  telescopio  ap- 
pena rende  manifeste,  sono  altrettanti  sistemi  com- 
posti di  un  numei'o  incalcolabile  di  stelle.  L'enorme 
massa  di  Sirio  contrapposta  a  quelli  esilissimi  infu- 
sori ,  che  per  discoprirli  fa  d'  uopo  del  più  acuto 
microscopio;  sono  tali  estremi  da  sgomentare  una 
mente  abituata  ai  più  vasti  concepimenti.  Eb- 
bene, fra  queste  distanze  si  distende  una  serie  notr 
interrotta  di  esseii  creali,  tutti  destinati  ad  un  uf- 
ficio speciale,  tutti  concordanti  ad  un  fine.  Avve- 
gnaché la  loro  esistenza  non  solo  è  parte  integrale 
di  tutto  il  crealo  ,  ma  lo  sono  eziandio  perfino  le 
pili  minute  parti,  di  cui  sono  formati,  insieme  alle 
loro  rispettive  e  minutissime  azioni.  Quindi  lo  stretto 
vincolo  che  lega  e  connette  tulli  gli  esseri  alla  com- 
posizione di  quel  quadro  mirabile  che  appelliamo 
Nalura:  comples.-o  stupendo  che  ad  alta  voce  prò- 


132 

elama  l'onnipotenza  divina  ,  e  perenneinenle  canla 
ed  esalta  le  lodi  dell'  infinito  Fattore. 

Tali  considerazioni,  o  signori,  era  necessario  pre- 
mettere a  preparare  la  vostra  benigna  attenzione, 
diretta  all'esposizione  di  una  parte  di  quell'  immenso 
quadro,  che  sebbene  minima  in  confronto  del  com- 
plesso,è  pur  necessaria,  perchè  legala  e  connessa  coi 
fenomeni  cosmici;  nella  stessa  guisa  che  un  membro 
anche  più  piccolo  forma  parte  integrale  del  corpo  cui 
appartiene. Tale  è  una  seriedi  avvenimenti  chea  modo 
di  vecchia  cronaca  si  legge  a  caratteri  indelebili 
scolpiti  sulle  rocce  :  la  storia  geologica  del  Tevere 
che  oggi  mi  è  concesso  d'esporvi.  Vi  parlerò  adun- 
que di  quelle  cose  che  siam  giunti  a  distinguere  per 
via  di  lunghe  e  laboriose  osservazioni  ;  e  m' inge- 
gnerò dimostrarvi  ,  quali  furono  i  cosmici  avveni- 
menti che  valsero  a  formare  questo  celebre  fiume, 
e  i  suoi  diversi  aspetti  nelle  diverse  età  della  terra, 
seguendo  il  naturale  suo  corso,  dalle  sorgenti  che 
gli  danno  origine  fino  alla  sua  foce  nel  mare  tir- 
reno ;  per  la  quale  impresa  spero  rinvenire  nella 
vostra  gentile  condiscendenza  la  forza  necessaria  a 
raggiungere  la  meta  prefissami. 

11  primato  dei  fiumi  nell'  Italia  centrale  devesi 
cei'lamante  al  Tevere,  non  tanto  per  l'estensione  in 
lunghezza  del  suo  corso,  quanto  per  il  numero  e  di- 
stribuzione dei  suoi  principali  affluenti  Avvegnaché 
tutte  le  acque,  che  sotto  i  nostri  occhi  attraversano 
la  città  di  Roma,  parte  son  derivate  dalla  Toscana, 
parte  scesero  dal  più  gran  tratto  del  piovente  cen- 
trale dell'Appennino,  parte  hanno  le  loro  sorgenti 
nel  regno  di  Napoli.  Il  Tevere  propriamente  detto 


133 

ha  le  sue  scaturigini  fra  le  balze  dell'Alpe  della  Luna 
in  prossimità  di  quelle  dell'Arno,  che  su  di  un  altro 
piovente  scende  ad  irrigar  la  Toscana.  Come  in  tutti 
gli  altri  fiumi,  una  riunione  primiliva  di  poche  acque 
bastevoli  a  costituire  un  torrentello  è  1'  origine  di 
questo  classico  fiume,  che  scendendo  e  serpeggiando 
fra  scoscesi  e  alpestri  dirupi  trascorre  il  suolo  etrusco 
ad  incontrar  nuove  acque,  e  così  cammin  facendo 
dar  incremento  al  suo  volume.  Ma  ancora  povero 
entrato  negli  stati  romani, e  presa  la  direzione  da  NNO 
a  SSE,  si  viene  ingrossando  nel  procedere  verso  Città 
di  Castello,  in  grazia  del  contributo  di  tanti  secon- 
dari fossi  e  torrenti  che  lateralmente  gli  conducono 
gli  scoli  delle  prossime  contrade.  Quasi  sotto  Pe- 
rugia cambia  di  direzione  declinando  a  mezzo  giorno 
con  largo  cerchio,  sulla  cui  convessità  si  accresce 
notabilmente  per  l'aggiunta  delle  acque  di  due  co- 
spicui fiumi  insieme  innestati:  il  Chiascio  scendente 
dai  monti  della  Scheggia  ,  e  il  Maroggia  a  cui  si 
associò  il  Topino,  ambedue  conducenti  la  copia  delle 
acque  che  raccoglie  il  vasto  bacino  dell'Umbria.  Ri- 
cevuto un  tale  incremento,  corre  il  Tevere  a  libe- 
rarsi dai  monti  da  cui  ebbe  origine,  e  ad  aprirsi  sulla 
pianura, camminando  verso  Tordimonte  paese  dell'Or- 
vietano, sotto  il  quale  un'  anza  acuta  serve  a  lipri- 
slinarlo  nella  sua  primiera  direzione.  In  questa  spira 
il  Tevere  guadagna  ancor  più  per  1'  aumento  delle 
acque  del  Paglia  formato  da  tanti  rami  nel  bacino 
d'Acquapendente  affluenti  in  un  tronco  principale 
destinato  a  confluire  sul  Tevere.  Ma  avanti  di  ranj- 
giungerlo,  sotto  la  città  di  Orvieto  raccoglie  quelle 
che  conduce  la  Chiana  da  tutto  il  versante  orientale 


'      134 

dei  monti  toscani.  In  questa  guisa  fatto  più  dovi- 
zioso, costeggia  dal  lato  dei  monti  le  pianure  viter- 
besi lungo  le  quali  riceve  il  Vezza.  Quindi  oltrepassato 
il  Cimino  si  conduce  oltre  il  paese  di  Orte  fino  ad 
incontrare  la  Nera,  fiume  non  men  ricco  e  potente. 
La  Nera  nello  scaricarsi  nel  Tevere  è  un  fiume 
complesso  risultante  dalla  riunione  di  quattro  sistemi 
idraulici  distinti,  i  quali  sono;  il  suo  proprio,  quelli 
del  Velino,  del  Salto  e  del  Turano.  Il  sistema  nerino 
nella  sua  origine  riunisce  tutte  le  acque  che  piovono 
sulla  catena  della  Sibilla,  il  maggiore  apennino  de- 
gli stati  romani,  e  dell'altipiano  di  Norcia.  Poi  at- 
liaverso  erte  balze  cala  a  Triponso,  dove  riceve  per 
mezzo  del  Corno  le  acque  orientali  del  Tei'minillo, 
e  cosi  si  dirige  verso  il  bacino  di  Terni.  Il  Velino 
dalle  sue  sorgenti  sulle  falde  occidentali  di  Pizzo  di 
Sivo  vien  negli  Abbruzzi  per  addentrarsi  nella  valle 
Falagrina,  poi  nella  Cutiìiana,  e  girando  dietro  Ter- 
minillo si  getta  nel  vasto  bacino  realino,  luogo  di 
riunione  di  due  altri  fiumi  suoi  consorti.  Col  primo 
di  essi  s' incontra  sotto  la  citlà  di  Rieti,  e  questo 
è  il  Salto,  fiume  di  breve  corso,  ma  che  pure  raduna 
le  acque  delle  pendenze  del  monte  Velino  e  dei  campi 
palentini  nel  bacino  di  Fucino,  e  le  conduce  nel  fiume 
Velino  al  suo  sbocco  sulla  valle  reatina.  Ricevuto 
il  Salto,  questo  fiume  si  ravvolge  in  larghe  spire,  per 
le  quali  incontra  il  Turano  che  discende  dal  Cigo- 
lano nel  regno  di  Napoli  trascorrendo  la  valle  del 
Cavaliere.  In  cotal  modo  arricchitosi  il  Velino  si 
stringe  in  una  gola  di  monti,  fra  le  cui  balze  si  di- 
lata nel  lago  di  Pediluco,  e  finalmente  corre  a  pre- 
cipitarsi nella  Nera,  formando    una  delle    piiì  belle 


135 

cadute  tra  quante  sono  ammirate,  qual  è  quella  dello 
Marmore.  La  Nera  così  accresciula  sì  porta  nel  ba- 
cino di  Terni  per  caricarsi  dell'Aia  sotto  Narni,  di- 
scendente dai  gioghi  sabini;  poi  con  travagliato  corso 
rapidamente  s'introduce  fra  i  monti  per  attraversarne 
la  catena  narnese,  scende  a  Stifone  posto  allo  stretto 
di  un  passaggio  che  il  fiume  varca  con  gran  fragore, 
al  ^i  là  del  quale  esce  sotto  Montoro,  d'onde  s'avvia 
alla  pianura,  e  pei'  le  sue  spire  fatto  piiì  lento  viene 
ad  incontrar  il  Tevere  sotto  Orto. 

Accresciuto  questo  da  una  così  gran  quantità 
d'acque,  si  fa  navigabile  in  tutto  il  restante  del  suo 
corso,  sul  quale  procedendo  maestoso,  mantiene  il 
suo  ordinai'io  serpeggiante  andamento  ,  ed  a  mano 
a  mano,  a  destra  s'appropi'ia  il  Treia,  formato  sulle 
pianure  intercorrenti  fra  il  Cimino  e  Roccaromana,  a 
sinistra  il  Farla  conducente  gli  scoli  della  Sabina. 
Raggiunto  il  solitario  monte  Soratte,  gli  gira  attorno 
ripiegandosi  di  nuovo  a  mezzo  giorno,  e  così  si  av- 
vicina a  Roma;  ma  prima  di  toccare  la  metropoli 
riceve  l'Aniene. 

Le  ricche  sorgenti  di  quest'ultimo  fra  l'Autore 
e  il  Colente  presto  lo  rendono  di  notevole  ampiezza, 
e  i  suoi  due  biacci  di  origine  scendenti,  uno  dal  ba- 
cino di  Filettino  ,  l'altro  da  quello  di  Vallepietra  , 
camminando  sopra  un  suolo  aspro  e  scosceso  si 
riuniscono  in  un  tronco  ,  che  dopo  passato  sotto 
r  Arcinazzo  si  conduce  ad  uscire  nel  bacino  subla- 
cense  ,  formandovi  altre  volte  lago  e  cascata.  Poi 
dietro  il  monte  Ruffo  si  ripiega  nella  valle  degli 
Arci  ,  e  sotto  il  monto  Calillo  ,  giunto  a  Tivoli  si 


136 

getta  nella  campagna  romana  con  un  salto  mirabile 
e  pittoresco. 

Associato l'Aniene  e  oltrepassata  la  città  di  Roma, 
il  Tevere  corre  ratto  al  mare  Tirreno,  per  dividere 
la  sua  conente  in  due  braccia  a  mettervi  foce:  una 
naturale,  detta  fiumana  di  Ostia,  l'altra  dall'umana  in- 
dustria prodotta,  denominata  di  Fiumicino,  lasciando 
fra  loro  un  delta. 

Così  costituito  r  attuale  sistema  idraulico  del 
Tevere  ,  facil  cosa  è  scorgere  di  quale  interesse 
geografico  egli  sia  per  lo  studio  fisico  dell'  Italia 
eentrale.  Peraltro  questo  interesse  tanto  più  si  fa 
vasto  ,  quando  vogliasi  considerare  sotto  1'  aspetto 
geologico,  lilgli  è  naturale  che  un  complesso  di  tanti 
eorsi  d'acqua  così  svariati  e  diffusi  non  abbia  sor- 
tita un'  istantanea  e  contemporanea  origine,  ma  siasi 
a  poco  a  poco  determinato  in  ragione  dei  fenomeni 
cosmici,  dei  quali  fu  teatro  questa  regione.  Così  an- 
che è  razionale  argomentare  dal  cammino  istesso 
delle  acque,  che  le  prime  a  formarsi  siano  slate  le 
ultime  radici  del  torrenti  per  procedere  ai  rami  , 
quindi  alle  braccia  successivamente  maggiori,  final- 
mente al  compimento  dei  principali  tronchi  per  dare 
unità  a  tutto  il  sistema.  Le  moltiplici  osservazioni, 
e  una  critica  severa  portata  sul  sistema  tiberino,  ci 
confermano  sempre  la  verità,  che  in  ogni  cosmica 
operazione  la  superficie  del  suolo  italiano  siasi  mo- 
dificata nella  forma,  e  cambiando  d'aspetto  il  decorso 
delle  acque,  che  da  esso  scaturirono,  abbia  seguito 
sempre  diversi  e  successivi  andamenti. 

Se  vi  piaccia   per  poco   rimontare  col   pensiero 
allo  stato  di  questa  regione  del  globo  prima  che  le 


137 

sue  forze  facessero  emergere  dal  fondo  delle  aeque 
r  italica  penisola  ;  voi  vedrete  che  tutta  la  distesa 
occupata  da  questa  terra  altro  non  era  che  un  vasto 
oceano,  forsanche  dotato  di  notabilissima  profondità. 
Ma  tosto  che  venne  infranto  l' involucro  solido  che 
forma  la  corteccia  del  globo  dall'  espansione  delle 
forze  interne,  i  lacerti  di  questa  rintorti  e  malme- 
nati furono  spinti  in  alto  ,  quale  colle  loro  coste  , 
quale  coi  loro  angoli,  e  videsi  allora  comparire  il 
primo  rudimento  dell'  Italia  rapprentato  da  tante 
isole  rocciose  sparse  lungo  la  linea  su  cui  si  dires- 
sero quelle  potenze,  e  che  è  la  stessa  che  ci  dimostra 
r  Italia. 

Non  deve  far  meraviglia  se  fino  da  quel  tempo 
abbiasi  a  ripetere  la  prima  origine  dei  fiumi,  e  per- 
ciò quella  del  Tevere.  Conciossiachè  la  superfìcie 
del  suolo  messo  in  secco  fu  posta  immediatamente 
sotto  il  dominio  delle  intemperie,  e  gli  squilibri  ter- 
moelettrici dell'  atmosfera  determinandovi  le  piogge, 
furono  la  cagione  che  quelle  allure  venissero  ba- 
gnate e  trascorse  dalle  acque  pluviali.  Fertilizzando 
il  suolo  ,  suscitandovi  un  rivestimento  di  boschiva 
vegetazione  ,  e  questa  attraendo  nuove  piogge,  le 
acque  islesse  furono  principio  del  loro  proprio  in- 
cremento: e  così  si  formarono  i  primi  letti  dei  tor- 
renti ,  che  giìi  per  le  pendici  di  quelle  scogliere, 
già  esposte  ad  un  lento  e  continuo  disfacimento  , 
scendevano  a  versarsi  immediatamente  nel  mare.  Per- 
altro questo  stato  di  cose  non  poteva  essere  sta- 
bile: come  niente,  meno  le  sue  leggi,  è  stabile  in 
natura:  perchè  le  reiterate  spinte  eruttive,  a  cui  ve- 
niva assoggettato  il  suolo  italiano  colla  graduale 
emersione,  dilatando  la  base  di  quelle  isole  ,  o  le 


138 

ravvicinava  fra  loro  o  le  riuniva  in  un  sol  corpo  , 
intanto  che  nei  frap[ìOsli  spazi  nuove  8  svariate  cime 
sorgevano.  Questo  processo  d'  operazioni  telluriche 
Dio  sa  per  quanto  tempo  venner  protratte!  Ma  egli 
è  certo  che  alla  fine  il  risultato  fu  l'emersione  to- 
tale e  la  riunione  di  quelle  |)rime  scogliere  in  in- 
genti e  colossali  masse  montane  notabilmente  spor- 
genti, quali  sono  quelle  che  costituiscono  il  lungo 
Apennino  o  la  spina   dorsale  dell'  Italia. 

Da  una  tale  emersione  deriva  che  quei  primi 
torrenti,  rudimento  dei  maggiori  fiumi, dovettero  con- 
fluire nelle  valli  inleriiiontane  poste  in  secco,  e  così 
dar  principio  a  tronchi  di  maggior  entità  prolungati 
a  raggiungete  il  comune  recipiente,  Ed  ecco  come 
cbbeio  a  costituirsi  già  tanti  piccoli  sistemi  idrau- 
lici ,   moltiplicati  ,  separati  e  indipendenti  fra  loro. 

Noi  non  sappiamo  peranche  con  precisione  accen- 
nare in  quale  epoca  geologica  ebher  principio  tali 
opere  di  natura,  né  conosciamo  se  venissero  inter- 
rotte da  quei  periodi  d'  inerzia  o  di  liposo  che  sem- 
pre si  osservano,  e  sembrano  diretti  al  listabilimento 
delle  forze  d'azione.  Però  la  mancanza  delle  l'occe 
paleozoiche  in  Italia  ci  fa  sospettare  ,  che  l'emer- 
sione o  il  sollevamento  apennino  possa  aver  avuto 
principio  nel  secondario  periodo,  ed  essersi  [)rotratto 
fino  all'epoca  miocenica  che  segna  la  metà  del  ter- 
ziario: perchè  egli  è  certo  che  a  questo  tempo  le 
catene  de  monti  erano  già  emerse,  e  il  mare  lam- 
bendo le  loro  radici  ne  seguiva  l'andamento,  intio- 
ducendosi  fra  esse  in  tante  guise  ,  da  lisultare  la 
costa  tirrena  frastagliata  e  divisa  a  fnodo  d'un  com- 
plicalo arcipelago.  Tali  coste  vengon  bastantemente 


139 

disegnate  dai  sedimenti  che  vi  lasciò  quello  stesso 
mare,  i  quali  mai  non  oltrepassano  il  loro  relativo  li- 
vello, e  che  oggi  vcngon  rappresentali  dalle  colline 
sabbiose  e  marnose  che  da  tutti  si  conoscono  col 
nome  di  sub-apennine. 

Conosciuta  V  idrografia  delle  acque  salse  di  quel 
tempo,  a  nostro  bell'agio  argomentiamo  delle  dolci 
fluviali,  concorrenti  a  formare  il  sistema  idraulico 
del  Tevere,  oggi  così  diffuso,  ma  che  allora  era  ri- 
strettissimo, e  limitato  solo  a  quel  brevissimo  tratto 
che  trascorre  sugli  Apennini  che  gli  diedero  ori- 
gine. Similmente  avveniva  di  tulli  gli  altri  suoi  tri- 
butari, che  a  notabili  distanze  fra  loro,  con  brevis- 
simo corso  scendevano  a  scaricarsi  nel  sottoposto 
mare.  Il  Paglia  e  la  Chiana  non  si  erano  ancora  for- 
mati, ma  solamente  venivano  rappresentali  da  so- 
litari torrenti  che  precipitavano  sulle  balze  dei  morili 
toscani.  Il  Chiascio,  il  Topino  e  il  Mareggia  man- 
tenevano un  corso  lislrettissimo  ,  e  separatamente 
scaricavano  le  acque  raccolte  da  contrade  diverse 
nel  bacino  drll'  Umbria  ancor  riempito  dal  mare. 
La  Nera  avea  la  sua  foce  prima  di  raggiunger  la 
valle  ternana:  il  Velino  avea  fine  verso  Antrodoco, 
il  Salto  sotto  la  catena  del  monte  Velino,  e  il  Tu- 
rano terminava  nella  valle  del  Cavaliere.  Del  Farfa 
non  erano  che  vari  torrentelli,  e  l'Aniene  sboccava 
nel  mare  nel   bacino  di  Subiaco. 

Da  questo  stato  idrografico  ben  si  comprende, 
che  neir  epoca  pliocenica  o  subapennina  tutte  le 
campagne  romane  e  viterbesi  erano  ancora  som- 
merse, 0  per  dir  meglio  si  venivan  formando  sot- 
t'acqua coi  sedimenti  di  quel  medesimo  mare,  for- 


mali  di  marne  turchine,  sabbie  gialle  e  ghiaie.  Però 
questo  stato  incominciato  dopo  il  sollevamento  apen- 
nino  ,  non  procedette  sempre  tranquillo.  Avvegna- 
ché dopo  una  breve  tregua  succeduta  all'emersione 
dei  monti,  dopo  i  primi  sedimenti  marnosi,  quella 
estensione  che  oggi  vediamo  intercorrere  dagli 
apennini  di  Sabina  al  mare,  fu  di  nuovo  messa  a 
soqquadro  dalla  natura  accintasi  a  nuovo  lavoro  , 
il  cui  risultalo  fu  la  comparsa  del  gruppo  dei  monti 
Ceriti.  Queste  giogaie  che  ci  offrono  le  sommità 
delle  Allumiere  e  del  Sasso  nella  provincia  di  Civi- 
tavecchia, in  virtù  di  eruzione  trachitica,  costituirono 
un'  isola  dirimpetto  agli  apennini  sabini  sulla  linea 
dei  monti  di  Toscana  costituenti  la  massa  metal- 
lifera. Queir  isola  però  veniva  da  questa  separati 
mercè  un  tratto  di  mare  solo  interrotto  dal  monte 
di  Canino,  o  scoglio,  elevato  per  segnare  il  punto 
culminante  di  una  sotterranea  catena  che  lega  le 
prominenze  etrusche  delPAmiata  con  quelle  di  Ceri. 
Le  nuove  terre  sopraggiunte,  sebbene  indipendenti  dal 
sistema  tiberino,  servirono  ciò  non  ostante  a  pre- 
parargli le  pendenze  nel  suolo  sommeiso,  ond'  es- 
sere nei  secoli  posteriori  solcate  dalle  numerose  sue 
circonvoluzioni. 

Dopo  siffatta  o[)erazione  cosmica  le  forze  sov- 
versive sembrano  rallentarsi  a  restituire  la  calma 
alla  superfìcie  del  suolo  italiano.  Ma  questa  calma, 
sebbene  prolungala  a  lutto  il  restante  dell'  epoca 
subapennina,  non  fu  che  apparente,  e  solamente  per 
dar  tempo  ad  una  restaurazione  delle  stesse  forze 
agitalrici  del  globo,  che  celate  sotto  la  sua  crosta 
con  un  incessante   lavorio  si   preparavano   a  nuove 


141 

manifestazioni.  E  difatlì  mentre  alla  superficie  il 
mare  depositava  tranquillo  le  sabbie  e  le  brecce  , 
questo  medesimo  suolo  si  veniva  lentamente  innal- 
zando ,  e  le  spiagge  marine  si  ritiravano  coli'  al- 
lungamento dei  fiumi  che  correvano  a  mettervi  foce. 
Un  tal  rigonfiamento  del  suolo,  sebbene  lento,  do- 
vette sempre  più  incalzare  fino  a  che,  rotto  l'equi- 
librio ,  le  interne  azioni  sovversive  comparvero  al- 
l' esterno.  Alloia  fu  che  su  tre  punti  di  una  linea 
parallela  agli  apennini  fra  questi  e  i  monti  Ceriti, 
nel  fondo  istesso  del  mare,  si  spalancarono  quelle 
enormi  bocche  vulcaniche  che  colle  loro  conflagra- 
zioni furono  causa  di  gravi  cambiamenti  nel  suolo 
dell'Italia  centrale.  Egli  è  poi  chiaro  che  le  materie 
eruttate  da  questi  spiragli  in  sorprendente  quantità, 
fatte  preda  di  un  mar  tempestoso,  venisser  trasci- 
nate e  diffuse  su  tutto  il  fondo  marino  fino  alle 
più  estreme  spiagge,  e  disegnarne  tutto  il  loro  an- 
damento. 

Per  questo  criterio  sappiamo,  che  al  comparir 
dei  vulcani  moli'  isole  eiano  già  congiunte  alla  ter- 
raferma,e  molti  rientramenti  intermontani  scomparsi, 
pel  ritiramento  delle  acque  salse.  Il  mare  entro  più 
ristretti  confini  veniva  contenuto  in  un  vastissimo 
golfo  aperto  a  mezzogiorno  e  circondato  dai  monti 
di  S.  Fiora  e  dell'Amiata  nel  toscano,  e  dalla  mon- 
tagna della  Peglia  nell'orvietano,  dirimpetto  al  quale 
faceva  barriera  o  antemurale  1'  isola  Tolfetana  e  di 
Allumiei'e.  Varie  altre  isolette  o  scogli  si  vedevan 
disseminati  sul  lato  occidentale  di  questo  golfo,  per 
i  quali  la  navigazione  vi  sarebbe  lisultala  difficile. 
11  resto  delle   spiagge  marine  camminava  a   un  di- 


142 

presso  coll'andamento  del  moderno  Tevere  tìn  scilo 
i  monli  Cornicolani  riuniti  a  formare  un  promon- 
torio. 

Tale  nuovo  stato  idrografico  del  mare  ci  assi- 
cura, che  a  quell'epoca  il  Paglia  era  già  costituito, 
e  terminava  nelle  vicinanze  di  Acquapendente  :  la 
(-'hiana  si  era  molto  allungata  per  raijsiunafere  il 
mare  sotto  Orvieto:  il  Tevere  istesso  avea  già  ri- 
cevuto il  tributo  delle  acque  del  Chiascio,  del  To- 
pino, e  del  Maroggia,  e  apertosi  un  varco  fra  le 
proniinenze  della  Peglia  e  l'estremità  della  catena 
narnense  si  gettava  nei  mare  sotto  Tordimonte.  11 
Turano  e  il  Salto  si  erano  associati  al  Velino  nella 
valle  reatina,  e  questo  alla  Nera,  che  attraversato 
il  bacino  di  Terni,  e  i  monti  di  Narni,  usciva  pei* 
versarsi  nel  mare  sotto  Orte.  Il  Farfa  girava  sotto 
i  monti  della  Fara  per  terminare  dietro  Toffla  ,  e 
TAoiene  raccolte  le  Cono  incontrava  il  mare  dove 
oggi   trovasi   il   paese  di   Vicovaro. 

Gli  stessi  vulcani,  causa  di  tanti  cambiamenti 
colle  loro  eruzioni,  non  cessavano  di  contribuire  in 
gran  parte  a  pi'epaiai-e  nuova  configurazione  al  suolo 
italiano.  1  crateri  Vulsinio  ,  Cimino  e  Sabatino  si 
elevarono,  e  le  materie  eruttate  accumulandosi  loro 
d' intorno  gì'  innalzarono  su  dì  tre  coni  schiacciati, 
fino  a  che,  sia  per  le  reiterate  spinte,  sia  per  ad- 
dizione delle  nuove  materie  sul  fondo,  comparvero 
alla  supei'ficie  del  mare  a  modo  d'  isole  ignivome 
collocate  in  serie  nel  mezzo  di  quell'anjpio  golfo. 
Ma  l'azione  loro  duiando  per  lunga  serie  di  secoli, 
alimentiiva  eziandio  1'  innalzamento  e  l'emersione  , 
di  modo  che  venne  finalmente  il   tempo  in  cui  quei 


143 

Ire  coni  furono  messi  allo  scoperto  e  diseccato  V  in- 
tero golfo  colio  scoprimento  delle  pianui'c  romane 
e  viterbesi.  Dietro  queste  cosmiche  operazioni  ,  il 
mare  seguì  confini  tanto  più  ristretti  ,  per  i  quali 
r  isola  ceritia  si  saldò  al  continente,  e  formossi  il 
capo    Linaro. 

Notabilissime  niodificazioni  derivarono  ai  sistemi 
delle  acqne  irriganti  da  siffatti  effetti  del  fuoco  ter- 
restre. Il  Paglia  allungò  il  suo  cammino  per  incon- 
trare le  Cbiana  sotto  Orvieto,  raggiungere  il  Tevere 
sotto  Tordimonte,  e  procedere  lutt'insieme  sulla  linea 
delle  spiagge  abbandonate.  Se  si  presti  attenzione 
al  corso  dei  principali  ti'onchi  del  Paglia  e  del  Te- 
vere, chiaramente  si  vedrà  descr'ivere  essi  tre  curve 
alternate  da  angoli  ottusi.  Queste  disegnano  esatta- 
mente le  basi  orientali  dei  tre  coni  vulcanici,  Vul- 
sinio,  Cimino  e  Sabatino,  sulle  quali  fui'ono  costretti 
a  trascorrere  in  virtù  delle  contrarie  pendenze.  Così 
il  Tevere  si  condusse  a  superare  il  Soiatte  rilevato 
sulla  base  del  terzo  cono,  e  ripiegarsi  attoi'no  di  que- 
sto declinando  a  mezzogiorno.  Per  tali  fenomeni  due 
nuovi  fiumi,  originati  dalla  emersione  dei  coni  vul- 
canici, vennero  a  scaricarsi  alla  destra  del  Tevere  : 
il  Vezza  che  raccolse  le  acque  fra  il  (limino  e  il 
Vulsinio:  il  Treìa  che  riunì  gli  scoli  fra  il  Cimino  e 
il  Sabatino.  A  sinistra  poi  il  Farfa  giunse  ad  incon- 
trare il  Tevere  per  sovvenirlo  delle  acque  sabine:  e 
la  foce  dell'Anienc  così  scomparsa,  questo  fiume  si 
condusse  a  non  avei'  più  diretta  comunicazione 
col  mare  ,  essendo  costretto  dal  ritirarsi  di  questo 
ad  oltrepassar  lo  stretto  di  MonteCatillo  e  di  Ripoli; 
gettarsi  nella  campagna  romana  e  raggiungere  il  Te- 


\u 

vere  prossimamente  a  quella  contrada  dove  poi  fu 
Roma.  Da  questo  punto  il  Tevere  prese  la  via  diretta 
al  mare  per  compiere  il  suo  cammino  e  iscaricarvisi 
con  larga  foce  tra  Pontegalera  e  Dragoncella,  sotto 
le  cui  colline  si  dilungavano  le  coste. 

Nò  di  minor  valore  è  la  copia  delle  acque  ra- 
dunate dal  sistema  tiberino  e  le  loro  alluvioni.  Seb- 
bene non  sia  concesso  alla  scienza  conoscere  le  idro- 
grafiche vicinissitudini  del  Tevere  durante  tutto  il 
periodo  subapennino,  pure  i  nostri  argomenti  tro- 
vano un  appoggio  nell'osservare  i  fatti  congiunti  dallo 
scoprimento  del  suolo  fino  a  noi.  Giustamente  si 
argomenta  quale  dovette  essere  la  temperatura  del 
globo  in  quei  lontanissimi  tempi,  quando  il  mare  sub- 
apennino ricopriva  ancora  le  nostre  campagne  , 
e  sappiamo  che  il  clima  d'allora  era  così  elevato  da 
eguagliare  quello  che  oggi  si  rincontra  sotto  le  tropi- 
cali zone.  Per  tali  condizioni  era  concesso  agli  ele- 
fanti, rinoceronti,  e  ippopotami,  con  altri  animali 
delle  più  calde  regioni,  menare  la  loro  vita  nell'Italia 
centrale;  taluni  dei  quali  ora  estinti,  taluni  costretti 
ad  emigrare,  e  confinarsi  sotto  la  sferza  dell'adente 
zona  torrida.  Peraltro  quella  temperie  sì  elevata  venne 
ad  abbassarsi,  e  cambiò:  e  all'età  della  terra  in  cui 
regnava  un  clima  tropicale  presso  di  noi,  e  tanto  fuo- 
co vulcanico  si  diffuse,  un  intensissimo  freddo  succe- 
dette, da  cambiare  in  gelo  tutte  le  acque  sulle  alture 
dei  monti,  e  convertirle  in  distese  e  numerose  ghiac- 
ciaie. Molte  questioni  sono  ancora  agitate  nell'agone 
scientifico  sulle  cause  determinanti  l'epoca  glaciale, 
tuttora  insolute,  e  che  volentieri  tralasciamo  per  re- 
stringersi ai  soli  fatti  osservali.  Le  morane  e  la  dif- 
fusione delle  masse  erratiche,  vestigie  di  quelle  an- 


145 

liche  ghiacciaie,  apertamente  accennano  ad  un  lun- 
ghissimo periodo  freddo,  che  venne  per  gradi  a  ces- 
sare col  rialzarsi  della  temperatura  fino  al  grado 
che  tuttora  la  terra  manifesta  e  mantiene.  Validi 
argomenti  portano  a  credere  che  tale  congelazione 
sia  effetto  di  causa  esteriore;  ma  in  qualunque  ma- 
niera abbia  avuto  luogo  quell'  innegabile  fatto  ,  il 
certo  si  è  che  il  globo  si  liscaldò  di  nuovo,  e  ciò 
a  noi  basta  per  comprendere  come  tanti  ghiacci 
vennero  a  fondersi.  Ed  ecco  come  pel  logoramento 
di  quelle  masse  d'acqua  gelata  ebbero  a  gonfiarsi  i 
torrenti,  che  precipitosi  scendevano  di  balza  in  balza 
fr,'  le  aspre  scogliere  montane  per  gettaesi  sulle 
pianure,  e  ricopiirle  di  diluviali  inondazioni.  Ecco 
Tescavazione  di  quelle  immense  fosse  o  alvei,  nel 
fondo  dei  quali  i  maggiori  nostri  fiumi  si  aggirano. 
Ecco  il  rimescolamento  delle  materie  trascinatevi, 
miste  ad  avanzi  di  esseri  organici  contemporanei. 
Ecco  finaln)ente  la  diminuzione  delle  acque  tosto 
che  furono  logoiati  i  ghiacci  ,  col  ristabilimento 
dell'equilibrio  di  temperatura. 

A  tali  vicende  venne  eziandio  assostaiettato  il  si- 

ce? 

stema  tiberino  :  imperocché  nelle  vaste  vallate  che 
lo  conducono,  chiari  segni  si  appalesano  delle  fiu- 
mane impetuosissime  discese  dai  monti  cui  trae  ori- 
gine. Le  sabbie  e  le  ghiaie  rimaneggiate  colle  ma- 
terie vulcaniche  che  riempiono  il  fondo  di  quegli 
enormi  alvei  :  i  travertini  disposti  in  letti  in  certi 
punti  dei  loro  fianchi:  le  reliquie  di  piante  e  di  ani- 
mali terrestri  e  d'acqua  dolce  che  frammisti  vi  si 
rinvengono,  danno  prove  manifeste  della  fisonomia 
dei  secoli  trascorsi  fra  il  ritiro  dello  acque  marine, 
G.A.TCLXIV.  10 


U6 

e  la  cotuparsii  (ìelT  uomo.  L'  ingente  volume  delle 
correnti,  elevale  a  circa  trenta  metri  sul  livello  delle 
acque  attuali,  variava  d'aspetto  a  seconda  delle  locali 
accidentalità  incontrate  nel  loro  passaggio.  Le  de- 
pressioni del  suolo  ,  le  ristrettezze  degli  alvei  ,  gli 
ostacoli  al  libero  transito  ,  obbligarono  le  acque  a 
diverso  comportamento.  Ora  dilatale  in  distesi  laghi, 
come  il  Topino  e  il  Maroggia  inondanti  tutta  la 
grande  vallala  dell'Umbria,  l'Aniene  sotto  Tivoli,  e 
il  Tevere  a  Fiano:  ora  strette  in  angusti  passaggi, 
come  fu  del  Paglia  sotto  I'  altipiano  dell'Alfìna  ,  e 
del  Tevere  sotto  il  Soratte:  ora  divise  in  bracci  ri- 
confluenti per  comprendervi  brani  insulari  ,  come 
avvenne  dei  colli  Palatino,  Capitolino,  e  Aventino, 
a  suo  tempo  compresi  entro  la  stessa  città  di  Roma. 
Sono  queste  tante  combinazioni,  per  cui  la  rapidità 
delle  correnti  fu  diversa  lungo  il  decorso  del  Tevere, 
che  procedeva  dilatandosi  ad  aprirsi  nel  mare  Tir- 
reno con  una  foce  almeno  di  due  chilometri  di  lar- 
ghezza. 

Trascorsa  l'epoca  quaternaria,  si  approssimavano 
i  tempi  in  cui  la  divina  provvidenza  si  disponeva  a 
far  si  che  l'essere  intelligente  prendesse  possesso  e 
stanza  nella  classica  terra  d'Italia.  Noi  siamo  ancora 
nell'oscurità  in  qual  punto  della  storia  geologica  ebbe 
principio  l'epoca  antropica;  ma  ci  è  dato  poter  an- 
nunziare con  certezza,  che  dal  tempo  in  cui  l'uomo 
comparve,  il  sistema  idraulico  del  Tevere  presso  a 
poco  ha  mantenuto  l'aspetto  attuale, e  ad  altri  cangia- 
menti non  andò  soggetto  se  non  a  quelle  modifi- 
cazioni derivate  solo  da  un  leggiero  e  ulteriore  in- 
nalzamento del  suolo  per  opera  di  non  estinto  vulca- 


U7 

nismo,  od  ad  interramenti  per  materie  trasportate, 
e  lasciate  in  banchi  lungo  il  suo  corso,  ovvero  ri- 
gettate dal  mare  per  allungare  la  sua  foce*  In  questa 
guisa  si  formò  quel  triangolo  scaleno  di  più  basso 
livello,  che  oggidì  notiamo  alTestiemità  del  Tevere, 
sul  quale  si  conduce  il  fiume  per  dividersi  in  due 
braccia  e  raggiungere  con  doppia  bocca  il  recipiente 
generale  delle  acque. 

Ma  per  quanto  voglia  concedersi  alla  diminuzione 
delle  masse  acquee,  al  sollevamento  del  suolo,  agl'in- 
terramenti delle  materie  di  trasporto,  lo  scolo  delle 
acque  non  fu  istantaneo;  anzi  venne  in  taluni  luoghi 
ritardato    per    lunga    serie  di  anni.  Le  più  vetuste 
tradizioni  ci   fanno    trasparire  come   in  un  cristallo 
una  serie  di  personaggi,  dominatori  delle  genti  stan- 
ziate   sulle    sponde    del    Tevere  ,    durante   la   quale 
nulla  si  dice  della  valle  continente  le  tiberine  acque. 
Ai  tempi  però  di  Saturno  e  di  Giano  ci  vien  detto  es- 
sere questa  ancora  ingombra  di  schifose  paludi  e  tene- 
brose foreste,  e  che  il  fiume  veniva  distinto  col  nome 
di  Albula.QuandoKomolo  si  accinse  a  fabbricar  l'eter- 
na città  si  manteneva  ancor  quello  stato,  perchè  i  ve- 
labri  distesi  sotto  il  Capitolino  e  Palatino,  la  palude 
Caprea,  gli  stagni  di  Perento,  altro  non  erano  che  i 
residui  delle  acque  diluviali  a  scolo  ritardato    fino 
a  quei  tempi,  in  ragione  della  profondità  delle  fosse 
e  depressione  del  suolo  in  quella   contrada.  Venner 
però  ben   tosto  a  scomparire,  allorché  alle  opere  di 
natura  si  aggiunse  il  soccorso  di  quelle  della  umana 
industria.   1    romani    sotto  i  primi  loro    re  si   libe- 
rarono di  quell'ingombro  abbattendo  le  foreste,  sco- 
lando i  vclabri  nella  cloaca  massima,  e  diseccando 


U8 

paludi  affine  di  migliorare  la  contrada  nello  igieniche 
condizioni,  e  prepararla  a  quello  sviluppo  e  incre- 
mento che  formò  poi  la  gloria  di  Roma.  Lo  stato 
delle  acque  stagnami  rinvenute  dai  romani,  e  di  cui 
abbiamo  meno  incerte  notizie,  deve  essere  stato  pres- 
so a  poco  quello  di  tutto  il  restante  del  sistema 
idraulico  del  Tevere.  Avvegnaché  Topeiosità  intel- 
ligente dei  nostri  primi  progenitori  non  solo  si  ma- 
nifestò nei  contorni  di  Roma ,  ma  irradiò  eziandio 
diffondendosi  in  lontane  contrade  a  spiegarsi  non 
solamente  sul  princìpal  tronco  del  loro  fiume,  ma 
eziandio  su  quello  delle  braccia  dei  tributari.  Per 
ossi  si  eseguirono  tante  operazioni  degne  della  lor 
grandezza,  sempre  dirette  a  meglio  ordinare  il  corso 
delle  acque,  e  aprofittarne  a   prò  della  vita  comune. 

Dai  secoli  dei  romani  tino  ai  piij  moderni  giorni 
il  Tevere  non  lasciò  mai  di  richiamare  l'attenzione 
dei  sapienti  allo  studio  dei  continui  cambiamenti  di 
direzione,  a  cui  va  soggetto  l'alveo  che  lo  contiene; 
alle  alluvioni  che  lo  modificano;  a  soccorrere  il  suolo; 
e  a  correggere  i  danni  da  quelle  arrecali.  Di  ma- 
niera che  il  sistema  idraulico  tiberino,  siccome  per 
lo  passato  così  per  l'avvenire,  sarà  sempre  occasione 
permanente  di  studi  gravissimi,  e  profonde  medi- 
tazioni per  le  scienze  e  per  le  arti  ,  e  una  quoti- 
diana applicazione  dei  loro  principii. 

Una  catena  d'avvenimenti  di  tal  fatta,  distesa  at- 
traverso una  lunga  serie  d'età  diverse,  ebbe  luogo 
neir  Italia  centrale.  Il  solleva.mento  degli  apennini, 
per  il  quale  l'intera  penisola  sottratta  dal  doiriinio  ma- 
rino fu  assoggettata  a  quello  delle  acque  dolci:  l'emer- 
sione della  massa  insulare  dei  monti  ceriti;  un  vio- 


149 

lento  vulcanismo  che  prosciugò  le  basse  contrade 
italiane;  i  diluvi  derivati  dalle  ghiacciaie  nel  periodo 
di  raffreddamento  terrestre,  sono  tali  e  tanti  feno- 
meni cosmici,  per  i  quali  si  formarono  i  fiumi,  e  che 
necessariamente  devono  rientrare  nell'ordine  univer- 
sale delle  cose  create  ,  nell'  immenso  quadro  della 
natura.  La  storia  tiberina  pertanto  diviene  una  parte 
integrale  della  storia  stessa  della  Terra,  siccome  epi- 
sodio procedente  dall'azione  di  quelle  cause  comuni 
ed  arcane  dalla  Provvidenza  disposte,  e  che  a  noi  è 
soltanto  concesso  contemplare  e  ammirare  quale  in- 
negabile argomento  dell'onnipotenza  dell'Essere  in- 
finito. 


150 


Riflessioni  criiiche  sopra  alcune  recenti  opinioni  in- 
torno Vuffizio  della  milza,  e  tentativo  di  concilia- 
zione delle  opposte  sentenze  sullo  stesso  argomento, 
del  prof.   C.  Mag(jiorani. 


k^embrava  oggimai  che  i  fisiologi  rimanesser  d'ac- 
cordo neir  attribuire  alla  milza  qualche  parte  nel- 
l'opera della  sanguificazione,  e  tanto  più  ei-a  da  spe- 
rare concordia  in  cjuesta  credenza  quando  lo  stesso 
Kòlliker  che,  forte  delle  osservazioni  microscopiche, 
aveva  in  principio  oppugnata  cotesta  dottrina,  so- 
stenendo in  vece  che  in  quel  viscere  si  compisse 
un'  opeia  di  disfacimento  de'  globuli  sanguigni  ,  si 
mosse  poi  dal  suo  parere,  e  nelle  sue  ultime  scrit- 
ture inclinò  ad  ammettervi  anche  un  lavoro  di  prò 
gressiva  elaborazion  de'  corpuscoli.  «  lo  considero 
la  milza  (così  egli  scrive  nell'ultima  edizione  della 
sua  Istologie)  come  un  organo  nel  cui  parenchima 
si  versano  alcuni  principii  costituenti  del  sangue  , 
ed  in  certi  periodi  in  maggior  copia  che  in  altii, 
al  fine  di  sperimentarci  mercè  gli  elementi  cellu- 
iosi, che  sono  in  un  lavoro  incessante  di  formazione 
e  di  dissoluzione  una  metamorfosi  piincipalmente 
regressiva,  ma  in  parte  anche  progressiva,  e  per  es- 
sere in  seguilo  ripresi  dal  sangue  e  dai  vasi  lin- 
fatici nello  scopo  definitivo  di  essere  eliminati  dal- 
l'economia o  di  servire  ad  altri  usi,  quello  special- 
mente di  dare  origine  ai  globuli  bianchi.  »  (P.  505). 
E  poco  appi'esso    parlando   dei   globuli  del    sangue 


151 

si  esprime  così:  «  Noi  noti  conosciariìo  a  bastanza 
l'officio  dei  globuli  bianchi  nel  sangue  perchè  della 
loro  presenza  ne  sia  permesso  di  concludere  a  una 
formazione  di  globuli  rossi.  Devo  dire  inlanlo  che 
in  qnesli  ultimi  tempi  ho  osservato,  che  nei  gio- 
vani mammiferi  si  producono  glolmìi  rossi  nella  polpa 
splenica,  e  che  questa  produzione  si  verifica  anche 
nel  sangue  del  fegato.  Perciò  mi  sembra  verisimile 
che  anche  negli  animali  adulti  la  milza  sia  sede  di 
una  genesi  abbondante  di  globuli  bianchi,  i  quali  si 
trasformano  in  quest'organo  istesso  in  globuli  rossi,  e 
forse  ciò  accade  anche  nel  fegato.   «   P.  657. 

Ed  ecco  il  D.  Jones  che  in  un  suo  vasto  lavoro 
fisiologico  testé  dato  alla  luce  si  dimosti-a  avver- 
sario di  tale  dottrina,  e  sostiene  che  noi  siamo  af- 
fatto ignoranti  del  vero  officio  della  milza  ,  e  che 
questo  non  può  mai  intendere  alla  cofifezione  del 
sangue.  Tale  sentenza,  che  mette  al  niente  tutto  in 
un'ora  le  fatiche  passate,  fondasi  specialmente  sopra 
alcune  indagini  dimostranti  il  ra|)[)orto  di  peso  fra 
l'organo  splenico  e  il  corpo  intiero  in  parecchi  ani- 
mali a  sangue  caldo  e  freddo  che  vivono  in  Ame- 
l'ica.  Ma  udiamo  lo  stesso  autoie. 

<f  Se  la  funzione  dalla  milza  fosse  la  elabora- 
zione e  la  distruzione  di  alcuni  fra  i  più  importanti 
elementi  del  sangue,  perchè  questo  viscere  è  così 
piccolo  negli  uccelli,  e  proporzionatamente  sì  grande 
in  molli  animali  a  sangue  freddo  ?  E  egli  possibile 
che  un  viscere,  il  quale  in  molti  rettili  ed  uccelli 
non  pesa  che  pochi  grani,  possa  eseicitare  un'azione 
importante  sulle  pi'oprietà  fisiche  ,  e  sulla  chimica 
costituzione  del  sangue  ?  Questi   fatti  non   mostrano 


152 

forse  perentoriamente  che  noi  ignoriamo  le  funzioni 
della  milza  ? 

«  Il  D.  Fraes  suppone  che  un  officio  dei  cor- 
puscoli di  Malpighi  sia  quello  di  raccogliere  sostanza 
nuli'itizia,  quando  ci  ò  un  sopravvanzo  di  materiali 
alimentari,  per  fornirne  poi  il  sangue  allorché  siavi 
deficienza  dì  tali  elementi.  Egli  è  però  difficile  a 
concepirsi  come  una  materia  nutritizia  di  qualche 
importanza  possa  conservarsi  nei  corpuscoli  di  un 
organo  che  pesa  pochi  grani.  La  quantità  che  po- 
tesse accumularvisi  sarebbe  microscopica  ,  e  non 
mollo  maggiore  di  un  centesimo  di  grano. 

«  Anche  negli  animali  a  sangue  caldo  la  quantità 
di  corpuscoli  albuminosi  contenuta  nei  corpuscoli  di 
Malpighi  non  merita  di  essere  menzionata  in  con- 
fronto di  quella  che  si  lacchiude  nelTapparato  cir- 
colatorio, il  quale,  secondo  i  più  recenti  calcoli,  con- 
tiene neir  uomo  adulto  ventidue  libre  in  circa  di 
sangue,  mentre  i  coipuscoli  di  Malpighi  sono  appena 
capaci  di  pochi   grani. 

«  Avrebbe  mai  la  natura  fabbricato  un  ergono, 
il  cui  importante  officio  fosse  quello  di  somministrare 
pochi  grani  di  materia  nutritizia,  mentre  il  sistema 
circolatorio  ne  contiene  dieci  mila  volte  altrettanto  ? 

«  Il  sig.  Graus  ha  istituito  una  serie  di  ricerche 
intorno  gli  effetti  della  dieta  sulla  milza  dei  gatti , 
dei  conigli  e  dei  sorci,  e  osservò  che  quest'organo 
aumenta  di  mole  durante  una  nuti'izione  attiva.  Per 
quanto  estendonsi  le  mie  indagini,  un  tal  fenomeno 
non  si  verifica  negli  animali  a  sangue  freddo. 

«  Neil'  Emys  lerrapin,  e  neWEmys  serrala,  che 
erano  stale  aff'amale  e  assetate  per  lungo  tempo  e 


153 

/ornilo  abbondevolmente  di  cibo  vegetabile  e  di  ac- 
qua ,  la  milza  non  si  mostrò  accresciuta  di  peso. 
Ho  anche  osservato  più  volte  come  la  milza  degli 
animali  a  sangue  freddo  non  soddisfi  all'  officio  di 
un  diverliculum,  allorché  il  tonente  circolatorio  ri- 
donda di  matei'iali  nutritizi  e  di  acqua.  Le  milze  di 
cheloniani  carnivori,  il  cui  apparato  sanguigno  per 
copioso  cibo  era  divenuto  sì  pieno  da  cagionare  ef- 
fusioni aqueo- albuminose  nel  tessuto  cellulare  e  nella 
cavità,  non  presentavano  aumento  né  di  peso  né  di 
volume.  Le  milze  degli  ofidiani  ,  i  quali  divorano 
masse  notabili  di  carne,  non  si  mostrarono  più  grandi 
per  maggior  copia  di   cibo. 

«  Che  adunque  la  milza  sia  un  viscere  di  una 
importanza  secondaria  nell'economia  animale  è  mo- 
strato dai  fatti  seguenti.  -  Manca  in  tutti  gli  inver- 
tebrati e  negli  Ampliìoxus,  che  sono  l'anello  di  ca- 
tenazione  fra  i  pesci  e  le  forme  più  perfette  dei  mol- 
luschi. Negli  Amphioxus  e  negli  invertebrati  i  eor- 
picelli  del  sangue  sono  privi  di  colore-  La  manife- 
stazione della  milza  coincide  con  il  cambiamento 
nel  calore  del  sangue.  Avrebbe  forse  la  milza  qual- 
che parte  nella   produzione  dei  coipicelli   rossi  del 


sangue  ? 


«  Un  sistema  vascolare,  che  conduce  un  fluido 
fornito  di  corpuscoli  colorati,  esiste  innanzi  la  for- 
mazione di  alcun  organo  speciale,  ed  é  quindi  pro- 
babile che  la  milza  abbia  poco  da  fare  con  la  for- 
niazion  dei  corpuscoli,  e  col  loro  coloramento.  Questa 
conclusione  é  poi  avvalorata  dal  fatto  che  l'ampu- 
tazion  della  milza  nei  cani  e  in  altii  animali  non  è 
seguita  da  alterazione  di  quantità  o  di  qualità  del 


154 

sangue,  e  che  essi  godono  buona  salute,  e  non  ino-, 
strano  differenza  sensibile  dagli  alili  che  non  hanno 
sopportato   l'operazione. 

«  Da  queste  premesse  può  concludersi  :  1°  La 
milza  degli  uccelli  e  di  molti  rettili  è  troppo  piccola 
per  esercitare  un'  azione  importante  sulla  economia 
animale.  2°  La  sua  mole  non  corrisponde  affatto  al 
numero  dei  corpuscoli  del  sangue  o  alla  rapidità  della 
composizione  e  decomposizione  degli  elementi  ani- 
mali. 3°  Noi  siamo  tuttora  ignoranti  del  vero  officio 
della  milza.  4°  La  funzione  di  questo  viscere  non  è 
indispensabile  al   mantenimento  della  vita   ». 

Fin  qui  il  Jones,  cui  si  potrebbe  or  domandare 
se  tali  conclusioni  sian  veramente  legittime,  e  se  i 
fatti  su  cui  si  fondano  siano  poi  sì  copiosi  da  ri- 
cavarne verità  generali.  E  pare  che  no.  Se  in  fatti 
riflettasi  come  il  chiaro  autore  abbia  cercate  le  re- 
lazioni di  peso  fra  la  milza  e  l'intiero  corpo  in  tre 
sole  specie  di  pesci,  e  in  sei  degli  uccelli,  dovrà  con- 
venirsi che  da  un  sì  ristretto  numero  di  animali  non 
si  è  autorizzali  a  desumerne,  che  in  tutta  l'ampia 
classe  di  volatili  la  milza  sia  più  che  troppo  piccola 
rispetto  al  corpo  ,  e  che  proporzionatamente  mag- 
giore si  offra  nella  serie  de'pesci.  Un  poco  più  vasto 
fu  il  campo  delle  osservazioni  dell'autore  riguardo 
ai  iettili,  avendone  rinchiusi  tredici  specie;  ma  pur 
un  tal  numero  non  è  bastante  a  sentenziare  ,  che 
in  tutta  questa  famiglia  la  milza  in  confronto  al 
corpo  ha  piccolezza  visibile.  E  quand'anche  questa 
proporzione  della  milza  all'in liero  corpo  si  mostrasse 
uniforme  nella  schiera  universa  dei  rettili  e  dei  vo- 
latili, potrà  egli  arguirsene  che  la  sua  mole  non  cor- 


155 

risponde  affatto  ai  corpuscoli  del  sangue?  Conoscia- 
mo noi  forse  con    precisione  il  rapporto    numerico 
dei  corpuscoli   al   sangue  ,   e  del   sangue  all'  intiero 
corpo  nei  diversi  ordini  di  animali?  Quel  che  sap- 
piamo con  certezza  gli  è  che  il  sangue  dei  mam- 
mìferi è  il  pili  elaborato,  e  il  pili  abbondante  di  cor- 
puscoli ,  e  che  intanto   i   mammiferi  sono  dotati  di 
milza  e  assolutamente  e  respettivamente  piiì  grande. 
Della  copia  dei  corpuscoli  nel  sangue  degli  uccelli  e 
dei  rettili  non  siamo    così    bene  istruiti  :  ma   pure 
sappiamo  che  la  quantità  del  sangue  rispetto  al  corpo 
è  in  questi  animali   molto    minore  che  non  sia   nei 
mammiferi  :  ed  è  anche    materia  di   fatto    come  il 
sistema  muscolare,  tranne  rare  eccezioni,  non  offrasi 
in  quelli  colorato  dal  sangue,   quanto  lo  si   mostra 
nei  mammiferi.  Con  che  viene  a  dirsi  che  di   molta 
ematosina,  che  fa  parte   integrante  dei   coriìuscoli  , 
non  si  ha  bisogno  nei    rettili   e  negli   uccelli,  corno 
se  ne  ha  nella  prima  classe  degli  animali.  E  questa 
rapidità  di  composizione  e  scomposizione  del  sangue 
è  poi  così  ben  dimostrata  da  assumerla  a  postulalo 
fisiologico  ?  Leggiamo  quel  che  ne  scrive  il  Paget. 
((  E  probabile  che  noi  ci  siamo  troppo  preoc- 
cupati del  farsi   e  disfarsi   delle  particelle   elemen- 
tari dell'  organismo    come  operazione   essenziale  al 
loro  mantenimento.  Ne!  primo  foggiaisi  dei   tessuti 
e  delle  i)arti  durante  lo  sviluppo  e  l'accrescimento 
è  assai    verisimile    che  ne  occorra  la    perfetta  lin- 
novazione;  ma  non  è  provato  che  a   conservare  uni- 
camente le  parti  organizzate  debba  effettuarsi  il  con- 
tinuo lor  cambiamento;  anzi  a  questa   dottrina  ri- 


156 

pugna  il  fatto  dell'  incontrarsi  raramente  rudimenti 
di  struttura  fra  le  strutture  perfette,  lo  dubito  se 
nei  più  attivi  muscoli  si  incontrino  mai  rudimenti 
di  fibre  ,  o  fibre  in  via  di  sviluppo  :  noi  abbiamo 
prove  bastanti  del  continuo  cambiarsi  dei  lor  ma- 
teriali ,  non  però  di  un  egual  cambiamento  nella 
struttura.  E  così  pure  del  sangue;  il  cambiamento 
dei  materiali  è  rapidissimo,  ma  la  rinnovazione  in- 
tiera dei  corpuscoli,  cbe  possiamo  valutare  dal  rap- 
porto dei  globuli  bianchi,  o  cellule  rudimentali  del 
sangue,  è  probabilmente  assai  lenta.  La  piccolissima 
quantità  di  ferro,  che  trovasi  nelle  escrezioni,  è  pure 
un  indizio  del  tardo  disciogliersi  dei  corpicelli  rossi 
del  sangue,  e  suggerisce  l'idea  che  nelle  vicende  della 
nutrizione  non  vi  ci  sia  un'eguale  rinnovazione  di 
tutte  le  sostanze  che  compongono  le  strutture.  Salve 
poche  eccezioni,  non  ci  sono  argomenti  per  credere 
che  in  ogni  atto  secretorio  le  cellule  glandulari  scop- 
pino e  si  disciolgano  in  modo  da  rendere  necessaria 
la  formazione  continua  di  nuove  e  fresche  cellule. 
Nelle  pili  attive  glandule  non  è  considerevole  il  nu- 
mero delle  cellule  degenerate,  e  le  osservazioni  di 
Ludwig  e  di  Rahn  intorno  la  secrezione  della  saliva 
indicano  che  nell'ordinario  lavorio  i  contenuti  delle 
cellule  gradualmente  trasformate  escono  fuori  attra- 
verso pareti  di  cellule  persistenti.  Pertanto  il  lavoro 
nutritivo  non  richiede  probabilmente  altro  che  una 
sostituzione  moleculare. Atomi  della  sostanza  di  rifiuto 
possono  entrare,  ed  atomi  delle  rinnovatrice  possono 
uscire  di  mezzo  a  strutture  di  un  ordito  persistente. 
Possono  le  pareti  delle  cellule    viver  più  a  lungo  , 


157 

mentre  il  contenuto  delle  medesime  soffre  una  pe- 
renne mutazione  (1)  ». 

Tale  era  pure  l'opinione  di  Kòlliker,  il  quale  pro- 
postosi da  se  stesso  il  quesito  :  Quando  e  in  qua! 
misura  i  corpuscoli  del  sangue  si  distruggono  nel- 
l'adulto ?  Risponde  :  «  Inclino  a  credere  che  gli 
elementi  del  sangue  non  siano  così  transitori!  come 
si  crede  generalmente.  (2)  )>  E  per  veiità  non  è 
conforme  alla  ragion  fisiologica  e  a  quel  che  sap- 
piamo intorno  la  economia  degli  organismi  che  i 
corpuscoli  del  sangue,  i  quali  costituiscono  la  parte 
più  elaborata  e  complessa  di  questo  latice  vitale  , 
abbiano  ad  ogni  istante  a  scomporsi.  Limpide  os- 
servazioni ne  ammaestrarono,  che  i  globuli  non  si 
risarciscono  con  tanta  prontezza.  E  noto  come  il 
sangue  dopo  i  ripetuti  salassi  si  impoverisca  di  glo- 
buli ;  si  esige  adunque  a  formarli  un  lavorio,  che 
non  è  l'opera  spedita  della  sola  digestione,  e  del- 
l'assorbimento solo;  e  che  non  saprebbe  nemmeno 
spiegarsi  coi  semplici  giri  attraverso  il  polmone  e 
nelle  reti  dei  capillari.  Or  se  a  comporre  i  globuli 
richiedesi  maggior  tempo  e  lavoi'O  che  non  sia  per 
gli  altri  materiali,  non  è  verisimile  che  appena  for- 
mati debbano  essi  risolversi  nei  loro  elementi.  E 
se  poi  la  vita  dei  globuli  non  è  sì  fugace  ,  come 
per  avventuia  si  crede.  Allora  anche  un  viscere  di 
piccola  mole  potrà  soddisfare  all'officio  di  elaborarli. 
Piccolissimi  sono  i  gangli  linfatici:  e  pure  il  chilo, 


(1]  Paget  -  Sulla  causa  del  moto  ritmico  del  cuore  -Letta 
allaSoc.  R.  di  Londra  18S7. 
(2)  Hislologia  18156  p.  656. 


158 
dopo  esservi  passato  dentro,  presenta  cellule  più  nu- 
mei'ose  e  più  gi'osse. 

Questa  maggiore  stabilità  degli  elementi  dei  glo- 
buli si  avvera  specialmente  per  la  ernatosina,  che 
può  considerai'si  come  la  più  permanente  di  ogni 
altra  sostanza  oiganica  del  sangue.  Ed  infatti  allor- 
ché si  disgregano  i  globuli  essa  resiste  alla  disso- 
luzione, e  riman  capace  di  colorire  uniformemente 
il  siero  od  ogni  altro  liquido  in  cui  fossero  sospesi 
i  corpuscoli.  Nella  effusione  del  sangue,  la  emato- 
sina  penetra  spesso  in  vita  i  tessuti  ,  come  questi 
se  ne  imbevono  dopo  morte.  E  che  [)oi  il  principio 
colorante  del  sangue  non  sopporti, almen  di  frequente, 
In  permutazione  a  cui  vanno  soggette  le  sostanze  or- 
ganiche, si  dimostra  anche  pel  fallo  notato  di  sopra: 
cioè  che  il  ferro  non  trovasi  che  in  quantità  minime 
nei  materiali  di  escrezione  che  trascinan  via  il  de- 
trito dell'organismo.  Ora  e  noto  come  il  ferro  co- 
stituisca non  solo  un  elemento  della  ematosina,  ma 
siavi  anche  in  dose  considerevole.  Adunque  questa 
materia  non  è  soggetta  a  permutazione  come  l'al- 
bumina e  la  fibrina.  Di  tale  sostanza  o  permanente, 
0  poco  alirien  disf.ittibile,  è  assai  ricca  la  milza,  la 
(|uale  dee  contenerne  un  deposito  allo  stato  libero, 
se  comunque  spogliata  di  sangue  colle  lavande  e 
colle  iniezioni,  offre  pur  sempre  il  suo  parenchima 
così  imbevuto  di  parie  colorante  da  tingere  in  rosso 
i  liquidi  in  cui  si  immerga.  Ho  sperimentato  più 
volte  che  pochi  grani  di  milza  diseccata  bastavano 
a  colorire  una  quantità  notabile  di  siero  del  sangue: 
ciò  che  non  avveniva  adoperando  eguali  dosi  di  le- 
galo 0  di  sostanza  muscolai-e  dello  stesso  animale. 


159 

Non  dirò  come  allo  stato  di  freschezza  gi'andissìma 
sìa  la  preminenza  della  mil/,a  sopra  gli  altri  visceri 
nella  facoltà  di  arrossai-e  i  liquidi,  potendo  ciò  at- 
tribuirsi alla  copia  maggiore  di  sangue  onde  è  irro- 
rata; ma  non  voglio  preterire  il  fatto,  che  in  alcuni 
animali  non  vi  è  altro  viscere  del  corpo  che  offra 
un  color  rosso  uniforme  se  non  la  milza:  le  stesse 
branchie  in  molti  pesci  sono  piuttosto  rosee  che 
rosse;  il   rosso  carico  appartiene  alla   milza.     - 

Nò  a  chi  volesse  insistere  sulla  parte  che  dee 
prendere  la  milza  sul  coloramento  dei  corpuscoli 
del  sangue  riuscirebbe  insuperabile  la  difficoltà  pro- 
mossa dall'A.:  che  cioè  «  un  sistema  vascolare,  che 
conduce  un  fluido  fornito  di  corpuscoli  colorati,  esiste 
innanzi  la  formazione  di  alcun  organo  speciale  «  ; 
imperocché  è  oggimai  noto  come  i  globuli  sanguigni 
primordiali  siano  assai  più  imperfetti  non  solo  di 
forma  ,  ma  anche  nel  grado  di  permanenza  ,  della 
sostanza  colorante,  essendo  ne'  primordi  della  vita 
assai  più  facile  a  distruggersi  che  noi  sia  in  aj)- 
pi'esso.  I  globuli  primordiali  sono  rotondi  ,  granu- 
lali, forniti  di  nucleo  e  appena  tinti  di  un  color  ro- 
seo: gli  è  nel  procedimento  della  organica  evoluzione 
che  questi  corpicciuoli  a  poco  a  poco  maturatisi,  spo- 
gliandosi delle  gr'annulazioni,  raccogliendosi  in  più 
piccola  mole  di  foi'ma  discoide,  perdendo  il  nucleo 
e  saturandosi  di  un  bel  rosso.  Or  se  i  globuli  im- 
perfetti  dell'embrione  possono  piodursi  sulla  super- 
ficie dei  tessuti  in  via  di  formazione,  ciò  non  prova 
che  i  corpuscoli  più  maturi,  che  chiamano  tipici,  non 
abbisognino  dell'  opera  di  un  paienchima  viscerale 
per  essere  elaborali.  Ed  in   fatti  le  più  recenti  os- 


160 
servazloni  di  Kòlliker  tendono  a  mostrare    che  già 
al  tempo  della  nascila   una  parie  dei  globuli  trae  la 
sua  origine  dalla  polpa  della  milza. 

Alla  ematogenesi  splenica  nemmen  si  oppone  la 
osservazione  di  (ìray,  che  cioè  il  sangue  reduce  dalla 
milza  sia  più  povero  di  corpuscoli  rossi  ,  che  non 
quello  condottovi  dall'arteria,  potendo  ben  conciliarsi 
il  disfacimento  di  alquanti  globuli  col  rinnovamento 
di  altri  ,  ai  quali  è  aperta  la  via  dei  linfatici  per 
entrare  nel  torrente  della  cii-colazione.  Così  anzi  ac- 
cordansi  mirabilmente  i  ti'ovati  di  Kòlliker  che  nella 
polpa  splenica  vide  globuli  in  via  di  disgregagazione; 
quelli  del  Tigri,  il  quale  ci  rinvenne  le  cellule  epi- 
teliali distaccate  della  interna  superficie  dei  vasi 
sanguigni;  e  gli  altri  di  Graes,  che  nel  sangue  della 
milza  notò  molti  giani  pigmentali  ,  oi-a  liberi,  ora 
riuniti  in  masse  od  anche  racchiusi  in  cellule,  quali 
più  e  quali  men  rossi  o  nereggianti,  e  ribelli  lutti 
all'azione  dell'alcool,  dell'etere,  degli  alcali,  dell'acido 
acetico:  brani  verisimilmente  prodotti  da  scomposi- 
zione di  globuli:  e  finalmente  le  indagini  fotografiche 
instituite  da  Draper  su  goccioline  di  sangue  splenico 
arterioso  e  venoso  estratti  dalla  rana,  e  insegnanti, 
che  nel  sangue  della  vena  splenica  vi  è  un  maggior 
numero  di  corpuscoli  alterati,  rigonfi,  allungati,  fra- 
stagliati, che  non  se  ne  rinvengano  nel  sangue  ar- 
terioso :  questi  trovati,  io  dico,  si  accordano  colle 
ossesvazioni  di  Hewson,  di  Tiedeman  e  di  Gmelin,  i 
(juali  videro  rosseggiare  i  linfatici  della  milza  per 
globuli  rossi,  che  da  questo  viscere  erano  trasportati 
al  condotto  toracico.  Attribuendo  alla  milza  un  la- 
voro di  scomposizione,  e  ad  un  tempo  un  ministero 


161 

di  rifacimento,  s'  intende  il  perchè  cotesto  viscere 
lasci  scoprire  all'analesi  della  sua  polpa  e  acido  urico, 
che  procede  dalla  trasformazione  dei  tessuti,  e  osma- 
zoma,  che  riguardasi  ppre  come  un  prodotto  di  de- 
composizione di  alcuni  materiali  immediati,  e  allato 
a  questi  ematosina  ,  fosfati  e  materia  grassa  che 
servono  a  fabbricare  i  corpuscoli.  Adunque  e  le  ri- 
cerche istologiche  e  le  chimiche  concorrono  ad  uni- 
ficare le  due  opposte  dottrine,  e  a  stabilire  che  la 
milza  accoglie  bensì  i  globuli  logori  e  disformati  , 
ma  di  queste  spoglie  a  mò  di  fermento  si  giova  a 
suscitare  nei  materiali  organici  un  processo  di  for- 
mazione e  così  a  crearne  dei  nuovi. 

La  notabile  piccolezza  della  milza  in  alcuni  ani- 
mali affacciata  dal  Jones  come  prova  del  poco  valore 
da  attribuirlesi  in  un'  opera  di  sanguificazione,  può 
solo  mostrare  che  questo  lavoro  non  le  viene  affidato 
esclusivamente,  e  che  non  in  tutte  le  specie  il  viscere 
splenico  consegue  la  stessa  importanza,  e  adempie 
al  suo  ufficio  colla  medesima  continuità  ed  energia. 
Se  per  grazia  di  esempio  la  milza  fosse  destinata  a 
saturare  di  azoto  i  materiali  che  ne  difettano  ,  se 
dovesse  convertire  lo  zucchero  in  grasso  del  sangue, 
è  chiaro  come  questo  viscere  avrebbe  a  mostrarsi, 
tanto  pili  sviluppato  e  operoso  quanto  più  V  ani- 
male introducesse  materie  zuccherine  e  amilacee. 
Non  è  adunque  necessario  che  si  verifichi  una  esat- 
ta proporzione  fra  il  volume  della  milza  e  la  co- 
pia del  sangue  per  dimostrare  che  questo  viscere 
partecipa  alla  sua  formazione.  Altri  organi  concor- 
rono similmente  allo  stesso  ufficio,  e  possono  alter- 
nare con  esso  nello  sviluppo.  Così  fu  osservato  da 
G.A.T.CLXIV.  H 


162 

Heusinger,  che  qnantunque  la  milza  sia  nei  pesci  or- 
dinariamente più  piccola  che  negli  altri  vertebrati 
comparativamente  al  fegato  e  al  resto  del  corpo  , 
pure  in  alcune  specie  di  questi  animali  essa  è  molto 
voluminosa  rispetto  al  fegato,  e  allora  questo  viscere 
offresi  assai  più  piccolo  in  paragone  del  corpo. 
(Strut.  e  funz.  della  milza).  E  il  Carus  insegna  aper- 
tamente che  la  milza  è  tanto  più  sviluppata,  quanto 
più  decresce  il  volume  del  fegato.  Così  negli  squali, 
nelle  trotte,  negli  storioni  notabile  è  la  mole  della 
milza,  e  piccolo  il  fegato. 

La  ricantata  obbiezione  del  non  alterarsi  la  quan-» 
tilà  del  sangue  negli  animali  cui  viene  tolta  la  milza, 
non  è  poi  sempre  giusta,  né  così  decisiva  come  fa- 
cilmente si  giudica.  Non  è  giusta,  se  molti  fra  questi 
animali  soccombono  indipendentemente  dagli  effetti 
traumatici;  se  nei  caqi  di  Bernardo  il  sangue  mo« 
stravasi  nero  e  incapace  di  coagulazione,  o  i  gangli 
linfatici  si  offrivano  alterati,  e  sparsi  di  ascessi.  Non 
si  reputerà  decisiva,  ove  pongasi  mente  al  magistero 
della  natura  capacissima  di  supplire  colla  maggior 
operosità  di  altri  visceri  concorrenti  allo  stesso  uf- 
ficio alla  mancanza  del  nostro  ganglio  sanguigno. 
Ed  in  fatti  nelle  esperienze  di  Malpighi,  i  cani,  ai 
quali  era  stata  estirpata  la  milza,  uccisi  ed  aperti 
dopo  qualche  tempo  mostravano  il  fegato  notabil- 
mente accresciuto  di  mole:  indizio  della  compensa- 
zion  fisiologica  determinatasi  in  questo  viscere  ema- 
togenico. E  volendo  poi  chiamare  in  soccorso  lo 
stato  patologico,  cioè  l'abolizione  del  tessuto  splenico 
per  opera  di  processo  morboso,  si  potrebbero  recare 
in  mezzo  non  pochi  fatti  a  conferma  del  sopra  espo- 
sto principio.  Così  il  Fuchrer  in  un  caso  di  fungo 


163 

midollare  della  milza,  airalterazione  totale  di  questo 
viscere  vide  congiungersi  un  più  notabile  sviluppo  di 
tutti  i  gagli  linfatici,  alcuni  dei  quali  giungevano  al 
volume  di  una  prugna  e  presentavano  un  color  di 
rosso  cupo.  «  Un  sang  noir  et  liquide  gonflait  les 
veines  de  la  rate,  comme  celles  des  organes  prin- 
cipaux,  il  y  avait  formation  de  gravelle  et  d'acide 
urigne  ».  Le  stesso  autore  ne  assicura  di  aver  os- 
servato questo  stato  ipertrofico  dei  gangli  linfatici 
nelTatrofia  della  milza,  e  negli  animali  ai  quali  essa 
era  stata  estirpata. 

I  fatti  patologici  sono  poi  tutti  in  acconcio  di 
attribuire  alla  milza  qualche  parte  nell'opera  della 
sanguificazione.  Fonte  principale  delle  varie  caches- 
sie è  lo  stato  morboso  di  questo  viscere:  ed  è  noto 
che  la  condizione  cachettica  è  sempre  accompagnata 
da  respettiva  diminuzione  di  corpuscoli  e  di  albu- 
mina nel  sangue.  Quante  volte  in  questo  latice  vi- 
tale trovansi  alterati  i  globuli  rossi  ,  o  si  rinven- 
gono corpicelli  insolili,  come  cellule  granulate  pig- 
mentarie, o  ammassi  di  materia  granulare,  o  cellule 
somiglianti  ai  corpicciuoli  del  pus  ,  altrettante  la 
milza  è  ammalata  (1).  La  leucocitemia,  in  cui  vi  è 
diminuzione  dei  globuli  rossi,  aumento  dei  bianchi 
e  impoverimento  di  virtiì  plastica  nel  sangue,  donde 
la  tendenza  all'emorragia,  suol  riconoscere  per  con- 
dizion  patologica  l' ipertrofia  della  milza.  Lo  scor- 
buto, r  idrope,  la  clorosi,  il  diabete,  in  cui  viziata 


(1)  I  documenti  di  questa  proposizione  possono  leggersi 
nella  nota  di  M.  Edwards  a  pagina  78  deli'  opera  -  Lecons 
sur  la  physiologie  etc.  Paris  1857. 


164 

è  la  crasi  del  sangue,  non  riconoscono  spesso  altra 
eausa  che  un'  alterazione  splenica.  Nel  marasmo  e 
nella  vecchiezza  la  milza  è  piccola,  flaccida,  pallida, 
porosa;  le  cellule  capillari  e  i  corpuscoli  di  Malpighi 
vi  si  rinvengono  in  piccola  quantità,  e  d'accordo  con 
queste  apparenze  il  sangue  trovasi  impoverito  di 
globuli. 

Alla  costituzione  pletorica  ,  allo  sviluppo  car- 
diano  e  muscolare,  alla  disposizione  alla  flogosi  e 
all'apoplessia,  corrisponde  un  maggiore  svolgimento 
della  milza;  cioè  una  mole  più  grande  senza  dimi- 
nuzione della  genuina  consistenza,  ed  un  aumento 
dei  coipuscoli  del  Malpighi  e  delle  cellule  capillari. 
Questa  osservazione  è  di  Fuchrer,  il  quale  segnalò 
tale  condizione  del  vìscere  splenico  coH'appellativo 
di  pletorica.  Per  verità  si  potrebbe  sollevar  qualche 
dubbio  se  lo  stato  prospero  della  milza  figuri  qui 
come  causa,  od  abbiasi  piuttosto  a  riguardar  quale 
effetto.  Ed  in  fatti  trattandosi  di  un  organo  assai 
vascolare,  non  sarebbe  a  maravigliare  un  suo  mag- 
giore sviluppo  nella  costituzione  pletorica.  Il  dubbio 
però  viene  sciolto  dalla  considerazione  dello  stato 
morboso,  il  quale  ci  ammaestra  come  nella  serie  dei 
fatti  il  vizio  della  milza  preceda  quasi  sempre  quello 
del  sangue,  in  modo  da  poternelo  riguardar  come 
causa  senza  tema  di  errare.  Non  è  abuso  dell'argo- 
mento di  analogia  il  tradurre  questa  succcssion  di 
fenomeni  dal  campo  della  malattia  alla  condizion 
fisiologica. 

Pertanto  le  ragioni  critiche  del  dottor  lones  non 
sono  così  pesanti  da  trarne  vinti  alla  sua  sentenza 
-  essere  noi  tuttavia  ignoratiti  del  vero  ufficio  della 


165 

milza,  e  potere  intanto  affermare  che  questo  non  e 
di  gran  rilevanza.  -  Per  certo  che  la  funzione  sple- 
nica  non  sia  essenziale  al  mantenimento  immediato 
della  vita,  come  lo  sono  il  fegato,  il  ventricolo,  le 
fntestina,  i  reni,  il  polmone,  il  cuore,  il  cervello, 
il  midollo  spinale,  è  materia  di  fatto;  che  la  man- 
canza della  milza  possa  essere  in  qualche  modo  su{>- 
plita  da  maggiore  sviluppo  e  da  operosità  maggiore 
di  altri  organi,  vien  pure  insegnato  dalla  esperienza: 
ma  che  il  ministero  di  questo  viscere  non  abbia  il 
suo  gran  peso  nella  organica  economia,  e  che  la  na- 
tura di  tal  ministero  si  asconda  tuttavia  in  una  oscu- 
rità impenetrabile,  è  tal  sentenza  che  io  non  saprer 
professare. 

{Conlimiay 


166 


Intorno  a  tre  problemi  proposti  nella  raccolta  inti- 
tolata (i  NonveUes  annales  de  mathématiques  w  e 
pubblicata  dai  sigg.  Terqiiem  e  Gérono  ,  Nola  di 
Francesco  Siacci, 


N. 


Iella  raccolta  che  si  pubblica  a  Parigi,  intitolata 
NouveUes  annales  demathématiques, 
trovansi  inserite  col  titolo  di  Q  u  e  s  t  i  o  n  s  sotto 
i  n.'  290,  470,  493  le  ire  seguenti  proposizioni: 

I.  Trovare  il  coefficiente  di  a;""^  neW equazione  in 
X  di  grado  n-\-\,  che  ha  per  radici  gli  n  -+-  1  coef- 
ficienti biniomali  di  (a  -4-  h)"  (*). 

II.  Se  sulla  diagonale  d\in  rettangolo  come  corda 
si  descrive  un  cerchio,  il  luogo  delle  estremità  d'un 
diametro  parallelo  alV  altra  diagonale  è  un'  iperbola 
equilatera  (**). 

III.  Sia  P  un  punto  di  una  conica,  C  il  centro 
di  cavatura  in  P,  0  il  centro  della  conica;  per  C 
si  conduce  un  parallela  alla  tangente  in  P;  sia  D  il 
punto,  ove  questa  parallela  è  incontrala  dal  diame- 
tro OP  ;  si  ha  CD  eguale  al  terzo  del  raggio  di  cur- 
vatura della  evoluta  in  C-  Abel  Transon  ^***) 


(*)  NouveUes  annales  de  mathématiques.  Journal  des  can- 
didats  aux  écoles  polytechnique  et  normale  redige  par  M. 
Terquem  et  M.  Gérono.  Tome  XIII.  Paris,  Mallet-Bache- 
lier,  1854,  pag.  192. 

(**)  Noudelles  annales  de  mathématiques.  Journal  des 
candidats  aux  écoles  polytecnique  et  normale:  redige  par  M. 
Terquem  et  M.  Gérono.  Tome  XVIII.  Paris,  Mallet-Bache- 
lier  1859,  pag.  170. 

(***)  NouveUes  annales  de  mathématiques.  Journal  des 


167 

La  risoluzione  o  la  dimostrazione  di  queste  pro- 
posizioni è  Toggetto  di  questa  Nola. 

1.  Trovare  il  coefficiente  di  af''^  neW equazione  in 
X  di  grado  n-i-1 ,  che  ha  per  radici  gli  n-f-l  coef- 
ficienti binomiali  di  (a  -+-  6)". 

Nell'opera  del  sig.  Agostino  Luigi  Cauchy  in- 
foiata Analyse  Algebrique,  cap.  IV,  §.  3. 
trovasi  (*)  la  seguente  formola  numerata  (2); 

{x  -+-  y){x  -+-  y  —  1)  .  .  .  (ic-f-j/—  rt-f-1) 
''  1.2.3.  .  .  n 

__x{x~ì)...{x—n-+-\)       x{x—\)...{x—n-+-2)     ^ 
"  ~"  1.2.3...n  ^       1.2.3.. .(n—1)        '1 

x{x—\)...{x~n-h-3)    y{y—'i) 


1.2.3  .  .  .  (n~2)  1.2 


etc. 


X      y(y~1)..-(y— n-f-2)     y(y-l)...(y-n-4-l)    ^ 
1    ■       1.2.3...(n— 1)  1.2.3...JI 

Nell'opera  medesima  alla  fine  della  Nota  VI  si 
legge  (**):  «  Si  dans  la  formule  (2)  [chap.  IV.  §.  3| 
«  on  suppose  à-la-fois  x  =  n,  y  =  n  on  trouvera 

2«(2w— l)...(n-f-1) 


=  1 


1.2.3...(u-—  \}n 
nV     fn.n^Y 


i;     V    1.2 


candidats  aiix  écoles  polyfcclinique  et  normale:  redige  par.  M. 
Terquem  et  M.  Gérono.  Tome  XV III.  Paris  Mallet-Bache- 
lier  1859,  pag.  443. 

(*)  Cours  d'analyse  de  l'école  royale  polytecnique;  par  M. 
Angus tin-Louis  Cauchy.  /.'«  Partie.  Analyse  algebrique.  De 
l'imprimerie  royale,  chez  Debure  frères  1821,  pa?    100. 

n  Ivi,  pag.  536. 


168 

Oi'a  il  coefficiente  richiesto  essendo  la  sonnma 
dei  prodotti  binari  degli  n  H-l  coefficienti  binomiali, 
chiamando  B  questo  coefficiente,  A  il  coefficiente 
di  x",  Sg  la  sommadei  quadrati  degli  n  -+-  1  coeffi- 
cienti binomiali,  dalle  funziont  simmetriche  avremo 

/V2— S„ 


B  = 


'2 


2       ' 

ed  essendo 

A__9n       e    .     2n(2».-l)...(n-f-1) 

'     ^  '^    1  .2.3...(H-l)n    '    . 

sostituiti  tali  valori,  il  coefficiente  richiesto  sarà 

22-1  _  (2n-l)(2>t-2).  ..(n-f-l) 
1.2.3...^n  — 1) 

II.  Se  sulla  diagonale  d'un  rettangolo  come  corda 
si  descrive  un  cerchio,  il  luogo  delle  estremità  d\ui 
diametro  parallelo  all'  altra  diagonale  è  un  iperbola 
equilatera. 

1.  Sia  la  la  diagonale  di  questo  rettangolo.  I 
centri  degl'infiniti  cerchi,  che  si  costruiscono  sopra 
questa  diagonale  come  corda,  debbono  trovarsi  lutti 
sopra  una  retta,  che  passa  pel  centro  del  rettangolo, 
ed  è  normale  alla  diagonale  medesima.  Tale  retta  sia 
l'asse  delle  ascisse;  l'altra  diagonale  sia  l'asse  delk 
ordinate.  Dunque  l'ordinata  y  di  un  punto  qualunque 
del  luogo  sarà  sempre  data  dal  raggio  del  circolo 
corrispondente,  mentre  il  piede  di  questa  ordinala 
coinciderà  col  centro  del  cerchio  medef5Ìmo.  Con- 
gFungo  per  mezzo  di  un  raggio  il  piede  di  quest'or- 
dinata con  l'estremità  della  diagonale  corda  di  tutti 
i  cerchi.  Questo  raggio  sarà  =  j/,  talché  avremo  un 


169 

triangolo  rettangolo,  di  cui  l'ipotenusa  è  y,  e  ì  cateti 
sono  a,  X.  Dunque 

elle  è  l'equazione  di  un'iperbola  equilatera  riferita 
ad  assi  diametrali  coniugati  (*). 

Se  chiamiamo  A  l'angolo  formato  dai  diametri 
coniugati  ,  ai  quali  1'  iperboia  equilatera  è  riferita 
neirequazione  (1),  il  semiasse  principale,  che  chia- 
meremo r,  sarà  dato  dall'equazione 

(2)  r^  =  a^senA. 

Per  trovarne  poi  la  posizione  giova  ricordare  , 
che  il  prodotto  delle  tangenti  trigonometriche  degli 
angoli  forniati  da  ciascuno  dei  diametri  coniugati 
di  un'iperbola  equilatera  col  suo  semiasse  principale, 
è  sempre  =1,  cioè  a  dire,  che  questi  angoli  sono 
fra  loro  complementari.  Onde  essendo  A  l' angolo 
dei  due  diametri,  se  chiamiamo  u  l'angolo,  che  l'uno 
di  essi  fa  col  semiasse  principale,  l'angolo  che  farà 
r  altro  col  semiasse  medesimo  sarà  =r  n  :±:  A  ,  ed 
avremo 

(3  )  K  -H  W  rt:  A  =  — 

ossia  2u  è  complemento  di  =±:  A,  o  ciò  che  torna 
lo  stesso  ±  2u  è  il  complemento  di  A.  Ora  1'  an- 
golo acuto  formato  dalie  due  diagonali,  preso  po- 
sitivamente o  negativamente  ,    secondo  che  per  A 

(*)  È  da  osservare,  che  non  essendo  stata  in  questa  di- 
mostrazione supposta  alcuna  proprietà  caratteristica  del  ret- 
tangolo ,  il  teorema,  di  cui  qui  è  proposito,  potrà  estendersi 
ad  ogni  quadrilatero,  eccetto,  come  vedremo  pel  quadrato, 
quei  quadrilateri,  ove  le  diagonali   facessero  angolo  retto.  . 


170 

debba  essere  preso  il  segno  superiore  o  l'inferiore, 
è  sempre  il  complemento  di  A:  dunque  il  suddetto 
semiasse  principale  coincideià  colla  retta  bisettrice 
dell'angolo  acuto  ,  che  fanno  tra  loro  le  diagonali 
del  rettangolo. 
Dalla  (3)  si  ha 

±:  senA  =  cos2m 
Sostituendo  questo  valore  nella  (2),  si  ottiene 
m  r^  =  a^cos2w 

e  per  conseguenza  la  detta  iperbola   equilatera  ri- 
ferita agli  assi  principali  avrà  per   equazione 
(5)  x^  —  y^  =  ahos2u  . 

Da  questa  equazione  si  deduce: 

V.  che  r  iperbola  passa   pei  quattro   vertici  del 
rettangolo:  infatti  questi  punti  hanno  per  coordinate 
x=  ^  flcosM  ,     1/  =  rt  asen  ii  , 

valori,  che  sostituiti  nella  (5),  la  rendono  una  iden- 
tità; 

2?  che  scemando  fino  a  0  l'angolo  2u  ,  1'  asse 
dell'iperbola  equilatera  cresce  fino  a  2a; 

3"  che  crescendo  2h,  decresce  l'asse    dell'iper- 

boia,  e  quando,  come  avviene  nel  quadrato,  2m=   ^ 

non  si  ha  più  iperbola  ,  ma  una  retta  coincidente 
alla  diagonale,  che  non  è  corda  degli  infiniti  cer- 
chi (*). 

(*)  L'equazione  (S)  darebbe  y^^x^,  ossia  y==ì=x,  equa- 
zione, che  esprime  non  una  ma  due  rette.  Ritornando  però  alla 
supposta  costruzione  si  viene  a  riconoscere  che  nell'equazione 
medesima  il  solo  segno  superiore  deve  essere  considerato. 


171 

TI 

4!  che  quando  2«  supera  ^  ,  gli  assi   dell'iper- 

bola  s'invertono,  e  vanno  continuamente  crescendo, 
col  crescer  di  2u,  fino  a  che  sia  2m  =  tt,  oltre  il 
qual  limite  decrescono  subendo  le  stesse  fasi  già 
osservate  nella  variazione  di  2i<  da  0  fino  a  n. 

2.  Se  ora  rimanendo  fissa  una  delle  diagonali 
del  rettangolo,  facciasi  variare  l'inclinazione  dell'altra 
da  2u  =  i),  fino  a  2u  =  Tt,  il  luogo  geometrico  dei 
vertici  delle  iperbole  equilatere  corrispondenti  sarà 
espresso  dalla  equazione  (4),  cioè  a  dire  dalla  equa- 
zione polare 

(4)  r^  =  à"^ cosali . 

Dalle  equazioni 

X  =  rcosw  ,     ij  =  rsenw 
si  ricava 

X    ^~~  Il         X         li 

r^=x^'-^ii^y  cos2m=cos^w — sen^«= k — =—5 — ^o  • 

Per  la  sostituzione  di  questi  valori  la  (4)  si  tra- 
sforma in 

(«^  -+-  tff'  =■  a^{x^  —  if) 

equazione  appartenente  alla  lemniscata  di  Bernoulli. 
i  III.   Sia  P  un  punto  di  ima  conica,  C  il  centra 

di  curvatura  in  P,  0  il  centro  della  conica;  per  C 
si  conduce  una  parallela  alla  tangente  in  P  ;  sia  D 
il  punto  ove  questa  parallela  è  incontrata  dal  dia- 
metro OP;  si  ha  CD  eguale  al  terzo  del  raggio  di 
curvatura  della  evoluta  in  C. 

1.  Sia  p  il  raggio  di  curvatura  della  conica  al 
punto  P,  e  p^  il  raggio  di  curvatura  della   evoluta 


172 

al  punto  C;  siano  ^,  $  gli  angoli,  che  le  tangenti 
in  P  e  in  C  fanno  coll'asse  delle  ascisse;  siano  fi- 
nalmente ds,  dS  i  differenziali  degli  archi  rispettivi 
della  conica  e  dell'evoluta  nei  punti  P  e  C.  Si  avrà 

ds  dS 

ma 

|2)  dS  =  dp  ,     0  =  A-4-9    : 

eseguendo  tali  sostituzioni,  e  divise  quindi  le  (1) 
l'uno  per  l'altra,  si  ha 

(3)  ..=^. 

Considerando  ora  il  triangolo  PCD,  essendo  la 
retta  CD  parallela  alla  tangente  in  P,  sarà  rettan- 
golo in  C,  ed  avrà  l'angolo  in  D  eguale  all'angolo 
formato  dalla  tangente  col  diametro  OP,  Onde  chia- 
mando E  quest'angolo,  avremo 

(4)  CD  =  CPcotE  =  jscotE  . 

La  questione  adunque  riducesi  a  dimostrare  l'egua- 
glianza delle  due  espressioni 

£dp_ 

ds 
ovvero  di 


3|ocotE 


-—  ,     3cotE 
ds 

Si  riferisca  la  conica  ad  assi  diametrali  con  l'ori- 
gine in  un  punto  qualunque  della  curva,  e  sia  £  l'in- 
clinazione di  questi  assi.  La  sua  equazione  sarà  in 
generale 


173 

(5)  y^  •=  Aa;'2  -+-  2Ba;  : 

Da  questa  estraendo  le  derivate  si  ricava 
/     ,         A^  H-  B 


,„      SB^Ax  -+-  B) 

y  = -. — 

Ora 


_        (1-f- r/'-^-H2y'coss)^ 
^^  ^~  y"sen£ 

Differenziando  l'equazione  (7),  si  ottiene 

1  ^ 

1    r3(l-+-i/'^-h2?/'cose)%'-4-coS£)t/"^-(lH-t/'^H-2y'cos£)Y 

seneL  y"^ 

e  dividendo  questa  per 

i_ 

ds  =  (1  -+-  y'^  -H  2i/'cose)"^  dic 

ne  risulta 


do; 


Sostituendo  ora  ?/',  y",  y'"  per  mezzo  delle  forinole  ( 
nell'equazione  (8)  si  avrà  primieramente 


174 

6s 


sensj  B*  y^ 

sensL 


^6 


3  p(Aa;-HB)y^-4-(Aa;-f-B)^-i-2y(Aa:-t-B)-^cos£-B^(Ax-H  B  -f-ycos< 

B-^j/  ~ 

e  se  si  pone 

(9)  M  =  Aa;  -+-  B 

si  avrà 

(10)  ^  —    3  rMt/^-^(2M^— B^)ycos£H-M^--B^M-| 
d-s        sensL  B"^j/  J 

ma  dalla  (9)  si  ha 

M2  ==  (Aa; -+- B)2  =z  Aj/2 -+- B2  , 

2M2— B2=:2Ai/2-f-B2,  M^~B2M=:M(M2-  B2)=AMy2 

quindi  per  tali  sostituzioni  la  (10)  diviene 

dp  __  _3_rM(1  -4- A)i/-+-(2Ay2_HB2)ycos='-i 
ós       sensL  y  J 

e,  rimesso  per  M  il  suo  valore,  l'icaviamo 

dp  _  ,^r(2Ay^  -H  B-^)coss  -^  (1  H-  A)(A^  +  B)y-| 
^^*^d".-'^L  B^iiil^ J  ' 

Ora  polendo  l'origine  delle  coordinate  trovarsi  in 
un  punto  qualunque  della  curva,  sia  P  questo  punto. 
Si  avrà  allora 

x  =  0  ,     y  =  0  ,     s  =  E    . 

Eseguite  queste  sostituzioni  si  ha 


1T5 

(12)  ^  =  3cotE, 

come  doveasl  dimostrare. 

2.  Veniamo  a  qualche  applicazione.  Neil'  equa- 
zione (12)  si  ha  l'angolo  E  formato  dalla  tangente 
in  un  punto  qualunque  della  conica  col  diametro 
che  passa  pel  punto  medesimo  ,  in  funzione  del 
raggio  di  curvatura  della  conica  in  esso  punto.  Essa 
quindi  ci  offre  un  metodo  per  conoscere  il  mede- 
simo angolo  in  funzione  delle  coordinate  del  punto 
della  conica. 

Prendendo  l'ellisse  o  l' iperbola  riferite  al  ver- 
tice di  equazione 

avremo 

n  .  b^         ^  b^ 

2  a^  a 

(13)  : 

a'2q=6^     c^  b'^ 

1-1- A= — —=—.     Ax-hB=^-^{a  —  x) 

i  quali  valori  sostituiti  nella  (11)  ci  danno 

dp _^  3c^(a  — a;)y 

ds  à^b^ 

Se  al  luogo  di  x  si  pone  a;  h- a,  si  ottiene 

dj3  Sc'^xy 

ds  à^b^ 

ove  X,  y  sono  le  coordinate  delle  due  curve  riferite 

al  centrojed  eliminato  —  per  mezzo  della  (12)  si  ha 


t76 

e  quindi 

tangL  =  =P  -5—  . 

In  queste  equazioni  il  segno  superiore  è  relativo 
all'ellisse,  e  1'  inferiore  all'  iperbola.  Per  un  circolo, 
e  =  0,  e  quindi  tangE  =  oc;  cioè  a  dire  che  l'an- 
golo E  nel  circolo  è  costantemente  retto,  siccome 
è  nolo. 

Per  una  parabola  riferita  al  vertice  di  equazione 

abbiamo 

La   {llj  per  tali  sostituzioni  diverrà 

««)  t-j 

d/3 
ed  eliminato -p- per  mezzo  della  (12)  ricavasi 
ds 

(17) 

e  quindi 


ora  chiamando  ip  V  angolo  ,   che  fa  la  tangente  nel 
punto  [x^y]  coll'asse,  si  ha 

p       Ali 

L=^^  =  tangy  , 

y        da; 


cotE 

V 

tangE  : 

y' 

177 

dunque 

E  =^  f  , 

ossia  un  diametro  qualunque  della  parabola  è  j3a- 
rallelo  all'asse  della  medesima;  siccome  è  noto. 

3.  Il  teorema  or  ora  dimostrato  del  slg.  Abel 
Transon  può  essere  applicato  a  determinare  o^,  os- 
sia il  raggio  di  curvatura  in  C  dell'evoluta  della  co- 
nica, in  funzione  delle  coordinate  del  punto  P. 

Sia  di  nuovo  l'equazione  generale 

(5)  if  =  Ax'  H-  %Bx 

riferita  però  ad  assi  ortogonali.  Avendosi  per  la  (7) 

9  = u —    » 

y 

sostituendo  in  questa  i  valori  di  ij\  y"  per  mezzo 
delle  formole  (6),  abbiamo 

(l»j  P  =  ~ B2 • 

Per  un'ellisse  od  un'iperbola  di  equazione 

sostituendo  nella  (18)  1  -+-  A  ,  B^  per  mezzo  delle 
formole  (13),  si  ha 

3 

^= — d? — ' 

e  questa  espressione  essendo  indipendente  da  x  varrà 
anche  quando  l'equazione  dell'ellisse  o  dell'iperbola 
sia 
G.A.T.CLXIV.  12 


178 
in  virtù  della  quale  si  ha  anche 

3 

Ora  dalla  (3)  e  dalla  (12)  avendosi 

Pj  =  3pcolE. 
sostituendo  cotE  per  mezzo  dell'equazione  (15),  e 
p  per  mezzo  della  (19)  si  ottiene 

3 

Sc'xuiaY  -H  b'xY 

(20)  P,==-:^ '-^, -^ 

nella  quale  equazione    il  segno  superiore    vale  per 
Tallisse,  e  l'inferiore  per  l'iperbola. 

Prendendo  una  parabola  di  equazione 
ij^  =  2px 

si  ha 

A:==0  ,     B  =  p  : 

per  cui  l'equazione  (18)  ci  dà 

(21)  p  = ^ 

e  per  la  parabola  avendosi  dalla  (17) 

cotE  =  ^ 
P 

troveremo  per  il  raggio  di  curvatura  della  sua  evo- 
luta 


179 


4.  Le  espressioni  di  p^  trovate  di  sopra  per  l'el- 
lisse, l'iperbola  e  la  parabola,  potevano  dedursi  di- 
versamente delle  formole  antecedentemente  stabilite. 
Chimando  infatti  X  ,  Y  le  coordinate  del  punto  C 
dell'evoluta,  e  facendo 

dY  d^Y 

22__ Y'  Y" 

dX  ~      '     dX2  ~        • 
si  ha,  assumendo  X  per  variabile  indipendente, 

(23)  Pi  = YTi 

Determinato  che  sia  dX,  e  dY  si  ricaverà  im- 
mediatamente Y',  e  Y".  Ora  in  virtù  delle  (2)  es- 
sendo 

da:  dY  ós  ós 

d7  =  -dX'     '^P-Ty'^^  =  -Tj^ 

si  avrà 

Per  un  ellisse  od  una  iperbola  di  equazione 

a2  "^  62 
avendosi 

Ax  a^y 


180 
e  colla  forinola  (14)  essendosi  trovalo 

óp Sc'^xy 

Ts         ^    a^b' 

sostituendo  tali  valori  nelle  (24),  si  ricava 

^       3cVdx        ,-,       — 3cVdy 
(25)         dX.-=— ^^,     dY:= ^^—  . 

Per  conseguenza 

dY  ci% 

-—  —  Y'=-+ 

dX  ~         ~~  b-^x 

e  quindi  differenziando,  e  dividendo  questa  per  dX, 
si  troverà 


dX2  3c Vj/  ■ 

Sostituito  adunque  Y',  Y"  nella  (23),  si  ottiene  per 
il  raggio  di  curvatura  dell'evoluta  dell'ellisse  e  del- 
l' iperbola 


3c''xy{aY  -h  b'x'^y^ 

espressione  identica  alla    (20). 

Finalmente  per  una  parabola  di  equazione 

y^  =  2pX 

avendosi 

àx       y 
ed  essendosi  trovato  colla  (16) 

As        p 


181 

sostituendo  tali 

valori 

nelle 

(24) 

,  si  ricava 

(26)                    dX  ::= 

=  Sdx  , 

dY=: 

=  — 

9   '      ' 
p2 

per  cui  differenziando  l'equazione 

dX  p 

e  quindi  dividendola   per  dX,  si  troverà 

d^Y  1 

dX2  —       —       3y  • 

Sostituite  adunque  Y',  Y"  nella  (23)  si  ottiene  per 
la  parabola 


"i —        ■ 


.3 
2\2 


Osserverò  ancora,  come  colle  espressioni  or  óra 
trovale  di  dX,  e  di  dY  per  le  tre  curve  coniche  , 
possano  determinarsi  1'  evolute  delle  tre  medesime 
curve. 

Le  (25)  integrate  danno  per  l'ellisse  e  per  Ti- 
perbola 

(27)        X=^-^^C,  Y  =  — ^-+-C'  . 

Osservando  poi  che  nell'ellisse  e   nell'iperbola    ad 

a:;  =  a  ,     y  =  0 
debbono  corrispondere 

X  =  a=H—  ,     Y  =  0, 
a 


182 

b^ 
[ove    rt—  sono  i  valori  ,  che  prende  il  raggio  di 

curvatura  delle  due  curve  quando  si  fa  x=a,  y=0, 
sicconne  vedesi  dalla  equazione  (19)J  ,  si  conclude 
che 

C^O  ,      C'  =  0 

e  perciò  dalle  (27)  può  dedursi 

aX 

donde 


x' 

b\    .         f 

^' 

e"              b^ 

x^ 

//,Y\I     f 

a^' 

W  ]  ~~b'  ' 

Sommando  le  equazioni  (28)  deducesi  per  l'evoluta 
dell'ellisse 

E  delle  medesime  equazioni  (28)  sottraendo  la  se- 
conda dalla  prima,  per  l'evoluta  dell'iperbola  ricavasi 

Per  la  parabola  poi  le  (26)  integrate  danno 

(29)         X  =  3x-^C,     Y  =  — ^--hC; 
ed  osservando  che  ad 

X=:0    ,      y  =  0 
debbono  corrispondere 


183 
X=-;;  ,     Y=0 

[ove  p  è  i!  valore,  che  assume  il  raggio  di  curva- 
tura nella  paiabala  quando  x  =  0,  y  --  0,  siccome 
vedesi  dalla  equazione  (21)],  si  conclude  che 

C  =  p  ,     C'  =  0  . 

Onde  dalle  (29)  può    ricavarsi 

\  =  3x~^p  ,     Y2=-- 
P 
ed  eliminando  la  x,  si  ottiene 

Tale  è,  siccome  è  noto,  l'evoluta  della  parabola. 

5.  Terminerò  colPosservare  come  la  formola  (3), 
che  vale  per  ogni  curva,  cioè  a  dire  la  formola 

(3ì  ^  —  ^^ 

sia  suscettibile  di  qualche   applicazione. 

Per  esempio  ponendo  p^  costante,  ed  integrando, 
si  ha 

2p^{s  -H  e)  =  p2 

dalla  quale  si  conclude,  che  il  raggio  di  curvatura 
in  un  punto  qualunque  delV  evolvente  del  circolo  è 
sempre  una  media  geometrica  fra  il  diametro  di  esso 
circolo  e  Varco  compreso  tra  esso  punto,  ed  un  altro 
punto  fisso. 

Immaginiamo  adunque  un  circolo  di  raggio 
OC  =  p,  , 

e  sia  A  il  punto  della  sua  circonferenza,  dal  quale 
principia  l'evolvente-  Da  un  altro  punto  C  della  cir- 


184 

conferenza  parta  il  filo  generatore  dell'evolvente,  e 
sìa  P  il  punto  corrispondente  di  questa.  Avremo  evi- 
dentemente 

p  =  C?y  s-+-c  =  AP 
donde 

(30)  CP=20C  .  AP  . 

Ora  dal  punto  P  conducasi  una  secante,  la  quale 
passi  pel  centro  0  del  circolo,  e  ne  seghi  la  cir- 
conferenza nei  punti  B  e  D.  Dal  punto  0  condu- 
casi una  retta  che  passi  per  C,  e  sul  prolungamento 

PB 

di  OC  prendasi    CE  ==  -^  .  Congiungasi  BE,  e  da  P 

condotta  una  parallela  a  BE  ,  sia  F  il  punto  ,  in 
cui  questa  parallela  a  BE  ,  sia  F  il  punto ,  in  cui 
questa  parallela  incontra  il  prolungamento  di  OC  : 
avremo  nella  retta  EF  l'arco  AP   rettificato. 

Infatti  è  evidente,  che 
(31)  OB:BP  =  OE:EF 

D'altronde 

Pcf=PB  .  PD 

—  2 

e  per  mezzo  della  (30)  eliminando  PC  si  ha 

PD 
OC  .  AP  =  BP  .  -^ 

2 

Ma 

PD 
OC  =  OB,    7r  =  ^E 
2 

quindi  avremo 

OB  .  AP  =  BP  ^ 


185 

ossia 

OB  :  BP=:OE  :  AP 

Confrontando  questa  colla  (31)  si   Eia 

AP  =  EF  . 

Inoltre  chiamando  p^  il  raggio  dell'evoluta  del- 
l'evoluta (o  se  vogliamo  dirla  così)  dell'evoluta  se- 
conda delia  curva,  abbiamo  analogamente  alla  (3) 

^^— dS~ 

ma 

dS  =  d^ 
dunque 

^■^-   -df 
e  così  per   l'evoluta  terza 


Pz 


P2^P 


h 


d 


ed  in  generale  per  l'evoluta  ennesima 

__pu^àpn^ 

dp„_2 

Con  questa  formola  ,  data  che  sia  1"  equazione 
di  una  curva,  per  mezzo  di  successive  differenzia- 
zioni si  può  ricavare  il  raggio  di  curvatura  della 
sua  evoluta  di  qualunque  ordine  in  un  punto  cor- 
rispondente ad  altro  punto  della  curva   primitiva. 


186 

La  vita  arlislica  di  Carlo  Goldoniy 
per  Ignazio  Ciampi  (1). 


I. 


Jje  condizioni  delle  lettere  nostre  nel  cadere  del 
seicento  e  sul  principio  del  settecento  danno  ma- 
teria di  tristezza  chi  pensi  che  da  quel  tempo  in 
appresso  le  forastiere  nazioni  si  disvezzarono  dal  te- 
ner gli  occhi  fisi  all'Italia  come  a  fonte  e  ad  esempio 
d'  ogni  artistica  e  letteraria  bellezza.  Però  se  v'  ha 
ragione  di  piangere,  è  uopo  anche  dire  che  più  piange 
chi  meno  vede:  da  che  noi  non  siamo  stati  mai  così 
poveri  e  ignudi  da  non  avere  o  un  brano  del  manto 
antico  o  tra  i  cenci  una  gemma,  come  che  fosse,  per 
darcene  gloria-  Allorché  il  seicento  impazzava,  Ga- 
lileo insegnava  le  leggi  fìsiche  :  e  quando  dal  1700 
al  1750  r  Italia  era  fatta  trista  per  oratori  bislacchi 
e  poeti  eunuchi  ,  viveano  pure  quei  sommi  critici 
della  storia  e  dell'antiquaria,  i  quali,  oltre  al  dibo- 
scare la  via  ,  gitlarono  il  seme  che  germogliò  la 
eloquenza  d' infiniti  storici  posteriori.  Viveva  Apo- 
stolo Zeno  ,  che  dagli  errori  scoperti  trasse  luce 
d'  ignoti  fatti:  vivea  Scipione  MafFei,  che  le  romane 
antichità  e  veronesi  diseppelliva  animandole:  vivea 
Francesco  Bianchini,  pur  veronese,  mente  vasta  e 
profonda  ,  il  quale  giudicando  le  figure  dei  monu- 
menti come  allegoriche,  e  illustrando  la  mitologia 


(1)  L'autore  pone  il  presente  scritto  sotto  la  tutela  delle 
leggi  veglianti  sopra  la  proprietà  letteraria  degli  stati  italiani. 


187 

planolaiia  con  calcoli  astronomici  squarciava  il  velo 
che  la  finzione  poetica  avea  messo  sopra  la  storia  dei 
popoli  oramai  dati  alla  dimenticanza  dei  secoli:  final- 
mente pure  allora  spirava  la  vita  lo  strano  Maglia- 
becchi,  il  quale  ponea  studio  a  nascondere  la  scienza 
acquistata,  là  dove  il  gran  Muratori  la  spandeva  per 
mezzo  de'suoi  dotti  volumi,  sommo  e  non  superalo 
nelle  tre  arti  necessarie  alla  storia,  cioè  raccogliere 
monumenti,  dissertare  sui  punti  dubbi,  ordinare  i 
fatti  secondo  cronologia.  Queste  erano  le  gemme  poco 
meno  che  inavvertite  allora  agli  italiani  ed  agli  stra- 
nieri visitatori:  i  quali  ultimi,  nulla  sapendo  di  tal 
germe  di  scienza  nuova,  indarno  cercavano  arte,  elo- 
quenza e  poesia  nei  raccoglitori  di  statue  e  di  qua- 
dri e  d'anticaglie,  nei  rabberciatori  di  stoi-ie,  negli 
oratori  enfatici,  nei  mille  fabbricatoi-i  di  versi  stem- 
perati in  una  lingua  gonfia  ,  sconcia,  debole,  senza 
elevatezza  vera  né  grazia  pudica.  D'altra  pai-le  chi 
avesse  guardato  bene  addentro  in  quella  errante  e 
sparsa  vita  delle  arti  e  delle  lettere,  vi  avrebbe  ve- 
duto un  certo  vago  desiderio  di  levarsi  dall'abbat- 
timento di  un  secolo,  un  riguardare  all'  indietro  cer- 
cando di  riprendere  la  interrotta  tradizione  italiana, 
un  interrogare  la  vita  e  gli  scritti  dei  padri  nostri 
per  toglierne  lume  ad  una  via  piuttosto  indovinata 
che  veduta.  Quindi  il  sorgere  dell'Arcadia  e  delle  altre 
accademie,  che  con  nomi  nuovi  e  nuovi  intenti  cer- 
cavano di  svecchiare  le  artistiche  discipline  e  sosti- 
tuire ai  vieti  i  nuovi  principi  non  senza  orgoglio 
d'  ingegno,  ostinazione  di  parte  e  intolleranza  d'opi- 
nione. Tutti  vedevano  il  male  e  ciascuno  vi  voleva 
apporre  un  rimedio  di  suo  capo.  A  molti  parca  ba- 


188 
stasse  purgare  il  rigoglio  ond'eran  gonfie  le  ani  e 
le  lettere  dei  secentisti,  nò  s'addavano  che  questo 
era  originato  da  febbie  e  non  da  soverchio  di  vita: 
ad  altri,  che  non  vedevano,  a  curare  il  male,  buon 
medico  paesano,  sembrava  necessario  chiamarne  d'oU 
tre  mare  e  monte:  i  più  voleano  non  più  parere  del 
secolo  e  mostrarsi  invece  ai  contemporanei  vestiti 
da  cinquecentisti:  pochi  (com'è  sempre)  non  vedeano 
scampo  che  rifarsi  da  capo  alle  opere  dei  padri,  ri- 
temperarsi all'  affettuoso  studio  di  quelle  e  pren- 
derne viva  forza  a  parlare  un  linguaggio  inteso  dai 
presenti,  richiamandoli  alla  bellezza  e  alla  virtù  per 
via  dell'arte  dei  colori,  dello  scarpello  e  della  pa- 
rola. Ben  si  potè  questo  in  appresso  quando  cinque 
0  sei  grandi  compierono  l'edifizio  nazionale  rimasto 
quasi  a  mezzo  nel  sopravvenire  del  secolo  dicias- 
settesimo, fra  i  quali  i  tre  sommi.  Alfieri,  Metastasio 
e  Goldoni  :  i  tre  sommi,  che  quasi  rinnovarono  il 
miracolo  dei  triumviri  del  secolo  decimoquarto  , 
Dante,  Boccaccio  e  Petrarca,  portando  il  terribile, 
il  lepido  e  l'amoroso  nella  parte  drammatica,  come 
quelli  nell'epica,  nella  novella,  nella  lirica  Taveano 
portato.  L'  uno  la  severa  natura  delle  Alpi,  l'altro 
l'armonia  del  cielo  e  dei  colli  lomani,  l'ultimo  ispi- 
rarono la  festività  della  gaia  Venezia.  Ma  ciò  fu  dopo 
la  metà  del  secolo,  mentre  in  sul  primo  entrare  di 
esso  era  quella  battaglia  e  quei  vani  tentativi  che 
abbiamo  divisato.  Naturalmente  la  commedia  parteci- 
pava di  questo  movimento,  e  qua  e  là  per  via  d'uomini 
insigni  0  almeno  di  buona  intenzione  ella  dava  segno 
di  volersi  rilevare:  se  bene  coloro,  che  si  sforzavano 
d'aiutarla,  persuasi  di  dover  abbattere  ciò  che  v'era. 


189 

non  parea  sapessero  che  cosa  sostituirvi  di  meglio  , 
la  quale  soddisfacesse  a  un  tempo  V  ingegno  dei  dotti 
ed  occupasse  l'atlenzione  del  volgo.  Nicolò  Amenta 
napolitano,  correndo  al  senno  antico,  prese  a  mo- 
dello i  cinquecentisti:  però  tolse  a  imitare  gli  ultimi 
e  specialmente  il  Porta  e  gl'inviluppi  da  questo  in- 
trodotti: ma  in   verità  non  riuscì  a  molto,  e  fu  copia 
di  quelli  e  non   valse  a  creare  nuova  scuola.  Il  Tar- 
tufo del  Molière  fu  voltato  in  volgare    liberamente 
dal  Gigli,  che  pur  compose  la  Sorellina  di  Don  Pi- 
lone, la  quale  fu  da  lui  per  intiero  inventata,  se  bene 
valesse    assai    meno   del   Tartufo  :    ad    ogni    modo 
i  sali  sanesi  e  alcuna  copia  di  costumi  italiani  non 
valsero  a  procacciargli  buon  viso  nei  pubblici  teatri. 
Nell'Atene  italiana  parea   dovesse  nascere  un  poeta 
comico,  e  veramente  un  fiorentino  a  fatica  annaspava 
qualcosa.  Giambattista  Fagiuoli  diede  mano  a  sem- 
plici orditure  di   fatti  casalinghi:  ma  nel  luogo  delle 
maschere  pose  i  contadini  toscani,  e  si  pensò  d'aver 
fatto  di  molto  mentre  a  cosa  in  generale  gradita  e 
nazionale  sostituiva  più  municipali  ritratti-  Del  rima- 
nente, benché  scevro  in  gran  parte  dai  difetti,  che  de- 
turpavano  la  commedia  antica,  non  ispargeva,  come 
vuoisi  ,  il  ridicolo   nei  caratteri  e  nel!'  intreccio,  e 
tutto  lo  concentrava  nel  Ciapino  intanto  che  gli  altri 
personaggi  cicalavano  lungamente  al  modo  solilo,  e 
pur  non  facea  ridei-e  perchè,  a  detto  dei  ciilici,  volea 
far  jidere  sempre  sonando  la  corda  medesima.  Al- 
tri vi  furono  o  prima  o  quasi  nello  stesso    tempo 
che  surse  il  Goldoni,  sole  che  oscui'ò  del  tutto  que- 
ste minute  stelle  della  comica  letteratura.  Vagamente 
si  ricordano  un    Teodoli,  un  Beccelli,  un    Salerno, 
un  Federico.  Più  distesa  memoria  si  fa  di  Jacopo 


190 

Nelli  sanese,  scrittole  di  quasi  venti  commedie,  che 
pui'  diede  un  passo  spargendo  ilarità  per  tutta  l'azione, 
e  da  ultimo  del  marchese  de'  IJveri  che  a  comme- 
die romanzesche  e  popolai-i  poi'tò  fasto  di  decora- 
zioni e  di  scene  come  s'addiceva  al  teatro  privato 
del  re  Carlo   III  di  Napoli. 


11. 


Sestiere  di  San  Paolo:  parrocchia 
di  San  Tommaso  :  strada  di  Cà 
Cent'  anni  fra  il  ponte  di  JSom- 
holi  e  il  ponte  di  Donna  Onesta; 
numero  civico  2569. 
Casa  del  Goldoni  a  Venezia. 

Carlo  Goldoni  ,  a  sedici  anni  ,  avviato  per  la 
scienza  delle  leggi  si  slava  chiuso  dentro  una  bi- 
blioteca. Forse  il  suo  maestro  diceva:  così  si  vuol 
fare  per  girare  da  padroni  nel  tempio  della  scienza 
oscura:  ecco  questo  buon  zitello,  che  frugale  ri- 
fruga per  ritrovare  il  bandolo,  e  io  vi  so  dire  che 
ne  verrà  a  capo  e  quindi  uscirà  dottore  da  vei-o  e 
farà  sbalordire  la  gente.  Ma  per  contrario  parca  che 
il  giovanetto  avesse  altro  per  il  capo  che  sorbire 
la  sonnifera  sapienza  ,  che  scaturisce  non  dirò  dai 
Digesti  (che  del  senno  antico  non  è  da  ftìr  beffa),  ma 
da  lunghi  e  spaventevoli  interpreti  del  diritto  usciti 
delle  costole  di  Bartolo  e  di  Baldo:  io  parlo  di  quelli, 
che  non  sai  se  per  il  sonno  che  spandono  intorno 
o  per  gli  anni  che  portano  sulle  spalle  ,  sono  dai 
nostri  scolari  chiamati  barboni.  A  lui  giravano  per 
la  testa,  vive  e  parlanti,  le  ombre  di  Plauto,  di 


191 

Terenzio  ,  del  Machiavelli  e  del  Molière ,  e  avida- 
mente correa  con  la  mano  dove  il  dorso  dei  libri 
gli  mostrava  sciitti  questi  nomi  venerati,  e  avida- 
mente leggeva  e  meditava  lungamente.  E  così  leg- 
gendo e  meditando  egli  ebbe  campo  di  vedere  come 
tra  molta  masserizia  di  letteratura,  la  nostra  patria 
fosse  povera  in  fatto  di  arte  drammatica,  cui  pur 
essa  avea  risuscitato  prima  d'ogni  altro  popolo  mo- 
derno. Volgendo  poi  nella  mente  le  cagioni  del  sor- 
gere sì  presto  e  del  sì  presto  cadere,  e  il  modo  pos- 
sibile ond'  ella  si  potesse  rialzare  tra  noi;  egli  sin 
da  quel  tempo  con  ìmpeto  giovanile  fermava  nel 
cuore  di  mettere  ogni  sua  possa  a  così  grande  ef- 
fetto. In  tal  guisa  pensava  e  proponeva  la  giovinezza 
dell'uomo  ,  a  cui  meglio  che  ad  ogni  altro  natura 
disse:  Tu  se'  nato  a  questo.  Nel  che  è  da  osservare 
che  molti  casi  della  vita,  o  che  si  chiamano  tali  per 
ignoranza  delle  cause  riposte  ,  ci  vengono  in  gran 
parte  preparati  dal  nostro  carattere,  o  che  almeno 
il  nostro  naturale  costume  od  ingegno,  determinan- 
doci piuttosto  ad  una  che  ad  un'altra  azione,  ci  fa 
la  strada  a  una  certa  maniera  di  vita  avvenire.  Quindi 
è  che  Carlo  decivSamente  tagliato  all'arte  comica, 
se  bene  pareva  porgli  avvenimenti  della  sua  vita  sviato 
da  quella,  pur  nondimeno  o  dalla  esterna  forza  si 
sottrasse  o  quasi  dallo  stesso  contrasto  trasse  vigore 
a  camminare  per  la  via  segnatagli  dalla  natura.  Da 
fanciullo  recitò  nelle  piccole  commedie  che  si  atteg- 
giavano nella  casa  paterna.  All'età  di  otto  anni,  dopo 
la  lettura  del  Cicognini  (ne  so  se  del  padre  o  del  figlio) 
tolse  a  scrivere  un'azione  comica.  Un  filosofo  lo  an- 
noia a  Rimini  con  le  sue  scabre  lezioni,  ed  egli  per 


192 

ammenda  si  dà  a  quella  gentile  e  pratica  filosofia 
che  s'  impara  dagli  scrittori  comici,  e  lutto  intiero 
si  versa  nella  lettura  di  Plauto,  di  Terenzio  e  dei 
frammenti  di  Menandro.  Che  anzi  per  dimenticare 
assai  meglio  le  tirate  del  poco  gradevole  maestro, 
si  fa  uditole  assiduo  nel  teatro,  e  innamorato  dei 
recitanti  si  trafuga  con  essi  dentro  una  barca,  sopra 
cui,  salpando  da  Rimini,  lietamente  veleggiavano  a 
Chioggia.  In  verità  il  vispo  e  affettuoso  giovinetto 
si  consumava  di  riabbracciare  la  madre,  e  non  gli 
parca  vero  di  raggiungere  il  suo  desiderio,  portato  da 
sì  gai  e  spensierati  compagni.  Nel  passaggio  del  mare 
lo  spirito  di  lui  si  compiace  del  bizzarro  misto  di 
faceto  ,  d'  iracondo  ,  di  strano  e  d'allegro  ,  che  si 
ricetta  nella  barca  animata  e  da  risse  e  da  cortesie 
e  da  giuochi  e  da  amori  e  da  canti.  Veggasi  nelle 
sue  memorie  questo  passo,  dove  la  vecchiezza  (per- 
chè vecchio  le  scriveva)  sembra  che  si  rianimi  al 
soffio  delle  ricordanze  e  prenda  il  fare  allegro  e  vi- 
vace che  più  conviene  all'aprile  della  vita.  Un  giorno 
poi  gli  viene  tra  mano  la  Mandragola  del  Machia- 
velli, e  certo  non  si  loda  della  lascivia  dell'argomento, 
ma  pure  si  stupisce  del  buono  e  del  bello,  che  den- 
tro v' è  sparso,  e  chiama  in  colpa  gì' italiani  di  non 
essersi  valsi  di  quell'esempio  dell'arte,  e  di  aver  la- 
sciato, con  tali  opere  a  casa,  che  il  Molière  cogliesse 
la   palma  inc(mtraslala  della  commedia  moderna. 


111. 


Se  non  fosse  la  inesperienza  de'  primi  anni,  poco  si 
vedrebbe  forse  di  generoso  o  di  quanto  si  levi  pili  alto 


della  vita  comune.  I  vecchi,  i  quali  hanno  assaggiato 
il  mondo,  si  spaventano  degl'impeti  de'  loro  fanciulli; 
e  quando  ne  veggono  uno  portato,  per  esempio,  alle 
lettere  e  alle  arti,  mettono  ogni  possa  per  deviarlo  di 
quella  inclinazione,  pili  sovente  per  avarizia,  talora 
per  istintiva  pietà  quasi  previdente  i  futuri  travagli. 
Ora  il  genitore  di  Carlo  volea  che  questi  diventasse 
proprio  un  dottore  di  medicina.  Per  intercessione 
dell'  angelica  sua  madre  ,  Carlo  ottenne  di  potere 
scegliere  lo  studio  delle  leggi  ,  che  secondo  il  suo 
avviso,  era  tra  due  mali  il  male  minore.  Pertanto 
si  recò  a  Pavia,  dove  tra  il  sì  ed  il  no  forse  sarebbe 
giunto  a  cogliere  il  lauro  dottorale,  se  non  gli  fosse 
intervenuto  un  bizzai'ro  e  miserabile  caso.  Gli  scolari 
di  Pavia  per  le  loro  avventale  soverchianze  s'aveano 
fatto  d'ogni  cittadino  un  nemico.  E  però  alcuni  di  que- 
sti ultimi  nel  tempo  delle  vacanze  fabbricarono  un  de- 
creto che  laconicamente  diceva:  se  una  donzella  ricet- 
terà mai  nella  sua  casa  uno  scolare, non  sarà  più  degna 
di  esser  chiesta  in  matrimonio  da  un  cittadino.  De- 
creto spaventevole  alle  fanciulle!  Quando  tornarono 
gli  scolari  e  si  videro  chiuse  le  porte,  fu  un  cas'al 
diavolo,  un  parapiglia.  Al  Goldoni,  che  era  la  quiete 
in  persona,  vennero  un  giorno  due  o  tre  compagni 
di  scuola,  i  quali  correano  verso  i  venticinqne  o  i 
tient'anni:  volpi  vecchie  a  petto  a  lui  che  ne  toc- 
cava appena  diciollo.  Da  prima  fermarono,  che  la 
ingiuria  fatta  alla  scuola  era  ingiuria  di  ciascuno  in 
particolare  e  quindi  a  ciascuno  correva  il  debito  di 
farne  vendetta:  cosa  facile  e  possibile  a  gente  come 
loro,  avvezzi  a  farsi  rispettare  e  valere.  In  prova 
di  ciò,  come  per  saggio,  narrarono  di  porle  sforzale, 
G.A.T.CLXIV.         ^  13 


194 

di  rivali  abbattuti  e  di  altre  imprese  che  mai  non 
fui"  viste.  Allora  il  fanciullo  di  rimando  ,  per  non 
farsi  tener  da  meno,  facea  del  valente,  e  raccontava 
ostacoli  superati  e  figlie  e  madri  impaurite  e  squa- 
driglie di  bravi  fugati.  Fattogli  assai  plauso,  gli  scal- 
tri lo  esortarono  a  ben  seguitare,  e  gli  diedei'o  l'arme 
per  la  difesa  e  l'offesa.  Comunque  si  fosse  pei-ò  la  fac- 
cenda, il  buon  Carlo  si  lasciò  cogliere  alla  sprovvista 
dai  superiori  con  la  pistola  in  tasca,  che  in  veiità  nep- 
pure sapea  maneggiare,  ed  ebbe  assegnata  per  pri- 
gione una  stanza  del  collegio  dove  soletto  si  diede 
a  rodere  la  collera  e  la  paura.  Kcco  di  nuovo  in 
campo  i  suoi  tentatori.  Tu  se'  poeta  :  beato  te  ! 
chi  [)uò  meglio  vendicarsi  ?  bisogna  fargliela  vedere 
a  costoro;  scrivi  una  satira  co'fiocchi.  E  tanto  dis- 
sero ciie  quel  semplice  di  Carlo  acconsentì.  Egli  da 
prima  volea  togliere  a  modello  Aristofane:  poi  questa 
gli  parve  troppa  soma  per  la  sua  schiena  :  in  fine 
compose  una  informe  satira  (ei  dice  ,  come  corto 
d'erudizione,  a  ino'  delle  Atellane)  e  le  dette  nome  il 
Colosso,  perchè  ,  descrivendo  una  specie  di  grande 
statua,  a  mano  a  mano  che  dalla  fronte  per  le  di- 
verse membra  scendea  sino  ai  piedi  ,  svertava  le 
magagne  delle  donne  in  più  stima  della  città.  1  suoi 
cari  amici  gli  aveano  promesso  la  fede  del  segreto, 
e  per  certo  non  gli  fiillirono  come  non  falliva  l'ora- 
colo di  Delfo.  Dalla  bocca  loro  non  uscì  verbo;  ma 
sotto  il  manoscritto,  che  correa  da  per  tutto,  ap 
piccai'ono  una  quartina  fatta  già  da  Carlo,  dove  era 
espresso  il  nome  e  il  cognome  e  la  patria  sua.  Se  in 
iiuesta  prima  ed  ultima  satira  egli  ebbe  di  che  lo- 
darsi della    sua  vena  comica  ,    ebbe  anco  a  patire 


195 

liintc  sciagure  da  doversene  ricordare  per  tutta  la 
vita.  1  cittadini  gridavano  al  lupo  ;  chi  gli  volea 
metter  gli  occhi  sulla  collottola;  chi  volea  passarlo 
da  parte  a  parte  :  tanto  che  sì  per  pena  contie  per 
cavarlo  da  pericolo,  i  rettori  lo  cacciarono  di  col- 
legio ,  donde  a  notte  fitta  nascosamente  sfrattò. 
Tra  dolore  e  rimorso  non  vuol  più  presentarsi  al 
padre:  trema  la  dolce  sembianza  materna.  Allora  la 
fantasia  gli  corre  a  disperati  partiti  ;  né  crediate 
ch'egli  sogni  navi,  armi,  viaggi.  Tanto  è  vero  che 
ciascuno  immagina  e  finge  a  seconda  della  sua  in- 
clinazione, eh'  egli  vola  con  la  mente  e  col  cuore 
al  riravina  ,  venerando  vecchio  ,  tenuto  per  lume 
della  dottrina  drammatica.  Perchè  io  non  andrò  a 
lui  sino  a  Roma  ?  Forse  non  mi  potrebbe  pigliare 
affetto?  Ei  raccolse  dalla  via  il  fanciullo  Trapassi  e 
ne  fece  un  Melastasio,  quel  valent'uomo  che  lutti 
sanno:  andiamo  dunque  a  Roma.  A  Roma,  a  Roma! 
Ma  la  sua  risoluzione  venne  meno  quando  si  frugò 
nelle  tasche.  Già  si  sa  che  1'  amore  dei  genitori  , 
come  sempre  usa  ,  gli  perdonò.  Viaggiò  col  padre 
pel  Friuli:  poi  fu  creato  aggiunto  d'un  cancelliere 
nel  criminale  ,  come  a  dire  segretario  d'un  segre- 
tario: appresso  arrivò  ad  essere  coadiutore:  e  por- 
tatosi da  Chioggia  a  Feltre  (in  cui  diede  i  primi 
saggi  di  comica  poesia  scrivendo  per  dilettanti  due 
farse  ,  il  Buon  Padre  e  la  Canlalrice)  e  da  Feltre 
a  Ragnacavallo  ,  dove  gli  mancò  il  padre  cui  s'era 
condotto  a  visitare  ;  finalmente,  pei  conforti  della 
madre,  si  risolvè  nuovamente  a  rappattumarsi  con 
Giustiniano  e  con  Rartolo  ,  e  fare  d'  incoronarsi  a 
Padova   per  gingillare  l'umanità  a   Venezia. 


196 
IV. 


In  breve  a  Padova  fu  salutato  dottore.  Fu  coperto 
della  negra  berretta:  gli  piovvero  sul  capo  i  fiori: 
i  sonetti  augurali  ne  predissero  gran  bene.  Eccolo 
quindi  a  Venezia  coperto  della  trionfale  parrucca  e 
avvoltolato  nella  toga,  che  quasi  emulava  la  toga 
patrizia.  Si  rappresenta  a  Palazzo  e  viene  accolto  so- 
lennemente nel  branco.  Che  si  ha  a  fare  ?  Niente  al- 
tro che  procacciarsi  clienti  e  intascare  zecchini.  Ve- 
nezia era  allora  per  gli  avvocati  la  terra  promessa. 
Non  parlo  della  riputazione  e  degli  onori:  quel  che 
monta  ,  quarantamila  lire  all'  anno  non  si  facevan 
penare.  Ne  al  Goldoni  da  principio  parca  fosse  av- 
versa la  rota  della  fortuna.  Ma  che  ?  Gli  avvenne 
di  dar  fuori  un  almanacco  burlesco,  genere  che  non 
fu  sdegnato  dal  Leibnitz  e  dallo  Swilf  tra'  i  forastieri, 
e  dal  Verri  e  da  altri  tra  noi.  L'almanacco  si  chia- 
mava: V  esperienza  del  passato  astrologo  deWavve- 
nire  (1732).  Le  argute  sentenze  quivi  raccolte  in- 
contrano il  gradimento  universale.  E  come  avviene 
che  taluno  meglio  stima  sé  medesimo  se  vegga 
per  avventura  1'  affetto  che  muove  in  altrui  ;  cosi 
Carlo,  provando  la  forza  de'  propri  strali ,  dolente 
di  avere  abbandonato  la  scherzevole  musa  ,  tornò 
a  vagheggiare  le  comiche  fantasie,  le  quali  pareano 
poco  meno  che  svanite  dalla  mente  rivolta  a  cose 
tenute  dal  volgo  per  molto  più  gravi.  Così  dubitando, 
avvenne  ch'egli  stava  per  essere  avviluppato  dentro 
a  uno  strano  matrimonio,  quando,  scoperto  il  pe- 
ricolo ,  prese  il  partito  dì   voltare  il  dosso  e  pre-  i 


197 

stamente  si  fuggi  di  Venezia.  Che  via  prendere  fuori 
di  patria  per  campare  la  vita  ?  Ecco.  Nelle  ore,  che 
in  toga  era  stalo  invano  aspettando  che  qualche 
cliente  picchiasse  alla  porta,  avea  per  diporto  cucito 
scene  di  un  dramma  per  musica  sopra  l'argomento 
del  fine  tragico  di  Amalasunta  regina  dei  goti.  Im- 
perocché non  è  da  credere  ,  ch'egli  meglio  d'ogni 
altro  taglialo  al  comico,  andasse  pur  franco  di  quel!;» 
specie  di  dubbiezza,  che  prende  i  grand' ingegni  prima 
ch'ei  si  fermino  a  quella  scienza  od  arte  od  a  quei 
rami  della  scienza  od  arte,  di  cui  toccheranno  la  cima. 
Rari  e  beati  sono  coloro,  che  quasi  di  lancio  af- 
ferrano r  istromenlo  di  loro  grandezza:  i  piìi  sono 
ver.-^atili  e  vanno  tentando  sé  stessi  in  più  d'  una 
cosa,  e  non  si  conoscono  creati  davvero  per  una  di- 
sciplina ch€  dopo  averne  coltivalo  diverse  con  poco 
successo.  Aggiungi  che  quella  volta  a  lui  parve  di 
doversi  dare  un  po'  d' aria  seria  in  grazia  della 
toga  che  gl'ingrandiva  la  persana  o  tult'al  piiJ  sve- 
stirsene per  poco  e  sostituirvi  altro  che  potesse 
degnamente  stare  in  loco  di  quella.  Quindi  non  volle 
andar  succinto  e  lieve  ne'  calzari  della  scherzosa 
Talìa,  ma  procedere  a  passo  solenne  gravato  le  spalle 
del  tragico  manto.  Ma  comunque  sia,  un  dramma 
per  musica  era  solo  che  potesse  ne'  giorni  amari 
rinfrescarlo  dell'arsura.  Era  cosa  da  guadagnare  su- 
bito da  cento  zecchini.  E  però,  tutto  tremante,  legge 
a  Milano  la  sua  opera  innanzi  al  direttore  degli 
spettacoli  ed  a'musici  che  la  doveaoo  rappresentare. 
Tra  costoro  eia  Caffariello,  cima  dell'  impertinen- 
za di  tutti  i  musici  passali  e  avvenire.  Costui  can- 
ticchiando e  strascicando    sulle   labbra  il  nome    di 


198 

Amalasunta,  cominciò  a  far  tremare  i  polsi  al  poeta 
dicendo  quel  nome  assai  lungo.  A  un  vecchio  musico, 
che  sulle  dita  numerò  i  personaggi,  quella  parve  trop- 
pa comitiva:  a  un  tenore  allampanato  non  garbava 
né  l'opera  né  il  poeta,  e  con  le  sue  picchiale  al  cem- 
balo interrompeva  la  faticosa  lettura.  Alla  fine  il 
direttore  conte  Prata  ebbe  pietà  del  mal  capitato 
e  lo  trasse  di  quella  stietta  menandolo  in  altra 
stanza,  dove  udì  da  capo  a  fondo  la  infelice  trage- 
dia. Essa  gli  parea  buona  quando  avesse  dovuto  ser- 
vire a  recitanti;  ma  perchè  dovea  porsi  in  musica, 
gli  parve  intinta  nel  peccalo  di  star  troppo,  non  dirò 
nella  via  della  natura,  ma  sulle  regole  dell'arte.  E 
accoltosi  che  il  Goldoni  non  era  ancor  bene  addentro 
ne'precetli  del  dramma  musicale;  ei  glie  ne  snocciola 
di  molti  e  di  tal  fatta,  che  |)otrebbero  giovare  anche 
ai  nostri  compositori  moderni.  Ma  qui  pure  il  tempo 
adoperò  le  sue  forze,  e  la  moda  ha  da  lo  opera  ai 
suoi  mille  capricci  mutando  qua  e  là  a  sua  posta, 
pur  fernm  sempre  alla  massima,  che  in  tal  genere 
di  composizioni  tutto  sia  buono  fuori  del  semplice 
del  naturale  e  del  verosimile.  Il  poeta  udì  l'ammo- 
nizione: prese  il  suo  manoscritto,  e  ridottosi  a  casa 
gittò  sul  fuoco  la  misera  Amalasunta,  fermo  nel  pro- 
posito di  non  più  mettersi  in  quel  ginepraio.  Però, 
poiché  fu  creato  gentiluomo  di  camera  del  ministro 
di  Venezia  a  Milano,  forse  non  avendo  cuore  di  se- 
pararsi di  netto  dalla  musica,  dolce  sirena  che  in- 
canta la  giovinezza  degl'italiani;  scrisse  gli  inter- 
mezzi per  musica  buffa  più  confacente  al  suo  lepido 
ingegno  :  onde  per  lui  si  conobbe  nell'  alta  Italia 
quella  specie  di  comico  musicale,   il  quale  poco  pri- 


199 

ma  era  nato  sotto  i  più  lieti  e  az/uni  cieli  di  Napoli 
e  di  Roma.  1  titoli  di  quest'intermezzi,  alcuni  dei 
quali  furono  composti  piìi  tardi,  sono  il  Gondoliere 
veneziano,  la  Pupilla,  la  Birba,  la  Fondazione  di  Ve- 
nezia. Quivi  il  suo  ingegno  per  avventura  ebbe  cam[)0 
di  aguzzarsi  nel  campo  della  composizione  comica  : 
imperocché  gli  bisognasse  cercare  quanto  più  fosse 
allegro  e  grazioso  e  meglio  vestisse  di  ridicolo  i  per- 
sonaggi e  gli  avvenimenti,  e  trovare  in  fine  le  cir- 
costanze che  son  più  proprie  al  buon'effetto  di  qua- 
lunque commedia.  Inoltre  fu  messo  nella  necessità 
di  osservare,  meglio  che  prima  non  facesse,  le  opere 
e  i  costumi  della  gente  viva,  in  luogo  di  guardare 
alla  storia  ed  ai  caratteri  antichi.  Da  che  quest'ultimo 
studio  più  si  conviene  a  coloro,  che  vogliono  ver- 
sare sopra  le  cose  passate,  e  per  conseguenza  più 
ai  tragici,  che  mai  però  non  giungeranno  a  gran- 
dezza dove  forte  iinmaginare  non  congiungano  a 
dottrina  piofonda.  II  prin)o  al  contrai-io  è  condi- 
zione di  essere  per  ([ualunque  voglia  scrivere  com- 
medie :  per  le  quali  non  vairà  mai  studio  di  li- 
bri, ove  non  si  abbia  non  solamente  l'attitudine,  ma 
l'esercizio  dell'ingegno  a  vedere  i!  naturale  e  il  vivo 
delle  cose  e  i  lievi  accidenti  e  il  vario  muovere  dei 
casi  e  il  mutare  e  il  degradare,  direi,  de'colori  dei 
caratteri  umani:  avvertenze  che  quanto  più  ovvie  e 
frequenti,  tanto  meno  vengono  avvertite  dall'univer- 
sale. Sopra  ciò  l'ingegno  del  poeta  fa  come  il  raggio 
del  sole  che  penetra  in  una  stanza  e  là  per  dove 
passa  scuopre  una  infinita  quantità  di  piccoli  corpi 
moveotisi  per  ogni   parte: 


200 

Così  si  veggion  qui  dii'ifle  e  torte 
Veloci  e  tarde,  rinnovando  vista, 
Le  minuzie  de'  corpi  lunghe  e  corte 
Muoversi  per  lo  raggio,  onde  si  lista 
Tal  volta  l'ombra  che  per  sua  difes» 
La  gente  con  ingegno  ed  arte  acquista. 

(Danfe  Par.  XIV). 
V. 

Appresso  cominciano  altre  avventure,  per  le  quali 
il  Goldoni  talvolta  parve  tutto  oramai  dell'arte:  parve 
talvolta  esserne  devialo  e  per  allora  e  per  sempre. 
Quando  nel  1733  arse  la  gueri-a  che  fu  detta  di  Don 
Carlo  tra  Francia,  Spagna  e  Sardegna  da  una  parte, 
e  casa  d'Austria  dall'altra,  egli  si  sbrigò  del  ministro, 
e  di  città  in  città,  accompagnatosi  a  certi  comici, 
tornato  a  Venezia  quivi  fece  rappresentare  il  Beli- 
sario, poi  a  Padova  la  Griselda,  e  nuovamente  a  Ve- 
nezia il  Don  Giovanni  Tenorio.  Poi  si  ammogliò:  poi 
scrisse  il  Rinaldo  di  Montalbano  e  1'  Enrico  re  di 
Sicilia.  Di  poi,  veduto  che  il  popolo  s'avvezzava  a 
udirlo  con  intendimento  ,  più  che  mai  gli  crebbe 
l'animo  alla  riforma  che  già  gran  tempo  andava  ru- 
minando, e  cominciò  dallo  studiare  il  carattere  pro- 
prio dei  comici  e  a  tradurlo  in  commedia  affinchè  più 
naturalmente  potessero  recitare.  Per  tanto  compose 
il  Momolo  corlesan,  parte  scritta  e  parte  a  soggetto: 
poi  il  Prodigo  allo  stesso  modo ,  non  lasciando  di 
dare  ésca  alle  maschere  ed  agli  spasimati  amatori 
di  esse  con  le  Trentadue  disgrazie  d'Arlecchino.  Men- 
tre così  procede  di  bene  in  meglio,  accade  ch'egli 
vien  fatto   console  di  Genova  in    Venezia:  incarico 


201 

pieno  dlonore,  pieno  di  brighe,  ma  che,  allo  strin- 
gere, non  (lava  che  fumo.  Ecco  scoppia  la  guerra 
delta  di  Don  Filippo  tra  i  francesi  e  gli  spagnuoli 
da  un  lato,  e  gli  austriaci  dall'altro.  Gli  vien  sospeso 
ri  pagamento  di  alcune  rendite  che  avea  per  eredità 
del  padre  a  Modena.  Egli  subito  corre  al  duca  che 
slava  al  campo  degli  spagnuoli  a  Rimini.  Picchia  e 
ripicchia  ;  ma  non  gli  viene  risposto.  E  senza  più 
consolato  e  senza  più  rendite,  quindi  si  parte  e  giunge 
a  Pisa,  dove  gli  occorse  di  riprendere  la  toga  che 
avea  deposto  a  Venezia,  e  stette  a  un  pelo  di  non 
ismarrirsi  negli  oscuri  ma  lucrosi  laberinti  del  foro, 
tutl'  al  più  sfogando  un  poco  dell'  umore  poetico 
ne'sonnolenti  giardini  d'Arcadia.  Per  buona  ventura 
lo  tolse  di  questo  pericolo  il  celebre  Arlecchino  Sac- 
chi, pure  allora  tornato  in  Italia:  il  quale,  saputolo 
a  Pisa,  gì'  invia  una  lettera  con  cui  chiede  e  vuole 
una  commedia  a  ogni  costo.  Carlo  ruba  tempo  al 
foro  e  scrive  di  furto  le  due  felicissime  commedie 
a  soggetto  il  Servitore  de''  due  padroni  e  il  Figlio 
d'Arlecchino  perduto  e  ritrovalo.  11  buon  successo  di 
queste  lo  incuora,  mentre  più  gli  viene  in  uggia  l'av- 
vocare per  non  essere  sialo  promosso,  perchè  fora- 
stero,  a  un  officio  vacante  ch'egli  avea  dimandato.  In 
quella  gli  viene  innanzi  il  Darbes,  Pantalone  della 
compagnia  Madebac:  che  branditosi  della  persona  e 
picchiatosi  con  le  palme  il  ventre,  così  tra  il  lepido  e  il 
fiero  gli  domanda  una  commedia.  E'  la  vuole;  l'ha 
promessa  a'suoi  compagni:  con  essa  è  pronto  a  sfidare 
i  più  celebrati  Pantaloni  e  morti  e  viventi,  a  Son  gio- 
vane (grida),  il  mio  nome  non  è  noto  ancora  abbastanza: 
ma  io  andrò  a  sfidare  i  Pantaloni  di  Venezia;  i  Rubini 


202 

«  san  Luca  e  i  Corrini  a  san  Samuele  :  attaccherò 
Ferramonli  a  Bologna,  Pasini  a  Milano,  Bellotti  detto 
Tiziani  in  Toscana,  Gollinetti  nel  suo  ritiro.  Garelli 
nella  tomba.  Il  bel  garbo  e  1'  audacia  del  chiedere 
è  soccorso  dalla  tendenza  all'accordare.  Il  compia- 
cente avvocalo  non  può  tener  forte  »  e  ben  presto 
dà  fine  a  una  commedia  tratta  da  un'antica  dell'arte 
intitolata  Pantalone  paroncin  e  le  dà  nome  di  Tonin 
bela  grazia.  Con  questo  componimento  si  reca  a  Li- 
vorno, dove  s'avviene  al  capo  di  compagnia  Made- 
bac,  il  quale  gli  domanda  il  concorso  dell'opera  sua 
per  cinque  o  sei  anni  in  un  teatro  di  Venezia.  Su- 
bito è  stretto  il  patto,  e  addio  per  sempre  a  toghe, 
a  codici,  a  grandi  parrucche.  Il  Genio  dell'  arte  ha 
vinto,  e  oramai  Carlo  ò  tutto  di  quella,  che  gli  darà 
insieme  e  ingiurie  e  onori  e  dolori  e  gioie  e  fama 
e  miseria.  Ma  nulla  monta.  1/  ingegno  fatto  poten- 
temente per  un'arte  |)uò  forse  a  lungo  esser  tenuto 
fuori  della  sua  vita  vera,  ma  in  ultimo  vince  ogni 
contrario  ritegno,  e  come  pesce  all'acqua  od  uccello 
alParia  corre  a  spaziare  nel   proprio  elemento. 


VI. 


Poco  fa  ci  venne  detto  di  alcuni  dratnmi  vecchi 
rammodernati  ,  vale  a  dire  Belisario  ,  Rinaldo  da 
Montalbano,  Don  Giovanni  ed  altri.  Ora  è  da  sapere 
che  il  nostro  autore,  mentre  si  esercitava  con  gì'  in- 
termezzi nell'arte  di  far  commedie,  anche  ponea  cura 
di  aggraziarsi  il  pubblico  per  via  di  tentativi  di  altro 
genere.  Imperocché  chiunque  voglia  darsi  a  novità, 
gli  convenga  prima  di  tutto  acquistare  l'altiui  con- 


203 

fidenza.  Erano  famosi  o  cari  a  quel  tempo  alcuni 
drammi  venutici  di  Spagna  o  almeno  nati  di  bastardo 
connubio  e  però  nalurabnente  più  brutti.  Rosmunda, 
se  bene  la  trinciasse  da  eroina,  puie  bizzarramente 
ballava  la  furlana:  Belisario  dava  busse  alle  guardie, 
e  alla  sua  volta,  quando  gli  aveano  cavato  gli  oc- 
chi, era  carezzato  le  spalle  dal  pistoiese  d'Arlecchi- 
no. Rinaldo  di  Montalbano  compariva  in  giuJizio 
appena  coperto  d'  un  mantello  stracciato,  e  il  suo 
valletto  Arlecchino  (o  leggiadri  scudieri,  ove  siete 
voi  ?  )  della  torma  de'soldali  venuti  a  carcerare  Ri- 
naldo facea  sbai'aglio  a  colpi  di  pentole  rotte.  Ma 
sopra  tutti  era  felice  il  Convitato  di  pietra.  I  comici 
stessi,  che  lo  vedeano  sì  bene  accolto  come  la  gio- 
vinezza dalle  donne  mature,  stupivano  grandemente: 
e  perchè  sempre  si  pretende  spiegare  checche  ne  oc- 
corra quantunque  la  spiegazione  avanzi  in  oscurità 
la  cosa  spiegata;  affermavano  per  certo  che  l'autore 
di  quel  dramma  avea  stretto,  componendo,  un  bel 
patto  col  diavolo  perchè  il  suo  lavoro  mai  non  mo- 
risse nel  corso  dei  secoli.  In  verità  che  quegli  onesti 
comici  si  mostravano  assai  poveri  di  scienza  a  petto 
di  molti  critici  moderm'  ,  che  vi  scoprono  dentro 
un  mondo  di  bellezza  e  di  filosofìa.  Però  in  mezzo 
al  mare  di  tante  torbide  cicalate,  io,  fidato  alla  scorta 
di  un  cotal  lume  di  senso  naturale,  sommessamente 
direi;  ancora  che  sia  vero  che  nel  Don  Giovanni  si 
possa  ,  benché  a  fatica  ,  rinvenire  il  simbolo  della 
felicità  ricercata  nei  diletti  si  come  daFausloe  pescata 
nella  scienza;  pur  nondimeno  (lasciando  che  non  v'ha 
cosa  al  mondo  ,  in  cui  non  si  possa  i  invenire  per 
forza   una  qualche  verità  recondita  o  fisica   o  inorai® 


204 

o  intellettuale)  cotal  fine  è  troppo  nascosto  e  avvi- 
luppato dentro  le  stravaganze  enorntìi  che  ogni  dì 
quasi  crescevano  nel  dramnfia.  Ed  io  vi  so  dire  che 
il  popolo,  stupefatto  della  statua  che  cammina  e 
dell'  eroe  che  scappa  fuori  del  mare  asciutto  co- 
m'èsca,  non  s'affaticava  ad  entrare  per  tanti  riposti 
significati,  e  piuttosto  che  inorridire  alla  miseranda 
fine  dello  scellerato,  si  figurava,  andando  a  casa,  che 
una  volta  o  l'altra  o  Pasquino  a  Roma  o  i  Mori  a 
Livorno  o  Gaitamelata  a  Venezia  si  levassero  del  loi* 
piedistallo  e  gli  dessero  i  numeri  per  vincere  al  lotto. 
Gli  artefici  di  paradossi  faceian  pure  palese  la  beltà 
recondita  di  tal  sorta  componimenti.  Che  se  ad  essi 
fa  stupore  la  loro  lunga  durata,  ne  chiedano  ragione 
alla  oscillante  civiltà  dei  popoli.  Pensino  che  molti 
secoli  la  durarono  i  goffi  Misteri  :  pensino  che  non 
presso  noi,  dove  fu  almeno  ringentilita  ,  ma  nelle 
parti  settentrionali  d'  Europa,  per  lungo  tempo  stette 
salda  l'architettura,  che  di  mostri,  di  cagnacci,  (fi 
smorfie  ,  di  dèmoni  sfregiava  i  capitelli  e  gli  orli 
de'  tetti  delle  sante  cattedrali.  Brevi  al  contrario  , 
ma  sempre  rimpianti  e  ricorsi  con  1'  imitazione,  fu- 
rono i  tempi,  che  dalle  arti  gentili  addotte  a  gran- 
dissima altezza  per  le  antecedenti  condizioni  del  vi- 
vere ,  furono  chiamati  di  Pericle,  d'Augusto  e  di 
Leone.  Dove  non  vogliano  pensare,  stieno  pur  fitti 
nella  loro  opinione.  A  me  ed  a  chi  ami  la  sa-^ 
pienza  civile  giovi  levar  con  le  lodi  e  ntìostrare  al 
popolo,  senza  ch'egli  s'affanni  ad  aguzzare  gli  occhi 
per  entro  a  un  velo  fittissimo,  la  limpida  moralità 
che  si  tragge  dalle  Meropi  ,  dai  Misantropi  e  dai 
Burberi  benefici. 


205 
VII. 


Egli  dunque  pose  mano  a  questi  drammi;  e  se 
bene  avesse  filo  così  arruffato  da  non  poterne  tes- 
sere un  forbito  lavoro  ,  pure  a  forza  d' industria 
giunse  a  pulirli  e  a  rinnovarli  quasi  e  a  farli  udire 
con  silenzio  inusato  e  quasi  ignoto  negli  spet- 
tacoli d'Italia.  È  vero  che  Belisario  veniva  ancora 
sulla  scena  con  gli  occhi  cavi  e  sanguinosi,  e  che 
Don  Giovanni  non  avea  smesso  l'arroganza  entratagli 
in  corpo  con  l'aria  del  suo  paese  nativo.  Pure,  gittate 
le  gagliofferie  e  tolti  gì'  incredibili  casi,  que'  drammi 
facevan  figura  di  cosa  rincivilita,  e  diedero  nuova 
luce  alla  mente  del  popolo,  facendolo  accorto  cbe 
si  può  aver  diletto  anche  da  ciò  che  non  sia  o  mi- 
racoloso 0  gigantesco  o  stupidamente  ridicolo.  An- 
cora egli  mise  in  iscena  la  Griselda  già  scritta  in 
prosa  dal  Pariali,  alla  quale  aggiunse  il  personag- 
gio del  padre  ,  che  vede  senza  orgoglio  e  senza 
lagrime  montare  e  scendere  dal  trono  la  figlia  :  e 
da  ultimo  il  Don  Enrico  di  Sicilia  e  qualche  altro 
dramma  o  tragedia,  che  non  lo  levarono  al  di  sopra 
della  fama  d'ingegno  mediocre.  Intanto  per  andare 
passo  passo  alla  riforma  che  gli  stava  pili  a  cuore, 
incominciò  a  combattere  di  sbieco  la  commedia  a 
soggetto  e  le  maschere,  o  adoperando  le  prime  più 
secondo  ragione,  o  scrivendo  qualche  parte  almeno 
della  commedia  come  fece  nel  Prodigo  e  nel  Mo- 
molo  corlesan.  Giunse  alla  fine  a  scrivere  intera  la 
Donna  di  garbo,  e  mise  da  poi  il  suggello  alla  sua 
riforma  e  alla  sua   fama  in  quell'anno  che  diede  le 


206 

celebrale  sedici  commedie  :  prova  di  potenza  e  di 
feracità  d'ingegno,  a  oii  nemmeno  sarìu  bastato  il  più 
fecondo  scrittore  drammatico  che  sia  stato  al  mondo: 
io  voglio  intendere  Lope  de  Vega.  Uua  di  queste  fu 
il  Teatro  comico,  specie  d'introduzione  o  di  prologo 
alle  altre,  nella  quale  egli  avverte  gli  abusi  del  teatro 
di  quel  tempo,  e  come  debbano  e  possano  correg- 
gersi, e  quai  fondamenti  s'avvisa  di  porre  per  questa 
grand'opera.  Quella  volta  il  teatro  non  fu  solamente 
scuola  morale,  ma  fu  cattedra  di  [ìubblico  insegna- 
mento. Nel  che  è  da  osservare  come  ei-ano  mutate 
anche  le  condizioni  del  popolo  che  udiva.  Se  Luigi 
Riccoboni  fosse  risorto  dalla  sua  tomba  ,  non  lo 
avrebbe  riconosciuto  per  quello,  che  già  s'immaginò 
di  rivedere  nella  Scolastica  dell'Ariosto  i  cavalieri 
armoggianti:  onde,  fallitagli  la  speranza,  mosti'ò  coi 
sibili  il  suo  sgradimento  a  chi  glie  l'avea  lisuscitata. 
Ma  forse  il  Riccoboni  si  sarebbe  fatto  i-agìone  della 
cosa,  pensando  eh'  egli  ebbe  torto  e  a  non  avere 
l'ingegno  del  Goldoni  e  a  richiamare  il  cinquecento 
nel  principio  del  secolo  decimottavo.  Oltre  a  questo 
avrebbe  pensato  ch'erano  pur  còrsi  degli  anni,  du- 
ranti i  quali  la  persuasione  della  riforma  del  teatro 
dalla  mente  dei  letteiati  era  scesa  in  quella  del 
|)opolo  insieme  con  la  coltura  che  si  volea  perchè 
gli  uni  e  l'altro  s'intendessero  un  tratto  fra  loro. 
E  anche  ventura  somma  il  nascere  a  tempo  :  e  a 
tempo  nacque  il  Goldoni,  e  fu  in  eccellenza  nel  tempo 
che  il  tei-reno  italiano  era  ,  per  così  diie  ,  parato 
al  suo  felice  ardimento.  Né  con  questo  io  voglio 
assentire  a  certe  dottrino,  che  non  solo  agl'insigni 
avvenimenti  ,   ma  anche  al   fiorire  d'  uomini   insigni 


207 

danno  cagione  una  certa  fatale  necessità.  All'opposto 
a  me  sembra  che  nel  governo  del  mondo  l'inaspet- 
tato abbia  pure  sua  parte,  e  che  talora  grandi  cose 
furono  operate  nelle  arti,  nelle  lettere,  nella  politica, 
perchè  vi  ebbero  grandi  uomini  accomodati  ,  per 
così  diie,  a  raccogliere  la  messe  dei  tempi:  tal'altra, 
perchè  non  vi  furon  tali,  l'occasione,  invano  spie- 
gando le  sue  ali  brevi,  o  passò  inavvertita  o  male 
afferrata  passò.  Spesso  gl'ingegni  muoiono  sotto  la 
durezza  dei  tempi  ;  pili  raramente  li  sforzano  e  li 
vincono:  in  generale  però  è  vero  che  al  loro  fiorire 
è  necessaria  una  favorevole  temperatura.  Sia  pur 
buona  in  sostanza  una  pianta  :  essa  non  metterà 
frutto  se  la  condizione  del  suolo  e  dell'  aria  non 
l'aiuta  a  prosperare.  Del  rimanente  non  si  creda  che 
cotesto  buon  popolo  veneziano  non  si  ricordasse  tal 
fiata  de'suoi  Sansoni,  di  guisa  che  non  chiedesse  e 
non  avesse  dal  nostro  Menandro  qualche  cibo  più 
confacente  al  suo  gusto.  Ne  son  testimoni  le  Ircane, 
le  Peruviane  e  le  Belle  selvagge,  sorte  in  quel  me- 
desimo tempo  che  il  teatro  s'arricchiva  del  Curioso 
accidenle  ,  del  Medico  olandese  e  degl'  Innamorati. 
(1740 — 1761.)  Non  è  mestieri  al  nostro  assunto 
correr  dietro  a  ciascuna  delle  sue  produzioni,  al 
modo  stesso  che  non  si  raccontano  a  parte  a  parte 
i  casi  della  sua  vita,  i  quali  per  vero  dire,  salvo  la 
varietà,  non  si  distinguono  guari  da  quelli  che  in- 
tervengono alla  comune  degli  uomini.  Noi  abbiamo 
voluto  solamente  segnare  i  passi  che  furono  per  luì 
più  decisivi  e  ,  diremmo  ,  i  punti  più  scolpiti  che 
distinguono  la  sua  carriera,  acciocché  per  questi  si 
richiami  alla   memoria  e  il  modo  ond'egli  procedette 


208 
e  come  vinse  i  contrasti  a  lui  fatti  dal  tempo  e 
dagli  uomini  e  dalia  fortuna.  Tra  i  quali  contrasti 
non  fu  men  lungo  e  singolare  quello  eh'  egli  ebbe 
a  sostenere  rispetto  ai  comici  ,  lutti  ,  chi  più  chi 
meno,  portati  e  assuefatti  alla  commedia  a  braccio 
e  alle  njasch^re.  Anche  qui  gli  bisognò  maneggiarsi 
con  artifìcio,  ora  con  blandizie  ,  ora  con  ammoni- 
zioni, ora  accarezzando  la  vanità  loro,  ora  compo- 
nendo drammi  in  cui  l'uno  o  l'altro  di  essi  a  vi- 
cenda piimeggiasse.  Quindi  son  nate  assai  commedie 
dove  le  servette  tengono  il  primo  luogo,  e  tali  sono 
la  Castalda,  la  Donna  di  governo,  la  Cameriera  bril- 
lante, ed  altre  ed  altre,  che  a  primo  aspetto  dimo- 
strano come  l'autore  s'ingegnasse  di  scrivere  piut- 
tosto per  favorire  alla  parte  d'un  personaggio,  che 
alla  bellezza  intiera  della  commedia.  Però  io  non 
penso  ,  come  alcuno  già  fece  ,  che  a  lui  nocesse 
r  esercizio  dell'  arte  sua  in  mezzo  alla  sbrigliata 
compagnia  de'  commedianti.  Imperocché  si  sappia 
che  alcuni  dei  principali  poeti  furono  quasi  allevati 
tra  quelli,  e  pur  da  ciò  non  ebbero  impaccio  perchè 
non  toccassero  l'altezza  mirata.  Si  sa  da  tutti  del 
Molière:  si  racconta  popolarmente  dello  Shakspeare 
ch'egli  stava  alla  porla  d'un  teatro  di  Londra  a  tenere^ 
come  scudiero,  i  cavalli  di  coloro  che  venivano  alla 
commedia,  e  di  quivi  fu  raccolto  dagl'istrioni  e  messo 
Ira  loro.  Sia  favola  o  no,  non  è  men  cerio  che  i  più 
grandi  autori  drammatici  moderni  hanno  sempre  o 
(piasi  sempre  vissuto  tra  coloro,  la  cui  arte  recarono 
a  quel  seggio  dov'essa  può  guardare  senza  vergogna 
uli  antichi. 


209 
Vili. 

(ìhi  da  natura  è  chiamato  ad  un'  arte  ha  per 
solito  il  primo  aiuto  o  il  primo  ostacolo  dallo  stato 
medesimo  in  cui  la  trova  nel  tempo  in  chV*i  vive. 
Quindi  è  che  s'egli  la  trova  nascente,  la  fa  procedere 
innanzi;  se  già  grande,  la  porla  a  maggiore  altezza; 
se  cadente,  s'  adopra  a  riportarla  al  suo  principio. 
La  fatica  s'accresce  ogni  volta:  suprema  è  l'ultima; 
talvolta  vana.  Per  quanto  l' ingegno  veda  il  meglio 
assoluto,  pure  non  può  non  essere  ingannato  o  molto 
o  poco  da  ciò  che  esiste  :  non  può  sciogliersi,  io 
direi,  da  sé  stesso  e  dal  tempo  in  maniera  che  rag- 
giunga di  primo  tratto  la  egregia  forma  vagheggiata 
nella  mente.  L'abitudine  che  prendono  i  sensi  alla 
vista  continua  del  peggio,  e  il  favore  popolare  che 
leva  a  rinomanza,  non  dico  le  produzioni,  ma  i  mostri 
dell'aite,  mettono  nell'animo  di  chi  vuol  fare  opera 
degna  un  dubbio  penoso,  e  lo  tolgono  dallo  astrarre 
del  tutto  la  mente  da  ciò  che  lo  circonda,  e  dall'  af- 
ferrare la  bellezza,  la  quale,  benché  veduta  e  sen- 
tita, pur  lungamente  gli  sfugge  dalla  mano  che  trema. 
Che  se  pure  egli  è  sì  alto  e  sì  conscio  di  sé,  che 
vegga  il  punto  ,  a  cui  ,  quando  che  sia  ,  giungerà 
indubbiamente;  nulla  di  meno  egli  ha  sempre  bisogno 
di  posare  il  piede  sopra  una  via  già  tentata,  per- 
chè s'assuefaccia  a  correre  spedilo  e  sicuro  per  al- 
tre vie  men  conosciute.  Aggiungi  a  questo  ,  che 
anche  1'  uomo  capace  di  grandi  cose  suoi  meglio 
sentire  che  non  definire;  onde  s'avvia  da  prima  ti- 
rato da  un  sentimento  confuso  delle  proprie  forze; 
^      G.A.T.CLXIV.  14 


210 

poi,  comballendo  contro  agli  ostacoli,  vede  d'ora  in 
ora  diradarsi  di  bronchi  il  cammino  :  la  via  più 
spedita  gli  apre  la  veduta,  a  lui  prima  nascosa  o 
almen  palese  come  campi  celati  dalle  fronde  d'una 
via  boscosa:  eccolo,  animato  da  doppia  forza  e  da 
doppio  coraggio,  correre  velocemente  alla  mela.  Per 
queste  cose  è  chiaro  come  il  Goldoni  tanto  non 
potè  fare  in  principio  che  si  disbrigasse  degli  ele- 
menti, che  aveano  portato  a  corruzione  l'arte  co- 
mica; e  come  questi,  suo  mal  grado,  prevalessero 
lunga  pezza  nelle  sue  produzioni:  tinche,  nel  proce- 
dere, disparissero  lasciando  alla  sua  natura,  schietta 
od  originale,  spargere  disusate  ricchezze  nel  mondo 
dell'arte.  Naturalmente  lo  spagnolismo  (se  m'  è  le- 
cito così  chiamarlo)  potè  gran  tempo  nelle  opere 
sue.  Cotesta  corruzione  non  s'è  ancora  sbarbicata 
all'  in  tutto  dalle  nostre  istituzioni  e  da'  nostri  co- 
stumi :  tanto  profondamente  ci  ha  tarlato  le  ossa. 
È  vero  che  gli  spagnuoli  bevvero  alle  nostre  fonti: 
Boscan  e  Garcilasso  de  Yega  furono  poeti  petrar- 
cheschi sul  principio  del  secolo  decimosesto.  Diego 
Hurtado  de  Mendoza  ,  guerriero  ,  poeta  e  storico  , 
con  r  una  mano  ficcava  la  spada  nel  corpo  della 
bella  e  infelice  Siena;  con  l'altra  raccoglieva  nostri 
libri  e  nostre  memorie,  ammirando  grandezze  nostre: 
imparava  dagl'  italiani  e  li  pagava  di  ferro.  Le  let- 
tere spagnuole  furono  poi  grandi  per  Cervantes,  per 
Lope  de  Vega  e  per  Calderon,  che  da  noi  la  ele- 
ganza, dalla  loro  nazione  presero  1'  ispiramento.  Ma 
in  meno  d'un  mezzo  secolo  traboccarono  al  peggio, 
e  il  Gongora  colà  viveva  quando  presso  a  noi  poe- 
tava il  Marino.  Portate,  quasi  per  rapina,  in  Ispagna, 


211 

pi'cslo  perirono  come  frulli  non  nali  di  sponlaneo 
germoglio  :  quanto  di  bello  esse  aveano  ,  portalo 
con  violenza  in  Italia  ,  in  Italia  imbozzacchì  stra- 
namente. E  tale  avvenne  del  dramma:  il  quale  colà 
nacque,  come  in  Inghilterra,  dal  Sacro  Mistero  svi- 
luppato dalla  idea  religiosa  e  fecondato  dall'amore 
della  patria,  e  a  noi,  che  fattici  di  netto  alla  com- 
media antica  l'avevamo  lasciato  alla  plebe  ed  alle 
campagne,  a  noi  ritoinò  infardalo  della  vernice  stra- 
niera e  quindi  più  alto  a  peggio  corrompere  che  a 
recar  salute  all'arte  già  inferma.  Il  Goldoni  dunque, 
se  bene  lo  vedesse  .sì  tristamente  osceno  ,  pur  vi 
SI  mise  attorno  sì  come  usa  amorevole  artista.  E 
già  per  noi  s'è  detto  quanto  basta  del  Rinaldo  da 
Monlaìbano  e  del  Belisario  e  d'altri  drammi  da  lui 
rinnovati  ed  accolli  dal  popolo  con  qualche  favore. 
Egli  però  sentiva  che  questa  non  era  bellezza  ,  e 
mise  da  parte  il  genere:  ma  non  sì  che  gli  si  le- 
vasse dalla  memoria  e  non  gli  nocesse  un  poco 
nei  futuri  componimenti.  Così  un  vecchio  pellegrino, 
per  lungo  vivere  che  faccia  nella  città,  non  tanto 
imbianchisce  la  pelle,  che  le  tolga  ogni  traccia  della 
ingiuria  del  sole.  ÌJ^eW Uomo  prudente  la  moglie  av- 
velena il  marito;  neW Adulatore  Sigismondo  era  av- 
velenalo dal  cuoco  genovese;  nella  j^anca  rolla  s'amo- 
reggia sulla  via,  e  il  servo  apre  la  lettera  del  pa- 
drone, e  l'amico  non  rifugge  dal  leggerla  e  dal  ser- 
varla per  se;  nel  Padre  di  [amiglia  1  rapimenti  delle 
fanciulle  stan  lì  a  nuvoli;  nella  Incornila  s'aggru(>- 
pano  e  agnizioni  e  biiii   e  duelli  e  cose   simili. 


212 
IX. 


Nel  modo  medesimo  in  parte  gli  fece  ostacolo, 
in  parte  gli  diede  aiuto,  la  commedia  deWarle.  V'ha 
tali  commedie  in  cui  V  ordito  meccanico  ed  anco 
r  intrinseco  carattere  sa  lutto  quanto  di  essa,  anzi 
paiono  proprio  quegli  scheletri  di  soggetti  rivestiti  e 
rimpolpati  del  dialogo.  1  Gemelli  veneziani  e  il  Ser- 
vitore de' due  piidroni  arieggiano  delle  vecchie  comme- 
die del  cinquecento  ridotte  a  ordine  pili  ingegnoso, 
e  ravvivale  e  fiorite  per  l'arguta  favella  e  le  inge- 
gnose facezie  delle  maschere.  A  queste  va  pure 
appaiala  la  Vedova  scaltra,  ove  sono  i  quattro  ca- 
ratteri dolio  spagnuolo  ,  del  francese  ,  dell'  inglese 
e  dell'  italiano  così  falsamente  veduti  e  dipinti,  come 
è  grosso  ed  ingiusto  il  giudizio  che  dai  lontani  si 
fa  della  nazione  lontana,  i  quali  indovinano  e  sen- 
tenziano secondo  i  piiì  sentiti  lineamenti  che  primi 
appaiono  in  ogni  umana  sembianza.  Forse  è  vero 
solamente  il  simbolo  cui  può  nascondere  la  scaltra 
vedova,  la  quale  schermendo  è  piegando  sé  stessa  alla 
spagnuola  alterigia  ,  alla  leggerezza  francese  ,  alla 
gravità  inglese,  alla  gelosia  italiana,  tutti  conduce 
ad  esser  presi  perdutamente  di  lei.  Anche  de'  ca- 
ratteri e  degl'  intrichi  convenzionali  di  lai  sorta  com- 
medie il  nostro  autore  non  potè  spacciarsi  alcun 
tempo:  e  qua  e  là  te  ne  dà  saggio  nelle  sue  migliori, 
e  persino  nelle  popolari  dove  meglio  copia  dal  vero, 
come  le  donne  in  vesti  virili  e  pellegrine  pel  mondo, 
e  semplicette,  e  garzoni  scemi  di  cervello,  e  amanti 
concettosi,  e  bravi   maneschi,  e  uomini    con  barbe 


213 

posticce:  lutli  arnesi  e  necessari  arnesi  delle  vec- 
chie commedie  a  braccio.  Quantunque  poi  egli  vo- 
lesse nettare  intei'amente  la  comica  delle  maschere; 
pur  vedendo  come  il  popolo  portasse  loro  tenace 
affetto,  le  servò  quanto  più  lungamente  esse  poteano 
adattarsi,  o  almeno  non  portar  nocumento  al  concetto 
della  sua  riforma;  anzi  talora  le  adoperò  in  guisa 
da  far  dubitare  se  quella  invenzione  tutta  italiana 
meritasse  poi  d'esser  fugata  inesoi-abilmente  dai  no- 
stri teatri.  Doveano  per  certo  avere  grandissima  va- 
lentìa quegli  attori  che  per  quasi  due  secoli  occu- 
parono le  nostre  scene  recitando  all'  improvviso.  Ed 
io  mi  figuro  che  se  il  Goldoni  non  fosse  slato  te- 
stimonio dei  loro  lazzi,  delle  loro  facezie,  delle  loro 
movenze  ridicole,  non  avrebbe  potuto  né  concepire 
nò  scrivere  il  Servitore  dei  due  padroni.  Si  dia  pure 
al  tempo  una  certa  bonarietà  che  accogliea  piìi  sem- 
plicemente la  letizia,  e  gli  si  dia  pure  una  grossezza 
di  senso,  che  facea  tenero  per  ispiritoso  il  motto  e 
il  gesto  che  ora  offenderebbe  il  ceto  più  civile  e 
appena  appena  moverebbe  il  riso  del  popoletto. 
Ma  io  pure  ho  veduto  recitata  quella  commedia  da 
uno  Stenterello,  che  non  valea  sicuramente  gli  Sca- 
ramuccia ed  i  Sacchi  ,  e  non  mi  dea  vergogna  es- 
sermi abbandonato  all'  ilarità  con  grave  scandalo  de- 
gli spasimati  di  madamigella  Violetta.  D'altra  parte 
se  alcuna  volta  le  maschere  messe  in  iscena  dal  no- 
stro danno  idea  dello  spirito  di  quegli  attori  ;  al- 
cun' altra  ne  dan  sentoie  della  loro  licenza,  tanto 
più  temuta  quanto  più  si  levarono  le  passioni  poli- 
tiche: così  che  lo  sfratto  dato  loro  dal  buon  gusto 
fu  verso  il  1796  confermato  dall'autorità  dei  sover- 


2U 

ni.  Però  il  Goldoni,  adoperandole,  o  le  riduce  a  ciò 
che  facevano  i  valletti  e  gli  scudieri  nelle  commedie 
di  Lope  di  Vega  e  di  Calderon,  o  non  cessa  di  dar 
loro  queir  ufficio  più  ragionevole  a  cui  pareano  in 
certa  guisa  chiamate:  vale  a  dire  di  parere  la  voce 
della  coscienza  al  cuoie  del  vizio  ,  come  i  buffoni 
difesi  dal  lor  privilegio  spiattellavano  il  vero  nel  viso 
ai  tiranni.  Arlecchino  dice  a  Lelio  bugiardo,  che  gli 
confida  d'essere  innamorato:  Non  è  vero.  E  perchè  ? 
AI  bugiardo  non  si  ciede  nemmeno  la  verità.  Oltre 
di  ciò  ne  delineava  il  carattere  a  modo,  ch'esse  più 
non  paiono  o  quel  goffo  o  quello  scaltro  o  quella 
ideale  mistura  d'ambedue  che  tutto  permette  ,  ma 
bensì  una  più  disegnala  e  vera  figura  d'uomo  di  carne 
e  d'ossa.  Pantalone  ora  è  un  padre  amoroso,  ora  è 
un  geloso  avaro,  ora  l'onesto  mercante  delle  lagune, 
ora  il  bizzarro  coriesano  invecchiato.  Aibìcchino  , 
meno  pieghevole  di  quello,  pur  si  presenta  talvolta  da 
semplice  innamorato,  ora  da  scroccone  che  vive  alle 
spalle  della  sorella.  Una  volta  Brighella  diventa  il 
padre  d' una  ballerina,  borioso  delle  capriole  e  dei 
salii  della  figlia,  e  più  dei  donativi  che  le  capriole 
e  i  salti  procacciavano  alla  figlia:  figura  che  non  è 
morta,  o  che,  morendo,  ha  lascialo  la  slampa  di  sé 
ad  altre,  che  potesseio  ispirare  l'autore  del  Poeta  e 
della  ballerina.  Finalmente  pure  allora  che  libera- 
tosi d'esse  in  Italia  dovè  nuovamente  abbracciarle 
a  Parigi;  le  adoperò  in  sì  gentile  e  delicata  maniera, 
che  per  nulla  ricordano  le  goffe  e  sfrontate  ma- 
schere ,  le  quali  per  tanto  tempo  furono  il  condi- 
mento alla  pace  infingarda  degli  arcavoli  nostri. 


215 
X. 


Voglionsi  anche  licoidare  il  romanzo  e  il  leatrd 
francese,  che  più  o  meno  ebbor  parte  agli  atteggia- 
menti della  sua  fantasia  ed  all'esplicamento  del  suo 
ingegno,  ovverainente  concorsero  a  foi-maine  il  gusto 
e  a  dare  un  certo  aspetto  alla  meccanica  costruzione 
delle  sue  commedie.  È  indubitato  che  la  lelteratura 
dei  racconti  abbia  sempre  potuto  sopra  il  teatro  e 
sopra  quella,  quantunque  in  grado  minore,  il  teatro 
uìedesimo.  I  cinquecentisti,  perchè  tenevano  1'  oc- 
chio intento  al  tealio  latino,  non  si  valsero  molto 
dei  novellieri:  pure  non  si  poteron  difendere  dal  to- 
gliere da  essi  alcuni  soggetti  ,  e  più  specialmente 
quelli  che  davano  beffe  e  burle  più  confacenti  alle 
loro  farse  chiamate  commedie,  e  più  pieghevoli  a 
quel  certo  meccanismo  di  scene  ,  a  cui  stimavano 
doversi  adoperare  chi  volesse  toccar  l'eccellenza.  Nel 
settecento  non  vivea  la  novella,  anzi  s'era  poco  meno" 
che  dimenticata,  come  lutto  o  quasi  tutto  che  fosse 
italiano  da  vero.  Invece  si  leggevano  avidamente  i 
romanzi  che  ci  diluviavano  d'oltre  jnonte  e  d'oltre 
mare,  e  tanto  più  avidamente  in  quanto  che  i  nostri 
letterati  non  attendevano  a  far  libri,  che  dilettando, 
dessero  alimento  buono  alla  popolare  vaghezza,  la 
quei  romanzi  per  lo  più  le  virtù  umane,  come  fug- 
gite del  mondo  circostante,  si  vedeano  grandeggiare 
ti-a  i  circassi,  tra  i  turchi  e  tra  i  cinesi,  e  favel- 
lare un  linguaggio  tra  l'affettato,  l'eroico  e  lo  sve- 
nevole, che  vuole  solenne  pazienza  perchè  si  porti 
in  pace.  A  questi  amori,  a  queste  voghe  di    fora- 


216 
slieri  racconli  dobbiamo  alcune  jii'oduzioni  del  no- 
stro tutte  piene  del  sentimentale  proprio  della  filo- 
sofia del  suo  secolo  tutta  fondala  sopra  il  fenomeno 
della  sensazione.  Tali  sono  la  Peruviana  ,  la  Bella 
selvaggia,  la  Giorgiana^  la  Dalmalina,  le  Ircane.  Dalle 
quali  vuoisi  distinguere  la  Pamela  tolta  dal  celebrato 
l'omanzo  del  Richardson,  dov'  ò  una  conoscenza  di 
cuore  umano  e  una  temperanza  e  verità  di  passione, 
che  la  rendono  ancor  fresca  e  piacevole  ai  tempi 
moderni.  Alcune  scene  comiche  le  accrescono  etfetto; 
e  così  com'è  lunge  dal  goffo  ridicalo  che  si  ficcava 
nei  drammi  anche  più  gravi  d'allora  e  dall'  intermi- 
nabile piagnisteo  che  usa  oggidì;  par  proprio  l'esem- 
pio 0  il  germe  di  quel  dramma,  che  delineando  le 
domestiche  sciagure  aspetta  ancora,  non  so  se  fuori, 
ma  cei'to  in  Italia,  il  suo  creatore.  Circa  al  teatro 
francese,  checché  si  voglia  dire  da  certi  troppo  fer- 
vidi italiani,  a  me  giova  di  porger  grazie  a  quella 
nobile  nazione,  che,  raccogliendo  la  eredità  nostra, 
non  la  disperse  ,  ma  sì  prima  l'accrebbe  in  onore 
della  civiltà  nelle  opere  dei  Pascal,  Descartes,  La 
Fontaine,  La  Bruyére,  Bossuet,  Fenelon,  Bourdaloue, 
Corneille,  Bacine  e  d'altri  grandissimi.  Quindi,  se- 
guendo il  destino  provvidenziale  ,che  di  questa  civiltà 
europea  fa  un  tutto  onde  ciascuna  toglie  dall'altra 
liberamente  e  poi  liberalmente  nell'altra  riversa;  a 
noi  ridiede  l'esempio  di  ciò  che  avevamo  dimenti- 
cato, e  ci  ripagò  nelle  lettere  dell'Alighieri,  del  Po- 
liziano, del  Machiavelli,  dell'Ariosto  e  del  Tasso;  al 
modo  slesso  che  1'  Europa  intiera,  in  noi  travasando 
i  materiali  progressi,  onde  ha  camminato  per  due 
secoli,  ci  ripaga  di  que'sommi  lumi  delle  scienze  e 


217 

delle  aiti,  quali  furono  e  Colombo  e  Raffaele  e  Mi- 
chelangiolo  e  Galileo  e  Volta.  Come  i  barbari  al- 
l' invito  delle  frutta  di  Narsete  calarono  a  torme  nel 
banchetto  meridionale;  così  i  tedeschi,  i  francesi  e 
gli  spagnuoli  corsero  a  bere  alle  nostre  limpide  fonti, 
e  meglio  bevvero  quanto  meglio  eran  disposti  e  piiì 
per  sangue  e  per  indole  ci  assomigliavano.  Per  tanto 
i  primi  venuti  furon  gli  ultimi  ad  avere  lo  splendore 
delle  lettere,  e  coloro  i  quali  contemplarono  le  nostre 
arti  sin  dal  tempo  degli  svevi,  non  poterono  farle  pro- 
prie e  gloriarsene  che  alla  fine  del  secolo  passato 
quando  Gaspare  Gozzi  vedea  le  muse  abbandonare  i 
campi  aprici  e  fuggirsene  sotto  il  gelido  cielo  della 
Germania: 

.Alzò  Macrino  gli  occhi, 
E  vide  le  divine  alme  soi'elle 
Preste  a  fuggirsi,  e  ad  apprestar  Parnaso 
In  gelate  nevose  alpi   tedesche 
E  a  vestir  d'armonia  rigida  lingua. 

Ora  il  teatro  francese  ,  quella  pai-te  di  letteratura 
in  cui  la  nostra  vicina  sopravvanza  ogni  altra,  do- 
vea  naturalmente  potere  sopra  il  veneziano,  che  ri- 
teneva il  Molière  per  suo  maestro  e  per  maestro 
migliore  che  non  gli  fossero  gli  stessi  Ialini.  Certa- 
mente il  Molière  ,  checché  avesse  potuto  imparare 
dagl'  italiani  scrittori,  fu  quegli  che  gì'  insegnò  come 
si  portino  sulla  scena  i  vizi,  le  virtù,  le  ridicolezze 
del  secolo  in  che  si  vive,  e  come  queste  si  atteg- 
gino nella  commedia  con  la  composta  distribuzione 
delle  scene,  con  la  rapidità  del  dialogo,  con  il  pro- 
fondo e  comico  contrasto  delle  circostanze.  Ma  so- 


218 
pra  ogni  altra  cosa  gì'  insegnò  a  studiare  nella  na- 
tura, quasi  dicendogli:  Vedi,  per  m'  è  t'  è  aperto  co- 
m'ella  è  sovrana  maestra  e  corn'  io  me  le  son  fatto 
discepolo  induslre:  ora  impara  da  me  a  non  dilun- 
garti da  lei  e  a  ri  trarla  così  viva,  profonda,  sem- 
plice nelle  tue  pitture:  se  io  ho  dimostrato  com'essa 
è  bella,  e  tu  dimostra  com'essa  è  bella  insieme  e 
feconda,  e  stendi,  quanto  più  puoi,  il  cerchio  del- 
l'arte. E  certo  parca  che  non  altro  al  Goldoni  ri- 
manesse per  toccare  la  meta  ,  fuorché  osservare  i 
costumi  del  suo  tempo  e  della  sua  nazione,  e  ope- 
rare secondo  che  innanzi  di  lui  avea  già  fatto  il 
sommo  francese.  Se  non  che  vide  che  il  campo 
poteva  essere  ancora  infinito  ,  dove  egli  si  fosse 
vòlto  alle  varie  condizioni  della  società,  e  quanto 
non  potesse  in  sostanza,  aggiungesse  all'arte  in  lar- 
ghezza di  soggetti.  Quindi  fu  primo  (e  primo  è  sem- 
pie  chi  fa  meglio  in  un  dato  compito,  o  fa  in  guisa 
che  sia  bello  quanto  prima  o  fu  brutto  o  non  av- 
vertito) fu  primo,  dico,  che  sulla  scena  portasse  la 
rappresentazione  d'ogni  grado  della  vita  civile.  Egli 
non  disse  a  sé  stesso:  La  commedia,  perche  sia  quale 
si  vuole  dai  solenni  maestri,  deve  tenersi  nella  pit- 
tura di  questa  o  quell'  altra  condizione  :  ma  tutte 
quante  recò  sulla  scena  e  le  dipinse  vive  e  spiranti, 
e  da  per  tutto  trovò  di  che  far  ridere  sopra  difetti, 
di  che  far  fremere  de'vizi,  di  che  innamorare  della 
virtiJ.  Adunque  questi  elementi  diversi  contrastarono 
o  aiutarono  l'ingegno  comico  del  Goldoni:  ma  non 
in  guisa  ch'ei  lottando  coi  cattivi  non  dimostrasse 
il  futuro  vincitore,  ed  emulando  i  buoni  non  desse 
a    divedere    come  il  discepolo  avesse  forti   ale  per 


219 

diventare  Ira   poco  ,  in  sembianza  diversa  ,  il  vero 
compagno  de'  primi  maestri. 


XI. 


Prima  di  lutto  egli  portò  nell'arte  un  carattere 
nobile  e  intemeiato  :  onde  va  degnamente  ascritto 
Ira  gì'  insigni  uomini  di  lettere  ,  i  quali  han  fatto 
onore  all'Italia  nel  gran  secolo  che  si  chiude  col  1850. 
Costoro,  se  stanno  al  di  sotto  dei  cinquecentisti  per 
la  lingua,  per  lo  stile,  per  la  eleganza  della  veste 
esterna;  per  certo  li  sopravvanzano  nella  grandezza 
delle  materie  trattate,  nella  maestà  dei  portamenti, 
nella  purezza  delle  intenzioni ,  nella  gravità  della 
vita.  In  questo  secolo  non  si  vide  gente  del  conio 
dell'Aretino:  o  se  vi  fu,  non  venne  a  galla:  da  che 
le  lettere,  fatte  meno  procaccianti  di  splendide  pro- 
tezioni, cercarono  miglioie  alimento  nella  coscienza 
de'  loro  cultori.  Il  nostro  poi  fu  specialmente  tem- 
peralo a  ineffabile  bontà.  La  sua  madre  1'  amava 
quanto  può  amare  una  madre,  anche  perchè  l'avea 
partorito  senza  dolore:  ed  egli,  non  piangendo  come 
sogliono  i  bambini  ,  diede  segno  sin  d'allora  della 
sua  pacifica  natura.  Pei  ripetuti  colpi  datigli  da'suoì 
nemici  si  gittava  talvolta  a  malinconia  :  più  rara- 
mente, come  ferito,  si  risentiva  e  acerbamente  par- 
lava: pur  sempre  e  volentieri  perdonava  le  ingiurie, 
e  quando  scrisse  la  sua  vita  si  vendicò  de'suoi  ne- 
mici col  dignitoso  silenzio.  Così  buono  essendo , 
portò  nella  commedia  la  impronta  dell'indole  pro- 
pria. Non  odiando  mai,  mai  non  cadde  nell'esagerato 
e  nel  ftdso  :  da  che  l'odio  vede  1'  oggetto  odiato  n 


220 
colorì  più  cupi  che  naturalmente  non  ha.  Forse  non 
sarebbe  a  lui  slato  sconveniente  quel  giusto  sdegno, 
che  rampolla  d'animo  retto  vedendo  il  vizio  in  alto 
e  la  innocenza  oppressa:  giusta  ira,  di  cui  furono 
armati  i  satirici  piiì  grandi  come  Giovenale,  Persio  e 
il  Parini,  per  lo  che  vanno  distinti  da  coloro,  i  quali 
portarono  nella  satira  più  odio  verso  gli  uomini 
che  amor  dell'onesto.  E  a  me  avrebbe  fatto  prò  di 
vederlo,  infiammato,  dipingerò  con  foschi  ed  evi- 
denti colori  quanta  bruttezza  della  società  di  quel 
tempo  era  larvata  della  frivola  vernice,  cui  l'Asti- 
giano con  quel  lìero  piglio,  ch'era  il  segreto  della 
sua  grandezza,  senza  pietà  e  senza  riserbo  scoperse. 
Ma  il  non  esser  passivo  a  questo  incitamento  del- 
l'animo, tanto  non  gli  nocque  nell'arte  comica,  quanto 
se  fosse  stato  o  tragico  o  satirico,  se  bene  in  questi 
due  rami  dell'arte  si  può  degnamente  e  con  efficacia 
maneggiare  la  tenerezza  degli  affetti  e  l'urbano  di- 
scorso del  sermone  oraziano.  Non  gli  nocque,  dico, 
essendo  comico  :  imperocché  la  commedia  possa  dì 
ciò  passarsi:  non  già  perchè  non  debba  far  altro  , 
come  vogliono  i  rettorici,  che  irridere  i  difetti  che 
son  meno  nocevoli  alla  società,  ma  perchè  può  an- 
che raggiungere  il  suo  scopo  circoscritta  che  sia 
per  entro  a  questo  limite  più  angusto.  Quindi  egli 
non  isferza  mai  acerbamente  come  già  fecero  Ari- 
stofane e  l'Aretino,  e  per  fermo  non  corse  pericolo 
che  qualche  Alcibiade  berteggiato  ,  come  1'  antico 
dal  commediante  Eupolide  ,  lo  facesse  gittare  a 
mare  perchè  le  sirene  ,  cantando  ,  gì'  imparassero 
a  indolcire  1'  amarezza  delle  parole.  Anzi  da  que- 
sta bontà  d'animo  trasse  ispirazione  a  portare  sulla 


221 

scena,  più  distintamente  che  non  fece  il  Molière, 
la  pittura  della  virtù  nell'uomo  e  nella  famiglia  a 
consoliizione  e  incoraggiamento  della  specie  umana. 
Nel  che,  se  non  ad  altri,  egli  piacerà  sommamente 
a  coloro  ,  che  sostengono  la  rappresentazione  del 
male  non  esser  cosa  che  possa  utilmente  istruire: 
da  che  V  odio  al  male  è  anche  un  male  per  sé  , 
dove  noi  proceda  l'amore  del  bene:  e  il  male  stesso 
ha  sempre  alcuna  parvenza  pericolosa  ,  onde  può 
parere  altrui  o  piacevole  alla  vista  o  degno  almeno 
di  scusa. 

XII. 

Né  questa  bontà  era  in  lui  costretta  a  vacillare 
0  fuorviare,  almeno  nel  giudizio,  dalle  forti  passioni, 
che  per  solito  agitano  la  vita  degli  uomini  e  più 
d'ogni  altro  i  poeti.  Amò  le  donne  nella  prima  gio- 
vinezza a  quel  modo  forse  che  s'ama  una  volta  sola: 
in  appresso,  non  avendo  di  che  lodarsene,  con  più 
brio  che  passione.  Molto  dilesse  la  moglie,  e  la  madre 
moltissimo.  Di  questa,  prima  d'ammogliarsi  quando 
la  rivide  dopo  assai  tempo,  diceva:  Era,  è  vero,  ima 
specie  assai  diversa  d'amore;  ma  sino  a  tanto  che  io 
non  avessi  potuto  gustare  le  delizie  di  una  onesta  e 
dilettevole  passione,  l'amor  materno  mi  era  di  grande 
contento.  Le  quali  parole  mi  paiono  assai  cordiali  e 
tenere  ,  e  se  vi  manca  qualcosa  ,  questa  è  l'enfasi 
che  un  uomo  d'oggi  adoprerebbe  in  tal  caso.  D'altra 
parte  ciò  non  dimostra  che  profondamente  sentisse 
d'amore:  anzi  farebbe  credere  al  contrario  il  modo 
leggieri  onde  talora  si  lamenta  delle  sue  innamorate, 
più  riguardando  al  pericolo  e  al  male  sopravvenutogli 


222 
che  al  terribile  vuoto  che  si  sente  nel  cuoie,  quando 
un  ideale  vagheggiato  gran  tempo  sparisce  al  gelido 
soffio  del  vero.  Per  tanto  nelle  sue  commedie  in- 
darno cerchi  l'altezza  dei  pensieri  e  degli  affetti,  la 
quale  sta  in  istretta  relazione  con  l'animo  che  molto 
sente  :  anzi  in  esse  t'  è  dato  a  vedere  di  continuo 
la  serena  indole  dell'uomo,  che  non  si  chiude  dentro 
a  se  stesso  pensando  e  interrogando  l'intimo  dell'ani- 
mo proprio  :  ma  volentieri  e  intieramente  si  pone 
ad  osservare  e  a  dipingere  la  esterna  varietà  delle 
cose,  che  gli  si  girano  lietamente  all'intorno.  Quindi 
procede  il  bene  e  il  male  de'suoi  componimenti. 
Da  che  se  per  mancanza  di  profondo  sentire  egli 
dipinse  piuttosto  le  lievi  apparenze  che  le  nascose 
cagioni  degli  umani  affetti,  e  se  ritraendo  il  vizio  e 
la  malvagità  non  iscelse  di  esse  che  il  lato  men  tristo; 
d'altra  parte  potè  così  piiì  stare  ne'confini  assegnati 
a  commedia,  e  piiì  agevolmente  sfuggì  lo  scoglio  a 
cui  rompe  chi  vuol  troppo  addentrarsi  negli  arcani 
del  cuore.  Dappoiché  ciascuno  ,  che  ponga  mente 
a  sé  stesso,  darà  lagione  che  il  vero  nel  cuor  nostro 
e  si  nascoso,  profondo,  impenetrabile,  che  paiono 
sogni  e  fanciullaggini  le  fantasie  de'romanzieri  e  dei 
poeti  che  tentano  livelarlo.  Con  che  io  non  voglio 
venire  alla  severa  conclusione  che  taluni  fanno:  vale 
a  dire  che  l'ai'te  poetica  sarebbe  più  da  presso  al 
vero,  quando  lasciasse  la  drammatica  ,  l'epica  e  il 
romanzo  ancora,  dov'è  forza  addentrarsi  nella  pas- 
sioni negli  uomini,  e  si  restringesse  alla  lirica,  sfogo 
inìprovviso  de'movimenti  dell'animo.  Ma  per  fermo 
vorrei  che  si  avesse  meno  audacia  nell'entrare  nei 
segreti  del  cuore,  e  meno  superbia  nella  pretensione 
di  averli  scoperti.  Facciano  loro  arte  i   hlosofi.  Al 


223 

poeta,  qualunque  genere  egli  scelga,  tocca  di  porre 
l'uomo  che  naturalmente  si  chiudo  dentro  a  se  slesso 
in  quella  parte  di  mondo  o  in  quella  fortuita  o  ca- 
gionata serie  di  avvenimenti,  dove  a  se  scuopre  in 
certa  guisa  so  stesso  o  agli  altri  non  conosciuto  si 
manifesta.  La  serenità  costante,  se  non  che  alcuni 
vapoii  di   mestizia  la   turbavano  raramente,  veniva 
al  Goldoni    aiutata    dalla    buona    cotnplessione  del 
corpo.  Quindi  un'allegria  naturale,  per  cui  le  cose  gli 
erano  sempre  circondate  da  un'aura  lieta.  Nelle  Ba- 
ruffe Chiozzolle,  nel  Ventaglio,  nei  Pettegolezzi  ed  in 
altre,  scorre  quest'allegra  e  vivace  vena,  la  quale  può 
ammirarsi,  ma  non  imitarsi  efFicacemente  giammai, 
se  non  da  quello  che  nasca  sì  come  il  Goldoni  fu 
temperato.  E  tali  commedie  lo  rendono  appunto  sin- 
golare ed   oi'iginale  :    in  quanto  che  in  altri  autori 
troverai  cose  meglio  architettate,  più  profonde  forse, 
ma  non  mai  quel  sorriso  grazioso,  quella  candidezza 
d'  espressione  procedente  da  animo    che  ci'cde  alla 
bontà  delle  cose;  in  somma  quella  festività  che  non 
islà  più  qui  che  là,  ma  tutto  penetra  e  conìprende  co- 
me la  luce  e  il  calore  del  sole. Inimitabili  fatture  come 
sono  le  melodie  del  Bellini:  fiori  che,  come  la  Son- 
nambula, non  potevano  e  non  possono  nascere  che 
sotto  l'azzurro  del  cielo  italiano.  E  non  altrove  pure 
che  sotto  gl'influssi   di  questo  cielo  possono  prospe- 
rare quelle  tempre  di  facile  ingegno,  che  impazienti 
di  mettere  in  atto  la    ingenita    polen/>a    creatrice, 
quasi  sdegnano  ogni  disciplina  che  per  avventura  le 
dirigga  al  meglio,  e  come  posseduti  da  un  nume, 
con  estro  infiammalo,  improvvisano  nelle  arti,  nella 
poesia  e  nelle  lettere.  Non  altrimenti  il  nostro  poeta 
(e  non  niego  che  talora  ciò  facesse  per  la  necessità 


224 

di  guadagnarsi  la  vita)  non  tollerò  freno  di  lunga 
meditazione,  nò  sottopose  il  lavoro  alla  lima;  ma 
così  come  gli  nascevano  all'improvviso  nella  mento, 
dallo  scrittoio  lanciava  i  suoi  co(nponimenli  alla 
scena.  Onde  procede  che  talora  essi  venner  fuori 
belli  in  tutte  le  loro  parti  come  Paliade  dalla  testa  di 
Giove  :  talora  buoni  per  concetto  ,  ma  punto  ben 
connessi  e  compiuti,  se  bene  qua  e  là  vi  balenano 
bellezze  di  scene  stupende.  Non  ò  a  dire  però  che  tale 
facilità  fosse  in  lui  fiacca  e  slombata,  come  avviene 
in  coloro  che  Than  sortila  da  natura  senza  la  fiamma 
d'un  ingegno  potente.  Anxi  perchè  tal  facoltà  in  lui 
s'accompagnava  a  potenza  d'intelletto,  così  essa  gli 
diede  modo  a  ottenere  quello  che  taluni  non  mai  rag- 
giungono, o  raggiungono  a  pena  con  aspra  fatica. 
Imperocché  se  talora  desideri  nelle  sue  commedie 
più  composto  artificio  e  più  bella  economia  ne'par- 
ticolari  e  nel  tutto;  sempre  rinvieni  un  procedere  na- 
turale ,  uno  sfuggire  quasi  sempre  i  tioppi  viluppi 
dove  i  casi  si  annodino  a  si  accentrino  come  in  mac- 
china le  ruote,  il  non  tendere  mai  al  curioso,  un 
cei'car  le  bellezze  universali  nelle  circostanze  comu- 
ni, in  fine  una  continua  spontaneità  di  scioglimenti 
che  da  tutte  queste  cause  naturalmente  procede.  Ma 
tali  doti  naturali  in  lui  non  vennero  aiutate  dalla 
coltura  dell'  intelletto.  Poco  importava  all'arte  sua  o 
almeno  alle  qualità  più  rilevanti  di  essa,  il  conoscei'e, 
a  mo'  d'esempio,  i  costumi  forestieri.  Bastava  ch'egli 
avesse  avuto  meno  temerità  nella  scelta  degli  argo- 
menti, di  certe  commedie, ove,  per  vero  dire,  gli  orien- 
tali, i  tedeschi  e  gì'  inglesi  appariscono  assai  diversi 
da  quello  che  sono  o  che  si  conoscono  generalmente. 


225 

Oltre  a  ciò  se  in  que'tali  argomenti  la  pittura  tlei 
costumi  e  delle  passioni  fossero  state  conformi  al- 
Tumatia  naturajdi  leggieri  si  sarebbero  scusati  come  si 
scusano  i  difetli,  che  nascono  dalla  ignoianza  dei  mo- 
di speciali  di  ciascun  popolo.  Assai  ci  piacerebbe  il 
Filosofo  inglese  se  da  vero  egli  ci  venisse  innanzi 
con  animo,  intelletto  e  vita  confacenti  a  filosofo:  il 
male  si  è  ch'egli  non  è  filosofo  ne  inglese:  quindi, 
per  manco  d'avvertimento,  diamo  cagione  del  dispia- 
ceie  al  difetto  che  viene  più  agevolmente  alla  vista. 
Ma  se  il  poeta  comico  può  passarsi  di  tali  nozioni, 
o  almeno  sfuggire  dal  trattare  materie  che  abbiso- 
gnino del  loro  soccorso;  non  può  e  non  deve  rifug- 
gile dallo  studio  delle  scienze  morali  ,  onde  si  ha 
lume  non  solamente  per  discernere  il  vizio  sotto  la 
maschera  della  virtù  nella  confusione  che  d'ambe- 
due si  fa  dalla  gente  guasta  o  dalle  passioni  più 
proprie  degli  uomini  o  dalle  idee  che  più  regnano 
nel  tempo  che  si  vive  la  vita.  E  perchè  il  nostro 
mancava  di  tale  scienza,  e  quindi  era  soccorso  dalla 
sola  rettitudine  naturale,  talora  incespica  nel  dare 
per  vizio  quello  che  sarebbe  virtù  e  nel  dare  per 
virtù  ciò  che  di  vero  è  vizio  e  difetto:  per  la  qual 
colpa  non  sempre  colse  in  fallo  la  inesorabile  frusta 
di  Giuseppe  Baretti. 

XIII. 

Come  i  poeti  romanzeschi,  raccogliendo  la  messe 

di  cento  romanzieri,  muovono  da  mare  a  terra,  da 

castello  ad  abituro  ,  da  nani  a  giganti  ,  da  caso  a 

caso,  da  meraviglia  a   meraviglia;  non  altrimenti  il 

G.A.T.GLXIV.  ^  15 


226 

nostro  poeta,  fecondo  e  mobile  come  quelli,  trapassa 
per  vario  ed  infinito  ordine  di  caralteii  e  d'  intrecci 
e  di  catastrofi  ,  lutto  traendo  dalla  sua  fantasia  o 
dalla  osservazione  sempie  sveglia  ne' varia  li  casi  della 
sua  vita.  Durante  la  quale  o  insieme  col  padre  da 
giovinetto  visilò  le  case  degrinfermi,  o  scrutò,  come 
avvocato,  dentro  le  cagioni  de'turbamenti  domestici, 
o  come  compilatore  di  processi  gli  andamenti  della 
giustizia  ,  o  come  segretario  d'  un  diplomatico  le 
fiacche  brighe  e  l'orgoglio  patrizio.  E  cosi  vide  molto 
e  mollo  provò  :  quindi  trasse  potenza  a  fare  :  da 
che  i  moti  dell'  intelletto  si  concatenano  alle  pas- 
sioni che  dì  e  notte  e  d'ora  in  ora  l'uomo  va  pro- 
vando, e  talora  turbano  e  talora  spronano  il  vigore 
della  volontà  e  dell'  azione.  Laonde  nell'  immensa 
armonia  della  società  potè  vedere  e  mostrare,  come 
la  pace  d'una  famiglia  venga  talvolta  turbala  dall'u- 
mile e  perigliosa  azione  d'  un  servo  ,  un  governo 
dalla  cupidigia  d'un  ministro,  la  riverenza  ai  nobili 
dai  loro  pregiudizi  e  dal  vano  orgogliu,  le  relazioni 
del  viver  sociale  dalla  maldicenza  ,  dalla  invidia  e 
dalla  calunnia,  l'agiatezza  dal  lusso,  e  così  via  via: 
sempre  mirando  a  quell'ultima  dimostrazione,  che 
meglio  a  se  stesso,  alle  sue  passioni,  alle  sue  con- 
traddizioni, alle  sue  debolezze,  che  agli  esterni  av- 
venimenti l'uomo  debba  infine  imputare  i  miserandi 
suoi  casi:  e  però  la  necessità  di  migliorare  sé  stesso 
per  raggiungere,  comunque  sia,  quanta  felicità  sulla 
terra  gli  può  esser  concessa.  Chi  voglia  farsi  un'idea 
della  sua  ricca  immaginativa  ,  guardi  la  immensa 
varietà  dei  soggetti  da  lui  trattali,  e  ne  faccia  para- 
gone, non  dico  con  qualsivoglia  autore  nostrano  o 


227 

lornslieio,  ma  bensì  con  un'epoca,  con  un  secolo 
intiero,  e,  senica  uscire  (le'termini  d'Italia,  col  fecon- 
dissimo cinquecento.  Allora  qui  si  contavano  a  mi- 
gliaia coloro,  che  vestendosi  francamente  della  vec- 
chia toga  e  lasciando  al  teatro  plebeo  la  novità 
sbrigliata,  invadevano  i  teatri  nelle  gravi  accadenn'c 
e  nelle  corti  eleganti.  Il  Grazzini  nel  Prologo  dell'Ar- 
zigogolo  così  grida  :  Oggidì  non  c'è  dovizia  d'  altro 
che  di  poeti  e  di  compositori,  o  per  favellare  pili  rel- 
lamenle,  di  guastatori.  Perciocché,  lasciando  da  parie 
i  notai,  i  pedagoghi  e  i  frati,  infine  gli  artefici  mec' 
canichi  e  vilissimi  si  mettono  a  comporre  commedie 
come  se  elle  fnssero  rispetti  o  frottole,  senza  sapere 
appartenenza  e  osservanza  veruna  che  si  appartenga 
e  si  osservi  nelle  commedie.  Solamente  ch'elle  sieno 
divisate  e  distinte  in  cinque  atti ,  basta  loro  :  delli 
svarioni,  delle  disaggnaglianze ,  delle  contraddizioni, 
delle  disonestà  e  delle  discordanze  poi  non  ne  tengon 
conto  .  .  .  In  quanto  alle  osservazioni  della  lingua  , 
danno  la  colpa  agli  strioni  ,  o  che  non  sanno  prof- 
ferire, 0  che  vogliono  dire  a  lor  modo:  ma  la  verità 
è  elici  non  la  intendono  e  non  la  sanno  uè  favellare 
uè  scrivere.  Rassicuratevi  che  qui  parla  il  Grazzini  vis- 
suto al  tempo  dei  lucchi  e  delle  zazzere,  e  non  già 
uno  scrittore  dell'ottocento,  come  qualche  maligno 
potrebbe  far  credere.  Anzi  colui  seguita,  tirandola 
un  po'  rozzamente  contro  al  bel  sesso:  «  Non  per 
questo,  uditori  cortesissimi,  che  non  pensiamo  e  non 
crediamo  ,  che  la  nostra  commedia  non  sia ,  come 
Valtre,  che  per  insino  a  oggi  si  sono  vedute  e  recitate, 
perciocché,  da  quelle  dell  Ariosto  in  fuori,  tutte  quante 
le  altre  sono  come  le  leggi  e  gli  statuti  delle  donne, 


228 
senza  aiUorilà  e  senza  fede.  E  si  noti  che  nel  boi 
cinquecento  si  tenevano  per  nnigliori  di  tutte  io  com- 
medie dell'Ariosto,  e  si  avea  poco  rispetto  alla  bella 
metà  del  genere  umano.  Errori  massicci  ambedue. 
Del  rimanente  non  solo  agli  artefici  di  quella  sorla, 
che  descrive  il  Golii  ,  parca  lecito  rubaic  a  man 
salva  ,  ma  pure  i  buoni  si  chetavano  persuasi  di 
aver  fatto  qualcosa  di  bene,  purché  avessero  ripetuto 
un'antica  favola,  e  per  pudore,  mutati  i  nomi,  l'aves- 
sero vestita  d'un  abito  più  casareccio  o  rifioritala  di 
eleganze  fiorentinesche.  Che  anzi  alcuni  menavan 
vanto  di  questa  imitazione  o  direi  ruberìa,  e  grida 
vano  doversi  ciò  faie  chi  senza  dubbio  volesse  far 
bene. 

XIV. 

Udite  in    fatti  Ercole   Benti voglio    nel    Prologo 
de'  Fantasimi  in  versi  scioltissimi: 

Diasi  pur  vanto  questa   nostra  etate 
D' ingegno  e  di  saper,  sia   pur  superba 
E  stiasi  nel  suo  error,  ne  la  sua  vana 
Persuasioni  eh'  io  dirò  sem prema! 
Che  i  nostri  antiqui  fur  tanto  ingegnosi 
In  ogni  studio  loro,  e  tanto  bene 
Seppero  dire  e  far,  che  noi  moderni 
Non  sappiam  dir  né  far  perfettamente 
Alcuna  cosa,  se  dietro  ai   famosi 
Vestìgi  lor  non  ci  sforziam  di  gire. 


Onde  l'autore 

A  ciò  pensando,  e  che  Terenzio  e  Plauto 


229 

Fiir  grandi   imitatori  (perchè  Puno 
Epicarmo  imitò,  l'altro  Menandro) 
E  che  troppa  sarehbe  prosonzione, 
Troppo  espressa  ignoranza,  s'ancor  egli 
Non  fusse  imitator  di  questa  sacra 
Anliquitate,  ha  questa  sua  commedia 
Fatta  air  imitazion  d'una  di  Plauto. 

E  non  altrimenti  ripeteva  il  Bibbiena  nel  Prologo 
della  Calandra,  scusandosi  col  dire  che  s'egli  era  la- 
dro di  Plauto  ,  a  Plauto  stava  mollo  bene  1'  esser 
furato  s'egli  teneva  le  sue  cose  senza  chiave  o  cu- 
stodia al  mondo.  Così  altri  molti,  non  eccetto  co- 
loro che  la  recitavano  da  inventori  {tranne  Pietro 
Aretino),  seguivano,  come  pecore,  il  movimento  let- 
terario e  artistico,  che  scoprendo  statue,  edifizi  e 
libri  greci  e  latini,  non  era  pago  se  non  li  copiava 
e  ricopiava,  scambiando  pei'  novità  quell'opera  assi- 
dua e  faticosa  di  disotterramento.  Quindi  è  inutile 
che  ricerchiato  novità  e  varietà  nella  immensa  far- 
ragginc  delle  commedie  di  quel  secolo.  Solamente 
ci  valgono  per  la  gran  copia  di  lingua  di  che  vanno 
ricche.  Scostatevi  da  questa  considerazione  e  cadrete 
in  una  seccaggine  mortale.  Invano  un  titolo  un  poco 
strano  o  fuor  del  comune,  ovvero  il  nome  dell'au- 
tore, tentano  la  vostra  curiosità.  Vi  chiama  a  sé  il 
nome  di  Ercole  Bentivoglio  ?  Quel  bizzarro  spirito 
che  conversò  co'  grandi  del  suo  tenipo  e  che  ri- 
cordò gli  orrori  dell'assedio  di  Firenze  nella  celebre 
satira  :  Soi;ra  i  bei  colli  che  vagheggian  VAi^wj  vi 
mette  innanzi  nei  Gelosi  e  nei  Fantasimi  le  solite  farse 
coi  parassiti  ,  i  vecchi  balordi  e  i  servi  astuti    ed 


230 

altro  di  simil  conio.  0  forse  tragge  la  vostra  atten- 
zione Lorenzino  de'  Medici  ?  L'uomo  coperto,  tra  i 
tumulti  e  i  bagordi  della  plebe  rozzo  e  facinoroso, 
piaggiatore  fra  i  grandi,  simulatore  di  vizi  e  virtìi, 
volpe  e  coniglio,  bacchettone  ed  ateo,  pudico  e  dis- 
soluto, mozzatore  delle  teste  dell'arco  di  Costantino 
e  uccisore  del  duca  Alessandro;  ha  persino  neWAri- 
dosia  spianato  il  suo  ghigno  beffardo,  e  vi  presenta 
una  cosa  arida  come  il  titolo  che  la  dislini<ue  e 
come  l'avaro  vecchio  che  atteggia  la  parte  princi- 
pale. Tutta  intiera  ò  di  Plauto,  e  v'  ha  del  Medici, 
fuor  della  lingua  ,  il  peggio  ,  vale  a  dire  le  lascive 
passioni  e  le  buffonate  sacrileghe.  Cercale  a  vostro 
grado  nel  Grazzini,  nell'Ariosto,  nell'Alamanni,  nel 
Celli,  nel  Firenzuola  e  in  altri,  e  vi  girerà  il  capo 
come  un  aicolaio  e  nulla  avrete  che  vi  rimanga  con- 
fìtto nella  mente.  Vi  punge  forse  l'animo  il  nome 
dei  Lanzi  che  sta  in  capo  alla  commedia  di  messer 
Francesco  Mercati  ?  Non  ritroverete  che  un  figlio 
perduto,  il  quale  torna  dall'Alemagna  biasciando  la 
lingua  bastarda  de'  tedeschi  assoldati  dal  duca.  Che 
se  in  ultimo  vi  gilterete  sopra  le  curiosità  letterarie, 
poniamo  che  vi  venga  innanzi  la  commedia  di  Ago- 
stino Ricchi  lucchese  distinta  col  nome  dei  Tre  li- 
ranni^  dedicata  al  cardinale  Ippolito  de'  Medici  e  reci- 
tata per  r  incoronamento  di  Carlo  V  a  Bologna.  Voi 
stupirete  che  l'amore  e  la  fortuna  e  l'oro  sieno  co- 
testi famosi  tiranni:  l'ultimo  dei  quali,  a  dir  vero, 
fu  di  soverchio  benigno  con  lo  scrittore,  giovane  di 
diciotto  anni  e  di  belle  speranze,  come  oggi  appunto 
si  direbbe,  lo  voglio  significare,  che  costui  fu  bene 
rimunerato,  anzi  fu  fatto  cavaliere  e  famigliare  del- 


231 

r  impeintoro:  laonde  pensò  poi  di  godersi  tranquil- 
lamente la  poco  sudata  pensione,  lasciando  pure  che 
altri  lamentasse  a  suo  grado  le  belle  speranze  an- 
negale nell'ozio  sccuro. 

XV. 

Voi  ci  potete  trovare  dentro  questa 
bella  città  una  molto  grande 
gentilezza  di  vecchi  uomini  e  di 
mezzani  e  di  damigelli  ad  ab- 
bondanza che  molto  fanno  lodare 
loro  nobiltà  ;  e  mercadanti  che 
vendono  e  acquistano  e  cambia- 
tori di  moneta  e  cittadini  di  tutti 
i  mestieri  e  marinai  di  tutte  gui- 
se e  navi  per  condurre  in  tutti 
i  luoghi  e  galee  per  dannaggio 
deglinemici.  Ancora sièin quella 
bella  città  belle  dame  e  damigelle 
e  pidcelle  a  gran  numero  addob- 
bate molto  riccamente. 
Cronoca  veneta  di  Martin  Ca- 
nale. 


Se  girando  a  diporto  per  la  bella  Venezia,  t'oc- 
corra di  giungere  nella  Mercerìa  ,  tu  vedrai  lungo 
di  essa  far  mostra  sfoggiata  e  fettucce  e  nastri  e 
confetti  e  ninnoli  d'or[)elJo  e  libricciuoli  dorati  di 
poca  sostanza  nelle  botteghe,  che  prima  eran  su- 
perbe dei  volumi  degli  .Aldi  e  dei  Giunta,  e  di  la- 
vori massicci  d'oro  e  di  gemme,  e  di  copia  d'aro- 
mati  e  d'elmi  e  di  corazze  e  di  scudi.  Non  altri- 
menti la  città  di  Venezia  nel  secolo  passato  differiva 
dall'  antica  signora  dell'  Adriatico,    scaduta  oramai 


232 

della  sua  grandezza.  Ella  viveva  aneoi'a;  ma  vivea 
nell'affaticato  riposo  che  annuncia  il  termine  della 
vita  degli  uomini  e  delle  nazioni.  Veramente  con- 
finata nel  fondo  della  laguna,  non  distendea  più  Tale 
pei  mari  lontani:  il  leone  accovacciato  sulla  colonna 
guardava  mesto  e  silenzioso  verso  l'Oriente  che  fu 
campo  trionfale  delle  sue  prodezze.  Pui',  come  fosse- 
ro ancora  ne' loro  bei  tempi,  il  doge  e  i  patrizi,  che 
già  fecer  paura  all'  Italia  ed  al  mondo,  parea  non 
s'accorgessero  delle  mutate  condizioni,  e  tutte  con- 
servavano le  pompe  avite  come  se  d'ora  in  ora  fos- 
sero per  risuscitare  il  vecchio  e  cieco  Enrico  Dan- 
dolo e  Vittore  Cappello  e  il  Peloponnesiaco  Morosi- 
no.  Tale  e  la  natura  degli  antichi  poteri.  Come  al 
vecchio  sembra  dar  parte  di  sua  vita  abbandonando 
anche  per  poco  le  care  abitudini,  così  ad  essi  ogni 
esterno  spettacolo,  più  caro  quanto  più  si  rifei'iva 
al  lontano  passato,  poi'geva  soavissimo  inganno:  e 
la  Regata  e  il  Buccntoro  e  le  sponsalizie  del  mare 
rifiorivano  un  poco  l'orgoglio  d'una  potenza,  che 
vedeano  al  ver-de  nella  casa  ,  nel  palagio  dogale  e 
nei  segreti  consigli.  Ma  il  popolo  avvezzo  ad  ap- 
pagarsi dell'apparenza,  non  cessando  di  rispettare  il 
potere  del  governo  ,  si  dava  a  credere  di  essere  a 
quella  potenza  medesima  che  in  antico  ,  e  tutto 
lieto  e  baldo  si  gioiva  della  memoria  delle  antiche 
vittorie  rinnovate  ogni  anno  nelle  splendide  feste,  che 
poi  Giustina  Henier  Michiel  descriveva  in  italiano  e 
in  francese,  quasi  volesse  al  vincitore  e  abbattitore 
della  repubblica  ispirare  verso  di  lei  pietà  e  rive- 
renza. Per  certo  il  carattere  lieto  e  usalo  a  libera 
domestichezza  convenevole  a  città  data  a   traffici  e 


:^33 
•A  relazioni  foreslicie  ,  spira  da  pei*  tutto  nella 
commedia  goldoniana  e  mette  per  essa  un'auia  di 
vivacità  che  bea  e  rinfresca  il  nostro  arido  cuore. 
Ma  quasi  cosa  socia,  l'altiero  patrizio  non  è  figu- 
ralo in  mezzo  a  quel  popolo  vario  e  festivo:  e  sì 
che  s'egli  fu  altiero  e  tenace  delle  antiche  usanze, 
e  geloso  sino  alla  crudeltà  del  proprio  decoro  ,  fu 
|.>ure  meglio  fastoso  che  soverchiante,  e  fu  buono  e 
schietto  e  amorevole  e  caldo  protettore  della  sua 
clientela  di  minuti  plebei,  a  cui  si  avvicinava,  co- 
minciando dal  lavacro  battesimale  ,  per  varie  gra- 
dazioni di  patronato.  Imperocché  si  racconta  che  due 
plebei,  e  talvolta  sino  a  centocinquanta,  reggevano 
come  compari  il  ()argoletto  patrizio  al  battesimo  , 
che  in  tal  modo  legava  questi  all'  amore  e  quello 
alla  ossei'vanza  di  particolare  tutela.  Ma  sia  live- 
l'enza,  sia  timore,  sia  poca  conoscenza,  o  lutto  in- 
sieme, d'essi  patrizi  non  si  trova  traccia  in  questo 
poema  della  viia  veneziana.  In  quella  vece,  e  forse 
perchè  tal  parte  di  società  più  si  pi'estava  al  ridi- 
colo, noi  troviamo  in  ceiti  nobili  e  rozzi  e  miseri 
0  avventati  e  incivili  il  ritratto  dei  Barnabolti,  così 
detti  da  santo  Barnaba  ,  chiesa  intorno  alla  quale 
solevano  abitare.  Costoro  scendevano  dalle  costole 
dei  cadetti,  ossia  secondogeniti,  delle  principali  fa- 
miglie e  dalle  famiglie  aggregale  alla  nobiltà  in 
occasione  della  guerra  di  Chioggia.  Classe  povera 
esupoiba:  turbolenta,  come  in  tulli  i  liberi  slati  la 
nobiltà  scaduta.  Le  donne  di  essi  aveano  il  privilegio 
di  mendicare  in  zendado,  e  di  quella  stirpe  uscivano 
scrocconi,  giuocalori,  sollceilatori  di  cause,  mercanti 
di  voli  nel  Broglio.  Più   volte  cospirarono  contro  allo 


234 

stalo,  e  più  quando  osso  era  [>iù  infiacchilo:  meglio 
che  da  virtù  tenuti  a  freno  dall'antica  fortezza  dell'or- 
dine giudiziario.  Del  rimanente  i  costumi  caduti  a 
lascivie  sono  delineati  e  sferzali  più  d'una  volta:  se 
non  che  in  coleste  cose  è  ritraila,  direi,  la  parte 
lieta  e  gioviale  solamente  ,  come  conveniva  nello 
slesso  tempo  alla  commedia  e  alla  gelosia  del  paese. 
Da  che  non  era  impresa  da  pigliare  a  gabbo  per 
uomo  privato,  il  penetrare  dentro  agli  intrighi  che 
per  via  delle  maschere  s'  inlesseano  dai  grandi. 
Spesso  il  tabarro  e  la  baulla  e  il  eappello  a  tre 
punte  e  il  cuoio  nero  che  coprìa  me/.zo  il  viso  di- 
sbrigavano il  patrizio  della  toga  solenne  e  della 
pubblica  vista:  e  quando  egli  poteva  girovagare  a 
suo  talento  e  favellare  persino  agli  esteri  ministri  ma 
solo  nelle  piazze,  ne' casini  e  al  teatro;  per  certo 
dovea  gioire  come  un'uccello  fuori  del  carcere  gode 
de'suoi  svolazzi,  o  come  giovinetto,  a  cui  riesce  fug- 
gir della  vista  del  pedagogo  e  correre  a  suo  grado  per 
l'aperta  campagna.  Così  piuttosto  è  adombrata  che 
dipinta,  e  meglio  si  lascia  indovinare  che  vedere,  la 
licenza  di  essi  patrizi  quando  convenivano  segreta- 
mente a  solazzarsi  nelle  case  delle  cortigiane,  e  quivi 
traspariscono  più  velate  ancora  la  rilassatezza  del  vin- 
colo matrimoniale  e  la  feroce  prepotenza  de'  baroni 
provinciali  non  ancora  sdentata  dei  bravi  maneschi. 
Quanto  al  giuoco,  non  mi  posso  passare  dall'avver- 
lire,  che  gli  stranieri  hanno  menalo  gran  rumore 
della  tolleranza  soverchia  avutasene  a  Venezia,  non 
pensando  che  da  per  tutto  in  quel  tempo  succedeva 
il  medesimo.  E  il  Daru  francese,  storico  della  ca- 
duta repubblica,  avrebbe  meglio  frenato   sua  lingua. 


235 

se  levando  un  poco  raniino  dal  suo  tema  o  dall'odio, 
si  fosse  ricordato  che  in  sua  patria  nel  tempo  della 
Reggenza,  le  fiaccole  accese  indicavano  i  luoghi  dove 
convenivano  i  giocatoti,  e  che  nel  16  aprile  del  1722 
otto  bische  furono  permesse  a  Parigi  in  cambio  d'un 
tributo  di  ducenlomila  lire  per  poveri  vergognosi  , 
come  può  vedersi  nella  storia  della  Keggenza  del  Li- 
montcy.  Però  è  sempre  vero  che  a  Venezia  questa 
pessima  usanza  fu  troppo  incoraggiata  ab  antico:  e 
non  ripeterò  la  storiella  di  quell'architetto  lombardo 
Baratterio  (onde  il  nome  di  baratliere),  il  quale  in 
premio  di  aver  trovato  l' ingegno  per  innalzare  le 
due  colonne  sulla  piazzetta  di  san  Marco,  ebbe  pri- 
vilegio di  porre  tavola  di  giuoco  nell'  intercolunnio, 
e  appresso  a  lui  degli  altri,  finche  il  luogo  non  ebbe 
infomia  peggiore  dal  supplizio  dei  condannati.  Bensì 
ricorderò  il  Ridotto  fondato  nel  1676,  ov'erano  ses- 
santa e  più  tavolieri  ,  in  cui  per  diritto  tenevano 
banco  i  patrizi  decaduti,  che  tagliavano  a  conto  di 
doviziosi  ebrei.  Non  tenevan  maschera  in  viso,  e  sta- 
vano in  sul  grave  come  siedessero  in  tribunale:  in- 
torno erano  donne  e  uomini  e  patrizi  e  mercanti 
e  ambasciatori  e  ministri  che  mettevano,  palpitando, 
la  posta.  E  tanto  era  l'amore  del  vizio,  che  il  Gioca- 
tore, una  delle  sedici  commedie  del  1750,  ebbe  sfor- 
tunato successo,  dice  lo  stesso  autore,  perchè  in  una 
città  di  ducentomila  anime,  cenlontila  ahneno  erano 
spasimati  del  giuoco,  e  al  Ridotto  veneziano  conve- 
nivano giocatori  da  tutte  quattro  le  parti  del  mondo. 
Come  che  fosse  però  ,  quando  il  poeta  nostro  era 
in  Francia,  il  Ridotto  fu  chiuso  per  sempre;  e  dieder 
vóto    per  la  chiusura  anche  quei  signori  del    gran 


236 

consiglio  ,  che  \)m  amavano  di  oziare  nel  loco  ,  il 
quale  divorava  senza  posa  e  pubbliche  e  privale  foi'- 
Hine. 

XVI. 

Ma  veramente  è  viva  e  pittrice  la  coinmedia  gol- 
doniana (piando  ella  si  volge  alla  classe  media  ed 
all'intimo  popolo.  Comincia  dall'avvocato  veneziano, 
anello  che  in  tutte  le  società  congiunge  la  classo 
media  alTaristocrazia,  e  ti  si  ricordano  le  accademie 
ove  si  esercitavano  i  giovani  ad  airingare,  e  i  tri- 
bunali della  donna  dell'Adiiatico,  che  odono  la  sciolta 
eloquenza  dei  veneziani  trionfante  della  grave  e  im- 
pacciata dei  bolognesi  e  dei  romani,  ai  quali  non 
sapea  buona  la  ragione  ove  non  avesse  avuto  puntello 
dall'autorità.  Vuoi  tu  sentire  il  modo  di  vivere  dei 
buoni  borghesi  veneziani?  Odilo  nei  Rusteghi  [Allo  1. 
scena  1).  L'autunno  tre  o  quattro  volte  in  campagna: 
nel  cainevale  cinque  o  sei:  rare  volle  all'Opera;  più 
spesso  alla  commedia.  Taluna  volta  al  Ridotto  e  un 
tratto  sul  lislon  nella  ()iazza  di  san  Marco  ove  pas- 
seggiavan  le  niaschere,  e  anco  un  poco  sulla  Piaz- 
zetta a  godersi  le  marionette  e  gli  astrologhi.  Talora 
la  gondolelta  portava  la  buona  flimiglia  alla  Giudecca 
o  al  Castello,  ove  la  vista  del  mare  esilarava  il  bel 
mondo  che  vi  conveniva.  I  costumi  però  erano  mutati 
dal  tempo  di  prima,  e  la  tnoda  e  le  usanze  foiestiere 
vi  avean  potuto.  Gli  uomini  una  valla  ,  viaggiando 
per  la  campagna  ,  si  mellevano  il  buon  giubbone  di 
panno  ,  le  gambiere  di  lana  ,  le  scarpe  grosse  :  ora 
parlano  la  polverina,  gli  scarpinelli  con  le  fibbie  di 
brilli,  e  inonlano  in  calesse  con  le  cahelle  di  sela,  e 


237 

non  iiftano  più  il  bastone,  ed  usano  il  palossello  ri- 
tolgo e  parlano  V  ombrellino  per  ripararsi  dal  sole. 
Così  nelle  Smanie  della  villeggiatura.  0  fernpi  !  0 
usanze  !  0  prodi  uomini,  vi  cadde  dalla  memoria  che 
il  mare  fu  patria  vostra  !  Voi  vi  disusaste  dal  pen- 
sare che  la  nave  e  il  vento  furono  e  doveano  essere 
per  sempre  il  vostro  suolo  e  la  vostra  fortuna  !  Al 
contrario  vi  piacque  allargarvi  col  dominio  sopi'a  la 
terra,  ed  eccovi  molli, effemminati  e  magri,  avveiando 
la  profezia  scritta  a  ligure  nel  solaio  della  chiesa  di 
san  Marco:  dove  la  genie  vedendo  effigiati  leoni  ma 
cilenti  sulla  terra,  e  pingui  leoni  in  mezzo  dell'acqua, 
profetava  che  Venezia  sarebbe  stala  sempre  grande, 
se  guardando  meno  alla  terra,  avesse  posto  continuo 
e  solo  studio  alle  marittime  cose.  Intanto  cotesto 
popolo  ,  dissuefatto  dall'ardite  imprese  ,  vivea  lie- 
tamente a  cielo  aperto  sotto  l'intlusso  del  bel  sole 
d'Italia.  Nel  Campielo  sono  dipinti  i  giuochi,  i  sol- 
lazzi, le  brigate  ,  i  cicalecci  della  genie  del  volgo 
così  veracemente,  che  tradotta  essa  commedia  non 
dirò  nel  dialetto,  ma  nel  corrotto  linguaggio  roma- 
nesco, pare  appunlo  cosa  nostra,  come  fu  ed  è  ve- 
neziana. Più  speciali  poi  del  popolo  veneziano  ap- 
paiono e  il  costume  delTudir  le  storie  cantate  dai 
vali  plebei  e  i  compari  e  il  giuoco  della  mora  e  il 
minuetto  e  la  furlana  e  le  donne  volgari  coi  manimi 
o  braccialetti  e  le  pule  col  zendado  sino  alla  cintura 
e  le  serenate  nelle  peole  e  le  gaie  scene  dei  vispi 
gondolieri.  Eppure  cotesla  plebe,  così  vivente  alla 
spensierata,  all'annunzio  della  viltà  dei  palrizi  surse 
gridando  viva  san  Marco:  ma  fu  sbaragliata  dal  can- 
none   della    repubblica    posto  sul    ponte   di    Rialto 


238 
nella  notte  del  12  al  13  maggio  1797,  ed  empì  di 
cadaveri  mutilali  il  campo  e  le  sepolture  di  san  Bar- 
tolomeo. E  fu  l'ultima  volta  che  il  cannone  della 
repubblica  tonava,  e  l'ultima  volta  tuonando,  feriva 
i  suoi  figli.  Ora,  fuori  degli  antichi  monumenti,  non 
è  rimasta  più  traccia  dell'antica  magnificenza.  I  co- 
lombi, venuti  da  Cipro  a  trastullo  della  dogaressa 
(ì  dalle  sue  damigelle,  svolazzarono  invano  in  cerca 
delle  antiche  signore  lungo  le  logge  e  i  portici  vuoti, 
e  la  vecchia  Marcolina  ,  ultima  delle  poverelle  di 
palazzo  ,  le  quali  aveano  privilegio  di  elemosinare 
nelle  camere  dei  legisti,  rimase  alcun  tempo  chie- 
dendo l'obolo  e  lamentando  al  forestiero  il  misero 
fato  della  caduta  repubblica.  Forse  con  minore  na- 
turalezza, 0  per  dir  meglio  con  meno  intima  cono- 
scenza delle  cose  ,  il  Goldoni  dipinge  i  costumi  , 
ch'erano  più  speciali  al  rimanente  d'Italia.  Ma  qual'era 
forestiera  usanza  o  nostra  corruzione,  che  non  fosse 
sparsa  in  ogni  classe  del  bel  paese  ?  E  chi  non  sa  che 
dissomigliami  in  tutto, pur  le  varie  parti  d'Italia,  s'ag- 
guagliavano nelle  abitudini  dell'ozio,  del  vizio  e  della 
servitù  ?  Le  ragioni  della  povertà  in  un  suolo  fertile 
invano  e  invano  rigato  da  fiumi  reali  e  cinto  di  mari 
spaziosi,  voi  vedete  adombrata  nel  Cavalier  di  spirilo, 
il  quale  esercita  la  mercatura  in  segreto  nella  città 
di  Napoli,  dove  per  l'indole  fastosa  e  per  l'esempio 
dei  signori  spagnuoli  era  entrala  l'ubbìa  che  il  com- 
mercio fosse  cosa  indegna  di  qualunque  originasse 
di  nobile  stirpe.  La  pessima  educazione  ,  sia  nella 
casa  paterna  sia  fuori,  vi  si  dimostra  nel  Padre  di 
faniicjlia.  Eccovi  la  smania  del  lusso,  la  mala  fede 
nei  contralti,  la  fanciullaggine  ,  in  cui  cascava  un 
popolo  che  già  tenea  primato  per  la  scaltrezza  dell'in- 


239 

gegno,  nella  Banca  rotta,  nelle  Villeggiature,  nell'/m- 
postore.  Taccio  di  altre  tnacchic,  di  cui  l'ombra  non 
s'è  ancora  dileguata  dalle  nostre  persone.  Bensì  non 
potrei  tacermi  della  strana  forma  dei  cicisbei,  distesi 
per  lutto  il  suolo  italiano  :  nò  amanti  ,  né  amici  , 
né  servi,  nò  mariti,  ma  mirabilmente  composti  di 
negative  qualità.  Dei  quali  (  lasciando  da  parte  la 
coriuzione  delle  nozze  e  della  famiglia)  non  sai  se 
più  irridere  la  frivolezza  o  dubitare  delle  platoniche 
dottrine.  Quando  tu  vedi  nella  nervosa  commedia 
dell'  Alfieri  stipolati  cotesti  confidenti  delle  mogli 
sin  nei  contratti  di  nozze,  e  nel  Cavaliere  e  la  damo, 
del  Goldoni  (eh'  ei  non  intitolò  /  cicisbei,  per  non 
chiamarsi  addosso  una  turba  accanita  )  due  inai-iti 
e  due  mogli  incrociati  a  cicisbei  con  iscambievole 
soddisfazione;  dubiti  se  hai  i)iiì  da  sprezzare  il  mi- 
sero ozio  e  la  ridicola  mollezza,  o  da  piangere  il 
vizio  che  non  si  scusi  della  passione,  che  lo  renda 
compassionevole  e  vitando  per  lo  spettacolo  de'  suoi 
necessari  tormenti.  Pei'  altro  io  pi'otesto  di  credere 
in  tutto  e  per  tutto  ai  soavi  precetti  che  si  leggono 
neir  atto  secondo  della  detta  commedia  e  che  per 
giustizia  solennemente  trascrivo  :  Senza  offendere  la 
onestà  della  dama  può  soffrire  qualche  inclinazione 
per  essa  anche  il  cavaliere  più  saggio;  basta  che  non 
permetta  mai  che  giungano  i  fantasmi  dell'amore  a 
intorbidare  la  purezza  delle  sue  intenzioni.  Il  che 
pare  fosse  facile  ai  ben  composti  cuori  dei  nostri 
nonni  incipriati. 

XVII. 

1  compositori  di  drammi,  commedie  e  romanzi 
ed  epopee  rompono  prima  di  ogni  altra  cosa  nello 


240 

scoglio  dei  caratteri.  Essi  credono  bonariamente  di 
crearne,  e  invece  riftinno  quelli  che  diconsi  di  con- 
venzione, vale  a  dire  che  non  sorgono  dalla  natura, 
ma  da  un  certo  tipo  ideale  quale  ha  foggiato  l'autore 
stesso,  0  quale  a  lui  porge  il  secolo  e  la  letteratura 
vivente.  Questi  caratteri  hanno  la  ventuia  di  piacere 
entro  un  dato  tempo:  i  posteri  pciò,  che  li  veggono 
senza  la  nebbia  delle  opinioni  e  dei  sentimenti  con- 
temporanei, se  ne  ridono  a  ragione.  Ne  dieno  esem- 
pio ora  le  maschere  e  le  donne  eroiche  del  sette- 
cento, nella  stessa  guisa  che  lo  daranno  ai  futui'i  i 
brillanti  modevn'ì.  Al  contrario  il  bello  più  universale 
è  quello  che  più  si  fonda  sopra  le  più  minute  e  par- 
ticolari osservazioni;  e  chi  non  ha  ingegno  e  pa- 
zienza da  ciò,  non  farà  altro  che  dare  nel  falso.  Il 
nostro,  nelle  prime  commedie  specialmente,  cadde 
nel  vizio  di  rifare  quei  tipi,  che  trovò  belli  e  fog- 
giati, come  un  rcttorico  iì  quale  caschi  ne'  luoghi 
eonmni.  Lo  sciocco  Zanelo  nel  Chi  la  [a  Vaspella 
sa  proprio  di  quelli  ,  che  dalle  commedie  del  cin- 
quecentd  ci  vennero  sino  alle  farse  del  Giraud:  la 
Rosaura  nel  Cliiaccherone  imprudente  poco  meno  che 
non  guasta  V  intiero  ordito  per  la  caricata  sempli- 
cità che  la  veste.  Ma  poi  nel  procedere  tanto  si  cor- 
resse di  tale  errore  ,  che  rifiutando  ogni  fisonomia 
senza  espressione  e  di  riempitura,  invece  di  lumeg- 
giare un  sol  carattere  a  cui  gli  altri  personaggi  ser- 
vano siccome  il  fondo  al  quadro,  giunse  a  fare  com- 
medie ove  sono  tanti  ritratti  vivi  quante  le  persane 
che  vi  figurano.  Ricordisi  V Apatista,  in  cui  il  servo 
pieno  di  vizi,  protestando  di  non  averne  alcuno,  si 
distingue  fra  le  altre  principali  figure,  che  di  solito 
spiccano  a  danno  di  queste  più   umili  e  più  inos- 


241 

servate.  «  Io  cercava  da  per  lutto  la  natura^  e  la  tro- 
vava sempre  bella  .  .  .  =  I  caratteri  veri  e  conosciuti 
piaceranno  sempre,  e  ancorché  i  caratteri  non  sieno 
infiniti  in  genere,  sono  infiniti  in  specie:  mentre  ogni 
virtii ,  ogni  vizio,  ogni  costume  prende  aria  diversa 
dalla  varietà  delle  circostanze  .  .  .  =  I  miei  caratteri 
sono  umani,  verisimili  e  forse  veri:  ma  io  li  traggo 
dalla  turba  universale  degli  uomini .  .  .  ))  Così  diceva 
il  nostro  autore  sia  nelle  Memorie  ,  sia  nel  Teatro 
comico.  Ora  volgi  e  rivolgi  a  tua  posta  queste  pa- 
role, e  verrai  sempre  alla  conclusione:  Guarda  inten- 
tamente il  vero.  Ed  è  così  come  al  giovane  artista 
che  avrà  lunga  pezza  copiato  e  statue  e  quadri,  e  si 
congederà  dal  maestro  chiedendo  consiglio  perchè  non 
si  perda,  così  solo,  fuori  della  diritta  via,  il  buon  mae- 
stro additerà  il  cielo  e  la  terra  e  i  viventi,  e  dirà 
come  si  legge  nel  libro  del  Solitario:  Ecco  che  tu 
vedi  il  cielo  e  la  terra  e  lutti  gli  elementi,  e  di  questi 
elementi  son  falle  tutte  le  cose.  Nel  leggiadro  intelletto 
del  Veneziano  la  natura  s'  è  specchiata  come  in  acqua 
limpidissima,  così  bella  e  varia  e  infinita.  Sarebbe  di 
soverchio  ripetere  le  mille  voci  che  lo  han  chiamato 
verace  pittore  dell'uomo  e  degli  umani  costumi;  ma 
degno  studio  sarebbe  e  di  grande  utilità  premiato, 
il  guardar  sottilmente  dentro  a  quelle  commedie 
quanto  quelle  figure  ritratte  tengan  proprio  del  vero, 
ossia  della  invariabile  stampa  dell'uomo,  e  quanto, 
nel  modo,  nel  colore,  nella  manifestazione  dell'affet- 
to, del  secolo  in  cui  vissero,  e  quanto  né  del  vero 
né  del  secolo,  ma  del  gusto  passeggiero  delle  mol- 
titudini. Per  verità  io  credo  che  cogliere  sì  diritto 
il  vero  sia  piuttosto  un  dono  di  Dio  che  frutto  di 
<i.A.T.CLXIV.  16 


242 

lunghi  e  tenaci  studi,  o  che  questi  potrebbero  so- 
himente,  come  aratro  nella  dura  terra,  svolgere  dal- 
l' involucro  e  mettere  all'aperto  quanto  per  avven- 
tura r  ingegno  dentro  a  sé  stesso  racchiude.  Ma  il 
Goldoni  sortì  appunto  il  dono  di  Dio:  ed  ebbe  lim- 
pida veduta  ,  acume  d'  intelletto  ,  facile  vena.  Dal 
gondoliere  al  patrizio,  dalla  buona  moglie  alla  donna 
vendicativa,  dal  Tonin  bela  grazia  al  Momolo  cortesan 
(semplicità  e  accortezza  veneziana),  dal  prodigo  al- 
l'avaro geloso,  in  somma  in  ogni  età  e  condizione 
umana,  egli  non  solo  vide  la  verità,  ma  seppe  pur 
l'arte  di  pingerla  a  meraviglia  e  quasi  coglierla,  per 
dir  così,  in  quel  momento  in  cui  essa  all'  impensata 
si  manifesta  ad  altrui:  ebbe  la  facoltà  di  entrare 
ne'  penetrali  dello  spirito  e  di  far  percettibili  le  me-, 
nome  gradazioni  della  volontà,  destro  a  far  tesoro 
di  tutto  ciò  che  di  sottile,  di  facile,  di  ridicolo  e 
di  decente  a  un  tempo  offre  la  colta  società,  men- 
tre la  vanità  e  la  decenza  ,  il  pregiudizio  e  la  ra- 
gione continuamente  contrastano  in  essa.  Egli  non 
si  rovescia  a  far  1'  anatomìa  della  passione  ,  come 
dopo  il  Molière  faceano  i  francesi,  né  pone  sulla  scena 
una  specie  dì  filosofo  che  fiso  in  sé  stesso  dica:  Io 
sono  o  mi  par  d'essere  così  e  così:  e  narri  più  che 
dimostri  co'  fatti  il  suo  proprio  carattere:  ma  con 
una  parola,  e  una  frase  detta  a  tempo  e  luogo,  con 
un'azione  che  par  colta  più  che  cercata,  ti  mette  pa- 
lesemente in  vista  l'umore  e  l'animo  della  persona, 
sì  che  ti  sembri  averle  veduto  a  occhio  nudo  il  pro- 
fondo del  cuore. 

[Conlimia). 


243 


VARIETÀ' 


Del  diritto  pubblico  e  privato  delV antica  Roma.  Di- 
scorsi due  letti  nella  biblioteca  comunale  di  Ma- 
cerala da  Matteo  Ricci  prefetto  della  biblioteca 
suddetta f  socio  corrispondente  deW accademia  delle 
scienze  di  Torino  ec.  -  8.°  Macerata  dalla  tipo- 
grafìa Bianchini  1859.  {Sono  pag.   120.) 


Il  signor  marchese  Matteo  Ricci  è  di  qua'  giovani 
cavalieri  di  alto  intelletto,  i  quali  stimano  dover  es- 
serci sempre  di  grave  consiglio  la  sapienza  civile  de- 
gli avi.  Non  vuoisi  infatti,  se  non  dalle  piccole  menti, 
revocare  in  dubbio,  che  pochissime  cose  i  moderni 
hanno  aggiunto  a  ciò  che  con  profondità  di  senno 
considerarono  e  statuirono  i  filosofi,  i  giureconsulti, 
i  legislatori  si  della  Grecia  e  sì  di  Roma.  Avemmo 
già  da  lui  alle  stampe  fino  dal  1853  il  Volgaiiz- 
zamenlo  della  politica  di  Aristotele  con  importanti 
note  ed  un  bel  discorso  preliminare.  Or  ecco  una 
sua  opera  originale,  che  verrà  letta  con  ammaestra- 
mento da  quanti  vorranno  ben  conoscere  nella  ra- 
gione delle  pili  solenni  leggi  il  governo  romano  dei 
re  e  dei  consoli. 


I 


2U 


Storia  generale  delle  missioni  francescane  del  P.  Mar- 
cellino da  Civezza  min.  oss.  -  Volume  IH.  -  8." 
Roma  tipografìa  Tiberina  1859.  (Sono  pag.  296.) 

Continua  egregiamente  il  P.  Marcellino  l'opera 
delle  Missioni  francescane  in  questo  terzo  volunme,  dì 
non  minore  importanza  degli  altri  alla  storia  sì  re- 
ligiosa e  sì  civile  di  tanti  popoli  della  terra.  Quante 
peregrine  notizie  ,  esposte  sempre  con  rara  critica 
ed  elegante  facondia,  intorno  allo  stato  in  cui  erano 
nel  secolo  XIY  la  Cina,  la  Persia,  l'Egitto,  la  Tar- 
taria,  la  Crimea,  la  Polonia,  la  Russia,  l'IIliria,  là 
dove  i  figliuoli  del  patriarca  d'  Assisi  sparsero  ge- 
nerosamente tanti  sudori  e  tanto  sangue  a  prò  del- 
la fede  e  civiltà  cristiana  !  Di  qual  numero  d'eroi 
evangelici,  veri  benefattori  dell'uman  genere,  vi  si 
narrano  le  azioni  ,  e  principalmente  di  que'  nostri 
Giovanni  da  Monte  Corvino  ,  Tommaso  da  Tolen- 
tino, e  B.  Oderico  da  Pordenone  !  Del  qual  ultimo 
r  illustre  autore  ci  ha  dato  di  più,  traendolo  da  un 
manoscritto  della  real  biblioteca  di  Monaco  in  Ba- 
viera ,  r  Iter  ad  parles  infidelium  a  fratre  Henrico 
de  Glars  eiusdem  ordinis  descriptum:  testo  che  riu- 
scirà carissimo  non  pure  a'  geografi  ,  ma  ad  ogni 
classe  di  eruditi.  Per  la  qual  cosa  riceva  nuovamente 
il  P.  Marcellino  le  nostre  vivissime  congratulazioni, 
come  quegli  che  può  a  ragione  gloriarsi  di  dare  al 
pubblico  un'opera  che  sommamente  onora  non  solo 
r  insigne  ordine  de'  minori,  ma  l' italiana  letteratura. 


245 


//  Libro  della  Sapienza  con  alcuni  nuovi  imporlanli 
studi  sopra  la  Divina  Commedia,  la  Profezia  di 
Sofonia,  il  Magnificat  e  la  Salveregina  ,  tradotti 
in  versi  rimati  dal  marchese  Giovanni  Broli  di 
Narni,  socio  dell'istituto  di  corrispondenza  archeo- 
logica di  Roma  e  di  altre  accademie  8."  Narni 
tipografìa  del  Gattamelata  1859.  (Un  voi.  di 
pag.  229). 

Questo  libro  non  ha  bisogno  di  raccomanda- 
zione, bastando  che  sia  opera  del  signor  marchese 
Eroli,  così ,  come  ognun  sa  ,  studioso  de'  classici. 
Ai  nobili  volgarizzamenti  del  Libro  della  Sapienza 
in  terza  rima,  della  Profezia  di  Sofonia  in  ottave, 
del  Magnificat  ,  della  Salve  Regina  ,  e  del  salmo 
cinquantesimo  terzo,  tengono  dietro  alquanti  discorsi 
intorno  alla  Divina  Commedia,  i  quali  con  profitto 
e  piacere  saranno  letti  non  solo  dai  cementatori  , 
ma  da  ogni  maniera  di  amatori  dell'altissimo  poema. 


Le  favole  di  Fedro  volgarizzate  in  rima  dal  profes- 
sore Giuseppe  Giacolelti  delle  scuole  pie,  socio  di 
diverse  accademie.  12.  Torino  tipografia  di  G. 
Favale  e  compagnia.  (Sono  pag.   152). 

Fra  i  molti  volgarizzamenti  che  ha  1'  Italia  delle 
sapientissime  favole  esopiane  di  Fedro,  uno  de'  piiì 
pregiati  vorrà  certamente  esser  questo  del  Giaco- 
letti.  Pochi   infatti    de'  nostri,  al  pari   del    chiaris- 


246 

slmo  professore  ,  si  conoscono  egregiamente  delle 
grazie  latine  e  italiane,  e  sanno  da  buon  maestro 
battere  i  loro  versi  ad  ogni  maniera  d'  incudine. 
Lui  autore  splendido  di  versi  lirici  nell'una  e  nel- 
l'altra favella  :  lui  meritamente  lodatissimo  ne'  di- 
dascalici, ne'  quali  ci  diede  VOllica  in  terza  rime  e 
ultimamente  lo  Specimen  poelicum  de  vapore.  Or 
eccolo  a  prova  di  gentile  semplicità  col  liberto  di 
Augusto:  e  con  quanto  onor  suo,  valga  a  mostrarlo 
il  saggio  che  ne  lechiamo. 

LA  CORNACCHIA  SUPERBA  E  IL  PAVONE. 

Perchè  iiesswio  gloriarsi  ardisse 
De'  beni  allrui,  ma  si  viva  conlento 
Di  sua  condizione^  a  monimcnlo 
D^ ognun  si  fatto  esempio  Esopo  scrisse. 

Gonfia  dì  vóto  orgoglio  una  cornacchia 

Tolse  le  penne  ad  un  pavon  cascate» 

E  postesele  intorno, 

Manto  sen  fece  svariato  e  adorno. 

Indi,  spregiando  sue  compagne,  al  bello 

Si  mischiò  de'  pavoni  almo  drappello. 

Ma  questo,  affìgurando 

L'audace,  ecco  l'assale  e  la  spennacchia, 

E  la  fuga  a  beccate. 

Ella,  così  malconcia,  dolorando 

A  far  si  avvia  ritorno 

Tra  le  sue  pari:  ma  da  lor  reietta 

N'è  tosto,  e  piena  di  tristezza  e  scorno. 

Allora  una  di  lor,  che  già  spregiate 


247 

Avea:  Se  tu,  le  disse, 

Stata  fossi  contenta  a!  nostro  ostello, 

E  paziente  a  quello 

Che  natura  ci  diede  e  ci  prescrisse, 

Né  scorata  e  dispetta 

Dai  pavon,  né  respinta  ora  da  noi. 

Non  piangeresti  gì'  infortuni  tuoi. 


L'  ASINO  AL  VECCHIO  PASTORE. 

Qui  si  dimostra  come 
Nel  variar  del  piincipe 
NuWallro  cangia  il  povero 
Che  del  padrone  il  nome. 

Un  vecchio  pauroso  in  verde  prato 

Un  asinel  pascea  ; 

Quando  da  ostil  clamore 

Repente  spaventato 

11  giumento  esorlò  quanto  potea 

Ratto  a  fuggir,  perché  dei  vincitore 

Non  cadesser  prigioni. 

Ma  quello  il  pie'  movendo  tardo  e  lento, 

E  ad  or  ad  or  dell'erbe  tenerelle 

Pur  facendo  bocconi, 

Di  grazia,  disse,  forse  due  bardelle 

Avrà  d' impormi  il  vincitor  talento  ? 

No,  disse  il  vecchio.  Ebbene, 

L'altro  rispose,  venga  pur  chi  viene. 


248 
Che  cale  a  me  qual  io  m'abbia  padrone, 
Se  ugual  basto  avrò  sempre  il  sul  groppone  ? 


IL  NIBBIO  E  LE  COLOMBE. 

Chi  d\iom  malvagio  in  guardia  pon  sua  vitUy 
Trova  rovina  dove  cerca  aita. 

Già  le  colombe  avean  spesse  fiate 

Sfuggito  il  nibbio,  e  dalle  lievi  penne 

A  ratto  voi  portate 

Evitala  la  morte. 

Ma  l'augel  rapitore  ad  opra  venne 

Di  fraude,  e  sì  ingannò  le  malaccorte  : 

—  Perchè  sempre  traete 

Giorni  turbati  e  rei  : 

Anzi  che  a  vostro  re  con  fermo  patto 

Me  nominar,  che  intatto 

Da  tutte  offese,  che  temer  potete. 

Per  sempre  il  viver  vostro  serberei  ?  — 

Quelle  gli  prestan  fede,  e  ai  lui  si  danno. 

Ma  come  al  regno  ei  giugne, 

Quel  barbaro  tiranno 

A  lacerare  colle  rabid'ugne 

E  ad  una  ad  una  a  divorarle  prende. 

Viste  le  morti  orrende 

Dell'altre,  allor  sì  parla  una  di  loro  : 

Ahi  stolte  !  Ah  ben  mertiam  questo  martoro! 


249 


FEDRO  CONTRO  I  CENSORI  DELLE  FAVOLE 
DI  ESOPO. 

Tu  che  gli  scritti  miei  con  naso  adunco 
Afferri  e  mordi,  e  d'esti  scherzi  in  uggia 
Hai  la  lettura,  questo  mio  libretto 
Soffri  per  poco  ancor  :  eh'  io  della  fronte 
Sgombrar  ti  voglio  le  severe  nubi. 
Mostrandoti  d' insolito  coturno 
Calzato  Esopo,  a  tragic'arte  intento. 

Deh  !  mai  non  fosse  del  pelìaco  monte 
Negli  alti  boschi  il  pin  tessalo  a  terra 
Caduto  a  colpi  di  fatai  bipenne  ! 
Ned  Argo  mai  novella  ardita  via 
Dischiusa  avesse  a  morte  orrenda  e  certa. 
Fabbricando  di  Pallade  con  arte 
La  nave,  che  primiera   aprì  del  Ponto 
I  seni  inospitali,  ohimè  !  con  quanta 
E  de'  greci  e  de'  barbari  ruina  ! 
Da  quel  funesto,  atroce,  orribil  giorno 
D'  Eéla  illustre  regnator  possente 
Tutta  di  pianto  e  duol  s'empia  la  reggia, 
E  il  trono  del  buon  Pelia  a   terra  giacque 
Per  barbaro  misfatto  e  tradimento 
Dell'  iniqua  Medea.  Costei,  1'  ingegno 
Cupo  e  feroce  in  cento  insidiosi 
Sembianti  ravvolgendo,  a  se  la  fuga 
In  prima  assicurò,  le  calde  membra 
Del  fratello  da  lei  spento  e  sbranato 
Qua  e  là  spargendo  in  suo  cammio  :  fé'  poscia 
Di  Pelia  alle  ingannate  incaute  figlie 


250 
Bruttar  le  mani  del  sangue  paterno  ! 

Che  ti  senmbra,  o  lettor,  di  questo  stile 
Sublime,  e  di  sì  tragico  argomento  ? 
Pur  questo,  tu  rispondi,  è  sciocco,  e  privo 
D'ogni  sapore  :  anzi  è  menzogna.  Assai 
Pria  ch'Argo  il  mar  solcasse,  i  flutti  egei 
Con  sua  flotta  Minosse  avea   premuti, 
E  con  giusto  supplizio  vendicata 
Del  prode  figliuol  suo  1'  iniqua  morte. 

Che  dunque  io  teco  far  potrò,  novello 
Difficile  Caton,  se  tutte  a!   paro 
Sdegni  le  Tavolette  e  le  stupende 
Favole  degli  eroi  ?  Deh  !  cessa  ornai 
A  le  tranquille  lettere  ed  amene 
Recar  molestia,  se  non  vuoi  da  quelle 
Di  molestia  maggiore  il  contraccambio. 
E  s'abbia  anche  per  se  questi  miei  detti 
Ogni  altro  stolto  a  te  simil,  che  tutto 
Schifiltoso  ripudia,  e  il  cielo  stesso, 
Per  parer  saggio,  rimbrottar  presume. 


Lettere  familiari  dei  migliori  scrittori  italiani  del  se- 
colo XIX,  proposte  in  esempio  ai  giovani  studiosi 
da  Michele  Melga.  Seconda  edizione  migliorala 
ed  accresciuta.  12.  Napoli,  tipografia  di  G.  Li- 
rnongi  1859.  (Sono  pag.   154.) 

Fra  le  pili  savie  scelte  di  lettere  italiane  ad  am- 
maestramento de'  nostri  giovani  noi  vogliamo  por 
questa  che  testé  ci  ha  dato  Michele  Melga,  giovane 


251 

napoletano,  già  scolare  del  Puoli,  intendentisslmo 
del  bello  scrivere  e  autore  di  opere  da  noi  ricor- 
date con  meritata  lode  nel  giornale  arcadico.  Qui 
si  hanno  ottime  regole  generali  non  solo,  ma  esempi 
nobilissimi  di  lettere  di  avviso  e  ragguaglio,  di  rac- 
comandazione, di  domanda  e  preghiera,  di  offerta  e 
dono,  di  ringraziamento,  di  condoglianza  e  conso- 
lazione, di  lagnanza  e  rimprovero,  di  giustificazione 
e  di  scusa,  di  consiglio,  di  officiosità  e  di  augurio.  Gli 
autori  delle  lettere  sono  i  seguenti:  Arcangeli  Giu- 
seppe, Betti  Salvatore,  Botta  Carlo,  Colombo  Mi- 
chele, Costa  Paolo,  Farini  Pellegrino,  Fornaciari  Lui- 
gi, Foscolo  Ugo,  Frediani  Francesco,  Giordani  Pietro, 
Grassi  Giuseppe,  Guasti  Cesare,  Leopardi  Giacomo, 
Monti  Vincenzo,  Pellico  Silvio,  Perticari  Giulio,  Pin- 
demonte  Ippolito,  Puoti  Basilio,  Rezzi  Luigi  Maria. 


Dissertazione  sopra  un  passo  di  Dante.  8.°  Perugia^ 
tipografia  di  Vincenzo  Bartelli  1859.  (Sono  pa- 
gine 24). 

N'  è  autore  il  P.  Bonaventura  Viani  agostiniano 
scalzo,  il  quale  vi  discorre  di  papa  Anastasio,  che 
secondo  Dante  fu  tratto  dall'eretico  Fotino  delta  via 
dritta  (Inf.  canto  XI).  Egli  mostra  con  ragioni  evi- 
dentissime, che  il  poeta  seguì  una  fama  al  tutto  con- 
traria al  vero  :  essendo  più  che  certo  che  Anasta- 
sio II,  pontefice  di  santi  e  miti  costumi,  non  comu- 
nicò con  Fotino,  venuto  in  Roma,  se  non  «  per  con- 
vincerlo intorno  alla  conformità  della    fede  di    san 


25-2 

Leone  Magno  colla  dottrina  del  concilio  niceno,  pre- 
sentandogli l'originale  e  dandogli  copia  della  lettera 
dì  quel  santo,  affinchè  la  version  greca,  depravata 
dagl'  interpreti,  nella  sua  vera  e  genuina  lezione  si 
rimettesse.   » 


Une  excursion  a  Monte-Vergine  ,  par  V.  T.  A.  de 
N.  -  8.®  Rome  chez  Joseph  et  Francois  fils  Sal- 
viiicci  1859.  (Sono  pag.  30). 

Non  sapremmo  dire  se  maggior  sia  la  vivacità 
o  la  dottrina  di  questa  operetta.  Essa  non  solo  ci 
dà  la  storia  e  la  descrizione  d'uno  de'  più  celebri 
monasteri  e  santuari  del  regno  di  Napoli  ,  ma  ci 
porge  molte  particolarità  della  vita  di  que'  rigidi 
cenobiti,  e  de'costumi  delle  circostanti  popolazioni. 
N'  è  autore  un  prelato  dottissimo,  monsignor  Vin- 
cenzo Tizzani  arcivescovo  di  Nisibi. 


Vicende  degli  alti  de^  fratelli  arvali  ed  un  nuovo  fram- 
mento di  essi.  Memoria  del  cav.  G.  B.  De  Rossi. 
8."  Roma  tipografia  tiberiìia  1858.  (Sono  pag.  28, 
con  un  rame). 

Le  stazioni  delle  sette  coorti  dei  vigili  nella  città  di 
Roma.  Memoria  del  cav.  G.  B.  De  Rossi.  8.°  Ro- 
ma tipografia  tiberina  1859.   (Sono  pag.  35). 


253 

DeWarco  Fabiano  nel  foro.  Lettera  del  cav.  G.  D. 
De  Rossi  al  sig.  prof.  Teodoro  Mommsen.  8.°  Ro- 
ma tipografìa  tiberina  1859.  (Sono  pag.  20). 

Piacerà  agli  archeologi  la  notizia  di  questi  scritti 
ultimamente  pubblicati  da  un  nostro  letterato,  che 
in  età  ancor  verde  ha  reso  chiarissimo  il  suo  nome 
di  qua  e  di  là  dalle  alpi. 


INDICE 


Secchi,  SidV ecclisse  solare  del  \  8  luglio  1 860.  pag.       3 
Maggiorarli  ,   Sulle  forme   del   cranio    cinese  »     33 
Fabi  Montani,  Elogio  del  card.  Chiarissimo  Fal- 
conieri  »     40 

Catalani,  Terapia  (Continuazione  e  fine)    .     »     61 
Ponzi,  Storia  geologica  del  Tevere  .          .     »   129 
Maggiorani,  Riflessioni  critiche  sopra  alcune  re- 
centi opinioni  intorno  Vufjicio  della  milza,  e 
tentativo  di  conciliazione  delle  opposte  sen- 
tenze      ))   150 

Siacci,  Intorno  a  tre  problemi  proposti  nei  nuovi 
annali  di  matematica  dei  signori  Terquem  e 

Gerono »   166 

Ciampi,  La  vita  artistica  di  Carlo  Goldoni     »   186 
Varietà •.    ■ m  243 


IMPRIMÀTUR 

Fr.  Hieronynius  Gigli  Ord.  Praed.  S.  P.  Ap.  Mag. 

IMPRIMATUR 

Fr.  Ant.  Ligi  Archiep.  Icon.  Vicesgerens 


Nel  giornale  si  dà  il  sunto,  o  viene  inse- 
rito l'annunzio,  delle  opere  presentate  in  dop- 
pio esemplare  alla  Direzione.  Esse  debbono 
essere  inviate  franche  d'ogni  spesa  di  porto 
e  dazio. 


Le  notizie  di  scienze,  di  lettere,  e  di  belle 
arti,  quelle  di  scoperte  utili  per  1'  agricol- 
tura, industria  ec,  come  anche  i  programmi  dei 
concorsi  accademici,  dovranno  similmente  es- 
ser mandati  franchi  di  posta  alla  Direzione. 


Chi  si  associa  per  dieci  copie,  o  ne  garan- 
"^^    tisce  la  vendita,  avrà  l'undecima  gratis. 


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GIOUNALE 


DI  SCIENZE,  LETTERE  ED  ARTI 

TOMO  XIX 
DELLA  NUOVA  SERIE 


ROMA 
Tipografia  delle  Belle  Arti 

1860 

Piazza  Poli  niim.  91  (lenirò  il  Palazzo. 


GIORNALE 


SCIENZE,  LETTERE  ED  ARTI 

TOMO  CLXV 

DELLA   NUOVA   SERIE 
XIX 

GENNAIO  E  FEBBRAIO 
1860 


ROMA 

TIPUGRAFIA    DELLE   BELLE   ARTI 

1860 


DIRETTORE  DEL  GIORNALE 


Commendatore  PIETRO  ERCOLE  VISCOiNTI,  commissario  del- 
le antichità  romane  ,  presidente  dei  collegio  filologico  e 
professore  di  archeologia  nell'università,  presidente  ono- 
rario del  museo  capitolino  ,  segretario  perpetuo  e  socio 
ordinario  della  pontificia  accademia  di  archeologia,  mem- 
bro della  commissione  consultiva  di  antichità  e  belle  arti 
appresso  il  ministero  del  commercio  e  belle  arti,  e  di  quella 
di  archeologia  sacra,  corrispondente  dell'imperiale  istituto 
di  Francia  ec. 

COMPILATORI 

BETTI  cav.  SALVATORE  ,  presidente  della  pontificia  acca- 
demia di  archeologia,  professore  di  storia  e  mitologia  e 
segretario  perpetuo  dell'insigne  e  pontificia  accademia  di 
san  Luca,  membro  del  collegio  filologico  dell'università 
romana,  e  della  commissione  governativa  deputata  al  pre- 
mio delle  opere  teatrali,  accademico  della  crusca. 

MAGGIORANI  dott.  CARLO  ,  membro  del  collegio  medico- 
chirurgico e  professore  di  medicina  politico-legale  nel- 
l'università romana,  socio  ordinario  della  pontificia  acca- 
demia dei  nuovi  lincei. 

POLETTI  coni.  LUIGI,  presidente  onorario  perpetuo  e  profes- 
sore di  architettura  teorica  nell'insigne  e  pontificia  acade- 
mia  di  s.  Luca,  ingegnere  ispettore  membro  del  consiglio 
d'arte,  professore  onorario  della  R.  accademia  delle  belle 
arti  di  Modena,  architetto  direttore  della  riedificazione 
della  basilica  di  s.  Paolo,  consigliere  della  commissione 


IV 

consultiva  di  antichità  e  belJe  arti  appresso  il  ministero 
del  commercio  e  belle  arti,  aggregato  architetto  al  collegio 
filosofico  dell'  università  romana  ,  socio  ordinario  della 
pontificia  accademia  di  archeologia. 

Pietro  Biolchini 
Segretario 

ONORARI 

CARPI  cav.  PIETRO,  professore  di  mineralogia,  membro  del 
collegio  medico-chirurgico  e  direttore  del  gabinetto  mine- 
ralogico dell'università  romana,  socio  ordinario  della  pon- 
tificia accademia  de' nuovi  lincei. 

DE-CROLLIS  cav.  DOMENICO,  presidente  del  consiglio  sani- 
tario militare,  membro  del  collegio  medico  chirurgico  e 
professore  di  medicina  clinica  nell'università  romana. 

GERARDI  dott.  FILIPPO. 

COLLABORATORI 

ANGELINI  padre  Antonio,  della  compagnia  di  Gesù,  profes- 
sore nel  collegio  romano,  consultore  della  sacra  congre- 
gazione dell'indice,  in  Roma. 

BARTOLINI  monsignor  Domenico,  uditore  della  segnatura  di 
giustizia,  consultore  delle  sacre  congregazioni  dell'indice 
e  delle  sacre  indulgenze  e  reliquie,  membro  della  com- 
missione di  archeologia  sacra,  socio  ordinaria  e  censore 
della  pontificia  accademia  di  archeologia,  in  Roma. 

BELLONI  dott.  Pio,  medico,  in  Roma. 

BELLUCCI  Giuseppe,  a  Cervia. 

BIANCHINI  Antonio,  in  Roma. 

BIOLCHINI  Pietro,  segretario  del  giornale,  in  Roma. 

BONCOMPAGNI  S.  E.  don  Baldassare,  socio  ordinario  della 
pontificia  accademia  de'  nuovi  lincei  e  di  quella  di  archeo- 
logia, in  Roma. 


V 

BORGOGNO  padre  don  Tommaso,  somasco,  in  Roma. 

BRIGHENTI  cav.  Maurizio  ,  ingegnere  ispettore  emerito  ,  a 
Rimini. 

BUSTELLI  Giuseppe,  in  Roma. 

CAPOZZI  Francesco,  a  Firenze. 

CATALANI  dolt.  Vincenzo,  medico,  in  Roma. 

CAVALIERI  SAN-BERTOLONiccola,  ingegnere  ispettore  mem- 
bro del  consiglio  d'arte,  membro  del  collegio  filosofico  e 
professore  emerito  di  architettura  statica  ed  idraulica 
neir  università,  presidente  capo  della  giunta  di  revisione 
del  nuovo  estimo,  consigliere  e  professore  dell' Insigne  e 
pontificia  accademia  di  s-  Luca  ,  socio  ordinario  della 
pontificia  accademia  de  nuovi  lincei,  in  Roma. 

CHELINI  padre  Domenico,  delle  scuole  pie,  professore  nel- 
l'università, a  Bologna. 

CHIMENS  doti.  Baldassare,  medico,  in  Roma. 

CIALDI  commendatore  Alessandro  ,  socio  onorario  dell'acca- 
demia de'  nuovi  lincei,  in  Roma. 

CICCONETTI  avv.  Felice,  giureconsulto,  in  Roma. 

COPPI  ab.  cav.  Antonio,  segretario  del  pontificio  istituto  agra- 
rio ,  membro  della  commissione  speciale  consultiva  di 
agricoltura,  socio  ordinario  delle  pontificie  accademie  di 
archeologia  e  de'  nuovi  lincei,  in  Roma. 

DE  RIGNANO  padre  Antonio,  ex-procuratore  generale  de'mi- 
nori  osservanti,  consultore  delle  sacre  congregazioni  del 
sant'uffizio  e  dell'indice ,  esaminatore  de'  vescovi  ,  socio 
onorario  della  pontificia  accademia  d'archeologia»  in  Roma. 

DE-FERRARI  padre  maestro  Giacinto  ,  dell'ordine  de'  predi- 
catori, commissario  generale  del  sant'uffizio  ,  consultore 
delle  sacre  congregazioni  dell'indice,  dei  vescovi  e  rego- 
lari, di  propaganda  e  del  concilio,  socio  ordinario  e  cen- 
sore della  pontificia  accademia  di  archeologia,  in  Roma. 

DE-MINICIS  avv  Gaetano,  corrispondente  della  pontificia  ac- 
cademia romana  di  archeologia,  a  Fermo. 


VI 

DE-ROSSI  cav.  Giambattista  ,  membro  del  collegio  filologico 
dell'università,  scrittore  di  lingua  lattna  nella  biblioteca 
vaticana  ,  membro  della  commissione  consultiva  d'  anti- 
chità e  belle  arti  e  di  quella  di  archeologia  sacra,  socio 
ordinario  e  censore  della  pontificia  accademia  di  archeo- 
logia, in  Roma. 

DIONIGI  ORFEI  contessa  Enrica,  in  Roma. 

FARI  de'  conti  MONTANI  monsignor  Francesco,  cameriere  se- 
greto soprannumerario  di  Sua  Santità,  canonico  della  pa- 
triarcale basilica  di  s.  Maria  maggiore ,  consultore  delle 
sacre  congregazioni  dell'indice  e  di  propaganda  fide,  mem- 
bro del  collegio  teologico  della  università  fiorentina,  socio 
onorario  della  pontificia  accademia  di  archeologia,  in  Roma. 

FERRUCCI  cav.  Luigi  Crisostomo,  bibliotecario  laurenziano  e 
marucelliano  ,  socio  corrispondente  della  pontificia  acca- 
demia romana  di  archeologia,  a  Firenze. 

FERRUCCI  cav.  Michele,  professore  e  bibliotecario  dell'univer- 
sità, a  Pisa. 

FIORINI  MAZZANTI  Elisabetta  ,  socia  ordinaria  della  ponti- 
ficia accademia  de'  nuovi  lincei,  in  Roma. 

FOLCIII  commendatore  Clemente,  architetto  di  Sua  Santità, 
consigliere  dell'insigne  e  pontificia  accademia  di  S.  Luca, 
ingegnere  ispettore  emerito  membro  del  consiglio  d'arte, 
aggregato  ingegnere  al  collegio  filosofico  della  università 
romana,  socio  ordinario  della  pontificia  accademia  di  ar- 
cheologia, consigliere  della  commissione  consultiva  di  an- 
tichità e  belle  arti  appresso  il  ministero  del  commercio  e 
belle  arti,  in  Ronra. 

FRANCESCHI  FERRUCCI  Caterina,  a  Pisa. 

GIACOLETTI  padre  Giuseppe,  delle  scuole  pie,  professore,  a 
Pesaro, 

GIULIANI  padre  don  Giambattista  ,  somasco  ,  professore ,  a 
Firenze. 

GORI  prof.  Fabio,  in  Roma. 


VII 

GRIFI  cav.  Luigi,  segretario  generale  del  ministero  del  com- 
mercio, belle  arti  ec. ,  socio  ordinario  e  conservatore  per- 
petuo dell'archivio  della  pontificia  accademia  di  archeo- 
logia, in  Roma. 

GUGLIELMOTTI  padre  maestro  Alberto,  dell'ordine  de'  pre- 
dicalori,  teologo  casanatense,  socio  ordinario  della  pon- 
tificia accademia  di  archeologia,  in  Roma. 

MASETTI  monsignor  Celestino,  cameriere  d'onore  di  Sua  San- 
tità, professore,  a  Fano. 

MERCURI  Filippo,  in  Roma. 

MONTANARI  Giuseppe  Ignazio,  professore,  a  Osimo. 

NARDUCCI  Enrico,  in  Roma. 

PERETTI  Pietro,  professore  emerito  di  farmacia  nell'univer- 
sità, in  Roma. 

PIANCIANI  padre  Giambattista  ,  della  compagnia  di  Gesù  , 
presidente  del  collegio  filosofico  dell'università,  socio  or- 
dinario della  pontificia  accademia  de'nuovi  lincei,  in  Roma. 

PONZI  Giuseppe  ,  professore  d'anatomia  e  fisiologia  compa- 
rata nell'università,  socio  ordinario  della  pontificia  acca- 
demia de'nuovi  lincei,  in  Roma. 

PUCCINOTTI  cav.  Francesco,  professore  nella  università,  ac- 
cademico della  crusca,  a  Pisa. 

RÀMRELLI  Gio.  Francesco,  professore,  a  Persiceto. 

RANGHIASCI-RRANCALEONI  marchese  Francesco,  a  Gubbio. 

RAVIOLI  cav.  Camillo,  in  Roma. 

RICCI  marchese  cav.  Amico,  a  Rologna. 

SASSOLI  avv.  Enrico,  membro  del  collegio  filologico  dell'uni- 
versità, a  Rologna. 

SECCHI  padre  Angelo  ,  della  compagnia  di  Gesù  ,  direttore 
dell'osservatorio  astronomico  del  collegio  romano ,  socio 
ordinario  della  pontificia  accademia  de'  nuovi  lincei  ,  in 
Roma. 

SORGONI  Angelo,  primo  medico,  a  Tolentino. 


vili 

SPEZI  Giuseppe,  membro  del  collegio  filologico  e  professore 
di  lingua  greca  nella  università  romana,  socio  ordinario 
della  pontificia  accademia  di  archeologia,  in  Roma. 

TORTOLINI  ab.  Barnaba,  membro  del  collegio  filosofico  e  pro- 
fessore di  calcolo  sublime  nella  università,  professore  di 
fisica  matematica  nel  collegio  urbano  di  propaganda  e  nel 
seminario  romano,  socio  ordinario  della  pontificia  acca- 
demia de' nuovi  lincei,  in  Roma. 

VANZOLINl  Giuliano,  a  Pesaro. 

VERCELLONE  padre  don  Carlo,  procuratore  generale  de'chie- 
rici  regolari  di  san  Paolo,  consultore  della  sacra  congre- 
gazione dell'indice,  socio  ordinario  e  censore  della  pon- 
tificia accademia  di  archeologia,  in  Roma. 

VESCOVALI  cav.  Luigi,  socio  ordinario  della  pontificia  acca- 
demia di  archeologia,  membro  della  commissione  dell'  in 
dustria  appresso  il  ministero  del  commercio ,  in  Roma. 

VISCONTI  cav.  Carlo  Lodovico  ,  coadiutore  al  commissario 
delle  antichità,segretario  generale  dell'insigne  congrega- 
zione artistica  de'virtuosi  al  Panteon,  socio  ordinario  della 
pontificia  accademia  di  archeologia,  in  Roma. 

YOLPICELLI  cav.  Paolo  ,  membro  del  collegio  filosofico  e 
professore  di  fisica  sperimentale  nella  università,  direttore 
del  gabinetto  fisico,  segretario  della  pontificia  accademia 
dei  nuovi  lincei,  in  Roma. 

ZANELLI  canonico  Domenico ,  socio  onorario  della  pontificia 
accademia  di  archeologia,  in  Roma. 


SCIENZE,  LETTERE  ED  ARTI 


La  vita  artistica  di  Carlo  Goldoni^ 
per  Ignazio  Ciampi. 

{Continuazione  e  fine). 


0 


l  duella  maniera  di  falsi  pittori  mi  ricorda  una  no- 
vella di  un  senatore  veneziano  al  tempo  che  erano 
in  voga  sì  in  Francia  come  in  Italia  le  commedie 
spagnuole,  quando  parea  che  tutto  il  mondo  dovesse, 
buono  o  mal  grado,  un  giorno  o  V  altro  vestire  il 
collare  incartocciato  e  le  brachesse  alla  sivigliana. 
Dovete  sapere  che  a  quel  secolo  del  guardinfante 
era  venuta  una  strana  voglia  di  mescolare  il  sacro 
al  profano  ,  per  modo  che  nella  commedia  ancora 
parea  leggiadra  cosa  discorrere  di  astruse  materie  ; 
spesso  avveniva  che  l'attore  nel  bel  mezzo  d'un  col- 
loquio affannoso  vi  citasse  la  Scrittura  e  i  concili 
e  santo  Agostino.  Un  amoroso  si  compiangeva  di 
sé  stesso  e  della  spietata  sua  bella,  e  frammetteva 
alle  doglianze  una  grave  dicerìa  sulla  predestinazione 
e  la  grazia  :  un  altro,  che  innanzi  all'  innamorata 
avea  messo  a  sacco  i  vulcani  e  il  sole  e  le  stelle 
G.A.T.CLXV  1 


2 

a  prova  di  squisito  parlare,  poi  si  gittava  a  capo  chino 
a  tessere  argomenti  in  forma  e  a  provare  con  certi 
passi  d'Aristotile  ch'ella  dovea  sentir  pietà  della  sua 
profonda  passione.  Per  il  che  si  conchiude  che  ogni 
secolo  ha,  poco  più  poco  meno,  avuto  le  sue  pazzie 
mutatesi  a  mano  a  mano  solamente  nella  apparenza. 
E  se  ai  rustici  d'  ogni  tempo  pur  sembra  che  nel 
passato  le  cose  procedessero  meglio,  ciò  avviene  per 
manco  di  erudizione  :  imperciocché  il  pessimo  dei 
passato  se  l' ingoi  il  fiume  Lete  ;  il  buono  resti  a 
galla  e  si  ricordi.  Or  dunque  a  un  senatore  vene- 
ziano ,  stando  a  Vicenza  ,  avvenne  di  trovarsi  alla 
rappresentazione  d'  una  commedia  che  facea  trase- 
colare i  savi  della  città  e  una  intiera  accademia  che 
vi  assisteva.  Egli  però,  mentre  gli  altri  gongolavano 
di  piacere,  parca  stesse  a  mal'agio,  e  come  morso 
da'  dolori  di  ventre  si  contorceva  e  scoteva  la  testa, 
e  tre  quattro  volte  sì  drizzò  dalla  seggiola  e  si 
asciugò  col  fazzoletto  la  fronte.  Nel  terzo  atto  Cin- 
zie amoroso,  non  istanco  del  lungo  discorrere,  si 
diede  a  dissertare  sulla  natura  delle  passioni,  e  a 
stento  tiratosi  fuori  d'  una  questione  di  morale,  si 
sprofondava,  a  furia,  in  una  questione  di  fisica.  Al- 
lora il  buon  senatore  non  potè  più  contenersi  e,  al- 
zata la  mano,  gittò  un  cedro,  eh'  egli  teneva,  sul 
capo  dell'eterno  sermoneggiatore  gridando  nel  suo 
dialetto:  Bufon,  fame  rider.  Che  effetto  producesse, 
non  so:  ma  certo  quando  si  veggono  o  si  leggono 
opere  teatrali,  dove  si  parli  più  che  si  dipinga,  a 
me  viene  in  capo  il  senatore  veneziano:  e  se  non 
fosse  eh'  io  non  sono  senatore,  avrei  voglia  d'  imi- 


3 

tarlo.  Questo  è  il  racconto  :  se  non  fa  al  propo- 
silo, ne  chiedo  scusa:  non  sempre  si  può  slare  in 
ìsquadra  di  logica  sottile.  Circa  alla  pittura  de'  ca- 
ratteri a  me  pare  che  il  Goldoni  talvolta  si  possa 
assomigliare  all'  Alighieri,  il  quale  si  dimostra  sì 
conciso  ed  efficace  nella  descrizione  delle  cose  e 
delle  passioni.  Altri  ha  già  detto  che  Dante  è  padre 
ancora  della  drammatica:  e  n'  è  padre  per  certo,  non 
già  nella  forma  esterna  ,  ma  bensì  nella  parte  più 
essenziale  dell'  immaginare  e  scolpire  caratteri  co- 
mici e  tragici,  e  porli  in  quel  movimento  eh'  è  ne- 
cessario affinchè  appariscano  altrui  come  nel  dramma 
conviene.  E  non  è  egli  tragico  nel  Farinata  superbo, 
eretto  dalla  cintola  in  su  nella  tomba  rovente  ? 

Ed  ei  s'ergea  col  petto  e  colla   fronte 
Come  avesse  l' inferno  in  gran  dispitto. 

{Inf.  C.  X). 

Ricordati  quand'egli  dipinge  il  contedi  Montefeltro, 
scena  dove  la  terribile  ironia  del  demonio  fa  ve- 
ramente arricciare  i  peli  : 

Venir  se  ne  dee  giiì  tra'miei  meschini 
Perchè  diede  il  consiglio  frodolente. 
Dal  quale  in  qua  stato  gli  sono  a'  crini; 

Ch'  assolver  non  si   può  chi  non  si  pente, 
Né  penlere  e  volere  insieme  puossi, 
Per  la  contraddizion  che  noi  consente. 

0  me  dolente  !  cotne  mi  riscossi 


4 

Quando  mi  prese  dicendomi  :  Forse 
Tu  non  pensavi  eh'  io  loieo  fossi  ! 

{inf.  a  XXVII). 

Né  cito  tanti  passi  ,  che  oramai  stanno  un'  altra 
volta  in  bocca  del  popolo.  E  non  ti  sembra  dia- 
logo da  tragedia  (e  certo  1'  Alfieri  vi  ha  studiato) 
quello  che  corre  tra  la  madre  chiedente  vendetta  e 
Traiano  che  parte  per  la  guerra  ? 

Madre  .  .  .  Signor  fammi  vendetta 

Del  mio  fìgliuol  eh'  è  morto,  ond'  io  m'accoro. 
Traiano  Ora  aspet/a 

Tanto  eh'  io  tornì. 
Madre  Signor  mio, 

Se  tu  non  torni  ? 
Traiano  Chi  fia  dov'  io 

La  ti  farà. 
Madre  L'altrui  bene 

A  te  che  fia,  se  il  tuo  metti  in  oblio  ? 
Traiano  ...         Or  ti  conforta,  che  conviene 

Ch'  io  solva  il  mio  dovere  anzi  eh'  io  muova; 

Giustizia  vuole,  e  pietà  mi  ritiene. 

{Purg.   C.  X). 

E  così  dello  stile  comico  si  hanno  bellissimi  esem- 
pi nelle  risse  de'  diavoli  e  nel  dialogo  tra  Sinone 
greco  e  maestro  Adamo  falsatore  di  monete.  Ma  qui, 
per  non  dir  troppo,  voglio  ricordar  solamente  il  pas- 


5 

so,  dove  si  scorge  viva  la  persona  e  si  ride,  come 
in  commedia,  del  pigro  Belacqua. 

Ed  un  di  lor,  che  mi  sembrava  lasso, 
Sedeva  ed  abbracciava  le  ginocchia, 
Tenendo  il  viso  giù  ira  esse  basso.  ^ 

0  dolce  signor  mio,  diss'  io,  adocchia 
Colui  che  mostra  sé  più  negligente 
Che  se  pigrizia  fosse  sua  sirocchia. 

Allor  si  volse  a  noi,  e  pose  mente. 
Movendo  il  viso  pur  su  per  la  coscia, 
E  disse:  Va  su  tu,  che  sei  valente. 

Conobbi  allor  chi  era;  e  quell'angoscia 
Che  m'avacciava  un  poco  ancor  la  lena 
Non  m'  impedì  l'andare  a  lui;  e  poscia 

Che  a  lui  fui  giunto,  alzò  la  testa  appena 
Dicendo:  Hai  ben  veduto  come  il  sole 
Dall'omero  sinistro  il  carro  mena  ? 

Gli  atti  suoi  pigri  e  le  corte  parole 
Mosson  le  labbra  mie  un  poco  a  riso; 
Poi  cominciai:   Belacqua,  a  me  non  duole 

Di  le  omai:  ma  dimmi  perchè  assiso 
Quiritta  se'  ?  Attendi  tu  iscorta, 
0  pur  lo  modo  usato  l'  hai  ripriso  ? 

Ed  ei:  Frate,  l'andare  in  su  che  porta  ? 
Che  non  mi  lascerebbe  ire  a'  martiri 
L'angel  di  Dio  che  siede  in  su  la  porta. 

{Piirg.   C.  IV). 


XVIJI. 

L'  intendimento  maraviglioso  che  all'  Alighieri 
facea  cogliere  in  breve  i  lineamenti  di  ogni  carat- 
tere^ era  intieramente  posseduto  dal  Goldoni  in  fatto 
di  comica.  E  ciò  può  vedersi  per  l'esempio  solo  di 
quel  pigro,  ch'egli  dipinge  nel  Tutore,  dov'è  mira- 
bile la  somiglianza  col  Belacqua  del  sommo  poeta. 
Laonde  può  vedersi  che  quando  le  finzioni  sono  at- 
tinte dal  vero,  due  grand'  ingegni  si  avvicinano,  e  pu- 
re non  si  somigliano:  perchè  ambedue,  pur  guardando 
alla  natura,  la  riflettono  in  loro  stessi  e  la  ripro- 
ducono secondo  che  il  loro  intelletto  l'ha  meditata. 
Pantalone  e  Ottavio  sono  tutori  di  Rosaura,  nipote 
di  quest'ultimo.  Rosaura  è  stala  rapita  di  casa  per 
negligenza  della  madre  e  per  le  male  arti  di  un  furbo. 
Pantalone  sen  corre  a  Ottavio  e  lo  invita  a  voler- 
glisi  accompagnare  per  cercare  e  cogliere  colui  che 
r  ha  rapita.  Ottavio  pigro  ode  il  caso  ed  esprime 
la  sua  meraviglia  più  brevemente  che  sa,  cioè  con 
un  oh  !  Né  per  questo  tralascia  di  trarre  fumo  dalla 
sua  pipa.  Finalmente  ha  consumato  il  tabacco  e  si 
accinge  a  porsi  addosso  i  vestiti  per  seguire  il  suo 
compagno  ,  a  cui  dà  rimprovero  di  troppa  furia  e 
impazienza.  E  chiama  Brighella.   Ehi  ! 

B.  Signor. 

0.  Mi  voglio  vestire. 

B.  (Oh  che  miracolo!)  Volela  lavarsele  man? 

0.  Eh  non  importa. 

B.  (L'è  do  mesi  che  noi  se  lava).  ^ 


i 

O.  Dov'è  Arlecchino  ? 

lì    Le  andà  via  brontolando  e  no  so  dove  el  sia. 

0.  Tu  solo  non   mi   potrai  vestire. 

P.  Mo  via  deslrigheve.  Cossa  ghe  voi  a  vestirve  ? 
ve  agiuteiò  anca  mi. 

B.  Mi  no  §0  pratica.  La  perdona  :  dove  tienla  le 
scarpe  ? 

0.  Saranno  sotto  il  letto. 

P.  {A  Brighella)  Presto,  caro  vii,  che  preme. 

B.  {porla  scarpe  vecchie  affibbiale)  Eie  queste  ? 

0.  Sì,  quelle. 

B.  Come  s'ha  da  far  a  metterle  ? 

O.  Oh  io  non  le  tiro  mai  su  le  scarpe:  patisco  di 
calli.   {Si  melle  le  scarpe  a  pianta) 

P.  Cussi  faremo  più  presto. 

B.   Volela  la  velada  ? 

P.  Oibò:  meleve  su  el  tabaro. 

0.  Si,  dite  bene,  il  tabarro. 

B.  Dov'elo? 

0.  Sarà  sul   Ietto. 

B.  El  tabaro  per  coverta. 

P.  Via,  leveve  suso. 

O.  {Brighella  viene  col  tabarro)  Aspettate  {A  Bri- 
ghella). Dammi  mano. 

B.  Son  qua. 

0.  {A  Pantalone)  Anche  voi. 

P.  Oh  che  pazienza  !  {Ottavio  si  leva). 

{Scena  XI.  Atto  II). 

E  scriverei  tutta  la  scena  dov'ella  non  pigliasse 
troppo  spazio.  Basti  dire  ,  che  raccolti  per  la  ca- 


8 
mera  e  parrucca  e  cappello  e  scatola  da  tabacco 
e  fazzoletto  si  giunge  passo  passo  a  vestire  il  fan- 
toccio. In  fine  egli  è  pronto  :  dimanda  che  vento 
tira  e  gli  par  che  Castello,  a  cui  debbono  andare, 
sia  in  capo  del  mondo.  Ma  nel  punto  che  sta  per 
mettere  il  piede  fuor  della  soglia,  s'accorge  e  grida 
che  gli  scappano  i  calzoni:  onde  l'amico,  montato 
in  collera,  gli  volta  le  spalle;  e  il  pigro  torna  pla- 
cidamente a  sedersi  dicendo  :  Che  uomo  furioso  è 
quel  Panlalone  !  Sa  dove  sono^  li  ha  trovati  ;  poco 
più,,  poco  meno,  non  vi  era  tanta  fretta.  E  ti  ram- 
menta Belacqua  :  L'  andare  in  su  che  porla  ?  Che 
non  mi  lascerebbe  ire  a'  martiri  UAngel  di  Dio  che 
siede  in  su  la  porla.  Ora  cotesto  pigro  è  uno  dei 
cento  caratteri  originali,  che  il  nostro  poeta  ha  fi- 
gurato con  la  varietà  che  distingue  i  pittori  com- 
paesani Giorgione  ,  Tintoretto  ed  altri  :  i  quali  se 
non  raggiunsero  l'aggraziato  e  severo  disegno  della 
scuola  romana,  la  superarono,  a  detta  di  molti  mae- 
stri, nella  molteplice  varietà  delle  teste  ispirate  al 
certo  per  gli  orientali  che  convenivano  nella  sede 
dell'  impero  dell'  Adriatico.  Pur  non  è  tanto  a  far 
meraviglie  della  novità  delle  figure  stesse  e  delle 
circostanze  accidentali  onde  si  mutano,  quanto  del 
modo  vero  e  convenevole  e  nuovo  con  cui  egli  ritrasse 
Je  passioni  e  i  costumi  che  hanno  costante  valore, 
come  il  sesso,  l'età,  la  condizione,  il  grado  e  simili: 
e  più  che  altro  dell'aver  dipinto  con  novità  que' ca- 
ratteri che  furono  in  guisa  esemplati  da  sommi  au- 
tori, che  paresse  temerità  rifarli  e  disperata  cosa  rag- 
giungerli non  che  superarli.  A  lui,  come  sagace  os- 
servatole, era  facile  il  vedere  come  la  morale  natura 


9 

degli  uomini  non  mai  s'assomiglia  perfeltamenle,  sì 
come  nella  fisica  anche  tra  due  gemelli,  la  vista  d'un 
pittore  o  d'un  fisonomista  può  veder  differenze  che 
sfuggono  per  solilo  a  chi  li  guarda  senza  intendi- 
mento e  alla  sfuggita.  Gli  accademici  ti  ritraggon 
ne'  quadri  certi  loro  tipi  di  scuola,  come  se  l'arie 
fosse  finita  negli  artifìci.  Gli  artisti  veri  guardano 
non  gli  esempli,  ma  1'  uomo,  né  raccozzano  le  varie 
parti  dj  più  corpi,  come  contano  certe  favole  di  an- 
tichi, ma,  scelto  quello  che  conviene  a  ciò  che  de- 
vono rappresentare,  vi  si  fermano  con  amore:  e  se 
v'aggiungono  qualcosa,  questa  è  nel  sentimento  eh'  è 
parte  della  facoltà  creatrice  dell'  uomo.  Laonde  sia 
nel  porre  in  luce  piiì  viva  la  verità  naturale  del 
bello,  sia  nel  trarre  dal  fondo  della  mente  umana 
ciò  che  la  natura  non  dimostra  che  in  ombra,  essi 
creano  piìi  veramente  che  non  facciano  i  pretesi  idea- 
listi ,  e  creano  senza  dipartirsi  mai  dal  naturale  e 
dal  vivo  delie  cose.  Nel  che  può  temersi  piuttosto 
che  alla  natura  manchi  l'osservatore,  anziché  all'os- 
servatore la  natura,  sempre  feconda  e  inesauribile  e 
varia  nell'apparente  uniformità.  Così  il  tempo,  che 
volge  seco  tanta  diversità  di  cosiumi  e  d'idee,  fa  sì 
che  mutino  aspetto  nella  espressione  dell'  indole  e 
l'avaro  e  il  prodigo  e  il  parassito  e  il  giocatore  e  il  va- 
naglorioso o  qual'altro  faccia  parte  ridicola  in  questo 
teatro  del  mondo:  in  guisa  che  dalla  maniera  che 
ciascuno  adopera  nel  rappresentarli  si  scuopra,  chi 
ben  guardi,  il  diverso  grado  dell'artistico  ingegno. 
Pedante  e  copiatore  è  colui  che,  per  esempio,  non 
sa  immaginarsi  altro  avaro  fuori  di  quello  che  fu 
ritratto  da  Plauto  e  dal  Molière:  ingegno  inventivo 


10 

è  quegli  che  nella  natura,  eguale  nel  fondo,  scuopre 
la  veste  nuova  in  cui  si  manifesta  diversamente  in 
ogni  secolo  questo  vizio  eterno  del  genere  umano. 
Che  anzi  come  la  morale  manifestazione  prende  abito 
e  colore  dal  tempo  mutato;  così  pure  la  espressione 
fisica  delle  figure,  secondo  che  osservano  i  vecchi, 
si  cangia  dall'  un  secolo  all'altro  e  quasi  di  genera- 
zione in  generazione:  tanto  che  a  Cesare  Balbo  le 
donne  d'oggidì  non  apparivano  come  quelle  del  tempo 
di  Maria  Antonietta,  né  le  gravi  figure  dei  generali 
repubblicani  e  dei  soldati  della  guardia  imperiale  a 
lui  tornavano  a  memoria  guardando  le  assise  eleganti 
dell'esercito  degli  orleanesi.  Quanto  all'opposizione 
dei  caratteri  il  nostro  autore  ha  raggiunto  talora  lo 
scopo,  non  già  per  la  contrarietà,  ma  bensì  per  la  so- 
miglianza, come  nei  Rusleghi  si  può  vedere.  Dove  un 
medesimo  carattere  è  compartito  in  quattro  perso- 
naggi tulli  vestili  della  rusticità,  non  già  in  un  modo 
uniforme,  ma  bensì  con  vario  grado  di  forza  e  di 
colore,  così  che  in  un  medesimo  dramma  si  vegga 
questo  vizio  dipinto  ne' diversi  suoi  aspetti.  Ciò  non 
s'era  mai  veduto  fatto  dai  comici  antichi  (né  credo 
da  alcun'altro  dopo  il  Goldoni):  e  certamente,  a  chi 
ne  va  in  traccia,  questo  sarebbe  tesoro  da  aggiun- 
gere ad  altri  precetti.  Né  io  me  gli  opporrei:  sola- 
mente vorrei  che  ciò  facesse  gridando  ad  alta  voce: 
1  retori  fan  le  regole,  i  grandi  artefici  creano  bel- 
lezze onde  i  retori  fan  regole  nuove.  Il  male  si  è 
che  i  retori  non  concedono  mai  che  un  uomo  sia 
grande  mentr'essi  vivono  sulla  terra  e  stridono  mai 
sempre  :  il  libro  dell'arte  è  chiuso  e  suggellato.  E 
la  turba  crede  ai  loro  clamori,  e  ne  amareggiano  il 


11 

cuore  al  poeta  e  all'ailisfa.  Ma  tornando  ai  Rusliciy 
si  noti  come  per  questa  maniera  di  lappresentare 
piij  uomini  di  natura  somigliante,  si  raggiunge  un  al- 
tro bello  ,  anzi  mirabile  scopo.  Egli  avviene  ,  cbe 
dovendosi  nel  dramma  dipingere  e  lumeggiare  un  ca- 
rattere in  tutte  le  sue  parti  e  volgerlo  dinanzi  allo 
spettatore  così  come  l'artefice,  girando  la  statua,  ne 
mostra  ogni  lato;  talvolta  non  si  possa  far  questo 
senza  mandare  l'azione  e  divisa  e  minuta  e  a  rilento 
con  episodi  e  scene  che  si  direbbero  tanti  fuor  d'opra^ 
onde  al  certo  vien  menomato  il  calore  e  l'effetto  del 
dramma.  Per  contrario  ,  ove  sieno  con  lievi  gra- 
dazioni e  dissomiglianze  dipinte  o  quattro,  o  più  o 
meno,  figure  medesime;  si  possono  agevolmente  ma- 
nifestare ad  altrui  tutte  lo  pai  ti  del  vizio  o  del  di- 
fetto, perchè  quelle,  che  le  dimostrano,  sono  disposte 
in  molte  e  diverse  combinazioni,  con  bella  ed  ef- 
ficace varietà,  senza  impaccio. 

XIX. 

La  musa  del  Veneziano  si  compiace  gradevol- 
mente di  ritrarre  dal  vero  le  sembianze  femminili. 
Quasi  un  mezzo  centinaio  delle  sue  commedie  pel 
solo  nome  che  hanno  in  fronte  possono  attestare 
com'elle  sieno  ispirate  all'amabile  tèma,  onde  i  poeti 
gentili  traggono  le  più  squisite  e  commoventi  me- 
lodie. Lascio  le  Ircane,  le  Dalmaiine,  le  Peruviane, 
le  Incognite  ,  le  Belle  selvagge,  portate  sulla  scena 
piuttosto  per  accarezzare  fantasie  romanzesche  che 
per  elezione  spontanea  del  cuore  e  dell'  ingegno. 
L'amore  materno,  il  più  vero  e  grande  amore  che 
sia  nella  terra,  ci  è  ricordato  nella  Buona  madre  e 


12 

nella  Madre  amorosa:  l'affetto  filiale  nella  Figlia  ob- 
bediente: la  fortezza,  la  costanza,  la  fedeltà  coniugale 
nella  Moglie  saggia,  nella  Buona  moglie^  nella  Sposa 
sagace.  Le  virtiì  ,  le  infei-mità  ,  i  difetti  stessi  più 
propri  del  sesso  femminile  ti  si  promettono  dipinti 
con  la  grazia  che  si  conviene  nei  titoli  della  Dama 
prudente,  della  Vedova  infatuata,  delle  Donne  gelose, 
delle  Femmine  puntigliose,  della  Vedova  scaltra  e  di 
altre  moltissime.  Sia  che  il  tèma  scelto  lo  chiami 
a  delineare  il  carattere  d'  una  donna,  sia  che  altri 
che  una  donna  sia  il  protagonista  del  comico  com- 
ponimento, egli  non  viene  mai  meno  a  sé  slesso  nel 
cercare  e  trovare  e  dipingere  quei  tratti,  che  le  fanno 
amare  e  rispettare  e  compatire,  se  vuoisi,  dalla  parte 
che  si  dice  e  non  so  se  sia  veramente  più  forte. 
Prendete  il  Giocatore  e  vi  occorrerà  il  carattere  di 
Rosaura,  che  sdegna  l'amore  di  quello  finche  Io  sa 
rotto  al  vizio:  si  placa  e  giunge  ad  amarlo  quando  a 
lei  balena  la  speranza  sola  del  suo  pentimento.  Ben- 
ché abbozzataappena(come  dicono  gli  scultori), pur  vi 
farà  dolcemente  sognare  nell'  Uomo  di  mondo  Eleo- 
nora, che  perdutamente  innamorata  del  Corlesan  , 
con  delicato  ardire  lo  esorta  a  sciogliersi  dalla  pas- 
sione de'  svagati  piaceri  e  piegarsi  a  più  degno  e 
soave  giogo:  si  fa  da  lui  promettere  che  ove  si  ri- 
solva ad  ammogliarsi,  non  ad  altra  si  stringerà  che 
a  lei  :  e  lo  vince  del  tutto  quando  a  lui  caduto 
nell'infortunio,  superando  i  soverchi  ritegni,  manda 
in  dono  le  proprie  gioie,  i  più  cari  ornamenti  della 
femminile  bellezza.  Vi  sovviene  la  madre  amorosa, 
che  alla  figlia  ingrata  dà  per  isposo  quello  stesso 
ch'ella  adora  in  segreto  ?  E  non   vi   seduce  grado- 


13 

volmente  quella  Donna  Felicita  nel  Ricco  insidiato, 
la  quale  si  fa  arma  del  proprio  sesso  contro  le  in- 
sidie che  tendono  al  conte  Orazio  e  il  servo  e  la 
sorella  e  i  parassiti,  e  scuopre  accortamente  i  raggiri, 
e  fuga  con  l'aspetto  del  giusto  la  falsa  lusinga  e  la 
scaltra  rapina  ?  E  non  vi  par  bello  il  carattere  di 
Giacinta  nelle  Villeggiature,  che  promessa  ad  altrui, 
pure  incautamente  apre  le  orecchie  alle  lusinghiere 
parole  d'un  giovane,  e  nel  momento  di  lasciarsi  vin- 
cere dal  cuore,  supera  sé  slessa  per  serbare  la  fede 
al  suo  fidanzato?  M'ha  sempre  commosso  o  leggendo 
0  vedendo  sulla  scena  la  fedeltà  e  l'accortezza  della 
Serva  amorosa:  e  mi  ha  fatto  pensare  più  volte  alla 
dolce  tutela  che  talor  prende  di  noi  questa  custodia 
della  vita  nostra  ,  la  buona  Marcolina  nel  Todero 
bronlolon,  che  col  vivace  spirito  corregge  la  flemma 
e  il  timore  del  giovane  marito  affinchè  resista  alla 
irragionevole  volontà  d'un  vecchio  ostinato.  Le  no- 
stre antiche  donne  e  donzelle,  che  per  diporto  si  rac- 
coglievano a  novellare  de'  troiani ,  di  Fiesole  e  di 
Roma,  vi  si  richiamano  alla  mente  nelle  Donne  olan- 
desi, rappresentate  quasi  a  porgere  alle  italiane  un 
esempio  dell'amabilità  e  cortesia  domestica,  a  con- 
trapposto della  tendenza  che  le  donne  meridionali 
porta  a  spargere  l'ingegno  all'aria  aperta,  anzi  che 
ne'  penetrali  della  casa  propria.  L'  autore  volle  per 
avventura  dimostrare  come  le  doti  del  cuore  e  del- 
l'intelletto, la  grazia,  la  coltura  e  le  altre  virtù,  non 
sieno  date  alle  donne  solamente  per  isvegliare  nel 
mondo  una  sterile  ammirazione,  ma  si  bene  per  ab- 
bellire la  vita  domestica, e  come  in  tal  guisa  adoperate 
compiano  forse  meglio  l'ufficio  a  cui  somma  prov- 


14 

videnzrt  le  destina.  Non  si  può  né  si  deve  credere 
che  la  stanza,  ove  si  nutre  l'affetto  maritale  e  ma- 
ritale e  materno,  sia  destinata  alle  povere  di  spirito, 
che  quivi  si  rifuggano  dalla  irrisione  e  dalla  non- 
curanza del  mondo.  Ivi  pure  si  pasce  l'ingegno  eletto, 
ivi  pure  l'arte  ispirata  dal  cuoie  ahbeilisce  il  talamo 
e  la  cuna:  che  anzi,  quivi  raccolta,  feconda  i  germi 
gentili  ,  che  poi  si  spargono  e  si  diffondono  sulla 
terra  nativa.  Ma  descrivendo,  anzi  dipingendo  fedel- 
mente le  inclinazioni,  i  difetti,  la  sensibilità  e  per- 
sino gli  artifìci  di  questa  soave  metà  del  mondo  , 
era  ed  è  innanzi  al  piede  di  chi  si  mette  all'opera 
un  pendìo  di  facile  scesa.  Si  corre  rischio  di  ren- 
derle meno  amabili  al  cuore  della  giovinezza  ,  di 
ribadire  noli'  animo  de'  viziosi  il  disprezzo  verso  di 
esse,  di  solleticare  il  vezzo  della  maldicenza,  e,  se 
vuoi  ancora,  di  offendere  le  più  care  affezioni  che  a 
madri  e  a  figlie  e  a  spose  son  dedicate  dall'universale 
n»eritamente.  In  tal  guisa  Euripide,  desioso  di  dar 
loro  nel  dramma  la  parto  che  pure  aveano  nella  vita, 
non  seppe  ritrarle  in  modo  ch'elle  non  paressero  un 
fiore  delicato  preso  a  maneggiare  da  ruvida  mano. 
Però  lo  spiritoso  Veneziano  ha  corso  da  signore 
del  vento  questo  mare  pericoloso,  e  non  ha  dipinto 
donna  vana  ,  lusinghiera  ,  petulante  ,  prodiga  ,  spi- 
golistra  ,  fastidievole  od  altro,  che  non  l'abbia  in 
certo  modo  resa  amabile  dal  sorriso  delle  grazie 
onde  si  ride  piacevolmente  del  vizio  senza  aver  a 
odio  e  a  schifo  il  soggetto  in  cui  si  rivela.  Egli  mai 
non  s'avviene  ad  agonìa  di  lusso,  a  frivola  fatuità  , 
a  curiosità,  a  gelosia,  a  sete  di  vendetta  e  simili,, 
che  non  paia  un  padre  amoroso  o  uno  sposo  infiam- 


15 

tnato,  il  quale  corregga  senza  condurre  airavviliaien- 
to  la  donna  de'suoi  pensieri.  E  a  me  giova  credere 
che  tanto  quelle  che  si  veggono  quivi  dipinte  sieno 
persuase  a  emendarsi  per  via  della  dolce  e  affet- 
tuosa correzione,  quanto  i  padri  e  gli  sposi  sentansi 
inclinati  a  guardare  con  meno  amarezza  e  a  scusare 
più  amorevolmente  que'difetli  ,  ond'ha  turbamento 
la  serena  aura  delle  domestiche  mura.  Cecilia  nella 
Casa  nova,  che  per  fasto  e  capricci  riduce  a  mal  ter- 
mine il  giovane  marito,  se  nel  principio  e  nel  pro- 
cedere dell'azione  ci  dà  motivo  di  biasimarla,  pure 
nel  tutt'  insieme  ,  così  com'ella  si  porla,  ci  piega 
a  compatire  la  credula  giovinezza,  l'adulata  vanità, 
la  torta  educazione  ricevuta  nella  casa  paterna.  In- 
tieramente poi  ella  guadagna  l'animo  nostro,  quando, 
messo  sotto  ai  piedi  l'orgoglio,  si  raccomanda  all'au- 
stero zio  del  marito,  implorando  che  voglia  perdo- 
nare a  questo  perchè  li'ascinato  da  lei  giovane  troppo 
e  troppo  male  avvezza  dall'amore  e  dalla  condiscen- 
denza altrui.  Cotale  carattere  fu  pure  risuscitato  d^il 
Goldoni  nel  Burbero  benefico,  con  quella  varietà  che 
distingue  il  suo  ingegno:  mentre  la  donna  del  Burbero 
ne  lascia  sicuri  della  sincerità  del  suo  ravvedimento; 
quella  della  Casa  nova  ne  fa  dubitare  se  la  umilia- 
zione presente  non  sia  mezzo  per  soddisfare  a  doppio 
nell'avvenire  l'orgoglio  celato.  Non  v'ha  dubbio  che 
nei  Rusteghi  non  apparisca  la  sottile  scaltrezza  di 
Felicita,  che  divenuta  signora  dello  spirito  di  Can- 
ciano,  ora  con  blandizie,  ora  facendosi  assai  viva  , 
ora  accarezzando  ,  or  minacciando,  lo  volge  a  suo 
modo  sì  che  invano  egli  tenta  farsi  scudo  della  ru- 
videzza propria  e  de'suoi  compagni.  Può  essere  che 


16 

qualche  sottile  vi  abbia  trovato  di  che  scandalezzaisi 
della  femminile  sagacia.  Ma  si  pensi  che  Felicita  dee 
far  contrapposto  alle  altre  donne:  l'una  delle  quali, 
collerica  e  stizzoisa,  non  fa  che  inasprire  Lunardo; 
l'altra,  stupida  e  malaccorta,  non  approda  nulla 
nell'animo  di  Simone.  Al  contrario  la  vivace  Felicita 
non  tende  che  a  saggio  fine,  cioè  a  domesticare  il 
marito  e  gli  amici  di  lui,  ad  ispirar  loro  il  diletto 
d'  una  lieta  e  piacevole  compagnia,  e  a  far  cono- 
scere come  la  femminile  pieghevole  accortezza  sia 
potente  a  correggere  una  scabra  e  ruvida  natura  e 
a  portare  la  pace  nel  seno  delle  famiglie.  E  la  mo- 
ralità della  commedia  si  riduce  a  queste  ultime 
parole  di  lei  :  Se  volete  viver  quieti,  se  volete  goder 
pace  con  le  vostre  mooli ,  fate  da  uomini  e  non  da 
selvatici ,  comandate  e  non  tiranneggiate  ,  e  amale 
se  volete  esser  amati.  Insomma,  portando  nella  me- 
ditazione del  carattere  delle  donne  una  giustezza  di 
senso  rarissima,  il  nostro  poeta  ne  dipinse  al  vivo  le 
bizzarrie,  le  inquietezze,  le  contraddizioni,  la  irritabi- 
lità provenienti  dalla  immaginativa  più  mobile  che 
profonda,  dal  sentire  più  che  pensare,  e  dalla  vivacità 
onde  a  loro,  per  la  trama  nervosa  soverchiante,  giun- 
gono al  cuore  le  esterne  impressioni.  Ma  nello  stesso 
tempo  seppe  porre  in  luce  bellissima  quanto  può  dirsi 
piuttosto  proprietà  che  movimento  dell'animo  loro: 
vale  a  dire  la  compassione,  la  benevolenza,  la  timi- 
dità, la  verecondia  e  più  che  altro  l'amore  verso  ai 
genitori,  al  marito  ed  ai  figli,  ond'elle  si  levano  alla 
cima  della  virtù  e  affrontano  stupende  prove  di  sa- 
crifizio, a  cui  non  giunge  mai  lo  spirito  più  riflessivo 
dell'  uomo. 


Ì7 
XX. 


Se  io  dicessi  che  la  commedia  dei  latini  e  quella 
dei  cinquecentisti  non  attinse  la  perfezione,  perchè 
non  potè  valersi  delle  donne  proscritte  dal  loro  teatro; 
parrebbe  a  prima  vista  che  per  darmi  aria  io  vo- 
lessi dar  saggio  di  paradossi.  Ma  la  cosa  fu  senz'al- 
tro così.  Come  dar  varietà,  colore,  delicatezza,  pas- 
sione a  qualunque  dramma,  ma  piìì  specialmente  a 
quello  che  rappresenta  la  vita  domestica,  senza  questa 
metà  del  genere  umano,  ond'essa  vita  ha  fondamento 
e  bellezza  ?  Non  è  egli  vero  che  l'uomo  nel  primo 
uscire  alla  luce  da  una  donna  è  raccolto  e  poi  da  una 
donna  è  guidato  sino  alla  palestra  che  raccoglie  la 
giovinezza  agli  studi  meno  possenti  a  imprimersi 
nelle  tenere  menti  che  le  prime  e  indelebili  parole 
materne  ?  Non  è  forse  la  donna  e  custodia  degli 
affetti  pili  santi  e  consolazione  nell'  infortunio  e  bal- 
samo alle  ferite  del  cuore  e  corona  della  vita  ? 
Ogni  carattere,  ogni  passione  buona  o  cattiva,  che 
alligna  nel  nostro  cuore  ,  si  dispiega  e  in  certo 
modo  si  dimostra  qual'  è  più  schiettamente  che  mai 
quando  ci  accostianio  a  questo  essere  sottile,  sen- 
tito, di  fine  e  sagace  intelletto.  E  lasciando  ciò  che 
la  donna  messa  in  azione  nella  vita  e  nel  dramma 
possa  sì  nel  carri ttere  degli  uomini,  come  nella  di- 
mostrazione di  esso;  ben  doveva  esser  gelida  e  ru- 
vida la  commedia  senza  1'  aiuto  di  queste,  che  per 
lu  loro  flessibilità,  sensibilità  ed  anco  leggerezza  e 
bizzarria  danno  più  curiosa  materia  al  poeta  pit- 
tore, il  quale  sappia  giungere  oltre  la  scorza  lieve 
G.A.T.CLXV.  2 


che  pur  cuoprc  generose  e  profonde  passioni  f  lo 
non  ricorderò  i  greci,  presso  i  quali  (e  vedine  Ari- 
stofane) le  donne  si  vedeano  sulla  scena  come  ne'  ro- 
manzi di  cavalleria  recitati  molti  secoli  dopo  nella 
corte  di  Ferrara.  Poi  ,  per  salvare  il  pudore  ,  le 
oneste  vi  furon  proscritte,  e  pare  che  non  altrimenti 
fosse  la  commedia  nuova  quale  ci  appare  nelle 
latine  imitate  dai  perduto  Monandro.  Alcune  scene 
di  Terenzio  ,  se  sono  belle  come  poesia  ,  oggi  sul 
teati'o  darebber  noia  perchè  povere  di  quei  personaggi 
appunto,  intorno  a  cui  si  aggjiano  e  i  movimenti  e 
le  idee  e  lo  passioni  degli  uomini.  Basta  ricordare 
neir  Andria  la  descrizione  del  funerale  e  della  fan- 
ciulla che  vi  assiste  ,  la  quale  vi  si  dipinge  nella 
niente  come  una  delle  creazioni  di  Dante  o  di 
Byron,  e  pur  desiderate  invano  di  vedere,  se  bene 
dalle  prime  alle  ultime  scene  tutti  ne  parlano  come 
cagione  di  culto  e  d'amore.  I  cinquecentisti  poi  ver- 
savano nelle  medesime  condizioni.  Donne  si  veggono 
sulla  scena;  ma  vecchie  e  meretrici  e  peggio,  parti 
non  convenienti  a  donne  vere  e  però  atteggiate  da 
uomini  mascherati.  Sopra  di  che  è  notevole  un  passo 
di  messer  Giambattista  Giraldi  Cinthio  nel  suo  Di- 
scorso intorno  al  comporre  dei  romanzi^  delle  com- 
medie e  delle  tragedie  (Venezia  1554),  che  vuol  es- 
sere ricordato:  «  Serva  la  commedia  certa  religione 
che  mai  giovine,  vergine  o  polzella  non  viene  a  ra- 
gionare in  scena,  e  per  contrario  nelle  scene  tragiche 
vi  s' inlrodncon  lodevolmente.  Perchè,  egli  aggiunge, 
la  scena  comica  è  lasciva  e  v'  intervengono  ruffiani, 
meretrici  e  parassiti.  Ed  anche  che  la  commedia  fosse 
onestissima,  come  i  Captivi  di  Plauto,  non   vi  s'  in- 


19 
Irodiirrebbe  anco  vergine  alcuna  ,  perchè  già  è  cosi 
impressa  negli  animi  degli  nomini  che  la  commedia 
porti  con  lei  queste  sorli  di  genti  e  questi  modi  di 
favellare,  pieni  di  licenza,  che  ciò  non  sarebbe  senza 
pregiudicio  delle  polcelle.  Udite  ?  Io  poi  domando 
se  le  polceile  si  portavano  a  udite  queste  rappre- 
sentazioni licenziose.  Pare  che  sì.  E  allora  lo  scru- 
polo è  veramente  degno  di  quelle  generazioni  di 
letterati  e  d'  uditori,  che  s'  aveano  messo  in  capo 
che  le  commedie  doveano  esser  così  e  non  altri- 
menti composte.  I  poveri  poeti  del  cinquecento  erano 
dunque  privi  di  una  fonte  di  belle  ispirazioni  :  e 
chi  dicesse  che  n'eran  privi  per  mancanza  di  esem- 
plari atti  ad  esser  tradotti  in  artistiche  figure,  por- 
terebbe innanzi  una  ragione  assai  futile  e  parago- 
nabile a  quella,  la  quale  seccamente  vorrebbe  che 
in  certi  secoli  commedi.)  non  fu  perchè  non  vi  potea 
essere:  come  se  talora  lo  stato  della  letteratura  ed 
anco  i  mezzi  e  gli  aiuti  esterni  non  concorrano  allo 
sviluppo  più  o  meno  pieno  di  qualsiasi  parte  del- 
l'umano sapere.  Ogni  arte,  e  specialmente  la  pittura 
e  la  drammatica,  si  collega  nel  suo  crescere  e  ne'  suoi 
atteggiamenti  ai  materiali  di  cui  si  serve,  sì  come 
quelli  che  sono  effetti  e  cause  a  un  tempo  di  condi- 
zioni, alle  quali  non  s'è  data  forse  avvertenza  o  spie- 
gazione. Ma  questo  sarebbe  tòma  di  lungo  discorso, 
e  volentieri  il  farei  se  il  mio  proposito  non  mi  richia- 
masse al  compito  preso.  Ciò  lasciando,  io  ripeto  che 
mentirebbe  per  la  gola  chi  osasse  affermare  che  in 
quel  secolo  non  fossero  esemplari  belli  ed  onesti 
che  si  confacessero  alla  virtù  della  scena.  Io  pro- 
testo in  nome  della  nazione  italiana  e  delle  donne 


20 

d'ogni  popolo  del  mondo.  Egli  ò  vero  che  visse  al- 
lora una  Impella  cortigiana  (Aspasia  senza  Pericle) 
lodata  in  prosa  e  in  verso  dal  Randello,  da  Beraoldo 
il  giovane,  dal  Sadoleto;  la  quale  fu  liberale  e  magni- 
fica, ed  ebbe  casa  ripiena  di  tappeti,  e  sfoggiò  vel- 
luti e  broccati  e  pieni  forzieri  di  grandissimo  prezzo 
e  liuti  e  cetre  e  libri  volgari  e  latini  riccamente  ador- 
nati, ed  ebbe  l' immeritato  onore  di  avere  una  figlia, 
che  per  sottrarsi  all'  infamia,  si  uccise  di  veleno.  Egli 
è  vero.  Ma  era  pur  quello  il  secolo,  in  cui  l'amore 
platonico  (  benché  più  accostato  alla  idea  pagana  ) 
dovea  dare  un  certo  che  di  bello  e  di  cullo  alla 
conversazione,  e  render  più  facile  la  onesta  e  civil 
comunanza  de'  due  sessi.  Ed  era  pur  quello  il 
tempo  che  le  arti  abbellivano  più  che  mai  la  vita, 
e  non  erano  scusa  d'  ozi  o  arnese  di  turpitudine  , 
ma  veio  ornamento  del  vivere  urbano  ,  alle  quali, 
davan  opeia  affettuosa  le  donne:  e  lasciando  la  pit- 
tura e  le  lettere  più  comuni  a'  due  sessi,  per  certo 
quasi  le  sole  donne  coltivavano  la  musica,  come  fanno 
fede  e  Anna  e  Lucrezia  figlie  del  duca  Ercole  li 
di  Ferrara,  lodate  dal  Ricci,  dal  Giraldi,  dal  Cal- 
cagnini  e  dal  Patrizi.  Era  pur  vivo  quel  fiore  di 
gentilezza  e  di  virtù  che  fu  Vittoria  Colonna,  la  quale 
consolò  la  vita  del  gran  Michelangelo.  Fervido  culto 
e  meritato  ebbero  le  donne,  che  eccitarono  e  fre- 
narono a  un  tempo  le  forze  della  mente  e  ressero 
il  cuore  di  poeti  illustri:  in  quel  secolo  davano  esem- 
pio di  generoso  disdegno  Caterina  Ginori  e  Giulia 
Aldobrandini  ,  e  nelle  care  veglie  fiorentine  splen- 
deano  le  virtù  di  quelle,  che   il  Rosini,  più   nalu- 


2Ì 

ralmente  degli  altri  romanzieri,  ci  ha  descritto  nella 
Luisa  Strozzi. 

XXI. 

La  divisione  che  suol  farsi  delle  commedie  chia- 
mandole di  carattere  o  d'inlreccio,  a  me  pare  poco 
fondata  sulle  ragioni  intrinseche  dell'arie.  Imperoc- 
ché s'egli  è  vero  che  in  esse  più  o  meno  prevalgano 
o  gl'intrecci  o  i  cai-atteri,  pur  non  di  meno  nò  gli 
uni  né  gli  altri  possono  pi'etendere  all'onore  di  dare 
per  loro  stessi  il  nome  che  distingua  la  specie.  Non 
è  buona  commedia  dove  non  sieno  e  caratteri  più  o 
meno  svolti  e  un  intreccio  più  o  meno  intricato: quindi 
vedendola  o  recitata  o  scritta,  noi  diremo:  Qui  gli 
avvenimenti  seguono  e  portano  un  fine  senza  opera 
degli  uomini  ;  ovvero ,  qui  gli  uomini  sono  cagione 
degli  avvenimenti  e  quasi  li  conducono  e  li  costrin- 
gono al  loro  volere.  Poi  nel  nostro  giudizio  faremo 
misura  del  bene  e  del  male  che  tale  disposizione  di 
cose  produca:  ma  non  per  questo  ci  arrogheremo  di 
nominarla  d'inlreccio  o  di  carattere,  ma  si  la  dii-emo. 
tale  dove  l'uno  de' due  elementi  meglio  può  sopra 
l'altro,  secondo  che  sieno  più  avvenimenti  che  ca- 
ratteri o  viceversa.  Per  tanto  noi  non  adotteremo 
rispetto  alle  commedie  goldoniane  la  solita  nomi- 
nazione ,  ma  piuttosto  le  guarderemo  e  noteremo 
secondo  1'  indole  loro  pai'ticolare,  o  sia  che  condi- 
zioni esterne  dell'arte  prevalse  in  esse  abbian  loro 
dato  un  aspetto  proprio,  o  sia  che,  avvolgentisi  più 
in  una  classe  di  persone,  possano  in  modo  distinto 
specificarsi.   Da  prima    dunque    verrebbero    quelle  , 


-l'I 

come  il  Servitore  dei  due  padroni  ed  i  Gemelli  ve- 
neziani, dove,  per  così  dire,  si  lascia  ai  posici  i  la 
immagine  viva  della  commedia  dell'arte  :  la  quale, 
com'è  scolpita  in  que'  vivaci  componimenti,  può 
dirsi  non  intieramente  perduta  con  la  memoria  degli 
attori  che  la  rendeano  celebrata  pel  mondo.  Ap- 
presso verrebbero  quelle,  dove  l'indole  vera  dell'au- 
tore si  perde  entro  il  falso  meraviglioso  degli  av- 
venimenti e  dei  caratteri  ,  o  perchè  la  sua  imma- 
ginazione si  è  piegata  alla  moda  del  tempo  ,  o 
perchè  i  racconti  forestieri  gli  abbiano  dettato  ciò 
ch'era  uopo  per  soddisfare  a  quella.  Queste  com- 
medie potrebbero  dirsi  romanzesche,  e  di  tal  fatta 
sono  le  Dalmatine,  le  Giorgiane,  le  Scozzesi  ed  al- 
tre. Ma  sì  delle  commedie  dell'arte  come  delle  ro- 
manzesche abbiamo  fatto  lungo  parole  più  sopra 
quando  ci  siam  fermati  sopra  gli  esterni  elementi, 
che  concorsero  nel  teatro  goldoniano.  Bensì  sopra 
a  questo  tèma  non  possiamo  passarci  dal  conside- 
rare ,  che  quel  principio  stesso  che  nell'  immenso 
regno  del  vero  portava  il  Goldoni  ad  allargare  il 
freno  dell'arte,  facea  sì  che  egli  non  rifuggisse  dal 
dramma  così  detto  quasi  stia  di  mezzo  alla  trage- 
dia e  alla  commedia  :  anzi  egli  nella  seconda  parte 
delle  sue  Memorie  lo  chiama  (un  poco  alla  maniera 
dell'Arnaud)  un  divertimento  di  piii  fatto  pei  cuori 
seììsitivi,  ben  conoscendo  che  meglio  si  piange  sui 
casi  comuni  della  vita  ,  che  sopra  le  sventure  dei 
grandi  personaggi  sieno  o  no  coronati.  E  benché 
non  si  desse  tutto  a  tal  genere  ,  pure  dimostrò  a 
che  altezza  sarebbe  giunto  quando  tolse  dal  cele- 
brato romanzo  inglese  il  soggetto  delle  due  Pamele, 


23 
commedie  che  sulle  scene  li  danno  aria  di  csi^ei' 
nate  pur  ieri.  Poiò  nessuno  che  sia  Iroppo  tenero 
dei  dranrinii  arruffati,  che  si  veggori'oggi  sovente,  si 
gioisca  troppo  del  consenso  del  testa  ina  tore  ,  anzi 
del  creatore  della  commedia  italiana.  Imperocché 
vuoisi  avvertire  che  mentre  il  nostro  non  disapprova 
che  sulle  scene  si  rappresentino  anche  gli  infortuni 
de'nostri  eguali;  non  per  questo  dimostra  di  lodare 
que'drammi  di  sentimento,  i  quali  allora  prendeano 
voga  nella  Francia,  e  appresso  la  rivoluzione  c'inon- 
darono, ci  affogarono  e  impedirono  che  l'opera  del 
Goldoni  portasse  i  suoi  frutti.  E  quantunque  le  va- 
ghe parole,  ch'ei  dice,  possano  forse  tirarsi  a  qaesto 
concetto  ;  pur  sono  da  avvertire  due  cose  ,  che  ,  a 
parer  mio  ,  fanno  più  debole  1'  approvazione  di  sì 
grande  aitefice.  La  prima,  ch'egli  scrisse  le  Memorie 
in  Francia,  dove  appunto  in  quel  tempo  era  andazzo 
di  queste  rappresentazioni  scritte  da  gente  riputata 
e  autorevole,  contro  a  cui  la  timida  sua  natura  non 
dava  ch'ei  contendesse,  egli  che  pure  cercava  pane 
in  teria  straniera.  La  seconda  cosa  ,  ohe  se  non 
ha  disapprovato  apertamente  tale  specie,  egli  è  per- 
chè vedeva  come  nei  campo  dell'arte  anche  que- 
sta può  esser  buona  e  bella  e  utile,  purché  non  si 
distolgano  gli  occhi  dalla  maestra  natura.  A  ogni 
modo  se  pure  il  dramma  può  coltivarsi  come  ge- 
nere medio  tra  la  comtnedia  e  la  tragedia  ,  esso 
in  sino  ad  ora,  eh'  io  sappia,  non  è  stato  fatto  in 
guisa  che  se  ne  possano  contentare  gì'  ingegni  più 
severi.  Da  che,  così  conj'egli  è,  non  appare  che  un 
genere  tutto  artificiato,  fuor  del  mondo  ,  il  quale 
potrebbe  rassomigliarsi  alle  antiche  pastorali  od  a 


24 

certi  l'omanzi  cavalleiesehi  ,  con  la  difttìion/.a  che 
quelli  erano  e  sono  sgradevoli  per  la  squisita  ricei- 
catezza  del  bello  fisico  e  nnoiale,  laddove  questi  sono 
orribili  per  la  ricerca  d'ogni  cosa  più  schifosa  e 
più  bi'utta,  sì  che  paiano  ispirati  dalla  ebbrezza  o 
dalla   pazzia. 

XXII. 

.Appresso  alle  romanzesche  si  possono  annove- 
rare quelle  che  direi  sloriche,  in  quanto  che  si  ag- 
girano sopra  un  personaggio  che  veramente  visse, 
operò  e  sofferse.  Tali  sono  il  Terenzio,  il  Molière  e 
il  Torquato  Tasso ,  nelle  quali  egli  non  raggiunse 
l'ottimo  per  varie  ragioni.  In  prima  perchè  non  era 
si  dotto  nella  storia,  o  foise  meglio  non  era  giunta 
tra  noi  la  storia  a  tal  punto,  che  potesse  dar  lume 
del  carattere  dei  personaggi  e  della  condizione  dei 
trascorsi  tempi  così  prestamente,  come  sarebbe  stato 
necessario  a  scrittore,  che  di  questa  disciplina  non 
facea  né  potea  fare  studio  indefesso.  In  secondo  luogo 
egli  non  era  per  avventura  ingegno  atto  a  quella  spe- 
cie di  astrazione  che  vuoisi  per  togliere  in  certa 
guisa  sé  Slesso  al  proprio  tempo  e  porsi  come  vi- 
vente tra  gli  uomini  dei  secoli  andati  :  ingegno  ne- 
cessario più  che  altro  a  chi  voglia  scriver  tragedie, 
del  quale  pochissimi  furono  privilegiati,  e  tra  questi, 
a  memoria  nostra,  il  Delavigne  e  il  Marengo  nella 
drammatica  e  nelle  altre  parti  della  letteratura  il 
Leopardi  ,  meraviglioso  sia  che  faccia  da  greco  , 
sia  che  s'atteggi  da  ingenuo  trecentista.  Da  ultimo 
egli  non  volle,  a  dir  vero,  fare  appunto  la  commedia 
storica,  ma  bensì  scegliendo  uno  storico  personaggio, 
trovar  modo  che  gli  valesse  a  difendersi   dalle    ire 


25 

0  dalle  calunnie  de'  suoi  nemici  :  laonde  non  deve 
in  questo  giudicarsi  con  troppo  ligore,  né  appoi'glisi 
a  colpa  se  non  aggiunse  a  quanto  in  verità  non  era 
nella  sua  intenzione.  Nel  che  non  mi  posso  trapas- 
sare dal  dire,  che  in  questa  specie  di  commedia  va 
lodato  altamente  Paolo  Ferrari,  il  quale  nel  Goldoni 
e  le  sedici  commedie  e  nel  Parila  e  la  satira  ci  diede 
la  viva  pittura  di  quegli  uomini  sommi  e  le  guerre 
da  loro  patite  e  i  costumi  e  i  vizi  del  secolo  in 
cui  vissero.  Bello  e  sublime  scopo  non  solamente 
ricordare  le  glorie  nostre  a  chi  sa,  ma  porle,  direi, 
sotto  gli  occhi  a  chi  pei'  ignavia  non  vuol  sapere, 
e  rendei-  famigliari  al  popolo  ,  che  ignora  ,  i  nomi 
che  pili  onorano  la  nostra  patria.  Bellissimo  inlento 
fare  il  teatro  non  solamente  scuola  di  costume,  ma 
pur  anco  della  storia  lettei-aria  che  più  ci  onora  : 
imperocché  non  possa  un  popolo  aspirare  a  lode  di 
gentilezza  dove  non  riverisca  i  sacri  ingegni  che  lo 
hanno  fatto  segno  di  rispetto  alle  altre  nazioni,  il 
Torquato  Tasso  fu  sci'itto  dal  Goldoni  per  dimostrare 
come  quello  riducessero  i  nemici  e  come  lui  slesso 
avrebbon  voluto  ridurre  tirando  malignamente  la  cri- 
tica delle  opere  sopra  le  [)ettegole  questioni  gram- 
maticali. Ma  l'immagine  di  Torquato  non  è.  11  per- 
sonaggio, a  cui  vien  dato  questo  sacro  nome,  ciancia 
sopra  la  Gerusalemme  e  sopra  il  sistema  nervoso  : 
monta  in  collera  spesso  e  se  la  piglia  coi  servi  ad 
ogni  minimo  gesto  o  parola;  al  contrario  è  dolcis- 
simo e  pazientissimo  verso  il  curioso  Don  Gherardo 
e  il  cav.  Del  Baiocco  cruscante  :  per  carità  non  pro- 
nunciate il  nome  di  amore,  ch'eì  dà  un  gran  tuffo 
nello  scimunito.  L'azione  poi  si  aggira  sulla  favola 


delle  tre  Eleonore.  Egli,  s'intende,  ne  ama  una  dav- 
vero, la  quale  è  dama  di  onore  e  fidanzala  al  duca  : 
le  altre  due  corteggia  in  pubblico  insieme  con  quella 
per  confondere  la  vista  altrui.  A  tutte  tre  però  non 
cale  né  punto  nò  poco  di  lui,  e  lor  piace  per  mera 
vanità  d'essere  inchinate  e  lodate  da  sì  famoso  poeta. 
In  fine  il  pover'uomo  è  rinchiuso  all'ospedale  de'mat- 
ti:  e  quando,  uscendone  poco  dopo,  corre  alla  sua 
dama,  questa  gli  canta  a  chiare  note  che  si  risolva 
di  andarsene,  e  sia  pure  a  Roma,  per  essere  inco- 
ronato, ovvero  ella  sarà  costretta  a  gittarsi  per  di- 
sperata e  prestamente  sgombrar  di  Ferrara.  Questa 
commedia,  voi  vedete,  è  uno  strazio  di  quel  grande 
che  tanti  ne  ha  ricevuti  in  vita  ed  in  morte.  Eppure 
alcune  scene  comiche  da  vero,  e  il  ridicolo  di  qual- 
che carattere  secondario,  e  la  felicità  dell'intreccio 
la  fanno  rivivere  talvolta  sulle  scene.  Ma  se  ella  si 
chiamasse  il  poeta  innamorato  o  fosse  distinta  per 
qualunque  altro  nome,  nulla  ,  veramente  nulla  sa- 
rebbe tolto  air  azione,  e  il  nome  di  Torquato  sta- 
rebbe ina  riverito  nella  mente  del  pojìolo.  Il  Molière 
fu  composto  per  dimostrare  com'egli  onorasse  quel 
grande  maestro,  a  cui  molti,  nel  delirio  dell'ammi- 
razione, lo  preponevano.  È  scritto  senza  maschere, 
senza  mutamenti  di  scene,  e  in  versi  martelliani  li- 
suscitati  con  vero  danno  dell'autore  e  della  scena 
comica  :  metro  che  fece  andare  in  visibilio  quanti 
aveano  perduto  l'orecchio  alla  nobile  armonia  degli 
antichi  poeti.  Egli  congiunse  due  fatti  della  vita  del 
sommo  comico  francese  :  il  matrimonio  da  lui  ru- 
minato con  Isabella  figlia  della  Bejard,  e  la  proibi- 
zione del  Tartufo  :   in  cotale  intreccio  si   mesce  un 


27 
certo  Don  Pirlone  ipoci'itu  ,  carica kira  dello  stessa 
Tartufo  ,  onde  nasce  un  insieme  ben  connesso  e 
condotto  e  sparso  elegantemente  di  comiche  circo- 
stanze, che  danno  a  tutta  hi  composizione  un'aria 
arguta  e  festiva.  Ancorché  il  Molière  non  apparisca 
nel  suo  verissimo  aspetto  ,  pure  il  tempo  vi  è  di- 
pinto verace:  né  mi  farò  a  cercare  se  l'autore  debba 
riferirne  grazie  ai  caratteri  immaginati  sulla  stampa 
del  Francese,  ovvero  alla  vicinanza  dell'epoca  in  cui 
si  finge  razione,  nella  quale  gli  uomini  più  somi- 
gliavano naturalmente  nelle  idee,  nei  costumi  e  nel 
linguaggio  a  (}uelli  che,  vivendo,  cadeano  sotto  gli 
occhi  del  nostro.  Ma  non  così  gli  accadde  nel  Te- 
renzio, la  qual  commedia  fu  più  lavoiata  e  forbita 
e  a  lui  prediletta  sopra  le  altre,  perchè  gli  uomini 
e  gli  autori  amano  ciò  che  più  hanno  penato  a  ot- 
tenere. E  di  vero  non  può  negarsi  eh'  ella  non 
sia  squisitamente  condotta.  Ma  Terenzio  tien  molto 
del  carattere  del  Molière  ,  e  in  tutta  la  compo- 
sizione è  quel  grave  peccalo  che  pur  s'  appone  ai 
drammi  del  Metastasio  ;  vale  a  dire  che  nei  mondo 
romano  e  greco  sia  portato  il  costume  del  settecento, 
indarno  sforzato  a  prendere  le  antiche  sembianze 
non  sue,  per  via  di  grandi  parole  e  d'inutili  dottrine. 
Per  ammenda  intanto  è  bello  l'amore  di  Livia,  figlia 
di  Lucano,  verso  Tei-enzio,  padiona  orgogliosa  che 
pur  non  vorrebbe  uno  schiavo  a  suo  sposo  ,  e  si 
leva  a  nobiltà  il  carattere  della  schiava  greca  Creusa, 
amante  riamata  di  Terenzio ,  che  difende  la  sua 
patria  caduta  ,  e  nel  suo  stato  infelice  conserva  la 
generosità  del  cuore  e  l'arditezza  della  parola. 


28 

XXIII. 

Anche  la  eoinniedia  allegorica  egli  tentò  nel  Disin-^ 
ganno  in  corte,  la  fantastica  nel  Genio  buono  e  genio 
cailivoy  cui  mandò  in  Italia  da  Parigi  a  solletico  del 
volgo,  che  parca  pazzo  per  le  fiabe  del  Gozzi.  La  sati- 
rica e  allegorica  commedia,  ad  esempio  del  greco  Ari- 
stofane, allignò  poco  in  Italia.  Nel  cinquecento  Pietro 
Aretino  lodava  e  sferzava  sul  teatro  e  buoni  e  cat- 
tivi, intanto  che,  senza  ormare  strettamente  Plauto 
e  Terenzio,  dava  più  vivo  il  secolo  ch'egli  svergo- 
gnava della  sua  persona.  Le  sue  paiono  appunto  le 
scene  del  Cellini  che  pili  volentieri  s'aggirano,  tra 
plebe  di  sgherri  e  di  cortigiane.  E  qui  sia  detto  di 
passaggio,  chi  vuol  vedere  la  condizione  di  Venezia 
e  dell'  Italia  nella  licenza  degli  scritti  e  delle  opere 
di  Pietro  Aretino,  ricordisi  ch'egli  rappresentava  il 
peggio  di  quella  età,  ov'era  gran  copia  di  virtù  tra 
mezzo  a  vizi  sterminati,  miscuglio  di  antiche  e  nuove 
idee  come  si  confaceva  a  trapasso  del  medio  evo 
nei  secoli  moderni  :  ricordisi  che  Venezia  ,  mentre 
poetavano  l'Aretino  e  Nicolò  Franco,  venerava  pure 
r  intemerato  Trifone  Gabriele  detto  il  Socrate  di 
Murano,  e  l'onorevole  sua  schiera  di  amici;  Venezia, 
dando  esempio  d'  inflessibile  fortezza,  combatteva  al- 
loia  la  formidata  alleanza  di  Cambrai.  Del  rimanente 
l'Aretino,  valendosi  della  libertà  che  dava  la  repub- 
blica sopra  tutto  ciò  che  non  si  riferisse  a  governo, 
anche  nella  commedia  scagliò  dardi  a  sua  posta  con- 
tro ad  uomini,  a  costumi,  a  corti,  preludendo  an- 
che alla  commedia  politica,  la  quale  meno  che  mni 


^29 
ebbe  speranza  di  attecchire  e  d' ingrandire  nei  secoli 
che  vennero  appresso.  Più  copia  avemmo  di  paro- 
die. Le  Rivolle  di  Parnaso  di  Scipione  Eurico  mes- 
sinese volsero  a  ridicolo  la  manìa  de'  poeti  spagnuoli 
che  racchiudevano  dentro  la  commedia  una  storia 
intera.  Forse  Torquato  Tasso  negl'  Intrighi  d'amore 
satireggiò  gì'  intricati  viluppi  annaspandone  molti  nel 
breve  giro  di  un  atto.  Che  so  io  ?  Benedetto  Mar- 
cello veneziano  compose  il  Cruscante  impazzito,  e  Va- 
laresso  fece  il  Rutzvanscad  ,  parodìa  della  ti-agedia 
dell'  abate  Domenico  Lazzarini  grecista  intitolata 
Ulisse  il  giovane.  La  scena  è  in  una  città  misteriosa 
di  cui  non  si  può  dire  il  nome  perchè  composto  di 
tutte  consonanti  :  i  cori  sono  gli  orbi  di  piazza  : 
r  indovina  di  Apollo  è  una  zingara:  e  perchè  nella 
tragedia  burlata  Ulisse  sposa,  senza  saperne,  sua  fi- 
glia, così  qui  Rutzvanscad  dà  l'anello  a  sua  nonna. 
Chi  ammazza,  chi  è  ammazzato:  restano  due  che  si 
litigano  il  trono  e  vanno  dietro  la  scena  a  battaglia. 
Gli  spettatori  attendono.  Invano.  Essi  urlano  e  sbuca 
fuori  il  suggeritore  cantando  : 

Uditori,  m'accorgo  che  aspettate 
.  Che  nuova  della  pugna  alcun  vi  porti: 
Ma  lo  aspettate  invan:  son  tutti  morti. 

0  prima  o  dopo.  Appiano  Buonafede  compose  al- 
cune sue  commedie  filosofiche,  dove  metteva  in  ri- 
dicolo grandi  inventori  delle  umane  discipline,  con 
che  ragione  non  so.  Far  parlare  Talete  in  iscena 
come  bestia,  e  poi  inferirne  ch'egli  era  tale,  è  cosa 
che  ripugna  al  buon  senso  ed  alla  ragione.  Per  altro 


30 
il  Buonafede  non  fu  noto  al  teatro,  ne  piacque  al 
popolo  ,  né  ai  lellerali  ,  nò  ai  giornalisti  e  molto 
meno  al  Baretti.  Fu  più  fortunato  il  Casti  che  sotto 
r  ombra  del  manto  imperiale  di  Caterina  11  lanciò 
saette  amare  contro  Gustavo  HI  re  di  Svezia,  il  quale 
alle  satire  rispose  con  l'armi:  argomento  che  genera 
persuasione.  Ma  pure  il  poeta  vendicò  la  paura  di 
Caterina  col  dramma  satirico  il  Re  Teodoro  a  Ve- 
nezia, dove  rappresentando  cotesto  fantoccio  di  re 
de' valorosi  corsi,  punse  mortalmente  la  miseria  ed 
il  fasto  del  re  dei  goti.  La  musica  del  Paesiello  ab- 
bellì e  rese  popolare  la  comica  festività  del  dramma. 
Caterina  ne  gongolò:  1'  inìperatore  Giuseppe  II  fece 
sua  delizia  de'versi  del  felice  poeta,  il  quale,  oltre 
gli  applausi,  ebbe  dalla  regale  munificenza  una  su- 
perba pelliccia  e  rubli  seimila.  Né  Terenzio,  né  il 
Molière,  nò  il  Goldoni  ebbero  mai  sì  largo  prezzo 
delle  loro  opere  veramente  immortali.  Carlo  Gozzi 
in  appresso  avrebbe  potuto,  là  dov'era  piìi  libertà 
o  licenza,  dare  esempio  di  commedie  allegoriche  e 
satiriche.  E  così  cominciò  sua  via  ;  e  alcune  fiabe 
starebbero  ancora  nella  memoria  nostra,  se  elle  fos- 
sero animale  da  vera  poesia.  Tentò  la  commedia  al- 
legorica neWAucjellino  Bel  Verde,  dove  volle  sferzare 
i  filosofi  alla  moda;  la  commedia  satirica  nella  pa- 
rodia delle  Tre  Melarance.  Ma  errò  quando,  sapen- 
dosi popolare,  traeva  il  popolo  nell'errore.  E  ehi  lo 
lodò  d'aver  saputo  valersi  o  almeno  d'avere  indovi- 
nato l'effetto  che  si  può  trarre  da  cose  piacevoli  al 
volgo,  non  curò  né  volle  ricordarsi  che  il  Goldoni 
l'avea  prima,  e  meglio  di  lui,  sentito  col  dipingere  il 
vero  della  virtù  e  del  vizio  come  si  conviene  rap- 


31 

presentarlo  a  popolo  che  si  stima  o  si  vuol  poitare 
innanzi  nel  viver  civile.  Anzi  dicnoslrò  ancora  ngl 
Genio  buono  e  cattivo  come  queste  commedie  alle- 
goriche potessero  recarsi  a  grande  utilità,  facendo  per- 
sona dei  principi  del  bene  e  del  male  che  pugnano 
nella  vita  nostra,  e  dipingendo  comicamente  i  vari 
costumi  delle  forestiere  nazioni.  E  s' io  dicessi  ch'egli 
ha  pur  rinnovato  la  commedia  rusticale,  forse  non 
ne  trarrei  approvazione  da  chi  suol  vedere  questo 
genere  beli'  e  foggiato  dai  fiorentini  a  modo  che  non 
sia  lecito  da  essi  dipartirsi.  Ma  pure  a  me  pare  , 
o  m' inganno,  che  il  Feudatario  se  non  si  pregia  della 
squisita  eleganza  delle  rusticali  fiorentine,  meglio  di 
quelle  ritragga  la  sembianza  del  vero:  che  di  que- 
gl'  innamorali  villani  o  non  è  mai  stata  o  forse  è 
perduta  la  specie:  di  questi  contadini,  non  sai  se  più 
animati  da  gelosia  o  gonfi  di  boria  municipale,  ove 
che  li  volga,  puoi  vederne  tulio  giorno  la  stampa. 

XXIV. 

Delle  altre  comtnedie  si  potrebbe  far  divisione 
di  alte  ,  di  medie  e  d'  infime,  secondo  che  elle  si 
attengono  o  alla  classe  signorile  o  al  mezzo  ceto  o 
alla  popolare  Simiglia.  Ma  questa  partizione  è  men 
facile  presso  noi  che  presso  gli  antichi  :  da  che 
nella  società  del  secolo  andato  e  nella  presente  il 
primo  e  il  secondo  grado  si  confondono  spesso  tra 
loro,  e  più  dove  sia  più  civiltà,  e  meno  là  ove  il  pri- 
vilegio contrasti  ancora  alla  civiltà  dilagante.  Pur 
non  di  meno  v'  ha  tali  commedie  dove  l'azione  si 
volge  quasi  intieramente  tra   i  grandi:  però  non  si 


32 

rivela  sì  schietta,  come  volea  per  avventura  la  verità 
delle  cose,  anzi  par  che  si  ouopra  d'un  timido  velo 
atto  a  nascondere  la  segreta  intenzione  dell'autore. 
Egualnfìente  ve  n'  ha  delle  altre,  ove  si  vuol  dipin- 
gere un  ceto,  che  sta  più  sopra  della  semplice  cit- 
tadinanza. Ma  sì  nell'une  e  sì  nell'altre  ,  o  ch'egli 
si  sia  abbattuto  ad  originali  poco  felici,  o  che  non 
li  abbia  veramente  avuti,  direi  così,  tra  le  mani  a  bel- 
l'agio, o  sia  che  la  sua  maniera  naturale  di  sentire 
e  di  descrivere  meno  convenisse  alla  classe  dov'  è 
pili  apparenza  che  verità  di  gentilezza  e  persino  di 
passioni  ;  sia  come  si  voglia,  egli  non  ha  colto  in 
queste,  come  è  solito,  il  segno,  e  si  dimostra  im- 
pacciato e  goffo  e  senza  dubbio  inferiore  a  se  stesso. 
NeWAdulatore  il  carattere  di  Don  Sancio,  che  pur 
siede  in  elevata  condizione  a  Napoli,  è  tratteggiato 
a  modo  che  appena  sarebbe  comportabile  in  un  vil- 
lano arricchito,  e  Sigismondo  adulatore  sdrucciola 
sino  al  punto  di  fare  al  suo  signore  il  mercurio 
d'amore.  Egli  è  vero  che  alcuni  vizi  non  grandeg- 
giano solamente  nel  fondo  della  comunanza  civile, 
e  dò  anche  per  probabile  che  certe  turpitudini  rap- 
presentate nel  vero  aspetto  mettano  più  schifo  e  sien 
lontane  dal  sedurre  l'animo  altrui  a  quella  maniera 
che  fa  la  commedia  francese  in  questi  ultimi  tempi: 
nella  quale  si  vede  di  nuovo  l'atellana  e  la  plauti- 
na condita  in  guisa,  che  qualunque  disprezza  le  Àspa- 
sie  non  potrebbe  di  cuore  seguitar  nel  proposito  se  le 
fossero  veramente  così  leggiadre  e  compite.  Ma  breve- 
mente, se  bene  la  commedia  e  l'arte  abbiano  facoltà  di 
scegliere,  devono  rappresentare  al  vero  quanto  per 
loro  è  scello;  e  in  tal  cosa  io  sfido  chi  mi  provi  che  il 


33 

vizio  ancora  e  l'  iniquità  non  si  nascondano  e  non 
si  manifestino  là  dove  è  grandezza  di  stato  con  di- 
versi modi  e  apparenze  diverse,  che  non  facciano  tra 
la  gente  media  e  l' infimo  volgo.  Nel  Raggiratore  in- 
terviene un  certo  Don  Eraclio  nobile,  tutto  rigonfio 
dell'antichità  di  sua  schiatta,  che  meglio  fa  vedere 
la  sua  ignoranza  quanto  piti  si  dà  credere  di  sa- 
pere ogni  cosa.  Quantunque  io  mi  sappia  per  la  espe- 
rienza del  presente  che  anche  per  lo  passato  la  fa- 
miglia nobilesca,  come  tutte  le  altre  benché  con  più 
colpa,  dovea  fregiarsi  o  sfregiarsi  di  sì  fatti  ridicoli 
personaggi;  pure  non  mi  asterrò  dal  notare  ,  che  , 
levata  la  pompa  e  i  titoli,  cotesto  Eraclio  non  ha 
nulla  di  quanto  ò  più  speciale  di  quella  gente  che 
non  lavora  da  un  pezzo.  Ciò  dunque  lasciando,  noi 
diremo  che  il  pittore  veneto  sta  proprio  nel  suo  vero 
elemento  di  grandezza,  quando  toglie  a  modello  delle 
sue  fatture  la  classe  cittadina  e  popolare,  in  cui 
nacque  e  visse  e  sottilmente  osservò.  Le  tre  com- 
medie della  Villeggiatura  ,  il  Curioso  accidente  ,  la 
Bottega  del  caffè,  il  Ventaglio,  la  Locandiera,  gì'  In- 
namorali, il  Burbero  benefico,  V Avaro  fastoso,  il  Bu- 
giardo,  le  Donne  curiose,  la  Serva  amorosa,  la  Finta 
ammalata ,  il  Medico  olandese  ,  le  tre  commedie  di 
Zelinda  e  Lindoro  ed  altre  che  lascio  di  rnemorare, 
sono  gemme  sì  splendide  che  non  temono  paragone 
di  bellezza  sia  con  antichi  sia  con  moderni  autori. 
Il  volerle  meditare  e  analizzare  una  per  una,  oltre 
al  portarci  alla  lunga  sino  a  deviarci  troppo  dal 
nostro  cammino,  non  sarìa  che  ripetere  ciò  che  al- 
tri e  più  valenti  hanno  già  fatto  a  distesa.  Ma  Io 
scoraggiamento,  che  ce  ne  viene,  potrebbe  esser  forse 
G.A.T.CLXV.  3 


34 

superato  dall'  idea  del  diletto  nell'aggiraici  fra  tante 
delizie,  se  le  conriinedie  che  abbiamo  accennato,  non 
fossero  vive  e  fresche,  anche  dopo  cent'anni,  nella 
memoria  di  tutti  gV  italiani,  anzi  non  fossero  ancora 
rappresentate  da  tutte  le  compagnie  comiche,  e  più 
volentieri  dai  più  solenni  attori  che  si  sono  adope- 
rati e  s'adoprano  al  ristauro  dell'ediHzio  nostro  tea- 
trale. Chi  è  maturo  di  età  e  non  ricorda  Luigi  Ve- 
stri,  che  fu  men  fortunato,  ma  rimarrà  per  certo  più 
celebre  degli  Scaramuccia  e  dei  Sacchi,  chi  non  lo 
ricorda,  io  dico,  atteggiante  il  Burbero,  o  il  vecchio 
nella  Serva  amorosa,  o  il  Don  Marzio  nella  Bottega 
del  caffè  sì  veramente  da  parere  una  sola  cosa  e 
l'ai'le  ed  il  vero  ?  E  chi  non  vede  ancora  come  il 
tempo  non  fosse  corso,  la  Finta  ammalala  resa  viva 
dalla  giovinetta  Adelaide  Ristori  prima  ch'ella  la- 
sciasse r  Italia  e  la  commedia  per  mietere,  calzando 
il  coturno,  meritate  palme  in  paesi  stranieri  ?  lo  fre- 
mei e  scopersi  tutta  l'anima  dell'Avaro  geloso  nel  ce- 
lebre monologo  declamalo  con  evidenza  e  passione  dal 
giovane  figlio  del  Vestii,  e  avrei  voluto  che  il  Goldoni 
risorto,  vedendo  il  Calloud  e  Amilcare  Belotti  nel- 
V  Ollavio  della  Serva  amorosa  e  nel  Lelio  del  Bu- 
giardo, avesse  gioito,  e  ammirato  come  natura  met- 
tesse suggello  ai  suoi  naturali  e  profondi  e  festevoli 
concetti.  Parvemi  poi  trovarmi  quasi  nel  mezzo  de- 
gl'intimi amici  miei  quando  vidi  nel  carnevale  del  1853 
il  Ritorno  della  Villeggiatura  l'ccitata  dalla  compagnia 
di  Alamanno  Morelli  diretta  dal  vecchio  Bon:  quel 
desso  che  per  i  Ludri  e  per  altic  festevoli  invenzioni 
ha  con  altri  pochi  nel  presente  secolo  continuato 
la  scuola  del  gran  Veneziano.  Ma  volete  voi  la 
musa  popolare  associata  alle  grazie  della  greca  mu- 


35 

sa  ?  Volete  voi  l'esempio  dell'  ideale  della  mente  fon- 
dato sull'aspetto  della  natura  ?  Vi  piace  contemplare 
la  purezza  del  disegno  e  la  eleganza  della  compo- 
sizione accompagnate  alla  vivacità  del  colorito  e  alla 
finezza  dei  particolari,  appunto  come  le  doli  del  Te- 
niei's  e  del  Rembiandt  fossero  congiunte  a  quelle  di 
Raffaele  da  Urbino  ?  La  Pula  onorata  e  la  Buona 
moglie  formano  un  insieme  eh'  è  il  più  bel  poema 
popolare  che  possa  immaginarsi.  Queste  due  com- 
medie non  sono  pili  nella  masserizia  dei  comici,  e 
sta  bene:  perchè  dubito  che  non  si  confacciano  al 
gusto  odierno  non  so  se  troppo  falso  o  troppo  squi- 
sito. Eppure  se  Adelaide  Ristori  ritornasse  alla  prima 
prima  giovinezza  che  mai  non  dovrebbe  sfiorire,  e  si 
vestisse  del  soave  e  forte  carattere  della  popolana  di 
Venezia,  io  penso  che  ad  onta  della  noia  ftislidievole, 
la  qual  vuole  apparenza  di  nuovo  per  essere  solleticata 
e  scossa,  ella  desterebbe  in  noi  quello  stesso  commo- 
vimenlo>  che  provavano  a  udirla  cent'  anni  sono  i 
pacifici  nostri  antenati.  Tuttavia  questo  poema  vive 
ancora  nell'arte,  e  chi  lo  legga  ed  abbia  cuore  gen- 
tile non  può  non  sentirsene  al  tutto  innamorato. 

XXV. 

Retina  veneziana  è  una  fanciulla  povera  6  dab- 
bene, che  ama  ed  è  riamata  da  Pasqualino  creduto 
figlio  d'un  gondoliere.  Renchè  istigata  dalla  sorella 
Gate  a  raccogliere  in  casa  il  suo  amante,  ella  sem- 
pre sul  niego  fa  forza  a  sé  stessa,  e  dall'altana,  che 
guarda  il  canale,  ode  i  sospiri  e  le  parole  del  giovi- 
netto. V  ha  intanto  più  d'uno  che  contrasta  al  fe- 
lice   successo  di  questo    maritaggio.  Da  una  parte 


36 
Pantalone  vcccliio  mercante  ,  che  ha  visto  la  fan- 
ciulla sin  da  bambina  e  l'è  più  che  padre  all'amore, 
la  sconsiglia  dal  congiungersi  a  un  povero  gondo- 
liere: d'altra  parte  Menego,  padre  di  Pasqualino,  si 
ricusa  anch'egli  di  dare  assenso  alle  nozze  perchè  son 
gente  meschina,  e  vuole  che  il  figlio  maneggi  il  remo 
per  guadagnare  il  pane  a  soccorso  della  propria  fa- 
miglia. Pasqualino  però  si  sente  portato  a  mestiere 
più  civile,  e  vorrebbe  in  luogo  del  berretto  rosso  e 
della  giubba  coprire  il  capo  con  la  parrucca  e  in- 
dossare il  tabairo  di  scarlatto  e  recarsi  la  penna  allo 
orecchie.  Oltre  a  questo  un  certo  marchese  Ottavio 
di  Ripaverde,  veramente  al  verde  e  ammogliato,  ha 
posto  occhi  e  mente  sopra  la  fanciulla,  e  riuscitegli 
a  nulla  le  seduzioni  e  i  tentativi  di  farla  sposare  a 
Pasqualino  sotto  le  ali,  s'  intende,  della  sua  prote- 
zione; ricorre  infine,  come  violento  e  passionato,  a 
più  riciso  spediente.  Mentr'ella  scende  della  gondola 
che  la  conduceva  in  compagnia  del  vecchio  mercante 
in  casa  d'una  certa  sua  zia,  dove  fosse  difesa  da  tutto 
insidie;  appunto  allora  è  i-apita  da'cngnotti  del  mar- 
chese e  portata  nel  coviglio  d'  un  suo  palazzotto. 
Ma  quivi  è  Beatrice  moglie  di  lui  che  non  tar^Ja  a 
scoprire  la  tresca,  e  mossa  alle  preci  della  fanciulla, 
prende  sopra  sé  l' incarico  di  proteggerla,  non  tanto 
persuasa  dalla  carità  quanto  dalla  gelosia,  favilla  che 
j'ianima  talvolta  amore  che  sonnecchia  o  sta  per 
morire.  Quindi  ella  veste  Betina  de'suoi  abiti,  ed  ella 
si  copre  delle  vesti  di  Betina  ,  ed  ambedue  ma- 
scherate si  portano  al  teatro  della  commedia.  Otta- 
vio ,  ossia  il  marchese  ,  che  va  dietro  lor  tracco 
come  segugio  bravo,  tanto  fa  che  le  piglia  al  varco 


37 

mentre  scendono  sulla  riva.  Ma  il  poverello,  dando 
troppa  fede  alla  vista,  alferra  gli  abiti  della  bella  e 
la  persona  della  moglie,  e  dà  in  custodia  Betina  vera 
con  le  vesti  della  consorte  a  Pasqualino  ch'ei  si  por- 
tava appresso  dandogli  bere  le  sue  solite  ciance.  Ora 
è  uopo  sapere  che  v'  ha  nell'azione  il  personaggio 
di  un  colai  Lelio,  dissoluto,  scherano,  che  si  tien 
figlio  di  Pantalone  :  il  quale  ,  tornando  di  Livorno 
ov'era  cresciuto;  a  istigazione  del  marchese  Ottavio, 
che  subito  V  ha  odorato  per  arnese  da  patibolo,  corre 
a  Venezia  il  primo  palio  glorioso  tentando  di  per- 
cuotere il  padre  da  lui  non  conosciuto  mai  di  per- 
sona. Provvidenza  vuole  che  qualcheduno  lo  avverta 
che  la  designata  vittima  è  propio  suo  padre.  Questi 
vuol  farlo  arrestare,  e  veduto  che  Livorno  ne  avea 
fatto  un  tristo,  si  delibera  mandarlo  a  imparare  la 
creanza  in  Levante,  mozzo  di  nave,  destinato  a  pian- 
tar la  banderuola  sul  pappafico.  Però  i  gondolieri, 
che  aveano  avuto  Lelio  per  compagno  nelle  goz- 
zoviglie, s'  intromettono  e  lo  scampano  a  forza  dai 
birri.  Tra  costoro  era  pur  Menego,  padre  di  Pasqua- 
lino, il  quale,  mosso  a  compassione,  ricella  il  va- 
gabondo in  sua  casa.  Oia  a  Pantalone,  che  va  in 
traccia  di  Betina,  salla  in  capo  di  frugare  anco  nella 
casa  di  Menego,  gondoliere  a  servizio  del  conte  Ot- 
tavio. Quivi  s'  abbatte  in  Lelio  :  sta  per  succedere 
una  scena  funesta.  In  quella  la  moglie  vecchia  di 
Menego,  vedendo  che  Lelio  è  a  mal  punto,  si  sente 
rinascere  nel  cuore  la  carità  di  madre,  e  allora  su- 
bito svela  che  non  Pasqualino  ma  Lelio  è  suo  figlio, 
e  che  il  primo  ò  figlio  di  Pantalone.  Ella  li  ha  scam- 
biati nella  culla  acciocché  il  frutto  delle  proprie  vi- 


38 
scere  godesse  (ruu'agiata  condizione.  Lelio  è  con- 
tento di  levarsi  dalla  soggezione  del  buibero  vec- 
chio e  di  fare  il  barcaiuolo  a  cui  proprio  si  vede 
crealo  da  madre  natura:  Pantalone  è  lieto  di  aver 
perduto  un  cattivo  per  acquistare  un  buon  figlio. 
Non  occorre  dire  che  si  finisce  con  le  nozze  di  Pa- 
squalino e  di  Betina.  Ora  seguono  i  casi  della  Buona 
moglie.  Il  germe  del  cai'altere  femminile  si  svolge 
nel  suo  pieno  vigore  e  nell'  intiera  sua  bellezza  quan- 
d'ella  versa  i  suoi  tesori  di  affetto  sopra  la  nuova 
famiglia,  sul  compagno  della  sua  vita,  sopi'a  i  fi-utli 
delle  sue  viscere  ,  e  tutta  si  concentra  nella  cura 
del  presente  e  nel  pensiero  dell'avvenire,  che  amo- 
rosamente va  sin'oltre  la  moi'te.  S'apre  la  scena  nella 
casa  di  Betina.  Ella  è  intenta  alle  cure  materne  e 
piange  in  segreto.  Pasqualino,  salito  a  miglior  for- 
tuna, non  è  piij  quel  desso.  Eccitato  da  Eelio,  dia- 
volo tentennino,  s'  è  dato  alle  femmine  e  al  giuoco. 
Qualche  sera  neppur  torna  a  casa:  e  la  madre  po- 
veretta, piangendo  sul  frutto  dell'  amore,  anco  nel 
profondo  della  miseiia  cela  a  tutti  il  suo  danno.  Il 
vecchio  suocero  va  a  visitarla,  ma  non  le  può  trari-e 
di  bocca  un  lamento.  A  sentir  lei,  ella  nuota  in  un 
mare  di  beni.  Ma  Pantalone  non  si  lascia  ingannare; 
anzi,  sapendo  dei  mali  portamenti  del  figlio,  vuole 
l'icondurlo  sulla  buona  via  ad  ogni  costo.  In  verità 
Pasqualino  non  è  che  un  uomo  fiacco,  trascinato  dalle 
sugg-eslioni  e  dall'esempio  altrui.  E'  si  fa  portare  per 
la  briglia  da  Lelio  :  e  addolorato  d'  aver  percosso 
la  moglie  e  di  averla  abbandonata,  pure  non  si  ri- 
solve a  ritornare  nelle  braccia  di  lei,  e  trema  pili 
dello  scherno  de'suoi  compagni  che  non  si  strugga 


39 

del  desldei'io  deirainorosa  sua  donna  e  del  figlio  lat- 
tante. Giiioca,  e  il  mai-chese  Ottavio  lo  spoglia  :  si 
gilta  nelle  osterie,  e  Lelio  e  le  sgualdrine  gli  nettan 
la  tasca.  Quivi  Io  coglie  suo  padre.  E' si  nasconde 
per  vergogna  sotto  il  desco  :  è  scoperto  :  la  con- 
fusione e  la  pena  gli  tolgono  la  parola.  Pantalone 
lo  consiglia  con  paterno  e  commovente  discorso  a 
ravvedersi.  11  giovine  tutto  promette.  Ma  che  ?  Men- 
tre il  padre  va  a  pagare  l'ostiero,  ecco  Lelio  che  gli 
pinge  alla  fantasia  le  spasimate  che  lo  cercano,  e  gli 
piange  la  gioventù  male  spesa  nella  vita  domestica, 
e  seco  lo  trascina  di  nuovo-  Pasqualino  intanto  fa 
visite  spesso  e  volentieri  alla  marchesa  Beatrice.  Be- 
tina,  che  ha  saputo  di  questa  frequenza,  corre  al- 
l' astuta  marchesa  a  pregarla  di  non  incoraggire  il 
dabhen'  uomo  a  si  fatto  scioperìo-  Pasqualino,  che 
nascosto  ode  il.  parlar  della  moglie,  esce  inviperito, 
la  discaccia  con  male  parole  ,  ma  non  sì  che  non 
travolga  V  impeto  della  collera  iuìprecando  alla  ma- 
ledetta casa  ove  ha  perduto  danaro  e  riputazione. 
Ma  l'ha  udito  il  marchese  Ottavio,  e  lo  assale  con 
furia.  Pasqualino  con  uno  stile  vuol  difendersi,  ma 
caglia;  e  dove  Belina  non  s'  interponesse  tra  lui  e 
il  feritore,  egli  sarìa  beli'  e  spacciato.  La  giovine  , 
uscendo  di  quel  luogo,  tanto  fa  che  persuade  il  ma- 
rito a  gittar  l'arme  in  canale,  e  per  dai'gli  modo  a 
pagaie  i  debiti,  gii  porge  i  suoi  manini,  ossia  brac- 
cialetti, cari  alle  più  poveie  fanciulle  di  Venezia  co- 
me le  scioccaglie  alle  nostre  minenti.  Ella  sta  pei' 
ricuperare  il  suo  sposo:  Lelio  torna  e  tutto  è  perduto 
Trionfando  costui  la  debolezza  del  giovane,  seco  lo 
trascina  di  nuovo  nelle  tane  del  vizio.  Ma  dietro  il  de- 


40 

li  Ito  corre  la  pena.  Il  marchese  Ottavio,  mentre  fugge 
i  debiti  e  i  birri  ,  viene  imbavagliato  da  questi  e 
condotto  in  prigione.  La  sua  moglie,  costretta  a  men- 
dicare un  asilo,  lo  ha  dalla  stessa  generosa  Betina, 
che  pili  non  ricorda  le  ingiurie  avute  non  tanto  nella 
sua  persona,  quanto  nell'atnore  e  nell'onore  del  suo 
sciagurato  marito.  Lelio,  stando  all'osteria,  pretende 
che  il  suo  padre  Mcnego  gli  mantenga  i  suoi  vizi: 
tra  i  gondolieri  sorge  una  baruffa:  egli  vi  s'intrica, 
e  i  gondolieri,  avvinazzati,  l'uccidono.  Presente  al 
tremendo  fato  del  suo  compagno  è  il  misero  Pasqua- 
lino. Innanzi  a  quel  cadavere  ò  preso  da  rimorso  e 
da  compassione  di  quel  tristo  e  di  sé  medesimo. 
Corre  alla  sua  moglie  che  l'accoglie  come  l'angelo 
accoglie  il  pentito.  Ella  che  gli  ha  sempre  perdo- 
nato, ora  gì'  implora  il  perdono  dal  padre,  in  ginoc- 
chio piangendo  e  mostrando  dall'un  lato  Pasqualino, 
dall'  altro  il  pargolo  innocente.  E  il  buon  vecchio, 
piangendo,  perdona. 

XXVL 

Eccovi  cotesto  poema  popolare  dove  una  varietà 
continua  di  avvenimenti  e  di  scene  danno  fedele 
ritratto  degli  uomini  e  dei  costumi  del  tempo. 
La  strada  ,  il  canale  ,  la  povera  casa  di  Betina  , 
povera  ma  pur  consolata  dalla  virtiì;  la  casa  della 
marchesa,  a  cui  battono  e  Scanna  usuraio  e  ruf- 
fiani e  creditori;  la  porta  del  teatro  ove  accoirono 
le  vivaci  maschere  ,  e  la  tana  dell'  ostei'ia  dove  il 
vizio  in  ogni  tempo  s'accoscia;  tutti  questi  luoghi 
passano  avanti  agli  occhi  dolio  spettatore  senza  in- 


il 

ceppare  lo  sciolto  andamento  e  il  facile  sviluppo  del- 
l'azione. I  sicari,  i  tagliacantoni,  i  histrissimi  co  la 
panica  de  sluco  e  i  loquaci  gondolieri  vi  figurano  na- 
turalmente e  sono  connessi  all'andamento  del  dram- 
ma, che  non  paiono  messi  là  per  intarsio.  La  virtù 
appare  bella,  il  vizio  deforme,  senza  che  si  sforzino 
a  farli  così  comparire  le  smorfie,  le  declamazioni, 
le  grida,  le  spettacolose  circostanze.  E  se  pure  Retina 
non  vincesse  ogni  cosa,  tutte  le  donne  gentili,  non 
che  le  popolane,  vorrebbero  essere  la  cara,  l'amore- 
vole, la  generosa  Betina.  Oh  com'è  bello  il  soliloquio 
nell'atto  terzo  della  Buona  moglie^  ov'ella  rimpiange 
la  sua  fanciullezza  !  Altri  traduca  queste  gentili  e 
tenere  parole  dettale  nel  dialetto  nativo;  io  per  me 
non  posso  che  trascriverle  com'elle  sono,  per  paura 
di  velarne  la  grazia  e  toglierne  la  freschezza.  Co 
me  ricordo  co  giera  viva  mia  mare,  povarela  ,  che 
ani  che  giera  quelil  Che  spasso  che  gaveva  sa  queìVal- 
tana  !  No  vedeva  V  ora  rf'  aver  fenìo  la  mia  lasca 
per  andarme  a  sollazzar  !  La  festa  che  gusto  che 
gaveva  a  ziogar  a  la  semmola,  a  ziogar  a  le  scon- 
dariole  !  Con  che  gusto  che  baiava  quele  furlane  \ 
Adesso,  liolè,  son  qua  povarela,  abandonada  da  tuli  l 
El  mario  no  me  voi  più  bene,  el  missier  non  me  vien 
più  a  trovar,  me  deslruzzo  in  lagreme  e  no  ghe  nes- 
sun che  me  compatissa  !  Alla  bella  creazione  di  questa 
Betina  dovette  l'autore  il  trionfo  dell'opera  sua.  Egli 
però  modestamente  ne  dà  merito  ai  gondolieri.  Co- 
storo aveano  diritto  di  entrare  nella  sala  degli  spet- 
tacoli quando  la  platea  non  era  piena,  e  portavan 
ira  al  Goldoni  che  chiamava  gran  gente,  ond'  essi 
passavano  la  notte  al  sereno.  Per  farli  contenti  Carlo 


42 

chiese  ed  ottenne  che  loro  si  lasciasse  luogo  nella 
platea,  perchè  vedessero  so  stessi  nei  loro  cosliiini 
e  si  meravigliassero  dell'esser  posti  nei  palchi  ove 
per  solito  passeggiavano  eroi  coronati,  e  applaudis- 
sero a  quelle  parole  e  a  quegli  atti  che  tutto  giorno 
diceano  e  faceano  ,  senza  pensare  che  un  bizzarro 
poeta  li  avrebbe  creduti  degni  d'essere  così  fedel- 
mente imitati.  Pantalone  apparisce  un  padre  amo- 
l'oso  e  severo  quanto  glie  ne  consentono  la  ragione 
ed  il  cuore.  L'allettamento  dei  vizi  non  ha  in  guisa 
mutato  il  cuore  di  Pasqualino  ,  ch'egli  non  ricordi 
la  soggezione  dovuta  al  padre  e  il  buono  e  modesto 
suo  vivere  antico.  Una  circostanza  condotta  al  na- 
turale serve  a  spiegare  i  due  caratteri.  Pantalone 
corre  all'osteria  per  cogliervi  all'  improvviso  suo  fi- 
glio: questi  s'è  nascosto  per  paura  sotto  d'un  tavolino. 
Precede  una  scena  comica,  in  cui  Arlecchino,  com- 
pagnone, pur  tradisce  l'amico  e  mostra  al  vecchio 
il  nascondiglio.  Il  vecchio  va,  furioso,  per  iscoprire 
il  tappeto:  poi,  ripensando,  si  calma  e  pianamente 
lo  apre.  Pasqualino  tutto  confuso  si  leva  ,  fa  una 
impacciata  riverenza ,  vuol  prendere  il  suo  tabarro 
e  partire.  Ma  il  padre  lo  ferma,  e  con  una  eloquenza 
che  va  al  cuore  ,  lo  rimprovera  ,  lo  persuade  ,  lo 
intenerisce  e  lo  fa  cadere  ai  suoi  piedi.  {Buona  mo- 
glie a.  Jl.  s.  3.)  Anche  una  scena  sola  basta  a  far 
conoscere  la  fiacchezza  di  Pasqualino,  la  perversità 
di  Lelio  e  la  dolcezza  dell'  amor  di  Betina  ,  ed  è 
quando  ella  ha  tolto  il  pugnale  dalle  mani  dell'in- 
cauto marito.  Cosi  le  fidanzate  della  campagna  ro- 
mana ,  peritose  che  i  loro  amanti  sieno  troppo 
corrivi  alle  risse,  si  fan  poigei-e  per  primo  dono  il 


43 

coltello  ,  sul  quale  incidono  un  motto  che  rieoidi 
il  primo  giorno  di  amore.  Retina  ha  dunque  tolto 
il  pu^gnale  ed  è  quasi  al  punto  di  ricondurre  a  casa 
il  marito.  Mentre  pacificati  si  abbracciano,  soprag- 
giunge Lelio,  il  quale  chiamando  ramico  schiavo  di 
donna,  Io  schernisce  e  lo  incita  a  sciogliersi  di  quelle 
braccia,  e  così,  soffiandogli  nelle  orecchie,  seco  lo 
trasporta,  quantunque  a  pi'ieghi  ed  a  grida  s'abban- 
doni la  trafitta  Betina.  (a.  li.  s.  23.)  Ma  la  voce  della 
donna  innocente  giunge  al  cielo,  e  la  morte  coglie 
Lelio  traditore  dell'amico  e  percussore  del  padre. 
Lo  spettacolo  di  sì  tristo  fine  fa  ravvedere  il  giovane 
traviato.  Altri  dirà  forse  che  l'uccisione  d'un  uomo 
non  è  spediente  di  buona  commedia.  Può  essere. 
Ma  se  talor  giova  uscire  di  certe  regole  che  alla 
fin  fine  approdano  poco,  questa  volta  non  si  potea 
meglio  dar  di  cozzo  alla  consuetudine.  Questa,  direi, 
è  pili  che  commedia:  è  vera  rappresentanza  della  vita 
umana.  Quali  parole  ,  quali  esempì  avrebber  fatto 
ripentirò  Pasqualino  ?  Ecco  un  cadavere  :  un  passo 
è  dal  vizio  al  delitto  e  dal  delitto  alla  morte.  Va, 
va  e  potrai  uccidere  od  essere  ucciso  :  tremendo 
baleno  al  pensiero  :  e  Pasqualino  si  pente.  Non  è 
grand'opera  senza  mende:  censori  più  severi  e  sottili 
qui  forse  ne  troveranno  a  ribocco.  Quanto  a  me  , 
le  infinite  bellezze  me  li  fanno  sparire  dagli  occhi; 
ed  io  perdono  a  qualche  inverosimile  della  condot- 
ta ,  a  qualche  volgarità  di  azione  e  di  parole,  in 
grazia  della  bella  dipintura  dei  costumi  e  dei  ca- 
ratteri e  della  moralità  dell'azione,  pili  eh'  io  non 
mi  pieghi  a  perdonare  per  dialoghi  politi  e  piallali 


u 

i  mostruosi  e  famosi  quadri  drammatici  che  ho 
spesso  veduto  oggidì.  È  fama  che  alla  veduta  della 
scena,  dove  Pasqualino  è  trovato  dal  padre  nascoso 
nella  bettola  ed  amorosamente  richiamato  all'  os- 
servanza del  suo  dovere,  un  giovane  traviato  tor- 
nasse in  grembo  della  propria  fVmiiglia.  Ella  è  cosa 
credibile  chi  guardi  alla  naturalezza  onde  quel  fatto 
si  vede  come  fosse  vero  :  né  può  negarsi  che  questa 
fosse  la  più  bella  lode  della  commedia  e  il  più  dolce 
premio  che  potesse  raccogliere  da  essa  l'autore. 

XXVII. 

Il  poeta  nostro  nella  lingua  fu  incolto  :  vero  e 
naturale  e  bollo  ,  come  s' addice  a  commedia  ,  fu 
nello  stile.  Al  che  se  avessero  posto  mente  e  il 
Baretti  e  i  grammatici,  che  vennero  dopo,  avreb- 
bero schivato  r  intrigarsi  in  tante  dicerìe.  Imperoc- 
ché ,  se  gran  pregio  é  un  dialogo  semplice  ,  viva- 
ce ,  proprio  ,  breve  ,  scorrevole  ,  arguto  ,  certa- 
mente egli  ebbe  tal  pregio.  Non  vedo  poi  eh'  egli 
potesse  agevolmente  imparare  questo  artificio  dagli 
scrittori  comici  del  cinquecento  e  del  seicento  , 
tranne  forse  dall'Aretino  e  dal  Caro.  Né  vorrei  af- 
fermare ch'ei  lo  imparasse  dai  francesi.  Quegli  che 
indagava  e  ritraeva  la  natura  nei  caratteri  ,  nelle 
circostanze,  nell'ordine  degli  avvenimenti,  potea 
bene  osseivarla  e  coglierla  nei  modi  spontanei,  onde 
essa  per  via  della  favella  si  disvela  nell'umano  con- 
sorzio. Né  alcuno  mi  negherà  che  a  questo  non 
avesse  ingegno  capace.  Ma  i  contrari  aggiungono  : 
ebbe  modi  di  dire  curialeschi,  infranciosati  e  peggio. 


45 

E  sia  pure.  Ma  ditemi,  chi  fu  tra  noi,  tranne  Danto, 
che  seppe  sì  perfettamente  imitare  il  linguaggio  de- 
gli uomini,  non  in  quella  certa  maniera  stabilita,  che 
direi  d'artificio  e  non  d'arte,  ma  in  quella  che  anco 
nelle  forme  esterne  riliagge  la  interiore  natura  del- 
l'uomo ?  Chi  v'ha  fra  i  più  eleganti  scrittori  co- 
mici nostri,  se  vero  scrittore  comico  abbiamo  fuori 
di  questo,  chi  v'ha  che  nella  stessa  giacitura  e  col- 
locazione delle  parole  faccia  indovinare  l'ambizioso, 
il  collerico,  l'impazienlc,  il  flemmatico  e  le  altre  infi- 
nite e  luci  e  ombre  e  colori  e  mezzi  colori  della  varia 
indole  nostra  ?  Certo  nessuno  :  perchè  nessun'  altro 
ebbe,  come  lui,  facoltà  di  penetrare  nell'interno  del 
cuore  altrui,  e  tenace  memoria  da  ricordare,  e  spon- 
tanea vena  da  esprimere  ogni  minima  gradazione 
del  carattere  umano.  E  ch'egli  avesse  facilità  d'in- 
tendere e  sapienza  di  cogliere  dal  vivo  linguaggio 
quanto  è  atto  a  esprimere  ogni  movimento  ed  af- 
fetto specialmente  ridicolo,  ne  abbiamo  prova  nelle 
commedie  da  lui  scritte  nel  dialetto  veneziano,  il 
quale  è  da  lui  adoperato  a  quel  modo,  che  scoccando 
dalla  bocca,  a  primo  tratto  precisa  1'  interna  atfe- 
zione  altrui.  Che  s'egli  non  fu  puro  ed  elegante  nel 
linguaggio  italico,  molte  cagioni  gli  si  opposero:  e 
prima  di  tutto  l'esser  nato  piuttosto  nelle  lagune  che 
nella  gentile  Firenze  o  in  altra  parte  dove  Ja  favella 
avesse  più  del  toscano,  e  il  dovere  in  certa  guisa  tra- 
durre le  sue  idee  dalla  maniera  onde  gli  sorgevano  in 
mente,  facili  e  scolpite  e  aggraziate,  nella  favella  con 
cui  non  avea  completa  famigliarità.  Si  sa  bene  quanto 
la  lingua  aiuti  le  idee  :  e  se  c'immaginiamo  il  lavoro 
che  il  pensiero  fa  mentre  scompone,  scolorisce,  ri- 


46 
tarda  la  frase  straniera  per  poi  riconnelterla,  inca- 
lorarla,  accelerarla  nel  linguaggio  in  cui  la  dee  tra- 
passare ;  ci  sarà  presto  l'intendere  come  in  questo 
lavorìo  perdesse  di  freschezza,  di  calore,  di  vivacità 
la  frase  veneziana  passata  a  fatica  nel  linguaggio 
della  nazione.  Oltre  a  questo  gli  nocque  il  secolo 
che  mal  parlava  e  peggio  scriveva  :  da  che  verso 
quel  tempo  era  pur  venutaci  una  smania  di  buon 
linguaggio;  ma  chi  volea  purgarlo  dell'ampolloso  e 
del  barbai'ico,  a  forza  di  regole  lo  rendea  freddo  , 
timido  e  snervato.  Quindi  sì  per  la  corruzione  di 
esso  linguaggio,  come  per  la  condizione  delie  lettere, 
che  avrebbon  dovuto,  risalendo  ai  principi,  dirug- 
ginarlo ;  chiunque  non  ne  avesse  fatto  studio  spe- 
ciale, avea  tra  mano  cattiva  materia,  e  tale  era  co- 
stretto adoperare.  Né  con  questo  io  voglio  dire  che 
l'autore  comico  debba  spacciarsi  d'ogni  studio  della 
lingua  patria  e  lasciarsi  andare  alla  sola  attenta 
osservazione  del  buono  o  cattivo  scrivere  o  par- 
lare che  usa  nel  suo  secolo.  Imperocché  io  consideri 
la  comica  un'  arte  come  tutte  le  altre,  e  non  una 
copia  ignuda  del  vero  :  quindi  come  arte  deve  ri- 
cercare e  scegliere  tra  i  moltiplici  elementi,  e  idea- 
lizzare alcun  poco  ,  tanto  nella  composizione  del 
soggetto,  quanto  nella  espressione  delle  figure  che 
lo  compongono.  E  perciò  la  lingua  umana  deve 
avere  anco  la  sua  parte  in  questo  ideale,  acciocché, 
come  l'oggetto  idealizzato  mirando  a  più  alto  segno 
può  aggiungere  lo  scopo  di  migliorare  altrui  mez- 
zanamente ;  così  la  favella  meglio  e  più  riccamente 
adoperata  si  sparge  e  s'insinua  nelle  moltitudini,  e 
la  ricchezza  letteraria  muta  a  mano  a  mano  in  pò- 


47 
popolare  dovizia.  Non  per  tanto  giova  tenere  poi- 
fermo  ,  che  se  ogni  altro  scrittore  è  più  tenuto  a 
curar  la  bellezza  del  linguaggio  ,  certamente  v' è 
meno  obbligato  io  scrittore  comico,  a  cui  può  ba- 
stare di  esprimere  gli  affetti  e  il  ridicolo  nel  modo 
che  usa  comunemente  ,  senza  affaticarsi  a  cercar 
troppo  se  sia  di  buono  o  di  mal  conio:  specialmente 
se  pensi  che  talora  una  espressione  comune,  quantun- 
que non  sia  bellissima,  dà  meglio  viva  l'idea  e  me- 
glio risponde  alla  intelligenza  della  moltitudine,  che 
qualsivoglia  piiì  leggiadia  e  pura  fiase  rimenata  dal 
buratto  e  pescala  tra  le  delizie  archeologiche  degli 
ascetici  del  mille  e  trecento.    , 

XXVlll. 

Ma  la  sua  perfezione  in  questa  parte  fu  avver- 
sata da  quell'antica  diffìcollà,  ch'ebbe,  ha,  ed  avrà  in 
Italia  chiunque  scriva  commedie.  In  Italia  una  è  la 
lingua,  ma  variati  i  dialetti-  E  come  questa  unilà 
di  lingua  è  il  legame  e  il  simbolo  della  nazione,  così 
i  dialetti  diversi  ne  dimostrano  le  scissure.  Le  quali 
si  veggono  pili  forti  dove  sono  piiì  difiTerenti  i  dia- 
letti: imperocché  la  dissonanza  delle  lingue  sia  quella 
che  dimostra  la  dissonanza  delle  anime,  da  che  la 
favella  è,  per  dir  così,  tutto  l'uomo,  e  come  l'unità 
del  vocabolo  conserta  in  uno  il  sentimento  di  mille, 
così  la  varietà  divide  e  disaccorda  il  sentimento  di 
dieci.  E  più  appresso  di  noi  che  di  nessun'  altro 
popolo  furono  tenacemente  usati  i  dialetti,  perchè 
in  nessun'altro  paese  del  mondo  angoli  di  terra  die- 
dero sì  grandi  slati  rispetto  almeno  alla  civiltà,  e 


48 
nessun  fiancesc  trasse  più  gloria  dal  chiamarsi  o 
normanno  o  piccardo  o  provenzale  piuttosto  che 
francese  ,  come  potean  essere  superbi  gli  abitatori 
delle  nostre  provincie  di  chiamarsi  ,  piuttosto  che 
italiani,  genovesi  o  fiorentini  o  veneziani  o  siciliani. 
Ma  comunque  si  fosse  ,  egli  è  da  considerare  che 
la  lingua  nostra,  la  quale  pur  vive  e  corre  per  tutte 
le  bocche  del  popolo  italiano,  ebbe  pulimento,  leg- 
giadria, decoro  e  maestà  presso  la  gente  fiorentina. 
Questa  (secondo  che  ne  dice  il  Foscolo)  la  quale  più 
si  assomigliò  alla  gente  ateniese,  trapassando  quasi 
a  un  punto  dalla  barbarie  alla  civiltà,  in  sé  riunì 
nella  età  medesima  sì  il  criterio  come  le  passioni, 
le  quali  sogliono  dispaiarsi  e  preponderare  secondo 
le  differenti  età  negli  uomini,  nei  popoli  e  nelle  lin- 
gue: e  coronando  ad  un  tempo  la  virtù  ed  esilian- 
dola, trucidando  tiranni,  debellando  nemici  e  dando 
norme  di  arti  e  di  giustizia,  dovea  nelle  varie  vicende 
di  gloria,  di  dolore  e  di  prosperità  esercitare  levarle 
nature  dei  cuori  e  degl'  ingegni;  per  le  quali  cose  na- 
turalmente la  lingua  prendea  suoni  confacenti  e  all'in- 
dole del  forte,  e  alla  prudenza  del  savio,  e  alla  pre- 
cisione del  legislatore,  al  colorito  e  al  disegno  e  alla 
musica  surgenli  dall'entusiasmo  d'un  popolo  giovane. 
La  ricca  e  originale  letteratura  che  ne  nacque,  per- 
sonificata nei  grandi  scrittori,  quali  furono  e  il  Ca- 
valcanti e  il  Compagni  p  l'Alighieri  e  il  Petrarca  e 
il  Boccaccio,  si  diffuse  prestamente  nelle  altre  pro- 
vincie italiane,  e  diede  ai  dialetti  popolari  una  parte 
della  sua  virile  e  leggiadra  veste,  e  li  mutò  via  via 
in  quella  lingua  più  universale,  che  dicesi  letteraria, 
con  iscambio  continuo  di  parole,  di  frasi,  di  colori, 


49 

d' idee.  Nella  qual  cosa,  oltre  1'  utile  che  avemtno 
d'  una  lingua  letteraria  precisa  e  meno  soggetta  a 
mutazioni  ,  e  quindi  usata  ed  intesa  sempre  insino 
noi  per  cinque  secoli  intieri;  si  ebbe  pur  quello  che 
ciascuno  scrittore  di  ciascuna  provincia  vi  mise  di 
ciò  che  gli  dava  V  indole  del  proprio  dialetto  quanto 
poteva  acconsentire  quella  stessa  lingua  letteraria 
adottata  e  oramai  succhiala  quasi  col  latte  nelle  pub- 
bliche scuole.  Quindi  furono  copiosi  e  coloristi  i  na- 
politani; eleganti  e  aggraziati  i  veneziani;  severi  e 
parchi  i  romani;  robusti  e  duri  alquanto  i  piemon- 
tesi, secondo  che  può  vedersi  per  esempio  nel  Tasso, 
nel  Bembo,  nell'Alfieri,  nel  Leopardi:  onde  anco  nelle 
lettere  la  Italia  dal  delicato  e  amoroso  trapassa  tem- 
peratamente nel  robusto  e  quasi  selvaggio,  come  la 
sua  terra  dalle  valli  fiorite  per  molte  gradazioni 
giunge  alla  grandezza  selvatica  dell' Apennino.  Ma 
questo  che  approdava  alla  lingua  letteraria  destinata 
a  cadere  come  spillo  di  acqua  che  casca  in  istille 
e  in  rugiada  a  fecondare  il  campo  d' intorno,  non 
era  bastante  alla  lingua  della  commedia  e  alla  com- 
media stessa.  La  quale  ha  bisogno  d' essere  ali- 
mentata e  ringiovanita  da  quanto  è  piij  puro,  pili 
natio,  più  espressivo  nei  dialetti  popolari,  vivi,  spi- 
gliati e  caldi,  e  non  dalle  fredde  e  magistrali  e  ret- 
loriche  diciture:  che  pur  sarebbero  meno  glaciali  se 
i  letterali  rinfrescassero  la  favella  imparata  sui  libri 
nella  viva  e  parlata,  ritraendo  dalle  fonti  incorrotte 
e  perenni  del  popolo.  Egli  è  certo  che  se  gli  scrit- 
tori si  fossero  persuasi  che  il  volgare  fiorentino  non 
può  dirsi  propriamente  dialetto,  ma  quello  che  gli 
sparsi  dialetti  d' Italia  in  sé  riunisce  e  ritempra  ed 
G.A.T.CLXV.  4 


50 
abbella;  se  i  non  toscani  avessero  stimato  che  per 
iscrivere  commedia  era  necessario  bere  alle  fonti  to- 
scane; e  i  toscani  avessero  creduto  conveniente  di 
correre  le  altre  provincie  italiane  per  conoscere  quan- 
to in  quelle  di  toscano  non  fosse  inteso;  forse  forse 
si  avrebbe  in  ultimo  avuto  un  linguaggio  comico 
sempre  fresco  e  vegeto  e  qual  vuole  la  sciolta  vi- 
vacità della  festevole  musa.  Ma  invece  fu  tutt'allro: 
anzi  tenendosi  i  dialetti  come  piiì  adatti  all'allegro  e 
al  ridicolo,  si  veniva  parlandoli  nel  teatro,  o  alcune 
volte  i  più  goffi,  così  come  a  qualche  famoso  comico 
veniva  in  talento.  11  che  però  da  principio  parve  scu- 
sato da  una  certa  necessità:  da  che  i  drammi  e  le 
commedie  erano  destinate  ai  piaceri  delle  singole  città 
e  non  uscivano  fuori  di  esse,  e  però  raggiungevano 
meglio  lo  scopo  quanto  più  fedelmente  ritraevano 
anche  nel  linguaggio  i  costumi  e  l'indole  di  ciascuna. 
In  appresso  peiò  che  più  s'accomunarono  le  dovizie 
letterarie,  non  avea  più  valore  questa  sembianza  di 
scusa:  e  finché  gli  accademici  Rozzi  e  Intronali  diSiena 
(diconsi  fondali  verso  il  1450  da  Enea  Silvio  Piccolo- 
mini  che  fu  poi  Pio  II  pontefice)  dieron  voga  al  dialetto 
sanese  ,  potea  chiamars  l'Italia  fortunatissima.  Ma 
che  diremo  ricordandoci  dell'amore  costante  di  Ales- 
sandro Piccolomini  poi  vescovo  di  Siena,  produzione 
data  al  piacere  di  Carlo  V  che  passò  per  quella  città 
nel  1536,  dove  il  prologo  è  un  dialogo  in  italiano 
e  spagnuolo,  e  nel  corpo  dell'opera  è  adoperata  la 
lingua  castìgliana  e  la  tedesca,  e  i  volgari  sanese  e 
napolitano  ?  Vera  immagine  dell'impero  dell'ambi- 
zioso fiammingo.  Che  diremo  quando  Angelo  Beolco, 
detto  il  Ruzzante  padovano  e  Roselo  moderno,  scrisse 
commedie  ove  gli  attori  parlavano  e  il  bolognese  e 


51 

il  veneziano  e  il  bergamasco  e  il  contadinesco  di  Pa- 
dova e  il  fiorentino  e  la  greca  vivente  ?  Vera  torre 
di  Babele.  Le  maschere  in  appresso  crebbero  cotesto 
vezzo,  tanto  più  che  quasi  del  tutto  affogarono  la 
commedia  scritta.  Le  compagnie  comiche,  composte 
nella  maggior  parte  di  gente  raccolta  dalle  varie 
Provincie,  più  che  mai  diedero  spinta  alla  confusione 
delle  lingue  e  alla  barbarie  italiana:  da  che  messa 
da  canto  la  commedia  scritta  ciascun'attore  creando 
di  se  stesso  un  fantoccio  balzano,  parlava  all'  im- 
provviso il  proprio  volgare,  o  bene  o  male,  basta  che 
facesse  ridere  il  facile  volgo. 

XXIX. 

intanto  che  il  Goldoni  si  godeva  gli  applausi  po- 
polari, una  turba  di  nemici  gli  mosse  accanite  guerre, 
le  quali  pur  valsero  finalmente  a  farlo  peregrinare 
in  terra  straniera.  Se  l' ira  gli  si  fosse  accesa  contro 
per  cagione  delle  maschere  e  della  commedia  del- 
l'arte da  lui  combattute;  ella  si  vorrebbe  un  poco 
scusare  in  grazia  della  nazionalità  portata  innanzi 
dai  fautori  di  esse.  Ma  la  guerra  a  lui  mossa  nacque 
di  bassa  invidia.  Nelle  prime  prove  de'novelli  scrittori 
si  vede  ciò  che  interviene  alla  giovinezza  dell'uomr 
accarezzata  e  quasi  incoraggiata  alla  vita.  Il  primo 
e  il  secondo  saggio  d'un  ingegno  che  nasce,  si  ap- 
plaudisce come  cosa  che  non  avrà  durata,  anzi  vuol 
brillare  e  morire  come  stella  cadente.  Ma  quando 
costui  chiede  il  seggio  che  gli  conviene  ,  allora  si 
suona  all'arme  e  si  addita  il  superbo,  e  la  turba  gli 
grida  :  Scendi,  sgombra,  che  quello  non  è  loco  da 


52 

le.  E  questo  toccava  in  sorte  al  Goldoni:  che  non 
uscito  ancora  di  pupillo  e  stretto  all'antica  comme- 
dia, ebbe  critiche  man  severe  e  libelli  più  amore- 
voli che  satirici.  Ma  poi  che  si  sciolse  della  briglia, 
allora  si  levò  un  remolino  di  ehiacchere:  e  qua'  ca- 
pocchi che  aveano  insino  allora  sbarrato  gli  occhi 
ai  lazzi  d'Arlecchino,  parvero  cattedre  donde  «i  spac- 
ciavano i  nomi  dì  Aristotile,  di  Orazio,  del  Castel- 
vetro  e  persino  del  Crescimbeni,  e  si  cicalava  a  dritto 
e  a  rovescio  di  unità,  di  regole  e  d'altro,  come  aves- 
sero di  ciò  meditato  sin  dal  tempo  che  la  balia  dava 
loro  la  poppa.  Allora  uscirono  libelli  critici  ;  e  la 
piazzetta  di  san  Marco  risonava  de'  nomi  strani  di 
protagonista  e  ài  protasi  in  luogo  del  mare,  del  ven- 
to, del  commercio,  del  turco.  La  critica  è  necessa- 
ria e  buona  perchè  1'  arte  cammini  :  ella  fa  talora 
come  r  acciaio  battuto  nel  selce  :  ne  fa  scaturire 
scintille.  Trista  e  contraria  all'officio  suo  se  ella  pre- 
sume e  sfregia,  anzi  che  giudicare  e  pungere:  infame 
se  amareggia  la  vita  del  sapiente  mutando  sé  stessa 
in  satira  e  procace  calunnia.  Alla  Vedova  scaltra  del 
Goldoni  si  contrappose  a'  san  Samuele  la  Scuola  delle 
vedove,  la  quale  non  fu  dramma,  ma  invettiva  aperta 
contro  di  lui  che  si  degnò  rispondere  col  Prologo 
apologetico.  Laonde  i  magistrati  avvertirono  il  no- 
cumento che  può  recare  la  licenza  degli  spettacoli: 
e  colà  dove  prima  il  solo  magistrato  degli  esecutori 
contro  la  bestemmia  mezzo  vegliava  sulle  rappre- 
sentazioni teatrali,  fu  creata  una  censura  che  meglio 
difendesse  la  decenza  pubblica  e  l'onore  delle  pri- 
vate persone.  Intanto  il  favore  popolare  si  spartiva 
tra  due  uomini  diversi,  cioè  tra  il  nostro  e  Pietro 


53 
Chiari.  Emulazione  ed  ira:  clamori  e  baruffe:  nelle 
quali  spicca  bizzarraoìente  il  nome  di  Jacopo  Ca- 
sanova celebre  ciurmatore  di  mente  acutissima,  il 
quale  nel  luglio  del  1755,  per  aver  fischiato  troppo 
sonoramente  il  Chiari,  venia  messo  nei  piombi  (donde 
poi  fuggì  quasi  volando)  come  perturbatore  della 
pubblica  quiete. 

XXX. 

La  luce  dell'ingegno  splende  ne'secoli  avvenire. 
Oblìo  ricuopre  i  nomi  di  quelli  che  tentarono  di 
oscurarla.  Né  io  cercherò  questi  nomi,  né  trovandoli 
li  ricorderò.  Bensì  m'è  forte  che  uomini  valenti  si 
mescolassero  alla  torma ,  la  quale  accaneggiava  lo 
spedito  viandante.  Nulla  m'importa  di  Pietro  Chiari, 
romanziere  e  scrittore  di  commedie,  che  nella  mise- 
ria si  pavoneggiava  col  mantello  di  seta  e  turava  le 
oiecchie  ai  sibili  coi  ricci  della  parrucca,  lìgli  si  tenga 
della  sua  fama  che  non  trapassò  dieci  anni.  F*erò  mi 
duole  di  Carlo  Gozzi  e  di  Giusej)pe  Baretti,  buoni  in- 
telletti ma  loschi  e  superbi.  II  Barelli  sortiva  ingegno 
pronto  e  sagace:  laonde  io  penso  che  vedesse,  ma  non 
volesse  confessare  nel  Goldoni  una  novella  gloria  ita- 
liana. L'astio  ammantò  con  la  giusta  censura  della 
lingua  mal  conosciuta  e  peggio  adoperata  dal  Vene- 
ziano. Gli  fecero  eco  quanti  pedanti  furono,  sono  e  sa- 
ranno, che  per  lo  zelo  infiammato  di  questa  lingua 
manderebbero  a  dar  calci  al  rovaio  e  un  Colombo  e 
un  Galileo, se  questi  avesse  dettato  le  sue  scoperte  alla 
peggio,  e  quegli  avesse  avuto  bisogno  di  ciarle  per 
iscoprire  un  mondo.  Egli  è   vero  che  non  ha  valore 


54 

anche  un  profondo  e  nuovo  pensiero  senza  lo  siile 
che  lo  dia  schietto  ai  vivi  ed  ai  nascituri:  e  questo 
è  più  necessario  per  quelle  cose,  in  cui  l'utile  non 
pare  a  prima  vista  o  sembra  pili  lontano:  e  perciò 
vi  si  chiede  più  aperta  e  immediata  bellezza.  Per 
tanto  alcuno  potrebbe  forse  dar  biasimo  al  Barelli 
che  sì  fieramente  addentasse  il  Beccaria  e  il  Verri 
spargitori  di  verità, le  quali, anco  rozzamente  rivelale, 
pur  non  cessano  dal  giovare  al  mondo:  per  contrario 
lodarlo  che  avversasse  il  Goldoni  ,  il  quale  avendo 
a  trattare  cosa  del  tutto  artistica,  non  la  compieva 
come  si  conviene,  non  dico  con  l'ornamento,  ma  con 
la  necessità  dello  stile  e  della  lingua.  A  costui  ri- 
spondo, che  rispetto  ai  primi  io  non  iscuso  né  il 
Barelli  nò  loro.  Il  Barelli  dovea  inchinarsi  al  pen- 
siero sapiente,  ancora  che  non  facesse  sagrifizio  alle 
grazie  :  di  quelli  ammiro  altamente  l'ingegno  e  le 
opere  ,  ma  li  chiamo  in  colpa  di  non  aver  fidato 
nella  lingua  nostra,  com'ella  non  avesse  bastato  e 
non  basti  a  quanti  nuovi  e  pellegrini  concetti  sieno 
usciti  e  possano  uscire  di  mente  umana.  Questo  era 
dimostralo  in  quei  tempi  medesimi  da  Francesco 
Maria  Zanotti  nella  filosofìa  e  da  Ferdinando  (ialiani 
nella  scienza  economica,  clie  si  slimava  dagl'imperiti 
sbocciata  allora  allora  tanto  che  paresse  necessario 
ricorrere  alla  sognata  abbondanza  dei  linguaggi  stra- 
nieri. A  chi  poi  non  riprendesse  il  Barelli  di  aver  fru- 
stato sì  fieramente  il  Goldoni,  in  prima  io  dirò  che  sa- 
rebbe da  vedere  se  lo  stile  di  questo  (e  passi  la  lingua) 
non  convenisse  da  vero  alla  sua  opera  :  in  secondo 
luogo,  che  quello  era  il  caso  in  cui  le  infinite  ric- 
chezze della  natura  e  dell'arte  possedute  dal  Vene- 


55 

xìano  doveano  scusarlo  del  minore  difetto,  special- 
mente in  un  secolo  che  per  certo  non  iscriveva  con 
eleganza  e  purezza.  Del  rimanente  l'Aristarco,  chia- 
mato dal  Monti  accetta  rozza  che  fa  netto  e  sicuro 
il  taglio,  nel  numero  dodicesimo  del  suo  Giornale 
mise  in  un  fascio  il  Goldoni  con  i  poeti  marineschi, 
petrarcheschi,  arcadici  e  ossianeschi,  e  portò  l'ira 
più  oltre  che  non  conviene  a  cortese  nemico,  per- 
seguitando l'avversario  che  per  lontananza  non  potea 
più  difendere  sé  stesso.  Di  fatti  il  primo  foglio  della 
Frusta  segna  ottobre  del  1763,  e  il  Goldoni  s'era 
già  da  qualche  anno  innanzi  partito  di  Venezia.  Né  si 
possono  leggere  senza  fremito  di  sdegno  i  fogli  XIF, 
XIV,  XVII,  XXI,  XXII,  dove  fra  ingiuriosi  sarcasmi, 
egli  mette  la  musa  di  Carlo  a  paragone  di  quella  onde 
s'  ispirarono  un  Chiari,  un  Vicini  e  il  P'rugoni.  Sa- 
rebbe come  porre  a  riscontro  d'  una  vista  di  vera 
campagna  o  d'  una  festa  villereccia  gli  stupidi  pro- 
spetti d'una  lanterna  magica  o  le  ridda  d'un  carne- 
vale cittadinesco.  Né  so  con  che  fronte  potesse  rim- 
proverare al  Goldoni  e  i  Pantaloni  e  i  Dottori  misti 
a  turchi  dotti,  a  inglesi  taciturni,  e  a  tedeschi  ubriachi, 
egli  che  levava  a  cielo  Carlo  Gozzi  che  s'  affannava 
a  riportare  il  popolo,  da  lui  detto  incolto,  a  rimbam- 
bolire  con  le  favole  del  Serpente,  del  Corvo  e  delle 
Tre  melarance. 

XXXI. 

Molti  hanno  inteso  parlaie  di  Carlo  Gozzi  sì  come 
di  quello  che  amareggiò  la  vita  del  nostro  Terenzio. 
Pochissimi  hanno  veduto  le  sue  opere  :  da  che,  ces- 
sato il  grido  della  fama  contemporanea,  egli  fu  quasi 


56 
intieramente  dimenticalo.  Una  vaga  memoria  è  ri- 
masta che  lo  dipinge  ardito  ,  immaginoso  ,  dispre- 
giatore d'ogni  regola  dell'arte.  Ad  alcuni  ciò  è  sem- 
brato assai,  e  per  questo  Io  inchinano  :  ad  altri  è 
bastalo  ancora  por  tenerlo  un  pazzo  sicuramente. 
Noi ,  che  non  vediamo  ,  sia  pure  a  nostro  modo  , 
l'arte  né  vagolante  tra  nuvoli  d'idee  metafìsiche,  nò 
ferma  ai  cancelli  della  prigione  fabbricatale  dai  pe- 
dagoghi ;  noi  ci  studieremo  dirne  alla  meglio  il 
nostro  intendimento  così  come  ci  nasce  nel  capo  , 
lasciando  a  chi  vuole  le  dicerìe  gonfie  e  le  incor- 
nature pigmèe.  Carlo  Gozzi  nacque  nel  1722  e  morì 
nel  1806,  e  scrisse  le  memorie  della  sua  vita  col 
titolo  d'inutili.  V'ha  chi  dice  che  non  fu  mai  titolo 
meglio  corrispondente  a  sostanza  di  libro.  Egli  era 
fratello  del  mite  e  sereno  ingegno  di  Gaspare  Gozzi: 
ma  per  contrario  di  natura  torbida  e  inquieta  :  avea 
del  buffone  insieme  e  dello  scaltro.  Die  dentro  alle  liti 
che  minavano  il  patrimonio  avito:  si  mischiò  ne'com- 
medianti,  e  di  Teodora  Ricci  s'  incapò  fare  costu- 
mata donna  e  attrice  valente  :  nò  potè  avere  altro 
se  non  che  ella  fosse  valente.  Poi  si  cacciò  nelle 
brighe  letterarie,  non  so  se  con  piìi  tristizia  o  più 
villania.  Nel  Ragionamento  ingenuo  sopra  lo  sue  fiabe 
parla  dell'opuscolo  sul  Teatro  di  Francesco  Milizia, 
e  approvando  che  fosse  stato  arso  (il  che  non  era 
vero)  giunge  a  dire  che  i  libri  si  fanno  ardere  coi 
loro  scrittori  talora  per  salute  dei  popoli  e  degli  stali. 
Un  tratto  gli  venne  in  uggia  Pietro  Antonio  Gratarol 
segretario  del  Senato,  scimia  di  stranieri  costumi. 
E  perciò  scrisse  le  Droghe  d'amore,  comjnedia  dove 
acutamente  lo  fece  ridicolo,  lì  pover'uomo  bisogna 


57 
che  fosse  proprio  di  buona  pasta.  Fuggì  da  Venezia: 
scrisse  a  Stockolm  una  dichiarazione  apologetica  : 
poi  andò  a  morire  di  rabbia,  lontano  lontano,  nel 
Madagascar.  AI  Gozzi  in  appresso  non  sofferiva  l'ani- 
mo di  veder  grandeggiare  la  fama  di  due  uonjini 
diversi,  cioè  del  Chiaii  e  del  Goldoni.  Pertanto  scrisse 
un  libretto  in  versi  faceti  detto  la  Tarlana  degli  in- 
flussi, nel  quale  cuculiava  ambedue  i  poeti.  Il  Chiari  ri- 
spondeva a  quando  a  quando  ne'sonetti  per  monache 
e  per  nozze:  il  poeta  comico  additava  la  gente  che 
traeva  in  folla  alle  sue  commedie.  Al  Gozzi  uscì 
detto  che  la  folla  non  dimostra  il  pi-egio  dell'opera, 
e  ch'egli  ne  avrebbe  chiamata  altrettanta  con  le 
panzane  che  allettano  al  sonno  i  baìnbini.  E  dal 
Cunto  delli  amie  Irattenimenlo  per  le  piccirielle,  ca- 
pricciosa raccolta  di  favole  scritte  in  dialetto  na- 
politano ,  cavò  fuori  VAmore  delle  tre  melarance  , 
che  mise  in  farnetico  il  teatro  Sant'  Angelo.  Egli 
si  meravigliò  del  successo  maggiore  della  propria 
espettazione  :  e  fatto  un  passo  ,  andò  innanzi  ti- 
rando favole  0  fiabe,  com'egli  diceva,  dalla  Biblio- 
teca de'  Geni,  dalle  novelle  arabe,  persiane,  cinesi: 
insomma  andò  in  capo  al  mondo.  Per  dare  una 
qualche  idea  di  queste  fiabe,  non  mi  fermerò  sulla 
prima,  solamente  tracciata  perchè  libero  fosse  ai 
commedianti  il  parlare  improvviso.  Basti  dire  che 
Truffaldino,  il  quale  rappresenta  la  maschera  italiana, 
la  vince  contro  a  Celio  mago  e  alla  Fata  Morgana 
(vale  a  dire  Goldoni  e  Chiari)  giungendo  a  far  ridere 
il  Re  di  coppe,  che  piìi  non  rideva  ammalinconito 
pei  versi  martelliani  datigli  a  bere  da. un  traditore 
entro  una  certa  medicina    Bensì  mi  fermerò  sopra 


58 
una  favola  tragica  intitolata  il  Corvo,  dove  con  l'ar- 
gomento basato  sul  falso    si    vuol    commuovere  il 
popolo  a  pianto. 

XXXll. 

Jennaro,  fratello  del  re  Millo,  va  in  traccia  d'una 
fanciulla  dalle  ciglia  e  dai  capelli  del  colore  del  cor- 
vo, candida  come  la  pietra  su  cui  moriva  un  corvo: 
sola,  a  seconda  degli  astrologi  ,  che  avesse  potuto 
guarire  il  re  uscito  del  cervello  per  la  gran  colpa 
d'avere  ucciso  un  corvo  fatato-  Cerca  e  ricerca,  gli 
par  proprio  il  fatto  suo  Armilla,  figlia  del  re  No-. 
rando,  e  senza  cerimonie  la  piglia  e  la  porla  via.  II 
re  Norando  è  dotto  nella  negromanzia  e  non  è  uomo 
da  pigliarsela  in  santa  pace.  Già  si  sa  che  giura  ven- 
detta. Avrebbe  fatto  meglio,  essendo  così  bravo,  di 
ripigliarsi  la  figlia  e  farla  finita.  Ma  no,  egli  la  pensa 
altrimenti;  e  subito,  là  ove  i  naviganti  stanchi  del 
fugato  corso  riposano  ,  manda  nientemeno  che  un 
cacciatore  sovra  un  bel  cavallo  tigrato  e  con  un 
falco  di  bellezza  maravigliosa  sul  pugno.  Pantalone 
ammiraglio  se  ne  invaghisce  e  a  caro  prezzo  li  com- 
pra e  ne  fa  tosto  presente  a  Jennaro:  il  quale  gon- 
gola di  gioia  polendo  recare  al  fratello  ,  olire  ad 
una  bellissima  sposa,  un  cavallo  e  un  falco  di  quella 
sorta.  Ma  quando  sonnecchia  sotto  un  albero  ,  due 
colombe  appollaiate  tra  le  fronde,  lamentano  il  fato 
del  misero  Jennaro.  Il  falco,  subito  che  sarà  portato 
innanzi  al  re,  gli  si  avventerà  sul  viso  e  gli  caverà 
gli  occhi:  il  cavallo  se  lo  scolerà  di  dosso  e  spran- 
gandogli calci  l'ucciderà:  ove  si  facciano  le  nozze, 
nella  prima  notte  un  certo  moslro  si  trangugerà  vivo 


59 

vivo  lo  sposo:  in  ultimo  se  Jennaio  non  consegna 
i  doni ,  o  scopra  ad  altri  questi  terribili  segreti  , 
egli  diventerà  di  pietra.  Norando  sopravviene  a  ca- 
valcione d'un  mostro  marino  e  gli  ribadisce  sul  capo 
la  maledetta  profezia.  Ecco  Jennaro  in  tragica  dub- 
biezza: e  voi  potete  figurarvi  con  che  cuore  giun- 
gesse a  corte.  La  reggia  è  in  giolito:  il  re  Millo  gua- 
risce del  pazzo:  Jennaro  solo,  Jennaro  solo,  è  triste 
come  una  giornata  d' inverno  quando  piove.  Però 
non  perde  la  memoria,  anzi  sta  sull'avviso:  e  men- 
tre vengono  consegnati  al  re  il  falcone  e  il  destriero, 
lesto  come  un  gatto,  aggrappa  la  spada  e  al  falco 
la  testa,  al  cavallo  recide  le  gambe.  Il  re  fa  occhi 
pazzi,  e  si  persuade  che  il  fratello  s'adoperi  a  tal  modo 
per  fargli  dispetto,  e  giunge  persino  a  credere  che 
questi  ami  d'amore  la  sua  fidanzata  e  tutto  faccia 
per  istornare  le  nozze  vicine.  Intanto  Jennaro  sup- 
plica in  ginocchio  Armilla  a  far  quanto  può  per  dif- 
ferirle. Ma  l'ode  il  re  che  stava  in  agguato,  e  salta 
fuori,  e  comanda  che  sieno  celebrate  le  sponsali- 
zie  subito,  e  dà  ordine  che  Jennaro  sia  messo  dove 
il  sole  si  vede  a  scacchi.  Questi  però,  non  so  come» 
può  svignarsela  del  carcere:  e  disperato  che  i  pro- 
messi si  abbian  dato  l'anello,  pensa  di  scendere  in 
certi  sotterranei,  che  per  torti  giri  riescono  all'an- 
ticamera regia,  donde  per  certo  dovea  passare  il  dra- 
gone affamato.  Ecco  il  dragone:  e  Jennaro  s'azzuffa 
con  esso,  che  pare  Orlando.  Da  ultimo  cala  un  gran 
fendente,  pel  quale  e  il  mostro  sparisce,  e  la  porta 
della  stanza  regia,  battuta  dalla  spada,  si  spalanca. 
Il  re  tra  l' ignudo  e  il  vestito  salta  fuore,  e  vedendo 
il  fratello  e  le  spadone  sguainato,  crede,  e  chi  non 


60 
1  avrebbe  credulo  ?  che  colui  sia  venuto  per  ammaz- 
zarlo. Jennaro  nuovamente  è  sostenuto  in  carceì-e, 
e  quivi  tanto  prega  che  induce  il  re  di  venirlo  a  vi- 
sitare. Non  gli  resta  che  svelare  il  segreto  del  suo 
fero  destino.  Appena  egli  ha  detto,  che  la  predizione 
si  avvera  ,  e  a  mano  a  mano  egli  diventa  di  pie- 
tra. Millo  piange  a  piò  della  statua,  e  grida  di  vo- 
ler morire.  Norando  ,  il  negromante  vendicativo  , 
gli  apparisce  ,  e  gli  dice  che  solamente  il  sangue 
d'  Armilla  trucidata  potrà  rincarnare  il  fratello,  li 
povero  Millo  vorrebbe  star  cheto,  ma  in  faccia  ad 
Armilla  che  l' interroga,  si  tiene  a  pena:  finché,  dagli 
e  ridagli  ,  si  fa  sfuggire  di  bocca  l'arcano.  Poi  se 
ne  va;  e  qui  non  gli  perdono.  È  cosa  crudele  lasciar 
quivi  sola  la  sposa  già  disperata.  Appunto  ne  av- 
viene che  costei  si  uccide  sotto  la  statua.  11  sangue, 
sprizzando  sulla  pietra,  risuscita  Jennaro,  che  a  sua 
volta  vuol  rimorire  vedendo  moribonda  Armilla,  so- 
pra cui  vuol  cadere  anche  ,  morto  ,  il  marito.  Ma 
questo  chiasso  è  ammorzato  da  Norando  ,  il  quale 
sbuca  di  non  so  dove,  ed  urla  che  tutto  è  finito  per- 
chè (indovinate  perche  ?)  il  corvo,  il  celebre  corvo, 
ucciso  da  Millo,  ha  ripreso  la  vita.  A  tutti  torna  il 
fiato  e  l'allegria,  e  si  recita  la  canzonetta  delle  favolo 
Si  rinnovelhno  le  nozze. 

xxxiir. 

Ecco  il  genere  delle  famose  fiabe.  Da  una  iin- 
para  le  altre.  Nelle  quali  il  Gozzi  mescendo  ridicolo 
e  tragico  feroce  arcano  (com'egli  diceva),  e  prosa  e 
versi,  e  re  e  plebei  e  ogni  cosa,  seguitò  per  qualche 
tempo  sino  a  che  la  sazietà  venuta  nel  popolo,  Io 


61 

portò  a  imitare  e  raffazzonare  a  suo  modo  commedie 
spagnuole,  io  credo  sino  al  1799  che  diede  Annibale 
duca  d'Atene. Intanto  il  Baretti  nel  libro  inglese  con- 
tro il  viaggiatoreSharp  intitolato  ^V Italiani  e  i  costumi 
d'Italia  lo  chiama  il  più  singolare  ingegno  che  sia  nato 
al  mondo  dopo  lo  Shakespeare:  potente  a  creare  ca- 
ratteri che  non  si  veggono  nella  natura  e  pur  sono 
naturalissimi:  grande  nella  invenzione,  nella  purezza 
della  lingua,  nell'ardimento  de'pensìeri,  nella  bellezza 
del  colorito,  nell'intreccio,  negli  scioglimenti:  in 
somma  un  miracolo.  Ma  perchè  pativa  del  bisbetico, 
un'altra  volta  chiamò  le  fiabe  un  mucchio  d'oro  e 
di  fango,  una  tal  quale  poltiglia  di  bene  e  di  male. 
Gli  stranieri,  e  specialmente  gli  alemanni,  Io  levarono 
a  cielo.  Tradussero  le  fiabe  e  le  stamparono  più  volte 
e  le  spiegarono  in  cattedra.  Alcune  furono  voltate 
in  tedesco  dallo  Schiller  e  dal  Goethe,  a  dir  vero  con 
eloquenza  e  poesia  migliore  che  non  sia  nel  testo. 
Appresso  furon  viste  tra  i  più  grandi  lavori  dram- 
matici antichi  e  moderni  nel  teatro  della  corte  di 
Weimar, dove,  durante  la  reggenza  di  Amalia  di  Brun- 
swick e  la  guerra  dei  sette  anni,  conveniva  il  fiore 
dei  letterati  di  quella  nazione.  La  Stael  e  lo  Schlegel 
lo  tengono  più  grande  dell'  Alfieri  :  il  Ginguené  lo 
dice  veramente  italiano:  al  Sismondi  pare  un  tedesco 
sputato.  Andate  a  fidarvi  dei  giudizi  degli  stranieri  ! 
In  Italia  pochi  se  ne  ricordano,  e  v'  ha  taluno  che 
disse  le  sue  favole  buone  per  satire  o  per  tracce  di 
pantomime.  Ultimamente  vi  fu  chi  lo  volle  rialzare 
e  tra  gli  altri  mi  ricorda  del  Maroncelli-  Il  quale, 
cercando  il  nuovo  se  non  altro  nel  disusato,  pone 
l'Adamo  di  Gianbattista  Andreini  tra  le  cose  più  su- 


62 

blimi  che  possa  vantare  la  nostra  letteratura;  e  come 
appella  costui  il  Vico  de'  poeti,  barbaro  e  ignorato 
al  paro  di  lui,  così  loda  altamente  il  Gozzi  e  lo  grida 
creatore  d'  un  nuovo  genere,  e  ingegno  veramente 
singolare,  augurando. il  giorno  che  gli  venga  data  nella 
patria  la  ospitalità  che  insino  ad  ora  gli  venne  con- 
tesa. 

XXXIV. 

Che  Carlo  Gozzi  non  fosse  dotato  d' ingegno  ar- 
dito, immaginoso,  inventivo,  non  è  chi  non  voglia 
affermare.  Ma  prima  di  tutto  gli  nocque  il  basso 
fine  a  cui  mirò.  L'  arte  vuoisi  riguardare  con  alti 
principi,  e  più  sopra  forse  che  la  possa  non  giunga, 
sì  come  lo  scopo  dal  bersagliere  il  quale  sappia  la 
curva  che  suol  delineare  la  palla  scagliata.  Il  cuore 
dà  forza  alla  mente  che  per  esso  vola  piiì  alto.  Per- 
chè il  Gozzi  (nel  volume  XIV  delle  sue  opere  stam- 
pate a  Venezia  nel  1802)  nega  d'  aver  mai  cono- 
sciuto il  Baretti,  io  non  voglio  credere  al  racconto 
della  baruffa  nata  in  una  libreria  tra  il  Gozzi  stesso 
e  il  Goldoni,  onde  V  Italia,  disse  1'  Aristarco,  potè 
menar  vanto  del  suo  più  grande  poeta.  E  lascio  pure 
r  intento  di  voler  mostrare  che  il  popolo  accorro 
anco  alle  fiabe  per  cui  le  balie  addormentano  i  fan- 
ciulli. In  qualunque  modo  di  questo  volea  darsi  prova 
una  volta  sola  :  che  non  conveniva  portare  tanto 
oltre  la  beffa.  Animo  gentile,  che  sa  il  teatro  mezzo 
di  civiltà,  non  adopra  per  giungnere  al  contrario,  né 
accresce  inganni  alla  ignoranza  del  volgo.  Anzi  io 
mi  piego  a  credere  che  non  per  mala  intenzione  di 
abbassare  il  suo   avversario  ,   ma   per  sostenere  la 


63 

commedia  dell'  arte  e  le  maschere  perseguitate  da 
quello  ,  gli  venisse  talento  di  esercitare  il  suo  in- 
gegno. E'  diceva  esser  giusta  cotale  difesa,  prima 
perch'esse  erano  cosa  nazionale  e  piij  conformi  alla 
robusta  indole  nostra,  che  non  fosse  il  nuovo  ge- 
nere venutoci  dalla  sensitiva  delicatezza  dei  francesi: 
in  secondo  luogo  perchè  V  Italia  (sono  sue  parole) 
per  impossibilità  di  premio  alle  belle  lettere,  sarebbe 
stata  sempre  priva  di  scrittori  che  con  lo  studio  delle 
umane  passioni,  con  gli  artificiosi  apparecchi,  con  la 
verità  eia  sana  morale  giungano  a  dirozzare  gV  in- 
telletti sul  teatro.  In  quanto  alla  prima  ragione,  egli, 
tuffato  nel  vecchio,  s' ingannava  a  partito.  La  com- 
media dell'  arte  era  nazionale  come  l' improvvisare 
in  poesia:  meravigliosa  come  questo,  e  non  possibile 
in  altra  terra  fuori  della  nostra  rigogliosa  e  fera- 
cissima. Ma  chi  non  sa  che  la  improvvisa  nuoce 
alla  meditata  poesia  ?  Chi  non  sa  che  dove  fosse 
ancora  la  commedia  dell'arte,  noi  non  avremmo  avuto 
nò.  il  Goldoni,  né  il  Nota,  né  il  Giraud,  né  il  Bon, 
come  non  li  avemmo  nel  seicento  ?  Quando  la  bar- 
barie era  distesa  pel  suolo  italiano,  i  pantomimi  e  i 
mimi,  in  sé  forse  raccogliendo  i  buffoni,  presero  il 
luogo  del  dramma  e  della  commedia,  e  vissero  in 
mezzo  alle  sacre  rappresentazioni:  si  rannicchiarono, 
ma  non  tacquero  allorché  la  coltura  italica  risusci- 
tava r  antico  ,  anzi  che  creare  un  nuovo  teatro  : 
grandeggiarono  un'altra  volta  nel  secolo  diciasset- 
tesimo: ora  sono  confinati  in  piccoli  paesi  e  ignoti 
villaggi  per  rinascere  quando,  se  dar  si  potesse,  la 
nostra  nazione  minasse  a  nuova  decadenza.  Circa 
al  premio  degli  scrittori,  posto  che  fosse  allora  im- 


64 

possibile,  e  sia  anche  adesso  e  fosse  per  esser  sem- 
pre neir  avvenire  ,  questa  non  era  ragione  perchè 
la  penna  servisse  ad  altro  che  non  paresse  buono. 
Lo  scrittore  debbe  aver  la  coscienza  dì  fare  opera 
giusta:  dove  no,  si  taccia.  Se  la  ingenua  confessione 
che  ne  fa,  può  scusarlo  in  parte,  non  però  lo  purga 
del  peccato  di  non  aver  voluto  o  saputo  conoscere 
il  nobile  fine  a  cui  tendono  le  arti  e  le  lettere.  Se 
il  Gozzi  credea  che  l'arte  comica  per  povertà  degli 
scrittori  non  potesse  levarsi  di  sua  bassezza,  perchè 
egli,  il  quale  era  in  gr'ado  di  esercitarla  con  agio, 
non  dava  esempio  di  quel  meglio  a  che  altri  non 
poteva,  anzi  che  aggiungere  al  male  il  peggio  col 
misero  scopo  di  saziare  il  Sacchi  e  la  sua  com- 
pagnia ? 

XXXV, 

Veduto  a  che  misero  fine  egli  adoperò  1'  ingegno 
e  l'arte,  forse  sarebbe  inutile  ricercare  a  che  giunse. 
Ma  perchè  talvolta  gli  uomini  aprono  a  caso  una 
strada  nuova  al  pensiero  ,  e  perchè  di  queste  fiabe 
son  nate  dispute  serie  e  facete;  non  sarà  male  eh'  io 
sopra  vi  spenda  alcune  brevi  parole,  se  non  altro  per 
dire  la  mia  ,  chiedendo  mercè  a'  lettori  ed  al  mio 
eroe  che  da  lungi  mi  accenna,  il  meraviglioso  che 
non  sorga  dagli  affetti,  dalie  virtù  e  dai  vizi  degli 
uomini,  ma  bensì  dal  soprannaturale,  dal  misterioso 
e  dal  fantastico,  sta  senza  dubbio  tra  i  mezzi  del- 
l' arte.  Il  soprannaturale  è  un  evento  contrario  al 
procedere  della  natura,  e  originato  da  cause  supe- 
riori alle  leggi  che  la  governano,  e  consiste  nel!'  in- 
tervento di  esseri  soprammondani  o  in  persona  o  nei 


65 

loro  effetti,  come  iddii,  semidei,  mostri,  ombre.  Il 
misterioso  s'  estrinseca  meno  nella  forma,  e  risulta 
dall'  ignoto  e  dall'arcano ,  in  cui  stanno  nascoste  le 
cagioni  di  effetti  sensibili.  Il  fantastico  si  può  dire 
più  propriamente  quello  che  riproduce  i  fenomeni 
della  immaginazione  dando  loro  una  forma  che  paia 
alla  vista.  Per  mezzo  del  primo  si  porta  nel  campo 
della  poesia  il  prodigio,  eh'  è  naturale  alle  religioni 
e  alla  storia:  pel  secondo  si  dà  venustà  ed  incan- 
tesimo al  noto,  come  la  distesa  infinita  del  mare, 
che  porge  idea  della  immensità,  accresce  vaghezza 
ai  distinti  contorni  d'  un  lito  o  d'  un  monte  :  per 
l'ultima  vien  dato  all'arte  il  modo  di  riprodurre  con 
efficacia  gì'  ìntimi  pensieri  e  gli  arcani  commovi- 
menti dell'anima  umana,  come  l'ombra  di  Banco 
e  di  Agrippina  sono  le  immagini  materiali  di  quelle 
forme  che  sorgono  in  fantasia  e  cruciano  1'  animo 
rimorso  di  Macbot  e  di  Nerone.  In  ogni  genere  di 
poesia,  e  specialmente  nella  drammatica,  s'è  fatto  uso 
di  questi  elementi  ne'  tempi  antichi  e  moderni,  come 
di  cose  che  hanno  fondamento  e  sopra  le  leggi  della 
immaginazione  e  sopra  la  immutabile  natura  del- 
Tuomo.  Quindi  non  è  mestieri  di  fare  l'oziosa  ricerca 
se  0  l'uno  o  l'altro  o  tutti  insienie  possano  adope- 
rarsi in  qualunque  opera  che  tenda  al  fine  di  mi- 
gliorare civilmente  e  moralmente  gli  uomini  per  via 
del  diletto.  L'epica,  la  drammatica,  la  satira,  la  lirica 
se  ne  valgano  alla  lìbera,  purché  li  tengano  nella  de- 
bita misura  di  economia  e  di  convenienza:  vale  a 
dire  non  li  lascino  spargersi  troppo  per  tutto  il  corpo 
del  componimento,  e  non  li  pongano  dove  non  sono 
chiamati  naturalmente  ed  efficacemente  al  loro  uf- 
G.A.T.CLXV.  5 


66 
fìcio.  Io  voglio  dii'e  che  non  si  porli,  per  esempio, 
al  serio  ciò  che  di  sua  natura  è  ridicolo,  se  bene 
al  ridicolo  portato  il  serio,  pel  contrasto  che  ne  nasce, 
fa  meglio  raggiungere  il  fine  del  riso;  né  il  meravi- 
glioso soprannaturale  o  fantastico,  che  più  si  attaglia 
a  certi  tempi  e  costumi,  si  porti  a  tempi  e  costumi 
diversi,  ed  altro  ed  altro  che  vorrebbe  lunga  tela  se 
qui  si  dovesse  far  mostra  di  precetti  rettorici.  11  tutto 
poi  si  ammanti  di  vera  poesia:  poesia  nelle  passioni, 
nelle  immagini,  nello  stile:  poesia  piena  d'affetto  e 
d'armonia,  che  dia  splendore  quasi  abbagliante  come 
il  sole  di  mezzogiorno,  il  quale  dà  fusione  e  mistero 
alle  cose: e  voi  vedrete  che  l'animo  di  chi  vede  e  ascol- 
ta meno  darà  mente  anche  all'  impossibile  di  certe  cir- 
costanze, ma  quasi  trasportato  suo  malgrado,  si  sen- 
tirà commosso  com'egli  stesso  avesse  veduto  quel- 
l'ombre e  que'  fantasmi  ,  che  danno  argomento  di 
pena  e  di  terrore  e  di  gioia  ai  personaggi  della  scena. 
Da  queste  considerazioni  con.segue  che  il  Gozzi  non 
va  rimproveralo  di  aver  messo  mano  a  tal  genere, 
e  specialmente  avendone  avuto  antichissimo  esempio 
da  Eschilo,  da  Aristofane  e  dai  drammatici  spagnuoli 
e  dallo  Shakespeare,  se  bene  cotesto  esempio  poco 
allignasse,  rispetto  alla  drammatica,  in  Italia:  anzi 
deve  scusarsi  di  aver  dato  luogo  ne'  suoi  drammi 
anche  al  deforme  e  all'orrido,  perchè  questi  nel  so- 
prannaturale fanno  il  medesimo  effetto  che  nel  mondo 
morale  e  fisico,  mettendo  in  rilievo  il  contrario.  Che 
se  avesse  le  sue  composizioni,  non  dico  ornato,  ma 
nutrito  di  vera  e  splendida  poesia,  e  se,  riuscendogli 
la  commedia  satirica  ed  allegorica,  avesse  perseverato 


67 

in  quella,  né  al  serio  avesse  portalo  ciò  che  dovea 
rimanersi  baia,  né  al  burlesco  il  grave  e  il  patetico; 
egli  avrebbe  per  certo  provveduto  meglio  alla  sua 
fama  e  all'  incremento  sicuro  dell'arte.  In  vece  fa 
mescolanza  d'ogni  contrario  elemento,  senza  l'intimo 
legame  che  fa  parere  connesse  le  cose  piiì  dispa- 
rate :  anzi  par  che  voglia  tornare  V  arte  al  caos 
de'  Misteri,  da  cui  s'era  da  qualche  secolo  tratta  a 
fatica.  De'  maghi  poi,  dell'ombre,  delle  trasforma- 
zioni, non  è  parco  come  si  vorrebbe,  ma  ne  impinza 
i  suoi  drammi,  io  direi  non  con  lusso  ma  con  dis- 
sipazione di  fantasia.  Egli  non  pensò  che  nell'epica, 
e  generalmente  in  ogni  poema  che  si  legge,  si  può 
esser  piiì  larghi  (ma  non  mai  prodighi)  di  tali  mezzi: 
imperocché  le  orecchie  sieno  men  delicate  degli  oc- 
chi, e  tanto  possa  l'ingegno  e  l'arte  del  poeta  da 
far  loro  accogliere  ciò  che  alla  vista  sdegnosa  ripu- 
gnerebbe. Inoltre  non  pensò  che  l'onore  d'una  viva 
descrizione,  di  un  mostro  o  d'  un  evento  va  tutto 
intiero  al  poeta  o  al  narratore  che  ve  la  pone  sotto 
gli  occhi;  mentre  sul  teatro  il  plauso,  che  può  na- 
scere dalla  rappresentazione  di  essi,  si  volge  tutto 
al  macchinista  ed  al  sarto.  Bene  spese  la  lingua  e 
r  ingegno  l'Alighieri  quando  descrisse  il  mutarsi  di  • 
serpente  in  uomo  e  di  uomo  in  serpente  ne'  ladri 
tormentati  nella  settima  bolgia.  Voi  vedete,  sentite 
e  v'atterrile:  che  vista  o  pennello  non  polca  meglio 
osservare  e  rappresentare  quella  terribile  trasfor- 
mazione, lasciando  pure  il  pregio  che  l'orribile  e  lo 
strano  è  cavato  dalla  stessa  natura  presa  nelle  sue 
straordinarie  alterazioni.  Ma  date  che  il  poeta  dram- 
matico non  cerchi  far  nascere  o  il  riso  o  le  lagrime 


68 
dall'  intimo  dei  soggetto  stesso,  e  tutto  s'affidi  a  quei 
mezzi  meccanici:  egli  non  ne  trarrà  lode,  che  niente 
fece:  forse  ne  avrà  V  ingegno  di  chi  li  pose  ad  atto, 
salvo  a  ritorcere  contro  il  poeta  la  beffa  del  pub- 
blico, se  la  macchina  preparata  non  risponda,  o  ri- 
sponda in  contrario,  alla  intenzione  e  allo  scopo  del 
dramma. 

XXXVI. 

Lascio  ancora  come  al  Gozzi  ,  non  bastandogli 
e  maghi  e  ombre  e  statue  parlanti  e  ogni  altra  specie 
di  capriccio,  si  ardì  persino  nella  Donna  serpente  far 
narrare  a  una  maschera,  che  figurava  un  venditore 
di  storie  ,   i  fatti  appartenenti  al  dramma,  che  non 
si  vetleano  sulla  scena:  e  ne'FraleUi  nemici  osò  fìn- 
gere un  poeta,  atteggiato  da  Brighella,  che,  testi- 
monio beffardo  degl'intricati  avvenimenti  ,  racconta 
in  fine  agli  attoniti  spettatori  punto  per  punto  come 
il  nodo  avviluppato  si  sciolga.  Qui  non  si  crede  né 
al  vero,  né  al  bello,  né  al  dramma,  né  al  popolo. 
Che  s'  egli  avesse  avuto  1'  intento  di  incolorare  le 
follie  e  gli  aberramenti  dello  spirito  umano,  come 
già  fecero  l'Ariosto  e  il  Cervantes,  o  almeno  non 
per    altro  avesse    operato  che  per  farci  ridere  ;  io 
non  solamente  gli  perdonerei  que'suoi  maghi  e  quelle 
sue  streghe  e  que'suoi  diavoli,  ma  anche  di  averne 
evocati  più  che  non  ne  vide  la  fantasia  del  Cellini 
sorgenti    dai    ruderi    e  svolazzanti    per    le    finestre 
del  Colosseo.  Ma  siccome  s'incapò  di  eccitare  il  ter- 
rore  trattando  gli  spettri    come   occorrenti  all'  ap- 
parato tragico;  mise  anche  la  critica  nella  necessità 
di  osservarli  severamente,  e  di  vedere  se  tali  mezzi 


69 

si  convenivano  allo  scopo  prefìsso.  Sta  bene  che  a 
Sanile    coaiparisca    lo  spettro  dì  Samuele    evocato 
dalla  Pitonessa  ;  che  Oreste  sia    perseguitato   dalle 
Kumenidi;  che  a  Macbet  le  streghe  rivelino  gli  eventi 
futuri.  Erano  cose  credute  nei  tempi,  in  cui  si  fin- 
ge l'azione:  credute  quando  si  composero  que'dram- 
nii  la  prima  volta:  buone,  sempre  che  sieno  riguar- 
date storicamente.  Anche  le  immagini  soprannatu- 
rali devono  corrispondere  al  tempo,  al  luogo  e  alle 
persone:  ne  le  cristiane  credenze  possono  trarsi  a 
tempi  pagani;  né  gli  dei  del  paganesimo  farsi  mo- 
tori di   effetti    nelle    cose  dei  tempi    cristiani.  Nel 
che  osservo  che  il  primo    non  venne    mai  in  capo 
ad  alcuno  ,  siccome  troppo   visibile  errore  ;  il  se- 
condo a  moltissimi  ,    tratti  da    confusione  d'  idee. 
Ma  se  avessero  guardato  al  sommo  Alighieri,  avreb- 
bero veduto  com'egli  usasse  della  mitologia  o  per 
fine  simbolico  o  per    dar  forma  ad    alcune  imma- 
gini già  pienamente  conformate  alla  fede  cristiana, 
mentre  adopera  gli  enti  soprannaturali  in  modo  cor- 
rispondente alle  nuove   credenze.   Pertanto  fu  cosa 
fanciullesca  risuscitare,  non  per  far  i-idere  ma  per 
far  piangere,  le  streghe  e  gì'  incanti  sulla  fine  del 
secolo  deciinottavo,  mentre  appena  pili  si  soffrivano 
ne'  romanzi  cavallereschi,  e  già   erano   stati  sepolti 
insieme  con  questi   dalla  musa  beffarda  del  Forti- 
, guerri  nel  Ricciardetto.  In  somma  o  questa  credenza 
più  non  v'era,  e  cade  tutta  la  macchina  del  poeta: 
0  ve  n'era  ancora  uno  strascico  tra  le  femminette 
e  tra  '1  volgo,  ed  era  male  innalzarla  tra  le  cose  onde 
muovono  effetti  gravissimi.  Sarebbe  come  far  sog- 
getto di  considerazioni  sublimi  la  ubbìa  della  vec- 
chia, che  tragge  maluria  dalla  pagliuzza  che  le  oc- 


70 

corre  Ira*  piedi.  Sia  pure  Jennaro  agitato  dalla  volontà 
di  salvare  il  fratello  e  dalTangoscia  di  tenersi  cre- 
dulo per  traditore,  nrientre  gli  conviene  tacere  la 
predizione  fatale.  Sarà  sempre  pur  vero,  che  la  ri- 
dicola morte  d'un  corvo  fatato  e  la  vendetta  d'  un 
mago  ridicolo  l'ha  messo  a  tali  strette;  e  chi  ciò 
pensi,  non  può  non  cadere  tutta  I' architeltui-a  dei 
dramma  in  un  fascio,  quantunque,  a  ordirlo,  il  Gozzi 
facesse  mostra  di  non  mediocre  potenza  d'ingegno. 
In  qualunque  modo  egli  si  mostrò  crudelmente  ani- 
moso contro  il  Goldoni.  Del  quale,  poi  che  gli  venne 
meno  l'odio  fanatico  alimentato  da'[)lausi  e  dai  sihili 
del  volgo  ,  egli  espicsse  giudizio  meno  contrario  , 
ma  non  meno  ingiusto.  Egli  slimava  che  la  man- 
canza di  coltura  e  la  necessità  di  dovere  scrivere 
troppe  opere  fossero  i  carnefici  di  cotesto  buon  ingegno 
italiano.  Fu  sollecito  osservatore  (egli  aggiunge)  della 
natura  e  de'costumi:  ma  copiò  materialmente,  se- 
guendo il  falso  principio  che  la  verità  piace  benché 
non  iscelta.  Nelle  Pule  onorate,  dipinge  fanciulle 
lascive  e  bugiarde  :  ne'  Cavalieri  di  spirito,  sedut- 
tori :  ne'^V Impresari  delle  Smirne  dà  scuola  d'immo- 
destia, e  così  via  via.  Cercò  novità  per  piacere  :  e 
da  prima  piacque  con  le  maschere  :  poi  minacciò 
di  volerle  annichilire  chiamandole  pezzi  di  cuoio  : 
appresso  cercò  miglior  novità  nei  caratteri  nazionali, 
specialmante  veneziani  :  in  fine  incespicò  nei  fantocci 
mussulmani  e  nel  romanzesco  flebile,  e  al  lutto  s'im- 
brogliò nel  tragico  e  nel  verso  martelliano:  laonde, 
cascando  di  male  in  peggio,  ritornata  la  compagnia 
Sacchi  di  Portogallo,  dove  darsi  alla  fuga  e  celare 
la  sua   vergogna  a  Parigi.  Così    egli.   Ma   i  vituperi 


71 

del  Gozzi  fuion  sempre  stnentiti  dal  plauso  popolare, 
più  costante  alle  coinmedie  del  nostro  che  non  fosse 
alle  fiabe  di  qualunque  conio.  Inoltre  assai  dotti  ed 
illustri  uomini  conobbero  il  suo  valore  e  lo  difesero, 
animando  gì'  italiani  a  seguire  la  via  tracciala  da 
esso.  Tra  quegli  eh'  ei  ricorda  nelle  sue  Memorie 
risplende  Gaspare  Gozzi,  che  in  vero  non  imitò  la 
vile  animosità  del  fratello,  e  Pietro  Verri  e  l'abate 
Roberti,  nomi  non  oscuri  al  certo  nelle  lettere  ita- 
liane. Del  primo  (quantunque  sia  vero  che  in  una 
cicalata  lo  congiunga  al  Chiari)  mi  sovvengono  al- 
cuni articoli  sopra  i  Rusteghi  e  la  Casa  nova,  i  quali 
dovrebbero,  a  mio  parere  ,  ammaestrare  i  presenti 
del  come  si  scriva  la  critica  teatrale.  11  Hoberti 
compose  un  poemetto  intitolato  la  Commedia:  e  un 
altro  in  versi  martelliani  ne  scrisse  il  Verri  prima 
che  si  desse  alla  storia  e  alla  filosofìa,  meglio  della 
poesia  confacenti  al  suo  ingegno.  Sono  poi  celebri 
le  parole  del  Voltaire  dii-ette  al  Veneziano:  Io  vorrei 
inlilolare  le  vostre  commedie  V Italia  liberata  dai  goti: 
ver'e  in  un  verso  ,  esagerate  nell'altro  :  secondo  che 
si  riguaidino  o  rispetto  all'arte  drammatica  o  rispet- 
to alla  intiera  civiltà  italica,  sonnecchiante  forse,  ma 
non  morta,  an/i  tale  che  nella  sua  coiruzione  con- 
teneva i   gertrìi  della  futuia  salute. 

XXXVII. 

Ghi  pensi  lo  sterminato  numero  delle  opere  di 
Carlo  domanderà:  Che  guadagni  ne  trasse  ?  Quanto 
agli  onori,  voi  avete  inteso:  quanto  al  denaro,  girale 
gli  occhi  all'  intorno  e  tenete  per  sicuro  che  da  quel 
tempo  ad    oggi    non  s'  è  fatto  gran  passo.  Testé  , 


72 

quando  a  Bruselle  s'adunavano  persone  famigerate 
per  dissertare  solennemente  sulla  proprietà  lettera- 
ria, Nicolò  Tommaseo,  quasi  cieco  per  lunghi  studi, 
scriveva  che  un  solo  de'suoi  libri  avrebbe  in  altre 
parti  d'Europa  procacciato  lungo  sostentamento  a 
sé  e  alla  sua  famiglia,  cui  molti  in  Italia  non  aveano 
potuto.  A  memoria  nostra  Tommaso  Grossi  dovè  far 
servire  a'  rogiti  notarili  quella  penna,  onde  furono 
scritti  Ildegonda  e  Marco  Visconti.  Eppure  non  sarà 
mai  che  sotto  a  questo  sole,  chi  ha  favilla  nel  cuore, 
la  spegna  per  disprezzo  o  miseria  che  glie  ne  in- 
colga. A  dir  vero  però  nel  settecento  le  cose  anda- 
vano peggio.  Al  Gozzi  si  pagavano  tre  o  quattro  lire 
al  foglio  le  traduzioni:  sei  lire  al  foglio  gli  fu  pagata 
Io  Chambers  e  il  Middleton.  Centocinquanta  zecchini 
ebbe  l'autore  del  Giorno  ;  e  fu  assai  e  fu  ventura 
rarissima.  Dicono  fosser  dati  cento  zecchini  al  Mor- 
gagni in  merito  delle  sue  opere.  Per  ammenda  poi 
correa  sulla  pia/za  una  merce,  la  quale  oggi  è  sca- 
duta di  prezzo:  e  questa  era  le  poesie  per  mona- 
che, per  nozze,  per  laurea,  le  quali  di  solitosi  pla- 
smavano a  forma  di  sonetti.  Ne'versì  di  Gaspare  Gozzi 
si  leggono  molti  componimenti  simili,  nei  quali  il 
genere  è  portato  a  quanta  forbitezza  e  gentilezza 
poteva.  Ora  un  sonetto  si  pagava  mezzo  filippo:  così 
che  un  verso  era  valutato  a  Venezia  meno  d'  un 
punto  di  ciabattino.  Ma  in  paiagone  de'sonettài,  chi 
faceva  commedie  gongolava  da  vero.  Trecento  lire 
per  ciascuna  davano  gì'  impresari  al  Goldoni.  Così 
afferma  il  Baretti:  al  contrario  il  Gozzi  vuole  che 
gli  si  dessero  tre  zecchini  per  quelle  a  soggetto  , 
trenta  per  le  scritte,  quaranta  per  il  dramma.  Bi- 


73 

sognerà  pure,  per  saperne  il  vero,  frugare  gli  ar- 
chivi. Intanto  si  sa  che  gì'  impresari  del  secolo  scor- 
so dimostravano  piiì  larghezza  dei  presenti,  chi  guardi 
la  povera  condizione  de'  teatri  d'  allora  :  perchè  il 
prezzo  maggiore  dell'entrata  ne'teatri  ove  si  recita- 
vano commedie  non  passava  un  paolo  romano  ,  e 
quasi  lutti  i  palchetti  erano  di  privati  padroni,  che 
non  pagavano  naturalmente  la  tessera  d'  ingresso. 
Quindi  scarsi  i  guadagni  :  anzi  una  volta  si  fecer 
miracoli  che  alla  porta  del  teatro  la  ciotola  fu  ve- 
duta portare  da  secentosettantasette  lire.  Ma  la  gente 
in  quella  sera  per  verità  s'affollava  a  ragione:  si  re- 
citava niente  meno  che  il  Convitalo  di  pietra.  E 
COSI  un  poeta,  per  tirare  innanzi  alla  meglio,  do- 
veva 0  rallegrare  i  conviti  sbrigliando  lingua  male- 
dica e  impura,  o  stillarsi  il  cervello  per  rabberciare 
un  dramma  da  musica-  Oggi  pure  così:  anzi  peggio. 
Da  che  non  so  se  al  tempo  del  Melastasio  la  gente 
avrebbe  portato  in  pace,  che  le  fosser  dati  per  vi- 
vande squisite  certi  strani  composti  di  drammi  con 
la  ridevole  solennità  che  usa.  Allora  si  facea  male 
dai  più  con  una  certa  schiettezza,  né  si  ravvolgea 
l'etisia  del  pensiero  con  una  zimarra  di  frasi  idro- 
piche. E  passi  la  frase  barocca  in  grazia  del  lepido 
soggetto.  A'  poeti  dunque  rimanea,  come  palladio  , 
il  dramma  per  musica;  nel  quale  lavorando  all'  im- 
pazzata riescivano  a  raspollare  l'avanzo  di  Farinello 
e  di  Carestino  : 

Però  vedrai  Caton  fra  poco  esangue 
Cantar  morendo.   11  popol  tenerino 
Troppo  alle  doglie  altrui  s'agita  e  langue. 


74 
Che  impoi'tan  leggi  al  poeta  meschino, 
Purché  quel   poco  al  fin  vada  buscando 
Che  avanza  a  Faiinello  e  a  Caiestino  ? 

Così  Giuseppe  Pai-ini  nella  satira  sul  teatro,  in  cui, 
a  dir  vero  ,  non  mi  tocca  come  nell'argute  scene 
delle  ore  del  Giorno  e  nelle  nervose  e  severe  odi 
civili.  Che  se  a  voi  talenta  sapere  chi  fossero  Fa- 
rinello e  Carestino,  io  vi  posso  dire  che  del  secondo 
non  so  nulla:  ma  certo  ne  io  ne  voi  ce  ne  curiamo. 
Circa  a  Farinello,  mi  ricorda  ch'egli  si  chiamava 
Carlo  Broschi,  ed  era  il  re  degli  eunuchi,  e  cantando 
guarì  della  malinconia  Filippo  V  di  Spagna,  e  fu  il 
favorito  della  regina  Barbara  pure  di  Spagna,  e  si 
beccava,  così  per  la  cipria,  quattromila  sterline  al- 
l' anno.  Del  rimanente  i  suoi  amici,  e  tra  gli  altri 
il  Metastasio  nelle  lettere  a  lui  scritte,  lo  ammira- 
vano e  lodavano  per  gì'  inaspeltati  e  brillanti  grup- 
petti che  doveano  a  Ini  la  loro  esistenza.  0  mondo 
felice,  se  Farinello  ti  partorì  quei  gruppetti  !  Io  lo 
esalto  perchè  del  favore  si  servì  a  porgere  buoni 
consigli  e  a  sollevare  infelici,  non  altrimenti  che 
il  greco  Damone,  il  quale,  per  nascondere  al  po- 
polo la  propria  sufficienza,  usava  il  velo  della  mu- 
sica e  conversava  con  Pericle,  come  ungitore  e  mae- 
stro, per  insegnargli  la  lotta  da  usarsi  nel  governo 
civile.  Intanto  non  valse  al  Goldoni,  per  uscire  della 
stretta  sua  vita,  di  ricorrere  alla  stampa  delle  sue 
commedie.  L' impresario  Madebac  se  ne  giudicava 
padrone  per  avergli  sborsato  quel  gi-andissimo  prezzo 
che  avete  udito.  E  si  tenne  forte  nella  sua  pretesa, 
e  tanto,  che  all'autore,  come  per  carità  ,  concesse 


75 
alla  fine  licenza  di  stamparne  un  tomo  solo  per  anno. 
Così  cominciò  nel  1751  1'  edizione  del  Bettinelli. 
Ma  che  ?  Dopo  il  primo  volume  costui  si  ricusa  di 
seguitare  per  conto  del  Goldoni:  poi  ,  svergognalo 
com'era,  continua  l'edizione  a  conto  del  venale  im- 
presario. E  Carlo,  nemico  di  risse,  ne  dà  mano  ad 
un'altra  in  Firenze  nel  1753.  Ecco  il  Bettinelli  in- 
vocare il  suo  privilegio:  il  coi'po  de'  librai  spalleg- 
giarlo :  proibita  a  Venezia  la  forestiera  edizione. 
Quindi  sulle  rive  del  Po  si  recavano  cinquecento 
esemplari  in  sicuro  asilo  ,  là  ove  una  comitiva  di 
nobili  veneziani  veniva  a  prenderli  [>er  darne  pub- 
blicamente in  Venezia  a  chi  ne  voleva.  E  così  il 
governo  (come  avviene  in  cose  che  è  più  sapienza 
tollerare)  per  non  abrogare  la  legge  del  privilegio, 
dovea  soffrire  che  venisse  violata  alla  scoperta.  Né 
per  questo  1'  autoie  facea  grandi  avanzi  ,  giacche 
quindici  edizioni  diverse  mettevano  a  sacco  i  suoi 
lavori.  Da  ultimo,  nel  1760,  diede  mano  a  sue  spese 
alla  edizione  così  detta  del  Pasquali  ,  la  quale  sì 
lenta  procedeva,  che  appena  dopo  venti  anni  era  giun- 
ta al  volume  diciassettesimo,  di  trenta  onde  si  dovea 
comporre.  Quivi  egli  sparse  le  notizie  della  sua  vita 
da  lui  poscia  riprese  e  riscritte  in  francese,  così 
schiette  e  festive,  che  ad  alcuno,  forse  non  a  torto, 
parvero  più  comiche  del  suo  stesso  teatro.  Forse 
troppo  io  mi  sono  fermato  su  questo  argomento. 
Però  non  mi  paiono  parole  gittate  quelle  che  si  spen- 
dono a  lamentare  la  ingratitudine  usata  verso  agli 
uomini  che  onorano,  non  che  la  patria,  la  specie 
umana.  Ufficio  che  forse  toccherà  sempre  ai  posteri. 
Ma  scusatemi.  Io  non    pensava  che    nel   1756    egli 


76 
ebbe  da  Don  Filippo  Infante  di  Parma,  a'  conforti 
del  ministro  Du  Tillot,   una  tenue  pensione  e  quel 
che  più  monta  la  patente  di  poeta  di  corte. 

XXXVIII. 

Una  volta  si  recitò  a  Parigi  il  Figlio  cV  Arlec- 
chino  perduto  e  ritrovalo.  Si  piacquero  i  francesi  di 
quella  commedia  che  pur  il  Goldoni  non  avea  voluto 
mettere  a  coda  del  suo  teatro.  E  perciò  i  gentiluo- 
mini della  camera  del  re  ,  i  quali  soprastavano  ai 
pubblici  spettacoli,  diedero  incarico  al  Zanuzzi,  primo 
amoroso  del  teatro  italiano,  di  proporre  al  Goldoni 
che  gli  piacesse  venire  e  Parigi  e  starvi  con  asse- 
gnamento onorevole  due  anni  per'  rinfrancare  quel 
teatro  con  la  novità  de'suoi  lavori.  A  questo  giunse 
la  lettera  del  Zanuzzi  nel  1769,  quando  pili  era  la 
pressa  de'  suoi  nemici  :  e  pure  esitò  lungamente. 
Poco  o  nulla  gli  rimeritava  il  proprio  paese  :  ma 
come  lasciare  la  sua  Venezia  ?  Come  lasciare  Ve- 
nezia, dove^  cessale  le  critiche  ,  godeva  d'  una  dol- 
cissima iranquillilà  ?  Così  egli  ,  che  mai  non  pro- 
nunciava parola  che  non  fosse  amore  e  riverenza 
al  paese  natale.  E  quantunque  i  suoi  nemici  ancora 
lo  molestassero,  amore  di  patria  pur  lo  teneva  ancora 
alle  sue  lagune,  donde  mai  non  si  sarebbe  dipartito  se 
una  provvisione  qualunque,  sia  come  avvocato,  sia 
come  scrittore  ,  gli  avesse  procacciato  agio  e  de- 
coro. Alle  sue  richieste  si  rispose  :  In  uno  stalo 
repubblicano  le  grazie  non  si  accordano  che  a  mag- 
giorila di  voli  :  è  uopo  che  i  postidanli  chiedano  lunga 


77 
pezza,  prima  che  la  loro  dimanda  sia  messa  a  partito: 
quanto  alle  pensioni ,  se  vi  ha  concorrenza  ,  le  arti 
utili  si  preferiscono  alle  piacevoli.  Quasi  non  sia  e  non 
fosse  utile  per  eccellenza  l'arte  degli  scrittori  comici, 
quando  venuto  il  teatro  a  questa  presente  necessità, 
ha  bisogno  di  molti  e  buoni  autori  che  diano  nobile 
ésca  al  popolo  pasciuto  quasi  sempre  di  strane  e 
viziose  composizioni  !  La  triste  vecchiezza  urgeva, 
e  al  Goldoni  mancava  un  pane  sicuro:  eppure  egli 
avea  cinto  la  patria  d'una  nuova  corona.  In  verità 
eh' è  da  compiangersi  fortemente  dell'umano  con- 
sorzio, allorché  si  veggono  uomini  così  fatti  non 
avere,  vivendo,  ciò  che  si  piange  per  non  dato  sul 
loro  sepolcro.  E  così  va  la  vita  :  per  il  funerale 
del  Peruzzi  i  «landi  offrivano  l'oro,  che  a  lui  vivo 
avrebbe  risparmiato  indicibili  angosce.  Nella  qual  cosa 
sorge  nella  mente  un  altro  pensiero.  V'ha  degli  uo- 
mini stimati  grandi  o  grandi  veramente,  i  quali  par 
che  preparino  alla  società  la  scusa  del  non  averli 
soccorsi.  L'indole  sdegnosa,  severa  ed  anche  superba 
e  talora  malvagia ,  allontana  gli  amorevoli  proteg- 
gitori  :  la  scabra  loro  natura  punge  e  rimuove  ogni 
pietosa  sollecitudine.  Ma  Carlo  era  l'amore  di  quanti 
l'avvicinavano:  era  d'indole  mansueta  e  cortese.  Non 
ebbe  forse  l'improntezza  e  l'audacia  che  vuoisi  nel 
chiedere:  qualità  che  abbonda  ne'  mediocri  ingegni 
e  negl'ignoranti,  ai  quali  dava  precetti  l'infame  Are- 
tino. Non  bastava  a  lui  un  canto  di  quegli  alteri 
palagi  ?  La  repubblica  era  vecchia.  Ma  erano  vecchi 
i  suoi  cittadini?  E  poi  quale  altra  gloria  maggiore 
ella  ebbe  negli  ultimi  suoi  anni  ?  Armi  non  più  : 
non  pili  commerci  e  ricchezze.  Non  furono  allora. 


78 
tra  gli  altri,  e  Gaspare  Gozzi  e  Carlo  Goldoni,  che 
le  diedero  lume  di  gloria  nella  inerte  vecchiezza? 
E  perchè  almeno  non  li  sostentò  ?  Scioltosi  d'ogni 
impaccio,  Carlo  nell'aprile  del  1761  si  accinse  alla 
partenza.  Ma  prima  volle  dare  mesto  e  amorevole 
addio  alla  sua  patria.  Nella  commedia  intitolata 
Una  delle  nllime  sere  di  carnevale,  mette  in  iscena 
un  giovane  disegnatore  chiamato  Anzoleto,  che  per 
l'esercizio  dell'arte  sua  fu  chiamato  a  Parigi.  E  forse 
perchè  da  poi  gli  parve  Parigi  o  troppo  vicina  o 
troppo  còlta  ,  0  troppo  altiera  perchè  tollerasse  di 
esser  finta  bisognevole  delle  arti  italiane,  ei  la  mutò 
nelle  stampe  in  Moscovia,  paese  piiì  lontano  e  men 
conosciuto  a  Venezia  fattasi  casalinga.  Adunque  An- 
zoleto era  chiamato  a  Parigi  :  ma  per  l'amore  che 
egli  divide  tra  una  fanciulla  e  la  sua  patria,  sta  lun- 
gamente in  forse.  Alla  fine  il  desiderio  di  assicu- 
rarsi uno  stato  la  vince  sopra  le  altre  considerazioni, 
e  parte  promettendo  a  se  stesso  e  ad  altrui  di  rive- 
dere ben  presto  la  sua  terra  nativa.  Non  è  in  questa 
commedia  lungo  lamento  che  ricordi  le  querele  dei 
tnoderni  poeti.  Egli  è  un  semplice  e  commovente 
commiato  dai  cari  veneziani.  Ecco  l'ultimo  discorso 
d'Anzoleto,  che  mostra  l'anima  del  poeta,  e  eh'  io 
traduco  a  malincuore  dal  dialetto  veneziano,  donde 
traspare  limpida  l'interna  commozione.  «  lo  dimen- 
licarmi  del  mio  paese  ?  Della  mia  adorata  patria  ? 
De'  miei  protettori  ?  De'  miei  amici  ?  Non  è  questa 
la  prima  volta  che  me  ne  parto  ,  e  sempre  ,  dovun- 
que io  sia  stato  ,  portai  il  nome  di  Venezia  scolpito 
nel  cuore  :  mi  sono  sempre  ricordato  delle  (jrazie  e 
dei  benefizi  che  vi  ho  ricevuto  :  ho  sempre  desiderato 


79 
di  tornare  :  e  ritornato  ,  ?ie  ho  avuto  sempre  conso- 
lazione. Qualunque  paragone  io  n  abbia  fallo  ,  mi  è 
sempre  apparso  più  bello,  piii  magnifico,  pili  rispet- 
tabile il  mio  paese  :  ogni  volta  che  Ilio  riveduto,  vi 
ho  scoperto  maggiori  bellezze  :  e  così  sarà  pure  questa 
volta,  se  il  cielo  mi  concederà  di  rivederlo.  Confesso 
e  giuro  sulVonor  mio  che  parlo  col  cuore  straziato,  e 
che  nessun  allettamento,  nessuna  ventura,  se  ne  avessi, 
mi  compenserà  del  dolore  di  starmene  lungi  da  chi 
mi  vuol  bene.  Conservatemi  il  vostro  amore  :  il  cielo 
vi  benedica:  e  ve  lo  dico  di  cuore.  È  calata  la  tela: 
il  teatro  eccheggia  d'applausi,  e  voci  distinte  s'odono 
gridare:  Buon  viaggio]  felice  ritorno  \  non  mancate. 
Carlo  ne  fu  commosso  sino  alle  lagrime.  E  sieno 
rese  grazie  a  questi  ignoti,  che  lo  salutarono  d'amore. 
Essi  non  doveano  più  rivederlo  ,  nò  comporne  la 
spoglia  mortale,  nò  avere  le  sue  ossa.  Addio  dunque 
a  Venezia,  all'antica  regina  dei  mari,  ch'ora  al  tra- 
monto della  sua  gloria  !  Addio  ai  vivaci  e  lepidi 
e  cortesi  suoi  abitatori  !  Quante  volte,  o  Carlo,  ri- 
tornerai cou  la  memoria  alle  tue  lagune,  e  già  vec- 
chio ,  narrando  i  casi  della  tua  vita  ,  ti  riderà  un 
raggio  della  serena  e  gaia  tua  giovinezza  nel  de- 
scrivere le  barche,  le  gondole  ,  i  canti,  le  limpide 
notli  ,  le  festevoli  brigate  della  tua  patria  ,  che  da 
lunge  saluterai  con  desiderio  infinito  !  Intanto  giunto 
a  Nizza  passò  il  Varo  che  divide  la  Francia  dal- 
l' Italia,  e  rinnovando  al  suo  paese  l'addio,  invocò 
r  ombra  di  iMoiiere  perchè  lo  guidasse  felicemente 
nella  sua  patria  ospitale. 


so 

XXXIX. 

Bondi,   Venezia  cara, 
Sondi,  Venezia  mia. 
Veneziani,  siorìal 
(Il  Campielo  -  scena  ultima). 

La  commedia  italiana  fu  portata  in  Plancia  da 
tempo  antico.  Quando  Carlo  Vili  scese  in  Italia,  ebbe 
per  prima  cosa  a  vedere  in  Torino  non  so  che  rap- 
presentazione fatta  con  la  splendidezza  da  noi  usata; 
della  quale  si  compiacquero  i  suoi  soldati  e  mene-' 
strelli  pili  che  degli  edifizi,  delle  arti,  e  non  dirò  delle 
lettere  da  lor  conosciute  appena  di  nome.  Da  quel 
momento  fu  assicurala  la  sorte  degl'  istrioni,  i  quali 
cominciarono  a  conoscere  la  via  delle  Alpi  aperte 
per  la  fortunata  violenza  delle  milizie  straniere.  Na- 
turalmente come  le  alleanze,  le  guerre,  i  connubi, 
le  ambascerìe  colà  traevano  e  diplomatici  e  donne 
e  capitani  e  artisti,  e  con  esse  la  sapienza  e  l'astu- 
zia e  l'audacia  e  l'eleganza  e  la  lingua  e  le  lettere 
e  le  arti  italiane;  così  pure  questa  minor  parte  di 
coltura  passava  con  esso,  accolta  e  ammirata  da  pri- 
ma, poi  imitata  e  sorpassata,  come  quella  che  pili 
sì  confaceva  all'  indole  della  spiritosa  nazione  fran- 
cese. I  mercanti  fiorentini,  che  formavano  a  Lione 
una  vasta  colonia,  e  poi  si  distaccarono  vergognosa- 
mente della  madre  patria  (secondo  si  vede  nella 
supplica  dove  dichiaravano  di  volere  esser  francesi, 
tra  i  documenti  di  nostra  storia  raccolti  dal  Molini 
nel  1836  a  Parigi);  i  mercanti  fiorentini,  dico,  nelle 
sponsalizie  di  Arrigo  II  con  la  Caterina  de' Medici 


81 

fecero  colà  venire  istrioni  italiani.  Fu  da  questi  rap- 
presentata   la  celebre  Calandra   del    Bibbiena,  cosa 
nuova   per  certo,  e  specialmente  a  chi  non  era  uso 
che  alle  solite  macchine  de'  misteri.   Appresso  una 
compagnia  fu  chiamata  da  Arrigo   III  per  divertire 
la  gente   acciocché  non    si    crucciasse  troppo   della 
uccisione  dei  Guisa  nel  castello  di  Blois.  Ma  primi 
ad  aprire    a  Parigi   un   teatro    privilegiato   furono   i 
Gelosi  ,  cioè  la    compagnia   dove   splendea    la    vir- 
tuosa ,  veramente  virtuosa  ,   Isabella  Andreini.    Ed 
altre  poi  :  le  quali  di  sicuro  atteggiavano    migliori 
commedie  che  non  fossero  la  Rivolta  delle  rmiocchie 
{Rebellion  des  granoidlles)  dove  gli  attori  si  vestivano 
da  cotali  bestie  ,  o  1'  Ospitalità  violala  dell'Hardi  , 
Lope  de  Vega  della  Francia,  in  cui   si  udivano  die- 
tro la  scena    le  grida  d'  una  giovane    svergognata. 
E  perchè  ciascuno  porta  il  sacco  pieno  di  quel  che 
piace,  così,  alla  nuova    chiamata  del  Mazzarino,  il 
famoso  Scaramuccia  recò  le  commedie  a  soggetto, 
le  quali  anche  in  Francia  spadroneggiarono,  e  a  mano 
a  mano  la  facezia  italiana  vestirono  nel  francese  ver- 
nacolo. Verso  la  fine  del  seicento  la  commedia  ita- 
liana   fu  discacciata  ,  ma    nuovamente    ella    tornò 
circa  agli  anni  della   Reggenza.  Luigi  Riccoboni   si 
accompagnò  con  Domenico  figlio  del  più  famoso  Do- 
menico Biancolelli:  e  sempre  invaso  dal  pensiero  di 
rialzare  il  teatro  italiano,  fé'  prova  in  Francia  di  ciò 
ch'ei  non  avea  raggiunto  in  Italia,  e  mise  in  iscena 
regolari  produzioni  del  vecchio  teatro.  Di  lui  dicea 
Pier  Luigi  Martelli  nel  discorso  sulla  tragedia  antica 
e  moderna:  Appresso  della  nazione  francese  è  in  pre- 
gio ed  in  costume  il  declamar  su'  teatri  con  voce  ca- 
r.A.T.CLXV.  6 


82 
rìcatamente  sonora.  Gli  spagmioU  niente  declamano, 
ma  tulio  dicono  con  sussiego  e  gravità  .  .  .  Voi  altri 
italiani  ora  vi  componete,  ora  vi  scomponete,  secondo 
che  vi  pare  portare  il  bisogno,  ora  gravi,  ora  fami- 
gliari; ma  più  pendete  al  famigliare  che  al  grave,  più 
all'espressione  che  alla  tragica  declamazione  ...» 
Seguitando  aggiunge»  vorrebbe  che  V  italiano  tem- 
perasse il  suo  costume  con  le  qualità  francesi  e  spa- 
gnuole,  e  conclude  che  il  Riccoboni  detto  Lelio  e 
la  Flamminia  sua  moglie  gli  davano  speranza  di  ciò, 
ehiamanda  il  primo,  vero  riformatore  de'recitamenti 
italiani.  Ma  che  ?  La  commedia  dell'arte  avea  messo 
più  salde  radici  in  Francia  che  non  forse  tra  noi;  e  il 
popolo,  che  pur  tanto  si  piaceva  delle  belle  commedie 
del  suo  Molière,  amava  i  gesti  ridicoli  e  le  smorfie 
e  i  motti  buffoneschi  delle  maschere  sbrigliate,  anzi 
che  le  gelide  nostre  produzioni  del  cinquecento:  o 
sia  che  poco  le  intendesse,  o  sia  che  agevolmente 
le  giudicasse  inferiori  alle  proprie.  Ciò  non  di  meno 
il  Riccoboni  fece  sua  possa  per  sostenere  1'  onore 
italiano;  e  gli  sieno  rese  grazie  e  grazie  infinite,  corno 
si  merita  chi  pospone  guadagno  privato  all'  onore 
del  proprio  paese. 

XL. 

Ed  ora  veniva  la  volta  di  Carlo  Goldoni  colà 
chiamato,  non  come  istrione,  ma  come  autore,  a  so- 
stenere la  fama  cadente  dell'arte  nostra.  Al  tempo 
ch'egli  giunse  ,  il  teatro  degl'  italiani  era  nella  via 
Mauconseille  nell'antico  albergo  di  Borgogna.  Quivi, 
dice  lo  stesso  Goldoni,  diede  i  suoi  primi  passi  il 
Molière.  Però  non   pare  così  :  da   che  ,  secondo  il 


83 
Voltaire  nella  vita  del  Terenzio  francese,  quello  stu- 
pendo autore  dalla  provincia  si  recò  a  Parigi  noi  1688, 
e  si  mostrò  la  prima  volta  a  quel  popolo  nella  sala 
delle  guardie  del  vecchio  Louvre.  V  erano  già  dei 
commedianti  nWHolel  di  Borgogna,  e  il  Molière  ebbe 
il  teatro  del  Piccolo  Borbone  {Petit- Bourbon)  a  mezzo 
con  gì'  istrioni  italiani:  da  ultimo  si  recò  nella  sala 
del  palazzo  reale.  Ma  comunque  si  fosse,  alla  ve- 
nuta di  Carlo  la  commedia  italiana  era  lungi  del- 
l'antico splendore,  e  da  prima  parte  facea  la  seconda, 
lasciando  luogo  a  una  certa  opera  detta  buffa,  me- 
scolanza di  prosa  e  di  ariette.  Circa  agli  attori  non 
era  proprio  allo  stremo;  perchè  vi  avea  taluno  che 
lichiamava  a  memoria  i  più  celebri  vecchi.  Da  poco 
però  vi  si  era  tolta  Elena  Balletti  Riccoboni:  la  quale 
in  una  sua  lettera  all'  abate  Antonio  Conti  affer- 
mava averle  confessato  il  sommo  Baron  d'aver  preso 
il  tono  famigliale  anco  nella  tragedia  dopo  aver 
seduto  alle  recitazioni  della  compagnia  italiana.  Al- 
lora ella  s'  era  data  a  scrivere  romanzi  in  lingua 
francese.  Ma  in  compenso  (dice  Goldoni)  vi  rima- 
neva Collalto  e  Carlino.  Il  Collalto  veramente  si  chia- 
mava Antonio  Mattiucci,  ed  era  di  Vicenza,  e  s'era 
educato  alla  maniera  del  recitare  moderno  per  via 
del  nostro,  e  aveva  esordito  nelle  sedici  commedie 
sotto  la  maschera  di  Pantalone.  Appresso,  portatosi 
a  Pai'igi,  vi  avea  dato  i  Gemelli  veneziani,  in  cui  si 
valse  della  licenza  dei  recitanti  improvvisatori,  ag- 
giungendovi un  terzo  gemello  di  carattere  iracondo: 
licenza  meno  pericolosa  quando  l'usava  un  valente 
come  costui,  il  quale,  dicono,  dava  sangue  e  moto 
alla  maschera,  ed  anche  a  viso  scoperto  nulla  per- 


u 

deva  della  sua  naturale  prontezza  e  vivacità.  Car- 
lino poi  ei-a  Carlo  Bertinazzi,  che  nell'atteggiare  il 
Bergamasco  fu  cima,  e  fu  l'ultimo  astro  della  com- 
media italiana  a  Parigi,  e  compagno  al  Sacchi  nel 
consolare  di  sua  virtù  gli  estremi  singulti  della  com- 
media dell'arte.  Questi  erano  gli  attori:  ma  non  vi 
aveva  autori  per  essi.  Le  più  viete  e  stracciate  com- 
medie a  braccio  erano  da  loro  imbandite  al  pub- 
blico francese:  né  mettevano  mano  ad  alcuna  che 
nuova  fosse  senza  imbellettarla  d'  ornamenti  a  lor 
modo,  che  la  rendevano,  come  Gabrina,  più  trista. 
In  sul  viso  allo  slesso  Goldoni  misero  in  iscena  il 
Figlio  d'Arlecchino,  che  pur  valse  all'autore  d'esser 
chiamato  a  Parigi,  tutto  travisato  e  infiorato  di  le- 
pidezze rubate  al  Coen  imaginaire,  di  maniera  che 
dispiacque  oltre  misura  alla  corte.  L'esule  volon- 
tario, che  vedea  così  posta  a  pericolo  la  sua  ripu- 
tazione, si  deliberò  di  porre  in  iscena  ad  ogni  costo 
le  commedie  scritte.  Ma  quivi  più  che  in  Italia  era 
difficile  torcere  gli  attori  dalla  vecchia  strada,  cui 
battevano  ,  quasi  cavalli  avviziati  ,  da  gran  tempo. 
Lasciar  la  commedia,  in  cui  menavano  la  lingua  a 
lor  grado,  per  imparare  a  mente,  come  fiìnciulli  , 
la  parte,  era  cosa  che  ripugnava  troppo  a  superbia 
e  a  poltronaggine.  Oltre  a  questo  non  era  penuria 
anche  in  Francia  di  chi  sostenesse  a  spada  tratta 
la  commedia  dell'arte  ,  gridando  che  appunto  colà 
viveva  perchè  si  discostava  dall'uso  e  meno  era  age- 
vole agl'istrioni  di  altro  popolo  qualsivoglia.  Eppure, 
picchia  e  ripicchia,  il  Goldoni  potè  vincerla  un  trat- 
to, e  tessè  una  commedia  di  semplice  orditura,  dove 
non  fosse  mestieri  di  troppo    esatta  esecuzione  ,  e 


85 
questa  fu  VAmor  paleruo  ossia  la  Serva  riconoscenl€ . 
Ma  il  come  fu  accolta  non  parve  troppo  lusinghiero 
alfautoi-e  ;  e  i  partigiani  delia  commedia  dell'  arte 
trionfarono  e  zufolarono  alle  orecchie  di  lui  le  solite 
parole  che  fanno  i  venditori  del  senno  di  poi,  cioè 
Ve  V  ho  dello.  In  guisa  che  mentre  il  suo  ingegno 
era  giunto  al  più  bello  del  suo  rigoglio  (e  lo  mostrò 
di  poi  nel  Burbero  benefico)  dovè  ricalcare  le  proprie 
orme,  e  ritornare  alle  maschere,  contro  alle  quali 
avea  già  combattuto  e  vinto  in  Italia.  Datosi  a  cer- 
care quelle  combinazioni,  che  si  dicono  con  pari  ele- 
ganza stillazioni  interessanti  e  colpi  di  scena,  e  quel 
comico  artifizio  che  scusasse  la  mancanza  del  dialogo 
e  stesse  forte  contro  al  capriccio  degl'istrioni;  egli 
ebbe  per  avventura  soccorso  dalla  feracità  del  suo 
ingegno,  e  in  due  anni  potè  mettere  insieme  ven- 
tiquattro commedie  :  otto  delle  quali  ,  da  lui  poi 
scritte  per  intero,  fanno  parte  del  suo  teatro.  Tra 
queste  sono  il  Ventaglio,  gli  Amori  di  Arlecchino  e 
Camilla  ,  le  Gelosie  di  Arlecchino  ,  le  Inquietudini 
di  Camilla  (mutati  i  nomi  in  Zelinda  e  Lindoro)  , 
gli  Amanti  timidi,  il  Buon  compatriota  rimasto  an- 
cora tra  scritto  e  a  soggetto,  ed  altre.  Intanto  non 
cessava  di  ricordare  la  sua  patria  e  di  lodarla  e 
d'innalzarla  al  cospetto  dei  forestieri:  e  così  nell'atto 
secondo  del  Genio  buono  e  cattivo ,  che  da  lui  era 
mandato  a  Venezia,  finge  che  ad  Arlecchino  piovuto 
a  Parigi  ,  un  Veneziano  segni  e  rimproveri  il  mal 
vezzo  dei  francesi  di  parlare  a  dritto  e  a  rovescio 
dell'Italia  senza  punto  conoscerla:  e  nel  Matrimonio 
per  concorso,  lodando  Venezia  a  Parigi,  s'augura  che 
a  lui  così  lontano  giungano  le    voci  liete   e  ricor- 


86 
devoli  de'  ;suoi  conciltadini.  Ma  a  lungo  andare  la 
commedia  a  soggetto  venne  anche  in  uggia  ai  fran- 
cesi. Com'ella  cacciò  una  volta  la  commedia  fran- 
cese, così  ora  l'opera  buffa  pose  piede  nel  teatro  col 
pretesto  di  aiutarla  :  ma  in  effetto  per  cacciarla  , 
come  fanno  tutti  gli  aiutatori  dei  deboli,  e  dar  loco 
alla  commedia  nazionale.  Cailo  s'  affaticò  per  so- 
stenere il  cadente  edificio  :  ma  fu  invano.  Esso 
ruinò  nel  1780.  Agli  attori  fu  data  licenza:  il  vec- 
chio Carlino  e  il  Camerani  solamente  rimasero  per 
buoni  a  qualcosa  nella  commedia  francese.  Intanto 
a  Parigi  e  a  Londra  s'udivano  risonare  le  melodie 
del  Piccini  e  del  Sacchini,  foriere  del  melodramma 
italiano  ,  il  quale  ,  portalo  dal  Pesarese  alla  cima 
del  bello,  dovea  poi,  trionfando,  percorrere  il  mondo. 


XLI. 


Intanto  il  Veneziano,  accolto  nelle  veglie  eleganti 
dove  conveniva  il  fiore  dei  letterati,  e  chiamato  ad 
ammaestrare  nella  lingua  italiana  le  reali  figlie  di 
Luigi  XV,  potè  bene  addentrarsi  nello  spirito  della 
favella  francese  e  in  ispecie  in  quella  parte  di  essa, 
che  meno  di  sé  dà  copia  agli  stranieri,  vale  a  dire 
nella  famigliare  e  popolare.  Di  guisa  che  già  vecchio 
di  sessantaquattro  anni,  fu  ardito  di  salire  sulla  scena, 
e  nel  4  novembre  del  1771  esporre  a  Parigi  il  suo 
Burbero  benefico.  Un  illustre  autore,  De  Barante,  nel 
libro  intitolato  la  Lelleraliira  francese  del  seco- 
lo XVJII,  ci  dà  notizia  dello  stato  in  cui  era  allora 
la  commedia  condotta  già  dal  Molière  a  punto  sì 
alto.  Non  più  la  schietta  e  profonda  pittura  del  cuore 


87 
ornano,  nella  quale  il  Molière  toccò  1'  eccellenza  'ù 
appiesso  a  lui  il  Dancourt  e  il  Le  Sage.  Linguag- 
gio ,  carallcri  ,  costumi  erano  cosa  fiittizia.  Si  di- 
pingeva qualche  ridicolaggine  di  quelle  che  il  tempo 
spazza  via  subito,  nò  questa  leggerissima  scorza  si 
sapea  figurare  con  verità.  Era  un  accozzare  circo- 
stanze sì  tristi  come  liete,  l'effetto  delle  quali  era 
stato  da  piima  cercato  con  la  lanterna  e  in  certa 
guisa  misurato.  Si  faceano  orditi,  e  s'  iiiuìiaginavano 
contrasti  per  istordire  lo  spettatore  e  piacergli  co- 
munque si  fosse,  non  già  per  1'  amore  dell'  arte  e 
del  vero.  Non  eran  più  quegl'  ingegni  e  quella  scuola, 
che  vedeano  la  natura  per  forza  d' istinto  e  schietta- 
mente la  rivelavano  altrui,  e  solo  a  questo  e  non  a 
produrre  effetti  abbaglianti  si  valevano  dell'arte  che 
l'arte  nasconde.  Ciò  non  di  meno  alcuni  di  questi 
jiutori  aveano  pregi  diversi,  e  se  non  dipingevano 
secondo  verità  i  personaggi  da  loro  ideati,  pur  sotto 
in  veste  di  quelli  faceano  mostra  de'  lor  propri  sen- 
timenti e  della  loro  immaginazione.  Tra  questi  sono 
nominati  il  Destouches,  il  Lachaussée  e  l'autore  del 
Metromane.  Ma  la  cosa  volse  al  peggio  dopo  il  Gres- 
set.  Era  venuto  a  moda  un  linguaggio  artificiato  , 
che  falsava  e  copriva  piiì  che  svelasse  gì'  interni 
sentimenti  dell'animo:  ed  ecco  gli  autori  comici  a 
farsene  prò  e  quindi  non  riuscire  ad  alti'o  che  a  fai* 
pittura  della  frivolezza  delle  sale  eleganti.  A  queste 
commedie  di  effunera  sostanza  si  mescolavano  i 
drammi  del  Diderot  e  de'  suoi  imitatori  ,  dove  era 
meravigliosa  la  pompa  delle  parole,  la  esagerazione 
dei  sentimenti,  e  la  smania  di  annobilire  ciò  ch'era 
basso  e  ciò  ch'era  alto  avvilire.  Ma  tutto  ha  poi-tato 


88 
via  il   lempo  :   uè  quella  turba  d'autori  si  ricorde- 
rebbe dove  non  mostrasse  l' indole  del  secolo  in  cui 
vissero.  Il  Colle  solamente  die  cenno  come  poteva 
farsi  ancora  la  commedia;  ma  dell'  ingegno  suo  la- 
sciò poche  tracce.  In  tale  stato  era  il  teatro  fran- 
cese quando  comparve  il  Burbero  benefico  del  Gol- 
doni. La  qual  commedia  a  me  non  sembra  parte- 
cipi dei  difetti,  che  fi  De  Barante  rimprovera  a'suoi 
compatriotti.  Noi  però  non  verremo  a  odiosi  para- 
goni, e  ci   teniamo  assai   paghi  che  il  nostro  fosse 
onorevolmente  ascritto  tra  gli  autori  di  quella  illu- 
stre   nazione.  Pari  sorte  non  ebbe  1'  Avaro  fastoso. 
Quindi  egli  si   tacque.  E  vide  i   trionfi  del  Voltaire 
ritornato  a  Parigi,  e  quelli  di  Mesmer,  di  Montgolfier, 
di  Beaumarchais,e  la  collana  di  Cagliostro,  e  la  guer- 
ra americana.  E  scrisse  le  sue  memorie  sino  all'an- 
no  1787,  ottantesimo  dell'età  sua.  Intanto  si  avvi- 
cinava la  tempesta  della  rivoluzione;  né  so  se  egli 
se  ne  addesse.  Ma  quando  essa  scoppiò,  e'  sì  vide 
còlto  dalla  miseria  sul  letto  di  morte,  perchè  la  sua 
pensione  di  quattromila  lire  iscritta  nella  lista    ci- 
vile fu  cassata  ai   10  di  agosto  del  1792.  Però  nel 
dì  7  gennaio  dell'anno  seguente,  la  convenzione  per 
relazione  dello  Chenier  decretò  gli  fosse  pagata  dal 
tesoro    nazionale   con  le  somme  arretrate  sino  dal 
luglio  del   1790.  Il  giorno  appresso  Carlo   Goldoni 
era  morto.  Alla  consolatrice  della  sua  vita,  alla  sua 
vedova,  vecchia  di  settantasei  anni,  fu  decretata  una 
pensione  di  milledugento  franchi.  Gravi  e  tremendi 
eventi  si  compievano,  e  più  gravi  e  tremendi  se  ne 
preparavano    alla  Francia  e  all'  Europa.  Chi    potea 
volgere  il  pensiero  al  vecchio  scrittore  italiano  e  alla 


89 
sua  antica  compagna  ?  Che  disse  egli  nell'ore  estre- 
me ?  In  che  parte  della  travagliata  città  fu  sepolto  ? 
Niuno  il  sa  :  e  a  me  postero,  in  queste  affannose 
ore  della  mia  vita,  sembra  vedere  quella  veneranda 
canizie,  quell'aspetto  anco  negli  ultimi  momenti  se- 
reno, volgere  uno  sguardo  d'addio  alla  donna,  che 
gli  sorrise  la  vita  dividendo  le  sue  gioie  e  i  suoi 
dolori,  ispiratrice  e  moderatrice  de'suoi  estri  feste- 
voli. Se  non  che  gli  giungono  alle  orecchie  le  grida 
popolari  che  si  levano  nella  via  ,  e  il  suo  spirito 
s'addolora:  poi  volge  le  luci  moribonde  al  cielo  pre- 
gando pietà  per  la  infelice  famiglia  che  dal  piij  bello 
dei  troni  era  trascinata  all'  ignominia  del  supplizio. 
Felice  che  non  vide  il  capo  della  regina  dell'Adria- 
tico, della  veneranda  sua  patria,  nudato  della  prin- 
cipesca corona,  mostrare  a  dileggio  di  libertà  quel 
berretto,  che  meglio  sarebbesi  convenuto  a  giullari  ! 


90 


Sili  bagni  pubblici  slabilili  in  Sicilia 
negli  antichi  tempi. 


[ 


Lia  società  italiana,  compilatrice  del  dizionario  delle 
invenzioni  e  scoperte,  pubblicato  in  Milano  nel  1828, 
all'articolo  Bagni  pubblici,  opinò  che  se  ne  dovesse 
attribuire  la  introduzione  agli  orientali,  della  quale 
i  greci  non  tardarono  a  seguir  l'esempio.  Soggiunse 
sulla  autorità  di  Plinio,  che  in  Roma  non  prima  del 
tempo  di  Pompeo  vi  fossero  all'oggetto  destinati  edi- 
fìci pubblici.  Diodoro  Siculo  non  parla,  per  quanto 
mi  ricordi,  di  bagni  pubblici  nei  tempi  più  vetusti 
in  oriente  ,  nò  in  Egitto,  ove  per  ragione  del  cal- 
dissimo clima  sarebbeio  slati  più  necessari.  Che  i 
particolari  slensi  bagnati  nel  maie  ovvero  ne'  fiumi, 
e  i  più  agiati  poi  siensi  fatti  costruire  per  privato 
uso  nelle  loro  case  de'  bagni,  ciò  non  dovette  solo 
accadere  in  oriente,  ma  in  ogni  dove,  per  procurarsi 
la  nettenza  del  corpo,  o  per  guarirsi  d'alcune  infermi- 
tà, 0  per  ristoro  delle  membra  nel  tempo  estivo  (1). 


(1)  Ricavasi  dal  Pollerò  (Archeol.  greca  presso  Gronovio 
l.  12,  pag.  750)  il  seguente  passo:  Certwn  est  ex  Artemidori 
loco,  lib.  1,  cap.  66,  publica  balnea  veteribus  nulla  fiiisse. 

Ateneo  scrive  che  i  persiani  furono  i  primi  in  oriente  a 
far  uso  di  bagni;  ma  da  principio  per  delizia  de'  particolari 
nelle  proprie  case,  e  poi  a  pubblico  comodo.  Dario  nella  sua 
reggia  ne  avea  di  tal  magnificenza,  che  furono  ammirali  dallo 
slesso  Alessandro,  al  dir  di  Plutarco.  Allora  adottar  si  dovette, 
secondo  asserisce  Strabone  ,  la  pratica  de'  bagni  pubblici  in 


91 

Ma  di  bagni  pubblici  non  molto  prima  della  greca 
civiltà  non  ho  trovato  memoria  negli  antichi  scrit- 
tori, se  non  in  Sicilia,  come  ci  vien  detto  dallo  stesso 
Diodoro.  I  sicani,  che  precedettero  di  non  pochi  se- 
coli le  gieche  colonie  ad  abitar  1'  isola  nosli'a,  co- 
nobbero la  necessità  per  uso  medicinale  di  costruir 
edifici  alle  terme  minerali  che  sgorgano  in  varie  parti 
della  medesima.  Ercole,  al  dir  di  quell'  isterico,  fe- 
steggiato tra'sicani,  fu  condotto  dalle  ninfe  per  ri- 
sloiarsi  nelle  terme  imeresi,  la  cui  polla  vicino  al 
mare  spiccia  calda,  e  a  breve  distanza  raffreddasi, 
e  similmente  in  quelle  segestane  (1). 

Sin  da'  tempi  mitici,  o  semi-storici  adunque,  e 
prima  che  Imera  fosse  fondata  da  Euclide,  Simo  e 
Sacone,  circa  649  anni  av.  G.  C,  ed  Egesta  ante- 
riormente d'assai  ,  le  terme  di  quelle  due  contrade 
aver  doveano  un  recinto  di  mura  per  uso  di  bagni 
degli  indigeni  e  degli  stranieri;  perocché  non  è  ve- 
risimile che  Ercole  si  spogliasse  delle  vesti  di  ani- 
mali che  recava  addosso,  e  si  esponesse  ignudo  alle 
nostre  forosette,  da  Diodoro  appellale  ninfe.  So  che 
il  mio  chiarissimo  amico  Nicolò  Palmieii,  di  cara 
e  acerba  ricordanza,  giudicò  che  la  icnografia  del- 
l'antico edifìcio  imerese,  scoperta  nella  costruzione 
del  nuovo,  indicasse  l'epoca  romana;  ma,  a  mio  av- 

Grecia  ad  imitazione  di  quelli  delle  loro  colonie  di  Sicilia,  e 
innanzi  dagli  spartani,  come  attestano  Polibio  e  Dione.  [Bac- 
cius  De  thermis  veter,  ap.  Gron.  t.  12,  f.  295]. 

(1)  L'arrivo  di  Ercole  in  Sicilia,  le  sue  avventure,  e  l'of- 
ferta fattagli  dalle  ninfe  de' bagni  imeresi  e  de'segestani,  sono 
narrate  da  Diodojo  nel  lib.  IV  cap.  X!I  della  sua  Bib. 


92 
viso,  la  pianta  di  due  circoli  concentrici,  che  chiuJ 
deano  un  arco  circolare  di  ottanta  palmi  di  diame- 
tro ,  con  mura  attorno  di  sei  palmi  ,  dìscostandosi 
alquanto  da  quella  de'  romani  ,  descritta  da  Vitru- 
vio,  ci  richiama  all'epoca  greca.  Però  quell'edifizio, 
che  mostrava  il  progresso  dell'arte,  non  fu  certo  il 
primitivo  ,  che  creder  dobbiamo  essere  stato  assai 
rozzo;  ma  quello  costruito  ne'due  cento  quarant'anni, 
in  cui  fiorì,  e  rimase  in  piedi  la  detta  città  distrutta 
da  Annibale  per  vendicar  la  morte  del  suo  consan- 
guineo Amilcare. 

Né  questi  soli  bagni  termali  son  rammentati  da 
Diodoro  in  Sicilia,  come  appartenenti  ad  epoca  re- 
molissima. 

Cocalo  re  de'  sicani  aveva  un  bagno  presso  la 
sua  reggia  in  Gamico,  ove  poscia  sorse  Agrigento. 
Quegli  regnava,  come  può  ricavarsi  da  Erodoto,  tre 
generazioni,  ossia  circa  un  secolo,  prima  della  presa 
di  Troia. 

II  nostro  Diodoro  accenna  quel  bagno  all'occa- 
sione di  descrivere  la  venuta  di  Minos  con  l'esercito 
cretese  in  Sicilia,  ove  Dedalo,  famoso  artista,  erasi 
ricovrato  presso  Cocalo,  e  che  l'altro  intendeva  di 
strappargli  di  mano,  onde  vendicarsene  per  aver  fa- 
vorito gli  amori  di  sua  moglie  Pasifae.  Però  essendo 
stato  prima  dal  re  sicano  con  astuzia  accolto  ospi- 
talmente, e  condotto  a'suoi  bagni,  fu  ivi  fatto  sof- 
focare, per  liberarsi  di  quel  potentissimo  straniero, 
il  quale  avea  forse  in  mira  d' impadronirsi  de'suoì 
dominii.  L'  antichità  di  questa  terma  ,  e  più  della 


93 

imerese,  fu  liconosciuta  anteriore  a  quelle  delle  allre 
nazioni  (1). 

Dedalo,  ch'eccelleva  non  meno  nella  scultura  che 
nell'architetluia,  costruì  indi  ad  imitazione  de'  no- 
stri antichi  bagni  le  terme  selinuntine,  senza  meno, 
con  pili  intelligenza  ed  arte  di  quelle  imeresi.  Essi 
furono  cavate  nella  viva  roccia  ,  e  dando  adito  al 
fuoco  sotterraneo  di  esalare,  eccitavano  un  vapore 
salutifero  per  mezzo  delle  acque  minerali  che  vi  sgor- 
gano. Queste  terme  son  quelle  che  tuttavia  esistono 
in  Sclacca,  antica  contiada  de'seliiiunlini,  e  vengon 
celebrate  da  Diodoro  tra  le  opere  di  quell'  insigne 
artefice  (2).  Kgli  è  vero  che  i  bagni  nelle  case  di 
ragguardevoli  personaggi,  o  ne'fìumi  o  nel  mare  senza 
appositi  edifizi  sulle  sponde,  rimontano  presso  i  greci 
all'epoca  eroica,  come  attesta  Omero  nell'  Iliade  e 
nell'Odissea  (3);  ma  non  di  quelli  con  casamento  a 
pubblico  comodo,  come  in  Sicilia. 

Dopo  la  guerra  di  Troia  coli'  iniziala  civiltà  co- 
minciarono i  greci  a  Irar  vantaggio  prima  dalle  acque 


(1)  Vedi  Diodoro  Siculo,  Bibliot.  lib.  IV  cap.  XXX.  Ivi 
leggesi  pure  che  Dedalo  fabbricò  in  Sicilia  a'  selinuntini  una 
terma,  in  cui  ingegnosamente  raccolse  il  vapore  che  cocentis- 
sinio  usciva  di  sotterra  da  eccitare  in  chiunque  un  voluttuoso 
e  salutare  trasudamento.  Ecco  i  bagni  pubblici  termali  in  uso 
nella  nostra  isola  ,  e  costruiti  artisticamente  da  Dedalo  pria 
della  guerra  di  Troia  e  delle  nostre  greche  colonie.  Quell'ar- 
chitetto, secondo  la  plausibile  cronologia  di  Newton,  fiorì  986 
anni  avanti  G.  C.  Ma  le  terme  della  campagna  imerese  e 
selinuntina,  ove  bagnossi  Ercole,  erano  anche  prima  in  uso  in 
Sicilia;  perchè  egli  è  più  antico  di  Dedalo. 

(2)  Diod.  loc.  cit. 

(3)  Iliad.  lib.  X  e  XXI,  Odiss,  lib.  IV  e  VI. 


94 

termali  per  la  cura  di  peculiari  infennità,  costruen- 
dovi edifici,  e  poi  innalzando  pubblici  bagni  di  acque 
dolci,  0  marine,  per  il  popolo.  All'epoca  di  Platone, 
di  Aristofane  e  di  Senofonte,  che  fu  quella  del  lor 
maggiore  incivilimento,  si  estese  la  costumanza  dei 
bagni  pubblici,  e  vi  si  aggiunse  per  i  più  agiati  cit- 
tadini la  voluttà  degli  unguenti  e  degli  odori  (1),  che 
indi  fu  imitata  da'  romani  ne'  tempi  posteriori  im- 
periali. 

Quando  l'ateniese  Teocle  verso  P  olimpiade  XI 
(734  av.  G.  C.)  condusse  i  suoi  calcidesi  in  Sicilia, 
e  vi  fondò  la  prima  greca  città  da  lui  detta  Nasso, 
quegli  arditi  avventurieri  non  aveano  lasciato  bagni 
pubblici  in  Grecia  ,  e  li  ritrovarono  in  quest'  isola 
da  più  secoli  stabiliti  nelle  città  sicane  e  sicule,  e 
ne  adottarono  subito  l'uso  che  fu  imitato  dalle  altre 
posteriori  colonie  elleniche  che  qui  passarono  suc- 
cessivamente. Dalla  Sicilia  sembra  adunque  ,  che 
prima  nella  vicina  Magna  Grecia,  ov'eran  trascorse 
altre  colonie,  e  poi  nella  Grecia  madre,  colla  quale 
i  greco-sicoli  aveano  frequenti  comunicazioni,  pas- 
sasse tal  costumanza,  come  è  provato  dall'epoca  di 
anteriorità  de'  nostri  bagni  e  di  quelli  del  vicino  con- 
tinente. 

Il  clima  di  Sicilia,  mite  generalmente  nell'  in- 
verno, e  caldo  nell'està,  e  l'indole  voluttuosa  de'greci, 
ne  rese  comune  l'usanza,  se  non  in  tutte  o  almeno 
nelle  città  principali  dell'isola  da  essi  o  dagli  altri 
popoli  precedenti  occupate.  E  quelle  a  cui  la  natura 


(1)  Aristoph.  in  Pini.  v.  o3o,  e  Schol.  ibid.  Polluce  lib.  VII, 
cap.  13-. 


95 

nelle  loro  vicine  campagne  era  stala  generosa  di  sa- 
lutifere acque  minerali  non  trascurarono  per  certo 
di  fornirle  di  comodi  e  decorosi  edifìci,  le  cui  stanze 
furono  distribuite,  secondo  un  sistema,  che  la  espe- 
rienza madre  antichissima  della  medicina  indicava 
opportuno,  per  Irar  profitto  della  virtù  delle  acque 
termali,  e  colla  diversa  temperatura  dell'aria  assi- 
curar la  vita  degl'infermi.  Laonde  sin  d'allora  la  fe- 
conda lingua  de' greci  prestossi  alla  denominazione 
delle  diverse  stanze  destinate  a'vari  usi,  come  quella 
di  apodilerio  per  ispogliarsi  :  l'altra  di  lautvon  pei 
bagni  nelle  acque  già  rese  fresche  per  lo  allontana- 
mento della  sorgente:  quella  appellata  ihermolousia., 
che  essendone  più  vicina,  calde  le  apprestava:  laco- 
nicum  per  la  stanza  destinata  alla  trasudazione  per 
mezzo  de'vapori  caldi  prodotti  dal  fuoco,  che  nella 
camei'a  contigua  si  accendeva,  e  li  tiamandava  coi 
tubi  che  li  facevan  penetrare  pe'muri  forati,  e  final- 
mente di  una  stanza  di  media  temperatura:  affinchè 
chi  uscisse  dal  bagno  non  fosse  istantaneamente  col- 
pito dall'aria  fredda  a  danno  della  salute. 

Di  questa  ellenica  terminologia  quella  soltanto 
della  stanza  destinata  a  sudare,  detta  laconicum,  ri- 
chiama l'uso  speciale  speculato  forse  in  Laconia,  e 
non  in  Sicilia,  ove  dovette  essere  adottata  posterior- 
mente alle  altre  nate  qui  colla  distribuzione  de'nostri 
bagni,  e  dopo  che  s'impadronirono  gli  abitanti  di 
Magna  Grecia,  madre  del  nostro  sistema  architetto- 
nico de'bagni  che  poscia  passò  a'romani  con  un  piano 
più  vasto  e  magnifico  nello  edificarli. 

I  nostri  bagni  col  gusto  crescente  delle  belle  arti 
fuiono  per  certo  adornati  di  statue.  Quelle  di  Venere 


96 

e  di  Esculapio,  l'una  di  egregio  scarpello  greco,  da 
gareggiai'  con  la  capitolina,  e  l'altra  inferiore,  ri- 
trovate in  Siiacusa,  e  che  or  si  ammirano  nel  suo 
piccolo  museo,  puossi  argomentar  che  servissero  per 
qualche  privalo  o  pubblico  bagno;  perocché  son  di 
tulio  finimento  anche  nella  parte  di  dietro:  il  che 
fatto  non  avrebbero  gli  artisti,  se  fossero  state  de- 
stinate a  collocarsi  in  nicchie  :  e  ciò  praticavano 
quando  doveano  essere  vagheggiate  da  tutti  i  punti, 
come  nelle  vasche  de'bagni.  La  dea  di  amore  per 
altro  bene  addicevasi  alla  voluttà  dei  medesimi,  e 
il  dio  della  salute  alla  guarigione,  sperata  dalle  per- 
sone che  li  frequentavano. 

K  che  anche  in  Roma  da  Sicilia,  e  non  da  Grecia, 
trascorresse  l'uso  e  il  sistema  architettonico  de'bagni 
pubblici,  ho  l'agion  di  argomentarlo  da  un  fatto  isto- 
rico:  cioè,  che  i  romani  non  pria  della  CXLI  olim- 
piade (214  avanti  G.  C.)  quando  essi  furono  chiamati 
in  Epiro,  come  truppe  ausiliarie  contro  Filippo,  co- 
minciarono a  visitare  la  Grecia;  ma  all'incontro  assai 
prima  frequentarono  la  Sicilia  per  provvedersi  di  fru- 
menti, di  vini,  e  di  pelli  di  animali.  E  indi  vieppiiì 
si  dimesticarono  con  noi,  e  adottarono  molte  nostre 
costumanze  (1)  dopo  l'olimpiade  CXXVil  (269  avanti 


(1)  Fra  le  molte  accennerò  l'uso  di  tosarsi  la  barba,  in- 
trodotto in  Roma  per  mezzo  de'barbieri  chiamativi  da  Sicilia 
nel  454  dalia  fondazione  di  quella  capitale  del  mondo,  come 
scrive  Varrone  De  re  rust.  ,  e  parimente  la  introduzione  di 
alcune  monete  di  argento  a  detto  dello  stesso  autore  nella 
suddetta  opera  1.  IV.  In  argento  numi  ,  id  a  siculis  ;  de- 
narii ,  quod  denos  aeris  valebant  ;  quinarii ,  quod  quinos  : 
sesterdus  quod  semis  tertiiis.  Imitarono  la  veste  lunga  detta 


97 
G,  C.)  allorché  strinsero  alleanza  con  Cerone  li  che 
durò  per  molti  anni,  e  in  fine  dopo  che  per  la  in- 
fedeltà e  stoltezza  del  suo  successore  Geronimo  la 
conquistarono.  In  questo  intervallo  appunto,  o  poco 
appresso,  s'introdusse  in  Roma  la  pratica  de'pubblici 
bagni,  da  loro  costruiti  sulla  nostra  icnografia,  ma 
con  maggior  sontuosità  e  lusso  al  tempo  del  niagno 
Pompeo  e  successivamente.  La  greca  denominazione 
delle  stanze  a'  diversi  usi  de'  bagni  ritennero  e  tra- 
sportarono sin  anco  nella  loro  lingua  (1).  E  come 
ne  divennero  amantissimi  in  Sicilia,  e  ne  ritrassero 
dalla  medesima  i  modelli  per  imitarli  in  Roma;  così 
curarono  di  riparare  ben  anco  quelli,  che  in  questa 
isola  ritrovati  aveano  rovinati  dalle  vicende  delle 
guerre  e  del  tempo  ;  perocché,  avendo  qui  spedite 


talare  siciliana,  inventanta  pel  teatro  da  Formo  siracusano  , 
secondo  Snida  e  la  denominarono  Chiridota;  sebbene  la  ri- 
guardassero comò  degna  d'  uomini  molli ,  preferendo  quella 
corta  al  ginocchio,  Lex.  t.  3,  p.  1078.  Adottarono  pure  il  nostro 
orologio  solare  sul  modello  di  Catania ,  recato  in  Roma  dal 
consoie  Messala  ,  e  la  sfera  di  Archimede  ,  copiata  indi  da 
Posidonio  in  Roma.  Qual  meraviglia  che  dalia  Sicilia  abbiano 
ricevnta  ancora  l'usanza  dei  bagni  pubblici? 

(1)  Pottero,  Op.  e  ioc.  cit.,  scrive  che  i  romani  prima 
aveano  bagni  privati,  come  l'accerta  Varrone:  Domi  suae  quisque 
lavatur.  Ateneo,  che  fioriva  verso  l'anno  228  di  G.  C,  afferma 
che  non  molto  innanzi  del  suo  tempo  si  erano  introdotti  bagni 
pubblici  in  Roma,  permessi  solo  fuori  la  città  (Dipn.  lib.  1, 
in  fin.).  Le  stanze  per  bagni  all'uso  romano  erano  come  qu&lle 
di  Sicilia,  cioè  : 

1.  Quella  per  ispogliarsi,  ubi  vestes  exebant. 

2.  Stanza  di  forma  rotonda,  appellata  sudatorium. 

3.  Lavacrum  calidae. 

4.  Lavacrum  frigidae. 

3.  Locus  in  quo  post  lotionem  ungebantur. 
G.A.T.CLXV.  7 


98 
molte  colonie  per  popolarla,  ed  essendosi  qui  sta- 
biliti non  pochi  patrizi  che  acquistato  aveano  vasti 
possedimenti  ,  si  rese  ad  essi  una  nuova  abitudine 
contratta  necessario  l'uso  dei  bagni  sotto  il  nostro 
clima  più  caloroso. 

Catania  conserva  gli  avanzi  di  un  magnifico  ba- 
gno nella  piazza  del  duomo  entro  il  suo  cimitero. 
Per  un  lungo  corridoio  si  va  ad  una  stanza  quadrala 
di  palmi  46  per  lato  ,  sostenuta  da  quattro  piloni 
del  vano  di  undici  palmi:  segue  un  portico,  ove  sono 
cinque  stanze  a  volta  semi-sferica,  destinate  al  ba- 
gno. Allato  al  muro  ad  est  si  scorge  l'antico  aqui- 
dotto.  La  fabbrica  è  di  masse  di  lava,  e  gli  archi  e 
zoccoli  degli  stipiti  delle  aperture  son  di  mattoni. 
Le  volte  e  le  pareti  si  veggono  intonacate  con  istue- 
chi  di  ligure  ed  ornamenti,  fra' quali  vi  han  putti, 
tralci  e  grappoli  di  uva,  ed  altri  emblemi  baccanali. 
Varie  monche  iscrizioni  rinvenutevi,  e  conservatesi 
nel  museo  di  Biscari,  palesano  quel  bagno  essere  stato 
denominato  Achilleo,  e  restaurato  sotto  il  procon- 
sole Q.  Lucio  Laberio.  L'  edifizio  esser  dovea  più 
esteso  di  quel  che  si  scorge;  perocché  le  fondamenta 
del  duomo  ed  altre  fabbriche  moderne  impediscono 
di  osservarne  la  continuazione. 

Nel  vicolo  de'canali  e  nel  convento  dell'  Indirizzo 
della  stessa  città  si  osserva  ancora  un  altro  bagno 
con  varie  stanze,  fra  le  quali  una  ottagona  della  dia- 
gonale di  palmi  22.  50.  Le  fornaci  ,  la  conserva 
d'acqua,  vari  condotti,  i  tubi  di  piombo  per  l'aria 
rarefatta,  tutto  annunzia  di  essere  stato  quell'antico 
edifizio  destinato  all'  uso  anzidetto.  E  così  pure  è 
creduto  l'altro  della  strada  della  Rotonda  nella  casa 


99 

de'  PP.  della  Concezione,  ove  si  rinvenne  una  stanza 
oltagona  della  diagonale  di  palmi  46,  che  proba- 
bilmente era  V  ipocausto  di  qualche  grandiosa  terma. 
Lì  presso  furono  trovati  de'  pezzi  di  musaico  e  ta- 
lune lapidi  col  motto:  Utere  feliciler:  di  cattiva  pa- 
leografìa. 

Questi  bagni,  appartenenti  senza  meno  all'epoca 
greca, furono  ristorati  nella  romana  successiva,  e  l'ul- 
timo forse  anche  ne'  bassi  tempi  come  si  argomenta 
dalla  forma  delle  lettere, 

L'  abitudine  di  tener  polita  la  persona  divenne 
così  indispensabile  a'greci,  che  essi  fornivan  anche 
di  vasche  i  legni  di  alta  portala  per  bagnarsi  ne' lun- 
ghi viaggi  (1).  Forse  ne  ritrassero  l'esempio  dal  ba- 
gno di  marmo  che  Cerone  II  avea  fatto  riporre  nella 
sua  magnifica  nave,  fornita  di  cisterna,  di  statue,  di 
musaici,  di  gallerie,  di  giardini,  di  torri,  e  di  tutt'al- 
tro  per  apprestar  delizia  e  meraviglia,  e  che  volle 
donare  a  Ptolomeo  Filadelfo  re  di  Egitto.  Secondo 
il  calcolo  del  Palmieri  ,  la  vasca  del  bagno  capiva 
poco  più  di  cinque  barili  e  mezzo  siciliani,  e  l'acqua 
potabile  all'uso  della  ciurma  era  di  settanta  botti  e 
un  barile  (2). 

Nella  generale  devastazione  che  soffrirono  le  an- 
tiche nostre  città  per  la  lunga  guerra  co'cartaginesi 
e  co'romani,  e  poi  cogli  arabi,  e  di  questi  co'nor- 
manni,  e  per  la  forza  ineluttabile  del  tempo  che  di- 
strugge, in  pochi  siti  si  sono  rinvenuti  resti  di  ve- 


li) Spanh.  in  Aristoph.  nub.  v.  987. 
(2)  Palmieri,  Stor.  di  Sic.  pag.  80,  che  ne  ritrasse  la  de- 
scrizione da  Ateneo. 


100 
tusti  bagni  ;  tnn  non  è  da  dubitare  di  quelli  della 
contrada  imerese,  de'segeslani  e  de'selinuntini,  ram- 
mentati da  Diodoro.  Però  nell'ottobre  del  1771  nel 
territorio  tra  Avola  e  Siracusa,  al   di  là  del  fiume 
Cassibili,  in  un  rialto  che  si  avvicina  al  mare  si  sco- 
prirono alcune  stanze  lastricate  di  marmo  con  mura 
ornate  anche  di  marmi  colorati,  che  successivamente 
eran  distribuite  secondo  il  sistema  architettonico  dei 
bagni  de'greci  da  me  poc'anzi  indicato.  Un  vestibolo, 
ovvero  una  palestra  lunga  palmi  24  larga  18,  ac- 
cresceva decoro  e  comodo  a  quell'edificio  ,  che  fu 
con  molta  erudizione  descritto  dal  conte  Cesare  Gae- 
tani  (1),  e  ben  dimostrava  per  le  fabbriche  di  ap- 
partenere all'epoca  greca.  Che  se  questo  bagno  così 
nobilitato  di  marmi  e  d'un  vestibolo  o  d'  una  pa- 
lestra non  era  incluso  nel  recinto  di  Siracusa,  mas- 
sima, al  dir  di  Cicerone,   tra  le  greche    città,  ben 
può  argomentarsi  quali  fossero  stati  i  bagni  di  quella 
regina  dell'  isola  nostra  (2),  e  quelli  di  Agrigento, 
di  Catana,  di  Messana,  di  Taormenio  e  delle  altre 
cospicue  nostre  città,  le  quali  se   agguagliarla  non 
potevano  in  ricchezza  e  in  lusso,  procuravano  di  av- 
vicinarsele, come  dimostrano  i  resti  di  teatri  e  di 


(1)  Nuova  raccolta  di  opusc.  sic.  tom.  IH,  pag.  119  e  seg. 
Palermo,  per  Solli,  1790. 

(2)  Tra  i  monumenti  di  Siracusa,  che  sono  slati  sottraili 
dalla  devastazione,  si  scorgono  in  Orligia  alcuni  bagni.  11  più 
bello  è  in  casa  Bianchi,  conservandovisi  ancora  le  stanze  del 
calidario  e  tepidario,  e  la  vasca  presso  una  sorgiva  d'acqua 
in  parie  sulfurea.  (Chindemi,  Rudim.  sulla  Sicilia,  pag.  87  e 
seg.  Palermo  1843).  Il  Fazello  accenna  fra  gli  altri  nostri  an- 
tichi bagni  quelli  di  Maccara,  piccola  città  greco-sicula,  ram- 
mentata da  Cicerone,  da  Tolomeo  e  da  Plinio. 


101 

tempii,  ammirali  e  studiati  da'nazionali  e  stranieri. 
S.  Cirillo,  scrittore  greco  di  età  ignota,  ma  forse  del 
medio-evo,  ne'suoi  Apologhi  morali  parla  de'  bagni 
di  Palermo  (1). 

L' istoria  anche  accenna  un  bagno  pubblico  in 
Siracusa,  ove  1'  imperatore  Costante,  che  era  di- 
venuto odiosissimo,  fu  trucidato  da'suoi  familiari  non 
siciliani  (2). 

Anche  nei  tempi  arabi  e  normanni,  Palermo  avea 
due  pubblici  bagni,  uno  sulle  sponde  dell'Oreto  verso 
la  Guadagna  (3)  ,  e  -V  altro  vicino  al  palazzo  nor- 
manno nella  contrada  di  Mare  dolce  (4).  Di  amen- 


(1)  Mong.  Mon.  hist.  Mans.  SS.  Trio.  p.  23. 

(2)  Questo  bagno,  ove  fu  ucciso  Costante  nipote  delfim- 
peratore  Eraclio  da  Andrea  e  da  Mezzanzio  bizantini ,  era 
chiamato  bagno  di  Dafnide,  che  forse  esisteva  in  Siracusa  sin 
dall'epoca  greca  (Di  filasi,  Stor.  pi  Sic,  l.  5,  pag.  676,  ediz. 
di  Palermo  1844). 

(3)  Di  filasi,  Stor.  di  Sic,  t.  1.  pag.  636,  edit.  di  Paler- 
mo 1844. 

(4)  Quell'edificetto  degli  antichi  bagni  a  Mare  dolce,  ora 
ridotto  a  fenile ,  è  di  forma  rettangolare.  Quando  fu  da  me 
ossorvato  con  A.  Schonberg  conservava  ancora  quasi  tutti  i 
compartimenti  principali. 

Vi  si  scorgea  una  stanza  per  accendere  il  foco  e  riscaldar 
l'acqua  nelle  caldaie,  e  vari  tubi  di  piombo  per  comunicar 
la  medesima  e  quella  fredda  ,  e  per  trasmettere  il  vapore 
caldo  nelle  altre.  Più  stanze  erano  destinate  per  bagni,  una 
senza  meno  in  acqua  fredda  che  i  greci  chiamavano  laiitron, 
e  l'altra  in  acqua  tepida  da  essi  appellata  fliermolousia,  e  un 
altra  per  bagno  a  vapore  caldo  detta  laconicim.  In  questo 
stavano  attorno  sul  pavimento  molti  piccoli  sedili  di  pietra, 
affinchè  ciascuno  adagiandovisi  ignudo  ricevesse  su  tutta  la 
snperficie  del  corpo  la  salutare  ed  eccitante  impressione  del 
vapore,  che  penetrava  dalle  mura  circostanti  per  mezzo  dei 


102 

due  esistono  ancora  i  lesti  ;  anzi  del  secondo,  co- 
struito al  doppio  oggetto  di  bagni  a  vapore  ,  e  di 
acqua  dolce,  fu  ritratto  alla  mia  presenza  il  disegno 
dal  mio  amico  A.  Schònberg,  dottissimo  medico,  il 
quale  ne  lodò  l'artifizio  architettonico  e  l' intelligenza 
per  l'uso  medicinale. 

Nella  campagna  di  Diana  Cefalà,  distante  20  mi- 
glia da  Palermo,  si  scorge  tuttavia  un  bello  e  sem- 
plice edifizio  dell'  epoca  mussulmana,  destinato  sin 
d'allora  a  bagni  per  le  acque  minerali  che  vi  sgor- 
gano ,  e  sono  anche  adesso  utilmente  adoperale 
per  alcune  infermità. 

Dal  fin  qui  detto  par  che  si  possa  dedurre  che 
l'uso  «dei  bagni  medicinali,  e  di  quelli  di  acqua  dolce, 
necessari  alla  nettezza  e  al  ristoro  del  corpo,  prima 
che  altrove  sia  stato  introdotto  in  Sicilia:  e  ciò  non 
è  li^re  argomerjlo  dell'  incivilimento  precoce  dei 
nativi  di  quest'  isola. 


tubi  anzidetti.  Non  mi  ricordo  se  vi  fossero  una  o  due  ca- 
menette  superiori,  ove  ascendevasi  per  piccola  scala  a  sca- 
glioni ,  e  queste  eran  forse  destinate  ad  ispogliarsi  e  vertirsi  i 
bagnanti,  denominale  dai  greci  apocUterii. 

Questo  bagno,  che  per  la  sua  piccolezza  sembrava  ad- 
detto ad  uso  della  famiglia  reale,  quando  soggiornava  nel  con- 
tiguo palazzo,  non  ostante  che  fosse  stato  costrutto  nell'epoca 
normanna ,  come  quello,  tuttavia  riteneva,  se  non  la  pianta 
de'greci,  i  compartimenti  de' loro  bagni:  perchè  la  Sicilia  sino 
a  quel  tempo  ne  conservava  molte  costumanze  in  prosegui- 
mento delle  colonie  greche,  e  della  denominazione  bizantina, 
non  ostante  le  intermedie  interruzioni  di  dominii  de'  romani 
e  degli  arabi,  che  precessero  la  conquista  normanna.  Ma  già 
la  pianta  generale  e  la  forma  parziale  de'bagni  era  alterata, 
e  con  maggior  pregiudizio  nel  laconicum,  la  cui  rotondità  molto 
influisce  a  tramandare  e  accrescere  inslantanearaente  il  calore 
sull'uomo  ;  laonde  fu  con  fina  intelligenza  preferita  da'  greci. 


103 

Ma  recar  deve  meraviglia,  che  essendo  qui  sta- 
biliti i  bagni  da  sì  remota  antichità,  ne'tempi  mo- 
derni manchi  un  pubblico  bagno  sinanche  in  Pa- 
lermo, capitale  della  Sicilia.  Anzi  aggiungerò  che  ne 
fu  da  me  presentaio  al  governo  verso  il  1828  il 
progetto:  e  inviato  al  d^curionalo  ,  è  rimasto  ino- 
peroso tino  adesso   (I). 


(1)  Le  idee  principali  di  quel  mio  progetto  orano  le  se- 
guenti : 

11  luogo  da  destinarsi  a'pubblici  bagni  esser  dovea  l'an- 
tico fabbricato  nel  macello  abolito  degli  animali  bovini  nel 
largo  di  S.  Onofrio  di  proprietà  del  comune,  che  trovasi  gran 
copia  d'  acqua  che  pur  gli  appartiene.  Questo  sito  in  appa- 
renza appaltato  ha  il  vantaggio  di  comunicare  immediata- 
mente colla  strada  Macqueda,  una  delle  più  frequentate  della 
città;  e  però  diveniva  opportunissimo  all'oggetto.  Il  comune 
dovea  far  la  spesa  per  la  riforma  e  lo  ingrandimento  delle 
fabbriche;  affinchè,  convertitosi  l'edificio  in  hagni,  qualche 
particolare  speculatore  lo  togliesse  e  fitto  annuale  discretis- 
simo ,  avuto  riguardo  alla  pubblica  utilità  che  ne  risultava  , 
per  la  quale  il  comune  sacrificar  dovea  parte  de' frutti  del 
capitale  impiegato,  coU'espressa  condizione  del  modico  prezzo 
delle  begnature. 

I  bagni  doveano  essere  costruiti  secondo  un  sistema  medio 
tra  l'antico  e  il  moderno  facilmente  combinabile. 

Un  piccolo  portico  con  un  caffè  a  destra,  con  un  risto- 
ratorio  a  sinistra,  decorarne  dovevano  il  prospetto.  Tre  in- 
gressi doveano  condurre  alle  stanze  interne  ;  quello  centrale 
con  una  sala  con  vòlta  acuminata  a  cristalli  come  il  bazar  dì 
Milano,  e  bene  addobbata  per  adagiarsi  e  attendervi  i  ba- 
gnanti. Due  corridoi,  uno  a  destra  e  l'altro  a  sinistra,  con  file 
successive  di  camerette  da  bagni  esser  doveano  destinati,  uno 
per  gli  uomini,  e  l'altro  per  le  donne,  servite  da  persone  del 
rispettivo  sesso. 

Ogni  cameretta  dovea  avere  un  lucernale  superiore  e  cri- 
stalli, e  un  piccolo  stanzino  per  segreta,  con  fornimento  da 


104 

Nò  mirioi'  meraviglia  recar  deve  che  in  tutta  l'i- 
sola nostra,  dominata  nel  tempo  estivo  dall'urente 
sirocco,  e  sottoposta  ad  un  clima  assai  caldo,  non 
solo  in  Palermo,  ma  in  Catania  e  in  Siracusa  (meno 
che  in  Messina  più  frequentata,  anzi  scelta  a  sog- 
giorno di  molti  stranieri)  non  vi  siano  bagni  puh- 
brici:  mentre  godono  di  questo  vantaggio  quasi  tutte 
le  città  d'Italia,  che  ho  visitato,  non  esclusa  la  pic- 
cola Terni  nell'Umbria,  che  conta  poche  migliaia 
di  abitanti  (1). 

Le  stesse  acque  termali,  che  la  natura  genero- 
samente ci  ha  laigito  in  pili  siti  per  guarirci  di  molte 
infermità,  o  mancano  di  edifìci  decorosi  <;  comodi, 
0  sono  forniti  appena  di  casolari  che  ispirano  orrore, 


toilette,  biancheria  ed  altro.  Quattro  camere  a  parte  in  fondo, 
due  per  ciascun  lato,  erano  destinate  una  a  coloro  che  voles- 
sero prendere  il  bagno  d'acqua  di  mare,  che  ogni  giorno  tra- 
sportar si  doveva  nello  stabilimento,  e  un'altra  per  bagno  a 
vapore,  sia  semplice,  sia  solforoso  per  raalatie  cutanee,  pre- 
paralo secondo  il  metodo  del  celebre  professore  Assalini.  Il 
vapore,  dell'una  o  dell'altra  maniera  dovea  comunicarsi  per 
mezzo  di  tubi  di  piombo. 

Questa  era  l'idea  del  compartimento  generale  del  nuovo 
stabilimento  de'  bagni,  non  molto  diverso  da  quelli  da  me  os 
servati  in  varie  città  d'Italia. 

Quanto  a'parziali  per  tutti  gli  altri  comodi,  si  lasciavano 
ad  escogitarli  all'architetto  intelligente  a  cui  era  commesso  il 
fabbr  reato. 

(1)  L'  abbondanza  delle  acque  sorgive  in  Palermo  e  in 
altre  città  di  Sicilia,  che  si  fan  salire  artificialmeute  sino  agli 
ultimi  piani  delle  case,  rende  per  vero  qui  meno  necessari  i 
bagni  pubblici,  che  in  Napoli  e  nelle  altre  parti  d'Italia  e  di 
Europa.  Ne'migliori  alberghi  delle  nostre  principali  città  tro- 
iano i  forestieri  vasche  per  bagnarsi  ;  sebbene  a  prezzo  in- 
discreto. 


105 
tranne  quelle  di  Termini  che  per  ordine  di  S.  A.  R., 
indi  re  Francesco  I,  furono  fornite  di  un'  elegante 
fabbrica  ,  ideata  dal  celebre  architetto  Emanuele 
Marvuglia:  e  sì  pure  le  terme  di  Caslroreale,  che 
hanno  comodo  e  decente  alloggio  per  gl'infermi.  E 
qui  ci  spiace  di  ricordare  che  le  acqne  sulfuree  di 
Sclafant,  che  dal  nobile  proprietario  erano  state  ri- 
cinte di  un  bel  fabbricato,  presentano  ormai  pel  eroi- 
lamento  del  medesimo  un  mucchio  di  rovine.  Le 
acque  minerali  di  Segesta  sì  decantate  nell'antichità, 
secondo  attesta  Diodoro,  per  la  loro  virtù  salutifera, 
scorrono  sbrigliate  a  impaludar  le  campagne,  e  ad 
uccidere  gli  uomini,  viziando  l'aria  circostante  nel 
tempo  estivo.  Eppure  quelle  nostre  terme,  che  per 
la  qualità  de'minerali  che  tengono  in  dissoluzione, 
e  che  possono  esser  facilmente  studiate  coll'analisi 
chimica,  e  con  applicarsi  a'diversi  malori,  diverreb- 
bero sorgente  di  vita  e  di  ricchezza  agli  abitanti  , 
come  sono  i  bagni  di  Pisa,  di  Lucca,  di  Baden  e 
di  altre  contrade,  sono  pressoché  abbandonate,  ad 
eccezione  delle  poche  surriferite  ! 

Da  quanto  ho  esposto  puossi  ritrarre  ,  che  per 
riguardo  a'pubblici  bagni,  sia  destinati  a  ristoro  e 
delizia  dell'uomo,  sia  per  restituirgli  il  prezioso  dono 
della  salute,  nel  tempo  attuale  noi  siamo  di  molto 
indietro  agli  antichi,  che  piià  provvidi  di  noi  dieronsi 
pensiero  di  un  oggetto  tanto  interressante.  E  Paler- 
mo in  particolare,  cresciuta  indubitamente  di  po- 
polazione e  di  civiltà,  fastosa  del  titolo  e  della  con- 
dizione di  capitale  della  Sicilia  ,  manca  ancora  di 
bagni  ,  che  pur  possedea  nell'  epoca  mitica  ,  nella 


106 

cartaginese,  romana,  bizantina  e  nel  medio  evo,  e 
benaneo  sotto  le  denominazioni  saracena  e  nor- 
manna, da  noi  ingiustamente  poco  men  che  derise 
e  spacciate  come  barbare  (1). 


(1)  Verso  il  1812 ,  se  non  mi  gabba  la  memoria,  fu  da 
uno  speculatore  particolare  stabilito  un  mediocre  pubblico  ba- 
gno nella  villa  Giulia  al  prezzo  di  tari  sei  per  ciascuno  che 
ne  avesse  voluto  godere.  L'eccedenza  del  prezzo,  la  distanza 
dalla  città ,  e  l'uso  della  carrozza  che  a'  bagnanti  rendeasi  in- 
dispensabile, ne  scemarono  la  frequenza,  e  finalmente  ne  fe- 
cero abbandonare  l'impresa.  In  Italia  l'ordinario  costo  dei 
bagni  non  è  più  di  una  lira,  cioè  tari  due  siciliani.  In  està  si 
sono  sostituiti  in  Palermo  indecenti  baracche  di  legno  nel  mare. 
Ciascuno  ne  immagina  le  conseguenze  pel  costume,  comechè 
siano  vigilate  dalla  pubblica  autorità. 

Agostino  Gallo. 


107 


Sperienze  del  prof.  P.  Volpicelìi  sulla  elettricità  atmo- 
sferica. 


Il  prof.  Volpicelìi  fece  noti  alcuni  risullamenti,  che 
seguono,  da  esso  raggiunti  ricercando  nelle  giornate 
non  teniporalesche  la  natura  dell'elettricità  atmo- 
sferica mediante  un'asta  di  ottone  fìssa,  e  nel  mi- 
glior modo  possibile  isolata  sul  tetto  del  mus^o  fì- 
sico  della  univeisità  romana.  1/  estremo  superiore 
dell'asta  medesima  s'  innalza  di  45.'"  39  dal  livello 
del  mare. 

1.°  L'asta  medesima  terminata  superiormente  in 
punta,  od  in  un  globo  metallico,  se  comunicava  me- 
diante l'estremo  inferiore  con  un  elettrometro  il  pili 
sensibile,  ancorché  condensatore,  di  rado  assai  nella 
posizione,  in  cui  sempre  fin  ora  si  è  dall'autore  spe- 
rimentato, manifestava  l'elettricità  atmosferica.  Però 
se  comunicava  con  un  eìettroficopio  condensatore  a 
pile  secche,  sempre  si  avevano  segni  di  elettricità, 
ora  positiva  ed  ora  negativa.  Perciò  questo  elettro- 
scopio è  l'unico,  dal  quale  si  possa  ottenere  sempre 
nel  modo  indicato,  cioè  con  un'asta  fissa,  la  natura 
dell'  elettrico  atmosferico.  Ma  per  esser  certi  della 
natura  medesima,  fa  d'uopo  in  primo  luogo  assicu- 
rarsi bene  che  innanzi  tutto  l'istromenlo  è  allo  slato 
naturale.  Ciò  si  ottiene  toccando  contemporamente 
i  due  suoi  dischi,  e  poscia  separandoli  l'uno  dall'al- 
tro. Se  la  foglia  d'oro  in  questa  separazione  resta 


108 
immobile  ,  si  potrà  cominciare  a  sperimentare.  In 
secondo  luogo  bisogna  raccogliere  la  elettricità  stessa, 
una  volta  col  piattello  superiore,  un'altra  coli'  infe- 
riore dell'  indicato  condensatore  ,  osservando  che  i 
due  risultamenti  sulla  foglia  d'oro  si  accordino  am- 
bidue  neir  indicare  la  stessa  natura  per  la  elettri- 
cità raccolta,  potendo  accadere  che  queste  due  in- 
dicazioni sieno  contrarie  fra  loro  se  non  siasi  bene 
usata  la  prima  cautela.  In  terzo  luogo,  dopo  aver 
terminato  la  sperienza,  bisogna  lasciare  sempre  ognu- 
no dei  due  piattelli  del  condensatore  in  contatto  col 
suolo,  e  separati  l'uno  dall'altro  con  una  foglia  me- 
tallica non  isolata.  Tali  precauzioni  si  rendono  in- 
dispensabili nell'uso  dell'elettroscopio  condensatore 
a  pile  secche,  quando  si  tratti  di  raccogliere  picco- 
lissime dosi  di  elettricità,  quali  appunto  sono  quelle 
che  nelle  giornate  non  procellose  appartengono  al- 
l'atmosfera. La  ragione  di  ciò  principalmente  con- 
siste nella  somma  squisitezza  dell'  istromento  indi- 
cato ,  e  sarà  sviluppata  in  altra  comunicazione  su 
tale  argomento. 

2."  La  natura  della  elettricità  atmosferica  può 
in  qualche  caso  variare  cinque  o  sei  volle  nel  corto 
spazio  di  tre  o  quattro  minuti. 

3."  La  elettricità  atmosferica  ,  presa  coli'  asta 
medesima  terminata  superiormente,  o  da  una  punta 
o  da  un  globo  metallico,  riesce  sempre  della  me- 
desima natura  con  ambidue  questi  mezzi  ;  cioè  se 
positiva  o  negativa  colla  punta,  sarà  pure  tale  col 
globo;  e  per  quello  riguarda  la  carica,  questa  po- 
chissimo diversifica,  e  non  di  rado  apparisce  alquanto 


109 

maggiore  col  globo,  di  quello  che  sia  colla  punta, 
bene  inteso  in  una  medesima  sperienza. 

4.°  Ponendo  sulla  punta  una  fiamma,  un  globo 
rovente,  od  anche  dei  carboni  accesi,  quasi  sempre 
la  elettricità,  che  negativa  si  ottenne  colla  punta  o 
col  globo ,  si  trasforma  subito  in  positiva  tanto 
forte,  che  gli  elettrometri  a  pagliette  possono  per 
lo  pilli  misurarne  la  carica,  e  gli  elettroscopi  sem- 
plici a  pile  secche  divengono  sensibili  alla  medesi- 
ma; cosa  che  assai  raramente  avviene  colla  semplice 
punta  o  globo.  Se  poi  la  elettricità  atmosferica  ot- 
tenuta colla  punta  o  col  globo  sia  positiva  ,  come 
fu  trovata  sempre  nelle  giornate  di  buon  tempo,  in 
tal  caso  la  fiamma  ed  i  corpi  roventane  aumentano 
grandemente  la  tensione.  Più  la  fiamma  è  vigorosa, 
e  più  la  quantità  di  elettrico  sull'elettrometro  è  mag- 
giore :  gli  efl'etti  della  fiamma  ad  alcool  superano 
quelli  della  fiamma  ad  olio.  Da  ciò  si  conclude  che  la 
fiamma  il  più  delle  volte  induce  in  errore  nell'esplo- 
rare  colla  medesima  la  elettricità  dell'atmosfera,  e 
questo  errore  si  riferisce  tanto  alla  natura  dell'elet- 
trico, quanto  alla  tensione  del  medesimo. 

5.°  In  quei  casi  non  frequenti,  nei  quali  la  fiam- 
ma non  cangia  l'elettrico  negativo,  mostrato  dalla 
punta  0  dal  globo,  in  positivo,  essa  neppure  aumenta 
la  tensione  del  medesimo,  anzi  sembra  che  piuttosto 
la  diminuisca. 

6.°  In  una  camera  e  coi  mezzi  sopra  indicati, 
che  sono  i  più  squisiti,  ottenni  delle  tracce  sempre 
positive  di  elettricità  mediante  le  fiamme. 

Queste  mie  sperienze  non  ancora  sono  state  ri- 
petute ad  altezze  maggiori  di  quella  cui  furono  in- 


110 

cominciate,  né  in  giorni  temporaleschi;  perciò  debbo- 
no continuarsi,  tanto  per  fare,  se  mai  fosse  necessario, 
qualche  rettificazione  a  quello  che  ora  fu  comuni- 
cato, quanto  per  aggiungere  altre  circostanze  relative 
al  soggetto,  lo  studio  delle  quali  non  ha  potuto  an- 
cora essere  terminato.  Quindi  la  presente  comuni- 
cazione ha  principalmente  per  iscopo  annunziare  il 
principio  di  uno  studio  ,  consistente  nel  confronto 
fra  i  risultamenti  che  si  ottengono,  prendendo  l'elet- 
tricità atmosferica  con  un'  asta  metallica  isolata  e 
fissa,  ma  terminata  o  da  una  punta,  o  da  un  globo, 
o  da  fiamme  diverse  ,  od  in  fine  da  un  corpo  ro- 
vente; confronto  che  fino  ad  ora  mi  sembra  non  sia 
stato  fatto  ;  e  quando  lo  studio  medesimo  avrà  mag- 
giormente progredito  ,  allora  daremo  di  esso  una 
pili  sviluppata  notizia,  facendo  conoscere  meglio  le 
precauzioni  tutte  usate  per  la  maggiore  esattezza 
del    medesimo. 


112 


Paraenaeticem  -Carmen  s.  Gregorii  Nazianzeni  ad 
Olympiadem.  Ex  graeco  latine  reddilum  a  Jacobo 
Bilìio  Prunaeo  s.  Michaelis  in  Eremo  abbate. 

il  ala  mea,  Olympias,  munus  a  Gregorio  patre  lue 
accipe  ; 

Nam  patris  admonitio  longe  optima  ac  saluber- 
rima est. 

Non  auruin  nobilibus  gemmis  immixtum  rnulie- 
ribus  ornamenlum  offerì;  nec  regia  facies  lurpiler 
iucundis  coloribus  lincia  ,  perniciosàque  alia  facie 
obducta. 

Purpureae  porro  el  aureae,  eximiaeque  et  splen- 
didae  vesles  bis  demum  conveniunl,  quibus  nullus 
vitae  splendor,  nullum  virlulis  decus  suppelit. 

Al  libi  pudicitia  curae  sii,  pulchritudoque  etiam 
clausis  oculis  admiranda.  Mores  aulem,  praeclaram- 
que  famam,  optimum  cerlissimumque  florem  exi- 
stima. 

Deum  quidem  primo,  deinde  autem  maritum  vi- 
tae luae  oculum,  consiliique  lui  arbitrum  ac  dueem, 
cole  ac  venerare. 

Hunc  unum  ama,  buie  piacere  slude;  idque  eo 
impensius,  quo  perfecliori,  arctiorique  amoris  nexu 
eum  erga  te  devinclum   perspexeris. 

Atque  illud  libi  providendum  est,  ne  tantum  fi- 
duciae  libertatisque  capias,  quantum  libi  viri  cupi- 
dilas  offerì;  sed  quantum  honestas  ipsa  concedit. 


113 


Ammonimenli  di  S.  Gregorio  Nazianzeno  ad  Olim- 
piade, carme  greco  recalo  dal  latino  aWitaliano 
dal  canonico  Bernardino  Qualrini ,  già  prof,  di 
eloquenza  nel  collegio  di  Sinigaglia  e  di  Perugia. 


F 


iglia  mia,  Olimpiade,  ricevi  in  dono  da  Gregorio 
padre  tuo  ; 

L'ammonizione  di  un  padre  è  dono  de'migliori 
e  più  salutari  che  mai. 

L'oro  n  preziose  gemme  congiunto  non  dà  or- 
namento alla  donna;  come  né  anche  un  volto  mae- 
stoso d'  artifiziosi  colori  imbellettato  ,  e  sformato 
comunque  da  maschera. 

Porporine  e  dorate  vesti,  ornate  e  sfolgoranti, 
a  quelle  sì  bene  si  affanno,  cui  nò  lustro  di  azioni, 
né  gloria  di  virtù  fa  belle. 

A  te  per  altro  sia  cara  l'onestà  e  quella  bellezza 
che  pure  a  chiusi  occhi  si  lascia  ammirare.  Mori- 
geratezza poi  e  fama  illustre  tieni  in  conto  di  sin- 
golare e  saldissimo  fiore. 

A  Dio  in  prima,  quindi  al  marito,  occhio  della 
tua  vita  ,  arbitro  e  guida  della  tua  mente  ,  porgi 
osservanza  e  rispetto. 

Ama  questo  solo  ,  studia  di  piacere  a  questo  , 
e  tanto  più  di  forza,  quanto  più  lo  scorgerai  preso 
all'amore  di  te. 

Ben  devi    badare  di  non    pigliarti    tutta    quella 
confidenza  e  libertà  che  il  voglioso  marito  ti  offre, 
ma  quella  soltanto  che  l'onestà  ti  consente. 
n.A.T.CLXV.  8 


114 

Quandoquidorn  omnium  rerum  salietas  et  faslì- 
dium  oboritur:  omnium,  inquam,  rerum,  seti  polis- 
simum  amoris;  a  quo  satietatem  omni  ratione  ar- 
ceri  expedit. 

Cave,  ne  cum  foeminam  te  natura  produxerit, 
in  virilem  tumorem  fastumque  prorumpas. 

Ne  generis  tui  nobilitatem  proferas;  ne  ob  ve- 
stìum  elegantiam  supercilicium  tollas. 

Ne  sapientiae  nomine  glorieris;  sapientia  muh'e- 
rum  est  matrimoni!  legibus  obtemperare. 

Omnia  enim  matrimonium  communia  inter  virum 
et  uxorem  fecit. 

Excandescenti  marito  cede:  laborantì  fer  opem: 
eumque  et  molli  oratione  et  optimis  admonitionibus 
iuva. 

Nam  nec  is,  cui  leonum  cura  commissa  est,  irà 
aesluantis  ac  rugientis  belluae  robur  corporis  viribus 
frangit;  sed  cam  blanda  manu,  mollique  verborum 
sono  permulsam  domat. 

Numquam  tibi  accidat,  ut  detrimentum  ullum, 
iacturamque,  etiam  gravissima  irà  percita,  viro  ex- 
probres:  nam  ipse  multo  pluris  tibi  esse  debet,  quam 
omnes  facultates. 

Nec  si  qua  res  contra  ei  cesserit,  quam  ipse  sibi 
proposuerat,  id  ei  obiicias:  nec  enim  aequum  est, 
te  eum  hoc  nomine   insectari. 

Saepe  enim  daemonis  malitià  hoc  usuvenit,  ut 
ea  etiam,  quae  prudentissime  cogitala  sunl,  teter- 
rime cadanl 

lllud  etiam  tibi  cavendum  censeo,  ne  quemquam 
marito  tuo  parum  amicum  laudes,  ut  per  compara- 
tionem  versutà  eum  oratione  perstringas. 


115 

Sendochè  di  tulle  cose  si  vien  satolli  e  anno- 
iali, sì  di  tulle  cose,  ma  sopra  tutte  deiramoie:  del 
quale  giova  tenere  con  ogni  ingegno  lontana  la  sa- 
zietà. 

Siccome  la  natura  ti  ha  voluto  donna  ,  guarda 
di  non  pigliar  tuono  ed  aria  da  uomo. 

Non  millantare  la  nobiltà  della  tua  prosapia  , 
né  montare  in  superbia  per  isfoggiato  vestire. 

Non  pretendere  a  titolo  di  dottoressa  :  dotta  è 
la  donna  che  sa  fare  da  moglie. 

Che  il  matrimonio  fece  del  marito  e  della  ma- 
glie in  tutto  una  cosa. 

Alla  slizza  del  marito  cedi  ;  ai  suoi  travagli  sov- 
vieni ,  e  giovalo  di  dolci  parole  e  di  begli  avver- 
timenti. 

Fn  falli,  anche  colui  che  tiene  in  guardia  leoni, 
non  già  rintuzza  con  battiture  la  feroce  rabbia  onde 
la  bestia  bolle  e  ruggisce,  ma  con  carezzevole  mano 
e  pieghevole  suono  di  voce  l'ammonisce  e  doma. 

Non  sia  mai  caso  che  tu  acoesa  in  ira  Serissima 
rinfacci  al  marito  qualche  danno  o  ruina  :  dacché 
il  marito  debbi  averlo  per  assai  più  d'ogni  tesoro. 

E  se  in  qualche  cosa  il  suo  divisamenlo  gli  fal- 
lisca, non  lo  garrire;  che  non  ti  conviene  per  questo 
dargli  de'guai. 

E  nel  vero,  per  malignità  del  demonio  accade 
sovente  che  pensamenti  savissimi  riescano  alla  ma- 
lora  

In  oltre  io  penso  che  tu  debba  ritenerli  di  lo- 
dare persona  che  sia  poco  nell'amore  di  tuo  marito, 
così  che  nel  paragone  il  ferisca  con  insidiose  pa- 
role. 


116 

Nani  eliam  alioqui  nobiles  viros  et  mulieres , 
praeserlim  tamen  mulieres,  morum  simplicitas  decet. 

Voluptates  eius  omnes,  dolores  eìus  denique,  cu- 
ras  tuas  etiam  ducilo  :  nihil  enim  est  ,  quod  rem 
familiarem  auctiorem  reddat. 

Quod  si  res  aliqua  occurrat,  quae  Consilio  opus 
habeat,  quin  ipsa  quoque  quid  censeas  dicas,  mi- 
nime prohibeo;  sed  viri  lui  sententium  vim  maiorem 
semper  otinere  volo. 

Moerente  marito,  nonnullo  ipsa  etiam  moerore 
afficere;  nam  amicorum  moeror  ad  doloris  levatio- 
nem  plurimum  momenti  habet. 

Caelerum  statim  frontis  serenitate  leceptà,  animi 
illius  anxietatem  aegritudinemque  depelle  :  marito 
enim  in  moerorem  aliquem  prolapso,  commodissi- 
mus  portus  est  uxor. 

lam  quod  ad  vitae  occupationes  attinet,  radio  et 
lanae  operam  da,  atque  in  oraculorum  sacrorum  me- 
dilatione  versare. 

Externa  negotia  viro  committe.  Noli  pedem  tuum 
limine  crebro  efferre; 

Nec  ad  publicos  ludos  ,  turbamque  inconditam 
pi'oficisci: 

Id  enim  pudorem  verecundis  etiam  excutit,  ocu- 
losque  oculis  iungit. 

Pudoris  aulem  iactura  flagitiorum  omnium  cer- 
tissima est  parens. 

Ad  honestos  autem  et  laudabiles  coetus  cum  pru- 
dentibus  foeminis  te  conferas  iubeo; 

Ut  egregium  aliquem  sermonem  in  animo  tuo 
insculpas,  quo  vel  villa  tua  deleas,  vel  virtutes  al- 
tius  amplectaris. 


117 

Che  d'altronde  ai  gentili  uomini  e  alle  donne, 
alle  donne  poi  molto  più  ,  uno  schietto  fare  sta 
bene. 

Le  gioie  tutte  e  le  pene  tutte  di  lui  fa  conto 
sieno  pur  tue  :  di  questa  guisa  andrà  sempre  in  me- 
glio la  casa. 

Che  se  in  qualche  occorrenza  ci  sia  mestieri  il 
consiglio,  non  ti  vieto  già  che  apra  tu  pure  l'animo 
tuo;  ma  voglio  che  la  sentenza  di  tuo  marito  valga 
sempre  di  più. 

Se  il  marito  è  accorato,  tu  pure  ti  accora;  le 
lagrime  degli  amici  sono  balsamo  al  dolore. 

Ma  poi  rasserenato  ch'ei  sia,  cavagli  dall'animo 
ogn'ansia  ed  affanno  :  al  marito  che  si  trova  in  an- 
gustia è  ricovero  opportunissimo  la  consorte. 

Quanto  alle  occupazioni  della  vita  ,  attendi  al 
tessere  ed  al  filare,  e  sii  continua  nel  meditare  le 
sagre  carte. 

Le  brighe  di  fuori  lascia  al  marito.  Esci  rado 
di  casa. 

Non  recarti  a  spettacoli  pubblici,  ne  a  tumul- 
tuose brigate. 

Quivi  anche  le  modeste  ci  scapitano,  attirando 
gli  sguardi  sopra  di   se. 

La  perdita  poi  del  pudore  è  senza  fallo  radice 
d'ogni  nequizia. 

Fa  di  condurti  alle  oneste  e  lodevoli  radunanze 
in  compagnia  di  savie  donne, 

A  fine  di  scolpirti  nell'animo  qualche  bel  detto, 
con  cui  tor  via  le  magagne,  o  avanzare  ben  bene 
nella  virtù. 


118 

Domus  libi  urbis  ac  neiiiorum  instar  sit. 

Ne  aspectus  tui  copiam  aliis  facias,  quam  pro- 
pinquis  tuis,  iisque  gravibus  et  honestis,  et  sacer- 
doti, ac  senectuti  iuventute  praestantiori. 

Nec  vero  earum  mulierum  consuetudine  utere, 
quibus  et  procèrum  ac  delicatum  collum  est,  et  for- 
ma popularis  ac  merelricia. 

Imo  nec  in  piorum  virorum,  quos  tamen  mari- 
tus  tuus  a  domo  sua  arceal,  conspectum  prodeas, 
quamlibet  alioqui  eos  caros  habeas,  honoreque  pro- 
sequaris. 

Quid  enim  tantum  utilitatis  afferre  potest,  quan- 
tum probus  maritus  ,  si  in  eo  solo  amorem  defì- 
xeris  ? 

lam  vero  per  me  quidem  tibi  licet  animo  alto 
atque  excelso  esse;  modo  ab  insolentià.superbiàque 
abhorreas. 

Foeminas  eas  laudo,  quae  maribus  prorsus  inco- 
gnitae  sunt. 

Sed  et  illud  te  admonilam  velim,  ut  nec  ad  nu- 
ptiale  ,  nec  ad  natalitium  convivium  properes  ,  ubi 
et  perpotatur,  et  saltatur,  et  ridetur,  et  denique  in- 
facetis  facetiis  iodulgetur. 

Haec  enim  eiusmodi  sunt,  ut  vel  pudicum  pectus 
delìnire  ac  demulcere  queanl: 

Non  secus  ac  solis  radius  ceram  quam  cilissime 
penetrans. 

Nec  vero  vel  praesente  vel  absente  marito  com- 
potationes  domi  excita. 

Venter  quidem  moduin  tenens  perturbationibus 
animi  fortasse  ac  libidini  dominari  queat. 


119 

La  casa  ti  sia  e  città  e  solitudine. 

Non  fare  di  le  mostra  ad  altrui,  se  non  è  tuo  pa* 
rente,  e  di  quei  posali  e  da  bene,  o  sacerdote  ,  o 
vecchio  meglio  che  giovane, 

Non  fartela  molto  con  quelle  femmine  che  hanno 
alterezza  e  leziosaggini  ,  e  atteggiamenti  plebei  e 
sfacciati. 

Che  anzi  non  darti  a  vedere  né  anco  a  quelle 
persone  ,  le  quali  tuo  marito  non  ritiene  in  casa  , 
con  tutto  che  d'  altro  canto  tu  le  debba  avere  in 
amore  ed  onoranza. 

E  in  verità  ,  chi  a  te  pili  vantaggioso  del  tuo 
probo  marito,  laddove  lui  solo  carezzi  ? 

Come  pure  non  ti  proibisco  di  portarti  nobile 
e  dignitosa,  ma  non  già  insolente  e  tracotante. 

Benedette  quelle  donne  che  i  maschi  non  ce  le 
sanno  ! 

Oltre  a  ciò  voglio  anche  ammonirti  che  tu  non 
corra  a  banchetti  di  nozze  o  di  battesimi,  dove  si 
sbevazza,  e  si  salta,  e  si  ghigna,  e  fuori  dell'onesto 
si  tripudia. 

Cose  tutte  che  valgono  a  pigliare  e  aflfascinare 
un  cuore  anche  pudico  : 

Siccome  un  raggio  di  sole  cha  va  dentro  alla 
cera  in  un  attimo. 

Ci  sia  o  no  tuo  marito,  non  fare  in  casa  bal- 
dorie. 

La  gola  tenuta  in  freno  può  forte  bastare  alla 
signoria  dell'animo  e  delle  passioni. 


120 

Helluonem  autem,  ingluvieque  laboranlem,  non 
ego  solum,  sed  maritus  quoque  ipse  pertimescit. 

Quin  illud  quoque  cavere  operae  pretium  est,  ne 
vel  lascivis  subsultationibus  ,  vel  irae  aestu  genae 
tuae  palpitent. 

Hoc  enim  cum  omnibus  hominibus,  tum  piae- 
cipue  mulieribus,  turpe  ac  faedum  est  formaeque  ve- 
nustalem  labet'aclat. 

Auriuni  tuaium  ornatus  non  in  margarilis,  sed 
in  eo  situs  sit,  ut  optima  quoque  verba  excipiant: 

Malis  autem  et  perniciosis  animi  clavis  impona- 
tur  :  sicque  tam  clausis  quam  apeitis  auribus  sua 
pudicilia  constet. 

Cura  praeterea,  ut  virgineus  pudor  egregium  sub 
palpebris  tuis  ruborem  marito  fundat; 

Atque  etiam  ad  hominum  adspectum  erube- 
scas,  oculos  caecos,  superciliumque  humi  de[)ressum 
habens. 

Hoc  insuper  summo  studio  cavendum,  ne  lingua 
tua  praecipiti  atque  elFraenato  impetu  feratur; 

Eamque  ob  causam  tibi  mariti  odium  confles: 

Linguac  enim  procacitas  innocenlibus  etiam  homi- 
nibus noxam  saepe  invexit. 

Tacere  itaque  praestal,  cum  loqui  utile  est,  quam 
loqui  ,  cum  tempus  indecoro  atque  inhonesto  ser- 
moni silentium  indicit. 

Quo  magis  tibi  in  eo  elaborandum  est,  ut  raro 
loquendo  sermonis  tui  desiderium  semper  in  homi- 
num animis  fixum  relinquas. 

Pedes  porro  superbe  incedenles  pudicitiam  men- 
tiunlur:  gresslbusque  etiam  i|tsis  libido  inesse  potest. 


121 

Un  pacchione  e  un  crapulone  a  me  non  solo  , 
ma  al  marito  altresì  è  pauroso. 

h  anche  pregio  dell'opera  star  sull'avviso  ,  af- 
finchè né  a  lascivi  motti  né  a  fuoco  d' ira  ti  lasci 
andare. 

Questo  a  tutti,  ma  in  ispecie  a  donne,  è  turpe 
e  sozza  cosa,  e  guasta  ogni  fior  di  bellezza. 

Non  delle  gemme,  ma  del  suono  di  sante  parole 
si  fregino  le  tue  orecchie. 

Alle  voci  maligne  e  scandalose  non  si  dia  l'en- 
trata ;  e  così  stiasi  o  no  in  orecchi  ,  la  pudicizia 
starà  sempre  salda. 

Bada  in  oltre  che  il  candor  verginale  metta  nel 
tuo  marito  quella  verecondia  che  ne'  tuoi  occhi  ri- 
posa. 

Anche  in  faccia  d'  uomo  prendi  rossore  ,  chiu- 
dendo gli  occhi  e  atterrando  le  ciglia. 

Sii  cauta  soprammodo  a  non  parlare  furiosa  e 
con  isfrenata  foga; 

E  tirarti  così  addosso  la  malvoglienza  del  tuo 
marito. 

Lingua  sfacciata  anche  gì'  innocenti  più  volte 
rese  colpevoli. 

Adunque  mette  meglio  tacere  anche  quando 
giova  parlare,  che  parlare  quando  il  decoro  e  l'one- 
stà t'imponga  tacere. 

Perciò  devi  fare  di  tutto  per  lasciare,  parlando 
rado,  continuo  desiderio  di  le  nea;li  animi  altrui. 

Con  passi  gravi  e  superbi  onestà  non  si  lega  : 
ed  anche  V  andare  istesso  può  dire  sfacciataggine. 


122 

Ad  haec  ila  te  compara,  ut  cainis  impetum  mi- 
nime indomitum  habeas,  Icctoque  geniali  libi  quovis 
tempore  indulgendum  putes. 

Maritum  eo  adducilo,  ut  sanctorum  dierum  ra- 
tionem  habeal. 

Aequum  est  enim  Dei  imaginem  divinis  legìbus 
obsecundare: 

Tametsi  Chrislus  coniugalem  legem  generi  no- 
stro dederil,  ut  videlicet  partim  abeunlibus,  partim 
in  lucem  prodeuntibus  hominibus  genus  nostrum  flu- 
vii  cuiusdam  instar  decurrat  ac  propagetur  :  ut  per 
mortem  fluxum  ac  fragile,  ita  per  filiorum  procrea- 
tionem  stabile  ac  perenne. 

Sed  quid  ego  haec  singilialim  persequor  ? 

Quod  si  quando  sermonem  meum  aliquem  ex- 
cepisti,  hunc  animo  tuo  condas,  omnique  studio  re- 
tineas  velimus Nunc  hoc  dono  le  afficio. 

Sì  autem  hoc  optimum  futurum  est,  a  Deo  quo- 
que supplex  pelo,  ut  luculentam  prolem  in  Incem 
edas  : 

Ut  Deus,  cui  et  nascimur,  et  e  vita  migramus, 
a  pluribus  celebretur. 


123 

Sta  bene  all'erta  :  gli  appetiti  del  senso  gli  hai 
da  frenare,  nò  credere  di  poter  fare  la  tua  voglia 
in  ogni  tempo. 

Convieni  col  marito  a  rispettare  i  giorni  santi. 

Ragion  vuole  che  l'immagioe  di  Dio  stia  sotto 
alle  leggi  divine  : 

Quantunque  Cristo  abbia  imposto  al  genere  u- 
mano  la  legge  del  matrimonio  affinchè  l'umana  spe- 
cie, col  nascere  e  col  morire  che  fanno  gli  uomini, 
a  guisa  di  corrente  trapassi  e  si  propaghi  :  scorra  e 
si  corrompa  per  morte,  per  la  generazione  de' fi- 
gliuoli si  fermi  e  si  rinnovi. 

Ma  a  che  tanto  partitamentp  io  ragiono  ?  .  .  . 

Tu  ,  se  gradisti  alcuna  volta  le  mie  parole  , 
queste  vorrei  che  ti  ponessi  nell'animo,  e  te  le  fer- 
massi ben  dentro  .  .  .  Ecco  il  dono  ch'ora  ti  fo. 

Se  poi  quest'altro  sia  pel  tuo  meglio,  io  chiedo 
ancora  supplichevole  a  Dio  ,  che  sii  feconda  di 
prole  : 

Affinchè  quel  Dio,  per  cui  nasciamo  e  moriamo, 
venga  da  piij  creature  celebrato. 


124 


Sulla  natura  e  sul  trallamenlo  curativo  della  difteria. 
Considerazioni  del  D/  Giidio  Baslianelli  lette  alla 
Conferenza  Medica  di  Roma  nella  seduta  ordinaria 
del  giorno  16  dicembre  1859. 


JLia  difteria,  molto  rara  per  Io  innanzi,  da  circa  due 
anni  si  è  resa  frequente  per  modo  in  questa  nostra 
città  e  ne'  luoghi  vicini,  e  talmente  grave  e  mortale, 
da  offrire  i  caratteri  di  una  vera  epidemia.  La  gra- 
vità in  una,  e  l'attualità  del  male,  che  lo  rendono 
degno  di  ogni  medica  sollecitudine,  ha  fatto  che  to- 
gliessi  io  tal  morbo  a  subbietto  di  alcuni  miei  studi, 
i  quali  presento  all'attenzione  vostra,  onorevoli  col- 
leghi, perchè  da  voi  ricevano  quel  valore,  comple- 
mento e  perfezione  che  da  me  non  si  ebbero  forse, 
non  per  difetto  di  zelo  e  volontà,  ma  per  manco  di 
forze,  e  di  quella  eslesa  osservazione  per  cui  sola 
si  giunge  a  quel  vero  utile  pratico,  che  esser  dee  il 
supremo  scopo  della  medicina. 

La  difteria,  che  or  qua,  or  là  infierisce  epide- 
mica, che  alle  gioie,  all'amore  ed  alle  speranze  di 
affettuosi  genitori  rapisce  nella  maniera  più  rapida 
e  terribile  i  pili  cari  fanciulli,  che  non  risparmiando 
regioni,  età,  né  condizione  mette  in  pericolo  intere 
numerose  famiglie,  non  poteva  a  meno  di  non  atti- 
rare l'attenzione  dei  medici.  Difatti  i  medici  se  ne 
occuparono:  ma,  sìa  perchè  non  abbia  esistilo  o  poco 
frequentemente,  sia  perchè  poco  conosciuta  e  distin- 


125 

ta,  fu  mollo  tardi  che  se  ne  occuparono  seriamente. 
In  Ippocrate,  in  Galeno,  e  specialmente  in  Areteo,  si 
trovano  descrizioni  di  angine,  che  offrono  i  caratteri 
di  questa  malattia,  ma  non  sono  talmente  chiare  da 
togliere  ogni  dubbio;  e  questo  dubbio  ci  resta  leg- 
gendo pure  gli  autori  dei  secoli  successivi,  che  l'uno 
dall'altro  copiarono  la  descrizione  dell'angina  senza 
distinguerne  le  specie.  A.  ragione  quindi  si  riguarda 
Baillou  come  il  primo  che  nel  1576  abbia  dato  i 
sintomi  principali  ed  i  segni  anatomici  caratteristici 
dell'  angina  membranosa  ,  che  egli  chiamò  Affeclio 
orlhopnoica,  e  che  in  seguito  fu  detta  morbo  stran- 
golatorio da  Carnevale  ,  angina  strepitosa  da  Ghisi , 
cynanche  stridula,  angina  trachealis,  angina  suffuca- 
toria^  angina  strangulaloria  infantum,  angina  polyposa 
seu  membranacea,  tracheilis  infantum  da  diversi  au- 
tori, angina  laringea  exudatoria  da  Hufeland,  croiip 
dagli  scozzesi,  laringo-tracheite  da  Blaud,  diphterile 
da  Brettoneau.  A  queste  potrei  aggiungere  molte  al- 
tre voci,  che  sono  state  impiegate  per  esprimere  la 
stessa  malattia,  e  potrei  fare  emergere  come  quasi 
tutti  gli  autori  hanno  sotto  la  stessa  appellazione  de- 
scritto e  il  crup  propriamente  detto,  e  Vangina  pseudo- 
membranosa  faringea.  Da  ciò,  e  dall'avere  osservato 
nelle  varie  epidemie,  che  la  falsa  membrana  dell'an- 
gina faringea  invadeva  quasi  costantemente  la  larin- 
ge, la  trachea,  ed  i  bronchi  per  produrre  il  crup,  e 
quella  del  crup  dai  bronchi,  dalla  trachea,  e  dalla 
laringe  estendesi  a  produrre  la  faringea  ,  ed  infine 
che  r  una  e  1'  altra  dimandavano  gli  stessi  rimedi 
generali,  si  è  dalla  maggioranza  dei  medici  moderni 
specialmente  concluso,  che  il  crup,  o  angina  larin- 


126 

gea  membranosa,  e  l'angina  cotennosa  faringea,  siano 
in  essenza  la  slessa  identica  malattia,  differenti  solo 
per  sede.  Bard  di  New-Jork  fin  dal  1784  aveva  fatto 
presentire  tale  conclusione;  egli  anzi  andò  più  in  là: 
sostenne  che  Tangina  cancrenosa  descritta  da  molti 
autori,  la  membranosa  unita  al  cru(3,  ed  il  crup  stesso 
primitivo  erano  tre  malattie  ,  la  cui  natura  era  la 
s lessa  ,  e  stabiliva  l'identità  dell'affezione  che  egli 
osservava  con  quella  descritta  da  Home  sotto  il  no- 
me di  crup.  Poco  dopo  venti  anni  (cioè  nel  1807) 
quando  ancora  la  più  grande  confusione  regnava  fra 
i  medici  su  quanto  risguarda  una  si  terribile  ma- 
lattia ,  un  accidente  improvviso  apriva  alla  cono- 
scenza delle  angine  difteriche  un'ampia  via,  che  gui- 
dar doveva  a  grandi  risullamenti.  In  quest'  epoca 
(noriva  di  crup  il  figlio  di  Luigi  Bonaparte,  amato 
teneramente  da  Napoleone.  L'  imperatore  ordinava 
immediatamente  un  concorso  col  premio  di  fr.  12000 
por  l'autore  della  miglior  memoria  sulla  Natura  del 
crup,  sui  mezzi  di  prevenirlo,  ed  assicurare  i  successi 
della  cura.  X  questo  concorso  presero  parte  i  mi- 
gliori medici  di  ogni  paese.  Ma  da  esso,  come  bene 
osserva  Jodin,  un  utile  solo  venne  alla  scienza,  quello 
di  aver  riunito  tutte  le  conoscenze  che  di  tal  ma- 
lattia erano  sparse  nelle  differenti  parti  del  mondo, 
e  nella  repubblica  medica.  E  tralasciando  di  riferire 
la  forma  morbosa,  perchè  in  essa  tutti  convengono, 
e  la  parte  storica  perchè  la  toccai  già  in  breve  per 
capi  principali,  esse  conoscenze  si  riducono  per  me 
a  questo  punto  capitale,  che  tutti  gli  scrittori  si  ac- 
cordano a  riguardare  la  difteria  per  una  infiamma-^ 
zione  particolare.  Nel  resto  ci  lasciavano  discordi  co- 


127 

me  pel  passato,  continuando  ad  esser  contagiosa  per 
alcuni,  non  contagiosa  per  altri;  per  gli  uni  l'azione 
strangolatoria  doversi  solamente  alla  falsa  membra- 
na, per  gli  altri  concorrervi  come  parte  pritiiaria  la 
tumefazione  infiammatoria  ed  uno  stato  spasmodico. 
Fa  poi  meraviglia  come  la  dissenzione  più  grande 
restasse  nella  cura,  mentre  si  era  d'accordo  sulla  na- 
tura della  malattia.  Dunque  nessuna  delle  questioni 
proposte  fu  risoluta,  nemmeno  quella  della  natura: 
perchè  poco  si  apprendo  quando  si  è  detto  infiam,' 
mazione  particolare,   come  ben  nota  Jodin. 

Passano  dieci  anni,  ed  eccoci  ad  una  nuova  fasi. 
Una  epidemia  di  angina  maligna  si  sviluppa  a  Tours 
negli  anni  1818  al  1821:  Brettonneau  la  studia  sotto 
tutti  i  rapporti  ,  e  dal  dubbio  concepito  per  1'  au- 
topsia di  un  cadavere  sulla  natura  cancrenosa  della 
angina,  per  le  altre  proseguite  con  indefesso  ardore, 
acquista  la  certezza,  che  la  falsa  membrana  rinve- 
nuta nella  laringe  e  nei  bronchi  è  identica  a  quella 
che  viene  emessa  con  la  tosse  e  col  vomito,  cioè 
bianca  ,  molle  ,  elastica  ,  e  continua  con  le  credute 
escare,  che  ricuoprono  il  velo  del  palato,  e  la  re- 
trobocca: che  queste  escare  tolte,  la  faccia  che  riposa 
sulla  muccosa  non  è  nera  ,  né  grigia  come  quella 
esposta  all'aria,  ma  del  tutto  eguale  alla  membrana 
tolta  dalla  trachea:  che  la  muccosa  della  faringe, 
della  laringe  e  dei  bronchi,  su  cui  aderiva  la  falsa 
membrana,  non  offre  la  minima  traccia  di  alterazione 
cancrenosa:  macchie  rosse  e  punteggiate  di  un  rosso 
cupo  ,  senza  erosione,  né  ispessimento  di  tessuto, 
sono  le  sole  tracce  d' infiammazione  che  si  riscon- 
trano :  che  ,  un  sol  caso  accettuato  ,  la  falsa  mem- 


128 

brana  del  condotto  laringeo  è  sempre  stata  conse- 
cutiva alle  concrezioni  della  gola.  Ne  tira  le  conclu- 
sioni seguenti,  che  noi  togliamo  per  intero  dal  ci- 
tato Jo'din  : 

\°  Il  carattere  cancrenoso  delle  concrezioni  della 
gola  nelle  angine  maligne  non  è  che  apparente  : 
questa  apparenza  si  deve  ad  una  composizione  pu- 
trida favorita  dal  calore  umido  della  bocca,  e  dal- 
l'azione dell'aria. 

2."  Queste  concrezioni  sono  in  fondo  delle  false 
membrane  ,  del  tutto  identiche  a  quelle  del  crup  , 
le  quali  non  ne  sono  che  la  continuazione. 

3.°  L' identità  delle  affezioni  porta  quella  della 
malattia. 

4.°  Questa  malattia  è  una  infiammazione  speci- 
fica consecutiva  ad  una  infiammazione  specifica  con- 
secutiva ad  una  diatesi  ,  e  per  la  quale  propone  il 
nome  di  difleritey  destinata  a  distinguerla  dalle  altre 
infiammazioni. 

Come  vedete,  sopra  basi  più  positive,  è  vero,  e 
con  analisi  piiì  profonda  dei  ritrovati  necroscopici, 
ma  in  ultimo  costrutto  Brettonneau  non  ha  fatto  che 
richiamare  l'idea  di  Bard  ,  appliandola  però  ,  e  di- 
chiarando meglio  la  natura  della  malattia.  Le  opi- 
nioni di  Brettonneau  sono  state  acclamate  nella 
scienza  :  l' identità  della  malattia  è  stata  ammessa, 
qualunque  ne  fosse  la  sede,  riserbando  solo  il  nome 
di  crup  a  quella  che  avesse  sede  nella  laringe,  ben- 
ché Brettoneau  avesse  chiamato  questa  difterite  la- 
ringea, e  faringea  l'altra.  La  diatesi  e  la  infiamma- 
zione specifica  si  accottano  pure  senza  discussione. 
Ed  eccoci  giunti  al  campo  ,  su  cui  senza  scostarsi 


129 

di  un  passo  si  è  iìggirala  fino  ai  giorni  noslii  la 
scienza  delle  angine  membranose  o  difteriche.  Ha 
bensì  patito  qualche  urto,  ma  si  può  dire  che  lutti 
i  medici  hanno  finito  sempre  per  liconoscere  in 
queste  angine  una  diatesi  ,  ed  una  flemmasia  spe- 
cifica. 

L'identità  della  malattia  non  va  esente  da  critiche 
e  distinzioni  profonde  ,  specialmente  se  ad  analisi 
rigorosa  si  chiami  quella  unità  di  natura  che  si  pro- 
clama fra  l'angina  pseudo-membranosa  propriamente 
detta,  il  crup,  e  l'angina  maligna  o  cancrenosa.  La 
diatesi  e  la  infiammazione  specifica  non  poigono 
meno  argomento  di  grave  discussione;  anzi  è  su  di 
esse  che  pili  credo  fissar  ì"  attenzione,  onde,  se  è 
possibile,  dissipar  quelle  tenebre,  nelle  quali,  con - 
vien  pur  confessarlo  ,  è  ravvolta  la  quìstione  delle 
angine  difteriche.  E  per  procedere  con  quanto  per 
me  si  può  ordine  e  chiarezza,  mi  propongo,  nei  li- 
miti della  maggior  possibile  brevità,  passaie  in  ri- 
vista le  seguenti  proposizioni. 

1.°  Il  crup  propriamente  detto,  l'angina  pseudo- 
membranosa ,  e  r  angina  cancrenosa  ,  sono  una  ed 
identica  malattia,  o  sono  tre  malattie  distinte  ? 

2.°  La  difteria  è  una  malattia  di  natura  dia- 
tesica ed  inflammitoria  specifica,  o  è  una  malattia 
puramente  locale  ? 

3.°  Quale  può  essere  il  miglior  trallamcnlo  cu- 
rativo di  questa  malattia  ? 

4".  Havvi  una  profilassi  ? 


GA.T.CLXV. 


PROPOSIZIONE  PRIMA 

Il  crup  propriamente  dello,  Vangina  pseudo-membra- 
nosa, e  Vangina  cancrenosa,  sono  una  ed  identica 
malattia,  o  sono  tre  malattie  distinte  ? 

E  certo  che  alcune  epidemie  di  angine  maligne 
0  cancrenose  descritte  dagli  antichi  debbono  ri- 
guardarsi quali  angine  membranose.  E  per  es.  chi 
non  dee  dichiarar  tale  quella  che  regnò  in  Napoli 
nel  1618  ,  e  descritta  nel  1620  da  Carnevale  ? 
«  li  male  incominciava  come  un'angina  leggera,  dice 
»  questo  autore  ,  con  dolore  di  gola  ,  tumefazione 
))  delie  tonsille  ,  impedita  la  deglutizione  :  tutta  la 
))  gola  si  cuopre  di  placche  bianche,  che  addiven- 
»  gono  livide  e  nere  ;  ben  presto  le  vie  aeree  ne 
»  sono  invase  ;  la  voce  è  rauca  ed  estinta,  la  re- 
«  spirazione  facile  da  principio  si  imbarazza  ,  ad- 
»  diviene  stridula,  ed  il  paziente  muore  come  se- 
»  fosse  stato  strangolato  con  una  corda  .  .  .  Stran- 
»  gnlalorium  appellandiim  merito  existimavi,  prose- 
»  gue  Carnevale,  quod  languentes  strangidare  el  siif- 
«  focare  videantur  ....  Via  spiritus  intercludiliir  y 
»  perii  proinde  strangulatus  el  suffocatus  aeger  [])  », 
Cortesi  nella  decade  nona  in  una  lettera  al  dot- 
tor Giovanni  Anguilloni  descrive  pure,  benché  sotto 
altro  nome,  una  epidemia  d'angine  pseudo-membra- 
nose o  difteriche,  regnata  a  Messina  nel  1625.  Non 
altrimenti  è  a  dirsi  delle  angine  cancrenose,   e  dei 


(1)  De  morbo  strangulatorio  -  in  4"  Napoli  1620. 


131 

crup  dosci'itti  a  questa  stessa  epoca  dal  Sevejino. 
Borsieri  pure  nel  dar  la  descrizione  dell'angina  can- 
crenosa ,  chiama  la  placca  non  escara  ,  ma  quasi 
escara.  «  Dccidenle  vero,  dic'egli,  aiU  delracta  prima 
huiiismodi  quasi  eschara,  quod  inlerdum  accidit,  mox 
uilera  succrescit  ,  ahiusque  penetrai  etc.  .  .  »  Parla 
quindi  della  quasi  costante  diffusione  alla  laringe 
ed  ai  bronchi,  e  della  morte  che  sopravviene  come 
per  strangolamento.  Di  moltissime  altre  descrizioni 
di  angine  cancrenose  epidemiche  istituendo  rigoi'osa 
analisi  si  giungerebbe  a  dichiararle  angine  difteriche, 
ma  saria  opera  lunga,  tal  fiata  malagevole,  taraltra 
impossibile.  Cullen  ciò  vide  fin  dai  suoi  tempi;  e  nel  . 
parlare  della  Cynanche  iracliealis,  quando  fu  ad  ad- 
durre la  sinonimia  pel  morbus  slrangidalorius  di  Harr, 
annotava:  «  An  hic  morbus  ad  cynanchen  malignam, 
))  an  ad  trachealem  pertinet,  mihi  non  certo  constai, 
w  et  saepius  de  eorumdem  morboruni  apud  plures 
»  auctores  descriptionibus  itidem  incertus  sum  ». 
In  mezzo  però  a  tali  incertezze,  ed  alle  molle  ra- 
gioni che  da  tante  parti  si  potriano  attingere  per 
sostener  la  tesi  di  Bretonneau,  noi  non  possiamo  ac- 
cettar la  sua  proposizione  per  assoluta.  La  mancanza 
dei  caratteri  propri  dell'angina  cancrenosa  in  quella 
osservata  a  Tours  non  1'  autorizza  a  negarla.  Non 
ogni  epidemia  è  la  stessa  ,  ne  in  tutte  si  osserva 
tutto.  Autori  degni  di  fede,  e  modelli  di  esattezza, 
ci  hanno  lasciato  descrizioni  impugnabili  di  angine 
cacrenose.  Le  ulceri  profonde  e  dolorosissime,  che 
essi  hanno  notato  al  cader  delle  escare,  non  sono 
proprie  della  difteria.  Noi  quindi  crediamo  all'esi- 
stenza della  angina  cancrenosa,  ma  molto  più  rara 


di  cj,u;inlo  si  è  preteso  e  si  possa  pietencfeie  ;  la 
cretliaino  dilficilmente  epidemica,  e  se  tale  diffìcil- 
menle  primaria,  il  pili  spesso  associata  ad  altre  ma- 
lattie o  ad  angine  di  differente  natura.  Difalti  le 
angine  epidemiche  che  regnarono  in  Cremona  nel 
1747,  1748,  tanto  bene  descritteci  dal  nostro  Ghisi^ 
offrirono  la  triplice  forma  di  angina  membranosa 
faringea,  di  angina  cancrenosa,  e  di  crup. 

Hioonosciula  la  necessità  di  ammettere  una  an- 
gina cancrenosa  distinta  dalla  pseudo-membranosa, 
e  dal  crup  propriamente  detto  ,  vediamo  se  queste 
due  forme  di  angine  possano  e  debbano  riguardarsi 
.  come  una  in  essenza.  Molte  ragioni  concoi-rerebbeio 
ad  amniettere  V  identità  di  natura.  Vediamo  quasi 
costantemente  V  angina  pseudo-membranosa  inco- 
minciar dalle  tonsille,  estendersi  alla  retro-bocca  , 
alla  faringe,  investir  la  mucosa  del  naso,  scendere 
alla  laringe,  alla  trachea,  ai  bronchi,  produrre  il 
crup  e  strangolar  1'  infermo.  Osservianio  per  con- 
verso la  malattia  incominciar  dalla  trachea  ,  dalla 
laringe,  salire  alle  fauci,  investire  il  palato  molle  , 
la  faringe,  e  talora  estendersi  allo  esofago  e  a  tutte 
le  mucose.  La  fornai  moibosa  durante  la  vita,  le 
autopsie  cadaveriche  dopo  la  morte,  ci  danno  piena 
cot)ferma  di  (jucsto  andamento  inverso. 

I  caratteri  fisici  e  chimici  delle  false  membrane 
sono  in  ap.ibedue  i  casi  gli  stessi  :  medesima  è  la 
cura  genciale  ,  come  vedremo  ,  sia  che  la  malattia 
esordisca  e  si  limiti  alla  sola  laringe  ,  sia  che  si 
ap[)rcnda  alle  sole  tonsille,  alla  faringe.  Identici  fe- 
nomeni moi'bosi,  (|uando  avvengono,  e  che  avremo 
luogo  di   notar  più  innanzi,  si  vedono  tener  dietro 


133 
all'una  e  all'altra  forma  anche  allora  che  esistano, 
o  procedano  del  tutto  separatamente.  Contagiosa  è 
l'una,  contagiosa  l'altra  :  amhedue  sono  proprie  più 
specialmente  di  una  certa  età  ,  ed  attaccano  più 
maschi  che  femmine  :  ambedue  sono  sporadiche,  od 
epidemiche  ,  ambedue  riconoscono  le  stesse  cause 
predisponenti  ed  occasionali  ;  dall'una  si  genera 
l'altra  e  viceversa.  In  ainbedue  precede  ed  accom- 
(ìngna  la  febbre  ,  se  eccettui  i  casi  di  estrema  mi- 
tezza, o  quelli  nei  quali  la  morte  segue  in  pochis- 
sime ore  :  benché  sia  qiii  questionabile  tale  esclu- 
sione, come  faremo  altrove  vedere.  Sono  tutti  questi 
tali  fortissimi  impugnabili  argomenti,  che  convin- 
cono chiunque  della  identità  di  natura  delle  due  af- 
fezioni. Eppure  non  possiamo  negare  ,  che  alcuni 
ripugnano  ad  amiricttere  così  assolutamente  tale  iden- 
tità. Questa  ripugnanza  nasce  dall'  avere  osservato 
fatti  di  crup  che  improvvisamente  invasero,  ed  im- 
provvisamente guarirono  ,  mentre  ciò  non  avvenne 
mai  ,  che  io  mi  sappia  ,  dell'  angina  cotennosa.  Si 
aggiunge  che  l'età  innanzi  ai  tre  anni  è  quella  in 
cui  il  crup  gi  manifesta  di  preferenza.  Fra  i  molli 
che  ciò  propugnano  con  tali  ragioni  havvi  di  re- 
cente Tommaso  Heslop  (1),  mentre  considera  egli 
la  difteria  come  malattia  pestilenziale,  astenica  ec. 
A  me  sembrano  queste  troppo  deboli  ragioni  per 
abbattere,  o  bilanciare  almeno  quelle  che  militano 
per  la  identità  delle  due  affezioni.  E  questi  fatti 
che  si  adducono  ,  o  sono  sporadici  per  lo  più  ,  ed 
ognuno  sa  che  qualunque   malattia  quando  si  pre- 


ci) Medicai  Times  -  May.  29.  18S8. 


134 

senta  sporadica  offre  meno  gravezza,  e  mono  crilei'f 
su  cui  basare  un  giudìzio  differenziale  :  o  si  hanno 
in  costituzioni  epidemiche,  ed  ognuno  converrà,  che 
nelle  epidemie  accanto  a  casi  gravissin)i,  e  comples- 
sivi, se  ne  ha  pure  milissimi,  singolari,  e  che  con- 
vengono cogli  altri  nel  solo  sintomo  principale.  Chi 
potrebbe  negare  ,  che  il  morbillo  sia  sempre  della 
stessa  natura  ?  Eppure  nella  epidemia,  che  avemmo 
in  Roma  nello  inverno  1856  al  57  ,  io  notai  casi 
allo  spedale  militare  di  S.  Spirito,  nei  quali  appena 
si  accennò  alla  febbre  in  sulle  prime  ,  mentre  fu- 
ronvi  casi  gravissimi  terminati  colla  morte  anche 
prontamente  :  e  gli  uni  e  gli  altri  non  si  rassomi- 
gliavano che  per  la  eruzione  morbillosa.  Ciò  che  dico 
del  morbillo  si  estende  ad  altre  malattie,  come  ci 
viene  notato  da  sommi  pratici.  Un  giudizio  ò  solido 
quando  in  se  racchiude  l'espressione  de'  fatti  ;  nel 
caso  nostro  ,  se  mal  non  mi  appongo  ,  il  giudizio 
che  discende  dai  fatti  è  l'identità  di  natura  delle  due 
affezioni  ,  che  non  differiscono  fra  di  loro  se  non 
per  la  sede-  E  se  nei  bambini  avanti  i  tre  anni  veri- 
ficasi più  spesso  la  forma  laringea,  non  alla  natura 
diversa  della  angina  ,  ma  devesi  alla  disposizione 
maggiore  ad  ammalare,  che  in  quella  età  hanno  le 
mucose  delle  vie  aeree.  L'  osservazione  ed  il  con- 
senso è  universale  su  ciò:  non  mancano  poi  casi  di 
crup  propriamente  detto  anche  in  età  di  quaranta 
e  sessanta  anni.  Quindi  benissimo  si  appella  l'una 
difteria  laringea  ,  e  difteria  faringea  1'  altra.  Ve- 
diamo ora  se  : 


135 

PROPOSIZIONE  SECONDA. 

La  difteria  è  una  malallia  di  natura  diatesica  ed  in- 
fiammatoria specifica,  0  è  una  malattia  puramente 
locale  ? 

Fino  a  Bietonnean  lutli  considerarono  le  angine 
membianose  di  natura  inflammatoria.  Per  alcuni  però 
fiva  genuina,  per  altri  era  una  infiammazione  parti- 
colare ,  che  per  noi,  come  dicenimp ,  non  esprime 
più  della  prima.  Brelonneau  proclama  anch'esso  la 
natura  inflammatoria,  ma  la  dice  una  infiammazione 
specifica  e  consecutiva  ad  una  diatesi.  Per  esso  dun- 
que la  difteria  è  una  malattia  diatesica  di  natura  in- 
flammatoria: e  questa  accettata,  come  notammo,  dai 
mondo  medico,  fu  la  opinione  che  prevalse  e  si  ri- 
tenne fino  ai  giorni  nostri.  Ora  ecco  Jodin,  che  im- 
pugnando la  diatesi  e  la  natura  inflammatoria,  sì  uni^ 
versalmente  accreditate,  dichiara  la  difteria  una  ma- 
lattia puramente  locale.  Allo  edifìcio  innalzato  con 
tanti  anni  di  fatiche  egli  arreca  colpi  da  farlo  erollar 
dalle  fondamenta. 

Con  maestrevole  brevità  (ma  con  ingegnose  ar- 
gomentazioni ad  un  tempo  da  disporre  il  lettore  al 
suo  partito)  in  una  erudita  metnoria  che  porta  il  ti- 
tolo «  De  la  nature  et  du  traitement  du  croup  et  des 
angines  couenneiises  etc.  »  passa  il  Jodin  in  rivista 
gli  studi  fatti  sulla  malattia  che  ci  occupa,  e  dalla 
analisi  di  questi  studi  conclude  e  dichiara  essere  la 
difteria  una  malattia  puramente  locale,  generata  da  un 
agente  esterno,  che  è  un  parassita  vegetale,  una  crii- 


136 

togamUf  ima  mufjl'a,  ima  maialila  insomma  parassitica. 
Pei"  dimosliar  lo  assunto  imprende  lo  studio  della 
inala Itia  dalla  etiologia.  Qui  ptova:  !.•  che  è  con- 
tagiosa :  2."  che  si  sviluppa  senza  fehbre  iniziale  : 
che  nel  crup  (si  avverta  che  egli  con  questa  parola 
significa  le  due  forme  di  angina  membranosa)  tutto 
al  più  si  osserva  la  frequenza  di  polso  talvolta  estre- 
ma, ma  nulla  più;  e  quando  la  fehbre  esiste,  lo  che 
può  accadere  in  tutti  i  periodi,  è  sempre  sintoma- 
tica di  altra  malattia,  che  può  essere  preesistente 
come  la  scarlattina,  intercoriente  come  la  pneumo- 
nite,  o  consecutiva  conte  il  flemmone  delle  glandole 
sottomascellari:  3.°  che  l'affezione  locale  si  sviluppa 
di  una  maniera  tutta  particolare,  ben  diversamente 
da  quella  delle  affezioni  diatesiche;  si  presenta  cioè 
per  punii  bianchi,  trasparenti,  al  disoilo  ed  intoi'uo 
dei  quali  si  vede  un  rossore  del  tulio  superliciale  e 
senza  il  minimo  gonfiamento,  costituilo  da  una  in- 
iezione vascolare  finissima,  e  da  piccole  ecchimosi: 
pili  tardi  questi  punti  si  allargano  in  tutti  i  sensi, 
formano  delle  macchie  [ladies),  delle  strie,  o  fa- 
scette, che  gettano  dei  ponti,  si  uniscono  e  finiscono 
col  formare  delle  masse  più  o  meno  estese,  senza 
che  in  tutto  ciò  vi  sia  nionie  di  regolare.  Nello  istesso 
tempo  la  concrezione  si  ispessisce,  perde  la  sua  tra- 
sparenza, cambia  di  colore,  diviene  più  fosca,  grigia, 
bruna,  nerastra,  V  ispessimento  e  la  colorazione  es- 
sendo sempre  più  distinti  nel  centro,  che  alla  peri- 
feria. Insomma  descrive  l'andamento  delle  false  mem- 
brane ,  andamento  che  tutti  conoscete  ,  e  perciò 
per  brevità  tralascio:  ma  non  posso  tralasciarvi,  che 
chiude  lo  studio  eliologico  con  queste  parole,  che 


137 

aviiinno  por  noi  peso  più  innatizi.  «  All'affezione  lo- 
cale ed  agl'i  accidenti  locali  che  essa  (la  falsa  mem- 
brana) produce,  possono  associarsi  fenomeni  generali, 
adinamia,  convulsioni  .  .  . 

Da  questo  studio  ne  tira  le  seguenti  prove  ra- 
zionali: 1.°  il  contagio  suppone  l'esistenza  di  un  prin- 
cipio morbifico  venuto  dal  di  fuori:  questo  princi- 
pio non  può  essere  che  un  miasma,  un  'virus,  od  un 
corpo  estraneo,  essendo  che  tutti  i  principii  morbihci 
esteini  appartengono  a  qualcuna  di  queste  categorie. 
La  mancanza  di  febbre  iniziale  allontana  l' idea  che 
questo  principio  possa  essere  un  miasma,  od  un  vi- 
rus; deve  dunque  necessariamente  essere  un  corpo 
estraneo.  Il  carattere  estensivo  deiraffezione  crupalo 
non  permette  di  ritenere  che  esso  sia  un  corpo  incile, 
come  una  spina,  o  come  la  cantaride  che  produce 
una  membrana  circoscritta:  egli  è  dunque  animale 
o  vegetale.  Le  affezioni  crupali  si  comunicano  senza 
contatto  immediato  del  malato,  o  degli  oggetti  toc- 
cati da  lui,  e  non  hanno  luogo  che  consecutivamente 
e  preceduta  denudazione  del  tegumento  cutaneo  o 
mucoso.  L'agente  produttore  non  può  dunque  essere 
un  parassita  animale,  che  senza  contatto  non  si  de- 
posila giammai  sul  tegumento,  e  non  ha  bisogno  di 
antecedente  denudazione.  Resta  che  sia  un  parassita 
vegetale  ,  mollo  leggero  ,  sospeso  nell'aria  che  gli 
serve  di  veicolo,  ma  incapace  colle  sue  spore  arro- 
tondate d'  impiantarsi  se  non  trova  un  suolo  tutto 
preparalo  e  senza  difesa.  Questo  corpo  è  il  fungo 
(Ielle  muffe,  che  una  volta  impiantate,  offrono,  come 
nei  frutti,  la  più  perfetta  rassomiglianza  con  le  af- 
fezioni ci'upalì,  seguendo  con  esattezza   lo  stesso  an- 


138 

damenlo.  Ne  dù  infine  le  prove  microscopiche,  li 
parassita  è  una  muffa:  e  come  questa  può  attaccare 
la  laringe,  la  faringe,  e  la  cute,  divide  la  malattia 
in  tre  categorie.  1 ."  Muffe  sopra  laringee,  in  cui  si 
comprendono  quelle  che  attaccano  le  parti  situale 
al  disopra  della  laringe  ;  bocca,  gola,  fosse  nasali. 
2."  Muffe  laringo-tracheali  -  3."  Muffe  cutanee.  De- 
duce quindi  i  seguenti  criteri.  -  In  etiologìa  U  ve- 
dere, come  i  bambini  lattanti  per  avere  continua- 
mente le  parti  boccali  ricoperte  da  intonaco  latteo, 
cbe  non  permette  al  fungo  d' impiantarsi,  siano  ge- 
neralmente risparmiati  dal  crup  :  come  attacchi  di 
preferenza  gli  scrofolosi,  ed  i  convalescenti  da  febbri 
eruttive,  per  avere  i  primi  le  tonsille  ipertrofiche  che 
arrestano  il  fungo  al  suo  passaggio,  ed  i  secondi  per 
averle  spogliate  dello  epitelio  protettore.  In  sinto- 
matologia avverte,  come  la  mancanza  della  febbre 
faccia  sì  che  la  malattia  si  sviluppi  in  un  modo  la- 
tente, nulla  sorgendo  a  darne  avviso  fino  a  che  non 
sopraggiungano  gli  accessi  di  soffoca/jonc.  in  dia- 
gnostica finalmente  nota  ,  come  la  mancanza  della 
febbre  sia  un  prezioso  segno.  L'alterazione  della  voce 
e  la  tosse  crupale,  quando  si  offrono  senza  febbre, 
fanno  sospettare  il  crup,  e  provocano  l'esame  dello 
parti:  colla  febbre  allontanano  l'  idea  di  crup,  ma 
non  sempre,  perchè  può  coesistere  ad  una  febbre  sin- 
tomatica. 

Eccovi,  0  signori,  la  dottrina  recentissima  del 
Jodin  sulle  angine  cotennose  ;  dottrina  di  cui  fin 
dal  26  luglio  1858  aveva  fatto  parte  all'accademia 
delle  scienze.  Con  quella  brevità  ,  che  nulla  toglie 
al  vero,  la  volli  qui  riprodotta,  perchè  tendendo  essa 


139 

a  sopprimere  la  dialesi,  è  d'  uopo  chiamarla  in  di- 
scussione. 

La  difteria  è  contagiosa.  -  Siamo  pienamente  di 
accordo.  Chi  oggi  oppugnar  volesse  questo  fatto,  op- 
pugnerebbe la  luce  del  sole  in  pieno  meriggio.  En- 
rico Roger  (1)  ha  anche  dimostrato  clinicamente  , 
che  vi  ha  un  periodo  d'  incubazione:  esso  è  molto 
variabile,  ma  la  sua  media  durala  è  sensibilmente 
quella  stessa  che  si  osserva  nella  più  parte  delle  ma- 
lattie contagiose  febbrili:  si  può  a  un  dipresso  fis- 
sare dai  due  ai  nove  giorni.  Si  tentò  la  inoculazione; 
ina  benché  si  adduca  qualche  fatto  favorevole,  molli 
se  ne  hanno  per  negarla:  i  favorevoli  poi  starebbero 
per  provare  forse  anche  una  volta  di  piìi  ,  che  la 
malattia  è  diatesica:  poiché  se  la  materia  difterica 
inoculata  in  un  dato  punto  del  corpo  produce  an- 
gina faringea  o  tracheale,  bisogna  ammettere  un  as- 
sorbimento, un  attossicamento  del  sangue,  che  ha 
la  sua  espressione  nelle  regioni  citate.  Se  continuando 
gli  esperimenti  si  provasse  la  inoculabilità,  avremmo 
mezzo  potente  per  studiar  meglio  la  natura  del  male, 
determinare  il  periodo  d' incubazione,  e  trar  criteri 
per  stabilir  misure  igieniche  d' isolamento.  Ma  l'es- 
sersi la  malattia  sviluppata  con  tutta  la  sua  gravezza 
in  quei  casi,  nei  quali  si  riguarda  inoculata,  allon- 
tana troppo  l'animo  ad  inculcarne  la  continuazione. 

Si  nega  la  febbre  iniziale  nella  difteria,  o  essa 
si  dichiara  sintomatica  se  svolgesi  in  qualunque  pe- 
liodo  del  male.  È  un  travolger  troppo  le  cliniche 
osservazioni  agli  archivi  della  scienza  consegnate  da 


(1)  Tnion  nictlicale  -  n.  122,  123. 


140 

tauli  sommi  e  fedeli  medici.  Areleo,  l;i  cui  osser- 
vazione, al  dir  dello  stesso  Jodin,  è  restala  un  mo- 
dello di  esattezza,  attesta  solennemente  la  presenza 
della  febbre  nel  cap.  IX  De  tomillarum  idceribns,  ove 
si  ritiene  abbia  egli  descritto  questa  malattia.  Né  so 
comprendere,  come  il  sig.  Jodin  affermi,  che  Areleo 
non  abbia  parlato  di  febbre:  mentre  degli  affetti  dal- 
l' ulcere  siriaco  ,  che  appunto  si  vuole  per  angina 
difterica,  dice  «  Pallida  his  seii  livida  facies,  febres 
aculae,  sitisj  ut  igne  accensi  videanlur  ».  Tutti  gli 
altri  in  seguito  hanno  confermato  il  fatto.  E  chi  di 
noi  non  è  al  caso  di  rispondere  ?  lo  per  me  ho  la 
osservazione  di  diversi  casi  bene  avverati,  uno  dei 
quali  debbo  all'amicizia  e  gentilezza  del  dott.  Car- 
dona:  ed  in  tulli  precedette  ed  accompagnò  la  feb- 
bre 0  fino  alla  morte,  o  fino  alla  guarigione,  e  in 
due  essa  persistette  fino  al  nono  giorno.  Vari  col- 
leghi, che  potrei  nominare,  hanno  meco  veduto  que- 
sti malati  ,  e  confermano  il  mio  asserto.  A  molli 
medici  distinti  di  questa  città,  e  ad  alcuni  ancora 
dei  vicini  paesi,  cui  toccò  di  curar  gian  numero  di 
SI  falle  malattie,  mi  sono  rivolto  per  avere  schiari- 
menti ,  e  tutti  unanimi  hanno  confermato  la  esi- 
stenza della  febbre.  Non  nego,  che  gli  autori  ammet- 
tano la  mancanza  della  febbre  in  qualche  caso. 
Barlhez  e  Rilliet,  che  nomino  con  riverenza  per  il 
loro  trattato  sulle  malattie  dei  fanciulli,  si  avven- 
nero in  un  sol  caso,  in  cui  mancò  la  febbre  nei  pri- 
mi giorni.  Ma  un  qualche  caso  non  costituisce  la 
regola:  mollo  v'  inlluiscono  la  gravezza,  e  la  costi- 
tuzione epidemica.  È  vero  però  in  generale  che  la 
febbre  è  ordinariamente  leggera,  benché  in  due  os- 


lit 

servazioni  di  Bretonneau,  in  due  dei  succitati  autori, 
e  in  due  dei  miei,  essa  era  vivissima  anche  al  piiu- 
cipio.  La  leggerezza  della  febbre  non  è  Io  slesso  che 
mancanza.  Né  è  necessario  per  costituir  la  febl)re, 
che  tutti  insieme  si  trovino,  come  vorrebbe  Jodin, 
frequenza  di  polso,  calore  della  pelle,  cefalalgia  con 
abbattimento,  perturbamento  delle  ficoltà  intellet- 
tuali, torpidezza  dei  sensi:  essa  può  slare  con  alcuni 
soltanto  di  questi  caratteri.  Ed  è  poi  possi  bileche 
tanti  grandi  medici  si  siano  ingannati  nel  giudicare, 
che  abbiano  preso  per  febbre  la  sola  frequenza  di 
]>olso,  come  egli  sentenzia,  o  non  abbiano  saputo 
discernere  se  essa  fosse  sintoma  di  qualche  altra 
malattia  preesistente,  intercorrente,  o  consecutiva  ? 
Che  non  abbiano  saputo  dai'e  a  ciascuna  il  giusto, 
il  reale  valore  ?  Ciò  è  un  voler  troppo  offendeie  la 
sapienza  di  tutto  il  mondo  medico,  è  un  mancar  di 
quella  buona  fede,  senza  di  cui  nulla  ha  piiì  di  leale 
la  medicina,  tutto  sarebbe  scetticismo  in  essa,  ed 
ogni  giorno  torneremmo  da  capo.  Che  esso  solo  ab- 
bia saputo  vedere,  distinguere  e  giudicare  ?  Noi,  che 
senza  esser  superbi,  pretendiamo  di  saper  ravvisare 
se  in  un  malato  v'abbia  o  no  febbre,  e  distinguere 
se  sia  propria  della  malattia  principale,  o  sintoma- 
tica di  altra,  diciamo  che  nella  difteria  ordinaria- 
mente vi  è  febbre,  e  che  questa  le  appartiene  come 
carattere  proprio.  Ed  accettando  ,  poiché  ci  viene 
garantito  da  autorità  troppo  degne  di  fede,  che  in 
alcun  caso  rarissimo  manchi,  pensiamo  che  ciò  per 
nulla  infermi  il  valore  che  noi  accordiamo  alla  feb- 
bre. Ognuno  riguarda  il  vainolo  come  esantema  feb- 
brile: eppure  in  (jualche  caso  manca  la  febbre.  «  Feb- 


Ìi2 

))  bi'ilem  ciim  voco  (dice  il  grande  osservatore  Bor- 
»  sieri,  parlando  del  vaiuolo)  quod  plerumque  febrom 
))  comitein  habet.  Dico  plerumque  ,  nam  interdum 
»  adeo  mitis  est  et  benignus,  ut  nulla  febris  eum 
))  anteceda!  aut  comitetur,  aut,  si  qua  cum  eo  con- 
«  iungitur,  vix  sensibilis  ipsa  sit  ,  neque  continua 
»  eius  Comes,  sed  modo  accedat,  modo  recedat,  ex- 
»  ce[)to  graviori  casu  et  malignitatis  non  experte, 
»  in  quo  febiis  plus  minus  acuta,  atque  assidua  lo- 
»  cum  habet  et  tenet  etc.  »  Mi  si  obbietterà,  che 
essa  è  mancata  in  casi  gravissimi,  e  mortali  entro 
poche  ore.  Se  sussista  questo  fatto,  che  io  non  co- 
nosco, ha  sempre  per  me  un  vab)re  secondario.  La 
gravità  del  male,  che  in  poche  oie  tronca  una  tenera 
esistenza,  lascia  mal  vedere  in  mezzo  a  tante  am- 
basce ;  con  esse  spesso  si  perde  quella  febbre,  che 
in  piij  calma  sarebbe  patente.  In  una  angina  mali- 
gna scarlattinosa  accade  spesso  di  veder  confusi  tutti 
i  sintomi  coi  fenomeni  terribili  di  soffocazione  e  ner- 
vosi :  non  pertanto  la  febbre  esiste.  In  ogni  modo 
sarebbe  per  noi  spiegabile  la  mancanza  della  febbre 
in  casi  gravissimi  e  prontamente  mortali  colla  cele- 
rità del  male;  cioè  che  l'eruzfone  difterica  si  compi 
in  tal  copia  e  prestezza,  che  uccise  lo  infermo,  pri- 
ma che  in  esso  si  svolgesse  il  consueto  treno  sinto- 
matico. Ritenuta  la  febbre  come  carattere  proprio 
della  difteria,  vediamo  se  questa  è  una  ajfezione  lo- 
cale, che  si  sviluppi  di  una  maniera  tutta  partico- 
lare ben  diversamente  da  quella  delle  affezioni  dia- 
tesiche. 

Qui  non  so  veramente  intendere  questa  partico- 
larità di  sviluppo  voluta  dal  Jodin.  A  me  nella  esiU- 


U3 

tissima  descrizione  clic  egli  ne  dà,  e  che  avete  uditr, 
0  signoi'i,  sembra  di  vedere  la  più  pei'fetta  analogia 
"fra  lo  svolgimento  della  eruzione  difterica,  e  le  ma- 
lattie diatesiche  per  eccellenza,  il  vainolo,  la  scar- 
lattina, il  morbillo.  Opponendo  questi  esempi,  che 
ognuno  sa  apprezzare  e  verificare,  mi  pare  esaurita 
la  confutazione  di  questa,  paite.  E  la  confutazione 
ò  avvalorata  dalla  associazione  non  sì  rara  di  feno- 
meni generali,  adinamia,  convulsioni,  ammessi  dal- 
l'autore stesso  che  son  propri,  almeno  l'adinamia,  e 
tanti  altri  che  vedremo,  delle  afTezioni  generali  dia- 
tesiche. 

Ammesso  che  la  difteria  è  contagiosa  ,  è  afe- 
brile  ,  è  affezione  locale  ,  il  Jodin  per  esclusione  , 
come  abbiamo  sentito  ,  conclude  che  la  causa  ge- 
neratrice non  può  essere  che  un  parassita  vegetale. 
Ed  esso  al  microscopio  ritrova  nelle  membrane  dil- 
teriche  una  crittogama,  che  caratterizza  per  muffa. 
Ecco  la  causa  della  difteria,  che  si  sviluppa  come  nei 
frutti.  Disgraziatamente,  e  perchè  poco  esperto  di  mi- 
croscopio, e  perchè  p'm  di  tutto  mi  mancarono  mezzi 
pronti,  non  ho  potuto  che  tardi  ripetere  e  verificare 
gli  esperimenti.  Nel  caso  offertomi  dall'amico  Gar- 
dena in  via  delle  Botteghe  Oscure  num.  62,  la  ma- 
lattia invase  primitivamente  la  laringe,  poi  la  retro- 
bocca, le  tonsille,  e  la  faringe.  Le  false  membrane 
tubuliformì  reiette  in  abbondanza  per  cinque  giorni, 
raccolte  e  custodite  con  diligenza  ,  sottoponemmo 
al  valore  delle  lenti  ,  aiutati  e  diretti  dall'  onore- 
vole socio  sig.  dott.  Gualandi,  di  cui  tutti  conoscete 
la  non  comune  perizia  micrografica.  Ebbene,  nelle 
false  membrane  dei  primi  giorni  non  vedemmo  crii- 


lU 

logama,  nelle  ultime  essa  èva  abbondantissima.  So 
che  alcun  altro  sottopose  al  microscopio  pezzi  di 
membrane  difteriche  raccolte  con  tutta  cura,  e  non 
vi  trovò  fungo  di  alcuna  specie,  non  vide  che  false 
membrane.  Ma  allo  slesso  sostenitore  della  critto- 
gama avvenne  più  volte  di  non  poter  discoprire 
nelle  false  membrane  quel  fungo,  che  già  gli  era  nato 
nella  mente:  a  talché  incominciava  a  disperar  di  tro- 
varlo, come  confessa  egli  stesso.  Poi  lo  rinvenne, 
ma  perduto  in  mezzo  alle  false  membrane  ed  ai 
globuli  di  pus  che  lo  involgevano  da  ogni  parte.  In 
fine  Io  riscontra  molte  volte  facilmente  ,  distinto  , 
e  in  grande  quantità.  Ecco  dun(jue  per  esso  il  pa- 
rassita, ecco  la  causa  vera  e  genuina  della  difteria. 
Anche  altri  ve  lo  aveano  trovato  prima  di  lui  :  il 
nostro  Pacini  di  Firenze,  poi  Robin,  Bazin  ed  altri. 
«  Ma  essi,  dice  Jodin,  non  hanno  compreso  il  valore 
))  patogenico  ;  il  fungo  è  stato  considerato  come  un 
»  epifenomeno  ,  come  un  prodotto  svoltosi  conse- 
))  cutivamejite  alle  false  men)hrane  che  gli  porgono 
»  il  terreno  favorevole  per  svilupparsi  :  essi  hanno 
»  preso  per  effetto  ciò  che  deve  considerarsi  causa: 
w  e  ciò  dipende  dall'  avere  essi  e  tanti  altri  mal 
))  proceduto  ,  dall'  avere  incomincialo  dove  io  ho 
»   finito  )). 

lo  non  sono  micrografo  da  potere  minutamente 
combattere  osservazioni  microscopiche.  Ma  ognuno 
senza  esser  tale  vede,  che  onde  considerare  il  fungo 
che  si  ritrova  nelle  false  membrane  come  causa  della 
malattia  difterica,  sarebbe  necessario  che  esso  sem- 
pre ed  immancabilmente  si  riscontrasse  in  ogni  caso, 
in  ogni  periodo  del  male  (nel  primo  specialmente) 


U5 

ed  in  tale  abbondanza  da  costituir  per  se  solo  la 
composizione  principale  delle  false  membrane.  Invece 
alcuna  volta  è  mancato,  alcun'altra  appena  si  è  mo- 
strato involto  a  tante  sostanze  ,  o  soltanto  a  ma- 
lattia avanzata.  Un  parassita,  causa  di  una  malattia, 
non  manca  mai  ed  in  abbondanza  a  qualunque  stadio 
del  male.  Nella  tigna  è  costante  ,  e  di  esso  quasi 
per  intero  si  compone  la  produzione  morbosa.  An- 
che pel  fatto  microscopico  dunque  nulla  autorizza 
a  riconoscere  nella  crittogama  la  causa  generatrice 
della  difteria  ;  per  nulla  dunque  si  può  considerarla 
come  una  malattia  parassitica.  Robin  ed  altri  hanno 
riscontrato  il  fungo  anche  in  alcune  false  membrane 
trovate  nei  bronchi  dei  tisici:  e  chi  perciò  oserebbe 
considerar  la  lisi  una  malattia  parassitica  ?  Nessuno 
riguarderà  mai  come  tali  le  febbri  tifoidi,  le  flebiti, 
le  lìnfagiti  mortali,  le  afte,  nelle  quali  pure  si  rin- 
venne il  fungo  all'  ultimo  periodo  specialmente  in 
mezzo  alle  materie  scerete  dalle  superficie  malate 
delle  intestina  ,  dei  vasi  sanguigni  o  linfatici  etc. 
Dunque  il  fungo  nella  difteria  è,  come  in  tante  altre 
affezioni ,  un  epifenomeno.  E  la  difteria  sia  per 
ragioni  etiologiche,  sia  per  argomenti  razionali,  sia 
per  fatto  microscopico,  non  è  una  malattia  locale  e 
prodotta  da  un  agente  esterno  cognito ,  ma  una 
malattia  diatesica  prodotta  da  un  agente  incognito 
fin  qui,  che  introdotto  nell'organismo  ha  il  suo  pe- 
riodo d'  incubazione  ,  e  si  manifesta  alla  maniera 
stessa  di  altri  agenti  attossicanti  pur  essi  incogniti, 
come  il  virus  del  vaiolo,  della  scarlattina,  del  mor- 
billo. Molti  medici  riconoscono  oggi  questa  verità, 
G.A.T.CLXV.  10 


U6 

e  nella  sintomatologia  scorgono  la  prova  di  una  rea- 
zione della  economia  animale  provocata  da  una  lotta 
stabilita  tra  gli  agenti  interni  ed  esterni.  Fenomeni 
morbosi  di  secrezioni  come  l'albuminuria,  di  ematosi 
come  r  anemia  ,  e  risguardanti  i  sistemi  nerveo  e 
muscolare,  come  la  paralisi  progressiva,  si  vedono 
bene  spesso  accompagnare  o  tener  dietro  alla  di- 
fteria. La  paralisi  progressiva  è  il  più  spesso  con- 
secutiva ,  ed  ha  per  singolare  carattere  di  non 
manifestarsi  il  più  di  sovente  che  un  certo  tempo 
dopo  la  scomparsa  degli  accidenti  locali.  Le  sue 
prime  manifestazioni  hanno  luogo  verso  il  velo  del 
palato,  e  la  mucosa  nasale.  L'ugola,  dicono  alcuni 
autori  antichi  ,  diviene  flaccida  ,  la  voce  nasale  , 
la  vista  si  turba  e  s'indebolisce  fino  all'amaurosi  , 
od  almeno  all'ambliopia,  senza  però,  dee  aggiungersi, 
alcuna  alterazione  valutabile  delle  membrane  oculari. 
Ma  se  si  osservi  più  da  vicino,  si  riconoscono  al 
tempo  stesso,  o  pochissimi  giorni  più  lardi,  dei  sin- 
tomi pronunciati  d'  indebolimento  completo  ,  e  gli 
indizi  ordinari  di  una  paralisi  generalizzata  con  an- 
damento progressivo.  In  questo  proposito  è  inte- 
ressante il  rapporto  comunicato,  non  è  molto,  alla 
società  medica  degli  spedali  di  Parigi  da  Enrico  Roger 
sopra  una  memoria  del  dolt.  Maingault  (1).  1  primi  a 
comparire  sono  i  turbamenti  della  sensibilità,  che 
sono  ben  presto  seguiti  da  lesioni  analoghe  del  mo- 
vimento. In  un  tal  Rodolfo  Bartoli  di  anni  6,  in  via 


(1)  De  la  paralysie  diplhérique  -  Paris  1860  -  che  ora 
abbiamo  sotto  gli  occhi. 


147 

della  i^ongara  nurn.  138,  ebbi  io  al  finire  di  agosto 
p.  p.  un  quadro  completo  dei  fenomeni  nervosi  so- 
pradescritti. Ammalava  questi  di  angina  cotennosa 
il  23  di  detto  mese,  nel  giorno  appunto  in  cui  alla 
stessa  malattia  soccombeva  un  suo  fratello  cugino 
col  quale  conviveva.  La  malattia  fu  gravissima,  ga- 
gliarda la  febbre.  11  5  settembre  era  guarito  del  lutto. 
Verso  la  metà  di  questo  mese  incominciarono  i  fe-^ 
nomeni  di  paralisi  del  velo  palatino,  della  laringe, 
quindi  della  faringe,  ed  infine  del  sistema  locomo- 
tore. Mentre  nulla  accennava  a  pericolo,  improvvi- 
samente il  14  di  ottobre  fu  preso  da  accessi  di  sof- 
focazione ,  che  non  cedendo  ad  alcun  rimedio,  in 
poche  ore  lo  tolsero  di  vita  con  tutti  i  segni  di 
asfissia.  Mi  fu  negata  l' autopsia  ,  che  avrei  tanto 
desiderata  per  spiegarmi  il  subitaneo  cambiamento 
e  la  morte  ,  che  io  penso  avvenisse  per  la  caduta 
forse  nella  trachea  di  qualche  sostanza  alimentare. 
Simili  accidenti  sono  frequenti  nella  circostanza  della 
paralisi  dei  muscoli  della  faringe  e  della  laringe  , 
come  si  attesta  da  esperti  osservatori ,  e  da  molte 
autopsie  registrate  nella  scienza.  Poiché  nel  resto 
queste  alterazioni  funzionali  dei  sistemi  nervoso  e 
muscolare,  che  si  accompagnano  coi  caratteri  esterni 
dell'anemia  e  della  debolezza  apirattica,  non  offrono 
generalmente  una  terminazione  fatale.  La  paralisi, 
dopo  aver  durato  anche  per  mesi  ,  diminuisce  per 
gradi,  e  finisce  il  piiì  spesso  con  la  guarigione. 

A  tutte  queste  prove,  che  addimostrano  abba- 
stanza essere  la  difteria  una  malattia  diatesica,  altre 
ne  abbiamo  nello  ingorgo  e  talvolta  suppurazione 
delle  glandole  cervicali,  o  soltomascellari,  che  ordi- 


ì^8 
nammcnle  precede  ed  accompagna  la  comparsa 
delle  membrane  difteriche.  Tale  ingorgo  non  può 
riguardarsi  come  un  fenomeno  di  puro  consenso , 
di  semplice  vicinanza  alla  stessa  maniera  che  av- 
viene per  le  glandolo  inguinali  nella  scorticatura  di 
un  piede,  a  per  le  glandole  sotto-ascellari  nel  pa- 
nereccio ,  come  verrebbe  Jodin  ,  poiché  nel  nostro 
caso  precede  ed  accompagna  la  comparsa  delle  false 
membrane,  e  talvolta  passa  in  suppurazione:  il  che 
non  avviene  mai  nelle  circostanze  accennate.  Qui 
}'  ingorgo  è  effetto  del  veleno  difterico  ,  come  nel 
bubone  della  peste  è  del   veleno  pestifero. 

Riconosciuto  e  stabilito  così,  come  meglio  pei* 
me  si  poteva  ,  che  la  difteria  non  è  una  malattia 
locale,  ma  veramente  diatesica,  vediamo  se  ella  è 
di  natura  infiammatoria  genuina  o  specifica.  Dopo 
tante  pratiche  osservazioni  il  consenso  universale  dei 
medici  respinge  l'idea  di  una  infiammazione  legit-; 
tima,  ed  accoglie  quella  della  flogosi  specifica.  Che 
voglia  significarsi  con  tale  espressione,  io  non  so  in- 
tendere davvero.  E  sia  che  mediti  sullo  esordire  ed 
andamento  della  malattia,  sia  che  rifletta  sui  carat- 
teri della  eruzione  difterica,  sia  che  analizzi  i  tanti 
turbamenti  funzionali  concomitanti  o  consecutivi  » 
sia  che  ponga  mente  alla  nessuna  alterazione  pato- 
logica apprezzabile  riscontrata  nelle  mucose  sotto- 
stanti alle  false  membrane  ,  o  negli  altri  organi  , 
sia  infine  che  prenda  in  considerazione  il  tratta- 
mento curativo,  io  non  iscorgo  ovunque  altro  che 
argomenti  che  mi  forzano  a  negare  la  natura  flo- 
gistica ,  vuoi  legittima  ,  vuoi  specifica.  Per  tali  ra- 
gioni appunto  credo  io,  che  si  desse  l'epiteto  di  spe- 


U9 

clfìca  a  questa  infiammazione.  Già  Andrai  sì  espri'^ 
ixieva  contro  siffatta  opinione,  a  Che  i  partigiani  della 
natura  infiammatoria  del  crup  spieghino  ,  se  pos- 
sono, diceva  egli,  la  comparsa  simultanea  di  queste 
novelle  produzioni  in  molti  punti  del  corpo  !  Non 
sarebbe  più  conforme  ad  una  severa  interpretazione 
dei  sintomi,  del  corso  e  cura  della  malattia  di  con- 
siderar le  membrane  come  effetto  di  una  alterazione 
più  generale  ,  che  dia  alle  secrezioni  la  proprietà 
singolare  di  fornire  un  liquido  fortemente  albumi- 
noso ?  »  Noi  saremmo  di  accordo  con  Andrai,  se  la 
malattia  fosse  tutta  e  soltanto  nelle  false  membrane; 
ma  tutta  non  è  in  quelle  produzioni,  come  tutta  la 
malattia  del  vainolo  non  è  nella  sola  eruzione  va- 
iolosa. Come  in  questo  esantema ,  abbiamo  nella 
difteria  ben  altri  turbamenti  funzionali,  che  indicano 
un'alterazione  profonda  delTorganismo.  E  questa  al- 
terazione profonda  noi  la  riporremmo  con  Trousseau» 
Peter  Eade,  e  di  recente  Barthez  in  un  attossica- 
mento  primitivamente  generale.  11  principio  poi  at- 
tossicante ci  parrebbe  potesse  riguardarsi  in  un  virus 
analogo  a  quello  del  vaiuolo,  della  scarlattina,  del 
morbillo  etc,  quindi  che  la  difteria  potesse  consi- 
derarsi come  una  malatlia  eruttiva^  e  da  chiamarsi 
sempre,  e  soltanto  difteria,  come  altri  ha  già  propo- 
sto, a  fine  di  escludere  quella  idea  di  decisa  infiamma- 
zione intesa  nell'espressione  difierite:  appellando  poi, 
secondo  la  sede,  difteria  laringea  quella  della  laringe, 
e  difteria  faringea  quella  della  faringe,  palato  mol- 
le etc.  È  forse  questa  mia  una  ipotesi  ?  La  sotto- 
pongo al  giudizio  vostro,  o  sapientissimi  colleghi , 
che  è  per  me  di  gravissimo  peso,  e  volentieii  ac- 


150 

colgo  ogni  vostra  ossoivazione,  che  possa  rischiarare 
le  mie  convinzioni  sopra  la  malattia,  nella  quale  vi 
trattenni  già  a  lungo. 

Nel  mese  di  novembre  dell'  anno  scorso  in  una 
noia  presentala  da  Velpeau  alla  ficcademia  delle 
scienze  a  nome  di  Vernhes  ,  si  legge  come  questo 
medico  avesse  osservalo  nel  dipartimento  de  l'Hé- 
rault,  che  da  tre  anni  era  sotto  un'  influenza  epi- 
demica crupale  morlalissima  ,  la  quasi  completa 
scomparsa  della  rosalia:  e  concludendo  una  grande 
rassomiglianza  fra  queste  due  malattie  ,  pensò 
che  producendo  sulla  pelle  un  esantema  generale 
artificiale  si  potesse  prevenire,  o  almeno  arrestare 
lo  sviluppo  del  crup.  Allo  scopo  impiegò  il  croton 
tilium;  e  dice  di  aver  veduto,  che  dopo  l'apparizione 
dello  esantema  la  formazione  delle  false  membrane, 
se  essa  aveva  già  avuto  luogo  ,  si  arrestava  del 
tutto  (1).  Vi  confesso  di  non  daie  un  valore  assoluto 
a  questo  racconto  :  sento  peiò  che  racchiude  una 
qualche  prova  per  riguardar  la  difteria  come  malattia 
eruttiva.  Ma  consideriamo  l'eruzione  difterica.  Essa 
è  per  lo  più  preceduta  da  febbre  dopo  un  periodo 
d' incubazione  ,  quindi  comparisce  in  piccoli  punti 
bianchi  ,  disseminati  or  su  questa  ,  or  su  quella 
regione  di  preferenza;  questi  punti  si  fanno  più  co- 
piosi, si  allargano,  si  uniscono  più  o  meno,  secondo 
la  intensità  del  morbo.  Restano  più  o  meno  a  lungo, 
quindi  cambiano  di  colore,  si  distaccano,  o  insen- 
sibilmente si  consumano,  come  appunto  avviene  nelle 
pustole  vaiolose,  specialmente  per  quelle  che  erom- 
pono   sulla    mucosa    della  bocca  ,  della  faringe  ,  e 


(1)  Gazelle  des  hopitaux  num.  134.  Novembre  1859. 


151 

della  laringe.  Mi  si  dirà  ,  che  l' idea  di  malallia 
eruttiva  non  può  applicarsi  alla  difteria  laringea  , 
che  alle  volte  invade  in  mezzo  alla  più  perfetta  sa- 
lute, e  guarisce  od  uccide  istantaneamente.  Io  credo, 
che  si  sia  troppo  facili  ad  asserire  così  assoluta- 
mente questi  fatti.  Si  sottopongano  a  severa  e  spas- 
sionata osservazione,  e  si  vedrà  che  uno  stato  di 
malessere  precede  e  consegue  la  eruzione  difterica; 
si  vedrà,  che  la  tosse  crupale  continuerà  per  qual- 
che giorno  ,  e  dei  frammenti  membranacei  ven- 
gono di  tanto  in  tanto  reietti  senza  avvertenza  del 
malato,  degli  astanti  e  forse  anche  del  medico,  se 
questi  non  indaga  attentamente  le  sostanze  espulse 
sia  per  vomito  ,  sia  colla  tosse.  In  una  bambina 
di  tre  anni,  in  via  di  Tor  de' Specchi  num.  51,  io 
osservai  ciò  nelle  materie  espettorate,  che  con  pre- 
mura mi  erano  conservate  dai  parenti.  Eppure  , 
dopo  il  primo  e  brusco  accesso  di  soffocamento,  si 
sarebbe  detto  ,  che  la  bambina  stesse  bene  ,  se 
acceltuavi  la  leggerissima  febbre  ,  la  tosse  cru- 
pale e  la  persistenza  di  una  placca  difterica  sulla 
tonsilla  destra,  che  apparve  in  seguito  ai  sintomi 
laringei.  Quando  poi  avvenga  la  morte  in  poche  ore 
si  spiega  benissimo  o  per  la  abbondanza  soltanto 
della  eruzione  in  parti  essenziali  allo  esercizio  della 
vita  ,  0  perchè  il  principio  difterico  agì  in  troppa 
copia  e  forza  sul  sistema  nervoso  della  vita  organica 
specialmente,  giacché  in  alcun  fatto  di  questi  si  rin- 
venne poca  eruzione  alla  laringe  e  al  bronchi,  mentre 
l' infermo  morì  come  strangolato.  Quel  che  si  as- 
serisce dunque  non  è  l'espressione  del  fatto.  E  am- 
mettendolo pure,  senza  concederlo,  cesserebbe  per 
questo  di  esser  la  difteria  una  malattia  eruttiva  ?  Se 


152 

per  malattie  eruttive  si  considerino  soltanto  quelle, 
che  hanno  in  genere  un  corso  necessario,  come  il 
vaiuolo,  il  morbillo,  la  scarlattina,  avrebbe  l'obbie- 
zione un  valore  per  se;  ma  quando  se  ne  ammettano 
altre  ,  come  le  afte  ,  la  miliare  etc.  irregolari  nel 
corso  e  negli  stadi,  essa  cade  a  mio  credere  :  e  la 
difteria  può  benissimo  rassomigliarsi  ad  una  di  que- 
ste ,  riportarsi  ad  una  malattia  eruttiva  irregolare. 
Io  appoggio  sarebbe  pure  la  eruzione  in  differenti 
parti  dal  corpo,  come  alla  vulva,  all'ano,  alle  su- 
perficie denudate  dai  vessicanti.  Gli  studi  di  Peter 
Eade,  medico  dello  spedale  di  Norfolk  e  Norwich, 
tendono  a  confermarci  nella  esposta  opinione.  Questo 
medico  osservò  un  malato,  che  uscito  da  un  distretto 
malmenato  della  epidemia  difterica  aveva  avuto  bensì 
in  principio  un  leggero  male  di  gola,  ma  di  tanta 
poca  entità  da  non  fargli  sospendere  il  suo  lavoro 
e  da  esser  vinto  con  un  lieve  medicamento.  Quindici 
giorni  dopo  si  osservarono  io  lui  tutti  i  sintomi  di 
paralisi  consecutiva  ,  che  noi  descrivemmo  ,  e  che 
cederoDO  allo  stesso  trattamento  alterante  e  tonico 
adoperato  dallo  stesso  medico  per  vincere  le  altro 
paralisi  consecutive  alla  difteria.  Peter  Eade  non 
dubitò  di  avere  avuto  sotl'occhio  in  questo  caso  un 
esempio  di  difteria  senza  false  membrane,  come  si 
hanno  scarlattine  sine  scurlatlinis  ,  vainoli  sine  va- 
riolis,  roseole  sine  morhiUis.  L'osservazione  del  medico 
inglese  non  è  tale  da  escludere  ogni  interpretazione 
dubitativa,  come  dice  Giraud-Teulon  ,  perchè  non 
vi  si  può  fondare  un'opinione  assicurata  e  dommatica; 
ma  pel  nostro  caso  io  credo,  che  debba  accordarlesi 
un  valore  reale  ,  o  almeno  una  giusta  probabilità. 
Dico  pel  caso  nostro,  perchè  il   Peter  Eade  inter- 


153 

preta  il  fatto  diversamente,  come  può  vedersi  nella 
-  The  lariceti  luglio  1859. 

Riassumendo  ora  in  breve  le  conclusioni  dei  miei 
studi  sulla  natura  della  difteria,  dico: 

1."  Che  l'angina  cancrenosa  è  rara,  ma  esiste,  ed 
è  essenzialmente  differente  dalla  difteria,  benché  a 
questa  siano  da  riportarsi  molle  epidemie  di  angine 
descritte  per  cancrenose. 

2."  Che  il  crup  propriamente  detto,  e  l'angina 
cotennosa  o  pseudo-membranosa  sono  una  ed  iden- 
tica malattia,  diverse  solo  per  la  sede,  e  perciò  ben 
comprese  ambedue  sotto  lo  stesso  nome  di  difleria. 

3."  Che  la  difteria  è  una  malattia  diatesica,  di 
natura  eruttiva,  e  perciò  da  chiamarsi  meglio  con 
tal  nome,  onde  escludere  1'  idea  di  flogosi  genuina 
inlesa  coli'  appellazione  diflerile. 

Avvertenze  prognostiche. 

Per  lo  assunto  propostomi  dovrei  passare  a  par- 
lar subilo  della  cura.  Ma  permettetemi,  che  ricordi 
alcuni  criteri  prognostici  ,  che  vanno  registrandosi 
in  Conseguenza  degli  sludi,  che  continuamente  e  do- 
vunque si  fanno  oggidì  sopra  questa  malattia.  Allo 
ingorgo  delle  glandole  cervicali  e  sottomascellari  , 
ed  all'albumininia,  hanno  rapporto  i  criteri,  che  amo 
di  consegnare  in  questo  scritto.  Quanto  lo  ingorgo 
delle  glandole  è  maggiore  ,  tanto  la  difleria  è  più 
grave.  Per  lo  pili  questo  ingorgo  è  in  ragione  di- 
retta della  estensione  delle  false  membrane,  benché 
alcuna  volta  accada  il  contrario:  cioè  le  false  mem- 
brane diminuiscono  ,  e  lo  ingorgo  glandolare  resta 


154 

stazionario  fino  a  che  non  migliori  lo  stato  generale. 
Quindi  il  prognostico  deve  fondarsi  più  sul  detto  in- 
gorgo glandolare,  che  sulla  estensione  della  eruzione 
difterica.  L' albuminuria  ,  che  spesso  si  offre  nella 
difteria,  specialmente  quando  l'eruzione  ò  molto  este- 
sa, ci  dà  un  criterio  di  maggiore  o  minor  durata, 
secondo  che  è  più  o  meno  abbondante  e  persistente. 
Poco  vale  per  predire  la  morte,  ma  sempre  indica 
che  la  malattia  ha  attaccato  profondamente  l'orga- 
nismo: e  in  caso  di  guarigione  fa  prevedere  la  pa- 
ralisi generale  consecutiva  ,  la  quale  per  altro  può 
aver  luogo  senza  preesistita  albuminuria.  Quanto  agli 
altri  segni  prognostici  se  ne  ha  in  ogni  trattato  pra- 
tico sulla  difteria. 

PROPOSIZIONE  TERZA 

Cura. 

Eccoci  alla  parte  veramente  spinosa,  su  cui  tutta 
pesa  r  importanza  del  medico  pratico,  ed  a  cui  prin- 
cipalmente pretendono  con  ragione  i  malati,  lo  non 
mi  dilungherò  molto  in  essa,  perchè  se  mi  dessi  a 
riportare  i  metodi  proposti,  ed  i  rimedi  usati,  non 
offrirei  che  un  utile  storico  sulla  terapeutica  di  que- 
sta malattia,  lasciando  dubbiose  le  menti  nella  scelta 
di  quei  farmachi  conducenti  allo  scopo. 

Più  o  meno  ognuno  istituì  un  metodo  di  cura, 
confoime  al  concetto  che  si  era  formato  sulla  na- 
tura della  malattia-  Quindi  finché  prevalse  l' idea  , 
che  le  angine  difteriche  non  fossero  che  infiamma- 
zioni genuine,  alle  deplezioni  sanguigne  generali  e 


155 

locali  ,  ai  rimedi  minorativi  ,  ai  deprimenti  ,  ed  ai 
derivativi,  si  affidava  quasi  per  intero  la  cura,  non 
omettendo  collutori  e  detersivi  nelle  località.  Quando 
poi  subentrò  V  epoca  della  infiammazione  specifica 
s'insistè  ancora  per  alcun  tempo,  e  piiì  o  meno  ge- 
nerosamente, nelle  emissioni  di  sangue;  ma  ricono- 
sciutane la  inefficacia,  o  a  dir  meglio,  il  danno  quasi 
costante,  ognuno  surse  a  proporre  rimedi  specifici. 
Quel  rimedio  però  che  era  accreditato  dagli  uni  con 
clinici  risultati,  con  eguali  argomenti  veniva  da  altri 
respinto.  E  qui  si  può  dire  davvero,  che  non  vi  fu 
rimedio  proposto,  che  non  vantasse  i  suoi  trionfi,  e 
non  toccasse  le  sue  sconfitte.  Uno  però  ve  ne  ha, 
il  più  antico  di  tutti,  che  è  stato  meno  contrariato: 
voglio  dire,  l'emetico.  Vi  è  stata  dissenzione  nel  pre- 
ferire questo  0  quello  ,  nel  volere  affidare  tutta  la 
cura  agli  emetici  ,  o  chiamarli  come  ausiliari  :  ma 
tutti  han  riconosciuto  in  essi  un  potentissimo  soc- 
corso, accanto  all'emetico,  i  più  accreditati  in  ogni 
epoca  sono  stati  i  caustici  applicati  localmente  allo 
scopo  di  limitare,  distruggere,  o  procurare  il  distacco 
delle  false  membrane. 

In  mezzo  al  caos  di  terapia,  vi  confesso,  che  io 
muovo  trepidante  ad  indicar  quella,  che  mi  sembra 
da  prescegliersi,  e  specialmente  oggi  che  si  torna  a 
proporre  alcun  rimedio  come  specifico,  ed  altro  co- 
me più  di  tutti  conducente  allo  scopo,  e  che  io  non 
sperimentai,  non  perchè  mi  sia  mancata  occasione, 
ma  perchè  me  ne  mancò  il  coraggio,  per  non  essere 
ancora  clinicamente  da  altri  confermata  la  loro  ef- 
ficacia preponderante  su  quelli  che  fin  qui  han  dato 
migliori  risultamenti.   Il  percloniro   di  ferro  liquido 


156 

e  Vacqua  bromata  sono  i  due  rimedi  ,  che  oggi  si 
preconizzano.  L'uno  e  l'altro  han  sostenitori,  e  al- 
ì'uno  o  all'altro  si  vuole  esclusivamente  affidata  l'in- 
tera cura.  Jodin,  coerente  alla  sua  teoria,  amministra 
localmente  soltanto  il  percloruro  di  ferro  come  pa- 
rassiticida,  e  per  esso  è  infallibile.  «  Le  succés  a  ré- 
pondu ,  dice  egli  ,  d  unire  attènte  ,  et  jamais  ,  nou<i 
pouvons  le  dire  hardiment,  il  noits  a  manqiié  de  pa- 
role dans  les  cas  nombreux  ou  nous  Vavons  applique  ». 
Altri  poi,  e  specialmente  1'  inglese  Heslop,  lo  danno 
internamente  :  perchè  riconoscendo  la  necessità  di 
una  cura  tonica  fin  dal  principio,  nel  percloruro  di 
ferro  trovano  il  potente  rimedio  atto  ad  un  tempo 
ad  impedire  quella  dissoluzione  umorale  ,  che  essi 
vedono  nella  difteria  lasciata  a  se  stessa.  Ai  caustici 
commettono  la  cura  della  località.  Ozanam  sostiene 
per  uso  interno  l'acqua  bromata,  ed  il  bromuro  di 
potassio,  come  quelli  che  sopra  tutti  i  rimedi  pos- 
seggono, dice  egli,  la  proprietà  fluidificante  o  disgre- 
gante le  false  membrane. 

Accennati  questi  due  rimedi,  come  i  più  recen- 
temente proposti,  e  perchè  ognuno  all'opportunità 
possa  averli  a  calcolo,  passo  a  indicare  il  metodo  di 
cura,  che  dalla  esperienza  de'sommi  pratici  ha  ri- 
portato la  più  estesa  sanzione  ,  e  che  più  ci  sembra 
collimare  al  concetto  ,  che  ci  siamo  formato  della 
malattia,  semplicizzandolo  però  e  formulandolo  con 
quell'ordine,  che  più  ci  corrispose  nei  casi  che  avem- 
mo a  trattare.  Come  in  ogni  altra  malattia  diatesica 
ed  eruttiva  può  verificarsi  1'  indicazione  del  salasso 
generale  o  locale;  ma  tanto  raramente,  io  credo,  che 
sia  da  ritenersi  per  eccezione  l'opportunità  della  san- 


157 

guigna;  e  se  presentasi,  sarà  quasi  sempre  pel  sa- 
lasso locale.  Per  regola  quindi  panni  si  debba  esclu- 
dere ogni  sottrazione  sanguigna.  L'emetico  conviene 
quasi  sempre,  e  giova  più,  a  mio  credere,  dato  in 
principio,  che  in  qualunque  altro  periodo,  perchè 
agisce  allora  come  alterante;  e  sotto  questo  rispetto 
lo  vediamo  pur  sempre  vantaggioso  in  tutte  le  ma- 
lattie eruttive  nel  periodo  dell'  invasione.  Potrà  con- 
venire anche  in  seguito,  e  più  volte,  per  favorire 
l'espulsione  delle  false  membrane  ostruenti  la  tra- 
chea, o  la  laringe:  ma  soltanto  allora,  che  per  questi 
prodotti  morbosi  si  veda  imminente  un  accesso  di 
solfocazione.  Per  la  virtù  sua  alterante  sopra  gli  altri 
emetici  mi  sembra  preferibile  il  tartaro  stibiato  nel 
primo  periodo  ,  potendo  in  seguito  esser  surrogato 
dalla  ipecacuana,  dal  solfato  di  rame  etc.  allo  scopo 
di  eccitare  il  vomito  che  si  vuole.  Attaccata  così  al 
suo  primo  manifestarsi  là  difteria  sia  faringea,  sia 
laringea,  è  necessario  passar  subito  all'amministra- 
zione interna  del  calomelano  a  dose  alterante,  e  per 
es.  uno  0  due  grani  ogni  ora  ,  da  continuarsi  con 
costanza  fino  al  decrescer  della  febbre,  e  della  eru- 
zione difterica.  Alternativamente  giova  somministrare 
Ire  o  quattro  grani  di  allume  ogni  ora  egualmente, 
che  sembra  agir  più  sulla  località  pel  suo  contatto 
di  passaggio,  che  per  altra  ragione,  se  non  vuoi  che 
possegga  una  virtù  correggente  l'azione  del  calome- 
lano stesso  sulla  massa  sanguigna.  Per  facilitare  la 
propinazione  di  questi  rimedi  nei  bambini,  restii  per 
lo  più  ad  ogni  medicamento,  soccorre  mirabilmente 
l'associarli  al  miele  semplice,  facendo  le  debite  pro- 
porzioni ,  perchè  in  un  cucchiaio  da  caffè  possa  il 


158 
piccolo  malato  ingoiare  le  dosi  indicate  sì  del  ca- 
lomelano, e  sì  dell'allume.  Nello  incominciar  questo 
trattamento,  che  trovo  registrato  in  Barthez  e  Ril- 
liet  ,  (già  usato  da  Miquel  ,  e  da  altri  prima  di 
lui,  però  separatatnente  e  senza  lo  alternar  dello  al- 
lume) ove  l'eruzione  difterica  sia  alle  fauci,  acces- 
sibile insomma  alla  vista  ed  alla  mano,  non  si  dee 
perdere  un  momento  di  tempo  a  praticare  delle  cau- 
terizzazioni o  col  nitrato  di  argento  solido  o  sciolto, 
che  è  preferibile  ,  o  coll'acido  cloroidrico  concen- 
trato 0  diluito,  lo  considero  le  cauterizzazioni  ne- 
cessarie non  già  perchè  bastino  a  vincer  la  malattia, 
ma  perchè  molto  valgono  a  modificare  la  superficie 
dell'eruzione,  e  della  località  che  è  invasa  dì  pre- 
ferenza, ed  a  sollecitar  il  distacco  e  la  caduta  delle 
false  membrane,  che  talvolta  per  la  loro  presenza 
soltanto  danno  alla  difteria  quella  gravezza,  che  non 
ha  per  se.  Non  credo  peraltro  che  le  cauterizzazioni 
debbano  essere  così  ravvicinate,  come  da  alcuni  si 
prescrivono:  sono  esse  soccorsi  potenti,  ma  ausiliari, 
e  non  valgono  a  trionfar  della  malattia  finché  l'or- 
ganismo non  abbia  risentito  i  salutari  effetti  dei  ri- 
medi generali.  La  troppo  spessa  ripetizione  non  po- 
trebbe forse  indurre  che  danni  locali,  feraci  spesso 
di  funeste  conseguenze.  Quando  incomincia  a  de- 
crescer la  febbre  e  la  eruzione  ho  io  trovato  van- 
taggioso unire  al  calomelano  l'estratto  di  china,  quin- 
di man  mano  cessare  il  preparato  mercuriale,  e  tutto 
affidare  ai  tonici,  come  rosolio  di  china,  acqua  vi- 
nata, e  particolarmente  al  siroppo  di  china  e  per- 
cloruro  di  ferro.  Tra  i  preparati  di  ferro  il  perclo- 
ruro  agisce  a  meraviglia.  Sembra  in  realtà,  che  in 


159 

siffatta  malattia  abbia  un'azione  potente  sul  princi- 
pio difterico:  ma  quando  sia  stato  già  domato  dal 
calomelano.  Alcuni,  come  ricordammo,  vorrebbero 
al  percloruro  usato  internamente  commettere  tutta 
la  cura.  I  fatti  non  autorizzano  ancora  pel  suo  uso 
esclusivo  :  lo  dichiarano  solo  potente  ausiliare.  La 
dieta  rigorosa  nel  primo,  secondo,  od  anche  terzo 
giorno  deve  poi  ordinariamente  proscriversi,  accor- 
dando ai  malati  brodi  e  minestre  nutrienti  più  volte 
nella  giornata;  quindi  anche  sostanze  solide  possono 
accordarsi  ,  ma  di  facile   digestione.   Dei   vari    casi 
di  difteria,  che  io  ebbi  a  curare  fino  ad  oggi,  ad  ec- 
cezione di  uno,  furono  tutti  gli  altri  sottoposti  al 
trattamento  indicato,  e  guarirono:  quell'uno,  e  fu  il 
primo,  ai  rimedi  locali,  agli  emetici,  ed  al  clorato 
di  potassa,  che  pure  menò  altissimo   vanto,  venne 
affidata  la  cura,  e  morì  al  settimo  giorno,  come  stran- 
golato, perchè  dalle  fauci  l'eruzione  si  estese  copio- 
samente alla   laringe.  Fu  questi  Tommaso   Biagioli 
di  anni  6,  in  via  del  Gambaro  n.  19.  La  paralisi  gra- 
vissima svoltasi  in  Rodolfo   Bartoli  ,  temo  doverla 
all'aver  troppo  ritardato  l'uso  dei  tonici  indicati.  Di- 
fatti nella  bambina  a  Tor  de'  Specchi,  ed  in  quella 
alle  Botteghe  oscure,  segni  non  equivoci  di  paralisi 
ai  muscoli  laringei,  faringei,  ed  al  velo  del  palato 
si  presentarono,  ma   ebbero  corta  durata,  e  scom- 
parvero del  tutto.  Il  trattamento  tonico  e  nutriente 
dee  pertanto  attuarsi  con  molta  sollecitudine  ed  av- 
vedutezza. Al  quarto,  quinto,  o  sesto  giorno,  secondo 
la  gravezza  del  male  e  la  violenza  della  febbre,  se 
ne  presenta  per  lo  più  la  indicazione-  Questo  tratta- 
mento tonico  e  riparatore  è  reclamato,  secondo  me, 


160 
da  alcune  conseguenze,  che  quasi  sempre  e  mollo 
rapidamente  si  vedono  tener  dietro  alla  difteria:  sono 
esse  il  dimagramento  e  l'anemia.  Alcuni  vorrebbero 
questi  effetti  attribuire  all'azione  del  calomelano:  ma 
per  due  ragioni  potissime  io  inclino  meglio  a  con- 
siderarli propri  della  natura  della  malattia.  La  prima 
è,  che  il  calomelano  non  possiede  proprietà  siffatte, 
0  alnjeno  non  sì  prontamente  sensibili,  ed  in  sì  pic- 
cola dose.  La  seconda,  che  gli  stessi  effetti  hanno 
avuto  luogo  in  tanti  casi  di  difteria  ,  nei  quali  il 
mercurio  dolce  mai  non  fece  parte  del  trattamento 
curativo.  L'albuminuria,  che  molto  spesso  si  mani- 
festa durante  il  corso  del  male,  le  paralisi  consecu- 
tive, ci  guidano  a  riconoscere  altrove  la  causa  di  esse 
conseguenze  ,  ed  in  specie  se  pongasi  mente  ,  che 
l'anemia  ed  il  dimagramento  sono  quasi  sempre  in 
ragion  diretta  della  albuminuria  medesima.  Quanto 
al  calomelano,  non  avrei  del  resto  che  a  dichiararlo 
come  il  pili  utile  di  tutti  i  rimedi  proposti  fin  qui 
per  la  cura  della  difteria,  ed  esente  in  essa  da  quelli 
inconvenienti,  che  suole  ordinariamente  offrire  usato 
in  altre  malattie. 

Per  la  tenerissima  età  ,  e  qualche  volta  invin- 
cibile indocilità  dello  infermo,  si  è  in  condizione  di 
non  potere  attuare  il  trattamento  curativo  accennato. 
Per  non  restare  inoperosi  si  procuri  d'introdurre  il 
rimedio,  il  calomelano  specialmente,  sotto  forma  di 
pomata  per  mezzo  di  frizioni  praticate  ripetutamente 
alle  parti  laterali  del  collo,  ed  alle  parti  interne  delle 
cosce.  Qualche  volta  può  sostituirsi  anche  l'unguento 
napolitano,  o  la  pomata  mercuriale.  Se  riesce,  non 
è  da  o«nettere  la  propina/Jone  del  medicamento  na- 


161 

sooiiderlo  nel  latte,  o  nella  minestra.  Anche  per  cli- 
stere è  necessaiio  iniettarlo,  affinchè  dai  tanti  modi 
vari  di  propinazione  possa  risultarne  un  più  sicuro 
e  sollecito  assorhimento. 

Mi  sembra  aver  così  soddisfatto  alle  indicazioni 
principali,  ed  ordinariamente  per  se  sole  conducevoli 
alla  cura  di  si  terribile  malattia  ,  scevra  però  da 
qualunque  altra  complicanza:  possono  poi  aver  luogo 
senapizzazioni  parziali  o  generali,  frizioni  secche  od 
umide  al  dorso  ed  alle  estremità,  antispasmodici  etc. 
secondo  le  varie  emergenze  ,  e  per  le  quali  ha  il 
medico  pratico  ben  donde  attingere  la  regola  di  con- 
dotta. Quanto  a  tanti  altri  rimedi  preconizzati,  noi 
attendiamo  per  preferirli  ,  come  dicono  Barthez  e 
Rilliet,  che  l'esperienza  ne  abbia  dimostrato  l'effica- 
cia sopra  quelli  che  accennammo. 

Ora  è  duopo  parlare  della  indicazione  di  un  soc- 
corso speciale  per  una  forma  particolare,  che  talvolta 
assume  la  difteria  ,  voglio  dire  della  tracheotomia 
nella  difteria  laringea  ,  o  crup  propriamente  detto. 
Quanto  pel  passalo,  ma  sopra  tutto  ai  dì  nostri,  e 
specialmente  in  Francia  si  sia  scritto  e  parlato  a 
favore  e  contro  la  tracheototnia  nel  crup,  è  noto  ad 
ognun  di  voi,  e  tutti  sapete  che  nessuno  dei  dispu- 
tanti ha  vinto,  nessuno  ha  perduto.  Ognuno  ha  le  sta- 
tistiche in  appoggio,  e  la  propria  esperienza.  Io  non 
ho  quest'ultima  abbastanza  estesa  su  tale  malattia, 
onde  sorgere  a  fondata  discussione;  ma  convinto  per 
le  altrui  e  mie  osservazioni  che  la  difteria  laringea  è 
morbo  diatesico,  penso  che  la  tracheotomia  debba, 
contro  il  voler  di  moltissimi  smaniosi  solo  di  opera- 
re ,  rarissimamente  praticarsi.  Non  sono  certo  in- 
G.A.T.CLXV.  11 


162 

frequenti   i  casi,  nei  quali,  riuscito  inutile  ogni  trat- 
tamento curativo,  il  malato  e  sul  punto  di  soccom- 
bere di  asfissia.  Allora  piuttosto  che   abbandonarlo 
a  morte  sicura,  io  credo  che  si  debba  operare.  Bar- 
ihe/.,  il  più  competente  per  me  in  siffatta  quistione, 
sorge  adesso  (1)  fra  i  dibattimenti  per  tentare  di  for- 
nire una  norma  alla  indicazione  della  tracheotomia, 
tirandola    dall'attenta   e    coscienziosa    osservazione 
delle    epidemie    di  difteria    regnate  a  Parigi    negli 
anni  1856,  57,  58.  59.   Dopo    avere  esposte  tante 
distinzioni  di  forma  e  di  grado  (ritenendo  pur  sem- 
pre in  tutte  r  identità  di  natura),  dopo  aver  sugge- 
rito alcuni  criteri,  si  esprime  cori:   «   En  presence 
»   d'un  enfant  qui  offre  les  symptomes  du  croup  sans 
))   intoxication  apparente,  il  emporie  peu,  pour  dé- 
))   cider  l'opération,  que  l'on  croie  à  1'  idénlité  ou  à 
))   la  difference  de  nature  du  croup  semple  ,  et  du 
»   croup  séptique.  L'  indicalion  ne  varie  pas:  si  l'en- 
»  fant  s'asphyxie,  il  faut  opérer  ».  Sì,  allora  soltanto 
bisogna  operare.  Si  dica  pure,  che  i  tristi  effetti  della 
tracheotomia  derivino  appunto  dal  farvisi  troppo  tar- 
di ricorso.  Abbiamo  troppi  fatti  di  vittime  certe  suc- 
cedute a  questa  operazione  praticata  per  tempissimo, 
come  ne  abbiamo  numerosissimi  di  guarigioni  giu- 
dicate impossibili  senza  la  tracheotomia,  che  rispon- 
dono ad  ogni  accusa  ed  obbiezione,  u  Due  bambini, 
dice  il  succitato  Barthez,  erano  stati  condotti  sulla 
tavola  dell'operazione;  ma  non  vedendo  perduta  ogni 
speranza  di  risparmiar  loro  i  pericoli  del  trattamento 
chirurgico,  furono  riportati  al    loro  letto,  e  guari- 
rono )).  Oh  !  quanto  è  difficile  giudicare  sulla  op- 


fl)  Gazeltehcbdomadaire. -Decembre  1859.  N.' 48.49.50. 


163 

porlunità  della  tracheotomia  !  Più  volte  avvenne  di 
operare  per  dare  all'aria  quel  necessario  passaggio, 
che  si  credeva  impedito  nella  laringe  dalla  presenza 
delle  false  membrane  fino  quasi  a  completa  occlu- 
sione, e  poi  o  ve  se  ne  trovarono  appena  le  tracce, 
o  erano  talmente  limitate  da  porgere  all'aria  baste- 
vole ingresso.  Talora  si  suscita  sotto  l'azione  del  ve- 
leno difterico  una  contrazione  sì  forte  dei  muscoli 
della  laringe  da  far  credere  senza  dubitazione,  che 
gli  accessi  di  soffocamento,  e  le  minacce  di  asfissia 
dipendano  dalle  ftilse  membrane.  Sommi  pratici  la- 
mentano di  essere  caduti  in  simili  errori.  Per  queste 
ragioni  dunque,  e  per  i  grandissimi  pericoli  che  di 
natura  sua  trae  seco  la  tracheotomia ,  a  me  pare, 
che  debba  essa  chiamarsi  in  soccorso  allora  solo,  che 
nessun'altra  speranza  resti  per  salvare  il  malato. 

Per  la  cura  dell'anemia,  e  delle  paralisi  generale 
o  parziale,  che  sogliono  spesso  conseguire  la  difteria 
qualunque  forma  abbia  essa  presentato,  non  si  ha 
che  da  insistere  nei  rimedi  tonici  :  per  lo  più  gli 
acccennati  conducono  la  guarigione,  o  non  abbiso- 
gnano che  degli  affini,  e  di  qualche  bagno  solfureo. 
Per  la  paralisia  difterica  si  preconizzano  mollo  i  ba- 
gni di  mare,  quando  la  stagione  lo  permetta  :  ef- 
ficaci sommamente  si  dicono  il  solfato  di  stricnina 
sotto  forma  di  sciroppo,  e  la  elettricità  applicata  in 
alcuni,  o  in  molti  punti  del  corpo.  Per  la  paralisi 
specialmente  del  velo  palatino  la  elettricità  si  con^ 
sidera    come  il  più  potente  rimedio  (l).  Sulla  ali- 


fi)  Vedi  Maingault  -  De  la  paralysie  diphthérique  -  Pa- 
ris 1860. 


164 

mentazione  poi  è  d'  uopo  porre  mente  assai.  Nella 
paralisi  dei  muscoli  faringei  i  cibi  possono  con  fa- 
cilità deviare,  e  cadere  nella  laringe,  nella  trachea 
fino  ai  bronchi.  Ne  abbiamo  esempi  molti.  Sarà  per- 
tanto necessario,  che  il  vitto  sia  nutriente  sì,  ma 
il  più  possibilmente  di  sostanze  liquide  ,  o  mollo 
sciolte:  e  non  già  perchè  queste  non  possano,  come 
le  solide,  deviare,  ma  perchè  cadute  nelle  vie  aeree 
possono  più  facilmente  essere  estratte  o  capovol- 
gendo lo  infermo  ,  o  cogli  emetici ,  o  colla  sonda 
esofagea.  Anzi  quando  la  paralisi  fosse  grave,  non 
esiterei  di  praticare  l'alimentazione  colla  sonda  me- 
desima, la  quale  mentre  ci  rassicura  dai  pericoli  ac- 
cennati, è  poi  tollerata  benissimo,  come  ne  attestano 
medici  autorevoli  ,  e  come  è  da  credere  pel  fatto 
stesso  della  paralisi. 

PROPOSIZIONE  QUARTA 

Havvi  una  profilassi  ? 

Come  per  tutte  le  malattie  contagiose,  così  per 
la  difteria,  sarebbe  da  ricercaisi  una  profilassi.  1  mezzi 
igienici  di  evitar  l'umidità  ed  il  freddo,  e  di  allon- 
tanarsi dall'  influenza  epidemica,  giovano  molto,  ma 
non  bastano  ad  impedir  lo  svolgimento  della  difteria. 
S'intrapresero  pertanto  degli  studi  al  fine  di  trovare  un 
rimedio  atto  a  prevenir  la  malattia,  ma  non  vi  si  riu- 
scì. Havvi  oggi  chi  ripredne  studi  così  necessari.  Oza- 
nam  sostenuto  da  Devasse  propone,  e  dichiara  per 
efficacissimo  preservativo  il  bromo  lasciato  evaporare 
nelle  case  o  stabilimenti    ove  si  svolgono  malattie 


165 

difteriche,  od  anche  dato  internamente  con  le  cautele 
necessarie.  Vi  ha  chi  consiglia  e  sostiene  efficace  l'uso 
interno  de'  sali  alcalini,  come  il  bicarbonato,  il  bo- 
ralo di  soda  etc.  Questi  ed  altii  mezzi  si  vanno  de- 
cantando: ma  fa  d'uopo  di  una  più  lunga  esperienza, 
per  escludere  od  ammettere  gli  annunciati  vantaggi, 
essendo  la  difteria  un  morbo  sotto  ogni  aspetto  ter- 
ribile. Il  prof.  Manassei  usò  del  bromo  come  mezzo 
curativo  e  profilattico,  ma  senza  vantaggio-  Altri  pure 
connazionali  e  di  oltre  monte  si  accordano  a  negare 
la  virtù  preservativa  dei  bromo,  e  de'  sali  alcalini. 
Disgraziatamente  dunque  fino  ai  giorni  nostri,  come 
per  le  altre  malattie  contagiose,  così  non  si  conosce 
per  la  difteria  mezzo  preservativo.  Quello  proposto 
da  Carnevale  nel  «  cede  cito,  longitiquus  abi,  serus- 
qiie  reverle  »  è  bellissimo,  spesso  forse  efficace,  ma 
non  è  quello  che  si  cerca  ,  perchè  non  applicabile 
che  a  pochi,  e  talvolta  in  questi  pure  inutile:  che  il 
veleno  difterico  circolava  già  nell'organismo,  quando 
si  pensò  a  fuggire.  Tentiamo  dunque  ancora  mezzi 
applicabili  a  tutti.  L'amore  del  bene,  ed  i  doveri  su- 
premi dei  cultori  della  medicina  impongono  di  non 
abbandonar  1'  impresa,  e  di  non  darsi  mai  per  vinti 
innanzi  a  tutti  i  rovesci.  Io  mi  propongo  di  sperimen- 
tar per  uso  interno  il  percloruro  di  ferro  ,  che  se 
non  vale  a  vincere  la  malattia  dichiarala,  come  dissi, 
per  il  cloro  che  contiene  (antisettico  più  reputato) 
e  per  la  virtù  sua  tonica  ed  attiva  sul  sangue,  penso 
che  posssa  neutralizzare  il  veleno  difterico  al  suo  pri- 
mo introdursi  nell'organismo.  Conosco  che  colla  sola 
pratica  privata  poco  può  farsi,  e  che  sarebbero  ne- 
cessari spedali  speciali  per  i  fanciulli;  ma  nella  man- 


166 

canza  di  mezzi  migliori,  non  sarò  condannato,  spero, 
se  tenterò  approfittare  di  quelli  pochi  che  la  mia  po- 
sizione mi  presenta.  E  poiché  tutto  il  mondo  me- 
dico si  occupa  oggi  con  calore  dello  studio  di  que- 
sta malattia,  io  mi  propongo  di  tener  conto  di  tutte 
le  mie  osservazioni  passate  e  consecutive  rischiaran- 
dole al  lume  delle  osservazioni  e  dei  giudizi ,  che 
altri  potranno  offrir  per  le  stampe,  disposto  presen- 
tarle sempre  all'attenzione  vostra,  o  signori,  che  tanto 
benigna  me  l'avete  per  questa  prima  volta  prestata, 
di  che  rendo   le  grazie  che  io  so  maggiori. 


167 


Di  alcune  leggi  pontifìcie  prodrome  alla  gregoriana 
Quae  publice  utilia  e  di  alcuni  traili  di  questa  - 
Discorso  che  nella  pontifìcia  accademia  tiberina  leg- 
gevasi  il  21    del  novembre   1859. 


c 


he  questa  alma  città,  accadeaiici  prestantissimi, 
uditori  umanissimi,  che  questa  alma  città  debba  in 
gian  parte  la  bellezza,  la  maestà,  il  decoro  di  cui 
va  superba,  ripetere  dal  valore  delle  pontifìcie  leggi, 
che  intorno  all'ornato  pubblico  dai  sovrani  gerarchi 
si  pubblicarono,  è  tal  fatto,  che  a  me  porse  argo- 
mento di  intrattenere  per  ben  due  volte  in  questo 
onorevole  consesso  la  vostra  illuminala  e  benevola 
attenzione.  E  allora  vi  dimostrai  in  qual  conto  si 
dovessero  tenere  siffatte  leggi,  le  quali  per  variati 
modi  cozzando  più  indirettamente  che  direttamente 
colla  barbarie  ed  ignoranza  dei  tempi,  dallo  squal- 
lore e  dal  lezzo  traevano  la  nostra  Roma  allo  splen- 
dore, al  lustro,  alla  magnificenza,  alla  gloria.  Quindi 
è  che  la  storia  ha  segnato  con  indelebili  aurei  ca- 
ratteri i  nomi  di  un  Sisto  IV,  di  un  Pio  IV,  di  un 
Gregorio  XIIJ,  e  sapienti  legislatori  li  ha  chiamati. 
Desci'ivendovi  poi  il  materiale  stato,  di  cui  faceva  mo- 
stra di  se  questa  inclita  città  quando  sul  trono  di  Pie- 
tro il  primo  dei  ricordati  pontefici  ascendeva,  io  vi 
sposi  lo  spettacolo  talmente  brutto  e  lagrimevole  of- 
ferto da  Roma, e  vi  dissi  che  umana  mente  non  avreb- 
be potuto  dipingerselo  più  deforme  anche  in  un  ec- 


168 
cesso  di  commossa  ed  elevata  fantasia.  Salutai  perciò 
quale  avventura  lieta  quella,  che  slancio  d'ingegno, 
sagacità  dì  consiglio,  svegliatezza  di  mente,  pensiero 
creatore  foce  rinvenire  con  tanto  bella  e  squisita 
concoidanza  in  Sisto  riuniti.  Di  tal  maniera  poteva 
egli  pel  primo  abbattere  il  baluardo,  che  le  spessis- 
sis>-<ime  fiate,  e  quasi  per  massima,  la  pubblica  com- 
modilà  alla  privata  faceva  posporre,  ed  apriva  va- 
lorosamente un  nuovo  campo  alla  romana  giuris- 
prudenza introducendo  un  diritto  per  lo  innanzi  sco- 
nosciuto, che  nel  suo  duplice  rapporto  (jins  di  prela- 
zione  e  gius  di  relrallo  oi'a  si  appella.  A  ragione  per- 
tanto  io  dissi  felice  e  fortunato  doversi  per  Roma 
ap[)ellare  il  millesimo  quattiocentesimo  ottantesimo 
anno  della  volgare  èra.  Conciosiacosachò  da  que- 
sto un'  epoca  veramente  fortunata  pel  materiale 
stato  di  essa  città  ebbe  a  derivarne.  Difalti  non  in- 
tesi io  ciò  dimostrarvi  allora  quando  e  sulla  gre- 
goriana costituzione  -  Quac  pubiice  nliìia  -  in  so- 
lenne ragunanza  vi  discorreva,  e  allor  ([uando  delle 
altre  pontificie  costituzioni,  prodroirie  a  quella  gre- 
goriana, in  ordinaria   tornata  vi  ragionava  ? 

Quantunque  però  abbia  sì  a  lungo  di  queste  leggi 
parlato,  accademici  prestantissimi,  sento  tuttavia  il 
bisogno  di  tornare,  in  un  senso  quasi  di  appendice, 
sugli  stessi  argomenti.  La  brevità  del  tempo  con- 
cessa a  chi  ha  l'onore  di  intrattenere  la  vostra  at- 
tenzione in  questo  consesso,  mi  contrinse  contro  vo- 
glia a  sfiorar  solo  alcuni  punti,  che  reclamavano  un 
più  lungo  svolgimento.  Pertanto  come  nelle  passate 
letture,  così  in  questa  non  mi  defraudale  la  cortese 
vostra  attenzione  ,   che  avendomi    sempremai  con- 


169 

fortfito,  variaiiimi  ora  eziandio  che  sono  a  completare 
una  materia  riguardante  sì  da  vicino  il  decoro  ed 
il  comodo  di  questa  nostra  dilettissima  patria- 
Entrando  dunque  in  argomento  mi  fa  duopo  ri- 
chiamarvi alla  memoria  quanto  altra  volta  ebbi  a 
dirvi  del  IV  Pio,  il  quale,  accettando  le  leggi  di 
Sisto  IV  ,  nel  1565  colla  sua  costituzione  -  Inter 
muUiplices  -  migliorava  di  tal  modo  la  nascente  le- 
gislazione Sistina,  che  quasi  all'apice  della  perfezione 
mirabilmente  la  conduceva.  Rammenterete  altresì 
che  nel  1571  per  speciali  ragioni,  alcuna  delle  quali 
facevami  a  congetturare,  altre  poi  a  chiaramente  de- 
finire ,  l'encomiate  pontificie  sanzioni  in  un  tratto 
rimanessero  del  tutto  cancellate.  Il  privalo  comodo, 
che  per  effetto  d'  insana  cupidigia  mai  sempre  da 
taluni  si  vorrebbe  al  bene  publico  anteposto,  avendo 
dipinte  le  disposizioni  sistine  e  piane  come  leggi  stra- 
namente eccezionali,  come  leggi  quasi  iniquamente 
correttorie  del  comune  diritto  ,  e  per  conseguenza 
come  leggi  di  una  odiosità  senza  [)ari  e  agli  altrui 
diritti  indistintamente  offensive  ,  arrivò  a  vederle 
abolite.  Siffatta  conversione  d'  idee  avrebbe  senza 
fililo  recato  estremo  danno  a  questa  inclita  città  se 
nel  1574-,  tie  anni  appena  dopo  la  loro  abolizione, 
non  le  avesse  novellamente  tornale  a  far  vivere  l'im- 
mortale XIII  Gregorio.  Or  poiché  questa  legge  è  tut- 
tavia in  vigore,  e  tuttora  quotidianamente  nel  foro 
s'  invoca,  pi-ova  luculentissima  ne  discende,  che  sa- 
vie, giuste,  conformi  ai  canoni  del  buono  e  comune 
senso  fossero  i  concetti,  che  informarono  le  menti 
e  di  Sisto  e  di  Pio. 


170 

Premesse  quesle  cose  io  comincerò  col  difen- 
dere da  un  obietto  la  gregoriana  costituzione,  alla 
quale  si  fa  carico  del  perchè  non  estendesse  il  gius 
di  retratto  a  quei  fondi,  i  quali  divisamente  da  pili 
condomini  si  possedessero.  Noi  di  continuo  scorgia- 
mo brutture  in  alcuni  edifici,  che  per  vero  dire  muo- 
vono a  stomaco.  Vedrai  Ire  quarti  della  esterna  orto- 
grafia di  una  casa  ridotta  a  pulitezza  ed  eleganza, 
mentre  la  rimanente  ti  si  offre  squallida,  sudicia,  e  de- 
turpante il  pubblico  ornato.  E  perchè,  si  ascolta  ripe- 
tere, non  si  estese  il  gius  di  retratto  anche  nel  con- 
dominio fra  condomini  ?  Non  è  egli  questo  un  vuoto, 
una  laguna,  da  non  mandarla  buona  ai  legislatori? 

Però  è  da  rispondere,  che  allorquando  le  suac- 
cennate leggi  pubblicavansi  V  idea  del  condominio 
era  eliminata  del  tutto,  perchè  gli  edifìci  si  com- 
ponevano in  modo  da  porgere  ricetto  ad  una  sola 
famiglia.  Poteva  darsi  bensì  condominio  prò  indiviso, 
non  già  condominio  nel  senso  odierno.  Che  se  pure 
alcuno  fossevene  stato,  la  singolarità  del  caso  non 
potea  né  dovea  richiamare  l'attenzione  del  pubbli- 
cante la  legge.  I  legislatori  adunque  si  riportarono 
a  ciò  che  esisteva  ,  non  a  ciò  che  avrebbe  potuto 
esistere.  Provvidi  adunque  furono  eglino  nell'argo- 
mento che  trattavano,  lasciando  che  altri  introdu- 
cesse quelle  modificazioni,  che  le  variate  circostanze 
de'  tempi  avrebbero  potuto  un  dì  richiedere  e  recla- 
mare. 

Altri  poi  sorgono  a  dire  esasperante  la  condi- 
zione, che  il  fondo  retraendo  dovesse  innalzarsi  nel 
suo  prezzo  di  un  quinto  o  di  un  dodicesimo  sopra 
la  stima. 


171 

Confesso  che  al  primo  aspetto  tale  obbiezione  ha 
qualche  apparenza  di  verità.  Ma  riportiamoci,  o  si- 
gnori, ai  tempi  in  cui  queste  leggi  furono  emanate. 
I  mezzi  onde  rinvestire  una  soiìima  non  erano  al- 
lora sì  facili  ed  agevoli  come  lo  sono  oggidì.  Difet- 
tavano in  gran  parte  i  pubblici  fondi,  né  era  ancor 
sorto  un  Sisto  V,  che  proludendo  alle  consolidate 
rendite,  gli  avesse  sì  largamente  estesi.  Il  denaro, 
che  il  retrallario  andava  a  percepire,  poteva  forse 
non  breve  spazio  di  tempo  rimanere  ozioso  nel  suo 
scrigno.  La  difficoltà  dunque  dei  rinvestinienti  som- 
ministrava fondato  argomento  onde  mentre  si  prov- 
vedeva ad  agevolare  pel  pubblico  decoro  la  via  ai 
retraenti,  men  difficile  si  rendesse  il  modo  ai  re- 
trattari a  fine  di  rinvestire  le  somme  retratte. 
Certamente  la  gregoriana  costituzione  ancora  vi- 
gente non  abbisogna  piiì  in  questo  lato  delle  di- 
sposizioni ,  che  allora  dettavano  gli  accennati  au- 
menti. I  mezzi  onde  impiegare  una  somma  sono  og- 
gidì siffattamente  pronti  e  spediti  ,  che  nulla  più. 
Che  anzi  non  v'  ha  nelle  varie  anonime  società  e 
pubbliche  rendite  opportunità  ,  in  cui  non  possa 
trarsi  anche  un  frutto  superiore  al  ventesimo  della 
sorte.  Aggiungi  ancora,  che  il  valore  dei  fondi  ur- 
bani avendo  da  molti  lustri  subito  un  gigantesco 
incremento  di  valore,  quale  sta  progredendo,  a  so- 
miglianza della  caduta  dei  gravi  ,  con  andamento 
uniformemente  accelerato,  va  a  frapporre  non  lieve 
ostacolo  all'esercizio  del  retratto  ,  ed  una  mora  fa 
sorgere  contro  quel  successivo  progresso,  che  il  de- 
coro e  l'ornato  della  città  richiederebbe. 


172 

Tuttavia  alcuni  dimandano  :  E  perchè  mai  il 
gius  di  letratto  si  volle  ristretto  a  favore  del  vicino? 
Perchè  non  renderlo  esercibile  a  chiunque  sopra 
le  fabbriche  di  umile  architettura,  e  vieppiù  sopra 
le  aree  libere  a  fabbricarvi  ? 

A  rispondere  adequatamente  a  queste  obbiezioni 
torniamo,  o  signori,  ai  tempi  nei  quali  vennero  pub- 
blicate le  leggi  di  cui  discorriamo,  e  fermiamoci 
per  un  momento  anche  sopra  l'indole,  che  deve  as- 
sociarsi a  quelle  stesse  leggi. 

Una  nuova  legge,  la  quale  prende  di  fronte  le 
private  comodità  ,  e  che  queste  pone  in  assoluto 
non  cale,  deve  essere  accompagnata  con  tali  saggi 
temperamenti  da  non  renderla  molesta  in  modo  da 
reclamar  tosto  la  sua  cancellazione.  Gli  uomini  deg- 
giono  essere  riguardati  non  dal  lato  di  ciò  che  do- 
vrebbero essere,  ma  dal  lato  delle  loro  passioni  in 
quel  verso  che  sono:  per  il  che  han  mestieri,  che 
a  passo  a  passo,  e  quasi  insensibilmente,  si  vadano 
assuefacendo  a  quelle  disposizioni,  che  dirette  sono 
a  contrariare  le  private  comodità,  e  a  far  campeg- 
giare i  pubblici  vantaggi.  Era  dunque  un  bisogno 
che  il  novello  gius  procedesse  con  lentezza,  e  che 
in  vari  tratti  dissiti  di  tempo  avesse  successivi  in- 
crementi. 

Di  fatti  la  Sistina  costituzione  -  Elsi  de  cuncta- 
riim  -  resti'ingeva  il  coattivo  e  prelativo  retratto 
sopra  la  casa  non  abitata  dal  proprietario  ,.  solita 
però  a  locarsi,  ed  accordava  il  gius  di  prelazione  alla 
casa  del  vicino  sui  luoghi  non  fabbricati.  Ma  la  piana 
-  Inter  mnltiplices  -  che  dalla  Sistina  dista  di  17 
lustri,  allargava  le  disposizioni  di  quella  anche  sulle 


173 

case  non  solite  a  locarsi,  solile  tuttavia  ad  essoie 
abitate  dal  loro  proprietario,  ampliando  l'esercizio  del 
coattivo  retratto  allorché  irattavasi  di  costruire  un 
palazzo  od  un  edificio  di  qualche  importanza.  Venne 
dopo  il  lasso  di  vari  anni  la  costituzione  greso- 
riana  -  Qnae  piiblice  ulilia.  -  ed  esleso  viepiù  l'eser-- 
cizio  del  retratto  accordandolo  al  vicino  sopia  il 
fondo  contermine,  non  ammettendo  veruna  altra  di- 
stinzione tranne  quella  dell'aumento  del  quinto  se 
la  casa  era  abitata  dal  proprietario,  del  dodicesimo 
se  da  lui  data  in  affìtto.  Ugualmente  dicasi  del  gius 
di  prelazione. 

Vedete  adunque,  o  signori,  con  quale  magistero 
di  arte,  e  con  quale  saviezza  di  accorgimento  si  fa- 
cessero in  uno  spazio  di  poco  minore  ad  un  secolo 
condurre  ad  uno  stato  di  perfezione  siffatte  leggi, 
a  quella  perfezione  dico  ,  che  potevano  nel  1574 
sostenere. 

Venendo  ora  alla  parte  storica,  avvegnaché  i  co- 
stunu  sono  la  base  fondamentale  delle  leggi,  egli  è 
da  conoscere  quali  fossero  le  circostanze  che  si  as- 
sociavano alle  pubblicazioni  di  quelle  leggi.  Da  sif- 
fatte circostanze  chiaramente  apparirà  perchè  il  gius 
retrattivo  e  prelativo  si  restringesse  nel  suo  eser- 
cizio esclusivamente  nel  vicino  sul  fondo  contermine. 

Ai  tempi  del  IV  Sisto  le  case  si  presentavano 
in  tal  guisa,  che  alla  loro  fronte  si  scorgevano  ap- 
plicate delle  scale  e  loggiati ,  che  proselli  appella- 
vano :  inoltre  eranvi  dei  portici  che  appoggiavansi 
agli  edifici.  Gli  uni  e  gli  altri  imbarazzavano  per  modo 
le  pubbliche  vie  da  non  dare  simultaneo  accesso 
a  due  cavalieri  ,  i  quali  per  caso  vi  si    incontras- 


174 

sero.  Quel  pontefice  con  un  suo  editto  ordinò  la  de- 
molizione dei  proselli  e  dei  portici  ,  onde  provve- 
dere al  comodo  passaggio  nelle  vie.  Fu  allora  me- 
stieri che  le  scale  si  costruissero  internamente  ne- 
gli edifici.  Ma  die  avvenne  ?  Le  case  di  angusta  ca- 
pienza non  furono  piià  in  grado  di  accogliere  o  as- 
solutamente 0  convenientemente  i  loro  abitatori,  e  le 
officine,  che  ai  portici  si  associavano  integralmente, 
ebbero  pure  ad  incontrare  uguale  sorte.  I  proprie- 
tari che  vi  dimoravano  vedendosi  o  spossessali  o 
quasi  spossessati  dell'uso  delle  loro  abitazioni,  rese 
inutili  o  di  uso  diffìcile,  ebbero  altamente  a  recla- 
mare. Quindi  fu  veduto  nascere  il  gius  di  retralto  e 
di  prelazione.  E  poiché  la  causa  autrice  della  Sistina 
costituzione  restringeva  suoi  eff'elti  al  bisogno  di  quel 
tempo,  né  più  copiosamente  facevasi  a  laigheggiare 
pel  pubblico  ornato,  quindi  fu  che  nel  volgere  di  un 
secolo,  andandosi  pian  piano  a  scemare  la  ragione 
di  quel  primo  adottato  temperamento,  le  successive 
leggi  si  studiarono  di  ampliare  via  piiì  l'uno  e  l'al- 
tro esercizio,  quale  al  certo  non  si  volle  più  larga- 
mente protrarre  per  i  motivi,  che  superiormente  io 
allegava. 

Di  questa  disposizione  però  che  cosa  mai  dovrà 
pensarsi  a'  nostri  di,  nei  quali  quasi  per  tre  secoli 
distiamo  dalla  pubblicazione  della  costituzione  gre- 
goriana ?  A  me  pare  bene  che  quella  legge  meritar 
dovesse  una  ulteriore  estensione.  Avvegnaché  se  lo 
stalo  della  città  confrontato  con  le  condizioni,  che 
nelle  loro  prolusioni  ci  offrono  le  precitate  costitu- 
zioni, e  coH'esame  delle  mappe  topografiche,  potè  ot- 
tenere un  miglioramento  sempre  progressivo,  mi  è 


175 

avviso  che  all'  incremento  dell'ornato  e  del  pubblico 
decoro  meglio  provederebbesi  qualora  una  mano  be- 
nefica si  facesse  ad  acconciare  la  gregoriana  legge 
ai  bisogni,  alle  circostanze,  alle  abitudini  de'  nostri 
tempi.  Ma  lasciando  di  spaziare  su  tale  argomento, 
a  me  sia  bastevole  lo  averne  fatto  un  cenno  appena. 
Del  resto,  collegando  questo  mio  discorso  cogli 
altri  che  in  quest'aula  io  ebbi  l'onore  di  recitarvi  , 
sembrami  di  avere  con  quello  studio  ,  che  le  mie 
forze  comportano  ,  vieppiiì  addimostrato  quale  e 
quanta  sia  mai  stala  la  saggezza  di  queste  leggi 
ampliative  del  comune  diritto,  e  quanto  mai  questa 
nostra  città  vada  debitrice  ai  sovrani  pontefici  ,  i 
quali  coir  averla  riscossa  dalla  inerzia  ,  alla  quale 
per  la  prevalenza  delle  idee  barbariche  erasi  lasciala 
abbandonare,  la  trassei'o  con  sapienza  ed  avveduta 
costanza  a  quel  lustro,  che  vieppiù  crescendo  di  età 
in  età  pose  il  suo  materiale  stato  in  accordo  della 
sua  fama,  e  degli  immortali  destini,  cui  la  divina 
provvidenza  pel  massimo  pontificato  avea  stabilito 
di  sublimarla. 

Carlo  Bop.gnana. 


Ì76 


Della  vita  e  delle  opere  di  Viìicenzo  da  Filicaia,  Di- 
scorso, del  P.  D.  Emilio  Arisio  C.  R.  Somasco  pro- 
fessore di  belle  lettere  nel  nobile  collegio  demen- 
tino ,  letto  nella  pontificia  accademia  tiberina  il 
cf^  14  maggio  1860. 


I 


nomi  di  belle,  di  gentili,  di  amene  che  si  dà  alle 
lettere  sono  tanto  ricevuti  presso  tutti,  che  quasi  sa 
di  vanità  attribuirli,  come  chi  dicesse  lucente  il  sole, 
candida  la  neve  e  sitnili  che  cantano  insino  ai  fan- 
ciulli. E  sta  bene:  perchè  dopo  la  virtù  sono  cose 
fra  le  bolle  bellissime,  e  fanno  onore  e  piacere,  de- 
gne insomma  ad  ogni  uomo  d'  intelletto  di  coltivare, 
ad  ogni  onesto  di  ammettere  in  se,  o  certo  di  pre- 
giare in  altrui.  Ma  altri  non  le  piglierebbe  bene  se 
per  tali  qualità  di  stillata  dolcezza  che  loio  si  danno 
se  le  tìngesse  conie  dire  un'arte  di  confettare  con- 
cetti piacevoli  e  lieti  a  esercizio  d'  ingegno,  a  sol- 
lazzo di  noia.  Dove  esse  sono  cosa  intrinseca  e  pro- 
fonda; e  come  l'animo  si  porta  per  un  tal  suo  impeto 
naturale,  o  per  abito,  verso  le  cose,  o  torna  a  certe 
sue  idee  ribadite  e  care,  cosi  gli  è  forza  che  egli 
si  mostri  ;  e  da  questi  impronti  prende  poi  1'  elo- 
quenza il  suo  colore  ,  i  lineamenti  ,  la  vita  ,  e  sì 
stabilisce  l'opinione  di  noi  nelle  menti  degli  uomini, 
onde  a  premio  o  pena  ne  seguita  la  fama.  Però 
quanti  hanno  la  vera  e  propria  cognizione  delle  let- 
tere, 0  ne  fanno  professione,  debbono  curare  di  due 
cose.  La  prima  che  le  abbiano  in  se  bontà;  al   che 


177 

si  appartiene  furie  insegnatrici  di  religione,  di  virtù, 
di  degne  osservanze,  in  breve  d'ogni  cosa  che  con- 
tenga pregio  di  utile  e  di  onestà  ;  indi  me  le  fac- 
ciano fiorire  di  nerbo,  di  buon  sangue,  di  sano  co- 
lore, infine  di  quella  freschezza  di  cui  non  manca 
la  natura  chi  parli  quel  che  amore  spira.  Le  quali 
due  cose  poniamo  che  la  mente  abbia  virtù  di  di- 
videre così  in  astratto,  tuttavia  convengono  tutte  due 
in  una  solida  e  perfetta,  così  come  anima  e  corpo 
ti  danno  tutto  1'  uomo.  Certamente  le  lettere  sono 
ordinate  a  fare  qualche  buon  frutto,  e  la  bellezza, 
secondo  quei  che  discorrono  sottilmente  di  queste 
cose,  è  il  pro|)rio  splendore  della  bontà  che  è  l'ani- 
ma loro,  la  quale  se  tu  togli,  quel  belletto  e  la  vile 
speciosità  è  mera  malìa  che  le  fa  piiì  scellerate  e 
laide.  Ma  io,  mentre  mi  stimola  zelo  delle  sane  let- 
tere, son  divagato  forse  troppo;  ora  calo  al  mio  te- 
ma, ove  se  non  mi  verran  dette  cose  nuove,  e  voi 
fate  conto  eh'  io  neppure  mi  proponessi  dover  dirne. 
lo  intendo  mostrare  quali  istituti  si  convenga 
tenere,  quali  propositi  seguire  chi  voglia  ben  usar^ 
di  questa  facoltà  delle  lettere;  e  perocché  per  esem- 
pio meglio  si  profitta  verso  l'evidenza,  e  nel  Fili- 
caia  mi  pareva  quella  onesta  forma  rilucere  in  ge- 
nere assai  sincera,  io  fui  contento,  contando  la  sua 
vita,  spiegarla,  più  per  fare  utilità  agli  studiosi  che 
per  aggiunger  gloria  a  chi  canta  sì  bene  la  sua  ra- 
gione. Onde  all'ultimo  questo  veramente  voglio  che 
sia  ragionamento  di  uffìzi  e  di  precetti  dove  in  uni- 
versale chi  è  più  saggio  e  valente  anche  si  studia 
propor  cose  più  antiche  e  consentite. 
G.A.T.CLXV.  12 


178 
Vincenzo  (h  Filicaia  nacque  l'anno  1642  in  Fi- 
renze del  senatore  Braccio  e  di  Caterina  Spini  pa- 
renti l'uno  e  l'altro  di   famiglia  antica  molto,  e  di 
nobiltcà  onorata  e  chiara.  E  il  cielo  che  non  meno 
per  forte  animo,  che  per  utile  uso  del  grande  in- 
gegno voleva  farlo  imitabile  e  famoso,  lo  cominciò 
per  tempo  formare  alle  sventure,  e  gli  rapì  le  amo- 
rose sollecitudini  della  madre,  che  nel  secondo  anno 
gli  morì.  Ma  Braccio  soltentrò  con  cure  materne  , 
e  geloso  che  l' indole  riposata  e  arguta  insieme  del 
suo  Vincenzo  non  gli  fosse  guasta  né  turbata  ,  gli 
si  pose  attorno  per  stabilirlo  in  ogni  bontà,  e  disci- 
plinarlo negli  utili  studi,  e  nei  gentili  uffizi  del  vi- 
vere cittadinesco.  E  già  nelle  scuole  urbane  per  molte 
significazioni  di  egregie  doti  e  valore,  differiva  dalla 
comune  de'  compagni:  e  in  quel  che  guarda  ad  ap- 
plicazione di  animo,  ed  a  potenza  di  memoria  am- 
pia e  sicura,  non  aveva  forse  chi  gli  fosse  innanzi. 
La  quale  facoltà  io  so  bene  che  infine  non  è  di  prin- 
cipale momento,  se  altri  è  di  natura  tardo,  e  non 
soccorra  con  vigor  d'  intelletto,  e  sottilità  di  discre- 
zione: ma  in  Vincenzo  i  germi  di  queste  qualità  cre- 
scevano ancor  essi  lieti  e  fiorenti  bene:  e  la  gente 
che  considerava  quelle  belle  forze  con  tanta  armonia 
composte,  ne  pigliava  maraviglia  e  diletto,  e  se  ne 
prometteva  grandi  cose.  Anche  gli  eguali  vedendo- 
selo non  stare  mica  sulle  competenze,  ma  attento, 
modesto,  tirare  per  la  sua  via,  gli  facevano  onore, 
e  volonterosi  gli  davano  luogo. 

Adunque  con  questa  disciplina  come  egli  fu  ve- 
nuto a  giusta  età  ;  e  guernito  di  assai  buone  let- 
tere ,    il   senatore  Braccio  che   voleva   condurlo  in 


179 

grado  ,  ove  gli  potesse  far  passare  come  in  mano 
l'autorità  e  riputazione  sua,  lo  mandò  in  Pisa  per- 
chè studiasse  in  legge.  Quivi  le  virili  del  nostro  si 
fecero  più  fondate  e  vigorose  ;  poiché  assegnati  i 
suoi  intervalli  alla  scienza  del  diritto,  prese  nel- 
l'altro tempo  i  suoi  punti,  e  reciso  ogni  vaneggia- 
mento, attendeva  di  fare,  come  è  stile  degli  ottimi, 
d'ogni  bel  fiore  ghirlanda.  Ma  dapprima  quella  solle- 
cita e  tenera  pietà,  che  portava  il  suo  cuore  verso 
Dio  ottimo  grandissimo,  fu  sempre  nella  più  onorata 
parte  dell'animo  suo.  Però  verso  questa  santissima 
forma  modellare  i  suoi  studi  ;  a  queste  opere  niente 
recidere  i  loro  tempi:  insomma  voglioso  e  grave 
cercare  sapienza  nel  regno  suo.  Intanto  delle  let- 
tere latine  ed  italiane  voler  sapere  quel  che  ne  era, 
non  solo,  com'egli  avrebbe  detto  così  a  mezz'aria: 
ma  investigare  le  ultime  vene  dei  concetti  e  delle 
parole,  seguendo  un  tal  suo  modo  di  studiare  sot- 
tile insieme  e  succoso.  Indi  allargando  l'animo  bevve 
ogni  varietà  di  erudizione  sacra  e  profana;  e  per- 
chè gli  era  gran  piacere  studiar  filosofia,  volle  ac- 
coppiare questa  minor  facoltà  alla  teologia,  alla  qua/e 
la  natura  sua  stessa,  e  l'antico  senno  italiano,  mal 
ripudiato,  l'hanno  congiunta.  Ma  lasciando  ad  altri 
filosofare  di  questo  argomento  (che  non  mancano  va- 
lenti che  il  fiicciano,  e  sappiano  ben  fare):  mi  sem- 
bra piuttosto  sia  da  rispondere  a  chi  ha  questione 
colla  scienza  quasi  inopportuno  ingombro  alla  poe- 
tica disciplina.  Oh  !  non  è  il  poeta,  si  dice,  un  non 
so  che  volante  e  tempestoso  nato  a  muovere  V  im- 
maginativa massimamente  ?  Or  che  ha  egli  a  divi- 
dere con  quelle  facoltà  gravi,  assestate,  quiete,  tutte 
volte  a  prenderti  l' intelletto  rimossa  ogni  turbazione 


180 

di  fantasia  ?  Oh  via,  vien  qua,  valentuomo  !  hai  tu 
mai  dato  mente  alla  natura  ìntima  dell'aurea  poe- 
sia ?  non  sai  tu  che  essa,  cosi  bene  come  ogni  altra 
arte,  è  accomodata  alla  civile  felicità,  e  cerca  il  vero 
e  nel  vero  si  quieta  ?  Che  se  ella  ti  finge  mostri, 
e  compone  giganti  ed  altre  simili  strane  fantasie  e 
novelle,  ella  adula  i  tuoi  fastidi  ;  ma  ti  punge  in- 
sieme e  sollecita,  che  non  li  basti  la  scorza,  e  miri 
alla  dottrina  che  s'asconde 

Sotto  il   velame  delli  versi  strani. 

E  se  tu  noi  fai  ,  ed  essa  non  ha  per  sano  né 
per  ben  disposto  1'  intelletto  tuo.  Adunque  come  un 
uomo  di  grande  scienza,  e  buono  a  faccende,  o  segga 
nell'atto  del  suo  uffìzio,  o  s'  intrattenga  in  caro  cir- 
colo di  amici  è  pur  sempre  egli  con  quel  suo  senno, 
con  quella  discrezione;  solo  altri  i  modi,  le  parole, 
la  cera:  così  è  di  questo  spirito,  al  quale  s'appar- 
tiene informare  tutte  le  muse  egualmente,  che  sono 
tutte,  direbbe  Pindaro,  dal  petto  profondo.  Però  im- 
primili di  questo,  che  il  tener  maestà  nella  scienza, 
la  gravità  di  quelle  sue  parole  nude,  severe,  queste 
sono  aliene  da  tal  genere,  non  essa  che  è  cosa  anzi 
grandemente  cognata  ,  coadiutrice  ,  necessaria  alla 
poetica  facoltà.  Sì  certamente:  far  divulgata  e  pia- 
cevole la  sapienza;  operarsi  che  altri  impari,  massi- 
mamente quando  men  sembra  che  tu  t'  impacci  di 
ammaestrare;  in  breve  tener  gli  animi  del  sapiente 
e  del  volgo,  questa  è  cosa  che  fa  onore,  e  per  que- 
sto contende,  o  dovrebbe,  chi  fa  professione  di  poeta. 
Or  va  poi  e  tocca  a  un  bel  destro  dell'  onesto ,  e 


181 

del  suo  contrario  ,  spiega  le  cagioni  naturali  delle 
cose,  apri  le  origini  del  diritto,  mostra  la  santità  dei 
costumi,  solleva  o  rammorbida  gli  animi,  parla  in- 
somma di  tutte  le  cose  visibili  ed  invisibili  con  un 
po' di  fanlasiuccia,  ineducata,  sbrigliata,  spiritata,  e 
vedrai  scorrezioni,  capriole,  imperversamenli  che  sa- 
ranno i  tuoi.  Per  le  quali  cose  se  ti  è  caro  stare 
coi  saggi,  tieni  pure  che  niun  poeta  per  solo  impeto 
di  natura  è  potuto  esser  mai  utile  né  grande:  ma 
quei  che  hanno  pensato  sulla  materia  ,  e  si  sono 
messi  all'ordine  con  quelle  facoltà,  che  si  è  toccato; 
e  oltre  a  ciò  hanno  considerato  alla  natura  dei  tempi 
e  degli  uomini,  per  dire  con  dignità  della  cosa,  con 
utilità  a  grado  degli  uditori.  Ma  perchè  anche  senza 
la  passione  grande  che  io  porto  in  questo  particolare, 
la  vastità  della  materia  mi  tirerebbe  troppo  lontano, 
io  lipiglio  di  Vincenzo.  Il  quale  messosi  in  quella 
via,  che  si  è  detto,  usava  anche  alle  accademie  e  cir- 
coli d'uomini  di  lettere  e  di  scienze.  E  quivi  delle 
cose  da  altrui  imparate  facendo  suo  capitale,  e  pren- 
dendo esperienza  delle  sue,  si  aveva  acquistato  no- 
me di  uno  de'  più  valorosi  giovani  di  quello  studio. 
Ricreamento  e  conforto  nelle  veementi  cure  eragli 
la  musica:  ma  benché  non  ponesse  in  questa  fuor- 
ché le  ore  scioperate  che  pur  necessarie 'gli  erano 
a  rifare  la  mente  stanca;  tuttavia  si  fece  innanzi  be- 
ne; tantoché  o  cantasse  ,  o  sonasse,  o  componesse 
ancora,  ciò  era  sempre  con  molta  naturalezza,  grazia 
e  convenienza.  Ma  in  quel  tempo  ad  oscurare  sì  lieta 
serenità  sorse  in  lui  un  affetto  che  non  era  de'  con- 
sueti ,  il  quale  benché  né  quanto  al  principio  ,  né 
quanto  al  suo  fine,  nulla  avesse  che  non  convenisse 


182 

all'onestà,  tutlivia  gli  confuse  e  turbò  l'animo  gian- 
flemente.  La  morte  si  intromise,  e  col  tórre  l'esca 
tolse  la  fiamma;  e  Vincenzo  riavutosi  da  quello  sbi- 
gottimento ,  e  guardatosi  intorno  ,  si  riconobbe  ,  e 
dato  al  fuoco  quanto  con  quella  impressione  aveva 
composto,  legossi  con  certo  proposito  di  non  dover 
più  scrivere,  salvo  solo  di  grandi  argomenti,  e  mas- 
sime di  religione.  Così  rinnovellato  nell'  animo  ,  e 
fresco  di  libertà  e  di  vita,  si  gettò  tutto  nell'alto  e 
magnanimo  cammino. 

Veramente  le  lettere  di  quei  tempi  erano  da  ogni 
lato  per  1'  Italia  scompigliate  ed  ebbre,  ed  il  Marini, 
e  la  brigata  avevano  messo  a  lomore  e  confusione 
il  paese.  Ma  l'uso  della  favella  vivo  a  guardia  del 
popolo,  la  diligenza  degli  scrittoli,  e  lo  zelo  dei  prin- 
cipi, avevano  salvato  Toscana  da  quel  guasto-  Però 
chi  quivi  era  dedito  a  gravi  studi  o  aveva  pieno 
l'animo  d'affetto,  facilmente  si  trovava  in  queste  cose 
un'ancora  agli  ondeggiamenti  fantastici  dell'età.  E 
quanto  a  Vincenzo  quella  forte  ed  amara  disciplina 
a  che  Iddio  l'andò  sottoponendo,  oltreché  aveva  ren- 
duta  pili  corretta  quella  indole  sua  di  virtù,  anche 
guardò  sana  la  sua  maniera.  Poiché  quell'animo  gen- 
tile, e  infervorato  di  pietà,  provato  nelle  sventure 
che  si  diranno,  s'aveva  preso  una  tal'  eloquenza  di 
dolore,  la  quale  movendo  dal  cuore  profondo,  sincera 
e  buona,  ti  commuove  e  infiamma.  Del  resto  a  quel 
punto  ove  lo  conducemmo  col  nostro  discorso  quel 
suo  animo  cresceva  e  ornavasi  viemeglio  ogni  dì  di 
erudizione  e  lettere:  e  il  medesimo  che  con  accesi 
sludi  tanto  si  ingegnava  per  esse;  con  laudiy  con  ser- 
moni e  preghiere  nelle  compagnie  si  stimolava  alla 


183 

bontà  ed  al  vero  valore.  E  di  questo  genere  nnolle 
cose  si  leggono  nel  nostro  condite  di  mirabile  amore 
e  grazia  ,  e  vi  hanno  massimamente  inni  che  ten- 
gono assai  di  quel  non  so  che  solenne  e  gemente  che 
l' innamora  in  quei  della  chiesa. 

Ma  egli  già  dottorato  per  gratificare  al  padre 
tolse  in  moglie  Anna  Capponi,  donna  di  gran  san- 
gue e  di  purgalissimi  costumi  ,  la  quale  di  casta 
e  diligente  aveva  fama  allora  ,  e  di  forte  acquistò 
poi  quando  portò  col  marito  la  gloria,  com'ei  chia- 
mavala  ,  del  sofferire.  Poiché  morto  a  Vincenzo  il 
padre,  e  crollate  le  fortune  della  sua  casa,  si  trovò 
il  lustro  della  famiglia  e  il  carico  della  dignità  a 
portare  egli  che  doveva  contendere  duramente  per 
dar  pane  ai  suoi.  Non  che  per  miseria  d'animo  s'ac- 
casciasse sotto  quel  peso:  anzi  quelle  sue  virtù  pa- 
revano vieppiù  sfavillare  e  fiorire  ;  ma  la  vista  di 
tre  anime  inserte  nella  sua,  Io  faceva  sbigottire,  e 
gli  rimescolava  tutte  le  viscere  per  la  grande  pietà. 
Però  dato  un  mestissimo  addio  a  Firenze^  si  ridusse 
a  una  sua  villetta  sola  e  quieta.  Colà  per  dire  di 
un  poeta  come  costumano  i  poeti,  ricreava  l'animo 
tra  quelle  fonti  e  prati,  e  ombre  purissime  e  care, 
e  contento  al  suo  pentolino,  si  consolava  che  i  figli 
disciplinati  a  questa  scuola  aspretta  e  salutare,  cre- 
scerebbero in  virtù  ferme  e  stagionate.  Ma  mentre 
i  frutti  di  quella  buona  natura,  e  di  quel  suo  in- 
gegno moltiplicavano  celati,  se  non  quanto  mostra- 
vansi  in  piccolo  drappelletto  di  amici,  intervenne  caso 
onde  il  suo  nome  sorse  quasi  lui  ripugnante  ad  al- 
tissima fama. 


184 

Già  da  moiti  secoli  ei'a  etistianità  in  guei'ra  colla 
gente  di  Maomcllo;  e  i  papi,  tutori  della  fede  e  dei 
popoli,  andavano  riparando  alla  lotta  gli  animi  e  le 
forze  di  Occidente.  Ma  corso  cent'anni,  da  S  Pio  V 
il  campione  di  Lepanto,  si  erano  coloio  ben  rifatti, 
e  terribili  più  che  mai  fossero  ,  tornavano  alle  of- 
fese difilati  al  cuore  d'Europa.  Già  balenava  a  quella 
ruina  l'imperiale  Vienna  ,  e  tutta  Europa  e  Italia 
massimamente  che  udiva  quasi  l'incomposto  fremito 
delle  tuibe,  ed  il  trambusto  delle  armi,  stavasi  in 
gian  gelosia  de'  suoi  istituti,  della  libertà,  della  re- 
ligione. Quando  il  prò'  Sobieski,  cui  Innocenzo  XI 
aveva  congiunto  a  Leopoldo,  dà  dentro  in  costoro 
col  Lorena,  li  rompe,  li  sperde  ,  e  rende  lil>ero  il 
fiato  agli  sbigottiti  fedeli.  Allora  guardarsi  in  viso 
le  genti  stupefatte;  a  Dio,  ai  campioni,  grazie  inni 
e  canti,  tanto  più  abbandonati  nel  tripudio,  quanto 
più  erano  stali  sull'ultima  pania.  A  questo  brillando 
Vincenzo  sorse  cantore  di  Dio  e  dei  le  suoi  mini- 
stri: e  prorompendo  concitato  e  profondo;  nel  fre- 
mito de"  trionfi,  nella  foga  della  speranza  espresse 
l'anima  d'Europa.  Tuttavia  egli,  naturalmente  uomo 
di  riguardi  e  di  modestia,  avrebbe  sempre  tenuto 
seco  quasi  arnesi  di  casa  quegli  splendidi  canti:  ma 
i  pochi  amici,  con  cui  se  ne  aperse,  a  quella  luce 
si  spaventarono;  e  C(jme  si  fa  ne'  grandi  commovi- 
menti che  vogliono  partecipi  e  testimoni  ,  ad  altri 
e  poi  ad  altri  passarono  i  versi  e  la  fama,  e  quegli 
scritti  furono  prima  letti,  copiati,  cantati  quasi  per 
tutta  Italia,  che  Vincenzo  nulla  ne  sentisse.  Tanto 
buon  abito  di  virtù  era  nel  nostro,  che  dove  altri 
portava  in  cielo  le  cose  di  lui,  ed  egli  non  trovava 


183 

in  se  quel  che  predicava  tutto  il  mondo,  e  dell'al- 
trui maraviglia  si  maravigliava,  intanto  Cosimo  III 
il  duca  avendo  l'alto  rendere  le  canzoni  ai  principi 
ciascuna  secondo  che  a  lui  toccava  ,  l' imperatore 
e  il  duca  di  Lorena  ne  scrissero  in  parole  piene  di 
onore  pel  Filicaia;  e  il  valente  re  di  Polonia,  in  ter- 
mini amicissimi  lutto  offerendoglisi,  pose  la  canzone 
nel  primo  luogo  tra  le  tante  per  quel  fatto.  Tutta- 
via né  queste  né  altre  lodi  che  gli  fiorivano  da  ogni 
lato  toccavano  grandemente  il  cuore  di  quell'uomo 
solito  attrihuire  a  un  tal  errore  comune  la  buona 
opinione  che  altri  gli  aveva  ,  o  certo  ciascun  suo 
pregio  a  quel  fonte,  onde  sorge  ogni  cosa  bella  e 
perfetta.  Così  poneva  il  nostro  a  fondamento  di  sua 
grandezza  la  magnanima  umiltà,  e  la  gente  slimando 
a  qual  gloria  intendeva  chi  ne  rifiutava  cotanta  più 
s'  infervorava  in  dargliene. 

Ma  mentre  così  montava  la  sua  fama  ,  non  si 
schiarivano  punto  le  cose  sue  afflitte:  onde  egli  che 
degli  studi  si  era  promesso  almeno  un  debile  ali- 
mento ai  figli,  poiché  li  vide  sempre  infelici  e  sem- 
pre sparsi  vanamente,  si  stava  assai  di  mala  voglia. 
Quando  Cristina  di  Svezia  che  nulla  vedeva  più  caro 
delle  lettere  italiane,  e  già  molto  prima  ammirava 
r  ingegno  del  poeta,  con  regale  magnificenza  gli  soc- 
corse, ed  ascrittolo  alla  sua  accademia  volle,  quasi 
fossero  suoi  piojiri,  prendersi  la  cura  dei  figli  di  lui. 
Poi  abbellendo  il  benefizio  colla  modestia,  gli  fece 
comando  ch'ei  non  dovesse  fiatarne,  perchè  pren- 
derebbe vergogna,  diceva,  quando  si  udisse  che  ella 
per  tale  faceva  sì  poco.  E  fu  bello  ed  onorato  alla 
regina  sollevar  Vincenzo  non  chiedente  ,  ma  a  lui 


186 
non  meno  avere  in  versi,  in  lettere,  in  ogni  modo, 
dato  amplissime  significazioni  della  gratitudine  sua 
immortale.  Ond'  io  non  vi  dirò  qual  colpo  fosse  al 
nostro  quando  ella  gli  morì  pochi  anni  appresso.  E 
percossa  ancor  piij  forte  egli  sostenne  allorché  Brac- 
cio, il  figlio  suo  maggiore,  di  buona  espeltazione  e 
già  paggio  del  granduca,  seguì  poco  stante  la  regina. 
II  povero  Vincenzo  mal  reggentesi  in  piedi  per  mor- 
talissima  infermità,  donde  era  uscito  mal  vivo,  si 
portò  in  pazienza  quel  dolore,  e  le  angustie  casa- 
linghe che  lo  assalivano  ancora.  A  questo  Paolo  Fal- 
conieri a  lui  amicissimo  ,  ninna  altra  via  vedendo 
di  potergli  soccorrere,  pose  pratica  di  darlo  a  mae- 
stro presso  i  Rospigliosi,  casa  grande  e  magnifica; 
ma  egli  mal  sapeva  pigliare  1'  attitudine  di  quella 
carica  :  e  però  il  negozio  preso  e  non  guari  dopo 
troncato  frondeggiò  vanamente  in  proposte  e  rispo- 
ste. E  chi  sa  quando  avrebbero  avuto  fine  i  suoi 
guai  se  a  Cosimo  HI  non  fosse  rincresciuto  di  lui  ! 
Egli  dunque  si  fece  incontro  alla  mina  di  quella 
casa  ,  e  creato  Vincenzo  senatore  ,  come  lo  ebbe 
provato  buono  e  destro,  lo  mandò  al  reggimento  di 
Volterra. 

Si  tiene  che  i  poeti  come  di  spiriti  irritabili  e 
subiti  non  siano  atti  colà  ove  la  ragione  senza  com- 
movimenti, lenta,  e  sottile  libra  il  diritto,  e  giudica 
a  premio  o  pena  gli  uomini  e  le  opere.  "Ma  il  Fi- 
licaia  fu  attento  e  diligente:  e  quel  che  conchiude, 
sapendo  com'era  fatta  la  sventura,  era  veloce  a  in- 
tendere gli  altrui  guai,  e  colle  pietose  parole,  colle 
opere  ,  colle  lagrime  infine  sapeva  temperarli.  Del 
resto  ogni  cosa  voler  vedere  ,  conoscere  :  su  certi 


187 
mali  non  filosofare  importunamente,  ma  por  rime- 
di ;  colla  vigilanza,  coll'autorità,  coll'esempio  spa- 
ventare dalla  colpa:  rigidissimo  in  tórre  le  cause  del 
peccare,  medicava  la  pena  colla  pietà:  spesso  con- 
teneva l'autorità  ove  bastava  l'amore  :  così  vi  eb- 
bero falli  senza  castigo  parecchi,  senza  emendamento 
pochi.  E  qual  grado  gliene  sapessero  i  popoli,  l'istan- 
za con  che  tempestarono  il  granduca  pe!  prolunga- 
mento dell'uffizio,  e  le  feste,  anzi  le  pazzie  che  ne 
fecero  quando  si  videro  esauditi  ,  sono  certissimi 
documenti.  Indi  mandato  a  Pisa  colla  medesima  au- 
torità e  grado,  si  videro  la  stessa  industria,  gravità, 
amore;  salvochè  l'essere  piiì  ampio  il  campo  fu  con 
più  utilità  degli  uomini  e  lode  del  nostro.  Ma  sic- 
come non  montava  così  di  onore  in  onore  che  non 
si  mostrasse  degno  di  altro  più  sublime  ;  parendo 
a  Cosimo  doverlo  portare  a  quel  che  fosse  il  più 
alto,  lo  chiamò  a  se  perchè  da  Firenze  come  dal 
capo  facesse  utilità  a  tutto  il  corpo  dello  stato.  E 
così  lo  creò  segretario  delle  tratte,  come  dicevano, 
uffizio  posto  come  a  tener  ne'  termini  i  prefetti  delle 
città.  Ma  di  quei  tempi  Vincenzo,  assottigliatosi  già 
la  vena  a  comporre  cose  maggiori,  si  pose  in  cuore 
dover  riconoscere  gli  scritti  suoi,  e  rivedendo  e  pu- 
lendo scegliere  quelli  che  gli  paressero  i  più  degni, 
gli  altri  severo  abolire.  Chiamatili  così  a  sindacato 
e  vagliatili;  molte  cose  gettò;  e  perchè  non  v'  era 
persona  che  meno  stesse  in  sul  suo  giudizio,  si  voltò 
per  aiuto  ad  uomini  amicissimi.  Adunque  come  già 
aveva  fatto  col  lindo  Iledi  mentre  ci  viveva  ,  se- 
guitò di  fare  con  Benedetto  Cori  uomo  acuto  e  ma- 
turo, e  col  Malagotti  signore  di  sottile   giudizio,  e 


188 
di  una  tal  sua  maniera  spedila  e  brava.  Oi-  mentre 
le  cose  sue  erano  già  in  parte  emendate  e  anche 
la  slampa  assai  innanzi,  i  morbi  che  in  lui  da  gran 
tempo  signoreggiavano  ,  rincrudelirono  ,  ed  egli  si 
vide  condotto  all'estremo.  Però  ricreato  l'animo  di 
ogni  soavità  della  santa  religione,  con  quel  canto 
alla  Vergine  sulla  lingua  che  si  aveva  composto  per 
quel  passo,  e  colla  speranza  dipinta  in  viso,  volò 
da  questa  affannosa  alla  vera  vita  ,  il  24  settem- 
bre 1707  nel  sessantesimo  quinto  suo  anno. 

E  vivo  tu  l'avresti  detto  allora  massimamente, 
tanto  grande  era  seguito  il  compianto  dei  dotti,  il 
desiderio  degli  amici  e  del  principe;  gli  studi  insom- 
ma di  tulli  gli  uonìini,  pei  quali  pareva  a  ciascuno 
pur  mancare  qualche  cosa.  K  nemanco  gli  stranie- 
ri, e  massime  gli  inglesi,  udirono  senza  pietà  e  com- 
mozione la  novella.  Onde  Lord  Sommers,  già  gran 
cancelliere,  ne  scrisse  dolentissimo  al  Magalotti  con 
ogni  dimostrazione  di  stima  per  Vincenzo:  ed  En- 
rico Newton  ambasciatore  al  granduca  seguì  la  me- 
moria di  quoiroltimo  con  quest'encomio- 

Acmulus  hic  voterum  et  victor  Filicaia  quiescit, 
Carmine  nec  minor,  et  piotate  prior. 

Ebbe  oneste  esequie,  e  tomba  onesta  nella  cap- 
pella di  sua  famiglia  in  S.  Pietro  di  Firenze:  e  Be- 
nedetto Averani  dotto  in  molle  parti  ,  e  in  latino 
dottissimo,  gli  compose  l'iscrizione  in  quella  lingua 
con  lodi  magnifiche  o  vere-  Questi  gemiti,  e  questi 
segni  di  riverenza  si  mandarono  nella  morte  di  Vin- 
cenzo ;  i  quali  chi   voglia  ben  considoiare  a  chi    e 


189 

perchè  troverà  laramenle  gli  uomini  avere  avuta 
materia  sì  degna.  Poiché  oltre  le  doli  d' indole  e  di 
addottrinamento  che  gli  avevano  acquistato  tanto 
di  amore  e  di  gloria;  cogli  scritti  aveva  fatto  opera 
da  avergliene  grado  tutta  quanta  la  posterità. 

E  già  egli  alla  bella  prima  si  era  risolto  che 
quella  vena  onde  derivano  i  profondi  lamenti  di 
Giobbe,  e  gli  altissimi  voli  di  Isaia,  e  quella  mesti- 
zia di  Geremia,  e  la  soavità  della  Cantica,  potesse 
ben  bastare  a  se  stessa  senza  versare  le  dolcezze 
del   lusinghier  Parnaso  ne  adornare 

D'altri  colori  che  de'  suoi  le  carte. 

E  Vincenzo  anche  per  questo  capo  ben  stimava  della 
religione;  perchè  legando  essa  come  fa  e  cielo  e  terra 
in  un  volume,  e  congiungendo  il  tempo  e  l'eterno, 
è  cosa  infinita,  immensa,  poetica  sommamente.  Ar- 
rogi a  questo  che  ognuno  anche  quando  più  fervono 
le  opere,  e  tumultua  la  vita,  sentiamo  il  fluttuare 
delle  cose  e  delle  speranze,  e  finire  il  riso  nel  pianto, 
e  questo  in  quello,  e  presto  l'uno  e  l'altro  con  lor 
cause  trascorrere.  Onde  l'uomo  fallendogli  le  pre- 
senti cose,  vive  naturalmente  nell'avvenire,  e  sente 
che  altro  ordine  aspetta  una  natura  umile  e  subli- 
me, che  mal  dura  un  giorno,  e  non  l'empiono  mille 
anni.  In  questi  moti  degli  animi  ed  agonie,  qualisia 
o  pianga  i  passali  tempi 

I  qua!  pose  in  amar  cosa  mortale: 

0  gema  sul  presente:  o  coli'  impeto  di  chi  spera  si 


190 
protenda  nell'avvenire;  costui  parla  in  nomo  di  chi 
ben  ama  e  crede,  e  i  suoi  affetti  non  saranno  d'uomo, 
ma  di  natura.  Del  resto  Vincenzo  che  altamente  aveva 
bevuto  ai  fonti  purissimi  della  religione;  e  sapeva 
che  essa  pietosa  ne  lega  tutti  in  un  corpo  solido  e 
compatto,  e  non  perdona  a  te  il  godere  se  piange 
il  fratello;  per  ogni  allegrezza  o  dolore  dei  tempi, 
degli  uomini,  della  chiesa  ebbe  un  sospiro,  un  con- 
forto, un  canto.  Però  sommo  fra  i  lirici  per  questo 
particolare  egli  è  pieno  sempre  del  suo  tema,  e  sde- 
gnando fittizi  ingegni  li  rovina  profondo  e  sonante, 
come  ispirato;  e  quando  altri  a  quel  torrente  teme 
non  si  assottigli  la  piena  ,  ed  ella  più  erompe  dal 
cuor  bollente,  e  ti  fa  attonito  di  maraviglia.  Muovono 
i  cristiani  le  ire  e  le  armi  contra  la  gente  del  Co- 
rano ?  E  le  sue  vergini  muse  armano  le  destre  dì 
tosco  ferro'  e  sulle  galee  di  Cosimo  cantano  di  Le- 
panto e  Rodi;  o  in  groppa  col  Sobiescki  inseguono 
l'Ottomano  sul  Rabbe:  o  istando  con  Leopoldo  av- 
ventano ai  giganti  achei  gV  inni  animosi.  Ma  se  le 
cieche  ire  e  le  ingorde  voglie  cacciano  in  guerra 
fraterna  i  cristiani,  egli  tempera  al  duolo  il  canto  e 
sospira  dolcissimo 

Pace,  pace  gridando,  amore  e  fede. 

E  fa  alla  gran  Vergine  mostrare  al  figlio  il  Lazio 
tremante  e  la  misera  Europa;  ed  entra  fra  gli  ar- 
mati e  prega  e  chiede 

Di  sangue  assai  finora 

Forse  non  bevver  le  pianure  e  i  monti  ? 

Chiudete  omai  di  tante  vene  i  tonti. 


191 

Così  per  queste  perplessità  e  commozioni  degli  nhi- 
mi,  per  le  subite  esultanze,  pei  lunghi  timori,  in- 
somma pel  vario  impulso  che  aveva  l'animo,  tu  lo 
vedi  mutar  colori  ,  e  sensi  ,  e  modi.  Or  fiero  ,  or 
mansueto,  or  pronto  e  minacciante,  or  rimesso  e 
dolce,  or  ebbro  nei  trionfi,  or  umile  di  paura,  or 
armato  di  pietà,  or  di  vendetta:  ma  eloquente  sem- 
pre e  lutto  chiuso  nella  sua  materia,  e  nell'affetto 
che  r  ha  compreso.  Chi  è  sì  selvaggio  e  alpestre 
che  non  ami  le  lettere  se  le  son  tanto  vaghe,  ge- 
nerose, schive  come  nella  canzone:  La  poesia  ?  Né 
io  avrei  per  capace  di  sentir  soavità  chi  non  bevesse 
con  tutta  l'anima  la  dolcissima  armonia  di  quel  canto 
alla  Vergine  nel  presepio.  Il  quale  componimento  è 
veramente  fiore  di  ogni  idillio  ,  e  gentilezza  della 
poesia  italiana;  ma  noi  ci  accendiamo  contra  il  se- 
cento  magnanimamente,  ed  ammiriamo  intanto  quel 
che  luce  e  suona  ,  il  resto  lasciam  passare  o  non 
veduto  o  non  curato.  E  dolcissimo  e  pieno  di  un 
caro  abbandono  è  sempre  Vincenzo  quand'  ei  canta 
della  Vergine,  o  seco  lei  si  condolga,  o  le  additi  il 
pargoletto  che  se  agli  occhi  credi 

Ti  par  ch'Ei  dica  chiedi; 

o  ne  oda  la  voce  dirgli  al  cuore  confida  e  laci;  o 
l'invochi  in  vita,  o  fra  l'ansie  della  morte:  o  tocchi 
infine  dell'urna,  che  per  breve  ora  la  contenne. 

Mentre  sull'ali  de'  beati  cori 
Correa  giiì  per  quell'aer  luminoso 
Dolce  armonia   di  spiriti  canori. 


^92 

Che  lusingando  il  suo  gentil  riposo 
Fean  corona  e  concento  alla  bell'urna 
Ov'era  il  pregio  d'ogni  pregio  ascoso. 

Ma  questo  temperare  che  egli  fa  di  dolcezza  il 
suo  stile,  chi  ben  nota  quasi  che  può  seguire  d'anno 
in  anno,  e  scorgere  che  tale  qualitsì  più  e  più  prende 
del  suo  animo  e  degli  scritti,  come  più  Vincenzo 
si  accosta  all'ultim'  ore,  e  sente  e  vede 

Che  di  dentro  e  di  fuor  non  è  più  desso. 

Allora  il  fuggire  di  quegli  onori  che  un  tempo 
aveva  cari,  e  sono  a  lidurli  a  oro 

Di  moribonda  luce  alili  estremi. 

Allora  quelle  meste  facezie  sul  guardarsi  allo  spec- 
chio, nel  coprire  il  capo  di  chiome  non  sue:  quel 
far  protesti  che  egli  non  cerca  fama  dalla  pittura 
de'  suoi  affanni,  e  quei  cari  ritiramenti  in  se  stesso, 
e  pentimenti  e  propositi  :  infine  quella  morte  che 
è  a  lui  consigliera  e  senno  e  mente  e  consorte  della 
vita.  Che  più  ? 

Di  quell'alma  ond'ei  vive  alma  è  la  morte. 

Questi  adunque  ed  altri  affetti  in  su  questo  an- 
dare in  lui  derivava    la  beJIa   scuola   del  cristiane- 
simo, la  quale  tutt'altia  dalla  pagana,  è  quella  del-  . 
r  interno  e  del  futuro.  E  questi  sensi  prendendo  tutto 
il  colore  ed  il  calore  che  hanno  i  concetti   intimi , 


193 

profondi,  con  noi  cresciuti,  come  è  dello,  impri- 
mevano poi  il  suo  siile  di  quei  teneri  gemiti  ,  di 
quelle  soavi  aspirazioni,  che  qualsiasi  ha  senso  del 
bello  gusta,  ma  chi  ben  ama  ne  va  perduto. 

Ma  a  conciliare  al  suo  stile  soavità  e  tenerezza, 
oltre  le  cause  delle,  e  quelle  sventure  che  lo  sli- 
molavano a  gridare 

Fera  cuna  m'accolse  e  nacque  meco 
Gemello  il  duolo     .... 

valsegli  più  che  molto  quelP  animo  mirabilmente 
temperato  ai  domestici  affetti.  E  V addio  a  Firenze, 
e  quel  le^larnenlo  ai  figlia  e  il  sempre  caro  sonetto 
alla  divina  Provvidenza,  sono  per  questo  rispetto  con- 
diti di  tanto  amore  e  semplicissima  grazia,  che  a 
leggerli  li  soprabbonda  la  dolcezza.  Né  io  so  mai 
tornare  a  quella  corona  di  sonetti  in  morte  della 
sua  zia  degli  Alessandri  ,  che  non  scopra  in  essi 
bellezze  nuove,  e  non  ammiri  via  più  sempre  quella 
sicurezza  ,  e  quasi  sprezzo  di  pennello  ;  e  non  mi 
commova  alla  serena  ,  equabile  mestizia  che  vi  è 
diffusa.  Ora  di  questa  maniera,  che  i  pittori  direb- 
bero la  sua  seconda,  di  tanto  magistero  e  pietà,  dolce 
e  succinta,  io  potrei  proporre  troppi  più  esempi  e 
la  loro  natura  istessa  mi  ritiene;  ma  e  quello  che 
io  già  dissi  di  lui,  e  quel  che  mi  resta,  mi  sospinge; 
ond'io  mi  sollecito  toccando  recisamente  lo  poesie 
latine. 

Esse  veramente  fioriscono  di  quei  pregi  mede- 
simi che  sopra  si  sono  discorsi:  tattavia  non  mancò 
chi  desiderasse  ivi  un  tal  colore  di  urbanità,  e  agi- 
G.A.T.CLXV.  13 


J94 

lità  e  come  sfumatezza  maggiore.  Certamente  la 
scienza  intima  della  lingua,  e  il  sapere  a  meravi- 
glia versar  lume  di  poesia  in  cose  difficili  e  sottili 
né  prima  tocche  da  latine  muse,  non  è  giudice  sì 
scortese  che  a  lui  contenda.  Del  resto  se  ad  altri 
parve  lui  peccar  nel  restio,  anche  altri  s'avvisò  ve- 
dere nella  sua  maniera  l'agilità  e  dolcezza  libulliana, 
tuttavia  io  me  ne  rapporto.  Ma  la  prima  elegia  alla 
beata  Umiliana,  e  lo  scherzo  al  Cori  suU'aver  l'au- 
tore così  correttor  di  popoli  toccata  la  poesia;  e  la 
fragrante  e  graziossima,  e  tutta  greca  ode  alla  Pu- 
rità, non  sia  chi  me  le  tocchi. 

Oi-a  dall'aver  seguito  con  tante  lodi  le  opere  del 
Filicaia  non  credeste  ,  eh'  io  lo  tenga  per  netto  e 
sincero  da  ogni  lato  e  sempre.  Poiché  anche  senza 
cercar  sottilmente  ,  tu  li  abbatti  a  traslali  troppo 
audaci  di  rocche  palpitanti;  di  macigni  istessi  che 
piangono  di  gioia  ed  altre  vanità  che  pel  loro  ec- 
cesso mal  rispondono  alla  mente  del  poeta.  E  ta- 
lora declama  e  non  commuove:  e  giuoca  d'ingegno 
secondo  il  suo  secolo;  e  spesso  fa  vezzi  ad  alcuni 
suoi  idolctli,  e  in  parole  diverse  ti  compone,  come 
dicono  ,  un  piallellin  di  quel  medesimo  ;  e  alcuni 
versi  sanno  d'infermeria,  e  vi  è  talora  troppa  imi- 
tazione,  anzi  un  trasporre  di  peso  i  modi  altrui, 
tantoché  tu  così  in  sul  bel  del  leggere  li  restituisci 
ai  loro  autori.  Ma  chi  più  n'ha  più  ne  metta,  di- 
rebbe il  Borni  :  io  mi  sono  risolto  che  senza  que- 
ste giunte  ,  ed  altre  simili ,  non  avremo  mai  bene 
finché  stiamo  a  queste  stiacciatine.  Non  ha  il  suo 
buio  anche  1'  Alighieri  ?  Non  t'  offendono  talora  le 


195 

seste  in  Torquato  ?  E  del  sonnellino  del  buon  Omero 
chi  non  ne  canta  ? 

Tal  abito  adunque  tenne  nella  vita  e  nelle  opere 
quelPonoiato  Filicaia.  E  benché  la  fama  che  di  lui 
sonava  grandissima,  e  le  cariche,  e  le  virili  lo  fa- 
cessero a  tutti  onoiato  e  caro,  egli  di  sua  grandezza 
niente  sentiva,  salvo  i  doveri.  Di  modestia  rarissima, 
di  verecondia  verginale,  a  tutti  affabile,  comune,  mo- 
strava nella  sceltezza  dei  modi  la  nobiltà  della  stirpe 
e  delle  lettere,  nella  santità  delle  opere,  quella  della 
virtij.  Della  privata  e  riposata  vita  seguilatore,  amava 
la  solitudine  ed  il  caro  nido  con  una  tal  riverenza. 
Amici  pochissimi  li  volle  ,  ma  scelti  in  gioventù, 
venuti  su  con  lui,  e  via  per  tutte  le  età  e  casi  pro- 
vati :  onde  ad  essi  nelle  cose  sue  credeva  pili  che 
a  sé  stesso,  come  men  sottoposti  a  errare,  e  amanti 
non  meno.  La  pietà,  che  prese  a  compagna  fin  dalla 
cuna,  anche  crebbe  con  lui,  e  quale  nei  sacri  luo- 
ghi, tale  nei  magistrati,  tale  nelle  domestiche  pa- 
reti: sicché  non  v'  aveva  casa  piiì  vicina  alla  rive- 
renza di  un  tempio  che  la  sua.  Del  tempo  come 
uom  sollecito  ch'egli  era  fu  avarissimo:  ma  per  non 
anfare  vanamente  non  pigliava  negozio  che  al  vero 
Sole  non  l'esplorasse  e  non  ne  invocasse  il  lume. 
Così  furono  utili  i  suoi  fatti  ,  buoni  gli  esempi  e 
gli  corsero  anni  operosi  e  pieni. 


196 


Sulla  febbre  considerata  in  se  stessa,  e  nelle  princi- 
pali tendenze  od  efficienze,  che  si  mostrano  nel  suo 
corso  relativamente  alle  proprie  cagioni,  ed  alla  loro 
importanza.  Annotazioni  patologiche  del  doti.  An- 
gelo Sorgoni  da  Recanali ,  membro  della  società 
medico-chirurgica  di  Bologna,  della  fisico-medica 
di  Firenze  ,  delV  accademia  medico-chirurgica  di 
Ferrara,  de'  lincei  di  Roma,  de'  Filomali  di  Luc- 
ca ec. 

Multa  renascuntur  quae  iani  cecidere. 
Ilorat.  ad  Pison. 

JLia  febbre  è  al  <:erl()  quel  male,  che  sopra  tutte  le 
iiifei'iiiità  più  di  fre(iucnte  si  sviluppa  noirumano  or- 
ganismo; per  il  che  ebbe  a  dire  Sydcnham:  «  Fe- 
bressuntduae  fere  lertiae  omnium,  quae  sunt,  mor- 
borum  ».  E  Vanswieten  commentando  Boerhaave 
manifestava  su  di  ciò  ancor  più  esleso  giudizio  di- 
cendo: «  Nullum  sine  febie  vivere  hominem,  imo  et 
paucos  abs([ue  febre  mori  ».  Da  ciò  è  derivato  l' im- 
pulso, che  siffatto  morbo  ha  sempre  dato  all'umana 
mente  di  rivolgere  le  sue  meditazioni  su  di  codesto 
modo  d' infermare;  e  per  queste  o  ne  ò  rimasta  sbi- 
gottita: nel  quale  stalo  essa  ha  veduto  nella  febbre 
una  (jualche  cosa  di  straordinario,  e  di  sublime,  giun- 
gendo per  fino  a  credere  ne'  tempi  pagani  essere  la 
febbre  una  malefica  divinità  ,  cui  erigevasi  anche 
tempio  ove  placarne  la  ferocia  :  ovvero  mercè  le 
stesse  meditazioni  1'  umana  mente  ha  occupato  la 
sua  intelligenza  sull'  intrinseco  lavoro  morboso  su- 


197 

sellatosi  nell'organismo  pel  producìmenlo  della  feb- 
bre. Ma  quivi  da  quesi'oscurissiino  oggetto  si  trasse 
una  moltitudine  di  svariatissime  ipotesi  tra  di  loro 
contrarie  ed  alcune  anche  opposte.  E  così  mentre 
per  una  parte  le  meditazioni  sulla  febbre  cagiona- 
vano lo  sbigottimento  e  la  superstizione,  per  un'al- 
tra parte  facevano  esternare  una  farragine  di  giudizi. 

Ma  comun(jue  ciò  sia,  non  sono  da  stimarsi  inu- 
tili le  fatte  indagini  e  gli  emessi  giudizi;  imperoc- 
ché questi,  qualunque  essi  fossero,  erano  sempre  il 
risultato  di  ragionamenti,  che  se  completamente  non 
abbracciano  il  fatto  morboso  costituente  la  febbre, 
però  in  una  od  in  un'altra  parte  certamente  lo  con- 
siderano. Ed  appunto  perchè  questo  fatto  non  in  tutti 
i  suoi  lati  è  stalo  sempre  considerato,  è  avvenuta 
la  pluralità  de' giudizi;  i  quali  però  a  motivo  della 
parte  del  fatto  morboso  che  comprendono  ,  hanno 
sempre  un  certo  lato  di  verità  ,  quantunque  sieno 
nella  loro  esternazione  talvolta  contrari  ed  anco  op- 
posti. 

Ottenebrava  nondimeno  questo  vero  il  senso 
esclusivo  dato  a'  medesimi  giudizi:  mentre  per  quanto 
in  essi  s'  includa  una  verità  a  motivo  della  parte 
del  fatto,  che  comprendono,  altrettanto  si  è  errato 
quando  per  questa  parte  si  è  preleso  di  abbracciare 
il  tutto.  E  di  ciò  relativamente  alla  febbre  si  hanno 
molti  esempi,  come  si  potrà  facilmente  conoscere 
esaminando  l'esteso  numero  delle  definizioni,  che 
da  molli  autori  si  sono  date  di  quesl'  infermità. 

L'esame  di  tutte  siffatte  definizioni  però  non  è 
lo  scopo  di  questa  discussione:  l'oggetto  della  me- 
desima è  soltanto  quello  d' indagare  la  febbre  in  se 


198 
slessa  e  nelle  principali  tendente  od  efficienze,  che 
si  mostrano  nel  suo  corso  relativamente  alle  pro- 
prie cagioni  ,  per  quindi  dedurre  se  la  febbre  sia 
un'  operazione  salutar»  della  natura  destinala  ad 
espellare  dall'organismo  una  materia  morbifìca  co- 
munque in  esso  allocata,  come  si  è  definita  da  vaii 
autori  SI  della  remota  e  sì  della  presente  età;  o  in- 
vece sia  piuttosto  la  febbre  un  morbo  al  pari  di 
tulli  gli  altri  mali,  nel  corso  de'  quali  si  manife- 
stano sempre  due  opposte  tendenze  od  efficienze  , 
l'una  di  distruggilivilà,  l'altra  di  conservatività,  come 
risullamenli  di  differenti  origini  e  cagioni.  Intorno 
a  ciò  qui  voglionsi  fare  alcune  ricerche  ed  analo- 
ghe considerazioni,  calcolando  la  febbre  tanto  in  via 
di  fallo  quanto  in  via  di  ragione  relativamente  al- 
Toggetlo  in  esame.  Lo  che  sarà  esposto  colle  se- 
guenti patologiche  annotazioni. 


I. 


La  febbre  osservala  come  un  fallo  relalivamenle  alle 
principali  tendenze  od  efficienze,  che  si  mostrano 
nel  suo  corso. 

Onde  svolgere  V  oggetto  di  questa  discussione 
primieramente  in  via  di  fallo,  per  vedere  se  nel  corso 
della  febbre  considerata  come  puro  svolgimento  mor- 
boso si  manifestano  diverse  tendenze  od  efficienze, 
vuoisi  notare  in  primo  luogo  cosa  avvenga  nella  sua 
evoluzione  tanto  considerata  la  febbre  come  morbo 
ttpsenziale,  primario,  quanto  risguardala  come  se- 
condaria. Anzi  tulio  nel  caso  di  primaria  affezione 


199 

rimarcala  la  febbre  come  un  fatto  visto  nella  sola 
esterna  appaiiscenza,  avvertasi,  che  per  V  intera  sua 
evoluzione  di  qualunque  genere  ella  sia,  di  qualun- 
que specie,  di  qualunque  forma,  si  mostrano  sem- 
pre nel  corso  della  medesima  due  stati  differenti  : 
de'  quali  il  primo  esprime  un  disordine  funzionale 
con  n\anifesta  tendenza,  od  efficienza  distruggiti ^a; 
il  secondo  mostra  parimenti  un  disordine  funzionale; 
ma  in  esso  si  ravvisa  una  tendenza  opposta  alla 
prima,  vale  a  dire  approssimativa  alla  salute,  o  con- 
servativa. E  che  neir  intera  evoluzione  febbrile  si 
abbia  sempre  un  funzionale  disordine,  viene  indi- 
cato da'  caratteri  di  morbosità,  che  in  tutto  il  suo 
corso  manifesta  la  febbre,  appunto  perchè  è  un  mor- 
bo, e  perchè  non  si  dà  alcun  malore,  che  non  sia 
annunciato  da  disordine  funzionale. 

Ma  in  questo  disordine  sono  rimarcabili  varie 
tendenze  od  efficienze;  epperò  si  nota  che  la  febbre, 
nella  sua  prima  invasione  fino  ad  un  certo  tratto  del 
suo  corso,  quantunque  prorompa  con  un  disordine 
funzionale ,  pur  con  tutto  ciò  non  manifestasi  per 
esso  alcun  segno,  che  denoti  tendenza  e  repristina- 
zione  di  sanità.  E  difatti  se  si  fa  particolar  consi- 
derazione sui  caratteri  essenziali  di  sua  manifesta- 
zione, quali  sono,  secondo  il  riepilogo  de'medesimi 
fatto  dal  chiarissimo  Franceschi,  la  concitazione  del 
polso,  Teccessività  del  calore,  il  senso  di  mal'essere, 
la  prostrazione  delle  forze,  le  alterate  e  scarse  se- 
crezioni, si  trova,  che  nessun  di  essi  indica  tendenza 
a  normalità  funzionale.  Anzi  si  rinviene  in  ciascun 
di  loro  una  decisa  opposizione  alla  stessa  normalità; 
imperocché    qualunque  di  tali  caratteri  è  talmente 


200 

ripugnante  alla  salute,  che  se  circostanze  favorevoli 
all'organismo  non  sieno  per  manifestarsi,  essi  sempre 
pili  si  allontanano  dal  normale  esercizio  della  vita, 
e  finiscono  colPestinzioue  della  medesima.  Ed  in  vero 
gli  stessi  sopra  annunciali  caratteri  costituenti  in  es- 
senzialità r  esternazione  del  movimento  febbrile,  sì 
considerati  isolatamente  che  complessivamente,  sono 
un'  es[)ressione  vitale  ,  ma  d'una  vita  ,  che  sempre 
più  s'allontana  dalla  sua  normalità.  Il  che  è  tanto 
certo,  che  per  qualunque  lato  si  consideri  la  febbre 
nel  suo  primo  stadio,  che  qui  si  contempla,  mani- 
festa senjpre  un  funzionamento  deviato  dal  corso  or- 
dinario salutare  della  vita;  e  deviato  in  modo,  che 
in  questo  medesimo  stadio  il  febbrile  funzionamento 
piesenla  incessantemente  uno  stato  diverso  e  con- 
trario a  quanto  la  natura  produce  per  il  normale 
esercizio  della  vita  medesima.  Olfatti  se  nel  primo 
stadio  febbrile  in  discorso  si  esamina  la  febbre  dal 
lato  della  sua  calorificazione,  e  de'movimenli  vasco- 
lari, si  trova,  che  l'eccessività  del  calore,  e  la  con- 
citazione del  polso  non  esprimono  altro  che  un  grado 
di  calorico  e  di  movimento  arterioso  diverso  da  quel- 
lo, che  si  compete  allo  stalo  normale  della  vita.  Se 
poi  si  considera  la  febbre  dal  lato  del  senso  di  ma- 
l'essere,  dalla  prostrazione  delle  forze,  e  dell'altera- 
zione delle  secrezioni,  si  ravvisa  uno  stato  di  quesle 
cose  contrario  a  quello,  che  bassi  nella  condizione 
di   sanità. 

La  quale  diversità  di  grado,  e  contrarietà  di  slato 
fra  i  sintomi  della  febbre  ed  il  funzionamento  or- 
ganico competente  a  sanità  cresce  a  dismisura,  al- 
lorquando la  febbre,  oltre  a'  suoi  caratteri  essenziali 


201 

sopra  citati,  assume  quelli  relativi  a  lesione  più  o 
meno  intensa  di  qualche  speciale  funzionamento,  ov- 
vero di  quello  del  sistema  de'  nervi,  oppure  relativi 
ad  uno  stato  di  grave  eterogeneità  sanguigna  spie- 
gala specialmente  nel  sistema  venoso.  In  questi  casi, 
sempre  parlando  dal  primo  stadio  della  febbre,  di 
quello  stadio  cioè  chiamato  di  crudezza,  l'allontana- 
mento  dallo  stato  sano  non  solo  viene  presentato 
da'  caratteri  essenziali  costituenti  l'esternazione  della 
febbre,  come  sono  stati  superiormente  espressi,  nìa 
ancora  siffatto  allontanamento  dalla  salute  si  palesa 
in  quanto  all'alterazione  nervosa  mediante  un  com- 
plesso di  sintomi  adinamici  ovvero  utassici  ;  ed  in 
quanto  al  sistema  irrigatore  sanguigno  l'allontana- 
mento medesimo  si  esprime  con  vibici,  [>etecnhie, 
emorragie,  fetore,  sviluppo  di  gas,  lavori  flogistici, 
ed  altro  dinotante  lesione  sanguigna.  E  sullo  stesso 
proposito,  relativamente  al  funzionamento  speciale  di 
qualche  apparato  o  viscere  impegnato  nel  primo  sta- 
dio dell'  evoluzione  febbrile,  si  sviluppano  sintomi 
esprimenti  l'alterazione  di  questo  medesimo  funzio- 
namento. Ma  tutti  questi  sintomi  sì  speciali  e  propri 
d'im  apparato  o  viscere  ,  che  generali  appartenenti 
a'  vari  tessuti,  ed  in  ispecialità  al  sistema  nervoso 
e  sanguigno,  oltre  i  caratteristici  della  febbre,  per 
i  quali  resta  costituito  ciò  che  dicesi  fatto  morboso 
febbrile  di  qualunque  natura  esso  sia,  nello  stadio 
di  crudezza  siffatti  sintomi  non  esprimono  altro,  che 
uno  stato  di  vita  e  per  diversità  di  gradi  e  per  con- 
trarietà di  effetti  allontanato  dal  normale  organico 
funzionamento. 


202 

Un  eguale  complesso  di  cose  seguita  a  presen- 
tarsi nell'evoluzione  dell'  intero  stadio  febbrile  di  cru- 
dezza; imperocché  durante  tutto  questo  tempo  i  me- 
desimi sintomi  sopra  narrali  continuano  a  prodursi, 
aumentando  d' intensità  fino  a  tanto  che  provengono 
a  quel  punto  chiamalo  acme  dei  male,  in  cui  resta 
compilo  il  medesimo  primo  stadio  febbrile. 

Pertanto  giunta  la  febbre  al  termine  dello  stadio 
di  crudezza  considerata  nella  sua  espressione  di  fatto 
morboso,  come  qui  si  è  annotato,  non  offre  altro 
in  tutta  la  sua  appariscenza  che  materiali  morbiferi 
sempre  più  offensivi  e  al  generale  dell'  organismo, 
ed  alle  parli  singolarmente  impegnate  a  tenore  della 
diversa  qualità  di  essa  febbre. 

Ma  in  questi  morbiferi  materiali  nella  febbre  ri- 
sguardata  come  un  fatto  nel  suo  stadio  di  crudezza, 
non  riscontrandosi  altro  che  un'espiessione  sempre 
piij  offensiva  dell'organismo,  si  mostra  apertamente 
per  essi  una  tendenza  od  efficienza  distruggitiva. 
Però  se  il  fatto  morboso  non  si  arresta  nel  suo 
corso  per  esito  funesto,  e  volge  a  compiere  il  suo 
periodo  con  felice  lisoluzione,  lo  stesso  fallo  n)or- 
boso  costituente  la  febbre  se  si  presentava  in  tulio 
quel  tempo  dì  quest' infermità,  che  dicesi  stadio  di 
crudezza,  con  i  succitati  sintomi,  non  a  ciò  ugual- 
mente si  mostra  nell'altro  tempo  successivo  a  quello 
descritto  chiamato  stadio  di  cozione  e  di  crisi.  In 
quest'altro  stadio  del  febbril  movimento,  quantunque 
seguitino  a  manifestarsi  i  sintomi  sopra  annunciati, 
pur  con  lutto  ciò  si  vanno  essi  gradatamente  am- 
mansando, e  si  associa  a'  medesimi  un'operosità  in- 
solita negli  organi  secernenli,  ed  in  specie  in  qual- 


203 

cuno  di  loro,  che  sempre  più  si  fa  attiva  nel  de- 
corso dello  stadio  di  coziorie  in  corrispondenza  alia 
declinazione  del  male.  Di  maniera  che  nel  fine  di 
questo  stadio  medesitno  siffalla  operosità  diventa  vera 
crisi,  con  cui  felicemente  si  risolve  codesto  male, 
e  così  si  compie  il  fallo  morboso  costituente  la 
febbre. 

Pertanto  si  ravvisa,  che  nel  secondo  stadio  della 
febbre,  ossia  nel  suo  stadio  di  cozione  e  di  crisi, 
non  si  presenta  come  nel  primo  stadio  un  solo  com- 
plesso di  sintomi  tutti  tendenti  all'  allontanamento 
della  salute;  ma  invece  si  scorge,  che  questi  mede^ 
simi  sintomi,  oltre  l'andare  smontando  di  loro  inten- 
sità, sono  anche  associati  ad  altri  sintomi  proclivi 
al  ripristino  della  salute,  per  modo  che  in  fine  di 
questo  secondo  stadio  e  gli  uni  e  gii  altri  si  con- 
vertono in  normale  funzionamento.  Difatti  il  calore 
febbrile,  che  nei  primo  stadio  della  febbre,  ossia  nel 
suo  stadio  di  crudezza,  si  presentava  secco,  ardente, 
veemente  ,  ed  anche  talor  di  grado  dissimile  nelle 
varie  parti  del  corpo,  in  questo  secondo  stadio,  detto 
di  cozione,  viceversa  diventa  mite,  congiunto  a  mol- 
lezza ,  ed  uguale  in  ogni  punto.  Così  i  polsi  ,  che 
nello  slato  di  crudità  si  erano  molto  allpnlanali 
dalla  naturale  e  normal  simmetria,  passano  ad  es- 
sere nel  secondo  stadio  in  discorso  grandi,  alti,  mol- 
li, ondosi.  E  paiimenli  il  senso  di  mal'essere,  che 
nello  stadio  di  crudezza  era  angoscioso  ,  molesto  , 
pieno  d'agitazione,  di  smania,  d' inquietudine,  d'  im- 
pazienza, addiviene  nel  periodo  di  cozione  piiì  tol- 
lerante ,  più  sostenibile,  e  quindi  va  quietandosi, 
calmandosi,  e  gradatamente  riducendosi   a  tranquil- 


204 

lilà.  Similmente  intorno  alla  prostrazion  delle  forze 
notasi  ,  che  come  essa  da  un  certo  grado  aumen- 
tando fino  al  massimo  si  realizza  nello  stadio  di  cru- 
dezza, così  la  stessa  prostrazione  si  effettua  in  senso 
inverso  nel  secondo  stadio  del  periodo  febbrile  detto 
di  cozione.  Ed  in  quanto  alle  secrezioni,  se  queste 
nel  primo  stadio  febbrile  sono  scarse,  crude,  in  va- 
rio modo  alterate,  viceversa  nel  secondo  stadio  sono 
abbondanti,  concotle,  e  sempre  più  accostantisi  allo 
stato  normale. 

Quanto  si  osserva  nell'andamento  tenuto  da'  ca- 
ratteri essenziali  della  febbre  sì  nel  primo  e  sì  nel 
secondo  stadio  costituenti  1'  intero  suo  sviluppo,  al- 
trettanto notasi  ancora  nell'evoluzione  di  tutti  quei 
sintomi,  che  a  tenore  della  diversità  delle  forme  feb- 
brili trovansi  associati  cogli  stessi  caratteri  essen- 
ziali. Imperocché  tanto  l'andamento  tenuto  da'  sin- 
tomi relativi  a'  generali  tessuti  organici,  quanto  lo 
stesso  andamento  prodotto  da'  sintomi  riferibili  al- 
l'alterazione  d"  uno  o  di  un'altro  apparato,  o  di 
qualche  speciale  viscere,  che  nelle  differenti  forme 
febbrili  suole  aver  luogo  ,  come  dimostrano  nello 
stadio  di  crudezza  una  progressiva  gradazione  sem- 
pre in  aumento  di  morbosa  intensità  ;  così  all'op- 
posto nello  stadio  di  cozione  manifestano  un  retro- 
cedimento  della  stessa  intensità  morbosa.  Di  maniera 
che  la  sintomatica  espressione  di  qualunque  febbre, 
considerata  come  malattia  primaria  ed  essenziale,  è 
distinta  nel  suo  stadio  di  crudezza  con  un  devia  - 
mento  dalla  salute  ,  e  nello  stadio  di  cozione  con 
un'  avvicinanza  alla   medesima. 


205 

Queste  medesime  vicende  ,  che  si  risconfrnno 
nella  febbre  considerata  come  malattia  essenziale 
così  detta  pur  febbre  primaria,  si  notano  ugualmente 
nella  febbre  chiamata  secondaria,  dipendente  per  lo 
più  da  un  flogistico  processo.  E  di  vero  in  questo 
secondo  caso  le  vicissitudini  della  febbre  s'  imme- 
desin)ano  con  quelle  del  processo  flogistico,  di  cui 
la  febbre  è  un  sintomo.  E  siccome  tali  vicissitudini 
a  ben  ravvisarle  si  risolvono  anch'esse  a  quanto  com- 
plessivamente costituisce  gli  stadi  di  crudezza  e  di 
cozione:  ne' quali  stadi  si  rinvengono  sernpi'e  sotto 
svariate  sembianze  le  stesse  fasi  notate  nella  crudez- 
za e  cozione  della  febbre  essenziale  in  maniera,  che 
nella  prima  evvi  sempre  un  complesso  di  sintomi 
dinotanti  soltanto  un  allontanamento  dalla  salute,  e 
nella  seconda  si  trova  espressa  pel  cumulo  sintoma- 
tico una  tendenza  al  ripristino  della  stessa  salute; 
in  conseguenza  nella  febbre  secondaria  si  realizzano 
le  medesime  vicissitudini,  che  si  manifestano  nella 
febbre  primaria;  e  perciò  vuoisi  ritenere  che  queste 
due  maniere  di  febbricilare,considerale  come  un  fatto, 
sono  identiche. 

Se  non  che  è  notabile,  che  per  quanto  nella  mag- 
gior parte  de'  casi  di  febbre  sieno  distinti  i  due  stadi 
sopra  narrati  di  crudezza  e  di  cozione  in  tenipi  presso 
che  uguali  di  durata  colle  speciali  loro  efficienze  su- 
periormente rimarcate  ;  pur  con  lutto  ciò  avviene 
sovente  il  caso,  in  cui  non  si  manifesta  in  modo  pa- 
lesissimo  questa  distinzione,  mentre  accade  che  l'un 
delli  due  stadi  1'  altro  soverchia.  Questi  sono  quei 
casi,  che  per  lo  più  sono  susseguiti  da  esito  funesto, 
e  ne'  quali  o  è  inefficace,  o  è  soccombente  l'efficienza 


206 

conservativa  così  espressa  dal  predominio  de'  sintonfii 
indicanti  allontanamento  dalla  salute  sopra  a  quelli, 
che  sono  indizi  di  ripristino  della  medesima. 

Dal  fin  qui  detto  si  conclude,  che  il  fatto  mor- 
boso costituente  la  febbre  piesenta  nel  corso  de'  suoi 
due  stadi  una  differenza  essenziale  di  espressione; 
mentre  nel  primo  è  decisamente  manifesto  un  al- 
lontanamento dalla  salute  ,  ossia  una  tendenza  od 
efficienza  distruggiliva  :  nel  secondo  un  ravvicina- 
mento alla  stessa  salute,  vale  a  dire  un'  efficienza 
conservativa.  La  quale  differente  espressione  in  sif- 
fatti due  stadi  nell'  intero  corso  febbrile  è  così  pa- 
lese, che  mai  potrebbe  confondersi  quel  che  notasi 
neir  uno  con  quel  che  si  rimarca  nell'  altro.  Tal- 
mentechè  il  fatto  morboso  costituente  la  febbre  può 
esser  così  formulato  :  Un  funzionamento  morboso 
speciale  di  estuazione  ,  nel  di  cui  corso  si  mani- 
festa in  primo  luogo  un  allontanamento  dalla  sa- 
lute, ossia  una  tendenza,  od  efficienza  distruggiliva, 
ed  in  secondo  luogo  un  ravvicinamento  alla  mede- 
sima, cioè  una  tendenza  di  efficienza  conservativa. 

La  quale  conservativa  efficienza  mostratasi  nel 
corso  della  febbre  ha  fatto  ritenere  ad  alcuni  medici 
sì  della  remota,  e  sì  della  presente  età,  che  la  feb- 
bre avesse  in  se  qualche  cosa  di  salutare;  e  di  essa 
perciò  si  servisse  la  natura ,  anzi  fosse  uno  sforzo 
della  stessa  natura  onde  eliminare  dalla  macchina 
vivente  ogni  morboso  materiale,  e  così  togliere  ogni 
impedimento  all'  organica  evoluzione.  Il  valor  del 
qual  pensamento  sarà  fatto  palese  colla  presente 
discussione. 


207 
§    II. 

La  febbre  prodotla  da  eccessività  di  calorico  consi- 
derata in  via  di  ragione  come  un  processo  di  esliia- 
zione  in  rapporto  alle  principali  tendenze  od  effi- 
cienze, che  si  mostrano  nel  suo  corso. 

Dopo  d'essersi  osservala  la  febbre  come  un  fatto, 
vuoisi  consideraila  in  via  di  iMgione  :  il   perchè  fa 
di  mestieri  esaminare  come  il  fatto  morboso,  costi- 
tuente la  febbre  nel  modo  superiormente  esposto,  sì 
accordi  con  ogni  ragionevol  medica  dottrina,  ed  in 
ispecialità  con  quella,  che  libera  da  qualunque  idea- 
lismo si  versa  soltanto  nell'esplicazione  naturale  del 
funzionamento  organico.  Pertanto  onde  vedere  come 
questa  naturale   esplicazione   si    presti   all'  intendi- 
mento della  febbre  per  modo  da  risultarne  una  con- 
seguenza identica  alla    formula   della    febbre   sopra 
citata  ,  e  che  abbia  ad  essere  la   dimostrazione  in 
via  di  ragione  del  fatto  in  discorso,  fa  d'uopo  con- 
siderar lo  slesso  tallo  costituente  la  febbre  in  rap- 
porto alle  sue  proprie   cagioni,  ed  alla  sua   rispet- 
tiva evoluzione.  La  quale  considerazione  corrisponde 
all'  esplicazione  teoretica  ,    razionale  del  medesimo 
fallo.  Però  è  da  premettersi,  che  l'esame  da  isti- 
luirsi  pei'  quest'oggetto  qui  verrà  limitato  alla  prin- 
cipale dimostrazione  del  medesimo  oggetto  mediante 
soltanto  lo  sviluppo  di  alcune  forme  febbrili  per  ciò 
che  ha  eccitato  l'attenzione  de'  medici  di  ogni  tempo. 
Ed  intanto  quel  che  singolarmente  sin  dalla  più 
remota  antichità  ha  destato  lo  studio  de'  medici  nello 


208 
sviluppo  della  febbre  è  stato  il  calorico  ,  non  solo 
considerato  come  causa  della  febbie  e  come  suo 
sintomatico  carattere  ,  ma  ancora  come  la  febbre 
stessa.  E  difatti  Vanswieten  ne'  suoi  Commentari  agli 
aforismi  di  Boerhaave  cosi  esprime  un  tal  concetto 
degli  antichi  medici:  «  Qui  calorem  dixeruut  febris 
essentiam:  »  e  dimostra  tra  questi  principalmente  co- 
me: «  ab  Hippocrate  ignem  vocari  febrim  ».  Questa 
è  r  idea  della  febbre  avuta  da  Ippocrate.  Oltredichò 
nell'opera  di  Aiessandio  Massaria  intitolata  «  Practica 
Medica  »  trovasi  come  questa  idea  ippocratica  della 
febbre  siasi  avuta  ancora  da  altri  autori.  E  di  vero 
rinviensi  ivi  avere  egli  il  Massaria  giudicalo  insieme 
con  Avicenna  consistere  la  febbre  in  un  calore,  che 
lo  dice  «  calor  igneus  «:  e  stabiliva  pure  «  substan- 
tiam  febris  esse  iti  geneie  caloris  ».  Vi  si  nota  ancora 
come  Galeno,  «  uniformandosi  all'  idea  ippocratica 
della  febbre,  la  definiva  così  :  «  Conversio  nalivae 
caliditatis  ad  igneam  ».  Ciò  stesso  si  rimarca  am- 
messo da  vari  altri  autori. 

Intorno  alla  quale  definizione  della  febbre  qui  non 
si  starà  ad  indagai-e  il  valore  assoluto  dato  al  sud- 
detto concetto  della  febbre  da  molti  sommi  cultori 
delle  scienze  sanitarie,  in  ispecialità  ne'  prischi  tempi, 
non  essendo  questo  l'esclusivo  scopo  della  presente 
discussione.  Invece  di  tutto  ciò  qui  vuoisi  ricercare 
soltanto  come  si  effettui  il  sunnotato  pensamento 
ippocratico.  La  quale  ricerca  fassi  qui  secondo  i  rap- 
porti dimostrativi  analoghi  all'oggetto  di  questo  la- 
voro. E  però  non  è  essenziale  al  presente  argomento 
quanto  si  è  detto  da  vari  autori  sulla  produzione 
della   febbre  tanto  quanto  si  è  considerala  qual  fer- 


209 
mento  concoltivo  del  sangue,  quanto  allorché  si  è 
ritenuto  sempre  come  un  effetto  del  processo  infiam- 
matorio. Qui  invece  cade  in  acconcio  1'  indagine  sul- 
l'eccessività del  calorico  ne'  suoi  rapporti  coll'orga- 
nismo  sen^a  ricorrere  ad  altro  special  funzionamento. 

Intanto  riguardo  all'oggetto  in  discorso  è  da  no- 
tarsi anzi  tutto  l'avvertenza  fatta  sin  dai  medici  delle 
passate  età  sul  calorico  esistente  nel  corpo  umana, 
essendosi  considerato  duplice,  e  distinto  in  calorico 
innato  così  detto  o  nativo,  ed' in  calorico  preterna- 
turale, avventizio,  esterno.  Fissata  la  qua!  distinzione 
del  calorico,  si  ritenne  il  cuore  per  il  principio  del 
calorico  nativo,  e  se  ne  fece  applicazione  onde  sta- 
bilire la  dottrina  della  febbre,  per  cui  essa  fu  espressa 
con  i  seguenti  termini:  «  Febris,  quae  nihil  aliud  est 
quam  nativi  caloris  alterati©,  in  corde  tamquam  pro- 
prio subiecto  debet  collocari  )>  (Vedasi  Alessandro 
Massaria  nell'opera  sopra  citata  pag.  541). 

Questa  maniera  di  considerare  il  calore  sembra 
esser  corrispondente  alla  distinzione,  che  oggi  fassi 
del  medesimo  in  calore  animale,  vitale,  organico, 
ed  in  calore  meramente  fisico.  Si  manifesta  il  primo 
colla  temperatura  propria  degli  esseri  viventi:  egli 
è  individuale,  sempre  uguale  a  se  stesso  nel  mede- 
simo grado  in  qualunque  stagione,  in  qualunque  cli- 
ma, ed  in  qualunque  slato  atmosferico:  il  secondo 
poi  si  esprime  colla  tendenza  contìnua  a  spargersi 
ugualmente  in  tutti  i  corpi  della  natura  per  modo 
da  formare  nella  temperatura  de'  medesimi  un  certo 
equilibrio.  Varia  lo  sviluppo  di  questo  calorico  se- 
condo la  diversità  de'  climi,  delle  stagioni,  del  di- 
verso stato  e  condizione  atmosferica,  tutt'all'opposto 
G.A.T.CLXV.  14 


210 

dell'  inviiriabililà  del  calorico  animale.  Il  calorico 
meramente  tìsico  è  quel  principio  imponderabile  sot- 
tilissimo ,  che  penetra  tutti  i  corpi  della  natura  ,  e 
che  si  manifesta  cogli  ordinari  fisici  suoi  caratteri 
estrinseci  alle  condizioni  dell'organismo,  quantunque 
espressi  in  qualche  modo  sul  medesimo.  Il  calorico 
poi  animale,  vitale,  organico  è  lo  stesso  principio 
imponderabile,  sottoposto  però,  come  si  esprime  il 
Puccinotti  (vedansi  le  sue  lezioni  su  Isistema  nervoso), 
all'azione  del  processo  vitale  negli  organi  della  vita 
vegetativa  non  dissimile  da  un'assimilazione  ,  me- 
diante cui  il  calorico  diventa  assimilabile  ,  forma 
parte  organica  dell'organismo,  ed  acquista  una  na- 
tura particolare  distinta  con  singolari  caratteri  in 
gran  parte  indipendenti  da  quelli  del  calorico  me- 
ramente fisico,  con  cui  però  conserva  una  certa  af- 
finità. 

Il  qual  pensamento  relativo  alla  duplice  maniera 
di  esistere  il  calorico  nel  corpo  umano  veniva  dilu- 
cidata ancora  dal  chiarissimo  Medici,  il  quale  dopo 
d'aver  fatto  conoscere  nella  sua  Fisiologia  cosa  s' in- 
tenda per  potenza  eccitante,  e  cosa  per  potenza  ri- 
producente,  chiama  così  la  prima  quel  corpo,  che 
cagiona  nell'organismo  un  movimento  più  o  meno 
visibile,  senza  incorporarsi  con  i  tessuti  organici,  e 
senza  trasmutarsi  in  loro  parte  integrale;  e  chiama 
poi  così  la  seconda,  cioè  potenza  riproducenle  quella, 
che  s'  incorpora  colle  parti  fluide  e  solide  de'corpi 
organizzati,  e  diventa  parte  integrale  de'  medesimi: 
dopo,  dissi,  d'aver  fatto  conoscere  ciò  il  Medici  di- 
mostra, che  il  calorico  esiste  nel  corpo  umano ,  e 
per  conseguenza  in  ogni  essere  organizzato,  in  co- 


211         -"^- 
desta  duplice  maniera,  vale  a  dire  sì  come  polenta 
stimolante  e  sì  come  potenza   riproducente.  Lo  che 
egli  comprova  con  fatti   fisiologici  e  patologici. 

Parimenti  il  Bichat  ragionando  sullo  stesso  ar- 
gomento sostiene:  1.°  che  il  calorico  sia  introdotto 
nel  corpo  umnno  mediante  la  respirazione,  la  dige- 
stione, ed  anche  mediante  l'assorbimento  cutaneo: 
2.''  che  lo  stesso  calorico  introdotto  nell'economia 
animale  con  tutti  gli  elementi  ripatori ,  che  ha  il 
potere  di  appropriarsi,  si  mescoli  col  sangue  ,  con 
cui  circola  allo  stalo  di  combinazione:  3.°  che  non 
viene  esso  restituito  allo  stato  di  libertà  se  non  dopo 
esser  pervenuto  nel  sistema  capillare,  ove  esso  si  svol- 
ge quasi  per  una  specie  di  esalazione,  e  siffatto  svi- 
luppo va  soggetto  a  tutta  la  influenza  delle  forze  vi- 
tali appartenenti  alla  parte,  in  cui  si  effettua.  Ogni 
organo  per  simil  guisa  ha  il  suo  modo  particolare  di 
calorificazione,  del  pari  che  il  suo  modo  di  sensibi- 
lità, di  secrezione,  di  nutrizione;  ed  in  tal  foggia  il 
fenomeno  del  calore  animale  rientra  nell'ordine  co- 
mune de'  fenomeni  fisiologici  (Vedasi  il  Dizionario 
classico  di  medicina  interna  ed  esterna.  Articolo  , 
Calore  animale). 

Il  qual  pensatnento  intorno  al  calorico  non  viene 
in  alcun  modo  abbattuto  da  quanto  alcuni  fisici,  spe- 
cialmente odierni,  adducono  sull'oggetto  in  esame, 
rilenendo  il  calorico  non  un  corpo  imponderabile 
come  si  è  generalmente  creduto,  ma  bensì  un  molo 
od  una  modificazione  d'una  speciale  eterea  sostanza. 
Ed  ecco  come  ciò  viene  espresso  dal  Secchi  in  un 
suo  discorso  intorno  alla  correlazione  delle  forze 
fisiche,  e  alla  sua  influenza  nel  concetto  dell'univer- 


212 

so:  «  Le  indjigini  del  Melloni  finirono  di  dimostrare 
non  essere  le  radiazioni  luminose,  calorifiche,  elet- 
triche essenzialmente  diverse  fi-a  loro;  ma  le  vibra- 
zioni del  medesimo  etere  riuscire  pili  o  meno  alto 
ad  illuminare,  riscaldare  o  alterare  chimicamente  i 
corpi  secondo  la  loro  lunghezza;  e  può  anche  ag- 
giungersi secondo  la  natura  della  sostanza  ,  in  cui 
s' imbattono  ». 

«  Stabilita  l' identità  della  luce  e  del  calore  ra- 
diante, e  la  loro  natura  di  moto,  anche  il  calorica 
ordinario  (seguita  il  Secchi)  deve  esser  moto.  Si  sa 
inoltre,  che  dal  calore  ne  viene  l'elettricità,  e  quindi 
il  magnetismo  ;  e  viceversa  dal  magnete  si  ottiene 
la  corrente,  che  produce  di  nuovo  calore:  onde  non 
poteva  a  meno  di  concludersi,  che  tutti  questi  fe- 
nomeni, attribuiti  da  prima  a  tanti  agenti  diversi, 
non  erano  altio  che  le  modificazioni  d'una  sostanza 
per  via  d'un  moto  in  diverse  guise  trasformato  »  (Ve- 
dasi il  Giornale  arcadico  di  Roma,  maggio  e  giu- 
gno 1858).  Lo  che,  dico,  non  abbatte  il  sopraespo- 
sto pensamento  del  passaggio  del  calorico  dallo  stato 
fisico  a  quello  chimico  organico,  onde  costituire  la 
febbre  ,  considerato  il  calorico  come  un  corpo  per 
se  esistente.  E  di  vero  già  anche  nelle  passate  età 
era  pure  invalsa  la  questione  sul  caloi'ico  se  questo 
fosse  un  corpo,  od  una  semplice  qualità,  come  ciò 
tiovasi  espresso  nell'opera  sopra  citata  del  Massaria 
coH'analoga  critica  riflessione,  palesato  il  tutto  con 
i  seguenti  termini:  «  Ex  libro  Theophrasti,  qui  de 
calido  et  frigido  inscribitur,  quaerunt  hoc  loco  ple- 
rique  omnes  interpretes,  quidnam  per  calorem,  an 
corpus  calidum,  an  simplicem   qualitalem  oporteat 


213 

ìntelligere.  Quae  sane  dubita tio  mihi  videtur  tam  vana 
et  inepta,  ut  non  indigeat  longiore  confutatione:  nam 
calor  et  caliditas,  sicuti  albedo  et  nigtedo,  et  alia 
huismodi  nomina,  si  accipianlur  in  abstracto,  sempei* 
qualitatem  significant;  si  vero  accipiantur  in  concic- 
to  ,  possunt  significare  non  soluin  qualitatem  ,  sed 
etiam  corpus  ,  vel  substantiam  illi  qualitati  subie- 
tam  ».  Laonde  vuoisi  riflettere,  che  quand'anche  il 
calorico  fosse  un  moto,  od  una  modificazione,  come 
dimostra  specialmente  il  Melloni,  non  per  questo  mo- 
tivo perderebbe  di  sua  forza  quanto  in  questo  lavoro 
si  attribuisce  al  calorico;  imperocché  un  qualunque 
moto,  od  una  qualsiasi  modificazione  non  può  sus- 
sistere se  non  esiste  la  materia,  od  il  corpo,  che  si 
muove  o  si  modifica.  In  conseguenza  anche  secondo 
l'opinione  del  Melloni  non  potendo  stare  il  calorico 
senza  il  corpo  o  sostanza,  da  cui  viene  espresso,  ne 
conseguita,  che  discorrendosi  del  calorico,  quanto  a 
questo  si  attribuisce  si  debba  intendere  riferibile  alla 
sostanza  esprimente  il  calorico  stesso  atta  a  subire 
quelle  modificazioni,  che  superiormente  si  sono  con- 
siderate col  passaggio  del  calorico  dallo  stato  fisico 
a  quello  chimico  organico,  diventando  molecola  for- 
mante parte  dell'organismo  con  caratteri  vitali,  a  dif- 
ferenza di  ciò  che  era  nello  stato  semplicemente  fi- 
sico, in  cui  la  medesima  sostanza  calorifica  dì  sif- 
fatti caratteri  era  priva. 

La  quale  modificazione  subita  dal  calorico,  o  dalla 
sostanza  eterea,  come  vuoisi  pur  chiamare,  espri- 
mente il  calorico, effettuata  col  producimcnto  del  sud- 
detto passaggio,  sebbene  impugnata  da  alcuni  fisici, 
viene  però  sostenuta  dal  Puccinotti  con  estesissimo 


214 
numero  delle  più  valide  ragioni  desunte  da  moltis- 
simi fatti  sì  fisiologici  e  sì  patologici,  come  amplis- 
simamente può  vedersi  nelle  sue  lezioni  sul  sistema 
nervoso  pubblicate  in  Firenze  ,  ed  in  specie  nella 
quarta  lezione. 

Con  siffatta  modificazione  subita  dalla  suddetta 
eterea  sostanza,  riflette  il  Puccinotti,  si  apre  un  vasto 
campo  all'umana  intelligenza  onde  trovar  ragione  di 
un'  immensità  di  fenomeni,  che  si  svolgono  nell'es- 
sere vivente  considerato  in  relazione  cogli  oggetti  a 
lui  d'  intorno.  Più  ammirabile  poi  si  rende  la  slessa 
modificazione  quando  esaminata  ne'  rapporti  cogli 
organi  centrali  della  vita,  si  estende  non  solo  nelle 
relazioni  della  stessa  eterea  sostanza  manifeslantisi 
col  calorico,  ma  ancora  con  quelle  riferibili  all'elet- 
tricità ed  alla  luce.  Allora,  su  di  tal  proposito  così 
si  esprime  lo  stesso  Puccinotti  «  come  luce  della  vita 
riguarderemmo  anche  noi  un  etere  nel  piccini  mondo 
dell'  umano  organismo  ,  e  diremmo  pertanto  ,  che 
cotesto  etere  esterno  modificatosi  per  varie  guise 
nella  materia  bruta,  va  poi  a  ricevere  un'altra  mo- 
dificazione entio  i  corpi  della  natura  vivente,  e  si 
converte  in  essi  in  quel  fluido  ,  che  chiameremmo 
volentieri  etere  nerveo.  Quindi  le  principali  affinità 
etiologiche  del  sistema  senziente  colle  cause  esterne 
tanto  di  vita  che  di  malattia  saranno  con  tutti  quei 
principi!  imponderabili,  ne'  quali  si  svolge  l'etere  fi- 
sico del  mondo  esteriore  ». 

Ciò  premesso  ,  vuoisi  così  ragionare  sullo  svi- 
luppo della  febbre  per  eccesso  di  calorico-  Quando  ha 
luogo  nell'organismo  l'evenienza  di  cause  morbose 
ealorifìchp,  di  qualunque  qualità  elleno    sieno,  pri- 


215 
ma  d'ogni  altra  cosa  la  natura,  mercè  la  forza  con- 
traltiva,  o  resistenza  organica,  mette  in  opera  ogni 
suo  potere  onde  V  organismo  non  resti  sopraffatto 
da  tali  cagioni.  Imperocché  esse  invadono  il  nostro 
essere,  e  tendono  a  sopraccaricare  il  medesimo  di 
calorico  :  questo  in  prima  come  mei-amente  fisico 
agisce  colle  sue  fisiche  qualità  producendo  movimenti 
espansivi,  ed  accelerando  i  medesimi,  de'quali  però 
la  forza  conservativa  con  opposta  tendenza  per  legge 
di  equilibrio,  o  come  dicesi,  per  reazione  organica, 
frena  l'eccesso,  a  cui  que'  primi  movimenti  giunge- 
rebbero senza  la  stessa  reazione.  Al  quale  intento 
la  forza  conservativa  viemaggiormente  perviene  mer- 
cè la  cutanea  evaporazione,  o  esalazione,  o  traspi- 
razione sensibile  ed  insensibile,  dileguando  così  l'ec- 
cessivilà  del  calorico,  che  tende  a  penetrare  nell'or- 
ganismo, ed  investirlo. 

Ma  se  la  natura  in  molti  casi  riesce  a  conse- 
guire quest'intento;  però  o  per  la  fralezza  degl'in- 
dividui, o  per  il  loro  innormale  costituto,  o  per  la 
prepotenza  della  causa  morbosa,  o  per  altre  parti- 
colari circostanze,  la  stessa  natura  non  sempre  in- 
teramente supera  l'azione  dell' eccissività  del  calo- 
rico sull'organismo,  per  cui  questo  in  tal  caso  sog- 
giace a  diverse  alterezioni.  Le  quali  si  presentano 
sotto  due  diversi  aspetti,  di  cui  uno  è  relativo  alla 
condizione  morbosa  fisica-organica  insorta  mercè 
la  causa  in  discorso  ne'  suoi  rapporti  fisici  coll'or- 
ganismo:  l'altro  aspetto  è  consentaneo  alla  condi- 
zione morbosa  chimico-organica,  o  vitale,  prodotta 
dalla  stessa  causa  ne'  suoi  rapporti  chimico-vitali 
coll'organisino  medesimo.  Di  siffatte  due  condizioni 


216 

morbose  entro  h  sfera  delle  loro  relazioni  o  sem- 
plicemente fìsiche,  0  chimico-vitali,  organiche  colle 
rispettive  cagioni,  discorieva  egregiamente  il  chia- 
rissimo Folchi  in  un  suo  lavoro  inserito  nel  Gior- 
nale Arcadico  di  Roma  nel  primo  trimestre  del  1824. 

Relativamente  a  queste  due  maniere,  con  cui  dal 
calorico  è  leso  l'oiganismo,  è  pui-  da  notarsi,  che 
l'alterazion  fisica  non  costituisce  processo,  ma  sol- 
tanto si  limita  air  espansione,  all'accelerazione  dei 
movimenti  organici,  ad  effettuare  insomma  la  sua 
manifestazione  in  corrispondenza  alla  sua  causa 
esterna,  ed  a  risentire  gli  effetti  de'  me/.zi  refrige- 
ranti a  tenore  delle  leggi  dell'equilibrio.  L'  altera- 
zione poi  chimico-organica  costituisce  processo,  per- 
corre tutte  le  fasi  dell'  economia  animale  indipen- 
dentemente dalla  sua  causa  esterna  ,  min  cede  ai 
mezzi  refrigeranti  in  forza  delle  leggi  d'equilibrio, 
nia  piegando  bene  finisce  soltanto  colle  maniere  di 
risoluzione  tenute  dalla  stessa  animale  economia  coa- 
diuvata d'analoghi  mezzi  suggeriti  dalla  medicina  : 
piegando  poi  male  degenera  in  altri  sconcerti  del- 
l'organismo. 

Ora  è  cosa  indubitata,  che  la  febbre  in  esame 
non  sia  un'  alterazione  semplicemente  fisica,  perchè 
i  suoi  caratteri  non  sono  uniformi  a'  sopraddetti 
propri  della  sunnominata  fisica  aliarazione  suscitata 
neH'  organismo  dall'  eccessività  di  calorico.  Bensì  i 
caratteri  febbrili  s'accordano  con  quelli  dell'altera- 
zione chimico-organica  ,  come  appunto  sono  stati 
superioimente  espressi;  e  perciò  la  febbre  è  un'  al- 
terazione di  questa  natura,  vale  a  dire  chimico-or- 


217 

ganica.  In  conseguenza  volendosi  precisare  la  ma- 
niera di  sviluppo  della  febbre  prodotta  dall'  ecces- 
sività di  calorico,  cioè  ristabilire  la  sua  patogenia, 
fa  di  mestieri  valutare  come  siffatta  eccessività,  una 
volta  che  abbia  compenetrato  l'organismo  coli'  in- 
durre la  suddetta  chimica  organica  alterazione,  su- 
bisce le  fasi  dell'economia  animale  percorrendo  le 
sue  essenziali  funzioni,  vale  a  dire  la  disassimilazione 
o  la  sensazione.  Entro  la  sfera  delle  quali  s'aggira 
il  processo  febbrifaciente  ,  perchè  la  slessa  econo- 
mia animale  in  tutte  le  sue  vicende  s'esercita  mercè 
queste  tre  somme  funzioni,  colle  quali  si  produce 
l'intera  evoluzione  organica  sì  nello  stato  fisiologico 
e  sì  nel  patologico.  Il  perchè  per  lo  sviluppo  di  que- 
sta medesima  patogenia  non  sembra  necessario  il 
ricorrere  alle  fermentazioni,  o  ad  altro  proprio  della 
chimica  bruta:  mentre  per  lo  scopo  organico  la  na- 
tura non  si  sei  ve  di  altro,  che  delle  tre  anzidette 
somme  funzioni,  come  già  provai  nella  mia  Memo- 
ria sulla  conservatività  e  caducità  della  vita  pub- 
blicata in  Fano  nel   1858. 

Pertanto  quando  l'eccessività  di  calorico  ha  vinto 
l'organica  resistenza,  e  mercè  il  poter  modificante 
della  vita,  come  lo  chiama  il  Puccinolti,  esercitato 
dal  sistema  nervoso,  passa  dallo  stalo  meramente 
fisico  a  quello  vitale,  e  diventa  parte  organica,  che 
si  combina  colle  altre  parti  di  lai  natura  negli  ap- 
parati destinati  all'  assimilazione  ,  ed  in  ispecialità 
nel  sangue  arterioso,  in  cui  essenzialmente  e  so- 
stanzialmente avviene  codesta  permutazione,  comin- 
cia allora  il  processo  febbrifaciente-  Il  quale  in  con- 
seguenza nel    suo  primo  stadio  di  crudezza   non  è 


218 

altro,  che  T  assimilazione  in  istato  innorinale,  mor- 
b/)so,  o  (li  peituibamenlo  della  mistione  organica, 
resa  tale  dal  principio  termico  in  grado  eccessivo 
superiore  a'  bisogni  organici,  e  che  non  può  avere 
il  suo  primo  sviluppo  se  non  negli  apparati  assimi- 
latori,  e  singolarmente  nel  sangue  ed  apparato  ar- 
terioso. E  così  il  primo  sviluppo  del  processo  feb- 
brifaciente,  vale  a  dire  Tinnormale  assimilazione  del 
principio  termico  avente  sede  nel  sangue  e  nelle 
arterie,  che  come  diffuse  per  tutto  l'organismo,  così 
egli  invade  ogni  parte  del  medesimo  ,  in  cui  pro- 
rompe l'estuazione  qual  primo  fenomeno  dell'ecce- 
dente elemento  calorifero.  Contemporaneamente  vi 
prorompe  come  effetto  della  stessa  causa  la  conci- 
tazione del  polso,  producendo  l'aumento  del  calorico 
l'accresciuto  moto  arterioso.  Quindi  dal  fomite  s'in- 
genera il  disordine  funzionale  sì  dell'intero  sistema 
sanguigno  e  sì  del  nervoso.  Mediante  il  perturba- 
mento del  primo  resta  impedito  il  regolare  eserci- 
zio delle  secrezioni,  per  cui  queste  si  fanno  sc;»rse 
ed  alterate,  e  si  rende  il  tutto  arido  e  ardente  : 
mercè  il  perturbamento  del  secondo,  ossia  del  si- 
sistema  neivoso,  si  disordinano  i  regolati  rapporti 
li  a  il  sangue  ed  i  nervi;  per  il  che  si  alterano  la 
sensibilità  e  la  motilità,  d'onde  derivano  il  senso  di 
mal'essere  e  la  prostrazione  delle  forze,  non  che  le 
vicende  di  temperatura,  che  si  rimarcano  nel  corso 
febbrile.  Tra  le  quali  vicende  evvi  talvolta  come  pro- 
dotto della  slessa  alterata  innervazione  il  sommo 
algore  risultante  dall'impedita  manifestazione  del  ca- 
lorico cagionala  dall'influenza  nervosa.  Il  qual  calo- 
rico perciò  se  in  questo  caso  non   resta  esternato  , 


219 

non  è  però  che  latente  non  sussista  colla  medesima 
eccedenza,  e  non  agisca  morbosamente  colla  stessa 
energia.  Tutto  questo  sviluppo  morboso  procede  dal- 
Talterata  assimilazione  riverberala  sul  sistema  ner- 
voso motivata  dall'eccessivo  elemento  termico,  che 
è  quanto  dire  dalla  prima  molla  del  processo  feb- 
brifaciente. 

Ma  il  lavoro  assimilativo  una  volta  incominciato 
non  può  arrestarsi:  esso  progredisce  sempre  in  in- 
tensità, gradatamente  accostandosi  al  tessuto  fino  alla 
formazione  del  medesimo:  di  maniera  che  dalla  prima 
molecola  organica  fino  al  tessuto  non  si  effettua  altro 
che  una  graduaxione  di  assi(niIazione  sempre  cre- 
scente in  inlcnsità.  Ed  ò  per  questo  motivo,  che 
la  febbre  nel  suo  primo  periodo  confusa  col  pro- 
cesso assimilativo  morboso  deve  necessariamente  fare 
il  suo  corso,  e  deve  andar  crescendo  di  veemenza 
percorrendo  il  medesimo  fino  al  suo  acme,  vale  a 
dire  fino  a  quel  punto,  in  cui  il  processo  febbrifa- 
ciente,  ossia  la  moibosa  assimilazione,  o  trova  nel- 
l'animale economia  il  modo  efficace  onde  liberarsi 
dall'entità  morbifica,  come  in  seguito  vedrassi;  op- 
pure codesto  modo  rimasto  inefficace  per  la  prepo- 
tenza del  male,  lo  stesso  processo  febbrifaciente  gua- 
dagna quella  parte  di  tessuto  organico,  che  trovasi 
più  delle  altre  a  ciò  [)i'edisposta  ,  e  vi  imprime  il 
suo  morboso  influsso  con  una  nìulazione  chimico- 
organica  costituita  essenzialmente  dall'eccessività  del- 
l'elemento termico,  e  dal  sangue  ivi  in  gran  copia 
affluito  per  l'azione  del  medesimo  principio  termico 
eccedente. 

Con  siffatti  elementi  il  chiarissimo  Medici  di- 
mostra accadere  lo  sviluppo  del  processo  flogistico 


220 

esprimendosi  nel  seguente  modo:  «  Sia  una  flogosi 
nata  dall'azione  soverchia  del  calorico.  Fintantoché 
e  in  questo  e  nel  sangue,  che  nella  parte  infiam- 
mata si  arresta  ,  io  non  considero  che  un'  azione 
stimolante:  potrò  ben  intendere  in  essa  parte  l'au- 
mento de'  moti  vitali,  i  fenomeni  del  tuigor  vasco- 
lare, e  dell'angioidesi:  ma  non  potrò  alla  stessa  azione 
iribuire  un  effetto  diversissimo  da'  prodotti,  qual  si 
è  la  formazione  del  processo  flogistico,  il  quale  con- 
siste in  una  mutazione  organica  e  materiale  del 
tessuto  che  s' infiamma.  E  pure  quando  nel  calorico 
oltre  l'azione  stimolante  io  ammetta  la  proprietà  di 
cangiare  lo  stato  chimico  e  meccanico  della  materia, 
quando  nel  sangue  oltre  l'azione  stimolante  ravvisi 
la  facoltà  d' incorporarsi  colle  fibre,  e  di  modificare 
l'organizzazione,  se  non  ho  un'  idea  chiara  del  pro- 
cesso flogistico  (e  in  qualsivoglia  dottrina  è  forse  im- 
possibile d'averla)  posso  almeno  trovar  la  corrispon- 
denza fra  gli  effetti  e  le  cagioni,  e  riconoscere  nel- 
l'accresciuto  dinamismo,  o  eccitamento,  o  moto  vi- 
tale della  parte  infiammata  ,  una  conseguenza  del- 
l'aumentala azione  stimolante  del  calorico  e  del  san- 
gue, e  nella  materiale  mutazione  dell'organismo  ve- 
dere un  effetto  d'un  altro  e  particolar  modo  di  agire 
del  calorico  e  del  sangue.  La  quale  ultima  azione 
io  chiamo  riproducente,  riferendola  allo  stato  natu- 
rale e  ordinario  del  corpo:  parendomi,  che  esprima, 
dirò  così,  e  la  continua  peimutazlone,  o  nuova  for- 
mazione della  materia  organica  ».  (Vedasi  Medici, 
Fisiologia,  articolo  Potenze  riproducenti). 

Pertanto  dalle  quali  cose  risulta,  che  il  processo 
febbrifaciente  effettua  il  suo  corso  nel  suo  stadio  di 


22t 

crudezza,  cioè  dal  primo  punto  della  di  lui  produ- 
zione sino  al  suo  acme,  come  si  con^porta  l'assi- 
milazione morbosa  dalla  formazione  della  prima  mo* 
lecola  organica  sino  alla  costituzione  del  tessuto. 
Laonde  siccome  in  siffatto  procedimento  della  mor- 
bosa organica  assimilazione  non  altro  si  ravvisa,  che 
una  progressiva  alterazione  sempre  crescente  in  in- 
tensità, e  sempre  a  discapito  dell'organismo,  in  modo 
da  esser  questo  gradatamente  danneggiato  dal  pili 
piccol  giado  fino  al  massimo,  a  tenore  del  necessario 
progredimento  dello  stesso  processo  morboso  assi- 
milativo; così  la  febbre  consistente  in  siffatto  pro- 
cesso nel  suo  stadio  di  ciudezza,  ossia  nel  periodo 
di  morbosa  assimilazione,  non  può  esprimeie  altro 
che  un  danno  sempre  crescente  dell'organismo,  un 
progressivo  allontanamento  dalla  salute.  In  conse- 
guenza durante  il  corso  di  questo  primo  stadio  della 
febbre  si  manifesta  palesemente  una  tendenza  od 
efficienza  distruggitiva,  come  risultato  dalla  intrin- 
seca natura  del  processo  febbrifaciente  fin  qui  con- 
siderato, in  cui  consiste  essenzialmente  la  febbre, 
come  si  vedrà  in  appresso. 

Contro  il  qual  processo  nello  stadio  in  esame 
l'arte  medica  spiega  tutta  la  sua  possa  diretta  dal 
principio  «  Contraria  contrariis   ». 

Ma  il  processo  febbrile  come  lesione  chimico- 
organica  prodotta  nel  caso  in  discorso  dal  calorico, 
che  nella  sua  eccessività  è  potenza  nemica  al  tìsico 
vivente,  deve  subire  le  fasi  dell'evoluzione  dell'or- 
ganismo nelle  vicissitudini  dell'  economia  animale  ; 
e  però  come  ha  interessato  l'assimilazione,  impegna 
pure  la  disassimilazione,  e  la  sensazione,   il  perchè 


222 

l'una  e  l'altra  devonsi  valutare  onde  considerar  la 
febbre  nelTintero  suo  procedinjento:  ed  oia  l'oidine 
esige  ,  che  si  tenga  discorso  della  disassimilazione 
impegnala  nello  stesso  processo. 

Ed  intanto  affinchè  sì  mantenga  l'equilibrio  vi- 
tale rivolto  allo  scopo  di  dirigere  l'evoluzione  or- 
ganica sempie  in  coirispondenza  al  suo  tipo  forma- 
tivo, quando  l'assimilazione  prodotta  da  potenza  ne- 
mica all'organismo  tende  ad  offendere  il  medesimo, 
la  disassimilazione  provocala  dalla  forza  conservati- 
va, ed  attuata  dall'azione  della  stessa  nemica  potenza 
negli  apparati  disassimilatori,  non  tarda  a  spiegare 
la  sua  energia  onde  distruggere  quanto  di  morboso 
si  era  composto  mediante  l'assitnilazicne,  ed  elimi- 
nare dal  corpo  vitale  in  un  colla  causa  i  materiali 
morbosi  mercè  l'una  o  l'ai  Ira  delle  differenti  secre- 
zioni, quando  la  sua  efficacia  è  superiore  a  quella 
dell'opposto  potere  distruggitore:  quando  poi  è  in- 
feriore, avviene  altra  serie  di  disordini,  come  flogosi 
ed  altro  e  la  stessa  morte.  In  questo  modo  succede 
e  si  complica  talora  alla  febbre  l'infiammazione. 

Tutto  ciò  può  aver  luogo  nel  caso  della  febbre, 
che  qui  si  contempla.  E  difalli  quando  l'efficacia 
della  disassimilazione  va  a  vincere  nell'  organismo 
il  composto  morboso  prodotto  dall'assimilazione,  il 
suo  predominio  si  manifesta  con  una  successione  di 
fenomeni,  che  costituiscono  il  secondo  stadio  della 
febbre,  ossia  il  secondo  tempo  dell'intei'o  suo  corso 
detto  di  cozione,  con  un  andamento  tutt'opposto  a 
quel  del  piimo  stadio  chiamato  di  crudezza.  Impe- 
rocché quivi  non  si  ha  piiì  il  sempre  crescente  al- 
lontanamanto  dalla  salute;  ma  invece  a  tenore  che 


223 
le  funzioni  disassimilative  vanno  guadagnando  sopra 
gli  effetti  del  potere  assimilativo,  si  ha  una  graduata 
approssimazione  a  sanità,  che  all'esterno  si  manifesta 
con  tutti  que' segni,  che  si  son  visti  sviluppali  nel 
secondo  stadio  della  febbre,  ossia  nel  suo  stadio  di 
cozione,  coll'esposizione  di  tutto  ciò  che  costituisce 
il  suo  fatto  morboso. 

F.o  che  dovendosi  considerare  nel  processo  feb- 
brifaciente  cagionalo  dall'  eccessività  dell'  elemento 
tei-mico,  notasi,  che  questa  mentre  dal  potere  assi- 
milativo è  condotto  ad  alterare  la  compage  organica 
in  prima  del  sangue,  e  quindi  anche  talvolla  de'  tes- 
suti colle  forme  superiormente  descritte  ,  soggiace 
pure  alla  forza  disassimilativa,  che  tende  ad  elimi- 
narlo dal  corpo  per  essere  nel  grado  in  esame  po- 
tenza nemica  all'organistno.  Ed  alloi'chè  risulta  ef- 
ficace l'attività  del  potere  disassimilativo  al  di  sopra 
dell'assimilativo,  incomincia  il  secondo  stadio  della 
febbre.  Durante  il  quale  l'eccedente  calorico  riman 
sottoposto  in  questo  caso  come  elemento  organico 
all'elaborazione  degli  apparati  disassimilativi,  percor- 
rendo i  medesimi  in  tutto  il  tempo  necessario  a 
codesl'elaborazione,  il  quale  corrisponde  a  quello  , 
che  costituisce  il  secondo  stadio  della  febbre  detto 
di  cozione.  Nel  fine  del  quale,  secondo  le  riflessioni 
sopra  esposte  del  Bichat,  pervenuto  l'elemento  ter- 
mico alle  capillarità  vascolari  svolgesi  da  queste,  e 
resta  eliminato  dal  corpo  a  guisa  di  esalazione  at- 
tivata dall'operosità  secernenle  del  potere  disassimi- 
lativo come  special  sua  crisi. 

Questo  è  il  caso  dell'ordinario  corso  febbrile  re- 
lativo al  suo  secondo  stadio,  cioè  alla  sua  cozione, 


22i 

quando  il  processo  febbrifaciente  piega  a  felice  li- 
siiltamento,  che  trovasi  avere  una  durata  presso  a 
poco  uguale  a  quella  del  primo  stadio  percorribile 
nel  loro  insieme  per  settenari.  Di  maniera  che  di 
siffatti  settenari  il  quarto  giorno,  l'undecimo,  e  via 
discorrendo  con  questa  proporzione  ,  che  i  medici 
sin  da'  remoti  tempi  chiamavan  giorni  indicatori  , 
questi  non  sono  altro  ne'casi  fausti  che  il  passaggio 
dal  primo  al  secondo  stadio,  vale  a  dire  la  succes- 
sione della  disassimilazione  all'assimilazione. 

Nel  corso  di  questo  secondo  stadio  della  febbre 
mediante  il  lavoro  disassimilativo  compreso  dentro 
certi  limiti  si  mostra  una  tendenza  od  efficienza  tut- 
t'opposta  a  quella,  che  si  era  manifestata  nel  primo 
stadio;  imperocché  se  durante  il  potere  assimilativo 
effettuato  nello  stesso  primo  stadio  febbrile  si  palesa 
una  tendenza  od  efficienza  distruggitiva  ;  viceversa 
nel  secondo  stadio,  vale  a  "dire  durante  la  disassi- 
milazione circoscritta  entro  le  organiche  barriere  se- 
condo il  tipo  formativo,  si  manifesta  una  tendenza 
od  efficienza  in  realtà  conservativa. 

In  questo  stadio  febbrile,  che  qui  si  considera 
successivo  al  primo,  è  dove  Tarte  medica  esercita 
il  suo  potere  diretta  dal  principio:  «  Eo  ducere  opor- 
tet  quo  natura  verglt  ». 

L'esito  fausto  però  dell'avvicendamento  delli  due 
descritti  stadi  febbrili  può  essere  eccezionato  da 
quella  circostanza,  che  accade  talora,  per  la  quale 
la  disassimilazione  eccede  nella  sua  attività  o  per 
la  quantità  somma  dell'elemento  eterogeneo  da  eli- 
minarsi, 0  per  una  naturale  tendenza  indotta  da  spe- 
ciali condizioni    dell'organismo,  dall'età,  dal  clima, 


225 

dalla  stagione,  e  da  altro  a  ciò  consimile.  In  que- 
sto caso  avviene  o  l'initazione  degli  organi  secer- 
nenti  ,  e  quindi  la  loro  infiammazione  ;  oppure  la 
trasmodata  disassimilazione  elimina  dal  corpo  oltre 
agli  elementi  eterogenei  ancora  gli  omogenei  con 
•danno  dell'organismo.  Lo  che  dà  alla  febbre  alcune 
speciali  forme  basate  sulle  medesime  efficienze  del- 
l'economia animale. 

Ma  se  nella  maggior  parte  de'  casi  si  ha  il  pro- 
cedimento della  febbre  anche  di  quella  qui  in  esame 
distinta  ne'  due  diversi  stadi,  come  è  stato  descritto, 
avviene  però  talvolta,  che  o  per  la  prepotenza  della 
sua  cagione,  o  per  la  fralezza  del  paziente,  o  per 
altra  consimile  circostanza,  non  si  effettua  la  suc- 
cessione del  suddetto  predominio  della  disassimila- 
zione sull'assimilazione;  ed  in  questo  caso  per  quan- 
to, il  potere  disassimilativo  si  adopri  onde  prevalere 
sull'assimilativo  ,  esso  non  riesce  nel  suo  intento. 
E  però  quivi  non  si  ha  più  l'esatta  distinzione  dell? 
due  stadi  o  tempi  del  periodo  febbrile;  ma  invece 
sì  manifesta  il  corso  della  febbre  sempre  crescente 
in  morbosa  intensità;  o  tutt'al  piiì  presenta  di  quando 
in  quando  qualche  remissione  corrispondente  allo 
sforzo,  che  fa  il  potere  disassimilativo  per  superare 
l'assimilazione,  la  quale  in  questo  caso  sempre  pre- 
domina fino  al  fine  ,  che  è  la  degenerazione  della 
febbre  in  altra  malattia,  o  nella  morte. 

In  ogni  modo  però  anche  quando  il  corso  feb- 
brile non  è  marcatamente  distinto  ne'  suoi  due  stadi, 
i  quali  d'altronde,  come  sopra  si  è  detto,  si  realiz- 
zano per  ordinario  nella  maggior  parte  de'  casi  in 
corrispondenza  all'assimilazione  ed  alla  disassimila- 
G.A.T.CLXV.  15 


226 

zione  sempre  agenti  in  qualunque  sviluppo  organico 
sano  o  morboso,  e  sia  pure  in  tal  caso  di  mancante 
distinzione  delli  suddetti  due  stadi  il  funzionamento 
assimilativo  prevalente  sul  disassimilativo  ,  egli  ò 
sempre  vero,  che  la  speciale  tendenza  od  etficienza 
manifestata  nell'esercizio  di  questi  due  funzionamenti 
giammai  può  mancare  in  qualunque  febbre  e  caso 
febbrile.  Sarà  pur  talvolta  predominante  la  tendenza 
od  efficienza  dell'assimilazione  su  quella  della  disas- 
similazione: lo  che  sarà  causa  di  grave  disordine: 
ma  non  per  questo  motivo  possono  rimaner  sop- 
presse le  efficienze  nello  sviluppo  della  febbre  rela- 
tivamente alle  suddette  funzioni  dell'organismo. 

Cosi  pure  nel  caso  che  la  disassimilazione  pre- 
ponderi in  modo  da  fare  eliminare  dal  corpo  non 
solo  i  materiali  eterogenei,  ma  ancora  gli  omogenei, 
il  funzionamento  disassimilativo  conserva  sempre, la 
sua  tendenza  od  efficienza  finché  non  degenera  in 
processo  dissolutivo,  come  succede  appunto,  quando 
pel  medesimo  funzionacnento  avviene  l'eliminazione 
ancora  de'  materiali  omogenei.  Lo  che  impedisce  la 
regolare  manifestazione  del  secondo  stadio  febbrile. 
In  questo  caso  le  efficienze  in  discorso  prendono 
un  ordine  inverso.  Però  è  sempre  vero,  che  nel  de- 
corso della  febbre  la  natura  si  mostra  sempre  nel- 
l'economia animale  in  qualunque  suo  stato  o  con- 
dizione colle  speciali  efficienze  sopra  considerate. 
Le  quali  non  saranno  sempre  di  ugual  proporzione; 
né  sempre  l'una  o  l'altra  preponderante  in  grado  a 
tenore  de'  bisogni  dell'  organismo  corrispondente- 
mente alla  conservazione  del  tipo  evolutivo;  ed  anzi 
in  alcuni  casi  codesta  preponderanza  sarà  soverchia- 


227 

niente  eccessiva,  e  tale  da  cagionare  l'oiganico  di- 
sfacimento; pur  con  tutto  ciò  le  stesse  tendenze  od 
efficienze  in  discorso  mai  cessano  ,  e  non  possono 
aver  fine  che  col  terminar  della  vita,  essendo  una 
proprietà  essenziale  della  vita  stessa. 

Laonde  dalle  cose  fin  qui  discorse  sulla  febbre 
prodotta  dall'  eccessività  di  calorico  rilevasi  esser 
manifesto  ,  che  questa  febbre  per  esser  costituita 
dall'elemento  prototipo  febbrile,  qual'  è  il  calorico, 
può  dirsi  il  tipo  della  febbre,  nel  corso  della  quale 
si  manifestano  due  essenziali  tendenze  od  efficienze, 
l'una  distruggitiva  appalesata  nel  primo  stadio  feb- 
brile, ossia  nel  periodo  di  crudezza,  l'altra  conser- 
vativa realizzata  nel  secondo  stadio  di  essa  febbre, 
cioè  nel  periodo  di  cozione.  Oltre  di  che  dalle 
stesse  cose  fin  qui  dette  risulta,  che  queste  mede- 
sime tendenze  od  efficienze  si  manifestano  anche 
quando  il  corso  di  questa  febbre  non  è  regolarmente 
espresso,  e  distinto  ne'  suoi  due  diversi  stadi.  Il  per- 
chè la  manifestazione  di  siffatte  due  efficienze  tro- 
vasi corrispondere  in  via  di  ragione  a  quanto  pre- 
senta il  fatto  morboso  costituente  la  febbre  ne'  suoi 
due  tempi  ,  il  primo  marcato  coli'  allontanamento 
dalla  salute,  il  secondo  coll'avvicinamento  alla  me- 
desima. 

Per  completar  poi  la  patogenia  della  febbre  pro- 
dotta dall'eccessività  di  calorico  è  pur  mestieri  va- 
lutare il  modo,  con  cui  nel  processo  febbrifaciente 
in  discorso  reeta  impegnato  il  sistema  de'  nervi,  os- 
sia la  sensazione,  onde  rilevare  se  sotto  quest'  im- 
pegno ancora  si  manifestino  le  due  opposte  tendenze 
od  efficienze,  che  si  palesano  ne'  due  diversi  tempi 


228 
o  stadi  costituenti  1'  intero  corso  della  febbre.  In- 
torno al  quale  oggetto  è  rimarcabile  la  duplice  ma- 
niera, colla  quale  il  sisteiria  de'  nervi  può  rimanere 
alterato  nello  sviluppo  del  processo  febbrifaciente  , 
cbe  consiste,  1.°  in  una  lesione  dinamica,  detta  or- 
dinariamente simpatica  ,  che  ha  luogo  ne'  casi  di 
febbre  di  lieve  intensità:  2.°  in  una  lesione  chimico- 
organica,  nominata  per  ordinario  idiopatica,  che  av- 
viene quando  la  febbre  assume  uno  stato  di  special 
«ravezza. 

L'alterazione  dinamica  prodotta  nella  febbre  in 
esame  dall'  influenza  del  sangue  sopraccarico  dal- 
l' eccessivo  elemento  termico  esercitato  sull'  etere 
nerveo,  consiste  nel  disequilibrio  di  questo  medesimo 
principio  etereo  nelle  sue  correnti,  per  cui  avven- 
gono i  disesti  sensorio- motori  notali  nel!'  intero  corso 
febbrile.  Il  quale  etereo  sbilancio  si  effettua  col  pre- 
dominio de'  movimenti  contrattivi  sugli  espansivi  , 
o  di  questi  su  di  quelli,  ma  in  modo  che  mentre 
gli  uni  tendono  a  danneggiar  l'organismo,  gli  altri 
fanno  ogni  sforzo  per  opporsi  a  questo  danno.  In 
siffatto  contrasto,  secondo  le  riflessioni  di  Kant,  si 
manifesta  la  vita,  per  cui  fino  a  che  questa  si  man- 
tiene, esso  contrasto  pur  si  regge.  E  siccome  egli 
si  risolve  nelle  due  tendenze  od  efficienze  sopra 
dimostrate;  così  nell'alterazione  dinamica  avvenuta 
nel  sistema  nervoso  per  influenza  del  sangue  sovrac- 
carico dell'  elemento  termico  nel  caso  della  febbre 
in  esame  si  realizza  tanto  la  tendenza  distruggitiva, 
quanto  la  tendenza  conservativa  ,  e  si  confondono 
colle  stesse  efficienze  notale  ne'  due  stadi  della  me- 
desima febbre,  esprimendosi  in  modo  uniforme  alla 


229 

tendenza  sviluppata  in  ciascuno  di  questi  stadi,  come 
ciò  è  stato  supei'iornjente  dimostrato. 

L'alterazione  poi  chimico-organica  del  sistema 
nervoso  ,  che  si  produce  nella  febbre  qui  contem- 
plata quando  questa  assume  uno  stato  di  forte  in- 
tensità, si  risolve  nel  lavoro  assimilativo  e  disassi- 
milativo particolarizzato  dall'eccessività  dell'elemento 
termico.  In  forza  del  quale  la  compage  nervosa  sog- 
giace a  quelle  fasi,  che  sopra  si  sono  notate  avve- 
nire allorché  l'assimilazione  dopo  d'aver  percorso  gli 
apparati  assimilativi  ,  se  ivi  non  trova  maniera  di 
risolversi,  passa  ad  interessare  il  tessuto  organico, 
che  in  questo  caso  è  il  nervoso  ,  e  vi  produce  un 
morboso  lavoro  per  l'eccedenza  dell'  elemento  ter- 
mico nel  modo  che  superiormente  è  stato  consi- 
derato. Kd  allora  in  questo  caso  un  tale  impegno 
avviene  nel  sistema  de'  nervi,  quando  la  forte  inten- 
sità della  causa  morbosa,  vale  a  dire  il  considera- 
bile eccesso  di  calorico  ,  e  quando  una  particolare 
suscettività  del  nerveo  tessuto  a  risentire  gli  effetti 
di  codesta  cagione  a  preferenza  di  altre  parti  si  re- 
alizzano neir  individuo  affetto  dal  processo  febbri- 
faciente  qui  esaminato. 

Ma  in  quest'avvenimento  stesso  il  lavoro  assi- 
milativo e  disassimilativo  effettua to  nel  tessuto  ner- 
voso in  relazione  al  processo  morbifero  febbrile,  nel- 
l'atto che  interessa  il  funzionamento  di  questo  tes- 
suto, non  lascia  d'avere  i  suoi  rapporti  di  compo- 
sizione e  di  decomposizione  colla  generale  economia. 
11  perchè  mentre  durante  il  lavoro  assimilativo  for- 
masi l'alterazione  chimico-organica  nel  tessuto  ner- 
veo, si  mostra  una  tendenza  od  efficienza  atta  a  di- 


230 
sestare  od  anco  talvolta  guastare  la  compage  normale 
di  questo  medesimo  tessuto:  lo  che  è  quanto  dire, 
si  mosti-a  in  tal  caso  una  tendenza  od  efficienza  di- 
slruggitiva.  Viceversa  poi  durante  il  lavoro  disassi- 
milativo scomponendosi  il  prodotto  della  morbosa 
assimilazione  secondo  le  norme  del  tipo  organico, 
affinchè  il  tessuto  alterato  ritorni  nella  sua  normale 
condizione,  si  mostra  una  tendenza  od  efficienza  con- 
servatrice. Laonde  anche  neiralterazione  nervea  sotto 
qualunque  stato  essa  venga  indotta,  nella  produzione 
della  febbre  sì  realizzano  sempre  le  due  tendenze  od 
efficienze,  l'una  distruggiti'ice,  l'altra  conservatrice, 
come  si  mostrano  nel  corso  del  processo  febbrifa- 
ciente,  e  con  le  tendenze  od  efficienze  sviluppate  in 
questo  si  confondono  in  maniera  da  soggiacere  in- 
sieme a  tutte  quelle  fasi,  che  sono  state  sopra  con- 
siderate nelle  varie  vicende  dell'assimilazione  e  della 
disassimilazione  a  tenoie  della  moltiplicità  e  varietà 
de*  casi  di  produzione  febbrile  con  diversità  di  risul- 
tamenti.  In  conseguenza  rimangono  senipre  inelut- 
tabili le  due  opposte  tendenze  od  efficienze  mani- 
festatesi nel  corso  dello  stato  febbrile,  qual'  è  quello 
fin  qui  discorso,  distruggitrice  l'una,  conservatrice 
l'altra. 

Da  quanto  fin  qui  si  è  detto  intorno  all'evolu- 
zione febbrile  rilevasi  il  concetto  della  febbre  quivi 
esposto  esser  quello  della  febbre  continua,  e  della 
vera  sinoca.  Dal  quale  concetto  però  si  eccettua  la 
febbre  effimera,  e  quella  così  detta  irritativa,  le  quali 
non  hanno  per  fondamento  come  la  continua  un 
processo  chimico-organico,  quale  è  stato  superior- 
mente   dimostrato  ,  ma  invece  sono    costituite  da 


231 

un'  allerazione  dinamico-organica  essenzialmente 
formata  da  eccessività  di  calorico  ,  da  eccessività 
de'  battiti  arteriosi,  da  eccedente  espansilità  sangui- 
gno-vascolare in  rapporto  immediato  con  quelle  ri- 
spettive cagioni,  dalle  quali  la  stessa  alterazione  di- 
namico-organica è  mantenuta.  Tale  è  la  razionai  dif- 
ferenza, che  passa  tra  la  febbre  continua  e  l'effimera 
e  r  irritativa. 

Siccome  nella  prima  febbre,  così  anche  in  queste 
ultime,  vale  a  dire  nella  febbre  effimera  e  nella  irri- 
tativa, si  manifestano  durante  il  rispettivo  loro  corso 
le  due  opposte  tendenze,  od  efficienze,  come  sono 
state  sopra  considerate,  delle  quali  in  questo  caso 
la  distruggitiva  è  il  prodotto  in  immediato  rapporto 
delle  cause  morbose  collegate  essenzialmente  con 
esse  cause,  che  è  quanto  dire  l'altei'azione  dinamico- 
organica  correlazionata  colle  morbose  cagioni:  l'ef- 
ficienza conservativa  poi  proviene  dalla  resistenza  or- 
ganica nel  modo  sopra  contemplato. 

§.   III. 

La  febbre  prodotta  da  un  miasma  considerata  come 
un  processo  di  estiiazione  sanguigna  in  rapporto  alle 
principali  tendenze  od  efficienze,  che  si  manifestano 
nel  suo  corso. 

Un  altr'  oggetto,  che  pure  ha  destato  lo  studio 
de'  medici  di  tutti  i  tempi  nello  sviluppo  della  feb- 
bre, è  stato  l'avvenimento  di  quest'  infermità  in  se- 
guito all'  introduzione  d'un  miasma  comunque  acca- 
duta nell'organismo.  In  questo  caso  lo  sviluppo  feb- 


232 

brile  ha  dalo  motivo  a  varie  interpretazioni,  secondo 
le  diverse  dottrine  professate  da'  medici  in  diversi 
tempi;  mercè  le  quali- dottrine  si  è  procurato  di  ren- 
der ragione  degli  elementi  della  stessa  febbrile  evo- 
luzione. E  così  ora  si  è  creduto,  che  questa  avven- 
ga ,  perchè  il  miasma  introdotto  nel  sangue  desìi 
in  esso  un  fermento  concollivo  ,  in  cui  si  è  fatto 
consistere  il  processo  febbrifacicnte,  ossia  la  stessa 
febbre  (Vedasi  Franceschi  sulle  febbri).  Ora  si  è  ri- 
tenuto, che  la  causa  morbosa  in  discorso  agisca  sul 
sistema  de'  nervi,  da'  quali  diffusa  1'  impressione  al 
centro  senziente,  e  da  questo  lipeicossa  nel  punto 
centrico  dell'  apparato  irrigatore  sanguigno  ,  sia  al 
caso  in  questo  modo  di  produrre  il  movimento  feb- 
brile a  guisa  di  polen/a  iiritativa  inducente  irrita- 
zione nervoso-vascolare  atta  non  solo  a  produrre  un 
tumulto  locale  o  generale,  ma  ancoi'a  ad  opprimere 
la  vitalità.  V  ha  chi  ha  pensato,  che  l'azione  pato- 
logica de'  miasmi  ,  essendo  1'  irritativa  particolar- 
mente diretta  sull'  apparato  gasti'o-enteio-epatico  , 
possa  ingenerarsi  la  febbre  da  questo  fomite.  E  v'  è 
pur  anco  chi  ha  sostenuto,  che  nel  caso  in  esame 
intanto  si  sviluppa  la  febbre,  in  quanto  che  all'azione 
irritativa  del  miasma  succeda  lo  stato  infiammatorio 
in  quello  stesso  punto  del  sistema  organico,  in  cui 
ha  avuto  luogo  1'  irritazione.  (Vedasi  relativamente 
a'  vari  opinamenti  sull'azione  del  miasma  Salvatore 
De-Renzi  nel  suo  lavoro  sulle  paludi). 

Pertanto  qualunque  sia  il  valore  di  siffatti  opi- 
namenti stimasi  qui  opportuna  un'  ulteriore  rifles- 
sione, onde  rilevare  come  il  miasma  infella  l'oiga- 
nismo  per  giungere  al  producimento  dello  stato  feb- 


233 

brìle,  e  delle  principali  efficienze,  che  si  mostrano 
nel  corso  del  medesimo.  Intorno  a  ciò  anzi  tutto  è 
notabile,  che  l'azione  del  miasma  avviene  nel  nostro 
fisico  in  modo  da  risentire  la  sua  presenza  ed  effi- 
cacia l'assimilazione  organica,  e  gli  stessi  organici 
tessuti.  Imperocché  gì'  individui  affetti  dal  miasma 
mostrano  anche  all'  esterno  un  morboso  sembiante, 
che  indica  essere  invasa  la  propria  organizzazione 
da  un  eterogeneo  principio,  che  ne  altera  la  tessi- 
tura, e  no  perturba  l' intera  compage.  Lo  che  sembra 
non  potere  per  altra  maniera  accadere,  che  per  via 
d'assorbimento.  Mercè  del  quale  in  sulle  prime  la 
materia  eterogenea  costituente  il  miasma  vien  por- 
tata da'  vasi  assorbenti  alle  vene,  e  quivi  se  trova 
pronto  mezzo  onde  essere  eliminata  per  opera  degli 
organi  emuntori,  l'assimilazione  colla  rispettiva  or- 
ganica tessitura  ne  rimane  libera.  Se  poi  una  tal 
prontezza  eliminativa  non  si  effettua  a  motivo  di 
particolari  circostanze  contrarie  alla  normalità  della 
salute  individuale  ,  in  questo  caso  è  compromessa 
dalla  presenza  del  miasma  l'assimilazione  in  princi- 
pio negli  apparati  assimilativi;  e  quindi  se  da  questi 
non  viene  il  principio  miasmatico  sollecitamente  sot- 
tratto mediante  un'opposta  operosità  propria  degli 
apparati  disassimilativi  sempre  intenti  a  togliere  dal- 
l'assimilazione quanto  di  morboso  essa  conticene,  onde 
così  conservar  sempre  intatto  il  tipo  organico,  resta 
impegnato  l'organismo  ne' suoi  speciali   tessuti. 

Ma  sì  neir  uno  e  sì  nell'altro  caso  non  sempre 
avviene  lo  sviluppo  della  febbre,  come  difatti  si  ve- 
dono senza  esser  presi  da  febbrile  invasione  molti 
individui  abitanti   in  una  località  occupata  dal  mi- 


234 

asma  aventi  l'abito  di  corpo  sì  in  islato  ordinario, 
e  sì  in  condizione  morbosa  propria  di  siffatte  loca- 
lità infette.  In  conseguenza  il  miasma  può  essere  as- 
sorbito, ed  anche  assimilato,  e  così  può  alterare  i 
tessuti  organici,  avvenendo  in  tal  caso  quanto  nota 
il  Puccinolti  dimostrando  «  che  vi  son  potenze  mor- 
bose ,  le  quali  quantunque  improprie  ad  una  sana 
ematosi,  pur  sono  assimilabili,  ed  atte  a  subire  tal 
mutamento  da  fare  accadere  una  specie  di  satura- 
zione organica  »  (Vedasi  Puccinottì,  Patologia  in- 
duttiva). 

Con  tutto  ciò  però  in  siffatto  stalo  di  morbosa 
assimilazione  non  sempre  si  sviluppa  la  febbre.  Dun- 
que quando  in  tal  caso  avviene  la  febbre,  oltre  Tas- 
similazione  del  miasma  deve  aver  luogo  la  conco- 
mitanza di  altra  cagione,  che  valga  a  determinare 
il  producimento  febbrile,  e  sia  causa  diretta  del  me- 
desimo. 

Per  intendere  la  causa  in  discorso  i  patologi  sono 
stati  di  vario  opinamento;  imperocché  v'  è  chi  ha 
creduto  essa  non  poter  consistere  in  altro  che  in  una 
fermentazione  suscitata  nel  sangue  dal  miasma  ;  e 
che  quando  essa  avviene,  si  sviluppa  la  febbre,  con- 
fondendosi questa  colla  stessa  fermentazione.  Ma  in- 
torno a  ciò  già  superiormente  si  è  visto  come  una 
tale  opinit)ne  si  opponga  al  vital  funzionamento.  V  è 
pure  chi  ha  ritenuto,  che  la  febbie  successiva  al- 
l' introduzione  del  iniasma  nell'organismo  sia  un  sin- 
toma  dell'  infiammazione  prodotta  dal  miasma  stesso 
in  un  tessuto  organico.  Lo  che  però  si  oppone  al 
fatto  ,  poiché  non  trovasi  sempre  1'  infiammazione 
ne'  casi  di  producimento  della  febbre  in  esame.  V  è 


235 
pure  chi  sul  medesimo  oggetto  ha  emesso  altri  pa- 
reri, che  per  esser  troppo  lontani  dalla  risoluzione 
del  presente  argomento  stimasi  non  esser  necessario 
il  qui  riferirli. 

Quel  che  sembra  più  consentaneo  al  fatto  in 
rappoito  alla  causa  diretta  del  movimento  febbrile, 
nel  caso  d'  introduzione  del  miasma  nell'organismo, 
è  che  da  questo  miasma  medesimo  in  combinazione 
con  i  principi  elementari  del  sangue  si  svolge  un'ec- 
cedente quantità  tale  di  calorico  da  costituire  l'ele- 
mento termico  produttore  immediato  del  processo 
febbrifaciente,  costituendo  esso  stesso  la  febbre  nel 
modo,  che  sopra  è  stato   dimostrato. 

Il  quale  sviluppo  di  eccedente  calorico  sta  in 
rapporto  colle  condizioni  elettriche  sì  del  miasma 
e  sì  del  sangue  sotto  1'  influenza  del  sistema  nervoso, 
come  da  tal  sorgente  eletro -nervosa  spiega  la  pro- 
duzione del  calore  animale  il  Medici  nella  sua  opera 
di  Fisiologia  nel  seguente  modo:  «  Da  molle  osser- 
vazioni si  è  compreso  Teletlricilà  operare  il  riscal- 
damento de'  corpi  nella  stessa  maniera  che  il  calo- 
rico, siavi  o  no  manifestazione  di  luce:  ogni  corpo 
avere  la  sua  elettricità:  1'  elettricità  operando  mo- 
strarsi sotto  il  doppio  aspetto  di  positiva  e  di  ne- 
gativa: questo  stato  elettrico  de'corpi  tanto  piiì  ma- 
nifestarsi, quanto  piiì  i  corpi  hanno  reciproca  affi- 
nità, e  tendono  ad  unirsi:  e  nell'atto  dell'unione,  o 
composizione,  le  due  elettricità  libere  opposte  neu- 
tralizzarsi producendo  il  fenomeno  del  calore.  Il  che 
presupposto,  la  spiegazione  del  calore  animale  più 
consentanea    allo  slato  attuale   delle  nostre   cogni- 


236 
zioni  sarebbe,  che  ne'  fenomeni  chimici  del  respiro 
non  meno  che  in  quelli,  che  accadono  nella  cute, 
nei  tubo  alimentare,  negli  organi  separatori,  e  in 
tutti  i  punti  del  corpo  vivo,  i  principii,  i  quali  di 
continuo  tendono  a  comporsi  e  scomporsi,  abbiano 
la  propria  elettricità  in  uno  stato  libero  ed  opposto, 
vale  a  dire  di  negativa  e  di  positiva:  che  nell'alto 
del  compomento  o  scomponimento  coteste  due  elet- 
tricità sì  neutralizzano:  e  che  questo  neutralizzamen- 
to  porti  di  necessità  la  manifestazione  del  calore. 

Ma  comunque  si  generi  il  calore  animale,  l'azione 
de' nervi  n' è  la  principale  regolatrice  w.  Anzi  que- 
sl'  azione  è  quella,  mercè  cui  il  calorico  anche  di 
siffatta  elettrica  provenienza  acquista  i  caratteri  or- 
ganici o  vitali.  Insomma  è  sempre  il  potere  modi- 
ficante del  sistema  nervoso,  come  lo  chiama  il  Puc- 
cinotti,  quell'agente,  che  vitalizza  il  calorico  di  qua- 
lunque sorgente  egli  sia,  e  ne  determina  i  vari  gradi 
di  temperatura  tanto  nello  stato  fisiologico,  quanto 
nejle  svariate  patologiche  condizioni. 

Pertanto  l'eccedente  sviIu[)po  di  calorico  prove- 
niente da  fomite  elettrico  nel  caso  in  esame  del- 
l' introduzione  del  miasma  nel  nostro  fisico  allora  ha 
luogo  quando  opportune  circostanze  riferibili  tanto 
allo  slato  dell'  individuo  atfetlo,  alla  sua  età,  al  tem- 
peramento, quanto  relative  a  condizioni  esterne,  co- 
me clima,  stagione,  stato  particolare  atmosferico,  e 
ad  altro  consimile  ,  determinano  quelle  condizioni 
elettriche  in  concomitanza  colle  altre  proprie  del 
miasma,  che  sono  capaci  e  necessarie  a  siffatto  pro- 
dotto dell'eccessivo  elemento  termico.  In  conseguen- 


237 

z!i  non  è  il  miasma,  che  direttamente  cagiona  la  feb- 
bre, ma  bensì  è  l'eccessività  del  calorico.  Per  il  che 
quando  questo  eccedente  calorico  non  si  produce  per 
la  mancanza  delle  necessarie  condizioni  elettriche  da 
svolgersi  nella  circostanza  dell'  introduzione  del  mi- 
asma nel  nostro  corpo,  il  miasma  subirà  tutte  le  fasi 
dell'economia  animale,  sottostando  a'  processi  assi- 
milativo e  disassimilativo,  ma  non  per  questo  ca- 
gionerà la  febbre.  Affinchè  essa  in  questo  caso  resti 
prodotta  è  necessario,  che  sia  costituita  dall'ecce- 
dente elemento  termico  svolto  nel  fatto  in  discorso 
dalle  condizioni  elettriche  suscitatesi  tra  lo  stesso 
miasma  e  lo  stato  del  sangue  dell'  infermo  unita- 
mente alle  altre  avventizie  circostanze  sopra  consi- 
derate come  agenti  nella  necessaria  produzione  elet- 
trica. Motivo  per  cui  in  tal  caso  di  affezione  mi- 
asmatica la  febbre  sviluppata  in  essa  s'  identifica 
coir  eccessività  del  calore  animale  ,  come  già  si  è 
visto. 

Si  fa  pili  grave  il  male  in  questo  caso  medesi- 
mo di  sviluppo  di  febbre  nell'  individuo  invaso  dal 
miasma,  perchè  se  la  sostanza  miasmatica  penetrata 
nell'organismo  senza  che  si  congiunga  a  movimento 
febbrile  è  capace  di  costituire  uno  stato  morboso, 
che  necessariamente  per  legge  dell'economia  animale 
deve  subire  le  fasi  assimilative  e  disassimilative  ; 
allorché  poi  a  questo  stato  morboso  si  associa  la 
febbre,  evvi  un'altra  potenza  nemica  all'organismo, 
qual'  è  l'eccessività  dell'elemento  termico,  che  può 
produrre  disastrose  conseguenze,  e  che  ancor  esso 
deve    pur  sottostare    alle  stesse  fasi  dell'  economia 


238 
animale.  In  conseguenza  in  questo  caso  di  sviluppo 
di  febbre  nelP  individuo  affetto  da  miasma  due  sono 
le  cause  morbose,  che  rendono  lo  stato  dell'  infermo 
più  grave  di  male  di  quello  che  lo  renderebbe  cia- 
scuna di  queste  due  cause  agendo  isolatamente.  Né 
questa  maggior  gravezza  di  male  può  esser  garantita 
dagli  atti  disassimilativi  in  maggior  copia  attivati 
in  seguito  al  movimento  febbrile,  perchè  sono  in- 
certi del  loro  utile  ,  e  perchè  non  impediscono  la 
stessa  aumentata  morbosa   gravezza. 

{Coniiima). 


239 


VARIETÀ' 


Dissertazioni  della  pontificia  accademia  romana  di  ar» 
cheologia.  Tomo  XIV.  -  4-.°  Roma  dalla  tipografia 
della  reverenda  camera  apostolica  1860.  (Sono  pa- 
gine CIX  e  378). 

JLIegno  degli  altri  tomi  è  ora  escito  alla  luce  que- 
sto decimoquarto  a  mostrare  sì  l'alta  protezione  che 
la  Santità  di  N.  S.  PIO  IX  concede  alle  dottrine 
dell'antichità  ,  e  sì  i  vari  studi  degli  accademici. 

Precede  la  lettera  dedicatoria  a  Sua  Santità  , 
umiliatale  dal  presidente  dell'accademia  cav.  Salva- 
tore Betti.  Segue  il  catalogo  de'soci  ordinari,  ono- 
rari e  corrispondenti,  così  viventi,  come  defunti.  È 
poi  la  notizia  delle  adunanze  ordinarie  e  straordi- 
narie dall'anno  1844  al  1850  ,  egregio  lavoro  del 
segretario  perpetuo  commendatore  Pietro  Ercole  Vi- 
sconti. 

Le  dissertazioni  ,  ond'  è  ricco  il  forno  ,  sono  le 
seguenti: 

I.  Dell'  uso  ed  utilità  dei  monumenti  cristiani, 
anteriori  all'uso  dell'era  volgare,  per  la  storia  e  cro- 
nologia della  chiesa.  Del  cav.  Carlo  Lodovico  Vi- 
sconti. (Coronata  dall'accademia). 

IL  Sopra  la  iscrizione  antica  dell'auriga  Scirto. 
Del  cav.  Luigi  Grifi. 


240 

III.  Degli  dei  consenti  ,  e  del  loro  portico  nel 
clivo  capitolino.  Del  cav-   Luigi  Grifi. 

IV.  Sulla  patria  del  poeta  comico  Terenzio.  Del 
cav.  Salvatore  Betti.  (Con  appendice). 

V.  Sul  ristabilimento  e  riparazione  della  parte 
media  verso  1'  Esquilino  dell'anfiteatro  Flavio.  Del 
commend.  Luigi  Canina. 

VI.  Sulla  scoperta  della  basilica  Giulia  noi  foro 
romano.  Del  commend.  Luigi  Canina. 

Vii.  Elogio  di  Luigi  Canina  socio  ordinario.  Del 
commend.  Clemente  Folchi. 

Vili.  Dei  correttori  biblici  della  biblioteca  va- 
ticana.  Del  P.  D.  Carlo  Vercellone. 

IX.  Lapida  di  Nora.  Del  P.  Raffaele  Garrucci. 

X.  Dell'  uso  de'  monumenti  epigrafici  per  1'  in- 
terpretazioni delle  leggi  romane.  Del  prof.  avv.  Ilario 
Alibrandi. 

XL  La  filosofia  e  la  vera  medicina,  sorte  300 
anni  avanti  l'era  volgare,  producono  inattesi  e  ma- 
ravigliosi  risultameuli.  Del  cav.  Agostino  Cappello. 

XIL  Cenni  necrologici  di  Giuseppe  de  Mattheis 
socio  ordinario.  Dell'ab.  cav.  Antonio  Coppi. 

XIIL  Intorno  allo  specchio  vulcante  di  Atlante, 
e  in  occasione  di  esso  a  quel  di  Prometeo  liberalo, 
alle  formolo  vii  ed  avir,  e  ad  alcune  iscrizioni  fu- 
nebri etruscbe.  Del  P.  Camillo  Tarquini. 

XIV.  Dell'antichissimo  codice  vaticano  della  bib- 
bia greca.  Del  P.  D,  Carlo  Vercellone.  (Con  appen- 
dice del  cav.  Giambattista  de  Rossi). 

XV.  Se  Giulio  Cesare  ed  Augusto  intesero  mai 
di  portare  la  sede  dell'  impero  ad  Ilio.  Del  cav.  Sal- 
vatore Betti. 


241 


Sopra  una  inedita  medaglia  di  Francesco  Massimo 
dottore  di  legge  e  cavaliere  morto  nel  1498.  Let- 
tera del  principe  D.  Camillo  Massimo  al  principe 
d'  Arsoli  D.  Carlo  Massimo  suo  figlio,  in  occasione 
delle  sue  nozze  con  D.  Francesca  Lucchesi  Palli 
de'  principi  di  Campofranco.  8.°  Roma  tipografìa 
Sa/vmcd  1860.  (Sono  pag.  48  con  due  incisioni). 

Il  signor  prìncipe  Massimo  è  uno  di  que'  patrizi 
romani  che  i  buoni  studi  congiungono  coll'alta  gen- 
tilezza delia  stirpe  e  dell'animo.  Oltre  al  valor  suo 
nelle  dottrine  archeologiche,  per  le  quali  siede  me- 
ritamente fra  i  soci  di  onore  della  pontificia  acca- 
demia» non  v'  ha  forse  persona  fra  noi  che  gli  sia 
pari  fiel  saper  le  memorie  annedote  di  tante  pre- 
clare famglie,  che  già  furono  nella  città  eterna,  e 
tanti  fatti,  comunemente  ignorati,  della  nostra  età 
di  mezzo.  E  questa  lettera  n'  è  un  nuovo  documento: 
nella  quale  l'egregio  signore  dottamente  illustrando 
una  medaglia  inedita  del  suo  antenato  Francesco 
Massimo,  che  nel  secolo  XV  fu  chiaro  in  giurispru- 
denza e  governatore  di  Benevento  per  Alessandro  VI, 
r  ha  di  tante  cose  romane  arricchita,  che  può  dirsi 
un  tesoro  d'  importanti  notizie  patrie.  Di  che  do- 
vremo sapere  novello  grado  a  quella  nobilissima  fa- 
miglia Massimo  ,  che  tenera  sempre  delle  romane 
onorificenze  prima  accolse  e  favorì  in  Roma  l'arte 
tipografica  pocanzi  nata  in  Germania,  famosi  essendo 
i  libri  usciti  nel  1467  ex  aedibus  de  Maximis. 


G.A.T.CLXV.  16 


242 


Annali  d*  Italia  dal  1750  compilali  da  A  Coppi-  - 
Tomo  Xf  1848.  -  8.°  Firenze  dalla  tipografìa  ga- 
lileiana di  M.  Cellini  e  C.  1860.  (Sono  pag.  XXIV 
e  816). 

Accolga  il  chiarissimo  cav.  Coppi  i  sinceri  no- 
stri rallegramenti.  L'opera  sua  degli  Annali  conti- 
nua di  bene  in  meglio:  e  soprattutto  questo  tomo  X 
vuol  dirsi  veramente  un  capolavoro.  Ordine  egregio, 
chiarezza  somma  di  esposizione  ,  gran  cognizione 
delle  cose,  notizie  affatto  autentiche,  non  ciance  fa- 
ziose, non  declamazioni  settarie,  non  esagerazioni: 
ma  fatti,  non  altro  che  fatti,  e  sempre  fatti.  Noi 
non  crediamo  che  a  più  limpide  fonti  possano  attin- 
gere quind'  innanzi  coloro,  che  di  questi  tempi  scia- 
guratissimi  intenderanno  scrivere  puramente  il  ve- 
ro ,  anziché  dettare  romanzi  favorendo  le  parti 
estreme,  esaltando  gli  operatori  di  scandali,  ed  al 
solito  affascinando  i  semplici. 


243 


Sulla  costruzione  delle  sale  dette  dei  giganti,  memo- 
ria di  S.  M.  il  re  Federico  VII  di  Danimarca.  Ver- 
sione dal  francese,  preceduta  da  un  discorso,  del 
conte  Giancarlo  Conestabile  prof,  di  archeologia 
nelV università  di  Perugia,  membro  della  reale  so^ 
cietà  degli  antiquari  di  Copenaghen  e  di  altre  ac- 
cademie. -  8.°  Firenze  coi  tipi  di  M.  Cellini  e  C. 
alla  Galileiana,  1860.  (Sono  pag.  58  con  varie 
incisioni). 

Voglionsi  rendere  molte  grazie  all'esimio  conte 
Conestabile  dell'  avere  tradotto  nella  nostra  favella 
questa  Memoria  di  un  monarca  dottissimo,  il  quale 
a*  nostri  giorni  onora  cotanto  le  scienze  e  le  let- 
tere egregiamente  da  lui  coltivate.  Bello  ed  erudito 
il  discorso  preliminare  del  traduttore,  e  pieno  delle 
sincere  lodi  del  re  :  e  sommamente  ragionevoli  a 
noi  sembrano  le  dichiarazioni  di  Sua  Maestà  intorno 
a  que'  massi  di  grandi  pietre,  che  si  chiamano  co- 
munemente sale  dei  giganti^  né  altro  sono  che  ca- 
mere sepolcrali  operato  dagli  antichissimi  popoli  di 
Scandinavia. 


244 


Lettere  e  memorie  autografe  e  inedite  di  artisti^  tratte 
dai  manoscritti  della  Corsinianai  pubblicate  e  an- 
notate da  Francesco  Cerreti  bibliotecario.  -  8.° 
l^oma  1860.  Stabilimento  tipografico  ,  corso  387. 
(Sono  pag.  67  con  due  tavole  litografiche). 

Prezioso  è  sempre  ciò  che  in  fatto  di  belle  arti 
esce  della  penna  de'  valenti  artisti.  E  preziosa  per- 
ciò chiamerenio  questa  raccolta  de'  loro  autografi, 
illustrandosi  per  essi  non  pochi  pubblici  monunnenti 
innalzati  soprattutto  nella  città  eterna.  Di  che  sieno 
grazie  all'egregio  sig.  Cerroti,  il  quale  sì  onorevol- 
mente, cioè  con  utile  de'  buoni  studi,  presiede  alla 
Corsiniana.  Le  lettere  qui  pubblicate  da  lui,  e  il- 
lustrate dove  fu  di  mestieri  ,  sono  de'  seguenti  : 
Baratta  Gio.  Maria  ;  Bartolozzi  Francesco  ;  Bernini 
Gio.  Lorenzo;  Berrettini  Pietro;  Billy  Niccola;  Bor- 
romini  Francesco;  Bramante  Donato;Caccianiga  Fran- 
cesco; Conca  Sebastiano;  Devizet  Antonio;  Drei  Pie- 
tro Paolo;  Ghezzi  Pietro  Leone;  Mayno  Gio.  Bat- 
tista; Meucci  Vincenzo;  Morghen  Filippo;  Morghen 
Baffaele;  Palazzi  Francesco;  Panini  Gio.  Paolo;  Pi- 
ranesi  Gio.  Battista;  Poleni  Giovanni;  Preisler  Gior- 
gio Martino;  Rainaldi  Girolamo;  Re  Vincenzo;  Ric- 
ciolini Nicolò;  Rigaud  Giacinto;  Ruggieri  Ferdinando; 
Rusconi  Giuseppe;  Valeri  Antonio;  Vasi  Giuseppe. 


245 


Ani  dell'accademia  di  scienze  e  lettere  di  Palermo. 
Nuova  serie.  Volume  III.  -  4."  Palermo.  Stabili  - 
mento  tipografico  di  Fr.  Lao  1859. 

Oltre  all'elenco  de'  soci  contiene  questo  volume 
le  seguenti  dissertazioni. 

I.  Sulla  terza  cometa  del  1854.  Del  prof.  Do- 
menico Ragon-4. 

II.  Su  taluni  nuovi  fenomeni  di  colorazione  sub- 
biettiva.  Del  prof.  Domenico  Ragona. 

III.  Catalogo  degli  uccelli  delle  Madonie.  Del 
dott.  Francesco  Mine  -  Palumbo.  (Continuazione  e 
fine). 

IV.  Storia  naturale  delle  Madonie,  catalogo  con 
appendice  dei  tepidotteri  diurni.  Del  dott.  Francesco 
Mine  -  Palumbo. 

V.  Sapra  alcune  conchiglie  fossili  dei  dintorni 
di  Palermo.  Del  P.  Ignazio  Libassi. 

VI.  Intorno  all'abolizione  delle  tasse  sul  pane  e 
sulle  paste  in  Palermo.  Di  Giuseppe  Biundi. 

VII.  Sulle  monete  punico-sicule.  Di  D.  Gregorio 
Ugdulena. 

VIII.  Iconografia  numismatica  dei  tiranni  di  Si- 
racusa. Del  P.  Giuseppe  Romano. 

IX.  Necrologia  del  prof.  Baldassare  Romano 
scritta  da  D.  Gregorio  Ugdulena. 


246 


Frammento  di  calendario  romano  illustralo  dal  cav. 
G.  B.  de  Ro§si.  -  8.°  Roma  tipografia  tiberina  1860. 
(Sono  pag.    12). 

Scritto  importantissimo  di  archeologo  ,  come 
tutti  sanno,  dottissimo. 

Saggio  della  latinità  biblica  delVanlica  volgata  itala. 
8."  Modena  ,  tipografia  degli  eredi  Soliani  1860. 
(Sono  pag.  47). 

Saggio  critico  sugli  studi  della  letteratura  greca  presso 
gli  antichi  israeliti.  8."  Modena  ,  tipografia  degli 
eredi  Soliani  1860.  (Sono  pag.  25). 

Una  delle  parabole  evangeliche  dichiarata  co'  riscontri 
de^  monumenti  e  degli  scrittori  antichi.  8."  Mode- 
na 1860.  (Sono  pag.  8). 

Sono  operette  preziose  di  un  maestro  celebre  oi 
antichità  e  di  filologia,  cioè  di  monsignor  Celestino 
<lavedoni,  bibliotecario  estense,  e  jjrofessore  di  let- 
tere ebraiche  e  di  ennanetitica  sacra  nell'  università 
di  Modena. 

Quanto  alla  parabola  evangelica,  di  cui  tratta  il 
terzo  opuscolo,  essa  è  ([uella  recalaci  da  S.  Matteo, 
XVIll  ,  23-35  :  la  quale  incomincia  :  Assimilalurn 
est  regnum  caelorum  homini  regi,  qui  voluit  rationem 
ponere  cum  servis  suis. 


INDICE 


Catalogo  de'  Compilatori  e  de*  Collaboratori  del 
giornale. 

Ciampi,  Vita  artistica  di  Carlo  Goldoni  (Conti- 
nuazione e  fine) pag.       1 

Gallo,  Bagni  pubblici  stabiliti  in  Sicilia  negli  an- 
tichi tempi »     90 

Quattrini,  Traduzione  degli  ammonimenti  di  s.    ■'à^^^ 
Gregorio  Nazianzeno  ad  Olimpiade  .     .     »   112 

Bastianelli  ,  Cura  e  trattamento  curativo  della 
difteria.     .     .     .  ■ m   124 

Borgnana  ,  Di  alcune  leggi  pontificie  prodrome 
alla  gregoriana  Quae   publice  utilia  ec.     )>   167 

Arisio,  Della  vita  e  delle  opere  di  Vincenzo  da 
Filicaia )>   176 

Sorgoni,  Sulla  febbre  considerata  in  se  stessa  e 
nelle  principali  tendenze  od  efficienze,  che  si 
mostrano  nel  suo  corso  relativamente  alle  pro- 
prie cagioni  ed  alla  loro  importanza    .     »   196 

Varietà »  239 


1^ /itJL^'i^Jt^'ìAy^A^    ^'»^ //^(^^     '  '    ^C^-^^/L^^ <t-'-t'^^^-<--  /uM^^    *.^£^àA^f'*^ 

'  a./i^.>^L>.^t'£.*^  '"^ /fi'' 


ERRORI  CORREZIONI 

Pag.  124  Un.     4  16  decembre  1839.  9  febbraio  1860. 

»     12S    »     29  estendesi  estendersi 

»      128    »       7  Composizione  decomposizione 

»      »      »     16  Consecutiva  ad  una  Consecutiva   ad  una 

infiammazione  speci-  diatesi,  e  per  la  quale 

fica  ec.  ec. 

»      »      »     23  appliandoia.  ampliandola. 


•/• 


IMPRIMATUR 

Fr.  Hieronymus  Gigli  Ord.  Praed.  S.  P.  Ap.  Mag. 

IMPRIMATUR 

Fr.  Ant.  Ligi  Archiep.  Icon.  Vicesgerens 


Nel  giornale  si  dà  il  sunto,  o  viene  inse- 
rito l'annunzio,  delle  opere  presentate  in  dop- 
pio esemplare  alla  Direzione.  Esse  debbono 
essere  inviate  franche  d'ogni  spesa  di  porto 
e  dazio. 


Le  notizie  di  scienze,  di  lettere,  e  di  belle 
arti,  quelle  di  scoperte  utili  per  1'  agricol- 
tura, industria  ec,  come  anche  i  programmi  dei 
concorsi  accademici,  dovranno  similmente  es- 
ser mandati  franchi  di  posta  alla  Direzione. 


Chi  si  associa  per  dieci  copie,  o  ne  garan- 
tisce la  vendita,  avrà  l'undecima  gratis. 


€^p^^^ 


GIORNALE 

m  SCIEINZE,  LETTERE  ED  ARTI 

TOMO  XX 
DELLA  NUOVA  SERIE 


p^p 
^2> 


ROMA 
TipograGa  delle  Belle  Arti 

1860 

Piazza  Poli  nuni.  91  dentro  il  Palazzo. 


GIORNALE 


SCIENZE,  LETTERE  ED  ARTI 

TOMO  CLXVI 

DELLA    NUOVA   SERIE 
XX 

MARZO  E  APRILE 
1860 


H 


ROMA 


rU'OGKAl'IA    OELLE    BELLli    Alili 


1860 


SCIEISZE ,  LETTERE  ED  ARTI 


Sulla  febbre  considerala  in  se  stessa^  e  nelle  princi- 
pali tendenze  od  efficienze,  che  si  mostrano  nel  sito 
corso  relativamente  alle  proprie  ca(jioni  ed  alla  loro 
importanza.  Annotazioni  patologiche  del  dolt.  An- 
gelo Sorgoni  ecc.  (Conlinuazione  e  fine). 


M, 


La  la  febbre  sviluppala  sotto  l'  intervento  delle 
suddette  due  morbose  cagioni  percorre  i  suoi  stadi 
di  crudezza  e  di  cozione  ,  ossia  di  assimilazione  e 
di  disassimilazione,  sì  in  rapporto  all'eccessivo  ele- 
mento termico,  e  sì  in  relazione  alla  sostanza  mia- 
smatica, essendo  ciò  indispensabile  avvenimento  del 
processo  febbrile.  Talmentechè  nell'intero  corso  della 
febbre  in  esame  riguardo  a  tutte  e  due  sifTalte  mor- 
bose cagioni  si  svolgono  le  due  sopra  considerate 
principali  efficienze,  l'una  nel  primo  stadio  febbrile 
riferibile  al  lavoro  assimilativo  in  offesa  alla  com- 
page organica  ,  e  perciò  tendente  alla  distruzione 
della  medesima;  l'altra  nel  secondo  stadio  in  rap- 
porto al  lavoro  disassimilativo  capace  a  scomporre 
quanto  di  morboso  aveva  composto  l'assimilazione, 
ed  eliminarne  i  materiali  dal  corpo,  perciò  tendente 
alla  conservazione  dell'  organismo  nel  modo  simile 
a  quello,  che  ò  stato  sopra  dimostrato  nell'avveni- 
mento del  processo  febbrile  prodotto  dall'eccessività 
del  calorico  tanto  nel  caso  di  felice  risoluzione  , 
quanto  nell'altro  caso  d'infausto  evento. 


Pei"  quanto  però  la  disassimilazione  svolta  nel 
movimento  febbrile  distrugga  l'elemento  termico,  e 
liberi  così  l'organismo  dalla  febbre,  altrettanto  non 
è  del  tutto  sufficiente  nello  stato  febbrile  a  dissipare 
l'infezione  miasmatica  ,  vale  a  dire  quello  stato  di 
cachessia,  che  si  è  costituito  mediante  l'introduzione 
del  miasma  nell'esser  vivente,  come  vien  dimostrato 
dall'abito  di  corpo  morbosamente  espresso,  che  se- 
guita a  sussistere  nell'infermo  anche  dopo  cessato 
il  febbri]  movimento. 

La  quale  permanente  infezion  miasmatica  ancor 
dopo  cessala  la  febbre  nel  modo  sopra  indicato  è 
una  prova  ulteriore  della  provenienza  della  febbre 
medesima  da  un'altra  causa  oltre  il  miasma.  Im- 
perocché ciò  dimostra  ancora  abbisognare  1'  orga- 
nismo non  della  febbre  per  esser  liberato  dal  mia- 
sma, ma  piuttosto  di  que'mezzi  disassimilativi,  che 
la  natura  coadiuvata  dall'arte  impiega  onde  conse- 
guire un  tale  intento.  Senza  delle  quali  risorse  l'or- 
ganismo slesso,  già  infetto  dal  miasma,  rimane  piiì 
infralito  e  logoro  dopo  d'aver  sofferto  in  questo  caso 
la  febbrile  accensione. 

Ed  è  tanto  vero,  che  sussiste  in  parte  l'affezione 
miasmatica  anche  dopo  cessata  la  febbre  ,  special- 
mente se  si  tratta  di  miasma  palustre  ,  che  essa 
torna  da  capo  a  dar  motivo  a  nuovi  accessi  di  feb- 
bre accessionale,  periodica,  inlermitlente. 

Gli  accessi  di  cotesla  febbre  ancora  sono  co- 
stituiti dall'elemento  termico  sviluppalo  ad  intervalli 
regolari  determinanti  da  elettriche  condizioni,  come 
gi  ò  dimostrato  da  vari  autori  in  ispecialilà  sull' in- 
tervento   sbilancio    elettrico    qual   produttore   della 


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febbre  di  periodo  in  discorso.  E  difatli  se  si  con- 
sultano i  lavori  pubblicati  su  di  quest'  oggetto  da 
Sprengel,  da  Acherman,  da  Folcbi,  da  Lindhult,  da 
Derossi,  e  da  altri  autori,  si  rinviene,  che  la  dot- 
trina elettrica  pensata  per  intendere  lo  svilppo  del 
periodo  nella  produzione  della  febbre  intermittente 
non  è  priva  di  ragionevol  fondamento.  Anzi  vien 
confermata  una  tal  dottiina  colla  cura  delle  febbri 
intermittenti  fatta  mercè  dell'elettricità  sin  dal  pros- 
simo passato  secolo  da  Lindhult  in  Svezia  ,  e  non 
ha  gran  tempo  dal  Derossi  in  Roma.  Il  quale  ultimo 
autore  ha  pubblicate  bellissime  cure  fatte  della  feb- 
bre era  discussa  mediante  T  applicazione  elettrica, 
usando  negl'infermi  la  pila  di  Volta  modificala  da 
Kemp  ,  come  ciò  può  vedersi  nella  Corrispondenza 
scientifica  di  Roma  anno  1853.  Oltredichè  penetrato 
il  Folchi  da  quest'  elettrica  dottrina  spiegava  l'ac- 
cesso della  febbre  periodica  per  un  accumulo  di  elet- 
tricità negativa  avvenuto  con  regolari  intervalli  nel 
corpo  umano  situato  in  ubicazione  e  circostanze  ca- 
paci a  produrlo  ;  e  dimostra  nello  stesso  tempo  con- 
sistere l'azion  del  febbrifugo  nell'elettricità  positiva 
atta  a  ridare  l'equilibrio  elettrico  all'offeso  organismo. 
Intorno  alla  qual  dottrina  però  vuoisi  riflettere, 
che  ond'  essa  pervenga  alla  spiegazione  del  funzio- 
namento febbrile  in  esame,  è  di  mestieri  che  mostri 
succedere  al  disequilibrio  elettrico  lo  sviluppo  del 
calorico  ;  perchè  la  febbre  non  è  un'eleltromozione, 
ma  bensì  un  processo  e  funzionamento  calorifero 
suscitato  morbosamente  nell'economia  animale,  co- 
me risulta  dalle  ragioni  dimostrative  superiormente 
esposte. 


6 

Se  non  che  del  funzionamento  febbrile  quello 
che  si  realizza  nella  febbre  continua  è  distinto  dal- 
l'altro, che  si  effettua  nella  febbre  accessionale.  La 
quale  distinzione  non  solo  esiste  nciresteina  appa- 
riscenza di  questi  due  modi  di  febbricitare,  mostran- 
dosi l'uno  continuo,  l'altro  ad  eccessi  con  regolari 
intervalli  tra  di  loro;  ma  si  rileva  pure  siffatta  di- 
stinzione nell'intrinseco  lavoro  morboso  produttore 
degli  stessi  due  modi  febbrili. 

E  però  in  quanto  all'  esterna  appariscenza  del 
diverso  funzior>amenlo  qui  trattato  si  rende  esso  pa- 
lese col  fatto  :  in  quanto  poi  all'  intrinseco  lavoro 
morboso  proprio  di  ciascun  de'  modi  di  cotesto  fun- 
zionamento febbrile,  vuoisi  rivolgere  l'indagine  sulle 
vicende  dell'  economia  animale  sotto  l'azione  della 
sunnonìinala  causa  morbosa  ,  e  vedere  come  essa 
economia  si  comporta  nel  producimento  de'fenomeni 
relativi  all'appariscenza  degli  stessi  due  fatti. 

Ed  intanto  l'economia  animale  nell'uno  e  nell'al- 
tro caso  si  trova  sopraffatta  dal  miasma,  e  quindi 
dall'eccedente  calorico  svolto  mediante  le  correnti 
elettriche  aventi  luogo  in  circostanze  opportune  al 
loro  intervento,  come  sono  state  sopra  accennate. 
Jl  perchè  il  calorico  in  rapporto  agli  elementi  della 
causa  morbosa  in  discorso  nelT  invadere  i  materiali 
ed  apparati  organici  produce  in  essi  un'alterazione 
prorompente  in  un  punto  piuttosto  che  in  un'altro, 
secondo  la  predisposizione  individuale  del  paziente, 
ed  è  più  0  meno  intensa  a  tenore  della  diversa  en- 
tità della  stessa  causa,  e  del  vario  stato  dell'infermo. 
La  quale  alterazione  ne'priini  accessi  febbrili  si  li- 
mita ad  offesa    dinamica    relativa  al  solo  funziona- 


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mento  organico  ,  a  cui  si  unisce  1'  alterazione  chi- 
mico-organica negli  accessi  successivi,  per  cui  questi 
presentano  un  carattere  di  subcontinuità  ,  non  ri- 
manendo più  interamente  apirettici  gli  intervalli  pre- 
sentati fra  l'uno  o  l'altro  accesso.  Nella  febbre  con- 
tinua poi  l'alterazione,  di  cui  sì  tratta,  è  sempre 
chimico-organica. 

Ed  in  quanto  a' primi  accessi  febbrili  d'un' in- 
termittente l'alterazion  dinamica  si  fa  palese,  mentre 
in  essi  l'eccedente  calorico  coli' influenza  del  miasma 
nell'impegnar  di  se  slesso  1'  organismo  non  giunge 
ad  alterare  l'assimilazione,  e  con  questa  la  compage 
organica.  Imperocché  l'efficienza  conservativa  cono- 
sciuta in  questo  caso  col  nome  di  organica  resi- 
stenza, ed  espressa  coll'azione  degli  apparati  secer- 
nenti,  pone  durante  questo  caso  medesimo  in  tale 
attività  gli  organi  secratori  sopraccitati  dalla  stessa 
potenza  morbosa  ,  che  mercè  la  loro  energia  resta 
impedito  all;i  medesima  potenza  di  prender  parte 
nell'organica  assimilazione.  E  così  1'  eccedente  ca- 
lorico senza  offendere  la  compage  organica  in  forza 
del  lavoro  disassimilativo  pervenuto  al  sistema  ca- 
pillare ivi  si  svolge  per  una  specie  di  esalazione  sotto 
varia  forma  umorale,  e  resta  eliminato  dal  corpo  , 
come  sopra  è  stato  dimostralo  a  tenore  delle  ri- 
flessioni di  Bichat.  In  tal  guisa  finisce  l'eccesso  feb- 
brile. Né  diversamente  quest'accesso  medesimo  po- 
trebbe esser  limitato  al  tempo  di  poche  ore  ;  poiché 
quando  sotto  di  esso  fosse  interessata  l'assimilazione, 
che  darebbe  luogo  alla  formazione  di  un  processo, 
non  sarebbe  così  limitato  il  tempo  della  durata  del- 
l'accesso febbrile  medesimo;  né  si  risolverebbe  come 


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si  risolve  l'accidentale  ebbrezza,  od  altri  fenomeni 
interessanti  il    solo    funzionamento   organico  senza 
impegnare  la  individuai  compage. 

Dopo  di  ciò  l'organismo  ritorna  in  nn  certo  equi- 
librio ;  ma  non  per  questo  egli  è  libero  dall'  alte- 
razione prodotta  dal  miasma  :  il  perchè  riman  di- 
sposto a  nuovi  accessi  di  febbre. 

Ne'quali  accessi  successivi  l'azione  dell'eccedonte 
caloi'ico  unito  alla  miasmatica  influenza  non  si  limita 
più  a  produrre  una  lesion  dinamica,  come  ne'primi 
accessi,  mercè  cui  avviene  il  parosismo  febbrile  della 
durata  di  alcune  ore,  dopo  delle  quali  ritorna  l'in- 
dividuo ,  che  n'  era  affetto  allo  stato  di  apiressia  ; 
ma  negli  stessi  accessi  successivi  alla  suddetta  lesion 
dinamica  prodotta  dalla  causa  morbosa  in  discorso 
si  associa  un'alterazion  chimico-organica  proveniente 
dalla  medesima  causa,  interressando  questa  l'assimi- 
milazione  e  gli  organici  tessuti  affmi  alla  stessa  causa. 
Per  il  che  i  medesimi  accessi  successivi  non  sono 
piij  distinti,  come  erano  i  primi,  mediante  un  inter- 
vallo fra  di  loro  di  decisa  apiressia  ;  ma  prendono 
un  certo  stato  di  continuità  febbrile  cagionato  dalla 
sempre  più  alterata  assimilazione  calorifera.  E  ciò 
avviene  perchè  ogni  accesso  febbrile  è  sempre  un'of- 
fesa fatta  all'organismo,  per  quanto  la  forza  conser- 
vativa faccia  resistenza  alla  causa  morbosa  onde  non 
impegni  l'assimilazione.  La  qual  forza  riuscirà  nel 
suo  intento  una  o  più  volte  ;  ma  dopo  che  ripetu- 
tamente ha  resistito  alla  stessa  potenza  morbosa, 
rimane  infralita  ,  ed  è  costretta  in  qualche  modo 
di  farsi  soverchiare  dalla  nemica  cagione  :  per  cui 
questa  dove  arriva  il  suo  potere  s'impadronisce  del- 


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r  organismo  ,  e  ne  altera  1'  assimilazione.  Ed  ecco 
come  i  replicati  eccessi  d'una  febbre  periodica  quanto 
più  si  moltiplicano  ,  tanto  più  danneggiano  l'orga- 
nismo medesimo. 

Questo  raziocinio  relativo  all'andamento  progres- 
sivo dalla  febbre  accessionale  vien  confermato  dal 
fatto  ;  imperocché  è  cosa  notissima,  che  gl'individui 
atfetli  dalla  febbre  intermittente  tanto  più  diventano 
malconci  di  salute  ,  quanto  più  restano  invasi  dai 
repplicati  accessi  di  una  tal  febbre.  Maggiormente 
poi  sono  gli  stessi  individui  danneggiati  dai  ripetuti 
accessi  febbrili  ,  se  questi  si  sviluppano  con  qualche 
imponente  sintoma  come  effetto  di  grave  sconcerto 
funzionale  di  qualche   apparato  necessario  alla  vita. 

Il  perchè  l' idea  prevalsa  su  qualche  autore  di 
far  sfogare  in  certi  casi  gli  accessi  febbrili  d'  una 
intermittente  abbisogna  di  molta  circospezione  ,  se 
non  abbia  ad  esser  sempre  dannosa. 

L'eccedente  calorico  svolto  poi  nell'occasione  di 
circostanze  atte  al  producimento  delle  condizioni 
elettriche  necessarie  a  tale  effetto,  allorché  è  al  caso 
di  cagionare  la  febbre  continua,  non  può  agire  che 
in  modo  chimico-organico,  nella  guisa  stessa  in  cui 
sopra  è  stato  considerato  discorrendosi  della  febbre, 
mentre  vien  prodotta  dal  miasma  in  genere. 

Ma  come  in  questa  così  ancora  nella  febbre  ac- 
cessionale si  manifestano  sempre  le  due  opposte  ten- 
denze od  efficienze  superiormente  discorse.  E  difatti 
si  noti  cosa  avviene  su  di  tal  proposito  in  ciascuno 
degli  accessi  della  febbre  periodica  :  però  non  si 
limiti  l'annotazione  sulli  tre  predicali  fenomeni  di 
freddo,  caldo,  e  sudore,  con  i  quali  suolsi  comune- 


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mente  giudicare  ciascun'acccsso  della  febbre  perio- 
dica in  esame.  Ma  piuttosto  si  rimarchino  i  due  prin- 
cipali tempi  distintissimi  in  ognuno  di  siffatti  accessi, 
•  ossia  in  ogni  parossismo,  il  primo  detto  d'invasione, 
il  secondo  di  risoluzione.  Imperocché  in  questi  due 
tempi  si  appalesano  le  due  opposte  tendenze  ,  od 
efficienze,  che  si  mostrano  nel  corso  di  qualunque 
febbre.  E  veramente  l' invasione,  a  ben  considerarla, 
non  è  altro  che  la  tendenza  od  efficienza  distrug- 
gitiva  attuata  dalla  causa  morbosa,  che  ha  superato 
sino  ad  un  certo  punto  la  resistenza  organica  ,  ed 
ha  condotto  l'esercizio  delle  funzioni  ad  uno  stato 
morboso  offensivo  all'organismo  con  tendenza  sem- 
pre più  grave  a  danneggiarlo.  Cui  però  fa  ostacolo 
la  disassimilazione  mercè  gli  apparati  destinati  dalla 
natura  a  tale  oggetto.  Lo  che  fassi  dissolvendo  quanto 
di  morboso  si  era  formato  ,  e  si  andava  formando 
mediante  l'opera  della  suddetta  tendenza  ,  od  effi- 
cienza distruggiliva.  Laonde  quando  questo  funziona- 
mento disassimilativo  signoreggia  sull'opposto  stato 
di  morbosa  costituzione  od  invasione  in  modo  da 
dissiparla,  si  effettua  il  tempo  della  risoluzione  del- 
l'accesso febbrile,  che  perciò  presenta  una  tendenza 
od  efficienza   conservativa. 

Mediante  l'indicato  modo  nella  febbre  intermit- 
tente ancora  considerata  in  ciascuno  de'suoi  paros- 
sismi si  mostrano,  siccome  nella  febbre  continua,  due 
principali  tendenze  od  efficienze  tra  di  loro  opposte, 
la  prima  distruggiliva,  la  seconda  conservativa. 

Per  quanto  però  siano  palesi  cotesle  opposte  ef- 
ficienze espresse  ne' due  tempi  distinti  in  ogni  pa- 
rossismo, pur  con  tutto  ciò  talvolta  si  dà  il  caso, 


il 

in  cui  si  mostrano  con  disequilìbrio  tra  di  loro;  ed 
allora  non  si  hanno  piiì  i  regolari  effetti  delle  me- 
desime efficienze;  ma  invece  si  realizza  quello  stesso 
disordine  ,  che  è  stato  sopra  considerato  ,  mentre 
si  è  trattalo  del  medesimo  disequilibrio  avvenuto 
nello  sviluppo  delle  stesse  efficienze  mostratesi  nel 
corso  della  febbre  continua  prodotta  dall'eccedente 
elemento  termico. 

Oltre  le  quali  cose  fin  qui  discorse  intorno  all'og- 
getto in  esame  vuoisi  ancor  considerare  il  miasma 
nel  caso  di  producimento  febbrile  in  rapporto  al  si- 
stema de'nervi.  In  siffatta  considerazione  rimarcasi 
succedere  la  serie  di  tutti  que'fenomeni,  che  sonosi 
visti  svolgere  nel  medesimo  sistema  sotto  lo  sviluppo 
del  processo  febbrifacienle  costituito  dal  solo  ele- 
mento termico  nel  modo  sopra  esaminato.  Impe- 
rocché nelle  circostanze  del  miasma  intervenienti  al 
producimento  febbrile  si  effettuano  quelle  medesime 
alterazioni  sì  dinamico-organica  e  sì  chimico-orga- 
nica nel  sistema  nervoso,  che  superiormente  sonosi 
notate  accadere  nel  periodo  febbrile  svolte  col  solo 
elemento  termico.  E  difalti  in  ambedue  codeste  ner- 
vee  alterazioni  si  rimarcano  le  due  opposte  efficienze 
proprie  della  loro  natura,  vale  a  dire  effettuate  con 
opposti  movimenti  dinamici  nell'  alterazione  dina- 
mico-organica ,  e  con  opposte  operazioni  assimi- 
lativo-disassimilative  nell'alterazione  chimico -orga- 
nica. Il  perchè  rendesi  manifesto  ,  che  il  sistema 
de'nervi  ancora  nella  febbre  ,  di  cui  qui  si  tratta  , 
effettua  il  suo  morboso  impegno  con  due  opposte 
tendenze  od  efficienze 


12 

Pertanto  l'analisi  fin  qui  fatta  ,  e  l'istituita  in- 
duzione ragionando  sulla  febbre  cagionata  dall'  ec- 
cessività del  calorico,  e  dal  miasma,  han  dimostrato 
il  lavoro  essenziale  del  processo  febbrifaciente  rag- 
girarsi nell'alterata  assimilazione  e  disassimilazione 
riverberata  sulla  sensazione  dell'  elemento  termico 
eccedente  a'bisogni  organici.  Di  maniera  che  la  feb- 
bre può  dirsi  un  processo  morboso  di  estuazione 
sanguigna,  ossia  calorifero,  effettuato  nel  sangue  sul 
sistema  artero-venoso-secretorio  influente  suH'  in- 
nervazione, e  sugli  apparati  relativi  alla  specialità 
delle  diverse  cagioni,  che  originano  la  stessa  febbre, 
e  ne  promuovono  la  risoluzione.  Nel  corso  poi  del 
medesimo  processo  febbrifaciente  si  manifestano  due 
principali  efficienze  fra  di  loro  opposte  corrispon- 
denti alli  due  stadi  essenziali  della  febbre.  E  siccome 
questi  medesimi  stadi  trovansi  essenzialmente  in  qua- 
lunque forma  febbrile  costituiti  dall'  assimilazione 
e  dalla  disassimilazione  con  i  loro  nervosi  rapporti, 
così  è  ragionevole  il  ritenere,  che  le  principali  ten- 
denze od  efficienze  di  queste  somme  funzioni  svi- 
luppale in  siffatti  stadi  abbiano  luogo  in  qualunque 
febbre,  secondo  la  loro  propria  natura  offensiva  per 
l'una  parte,  e  per  l'altra  conservativa  dell'organismo. 
Lo  che  è  quanto  dire  ,  che  la  tendenza  od  efficienza 
dislruggitrice  ,  e  la  tendenza  od  efficienza  conser- 
vativa, sono  le  principali  efficienze,  che  si  mostrano 
nel  corso  della  febbre. 


Diverse  specie  di  febbre  considerate  anch'esse  come 
costituite  essenzialmente  dal  processo  di  estiiazione 
sanguigna  colle  principali  efficienze^  che  si  mostrano 
nel  loro  corso.  Differenza  tra  queste  specie  e  la 
febbre  secondaria  ;  essenzial  costituzione  parimenti 
di  quest'ultima  nelV estuazion  sanguigna  di  origine 
locale. 

Per  quanto  il  fatto  pratico  abbia  reso  distinto 
l'una  dall'altra  le  diverse  specie  di  febbre  in  moto, 
che  la  febbre  gastrica  per  es.  si  è  sempre  distinta 
dalla  biliosa,  e  queste  due  dalla  reumatica  ;  pur  con 
tutto  ciò  mai  sono  state  uniformi  le  dottrine,  che 
da'  patologi  si  esposero  onde  dimostrare  la  natura 
delle  medesime  specie  di  febbre.  E  la  differenza  in- 
sorta su  questo  vario  dottrinamento  sono  state  tante 
e  tali  da  fare  smarrire  il  vero  sentiero  necessario 
a  tenersi  per  l'acquisto  della  scienza  in  questo  ramo 
di  medico  sapere. 

11  qual  sentiero  rinviensi  solamente  dove  1'  os- 
servazione pura,  non  alterata  da  svariate  ipotesi  e 
preconcepiti  sistemi,  e  sorretta  soltanto  da'  lumi  ra- 
zionali, ne  ha  aperto  l'origine,  ne  ha  additato  l'an- 
damento ,  e  ne  ha  mostrato  la  meta.  A  tener  di 
questo  sentiero  tracciato  dalla  osservazione,  e  scor- 
tato da  luce  razionale,  non  si  ha  a  far  altro  per  cal- 
carlo che  valutar  nelle  diverse  specie  di  febbre  quello 
stato  fenomenale  ridotto  ad  un  centrico  punto  di 
vista,  che  sin  dalla  più  remota  antichità  ha  destato 


u 

in  ogni  tempo  l'attenzione  de'medici.  Ed  ò  questo 
appunto  quello  stato,  che  relativo  alle  varie  specie 
di  febbre  qui  vuoisi  indagare,  onde  poter  conoscere 
se  valutando  questo  stato  medesimo  nel  sopraindi- 
cato modo  si  possa  stabilire  delle  stesse  febbri  una 
razionai  patogenia. 

Ed  intanto  prima  d'ogni  altra  cosa  stimasi  utile 
esaminare  il  valore  delle  principali  dottrine  emesse 
intorno  alla  febbre  gastrica  ,  alla  biliosa  ,  ed  alla 
reumatica  ,  che  sono  le  diverse  specie  di  febbre  , 
delle  quali  qui  fassi  discorso  ,  secondo  1'  ordine  di 
questa  discussione. 

E  però  relativamente  a  siffatte  febbri  due  sono 
le  principali  dottrine,  che  sopra  ogni  altra  preval- 
gono nell'esplicazione  delle  medesime.  Mediante  la 
prima  si  considerano  esse  febbri  come  primarie  ed 
essenziali  costituite  da  una  fermentazione  concottiva 
del  sangue  :  mediante  poi  la  seconda  si  ritengono 
le  stesse  febbri  come  secondarie  prodotte  da  un  lo- 
cale lavoro  morboso  specialmente  flogistico,  di  cui 
la  stessa  febbre  credesi  un  sintoma. 

Applicando  siffatte  dottrine  alle  specie  di  febbre, 
di  cui  qui  si  tratta  ,  ed  incominciando  dalla  feb- 
bre gastrica  ,  si  sostiene  ,  secondo  la  prima  delle 
dette  due  dottrine,  esser  questa  febbre  primaria  ed 
essenziale,  e  ritiensi  costituita  da  uno  stato  di  par- 
ticolare inquinamento  del  sangue,  il  quale  mentre 
nel  sistema  arterioso  viene  eccitato  a  febbrii  mo- 
vimento mercè  una  fermentazione  concoltiva  indotta 
nello  stesso  sangue  arterioso  per  opera  dell'  etero- 
geneità in  esso  concorsa;  nel  sistema  venoso  poi  in 
forza  di  siffatto  movimento  febbrile   viene  impulsa 


15 

la  medesima  eterogeneità  sanguigna,  che  per  spocìiile 
relazione  cogli  apparali  venosi  del  tubo  gastro- 
enterico, ivi  prorompe,  e  desta  nella  superfìcie  ga- 
stro-intestinale una  secrezione  annunciata  da  collu- 
vie, e  da  tutti  i  sintomi  propri  della  febbre  gastrica. 

Seguitando  l'applicazione  dello  stesso  dottrina- 
mento  specificato  nella  febbre  biliosa,  ritiensi  questa 
secondo  il  medesimo  dottrinamento  parimenti  come 
primaria  ed  essenziale,  mentre  si  giudica  costituita 
da  un'etorogeneità  introdotta  t)  prodotta  nel  sangue 
sì  per  difetto  d'analoga  depurazione,  che  per  qua- 
lunque altra  causa  avente  rapporti  coli'  apparato 
epatico.  Il  perchè  a  tenore  di  questa  dottrina  su- 
scitatosi nel  sangue  arterioso  il  concottivo  fermento 
motivato  dalla  stessa  eterogeneità  ivi  esistente  ,  si 
sviluppa  allora  1'  appariscenza  fenomenale  febbrile 
nel  generale  dell'organismo.  Quindi  refluito  siffatto 
lavoro  morboso  sanguigno  nelle  vene,  e  specialmente 
in  quelle  dell'apparato  epatico  a  motivo  di  una  par- 
ticolare affinila  della  materia  morbosa  con  tale  ap- 
paralo, ivi  in  forza  dello  stesso  lavoro  cotesta  ma- 
teria ingenera  i  sintomi  propri  della  febbre  biliosa, 
e  produce  ne'casi  fausti  un  profluvio  critico  prove- 
niente dal  medesimo  epatico  apparato,  per  il  quale 
viene  eliminata  l'etorogeneità,  che  era  la  causa  di  una 
tal  febbre.  Ne'casi  funesti  poi  avvengono  degenera- 
zioni o  nello  stesso  apparato,  o  nel  sistema  de'nervi. 

In  quanto  poi  alla  febbre  reumatica,  secondo  il 
dottrinamento  in  discorso  ritiensi  anch'essa  primaria 
ed  essenziale  originata  dall'  umor  traspirabile  o  re- 
tropulso,  o  cumunque  impedito  nella  sua  elimina- 
zione. Il  quale  in  conseguenza  trovasi  commisto  col 


16 

sangue.  Ed  in  questo  stato  alloichè  pergiunge  nel 
sistema  arterioso,  ivi  come  materia  eterogenea  desta 
il  processo  concottivo  ,  che  dà  luogo  allo  sviluppo 
de'sintomi  esprimenti  lo  stato  febbrile.  Di  poi  per 
legge  dell'economia  animale  la  stessa  materia  mor- 
bosa, dopo  d'aver  suscitato  il  suddetto  fermento  con- 
cottivo dovendo  soggiacere  al  processo  di  disassi- 
milazione negli  apparati  destinati  al  funzionamento 
disassimilativo  ,  e  specialmente  nel  caso  in  esame 
ne'  vasi  esalanti  delle  membrane,  e  dell'apparalo  cu- 
taneo per  essere  affine  con  questo,  determina  in  sif- 
fatte località  que'  sintomi,  che  son  conosciuti  come 
indicanti  la  febbre  reumatica. 

1  casi  funesti,  che  avvengono  nel  procedimento 
di  queste  febbri,  a  tenore  della  dottrina  in  esame 
sono  il  risultato  o  dello  sconcerto  del  primo  stadio 
febbrile  relativo  all'assimilazione,  ovvero  del  disor- 
dine avvenuto  nel  secondo  stadio  in  rapporto  alla 
disassimilazione. 

Relativamente  alla  seconda  delle  due  principali 
dottrine  escogitate  per  dimo&lrare  la  patogenia  delle 
febbri  in  esame,  queste  febbri  son  considerate  sem- 
pre secondarie,  come  un  sintoma  dipendente  da  una 
località  morbosa,  che  in  generale  credesi,  come  si 
è  detto  ,  il  processo  flogistico  ordito  in  uno  od  in 
un  alilo  viscere,  o  sistema,  o  parte  qualunque.  La 
qual  irjorbosa  località  oltre  il  lavoro  infiiimmatorio 
sostiensi  pui'  da  vari  patologi  essei'e  il  processo  reu- 
matico, od  altro  qualunque  processo  di  varia  natura. 

In  tal  caso  pertanto  di  morbosa  condizione  lo- 
cale si  ritiene,  che  a  tenore  della  diversa  sede  della 
medesima  diasi  motivo  alle  differenti  specie  di  febbre. 
E  però  se  questa   sede  ha  luogo  nel  tubo   gastro- 


17 

enleiico  si  sviluj)pa  la  febbre  gastrica;  se  si  slabi- 
lisce  ncirai)paralo  o[)elico,  si  [)ioduce  la  f(!bbro  bi- 
liosa ;  so  si  svolgo  ncir  appaiato  membranoso  ,  si 
manifesta  la  febbre  reumatica.  Se  non  che  per  que- 
st'ultima i  patologi  localizzatori  non  son  (l'accordo 
nel  fissare  la  sua  genesi  flogistica  ,  poiché  alcuni 
tra  essi  ritengono,  che  la  condizione  morbosa  pro- 
duttrice della  febbre  di  reuma  sia  un  processo  di 
particolar  natura  così  detto  reumatico  diverso  es- 
senzialmente del  flogistico. 

Affinchè  poi  le  diverse  specie  di  febbre  qui  con- 
sideralo fossero  distinte  da  quelle  forme  morbose, 
che  costituiscono  la  fenomenale  appariscenza  propria 
di  ciascun  particolar  processo,  sonosi  assegnate  due 
speziali  differenze.  La  prima  delle  quali  consiste  nella 
preponderanza  de' sintomi  febbrili  generali  sopra  i 
locali  relativi  alla  sede  del  processo  :  la  seconda  è 
fondata  sulla  limitazione  di  questo  processo  medesimo 
a  differenza  di  ciò  che  avviene  quando  esso  processo 
ha  una  maggiore  estensione  ;  per  cui  i  sintomi  locali 
in  tal  caso  prodominano  sopra  i  generali,  ed  il  morbo 
non  è  pili  nominato  per  una  specie  di  febbre,  ma 
bensì  per  la  sua  sede  locale. 

Ora  ponendo  ciascuna  delle  due  suddette  dot- 
trine in  comparazione  col  fatto,  che  devono  dilu- 
cidare ,  e  primieramente  discorrendosi  di  tal  con- 
fronto in  rapporto  al  sopra  esposto  modo  di  spiegar 
la  febbre  essenziale  o  primaria  nelle  enunciate  di- 
verse specie,  notasi,  che  la  dottrina  citata  emessa 
in  proposito  non  è  coriispondenle  al  fatto.  lm(ieroc- 
chè  tralasciandosi  qui  di  considci'are  qual  valore 
abbia  l'ipotesi  del  fermento  concottivo  immaginato 
G.A.T.CLXVl.  2 


18 
per  h  spiegazione  della  febbre,  ed  invece  valutati  sol- 
tanto gli  stadi  di  crudezza,  di  cozione,  e  di  crisi,  co- 
inè sono  generalmente  ammessi  in  tal  dotlrinamento, 
vuoisi  fare  su  i  medesimi  la  seguente  riflessione. 

Secondo  quest'ipotesi  si  rimarca,  che  qualunque 
sia  la  specie  di  febbre  contemplala  dalla  medesima, 
i  suoi  stadi  sono  distinti  in  modo  ,  che  nel  primo 
non  si  mostra  alti-o  aspetto  fenomenale  fuoi-i  di  quello 
riconosciuto  proprio  soltanto  della  febbre  in  genere, 
ossia  delia  sinoca.  E  difatti  colla  succitata  dottrina 
il  primo  stadio  febbrile  non  presenta  alcun  sintoma 
riferibile  alle  diverse  specie  di  febbre  in  discorso  ; 
per  conseguenza  nel  medesimo  primo  stadio  non  si 
dovrebbe  avere  nella  febbre  gastrica  alcun  sintoma 
gastrico,  nella  febbre  reumatica  alcun  sintoma  reu- 
matico, e  nella  febbie  biliosa  alcun  sintoma  bilioso. 
Questi  sintomi  speciali,  secondo  la  dottrina  in  esame, 
dovrebbero  incominciare  a  manifestarsi  dopo  cessato 
il  primo  stadio,  quando  principia  la  cozione,  e  pro- 
seguire a  svilupparsi  in  tutto  il  corso  della  medesima 
sino  alla  completa  crisi.  Ed  è  appunto  in  questo 
secondo  stadio  febbrile  ,  che  a  tenore  della  stessa 
dottrina  si  stabilisce  la  natura  speciale  della  febbre. 
Per  il  che  in  tal  tempo  soltanto  resta  determinata 
la  diagnosi  della  febbre  gastrica,  e  di  quella  delle 
altre  sunnominate  specie  di  febbre.  E  però  avanti 
di  questo  secondo  stadio  non  solo  non  è  possibile 
con  tale  ipotesi  aveisi  i  segni  diagnostici  delle  febbri 
di  forma  speciale,  come  sono  quelle  sopra  indicate: 
ma  neppure  è  possibile,  secondo  la  medesima  ipotesi, 
la  dimostrazione  della  loro  oiganica  costituzione. 
Talmenlechò  colla  stessa  dottrina  le  forme  febbrili 


19 

speciali  sono  tante  successioni  del  fermento  concot- 
tivo  del  sangue,  vale  a  dire  della  stessa  febbre  ;  e 
per  conseguenza  mai  non  possono  caratterizzare  l'in- 
tero corso  febbrile. 

Ma  a  tutte  coteste  cose  attribuite  alle  diverse 
specie  di  febbre  da  siffatta  dottrina,  il  fatto  pratico 
è  in  opposizione.  Imperocché  stando  a  ciò  che  viene 
presentato  dal  fatto  relativo  alle  differenti  specie  di 
febbre  succitate  ,  cioè  alla  gastrica  ,  alla  biliosa  , 
alla  reumatica,  i  sintomi  caratteristici  di  queste  me- 
desime specie  non  si  mostrano  soltanto  nel  secondo 
stadio  del  periodo  febbrile,  a  tenore  delPesposta  dot- 
trina ;  ma  invece,  come  il  fatto  addita,  si  offrono 
In  tutto  il  corso  della  febbre,  anzi  incominciano  con 
i  primordi  antecedenti  all'  invasione  della  febbre 
stessa,  proseguono  in  tutto  il  periodo  della  medesima, 
e  qualcuno  rimane  talvolta  ancora  superstite  alla  ces- 
sazione febbrile.  In  conseguenza  a  tenore  del  fatto 
scevro  da  qualunque  ipotesi,  affinchè  si  presentino 
i  segni  diagnostici  di  ciascuna  delle  diveise  S(>ecie 
di  febbre  ,  non  decorre  il  tempo  del  primo  stadio 
febbrile  senza  di  loro,  ma  essi  si  manifestano  anche 
in  questo  primo  stadio  medesimo.  Per  il  che  sin 
da'primi  giorni  del  male  trovasi  costituita  la  natura 
delle  diverse  specie  di  febbre  ,  delle  quali  qui  si 
tratta,  vale  a  dire  sin  dal  piimo  stadio  delle  me- 
desime, e  non  è  d'uopo  aspettare  il  secondo  stadio, 
perchè  la  stessa  lor  natura  abbia  ad  avere  effet- 
tuazione. 

Questo  è  l'andamento,  che  si  osserva  accadere 
nello  sviluppo  ordinario  delle  specie  di  febbre  qui 
nominate.  Avviene  però  talvolta  nel  caso  specialmente 


20 

di  sanguigna  discrasia  ,  che  dopo  un  cerio  corso 
tenuto  da  quest'infermità  esternato  con  i  sintomi 
propri  della  medesima  e  con  febbre,  si  presenti  un 
gastrico  fenomenale  aspetto  associato  a  febbril  mo- 
vimento. In  questo  caso  il  gastricismo  anche  febbrile 
è  una  successione  morbosa  di  una  special  malattia, 
che  nulla  ha  che  fare  colla  febbre  gastrica  ,  e  per 
conseguenza  non  confondibile  con  questa  febbre. 
Sarà  ancora  lo  stesso  gastrico  stato  fenomenale  in 
siffatto  caso  l'espressione  d'una  maniera  di  risolu- 
zione della  malattia  primitiva,  come  vuoisi;  ma  non 
è  per  questo,  ch'egli  costituisca  il  complesso  feno- 
menale della  febbre  gastrica,  come  neppure  indica 
la  natura  di  una   tal  febbre. 

La  stessa  critica  riflessione  può  farsi  ancora 
quando  uno  stato  bilioso,  o  reumatico,  circoscritto 
negli  appaiali  al  medesimo  relativi  sussegue  ad  un'af- 
fezion  generale  sia  ancor  febbrile;  imperocché  an- 
che in  questo  caso  lo  stato  bilioso  o  reumatico  o 
ò  una  morbosa  successione  della  primitiva  malattia, 
oppure  è  un  modo  di  risoluzione  della  stessa  ma- 
lattia primaria.  Giammai  però  un  tale  slato  e  per 
il  tempo  di  suo  sviluppo  limitato  al  solo  secondo 
stadio  del  male,  e  per  la  maniera  di  suo-produci- 
mento,  può  esprimere  la  forma  delle  specie  di  febbre 
in  discorso  analoghe  al  medesimo  ,  e  molto  meno 
può  indicarne  la  loro  special  natura. 

Da  tutto  ciò  risulta  ,  che  il  f\Uto  pratico  non 
trovasi  corrispondente  alla  dottrina  della  fermenta- 
zione concotliva  del  sangue  ammessa  da  vari  pa- 
tologi per  ispiegare  la  genesi  delle  febbri  ;  laonde 
questa  medesima  dottrina   non  sembra  adattabile. 


21 

Il  secondo  principal  rlottrinamcnto  consiste,  sic- 
come sopra  si  è  dello,  nel  ritenersi  la  febbre  sem- 
pre secondaria,  come  un  sintoma  dipendente  da  una 
lesione  locale  sotto  forma  di  processo  per  lo  più 
flogistico,  senza  però  escluderne  altro  di  diversa  na- 
tura. 

Alla  qual  dottrina  fa  parimenti  opposizione  il 
fatto  pratico  considerato  tanto  nella  sua  generale, 
quanto  nella  sua  speciale  espressione.  E  veramente 
in  primo  luogo  che  si  dia  la  febbre  manifestata  dai 
soli  sintomi  generali  propri  di  essa,  egli  è  un  fatto 
così  costatato  da  potersi  tenere  per  cosa  certa  e  no- 
tissima. Siane  un  esempio  la  febbre  sinoca,  che  per 
quanto  siasi  tentato  di  localizzare  da  parecchi  siste- 
matici, mai  non  si  è  riuscito  a  fissarne  stabilmente  la 
sede  locale  in  un  punto  esclusivo  di  qualsivoglia  or- 
gano, apparato,  o  sistema.  Lo  che  non  corrisponde 
alla  natura  del  processo  flogistico,  e  di  qualunque 
altro  processo  morboso  considerato  nel  solido  ,  il 
quale  e  dal  fatto  e  dalla  ragione  viene  sempre  ad- 
ditato per  un  lavoro  di  locale  procedimento.  In  con- 
seguenza  la  febbre,  quando  ha  essenzialmente  carat- 
teri generali,  non  può  essere  l'espressione  di  un  lo- 
cale processo. 

In  secondo  luogo  allorché  la  febbre,  oltre  a'  sin- 
tomi generali,  si  manifesta  ancora  con  speciali  carat- 
teri dando  luogo  alle  sue  diverse  specie,  come  sono 
la  gastrica,  la  biliosa,  la  reumatica,  delle  quali  qui 
fassi  parola,  neppure  in  questo  caso  sembra  potersi 
sostenere  con  ragionevol  fondamento  la  sua  essenzial 
derivazione  locale  da  un  processo  o  flogistico,  o  di 
altra  natura.  Imperocché  in  questo  caso  medesimo 


22 

i  sintomi  speciali  febbrili,  quando  fossero  dipendenti 
da  un  processo  di  locale  alterazione,  sarebbero  ne- 
cessariamente l'espressione  del  medesimo  locale  pro- 
cesso, di  cui  porterebbero  la  denominazione,  e  né 
vi  sarebbe  ragione  sufficiente  di  appellarli  col  titolo 
complessivo  di  febbre.  Così  allorcbè  i  caratteri  "spe- 
ciali dalla  febbre  gastrica,  della  biliosa,  della  reu- 
matica dipendessero  per  una  parte  dal  processo  flo- 
gistico del  tubo  gaslro-enterico,  o  del  fegato;  e  per 
un'altra  parte  gli  stessi  caratteri  fossero  lisultanti 
dal  proceisso  reumatico  ordito  nell'apparato  mem- 
branoso; non  vi  sarebbe  lagione  a  ritenere  siffatti 
caratteri  per  l'espressione  di  diverse  specie  di  febbre, 
e  di  chiamare  l'unione  di  questi  caratteii  medesimi 
coi  nome  o  di  febbre  gastrica,  o  biliosa,  o  reuma- 
tica ;  ma  bensì  non  potrebbe  altro  esprimere  che 
una  gastro-enterite,  un'epatite,  un  reuma;  e  perciò 
con  siffatti  termini  flogistici  e  reumatici  sarebbe 
d'uopo  denominarla. 

Nò  il  maggioi'6  o  minor  grado  del  pi'ocesso  flo- 
gistico 0  reumatico  può  far  variare  la  denomina- 
zione, e  molto  meno  far  credere  il  male  di  diffe- 
rente natura.  In  conseguenza  di  tutto  ciò  è  d'uopo 
ritenersi,  che  anche  la  dottrina  della  località  di  pro- 
cesso, ammessa  per  ispiegare  la  patogenia  delle  di- 
verse specie  di  febbre,  mal  si  presta  alla  loro  espli- 
cazione. 

Veduta  così  la  deficienza  delle  due  suddette  prin- 
cipali dottrine  al  proposto  scopo,  ora  è  da  indagarsi 
se  pur  diasi  un  principio,  od  elemento  morboso,  sul 
quale  si  è  trovalo  ragionevol  fondamento  atto  al- 
l' evoluzione    delle  diverse    specie   di    febbre,  tanto 


23 

ne'  rapporti  col  generale  dell'organismo,  quanto  nelle 
relazioni  speciali  con  uno,  o  con  altro  appaialo,  per 
cui  la  febbre  oltre  i  sintomi  generali  si  esprima  an- 
cora con  sintomi  speciali,  insomma  è  da  vedersi  se 
collo  stesso  principio  od  elemento  morboso  si  tro- 
vino conciliabili  i  medesimi  rapporti  febbrili  gene- 
rali e  speciali  in  modo,  che  la  febbre  possa  esse*' 
primaria  ed  essenziale  anche  nelle  sue  specialità  senza 
dipendere  da  alcun  locale   piocesso. 

Pertanto  secondo  la  dottrina  ippocratica  intorno 
alla  febbre,  come  è  stata  superiormente  esposta,  nel 
calorico  considerato  qual  materiale  oiganico  ecce- 
dente a'  bisogni  dell'organismo  si  è  ritenuto  il  prin- 
cipio od  elemento  morboso  in  discorso,  e  si  è  tro- 
vato esso  costituire  nella  sua  evoluzione  organica 
lo  stato  febbrile,  ossia  la  febbre  stessa  sì  nella  sua 
es[)res8Ìon  generale,  e  sì  speciale,  a  tenore  della  di 
lui  derivazione.  E  difatti  secondo  la  stessa  dottrina 
ippo<nalica  dalla  divisione  delle  febbri  ammessa  in 
siffatta  dottrina  risulta  il  materiale  per  la  soluzione 
di  quest'argomento.  Ecco  una  tal  divisione  esposta 
dal  Massaria  nella  sua  opera  già  sopra  citata  :  «  Quod 
autem  Hippocratis  usus  fuerit  differenliis  essentia- 
libus,  probat  propterea  quia  substantia  febris  con- 
sistit  in  calore  praeter  naturami  ciini  enim  huiusmodi 
caloris  differentiae  trifariatn  sumi  possint,  uno  modo 
ex  eo  quod  maioris  minorisque  rationem  habet  : 
secundo  ab  ipsa  materia,  in  qua  ille  calor  praeter 
oaturam  accenditur  :  et  tertio  a  modo  motus.  11  per- 
chè prosegue  il  Massaria:  «  Cum  tia  sint  genera  fe- 
brium  prò  varietale  subìeclorum,  spiritus,  humorum, 
substantiae  cordis,  numquam  erit  febris,  nisi  calor 


24 

il)  huiusmodl  subiectis  f^iclus  fuerit  ».  E  perciò  sog- 
giungeva lo  slesso  autore  :  «  Neque  alimenta,  neque 
vermes,  neque  aliud  quidvis  posse  unquam  febrem 
excilare,  nisi  calor  praeter  naturam  vel  in  spiritibus, 
vel  in  humoribus,  vel  in  subslanlia  cordis  accensus 
fueiit  ». 

•  Ed  intanto  per  conoscere  il  valore  di  questa  dot- 
trina fa  d'uopo  indagare  nell'organismo  le  svariale 
sorgenti  del  calorico  ,  mentre  dalle  diveisità  delle 
medesime  derivano  le  differenti  specie  di  febbre. 

Relativamente  a  siffatta  indagine  discorrendo  il 
chiarissimo  Franceschi  su  di  alcuna  delle  sorgenti  di 
calorico  nell'organismo  si  esprimeva  con  i  seguenti 
termini  :  «  La  termogenesi  è  di  ragion  chimica,  e  una 
funzione  che  si  compie  fra  le  vicende  molecolaii 
della  materia  vivente  ;  né  veruno  potrà  niegarmi  , 
che  il  fonte  propriamente  di  simili  vicende  non  s'ab- 
bia da  ravvisare  nel  sangue,  che  è  un  liquido,  dove 
perennemente  si  alternano  l'omogenia  e  l'eterogenia, 
la  somiglianza  e  la  differenza,  la  diversità  e  la  me- 
desimezza,  per  cui  non  sì  dà  in  lui  conflitto,  che 
non  determini  altrettanti  conflitti,  e  fra  cotesto  as- 
sidue rimutazioni  della  sostanza  liquida,  e  dal  ina- 
teriale  liquidificato  si  apre  una  sorgente  inesauribile 
agli  sviluppi,  ed  alle  tensioni  del  calorico  »  (Vedasi 
Franceschi,  Dottrina  delle  febbri). 

1  medesimi  conflitti  considerati  nel  sangue  da 
tale  autore  si  realizzano  ancora  nell'apparato  gastro- 
enterico, e  negli  altri  apparati;  ed  è  perciò  che  ancor 
ne'  medesimi  si  hanno  altrettante  sorgenti  di  ca- 
lorico coir  influenza  a  tale  sviluppo  sotto  i  mede- 
simi conflitti  anche  dell'elettromozione. 


25 

Ma  il  calorico  così  svolto  non  ha  altri  caratteri 
che  quelli  fisici  superiormente  dimostrali;  in  con- 
seguenza fino  a  tanto  che  le  sorgenti  termiche  in 
discorso  sono  comprese  dentro  la  sfera  normale  som- 
ministrano per  materiale  organico  l'elemento  pro- 
porzionato all'ordine  fisiologico,  e  non  possono  esser 
considerate  quali  cause  morbose.  Allorché  però  sor- 
lano da  siffatta  sfera,  ed  eccedano  nella  produzione 
dell'elemento  termico,  le  stesse  sorgenti  diventano 
morbose  cagioni,  e  sono  atte  a  promuovere  lo  svi- 
luppo del  processo  febbrifaciente,  in  quante  che  il 
calorico  per  esse  svolto  in  grado  eccedente,  supe- 
rata l'organica  resistenza,  dallo  stato  semplicemente 
fisico  passa  a  quello  chimico  organico  producendo 
quelle  fasi  njorbose  chiamate  col  nome  complessivo 
di  febbre,  che  si  riduce  a  percorrere  lo  stesso  ec- 
cedente elemento  termico  1'  organica  assimilazione 
e  disassimilazione  coli'  analoga  crisi  nel  modo  me- 
desimo, che  è  stato  superiormente  dimostrato. 

Peitanto  quando  da  un  apparato  qualunque  , 
come  per  esempio  dal  gastro  -  enterico,  a  causa  di 
disordinata  alimentazione  o  per  quantità  o  per  qua- 
lità diasi  luogo  a  tal  gastricismo,  in  cui  le  molte 
permutazioni  succedenti  nelle  sostanze  alimentari  in 
rapporto  allo  sconcertato  apparato  organico  moli- 
vano  que'  conflitti,  per  cui  si  sviluppa  una  quantità 
eccedente  di  calorico,  in  questa  circostanza  si  pos- 
sono dare  i  seguenti  casi;  1.°  Il  calorico  si  diffonde 
talora  dalla  sorgente  in  discorso  nell'  intero  organismo 
senza  che  vinca  la  resistenza  oiganica;  ed  in  questo 
caso  esso  non  si  assimila,  non  si  appropria  all'or- 
ganismo medesimo,  e  non  produce  altro,  che  un'al- 


26 

terazione  fisico-dinamica. Per  il  che  avviene  un'espan- 
sione de'  globuli  sariguìgni  ,  una  celerità  di  movi- 
ntienlo  de'  medesimi,  donde  un  maggior  ballilo  del 
sistema  arterioso:  insomma  un'appariscenza  di  febbre, 
che  sta  in  rapporto  colla  causa  produttrice,  vale  a 
dire  col  gastricismo.  Vinto  il  quale,  resta  vinta  an- 
cor la  febbre.  E  questa  è  la  così  detta  febbre  d'  ir- 
ritazione o  effimera  gastrica.  2.°  il  calorico  come 
sopra  sviluppato  da  gastrica  sorgente,  vinta  l'orga- 
nica resistenza,  passa  dallo  stato  fisico  a  quello  chi- 
mico-organico, s'impadronisce  dell'organismo  sov- 
verchiandolo  ,  e  diventa  molecola  sovrabbondante 
della  sua  mistione.  Esso  percorre  in  questo  stato 
le  fasi  dell'assimilazione  e  della  disassimilazione  sino 
alla  crisi,  e  così  costituisce  la  febbre  continua,  come 
sopra  è  stata  dimostrala.  Colla  differenza  che  su- 
periormente si  è  trattato  della  semplice  sinoca  pro- 
dotta da  eccessività  di  calorico,  mentre  nel  caso  in 
esame  quantunque  si  tratta  parimenti  di  sinoca,  per- 
chè essenzialmente  ancor  quivi  la  febbre  è  costituita 
dal  calorico;  pur  con  tutto  ciò  per  esser  diversa  la 
provenienza  del  medesimo,  e  per  esser  questo  di- 
pendente da  un  fomite  gastrico  ,  che  è  causa  oc- 
casionale di  una  tal  febbre,  si  tratta  in  questo  caso 
d'una  febbre  ,  che  percorre  con  i  sintomi  gastrici 
r  intero  suo  andamento,  ed  ha  in  forza  de'  mede- 
simi sintomi  una  particolar  fisonomia.  Motivo  per 
cui  questa  febbre  ò  chiamata  gastrica,  o  sinoca  ga- 
strica. 

In  cotesta  febbre  il  calorico  di  fomite  gastrico 
mentre  spiega  la  special  fisonomia  di  questa  febbre 
medesima,  spiega  pure  la  sua  condizione  di  primaria 


27 
ed  essenziale  in  quanto  che  lo  stesso  calorico  dallo 
slato  fisico-dinamico,  come  è  quello  di  fomite  ga- 
strico, passa  nel  generale  dell'organismo  a  quello  chi- 
mico organico  diffuso  nell'intero  individuo,  subendo 
in  allora  le  fasi  assimilativo-disassimilative  e  criti- 
che costituente  così  il  vero  stato  febbrile,  la  decisa 
febbre  continua.  Ed  ecco  come  mercè  d'un  solo  prin- 
cipio od  elemento  morboso,  qual'è  l'eccedente  ca- 
lorico chimico-organico,  si  conciliano  i  rapporti  ge- 
nerali e  speciali  della  febbre,  senza  esser  questi  di- 
pendenti da  un  processo  di  locale  alterazione. 

E  veramente  in  questo  caso  se  evvi  un'altera- 
zione locale,  qual'è  il  gastricismo,  questo  è  di  tal 
naturi!  da  non  formare  un  locale  processo  ,  ma 
soltanto  costituisce  un  disordine  funzionale,  il  cui 
procedimento  e  risolvimento  si  relaziona  colla  con- 
dizione funzionale  del  solido  organico  ,  come  essa 
trovasi  sotto  i  diversi  stadi  della  febbre.  Mentre  poi 
il  calorico  anche  in  questo  caso  medesimo,  allorché 
soltanto  diventa  principio  generale  chimico-organico, 
costituisce  la  febbre.  Il  perchè  questa  è  generale  ed 
essenziale  in  siffatta  circostanza  medesima  ,  come 
generale  è  il  suo  principio  od  elemento  costituente, 
e  mostra  nel  suo  corso  le  sue  essenziali  qualità. 

Laonde  anche  nel  periodo  della  febbre  gastrica 
così  considerata  si  realizzano  le  due  principali  ten- 
denze od  efficienze,  che  superiormente  si  sono  viste 
prodursi  nell'evoluzione  organica  essenziale  della  feb- 
bre. 

3.°  Il  gastricismo  talvolta,  dopo  d'aver  prodotto 
irritazione  nel  tubo  gastro-enterico,  cagiona  il  pro- 
cesso flogistico  in  qualche  punto  del  medesimo  più 


28 
degli  altri  punii  iri-ilalo,  e  più  predisposto  a  siffatto 
procosso.  In  questo  caso  o  la  febbre  si  sviluppa  in 
seguito  a  tal  processo,  ed  è  dipendente  dal  mede- 
simo: in  allora  essa  è  una  febbre  secondaria,  e  non 
costituisce  la  febbre  gastrica,  ma  bensì  è  un  feno- 
meno ,  un  sintomo  della  gastro-enterite.  Né  vi  è 
ragione  di  chiamare  siffatta  flogosi  colla  denomina- 
zione di  febbre  gastrica,  benché  si  avesse  a  trattare 
di  una  flogosi  non  mollo  estesa,  mentre  la  maggiore 
0  minore  estensione  del  processo  infiammatorio  non 
può  far  cambiar  di  natura  la  stessa  infiammazione; 
ed  in  conseguenza  il  differente  grado  flogistico  non 
può  esser  causa  sufficiente  a  costituir  due  mali  da 
doversi  appellare  con  differenti  denominazioni. 

Parimenti  nel  caso  in  discorso  di  flogosi  gastro- 
enterica la  febbre  può  esser  prodotta  dal  calorico 
sviluppato  dal  gastricismo  come  sopra  considerato 
prima  che  siasi  ordito  il  processo  infiammatorio,  il 
quale  in  allora  avviene  nel  decorso  della  febbre  ga- 
strica. In  questo  caso  la  febbre  conserva  la  sua  na- 
tura di  primaria  ed  essenziale  ;  e  la  flogosi  gastro- 
enterica non  è  che  una  condizione  morbosa  associata 
alla  slessa  febbre,  come  appunto  veniva  considerata 
da  Frank,  che  esju'imeva  siffatta  complicazione  con 
i  seguenti  termini  :  u  Qualunque  volta  nella  febbre 
gastrica  le  materie  irritanti  si  ritrovino  in  un  uomo 
o  abbondante  di  sangue  per  cause  speciali  ,  o  af- 
fetto da  pletora  addominale,  o  che  egli  sia  molto  ir- 
ritabile e  sensibile  ,  ne  nascerà  una  complicazione 
infiammatoria  ».  (Vedasi  Frank  Epitome  eie.  trad.  del 
Comandoli).  Anche  Borsierl  ed  altri  autori  confer- 
mano la  stessa  complicazione  avveniio  talvolta  nel 


29 
corso  della  febbre  gastrica  come  da  Frank  viene 
esposta  ,  e  come  V  esperienza  conferma.  In  conse- 
guenza quando  si  ba  lo  sviluppo  dell'  infiammazione 
in  qualche  tratto  del  tubo  gastro-enterico  nel  pe- 
riodo della  febbre  gastrica,  non  bisogna  ritenere  il 
processo  flogistico  come  causa  di  una  tal  febbre,  e 
molto  meno  questa  febbre  come  sintomo  di  siffatta 
infiammazione;  ma  invece  convien  considerare  queste 
due  aifezioni,  febbre  e  flogosi,  in  questo  caso  come 
due  morbi  distinti,  due  mali  insieme  associati,  vale 
a  dire  1'  infiammazione  complicata  colla  febbre  ga- 
strica. 

4.°  Il  gastricismo  in  alcuni  casi  per  i  morbosi 
materiali,  da  cui  è  composto,  è  di  tal  condizione,  che 
dopo  d'aver  prodotto  la  febbre  nella  maniera  sopra 
indicata,  cagiona  pure  un  assorbimento  di  materie 
infette  per  guisa,  che  in  seguito  a'  primi  giorni  di 
febbre  gastrica  si  hanno  ì  sintomi  della  così  detta 
febbre  putrida,  o  sinoco,  o  tifoide.  In  tal  caso  av- 
vengono quelle  medesime  fasi  tanto  in  rapporto  all'as- 
similazione, quanto  alla  disassimilazione  sì  relativa 
al  sistema  sanguifero  che  al  nervoso,  quali  sono  state 
superiormente  considerate  discorrendosi  della  febbre 
succeduta  al  miasma  comunque  introdotto  od  avente 
luogo  nell'organismo  in  tutti  i  suoi  rapporti  dina- 
mici e  chimico-organici. 

Parimenti  ancor  quivi  ne'  casi  contemplati  di  feb- 
bre gastrica  si  realizzano  le  due  principali  tendenze 
od  efficienze,  che  sonosL  riscontrate  svilupparsi  nel 
corso  della  febbre. 

Le  stesse  annotazioni  fatte  sulla  febbre  gastrica 
possono  ugualmente  farsi  sulle  altre  specie  di  feb- 


30 

bre,  come  pur  anco  su  quelle  delle  quali  qui  tiensi 
discorso  ,  vale  a  dire  sulla  biliosa  e  sulla  reuma- 
tica. E  di  vero  in  quanto  alla  febbre  biliosa  disor- 
dinatosi ìi  funzionamento  dell'apparalo  epatico  per 
qualsivoglia  causa  fìsica  o  morale,  ch'ella  sia,  e  da- 
tosi luogo  per  questo  disordine  ad  un'eccedente  se- 
crezione di  bile  in  modo,  che  per  la  esuberante  se- 
crezione di  tale  umore  avvengano  insolite  e  molti- 
piici  permutazioni  e  nella  bile  stessa,  e  tra  questa 
e  gli  alili  umori  neli'  apparato  gastro-entei'ico  in 
correlazione  collo  apparato,  si  producono  in  siffatta 
guisa  que'  numerosi  conflitti  ,  da'  quali  si  sviluj)pa 
reccessivìtà  di  calorico  capace  a  tramutarsi  in  feb- 
bre ,  come  superiormente  si  è  dimostrato  avvenire 
nelle  evenienze  del  gastricismo.  In  cotesta  circo- 
stanza possano  accadere  tutti  (|ue'  casi,  che  si  son 
visti  succedere  al  gastricismo  njedesimo,  vale  a  diro 
quelli  compresi  dalla  febbre  d'  irritazione  biliosa  sino 
alla  biliosa  tifoidea  nel  modo  stesso,  che  si  ò  sopra 
indicato  in  rap|)orto  alla  febbre  gastrica. 

In  ognuno  de'  casi  in  discorso  hanno  pur  luogo 
le  due  opposte  tendenze  od  efficienze,  che  essenzial- 
mente si  manifestano  nel  corso  febbrile  sotto  le 
stesse  vicende  assimilativo -disassimilatìve,  e  senso- 
rio-motorie, come  sono  state  altrove  esaminate  in 
questo  medesimo  lavoro. 

In  quanto  poi  alla  febbre  reumatica,. quando  per 
gli  sbilanci  atmosferici,  o  per  qualsiasi  altra  causa 
reumatizzante,  si  disequilibrano  i  normali  rapporti  fra 
l'esalazione  e  rassorbimenlo,  donde  nasce  un'oppo- 
sizione all'esalazione,  e  quindi  un  arresto  od  ingorgo 
d'umore  traspirabile  ne'  vasi  esalanti   lungo  le  menti- 


31 

brane  specialmente  arlicolari,  che  dà  motivo  a'  n  oti 
sintomi  reumatici,  allora  in  questo  funzionale  scon- 
certo, in  siffatto  ingorgo,  succedono  quelle  permuta- 
zioni con  que'  conflitti  ,  che  danno  luogo  allo  svi- 
lu|)po  dell'eccedente  calorico.  Il  quale  se  è  di  poca 
entità,  rimane  locale,  e  non  giunge  allo  stato  feb- 
brile. Allora  bassi  il  reuma  apirellico.  Se  poi  il  ca- 
lorico nel  detto  modo  sviluppato  è  intenso,  e  si  ge- 
neralizza senza  passare  allo  stato  chimico-organico, 
allora  presentasi  sotto  forma  di  febbre  effimera  re- 
umatica. Allorché  infine  il  calorico  sotto  la  condi- 
ziono reumatica  prodotto  passa  dallo  stato  tìsico  a 
quello  chimico-organico  nella  maniera  superiormente 
dimostrato  impegnando  così  il  generale  dell'  orga- 
nismo, si  sviluppa  in  tal  caso  la  febbre  sinoca  reu- 
matica. Quindi  la  condizione  morbosa  costituente  il 
reuma,  da  semplice  perturbamento  funzionale  può 
passare  alla  formazione  del  processo  reumatico  nella 
località  offesa  dalle  cause  morbose.  Il  qual  processo 
si  complica  in  siffatta  circostanza  colla  febbre  sinoca 
reumatica  ,  come  si  è  visto  avvenire  del  processo 
infiammatorio,  ovvero  costituisce  il  deciso  reuma- 
tismo, che  differisce  dalla  febbre  reumatica  per  es- 
ser questa  un'affezion  generale,  e  quello  un  processo 
di  locale  alterazione. 

Finalmente  la  materia  traspirabile  impedita  nella 
sua  esalazione,  e  trattenuta  ne'  rispettivi  vasi,  può 
esser  riassorbita,  trasportata  nel  circolo  sangui- 
gno ,  e  cosi  per  le  sue  morbose  qualità  contami- 
nare la  crasi  del  sangue,  e  ledere  il  sistema  de'nervi. 
In  siffatto  caso  si  avià  la  febbre  tifoide  prodotta  da 
cause  comuni  atmosferiche,  la  quale  talvolta  è  anche 


32 

epidemica,  come  pure  si  presenta  endemica  in  alcune 
localilà.  Ed  in  cotesla  evenienza  il  producimento 
della  febbre  sia  sempre  in  rapporto  col  calorico  svi- 
luppato nel  modo  stesso,  con  cui  sopra  si  è  visto 
prodursi  nella  circostanza  del  miasma  comunque  in- 
fettante l'organismo. 

Così  pure  nel  corso  della  stessa  febbre  qui  con- 
siderata si  trovano  realizzate  le  due  opposte  tendenze 
od  efficienze ,  che  sonosi  riscontiate  antecedente- 
mente nel  corso  febbiile  sotto  qualunque  aspetto 
esaminato.  Imperocché  in  quanto  al  calorico,  sog- 
giacendo esso  alle  fasi  assimilativo-disassimilative  dà 
motivo  a  manifestarsi  in  queste  fasi  medesime  le 
efficienze  in  discorso.  In  quanto  poi  alla  materia 
morbosa  particolarizzata  nelle  diverse  specie  di  feb- 
bre, 0  essa  si  limita  all'azione  meccanico-organica, 
ossia  all'irritazione  ,  ed  in  questo  caso  le  suddette 
tendenze  od  efficienze  sono  in  rapporto  con  i  mo- 
vimenti dinamici  di  conti-azione  ed  espansione  di- 
retti dalle  forze  generali  dell'organismo,  come  su- 
periormente ciò  è  stato  dimostrato.  Oppure  la  stessa 
materia  morbosa  viene  assorbita  e  trasferita  nel  san- 
gue :  e  in  questo  caso  essa  soggiace  all'assimilazione 
ed  alla  disassimilazione,  e  dà  luogo  in  queste  fasi 
alla  manifestazione  delle  suddette  due  opposte  ten- 
denze od  efficienze  ;  come  pure  a  queste  dà  luogo 
quando  essa  materia  produce  nel  tessuto  organico  il 
processo  morboso,  che  nella  sua  composizione  e  de- 
composizione manifesta  le  stesse  efficienze.  Tutte 
cotesto  vicende  poi  sì  assimilativo-disassimilative, 
e  sì  dinamico-organiche,  nel  caso  di  febbre  vanno  di 
pari  passo  colle  fasi  assimilativo-disassimilative  del 


33 

calorico,  vale  a  dire  cogli  stadi  della  febbre;  e  però 
le  tendenze  od  efficienze,  che  si  mostrano  nel  corso 
febbrile,  s' identificano  con  quelle  d'ogni  elemento  in- 
terveniente alla  formazione  delle  diverse  specie  di 
febbre. 

In  siffatta  guisa  nel  modo  indicato  mediante  il 
calorico  considerato  come  principio  generale  nel  suo 
producimento  e  fasi  chimico-organiche  ,  sebben  di 
origine  locale  nelle  diverse  specie  di  febbre,  spiega 
la  condizione  essenziale  o  primaria  di  queste  mede- 
sime specie,  quantunque  la  loro  specifica  fenomeno- 
logia sia  locale  ,  non  derivando  essenzialmente  da 
parzial  processo,  ed  essendo  la  febbre  anche  in  que- 
sto caso  lo  stesso  calorico  nel  generale  in  modo  chi- 
mico-organico costituito. 

Diversamente  da  ciò  avviene  nella  febbre  secon- 
daria, nella  quale  il  fomite  calorifero  locale  non  ò 
fisico,  come  lo  è  nelle  diverse  specie  di  febbre  pri- 
maria sopra  annotate,  ma  bensì  è  chimico-organico, 
il  quale  si  diffonde  con  questo  carattere  nel  generale 
dell'organismo  costituendo  così  la  febbre.  E  difatti 
che  localmente  nella  febbre  secondaria  esista  questo 
fomite  calorifero  di  tal  natura  lo  avvertiva  bene  il 
Massaria  nell'opera  sopra  citata  colle  seguenti  pa- 
role: «  Possunt  enim  in  corpore  esse  multi  calores 
extranei  (per  calorico  estraneo  s'  intende,  come  so- 
pra si  è  notato,  il  calorico  chimico-organico  forma- 
tosi in  questo  caso  in  una  od  in  un'altra  località) 
qui  tamen  febres  non  sunt,  veluti  si  iecur,  vel  alia 
pars  incalescat  ,  si  aliqua  externa  pars  corripiatur 
inflammatione;  erunt  quidem  huiusmodi  calores  ex- 
tranei, ac  praeter  naturam;  vcruntamen  non  erunt 
G.A.T.CLXVI.  3 


34 

febris  nisi  in  corde  calor  accendatur  »,  I.o  che  ò 
quanto  dire,  che  il  calorico  chimico-organico  allora 
soltanto  costituisce  la  febbre  quando  dalla  località, 
in  cui  per  primo  si  è  acceso,  si  diffonde  con  que- 
sto medesimo  carattere  nel  generale  dell'organismo. 
Ed  in  questo  caso  si  tratta  di  febbre  secondaria,  la 
quale  intanto  è  diversa  dalla  febbre  primaria  ,  in 
quanto  che  questa  non  è  altro  che  la  conversione 
del  calorico  dallo  slato  fisico  a  quello  chimico-or- 
ganico avvenuta  nel  generale  delTorganisino;'  quella 
poi,  cioè  la  febbre  secondaria,  esprime  siffatta  con- 
versione eseguita  in  un  locale  processo,  da  cui  nasce 
diffusione  del  calorico  chimico-organico  nel  generale, 
che  si  relaziona  colla  località  affetta,  ossia  col  centro 
dell'  infezione. 

Anche  nella  febbre  secondaria  si  realizzano  le 
stesse  due  tendenze  od  efficienze,  che  sonosi  riscon- 
trate nel  corso  della  febbre  primaria,  colla  differenza 
che  nella  febbre  secondaria  sono  esse  in  rapporto 
col  processo  di  locale  alterazione  a  tenore  del  suo 
stato  di  composizione  e  di  decomposizione,  ossia  di 
assimilazione  e  di  disassimilazione  ,  o  di  crudezza 
e  di  cozione  relativa  allo  stesso  processo  locale  in 
rapporto  allo  stato  generale;  mentre  che  nella  febbre 
primaria  le  medesime  tendenze  od  efficienze  si  re- 
lazionano collo  stato  generale  ,  o  cogli  stadi  della 
medesima  febbi-e. 

Tale  è  il  concetto  ,  che  delle  diverso  specie  di 
febbre  si  è  avuto  da'  sommi  della  scienza  medica, 
quando  la  medicina  era  scevra  dalla  farragine  delle 
ipotesi.  Il-  quale  concetto  trovasi  per  il  piìi  espres- 
sivo della  vera  ippocratica  dottrina. 


35 

A  questo  medesimo  concetto  più  che  a  qualun- 
que altro  corrisponde  il  metodo  di  cura  refrigerante- 
eliminativo,  che  1'  esperienza  di  tutti  i  tempi  e  di 
tutti  1  luoghi  ha  dimostrato  sempre  farace  di  somma 
utilità  nel  debellare  le  febbri  adattandolo  alle  di- 
verse circostanze  dell'  infermo,  a'  diversi  stadi  della 
febbre  stessa.  Il  qual  metodo  si  unisce  anche  all'an- 
tinervino  quando  il  sistema  nervoso  impegnato  nel 
decorso  febbrile  n'esige  l'applicazione  a  tenore  della 
sua  diversa  maniera  di  prodursi,  abbisognando  dello 
stesso  metodo  antinervino  come  sopra  consociato  ed 
effettuato  con  mezzi  di  qualità  diversa  secondo  che 
il  medesimo  impegno  nervoso  si  annuncia  coll'atas- 
sia,  coli'  adinamia,  ovvero  colla  periodicità.  Corri- 
spondono parimenti  alla  pratica  di  siffatto  metodo 
anche  i  mezzi  rivulsivi  ,  che  in  alcune  circostanze 
nel  decorso  febbrile  possono  soddisfare  a  speciali 
indicazioni  con  decisa  utilità,  siccome  dall'esperienza 
ciò  viene  addimostrato. 

■    §.  V. 

Valore  delle  principali  efficienze  manifeslalesi  nel  corso 
della  febbre,  fallo  confronlo  di  quesla  con  allri  ma- 
li, ed  imporlanza  della  slessa  febbre. 

Dopo  d'  essersi  considerata  la  febbre  come  un 
fatto,  ed  esaminata  ne'  suoi  rapporti  dottrinali,  onde 
portar  l'oggetto,  di  cui  qui  si  tratta,  al  suo  risolvi- 
mento è  di  mestieri  far  comparazione  tra  le  effi- 
cienze manifestatesi  nelT  intero  periodo  della  febbre 


36 
e  quelle  che  si  mostrano  nel  corso  degli   altri  mali 
por  vederne  poi  la  loro  importanza. 

Ad  effettuare  una  tal  comparazione  si  esige  un'ana- 
lisi del  fatto  morboso  relativa  a  qualunque  sorte 
di  male.  Però  non  stimasi  necessario  V  istituirne  qui 
una  nuova:  vuoisi  invece  accettare  in  questa  discus- 
sione la  medesima  analisi  già  da  altri  istituita,  e  trar 
profìtto  dalle  risultanze  della  medesima,  affinchè  que- 
sta serva  ancora  di  autorevole  sanzione  all'oggetto 
in  esame.  Pertanto  dalla  fatta  analisi  risulta,  che  lo 
stato  morboso  qualunque  egli  sia,  e  sotto  qualsivo- 
glia appariscenza  si  mostri,  è  sempre  uno  stato  vi- 
tale, in  cui  la  vita  è  declinata  dalla  condizione  di 
salute,  ma  è  sempre  vita.  La  quale  declinazione  vien 
prodotta  da  nemiche  potenze,  che  investendo  l'or- 
ganismo riducono  alcune  funzioni  del  medesimo  ad 
agire  a  danno  della  stessa  vita.  Questa  però  in  tutto 
il  tempo  della  durala  di  siffatta  dannosa  azione,  il 
che  è  quanto  dire  finché  persiste  il  male,  e  per  fino 
a  tanto  che  essa  non  si  spegne,  possiede  sempre  il 
suo  essenzial  potere  ,  qual'  e  la  forza  od  efficienza 
conservativa  operante  secondo  il  normale  organico 
tipo  ,  ed  esercitata  con  un  funzionamento  opposto 
a  quello,  che  investito  ed  attuato  dalle  ostili  cagioni 
tende  alla  distruzione  dell'organismo,  avente  perciò 
un'efficienza  distruggitiva.  Laonde  nello  stato  mor- 
boso si  manifestano  sempre  coteste  due  opposte  ten- 
denze od  efììcienze,  l'una  delle  quali  è  distruggitiva, 
l'altra  è  conservativa.  E  difatti  il  chiarissimo  Fran- 
ceschi considerando  il  processo  di  malattia  notava 
presentarsi  nel  corso  della  medesima  due  contrarie 
efficienze,  per  l'una  delle   quali  se  è  pronta,  come 


37 

egli  (liceva  ,  molte  volle  a  traboccar  nella  morte  , 
per  r  altra  all'  incontro  aver  luogo  la  guarigione. 
(Vedasi  il  Raccoglitor  medico  di  Fano. Luglio  1858.). 

Ora  da  lutto  ciò,  che  superiormente  si  è  rimar- 
cato intorno  alla  febbre  ,  ed  intorno  a  qualunque 
altra  malattia  si  ravvisa,  che  tanto  nel  corso  del- 
l'una, quanto  in  quello  dell'altra,  manifestansi  ugual- 
mente due  principali  opposte  efficienze.  E  perciò  fa 
d'uopo  rilenener  la  febbre  un  morbo  al  pari  di  tutti 
gli  altri  morbi  sviluppati  a  danno  dell'  organismo, 
esprimendo  essi  al  pari  della  febbre  un'alterazione 
più  0  meno  intensa,  capace  talvolta  delle  più  fune- 
ste conseguenze,  come  il  fatto  ciò  palesemente  di- 
mostra. 

Non  si  oppone  a  quest'uguaglianza  tra  la  feb- 
bre e  gli  allri  mali  l'osservare,  che  ne!  corso  delle 
diverse  malattie,  e  della  stessa  febbre,  si  mostra  una 
forza,  od  un'efficienza,  che  tende  a  ricondurre  l'or- 
ganismo al  suo  slato  di  sanità.  Imperocché  questa 
non  è  altro  ,  che  la  forza  conservativa  ,  la  quale 
come  presiede  allo  sviluppo  dell'organismo  mede- 
simo a  tenore  del  proprio  tipo  evolutivo  dal  prin- 
cipio sino  al  suo  fine,  così  serve  pure  ad  allonta- 
nare quell'ostacolo  costituito  dal  morbo,  che  si  op- 
pone alla  normale  organica  evoluzione.  E  se  non 
sempre  essa  forza  riesce  nell'  intento  per  la  prepo- 
tenza del  morbo,  non  è  per  questo  motivo  che  an- 
cora in  tal  caso  non  faccia  ogni  sforzo  per  rag- 
giungere il  suo  scopo. 

La  medesima  forza  conservativa  si  pone  in  atto 
mercè  le  somme  funzioni  dell'organismo,  cioè  del- 
l'assimilazione, della   disassimilazione,  e  della  se»- 


38 
sazlone  ,  le  quali  finche  dura  la  vita  non  possono 
lasciare  il  loro  esercizio,  e  mentre  il  lasciano,  av- 
viene la  morte.  Nell'evenienza  poi  della  malattia  la 
forza  in  disiiorso  seguita  ad  agire  collo  stesso  scopo 
costituito  dall'evoluzione  del  tipo  organico  in  guisa 
tale,  che  le  offese  fatte  sull'assimilazione  sono  ri- 
parate dalla  disassimilazione,  e  per  contiario  quelle 
della  disassimilazione  vengono  risarcite  dall'assimi- 
lazione. E  cosi  nel  sistema  motore  sensitivo  i  mo- 
vimenti contrattivi  sono  controbilanciati  cogli  espan- 
sivi, e  questi  con  quelli,  il  tutto  coli'  influenza  delle 
esterne  cagioni. 

La  medesima  forza  conservativa,  nel  manifestarsi 
colle  suddette  somme  funzioni  dell'  organismo,  si 
palesa  sempre  con  una  tendenza  all'  equilibrio  fra 
queste  medesime  funzioni  proporzionato  alle  diffe- 
renti età  dell'esser  vivente,  ed  alle  diverse  fasi  del- 
l'evoluziene  organica  del  medesimo,  fn  guisa  che  rotto 
comunque  siffatto  equilibrio,  e  con  ciò  costituitosi 
il  morbo,  il  funzionamento  espressivo  della  forma- 
zione del  male,  che  tende  alla  distruzione  dell'orga- 
nica compage,  incontra  un  obice  a  questa  tendenza 
fatto  da  un  altro  funzionamento  pronto  ad  agire  in 
senso  opposto  al  primo  propenso  ed  atto  all'orga- 
nica riparazione,  che  promana  dalla  forza  primigenia 
della  vita. 

Il  perchè  è  manifesto,  che  la  forza  conservativa, 
la  quale  libera  l'organismo  dal  male  minacciante  la 
sua  distruzione,  non  nasce  dal  morbo,  ma  bensì  dal 
processo  organizzante  a  tenore  degl'  intrinseci  rap- 
porti dell'evoluzione  organica  corrispodente  sempre 
allo  special  suo  tipo.  E  se  la  medesima  forza  con- 


39 

servativa  trovasi  consociala  allo  stesso  processo  mor- 
boso, non  è  perciò  eh'  ella  sia  costituita  da  tal  pro- 
cesso: essa  vi  prende  parte  come  tutrice  dell'orga- 
nismo, onde  allontanare  ed  eliminare  dalla  macchina 
tutto  ciò,  che  tende  ad  abbatterla.  Ma  cotesta  forza 
è  sempre  costituita  dal  processo  organizzante  me- 
desimo, e  trovasi  perciò  nell'essere  dotato  di  vita 
dal  primordio  di  sua  formazione  fino  alla  morte. 
Essa  ne  sorregge  i  suoi  fisici  destini  sì  nello  stato 
di  salute  e  sì  in  quello  di  malattia  per  modo,  che 
in  qualunque  vicenda  è  sempre  pronta  a  sostener 
l'organismo  stesso,  moltiplicando  per  fino  i  suoi  sforzi 
in  tutte  quelle  avverse  circostanze,  nelle  quali  l'in- 
dividuo vivente  è  minacciato  di  danno  e  di  ester- 
minio. 

Tutte  le  quali  riflessioni  sono  applicabili  al  pro- 
cesso febbiile,  ed  alla  forza  conservativa,  che  tro- 
vasi consociata  al  medesimo.  In  conseguenza  può 
dedursi  non  esser  la  febbre,  come  non  lo  è  qualun- 
que altro  male,  che  abbia  per  se  stesso  la  tendenza, 
l'efficienza,  l'attitudine  di  condurre  l'organismo  alla 
sua  normal  condizione  quando  è  declinato  dalla  me- 
desima in  vigore  dello  stesso  male.  11  processo  mor- 
boso, per  ciò  che  importa  la  sua  natura  di  qualun- 
que indole  sia  ,  è  sempre  nemico  all'organismo  ,  ò 
basato  sulla  forza  distruggitrice  ,  è  sorretto  dalla 
medesima  forza,  e  progredisce  il  suo  corso  sino  al- 
l'esito fatale  sempre  collo  stesso  principio.  In  con- 
seguenza la  febbre,  ed  una  qualunque  malattia,  non 
può  avere  alcun  elemento  con  caratteri  opposti  a  sif- 
fatta tendenza  distruggitiva»  che  nasca  dalla  sua  pro- 
pria natura  ,  e  che  in  virtù  della  medesima  abbia 


40 

a  ridonare  all'organisiiio  Io  sialo  di  saltile.  E  di  vero 
la  febbre,  e  qualunque  altro  male,  nella  supposizione 
che  avesse  un  tale  elemento,  avrebbe  qualità  opposte 
tra  di  loro  in  maniera,  che  si  eliderebbero  insieme, 
e  giammai  potrebbero  conciliarsi  coli'  esistenza  di 
alcun  processo  morbifaciente.  Non  è  possibile,  che 
con  sitratte  opposte  qualità  possa  ordirsi  un  qualsi- 
voglia lavoro  morboso  in  un  organico  tessuto,  o  vi- 
scere, o  parte  dell'essere  vivente,  mentre  ad  un  tem- 
po stesso  il  male  sarebbe  e  non  sarebbe,  e  non  po- 
trebbe aver  luogo  altro  che  il  più  palese  assurdo. 
Tanto  è  lungi  ,  che  dalla  stessa  natura  del  male 
possa  derivare  un  elemento  di  sanabilità,  che  formi 
parte  essenziale  dei  morbo  medesimo  ,  come  uno 
de'  suoi  intrinseci  principi!  necessario  ed  indispen- 
sabile alla  sua  evoluzione  ! 

Con  tulio  ciò  però  l'osservarsi  nel  secondo  sta- 
dio della  febbre,  e  nel  tempo  di  cozione  di  qualun- 
que altro  morbo,  un  ravvicinamento  alla  salute,  una 
tendenza  a  felice  risoluzione  tutt'all'opposto  di  quel 
che  si  vedeva  nel  primo  stadio  sì  della  febbre,  e  sì 
di  altro  male;  il  notarsi  ciò  slesso  tanto  considerato 
qualsivoglia  morbo  come  un  fatto,  quanto  contem- 
plalo il  processo  morbifaciente  nelle  leggi  di  suo 
producimento,  ha  dato  motivo  ad  alcuni  patologi  sì 
della  remota  e  sì  della  presente  età  a  giudicare  , 
che  ne'  morbi  considerati  in  se  stessi  nel  loro  svi- 
luppo come  realmente  esiste  un'efficienza  distruggi- 
liva,  così  evvi  ancora  un'  efficienza  conservativa;  e 
che  in  ispecie  la  febbre  sia  un'operazione  salutare 
della   natura  effettuata  onde  espellere  dall'organismo 


41 

la  potenziì  ostile  comunque  nel  medesimo  avente 
luogo. 

Intorno  al  qual  giudizio  esternato  da  vari  pato- 
logi di  diverse  età  vuoisi  riflettere,  ch'esso  è  fon- 
dato sull'appariscenza  de'  fenomeni,  che  avvengono 
nel  corso  delle  differenti  malattie,  e  della  stessa  fe- 
bre,  e  non  sulla  natura  delle  medesime.  E  veramente 
stando  all'  appariscenza  del  fatto  ,  non  v'  ha  dub- 
bio, che  riguardo  a'  fenomeni  manifestatisi  nel  corso 
de'  mali, e  della  stessa  febbre,  per  quanto  in  quelli  del 
primo  stadio  si  presenti  un  allontanamento  sempre 
crescente  dalla  salute,  ossia  un'efficienza  propensa  a 
distruzione,  altrettanto  in  contrario  ne'  fenomeni  svi  - 
luppati  nel  secondo  stadio  si  palesa  una  tendenza 
opposta  a  quella  espressa  da'  primi,  ossia  un  ravvi- 
cinamento alla  salute  medesima,  vale  a  dire  un'ef- 
ficienza conservativa.  Lo  che  però  non  conduce  a 
giudicare,  che  dal  male  stesso  emerga  la  medesima 
eftìcienza  conservativa,  e  che  la  febbre  sia  un  conato 
salutare.  Imperocché  a  tenore  della  ragione  del  fatto 
dovendosi  considerare  il  morbo  non  solo  nella  sua 
estrinseca  fenomenologia,  ma  ancora  nella  sua  in- 
trinseca natura  relativamente  alle  condizioni  vitali 
dell'organismo,  si  offre  la  indagine  onde  conoscere 
se  le  opposte  efficienze,  che  si  mostrano  nel  corso 
delle  differenti  malattie,  e  della  stessa  febbre,  emer- 
gono realmente  dal  male,  ovvero  da  que'  principi! 
che  reggono  l'organica  evoluzione. 

Pertanto  considerato  il  morbo,  ossia  un'altera- 
zione qualunque  dell'organismo  in  rapporto  alle  sue 
cause  produttrici  ,  ed  in  relazione  a'  poteri  vitali  , 
egli  si  presenta  sotto  due  differenti  aspetti.  In  uno 


42 

de'  quali  ò  notabile  il   nesso    tra  le  cause   morbose 
ed   il  male,   nell' altro  è  rimarchevole  l'energia  del 
poter    vitale    conservativo   sulla  malattia  stessa.  II 
[ìrimo  di  questi  medesimi  due  aspetti,  con  i  quali 
si  presenta  il  morbo,  esprime  la  formazione  del  male 
generato  dalle  di  lui  cause  produttrici  in    tutta   la 
sua  attività.  Una  tal  formazione  è  basata  sulla  forza 
distruggitrice  dell'organismo  (come  in  altro  mio  la- 
voro essa  forza  è  stata  già  dimostrata  pubblicamente 
per  le  stampe  di  Fano  1858),  e  si  effettua  mercè  di 
quegli  apparati  organici,  che  sono  offesi  dalla  causa 
morbosa.  Quivi  propriamente  e  sostanzialmente  con- 
siste il  male,  poiché  qualunque  altro  fenomeno  pro- 
veniente da  causa  al  difuori  di  quella  della    di  lui 
formazione  è  estrinseco    alla  sua    natura.  E  difatti 
esso  male  in  forza  di  sua  natura  formativa  non  può 
per  se  stesso  formarsi  e  risolversi:  mentre  questi  due 
elementi  formativo  e  risolutivo  non  possono  dipen- 
dere da  un  solo  fomite,   poiché  viceversa  include- 
rebbero contraddizione,  sarebbero  e  non  sarebbero. 
In  conseguenza  il  male  per  ciò  che  risguarda  il  suo 
sviluppo  ,  fino  a  tanto  che  non  si  risolve  fino  alla 
minima  sua  parte,  è  sorretto  sempre  dalla  stessa  na- 
tura tòrmaliva;  e  come  tale  offende  incessantemente 
l'organismo,  allenta  alla  sua  sussistenza;  e  perciò 
nessun'altra  efficienza  può  avere  che  quella  distrug- 
gitiva.  La  quale  é  l'unica  efficienza,  che  sorge  pro- 
priamente dalla  genesi  del  male  considerato  nella  sua 
natura,  nel  suo  sviluppo,  e  nell'  intera  sua   durata 
formativa. 

Il  secondo  aspetto,  con  cui  si  presenta  qualun- 
que infermità,  non  esclusa  la  febbre,  é  prodotto  dal- 


43 

Peneigia  del  poter  viiale  conservativo  effettuato  con- 
tro la  formazione  del  processo  morbifaciente,  e  ma- 
nifesta la  risoluzione  del  medesimo  processo.  11  qual 
poter  vitale  conservativo  si  esercita  in  quegli    ap- 
parati organici  ,  che  sono  in  opposizione  a  quelli  , 
ne'  quali  ha  luogo  la  formazione  del  morbo.  Di  ma- 
niera che  il  lavoro  risolutivo,  per  quanto  operi  sul 
formativo  ,  è  sempre  motivato  in  parti   diverse  da 
quelle,  in  cui  si  costituisce  il  male.  Laonde  la  for- 
mazione del  morbo,  e  la  risoluzione  del  medesimo, 
non  solo  sono  due  operazioni  distinte  ,  ma  ancora 
si  promuovono  in  apparati  tra  di  loro  differenti.  Con 
ciò  si  stabilisce  come  ragionevol  massima,  che  la  ri- 
soluzione del  male  sebbene  si  operi  sul  processo  mor- 
bifaciente, pur  nondimeno  vien  prodotta  da  un  po- 
tere vitale  distinto  dal  morbo  medesimo,  ed  estrin- 
seco alla    sua    formazione.  Per  il  che  giustamente 
siffatto  potere  veniva  denominato  dal  Puccinotti  cogli 
attributi  di  fisiologico  superstite:   volendo  così  di- 
mostrare, che  la  risoluzione  de'  morbi,  la  quale  av- 
viene sempie  mercè  l'opera  del  suddetto  potere  vi- 
tale, ossia  della  forza  conservativa,  non  è  un   lavoro 
effettuato  da  una  forza  morbosa  inerente  allo  stesso 
male,  ma  bensì  viene  eseguito  in  virtù  d'un  potere 
estraneo  alla  natura  formativa  del  processo  moibi- 
faciente,  che  è  quanto  dire  dallo  stesso  male,  ed  è 
retto  da  leggi  fisiologiche  ,    cioè  da  quel  principio 
che  sostiene  1'  organismo  nella  sua  normale  evolu- 
zione. In  questo  principio,  o  poter  vitale,  consiste 
propriamente  1'  efficienza  conservativa  ,  che  trovasi 
manifestata  nel  corso  di  qualunque  malattia,  e  della 
stessa  febbre. 


Dalle  quali  cose  risulta,  che  le  due  opposte  ten- 
denze od  efficienze  mostrantesi  nel  periodo  de'  mali 
e  della  febbre,  l'una  distruggitiva,  l'altra  conservativa, 
provengono  da  differenti  origini.  Imperocché  in  qua- 
lunque stato  morboso  l'efficienza  distruggitiva  deriva 
dal  processo  di  formazione  del  male  ,  e  l'efficienza 
conservativa  promana  dal  poter  vitale  di  conserva- 
zione. La  prima  è  il  deciso  risultato  della  condi- 
zione di  decadimento  della  vita,  la  seconda  è  il  vero 
prodotto  de'  poteri  fisiologici  superstiti  di  conser- 
vazione. 

In  conseguenza  difetta  di  fondamento  l'asserire, 
che  dal  male  e  dalla  febbre  promanano  le  due  ef- 
ficienze in  discorso,  e  che  nel  processo  di  morbosa 
formazione  come  evvi  un  potere  offensivo  all'orga- 
nismo, COSI  ve  ne  sia  un  altro  redintegrativo.  Le  quali 
proposizioni  ,  perchè  contraddittorie  per  se  stesse 
non  possono  coesistere  rette  da  una  sola  stessa  ca- 
gione ,  cioè  dall'  unico  lavoro  morboso  ,  e  perciò 
abbisognano  per  la  loro  manifestazione  di  sorgenti 
diverse  ed  opposte,  quali  sono  appunto  quelle  che 
sono  state  sopra  dimostrate. 

Le  due  suddette  efficienze  si  trovano  espresse 
nel  corso  de'  mali  in  modo,  che  per  quanto  l'una 
danneggia  l'organismo  dal  principio  del  male  sino 
alla  completa  sua  risoluzione,  l'altra  all'opposto  fa 
fronte  a  questo  danno  in  tutto  il  periodo  morboso, 
con  questa  differenza  che  nel  primo  stadio  del  male 
è  in  predominio  la  efficienza  distruggitiva,  e  nel  se- 
condo stadio  prepondera  l'efficienza  conservativa. 

Ma  siffatto  predominio  non  esclude  la  continuità 
delle  rispettive  efficienze  in  lutto  il  periodo  morboso 


45 

palesale  colle  analoghe  somme  funzioni,  perguisacbè 
la  formazione  dei  male  espressa  coli'  efficienza  di- 
struggitiva  quantunque  dal  suo  principio  fino  al  di 
lui  acme  mostri  il  predominio  di  siffatta  efficienza, 
pur  nondimeno  continua  a  presentarsi  fino  al  suo  fine: 
lo  che  è  quanto  dire  in  tutto  il  tempo  del  male  , 
essendo  questo  tempo  identico  col  suo  processo  for- 
mativo. Né  si  potrebbe  supporre  la  durata  del  male 
senza  la  continuità  della  sua  formazione,  mentre  il 
processo  risolutivo  in  fine  non  è  altro  che  un  gra- 
duato scomponimento  di  forma.  Così  all'  opposto 
l'efficienza  conservativa  sempre  intenta  alla  norma- 
lità del  tipo  organico  sebbene  preponderi  sull'effi- 
cienza distruggitiva  nel  secondo  stadio  del  morbo, 
pur  con  tutto  ciò  ella  esiste  sempre  fin  dal  princi- 
pio del  male;  ed  è  appunto  per  tale  esistenza,  che 
il  processo  di  malattia  non  può  progredire  nella  sua 
morbosa  elaborazione  come  farebbe  senza  di  que- 
st'obice, vien  frenato  nel  suo  progresso,  ed  impedito 
le  molte  volte  nelle  sue  funeste  conseguenze.  Nel 
secondo  periodo  poi  evvi  di  rimarchevole,  oltre  al- 
l' efficienza  conservativa  generale  mai  cessante  nel- 
l'organismo finche  vive,  evvi,  dico,  lo  sviluppo  in 
predominio  della  medesima  efficienza  speciale  ope- 
rante sul  processo  morboso  formativo,  ossia  contro 
l'efficienza  distruggitrice:  predominio  caratterizzato 
da  particolare  fenomenologia  riconosciuta  dai  pratici 
negli  speciali  sìntomi  dimostrativi  dello  stato  di  co- 
zione. 

È  pur  notabile  la  diversità  delle  medesime  effi- 
cienze nel  modo  di  loro  sviluppo  considerato  sì  nel- 
r  universale  dell'organismo,  e  sì  risguardato  nella 


46 

parie  affetta.  Imperocché  se  nel  generale  si  com- 
portano esse  presso  a  poco  con  quelPordinario  an- 
damento, che  notasi  sotto  l'evenienza  dolla  quoti- 
diana assimila/.ione,  disassimilazione,  e  sensazione, 
nella  parte  affetta  poi ,  qualunque  sia  1'  influenza 
ch'essa  abbia  colle  stesse  generali  funzioni,  si  sco- 
stano dalla  condizione  dell'universale,  e  si  differen- 
ziano dal  medesimo,  in  quanto  che  nella  parte  af- 
fetta il  lavoro  formativo  del  male  non  s'alterna  quo- 
tidianamente ed  equabilmente  colTopera  risolutiva, 
come  ciò  accade  fino  ad  un  certo  punto  nel  gene- 
rale; ma  si  estende  ad  un  tempo  pili  o  meno  lungo 
secondo  la  diversità  di  grado  e  di  natura  de'  dif- 
ferenti morbi.  Alla  qual  durata  poi  del  lavoro  mor- 
boso formativo  corrisponde  il  risolutivo  presso  a  poco 
con  altrettanto  tempo.  Il  perchè  le  esposte  tendenze 
od  efficienze,  che  sono  le  molli  di  siffatti  lavori  , 
quantunque  sieno  innalterabili  nella  loro  rispettiva 
natura  ,  pur  nondimeno  a  tenore  della  condizione 
morbosa,  in  cui  talora  si  trovano  le  varie  parti  del- 
l'organismo ,  modificano  in  queste  parli  medesime 
la  loro  espressione  sì  ne'  rapporti  d'  intensità  e  sì 
in  quelli  di  alternativa  durata  a  differenza  di  ciò 
che  sono  nell'universale  organico. 

Ma  in  ogni  modo  per  quanto  l'efficienza  distrug- 
gitiva  tenta  a  danneggiare  la  parte,  su  cui  ha  spie- 
gato singolarmente  la  sua  possa,  l'efficienza  con- 
servativa all'opposto  fa  di  tutto  per  impedire  e  di- 
struggere i  danni  prodotti  dal  morboso  potere,  ri- 
ducendo la  parte  atfetta  al  tipo  normale,  e  portan- 
dola ad  armonizzare  nella  debita  proporzione  col- 
l'universale,  cui  essa  stessa  incessantemente  presiede 


47 
centralizzala  ne'  punti  essenziali  della  vita  ,  ed  ir- 
radiata nelle  sìngole  paiti.  Così  si  dà  a  divedere  co- 
me quella  forza  conservativa,  che  regge  l'organismo 
nelle  tante  vicissitudini  dello  stato  morboso,  sia  quella 
stessa,  che  lo  sostiene  nella  normalità  della  salute. 
Ed  è  perciò,  che  anche  in  mezzo  a  queste  medesi- 
me morbose  vicissitudini  chiara  apparisce  la  diffe- 
rente derivazione  delle  due  opposte  tendenze  od 
efficienze,  che  si  mostrano  nel  corso  de'  mali,  e  dalla 
stessa  febbre:  essendo  per  le  cose  sopra  esposte  ba- 
stantemente palese  l'origine  della  tendenza  od  effi- 
cienza distruggitiva  ,  che  sorge  dalla  genesi  dello 
stesso  morbo,  e  la  derivazione  dell'efficienza  conser- 
vativa, che  procede  dal  potere  fisiologico  superstite 
conservatore  inerente  al  primitivo  stampo  organico. 
E  perciò  stesso  quando  si  è  detto  che  le  due  op- 
poste efficienze  in  discorso  sono  attributi  del  male, 
e  della  febbre,  e  derivano  dal  processo  morbifacien- 
te,  si  è  espiessa  soltanto  l'appariscenza  di  ciò,  che 
si  manifesta  nel  corso  della  malattia  e  della  febbre; 
ma  non  si  è  significata  la  vera  origine  delle  mede- 
sime efficienze;  e  molto  meno  si  è  annunciato  con 
ragionevole  fondamento  quanto  di  essenziale  si  rife- 
risce alla  loro  sorgente. 

In  forza  delle  quali  cose  essendosi  veduto  come 
la  febbre  a/  pari  degli  altri  mali  esprima  un'altera- 
zione dell'organismo,  ed  abbia  nel  suo  corso  in  co- 
mune con  i  medesimi  le  due  già  discorse  opposte 
tendenze  od  efficienze  emergenti  da  diverse  origini, 
si  potrà  conoscere  qual  valore  abbia  il  considerar 
la  febbre  per  un'operazione  salutare  della  natura  alla 
ad  espellere  dall'organismo  una  materia  eterogenea 


48 
comunque  in  lui  intromessa,  da  cui  veniva  inquinalo. 
Ed  intanto  per  ciò  conoscere  vuoisi  riflettere  ,  clic 
allora  la  febbre  conseguirebbe  questo  scopo,  quando 
la  sua  formazione  e  sviluppo  fosse  connesso  colle 
principali  suddescritte  efficienze,  che  si  mostrano  nel 
suo  corso.  La  realtà  del  fatto  però  fa  ravvisare,  che 
il  medesimo  sviluppo  e  formazione  febbrile  trovasi 
connessa  soltanto  coH'effìcienza  distruggiliva,  come 
ciò  è  slato  dimostrato  mediante  le  ragioni  superior- 
mente esposte.  Colla  forza  conservativa  poi  si  con- 
nette il  lavoro  risolutivo  della  febbre.  Il  quale  la- 
voro viene  effettuato  mercè  il  potere  fisiologico  su- 
perstite di  conservazione  inerente,  come  sopra  si  è 
visto,  al  primitivo  lipo  organico  onde  promuovere 
e  dirigere  costantemente  ed  inalterabilmente  la  sua 
evoluzione.  Il  qual  potere  conservativo  è  estrinseco 
al  processo  formativo  del  male,  che  e  quanto  del 
male  stesso;  ed  è  propriamente  quel  che  dicesi  forza 
medicatrice  della  natura. 

Mediante  questo  medesimo  risolutivo  lavoro  pro- 
dotto dal  suddetto  potere  fisiologico  superstite' ,  il 
quale  è  la  slessa  forza  conservativa,  o  forza  medi- 
catrice della  natura  ,  in  cui  propriamente  consiste 
l'efficienza  conservativa,  che  si  mostra  nel  corso  della 
febbre,  mediante  questo  lavoro,  dissi,  viene  elimi- 
nata dalla  macchina  vivente  qualunque  eterogeneità 
in  essa  introposta,  e  si  scompone  la  formazione  dei 
mali,  e  della  stessa  febbre,  come  ciò  può  ritenersi 
qual  proposizione  dimostrata  in  forza  delle  ragioni 
superiormente  esposte.  Dunque  non  è  la  febbre  quel- 
l'operazione salutare  della  natura,  mercè  cui  viene 
espulsa  dall'organismo  qualunque  eterogeneità,  che 


49 

in  esso  si  alloghi,  e  merlianle  la  quale  alcuni  morbi 
restano  risoluti ,  come  pure  si  asserisce  ;  ma  tutto 
all'  opposto,  anzi  è  la  febbre  stessa,  che  deve  sog- 
giacere all'operazione  salutare  del  potere  superstite 
conservativo  per  essere  risoluta.  L'operazione  salu- 
tare della  natura  è  quella,  che  viene  effettuata  dalla 
forza  conservativa  come  essenzial  potere  dell'orga- 
nismo, mediante  la  quale  son  posti  in  azione  gli  ap- 
paiati organici  esecutori  del  lavoro  risolutivo  dei 
mali,  e  della  febbre  slessa  in  opposizione  a  quelli, 
che  servono  alla  formazione  della  medesima  febbre 
e  degli  stessi  mali.  Lo  che  è  tanto  vero,  che  quando 
la  formazione  febbrile  è  così  prepotente  da  superare 
gli  sforzi  del  potere  superstite  conservativo  onde  ri- 
solverla, la  febbre  slessa   è  cagion  di   morte. 

Né  a  ciò  può  fare  ostacolo  il  notar  la  febbre  nel 
suo  secondo  stadio  non  esser  più  1'  espressione  di 
un  allontanamento  dallo  stato  di  sanità,  come  lo  era 
nello  stadio  [)rimilivo  di  essa  febbre  ,  ma  invece 
esprimere  un  ravvicinamento  alla  salute,  sembrando 
in  tal  modo  opera  della  febbre  cotesto  salutar  mo- 
vimento. Ma  ciò  non  è  così;  imperocchà  il  processo 
formativo  ,  cioè  la  febbre  stessa  ,  il  qual  processo 
sussiste  fino  a  tanto  che  dura  il  male,  viene  inve- 
stito dall'opera  risolutiva  prodotta  dal  potere  super- 
stite di  conservazione,  ed  in  forza  di  quest'opera  lo 
stesso  processo  febbrile  vien  frenato  nella  sua  effi- 
cienza dislruggitiva,  e  gradatamente  portato  ne'  casi 
felici  all'  intera  sua  cessazione.  Lo  che  cagiona  il 
ravvicinamento,  della  febbre  in  discorso.  In  conse- 
guenza non  è  la  febbre  che  produca  cotesto  salutar 
movimento,  ma  invece  egli  risulta  da  un'  operosità 
G.A.T.CLXVL  '  4 


50 

opposta  alla  slessa  febbre,  come  ciò  sopra  si  è  di- 
mostrato. 

Queste  sono  le  annotazioni  da  me  fatte  sulla  feb- 
bre considerata  essenzialmente  come  un  processo  di 
estuazione  sanguigna  tantn  di  derivazione  generale, 
quanto  di  provenienza  locale,  che  per  siflFatto  dif- 
ferente fomite  calorifero  essa  è  primaria  o  secon- 
daria, ed  è  ancor  distinta  in  diverse  specialità  a  tenor 
del  vario  fomite  locale  medesimo  riverberato  su  vari 
punti  dell'  organismo.  Quivi  pure  è  considerala  la 
febbre  nelle  principali  ed  opposte  efficienze,  che  si 
mostrano  nel  suo  corso  viste  nella  loro  intrinseca 
natura  sì  nella  tendenza  distruggitiva  e  sì  nella  con- 
servativa, manifestata  la  prima  coll'allontanamento 
sempre  più  intenso  dalla  salute,  e  la  seconda  vice- 
versa espressa  con  un  graduato  avvicinamento  alla 
medesima  a  tenore  degli  stadi  di  crudezza,  di  co- 
zione  e  di  crisi  della  stessa  febbre.  Le  quali  effi- 
cienze sonosi  notate  in  modo,  che  dopo  d'essersi  viste 
in  rapporto  col  metodo  curativo  in  genere  atto  a 
debellar  la  febbre,  sonosi  pur  considerate  in  rela- 
zione colle  loro  rispettive  cagioni.  In  forza  della  quale 
relazione  si  è  conosciuto,  che  come  l'efficienza  di- 
^  struggitiva  risulta  dal  processo  morboso,  così  l'ef- 
ficienza conservativa  proviene  dal  potere  superstite 
di  conservazione,  che  è  proprietà  essenziale  dell'or- 
ganismo. Per  il  che  si  è  concluso,  la  febbre  anziché 
essere  un'operosità  salutare  della  natura,  invece  co- 
stituisce un  morbo  al  pari  degli  altri  mali  bisognoso 
del  potere  conservatico  superstite  dell'organismo  per 
essere  risoluto. 


51 
NOTA 

Un'altra  opinione  si  è  pure  emessa  intorno  alla 
natura  del  calorico,  della  luce,  dell'elettrico,  ed  è 
quella  pubblicata  non  ha  guari  dal  chiarissimo  Bo- 
nucci,  che  consiste  nel  ritenersi  da  quest'autore  non 
essere  sostanza  imponderabile  lo  stesso  calorico 
ed  elettrico,  come  si  è  creduto  ;  ma  invece  consi- 
stere in  tante  efficienze  dinamiche. 

Sulla  quale  opinione  qui  non  si  starà  a  riportare 
quanto  contro  alla  medesima  è  stato  opposto  da 
Delia-Valle  ,  da  Zanotti  ,  da  Purgotti  :  ma  vuoisi 
fare  soltanto  la  seguente  riflessione. 

Le  efficienze  dinamiche  o  si  considerano  isola- 
tamente in  se  stesse,  o  in  corrispondenza  a'corpi  , 
da' quali  promanano.  Nel  primo  caso  considerate  le 
etTicenze  dinamiche  in  se  stesse  isolatamente  non  altro 
esprimono  che  un'astrazione  del  nostro  intendimento 
senza  alcuna  reale  esistenza,  perchè  dipendono  asso- 
lutamente da'corpi,  da'quali  promanano,  e  sono  con  i 
medesimi  essenzialmente  e  sostanzialmente  confuse, 
non  essendo  che  qualità  inseparabili  degli  stessi  corpi. 
Nel  secondo  caso  le  efficienze  dinamiche  in  relazione 
con  i  corpi,  da'quali  promano,  considerate  in  potenza 
si  risolvono  in  mere  attività  degli  stessi  corpi,  vale 
a  dire  nell'attitudine  de'medesimi  ad  agire:  e  perciò 
in  questo  caso  non  esprimono  alcun'oggetto  in  at- 
tuale esistenza.  Le  stesse  dinamiche  efficienze  poi 
considerate  in  azione  non  altro  significano,  che  l'a- 
zione de'corpi  da'quali  promanano.  Azione  talmente 
collegata  col  corpo,  che  la  produce,  da  essere  dal 


52 

medesimo   inseperabile  ;  ed  è  di  tal  natura  da  non 
potersi  presentare  con  caratteri  materiali. 

Da  ciò  conseguita,  che  il  calorico,  la  luce,  l'elet- 
Irico  non  possono  essere  efficienze  dinamiche  isola- 
tamente considerate,  perchè  in  questo  caso  non  avreb- 
bero alcuna  reale  esistenza:  né  possono  essere  sem- 
plice azione  de'  corpi;  imperocché  non  hanno  i  ca- 
ratteri di  semplice  azione.  E  difatti  trattandosi  del 
calorico,  sul  quale  soltanto  qui  specialmente  è  diretta 
questa  riflessione,  esso  si  presenta  con  caratteri  ma- 
teriali aventi  qualifiche  di  corpo,  e  non  di  semplice 
azione  ,  come  in  ispecialità  ciò  può  conoscersi  da 
quanto  su  di  tale  oggetto  conclude  fra  tanti  altri 
autori  a  lui  conformi  il  Musschenbroek  nella  sua 
opera  «  Elementa  Physicae  «.Pertanto  egli  così  espri- 
mesi:  «  Ex  omnibus  bue  usque  de  igne  traditis  se- 
quitur  manifesto,  1."  ignem  esse  corpus, quia  spatium 
occupai,  sese  extendit  ex  corpore  calefacto  quaqua- 
versum  in  alia  corpora,  vel  in  spatia:  deide  movetur 

cum  sese  expandit,  gravitalem  habet 2." 

Constabit  ignis  ex  partibus  subiilissimis,  cum  pene- 
trai in  poros  quorumcumque  corporum  tam  firmorum 

quam  fluidorum Corporibus  adhaererc  po- 

test,  augel  enim  eorum  pondus,  et  cum  iis  ,  quae 
volatilia  fecit,  avolat  w. 


53 


Relazione  delle  osservazioni  fatte  in  Spagna  durante 
Vecclisse  totale  del  18  luglio  1860  dal  P.  Angelo 
Secchi  d.  C.  d.  G'  direttore  deWoss.  del  Collegio 
Romano.  Discorso  letto  alla  pontificia  accademia 
Tiberina  il  giorno  13  agosto   1860,  - 


Ija  somma  cortesia  e  la  benevolenza  senza  pari  che 
voi,  illuslri  colleghi,  mostraste,  quando  v'  intertenni 
la  prima  volta  sul  gran  fenomeno  che  era  per  ac- 
cadere nel  18  luglio  prossimo  passato,  esponendovi 
gli  avanzamenti  che  la  scienza  poteva  aspettarsi  dalle 
osservazioni  fatte  in  quelle  singolari  circostanze,  mi 
impegnarono  ad  offrirvi  le  primizie  di  quei  lisulla- 
menti  che  ho  raccolto,  e  che  sono  in  dovere  di  co- 
municare al  colto  pubblico.  E  giacché  voi  oggi  de- 
rogando ai  prefissi  regolamenti  avete  voluto  ascol- 
tarmi, pieno  di  gratitudine  per  tanta  vostra  genti- 
lezza, ma  sollecitato  dalla  moltitudine  delle  cose, 
passo  senza  indugio  alla  narrazione  ,  con  semplice 
stile,  sicuro  della  vostra  cortese  attenzione. 

Se  per  tutti  gli  astronomi  l'ecclisse  del  18  lu- 
glio 1860  offriva  una  attrattiva  importante,  per  me 
lo  era  in  modo  speciale,  perchè  da  non  pochi  anni 
seguiva  come  soggetto  principale  de'  miei  studi  la 
struttura  fìsica  del  sole  ,  ed  andava  già  divisando 
diversi  preparativi  e  varie  indagini  da  farsi  in  quei 
preziosi  momenti.  Però  assai  ristretto  sarebbe  stato 
il  campo  di  mie  ricerche,  se  ai  tenui  mezzi,  di  cui 
io  poteva  disporre,  non  si  fosse  aggiunta  la  libera- 


54 

lità  del  Santo  Padre  che  del  suo  privato  peculio  volle 
contribuire,  perchè  la  spedizione  riuscisse  decorosa 
e  fruttifera  di  utili  risultati,  molto  superiori  a  quelli 
che  si  sarebbero  potuti  avere  da  un  privalo  viag- 
giatore (1). 

Devo  anche  alla  liberalità  e  alla  generosità  degli 
astronomi  spagnuoli  facilitazioni  ed  aiuti  di  ogni  spe- 
cie, coi  quali  hanno  contribuito  all'  esecuzione  dei 
miei  progetti;  onde  posso  dire  senza  vanità,  che  mercè 
loro  quanto  si  è  fatto  al  Desierlo  de  las  Palmas  non 
sarà  inferiore  all'eseguito  altrove  dai  più  illustri  astro- 
nomi contemporanei  (2). 

Accennai  già  nell'altra  mia  lettura  i  diversi  pro- 
blemi, la  cui  soluzione  aspettava  la  scienza  da  queste 
osservazieni,  alcuni  de'  quali  riguardavano  la  teorica 
de'  moli  celesti,  ed  altri  la  costituzione  fisica  del 
sole.  Ma  la  vastità  del  soggetto  in  faccia  alla  bre- 
vità del  tempo  permesso  a  studiarlo,  impone  la  stretta 
necessità  di  dividere,  come  dicesi,  il  lavoro,  e  la- 
sciata ai  miei  amici  e  colleghi  gli  astronomi  spa- 
gnuoli la  parte  relativa  alla  determinazione  del  tem- 
po ,  e  per  la  quale  essi  erano  a  dovizia  forniti  di 
squisiti  strumenti,  e  limitandomi  solo  a  coadiuvarli 
in  ciò  in  quanto  comodamente  avrei  potuto  ,  mi 
attenni  allo  studio  de'fenomeni  fisici,  e  in  tale  vista 
venni  facendo  tutti  i  necessari  preparativi  (3). 

Le  quistionl  principali  da  decidersi  colle  presenti 
osservazioni  erano  le  seguenti  : 

1.°  Le  prominenze  rosse  che  appaiono  attorno 
alla  Luna  sono  esse  realtà  fisica  ,  ovvero  semplice 
illusione  ottica,  originata  de  alcuna  delle  tante  cau- 
se che  produr  sogliono  frange  colorate  e  riflessioni 


55 

attorno  agli  orli  de'corpi,  conosciute  sotto  il  titolo 
di  diffrazione,  interferenza,  miraggio  e  simili  ? 

2.°  Posto  che  appartengano  al  Sole,  sono  esse 
montagne  o  nubi  o  emanazioni  e  di  che  specie  ? 

3."  La  corona  che  cinge  la  Luna  è  pur  essa  illu- 
sione dovuta  alle  succennate  cause,  ovvero  è  l'atmo- 
sfera solare  ? 

4-.''  I  lunghi  raggi  e  discontinui  osservati  prolun- 
garsi notabilmente  oltre  la  corona,  sono  essi  effetto 
dovuto  alla  atmosfera  terrestre,  ovvero  una  realtà  di 
emanazioni  solari  ? 

5."  Finalmente  ,  entra  per  nulla  in  queste  ap- 
parenze alcuna  cosa  che  possa  attribuirsi  all'atmo- 
sfera lunare  o  alla  struttura  fisica  della  superficie 
del  nostro  satellite  ? 

Queste  erano  le  quistioni  che  mi  era  proposto 
di  studiare  io  stesso,  in  modo  principale,  senza  tras- 
curare le  cose  accessorie  de'cambiamenti  meteorolo- 
gici della  nostra  atmosfera  e  le  variazioni  del  ma- 
gnetismo del  nostro  globo  ,  per  le  quali  confidava 
nell'aiuto  de'collaboratori. 

In  conformità  di  questo  progetto,  due  erano  le 
classi  degli  strumenti  da  usarsi,  cioè  gli  ottici  e  i 
fotografici.  I  primi  hanno  naturalmente  la  premi- 
nenza, come  quelli  che  forniscono  i  dati  più  sicuri 
e  pili  completi,  ma  che  sventuratamente  per  la  fu- 
gacità de'fenomeni  sono  lungi  dal  potere  essere  im- 
piegati fuori  di  ogni  pericolo,  e  che  inoltre  non  la- 
sciando traccia  di  sé  non  permettono  di  ritornar 
sul  fenomeno  che  per  mezzo  delle  reminiscenze  sem- 
pre mal  sicure.  I  fotografici,  benché  di  lor  natura 
incompleti  perchè  incapaci  di  fissare  i  colori,  di  dif- 


56 
ficile  maneggio  in  momenti  si  critici,  e  soggetti  a 
molli  equivoci,  ove  non  siano  assistiti  dell'occhio  e 
dall'intelletto,  hanno  però  il  grande  vantaggio  di  fis- 
sar permanentemente  fenomeni,  su  cui  poter  ritor- 
nare a  mente  fredda:  e  così  l'uno  dei  due  sistemi 
compensando  l'altro,  fu  risoluto  di  impiegarli  amen- 
due  per  assicurare  un  completo  successo. 

Per  la  parte  ottica  i  miei  colleghi  erano  forniti 
di  oltimi  e  bene  scelti  stromenti;  io  per  me  destinai 
a  questo  uso  nn  eccellente  refrattore  di  F'raunliofer 
di  78  n)illimctri  di  apertura,  che  in  questa  occasione 
fu  fornito  di   vari   interressanti  accessorii. 

Il  primo  fu  un  sistema  di  3  oculari  di  Merz 
cogli  ingrandimenti  di  60,90,  e  130  volte,  montati 
su  di  una  slessa  piastra  scorrevole  fra  due  guide  , 
che  permetteva  di  camhiai-  il  campo  e  la  forza  in 
un  istante  senza  perder  tempo  a  invitare  e  svitare. 
11  campo  del  1."  oculare  lasciava  vedere  il  Sole  colla 
sua  corona  tutto  intero  ;  il  2."  il  Sole  solo  colle 
prominenze  ;  il  2."  era  destinato  a  ricerche  speciali 
se  fossero  occorse. 

11  secondo  fu  un  offuscante  a  tinta  neutrale  gra- 
duata, e  variabile  in  forza  da  1  a  2.  75,  che  servir  dovea 
a  riparar  l'occhio  e  insieme  fare  da   fotometro  (4). 

11  3.°  un  micrometro  di  posizione, col  quale  senza 
perder  tempo  a  leggere  i  gradi  notavasi  su  di  un 
cartoncino  colla  semplice  pressione  di  una  molla  la 
posizione  di  una  protuberanza  qualunque  vista  sul 
disco  solare  in  vicinanza  a  una  graduazione  circo- 
lare  metallica,  da  leggersi  poscia  a   tutto  comodo. 

Il  4-.°  un  reticolo  speciale  fatto  di  fili  di  ragno 
e  di  fili  di   platino  :  questi  (che  furono  i  soli   utili) 


57 

erano  4  in  numero,  e  disposti  in  modo  che  i  due 
estremi  dislavano  precisamente  di  un  diametro  lu- 
nare :  gli  altri  due  nel  mezzo  di  essi  erano  posti 
leggermente  ad  angolo,  e  distavano  ai  loro  estre- 
mi rispettivamente  di  1'  e  l'|;  onde  potevansi  fa- 
cilmente stimare  le  dimensioni  delle  protuberanze 
e  determinare  le  loro  direzioni.  11  cannocchiale  era 
montato  equatoiialmente  su  robusto  piede  che  gli 
serviva  pure  di  cassa  ,  e  benché  non  elegante  ,  fu 
trovato  però  di  comodo  e  utilissimo  servizio. 

Alla  fotografia  fu  destinato  il  nostro  equatoriale 
di  Cauchoix,  che  per  la  sua  robusta  montatura  in 
ferro  fuso  si  pi-estava  a  meraviglia  ;  e  tutta  quella 
gran  macchina  venne  tsasformata  in  grande  apparato 
fotografico  con  obiettivo  di  sei  pollici  di  diametro 
e  lunghezza  di  metri  2.  50  mossa  da  un  roteggio  per 
seguire  il  moto  degli  astri. 

Non  poche  sono  state  le  difficoltà  che  abbiam 
dovuto  superare  per  riuscire  ad  ottenere  fotografie 
solari  abbastanza  esatte  da  esser  veramente  utili  alla 
scienza,  specialmente  per  quelle  da  farsi  durante  la 
totalità  onde  avere  le  protuberanze  e  la  corona.  Basti 
dire  che  era  questo  il  primo  saggio  ,  e  perciò  era 
affatto  sconosciuta  la  forza  della  luce  residua.  Fu 
quindi  mestieri  regolarci  in  modo  da  non  fallire  il 
successo;  e  risoluti  che  le  fotografìe  del  Sole  intero 
e  delle  fasi  si  prenderebbero  ingrandite  fino  a  12 
centimetri,  ma  che  quelle  della  totalità  si  sarebbero 
fatte  di  grandezza  naturale  dell'  imagine  focale  ,  e 
conforme  a  ciò  fu  proveduto  Tistrumento  di  due  di- 
verse camere  oscure  applicabili  al  luogo  dell'oculare. 


58 
e  prima  di  partire  da  Roma  furono   fatti   tutti  gli 
studi  necessari  coll'assistenza  del  mio  amico  e  di- 
stinto chimico  e  fotografo  sig.  Francesco  Barelli. 

Oltre  questi  apparati  fondamentali  ne  portai  me- 
co diversi  altri  destinati  ad  alcune  ricerche  spe- 
ciali, cioè  un  cronometro,  un  barometro  aneroide, 
2  termometri,  una  pila  termoelettrica,  un  magne- 
tometro di  Jones,  diversi  polariscopi,  ed  altri  ac- 
cessori] che  credetti  riuscir  utili  alla  osservazione. 

La  brevità  del  tempo  non  mi  permette  di  de- 
scrivervi il  mio  viaggio,  e  le  cordiali  dimostrazioni 
di  stima  e  di  affetto  che  mi  sono  state  prodigate 
in  Valenza,  in  Madrid,  in  Barcellona  da  tutti  i  pub- 
blici funzionari  e  specialmente  dagli  scienziati  che  in 
questa  epoca  hanno  gareggiato  di  cortesia  con  tutti, 
ma  specialmente  meco,  e  dimostrato  un  sincero  amo- 
re per  la  pura  scienza,  trascurando  in  vista  del  van- 
taggio di  questa  la  propizia  occasione  offertasi  loro 
di  figurar  soli  nel  mondo  scientifico:  il  che  avrebbero 
potuto  fare  facilmente  se  avessero  lasciato  anche 
solo  di  suggerire  misure  meno  liberali  al  Governo 
per  la  gratuita  introduzione  degli  strumenti  di  os- 
servazione (5). 

Omesso  ciò  trasportiamoci  al  sito  destinato  per  le 
osservazioni.  Questo  fu  il  così  detto  Desierlo  de  las 
Palmas  in  un  gruppo  di  monti  situato  tra  Oropesa 
e  Castellon  de  la  Plana,  ove  trovasi  un  antico  con- 
vento de'  PP.  carmelitani  scalzi  tre  miglia  circa  di- 
stante del  mare  Mediterraneo.  La  stazione  però  non 
fu  trovala  corrispondente  alla  aspettazione  ,  ed  il 
convento  restando  troppo  chiuso  fra  i  monti,  con- 
venne trasportarci  in  punti  più  comodi  per  le  os- 


59 

servazioni,  e  fu  deciso  di  dividere  in  due  parli  la 
comitiva.  Quanto  spettavasi  alla  fotografìa  e  al  re- 
golamento degli  orologi  fu  collocato  sulla  spianala 
avanti  alla  antica  porteria  del  convento  ,  ove  due 
eremi,  adesso  abbandonati, apprestavano  comodo  rico- 
vero :  gli  strumenti  maggiori  furono  lasciati  all'aria 
aperta  guardati  a  vista  da  una  scorta  militare,  quan- 
tunque a  dir  vero  non  ve  ne  fosse  bisogno  ,  tanto 
rispettosa  fu  sempre  la  curiosità  di  qua'  molti  che 
ivi  accorrevano.  Ivi  furono  collocati  su  piedistallo 
di  opera  muraria  l'equatoriale  di  Cauchoix  e  il  bello 
strumento  de'passaggi  portato  dagl'astronomi  spa- 
gnuoli  :  due  stanze  di  un  eremo  furono  convertite 
in  officina  fotografica,  un'altra  in  deposito  di  cro- 
nometri e  di  orologi,  le  altre  servirono  di  abitazione 
e  di  studio  (6). 

11  sig.  Monserrat  prof,  di  chimica  all'università 
di  Valenza  e  distinto  fotografo  ,  aiutato  da  alcuni 
suoi  allievi,  si  incaricò  di  tutta  la  parte  fotografica, 
e  affidai  la  parte  relativa  al  maneggio  dell'equato- 
riale al  P.  Venander  della  nostra  compagnia,  pro- 
fessore di  fisica  nel  seminario  di  Salamanca,  che  sé 
ne  disimpegnò  con  molta  destrezza  e  diligenza.  Re- 
starono ancora  quivi  diversi  amatori  e  professori  con 
diverse  incombenze.  Il  prof.  Barreda  assunse  a  mia 
istanza  di  studiare  le  variazioni  dello  spettro  solare 
con  un  apparato  fornito  dal  sig.  de  Cepeda.  Altri 
si  incaricarono  di  riconoscere  gli  astri  che  fossero 
apparsi,  altri  lo  slato  del  cielo;  chi  di  osservare  il 
corso  dell'ombra,  chi  di  fare  la  fotografia  generale 
di  tutto  ij  cielo,  chi  di  fare  scale  fotometriche ,  e 
specialmente  il  sig.  Gaetano  d'Aguilar  e  il  sig.  Al- 


60 
cover  di   osservare    con    attenzione  il  tempo  delle 
varie  fasi  deli'ecclisse. 

Io  col  sig.  D.  Antonio  d'Aguihir,  direttore  del- 
Tosserv."  di  Madrid,  fornito  di  un  equatoriale  di  4 
pollici  di  Sleinheil,  e  col  sig.  deCepeda  distinto  av- 
vocato e  passionato  amatore  di  astronomia  ,  che 
avea  un  ottimo  cannocchiale  di  Lerebours,  e  il  si- 
gnor ingegn.  Bolella  ,  ci  recammo  fino  dal  giorno 
innanzi  alla  cima  più  alta  del  Deserto,  detta  il  monte 
S.  Michele  da  un  piccolo  eremo  ivi  costruito  e  a 
quest'arcangelo  dedicato.  Questo  era  il  solo  nostro 
ricovero  ,  e  perciò  insufficiente  per  noi  e  per  gli 
altri  che  ci  accompagnavano,  ma  vi  fu  supplito  con 
erigere  tende  militari. 

La  nostra  posizione  colà  non  poteva  esser  mi- 
gliore per  vedere  1'  effetto  generale  dell'  ecclisse  : 
alti  725  metri  sul  livello  del  mare,  la  nostra  vista 
estendevasi  per  tutto  liberamente  ;  entro  terra  al 
N.  0.  per  oltre  20  leghe  fino  a  Pena -Golosa  :  al 
N.  E.  era  il  mare  :  al  S.  E.  le  aguglie  di  s-  Agata 
e  il  capo  di  Oropesa,  e  per  tutto  il  sud  il  mare, 
e  al  S.  0.  r  ampia  pianura  del  regno  di  Valenza. 
Anche  colà  mi  seguivano  le  memorie  romane  ,  e 
vedeva  a  distanza  l'antica  Sagunto,  ora  Murviedro,  e 
a  pie  del  monte  distingueva  col  cannocchiale  un  arco 
trionfale  monumento  di  vittoria  della  immortale  na- 
zione. Se  nonché  corremmo  rischio  di  pagar  ben 
cara  la  vaghezza  del  libero  orizzonte:  perchè  la  sta- 
gione essendo  stata  fuor  del  solito  sconcertata  po- 
chi giorni  innanzi,  una  gran  massa  d'aria  calda  e 
umida  si  sollevava  dalle  sottoposte  pianure,  e  ar- 
rivata colà  se  ne  condensava  il  vapore  sì  che  mentre 


61 

il  più  bel  sole  brillava  al  piano,  noi  o  eravamo  av- 
volti in  nebbia  ,  o  formavasi  una  nube  immobile 
sul  nostro  capo,  che  per  forte  soffiar  di  vento  non 
si  dileguava,  rinnovellandosi  continuamente:  finché 
col  progredire  del  giorno  la  temperatura  del  monte 
essendo  divenuta  a  un  dipresso  eguale  a  quella  del 
piano,  potevasi  allora  godere  di  un  cielo  perfetta- 
mente limpido  e  sereno,  che  era  per  ciò  appunto 
che  avevamo  scelto  quel  posto. 

Atterriti  da  si  sinistro  presagio,  ordinammo  to- 
sto che  si  avessero  in  pronto  cavalcature  pel  giorno 
appresso,  onde  se  ricorreva  il  tristo  giuoco  potes- 
simo discendere  cogli  strumenti  alla  pianura.  Ma  ap- 
punto, quasi  fosse  per  far  più  cruda  I'  irrisione,  al 
mattino  seguente  la  nebbia  era  al  piano  e  il  chiaro 
al  monte;  onde  presa  fiducia,  ci  affrettammo  a  con- 
cludere quivi  i  preparativi  incominciati  e  licenziate 
furono  le  cavalcature.  Ma  non  si  tosto  erano  questi 
finiti,  che  le  nubi  ripresero  il  lor  mal  vezzo  e  dura- 
rono fino  a  tanto  che  indugiando  colla  speranza  che 
sparissero, l'ora  divenne  ormai  tarda  per  cercare  altro 
luogo  e  convenne  rassegnarsi  a  subire  la  sorte  che 
la  provvidenza  ci  teneva»   preparata. 

Qual  fosse  allora  la  nostra  ansietà  è  inutile  il 
descriverla  :  la  mal  dissimulata  tristezza  si  dipin- 
geva sui  nostri  visi  ,  e  formavano  strano  contra- 
sto colla  gaiezza  della  turba  che  ci  faceva  corona 
e  dava  al  monte  una  vista  sommamente  vaga  e  pit- 
toresca e  che  senza  quella  nube  importuna  ci  avrebbe 
offerto  il  più  caro  piacere. 

Già  fin  dal  bel  mattino  allo  spuntare  del  giorno 
numerosi  drappelli  d'ogni  specie  di  persone,  partiti 


62 
da  vicini   villaggi,  venivano   colà   raccogliendosi    in 
abiti  di  festa,  e  quivi  giunti,  con  saporite  colezioni 
rifocillavansi   della   fatica   fatta   sul   salire  ,  e  dopo 
esaminati  da  rispettosa  distanza  i  nostri  strumonti  , 
riliravansì  a  cantare,  e   ciarlare  e  divertirsi,  finché 
venisse  l'ora  del  grande  spettacolo.  Non  mancarono 
di  onorarci    distinti    professori  e  personaggi  anche 
di  stato:  e  più  ne  avremmo  avuti,  se  la  nube  vista 
dal  piano  non  li  avesse  distolti  dal   venire  colà  (7). 
Intanto  furono  distribuiti  i  diversi   uffici:   il  si- 
gnor ingegn.  Botella,  ispettor  delle  miniere,  si  in- 
caricò delle  osservazioni  del  termomoltiplicatore  di 
Melloni,  il  sig.  ingegnere  Mayo  delle  osservazioni  del 
declinometro,  altri  delle  osservazioni  meteorologiche: 
a  tutti  insomma  fra  non  pochi  capaci  che  ci  erano 
attorno  fu  data  qualche  incombenza,  come  si  disse 
dell'altra  stazione,  facendone  la  distribuzione  come 
suol  dirsi  sul  tamburo. 

Finalmente  un  quarto  d'ora  prima  del  principio 
l'infausta  nube  si  dileguò,  e  un  cielo  sereno  e  un' 
aria  oltremodo  tranquilla  ci  annunziavano  un  com- 
penso alle  pene  del  mattino.  Alcuni  minuti  prima 
del  principio  a  un  nostro  cenno  la  turba  si  ritirò 
a  discreta  distanza  e  rimase  sospesa  in  profondo  si- 
lenzio per  tutto  il  tempo  che  stemmo  aspettando 
il  primo  contatto,  finché  all'atto  de'nostri  moli  si 
accorse  che  l'ecclisse  era  incominciato,  e  restò  con- 
vinta che  la  predizione  non  era  stata  come  le  altre 
del  lunario  per  la  pioggia  ed  il  bel  tempo,  lo  presi 
il  primo  contatto  a  un  registrore  elettrico  di  Morse 
favoritoci  gentilmente  dalla  direzione  de'telegrafi  di 
Madrid,  il  quale  marcava  i  secondi  mediante  un  pen- 


63 
dolo    contatore    che    apriva  e  chiudeva   il  circuito 
elettrico,  e  con  un  altro  semplicissimo  meccanismo 
segnava  l'istante  della  osservazione. 

Durante  il  corso  della  occultazione  solare  non 
poteano  aver  luogo  che  le  solile  ordinarie  osserva- 
zioni eseguibili  dappertutto.  Tre  cose  mi  paiono  de- 
gne di  esser  qui  mentovate. 

La  1.3  è  che  le  macchie  del  sole  non  mostrarono 
veruna  distorsione  all'istante  della  loro  occultazione, 
e  solo  trovai  un  poco  di  indecisione  nell'occulta- 
zione della  penombra,  il  che  si  deve  alla  lor  naturale 
sfumatura. 

La  2.3  fu  che  un  quarto  d'ora  dopo  il  principio 
potemmo  distintamente  tracciare  il  lembo  della  Luna 
qualche  poco  più  in  là  della  fase  fuori  del  Sole,  ma 
solo  per  un  arco  di  circa  20.°  :  e  appresso  si  ri- 
tornò a  vedere  pure  ad  intervalli,  ma  non  costan- 
mente. 

La  3.3  che  mi  sembra  non  meno  importante  fu 
il  vedere  l'enorme  diversità  di  precisione  e  di  forza 
di  luce  che  correva  tra  i  diversi  orli  che  limitavano 
la  fase.  L'interno  formato  dalla  Luna  era  tagliente 
e  netto  ,  e  distintissimo  era  il  contorno  delle  sue 
montagne  che  rendevano  assai  scabro  il  corno  su- 
periore :  l'altro  lembo  invece  formato  dal  Sole  era 
incerto  e  malissimo  terminato  e  realmente  cinto  da 
una  vera  sfumatura  che  vedesi  pure  nelle  fotografie- 
Nò  qui  finiva  la  differenza,  ma,  ciò  che  era  più  im- 
portante, il  campo  del  cannocchiale  era  evidente- 
mente più  chiaro  dalla  parte  del  Sole  che  della  Luna, 
e  ciò  si  riconosceva  manifestamente  perfino  su  la 
proiezione  in  carta  bianca.  Vedremo  l' importanza  di 


64 
questa  delicata  osservazione  per  trarne  una  prova  del- 
l'esistenza della  atmosfera  solare. 

A  2°i"  39*",  cioè  poco  dopo  coperto  il  centro  , 
l'oscurità  era  già  sensibilisrima,  e  10  minuti  prima 
della  totalilà  essa  era  sì  dichiarata  che  il  lume  era 
già  utile,  l'orizzonte  attorno  era  tutto  fosco,  ma  più 
dalla  parte  di  Pena  Golosa  donde  veniva  1'  ombra 
e  parca  presso  ad  un  temporale  ;  la  tinta  degli  og- 
getti era  come  veduta  attravesso  un  vetro  fosco. 
Ma  sei  0  sette  minuti  prima  della  totalità,  la  luce 
cominciò  a  vedersi  calare  a  vista,  e  in  una  maniera 
ehe  avea  qualche  cosa  di  sinistro,  per  non  dire  di 
terribile  ,  talché  un  profondo  silenzio  si  sparse  su 
tutti  i  circostanti,  tanto  che  le  battute  del  contatore 
e  del  cronometro  erano  sì  distintamente  sentite  come 
fossimo  soli  nelle  nostre  stanze.  Da  allora  in  poi  io 
lasciai  ad  altri  la  cura  di  osservare  i  fenomeni ,  e 
superando  un  certo  ribrezzo  che  ispirava  quella  trista 
scena  ,  mi  occupai  solamente  di  ciò  che  faceva  la 
mia  aspettazione.  Levai  tutti  i  vetri  offuscanti  fissi 
dal  cannocchiale,  e  seguii  il  fenomeno  col  vetro  a 
mano   a  luce  graduata. 

A  2.'"  prima  la  falce  era  ridotta  a  un  arco  te- 
nuissimo  e  la  sua  luce  già  non  portava  più  l'offuscante 
nella  parte  più  densa  onde  feci  uso  della  più  sot- 
tile. Le  cuspidi  erano  acutissime,  e  così  ebbi  prova 
della  bontà  dell'aria  e  dello  strumento  ,  quando  la 
superiore  ad  un  tratto  si  spezzò  per  l'interposizione 
di  una  montagna  lunare  ,  e  ben  presto  il  Sole  fu 
ridotto  a  un  tenuissimo  filo  :  allora  la  corona  inco- 
minciò a  vedersi  tutto  attorno  della  Luna  ,  e  quel 
filetto  di  luce  lentamente  si  occultò  senza  dividersi 


65 

iti  framinenli  a  coroncina.  L'occultazione  però  non 
fu  istantanea  come  quella  delle  stelle,  ma  molto  gra- 
duata, sicché  stimo  impossibile  accertarne  la  frazione 
del  secondo  con  precisione  e  la  credo  assai  dipen- 
dente dall'oscurità  del  vetro  colorato. 

Tolsi  allora  immediatamente  l'offuscante  dell'ocu- 
lare, e  fui  sorpreso  a  rivedere  tuttavia  un  filo  di  sole 
bianco  e  di  luce  si  forte  che  mi  offese  1'  occhio  ; 
ma  il  suo  splendore  andò  si  prestamente  diminuendo 
che  potei  sostenerlo  ,  e  pian  piano  esso  si  cambiò 
in  arco  di  luce  porporina  terminato  da  una  infinità 
di  punte  che  dopo  sei  secondi  furono  occultate. 

Subito  due  grandi  protuberanze  rosse  compar- 
vero presso  il  punto  di  occultazione,  una  la  stimai 
alta  2.'  30."  e  larga  alla  base  2.'  :  la  sua  forma  era 
conica,  leggermente  sfilata  e  curvata  in  punta.  Presso 
di  questa  più  verso  il  basso  apparente  ve  v'era  un'al- 
tra alta  là  metà  circa  ,  ma  che  si  estendeva  per 
un  arco  di  almeno  10.°  sul  bordo  lunare.  La  sua 
cima  era  a  forma  di  sega  a  denti  finissimi  parallela 
agli  orli   della  Luna. 

La  loro  luce  era  porporina  mista  a  violetto,  e 
sì  intensa  che  illuminava  distintamente  i  fili  di  pla- 
tino. Stetti  quasi  estatico  per  alcuni  secondi  a  mi- 
rare la  vivacità  penetrante  di  quelle  fiamme,  cer- 
cando se  pure  in  esse  io  discerneva  alcun  movimento; 
ma  quantunque  qualche  traccia  di  moto  sembrasse 
aver  luogo  presso  la  sommità ,  nulla  io  potei  ac- 
certare su  ciò,  e  solo  vidi  il  lor  rapido  andar  ca- 
lando, e  avrei  forse  speso  tutto  il  tempo  in  quel  tra- 
sporto, se  un  atto  di  riflessione  non  mi  avesse  fatto 
portar  lo  sguardo  alle  altre  pari**  Corsi  adunque 
G.A.T.CLXVL  5 


66 
all'orlo  opposto  del  Sole,  ma  nulla  vidi  quivi  a  com- 
parire; e  ritornando  un  istante  ancora  alle  prime  pro- 
tuberanze ,    mi  accorsi  che  si    occultavano  rapida- 
mente. 

Levai  allora  un  poco  l'occhio  dal  cannocchiale 
per  mirare  liberamente  il  grande  spettacolo  della 
natura  circostante.  La  Luna  in  mezzo  del  cielo  era 
affatto  nera  ,  del  più  nero  inchiostro  ,  e  per  sin- 
golare illusione  pareva  quasi  staccata  dal  fondo  del 
firmamento.  Essa  era  cinta  tutta  intorno  da  una 
brillante  corona  di  gloria  alquanto  più  viva  ,  ma 
non  più  lai'ga  dal  lato  dove  il  Sole  si  era  occultato 
che  la  circondava  tutta  senza  discontinuità,  ed  era 
vivissima  nella  sua  vicinanza,  ma  sfumava  rapida- 
mente fino  alla  larghezza  di  un  raggio  lunare  al- 
meno. Da  questa  distanza  essa  cominciava  ad  aver 
varie  interruzioni  ,  e  vari  fasci  di  luce  si  slancia- 
vano in  tutte  le  direzioni:  nella  parte  superioie  eranvi 
almeno  tre  di  questi  gruppi  e  uno  nella  inferiore, 
che  stimai  in  lunghezza  circa  un  diametro  e  mezzo 
della  Luna  stessa.  La  forma  de'  raggi  più  lunghi  ed 
il  loro  aspetto  era  perfettamente  pari  a  quelli  che 
si  vedono  la  sera  uscir  dalle  nubi  al  tramonto  de! 
Sole,  e  la  mia  impressione  in  quel  momento  fu  che 
essi  fossero  a  simil  causa  dovuti.  Quelli  che  vidi 
io  erano  tutti  rettilinei  e  diretti  sensibilmente  al 
centro:  però  il  sig.  Cepeda  nel  cannocchiale  ne  vide 
uno  obliquo  e  ramificato  (8).  11  cielo  intorno  era  di 
un  fioco  azzui'ro  tendente  al  cenerino;  sotto  il  Sole 
brillavano  vicinissimi  i  pianeti  Venere  e  Giove  ,  e 
sopra  la  stella  Polluce  :  di  altre  stelle  non  cercai. 
Il  chiarore   residuo  di  quella  notte    istantanea    era 


67 

a  un  di  presso  quello  di  un'  ora  dopo  Iramontalo 
il  Sole  in  estate,  ossia  a  uso  nostro  a  mezz'ora  di 
notte:  onde  potei  bensì  senza  difficoltà  trovare  gli 
oggetti  e  vedere  le  persone  vicine,  non  però  distin- 
guere la  mostra  dell'orologio  due  passi  distante.  Una 
tinta  giallastra  dalla  parte  di  N.  E.  riverberala  da 
una  bassa  nube  lontana,  nel  cui  seno  romoreggiava 
il  tuono  e  da  cui  durante  la  totalità  fu  anche  da 
taluno  veduto  partire  un  lampo,  faceva  il  piiì  sin- 
golare contrasto  col  cupo  del  cielo  e  gettava  una 
luce  che  mentre  alquanto  diminuiva  l'oscurità,  span- 
deva però  sulla  scena  terresti'e  un  non  so  che  di 
lugubre,  e  sembrava  rammentarci  quella  nube  che 
ci  avea  perseguitati  nel  mattino,  e  così  contrastava 
mirabilmente  colla  gloria  che  si  contemplava  in 
cielo. 

Ma  per  incantevole  che  fosse  questo  spettacolo, 
non  mi  trattenni  gran  fatto  a  contemplarlo;  e  per 
accertare  la  natura  de'  raggi  della  corona  posi  l'oc- 
chio ad  un  polariscopio  di  Arago,  e  vidi  sicuramente 
che  le  estremità  loro  non  erano  della  stessa  tinta 
nelle  due  immagini,  restando  però  in  ambedue  vivo 
il  bianco  della  parte  centrale  :  nelle  due  immagini 
la  corona  mi  parve  allungata  in  due  direzioni  per- 
pendicolari. Avrei  ben  voluto  studiare  piiì  addentro 
queste  importanti  apparenze,  ma  la  brevità  del  tem- 
po, e  l'oggetto  per  me  secondario  di  quella  osserva- 
zione, non  mei  permisero,  e  rivenni  al  cannocchiale. 

Ivi  trovai  l'aspetto  del  Sole  assai  cambiato  da 
quel  di  prima.  Le  due  grandi  prominenze  accennate 
dianzi  erano  quasi  scomparse  e  solo  vedevansi  le  loro 
sommità  :  ma  in  lor  vece  dalla  parte  opposta    del 


68 
lembo  e  tutto  intorno  ne  erano  comparse  tante  altre 
che  io  mi  trovai  per  un  istante  dubbioso  quale  sce- 
gliere per  misurarne  la  posizione  ,  giacché  vedeva 
inutile  prenderne  la  grandezza,  che  scorgevasi  a  oc- 
chio crescere  da  un  lato  e  scemare  dall'altro.  Ora- 
zie  alla  costruzione  del  mio  micrometro  in  pochi 
secondi  ne  mism-ai  sei  ;  ma  quelle  che  vidi  erano 
assai  più  numerose  e  mi  parvero  quasi  regolarmente 
diffuse  attorno  al  disco.  La  sterminata  copia  di  que- 
ste fiamme  fu  per  me  affatto  inaspettata  ,  giacché 
in  tutte  le  relazioni  anteriori  solo  di  poche  viene 
fatta  menzione.  Questa  volta  invece  parve  tutto  il  cor- 
po solare  ire  in  fiamme,  e  le  lor  punte  schizzare 
alte  fuori  dell'orlo  della  Luna  incapace  a  coprire  quel- 
r  incendio  (9). 

Un  maggiore  splendore  della  corona  in  un  punto 
del  lembo  lunare  mi  avvertiva  già  che  colà  era  per 
spuntare  il  Sole  :  diedi  un'altra  rapida  occhiala  alla 
corona  che  non  mi  parve  sostanzialmente  cambiata, 
ma  non  piiì  simmetrica,  e  tosto  io  rivolsi  colà  im- 
mediatamente tutta  la  mia  attenzione.  Un  gran  nu- 
mero di  piccole  prominenze  si  vedevano  venir  pian 
piano  spuntando  di  sotto  alla  Luna  e  andar  crescendo 
visibilmente  :  ma  attrasse  tutta  la  mia  attenzione 
una  di  esse  che  emerse  interamente  e  comparve  tutta 
affatto  isolata  a  guisa  di  nube  rosata  sospesa  nel 
bianco  della  corona  :  la  sua  forma  era  sottile  ed  as- 
sai allungata,  di  30"  circa  nella  maggior  direzione 
parallela  all'orlo  lunare,  e  circa  5"  di  larghezza  :  la 
sua  figura  era  serpeggiante  e  assottigliata  alle  estre- 
mità. Alla  vista  di  sì  desiderato  fenomeno,  la  cui 
presenza  era  la  piij  concludente  prova  dell'atmosfera  II  ^s 


69 

solare,  ruppi  il  silenzio  che  regnaVca  nella  moltilu- 
dine  e  ne  avvertii  i  compagni,  perchè  vi  facessero 
attenzione:  del  che  essi  mi  assicurarono  immediata- 
mente. Son  quasi  certo  che  quella  nuhe  non  era  sola, 
ma  che  avanti  e  appresso  era  accompagnala  da  altri 
punti  minori  ancor  essi  isolati.  11  lor  colore  era  an- 
cor quello  delle  protuberanze,  e  solo  un  poco  più 
chiaro. 

Intanto  l'arco  coronato  di  protuberanze  si  faceva 
sempre  più  vivo  e  più  largo,  e  la  lor  base  rivestiva 
una  tinta  più  chiara  che  sfumava  in  un  bianco  de- 
ciso. La  sua  estensione  totale  era  almeno  di  60"; 
quando  la  parte  centrale,  fattasi  troppo  viva,  ecclissò 
col  suo  chiarore  tutte  le  luci  rosate,  e  non  potendo 
più  sostenere  lo  splendore,  dovetti  levar  l'occhio  dal 
cannocchiale,  e  il  Sole  era  già  ricomparso. 

Esso  brillava  allora  in  mezzo  al  firmamento  co- 
me un  punto  di  luce  elettrica  ,  cinto  dalla  corona 
che  fu  ancora  visibile  per  25.*  e  che  coprendo  con 
un  libro  la  parte  lucente  potei  seguitare  a  vedere 
fino  a  40.*  dopo  finita  la  totalità.  Le  ombre  erano 
incerte  e  vacillanti  ,  1'  aspetto  dell'  orizzonte  ancor 
cupo  e  mesto,  ma  una  indicibile  allegria  sembrava 
animare  la  risorta  natura  ,  e  un  sincero  atfctto  di 
gioia  e  di  tripudio  si  vide  in  tutti,  che  sarebbe  scop- 
piato in  un  applauso  generale  se  più  fossimo  stati 
intenti  alle  emozioni  che  sentivamo,  che  alla  seve- 
rità delle  leggi  che  ci  eravamo  imposti  di  non  la- 
sciarci andare  a  trasporti,  il  cui  effetto  sarebbe  stato 
la  confusione  delle  più  importanti  impressioni  rice- 
vute, che  io  mi  sforzai  di  raccogliere  colla  più  ener- 
gica attività,  innanzi  che  si  dissipassero  (10). 


70 

Tre  tiri  di  fucile,  intanto,  sparati  dalla  stazione 
inferiore,  ci  avvertirono  secondo  le  convenzioni,  «he 
le  fotografie  della  totalità  erano  ben  riuscite:  sul  che 
stavamo  non  poco  ansiosi:  e  lasciando  che  la  turba 
de'  curiosi  sfilasse,  come  presto  cominciarono  a  fare, 
noi  attendemmo  alle  osservazioni  del  fine  della  ec- 
disse,  che  fu  notato  con  ogni  attenzione  da  ambe- 
due noi,  e  alle  ripetizioni  di  alcune  cose  più  impor- 
tanti osservate  dianzi  ,  come  era  la  continuazione 
del  lembo  lunare  fuori  del  Sole  che  potei  rivedere 
con  sicurezza. 

L'oscurità  generale  durante  la  totalità  fu  alquanto 
meno  di  quella  che  si  aspettava,  e  da  piij  di  uno  si 
potè  leggere  un  libro  a  tipi  ordinari.  Le  stelle  ve- 
dute con  sicurezza  furono  le  seguenti,  secondo  l'or- 
dine di  apparizione  :  Venere  che  si  cominciò  a  ve- 
dere dal  sig.  Aleover  28"  prima  della  totalità  e  gli 
restò  visibile  1 1  minuti  appresso,  indi  Giove,  Pol- 
luce, Castore,  e  due  altre  che  non  furono  ben  ac- 
certate e  forse  una  eia  Mercurio. 

Fu  cercato  del  novello  preteso  pianeta  di  Lescar- 
bault  senza  successo,  né  furono  viste  da'  nostri  le 
piogge  di  meteore  sul  corpo  solare  aspettate  secondo 
alcune  teorie  (11),  nò  le  macchie  o  i  vulcani  accesi, 
né  alcuna  corruscazione  luminosa  su  la  Luna.  L'effetto 
su  pochi  animati  a  noi  circostanti  fu  nullo  affatto 
in  quel  momento  :  da  un  eremitaggio  basso  fu  visto 
uscire  un  pipistrello,  e  azzittirono  le  numerose  ci- 
cale. Il  progresso  dell'  ombra  sulla  terra  fu  scorto 
da  pili  d'uno  distintamente  :  non  però  sugli  oggetti 
vicini,  in  cui  la  gradazione  di  luce  era  troppo  sfu- 
mata, bensì  sui  piiì  lontani,  che  vedevansi  illuminare 


71 

e  nascondersi  successivamente  nel  momento  che  noi 
stavamo  nella  totalità.  Al  chiarore  cred'  io  di  questa 
luce  e  di  quella  inviata  dall'atmosfera  lontana,  che 
a  non  poca  distanza  dal  limile  delToiizzonle  j-esla 
in  parte  rischiarata  dal  sole  (essendo  la  porzione  di 
atmosfera  visibile  maggiore  della  sezione  del  cono 
ombroso),  è  dovuto  lo  scarso  numero  di  stelle  osser- 
vale in  confronto  all'  oscurità  locale  che  era  assai 
forte,  e  pari  alla  quale  di  notte  se  ne  vedono  molle 
di  più:  certo  io  malgrado  quella  luce  maneggiai  con 
qualche  difiicoltà  il  mio  micrometro  (12). 

L'ago  magnetico  osservato  di  5  in  5*"  e  anche 
durante  la  totalità  non  die  segno  particolare  di  per- 
turbazione. Per  contrario  (come  doveva  aspettarsi) 
la  variazione  di  temperatura  fu  assai  sensibile  ,  e 
più  d'  uno  nella  stazione  inferiore  s'  accorse  di  un 
deciso  principio  di  rugiada  ,  ma  i  termometri  non 
calarono  gran  fatto.  Circa  ti-e  gradi  abbassò  quello 
all'ombra,  e  l'annerito  al  Sole  dicese  da  28  a  23°, 
letti  da  me  pochi  minuti  prima  della  totalità.  Non 
fu  così  della  radiazione  diretta  esplorata  col  teimo- 
moltiplicatore,  e  che  diminuì  rapidamente  dopo  oc- 
cultato il  centro  solare,  e  fu  insensibile  durante  la 
totalità  (13).  AI  riapparire  del  Sole  la  scala  rico- 
minciò in  senso  opposto  e  ritornò  quasi  esattamente 
al  suo  punto  di  partenza,  come  avevamo  sperimen- 
tato nei  giorni  anteriori  alla  medesima  ora. 

11  vento,  ossia  la  brezza  marina,  di  abbastanza 
forte  che  era  prima  dell'ecclisse  si  calmò  gradata- 
mente, e  si  quietò  affatto  nella  totalità  :  il  che  ci 
fu  di  gran  piacere  per  la  stabilità  somma  che  così 
poterono  avere  i  nostri  strumenti.   Terminato  l'ec- 


72 

disse  discendemmo  all'altra  stazione,  ansiosi  di  sa- 
pere il  lisultato  dello  fotografie. 

L'attività  de'nostri  fotografi  non  era  stata  oziosa: 
e  certamente  fu  questo  insigne  merito  del  sig.  Mon- 
serrat,  il  quale  avea  lutto  sì  ben  disposto,  che  quel 
tempo  prezioso  non  poteva  esser  meglio  occupato. 
Quattordici  erano  le  fotografie  fatte  nelle  fasi  par- 
ziali dell'ecclisse  di  grande  dimensione:  e  nei  tre  mi- 
nuti della  totalità  ne  furono  fatte  cinque.  In  que- 
ste l'ombra  di  un  filo  indica  la  direzione  del  moto 
diurno.  Piccoli  di  dimensioni  e  di  non  grandiosa 
apparenza  sono  quel  cinque  dischetti,  ma  di  valoie 
incalcolabile  per  la  scienza.  In  ciascuno  la  Luna  è 
circondala  dalla  sua  corona  colle  protuberanze  de! 
Sole  ,  che  formano  un  monumento  perenne  dello 
stalo  dell'astro,  e  seivono  a  sciogliere  i  più  diffi- 
cili problemi  della  teoria  solare.  La  prima  imma- 
gine, fatta  in  6"  dopo  sparito  ad  occhio  nudo  il  Sole, 
mostra  tutta  intorno  la  corona  più  viva  dalla  parte 
dell'occultazione,  e  l'aici)  rosato  presso  il  punto  di 
uscita:  sopra  e  sotto  questo  vedonsi  le  varie  pro- 
tuberanze e  una  di  esse  isolata,  che  mi  era  sfug- 
gita alla  vista,  ma  che  ho  saputo  essere  stala  da  al- 
tri osservala  :  in  questa  figura  nessuna  ancora  ne 
comparisce  dall'altro  lato. 

La  2."  fu  tenuta  tienta  secondi,  ed  avea  un'am- 
pia corona  ;  ma  per  una  scossa  data  alla  mac- 
china all'  istante  del  chiudere  il  telarino  si  fecero 
tre  inunagini  delle  protuberanze,  il  che  prova  che  la 
lor  forza  luminosa  è  vivissima  e  capace  da  fare 
una  impressione  istantanea.  Questa,  nel  fissarla,  sgra- 
ziatamente si  appannò  un  poco. 


73 

La  3.%  malgrado  qualche  difetto  di  polvere  che 
nella  fretta  delle  preparazioni  fu  inevitabile  ,  mo- 
stra le  protuberanze  diminuite  dalla  parte  anteriore, 
e  nuove  se  ne  scoprono  nell'  inferiore,  e  mostra  l'au- 
reola tutta  intorno,  ma  piià  larga  in  due  direzioni 
opposte  e  più  stretta  nelle  altre:  le  prime  si  tro- 
vano sensibilmente  corrispondere  alle  regioni  equa- 
toriali del  Sole  ,  le  altre  alle  polari.  Questa  foto- 
grafìa corrisponde  al  mezzo  circa  della  totalità:  onde 
la  corona  avrebbe  dovuto  esser  simmetrica.  Questa 
conclusione  importantissima  è  confermata  anche 
dalla   4.*  fiuta   pochi   secondi  dopo. 

Questa  mostra  le  protuberanze  che  spuntano 
quasi  egualmente  tutte  intorno  ,  e  per  un  leggier 
tremito  della  macchina  qui  pure  si  vede  un  piccolo 
raddoppiamento  d'immagine,  che  prova  la  loro  forza 
istantiinea  d'impressione. 

La  quinta,  finita  pochi  secondi  prima  della  riap- 
parizione, mostra  l'arco  luminoso  delle  protuberanze 
già  abbastanza  ampio,  e  si  crederebbe  il  lembo  so- 
lare se  non  fossimo  certi  che  esso  allora  non  era 
ancora  visibile.  Una  sesta,  fatta  dopo  questa,  venne 
bruciata  al  primo  raggio  di  Sole  comparso. 

La  brevità  del  tempo,  in  cui  furon  fatte  queste 
cinque  fotografie,  non  ha  dato  luogo  ad  avere  la  co- 
rona completa,  il  che  già  mi  aspettava  per  la  de- 
bolezza del  lume.  Essa  nella  più  ampia  è  limitata 
a  meno  di  un  raggio  solare:  quindi  per  averla  in- 
tera fu  preparata  una  camera  oscura  grande  ,  di- 
retta per  ciò  verso  il  cielo;  ma  l'equivoco  di  avere 
usato  un  obiettivo  a  paesaggi,  invece  di  quello  da 
me  prescritto  a  ritratti,  fece  che    solo  una  debole 


7/i 


4 


e  incerta  tiaccia  della  corona  si  avesse  sul  collodion. 
Da  questa  serie  importante  di  impressioni  ho  rac- 
colto il  numero  e  la  forma  delle  protuberan/.e  quali 
presento  nei  disegni  (14). 

Ma  vediamo  quali  conclusioni  si  possono  ma- 
re da  questi  tatti,  esposti  colla  più  semplice  since- 
rità  ,    per  la  soluzione  de'  problemi    annunziati    al 

principio. 

La  prima  e  principale  si  è  che  le  protuberanze 
non  sono  né  effetto  di  illusione  ottica,  ne    monta- 
gne lunari,  né  cosa  dell'atmosfera  terrestre,  ma  che 
sono  veramente  proprie  del  Sole-   11  loro  coprirsi  e 
scoprirsi  a  seconda  del  moto  lunare,  come  non  solo 
la  vista,  ma  pure  lo  mostrano  perfino  le  impronte 
fotografiche,  tolgono  ogni  dubbiezza.  Né  solo  variano 
le  grandezze,  ma  anche  gli  angoli  di   posizione  tro- 
vati diversi   per  una  di  6°  dalla    prima    all'  ultima 
prova.   Le  dimensioni,  stimate  e  date  di  sopra,    io 
le  credo  alquanto  esagerate  dalla   irradiazione;    ma 
questo  non  toglie  che  esse  non    sieno    enormi  ,^   e 
parmi  certo  che  alle  maggiori  non  può  negarsi  un'al- 
tezza di  almeno  6  volte    il    diametro   terrestre ,   e 
una  larghezza  proporzionale  alla  base.    La  somma 
vivacità  della  loro  luce  provala  dalla  istantanea  im- 
pressione  fotografica,  la  loro  forma  variata  e  pro- 
propria delle  fiamme  ,  toglie  ogni  idea  di  falsi   ri- 
flessi, di  diffrazione  e  rifrazione  e  di  miraggi:  e  il 
vederle  staccate  e  sospese  lontano  dall'orlo   lunare 
e  solare  e  notanti  a  forma  di  nubi,   prova  che  non 
sono  materia  solida  ,  ma  gassosa  analoga  a'  nostri 
vapori  e  alle  nostre  nuvole. 

La  seconda  conseguenza,  non  meno  importante, 


75 

ò  che  questa  materia  riveste  tutta  ia  superficie  so- 
lare, come  un  generale  inviluppo  trasparente.  Infatti 
il  loro  numeio  prodigioso,  e  il  loro  estendersi  per 
archi  continuati  di  molti  gradi,  ci  mostra  che  è  ir- 
ragionevole su[)porle  particolarità  locali  ed  eccezio- 
nali sulla  superficie  solare,  come  sono  le  macchio, 
né  possono  dirsi  eruzioni  vulcaniche  di  pochi  punti: 
a!  contiario  il  vedeile  spuntale  congiunte  in  lunghe 
catene  tanto  al  principio  che  al  fine  della  totaliicà, 
ci  persuade  che  negli  altri  punti  della  circonferenza 
si  rendon  visihili  solo  le  cime  maggiori  e  più  ele- 
vate ,  restando  le  minori  e  piià  basse  coperte  dal 
corpo  lunare.  Quindi  s*  intende  come  nelT  ecclisse 
solare  osservala  a  Koenisberga  tem[)o  fa,  e  in  altri, 
il  sottile  anello  solare  sia  comparso  tutto  cinto  di 
punte  rossastre-  Ad  occhio  nudo  io  non  potei  di- 
stinguere le  protuberanze,  ma  piiì  persone  ivi  pre- 
senti e  di  ottima  vista  dissero  ,  che  il  Sole  tenea 
fuego  intorno,  sicché  non  dubbiamente  le  poterono 
vedere  ,  benché  non  discernere  separatamente  per 
la  loro  copia  straordinaria.  Tanto  numero  sarebbe 
esso  conseguenza  della  fase  di  speciale  agitazione  in 
cui  sembra  essere  il  Sole  attualmente,  corrispon- 
dente al  periodo  di  massimo  delle  sue  macchie  in 
cui  ora  si  trova,  ovvero  altra  volta  sono  state  po- 
che perchè  gli  osservatori  non  hanno  usate  tutte 
le  premure  possibili  di  osservarle  al  principio  e  al 
fine  della  totalità  ,  occupati  da  altri  soggetti  di- 
versi ?  Questo  forse  é  più  probabile,  non  essendo 
altra  volta  mancalo  chi  abbia  già  indicato  sinlili 
apparizioni  di  archi  luminosi  colorati  e  terminati  a 
sega  estendentisi  per  molti  e  molli  gradi  come  si 


76 

si  è  visto  (la  noi.  Kesta  quindi  messo  fuor  di  dubbio 
essere  il  Sole  avvolto  al  limite  della  sua  fotosfera 
da  una  specie  di  involucro  di  debol  luce  rosea  gas- 
sosa trasparente,  die  ci  si  rende  invisibile  in  tutte 
le  osservazioni  ordinarie,  ecclissato  come  si  trova 
dalla  prevalenza  della  luce  viva  della  fotosfera.  La 
loro  tinta  trasparente  e  senza  corpo  spiega  come 
noi  non  le  vediamo  ordinariamente  sulla  faccia  del- 
l'astro, e  solo  possiam  credere  che  siano  esse  quelle 
nubi  che  appaiono  talora  come  cirri  velare  la  parte 
più  oscura  dei  nuclei    (15). 

Una  terza  conseguenza  si  deduce  da  queste  os- 
servazioni, ed  è  che  il  diametro  solare  è  ben  mag- 
giore di  quello  che  comunemente  si  osserva  cogli 
ordinari  strumenti.  Infatti  abbiam  veduto  che  men- 
tre il  Sole  era  scomparso  col  grado  anche  più  de- 
bole dell'offuscante,  tolto  questo,  e  guardato  ad  oc- 
chio nudo  ,  la  vista  ne  restò  offesa  ,  e  che  ben  6 
secondi  di  tempo  passarono  finche  lutto  svanisse  il 
residuo  candido  segmento:  vale  a  dire  che  almeno 
3  secondi  in  arco  si  perdono  da  noi  nelle  nostre 
abituali  misure  del  raggio  solare!  Ne  segue  ancoia, 
die  usando  diversi  vetri  colorati  per  offuscante  si 
dovià  ottenere  diverso  diametro;  e  questa  conclu- 
sione r  ho  poscia  confermata  dal  fatto  (16). 

In  quarto  luogo  resta  posto  fuor  di  dubbio,  che 
sopra  questo  inviluppo  ben  definito  di  color  rosato 
violaceo,  trovasi  un'atmosfera  bianca  e  trasparente, 
nella  quale  nuotano  talora  masse  staccate  di  cote- 
sto stesso  gas  infiammato.  Non  ò  facile  definire  la 
sua  estensione  ,  ma  certo  non  deve  esser  minore 
dell'altezza  stessa  a  cui  sono  slate  osservate  le  prò- 


77 
tuberan/e.  II  fallo  che  la  corona  fu  visibile  prima 
e  dopo  della  lolalilà  ,  con  una  eslensione  di  circa 
mezzo  raggio  solare  ,  sembia  provare  che  questa 
atmosfera  si  estende  almeno  a  questa  distanza:  essa 
deve  esser  soggetta  alle  leggi  idrostatiche  de'  fluidi 
clastici,  e  formare  un  inviluppo  assai  denso  presso 
la  superficie  solare  che  svanisce  rapidamente  assot- 
ligliarjdosi.  Le  nostre  fotografie  tendono  a  dimostrare 
che  tale  atmosfera  è  più  estesa  presso  l' equatore 
solare,  come  sembra  richiederlo  la  forza  centrifuga: 
e  questo  favorirebbe  grandemente  l'opinione  di  chi 
attribuisce  a  questa  atmosfera  la  Iure  zodiacale  ; 
ma  un  fatto  di  sì  alla  importanza  merita  di  esser 
meglio  comprovato,  e  bisognerà  attendere  il  risul- 
talo ottenuto  da  altri  osservatori  e  in  altre  ecclissi. 
Tutt'altro  però  sembra  doversi  dire  di  que'  lun- 
ghi prolungamenti  di  raggi  che  svanirono  al  primo 
apparire  del  Sole,  alcuni  dei  quali  in  direzione  ver- 
ticale arrivavano  fino  a  3  diametri  solari.  Questi 
io  inclino  a  non  crederli  reali,  ma  meramente  ef- 
fetto dell'atmosfera  terrestre  illuminata  dalla  corona 
e  dalle  protuberanze  tra  le  aperture  che  gli  offrono 
le  montagne  lunari.  Questa  sembrami  la  parte  del 
fenomeno /puramente  meteorologica  nella  sua  ori- 
gine. Appena  ritornato  in  Roma,  con  ecclissi  arti- 
ficiali di  corpi  diversi  sono  riuscito  ad  imitarli  per- 
fettamente- Sospettai  già  fin  d'allora  una  tal  loro 
origine  per  la  differente  forma  che  pigliò  la  corona 
nelle  due  immagini  del  polariscopio,  e  per  l'aspetto 
generale  di  quei  raggi  di  tinta  uniforme  assai  lan- 
guidi e  in  tulio  simili  a  quelli  che  vediamo  al  tra- 
monto del   Sole  scappar  dalle  aperture  delle  nubi. 


78 
La  loro  direzione  divergente  è  assolutamente  un 
mero  effetto  di  prospettiva,  e  li  vedremmo  paral- 
leli! se  fossimo  da  un  lato,  ed  il  loro  chiarore  spetta 
all'aria  atmosferica  piiì  o  meno  illuminata  vivamente 
nella  direzione  ove  le  montagne  lunari  interrotte,  e 
dove  forse  la  corona  e  le  protuberanze  sono  pili  vi- 
vaci. Ma  per  ciò  che  spetta  l'interior  cerchio  o  coro- 
nUi  non  posso  ammettere  che  sia  fenomeno  di  simile 
specie:  e  le  mie  ricerche  ottiche  anteriori  mei  per- 
suadono, essendoché  la  frange  di  diffrazione  ccc, 
hanno  lutl'altra  estensione  e  carattere  (17). 

Resta  dunque  che  la  corona  sia  formata  realmente 
dalla  atmosfera  solare,  la  realtà  della  quale  è  messa 
fuor  di  dubbio  da  quelle  nubi  losse  che  non  po- 
trebbero mai  restare  ivi  sospese  se  non  avessero  un 
sostegno,  il  quale  non  può  esser  altro  che  una  massa 
aerea.  Questa  dovendo  andare  decrescendo  gradata- 
mente, non  fa  meraviglia  che  possa  estendersi  no- 
tabilmente al  di  là  del  limite  delle  protuberanze  , 
ove  lentamente  svanisca,  come  fa  nel  nostro  pia- 
neta l'aria  oltre  le  nubi,  e  colia  sua  luce  graduata 
produrre  quel  fenomeno.  Tale  conseguenza  mi  pare 
anche  appoggiata  dal  fatto  che  a  fase  non  totale  il 
canjpo  attorno  all'orlo  lunare  era  più  scuro  che  at- 
torno al  solare,  come  pure  dalla  non  equivoca  osser- 
vazione della  visibilità  del  disco  lunare  fuori  del 
solare. 

Questo  ,  o  signori  ,  è  quanto  ho  potuto  racco- 
gliere dalle  mie  osservazioni.  Non  mi  illudo  di  avere 
tutto  osservato,  anzi  molto  ho  dovuto  lasciare  ,  e 
non  poco  mi  ò    sfuggito  che  avrei  potuto  supplire 


79 

dalle  relazioni  altrui;  ma  ho  voluto  in  questa  espo- 
sizione iimitai'ini  allo  mie  sole  impressioni  lasciando 
ad  altra  occasione  il  confrontare  i  miei  cogli  altri 
lisultati.  Quel  solo  che  posso  dirvi  si  è,  che  finora 
il  numero  e  il  successo  delle  nostre  fotografie  su- 
f)cra  quello  ottenuto  dagli  altri  a  noi  cogniti,  e  le 
conclusioni  loro  irrefragabilmente  combinano  colle 
nostre  (18). 

Se  però  il  successo  in  questa  parte  ha  avuto 
alcun  che  di  singolare,  se  ne  deve  principalmente 
anche  il  merito  ai  sìg.  direttore  d'  Aguilar,  al  sig. 
Monserrat,  e  agli  altri  miei  dotti  colleghi  spagnuoli, 
i  quali  lasciando  a  me  una  piena  libertà  di  azione 
e  di  disposizione  in  tutto,  non  solo  mi  hanno  se- 
condato in  quanto  io  potei  proporre  e  desiderare, 
non  essendosi  essi  mai  occupati  dianzi,  di  fotogra- 
fia celeste,  ma  hanno  efficacemente  contribuito  senza 
riguardo  nò  a  spese  nò  a  sagrifizi  personali  di  ogni 
genere  per  riuscirvi.  Disgraziatamente  i  funesti  ru- 
mori dell'invasione  colerica  in  Valenza,  unite  a  tri- 
sti notizie  domestiche  arrivate  al  direttore,  vennero 
a  turbarci  al  momento  di  nostra  separazione,  onde 
non  potè  avere  luogo  un  completo  congresso  astro- 
nomico, come  avevamo  proposto  di  fare,  per  discu- 
tere i  risultati  ottenuti  (19). 

A  me  però  resterà  sempre  impressa  la  loro  cor- 
tesia e  gentilezza  verso  di  me:  anzi  devo  aggiun- 
gere che  non  solo  i  miei  colleghi,  ma  lutti  gene- 
ralmente gli  spagnuoli  anche  i  più  comuni  e  del 
popolo  han  mostrato  per  me  una  sì  cordiale  affe- 
zione da  dividere  meco  persino  i  sentimenti  di  tri- 
stezza o  di  gioia,  quasi  che  lo  fossi  il  solo  impe- 


80 
gnato  nella  riuscita  di  questa  impresa.  Al  che  con- 
tribuiva non  dubbiamente  1'  esser  io  fra  tutti  gli 
astronomi  di  tutte  le  nazioni  che  colà  erano  con- 
corsici solo  che  avea  missione  diretta  da  quel  Sommo 
cui  quella  nazione  sinceramente  cattolica  ha  sem- 
pre venerato  e  ora  più  che  mai  altra  volta  mostra 
di  venerare  di  cuore  sincero  qual  loro  Padre  Santo, 
la  cui  soddisfazione  fu  pure  per  me  il  massimo  dei 
piaceri  per  l'ottenuto  successo. 


81 
NOTE 


(1)  Debbo  air  Emo  sig.  cardinale  Santucci  pre- 
fetto della  sacra  congregazione  degli  studi  1'  aver 
rappresentalo  al  Santo  Padre  la  convenienza  di  tale 
spedizione  ;  e  la  Santità  Sua,  sempre  intenta  a  fa- 
vorire i  buoni  studi,  mi  diede  del  suo  privato  pe- 
culio un'  amplissima  sovvenzione. 

(2)  L'osservatorio  di  Madrid  è  posto  sotto  la 
protezione  di  un  commissario  regio  il  sig.  Gii  y 
Zarate,  e  a  questo  dotto  e  attivo  signore  si  deve 
il  suo  risorgimento  e  il  suo  stato  attuale  onde  è 
uno  dei  meglio  forniti  di  Europa.  Il  direttore  im- 
mediato ò  il  sig.  D.  Antonio  d'  Aguilar,  che  ha  an- 
che il  titolo  di  1°  astronomo,  e  il  suo  collega  il 
sig.  Novella  ha  quello  di  2°  astronomo.  Un  3"  astro- 
nomo il  sig.  Merino,  e  cinque  o  sei  altri  assistenti 
formano  il  personale  di  servizio  ordinario.  Dall'os- 
servatorio furono  fatte  due  spedizioni,  una  al  Mori 
cayo  diretta  dal  sig.  Novella  e  1'  altra  al  Desierlo 
las  Palmas  del  sig.  Aguilar.  Sapendo  questi  il  mio 
progetto  di  occuparmi  di  ricerche  fisiche  durante 
l'ecclisse  ,  fui  da  esso  invitato  ad  unirmi  seco  :  a! 
che  io  acconsentii,  riserbandomi  esclusivamente  que- 
sto studio,  mentre  esso  con  suo  fratello  sig.  Gae- 
tano si  occupavano  principalmente  dal  regolamento 
degli  orologi  e  della  determinazione    del  tempo.    I 

G.A.T.CLXVI.  6 


82 
risultali  relativi  a  questa  parte  saranno  da  essi  pub- 
blicati quanto  prima.  Anzi  si  avrà  questa  volta  un 
controllo  ai  calcoli  di  una  stretta  precisione  in  ciò 
che  spetta  i  limiti  della  zona  di  totale  oscurità  , 
perchè  ad  istanza  del  sig,  direttore  gli  allievi  della 
scuola  di  stato  maggiore  ed  altri  molti  amatori  si 
sono  disposti  a  distanze  di  mille  in  mille  metri 
circa  perpendicolarmente  al  limite  del  corso  dell'om- 
bra ,  per  fissare  esattamente  ove  fu  totale  e  dove 
no,  e  così  questa  traccia  sarà  segnata  con  una  pre- 
cisione straordinaria,  e  riuscirà  utile  per  la  solu- 
zione di  molti  dubbi.  Le  operazioni  fotografico-chi- 
raiche  furono  riservate  al  sig.  Monserrat. 

Per  le  fotografìe  minori  V  immagine  diretta  si 
faceva  cadere  al  luogo  della  lamina  collodionata,  al- 
lungando però  il  foco,  che  fu  trovato  10"""  più  lungo 
pei  raggi  chimici  che  per  i  luminosi.  Per  le  imuìa- 
gini  ingrandite  la  difficoltà  principale  fu  in  trovare 
un  tempo  abbastanza  corto  di  esposizione.  Per  ciò 
si  usò  di  una  tavoletta  scorridora,  munita  di  pic- 
cola asola  e  di  un  peso,  la  quale  passava  rapida- 
mente avanti  all'immagine.  Così  la  durata  di  espo- 
sizione era  appena  */jqq  di  secondo,  e  si  aveano  le 
macchie  precise  colle  loro  penombre  e  gli  orli  del 
Sole  più  deboli  come  si  suol  vedere  nelle  proiezioni 
luminose  ordinarie. 

(3)  Per  la  determinazione  accurata  del  tempo 
gli  astronomi  spagnuoli  avevano  portato  seco  un 
magnifico  strumento  de'  passaggi  portatile  di  Rep- 
sold,  due  cronometri  di  Dent,  un  pendolo  pure  di 
Dent,un  sestante  coll'orizzonte  artificiale,  un  con- 
tatore a  secondi  che  mediante  un  meccanismo  sem- 


83 
plicissimo  da  me  aggiuntovi  segnava  i  secondi  su 
di  una  lista  di  carta  di  un  telegrafo  di  Morse  ,  e 
con  un  altro  piccolo  accessorio  dava  l'istante  della 
osservazione.  Due  barometri  uno  de'  quali  fu  lascialo 
a  Castellon  per  confronto  delle  altezze;  una  serie 
completa  di  termometri  di  diverse  qualità  per  le 
osservazioni  meteorologiche  ,  e  un  anemometro  di 
Robinson  per  la  velocità  del  vento.  Avevano  com- 
prato espressamente  per  questa  occasione  due  equa- 
toriali di  Steinheil  di  122™™  di  apertura,  e  uno  di 
questi  era  stato  portato  al  Moncayo  dal  sig.  Novella, 
l'altro  era  con  noi.  Il  sig.  avvocalo  Antonio  Rodriguez 
de  Cepeda  ci  favoli  un  piccolo  strumento  de'  pas- 
saggi a  prisma,  che  servì  al  sig.  Barreda  per  stu- 
diare lo  spettro  solare,  e  poi'tò  per  sé  un  bel  can- 
nocchiale di  Lerebours  di  93™™  di  apertura,  al  quale 
io  applicai  uno  degli  oculari  di  Cauchoix  per  dargli 
campo  più  ampio  da  studiare  il  complesso  de'  feno- 
meni della  corona  e  delle  protuberanze  simultanea- 
mente. 

(4)  L'offuscante  graduato  qui  indicato  è  formato 
di  una  lastra  di  vetro  scuro.,  di  tinta  che  dicono 
neutrale,  ma  molto  tendente  al  bleù,  che  è  larga  23 
millim.  e  lunga  80  ,  la  sua  spessezza  da  un  capo 
all'altro  varia  da  1  a  2,  75,  ed  è  acromatizzata  con 
un  vetro  bianco  per  distruggere  la  sua  azione  di- 
spersiva. Questo  vetro  ha  il  vantaggio  di  poter  dar 
luce  conveniente  alla  parte  del  Sole  che  si  studia, 
che  deve  essere  diversa  secondo  gli  oggetti:  e  di  più 
non  è  sì  facile  a  rompersi  pel  calore  come  gli  al- 
tri, potendosi  muovere  a  mano  facilmente.  I  molti 
vetri    fìssi,  di  cui    erano  provvisti  gli  altri  ,    quasi 


tutti  si  ruppero  ad  eccezione  di  questi.  Le  due  la- 
stre sono  insieme  unite  con  mastice,  ma  così  spesso 
si  corre  pericolo  che  il  calore  lo  fonda  e  guasti  : 
onde  meglio  è  lasciarle  senza  incollarle,  avendo  però 
riguardo  di  non  prendere  abbaglio  dai  riflessi  sulle 
facce  prismatiche. 

(5)  Il  governo    spagnuolo  a  fine  di  favorire  gli 
scienziati  dichiarò  che  tutti  gli  strumenti  destinati 
a  quest'uso  e  che  dovessero  tornar  fuori  sarebbero 
esenti  dal  dazio,  che  ivi  è  assai  forte,  e  richiesero 
soltanto  che  ne  fosse  inviata  nota  preventiva  al  di- 
rettore dell'  osservatorio.  Fu  dato   anche   ordine  a 
tutti  i  governatori  e  alcaldi  di  favorire  i    dotti  fo- 
restieri in  ogni  circostanza,  e  ai  professori  di  fisica 
o  di  altre  facoltà  affini  di   prestare  loro  assistenza 
e  servizio  in  quanto  avrebbero  avuto  bisogno:  e  que- 
sto fu  puntualmente  eseguito,  anzi  la  gentilezza  dei 
medesimi  professori  non  si  limitò  a  questo,  ?Tia  pre- 
venne lutti  nella  maniera  più  cortese  che  si  poteva 
desiderare.   Inoltre  il  giorno  dell'ecclissi   avendo  il 
governo  saputo  che  sarebbe  stato  utile  agli  astro- 
nomi l'avere  il  tempo  esatto    da  Madrid,  fu  ordi- 
nato che    dalle  10  antm.  fino  alle  5    pom.  i  tele- 
grafi fossero  esclusivamente  a  disposizione  loro,    e 
il  sig.  Merino    fu  incaricato  di    dare  il  tempo  alle 
linee  che  lo    richiedessero.    Non  posso    qui   tacere 
che  se  questa  disposizione  fosse  stata  notificata  pri- 
ma, si  sarebbero  potuti   trarre  dei  vantaggi  incal- 
colabili per  l'osservazione. 

Quando  il  giorno  3  luglio  arrivammo  a  Castel- 
lon  de  la  Plana  ,  feci  osservare  al  sig.  d'  Aguilar 
the  stando  noi  ad  un  estremo  della  linea  dell'om- 


85 
bra,  ove  era  la  stazione  telegrafica,  se  avessimo  avuto 
a  nostra  disposizione  il  telegrafo  ,  e  fossimo  stati 
in  comunicazione  con  Santander  o  altro  sito  posto 
all'altro  estremo,  avremmo  potuto  sapere  immedia- 
tamente gli  oggetti  più  interressanti  da  studiare  per 
completare  l'osservazione  fatta  all'altro  capo,  giac- 
che l'ecclisse  totale  finiva  colà  7  interi  minuti  pri- 
ma che  cominciasse  da  noi.  Così  una  stazione  avrebbe 
potuto  supplire  air  altra,  e  la  durata  della  osser- 
vazione prolungarsi  fino  11  interi  minuti,  che  era 
il  tempo  che  ia)piegava  l'ombra  a  traversare  la  pe- 
nìsola. 

11  progetto  non  poteva  non  piacere,  e  si  sarebbe 
cercato  di  porlo  in  esecuzione,  se  l'altra  commis- 
sione non  fosse  stata  già  al  Moncayo  ,  e  noi  non 
avessimo  avuto  il  tristo  desiderio  di  andare  alle  mon- 
tagne; nel  qual  caso  ci  mancava  il  tempo  per  stendere 
il  filo  locale.  Finalmente  ci  pareva  impossibile  che  il 
governo  avrebbe  voluto  concedere  il  favore  del  te- 
legrafo: e  così  fu  abbandonato  il  progetto.  Ma  l'e- 
sperienza ha  persuaso  tutti  che  i  monti  ,  se  non 
sono  altissimi,  sono  le  peggiori  situazioni  per  le  os- 
servazioni, essendo  esposti  a  nebbie  che  a  noi  fal- 
lirono a  pena  di  togliere  il  successo  e  ci  fecero 
stare  in  una  ansietà,  il  cui  men  tristo  effetto  è  l'agi- 
tazione dell'animo,  in  confronto  della  diffidenza  che 
ispira,  che  fa  perdere  un  tempo  prezioso  ed  impe- 
disce molti  preparativi  e  studi  importantissimi  ;  e 
.  infatti  al  tanto  vantato  Moncayo  fu  perduto  il  prin- 
cipio. Se  poi  sono  altissimi,  riescono  impraticabili  per 
le  strade  che  non  vi  sono  ,  e  pel  vento  che  tutto 
sturba;  a  tanti  svantaggi  ò  poco  compenso  la  mag- 


86 
gl'or  purezza  del  cielo.  La  stagione  è  slata,  è  vero, 
quest'anno  affatto  straordinaria,  non  essendo  solito, 
a  quanto  dicono,  che  colà  piova  in  luglio:  nna  an- 
che senza  ciò  il  consiglio  era  improvvido.  Invece 
stando  in  basso  alle  città  si  poteva  tenere  un  te- 
legrafista accanto  all'  osservatore  che  trasmettesse 
subito  ad  un  altro  il  suo  risultato,  indicandogli  le 
cose  a  cui  dovea  fare  attenzione,  per  completare 
quanto  non  avea  potuto  osservare  il  primo.  È  da 
sperare  che  in  altra  occasione  questo  possa  aver 
luogo  ;  ma  sarà  difficile  che  si  combinino  tutte  le 
circostanze  favorevoli  di  questa   volta. 

(6)  La  cima  del  monte  S.  Michele  al  Desicrto 
de  las  Palmas  fu  pure  stazione  di  Biot  ed  Arago 
nella  prolungazione  della  meridiana  francese  fino  a 
Iviza,  e  sembra  un  silo  destinato  a  scoraggire  chi 
si  reca  colà  por  operazioni  scientifiche.  Veggasi  ciò 
che  dice  Biot  nel  4."  tomo  della  Base  du  sysiéme 
mélrique,  Inlrod.  Ecco  un  breve  estratto  del  gior- 
nale da  me  tenuto  in  questa  occasione. 

Alla  sera  del  l.°di  luglio  partimmo  da  Madrid, 
e  monsig.  Barili  nunzio  Apostolico  presso  quella 
Corte ,  che  mi  avea  colmalo  di  gentilezze  durante 
la  mia  dimora  colà,  mandò  espressamente  a  com- 
plimentarmi il  suo  signor  fratello  e  il  signor  se- 
gretario abate  Pallotta.  Viaggiammo  tutta  la  notte 
colla  strada  ferrata  :  la  mattina  alle  10  fummo  a 
Valenza,  ove  vennero  ad  accoglierci  alla  sta/,ione  i 
deputati  dell'università:  il  resto  del  giorno  fu  im- 
piegato a  ordinare  la  spedizione  degli  strumenti  a 
Castellon  ,  a  visitare  1'  università  stessa  e  il  suo 
giardino   botanico    molto    ricco  e    ottimamente  te- 


87 
nulo  sotto  la  direzione  del  sig.  Pizqueta  reltoio 
della  medesima-  Al  giorno  3  partimmo  per  Castel- 
lon,  e  ivi  arivammo  la  sera.  La  mattina  appresso 
del  4.  di  buon  ora  salimmo  al  Desierto.  Il  sito  del 
convento  alto  sul  mare  300  metri  circa,  ove  spe- 
ravamo collocare  gli  strumenti  e  aver  nostra  abi- 
tazione, fu  trovato  essere  in  un  burrone  in  mezzo 
alle  montagne,  donde  non  si  vedeva  quasi  nò  cielo 
ne  terra.  Sul  ciglio  di  un  mofiticello  vicino,  alto 
circa  80.™  sopra  il  convento,  trovammo  due  ere- 
mitaggi abbandonali  ,  donde  si  godeva  la  vista  li- 
bera a  tutto  Sud  e  un  poco  di  S.  0.,  ma  ci  re- 
stava coperta  la  regione  importante  della  via  del- 
l'ombra. Recatici  alla  cima  del  S.  Michele,  alto  al- 
tri 350"^  e  di  incomodo  accesso  ,  avremmo  po- 
sto colà  stazione  definitiva  se  vi  fosse  stato  locale; 
ma  tutto  si  riduceva  alla  cella  dell'oratorio  di  4 
meli'i  quadrati,  e  l'area  intorno  era  pure  assai  stretta. 
Sperando  però  che  l'altezza  della  stazione  e  la  pu- 
rezza del  cielo  potessero  favorirci  non  poco,  deter- 
minammmo  di  fare  colà  il  punto  di  nostra  osser- 
vazione andandovi  uno  o  due  giorni  prima. 

La  mattina  del  5  si  cominciarono  a  portare  gli 
strumenti  agli  eremi  e  a  piantare  i  pilastri  di  mu- 
ratura per  l'equatoriale  e  lo  strumento  de'  passag- 
gi, che  furono  montati  il  giorno  6.  Nella  notte  del  6 
al  7  si  presero  diverse  fotografie  lunari,  come  pure 
nella  notte  deir8,  per  conoscere  la  durata  di  espo- 
sizione per  l'impressione  della  corona,  la  cui  luce 
non  poteva  esser  gran  fatto  diversa  da  quella  della 
luna. 

Fino  dal  giorno   cinque  io  cominciai  una  serie 


88 
(li  osservazioni  magnetiche  orarie  e  insieme   di  ba- 
rometriche e  termometriche. 

La  notte  dal  6  al  7  fu  orribilmente  calda  ,  o 
alle  S"""*"!  dopo  mezzanotte  segnava  31.°  6  C,  cal- 
le 6  antem.  32.**  6:  fortunatamente  quell'aria  bru- 
ciante calmò,  ma  cominciò  una  serie  di  giorni  di- 
sturbati che  molto  sconcertarono  i  preparativi. 

Il  giorno  8  furono  fatte  molte  fotografie  solari. 

Alli  9  si  cominciò  una  serie  di  sperienze  ter- 
moelettriche per  fissare  la  curva  diurna  della  irra- 
diazione; ma  gli  aghi  del  galvanometro  furon  tro- 
vati  troppo  grevi,  e  si  dovettero   mutare. 

Nei  giorni  9  e  10  fu  da  me  rettificato  l'equato- 
riale, determinato  l'intervallo  de'  fili  di  ragno  del  mi- 
crometro, messi  quelli  di  platino  a  diversi  reticoli 
ecci  ripetute  le  fotografie. 

L'  11,  12,  e   13  furono  cattivi  e  piovosi. 

Ai  14  si  determinò  la  declinazione  magnetica 
assoluta  trovala    18.°|,  e  si  rifecero  fotografie. 

Il  15  si  ripeterono  le  osservazioni  termoelettri- 
che ,  e  si  presero  dal  sig.  Monserrat  le  fotografìe 
di  tutti   gli  strumenti  riuniti  cogli  osservatori. 

Il  16  si  fecero  i  preparativi  per  salire  a  S.  Mi- 
chele, ove  si  passò  tutto  il  17  e  il  18-  Dal  Desierto 
partimmo  il  giorno  21.  In  tutto  il  tempo  di  no- 
stra dimora  colà  avemmo  ottima  cortesia  da  quei 
buoni  religiosi  che  ci  prestarono  tutti  i  servizi  che 
poterono  con  ogni  cordialità,  non  ostante  la  stret- 
te/za di  somma  povertà   in  cui  vivono. 

La  commissione  spagnuola  del  resto  volle  ospi- 
tare me,  il  mio  compagno  P.  Yinader,  e   gli  altri 


89 
non  pochi  concorrenti  per  qua'  giorni   affatto  gra- 
tuitamente e  con  ottimo  trattamento. 

(7)  Fra  le  persone  insignì  che  ci  onorarono  di 
lor  visita  fu  S.  A.  R.  il  sig.  duca  di  Montpensier, 
il  sig.  duca  di  Pestagua,  diversi  membri  delle  ca- 
mere ,  molti  professori  di  Barcellona  ,  Salamanca  , 
"Valenza  ,  Castellon,  parecchi  giovani  ingegneri,  dei 
quali  diversi  ci  prestarono  aiuto  al  momento  delle 
osservazioni.  S.  A.  il  duca  di  Montpensier  avrebbe 
voluto  salire  a  S.  Michele  ,  ma  vedendo  la  nube  , 
continuò  il  suo  viaggio  ad  Oropesa,  dove  era  l'altra 
commissione  spagnuola  dell'osservatorio  di  S.  Fer- 
nando e  la  commissione  portoghese.  A  Castellon 
della  Plana  si  erano  fermali  gli  astronomi  sig.  Pian- 
tamour  di  Ginevra;  sig.  Bremicker  di  Berlino;  sig. 
Bar.  Fielitzsch  di  Greifwalden;  sig.  Lamont  di  Mo- 
naco, e  il  sig.  Rumker  di  Amburgo  e  altri.  Non  molto 
lungi  da  Oropesa,  a  Torreblanca,  era  il  sig.  Carlini 
di  Milano,  il  decano  degli  astronomi  italiani,  il  sig. 
Donali  di  Firenze,  col  sig.  Tempel  eccellente  dise- 
gnatole di  oggetti  celesti,  il  sig.  Bonnet  professore 
di  nautica  in  Barcellona.  Alla  stazione  centrale  del 
Moncayo,  oltre  la  spedizione  francese  composta  dei 
signori  Leverrier  ,  Foucault  ,  Chacornac  ecc.,  e  la 
spagnuola  del  sig.  Novella,  era  il  signor  Bruhns  di 
Lipsia,  e  il  sig.  Klinkerfus  di  Gottinga;  ma  il  mal 
tempo  ne  li  cacciò  al  piano  e  molti  osservarono  a 
Tarazona.  La  maggior  parte  degl'inglesi  era  all'al- 
tro Iato,  a  Burgos,  Santander,  Bilbao,  ecc.;  ma  non 
so  ancora  l'esito  delle  loro  osservazioni ,  tranne  il 
felice  successo  del  sig.  De  la  Bue  che  ha  fatto  due 
fotografìe  della   totalità. 


90 

(8)  I  raggi  obliqui  non  sono  difficili  a  spiegarsi 
come  vedremo:  più  lo  sono  i  forcuti  del  sig.  Ce- 
peda  ,  e  più  ancora  quelli  fatti  a  forma  di  foglie 
che  si  danno  nella  figura  fatta  da  Liais  al  Brasile. 
Credo  che  la  confusione  svanirà  quando  sarà  ben 
fissato  che  cosa  si  è  voluto  rappresentare  in  que' 
disegni  ,  se  le  regioni  di  maggior  chiarezza  ,  o  la 
direzione  delle  linee  di  luce;  queste  possono  molto 
dipendere  dalla  costruzione  dell'occhio,  e  in  questa 
materia  non  è  facile  fissare  uno  stile  convenzionale. 

(9)  Le  fiamme  osservate  nel  1842  non  furono 
che  3  o  4:  piìi  se  ne  osservarono  nel  1851  in  cui 
si  era  piij  preparato,  e  M.  Malhieu  ed  altri  videro 
decisamente  un  arco  circolare  intero  di  pioininenze 
l'osee.  Che  molti  di  questi  fenomeni  siano  loro  fa- 
cilmente sfuggili  si  capisce  dall'esser  allora  gli  os- 
servatori intenti  a  contare  il  tempo,  e  fissi  coll'oc- 
chio  in  un  punto  solo.  Per  me  abbandonai  affatto 
questa  parte,  e  solo  mi  prevalsi  <lel  contatore  per 
apprezzare  la  durala  delle  parti  singole  del  fenomeno. 
Tutte  le  altre  osservazioni  dei  tempi  le  darò  in  al- 
tra occasione  quando  avrò  ricevuto  da  Madrid  le 
correzioni  esatte  degli  orologi  dietro  il  cotnplesso 
di  tutte  le  osservazioni  meridiane.  Non  credo  che 
dispiacerà  trovare  qui  il  tempo  del  principio  e  del 
line  osservato  in  Roma  al  Collegio  Romano  dal  P. 
Rosa,  che  avea  rettificato  il  circolo  meridiano  con 
ogni  diligenza  nei  giorni  antecedenti,  e  lo  darò  ap- 
presso in  una  appendice.  In  generale  crederei  buon 
consiglio,  e  degno  da  ridursi  in  pratica  durante  le 
ecclissi  totali,  l'uso  di  prendere  i  tempi  o  a  buoni 
registratori  automatici,  o  per  appulsi  coi  top,  dati 


91 

ad  un  assistente,  perchè  la  distrazione  in  voler  con- 
tare e  osservare  tutto  da  se  produce  errori  ben  su- 
periori alle  piccole  incertezze  probabili  nel!'  altro 
sistema. 

(10)  Se  tanto  si  studia  l'impressione  su  la  na- 
tura materiale  ,  non  è  certamente  da  dispregiarsi 
r  impressione  morale  che  si  eccita  sulle  intelligenze 
degli  osservatori  in  quel  momento,  che  è  ben  più 
importante  che  la  sensazione  dei  bruti  animali.  Il 
gran  pensiero  che  sembrò  occupare  tutti  gli  osser- 
vatori durante  la  totalità,  fu  l'annientamento  della 
creazione  tutta  per  la  mancanza  del  gran  luminare; 
e  quindi  1'  idea  affatto  naturale  di  una  Potenza  crea- 
trice e  conservatrice,  sembrò  esaltarsi  a  quel  con- 
trapposto. -  Dios  es  grande  !  -  fu  1'  esclamazione 
che  uscì  da  molte  bocche  in  quel  momento  ,  e  il 
vedersi  direi  quasi  scampato  da  quel  pericolo  au- 
mentò l'allegria  alla  comparsa  del  giorno.  Ma  per 
molto  che  se  ne  dica  bisogna  convenire  che  il  fe- 
nomeno è  affatto  indescrivibile,  e  in  genere  V  im- 
pressione molto  dipende  dalle  idee  di  ciascuno;  ma 
anche  i  più  preparati  non  furono  esenti  da  certo  ri- 
brezzo al  rapido  calar  della  luce  similissimo  a  quello 
usato  negli  spettacoli  per  ftir  notte.  Malgrado  i  molti 
avvisi  e  la  notorietà  pubblica  del  fenomeno,  pure 
non  mancarono  nella  classe  più  bassa  ,  e  special- 
mente nelle  donne,  de'  forti  sensi  di  timore,  e  in 
Castellon  alcune  furono  viste  piangere  e  ansiosa- 
mente raccogliere  al  seno  i  figlioletti. 

(11)  La  curiosa  teoria  del  sig.  Thomson  vorrebbe 
che  il  calore  fosse  mantenuto  da  meteore  cadenti  sul 
Sole  pel  lavoro  meccanico  esercitato  nel  loro  urto. 


92 

Quindi  si  era  raccomandata  tale  ricerca:  ma  nulla 
si  vide  lassij  dai  nostri  circostanti-  Il  sig.  Leta- 
inendi  prof,  di  anatomia  a  Barcellona  ,  che  si  era 
recato  a  Perillon,  mi  assicurò  essere  stali  veduti  due 
globi  di  fuoco,  come  stelle  cadenti  andare  verso  il 
Sole.  L' importanza  dell'osservazione  merita  più  det- 
tagli. L'esistenza  del  pianeta  intra-mercuriale,  tanto 
cercato  invano,  pare  ora  poco  sicura. 

(12)  Le  isole  Columbretes  furono  viste  in  luce 
mentre  noi  eravamo  nell'oscurità-  Per  intendere  poi 
quello  che  qui  si  dice  è  da  richiamare  ciò  che  è 
stato  dimostrato  dal  sig.  Biot  (Comptes  Rendus,  to- 
mo XXXIX  pag.  825).  Esso  ha  provato  ,  che  un 
raggio  luminoso,  che  arriva  all'occhio  per  una  tra- 
iettoria orizzontale,  è  entrato  nella  nostra  atmos- 
fera in  un  punto  la  cui  verticale  sul  globo  terre- 
stre dista  7."  30' da  quella  dell'osservatore  (contati 
dal  centro  della  terra):  e  che  se  questo  raggio  per- 
corre una  linea  inclinala  all'orizzonte  di  10.°,  esso 
è  entralo  ad  una  distanza  di  2°.  19.'  Ora  il  raggio 
della  sezione  del  cono  dell'ombra  lunare  sulla  su- 
perficie terrestre,  per  chi  era  nel  centro,  non  era  che 
di  2  gradi  circa:  donde  si  scorge  che  da  almeno  10.° 
gradi  di  altezza  in  giù  la  massima  parte  della  at- 
mosfera terrestre  visibile  dall'osservatore  era  illu- 
minata parzialmente  dal  Sole-  Quindi  si  spiega  il 
chiarore  che  allora  si  vedeva  al  basso  tutto  intor- 
no, e  la  luce  diffusa  da  questa  massa  d'aria  ,  che 
non  'è  poca,  ed  il  suo  color  giallastro  proprio  dei 
raggi  trasmessi  a  traverso  di  essa:  e  mi  ricordo 
che  l'orizzonte  mi  parve  più  scuro  dal  lato  donde 
veniva  l'ombra  prima  della  totalità,  che  noi  vidi  du- 


93 
rante  essa.  Si  spiega  anche  come  presso  al  Sole 
ecclissato,  malgrado  la  luce  della  corona,  siansi  po- 
tute vedere  le  stelle  Castore  e  Polluce,  e  non  siansi 
potute  vedere  nò  Sirio,  né  la  Lira,  che  sono  assai 
più  lucide  ,  ma  che  stavano  da  esso  più  distanti. 
Per  facilitare  la  visibilità  delle  stelle  io  aveva  fatto 
copiare  la  carta  di  Maedier,  traforandola  al  luogo 
proprio  di  ciascuna  delle  principali. 

Le  mie  osservazioni  della  polarizzazione  sono 
assai  incomplete,  ma  mi  mostrarono  che  la  luce  più 
vicina  della  coiona  non  ò  molto  polarizzata,  e  che 
la  polarizzazione  cresce  colla  distanza  dall'orlo  lu- 
nare. Sfortunatamente  queste  osservazioni  non  sono 
facili  per  chi  non  ha  gran  pratica.  So  che  taluno 
giudicò  la  corona  perfettamente  polarizzata,  perchè 
guardandola  attraverso  due  tormaline,  e  girandone 
una,  la  vide  sparire  !  La  distrazione  e  la  sorpresa 
di  quel  momento  potè  dar  luogo  a  questo  equivoco, 
e  perciò  bisogna  stare  assai  in  guardia  in  questa 
materia  e  sapere  i  fatti  con  molti  dettagli. 

(13)  La  pila  termoelettrica  era  diretta  al  Sole 
mediante  un  cannocchiale  che  le  serviva  di  guida, 
perchè  i  raggi  vi  cadessero  sempre  perpendicolar- 
mente sopra.  II  sig.  Botella  volle  perciò  prestarci 
la  sua  tenda  fotografica,  nella  quale  fu  collocato  il 
galvanometro  a  riparo  del  Sole,  il  cui  circolo,  co- 
minciando da  parecchi  minuti  prima  della  totalità, 
fu  letto  colla  lucerna.  Benché  durante  la  totalità 
r  indicazione  sia  nulla,  non  pretendo  con  ciò  dimo- 
mostrato  che  la  corona  non  raggi  punto  calore;  io 
avea  dimenticato  di  prendere  meco  il  )iflettore  co- 


94 
nico  della  pila,  e  così  non  potei  studiare  con  esat- 
tezza questo  punto;  ma  è  certo  importante  in  que- 
sta serie  il  vedere  il  rapido  calare  della  forza  calo- 
rifica dopo  coperto  il  centro  del  disco. 

Ecco  i  numeri  ottenuti  cominciando  dal  momento 
in  cui  si  rischiarò  il  Sole  ad  intervalli  nella  mat- 
tinata. 


Tempo  Gradi  Tempo  Gradi  Tempo  Gradi 


l.h  S.-^IO.oO 
20.  21.  0 
30.  20.  0 
45.  20-  0 
50.  21.  5 
princ.  57.  20.  0 


2.h  11."18.»5 
25.  15.5 
35. 
58. 

3.      5. 

ose.  10. 


11.5 
2.0 
1.  5 

0.  0 


3.h  11. ">  0.°5 

20.     1.  0 

35.  11.5 

55.  15.0 

4.   16.  17.  5 

fin.  30.  20.  0 


La  pila  stava  scoperta  finché  l'ago  fosse  stazio- 
nario e  poi  si  ricopriva  subito  :  e  la  forza  che  fa 
deviare  di  20."  il  galvanomelro  faceva  pure  muovere 
un  termometro  a  bolla  annerita  di  4.°1  di  Farhe- 
neit.  L'essere  ritornato  l'ago  dopo  il  fine  allo  stes- 
so posto  di  20.",  mostra  l'insignificante  freddo  pro- 
dotto dall'ombra  sull'atmosfera  terrestre.  Le  osser- 
vazioni fatte  il  giorno  15,  in  ore  quasi  corrispon- 
denti, sono  le  seguenti  alla  stazione  bassa. 


2.h    10.™ 

lo.-'e 

2.     15. 

19.  5 

4.       0. 

19.  7 

4.     15. 

19.  2 

95 

La  piccola  diversità  è  dovuta  alla  differenza  di 
altezza  che  non  ò  del  tutto  insensibile. 

11  risultato  più  importante  ottenuto  dal  sig.  Bar- 
reda,  studiando  Io  spettro,  fu  il  grande  indebolimen- 
to del  giallo  poco  prima  della  totalità,  e  varie  pic- 
cole alterazioni  nelle  righe  di  Fraunhofer,  ma  non 
di  gran  rilievo.  Egli  ne  darà  conto  in  una  nota  spe- 
ciale. 

II  barometro  non  fece  che  una  mossa  piccolis- 
sima, alla  quale  pareva  già  disposto  d'  avanti.  Una 
pili  estesa  discussione  di  tutti  questi  elementi  sarà 
forse  fatta  appresso. 

(14)  La  piccolezza  delle  matrici  non  permette  di 
determinare  la  forma  precisa  che  di  poche  protube- 
ranze; le  grandezze  però  possano  bene  determinarsi,  e 
gli  angoli  possono  aversi  dentro  un  grado.  Qui  do 
quelli  ottenuti  dalla  prima  ed  all'ultima  fotografi;), 
dalle  quali  è  manifesto  il  moto  del  centro  della  Luna. 
Gli  angoli  sono  presi  sulle  positive  tirate  in  carta 
dall'  Est  pel  Nord  (apparente)  all'Ovest  ecc.  e  quindi 
le  figure  sono  rovesciate.  Lo  zero  si  è  preso  par- 
tendo dall'ombra  del  filo  teso  nella  camera  oscura 
e  messo  quanto  si  potè  secondo  il  moto  diurno  , 
e  che  non  fu  mosso  durante  le  cinque  prove. 

Prima  TS»*; 88°;  11 3; da  135°  a  148°  arco  lue.  2 12;  242* 
Ultima  10";  40;  76*;  248*;  290;  300;  a  350<'ec.  are.  lue. 
Angoli  micrometrici  39°;  75°;  116;  211;  353;  410. 

Le  contrassegnate  coll'asterisco  sono  le  identiche  nelle 
duo  prove,  nelle  quali  l'angolo  trovasi  cambiato.  La 
quantità  e  la  direzione  del  cambiamento  corrisponde 


96 
colla  posizione  delle  prominenze  relativamente  al 
moto  (Iella  Luna,  e  perciò  la  variazione  è  in  senso 
opposto  nelle  due  protuberanze.  Non  pretendo  che 
le  figure  di  tutte  le  fiamme  date  nella  tavola  siano 
esattissime,  ed  ho  qualche  dubbio  se  la  nuvoletta 
fosse  un  poco  più  basso;  ma  la  forma  delle  due  date 
più  in  grande  a  lato  della  figura  sono  abbastanza 
piecise.  Dovesi  avvertire  che  nella  stessa  tavola 
posta  in  fine  la  corona  è  indicata  come  vedevasi  ad 
occhio  nudo  ,  mentre  le  prominenze  sono  come  si 
vedevano  nel  cannocchiale;  e  quindi  per  cercare  le 
relazioni  fra  le  protuberanze  e  la  corona  quelle  de- 
vonsi  iminaginare  rovesciate.  Inoltre  per  far  vedere 
simultaneamente  tutte  le  protuberanze  ho  tenuto  il 
diametro  della  luna  nera  più  piccola  del  vero  ;  per 
imitare  le  fasi  tutte  sulla  figura,  basta  far  camminare 
un  disco  di  carta  nera  più  glande  di  un  millimetro 
e  mezzo  di  quello  tracciato  sulla  figura  in  direzione 
inclinata  di  30'  all'orizzontale  della  figura  stessa. 

(15)  Da  queste  osservazioni  trovasi  mirabilmente 
confermata  la  struttura  fisica  del  globo  solare,  come 
fu  da  me  esposta  in  varie  memorie  scritte  su  questo 
soggetto  e  special irien te  nella  illustrazione  del  quadro 
fisico  del  sistema  solare.  Restano  distrutti  quegli 
inviluppi  di  diverse  atmosfere  sovrapposte,  che  av- 
volgevano il  Sole,  come  sfoglie  direi  quasi  di  cipolla, 
e  una  sola  atmosfera  luminosissima  terminata  da 
punte  diverse  di  fiamme  rosate  trasparenti,  agitate 
come  un  oceano  in  tempesta,  forma  la  sua  super- 
fìcie. Dall'immensa  agitazione,  quello  strato  in  pro- 
porzione assai  tenue  ,  può  esser  squarciato  e  così 
formarsi  le  macchie   ed  i  cirri  semilucìdi  veduti  sui 


97 
nuclei  sono  probabilmente  dovuti  a  queste  nubi  "ro- 
sate. Resta  però  ancora  a  decidere  ce  il  loro  color 
roseo  sia  reale  o  dovuto  all'  assorbimento  proprio 
dell'altra  atmosfera  trasparente  cbe  tutte  l'involge  , 
appunto  come  i  nostri  vapori  all'  orizzonte  paiono 
di  color  roseo  o  violaceo.  Però  il  roseo  de'  nostri 
vapori  non  è  mai  sì  trasparente  come  quello  delle 
protuberanze.  In  somma  l' involucro  roseo  sarebbe 
analogo  ai  nostri  vapori  acquei  che  forman  le  nebbie 
e  le  nubi  :  e  l'atmosfera  trasparente  al  composto 
diafano  di  ossigeno  e  nitrogene. 

Quest'inviluppo,  dice  il  sig.  Leverrier  nell'ultimo 
rapporto  inserito  nel  Monileur,  sarà  messo  fn  evi- 
denza dalle  misure  colle  irradiazioni.  Non  credo  cbe 
l'illustre  astronomo  ignori  che  fino  dal  1851  io  ho 
preso  tali  misure,  e  calcolato  i  risullatl  colle  for- 
molo di  Plana,  e  ho  sostenuto  questo  punto  nell'ac- 
cademia delle  scienze  di  Parigi  anche  in  opposizione 
ad  illustri  membri  della  medesima.  Persino  l'espe- 
rienza del  bordo  solare  pari  in  intensità  a  quella  delle 
penombre  delle  macchie,  che  esso  cita  come  propria 
del  sig.  Chacornack,  era  già  stata  fatta  prima  da  me. 
Siccome  può  essere  interessante  il  mettere  a  con- 
fronto la  legge  dell'assorbimento  dell'atmosfera  so- 
lare con  quella  dell'atmosfera  terrestre,  io  mi  pro- 
poneva di  studiar  questo  punto  al  Desierto  ;  ma  il 
tempo  sempre  cattivo  me  l'ha  impedito.  Darò  però 
una  serie  fatta  in  Roma  nel  1851  ai  29  di  luglio 
col  termomoltiplicatore  dalle  9^^  50"^  del  mattino  fino 
all'ora  del  tramonto  del  sole.  Eccola  : 
G.A.T.CLXVI.  7 


Tempi 

9.h50>nant. 
10.  15 
10.  30 

1.^^45  pom. 

1.  55 

2.  15 
2.  21 
2.  30 
2.  40 

2.  50 

3.  4 
3.  15 
3.  25 
3.  36 
3.  50 


98 

Gradi    Tempi        Gradi    Term.  centig.  all'ombra 


29.6 

29.1 

28.7 

25.5 

35.2 

33.0 

344 

33.7 

36.5 

34.0 

33.7 

34.0 

33. 

34. 

33. 


h  opponi 

.32 

15 

33 

30 

33 

.  40 

32 

50 

32 

5 

30 

15 

29 

30 

30 

45 

25 

0 

23 

20 

20 

35 

17 

50 

11 

0 

7 

10 

0 

9.h  50.°> 

27. 

"8 

2.  42, 

28. 

2 

3.  4. 

28. 

2 

4.  0. 

28. 

2 

5.  45. 

27. 

9 

6.  35. 

27. 

0 

Questa  serie  dimostra  come  la  radiazione  scema 
poco  fino  a  12  0  13°  di  altezza  in  cui  resta  circa  ^/^ 
ma  la  sua  diminuzione  diviene  rapidissima  presso 
l'orizzonte  ;  essa  potrà  servire  di  base  a  calcolare 
l'assorbimento  di  un  atmosfera  planetaria,  la  quale 
secondo  tutte  le  probabilità  non  sarà  diversa  in  que- 
sta parte  da  quella  che  deve  circondare  il  Sole,  e 
così, potrà  vedeisi  fino  a  che  punto  combinano  le 
teorie  imperfettissime  proposte  finora.  1  valori  dei 
raggiamonti  solari  da  me  trovati  ,  e  dati  già  nelle 
memorie  dell'osservatorio  nel  1852  e  dall'accademia 
di  Parigi  (Comptes  Rendus  XLIX.  12  dicembre  1859), 
sono  i  seguenti  trovati  col  mio  solito  metodo  del 
lermomoltiplicatore  al  grande  equatoriale  Mera: 


99 

Cenlfo 1.  00 

a  V.C  dal  rai'fltio  contando  dall'orlo    .     0.  89 

»  '/,. »>•  80 

a  ^8  2  (^''"^^  '"^  ^^°  eliocentrici)        .     .     0.  52 

Fin  dal  1851  riconobbi  che  la  diminuzione  di 
luce  ,  e  quella  del  calore  ,  era  accompagnata  da 
pari  diminuzione  di  forza  chimica  ,  e  ne  ebbi  la 
prova  nelle  immagini  su  piastra  dagherriana  fatte 
durante  l'ecclisse,  che  erano  sommamente  sfumate 
all'orlo.  Questa  verità  fu  poscia  confermata  col  ter- 
momoltiplicatore. 

La  medesima  verità  è  stata  confermata  nelle 
recenti  fotografie  fatte  al  Desierto  dal  sig.  Monserrat. 
Se  il  tempo  di  esposizione  della  lastra  collodionata 
sia  brevissimo,  l'impressione  solare  viene  molto  più 
forte  al  centro  che  agli  orli  ;  talché  presso  questi 
resta  una  linea  quasi  nera  ,  che  dà  al  sole  nelle 
prove  fotografiche  positive  una  rotondità  quale  si 
avrebbe  se  si  disegnasse  una  sfera  secondo  le  leggi 
della  sciografia:  tanto  presso  gli  orli  la  forza  chimica 
è  sommamente  debole  ! 

La  valutazione  in  numeri  esatti  delle  radiazioni 
chimica  e  luminosa  sarà  sempre  difficile;  e  sicconie 
i^  complesso  de'fenomeni  mostra  che  esse  seguono 
in  questa  parte  le  leggi  dell'assorbimento  calorifico, 
pare  che  per  ora  dalle  mie  osservazioni  la  tesi  di 
una  atmosfera  solare  sia  abbastanza  provata. 

È  poi  inutile  avvertire  che  le  prominenze  rosse 
non  possono  formare  un  inviluppo  staccato  dalla  fo- 
tosfera :  giacché  fino  nella  mia  prima  lettera  nell'ec- 
clisse  annunziai,  che  io  avea  veduto  la  fusione   del 


100 

bianco  della  fotosfera  col  roseo  della  sua  esteriore 
superfìcie. 

(16)  La  notabile  differenza  che  ha  il  diametro 
solare  vero  da  quello  che  noi  vediamo  ,  costretti 
come  siamo  a  servirci  di  vetri  molto  foschi  per  os- 
servarlo, è  una  cosa  di  somma  importanza  nell'astro- 
nomìa esatta  e  nel  calcolo  dell'ecclissi.  Una  diversa 
forza  visiva  e  piiì  il  color  del  vetro  può  dare  una 
differenza  sensibile.  Per  assicurarmi  di  ciò  ho  fatto 
uso  di  un  piccolo  eliometro  di  Dollond,  e  messe  le 
due  immagini  perfettamente  al  contatto  servendomi 
di  un  vetro  rosso,  al  sostituire  il  vetro  bleu  neu- 
trale appariva  una  distanza  sensibilissima  ,  che  da 
molte  riprove  trovai  essere  1."  85.  Non  credo  essere 
ciò  mero  effetto  dovuto  alla  minor  refrangibilità  dei 
raggi  rossi,  giacché  quel  vetro  fosco  ne  lascia  pas- 
sare assai  anche  di  questi.  Io  sospetto  che  sia  effetto 
del  colore  dell'orlo  solare,  che  essendo  rosato  passa 
in  pili  copia  pel  primo  che  pel  secondo  vetro  :  ad 
ogni  modo  tale  diversità  merita  di  essere  studiata 
con  più  precisione  e  dettaglio. 

(17)  Tali  raggi  si  vedono  assai  bene  intercettando 
un  fascio  di  luce  solare  introdotto  in  una  stanza 
oscura  con  un  disco  alquanto  scabro  ,  e  con  un 
disco  tondo,  purché  l'apertura  sia  fornita  di  den- 
tellature. Sollevando  la  polvere  o  facendo  una  nube 
artificiale  con  fumo  d'incenso,  si  vedeno  anche  me- 
glio. Questi  raggi  sono  paralleli,  se  si  guardi  da  un 
lato,  e  divengono  divergenti  se  si  collochi  I'  occhio 
nell'asse,  e  secondo  la  posizione  di  questo  rapporto 
all'orlo  vedonsi  mclinarc  più  o  meno  al  raggio  del 
disco,  onde  si  spiegano  i  raggi  veduti  talora  quasi 


10! 

tangenti  alla  Luna.  Se  la  polvere  o  il  fumo  si  sol- 
levino in  globi  irregolari,  ne  nascono  delle  falde  di 
luce  assai  capricciose  ,  che  possono  spiegare  varie 
delle  particolarità  notate  da  Lias.  Per  finire  di  pro- 
vare che  la  corona  non  può  esse  effetto  di  diffra- 
zione, dirò  che  quella  che  vedesi  negli  esperimenti 
di  questa  specie  ,  non  nasce  che  quando  usasi  un 
punto  raggiante,  e  non  mai  con  un  disco  :  inoltre 
essa  non  è  in  alcun  modo  comparabile  in  forza  ed 
estensione  con  quella  dell'ecclisse,  e  si  sa  che  nella 
diffrazione  la  sfumatura  è  tutta  interna  e  che  al- 
l'esterno si  hanno  frange  alternanti.  Ho  intercettato 
1  raggi  con  globi  coperti  di  cristalli  riflettenti  e 
rifrangenti,  ed  ho  ottenuto  de'  fenomeni  simili  alle 
protuberanze  ;  ma  chi  ha  visto  gli  uni  e  le  altre 
non  confonderà  mai  le  due  specie  di  fatti.  Sarebbe 
troppo  lungo  il  descriverli  qui  tutti  per  minuto  : 
forse  lo  farò  in  altra  occasione:  qui  solo  dirò  che 
il  fatto,  il  quale  a  prima  vista  appoggiar  sembra  la 
teoria  delle  diffrazioni,  è  quello  osservato  dal  sig. 
BrUnhs,  cioè  della  visibilità  delle  protuberanze  dopo 
comparso  il  Sole.  Esso  ne  avrebbe  veduta  una  fino 
per  8  minuti  dopo  riapparsa  la  sua  luce.  Ma  stu- 
diando il  fatto  su  la  figura,  ho  visto  che  ciò  è  as- 
solutamente possibile,  secondo  la  posizione  della  pro- 
minenza che  solo  taidi  poteva  esser  coperta  dall'orlo 
lunare  e  restar  visibile  occultando  il  Sole,  o,  come 
esso  mi  disse,  osservando  con  un  offuscante  rosso, 
che  gli  fece  continuare  più  tempo  la  sua  visibilità. 
Non  so  se  esso  abbia  misurato  l'angolo  di  posizione, 
come  dice  aver  fatto  Chacornac  ;  aspettiamo  che 
esso  dia  i  dettagli  della  sua  osssvazione. 


102 

(18)  Il  sig.  de  la  Kiie,  avendo  falle  due  impres- 
sioni fotografiche,  annunziò  subito  per  telegrafo  che 
esse  comprovavano  che  le  protuberanze  appartene- 
vano al  Sole.  La  convinzione  generale  della  massima 
parte  degli  astronomi  è  stata  questa  ,  come  si  ri- 
cava dai  rapporti  diversi  finora  arrivati.  Veggasi  ciò 
che  scrissi  io  stesso  il  giorno  dopo  l'ecclisse  all'isti- 
tuto di  Francia  dal  Desierto  e  che  è  riportato  nei 
Compees  Rendus  Tom.  LI,  pag.  186,  pubblicato 
nella  sessione  del  30  luglio  1860.  Un  articolo  del 
Galignani  pretende  trovare  le  mie  osservazioni  in 
opposizione  cori  quelle  di  altri  osservatori.  Non  è 
ancoi'  tempo  di  discutere  le  irregolarità  che  possono 
essere  state  notate  secondo  la  pratica  degli  osser- 
vatori e  la  bontà  de'  loro  strumenti.  Soltanto  io  ri- 
porterò qui  una  lettera  di  un  dotto  francese,  alla 
quale  non  aggiungeiò  commentario. 

Montpellier,  6  aout   1860. 

MoD  Révérend  Pére, 

Bien  que  je  n' aie  pas  1' honneur  d'étre  connu 
de  vous,  je  pense  néammoins  n'étre  pas  indiscret  en 
sollicitanl  de  vous  la  favcurd'un  evoi  d'une  épreuve 
photographique  des  phénoménes  de  l'éclipse  de  so- 
leil.  Je  vous  en  serai  fortement  reconnaissant.  J'ai 
observé  l'éclipse  totale  à  Miranda  en  Espagne.  Mon 
observation  est  assez  conforme  à  celle  de  M.  Le- 
verrier,  ex<;epté  sur  la  position  d'una  petite  protu- 
bérance  rose. 


103 

Votre  observation  publiée  dans  le  Cosmos  réta- 
bìit  la  position  de  cette  pvotubéi'ance  comme  jé 
l'ai  vue.  Je  veux  parler  d'une  de  celles  qui  faisa- 
ient  suite  à  la  protubérance  détachée  et  isolée.  J'ai 
vu  aussi  la  couronrie  pourprée  se  terminant  en  poin- 
tes  que  ne  parait  pas  mentionner  M.  Leverrier.  J'ai 
commencé  comme  vous  à  voir  l'are  presque  continu 
de  lumiere  pourprée  (ses  rudiments,  au  moins)  1  mi- 
nute 2  avant  la  réapparition  du  soleil.  M.  Leverrier 
estima  cette  apparition  à  20  secondes  avant  la  fin 
de  l'éclipse  totale.  Il  résulte  de  cela  que  mon  ob- 
servation concorde  plus  avec  la  votre  qu'avec  celie 
de  M.  Leverrier.  C'est  ce  qui  me  fait  desirer  plus 
ardemment  encore  de  posseder  une  des  épreuves  pho- 
tographiques.  Des  le  18,  au  soir  ,  j'ai  envoyé  de 
Miranda  à  M.  Roche,  professeur  de  mathématique 
à  la  faculté  des  sciences  de  Montpellier,  un  croquis 
et  une  description  description  détaillée  de  mon  ob- 
servation. 

Je  vous  prie  ,  Mon  Réverend  Pére  ,  de  vouloir 
agréer  l'expression  de  mon  plus  profond  respect. 

Le  Ricque  de  Monchy 

Montpellier,  (Hérault) 

Rue  Jeu  de  paume  N.°  10. 

(19)  Il  Governo  spagnuolo  invitò  tutti  gli  astro- 
nomi ad  un  congresso  in  Madrid;  ma  l'avviso  giunse 
troppo  tardi  e  le  difficoltà  delle  comunicazioni  in 
Spagna,  ove  non  è  via  ferrata,  resero  quasi  inutile 
l'invito.  I  pili  erano  già  allora  per  partire  o  almeno 


104 
aveano  deciso  il  loro  viaggio,  e  così  non  fu  esegui- 
lo che  tra  pochissimi.  Se  è  lecito  fare  un  voto  in 
questa  materia  ove  devesi  lasciare  una  perfetta  li- 
bertà individuale,  il  congresso  sarebbe  stalo  meglio 
farlo  prima:  così  non  si  sarebbero  trovati  aggrup- 
pati tanti  osservatori  in  pochi  punti  come  questa 
volta,  lasciando  deserte  stazioni  utilissime  come  p.  e. 
quella  di  Iviza  che  avrebbe  allungato  quasi  di  ^/^ 
la  strada  dell'ombra. 

Un'altra  volta  ancora  si  potrà  procedere  con  ap- 
parati maggiori  alle  fotografie  della  totalità,  essen- 
do provata  la  lor  forza  chimica,  e  si  potranno  con- 
giungere col  telegrafo  le  varie  stazioni  fra  loro,  per 
avvertirsi  mutuamente  nel  momento  stesso  de'  fatti 
più  tempo  possibile  dopo  riapparso  il  Sole,  copren- 
do questo  nel  cannocchiale  come  io  feci  per  la  co- 
rona ad  occhio  nudo.  Finalmente  fare  disegni  più 
esatti  della  corona:  per  la  qual  cosa  io  credo  il  più 
opportuno  1'  uso  di  un  vetro  limpido  attraverso  il 
quale  si  guardi  e  si  segni  su  di  esso  la  direzione 
de'  saoi  raggi  con  un  pezzo  di  sapone  (come  usano 
i  costruttori  delle  lenti  de'  fari)  o  di  altra  materia 
per  metter  in  chiaro  se  la  teoria  data  sopra  di  quei 
raggi  sussista   o   no. 

L'utilità  del  congicsso  preliminare  sarà  quella  di 
Comunicarsi  le  sue  viste  reciprocamente,  e  di  fare 
che  certe  idee,  restate  questa  volta  sterili  perchè  te- 
nute scerete  o  non  potute  attivare  da  chi  le  avea, 
restino  mediante  la  conferenza  alla  disposizione  di 
lutti,  e  che  insieme  sia  assicurato  il  merito  debito 
a  chi  le   propose  nel  congresso  stesso. 


105 

Appendice 

Durante  la  mia  assenza  dal  Collegio  Romano 
l'osservatorio  restò  affidato  al  P.  Rosa,  il  quale  trovò 
il  principio 

in  T.  m.  di  Roma 2h  SS"'  5P  8 

Fine 5    5      28  0 

11  cielo  fu  bellissimo,  e  solo  si  videro  alcuni  veli 
leggerissimi  che  diedero  origine  a  varie  strisce  bian- 
castre in  cielo  e  attoino  del  Sole  ,  con  prolunga- 
mento verso  il  sud:  subito  dopo  finita  Tecclisse  si 
sollevò  un  forte  vento  sud  ovest  e  apparvero  Cu- 
muli intorno  al  Sole.  L'abbassamento  termometrico 
al  sito  ordinario  degli  strumenti  fu  meno  sensibile 
che  in  altri  luoghi,  e  fu  solo  di  2°,  5. 

Gli  strumenti  magnetici  seguirono  il  corso  re- 
golare senza  perturbazione  alcuna,  benché  osservati 
ancor  essi  di  5  in  5  minuti. 

Spiegazione  della  tavola. 

Le  4  figure  superiori  sono  copie  quanto  piiì  si 
è  potuto  esatte  delle  fotografie;  ma  non  è  stato  pos- 
sibile raggiungere  la  finezza  di  que'dettagli  e  delle 
sfumature  della  corona.  La  1»  fu  fatta  in  10  secondi, 
la  3»  in  20,  e  queste  sviluppate  col  solfato  di  ferro; 
le  altre  due  in  36",  e  30"  e  sviluppate  coli'  acido 
pirogallico  ,  e  perciò  in  proporzione  vi  sono  meno 
vive  le  aureole. 


106 
1  raggi  della  corona  sono  come  si  vedevano  ad 
occhio  nudo,  cioè  drilli:  ma  le  protuberanze  sono 
disegnate,  come  si  vedono  nel  cannocchiale,  a  rove- 
scio (vedi  perciò  quello  che  si  dice  nelle  note  a 
pag.  40).  1  disegni  parziali  dai  lati  sono  copia  di 
quelli  fatti  subito  sul  luogo  ancora  durante  1'  ec- 
clisse.  Se  per  queste  vi  è  varietà  nelle  forme  di- 
segnate altrove,  potrà  cercarsene  la  spiegazione  in 
altra  origine  che  negli  errori  di  osservazione  ,  po- 
lendo benissimo  aver  variato  le  apparenze  durante  10 
minuti  in  cui  l'ombra  attraversò  la  Spagna.  Ciò  sarà 
deciso  definitivamente  dal  confronto  delle  fotografie. 


107 
AGGIUNTA 


Nella  relazione  antecedente  delle  osservazioni  da 
me  falle  in  Spagna  durante  l'ecclisse  del  ISluglio  p.  p. 
mostrai  specialmente  le  importanti  conseguenze  che 
si  potevano  trarre  dalle  fotografie  del  Sole  fatte  du- 
rante la  totalità.  Per  assicurarsi  però  su  di  altri  punti, 
richiedevansi  le  osservazioni  fatte  in  alti'i  luoghi,  e 
singolarmente  ciò  era  necessario  per  decidere  sulla 
gran  questione  se  le  protuberan/e  erano  state  iden- 
tiche nei  vaiì  siti,  e  quindi  in  tempi  assoluti  diversi. 
Per  un  tale  scopo  le  osservazioni  ottiche  fatte  anche 
dai  pila  esperti  osservatori  sarebbero  state  di  poco 
peso,  perchè  la  fretta,  la  prevenzione,  e  l' immagina- 
zione di  ciascuno,  la  diversità  degli  strumenti,  hanno 
troppi  influenza  nella  interpietazione  di  que'  pochi 
fatti  che  possono  osservarsi  alla  sfuggita  in  que'  brevi 
istanti,  e  di  que'  cenni  con  cui  sul  njomento  può 
sbozzarsi  la  figura  delle  protuberanze;  e  il  loro  ra- 
pido coprirsi  e  scoprirsi  fa  confondere  i  cambia- 
menti reali  cogli  apparenti.  Quindi  io  aspettava  con 
ansietà  i  risultati  del  sig.  De  la  Bue  che  si  era  re- 
cato con  un  apparato  simile  al  nostro  a  Rivabellosa 
presso  Miranda  dell'Ebro,  luogo  distante  circa  200 
miglia  dal  Desierto  de  las  Palmas,  e  nel  quale  la  to- 
talità dell'ecclisse  accadeva  nove  minuti  di  tempo 
prima. Questi  risultati  essendomi  ora  pervenuti,  posso 


108 
fare  il  confronto   desideralo  che   sarà   grandemente 
profittevole  per  la  scienza. 

Dalle  relazioni  del  sig.  De  la  Rue  (1)  si  ricava 
che  ancor  esso  ha  incontrato  lo  medesime  difficoltà 
che  trovammo  noi  nei  nostri  preparativi,  per  la  man- 
canza totale  d'  informazione  sulla  intensità  ed  ef- 
ficacia della  luce  delle  protuberanze  e  della  corona. 

Nella  dubbiezza  di  una  riuscita  noi  ci  eravamo 
attenuti  alla  parte  più  sicura  di  fare  le  fotografie 
piccole,  perchè  poi  si  sarebbero  sempre  potute  in- 
grandire, e  le  immagini  dirette  aveano  già  una  non 
mediocre  dimensione  {23,  5  millimetri).  Il  sig.  De 
la  Rue  invece  operando  con  strumento  minore  e 
poco  potendo  contare  sulle  piccole  immagini  di- 
rette, anche  a  rischio,  come  egli  dicQ,  di  perder  lutto 
si  attenne  alle  immagini  ingrandite:  e  sì  poca  era 
la  speranza  di  riuscirvi,  che  egli  credeva  che  se  pur 
poteva  fissar  la  corona  ,  le  protuberanze  su  questa 
sarebbero  venute  in   nero  ! 

Fortunatamente  la  forte  luce  delle  protuberanze 
ha  vinto  tutte  le  difficoltà,  e  il  sig.  De  la  Rue  ha 
ottenuto  immagini  abbastanza  grandi  e  vivaci  che  non 
solo  confermano  quelle  conclusioni  che  già  tirammo 
dalle  nostre,  ma  danno  anche  una  guida  per  distin- 
guere nelle  nostre  stesse  immagini  più  piccole  le  più 
minute  particolarità  ,  e  togliere  ogni  dubbio  sulla 
realtà  degli  oggetti  in  quelle  rappresentati.  La  pic- 
colezza infatti  delle  nostre  figure  non  avrebbe  per- 
messo di  decidere  su  la  forma  di  alcune  prominenze, 
e  sarebbe  stata  intollerabile  baldanza  1'  interpretare 
per  immagini  di  oggetti  reali  delle  minime  sfumature 


(1)  Times  5  agosto.  lUustrated  London  news  25  agosto. 


109 
senza  che  si  avessero  altri  elementi  di  controllo  ; 
e  bisognava  non  conoscere  che  cosa  sia  fotografia 
per  fidarsi  ciecamente  in  un  oggetto  di  tanta  novità 
a  de'  segni  che  non  aveano  nessuna  conferma  nem- 
meno, come  vedremo,  nei  fenomeni  ottici.  Ma  ora 
che  abbiamo  a  controprova  le  indicazioni  delle  altre 
fotografie,  è  tolta  ogni  ambiguità  ,  e  le  due  classi 
di  immagini  vicendevolmente  si  illustrano  e  ricevono 
autorità. 

Prima  di  passare  alla  discussione  delle  singole 
protubeianze  è  da  avvertire,  che  la  indicazione  dei 
gradi  fatta  dal  D.  L.  R.  è  diversa  da  quella  data  da 
noi  nelle  note  alla  Relazione  pag.  95,  ma  solo  ap- 
parentemente, perchè  esso  conta  sulle  sue  immagini 
che  sono  radrizzate  cominciando  dal  punto  Nord  ver- 
so l'Est  vero,  mentre  noi  contavamo  sulle  immagini 
rovesciate  dall'Est  apparente  pel  Nord  app.  ecc.  Quin- 
di contando  su  le  due  figure  a  rovescio,  e  spostando 
il  principio  de'  gradi  di  90,  tutto  combina  perfet- 
tamente. Le  differenze  salgono  al  più  a  uno  o  due 
gradi  dovuti  allo  spostamento  lunare  corrispondente 
a  una  diversità  di  tempi  relativi,  e  alla  difficoltà  di 
valutare  talora  esaltamente  il  posto  in  figure  così 
piccole,  e  non  è  impossibile  che  anche  vi  possa  aver 
influito  un  piccolo  cambiamento  reale. 

La  prima  protuberanza  che  apparisce  sulle  fo- 
tografie, partendo  dal  punto  Nord  verso  Est  vero,  sta 
a  28°,  ossia  secondo  noi  a  242°  nella  1"  nostra  fo- 
tografia, e  a  248°  nella  5",  la  variazione  dell'angolo 
essendo  dovuta  alla  mutazione  di  luogo  del  centro 
della  Luna.  La  cosa  pili  singolare  è  che  questa  pro- 
tuberanza fu  vista  da  diversi  anche  prima  della  di- 
sparizione totale  del  Sole,  e  restò  visibile  dopo  che 


no 

esso  fu  riapparso  ancora  per  qualche  tempo.  Ciò  è 
dovuto  alla  sua  posizione  sul  disco  solare,  che  era 
tale  che  il  lembo  lunare  trovavasi  parallelo  alla  di- 
rezione del  moto  della  Luna  stessa.  Questa  visibilità 
prima  e  dopo  fa  vedere  che  vi  è  speranza  di  osser- 
vare per  l'avvenire  le  protuberanze  solari  anche  in 
tempo  di  ecclisssi  non  affatto  totali,  ma  di  abbastanza 
grande  quantità  perchè  resti  molto  indebolita  la  luce 
che  riflette  1'  atmosfera  terrestre  che  sola  sembra 
impedirne  la   visibilità. 

La  seconda  prominenza  di  figura  più  singolare 
trovasi  sotto  l'angolo  57°  di  D.  L.  H.  ossia  213°  no- 
stro. Ecco  le  parole  di  quest'osservatore:  «  A  57° 
era  situata  1'  estremità  Nord  di  una  notabile  nube 
staccata,  che  quando  fu  vista  la  prima  volta  era  cir- 
ca mezzo  minuto  di  là  dal  lembo  lunare:  essa  pre- 
sentava una  doppia  curva  al  lato  Nord,  e  ambedue 
le  curve  erano  convesse  verso  questa  parte.  La  nube 
ora  inclinata  di  60°  verso  Est,  ed  era  lunga  un  mi- 
nuto e  mezzo  (cioè  42,000  miglia).  Quando  la  Luna 
nel  suo  corso  se  gli  accostò  e  ne  toccò  1'  estrema 
punta,  brillò  con  tutto  lo  splendore  di  una  nube  ter- 
lestre  al  tramonto  del  Sole  e  avea  tinta  decisamente 
rosata  ».  Questa  nube  trovasi  nella  nostra  fotografia 
(come  già  dissi  nella  relazione)  presa  nel  momento 
in  cui  la  Luna  ne  tocca  l'apice  inferiore;  ha  real- 
u)ente  un  millimetro  di  lunghezza,  ossia  1 ',  4,  ed  è 
inclinata  di  60°  verso  Est:  onde  combina  perfetta- 
mente. La  sua  forma  qui  rassomiglia  a  un  fagiuolo 
|)rolungato  alla  punta  superiore  da  una  appendice 
(li  luce  piiì  debole  della  protuberanza.  È  fatto  degno 
di  attenzione  il  vivo  brillar  di  luce  che  avvenne  quando 


ni 

se  gli  accostò  la  Luna:  e  ciò  combina  con  quanto 
fu  veduto  in  un'altra  protuberanza  dal  Goldscmith, 
che  vide  il  passaggio  quasi  istantaneo  dalla  luce 
bianca  alla  rosata.  Questo  fatto  sarà  forse  schiarito 
dall'esame  delle  seguenti  protuberanze. 

La  terza  mostrasi  a  72°  (ossia  a  198°  secondo 
noi);  è  singolarissima  perchè  si  impresse  sulla  lastra 
senza  essere  stata  visibile  all'occhio.  «  La  sua  for- 
ma è  quella  di  un  arco  piegato,  la  cui  lunghezza  è 
2'  (56,000  miglia)  :  la  punta  à  rivolta  verso  il  nord 
ed  è  inclinata  in  verso  opposto  della  nube  piece- 
dente  :  è  singolare  che  questa  protuberanza  siasi  im- 
pressa senza  essere  stata  veduta  ». 

Questa  meraviglia  cessa  affatto  allo  studio  pili 
accurato  delle  nostre  fotografie.  Questa  protuberanza 
è  nelle  nostre  imagini  così  debole,  che  non  avrei  mai 
ardito  di  tenerla  per  una  realtà  fisica  senza  un  con- 
trollo ottico  0  fotografico  avuto  d'altronde:  aggiun- 
gasi che  essa  non  trovasi  bene  impressa  che  nella  1" 
fotografia  fatta  in  sei  secondi,  mentre  nella  3"  fatta 
in  venti  secondi  non  è  distinguibile  e  confondesi  colla 
corona,  e  solo  se  ne  ha  qualche  traccia  nelle  altre 
due  prove  dove  la  corona  è  pochissimo  sviluppata. 
La  sua  luce  esser  dovea  adunque  poco  diversa  da 
quella  della  corona  stessa, che  l'ha  ragguagliata  affatto 
per  una  più  lunga  esposizione,  e  per  ciò  essendo  di 
color  bianco,  poco  diverso  dal  fondo  generale,  potè 
esser  perduta  di  vista  facilmente. 

La  forma  indicata  da  D.  L.  R.  è  giustissima  , 
e  nelle  piccole  fotografie  rilevasi  la  gran  lingua  su- 
periore che  corre  per  un  tratto  quasi  parallela  al  lem- 
bo lunare,  od  ha  un  pezzo  quasi  staccato  piesso  alla 


112 

punta.  La  sua  debolezza  stessa  ci  è  di  sommo  van- 
taggio per  riconoscere  come  vere  protuberanze  di 
questa  specie  alcune  altre  impressioni  che  per  la  loro 
sfumatura  passerebbero  inavvertite,  e  siamo  condotti 
così  alla  distinzione  di  due  classi  di  protuberanze, 
le  une  vivaci,  le  altre  deboli.  La  lunghezza  reale  di 
questa  lingua  è  di  l.'"'"""6,  ossia  molto  prossima- 
mente 2  minuti  (circa  8  diametri  della  Terra!)  ,  e 
sotto  di  essa  vedesi  protendere  una  catena  di  nubi 
che  da  una  parte  e  dall'  altra  estendonsi  a  grande 
distanza.  Questa  catena  si  estende  fino  a  135°  con 
una  varietà  indescrivibile  di  dettagli. 

A  101°  è  una  piccola  protuberanza  lucida,  ap- 
presso la  quale  a  110°  circa  ne  viene  una  altissima 
della  classe  delle  deboli;  essa  è  sormontata  da  una 
lingua  lunga  almeno  2'  inclinata  pur  essa  verso  Est 
e  non  è  molto  diversa  in  forma  da  quella  di  72°, 
ed  anche  questa  sfuggì  la  vista  mia  e  del  sig  De 
la  Rue.  Siccome  questa  rimane  vicinissima  alle  due 
grandi  da  me  studiate  con  tanta  diligenza,  sono  si- 
curo che  se  fosse  stata  distinguibile  e  di  color  ro- 
sato non  mi  sarebbe  sfuggita.  Come  mai  la  fotografia 
ha  potuto  produrre  ciò  che  l'occhio  non  potè  scor- 
gere ?  Se  non  avessimo  qui  1'  irrefragabile  testimo- 
nio concorde  di  due  immagini  prese  a  200  miglia  di 
distanza  e  a  9"'  di  tempo  di  intervallo,  non  si  esi- 
lerebbe a  creder  ciò  una  illusione.  Ma  questa  non 
può  ammettersi:  e  oltre  la  ragione  accennata  dell'es- 
sere state  queste  prominenze  di  color  bianco,  e  facil- 
mente confuse  col  fondo  della  corona,  può  aggiun- 
gersi che  è  notissimo  che  l'occhio  non  è  punto  sen- 
sibile alle  onde  eteree  che  formano  i  raggi  più  ef- 


113 
fìcaci  dello  spettio  chimico,  talché  se  la  nube  solare 
ne  inviava  quasi  esclusivamente  di  questa  specie,  do- 
vea  essere  invisibile,  e  dovea  insieme  disegnarsi  sulla 
lastra.  Dal  che  si  vede  che  gran  passo  hanno  fatto 
fare  alla  scienza  questi  esperimenti,  e  che  per  l'av- 
venire le  osservazioni  delle  ecclissi  dovranno  farsi  più 
cogli  apparati  fotografici  che  coi  telescopici. 

Queste  due  protuberanze  sono  le  più  lunghe  di 
tutte,  ma  nessuna  eccede  2'  |;  onde  le  altezze  ac- 
cennate da  alcuni  di  fino  a  4' sono  certameule  esa- 
gerate dalla  irradiazione.  Il  sig.  D.  L.  R.  dice  che 
vide  ivi  la  corona  più  vivace;  ma  non  avendo  esso 
avuto  tutta  la  corona  impressa,  non  può  giudicarsi 
della  sua  estensione.  A  questo  suppliscono  le  nostre 
fotografie  che  danno  la  corona  più  larga  in  questo 
punto  che  tutto  altrove.  Ed  è  cosa  notabile  come 
questa  in  generale  non  sia  terminata  da  un  limite 
uniforme,  ma  profondamente  intagliata  in  vari  punti. 
Dopo  questa  protuberanza  viene  il  grand'  arco 
rosato  che  si  estende  da  129"  a  135",  ossia  secondo  il 
nostro  giro  da  135°  a  148°;  ma  i  dettagli  qui  sono  spa- 
riti per  la  dilatazione  prodotta  dalla  solarizzazione  o 
eccessiva  durata  d'impressione  delle  prove,  anche  nelle 
esposte  per  brevissimo  tempo.  Alcune  sue  particolarità 
furono  descritte  nella  Relazioney  come  pure  quella  del- 
la seguente  prominenza  a  154°  di  D.  L.  R.,  ossia  113" 
secondo  noi,  che  avea  completamente  figura  di  fiam- 
ma, ed  è  alta  l'|,  e  nella  sua  figura  combina  perfet- 
tamente con  quella  delle  fotografie  inglesi:  solo  in 
ambedue  rilevasi  un  filetto  bianco  alla  base  che  si 
estende  verso  la  precedente,  e  che  io  non  vidi  mal- 
grado il  molto  studio,  e  che  estendendosi  fino  alla 
G.A.T.CLXVI.  8 


114 

metà  di  distanza  che  corre  tre  le  duo  ,  mostra  la 
connessione  loro. 

A  193°  ne  abbiamo  una  bassissima  e  che  appena 
sporge  di  un  filetto,  e  una  singolare  a  doppia  cima, 
come  di  due  piume  rivolte  in  senso  opposto  trovasi 
a  197°  (ossia  78"  secondo  noi).  Nella  nostra  la  fo- 
tografìa trovasi  accennata  la  doppia  punta  della  pro- 
tuberanza posta  a  230°  di  D.  L.  R.,  ossia  330"  no- 
stri, la  cui  intera  mole  vedesi  nella  prova  fotografica 
sviluppata  in  modo  straordinario.  A  290"  nostri,  ossia 
352°  di  D.  L.  R.,  èvvene  un'altra  delle  più  belle  e 
lucenti,  e  a  265°,  ossia  10°  nostri,  un'altra  non  men 
bella  e  vivace.  Tralasciamo  per  brevità  di  dare  la 
posizione  delle  minori  e  deboli  che  spuntano  da  tutte 
le  parti,  come  già  vidi  essere  direttamente  il  fatto 
quando  il  Sole  mi  parve  tutto  cinto  di  fiamme.  Ma 
sarebbe  degno  oltremodo  di  essere  studiato  l'arco 
lucido  corrente  da  190°  a  350,  e  che  in  D.  L.  R. 
corre  da  290  a  340°,  in  cui  trova  vasi  la  nuvoletta 
isolata  sì  ben  veduta  da  me,  e  dai  miei  compagni 
e  dal  Leverrier;  ma  la  grande  intensità  della  luce 
nelle  fotografie  ha  qui  tutto  ragguagliato,  ed  i  dettagli 
sono  spariti  confusi  in  un  arco  lucido  vivissimo. 

Se  gli  esperimenti  di  questa  volta  non  avessero 
fatto  altro  che  istruirci  sul  modo  di  portarci  per 
l'avvenire,  ciò  già  non  sarebbe  piccolo  vantaggio  ; 
ma  vediamo  che  quantunque  noi  fossimo  cólti  in 
molti  punti  alla  sprovvista,  i  nostri  esperimenti  sono 
stati  fe€ondi  di  utilissimi  risultati.  Qui  ne  accenne- 
remo alcuni  pochi,  lasciando  i  già  esposti  altrove. 

1."  Gli  oggetti  fotografati  al  Deslerto  e  a  Riva- 
bellosa  sono  identici. 


115 

2«.  Esistono  nel  Sole  ammassi  di  nubi  che  sfug- 
gono anclie  all'occhio  armato,  e  pure  hanno  una  forza 
chimica  sensibilissima. 

La  prima  Hi  queste  conseguenze  mette  fine  alle 
numeiose  contese  sollevate  dalla  imperfezione  dei 
disegni  su  la  variabilità  di  questi  oggetti,  e  atterra 
tutte  le  teorie  di  chi  li  vorrebbe  fenomeni  meramente 
ottici;  teoria  incompatibile  colle  loro  forme  restate 
costanti  malgrado  la  distanza  di  tempo  assoluto,  e 
la  piccola  rotazione  che  ha  fatto  il  Sole  nell'inter- 
vallo di  8"»  frapposti  alle  due  fotografìe. 

La  2^  mette  in  evidenza  due  classi  di  protube- 
ranze di  diverso  genere  :  le  une  luminose  e  vivaci, 
€  le  altre  immensamente  più  deboli;  e  dà  forse  la 
spiegazione  del  come  taluno  abbia  visto  le  promi- 
nenze bianche  ed  altri  le  rosate,  essendo  probabile  che 
l'occhio  di  uno  siasi  arrestato  all'una  piuttosto  che 
all'altra  classe  di  oggetti  :  se  pure  non  vogliansi  at- 
tribuire tali  differenze  alla  diversa  sensibilità  degli 
occhi  ne'vari  individui   per  riconoscere  i  colori. 

Il  sig.  Plantamour  nella  B.  U.  di  Ginevra  (agó- 
sto 1860)  crede  trovare  un  argomento  per  provare 
la  teoria  puramente  ottica  delle  protuberanze  in  ciò, 
che  r  occultarsi  loro  era  in  proporzione  molto  di- 
versa da  quella  che  corrispondeva  al  molo  lunare. 
Egli  vide  presso  al  mezzo  dell'  ecclisse  sparire  la 
prominenza  a  forma  di  nube  che  sta  ad  angolo  di  45» 
la  cui  distanza  dall'orlo  lunare  al  principio  della  to- 
talità fu  da  lui  stimata  ^  minuto  almeno.  Siccome 
per  la  sua  posizione  il  disco  della  Luna  non  vi  si 
accostava  che  1  i"  per  minuto  ,  ne  conclude  che 
quando  essa   svanì  ,  la  Luna  non   1'  avea  in  realtà 


116 

ancora  toccata  Questo  ragionamento  dell'astronomo 
ginevrino  sarebbe  giustissimo  se  sussistessero  le  basi 
su  cui  si  appoggia  :  ma  le  fotografie  dicono  il  con- 
trario e  fanno  vedere  le  grandi  illusioni  a  cui  sono 
soggette  le  stime  ottiche.  In  fatti  la  l''  fotografia, 
fatta  pochi  secondi  dopo  cominciata  la  totalità,  mo- 
stra il  lembo  della  Luna  che  tocca  quasi  l'apice  in- 
feriore della  nube;  donde  si  può  concludere  che  la 
distanza  stimata  da  lui  di  |  minuto  almeno  è  certa- 
mente esagerata,  e  la  differenza  supera  tutto  quello 
che  può  esser  effetto  di  parallasse  nelle  due  vicinis- 
sime stazioni  in  cui  noi  stavamo.  In  secondo  luogo  non 
sussiste  che  la  prominenza  svanisse  verso  il  mezzo 
delPecclisse,  perchè  si  ha  il  suo  vertice  chiaramente 
impresso  nella  fotografìa  5^  finita  10"  appena  prima 
del  fine  della  totalità.  Come  mai  per  un  osservatore 
così  pratico  potè  aver  luogo  tale  equivoco  ?  Per  me 
la  spiegazione  è  semplicissima,  cioè  che  realmente 
gli  sfuggì  di  vista  per  non  avervi  fissato  diretta- 
mente l'occhio  ,  essendo  ormai  abbastanza  provato 
che  in  quella  fretta  molte  cose  non  si  vedono  benché 
stiamo  nel  campo  di  visione,  se  non  si  fissano  di- 
rettamente. Nessuna  delle  protuberanze  lucide  su- 
pera 1'  30",  e  così  resta  spiegato  perchè  al  principio 
e  al  fine  della  totalità  le  fotografie  mostrino  un 
arco  as.^ai  esteso  senza  prominenze  lucide  dalla  parte 
donde  viene  o  verso  cui  va  la  Luna,  mentre  ne  spun- 
tano certamente  in  più  punti  di  quelle  che  abbiam 
nominate  deboli,  che  sono  più  alte.  Infatti  la  diffe- 
renza de'  diametri  essendo  96",  non  poteano  restar 
tutte  coperte  quelle  che  erano  più  alte  di  questa 
iiuantità. 


117 

Per  altra  prova  della  sua  teoria  il  sig.  Pianta- 
mour  porta  l' apparizione  de'  fascetti  lucidi  prove- 
nienti da  ciascuna  protuberanza  e  notati  nella  sua 
figura;  ma  que'disegni,  cred'  io,  devono  interpretarsi 
alquanto  benignannente,  perchè  io  nulla  vidi  di  ciò 
che  esso  accenna,  né  le  fotografie  indicano  altro  che 
un  maggior  chiarore  della  corona  nella  vicinanza 
della  protuberanze:  e  forse  ciò  solamente  vogliono  in- 
dicare quelle  figure,  che  del  resto  sono  fatte  piuttosto 
per  dare  un  cenno  delle  apparenze  che  per  preten- 
dere a  veruna  precisione,  come  lo  mostra  il  limite 
tagliente  della  corona  interna,  che  certo  non  esisteva 
affatto,  essendo  essa  sfumata  molto  gradatamente. 

La  sola  cosa  su  cui  non  si  può  negare  che  vi 
resti  ancora  qualche  oscurità  per  la  spiegazione,  è 
il  fatto  notato  sopra,  e  osservato  dal  De  La-Rue, 
dal  Plantamour,  ed  ancor  dal  Goldscmith,  che  la- 
luna  delle  prominenze  cambiò  tinta  all'  accostarsi 
della  Luna.  Io  porto  opinione  che  ciò  non  sia  che 
un  effetto  di  contrasto,  allo  scemare  del  lume:  e  ne 
ho  in  prova  il  fatto,  che  la  piccola  nuvoletta  da  me 
studiata  con  diligenza,  di  rossa  che  era  quando  spuntò 
dalla  Luna,  venne  ad  illanguidirsi  collo  scoprirsi  del 
lembo,  e  svanì  in  bianco  nella  corona  allo  spuntare  del 
Sole.  Tuttavia  le  fotografie  mostrano  che  vi  è  una 
realtà  di  differenza  tra  le  due  classi  di  protuberanze 
più  0  meno  lucide:  quindi  potrebbe  aver  luogo  la  se- 
guente considerazione:  E  certo  che  le  figure  fotogra- 
fate e  proiettate  su  di  un  circolo  massimo  del  globo 
solare  non  possono  tutte  stare  in  un  solo  piano:  ora 
potrebbe  essere  che  le  più  pallide  fossero  le  protube- 
ranze più  lontane  e  viste  solo  per  riflessione  o  attra- 


118 

verso  un  denso  strato  di  atmosfera  solare,  e  che  le  più 
vive  fossero  le  più  vicine  alPosservalore  illuminate 
per  trasmissione.  Metto  in  mezzo  questa  idea  con 
tutto  riserbo,  ma  parmì  degna  di  studio  (1). 

Concluderò  insistendo  su  di  un  altro  risultato  non 
meno  importante  che  si  cava  dalle  fotografìe  con- 
giunte ,  ed  è  il  seguente  : 

3.°  L'atmosfera  solare  è  assai  più  eslesa  nella  re- 
gione equatoriale  che  nelle  polaii,  e  le  regioni  ove 
trovansi  le  protuberanze  più  lunghe  e  più  variate  sono 
quelle  che  corrispondono  alle  zone  delle  macchie, 
ossia  a  quella  di  maggiore  attività  e  temperatura 
solare. 

Per  assicurarsi  di  ciò,  non  si  ha  a  far  altio  che 
tracciare  su  le  fotografìe  l'equator  solare,  e  si  vedrà 
che  la  regione,  ove  l'aureola  della  corona  è  più  viva, 
corrisponde  alla  zona  che  estendesi  da  una  parte  o 
dall'altra  dell'equatore  circa  50°,  mentre  nella  di- 
rezione polare  è  assai  più  ristretta.  Questa  conclu- 
sione è  appoggiata  al  complesso  delle  nostre  fotogra- 
fie esclusivamente,  poiché  in  quella  del  De  la  Rue, 
come  si  disse,  l'aureola  non  è  presa  tutta;  però  le 
cinque  nostre  prove  combinando  esattamente  non 
può  esser  ciò  effetto  del  caso.  La  larghezza  di  questa 

(1)  Era  già  pubblicato  questo  ai'licolo  nel  giornale  di  Roma  (7  Sei.  1860) 
da  molti  giorni  quando  giunsero  in  Roma  nei  bullettini  dell'osservatorio  di 
Parigi  le  descrizioni  delle  protuberanze  osservale  da  Chacornac  con  un  forte 
equatoriale  (4,  5,  6,  7,  settembre) ,  e  vedo  che  esso  pure  dalle  sue  osserva- 
zioni è  sialo  condotto  alla  medesima  conclusione.  In  somma  questo  sarebbe 
il  caso  delle  nostre  nubi,  clie  finché  si  vedono  per  riflessione  sono  binnche, 
e  viste  illuminale  dai  raggi  trasmessi  al  tramontare  del  Sole  vestono  le  tinte 
rosate  che  lutti  sappiamo.  In  questa  ipotesi  la  luce  delle  protuberanze  non 
sarebbe  propria,  ma  imprestata  dal  Sole;  nò  a  ciò  fa  difficoltà  la  mancanza  di  [)o- 
larizzazione  osservata  in  esse,  perche  anche  le  nubi  nostre  non  sono  [)ohuizi'.ale. 


119 

atmosfera  impressa  è  6'  almeno  all'equatore,  e  al 
polo  non  arriva  a  3';  ma  è  certo  che  la  fotografìa 
fatta  in  soli  6s<^<=-  non  può  rappresentare  l'ultimo 
limite  della  atmosfera  solare,  che  deve  essere  assai 
più  estesa,  ma  però  è  sufficiente  a  mostrar  bene  la 
legge  di  sua  struttura.  Questo  conferma  quanto  fu 
da  noi  scoperto  fino  del  1851,  dell'esser  cioè  la  zona 
equatoriale  la  piiì  eneigica,  e  quella  dove  la  tem- 
peratura fa  da  noi  trovata  più  elevata.  E  singolaie 
la  forma  di  questa  atmosfera  che  combina  sì  bene 
con  quella  trovata  dal  Maury  per  la  terra  ,  e  pare 
effetto  della  forza  centrifuga. 

Questo  per  ciò  che  riguarda  le  fotografie  fatte 
durante  la  totalità.  Anche  il  sig.  De  la  Rue  ha  preso 
varie  fotografie  delle  fasi  par/.iali,  e  ivi  come  nelle 
nostre  resta  provata  la  grande  differenza  di  preci- 
sione fra  l'orlo  della  fase  spellante  al  bordo  solare  o 
al  lunare.  La  sfumatura  del  piimo  è  tale  che  si  cre- 
derebbe l'impressione  fatta  fuori  del  foco,  se  la  preci- 
sione dell'altro  lembo  non  peisuadesse  il  contrario  : 
e  si  rileva  pure  che  il  bordo  solare  ha  luce  più  de- 
bole che  la  penombì'a  stessa  delle  macchie  ,  veiifì- 
candosi  ciò  che  noi  trovammo  in  Roma  per  la  luce 
fino  dal  1858,  e  quello  che  mollo  prima  provammo 
accadere  pel  caloie.  Queste  fotografìe  mettono  inoltre 
in  evidenza  un  altro  fatto  importante:  se  l'impressio- 
ne non  sia  realmente  istantanea,  il  nucleo  non  viene 
nero,  ma  bianco  come  il  resto;  donde  si  conclude  che 
que'punti  non  sono  oscuri  fuor  che  relativamente,  e 
assolutamente  sono  luminosissimi,  come  già  si  era 
dedotto  da!  Galileo  per  altre  consideiazioni.  Così 
pure  l'orlo  delle  penombre  non  ò  staccato  e  netto  se 


120 

l'impressione  non  è  sommamente  istantanea,  ma  si 
fonde  un  poco  col  resto  :  laiche  si  vede  che  il  grande 
distacco  apparente  del  contorno  delle  penombre  è 
in  gran  parte  effetto  di  contrasto.  Ciò  è  confermalo 
dalla  importante  osservazione  del  barone  Dembowski, 
che  riconobbe  i  nuclei  delle  macchie  apparire  molto 
meno  neri  che  il  lembo  lunare  all'  atto  della  loro 
occultazione. 

Qui  nascerebbe  la  discussione:  se  le  forme  delle 
nostre  protuberanze  favoriscano  l' opinione  che  le 
macchie  siano  falle  da  nubi  notanti  nell'  atmosfera 
solare  ;  opinione  che  oggi  cercasi  far  risuscitare 
dalle  antiche  sue  ceneii,  e  confutata  le  cento  volte 
dai  tempi  del  Galileo,  che  la  propose,  fino  a'giorni 
nostri:  le  scoperte  del  Wilson  da  noi  richiamate  a 
nuova  luce,  e  riconfermate,  la  dimostrarono  insus- 
sistente, e  non  possono  le  presenti  osservazioni  darle 
veruno  appoggio,  come  spero  mostrare  in  altra  oc- 
casione con  più  estensione.  Qui  dirò  solo  che  in 
questi  giorni  medesimi  ho  potuto  verificare  un  altro 
caso  manifestissimo  dell'esser  esse  cavità  e  squarci 
della  fotosfera  medesima ,  la  cui  spessezza  è  assai 
tenue  in  proporzione  del  vasto  globo  che  essa  ricopre. 

Ma  ritornando  ai  fenomeni  più  particolarmente 
spellanti  1'  ecclisse  ,  chi  vorrà  gettare  un'  occhiata 
attenta  su  tutti  questi  fatti  complessivi  resterà  per- 
suaso dell"  immenso  passo  che  si  è  fatto  verso  la 
cognizione  del  Sole  mediante  le  felici  osservazioni 
eseguite  durante  questa  occasione:  e,  quel  che  è  più, 
resterà  convinto  che  si  è  aperta  una  nuova  via  di 
investigazioni  che  sarà  certamente  messa  a  profitto 
dai  nostri  posteri,  presso  i  quali  avremo  almeno  la 


121 

gloria  di  aver  tolto  di  mezzo  le  principali  difficoltà 
che  rendevano  incerta  la  sola  vera  via  di  studiare 
questa  materia,  cioè  T  applicazione  delia  mirabile 
arte  della  fotografìa.  Resterà  solo  in  una  futura  oc- 
casione che  gli  osservatori  si  uniscano  per  telegrafo» 
onde  avvertirsi  reciprocamente  degli  oggetti  più  im- 
portanti da  osservare  e  delle  cose  da  fare;  il  che  se 
si  fosse  fatto,  come  io  progettai  a  Castellon  de  la 
Plana ,  avremmo  potuto  profittare  delle  istruzioni 
del  signor  De  la  due,  e  avere  fotografie  maggiori,  e 
completato  così  lo  studio  di  questi  fatti  immensa- 
mente di  più  !  Ma  ora  che  la  questione  non  è  più  del 
modo  di  operare,  ma  solo  del  tempo,  siamo  sicuri 
che  quello  che  non  si  è  potuto  compire  da  noi 
sarà  fatto  quanto  prima  da  altri,  e  questo  ci  basti. 


122 


Delle  lodi  di  Bartolomeo  Borghesi.  Discorso  recitalo 
air  insigne  e  pontificia  accademia  romana  di  san 
Luca,  nella  premiazione  de*  grandi  concorsi ,  dal 
cav.  Giambattista  de  Bossi  accademico  di  onore. 

L'>  .  . 

argomento  del  mio  discorso  sembrerà  a  prima 

vista  alienissimo  dalla  letizia  di  questa  solenne  adu- 
nanza, e  dalle  arti  belle  che  qui  onoriamo  e  pre- 
miamo: né  io  l'avrei  forse  prescelto,  se  il  sapiente 
consiglio  di  chi  in  vostro  nome  mi  ha  cortesemente 
chiamato  a  parlarvi  non  me  ne  avesse  suggerito  il 
pensiero.  Bartolomeo  Borghesi,  quell'onore  d'Italia» 
che  in  tutta  Europa  fu  salutato  oracolo  sommo  della 
scienza  epigrafica,  della  numismatica,  della  crono- 
logia; la  cui  morte,  benché  all'età  di  lui  quasi  de- 
crepita non  immatura,  ai  cultori  della  romana  an- 
tichità immatura  pare  ,  acerbisima  ,  e  danno  irre- 
parabile ;  Bartolomeo  Borghesi  sarà  tema  al  mio 
dire.  Le  lodi  singolarissime  d'un  tanto  maestro  della 
scienza  archeologica,  comechè  asperse  di  molta  ama- 
rezza per  il  desidesio  di  lui,  che  lamentiamo  per- 
duto ,  non  daranno  certo  un  suono  estranio  e  di- 
scorde a  questa  solennità  ed  a  questo  consesso.  Se 
le  arti  belle,  dacché  in  uno  alle  lettere  risorsero  a 
novella  vita,  furono  sempre  compagne  e  sorelle  in- 
divise alla  scienza  dell'antichità;  se  il  vostro  collegio 
nelle  maggiori  sue  pompe  ama  affratellarsi  a  quel- 
lo dell'archeologia;  se  nel  vostro  albo  fra  i  nomi 
pili  illustri    rifulse  quello  di    Bartolomeo   Borghesi; 


123 

come  allo  spegnersi  d'un  tanto  lume  quest'aula  sarà 
muta,  né  alla  memoiia  del  sommo  archeologo  ita- 
liano renderà  il  debito  tributo  di  lodi  l'accademia 
romana  delle  belle  arti  ?  E  così  avess'  io  facondia 
pari  all'altezza  del  subbietto,  od  almeno  alcun  uso 
nella  difficile  arte  del  tessere  elogi!  Ma  all'  insuffi- 
cienza ed  inesperienza  mia  supplirà  la  copia  e  lo 
splendore  delle  lodi  ,  che  nascono  spontanee  dalle 
opere  nobilissime  e  dal  fecondo  lavoro  di  quel  so- 
vrano intelletto;  supplirà  anco  la  riverenza  e  l'af- 
fetto, che  al  Borghesi  vivo  mi  strinse,  e  che  la  me- 
moria di  lui  m'  imprime  nel  cuore  carissima  ed 
indelebile. 

Quante  volte  io  mi  fo  col  pensiero  alla  vita  , 
agli  studi,  alla  fama  del  Borghesi,  mi  veggo  innanzi 
un  uomo,  cui  veramente  io  non  so  trovare  il  simile 
negli  annali  letterari  sia  dell'antica  età  sia  della  mo- 
derna. I.a  puerizia  di  lui  assai  somiglia  a  quella 
d'Ennio  Quirino  Visconti.  Ambidue  intin  dagli  anni 
più  tenori  dai  genitori  iniziati  nella  scienza  ,  che 
eglino  slessi  professavano,  delle  antichità;  ambidue 
nati  quasi  e  cresciuti  nel  domestico  museo  di  anti- 
che monete,  ed  usi  a  trastullarsi  con  esse,  ingegni 
pronti  e  felici  diedero  frutti  precocissimi  e  meravi- 
gliosi. Il  Borghesi  fanciullo  decenne  mise  alle  stampe 
uno  scritto  sopra  una  medaglia  ravignana  d'Eraclio 
imperatore;  dove  è  manifesto  lui  aver  nella  sua  vi- 
ril  fanciullezza  già  tutto  alacremente  percorso  il  va- 
sto campo  della  numismatica.  Ma  se  il  Borghesi 
ed  il  Visconti  ebbero  somigliantissima  la  singolare 
istituzione  domestica ,  somigliantissimo  il  precoce 
maturar  del  puerile  intelletto  negli    studi  ,    in  che 


124 
tutta  occupai'on  la  vita  ;  in  quanto  dissimile  stato 
salirono  a  quell'altezza  di  valore,  di  fama  e  di  au- 
torità, che  quasi  vince  il  segno  dai  grandi  e  fortu- 
nati cultori  delle  umane  scienze  rare  volte  toccato! 
Il  Visconti,  educato  nella  luce  della  nostra  Roma, 
sotto  gli  occhi  de'  sommi  in  ogni  ragione  di  lettere 
e  d'arti,  che  quivi  allora  fiorivano,  esercitato  quasi 
in  prima  palestra  nella  creazione  stupenda  del  mu- 
seo Pio-Clementino,  crebbe  di  dì  in  di  a  grandezza 
pari  a  così  fatti  principi!  :  e  quando  eclissato  lo 
splendore  dell'eterna  città  ,  monumenti  ,  lettere  ed 
arti  trasmigrarono  oltr'Alpi,  trasmigrò  anch'egli  con 
esse,  e  nella  lor  sede  sempre  visse  e  regnò.  In  fin 
dalla  prima  giovinezza  die  al  pubblico  opere  non 
solo  dotte,  non  solo  grandi,  ma  splendide  ed  attraenti 
per  i  capolavori  dell'arte  greca  e  romana,  per  l'ele- 
ganza della  dottrina  e  la  regal  magnificenza,  che  in 
que*  superbi  volumi  pompeggiano:  opere  commes- 
segli e  date  in  luce  da  principi  e  da  monarchi,  da 
un  Fio  VI,  da  un  Napoleone  I.  In  tanto  favore  di 
luoghi,  d'uomini  e  d' imprese  nobilissime,  il  romano 
archeologo  empiè  del  suo  nome  V  Europa,  ed  a  lui 
comò  ad  arbitro  supremo  nella  scienza  dell'  arte 
antica  1'  Inghilterra  pubblicamente  si  volse,  perchè 
pronunciasse  giudizio  sulle  sculture  di  Grecia  a  Lon- 
dra trasferite.  Ma  nel  nostro  Borghesi  tutto  diverse, 
anzi  contrarie,  ed  in  siffatta  contrarietà  singolari  le 
condizioni  del  vivere,  dello  studiare,  del  pubblicare 
il  prodotto  del  suo  interminabil  lavoro.  Egli  nato 
in  Savignano  per  lunga  età  non  in  altro  teatro  fé 
alcuna  mostra  di  se,  che  nella  savignanese  accade- 
mia de'  Simpemeni:   visitò  più  volte  Koma,  Milano, 


125 
Torino  ,  unicamente  intero  a  far  tesoro  di  monu- 
menti, di  manoscritti,  di  libri;  né  mai  pose  il  piede 
fuor  dell'Italia:  ed  infine  a  studiare  nel  raccolto  te- 
soro si  ritrasse  in  un'alta  e  poco  meno  che  inac- 
cessa cima  dell'Apennino  ,  in  san  Marino;  e  quasi 
aquila  sublime  così  annidato  visse  ben  quaranta  anni. 
Quivi  tutto  si  die  al  ritessere  la  scomposta  e  di- 
sperata tela  dei  fasti  della  romana  repubblica  e  del- 
l'impero; ed  in  quest'opera  volle  spendere  fino  al- 
l'ultimo dì  l'intera  sua  vita,  senza  divulgarne  mai 
pur  una  pagina  sola.  Se  il  pubblico  degli  ingenti 
studi  del  Borghesi  ebbe  de'saggi,  gli  ebbe  in  iscritti 
di  poca  mole,  di  ninna  apparenza,  qua  e  là  dispersi 
e  talvolta  seppelliti  in  giornali  letterari,  in  atti  d'ac- 
cademie, in  opere  altrui;  talché  l'autore  medesimo 
a  chi  gliene  chiedeva  il  novero  rispose  di  moltis- 
simi avere  smarrito  ogni  notizia.  E  l'argomento  di 
quegli  scritti  difficile,  arido,  sol  da  pochissimi  in- 
teso; la  trattazione  intessuta  delle  più  intime  e  di- 
sparate nozioni  dell'epigrafia  e  della  cronologia,  le 
due  province  spinosissime  della  dilettevole  scienza 
delle  antichità.  Siffatto  modo  di  vita,  di  studi  e  di 
pubblicazioni  dovea  sembrare  appena  bastante  a  far 
nolo  il  romito  di  san  Marino  ad  alquanti  assidui 
cultori  dell'  epigrafia  e  della  numismatica  ;  dovea 
certo  di  sua  natura  sequestrarlo  dal  commercio  con 
la  letteraria  repubblica  ,  farlo  vivere  estranio  alle 
nuove  scoperte  ed  al  quotidiano  progresso  della 
scienza;  dovea  infine  piuttosto  nasconderlo,  che  ri- 
velarlo agli  occhi  del  mondo.  Ma  troppo  era  egli 
grande,  da  poter  vivere  ignoto  ed  oscuro,  comun- 
que Io  strano  proposito  di  vita  lo  dipartisse    poco 


126 

men  che  dall'  umano  consorzio  e  Io  togliesse  alla 
vista  del  volgo  anco  erudito.  Aveva  appena  trascorsi 
i  trentacincjue  anni,  e  dopo  quel  primo  scritto  nel- 
l'età fanciullesca  messo  alla  slampe,  non  aveva  dato 
al  pubblico,  che  alquanti  suoi  versi,  alquanti  inediti 
di  Torquato  Tasso,  e  qualch'altro  letterario  scritto 
poco  o  nulla  attenente  all'ai-cheologia,  e  già  il  La- 
bus,  che  di  valente  archeologo  avea  sì  bella  fama, 
non  altratnente  lo  nomina  che  V esimio  nostro  Bor- 
ghesi. E  gli  aggiunti  di  esimio,  di  grande,  di  som- 
mo divennero  poi  compagni  perpetui  del  nome  di 
lui,  né  in  Italia  soltanto,  ma  nell'Europa,  e  soprat- 
tutto nella  dotta  Germania  de'  tneriti  letterari  se- 
vera eslimatiice.  Ond'  è  ,  che  non  il  silenzioso  ed 
inosservato  lavoro  potè  seppellir  nell'oblio  il  fasto- 
grafo  savignanese;  non  l'alpestre  domicilio  gli  no - 
eque  alla  pronta  notizia  delle  novelle  scoperte;  non 
la  solitudine  lo  straniò  dai  quotidiani  progressi  della 
scienza.  Che  anzi  qui  è  dove  egli  parmi  così  sin- 
golare, ed  o  maggiore  od  almen  diversisissimo  di 
quanti  sappiamo  avere  in  alcuna  dottrina  fra  i  con- 
temporanei mantenuto  il  primato  ,  che  stimo  do- 
vervene  alquanto  ragionale  riposatamente. 

Quando  il  Borghesi  volse  i  suoi  passi  all'  alta 
cima  di  san  Marino  ben  sapeva  ,  che  separato  dal 
civile  consorzio  e  così  liberissimo  a  profondarsi  tutto 
negli  studi  prediletti  ,  non  vivrebbe  però  separato 
dai  dotti»  che  quel  medesimo  od  alcun  simile  stu- 
dio professavano;  né  ignaro  delle  novità,  che  senza 
danno  ei  non  avrebbe  ignorato.  E  per  quel  che 
spetta  a  numismatica,  il  famoso  medagliere  creato 
dal  senilore  di  lui  Pietro  Borghesi  ,  e  da  lui  me- 


127 

desimo  con  ogni  industria  e  molla  spesa  arricchito, 
facea  sì  che  come  rara  o  nuova  moneta  appariva, 
tosto  o  mercatanti  di  siffatta  merce  gliel'offerivano, 
o  i  possessori  e  custodi  de' gabinetti  numismatici 
gliene  chiedevano  alcun  avviso,  od  infine  per  qual- 
sivogh'a  via  gliene  giungea  la  notizia-  Ed  invero  alla 
fama  dell'  eccellenza  di  lui  in  epigrafìa  e  cronolo- 
gia pressoché  in  ogni  luogo  precorse  quella  della 
meravigliosa  sua  dottrina  nummaria  :  e  le  Decadi 
di  osservazioni  numismatiche  messe  in  luce  dal  ro- 
nìano  giornale  Arcadico  levai'ono  tal  grido  ,  quale 
appena  mai  siffatta  maniera  di  opere  e  di  pubbli- 
cazioni suole  destare.  Né  quel  grido  col  tempo  s'af- 
fievolì e  venne  meno:  i  volumi  dell'Arcadico,  che 
le  preziose  Decadi  serbano,  a  gara  richiesti  diven- 
iier  rarissimi:  italiani  e  stranieri  cento  volte  prega- 
rono l'illustre  autore,  che  riunite  in  un  sol  volume 
le  desse  nuovamente  alle  stampe:  e  dotti  francesi 
anch'oggi,  dopo  quarant'anni  dacché  la  prima  De- 
cade vide  la  luce,  chiedevano  in  grazia  di  poterle 
volte  nella  lor  lingua  divulgare  in  Parigi,  Tanto 
pellegrine  e  tanto  solide  parvero  coleste  osserva- 
zioni senza  scelta,  senz'ordine,  senza  metodo  alcuno 
per  suo  passatempo  gittate  in  carta  dal  numismatico 
di  Savignano,  che  pareggiaron  la  fama  delle  opere 
in  siffatte  materie  piià  limale  e  perfette  ;  e  dopo 
sì  lungo  volgere  di  anni  e  progredire  di  sludi  né  di 
valore  sembrano  scemate,  di  né  freschezza.  Solo  il 
Borghesi,  con  modestia  pari  alla  dottrina  in  lui  sem- 
pre crescente,  negava  alle  famose  Decadi,  quali  le 
aveva  primamente  dettate,  l'onor  della  seconda  edi- 


128 
zione  :  né    del    tempo  a  maggior  opera  consecrato 
avea  copia    da    spendere   nelle  seconde  cure    della 
desiderala  ristampa. 

Imperocché  il  grande  amore,  che  fin  dalla  pue- 
rizia egli  pose  nelle  antiche  monete,  veramente  lo 
aveva  a  tal  grado  promosso  nella  scienza  nummaria 
da  dividerne  appena  con  pochi  l'alto  seggio  e  direi 
quasi  il  regno;  ed  anco  da  que'pochi  era  egli  ri- 
chiesto di  consiglio  come  maestro:  pure  egli  stesso 
affermò,  che  sol  per  trastullo  e  per  ricrear  Tanimo 
dai  maggioi'i  suoi  studi  tratto  tratto  volgea  1'  oc- 
chio al  medagliere.  La  gigantesca  impresa,  cui  erasi 
mancipato  per  tutta  la  vita,  lo  tenea  dì  e  notte  at- 
tento e  fiso  all'esame  delle  antiche  iscrizioni:  né  una, 
una  sola,  di  qualche  momento  ne  restituiva  la  terra, 
che  egli  non  dovesse  tosto  procurar  di  conoscerla  e 
di  accrescerne  il  suo  tesoro.  Ma  come  nella  solitudi- 
ne di  san  Marino  poteva  egli  aver  contezza  di  siffatte 
novelle  del  regno  epigrafico  ,  le  quali  anco  a  chi 
vive  nelle  maggiori  metropoli  giungono  tarde,  im- 
perfette ,  od  appena  giungono  mai  ?  Questa  certo 
parmi  cosa  piena  di  meraviglia,  e  gloria  tutta  pro- 
pria ed  unica  del  nostro  Borghesi.  Se  greca  o  la- 
tina iscrizione  attenente  alla  romana  istoria  da  qual- 
sivoglia parte  del  mondo  antico  tornava  in  luce,  un 
esemplare,  e  spesso  più  d'uno,  per  vie  diverse  e  per 
opera  di  molti  ad  un  tempo  n'era  spedito  a  san  Ma- 
rino: tributo  spontaneo,  che  gl'italiani  e  gli  stranieri, 
gli  amici  e  coloro  che  sol  per  fama  lo  conoscevano, 
davano  al  sovrano  censore  de'  fasti    romani.  Tanta 


129 
era  nelle  menti  de' letterati  l'opinione  di  colesti  studi 
del  Boighesi,  tanta  luce  dovea  prendeine  1'  istoria 
e  la  cronologia,  che  l'impresa  non  a  privala  ma  a 
pubblica  opera  parea  somigliante,  cui  tutti  recavansi 
a  debito  e  gloria  essere  tributari.  Nò  questa  nobile 
e  generosa  cagione  sola  moveva  i  dotti  d'ogni  grado 
e  d'ogni  gente  a  fornir  volenterosi  i  monumenti 
alla  lestituzione  de'  nostri  fasti  spellanti:  anco  i  più 
avari  e  restii  vincea  la  brama  d'allingere  al  largo 
fiume  della  borghesiana  dottrina.  Perocché  se  tutti 
eran  pronti  e  liberali  in  comunicare  al  Borghesi  le 
più  belle  novità  della  scienza  epigrafica  ,  ed  egli  era 
prontissimo  e  libéralissimo  nel  rispondere  a  tutti 
distesamente,  rendendo  pieno  conto  del  profitto,  che 
da  quelle  novità  aveva  tratto.  Onde  avvenne,  che  le 
sue  lettere,  veri  trattali  di  alte  quistioni  ,  ch'egli 
solo  potea  proporre  e  risolvere,  e  perfetti  modelli 
di  giudizio  finissimo  congiunto  a  rara  sagacità  ed 
a  squisita  e  immensa  dottrina,  erano  quale  tesoro 
inestimabile  desiderate  ed  ambite:  e  chi  s'accingeva 
a  divulgare  antiche  lapidi,  chi  nel  leggerle  ed  in- 
terpretarle s'imbatteva  in  un  passo  difficile  ed  oscuro 
interrogava  l'oracolo  di  San  Marino.  11  numero  di 
siffatte  dimande  giunse  a  tale,  che  il  Borghesi  mo- 
destissimo e  alieno,  quant'altri  mai,  dal  magnificar 
le  cose  sue,  all'  amico  del  cuore,  al  vostro  illustre 
segretario  Salvatore  Betti  ,  in  famigliare  lettera 
nel  1844  scrisse  così:  è  più  d\in  anno,  che  non  ho 
potuto  dettare  due  righe  di  mia  elezione,  e  né  meno 
terminare  molte  cose  incominciate,  assorbendomi  lutto 
il  tempo  questo  mio  troppo  esteso  carteggio  e  lo  stu- 
dio necessario  per  alimentarlo. 
G.AT.CLXVI.  9 


130 

Così  egli  ,  benché  confinato  in  un  eremo,  non 
solo  tenea  dietro  ad  ogni  passo,  di  che  progrediva 
la  scienza,  ma  dirigeva  que'  passi  e  dava  legge  a 
quel  progresso.  Così  solitario  pur  fu  padre  e  mae* 
Siro  di  eletta  e  nobile  scuola  :  e  i  piiì  valenti  in- 
terpreti delle  antiche  iscrizioni,  di  che  vanno  "oggi 
gloriose  le  straniere  nazioni,  si  stimano  lodati  nel 
nome  di  suoi  discepoli.  Discepolo  gli  fu  il  celebre 
epigrafista  danese  Olao  Kellerman,  in  troppo  verde 
età  rapito  ai  nosti-i  studi.  E  il  grande  maestro,  che 
amaramente  ne  pianse  la  morte  immatura  ,  non 
meno  di  cuore  ,  che  di  mente  nobilissimo  ,  vietò 
ai  dotti  alemanni  che  pubblicasser  le  lettere,  nelle 
quali  avea  al  caro  alunno  a  piena  mano  fornito  i 
documenti  del  suo  sapere  e  dato  aiuto  potente  al 
comporre  il  lodato  volume  solla  milizia  de'  vigili, 
E  discepoli  del  savignauese  aman  chianiassi  il  Mom- 
msen,  T  Henzen,  il  Ranier;  i  maggiori  nomi  io  dico, 
che  in  questi  studi  vantino  la  Francia  e  la  Germa- 
nia. 1  libri  e  gli  scritti  minori  di  questi  e  d'altri 
moltissimi  studiosi  delle  antichità  son  pieui  degli 
insegnamenti  del  nostro  dottore,  e  spesse  volte  ar- 
ricchiti delle  stesse  lellere  dì  lui  divulgate  come 
cosa  preziosa:  talché  egli  sembra  aver  dato  mano 
poco  men  che  a  tutte  le  opere  epigrafiche  segna- 
tamente negli  ultimi  venti  anni  messe  alle  stampe. 
Quando  le  infinite  lettere  del  Borghesi  da  ogni  parte 
raccolte  vedranno  la  luce,  allora  saprà  il  mondo 
quale  e  quanto  magistero  egli  esercitò,  allora  ap- 
parirà la  priora  volta  un  epistolario,  cui  (né  io  esa- 
gero punto)  la  storia  letteraria  nulla  conosce  di  si- 
mile, né  di  secondo.  Molto  è  lo  studio  e  l'amore; 


131 

cir  io  ho  posto  in  cercare  ne'libri  e  ne'manosciilti 
le  lettere  degli  uomini  illustri  in  ogni  ragione  di 
scienze,  e  posso  affermare  d'averne  letto  parecchie 
migliaia:  un  corpo  di  lettere,  che  anco  assai  da  lungi 
regga  al  confronto  di  quelle  del  Borghesi,  non  vidi 
io  mai.  E  chi  mi  troverete  voi,  che  dalla  inaccessa 
cima  d'  un  monte  per  trenta  ò  quaranta  continui 
anni  abbia  spesa  molta  e  forse  la  miglioi'  parte  delle 
ore  nel  lispondere  alle  consultazioni  di  tutti,  e  nel- 
l'ammaestrare  per  lettere  a  guisa  di  alunni  e  di  sco-^ 
lari  coloro,  che  in  ogni  altro  luogo  tenevan  grado  di 
maestri  ?  Un  oracolo  siff*atto  ed  una  tale  cattedra 
io  non  so  rinvenire  né  nell'antica  istoria,  né  nella 
moderna. 

Queste  lodi  sono  sì  grandi,  che  quasi  dubito  , 
non  abbia  altri  a  sospettarle  per  arte  oratoria  o  per 
privato  aff'ello  amplificate.  Pur  il  mio  è  giunto  a 
questo  punto  piìi  ricordando  i  lumiuosi  fatti  della 
vita  del  Borghesi,  che  magnificandoli  col  paragone 
di  quanto  intorno  ai  più  famosi  leggiamo  negli  an- 
nali delle  umane  scienze  e  delle  divine.  Nel  quale 
argomento  se  io  volessi  entrare,  e  dirvi  non  l'opi- 
nione mia  soltanto,  ma  anco  quella  d'altrui,  e  se- 
gnatamente d'alcuni  oltramontani,  che  del  Borghesi 
tuttora  vivo  e  di  lui  defonto  hanno  scritto  biografie 
ed  elogi  ,  allora  dovrei  forse  temere  di  sembrarvi 
mosso  e  sospinto  da  soverchio  impeto  di  esaltare  il 
mio  eroe.  Perocché  credo' bene,  che  altri  lo  abbia  a 
Varrone,  il  dottissimo  degli  antichi  romani,  paragona- 
to; come  non  mancò  chi  nel  Monitore  officiale  di  Pari- 
gi,quando  fu  egli  aggregato  agli  otto  soli  soci  stranieri 
dell'istituto  di  Francia,  arditamente  lo  paragonò  al 


132 

dotlissiino  dei  padii  Ialini,  che  per  quaranl' anni 
chiuso  nella  rupe  di  Betlemme  rispose  alle  consulta- 
zioni dell'oliente  e  dell'occidente. 

Ma  non  è  mio  costume  adoprare  siffatte  arti 
oratorie;  né  per  esse  crescerebbero  le  lodi  del  Bor- 
ghesi, che  si  levano  a  lant'altezza  sul  fondamento 
saldissimo  delle  opere  e  degli  scritti  di  lui.  I  quali 
da  ogni  parte  chieggono  i  dotti  ,  che  sieno  riuniti 
e  dati  tutti  insieme  alle  stampe  ;  soprattutto  quei 
'•fasti  immortali,  che  furono  l'opera  di  tutta  la  lunga 
vita  del  faslografo  italiano.  E  già  francesi,  tedeschi 
ed  italiani  si  danno  la  mano  e  nobilmente  cospirano 
affin  di  raccogliere  le  lettere  ed  ogni  menoma  scrit- 
tura di  lui,  e  tutto  ordinatamente  mettere  in  luce 
a  benefìcio  perenne  dell'  istorica  scienza  ;  che  per 
volgei'e  di  anni  e  prosj)erare  di  sludi  i  lavori  del 
Borghesi  non  cesseianno  dal  frulliiicare  con  peipelua 
fecondità.  E  qui  dovrei  io  accingermi  a  dichiararvi 
quale  è  il  merito  e  V  intrinseca  natura,  che  questi 
scritti  sì  privilegia  ,  da  farli  sicuri  contro  la  sorta 
comune  delle  opere  di  erudizione,  nelle  quali,  tolte 
appena  pochissime,  i  nuovi  lavori  prendono  via  via 
il  luogo  de'  vecchi,  e  di  questi  rimane  solo  il  nome 
e  la  memoria.  Ma  veramente  dichiarare  la  natura 
degli  studi  e  degli  scritti  del  Borghesi  non  è  tema 
da  questo  luogo,  né  da  quest'ora.  Esso  vale  quanto 
entrar  ne'  penetrali  più  secreti  della  scienza  epigra- 
fica, e  della  numismatica  e  dell'  istorica,  per  traine 
la  dottrina  dell'ordine  de'  tempi  e  della  successione 
de'  consoli  da  Bruto  e  Collatino  fino  al  rovescio  del 
regno  gotico  in  Italia  sotto  Giustiniano,  le  genea- 
logie delle  grandi  famiglie  romane,  che  illustrarono 


i  fasti  della  repubblica  e  deirimpero,  le  serie  de'cen- 
sori  ,  de'  proconsoli  ,  de'  pretori  ,  degli  edili  ,  dei 
questoii  e  di  quanti  magistiali  ordinari  e  straordi- 
nari tennero  in  Roma  le  maggiori  sedi,  e  con  vario 
nome  e  potestà  ne  ressero  le  province.  E  quasi  ciò 
nulla  fosse,  a  quella  sterminala  tela  di  cronologie 
e  di  genealogie  aggiungete  lo  specchio  di  tutta  la 
gerarchia  delle  grandi  e  delle  minori  magistrature, 
de'  sacerdozi  ,  della  milizia  legionaria  ,  urbana  ed 
ausiliare,  e  perfin  degli  uffici,  delle  amministrazioni, 
de'  collegi,  e  d'ogni  altra  istituzione  della  Roma  re- 
pubblicana e  della  imperiale,  della  città  e  delle  pro- 
vince. E  di  questa  gerarchia  tutte  le  fasi  ed  i  mu- 
tamenti, come  a  mano  a  mano  fu  svolta,  e  come 
e  quando  alterata  per  le  vicende  ordinarie  de'  tempi, 
per  le  scosse  violente  delle  discordie  e  guerre  cit- 
tadine e  per  le  leggi  riformatrici  della  costituzione 
civile:  ed  infine  come  tutta  dall'antica  fu  trasfor- 
mata per  l'azione  inanifesta  e  per  Je  arti  coperte  di 
Cesare  ,  di  Augusto  e  de'  segmenti  imperatori  fin 
alla  invasione  de'  barbari  ed  alla  finale  caduta  della 
romana  grandezza.  Chi  non  si  sente  compreso  da 
stupore  e  da  sgomento  alla  vista  d'un  siffatto  quadro 
di  studi,  cui  non  potea  certo  bastare  nò  la  lunga 
vita,  né  l'attività  senza  posa,  nò  la  perpetua  appli- 
cazion  della  mente  in  solitudine  d'un  uomo  pur  della 
tempra  del  Borghosi  ?  Ma  a  ben  conoscere  l'arduità 
e  la  grandezza  di  tanta  impresa  poco  giova,  che  io 
ve  l'abbia  accennata  e  definita.  Anco  l'immortale 
Panvinio  disegnò  la  gigantesca  m.ole  di  ben  cento  libri, 
ne'  quali  tutta  tutta  volea  comprendere  la  romana 
antichità;  e  benché  morto  in  età  freschissima,  molti 


134 

ne  dettò  e  diede  alle  stampe.  Pur  la  smisurata  quan- 
tità della  materia,  che  il  Panvinio  adunò,  e  1'  uso 
che  ne  ideò  ,  al  confronto  del  tesoro  radunato  dal 
Borghesi,  e  del  frutto  che  ei  ne  raccolse,  al  tutto 
scompaiono  e  sembrano  un  nulla  Già  veggo  ,  che 
questo  confronto  mi  spinge  dentio  le  intime  parti 
del  tema  ,  che  io  qui  non  voglio  toccare.  Perciò 
m'arresto:  e  dico  soltanto,  che  dei  tempi,  dei  fatti, 
delle  istituzioni  e  delle  persone  di  tutta  la  romana 
istoria  avea  il  Borghesi  ottenuto  una  conoscenza  sif- 
fatta, che  sembrava  vissuto  nell'antica  Boma  ed  agli 
antichi  romani  d'ogni  età  stato  familiare;  e  molte 
e  molte  fiate  giunse  perfino  a  conoscer  meglio,  che 
non  gli  antichi  medesimi,  i  fatti,  le  date,  i  perso- 
naggi de'  gloriosi  loro  «nnali.  E  quando  io  vi  parlo 
della  rotnana  storia  in  sì  maravigliosa  guisa  come 
sua  posseduta  dal  Borghesi,  non  vi  parlo  io  già  di 
quella  storia,  che  leggiamo  ne'  libri  greci  e  latini, 
sieno  essi  da  più  secoli  nelle  mani  di  lutti  ,  sieno 
in  questa  nostra  età  tornali  in  luce  dalle  ravvivate 
pagine  dei  palimpsesti:  io  vi  parlo  di  quel!'  istoria, 
che  il  Borghesi  medesimo  di  dì  in  dì  veniva  sco- 
prendo e  direi  quasi  creando. 

Imperocché  egli  dapprima  ad  una  ad  una  esa- 
minò le  antiche  monete,  massime  quelle  che  diciamo 
consolari  e  di  famiglie,  e  ne  studiò  l'arte  ,  i  tipi  , 
le  lettere,  tentandone  e  spesso  ritrovandone  la  quasi 
disperata  cronologia.  Si  volse  poscia  alle  iscrizioni 
greche  e  latine:  ed  ancor  queste  cercate  ne'  marmi, 
ne'  libri,  ne'  codici,  nelle  copie  fornitegli  dagli  amici 
(non  meno  di  sessantamila)  ad  una  ad  una  analizzò; 
non  sol  fermandone  la  vera  lezione  e  l'interpreta- 


135 

t'ìone  ,  ma  accettando  le  vere,  scartando  le  false  : 
e  così  egli  primo  purgò  questo  campo  da  infinite 
imposture,  che  nella  cronologia  e  nella  storia  strana 
confusione  e  corruttela  avean  generato.  Dopo  ciò  le 
notizie  di  numero  e  di  varia  qualità  veramente  infi- 
nite, che  da  questo  mar  senza  fondo  egli  traea,  venne 
per  tutta  la  vita  disponendo  e  fondendo  con  quelle, 
che  0  palesi  o  nascoste  sono  in  tutti  gli  scritti  a 
noi  pervenuti  dall'antichità  :  nelle  leggi  ed  in  ogni 
altra  maniera  di  pubblici  alti,  ne'libri  degli  siorici 
e  de'geografi,  de'giurecoosulti  e  de'fìlosofi,  degli  ora- 
tori, de'grammatici  e  dei  poeti.  Or  immaginate  voi 
quale  luce  sfavillava  agli  occhi  acutissimi  del  Bor- 
ghesi dalla  fusione,  e  se  lecito  mi  è  usurpar  il  lin- 
guaggio de'chimici,  dalla  combinazione  di  que'dispa- 
rati  e  potenti  elementi  schietti  da  ogni  mescolanza 
men  pura,  ed  adoperali  in  tanta  copia,  quanta  ad 
altri  non  fu  data  mai.  Ed  or  intendete  quale  novella 
istoria  io  vi  dissi,  che  di  giorno  in  giorno  il  Bor- 
ghesi scopriva,  e  con  la  rara  sagaoità  della  mente 
e  la  ricchezza  ognora  crescente  de'monumentali  te- 
sori quasi  creava  e  componeva.  Ma  a  costruire  lo 
smisurato  edificio  non  potea  bastargli  la  vita.  Ed 
egli  non  lo  ignorava:  né  imprudente  s'era  sobbarcato 
all'altissimo  ufficio.  11  Borghesi  per  tante  parti  e 
doti,  che  son  venuto  accennando,  diverso  dai  savi 
più  singolari  e  famosi,  in  questo  da  tutti  diversis- 
simo, fermò  nell'animo  il  proposito  eroico  ed  inau- 
dito di  non  veder  messa  in  luce  1'  opera  sua  :  ma 
questa  cura  lasciando  ai  posteri  fino  all'  ultimo  dì 
continuar  nello  studio,  e  spingere    fin  dove  dall'alto 


136 

gli  sarebbe  concesso  i  termini  del  suo  lavoro.  E 
mantenne  l'arduo  proposto.  Toccava  ouiai  l'ottantesi- 
mo, anno  e  dato  sesto  alla  serie  de'prefetli  di  Roma, 
era  tornato  al  difficilissimo  assunto  di  trovare  la 
debita  sede  a  parecchie  centinaia  di  consoli  sulTetti, 
de'quali  con  grave  danno  della  cronologica  e  dell'epi- 
grafica scienza  ignoti  sono  gli  anni  e  la  storie,  quando 
il  colse  morte  improvvisa  (1),  e  con  la  vita  gli  troncò 
in  mano  il  filo,  che  ogni  di  più  svolgeva  de'  fasti 
romani. 

E  qui  se  io  favellassi  in.quell'anlica  Roma,  nella 
quale  il  Borghesi  visse  col  pensiero  e  con  gli  studi, 
sarei  forse  mosso  a  lamentar  1'  umana  sorte  e  la 
misera  di  nostra  mortai  condizione:  che  qunnto  ci 
sentiamo  grandi  e  quasi  divini  all'ideare  ed  abbrac- 
ciare nella  mente  qualsivoglia  ardua  e  sterminata 
ricerca  del  vero  ,  nò  limiti  di  spazio  o  di  tempo 
soffre  l'irrequieta  atlivilà  del  nostro  intelletto,  tanto 
corta  e  meschina  e  di  travagli  piena  e  d'impedimenti 
e  verso  le  nostre  impiese  la  vita  anche  più  diuturna 
e  vigorosa.  Ma  l'amica  Roma  è  caduta  ;  ed  io  parlo 
in  quella  ,  eh'  è  rischiarata  dall'Evangelio.  Con  la 
scorta  di  sì  verace  lume  intendiamo  che  la  presente 
vita  ed  il  nostro  affaticarci  ora  lieto,  ora  affannoso, 
alla  conquista  del  vero  ed  alla  contemplazione  del 
bello,  ha  ragione  sol  d'esercizio  e  di  prova,  per  otte- 
nere oltre  i  termini  di  questa  sempre  breve  peregri- 
nazione l'imperituro  bene  delTintelletto.  A  voi  adun- 
que, 0  valorosi,  che  avete  oggi  il  premio  delle  nobili 


(1)  Il  Borghesi  morì  in  san  Marino  la  mattina  dei  16  di 
aprile  1860    Era  nato  in  Savignano  il  dì  11  di  luglio  1781. 


137 

opere  della  mano  e  dell'ingegno,  l'alta  impresa,  che 
del  Borghesi  io  v'  ho  narrato,  rotta  a  mezzo  dalla 
inesosabile  legge  di  morie,  non  sia  cagione  di  vane 
querele  ,  ma  stimolo  ed  esempio  che  a  ben  operar 
vi  spioni  e  vi  conforti.  E  se  il  grande  nostro  con- 
cittadino segnò  in  caite,  che  non  periianno,  i  fa- 
sti gloriosi  dell'  antica  Roma,  e  voi  li  fate  i-ivivere 
nelle  tele  e  ne' marmi.  Nò  obliate,  che  alla  Roma 
pagana  ò  succeduta  la  Roma  cristiana,  che  ai  fasti 
trionfali  ed  agli  allori  della  prima  fan  seguilo  le  so- 
vrumane maraviglie  e  le  palme  della  seconda.  Se  il 
Borghesi  poco  vide  e  poco  studiò  ne'  monumenti 
della  Roma  cristiana,  colpa  fu  non  sua,  ma  e  dei 
tempi  e  de'  confini  che  dovette  pur-  segnare  agli 
immensi  suoi  studi.  I  tempi,  ne'  quali  egli  crebbe 
e  si  preparò  alla  grand'opera,  non  correano  egual- 
mente propizi  alla  pagana  archeologia  ed  alla  cri- 
sliana.  E  se  questa  aveva  i  suoi  cultori,  e  fra  essi 
primissimo  i!  sommo  Marini  ,  quel  Marini  cui  il 
Borghesi  tenne  in  conto  di  padre  e  di  maestro,  non 
aveva  un  NONO  PIO,  che  le  riaprisse  le  catacombe, 
le  disotlerìasse  le  sepolte  basiliche,  le  fondasse  un 
museo  degno  d'aver  sede  nei  Lalerano.  Or  voi,  che 
di  tanto  beneficio  potete  fruire,  voi,  cui  è  dato  leg- 
gere una  novella  pagina  nell'  istoria  dell'arte  anti- 
ca, e  contemplare  una  novella  seiie  di  uìonumenti, 
quelli  dell'arte  classica  cristiana,  non  {spregiate  la 
fortuna,  eh»  v' è  offerta,  né  vi  mostrate  indegni 
della  vostra  sorte.  E  come  ora  le  quotidiane  sco- 
perte e  la  scienza  archeologica  mettono  in  piena 
luce  l'anello  strettissimo,  che  all'arte  classica  e  ro- 
mana rannoda    le  origini    della  cristiana ,    così  voi 


138 
runa  dall'  altra  non    separate.    Sotto  le  forme  del 
bello  dateci  a  contemplare  la  suslanza  del  vero:  sia 
la  bellezza  ereata   e  finita  scala  all'increata  ed  al- 
l' infinita.  Le  nobili  opere  delle  vostre  arti,  che  hanno 
irresistibil  virtù  di  rapirci  l'anima  e  a  lor    voglia  si- 
gnoreggiarla, ci  sollevin  lo  spirito  e  lo  sospingano 
ai  più^'sublimi  voli  verso  la  ragione  del  primo  bello 
e  del  primo  vero:  non  ancelle  e  ministro  d.  sedu- 
zione e  di    lascivia   ci    travolgano  al  fondo,  aguz- 
zando i  bassi  appetiti  comuni  al  bruto,  che  non  ha 
intelletto.  E  la  patria  abbia  in  voi  chi  neUe  arti  le 
mantenga  quel  vanto  e  quel  primato,  che  nella  scienza 
alle  arti  sorella,  dopo  Ennio  Quirino  Visconti  e  Gae- 
tano Marini,   le  mantenne  e  le  ampliò  Bartolomeo 
Borghesi. 


139 


Intorno  a  due   casi   clinici  di  medicina   ojìeratnria  , 
esposti  da  Giuseppe  Canettoli  d'Imola. 


Quae  medicamenla  non  «anant , 
ferrum  sanai. 

Ippocrate. 


Vi 


i  sono  fatti  clinici,  i  quali  per  la  loro  singolarità 
sono  degni  di  studio  e  ricordanza  ,  poiché  in  casi 
simili  ci  fanno  camtninnare  con  minore  incertezza 
mercè  l'osservazione  e  l'operato  altrui,  il  quale  ul- 
timo tanto  pili  riesce  opportuno  ed  attendibile  se 
ebbe  esito  fortunato.  Con  questo  intendimento  io 
narrerò  due  casi  di  malattia  che  vidi  ,  e  le  risul- 
tanze che  tennero  dietro  all'opera  chirurgica  da  me 
contrappostavi. 

Prima  esporrò  ambedue  i  casi  pratici,  indi  ac- 
cennerò i  vari  metodi  tenuti  dagli  antiehi  e  dai  mo- 
derni per  la  cura  di  queste  infermità. 

Oreste Cerafogli  romano, di  anni  15, nato  da  madre 
di  temperamento  sanguigno  ed  abito  pletorico,  da 
padre  di  tempra  leucaflemmatiea,  partecipò  dell'im- 
pasto organico  di  entrambi.  Nell'anno  dodicesimo  di 
sua  età  soffrì  una  gastrite  (1),  nel  maggio  1857  fu 
assalito  da  violenta  epistassi  alla  narice  sinistra.  Es- 
sendo io  slato  consultato  intorno  a  questa,  imme- 
diatamente apprestai  gli  emostatici  più  forti  ;  ma 
persistendo  la  emorragia,  mi  fu  giocoforza  praticare 


(1)  Dottor  Venti  e  dottor  Ciccioli  curanti. 


140 

il  tamponamento  con  la  sonda  di  Belloq  ,  e  così 
mi  venne  fatto  di  guarire  la  imponente  epistassi. 
Scorsero  poscia  diversi  mesi  di  perfetta  salute-,  tin- 
che il  13  novembre  il  Cerafogli  ricadde  malato  di 
gastrica  putrida  (1);  e  quasi  non  fosse  ancora  sazia 
l'avversa  fortuna  contro  di  questo  povero  giovinetto, 
il  tre  ottobre  1858  ,  tredicesimo  anno  di  sua  età, 
fu  ripreso  da  epistassi  non  meno  grave  delia  prima, 
ma  alla  narice  opposta  (2).  Venni  subito  richiamato, 
e  nel  visitarlo  mi  accorsi  di  un  polipo  entro  la  na- 
rice, e  di  vari  altri  al  faringe;  oltre  di  che  la  sua 
fìsonomia  avea  cambiato  espressione  e  forma.  Frenai 
con  sollecitudine  )'  imponente  stillicidio  sanguigno 
prescrivendo  1'  ergotina  sotto  forma  pillolare  alla 
dose  di  trentasei  grani  nella  giornata  ,  all'  esterno 
poi  la  neve  sulla  fronte  ,  gargarismi  composti  di 
percloruro  di  ferro  liquido  unito  all'acqua  emostatica 
del  Paliari,  ed  in  questa  soluzione  astringente  ba- 
gnai un  grosso  stuello  di  sfili  che  introdussi  nella 
narice.  Cessala  che  fu  la  emorragia,  rivolsi  la  mia 
attenzione  alla  cura  radicale  dei  polipi. 

i  sintomi  che  rinvenni  furono,  peso  gravativo  e 
continuato  alla  regione  frontale;  dolevasi  d'  imper- 
fetta respirazione  (dispnea)  dall'ultima  gastrica  sof- 
ferta, agli  odori  i  più  piccanti  era  insensibile,  non 
distingueva  il  sapore  dei  cibi,  e  dalle  narici  fluiva 
di  sovente  umore  siero-mucoso  fetentissimo  :  di 
quando  in  quando  lagnavasi  di  cefalaijìa  ora  fron- 
tale ora  sincipitale,  quasi  sempre  tremulo,  in  ispe- 


(1)  Signori  dottori  Berlini  e  Magrini  curanti. 

(2)  Narice  destra. 


Ul 

cial  modo  se  eranvi  bruschi  cambiamenti  atmosfe- 
rici ;  il  sno  colorito  era  verdognolo  ,  esisteva  ano- 
ressìa da  molto  tempo,  e  la  narice  destra  ingros- 
satasi a  poco  a  poco  appariva  all'  esterno  di  tale 
forma  che  il  naso  veniva  spinto  a  sinistia,  il  labbro 
superiore  lievemente  alzalo  ,  ed  alquanto  depressa 
scoigevasi  la  palpebra  inferioie.  La  sete  inestin- 
guibile, la  masticazione  difficile  (disfagìa),  e  stentata 
era  la  diglulizione  ;  il  sonno  penoso  accompagnalo 
da  un  forte  russare;  spesso  svegiiavasi  come  se  fosse 
minacciato  da  soffocazione,  slanciandosi  dal  letto  qual 
furibondo  ,  non  trovando  sollievo  che  a  restare  in 
piedi  ;  la  voce  pure  era  nasale  e  gutturale  ,  tosse 
fastidiosa,  la  vista  indebolita  (ambliopìa)  ,  ed  oltre 
a  questi  sintomi  un  fetore  ributtante  suigeneris  ema- 
nava dalla  superficie  del  coi'po. 

Trovato  adunque  in  questo  stalo  lagrimevole  il 
giovinetto,  conveniva  sollecitamente  soccorrerlo:  on- 
de è  che  prefissomi  a  ciò,  il  giorno  quattro  di  ot- 
tobre 1858,  unito  ai  chiarissimi  signori  doti.  Gheson 
e  Balestia,  praticai  alla  narice  desti'a  lo  strappa- 
mento (1)  di  un  polipo  situato  precisamente  a  mezzo 
la  cavità  della  narice,  fra  il  turbinalo  superiore  ed 
inferiore. 


(1)  Lo  strappamento  à  una  operazione  antichissima  per 
la  cura  dei  polipi.  In  vero  i  figli  d' Ippocrate,  cioè  Tessalo  e 
Bracone,  l'usavano,  come  Rtiasez  fra  i  greci,  G.  da  Salicelo 
nel  medio  evo:  vennero  appresso  Pare  e  Fabrizio  d'  Acqua- 
pendente. A  Dionis  in  epoca  molto  più  recente  si  deve  il 
perfezionamento  di  alcuni  strumenti  per  strappare  detti  tu- 
mori. Sliarp  inventò  le  morse-curve,  B.  Bell  immaginò  le  ta- 
nagliette  finestrate,  Ricther  ridusse  le  tanagliette  a  guisa  di 
forceps. 


142 

Per  l'eccessivo  dolore  il  Ceratogli  non  troppo  si 
prestava  all'operazione:  ma  stante  l'aiuto  dei  buoni 
colleghi,  i  quali  mi  reggevano  il  paziente,  tnentre  da 
me  venivano  fatte  torsioni  e  stiramenti  sul  polipo 
bene  afferralo  con  pinzette,  mi  riesciva  di  strapparlo 
col  suo  peduncolo. 

Questo  polipo  era  fibroso,  duro,  rosso  di  colo- 
re, appariva  levigato  ,  di  forma  quasi  pialla  e  del 
peso  di  un  ottavo  circa.  Poche  gocce  di  sangue  ag- 
grumato fluirono  dalla  narice  operala,  seguile  in  ap- 
presso da  abbondante  muco  denso  e  di  cattivo  odore. 
Terminata  l'operazione,  all'istante  il  respiro  divenne 
più  libero,  ed  il  malato  dormì  senza  russamento  per 
quattro  ore;  ma  la  masticazione  rimaneva  tuttora 
difficile  ,  persisteva  la  disfagìa  per  la  esistenza  di 
tre  polipi,  i  quali  otturavano  quasi  il  faringe,  ed 
alzavano  contra  il  palalo  1'  ugola,  quindi  ne  risulta- 
vano frequenti  conati  al  vomito.  Allora  là  rivolsi 
la  mia  attenzione,  ed  il  14  dello  stesso  mese  in  com- 
paguia  dell'ottimo  e  valente  mio  amico  professore 
Diego  Benignetti  coWescisione  (1)  li  tolsi. 


(1)  Allorquando  gli  antichi  si  decidevano  alla  escisione 
di  un  polipo,  adopravano  istrumenli  in  forma  dì  spattola  o 
di  forbici.  G.  Fabrizio  servivasi  di  una  pinzetta  terminata  da 
un  doppio  cucchiaio  tagliente.  Questo  strumento  venne  mo- 
dificato da  Glandorp,  Horn,  e  Solingen,  in  seguito  fu  adope- 
rato da  Dionis,  Perey,  e  da  B.  Bell.  Wathelx  poi  ha  riabili- 
tato per  questo  uso  il  bisturiinguainato  o  siringotomo.Saì.- 
l'esempio  però  del  Sacchi,  Ledran,  e  Levret,  i  moderni,  nei 
casi  in  cui  credono  di  trattare  i  polipi  colla  escisione,  si  ser- 
vono 0  di  forbici  curve  sul  piatto  a  lunghe  branche,  oppure 
del  bisturi  ordinario  bottonaio,  chiamato  tonsiUotomo. 


143 

Prima  con  un  lenzuolo  avvolsi  il  malato  situan- 
dolo seduto  avanti  di  me,  poscia  il  collega  sprreg- 
geva  il  capo  inclinandolo  alcun  poco  in  addietro,  e 
fissandolo  contro  del  suo  petto.  Colto  il  destro,  con 
una  forte  pinzetta  lunga  e  retta  affenai  il  primo 
polipo  portandolo  in  avanti  il  piiì  possibile,  mentre 
con  le  forbici, parimente  lunghe  e  lievevemente  curve 
nella  parte  tagliente,  con  un  solo  colpo  ne  escisi  il 
peduncolo.  Era  desso  qua  e  là  di  durezza  cartilagi- 
nea, e  nel  rimanente  fibroso,  di  forma  oblunga,  rosso 
carneo  di  colore,  e  mostravasi  esulcerato  nella  parte 
anteriore  ed  inferiore. 

Visto  lo  stalo  del  paziente  disposto  per  l'opera- 
zione degli  altri  due  polipi  faringei  rimasti  ,  collo 
stesso  metodo  la  praticai. 

Il  primo  di  questi  tre  pesava  due  scrupoli  e 
mezzo,  il  secondo  ed  il  terzo  uniti  acsieme  un  ot- 
tavo e  due  scrupoli:  questi  nei  loro  caratteri  fisici 
non  differivano  punto  dal  primo.  (!)• 

Eseguita  l'operazione,  onde  evitare  la  emorragia 
feci  praticare  gargarismi  astringenti  di  percloruro  di 
ferro  liquido  unito  all'  acqua.  Due  ore  circa  dopo 
l'operazione  venne  vomito  di  materie  siero-mucose 
striate  di  sangue  ,  del  peso  di  otto  once.  Per  tutto 
rimedio  mi  limitai  ad  una  misura  coniposta  di  ac- 
qua distillata  di  fiori  di  arancio,  acqua  di  cinnamomo 
lattiginosa,  e  sciroppo  di  alkermes:  così  scomparve 
il  vomito. 


(1)  Il  distintissimo  professore  Malagodi,  al  quale  li  feci 
vedere,  trovandosi  in  Roma,  li  giudicò  anch'esso  per  polipi 


fibrosi. 


La  fisonomia  del  paziente  dopo  dieci  giorni  dalla 
primaooperazione  si  ricompose,  il  colorito  si  fece 
naturale  ,  l'aspetto  si  rese  tranquillo  ,  tornarono  i 
sonni,  di  bel  nuovo  gustò  i  cibi,  e  distinse  gli  odori. 
In  questo  soddisfacente  stato  lo  vidi  fino  al  27 
dello  stesso  novembre;  nel  qual  giorno  si  riaffac- 
ciò la  epistassi  alla   narice  non  operata. 

Accorsi  appena  avvertito  dell'  accaduto  ;  mi  si 
presentò  il  Cerafogli  pallido  come  uno  spettro  e 
lutto  tremante.  Indagando  la  cagioue  di  questa  ul- 
tima emorragia,  rinvenni  nella  narice  un  altro  po- 
lipo che  all'istante  escisi.  Era  questo  di  colore  rosso 
vivo,  informe,  poco  consistente,  e  del  peso  di  mezzo 
scrupolo  circa. 

Eseguita  l'escisione,  l'emorragia  tuttavolta  segui- 
tava; allora  osservai  se  il  polipo  fosse  stato  bene 
csciso  ;  trovando  che  lo  era  ,  onde  porre  fine  alla 
cura  esterna  di  questo  schifoso  morbo  ,  mi  servii 
della  sonda  di  Belloq  per  tamponare  la  narice. 

A  preservarlo  poi  m  avvenire  per  quanto  era 
dato  dal  recidivare,  prescrissi  lo  sciroppo  di  ioduro 
di  ferro  del  Ruspini,  dal  quale  trasse  deciso  van- 
taggio. 

Or  sono  diciannove  mesi  dalla  operazione.  Il  Ce- 
rafogli ha  acquistato  alta  statura  e  buona  comples- 
sione godendo  perfettissima  salute. 


POLIPO    UTEIUNO 


La  signora  Anna  vedova  Girelli  romana,  di  tem- 
peramento linfatico  sanguigno,  nacque  di  madre  che 
morì  di  cancro  all'utero,  e  di  padre  che  fu  vittima 


di  affezione  calcolosa.  Nell'età  di  anni  sedici  fu  me- 
struata: coniugatasi  ,  fu  sterile;  nel  1829  soffrì  di 
pneumonite  acuta,  nel  1833  di  angina,  nel  1854  di 
grave  encefalite.  Nella  convalescenza  di  questa  ma- 
lattia il  curante  sig.  dottore  Petrucci  le  prescrisse 
cambiamento  di  aria.  Dessa  si  trasferì  a  s.  Gio- 
vanni di  Rimino.  Dopo  pochi  giorni  di  sua  dimora 
colà  ,  le  incominciò  una  palpitazione  alla  regione 
cardiaca  alquanto  incomoda  che  le  vietava  di  fare 
qualsiasi  cosa.  La  comparsa  dei  mestrui  fece  alleg- 
gerire i  palpiti  al  cuore:  però  quelli  si  protrassero 
a  diciannove  giorni  e  più  abbondanti  del  solito,  men- 
tre prima  regolarmente  di  otto  in  dieci.  Questo  flusso 
ripetevasi  nel  corso  di  tre  mesi  ben  nove  volte,  ma 
la  palpitazione  cardiaca  non  dava  pili  molestia,  e 
l'abbondante  atillicidio  sanguigno  non  arrecava  alla 
economia  notevole  danno. 

Sul  finire  del  novembre  1854  l'inferma  ripatrió. 
Appena  giunta  si  riaffacciarono  1  corsi  mensili  con 
regolarità  per  due  mesi  di  seguito  ;  ma  alla  terza 
ricorrenza  durarono  due  settimane  ,  e  dopo  undici 
giorni  di  tregua  apparve  decisa  metrorragia  con- 
giunta a  vari  grumi  sanguigni,  svenimenti,  cefalal- 
gia, dolori  agl'inguini,  annoresìa,  privazione  di  forze 
e  di  colorito. 

Allora  fu  che  ricorse  ai  medici  consigli.  Difatti 
uei  primi  del  mese  di  marzo  1855  il  sig.  dottore 
Augerò  le  prescrisse  alcune  pillole  (forse  astringenti), 
bibite  rinfrescanti  e  stiptiche,  neve  per  bocca,  in- 
iezioni, e  per  venti  giorni  il  latte  di  somarella.  Non 
veddendo  alcun  miglioramento  da  questa  cura,  il 
suUodato  curante  le  ordinò  la  cicuta  sotto  forma 
G.A.T.CLXVI.  10 


146 
pillolare  unita  alla  digitale,  e  poscia  i  bagni  di  mare 
Civitavecchia. 

Colà  fece  cinquanta  bagni,  e  ripatriò  senza  averne 
ritratto  profitto.  In  quel  tempo  volle  consultare  il 
eh.  sig.  dottore  Mucchieili.  Questi  per  oltre  quat- 
tro mesi  la  curò  prescrivondole  l'estratto  di  rata- 
nìa  sciolto  nell'aceto  (!  ?),  bibite  in  neve  di  limo- 
nala vegetabile  e  minerale,  non  che  sette  volte  le 
fece  ripetere  la  flebotomia. 

Ma  neanco  questa  cura  fu  ad  essa  di  sollievo, 
anzi  comparvero  nuovi  sintomi  ,  cioè  -  perdita  di 
sonno,  afonìa  ,  indebolimento  dell'organo  visivo  e 
dello  stomaco,  edema  ai  piedi,  convulsioni  epilet- 
tiche, e  dimagrimento  marcatissimo. 

Fu  in  queir  epoca  che  un  distinto  personaggio 
in  casa  del  sig.  comend.  Carenzi  tenne  meco  ragio- 
namento intorno  a  questa  infermità.  Considerata  la 
sua  narrazione  gli  esposi  che  tutto  poteva  essere 
cagionato  da  un  polipo  aWiUero-  Allora  egli  mostrò 
desiderio  che  io   visitassi  la  sofferente. 

Il  giorno  appresso,  unito  all'eccelmo  sig.  dottore 
Mucchieili,  mi  recai  dalla  malata.  Esso  mise  a  mia  co- 
gnizione Vanamnesì,  e  la  diagnosi  che  aveva  stabilita, 
cioè  emorragia  per  varici  neWiilero,e  la  cura  praticata. 

Dopo  avere  io  fatto  conoscere  al  distinto  curante 
che  potevasi  sospettare  di  polipo  all'utero  o  in  va- 
gina, gli  proposi  di  fare  uso  delia  esplorazione  tanto 
encomiata  dai  moderni  pratici  quale  unico  mezzo 
diagnostico  onde  conoscere  e  distinguere  le  ma- 
lattie dell'organo  della  ganerazione;  così  avrebbe  que- 
sta posto  in  chiaro  la  sua  diagnosi,  oppure  conva- 
lidalo il    mio  supposto. 


147 

L' eccelso  collega  rispondevamì  essere  questo 
tutto  di  spettanza  chirurgica;  e  che  per  ciò  mi  ce- 
deva l'inferma,  soggiungendo  «  in  questa  guisa  voi 
»   potrete  praticare  tutto  che  l'arte  meglio  vi  delta  ». 

Non  mi  dispiacque  l'idea  del  Mucchielli.  L' in- 
domani col  dito  esplorai  la  mia  nuova  cliente  ,  e 
m' avvidi  che  la  causa  della  metrorragia  non  era 
certo  ona  l'ance,  ma  bensì  un  grosso  polipo,  la  base 
del  quale  poggiava  sul  muso  di  tinca,  perchè,  come 
poscia  riscontrai,  il  suo  peduncolo  era  impiantato 
suir  alto  fondo  dell'  utero.  Non  contento  a  questo 
modo  di  esploraziune,  mi  valsi  pure  dello  speculum 
uleri  (1)  per  confermare  la  mia  daignosi.  Ed  in 
vero  lo  specuhim  mi  fece  vedere  la  bocca  dell'utero 


(1)  Questo  istrumento  era  conosciuto  fino  dalla  più  alta  an- 
tichità; gli  egiziani,  i  greci,  i  romani,  e  gli  arabi  ne  hanno 
data  la  descrizione  nelle  loro  opere.  Paolo  d' Egtna,  secondo 
Rondelet,  lo  chiamava  Sios-spa (diopera):  questo  aveva  due  val- 
vole che  per  mezzo  di  una  vile  si  ravvicinavano.  Parlano  pure 
di  uno  speculum  a  due  branche  Albucasis,  Franco,  A.  Pare,  e 
Scullet;  a  tre  ne  ha  descritto  uno  Garengeot.  Ma,  o  che  si 
pensasse  che  quest'  istrumenti  non  presentassero  una  grande 
utilità,  0  che  si  avessero  poche  occasioni  di  applicarli  a  ca- 
gione dei  pregiudizi  dell'epoca,  o  per  qualunque  altra  ragione, 
certo  è  che  erano  quasi  completamente  dimenticati,  quando  il 
sig.  />e-^ecamier  risolvette  di  rimetterli  in  pratica  dimostrando 
il  torto  nel  disconoscerne  tutta  l'utilità.  Egli  si  serviva  di  un 
tubo  di  stagno  lungo  6  pollici  e  mezzo  ;  Dupuytren  lo  ri- 
dusse a  4  e  mezzo;  Lisfranc  al  contrario  portò  la  sua  lun- 
ghezza ad  otto  pollici. 

Madama  Boivin  inventò  uno  speculum  composto  di  due 
mezzi  cilindri,  adottato  in  seguito  da  Jobert  e  Ricord.  Il  sig. 
Gnillon  e  Charrière  ne  inventarono  uno  a  tre,  ed  uno  a  quat- 
tro valvole:  finalmente  ad  otto  come  quello  di  Colombai  e 
Bertze. 


148 
aperta  in  modo  da  permettere  appunto  l'anLrala  di 
un  dito  ,  e  Io  sporgere  del  polipo  di  alcune  linee 
entio  la  vagina.  Eseguita  l'esplorazione,  ritirai  l'istru- 
mento,  tranquillizzando  la  cliente,  avvertendola  che 
r  indomani  mattina  le  si  sarebbe  tolto  dall'  utero 
un  tumore  fibroso. 

Le  grandi  perdite  di  sangue  che  essa  soffriva 
fino  dal  novembre  1854,  la  spossatezza  di  forze  in 
che  trovavasi,  la  qualità  di  operazione  che  doveva 
subire,  mi  davano  argomento  a  sospettare  di  pronta 
e  grave  metrorragia  non   facile  ad  arrestarsi. 

La  prudenza  consigliommi  a  farle  premettere  i 
religiosi  conforti:  e  la  mattina  appresso  18  genna- 
io 1855,  alle  ore  nove,  assistilo  dal  eh.  professore 
Venti  praticai  1'  escisione  del  polipo  nel  seguente 
modo. 

Prima  preparai  vari  globetti  di  sfili  pel  tampo- 
namento, un  lungo  schizzetto  per  iniezioni,  una  mi- 
stura astringente  di  perclorui'o  di  ferio  liquido  sciolto 
neir  acqua-  Indi  posi  la  operanda  alla  sponda  del 
letto  poggiandole  il  dorso  sopra  alcuni  cuscini,  due 
sue  amiche  le  reggevano  le  ginocchia  divaricate,  ed 
io  intanto  portavo  l'indice  della  sinistra  a  contatto  di 
quella  porzione  di  polipo  che    vidi  con  lo  speculum 

Oggi  due  sono  gli  speculum  più  adottati.  11  quadri-valve 
ed  il  cilindrico.  Il  primo  si  usa  colla  modificazione  di  yidal 
de  Cassis,  la  quale  consiste  nella  possibilità  di  togliere  a  pia- 
cere le  branche  dal  manico:  e  con  l'altra  di  Guillon  che  ag- 
giunse uu  imboccatura  ben  rotondata  e  levigata  di  ebano  o 
bosso  onde  facilitare  la  introduzione. 

Galenzowki  \)o\,])e.r  il  suo  speculum  a  cilindro,  o  di  avo- 
rio 0  di  metallo,  fa  uso  della  modificazione  di  Guillon,  il  quale 
r  attribuiva  a  madama  Boivin. 


149 

uteri;  poscia,  presa  colla  mano  destra  la  pinzetta  di  Mu* 
saux,  rinolliavo  guidandola  sul  dito  già  introdotto) 
verso  il  polipo.  Appena  toccai  col  detto  ferro  il  tumo- 
re, nello  stesso  tempo  che  io  lo  spingeva  in  alto,  a 
mano  a  mano  aprivo  la  pinzetta  per  afferrarlo.  Con- 
seguito questo,  affidai  alla  destra  dell'assistente  la 
pinzetta  avvertendolo  di  piegarla  alquanto  a  sinistra. 
Frattanto  introdussi,  coli'  opposta  mano,  nell'utero 
lunghe  forbici  leggermente  ricurve  nel  tagliente,  gui- 
dandole sempre  sul  mio  dito.  Fatto  ciò  ripresi  colla 
mano  sinistra  dal  collega  l'istrumento  affidatogli  e  con 
questo  tirando  in  basso  il  polipo  rotolandolo  sopra  sé 
stesso  con  animo  di  rintracciare,  con  le  forbici,  più  fa- 
cilmente il  suo  peduncolo:  alla  perfine  rinvenuto,  Io 
intei'posi  fra  il  tagliente  delle  stesse  forbici  e  con  un 
sol  colpo  lo  escisi  (1). 


(1)  Nella  icononrafia  di  medicina  operatoria  dal  dottor 
Bourgery  in  riguardo  alla  escisione  del  polipo  all'utero  si  ri- 
scontra quanto  appresso  : 

«  Quantunque  questa  operazione,  in  cui  si  tratta  di  portare 
il  tagliente  in  un  punto  ove  l'occhio  non  può  penetrare,  sia  tal- 
mente ardita  che  anco  al  presente  con  tutti  i  mezzi  di  esplo- 
razione posseduti  dall'  arte,  molti  chirurgi  non  sf  azzardano 
ancoraci  eseguirla,  sembra  nondimeno  che  essa  sia  stata  una 
delle  più  anticamente  praticate.  Filoteno  ,  Aezio ,  Moschione 
presso  gli  arabi  raccomandavano  l'escisione  di  quello  che  chia- 
mavano f^cre^cmza  varicosa  o  omorroiclale  dell'utero.  Nel  XVI 
secolo  (1570)  Fabrizio  di  Acquapendente  non  solamente  pra- 
ticava l'escisione,  ma  la  maniera  colla  quale  egli  precedeva, 
prova  quanto  poco  temesse  la  emorragia.  Dopo  di  lui  Tulp  (1641) 
riferisce  altri  fatti  di  escisione,  ma  è  cosa  evidente  che  divengo- 
no sempre  più  rari.  Lapeyronie  (170S)  non  osa  escidere  i  polipi, 
se  non  che  quando  sono  situati  fuori  della  vulva.  Ilerbiniaux, 
più  ardito,  comincia  a  praticare  più  profondamente  l'escisione, 
e  la  porta  con  successo  lino  nella  cavità  uterina.  Ma  lungi 
che  il  suo  esempio  Tenga  seguitato,  questa  operazione  sem- 


150 

La  sua  forma  assomigliava  ad  una  pera,  bianco 
grigio  n'era  il  colorito,  e  scorgevasi  in  esso  una  rete 
di  fibre  mirabilmente  intersecate  (vero  polipo  fi- 
broso), ed   il  peso  corrispondeva  a  tre  once  scarse. 

Eseguita  l'operazione  si  vide  in  copia  dal  dotto 
vaginale  sgorgare  sangue  liquido  ed  in  grumi;  al- 
l'istante iniettai  dell'acqua  fredda,  indi  con  globetti 
bene  imbevuti  nella  soluzione  di  percloruro  di  ferro 
procedei  al  tamponamento,  cbe  poi  al  quinto  giorno 
rimossi.  Poche  ore  dopo  esplorando  la  bocca  del- 
l'utero la  trovai  allo  stato  normale. 

Ricomparvero,  scorsi  settanta  giorni  ,  le  me- 
struazioni che  fino  ad  oggi  si  mantengono  regolari 
ed  abbondanti.  Or  souo  di  già  tre  anni  dalla  ope- 
razione, e  la  signora  Girelli  non  ebbe  più  nulla  a 
soffrire:  per  la  qual  cosa  tutto  porta  a  credere  che 
la  guarigione  sia  stata  radicale.  A  modo  però  di 
precauzione  in  ogni  estate  fa  uso  dallo  sciroppo 
depurativo  del  Lanza  unito  al  ioduro  di  ferro,  e  dei 
bagni   marittimi. 

Esposti  questi  due  fatti  clinici,  ed  il  trattamento 
contrapposto,  verrò,  come  promisi,  a  narrare  succin- 
tamente i  vari  metodi  di  cura  dei  polipi  usati  da- 
gli antichi  fino  a  noi  ,  tanto  rispetto  a  quelli  del 
naso,  che  a  quelli  dell'utero. 


bra  abbondonala  dai  chirurgi  dell'ultimo  secolo,  sempre  per 
il  timore  della  emorragia.  Ai  nostri  giorni  Boyer  rimise  un'al- 
tra volta  in  pratica  q-iesta  escisione  con  buon  successo.  Du- 
puytren,  appoggiandosi  sopra  l'anatomia  patologica  e  sopra  un 
grande  numero  di  operazioni  da  lui  eseguite  cou  successo,  ha 
fallo  ogni  sforzo  onde  venisse  adottata  come  metodo  gene- 
rale. 


151 

Se  vadasi  all'origine  di  curare  i  polipi  delle  fosse 
nasali  possiamo  essere  convinti,  che  gli  antichi  non 
solamente  conoscevano  tutti  i  melodi  usati  ai  giorni 
nostri  ,  ma  distinguevano  ancora  con  precisione  i 
casi,  nei  quali  l'uno  o  l'altro  metodo  meritava  di 
essere  preferito.  Ippocrate  traccia  pel  primo  la  di- 
stinzione dei  polipi  molli  e  dtiri,  descrive  Vallaccia- 
tara  pei  molli  ,  col  ferro  candente  distrugge  i  se- 
condi. La  scuola  alessandrina  perfeziona  questi  due 
metodi,  insiste  principalmente  per  la  cauterizzazione, 
ed  inventa  un  grande  numero  di  composizioni  cau- 
stiche ed  essiccative;  di  qui  nacque  il  modo  di  cu- 
rare i  polipi  per  essiccazione.  Pili  tardi  si  moltiplicò  il 
numero  dei  caustici,  e  la  cauterizzazione  era  quasi 
esclusivamente  posta  in  uso  da  Archigene,  Galeno, 
Aezio,  Alessandro  di  Tralles,  e  Giovanni  Attuario,  i 
quali  vantano  ciascuno  un  numero  grande  di  ri- 
medi cateretici.  Paolo  d'  Egina  inventò  un  istromento 
particolare  nomato  xnaB^ag  nolvntog  [apateos  polipeos) 
munito  ad  una  delle  sue  estremità  di  uno  scarpello 
destinato  ad  escidere  i  polipi  duri  ,  perchè  questo 
autore  siserbava  la  cauterizzazione  per  quelli  di  cat- 
tivo carattere;  del  rimanente  descrive  l'allacciatura 
appuuto  come  si  trova  nei  libri  ippocratici.  Gli  arabi 
aggiungono  poco  a  quello  che  averano  insegnato  i 
greci;  soltanto  Rhesez  pratica  lo  strappamento  del 
polipo  passando  un  ansa  di  filo  intorno  alla  sua 
base.  Più  tardi  questo  esimio  chirurgo  propone  di 
segare  il  polipo  con  un  filo  guarnito  di  nodi.  Quasi 
tutti  gli  scrittori  del  medio  evo  si  contentavano  di 
ripetere  ciò  che  avevano  trovato  nei  greci.  Non  è 
che  al  secolo    XVI    che  incominciò    il  perfeziona- 


152 
mento.  Aranzio  inventa  una  pinzetta  con  lunga  branca 
per  lo  strappamento.  Falloppio  alla  sua  volta  mo- 
difica Vallaccialura  ed  immagina  il  serra-nodi;  sosti- 
tuisce pure  un  filo  metallico  ai  fili  di  lino  d'  Ip- 
pocrate.  Poscia  Bruno  e  Gechlin  vantano  gli  effetti 
del  setone  e  degli  esntori,  i  quali  erano  di  già  con- 
sigliati dagli  antichi  e  dagli  arabi.  Manne,  chirurgo 
di  Avignone,  propone  di  fendere  il  velo  del  palato 
nei  casi  in  cui  il  polipo  sia  situato  talmente  in  ad- 
dietro, che  non  possasi  raggiungerlo  né  per  la  parte 
del  naso,  nò  della  bocca. 

CENNI    STORICI    DEI    POLIPI    UTERINI. 

I  polipi  dell'  utero  erano  poco  conosciuti  dagli 
antichi:  essi  li  confondevano  con  delle  malattie  ben 
differenti.  Aspasia  di  fatti  li  considerava  come  tu- 
mori, diceva  essa,  nascono  ora  sul  collo  ,  ora  nei 
fondo  della  matrice,  di  rado  esternamente:  si  esci- 
dono  senza  timore  quando  sono  bianchi  e  duri:  si 
legano  invece  quando  sono  disposti  a  sanguinare. 
Moschione  li  designò  pel  primo  sotto  il  nome  di 
polpi  0  polipi  nel  suo  trattato  De  mulieriim  affec- 
tibus  1566.  Guillemeau,  e  scolaro  di  A. Pare,  ne  dà  una 
descrizione  bastantemente  esatta.  Nulladimeno  per 
avere  precisione  sopra  questo  infermità  bisogna 
giungere  al  XVIII  secolo  e  principalmente  a  Le- 
vret,  che  ne  ha  molto  illustrata  Yetiologia,  il  diagno- 
stico ed  il  trattamento.  Successivamente  un  grande 
litujpero  di  distinti  medici,  fra  i  quali  si  possono  ci- 


153 

tare  Desanlt  (I),  Bichat  (2),  Ronx  (3),  Hervez  de 
Cbegoin  (4),  Dupuytren  (5),Gerdy  (6),  Duges  (7),  Co- 
lombai (8)  ne  hanno  egualmente  fatto  il  soggetto 
delle  loro  meditazioni  e  del  loro  lavori,  di  ma- 
niera che  al  presente  è  questa  una  delle  ifffezioni 
bene  conosciute  sotto  il  triplice  aspetto  di  Anato- 
mia patologica,  della  diagnosi  e  del  loro  trattamento 

(1)  Opere  chirurgiche  tomo  II. 

(2)  Memorie  della  società  medica  di  emulazione  tomo  IL 

(3)  Miscellanea  di  chirurgia. 

(4)  Giornale  generale  di  medicina  1827. 
(4)  Clinica  chirurgica. 

(6)  Dei  polipi  e  loro  trattamento  1833. 

(7)  Alali  dell'utero. 

(8)  Mali  delle  donne. 


154 


Sulla  origine  dell'acidità  in  alcuni  prodoUi  morbosi. 
Osservazioni  del  prof.   Carlo  Maggiorani. 


l 


Ja  prevalenza  acida  o  alcalina  de'  nostri  umori 
così  nello  slato  sano  come  nel  morboso  ha  sempre 
eccitalo  la  curiosità  dei  medici,  e  più  specialmente 
dopo  i  lecenti  progressi  della  chimica,  e  i  maggiori 
diritti  da  essa  affacciati  nella  interpretazione  dei  fe- 
nomeni organici-  La  fisiologia  si  è  giovata  a  suo 
luogo  delle  notizie  raccolte  su  tale  argomento;  ma 
quelle  che  si  possiedono  finora  dai  patologi  non  sono 
così  numerose  ,  né  tanto  ordinate  da  riuscire  ad 
utili  applicazioni.  Nel  desiderio  di  contribuire  per 
la  mia  piccola  parte  all'aumento  di  questa  dottrina 
presento  oggi  all'accademia  due  osservazioni  di  acida 
provalenza,  che  non  mi  sembrano  vane,  tanto  più 
che  collimano  al  punto  medesimo. 

La  prima  osservazione  riguarda  l'intonaco  della 
lingua.  E  noto  come  in  alcuni  individui  la  superficie 
superiore  di  quest'organo  sia  abitualmente  spalmata 
di  una  vernice  biancastra  e  cenericcia,  la  quale  è 
più  cospicua  e  più  densa  a  stomaco  digiuno,  e  prima 
che  siansi  fatte  le  solite  pulizie  della  bocca.  Tali 
persone  a  rigor  di  termine  non  sono  ammalate,  e 
presentano  anzi  1'  aspetto  della  più  florida  sanità  : 
tuttavia,  se  ben  vi  si  attenda,  vedrassi  come  in  alcuni 
offrasi  pigra  la  pelle  ne'  suoi  atti  di  eliminazione,  in 
altri  proceda  stentatamente  il  processo  della  dige- 
stione ,    ove  il  cibo  non  sia  leggerissimo  ;  in   certi 


155 

la  bile  si  segreghi  in  copia  maggiore  dell'ordinario, 
in  certi  altri  ascondasi  la  diatesi  podagrosa  die  non 
ha  ancor  fatto  la  sua  esplosione.  Varie  polendo  es- 
sere le  condizioni,  alle  quali  collegasi  l'intonaco  su- 
burrale  della  lingua,  è  chiaro  come  diversa  ne  possa 
anch'essere  la  natura.  Ed  infatti  io  mi  sono  imbat- 
tuto in  una  di  queste  panie  linguali  che  abbondava 
oltremodo  di  un  acido  grasso,  e  di  tal  corpo  non 
fa  menzione  alcono  degli  auloi-i,  che  hanno  esami- 
nato l'intonaco  in  questione.  11  quale  alle  indagini 
microscopiche  otfrì  cellule  dell'epitelio  e  vibrioni  in 
gran  numero;  ai  processi  analilici  cede  muco  e  fos- 
fato calcico  e  carbonato  della  stessa  base;  ma  so- 
stanze grasse,  per  quel  eh'  io  mi  sappia,  non  mai. 
L' intonaco  invece  che  tolsi  ad  esaminare,  procu- 
l'atomi  raschiando  con  apposito  e  netto  ordigno  di 
tartaiuga  la  lingua  di  un  individuo  digiuno,  e  ap- 
pena risveglialo,  mostrava  una  distinta  reazione  acida, 
e  ai  più  semplici  esperimenti  indicava  la  presenza 
di  una  quantità  notabil  di  glasso.  Imperocché  que- 
sta pania  introdotta  in  un  tubo  di  vetro  con  alcool 
puro,  e  questo  scaldato,  ottenevasi  colla  evapora- 
zione del  liquido  filtrato  un  deposito  bianchiccio  e 
untuoso.  Tale  deposito  veniva  trattato  coll'etere  lim- 
pido, e  fatto  evaporare  spontaneamente  lasciava  una 
patina  untuosa  che  non  s'  inumidiva  per  aggiunta  di 
acqua,  fondevasi  a  lieve  colore,  e  fusa  imprimeva 
sulla  carta  bianca  una  macchia  giallognola,  diafana  e 
persistente. Trattandoquesla  patina  con  ammoniaca  di- 
luta formavasi  un  liquido  leggermente  opalino, il  quale 
aggiungendovi  una  soluzione  di  cloruro  di  sodio  la- 
sciò deporre  dei  fiocchetti  bianchi.  Esisteva  dunque 


156 

nell'inlonaco  suddetto  una  materia  grassa  ,  e  pro- 
babilmente l'acido  butirico;  poiché  saponificata  colla 
potassa,  e  trattata  con  acido  solforico  allungato,  of- 
friva alla  distillazione  un  prodotto  che  reagiva  da 
acido,  e  che  rammentava  l'odore  del  burro  rancido. 
Questi  esperimenti  furono  ripetuti  pili  volte,  sotto 
circostanze  diverse  di  alimentamento  dell'individuo 
che  somministrava  la  pania  linguale,  e  sempre  coi 
medesimi  effetti. 

Qual  è  l'origine,  quale  il  significato  di  cotesto 
acido  grasso  nell'intonaco  della  lingua  ?  Serve  esso 
di  mezzo  ad  iniziare  le  trasformazioni  del  bolo  ali- 
mentare, 0  impastato  con  questo  contribuisce  a  fa- 
vorire la  fermentazione  stomacale  ?  Ovvero  la  na- 
tura lo  ha  destinato  a  lubricare  le  vie  della  deglu- 
tizione ?  Ma  in  tali  casi  la  presenza  di  tal  mate- 
ria grassa  dovrebbe  esser  costante  ;  ciò  che  non 
sembra  avverarsi.  Sarebbe  essa  stessa  un  prodotto 
di  fermentazione  de'  rimasugli  del  cibo  ?  Ma  al- 
lora una  più  studiata  nettezza  della  bocca  innanzi 
di  coricarsi  avrebbe  dovuto  impedirne  la  forma- 
zione: ciò  che  non  fu  confermato  dalla  esperienza. 
Farmi  piij  verisimile  che  trattisi  di  una  secrezione 
yicaiia.  È  noto  che  un  acido  grasso  fa  parte  della 
materia  secreta  e  traspirata  dalla  pelle:  ove  adun- 
que r  organo  cutaneo  non  si  presti  con  sufficiente 
energia  alla  sua  opera  di  eliminazione  organica,  vi 
suppliranno  le  membrane  mucose,  segregando  gli 
stessi  materiali  che  avrebbe  dovuto  secerner  la  pelle, 
e  con  lo  stesso  fine  di  spogliare  il  corpo  delle  par- 
ticelle rese  inabili  a  vivere. 


157 

La  seconda  osservazione  si  riferisce  alla  reazione 
acida  degli  escreati  nella  consunzion  polnnonale.  La 
deplorabi!  frequenza  di  tal  malattia  mi  ha  offerta 
occasione  di  verificare  spesse  volte  un  tal  fatto:  cioè 
che  in  periodo  avanzato  della  medesima  le  carte  di 
tornasole  stropicciate  sui  ridetti  escreati  arrossano 
prontamente,  e  di  un  colore  sì  carico,  come  se  fos- 
sero immerse  in  un  acido  minerale.  La  reazione 
acida  degli  sputi  fu  già  veduta  da  Reale  nella  pneu- 
monito  passata  in  epatizzazione,  e  attribuita  ad  un 
eccesso  relativo  dell'acido  del  polmone.  Altri  nota- 
rono la  reazione  acida  degli  escreati  nella  bron- 
chite, e  la  riferirono  alla  presenza  di  un  acido  gras- 
so. A  me  parve  che  l'arrossamento  delle  carte  ne- 
gli sputi  dei  tisici  fosse  troppo  pronto  e  vivace  per 
asscgnaigli  tale  origine  ,  e  venni  in  sospetto  che 
nelle  caverne  polmonari  le  lacinie  della  materia  oi- 
ganica  facessero  l'officio  di  coi-pi  porosi,  che  a  con- 
tatto dell'  aria  atmosferica  desseio  campo  ad  una 
specie  di  nitrifìca/ione;  ma  le  esperienze  istituite  in 
proposito  esclusero  totalmente  la  presenza  dell'acido 
nitrico.  Ho  potuto  invece  assicurarmi  che  la  rea- 
zione acida  di  questi  escreati  dipende  dall'esistervi 
un  bifosfato.  Ed  infatti  diluiti  gli  sputi  in  sufficiente 
quantità  di  acqua  distillata  ,  coagulatane  la  parte 
albuminosa  colla  ebullizione,  concentrato  il  liquido 
e  correttane  l'acidità  colla  potassa,  se  ne  ottennero 
reazioni  bastanti  a  segnalarvi  la  presenza  di  nn  fos- 
fato solubile.  Coir  aggiunta  cioè  del  nitrato  di  ba- 
rite inducevasi  un  precipitato  bianco  abbondantis- 
simo, e  con  quella  di  limpidissima  acqua  di  calce 
risultavano  pure  un    precipitato  bianco  insolubile  ; 


158 
ciò  che  escludeva  1'  acido  idroclorico  e  il  lattico 
quali  cagioni  possibili  della  rea/ione  acida  ,  come 
quelli  che  formano  sali  solubili  colla  calce.  La  de- 
cozione suddetta  di  sputi  trattata  con  qualche  goc- 
cia di  nitrato  d'argento  offriva  un  copioso  precipi- 
talo che  si  divideva  in  due  strali,  uno  bianco  avente 
origine  dei  cloruri  degli  escreati  ,  1'  altro  color  di 
paglia  prodotto  dall'acido  fosforico.  Una  porzione 
di  sale  precipitato,  cioè  il  cloruro  d'argento,  scio- 
glievasi  neir  ammoniaca,  l'altra  vi  era  irresolubile 
e  scioglievasi  invece  nell'acido  nitrico.  Questa  so- 
luzione nitrica  allungata  precipitava  in  bianco  per 
aggiunta  di  qualche  goccia  di  percloruro  di  ferro. 
Le  predette  reazioni,  comprovanti  negli  escreati  in 
questione  la  presenza  di  un  fosfato  solubile,  si  ot- 
tengono egualmente  allorché  questo  morboso  pro- 
dotto sia  stato  esaurito  prima  coU'etere.  Vi  si  con- 
serva la  qualità  acida,  e  vi  seguono  le  stesse  pre- 
cipitazioni colla  barite,  colla  calce  e  col  nitrato  di 
argento,  quantunque  siasene  estratta  la  materia  gras- 
sa, e  questa  in  copia  notabile.  Dee  credersi  infine 
che  trattisi  del  fosfato  acido  di  calce,  se  dimostrata 
la  presenza  di  un  fosfato  solubile  con  gli  oppor- 
tuni reagenti ,  rinvenutavi  la  calce  coH'ossalato  di 
ammoniaca,  eliminate  le  altre  origini  dell'acidità,  si 
prenda  anche  a  calcolo  le  umidità  in  che  si  man- 
tengono per  lungo  tempo  essi  sputi,  dovuta,  per 
quel  che  sembra,  alla  nota  qualità  igrometrica  di 
quel  sale. 

La  prefata  osservanione  della  esistenza  di  un 
fosfato  acido  negli  escreati  dei  tisici  in  periodo  inol- 
trato di  malattia  potrebbe  essere  interpretata  colla 


159 
seguente  teoria.  L'azione  piià  rimarchevole  dei  fos- 
fati sui  gas  delia  respirazione  consiste  nell  'assor- 
bimento del  gas  acido  carbonico  in  virili  di  affi- 
nità chimica  che  si  aggiunge  alla  forza  dissolvente. 
E  noto  poi  che  gli  acidi  ancorché  deboli  hanno  la 
facoltà  di  sottrarre  ai  sali  neutri  o  basici  una  por- 
zione del  loro  ossido,  col  quale  essi  combinansi.  Il 
sale  neutro  alla  sua  volta  diviene  acido.  Ove  adun- 
que nel  polmone  sian  già  depositi  di  materia  or- 
ganica contenente  fosfati  alcalini  e  terrosi  può  av- 
venire che  l'acido  carbonico  sottragga  porzione  della 
soda  e  della  calce  ai  fosfati  di  queste  basi  conver- 
tendoli in  fosfati  acidi,  e  dando  luogo  alla  forma- 
zione dei  carbonati.  Quindi  la  produzione  del  carbo- 
nato di  soda,  il  quale  colla  suaazion  dissolvente  favo- 
risce la  fusione  tubercolare, e  la  origine  di  fosfati  acidi 
alti  a  spiegare  la  potenza  acre  e  corrosiva  sulle 
parti  in  cui  si  producono,  o  su  quelle  per  le  quali 
transitano. 

Questa  teoria  va  d'accordo  col  noto  fatto  che 
l'angustia  dell'  abitazione  sta  fra  le  cause  più  effi- 
caci della  consunzion  polmonale.  Ed  in  fatti  per  tal 
cagione  non  solo  difetta  all'uomo  per  njolte  ore  il 
pabulo  necessario  del  sangue,  ma,  per  le  note  leggi 
dello  scambio  dei  gas,  s' impedisce  anche  all'acido 
carbonico  prodotto  dalle  decomposizioni  oi'ganiche 
di  esalare  liberamente  al  di  fuori  ;  sicché  questo 
gas  debba  accumularsi  nelle  ultime  diramazioni  deU 
l'arteria  polmonale,  e  favorire  la  genesi  dei  fosfati 
acidi. 

Dalia  presenza  di  fosfati  acidi  ,  e  dalla  cogni- 
zione della  facoltà  acre  dei  medesimi  viene  illustrata 


160 

la  vastità  delle  corrosioni  nelle  caverne  del  polmo- 
ne, assai  meglio  che  noi  sia  col  semplice  processo 
flogistico.  La  teoria  può  anzi  allargarsi  a  molti  altri 
casi,  in  cui  i  tessuti  organici  si  esulcerano  profon- 
damente, senza  che  il  mero  fenomeno  dell'inflam- 
mazione  ne  illustri  a  bastanza  il  processo.  Basta 
che  allato  dei  fosfati  neutri  svolgasi  un  acido  li- 
bero: sia  il  butjrico,  o  il  lattico,  o  l'urico  o  qua- 
lunque altro,  perchè  diasi  luogo  all'eccesso  di  acido 
fosforico  nei  predetti  sali,  e  possano  per  conseguenza 
manifestarsene  gli  effetti  acri  e  corrosivi.  Così  se 
l'intonaco  delia  lingua,  come  fu  esposto  di  sopra  , 
contiene  ad  un  tempo  e  fosfati  e  un  acido  grasso, 
non  dovremo  maravigliare  se  in  circostanze  favo- 
revoli alla  loro  scambìevol  reazione  erompano  ul- 
cerazioni nella  muccosa  della  bocca,  quantunque  nel- 
l'universale non  esistano  indizi  di  una  discrasia  del 
sangue. 

Non  sapendo  militare  sotto  le  insegne  di  Lea- 
big,  di  Lehmann,  di  Moleschott,  che  intendono  can- 
cellare la  forza  vitale  dal  novero  delle  potenze  della 
natura  ,  sottoponendo  ogni  fenomeno  organico  al- 
l'impero delle  forze  fisiche  e  chimiche,  stimo  però 
che  esse  debbano  accogliersi  come  cittadine  nel  re- 
gno della  vita,  e  accettarne  volentieri  1'  aiuto,  ove 
ci  prestino  una  lodevole  interpretazione  dei  fatti  che 
avvengono  nell'organismo  vivente. 


161 


Dichiarazione  del  salmo  CUI  intorno  aWEsamerone 
Mosaico.  Discorso  lello  alla  ponti(ìcia  accademia 
Tiberina  dal  R.  P.  G.  B.  Pianciani  della  C.  di 
Gesù. 


le  rimembranze  di  notevoli  avvenimenti,  rivestite 
di  ammanto  più  o  meno  poetico,  furono  le  prime 
poesie  degli  antichi  popoli.  Non  poteva  tra  i  me- 
morandi avvenimenti  esser  dimenticato  il  più  grande, 
quello  senza  il  quale  niun  altro  avrebbe  avuto  luogo, 
e  che  perciò  in  ogni  tempo  ha  destala  la  umana  cu- 
riosità. Voglio  dire  il  cominciar  delle  cose,  la  crea- 
zione del  mondo. 

E  dicendo  creazione,  in  questo  luogo  intendo  non 
tanto  la  creazione  nel  più  stretto  senso  ,  il  primo 
esistere  delle  creature  ,  il  venir  tratte  le  cose  dal 
nulla,  ossia  dalla  non  esistenza  attuale,  dallo  stato 
di  mera  possibilità.  Questo  gran  fatto  fu  troppo  di- 
menticato dalle  genti  ed  ignorato  da  coloro  che  in- 
dagar pretendevano  1'  origine  delle  cose  :  altronde 
un'  opera  tutta  soprannaturale,  il  comando  dell'  On- 
nipotente compiuto  in  un  attimo,  meno  per  avven- 
tura si  acconciava  a  descrizioni  ed  ornamenti  poe- 
tici. 

Parlo  principalmente  di  ciò  che  alquanti  appel- 
lano creazione  seconda,  vale  a  dire  della  formazione 
ed  ordinazione  del  mondo,  ossia  della  serie  di  opera- 
zioni, che  succedevansi  dalla  prima  chiamata  delle 
creature  all'  esistenza  fino  al  compiersi  dell'  opera 
G.A.T.CLXVI.  11 


162 

del  Creatore,  di  ciò  che  chiamiamo,  quantunque  men 
propriamente,  i  giorni  della  creazione,  e  spesso  con 
greca  voce  1'  Esamerone  Mosaico. 

I  gentili  poco  ci  hanno  lasciato  e  troppo  misto 
di  favole:  nò  il  politeismo  era  punto  opportuno  ad 
introdurre  unità  e  bellezza  in  tanta  moltiplicità  e 
varietà  di   cose. 

II  cristianesimo,  rendendo  popolare  ed  univer- 
sale il  monoteismo,  e  diffondendo  per  tutto  il  globo 
le  tradizioni,  confidate  dapprima  soltanto  ai  figliuoli 
d'  Israele,  diresse  gì'  ingegni  a  questo  alto  e  nobil 
tema.  Molti  troviamo  ditatti  intorno  ad  esso  occu- 
pati nelle  moderne  letterature.  Lasciando  da  parte 
pochi  versi  di  qualche  vecchio  e  poco  colto  verseg- 
giatore, ed  omettendo  ancora  il  tratto  sublime  (ma 
alquanto  oscuro)  filosofico-teologico  dell'  Alighieri 
nel  e.  29  del  Paradiso,  il  Tasso  consacrò  le  ultime 
sue  fatiche  a  questo  alto  e  nobilissimo  argomento, 
e  dettò  intorno  ad  esso  un  intero  poema,  diviso  in 
sette  canti,  o,  come  ei  chiamolli,  giornate  {Le  selle 
giornale  del  mondo  creato)  (1).  In  questo  poema  , 
il  quale  ,  qualunque  ne  sia  la  cagione,  non  molto 
aumentò  la  gloria  dell'  illustre  autore,  questi  s' in- 
nalza al  di  là  dei  principio  del  tempo,  alla  contem- 
plazione dell'  Eterno  ed  Uno,  non  solitario  nella  sua 
maestosa  unità,  mentre  era  De'  suoi  pensali  inondi 
allo  monarca:  tocca  della  augustissima  Triade,  e  sul- 
l'orme de' sacri  testi  de' Proverbi  e  dell'Ecclesiastico, 


(1)  La  prima  edizione  sembra  quella  di  Viterbo  del  1607 


163 

della  divina  sapienza,  per  cui  lutto  fu  fatto.  Viene 
poi  all'attuarsi  del  divino  decreto  : 

«  Già  di  quel  che  ab  eterno  in   se  prescrisse 

»  Dio,  che  è  senza  principio   e  senza  fine, 

))  Kra  giunto  il  principio,  e  giunto  il   tempo 

»  Col  principio  del  tempo;  » 

e  il  tempo  esce  dall'eternità: 

.    qual  di  gorgo 
»  0  di  pelago  pur  tranquillo  ed  alto, 
»  Che  senza  'I  moto  e  l'onde  e  posi  e  stagni, 
»  Esce  talvolta   il  rapido  torrente  ». 

E  qui,  indagata  la  cagione  ed  il  fine  della  creazione, 
entra  a  stesamente  ed  ordinatamente  narrarla,  se- 
guendo fedelmente  le  orme  del  legislatore  israelita, 
tutto  descrivendo,  adornando,  e,  come  meglio  po- 
teva ,  spiegando  ,  ed  a  ciò  chiamando  in  aiuto  le 
scienze  soprannaturali  e  le  naturali  (qualunque  si 
fosse  il  soccorso  che  queste  potevano  somministrar- 
gli), equa  e  là  adorna  il  suo  racconto  di  belle  ri- 
flessioni morali. 

Pretermetto  il  lungo  poema  del  Mortala  intorno 
allo  stesso  argomento,  come  pure  1'  Esamerone  ovve- 
ro Vopera  dei  sei  giorni  di  Felice  Passero,  e  V Adamo 
ovvero  il  Mondo  creato  di  Tommaso  Campailla. 

Non  senza  lode  toccarono  l'alto  soggetto  il  Men- 
zini  nel  suo  Paradiso  terrestre,  Giuseppe  Cotta  nel- 
r  Adamo,  e  il  Pellegrini  nel  poemetto  De'  cieli. 

Ma,  convien  confessarlo,  la  fama  e  la  gloria  di 


164 

questi  poemi  fu  eeclìssala  dall'alta  fantasia  dell'in- 
glese Milton. 

E  difficile  immaginare  qualche  cosa  piij  sublime, 
magnifica  e  veramente  poetica  del  racconto  della 
creazione  che  1'  angelo  Raffaele  fa  ad  Adamo  nel 
Paradiso  per  dillo.  Soltanto  la  sua  immaginazione  corre 
taloia  troppo  libera  e  sfrenata.  Ma  di  ciò  si  dee,  io 
penso,  principalmente  la  colpa  allo  sconvolgimento 
delle  idee  religiose,  che  si  era  fatto  nella  sua  pa- 
tria. 

Forse  più  confacente  alla  nostra  debolezza,  e  al 
gran  rispetto  dovuto  e  all'  opera  e  alle  parole  del 
Creatoi'e,  è  il  celebrarne  con  brevi  inni  e  cantici  il 
sublime  lavoro,  che  non  osare  partitamente  descri- 
verlo. 

Non  saprei  se  per  tal  motivo  ,  e  forse  ancora 
per  isfuggire  il  pericoloso  confronto  col  Milton,  più 
non  appaiono  nei  tempi  più  recenti  poemi  intorno 
alla  creazione;  ma  non  mancano  brevi  lirici  compo- 
nimenti, fra  i  quali  alcuni  degni  di  non  poca  lode(l). 

Ma  lasciamo  i  moderni,  de'  quali  non  mi  pro- 
poneva di   parlare. 

Se  gli  antichi  poeti  profani  non  potevano  in 
mezzo  alla  loro  assurda  mitologia  trattar  degna- 
mente questo  soggetto,  non  è  da  dire  lo  stesso  do- 
gi' ispirati  poeti  israeliti.  La  loio  sacra  poesia,  ve- 
dendo per  tutto  il  creatore  e  conservatore  delle 
coso,  era  più  di  ogni  altra  atta  ad  un  argomento, 
in  cui  a  somma  varietà  dee  congiungersi  l'unità  più 
perfetta. 


(1)  V.  Lanzonì,  Sidl'uso  filologico  della  sacra  Bibbia  L.  I 
e.  3.  Mantova  1852. 


lt>5 

Udiamo  ciò  che  ne  dico  il  celebre  Alessandro 
di  Humboldt  : 

«  Uno  de'  caratteri,  i  quali  distinguono  la  poe- 
sia della  natura  presso  gli  ebrei,  è  che,  riflessa  dal 
monoteismo  ,  essa  abbraccia  sempre  il  mondo  in 
una  imponente  unità,  comprendente  ad  un  tempo 
e  il  globo  terrestre  e  gli  spazi  luminosi  del  cielo. 
Essa  di  rado  si  trattiene  ne'  fenomeni  isolati  e  si 
compiace  nel  contemplare  1'  insieme.  La  natura  non 
è  rappresentala  come  esistente  indipendentemente, 
e  degna  di  omaggi  per  la  sua  propria  beltà  :  essa 
apparisce  sempre  ai  poeti  ebrei  nella  sua  relazione 
colla  potenza  spirituale,  che  la  governa  dall'alto.  La 
natura  è  ad  essi  un'opera  creata  ed  ordinata,  l'espres- 
sione viva  di  un  Dio  presente  per  tutto  nelle  me- 
raviglie del  mondo  sensibile.  Così,  a  giudicarne  sol- 
tanto dal  suo  oggetto  ,  la  poesia  lirica  degli  ebrei 
doveva  essere  imponente  e  maestosa;  ma,  è  nota- 
bile, malgrado  la  sua  gi-andezza,  essa  mai  non  cade 
nelle  proporzioni  smisurate  della  poesia  indiana.  » 

Fin  qui  Alessandro  di  Humbolt. 

Lasciando  da  parte  il  capo  1°  del  Genesi  ,  che 
nella  .sua  semplicità  può  pei'  le  immagini  compa- 
rarsi alla  più  sublime  poesia,  in  più  luoghi  i  sacri 
poeti  hanno  mirabilmente  parlato  della  creazione. 
Non  è  qui  necessai'io  riferire  i  luoghi  dei  Proverbi 
e  dell'  Ecclesiastico  e  i  vari  passi  di  Giobbe  e  de' 
Salmi.  Ma  l' inno  veramente  della  creazione,  1'  Esa- 
merone  esposto  liricamente,  è  il  salmo  103."  che 
gli  ebrei  e  con  essi  gl'interpreti  protestanti  nume- 
rano  104. 


166 

Quando  in  esso  non  fosse  una  certa  e  perpetua 
relazione  col  principio  della  storia  mosaica,  sarebbe 
pure,  in  un  beli'  inno  al  Creatore,  un  saggio  unico 
di  poesia  descrittiva,  cui  nulla  si  conosce  di  compa- 
rabile neir  antichità  che  dicesi  classica.  Scrive  di 
esso  il  citato  Humbolt  :  «  Si  può  dire  che  il  salmo 
103.°  è  da  se  solo  un  compendio  del   mondo.  « 

Il  Signore,  rivestito  di  luce,  ha  steso  il  cielo  come 
una  tenda.  Esso  ha  fondato  la  terra  sulla  sua  sta- 
bilità ,  talché  non  vacillerà  nella  durata  de'  secoli. 
Le  acque  dall'  alto  de'  monti  scorrono  nelle  valli  , 
nei  luoghi  loro  assegnali  senza  mai  passare  i  limiti 
prescritti  ,  e  dissetano  tutti  gli  animali  de'  campi. 
Gli  uccelli  del  cielo  cantano  sotto  le  foglie.  Gli  al- 
beri dell'  Eterno,  i  cedri  da  Dio  piantati,  sorgono 
pieni  di  succo  e  gli  uccelli  vi  fabbricano  i  loro  nidi. 
Nello  stesso  salmo  è  descritto  il  mare,  ove  si  agita 
la  vita  di  esseri  innumerabili,  ivi  passano  i  vascelli, 
e  muovonsi  i  mostri,  che  tu,  o  Dio,  hai  creato,  per- 
chè vi  scherzino  liberamente. 

La  seminagione  de'  campi,  la  coltura  della  vite, 
cbe  rallegra  il  cuore  dell'uomo,  quella  dell'olivo,  vi 
trovano  pure  il  luogo.  I  corpi  celesti  compiono  que- 
sto quadro  della  natura.  Il  Signore  ha  creata  la  luna 
per  misurare  i  tempi,  e  il  sole,  conosce  il  termine 
della  sua  corsa.  Viene  la  notte,  le  fiere  si  spandono 
sulla  terra,  i  lioncelli  rugghiano  anelando  alla  preda 
e  chiedono  a  Dio  il  nutrimento. 

Riappare  il  sole,  ed  essi  si  ritirano,  e  si  rifug- 
gono nelle  loro  caverne,  mentre  l'uomo  esce  a'  suoi 
lavori,  ne' quali  resta  occupato  fino  alla  sera.  Sor- 
prende il  veder  in  così  breve  lirico  componimento 


107 

il  mondo  intero  ,  la  terra,  e  il  cielo  dipinli  in  al- 
cuni tratti.  Alla  vita  confusa  degli  elementi  fa  con- 
trasto l'esistenza  tranquilla  e  laboriosa  dell'  uomo 
dal  levare  del  sole  fino  al  momento,  in  cui  la  sera 
segna  il  termine  delle  sue  fatiche. 

Questo  contrasto,  queste  viste  generali  sull'azione 
reciproca  di  fenomeni,  questo  ritorno  al  potere  in- 
visibile e  presente,  che  può  ringiovanire  la  terra  o 
ridurla  in  polvere,  tutto  è  informato  di  un  carat- 
tere veramente  sublime....  Somiglianti  viste  intorno 
al  mondo  trovansi  sovente  esposte  nei  salmi. 

Humboldt  non  fa  osservare,  che  questo  salmo  si 
riferisce  totalmente  alla  storia  mosaica  della  crea- 
zione 0  piuttosto  dell'  Esamerone;  ed  ancora  alcuni 
interpreti  omettono  tale  avvertenza. 

Altri  hanno  ciò  avvertito,  e  un  altro  erudito  te- 
desco lo  appella  acconciamente  1'  eco  della  storia 
della  creazione:  ben  inteso  che  qui  tutto  è  esposto 
liricamente  e  non  precisamente  da  storico  o  da  cro- 
nista. Ciò  mi  sembra  assai  chiaro  ,  e  tale,  spero, 
apparirà  a  voi  eziandio,  in  seguito  della  esposizione 
che  passiamo  a  farne. 

Nell'originale  ebreo  questo  salmo  è  anepigrafico, 
cioè  senza  titolo  o  nome  di  autore.  Nella  versione 
greca  (1)  seguita  dalla  volgata  latina  è  attribuito 
a  David.  Siccome  non  vi  ha  obbiezione  o  difficoltà 
di  momento  in  opposizione  a  questa  rispettabile  au- 
torità,   possiamo    tenerne  autore  il   monarca  guer- 


(1)  S.  Atanasio  avverte  che  nell'ebreo  è  anepigrafico,  ma 
esso  lo  intitola:  Salmo  di  David  sopra  la  costituzione  (o  la 
formazione)  del  mondo. 


168 

riero  e  poeta,  il  quale  dicesi  per  eccellenza  il  Sal- 
mista. 

Veniamo  all'  esposizione:  «  Benedic  anima  mea 
»  Domino:  Domine  Deus  meus,  magnificatus  es  ve- 
»  hementer.  » 

Oso  leggervene  una  mia  traslazione  italiana  in 
metro  libero  ,  per  non  illanguidire  soverchiamente 
con  pedestre  e  barbara  prosa  il  brio  ed  i  voli  del 
sacro  poeta  israelita.  Conosco  l'imperfezione  di  que- 
sto lavoro  della  mia  gioventiì-  L'  ho  leggermente 
qua  e  là  ritoccato,  soltanto  affine  di  renderlo  al- 
quanto pili  fedele,  non  già  perchè  m' illudessi  a  se- 
gno di  credermi  atto  a  far  risonare  armoniosamente 
la  celia,  ora  che  l'età  cadente  mi  consiglierebbe  a 
deporla,  quando  ancora  in  verde  età  l'avessi  saputa 
maneggiare. 

Offri  un  inno  di   laude  al   tuo  Signore, 

Alma  mia.  Chi  né  degno?  il  nume,  il  grande 

Mio  Dio.  Tu  eterno,  onnipossente,  immenso 

Gloria  vesti  e  splendore  ; 

Che  di  luce  un  ammanto   ti  circonda, 

E  l'universo  di  fulgoi-e  inonda. 

Comincia  il  salmista  dall'eccitare  se  medesimo 
a  lodare  il  Creatore,  indicando  di  ciò  la  convenienza 
per  la  grandezza  di  lui,  che  quanto  miriamo  in  cielo 
ed  in  terra  ha  tratto  con  un  cenno  dal  nulla  ;  e 
senza  fermarsi  intorno  alla  creazione  propriamente 
detta,  viene  subito  all'opera  di  sei  giorni,  incomin- 
ciando dal  primo  ,  nel  quale,  secondo  lo  scrittore 
del  (jcnesi,  disse  Iddio:  Sia  luce;  e  luce  fu.  Questo 


169 

primo  fallo  viene  qui  espresso  con  orienlale  ardi- 
tezza, presenlandoci  il  Creatore  come  vestito  di  luce: 
«   Amictus  lumine  sicul  vestimento  ». 

Se  il  cantore  non  si  fosse  proposto  di  seguire  le 
orme  mosaiche  ,  né  rivolto  avesse  il  pensiero  alle 
prime  parole  delGenesi,  ma  senza  più  a  celebrare  l'Au- 
tore dell'univeiso,  non  pare  probabile  che  avrebbe 
incominciato  dalla  luce,  la  quale,  sola  e  disgiunta 
dalle  sue  soi'genti,  mai  non  ci  appare,  ma  piutto- 
sto dal  sole  qui  mentovato  assai  tardi.  Bensì  la  luce, 
e  non  il  sole,  figura  in  1.°  luogo  nella  narrazione 
mosaica,  e  soltanto  luce,  luce  vivissima,  e  daperlutto 
diffusa  sarebbe  allora  apparsa  ad  un  osservatore,  cui 
fosse  dato  assistere  a  quel  primo  ordinarsi  delle  cose 
ed  al  formarsi  di  tanti  corpi  composti  della  prima  ma- 
teria tenebrosa  ed  informe,  ossia,  come  possiamo 
interpretale,  dalla  congeiie  degli  atomi  elementari. 

Cessa  quella  prima  Ilice  ,  e  con  essa  il  primo 
giorno  :  perocché  giorno  nel  linguaggio  del  Genesi 
è  il  tempo  della  luce,  non  il  tempo  del  giro  solare. 
E  nominò  (Iddio)  la  luce  giorno  ,  e  le  tenebre  no- 
minò notte. 

Viene  immediatamente  il  salmista  al  secondo 
giorno,  al  giorno  dell'atmosfera;  dacché  così  e  non 
altrimenti  sembra  doversi  intendere  nel  luogo  cor- 
rispondente del  Genesi  il  vocabolo  firrnamentum  e  la 
voce  sinonima  coelum:  più  volte  leggiamo  nubes  coeliy 
volucres  coeli.  Insegna  s.  Tommaso  i^i)  :  «  Palesi 
intelligi  per  firrnamentum....  illa  pars  aeris  ,  in  qua 
condensanlur  nubes....  secundum  liane  opinwncm  nihil 

(1)  S.  I.  P.  qu.  LXVIIl  art.  I. 


170 

sequilìir  repugnans  unicidqne  opinioni  ».  Sciive  il 
Mazzocchi:  e  Habes  quoti  fìrmamenliim  sit  aer.  Atque 
eadern  sentenlia  palnim  et  theologoriim  conscnsu  ni- 
titiir.  Ergo  aqiiae  coelesles  non  alind  quam  nubes  ». 
I  fenomeni  meteorologici  sono  cosi  indicati  poe- 
ticamente dall'ispirato  cantore: 

Qual  tenda  il  ciel  si  curva  e  lassù  d'acque 

Alta  stanza  ei  si  fa;  di  folte  nubi 

In  cocchio  arduo  grandeggia 

E  sull'ali  dei  turbine  passeggia. 

Suoi  messaggi  son   venti  veloci, 

Suoi  ministri  son  fuoco  celeste, 

Pronti  al  cenno  dell'alte  sue  voci. 

F'ormandosi  l'atmosfera,  dividente  tra  le  acque 
terrestri  e  le  superiori,  si  stabilì  la  regione  de'  fe- 
nomeni meteorologici  ,  nubi  ,  fulmini  ,  tuibini,  qui 
adombrati  con  immagini  soprammodo  poetiche  e  in 
relazione  alla  lor  prima  cagione.  La  prima  frase  , 
exlendens  coeliim  siciit  pellem,  allude  all'  apparenza 
che  r  uno  e  l'altro  cielo  presentaci,  o  vuoi  questo 
inferioie,  spesso  offuscato  dalle  nuvole,  o  il  superiore 
seminato  di  stelle,  l'apparenza  cioè  di  un  gran  ta- 
bernacolo, e  tabernacolo  di  Dio  sembra  appellato  il 
cielo  iu  altro  salmo.  Abbiamo  da  Esichio  che  cieli 
appellavansi  dai  persiani  i  tabernacoli  legi  per  la 
forma  emisferica  della  volta.  L'ultimo  versetto  {qui 
facis  angelos  ttios  spiritus  et  minislros  luos  ignem 
urentem)  può  sembrare  riferirsi  anch'esso  alle  me- 
teore e  null'altro  accennare  se  non  venti  e  fulmini:  è 
noto  che  la  voce    spiritus    spesso  nelle  sacre  carte 


171 

suona  vento,  aria,  e  fiato.  G.  B.  De  Rossi  traduce 
dall'  ebreo  :  u  Egli  fa  suoi  messaggi  i  venti,  ha  per 
))  ministri  un  fuoco  che  arde  ».  Ma  siccome  l'apo- 
stolo Paolo  intende  queste  parole  degli  angeli  (1), 
a  noi  non  è  lecito  da  lui  seperarci  e  trascurare, 
e  molto  meno  dispregiare,  siffatta  interpretazione- 
Io,  dopo  alquanto  esitare,  ho  preferito  una  trasla- 
zione, che  potesse,  come  l'originale,  aggiustarsi  egual- 
mente alla  interpretazione  materiale  e  fisica  ed  alla 
spirituale  e  teologica. 

Suoi  messaggi  son  venti  veloci. 
Suoi  ministri  son  fuoco  celeste 
Pronti  al  cenno  dell'alte  sue  voci. 
Segue   il  salmista    e    viene  all'  opera   del  terzo 
giorno  : 

Parli,  e  dal  labbro  creator  chiamata 
Ecco  la  terra  in  se  stessa  librata  : 
Niun  la  sostiene:  ella  in  sua  mole  sta. 
Né  per  urto  di  secoli  cadrà. 
Coprìa  qual  veste  la  terra  nascente 
E  sormontava  i  monti  il  fluito  amaro  : 
Fuggir  dal  tuo  corruccio  ed  al  possente 
Tuon  della  voce  tua  l'acque  tremare  : 
E  là  dove   imponevi,  ecco  repente 
Scendon  le  valli,  ergonsi  all'etra  i  monti 
Tutti  al  tuo  cenno  ossequiosi  e  pronti. 
Allor  ponevi  imperioso  un  termine 
U'  s'  arretrino  i  flutti  e  1'  ire  frangano, 
Né  la  terra  inondare  oseran  l'onde, 
Né  sormontar  le  venerate   sponde. 

(l)  Uebr.  I. 


172 

Mosè  introduce  Iddio  a  comandare:  «  Sieno  rac- 
colte le  acque  di  sotto  il  cielo  ad  un  luogo  e  com- 
parisca l'asciutto.  E  COSI  fu  ».  —  Il  salmista  dice 
il  medesimo  ,  ma  adornalo  d'  immagine  altamente 
poetica  ,  facendo  fuggire  le  acque  spaventate  alla 
voce  sdegnosa  del  Creatore.  Può  fare  un  poco  di 
difficoltà  quel  diisi  che  le  acque  sormontavano  i 
monti,  perocché  monti  non  potevano  esservi  finché 
lutto  il  globo  era  coperto  dalle  acque-  Taluno  ha 
opinato  qui  alludersi  al  diluvio  noetico  :  ma  ciò  è 
al  tutto  inverisimile.  Qual  cosa  ha  quella  catastrofe 
di  comune  col  periodo  dell'Esamerone  Mosaico  ?  Qui 
non  sono  mentovate  le  presenti  catene  di  montagne: 
ma  la  terra  coperta  dalle  acque  avrà  pure  avute  le  sue 
elevazioni  o  montagne  subacquee,  come  le  ha  il  letto 
dell'odierno  mare,  e  come  le  hanno  a  proporzione 
i  frutti  più  lisci.  E  forse  più  verisimile,  che  questi 
monti  sottoposti  alle  acque  non  altro  sieno  che  gli 
strali  ,  le  rupi,  i  terreni  ,  che  erano  per  levare  il 
capo  dalle  acque,  e  formare  le  montagne  e  le  ca- 
tene di  montagne,  ossia  in  quel  primo  apparire  della 
terra  asciutta,  o  in  altra  epoca  posteriore  per  altre 
successive  catastrofi. 

iVccennato  il  primo  sorgere  delle  acque  della 
terra  abitabile,  il  salmista,  che  è  qui  poeta  lirico, 
e  non  legato  strettamente  dall'ordine  cronologico  , 
stendesi  alquanto  intorno  agli  usi  di  essa  terra  asciut- 
ta, data  a  noi  per  abitazione,  come  pure  agli  ani- 
mali, ed  ai  vegetabili  a  noi  più  utili;  e  a  Dio  rivolto 
prosegue  : 

Tu  scender  fai  nelle  convalli  i  fonti  : 

Tra  monti  e  monti  -  per  te  il  rivo  scorre. 


173 

Ve'  come  accorre  -  e  dalla  sete  scampo 
Del  feitil  campo  -  e  dell'alpestre  selva 
Cerca  ogni  belva.  -  Sulle  verdi  sponde, 
Delle  fresche  onde  -  appo  i  sonanti  lidi, 
Forman  lor  nidi  -  gli  augellin  canori, 
Che  a  vari  cori  -  or  lusinghiero  pianto. 
Or  lieto  canto  -  da   vaghi  arbuscelli 
Modular  odi  armoniosi  e  belli. 
Dall'alte  vette  i  monti   irrighi  e  saziasi 
Tutta,  Signor,  del  dono  tuo  la  terra. 
Tu  fai  che  l'erba  al  giumento  verdeggi. 
Tu   che  la  piena  spica  all'uom  biondeggi. 
Per  te  dell'uva  il  dolce  amabil  sangue 
Dell'uom  che  langue  -  rasserena  il  cuore; 
Qual  pingue  umore  -  d'ulivo  l'abbella, 
E  l'innovella  -  le  sue  foi'ze  manche 
A  ravvivar  le  stanche  -  membra  umane 
Dato  dal  ciel,  primo  suo  dono,  il  pane. 
Dei  benefico  umor  che  per  Te  spandesi 
Delle  tue  selve  gli  albei'i  satollansi, 
E   i  cedri   che  sugli  altri  signoreggiano 
Da  Te  piantati  sul  fronzuto  Libano. 
Ad  essi  il  nido  fidar  gode  il   passero 
Ed  al  cipresso  la  cicogna  affidalo; 
Gli  eccelsi  monti  son  grato  ricovero 
All'  ibice  silvestre, 
E  il  riccio  ha  tana  nella  rupe  alpestre. 

Qui  si  tocca  dell'utilità  delle  montagne,  dell'ir- 
rigazione de'  terreni  necessaria  alle  piante  non  meno 
che  agli  animali ,  e  a  modo  di  esempio  alcuni  si 
nominano  fra  questi  e  fra  quelle.  ^ 


174 

Alcuni  dubbi  sono  tra  gli  espositori  intorno  al- 
l' inteipjetazione  di  questa  e  di  quella  voce  :  ma 
fortunatamente  non  sono  di  gran  momento,  e  resta 
sempre  il  concetto  della  provvidenza  del  Creatore, 
la  quale  ,  col  mezzo  delle  acque  e  delle  piante  da 
questa  alimentate,  provvede  ai  volatili  e  non  meno 
ai  quadrupedi,  o  sieno  feroci  e  selvaggi,  o  dome- 
stici, indicati  nella  Scrittura  col  nome  generico  di 
giumenti. 

Tra  le  piante  si  nominano  le  piià  importanti  e 
più  care  all'uomo,  non  meno  in  Palestina,  che  in 
Italia,  il  frumento,  la  vite,  e  l'ulivo;  né  dovevano 
dal  cantore  israelita  omettersi  i  magnifici  e  tanto 
celebrati  cedri  del  Libano,  i  quali  diconsi  da  Dio 
piantati,  come  in  altro  salmo  (l)appellansi  cedri  di 
Dio,  essendo  costume  degli  scrittori  ebrei  denomi- 
nare di  Dio  le  cose  nel  loro  genere  più  grandi  o 
più  eccellenti,  nelle  quali  più  splende  la  divina  pos- 
sanza: ((  filimeli  Dei,  mons  Dei,  arciim  meum,  appella 
Iddio  l'iride  o  arco  baleno,  del  quale  altrove  è  scritto: 
Manus  excelsi  aperuerunl  illum  w. 

Ove  io  ho  posto  il  cipresso,  altri  traducono  abete. 
Così  ove  ho  tradotto  il  riccio,  si  tiene  ora  dai  più 
diligenti  espositori  che  meglio  sarebbe  tradotto  mar- 
molta',  ma  ciò  nulla  rileva,  né  altro  volle  indicare 
il  salmista  con  una  voce  ebraica  ,  forse  specifica  , 
che  quella  famiglia  di  animali  abitatori  dei  monti 
ed  ivi  usati  a  scavarsi  una  tana  per  ricovero. 

Ignoro  se  sia  identità  di  specie  fra  la  marmotta 


(1)  Psal.  79  v.  11. 


175 

delle  nostre  alpi,  e  IVirc/om/s  della  Palestina  (1):  ma 
certamente  a  me  conveniva  sfuggire  un  vocabolo  , 
che  avrebbe  destato  inopportuno  riso,  essendosi  am- 
messo fra  noi,  quantunque  ingiustamente  ,  non  so 
che  di  ridicolo  all'idea  di  questo  animale. 

Toccata  così,  ad  occasione  della  terra  asciutta 
e  rivestita  dal  Creatore  di  piante,  alcuna  cosa  dei 
viventi  destinati  ad  abitarla,  s'  innalza  il  sacro  vate 
a  contemplare  i  corpi  celesti-  Sarebbe  ,  io  credo  , 
impossibile  dare  ragione  del  trovarli  in  questo  luogo, 
se  questo  inno  non  fosse  Veco  della  mosaica  isto- 
ria dell' Esamerone  :  ma,  così  essendo,  agevolmente 
si  vede  come  qui  e  non  prima  sia  dì  essi  menzione. 
Mosè  fa  motto  dell'apparizione  de'  corpi  celesti  sol- 
tanto nel  4.°  de'  suoi  giorni  o  periodi:  il  salmista, 
seguendone  le  orme,  pennelleggia  le  opere  dei  primi 
tre  giorni  prima  di  far  parola  degli  astri;  e  ad  oc- 
casione della  terra  asciutta  tocca  alcun  che  de' suoi 
fini  e  degli  animali  che  l'abitano,  de'  quali  avrebbe 
potuto  seibare  il  discorso  al  5."  ed  al  6."  dì. 

Per  te  (egli  segue  rivolto  a  Dio) 
Per  te  distingue  l'argentata  luna 
1  tempi,  e  pura  splende, 
E  l'ombra  fende  della  notte  bruna. 


(1)  Sciendum  animai  esse  non  maius  hericio  habens  si- 
militudinem  muris  et  ursi;  unde  in  Palestina  «fxro/xùg  dicitur, 
et  magna  est  in  istis  reglonibus  huius  generis  abundanlia  , 
seniperque  in  cavernis  petrarum  et  terrae  foveis  habitare  con- 
sueverunt.  »  S.Hieronimus  Ep.  ad  Sunnam  et Fretelam.  Fra  i 
moderni  naturalisti  Gmelin  ha  denominato  arctomys  il  ge- 
nere delle  marmotte. 


176 

Omette  affatto  le  stelle,  da  Mosé  accennate  con 
una  sola  parola,  e  si  contenta  di  ramnnentarci  i 
due  luminari  ,  più  importanti  per  1'  uomo,  i  quali 
perciò  e  per  la  maggiore  loro  apparenza  sono  nel 
Genesi  appellati  luminari  grandi,  o  maggiori;  come- 
chè  ivi  stesso  la  luna  in  confronto  col  sole  sia  detta 
luminare  minore  o  piccolo. 

Udiamo  s.  Tommaso  (1):  «  Sicut  Chrysostomus 
)>  dixit,  dicuntur  duo  luminaria  magna  ,  non  tam 
))  quanlitate  ,  quam  efficacia  et  virtute-  Quia  etsi 
»  aliae  stellae  sint  maiores  quanlitate  quam  luna, 
»  tamen  effeclus  lunae  magis  scntitur  in  istis  int'erio- 
))   ribus,  et  etiam  secundum  sensum  maior  adparet.» 

Viene  poi  al  sole: 

Per  te  l'aurato  sol,  compiuto  il  corso, 
S'asconde  e  tenebria  notte  distende. 
Escono  allora  dalle  opache  selve 
Le  crude  belve;  -  del  leone  i  figli 

I  feri  artigli  -  squassano  ruggendo, 

E  a  Dio  chiedendo  -  alla  Jor  fame  cibo. 

II  sol   risorge:  ogni  stanala  fiera 
Ne'  covili  s'  asconde,  ed  esce  l'uomo 
All'opre  usate  ed  a'  diurni  offici, 
Finché  l'astro  del  dì  torni  a  celarsi. 

Qui  gli  astri  sono  unicamente  considerali  quali 
utili  misuratori  del  tempo,  come  ancora  da  Mosò 
a  ut  dividanl  inler  diem  et  noctem,  et  sint  in  signa 
et  tempora  et  dies  et  annos  ». 


(1)  S.  T.  I.  qu.  LXX,  art.  1  ad  L 


177 

Anche  Platone  nominolli  islrumenti  del  tempo; 
e  Claudiano  scrisse:  lUe  pater  rerum  qui  tempora  di- 
vidit  astris.  La  frase  mosaica  in  signa  et  tempora 
può,  mi  sembra,  interpretarsi  in  signa  temporum:  né 
mancano  esempi  di  analoghe  locuzioni  nelP  uno  e 
nell'altro  testamento. 

Nel  capo  3.°  del  Genesi  leggiamo:  Multiplicabo 
dolorem  et  conceptum  tuum,  cioè  dolorem  conceptus 
lui. 

Simili  modi  non  sono  rari  presso  i  latini  :  mo' 
lemque  et  monles  insuper  allos  imposuit,  abbiamo  in 
Virgilio  (1),  cioè  molem  montium:  e  in  Lucano,  cha- 
lybem  fraenosque  momordit,  cioè  fraenos  chalybeos. 

Il  tempora  di  Mosè  può  intendersi  dei  mesi  o 
delle  stagioni.  Leggiamo  ancora  nell'  Ecclesiastico: 
Luna  oslenlio  temporis  et  signum  aevi.  A  lima  signum 
diei  festi. 

Bella  poi,  benché  brevissima  ,  è  la  descrizione 
del  corso  apparente  del  sole,  il  quale  descrivendo 
la  metà  della  sua  curva  al  di  sopra  dell'  orizzonte 
ne  adduce  giorno  e  luce  ,  ed  ascondendosi  sotto 
l'orizzonte  ci  lascia  in  tenebre;  e  bello  pure  mi  pare 
l'accordarsi  il  tempo  notturno  ,  quasi  lor  proprio  , 
alle  fiere  ,  che  allora  escono  delle  caverne  e  van- 
no in  traccia  della  preda;  mentre  il  tempo  del  sole 
e  della  luce  è  concesso  all'  uomo  per  occuparsi 
fino  a  sera  in  utili  travagli  di  agricoltura,  o  di  arti: 
«  Exibit  homo  ad  opus  suum  et  ad  operationem  suam 
usque  ad  vesperam.  » 


(1)  Yirg.  Aen.  I. 
G.A.T.CLXVL  12 


178 
Esclama  qui  il  sacro  poeta:  «  Quam  magnificala 
snnt  opera  tua,  Domine  !  Omnia  in  sapienlia  fecisti  ». 

Quanto  son  grandi  di  tua  man  possente 

L'  opre,  o  Signor  ?  portan  l'impronte  tutte 

Di   tua  celeste  sapienza:  è  piena 

Di  tue  opre  la  terra.  Il  mare  immenso 

Nel  sen  delle  voragini  profonde 

Viventi  innumerabili  nasconde. 

Nel  quinto  e  nel  sesto  giorno  parla  Mosè  della 
formazione  degli  animali  e  dell'uomo- 

Di  ciò,  concie  abbiamo  udito,  ha  qualche  cosa 
toccato  il  salmista  ,  all'  occasione  delle  opere  del 
terzo  e  del  quarto  giorno,  a  mostrarci  l'utilità  della 
terra  e  degli  astri. 

Perciò  potrebbe  dirsi  in  qualche  modo  compito 
l'eco  deW  Esamerone- 

Siccome  però  nulla  si  è  detto  degli  animali  ac- 
quatici, che  primi  sono  indicati  nel  quinto  giorno 
mosaico  [brulichino  le  acque  di  renili,  animali  vi- 
venti), perciò  vien  qui  a  mentovarli,  e  passa,  se  si 
vuole,  dal  quaito  al  quinto  giorno. 

Gì'  innumerabili  abitatori  delle  acque  sono  qui' 
indicati  in  generale,  e  quindi  si  accenna  l'uso  che 
l'uomo  fa  del  mare,  il  quale  pareva  destinato  a  di- 
videre le  varie  parti  della  terra,  e  invece  mirabil- 
mente serve  a  ravvicinare  i  popoli  piiì  remoti  fra 
loro  ed  a  far  partecipe  ciascuna  parte  del  globo  dei 
prodotti  delle  altre. 

E  il   mortale  fidato  a  fragil  legno 
Delle  tempeste  signoreggia  il  regno. 


179 

E  come  ci  ha  mostrato  la  Provvidenza  sollecita 
a  provvedere  dei  necessario  gli  animali  della  terra 
e  dell'aria,  così  ora  ciò  dimostra  rispetto  a  quelli 
dell'acqua: 

Ma  l'enorme  balena, 

Che  de'  marini  flutti 

Sembra  schernir  la  minacciosa  piena, 

E  degli  azzurri  ondosi  campi  tutti 

Gli  abitator  sì  vari 

Attendono  da  te  ristoro  e  cibo. 

Apri  la  man  benefica,  e  raccolgono 

L'alimento  opportuno  e  ognun  si  sazia. 

Tuo  volto  ad  essi  ascondi;  ecco  già  mancano 

E  fan  ritorno  alla  nativa  polvere. 

Riedi  in  essi  a  spirar  di  vita  il  soffio, 

E  nuovi  germi  degli  estinti  il  danno 

Ecco  pronti  a  supplir:  ecco  del  mondo 

Rinnovarsi  la  faccia,  eccol  giocondo. 

Forse  qui  senza  piiì  vuol  dirci,  che  tutti  questi 
animali  sono  anch'  essi  da  Dio  provveduti,  e  il  lor 
cercare  il  cibo  ed  aspettarlo  dalle  naturali  vicende 
è  qui  detto  un  attendere  da  Dio  l'alimento,  come 
poc'anzi  udivamo  con  frase  anche  più  poetica,  che 
i  leoncelli  gliel  chieggono  (  qiiaerant  a  Beo  escam 
uhi). 

E  veramente:  perocché  essendo  la  natura  ed  i 
naturali  eventi  tutti  regolati  dalle  leggi  e  dalla  vo- 
lontà del  Creatore,  chi  dalla  natura  aspetta  ciò  che 
gli  è  necessario,  il  conosca,  o  l'ignori,  lo  aspetta 
da  Dio:  e  allorché  ,   qualunque   sia  la  cagione  se- 


180 

conda,  la  Provvidenza  non  è  così  ad  essi  benefica 
e  nasconde  loro  il  suo  volto,  molti  animali  e  talora 
intere  specie  periscano  :  ma  al  tornare  dell'abbon- 
danza torna  ancora  la  abbondante  popolazione,  e  il 
Creatore,  secondo  la  frase  ebrea,  torna  a  spirare  il 
soffio  vitale,  non  già  ravvivando  gli  estinti,  ma  pro- 
ducendo in  lor  vece  nuovi   esseri. 

Può  ancora  (benché  ciò  non  sia  necessario)  l'ispi- 
rato cantore  alludere  a  certe  straordinarie  catastrofi, 
nelle  quali,  come  sembrano  indicarci  le  osservazioni 
geologiche,  periva  in  massa  ,  gran  numero  de'  vi- 
venti ,  ma  poscia  al  difetto  di  questi  suppliva  la 
Provvidenza,  e  rinnovavasi  la  faccia  del  globo  ter- 
raqueo. 

Ho  nominata  la  balena;  e  pare  probabile  che  i! 
salmista,  rammentando  gli  animali  acquatici,  abbia 
voluto  nominare  il  maggiore,  e  a  così  dire,  il  loro 
monarca.  Tuttavia  confesso  essere  incerto  quale  ani- 
male sia  qui  indicato  nell'originale  col  nome  di  Le- 
vialan.  Nel  libro  di  Giobbe  (1),  ove  è  una  terribile 
ed  estesa  descrizione  del  Levìalan,  s' intende  il  coc- 
codrillo j  ne  è  impossibile  che  ancora  qui  di  esso 
si  parli.  Forse  con  questa  voce  (2)  indicavano  gli 
Ebrei  ora  l'uno  ora  l'altro  de'  mostruosi  animali,  che 
si  ascondono   nelle  acque  (3). 

La  volgala  traduce  Draco. 


(1)  C.  LX. 

{%)  E  ancora  colla  voce  Thannim. 

(3)  Alcuni  rabbini,  ad  occasione  del  Leviatan,  hanno  la- 
sciato libero  corso  alla  fantasia,  ad  immaginare  le  più  assurde 
e  talora  empie  favole.  Hanno  detto  che  Iddio  ogni  giorno  per 
tre  ore  si  trastulla  col   Leviatan  ;    che  questa  bestia  è  così 


181 

Percorse  le  opere  della  creazione,  altro  non  ri- 
mane al  salmista  che  di  nuovo  dichiarare  il  Crea- 
tore degnissimo  di  eterna  lode  : 

Lode  in  eterno  a  Dio:  voli  de'  secoli 
Sull'ali  la  sua  gloi-ia,  e  goda  il  core 
Sempre  nelle  opre  sue  del  mio  Signore. 
Mira  ei  la  terra  e  scuotesi  {!), 
I  monti  tocca  e  fumano  (2). 

Quest'ultimo  versetto  sta  qui  come  isolato,  né 
appare  legame  tra  i  precedenti  fenomeni  ed  i  tre- 
muoti  ed  i  vulcani  che  sembrano  qui  indicati.  Volle 
per  avventura  il  salmista  con  questo  cenno  rammen- 
tarci che  all'autore  e  conservatore  della  natura  si 
debbano  pure  i  tremendi  fenomeni  che  ne  fanno 
quasi  temere  la  distruzione  ,  e  perciò  che  ,  come  a 
luì  slam  debitori  di  riconoscenza,  di  benedizioni  e 
di  lodi,  così  lo  siamo  ancora  di  un  giusto  e  rive- 
rente timore. 

Non  so  se  m' inganno  ;  ma  sembrami  l'accop- 
piamento della  terra  tremante  coi  monti  fumanti 
potere  indicare  la  relazione  fìsica  tra  i  due  tremendi 


grande  che  agita  tutte  le  acque  del  mare;  ed  è  cagione  del 
flusso  di  esse;  che  è  solo  nella  sua  specie;  dacché  se  fossero 
più,  sarebbe  pericolo  non  capovolgessero  tutto  il  globo  ter- 
raqueo;  che  da  principio  veramente  il  Creatore  ne  aveva  for- 
mati due,  ma  uno  provvidamente  lo  uccise  e  ne  conserva  le 
carni  (speriamo  che  ben  salate)  per  apprestarle  in  convito 
agli  eletti,  dopo  la  consumazione  de' secoli. 

(1)  Ab  indignatione  eius  movebitur  terra.  lerem.  X,  10, 

(2)  Tange  montes  et  fumigabunt.  Ps.  CXLIII,  6. 


182 
fenomeni,  terrernuoti,  e  vulcani,  che  spesso  in  na- 
tura si  osserva. 

Inni  e  salmi  cantar  vo'  a  te,  mio  Dio, 
Finché  vivrò,  finché  sarò:  che  il  mio 
Laudar  sia  grato  a  lui. 

Osserviamo  che  queste  frasi  ,  o  più  letteral- 
mente traducendo  :  si  ;  canterò  al  Signore  in  mia 
vita  :  si  ;  salmeggerò  finché  io  sarò,  paiono  indica- 
re un  autore  molto  esercitato  nella  composizione 
e  nel  canto  de'  salmi,  e  ciò  sembra  rendere  sem- 
pre più  verisimile  che  l'autore  di  questo  salmo  sia 
il  real  salmista,  Davidde. 

Nel  presente  magnilìco  inno  intorno  all'  istoria 
della  creazione  non  avea  luogo  il  rammentare  e  il 
deplorare  i  disordini  morali  o  i  peccati  degli  uo- 
mini, ciò  che  si  fa  in  molti  altri  salmi;  ma  sul  fi- 
nire sembra  1'  ispirato  cantore,  quasi  toinato  a  sé 
stesso  ed  al  tempo  presente  ,  ed  afflitto  al  vedere 
da  tanti  morali  disordini  e  da  tanti  iniqui  detur- 
pata la  bella  opera  del  Creatore,  a  lui  rivolgersi  e 
supplicarlo  a  tornar  bello  il  suo  lavoro,  togliendo 
dal  mondo  i  vizi  e  le  colpe: 


La  mia  letizia 

Fia  tutta  in  lui.  Dal  mondo  esterminali 
Più  non  veggansi  i  figli  di  nequizia  ; 
Gli  empi  non  sieno  più.  Godi,  o  mio  cuore, 
Offri  un  inno  di  laudi  al  tuo  Signore. 


183 
E  termina  come  aveva  incominciato,  eccitando 
se  stesso  a  lodare  il  Creatore: 

Benedic,  anima  mea,  Domino. 

Il  mio  lavoro  è  finito.  Io  mi  confondo,  conoscen- 
done r  imperfezione,  e  mi  vergogno  di  avere  osato 
comparirvi  dinanzi  e  trattenervi  con  produzione  co- 
tanto meschina,  e  d'aver  in  certo  modo  deturpata 
colla  mia  debole  esposizione  una  delle  piiì  belle  pro- 
duzioni della  sacra  poesia.  Nulla  di  buono,  special- 
mente in  tal  genere,  potevate,  è  vero,  aspettare  da 
chi,  per  dirlo  con  Dante  (1),  ha  già  Viin  piede  en- 
tro la  fossa,  e  si  trovava,  non  ha  guari,  in  punto 
di  esservi  gittato  con  ambedue-  Meglio  per  avven- 
tura ed  a  me  ed  a  voi  io  provvedeva,  ritraendomi 
dal  preso  impegno.  Ma  io  ho  preferito  attenere  la 
data  parola  ,  e  darvi  ,  né  altro  poteva  ,  un  segno 
della  mia  buona  volontà.  Farei  torto  al  vostro  buon 
gusto  e  al  purgato  vostro  giudizio  se  sperassi  a 
questo  lavoro  lode  ed  applauso;  ma  non  farò  torto 
alla  vostra  umanità  e  cortesia,  se  ne  attenderò  quel 
compatimento,  che  da  animi  gentili  e  cortesi,  quali 
i  vostri  sono,  sembraini  potere  aspettare  chi  trovasi 
a  un  dipresso  nella  condizione  del  vecchio  pelle- 
grino, sì  ben  pennelleggiato  dal  Petrarca  : 

Indi  traendo  poi  l'antico  fianco 
Per  l'estreme  giornate  di  sua  vita, 
Quanto  piij  può  col  buon  voler  s'aila. 
Rotto  dagli  anni  e  dal  cammino  stanco. 

(1)  Purgat.  XVIII,  121. 


Novità  e  varietà  in  fatto  di  etnische  anticaglie.  Chiusir 
Orvieto^  Perugia,  musei  di  Roma,  Trento. 

ilei  recarmi  a  vedere  in  Chiusi,  pochi  mesi  or  sono, 
presso  il  sig.  Gio.  Paolozzi,  il  ragguardevole  monu- 
mento in  terra  cotta,  di  cui  tenni  proposito  non  ha 
guari  nel  Bulleltino  delV istituto  di  corrispondenza  ar- 
cheologica di  Roma  (1)  ,  mi  avvenni  in  tre  tegoli 
scritti,  che  stimo  hen  fatto  di  dar  qui  in  luce  nelle 
loro  brevi  leggende.  -  Due  di  essi  sono  frutto  dello 
scavo  di  quella  tomba  medesima,  donde  si  estrasse 
l'urna  mirabile  sovraricordata,  e  nella  cui  strada  ab- 
batteronsi  gli  operai  in  quegli  embrici  messi  nelle 
pareti  tufacee  a  copertura  di  vasi  cinerari,  o  resti 
di  corpi  umani  raccolti  in  nicchiotli,  che  soglionsi 
così  frequentemente  incontrare  al  di  fuori  dei  se- 
polcri chiusini,  e  radissime  volte  in  Perugia.  Sovra 
uno  di  quei  tegoli  sta  scritto  a  grandi  lettere,  sic- 
come d'ordinario  si  usò  in  questa  classe  di  etruschi 
monumenti, 

I  o  q  R  4 

Nell'altro  leggiamo  in  eguale  paleografia  : 

VlV^Viì 

(1)  Bull,  dei  corr.  anno  p.  80  e  segg. 


185 
che  ci  dà  motivo  a  veder  chiaramente  una  4^»  an- 
ziché una  J  nel  3.°  elemento  dell'ultimo  nome  del 
primo;  sendochè  qui  ZCCHU  (già  cognito  in  Chiu- 
si (1))  e  non  ZULÙ  lipetesi  per  ben  due  volte,  la 
quale  ripetizione  di  nome  insieme  a  quella  dell' AULE 
raccorciato  nelle  2."  linea  in  AU,  non  ispiegasi  che 
supponendovi,  o  la  ricordanza  in  genere  di  due  mem- 
bri della  stessa  famiglia  con  prenome  identico,  ov- 
vero di  un  figlio  Aulo,  distinto  tra  le  pareli  dome- 
stiche con  lo  stesso  prenome  del  genitore.  E  figlia 
di  uno  di  questi  due  personaggi  stimar  deesi  la  fem- 
mina menzionata  nel  primo  tegolo  ,  ove  1'  AULES 
ZUCHUS,  che  segue  il  prenome  LARTHl,  sta  per  indi- 
care, a  mio  avviso,  il  legame  paterno. Nò  per  altro  mo- 
tivo se  non  per  la  relazione  evidente,  che  mi  sembra 
esistere  fra  le  leggende  dei  due  embrici,  io  veggo  più 
sicuramente  ZUCHUS  anche  nel  primo  di  essi:  poten- 
do del  resto  correr  bene  anche  ZULUS,  di  che  i  monu- 
menti di  Perugia  ci  danno  esempio  (2);  e  il  eh.  Le- 
psius  dicea  probabile  la  spiegazione  Sullins  del  Ver- 
miglioli  (3)  appoggiata  perla  corrispondenza  dell'ele- 
mento iniziale  anche  da  alcune  bilingui  (4),  tia  le 
quali  però  non  è  più  a  noverare  la  perugina  che 
il  nostro  dotto  predecessore  e  maestro  diede  sic- 
come tale  nelle  sue  Lezioni   di  archeologia  (5)  ,    e 


(1)  Mus.  Chius.  n.  116, 

(2)  Presso  Verni.  Iscr.  Penig.  I  241  n.  163. 

(3)  In.  An.  Tnst.  di  Roma  1836  p.  167. 

(4)  Mns.  Etrus.  n.  117  -  Bull.  Inst.  di  Roma  1833  p.  49. 
Tav.  alla  pag.  62  n.  1,  riprodotto  in  Fabretti,  Gloss.  p.  73,  oye 
con  le  mie  schede  correggo  il  VENZILEAL:  FNALISLE  in  YEN- 
ZILE,  ALFNALISLE,  che  così  dice  veramente  nell'originale. 

(5)  Voi.  2.  pag.  184  (Edizione  milanese). 


186 
che  avrebbe  potuto  conv.nlidare  il  ZULUS  -  Stdlius 
col  ZtlTINEI  -  seniia,  dappoiché  ivi  positivamente  si 
tratta  di  due  diverse  iscrizioni  ,  come  giustamente 
opinò  dipoi  lo  stesso  Vermiglioli,  tanto  piiì  che  il 
testo  etrusco  non  ha  nell'originale  I3i/lt34;'S6^^"*^" 
che  a  lui  sembrava,  ma 

Ma  .  lawai  .  loq/qj  (i) 

Tuttoché  però  il  ZULUS  possa  convenevolmente 
rispondere  al  Sullius  ,  io  amo  meglio  dubitare  col 
eh.  Fabretti,  che  piuttosto  ivi  sia  da  leggere  Tul- 
lius:  e  ciò  massimamente  per  il  ZUCHU  de'  nostri 
embrici,  ove  a  me  pare  assai  probabile  la  tradu- 
ziione  Tychiis  da  tu/>j  proposta  dal  dotto  mio  amico 
per  simil  voce  (2),  e  in  che  si  presenta  quella  mo- 
dificazione di  asprezza  dalla  z  alla  f,  basata  in  tanti 
confronti ,  che  potriano  dedursi  dalla  etrusca  epi- 
grafia ,  fra  cui  bastino  il  ZAU-/er  dei  famosi  dadi 
con  nomi  numerali  (3)  nella  volterrana  TRECS  (4), 
r  ARCHAZE  di  uno  specchio  etrusco  comparato  al- 
PARCATHI  di  una  tazza  aretina  (5),  il  MEZU  -  Met- 


(1)  Conf.  Fabretti,  Gloss.  s.  v.  ZETNEI  p.  347. 

(2)  Loc.  cit.  pag.  550.  -  Tychus  in  Morarasen  I.  N. 
n.  3233.  Tychius  in  An.  Inst.  di  Roma  18S6  p.  11,  e  Ty- 
chenianus  in  Ann.  Ist.  di  Roma  1844.  p.  22. 

(3)  Conf.  Maury,  31em.  sur  la  langue  etr.  nei  Compt. 
Rend.  de  V  Accademie  des  Inscript.  par  Des  Jardins  18S8 
(p.  172).  Ei  vi  ritrova  il  celtico  TRI. 

(4)  Conf.  Fabretti  in  Archivio  Stor.  Ital.  n.  s.  IV  P.  1 
p.  137,  e  segg. 

(5)  Cavedoni,  Congett.  sopra  alcuni  specchi  etr.  p.  346.- 
Gamurrini,  Le  iscriz.  degli  ani.  vasi  fìtt.  aretini,  p.  52  n.  322. 


187 
tius  del  cippo  genovese  (1),  il  ZEG  -  TEC  del  fan- 
ciullo in  bronzo  perugino  del  nnuseo  gregoriano,  la 
cui-  leggenda  non  sì  die  esattamente  noi  bei  volumi  di 
quel  Museo,  -^e'ì  nominali  due  tegoli  adunque  noi 
abbiamo  una  Lartia  Auìi  Tychi  (filia),  e  due  volte 
un  Aulus  Tychus,  ovvero  un  Auìus  Tychus  Aldi  Tychi 
(filius),  supponendo  con  molta  probabilità  trasan- 
data per  errore,  o  per  idiotismo  nel  secondo  ZUCHU 
la  sibilante,  che  vi  dovremmo,  qual  genitivo,  più 
regolarmente  inconlrare  (2). 

Nel  terzo  tegolo   poi  spettante    ad  altra  tomba 
chiusina  si  legge: 

im  .  oj 

VI/1IÌVt 

che  facilmente  spiegasi  Lars  Mimitiiis  Tiiseniiis  ,  i 
quali  due  nomi  trovano  riscontro  in  monumenti  pe- 
rugini ,  vale  a  dire  quest'  ultimo  nell'  AR  :  CAIS  : 
TUSNU  della  serie  del  Palazzone  (3),  l'altro  in  un 


(1)  Orioli  ,  neir  Album  di  Roma  del  IC  dicembre  18S4, 
e  27  genn.  1835.  -Fabretti,  nella  Rivista  Contemporanea  di 
Torino  del  18S4  p.  398. 

(2)  Conf.  Fabretti  ,  Gloss.  s.  v.  Athnu,  forse  anche  per 
Atonii.  -  Mon,  Per.  Ili  n.  216  e  233.  -  Cf.  Lanzi,  Sag.  I.  241 
2.*  ediz. 

(3)  31on.  di  Perugia  n.  Ili  p.  8.  -  Cf.  Iscriz.  Etr.  Fior. 
p.  19.  -  Cade  in  acconcio  1'  addurre  qui  in  mezzo  la  nuova 
spiegazione  del  SEC  data  testé  dal  eh.  Maury  [Rev.  krch.  n. 
I.  1860.  p.  171,  1T6]  ,  in  che  a  lui  sembrò  di  trovare  rap- 
porto col  greco  ì^uyla  {l^i-vyu,  ^suyvo/^i),  G  potCT  ravvisar  il  si- 
gnificato di  moglie  àalViden  d\  accoppiament  0  Qcc.  ^ofì  oserei 


188 
urna  del  nostro  museo,  la  cui  esatta  lezione  ci  porge 

OHM .  j/iinitH^imfiian4^q/ìM.it.!te/i8 

vale  a  dire  Fausta  Titia  Marcania  Arrii  (filia)  e  ge- 
nere Minulianae  ,  ovvero  in  legame  con  il  genere  , 
con  la  stirpe  dei  Minuziani  (permutata  V  u  in  o); 
per  il  che  si  vedrà  corretto  qualche  errore  del 
Vermiglioli  al  n.  300  delle  sue  Iscrizioni  (p.  291) 
la  cui  silloge,  largamente  rifusa  ed  ampliata,  s'in- 
contrerà nei  successivi  volumi  ,  che  spero  dare  in 
luce,  di  monumenti  perugini,  da  far  seguito  ai  già 
editi  negli  scorsi  anni,  e  con  largo  corredo  di  rap- 
presentanze figurate  ,  giusta  anche  i  consigli  e  le 
idee,  che  tanto  saviamente  mise  innanzi  nelle  pagine 
del  Bulletlino  delV  isùlnto  di  Roma  il  eh.  Brunn. - 
Vado  egualmente  debitore  ad  altra  mia  ispezione 
nelle  vicinanze  chiusine,  in  Die.  1858,  di  una  ret- 
tifica, che  mi  è  avvenut  fare  nella  lezione  dell'epi- 
grafe, che  dalle  schede  Migliarini  io  diedi  in  Appen- 
dice   al    volume    delle    Iscrizioni    fiorentine  (  n.  41 


per  ora  pronunciarmi  sulla  validità  di  questa  sentenza  del 
dotto  archeologo:  che  addimanda  una  lunga  serie  di  confronti 
innanzi  che  abbiasi  a  dire  stabilita  definitivamente.  Intanto 
mi  limito  a  citare  una  perugina  (riprodotta  nelle  Iscrizioni 
fiorentine  pag.  278),  che  mi  pare  non  si  acconci  alla  sua  spie- 
gazione, senza  incorrere,  o  nelle  ridondanze  da  me  notate  in 
esporre  le  mie  idee  sul  CLAN  {Pref.  alle  hertz,  fior.),  o  nel 
trasponimento  di  voci,  nella  cui  supposizione  sembra  che, 
a  proposito  dello  stesso  CLAN,  voglia  farmi  rimbrotto  il  lo- 
dato dottissimo  Maury  (CAFATES SEC). 


189 
p.  266),  e  di  cui  erami  allora  ignoto  l'originale.  Ri- 
trovato questo  presso  il  colono  del  sig.  Lucioli,  nel 
predio  voc  Colle ,  conobbi  essere  come  segue  la 
vera  lezione  di  ciò  che  è  scritto  nella  fronte  di 
quel  snrcofago  : 

I^^3<lH^I4HIO<l/iJMI^J^:)J^3 

Detto  monumento  trovasi  non  lungi  dalla  no- 
tissima tomba  Casuccini  dello  stesso  nome; ,  entro 
la  quale  mi  abbattei  in  coperchio  di  urna  di  tra- 
vertino con  leggenda 

:  MyqaOÌ/in  :  J31  :  lìAf\9f\  1 0/1 

che  non  bene  rammento  se  in  alcun  luogo  sia  edita, 
ma  che  ho  motivo  di  credere  più  probabilmente 
ignota,  non  veggendo  l'ANCARNAL  nel  Gloss.  del 
eh.  Fabretti.  E  poiché  per  verifiche  oculari  poste- 
riori alla  pubblicazione  del  mio  volume,  io  sono  in 
grado  di  rettificare  altro  numero  deW Appendice  mi- 
gliaiiniana  ,  non  vò  omettere  di  recai*  nuovo  apo- 
grafo dell'iscrizione  aretina  (in  urna),  paleografica- 
mente interessante,  che  ivi  si  die  al  n.  46  dietro 
le  schede  di  quel  dotto  archeòlogo 

In  questa  occasione  non  parmi  inutile  di  far 
qui  menzione  ,  a  proposilo  di  anticaglie  etrusche 
del  monumento  orvietano,  di  cui  favellò  nello  scorso 
anno  l'egregio  sig.  D.  Romolo  Remi  di  Siena  nello 


190 

Spettatore  Italiano  di  Firenze  (1),  giornale  ebdoma- 
dario per  ora  sospeso  nella  sua  pubblicazione  ,  e 
poco  noto  agli  archeologi,  sebbene  da  un  distinto 
archeologo  diretto,  il  cav.  Gennarelli.  Consiste  esso 
in  una  grande  pietra  di  paragone,  del  peso  di  oltre 
libbre  100,  condotta  a  forma  di  scarabeo,  nella  cui 
parte  convessa  scorgesi  una  linea  larga  un  pollice, 
e  poco  profonda  ,  che  gira  tutta  all'  intorno  dove 
avrebbe  dovuto  essere  la  testa  dell'insetto,  e  nella 
cui  opposta  superficie  piana  è  incisa  la  seguente 
nota  gentilmente  a  mezzo  di  calco  : 


s 

o 

^. 

m 

u 

^ 

rv 

■^ 

Ul 

O 

.O 

*-„ 

E 

% 

r- 

rottura  di 

una 

lettera  al 

più. 

L'egregio  editore,  amantissimo  di  etrusche  an- 
tichità ,  crede  di  tradurla  Larthiae  Alceciniae  Ca- 
merià  nata  canistrum  (donum).  A  me  in  quella  vece 
(ed  ecco  il  principale  motivo  per  cui  mi  mossi  a 
riprodurla)  sembrerebbe  meglio  di  leggervi  Lartiae 
(filia)   Caecina  (forse  etr.  CAIGNEI)  Cameni  (uxor) 

(1)  Anno  I  n.  39,  15  giugno. 


191 

donum  (dedit)  ,  ì  cui  nomi  hanno  tutti  bonissimo 
riscontro  nelle  sillogi  epigrafiche  etrusche;  e  il  C\M- 
RIES  nel  richiamarci  il  CAMARINEI,  il  CAMARINE- 
SA,  il  CAMVRIS,  il  CAMERE  ec.  di  altre  leggende,  ci 
fa  tornar  colla  mente  all'etrusco  CAMARS(o  Clusium) 
ed  ai  Camertes  Umbri  di  Livio  (1).  Né  punto  farà 
meraviglia  la  precedenza  del  mationiuiico,  bastando 
di  rammentare  il  LARTHIAL  MUTIKUS  dell'  epi- 
grafe di  Tt,rino;  né  il  LARTHEAL  in  luogo  di  LAR- 
THIAL, pari  al  TITEAL-TlTlAL,al  RANTHEAL 
RANTHIAL,  all'ARZNEAL  -  ARZNIAL  di  altri  mo- 
numenti; né  CAICN in  luogo  di  CEICN 

sotto  la  cui  forma  comunemente  ci  si  offre  il  nome 
dei  Cecini;  dacché  anzi  vi  troveremo  più  regolarità 
nel  suo  dittongo,  e  una  maggior  corrispondenza  alla 
forma  greca  e  latina  dello  stesso  nome  [Caecina  e  Kcxi- 
x/v«)  (2),  al  quale  forse  opinerei  oggi,  per  successivi 
confronti,  non  doversi  riferire  le  forme  CAGNA,  CA- 
GNI, CAGNEI,  CAGEINAL,  siccome  fu  d'avviso  il  eh. 
Fabrctti,  parendomi  convalidato  il  dubbio,  che  già  me 
ne  mosse  il  eh.  Capei  dal  latino  Cacimis,  che  ci  diede 
in  due  vasi  aretini  l'egregio  sig.  Gamurrini  (3)  (cui 
pur  sembrò  vedervi  un  equivolente  di  GACCINAL 
Lanziano),  i  quali  potriano  indurci  a  scorger  ivi  la 
vera  espressione,  la  vera  pronuncia  (alla  latina)  del- 
l'etrusco CAGNA.  Del  CANA  a  me  sembrerebbe 
poter  quivi  ritenere  il  significato  di  donum,  o  dona- 

(1)  Conf.  Boeckh,  C.  L  G.  n.  6S03,  6606. 

(2)  Cf.  Iscriz.  Etr.  fior.  p.  39  e  57.  Mon.  di  Per.  IJl 
p.  74. 

(3)  L.  cit.  p.  49  n.  288-289. 


192 
rlum,  che  passati  etruscologi  gli  attribuirono,  e  che 
non  trovasi  punto  in  discordanza  col  resto  dell'epi- 
grafe, né  coH'oggelto  nel  quale  è  scritto  (1),  ed  in 
cui  se  realmente  si  volle  espriaiere  il  simbolico  ìn- 
solto,  che  indicammo,  per  nulla  ci  meraviglieremo, 
che  si  procedesse  al  dono,  come  alla  dedica  del  me- 
desimo (2)  :  rammentando  la  parte  occupata  dallo 
scarafaggio  nella  religiosa  superstizione  degli  etru- 
schi, siccome  in  quella  degli  egizi  ed  assiri,  donde 
ne  si  spiega  il  largo  uso  che  incontrasi  appo  i  no- 
stri maggiori  di  preziosi  oggetti  adoperati  nella  vita 
domestica  in  forma  di  quell'animale. 

Passando  ora  a  Perugia  ,  mi  occorre  far  noto 
come  per  la  generosità  del  defunto  sig.  D.  Erme- 
negildo Monti  si  accrescesse  di  un  vaso  dipinto  la 
collezione  vascularia  del  nostro  museo  universita- 
rio ,  ampliata  di  molto  in  questi  ultimi  anni  per 
acquisti  fatti,  secondo  che  appare  eziandio  da  quello 
che  già  ne  sciissi  nel  BidleUino  archeologico  di  Ro- 
ma, e  pili  dagli  articoli  del  eh.  Brunn  sui  suoi  Viaggi 
in  Elrurittj  venuti  in  luce  nel  BuUetlino  medesimo  (3). 


(1)  Conf.  Lanzi  n.  41  -42  p.  465-466  2.*  ed\z.  -  Bull. 
Inst.  1833  p.  95  e  98.  -Iscriz.  Etr.  Fior.  n.  197  e  p.  172.  - 
Vittori,  Mem.  di  Polimarzo,  p.  66. 

(2)  I  seguaci  del  sistema  semitico,  scorgendo  neJ  CANA 
un  significato  di  consecrazione  o  di  dedica,  non  si  discostano 
da  quello  che  vi  ravvisano  gli  avversari,  i  quali  col  donum, 
donariwn,  giungono  al  risultato  medesimo  di  un'  offerta ,  di 
una  consecrazione  a  persona  divina.- Cf.  lannelli,  Tent.  Er- 
men.  in  Etr.  Inscriz.  p.  128.  -  Passeri,  Ronc.  II,  Caloger.  XXII 
p.  38,  XI  Calog.  XXIII  p.  353. 

(3)  V.  specialmente  Bull.  Arch.  di  Roma  1858  p.  145,  e 
seg:-Vaso  Monti,  ivi  a  p.  151  n.  3. 


193 

AI  che  è  d'aggiungere  l'atto  cortese  del  sig.  prof. 
Dottorini,  cui  piacque  depositare  in  esso  museo  il 
sasso  con  tosca  epigrafe  interessante  ,  e  già  edita 
in  queste  pagine  dell'amico  Fabretti  (1),  la  cui  le- 
zione mi  permetto  soltanto  rettificare  nella  seconda 
voce  RUTIA  invece  di  RUTIAN,  dacché  ivi  è  in 
realtà  : 

.immuB'i.tA  11  HItvq.lOv^ 

etc...  (2). 

Nel  museo  medesimo,  in  che  venne  teste  a  pien- 
dei'  posto  onorevoIissi(no   un  singolar  coperchio   di 


(1)  Bull,  di  Roma  1849  p.  35. 

(2)  Che  r  idea  di  custodia,  di  salvezza  ,  di  protezione, 
abbiasi  a  trovare  espressa  nel  SUTHI  scritto  sulle  tombe 
sepolcrali,  come  si  affermò  anche  negli  ultimi  tempi  dall'  Orioli 
(V.  anche  Lett.  al  Fabretti  neW Album  Anno  XXII  p.  178  e 
segg.  Cf.  per  varianti  etimologiche  il  Fabretti,  Riv.  Coni.  1. 
e.  p.  403  Ascoli,  Stiid.  Orien.  e  Ling.  p.  237),  e  dal  eh. 
Maury  {Mem.  cit.  nei  Compi.  Rend.  cit.  p.  169. -V.  an- 
che Bull.  n.  2  degli  scavi  della  Società  Colombaria  in  Ardi. 
Stor.  Hai.  n.  1  I.  XI.  P.  2  1860)  pare  a  me  trovi  nuovo  ap- 
poggio nel  SQTEIPA  dello  striglie  prenestino ,  ricordato  testò 
nel  Bull.  Ardi,  di  Roma,  messo  a  confronto  col  SUTHINA  di 
molti  bronzi  etruschi  (Cf.  Civ.  Catt.  3.  serie  voi.  X  pag.  346  e 
segg.),  in  cui  potrà  ben  ritenersi  il  significato  di  conservazione, 
di  tutela,  di  salute  a  mezzo  del  divino  aiuto,  che  anche  sot- 
tinteso s' impetra  pur  sempre,  o  si  augura,  conforme  vuoisi  rav- 
visare Dell'addotta  voce  greca  dello  slrigile,  e  nell'epigrafe  Sors 
Mercurii  di  una  marmitta  in  bronzo,  alla  cui  spiegazione  (in 
quel  senso)  si  recò  sussidio  dal  eh.  Garrucci  con  lo  strigile 
medesimo  (V.  Bull.  Inst.  Arch.  di  Roma  a.  corr.  p.  16J  Cf. 
Fiorelli ,  Noi.  di  vasi  dipinti  dimani  Tav.  XVII  n.  2  e 
pag.  XXV. 

G.A.T.CLVXI.  13 


194 

sarcofago  chiusino  con  duplice  figui'!),  che  si  darà 
in  luce  negli  Annali  delV  islilulo  ardi,  di  Roma  di 
quest'anno  ,  a  me  parve  utile  di  disporre  eziandio 
la  collezione  d' impronte  in  gesso  ,  appo  me  esi- 
stente ,  di  circa  460  elrusche  epigrafi  sparse  qua 
e  là  per  il  contado  perugino  ,  potendo  fare  buon 
seguilo  alla  ricca  nostra  collezione  di  originali  di 
monumenti  scritti  etruschi,  ed  essendo  al  caso  di 
recare  alcun  giovamento  agli  studi  comparativi  sulla 
lingua  e  sulla  paleografìa  dell'Etruria.  Oltre  di  che 
possono  eziandio  valere  qual  documento  alla  lezione 
dei  nuovi,  e  alla  correzione  dei  già  noti  monumenti 
scritti  della  città  nostra  ,  che  in  parte  demmo  ,  e 
in  parte  ci  proponiamo  di  rimettere  in  luce:  fra  i 
quali  intanto  piacemi  anticipar  qui  la  riproduzione 
del  frammento  di  stele,  che  il  Vermiglioli  malamente 
pubblicò  al  n.  27  della  sua  classe  IV  ; 

(rotta   la  slele) 


m 


m 


{7-. 
> 

V 

> 

O 


195 

ove  |)i'incij)ali)ienle  è  per  me  a  far  notare  la  voce 
TUSURTHII  creduta  Hn  qui  esistente  solo  nelle  due 
urne  bisomi  dell'ipogeo  perugino  dei  Pelronì  (1),  e 
dal  eh.  Fabretti  portata  ,  con  molta  dottrina  ,  per 
mezzo  della  spiegazione  iixor  ,  alla  classe  di  voci 
che  nelle  favelle  indo-germaniche  esprimono  relazioni 
di  parentela.  Con  che  qui  ben  si  accorda  la  termi- 
nazione femminea  del  nome,  in  cui  senza  dubbio  si 
ha  una  Tarquinia,  scritta  etruscamenle  senza  aspi- 
rata come  altrove  ,  sebbene  meno  frequentemente 
che  col  ^X.•  -  Giovami  poi  notare,  come  testé  si  fa- 
cesse l'acquisto  pei'  il  nostro  museo  dì  due  grandi 
tubi  0  condotti  in  terra  cotta,  facenti  parte,  insieme 
ad  altri  cinque?,  di  una  conduttura  di  acque,  e  rin- 
venuti nel  1859  in  luogo  non  guari  lontano  da  quello, 
da  cui  si  estrasse  nel  1822  il  nostro  gran  cippo 
etrusco  con  la  iscrizione  di  45  linee.  I  nominali  due 
tubi  lunghi  centim.  88,  di  un  vuoto  di  10  cent,  di 
diametro  (questo,  in  totalità,  di  18  cent.)  mi  par- 
vero degni  di  venire  nel  nostro  museo  per  la  se- 
ffuente  marca  etrusca  : 
^  1.» 

1." 

(un  pò  abraso) 
la  prima  delle  quali  ,  assai  ben  conservata  ,  credo 
poter  togliere  a  sicura  norma  per  dire  che  in  amen- 
due  abbia  a  leggersi  MI  ANTHE  ,  e  che  con  esse 
io  debba  rettificare  la  lezione  della  non  bea  chiara 


(1)  Conestabile,  ilfow.  Per.  p.  43-44. 


196 

lucerna  fìltile  ,  data  al  n."  CCCXX  della  serie  pe- 
rugina del  Palazzone,  in  cui  nella  prima  lettera  (non 
sicura)  supposi  una  semplice  m,  laddove  il  modo  chia- 
rissimo, onde  qui  si  presenta  quell'elemento,  mi  per- 
suade piuttosto  aversi  a  sciogliere  in  MI  con  la  ^ 
(usata  pur  dagli  etruschi)  (1)  all'  arcaico- dorica  , 
sminuita  di  un'asta,  o  immedesimata  per  nesso  nel- 
r  i  seguente,  e  sì  nella  lucerna  che  in  questi  tubi 
riconoscere  una  marca  identica,  la  quale  ha  un  op- 
portuno riscontro  neli'  ANTHI  di  un  piatto  chiu- 
sino (2). 

Ora  ad  ognuno  che  sappia  degli  studi  sull'etru- 
sco si  offre  facile  la  spiegazione  di  questa  marca, 
siim  (inlìims  (3)  allhis,  con  posposizione  di  prenome, 
sendochè  l'equivalente  del  MI  etr.  al  snm  latino,  li- 
conosciuta  già  in  antico  da!  Lanzi,  e  sostenuta  di 
bel  nuovo  negli  ultimi  anni  dall'Orioli  (4),  sembra 
ormai  affermata  da   tutti  i  dotti  (5)  sebbene  siensi 


(1)  flO  fl9  in  epig.  del  musco  gregoriano ,  per  cui  si 
escludono  ognor  più  i  dubbi  del  eh.  De  Ville  sull'uso  della 
forma  M  per  m  appo  gli  etruschi  {Ann.  InstAM'ì  p.  153),  e 
si  può  convalidare  il  MA.  JRANTHA,  che  io  supposi  potersi  leg- 
gere nei  tempi  indietro  in  una  iscrizione  sovanese,  ora  difettosa 
nel  suo  destro  lato  [Bull.  2.  degli  scavi  della  Colombaria  in  Ar- 
di. Stor.  Hai.  n.  s.  T.  XI  P.  2.). 

{%  Micali,  Atlante  Ta\.  CI  n.  11. 

(3)  Cf.  Fabretti,  Gloss.  s.  v.  ANTHI. 

(4)  Album  di  Roma  21  luglio  1855  p.  170-171  -^m//.  In- 
st.  1854  p.  XXI.  Cf.  Poti,  Etymol.  Forsch.  Ann.  I  p.  273-274- 
e  V.  anche  Secchi  in  Bull.  Inst.  1846  p.  14;  Brunn  in  Annali 
deU  Jnst.  1855  p.  52;  Minervini  in  Bull.  Nap.n.  s.  Anno  2." 
p.  164  167. 

(5)  Cf.  anche  Maury,  Mem.  cit.  nei  Compi.  Rend.  cit. 
pag.  178. 


197 

emesse  contrarie  osservazione  dal  eh.  Fabretti  (1), 
che  ci-edè  piuttosto  vedervi  il  significato  di  ego  [io) 
(esistente  anche  oggi  nel  mi  appo  i  rezi  ,  odierni 
trentini,  (2)  in  una  delle  antiche  stanze  di  etrus- 
chi) stabilito  in  quella  vece  dal  citato  Orioli  nel- 
l'etrusco MA  (3),  ed  oggi  riscontrato,  a  quanto  pare, 
sotto  la  forma  IN  appo  gli  etruschi  di  Campania  (4), 
i  quali  nei  loro  resti  epigrafici  oltre  che  già  cono- 
sceano  il  SIM  in  luogo  del  Mi  (5) ,  oggi  ci  fanno 
nota  la  piiì  schietta  forma  osco-latina  SUM  (6),  se- 
gno di  una  precoce  alterazione,  in  quei  luoghi,  del 
loro  linguaggio  rimasto  piiì  lungamennte  saldo  ed 
inalterato  in  mezzo  al  centro  della  confederazione. 
Che  cosa  poi  voglia  esprimere  la  frase,  il  sa  bene 
ognuno  che  sperlo  sia  di  simili  epigrafi,  ove  intro- 
ducendosi  a  parlare  i  monumenti  medesimi,  il  nome 
del  possessore,  e  se  vuoi  anche  dell'artefìcf^,  spesso 
avviene  s' incontri  al  nominativo:  «  perchè  ognuno 
))  in  cosa  sua  (ripeterò  coli'  Orioli)  può  regolarissi- 
»  mamente  contentarsi  di  scrivere  in  retto  il  pro- 
»  prio  nome,  ad  esprimere,  questo  è  mio.  »  (7);  e 
perchè  realmente  sembra  essersi  quasi  preferito  ap- 
po loro  di  accennare  in  questa    guisa  dopo  il  MI, 


(1)  Riv.  Contemp.  di  Torino  1.  cit.  pag.  402.- Cf.  Eichhoff, 
Parallèle  de  lang.  p.  36,  e  468  -  470. 

(2)  Giovannelli,  dei  Rezi  ecc.  p.  88. 

(3)  L.  cit.  deW  Album  di  Roma  p.  194-  195.-  Cf.  Bunsen 
in  Bull.  Inst.  di  Roma  1833  p.  95. 

(4)  Bull.  Ardi.  Nap.  1859,  Anno  VII  p.  148. 

(5)  Bull.  Arch.  Nap.  1852  p.  87. 

(6)  Bull.  Nap.  Vllp.145-146.-Cf.  Mommsen,   Unlerita- 
lischen,  Taf.  X  n.  18.^ 

(8)  Album  di  Roma  1.  cit.  pag.  171. 


198 
siccome  aiv'he  (alvolta  dopo  il  MA,  alla  persona,  cui 
liferiasi  l'oggetto,  tuttoché,  giusta  il  modo  praticato 
dai  gn&ei  con  il  loro  emi  od  eimi  ,  costumassero 
ben  anche  di  addurre  i  nomi  al  genitivo  e  al  da- 
tivo, io  sono  di....  io  sono  a (1).  Posto  ciò  ,  io 

non  esito  a  ravvisale  nella  marca  di  questi  monu  - 
menti  fittili  il  segno  del  fabbricante  o  del  posses- 
sore del  fondo  ,  vale  a  dire  della  persona  che  ne 
loclama,  o  come  artefice  o  come  padrone,  la  perti- 
nenza ;  al  modo  slesso  che  si  giudica  per  le  lu- 
cerne con  la  marca  notissima  ATRANE  ATRA- 
NESI. 

Non  credo  quindi  inutile  far  menzione  di  una 
piccola  corniola  venuta  in  mie  mani,  che  reca  in- 
cisa, a  lavoro  non  tanto  fino,  una  Fortuna,  che  io 
stimerei  Forlnna  -  Cerere,  stante,  ornata  nel  capo  di 
slefune,  vestita  di  lunga  chitone  e  manto,  con  corno 
di  abbondanza  nella  sinistra,  spiga,  e  remo  ,  che 
poggia  in  terra,  nella  destra  (2),  e  per  cui  si  può 
a  un  tempo  nella  stessa  Tyche  ravvisare  molto  bene 
la   Vrovvidenza  (3).  Essa  proviene  da  recente  inve- 


li) Y.  Bxdl.  Nap.  II  p.  167  VII  pag.  145  e  segg.-Iscriz. 
Etr.  Fior.  p.  80,  112  -  115,  ed  altrove;  e  Bull.  Inst.  di  Roma 
fra  gli  altri  luoghi  alla  p.  100  del  1859  per  il  vaso  di  Volsinio; 
non  che  in  Album  Anno  XIII  p.  159  -60  l' iscrizione  ritmica  MI 
VIANAS   i   PLEN  lANAS. 

(2)  Cf.  Spanheim  in  Collimaco,  III  pag.  735;  Buonarroti, 
Medagl.  ant.  p.  240  -  243,  Boettiger,  Vesengem.  I  pag.  211.  - 
V.  Ann.  Inst.  di  Roma  1835.  p.  151.  -  Fortuna  piuttostochè 
Cerere  forse  nella  lucerna  della  raccolta  archeologica  del  eh. 
Spano,  donata  al  museo  di  Cagliari  [Calai,  p.  58). 

(3)  CI.  Zoega,  Tyche  e  ^emesis  in  Abliandlungcn  p.  32 
Muller  Handhuch  §.  398   n.  2  (ediz.  Welcker). 


199 

sligazione  dell'antico  teirilorio  di  quell'Arna  umbro- 
etrusca  ,  in  cui  in  genere  si  sa  essersi  onorato  il 
detto  nume  con  ispecial  culto,  al  quale  perciò  potè 
essersi  ivi  atteso  nelle  varie  diramazioni,  e  in  vista 
del  quale  appunto  io  fui  d'avviso,  potersi  ricono- 
scere un'  immagine  della  Forliina  nel  bel  bronzo  pe- 
rugino del  sig-  Bonucci  (1),  ove  il  eh.  Cavedoni  credè 
di  scorgere  una  semplice  testa  di  Medusa,  anche  a 
riguardo  di  queir  impronta  grave  e  severa  della  fìso- 
nomia  (2)  ;  lo  che  però  a  me  sembra  potesse  to- 
gliersi dall'arte  ad  esprimere  l'idea  di  quel  nume, 
nel  modo  stesso  che  se  ne  servì  a  ritrarre  imma- 
gini gorgonee  ,  visto  anche  che  nel  variato  sim- 
bolismo di  queste  ultime,  nelle  idee  che  in  loro  si 
roncentrano,  sulle  orme  anche  dei  classici  e  dei  mi- 
trografi,  non  mancano  legami  onde  si  riannodano  ai 
grandi  destini  dell'  umanità  ,  agi'  inesorabili  decreti 
posti  nelle  mani  di  Nemesi,  spesso  immedesimata 
colla  Fortuna,  sì  nella  mente  degli  scrittori,  come 
nei  concetti  dell'arte. 

Adduco  in  fine  dalle  mie  schede  varie  altre  epi- 
grafi. Una  in  vaso  ansato,  mostratomi  gentilmente 
dal  sig.  principe  D.  Marc'Antonio  Borghese,  e  che 
non  trovo  nella  relazione  Polimazziana  del  Vittori; 
la  quale  epigrafe  dice 

^Y<3YOJaq 


(1)  Ann.  ìnst.  ISSO  p.  25 -i7. 
Ci]  Bull.  Inst.  ISm  p.  236. 


200 

forse  da  leggersi  Vibennia  (l)  moglie  di  un  Vellore 
(o  Vollurio)  (2),  riguardando  in  Velthurus  piuttosto 
un  nome  di  famiglia,  che  non  un  prenome,  qual  si 
avvisava  scorgere  l'Orioli  nelle  luraniensi  (3).  Altra 
che  io  rinvenni  presso  i  sigg.  Sergardi  in  Camuscia 
(presso  Cortona)  nel  modo  seguente  disposta  attorno 
alla   fionle  di  un'  urna  con  fiore  rosaceo  nel  mezzo  : 

■7  -7 

o 

che  ignoi'o  ove  siasi  data  in  luce,  e  che  mi  sì  volle 
hv  credere  trovala  entro  la  ton)ba  che  illustrò  Mis- 
sirini,  cosa  alla  quale  non  mi  soscrivo,  visto  il  ca- 
rattere all'  intuito  diverso  agli  arcaici  monumenti 
a.  b.  r.  estratti  da  quel  sepolcro  antichissimo.  -  Una 
terza  latina  copiata  da  urna  presso  il  sig.  cav.  Ot- 
tieri  della  Ciaia  in  Chiusi  : 

C  .  PVLFENNIVS  .  C  .  F. 
llSENTIA 

NATVS 


(1)  Cf.  LÀRTfllA  UPNEIÀ  la  App.  alle  Iscriz.  Fior.  ecc. 

p.  271  n.  72.  -All'HUP VIP fa  buon  confronto  l' HUl- 

VIUS-PIIUIUS  »  filiiis  (Iscriz.  Fior.  p.  7.-Fabretti  e  Miglia- 
rini in  Ardi.  Stor.  Hai.  IV.  Disp.  1.  p.  141. -Cf.  Gtoss.s.  v. 
nUl  in  significato  femineo  {filia]  ]. 

(2)  Per  errore  di  stampa  si  legge  Vettore  nella  traduzione 
del  YELTHURI,  in  Iscriz.  Fior.  p.  191. 

(3)  Giorml.  Arcad.  CXX  p.  288  Bull.  Inst.  di  Roma  1839. 
p.26. 


201 

ed  una  quarta  inedita,  io  credo,  del  museo  kirke- 
riano 

Bl^imH  :  vomH<] 

probabilmente  (con  l'analogia  del  RAMTHA  yjoc'anzi 
ricordalo  in  nota)  ArnnUia  (o  fìaìinlhia,  o  Ranlho- 
nia  (?)  (1))  Alsinia  (2),  ove  nella  desinenza  in  ?t,  spet- 
tante al  primo  come  al  secondo  genere,  è  forse  quel 
troncamento  dall'UI,  che  Orioli  supponeva  nel  RAVN- 
THU-RAVNTHUI  di  una  tuscaniense  (3),  e  per  cui 
può  dirsi  in  buon  accordo  col  femmineo  Kl  della  se- 
conda voce. 

Mentre  poi  colgo  di  buon  grado  questa  occasione 
per  faie  dovuta  ammenda  di  un  abbaglio  in  che 
caddi,  per  calco  difettoso,  a  proposito  dell'  iscrizione 
chiusina  illustrata  dal  eh.  P.  Tarquini  (nella  Civ. 
Cali,  tomo  X  serie  3."  p.  741),  ove  esclusi  (4)  in 
tìne  della  2."  linea  l'esistenza  di  due  punti,  che  in 
realtà  vi  ravvisai  al  nuovo  riscontro  faitone  sull'ori- 
ginale, ora  al  museo  vaticano  (SKL  :  ||  AFRA),  mi 
permetto  trar  fuori  dal  kirkeriano  la  esatta  lezione 
del  vaso  a  campana,  che  il  lodato  eh.  Tarquini  con 
il  suo  sistema  semitico  (5)  noverava  tra  i  vasi  di- 
vinalori,  e  che  all'epoca  della  sua   illustrazione  non 


(1)  Orioli  e  Cainpanan  Sec. 

(2)  Cf.  Fabrelli,  Gloss.  s.  v.  ALSINAI,  a  cui  può  con  la 
presente  aggiungersi  ora  quest'altra  forma. 

(3)  Giornal.  Arcad.  di  Roma  CXX  n.  16. 

(4)  Bull.  Ardi.  Nap.  VI  p.  112. 

(oj  Un  nuovo  esame  critico  di  questo  sistema  e  Teuuto 
in  luce  testé  per  la  penna  del  dotto  filologo  lt;iliano  sig. 
Ascoli  neir  Arch.  Stor.  Hai.  di  Firenze  n.  s.  T.  XI  cap;  I. 


202 

sembra  fosse  ancora  fra  i  monumenli  di  quel  museo 
ove  io  1'  incontrai.  Essa  é  nel  modo  che  qui  ap- 
presso : 

eVD33  :  aAlUVJlA  :  IHll/1/ieqV  :  VA 

Non  saprei  dire  se  con  ciò  si  alterino  le  basi  di 
spiegazione  del  dotto  padre;  solo  avvertirò,  che  per 
siffatta  lezione  si  toglie  di  mezzo  quelP  indubbia  sua 
assertiva,  per  cui,  a  miglior  giovamento  dei  riscon- 
tai ebraico-caldaici,  l'epigrafe  diceasi  scritta  e  di- 
visa nell'originale  alla  maniera  seguente:  AU  U  RSM: 
APL  U  NIÀS:  Ct:GUS(l).  Per  quanto  nell'ortogra- 
fia de'  toschi  monumenti  si  potesse  procedere  tal- 
volta ad  arbitrio  o  a  capriccio,  talvolta  a  sproposito 
nella  separazione  di  voci  senza  punti,  ed  anche  dei 
membri  di  wna  voce,  pure  non  sembrami,  per  quanto 
conosco,  si  giungesse  a  quel  grado  che  si  da  l'ebbe 
a  vedere  nella  lezione  epigrafica  testò  rettificata. 
Anzi  io  credo  potermi  fermare  nell'avviso,  che,  ove 
agli  etnischi  piacesse  in  alcun  caso  di  staccare  nella 
scrittura,  senza  l'impiego  di  punti,  un  membro  di 
una  parola  dal  resto  della  medesima,  ciò  si  man- 
dasse ad  effetto  generalmente  con  una  certa  regola 
e  giustezza.  Del  che  si  hanno  le  prove  nelle  desi- 
nenze o  finali  de'  nomi,  messe  a  distanze  o'  sepa- 
rate dal  rimanente  di  essi,  non  pur  negli  esempi 
che  addussi  altrove  (2),  sì  bene  anche  iu   VESU  SA 


(1)  Civ.  Catt.  Serie  cit.  voi.  X  pag.  35S-S57. 

(2)  Pref.  alle  Iscr.  Etr.  Fior.  p.  CXVXVI. 


203 
di  un'  urna  di    terra  cotta  del  museo  Campana,  in 
ASPRE  S  di    urna  di  nenfro  nel   museo  Gregoria- 
no (1),  ed   in  altri  che  potriano  certo  addursi,  spi- 
golando nel  campo  della   tosca  epigrafìa. 

In  ultimo  dirò  con  brevi  parole  di  oggetti  an- 
tichi ulleiiormente  discoperti  nell'agi-o  trentino  al- 
quanto più  in  gii!i  della  necropoli  di  Sladler,  di  cui 
favellammo  negli  Annali  delV  islitulo  arch.  di  Ro- 
ma (2).  Sebbene  di  non  guari  impoitanza,  pur  tut- 
tavia non  è  inutile  di  prendeine  ricoi'do  ,  siccome 
continua/Jone  della  serie  di  antichità  rezio-etrusche, 
di  cui  si  pailò  nelle  pagine  del  Giovannelli,  del  Sul- 
/ei-,  e  di  alti'i  archeologi.  Per  mezzo  di  abbozzi  dì 
disegni  comunicatimi  dal  mio  egregio  amico  e  cor- 
rispondente sig.  Tito  Rasetti  di  Trento,  veggo  con- 
sistere essi  in  due  coperchi  di  rame,  e  in  due  si- 
tulo  dello  stesso  metallo,  una  entro  l'altra,  identi- 
che a  quella  famosa  illustrala  dal  Giovannelli,  ma 
senza  iscrizione;  nella  minore  delle  quali  conteneasi 
una  punta  di  lancia  in  bronzo,  cui  dovea  ricongiun- 
gersi il  suo  manico  di  legno  introdotto  pel  foio, 
che  vi  si  vede  :  sette  di  quegli  ainesi  metallici  a 
taglio  di  scure  (tre  in  ferro  e  quattro  in  bronzo) 
per  uso  gueiresco  probabilmente,  di  cui  tenni  spe- 
ciale proposito  in  discorrere  delle  scoperte  trenti- 
ne  (3)  e  che    riunivansi   all'  estremila  superiore  di 


(1)  Cf.  Mus.  Etr.  Greg.  Tav.  XCIV.  n.  3. 

(2)  Anno  18S6  p.  74-81. 

(3)  Annali  Arch.  di    Roma   I.  e.  -  V.   Mirali,  Atlante 
Tav.  114-1,  e  3. 


204 

un'  asta  per  via  forse  di  coregge  raccomandate  ad 
anello,  che  tuttora  vi  si  scorge,  siccome  avviene  di 
riscontrare  in  ordigni  presso  a  poco  dello  stesso 
genere,  venuti  fuori  da  paesi  settentrionali,  ed  ado- 
perati anche  oggidì,  per  es.  in  Islanda,  a  mò  di  pic- 
cone (1):  lo  che  potrebbe  facilmente  indurre  a  pen- 
sare non  si  escludesse  nemmeno  appo  gli  etruschi 
dagli  usi  della  vita,  ove  occorresse,  l'arnese  a  punta 
summenzionato  ,  restando  pur  sempre  a  far  parte 
eziandio  degli  attrezzi  di  guerra.  Oltre  di  che  è  me- 
stieri notare,  fra  quegli  oggetti,  una  punta  di  ascia 
in  bronzo  con  grosso  pertugio  per  l'introduzione  del 
manico,  con  una  parte  della  testa,  e  ad  un  solo  ta- 
glio condotto  nel  modo  di  quelli  delle  bipenni  amaz- 
zonidi,  sulla  cui  lama  sono  graffite  le  lettere  lAI  ; 
il  quale  arnese  io  credo  poter  essere  guen-esco,  come 
lo  fu  appo  gli  slavi  e  normanni  (2):  quindi  una  la- 
mina di  rame  con  graziosi  ornamenti  a  graffito,  per 
la  metà  della  sua  superficie  a  volute  che  s' intrec- 
ciano, e  per  l'altra  metà  ritraenti  una  specie  di  di- 
sco solare  vittato  egualmente  a  graffito  con  assai 
eleganza.  -  Lo  stesso  sig.  Rasetti  poi  soggiugneami 
in  lettera  del  febbraio  passato,  favellaisi  parimenti 
in  quei  dì  della  scoperta  di  un  tempio  e  di  una  te- 
sta di  Mercurio,  avvenuta  poche  miglia   più  in  giiì 


(1)  Guide  to    Northern  archology  eie.  by  The  Earl.  of. 
Ellesmae  (London)  1848.  p.  60. 

(2)  Cf.  Kunik,  Die  Bernefung  der  Schwedischen  Rodsen  11 
p.  271.-Koehac,  Mus.  du  Prince  Kotchoubey  I  p.  229. 


205 

nella  medesima  valle  Atesina  ;  ma  nemmeno  egli 
sapeane  di  preciso  tanto  quanto  è  necessario  per  di- 
scorrere di  cose  simili  con  un  pò  di  utile  e  di  buon 
risultato  per  la  scienza.  Se  però  in  seguito  si  farà 
luogo  a  novità,  o  dilucidazioni  in  proposito,  mi  pro- 
mise darmene  contezza  con  l'usata  sua  cortesia. 

Perugia  29  aprile  1860. 

GlANCAKLO     CONCSTABILE 


206 


Sopra  un  opera  deW  ab.  Anlonio  Rosmini  Serbati 
intitolala  :  Della  sommaria  cagione  per  la  quale 
stanno  o  rovinano  le  umane  società.  Articolo  let- 
terario del  professore  Don  Paolo  Barala  custode 
generale  d' Arcadia  e  membro  del  collegio  fdolo- 
gico  nella  R.   U.  (1). 


k^aggio  ed  utile  ammaestramento  (accademici  il- 
lustri, gentilissimi  ascoltatori)  saggio  ed  utile  am- 
maestramento dava  ai  cultori  delle  muse  ed  a  quanti 
son  bramosi  del  bello  scrivere  il  poeta  venosino,  al- 
lorché nella  sua  lettera  ai  Risoni,  ove  al  vivo  ritrag- 
gesi  la  natura  ,  esortavagli  ad  attignere  il  subietto 
de'  loro  componimenti  dalle  fonti  limpidissime  della 
sana  e  morale  filosofia  :  «  Rem  tibi  socraticae  po- 
terunl  ostendere  chartae  ».  11  qual  consiglio  traeva 
quel  sublime  scrittore  da  quell'  aureo  docAjmento 
da  lui  medesimo  stabilito  ,  essere  fonte  e  princi- 
pio del  bello  scrivere  il  buon  senno  ,  o  come  noi 
sogliamo  appellare  ,  il  senso  comune  della  natura: 
«  Scribendi  recte  sapere  est  et  principium  et  fons  ». 
E  a  dir  vero  siccome  da  questo  interior  senso  di 
natura  apprendiamo  a  porre  in  bella  armonia  le  parli 
col  lutto,  i  concetti  dell'animo  ordinatamente  espri- 
mere con  le  parole,  tenersi  nello  scrivere  in  una  via 


(1)  Questo  ragionamento  fu    letto  in  Arcadia  nella  tor- 
nata ivi  tenuta  il  dì  10  maggio  1860. 


207 
di  mezzo  evitando  ogni  ostiemo,  ed  osservare  allre  re- 
gole a  quel  dettame  conformi;  così  siam  per  esso  av- 
vertiti ad  ornare  di  bello  stile  pensieri  ed  immagini 
non  vote  di  sostanza  e  sparute,  ma  che  racchiudano 
in  se  preziosi  ed  utili  ammaestramenti.  E  quantun- 
que conceder  si  debba  essere  il  diletto  uno  dei  fini 
che  propor  si  possa  scrivendo  il  poeto,  giusta  il  seo- 
limento  dello  stesso  Orazio;  un  altro  ve  ne  ha  tut- 
tavia di  quello  più  nobile,  e  che  suole  il  sapiente 
proporsi  in  ogni  sua  deliberata  azione,  volli  dire  fin- 
tellettuale  e  il  moiale  vantaggio  de'  suoi  simili.  Lo 
afferma  espressamente  il  nostro  Fiacco,  il  quale  dopo 
aver  rammentato  quel  doppio  fine,  cui  dee  mirai'e 
il  cultor  delle  Muse  e  qualunque  altro  bramoso  del 
bello  scrivere,  soggiunge  opportunamente  ,  che  ad 
ottenere  il  pieno  suffragio  di  chi  ascolta,  fa  d'uopo 
accoppiare  all'utilità  delle  cose,  la  proprietà  ed  ele- 
ganza dello  stile  : 

«  Aut  prodesse  volimi,  aut  deleclare  poelae, 
Ani  simul  el  iucunda  et  idonea  dicere  vilae. 

Omne  lulit  punctum  (jui  miscuit  niile  dui  ci , 
Leclorem  deleclando  pariterque  monendo  ». 

Così  adoperarono i  più  solenni  maestri  della  greca, 
della  latina  e  della  italiana  letteratura,  e  in  singo- 
golar  modo  il  glande  Alighieri  ,  nel  cui  poema  sì 
spesso  incontransi  espresse  con  leggiadrissimi  versi 
gravi  ed  utilissime  sentenze  di  sana  e  morale  filo- 
sofia. Laonde    niuno,    io  mi  avviso  ,    sarà  fra   voi, 


208 
arcadi  sapientissimi  ,  cui  recar  possa  meraviglia,  o 
riuscir  forse  discaro,  se  in  mezzo  all'amenità  delle 
lettere  ,  cui  principalmente  è  livolto  1'  accademico 
nostro  istituto  ,  tolga  io  a  ragionare  in  questo  dì 
di  un  aigomento  a  morale  e  politica  scienza  appar- 
tenente, parendomi  essere  oltremodo  acconcio  alle 
circostanze  calamitose  de'  tempi,  in  cui  ora  versiamo. 
E  poiché  a  ciò  fare  ben  conobbi  non  esser  le  mie 
sole  forze  bastevoli,  stimai  miglior  consiglio  seguir 
le  oi'me  di  sci'ittore  cclebiatissimo  ,  a  cui  già  mi 
strinse  dolce  nodo  di  amicizia,  e  che  venerai  qual 
maestro,  presentando  a  voi  in  pochi  tratti  un'  ana- 
lisi ragionata  di  un'  opera  uscita  della  sua  penna 
col  titolo:  Della  sommaria  cagione  per  la  quale  slanuo 
0  rovinano  le  umane  società.  È  questi  il  chiarissimo 
ah.  Antonio  Rosmini-Serbati,  il  quale  finché  basto- 
gli  la  vita,  con  sempre  nuovi  scritti,  pregevolissimi 
per  la  materia,  ammirabilissimi  per  la  profondità 
della  trattazione,  mostrò  come  anche  in  mezzo  alle 
numerose  e  gravi  fatiche  del  sacro  suo  ministero  j)0- 
tess'  egli  consacrare  lunghe  veglie  ed  assidui  studi 
al  fine  lodevole  di  vantaggiare  la  causa  universale 
de'  suoi  prossimi.  E  che  io  mal  non  mi  apponga 
così  di  lui  favellando,  il  giudicherete  per  voi  me- 
desimi, se  onorar  mi  vogliate  per  breve  tempo  della 
cortese  vostia  attenzione. 

In  quest'  opuscolo  di  poca  mole,  e  di  utilissime 
verità,  non  si  parla  delle  scosse  che  ad  una  umana 
società  venir  possano  dal  di  fuori  per  atteirarla  ine- 
vitabilmente per  via  di  violenza;  ma  si  ricerca  la 
somma  di  tutte  le  cagioni  parziali,  per  le  quali  le 
umane  società    da  sé  slesse    pervengono    alla  loro 


209 
sussistenza  o  alla  loro  distruzione.  E  si  stabilisce 
per  primo  criterio  politico  la  seguente  massima:  Si 
miri  a  conservare  e  fortificare  ciò  che  costituisce 
l'esistenza  o  sostanza  della  società,  anche  a  costo 
di  dover  trascurare  ciò  che  ne  forma  l'accidentale 
finimento  (cap.  I). 

Quindi  si  desume  che  gli  errori  massimi  di  go- 
verno sono  quelli,  pe' quali  si  perde  di  vista  quanto 
costituisce  la  sussistenza  della  società  per  occuparsi 
soverchiamente  intorno  al  suo  perfezionamento  ac- 
cidentale; e  siccome  sulle  vestigie  degli  antichi  lo- 
gici tutte  le  infinite  fallacie,  a  cui  soggiacciono  le 
umane  menti,  si  riducono  a  questo  solo  di  pigliar 
Vaccidente  per  la  sostanza^  così  il  semplicissimo  cri- 
terio proposto  veste  una  necessità  ed  universalità 
logica,  che  lo  colloca  fra  quei  principi!,  che  si  ri- 
scontrano veri  da  per  tutto,  ed  entrano  a  dominare 
egualmente  ogni  ordine  di  cose  o  sieno  ideali  ,  o 
sieno  pratiche  ed  effettive  (cap.  11). 

L'evidenza  di  un  tale  primo  criterio  politico, 
contestata  dal  senso  comune  degli  uomini,  è  con- 
fermata colla  storia,  la  quale  è  una  continua  nar- 
razione del  nascere,  crescere,  declinare  e  perire  delle 
maggiori  società  umane  ,  cioè  degli  stati  civili.  E 
servano  di  esempio  le  massime  sociali  degli  spar- 
tani e  de'  romani,  le  più  famose  dell'antichità,  nelle 
quali  agevolmente  si  scorge  quel  carattere  solido  , 
che  dee  manifestarsi  in  un  ordine  politico  ,  dove 
tutto  miri  a  dare  esistenza  e  vigor  alla  società  , 
anziché  a'  fregi  accidentali  e  minuziosi  (cap.  III). 

E  qui  trasportando  la  mente  al  periodo  oscuro  dei 
fondalorif  i  quali  per  le  politiche  società  fecero  quello 
G.A.T.CLVXF.  14 


210 

che  dipoi  i  legialalori  in  una  stagione  più  splendida 
dissero,  si  dimostra  come  la  natura  suggerisse  agli 
uomini,  che  voleano  associarsi  o  mantenersi  associa- 
ti, di  porre  ogni  cura  in  ciò  che  risgiiardava  l'esi- 
stenza della  loro  associazione,  trascurando  quello  che 
riguardava  l'accidental  suo  finimento  :  coH'applicare 
il  primo  criterio  politico  alle  due  leggi  fondamen- 
tali della  società  civile  ,  voglio  dire  la  legge  della 
proprietà  e  la  legge  dei  matrimoni.  In  questa  appli- 
cazione chiaro  apparisce,  che  le  strane  opinioni  di 
assoluta  eguaglianza  dei  beni,  e  di  arbitraria  solu- 
bilità dei  connubi  ,  colle  quali  si  recò  alle  ultime 
sue  conseguenze  la  nuova  teorica  dei  diritti  dell'uo- 
mo, nascono  appunto  dall'  imprudenza  di  certi  in- 
temperanti ingegni,  che  invaghiti  di  qualche  acci- 
dental  vantaggio  ,  cui  veggonsi  brillare  innanzi  al- 
l' immaginazione ,  sono  fatti  ciechi  a  riconoscere 
quanto  vi  ha  di  necessario  ed  indispensabile  all'esi- 
stere di  una  umana  e  civil  convivenza  (cap.  IV). 

La  dottrina  posta  dimostra  avere  dunque  una 
profonda  ragione  quel  sommo  rispetto,  che  noi  reg- 
giamo prestarsi  iti  tutti  i  tempi  e  da  tutti  i  popoli 
alle  prime  loro  istituzioni.  Questo  naturale  e  sapiente 
rispetto,  senza  renderci  nemici  delie  utili  innova- 
zioni, ci  obbliga  a  distinguere  sottilmente  fra  quelle 
innovazioni  che  distruggono  il  vecchio,  e  quelle  che 
aggiungono  al  vecchio.  Rispetto  a  quelle  che  sono 
volte  a  distruggere  qualche  cosa  di  antico  ,  convien 
sicuramente  procedere  con  meno  di  confidenza  e  con 
pili  di  cautela:  conviene  che  gV  innovatori  si  assicurino 
bene,  che  ciò  che  distruggono  è  una  centina,  per  dir 
così,  0  un  armatura,  non  un  vólto  maestro  o  un  pilone 


211 

della  fabbrica.  Rispetto  poi  a  quelle  che  aggiungono 
e  non  distruggono,  e  che  perciò  involgono  minor  pe- 
ricolo di  ferire  l'esistenza  della  società,  conviene  at- 
tendere a  far  sì,  che  le  cose  nuove  si  avvengano  bene 
alle  antiche  ,  e  si  continuino  aW addentellato  lascialo 
da' primi  fabbricatori  (cap.   V). 

La  medesima  dottrina  fa  intendere  in  che  senso 
sia  vera  la  regola:  «  Una  società  dee  ritirarsi  spesso 
verso  il  suo  principio,  acciocché  si  conservi:))  legola  che 
sempre  ebhe  in  conto  di  fedel  sua  guida  anche  la 
maggiore  e  sapientissima  di  tutte  le  società  ,  la 
Chiesa,  cui  Iddio  sostiene  il  più  delle  volte  mediante 
le  cagioni  seconde,  e  non  sempre  facendo  a  dirit- 
tura intervenire  de'  miracoli.  «  Omnino  res  Christiana 
sancta  antiquitate  stat,  nec  ruinosa  certius  repara- 
bitur,  quam  si  ad  originem  censeatur.  »  Così  Ter- 
tulliano nelle  sue  prescrizioni  (cap.  VI). 

Colle  sue  vicissitudini  poi  il  criterio  da  noi  sta- 
bilito segna  nelle  società  umane  quattro  principali 
età,  e  sono  : 

Prima  età  sociale.  Ella  è  quella,  nella  quale  trat- 
tasi di  dare  esistenza  alla  società  ,  e  però  si  pensa 
unicamente  alla  sostanza:  questa  età  dividesi  in  due 
periodi,  in  quello  delle  fondazioni,  ed  in  quello  delle 
prime  legislazioni. 

Seconda  età  sociale.  Ella  è  l'età  fiorente,  nella 
quale  essendo  già  l'esistenza  della  società  rassicu- 
rata, si  trapassa  dalla  considerazione  della  sostanza 
alla  considerazione  degli  accidenti,  senza  tuttavia  an- 
cor  perdersi  di  vista  la  sostanza.  In  questo  tempo 
dopo  essersi  resa  grande  la  nazione,  questa  fa  pompa 
della  siia  grandezza  ;   si    arricchisce  di  adornamenti 


212 

agogni  maniera;  ella  brilla  di  tulio  lo  splendore  agli 
occhi  dello  straniero,  ed  ai  propri. 

Terza  età  sociale.  Alla  seconda  età  succede  la 
terza,  nella  quale  abbagliati  gli  uomini  dalla  pompa 
esteriore  ,  e  da  quanto  rende  la  nazione  adorna  ed 
invidiala,  anziché  forte,  vanno  perdendo  di  vista  tutto 
quello  che  è  sostanziale:  allora  manifestasi  nello  spi- 
rito pubblico  il  tuono  di  leggerezza  e  di  fidatiza  ,  e 
già  questa  può  dirsi  Vepoca  dello  scadimento  e  della 
corruzione  della  società  ! 

Quarta  età  sociale.  Veneìido  per  tal  modo  i  mem^ 
bri  componenti  il  corpo  sociale  a  frivoli  oggetti  , 
si  vanno  guastando  i  solidi  fondamenti  su  cui  era 
stato  appoggiato  Vedifizio  dai  primi  autori,  fino  a  che 
si  fa  luogo  al  quarto  accidente  a  cui  soggiace  lo  stato, 
cioè  a  quel  periodo,  nel  quale  ricevendo  delle  scosse 
0  dai  nemici  esterni,  o  da  interne  turbolenze,  peri- 
cola la  sua  stessa  esistenza. 

In  questo  rilevantissimo  periodo  di  tempo  lo  stato 
subisce  indubitatamente  una  crisi,  o  sia  grande  mu- 
tazione, la  quale  da  nessuna  forza  umana  può  essere 
impedita;  perciocché  venuta  a  questo  punto,  la  società 
non  può  pili  retrocedere,  ed  altro  non  può  aspettare,  se 
non  che  venga  protratta  la  crisi,  ma  causata  non  mai. 
Questa  è  Vepoca,  ove  o  lo  stato  rimane  totalmente  di- 
strutto, perdendo  la  sua  libertà,  soggiogato  da  qualche 
nemico  esterno;  ovvero  se  ha  grandi  forze  e  amica  for- 
tuna da  resistere  agli  assalitori  esterni  ed  al  malore  in- 
terno,dopo  orribili  convulsioni  si  rinnovella  e  si  ripurga, 
ripigliando  quasi  un'' altra  esistenza.  In  questo  caso  egli 
ha  fatto  un  passo  innanzi  nella  civiltà,  e  nella  prò- 


213 

sperila  politica  :  un  passo  però  che  gli  costa  le  aìi' 
gosce  della  morte,  cruenti  sacrifici,  innumerale  vii- 
lime,  ma  che  è  scritto  con  un  bianco  segno  di  gra^ 
zia  nelVeterno  volume  della  Provvidenza  (cap.  VII). 

Entra  qui  in  campo  la  curiosa  ad  un  tempo  ed 
utile  ricerca  delle  leggi,  secondo  le  quali  le  società 
trapassano  dall'una  all'altra  delle  età  indicate,  e  si 
osserva  che  le  associazioni  civili  si  trovano  mosse 
da  due  forze,  le  quali  sebbene  non  sieno  mai  intera- 
mente divise,  tuttavia  non  operano  sempre  con  egual 
efficacia'^  ma  ora  domina  Vuna,  ora  Vallra  prevale  » 
e  però  ne  costituiscono  due  stati  diversi.  Queste  due 
forze  sono  la  ragione  pratica  delle  masse  come  chia- 
mar si  sogliono,  0  vogliam  dire  moltitudini,  e  la  ra- 
gione speculativa  degV  individui,  che  dirigono  la  so- 
cietà. 

La  ragione  pratica  delle  masse  è  quel  quasi  istinto, 
dal  quale  la  parte  più  numerosa  e  men  coltivata 
viene  condotta  ad  operare  per  un  bene  presente  ed 
immediato.  E  qui  è  facile  vedere  ,  come  nei  pri- 
mordi la  propria  esistenza  sociale  è  il  bene  ,  che 
più  vivamente  colpisce  gli  occhi  di  tutti  :  indi  ri- 
mosso il  pericolo  della  distruzione  ,  si  offrono  per 
bene  immediati  da  conseguire  quelli,  che  apparten- 
gono alla  potenza  e  alla  gloria  della  società  stessa. 
Dopoché  l'incremento  dello  stato  è  ottenuto,  avendo 
le  forze  stanche  ,  gli  uomini  si  volgono  natural- 
mente all'amore  dei  pacifici  piaceri,  e  il  lusso  e  le 
delizie  diventano  i  beni  immediati,  secondo  i  quali 
operano  le  masse.  Che  se  questa  voluttuosa  inerzia 
spiega  le  forme  di  egoismo  ,  e  gli  uni  e  soli  pen- 
sieri del  popolo  sono  puramente  panes  et  circenses, 


214 

allora  ogni  patriottismo  è  sjDento,  e  la  società  pre- 
cipita verso  la  sua  ruina  (cap.  Vili).  Conciossiachè 
quella  nazione  ,  che  è  già  nel  terzo  o  nel  quarto 
degli  stadi  accennati,  trovandosi  al  contatto  con  qual- 
che altra  che  è  ancora  nel  primo  o  nel  secondo 
stadio  di  sua  età,  resta  da  questa  soggiogata,  come 
avvenne  dell'  impero  romano  d'  occidente  distrutto 
dai  germanici  (cap.  IX).  Quest'è  la  sorte  che  toccò 
e  toccherà  alle  società  non  cristiane,  le  quali  hanno 
questo  loro  proprio  carattere  di  essere  guidate  pre- 
valentemente della  ragion  pratica  delle  massej  e  ciò 
perchè  gli  stessi  uomini  prevalenti  in  tali  società 
non  sanno  operare  che  in  armonia  della  ragion  pra- 
tica delle  masse ,  senza  aver  forza  di  rattenerle  , 
quando  si  rivolgono  al  peggio,  da  una  irreparahile 
distruzione. 

La  ragione  speculativa  degl'individui  consiste  nel- 
r  idoneità  a  far  uso  del  criterio  politico  ,  la  quale 
si  apprende  da  certi  uomini  meglio  istruiti,  e  in- 
fluenti su  la  parte  più  rozza  del  corpo  sociale.  Que- 
sta potenza  sublime  appartiene  piiì  particolarmente 
alle  società  cristiane;  imperocché  lo  spirito  del  cri- 
stianesimo appunto  perchè  è  sovrumano,  solleva  i 
singoli  uomini  sopra  le  masse,  dando  loro  un'ener- 
gia tutta  nuova,  per  la  quale,  senza  farsi  conniventi 
a  nessuno  errore,  sanno  contrapporsi  alle  storte  opi- 
nioni- 0  al  cieco  movimento  della  maggiorità,  e  col- 
rilluminarla  e  dirigerla  salvano  le  società  anche  al- 
lora, che  sono  volte  per  proprio  moto  all'intero  loro 
discioglimento  ,  facendole,  per  così  dire  ,  risorgere 
piene  di  vita  novella  e  di  novello  splendore.  Rela- 
tivamente a    ciò    si  dimostra    come    col  rallargarsi 


215 

delle  società  e  col  procedere  de'  tempi  l'uomo  si  rende 
più  atto  ad  usare  del  supremo  criterio  politico:  poi- 
ché per  le  due  accennate  cause  1'  ingegno  umano 
acquista  maggiore  estensione  di  calcolo,  con  cui  sa 
anteporre  alle  parti  il  tutto,  e  fnaggiore  altezza  di 
ostinazione  ,  con  cui  sa  sceverare  il  sostanziale  dal- 
l'accidentale con  perfetta  divisione  (cap.  X). 

Ma  ond'  è  che  quantunque  lo  spirito  umano  per 
r  influenza  del  cristianesimo  progredisca  successi- 
vamente di  bene  in  meglio,  tuttavia  le  società  cri- 
stiane non  hanno  meno  per  questo  le  lor  politiche 
vicissitudini  ?  Il  perchè  di  ciò  si  dimostra  essere  , 
che  al  lato  della  progressione  ascendente  della  ra- 
gione speculativa  dei  governanti,  non  cessa  di  avere 
il  suo  naturale  andamento  la  progressione  discen- 
dente della  ragion  piratica  delle  masse  ;  sebbene  la 
prima  progressione  prevalga  costantemente  alla  se- 
conda. Operano  adunque  parallele,  e  quasi  contem- 
poranee queste  due  forze  ,  della  ragione  speculativa 
della  parte  colta  e  della  ragione  pratica  della  parte 
rozza,  della  ragione  degl'individui  e  di  quella  delle 
masse.  E  in  questa  contemporanea  e  non  sempre  co- 
spirante azione  di  quelle  due  forze  si  viene  trac-' 
cìando  la  spiegazione  del  perchè  le  società  cristiane 
spesso  veggonsi  poste  in  burrasca,  ma  non  mai  va- 
dano naufraghe  interamente,  massime  se  si  consideri 
la  cristianità  come  una  società  sola  ,  di  cui  le  na- 
zioni particolari  non  sieno  che  membra  (cap.  XI). 

Ma  conviene  ormai  dire  che  cosa  sia  la  sostanza) 
e  che  cosa  sia  raccidente  nella  vita  sociale;  e  per 
preparare  la  via  a  questa  gravissima  ricerca  ,  che 
aprirebbe,  a  chi  lo  volesse  percorrere,    1'  immenso 


21  r> 

campo  della  scienza  politica,  si  fa  notare  che  le  so- 
tietà  umane  {simili  in  questo  ai  corpi,  rfe'  quali  si 
compone  Vuniverso)  non  istanno  mai  ferme,  ma  sono 
in  continuo  movimento.  Ora  noi  possiamo  determinare' 
due  limili,  che  viene  a  dire  due  stati  estremi,  a  cui 
vanno  sempre  accostandosi  le  società  ne"*  loro  movi- 
menti; questi  limiti  sono,  lo  stato  di  massima  im- 
perfezione in  cui  concepir  si  possa  la  società^  e  lo 
stato  di  massima  perfezione.  Noi  dobbiamo  altresì 
concepire  che  ogni  società  si  muove  infra  questi  due 
stati ,  di  maniera  che  ora  la  società  tende  col  suo 
moto  al  limite  superiore  di  perfezione,  ora  al  con- 
trario è  volta  verso  il  limite  inferiore  d'  imperfe- 
zione :  limiti  che  ella  non  attinge  mai  per  quantun- 
que vi  si  accosti.  Perocché  la  somma  perfezione  nelle 
cose  umane  non  si  raggiunge  :  e  ove  la  società  po- 
tesse toccare  la  somma  imperfezione,  già  molto  prima 
ella  cesserebbe  di  essere.  Considerando  questo  fatto, 
il  quale  per  cangiare  di  generazioni,  d' ingegni,  di 
umori,  di  costumi  e  di  proporzioni  fra  le  cose  è  per- 
petuo; apparisce  così  in  generale  .  che  esistono  due 
sommarie  forze  rispondenti  alle  due  sommarie  ten- 
denze o  movimenti  della  società  ,  V  una  delle  quali 
forze  lei  sospinge  alla  perfezione,  l'altra  la  preme  verso 
r  imperfezione.  Tali  forze  somiglianti  appunto  alle 
forze  che  chiamano  contrifuga  e  centripeta,  onde  ven- 
gono ne'  lovo  moli  tangenziali  sospinti  gli  astri,  sono 
cagioni  a  tutti  i  movimenti  delV  universo  sociale,  e 
formano  i  due  mezzi  complessivi  coi  quali  solo  ,  se 
giunge  a  impossessarsene,  può  il  politico  a  suo  senno 
governarla.  La  somma  di  tutte  insieme  le  cagioni 
cospiranti  al  perfezionamento  delle  società,  e  la  somma 


217 

di  tutte  le  cagioni  che  mettono  ostacolo  a  questo 
perfezionamento,  sono  le  due  forze  sommarie  di  cui 
si  tratta;  per  cui  tutta  l'arte  del  governo  non  può 
finalmente  avere  altro  scopo,  che  di  accrescere  quanto 
più  le  sia  possibile  la  prima  forza  ,  e  diminuire  la 
seconda  (cap.  IX). 

Gli  elementi  poi  di  queste  due  forze  sommarie 
sono  : 

1."  Lo  spirito  umano,  dal  quale  in  ultima  ana- 
»  lisi  promana  sempre  l'azione,  per  la  quale  chicche- 
»  sia  può  operare  a  favore  o  a  danno  della  società,  e 
»  nel  quale  solamente  esiste,  dirò  così,  l'unità  collet- 
»   tiva  che  dà  esistenza  alla  società  stessa. 

))  2."  Le  cose  agli  uomini  desiderabili  (ricchezze 
»  potenza  ecc.)  e  le  loro  contrarie,  le  quali  sono  ma- 
»  teria,  che  informata  dall'energia  dello  spirito  umano 
»   diventa  istromento  di  forza. 

»  3."  L'  oggetto  della  forza,  cioè  l'organismo  e 
«  compaginamento  sociale,  che  è  ciò  sopra  cui  final- 
))   mente  qualsiasi  forza  esercita  la  sua  operazione. 

Perciò  a  fare  che  la  società  sussista  : 

))  Bisogna  ,  che  poste  in  collisione  e  distrutte 
))  scambievolmente  tutte  le  contrarie  volontà  dei 
»  membri  sociali,  ne  resti  pure  una  soprasussistente 
»  in  favore  della  società  stessa  che  si  possa  dire  (ap- 
))   punto  perchè  sovrasta)  volontà   del  corpo  sociale. 

))  Bisogna,  che  tutte  le  cose  ,  le  quali  hanno 
»  presso  l'uomo  opinione  di  bene  e  di  male,  e  che 
»  perciò  influiscono  nella  volontà  e  nelle  azioni 
»  del  corpo  sociale  ,  distrutte  tutte  le  particolari 
»  azioni  contrarie,  agiscano  con  un'  azione  sopra- 
»  stante  in  questa  volontà  sociale  ,  e  la  inchinino 


218 
))  favorevolmente  al  bene  della  società  ,  e  insieme 
»    la  rendano  atta  ad  operaie  con  effetto  all'esterno. 

))  Bisogna  finalmente,  che  queste  cose,  le  quali 
«  mediante  l'energia  dello  spirito,  operano  su  lo  stes- 
»  so  corpo  sociale,  e  che  sono  il  mezzo  fra  lo  spirito 
»  dell'individuo  e  la  società,  esercitino  un'azione  fa- 
»  vorevole  anziché  sfavorevole  alla  sua  esistenza,  o 
»  in  altri  termini,  che  migliorino  anziché  peggiorino 
»   la  costìluzione  dello  stato  (cap.  XIII). 

Da  questi  tre  elementi  delle  forze  sommane  tras- 
sero origitie  tre  modi  di  trattare  la  politica  scienza. 

Molti  autori  avendo  esclusivamente  considerato 
l'importanza,  che  il  corpo  sociale  abbia  quella  che 
noi  chiamiamo  una  volontà  positiva  favorevole,  si  ap- 
plicarono principalmente  ad  insegnare  il  modo  di 
dirigere  la  pubblica  opinione;  e  appartengono  a  que- 
sta classe  i  politici  moralisti  d'ogni  genere. 

Vi  ebbero  degli  altri,  che  non  dando  troppo  peso 
direttamente  alla  forza  di  opinare,  fermarono  la  loro 
attenzione  esclusivamente  sopra  tutto  quello  che  è 
esterno  all'uomo,  e  furono  principalmente  solleciti 
di  trattare  quanto  s'  appartiene  alle  ricchezze,  alle 
industrie  meccaniche:  spettano  a  questa  classe  i  po- 
litici-economisti. 

Finalmente  vi  furono  degli  altri,  che  non  conside- 
rarono se  non  come  argomenti  accessori  alla  politica 
scienza  {"opinione  e  i  beni  esterni,  dandosi  ad  esami- 
nare con  preferenza  l'organismo  stesso  della  macchi- 
na sociale,  l'equilibrio  de' diversi  poteri  che  la  com- 
pongono, la  forza  interna  che  ne  risulta  dalla  varia 
loro  composizione;  e  a  questi  si  dà  il  nome  di  po- 
litici  in  senso  stretto. 


219 

Ma  dopo  quello  che  noi  dicemmo,  non  può  es- 
ser difficile  accorgersi  ,  che  la  scienza  sociale  non 
sarà  giammai  completa  ,  fino  a  che  gli  scrittori 
si  fermino  a  considerare  con  ingiusta  parzialità 
una  di  queste  tre  grandi  parti  ,  trascurando  di 
volgere  la  loro  attenzione  sopra  le  altre  due  ,  e 
fino  a  che  non  considereranno  quelle  parti  non  pur 
prese  separatamente  l'una  dall'altra,  ma  ben  anco 
tutte  e  tre  insieme  ne'  loro  rapporti,  nella  loro  unità 
di  fatto  (cap.  XIV). 

E  nello  sviluppare  quest'asserzione  si  giunge  a 
stabilire  per  conseguenza,  che  tutta  la  scienza  del 
governare  non  è  altro  che  un  continuo  problema  dei 
massimi  e  dei  minimi^  in  cui  sempre  si  cerca  di  rin- 
venire qual  sia  il  massimo  bene  risidtante  da  un  me- 
scolamento di  beni  e  di  mali  crescenti  e  decrescenti 
con  certe  leggi  (cap.  XV). 

Ora  qui  cercasi  se  ne'  diversi  stali  della  società 
vi  abbia  qualche  forza  speciale  prevalente  sopra  le 
altre:  di  maniera  che  basti  tener  conto  di  essa^  per- 
chè la  società  sia  salva;  eziandioché  si  trascurino  le 
altre,  come  infinitamente  piccole  rispetto  a  quella:  ed 
essendovi  questa  forza  {dove  giace  per  conseguente  la 
sostanza),  se  ella  sia  sempre  la  medesima,  o  se  cangi 
per  così  dire  di  luogo  ,  secondochè  la  società  stessa 
cangia  di  stato. 

E  si  mostra  che  questa  forza  vi  ha,  e  che  muta 
progressivamente  di  luogo  col  fatto  del  maggior  urto, 
che  abbia  mai  sofferto  la  società  civile  in  Europa: 
e  fu  quello  del  secolo  scorso,  a  cui  in  gran  parte 
assomigliasi  l'età  nostra-  Nel  quale  si  cominciò  dal 
riporre  il  fondamento    e  la  guarentigia  dell'  umana 


220 

società  nella  forza,  indi  si  passò  a  riporlo  nell'av- 
vedimenlo,  finalmente  si  progredì  a  riporlo  ne'/jrm- 
c?p/7  della  giustizia  e  della  cristiana  religione.  E  os- 
servando come  in  questa  maniera  si  è  continuamente 
passato  da  una  forza  meno  solida  ad  una  più  so- 
lida ,  da  una  men  vera  ad  una  più  vera  ,  da  una 
più  esterna  ad  una  più  interna  ,  si  conchiude  che 
vi  ha  un  quarto  grado  o  termine,  a  cui  fa  d'  uopo 
che  si  avvicini  irrepugnabilmente  lo  stato  dell'uma- 
nità: venir  cioè,  secondo  la  dottrina  della  giustizia, 
da  un  diritto  esterno  e  parziale  ad  un  diritto  per- 
fetto, eh'  è  quanto  dire,  dal  diritto  alla  morale  presa 
in  tutta  la  sua  estensione  ;  venire  a  riporre  nella 
\irtù  praticata  senza  limitazione  la  suprema  forza 
sociale;  e  nello  stesso  cristianesimo  ricercare  final- 
mente ciò  che  vi  ha  di  più  rilevante,  di  più  com- 
pito e  più  intimo  per  istabilirvi  profondamente  la 
tranquillità  e  il  buono  stato  de'  popoli.  E  questo 
che  sarà  mai  ?  Sarà,  non  se  ne  dubiti,  un  ridursi 
al  cattolicismo:  sì  al  cattolicismo.  Si  troverà  ulti- 
mamente, questo  solo  aver  fermezza  :  questo  solo 
essere  una  potenza  assoluta,  perchè  questo  solo  è 
una  religione  veramente  completa,  perchè  divina  ; 
questo  solo  aver  un  capo  indipendente  e  supremo 
nell'esercizio  del  suo  ministero,  e  che  posto  da  Dio 
medesimo  al  reggimento  della  chiesa  da  sé  stabi- 
lita, non  può  mai  deviare  dal  sentiero  della  verità 
e  della  giustizia  nel  guidare  le  anime  a  quel  ter- 
mine felicissimo,  per  cui  furono  unicamente  collo- 
cate su  questa   terra. 


221 


Alcuni  sonetti  inediti  di  Malatesta  Malatesli  signore 
di  Pesaro^  di  Domenico  da  Prato ,  e  di  Bernardo 
Tasso  pubblicati  a  Pesaro  per  nozze. 


i^ì  dee  la  pubblicazione,  di  queste  rime  alle  cure 
dell'  egregio  sig.  professore  Giuliano  Vanzolini  pe- 
sarese. Noi  ne  orniamo  il  nostro  giornale,  perchè 
le  cose  stampate  per  nozze,  oltreché  pervengono  alla 
notizia  di  pochi,  sogliono  facilmente  andare  disperse. 

Sonetti 
di  Malatesta  Malatesti. 

I. 

AlV  imperalor  Sigismondo . 

Invittissimo  re,  Cesar  novello, 

Principe  glorioso,  ìnclito,  augusto, 
Io  sono  Italia  che  nel  capo  e  busto 
Pili  tempo  lacerata  a  te  m' appello. 

Tu  se'  il  mio  prolettor,  tu  sol  sei  quello 
Magnanimo  signor,  verace  e  giusto, 
Che  porgerai  la  man,   la  corda  e  '1  fusto 
Al  vero  amico,  e  punirai  il  ribello. 

Vien,   dolce  padre:  col  favor  di  sopre 
Difendimi  da  tanti  vari  artigli  : 
Tu  mi  sei  scudo,  la  via,  esemplo  e  norma. 


222 

Trammi  del  sen  le  parti,  aquile  e  gigli, 
E  con  l'usate  tue  magnifich'  opre 
Riddu'  (1)  sotto  un  pastor  l'errante  torma. 


II. 


Risposta  di  ser  Domenico  da  Prato  ad  Italia 
in  voce  dello  imperatore  Sigismondo. 

Ausonia  mia,  in  cui  di  Dio  l'uccello 
Fermò  la  sedia  al  processor  robusto. 
Da  cui  l'eccelso  cognome  venusto 
Assunto  è  da  ciascun  successor  d'elio. 

Prezioso  monil,  preclaro  ostello, 
Di  ciascuna  virtù  soave  gusto, 
Ecco  al  tuo  proclamar  venir  m'  aggiusto 
Con  pace  a  darli  il  sposereccio  anello. 

Non  prima  Febo  l'ariete  copre, 

Che  ovante  fia  lo  advento  ai  cari  figli 
Di   me:  ne  già  parrà  mia  spada  dorma 

Ai  proditor  tiranni:  e  poi  che  pigli 
Per  dìvin  moto  conviensi,  e  che  sopre 
L'  ovil  d'un  ver  pastor  l'unica  forma. 

III. 

Del  medesimo  Malatesta. 

Tu  hai  ridotto.  Cesar  valoroso. 

Sotto  un  pastor  l'erranti  pecorelle; 

(1)  Cioè  riduci. 


223 

Tu  hai  mostrato  all'alme  lapinelle 
La  via  di  veiitade  e  di  riposo. 

Quanto  merito  arai,  sir  grazioso, 

Di  trarre  opere  tue  leggiadre  e  belle 
In  ciel  fra  quelle  rilucenti  stelle 
Che  vivon  nello  Specchio  glorioso  ! 

Espugna,  signor  mio  pien  di  ragione, 
Gli  eretici  che  la  Boemia  guasta, 
Sì  che  sempre  a  tua  lode  accresca  fama. 

Poi  ti  scongiuro  per  questa  passione 
Che  Dio  portò  per  noi  su  la  santa  asta. 
Visita  Italia  mia  che  tanto  t'ama. 

Sonelli 
di  Bernardo   Tasso 


I. 


Né  perchè  mille  lumi  a  paro  a  paro 
Alzino  al  ciel  le  pure  fiamme  intorno 
AUor  che  'I  tauro  il  dì  porta  col  corno 
Di  splendor  coronato  altero  e  raro, 

Rendeno  il  sol  più  rilucente  e  chiaro, 
Anz'  ei  del  proprio  suo  bel  lume  adorno 
Rende  or  men  bello,  ed  or  più  vago  il  giorno, 
Com'è  di  quello  a  noi  largo  ed  avaro  : 

Né  per  che  scrittor  mille  accorti  e  saggi 
Cerchìn  più  ardente  far  la  gloria  vostra 
Crescon  de  la  sua  luce  una  favilla  : 

Anz'  ella  co'  suoi  vaghi  aurati  raggi 

Alluma  il  mondo  oscuro  e  l'età  nostra  : 
A  grado  sì  perfetto  il  ciel  sortilla  ! 


,224 
11. 

Candida  luna,  che  vagando  intorno 

Per  l'ampio  elei  fra  tante  vaghe  stelle, 

E  coronata  di  rose  novelle 

Porti  sempre  negli  occhi  un  lieto  giorno; 

Ed  or  rotonda,  or  col  gelato  corno 
Mostri  le  guance  colorite  e  belle, 
E  vai  mirando  in  queste  parti  e  in  quelle 
Il  dolce  degli  amanti  alto  soggiorno  ; 

Quante  volte  dal  elei  tranquilla  e  lieta 
Cor  mi  vedesti  del  giardin  d'amore 
Or  vaghi  fiori,  or  pallide  viole  ! 

Onde  ridendo  e  con  la  faccia  lieta 
Dicevi  a  Endimion,  anzi  al  tuo  core  : 
Cosi  raro  piacer  non  vede  il  sole  ! 


111. 


Per  la  presa  di  Tunisi  falla  da  Carlo   V, 

alla  quale  egli  trovassi  presente 

in  qualità  di  segretario  del  principe  Sanseverino. 

Ecco  che  a  laureo  giogo  un'  altra  volta 
Ti  lega  il  sacro  imperador  romano  ; 
E  tu  vinta  ed  umil  gli  dai  la  mano. 
Affrica  piij  che  mai  bugiarda  e  stolta. 

Dianzi  giacesti,  or  rimarrai  sepolta, 
E  chiederai  al  ciel  mercede  invano, 
Ch'  altri  dal  nome  tuo  detto  Affricano 
La  chioma  s'  ha  de  le  tue  glorie  avvolta. 


.  225 

Svegliati,  sonnacchiosa,  e  volgi  gli  occhi, 
Che  scorser  tanto  ne  l'etate  antica, 
Al  ben  che  Carlo  si  discopre  e  mostra. 

Così  di  Cristo  e  di  sua  fede  amica 
Averai  parte  de  la  gloria  nostra, 
Né  fia  eh'  altrui  poter  mai  ti  trabocchi. 


G.A.T.CLXVI.  15 


226 
VARIETÀ' 


Regola  del  governo  di  cura  familiare  compilata  dal 
beato  Giovanni  Dominici  fiorentino  dell'ordine  dei 
predicatori.  Testo  di  lingua  dato  in  luce  ed  il- 
lustralo con  note  dal  prof.  Donato  Salvi  accade- 
mico della  crusca.  -  8."  Firenze  presso  Angiolo 
Garinei  libraio  1860.  [Sono  carte  CLX  e  258, 
col  ritratto  del  B.  Giovanni.) 

»  È  un'  operetta  breve  (dice  nella  prelazione  il 

))  chiarissimo  editore  ed  illustratore)  ;  ma,  se  ben 

))  si  stima,  la  piccolezza  del  suo  volume  vien  lar- 

))  gamente  compensata  dall'importanza  del  soggetto, 

))  dalla  molla  dottrina  che  v'  è  racchiusa,  dalla  pu- 

»  rilà  e  facondia  del  dettato.  E  citata  nel  vocabo- 

))  lario  sotto  il  titolo  di   Trattato  del  governo  della 

))  famiglia.  Primi  a  citarla    furono    gli  accademici 

1)  della  seconda  impressione:  i  quali  ne  raccolsero 

»  copiosa  messe  di  buoni  vocaboli  e  modi  di  dire, 

»  valendosi  di  un  testo  a  penna  che  apparteneva  a 

»  monsignor  Dini,   e  che  ora  si  conserva  nella  li- 

»  breria    Magliabechi.    Agli  esempi  da  essi  recati , 

»  altri  ne  aggiunsero  i  compilatori  della  quarta,  to- 

»  gliendoli  da  un  codice  di  casa  Venturi  ,  presen- 

«  temente  della  marchesa  Ginori.  Questi  codici  sono 

»  ambedue  anonimi:  ed  ecco  perchè  l'antica  scrit- 

«  tura,  alla  quale  accenna  la  Csusca  colla  sigla  Tratt. 

»  Gol'.   Fam.,  fu  sempre  notata  fra  i   libri  d'inco- 

»  unito  autore.  » 


227 

«  E  pure  (aggiunge  altrove)  un  libro  essenzial- 
»  mente  spirituale,  come  son  tutti  gli  altri  del  no- 
»  stro  autore:  avvegnaché  dalla  natura  stessa  del- 
»  l'argomento  e'  sia  talvolta  condotto  a  dover  ra- 
»  gionare  di  cose  mondane,  e  di  affari  attenenti  alla 
»  vita  civile.  Ma  il  fondamento  d'ogni  regola,  d'ogni 
»  ammonizione,  sta  in  questo  principio:  Tulio  ciò 
»  che  l'uomo  ha,  gli  viene  da  Dio,  e  a  Dio  deve 
»  rendere.  Le  potenze  dell'anima,  i  sentimenti  del 
))  corpo,  debbono  adoperarsi  a  gloria  del  Creatore 
»  e  nell'osservanza  della  legge  divina:  col  medesimo 
»  intento  si  vuol  far  uso  de'  beni  temporali,  allevare 
»  e  costumare  i  figliuoli.  Si  divide  in  quattro  parti, 
»  quante  sono  le  dimando,  alle  quali  intende  rispon- 
»  dere:  insegnano  le  prime  due  come  convenga  go- 
»  vernar  se  medesimo:  la  terza  e  la  quarta  prescrivon 
»  norme  a  ben  dirigere  la  famiglia.  » 

Giovanni  Dominici  domenicano  fu  de'  pili  santi 
e  celebri  personaggi,  che  vissero  fra  il  1356,  in  cui 
nacque  in  Firenze  di  poveri  artigiani,  e  il  1420  in 
cui  morì  a  Buda.  Il  pontefice  Gregorio  XII  lo  elesse 
prima  arcivescovo  di  Ragusi,  poi  cardinale  nel  con- 
cistoro dei  21  d'aprile  1408:  talché  poi  si  chiamò 
il  cardinal  di  Ragusi.  Notissime  nella  storia  civile 
ed  ecclesiastica  sono  le  varie  sue  legazioni,  e  prin- 
cipalmente le  varie  cose  che  operò  per  la  pace  della 
chiesa  nel  concilio  di  Costanza.  Il  culto  di  beato , 
rendutogli  da'  popoli  per  ben  quattro  secoli,  fu  con- 
fermato da  Gregorio  XVI  con  solenne  decreto  dei  9 
di  aprile  1832. 

Degna  in  tutto  del  nome  dell'  illustre  ed  ono- 
rando sig.  prof.  Salvi  è  la  pubblicazione  di  questa 


228 
opera,  che  da  tanto  tempo  gli  amatori  del  bell'idioma 
attendevano:  avendo  egli  mostrato  nuovamente  al- 
l' Italia  la  rara  sua  dottrina  e  sagacità  sia  nell'ele- 
gante prefazione,  sia  nelle  illustrazioni  importantis- 
sime d'ogni  genere,  delle  quali  certo  si  gioveranno 
con  assai  prò,  quanto  alla  lingua,  i  compilatori  del 
nuovo  vocabolario  della  crusca. 


La  Matilde  di  Dante  Alighieri  indicala  dal  dott.  An- 
tonio Luhin  prof,  straord.  di  lingua  e  letteratura 
italiana  nelV  I.  R.  università  di  Graz.  -  8." 
Graz  1860,  coi  tipi  di  Giuseppe  A.  Kienreich. 
(Sono  carte  84). 

Pretende  il  sig.  Lubin  in  questa  erudita  operetta 
render  probabile,  che  Matelda  della  Divina  Comme- 
dia sia  la  Matilde  vergine,  monaca  benedettina  del 
monastero  di  Helpede  presso  Eisleben,  nella  Sasso- 
nia prussiana  ,  morta  intorno  al  1292.  Noi  persi- 
steremo sempre  a  seguir  la  sentenza  di  tutti  gli  an- 
tichi comentalori,  i  quali  in  essa  riconobbero  la  piìs- 
sima  contessa  Matilde  di  Toscana  ,  cioè  la  Matilde 
per  eccellenza  in  Italia,  e  sì  famosa  in  tutti  gli  scrit- 
tori del  medio  evo. 


229 

Compendio  storico  del  pontificio  e  singolare  ordine  del 
Moretto  accordato  da  Pio  VII  ai  presidenti  del- 
Vaccademia  di  belle  arti  denominata  di  san  Liica^ 
del  cav.  Ercolano  conte  Caddi  Herculani  socio 
di  varie  accademie  letterarie  italiane  e  stranie- 
re. -  4.  Roma  a  spese  dell- autore  1860.  {Sono 
carte  19  con  due  tavole  colorate). 

L'accademia  romana  di  san  Luca,  principalissima 
fra  le  italiane  delle  belle  arti,  e  forse  fra  le  euro- 
pee, fu  sempre  d' insigni  privilegi  meritamente  de- 
corata da'  sommi  pontefici:  fra'  quali  Pio  VJI  insti- 
tuì  un  ordine  cavalleresco  in  onore  de'  presidenti  ed 
ex-presidenti.  L'egregio  sig.  conte  Caddi  Hercolani 
ha  qui  con  bella  erudizione  trattato  sì  dall'accademia 
e  sì  dell'ordine  suddetto:  intitolando  l'operetta  sua 
al  celebre  architetto  e  professore  signor  commen- 
datore Luigi  Poletti  presidente  onorario  perpetuo 
dell'accademia. 


Memorie  storiche-monumentali-artistiche  del  tempio 
di  san  Francesco  in  Ferrara,  di  Luigi  ISapoleone 
Cittadella  ferrarese.  8.°  Ferrara  tipografia  di  Do- 
menico Taddei  1860.  (Sono  carte  83). 

È  lavoro  di  non  lieve  importanza  per  la  storia 
civile,  ecclesiastica  ed  artistica  della  città  di  Ferrara: 
e  vuoisene  dar  lode  al  valente  autore  così  tenero 
d'illustrare  ogni  gloria  della  sua  patria. 


230 

Le  tombe  cristiane,  canto  di  Pierluigi  Bruni  roma- 
no 8."  Roma  1860,  Stabilimento  tipografico  Au- 
reli e  C.  -  (Sono  carte  52). 

Facciamo  plauso  a  questo  giovane  romano  ,  il 
quale  seguendo  le  nobili  orme  del  già  suo  zio  chia- 
rissimo Luigi  Biondi,  intende  a  rendere  la  poesia, 
qual  esser  debbe,  maestra  di  civiltà  e  di  religione. 
Molte  belle  cose  Irovansi  nel  suo  canto  in  ottava 
rima  ,  inspirato  dalla  lettura  de'  padri  e  de'  poeti 
sacri  così  latini  come  italiani,  e  principalmente  dal- 
l'Alighieri. 


INDICE 


Sorgoni,  Sulla  febbre  considerata  in  sé  stessa  ec. 

(Continuazione  e  fine) pag.       3 

Secchi,  Relazione  delle  osservazioni  falle  in  Spa- 
gna durante  /'  ecclisse  solare  del  18  lu- 
glio 1860.  (Con  rame) »     53 

De  Rossi,  Delle  lodi  di  Bartolomeo  Borghesi.     »   122 

Canettoli,  Intorno  a  due  casi  clinici  di  medicina 

operatoria »   139 

Maggiorani,  Sull'origine  dell'acidità  di  alcuni  pro- 
dotti morbosi »   154 

Pianciaìii,  Dichiarazione  del  salmo  CHI  intorno 

aW  Esamerone  Mosaico »   161 

Conestabile,  Novità  e  varietà  di  etrusche  antica- 
glie     »   183 

Barolo,  Sopra  un'opera  del  Rosmini  intitolata: 
Delia  sommaria  cagione  per  la  quale  stan- 
no 0  rovinano  le  umane  società   .     .     »  206 

Sonetti  inediti  di  Malatesta  Malatesti,  di  Dome- 
nico da  Prato  e  di  Bernardo   Tasso   .     «221 

Varietà.      .     .     . »  226 


IMPRIMATUR 

Fr.  Hieronymus  Gigli  Ord.  Praed.  S.  P.  Ap.  Mag. 

IMPRIMATUR 

Fr.  Ant.  Ligi  Archiep.  Icon.  Vicesgerens 


8J.UG-L10   1860, 


-"^^PP.BSSO   IL  POSTE 


APPARBINZF,  MLL'ECCI.ISSE  SOLARE  TOTALE  DEL  Is. LUGLIO   1?.m) 

OBSKRAaTE  IN  SPAGNA  AL DBSIERTO  DK  LAS  PALMAS'. 


Nel  giornale  si  dà  il  sunto,  o  viene  inse- 
rito l'annunzio,  delle  opere  presentate  in  dop- 
pio esemplare  alia  Direzione.  Esse  debbono 
essere  inviate  franche  d'ogni  spesa  di  porto 
e  dazio. 


^S 


Le  notizie  di  scienze,  di  lettere,  e  di  belle 
arti,  quelle  di  scoperte  utili  per  1'  agricol- 
tura, industria  ec,  come  anche  i  programmi  dei 
concorsi  accademici,  dovranno  similmente  es- 
ser mandati  franchi  di  posta  alla  Direzione. 

Chi  si  associa  per  dieci  copie,  o  ne  garan- 
tisce la  vendita,  avrà  l'undecima  gratis. 


(\^